sabato 22 agosto 2020



1969

 

 


 

Estratti in lingua francese.

 

 

  H. de Balzac, Eugenie Grandet. Extraits notés et commentés par Giovanni Bianco Roma, Società editrice Dante Alighieri, 1969, pp. XVI-231.

 

  Cfr. 1936.




Estratti in lingua italiana.


 

  Honoré de Balzac, [Lettere a Madame Hanska], in AA.VV., Festa d’amore a cura di Carlo Betocchi. Le più belle lettere d’amore di tutti i tempi e di tutti i paesi, Firenze, Vallecchi editore, 1969, pp. 369-375.

 

  Si tratta della traduzione in lingua italiana di estratti desunti da alcune lettere a Madame Hanska (2 marzo 1844, 15 febbraio 1845, 21 dicembre 1845, 28, 29, 30, 31 luglio 1846).

  I testi sono preceduti dalla seguente nota (p. 369):

 

  Il 14 marzo 1850 Balzac sposava nella chiesa di Santa Barbara il Berdičev, in Ucraina, la contessa Eva nata Rzevuski di nobile famiglia tradizionalmente di sangue reale, vedova del conte Hańska (sic), che lo scrittore aveva conosciuto nel 1833 ed alla quale è dedicata una gran parte del suo epistolario. L’agio, la ricchezza, la gloria goduta nel mondo restarono per il Balzac un sogno dietro il quale straziò tutti i suoi giorni di immensa febbre creatrice; così anche l’amore per la contessa Hańska non fu che un lungo intenso desiderio al quale sacrificò molto, e nel quale era compresa anche la sua enorme sete di una posizione sociale stabile, riconosciuta, privilegiata nel mondo. Fu per Balzac un amore concreto, eppure nessun altro amore lascia come questo tanta tristezza, tanta coscienza della fatuità delle umane speranze, quando anche siano le più oneste e giustificate. Un amore che si concretò in un lungo, faticoso metter su (sic) casa, e che fosse una casa splendida: in fondo non c’era che la morte abbandonata dello scrittore, quasi appena tornato a Parigi, il 20 agosto 1850.


 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, L’Avant-propos à la «Comédie humaine» (1842), in Le Idee letterarie in Francia dal 1830 al 1848: testi, Milano, La Goliardica, 1969, pp. 90-108.

 

 

  Honoré de Balzac, I capolavori. A cura di Enzo Caramaschi, Milano, U. Mursia & C., (giugno) 1969(«I grandi scrittori di ogni paese. Serie francese», 5), pp. XXVIII-801.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Enzo Caramaschi, Presentazione, pp. VII-XXXIII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Nota biografica, pp. XXXIV-XXXVII;

  Eugénie Grandet (1834). Traduzione di Alfredo Fabietti e Emma Defacqz, pp. 1-149;

  Papà Goriot (1835). Traduzione di Mara Fabietti e Emma Defacqz, pp. 151-354;

  La cugina Bette (1846). Traduzione di Emma Defacqz, pp. 355-700;

  Allegri racconti. Traduzione di Aldo Fortuna:

 

  La Bella Imperia, pp. 703-714;

  Il Peccato veniale, pp. 715-743;

  Le Burle del re Luigi Undecimo, pp. 745-757;

  La Pulzella di Tilhouse, pp. 759-764;

  I Pericoli della troppo ingenuità, pp. 765-772;

  Di un giustiziere che non si ricordava le cose, pp. 773-780;

  Come la bella ragazza di Portillon l’ebbe vinta sul giudice, pp. 781-786;

  La Bella Imperia maritata, pp. 787-801.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet a cura di Gemina Fernando Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1969 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni», 142), pp. 263; 1 ritr.

 

  Cfr. 1951; 1959.

 

 

  Onorato di Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Grazia Deledda. Illustrazioni di Tony Johannot, Staal, Bertall, Daumier, Lampsonius, Milano, Mondadori, 1969 («Biblioteca romantica», 9), pp. 255; 1 ritr.

 

  Cfr. 1930 e ristampe successive.

 

 

  Onorato di Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo, Milano, Boschi, 1969 («Romanzi celebri», 31), pp. 188; ill.

 

  Cfr. 1962.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Prefazione di Carlo Cordié. Traduzione di Ezia Bufano Prain Roma, Tumminelli Editore (Istituto romano di arti grafiche), 1969 («I grandi romanzi»), pp. XXXIX-202.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Carlo Cordié, Prefazione, pp. VII-XXXIX. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Eugénie Grandet, pp. 1-202.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di Zigrino (La peau de chagrin); La ricerca dell’assoluto (La recherche de l’absolu). Prefazione di Silvio Locatelli. Traduzione di Maria Serena Battaglia, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1969, pp. 543.

 

  Cfr. 1958; 1964.

 

 

  Honoré de Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro. Versione di Attilio Bertolucci, Milano, Garzanti, (gennaio) 1969 («Garzanti per tutti. I grandi libri Garzanti», 171), pp. 127.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Honoré de Balzac. “La ragazza dagli occhi d’oro”, pp. 5-11. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  La ragazza dagli occhi d’oro, pp. 15-127.

 

  Per quanto la traduzione che Attilio Bertolucci fornisce de La Fille aux yeux d’or sfugga ai rigidi dettami di una rigorosa aderenza al testo originale, essa è da ritenersi, a nostro giudizio, pertinente ed efficace.

 

 

  Honoré de Balzac, Tre Racconti. Il colonnello, La messa dell'ateo, L’interdizione. A cura di Michele Lessona Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1969 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni», 122, pp. 221, 1 ritratto.

 

  Cfr. 1946; 1947; 1955; 1959.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Honoré de Balzac. “La ragazza dagli occhi d’oro”, in Honoré de Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro ... cit., pp. 5-11.

 

  [...]. La Commedia umana. È impossibile nella brevità dello spazio concesso a una nota come questa, seguire la cronologia della sterminata produzione balzachiana, e anche soltanto abbozzare un repertorio della molteplicità degli indirizzi verso cui puntava il suo estro di scrittore. Segnaleremo, piuttosto, il momento nel quale Balzac dà un ordine o meglio rivela l’ordine nascostamente già esistente nel suo universo di trame e di stili. «La prima idea della Comédie humaine si mosse in me agli inizi un sogno, uno tra quei progetti impossibili che si accarezzano e si lasciano volar via: una chimera che sorride, rivela il volto di donna, e apre immediatamente le ali sollevandosi nel cielo fantastico. Ma la chimera, come un’infinità di chimere, ai trasforma ora in realtà, esprimendo doveri e ingiunzioni, una sua tirannia cui occorre cedere. Quest’idea nacque da un confronto tra l’Umanità e l’Animalità ... Le differenze tra un soldato, un operaio, un amministratore, un avvocato, un fannullone, uno scienziato, un uomo di stato, un commerciante, un marinaio, un poeta, un povero, un prete sono, sebbene più difficili da afferrare, notevoli come quelle che distinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, il bue marino, la pecora, eccetera. Sono, dunque, esistite, esisteranno sempre le Specie Sociali come esistono le Specie Zoologiche. [...].

  La citazione, purtroppo non completa, è dall’Avant-Propos che Balzac scrisse nel 1842 per la ripubblicazione o pubblicazione di tutti i suoi romanzi vecchi o nuovi in un’unica serie illustrata da Gavarni, Meissonier, Daumier e altri e stampata da un quartetto di editori sotto appunto il titolo di Comédie humaine. I titoli dei volumi da rifondere in quell’edizione erano già centoventi, ma nel 1845 Balzac doveva stendere un minuzioso piano dell’opera, con titoli, tra quelli dei romanzi scritti e quelli dei romanzi ancora da scrivere, ammontanti a centotrentasette. [...].

 

  La ragazza dagli occhi d’oro.

 

  Nella complessa architettura della Comédie humaine, la Ragazza dagli occhi d’oro si situa in un punto di intersezioni molteplici. Appartiene, in prima istanza, a una trilogia che l’autore, presentandola, descrive come una serie non chiusa, come una prima scelta di episodi ipoteticamente assai più numerosi. A sua volta, questa trilogia sui generis — che s’intitola Histoire des Treize e di cui la Ragazza dagli occhi d’oro costituisce il terzo frammento — rientra in una delle sezioni più brulicanti dell’opera, vale a dire le Scene della vita parigina. Infine, sarà il caso di ricordare che secondo il piano formulato da Balzac nel 1842, le Scene della vita parigina s’inquadrano — insieme alle Scene della vita in provincia, alle Scene della vita militare, ecc. — negli Studi di costume, la prima e di gran lunga la più vasta delle tre grandi parti in cui lo scrittore ha voluto articolare la Comédie.

