mercoledì 5 agosto 2020



1965

 

 


 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Les Paysans, Torino, Les Éditions Fògola, (novembre) 1965 («La grande collana»), pp. 348.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Les Paysans, pp. 7-319;

  Franco Simone, Essai historique et critique sur “Les Paysans” par Franco Simone, pp. 321-345. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

 

 


 

Traduzioni.

 

 

  Onorato de Balzac, I capolavori della “Commedia umana”. II. La donna di trent’anni; Eugenia Grandet; Il medico di campagna; I segreti della principessa di Cadignan, Firenze-Roma, Gherardo Casini Editore, 1965 («I Grandi Maestri», 4), pp. 525.

 

  Cfr. 1950.

 

 

  Onorato de Balzac, I capolavori della “Commedia umana”. V. Studi filosofici: Gesù Cristo in Fiandra, Melmoth riconciliato, Massimilla Doni, Il capolavoro sconosciuto, La ricerca dell'assoluto, Il figlio maledetto, Addio, Il richiamato, El Verdugo, Un dramma in riva al mare, Maestro Cornelius, La locanda rossa. Introduzione di Luigi de Nardis. Traduzioni di Renato Mucci e Paolo Russo, Firenze-Roma, Gherardo Casini Editore, 1965 («I Grandi Maestri», 35), pp. XVII-625.

 

  Cfr. 1959.

 

 

  Honoré de Balzac, Casa di scapolo. Traduzione di Maria Grazia Bottai, Milano, Rizzoli Editore, (aprile) 1965 («Biblioteca Universale Rizzoli», 2217-2220), pp. 336.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Maria Grazia Bottai, Nota, pp. 5-11. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Casa di scapolo, pp. 13-335.

 

  La suddivisione del testo in tre parti e in ventiquattro capitoli (più la Conclusione) rimanda al modello dell’edizione originale del romanzo pubblicata da Souverain nel 1842 con il titolo di: Les Deux Frères. Nonostante qualche scelta lessicale piuttosto discutibile, nel complesso la versione italiana che M. G. Bottai fornisce de La Rabouilleuse può ritenersi corretta.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Versione di Fausto Ficarra, Roma, Gherardo Casini Edizioni Periodiche, 1965 («I Libri del Sabato», 6), pp. 5-242;

 

  La Commedia umana. Prefazione di Honoré de Balzac, pp. 243-254.

 

  Il romanzo è suddiviso in sei capitoli secondo il modello dell’edizione originale Béchet del 1833-1834. Questa nuova traduzione del capolavoro balzachiano ci pare, in diversi punti, piuttosto libera e non sempre rigorosamente fedele al modello francese.

  La stessa osservazione vale per la versione italiana dell’Avant-propos, presente alla fine del volume.

 

 

  Honoré de Balzac, Il giglio nella valle. A cura di Valentina Bianconcini, Bologna, Capitol, 1965 («Flaminia», 35), pp. 229.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Prefazione di Giansiro Ferrata. Traduzione di Aldo D’Amato, Roma, Editori Riuniti, 1965 («I classici della letteratura», 7), pp. XII-634.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Giansiro Ferrata, Prefazione, pp. V-XII. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Illusioni perdute, pp. 1-628.

 

  Questa nuova edizione italiana di Illusions perdues presenta una suddivisione in tre parti e 39 capitoli e una Conclusione secondo il modello dell’edizione Dumont del 1843; non è riportata la dedica del romanzo a Victor Hugo, inserita da Balzac soltanto nell’edizione Furne, su cui si fonda la presente traduzione da ritenersi, nel complesso, corretta.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Renato Mucci. Introduzione di Edda Melon, Firenze, Sansoni Editore, (dicembre) 1965 («I capolavori Sansoni della letteratura mondiale», 25), pp. 222.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Edda Melon, Introduzione, pp. 5-14. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Papà Goriot, pp. 17-222.

 

  Per quel che riguarda la traduzione, cfr. 1950.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. A cura di Giorgina Vivanti, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1965 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni», 47), pp. 325, 1 ritratto.

 

  Cfr. 1934; 1942; 1947; 1956; 1962.


 

  Honoré de Balzac, I Racconti ameni (Les Contes drolatiques). Traduzione di Aurelio Valesi con 200 illustrazioni di Gustave Doré, Milano, Sugar Se Editore, (novembre) 1965 («Olimpo nero», 6), pp. 676; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  [Aurelio Valesi?], Presentazione, pp. I-IV. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  I Racconti ameni, pp. 7- 666;

  Note, pp. 669-673.

 

  Anche se in diversi luoghi del testo piuttosto libera e personale, la traduzione che Aurelio Valesi fornisce dei Contes drolatiques balzachiani può considerarsi, nel complesso, adeguata.

 

 

  Honoré de Balzac, La storia dei tredici. Traduzione a cura di Alessandro Prampolini, Firenze, G. C. Sansoni Editore, (ottobre) 1965 («I Capolavori Sansoni», 15), pp. 318.

 

  E. D. (sic; lege: Edda Melon?), Introduzione, pp. 5-10. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  La Storia dei Tredici, pp. 11-318: [I. Ferragus], pp. 11-121; II. La duchessa di Langeais, pp. 123-249; III. La fanciulla dagli occhi d’oro, pp. 251-318.

 

  Per quanto concerne la traduzione, cfr. 1960.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Tre coppie in crisi ispirate da Balzac, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XXI, N. 51, 2-3 marzo 1965, p. 13.

 

  Alla compagnia di prosa di Torino della RAI è affidata l’interpretazione di una commedia che Ivan Canciullo ha tratto dal romanzo di Honoré de Balzac, Piccole miserie della vita coniugale, che il programma nazionale radiofonico presenterà alle 18.10 di venerdì prossimo con la regia di Giacomo Colli.

  Protagoniste sono tre coppie: Carolina e Adolfo, sposi novelli, Clara ed Ercole, sposati da sette anni, e Luisa e Giacomo, sposati da otto. Tutte e tre le signore sono afflitte, per motivi diversi ma in egual misera, dalle piccole miserie della vita coniugale. Carolina è una parigina strappata alla sua città e immersa nel tedio senza fine della vita di campagna; Clara è afflitta da un marito, militare a riposo, che non fa altro che riposare: Luisa è l’infelice moglie di un letterato da strapazzo che, in attesa della ricca eredità del suocero, se la spassa allegramente a Parigi, scribacchiando impossibili novelle. Ma nel finale, le cose prendono una svolta migliore per tutti.

 

 

  Balzac, «I Maestri del romanzo», Milano, Anno I, N. 1, 10 aprile 1965, pp. 40; ill.

 

  Questo primo fascicolo de «I Maestri del romanzo», periodico diretto da Massimo Casolaro con consulenza letteraria di Luciana Varvello e dedicato a Honoré de Balzac, si compone delle seguenti parti: da p. 1 a p. 6, la biografia integrata, a p. 6, da alcuni giudizi sullo scrittore; alle pp. 7 e 12, l’esame dell’opera, con un quadro sinottico dei titoli delle opere della Comédie humaine comprendente anche brevissimi cenni sulla trama, l’indicazione dell’anno di pubblicazione e un giudizio (ai primissimi posti troviamo: Il colonnello Chabert, Papà Goriot, Eugenia Grandet, La cugina Betta, Il cugino Pons; agli ultimi posti: L’elisir di lunga vita, Caterina de’ Medici, I proscritti, Mastro Cornelius, Séraphita e Il figlio maledetto); alle pp. 10-12, “Le trame dei romanzi più importanti”, ossia: Papà Goriot, Il Curato di Tours, La Donna di trent’anni, Gli Impiegati, La Cugina Betta, Modesta Mignon, Gobseck, Pelle di zigrino, Il Medico di campagna e Onorina; alle pp. 13-26 e 27-40, una traduzione-riduzione di Eugénie Grandet e di Le Cousin Pons.

 

  pp. 1-7 e 12.

 

  La sua vita.

 

  Honoré de Balzac nacque il 20 maggio 1799, esattamente alle undici del mattino, a Tours, capoluogo del dipartimento Indre-et-Loire in rue Armée d’Italie, da un possidente di 53 anni, Bernard François, e da Anne Charlotte Laure di 21. Sul suo atto di nascita il cognome è indicato semplicemente Balzac (la particella «de» verrà presa più tardi da suo padre).

  Primo di tre figli, a 8 anni il ragazzo viene messo a studiare nel collegio degli Oratoriani di Vendôme dove rimarrà sette anni, praticamente abbandonato dalla famiglia che non lo richiede mai per le vacanze (una volta sola la madre lo visiterà in collegio) finché in seguito a un grave deperimento, il padre si deciderà a riprenderlo in casa. Del resto Honoré non è un grande studente: più che applicarsi alla materia della scuola legge appassionatamente tutto ciò che gli capita sotto le mani. La sua passione per i libri lo spingerebbe agli studi letterari, ma il padre, che ha progetti diversi per lui, lo costringe a laurearsi in legge.

 

  L’avvocato, no!

 

  Però, davanti alle insistenze di Honoré che dichiara alla famiglia esterrefatta di non voler assolutamente fare l’avvocato, nonostante la laurea in legge conseguita nel 1819, gli viene concesso il permesso di fare un tentativo: riceverà dalla famiglia quanto è sufficiente per vivere, ma dopo due anni, in caso di fallimento, riprenderà il suo posto nella società. Honoré accetta. Comincia così in una soffitta parigina che egli ha allegramente battezzato la «celeste mansarda» la sua vita di scrittore.

  In questo periodo, siamo nel 1819 e il giovane ha vent’anni, stringe la prima amicizia femminile con Zulma Tourangin, sposata a un ufficiale.

  Un anno dopo, davanti alla famiglia riunita, Honoré legge il suo primo manoscritto, una prolissa tragedia, «Cromwell», che viene accolta in una atmosfera di gelo. Il padre, davanti a quello che giudica il fallimento delle ambizioni del ragazzo, cerca inutilmente di convincerlo ad abbandonare i suoi sogni ed a riprendere la pratica di avvocatura presso il notaio Edouard Passez, amico di famiglia. La Francia e il mondo perdono in Honoré de Balzac un avvocato, per acquistare un grandissimo scrittore. Da quel momento la vita del giovane è tutta dedicata alla letteratura, con due distrazioni: le donne c gli affari.

 

  Le donne e gli affari.

 

  In amore Honoré è fortunato. A ventitré anni stringe un affettuoso legame con la signora de Berny, di mollo più anziana di lui, sposata ma ancora affascinante, che lo assisterà fino all’anno della sua morte (1836) con tenera amicizia, ricambiata prima con passione e poi con affetto quasi filiale.

  Non così fortunato negli affari, Balzac perseguirà per tutta la vita il sogno di arricchire per liberarsi dai creditori e condurre un’esistenza degna di lui. Le sue imprese commerciali (come l’iniziativa di stampare La Fontaine in edizione di gran pregio, l’acquisto della tipografia in rue de Marais in società con un certo Barbier, l'acquisto di una fonderia per caratteri) falliscono miserevolmente. Da notare che in quest’occasione Balzac viene salvato dalla fedele De Berny che entra nell’affare con 15.000 franchi mettendo a capo della pericolante impresa suo figlio Alessandro.

  Da quel momento, uscito Honoré dall’impresa, gli affari cominciano a prosperare. Evidentemente la sua gloria lo attende altrove: non negli affari e nemmeno nella letteratura commerciale (il giovane sforna a ritmo impressionante una lunghissima serie di romanzi e trattati popolari, lavorando spesso in coppia con un certo Le Pointevin, uomo accreditato presso gli editori).

 

  La straniera.

 

  Bisogna giungere al 1831 per trovare il primo romanzo in cui si avverte la mano del grande scrittore: «Pelle di zigrino». E’ subito il successo e con il successo la fama, i denari, e un’attività prodigiosa che darà alla Francia la più monumentale opera letteraria di tutti i tempi. Honoré conosce la seconda donna che avrà una importanza determinante nella sua vita: Evelina Hanska nata Rzewuska, che egli descriverà più tardi nel romanzo «la straniera» [?]. L’amore per la bella polacca, regolarmente sposata e con una figlia, riempie l’esistenza di Honoré che dal momento dell’incontro vivrà solo per lei e per l’opera che ha intrapreso. Ma è un amore per lo più epistolare, che non esclude neanche altre passioni brevi e senza importanza.

  La contessa gira per tutta Europa e lo scrittore, quando può, segue, in Svizzera, a Vienna, la sua amata, continuando a far debiti perché ormai le sue esigenze di artista di successo superano le entrate dei libri. Inoltre Balzac ha ogni tanto qualche sua impennata: il sogno di diventare ricco non lo ha abbandonato. Fonda giornali che falliscono, acquista case come la Chartreuse Beaujon a Parigi e opere d’arte che spesso si rivelano costosissime croste.

  Nel 1842 (sic) muore il marito della contessa: più nessun ostacolo si oppone ormai al matrimonio fra i due ma la lunghissima relazione ha ormai probabilmente logorato i sentimenti della Hanska che poi non sa rinunciare a farsi inseguire per tutta Europa da un uomo così celebre. Tranne i viaggi in Italia, si può dire che ogni spostamento di Balzac è dovuto alle bizzarrie della sua stravagante compagna.

 

  Il permesso dello zar.

 

  Finalmente nel settembre 1848, mentre la coppia viaggia attraverso l’Ucraina, Evelina chiede allo zar il permesso di sposare il suo Balzac. Il matrimonio viene celebrato il 14 marzo 1850 nella chiesa di Santa Barbara a Berdicev in Ucraina. A Parigi tutto è pronto per ricevere la coppia famosa. Ma Honoré si ammala. L’uomo che il 21 maggio torna nella sua casa di rue Fortunée 1 (oggi rue de Balzac) non ha più nulla a che vedere col festoso, rubicondo personaggio di alcuni anni prima. Lo scrittore appena cinquantunenne è ormai distrutto. Il mal di cuore (dovuto, secondo i medici, alla tremenda fatica cui per tanto tempo si è sottoposto per scrivere la sua opera gigantesca) e il mal di fegato hanno seriamente compromesso una fibra eccezionale. Il 31 maggio Balzac ha una grave ricaduta. Il dottor Nacquart, che lo cura amorevolmente, chiama a consulto diversi specialisti. Il male continua la sua opera: sopraggiunge la peritonite. La moglie è al suo capezzale, ma chi lo cura è la madre che forse per la prima volta si sente davvero vicina al suo Honoré. Balzac è ormai ridotto a un ammasso di carne gonfia e dolorante. Il suo lamento a Victor Hugo, l’amico che lo vedrà vivo per l’ultima volta, è straziante: «Non posso più scrivere».

  Nient’altro. L’uomo che per scrivere ha impegnato tutta la sua vita, soffre di non poterlo più fare. E’ il 18 agosto 1850. Alle 23,30 Honoré de Balzac è morto. Tre giorni dopo il suo corpo verrà seppellito nel cimitero di Père Lachaise. Davanti a una folla enorme Victor Hugo commemora il più grande scrittore di Francia.

 

  Il suo fascino.

 

  Ecco come una sua ammiratrice, la signora di Pommereul, ce lo descrive nel pieno dell’età:

  «Era un uomo piccolo, dalla persona tarchiata, resa ancor più tozza da abili mal tagliati, e portava un cappello molto brutto, ma appena se lo tolse tutto il resto sparì: non guardai che la sua testa. Voi non potete comprendere quella fronte e quegli occhi, voi che non li avete veduti! Una grande fronte con un riflesso luminoso e occhi bruni pieni d’oro, che esprimevano tutto con la stessa carezza della parola. Il naso grosso e quadrato, la bocca enorme che rideva sempre, nonostante i denti guasti. Aveva baffi folti e i capelli erano lunghi e ricacciati sulle spalle. A quel tempo, quando soprattutto arrivò da noi, era piuttosto magro e ci pareva affamato».

  «In tutto il suo essere, nei gesti, nel modo di parlare, di atteggiarsi, c’era tale bontà, tale franchezza, che non era possibile conoscerlo e non amarlo. Inoltre la cosa più straordinaria in lui era il buon umore perenne, esuberante al punto di diventar contagioso».

  Balzac stesso diceva di sé: «Entro i miei cinque piedi e due pollici io racchiudo tutte le incoerenze e i contrasti possibili. Chi mi crederà vano, prodigo, leggero, inconseguente nelle idee, fatuo, negligente, pigro, trascurato e irriflessivo, incostante, chiacchierone, privo di tatto, maleducato, scortese, bizzarro, mutevole, avrà non meno ragione di quegli altri che mi diranno economo, modesto, coraggioso, tenace, energico, spensierato, attivo, taciturno, pieno di finezza, educato, sempre gaio. Chi mi definirà codardo non avrà più torto di chi affermerà che sono estremamente valoroso, e insomma dotto o ignorante, pieno d’ingegno o inetto: nulla più mi stupisce di me stesso. Finisco per credere che io non sono altro che uno strumento del quale le circostanze si servono».

  Questa straripante energia, questa personalità violenta e pittoresca è — fisicamente come nell’opera – il fascino caratteristico che emana da Balzac.

 

  Cinquantamila tazze di caffè.

 

  E’ stato calcolato che nei vent’anni di attività folle cui dobbiamo l’opera gigantesca della «Commedia Umana» Balzac abbia consumato non meno di cinquantamila tazze di caffè fortissimo. Del resto la sua morte precoce, nel pieno del vigore della maturità, fu certo provocata dall’abuso di questo eccitante. Il caffè di Balzac era fatto di tre qualità: Borbone, Martinica e Moca. Comprava il Borbone in rue de Montblanc, il Martinica in rue des Virilles Audriettes, e il Moca nel Faubourg Saint-Germain, non impiegando meno di mezza giornata per la ricerca delle varie qualità. Solo il caffè a fiumi riusciva a dare la sferzata al suo corpaccio; è Honoré stesso che lo dice. E che sferzata! Basta pensare a una sua tipica giornata di lavoro e riflettere che nella vita di questo gigante le giornate come questa si contano a migliaia. Cominciava a lavorare a mezzanotte, quando nessuno più poteva venire a disturbarlo.

  Il rituale era identico tutte le notti. Honoré con gesti lenti e solenni indossa una umica bianca che lo fa sembrare un frate domenicano. Deve essere candida, immacolata; una macchiolina da nulla gli impedirebbe di concentrarsi. Una volta ha detto: «Il vero scrittore deve essere pulito nel suo lavoro».

  Un cordone intrecciato (più tardi sarà una catena d’oro) serra in vita l’ampia tonaca; e, come il monaco ha appeso il crocifisso e lo scapolare, armi della sua preghiera, così pendono dalla cintura di Balzac una forbice e una stecca, utensili del suo lavoro.

  Il domestico gli accende sullo scrittoio le sei candele nei candelabri d’argento e tira le tende. Dopo aver osservato minuziosamente l’ordine degli oggetti sulla scrivania, Balzac siede, si appoggia all’indietro, rialza la manica della tonaca per dare maggior libertà alla destra, poi sprona se stesso dicendosi alcune scherzose parole d’incoraggiamento, ed ecco comincia lentamente a scrivere con una penna di corvo. A poco a poco il prodigioso meccanismo si scalda, la mano femminea corre veloce sui fogli, talmente veline che a mala pena tiene dietro al pensiero.

  La una, le due, le tre, le quattro, le cinque, le sei, talvolta anche le sette e le otto.

  Dopo quattro o sei ore di ininterrotta creazione, Honoré sente di non poter continuare. La mano si paralizza, gli occhi lacrimano, la schiena gli fa male, il sangue pulsa minaccioso nelle tempie brucianti, la tensione vien meno. Un altro smetterebbe; non Balzac. Lui ha poco tempo e tanto da scrivere. Si alza faticosamente, si avvicina alla tavola e accende la caffettiera.

  «Il caffè scende nello stomaco, e da quel momento tutto si mette in azione, le idee si muovono come i battaglioni della Grande Armata sul terreno della lotta, e la battaglia comincia».

  Finalmente alle otto il servitore Augusto entra con una frugale colazione; una piccola sosta, un bagno caldo. E il lavoro dannato ricomincia: sono bozze da correggere, mucchi di carta ancora umida da rivedere. Ore disperate: tutto brutto tutto da rifare! A Parigi non si trovano più correttori che vogliano lavorare per lui. Una specie di furore lo afferra davanti alle pagine che ha scritto il giorno prima: bisogna correggere, modificare, ricorreggere le bozze cinque, dieci, quindici volte. I migliori tipografi di Parigi si rifiutano di fare «più di un’ora di Balzac al giorno».

  Per tre, per quattro ore Balzac lavora a questa «cucina letteraria», rabbioso, scontento di sé e degli altri. Soltanto a mezzogiorno si concede uno spuntino: un uovo, un panino ripieno. Poi ancora lavoro, fino alle cinque. Basta! E’ distrutto! Ma non può fermarsi, non c’è tempo. Qualche ora per ricevere gli editori, gli amici, per cenare. E il sonno? E il riposo? Viene finalmente alle otto, un sonno di pietra. Dalle otto a mezzanotte. il servitore entra ad accendere le candele ... Così lavora Balzac per settimane, per mesi, ininterrottamente, senza concedersi sosta. In un mese deve fare ciò che altri non potrebbero compiere in un anno.

  Geme disperato: «E’ sempre la stessa cosa, notti e notti, e sempre libri! Quello che io voglio costruire è tanto alto, tanto vasto! ...».

 

  Giovane ambizioso.

 

  Era povero Balzac, ma non per questo rinunciava a sognare. Ai tempi in cui viveva in una misera soffitta ma sognava la ricchezza e la gloria, aveva trovato un mezzo ingegnoso per far sparire le brutture da cui era circondato. Gli bastava, per questo, un gessetto con cui scriveva qua e là le indicazioni di ciò che esisteva solo nella sua fantasia ma che egli voleva far vivere nella realtà. Così, su una parete aveva scritto; «Qui c’è un rivestimento di palissandro – e su un’altra: «Qui c’è una tappezzeria di Gobelins». Davanti al tavolo da lavoro: «Ecco un magnifico specchio di Venezia». Sopra il letto: «Quadro di Raffaello». E infine, per stimolarsi maggiormente al lavoro, sotto una brutta riproduzione di Napoleone cui era affezionatissimo: «Quello che egli non ha potuto condurre a termine con la spada, io lo compirò con la penna».

 

  Il ladro.

 

  Balzac stava dormendo pacificamente quando fu svegliato da un rumore sospetto. Accese la candela sul comodino e alla fioca luce scorse un uomo che frugava nei suoi cassetti. Il ladro sorpreso in flagrante cercò di scappare ma fu tanto il suo sbalordimento nel sentire che Balzac scoppiava a ridere da non riuscire più a muoversi.

  Finalmente lo scrittore ebbe pietà di lui e asciugandosi gli occhi lo tranquillizzò dicendogli: «Amico mio, sapete che è divertente! Rido perché voi cercate di notte ciò che io, a buon diritto, non riesco a trovare di giorno!».

 

  Eccoci al capolavoro!

 

  Un giorno Balzac, pranzando in compagnia di un notaio, si lamentò dei creditori che, al solito, lo assillavano continuamente. Il buon uomo con timidezza gli offrì mille lire per far fronte agli impegni più immediati, dicendogli: «Me li renderete sul guadagno del vostro primo capolavoro». Da allora si verificò questo fatto divertente: ogni volta che Balzac scriveva un’opera, il notaio affettuosamente lo complimentava: «Bene bene, caro amico, eccoci al capolavoro». E Balzac, con finta modestia: «Purtroppo no, è solo un altro romanzo». Naturalmente morì senza aver pagato il suo debito.

 

  La sua intimità.

 

  E’ noto il feroce accanimento con cui Balzac si dedicava al lavoro.

  Quest’uomo già famoso e ricercato da tutti, aveva studiato un sistema quasi poliziesco per proteggere la sua intimità. Il visitatore che voleva raggiungerlo nel suo studio-santuario doveva superare una serie di guardiani che davano il passo solo a chi pronunciava la triplice parola d’ordine. Al portiere: «La stagione delle prugne è finalmente arrivata»; al cameriere: «Porto dei merletti di Fiandra», e finalmente all’ultimo guardiano che sedeva fuori dello studio: «La signora Bertrand gode ottima salute».

 

  L’orologio d’oro.

 

  Durante il viaggio in Italia del 1837 a Milano, Balzac fece la triste esperienza di vedersi soffiare l’orologio. Descrive lui stesso, in una lettera, l’episodio: «Alle quattro e mezzo, sopraggiungendo dalla contrada Magnani sulla piazza S. Fedele, all’angolo dell’albergo «Bella Venezia» un giovane molto alto si è buttato su di me e, afferrandolo per la catena, mi ha sottratto l’orologio. La catena vale 150 franchi, l’orologio 800. E’ a ripetizione e il quadrante ha cifre romane. La chiavetta è d’oro e attaccata con due catenelle dello stesso modello di quella più grande».

  La stessa sera, nientemeno che il principe Porcia, ciambellano dell’imperatore Ferdinando I, comunicava a Balzac: «Il ladro è stato preso. Tutti conoscono la storia del furto che avete subito. Riavrete l’orologio e il vostro nome darà persino sveltezza alla nostra polizia».

 

  Casa-museo.

 

  Balzac abitò diverse case, a Parigi e fuori. Ma la casa vera di Balzac, per i parigini, resta quella situata in rue Fortunée dove morì e che ora, trasformata in museo, conserva le sue reliquie. Si tratta di una modesta casetta ad un piano, che stende la sua facciata su di un giardino. Era il rustico di una casa signorile del secolo XVIII. Pochi i mobili, scarsi gli altri oggetti ma in compenso abbondano documenti preziosi. Per circoscrivere e determinare l’interesse del visitatore, ogni camera è stata consacrata ad un aspetto o ad un momento della vita dello scrittore che, è noto, non conobbe la monotonia, nonché ai luoghi dove Balzac alimentò le sue idee, le sue aspirazioni, le sue speranze.

 

  Cos’è la gloria.

 

  Durante un viaggio in Russia, Balzac fu ricevuto con alcuni amici nel palazzo di una gentildonna che ignorava la sua identità. La padrona di casa stava entrando in salotto con un vassoio carico di fragilissime tazze quando udì uno degli ospiti che rivolgendosi allo scrittore gli diceva: «Voi credete, caro Balzac ...». A quelle parole la signora sussultò, lanciò un grido e lasciò cadere a terra il vassoio in un fragore di cocci. Balzac si rivolse agli amici e commentò: «Mei cari, ecco cos’è la gloria!».

 

  Il pessimismo di Balzac.

 

  «Tutti gli orrori che i romanzieri credono di inventare sono sempre ben poco di fronte alla verità» ha scritto Balzac ne «Il colonnello Chabert». E ha spiegato: «Nella nostra società ci sono tre persone, il prete, il medico e l’avvocato che non possono stimare gli uomini. Sono vestiti di nero, forse perché portano il lutto di tutte le virtù, di tutte le illusioni. Quando l’uomo va a trovare il prete vi giunge spinto dal rimorso, da una fede che lo rende interessante e in qualche modo lo purifica. Ma noialtri avvocati, noi vediamo ripetersi gli stessi malvagi sentimenti. I nostri studi sono delle sentine che non si possono spurgare. Quante cose non ho imparato esercitando il mio ufficio! Ho visto morire un padre in una soffitta, senza il becco di un quattrino, abbandonato dalle due figlie a cui aveva dato quarantamila franchi di rendita! Ho veduto bruciare testamenti; madri spogliare i propri figli; mariti derubare le proprie mogli; mogli uccidere i loro mariti; donne che favorivano nel figlio di primo letto inclinazioni che avrebbero dovuto portarlo alla morte, per arricchire il figlio dell’amore. Non posso dirvi tutto quello che ho visto, perché ho veduto delitti contro i quali la giustizia non può nulla».

 

  L’opera di Honoré de Balzac.

 

  Negli anni in cui la gigantesca opera di Balzac, la letteratura sta vivendo l’esperienza romantica comune a tutta l’Europa.

  Lo spirito francese dell’epoca è forse incarnato nel suo massimo esponente romantico, Victor Hugo (1802-1885) mentre Alphonse de Lamartine (1790-1869) e Alfred de Vignv (1797-1863) esprimono la poesia e i sentimenti del tempo. Ma in Francia, come nel resto dell’Europa, si sviluppano nuove condizioni di vita il cui influsso ben presto raggiungerà anche la letteratura.

  La borghesia è arrivata al potere, si consolida diventando la classe-guida del paese. Vengono ingaggiate le prime lotte socialiste. Il sorgere di una nuova civiltà, industriale e tecnica, si accompagna ai fermenti di pensiero positivista: sono gli anni in cui l’uomo scopre il potere della macchina e si appassiona a quello che è stato veramente il vessillo del secolo: il progresso.

  Tuttavia le coscienze più sensibili sono turbate dalla rivoluzione che è in atto non solo nelle cose ma negli individui: masse di contadini inurbate che diventano rapidamente plebe cittadina; artigiani, piccoli imprenditori trasformatisi, in un batter d’occhio, in uomini da cui dipende il destino di molte altre persone, con tutti gli squilibri che questa improvvisa metamorfosi comporta. In molti quartieri cittadini, alla miseria disperata e romantica si sostituisce una povertà rabbiosa. Gli artisti, immersi in questo clima di rapide trasformazioni, non possono non reagire attivamente denunciando i limiti e i pericoli della rivoluzione sociale cui stanno assistendo. E’ ciò che fanno, in modo particolare, gli scrittori francesi che, nel quarto decennio dell’800 dànno vita a un movimento glorioso, più tardi definito «realismo».

  Il realismo letterario si afferma definitivamente nel quinto decennio, ha il massimo sviluppo nel sesto e nel settimo finché, dopo il 1870, sbocca nel naturalismo, Esso è lo specchio fedele di un’epoca di grandi rivolgimenti sociali e politici. Balzac ne è il vero precursore con la sua opera in cui la fantasia dell’invenzione si mescola al documento, all’analisi spietata. Il suo atteggiamento di profondo pessimismo lo spinge a un’interpretazione della vita e della società in chiave «nera».

  E’ il male a trionfare sul bene e, quando ciò non accade (ad esempio, in «Eugenia Grandet») è solo perché il male ha già fatto le sue vittime. In realtà, la vittoria del male è, in Balzac, sempre un’esperienza straziante raggiunta con fredda determinazione dai personaggi negativi. Si veda la crudele premeditazione con cui, ne «Il cugino Pons» vengono schiacciati i personaggi buoni, gli ingenui, gli indifesi: esempio tipico, questo romanzo, di un’arte in cui la denuncia del male non esclude l’obiettività dell’analisi e la passione, nonostante tutto invincibile, dell’autore per la vita in tutti i suoi aspetti. Non per nulla, Balzac venne definito dal Taine: «Dopo Shakespeare, la più grande riserva di documenti sulla natura umana».

  «Commedia umana»: così Balzac volle intitolare il gigantesco celo di romanzi e racconti di cui si compone la sua opera narrativa.

  I primi romanzi, stampati nel 1830, appaiono scritti senza un piano ben definito; ma già Balzac li andava pubblicando sotto il titolo generico di: «Scene della vita privata».

  Successivamente, dal 1834 al 1837, cominciò a suddividere la sua produzione in ampie parti denominate: «Studi dei Costumi, Studi Filosofici e Studi Analitici».

  Il titolo generale, che in precedenza era stato: «Studi sociali», venne poi definito nel 1841 in quello con cui l’opera balzacchiana è passata alla storia.

  Nello stesso anno Balzac fece una prima edizione completa delle sue opere in 16 volumi (diventati, in seguito, 17) che cominciò a uscire nel 1842. Nel 1845 lo scrittore apportò i definitivi riordinamenti stendendo un grande piano che comprendeva i titoli di 135 romanzi, di cui 85 finiti e 50 abbozzati. Agli 85 completi ne aggiunse più tardi 6 nuovi portando l’opera definitiva a 91 romanzi.

  Balzac, l’uomo che per primo analizzò in modo coraggioso e «scientifico» i mali della società, i vizi, le sopraffazioni dei forti sui deboli, tutte le «croste» di una società in via di trasformazione, ci offre, nel mondo moderno, il primo filone di letteratura realistica.

  L’influsso della sua gigantesca ispirazione è visibile anche oggi nell’opera di importanti scrittori contemporanei che sulle tracce del realismo compirono la loro educazione morale.

 

  Un Balzac sconosciuto.

 

  Prima di iniziare la colossale opera letteraria che gli avrebbe dato la gloria, Balzac, tormentato dai creditori e dalla sua stessa febbre di denaro, si buttò a comporre manuali e libercoli sugli argomenti più incredibili. Di alcune ci sono rimasti i titoli stravaganti: «Piccolo dizionario delle insegne di Parigi»; «Codice della gente onesta, ovverosia «L’arte di non farsi imbrogliare dai bricconi»; «L’arte di metter la cravatta»; «Codice coniugale»; «Codice del commesso viaggiatore»; «Arte di pagare i debiti e di soddisfare i creditori senza sborsare un soldo». Inoltre, Balzac scrisse la commedia in tre atti Mercadet l’affarista (storia di un finanziere balzano che, quasi rovinato dalla fuga del socio infedele, per tacitare i creditori finge che questi sia tornato, facendolo impersonare da uno spasimante della figlia. Ma il vero socio torna davvero, con un mucchio di soldi e paga tutti restituendo a Mercadet la pace e alla figlia Giulia la possibilità di sposare il giovanotto che ama). La commedia venne rappresentata la prima volta nel 1840 (sic).

 

 

  Gli Amori di Balzac, «Stampa Sera», Torino, Anno 97, Numero 218, 16-17 Settembre 1965, p. 8; 4 ill.

 

  La vita di Honoré Balzac, il grande romanziere francese, fu anch’essa un romanzo e, sovente, un romanzo d’amore. L’amore fu per Balzac una pura sorgente di energie e d’ispirazione che l’aiutò non poco a superare gli ostacoli di un’esistenza troppo spesso amareggiata da schiere di debitori. Nel 1819, sotto il regno di Luigi XVIII, abitavano, fra le altre, nel quartiere di Marais due famiglie, quella dei Balzac e dei Berny. La prima in uno stabile situato al 40 di «Rue du Temple». M. Bernard-François Balzac, nato nei pressi d’Albi, apparteneva a una vecchia famiglia originaria di Rouergue. Impiegato, primo dello scoppio della Rivoluzione presso un ufficio del Consiglio reale, Bernard Balzac aveva poi ricoperto altre cariche, fra le quali quella di amministratore di un ospedale. A 70 anni, con la Restaurazione, il vecchio Balzac era ispettore della sussistenza presso la «1a Divisione militare di Parigi». Dopo il 1797 aveva sposato tale Anna Sallambier, ben 32 anni più giovane di lui, figlia di direttore generale degli ospizi della capitale. M. Berny, che aveva sposato tale Laura Hinner, era in ottimi rapporti con Bernard Balzac il quale seppure ormai così avanti negli anni, nutriva una grande ammirazione per la consorte dell’amico: creatura di una bellezza ancora radiosa nonostante i suoi quarant’anni. I Balzac avevano due figlie, Laura e Lorenza, e un figlio, Onorato. Quest’ultimo era nato a Tours il 20 maggio 1799. Nel 1819, allevato da una madre di carattere autoritario, aveva seguito prima i corsi inferiori nel paese nativo fino all’ammissione al liceo e poi a Parigi, ospite della pensione Lapitre (sic), il liceo Charlemagne e infine alla Sorbona. Dotato di una vivace intelligenza, Honoré era fatto subito notare dai propri superiori per scrivere e la sbrigliata fantasia. Un giorno avvenne che il vecchio Balzac ordinò al figlio di recarsi a casa Berny per portare un libro destinato all’amico. A riceverlo fu la stessa M.me Berny. Di quell’incontro (era la prima volta che Honoré la vedeva e le parlava) il romanziere scriverà vari anni dopo: «Quel giorno ebbi la sensazione di conoscere un angelo, mi sentii scosso e commosso al tempo stesso e la mia immaginazione s’illuminò quasi avessi di fronte a me una creatura perfetta .... Dal canto suo M.me Berny non mancò di notare la luce che illuminava il mio sguardo, la mia emozione nell’ammirare una creatura così bella e non mancò di sorridere del mio impaccio, ragazzo com’ero dalla corporatura robusta e la folta chioma di un nero corvino che cadeva sulla fronte». Dopo qualche tempo alcuni amici dei Berny diedero una festa in un albergo di loro proprietà. M.me Berny fece invitare Honoré e fu in quell’occasione che la bella dama gli insegnò i primi passi di danza. Il giovane ne fu anche più ammirato. Essa non mancò inoltre di lodare la sua eleganza; per l’occasione Honoré si era fatto prestare una nuova camicia ornata di pizzo da suo padre e un paio di pantaloni di seta che gli andavano un po’ larghi. Nonostante tutto, però, la serata era stata meravigliosa!

 

 

  N. 219, 17-18 Settembre 1965, p. 14, 4 ill.

 

La sciarpa di mussola.

 

  II. — Bernard Balzac, padre di Honoré Balzac, il famoso romanziere francese, abita con i suoi in un quartiere elegante dove è anche un’altra famiglia, quella dei Berny, legata alla prima da profondi vincoli di amicizia. Honoré è uno studente di liceo quando un giorno ha l’occasione di conoscere M.me Berny, una meravigliosa creatura che nonostante i suoi quarant’anni è oggetto di ammirazione per la sua superba bellezza. Honoré rimane anch’egli affascinato, cosa di cui M.me Berny sorride divertita. Un giorno essa riesce ad ottenere per Honoré l’invito per partecipare ad un ballo cui si recherà essa stessa. L’invito è accettato con entusiasmo. Honoré giunse al ballo al braccio di M.me Berny, accompagnata dalle due figlie: Jeanne, di vent’anni, e Emanuelle, di sedici. Il giovanetto si trova un po’ spaesato in quell’ambiente lussuoso popolato di dame elegantissime cariche di gioielli. «Fra queste, molte erano giovani e belle — dirà più tardi Honoré — ma non certo tali da reggere il confronto con M.me Berny. Ricordo il suo abito di pizzo e la generosa scollatura che metteva in rilievo due spalle bianche come l’alabastro e perfette come quelle di una dea greca. Come s’usava allora, essa portava sull’abito una lunga sciarpa di mussola». Ma veniamo al momento cruciale della serata. Seppure amabilmente incoraggiato dalla sua deliziosa dama, Honoré non sa muovere un passo di danza. Più che dalla musica egli continua ad essere attratto dalla bellezza della sua dama. Vistosi incapace di ballare e dopo avere più volte messa a dura prova l’incolumità delle estremità di M.me Berny, Honoré l’invita a lasciare la sala e a ritirarsi con lui in una stanza attigua. La conversazione è piuttosto banale, ma Honoré è felice di parlare con la sua accompagnatrice che, seduta accanto a lui tiene le spalle coperte dalla sciarpa vaporosa. Ad un tratto Honoré, quasi senza pensare a quanto sta facendo, solleva un lembo della sciarpa e scopre una spalla di M.me di Berny. Chinatosi su di lei, appoggia delicatamente le sue labbra su quell’epidermide vellutata. M.me Berny si volta risentita, ma visto l’imbarazzo di Honoré preferisce non riprenderlo per la sua audacia. «Che cosa fate, mio caro ballerino? — chiede la dama —; lo dovreste sapere che non è corretto!». Così dicendo essa scoppia a ridere. Honoré, imbarazzatissimo, non risponde. I suoi occhi sono come magnetizzati da quel busto incantevole che si solleva e s’abbassa nella risata. Per rompere quell’atmosfera di tensione M.me di Berny s’alza dalla poltrona e s’avvia a passo lento verso il salone dove sono in corso le danze. Honoré, immobile come una statua, non sa muovere un solo passo per seguirla e infine s’allontana goffamente nella direzione opposta. M.me di Berny lancia uno sguardo furtivo al suo giovanissimo cavaliere e sorride nuovamente divertita. Per tutto il resto della serata, Honoré rimane seduto in un angolo della sala e rifiuta di ballare quando, Emanuelle, prima, e Jeanne, dopo, lo invitano a danzare con loro. Il ragazzo ha compreso di avere osato troppo e non ha nemmeno il coraggio di guardare M.me di Berny mentre essa fra le braccia di altri cavalieri sembra avere invece dimenticato quel bacio. Dovranno trascorrere oltre quattro settimane prima che Honoré abbia il coraggio di presentarsi a M.me di Berny. Come se nulla fosse avvenuto, essa lo riceve amabilmente. Il loro nuovo colloquio avviene nel salotto azzurro di casa Berny, dove Madame tiene il suo pianoforte preferito. Ma è Honoré stesso che ritorna sull’argomento: «Comprendo d’avere avuto poco tatto — egli dice —; ma è stato più forte di me. Vi prego ancora una volta di scusarmi. Ora mi considerate un ragazzo quale sono in effetti, ma un giorno ritornerò da voi ben diverso ... Honoré Balzac sarà un nome, uno scrittore famoso e sarò felice di farvi dono di ciò che avrò scritto dedicandolo segretamente a voi!». Queste parole lasciano piuttosto perplessa la bella dama, la quale ha compreso tutta la forza dell’entusiasmo giovanile di quel ragazzo che vede in lei l’incarnazione della bellezza muliebre!

 

  N. 224, 23-24 Settembre 1965, p. 10, 4 ill.

 

A Villeparisis.

 

  III — Bernard Balzac, padre di Honoré Balzac il famoso romanziere francese, abita con i suoi in un quartiere elegante dov’è un’altra famiglia loro amica, quella dei Berny. Honoré è ancora studente di liceo quando un giorno ha l’occasione di conoscere Mme Berny, una donna bellissima. Il giovanetto rimane affascinato ed è felice quando, invitato dalla stessa Berny, si reca una sera a un ballo presso amici comuni. Durante la serata Honoré ha l’ardire di sfiorare con le labbra una spalla della bella dama, ma questa non lo riprende trattandosi di un ragazzo. L’incidente sembra non avere alcun seguito. Nel luglio del 1819 Balzac padre va in pensione, il suo stipendio scende da 3605 franchi annui a soli 1695 e poiché la famiglia si trova ora a dovere limitare le spese si trasferisce a Villeparisis nella casa di proprietà di un cugino della signora Balzac. Le figlie seguono i genitori, mentre Honoré continua ad essere ospite dell’istituzione Ganzer. Il vecchio Balzac intende che il figlio frequenti lo studio di un notaio per fare pratica, cosa questa che secca molto al ragazzo il quale si sente decisamente portato per la letteratura. Durante il tempo libero, Honoré scrive in continuazione, in tal modo nell’anno 1808 egli (sic) può dare alle stampe un volume dal titolo: «Mémoire sur le scandaleux désordre causé par les jeunes filles trompées et abbandonées (sic) dans un absolu dénûment (sic)» e più tardi «Mémoire sur les moyens de prévenir les vols et les assassinats». Saputo ciò il vecchio Balzac ingiunge al figlio di lasciare Parigi, ma dietro le insistenze della moglie e degli amici ritorna sulla sua decisione. Honoré, tenuto a corto di denaro, deve accontentarsi di una soffitta che riesce a sistemare alla meglio con l’aiuto delle sorelle. E’ in questa soffitta che Honoré incomincia a scrivere una tragedia il cui protagonista è Cromwell. In tale occasione il giovane scrive alla sorella Laura: «Mia cara, mi rivolgo a te perché so che tu mi comprendi, ho incominciato a scrivere un lavoro che ritengo superiore alle mie forze, ma proprio per questo voglio portarlo a compimento. Si tratta di un impegno di fronte al quale non debbo mancare, altrimenti perderei la fiducia in me stesso. Dopo avere lavorato parecchie ore mi sento completamento svuotato di energie e quando rileggo ciò che ho scritto sono tentato talvolta di strappare i fogli che mi stanno davanti. Non sono mai soddisfatto di me stesso, tuttavia mi consolo in quanto so che il grande Racine impiegò ben due anni per rivedere la sua “Fedra”!». Caparbio più che mai, Honoré continua nella sua opera, in quella che egli ritiene il capolavoro che lo imporrà all’ammirazione della Francia e del mondo. Illusioni di giovanotto. Nel frattempo Laura Balzac si sposa e Honoré lascia Parigi per recarsi alla cerimonia. E’ in questa occasione che egli legge a parenti e amici riuniti alcune pagine della sua «grande» tragedia, ma quale delusione attende il giovane Honoré quando egli s’avvede che il suo capolavoro è considerato un completo fallimento. Tuttavia c’è qualcuno che ha saputo scoprire in Honoré qualcosa che, se giustamente indirizzato, lo porterà al successo. Secondo costoro Honoré ha soltanto sbagliato genere, non è la tragedia che egli deve affrontare, è troppo impegnativa per la sua esperienza di scrittore in erba! L’amarezza dell’insuccesso è in parte compensata dalla presenza di Mme Berny fra gli ospiti. Questa s’intrattiene con lui gentilmente e, trascurando di parlare delle sue prove in campo letterario, gli dice: «Caro Honoré, voi siete molto pallido, lavorate troppo, avete bisogno di qualcosa?». Al che il giovane risponde: «Sì, di genio!». Alcuni mesi più tardi, all’inizio dell’estate, i Berny invitano Honoré a trascorrere alcuni giorni in una loro villa presso Villeparisis. Il giovane è felice ed è durante questa permanenza che rivela il proprio amore alla bella Laura Berny. A questa dichiarazione, Mme de Berny rimane senza parole.

 

  Numero 225, 24-25 Settembre 1965, p. 12, 4 ill.

 

Maria Teresa.

 

  IV. Bernard Balzac, padre di Honoré Balzac, il famoso romanziere francese, è molto amico della famiglia Berny, che abita nel medesimo quartiere. Honoré nutre una segreta passione per la bella M.me Berny, anche se essa ha ormai quarant’anni. Una sera, in occasione di un ballo, Honoré ha la audacia di baciare la bella dama su una spalla, ma Laura Berny preferisce non dare peso alla cosa in quanto il suo spasimante è soltanto un ragazzo. Durante la permanenza a Parigi, Honoré si dà alla letteratura e scrive due opere e una tragedia. Purtroppo, contrariamente alle sue aspettative, la critica lo stronca. In occasione delle nozze della sorella, Honoré rivede la bella Mme Berny e le rivela il suo amore.

  «Mio caro Honoré — le risponde Laura Berny — voi siete molto caro a dirmi che avete pensato a me durante le fredde notti trascorse nella vostra soffitta di Parigi, ma capirete che potrei essere vostra madre. Il fatto che io vi piaccia fisicamente non vi autorizza a dimenticare che sono una donna sposata e voi ancora un ragazzo!». «Non sorridete per quanto vi ho detto — ribatte subito Honoré —, non sono più un ragazzo e voi lo sapete bene, come pure sapete che il mio sentimento è radicato nel profondo del cuore. Vi prego, parlatemi di voi ...». Laura Berny rimane qualche attimo in silenzio e poi aggiunge: «E va bene, vi dirò pròprio ciò che dovete sapere. Mio padre si chiamava Philippe Hinner ed era nato a Wetzlar, in Renania, nell’anno 1754. Quando i suoi vennero in Francia era ancora giovanissimo e poiché essi morirono di febbre alla Guiana, Turgot volle conoscere mio padre, fu lui che l’aiutò a farsi una posizione e gli diede modo di studiare musica. A vent’anni egli era un ottimo musicista, suonava l’arpa superbamente tanto che fu nominato maestro d’arpa della regina Maria Antonietta. Nel 1775 mio padre sposò una damigella di compagnia della regina, tale Emilia Guelpée. Dal loro matrimonio nacqui io. Era il 23 maggio 1777. Vedete bene ... che non vi nascondo la mia età. Fui battezzata nella chiesa di San Luigi, a Versailles, alla presenza di principesse e principi. Ebbi come compagna di giochi la principessa Maria Teresa ed ebbi più volte l’onore di danzare col Delfino di Francia. Mio padre mi impartiva lezioni d’arpa, ma dopo la sua morte prematura, avvenuta nel 1784, non volli più toccare quello strumento. Tre anni dopo, mia madre, la quale aveva allora 26 anni, passò a seconde nozze con il cavaliere di Jarjayes, maggior generale dell’esercito. Per tale motivo fui messa in un convento ...».

 

  Numero 228, 28-29 Settembre 1965, p. 10, 4 ill.

 

Jarjayes e la regina.

 

  V. — [...]. La Berny continua il suo accorato racconto: «Poi venne la Rivoluzione e nel settembre del 1791 il convento dove ero stata allevata venne chiuso per ordine del direttorio. Quando mia madre lo seppe accorse e mi portò con sè a Livry, presso un castello dove abitavano alcuni suoi parenti, tali Quelpée de la Borde. Dopo di ciò mia madre dovette riprendere le sue mansioni presso la regina. Poiché la dama di camera di Maria Antonietta era caduta Gravemente ammalata, mia madre prese il posto di costei e fu a lei che la regina mostrò — dopo la fallita fuga e l’arresto a Varennes — come i suoi bellissimi capelli biondi fossero incanutiti per il terrore. Ciò avvenne una sera alle Tuileries dove la famiglia reale era prigioniera. Rammento che il comitato rivoluzionario aveva incaricato un ufficiale di sorvegliare la regina per impedirle la fuga. Una sera il giovane che sostava oltre la porta della stanza dove eravamo noi due si avvicinò in punta di piedi al letto dove dormiva Maria Antonietta ... non so se per usarle violenza, no, ma poiché mi svegliai di soprassalto lo misi alla porta minacciandolo di denunciarlo ai suoi superiori. Qualche tempo dopo la famiglia reale fu trasferita al «Temple», una brumosa mattina di gennaio, era il 21, il re venne ghigliottinato. Mia madre decise allora di fare l’impossibile per salvare la sovrana, per tale motivo invitò suo marito, il cavaliere di Jarjayes, a ritornare clandestinamente a Parigi. Così avvenne. Comperato il silenzio di una delle guardie addette alla sorveglianza di Maria Antonietta, Jarjayes riuscì a penetrare nella prigione e ad esporre alla regina un audace piano di evasione, a condizione però che ossa fuggisse da sola, ma la regina si rifiutò di abbandonare il Delfino. Il cavaliere ritornò alla carica, ma essa fu irremovibile: sarebbe morta con i suoi figli! Durante uno di questi incontri Maria Antonietta consegnò al cavaliere di Jarjayes un anello da fare pervenire al conte di Fersen, sul quale erano incise le parole «Tutto a te mi guida». Alcuni giorni prima di salire il patibolo, la sovrana fece dono al suo avvocato difensore, Tronson du Goudray, di una ciocca dei suoi capelli e di un anello d’oro quali pegno di riconoscenza per quanto egli aveva fatto per lei. Quando Tronson venne tratto in arresto nella sua abitazione vennero trovati tali oggetti: essi erano in una busta sulla quale appariva il nome di mia madre: era una prova più che sufficiente per il tribunale della Rivoluzione per accusarlo di complicità nella evasione programmata della sovrana e chiederne la condanna a morte ...».

 

 

  Numero 230, 30 Settembre-1 Ottobre 1965, p. 12, 4 ill.

 

  La prigione degli inglesi.

 

  VI — [...]. «Mi sposai — prosegue Laura — a Livry, l’8 aprile 1793, col cittadino Gabriel de Berny, impiegato della sussistenza, un uomo di 24 anni, gentile, di bell’aspetto e d’antica famiglia nobile originaria del Piemonte trasferitasi a suo tempo nella Piccardia dove il nome originale Berny si era trasformato in De Berny. Nel gennaio dell’anno seguente misi al mondo la mia prima creatura, Emilia. Mia madre, che nel frattempo era sfuggita all’arresto dopo la condanna a morte dell’avvocato Tronson du Coudray, era venuta in incognito a Livry per essere presente al battesimo della piccola. Ad appena 33 anni era già nonna. Quando la cerimonia fu finita essa si congedò da noi, ma poco lontano dal castello la sua carrozza fu fermata da tre agenti del Comitato di Salute Pubblica. Dichiarata in arresto per alto tradimento ai danni della Rivoluzione, fu trasferita a Parigi e rinchiusa nella “prigione degli Inglesi”, in rue de la Lourcine. Alcuni giorni più tardi dieci “sans-culottes” con le armi alla mano fecero irruzione nel castello. Avevano l’ordine di trarre in arresto mio nonno, Quelpée de la Borde, mio marito e io stessa. I primi due vennero scoperti quasi subito, per parte mia in quel momento mi trovavo nella camera da letto intenta ad allattare la mia piccina. I gendarmi mi dissero bruscamente che dovevo alzarmi più presto che potevo e seguirli a Parigi in stato d’arresto. Strinsi al petto la piccola Emilia la quale incominciò a piangere. Allora quello che doveva essere il comandante della pattuglia s'impietosì a quella scena patetica e mi disse: “E va bene signora, restate pure al castello, ma ricordate di non allontanarvi senza permesso!”. Così dicendo mi salutò e uscì dalla stanza seguito dagli altri. Per evitare che tentassi la fuga fu lasciato al castello un picchetto armato. Fortunatamente del comitato di sicurezza di Livry faceva parte un nostro stalliere il quale, seppure devoto ai principi della Rivoluzione, non aveva dimenticato quanto avevamo fatto per lui e la sua famiglia. Fu da lui che venni a sapere che mia madre e mio padre erano stati accusati di tradimento e attendevano di salire il patibolo. Sempre grazie al suo interessamento potei un giorno incontrare mia madre. Rammento che lasciai Livry a bordo di una carretta, vestita dimessamente e con in capo una cuffietta con la coccarda dai colori della Rivoluzione. Non mi fu facile giungere fino a lei e grande fu la nostra commozione quando potemmo cadere l’una fra le braccia dell’altra. Essa mi fece coraggio e asciugandomi il volto rigato di lagrime, mi disse: “Figlia mia, tu sai che sono innocente delle accuse che mi sono state mosse, io non ho tradito la Rivoluzione e ho fatto soltanto il mio dovere. Se sarà destino che io muoia non dimenticarti di me e ricordami nelle tue preghiere ...”. A queste parole mi strinsi anche più forte a mia madre e le giurai che sarei morta accanto a lei. ma essa mi ricordò della piccola Emilia. La lasciai che ero in preda alla disperazione, ma quando ogni speranza sembrava ormai perduta giunse il 9 di “Termidoro” e con esso la salvezza!».


 

  Numero 231, 1-2 Ottobre 1965, p. 10, 4 ill.

 

Il seducente Campi.

 

 VII.— [...]. «Tre anni dopo la nascita di Emilia — prosegua M.me de Berny venne alla luce Jeanne e due anni più tardi Adrien. Era il 1799 ...». «L’anno in cui. nacqui io!», ribatte Honoré, ma poi ammutolisce rendendosi conto della gaffe commessa. «Proprio così — riprende la bella dama con tono amaro —, ma il povero Adrien non ebbe vita lunga e una polmonite lo portò alla tomba. Per me fu un colpo terribile in quanto egli era tutta la gioia della mia vita, bello, buono, generoso ... In quello stesso anno mio marito fu nominato capo contabile presso la sussistenza del IX distretto militare il cui comando si trovava a Montpellier. Fu in quella città che un brillante e giovane ufficiale di nome Campì, diventato buon amico di mio marito, incominciò a frequentare la nostra nuova casa; ma nel 1800, nominato impiegato di prima classe presso il Ministero dell’Interno, mio marito fece ritorno a Parigi. L’anno seguente divenni ancora una volta mamma di una bimba alla quale demmo il nome di Aimée: purtroppo i rapporti con mio marito si guastarono, preso com’era dal suo lavoro incominciò a trascurarmi. Poiché Campi veniva di tanto in tanto a farmi visita, egli divenne geloso e ciò causò delle violente liti. Una sera, dopo un ennesimo alterco, decidemmo di separarci per qualche tempo e così fu. Quella rottura da me non voluta e non provocata mi addolorò profondamente e fu in quell’occasione che trovai in Campi comprensione e ... affetto, Campi, che nel frattempo era stato trasferito a Parigi, era entrato a far parte del salotto di Letizia Bonaparte, tuttavia appena poteva veniva a trovarmi. Le sue visite si fecero sempre più frequenti e un giorno mi trovai fra le sue braccia ... Qualche tempo dopo diedi alla luce una bimba, Campi volle chiamarla Julie e la fece allevare da una sua lontana parente. Ma non tardai ad accorgermi che il carattere di Campi non era quello che mi ero immaginata, in lui c’era una buona dose di ipocrisia e non fece nulla per non dimostrarlo. La nostra unione finì in sordina com’era nata ... Come vedete — prosegue M.me de Bernv rivolgendosi a Honoré – sono molto sincera con voi, non vi nascondo assolutamente nulla, nemmeno la mia relazione con quell’ufficiale corso di cui non ho mai più sentito parlare!». A queste parole il giovane Balzac sente il desiderio di stringere la mano della bella donna che sta davanti a lui, ma frena il suo istinto. «Nel 1805 — riprende M.me de Berny — rividi mio marito. Il nostro incontro fu sul principio molto freddo, ma il pensiero di avere rotta la famiglia e di negare ai nostri figli la serenità di una pace domestica fondata sull’affetto e sulla comprensione ci indusse a riprendere la vita in comune. L’anno seguente misi al mondo Emanuela, nel 1803 Alessandro, nel 1811 Armando, nel 1813 Laura e nel 1815 Antonio. La nostra vita ripreso calma e pacifica fino a quando non perdemmo Aimée, essa soffriva di petto ... aveva 15 anni quando morì ... Ecco mio caro Honoré – dice M.me de Berny – ora sapete tutto della mia vita, tutto ...».


 

  Numero 234, 5-6 Ottobre 1965, p. 16, 4 ill.

 

La prima lettera d’amore.

 

  VIII — [...]. Al racconto della bella dama che gli sta di fronte, Honoré non sa aggiungere parola. Ed è la stessa signora che dice al giovane: «Come vedete, ora io vivo per i miei figli!». E’ appunto in quel momento che entra nella stanza l’ultimo nato, non badando a Honoré, il piccino che tiene in mano un mazzetto di fiori di campo s’avvia verso la madre e glieli offre. M.me de Berny non può non guardare per un istante Honoré e poi, chinatasi verso il bimbo accetta i fiori e lo bacia teneramente sulla fronte. A quella scena, Honoré si sente quanto mai a disagio e preferisce accomiatarsi dalla donna dei suoi sogni. Per alcune settimane Honoré non ha il coraggio di ritornare a fare visita a Laura de Berny, ma un giorno si fa coraggio e bussa alla sua porta. Laura si mostra felice di vedere il giovane e l’accoglie molto gentilmente. «Sapevo che sareste venuto — dice M.me de Berny a Honoré, rosso in volto —, sono certa che avete da leggermi qualcosa di nuovo. E’ così?». «No — risponde il giovane — il motivo è un altro. Ho saputo che cercate un precettore per la vostra giovane Alessandra e, se lo volete, sono pronto ad aiutarla!». M.me de Berny sorride compiaciuta e risponde: «Se vi sentite all’altezza di questo compito mio marito e io saremo lieti di affidarvelo». Ogni pomeriggio Honoré si reca in casa de Berny per fare alla giovane lezione di lingua e di letteratura, le lezioni procedono con profitto con piena soddisfazione dell’allieva e dei suoi genitori. Un giorno, fatta lezione, Honoré è costretto a fermarsi ancora un poco in casa de Berny a causa di un violento temporale. Trovandosi in salotto con Laura, Honoré le chiede: «Vedo che avete molti libri di poesia, posso leggervi qualcosa?». «Volentieri — risponde la signora de Berny — scegliete quello che più vi aggrada». Honoré ne approfitta allora per leggere alcuni brani molto appassionati e in tal modo fa comprendere alla sua auditrice come il suo amore per lei sia tutt’altro che spento. M.me de Berny comprende, ma preferisce fare l’indifferente anche perché in quel momento sente alle sue spalle i passi del marito che sta entrando in salotto. La lettura s’interrompe, ma Mr. de Berny non sospetta di nulla, Honoré è solo un ragazzo! Le lezioni continuano per vari mesi e con le lezioni le visite di Honoré alla sua «bella dama». Un pomeriggio Honoré chiede a Laura di ascoltare alcuni passi di un romanzo epistolare dal titolo «Sténie» da lui scritto in buona parte. M.me de Berny accetta. Giunto a questo passo, Honoré con voce appassionata: «Io amo, amo ... lo ripeto con voluttà e desidero gridarlo a tutta la terra. E’ la prima volta ch’io amo nella mia vita e ciò che sento è talmente dolce che non ho parole per esprimerlo. Eppure non so se tu m’amerai e perché vivo di questo dubbio io t’amo anche di più ...». Interrottosi, Honoré guarda Laura e dice: «Signora, io voglio un posto nel vostro cuore ...». «Lo avete — risponde la dama —, avete la mia amicizia!». «Non è la vostra amicizia che io voglio — ribatte Honoré baciandole la mano —, è il vostro cuore che voglio!». «Caro Honoré — aggiunge Laura — accontentatevi di ciò che mi è concesso darvi anche se forse meritereste di più». Dopo quel colloquio appassionato Honoré interrompe le sue visite a casa de Berny, d’altronde l’anno scolastico è finito, ma egli invia alla sua innamorata la prima lettera d’amore.


 

  Numero 236, 7-8 Ottobre 1965, p. 8, 4 ill.

 

Il primo appuntamento.

 

  IX.— [...]. Non ricevendo risposta alla sua missiva, Honoré raggiunge nuovamente casa de Berny. Questa volta egli trova Laura in compagnia delle figlie e dell’ultimo nato. La presenza dei familiari impedisce a Honoré di parlare della sua missiva e del silenzio che ad essa è seguito. Ad un certo momento le figlie di Laura accennano a ritirarsi, ma la madre ordina loro di restare in salotto. Honoré è sulle spine. Dopo circa mezzora Laura rimane sola con lui ed egli può finalmente toccare l’argomento che ha determinato la sua visita, ma Laura lo interrompe immediatamente con queste parole: «Mi sembra di avervi detto che fra noi non può esservi che amicizia, altro non debbo e non voglio darvi, il mio cuore appartiene ad altri e voi l’avete visto bene, pertanto vi prego di non ripetere l’esperienza di inviarmi delle lettere, com’è avvenuto per la prima anche quelle che seguiranno non avranno risposta». A queste parole Honoré si sbianca in volto, ma poi aggiunge: «Comprendo perfettamente e vi chiedo di perdonarmi, ma non è scrivendovi quella lettera che intendevo offendervi come moglie e come madre, ho scritto soltanto ciò che mi dettava il cuore e voi lo sapete bene. Più tempo passa e più mi rendo conto che l’amore che vi porto non è corrisposto, ma è più forte di me e continuerò ad amarvi per tutta la vita anche se ciò dovesse portarmi alla follia ...». M.me de Berny preferisce non rispondere, ma sul suo volto si legge l’angoscia. Qualche tempo dopo Honoré si reca a farle nuovamente visita. Questa volta Laura è sola in casa. Il giovane le parla delle sue tristi giornate nella sua soffitta, delle notti trascorse a leggere ed a scrivere alla fioca luce di una candela. «E’ un’esistenza grama quella che sto conducendo — egli dice —, ma non mi pesa perché posso scrivere, scrivere per voi perché voi soltanto occupate la mia mente ed il mio cuore. Lo so che non dovrei dirvi queste cose, ma se non lo facessi credo che il cuore mi scoppierebbe nel petto. Voi conoscete le confessioni di Rousseau? Se non le conoscete, leggetele e vi troverete parte del mio stesso cuore ...». «Mi spiace per voi — risponde Laura —, ma quanto mi state dicendo esula dai nostri patti. Vi ho già detto che posso avere per voi soltanto dell’amicizia. Vi prego, non tornate su questo argomento altrimenti sarò costretta a non ammettervi più fra queste pareti!». Il tono di queste parole è però più di dolore che di fermezza. Honoré comprende che Laura de Berny sta sostenendo contro se stessa una lotta spasmodica, forse anch’essa lo ama, ma tenta in tutti i modi di nasconderlo. Ritornato a Parigi, Honoré continua a scrivere alla sua bella, ma questa non risponde a nessuna delle sue lettere. Nel corso di un nuovo colloquio Honoré dà nuovamente sfogo ai suoi sentimenti, questa volta Laura sembra non avere la forza di reagire ed ascolta come trasognata le frasi appassionate di quel giovane sul cui volto è dipinta la disperazione. «Vi prego andatevene — dice infine Laura — andatevene, uscite dalla mia vita, se prima vedervi era per me fonte di gioia, ora è solo di tormento ...». Questa frase tradisce i veri sentimenti della de Berny, la cosa non sfugge a Honoré che, approfittando di quell’attimo di incertezza, s’avvicina a Laura e le dice sottovoce: «Non mentite, voi mi amate, lo vedo, tornerò questa sera da voi dopo il tramonto, vi aspetterò al cancello del giardino ... posso sperare di vedervi?». Pallida in volto, Laura risponde: «Verrò ...».


 

  Numero 237, 8-9 Ottobre 1965, p. 16, 4 ill.

 

Al cancello.

 

  X. — [...]. All’ora fissata, Honoré si trova al cancello che dà sul parco del palazzo di Villeparisis dove risiedono i de Berny. Per non destare sospetti nei suoi, Honoré aveva detto loro che sarebbe andato a fare una gita in un paese vicino per cercare un amico; uscito di casa egli aveva fatto poi un lungo giro nei campi ed era giunto al luogo del convegno con qualche minuto di anticipo. «La notte era chiara — racconta Honoré — e, seppure avessi camminato lentamente, quando giunsi al cancello avevo il fiato mozzo. Era l’emozione che mi chiudeva la gola. Attesi a lungo con gli occhi puntati al castello nella speranza di vederla apparire, nulla ... Non verrà pensai, non dovevo insistere così, è stato un ... Ma non fu un errore perché ad un tratto scorsi una figura bianca muoversi nel parco. Illuminata dalla luna, quella figura sembrava appena sfiorasse il terreno tanto il suo passo era leggero e armonioso. La riconobbi, era Laura ... sentii il mio cuore traboccare di gioia. Quando fu davanti a me allungai istintivamente le braccia, ma essa si ritrasse: «Non qui — disse —, seguimi», quindi si diresse verso un angolo del parco dove erano delle annose querce. Al riparo dai raggi indiscreti della luna la strinsi fra le braccia. Essa si abbandonò a me e mi porse le labbra. In quell’istante dimenticai il pericolo che correvamo, il profumo che emanava dai suoi capelli mi inebriava come se avessi bevuto una grossa coppa di vino generoso. Non so per quanto la tenni stretta a me, ma baciandola compresi che essa aveva definitivamente rinunziato a M.me de Berny per essere soltanto Laura, la donna che io desideravo con tutta la forza dell’animo mio. Quando si staccò da me l’udii mormorare il mio nome. «Sarai mia — le sussurrai all’orecchio — io ti voglio!». «Sì, domani a Parigi», fu la risposta. Ci separammo. Durante la strada del ritorno sentivo ancora sulle mie labbra l’infinita dolcezza di quei baci. Come stabilito, ci incontrammo a Parigi. Il nostro convegno avvenne in un luogo assolutamente sicuro; confesso che per qualche attimo ebbi quasi paura, una strana sensazione di freddo mi prese all’improvviso quando la strinsi nuovamente fra le braccia, rammento che dopo quell’incontro le scrissi una lunga lettera, essa diceva più o meno così: «Ti scrivo in una notte piena di te, fatta di silenzio e di incanto, piena del ricordo dei tuoi baci deliranti. Vorrei dirti molte cose, ma come posso? Mi sento svuotato di idee perché tu sei il mio unico pensiero e tutti i miei pensieri te li sei portati con te! In me non c’è che amore, un amore che mi rende felice e pazzo!». Dopo quell’incontro Honoré frequenta anche più spesso casa de Berny, egli non può restare lontano dalla donna amata e alcuni a Villeparisis cominciano a mormorare: «Avete notato come il giovane Honoré Balzac sia divenuto un assiduo frequentatore di casa de Berny? Gatta ci cova! Ma sappiamo tutti che il giovane Honoré ha posto gli occhi sulla graziosa Emanuelle, la figlia di M.me Berny, e la fanciulla non ne è dispiaciuta affatto. Fra breve sarà annunciato il fidanzamento che vedrà uniti i nomi di due delle più notabili famiglie del paese».


 

  Numero 238, 9-10 Ottobre 1965, p. 12, 4 ill.

 

Separazione.

 

  XI — [...]. Le voci giungono all'orecchio di Emanuelle, la quale reagisce con molta energia quando s’avvede di essere diventata «la fidanzata immaginaria» di un tale che non ha mai avuto per lei una parola gentile. La giovane chiede alla famiglia che il suo caso venga risolto al più presto non desiderando diventare lo zimbello del paese ed essere posta in condizioni tali da vedere lesa la propria reputazione. Mme de Berny ascolta la figlia con molto interesse e quando Emanuelle chiede che Honoré Balzac non venga mai più ricevuto in casa de Berny, approva. Durante la discussione Laura, la madre, appare piuttosto pallida, ma nessuno nota il suo imbarazzo e quando Mme de Berny le chiede di essere lei stessa a informare Honoré Balzac della grave decisione, accetta senza alcuna obiezione. Qualche giorno dopo Honoré raggiunge casa de Berny. Per evitare incontri spiacevoli nel palazzo non rimane che Laura. Essa riceve il giovane in un salotto e gli spiega quanto è accaduto, non c’è modo di riparare, dovranno separarsi o sarà lo scandalo. Honoré rimane dolorosamente colpito e non sa che dire. Caduto in ginocchio ai piedi della donna che ama, egli piange a calde lagrime. Laura, anch’essa profondamente commossa, gli accarezza i capelli, poi lo stringe a sé e lo bacia ripetutamente sulle guance. «Ora devi andartene — essa gli dice ma se non potremo mai più vederci qui a Villeparisis non significa vi siano altri luoghi più accoglienti!». Queste parole ridanno coraggio a Honoré che lascia casa de Berny con la segreta speranza di rivedere al più presto la donna amata. Poiché il fatto lo ha profondamente toccato e le sue condizioni di salute sono piuttosto scadute, la famiglia Balzac decide che Honoré vada a trascorrere un periodo di riposo presso dei parenti che risiedono a Bayeux. Honoré accetta con entusiasmo: partire significa non scorgere più in distanza il palazzo dei de Berny e struggersi dal desiderio di entrarvi o di attendere nuovamente di fronte a quel cancello illuminato dai raggi della luna. Durante l’assenza Honoré scrive alcune lettere a Laura. É in una di queste egli le dice: «Mia adorata, puoi ben immaginare che cosa significhi per me restarti lontano. Il mio pensiero corre spesso ai luoghi che hanno visto nascere il nostro amore, nei sogni rivedo nei minimi particolari il salotto della tua casa, la poltrona vicino il camino dove ti ho baciato per la prima volta, il cancello e gli alberi illuminati dai raggi della luna fra le cui ombre ho gustato il sapore dolcissimo dei tuoi baci, il calore delle tue carezze, ho ascoltato la melodia della tua voce simile al trillo dell’usignolo ...». Dal canto suo Laura scrive a Honoré: «Se esserti lontana mi rende infelice, al tempo stesso sento che questa infelicità è per me fonte meravigliosa di vita. Ora sono certa di amarti perché esserti lontana mi pesa ...». Dopo alcuni mesi Honoré e Laura s’incontrano nuovamente a Parigi. Questa volta l’appuntamento è in un piccolo appartamento affittato da Honoré in rue de Tournon. Quelle che essi trascorrono insieme sono ore indimenticabili. Subito dopo essersi lasciati Honoré non può non scrivere alla sua bella frasi come queste: «Laura, amore mio, ti desidero come non mai; anche se gli istanti in cui sono fra le tue braccia significassero anni spenderei volentieri la mia vita intera per quei pochi istanti che danno significato a tutta un’esistenza ...».

 

 

 Numero 240, 12-13 Ottobre 1965, p. 10, 4 ill.

 

Un affare di edizione.

 

  XII — L’essere stato messo all’ostracismo da casa de Berny permette a Honoré di dedicarsi anche più intensamente alla sua attività di scrittore. Sua unica consolazione dopo la non voluta rottura con i de Berny è quella di scrivere senza posa ed è in questo periodo che egli accumula scritti su scritti. Le opere composte in questo periodo sono fra l’altro, «La dernière Fée», «L’histoire impartiale des Jésuites», «Une blonde histoire romanesque précédée d'une notice necrologique sur un homme qui n’est pas mort», «Le Code des gens honnêtes», apologia del crimine forse inspirata dalla morte dello zio Louis Balzac, detto «Le Prince», ghigliottinato ad Albi, sotto l’imputazione d’assassinio il 16 agosto 1819, «Wann Chlore». Nonostante tale febbrile attività, Honoré si sente infelice al punto da pensare al suicidio. Una sera, appoggiato al parapetto di un ponte sulla Senna è tentato di gettarsi nelle acque del fiume, ma il sopraggiungere di uno sconosciuto lo salva dalla morte. La composizione di una messa così ricca fa sì che il nome di Honoré Balzac divenga noto negli ambienti letterari, ma la via del successo è lunga e difficile. La madre di Honoré si reca un giorno a Parigi a fare visita al figlio e lo trova in pessime condizioni di salute, pallido, emaciato e male in arnese. Sembra che Honoré non abbia più alcun interesse al mondo che lo circonda e viva quasi in un Incubo. La donna invita il figlio a lasciare temporaneamente Parigi e a recarsi a Touraine, presso la famiglia de Savary, amici dei Balzac. Honoré accetta a malincuore, ma la partenza e la permanenza nella nuova località giova molto alla sua malferma salute. Da Touraine, il giovane scrive alcune lettere a M.me de Berny, la quale l’aveva incoraggiato a seguire il consiglio della madre di lasciare Parigi. In una di queste missive Honoré confessa ancora una volta a Laura il suo profondo amore, dicendo di non potere vivere lontano da lei, privato delle sue carezze o dei suoi baci ...». Di ritorno a Parigi, Honoré ha l’opportunità di rivedere la donna amata. Durante un colloquio con lei, Honoré le illustra i suoi futuri progetti di scrittore: «Ho lavorato, ma intendo lavorare molto di più — egli dice —, ma non solo per la gloria. Ho estremo bisogno di denaro e un giorno sarò ricco col frutto del mio lavoro ...». Poiché Honoré non ha a volte nemmeno il denaro sufficiente per sfamarsi, M.me de Berny lo costringe ad accettare un prestito di novemila franchi. A malincuore Honoré accetta la grossa somma e s’impegna di restituirla al più presto. Con altri seimila franchi avuti da un amico, Honoré pensa seriamente alla pubblicazione dei suoi scritti. Si mette in traccia di un editore che lo aiuti. Dopo parecchie delusioni, la cosa va finalmente in porto. Le sue opere sono pubblicate e messe in vendita, ma lo attende una grossa delusione. La pessima stampa e l’argomento delle opere è tale da non incontrare il gusto del pubblico. Nel giro di un anno si vendono soltanto pochissime copie: è il disastro, Honoré ha contratto debiti per oltre 15 mila franchi e non sa come farvi fronte!


 

  Numero 242, 14-15 Ottobre 1965, p. 8, 4 ill.

 

Altri tentativi.

 

  XIII — [...]. La causa del disastro è soprattutto da attribuirsi al fatto che, poco pratico di stamperia, Honoré ha posto in vendita testi pessimi: brutta la carta e più brutta la stampa. Pensando di riparare a ciò, Laura de Berny si pone essa stessa in traccia di un collaboratore bene addentro nel mestiere che possa essere di aiuto a Honoré. L’uomo è presto trovato. Nel frattempo si pubblica un annuncio economico in cui è detto che una stamperia attrezzata è in vendita in «rue Visconti». Laura e Honoré si recano immediatamente all’indirizzo indicato e trattano l’affare. Occorre un’altra bella somma di denaro e, anche questa volta, Laura fa un cospicuo prestito al suo innamorato. Papà Balzac ed altre persone amiche anticipano dei soldi e l’affare è concluso. Grazie all’aiuto di M. de Berny, marito di Laura, Honoré entra in possesso in brevissimo tempo della qualifica di stampatore e può riprendere l’attività interrotta. Il 4 giugno 1827 Honoré e il suo aiutante iniziano a lavorare. La nuova impresa sembra nascere sotto i migliori auspici, la stamperia sorge infatti in «rue Visconti», già «rue de Marais-Saint-Germain», la medesima dove morì Racine o dove visse per qualche tempo Adriana Lecouvreur. Lo stabile è ampio e comodo, annesso alla stamperia è un piccolo appartamento di due stanze dove Honoré si sistema alla meglio. Qui Laura de Berny viene spesso a fargli visita e ciò contribuisce a rendere felice Honoré, preso quanto mai dalla nuova attività. La prima opera pubblicata da Balzac porta il titolo: «Les pilules antiglaireuses de la longue vie». La seconda è una ristampa del libro dal titolo «Il 5 marzo» di Alfredo de Vigny. L’iniziativa si dimostra un grossolano errore in quanto si tratta di un’opera impopolare per i principi che l’autore esalta. Un romanzo assurdo nel quale si vorrebbero sovvertire i principi di socialità. D’altronde nella prefazione Balzac non fa nulla per giustificare i principi dell’autore e quando i due s’incontrano il colloquio rischia di finire in una zuffa. Per circa un anno Laura de Berny si reca spesso a fare visita a Honoré, quest’ultimo ha bisogno del suo interessamento, della sua bontà e del suo affetto per potere superare gli ostacoli che lo frenano non poco nella sua attività. Nel suo diario, Laura scrive a proposito degli incontri con Honoré: «E’ un uomo, ma rimane sempre il ragazzo impacciato che conobbi la prima volta, eppure la sua intelligenza è pronta e l’immaginazione fervida. Egli è nato per essere uno scrittore; la stamperia, come d’altronde qualunque altra attività lontana dalle lettere, non gli si confà. Egli ne è conscio, ma continua a battersi con caparbietà nel suo innato desiderio di vincere, di diventare finalmente qualcuno. Eppure con tutti i suoi difetti è una creatura ammirevole e quanto mai bisognosa d’affetto. Io gli sono a fianco, ma non so se quanto faccio per lui è sufficiente, vorrei dargli tutta me stessa, ma come posso?». Dal canto suo Honoré non manca di scrivere spesso alla sua innamorata: «Angelo mio — egli le dice un giorno — quando sei qui con me in questa stanzetta piena di cartaccia mi sento felice, essa diventa un mondo dorato e fantastico nel quale la realtà perde ogni significato e diviene sogno...».


 

  Numero 243, 15-16 Ottobre 1965, p. 16, 4 ill.

 

La partenza.

 

  XIV. – Nonostante poco portato per gli affari, Balzac pensa di fare un «buon colpo» acquistando una fonderia di caratteri da stampa. Certo M. Gillé, il quale desidera disfarsi di un’industria del genere, è invitato a mettersi in contatto con Balzac. L’affare viene discusso alla presenza di M.me de Berny, la quale da qualche tempo è diventata socia di Honoré. Il contratto d’acquisto dello stabile e dei macchinari viene firmato il 19 settembre 1827. Nel giro di tre mesi un tale Barbier, che era entrato in società con Balzac e la de Berny, si ritira subodorando che le cose vanno di male in peggio. Viene costituita una nuova società e Barber è sostituito da un certo Laurent. Ma ecco che ancora prima d’iniziare la nuova attività piombano sui soci numerosi creditori. M. Gillé, un autentico lestofante, ha venduto una proprietà praticamente non sua perché già ipotecata. La situazione si fa catastrofica, inutile citare il signor Gillé perché quest’ultimo, intascati i soldi, ha fatto perdere le sue tracce: non resta che cercare di riparare l’errore pagando i creditori, ma come fare? Dove trovare il denaro per fare onore a richieste tanto pressanti? Di fronte al pericolo di un fallimento, Honoré cerca in tutti i modi di trovare dell’altro denaro. «Busseremo a mille porte — egli dice a Laura de Berny, — ma non infangheremo il nostro nome con una bancarotta fraudolenta. Siamo vittime di un dannato imbroglio e dobbiamo subirne tutte le conseguenze!». Non resta che chiedere l’aiuto del vecchio padre di Honoré; poiché questi non ha disponibilità finanziarie promette che farà il possibile per dipanare l’intricata matassa. Honoré conosce da molto tempo certo M. Sédillot, un suo lontano parente pratico d'affari. Grazie all’intervento di quest’ultimo si riesce a riportare un po’ di calma in quel mare di debiti, tratte e cambiali, nel quale i soci stanno ormai affogando miseramente. Egli riesce a far vendere la fonderia di caratteri, staccandola completamente dalla stamperia che rischiava di venire ipotecata essa stessa. Si giunge inoltre a un compromesso: M. Barbier, il socio ritiratosi anzitempo, si assume l’incarico di far funzionare la fonderia per conto della società, impegnandosi a versare una certa quota ai creditori, mentre M. Laurent prende in consegna la stamperia. Balzac, liberatosi in tal modo di tanti onerosi fardelli, si trova però messo completamente fuori senza il becco di un quattrino. Comunque il grave sacrificio economico lo salva dall’umiliazione di vedere il proprio nome sul bollettino dei fallimenti, resta però il fatto che dopo avere saldato i numerosi creditori ha ancora uno scoperto di ben 75 mila franchi. «E’ una somma ragguardevole – egli dice a Laura de Berny ma ti giuro che pagherò fino all’ultimo quattrino, vuol dire che mi si chiamerà «il forzato della penna» perché è proprio con lo scrivere che mi procurerò il denaro necessario per far fronte ai miei impegni». Così Balzac, deluso e rattristato abbandona il mondo degli affari per fare ritorno a quello della letteratura. Per prima cosa egli decide di lasciare Parigi e di raggiungere Fougères, in Bretagna, per documentarsi su una nuova opera che porterà il titolo: Les Chouans. Il giorno del distacco da M.me de Berny è descritto da Honoré come «uno dei più dolorosi» della sua vita, con le lacrime agli occhi egli stringe al petto la donna che, oltre all’amore, gli ha dato comprensione e appoggio morale e materiale.


 

  Numero 244, 16-17 Ottobre 1965, p. 6, 4 ill.

 

In Bretagna.

 

  XV. — [...]. A Fougères, Honoré è ospite della famiglia de Pommereul, legata ai Balzac da una vecchia amicizia. Ed ecco la descrizione che il generale Gilbert de Pommereul ci dà del giovane scrittore: «Rammento che era piuttosto piccolo di statura, ma di corporatura abbastanza robusta, aveva delle mani bellissime. Quando arrivò da noi portava in capo un cappello a larga tesa che gli nascondeva buona parte della fronte, comunque notai immediatamente i suoi occhi; di color d’oro, erano mobilissimi e penetranti, sembrava parlassero. Quando potei conoscerlo più profondamente mi accorsi che Honoré era dotato di una sensibilità e di una prontezza non comuni. Il suo volto, incorniciato da una folta zazzera nera, esprimeva franchezza e bontà, ma al tempo p stesso esuberanza, dirò anzi che la sua esuberanza era tale da vitalizzare l’ambiente e quando incominciava a parlare era un fiume di parole che sembrava doversi ingrossare sempre più. Era anche allegro, di un’allegria contagiosa. Rammento che gli avevamo appena mostrato la sua camera quando egli uscì con una battuta che ci fece ridere a non finire ...». La sera dell’arrivo di Honoré, i de Pommereul avevano invitato a casa loro alcuni vicini perché facessero la conoscenza del «giovane scrittore parigino». Balzac parlò quattro ore di seguito, affascinando i suoi ascoltatori. Il giorno seguente, accompagnato dal generale Pommereul, Honoré aveva fatto visita ad alcune famiglie che abitavano a pochi chilometri da Fougères, dove vivevano ancora alcuni testimoni degli avvenimenti storici che egli intendeva descrivere nel suo nuovo romanzo dal titolo «Les Chouans». Si tratta del primo vero capolavoro dello scrittore, l’azione si svolge nel 1799, mentre la Bretagna monarchica è insorta contro il governo rivoluzionario. I due personaggi degli Chouans (fautori dell’antico regime) attorno ai quali si raccoglie il movimento sono: il marchese di Montauran e la signorina di Verneuil, una bella avventuriera alla quale Fouché ha affidato la missione di sedurre il marchese e consegnarlo alla polizia, ma i due s’innamorano l’uno dell’altra, ciò dà luogo a una serie di episodi drammatici, i quali, per la vigile presenza e il freddo intervento di un agente di Fouché, tale Corentin, si chiudono con la morte dei due amanti, sorpresi dai Giacobini poche ore dopo le nozze. Chiuso nella sua camera, Honoré lavora intensamente alla sua opera cui dà la prima volta il titolo «Le Gars», quindi «Le dernier Chouan» e infine quello col quale il romanzo vedrà la luce «Les Chouans». Dopo circa due mesi di lavoro, Honoré fa ritorno a Parigi e affitta un alloggio al n. 1 di «Rue Cassini». Laura è subito da lui. Essa aiuta il suo giovane innamorato ad arredare l’alloggio e lo fa con molto gusto. Honoré legge a Laura il manoscritto del romanzo e la donna si felicita con lui: ora Honoré ha finalmente trovato la vena giusta, lo stile, il movimento, che più tardi faranno di lui un celebrato scrittore.


 

  Numero 246, 19-20 Ottobre 1965, p. 12, 4 ill.

 

A Versailles.

 

  XVI. — Il libro viene dato alle stampe. Nel frattempo i genitori di Honoré hanno lasciato Villeparisis e si sono trasferiti a Versailles. Il motivo di ciò deve ricercarsi in uno scandalo: papà Balzac, anche se vecchio, ha reso madre una ragazza di Villeparisis. La sua posizione, fatta insostenibile, ha reso necessario il cambiamento di residenza. A Versailles, Bernard Balzac va ad abitare in un piccolo appartamento situato in «rue Maurepas», poco lontano da quello di sua figlia Laura, la quale è ora, M.me Surville. Quando Honoré si reca a fare visita ai suoi la madre si congratula con lui: «Honoré – essa gli dice —, ho letto il tuo romanzo, l’ho letto tutto d’un fiato, è bellissimo. Sapevo che avresti dato prova della tua capacità e quel giorno è venuto!». Dal canto suo Bernard Balzac dice al figlio: «Mi felicito con te, ho notato che non parli male dell’amore, ma ... c’è una controparte ... Figlio mio, pensa a ciò che ti ho detto spesso: devi scrivere un libro sul matrimonio, soltanto trattando tale argomento potrai contare su un grosso numero di lettori ...». A Versailles, Honoré fa la conoscenza d’una amica di sua sorella: Zulma Carraud, nata Tourangin, moglie del direttore dei corsi scolastici dell’accademia militare di Saint-Cyr. Honoré nutre una segreta passione per Zulma che ne diverrà in breve l’amica e la confidente più cara. Il 13 giugno 1829, Bernard Balzac, vittima di un incidente stradale muore a 83 anni nonostante le amorevoli cure del dottor Macquart (sic), suo amico. Honoré rimane dolorosamente toccato dalla perdita del padre. Durante la veglia della salma i presenti sentono Honoré sussurrare più volte fra le lagrime: «Non dovevi lasciarmi così, padre mio, te ne sei andato proprio ora in cui avrei potuto ripagarti delle disillusioni e delle preoccupazioni che sempre ti ho dato. Ma ti prometto che il nome dei Balzac diventerà famoso ...». Rammentando il desiderio del genitore scomparso, subito dopo i funerali, Honoré scrive di getto un’opera dal titolo: «Fisiologia del matrimonio». Il libro apparirà nel dicembre dello stesso anno; come aveva previsto papà Bernard, è un successo librario. Con «Les Chouans», prima, e con «Fisiologia del matrimonio», dopo, Honoré si è assicurata la notorietà. A Versailles sono molti coloro i finali desiderano conoscere il giovane scrittore. Le porte dei migliori salotti si aprono davanti a lui. La sua conversazione brillante soggioga i presenti, in particolare le rappresentanti del sesso gentile. Quel giovane irruente e sicuro di sé costituisce un motivo di forte attrazione. Honoré conosce una sera a teatro un famoso soprano, la Malibran, e qualche giorno dopo, è ospite di Sofia Gay, il cui salotto è molto noto. Egli si presenta al ricevimento vestito piuttosto dimessamente e la cosa fa un certo scalpore, ma è la stessa Gay a togliere d’impaccio lo scrittore: «Che importa se il vostro abito non è all’altezza della situazione! Voi siete vestito della vostra fama, un abito che molti di coloro che vi criticano o vorrebbero indossare!». Fra le dame presenti è una tale Desbordes-Valmore. Ad un tratto essa chiede a Honoré se ha o no una donna nella sua vita, domanda alla quale la Gay risponde: «Una?, può darsi, ma penso due almeno!». Un pomeriggio, come di consueto, M.me de Berny va a fare visita a Honoré nel suo appartamentino situato in «rue Cassini». Per la prima volta essa nota che la porta è chiusa e Honoré non le ha lasciato alcun biglietto per scusarsi dell’assenza. Essa attende invano, Honoré non rientra. Laura comprende di essere passata in seconda linea e se ne addolora, ma preferisce non peggiorare la situazione con delle sciocche scene di gelosia. Rientrata a casa sua, essa invia allo scrittore un biglietto in cui è detto fra l’altro: «Se fossi stato gentile con me come un tempo m’avresti fatto avvisare che non eri reperibile. Comunque non ti tengo rancore, sei libero di fare ciò che vuoi ... sappi che io ti amo e ti amerò comunque, ti amo nonostante i tuoi capricci, i tuoi modi a volte bruschi, le tue manchevolezze ... tutti i tuoi difetti. Ti amo anche se fra le tue molte doti ti manca la gratitudine, ma quelle che possiedi sono tante e tali che in compenso tu puoi sempre — o mio adorato — fare vibrare un animo gentile qual è il tuo!».


 

 Numero 247, 20-21 Ottobre 1965, p. 8, 4 ill.

 

La duchessa d’Abrantès.

 

  XVII. — [...]. L’assenza di Honoré dal suo appartamento in «rue Cassini», dove Laura lo ha cercato invano, è facilmente spiegata: il giovane scrittore ha accettato l’invito d’una dama che da qualche tempo dimostra per lui un vivo interesse: la duchessa d’Abrantès. L’incontro fra i due avviene in una lussuosa villa alla periferia di Versailles, circondata da un vasto parco e un bellissimo giardino. La duchessa ha battezzato questa sua ricchissima residenza «L’eremitaggio», ed è colà che essa riceve le visite più impegnative o più interessanti. La d’Abrantès accoglie Honoré con molta cordialità, ma al tempo stesso lo studia a fondo pesando ogni sua espressione. La dama è una donna di viva intelligenza, cosa che non sfugge a Balzac. Nata Permon, la duchessa — che si chiama Laura come la de Berny — è vedova del generale Junot. Nella prima giovinezza sua madre aveva conosciuto Napoleone Bonaparte quand’era ancora giovane ufficiale d’artiglieria; anzi quest’ultimo le aveva fatto per un certo tempo la corte. Da sua madre la nuova contessa d’Abrantès aveva ereditato, oltre che la fortuna, la bellezza e la signorilità del tratto. Seppure ormai quarantacinquenne, Laura d’Abrantès fa un certo colpo su Honoré ed egli non sa nasconderglielo, ciò che però attrae molto Honoré è anche il fatto che essa ha parecchi ricordi dell’imperatore. Qualche tempo più tardi, all’«Abbaye-au-Bois», dove si è ritirata qualche giorno per riposare, la duchessa presenta a Balzac una sua amica: M.me Récamier. In quell’occasione è presente lo stesso Chateaubriand. Guardando il giovane scrittore, la Récamier si rivolge alla duchessa con queste parole: «Che aria buona ha il vostro Balzac, cosa piuttosto insolita in uno scrittore!». «Lo dico anch’io» soggiunge in quello stesso momento Chateaubriand, quindi parlando dell’opera «Fisiologia del matrimonio» aggiunge: «Questo giovane ha dimostrato di possedere un acuto spirito critico». Rimasta in disparte per qualche tempo per non ostacolare Honoré, Laura de Berny si rifà finalmente viva. Una sera essa si reca a fare visita allo scrittore. Il loro colloquio è molto amichevole e pacato. Ad un tratto Laura dice a Honoré: «Non è mia intenzione darti dei consigli o disapprovare quanto stai facendo, ma per l’esperienza di vita che ho, posso dirti senza tema di sbagliare che non è a Versailles che puoi trovare ciò che ti serve. So che sei attratto da un’altra donna ... sei assolutamente libero nelle tue scelte e non sono qui per ricordarti il passato, ma non è certo la duchessa d’Abrantès o M.me Récamier che potranno darti ciò di cui hai bisogno!». Honoré ascolta in silenzio queste parole, quindi stringe al petto la donna amata e le copre il volto di baci chiedendole umilmente perdono. Per Laura è la vittoria che sperava: Honoré è soltanto suo! Qualche giorno più tardi la coppia sì trasferisce a Bouleaunière, dove la de Berny ha affittato una villa di campagna. E’ là in quella residenza piena di calore e d’intimità che Laura vive nuovamente istanti meravigliosi accanto allo scrittore. Honoré è ritornato l’uomo affettuoso, amabile e innamorato dei giorni di Villeparisis.

 

 

  Numero 248, 21-22 Ottobre 1965, p. 8, 4 ill.

 

Eleonora di Trumilly.

 

  XVIII. — [...]. Felice» di avere riconquistato Honoré, Laura de Berny sente però che presto lo perderà e forse definitivamente, essa si rende conto che la loro differenza d’età s’è fatta troppo grande e, per di più, Balzac è proiettato verso un brillante avvenire. I giorni trascorsi nella villa di Bouleaunière sono incantevoli, ma passano in fretta. Di ritorno a Parigi, Laura scrive a Honoré: «Parliamo di te, caro, di te che io amo al punto da preoccuparmi della tua vita così da dimenticare la mia. Spesso ti vedo nella mia fantasia sposato con una giovane donna bellissima, una donna intelligente, appassionata e ricca di doti che io non ho, spirituale da comprenderti e sostenerti. Ciò mi fa soffrire, ma se la cosa dovesse renderti felice, come ti auguro, questa sofferenza mi sarebbe gradita!». Un futuro matrimonio non è soltanto la segreta preoccupazione di Laura de Berny, la madre di Honoré e sua sorella sono dell’avviso che è giunto il momento per Honoré di sposarsi, di crearsi un nido, d’affetti e di dimenticare la follia giovanile che si chiama «Laura de Berny». M.me Balzac ha posto gli occhi su colei che, a suo avviso, sarebbe un partito adatto al figlio: Eleonora di Trumilly, figlia di un tenente colonnello di artiglieria in pensione, ma facoltoso. Un matrimonio porterebbe a Honoré una dote sufficiente per lavorare in tutta tranquillità. Spinto dai familiari Honoré chiede la mano della ragazza, ma la sua richiesta è respinta. Honoré si consola facilmente, egli sa che per natura è incapace di un affetto duraturo. «Il mio ideale — egli dice un giorno — è la donna di trent’anni sul cui volto, oltre alla bellezza, si può leggere la passione talvolta irrefrenabile ... Una donna per essere perfetta deve essere al tempo stesso amante, sposa e madre!». E’ il ricordo di Laura che gli suggerisce tale frase ed è a lei che ritorna dopo lo scacco subito. Alla fine di un inverno d’intenso lavoro, Honoré si riposa con la amante in una villa di campagna a Touraine, presso la Loira, un posto incantevole lontano dal rumore della città. Honoré e Laura sono felici, spesso si recano a passeggio lungo le rive del fiume. Un giorno stringendo al petto la donna amata, Honoré le sussurra all’orecchio: «Amo questa terra come si può amare una donna, e non devi essere gelosa perché sei tu a completare la bellezza di questo paradiso ... scriverò un libro ... “Il giglio della valle” (sic) nel quale vi fonderò entrambe!». Una mattina Honoré e Laura compiono una gita in barca lungo la Loira, da Tours ad Angers. Giunto in quest’ultima località, Honoré indica alla sua compagna un uomo e una ragazza che camminano sulla riva sinistra. «Vedi quel tale, è M. Nivelleau, uno degli esseri più ricchi e più avari che conosca. Ne farò il protagonista di un mio romanzo. Lo chiamerò “Grandet” e sua figlia “Eugénie”». Qualche tempo dopo, Honoré colleziona un altro successo con la pubblicazione dell’opera dal titolo «La pelle di zigrino».

 

 

  Numero 249, 22-23 Ottobre 1965, p. 6, 4 ill.

 

Un ritorno di fiamma.

 

  XIX. – Col trascorrere, dei mesi, l’accoglienza del pubblico a «La pelle di zigrino» è veramente calorosa e supera ogni più rosea aspettativa. Parlando dell’opera, il critico letterario Jules Janin scrive su “L’Artiste”: «Si tratta di un lavoro originale dove forti passioni fanno capolino grazie a uno studio di caratteri e d’ambiente molto profondo. Con questo scritto Honoré de Balzac s’è certo assicurato un posto di primo piano nel campo del romanzo ...». Con il successo arriva anche il denaro e, nonostante i molti debiti non ancora pagati del tutto, Honoré si permette il lusso di una carrozza e un palafreniere, un brav’uomo di nome Lecière, che va ad aggiungersi a due altre persone al suo servizio, la cuoca Flore, e il servo di camera, Paradis, Sulla carrozza egli fa dipingere lo stemma dei Balzac d’Entragues, una nobile famiglia di cui però egli non è discendente. Con la notorietà gli incarichi aumentano, numerosi direttori di riviste lo invitano a collaborare, in tal modo egli scrive per «La Revue de Paris», «La Revue des deux-mondes» e molte altre. Oltre alla casa, Honoré de Balzac pensa al suo guardaroba personale: i migliori sarti di Parigi lavorano per lui e gli confezionano abiti talvolta un po’ eccentrici che egli ordina fornendo loro particolari circa il taglio. Malgrado la promessa fatta a M.me de Berny di non più rivedere la duchessa d’Abrantès, Honoré s’incontra nuovamente con la nobildonna. Poiché in autunno questa lascia abitualmente Parigi per trascorrere qualche settimana in campagna dove partecipa a delle battute di caccia, Honoré ne approfitta per essere al suo fianco. E’ nel castello di Maffliers che i due s’incontrano a più riprese. La duchessa ha riservato per Honoré una stanza tranquilla ai piani superiori con una grande scrivania dove, se egli lo desidera, può scrivere. E’ durante un soggiorno al castello che il romanziere scrive l’opera dal titolo «La maison du chat qui pelote» (La casa del gatto che gioca alla pelota). Rientrato a Parigi, Honoré si dedica a un’attività puramente «elementare»: la stesura, in collaborazione con un certo P. M. Lhéritière de L’Ain, dell’opera dal titolo «Mémoires pur servir à l’histoire de la Révolution Française, par Sanson, exécuteur des arrêts criminels pendant le Révolution». La documentazione è fornita a Balzac da Henry Sanson, il «monsier (sic) de Paris» di quei giorni, ossia il boia ufficiale, figlio di quel Sanson che durante il Terrore aveva fatto cadere tante teste illustri.


 

  Numero 250, 23-24 Ottobre 1965, p. 10, 4 ill.

 

George Sand.

 

  XX — [...]. La duchessa d’Abrantès non è donna da dare senza ricevere, essa infatti incoraggia Balzac nella stesura della sua opera sulla Rivoluzione Francese e gli è di aiuto fornendogli materiale e notizie particolari su quel periodo, ma gli chiede in cambio che i proventi dell’opera vengano divisi quando sarà pubblicata. Balzac accetta di buon grado. Scritta l’opera, la stessa duchessa presenta a Honoré l’editore, un tale Mame (soprannominato «il mammifero»). Costui insiste presso la duchessa perché l’opera venga pubblicata sotto il suo nome e non quello di Balzac ... «in fin dei conti se questi ha potuto scriverla è solo grazie al materiale e alle notizie che lei gli ha abbondantemente fornito». Quando la d’Abrantès accenna la cosa a Balzac, Honoré rifiuta. Si tratta di un odioso ricatto. La duchessa si giustifica con il bisogno di denaro e Honoré accetta di cederle una parte anche maggiore di quella precedentemente pattuita. Infine si giunge a un compromesso, e Honoré accetta che «Le memorie» della contessa portino anche la firma di costei seppure redatto da lui. Ma Honoré ha in getto un’opera ben più impegnativa, un lavoro di metafisica. Il libro, che egli dedica a Mme de Berny, reca il titolo «Louis Lambert». Quando quest’ultima riceve la prima copia con la dedica rimane commossa per l’attenzione usatale dallo scrittore. Profondamente grata, essa invia a Honoré una lunga lettera nella quale, oltre a ringraziarlo, gli dice: «Mio adorato, tu sai quanto ti sia vicina in spirito anche se ora viviamo lontani l’uno dall’altra, ma non sarei sincera con te se non ti dicessi qual è ora la mia esistenza. Forse, dopo quanto c’è stato fra noi, dovrei usare termini diversi, ma come posso biasimarti ... tu mi hai dato l’amore e la felicità ed ora mi fai dono di quest’opera legando indissolubilmente il tuo nome al mio, che conta ormai così poco! Per amor tuo mi ero imposta il silenzio, ma ora sei tu che così amorevolmente mi costringi a romperlo per ringraziarti della tua benevolenza e della tua magnanimità ...». Tramite Augusto Borget, amico di Zulma Carraud, Balzac fa la conoscenza della Sand e di Jules Sandeau. Egli si reca spesso a fare loro visita nella «mansarde» dove abitavano, situata in rue Bourteraux 21, talvolta è la coppia che si reca a cena a casa di Honoré. Le loro serate sono allegre e interessanti. Un giorno Honoré, invitato dalla Sand, si presenta a lei coperto di un pesante pastrano, ma quando se lo toglie egli non indossa che una lunga vestaglia da camera. «Voi correte il rischio di farvi ammazzare conciato in quel modo — gli disse la Sand, al che Balzac risponde: «Spiacente, mia cara amica, ma siete in errore. Se come voi dite dovessi imbattermi in un ladro, questi non mi considererebbe degno di una rapina, oppure mi prenderebbe per un matto fuggito dal manicomio e sarebbe lui a scappare invece che io! Altre volte Honoré de Balzac si reca a casa di Eugène Sue (di cui egli invidia la fortuna e le grosse tirature), il quale vive insieme a una bella e giovane di nome Olimpia Pélissier, sua amante.


 

  Numero 252, 26-27 Ottobre 1965, p. 12, 3 ill.

 

Olimpia.

 

  XXI. – [...]. Fortemente attratto dalla bellezza provocante di Olimpia, Honoré s’informa sulla giovane, in tal modo apprende che essa, di famiglia povera, aveva potuto frequentare un corso di balletto grazie all’interessamento del duca di Descullier. Quest’ultimo l’aveva letteralmente «comperata» dalla madre, arredando per loro un lussuoso appartamento alla periferia di Parigi e versando come anticipo la somma di ben 40 mila franchi. I rapporti con Descullier, ormai avanti negli anni, e la giovane ballerina s’erano improvvisamente interrotti a causa di una grave malattia dell’interessato mecenate: una grave forma di gotta gli aveva impedito di rivedere la sua giovanissima amante, di qui la decisione di «cederla» dietro compenso a un suo conoscente, un ricco americano frequentatore assiduo dell’Opéra dove Olimpia faceva parte del balletto. Ma quest’ultimo, anche più vecchio del duca, pur aiutando economicamente Olimpia e sua madre si limitava ad un affetto quasi paterno e alla sua morte aveva lasciato in eredità alla giovane amica una rendita di 25 mila franchi. Divenuta indipendente, Olimpia non respinge gli «aiuti» di numerosi pretendenti, fra cui il pittore Orazio Vernet, in quel momento al colmo della popolarità. Autore di parecchi buoni quadri, fra cui la nota «Giuditta», «Valmy» «Jemmapes», «Pont d’Arcole», «Montmirail» e «Le Grenadier de Waterloo», Vernet sfrutta la giovane senza compensarla adeguatamente finché un giorno Olimpia rifiuta di fargli da modella. Ne nasce una lite piuttosto violenta durante la quale Olimpia sbatte la porta in faccia al pittore ordinandogli di uscire una volta per sempre dalla sua vita e quando Vernet torna alla carica la giovane lo accoglie piuttosto rudemente: sportasi dalla finestra della sua camera da letto, essa apostrofa il suo ex-amante e quindi lo fa segno a un fitto lancio di oggetti vari ... cuscini!, vasi, scarpe ed altro. Vernet preferisce ritirarsi di buon ordine. Dopo tale avventura, Olimpia aveva accettato la protezione di Eugenio Sue e la sua ospitalità, prima in un palazzo situato in «rue de la Rochelle» e poi a Ville-d’Avray, un piccolo castello appartenuto a Marcantonio Thierry, già primo valletto da camera di Luigi XVI. E’ appunto in questo periodo che Honoré s’invaghisce della ballerina e pensa al modo di conquistarla. Attorno a Olimpia sono però altri ammiratori: il conte di Girardin, il duca di Duras, il duca di Fitz-James e Alessio de La Rochefoucauld, ma Honoré mette in atto un piano molto audace: s’introduce di nascosto nell’appartamento della bella Olimpia e si nasconde nella sua camera da letto dietro un paravento. Lungi dall’immaginare che Balzac si trovi nascosto colà, Olimpia s’accinge a svestirsi, ma un rumore sospetto la fa dirigere verso il luogo dove è nascosto lo scrittore. Rimessasi dallo stupore, Olimpia allontana in malomodo Honoré cui mancano le parole per giustificarsi.


 

  Numero 253, 27-28 Ottobre 1965, p. 12, 4 ill.

 

La marchesa di Castries.

 

  XXII — Solo col tempo Honoré riesce a ottenere i favori della giovane Olimpia Pélissier e Mme de Berny non tarda a saperlo. Anche se lo scrittore le assicura che si è trattato soltanto di una passione passeggera per «una donna ormai celebre come cortigiana», Mme de Berny, profondamente offesa si astiene per qualche tempo dal fargli visita nella sua casa di Parigi. In una lettera allo scrittore, Laura dice fra l'altro: «Non devi tenermi rancore se sono mancata ai nostri appuntamenti, ma non ne avevo la forza. Qualche volta sono stata sul punto di raggiungerti, ma poi ho pensato: “E se bussando alla sua camera vi trovassi quell’Olimpia?”. Anche se mi è difficile, posso rendermi conto che una donna come quella Pélissier rappresenta ben poco per te, un’infatuazione passeggera e null’altro, tuttavia questo pensiero è per me ugualmente fonte di affanno ... Mi devi comprendere perché sono donna e amo! Tu a volte mi rinfacci di essere gelosa, ma non sei forse tu che mi vai ripetendo: “Sei una donna unica e talmente amabile e desiderabile da riempire la mia vita!”. Se ti dicessi che questo tuo legame con la Pélissier non mi affligge, mentirei e tu sai bene che non ti so mentire». Ma un pericolo ben maggiore va profilandosi per Laura de Berny nei suoi rapporti con Honoré: verso la fine di settembre del 1831 lo scrittore riceve la lettera di una misteriosa ammiratrice. La missiva, che porta come firma uno pseudonimo inglese e un indirizzo, contiene elogi e critiche di talune opere di Balzac quali: «Fisiologia del matrimonio», «Scene di vita privata», «Gli Sciuani» e «La pelle di zigrino». Honoré risponde con questa semplice frase: «Sappiate che io valgo di più dei miei libri!». Qualche giorno dopo giunge una seconda lettera, questa volta però il mittente si firma: si tratta della marchesa di Castries, figlia del duca di Maillé, due dei più bei nomi di Francia! La Marchesa si è separata da poco dal marito ed è divenuta l’amante di un principe biondo, il bellissimo Vittorio di Metternich, figlio del celebre uomo di Stato austriaco. Vittorio Metternich si trova da qualche anno a Parigi come rappresentante ufficiale del governo austro-ungarico. Nel 1827 la marchesa dì Castries mette alla luce un figlio (avuto dal principe) cui viene imposto il nome di Ruggero, che diventerà più tardi barone di Aldenburg. Ma due anni dopo il principe di Metternich muore di tisi, lasciando la giovane marchesa in preda alla disperazione.

 

 

  Numero 254, 28-29 Ottobre 1965, p. 10, 3 ill.

 

Romanzo a Aix-les-Bains.

 

  XXIII — Dopo la morte del principe, la de Castries, si ritira per qualche tempo nel castello di Lormois, di proprietà di suo zio Edoardo, duca di Fitz-James. Un giorno, durante una cavalcata, a causa di un’improvvisa impennata dell’animale, la de Castries viene disarcionata e scaraventata al suolo. Immediatamente soccorsa, la marchesa, mortalmente pallida, respira a fatica. Trasportata al castello è stesa sul suo letto è visitata da un medico: la caduta si rivela molto più grave di quanto si pensasse, l’infelice ha riportato infatti una lesione alla colonna vertebrale. Grazie alle amorevoli cure cui è sottoposta, la de Castries si riprende abbastanza bene, ma non può reggersi in piedi e per alcuni mesi è costretta, abbandonato finalmente il letto, a trascorrere le ore della giornata stesa su un divano sostenuta da morbidi cuscini. Quando Honoré viene a sapere la cosa, invia alla marchesa numerose lettere per consolarla, lettere che recano molta gioia all’inferma. Non appena i medici le danno il consenso, la de Castries invita al castello Honoré e questi è felice di recarsi da lei. «Rammento — scriverà più tardi Balzac — il pomeriggio il cui mi recai da lei per la prima volta; essa indossava un bellissimo abito di velluto vicino al quale spiccava una specie di largo colletto di pizzo bianco inamidato. Il pallore rendeva anche più marcati i tratti delicati del suo volto e i suoi occhi profondi mi fissarono per qualche istante mettendo a nudo la gioia che la mia presenza le procurava in quell’istante. Parlammo a lungo e più volte la vidi sorridere. Talvolta essa mi chiedeva di fermarmi a cena, e ciò ci dava modo di continuare i nostri colloqui che toccavano gli argomenti più svariati: letteratura, arte, politica, storia. Una sera, tendendomi la mano, mi disse: «M. Balzac, voi siete un vero amico e voglio premiarvi, da questo momento non chiamatemi più “marchesa”, ma semplicemente col mio nome, “Maria”. Mi avvicinai a lei e posto un ginocchio a terra le baciai la mano ... fu così che ebbi la certezza di amarla». Con il sopraggiungere dell’estate le condizioni di salute di Maria de Castries migliorano sensibilmente tanto che i medici le permettono di trasferirsi a Aix-les-Bains. Essa è felice. Balzac, che nel frattempo è stato costretto a fermarsi a Parigi per ragioni di lavoro, apprende la notizia con gioia. Nella capitale Honoré ha conosciuto un’altra dama, Zulma Carraud, la quale gli dimostra una profonda ammirazione e un’amica di quest’ultima, la ricca baronessa di Deurbroucq, ma il pensiero fisso dello scrittore è Maria, la giovane inferma che sta ritornando alla vita! Quando egli viene a sapere che la de Castries sta per recarsi a Aix-les-Bains spera di essere ancora una volta invitato a recarsi colà per offrirle la sua compagnia, il che avviene. A Zulma Carraud che l’aveva invitato per alcune settimane nella sua tenuta, Honoré scrive: «Madame, vi ringrazio di cuore del gentile invito, ma non serbatemi rancore se lo rifiuto. Ho deciso di recarmi a Aix-les-Bains per essere vicino a una creatura che, privata della salute risica, ha forse bisogno di me!». In effetti è così. L’arrivo di Honoré a Aix-les-Bains (egli prende alloggio presso la pensione Roissard) contribuisce ad accelerare la convalescenza di Maria che spesso lo ascolta incantata quando Honoré, conducendola in barca, le parla dei suoi scritti e dei suoi progetti letterari. I giorni di quella vacanza — si era in agosto — trascorreranno sereni, in un’atmosfera romantica fatta di tramonti e di dolci frasi appena sussurrate.


 

  Numero 255, 29-30 Ottobre 1965, p. 10, 3 ill.

 

A Villa Diodati.

 

  XXIV. – Malgrado le gite romantiche in battello al tramonto o sotto la luna e le frasi d’amore sussurrate da Honoré alla bella marchesa, quest’ultima non sembra ricambiare l’affetto che Balzac prova per lei, non si può dire che essa sia fredda nei suoi confronti, ma nemmeno presa di lui al punto di diventare la sua amante. Honoré morde il freno, tuttavia si rende conto che la marchesa de Castries non è una donna qualunque, per di più il suo carattere fermo, ma soprattutto l’orgoglio, sono di freno quando forse essa stessa sentirebbe il desiderio di abbandonarsi dolcemente fra le braccia del suo ardente spasimante. Quest’altalena d’incertezza dura per tutto il periodo in cui la de Castries si ferma a Aix-les-Bains, senza però che Honoré rinunci ai suoi progetti amorosi. Nel frattempo la marchesa si è molto ristabilita in salute ed essa è in grado di fare delle passeggiate al braccio dello scrittore. Dopo la permanenza a Aix-les-Bains, la coppia si trasferisce a Ginevra. Questa volta Honoré e la giovane marchesa prendono alloggio nello stesso albergo: l’Hotel Couronne ed è in quest’occasione che la de Castries sembra essere diventata più remissiva nei confronti del suo fedele accompagnatore; spesso, infatti, rivolgendosi a Honoré, essa lo chiama: «Mio beneamato!». Un giorno la coppia si reca a Cologny per visitare la famosa villa Diodati, nella quale visse per qualche tempo George Byron, il romantico poeta inglese. Nella camera dove egli scrisse alcuni brani del suo «Childe Harold» (Il pellegrinaggio del giovane Arnoldo), Honoré stringe a sé la marchesa e le bacia dolcemente i capelli. La sera stessa, folle di desiderio. Honoré accompagna Maria de Castries fino alla sua camera da letto ed è qui che egli le rivolge queste parole: «Maria non credo possiate avere alcun dubbio sui sentimenti che provo per voi, sapete perfettamente che vi amo e che sono pazzo per voi ... concedetemi di rimanervi accanto ancora qualche istante e renderete la mia felicità completa nello spirito e nel corpo». Profondamente offesa, la de Castries gli risponde: «Honoré de Balzac, come osate rivolgermi tale richiesta in un albergo dove ci troviamo di passaggio, avete forse dimenticato il mio nome? Sono la marchesa Maria de Castries e non una ... andatevene!». E’ un doloroso quanto umiliante congedo, non c’è altra alternativa che d’andarsene al più presto a fare ritorno a Parigi. Quella stessa disgraziata sera, Honoré fa pervenire alla de Castries una lettera nella quale dà sfogo a tutto il suo affanno e al suo livore. Letta la missiva, e anche più offesa, la marchesa risponde con questo biglietto: «Che lettera orribile mi avete scritto! State certo che non rivedrete mai più la donna alla quale avete l’impudenza di mandarla, e io non vedrò mai più chi ha osato scriverla. Quale gioia provate nel tormentare il cuore di una donna già tanto tormentata, nel fare versare altre lacrime a occhi che hanno già pianto tanto. Addio signor Balzac, se avete voluto vendicarvi sappiate che ci siete riuscito e ... crudelmente!». Alle prime luci dell’alba, Honoré riparte per la Francia, precisamente per Digione. Due giorni dopo egli è a Bouleaunière, dove si trova Laura de Berny. Nel rivedere la donna che egli ha così brutalmente tradita dopo tante prove d’affetto e di devozione, Honoré le si getta fra le braccia e le chiede perdono. Laura sa ancora trovare per lui delle buone parole e la tempesta che turba l’animo di Honoré si placa. «Quella donna mi ha offeso — dice Honoré a Laura —, ma sappia che mi vendicherò. Ne farò l’odioso personaggio di un mio romanzo, una storia atroce quanto vera!».


 

  Numero 256, 30-31 Ottobre 1965, p. 14, 3 ill.

 

La straniera.

 

  XXV — Come deciso, Honoré si mette subito all’opera e pochi mesi dopo completa un romanzo dal titolo «La duchessa de Langeais»; per evitare spiacevoli conseguenze Balzac desidererebbe, prima di procedere alla pubblicazione, avere l’autorizzazione della marchesa de Castries. In un primo tempo questa la concede, ma poi rifiuta. Nel frattempo appare un altro romanzo dal titolo «Voluttà»; lo scritto, di cui è autore Sainte-Beuve, fa molta impressione sulla de Castries, la quale, come aveva fatto prima con Balzac, invia una lettera a Sainte-Beuve per elogiarne le doti di scrittore. In breve fra la marchesa e quest’ultimo nasce un legame che va oltre alla semplice ammirazione e ai sentimenti platonici. Questa situazione secca non poco a Balzac, ma egli trova il modo di dimenticare i suoi crucci. Un giorno uno dei suoi editori, certo Gosselin, gli consegna una lettera proveniente dalla Russia e indirizzata a lui. La missiva reca il timbro postale di Odessa e come firma la semplice indicazione: «La straniera». Chi scrive elogia il romanziere francese e si dice entusiasta della sua prosa, del suo modo di presentare personaggi e avvenimenti, al tempo stesso non trascura qualche consiglio e qualche critica. Verso la fine della lettera è detto: «Poiché voi collaborate al “Quotidienne”, pubblicazione che riceviamo in Russia, «abbiate la cortesia, se lo volete, di rispondere a questa mia lettera; per fare ciò inserite un semplice avviso indirizzato a: “l’E.H.B.”. Vinto dalla curiosità, Honoré fa quanto gli è stato chiesto. Il «Quotidienne» è una delle poche pubblicazioni che la censura zarista non ha depennato. Ed ecco il testo dell’inserzione: «M. Balzac ha ricevuto la lettera fattagli pervenire dalla “Straniera”, ringrazia sentitamente e si augura di potere un giorno conoscerne il vero nome così da risponderle più a lungo come sarebbe suo vivo 0 0 desiderio». Qualche mese più tardi la «straniera» rivela a Balzac la propria identità: si tratta della contessa Eveline Hauska Bzewuska (sic), moglie del maresciallo Wenceslas, membro del governo di Volhynia e duca di Puliny, un ricchissimo proprietario di tenute che si estendono per migliaia di ettari. Dopo di ciò i contatti epistolari fra Honoré e la contessa Hanska si fanno sempre più frequenti. Attraverso le sue lettere la nobildonna russa lascia intendere chiaramente come onori e ricchezze non siano sufficienti per riempire la sua esistenza. Parlando dell’amore essa lo descrive in termini così dolci e talvolta struggenti da lasciare chiaramente capire che il suo cuore di donna è troppo povero d’affetti. Nel settembre dell’anno 1833, Honoré riceve una lettera dalla sua «adorabile straniera», la quale chiede di raggiungerla a Neuchâtel per il 25 di settembre sulla «Passeggiata di Fauburg». Balzac risponde affermativamente e, come stabilito, l’incontro fra lo scrittore francese e la contessa Hanska ha luogo con grande soddisfazione di entrambi.


 

  Numero 259, 3-4 Novembre 1965, p. 12, 3 ill.

 

M.lle Borel.

 

  XXVI — Quando fu a pochi passi da me — scrive Balzac ricordando quell’incontro — non ebbi dubbi sulla sua identità anche se non avevo mai conosciuto di persona la contessa Hanska. Tendendomi graziosamente la mano essa disse: “M. Honoré Balzac. penso!”. “Sono io — risposi —, felice di conoscervi”. La osservai un istante ... l’avevo immaginata proprio così “la bella straniera”, esile nella figura, dai capelli corvini e con una carnagione bianca come la neve, un sorriso luminoso e due occhi profondi quanto mai espressivi. Chiusa in un elegante abito di ottimo taglio quella creatura deliziosa, essa aveva allora 21 anni (in realtà ne aveva 32!), mi fece sentire quasi impacciato, lei, al contrario, s’avvicinò anche di più a me e tendendomi entrambe le mani mi disse: “La vostra ultima lettera nella quale parlavate dell’amore era incantevole, dovete essere un uomo molto sensibile; non sorridete se vi dico che potrei ripetervi parola per paiola il contenuto di quella missiva ... l’ho letta tante volte da averla ormai incisa nella mia mente”. Non potei non stringerla a me e chiudere le sue mani fra le mie. Le sue labbra morbide e rosse mi attiravano mentre i nostri occhi s’incontravano parlando un comune linguaggio. Quella donna già mi amava e io non ero lontano dal ricambiare i suoi sentimenti ...». Dopo quel primo incontro altri ne seguono lungo la medesima «Promenade». Honoré è felice come pure la contessa. In merito al trasferimento dalla Russia alla Svizzera, Honoré apprende dalla viva voce di Eveline che il motivo doveva ricercarsi soprattutto nel desiderio di lasciare per qualche tempo il paese natale dove la vita incominciava a diventare difficile a causa dell’instabile situazione interna. Nel frattempo Balzac fa la conoscenza del conte Wenceslas Hanska (sic), uomo ormai avanti negli anni, quasi calvo, ma ancora di piacevole compagnia. Gli Hanska si sono nel frattempo sistemati in un lussuoso appartamento situata poco lontano dal centro della città, essi hanno con loro numeroso personale di servizio fra cui la governante della piccola Anna Hanska (figlia di Eveline e di Wenceslas), Mlle Henriette Borel, nativa di Neuchâtel. Con gli Hanska ci sono anche due loro parenti, Séverine e Denise Wylezynska. Il palazzo affittato dal nobile russo sorge di fronte all’Hotel Faticon, dove nel 1824 Chateaubriand era stato ospite per qualche tempo. Le visite di Honoré agli Hanska si fanno sempre più frequenti anche perché il romanziere francese è riuscito a cattivarsi la simpatia di tutti i membri della famiglia, inclusa la piccola Anna la quale si fa spesso trasportare a cavalcioni da Honoré. Un giorno, durante una passeggiata alla periferia di Neuchâtel, Honoré confessa a Eveline il proprio amore. A pochi passi dalla coppia, il conte Hanska e Henriette Borel. Questa, alla quale non è sfuggita la passione che è sbocciata fra la contessa e il romanziere, cerca di coprire alla meglio lo scandalo. Rivolgendosi al conte essa gli sussurra: «Sono certa che in questo momento M. Balzac sta raccontando a vostra moglie la trama di un suo nuovo romanzo». Il conte sorride e poco dopo, stanco per la passeggiata rientra nel suo appartamento senza il minimo sospetto.


 

  Numero 260, 4-5 Novembre 1965, p. 6, 4 ill.

 

La giovinezza di Eveline.

 

  XXVII. – [...]. Un giorno, durante una lunga passeggiata, Eveline racconta a Honoré la storia della propria giovinezza. I Rzewuski, da cui la giovane contessa discende, sono un’antica famiglia di cui fu capostipite Rzew, ultimo re della tribù slava del Jedzwing. Un Rzewuski difese strenuamente il Kremlino alla testa di un forte nerbo in forze polacche; fu ancora un Rsewuski che comandò l’ala destra dell’armata di Sobieski sotto le mura di Velina; un altro Rzewuski militò sotto il re di Polonia Augusto III e divenne maresciallo della Dieta polacca e castellano di Cracovia: la famosa famiglia annovera un suo componente che ne disonorò il nome, Vladislav Rzewuski, infatti, tradì la patria, fu condannato a morte in contumacia e appeso in effige ... Il padre di Eveline, il conte Adam Laurent Rzewuski, era proprietario in Ucraina del fastoso castello di Pobrebyszcki di un’estensione di terreno di circa ottomila ettari. In quel castello Eveline fu allevata insieme a due fratelli e due sorelle: Enrico e Adamo, Carolina e Alma. La fanciulla viene affidata a ottimi precettori, che insegnano, fra l’altro, il francese e la musica ed è in quest’ultima che Eveline dimostra di possedere una capacità non comune. A diciott’anni Eveline s’innamora di un cugino più vecchio di lei che le era stato già compagno di giochi durante l’infanzia, un giovane di bell’aspetto, di ottima educazione e di piacevole compagnia, certo Taddeo Wylezynski. Finiti gli studi, Eveline chiede ai genitori di potere unirsi in matrimonio col cugino ma poiché questi è quasi privo di beni di fortuna, la richiesta è respinta. Per volontà del padre, seppure a malincuore, Eveline deve unirsi in matrimonio col conte Hanska, vent’anni più vecchio di lei, ma ricchissimo. La sua fortuna è valutata a circa 25 milioni di rubli. Le nozze sono celebrate con molto sfarzo e dall’unione nascono quattro figli che muoiono tutti giovanissima età. Dopo alcuni anni, Evelina mette al mondo la piccola Anna e tutto il suo affetto si concentra sulla piccina. La coppia si trasferisce più tardi a Wierzchownia nella zona di Kiew, in una sontuosa dimora, ma isolata. Per vincere la solitudine e la malinconia che l’affligge, Eveline si dà alla lettura e divora libri su libri. E’ così che essa conosce i due scritti di Balzac e gli invia la misteriosa missiva che darà origine al loro legame sentimentale.


 

  Numero 261, 5-6 Novembre 1965, p. 14, 3 ill.

 

Pensieri d’amore.