  Un così cospicuo sistema di coordinate non deve scoraggiare o confondere chi si accinga a leggere questo breve romanzo isolatamente, per quello che esso è: in effetti, la storia violenta e incantevole della Ragazza dagli occhi d’oro possiede una sua perfetta autonomia, una sua grazia singola e irripetibile. Ciò non toglie che possa tornar utile sapere qualcosa di più sulla sua «cornice»: ad esempio, che cosa significhi il titolo della trilogia. Chi sono dunque i Tredici, i Treize dell’Histoire? È lo stesso Balzac a «piegarcelo nelle pagine della préface: «A Parigi, e durante l’Impero, tredici uomini ... dotati tutti di un’energia abbastanza grande per restar fedeli ad un’unica idea, abbastanza leali tra loro per non tradirsi ... abbastanza forti per porsi al di sopra d’ogni legge ...; criminali, certo, ma altrettanto sicuramente dotati di alcune delle qualità che fanno grandi gli uomini, e appartenenti tutti alla razza degli uomini d’eccezione». Una sorta, insomma, di ristretta e fantastica massoneria, votata al segreto e rimasta per sempre segreta. Ma, continua Balzac, per un caso «che l’autore deve per il momento tacere», egli è venuto a conoscenza di alcune vicende vissute da uno o da più d’uno dei Tredici: «drammi grondanti sangue, commedie colme di terrori, romanzi dove rotolano teste mozzate in segreto ...». Fra queste avventure, egli ha scelto «le più dolci», quelle nelle quali «scene di purezza succedono alla tempesta delle passioni». La Ragazza dagli occhi d’oro è una di tali avventure vissuta da uno di tali uomini, Enrico de Marsay.

  Personaggi e mito. De Marsay – che fa qui la una prima apparizione, la sua apparizione giovanile, ma che incontriamo parecchie altre volte nel corso della Comédie — può esser visto, in sostanza, come un’incarnazione dell’eterno mito di Don Giovanni. Bello, ricco, aristocratico, dotato di qualità e poteri più o meno misteriosi che lo rendono praticamente irresistibile, egli è sempre teso «al di là» dell’ultima avventura amorosa, alla ricerca di una conquista erotica assoluta che è insieme somma e superamento del monotono succedersi delle conquiste singole. Sotto un certo aspetto, è questa la variante specificamente erotica di quella sete di successo e realizzazione intesi come Successo e Realizzazione assoluti, metafisici, che animano tante creazioni di Balzac e, in fondo, la sua stessa vita. La storia della Ragazza dagli occhi d’oro allude certo, per restare nella metafora, più alla conquista assoluta che alla conquista singola. Paquita Valdès, la fanciulla bellissima che un amore esclusivo e tirannico tiene prigioniera in un palazzo di rue Saint-Lazare, non è una delle donne che de Marsay desidera e giunge a possedere, ma l’immagine stessa, il simbolo, di una ricerca per definizione disperata e infinita; lo scioglimento, astratto e paradossale, della vicenda non fa che accentuarne i caratteri non naturalistici ma, appunto, acutamente fantastici e simbolici. Nel dibattito, sempre aperto, sulla natura prevalentemente realistica o prevalentemente visionaria dell’arte di Balzac, la Ragazza dagli occhi d’oro è senza dubbio uno dei testi che meglio possono indurre verso il secondo termine: anche se non mancano — soprattutto nelle pagine tumultuose e come incandescenti del preludio, sorta, è stato detto, di « gigantesca porta dell’inferno» — i segni del potente «cronachismo» balzachiano, del suo piegare a un disegno espressivo totale i mezzi dell'osservazione quotidiana e della statistica.

  Due letture moderne. È legittimo supporre che proprio il prevalere del momento fantastico-simbolico sul momento realistico abbia provocato la scarsa fortuna della Ragazza dagli occhi d’oro presso i suoi contemporanei (lo stesso Balzac, nell’epistolario, mostra di tenerla in poco conto fra le proprie opere) e, invece la sua accesa rivalutazione ad opera di lettori di gusto «moderno» e, in particolare, di sensibilità decadente. In un saggio del 1905. il poeta tedesco Hugo von Hofmannsthal esalta la Ragazza dagli occhi d’oro nell’ambito di un’interpretazione discutibile ma molto interessante. Il romanzo di Enrico de Marsay e di Paquita Valdès è per Hofmannsthal «la storia magnifica e indimenticabile in cui dal mistero cresce la voluttà, l’oriente schiude gli occhi pesanti nel mezzo dell’insonne Parigi, l’avventura s’intreccia con la realtà, la fioritura dell’anima sboccia sull’orlo della vertigine e della morte ...». Non è difficile cogliere. In queste parole, un’enfatizzazione e una stilizzazione eccessive, nel gusto corrente dell’Art Nouveau. Non si può tuttavia negare alla lettura di Hofmannsthal una sua profonda coerenza, un suo rigore, né sottrarsi alla sua suggestione là dove, per esempio, ravvisa in Enrico de Marsay uno di quel personaggi «in cui gli istinti di un’intera civiltà, le sue brame più profonde, i suoi desideri più segreti, la sua più intima relazione con la femmina, col mondo, col destino, son divenuti figura ...»; o dove parla di «una poesia dei sensi che fa vacillare e chiudere gli occhi, un’onda di stimoli e di appagamenti smisurata», formula applicabile, ci sembra, su più vasta scala, a una delle costanti immaginative dell’arte di Balzac.

  Di tutt’altra natura, ma non meno significativa, è la predilezione che per questo romanzo sembra aver nutrito Marcel Proust. Nel suo scritto critico-polemico Contre Sainte-Beuve, Proust allude al più segreto meccanismo psicologico celato nelle pagine della Ragazza dagli occhi d’oro come a una «sottile verità colta alla superficie della vita mondana», una di quelle vicende esteriori sotto le quali «operano misteriose leggi della carne e del sentimento». Rammentiamo infine che in uno degli ultimi volumi della Recherche du temps perdu Proust immagina addirittura un dialogo fra il protagonista e Gilberte a proposito della storia di Paquita Valdès. «Un vecchio Balzac (dice Gilberte) che mi sto sorbendo per mettermi all’altezza degli zii ... Ma è una cosa assurda, inverosimile, è un delizioso incubo». E Marcel replica: «Vi sbagliate: ho conosciuto una donna che ...». Nella fatale gelosia che imprigiona Paquita e la trascina verso la morte, Proust ha scoperto l’eco di inquietudini familiari, della sua gelosia; un capolavoro — sembra volerci suggerire — ci parla sempre da vicino.

 

L’opera – Guida critica e bibliografica.

 

  I contemporanei. «La potenza propria a H. de Balzac», affermava Sainte-Beuve, «richiede una definizione: era quella cui dà luogo una natura ricca, copiosa, opulenta, piena d’idee, di tipi e d’invenzioni, sempre «recidiva», mai stanca; egli possedeva tale potenza e non l’altra (che è certamente la più vera) fatta per dominare e governare un’opera in modo che l’artista resti superiore a quest’ultima, come a una propria creazione. Si può affermare che egli era in preda alla sua opera ...». Volendo dir male tra i denti, inconsapevolmente Sainte-Beuve con la puntuale cecità della critica ufficiale arrivava al massimo degli elogi. Ma non si accorgeva di farlo, mentre se ne erano accorti bene i massimi poeti francesi del tempo, Victor Hugo e Baudelaire, mentre se ne era accorto bene Dostojevskij che a diciassette anni scriveva al fratello: «Balzac è grande. I suoi personaggi sono la creazione di un genio universale. Non è stato lo spirito del tempo, sono stati millenni interi a preparare con il loro tormento una tale risoluzione nell’animo umano ...» e cominciava a tradurre in russo Eugénie Grandet, come a stabilire una portentosa filiazione. Il metro adulterato dalla critica ufficiale francese fu sin verso il 1870 quello di Sainte-Beuve: Balzac, insomma, autore dotato, ma artista non puro, capace di imporsi solo in un confronto con i farraginosi Alexandre Dumas e Eugène Sue, ma incapace di reggere di fronte a Prospère Mérimée o a George Sand. Questo metodo pedantesco e invidioso fu modificato rivoluzionariamente da Taine che offrì il primo serio, impegnato tentativo d’esaminare i più recenti scrittori secondo il punto di vista di un realismo moderno: i romanzi di Balzac venivano ricollegati nell’Avant-propos che l’autore stesso aveva stilato nel 1842 per la Comédie humaine, il romanziere non era più uno scrittore troppo fortunato e troppo sregolato, ma lo storico, il sociologo, addirittura il rabdomante dei costumi contemporanei. «Balzac cominciava il suo lavoro nei modi usati dagli scienziati, non dagli artisti. Sezionava invece di dipingere ...». Il suo furore analitico poteva far saltare le proporzioni estetiche, poteva sovvertire qualsiasi architettura. «Ma nello stesso tempo quanta potenza ... Come diventa reale il suo mondo narrativo, come evoca la natura e crea un’illusione ...». Taine paragonava Balzac a Shakespeare e a Saint-Simon nell’edificare, nell’allestire, nello sciorinare il grande magazzino della natura umana. In quel caos Taine riconosceva la sua stessa grandezza, l’impronta indubbia del genio. Verso il 1880, con il trionfo del naturalismo, la limitazione di Sainte-Beuve era già rovesciata in grandissimo elogio: l’abbandono di Balzac alla propria materia romanzesca era assunto come oggetto di ammirazione. Zola lo celebrava ed esaltava, un precursore cui si rifaceva abbastanza direttamente lo stesso tessuto ciclico dei Rougon-Macquart.