 

  XXVIII. — [...]. Un giorno, visitando i dintorni di Neuchâtel, Honoré ed Eveline raggiungono l’isola di Saint-Pierre. Poiché sono con loro M. Hanska e la Borel, la coppia si stacca da loro e si porta in riva al lago; qui, al riparo di un grosso albero, Honoré stringe fra le braccia la bella contessa russa e la bacia delicatamente sulle labbra. Nel frattempo il conte Hanska e la Borel si sono ritirati per ordinare la cena in un vicino albergo. «Mio idolo!», sussurra dolcemente Balzac all’orecchio della sua compagna. «Non idolo — risponde la Hanska —, chiamatemi soltanto Eveline, è il mio nome che desidero sentire sulle vostre labbra». «Allora lasciate che vi chiami — Eva — risponde Honoré, mia gioia, mia felicità ... mio orgoglio!». Dopo quell’incontro Honoré non riesce più a staccarsi da Eveline, però può restare a Neuchâtel soltanto cinque giorni in quanto la sua presenza è richiesta a Parigi; sono cinque giorni d’amore e di felicità. Una sera, stringendola a sé, Honoré dice a Eveline: «Tu sei divenuta l’unico soggetto dei miei pensieri e per tale motivo arai l’ispiratrice delle mie opere Non dovrai mai dubitare di me e il nostro amore sarà eterno». «Il giorno in cui potrò essere nuovamente libera — gli rispose Eveline — sarò interamente tua, se lo vorrai, ti sposerò, te lo giuro!». Allo scadere di quei cinque giorni meravigliosi, Honoré rientra a Parigi. Dalla capitale francese egli scrive immediatamente alla sua bella delle lettere appassionate: «Eva mia caia — dice una di tali, missive — per me è incominciata una nuova esistenza, un’esistenza di sogno. Ti ho parlato, ti ho baciato, le nostre anime e i nostri corpi sono ora stretti come da un’indissolubile alleanza nella quale ho trovato ogni perfezione, tutto ciò che amo e sognavo ...». Da Neuchâtel la famiglia Hanska si trasferisce a Ginevra per trascorrere l’inverno. E’ l’anno 1833-1834. Essendo lontani, la bella contessa e Honoré continuano a scriversi di frequente. Per evitare che le missive compromettenti cadano in mano al conte, d’accordo con la Borel, Honoré invia a quest’ultima le lettere d’amore dirette a Eveline, mentre a quest’ultima manda di tanto in tanto missive nelle quali tratta esclusivamente questioni di carattere letterario. Spesso Eveline commenta col marito tali lettere e ciò contribuisce a mantenere in famiglia calma e serenità. Un giorno, però, a causa di un equivoco una delle lettere compromettenti finisce nelle mani di M. Hanska. Con grande sorpresa egli s’avvede d’essere stato ingannato da quello «scribacchino» francese cui egli scioccamente ha concessa la sua amicizia e ospitalità. Fuori di sé per l’ira il conte entra nella camera della consorte e, mostratale la lettera, le chiede in modo perentorio spiegazione.


 

  Numero 262, 6-7 Novembre 1965, p. 8, 3 ill.

 

Ancora una volta a villa Diodati.

 

  XXIX. — [...]. Nonostante il grave pericolo di uno scandalo, Eveline non si scompone: «Sì — essa risponde con tutta naturalezza al marito — questa lettera era diretta a me, ma non è con sorpresa minore della tua che apprendo il suo contenuto. Non comprendo come M. Balzac, persona che stimo, abbia potuto prendersi la libertà di scrivermi in tali termini. Comunque per rassicurarli ti prego di attendere: scriverò davanti a te una lettera di risposta a questo “spasimante immaginario”. La lettera è presto scritta e redatta in termini molto duri. Hanska sembra soddisfatto, ma non del tutto; a rassicurarlo è un’altra lettera che questa volta Balzac gli indirizza (dopo essere stato informato segretamente da Eveline di quanto è accaduto) e nella quale dice fra l’altro: «Caro conte, pur riconoscendo il mio errore mi rivolgo a voi perché mi aiutiate nel difendermi davanti a vostra moglie. Debbo riconoscere che non mi ero sbagliato, la contessa Hanska è la donna più pura, più cara e istruita che io abbia conosciuto. Vi confesso che queste sue doti mi hanno sedotto: prima di essere un uomo sono un artista e in quella lettera chi ha parlato non è stato Honoré Balzac, ma il romanziere, colui che ha creato nella sua fantasia un meraviglioso romanzo eleggendo a protagonista una donna meravigliosa in tutto simile alla vostra amabilissima consorte. Le sue parole mi hanno riportato giustamente alla realtà e solo ora mi rendo conto della gravità del mio errore ...». Nel leggere queste parole, il conte Hanska si erge a difensore di Balzac presso la moglie, restituendo allo scrittore la sua amicizia e la sua fiducia. Il 21 dicembre 1833, dopo avere lavorato sodo per mettere da parte un po’ di denaro, raggiunge la città di Ginevra. Egli prende alloggio in un lussuoso albergo. La presenta di Balzac a Ginevra non resta inosservata, egli è già noto e molti sono coloro che desiderano conoscerlo di persona. La contessa Hanska organizza un fastoso ricevimento cui prendono parte numerosi invitati. Balzac è veramente il re della festa e le dame presenti se lo contendono apertamente. Quando una di queste invita il romanziere a scrivere sul suo diario qualche frase, Honoré non si fa pregare: «I grandi uomini sono come delle rocce, ad essi non s’attaccano che le ostriche!». Quando la frase è letta da Evelina, la cosa sembra seccarla alquanto ed è in quella stessa serata che, danzando con Balzac, ad un tratto essa gli sussurra all’orecchio: «Quindi per voi non sono che un’ostrica». «Ma contenente la più bella perla del mondo!», risponde subito Honoré, sorridendo. Il giorno seguente Honoré racconta sinceramente a Eveline la sua deludente avventura con la contesta de Castries. E’ proprio per tale motivo che la contessa russa vuole ora ritornare con lo scrittore in quella medesima villa dove fu vicino alla bella contessa de Castries. I due giungono alla villa Diodati dopo l’ora di chiusura. Honoré dà una grossa mancia al guardiano e può entrare con la sua compagna, E’ l’ora del tramonto quando la coppia entra nel grande salone elegantemente arredato con mobili stile Luigi XVI. Dalle grandi vetrate entra una luce calda che rende anche più romantico quell’ambiente che conobbe ore tristi e felici di Lord Byron, il grande poeta inglese. Honoré cammina lentamente tenendo a braccio la sua compagna. Quell’atmosfera incantata finisce per avvolgerli l’uno tra le braccia dell’altra ed Eveline si abbandona ancora una volta più innamorata che mai all’uomo che l’ama.

 

 

  Numero 264, 9-10 Novembre 1965, p. 8, 4 ill.

 

La contessa Sara.

 

  XXX — [...]. Balzac si ferma, a Ginevra fino l’8 febbraio, (è l'anno 1834). A Eveline, più che mai innamorata di lui, Honoré dà però un grosso dispiacere: egli, infatti, frequenta piuttosto di frequente, il salotto della contessa Potocka, una delle dame più affascinanti della comunità polacca di Ginevra, e per di più cugina di Eveline. Poiché Eveline si lascia andare con la parente a una scenata, questa, molto seccata le risponde: «Non preoccupatevi, cugina mia, nessuno vuole distogliere gli occhi di Honoré Balzac dalla vostra graziosa persona. Balzac è uno dei tanti che frequentano il mio salotto e ciò che provo per lui si limita a dell’ammirazione e null’altro, rassicuratevi!». Con un biglietto di presentazione fornitogli dalla contessa Potocka, rientrato a Parigi, Honoré può entrare a far parte del circolo polacco della capitale francese. Si tratta di un gruppo di personalità dai nomi altisonanti e ben provviste di mezzi di fortuna. Il circolo è in un lussuoso palazzo situato al n. 10 di «rue Saint-Dominique» ed è qui che Balzac fa il suo ingresso. Impeccabile in un abito nuovo di taglio all’ultima moda, Honoré si fa subito notare: per parte sua egli non manca di notare una dama quanto mai bella. Si tratta della contessa Guidoboni-Visconti, il cui consorte, Emilio, discende da una nobile e antica famiglia fiorentina. Colpito dall’avvenenza della dama che gli sta di fronte, Honoré chiede a un suo conoscente di esserle presentato. La contessa è di origine inglese il suo nomo da signorina è Frances Sara Lovell; sua madre, donna di bellezza non comune, aveva chiuso tragicamente la propria esistenza suicidandosi per non essere riuscita a coronare il suo sogno d’amore sposando l’irresistibile Montrond. Un fratello di Sara si era pure tolto la vita tagliandosi la gola, mentre un altro s’era impiccato. Una sorella, infine, dopo numerose avventure galanti, aveva finito per darsi al bere diventando in breve un’alcolizzata irrecuperabile. Una famiglia veramente strana e inquietante! La contessa Sara era stata per qualche tempo amante di un diplomatico russo d’origine polacca, il principe Koziowski, ed aveva più tardi adottato una figlia che il principe aveva avuto da una «soubrette» milanese. Una sera, durante un ricevimento, Honoré nota, non senza disappunto, che la contessa balla spesso e volentieri con un meraviglioso giovane. Questi si chiama Lionello de Bonneval ed è un perfetto ballerino, nessuno danza come lui e tutte le dame, giovani o meno, se lo contendono. Secondo l’opinione generale Sara è l’amante del bel Bonneval.


 

  Numero 265, 11-12 Novembre 1965, p. 8, 3 ill.

 

Fra le braccia di Balzac.

 

  XXXI — [...]. La presenza di un rivale così temibile non scoraggia per nulla Honoré, anzi lo spinge a fare una corte anche più assidua alla bella contessa. In breve lo scrittore francese riesce ad avere la meglio sul Bonneval che lo supera forse soltanto nel ballo. A Parigi si comincia a parlare delle frequenti visite che Balzac compie alla contessa Guidoboni-Visconti, tanto che la cosa giunge alle orecchie di Eveline, la quale si è nel frattempo trasferita a Vienna. Essa si lamenta con Honoré che il suo nome venga così spesso associato a quello della bella contessa inglese, ma lo scrittore la rassicura immediatamente: «Mia adorata, — scrive Honoré in una delle sue lettere — voi mi parlate della contessa Guidoboni-Visconti come di una rivale. Essa è per me solo una simpatica amica, una donna intelligente e amabile con la quale è piacevole discutere. Ho constatato che la sua ottima preparazione in campo letterario le permette spesso di avanzare critiche esatte e giusti apprezzamenti sugli scrittori viventi e passati. Non posso negare che sia una donna dotata anche di grande bellezza, bella lo è certamente se sono molti gli uomini che se la contendono, ma non è certo tale dote che io apprezzo di più in questa donna toccata più volte dalla sventura Anziché rassicurarla questa missiva contribuisce a rendere anche più penoso lo stato d’animo di Eveline. In effetti essa ne ha tutti i motivi: Honoré Balzac non manca di andare agli spettacoli d’opera, ogniqualvolta vi si reca la bella Guidoboni e di essere ospite gradito di costei nel suo palco. Vistosi messo in disparte dal romanziere, Lionello Bonneval pensa di vendicarsi. Un giorno egli chiede di essere ricevuto dalla sua ex amante (la Guidoboni l’ha ormai sacrificato a Honoré con una frase che gli è stata riferita: «Non potete farmene una colpa se ho deciso di lasciare Tersicore per Talia!») e dopo un’ultima patetica scena d’amore, egli finisce per sfogare tutto il suo livore: «Siete libera egli dice alla Guidoboni — di amare chi volete, sappiate però che la persona alla quale sembra abbiate donato ora il vostro cuore, voglio dire quel romanziere di nome Balzac, ha in cuore un’altra donna. Balzac ha già un’amante: la contessa Hanska!». «Se ciò che mi dite è vero — risponde la Guidoboni —, giuro che non lo rivedrò mai più». Soddisfatto, Bonneval lascia la sua amica, ma la sera stessa, mentre passeggia lungo un viale di Versailles la scorge dopo il tramonto al braccio di Balzac. Seminascosto dietro un albero, egli spia in distanza le mosse della coppia sperando ardentemente che quell'incontro sia stato voluto dalla Guidoboni per «liquidare» l’amico romanziere ma non è così, Raggiunto un luogo appartato Honoré strinse fra le bracca Sara e la bacia delicatamente sulle labbra. Sara è caduta nella rete dorata tesale dal suo nuovo innamorato ed essa non ha saputo sfuggirgli o meglio non ha voluto! Dopo di ciò, Bonneval rinuncia definitivamente a Sara più che mai invaghita del suo Honoré. Non passano troppi giorni e Honoré può finalmente cogliere il frutto della sua insistente quanto appassionata corte alla bella inglese. Ci si domanderà se egli abbia dimenticato Eveline, la donna alla quale ha giurato amore eterno Dall’apparenza sembrerebbe così; infatti Honoré non lascia un attimo la sua meravigliosa compagna e tutta la sua vita diventa un carosello di ricevimenti, balli, serate mondane, i passatempi preferiti della contessa Sara.


 

  Numero 267, 12-13 Novembre 1965, p. 6, 4 ill.

 

Un nido segreto.

 

  XXXII. – Nell’autunno del 1834, Honoré deve porre punto fermo alla sua vita troppo dispendiosa e stancante. La salute, non meno della sua borsa, hanno sofferto non poco ed è giunto il momento di mettere giudizio. Il vecchio dottor Nacquart, amico di Honoré, consiglia il romanziere di abbandonare Parigi e ritirarsi qualche tempo in campagna. L'occasione per lasciare la vita tumultuosa della capitale gli viene dall’invito di vecchi amici di famiglia, i coniugi de Margonne, proprietari dal castello di Saché. Essi fanno sapere a Honoré che sarebbero felici di averlo loro gradito ospite per qualche tempo al castello situato in una meravigliosa vallata. Honoré, seppure non troppo entusiasta, finisce per accettare ed è a Saché che egli scrive «Papà Goriot», il romanzo che molti critici considerano il suo capolavoro. Pubblicato nel 1835, esso è sicuramente uno dei più tipici del grande scrittore che, intrecciando nelle sue file i maggiori personaggi, getta le basi di quell’opera che egli darà più tardi alle stampe sotto il titolo di «Commedia umana», nella quale pone in rilievo l’epopea della vita borghese, potente nel rilievo plastico anche se alquanto sconsolata nelle conclusioni. Parlando di «Papà Goriot», Lanson ebbe a dire: «In quest’opera Balzac dà prova di essere il pittore vigoroso e fedele di un momento e di uno strato della società francese; egli ha rappresentato la borghesia che da buon legittimista aveva in odio: questa borghesia parigina e provinciale, lavoratrice e intrigante, servile ed egoista che ama il denaro e il potere». Poco a poco Honoré viene a sapere che M. De Margonne, il suo munifico ospite, è il vero padre di suo fratello Enrico, ciò gli spiega perché sua madre abbia sempre dimostrato verso quel fratello un attaccamento tutto particolare e a lui inspiegabile: Enrico era il figlio del peccato! Il fratello aveva lasciato la famiglia per stabilirsi nell’Isola Maurizio, dove aveva sposato una donna più anziana di lui ma molto ricca, la vedova Dupont. Nel 1834, la famiglia e sull’orlo della rovina a causa dell’abolizione della schiavitù. I coloni sono costretti a vendere le loro proprietà e a fuggire, altri, invece, preferiscono trasformare le loro abitazioni in piccoli fortilizi per timore di essere massacrati dagli schiavi memori di tante angherie. Anche Enrico e sua moglie decidono di rientrare in Francia. Ma ritorniamo a Honoré. Dopo la parentesi di riposo e di lavoro presso il castello di Saché, egli torna a Parigi. Nel suo alloggio di Rue Cassini, egli si sente come soffocare, ma deve accettare la nuova esistenza. Un brutto giorno Honoré riceve la visita di due militari. Il comando territoriale lo accusa di diserzione, egli infatti non ha prestato il servigio dovuto presso il reparto cui era stato assegnato e precisamente il secondo battaglione della XII Legione. Grazie a degli amici influenti, Honoré riesce a togliersi dall’impaccio, ma l’appartamento di rue Cassini diventa la meta preferita dei suoi creditori; è necessario cercare una sistemazione meno esposta.

  E gli decide di trasferirsi in un altro appartamento dove potere ricevere la bella contessa Guidoboni-Visconti che col sopraggiungere dell’inverno s’appresta a rientrare nella capitale Dopo vari giorni di ricerca, Honoré riesce a combinare con una certa M.me Durant, la quale gli affitta un alloggio situato al fondo di un lungo corridoio piuttosto oscuro. Seppure un po’ malandato, l’appartamento dispone di una bella sala arredata con un certo fasto. In questa nuova dimora Balzac conduce un’esistenza quasi segreta, pochi sono coloro i quali conoscono la sua nuova dimora fatta eccezione degli amici più intimi. E’ qui, ossia in rue des Batailles, che Honoré riceve la sua bella, trascorrendo con lei ore deliziose e lavorando ad altri romanzi.


 

  Numero 268, 13-14 Novembre 1965, p. 10, 3 ill.

 

A Vienna.

 

  XXXIII — [...]. Poiché la contessa Hanska si trova a Vienna dal luglio dell’anno 1834, Honoré è impaziente di rivederla, ma come trovare il denaro necessario per il lungo viaggio e la permanenza nella capitalo austriaca? In questo periodo Honoré sta lavorando al nuovo romanzo dal titolo «Séraphita» che sarà pubblicato l’anno seguente, nel ‘35. In quest’opera di carattere narrativo si riscontra la più audace testimonianza di quella vena di misticismo onde Balzac, pur sviluppando parallelamente in altre opere il suo possente realismo, tenta con insistenza la via del «romanzo filosofico». Honoré si rinchiude nella sua stanza e lavora come un pazzo, talvolta fino sedici ore al giorno. Si giunge così alla primavera del 1835. Honoré riceve da Vienna una lettera di Eveline; nella missiva essa ha parola piuttosto dure e nel contempo gli annuncia la sua intenzione di fare ritorno in Ucraina. Per timore che Eveline tronchi con lui ogni rapporto, Honoré si dà da fare per cercare del denaro, egli bussa alla porta dei suoi editori, in particolare di Werdet che gli concede un buon acconto, ma la somma non basta; Balzac allora vende l’argenteria di casa, il che gli permette di raggiungere in liquido la considerevole somma di cinquemila franchi. La mattina del 9 maggio di quell’anno, Honoré lasca Parigi diretto a Vienna. Dopo una settimana di viaggio attraverso Strasburgo e la Foresta Nera, egli raggiunge Vienna, qui prende alloggio in un albergo situato sulla Langestrasse, quindi si reca immediatamente a casa Hanska con un sacco di doni destinati a Eveline e ai suoi: degli autografi per il conte Hanska, che è appassionato collezionista, e per la consorte alcuni dei più famosi profumi di Parigi, nonché cappelli, abiti e perfino qualche gioiello. Quando Eveline vede giungere Honoré con tanti doni, gli dice scherzosamente: «Siate il benvenuto, ma ditemi ... fate il commesso viaggiatore che avete portato con voi tante cose?». «Viaggiatore, sì – risponde Balzac, – commesso no!». Nella capitale austriaca risiede una folta colonia polacca tra cui sono numerosi amici ed anche parenti degli Hanska. Un prozio di Eveline, tale Deverino (morto a Vienna nel 1811) ha lasciato alla vedova e alla figlia una grossa eredità, vi è anche una zia di Eveline, la contessa Rosalia Rzewuska, la cui madre era stata ghigliottinata a Parigi durante «il terrore». Quest’ultima non sopporta la Francia e lo stesso Balzac che è figlio di quella terra per lei maledetta. Honoré tenta di cattivarsi le simpatie della vecchia contessa anche perché questa sta facendo tutto il possibile per troncare il romanzo amoroso che Eveline ha intessuto col romanziere. «Non parlatemi di quel Balzac – essa dice una sera durante un ricevimento – li conosco bene gli scrittori, quello poi è anche francese, senza contare che è un giocatore e un libertino ...» Quando Honoré viene a sapere quanto la contessa ha detto di lui vorrebbe affrontarla, ma per amore di Eveline preferisce dimenticare le offese ricevute. Così Honoré fa buon viso e insieme agli Hanska, i quali non peccano certo di modestia, frequenta alcuni dei più noti salotti letterari di Vienna. In breve sono numeroso le ammiratrici che desiderano conoscere da vicino «il grande romanziere francese», cosa questa che solletica non poco l’orgoglio di Honoré.


 

  Numero 271, 17-18 Novembre 1965, p. 6, 3 ill.

 

Povera M.me De Berny!

 

  XXXIV – [...]. Il successo di Honoré, ma soprattutto il saperlo sempre circondato da graziose ammiratrici, costituisce per Eveline una notevole fonte di cruccio. Quando essa riesce a restare da sola col romanziere, non può non fargli delle scenate di gelosia, talvolta anche violente. Honoré ne rimane molto rattristato e le sue giustificazioni, spesso fondate, non vanno a capo di nulla. Eveline sembra decisa più che mai a troncare con Balzac e a fare ritorno in patria. Poiché Balzac non può intrattenersi da solo a solo con Eveline, deve limitarsi a farle pervenire delle lettere pur trovandosi a Vienna. In una di tali missive egli scrive: «Mia cara, può sembrare un paradosso, ma non sono mai stato felice e infelice al tempo stesso come in questi miei giorni di permanenza a Vienna. Ogni momento attendo con impazienza — ma purtroppo spesso invano — di vederti, di parlarti, di stringerti fra le mie braccia, quando ciò accade la mia speranza va sempre delusa. Già quando lasciai Parigi per raggiungerti sapevo bene quanto mi attendeva, che mi avresti rinfacciato certe mie amicizie che ti sono state descritte da parsone infide come passioni o infatuazioni. Ritengo però che l’essere ritornato da te debba significare qualcosa, almeno che non ho mai smesso d’amarti e che tu continui, ad essere la regina del mio cuore e dei miei pensieri. Ieri sera, nel salutarti, ho letto nei tuoi occhi un senso di rancore, anzi dell’indifferenza ... perché — io ti chiedo — tale comportamento nei miei confronti? Se ti piace tormentarmi sei libera di farlo, ma ti scongiuro non uccidere in me l’amore che ti porto, sarebbe un assassinio che nessuna legge umana riuscirebbe a punire!». Nonostante questa atmosfera di tensione, Honoré ed Eveline godono tuttavia qualche istante di felicità. Ciò avviene un pomeriggio quando la coppia compie una passeggiata solitaria in un boschetto alla periferia della capitale. Rassicurata dalle ardenti frasi di Honoré, Eveline finisce per fare forza all’istinto di donna delusa, lasciandosi cadere fra le sue braccia. Qualche giorno più tardi, Honoré ottiene di essere ricevuto dal principe di Metternich, cancelliere dell’Impero. «Signore — dice Metternich rivolgendosi a Balzac – io non ho mai letto uno solo dei vostri libri e, scusate la mia sincerità, vi reputo un pazzo come reputo tali anche coloro che troppo vi incensano ...!». A questa battuta Balzac sorride, egli infatti ha saputo da fonte certa che il principe conosce perfettamente i suoi scritti, in particolare: “L’histoire des Treize”, che l’aveva talmente interessato da leggerla quasi tutta d’un fiato. Il 4 giugno, Balzac lascia Vienna e l’11 è di ritorno a Parigi. Rimasto senza un soldo a causa delle forti spese incontrate per raggiungere la Hanska a Vienna, Honoré si getta rabbiosamente sul lavoro, risultato è la composizione di numerose opere fra cui: “Le memorie di due giovani sposati” (sic), “César Birotteau” ed altre ancora. Poiché ha ancora dei debiti contratti in precedenza con M.me de Berny, Honoré fa l’impossibile per saldarli in quanto la sua ex amante, separata dal marito, è in precarie condizioni fisiche e le cure che deve affrontare sono molto costose. Ritiratasi a Bouleaunière dove risiede con il figlio Alessandro, Laura chiede spesso di Honoré e quest’ultimo non manca di esaudire il suo desiderio quando essa esprime la bramosia di rivederlo. Il loro nuovo incontro è molto triste: Laura, seppure ancora bella, va lentamente declinando, il suo volto si è fatto pallido, gli occhi molto profondi e cerchiati. Recandosi a farle visita, Honoré non manca di dare una grande gioia alla de Berny: un giorno, egli porta con sé un manoscritto, si tratta dell’opera: “Il giglio della (sic) valle” che dedica alla sua «dilecta».

 

 

  Numero 272, 18-19 Novembre 1965, p. 10, 3 ill.

 

La morte di Laura.

 

  XXXV — [...]. Honoré non manca di consolare l’amica diletta e le dedica il suo nuovo romanzo dal titolo «Il giglio del lago» (sic). Lo stato di salute di Laura de Berny peggiora giorno per giorno; ciò addolora profondamente Honoré il quale, in una lettera destinata a Eveline (ormai trasferitasi con i suoi in Ucraina), scrive fra l’altro: «La malattia che ha colpito la cara Laura de Berny non lascia molte speranze. Confesso che il mio pensiero corre spesso a questa donna meravigliosa la quale è stata l’angelo tutelare della mia vita: essa mi ha guidato, sostenuto, aiutato nei momenti più duri quando, ancora sconosciuto, non osavo pubblicare i miei scritti che sotto uno pseudonimo. Essa mi ha rivelato soprattutto “perché” e “come” dovevo scrivere. Molto di ciò che ora sono lo devo a questa donna superiore che mi ha fatto dono della sua tenerezza di madre pur indicandomi il sentiero dell’amore ...». Queste frasi toccano profondamente Evellne, la quale si rende conto quanto profondo sia il sentimento di riconoscenza che lega Honoré alla donna che ormai sta per lasciare tutto e tutti. Verso la fine di luglio nel 1863, Laura de Berny sente di essere ormai prossima alla fine; essa chiedo al figlio, che non l’abbandona un istante, uno specchio: «Vedi, mio caro – essa dice – quanto sono cambista, eppure sono certa che Honoré non mi troverebbe brutta; altri sì, ma non lui, egli mi vede con gli occhi dell’anima!». Una nuova crisi del male fa temere il peggio da un momento all’altro. Con un filo di voce, Laura dice al figlio: «Corri, va da Honoré e digli di raggiungermi al più presto, sento che sto per lasciare questo mondo». Purtroppo Honoré è partito per l’Italia solo poche ore prima, accompagnato da uno strano segretario e non è recuperabile in alcun modo. Come avvisarlo? La febbre ormai divora la morente che spera ancora di rivedere Balzac. Il curato di Gretz, l’abate Grasset, impartisce alla morente l’estrema unzione, ma un filo di speranza sostiene il corpo dell’infelice martoriata dal male. In un momento di lucidità, Laura chiede: «Dov’è Honoré? Perché non è qui?» Quando le si dice la dura verità, essa reclina il capo sul fianco e spira dolcemente Qualche momento dopo il trapasso, rimasto solo con la morta, il figlio di quest’ultima apre un mobiletto e ne trae alcuni pacchetti di lettere legate con altrettanti nastri color rosso. Sono le missive che Honoré ha inviato a Laura e che essa ha gelosamente custodito fino alla morte. Il giovane distrugge nel fuoco del caminetto quelle lettere che ben presto si trasformano in un mucchio di cenere.

 

  Numero 19-20 Novembre 1965, p. 14, 3 ill.

 

Caroline Marbouty.

 

  XXXVI — [...]. Solo più tardi s’apprende che «lo strano segretario» che ha accompagnato Balzac in Italia è in effetti una giovane donna di nome Caroline Marbouty. Ma chi è costei? Figlia di M. Pétiniazed, consigliere presso la corte di Limoges, e di M.me de la Costre, il cui padre era stato giudice di Cassazione, ancora giovanissima aveva sposato certo M. Marbouty, tredici anni più vecchio di lei. Dal matrimonio erano nati due figli. Caroline, che s’atteggiava a intellettuale, recatasi a Parigi nel 1833, aveva conosciuto il giornalista Bergerou, il quale l’aveva, a sua volta, presentata al letterato Sainte-Beuve. Grazie a quest’ultimo, Caroline era entrata in rapporti con tale Jules Sandeu (sic), romanziere e autore drammatico. Era avvenuto che questi, il quale abitava in «rue Cassini» (la medesima di Balzac), facesse conoscenza col nostro romanziere. Una sera i due si erano recati a cena, insieme in un locale caratteristico di Parigi e qui avevano incontrato Caroline e una sua amica. I quattro sedevano allo stesso tavolo e durante la cena discutevano di vari argomenti, tra cui questioni letterarie. In quest’occasione Balzac non mancava di studiare a fondo la piccola Caroline, donna minuta, ma perfettamente proporzionata, dai capelli corvini, gli occhi nerissimi, le labbra piccole e carnose. Da principio, la Marbouty, anche se separata dal marito, è molto controllata ma poi, accortasi che il commensale s’interessa molto alla sua persona e ai suoi tentativi in campo poetico, muta atteggiamento e diventa quanto mai cordiale. La cosa non sfugge a Honoré che, cogliendo la palla al balzo, non manca di mostrarsi molto interessato alle aspirazioni letterarie della giovane. Alla fine della serata, Honoré s'offre di accompagnare la Marbouty fino a casa sua. Giunto colà, egli chiede di potere leggere le sue poesie, cosa che Caroline accetta senza esitare. Incapricciatosi di Caroline, Honoré pensa già al modo di stringere i rapporti con lei, e vi riesce senza troppa difficoltà. La Marbouty, infatti, si dimostra molto arrendevole ai desideri di Honoré e questi ricambia le ore deliziose che Caroline gli concede, offrendole, a sua volta preziosi consigli sull’arte dello scrivere. Accade proprio in questo periodo che il conte Guidoboni-Visconti si rivolga a Balzac, invitandolo a risolvere per lui il difficile problema della successione della contessa sua madre (Balzac doveva essere certamente in grado di farlo dopo avere studiato così attentamente i lavori di Guyonnet de Merville). Honoré accetta di partire per l’Italia allo scopo di salvaguardare gli interessi del conte, ma, desiderando condurre con sé la sua ultima amica, induce Caroline a vestire abiti maschili. Egli la presenterà come il suo giovane segretario di nome Marcel. Carolina non respinge la richiesta, anzi sembra entusiasta dell’avventura che le offre l’amico. Honoré conduce Caroline dal suo sarto. M. Buisson, e, spiegatagli la cosa, fa confezionare per la giovane alcuni vestiti che le vanno a pennello. Completato il guardaroba, Honoré prega Caroline di mutare anche pettinatura; superato quest’ultimo ostacolo, la coppia s’accinge a partire. «A chiunque volesse sapere di te — dice Honoré alla giovane – dirai che sei mio nipote e mi fai da segretario. Attenta però a non tradirti, la cosa potrebbe essere molto più spiacevole per te che per me ... Credo di essermi spiegato!». Dopo un viaggio lungo e non troppo comodo, la coppia giunge finalmente a Torino. E’ il 1° agosto dell’anno 1836. Essi prendono alloggio all’Albergo Europa. Honoré chiede due camere comunicanti, ma soprattutto «molto belle». In una lettera inviata a sua madre, Caroline non manca di raccontare i particolari della «meravigliosa città di Torino».


 

  Numero 276, 23-24 Novembre 1965, p. 16, 4 ill.

 

In un mare di debiti.

 

  XXXVII. — [...]. Il giorno seguente, Honoré si pone in contatto con il conte Sclopis de Salerano, presso la Corte di Torino, e l’avvocato Luigi Colla, nel tentativo di risolvere il problema che interessa il conte Emilio Guidoboni. Nel frattempo egli frequenta alcuni salotti alla moda dell’importante città piemontese, dovunque festeggiato e ammirato. Al suo fianco è sempre la giovane Caroline, la quale lo segue come un’ombra. Un giorno la coppia decide di fare una cavalcata fuori città e s’avvia al passo lungo la strada che conduce alla sommità della collina di Superga. Di là, Honoré e Caroline, stretti l’uno all’altra, ammirano il panorama della bella città. Ma proprio in quei giorni i tribunali entrano in vacanza e Honoré, la cui borsa è ormai quasi vuota, deve decidere il rientro in Francia senza avere combinato troppo. Durante il viaggio di ritorno, Balzac fa una brevissima tappa a Ginevra da dove invia alla contessa Hanska una lettera. Nella missiva egli dice fra l’altro di essere ritornato a Ginevra in «pio pellegrinaggio» per ricordare le ore meravigliose trascorse con lei in quella località così cara al suo cuore. Rientrato a Parigi, Balzac interrompe i rapporti con Caroline la quale, rimessi gli abiti femminili, inizia a scrivere dei romanzi con lo pseudonimo di Claire Brunne. Honoré si rimette anch’egli al lavoro, ma l’atmosfera non è la più favorevole alla concentrazione; alla sua porta, infatti, bussano di continuo i creditori che hanno scoperto il suo nuovo rifugio. Messo alle strette, egli deve spesso trovare rifugio in casa di amici senza riuscire a trovare pace. In quei giorni Honoré vede aumentare sempre di più il pericolo di essere gettato in carcere per debiti. Con l’aiuto di un conoscente riesce a tacitare alcuni dei creditori più insistenti, ma le cose si stanno mettendo male e Honoré ha sempre più bisogno di denaro. Non sapendo come fare a campare, egli è costretto perfino a vendere qualche gioiello e pezzo d’argenteria. Una mattina, Balzac riceve un mandato di comparizione in tribunale: i suoi debitori sono finalmente riusciti a portare il loro «pollo» davanti alla Giustizia, ma quando gli uscieri del tribunale si recano a casa del romanziere, egli non è più là. La prospettiva poco piacevole di trascorrere alcuni mesi nelle celle della famosa prigione di Clichy non gli arride e lo ha indotto a chiedere un nuovo aiuto finanziario al conte Guidoboni in cambio della promessa di recarsi in Italia per curare i di lui affari Ed ecco Balzac lasciare alla chetichella Parigi, ma solo. Una settimana più tardi egli raggiunge Venezia e prende alloggio all’Hotel Reale (l’odierno Danieli). Non appena Balzac dà le proprie generalità, il direttore dell’albergo gli fa riservare la camera che era già stata occupata da George Sand e Alfredo de Musset in occasione di un loro viaggio nella magica città lagunare.


 

  Numero 277, 24-25 Novembre 1965, p. 14, 3 ill.

 

Il tranello!

 

  XXXVIII. — [...]. Dopo una breve tappa a Venezia, Honoré riparte diretto a Milano Qui fa conoscenza di alcune dame dell’alta società milanese: la contessa Maffei, la contessa Cristina Archinto, la marchesa di Trivulzio, nonché il marchese di Hertford, padre del famoso lord Seymour. Sempre a Milano, Balzac conosce Alessandro Manzoni, l’autore dei «Promessi Sposi». Rientrato a Parigi, egli scrive una lettera molto affettuosa a Zulma Carraud: «Eccomi di ritorno dall’Italia, dove mi sono fermato due mesi e mezzo per trattare importanti affari alla conclusione dei quali mi è stato corrisposto un premio in denaro ...». Incassata tale somma (datagli dal conte Guidoboni), come di consueto, Balzac non pensa a spenderla come dovrebbe, ossia pagando almeno in parte parola i propri creditori. Egli affitta un lussuoso appartamento ammobigliato dove può disporre di varie stanze e una ricca biblioteca, quindi assume tre persone di servizio; ben presto, però, egli deve disfarsi di due (la cuoca e il cameriere) e limitare il più possibile le spese, tenendo presso di sé soltanto una giovane, certa Augusta, la quale nutre una segreta passione per il suo padrone. Poiché i suoi creditori hanno scoperto il nuovo appartamento di Balzac, questi è costretto a sloggiare in tutta fretta e cercare rifugio presso la contessa Guidoboni. Essa accetta volentieri di aiutare il romanziere cui è tuttora legata da profonda simpatia. Nessuno sa dove si trovi Honoré che si nasconde come una lepre inseguita dai cani. I creditori continuano intanto la caccia spietata, ma i vari indirizzi che capitano loro sottomano non portano al romanziere che sembra essere svanito come nebbia al sole. Un giorno un agente ha l’avventura di incontrare Augusta, la cameriera che Honoré ha piantato in asso senza una sola parola di spiegazione; questa non tarda a rivelare il rifugio del suo ex-padrone: «Per quanto mi è dato sapere, il signore Honoré de Balzac si trova ospite del conte Guidoboni Visconti nella residenza che questi possiede al n. 54 dell’Avenue des Champs-Elysées». L’uomo non attende che questo». Travestito da addetto delle messaggerie Lafitte e Caillard e portando con sé un sacchetto di scudi sonanti, egli bussa alla porta di casa Guidoboni. Al portiere, che non immagina lontanamente il tranello, l’agente dice: «Abbiate la compiacenza di informare M. Honoré de Balzac, che so abitare qui, di venire un momento da me ... Devo consegnargli questo denaro!». Il portiere informa della cosa il maggiordomo e questi, a sua volta, la contessa Guidoboni. Trovandosi alla presenza di Sarah, l’uomo dice ad alta voce: «Ho l’incarico di consegnare di persona a M. de Balzac questi seimila franchi e di farmi firmare da lui regolare ricevuta». La contessa, che subodora qualche trucco, risponde immediatamente: «Il signor de Balzac, di cui voi avete parlato, non abita qui. Questa è la residenza del conte Guidoboni-Visconti, mio marito». «Volete allora avere la bontà di farmi parlare con lui?», chiede l’agente. «Mi spiace, ma non è in casa — aggiunge Sarah —, comunque io conosco di persona M. de Balzac e se volete lasciare a me il denaro non mancherò di consegnarglielo» «Spiacente — dice l’agente —, mi è stato ordinato di consegnare la somma soltanto a M. de Balzac e farmi firmare da lui la ricevuta». Honoré che nel frattempo ha ascoltato tutto stando nascosto dietro una porta, temendo effettivamente di perdere tutto quel denaro piovuto dal cielo, si fa vedere e cade nella rete.


 

  Numero 284, 2-3 Dicembre 1965, p. 8, 3 ill.

 

In nome della legge!

 

  XXXIX. — [...]. Non appena Balzac si presenta nella stanza l’agente gli si avvicina e, prendendolo per una spalla gli grida: «Honoré de Balzac, in nome della legge vi dichiaro in arresto!». Honoré impallidisce, ma non può fare nulla per fuggire, egli si è tradito. «E’ inutile che tentiate di squagliarvela — aggiunge l’agente giudiziario — peggiorereste le cose, pertanto vi invito a seguirmi immediatamente senza opporre resistenza. Ho l’ordine di condurvi nel carcere di Clichy dove resterete in attesa di giudizio, a meno che non versiate subito la somma che voi dovete alle Messaggerie Laffitte, ossia 1300 franchi, oltre gli interessi». «Sono rovinato -- esclama Balzac con un filo di voce, abbassando il capo — un giorno o l’altro doveva succedere», ma la contessa Guidoboni, che fino a quel momento era rimasta muta perché anch’essa sorpresa dell’accaduto, interviene con queste parole: «Mio caro amico, non sarà mai che uno scrittore del vostro valore finisca come un malandrino in una cella del carcere di Clichy», quindi, rivolgendosi all’agente gli dice in tono perentorio: «A quanto avete detto che ammonta il debito del signor de Balzac?». «A 1380 franchi», rispondo l’agente. «Allora aspettate, avrete quella somma da me, e che sia finito, mi avete già seccato, questa è casa mia e voi vi siete penetrato con l’inganno, se lo volessi potrei denunciarvi!». Aperto un prezioso cofanetto, Sarah ne estrae alcune monete d’oro e, contatele, le porge all’agente con queste parole: «Ecco ciò che volevate, ora andatevene subito e non fatevi mai più rivedere nella mia casa» Ritirato il denaro, l’uomo s’inchina davanti alla contessa e se ne va in silenzio. Honoré, confuso, non può non ringraziare Sarah del suo provvidenziale intervento, assicurandola al tempo stesso che le restituirà il più presto possibile la somma da lei così generosamente versata per suo conto. Il fatto giunge però ben presto alle orecchie dei giornalisti i quali lo riportano con un certo rilievo. In particolare «Il Secolo», che non manca l’occasione di lanciare delle velenose frecciate al romanziere. Balzac reagisce e scrive subito una lettera al direttore del giornale, minacciandolo, di citarlo per calunnia. Qualche giorno dopo, su un altro giornale, Balzac risponde alle accuse sostenendo che ogni uomo può trovarsi nella necessità di contrarre un debito, debito che poi aumenta spaventosamente solo per colpa degli usurai che prestano il denaro con interessi iugulatori. Per evitare che il nome dei Guidoboni-Visconti sia ancora una volta posto sui giornali in rapporto a fatti tanto incresciosi, lo stesso conte si prende l’onere non lieve di pagare parte dei debiti contratti da Honoré, al tempo stesso, però, lo invita a trasferirsi in una sua proprietà situata alla periferia della capitale. Uomo veramente munifico, Guidoboni contribuisce inoltre alla costruzione nel suo appezzamento di una nuova casa dove Honoré potrà vivere in santa pace, proprietario e senza più creditori alle calcagna. E’ ben inteso che Balzac dovrà dedicarsi ni lavoro e non sciupare troppo tempo come ha fatto sinora. Il 7 giugno 1838, muore la duchessa d’Abratès (sic), altra dama amata da Balzac. L’ultimo spasimante della duchessa era stato il marchese di Custine. In questa occasione, Balzac scrive a M.me Hanska: «La vita mi ha riservato un nuovo profondo dolore dopo quello della perdita di M.me de Berny, ora è stata la volta della cara amica, la duchessa d’Abrantès, persona per la quale ho sempre nutrito simpatia e ammirazione ...».

 

 

  Numero 295, 15-16 Dicembre 1965, p. 10, 3 ill.

 

Elena De Valette.

 

  XL. — Nel breve giro di poche settimane, Balzac riesce a scrivere due romanzi, il primo reca il titolo «Casa Nucingen», il secondo «Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau». Quest’ultimo è certamente un’opera di rilievo e non manca di avere una certa eco fra i lettori. Ed ecco in breve una traccia del romanzo che, in un certo senso, rispecchia lo stato d’animo dello scrittore. «Cesare Birotteau, mercante profumiere, vice-sindaco del secondo circondarlo di Parigi, candidato cavaliere alla Legion d’Onore, è assai soddisfatto dei suoi affari e ha deciso, perciò, della sua casa. Inoltre il notalo Boguin gli ha proposto una speculazione in compagnia di certi amici, ossia l’acquisto di terreni che si potranno avere per un quarto del loro valore. La signora Birotteau, spaventata dai rischi dell’affare, cerca di dissuaderlo, ma invano. Ideatore della speculazione è in verità il giovane Du Tillet, già commesso di Birotteau, assurto ora ai fastigi dell’alta finanza. Du Tillet, che fra l’altro ha tentato di sedurre la signora Birotteau e si è impadronito di una certa somma del suo padrone, prende poi il largo. Il contratto viene firmato e il vice-sindaco versa la somma pattuita: 300 mila franchi, ma la speculazione è uno sporco affare e Cesare Birotteau ne paga le spese. Numerosi creditori battono alla sua porta, fugge anche il notaio Boguin e tutto va alla malora. Sull’orlo della rovina Birotteau ha tuttavia la soddisfazione di vedersi aiutato da alcuni amici fedeli che lo salvano dal carcere. E’ proprio in questo periodo che Honoré de Balzac perde un affare che avrebbe potuto fruttargli un’enorme ricchezza: lo sfruttamento delle miniere sarde dell’Argentara. Egli intraprende un faticoso viaggio per rendersi conto di persona della capacità produttiva di tali miniere, ma quando credo di avere risolto una volta per sempre il problema della sua vita, l’affare gli viene soffiato da un’organizzazione di Marsiglia entrata nel frattempo in contatto con il governo sardo. Addolorato, Honoré rientra a Parigi. Raggiunta la tenuta del conte Guidoboni, controlla i lavori della casa che stanno costruendo per suo conto. Poiché egli stesso ha tracciato i disegni dello stabile, ma si è dimenticato le scale, deve ripiegare su una scalinata esterna di pietra che, in fondo in fondo, dà un certo tono alla costruzione, rendendola più caratteristica. Quando un giardiniere di casa Guidoboni chiede a Balzac se desideri che si piantino degli alberi attorno alla nuova costruzione, il romanziere risponde: «Alberi qui ... no di certo, io amo il sole e gli alberi me lo toglierebbero, è ancora una delle poche cose che si possono avere gratis a questo mondo! Penso invece che sarebbe molto meglio se piantassimo lungo la staccionata degli ananassi, potremmo farne una piantagione e guadagnare dei soldi». Molti sono i pensieri che frullano per il capo di Balzac oltre gli ananassi, ad esempio, una piantagione di oppio, un sistema per sbancare la roulette, ed altre fantasie. Entrato in contatto con un inventore, quest’ultimo gli prospetta un affare, a suo avviso, da milioni: realizzare la macchina del moto perpetuo che egli ha inventato, macchina che applicata all'irrigazione dei campi dovrebbe costituire la soluzione ideale di un annoso problema. Balzac s’appassiona alla cosa e studia a fondo il problema, ma, fortunatamente per lui, si ritira in tempo. Un giorno Balzac riceve la visita di una sua ammiratrice giunta apposta dalla Bretagna per incontrarsi con lui, si fratta della graziosa Elena De Valette. I due fraternizzano subito. Elena è molto graziosa e Honoré non manca di farle la corte.


 

  Numero 297, 17-18 Dicembre 1965, p. 12, 4 ill.

 

La ghigliottina del notaio.

 

  XLI – [...]. L’incontro di Honoré ed Elena in una località della Bretagna è dei più romantici; la giovane rimane affascinata, dallo scrittore che le parla della sua arte e dei suoi progetti. Dopo soli tre giorni, i loro rapporti si fanno anche più stretti, ma Honoré deve ripartire per Parigi e lascia con profonda nostalgia la nuova «conquista». Ma chi è questa Elena de Valette che sembra essere perdutamente innamorata del romanziere? E’ soltanto a Parigi che Honoré riesce ad avere notizie precise di lei, gliele fornisce un conoscente, lo scrittore Edmondo Cadot, autore di un libro eli racconti dal titolo «Le dessous des cartes». Questi ha avuto occasione di conoscere molto bene Elena, essa è stata infatti per un certo tempo sua amante. Nata nel 1804 a Ronchefort, la giovane è figlia di un capitano mercantile, tale Pierre de Valette, nativo di Saint-Andéol, e di Sofia Perrin de Pinmuré. Rimasto vedovo nel 1813, il capitano aveva messo la piccola Elena in pensione presso il convento dello Orsoline, a Vannes, e più tardi, lasciato il mare, aveva indossato l’abito talare, nella medesima città. Terminati gli studi, a diciott’anni Elena aveva sposato un notaio di Vannes, certo M. Gougeon, vedovo e cinquantenne, sul quale correvano inoltre voci poco simpatiche. Secondo la gente, era stato il notaio Gougeon a denunciare alla polizia di Bonaparte il cospiratore realista Georges Cadoudal, il quale nel 1804 era stato giustiziato insieme ad altri undici congiurati. Così, tutti gli anni, il 25 giugno, anniversario di tale esecuzione capitale, il notaio Clougeon riceveva in dono da ignoti una piccola ghigliottina perché egli non dimenticasse il suo atto infame. Due anni dopo le nozze, non certo felici anche perché Elena aveva già tradito lo spregevole consorte con un giovane medico, il notaio moriva. Rimasta vedova. Elena riprendeva allora il nome da nubile e, nonostante le continue liti col padre, conduceva una vita piuttosto allegra. Por non più sentire parlare delle scappate della figlia, il vecchio padre chiedeva di essere trasferito in un’altra località e ciò contribuiva a lasciarla anche più libera di frequentare sempre nuovi amici e ammiratori.


 

  Numero 303, 24-25 Dicembre 1965, p. 8, 3 ill.

 

Verso il teatro.

 

  XLII. — [...]. Seppure squattrinato, Honoré è un compagno ideale e di ciò ne approfitta la bella bretone per trasferirsi a Parigi, decisione che il romanziere non ostacola. Elena, che dispone di una certa quantità di denaro, affitta un grazioso alloggio ammobiliato dove riceve Honoré ed altri amici. Ogni mattina essa si reca a fare una cavalcata in un grande parco: e poiché è un’ottima amazzone non tarda a trovare numerosi ammiratori. Ben presto, proprio a causa delle difficili condizioni finanziarie, Honoré si vede soppiantato dalla bella Elena, la quale dimostra apertamente di preferire il «denaro» alla «letteratura». Questo voltafaccia non turba troppo Balzac, il quale si è già reso perfettamente conto del carattere della sua nuova amica, pertanto i loro rapporti finiscono nel giro di pochi mesi senza troppi rimpianti sia da una parte sia dall’altra. Un giorno, passeggiando davanti alla Comédie Française, Balzac incontra Alessandro Dumas padre il quale, proprio in quei giorni, ha avuto un grosso successo con «Mademoiselle de belle-isle». Parlando col commediografo, Balzac esce con questa battuta: «Il giorno in cui i lettori saranno stanchi di me mi dedicherò al teatro». «E allora dovete incominciare subito!» ribatte Dumas. Non rendendosi conto dell’ironia della frase, Honoré decide di mettersi subito al lavoro: «Scriverò una buona opera di teatro — egli pensa – e sarà la prima di una serie che non mancherà di farmi ricco». Il pensiero di trovare in se stesso un filone d’oro spinge il romanziere a rispolverare alcuni vecchi appunti su una specie di commedia iniziata, ma piantata poi in asso; egli li rivede con cura anche se il soggetto non gli garba troppo. Terminato il lavoro, Honoré ritiene conveniente farlo vedere a qualche direttore di teatro oppure a qualche noto attore per conoscerne il giudizio. Seppure ottimo creatore di caratteri e di situazioni, Balzac è però ben lontano dall’essere maturo per le scene, ma, fidando più sulla sua buona stella che sul valore reale dell’opera, Balzac si mette alla ricerca di chi possa finanziarlo nel caso egli si dedichi seriamente a questa nuova attività. Qualche giorno più tardi, trovandosi a passeggiare in piazza della Borsa s’imbatte in Henry Monnier: «Caro Henry — dice Balzac — debbo darti una buona notizia: ho deciso di dedicarmi al teatro, si tratta di un’idea con solide basi e certamente quanto mai interessante ...», ma la frase non sembra convincere troppo l’amico del nostro romanziere. «Ho l’impressione che tu sia piuttosto scettico — continua Balzac — ma io conosco i miei mezzi e sono certo di sfondare». «Molti auguri fin d’ora — risponde Monnier —, se potrò esserti utile in qualcosa disponi pure di me». Una settimana dopo Balzac chiede un colloquio con M. Anténor Jolly, direttore de «La Renaissance» e riesce a convincerlo che è finalmente giunta «l’ora del teatro vero». Chi meglio di un romanziere, di un fedele interprete dei fatti della vita d’ogni giorno, può scrivere opere di teatro? «Il mio programma dice Balzac — è una trilogia dal titolo “Scene di vita privata” e sono certo che si tratterà di un’opera che farà rumore!». M Jolly, convinto dalla sicurezza di Balzac, s’impegna a firmare un contratto col romanziere, il quale dovrà consegnargli dopo un certo tempo prefissato il primo pezzo dal titolo «L’Ecole des ménages».

 

  La puntata successiva di questa serie di note dedicate agli amori di Balzac sarà pubblicata il 13 gennaio 1966, con il titolo: L’enigna di Pont d’Andert.

 

 

  Specchio dei tempi, «La Stampa», Torino, Anno 99, Numero 140, 15 Giugno 1965, p. 2.

 

  Il ciclo politico secondo Balzac.

 

  Un lettore ci scrive:

  «In questa rubrica A. C. Jemolo domanda, con pungente ironia, perché dinanzi ai non contrastati scioperi bianchi dei funzionari dello Stato non si liberino questi dall’obbligo del giuramento. E’ un avvertimento sulle democrazie che illanguidiscono.

  In argomento, mette conto di argomentare quanto Balzac nella sua “Peau de chagrin” fa dire ad uno suo personaggio sulle democrazie che illanguidiscono.

  Una democrazia, quando illanguidisce, scivola nell’anarchia: l’anarchia fa invocare l’uomo forte; l’uomo forte si fa dittatore; la dittatura provoca la rivoluzione; la rivoluzione si stempera nella democrazia. E il ciclo si ripete».

 

 

  “Mercadet l’affarista”, «Alto Adige», Bolzano, 29 ottobre 1965.

 

 

  Definizione di santi, filosofi, storici e poeti, «Il Corriere di Foggia. Settimanale indipendente d’informazioni», Foggia, Anno XI, N. 35, 23 Dicembre 1965, p. 3.

 

  Balzac: «Anche il bacio di un’innocente fanciulla può avere mille sfumature».

 

 

  Dina d’Angeli, Les thèmes fondamentaux de l’œuvre de Balzac, «Culture française», Bari, 12, 1965, pp. 237-240.

 

  La Comédie Humaine pose tous les problèmes fondamentaux de la création littéraire: les rapports du réalisme et du réel, du roman et de l’histoire, de la conscience et de l’œuvre, de la forme et du fonds. «Tout voir et ne rien oublier», telle était la devise de Balzac. Chasseur de documents, enquêteur inlassable, fureteur toujours inassouvi, il a alimenté, enrichi son œuvre de toutes les observations engrangées par une ardente curiosité. On ne pourrait pourtant pas croire qu’il ait tout observé de ce qu’il raconte. Outre qu’un observateur, Balzac était un divinateur, un intuitif, voire un voyant. Le croire toujours assis à sa table de travail, dormant le jour pour écrire la nuit, serait aussi une erreur. Il avait des périodes de travail forcené, des crises de solitude absolue: il se retranchait alors du monde des vivants pour ne connaitre que les fantômes de son imagination et les incorporer à son œuvre. En dehors de ces accès, il sortait, rencontrait ses amis, courait de par le monde, et rien, dans les rues, sur les boulevards, en diligence, dans la chaumière, dans les salons et dans les églises, n’échappait à son œil scrutateur.

  De nombreux érudits et archéologues ont vérifié l’exactitude de ses descriptions, sites, monuments, maisons, rues ; elle est très souvent complète, toujours expressive; si elle s’écarte du réel, elle donne toujours la sensation du vrai. Il n’étudiait pas seulement les lieux, mais il se documentait sur les époques historiques, sur les questions scientifiques dont il voulait traiter. Il prenait ces renseignements auprès des spécialistes ou d’hommes compétents, s’efforçant d’assimiler la substance scientifique ou philosophique. On n’en finirait plus de citer les preuves du soin avec lequel s’effectue cette documentation, soit pour les grands soit pour les menus faits. Qu’il s’agisse de chimie dans La Recherche de l’Absolu, des théories swedenborgiennes dans Séraphita, des théories magnétiques, mesmériennes dans Ursula (sic) Mirouët, et de bien d’autres, Balzac, avant de les faire vivre ou discuter par ses personnages, s’en est pénétré lui-même, si bien que très souvent il ne peut s’empêcher d’intervenir dans le récit pour nous donner son avis.

  Un problème que la critique pose avec insistance, tourne autour de la valeur historique de La Comédie Humaine. Nul ne conteste que cette œuvre soit un tableau vivant, pittoresque, animé. Mais certains exégètes se demandent s’il est exact ressemblant, si, comme l’auteur l’a prétendu, son œuvre est «une histoire de la Société peinte en action», «moulée, pour ainsi dire, sur le vif avec tout son bien et tout son mal». Brunetière n’hésitait pas à répondre par l’affirmative. Taine, Albert Sorel considéraient Balzac comme l’un des plus grands historiens de son siècle. Des esprits studieux ont consacré nombre de veilles et parfois une vie tout entière à l’étude des manuscrits de Balzac, de sa correspondance, de sa vie pour y puiser les éléments indispensables à la compréhension d’une œuvre dont l'étroite relation avec le monde réel est la principale caractéristique. André Wurmser prend place parmi eux avec un livre — écrit au cours des vingt dernières années et récemment paru qui, sans vouloir rivaliser avec ses prédécesseurs, nous présente l’œuvre balzacienne sous un éclairage tout à fait inhabituel. En fait André Wurmser ne limite pas son attention à la seule littérature; prenant modèle sur Balzac lui-même, il s’est moins soucié d’originalité que de vérité et a fréquenté les bibliothèques, patiemment, minutieusement, pour tenter d’expliquer le monde balzacien, tant par la démarche de l’homme que par le comportement du romancier face au monde réel.

 

* * *

  Ecrivain? Poète?

  Rien n’y prédisposait Balzac. Ses connaissances, à ce qu’on en peut juger par ses œuvres antérieures aux Chouans, étaient désordonnées et insuffisantes, sa langue était rugueuse et entortillée. Il n’avait ni le sens du vers, ni le sens du rythme. Son génie sera le salaire d’un long et dur combat contre ses insuffisances natives, contre un mauvais gout aussi naturel qu’irréductible. Il était moins poussé par une vocation littéraire que par une volonté de puissance, par l’envie de s’élever. «Croire en soi, n'est-ce pas le quart du talent?» (2) se demandait-il. Cromwell est un désastre? En bien, il essaye une autre branche de l’industrie littéraire. Cette industrie ne lui fait-elle pas atteindre vite la fortune, il se fait imprimeur, il traite des affaires commerciales. Après la déconfiture, il reprend la plume, il retombe dans la littérature. Seulement, cette fois il choisit la littérature sérieuse. Et, d’un seul coup, un faiseur de balivernes devient Balzac. C’est qu’il renonce à mystifier, et redevient ce qu’il est: un homme de ce monde-ci, avec de bons yeux et de bonnes oreilles, et des connaissances qu’il est seul, ou presque, entre les romanciers, à avoir acquises, justement parce qu’il n’a pas été distraitement clerc d’avoué, éditeur ou imprimeur.

 Jusqu’au Dernier Chouan, Balzac, à la manière de Walter Scott, éloignait dans le temps et l’espace ses romans «historiques». A présent il comprend que c’est le réel qu’on doit imiter et non sa reproduction littéraire. Il s’inspirait de la littérature antérieure, il s’inspirera de la vie contemporaine. Il aura pour modèles les boutiques, les passants, les salons.

  Balzac devient naturel. Plongé dans le tourbillon de son siècle, avec les imprimeurs, les horticulteurs, les prospecteurs de mines, les lions en quête d’héritière, les banquiers, les souscripteurs du Chemin de fer du Nord, les propriétaires, les diffuseurs de revues, les candidats aux élections, lui seul, par sa plénitude et par sa force de caractère, est l’homme complet de son temps.

 

* * *

  La Comédie Humaine est un corps où, en guise de sang, circule l’argent. Des critiques fort divers ont souligné le caractère obsessionnel de la passion balzacienne, qui «devient souveraine, écrase et étouffe, tour à tour, les autres sentiments et fait de sa victime un monomane» [Paul Lafargue]. Il faut ajouter que le dramatique de cette monomanie tient à l’argent. Les romans de Balzac n’auraient pas lieu si la question d’argent ne se posait pas. Grandet est avare parce qu’il possède; Goriot est exploité par ses filles tant qu’il possède; la Propriété est à l’origine de la spoliation (d’Espard), de la tromperie (Birotteau) de la vente frauduleuse (Minard), du maquerellage (Rastignac), du proxénétisme (Rubempré), du chantage (Lousteau), de la pédérastie (Sarrasine), de l’usure (Gobseck), du faux en matière financière (Nucingen), de la duplicité politique (Malin), du rapt d’héritage (Camusot de Marville), de la trahison (Moncornet), du meurtre (Taillefer).

  Cette règle d’or de La Comédie Humaine: que l’argent mène le monde, est aussi la clé de l’activité sentimentale, politique, commerciale, mais tout d’abord littéraire de Balzac. M.me de Staël se proposait d’étudier «l’influence de la religion, des mœurs et des lois sur la littérature et de la littérature sur la religion, les mœurs et les lois». Victor Hugo assurait que le poète «doit marcher devant les peuples comme une lumière et leur montrer le chemin» [Préface d’Odes et Ballades, 1824]. Pour Vigny «le Poète cherche aux étoiles quelle route nous montre le doigt du Seigneur» [Chatterton]. Balzac considère le livre comme une marchandise, c’est-à-dire comme le fruit du travail humain, soumis aux lois de l’offre et de la demande, conditionné par la promesse du profit.

  Stendhal, fils de la Révolution, est, par nature, désintéressé. L’ambition est, chez Julien Sorel, une révolte, la seule issue que les castes rétablies laissent à l’individu qui, né dans les classes inférieures, ne peut plus conquérir ses titres à la pointe de l’épée.

  Balzac, son cadet, fils de Thermidor, est avide, de naissance. Avide de fortune, avide de gloire, avide de connaissances.

 

* * *

  La puissance constructive de la bourgeoisie au XIXe siècle, son alliance nécessaire avec la science et sa cupidité de même qu’avec l’Eglise et son irréligion, Balzac les personnifie par son audace, l’énormité de son œuvre, sa méthode scientifique, son indifférence religieuse et sa défence (sic) intéressée de l’Eglise, son indifférence au sort de l’humanité, son égoïsme. Il est — maître mot de ce qu’on appellera, tant bien que mal, sa politique — un bourgeois, le Bourgeois, est c’est pourquoi il est antipathique à certains bons esprits.

  Il ne faut pourtant pas laisser de côté l’influence de Balzac sur les idées politiques et sociales, au début du XXe siècle. Paul Bourget met en relief l’aspect de Balzac continuateur de Bonald et de Joseph de Maistre, tandis que des écrivains socialistes puisent dans son œuvre des ferments de rénovation et de Progrès sociaux.

  Cette rencontre d’opinions contradictoires montre que La Comédie Humaine est avant tout le microcosme qui reproduit dans sa grandeur et sa diversité l’image réelle de l’Humanité.

  Où se situer aujourd’hui pour créer aussi valable que La Comédie Humaine? La fidélité au réel ne suffit plus au romancier pour être à présent réaliste ; il lui faut encore la science du réel. Pour être digne de Balzac, il faut lui être supérieur, de toutes les connaissances acquises depuis sa mort et qui, espérons-le, permettront enfin à l’homme de ne plus souhaiter de vivre dans le camp de Rastignac et de Nucingen, et de s’élever à une ambition supérieure.

 

 

  B., Mercadet: affarista che affoga nei debiti, «La Provincia», Cremona, 28 novembre 1965.

 

 

  Maria Bellonci, Pubblici segreti, «Il Messaggero di Roma», Roma, 10 luglio 1965.

 

  Vissuta e scritta.

 

  Dono stimolante l’epistolario di Balzac che approda sul mio tavolino con i due primi volumi dalla copertina giallo canario usciti finora nella collezione dei Classici Garnier. Sfogliamo il primo volume: gli inizi della vita d’un grande scrittore sono sempre affascinanti. Nessuna delusione: in Balzac gli inizi sono splendidi, vigorosi, addirittura, crepitanti di vitalità. Leggendo, ci sentiamo tanto tonificati che ci sembra di sentire esprimere da queste pagine non so quale forza di valori tattili. E molto si deve a quella straordinaria cura che diventa prova di fedeltà che ha spiegato in questo lavoro l’ordinatore dell’enorme materiale, Roger Pierrot.