  Grande realista o visionario appassionato? Ma furono soprattutto i marxisti ad affiancare i grandi poeti e i grandi romanzieri nel culto di Balzac. Marx cominciò a dar l’esempio, elogiando la Comédie humaine molto più vibratamente di quanto avesse fatto lo stesso Taine. Ed Engels affermò di avere imparato molto da Balzac intorno allo sviluppo borghese anche dopo il 1850, trovando nella sua opera la perfetta corrispondenza con l’ideale dell’estetica realista: personaggi tipici in situazioni tipiche. Il fatto che Balzac avesse professato simpatie monarchiche e ideologia conservatrice non incideva, secondo Engels, sul sostanziale progressismo della Comédie humaine. Quest’annessione del capolavoro balzachiano alla parte per così dire ideologicamente opposta, è stata teorizzata e approfondita da molti zelatori del realismo di tendenza socialista, e specialmente da Lukács, che ha al proposito pagine straordinarie per profondità poetica o per abilità polemica: «Uno scrittore realista della statura di Balzac, quando l’intero sviluppo artistico delle situazioni e delle figure da lui create venga in contraddizione con i suoi pregiudizi più cari o le sue più care convinzioni, non esiterà un attimo a metterle da parte e a scrivere ciò che vede in realtà ...» dichiara il critico ungherese, e, se Baudelaire non avesse dato una volta per tutte la più efficace ricetta per avvicinarsi alla Comédie humaine, questa sarebbe senz’altro una formula suggestiva. E, tuttavia, le due approssimazioni non si oppongono nel contrasto che si può dapprima immaginare. Nella finissima analisi condotta da Auerbach in Mimesis vediamo appunto ammiccare contemporaneamente le due approssimazioni, quella di Baudelaire come quella di Lukács: «Balzac si è assunto come suo compito particolarissimo la rappresentazione della vita contemporanea, e può esser considerato, accanto a Stendhal, il creatore del moderno realismo ... Tuttavia per Stendhal resta certo che un personaggio per il quale egli prova e pretende dal lettore una tragica partecipazione, deve essere un vero eroe, grande e audace nei pensieri e nelle passioni. La libertà del cuore magnanimo, la libertà della passione ha in lui ancor molto di quella grandezza aristocratica e di quel giocare con la vita che sono propri più dell’ancien régime che della borghesia del secolo XIX. Balzac immerge i suoi eroi molto più profondamente nel tempo: inoltre egli ha smarrito la misura e i limiti di quel che per l’innanzi si sentiva come tragico, e ancor non possiede l’obiettiva serietà nei confronti della realtà moderna ...». Come conclusione ci piace riportare ancora una citazione, da Roland Barthes. questa volta, uno dei più suggestivi tra gli ultimi saggisti francesi: «Balzac è il romanzo fatto uomo, è il romanzo teso sino all’estremo della sua possibilità, della sua vocazione, è, in qualche modo, il romanzo definitivo, il romanzo assoluto ...». [...].

 

 

  Mercadet, l’affarista, di Honoré de Balzac. Traduzione di Carlo Terron. Regia di Tino Buazzelli Roma, Ente teatrale italiano, [1969], pp. 28; ill.

 

  Programma di sala dello spettacolo rappresentato al Teatro Quirino di Roma dal 20 maggio 1969.

 

 

  Romanzi. La Commedia umana. Vol. I di Honoré de Balzac, «L’Espresso», Roma, Anno XXV, 6 aprile 1969.

 

  Curata da Massimo Colesanti, uscirà presso Casini tutta la Comédie balzachiana. Questo è il primo volume e contiene quattro romanzi: “Al ‘Gatto che gioca a pelota’”, “Il ballo di Sceaux”, “Memorie di due giovani spose”, “La borsa”, “Modeste Mignon”. L’opera è meritoria, solo che venga condotta a termine: già altri due editori hanno tentato in passato la medesima via, senza giungere in fondo. Questa edizione, che si avvale di preziose note bio-bibliografiche, è introdotta da un saggio di Giovanni Macchia che avevamo letto due anni fa su “Strumenti critici”. Macchia ricostruisce con vera finezza il gioco dell’immaginazione dello scrittore: «La realtà si è avvicinata a tal punto ch’essa ci trasmette la sua vertigine. La vertigine delle cose viste troppo da vicino: le venature, le rughe, i densi reami dell’essere; rigagnoli di materia. Non lo splendore dell’indiretto, come diceva James, ma l’accecamento del troppo diretto».



  La rassegna «Piccolo pianeta», «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVI, n. 15, 13-19 aprile 1969, p. 103.

 

  Un discorso «nuovo» di Mario Luzi su Balzac costituisce l’altro polo d’interesse della rassegna settimanale di cultura [in onda sul Terzo programma radiofonico il 18 aprile 1969]: il pretesto — tutt’altro che formale, dato che l’edizione di Balzac pubblicata di recente reca al frontespizio la firma di un «curatore» illustre come Giovanni Macchia — è offerto da un tentativo di riproporre la conoscenza dei capolavori balzachiani a un nuovo e più vasto pubblico di lettori.

  La domanda che si pone è perciò quella sulla resa attuale di Balzac, in altre parole, sull’attualità della Comédie Humaine. Il referto di Luzi è positivo: e ciò è tanto più importante, data la personalità del referente, che — sia come poeta che come critico — è strettamente interessato alle problematiche più vive e nuove del nostro tempo.

 

 

  Buazzelli factotum alle prese con Balzac, «Corriere d’informazione», Milano, 11-12 agosto 1969, p. 3.

 

  Tino Buazzelli, in attesa di completare gli ultimi episodi di «Nero Wolfe», si appresta ad iniziare negli «studi» romani di via Teulada una sua nuova fatica «a puntate», e cioè la trascrizione in immagini del capolavoro di Balzac «Papà Goriot».

  Il nuovo teleromanzo impegna Buazzelli nel triplice ruolo di protagonista, sceneggiatore e regista. Accanto a lui saranno Gabriella Giacobbe, Gabriella Ballotta, Raffaele Giangrande e forse l’ex-conte di Montecristo Andrea Giordana, fresco dalla sua digressione nel mondo della canzone.

  «Papà Goriot» è la storia di un padre che, morbosamente attaccato alle figlie, cerca con ogni mezzo di donargli la felicità. Le fa sposare a due benestanti, le favorisce addirittura nelle loro evasioni sentimentali. Ma alla fine viene ripagato con l’abbandono, ormai povero e vecchio, in una squallida pensione.

 

 

  «Mercadet, l'affarista» con Tino Buazzelli, «La Provincia», Cremona, Anno XXIII, N. 261, 8 Novembre 1969, p. 6.

 

  Presentato per la prima volta nel 1840 (sic) «Mercadet, l’affarista» di Honoré de Balzac conserva a più di cento anni di distanza la sua forte carica di dramma che non ha età. Seppure artisticamente inferiore alla sua produzione letteraria, il teatro di Balzac sempre ancora notevole come singolare espressione dei primi sintomi di un’arte realistica che doveva invadere i palcoscenici mondiali.

  Ma merito soprattutto del grande drammaturgo di Tours è l’avere puntualizzato e reso in dramma uno dei personaggi più irti e spinosi della società francese e mondiale: quel passare dalla società borghese del pieno romanticismo al periodo del capitale, alla società nata dal trionfo dell’economia capitalistica. E Mercadet è uno dei tanti rappresentanti di quella società.

  In Mercadet, infatti, appaiono già le prime forze dell’arrampicatore sociale di oggi, della instaurazione di un Dio-Denaro al quale sacrificare la esistenza, in «Mercadet, l’affarista» si assiste al nascere dell’attuale forma mentis che condiziona l’uomo per il suo successo, per la corsa frenetica all’oro. Importante quindi il testo di Balzac che, visto sotto questo aspetto, meritava una rilettura, una necessaria revisione critica ...

  La storia di Mercadet è un po’ la storia di tutti, la sua ansia di emergere è l’ansia dei nostri giorni. Attualità e vivacità della commedia sono state ben capite da Tino Buazzelli che con la sua compagnia ha deciso di riprendere il lavoro di Balzac proseguendo in quella campagna culturale che ha sempre contraddistinto tutta l’attività del popolare attore. Mercadet è sempre stato un grande amore per Buazzelli. Non è la prima volta che l’attore ripropone il personaggio di Balzac, personaggio che gli è estremamente congeniale e che Buazzelli riesce a rendere come forse nessun attore italiano potrebbe fare. [...].

 

 

  «Eugenia Grandet» in 15 puntate, «Corriere d’informazione», Milano, 2-3 dicembre 1969, p. 11.