  Volume della giovinezza, che va dai dieci ai trentatre anni dello scrittore; e subito la sua personalità si delinea e si afferma ancor prima che la vocazione gli si sia chiarita. Il famoso detto di Pirandello «la vita o si vive o si scrive» ha per Balzac un senso relativo; il favoloso temperamento di questo gigante fa sì che nella sua forza narrativa si possano amalgamare fatti e sensazioni: tutto gli serve e tutto esperimenta specie nella sua incandescente giovinezza. In famiglia, le prime prove; e sono le lettere di lui ventenne alle sorelle. Laura e Lorenza: e poiché con molta opportunità l’editore ci offre anche molte lettere dei corrispondenti di Balzac, facciamo una scoperta: le lettere estrose e aggraziate di Laura che fu anche scrittrice, e quelle della insospettata ariosa e capricciosa Lorenza destinata a morire giovanissima. A vent’anni Balzac scrisse la sua prima opera, un dramma su Cromwell che gli fruttò il consiglio da parte di un illustre professore di fare qualsiasi cosa che non fosse letteratura; poi cominciò a scrivere romanzi in società con un amico. Ma intanto la sua vera vocazione si era già scoperta e affermata privatamente nelle lettere alle sorelle che il Pierrot giudica ingenue e che per fortuna lo sono; una dose di ingenuità, difatti, è necessaria al narratore per credere alle proprie invenzioni (ed ecco perché oggi la nostra troppo scaltra narrativa produce libri freddi). Da queste lettere emana una potenza di rappresentazione che si manifesta in una sceneggiatura costante della vita quotidiana densa di particolari rilevati e realistici; perfino il dialogo è introdotto nella rappresentazione: Balzac infatti inventa un suo cameriere Moi-même per poter meglio variare la tessitura del suo racconto.

  Da vero romantico Balzac ama le donne e considera necessaria la loro amicizia: amicizia che è quasi sempre amore essendo egli giovane e di forte temperamento: testa e cuore, senza dimenticare i sensi. Di accenti, inconsueti è la sua storia d’amore con Madame De Berny che ha quarantacinque anni si lasciò indurre, sia pure dopo molta resistenza, ad amarlo. Il più capzioso ragionatore di oggi non riuscirebbe ad inventare parole audaci quanto quelle che Balzac ventiduenne mandava a Laura De Berny: «I vostri, quarantacinque anni non esistono per me, e se li intravedo per un istante, li considero come una riprova della verità della mia passione. La vostra età che vi renderebbe ridicola ai miei occhi se non vi amassi, risulta al contrario un legame, una cosa piccante che per la sua stravaganza e il suo contrasto con le idee ordinarie mi avvince sempre di più». Concetti pericolosi, anzi terribili; e sarebbe da credere che Laura, difesa da se stessa, male, ma disperatamente, le avesse meditate in tutta la loro crudeltà. Invece ella, finì per cedere; e la relazione poi non fu nemmeno tanto infelice durando una diecina d’anni. In questo spazio erano da prevedersi le infedeltà; e sembra un documento inutile, tanto ce lo aspettiamo, il bigliettino che lei gli manda sette anni dopo, quando, andata al solito appuntamento si sente dire dai servitori schierati ad attenderla, che il signor Balzac è uscito. «Addio, Didì, ella scrive, si è costretti ad amarti anche con le tue collere, le tue miriadi di capricci, la tua ineducazione, e tutte le tue imperfezioni ...». Balzac in quel tempo amava già un’altra donna, la duchessa d’Abrantès e ne corteggiava un’altra, la potente marchesa de Castries. Coltivando nello stesso tempo una tenera amicizia con una terza, madame Zulma Carraud. A tutte scriveva e da tutte riceveva lettere.

  Alla vita dell’uomo Balzac non sacrifica mai però la vita dello scrittore. Da poco è apparso, con Les chouans, e le ordinazioni degli editori, dei direttori di riviste si susseguono, diventano presto soffocanti. Ci smarriamo in una vera selva di lettere, di biglietti, di intimazioni agli editori, ai tipografi, ai librai; Balzac cerca di accontentare questo, di prendere respiro con quello, di rimandare la consegna di un manoscritto, di cambiare un contratto a suo vantaggio, tenta sfortunatissime imprese commerciali per assicurarsi, la vita quotidiana larga e signorile che gli piaceva. Vere grida escono di tanto in tanto dal suo gran petto quando si sente troppo incalzato dalle scadenze degli impegni di ogni genere e magari momentaneamente abbandonato dalla sua grandiosa felicita creativa. Ma agli uomini di affari e alle donne d’amore egli sa offrire una-rocciosa impassibilità quando si tratta del suo lavoro; si scusa, ma non per questo lascerà la sua fatica per andare ad un pranzo, a teatro, a un ricevimento o ad una festa. E così egli prende il suo posto alla ribalta della letteratura: fra donne inquiete, appassionate, pronte a prendere la penna e a protestare nervosamente; fra editori tipografi e creditori che protestano e urlano, fermo al suo tavolino, con la giovane faccia già ripiena, gli occhi penetrativi, i capelli di crescita folta e indomata, la camicia aperta sul collo, possente artigiano pieno di coraggio, fumoso e dispotico, paziente solo col suo foglio bianco.

 

 

  Giorgio Bergamini, Ultracentenario ma attuale questo “Mercadet” di Buazzelli, «Il Piccolo. Giornale di Trieste», Trieste, 15 maggio 1965.

 

 

  Mario Bonfantini, Balzac, in Storia della letteratura francese, Milano, Mondadori, 1965, pp. 257-264.

 

  Cfr., per i contenuti essenziali, 1956.

 

 

  Maria Grazia Bottai, Nota, in Honoré de Balzac, Casa di scapolo ... cit., pp. 5-11.

 

  [...]. Offrì il primo spunto alla concezione di Casa di scapolo (La Rabouilleuse) l’idea di un’eredità, con i conflitti e le rivalità che essa comporta. Gli appunti di Balzac ce lo attestano già anteriormente al 18331 e poi, con maggior precisione, da tale anno, allorché il titolo La succession s’inserisce nel programma dei romanzi in progetto. Niente di più naturale, del resto, dell’insistenza con cui quest’argomento venne considerato da uno scrittore che per primo fece tanta e così minuziosa parte, nei suoi libri, alle lotte d’interesse, dalle quali vediamo i suoi personaggi mossi ed agitati, come lo erano un tempo dalle grandi passioni. In seguito, comunque, molti altri elementi vennero ad arricchire il primo nucleo d’ispirazione, elementi che giustificarono, già nel periodo preliminare alla stesura del romanzo, le continue variazioni del titolo, che da La succession si trasformò, nel 1836, in Les héritiers Boirouge e quindi, nel 1839, in Le bonhomme Rouget. Il I839 dovette, a compulsar le sue lettere di questo periodo, esser l’anno in cui Balzac principiò a lavorar di penna sull’argomento; ma questa volta, contrariamente a quanta gli accadeva di solito, egli non portò a termine la sua fatica né in quindici giorni, né in pochi mesi: nel gennaio 1840 lo sorprendiamo ancora, infatti, sul Bonhomme Rouget e, se la prima parte di questo romanzo cominciò a venir stampata sulla “Presse” nel febbraio 1841, questo giornale dovette attendere, a pubblicar la seconda, nientemeno che l’ottobre 1842, quando l’accolse con il titolo Un ménage de garçon en province. Pubblicata l’opera intera nel 1842 come Les deux frères, non ne fu questo l’ultimo battesimo, tanto che una seconda edizione (1843) la dava tutta per Un ménage do garçon en province, e questo stesso titolo, accantonato l’altro, assai originale, di La Rabouilleuse, già comparso in alcune sue lettere del 1841, veniva proposto da Balzac anche per la definitiva inserzione nella Commedia umana. Il romanzo finì invece per chiamarsi La Rabouilleuse, e come tale viene tuttora pubblicato in Francia, essendo questo, in conclusione, il titolo consacrato dalle note postume dello scrittore. Noi, data la sua intraducibilità in un’unica, equivalente espressione italiana (cfr. la nota a pagina 156), abbiamo preferito riservare al romanzo, nella nostra lingua, il titolo Casa di scapolo, tratto da quel Un ménage de garçon en province, per il quale lo scrittore mostrò una certa predilezione.

  “Non so” dice Félicien Marceau nel suo libro Balzac et son monde “se si legga ancora molto La Rabouilleuse”. E aggiunge: “Si tratta tuttavia di un’opera eccellente. La narrazione vi si stende in un tono di scioltezza e di verità perfettamente sostenuto ...”. È curioso, infatti, notare come Casa di scapolo che, vivente il romanziere, venne giudicata un capolavoro dai suoi stessi nemici, sembri oggi tenuta in minor conto di altre opere di Balzac, di Papà Goriot, per esempio, o di Una tenebrosa vicenda, alle quali non ha niente da invidiare. Pochi romanzi, in realtà, dovettero causare tanti tormenti richiedere a Balzac una fatica, una meditazione così prolungate. “È un romanzo” egli scrive in una sua lettera “composto senza l’elemento amore cosa di una difficoltà ...”: dove, se la parola “difficoltà” quasi sorprende sulle labbra di un romanziere solito a vantare la speditezza e l’agilità del proprio scrivere indica però in lui un impegno nuovo a prendere di petto i temi del suo lavoro creativo, senza più aggirare, come spesso per l’innanzi, gli ostacoli. Di quest’impegno la maturità raggiunta dallo scrittore e le vicende stesse della sua vita, che non furono mai serene, possono chiarirci il significato.

  Per il Balzac quarantenne, che inizia la stesura del libro, l’orizzonte è fosco. Reduce da un donchisciottesco tentativo di sfruttare le miniere di Sardegna (isola che conobbe m tale disgraziata occasione e della quale il romanzo contiene un breve cenno), impigliato in una rete di debiti sempre più fitta, egli deve altresì abbandonare la villetta che, follia delle follie, si è fatta costruire a Les Jardies, dove la contessa Visconti, sua amante di quegli anni, lo lascia in asso e dove tutto sembra rovinargli addosso, persino, e questo materialmente, il muro di cinta ... Amareggiato, fuggiasco, Balzac si sottrae alle insistenze dei creditori andando ad abitare o, meglio, a nascondersi nel domicilio di rue Passy, che ancor oggi, a Parigi, ospita il suo museo. È qui che egli porta a termine il libro: al riparo, e tuttavia ancora oppresso, distolto da mille affanni, progetti, tentativi diversi. Ma, laddove la vita lo schermisce, l’arte gli risponde: a questa, dunque, sotto il malevolo imperversare degli eventi esteriori, egli si accosta con rinnovato amore della sua perfezione. È il momento in cui Balzac, nel porsi dinanzi alla, pagina bianca con approfondita coscienza, mira a riprendere il filo integro, d’una sola gugliata, di opere come Eugenia Grandet: e di tale atteggiamento sono prova, oltre a Casa di scapolo, capolavori come Massimilla Doni e Una tenebrosa vicenda. L’indagine psicologica si affina, l’abbandono di schemi teorici sul genere di quello da cui era rimasta impacciata l’ispirazione del Medico di campagna, il rifiuto dei facili effetti, già perseguiti in opere pur di nobile taglio, come La donna di trent’anni, divengono evidenti e rispondono ad un proposito determinato.

  Nella narrazione di Casa di scapolo (di gran lunga il più importante dei romanzi compresi da Balzac nel gruppo dei Célibataires) si fondono mirabilmente, in un unico quadro, tre principali vicende: quella dell’infelice predilezione di una madre per il figlio snaturato e vizioso, quella dei crimini e delle bassezze attuate da tale figlio, e quella, infine, d’un inetto e pavido scapolo, Jean-Jacques Rouget, divenuto zimbello della Rabouilleuse, sua astuta e spregiudicata serva-amante. Il destino della madre, Agathe Bridau, che solo quando è ormai agonizzante per l’ultimo colpo infertole dal figlio malvagio, apre gli occhi sulle virtù dell’altro, Joseph, pittore di grande genio, si dispiega attraverso ombre e luci magistralmente dosate nel disegno di un’umanissima, anzi muliebre e materna, “via crucis”. Quanto alle imprese, tutte sconcertanti, del figlio snaturato Philippe, eroe lasciato in tronco dall’esilio di Napoleone, e che volge al delitto la foga con cui aveva, sui campi di battaglia, perseguito la gloria, esse hanno tutte un carattere estremo, davvero al di là di ogni sentimento filiale ed umano e finiscono col fare del loro protagonista un archetipo del vizio, come l’Hulot della Cugina Betta o il padre di Eugenia Grandet. Il rilievo conferito a Philippe Bridau, uno di quegli uomini di cui lo stesso Balzac disse che la loro debolezza consisteva in un “abuso della forza”, domina, di fatto, tutto il romanzo, e questo personaggio merita certamente la citazione che ne fa il Croce nel suo saggio [Poesia e non poesia]. Per quello che riguarda, infine, la passione da cui, in un riposto angolo di provincia, viene consumata l’esistenza dello scapolo Rouget, essa si articola attraverso scene di una verità, ma anche di un’audacia, che finora Balzac non aveva mai raggiunto e che preludono alla grande orchestrazione del tema della lussuria nella Cugina Betta. Né è meraviglia che di fronte a tale rappresentazione Félicien Marceau domandi: “Tra i romanzi moderni, con la loro pretesa di violare ogni cosa, ne conoscete molti che siano scesi così in basso nei gironi infernali? ...”.

  Ma è anche mirabile, in questo romanzo, la levità con la quale Balzac riesce a porgerci tutto un mondo e a render protagonista, attraverso le varie fisionomie (di cui nessuna, fosse la più secondaria, è trascurabile), una società intera. Sotto quest’aspetto, anzi, il libro è molto interessante anche come punto di convergenza tra il mondo di Parigi e quello della provincia, ognuno dei quali vive qui e si contrappone all’altro in tutta la sua intensità. Gli scorci parigini, la cui descrizione è pur sacrificata rispetto ad altri romanzi, riescono a farci respirare l’aria della metropoli, ricomponendo, sui diversi piani, quasi lo scheletro morale della città, dai bassifondi delta miseria e del vizio agli equivoci trionfi di certe fortune sociali. Quanto alla descrizione di Issoudun e dei suoi dintorni, essa è condotta così magistralmente, da giustificare l’affermazione di Baudelaire, secondo cui Balzac scoperse, nella vita della provincia, “un inesauribile tesoro di argomenti letterari”. Lo scrittore ne ricava un potente affresco, e sappiamo come non avesse trascurato, a meglio stenderne le tinte, di studiare a fondo la storia e il carattere della cittadina. Più volte ospite di amici nei suoi pressi, infatti, egli era andato in giro a raccogliere i ricordi e i pettegolezzi (le disettes, o “ciance” del romanzo) degli abitanti, ricostruendo sul vero fisionomie come quelle di Max Gilet e della Cognette. Pare, anzi, che gli stessi cavalieri della Baldoria non siano una mera invenzione: anche se certo la sua penna conferì, a tali “blousons noirs” di antico stampo, l’inconfondibile alone, tra burlesco e nefando, entro cui li vediamo agire.

  Un’ultima parola sulla dedica a Charles Nodier, accademico di Francia e autore di romanzi ed opere storiche. In se stessa, essa non ha che un valore di curiosità biografica, in quanto documenta la speranza di Balzac di essere assunto tra gli “immortali”, dai quali doveva essere invece, a loro vergogna, sempre respinto. Ma affiora in questa dedica uno dei grandi motivi morali che servono da cardine alla Commedia umana e che rivelano con quale presago intuito Balzac contemplasse il fenomeno dell’evoluzione sociale: il mito della paternità. “Troppo tardi, forse”, egli scrive a Nodier “ravviseremo i rovinosi effetti dovuti al progressivo affievolirsi della patria potestà ...”. Ed intende, con tali parole, mostrare come in Casa di scapolo, dove la figura del padre non solo non è messa al centro, come in altri romanzi, ma addirittura manca, è proprio su tale vuoto che la rovina materiale e morale cresce e si estende: laddove tutte le doti della sublime Agathe Bridau non le permettono, e il suo destino lo prova, di sostituirsi a quel potere provvidenziale.

 

 

  B. D. C., Mercadet l’affarista, «L’Arena», Verona, 1 dicembre 1965.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac nel giugno 1836, Milano, Istituto lombardo di Scienze e Lettere, 1965 («Memorie dell’Istituto lombardo - Accademia di Scienze e Lettere. Classe di Lettere - Scienze morali e storiche», Vol. XXIX, Fasc. 1), pp. 222.

 

  Non molto rilevanti sono i mutamenti che, all’inizio del mese di giugno, distinguono la situazione economica di Balzac rispetto a quella dei mesi precedenti. Come era del resto prevedibile dal bilancio di maggio, questa persiste ad essere incredibilmente aggrovigliata senza vie d’uscita immediata e senza nemmeno la possibilità di un pareggio a più lunga scadenza.

  Nel disordine amministrativo dello scrittore e nella confusione delle sue complicate operazioni finanziarie, è ancora una volta difficile redigere un esatto elenco di tutti i debiti che Balzac è tenuto a pagare durante il giugno 1836: alla madre, ai familiari, agli amici, agli editori, ai fornitori etc. etc.: folla di nomi e ridda di cifre che si susseguono e si accavallano senza che una documentazione esauriente giunga a fissarne ammontare e date precisi. Ma un bilancio parziale, rappresentato dalle sole cambiali in scadenza nel corso di giugno, che è più facile a farsi, è già sufficientemente indicativo di una situazione sempre grave.

  Benché inferiori a quelle dei primi cinque mesi del 1836, le obbligazioni cambiarie di Balzac in giugno continuano a rappresentare una grossa cifra. Esse ammontano a 3688 fr. [...].

  Il passivo qui indicato è limitato [...] a quello costituito dalle obbligazioni cambiarie in scadenza e va aumentato di una cifra mal definibile (ma ammontante a molte migliaia di franchi) rappresentata non solo dai debiti a lunga scadenza con la madre, con madame Delannoy, con Laurens con gli editori, ma anche dai piccoli prestiti richiesti dallo scrittore a Dablin, à Nacquart e ad altri amici, e dai forti residui da pagare ancora alla «Chronique de Paris».

  Ora, di fronte a questo imponente passivo, l’attivo di Balzac non è rappresentato, in giugno, che dai diritti d’autore del Lys dans la vallée, conteggiati in un giorno imprecisato del mese (probabilmente fra il 10 e il 20 giugno) nella misura molto rilevante di 6000 fr.. Ma ci si può domandare se tali diritti, i quali, da soli, potrebbero sanare una buona parte del più urgente passivo, siano stati effettivamente sborsati in denaro contante da Werdet allo scrittore. [...].

  In queste circostanze lo scrittore è dunque costretto a far fronte ai pagamenti, che via via gli si presentano, con vari espedienti e, in particolare, con quello della emissione di nuove cambiali e al ricorso di nuovi prestiti. E’ il gioco, che già conosciamo, e che non ci sorprende ormai più se non per la grande abilità che Balzac rivela nel continuare a destreggiarsi con tanta sicurezza nelle tempeste dei propri debiti. [...].

  Il 12 giugno, Balzac, costretto a far fronte ad altri impegni o nella necessità di di-sporre di un po’ di denaro liquido, ipoteca presso Werdet i diritti d’autore per una seconda edizione del Lys (la prima è uscita la vigilia o l’antivigilia del 12 e pur avendo avuto un grande successo, non è stata naturalmente esaurita!) facendosi sottoscrivere dall’editore una cambiale di 1000 fr. [...].

  Nonostante tali circostanze non sembra che Balzac si decida ancora ad un serio, inflessibile piano di economie. Le spese suntuarie, per lo meno, continuano ad essere abbastanza alte e sono, in ogni caso, inammissibili nel quadro di un bilancio finanziario così disastrosamente in passivo. [...].

  Dal carrozziere Panhard, [...] hafatto riparare e mettere completamente a nuovo il suo tilbury [...]. Dal guantaio Bodier, ha acquistato un vero e proprio stock di guanti [...]. Dal calzolaio Bourjat l'ordinazione è di più modeste proporzioni: un solo paio di pantofole che è però il quarto dall’inizio dell’anno!). Ma dal sarto ed amico Buisson, gli acquisti di guardaroba hanno un carattere molto più rilevante [...]. Non meno sensibili sono le spese di carrozza [...].

  In questo frattempo, gli affari della «Chronique de Paris», incerti fin dagli inizi ed avviati, di mese in mese, verso una crisi sempre più accentuata, precipitano ormai dopo cinque mesi di gestione verso un inevitabile fallimento. [...].

  L’ampiezza e le prospettive future delia propria vasta opera narrativa, Balzac potrà contemplarle, alla fine del mese di giugno, con maggiore serenità e con qualche nuovo motivo di fiducia, concluso ormai il processo del Lys dans la vallée e, grazie alla sentenza favorevole del Tribunale, pubblicato finalmente questo romanzo così ambizioso e rappresentativo della propria produzione narrativa.

  Ma all’inizio del mese, l’attesa ansiosa dell’imminente decisione del magistrato provoca serie inquietudini nello scrittore tuttora incerto della conclusione che potrà prendere quest’altra avventura letterario-giuridica le cui complicazioni compromettono in modo così grave prestigio d’artista, dignità umana non meno che affari editoriali. [...].

  La vittoria non potrebbe essere più completa nè potrebbe meglio coronare le speranze dello scrittore. Un lungo capitolo biografico, protrattosi per circa sei mesi, ricco di imprevisti, irto di preoccupazioni, di inquietudini e di colpi di scena sgradevoli, si conclude infine con piena soddisfazione di Balzac. Il quale non è solo libero, ora, di disporre interamente del suo romanzo e di lanciarne la pubblicazione (dalla quale si attende oltretutto un eccellente affare commerciale) ma assiste con gioia alle ripercussioni che la sentenza ha sulla stampa francese e all'obbligo che incorre agli stessi giornali a lui più ostili di dar notizia del proprio successo, sia pure a denti stretti, e di smentire precedenti notizie o previsioni a lui sfavorevoli. [...].

  Due giorni dopo la promulgazione della sentenza, Buloz inserisce nella «Revue de Paris» del 5 giugno, sotto il titolo, Un dernier mot à M. de Balzac, un articolo di eccezionale violenza contro lo scrittore cui nessun insulto è risparmiato. Opera non certo della penna di Buloz, troppo incerta per maneggiare con tanta padronanza lo stile del pamphlet letterario, ma di qualche fidato collaboratore della «Revue» [...], l’articolo si presenta come una risposta all’Histoire du procès. Risposta, comunque, che dal piano della discussione dei fatti o da quello della valutazione letteraria, trascorre ben presto su quello dell’invettiva personale, intessuta di ingiurie, di sarcasmi, di ironie, sapientemente fusi (bisogna riconoscerlo) fra essi in un notevole equilibrio stilistico. [...].

  L’interesse biografico dell’articolo della «Revue de Paris» [...] ci sembra indubitabile. [...].

  Ma quest’articolo presenta anche un altro interesse, che può sembrare a prima vista contrastante col primo, e che è utile qui sottolineare. Ad un lettore attento non può sfuggire come queste pagine insolenti, sotto la maschera di una denuncia dell’abiezione dell’avversario e di una proclamazione della posizione di vincitore morale di fronte a chi ha vinto sul piano della giustizia degli uomini solo per forza d’intrigo o giuoco di fortuna, tradiscono contemporaneamente la presenza di un altro sentimento: l’irritazione malcelata per il grosso smacco subito, contro ogni attesa, dalla condanna del tribunale.

  Il disappunto profondo di Buloz ci è del resto confermato da altri documenti privati che, liberi dalla preoccupazione di dovere salvare la faccia di fronte al pubblico, denunciano con la maggiore sincerità, le risentite reazioni del direttore della «Revue de Paris». [...].

  Qualche giorno dopo, il 4 giugno, da Nohant, George Sand risponde a Buloz con una lettera assai diversa da quella che il direttore della «Revue de Paris» probabilmente s’attendeva. Invece di approvare la condotta e l’articolo di Buloz, la scrittrice non nasconde l’impressione negativa provata nel leggere un documento che, più che costituire la reazione di una dignità offesa, è un atto di vendetta: e di vendetta, per di più, sproporzionata. Senza prendere chiaramente le difese di Balzac, la scrittrice non esita a sottolineare, in modo singolarmente equilibrato e nobile, quanto nella ritorsione di Buloz vi sia di astioso [...].

  [...] gli echi del processo e le stesse diatribe dei giornali che hanno preceduto e seguono ora la sentenza rischiano di tornare a tutto vantaggio dello scrittore: di preparare, cioè, un inatteso e scandalistico successo di vendita al Lys dans la vallée.

  Le pagine conclusive del romanzo, le correzioni di quella parte del testo già pubblicata nella «Revue de Paris», la puntigliosa revisione generale sulle ultime bozze sono, ai primi di giugno, già ultimate o pressoché ultimate; e l’opera, in due volumi, è già sotto i torchi, pronta per la definitiva confezione. A Balzac non rimane pertanto che dare gli ultimi ritocchi alle pagine dell’Histoire du procès che, con un titolo leggermente cambiato, con qualche variante di fondo e con più numerose varianti formali, ha deciso di ripubblicare a guisa di introduzione al romanzo, a più duratura memoria dell’episodio. Corrette [...] queste pagine, pubblicamente inserita la dedica a Nacquart, Balzac prende accordi con Werdet perché il Lys sia messo in vendita al più presto possibile e perché esso sia lanciato, al suo apparire, da una grossa campagna pubblicitaria. [...].

  Il successo del Lys [...] è un grosso fatto reale, e, a giusto titolo, Balzac lo considera un avvenimento capitale di questo primo semestre del 1836. Si tratta, è vero, di un successo incompleto: di un successo, cioè, di pubblico, cui non risponde ancora (nè risponderà in seguito) un successo di critica. Esso è tale, tuttavia, da rassicurare pienamente lo scrittore sul permanere delle simpatie della folla anonima dei lettori per il suo nome, e sulle ancora vaste possibilità di sfruttamento economico che la sua opera gli garantisce. [...].

  La fine del processo, la sentenza favorevole del Tribunale, il rapido successo di vendita del Lys non risolvono tuttavia che una parte — sia pure la più importante — dei grossi e complicati problemi editoriali di Balzac. Senza stare a rifare qui la storia [...] del programma letterario per il 1836, prospettato dallo scrittore a soluzione delle sue difficoltà finanziarie, basterà ricordare pochi fatti essenziali. Il progetto di vendita dei Contes drolatiques è ancora (e rimarrà) in alto mare; gli accordi fra Werdet e Madame Béchet per la cessione dell’intera serie delle Etudes de moeurs sono ancora sospesi; Balzac non ha ancora fatto nulla sia relativamente alla redazione degli ultimi due volumi destinati a concludere l’ultima «livraison» di queste stesse Etudes (ed è l’impegno più urgente, che si trascina da mesi e che ha il potere di esasperare Madame Béchet da cui i volumi sono già stati pagati), sia rispetto alle promesse fatte ai lettori della «Chronique de Paris» non meno che al pubblico delle Etudes philosophiques.

  A corto di ispirazione, sfinito dal lavoro veramente eccezionale dei primi mesi del 1836, tenuto in ansia da preoccupazioni d’ogni genere e specie, Balzac ha dedicato tutto il tempo disponibile della sua giornata alla tormentosa fatica della correzione del Lys, alla redazione della sua conclusione, alla narrazione delle sue disavventure con la «Revue de Paris». Ora. vivendo, come Balzac vive, esclusivamente dei prodotti della sua attività letteraria, questa stasi ormai lunga della sua produzione narrativa e l’arresto di ogni affare editoriale provocano le più gravi ripercussioni nel suo bilancio. [...].

  Nel dubbio che le trattative fra Werdet e Madame Béchet possano riprendere favorevolmente e nell’incertezza di convincere il proprio editore (che forse recalcitra di fronte all’alto prezzo di cessione richiesto da Madame Béchet) a sostituirsi a quest’ultima nei diritti delle Etudes de moeurs, Balzac non ha più alternative. Davanti a lui non resta che la soluzione tanto paventata — e tanto più insopportabile in un momento come questo — di inventare, scrivere, correggere e consegnare un’opera in due volumi di cui sulla carta non esiste nulla o pressocchè nulla. L’idea di realizzare questo sforzo titanico nelle condizioni di spirito in cui si trova, appena reduce da altre battaglie e fra le innumerevoli preoccupazioni che la vita gli riserva ogni giorno, e un’idea che atterrisce anche un uomo della tempra di Balzac. Poiché l’impegno è indifferibile, bisogna cessare dal pensare ad ogni altra cosa, lasciare che ogni altro affare vada come il destino vuole, abbandonare il campo di battaglia (impensabile scrivere il romanzo rimanendo a Parigi) e — particolare trascurabile! – fustigare l’ispirazione che, da mesi, si ribolla al lavoro, sotto la sferza inesorabile della volontà. [..].

  A valutare in tutta la loro gravità queste manifestazioni di reale disperazione, bisogna aggiungere che le preoccupazioni finanziarie, processuali, editoriali ed artistiche, dominanti l’esistenza quotidiana dello scrittore, non sono nemmeno le sole ad occuparne i pensieri nel corso delle settimane di giugno. Come sempre, ad esse si aggiungono quei contrasti domestici che per essere abbastanza permanenti nella famiglia dei Balzac non sono tuttavia meno amari. Il punto più dolente rimane sempre quello dell’esistenza del fratello Henry che, senza arte nè parte, vive con moglie e figli nella più precaria delle situazioni a Les Andelys. In attesa di ripartire per le Indie, ma senza minimamente affrettare i preparativi di viaggio, abulico e scontento, egli continua a creare serie inquietudini alla famiglia e, in particolar modo, alla madre, legata a lui da un affetto quasi morboso. [...].

  Accanto alle preoccupazioni familiari non mancano quelle concernenti Madame de Berny, la sua salute, i complicati rapporti d’affari coi figlio di lei, Alexandre, e, di riflesso, con lei stessa. [...].

  Il mondo sentimentale entro cui si chiudono gli affetti amorosi dello scrittore ci appare, anche in questo mese, per quel poco che sappiamo, abbastanza agitato. Il mistero che continua ad avvolgere gli amori con la «Contessa» non si lascia penetrare che da qualche raro sprazzo di luce: accenni fugaci che, se confermano la permanenza di una passione, sono tuttavia insufficienti ad illustrarcene la vivacità o l’intensità. Alla contessa Guidoboni-Visconti, Balzac ha inviato un esemplare del Lys con una dedica autografa di cui ignoriamo i termini [...]. Una serie di probabili incontri, in casa dei Guidoboni, a Versailles o a Parigi, o in società, fra i due, ha avuto un tale carattere di intimità da sollevare un’ondata di indiscrezioni che, da Parigi, giungono fino in Polonia ... [...].

  Più noti ci sono naturalmente i rapporti con Madame Hanska. Rapporti non molto frequenti, peraltro, e che continuano a segnare quella specie di stasi sentimentali, in atto già da vari mesi. Il carteggio fra i due amanti è infatti, per tutto il mese di giugno, alquanto ridotto e sembra avanzare piuttosto per inerzia e per forza d’abitudine che non per una indispensabile esigenza d’intimità e per un forte legame d’affetto. [...].

  Ma [...] Balzac tiene ancora troppo a Madame Hanska per volere rompere con lei. Considerazioni di vario genere (cui non sono estranei calcoli economici, e neppure un reale affetto che vari anni di intimità hanno reso abituale) impongono allo scrittore di non portare alle ultime, imprevedibili estremità questo contrasto, di essere prudente, di avere riguardi verso la corrispondente lontana, oggi meno amata di un tempo, ma che in avvenire può rappresentare il solo e confortante porto di salvezza. In questo disegno, consapevole o inconscio, egli non dimentica pertanto tutte quelle attenzioni cui sa sensibile l’Etrangère. Ora è la volta della promessa dei propri manoscritti (quello di Séraphita, già pronto da tempo; quello, ora compiuto, del Lys); ora è la volta dell’invio del quadro che Boulanger sta per eseguire. E, poiché le promesse non costano molto, Balzac promette anche un viaggio in Ukraina a breve scadenza; nè esita infine a far ricorso a quei preziosismi verbali (procedimenti stilistici in cui è maestro) che meglio d’ogni altro mezzo, sanno accarezzare carattere e temperamento della contessa polacca. [...].

  Anche la corrispondenza con Louise non solo si è sensibilmente rallentata, ma sembra allontanarsi sempre di più da quei moti di passione o da quelle curiosità di capriccio che l’avevano caratterizzata al suo inizio. L’arco di affetti, raggiunto qualche mese prima il suo apice, e già ormai discendente, continua il suo cammino, se non verso l’indifferenza, verso una cordialità tutta esterna e superficiale. [...].

  Il capitolo della vita sentimentale di Balzac, nel giugno del 1836, non può essere chiuso senza un riferimento ad un nuovo personaggio femminile che, a partire da questo mese, si affaccia in maniera esplicita e precisa nel mondo delle curiosità amorose, sempre all’erta, dello scrittore. Vogliamo parlare di Caroline Marbouty che Balzac invita ufficialmente, intorno alla metà del mese, a seguirlo nel suo viaggio in Turenna e ad accompagnarlo in una progettata escursione di qualche giorno ai Castelli della Loira: viaggio, come tutto lascia supporre, non di carattere esclusivamente turistico o artistico, ma, senza dubbio, motivato da precise intenzioni sentimentali: e non certo tutte platoniche. [...].

  Caroline Marbouty [...] esce dal vago di una semplice conoscenza occasionale e rappresenta, se non una parte di primo piano (come avverrà durante il viaggio a Torino nel luglio e nell’agosto, successivi), una parte che ha già risonanza e rilievo suoi propri. [...].

  E’ molto probabile anzitutto che il comune amico che ha presentato Madame Marbouty a Balzac sia stato Jules Sandeau. Da quanto apprendiamo in Une fausse position, è costui infatti (delineato nel romanzo, in un indovinato ritratto, sotto le spoglie di Henry) che accompagna l’esordio della protagonista nel mondo letterario della capitale, e ne guida, in verità non senza doppiezza, i primi passi. Se così è, potremmo precisare che la prima conoscenza fra la musa di Limoges e Balzac debba risalire al mese di marzo, qualche tempo prima del 20, data dell’improvviso abbandono della rue Cassini da parte di Sandeau [...].

  Di qui a poco il capriccio di Balzac per la «Muse du département» non sarà più solo un pettegolezzo noto ai pochi amici dello scrittore (Sandeau, Regnault), ma diventerà uno spettacolo scandalistico e pseudoletterario cui saranno convitati spettatori di ben altra estrazione sociale. Il sipario, chiuso a Parigi, nell’ambiente passabilmente spregiudicato della redazione della «Chronique de Paris», si riaprirà sulla più austera scena di Torino, davanti alla società più «ultra» e più bigotta degli Stati Sardi!

 

***

 

  Ed un accenno ora, anche in questo mese, alle amicizie di Balzac, Poche e, come sempre, dominate dall’egocentrismo quasi tirannico dello scrittore, esse occupano, tuttavia, almeno nel periodo di cui ci interessiamo, un certo posto nella esistenza balzacchiana.

  Sull’amico più vicino e più fedele, Emile Regnault, non abbiamo purtroppo che scarse testimonianze. [...].

  Notizie ancora più scarse abbiamo di quella cerchia di amici e di conoscenti, appartenenti alla redazione della rivista che Balzac nomina in tutte le lettere, con le sole iniziali o con allusioni letterarie nel brano della lettera ora citato. Nulla di Sandeau, rientrato dalla Brettagna, dopo la fuga dalla rue Cassini, fin dal mese precedente, e con il quale i rapporti si sono ristabiliti amichevolmente. Nulla del «grand Trenrnor», e cioè di Planche, la cui collaborazione critica (musicale ed artistica) alla «Chronique de Paris» si mantiene, nel corso di giugno, molto vivace. E nulla nemmeno dell’«élégant Chaudesaigues» con il quale i rapporti di amicizia si capovolgeranno ben presto in quelli di una spietata avversione.

  Di più sappiamo invece di un altro fedele amico, il pittore Auguste Borget, di cui un certo numero di lettere, indirizzate a Balzac, appartiene appunto al mese di giugno. [...].

  Nonostante il quadro caleidoscopico di progetti e di titoli di opere [...] (Le Illusions perdues, il Cabinet des Antiques, gli Héritiers Boirouge, César Birotteau, La Torpille, Ecce homo), nonostante le promesse che Balzac, come vedremo, ha fatto agli abbonati della «Chronique de Paris» e ai lettori dei suoi romanzi (La Torpille, Qui a terre a guerre) e gli impegni che prende verso se stesso tracciando, nelle prime carte che gli vengono fra mano, appunti di titoli, bisogna riconoscere che la produzione letteraria dello scrittore partecipa, con quella dei due mesi precedenti, ad una certa stanchezza. I progetti sui quali si esercita la sua generosa fantasia sono una cosa; le realizzazioni sono un’altra. E, quanto ad esse, siamo ben lontani dalla resa letteraria, veramente eccezionale, che ha caratterizzato il primo trimestre del 1836 e ne caratterizzerà l’ultimo.

  Di fatto, sotto l’aspetto della produzione narrativa, il mese di giugno segna la data di pubblicazione del Lys che esce, come s’è detto, verso il 10 giugno. Ma si tratta di un’opera già ultimata, definitivamente, nel maggio e di cui, tutt’al più, nella prima settimana di giugno, lo scrittore si è limitato a rivedere, per un’ultima correzione, le bozze del II volume. Più importante è la revisione globale dell’Histoire du procès ... che, già pubblicato nella «Chronique de Paris» del 2 giugno, è reinserita, una settimana dopo, con vari cambiamenti, in testa alla prima edizione del romanzo. Qui il lavoro di revisione assume un carattere abbastanza notevole giacche lo scrittore non interviene solo sul titolo (che, da Histoire du procès ... si trasforma in Historique du procès ...) ma sul testo con un certo numero di nuove aggiunte, con qualche trasposizione di frasi che serva meglio a presentare il concatenarsi dell’argomentazione, con numerose modificazioni particolari: varianti ora puramente stilistiche ora, per così dire, tonali, ora, infine di contenuto, fra le quali è interessante rilevare almeno una precisazione a proposito della propria nobiltà, una nuova messa a punto sulle «catastrofi» provocate sul testo del Lys dalla contraffazione russa e, infine, un nuovo, amaro commento alla famosa dichiarazione sulla contraffazione firmata dai collaboratori della «Revue de Paris» (ed ora integralmente riportata).

  Negli stessi giorni di giugno, Balzac riprende, mette a punto e continua un’altra breve e frammentaria «étude philosophique», Ecce homo (il cui testo iniziale risale a qualche anno addietro), che vede la luce nella «Chronique de Paris» di giovedì 9 giugno, e il cui seguito è promesso, da una nota redazionale della stessa «Chronique», per il numero successivo, e cioè quello di domenica 12 giugno. A tale data nessuna nuova parte del racconto è però pubblicata [...].

  Anche il mese di giugno vede [...] la pubblicazione di ben sette Lettere di politica internazionale che, scritte il 4, l’11, il 15, il 18, il 22, il 25 e il 29 giugno, appaiono nella «Chronique de Paris» dei giorni successivi, domenica 5, domenica 12, giovedì 16, domenica 19, giovedì 23, domenica 26 e giovedì 30 giugno. [...].

  Col mese di giugno, l’accanimento della stampa parigina contro «le plus fécond de nos romanciers» e colui che si chiama o si fa chiamare «la Providence des Revues» [...] riprende con rinnovato fervore e con una violenza ancora più crudele che per il passato.

  Le occasioni, evidentemente, non mancano. Ma l’animosità è così viva che, anche in mancanza di più plausibili ragioni, tutto Serve di pretesto perché, con singolare concordia, giornali e riviste, grandi quotidiani e piccoli settimanali di varietà e spettacoli, periodici illustri e periodici oscuri, si uniscano fraternamente nel lanciarsi contro l’uomo e contro lo scrittore e nell’addentarlo da ogni parte. Il romanziere non meno che il personaggio da romanzo (alludiamo al protagonista della Canne de M. de Balzac); l’uomo di lettere impegnato in un processo, non meno che l’uomo «tout court» con le sue caratteristiche personali e private (siano pure manie, difetti, vanità ridicole) forniscono compiaciuto bersaglio ad una campagna di stampa ora a sfondo letterario ora — ed è il più sovente — a sfondo scandalistico in cui non è difficile vedere un ben concertato intento di malignità. Se infatti Balzac, da una parte, offre facile fianco all’attacco, dall’altra parte è altrettanto vero che anche aspetti ineccepibili dei suoi atteggiamenti scatenano le reazioni più caustiche o di più pungente dileggio.

  Indipendentemente, comunque, da ogni premeditata intenzione di danneggiare a tutti i costi la reputazione dello scrittore, occasioni, si diceva, non mancano; e sono, anzi, di comoda presa. Inutile dire, dopo quanto si è accennato, se i giornali non ne approfittino. V’è, innanzitutto, il processo del Lys che richiama l’attenzione del pubblico e della stampa; e poiché una buona parte di questa stampa non è indifferente alle sollecitazioni di Buloz, l’attenzione alla questione è richiamata in senso tutto sfavorevole per lo scrittore. [...].

  V’è poi la pubblicazione del Lys dans la vallée, il romanzo del processo, che, già così ferocemente stroncato nel suo testo pre-originale della «Revue de Paris» dall’oratoria scintillante di spirito dell’avvocato Chaix-d’Est-Ange, continua a prestare, nella sua edizione in volume un’abbondante messe di censure moralistiche e stilistiche o di caustiche divagazioni a giornalisti in cerca di vittime, a maggior delizia dei loro lettori.

  V’è inoltre — altro boccone particolarmente ghiotto — la recente pubblicazione della Canne de M. de Balzac sulla quale non è certo impresa disperata richiamare sarcastiche riflessioni, commenti umoristici, ironie in abbondanza (senza parlare di giochi di parole, altrettanto spregiudicati, nei riguardi dell’autrice come del personaggio del romanzo). Se Madame de Girardin dovette melanconicamente meditare, leggendo le recensioni cui la sua opera sta dando luogo, sulla inopportunità della propria pubblicazione che le provocava tanti sgradevoli commenti, non è a dire quale dovette essere la reazione di Balzac che aveva già, del resto, preveduto il danno innocentemente provocatogli dall’amica, e che, difatti, esce da ogni recensione della Canne più malconcio e più infangato che mai.

  V’è infine la ristampa in corso delle Oeuvres de jeunesse che, iniziata ai primi di aprile con Jane la Pâle, continua a tener deste la curiosità dei lettori e la penna dei «feuilletonistes» letterari di riviste e di giornali. Su tale ristampa non possono in verità, negarsi del tutto precise corresponsabilità di Balzac e di Souverain: il primo, per avere consentito per ragioni tutte economiche ad una ripubblicazione che non ha alcuna giustificazione letteraria e che non può tornare se non a tutto disdoro del proprio attuale prestigio di romanziere celebre; il secondo, non solo per la grande campagna pubblicitaria che ha sollevata intorno alla ristampa, ma per aver contribuito con tutti i suoi mezzi a rimuovere ogni dubbio sulla vera paternità delle Oeuvres de jeunesse de Horace de Saint-Aubin sollevando ogni velo sul già trasparente pseudonimo dell’autore. [...].

  Bersaglio di così varie mire, Balzac è dunque, nel corso del mese di giugno, al centro dell’attenzione della stampa francese a qualunque partito politico o a qualunque livello culturale essa appartenga; e può conquistare, in tal modo, il poco invidiabile primato di raccogliere, in una quarantina di allusioni, citazioni, recensioni ed articoli critici a lui dedicati, una trentina di testimonianze ferocemente ostili, duramente severe o grottescamente schernitrici.

  I preludi di questo sgradevole concerto di invettive, di giudizi negativi di derisioni e di scherni coincidono solo in parte con l’inizio de mese che fa anzi udire qualche voce in difesa o si esercita in qualche scherzo più innocente. Ma [...] tali preludi andranno intensificandosi in un crescendo sempre più ostile nelle settimane successive.

 

  Segue come Appendice, alle pp. 209-22, la presentazione del testo originale di Ecce homo, «quale può leggersi nel manoscritto autografo conservato al Fondo Spoelberch de Lovenjoul di Chantilly sotto la segnatura A. 63».

 

 

  Raffaele de Cesare, Comédie humaine, La, in AA.VV., Le Muse. Enciclopedia di tutte le arti, Novara, Istituto Geografico De Agostini, Volume terzo, 1965, pp. 373-374; 1 ill.

 

  Sotto questo titolo generale, Balzac riunì, nel 1842, l’insieme dei suoi romanzi, scritti a partire dal 1829 e che, nel 1850, almo della sua morte, raggiunsero il numero complessivo di novantuno.

  Fare la storia di questo complesso narrativo vuol dire dunque ricostruire la storia della creazione artistica balzacchiana per oltre un ventennio, dal preludio alla conclusione, e ricostruirla in tutti i suoi aspetti letterari, attraverso un divenire cronologico che è, al tempo stesso, un evolversi costante di tecniche e di espedienti narrativi, di modi espressivi e tematici.

  In altre parole, il lungo intervallo temporale esistente fra le prime opere di Balzac appartenenti in ordine cronologico alla Comédie humaine e le ultime, crea quella differenza, pressoché incolmabile per ogni scrittore, che si pone fra le opere giovanili e quelle della piena maturità, ed impedendo un discorso di carattere unitario obbliga ad una continua puntualizzazione critica, ad una serie di messe a punto cronologiche che di volta in volta indichino, romanzo per romanzo, l’itinerario narrativo dello scrittore.

  Per parlare della Comédie humaine in questa sede è necessario dunque compiere preliminarmente un arbitrio storico. Prendere cioè l’opera come una ‘unità’ ed esaminarla in un tempo unico, come se essa fosse nata di getto dal cervello dell’autore e non in un ventennio di attività che inizialmente prevedeva la completa autonomia di ogni romanzo e, più tardi, organizzazione diversa da quella che fu la definitiva. Una considerazione rende quest’arbitrio più lecito. Nel corso delle successive, numerose riedizioni dei propri romanzi, Balzac ne ha corretto, modificato i testi; infine, ha operato un’ultima revisione nell’atto in cui essi venivano inseriti nella Comédie humaine e, in tal modo, la distanza iniziale si è andata attenuando, l’aggiustamento del quadro alla cornice si è fatto meno impreciso. Ma tutto ciò più da un punto di vista stilistico che non sostanziale. Onde le differenze strutturali e tematiche permangono nè annullano l’arbitrio storico di cui ci è toccato preliminarmente avvertire la responsabilità.

  Considerata dunque, solo per necessità di esposizione, la Comédie humaine come un organismo unico, la prima osservazione da fare è che questo gigantesco complesso narrativo si articola in tre grandi ripartizioni di ineguale ampiezza: una prima, intitolata Études de moeurs, una seconda intitolata Études philosophiques, ed una terza, Études analytiques.

  Le Études de moeurs, che costituiscono la sezione più sviluppata del trittico, si suddividono a loro volta in sei ‘scene’: le Scènes de la vie privée, de la vie de province, de la vie parisienne, de la vie politique, de la vie militaire e de la vie de campagne.

  Appartengono alle prime ventotto romanzi di diverso carattere e proporzioni. Taluni di essi sono piuttosto racconti brevi o novelle che si raccolgono intorno alla narrazione di un episodio centrale di netto accento psicologico, e sono ammirevoli per l’essenzialità della loro struttura e per l’armonia classica delle loro proporzioni (Le Bal de Sceaux, La Bourse, Étude de femme, Le Message, La Femme abandonnée, La Messe de l’athée, L’Interdiction, ecc.). Altri creano il ‘genere’ del romanzo di costume e di carattere, più ampiamente sviluppato attraverso numerose avventure ed entro una descrizione più insistita di ambienti storici e geografici (Albert Savarus, Le Colonel Chabert, Honorine, Béatrix, il notissimo Père Goriot) e costituiscono anch’essi luminose testimonianze della narrativa balzacchiana. Altri, infine, si inseriscono in una tradizione romanzesca operante fin dal XVIII secolo (i Mémoires de deux jeunes mariées, lungo romanzo epistolare che ripercorre nella struttura ed in parte anche nella ispirazione sensible l’itinerario di un J.-J. Rousseau, o La Femme de trente ans, coacervo dei più disparati elementi narrativi, intimistici, avventurosi, terrificanti, ecc.), e questi ultimi, dove l’originalità balzacchiana è più nei particolari che non nel disegno generale, rappresentano la parte più caduca delle Scènes de la vie privée.

  Appartengono alle Scènes de la vie de province dodici romanzi. Le proporzioni narrative di essi sono però generalmente più ampie di quelle delle opere costituenti le Scene della vita privata. Vi mancano sostanzialmente (ove si eccettui L’Illustre Gaudissart, scherzoso profilo di un viaggiatore di commercio) i racconti brevi tanto numerosi nella prima sezione. I romanzi, analoghi per dimensioni al Père Goriot, vi abbondano invece e partecipano anche qui alla novità della formula balzacchiana di dar rilievo ad un carattere immerso in una società ed in un preciso quadro storico-geografico (la Provincia), e di scoprirlo in ogni sua piega psicologica. Ancora una volta essi costituiscono i più autentici capolavori di queste scene (se non forse, la troppo celebrata Eugénie Grandet, capolavori sono certo il meno noto, ma perfetto, Curé de Tours, La Muse du Département, La Vieille Fille). A sé, non tanto per le proporzioni press’a poco identiche a quelle dei romanzi precedenti, né per la dominante intenzione psicologico-costumistica, ma per la novità di espedienti espressivi e per le ambizioni ‘angelistiche’ affioranti nella raffigurazione del contrasto fra l’amor platonico e quello sensuale, sta il Lys dans la vallée, opera suggestiva, ambigua ed inquietante che fonde curiosamente il meglio ed il peggio di Balzac. Escono viceversa da questi quadri strutturali per approdare alle rive del romanzo-fiume le Illusions perdues, vasta trilogia (Les Deux Poètes, Un grand homme de province à Paris, Les souffrances de l’inventeur), le cui avventure si incatenano in nodi molteplici, i luoghi dell’azione ci trasportano dalla provincia a Parigi, gli avvenimenti si prolungano nel tempo, e di cui le disuguaglianze artistiche (imputabili in parte ai diversi tempi di redazione) non distruggono peraltro l’altissimo valore di epos contemporaneo. Lucien de Rubempré, «eroe dei nostri tempi», e Vautrin, il fuori-legge ribelle, sono gli indimenticabili protagonisti di una educazione sentimentale cinicamente conclusa.

  Delle Scènes de la vie parisienne fanno parte diciannove romanzi diversi non solo nelle proporzioni strutturali (Sarrasine, Facino Cane, Un prince de la Bohème, Les Comédiens sans le savoir, novelle di poche decine di pagine, si affiancano ad interminabili romanzi in più volumi come Splendeurs et misères des courtisanes), ma anche come impostazioni tematiche e come sfondi ambientali. Se Parigi è la protagonista, abbietta o santificante, squallida o eroica di numerose vicende e se nell’atmosfera della capitale — misterioso habitat di vizi e di virtù — sono immersi i personaggi della maggior parte di queste scene, altrove l’inquadratura parigina si dissolve alla descrizione, compiaciuta e quasi tecnica di un fenomeno sociale pressoché avulso dalla cornice storica: fatto di tutti i tempi moderni e di tutte le latitudini geografiche come la Burocrazia e l’Alta Banca (Les Employés, La Maison Nucingen). E, ancora, di fronte al romanzo di intenzioni più scopertamente realistiche e dal carattere quasi poliziesco (Splendeurs et misères des courtisanes e, soprattutto, La dernière incarnation de Vautrin) si pone il romanzo intimistico, tutto raffinatamente giocato sull’analisi sottile ed ambigua dei sentimenti (Les secrets de la princesse de Cadignan).

  Notevolmente più ridotte le restanti tre Scene che qui raggruppiamo per ragioni di brevità: le Scènes de la vie politique, composte di un romanzo ben dosato nei suoi momenti di suspense (Une ténébreuse affaire), di un suggestivo romanzo rievocante chiaroscuralmente i misteri parigini (L’Envers de l’histoire contemporaine), di un frammento (Le Député d’Arcis) e di due brevi racconti (Un épisode de (sic) la Terreur, Z. Marcas); le Scènes de la vie militaire, rappresentate solo dai giovanili e ‘romantici’ Chouans e da una ambigua e mediocre novella (Une passion dans le désert); le Scènes de la vie de campagne, raggruppate intorno ad un lungo frammento (Les Paysans) e ad altri due romanzi: il troppo celebre Médecin de campagne, il meno noto, inorganico, ma in alcuni episodi di alta potenza drammatica e di sconcertante modernità, Curé de village.

  Un discorso ancor più rapido è da farsi per la seconda componente della Comédie humaine, Les Études philosophiques, raccolta di una ventina di romanzi, per lo più molto brevi, che difficilmente possono ricondursi ad unità organica, tematica ed artistica. Opere alquanto ambiziose nei loro contenuti pseudo-filosofici, esse assumono una evidenza poetica tanto maggiore quanto meno incombente è in loro un messaggio di pensiero. Onde scarso significato d’arte hanno i troppo citati Peau de chagrin e Louis Lambert, nessun rilievo ha Séraphita, mentre più degni di nota sono Massimilla Doni, Gambara, La Recherche de l’Absolu e, forse ancor più, Le Réquisitionnaire e L’Auberge rouge, di singolare tensione drammatica. Ma qui, ed in qualche altra novella, l’aggettivo philosophique si identifica con quello di fantastique.

  Un cenno solo, per concludere, merita infine l’ultima ripartizione, Les Études analytiques, ancor meno unitaria delle precedenti, rimasta ad uno stato informe, e di cui fanno parte solo due spregiudicate ‘inchieste’ sociali: la giovanile Physiologie du mariage, le tarde Petites misères de la vie conjugale.

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. H. de Balzac, “Correspondance”. Textes réunis, classés et annotés par Roger Pierrot, Voll. 2 e 3, Paris, Garnier, 1962-1964, «Rivista di Letterature moderne e comparate», Firenze, Vol. XVIII, fascicolo I, marzo 1965, pp. 52-56.

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. H. de Balzac, “César Birotteau”. Introduction, notes, bibliographie et choix de variantes par Pierre Laubriet, Paris, Garnier, 1964, «Studi Francesi», Torino, 26, Anno IX, fascicolo II, maggio-agosto 1965, pp. 303-306.

 

 

  Carlo Cordié, Balzac, «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», Firenze, Vol. XVIII, fasc. 4, dicembre 1965, pp. 316-317.



  Marie-Thérèse Cotella, Une Œuvre de Jeunesse de Balzac : Wann-Chlore (De l’édition originale (1825) à l’édition Souverain (1836). Tesi di laurea. Relatore: prof. Raffaele de Cesare, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1965.


 

  N. de Csilaghy, L’ascesa borghese nel “Mercadet” di Balzac, «Nazione Sera», Firenze, 5 novembre 1965.

 

 

  G.[ino] D.[amerini], Mercadet di Balzac al Teatro Stabile di Bolzano, «Il Dramma. Mensile di commedie di grande interesse», Torino, 41° anno, N. 350-351, Nov.-Dicembre 1965, pp. 58-59.

 

  Mercadet, le Faiseur, commedia in tre atti di Honoré de Balzac (1799- 1850) rappresentata nel 1840. Fra la ridda di capolavori in nuce cui Balzac pose mano nel 1838, è il Mercadet, una delle commedie che rappresentate avrebbero dovuto, secondo lui, rendergli subito oro a palate; che abbozzò, ma che abbandonò immediatamente in un cassetto. La riprese per mano e la portò a buon fine alla vigilia del suo viaggio per l’Ucraina ove si recava a sposare, finalmente, la ricchissima, così credeva, madame Hanska. Un decennio era trascorso; ed egli già teneva un piede nella fossa. Sebbene la «pièce» fosse stata accettata alla «Comédie» con i più lieti pronostici, Balzac non poté seguirne il destino, egli morì infatti un po’ prima che la ponessero in scena.

  Della lettura di Mercadet, divenuto Le Faiseur, ai comici, colui che ne sarebbe divenuto il protagonista esclamò enfatico che «essa gli aveva dato una chiara idea della irresistibile potenza di un genio». Ad ascoltarla, Théophile Gautier ebbe, a sua volta, l’impressione dominante che si trattasse di una rissa infernale nella quale i creditori sbucavano da ogni parte da sotto il letto, da dietro le stufe, dal buio degli armadi, dalla cappa del caminetto, dalle finestre come gli amanti. Mercadet aveva un bel respingerli lottando contro tutti, la ressa si rinnovava, altri creditori sopraggiungevano all’assalto, e si aveva la sensazione che, fuori, essi formassero un formichio interminabile fino all’orizzonte. Gautier riassumeva, così, pittorescamente il clima nel quale il terribile autore aveva vissuto, durante un decennio, insieme a quell’affarista che, come lui, per superare lo stato in cui si era ridotto continuava a immaginare e a intraprendere speculazioni formidabili e a mancare intanto le migliori occasioni di ogni genere.

  Mercadet o l’Affarista andò in scena postumo, nel ’51 al «Gymnase» e fu considerato come «uno studio vigoroso dello spirito delle speculazioni moderne». Riportò un successo trionfale, influenzato questo dal dolore per la perdita recente dell’insuperabile scrittore e tenne a lungo il cartellone. Ma la gloria vera del dramma cominciò diciassette anni appresso, nel 1868, quando, ripreso al Théâtre Française (sic) parve — grazie proprio a quelle che erano state ritenute dianzi le sue solite esagerazioni «di un realismo profetico». Da allora Mercadet o l’Affarista rimase nella storia del teatro e della letteratura drammatica come il prototipo dell’inizio di un’epoca, di un costume, di un carattere rappresentativo (e di un centinaio di imitazioni spudorate); ogni giorno più collaudato dall’evolversi di una civiltà finanziaria e di una economia avventurosa, che l’autore della Comédie Humaine aveva realmente precorso.

  Il Mercadet del «Gymnase», a causa delle sue audacie, era stato manomesso, in parte, da un «faiseur» di altro genere; il D’Ennery; le manomissioni non cessarono poi mai più, specie ad opera dei «mattatori» che mettendolo in scena presero a ridurlo a seconda delle proprie necessità di emergere come interpreti; riduzioni tanto più pericolose e disastrose quanto più gli interpreti si ritenevano grandi. Mercadet ha tentato la regìa di Fantasio Piccoli, direttore del Teatro Stabile di Trento e Bolzano, che lo ha affidato alle cure di un applaudito autore di teatro come Carlo Terron che ne ha individuato ottimamente la originalità ed ha, diciamo così, rinfrescato nella nostra lingua il testo con aggiustamenti non inquietanti. Nino Besozzi ha assunto i panni dello «speculatore alquanto disinvolto» rifacendone, anzi scolpendone la figura con la sua arte composita di caratterista, di brillante e di primo attore; varia, perciò; ricca di risorse, di spunti satirici e di particolari psicologicamente incisivi. Lo spettacolo è stato allestito dal Piccoli con il consueto impegno. Ambientato opportunamente con scene e costumi su bozzetti e figurini di Tito Varisco, lo hanno recitato insieme al Besozzi festeggiatissimo, con giuste intonazioni la Goel e la Bertacchi, le due donne di casa Mercadet, il Gennari, il Gusso, il Paiola, il Marelli, il Travaglini ed una folla di altri affiatati attori, tutti ripetutamente chiamati e applauditi al proscenio dopo ciascuno dei tre atti.

 

 

  Luigi Fabrizi, Ha riaperto i battenti l’unica casa dello scrittore rimasta in piedi. I parigini riscoprono Balzac nelle quiete domeniche di Passy, «L’Italia», Milano, 2 marzo 1865.

 

  Persone di ogni età e condizione si recano in questi giorni a visitare la vecchia dimora dalle pareti tappezzate di pagine famose ma anche di fatture, tratte e cambiali: l’oceano delle quotidiane miserie, ma che spronava al lavoro.

 

  Monsieur Honoré De Balzac ha ripreso a ricevere nella sua casa di Passy. Dopo essere rimasta chiusa lungo tempo per restauri la «Maison de Balzac» ha riaperto i battenti. In un momento – si deve aggiungere – particolarmente propizio: André Maurois ha appena licenziato alla stampa «Prométhée ou la vie de Balzac», monumentale biografia che risulta da lunghi anni di studio; e intanto decine, anzi centinaia di migliaia di francesi riscoprono il genio romanzesco dell’autore della «Commedia umana» leggendo «Eugenia Grandet» e «Splendori e miserie delle cortigiane», ripubblicati in «Libres (sic)de poche».

  Anche la critica letteraria è della partita, e cerca di sfuggire al «néant» del «nuovo romanzo» riesplorando con impegno quell’immenso museo di zoologia umana che è l'opera balzachiana. Avviene così che persone di ogni età e condizione sociale, sospinte da curiosità antiche o recenti, si mettano a cercare nelle quiete domeniche di Passy la casa di Balzac, un tempo quasi sperduta fra vigne basse e case di pietra ed oggi stretta fra «hôtels particuliers» costruiti al tempo del barone Haussmann e palazzi residenziali più recenti. Oggi la casa – una delle tante abitate da Balzac nella zona sud-ovest della capitale, fra l’attuale Place di Jena e la banlieue di Sèvres, ma la sola rimasta in piedi – è trasformata in museo.

  Un museo però casalingo, che non ha nulla di freddo e di malinconico, anche se i mobili e gli oggetti che riempivano le stanze adesso semivuote, rintronanti di passi e di scricchiolii, sono stati dispersi nelle aste volute dai creditori impazienti. Non fredda e non malinconica, la casa, perché basta sospingere i battenti che s’aprono cigolando sui minuscoli interni bagnati della luce verde del giardino, ed indugiare a guardare i cimeli pazientemente raccolti – siano i ritratti delle donne amate, o le prove di stampa dei romanzi, o i piccoli bronzi arguti del Ripert raffiguranti i personaggi della «Commedia umana», l’ambiguo Vautrin o l’ossuto Père Goriot – per avvertire ancora la calda presenza di Balzac.

 

Una presenza.

 

  Non un fantasma indefinito nelle ombre del tempo, ma lui vivo in carne ed ossa, come lo raffigura il gesso del D’Angers, solido e monumentale, vestito dal saio domenicano che era la sua divisa di lavoro, i capelli spioventi sul collo taurino, l’ampia fronte con le arcale robuste delle sopracciglia. Natura impetuosa straripante, Balzac non era uomo da allontanarsi in punta di piedi, da sparire in silenzio; ed eccolo ancora, di fatti, all’appuntamento con i visitatori. Se uno schermo di piombo copre come adesso le ultime frange di luce del cielo carico dei vapori della Senna, e il nero di una falsa notte invade, in questo pomeriggio d’inverno, il piccolo studio attiguo al giardino, lo si può ancora rivedere al lavoro, curvo sui fogli, intento ad animare al lume delle candele quell’universo di angeli e di demoni che l’abitava, forzato della penna, inchiodato al tavolo dal suo genio e dal suo orgoglio, spirito inquieto che si consumava per la gloria e per i creditori.

  Durante sette anni Balzac abitò questa casa di Passy. affittatagli sul finire del 1840 da monsieur Etienne Desiré Grandemain, macellaio del villaggio, e durante sette anni attese

alacremente, lavorando soprattutto di notte dopo poche ore di sonno, alla compilazione dell’ultima parte della «commedia umana». Qui nacquero «La rabouilleuse», «Une ténébreuse affaire», «Sur Catherine de Medecis» (sic), «Mémoires de deux jeunes mariées», «Splendeurs et misères des courtisanes», «La cousine Bette»: qui nacque il romanzo contemporaneo agitato di volti e di passioni, specchio e tribunale della società, galleria di vizi e di virtù. E adesso che una lama di luce sfuggita alla nuvolaglia penetra nella stanza e rischiara la grande poltrona vuota, Balzac ha lasciato cadere la penna, ha spalancato la finestra, sbadigliando ha salutato l’alba. Dov’è il sogno? Nella stanza dove i personaggi svaniscono sorpresi dalla luce, o nel mondo che si sveglia oltre i pioppi del giardino, con il vicino mercato che l’anima di voci e di odori e la piana di Grenelle riecheggiante delle schioppettate dei cacciatori, fra le sponde sabbiate della Senna e le colline rosse di Meudon?

  Il paesaggio è stato divorato dal cemento dei quartieri periferici e dalla ferraglia delle fabbriche, ma la casa i rimasta intatta. Ed è così, minuta e disadorna da parere irreale, perché sembrerebbe impossibile che Balzac il magnifico, l’artista che descriveva dimore principesche e vantata i tesori delle sue collezioni, si fosse rassegnato ad abitare fra queste rustiche mura, dove l’alba era annunciata dal canto del gallo.

  Ma la seconda natura di Balzac – quella contadina, ereditata dagli antenati del Midi – finiva per accomodarsi a meraviglia con l’ambiente agreste di Passy, che gli offriva la quiete indispensabile per il suo lavoro e gli faceva meglio assaporare le scorribande nei salotti e nei teatri della capitale. Balzac, del resto, doveva fare di necessità virtù, e considerare la casa di Passy come un rifugio provvidenziale contro i creditori, che lo perseguitavano dall’epoca del clamoroso fallimento della sua stamperia in rue des Marais-Saint Germain. «Je n’ai que ma plume pour vivre et pour payer cent ving-cinq (sic) mille francs», constatava amaramente nel 1828, dopo aver chiuso bottega.

  La casa di Passy era stata prudentemente intestata a m.mme (sic) de Breugnol. la fida governante, e per accostare Balzac il visitatore doveva pronunciare una segretissima parola d’ordine. Accadeva però che qualche creditore si impadronisse del «mot-de-passe» ed allora al padrone di casa non restava altro scampo al di fuori di un’uscita dissimulata nel corridoio, di dove poteva fuggire per i campi. Le manovre dello scrittore per tenere nascosta la propria identità non mancavano, pubblicamente, di giustificazioni: desiderio – egli scriveva – di sottrarsi alle corvées della fama e necessità – aggiungeva – di sfuggire alle ricerche delle autorità per costringerlo a prestare, con la plebaglia, il periodico servizio nella guardia nazionale.

 

Molti debiti.

 

  Disgraziatamente per Balzac la posterità è meglio informata. Le pareti della casa di Balzac sono tappezzale, oltreché di lettere d’amore e di pagine di capolavori, di fatture, tratte e cambiali: “oceano delle quotidiane miserie ma il pungolo, anche, che lo costringeva a lavorare tanto alacremente. C’è sottovetro, nella casa di Passy, il frontespizio manoscritto del «Pere Guriot» (sic) cominciato in bellissimo corsivo inglese e terminato con una ridda di cifre: le scadenze che venivano a tormentare Balzac anche durante la creazione letteraria. La sola cosa di cui si è certi nella vita — aveva scritto nello stesso «Pere Guriot» – è l’arrivo di una cambiale in scadenza».

  Se non erano i vecchi debiti erano le nuove follie: fatture di antiquari dai quali aveva acquistato bibelots e canne da passeggio degni del Rotschild, note di mercanti per forniture catastrofiche (sessanta paia di guanti in sei mesi), lettere di sarti che sollecitavano il pagamento dei loro servizi (soltanto il tailleur Buisson era paziente, ma Balzac gli faceva pubblicità citandolo qua e là nella «Comédie humaine»). Maggio 1835: quattrocento franchi per il noleggio di un calesse onde volare a Vienna. E rovinosi acquisti, in quantità stupefacenti, delle miscele più fini di caffè per le sue voglie notturne: Moka, Bourbon, Martinique. Balzac continuava a credere, con un candore disarmante, che un giorno sarebbe riuscito a mettere un termine alle sue «Fracasseries», e per questo imbastiva improbabili speculazioni immaginava avventurosi affari. Come fa fede il passaporto — anch’esso sottovetro — sollecitato per recarsi in Sardegna e riaprire le miniere di Cagliari sfruttate in antico dai romani. Senonchè chiacchierò lungo il viaggio e di lui, arrivò prima.

  I caricaturisti — Delacroix, Baumier (sic), Roubaud – s’attaccavano volentieri al suo «donchisciottismo» e l’apparentavano agli altri «illuminati» dell’epoca, George Sand e Théophile Gauthier (sic), Victor Hugo ed Eugène Sue. Victor Hugo al quale – rivela il verbale ingiallito – Balzac doveva l’unico voto toccatogli, nel 1847, per l’elezione all’Académie. Ma accanto al personaggio caricaturato dalle matite dei pittori e dalle circostanze avvilenti della vita, c’è qui il Balzac dei sogni d’arte: quello che nel 1845, quando gli restavano appena cinque anni da vivere, annotava in un foglio trenta titoli, quante erano le storie che avrebbe voluto ancora scrivere.

 

Un’epigrafe.

 

  Novantasei volumi della «Comédie humaine», dieci romanzi di gioventù, sei drammi e commedie, centinaia di racconti, articoli, opuscoli polemici, un epistolario immenso. E mai un momento di abbandono o di rifiuto davanti alla vita. Su tutto questo il giudizio di Emile Zola, che una mano ha trascritto in un angolo della casa-museo di Passy: «Anche se, in un lontano futuro, una qualche bufera distruggesse la nostra lingua e la nostra civiltà, i resti della «Commedia umana» farebbero, per terra, un tale ammasso che non si potrebbe non dire, guardandoli: Là dormono le rovine del mondo».

 

 

  Ercole V. Ferrario, I grandi malati. Honoré de Balzac, «L’Illustrazione del medico», Milano, Anno XXXII, N. 212, Febbraio 1965, pp. 1-4; 1 ill.

 

  Nella pleiade degli scrittori francesi dell’800 i personaggi si sprecano, sia per quanto essi cercarono di rappresentare, sia per quanto lo furono davvero a loro insaputa; ma ce n’è uno che tutti li sovrasta, perché infinitamente più personaggio di loro, come di tutti i personaggi che egli stesso sbalzò nelle sue pagine. Lo fu con spontaneità, al di fuori d’ogni convenzionalismo di mode e d’ambiente, con un’estrosità di comportamento, che gli derivò in parte dalla vita, in parte dal suo formidabile, ipertrofico temperamento: Honoré de Balzac.

  Anatole France, intelligente distruttore e genialissimo malevolo, con la cattiveria propria che deriva dall’estetismo, lo avvicinò per primo all’«illustre Gaudissart». «Balzac mi fa paura; è grosso, pesante, sudante, confuso, volgare. Ha il gusto — egli dice — delle tirate politiche e delle freddure; è l’illustre Gaudissart. Un commesso viaggiatore di genio». Ma Honoré fu tutto ciò e tant’altri ancora, perché si divise in cento, mille tipi diversi, ognuno dei quali conserva qualcosa del suo aspetto, una traccia della sua personalità, del suo carattere, del suo modo di essere, così che possiamo rintracciarlo quasi ad ogni pagana della Comédie humaine, e rappresentarcelo sempre più complesso, sempre più individuato ed in certo qual modo sempre più sfuggente. Proprio, perché c’è in lui quel guazzabuglio di qualità e contraddizioni che fa di ogni uomo di genio un tipo definibile sotto certi aspetti, ma impossibile da captare sotto altri, come una moneta dal rovescio perennemente cangiante.

  Velleitario all’inverosimile, ma con una volontà d’acciaio, così da passare durante la sua migliore stagione interminabili ore, dalla mezzanotte al mattino inoltrato, a vergare pagine su pagine, seduto al tavolino, o più semplicemente accovacciato sul letto. Borghese fin nel midollo, ma implacabile dissezionatore della sua classe, della quale sollevò le tende più segrete e dal rimescolio del cui sottofondo trasse, per posarcele poi davanti diritte e definite per sempre, le figure più sconcertanti. Pigro, di una pigrizia sciatta e talvolta tediosa, ma lavoratore inesauribile; astinente durante lunghi periodi di più intensa attività letteraria, ma con una vita costellata di amicizie femminili non precisamente platoniche (gli sono attribuiti almeno due figli naturali). Teorico della finanza ed indebitato fino al collo, così da cacciarsi in un ginepraio, inestricabile ai creditori, agli avvocati, ai parenti e persino a lui stesso. Alieno dai piaceri del vino e della mensa e capace di scolarsi quattro bottiglie di Vouvray (chi l’ha provato sa cos’esso valga!) durante una cena, e per tutta la vita accanito consumatore di caffè in dosi cavalline. Legittimista, pone la candidatura politica l’indomani della rivoluzione del ’48; qui però bisogna dire che quel tipo di avventura, tentato invano anche precedentemente, volle per lui solo rappresentare un mezzo per sistemare certi suoi affari. Vanitoso, ma non superbo e sempre buon camerata; fondamentalmente onesto, fu invece costretto a inventare scappatoie da Mercadet per eludere i debiti e sfuggire all’accerchiamento dei creditori. Gioviale e fratacchione con gli amici, nell'intimità svela un’umanità dolente e sensibilissima. Esuberante e pieno d’humor, ottimo attore di se stesso, talvolta scompare dalla circolazione per lunghi periodi, un po’ per poter lavorare sodo ed in tranquillità, un po’ per improvvise crisi di stanchezza e depressione. Balzac insomma fu un po’ di tutto; il diritto ed il rovescio, la destra e la sinistra, e là dove non gli fu concesso nella vita lo divenne nella trasposizione letteraria di se stesso negli innumeri personaggi della sua opera. Del resto doveva essere così, perché egli volle rappresentare il costume del suo tempo in tutti i suoi aspetti, i più chiari come i più sconcertanti; lo volle di proposito, sembrandogli che ad altre epoche proprio questo mancasse, la parte più viva cioè, quella su cui in definitiva si muove la storia, la commedia umana appunto.

  Vissuto nel periodo del più vigoroso romanticismo, non fu un romantico; ma sbaglierebbe anche chi volesse classificarlo un realista, meglio l’inventore di questa maniera. Fu soltanto Honoré de Balzac, cioè se stesso, e non per una problematica interiore, ma perché tale era la sua natura ciclopica. E mi pare che non sia poco.

  Honoré nacque il 16 (sic) maggio 1799 in Turenna, la deliziosa provincia con i castelli a specchio sulla Loira e la Cher, patria di Ronsard e di Rabelais; per l’esattezza vide la luce nella sua capitale, la gloriosa Tours, dove il padre, Bernard, era giunto due anni prima come funzionario del commissariato militare. Curioso tipo questo Balzac senior, buon navigatore tra le secche e le tempeste dei tempi e che, a cinquantun anni, non indietreggiò dal matrimonio con una diciottenne, Anne Charlotte Laure Sallambier, anch’essa discendente da fornitori dell’esercito. «Mentre i Sallambier — scrive l’Arcari — sapevano far di conto come si deve, Balzac padre almanaccava volentieri con estrosa fantasia sulle tontinarie, ma, in definitiva, confluivano in Onorato, da tradizioni paterne e materne, convinzioni sostanzialmente concordi». Un ambiente tipicamente borghese che, familiare fin dall’infanzia, consentirà poi al romanziere di penetrare fino in fondo all’anima della sua classe, di affrontare tutte le faccettature, di apprezzarne o condannarne gli equilibrismi e gli egoismi, ma che allora non gli seppe dare quello che un bimbo cerca sempre disperatamente: l’affetto, specie quello materno. Anne del resto era essa stessa più ragazza che madre, bella e vezzeggiata non soltanto dal marito, mentre Bernard un uomo che, già oltre le soglie della maturità, aveva altri interessi da curare al di fuori di quelli familiari. Dei due comunque si rivelò miglior genitore il secondo.

  Morale: baliatico a Saint Cyr fino ai cinque anni, presso la moglie d’un gendarme, tre anni di esternato presso la pensione Le Guay, a Tours, poi dal 1807 al 1813 interno al collegio oratoriano di Vendôme, senza mai far ritorno a casa e dove sua madre andò a visitarlo soltanto due volte in sei anni.

  Ma la disciplina di ferro e la frusta per la minima marachella su un temperamento di sognatore, ma anche di ribelle, come quello del piccolo Honoré, ottennero risultati esattamente opposti a quelli sperati. Infatti fu tutt’altro che un modello, si può dire anzi il classico «lavativo», con la testa nelle nuvole ed attento a tutt’altre letture che a quelle proposte dai vigili precettori. Il che fece emettere nei suoi confronti il solito sbrigativo giudizio di buono a nulla che i pedagoghi poco intelligenti, spesso con loro grave scorno, tengono in riserva per i ragazzi che, scarsamente ossequienti ai loro burocratici insegnamenti, dimostrano indipendenza di carattere e fantasia. Risalgono infatti a quegli anni i suoi primi tentativi letterari, malamente finiti con la confisca del manoscritto. Risultato del periodo collegiale fu «una febbre nervosa, una specie di coma — scrive il Gautier — inesplicabile per i professori, che non erano al corrente delle letture e dei lavori del giovane Honoré, in apparenza ozioso e stupido».

  Alla famiglia, dopo sei anni, verrà restituito un ragazzo pallido e svagato, o meglio, per dirla alla moderna, affettivamente scompensato. Honoré di quella triste esperienza dell’adolescenza, del periodo cioè più sentimentalmente travagliato, terrà sempre responsabile la madre, la quale non avrà mai, non solo la comprensione del figlio, ma neppure il perdono, anche se in qualche momento egli sembrerà dimostrarle un tiepido affetto. Per fortuna l’aria di Saché, dove soggiornò presso i Margonne (il signor di Margonne fu il padre naturale di Henry, l’ultimo dei Balzac) gli ridarà presto i suoi antichi colori e la gioia di vivere, così che di quel periodo conserverà sempre un grato ricordo, tanto che in seguito, quando volle lavorare tranquillo ed in ambiente profittevole alla salute, tornerà più volte in questo luogo della giovinezza, riportandone ogni volta piacere e centinaia di fogli manoscritti.

  Chiusa la breve vacanza, compirà il liceo, dopo un intermezzo a Tours, in Parigi, dove proseguirà poi gli studi alla facoltà di diritto alla Sorbona, contemporaneamente facendo pratica presso un notaio.

  Ben presto però l’antica passione lo riprende, così che, finiti i corsi, invece d’iniziare quella carriera che il padre vorrebbe, si ritira in un abbaino che guarda sul plumbeo mare dei tetti parigini e dà sfogo, per ora maldestramente, ai suoi desideri letterari. E’ il periodo romantico del giovane: «tre soldi di pane, — scriverà poi di Raffaele, nella Pelle di Zigrino, ma riferendosi a se stesso — due di latte, tre di salumaio mi impedivano di morir di fame, concedendo alla mia attenzione uno stato di singolare lucidità». Risparmio all’osso, in totale diciotto soldi al giorno, tenendone due di riserva per gli imprevisti. E’ il periodo della preparazione, delle letture disordinate che fermentano poi, è una specie di Tebaide cittadina in cui matura la sua formazione, in cui si sbozza la sua genialità. A trarlo dall’isolamento sarà Laure de Berny, la dilecta, di vent’anni maggiore di lui e con diversi figli. Essa gli sarà amante, madre, trepida consigliera, tutto, cercando di colmare quel vuoto affettivo che il giovane trascinava dall’infanzia; sarà anche l’ispiratrice dell’amore della mezza età femminile, che Balzac porterà trionfalmente nelle lettere, prolungando gli anni della passione e dando loro una misura ed una valutazione sconosciute a romantici ed illuministi.

  Presto però la prima impennata, perché il problema del denaro urge ed Honoré vuol risolverlo in fretta, con la stessa rapidità della sua classe cui, con le opere pubbliche, i traffici e l’industria nascenti, le tasche vanno riempiendosi d’oro. Balzac di tutti fu buon giudice, mai di se stesso e, poveretto, con le sue imprese editoriali e tipografiche si scaverà presto una fossa tale, da cui non gli sarà più possibile uscire, perché i debiti andranno progressivamente cumulandosi e gli usurai diverranno la peste del resto dei suoi anni. Perché alle obbligazioni contratte allora altre andrà sempre aggiungendone, e sotto forma di interessi e come conseguenza di una vita stranamente aggrovigliata dal lato amministrativo. e sempre oscillante tra le più disparate ambizioni. E’ vero che di tutto ciò sa ridere, perché la sua natura morale è profondamente sana, però non gli sarà più possibile da allora di godere un attimo di vera pace e di distensione integrale. E poiché in definitiva non ha altra risorsa che quella dello scrivere, finirà con il diventare un forzato delle lettere (cinquantotto romanzi, un mare di novelle e di altri scritti), perennemente in ritardo con le richieste degli editori, perennemente ossessionato dall’intransigenza dei creditori. Nel frattempo però sogna di giovevolissime combinazioni, di perfette transazioni e di rendite, che tuttavia resteranno confinate in quel mondo che tutti i velleitari si costruiscono prima di addormentarsi. Manda in rovina le risorse della madre, chiede prestiti agli amici e conoscenti e talvolta, come nel 1835 (sic), con la scusa di un incarico di fiducia, è costretto persino a lasciare la Francia per sottrarsi ad un assedio sempre più pressante, ad una guerra dei debiti che va sempre più ingigantendo.

  Nella storia patologica di Balzac non mi risulta che il suo perpetuo stato d’ansia per i malcombinati affari, unito all’estenuante lavoro intellettuale, condotto prevalentemente di notte sotto l'effetto di enormi quantità di caffè, sia stato tenuto nel dovuto conto quale causa di malattia. Ma andiamo con ordine. Nel 1832, mentre in tilbury era diretto a Chinon, sede della propria candidatura politica («legittimissima per amore» dirà il Billy, al corrente delle segrete influenze della marchesa De Castriers (sic) su Honoré) per un incidente è sbalzato dal calesse. Ne riporta un trauma cranico che lo obbliga a letto per qualche giorno, mandando a farsi benedire la candidatura. Quattro anni dopo quando, in seguito ad un periodo di tensione protratta per le disastrose vicende finanziarie della sua rivista, la Cronique (sic) de Paris, e di lavoro massacrante, stanco e sfiduciato raggiunge Saché, una sera di luglio particolarmente afoso cade fulminato da una congestione cerebrale. «Un coup de sang» scriverà a Madame Hanska, la contessa polacca che diverrà poi sua moglie, quando ormai sarà troppo tardi e la sua rovina consumata.

  Nell’agosto del 1837 il dottor Nacquart gli diagnostica «une inflammation de poitrine» e Honoré si lamenta di intollerabili dolori al dorso e di una tosse così stizzosa e violenta, da impedirgli di muoversi. Ma già da tempo soffre di dolori al capo, tanto che il suo medico, lo stesso Nacquart, nel 1834, gli aveva detto di esser minacciato d’«une inflammation du tégument des nerfs cérébraux» e, due anni dopo, lo stesso romanziere ci descrive i sintomi: «talvolta perdo il senso della verticalità che ha sede nel cervelletto; anche a letto, mi sembra che la testa cada a destra o a sinistra, e, quando mi alzo, sono ossessionato dal peso enorme che provo al capo». Contemporaneamente la sua prodigiosa memoria segna qualche cedimento che, poco alla volta, s’accentua e peggiora, ha disturbi del visus, talvolta vede doppio e infine una macchia nera non lascia più il suo campo visivo. A quarantaquattro anni sempre il dottor Nacquart pone la diagnosi di aracoidite e, nel 1847, di ipertrofia ed insufficienza cardiaca. E c’è chi, a posteriori, ha parlato di insufficienza cardiaca da aortite specifica. quale causa della morte di Honoré.

  Anche qui, come al solito, è estremamente difficile ricostruire un quadro patologico sufficientemente esatto, dopo tanti anni e soprattutto con delle diagnosi, alcune delle quali emesse durante la vita del romanziere, sul cui conto sono però giustificabili dei dubbi. Scartata l’ipotesi della lue non dimostrata (quando non si sa che dire, ecco pronta la spirocheta a devastare il corpo e a suscitare geniali fantasie alla mente), e quella dell’alcolismo, poiché Honoré fu solo bevitore occasionale e le occasioni del resto piuttosto modeste, sembra che Gautier possa meglio illuminarci, anche se è uno scrittore e non un medico. L’amico di Balzac ci parla infatti di pletora e di ipertrofia, di guance perennemente arrossate e di iridi circondate da un alone giallastro. Cosa se ne può dedurre? A mio avviso, tenendo tutto presente, dovremmo trovarci di fronte al quadro di un’ipertensione, probabilmente di natura essenziale, che provocò nel tempo una serie di guasti circolatori cerebrali, associandosi ad una precoce arteriosclerosi in un soggetto epatopaziente (sempre Gautier ci parla di epatite e l’abuso di caffè confermerebbe la diagnosi dello scrittore). L’ipertrofia e l’insufficienza cardiaca sarebbero perciò una conseguenza dello stato generale, in particolare del circolo. La struttura di Honoré del resto suffraga questa ipotesi; era un brachitipo sanguigno, secondo la classificazione costituzionalistica, con prevalenza dei visceri addominali su quelli respiratori, un predisposto alle malattie del circolo e del ricambio. La gran parte poi delle sue caratteristiche psichiche rientra anch’essa in questa tipologia, sulla quale un enorme sforzo di volontà tentò di prevalere ad ogni costo, per non cedere a certe inclinazioni della costituzione e per battere la propria natura. In questo quadro poi possiamo anche collocare una possibile irritazione meningea di origine traumatica, che avrebbe però dovuto avere una breve durata, comunque complicando le cose e peggiorandole, anche se non fu altro che un episodio inserito in uno stato generale.

  Ho parlato di uno sforzo di volontà e non v’è dubbio, perché, quando altri avrebbe progressivamente cominciato ad arrendersi, egli sembra invece raddoppiare i propri sforzi. Scrive, viaggia per l’Europa, imbastisce un affare che gli dovrà fruttare i soliti milioni, ma finisce miseramente: lo sfruttamento del piombo che punici e romani avevano abbandonato presso le miniere sarde, dopo averne estratto l’argento. E riesce a trovare il tempo per spasimare per l’amante lontana Evelina Hanska. Anche questa della bella polacca è un’altra delle meravigliose avventure del magnifico Honoré. Alla fine del 1832 egli riceve una lettera anonima traboccante dell’ammirazione di una donna; l’incognito non poteva che stuzzicarlo, così, con pazienti ricerche, riesce a scoprire la identità dell’étrangère, che due anni dopo incontrerà con il marito a Neuchâtel e poi, sola, a Ginevra, nel 1834. Da allora intesse con lei una corrispondenza attraverso l’Europa sempre più fitta, sempre più confidenziale e che, dopo la morte del consorte, nel 1841, contiene sempre più pressanti appelli ad un’unione legale. In ciò non vi è però soltanto amore, ma anche la speranza d’avverare un sogno lungamente accarezzato, sposare cioè una vedova danarosa dalla quale aver magari un figlio, ma soprattutto i mezzi per chiudere definitivamente la quasi ventennale partita ingaggiata con i creditori. L’étrangère infatti è infinitamente ricca, le sue proprietà di Wierzchownia hanno la vastità di una provincia e i suoi servi della gleba si contano a decine di migliaia, e potrà consentirgli di accedere all’alta società, permettendogli di sedere tra i Pari di Francia e, perché no, aprirgli magari le porte di un ministero. La raggiunge a Pietroburgo nel 1843, ma i programmi matrimoniali vanno per le lunghe per via dei complicati interessi ereditari, e perché la contessa deve accasare la figlia.

  Rientrato a Parigi, dato che Evelina è in fondo una nipote della regina di Francia, Maria Leczinska, moglie di Luigi XV, aumenta ancora la propria attività letteraria per prepararle una casa e un’esistenza degne di lei, pur senza impedirsi di ricorrere a tratti anche agli aiuti dell’amica lontana. Ha firmato il contratto per la Comédie humaine e produce a tamburo battente, riuscendo comunque ad aumentare ancora i debiti, questa volta con gli antiquari e proprio per l’arredamento della casa di rue Fortunée, in cui Madame Hanska, ora Balzac, non porrà piede che il 21 maggio 1850. Ma anche allora un incidente, uno di quei tanti imprevisti di cui pullula la vita del romanziere: alle scampanellate sempre più insistenti, nessuno risponde e le finestre son tutte illuminate. Bisogna chiamare un fabbro e, quando finalmente i due coniugi possono entrare, trovano il guardiano nascosto in un angolo, impazzito. Honoré ne trae tristi presagi.

  Ne ha motivo purtroppo, perché, pubblicati nel 1846 gli ultimi due grandi romanzi, la Cugina Betta e il Cugino Pons, la sua penna va esaurendosi sul ritmo della malattia che avanza, che lo svuota di tutte le sue già immense facoltà creative. In un ultimo sforzo, probabilmente a Wierzchownia, l’anno successivo riesce a portare a termine ancora un romanzo, l’ultimo e non più ormai della statura di tanti altri; per lo meno ha però la consolazione di scriverlo vicino ad Evelina, nella placida tranquillità della sterminata Ucraina, alle soglie delle steppe senza tempo di cui afferra tutto il fascino malinconico. Nel gennaio successivo è di nuovo a Parigi, pone in un certo qual modo contro voglia la sua candidatura; bocciato, riparte in settembre dalla capitale per il solitario castello nelle terre dello czar, dove appena arrivato, lo colpisce una ennesima bronchite. Ma è il cuore, soprattutto il cuore di quest’uomo che ha amato, ha sofferto, ha inseguito sogni stupendi, si è esaurito nella volontà, che va cedendo inesorabilmente; compaiono i primi segni dello scompenso e ben poco varranno le cure del medico russo che egli definisce excellent, così che l’Honoré che la bella contessa, il 14 marzo 1850, porterà all’altare, non sarà più che l’ombra di se stesso.

  Poi il terribile viaggio attraverso l’Europa. Madame de Balzac, che forse l’ha sposato solo per pietà, è sofferente per un’artrite gottosa, ma a Dresda il marito ha un attacco d’asma cardiaca, forse un edema polmonare; certo è che, quando finalmente raggiunge Parigi, è in istato di scompenso totale e non lascerà più il letto. Il 18 agosto 1850, il giorno medesimo della morte, Victor Hugo andrà a visitarlo. «Chiesi di vedere il signor di Balzac. Attraversammo un corridoio, salimmo una scala coperta da un tappeto rosso ed ingombro di oggetti artistici, vasi, statue, quadri, mobili smaltati, poi un altro corridoio e vidi una porta aperta. Allora alto e sinistro un rantolo mi colpì». Il grande romanziere, forse il genio maggiormente figlio della sua epoca, la testa appoggiata ad un mucchio di cuscini, il viso cianotico, l’occhio aperto e fisso, sta morendo per scompenso cardiocircolatorio. «Discesi, portando dentro di me questa figura livida, riattraversando il salone, rividi il suo busto, immobile, impassibile, altero e vagamente luminoso e mi venne fatto di paragonare la morte all’immortalità».

 

 

  Giansiro Ferrata, Prefazione in Honoré de Balzac, Illusioni perdute ... cit., pp. V-XII.

 

  Illusions perdues è un crocevia dove si incontrano molti tra gli elementi principali nell’arte di Balzac, dalla giovinezza alla maturità del romanziere; e personaggi, memorie della sua vita, richiami alle grandi impressioni che egli ricevette da altri scrittori o venne producendo, a tutta forza, nel secolo suo e nel nostro, — poche altre opere balzacchiane offrono un quadro così suggestivo. Forse è questa, inoltre, la più direttamente legata a quel variare di situazioni, ambienti e prospettive che giustifica per esteso il titolo di Comédie Humaine, applicato dallo scrittore all’intiero suo repertorio narrativo (già presente e o non ancora) nel 1841-42. Illusions perdues, trilogia di romanzi pubblicati rispettivamente nel ‘37, ‘39 e ‘43, si formò dunque intorno alla nascita di quella famosa denominazione, e si può immaginare che il lavoro in corso abbia molto influito sulla scelta di un emblema tanto audace. Proprio nel ’37, del resto, Balzac aveva pensato per la prima volta a riunire le sue opere (lo annunciava in una lettera a M.me Hanska) sotto un titolo complessivo, Études Sociales allora.

  Il personaggio n. 1 nelle Illusions perdues è Lucien Chardon poi «de Rubempré»; e senza dubbio lo si può avvicinare allo stendhaliano Julien Sorel di Le Rouge et le Noir, nei limiti concessi dalle differenze fra i due scrittori. Lucien, come Julien, è un giovane provinciale di condizione modesta (anche se in questo caso l’ascendenza è «nobile» dal lato materno e il padre, che è morto lasciando i suoi in miseria, era stato ufficiale-medico nell’esercito, poi farmacista ad Angoulême con qualche fondata speranza d’arricchimento), — bello, questo Lucien, attraente un po’ al modo di Julien, e lui pure appassionato per il mondo delle idee, per le speranze e i progetti che la storia, la letteratura, la filosofia possono ispirare. Qui vediamo subito le differenze di fondo tra i due caratteri, peraltro. Nel protagonista di Le Rouge et le Noir le passioni sono assolute, nonostante il lavorio e il tormento critico a cui egli le sottopone e le improvvise rotture che, alcune volte, vengono anche a capovolgerle. Tutto il cinismo e «realismo scettico» di Julien Sorel è trascinato dalla violenza passionale alle più rischiose battaglie, sempre, fino a quando nella stessa violenza torna a risaltare uno slancio idealistico; così, si intende bene come egli risolvesse il proprio gusto per la lettura, da adolescente, nella devozione a un corano personale dove entravano soltanto le Confessions di Rousseau, i bollettini della Grande Armata napoleonica, il Mémorial de Sainte-Hélène. Ecco invece il balzacchiano Lucien Chardon mescolare assai meno febbrilmente gli interessi per la letteratura, per la storia, e proporsi nella più giovane età il lavoro dello scrittore. La sua prima ninfa Egeria, Madame de Bargeton, non somiglia alla M.me de Rênal stendhaliana neppure per l’intensità drammatica, tragica infine, dei rapporti tra quest’ultima e Julien. I «buoni consigli», le ambizioni sociali giocano subito una gran parte intorno ai due colombi di Angoulême, così come l’entusiasmo non drammatico per le dolcezze amorose e poetiche. Ben diversa dalle vicende tipiche nel romanzo di Stendhal si fa anche la peripezia del nostro Chardon (nominatosi ora de Rubempré sulla traccia materna) a Parigi, nella seconda parte delle Illusions perdues e, dopo la lunga parentesi del ritorno in provincia, per oltre 400 pagine nelle Splendeurs et misères des courtisanes, fino a quello scioglimento tragico nel carcere, dal quale sono consentiti nuovi ricordi della sorte di Julien. Quest’altro carcerato non si uccide da sé, come il protagonista balzacchiano. Ma il contributo volontario al taglio netto della ghigliottina è ben certo nel romanzo di Stendhal, durante le ultime settimane vissute dal suo eroe ...

  Leggere le Illusioni perdute tenendo d’occhio il pro e il contro delle analogie con Stendhal offre molti vantaggi, credo. Lasciamo pure da parte i richiami di tipo marginale, le congetture che essi suggeriscono. (Già il cognome de Rubempré ha un aggancio con Stendhal, per quella Alberthe (sic) de Rubempré da lui chiamata Madame Azur, dimostratasi generosa verso il suo amore nel medesimo anno di nascita per Le rouge et le noir, e lungamente unita a lui, nel ricordo, dagli amici, per la pubblicità che questa galante cugina di Delacroix aveva fatto e rifatto intorno alle doti amatorie di Stendhal, poco emerse in altre circostanze). Balzac era stato quasi solo nel lodare quel romanzo, in una nota critica, fin dai tempi della sua apparizione; e durante il periodo delle Illusions perdues, nel ’39, la Chartreuse de Parme gli provò in modo definitivo i meriti del suo contemporaneo e possibile «rivale», ottenendo presto un articolo che rimane l’esempio migliore di intelligenza critica in Balzac. Non sembra, dunque, eccessivo, immaginare qualche parentela diretta tra la storia di Lucien e le impressioni lasciate a Balzac da quella di Julien, con una simpatia già vicina a diventare ammirazione per il suo autore; ma in sé il problema conta poco. Vale invece molto il rammentarsi di Stendhal, anche per vie simili, come del narratore più congeniale a Balzac sotto diversi ed importanti aspetti. Entrambi sono portati a un «realismo» pieno di interesse per la società e per la storia, movendo da una formazione romantica in vivissima parte; e Balzac non toglie mai rilievo nel suo immenso affresco sociale agli elementi individualistici, e ad un’analisi dal profondo delle forze, debolezze, inquietudini, ambizioni, passioni che li riguardano nel modo più complicato, soggetto a grandi varianti nel tempo, — come è tipico delle vicende stendhaliane e dei loro personaggi, in misure pur nettamente diverse. Taine, Marx con Engels, poi Lukács hanno dato chiarezza al senso dell’individuale, nei loro studi o giudizi riassuntivi sulla Comédie Humaine, mostrandolo ben presente fra i lumi sociologici e storici di cui essa rimane tanto prodiga. Ne è venuta una formula: il realismo balzacchiano come antitesi al naturalismo di Zola per esempio. L’uno finisce sempre con l’andar oltre agli schemi, al determinismo pseudoscientifico, al personaggio-tipo nella forma più stretta e all’allegoria sociale; esce volta per volta da queste limitazioni con la grande vitalità del suo narrare fatti il cui valore significativo procede insieme a una libera energia dei particolari e aderisce alle sorti di persone concrete, nell’immagine offertane ai lettori. L’altro — quel naturalismo diventato in Italia sinonimo di verismo — cerca molte volte invano la realtà attraverso leggi e costumi a modello fisso. L’antitesi tra questi due esemplari di narrativa ottocentesca, Balzac e Zola, ha certamente un fondo esatto per chi non si lasci sviare dai modi eccessivi di formularla. Ma negli ultimi anni, celebrando il nouveau roman ecc., molti polemisti sono ripartiti da Balzac per descriverci un naturalismo ormai tutto vecchio e infrequentabile. Baudelaire può aiutarci a negare queste prospettive con argomenti non usuali, lui che in Balzac amò intensamente tra l’altro, «un visionario, e un visionario appassionato».

  «... Le sue narrazioni sono ricche di colori vivaci in modo profondo come quelli dei sogni ... Chi può vantare tante risorse felici, e un metodo che permette, senza incertezze di rendere anche la pura trivialità vestita di luce e di porpora ...». Adoperando termini meno squillanti, più equilibrati, Proust (vedi specialmente nel volume Contre Sainte-Beuve) dà un giudizio che spesso corrisponde alla sostanza di quelli rinnovatisi in Baudelaire con entusiasmo infinito, mettendo insieme gli aspetti «bassi» del reale e l’elevazione — nella Comédie Humaine — anche poetica di un linguaggio seducentissimo. Proust si riferisce due, tre volte a cet admirable livre qui s’appelle «Les illusions perdues», dice che i suoi sviluppi in territorio parigino abbassano un po’ troppo nel senso del realismo la poeticità filosofica evocata dal titolo, ma egli stesso poi congiunge i due aspetti, la profusione dell’impegno balzacchiano verso il reale e la forza espressivo-suggestiva dell’intelligenza ordinatrice ad un livello poetico, tanto è sentita; va nella medesima direzione il giudizio sullo stile, da parte di Proust, che incomincia rimproverando a Sainte-Beuve di aver postulato con intenti malevoli una certa descrizione di Balzac come stilista mentre non esisterebbe alcun vero stile balzacchiano secondo Proust («in Balzac coesistono elementi non ancora digeriti e trasformati di uno stile tuttora inesistente ...»), e continua invece annotando, molto bene, che questa coesistenza è in pratica uno stile particolare a Balzac. Il bello è sempre bizzarro, afferma per suo conto Baudelaire. L’intrecciarsi di forme apparentemente contraddittorie può diventare, per un artista vero, il modo personale di crear una forma nuova e viva. Baudelaire infatti ci presenta Balzac come un maestro del barocco, alla fine dei conti, nel quale disparati motivi realistico-razionali spiritualistici, immaginosi, poetici, autobiografici e altro, trovano un legame possente, ossia costituiscono a loro modo gli elementi di una complessiva verità e bellezza. Ci sono opere balzacchiane come La fille aux yeux d’or, in cui domina una fantasia delicata e raffinata; altre, l’Eugénie Grandet per esempio, misurate con gusto classico, o La cousine Bette e Le cousin Pons stupendamente indagatrici per esteso nei caratteri umani; quelle dove si espande un misticismo o la passione per la metafisica, quelle che moltiplicano gli aspetti «plebei» e le sfumature «piccolo-borghesi» della materialità conclusa in se stessa. Ma tutte rientrano in tre linee fondamentali, decisive per il grande valore del mondo balzacchiano. Fanno concorrenza allo stato civile — lo si è detto e ridetto — nell’amministrare un’enorme quantità di individui la cui vita presente o passata è un unicum, caso per caso. Studiano con tenacia e penetrazione meravigliose le loro relazioni, i significati che assumono nella propria società. Danno il più inquieto slancio a una visione quasi allucinatoria, davvero, ma radicata nell’esperienza, del movimento umano dalle remote aurore storiche ai tempi moderni. Nel suo insieme l’opera di Balzac è versatile, su questi piani complementari, così da meritarsi bene una qualifica di opera aperta. Altro che naturalismo associato alle illusioni, nel secolo XIX, di una «logica delle cose giusta e universale», secondo l’immagine gettata addosso da Robbe-Grillet a tutta quanta la Comédie Humaine. Bisogna tenere d’altra parte in sospetto le prospettive a senso unico, critico-progressivo, che un’incauta lettura di Lukács può lasciarci nella mente. Gli stessi atteggiamenti legittimistici, gli elogi per la tradizione ecc. rappresentano in Balzac qualcosa di molto serio, fra i vari snobismi da lui professati anche in merito. Il quadro della società francese 1815-1848, con gli sviluppi, le trasformazioni, le linee permanenti che Balzac vi scorge, è riempito dai segni di una crisi profonda. Le grandi novità economiche, le dimensioni industriali e mercantili da cui sono conquistate via via anche le «coscienze», trovano rapporti difficilissimi con le eredità dell’Ancien Régime e gli impulsi romantici. La borghesia sta costruendosi un potere al quale essa risulta, per Balzac, già chiaramente inferiore nello spirito che la muove e negli ordinamenti, negli istituti relativi alle esigenze sue. Non si può certo tornar indietro, il mutamento è strutturale per Balzac con una forza irreversibile, tuttavia egli desidera e volentieri sogna il concorso positivo di altre forze, in un ordine nuovo. Poco si aspetta ora dal socialismo, avverte che il proletariato rimane escluso per il momento dai termini concreti dell’egemonia politica. Semmai egli anticipa a volte il motto di Baudelaire (in Mon coeur mis à nu), «Avis aux non-communistes: Tout est commun, même Dieu». Intuizioni morali più che riferimenti politici alla Francia o all’Europa del tempo. Resta la sfiducia nella borghesia come classe dominante. I rivoluzionari (lo ha notato Engels per primo) lo attraggono per le loro energie, appunto, morali, così sovrastanti a quelle dei neo-legittimisti; ma in questo ambito idealistico il prestigio dei modelli e idoli antichi gli sembra ancora destinato a una storicità vigorosa. Sono alcune tra le ragioni essenziali del fermento, che rende la Comédie Humaine lontana da qualsiasi naturalismo o realismo a circolo chiuso e scuote tutto il disegno delle Illusions perdues.

  L’altro protagonista, David Séchard, vi impersona, da più di un lato, una proiezione autobiografica di Balzac. Si sa come il narratore avesse tentato da giovane, per tre anni, 1826-27-28, d’arricchirsi con un’impresa tipografica concludendola nel suo primo fallimento economico-commerciale. Proprio alla vigilia delle Illusions perdues, nel ‘36 fu ancora più disastroso l’esito dell’impresa giornalistica della Chronique de Paris, foglio politico-letterario la cui proprietà era stata acquistata da Balzac per tre quarti. Le traversie di Lucien de Rubempré nel giornalismo, dopo il fulmineo successo; quelle di David Séchard nella piccola sua azienda tipografica, rimessagli dal padre nelle condizioni che il lettore subito incontrerà e nuovamente compromessa poi dagli imbrogli di Lucien a Parigi, tutte si possono definire un carosello veloce o improvvisamente rallentato (all’inizio della terza parte), sulla doppia traccia dei ricordi che Balzac sentiva brucianti nella loro prossimità o per la violenza restituita ai più lontani dal nuovo tracollo. Naturalmente, ciò è soprattutto vero nei confronti dei primi due romanzi, Les deux poètes e Un grand homme de province à Paris. L’altro fu composto abbastanza tardi per scadere d’immediatezza, purtroppo anche in senso artistico. Ma il grosso David Séchard, il «bue», rispetto alla bella e infine gracile «aquila» rappresentata da Lucien de Rubempré, prova d’aver costituito per l’autore nel disegno generale dell’opera un personaggio ancora più vicino di Lucien alle esperienze autobiografiche e importante nel suo animo. Si tratta quasi d’una figura collocatasi con tutto il proprio peso al disotto dell’altra, così alata, leggera, volubile, per tenere disponibile in quel duplice rapporto con l’uomo Balzac una rivincita morale. Lucien brilla, si lascia attrarre non come un’aquila ma come un uccellino canoro dalla grande civetta chiamata giornalismo, e in breve si invischia con i propri charmes nella tetraggine d’una sorte inferma e corrotta; David è un ruminante pieno d’energie interiori, predestinate da Balzac alle Souffrances de l’inventeur (David somiglia al suo romanziere nel proporsi nuove vie nell’arte tipografica e ben diversamente da Balzac ne realizza l’aspetto «scientifico»), forse con tutt’altra conclusione nell’animo, non idilliaca, non evasiva. Certo sentiamo nel so carattere quelle risorse fisiologico-ideali di straordinaria tenacia operosa, fino all’eroismo nel lavoro per uno scopo determinato, che i biografi del romanziere hanno mille volte descritta.

  Quanto alla riuscita artistica, non c’è dubbio: il secondo romanzo, Un grand homme de province à Paris, domma nettamente sul primo e in modo particolare sul terzo. È per suo conto uno tra i principali risultati di Balzac, con una modernità tuttora sconcertante. Il velocissimo, minuzioso e perfetto fugato (quanta precisione musicale dagli esordi parigini di Lucien agli epiloghi ancora provvisori, per lui, non per la misera Coralie!), dove gli elementi poetici, la satira e la polemica di costume, la documentazione storica più o meno ricondotta dal 1821-22 a un’esperienza successiva, hanno la medesima varietà e unità di linguaggio; l’armonia, fra l’altro, del tono cronachistico con le innumerevoli notazioni penetranti, ecco quel che basterebbe a rendere assurda l’idea di un Balzac «senza stile». O confinato nel naturalismo ... Torna in mente Stendhal; ci si ricorda di Mérimée — altro buon amico della scorrevole M.me Azur — qui davvero in senso stilistico. Ma assai più si affollano i possibili riscontri negli scrittori di dopo. Se Lucien, dentro al labirinto giornalistico, evoca a lungo il Bel Ami di Maupassant, le pagine sottilmente infernali sul mondo aristocratico confermano che Proust pervenne alla recherche valendosi molto di Balzac, col genio suo. Infine: i dialoghi, qui scatenati e sinuosi come è raro trovarne in altre opere dell’autore, presentano strane assonanze con il ritmo interno a certe conversazioni tra i personaggi di Hemingway. Chiudiamo l’ascolto, in questa sede preliminare. Al lettore eventualmente arrivato fin qui la consistenza del tessuto balzacchiano prepara o può restituir sorprese tutt’altrimenti vive, senza illusioni da perdere.

 

 

  Marise Ferro, Anche a Balzac, suo amante, non era piaciuta. Lo scandalo di Madame Marbouty nella Parigi del primo Ottocento, «Stampa Sera», Torino, Anno 97, Numero 9, 12-13 Gennaio 1965, p. 3.

 

  [...]. E’ conosciuta più che altro per la sua avventura con Balzac. Tutti i biografi del grande romanziere francese hanno accennato al viaggio da lui fatto in Italia nel 1836, accompagnato da un giovane segretario. Il giovane segretario altri non era che madame Marbouty travestita da uomo. Perché travestita da uomo? Per imitare George Sand, prima di tutto, per non compromettere Balzac, che già era in rapporto con la sua gelosa contessa russa, e per spirito di avventura. Madame Marbouty stessa racconta il suo viaggio in una lettera a una cugina: «Balzac venne da me e mi propose di accompagnarlo a Torino, Quindi a Genova e forse anche fino a Firenze. Esitai, ma finii col cedere. Che viaggio! Partire in diligenza da Parigi e dopo cinque giorni arrivare a Torino dopo avere attraversato le Alpi al Moncenisio e disceso la Grande Chartreuse. E’ stato un viaggio esaltante, sola con Balzac, senza domestici al seguito. Egli ha voluto che indossassi i pantaloni; mi stanno bene e mi piacciono molto poiché mi impediscono di essere riconosciuta, mi consentono una infinità di libertà nuove e gradevoli; decisamente sono una maniera di vestire che si addice molto al mio spirito originale. A Torino sono stata considerata il segretario di Balzac. Egli mi ama ed è pieno di premure. Ma è, come tutti gli uomini di genio, occupato e preoccupato soltanto dei suoi pensieri. Salvo pochi istanti, Quelli che dedica a me, si potrebbe definire un uomo poco amabile, ma c’è tanta forza e tanta potenza intellettuale in lui, c’è tanta superiorità in tutto il suo essere, che piace ugualmente. Qui conduciamo una vita principesca, Balzac è ricevuto dalla migliore società di Torino. Oggi pranza da un senatore a pochi chilometri dalla città. Rimarrò venti giorni in Italia con lui, sotto il patto che i nostri rapporti saranno di pura amicizia. Se ne avrò voglia potrò concedermi un capriccio. Intanto so che per Balzac l’amore è solo un gioco fisico, all’infuori del lavoro non si interessa veramente a niente altro ...».

  Se si dovesse credere alla signora Marbouty, il viaggio in Italia con Balzac, accettato con tanta disinvoltura, rimase platonico. Fingiamo di crederlo, benché sappiamo che madame Marbouty era bugiarda per tornaconto e Balzac bugiardo per tenere quieta la sua «cara Diva» perduta nelle nevi della Ucraina, Del resto, se avventura amorosa fra i due vi fu, durò solo i venti giorni torinesi. Tornato in Francia, Balzac si chiuse nel suo studio di rue Cassini, e madame Marbouty lo rincorse invano con lettere e biglietti. Niente da fare, neppure dal lato letterario (la vera ragione per cui l’arrampicatrice aveva accettato viaggio in Italia, pantaloni e avventura amorosa). Il fatto è che la Marbouty era una seccatrice sgradevole, definita dai suoi biografi stessi «antipatica». Balzac non rivelò mai l’impressione che ne aveva avuto, ma doveva essere stata pessima. Il viaggio in Italia poteva essere il principio se non di una relazione, di una amicizia e anche un lancio letterario. Non lo fu, e la vera ragione risiede proprio nel carattere di madame Marbouty, che destava diffidenza. All’epoca in cui conobbe Balzac madame Marbouty aveva trentatré anni, era alta, imponente d’aspetto, piuttosto bella, se non avesse avuto il naso «turchino», come diceva il grande romanziere. [...].

 

 

  Marise Ferro, L’ultima biografia scritta da Maurois. I cinquantun anni prodigiosi di Balzac, «Stampa Sera», Torino, Anno 97, Numero 84, 9-10 Aprile 1965, p. 3.

 

  Ha molto amato le donne ma non ha mai avuto tempo da dedicare a loro - Egli doveva scrivere e la sua vita non fu che una lunga ed estenuante fatica - Per sostenersi ricorreva agli eccitanti, in specie al caffè che preparava in modo strano ed inconsueto - Diceva: «Porto una società intera dentro la testa» e per società intendeva il suo tempo - La sua opera ebbe anni di oscurità ma poi la sua grandezza venne riconosciuta.

 

  Lo scrittore e accademico di Francia André Maurois nella prefazione della sua ultima biografia, Prométhée ou la vie de Balzac (edizione Hachette, Paris) annuncia: «La mia età non mi permetterà più, da ora in poi, né i vasti progetti né le ricerche infinite. Questa biografia sarà l’ultima da me scritta». Peccato. Maurois scrittore di biografie è perfetto. Ho divorato quelle già scritte, e di personaggi che amo: Don Juan ou la vie de Byron, Lélia ou la vie de George Sand, Olympio ou la vie de Victor Hugo ed aspettavo con ansia quest’ultima, riguardante lo scrittore francese che mi tocca più profondamente, Balzac. Ma una biografia di Napoleone scritta da Maurois, quanto mi sarebbe piaciuta! Il fatto è che nessun biografo (e io sono una accanita lettrice di biografie) riesce a restituire intera la vita del personaggio che tratta.

  Dopo avere letto la vita di Byron, di George Sand, di Hugo (e non dimentico Les trois Dumas, libro impareggiabile) scritte da Maurois, mi sono trovata col personaggio vivo davanti, documentato in maniera irrefutabile e interpretato con profonda, con intelligente umanità.

 

Una famiglia borghese.

 

  Ed ora eccomi al mio autore preferito. Bella, potente, immensa biografia. Niente è stato dimenticato. Dalla nascita alla morte, Balzac è guardato e studiato con spirito estremamente lucido anche se devoto e ammirato. Dell’uomo, oltre che dello scrittore, in un ordine cronologico rigorosissimo, non è stato dimenticato nulla. L’infanzia, per esempio, era stata trascurata da molti biografi. Maurois è riuscito a darci vivo non soltanto il bambino Honoré, ma tutta la sua famiglia: il padre, il bizzarro François Bernard, che amava tanto la vita da credere di diventare centenario e da confessare alla figlia le proprie amanti come prova, a settant’anni passati, di giovinezza; la bella madre, figlia di ricchi borghesi parigini, un po’ dura di cuore, nervosa, civetta; la sorella Laura, la preferita, dalla testa solida e dal cuore generoso; la sorella Lorenza, misconosciuta in famiglia, già segnata dalla tristezza, destinata a morire giovane; il fratello (nato, e lo si sapeva, dagli amori della madre con un nobile di Tours) Henry, bambino viziato che non farà nulla di buono; la nonna Sallambier, piena di manie, coi nervi scoperti, ma comprensiva e pronta ad allargare i cordoni della borsa per l’amato nipote che combatteva con la letteratura.

  I brani scelti dalla vastissima corrispondenza balzacchiana ci permettono d’avere il quadro esatto di una famiglia borghese subito dopo la Rivoluzione. Quanto spirito e quanta vivacità d’intelligenza. Ecco che cosa scriveva, e come scriveva, Lorenza, a diciassette anni, rivolgendosi al fratello: «Dopo la predica, eravamo a Messa, non so chi di noi non si sarebbe creduto arrostito e dannato; in quanto a me, avevo così freddo alle gambe che non mi sono accorta d’essere già all’inferno; ragione per cui sono pronta a ricominciare i miei peccati: andare a teatro, al ballo, al concerto, insomma, in tutti i luoghi mondani e perversi dove, pare, le ragazze perdono l’innocenza e il pudore ...». Non c’è che dire, per una donna di abitudini caste e di educazione severa, la testa era sveglia. Ma il padre volteriano e la madre civetta avevano permesso alle figlie d’essere ardite, se non altro nelle idee. I costumi delle ragazze Balzac erano irreprensibili.

  L’intelligenza era in tutta la famiglia. Bernard François Balzac aveva scritto non so quanti opuscoli su questioni storiche, politiche, sociali ed aveva una sua filosofia materialista ben radicata; la moglie era una francese del Settecento abituata alla vita di Parigi e dei mercanti di Parigi; attiva, quindi, senza pruderies. I figli di tali genitori si erano abituati a parlare e a scrivere senza falsi pudori e senza paure delle idee anticonformiste. Lo spirito, inoltre, regnava in tutti. I dispiaceri spesso erano resi meno pesanti dall’ironia, dalla critica maliziosa.

 

Il primo amore.

 

  Balzac, chiuso nella soffitta di rue Lesdiguières per darvi la prima prova di scrittore (ma incominciò male, con un poema di duemila versi alessandrini, su un tema storico che non sentiva: Cromwell) scriveva alla sorella Laura: «Un incendio è divampato nel mio rione, in via Lesdiguières al 9, terzo piano, nella testa di un giovane. I pompieri cercano di spegnerlo da tre mesi e non ci riescono. Egli si è infiammato per una donna che non conosce: la Gloria ...».

  Il Balzac di vent’anni sudava quattro camicie per «sfondare», come si direbbe oggi, nel campo letterario. Ma, con tutta la sua fantasia, anzi per eccesso di fantasia, aveva incominciato dal tetto invece che dalle fondamenta. La poesia non era adatta al suo temperamento. Egli era nato prosatore, i versi non erano affar suo. Vi rinunciò, ma dopo avere faticato per due anni su un poema che nessuno volle. Finito l’esilio di via Lesdiguières raggiunse la famiglia a Villeparisis (il padre ormai in pensione per limiti d’età non poteva più permettersi la vita ricca con servitù, casa a Parigi, carrozza e cavalli) e vi incontrò la prima donna della sua vita, madame de Berny, quella che lo iniziò alla vita del cuore e dei sensi, più vecchia di ventidue anni ma dall’anima piena di bontà e di comprensione, ch’egli amò con devozione se non con fedeltà fino alla di lei morte. Poiché Balzac — e quasi tutti i biografi, all’infuori di Maurois, lo hanno trascurato — ebbe molti amori. Egli era un uomo di sensi e di fantasia; le donne, soprattutto quelle dell’alta società, lo incuriosivano e lo attiravano. Amante del lusso per disposizione naturale e per vanità, non gli piacevano le donne del popolo, le ragazze all’acqua e sapone, le «naturali» insomma. Egli voleva raffinato artificio, eleganza, educazione e, alle spalle, memorie, lusso familiare, magari un titolo e un grande casata.

  Le sue donne, quelle che rimangono, furono grandi dame: Madame de Berny, la iniziatrice, figlia di una dama di Maria Antonietta, la duchessa d’Abrantès, fatta duchessa da Napoleone, è vero, ma moglie di Junot e figlia di ricchissimi greci che al tempo del Consolato tenevano salotto, la marchesa di Castrie (sic), aristocratica tanto da parte del padre quanto di madre, la contessa Guidoboni Visconti, sposata a un Visconti di Milano, colei che diventerà sua moglie, la contessa russa Evelina Hanska. Egli fa dire a Raphaël, l’eroe del romanzo in parte autobiografico La peau de chagrin, queste parole, che testimoniano i suoi gusti: «Mi piace fare all’amore tra la seta, circondato dal lusso, che lo orna meravigliosamente perché esso stesso è un lusso, forse. Mi piace scompigliare col mio desiderio eleganti toilettes, spezzare fiori, portare una mano devastatrice nei complicati edifici di pettinature profumate. Degli occhi lucenti nascosti da un velo di pizzo fine, mi offrono fantastiche attrattive ...».

  Ma se amava le donne non aveva tempo per dedicarsi a loro. Egli doveva scrivere. Nonostante la sua vita sia stata attiva, nonostante egli abbia viaggiato, conosciuto molta gente, cambiato casa molte volte, combinato affari d’ogni genere e persino speculazioni (che andavano sempre a rotoli perché egli era solo uno scrittore) fatto anche, per un certo tempo, il dandy ed avuto amici dissipati che lo portavano nei salotti alla moda, la sua vita non fu che un lungo, estenuante, colossale lavoro. Egli visse poco (nacque nel 1799, morì nel 1850), cinquantun anni, incominciò a scrivere i libri che gli hanno data fama a ventinove; per venti anni non fece altro, si può dire, che scrivere.

 

Un lavoro massacrante.

 

  Nel 1832 a Evelina Hanska, che dall’Ucraina dove abitava col marito, gli scriveva un po’ diffidente delle sue occupazioni, egli rispondeva: «Cara, vorrei che tu mi spiegassi che cosa ti ha fatto scrivere una frase di questo genere: La leggerezza naturale del tuo carattere, nella tua ultima lettera. In che cosa sono leggero? Forse, perché, da dodici anni, perseguo senza stanchezza un’immensa opera letteraria? Forse perché, da sei anni, non ho che te nel cuore? Forse perché, da dodici anni lavoro notte e giorno per pagare i miei debiti? Forse perché, malgrado tante miserie, non mi sono asfissiato né bruciato le tempie né buttato nel fiume? Forse perché lavoro senza interruzione e cerco, con tentativi che falliscono, di abbreviare il tempo del mio lavoro forzato? Forse perché fuggo ogni amicizia, ogni rapporto sociale per dedicarmi solo a scrivere? Forse perché scrivo dodici volumi invece di dieci? Forse perché ti scrivo, a te personalmente, da sei anni, con costanza, mandandoti sempre i miei libri autografi? Leggerezza di carattere! Mi sembra che tu ragioni come avrebbe ragionato un placido borghese, il quale, vedendo Napoleone andare a destra e a sinistra per esaminare il campo dove dare battaglia, avrebbe esclamato: «Quest’uomo non sta fermo un minuto, non ha un’idea fissa in testa!».

  Per vent’anni, dominato dal suo genio e dall’idea della Comédie Humaine, Balzac, con un orario di lavoro massacrante, non fece altro che lunghi romanzi. Per sostenere un lavoro che avrebbe ucciso chiunque altro ricorreva agli eccitanti. Se fosse vissuto nel nostro tempo, si sarebbe drogato con le varie simpamine e simili; allora non vi erano, ed egli beveva caffè. Ma quale caffè! Ecco come lo descrive André Maurois: «Il caffè come lo prendono tutti i mortali ha un effetto che dura quindici, venti giorni. “Il tempo, per fortuna, di scrivere un melodramma”, diceva Rossini. Balzac doveva aumentarne l’effetto. Aveva scoperto: 1° che il caffè macinato grossolanamente aveva più sapore del caffè macinato fine; 2° che ha più effetto messo in infusione nell’acqua fredda che nell’acqua bollente; 3° che diventa più forte aumentandone la dose, cioè riducendolo una specie di poltiglia. Preso a digiuno, tale caffè mette il fuoco nello stomaco, lo torce, lo malmena e allora: «... tutto si agita; le idee si mettono in marcia come la Grande Armata in campo e la battaglia incomincia. I ricordi arrivano a passo di carica, bandiere al vento; la cavalleria leggera delle similitudini si dispiega in un magnifico galoppo; l’artiglieria della logica prorompe con grande fracasso; lo spirito e l’ironia esplodono come mitragliatrici ...». Insomma, la carta si copre di inchiostro come la battaglia di polvere nera, il libro si fa e il cuore dello scrittore si disfa».

 

L’ultimo viaggio.

 

  Fu proprio così per Balzac. A cinquant’anni, con un’opera immensa dietro di lui e un’altra immensa nella testa, era col cuore a pezzi. La fama lo aveva raggiunto, una fama contestata, di pubblico più che di critica (la critica ufficiale stranamente lo maltrattò; ma oggi si capisce perché: era troppo grande per le menti del suo tempo, esclusi quel pochi ch’erano grandi come lui, Victor Hugo e Stendhal in testa), aveva sposato dopo diciassette anni d’attesa la sua contessa russa rimasta vedova, ma il cuore non reggeva più. Il viaggio che fece, in carrozza, dalla Russia a Parigi, lo finì. Morì giovane, la sua opera incompiuta, capito da pochi sebbene letto da una moltitudine, sdegnato dai suoi compatrioti. La sua opera ebbe anni di oscurità. Ma a poco a poco la sua grandezza venne riconosciuta. «I più grandi per primi avevano riconosciuto il suo genio. Dopo Hugo, Baudelaire, poi Dostoiewski, Browning, Marx, Strindberg; poi Proust, Alain; poi il mondo intero. La storia lavorava per lui. Era vissuto in un tempo di amaro disinteresse. L’energia sovrumana ammassata negli animi durante la Rivoluzione e l’Impero, avevano dato luogo ai germi antieroici della Restaurazione, della monarchia borghese, incapaci di impiegare tali forze. La fine del secolo XIX, banale, attenta solo al progresso della scienza, dimenticò le dure verità balzacchiane. Ma la nostra epoca, avendo attraversato due guerre e conosciuto, come Balzac, cadute, rovesci di situazioni, incredibili avvenimenti, si avvicinò a lui ...» scrive André Maurois. E’ vero. In Francia, oltre agli studiosi dell’opera balzacchiana e dell’uomo, vi è una società degli Amici di Balzac, che si occupa di tutto quanto lo riguarda, ogni mese esce una rivista La revue balzacienne, critici, biografi, studiosi, si occupano della Comédie Humaine. E i suoi tremila personaggi popolano la nostra vita, li incontriamo dappertutto, in tram, in treno, per la strada. Egli aveva ben ragione di dire: «Porto una società intera dentro la testa». Intendeva la società del suo tempo. Io direi, nel leggere i suoi libri così attuali, che era la società, cioè l’uomo, senza le sovrastrutture che la moda gli impone, l’uomo con le sue passioni fondamentali e indistruttibili.

 

 

  Elena Fiorioli, Un monument à Balzac, «Culture française», Bari, 12, 1965, pp. 353-356.

 

 André Maurois, qu’Alain [Avec Balzac, 1937] a initié à l’œuvre balzacienne, regarde avec un dévouement presque filial à l’auteur de la Comédie humaine et se réjouit que Balzac soit le héros de sa dernière biographie [Prométhée ou la Vie de Balzac, 1965], la dernière — hélas! — car l’âge avancé ne lui permettra plus des recherches aussi épuisantes. C’est une friandise qu’il offre à ses fervents lecteurs, et à quatre-vingts ans, il ne faut pas l’oublier. L’entreprise demandait une profonde préparation et un travail minutieux: André Maurois l’a menée à bonne fin avec l’aisance et la finesse que nous lui connaissons.

  Le biographe nous avertit, dans une note liminaire, que son livre est une vie de Balzac, non un essai critique. Si cette biographie n’est pas la première en date qui ait été consacrée au grand romancier, elle a le grand mérite de s’appuyer sur les plus récentes enquêtes et est aussi passionnante qu’un roman.