 

  Anna Maria Guarnieri sarà Eugenia Grandet nella riduzione radiofonica in quindici puntate, dell’omonimo, famoso romanzo di Honoré de Balzac, curata da Belisario Randone, e affidata alla regia di Ernesto Cortese. Accanto alla Guarnieri figureranno Antonio Battistella (Felice Grandet), Anna Caravaggi (la signora Grandet), Giorgio Fabretto (Carlo), Gianni Montesi (Vittorio Grandet).

  «Eugénie Grandet», il primo grande libro dello scrittore francese (1833), è ambientato a Saumur, dove il terribile papà Grandet, «ex-bottaio», ha raggiunto con una serie di felici speculazioni la ricchezza. Attorno alla figlia giovinetta Eugenia, di luminosa bellezza e d’animo nobile e delicato, s’intrecciano le cupidigie delle due grandi famiglie borghesi della città, i Cruchot e i Des Grassins.

  La sera stessa del compleanno di Eugenia arriva improvvisamente Carlo Grandet, un giovane parigino educato nel lusso e nell’ozio, figlio di un fratello del vecchio Grandet, suicidatosi in seguito ad un fallimento. Carlo, in attesa di poter partire per l’India, dove tenterà la fortuna, si ferma alcuni giorni in casa dei parenti, facendo nascere in Eugenia una profonda passione.

  Ma il vecchio Grandet, avaro ed egocentrico, si oppone a quel sentimento. Ed Eugenia si consuma nell’attesa, senza notizie di Carlo, prigioniera del padre. Alla fine papà Grandet, ormai ottantenne, «passa» progressivamente nelle mani della figlia la sua immensa fortuna. In procinto di morire, pronuncia una battuta rimasta celebre. Nell’affidare tant’oro alla figlia dice: «Mi renderai conto di tutto laggiù». Eugenia Grandet, rimasta sola, non più voluta dal cugino Carlo, acconsente a sposare uno dei vecchi pretendenti di Samur (sic). Vedova a trentasei anni, finisce la sua vita in solitudine, riversando le sue ricchezze in beneficenza.

 

 

  Luciano Anselmi, Buazzelli come Balzac, «il Resto del Carlino», Bologna, 6 novembre 1969.

 

 

  G. Antonelli, “Mercadet l’affarista”, «Il Globo», Roma, Anno XXV, 22 marzo 1969.

 

 

  Arrigo Benedetti, La vita-romanzo di Balzac. Con Dio e con Satana, «Corriere della sera», Milano, Anno 94, N. 131, 7 giugno 1969, p. 13; 1 ill.

 

  Politica, cultura, superstizione: tutto diventa fantasia in questa specie di de Gaulle.

 

  Il Balzac di Ernst R. Curtius, l’alsaziano che dopo avere optato per la cultura tedesca, ebbe a dedicarsi soprattutto alle letterature romanze, aiuta generazioni di lettori italiani il cui palato risente fin troppo di Flaubert a intendere nella sua intierezza un romanziere disconosciuto, finché visse, dai francesi, e che semmai in patria e fuori fu prediletto dai poeti: da Victor Hugo, a Browning, a Hofmannsthal. (Balzac di Ernst R. Curtius, ed. Il Saggiatore, pp. 351, L. 2500. a cura di Vincenzo Loriga).

  Eppure anche Balzac come Flaubert sostituì l’arte — quella consistente nello scrivere romanzi — alla vita, senza tuttavia nascondersi in una villa sulle rive della Senna e senza esasperare se stesso fino alla follia. Egli resta il provinciale di Tours diventato parigino. Alterna la solitudine fratesca, necessaria al lavoro letterario, alla mondanità. Come poi Baudelaire, apprezza la modernité, che egli definisce contemporaneité. Non meno di Stendhal è immerso nel suo tempo, anzi se n’esalta ingenuamente. La costruzione del porto di Cherbourg gli fa dire che al confronto le piramidi egiziane e le architetture romane non sono un gran che. «Il nostro secolo è immenso» scrive a Ewelina (sic) Hanska. la sua contessa polacca, che in seguito sposò. E il secolo per lui coincide con la Francia e con la Parigi, di cui pretende d’essere l’arbiter elegantiarum. E’ un avvenirista tentato di guardare indietro, attratto dalle solide tradizioni. La sua non è una letteratura storiografica, come si dice oggi; anzi, la storia è per lui un seguito di arcane espiazioni. Maria Antonietta espia le colpe del padre Francesco di Lorena che aveva favorito la spartizione della Polonia.

  Il passato, semmai, gli offre elementi per la sua polemica contro la Francia dell’89. Da giovane si dichiarò per il trono e l’altare, senza essere un ultra, giacché il dispotismo lo indignava. Precisava però che occorre tenere a bada i poveri, dando modo, naturalmente, alle intelligenze superiori d’aprirsi una strada. Non andava più in là per stabilire come ciò avrebbe potuto prodursi. Anzi, aggiungeva: occorre tenerli a bada per la tranquillità delle classi agiate. Nietzsche scrisse: «Balzac ... profondo disprezzo per le masse». E Taine, a cui si deve la consacrazione postuma del grande scrittore: «La sua politica fu un romanzo». Una specie di de Gaulle insomma che al posto della grandeur metteva il fluido dell’energia nazionale.

  L’energia di cui consta l’universo è la chiave del suo pensiero. San Luigi, Luigi XI, Richelieu, Napoleone rappresentano una stessa idea umana, incarnano le energie messe a disposizione dalle circostanze. Danno al misterioso fluido concretezza col loro genio. Paganini, ascoltato nel ‘31, non l’impressiona per l’abilità dei polpastrelli ma per il mistero ch’era in lui. L’energia suscita desideri che diventano passioni, però, ripetendo Diderot, Balzac disprezza quelle meschine. Il desiderio si sublima nell’amore. Nonostante i robusti appetiti, vagheggia la donna angelicata, quasi stilnovistica, in cui si mescolano inoltre idee platoniche rinascimentali, fino a lasciare affiorare il mito della superiorità dell’androgino.

  Scambia Cagliostro per un filosofo. In certi momenti, leggendo il saggio di Curtius, si è tentati d’esclamare: «Che genio, però che confusione!». Come succede, se non si sta attenti, con certi russi, Dostoievskj soprattutto che, non a caso, ebbe a dichiararsi balzacchiano. Si sente a tu per tu con Dio e con Satana. Il fatto che nel ’30 siano simultaneamente moribondi il Papa e Goethe lo commuove. Vorrebbe conciliare una religione istituzionalizzata come quella di Roma con una religione universale e perenne. Il cattolicesimo è per lui una forma contingente d’una religiosità eterna. Come esiste una sola sostanza, non può darsi che una sola religione. Si richiama a Svendenborg (sic), e poi, risalendo nel tempo, ai templari all’alchimia al sincretismo mistico.

  «Passo sovente ore di malinconica gioia, di riso e di meditazione, immaginandomi Gesù Cristo che incontra Giulio II e Leone X» scrive in un diario. Non è d’accordo con Pascal che aveva scritto come «senza Cristo il non mondo non esisterebbe». Ed evoca la felicità delle Americhe precolombiane, la grandezza non europea della civiltà cinese. Insiste su un punto: tutto il male dei tempi moderni idei quali d’altra parte è consentaneo) viene dalla Riforma: di lì l’illuminismo, la rivoluzione, l’uguaglianza e il codice napoleonico.

  Lo si sospetterebbe mitomane della filosofia e come un precursore non scientifico dell’attuale sociologia. Invece, dentro la sua testa, tutto — politica, cultura, perfino la superstizione – viene frantumato, diventa elemento di fantasia. Giudica più reale Eugénie Grandet dei personaggi in carne e ossa che occupano la scena politica e sociale francese. In partenza, guarda al grande secolo: Molière l’affascina come inventore di persone ch’egli sente vive, e del massimo commediografo riprende i titoli: L’école des ménages è ispirato a L'école des femmes e a L’école des maris.

  La scuola romantica l’infastidisce, i drammi di tale tendenza sono per lui «cibrei di cattivi versi». Stima Hugo, ne sente la parentela (anche Balzac, come poi Proust, appartiene alla linea robusta che va da Rabelais, appunto a Hugo) ma critica l’Ernani. Appena letto Le rouge et le noir scrive a Ewelina Hanska ch’è un capolavoro e che avrebbe potuto scriverlo Machiavelli (sic), dov’è, nonostante il suo cattolicesimo non esente da, sfumature medievali, un richiamo all’esplosione d’energia avutasi in Italia fra il quindicesimo e il sedicesimo secolo. Invece la Chartreuse lo lascia perplesso; vi sente un’opera destinata alle élites, quasi presentisce l’esclusivismo dei futuri soci del sodalizio stendhaliano.

  Balzac ebbe verso il romanzo le perplessità che, nel secolo XVII, Molière aveva nutrito per la commedia, intestardendosi, prima d’inventare Tartufo e Arpagone, a imbastire noiose tragedie. Pregiudizi mondani compressero il suo spirito narrativo. Tentò il teatro, un fallimento; la storia, senza avere un serio pensiero storiografico. Temeva che il romanzo fosse un genere deteriore, sebbene in francese fossero già state scritte le storie di Gargantua e di Pantagruel della Princesse de Clèves, di Manon.