  André Maurois aime Balzac et le fait aimer. Il a su repérer les lignes maitresses de l’œuvre balzacienne. Il n’a pas mis l’accent sur le côté faible de l’homme, qui pourtant aurait pu prêter au ridicule par certains travers, mais il a souligné la puissance de l’artiste et la grandeur de son œuvre.

  Ce n’est pas sans émotion que nous lisons l’histoire du romancier, un homme qui a quelque chose d’enfantin, un besoin insatiable de tendresse, mais aussi une large part d’ingratitude, comme les enfants. Cette biographie est une exaltation de la force créative que l’écrivain possédait au plus haut point. Le portrait peint par Maurois l’emporterait-il sur le modèle? Mais qui pourrait encore réfuter la grandeur et la puissance de ce moderne Prométhée? Le biographe nous fait suivre les étapes d’une vie exceptionnelle: la montée vers la renommée, la course à la gloire et à la mort.

  A vingt ans, le jeune Balzac veut résolument devenir écrivain, un grand écrivain. Il fait part de sa vocation à ses parents et tente sa chance à Paris. Il veut se faire une place dans le monde et sait qu’il ne le peut que par sa plume. De sa mansarde, rue Lesdiguières, il lance son défi. Il est ambitieux et ne voudrait pas d’une réussite médiocre. Il travaille avec acharnement. Sous des pseudonymes divers, il compose des romans d’aventures. Mais le succès n’arrive pas. Le manque d’argent le contraint à une existence médiocre, il désire une vie confortable, un riche décor. Il se lance alors dans les affaires, échoue et contracte des dettes considérables: pour les payer il doit écrire des romans !

  Soutenu par l’amour et les conseils de Mme de Berny, il s’essaie en des directions diverses et fait déjà preuve de sa recherche de documents vrais. A trente ans enfin il commence à connaître une certaine renommée. Dans l’espace d’une vingtaine d’années, il écrira une quarantaine de volumes.

  Balzac convoite les honneurs et le destin en écarte. Devant un mirage de gloire, l’écrivain travaille sans cesse; il travaille harcelé par le besoin et les dettes. Dès qu’il a de l’argent, il est prodigue: à son avis, l’artiste doit mener une vie splendide. Incorrigible, il expie ses folies. Les ennemis ne manquent pas, ceux qui sont jaloux et ceux qui sont choqués par ses manières. Il souffre de l’isolement; même sur le plan mondain, son ambition est celle de ses héros. Il veut dominer, et non seulement par l’esprit. Les gens de qualité, dont il désire la compagnie, ne le tiennent pas des leurs et s’en servent pour agrémenter leurs salons. Il aime Mme Hanska par elle-même, sans doute, mais encore par son titre de comtesse, son château et ses trois mille mougiks ... Somme toute, les contemporains, à l’exception de Lamartine et de Victor Hugo, ne laissent pas de lui un portrait flatteur. Quant à la critique, elle a été féroce.

  André Maurois a trié scrupuleusement la volumineuse correspondance de Balzac: les nombreuses citations nous permettent d’interpréter et de comprendre les moments fondamentaux de cette vie orageuse et complexe. Les lettres de jeunesse, surtout les lettres à Laure, qui nous renseignent sur la «céleste famille», sont peut-être une sorte d’apprentissage du romancier; mais les letters (sic) de la maturité, les lettres à l’Etrangère, nous révèlent les mouvements du cœur, nous font pénétrer dans la vie intime de l’écrivain; elles sont le témoignage le plus intéressant de son travail et nous donnent la clé de l’origine et du destin de certains chefs-d’œuvre. Balzac ne s’imaginait certainement pas que ses lettres auraient des lecteurs; il en négligeait le style. Pourtant, il y répand ses dons d’observateur et d’évocateur. C’est la source la plus importante de la genèse de son œuvre et c’est encore son cœur mis à nu.

  Une étonnante fantaisie lui fait mettre dans la vie réelle des scènes de roman et des décors insolites. Il introduit beaucoup de réalisme dans le monde de ses romans, mais il est un utopiste dans le monde où il vit. Il manque tout à fait de sens pratique ou peut-être dévance-t-il son temps. Il ne sait pas réaliser ses projets et essuie un échec après l’autre: l’imprimerie, la fonderie, le club du livre, les ananas de Ville-d’Avray, les mines de Sardaigne. Incapable d’organiser le présent, il espère dans un futur heureux et fait sans cesse des projets, comme Perrette! (sic) Il sait se persuader aisément de ce qui lui conviendrait, avec une incohérence déroutante. Il voit toujours plus grand que nature: il ambitionne d’être banquier, ministre, académicien et pair de France. Ses espérances deviennent gigantesques, à l’échelle de ses rêves. Vanité ou conscience de son talent?

  Il y a en lui un mélange de naïveté et de génie. La naïveté se révèle dans la facilité avec laquelle il fait des châteaux en Espagne, sa manie de collectionneur et son mauvais goût de parvenu. Ce grand enfant prodigue annonce toujours de merveilleuses affaires, en y croyant naturellement; puis elles se révèlent désastreuses. Il court les antiquaires et se livre à des dépenses insensées. Il se couvre de dettes énormes, il est presque toujours traqué par les créanciers. Pour réparer à ses folles dépenses ou à ses désastreuses spéculations, il devient un «forçat de la plume», comme il s’appelle lui-même. Alors, pendant de longues nuits, penché sur des feuilles blanches qu’il couvre de son écriture et de ses notes, il crée un monde, avec des personnages et des scènes merveilleusement agencés et par cette ferme volonté il compose des chefs-d’œuvre: par là se révèle son génie incontestable. Mais ce «visionnaire passionné» est un visionnaire de la réalité.

  Il est avide de renommée. Il pose au-dessus de tout l’amour et la gloire. Mais l’amour, la gloire, la fortune se dérobent et il court à la mort sous le poids d’un immense labeur. Il meurt à cinquante et un ans, épuisé de travail. S’il avait pu aller jusqu’au bout de sa route, qu’aurait-il pu encore nous donner? Il est triste de penser que, si Balzac avait vécu jusqu’à soixante-dix ans, nous aurions d’admirables romans sur la vieillesse de ses héros, écrit André Maurois.

  Dans les contes de son imagination il introduit les grands événements de l’histoire. Il fait revivre la France de la Restauration et du règne de Louis-Philippe, une société affranchie de tout scrupule, où la préoccupation de l’argent est celle qui a hanté l’écrivain. Mais il y a là même la France et la société d’aujourd’hui, de toujours. Comme Molière, Balzac a créé des types immortels.

  L’auteur de la Comédie humaine conçoit des projets surhumains; mais le temps presse et la peau de chagrin se rétrécit.

  Il ne pourra terminer l’œuvre immense qu’il porte dans sa tête. Il a écrit sans relâche rue Cassini, rue des Batailles, rue Basse et plus encore dans les retraites de Saché, de Frapesle et de la Bouleaunière, mais la demeure de la rue Fortunée ne lui est point favorable. Il a perdu sa santé et c’est là que la mort l’enlève.

  André Maurois, tout en donnant la place que l’argent a eue dans l’œuvre balzacienne, défend le romancier des attaques envenimées de Sainte-Beuve et du clan hostile des journalistes de l’époque. Balzac a voué sa vie à la création littéraire et la fin le rachète de tout ce qu’il y a de médiocre dans sa personne ou dans sa manière de vivre. Son œuvre est unique et il demeure un maître. Qui ne voudrait être Balzac? Par là se clôt le livre d’André Maurois, qui a élevé un monument à la gloire impérissable de l’auteur de la Comédie humaine.

 

 

  Tommaso Gallarati Scotti, Balzac e Manzoni, «Corriere della sera», Milano, Anno 90, N. 213, 8 settembre 1965, p. 3.

 

  Prometeo o la vita di Balzac. Tale il titolo dell’ultima biografia di André Maurois, scritta con la solita maestria avvincente, acutezza psicologica e ricchezza di documentazione sicura. Solo ci urta l’enfatico richiamo al titano che donò agli uomini il fuoco rapito agli dei; ci disturba il riavvicinamento alla grandezza del mito, di un romanziere che può considerarsi tra i maggiori, francesi, del secolo XIX, ma non certo uno degli spiriti magni della storia dell’umanità.

  Lui sì — il Balzac — si riteneva fratello dei geni maggiori: Beethoven, Michelangelo, Dante forse, grazie alla sua Comédie Humaine, in contrapposizione alla Divina Commedia ... Ma se la sua opera, nel complesso, ha una interpretazione non priva di una visione grandiosa del dramma storico della società francese nel periodo centrale dell’ottocento, in cui la vecchia aristocrazia assisteva passivamente come chi niente avesse capito e nulla imparato; la borghesia, dai grossi appetiti materiali, digeriva i suoi beni nazionali, e il popolo scontento preparava nuove rivolte; il Maurois non sa rivelarci nel suo autore uno solo di quei capolavori che sfidano il tempo — come i Promessi Sposi.

  E quanto all’uomo Balzac, il suo biografo ammette che «solo in parte è un mirabile artista», ma anche quella parte serve alla sua natura inferiore, al suo incessante bisogno di denaro, alla avidità di piaceri; «il suo genio comincia con la volgarità e il vizio». E’ un «insaziabile» dalle più opposte esperienze, capace di lavorare giorni, notti e mesi consacrati alla sua opera colossale, inventando caratteri, situazioni, romanzi per far quattrini o autentiche opere d’arte — e al tempo stesso un «dandy» alla moda, dagli inverosimili conti spesi in champagne, in inviti, in abiti stravaganti, in addobbi, in canne da passeggio dal pomello tempestato di pietre preziose.

  Fisicamente brutto. Una donna lo descrive «piccolo grasso, tondo – spalle larghe quadrate – una testa grossa – un naso come della gomma elastica; ... una bocca quasi senza denti ... E però gli occhi bruni hanno un fuoco por cui siete obbligati a dire che vi son poche teste più belle».

 

**

 

  Nell’ottobre del 1836 già confessava che per far fronte alle necessità di denaro, in una sola notte aveva scritto il Secret de Ruggeri; e in tre notti La vieille fille, un romanzo «arditamente fisiologico» che avrebbe suscitato scandalo.

  Al principio dell’anno successivo, la sua situazione appariva più disperata che mai, nonostante il lavoro indefesso. I suoi creditori gli sono alle calcagne e c’è chi lo potrebbe fare arrestare per debiti. Ammalato, febbricitante, dove trovare un rifugio? ... La contessa Sarah Guidoboni Visconti viene spesso a riposare sul celebre divano bianco, nel salotto tappezzato di bianco con lievi gradazioni rosa, dove Balzac, vestito di una tunica monacale bianca, posa con le sue visitatrici al falso certosino. I Guidoboni Visconti hanno una causa giudiziaria, per ragioni di eredità, in Italia, dove già una volta, per aiutarlo finanziariamente, avevano spedito il romanziere a Torino, — accolto e raccomandato alla migliore società di quella capitale. Ora, con lo stesso pretesto, munito della loro procura, Balzac parte — fugge verso Milano.

  Vi arriva il 19 febbraio 1837 scendendo all’Albergo Bella Venezia. La sua presenza è accolta nella città lombarda con la stessa curiosità con cui si parlava in quei giorni di una aurora boreale. La stampa lo accoglie infatti con queste parole: «Avete visto l’aurora boreale? e il Signor Balzac lo avete veduto?». Egli è ricevuto come un personaggio di gran rango, raccomandato dagli amici parigini al Principe Alfonso Porcia e alla sua amica Clara Maffei (la contessina); alla Principessa di Belgiojoso, ai Trivulzio, ai Litta, agli Archinto ... Tutto il bel mondo del Teatro della Scala, gli si fa incontro con deferente curiosità ... Presto si svelano le sue preferenze per la cara contessina, la piccola Maffei. Il marito di lei la ammonisce: «Tutti gli occhi sono fissi su questo celebre straniero, tutto il mondo sa che egli passa in casa nostra molte ore della mattinata e della sera ... Tu che hai letto i suoi romanzi, puoi renderti conto a che punto conosce le donne e la sottile arte della seduzione ...». Ma il buon Raffaello Barbiera ci rassicura «che nonostante i molti peccati descritti nei suoi romanzi, il romanziere viveva casto, lungi da passionaccie volgari, domandando alle donne, o meglio alle Signore, da quel raffinato che era, le carezze pure della devozione, il profumo dell’anima»!!

  Tuttavia, tra carezze e sospiri, Balzac non lascia passare quindici giorni senza cercar di far visita a Alessandro Manzoni.

  Per la prima volta possiamo fissar la data di quell’incontro — 1° marzo — grazie alle note di Cesare Cantù nel manoscritto della Biblioteca Ambrosiana (A. 295 Inf. [12]) non ancora consultato su questo episodio. «Son note — scrive lo storico — che facevo dopo conversato con Manzoni. Parte ho stampate nelle Reminiscenze». Ma queste, inedite, hanno una immediatezza che non si ritrova nel libro e dicon molte più cose che non si sapessero su quel colloquio, anche in contrasto col poco che ne riferisce il Maurois.

 

**

 

  Scrive il Maurois: «On le conduisit aussi chez le grand Manzoni. L’entrevue fut désastreuse. Balzac n’avait pas lu Les Fiancés et parla de criminologie». Ecco invece le note gettate giù dal Cantù, poco dopo il colloquio.

  «Ho visto stasera 1° marzo M. de Balzac da Manzoni. Brutta figura: parla come un mulino a vento. Si lamentò senza fine della contraffazione libraria ed è persuaso che fra le Potenze si farà una convenzione per impedirla. Parlò con gran lode di personaggi che son personificazioni di idee, come il Figaro che pur non fu inteso e che è derivazione del Panurgo di Rabelais. Egli, Filarete Chasses (sic) e Nodier, dice esser i soli in Francia che intendono perfettamente Rabelais a furia di studiarlo. Che esso volle dimostrare la nullità delle istituzioni umane e che tutto va a finire nella bottiglia. Alle maniere esagerate e spirituali d’allora oppose la materialità. Gli antichi scrittori francesi studiavano moltissimo l’idea; i moderni, troppo l’immagine. Egli, Sainte-Beuve e altri si proposero ricondurre all'idea: Sainte-Beuve scrisse Volupté e fallì; egli il Louis Lambert, il Médecin de campagne e fallì; non è nel gusto presente».

  Come si vede, in quell’incontro, Balzac parla sempre lui avendo se stesso per centro. Parla ... Parla ... e Manzoni tace; tace, com’era suo costume quando uomini e idee non gli erano congeniali. Il Cantù, fresco delle impressioni di quella conversazione, non ci riporta una sola frase di lui. Nè v’è cenno che Balzac parlasse dei Promessi Sposi.

  Nelle Reminiscenze infatti, aggiungendo qualche ricordo a quelli messi giù in fretta la sera della visita, il Cantù scrive: «Io mi persuasi che Balzac non avesse letto i Promessi Sposi. tanto ne distonavano i discorsi che tenne: non parlò che di sè, d’un romanzo nuovo che scriveva: La ricerca dell’assoluto, d’una commedia che farebbe furore sulle scene, dei suoi Juvenilia che raccoglieva: dissertò su quel vago suo panteismo e sulla cranioscopia: nè mai mostrò un’idea di reale umanità».

  E anche in altri incontri col Cantù, di cui è serbata notizia nel brogliaccio dell’Ambrosiana, il Balzac non accenna mai al capolavoro manzoniano ... «L’ho poi incontrato altre volte (il Balzac) e parla della sua lingua come gli Italiani grammatici. Dice che era assai più bella ai tempi di Rabelais; che pochi la sanno; Nodier gli criticò il malinconiqueux ed esso gli mostrò che v’era negli antichi, come vera il drolatique ch’egli ridestò. Saint-Pierre introdusse la parola Bienfaisance, Chateaubriand Compatissance. Parla come un gran che d’un’opera costatagli due anni di lavoro: La Physiologie du mariage. Parla assai male de’ Ginevrini, calcolatori, speculatori. Poco fu contento de’ Torinesi. Mostrasi pago assai de’ Milanesi disinvolti, senza pretenzione ecc. Trova miserabili le carrozze e i cavalli nostri, compassionevoli i caffè ...».

  Come risulta da queste note, l’infaticabile romanziere francese parla di moltissime cose e di sè principalmente, compiacendosi del suo genio, ma tacendo del genius loci che era andato a visitare per curiosità, ma senza il minimo dubbio circa la propria superiorità creativa; vulcanica, in confronto al lento travaglio di quell’uomo silenzioso e triste di via del Morone, dalla vita severa, capace di metter al mondo con molta fatica un solo romanzo: la storia elementare di due semplici contadini lombardi ... Perciò la fama del Manzoni, al «dandy» parigino doveva dare maledettamente ai nervi ... Ma su questo argomento a Milano si contiene e tace ... A Venezia, crederà sia altra cosa.

 

**

 

  Per concludere l’affare affidatogli dagli amici Guidoboni Visconti ed ottenere la firma del Barone Galvagna, patrigno di un erede minorenne, il Balzac fa il viaggio di Venezia. Visita per pochi giorni la città cara ai romantici, ma di malumore e non lo nasconde.

  Una sera, mentre è ospite della Contessa Soranzo, una delle maggiori dame della aristocrazia veneziana, sedendo alla sua mensa cui erano state convitate alcune personalità tra le quali Tullio Dandolo, da principio il Balzac mangia molto e parla poco, con la solita «suffisance». Finché sbotta in giudizi sprezzanti sui Promessi Sposi che definisce «fiacchi di ordito». Tullio Dandolo lo rimbecca sdegnato. Balzac gli risponde, rosso d’ira, sfogandosi in giudizi sempre più amari sul capolavoro manzoniano, che forse non aveva potuto esprimere tra gli amici milanesi. Le passioni si accendono. Volano parole grosse ... La Contessa Soranzo non sa come calmare le ire letterarie dei suoi ospiti. Ormai i giudizi del Balzac sono pubblici e lo precorrono a Milano. Scrive il Maurois: «Le comte Tullio Dandolo envoya à la Gazzetta di Venezia un article indécent sur un dîner avec Balzac».

  Quasi sicuramente il Manzoni lesse i giornali che polemizzavano su l’incidente e li depose tacendo o pronunciando uno di quei suoi giudizi densi di saggezza come quello che ci è rimasto — sicuro — dopo il colloquio col Balzac del 1° marzo, cui era stato presente anche il figliastro Stefano Stampa. Scrive lo Stampa che tra le altre cose il Balzac aveva detto: «Voyez vous? J’ai essayé aussi du genre religieux dans le Médecin de campagne, mais cela n’a pas eu le succès que je m’en attendais». Partito però il Balzac, Manzoni acutamente osservava che «per avere un succès dans le genre religieux (e nel ripetere le parole in francese c’era una sottile ironia) non bisognava tentarlo come una speculazione letteraria qualunque, ma esserne profondamente persuasi».

  Poche parole recise, gravi, che mettevano un punto fermo di netta separazione tra quei due uomini che nella letteratura del secolo XIX rappresentavano gli opposti spiriti: il romanziere di professione, che in ogni opera fiutava l’affare, e il credente solitario che per il suo capolavoro aveva cercato in sè le sorgive eterne: la poesia e la coscienza.

 

 

  Manfredo Generali, Ottima prova dello Stabile di Bolzano in “Mercadet l’affarista” di De Balzac, «Gazzetta di Mantova», Mantova, Anno CCXCVI, N. 330, 27 Novembre 1965, p. 10.

 

 

  György Lukács, La forma classica del romanzo storico, in Il romanzo storico. Introduzione di Cesare Cases, traduzione di Eraldo Arnaud, Torino, Giulio Einaudi editore, 1965 («Nuova Universale Einaudi. Nuova serie», 38), pp. 9-107.

 

  Cfr., in modo particolare, le pp. 98-104.

 

 

  Giovanni Macchia, L’Andromaca di Balzac, in Il mito di Parigi. Saggi e motivi francesi, Torino, Giulio Einaudi editore, 1965 («Saggi», 355), pp. 148-153.

 

  Cfr. 1958.

 

 

  Giovanni Macchia, Balzac e il libertino, ibid., pp. 192-199.

 

  Cfr. 1964.

 

 

  Giovanni Macchia, Balzac e la strada del romanzo. Conferenza, Torino, Associazione Culturale Italiana, 4 marzo 1965.

 

 

  Lodovico Mamprin, Piccoli ripropone «Mercadet» di Balzac, «Il Mattino», 9 novembre 1965.

 

  Balzac come uomo di teatro è certamente meno noto del Balzac narratore. Forse alle sue qualità di scrittore per il teatro non credeva molto, neanche lui. O, meglio, ci credeva, ma solo come possibilità di far denaro. Eppure, a guardare il «Mercadet», rappresentato negli anni scorsi a Milano e ora ripreso dalla Stabile di Bolzano e Trento e ora al Ridotto di Venezia, c’è da rimanere sorpresi. C’è dentro una vitalità, una freschezza e anche un’attualità che addirittura sconcertano.

 

Qualità di narratore.

 

  Indubbiamente si tratta di qualità di narratore, ma anche il «taglio» teatrale, seppure sommario, non manca. Mercadet, si sa, ricorda molto da vicino il suo autore, oberato come era dai debiti e assediato in permanenza dai creditori. Il lavoro è tutto qui: la precaria vita di questo «affarista» che vive da ricco, ma che, in sostanza, non ha una lira. «Troppo poeta — dice l’autore — per poter dare una conclusione alle sue vulcaniche innumerevoli idee». E, in effetti, le idee non mancano per tenere a bada la muta dei creditori. Si arriva perfino a supposti matrimoni della figlia. Effetto: una dilazione di otto giorni per i suoi debiti. Ma la sua idea più geniale, il suo capolavoro, è Godot: il socio di affari partito per le Indie con il capitale comune e che da un momento all’altro dovrebbe tornare ricco sfondato, con tanto danaro da saziare i creditori e dare la vera ricchezza a Mercadet.

  L’«affarista» arriva con l’acqua alla gola. Ormai nessun espediente potrebbe salvarlo. Meglio, potrebbe salvarlo solo il ritorno di Godot. E Mercadet non esita, lo fa tornare, presentando, ovviamente, un falso Godot. L’effetto è immediato. Tutti sono ai suoi piedi; compra azioni al ribasso, a nome di Godot. Poi tutto si scopre: il Godot è falso. Colpo di scena: i creditori vengono pagati, le azioni ora salgono. Chi ha pagato? Godot, rispondono tutti. Ma se Godot non esiste! Se è una invenzione di Mercadet! Ebbene, Godot è arrivato e tramite il suo amministratore ha pagato. Forse è stata la moglie, che ha venduto la sua unica tenuta, a pagare. Forse no. Molti indizi dicono che un Godot è veramente arrivato e la moglie stessa dice: abbiamo compiuto una buona azione e siamo stati ricompensati. Un po’ di Pirandello un secolo prima. Un po’ di Beckett un secolo e mezzo prima.

  «Aspettando Godot» dello scrittore franco-irlandese ha molte cose in comune con questo «Mercadet», salvo la conclusione. Qui il Godot, inaspettato, arriva, ma forse non è vero. In Beckett, atteso, attesissimo, non arriva, ma è certo che verrà. Comunque lo si continua ad aspettare.

  C’è poi in questo testo una sorprendente modernità di linguaggio, resa bene dalla tradizione (sic) di Carlo Terron, e una critica piuttosto feroce, anche se sorridente, ai costumi del tempo; critica che ben si attaglia ai tempi nostri. Qualche espressione ha addirittura del profetico. Un personaggio a un certo punto dice: io faccio il socialista; bella parola socialista. Ora è di moda. Fino a qualche tempo fa, faceva fino dire economista. Ora no. Ora va meglio socialista. Vedrete, fra qualche tempo non si potrà dire niente senza metterci accanto il termine sociale, tutto sarà sociale e socialità.

 

Nino Besozzi.

 

  Fantasio Piccoli, direttore e regista della Compagnia di Bolzano e Trento, ha fatto davvero bene a mettere in scena questo lavoro, perché si tratta di un’opera non solo molto interessante, ma anche davvero divertente. E Piccoli ne ha fatto una cosa che scorre via liscia, piacevole. senza molti problemi. Protagonista Nino Besozzi, arguto, bonaccione, bravo. Molto bene anche la Goel e la Bertacchi, rispettivamente moglie e figlia di Mercadet; come Giorgio Gusso, Willy Moser, Paiola, Morelli. Travaglini e tutto il cast. [...].

 

 

  François Mauriac, Destino di Balzac. Bloc-Notes, «il Resto del Carlino», Bologna, 10 Aprile 1965, p. 3.

 

  Il Balzac di André Maurois. La mia conoscenza della Comédie humaine, la familiarità che ho con lei e che continua da mezzo secolo, mi avevano lasciato assai ignaro di quella vita. Ciò che colpisce, è che non vi è di essa un incidente, non un tratto, che non abbiano servito, che non siano stati utilizzati dal romanziere, e che non sarei capace di districare dall’enorme matassa dell’opera, se lo tentassi. La Comédie humaine, prima di essere la storia di una epoca, è la replica di un destino personale.

 

*

 

  Quale destino! Balzac è Sisifo, ma che nessun dio obbliga a rotolare il suo masso: è lui stesso che lo ingrandisce deliberatamente, assurdamente, quel masso del suo debito, un giorno dopo l’altro, una notte dopo l’altra.

  Egli paga con questa sua fatica disumana un lusso di decoratore di gusto decadente; ed il goderne rimane proibito al forzato che egli ha scelto di essere, incatenato al suo scrittoio ed alla sua caffettiera.

 

*

 

  All’inizio, non ha scritto per liberarsi da un mondo che portava in sé: ha già venduto anticipatamente alcuni romanzi, e deve saldare quelli fra i suoi debiti che urgono. Quel dono creatore che egli possiede, quel dono quasi divino, si direbbe che sia questa vile necessità ad averglielo rivelato. L’opera si sviluppa solo sotto la spinta di un’orribile costrizione. Ed ecco il più strano: essa si organizza, si equilibra, trova le due ammirevoli proporzioni sotto le sferze di mille carnefici.

 

*

 

  E’ il piacere che Baudelaire chiama «un carnefice senza misericordia». Ed è proprio lui, il piacere (come lo concepisce Balzac), che ne fa quel forzato per mezzo di carnefici interposti. La Comédie humaine? La paragono ad una fabbrica di biglietti di banca che un falsario geniale, sfruttato da persone abili (ma egli stesso le sfrutta ed alla fine le deruba), che un folle pieno di genio stampa con le effigi dei personaggi che inventa, e che sopravviveranno a tutte le generazioni sommerse e ritornate [...].

  Questo orribile destino è la condizione della sua gloria, e Balzac lo sa. A parità di doti, un letterato provvisto di garanzie, e di famiglia doviziosa, non avrebbe potuto produrre la decima parte di quell’opera. Perché la Comédie humaine esistesse in eterno, popolata di esseri viventi che conosciamo tutti di nome, ma che conosciamo anche nell’intimo, come Dio conosce le sue creature, è stato necessario che il suo autore fosse quel debitore braccato, che una muta «incalzasse» quel solitario, senza quasi mai tregua, fino alla morte. E certo quella grossa selvaggina di genio aveva dei «covi» per riprendere fiato e per partorire, e veniva poi nuovamente stanata; e la folla che Balzac aveva alle calcagne, di creditori, di usurai, di librai, di duchesse e di tutti gli altri campioni della fauna sodale, riuniti a coppie, si inabissava dietro a lui nel nuovo libro che stava scrivendo. Non restava più che abbassare la botola perché tutto quel bel mondo vi si trovasse chiuso per sempre.

 

*

 

  E lui insieme a loro; ma in quell’epoca che precede la macchina da scrivere, egli costruisce materialmente e da solo ciò che è, prima di ogni altra cosa, un manoscritto. Concepire un romanzo non è niente. Bisogna farlo. Un anello solo di quella immensa catena, Les Illusions perdues (sic) per esempio, sarebbe bastato ad occupare tutta una vita di romanziere fecondo. Questa serie indefinita di grandi creazioni, alcune delle quali quasi istantanee, che costituiscono La Comédie humaine, bisogna essere noi stessi del mestiere per misurare, se oso dire, una smisuratezza tale.

 

*

 

  Noi non compiangiamo Balzac per aver abitato quell’inferno: un inferno in cui tutto gli mancava, tranne la gloria di cui fu molto presto ricoperto, e tranne l’amore delle donne. Quel giovane grande e grosso, e poi quell’omone, le donne lo hanno amato ed adorato. In letteratura, là dove regnano le donne, non esiste l’inferno. Il vero inferno è Il ritratto di Dorian Gray, è la stessa sterilità dei Faux Monnayeurs.

 

*

 

  Ma allora Marcel Proust? Il miracolo proustiano mi sorprende più di quello della Comédie humaine perché Proust non ha avuto nè Madame de Berny, né «la straniera», e poiché ha ritrovato nel suo interno, ed estratto dalla propria carne un mondo incantato che gli era precluso; e Madame de Guermantes, Gilberte, Odette Swann sono più vere, più vive, mi sembra, perché meno «tipizzate» delle eroine di Balzac.

 

*

 

  Se la dannazione sulla terra consiste, per un uomo, incerte interdizioni, Balzac sarà stato un eletto fra gli eletti, egli che passa va liberamente e come un re da un mondo all’altro, e da cui dipendevano La Fille aux yeux d’or, Lucienne (sic) de Rubempré e Vautrin. Egli penetra in tutte le aberrazioni ed in tutti i delitti, ma senza alcun partito preso di denigrazione. Per quanto cupa sia la sua pittura, Balzac non calunnia il mondo perché ha saputo dipingere quelle poche anime belle che lo riscattano. I dieci giusti che sarebbero stati sufficienti perché Dio salvasse Sodoma non mancano alla Comédie humaine.

 

*

 

  Ciò non toglie che la fame di potenza, di denaro, di donne, e che la fame vera e propria (poiché tutta questa gente si rimpinza al Rocher de Cancale) abbia incatenato lo stesso Balzac: la condizione di questo appagamento fu una vita contro natura; bisognava uccidere il sonno perché le notti prolungassero i giorni. Nel fondo di un abisso di fatica, molte volte questo tragico assurdo afferrò Balzac alla gola: distruggere la vita per conquistare il mezzo di goderla! Ha avuto il presentimento, ha sempre saputo che sarebbe caduto a terra sfinito poco prima di aver raggiunto il traguardo. Ha sognato la Chartreuse e la Trappe, vi si è perfino rinchiuso per interposto eroe ... E poi la febbre lo riprendeva. Se non avesse ceduto, la sferza senza pietà dei suoi debiti lo avrebbe nuovamente incatenato alla scrivania.

  In, verità, via via che si avvicina alla fine, il lusso in sè e per sè non lo interessa più. Il lusso che sogna e che lo rovina, è legato al possesso di Madame Hanska. Si finisce unicamente per lei. Almeno lo crede. Ma, in realtà, l’opera in gestazione avrà da sola deciso della sorte del suo creatore (ed il mistero si è rinnovato con Proust).

 

*

 

  Quell’ingordo di Balzac, come uno dei suoi eroi, avrebbe potuto cercare in una soffitta i mezzi per trasformare il mondo: vi ha pensato e li ha suggeriti in anticipo a Carlo Marx. Ma egli era nato per dipingere il mondo, non per trasformarlo. Non ha avuto successori; nessuna grande opera rispecchia un volto dopo di lui: epoca senza fisionomia e dunque senza storia e (per me) senza pittura.

 

*

 

  E’ responsabile Balzac di questa sterilità? Ha forse esaurito il genere romanzesco condannandoci a riprodurre senza fine dei «Balzac»? Basterebbe Proust per provare il contrario. Proust, che pure è nutrito di Balzac e che ha dipinto a meno di un secolo di distanza la stessa società, ha nuovamente inventato il mondo, perché, se anche è lo stesso mondo, non è più lo stesso «tempo» e non è più la stessa luce.

 

 

  André Maurois, Balzac e Tolstoi, «Corriere mercantile», Genova, 2 ottobre 1965, p. 3.

 

  Lo spirito soffia dove vuole, e niente permette di prevedere che un grande scrittore nascerà nella tale città, da tali genitori. Si possono immaginare due uomini di origini più diverse di Balzac e Tolstoi, i più grandi creatori di romanzi della storia letteraria? Tolstoi discendeva da una vecchia famiglia della aristocrazia russa; trovava nella sua culla una proprietà, una fortuna. Tutti gli ambienti sociali gli erano aperti. Balzac aveva per antenati, da una parte dei rozzi contadini che si erano a malapena guadagnata la vita zappando la terra; dall’altra dei mercanti del Marais. Per quanto suo padre avesse compiuto un modesto trasferimento di classe, il figlio non poteva contare su alcun protettore potente. Tolstoi non è mai stato costretto a scrivere e a pubblicare perché non aveva bisogno di danaro; Balzac ha conosciuto, non la miseria, ma l’estrema povertà.

  Ogni opera è costruita sulla conoscenza di certi aspetti della vita. Il romanziere inventa, indovina, ma basandosi sulle proprie esperienze. A Tolstoi, la sua nascita apportava la storia della sua famiglia, antica, pittoresca e poetica. Non ebbe che a consultare i ricordi e gli archivi dei suoi per scoprirvi i personaggi con cui avrebbe fatto Guerra e Pace. Henry Troyat, nel suo bel libro su Tolstoi, ci dipinge il principe Volkonski, nonno del nostro Tolstoi e sua figlia, la principessa Maria. Abbiamo l’impressione di averli sempre conosciuti; sotto il nome, appena modificato, di Bolkonski, hanno incantato la nostra gioventù. Inoltre, con il suo matrimonio con Sonia Bers, Tolstoi acquista una seconda famiglia, altrettanto ricca di elementi romanzeschi. Sua moglie, sua cognata Tania, avrebbero posato insieme per l’ammirevole Natascia. Suo fratello, Serge Tolstoi, pieno d’un fascino pericoloso, con la sua aria «usé», i suoi occhi azzurri, la sua eleganza noncurante, viveva da vero eroe di romanzo.

  Niente del genere nell’ambiente di Balzac. Certamente, poteva osservare una famiglia di piccoli borghesi i cui lati ridicoli sembravano abbastanza divertenti, e degli amici da cui fece César Birotteau, il chincagliere Pillerault; questo gruppo ristretto non bastava a creare un mondo. Gli antenati di Tolstoi vivevano a livello dei palazzi imperiali, quelli di Balzac a quello dei magazzini e dei negozi. E tuttavia, è Balzac che ha creato l’universo romanzesco più vasto e più popolato. Tolstoi sa dipingere la vita militare che ha conosciuta nel Caucaso e a Sebastopoli, la vita aristocratica di Mosca, la vita del proprietario terriero che è la sua. Ma, quanto alle donne, ha soprattutto conosciuto quelle che lo circondano: Tania, Sonia, le sue zie e, prima del matrimonio, delle contadine o delle zigane. Contatti di pelle, non di cuore. Delle classi medie ne sa ben poco. Balzac ha avuto la fortuna di essere formato dalla grande M.me de Berny che gli insegnò l’amore e il mondo, dalla duchessa d’Abrantès, da M.me de Castries che, pur rifiutandosi l’ha arricchito di mille racconti, da Zulma Carraud, da sua sorella Laure. Inoltre, ha fatto i suoi studi alla scuola della miseria.

  Tolstoi, malgrado un carattere difficile e pronto a soffrire, ha, per un istante, provato una felicità piena, senza compromessi, «una felicità spaventosa» come ha scritto agli inizi del suo matrimonio. Più tardi, il suo matrimonio è stato straziato, la sua famiglia divisa, egli stesso sconvolto da un conflitto tra le sue idee e il suo genere di vita. Tuttavia, aveva provato le gioie di un giovane «ménage» e quelle di una famiglia numerosa che nessuna preoccupazione materiale inquieta. Nella sua carriera letteraria, aveva subito conosciuto il successo. Dalle sue prime opere, maggiori di lui come Tourgheniev, i critici salutano in lui un maestro. A partire da Guerra e Pace, è «il grande scrittore della terra russa», il primo, in un tempo in cui la letteratura del suo paese stupisce per la sua ricchezza. Balzac avrà, anch’egli, un immenso pubblico in tutta Europa, ma non arriverà mai, da vivo, a farsi riconoscere dalla critica seria, in parte a causa del suo genere di vita, in parte a causa del suo aspetto fisico. Un po’ perché produce troppo, un po’ perché confessa il suo bisogno di danaro, un po’, infine, perché tratta soggetti che i delicati giudicano sordidi, lo si mette sullo stesso piano di un Hugo o d’un Vigny. Egli sa che è ingiusto ma ha la debolezza, molto naturale, di affliggersene».

  Soltanto, una volta ancora, le sue sventare gli servono. Se la povertà non l’avesse costretto a pubblicare ogni anno parecchi romanzi, non avrebbe mai scritto la Commedia Umana: se avesse sentito che, per rendersi degno di una ammirazione che la maggior parte dei suoi confratelli persisteva stupidamente a rifiutargli, avrebbe dovuto fare ciò che nessun romanziere prima di lui aveva mai osato: creare due o tremila personaggi, farli ricomparire di romanzo in romanzo e comporre «l’Imitazione di Dio Padre», non sarebbe diventato il gigante Balzac. In verità, che si tratti di Balzac o di Tolstoi «uno scrittore si ricompensa come può di qualche ingiustizia della sorte». Le più grandi opere nascono dalle più grandi sofferenze. Le battaglie dei popoli, nella Guerra e Pace, le battaglie dei sentimenti in Anna Karenina, sono avvolte da una atmosfera di angoscia che è quella in cui visse Tolstoi. E’ quando si sono perdute molte illusioni che si scrive Illusioni perdute; è quando Balzac, vedendo M.me de Berny morente, evoca quello che è stata per lui e che non sarà mai più, che compone il Giglio nella valle. Una gelosia folle genera La Sonata a Kreutzer come un furore di amante deluso produce la Duchessa di Lankeait (sic).

  Ognuno di questi due uomini si è messo egli stesso in scena più volte, e ziere (sic) [sotto nomi diversi. Quando il romanziere] vuole esprimere le sue idee personali, due metodi gli si offrono. Può in margine all’azione, abbozzare una filosofia impersonale. Tolstoj lo fa, in Guerra e Pace, per esporre le sue idee sulla storia; Balzac, nella Ricerca dell’Assoluto, per trattare dell'unità della materia, ma il romanzo mal s’accorda a queste lunghe dissertazioni. Le descrizioni di Balzac sono belle, vive e utili; le sue esposizioni dottrinali, come quelle di Tolstoi, interrompono la azione senza convincere il lettore. Al contrario, il romanziere ha il diritto di incarnarsi, per difendere le sue tesi, in uno o più personaggi.

  Tolstoi, in Guerra e Pace, nutre della sua sostanza sia il Principe Andrea che Pierre Bezoukhow, lo scettico eroico e lo spirito religioso. Questi due aspetti del suo pensiero si affrontano nella finzione come nella realtà. Quando il Principe Andrea ha una lunga conversazione con Pierre, Tolstoi parla con Tolstoi e risponde alle sue stesse obiezioni. L’eroe di Resurrezione, meno vivo, è tuttavia nato, anche egli, da una avventura dell’autore. Balzac racconta la sua difficile gioventù sotto il nome di Louis Lambert come sotto quello di Félix de Vandenesse. Soltanto, quest’ultimo appartiene a un ambiente tutto diverso da quello di Balzac e trova a Corte degli appoggi che mancano al suo creatore. Louis Lambert fa i suoi studi, come Balzac, al collegio degli Oratoriens a Vendôme. E’ un uomo di genio autentico perché incarna Balzac, ma «Dio può creare tutto tranne un altro Dio; il genio può tutto creare tranne un altro genio» e Louis Lambert non si sveglia alla vita. Il Principe Andrea o Levine di Anna Karenina sono migliori autoritratti. In compenso, Balzac si è servito con fortuna di altri aspetti di sé per modellare Albert Savarus, Rastignac e persino Vautrin. Un romanziere, come un autore drammatico, deve dividersi per dipingersi.

  In Tolstoi, come in Balzac, la vocazione à stata precoce, imperiosa. Marcel Proust diceva che chi è nato per diventare scrittore, prova giovanissimo, quando osserva la natura e gli uomini, il sentimento di un dovere verso ciò che vede, il dovere di scoprirne il segreto, di andare al di là delle apparenze e di dipingere l’essenza delle cose. Balzac adolescente si chiude in una mansarda per scrivere delle meditazioni metafisiche, poi un dramma in versi; Tolstoi, a dodici anni, compone un poema per sua zia Toinette, tiene un diario e già si vede «poeta, adulato, adorato come quel Puskin che è stato ucciso in un duello tre anni prima». Dunque una medesima vocazione sotto nomi diversi, ma essa sarà in Balzac più costante e più esclusiva.

  L’uno e l’altro agganciano il romanzo a un episodio reale. Il suicidio di una vicina è la cellula iniziale donde uscirà Anna Karenina come il ballo di Tour (sic) al quale aveva assistito Balzac all’uscita dal collegio susciterà Félix affamato di belle spalle del Giglio nella Valle. Tutti e due prendono l’avvio da una lettura.

  Balzac è più grande di Tolstoi? Tolstoi più vero di Balzac? Classificare delle opere d’arte mi sembra l’esercizio più vano. Il Padre Goriot non è più bello di Anna Karenina. Sono due capolavori. Tutt’al più si può pensare che il pessimismo realistico di Balzac è una dottrina più sana che il tolstoianismo. Se Balzac non fosse morto così giovane, la sua vecchiaia sarebbe stata molto diversa da quella di Tolstoi. Mi piace immaginarlo felice, liberato dalle preoccupazioni di danaro, finalmente ammesso a quegli onori il cui solo valore è di salvare quelli che li possiedono da ogni desiderio di conquistarli. M.me Balzac sarebbe stata per lui una sposa affettuosa altrettanto a lungo quanto egli avrebbe soddisfatto questo temperamento eccessivo. Certamente non avrebbe avuto i bizzarri scrupoli che gettarono Tolstoi nella più vana disperazione. Balzac, come ha detto Alain, assomigliava piuttosto a un curato frettoloso che confessa molto di premura. Da molto si era dato da solo l’assoluzione.

  Ci dispiace che non sia vissuto a lungo come Tolstoi. Questi non fece granché dei suoi ultimi anni; torturò chi lo circondava e sollevò falsi problemi in una nube di gloria. Balzac avrebbe esplorato le immense regioni che non aveva ancora abbordate. Avrebbe scritto finalmente le sue Scene di vita militare. Sotto il Secondo Impero avrebbe mostrato lo sviluppo di una società che aveva prevista. Il potere di Nucingen sarebbe ingrandito; Rastignac sarebbe stato ministro di Napoleone III. La Castiglioni sarebbe diventata l’eroina di un bel romanzo politico e sensuale. Blondet sarebbe stato prefetto della Senna. Gli scrittori «bohème» e bisognosi delle Illusioni perdute sarebbero diventati dei familiari di Compiègne. Cora Pearl e Hortense Schneider avrebbero fatto, nella Commedia Umana, delle entrate sensazionali. Che peccato e quante ore di lettura abbiamo perso, ardenti e piene! Proust, morto tuttavia giovane, ha avuto il tempo di scrivere la sua Ricerca del Tempo Perduto che è la conclusione naturale d’una vita e di una opera di romanziere. Ci dispiace che Balzac noni abbia avuto il tempo e la libertà di scrivere il romanzo dei suoi romanzi e si vorrebbe anche che Tolstoi, che lo poteva, ne avesse provato il desiderio.

 

 

  André Maurois, Balzac e Tolstoi, «Stampa Sera», Torino, Anno 97, Numero 233, 4-5 Ottobre 1965, p. 3.

 

  Cfr. scheda precedente anche se si tratta di una versione ridotta, ma linguisticamente più corretta, dell’articolo pubblicato nel «Corriere mercantile».

 

 

  André Maurois, I pettegolezzi, «Stampa Sera», Torino, Anno 97, Numero 202, 28-29 Agosto 1965, p. 3.

 

  “A Parigi — scriveva Balzac ne La Cousine Bette — ogni ministero è una piccola città dalla quale le donne sono bandite, ma vi si fanno pettegolezzi come se vi si trovasse la popolazione femminile”. Questa osservazione richiederebbe oggi delle correzioni; i ministeri rigurgitano di donne e i compari fanno altrettanto pettegolezzi quanto le comari. [...].

  Ecco delle vite innocenti che le chiacchiere avranno avvelenato. Sappiamo tutti che di colpi del genere si può anche morire. Balzac (perché bisogna sempre rifarsi a lui) sosteneva che un’idea uccide. I medici lo confermano.

 

 

  Edda Melon, Introduzione, in Honoré de Balzac, Papà Goriot ... cit., pp. 5-14.

 

  Papà Goriot, capolavoro indiscusso della Commedia Umana, è soprattutto (ma non soltanto, come vedremo) la storia di un sentimento, l’amore paterno, vissuto sino alle estreme conseguenze. Il tema della paternità, sentito da Balzac molto intensamente, è presente in vari romanzi; egli anzi affermava con sicurezza che «non c’è una sfumatura di questo sentimento dal sublime sino all’orribile che non sia stata colta, che non sia stata rappresentata» nel suo grandioso ciclo. Prima del 1834, anno in cui compose Papà Goriot, egli aveva già creato alcuni tipi notevoli di padri, da Bartholomeo di Piombo in La vendetta («la paternità gelosa e terribile») a Ferragus nella Storia dei Tredici, al vecchio padre avaro di Eugenia Grandet («la paternità dura»). I giudizi fra parentesi sono dello stesso Balzac; la paternità di Goriot viene invece da lui definita «istintiva, passionale, quasi viziosa», e analizzata come un caso clinico.

  Rozzo vermicellaio arricchitosi durante la Rivoluzione (siamo ora nel 1819), Goriot si è ritirato dagli affari e vive di rendita in una sordida pensione «familiare». La sua grande competenza in fatto di grani e di farine viene fuori a tratti in qualche gesto meccanico e incontrollato (le famose deformazioni professionali che tanto affascinavano Balzac), che sembra ancorarlo per un momento alla realtà, alla vita quotidiana. Perché Goriot, altrimenti, vive solo di riflesso, all’ombra delle sue due figlie, in attesa di un gesto, tormentandosi per la loro felicità. «Papà Goriot è come il cane dell’assassino che lecca la mano al padrone quando è lorda di sangue; non discute, non giudica, ama», commenta Balzac nella prefazione alla seconda edizione, quando già risponde alle accuse di immoralità rivoltegli dalla critica. Rimasto presto vedovo, Goriot ha trasferito sulle figlie tutta la sua capacità d’amare, tutti i modi d’amare anche. Da qui l’ambiguità, la morbosità del suo sentimento, che gli detta impulsi e reazioni quasi da innamorato; così per esempio lo vediamo, a pranzo con Delfina, chinarsi ai suoi piedi per baciarglieli, guardarla a lungo negli occhi, strisciare la testa sul suo vestito. Lo stesso Balzac conclude: «insomma, faceva follie come ne avrebbe fatte il più giovane e tenero amante». Che contrasta anche un po’ con l’altra sua idea, solo una pagina prima, che «per ben ritrarre questo Cristo della paternità, converrebbe cercare paragoni nelle immagini che i principi della tavolozza hanno creato per dipingere la passione sofferta per il bene del mondo dal Salvatore degli uomini». Stranamente, però, dalla psicologia di Goriot è estranea la gelosia; dopo aver maritato convenientemente le figlie a nobili e ricchi signori, non esita a procurare ad una di loro un amante tenero e devoto, quasi a correggere le imperfezioni della felicità domestica. Ed è qui forse il vertice della grandiosità del personaggio. «Papà Goriot lustrerebbe le scarpe a Rastignac, lo dice lui, pur di avvicinarsi ad una delle figlie. Vuole prendere d’assalto la Banca, quando hanno bisogno di denaro; e non dovrebbe indignarsi contro i suoi generi, che non le rendono felici? Ama Rastignac, perché sua figlia lo ama» ... dice ancora Balzac nel tentativo di spiegare l’intima coerenza del suo personaggio.

  Già dall’apparizione del romanzo si è parlato di Goriot come di un Re Lear, e il parallelo in effetti salta agli occhi, data anche l’esplicita ambizione di Balzac in questo periodo di riconnettersi, oltre che a Dante, appunto a Shakespeare. La prima edizione aveva anzi in epigrafe una citazione shakespeariana (almeno così egli affermava): «All is true — È tutto vero».

  La morte di Goriot è un pezzo sublime e apocalittico. Solo portandolo fino in fondo al suo destino, senza paura del ridicolo, Balzac è riuscito appunto ad evitare di cadervi. La passione di questo padre è inumana, patologica, spaventosa: mai ridicola però. Nella morte, Goriot giunge infine all’intuizione terribile della verità: le figlie non lo amano, lo hanno sopportato sinché c’era denaro da spillare, sono crudeli ed egoiste, le sue care figlie sono dei mostri. Ma no, colpa sua che le ha abituate ad avere tutto, a ritenere tutto dovuto, tutto facile: loro sono degli angeli. Nella morte, lui che aveva sempre implorato umilmente uno sguardo, un sorriso, un incontro, trova la forza di esigere la presenza delle figlie, sa che è troppo tardi per i complimenti. Invano naturalmente, e con argomenti atrocemente patetici. «Mandate la gendarmeria a cercarle, la polizia! La giustizia è dalla parte mia, tutta dalla parte mia, la natura, il codice civile. Io protesto. La patria perirà, se i padri sono calpestati. Questo è chiaro. La società, il mondo si basano sulla paternità; tutto crolla se i figli non amano i loro padri».

  L’idea di Papà Goriot doveva dar luogo, in origine, ad una novella. Acquistando in ampiezza e in complessità, venne poi ad intrecciarsi con altre idee, con altre storie, che a volte sembrano volerla soppiantare nell’interesse del lettore. Sappiamo anzi che Balzac rimase a lungo indeciso sullo spazio e sul rilievo da accordare a queste altre vicende. A quella di Rastignac in primo luogo, il giovane studente venuto dalla provincia di Parigi, ambizioso ma inesperto e pieno di illusioni, paragonabile per certi aspetti al Giuliano Sorel del Rosso e nero stendhaliano. La lontana parentela con una signora della buona società gli spalanca le porte delle case più esclusive, gli procura amicizie ambite e un’amante deliziosa. Ma dietro questa facciata rispettabile e brillante, gli avviene di scoprire un mondo di corruzione e di cinismo. Gli antichi valori sono crollati, la famiglia non ha più alcun senso, la corsa alla ricchezza e al piacere domina uomini e donne annullando in essi ogni dignità. Alla fine della sua educazione sentimentale, disincantato ormai abbastanza e tuttavia fiducioso nelle proprie forze, Rastignac si accinge ad entrare decisamente nella lotta, lanciando la sua celebre sfida alla città. «I suoi occhi si fissarono quasi avidamente tra la colonna della Vendôme e la cupola degli Invalidi, là dove viveva quel bel mondo nel quale aveva voluto penetrare. Egli gettò su quell’alveare ronzante uno sguardo che sembrava sorbirne in anticipo il miele, e pronunciò queste parole grandiose: — Ed ora, a noi due!».

  Il personaggio di Rastignac doveva apparire più importante e ricco di significato agli occhi di Balzac che non a quelli dei lettori di allora o anche di chi oggi sia portato ad isolare il romanzo dal contesto globale della Commedia Umana. Papà Goriot è infatti il primo tentativo organico da parte dello scrittore di applicare la sua grande intuizione del ritorno dei personaggi, che non è solo un espediente tecnico, ma anche un passo avanti nella comprensione della realtà. L’idea gli era balenata nel corso dell’anno precedente, il 1833, ed egli subito ne aveva compresa la portata, se è vero che si era precipitato a casa della sorella, invitandola a salutare in lui un nuovo genio. I personaggi che, già introdotti prima, ricompaiono in Papà Goriot, sono circa venticinque; comprendendo anche quelli che vengono solo nominati o intravisti, una cinquantina E questo che sulla carta appare un artificio e poco più d’un giuoco, nei romanzi acquista un incomparabile sapore di verità, di necessità. Rastignac, già incontrato in Pelle di zigrino del ‘31, che narrava però una sua avventura posteriore, comparirà in seguito in un’altra ventina di romanzi, diventando un personaggio chiave della Commedia Umana. Anche in Papà Goriot ha però una funzione determinante, costituendo il tramite fra l’ambiente equivoco della pensione Vauquer e il gran mondo, fra Goriot e sua figlia Delfina, raccogliendo le simpatie di Vautrin e di Madame di Beauséant. Egli è presente, con vari gradi di partecipazione attiva, a tutti gli avvenimenti del romanzo, che anzi in larga misura si svolge dal suo punto di vista «Senza le sue osservazioni originali e l’abilità con la quale seppe presentarsi nei salotti di Parigi, questo racconto non sarebbe stato colorato coi toni esatti dovuti indubbiamente al suo spirito sagace e al suo desiderio di penetrare nei misteri di una situazione spaventevole accuratamente nascosta così da coloro che l’avevano creata come da chi la subiva», si legge in una delle primissime pagine.

  Per Vautrin, l’altro personaggio di primo piano, il discorso è diverso. Qui egli compare per la prima volta, ma è già evidente che Balzac non lo lascerà svanire così presto. L’interesse per i fuorilegge, che gli aveva già dettato la Storia dei Tredici (l’episodio di Ferragus soprattutto), dà luogo qui ad una delle sue creazioni più felici. Balzac si era ispirato effettivamente, pare, alla realtà, ad un personaggio assai caratteristico di quei tempi, Vidocq. Ex-forzato, poi capo della polizia di Parigi, abilissimo nei travestimenti e nei trabocchetti, grande conoscitore di uomini e di ambienti malfamati, Vidocq era diventato popolarissimo nel ’28 con la pubblicazione delle sue memorie. Più tardi Balzac, che ne sentiva tutto il fascino, lo conobbe personalmente e lo ricevette in casa sua. Ora, che Vidocq abbia ispirato allo scrittore la figura di Vautrin, oppure quella del suo nemico Gondureau, come qualche critico oggi suggerisce, l'essenziale è notare come un certo clima tipico della Restaurazione (la ‘grande paura’ della nuova borghesia di fronte al dilagare della criminalità) sia entrato nella Commedia Umana, con grande precisione di particolari, e soprattutto con una rara felicità evocativa. Balzac non nasconde la sua simpatia per gli individui forti, decisi, che giudicano lucidamente il mondo e vi si fanno strada con tutti i mezzi. «Sapete come qui ci si fa strada? Col lampo del genio o con l’accortezza della corruzione. Bisogna penetrare in questa massa d’uomini come una palla di cannone, o infiltrarvisi come la peste. L’onestà non serve a nulla ... Ma che cosa credete che sia l’uomo onesto? A Parigi, l’uomo onesto è colui che tace, e si rifiuta di condividere un tal sistema di vita ... Ecco la vita così com’è. Non è più bella della cucina, puzza quanto questa e bisogna imbrattarsi le mani se si vuol mangiare bene; sappiate tuttavia lavarvi bene la faccia; qui è tutta la morale dell’epoca nostra». Quanto al modello di Vautrin, lo scrittore dichiarò decisamente, pur restando un po’ sibillino: «Posso assicurarvi che il modello esiste, che è di una grandezza spaventosa e che ha trovato il suo posto nel mondo d’oggi. Quest’uomo era tutto quel che è Vautrin, tranne la passione che gli ho attribuita. Era il genio del male, utilizzato in altro modo». La «passione» cui allude Balzac è la pederastia, assai diffusa come testimoniava anche Vidocq, nelle prigioni e nei bagni penali. Nel libro, questa tendenza di Vautrin è accennata in modo discreto ma abbastanza chiaro. Per lo più, sembra che essa si sublimi nel proteggere ed educare i giovani promettenti ed inesperti, indicando loro le vie del successo. Vautrin a Rastignac: «Vi chiedete forse perché mai tutta questa affezione per voi ... Gli è perché vi voglio bene, io. Ho la passione di prodigarmi a favore degli altri. L’ho già fatto altre volte. Come vedete, ragazzo mio, io vivo in una sfera più elevata di quella degli altri uomini. Considero le azioni come mezzi, e non miro che allo scopo. Che cos’è un uomo per me? ... Un uomo è tutto e nulla ... Ma un uomo è un dio quando vi somiglia; non è più una macchina ricoperta di pelle, ma un teatro ove si agitano i più bei sentimenti».

  È evidente che sia Rastignac che Vautrin sono un po’ Balzac.

  Nel primo caso, più delle chiare analogie biografiche conta l’atteggiamento generale nei confronti della vita, delle città da conquistare, la smania di farsi largo in tutti gli ambienti, di essere ricevuti nei salotti aristocratici, di avere nobili avventure ed amori. Quante volte, anche nei documenti sparsi che di Balzac restano, note, lettere, lo scrittore ebbe ad esprimere il senso che egli aveva di una lotta tra sé e il mondo, tra sé e Parigi!

  Vautrin d’altre parte, per lo stesso bisogno di emergere, di riuscire vittorioso nella dura battaglia contro la società, e ancor più per alcuni tratti fisici e per l’indomabile energia, ricorda da vicino il suo creatore. Gli amici lo riconobbero, sino il scrivergli chiamandolo «Caro Vautrin»! Lo stesso valore dell’amicizia fra uomini non era sconosciuto a Balzac che, come Vautrin con Rastignac e, in un altro romanzo, con Lucien de Rubempré, ci teneva a proteggere, a lanciare nel mondo delle letture dei giovani di valore: Jules Sandeau, per esempio, che egli aveva ospitato proprio nel ‘34, affidandogli una serie di lavori e di incarichi.

  Ci sono poi i personaggi minori, una folla di comparse, su cui tuttavia spiccano alcune figure tagliate in modo particolarmente efficace. A questo livello però i personaggi sono inseparabili dall’ambiente, vivono e si illuminano solo se visti in esso. Che è la vera originalità di Balzac in quanto romanziere realista. Vi sono infatti scrittori in cui l’ambiente (di cui pur sentono teoricamente l’importanza, la necessità storica, e che si sforzano di mettere a fuoco con precisione) finisce col rimanere esterno alla psicologia dei personaggi, all’essenza della vicenda. In Balzac al contrario, il milieu (fu lui addirittura a trasferire la parola dalla fisica e dalla biologia alla letteratura ed alla sociologia) è tutt’uno con il personaggio. Certo, più o meno felicemente. Qui, per esempio, tutta la parte della pensione Vauquer, con i suoi frequentatori sinistri o scialbi o insopportabili, brulicante di una vita che in apparenza gira a vuoto, ma può nascondere passioni e tragedie atroci, è costruita mirabilmente, con precisione di particolari, con intuizione e conoscenza profonda dei misteri della grande città. «Ma Parigi è un vero oceano. Gettatevi uno scandaglio, non ne conoscerete mai la profondità. Percorretelo, descrivetelo; per quanta cura poniate nel percorrerlo, nel descriverlo, per quanto numerosi e interessati siano gli esploratori di questo mare, vi si troverà sempre un luogo vergine, un antro sconosciuto, fiori, perle, mostri, qualcosa d’inaudito, d’obliato dai palombari letterari. La casa Vauquer è una di queste mostruosità curiose». Il gran mondo, invece, fu visto da Balzac, anche nell’opera, un po’ dall’esterno. Egli ne intese sì i caratteri essenziali, il contrasto fra le aspre leggi che lo dominano e una superficie di parata, impeccabilmente compatta, ma non poté esimersi, nel descriverlo, dall’esagerarne i fasti e le attrattive, anche se il suo giudizio ultimo è negativo.

  In sostanza Balzac, come i suoi personaggi attivi (Rastignac, Vautrin), ama avidamente la vita, ma non accetta il mondo così com’è. Ed è un’idea più politica che metafisica, una precisa nostalgia del passato. Incarnazione vivente di tutti i contrasti della sua epoca, lo scrittore vuole per sé il denaro, la fama, il successo; ma una società in cui tutti si muovano freneticamente nella stessa direzione gli fa paura, anche per quel che questo implica di impoverimento morale e dei sentimenti. Goriot stesso, in questo senso, è tutto un grido di rivolta contro il nuovo mondo.

  Papà Goriot fa parte, nel vasto piano della Commedia Umana delle «Scene di vita parigina» (sic). Balzac lo scrisse negli ultimi quattro mesi del ‘34, lavorando, in novembre, fino a diciotto ore al giorno. Mentre stendeva per la prima volta i capitoli finali, correggeva anche furiosamente l’inizio delle bozze, per rendere possibile la pubblicazione a puntate sulla «Revue de Paris». I particolari della sua esistenza di scrittore sono diventati quasi leggendari: l’appartamento di rue de Cassini, lo studio arredato sobriamente, la vestaglia di lana chiara con cappuccio, un caffè concentrato con ricetta speciale per consentire veglie prolungate. Papà Goriot lo entusiasmava, gli sembrava una tappa importante, la cosa più bella che avesse scritto fino ad allora. I lettori furono dello stesso parere: la prima edizione fu esaurita prima di essere messa in vendita. Quanto ai critici, alcuni gridarono allo scandalo: «Che mondo! Che società! Che costumi corrotti! È una caricatura della paternità! E tutte quelle donne adultere!». (Balzac si divertì poi, nella prefazione del ‘35, a tracciare un elenco di tutte le sue eroine, per dimostrare di aver creato trentotto donne virtuose contro ventidue sole scellerate). Altri affettarono indignazione contro il successo di un libro così poco raffinato: «Balzac è l’inevitabile della libreria: della libreria, intendiamoci, perché libreria e letteratura non sono sinonimi».

  Oggi, critici e lettori sono concordi nel riconoscere la complessità, lo strano fascino di questo romanzo. André Maurois, nella sua recentissima biografia che ha per titolo Prometeo o la vita di Balzac, stabilisce un rapporto suggestivo fra l’autore e il suo personaggio: «In tutta l’opera di Balzac si può rintracciare questo bisogno appassionato di vivere, per interposta persona, una vita più felice e più vasta ... Egli gode dell’amore, della potenza e della gloria con la mediazione dei suoi personaggi, così come Goriot è felice attraverso le sue figlie. Balzac, come Goriot, dovrà scegliere tra la creazione e la vita; si ucciderà per la sua opera, così come il padre per le figlie».