  Il successo di Walter Scott e il fatto che ne leggesse i romanzi con abbandono liberò la sua fantasia, che, certo, per straripare avrebbe colto altre occasioni anche senza Ivanoe (sic). Allora tutto — società e principi — si scompone, le invettive contro gli immortali principi perdono l’acredine, le teorie sull’energia unica sono quasi dimenticate e il romanziere, sui frantumi d’una vastissima eterogenea realtà umana e culturalistica assorbita, comincia a costruire la sua commedia.



 Paolo Bernobini, Nella balena di Balzac, «Il Piccolo», Trieste, Anno 88, N. 6947 nuova serie, 12 giugno 1969, p. 3.

 

 «Vi si impara a giocare a carte quella specialità del “whist” che è chiamata Boston, o l’altro gioco di carte, il Loo; a curare l’apoplessia; a prendere le ottarde; a far crescere ì capelli; a predeterminare il sesso dei nascituri; a costruire canali; a diseredare i figli illegittimi; a diagnosticare una malattia del cuoio capelluto come la “plica polonica” ...». Non sono che pochi esempi di quel vasto campionario d’idee e nozioni che il critico Arthur Marshall vede profuso nella «Comédie humaine» di Balzac. Il romanziere di Eugénie Grandet, dell’illustre Grandissart e di quel Re Lear borghese che è Babbo Goriot ha lasciato ai posteri un’enciclopedia romanzesca, o una vera e propria «Biblioteca di Babele»? La sua opera si assomma a 91 tra romanzi e racconti compiuti sui 137 preventivati. Un mondo abitato, vissuto da più di trecento personaggi, alcuni dei quali destinati a una popolarità autentica e contagiosa, i cui nomi saranno portati da soci di club di amici di Balzac. Ma in quali termini si potrebbe oggi definire un’opera che comprende anche manuali pratici, filosofie e una fisiologia della vita coniugale scritta da un celibe, che ci trasporta dalla Spagna della Inquisizione alla vita intima degli ultimi Valois e riempie undici volumi della Bibliothèque de la Pléiade? Il giudizio della critica su Balzac è stato spesso meno equanime di quello del grande pubblico romantico. Coloro che ne hanno tratto di più sono gli stessi che vi si sono abbandonati con più passione. Poeti, scrittori: Robert Browning, Hugo von Hofmannsthal, Gottfried Benn, Oscar Wilde, Baudelaire, Michel Butor. Il recensore di formazione accademica, il critico letterario come specialista della diminuzione e il letterato minore si sono distinti invece nella pesca alle incongruenze balzacchiane, un esercizio in parte utile a gratificare la vanità di chi, per essere venuto dopo un grande, si crede riscattato dai suoi errori. Balzac cattivo scrittore? Filosofo da baraccone? In effetti al giorno di oggi un numero imponente di piccoli romanzieri riesce fin dall’opera prima a costruire una macchina narrativa perfetta, e lubrifica gli ingranaggi del suo capolavoro con quell’ironia verso ogni conoscenza sistematica che tiene il luogo del vecchio «pathos». Ma Balzac è vitale mentre il nostro guaio è che la letteratura creativa cura ormai soltanto ciò che può giustificarne l’attualità, si affida ai luoghi comuni dello snobismo internazionale, teme soltanto di non essere disinvolta, irriverente, «à la page». E muore per diffusione. Scritto il suo libro di successo, l’autore viene accolto, premiato, invitato a collaborare con la televisione e il cinema, fatto sedere a una rubrica fissa e firmata su un periodico. Frattanto il suo romanzo si stagiona, come il legno, si restringe, si ritira, fino a sparire. Il processo è accettato con fatalismo. Il romanziere sa bene di offrire un debole diversivo a un pubblico che si distrae in mille altri modi e in particolare egli non ignora che la sua storia è tipica, una millesima celebrazione del rituale del possibile, dell’accettabile. Non vi sarà identificazione. Nessuna lettrice battezzerà sua figlia con il nome della protagonista, nessuno si prospetterà nella propria vita un’analoga vicenda, o il suicidio del wertheriano coerente. Si legge per paura di scivolare al disotto del proprio livello sociale. E inoltre si ha molto poco tempo per leggere.

 In una situazione come questa come proporre Balzac a una rilettura intonata con le esigenze odierne? Come far passare questo cetaceo entro le chiuse dei piccoli porti, ritiri di una cultura demaniale, suddivisa fra competenti e ras, convinta che il suo compito sia quello di uno sperimentalismo e di un sociologismo a breve raggio? Impossibile. Perché Balzac è veramente una balena che ha inghiottite vive una città, un’epoca, una popolazione intera con le sue idee, i suoi sogni le sue manie. E con questo mondo chiuso nel suo ventre come un Giona, il gigante incrocia solitario gli oceani dove soltanto dei navigatori meno prudenti di noi andranno a cercarlo. Non possiamo certo ridurlo agli schemi di una classe d’intellettuali politici che si adegua all’informazione e ai «mass-media» e ci condanna alla precarietà, al dominio del provvisorio, e da un lato alimenta il vizio letterario per coerenza con la propria fede nei consumi, dall’altro proclama la fine della letteratura, forse per sostituirla con il romanzo pettegolezzo o una saggistica da radicali. Paradossale quanto si vuole, Balzac che proclamava di scrivere alla luce di due eterne verità come la monarchia e la Chiesa, e ribadiva, con sfida, con rabbia, di essere reazionario, possiede in codice le strutture portanti della cultura di domani. Karl Marx, che intuì quel messaggio in volo al disopra di tante teste inutilmente assorte, progettò di scrivere una biografia del grande romanziere che egli preferiva ed amava. Ai nostri giorni Raymond Abellio, l’autore della «Struttura assoluta», in una prefazione al «Louis Lambert» balzacchiano illumina il lettore sull’influenza esercitata da Swedenborg sul romanziere della «Comédie humaine». «Il principale apporto di Swedenborg in Balzac — dice Abellio — è forse quella teoria delle corrispondenze che rappresenta una sorta di formulazione razionale dei principi del simbolismo o della analogia, grazie ai quali parole apparentemente estranee l’una all’altra si rivelano unite da un legame e si avvicinano nel senso, per fornire all’intelletto possibilità di ancoraggio ... Se si vuol comprendere la teoria delle corrispondenze del veggente svedese, bisogna andare oltre la semplice pratica delle analogie o delle metafore, che è propria di una poesia ignorante delle proprie risorse: bisogna risalire a quell’ammirevole dottrina dei gradi discreti, discontinui, di altezza o di ascensione, che egli oppone ai gradi continui di larghezza o di estensione, nei quali ultimi si può già scorgere un primo annuncio della dialettica contemporanea. Siamo, qui, nel cuore del pensiero sempre vivo di Swedenborg. Lo strutturalismo moderno vi è in gestazione. Le sue forme usuali sono state lì addirittura superate, nel senso che la dottrina di Swedenborg è genetica, ciò che il nostro strutturalismo, ancora in via di elaborazione, ancora non è. Alla luce di quale scienza dovremmo allora studiare la follia di Louis Lambert? Balzac sembra suggerire che non si tratta di una vera follia, che Louis Lambert è pervenuto ben oltre la comune esperienza di questo mondo ...».

 Dunque al lettore odierno di Balzac appaiono già dei barlumi di contenuti conoscitivi sfiorati dai benpensanti e dai superficiali giudici del «romanziere che scrive male» come i ciechi pipistrelli sfiorano le volte di una grotta. Occorre avvicinarsi a quelle pallide luci, indagare sugli innumerevoli segreti che lo iniziatore del romanzo moderno serba ancora per noi. Un metodo d’approccio nuovo ci è indicato nel «Balzac» di Robert Ernst Curtius, pubblicato ora dal «Saggiatore», ma apparso nell’edizione originale tedesca fin dal 1923. Curtius ci dà dell’opera balzacchiana una visione non consecutiva, lineare, ma simultanea. Per riuscirvi egli concepisce l’universo della creazione balzacchiana in una sfera, in un’arancia che viene divisa in quattordici spicchi: «religione», «influssi», «energia», «romanticismo». Tutti gli spicchi sembrano convergere verso un cuore magico, svedenborghiano.

 

 

  Paolo Bernobini, Balzac fatto a spicchi. Conversazione di Paolo Bernobini, Terzo programma, 28 giugno 1969.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Odoardo Bertani, Mercadet: la truffa come gioco, «Avvenire», Milano, Anno II, 13 novembre 1969.