 

  Honoré de Balzac nacque a Tours il 20 maggio 1799 da una buona ed ambiziosa famiglia borghese. Trasferitosi definitivamente a Parigi, studiò diritto e fece pratica presso uno studio legale, ma, scrittore per vocazione fin dall’adolescenza, si diede a pubblicare, con pseudonimi vari, romanzi di tipo melodrammatico, preparandosi a miglior destino con enormi letture in tutti i campi. Nel ’22 ebbe inizio la sua relazione con Madame de Berny, la «Dilecta», che ebbe una grande influenza sulla sua formazione morale. Insofferente della mediocrità e desideroso di affermarsi anche nella vita pratica, dal 1825 al ’28 si trasforma in editore, stampatore, fonditore di caratteri, finendo con l’accumulare una quantità di debiti da pesargli per tutto il resto della vita. Così nel ’38 lo vedremo in Sardegna, con l’intento di sfruttare le antiche miniere d’argento; e più di una volta ancora si lascerà tentare dall’avventura politica e dall’editoria giornalistica, sempre con scarsa fortuna. Nel 1829 appare il suo primo romanzo firmato, Les Chouans, racconto storico; e, l’anno dopo, La fisiologia del matrimonio. Intorno al ’30, stimolato dagli eventi, dalle ambizioni scientifiche e dai fermenti sociali del tempo, nonché dallo storicismo romantico (e forse anche sull’esempio del Rosso e nero di Stendhal), incominciò a pensare a un’opera gigantesca che analizzasse in profondità e facesse rivivere tipizzandola tutta la vita della nuova società borghese. Nel ’33 gli venne in mente di collegare romanzi e racconti in una specie di immenso ciclo, facendovi ricomparire spesso gli stessi personaggi; quindi il titolo da dare a questo sterminato affresco, La Commedia Umana, l’idea che egli avrebbe con la creazione di tanti personaggi «fatto concorrenza all’anagrafe», e l’ambizione di conquistare addirittura, con la potenza e la verità spietata delle sue pitture, la società moderna ed esercitare un’influenza decisiva sulla sua mentalità (fare con la penna «quel che Napoleone aveva fatto con la spada»).

  Il primo grande romanzo che riflette queste concezioni è Le père Goriot del ’34. Da allora egli vive assorbito da un immane lavoro, al punto da alterare la sua robustissima costituzione; stretto sempre dal bisogno di denaro malgrado i grandi guadagni, con brevi parentesi di fasto e di rapidi viaggi; obbligato spesso a produrre con troppa fretta, ma rifacendo più volte sulle bozze di stampa con cura scrupolosa.

  Nel 1832 ha inizio la relazione di Balzac con Eveline Hanska, moglie di un conte polacco e sua ammiratrice fervente. Relazione solo epistolare all’inizio, poi, dopo il primo incontro in Svizzera nel ‘33, amore esclusivo e tenace, almeno da parte dello scrittore. Nel 1842 Balzac pubblica la prima edizione della sua opera completa, con una prefazione che ci illumina sui suoi princìpi Dalle teorie del Cuvier e del Geoffroy Saint-Hilaire (la specie umana al pari di quelle animai, sotto l’azione dell’ambiente si sviluppa in una grande varietà di tipi), scaturisce il compito dello scrittore: fare la storia dell’uomo di una certa generazione in un dato paese, mostrandone le necessarie varietà. L’ideologia politica di Balzac fa invece capo al pensiero del De Maistre e del De Bonald e si articola intorno a due «verità eterne»: la Religione che ha il compito di rigenerare le anime dalla corruzione del momento, e la Monarchia. In realtà Balzac è assai meno reazionario di quanto possa sembrare: perché le sue grandi doti di osservatore e la sua profonda umanità lo portavano a ben comprendere la questione sociale e financo ad ammettere la portata storica del movimento repubblicano.

  Dopo il ’42 Balzac continuò con la solita intensità il lavoro, nonostante la salute malferma e i frequenti viaggi per raggiungere Madame Hanska che, rimasta vedova nel ’41 esitava davanti al matrimonio per pregiudizi di famiglia. Trascorse con lei quasi tutto il ‘45 e il ’46, in Germania, in Italia, a Parigi, e poi in Olanda e in Belgio. Nel 1849 Balzac presentò la sua candidatura all’Académie Française, ricevendone solo due voti, quelli di Lamartine e di Victor Hugo. Nei primi mesi del ’50 si recò una seconda volta in Ucraina, dove il 14 marzo sposò la Hanska e, dopo un viaggio faticosissimo, giunse a Parigi per morirvi pochi mesi dopo, il 19 agosto.

  Balzac divise la Commedia Umana in tre parti: Studi di costume (divisi a loro volta in sei sezioni. Scene della vita privata, della vita di provincia, della vita parigina, della vita politica, della vita militare, della vita di campagna), Studi filosofici, Studi analitici. Nonostante l’estrema varietà degli argomenti, la Commedia si presenta come un’opera fondamentalmente unitaria: perché la società che essa rappresenta, nei suoi molteplici aspetti, è mossa da un’unica legge, la conquista del potere e della ricchezza. Legge che può in un primo momento sembrare eterna e legata a una concezione pessimistica della vita, ma le cui origini in realtà Balzac rintraccia nel nuovo tipo di rapporti economici instauratosi dopo la Rivoluzione, e in particolare sotto il regno di Luigi Filippo. Spinta dalla molla del denaro, la borghesia corre verso la rovina, guidata dai nuovi ‘eroi’, avventurieri corrotti e senza scrupoli, cui fanno riscontro anime purissime, per lo più femminili, destinate a fare la parte di vittime. Animati da quell’energia che in parte fu di Balzac stesso e in parte dell’epoca sua, i personaggi della Commedia sono tutti esseri eccezionali che, dominati interamente, in bene o in male, dalle loro passioni, non conoscono mezzi termini. Allo stesso modo le vicende vengono impostate e risolte con un’aggressività caratteristica e non di rado danno luogo a situazioni esserne sostenute anche da una certa enfasi stilistica. Sfuggono a questo pericolo soprattutto i racconti e i romanzi più brevi: Il colonnello Chabert, il cui protagonista, miracolosamente redivivo, preferisce essere creduto morto che rientrare in un mondo dominato dall’avidità; Il curato di Tours dove, attraverso gli intrighi del terribile abate Troubert, si esamina la triste situazione della Chiesa estromessa ormai dalla sfera politica. Tra i romanzi di più vasto respiro i capolavori sono Papà Goriot, la tragedia dell’amore paterno eccessivo che conduce alla rovina morale e materiale; ed Eugenia Grandet, storia di una giovane donna la cui vita grigia e solitaria, dominata dalla folle avarizia paterna, si illumina al miraggio di un amore presto perduto.

  Per il carattere violentemente drammatico delle sue concezioni, e la travolgente potenza dello stile, Balzac ottenne ben presto un enorme successo di pubblico, sia in Francia che all’estero. La critica fu meno favorevole: riconosciutegli indubbie doti di osservatore, ricchezza di interessi e la capacità forse unica tra i moderni di creare tipi e personaggi destinati a diventare proverbiali, per contro il luogo comune di un Balzac che «scrive male» resistette a lungo. Su questo punto e sulla grossolanità di Balzac si basò l’avversione del Sainte-Beuve, dovuta anche ad una certa gelosia di letterato Ad essa fa riscontro l’ammirazione di un Baudelaire, che propose il termine di «visionario», riferendosi alla sua prerogativa di trasformare i dati realistici in visione fantastica; di un Gautier e, più tardi, del Taine e dello Zola. Dopo aver esercitato una grandissima influenza, e un vero fascino, su tutta la cultura europea (si pensi anche all’ammirazione di Marx e di Engels), la fortuna di Balzac andò declinando. Ma la nuova critica, pur ammettendo l’eccessivo semplicismo di certe sue concezioni, che si riflette appunto nelle ineguaglianze dello stile, tende a riconoscere l’enorme portata della sua opera, anche per quanto riguarda le sue curiosità mistico-spiritualistiche (sulle orme dello Swedenborg, il mistico svedese del settecento) che gli dettarono opere come Serafita e La ricerca dell’assoluto. Anche i suoi occasionali scritti critici vengono ora rivalutati: tra essi il celebre e generoso saggio sulla Certosa di Parma di Stendhal, pubblicato da Balzac nel 1840 sulla sua «Revue Parisienne». Mentre addirittura si ripubblicano, in Francia, le opere giovanili, che egli aveva preferito firmare con pseudonimi.

 

 

  Edda Melon [?], Introduzione, in Honoré de Balzac, La Storia dei Tredici ... cit., pp. 5-10.

 

  La prima metà dell’ottocento francese, teatro di contrasti politici e di trasformazioni sociali, di ambizioni sfrenate, di carriere vertiginose, di misfatti, di violenze pubbliche o segrete, offrì alla letteratura — che proprio allora si volgeva con più attenzione a tutti gli aspetti della realtà — una inesauribile fonte d’ispirazione. Sollecitato da questa particolare situazione, corroborato anche dalla diffusione e dall’influsso dei romanzi «neri» inglesi, nacque e si affermò rapidamente in quegli anni un nuovo genere di narrativa, misteriosa, gialla o poliziesca addirittura, a volte macabra. Il pubblico le decretò subito un vero trionfo, catturato soprattutto dalla nuova moda del romanzo a puntate o ‘feuilleton’ che, prima sui periodici e poi anche sui quotidiani, sfiorava l’inverosimile pur di tener desta la curiosità dei lettori fino «al prossimo numero». Balzac fu uno dei grandi creatori del genere, codificandone regole e clichés che egli stesso seguì poi solo in parte, trascinato altrove dalla sua fantasia e dal suo genio. Particolarmente interessato all’attività delle società segrete (suo padre fra l’altro aveva appartenuto alla massoneria), inventò — simulando però di ispirarsi al vero — La storia dei Tredici.

  I Tredici sono individui d’eccezione, decisi a fare e ad avere tutto. Nemici della società, vi hanno tuttavia un potere illimitato, in ogni ambiente e a tutti i livelli: «un piede in tutti i salotti, una mano in tutte le casseforti, la testa su tutti i guanciali e i gomiti per farsi largo nelle vie». Le loro sono storie di sangue, commedie terribili, drammi pieni di cadaveri, dice Balzac nella prefazione. Nel primo racconto vediamo Ferragus, ex-forzato ed ora capo dei Divoranti po’ sinistro, abile nei travestimenti e nei complotti, portare a termine una serie d'imprese, alcune solo bizzarre, altre addirittura delittuose, anche se in nome di un sentimento fra i più umani e comprensibili. La figura del criminale è interessante, in genere, proprio per i suoi contrasti; e la lotta fra bene e male, che è in fondo il nucleo di tutti i ‘feuilletons’ ottocenteschi, trova in Balzac uno spettatore e un interprete efficacissimo. La caratterizzazione mirabile dei personaggi, sia dal lato psicologico che nell’aspetto fisico e nel comportamento (ed è una novità per i tempi, questa preminenza della fisiologia) fanno del racconto un capolavoro del genere, a cui Balzac stesso attribuiva l’importanza del Père Goriot o di Eugenia Grandet. Ferragus, in particolare, si presenta come una figura gigantesca e indimenticabile; questo personaggio duplice, caratterizzato non si sa meglio se dall’amore paterno o dalla delittuosa potenza, Balzac poi lo sdoppierà per dar vita ad altre due creazioni della sua fantasia, il famoso «père Goriot» del romanzo omonimo, e il tenebroso Vautrin.

  Pubblicato a puntate sulla «Revue de Paris» nei primi mesi del 1833, la storia di Ferragus suscitò nei lettori tale entusiasmo e curiosità (alcuni giunsero al punto di scrivere all’autore scongiurandolo di rivelare loro, subito, «come andava a finire»; altri si recavano in pellegrinaggio alla rue de Soly, teatro degli avvenimenti romanzeschi) che Balzac fu indotto a promettere, nell’ultima puntata, un seguito di altri due episodi. Anche perché l’idea di far ritornare gli stessi personaggi da un’opera all’altra cominciava già allora ad affascinarlo, sembrandogli fra l’altro un mezzo per garantire una certa unità alla sua colossale costruzione. La storia dei Tredici per esempio, costituita da tre racconti, è compresa nelle Scene di vita parigina, che rientrano a loro volta nella grande sezione degli Studi di costume. La struttura complessa dell’opera non sembra però limitare in nulla la libertà dell’autore. Basti pensare che uno dei personaggi di Ferragus, morto e sepolto in questo episodio, si ritrova vivo e vegeto in un romanzo successivo che narra avvenimenti anch’essi posteriori. Piuttosto, negli altri due racconti della loro storia, pur ricchi di ‘suspense’ e di mistero, avvincenti, l’intervento dei Tredici appare un po’ estraneo alla vicenda, come un ‘deus ex machina’ neanche tanto utile; forse proprio l’impegno preso da Balzac lo indusse introdurre questo tema in racconti già nati precedentemente nella sua mente, da altre esperienze e con altri fini.

  La duchessa di Langeais, nonostante alcuni colpi di scena e qualche particolare di rigore — maschera, passaggi segreti, conventi di clausura, marchio di fuoco — si svolge in buona parte a livello di psicologia, di sentimento. Ispirato allorigine da una bruciante sconfitta amorosa dello stesso Balzac (quasi una vendetta della fantasia quindi) adombra lo scrittore nel personaggio del forte e sincero Montriveau, e Madame de Castries nell’indegna duchessa frivola e civetta. Avvincente e addirittura toccante dal punto di vista psicologico, il racconto è però abbastanza ineguale e alterna parti romanzesche a lunghe digressioni saggistiche, del resto interessantissime. La presentazione, all’inizio del secondo capitolo, dell’aristocrazia parigina del quartiere Saint-Germain intorno al 1820, che Balzac critica abbastanza ferocemente pur condividendone in parte le idee e ritenendone necessaria l’esistenza come classe dominante, è un formidabile pezzo di costume. Queste sproporzioni, abbastanza frequenti nella Commedia Umana, ne fanno però anche il fascino, concorrendo a dare delle cose una visione il più possibile complessa e poliedrica. Un altro brano grandioso sotto questo aspetto è quello che apre La fanciulla dagli occhi d’oro, sulla composizione sociale della popolazione parigina, «gente orrenda a vedersi, smunta, gialla, tirata», che si consuma nella folle corsa all’oro e al piacere. Apertura che fa da ‘pendant’ a quella del primo racconto, solo che all’osservatore si è sostituito il filosofo e il sociologo.

  La fanciulla dagli occhi d’oro è una storia d’amore, come la precedente, ma più acre, più torbida. Il racconto, dedicato Delacroix (mentre gli altri due racconti erano dedicati rispettivamente a Berlioz e a Listz), assume a tratti la violenza e i colori dei quadri del grande pittore romantico Ma a proposito di colori, un dubbio curioso: come saranno mai i capelli di Paquita che Balzac descrive color cenere, e corvini a poche pagine di distanza? Un errore che si scopre quasi con simpatia, se si pensa alla tensione e alla fretta con cui Balzac lavorava, in lite perenne con editori e direttori di giornali, con un fattorino pronto in anticamera per portare le pagine finite, due, tre alla volta, in tipografia. Senza di che non ci sarebbe stata, così vasta, così ricca, così viva, La Commedia Umana, impresa titanica del genio in lotta col tempo. Se mai, si potrebbe rimproverare alla Storia dei Tredici la fragilità del legame fra i tre racconti, e il fatto che altre storie ed altri personaggi abbiano la prevalenza sui Tredici stessi, di cui il lettore, stimolato anche dalla prefazione di Balzac, avrebbe voluto apprendere ragioni, moventi, tecnica e imprese.

  Ma quel che il libro offre, così com’è, fa dimenticare progetti e programmi; ed è tutto godibile, anche con i suoi difetti. E se poi non è un’opera fra le più grandi di Balzac, è però molto caratteristica, e dà un’idea abbastanza chiara del suo metodo e della sua tecnica, e anche della sua visione del mondo; della sua straordinaria facoltà di fondere i dati dell’osservazione con una fantasia quasi da veggente (che indusse Baudelaire a dare la famosa definizione di «Balzac visionario»); e del risultato miracoloso che Engels chiamava «il trionfo del realismo», per aver dato della propria epoca e delle forze sociali che la compongono un quadro lucido e preciso, anche ‘contro’ le proprie opinioni politiche.

  ‘Feuilleton’ dunque la Storia dei Tredici, ma di gran classe! Il cui fascino ambiguo è accresciuto dal sospetto che l’autore, calcando la mano sugli effettacci, non faccia altro che prendersi giuoco del romanzo d’appendice, di se stesso e di noi. «Ma non è così che succede nella vita!», si arrabbiava Sainte-Beuve, il grande critico suo contemporaneo. Può darsi, ma che importa?; dal momento che proprio attraverso la lente d’ingrandimento dell’opera balzacchiana, il loro tempo, il loro mondo ci appaiono più vicini, più nitidi, nella terribile varietà della vita stessa.

 

  Per la parte dedicata alla biografia e al percorso letterario di Balzac, cfr. la scheda precedente.

 

 

  Ellen Moers, Il dandismo e la stampa: Francia 1830, in Storia inimitabile del Dandy. Traduzione di Franco Niederberg, Milano, Rizzoli editore, 1965, pp. 163-185.


  pp. 166-172. Alla fine del 1830, Honoré Balzac. giovane provinciale ambizioso, doveva al suo sarto 904 franchi: vale a dire, più di quanto non spendesse in vitto e alloggio per un anno intero. Quell’anno Balzac cominciò a viaggiare come giornalista e a scrivere articoli di cronaca mondana per riviste in voga; quell’anno, inoltre, prese ad imitare, con molta tenacia ma scarsi risultati, il dandismo così personale dell’amico Lautour-Mézeray. Incoraggiato dal successo ottenuto da un suo romanzo, edito l’anno prima, Les Derniers Chouans (sic), bussò a tutte le porte per essere accolto nell’alta società parigina. Balzac, mosso da ragioni analoghe e esibendo un gusto ancor più dubbio, si accanì quanto Disraeli per elevarsi alla raffinata eleganza del dandy. Lo sfarzo stravagante del suo abbigliamento: l’enorme bastone da passeggio tempestato di turchesi, i bottoni d’oro ricercatamente cesellati, la teoria interminabile di panciotti nuovi e di guanti (un paio diverso per ogni giorno dell’anno) riuscivano soltanto a suscitare i commenti spesso mordaci dei suoi amici. Il suo bastone da passeggio, rilevava con una punta di vanità, “fait jaser tout Paris” e, ridendo, diceva che il suo modo impareggiabile di vestire gli faceva “réclame” – una pubblicità preziosa per un giovane scrittore che stava facendosi un nome.

  Se è vero che i tentativi di Balzac si rivelavano ridicoli, volgari, se è vero che sapevano di calcolo, bisogna anche riconoscere che sentiva una vera passione per l’eleganza ed era convinto che il modo di vestire fosse importante. “La toilette est l’expression de la société”, scriveva nel 1830; c che questa massima non fosse semplicemente un motto di spirito ne fanno testimonianza i novanta e più volumi della Comédie Humaine. Infatti, affollò i suoi mirabili studi sulla società francese di tutti i tipi di dandies che gli capitò d’incontrare: i timidi provinciali che abbracciavano il dandismo per farsi strada, il giornalista pieno di sé, l’elegante per istinto, gli aristocratici del Jockey Club, volutamente insolenti. Eugène de Rastignac, Lucien de Rubempré, Maxime de Trailles, Charles Grandet, Georges Marest, Amédée Soulas, Lousteau, Raphaël Valentin, Henry de Marsay, ci dicono quanto fosse acuto lo spirito d’osservazione di Balzac, e fino a che punto la società parigina fosse permeata di dandismo. Quando nei suoi romanzi schizza le figure di sarti, di calzolai, di guantai e dei loro clienti dandies, li riprende dalla sua vita. V’è ragione di credere che ha parlato nelle sue opere di questi artefici d’eleganza a saldo dei debiti contratti; per questo fece loro una pubblicità sfacciata, facendo nomi, precisando indirizzi e elencando meriti.

  Il suo aspetto, tuttavia, non faceva una grande pubblicità alla loro arte. Gli amici di Balzac – Gavarni, Gozlan, Muret, Madame Ancelot – ogni volta che vedevano il grande cronista del mondo dandy si sentivano trasalire e scoraggiare: quell’uomo obeso, bassotto, con una faccia larga, volgare, che un giorno vagava per le strade con un vestito sporco e spelacchiato (allorché era troppo preso dalla gestazione del suo ultimo romanzo oppure da una nuova operazione finanziaria per badare al proprio aspetto) e un altro, invece, te lo vedevi spuntare vistosamente “endimanché”. Il Capitano Gronow, in particolare non mancò di esternare il suo stupore e la sua delusione:

  L’aspetto esteriore di Balzac non aveva proprio nulla che incarnasse anche minimamente l’ideale che, con ogni probabilità i lettori s’erano fatti di questo grande entusiasta della bellezza e dell’eleganza in tutte le sue forme e in tutti i suoi aspetti ... Il grande incantatore appariva esteriormente l’essere più sugnoso e comune che forse abbia mai visto: così com’era corto sulle gambe e corpulento, con la faccia larga e rubizza, le cascatelle di doppimenti e i capelli unti ed irti ... Balzac aveva quell’aspetto trasandato e sporco che sembra essere la caratteristica peculiare dei litterati francesi; vestiva col gusto più pacchiano che si possa immaginare, portava gemme scintillanti sulla sparato sporco e ostentava alle dita sudicie anelli di diamanti ...

  Tuttavia, nel 1830, Balzac non s’era ancora fatto un nome come cronista della buona società parigina. Stava ancora facendosi la mano come giornalista, in attesa di scrivere le sue grandi opere, e passava questo periodo d’apprendistato componendo physiologies, bozzetti, brani di conversazioni (che in gran parte erano stati colti dal vero, nel bel mondo, dal suo allenato spirito d’osservazione) per i giornali Le Voleur, La Silhouette e La Mode di Girardin. Il suo primo lavoro per Girardin fu un Etude de moeurs par les gants, cui fece seguito tutta una lunga serie1: Physiologie de la toilette, che portava il sottotitolo di De la Cravate considérée en elle-même et dans ses rapports avec la société; Nouvelle theorie du déjeuner, uno studio sulla mania, tanto in voga, del tè e dei muflings; Des mots à la mode; L’Oisif et le Travailleur, raffronto tra lo scrittore amante del lavoro e il dandy ozioso; Physiologie gastronomique; Physiologie du cigare, che analizza la nuova voga del fumo, e nella quale Latour-Mézeray viene citato come autorità in materia; De ce qui n’est pas à la mode, nel quale figura un aforisma che può valere per tutta la serie:

  Connaître ce qui est à la mode, c’est une science.

  Cela s’étudie et s’apprend.

  Savoir ce qui n’est pas à la mode, c’est un instinct.

  Cela se devine et se sent.

  Di tutti questi primi saggi il più ambizioso era il Traité de la vie élégante, pubblicato su La Mode, nell’autunno del 1830. È un trattato stranamente serio che proclama la necessità per la società borghese di curare l’abbigliamento. Secondo Balzac, i criteri basilari sui quali si deve fondare il giudizio sulla nuova società sono: come l’individuo passa il suo tempo e fino a che punto si cura dell’élégance (i due elementi sono ovviamente interdipendenti). Nell’applicare questi criteri, divide la società in tre classi fondamentali. Ad un estremo della scala sociale, Balzac pone il lavoratore, le zéro social, l’essere privo di individualità e incapace perfino di afferrare il significato del termine eleganza. All’altro estremo si trova l’ozioso, l’oisif, l’esponente tradizionale della vie élégante. Tra i due poli, in un punto non bene definito della scala sociale, Balzac vede l’individuo eccezionale, che identifica naturalmente con se stesso, l’artista, per il quale il lavoro è distensione e la distensione lavoro, e che può vestire con perfetta eleganza o con disinvolta tracuratezza (sic) a seconda dello stato d’animo.

  La necessità di procedere ad una nuova divisione della società è scaturita dal crollo delle tradizionali barriere di classe, provocato dalla rivoluzione. La nobiltà e il privilegio vanno scomparendo e lasciano il posto ad una nuova aristocrazia: l’aristocrazia della ricchezza, che soppianta quella della nascita. “Les nobles de 1804 ou de l’an MCXX ne représentent plus rien” scrive Balzac. La vecchia aristocrazia non può giustificare la restaurazione del privilegio tradizionale, avanzando come titolo il diritto divino dell’ereditarietà; l’aristocrazia dell’avvenire – formata dagli artisti e dagli intellettuali – esigerà altri titoli oltre all’ingegno perché sia possibile sperare di elevarsi sino alla sommità della scala sociale. Questo titolo, questo requisito nuovo si chiama eleganza, l’eleganza espressa dalle arti del dandismo2.

  Alors, dans notre société, les différences ont disparu: il n’y a plus que des nuances. Aussi le savoir-vivre, l’élégance des manières, le je ne sais quoi, fruit d’une éducation complète, forment la seule barrière qui séparé l’oisif de l’homme occupé. S’il existe un privilège, il dérive de la supériorité morale.

  “Superiorità morale”: è una rivendicazione nuova e insolitamente seria per il dandismo. Balzac la difende con una definizione ambiziosa della parola eleganza: “Ce tacte exquis, dont le constant exercice peut seul faire découvrir soudain les rapports, prévoir les conséquences, deviner la place ou la portée des objets, des mots, des idées et des personnes ...”. L’argomento viene presentato più nella forma leggera dell’epigramma che non in quella severa della logica formale:

  Le but de la vie civilisée ou sauvage est le repos.

  Le repos absolu produit le spleen.

  La vie élégante est, dans une large acception du terme, l’art d’animer le repos.

  L’homme habitué au travail ne peut comprendre la vie élégante. Pour être fashionable, il faut jouir du repos sans avoir passe par le travail ...

  Dopo aver dimostrato in tal modo il significato della vie élégante, Balzac cita, di punto in bianco, una conversazione – certamente non immaginaria – che ebbe con i suoi amici alla redazione di La Mode. Tutti convengono che è indispensabile scrivere un trattato sul soggetto, ma nessuno pensa che vi sia un individuo tanto egotista ed intrepido per un lavoro così arduo.

  En ce moment ... un des plus élégants rédacteurs de la mode se leva en jetant un regard de triomphe sur ses collaborateurs :

  Cet homme existe, dit-il.

  Un rire général accueillit cet exorde, mais le silence de l’admiration y succéda bientôt quand il eut ajouté:

  BRUMMELL!

  Quindi, con una disinvoltura incredibile, Balzac prende a raccontare, sciorinando davanti al lettore una bella ricchezza di particolari, una visita fatta a Brummell a Boulogne (città nella quale Brummell non era mai stato) e il lungo colloquio che lui ebbe col “patriarca della fashion”, che non aveva mai incontrato (come del resto, quasi sicuramente, non lo avevano incontrato i suoi colleghi). Pochissimi furono, infatti, gli ammiratori francesi che ebbero la fortuna di conoscere il Beau. A Parigi si fermò una sola volta e il suo soggiorno durò appena una settimana; d’altra parte, Caen e Calais stavano troppo lontano dalle vie maestre della vita mondana. Ma i frequentatori dei salotti e dei cafés sapevano sul Beau e sulla sua vita tutto quello che si doveva conoscere; e il fatto che si fosse stabilito in Francia, notizia risaputa da tutti, conferiva alla sua leggenda un piccante sapore d’attualità. Balzac passa, poi, a descriverci Brummell (con brillante imprecisione), a lungo e minuziosamente, e parlando della società in generale, attribuisce al Beau la propria teoria, decisamente non brummelliana; ci fa la grazia di riportare le più intime e confidenziali osservazioni di Brummell e, infine, lo cita come l’autorità che difende la tesi sostenuta nella parte conclusiva del saggio: I principi generali dell’eleganza e le norme specifiche che disciplinano la toilette.

  È doveroso riconoscere che la parte finale non sarebbe stata sconfessata da Brummell; infatti, e fortunatamente, l’autore nel dettare i principi essenziali dell’arte del vestire non segue il suo gusto personale, ma i precetti e le misure pratiche seguiti dal Beau. I comandamenti del dandy vengono presentati nel saggio con quella grazia e quella chiarezza ch’erano tanto piaciute nel Pelham. Balzac, rende giustizia ai principi fondamentali di semplicità e di unità, alla preminenza che il comportamento ha sull’abbigliamento, alla necessità imprescindibile di curare una pulizia del corpo, assoluta. “Une déchirure est un malheur, une tâche est un vice”. L’autore cerca, poi, d’illustrare con chiarezza la distinzione spesso ingannevole, esistente tra il vero uomo elegante, le cui geniali, misuratissime innovazioni apportate ai canoni della moda ne fanno un leader della moda e chi invece, è semplicemente un eccentrico. A questo punto Balzac riprende, parafrasandole, le parole stesse di Brummell:

  Brummell a, du reste, laissé la maxime la plus admirable sur cette matière, et l’assentiment de l’Angleterre l’a consacrée:

  - Si le peuple vous regarde avec attention, vous n’êtes pas bien mis : vous êtes trop bien mis, trop empesé, ou trop recherché.

  “D’après cette immortelle sentence” Balzac aggiunge volubilmente “tout fantassin doit passer inaperçu ...”.

 

  Note. [La numerazione è nostra].

 

  1 La maggior parte di questi articoli portavano la firma del Comte Alexandre de B... Fu in questo periodo che Balzac cominciò a chiamarsi Honoré de Balzac, facendo suoi lo stemma e l’albero genealogico di una nobile famiglia di provincia che portava lo stesso nome.

  2 Nel suo saggio, Balzac evita di usare i termini dandismo e dandy, poiché, per lui come per i suoi contemporanei, avevano un senso peggiorativo (e eccentricamente inglese), erano sinonimi di fatuo e di fatuità. Balzac usa il termine centauro, nel senso preciso che il 1830 gli dava (“Pour la vie élégante il n’y a d’être complet que le centaure, l’homme en tilbury”) e che generalmente indicava l’attaccamento che il dandy aveva per il suo cavallo. Ma, a partire dagli anni ’840, anche questo termine doveva aver preso una sfumatura peggiorativa, se Gautier ritenne necessario difendere il Jockey Club dall’accusa di essere “dalla cintola in su una società di giovani centauri e cavallo inglese nel resto ...” (1847).

 

 

  Alfredo Niceforo, Architettura corporea ... e psichica nei personaggi della “Commedia umana”, «Annali Ravasini», Roma, 1 novembre 1965, p. 11.

 

 

  Morse Peckham, L’autorità trascendentale, in Oltre la visione tragica. La ricerca dell’identità nel secolo diciannovesimo. Traduzione di Leda Mussio Sartini, Milano, Lerici editore, 1965 («Saggi»), pp. 195-215; L’orecchio trascendentale, pp. 216-236; Illusione e realtà. Il Trascendentalismo in difficoltà, pp. 249-260.

 

 

  Domenico Petrone, Colore della Turenna. Honoré de Balzac e la sua terra, «L’Osservatore romano», 1 Gennaio 1965, p. 6; 1 ill.

 

  Dove andava l’omino corpulento, benché giovane, una nera dell’estate 1839 per la via che da Tours conduce ad Azay?

  Sul cavallo di san Francesco — portandosi dietro una valigia colma di carte e fascicoli — andava al castello di Saché, dove l’attendava il suo ospite, che aveva dimenticato di mandare un calesse a rilevarlo a Tours. Onorato di Balzac camminava abbastanza svelto pur avendo molte ragioni di stanchezza: il lavoro schiacciante, innanzitutto, che lo piegava sullo scrittoio giorno e notte. Oh non doveva fornire agli editori i romanzi che gli permettessero di pagare i debiti che aveva contratto quando avendo fatto lo stampatore per conto suo era fallito? Inoltre aveva lasciato Parigi la vigilia, con la diligenza delle 6 di sera, che partendo dalla Piazza di Notre Dame-des-Victoires, centro topografico di Parigi, dopo averlo scorrazzato tutta la notte, lo aveva poi — con un’ora sola di sosta per desinare a Beaugency — deposto a Tours verso le 17: quasi un giorno intero di diligenza. E anche questa l’aveva stancato.

  Tuttavia il futuro autore della Commedia Umana non pensava a lamentarsene. Rimettendo piede sul suolo natale, egli sentiva rifiorire le sue forze, come quelle di Anteo nel toccare terra, e sentiva l’anima abbandonarsi all’incanto d’un paese che già aveva soggiogato altri due poeti: Ronsard e Bellay.

  La scarsella non gli doveva pesare gran che dopo essersi alleggerita per l’acquisto del biglietto della diligenza — il quale, ci dice un erudito dell’epoca, costava allora 88 franchi, cioè sei volte più del biglietto Parigi-Tours quando fu aperta la linea ferroviaria.

 

*

 

  Balzac lasciata alle sue spalle la città che l’aveva visto nascere, dove da bimbo aveva visto i soldati dell’imperatore sfilar per le strade, si arrampicava ora per la collina di Joue, traversava una regione di lande, oggi coltivata a vigneti e a grano, si fermava sotto un gran noce per riposarsi un poco, e, soprattutto, per riprendere possesso della Touraine, la sua terra tanto amata. «Ne me demandez pas pourquoi j’aime la Touraine: je l’aime comme un artiste aime l’art! Sans la Touraine peut-être ne vivrais-je plus!».

  Un altro brano delle tante dichiarazioni filiali di Balzac per questa terra, della sua valle dell’Indre, così come si vede dal piede di questo noce che porta il suo nome come a Roma è la «quercia» del Tasso. «Di qui si scopre — scriveva — una valle che comincia a Montbazon, finisce alla Loire, e sembra ergersi sotto i castelli allineati sulle duplici colline: una magnifica conca di smeraldo in fondo alla quale l’Indre si snoda con movenze serpentine».

  Vista da una certa distanza la valle non è molto cambiata. Seguiamo oggi che il tempo è chiaro, con lo sguardo, con Balzac, «quel lungo nastro d’acqua che luccica al sole tra due verdi rive, quelle linee di pioppi che decorano con merlettature cangianti il vallo d’amore, questi boschi di quercia che sporgono tra due vigneti, questi orizzonti sfumati e sfumanti che si sperdono, all’infinito». In teoria non è più Balzac che parla, ma un suo eroe. Lasciamolo e riprendiamo l’autore che va a Saché. L’itinerario non ha nulla di sgradevole. Si passava sul ponte «tremblant aux poutrelles pourries» dai piloni ricoperti di edere e per oltrepassare l’Indre. E che Balzac, considerato il proprio peso, non doveva prendere senza un qualche vago timore; ora il ponte è stato sostituito da uno nuovo di pietra, mentre i mulini, le isole verdeggianti, gli specchi d’acqua tappezzati di nenufarie e di gigli acquatici, i pioppeti, i noceti, gli orti sono sempre rimasti gli stessi e Pont-de-Ruan ha pur sempre la chiesa del XI secolo, la sua chiesa cioè, quella «del tempo delle Crociate» e così «come i pittori ne vanno cercando per dipingerle».

  Affrettiamo il passo insieme a Balzac, perché non siamo che ad un quarto d’ora, a piedi, da Saché: ecco, che dal parco centenario sorge la vecchia «gentilhommière» dalle pietre grigie talvolta dorate da un po’ di vischio. Il corpo dell’edificio è formato da due parti a squadra con una specie di torre tozza e mozza all’altezza del tetto. La dimora, il cui stile luigi XIII ricorda la data di costruzione, è a due piani, dalle finestre quadrate senza alcuna scultura; dimora borghese per eccellenza la cui semplicità è tutto un poema. La porta, d’un severo disegno, crea sin dall’ingresso, l’atmosfera.

  Nell’interno si trova, in fondo ad un corridoio, un’anticamera le cui porte si aprono su un vasto salone e poi su una sala da pranzo non meno vasta. È in quel salone che Balzac, dava agli ospiti, i signori di Margonne, e ai loro invitati, lo spettacolo dei suoi facili cambiamenti d’umore: ora imbronciato, ora affascinante.

  Quando non aveva lavorato, Balzac era triste e scuro: si era indugiato assorbito nelle sue preoccupazioni finanziarie.

  Nel caso contrario era sorridente ed incantava il suo «entourage». Maurice Serval, un fervente di Balzac, così descrive una di quelle serate: «dopo un inizio pesante, Balzac si alza, sale nella camera e ritorna con un manoscritto in mano: si mette a leggere. Siccome legge passeggiando in lungo e in largo, vengono accesi i candelabri, messi su tutte le tavole e i tavolinetti, ed egli si riscalda, declama, animato in viso, e tutti ascoltano scuotendosi le profondità della noia e mano a mano attraverso la sorpresa e il godimento giungere all’emozione. Gli è che è in ballo lo stesso paese di Saché, di Valesne, di la Chevrière, di Vosne, dell’Indre, di Tours! È l’inizio del «Giglio della Valle» (sic). Talvolta il lettore s’interrompe, per esclamare: «Ebbene, è descritto o non con bravura?». Le sue braccia si agitano, i capelli gli si arricciano sul capo. Dimentica la stanchezza, le noie, sino a quando, lasciando bruscamente l’uditorio, risale nella camera per rimettersi a scrivere sino all’alba novella.

 

*

 

  Quella camera situata al piano superiore a cui si accede con una scala a chiocciola: è conservata intatta: il crocifisso sul letto di legno, il baldacchino, la poltrona, il comodino con la piccola lampada a petrolio ... giacché Balzac scriveva generalmente di notte e talvolta anche stando a letto. I curiosi l’andavano a visitare ancora prima della morte dello scrittore: è. la stanza più piccola di Saché. Balzac l’aveva prescelta perché, diceva, «più un’anima è rinserrata fisicamente e più sboccia e si slancia verso i cieli. È questo uno dei segreti della cella della solitudine».

  E poi, dalla finestra egli non poteva vedere che gli alberi della foresta. Si resta silenziosi ed assorti sulla soglia di questa modesta cella — una fra le più colme del mondo di potenziale letterario — dentro cui furono concepiti e scritti: «La ricerca dell’assoluto», il «Séraphita», «Le illusioni perdute», «Il Padre Goriot», «Cesare Birotteau», «Il Giglio della Valle», senza contare una parte di «Eugénie Grundet».

  Allo stesso modo che Baudelaire, doveva più tardi accorrere da Parigi ad Honfleur, sulla Côte de Grâce che è la spiaggia di S. Teresina, per rinfrescare gli ardori interni al vento del largo, Balzac veniva quasi tutti gli anni a Saché per rifarsi «un cerveau neuf». Dopo aver per qualche ora «fait l’huître» bighellonato — così diceva egli stesso — si rimetteva al suo lavoro ... forzato. Ma la salubre ed affascinante Turenna non agiva solo sulle sue forze fisiche, essa gli procurava pure gli sfondi e i personaggi dei libri. Come è noto, la città di Saumur di (sic) suggerì, se non proprio il tipo stesso dell’avaro Grandet (l’Arpagone del XIX secolo) per lo meno la sua dimora «pâle, froide et silencieuse» e Vouvrav, il cui illustre vino bianco rende facondi, la facondia gioiosa di Gaudissart, senza dire, beninteso, di quel chiostro della Psalette di Tours, ove ... nacque il suo celebre Curato.

  Tuttavia il trionfo della Turenna nell’opera di Balzac è nell’immortale «Lys dans la vallée» germinato in mezzo ai campi.

  Pont-de-Ruan è ricostruita ora e modernizzata con la chiesa medievale che lo scrittore predilegeva (sic); le colline, come allora, sono ricoperte di boschi in mezzo ai quali emerge la torretta puntuta del castello di Valesne che, nel «Lys» si chiama «Frapeste» (sic). La facciata principale del grazioso edificio del XV secolo è tagliata nel mezzo dalla torretta pentagonale, in cui è inclusa la scala. Due ali squadrate la fiancheggiano. La facciata perpendicolare ad essa è ornata, all’altezza del tetto, d’un piccolo campanile di dove Balzac contemplava la stupenda valle. «La vallée sous toutes ses formes, ici par une échappée, là tout entière; à l’horizon la belle lame d’or de la Loire où les voiles dessinaient de fantastiques figures ...».

  «Le Lys de cette vallée, où elle croissait pour le ciel en le remplissant du parfum de ses vertus».

  Una cima, insomma, del romanticismo. La Turenna permane nella sua essenza «quel paradiso discreto», quel paese della misura e della grazia, senza cui, forse, Balzac non avrebbe potuto essere ciò che fu.

  Quel paese che ad ogni momento cambiava d’aspetto come il cielo la luce; le montagne cambiavano di colore, i versanti di sfumature, i valloncelli di forma: un insieme di immagini moltiplicate dagli inattesi opposti; un raggio di sole attraverso i tronchi di alberi, una radura naturale o qualche frana, rendevano quelle immagini deliziose allo sguardo, piene di calma tenerezza, in mezzo al silenzio. Indimenticabili. Il paese, convertito da S. Martino, il cavaliere romano che si fece Cavaliere di Cristo.

 

 

  Guido Piovene, Non è vero che Emma Bovary anticipi il “nouveau roman”, «La Stampa», Torino, Anno 99, Numero 100, 28 Aprile 1965, p. 3.

 

  La preminenza data a uno o all’altro dei grandi scrittori del passato è un indice degli orientamenti e dei mutamenti del gusto. Per esempio, negli anni della mia formazione, se si fosse chiesto ai giovani qual era il loro preferito tra i romanzieri francesi dell’Ottocento, credo che quasi tutti avrebbero detto: Stendhal. Stendhal come grande psicologo, ma soprattutto, allora, per la sua ironia superiore, per il ritmo e il gioco ilare della sua fantasia. Nell’immediato dopoguerra, specialmente in Francia, l’ago puntava su Balzac Questo balzachismo post bellico andava insieme con l’impegno politico, col precetto di un’arte con forte carica sociale, umanistica, storica. Balzac, e ancora Stendhal, erano i preferiti della critica socialista, ma Stendhal visto diversamente, e direi appaiato a Balzac, come romanziere storico che denunciava i vizi della società del suo tempo ed insieme vi reagiva, scoprendo e sostenendo, magari senza esserne interamente consapevole, le forze positive che la spingevano in avanti. [...].

 

 

  Guido Piovene, Marxismo e romanzo storico, «La Stampa», Torino, Anno 99, Numero 153, 30 Giugno 1965, p. 11.

 

  [...] Il romanzo storico sostituisce l’antica epopea perché la psicologia degli uomini, «le circostanze economico-morali della loro vita», si sono così complicate da rendere necessaria una descrizione vasta e differenziata.

  L’arte del grande romanziere come Balzac, che per Lukàcs costituisce il vertice, sta nell’essere dentro «la varietà e molteplicità d’aspetti della vita di un popolo», nel subbuglio delle «aspirazioni e tendenze individuali», ma di vederle miste al «contenuto sociale dei conflitti», da cui non si possono scindere. «Gli elementi complessi e capillari di tutta la società dell’epoca trovano il loro giusto posto nel quadro»; «lo sviluppo delle circostanze oggettive» emerge dal «graduale manifestarsi dei caratteri individuali che ne scaturiscono». Ma il grande romanziere, realista e non naturalista, non copia la realtà; la concentra nelle sue invenzioni, la esprime in individui tipici. Le grandi personalità della storia sono rappresentate nella, loro giusta luce se il romanziere fa sentire com’esse sorgano dalle oscure correnti del popolo, a cui danno voce; sono, nel tempo stesso, dominatrici ed accessorie. La società coi suoi conflitti è la vera protagonista. [...].

 

 

  Piero de Pità, Besozzi, un leone, «Venezia notte», Milano, Anno XV, 4 novembre 1965.

 

 

  Carlotta Prosperi, Un secolo di «dandismo» e un manuale di buone maniere, «Stampa Sera», Torino, Anno 97, Numero 135, 10-11 Giugno 1965, p. 3.

 

  Su Ellen Moers, Storia inimitabile del Dandy.

 

  Anche il buon Balzac, in Francia, volle fare il dandy nonostante la sua corpulenza, le sue grosse labbra, la sua capigliatura alquanto grassa, la sua espressione bonaria. Fu al tempo delle sue passioni per le duchesse. A teatro puntava l’occhialino verso un dato palco, portava abiti sgargianti, massicci anelli e una mazza che diventò famosa.

 

 

  Carola Prosperi, Parliamo di Balzac, «Stampa Sera», Torino, Anno 97, Numero 160, 9-10 Luglio 1965, p. 3.

 

  Diceva un giorno il poeta Gérard de Nerval: parliamo di Balzac, è una cosa che fa bene. Parliamo di Balzac.

  Io, quando lo conobbi, ero poco più di una ragazzetta, al tempo in cui, affamata di letture, appena raggranellavo un po’ di soldi, correvo da un libraio all’altro di libri usati; ce n’era uno in una via tranquilla, vicino al Seminario. Era una bella botteghina fresca e oscura e il libraio un ometto amabile che di libri se ne intendeva.

  Gli domandai:

  — Questo Balzac che scrittore è?

  L’ometto emise una specie di ruggito che doveva essere un grido d’indignazione per la mia ignoranza.

  — Balzac! Ma è un classico! Ne aveva una montagna lì sul banco. Venivano dalla biblioteca di un nobile signore morto da poco, gli eredi si erano affrettati a venderli tutti. Nella prima pagina c'era il nome, il titolo, lo stemma del nobile defunto, le edizioni, in francese, naturalmente, erano di Calmann Lévy stampate a caratteri molto piccoli, e ogni volume (eran tutti rilegati) conteneva due o quattro romanzi. Cosa orribile, ma che allora mi parve invece magnifica. Scelsi il più grosso e l’ottenni senza tirar troppo sul prezzo; l’ometto era generoso e aveva pietà della mia fame di letture. Potevo capitare su Eugénie Grandet, oppure su Le lys dans la vallée o che so, sulla Peau de chagrin. Nossignore. Il grosso volume conteneva Les illusions perdues (sic) con Grandeur et décadence des courtisanes (sic). Non mi ricordo la delizia che provai sprofondando nella vita di provincia di Angoulême, ma fu certamente straordinaria e crebbe del cento per cento quando entrò in scena Lucien, il bello, dolce, affascinante poeta. Ha già scritto un romanzo storico, Lucien, è la gloria letteraria di Angoulême ed è il beniamino di Madame Bargeton la dama più nobile e intellettuale del luogo, che, innamorata pazza di lui, lo vuole condurre a Parigi per presentarlo alla buona società e fargli far carriera. Ah, quella sera all’Opéra ricordate? I lions o dandy che dir si voglia, ci sono tutti: Rastignac, De Vandenesse. De Trailles, Canalis, De Marsay, Montriveau, tutti intorno alla marchesa D’Espard, una delle regine di Parigi, la quale si tiene accanto la Bargeton che, per quanto provinciale è pur sempre di nobiltà pura e sua cugina, ma guarda il povero Lucien come si guarda un cane randagio. Chi è costui? Lucien de Rubempré? Ma che Rubempré, è Lucien Chardon, figlio di una levatrice e di un farmacista. Tutti ridono, la Bargeton lo rinnega come Pietro rinnegò Gesù e il poveretto si trova abbandonato da tutti.

  Ah, de l’or, de l’or à tout prix! Anch’io esclamavo così con lui, stringendo i pugni. Povero Lucien, era un debole e dopo tante avventure e nonostante l’aiuto del terribile Vautrin mascherato da gesuita, doveva finire suicida in prigione, proprio quando più di una eccelsa dama era pronta a salvarlo.

  Finito il volume e pianta la fine di Lucien credevo che quei personaggi avessero finito la loro parte e che non li avrei rivisti mai più. Apro Le père Goriot e rieccoti Vautrin, eccoti soprattutto Rastignac, il quale è la contropartita di Rubempré, Rastignac appena arrivato a Parigi, studente povero; pensionante in quella famosa pensione Vauquer (chi potrà mai dimenticarla?) è ancora ingenuo, ma due personaggi, la marchesa di Beauséant sua lontana cugina e l’infernale Vautrin, gli dànno due lezioni. Io le avevo studiate a memoria, specie la prima quella della marchesa: «Lei vuole arrivare e io l’aiuterò. Scoprirà quanto sia profonda la corruzione femminile e misurerà l’estensione della miserabile vanità maschile. Uniche avessi letto molto nel libro del mondo, v’erano pagine che ancora non conoscevo, ora so tutto. Più calcolerà freddamente e più andrà avanti. Colpisca senza pietà e sarà temuto Consideri le donne e gli uomini soltanto come cavalli da nolo che lascerà crepare a ogni stazione, in tal modo giungerà al culmine dei suoi desideri. Vede lei, non sarà mai nulla qui, se non avrà una donna che s’interessi a lei e bisognerà che sia giovane, ricca, elegante. Ma se proverà un sentimento sincero, lo nasconda come un tesoro ... eccetera, eccetera.

  Più della lezione di Vautrin (ricordate: – Bisogna penetrare in quella massa d’uomini come una palla di cannone o infiltrarcisi come la peste, eccetera), Eugenio di Rastignac impara quella della dama; appena accompagnato, lui solo, il povero Goriot al cimiero, mostra il pugno a Parigi – A noi due adesso! E va a pranzare dalla biondissima e bellissima Delphine de Nucingen, figlia ingrata di Goriot, ne diventa l’amante, diventa il socio del marito che lo fa banchiere, sposa la figlia Nucingen, diventa ministro e Pari di Francia. Ma anch’io avevo intanto imparato qualcosa, avevo imparato che nessun romanzo di Balzac giungeva alla sua assoluta conclusione, perché in un altro romanzo avrei ritrovato quei certi personaggi. La Comédie humaine era veramente un mondo che brulicava di gente, di personaggi che si trovavan a Parigi come in provincia, in città come in campagna, Quel Bianchon, ad esempio, quel medico, studente nella pensione Vauquer, lo si trova in venticinque romanzi: un vero record.

  E a questo proposito un eminente scrittore francese Félicien Marceau ha pubblicato or non è molto presso l’editore Gallimard Balzac et son monde, volume che è una guida preziosissima per chi vuole veramente impadronirsi della Comédie humaine. In questo ponderoso, ricco, interessantissimo libro ogni personaggio, anche il più infimo, ha la sua storia e il posto che gli spetta. Naturalmente, dice l’autore, ci sono delle lacune, non potevano non esserci quando si tratta di Balzac. Balzac è un mondo e c’è in lui qualcosa che oltrepassa di gran lunga la nostra misura e la nostra comprensione. «Io — dice l’autore — ho considerato l’opera di Balzac come un monumento finito, simile, per esempio, a Notre-Dame. Mi sono piantato in mezzo, mi sono guardato attorno: ho visto personaggi, società intere e infine circolando fra i personaggi ho potuto animare gli intrighi, le passioni».

  Una specie di inventario, se vogliamo, un tentativo di scoprire le ricchezze, le ossessioni, le tendenze, del più misterioso, così egli dice, dei romanzieri, viaggio attraverso mille soggetti, un tentativo di spiegare la creazione romanzesca di un genio qual era Balzac.

  Il volume è diviso in più parti: prima vengono i Lions, cioè i giovani della gran società, i cui esempi più brillanti sono appunto Lucien, il vinto, e Rastignac il vincitore, poi c’è lo scellerato De Trailles, Montriveau, il buono, l’ingenuo, De Marsay il cinico e via dicendo. Dopo i Lions, Les femmes, ma non le donnette qualunque, quelle del gran mondo, le splendide tigri, come madame de Beauséant, le regine di Parigi, la D’Espard, la Maufrigneuse, e tutte le altre tra cui quella bellissima Antoinette de Langeais, di cui si parlò parecchie volte a proposito della Garbo. La Langeais che è orgogliosa e fredda si prendeva gioco della sincera passione di Montrivau, il quale, per punirla, la fa rapire, finse di volerla bollare a fuoco violenza finta, che fa nascere in lei una passione folle per Montriveau il quale la respinge inesorabilmente e lei va a farsi monaca e quando lui arriva per perdonarla è già morta di dolore. Greta Garbo ne avrebbe fatto certo una figura indimenticabile e forse avrebbe finito la sua carriera in bellezza.

  Balzac fa una strana differenza fra la donna elegante e la donna alla moda. In qual momento lo sportivo diventa un campione? Ecco, la donna alla moda è il campione. E’ qualcosa a cui non basta la ricchezza, l’eleganza, la bellezza, ci vuol la vocazione. La donna alla moda, scrisse Proust imitando Balzac, è la carmelitana del successo mondano. Ci vuole una salute di ferro e un cuore d’acciaio. Appena sono vittime dell’amore queste donne non sono più alla moda. Così la Beauséant e la Langeais mentre la D’Espard e la Maufrigneuse regnano fino alla fine. (Questo, s’intende, in questo mondo di Balzac, il mondo della Restaurazione, che comincia nel 1815). Poi ci sono Les Vielles filles, le zitelle, le demoniache come la cousine Bette, le angeliche come Armanda d’Esgrignon e poi i giovani e le fanciulle in fiore. Non si finirebbe più. Chi ha letto Proust può capire come egli abbia scrupolosamente studiato Balzac nelle più intime sfumature. Perché in questo mondo balzachiano c’è veramente tutto: l’amore, le passioni d’ogni sorta anche le proibite, il denaro con tutti i suoi drammi, la vita letteraria artistica e galante, la provincia, la campagna, le città, Parigi, gli artisti sublimi, i criminali, la filosofia e i suoi problemi nonché il tema dominante di Proust, vale a dire il tempo che passa. E’ comprensibile che portare in sé un mondo simile era troppo per una creatura umana. E’ chiaro che dal mondo vero reale, un simile genio non poteva ottenere che urti, colpi, delusioni e amarezze. E peggio, rancore, ostilità, antipatia. Chi lo amò veramente?

  Sua madre no, la sorella, qualche modesta amica, non certo le dame alle quali lui tendeva con tutte le sue forze, Madame de Berny forse; era una donna intelligente, capiva di avere fra le mani un giovane genio e amò il suo genio, forse, non lui. E la moglie, quella stravagante enigmatica polacca, che lui vedeva attraverso veli e veli d’illusione? Qualche biografo la esalta. Certo fece dei sacrifici di denaro per lui, certo, alla fine, si decise a sposarlo. Ma perché lo sposò? Per pietà, giacché sapeva benissimo che egli era condannato, che a cinquant’anni ucciso dalla sua opera, dalla fatica, da quel mondo che aveva creato, lui, da solo, stava per morire? La pietà non è amore. E poi era proprio capace di pietà quella frivola incomprensibile dama che se ne andava in giro, durante il viaggio di nozze, diciamo così, dalla Polonia a Parigi a comprare gioielli e toilettes all’ultima moda, mentre lui giaceva torturato da mille mali su un letto d’albergo.

  Victor Hugo andò due volte a trovare Balzac morente. Ma la moglie non era mai al suo capezzale, c’era solo qualche servente di buon cuore che piangeva. Madame riposava. Il marito, agonizza e la moglie riposa. Aveva tanto tempo da riposare dopo. Dopo infatti non solo riposò, ma si dette alla bella vita, prese degli amanti giovani, si risposò e trovava che andare nei locali notturni era cosa deliziosa. A Parigi ci si divertiva molto; bella, benché grassa, sensuale, frivola, misteriosa, non lasciò mai Parigi, non tornò mai in Polonia. Forse Balzac le era servito a questo a venire a stabilirsi a Parigi. E lui che scriveva: «Lascio tutto alla donna che ho amato sempre, che amo e che amerò fino alla morte ...». I difensori di questa strana dama dicono che avrebbe potuto rifiutare l’eredità che era tutta di debiti, debiti che invece pagò puntualmente. E questo certo è un punto a suo favore. Ma ciò che più di tutto mi indigna è che lei, quest’uomo che non amava, perché non era un nobile, e non era bello, e parlando spruzzava saliva, e non stava bene a tavola, quest’uomo di cui lei amava solo il successo lo chiamava Bilboquet in famiglia, coi parenti e amici, «Il povero Bilboquet sta molto male ...», Bilboquet è quel fantoccio che non sta mai disteso, lo buttate giù e lui torna subito ritto Noi lo chiamiamo misirizzi. No, quel genio non fu veramente amato che dai posteri, da quelli che l’hanno letto e lo leggono ancora. Grande, immenso, e povero Balzac.

 

 

  Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve. Sainte-Beuve e Balzac, in Giornate di lettura. Vigilie ed esperienze di un poeta, a cura di Paolo Serini, Milano, Il Saggiatore, 1965 («I Gabbiani», 26), pp. 217-246.

 

 

  Ugo Ronfani, A Passy con Balzac, «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXXVIII, Numero 68, 10 marzo 1965, p. 3; 1 ill.

 

  Siamo di fronte alla riproduzione pressoché integrale dell’articolo scritto da Luigi Fabrizi e pubblicato il 2 marzo ne «L’Italia»; l’integrazione più rilevante che il Ronfani inserisce è la seguente:

 

  E c’è il Balzac delle passioni amorose, circondato dai ritratti delle donne della sua vita: madame de Berny, la diletta evocata ne La duchessa di Lakgeaie (sic) colei che oltre a rivelargli la passione gli fu madre, sorella, consigliera; Zulma Arraud (sic), suo rifugio nelle ore di stanchezza e di sconforto; la duchessa De Castries, che avrebbe voluto tenerselo nella prigione dorata del suo palazzo di Venezia perché potesse lavorare in pace; Caroline Marbouty, amica avventurosa che l’accompagnò nel suo viaggio a Torino del 1836 travestita d’uomo! e naturalmente la contessa Hanska. bellissima ed inaccessibile nel suo castello in Ucraina, il sogno di tutta la sua vita.

 

 

  Franco Simone, Essai historique et critique sur “Les Paysans”, in Honoré de Balzac, Les Paysans … cit., pp. 321-345.

 

  En 1852, deux ans à peine après la mort de Balzac. Madame Hanska, fidèleà l’artiste et à son œuvre, reprit les chapitres encore inédits des Paysans pour préparer une édition complète de ce roman et, en cette occasion, justifia très opportunément son projet en signalant une des caractéristiques fondamentales de l’ouvrage. Les Paysans étant dignes de mémoire, Madame Hanska entendait, «dans l’intérêt de l’art littéraire», contribuer au succès général de l’œuvre de Balzac en suggérant d’utiliser ce roman pour «une étude de la manière de composer de l’auteur». En 1855, après une série de fâcheuses difficultés éditoriales, le texte eut enfin la bonne chance d’une édition complète, d’abord dans la «Revue de Paris», puis dans les cinq volumes de l’édition de Potter. Dans sa nouvelle présentation, le roman éveilla un intérêt en tout semblable à celui qui avait inspiré son exhumation à Madame Hanska. De sorte que, plus tard, en 1901, l’éminent érudit que fut Charles de Spoelberch de Lovenjoul, orientant ses recherches dans le même sens, confirma l’intérêt déjà signalé et reconnu par tous. Dans un ouvrage célèbre, de Spoelberch, à l’aide d’une riche série de manuscrits, de notes et d’ébauches retrouvées et remises en lumière, démontra combien était exacte l’indication fournie par Madame Hanska. Fidèle à un principe critique désormais accepté l’érudit ne se préoccupait pas de fixer la valeur esthétique des Paysans; il voulait prouver que ce roman était, en fait, un exemple typique de la manière originale de composer de l’auteur. Les documents heureusement conservés, réunis et présentés tous ensemble, offraient la possibilité de suivre Balzac depuis les plus anciens projets de son récit et les premières difficultés de publication, à travers les transformations successives, les résultats partiaux et les interruptions forcées, jusqu’à la rédaction définitive de la première partie, la composition des derniers chapitres et l’arrêt final. De la manière la plus inattendue, l’histoire des Paysans paraissait offrir la clé nécessaire pour forcer la porte du cabinet de travail de Balzac, pour entrer enfin dans le secret des secrets et découvrir une vérité difficile à atteindre par-delà les affirmations contradictoires et les vantardises du romancier.

  Soixante ans après les heureuses découvertes de Ch. de Spoelberch, on peut affirmer avec certitude que le temps a continué à travailler pour Les Pavsans. Ce roman n’a jamais été oublié. Au contraire, plus les années ont passé et plus il est devenu un objet particulier de recherches successives utiles à l’approfondissement d’une genèse assez singulière. L’érudition et le travail critique ont ainsi fait que, peu à peu, Les Paysans ont été élevés au rang des œuvres les plus caractéristiques de Balzac. Au moment où nous écrivons, la critique est unanime à présenter ce roman sous un jour si favorable qu’André Maurois peut en donner l’appréciation que voici : «Le livre est des plus beaux, d’une inépuisable vérité, aussi solide aujourd’hui qu’au XIXe siècle».

  Il nous paraît certain qu’en exprimant cette opinion André Maurois tient compte d’une interprétation critique qui est le fruit des études les plus récentes. Quand, en 1961, J.-H. Donnard se proposa de déterminer comment la réalité économique et sociale d’alors avait suggéré à Balzac des faits, des personnages et des situations, c’est avec une attention particulière qu’il revint à notre roman. Il y revint, non seulement pour signaler les sources certaines de quelques-unes des pages les plus heureuses, mais aussi pour rappeler l’attention des critiques sur l’inspiration générale du récit. Et si à M. Donnard le roman se présente comme «le complément naturel et nécessaire du Curé de village, il apparaît encore bien plus important aux yeux du critique comme le portrait fidèle du prolétariat rural décrit dans des pages riches en réminiscences historiques. M. Donnard est surtout frappé de l’engagement politique de Balzac. C’est l’engagement d’un conservateur qui, vers 1840, considère le prolétariat comme plus dangereux que jamais et qui, mettant à profit des expériences personnelles et des lectures, s’est lentement persuadé qu’une révolution sociale est possible, même si elle n’est pas souhaitable. Le roman qui, par ailleurs, n’est ni complet ni stylistiquement au point, tire son unité de cet engagement social. Et c’est pourquoi, en 1964, M. Donnard rappelle encore comment, dans cet ouvrage «passionné et partisan», Balzac a exposé ses théories politiques, économiques et sociales «avec une rigueur et une vigueur que l’on ne trouve pas ailleurs». Un autre éloge fut exprimé par M. Bardèche lorsque ce critique, partant d’une perspective différente et opposant Les Paysans aux autres Scènes de la vie de campagne, souligna combien était crue la réalité d’un tableau destiné à rappeler la pénible situation du paysan français pendant les années de la Restauration. Grâce à ce jugement, exact sinon nouveau, M. Bardèche pouvait alors faire accomplir à l’appréciation critique du roman un pas tout à fait inattendu. La définition selon laquelle Les Paysans seraient «une étude d’individualisme féroce sur des âmes simples», a le mérite d’attirer l’attention moins sur l’engagement politique de Balzac que sur la manière dont les idées politiques opèrent sur l’imagination du romancier. Naturellement, en développant ce point de vue, on fait passer au second plan le cadre politique qui devient la toile de fond et non plus l’action principale. En revanche, les personnages de premier plan sont désormais ceux qui sont décrits avec le plus de soin et rendus vivants par les sentiments que les préoccupations politiques dominent, font mûrir et exploser. Maurice Bardèche fait timidement allusion à une telle perspective critique et J.-H. Donnard l’entrevoit vaguement. Elle me semble pourtant riche en féconds développements et, comme telle, digne d’être isolée, approfondie et confirmée. Si jamais elle se montre valable, elle nous sera utile non seulement pour relire encore une fois Les Paysans comme un exemple caractéristique du mode de composer de Balzac, mais il deviendra dès lors possible de confirmer d’une manière plus convaincante et plus fructueuse comment, alors même qu’il développe les thèmes les plus éloignés de son tempérament, le romancier retrouve toujours sa personnalité et sa capacité de projeter sur les hommes et sur les faits une lumière qui, à elle seule, proclame son originalité et son talent.