 

  Aspettando Godot, nello stile di metà Ottocento. Non il beckettiano personaggio misterioso e forse inesistente da cui tentare una spiegazione dell’esistenza, ma il balzacchiano invisibile portatore d’oro, provvidenziale per risolvere non problemi metafisici, ma i problemi concreti d’una famiglia borghese. Ad ogni età il suo dio. Magari «a posteriori», per, un intervento drammaturgico, che in questo caso si rifà ad un’intenzione di critica sociale, e che è dovuto a Carlo Terron, il quale sul frondoso testo di Balzac ha lavorato di forbici non solo, ma con inserti e spostamenti di scene, e infine sul finale, che vede Mercadet rinvigorito per nuove avventure finanziarie, non rinunciatario. Il personaggio, diciamolo, ci appare del tutto coerente e credibile, e ulteriormente godibile.

  «Mercadet l’affarista» fu uno spettacolo del Piccolo Teatro di Milano, tredici anni or sono. Tino Buazzelli s’è affezionato al personaggio, e qualche tempo fa l’ha ripreso. [...]. Il suo Mercadet vive in una abnorme dimensione fantastica, e si salva per il suo estro ipertrofico. Finanziere rotto a tutte le astuzie della Borsa, costella d’imprese prima sballate che fallite il suo curriculum; l’abisso della miseria non è la sua tentazione, ma la sua condizione: il suo genio irruente ha bisogno di situazioni estreme, perché scocchi la intuizione della via d’uscita, che non sarà data, se non dal coinvolgimento di altri ingenui in qualche rovinosa impresa. Mercadet è di là dal bene e dal male; egli non truffa, ma realizza se stesso in una strategia scacchistica, dove il denaro, non è desiderato con brama d’avaro, non vuol essere posseduto, ma è giocato in un azzardo in cui il piacere sta tutto nel rischio, nella risposta alternativa della sorte. Mercadet celebra il dio suo (e della sua società) con i riti propri; lo scacco gli viene dall’immedesimazione con questa religione, dal suo sostanziale disinteresse in rapporto a un prevalente bisogno di affermare la supremazia del proprio ingegno. Infine, Mercadet è il vero dio di Mercadet. Egli stesso è la propria grande commedia, cui egli assiste con una sua lucida consapevolezza arretrata; la febbrile attività mentale, la cascata delle trovate e degli imbrogli, prepotente effusione verbale toccano, alla radice, una tensione di lottatore consapevole e un’ansia d’approdo, che danno consistenza a questo ritratto pletorico di imbroglione e di folle, redento dal fatto di essere un artista delle proprie azioni, cui manca tuttavia qualcosa per essere un carattere. Manca, forse, la malinconia, mancano il momento del dubbio, l’attimo di incertezza e di solitudine, i ripiegamenti su sé stessi, che sono propri delle grandi figure, quelle che ci lavorano dentro, mentre questa rimane estranea a noi, nella sua iperbolica presenza.

  Sarebbe certamente possibile legare a Mercadet una corrosiva definizione d’ambiente, ed effettuare nei suoi stessi confronti una impostazione critica. Tino Buazzelli, invece, preferisce farsi complice del suo personaggio, non rinunciando ad un briciolo della sua fluente comunicativa. Quasi egli fosse Mercadet, ne traduce, incarnandovisi a piena misura, una immagine festosa e barocca, di briccone immaginoso esaltato via via dagli ostacoli che pungolano le sue facoltà di rabdomante; gli fa dominare la scena con la sua irresistibile facondia, con l’agilità mentale, con la farsa dell’ottimismo e il voluttuoso gusto del cimento. E’ il pedale comico, insomma, ad essere premuto senza risparmio, nelle sfumature della caricatura all’ironico, al grottesco, al fine di una decantazione del testo da ogni ancoraggio realistico, anche nell’accezione satirica; il ritmo è sveltissimo, i toni sono alti e i movimenti tendono alla stilizzazione. E’ una specie di energia che viene bruciata dalla recitazione aggressiva e solitaria di Buazzelli, col suo Mercadet rapito nel propri fantasmi, concentrato sulle proprie stregonerie. [...].

 

 

  Angela Bianchini, Balzac e Sand: due feuilletonisti riluttanti, in Il romanzo d’appendice, Torino, ERI-Edizioni RAI Radiotelevisione italiana, 1969 («Nuovi Quaderni», 2), pp. 71-84.

 

  Balzac scrisse il suo primo romanzo d’appendice nel 1836, per la Presse: La zitella, scene della vita di provincia, a cui dovevano seguire, fino al Deputato d’Arcis, rimasto incompiuto e poi pubblicato dal Constitutionnel, moltissimi altri. Tra questi ve ne sono di giustamente celebri: Il curato del villaggio, Béatrix, Pierrette, Modesta Mignon, La cugina Betta, L’ultima incarnazione di Vautrin, ma rappresentano soltanto una parte dell’immensa produzione di Balzac, il quale, del resto, prima di iniziare la collaborazione al romanzo d’appendice, aveva già raggiunto la fama, dando alcuni dei suoi capolavori: Eugenia Grandet, del 1833, Papà Goriot del 1835, Il giglio nella valle del 1836.

  Nella storia del romanzo d’appendice, infatti, Balzac, «feuilletonista» ricercato e di successo, che tuttavia non si arricchì mai con i suoi tantissimi romanzi quanto si arricchì Sue con i suoi Misteri di Parigi, è colui che meno possiede il temperamento adatto al feuilleton: meno ancora di George Sand che fu costretta anch’essa ad usare quello che era allora il mass medium per eccellenza. Non solo perché egli, pur abituatissimo a lavorare sotto pressione (aveva già dato, come è noto, parecchi romanzi a puntate in riviste quali La Revue de Paris ed era proprio stata la Revue de Paris a inventare, nel 1829, con il dottor Véron, la formula «il seguito al prossimo numero», e La Chronique de Paris), non sa rinunciare a quelle lunghe descrizioni, in apertura che Dumas sostituirà invece con brevi e avvincenti dialoghi e che Sue carica, fin dal primo momento, di fosche tinte intese a creare la suspense (l’inizio di Modesta Mignon, ad esempio, pur portando il lettore in medias res e gettando le basi di tutto l’intreccio, lascia la vicenda così misteriosa da scoraggiare piuttosto che incoraggiare il pubblico a procedere), ma perché il suo stesso taglio romanzesco non è quello del romanzo d’appendice. Rileggendo oggi le opere balzachiane che furono pubblicate, e per anni, nei principali giornali, riesce difficilissimo rendersi conto del taglio delle puntate (cosa che, invece, appare evidente in Sue) c quasi impossibile distinguere un romanzo di Balzac in appendice da un altro che sia stato dato alle stampe nella sua integrità.

  Nel lungo tirocinio compiuto da Balzac non mancano tuttavia, agli inizi, opere che, se in appendice pubblicate non furono, della letteratura a fosche tinte, allora di moda avevano tutte le caratteristiche. Parlando della lunga e faticosa via di Balzac al romanzo, Giovanni Macchia dice che, «dimenandosi tra il romanzo nero, gotico livido ricettacolo d’umido e d’oscurità ...» o «il romanzo storico o il romanzo fantastico», Balzac scivola «senza ripugnanza nel romanzo d’appendice». Balzac, infatti, «considerava se stesso e il pubblico come un’unità inscindibile di cui l’uno non poteva vivere senza l’altro ... Non basta. In quelle prime battaglie chiede degli aiuti, si cerca dei collaboratori, dei compagni, i cui nomi provocano ancora qualche incertezza tra gli studiosi. E perché quell’incontro o quello scontro fosse puro, quasi irresponsabile, Balzac non firma quelle incredibili storie, le quali portano il nome ora di Horace de Saint-Aubin, ora di Lord R’Hoone, ora di A. de Viellerglé: a volte dell’uno o dell’altro insieme, di sé e dei suoi amici, legati in un unico mazzo».

  Tra le sue prime opere si trovano titoli di eroi e d’eroine con sottotitolo, come nel melodramma: Clotilde o il bell’ebreo, Annette e il criminale (che in una ristampa si chiamerà Argow il pirata). I temi, i personaggi, i ribelli sono, come si vede, quelli che abbiamo incontrati fino adesso: non manca neppure la Storia imparziale dei Gesuiti, pubblicata anonima e La Vendetta (scritta esattamente così, con il titolo in italiano), e Facino Cane (storia di un’altra vendetta).

  Ma, dice Macchia, «il romanzo nero investe pienamente, col buio delle sue grotte e nell’immensità terrificante dei suoi paesaggi notturni, con la terra che sembra sognare sotto la luna, la più significativa tra queste opere: Il centenario o I due Béringhéld del 1822». [...].

  Sembra impossibile sottrarsi all’impressione che Balzac, pur adoperando i materiali allora di moda, quelli, in fin dei conti, del Nodier, lo faccia con convinzione assai minore, già conscio di certe distanze che egli vuol stabilire tra sé e una cattiva imitazione del Maturin, qual è appunto questo Centenario. Tuttavia, un passaggio della Ereditiera di Birague, scritta lo stesso anno del Centenario (1822) e citato dal Macchia, ha un dialogo che è difficile giudicare parodistico piuttosto che puramente assurdo [...].