  2. Ayant ainsi fait le point du problème critique qui justifie une nouvelle lecture des Paysans, nous croyons utile, pour mieux préparer la nouvelle interprétation, de refaire et de compléter par de nouveaux détails l’histoire, assez complexe, de la composition du roman.

  Pour trouver une première esquisse du thème fondamental de notre récit, il faut remonter jusqu’en 1834. Nous sommes dans les mois au cours desquels l’écrivain, après avoir patiemment attendu de pouvoir rencontrer Madame Hanska à Genève, réalise finalement son projet et passe, à l’«Auberge de l’Arc», quarante jours d’amour et de travail. Eugénie Grandet terminée, et tandis qu’il compose La Duchesse de Langeais et une partie du Cabinet des antiques, il faut admettre, comme le suggère de Spoelberch, que le romancier, curieux de s’instruire pour créer, s’est intéressé à la situation économique et sociale de la propriété de Wenceslas Hanski. Bien accueilli par le mari complaisant et secrètement aimé de Madame Hanska, Balzac a pu participer à des conversations familières, entrant ainsi dans les secrets financiers d’une grande famille de propriétaires terriens. Alors, de fil en aiguille, Eveline Hanska, qui appréciait beaucoup le caractère de l’écrivain et recherchait tous les moyens de lier à un monde familier «son humble mougik», aurait proposé à ce dernier de prendre comme sujet d’un nouveau roman, qui se serait intitule Le Grand Propriétaire, les difficultés des possesseurs de «latifundia» polonais et ukrainiens. En somme, Madame Hanska suggérait à Balzac la description de la lutte sérieusement engagée, ces années-là, entre un prolétariat auquel la Révolution avait enseigné la dignité de ses droits et une classe conservatrice, décidée plus que jamais à défendre ses biens. Le conseil ne tomba pas dans l’oreille d’un sourd. Rentré à Paris, malgré l’agitation d’une nostalgie sincère et au milieu des servitudes d’un travail toujours harcelant, Balzac trouva certainement le moyen d’ébaucher Le Grand Propriétaire. De fait, il en écrivit une vingtaine de feuilles dans lesquelles le roman projeté se présente de la manière suivante.

  A peu de distance de Tours, un château parmi les plus beaux que la Renaissance ait semés entre la Touraine et le Berry, domine La-Ville-aux-Fayes et semble en quelque sorte écraser le bourg. En réalité, c’est la puissance du châtelain qui écrase les habitants, tous unis par les liens d’une étroite parenté, laquelle, grâce à l’évolution sociale et politique, devient chaque jour plus prospère et plus envahissante. La prospérité alimente l’envahissement; l’envahissement se transforme en lutte contre le châtelain menacé sur ses propres terres par les intrigues des affaires louches et les finasseries des avocats. Le vieux marquis de Grandlieu est un aristocrate revêche mais point sot, un homme distant mais qui n’abandonne pas encore la lutte. Il suit les fluctuations générales de la politique et, plus particulièrement, résiste aux assauts des nouveaux riches qui cherchent à mettre à exécution un plan bien monté pour acheter et démembrer à sa mort le grand domaine. Il y résiste si bien qu’il parvient, non seulement à ne pas perdre sa fortune, mais encore à l’augmenter et à la transmettre intacte à un fils parfaitement inconnu des habitants du bourg. Le nouveau propriétaire, élevé et marié en Angleterre, ramène au château avec sa jeune famille la splendeur d’autrefois et, très sûr de lui, se prépare à résister aux assauts répétés que les bourgeois, tous affiliés au libéralisme et au nom même du nouvel idéal, lui livrent dans le but ultime de l’appauvrir pour s’enrichir. Le texte s’arrête au moment où «la haine des bourgeois contre le château devient une passion politique», une passion intéressée, sans aucun idéal, et au nom de laquelle il fut décidé «qu’il fallait se délivrer du noble à tout prix».

  Si l’on compare cette rapide esquisse à «l’histoire doublement horrible» (cf. p. 24) des Paysans, il saute aux yeux que, dans le schéma politique comme dans le développement possible de certains détails, le rapport entre les deux œuvres est limité, à peine indiqué et pas du tout développé comme il convient à une semence qui prépare déjà sa fleur. En ce qui concerne la teneur politique du texte, M. Donnard a eu beau jeu d’observer:

  «Dans Le Grand Propriétaire, des bourgeois se dressent contre un aristocrate, le peuple restant en dehors du débat. Au contraire, dans Les Paysans, le personnage principal, comme l’indique le titre, est le prolétariat, ennemi irréductible de la classe possédante, le prolétariat haineux qui vit de rapines et n’hésite pas à commettre des crimes».

  Une telle différence fondamentale entre les deux textes existe indubitablement, de même que, très clairement aussi, il existe des réminiscences de détail. De ces dernières, de Spoelberch autrefois et, plus récemment, M. Donnard ont rappelé les plus évidentes (le retour de certains noms, la reprise littérale de quelques courts passages); il est donc probable que «Balzac, en rédigeant Les Paysans, avait sous les yeux la première ébauche».

  Cependant, le rapport est confirmé aussi par des réminiscences d’un caractère plus subtil que celles commentées par nos prédécesseurs. Ce qui frappe, au premier abord, c’est le soin avec lequel sont décrits les deux châteaux, comme si Balzac ne voulait pas perdre ces deux occasions de s’abandonner à la joie de construire et de meubler. Ensuite, on ne saurait négliger le fait que les châteaux remontent tous deux à la Renaissance et que de là vient leur beauté sans cesse augmentée au cours des siècles suivants. Finalement, il vaut d’être rappelé que, aussi bien dans l’ébauche que dans le récit, cette ancienneté attribuée aux deux châteaux est un symbole qui justifie l’acharnement du propriétaire à conserver et à défendre d’aussi précieux témoignages d’un siècle prestigieux.

  A un acharnement aussi justifié, Balzac oppose, dans les deux textes, l’agent le plus actif de la ruine du domaine. Dans Le Grand Propriétaire, ce personnage se nomme Garangeot, dans Les Paysans, Gaubertin. L’un et l’autre sont les régisseurs des deux domaines, les ennemis les plus certains des féodaux, les espions que ces derniers entretiennent chez eux pour leur fatale et implacable ruine. L’analogie est des plus évidentes et cela est bien plus important qu’on ne le croit.

  Dans un passage significatif du chapitre VII de la première partie des Paysans, Balzac s’attarde un moment à définir la position sociale du régisseur de domaine rural et, à cette occasion, il montre à quel point il connaît les fonctions, les responsabilités et les privilèges de l’homme auquel les propriétaires fonciers confient leurs richesses. Le romancier se rend si bien compte du caractère délicat de cette charge administrative que, après avoir fait une allusion pertinente aux difficultés de recrutement de semblables fonctionnaires, non sans ironie il en appelle, en ces termes, à l’expérience du comte Hanski:

  «Il faut donc choisir entre quelque inepte Probité qui nuit par inertie ou par myopie, et l’Habileté qui songe à elle. De là cette nomenclature sociale et l’histoire naturelle des intendants, ainsi définis par un grand seigneur polonais: Nous avons, disait-il, trois sortes de régisseurs: celui qui ne pense qu’à lui, celui qui pense à nous et à lui; quant à celui qui ne penserait qu’à nous, il ne s’est jamais rencontré. Heureux le propriétaire qui met la main sur le second!» (cf. p. 104).

  Surgie certainement du sein d’une conversation familière — peut-être à Genève? — cette observation du comte Hanski avait fait longuement et heureusement son chemin dans l’imagination de Balzac. Elle avait trouvé là un esprit préparé par des expériences françaises analogues; elle avait agi sur un tempérament que cette fonction, tout à la fois indispensable et fausse, savait habilement utiliser pour préciser une vision particulière de la vie; enfin, à l’écrivain qui s’attache à l’évolution des mœurs, elle avait offert un thème et, plus encore, un moyen pour approfondir l’étude d’une société et d’un de ses aspects caractéristiques. Balzac lui-même, à la suite de la page citée, rappelle que le personnage de l’intendant de domaine est présent dans la société de La Comédie humaine. Dans Un début dans la vie (1842), le romancier s’était proposé de décrire en Moreau l’intendant qui représente le second des types catalogués par Wenceslas Hanski. Le comte de Sérisy a eu la chance de «mettre la main», justement, sur un régisseur qui se contente, dans sa prudence, de diviser les profits d’un riche domaine en deux parties équitablement destinées à sa propre poche et à celle du patron. Mais dans Le Cabinet des antiques (1838), auquel Balzac travailla aussi pendant son séjour à Genève en 1834, l’écrivain avait tenté un portrait encore plus difficile, et en Chesnel, il s’était proposé de décrire l’intendant honnête et dévoué, «un personnage invraisemblable que la vieille Noblesse a néanmoins connu ... mais qui disparut avec elle» (cf. p. 104). N’en doutons pas, puisque Balzac lui-même l’affirme: en Gaubertin nous devons voir le type du régisseur que le comte Hanski signalait en premier lieu, «l’intendant exclusivement occupé de sa fortune». C’est ce personnage-là qui avait été découvert le premier par le romancier lui-même qui, dans sa première ébauche, l’avait appelé Garangeot, en attendant de préparer le portrait soigné, minutieux, ténébreux de l’intendant du comte de Montcornet.

  Donc, il y a bien une continuité créative, sûre et décisive, qui révèle très clairement un rapport interne entre Le Grand Propriétaire et Les Paysans. A son tour, et bien que d’une manière moins explicite, ce rapport confirme combien le souvenir des difficiles expériences économiques du comte Hanski, connues de Balzac depuis 1834, a fructifié dans l’imagination du romancier. Le résultat final est un précieux témoignage grâce auquel nous acquérons la certitude que Balzac, dans les moments les plus heureux de son travail créateur, demeure fidèle à ses souvenirs; que le travail de l’imagination met, bien sûr, ces souvenirs en valeur, mais leur donne aussi couleur et y met pour toujours le sceau de son empreinte originale; enfin, que Les Paysans présupposent effectivement cette perspective «polonaise» et «ukrainienne» déjà relevée avec perspicacité par M. Bardèche.

  3. Puisqu’en étudiant la genèse d’un détail du complexe récit des Paysans nous avons recueilli un témoignage aussi significatif et aussi caractéristique, nous sommes invités désormais à procéder avec prudence dans l’examen critique du roman tout entier. Impossible de s’arrêter aux premières impressions de lecture, avec un texte que, tout au contraire, il faut interpréter en tenant toujours compte de la chronique détaillée de sa composition.

  Ayant écrit les quelques pages du Grand Propriétaire, dès 1834 Balzac interrompit la rédaction du roman projeté. Il fut attiré par d’autres sujets dont devaient sortir La fille aux yeux d’or (1835), Le lys dans la vallée (1836), Les illusions perdues (sic) (1837). Le romancier vécut alors une période d’intense activité — jamais le torrent qui m’emporte n’a été plus rapide — et l’on comprend aisément que, pour réaliser ses projets, il ait choisi d’abord ceux qui étaient les plus mûrs pour son génie créateur. Mais, à la fin de 1838, Balzac annonce, à Madame Hanska précisément — et pour cause! —, qu’il a écrit un roman en deux volumes intitulé Qui a terre a guerre. Au cours des quatre années précédentes, le thème s’était précisé dans ses éléments constitutifs et, si la thèse générale demeurait intacte — « la lutte entre les paysans de la circonscription et un grand propriétaire» — les détails se trouvaient mieux définis. De la sorte, le choc entre deux intérêts opposés se polarisait sur la défense acharnée, d’une part et de l’autre, sur l’acquisition illégale de riches forêts. Vers la fin de l’année, Balzac avait préparé une nouvelle rédaction de ce récit mieux articulé, et l’avait fait composer typographiquement, selon une de ses méthodes caractéristiques de travail, avec de vieux caractères appelés «têtes de clous». Cette version était un brouillon qui devait servir au romancier pour donner l’élan à son imagination, la guider, et construire ainsi peu à peu le récit définitif. Arrivé à ce point, Balzac, comme toujours, chercha à vendre le roman projeté et à peine commencé. En 1839, il lui donne un nouveau titre qui annonce le définitif. En 1842, il prétend avoir terminé une nouvelle version: il ne lui reste plus qu’à en perfectionner le style. Le fait est vrai, mais le roman change encore de titre: il devient La chaumière et le château et, sous cette étiquette, attend d’être vendu avec un bon contrat. Finalement l’éditeur désiré est trouvé en 1844, lorsque Balzac écrit à Madame Hanska: «Les Paysans doivent être et seront un chef-d’œuvre». La publication du roman commence dans La Presse, le 3 décembre, et continue régulièrement jusqu’au 21 du même mois. Les treize chapitres de la première partie sont alors présentés au public, très légitimement, dans l’unité d’une construction bien articulée. On discute si, à ce moment-là, Balzac tenait déjà prêts quelques chapitres de la seconde partie. Mais pour quelles raisons le journal fut-il contraint, alors, d’interrompre la publication du roman? A notre avis, il est certain que la partie des Paysans publiée en 1844 a son autonomie, et, pour cette raison, doit être analysée et jugée indépendamment du reste. Ce faisant, on comprendra l’arrêt de la publication, lequel, pour ce qui concerne l’éditeur, peut avoir été imposé par des motifs commerciaux. Mais du point de vue critique, une fois isolée et mise en lumière l’autonomie de la première partie de notre roman, il est facile d’y reconnaître la manière absolument caractéristique de Balzac de bâtir un récit. Car c’est ainsi qu’il imprime le sceau de son originalité, même sur un sujet aimablement imposé et, comme nous le verrons, pas tout à fait dans la ligne de son tempérament.

  En premier lieu, sont très utiles à notre dessein les affirmations écrites par le romancier relativement à son programme quand, en 1844, il dédie le roman à Gavault. Dans ces pages, Balzac éclaire justement la signification du roman et explique que son but théorique est de présenter «une étude d’une effrayante vérité». Cette étude devait faire justice de nombreux mythes romantiques et ne pas exalter les criminels, les bourreaux, les cent manifestations d’un prolétariat que notre conservateur juge par trop «déifié», mais devait au contraire mettre en lumière, grâce à une documentation précise, «la conspiration permanente de ceux que nous appelons encore les faibles contre ceux qui se croient les forts, du paysan contre le riche» (cf. p. 7). Jugeant les choses ainsi, Balzac se proposait d’écrire une œuvre à caractère social, digne d’un pionnier; une œuvre qui aurait dû être un auxiliaire précieux, sinon pour le législateur de son temps, du moins pour celui des années futures. L’observateur des mœurs qui s’imposait l’objectivité, même si dans le domaine concret il faisait preuve de passion partisane, vivait dans son temps et, après avoir médité sur les manifestations fréquentes et imposantes du Tiers-État, prédisait avec lucidité: «cet élément insocial créé par la Révolution absorbera quelque jour la Bourgeoisie, comme la Bourgeoisie a dévoré la Noblesse» (cf. p. 8). En somme, Balzac sentait bien que de son temps la société progressait rapidement dans son heureuse évolution. Et, surtout, il notait quel type de conscience nouvelle ce Tiers-État était précisément en train d’acquérir, ce Tiers-État qui apparait alors à son observateur quelque peu effrayé, comme «un Robespierre à une tête et à vingt millions de bras» (cf. p. 8.). Cette image bien trouvée exprime d’une manière concrète toute la pensée conservatrice de Balzac qui, hésitant dans ses jugements politiques plus qu’on ne le pense généralement, éprouve d’autre part l’attraction de cette masse populaire en marche, qui a pour elle la chance et la victoire, depuis les années de la Révolution. La présence toujours plus envahissante et caractéristique du peuple dans la société de son temps conquiert l’écrivain. Elle le conquiert au point que, si le penseur se montre hésitant dans son jugement, sévère dans ses accusations, injuste dans ses appréciations, l’écrivain, au contraire, est attiré par une classe sociale qui, dans La Comédie humaine, ne peut pas être négligée, justement parce que, par des manifestations toujours plus importantes et significatives, elle affirme une force qui caractérise une époque et la définit. Nous ne pourrions pas expliquer autrement le fait que Balzac ait songé à édifier avec Les Paysans une œuvre de longue haleine, un roman en plusieurs volumes, un chef-d’œuvre bien médité, dans lequel le monde des prolétaires se serait retrouvé, reconnu et même sévèrement jugé. De même qu’il avait été attiré par d’autres thèmes non moins importants et solennels, le romancier, ne nous en étonnons pas, s’est enthousiasmé pour l’aspect récent de l’histoire aventureuse et pénible du Tiers-État.

  Voilà pour les rêves et les intentions. Dans la réalité, ce roman difficilement mis sur pied et publié après tant d’obstacles, nous fournit la preuve que le rapide envol de l'imagination créatrice ne suivait pas l’enthousiasme de l’écrivain. Il faudrait dire, au contraire, qu’en passant du projet à l’exécution, Balzac, au moins une fois, et d’une manière qui fait peine, se trouva acculé à une des limites de son tempérament d’artiste. Il aurait voulu décrire la masse populaire dans ses obscures exigences, dans ses agitations multiformes, dans ses longues luttes et dans ses premières victoires; il aurait voulu être le peintre, inspiré et perspicace, du Tiers-État comme il était le mémorialiste fin et pénétrant de la bourgeoisie et de l’aristocratie. Et si Balzac visait si haut, c’est parce qu’il comprenait combien de possibilités lui offrait un sujet tellement riche, et aussi que, de cette manière-là seulement, il pouvait réaliser une aspiration qui, dans les siècles, remontait à L’Astrée. Élevant le roman jusqu’au ton de l’épopée, ce nouveau genre littéraire aurait hérité finalement du prestige et des mérites de la forme d’expression la plus haute, toujours recherchée depuis le temps de Ronsard et jamais atteinte.

  Le dessein est évident dans chacun des chapitres du roman. Toute une série d’observations critiques le révèlent, le suivent dans ses départs successifs, en notent les côtés faibles et les malheureux résultats. Dans le premier chapitre de la première partie, le romancier se sert de la technique du récit épistolaire pour créer l’ambiance de l’action. Ce début est dans les règles du roman de mœurs et, comme Balzac sait parfaitement combien le procédé est peu original, il intervient aussitôt pour avertir le lecteur. Que personne ne croie que le romancier veut écrire «un drame de chambre à coucher» (cf. p. 24). Même si le premier tableau peut être trompeur, dans la réalité «le drame ici n’est pas restreint à la vie privée» (cf. p. 24). L’écrivain, visiblement, aspire à des fins plus ambitieuses:

  « Ne vous attendez pas à la passion, le vrai ne sera que trop dramatique». Comme la recherche de la vérité est le guide unique de l’«historien» conscient de sa mission, le principe théorique qui inspirera le récit se trouve formule de la manière suivante:

  «L’historien ne doit jamais oublier que sa mission est de faire à chacun sa part; le malheureux et le riche sont égaux devant sa plume; pour lui, le paysan a la grandeur de ses misères, comme le riche a la petitesse de ses ridicules; enfin le riche a des passions, le paysan n’a que des besoins, le paysan est donc doublement pauvre; et si, politiquement, ses agressions doivent être impitoyablement réprimées, humainement et religieusement, il est sacré» (cf. p. 24).

  L’objectivité contraint le romancier à opposer les riches aux pauvres, à les juger en bien comme en mal, à les condamner et à les défendre sans oublier que le plus pauvre de tous les pauvres est le paysan, deux fois indigent par ses misères et par ses besoins. Le drame social étant donc délimité clairement par ses deux éléments extrêmes, il reste au romancier la tâche délicate de saisir l’étincelle qui jaillit entre les deux pôles et de décrire l'incendie qui se développe progressivement. A diverses reprises, Balzac soufflé sur le feu, attendant le miracle. Dans le cours du récit, l’incendie social grandiose, tumultueux, entraînant une vaste participation de la masse, semble toujours sur le point d’éclater et d’imposer son caractère inéluctable. Parfois Balzac s’adresse aux lecteurs pour contenir leur impatience («... vous qui lisez ce drame social ...») (cf. p. 94); d’autres fois, il s’excuse clairement en condamnant la curiosité de celui qui pourrait l’accuser d’inutiles diversions (cf. p. 153). Une fois, au moins, il rappelle que «l’historien des mœurs obéit à des lois plus dures que celles qui régissent l’historien des faits». Cette règle lui sert à justifier son incapacité à remonter des faits particuliers aux perspectives générales et à expliquer comment dans le récit on remarque la présence constante des individus et l’absence totale des masses. Plus qu’ailleurs, et précisément dans cette page importante, Balzac révèle de la manière la plus évidente la limite de son génie créateur et, selon son habitude, il la révèle en la niant. Il répète qu’il veut mettre en jeu «les intérêts sociaux des campagnes» (cf. p. 154), mais il soutient que pour réussir dans cette tâche difficile, le moyen d’expression, unique et efficace, est de décrire comment le fait quotidien prépare l’événement historique (cf. p. 153). Balzac est si bien convaincu que la petite chronique prépare la grande histoire qu’il s’arrête dans la chronique et s’y perd, persuadé que le lecteur arrivera jusqu’à l’histoire par ses propres moyens.

  C’est ainsi que notre romancier se justifie. Mais il est clair que, pendant tout le récit, il est fascine non par l’aventure des petits cailloux qui tombent du sommet de la montagne et provoquent une avalanche, mais par l’avalanche elle-même qui provoque dans la plaine des ruines, des morts, des souffrances. Cette avalanche, le romancier voudrait la décrire, l’illustrer et presque la suivre dans sa course torrentielle. Il est significatif que l’écrivain fasse appel par deux fois à cette image et dans des points particulièrement vitaux de son récit. Il y recourt dans la page rappelée ci-dessus. Mais il y recourt aussi à la fin de la première partie quand il compare précisément le passage de son drame de la «sphère paysanne» à la «haute région des bourgeois de Soulanges» au cours accéléré d’une avalanche (cf. p. 217). On dirait que l’image suggère sous forme de synthèse ce que dans ses détails le récit n’est point, mais voudrait être: l’histoire du développement progressif d’un drame qui ne se réduit pas à une lutte entre individus, mais aboutit à un choc général de masses représentant les deux classes sociales opposées décrites dans une vaste fresque. Dans une autre circonstance, Balzac compare cette histoire, non plus à une avalanche, mais à un torrent qui fait irruption, entraîne tout et inonde la plaine opulente de la société française (cf. p. 184). Même dans ce cas, l’image à peine indiquée dans un contexte qui n’a rien de conséquent, semble vouloir se substituer à un tableau général raté et à peine ébauche.

  Cependant, ces exemples ne sont pas les seuls que le romancier nous présente pour nous permettre de faire le procès à ses intentions. A la fin du chap. III, après avoir décrit le «cabaret» des Tonsard et en avoir démontré l’importance stratégique dans la lutte rurale entre riches et pauvres, Balzac s’aperçoit qu’il a exagéré dans les détails et il note combien il est difficile de comprendre la signification générale de sa minutieuse description. Là encore, le romancier vient en aide au lecteur et se justifie en ces termes:

  «Si le portrait de Tonsard, si la description de son cabaret, celle de son beau-père apparaissent en première ligne, croyez bien que cette place est due à l’homme, au cabaret et à la famille. D’abord, cette existence si minutieusement expliquée, est le type de celle que menaient cent autres ménages dans la vallée des Aigues. Puis, Tonsard, sans être autre chose que l’instrument de haines actives et profondes, eut une influence énorme dans la bataille qui devait se livrer, car il fut le conseil de tous les plaignants de la basse classe» (cf. p. 53).

  Cette excuse fait allusion à la bataille préparée avec tant de détails et toujours promise au lecteur. Mais ce n’est pas le seul texte qui annonce l’apparition de la masse populaire. Elle est annoncée aussi par les différentes perspectives en fonction desquelles le récit se développe, par les trois chapitres rétrospectifs et tous les tableaux particuliers, depuis le premier qui met en scène le père Fourchon et le second qui décrit Le Grand-I-Vert, jusqu’aux deux centraux qui instruisent le lecteur des idées politiques du prolétariat rural. A la fin du chap. VI, il semble que le «Robespierre à une tête et à vingt millions de bras» doive entrer finalement en scène quand on lui a reconnu la force d’un «Samson populaire» (cf. p. 101). Mais, même alors, l’annonce est sans lendemain. Encore une fois, la description de la bataille en rase campagne, souvent promise, déjà évoquée par certains détails, est renvoyée et, à la fin, renvoyée pour toujours.

  La vérité est que Balzac ne réussit pas, au cours des treize chapitres de la première partie des Paysans, à réaliser le projet artistique qu’il cultive de mille façons et qu’il tente de promouvoir par toutes les ressources d’une technique experte. Notre romancier, pour autant qu’il s’y efforce, ne réussit point à décrire les masses rurales, non plus qu’à les faire bouger et agir, car il ignore complètement l’art nécessaire à de tels procédés. Une observation d’André Wurmser, me paraît à cet égard des plus convaincantes: «La société est, aux yeux de Balzac, un champ de bataille où s’affrontent les individus de l’individualisme, jamais démobilisés, toujours harnachés et prêts à tirer sur le prochain». Nous appellerions individualiste moins la société du temps de Balzac que le monde dans lequel notre romancier vit, pense et crée. On peut même identifier, comme le suggère encore Wurmser, cet individualisme avec l’ambition et l’égoïsme. La vérité est que Balzac, dominé par cet égoïsme ambitieux, est poussé dans toute œuvre, même la plus noble, même la plus difficile, par l’énergie de l’arriviste. C’est pourquoi il ne peut concevoir une révolution de masse que sous les aspects d’une révolte d’individus, une révolte par laquelle l’homme s’affirme pour gravir victorieusement les degrés successifs de l’échelle sociale. De cette conception personnelle dérive l’incapacité du romancier à comprendre et, par conséquent, à décrire les masses populaires qu’il ne voit pas comme un corps homogène et qu’il identifie, d’instinct, avec des types humains particuliers. Les nombreuses allusions aux paysans qui taillent les bois, volent dans les champs et saccagent les campagnes, demeurent comme les simples révélations des exigences d’une masse qui reste dans l’ombre, souffrante mais socialement inopérante et toujours soumise à la volonté de qui sait la dominer et l’exploiter.

  Balzac, le premier, comprit parfaitement son incapacité à tirer de l’ombre la masse anonyme des paysans de la Bourgogne. Et, ainsi, son rêve d’une épopée rurale, caressé pendant des années, se dissipa totalement quand l’écrivain arriva à la fin de la première partie des Paysans. Une fois les treize chapitres publiés, il comprit qu’il ne pouvait aspirer à des buts trop ambitieux, lui qui, de façons diverses et toutes convaincantes, avait donné la preuve de la faillite d’un de ses plus chers projets. Celui-ci s’écroula donc, mais l’imagination créatrice ne fut pas stérilisée pour autant. Si Les Paysans ne réalisèrent pas l’épopée rurale rêvée, ils acquirent néanmoins une vie propre. Peu à peu, et presque contre la volonté même de l’auteur, ils se transformèrent en un typique et très caractéristique roman «balzacien». Encore une fois, l’écrivain se retrouvait semblable à lui-même en parcourant sa voie habituelle: la plus longue et la plus pénible. […].

  Au terme de notre longue route, le problème dont nous sommes partis pour ce travail peut être finalement reformulé, dans la légitime espérance de le résoudre. Nous rappelant l’histoire complexe de la composition et de la publication du roman et distinguant nettement la première partie, publiée, de la seconde, restée inachevée, nous croyons tout à fait logique de soutenir que l’unité de l’œuvre est purement extérieure. Certes, on ne peut pas parler d’unité stylistique quand on sait que la seconde partie, – en particulier les six derniers chapitres, – attendait une révision complète.

  On ne peut parler d’unité narrative quand on note dans le récit des incertitudes, des déviations et, plus d’une fois, la difficile recherche de nouvelles situations toujours esquissées et jamais exploitées à fond. Enfin, on ne peut parler d’unité de conception parce qu’en fait l’idée politique, qui apparaît dans tant de chapitres «engagés» de ce roman, n’est ni aussi nette, ni aussi précise que beaucoup de commentateurs le voudraient. A cet égard, il est bon de rappeler quelle grave erreur on commet quand on attribue, sans discrimination, à un écrivain la pensée de ses personnages, et qu’il est pour le moins excessif, dans le cas de Balzac, d’attribuer à un artiste qui veut décrire un monde, une connaissance précise et mûrie de tous les problèmes sociaux et de toutes les conditions historiques qu’il entreprend de dépeindre.

  Dans l’histoire du roman balzacien, Les Paysans ne sont rien d’autre que la tentative de tirer d’un sujet insuffisamment connu de l’écrivain, un tableau véridique et une révélation qui s’impose par sa franchise. Plus qu’un tableau et une révélation, ce que Balzac nous offre c’est, encore une fois, la manifestation de sa personnalité et toute une série de portraits vivants, parfois surprenants, de toutes les déformations possibles, morales et psychiques, d’une riche personnalité. Avec certitude on peut dire que, dans tous les personnages des Paysans, nous retrouvons l’auteur, et pas seulement dans Blondet.

  Les Paysans ne sont donc pas un chef-d’œuvre, comme le voudrait une certaine critique trop préoccupée de défendre le contenu social d’une œuvre et peu soucieuse de l’expression formelle. Dans son originalité ce roman représente un exemple important entre tous dont il faut se souvenir quand on veut connaître la manière de créer du narrateur, sa capacité de chercher l’inspiration la plus spontanée, de la trouver même dans les conditions les moins favorables, et de rester toujours lui-même, quand les autres voudraient l’utiliser comme instrument de propagande et de défense. Dans Les Paysans, Balzac se montre de la manière la plus visible, un écrivain «engagé», mais engagé seulement avec lui-même.

 

 

  Franco Simone, La funzione storica di Torino nei rapporti culturali italo-francesi, «Scuola e cultura nel mondo», febbraio 1965, pp. 15-26.

 

  Nell’ottobre del 1836 quel grande giurista piemontese che fu Federico Sclopis scriveva al Balzac che nell’agosto precedente aveva trascorso per la prima volta un breve soggiorno in Italia. E in quella opportuna occasione il conte di Salerano, non senza acutezza, manifestava al romanziere dal quale aveva ottenuto la promessa di un nuovo viaggio in Italia meno rapido del primo, la seguente acuta osservazione:

  «Songez quelquefois à vos amis de Turin, mon cher monsieur de Balzac: vous avez pris engagement de faire une visite à l’Italie et vous devez vous arrêter encore à la loge du portier, rôle qui a parfois coûté cher au Piémont: nous aurons soins de vous retenir quelques temps avant de vous introduire dans l’intérieur de celle Péninsule si riche en souvenirs et en monuments di un tempo che fu».

  L’invito al Balzac di arrestarsi «à la loge du portier» prova come Federico Sclopis fosse cosciente della funzione storica assunta da Torino nei rapporti culturali franco-italiani. La funzione di «porta d’Italia» attribuita alla città sabauda dimostra come, già un secolo fa, fossero ben presenti i sacrifici che tale funzione aveva imposto e i risultati che questa esercitata funzione aveva ottenuto. Risultati che, per essere sovente trascurati, mette conto ricordare in una rapida sintesi che, soffermandosi su alcuni rappresentanti significativi della cultura francese, possa far meditare gli studiosi che intendono riprendere un così importante e complesso problema. Come Federico Sclopis voleva trattenere a Torino Balzac prima che conoscesse più ampiamente l’Italia, così i testi qui riuniti intendono richiamare l’attenzione sulla funzione mediatrice svolta per secoli tra l’Italia e la Francia dalla cultura piemontese; funzione mediatrice che non potrà più essere trascurata da chi voglia rettamente impostare i rapporti tra due civiltà vicine e tanto diverse. [...].

  Sulla via tracciata da Rousseau e da Stendhal Balzac compie una uguale esperienza. Nel 1836 il romanziere ha già scritto quasi la metà dei novanta e più romanzi che saranno, poi, intitolati collettivamente La Comédie Humaine. In molti di questi romanzi l’Italia è giudicata secondo una concezione generale che il romanziere accettava da una fiorente tradizione letteraria che, attraverso Stendhal, Madame de Staël, il romanzo inglese giungeva alle cronache romanzate del Seicento e, più oltre, alle memorie dei cronisti dell’età umanistica. Per secoli e attraverso tutta l’Europa colta in netta reazione contro, un primato culturale troppo vantato e non più riconosciuto, una particolare interpretazione della civiltà italiana era stata diffusa. Una interpretazione che in ogni italiano vedeva un bandito, che in ogni fatto scopriva l’opera del pugnale e del veleno, che Roma considerava il centro della corruzione italiana, che questa corruzione addebitava al clero e a quanti del costume clericale avevano l’abito e la mentalità.

  La storia di questa interpretazione della civiltà italiana è ancora da scrivere, ma quando sarà scritta sarà molto istruttiva per comprendere la genesi di non pochi capolavori europei che hanno come argomento personaggi e vicende dell’Italia. Balzac, fino al momento in cui non conosce direttamente l’Italia, rimane fedele a questa tradizione. Così in La Vendetta (1830), in Sarrasine (1830), in Les Proscrits (1831), in Facino Cane (1836). Ma ecco che nell’agosto 1836 lo scrittore viene a Torino per difendere gli affari patrimoniali dei suoi amici Guidoboni-Visconti.

  Il soggiorno torinese del romanziere è breve e non privo di curiosi episodi. Ma quei giorni rivelano la loro importanza non nella scoperta del Piemonte che, per la prima volta, appare a Balzac nelle sue bellezze a Superga, a Rivoli, a Rivalta. Ben più significativi dei luoghi visitati durante il soggiorno, sono le persone che il romanziere incontra. Con Federico Sclopis lasceranno un ricordo duraturo nella mente di Balzac Luigi Colla, il primo avvocato piemontese del tempo, Felice Carrone di San Tommaso, l’amico prediletto che l’anno successivo a Milano presenterà il romanziere al Manzoni, Costanzo Gazzera, l’erudito abate al quale Balzac scriverà sovente per avere notizie sulla storia civile e letteraria dell’Italia. Questi amici torinesi introducono il nostro romanziere nella civiltà italiana, quella vera che in quegli anni prepara il Risorgimento e non maneggia pugnali e veleni. Grazie alla loro mediazione colui che in Massimilla Doni esalterà convinto i veri benefici della autentica civiltà italiana si convince a non riconoscere in Italia soltanto passioni incontrollate e mistici pentimenti, ma a valutare caratteristiche più autentiche, a seguire Stendhal nella sua fattiva ammirazione per la nuova cultura in rapida formazione. Non è per nulla esagerato credere che, introdotto a valutare la vera Italia, Balzac abbia potuto in seguito riconoscere che l’Italia del suo tempo, anche se aveva perduta l’antica sovranità, possedeva ancora molti re. I re italiani che il romanziere ha imparato ad ammirare sono Lagrange, Volta e Rasori, Canova, Rossini e Bartolini, Galvani, Beccaria e Cicognara. Ultimo Corvetto, il Genovese diventato ministro delle finanze francesi.

  Queste importanti testimonianze provano che negli intensi anni del nostro fortunato Risorgimento anche nell’opinione pubblica europea e, di riflesso, nella generale letteratura un’immagine nuova del Piemonte si diffuse con successo. Nessuno meglio espresse questa immagine di A. Thiers quando, nel maggio del 1832, scrisse al torinese conte Martini il seguente elogio del nuovo Piemonte:

  «Le Piémont est aujourd’hui l’Angleterre de l’Italie. Je ne puis pas réunir plus d’éloges à la fois, car l’Italie est pour moi la terre la mieux douée de l’univers et l’Angleterre la mieux gouvernée ...».

  Tanto giudizio spassionato di un competente severo e obbiettivo prova come in quegli anni stesse dileguandosi l’immagine tradizionale di un Piemonte estraneo alla vita politica europea e di una cultura in ritardo di secoli. I viaggiatori avvertirono per primi che molto era cambiato e che importanti novità si imponevano. Dal Piemonte si irradiava sull’Italia un insegnamento i cui primi benefici furono precisamente quelli di allontanare il generale apprezzamento secondo il quale la penisola altro non era che la terra del pugnale e dei veleni.

  Adunque, in quegli anni, pur con polemiche e contrasti, un fondamentale tema letterario mutò direzione e la mutata direzione fu subito notata se non dal Lamartine, certo da Stendhal e da Balzac. [...].

 

 

  Franco Simone, L’ultima biografia scritta da André Maurois. La «follia» di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 99, Numero 78, 2 Aprile 1965, p. 3.

 

  «Chi rifiuterebbe di essere Balzac?». Con questa domanda André Maurois conclude, non senza commozione, le seicento pagine dedicate a celebrare una delle vite più sorprendenti che mai autore francese abbia vissuto in dieci secoli di storia letteraria (Prométhée où la vie de Balzac, Paris, Hachette, 1065). La domanda riassume e conferma l’ammirazione con la quale il nuovo biografo si è dedicato a narrare, dopo Andre Billy e Stefan Zweig, le vicende quotidiane dell’indimenticabile romanziere. Con garbo e molta finezza Maurois ci consiglia a non guardare altrimenti l’eccezionale statura dell’uomo, il suo commovente destino, tante esperienze vissute tutte in modo straordinario dal giorno in cui una vocazione artistica, appena manifestata, subito apparve l’unica ispiratrice del romanzo che Balzac, durante i cinquant’anni di una esistenza tumultuosa, visse, scrisse e, per sempre, consegnò alla gloria letteraria del suo secolo.

  Raramente una vita manifestò con tanta coerenza la forza di una vocazione. Victor Hugo e Lamartine presero parte attiva alle vicende politiche del loro tempo; Chateaubriand e Stendhal ebbero funzioni diplomatiche. Vigny fu un militare, Sainte-Beuve un giornalista, Musset un uomo di teatro. Non pochi contemporanei, tutti illustri e geniali, suggerirono a Balzac il cosiddetto secondo mestiere. In epoche diverse, e secondo le più inattese circostanze, il romanziere non sdegnò, certo, di imitare colleghi operosi. Nel 1831 tentò la carriera politica; nel ‘43, durante il primo viaggio in Russia, sembrò atteggiarsi a diplomatico; col giornalismo ebbe sempre stretti rapporti. Tuttavia per quanto sognasse e proclamasse vasti successi, l’attività diplomatica di Balzac è inesistente; alle capacità politiche del giudice acuto dell’età della Restaurazione non credette mai nessuno; ogni tentativo teatrale e giornalistico si risolse in un fallimento secondo insegnano la rappresentazione di Quinola (1842) e l'avventura della Chronique de Paris (1836).

  Balzac tanto intensamente visse in ogni momento della sua esistenza la propria vocazione che ad essa non seppe mai anteporre, neppure apparentemente, alcuna altra attività. Questo è il più intimo aspetto di un temperamento originale; la caratteristica sempre tenuta nascosta; il segreto che pochi contemporanei penetrarono a conforto di un grande cuore. Fra quei pochi valutò chiaramente la molla che spingeva l’uomo e ispirava l’artista il principe di Metternich. Accogliendo a Vienna nel 1835 il nostro romanziere, il cancelliere austriaco lo apostrofò nel modo seguente: «Signor Balzac, lei è un pazzo che intende guarire la follia dei suoi simili con una follia maggiore».

  La suprema «follia» di Balzac fu quella di volersi imporre ai suoi contemporanei, al fine di interessarli, convincerli e guarirli, con il prestigio più comune, quello riconosciuto alla ricchezza. Per tutta la vita il ritrattista dell’avaro autentico, Grandet, sognò la ricchezza ottenuta imbastendo affari rocamboleschi, ieri con ardite imprese editoriali, oggi con lo sfruttamento delle miniere d’argento in Sardegna, domani con la coltivazione razionale degli ananas. Altri, appena ripresero simili progetti tutt’altro che inattuabili, si arricchirono veramente. Ma non si arricchì Balzac. Tutti gli affari intrapresi dal romanziere si risolsero sempre in fallimenti clamorosi.

  Non sorprende l’esito; sorprende, invece, che lo scrittore, mai convinto dalla realtà più penosa e ad ogni passo sollecitato dalle proprie inesauribili forze, sia passato, leggero e ilare, da fallimento in fallimento affidando all’unica sua autentica risorsa, il romanzo, le più fondate speranze di risarcimento e di finale fortuna. Quale follia pretendere dal lavoro della penna favolose ricchezze! Eppure, proprio una simile follia Balzac perseguì tutta la vita. A nulla valsero le umiliazioni brucianti, i quotidiani ricatti, i processi, le condanne sempre seguite dalle inevitabili fughe e dalle innumerevoli mistificazioni.

  Duro come l’acciaio, per trent’anni, Balzac rincorse il suo sogno. Più volte, a quanti confidavano in lui con l’affettuosa generosità di Laure de Berny, di Zulma Carraud e di Eveline Hanska, egli giurò di aver realizzato quel sogno inumano. Giurava il falso e sbagliava i conti quando già tutte le possibilità migliori erano per sempre svanite. Ma così, e soltanto così, il romanziere impenitente e sempre squattrinato poté arricchire la letteratura francese di quei capolavori incomparabili che formano la Comédie Humaine.

  Adunque, l’attenta analisi dei fatti assicura che il funesto miraggio della ricchezza rappresentò per Balzac la via attraverso alla quale egli scoprì il suo eccezionale talento. Soltanto quella ferrea catena che si costruì con le sue proprie mani lo tenne saldamente legato al tavolo di lavoro. Non sapeva creare diversamente se non minacciato dalla polizia, con i creditori alla porta, quando gli amici si allontanavano e i nemici lo screditavano per tutta Parigi. Allora vantava progetti, impegnava illusioni, vendeva romanzi non composti e, rifugiato presso l’immancabile compiacente amica, scriveva. Scriveva in una notte La Grenadière (1832), in un’altra notte L’Illustre Gaudissart (1833), in una terza La Messe de l’Athée (1836). Tre giorni per L’Interdiction (1836), venti giorni per la prima parte di Illusions perdues (1837), due mesi per La cousine Bette (1847). Compose Le Père Goriot lavorando diciotto ore quotidiane. Nel novembre del 1834, impegnato in questo suo grande successo, sopportò anche venti ore di lavoro ininterrotto.

  Nella costrizione morale e nello sforzo fisico la fantasia ritrovava il suo pieno rendimento; soltanto nella continuità di un lavoro sovrumano il talento maturava la sua più sicura originalità. Quando nel 1841, creati alcuni capolavori come Le Médecin de campagne (1833) e Le Lys dans la vallée (1835), Balzac concepì l’idea geniale di riunire in un edificio, unico e grandioso, i suoi personaggi, allora egli ebbe la certezza che tanti fallimenti erano necessari per ottenere l’unico successo. Compiuto il passo più ardito, lo scrittore raggiunse la sua vera statura e da quel momento il suo proposito non fu di arricchire se stesso, ma l’umanità. Tanta generosità fu pagata amaramente. Più volte lo scrittore aveva dichiarato che i suoi due ideali erano l’amore e la gloria. Il destino non gli rifiutò né l’amore né la gloria, ma, in compenso, si ripagò con la morte. Balzac ebbe una moglie premurosa soltanto per assisterlo nell’ultima malattia e non poté ascoltare il tanto sospirato elogio di Victor Hugo perché era già nella tomba. Non altrimenti paga la propria vocazione chi vuol guarire gli uomini dalla follia.

  Sì, Maurois ha ragione. Nessuno, ben valutando una vita tanto vertiginosa, può rifiutare di ripeterla: ripeterla, intendo vivendo i suoi fervidi giorni quali sono tutti segnati negli uomini vivi e nei fatti veri de La Comédie Humaine.

 

 

  [Aurelio Valesi ?], Presentazione, in Honoré de Balzac, I Racconti ameni ... cit., pp. I-IV.

 

  Tradurre i Contes drolatiques non è certo impresa di poco conto. Balzac intendeva scriverli in ancien français, nella lingua dei vecchi conteurs: un pastiche, non troppo arcaizzante e ostico al lettore contemporaneo, in cui doveva prevalere il francese del XVI secolo. In realtà l’autore foggiò una lingua artificiale, ad ampia escursione diacronica, dove parole e giri di frase di quattro secoli (dal XII al XVI) si mischiano insieme e si combinano talvolta con vocaboli moderni adattati al contesto antico. Lingua artificiale, si diceva, ma solo nel senso che essa non corrisponde a nessuno stadio storico del francese. Ma lingua naturale, organica, in quanto i diversi materiali attinti a questi vari livelli vengono rifusi dalla sensibilità e dalla creatività linguistica dell’autore. E se la scienza filologica fa difetto (del resto la filologia romanza era ben lungi dal «rassodarsi in scienza») non fa difetto l’intuizione, affinata dall’amore e dall’assidua frequentazione degli antichi testi, e non fa difetto soprattutto la capacità di sentire la lingua come un tutto, come un sistema organico.

  Balzac, nei Contes, per la materia e per il modo di narrare, si ispirò a varie fonti: alle Cent nouvelles nouvelles, al Moyen de parvenir di Béroalde de Verville, all’Heptaméron della regina di Navarra, al nostro Boccaccio e soprattutto a Rabelais. Lo spirito di Rabelais aleggia su tutta l’opera di Balzac e non solo sui Racconti ameni. Da un punto di vista linguistico, secondo Leo Spitzer, al filone principale della letteratura francese, il filone classicistico del mot juste, del mot mis à sa place, si contrappone una corrente sotterranea in cui la parola diviene autonoma, in cui la creazione linguistica si fa preponderante. Questa linea storica è rappresentata da Rabelais, Balzac, Hugo,1 perfino dal Flaubert della Correspondance, per giungere, secondo Spitzer, a Céline.

  Tra Rabelais e Balzac esiste di fatto una grande affinità, non solo linguistica ma spirituale, che trova la sua più alta espressione nei Contes drolatiques. I quali rappresentano, nell’intenzione di Balzac, un atto di omaggio e di riverenza al «bon maistre Rabelais», come a un «prince de toute sapience et toute comédie».

  Si capisce che rendere in italiano lo stile dei Contes impone sin da principio una scelta. O tentare di rifare il pastiche e optare per un linguaggio arcaizzante nei suoi aspetti lessicale, grammaticale e sintattico, oppure puntare decisamente alla sostanza narrativa dei Racconti e optare per una lingua moderna in cui il colore locale e il colore del tempo siano preservati dalla letterarietà del dettato e da qualche coloritura linguistica desueta. Rifare il pastiche in italiano è, a nostro parere, operazione pressoché impossibile e destinata quasi fatalmente all’insuccesso: essa richiederebbe una grande scienza filologica e, ovviamente, non bastando solo questa, un’assidua frequentazione dei nostri novellieri antichi, un fiuto linguistico, una capacità di mimesi stilistica non facilmente reperibili. E inoltre si potrebbe incorrere sempre nel pericolo di rendere lo stile greve, lento, artefatto, e non recepibile dal lettore odierno.

  Sono chiare, per tutto quel che precede, le ragioni che hanno spinto il traduttore della presente edizione dei Racconti ameni a optare per la seconda soluzione. Egli si è industriato di rendere lo stile balzacchiano in un italiano letterario, sì, ma non rigidamente aulico e sostenuto, in cui la naturalezza e la vivacità dell’originale fossero tenuti in vita, oltre che con la vigorosa snellezza della sintassi, col ricorrere, nei luoghi dovuti, a cadenze, vocaboli, giri di frase popolari e familiari. Il traduttore si è spinto anche più in là sulla via dell’ammodernamento, facendo uso, allo scopo di rendere l’aspetto sanguigno di certi passi del testo, di vocaboli conclamatamente dialettali o addirittura gergali.

  Ma lasciamo al lettore l’ultima parola su questa meritevole traduzione e accostiamoci più da vicino al mondo dei Racconti ameni.

  «Si vous n’aimez pas les Contes de La Fontaine ni ceux de Boccacce, et si vous n’êtes pas folle de l’Arioste il faut laisser les Contes drolatiques de côté, quoique ce soit ma plus belle part de gloire dans l’avenir»2. Come si vede, Balzac annetteva grande importanza ai Contes, che non dovevano essere solo un divertissement, anche se di ottima fattura letteraria, ma vera opera d’arte, capace di procurargli gloria presso i posteri. Dobbiamo credere a Balzac: tra i Contes e la Comédie humaine esiste un nesso profondo anche se apparentemente non percepibile a prima vista. E innanzi tutto c’è la particolare comicità balzacchiana su cui insiste Henry James nel suo saggio sul Nostro: «Il suo senso del comico era nella stessa proporzione degli altri suoi straordinari sensi »3. Un senso del comico volto agli aspetti più elementari della vita: al dominio fisiologico nell’accezione più ampia del termine; ma appunto, proporzionato agli «altri straordinari sensi» di Balzac, e perciò esaltato, stravolto, la materia della novellistica tradizionale con i soliti vecchi ingredienti delle beffe, degli adulteri, delle prodezze amatorie, ecc., viene tesa fino a scoppiare, insufflata com’è di spirito moderno. Balzac, romanticamente, si volge al Medio Evo, ma come già avveniva nell’Hugo di Notre-Dame, il Medio Evo viene contagiato dalle urgenze moderne. Possiamo immaginare l’autore come un uomo dell’Ottocento, desideroso e nostalgico di più franchi rapporti nella sfera erotica, di più naturalezza e sincerità. Egli si volge ai vecchi conteurs per ritrovare in essi quel che non trova intorno a sé: ma il desiderio, la nostalgia, affatto moderni e repressi, danno un accento nuovo ai vecchi contenuti. Ne risulta una maggior tensione, una tendenza all’eccesso: la ricerca di naturalezza, di franchezza, diviene ossessiva e la licenziosità tradizionale si trasforma a volte in stravolta scatologia. Ma questo travolgimento, questa tendenza ossessiva sono una caratteristica costante di tutto Balzac. «Il romanzo balzacchiano, osserva T. W. Adorno, vive della tensione tra le passioni degli uomini e un assetto del mondo che tendenzialmente non tollera più la passione, come azione di disturbo nel sistema. Con le proibizioni e le negazioni, cui da sempre sono soggette, le passioni si ingrandiscono fino a diventare mania. Insoddisfatte si deformano e non saziate divengono qualità patologiche ... Esse si abbarbicano ai beni ancora irraggiungibili, a quelli ancora soggetti a un monopolio naturale ...»4. Questa è la legge fondamentale della Comédie humaine, che subisce, come abbiamo suggerito, una particolare inflessione nei Contes drolatiques.

  Giunti a questo punto non ci resta che invitare il lettore a immergersi nel mondo dei Contes drolatiques. Che sono tutti, uno per uno, ancor oggi godibilissimi. L’impronta del grande narratore è presente ovunque, visibile negli intrecci, nelle situazioni, nel ritmo allegro e serrato con cui procede l’azione. Ma, se ci è concesso di esprimere una preferenza, inciteremmo il lettore a soffermarsi soprattutto sulla toccante Perseveranza d’amore; su Berta la pentita; sui due racconti dedicati alla bella Imperia; e soprattutto su Il succubo, in cui la dimensione fantastica e visionaria prende il sopravvento sulle altre qualità del narratore. Son questi, i piccoli capolavori, i più bei gioielli di una raccolta che brilla tutta di luce intensissima.

 

  Note.

 

  1 Tra Balzac e il contemporaneo Hugo, d’un punto di vista linguistico, esiste più d’un punto in comune: entrambi possiedono le don des langues, la capacità di impadronirsi di tutte le lingue speciali dei più disparati settori della vita, la stessa sorprendente ricchezza lessicale, il gusto dell’archeologia linguistica e della mimesi delle varie parlate dialettali.

  2 II corsivo è nostro. La frase è tolta da una lettera di Balzac a madame Hanska.

  3 H. James, L’arte del romanzo, Milano, Lerici, 1959, p. 65. E poco più sotto James aggiunge: «Non deve naturalmente sembrare che noi neghiamo l’esistenza di una gioia robusta in lui; la gioia del potere e della creazione, la gioia dell’osservatore e del sognatore che trova modo di impiegare, man mano che sopraggiungono, le sue osservazioni ed i suoi sogni. I Contes drolatiques basterebbero da soli a contraddirci sufficientemente, e il sapore dei Contes drolatiques non è limitato a queste produzioni. La sua opera in genere risente dello stesso tipo di umorismo, e continuiamo a sentire che Balzac, altro sano produttore di queste cose, ne è sedotto e affascinato».

  4 T. W. Adorno, Balzac-Lektüre, in Noten zur Literatur II, p. 27.

 

 

  Mario Vinciguerra, Una biografia di Maurois. Balzac: un vulcano, «il Resto del Carlino», Bologna, 11 Agosto 1965, p. 3.

 

  La sera del 18 agosto, mentre cenava, Victor Hugo fu avvertito che Balzac era morente. Accorse da lui, già fuori di conoscenza, e in quel momento si trovò solo lì, di tutto il mondo letterario parigino, in quella casa, che spirava già di per sè il sentore di sepolcro. Il giorno dei funerali si mosse qualche personaggio ufficiale. Era presente il ministro dell’Interno, Baroche, il quale disse con compunzione ad Hugo: «Era un uomo distinto». «Era un genio», rispose Hugo.

  Davanti alla fossa aperta, nel cimitero del Père-Lachaise, parlò Hugo. Egli ricorda: «Mentre parlavo il sole calava. Tutta Parigi mi appariva in lontananza nella fulgente bruma del tramonto. Quasi ai miei piedi si provocavano dei franamenti nella fossa, ed io ero interrotto dal sordo rumore della terra che cadeva sulla bara».

  Ricordate la fine di Le père Goriot? Nel medesimo cimitero del Père-Lachaise il giovane Rastignac accompagna l’umile convoglio ignorato del vecchio Goriot:

  «Il giorno tramontava; un umido crepuscolo dava i brividi ... Rastignac, rimasto solo, fece alcuni passi verso l'alio del cimitero, e vide Parigi distesa tortuosamente lungo le due rive della Senna, dove cominciavano ad accendersi i primi lumi ...».

  Quell’uomo straordinario, che era arrivato trent’anni prima dalla nativa Turenna povero, ambizioso, imperterrito come il suo Rastignac, e come lui aveva osato di gettare una sfida a Parigi, si distaccava da un mondo, che non aveva più segreti per lui, quasi come il papà Goriot delle lettere francesi.

  Un’altra circostanza avvicina stranamente Balzac all’eroe del suo celebre romanzo. Come le figlie di Goriot, diventate per matrimoni grandi dame, si vergognavano del loro padre mercante, e che pure con la mercatura aveva potuto collocarle nel gran mondo, dotandole largamente: così la critica francese di fine Ottocento — e quella accademica in ispecie — si vergognò di Balzac, che aveva profuso tesori di intelligenza e di fantasia: ma che, secondo essa, mancava di stile, era grossolano, ed era capace di rappresentarci solamente la gente dei ceti inferiori, oppure, nel superiore, quella degli uomini di affari. Così, per esempio, conclude nella sua storia della letteratura francese il Lanson, che pure non mancava di intuito e di gusto, quando era libero da certi preconcetti academici che lo inducevano a certi giudizi per categorie.

 

*

 

  Ma ogni scrittore, ogni artista sia pur grande, dopo morto, ha il suo purgatorio in terra: è il purgatorio della sua fama. Con lo sparire dall’epoca, in mezzo alla quale essi trascorsero la loro vita mortale, ed offrirono sul piatto di argento le chiavi della loro anima al mondo circostante, passa, se c’è stato, quell’affiatamento psicologico, che sgorga non solo dall’arte, ma anche da affinità di pensieri, di costumi, di gusti, che costituiscono l’atmosfera di un’epoca. Sopravviene un pubblico nuovo, estraneo alla società ed a molti o tutti gli interessi spirituali, nella luce meridiana dei quali egli visse, e donde s’ispirò. Questo nuovo pubblico gli si avvicina — se si avvicina — a mente fredda, esige inerte da lui di essere persuaso, riscaldato, e la sua esigenza è talvolta implacabile. Questa è l’ora pericolosa dell’uomo di lettere e di arte, come del pensatore; è la prova del fuoco, da cui può venir fuori una sentenza di passaggio ai ranghi inferiori, presso un pubblico più semplice, poco agguerrito; oppure una di lungo oblìo.

  Ci passò duramente Balzac nel trentennio tra Otto e Novecento. Troncata a cinquantun anni la vita di lui, alla sua opera mastodontica, non completa e solo approssimativamente sistemata, si chiesero le ragioni più diverse e contrastanti. Si cominciò col mandarlo a scuola di stile, che non ebbe le malie di una evocazione poetica della vita; ma era quello di chi seguiva con concentrata attenzione le mosse rigide, secche della lotta per la vita. Poi ci fu chi partendo da questa constatazione, credè spiegarla riportandola indietro, agli albori del romanticismo, quello dei ribelli contro la nuova società nascente dalla rivoluzione francese: e lo si considerò un retrivo. Oggi vediamo quanto c’era di personalmente meditato nella critica a certe illusioni della società del suo tempo. Lui, che parve un sognatore del passato, ci appare un saltuario veggente di ciò che c’era di provvisorio e non assimilato nella nuova composizione sociale.

 

*

 

  Colui che a metà Novecento inoltrato, ed a quindici anni dal centenario della morte di Balzac ha chiuso il ciclo della purgazione per la fama di lui, è stato André Maurois, col recente Prométhée ou la vie de Balzac (ed. Hachette), che, nel giro di un paio di mesi, ha avuto la consacrazione di una grande diffusione tra un pubblico cosmopolita, e giorni or sono, il riconoscimento della patria, col conferimento della gran croce della Legion d’onore.

  Questa biografia balzacchiana si svolge in una atmosfera limpida e ferma: non si avvale di appigli polemici, non si sofferma sulla pur invogliante tradizione aneddotica; ma passata per troppe mani e deformata, come suole. E’ non ultimo dei suoi meriti, e me ne avvalgo per raccogliere alcune idee intorno alla personalità spirituale di Balzac, quale si può vedere oggi in luce più chiara dalle pagine di questo libro.

  Balzac fu un «figlio del secolo» anche lui; ma non nel senso dato da De Musset nelle famose pagine introduttive alla Confession d’un enfant du siècle. La figura di quel giovane, nato come a cavalcioni tra due secoli, e che è in parte autobiografica, incarna la gioventù conturbata e insofferente di quelli che poterono chiamarsi gli epigoni della epopea napoleonica: i più resistenti e consistenti dei quali si ritrovarono intorno al principe Luigi Napoleone nelle giornate di dicembre del 1851. Nulla di simile per Balzac. Egli era nato nel 1799, a Tours, al chiudersi del periodo rivoluzionario, e in una regione, la Turenna, che poco vi aveva partecipato e poco risentito. Già nel foggiarsi del suo animo durante il periodo giovanile egli non si sente legato a memorie rivoluzionarie o napoleoniche. Quando sarà in possesso delle facoltà di scrittore evocherà qualche volta quei tempi, come in quella sorta di «giallo» di alto stile che è Une ténébreuse affaire, oppure nella introduzione alla Femme de trente ans, in cui descrive, come in un affresco, la parata militare a Parigi, nell’aprile del 1813, alla vigilia della fatale campagna di Germania.

  Siamo però ancora ai margini della maggiore creazione balzacchiana. Questa, a misura che il suo pensiero prendeva possesso della complessa realtà della natura umana, delle sue luci, delle sue ombre, dei suoi vertici, dei suoi abissi, vedeva, come in una allucinazione, aprirsi la porta stellata dei cieli e quella rovente dei dannati.

 

*

 

  Il vero fondo del pensiero balzacchiano era lì con una insistenza quasi manichea. Quando sollevava tale problema, ed impostava davanti a quest’angolo visuale i suoi personaggi, Balzac non vedeva più il mondo qual era, lo vedeva smisurato. Spariscono allora nelle pagine i toni medi. La vita tende a raccogliersi intorno ai vertici della bontà e del sacrificio assoluti, o ad inabissarsi nei gorghi dell’egoismo maniaco, della perversa malignità, della delinquenza demoniaca. Paradiso e Inferno: da una parte brilla di luce Eugenia Grandet. da un’altra, è avvolto di foschi vapori suo padre, dalla inumana avarizia; da una parte papà Goriot, da un’altra Vautrin. Questi esseri vivono a fianco a fianco, anche con vincoli di sangue, e sono distanti in lontananze astrali.

  Nel mondo — ed anche nel mondo concepito dal Vangelo — il giusto pecca sette volte. Balzac non l’intende. Il giusto per lui è «giusto assoluto», e necessariamente vittima designata della cattiveria umana. Ecce agnus Dei. Alle sue spalle c’è, invisibile agli occhi profani, una croce. Si guardi Goriot, il «cugino Pons», Cesare Birotteau, tutti travolti dall’avidità umana, e l’infelice curato di Tours e l’angelica Pierrette, vittime di orrendi intrighi di provincia.

  Il romanticismo francese ci ha dato due grandiose, anche se, o perché quasi fuorumane figure simboliche: Jean Valjean e Vautrin. Con Valjean Hugo affermò la possibilità di un paradiso terrestre chiuso al demoniaco su di una giustizia assoluta e sempre vittoriosa; in Vautrin Balzac ribadì la sentenza della espulsione dal primo ed ultimo paradiso terrestre e la impossibilità della giustizia assoluta in terra.

  Il racconto della morte della sacrificata Pierrette, nel romanzo che ha questo titolo, si chiude così: «Conveniamo tra noi che la legalità sarebbe una bella cosa per le bricconerie della società, se Dio non esistesse».

  Le forze del male sono sopravvissute al diluvio universale ed al Crocefisso: cioè al massimo atto di giustizia punitiva ed alla massima offerta di redenzione. Questa constatazione non permette mollezze ed equivoche indulgenze e bonarietà, dietro le quali si nasconde l’egoismo. E infatti Balzac è più di una volta severo; però il suo cuore partecipa alla severità dell’accusa e della condanna, perché è conscio che anch’esso contiene peccato, e che solo nella eternità d’oltre tomba può esserci riscatto o condanna per sempre.

 

 

  Giorgina Vivanti, Introduzione, in Honoré de Balzac, La pelle di zigrino ... cit., pp. 5-18.

 

  Cfr. 1934.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Piccole miserie della vita coniugale. Radiocommedia di Ivan Canciullo, Regia di Giacomo Colli, Programma nazionale, 5 marzo 1965.

 

  Cfr. 1960; 1962.

 

  Gli impiegati. Romanzo di Honoré de Balzac. Riduzione e adattamento radiofonico di Enrico Vaime, Secondo programma, 15-26 luglio 1965.

 

  Cfr. 1964.

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Mercadet l’affarista, di Honoré de Balzac. Traduzione e adattamento di Carlo Terron. Compagnia del Teatro Stabile di Trento e Bolzano. Regia di Fantasio Piccoli. Interpreti: Nino Besozzi, nel ruolo di Mercadet; Anna Goel, Ginella Bertacchi, Rina Mascetti, Sigrid Serravalli, Giorgio Gusso, Alberto Germiniani, Fernando Pannullo, 1965.



Marco Stupazzoni

Nessun commento:

Posta un commento