  Probabile dunque che, piuttosto che di parodia, si tratti, come vuole il Macchia, di inoculazione «dei veleni che sarebbero serviti di difesa e di protezione dell’organismo». Inoculazione, del resto, che non termina con gli «anni dell’apprendistato» e con la produzione di quelle opere che Balzac stesso definirà «porcate letterarie», e perdura anche quando Balzac prende piena coscienza delle sue possibilità: lontano ricordo, chissà, dello scampato pericolo in cui altri erano incappati (se, al principio, Balzac dimostrò grande ammirazione per Sue, domandandogli anche dei consigli che non sempre seguiva, più tardi giudicò con severità implacabile la sua ultima produzione) e, al tempo stesso, uso del tutto diverso e con coscienza ben altrimenti vigile di alcune risorse letterarie imparate in quegli anni.

  Soltanto così, ad esempio, si può giudicare quella Donna di trent’anni, che non comparve mai in appendice, ma in cui Balzac stesso riunì, dando titolo unico, e datandole dal 1828 al 1830, parti diverse, già comparse nella Revue de Paris e nella Revue des Deux Mondes. La prima di esse, I due incontri (poi pubblicata quinta nel libro, che ha molte ripetizioni e coincidenze dello stesso tema) si apre con l’arrivo, in mezzo a una famiglia riunita a trascorrere insieme una calma serata, di uno sconosciuto che bussa alla porta, domanda ospitalità per sfuggire a un pericolo misterioso che lo minaccia e tanto seduce la giovanetta di casa con la sola potenza del suo sguardo da far sì che essa, il giorno dopo, contrariamente al parere di tutta la famiglia, affascinata, lo segua. Sempre nella stessa novella, il secondo incontro avviene tra il padre della fanciulla, di ritorno dall’America, e il capitano di una nave che altri non è se non l’uomo che gli ha rapito la figlia. La figlia stessa, divenuta moglie del capitano, si trova anch’essa sulla stessa nave e può così abbracciare il padre. In un’altra parte del libro, che originariamente si chiamava L’Appuntamento e che poi Balzac intitolò Primi sbagli, vi è un’allusione a Maturin. [...].

  In effetti, Balzac fu tra i primi ad accorgersi della versione francese di Melmoth che utilizzò poi parecchie volte: la comparsa dell’uomo fatale, sporco di sangue nella Donna di trent’anni, quella del giovane inglese al falsario Castanier nel libro che scrisse nel 1835 e che si chiama addirittura Melmoth riconciliato e, prima ancora, nella Pelle di zigrino del 1831, l’apparizione del giovane nella casa da gioco.

  Neppure in Modesta Mignon (romanzo d’appendice che narra gli amori epistolari di una giovane di provincia per il segretario di uno scrittore alla moda), sono assenti le allusioni un po’ ironiche all’armamentario della fatalità e del romanzo nero. [...].

  Alcune delle tesi umanitarie, allora alla moda tra gli scrittori animati da spirito democratico, compaiono perfino in Balzac, notoriamente poco preoccupato della sorte del proletariato: nel Medico di campagna del 1833, per esempio, il lettore vede il dottor Benassis fondare due fattorie-modello e una scuola, e moltiplicare i prestiti agli agricoltori poveri, che hanno bisogno di procurarsi gli strumenti di lavoro. Anche il forzato (che ritroveremo nell’Ultima incarnazione di Vautrin) fa la sua prima comparsa in Ferragus nel 1833, e poi nello stesso Vautrin del Papà Goriot. Il mondo torbido della polizia sotto l’Impero è visto attraverso le pagine di Un affare tenebroso, del 1841, romanzo storico e poliziesco insieme. Dove quell’armamentario del romanzo nero, come si diceva, non compare affatto è invece nei feuilleton che scrisse Balzac e che dell’appendice non hanno alcuna caratteristica. La zitella, il primo di essi, fu pubblicato nel 1837, lo stesso anno delle Memorie del Diavolo, quattro anni prima dei Misteri di Parigi, sette anni prima dei Tre moschettieri di Dumas e ben tredici anni prima dei Miserabili di Victor Hugo, per altro mai pubblicato in appendice. Una concezione del tutto diversa del senso dei costumi separa La zitella da questi due libri. La storia risulta semplicissima, seppure con arditezze fisiologiche: da tempo Balzac si interessava infatti alla specie zoologica della «zitella» che vedeva tormentata e frustrata. Rose Cormon, ricca borghese d’Alençon, una delle cittadine di provincia su cui si è esercitato il talento di Balzac, esita tra due pretendenti, attratti dalla sua fortuna e dalle sue forme opulente: sceglie, naturalmente, il peggiore, un ex fornitore di viveri all’esercito, ora calvo e impotente per abusi passati. È trascurato, nella scelta, il terzo pretendente, l’unico degno e incompreso, che a ventitré anni, si suicida per amore. La protagonista, conclude Balzac, «resterà sciocca fino all’ultimo respiro».

  Dov’è il dramma, dove i colpi di scena? Nella vita stessa. Questa vita di provincia, che come è stato detto, gridava di verità, queste figure semplici e parlanti, una donna e tre uomini, non furono apprezzati. Alcuni abbonati schifiltosi protestarono scandalizzati dai dettagli troppo liberi della fisiologia di Balzac; il pubblico, in generale, rise delle pretese di un romanziere che, fondandosi sulla scienza del fisico Lavater, pretendeva di indovinare il cuore e i sentimenti umani dai segni esterni. Maresciallo del feuilleton, Balzac, in questa sua campagna di Francia, si ritrovava abbastanza solo.

  Ma non cedette alla moda e, nella sua produzione frenetica degli anni successivi, molti dei suoi romanzi ed anche dei migliori sono pubblicati in appendice. C’è quella Figlia d’Eva pubblicata nel Siècle tra il 31 dicembre 1838 e il 14 gennaio dell’anno successivo, che risulta quasi esemplare del metodo seguito da Balzac. E non soltanto perché vi compaiono quell’attrice Florine e il suo amante, lo scrittore Nathan, che furono creati da Balzac quasi contemporaneamente per Una figlia d’Eva e le Illusioni perdute, sebbene con età diverse, non soltanto perché, invecchiato e un po’ deluso, vi si ritrova il giovane Félix de Vandenesse del Giglio nella valle, scritto quasi due anni prima, così come altri personaggi, ma soprattutto perché, fra le molte figure, come vedremo, riprese dalla realtà, emerge Nathan, qui, tuttavia, in veste particolare. La vicenda narra di Marie-Angélique de Vandenesse, sposata ad un uomo vecchio ma non prudente, la quale, innamorandosi del celebre scrittore Nathan, arriva a compromettersi finanziariamente per colui che crede di amare. Sull’orlo della rovina, è salvata da una triplice e tragica scoperta: suo marito è al corrente di tutto, essa stessa sta per precipitare nel disonore, e Nathan è da anni l’amante di una famosa attrice. E l’attrice, con le sue volgarità, le sue ostentazioni, possiede una devozione ed un coraggio che la rende la vera trionfatrice della vicenda.

  Nell’attrice sono fusi i prototipi di due commedianti celebri, Juliette Drouet, amata da Victor Hugo, e Marguerite Ferrand, detta Ida Ferrier, M.lle Ida per il pubblico, prima amante e poi moglie di Alessandro Dumas. Più complicato invece il personaggio di Nathan che di volta in volta è stato identificato con varie figure della «bottega romantica», da Nodier a Sainte-Beuve a Dumas e al romanziere Léon Gozlan. In realtà oggi si tende a vedere in Nathan Balzac stesso e non soltanto per vari tratti che Nathan ha in comune con l’autore (conversatore brillante, piuttosto brutto ma pieno di fuoco, con un piglio bohème che alterna ad un’eleganza da dandy), ma perché la vicenda riproduce la corte travolgente che Balzac, l’anno prima, aveva fatto alla contessa Sarah Guidoboni-Visconti, inglese sposata ad un italiano, a Milano; corte di cui il marito si era perfettamente accorto e a cui aveva posto fine con una lettera che è stata conservata e trasmessa alla posterità.

  Ma, a contare, in questo libro, è soprattutto la raffigurazione dei due ambienti, aristocratico[1] e bohème, apparentemente opposti e dotati di un solo tratto di unione, cioè la figura dello scrittore (più che Balzac, e in modo più ostentato di Balzac, fu proprio Sue, come vedremo, ad assolvere questo ruolo di scrittore ammesso per la prima volta nei saloni del faubourg Saint-Germain), questi due mondi hanno gli stessi dolori, le stesse passioni, la stessa possibile, tutt’altro che improbabile, rovina finanziaria e morale. Posseggono entrambi quel «meraviglioso quotidiano» che è il grande tema di Balzac, l’unico capace di interessarlo e cattivarlo completamente. Fu Baudelaire a dire, appunto: «La vita parigina e feconda di argomenti poetici e meravigliosi. Il meraviglioso ci avvolge, come l’atmosfera, ma noi non lo vediamo». Oltre a vedere il meraviglioso di Parigi, Balzac, come già osservammo in La zitella e Modesta Mignon, vedeva il meraviglioso di quelle sue straordinarie città provinciali dove, ancora più che a Parigi, terribile era il contrasto tra il perbenismo, le convenzioni, il tenore di vita e la bassezza delle passioni, tra le quali, implacabile emergeva e dominava la passione del denaro. Come ha detto giustamente Maurois [Prométhée ou la Vie de Balzac], «il denaro, il modo di acquistarlo, le doti, le eredità, il commercio, la banca, gli usurai, le falsificazioni di testamenti, la truffa tengono altrettanto posto dell’amore. Anzi, più posto. Perché molti romanzi di Balzac sono senza amore ...».

  Vi è un romanzo di Balzac, Pierrette, in cui un po’ di amore esiste: uno di quegli amori infantili al cui lieto fine Balzac credeva assai poco (come unico esempio cita a più riprese la passione di Vittoria Colonna per suo marito, il marchese di Pescara), ma così soffocato dal denaro e dalla morte da apparire semplicemente come la possibilità, e non la realtà dell’amore. Esistono in compenso tutti o quasi tutti i lati meno attraenti del denaro che enumera Maurois. È un romanzo d’appendice, Pierrette, infatti, e non vi è forse altra opera in cui sia altrettanta chiara la differenza che corre tra Balzac e Sue, non altro test per provare il contrasto tra quanto è veramente appendice e quanto non lo è.

  Pierrette, pubblicata nel Siècle tra il 14 e il 27 gennaio 1840 era considerata da Balzac, per il suo argomento, opera deliziosa e «un peu jeune fìlle», adatta cioè alle ragazze, e anche da dedicarsi a Anna, la giovane figlia di Madame Hanska, amante e poi moglie dello scrittore (la quale Madame Hanska però, non fu dell’opinione di Balzac ed esitò a metterla nelle mani di Anna): infatti, benché essa faccia parte della serie dei Celibatari (in cui Balzac mise anche Eugenia Grandet, Ursule Mirouët e La Rabouilleuse) e affine, dunque, alla Zitella, ha per protagonista una fanciulla bretone di quattordici anni, allevata da una coppia di fratello e sorella scapoli, sordidi di avarizia e di ambizione. Per questioni di eredità, di rivalità politiche e sociali, e soprattutto per un complesso gioco di ambizioni matrimoniali in cui entra in gioco tutta la cittadina di Provins, Pierrette è torturata, non tanto in senso fisico quanto morale, e la sua morte dà luogo a un processo penale dal quale tuttavia i torturatori che hanno nel frattempo raggiunto tutti i loro obiettivi, escono assolutamente indenni.

  Pierrette è la vergine pura, non meno di Fleur-de-Marie, la protagonista dei Misteri di Parigi (due anni soltanto le separano) con la differenza che il peccato a Fleur de Marie tocca in sorte di assaporarlo non soltanto nella realtà, ma, quel che più conta, nell’animo. Pur salvata da interventi provvidenziali, che mettono in moto potenze infere e superne di tutti i generi, Fleur de Marie non può mai dimenticare di aver peccato. Pierrette, al contrario, non soltanto di peccare non ha possibilità, ma neppure coscienza: rappresenta la purezza vera, seviziata in modo assai sottile, che delle sevizie neppure si accorge, che passa a testa alta e con il perdono nel cuore attraverso un mondo che la odia. Vissuta, Pierrette, sarebbe stata ottima madre di famiglia, neppure tormentata dal ricordo di quanto aveva subito.

  Divenuta monaca, Fleur de Marie, al contrario, è ancora abitata dai suoi demoni. Ma la differenza maggiore tra le due concezioni romanzesche sta nelle forze che esse mettono in moto: tutte esterne quelle di Sue, tutte interne, e perciò tanto più subdole, quelle di Balzac. Sue denuncia, Balzac si limita a descrivere: non con cinismo, ma con freddezza.

  Una differenza che non è di sempre, perché invecchiando Balzac, nonostante i fulmini contro Sue («Io non posso, non debbo, non voglio subire – scrisse una volta a Madame Hanska – il discredito che pesa su di me per colpa dei mercati di Sue e del chiasso che fanno le sue opere» e, nel 1846, parlando di Martino il trovatello, scritto da Sue: «È considerato schifoso e vergognoso. Sue è perduto!») finisce per adoperare parecchio del materiale il cui uso aveva tanto deplorato.

  Dopo l’insuccesso di Modesta Mignon, poco gradito agli abbonati che l’hanno accolto con freddezza e leggono invece con ansia, il Conte di Montecristo, Balzac si dedica a finire quel romanzo fiume che è Splendore (sic) e miserie delle cortigiane, di cui l’ultima parte, ispirata dalle Memorie di Vidocq, è una vera miniera di informazioni sui bassifondi (come del resto saranno ispirati da Vidocq i Miserabili). L’ultima incarnazione di Vautrin è forse il suo migliore feuilleton (Presse, 13 aprile-4 maggio 1847): «strano miscuglio di temi romantici, di assurdità melodrammatiche e di osservazioni vere» questo libro che mette in scena, ahimè! una cortigiana purificata e poi ributtata nel vizio per amore, l’influenza satanica di Vautrin, il duello del forzato Vautrin con il poliziotto Corentin, l’equivoco affetto dell’ergastolano per Lucien Rubempré, fuso con un quadro realista di interessi creati e intricati (il vecchio banchiere soffocato dal desiderio, la disperazione dell’innamorata di Lucien).

  «Questo è Sue, allo stato puro» confessa Balzac, sempre alla Hanska, convinto tuttavia, pur in questo pasticcio di peripezie stravaganti, di misteri, di romanzo nero, alla sua prima maniera, di possedere «il colpo di frusta adatto a far saltare tutte le coperture e i cenci messi sulle piaghe».

 

 

  Piero Bigongiari, Balzac e l’avventura dell’essere, «L’Approdo letterario. Rivista trimestrale di lettere e arti», Roma, Anno XV, N. 46, Aprile-Giugno 1969, pp. 113-116; successivamente in: La Poesia come funzione simbolica del linguaggio, Milano, Rizzoli, 1972, pp. 83-87.

 

  Segnaliamo questa volta ai nostri lettori l’inizio di un’impresa che, se condotta a buon fine, come non dubitiamo, arricchirà le nostre letture di un complesso affascinante: l’editore Casini pubblica il primo volume e promette l’edizione integrale della Commedia umana di Honoré de Balzac, affidata a un’équipe di traduttori, a cura di Massimo Colesanti, e preceduta da una lunga e lucidissima prefazione di Giovanni Macchia, dal titolo Il cammino di Balzac. Il volume comprende i primi «studi di costume» che costituiscono la prima parte della Commedia, sotto il segno delle «Scene della vita privata». E sono intanto, oltre al racconto La borsa, quattro romanzi: Al «Gatto che gioca a pelota»; Il ballo di Sceaux; un romanzo epistolare, Memorie di due giovani spose; e infine Modeste Mignon, che è già del Balzac più felice.

  Prima di arrivare alla concezione organica di questa serie romanzesca, Balzac aveva avuto un lungo oscuro tirocinio con romanzi neri, del tipo cosiddetto gotico, scritti a più mani, e firmati con pseudonimi, comprendenti tutta la parte più melodrammatica che il romanticismo aveva suscitato o riesumato in un revival di grandi gesta, di malefici incanti, di passioni rovinose. I personaggi erano i superuomini di un’immaginazione senza stile, e dunque senza controllo etico, assai simili agli eroi incontestabili degli attuali fumetti: anch’essi facenti parte di un neogoticismo di maniera, seppure la maniera sia divenuta l’odierna chanson de geste astrale e fantascientifica. E sarà il melodramma, in verità, a investirsi di questo lato incredibile, cupo e meraviglioso, dell’esistenza: nel melodramma i fantocci, sull’ala scivolosa della musica, acquisteranno un corpo canoro, una credibilità emotiva, che certo questa produzione giovanile di Balzac non ha, per quanto anch’essa abbia oggi i suoi rivalutatori, con in testa uno studioso, il Barbéris, che si è dedicato con particolare fervore a queste Sources de Balzac. Invano lo scrittore stesso vorrà accreditare la leggenda di avere volutamente sperimentato in questa produzione commerciale, assunta da grande imprenditore dell’immaginario, le armi per il suo futuro capolavoro ciclico; e per quanto si possa accedere all’idea che l’esperienza balzacchiana non sia mai stata un’esperienza di laboratorio, del tipo flaubertiano, e che i cascami egli avesse sempre bisogno di vederli indosso alle comparse che potevano trasformarsi da un momento all’altro, per uno scatto dell’estro, nel grande protagonista. E’ il gusto romantico della maschera dei sentimenti e dell’arbitrio del cuore: il genio romantico, si sa, è sregolato soprattutto in termini quantitativi e ama mettere alla prova, per il gusto dei contrasti, le contraddizioni impossibili. Ma d’altronde, non ha detto Nietzsche, alla fine del secolo, che «Tutto ciò che è profondo ha bisogno della maschera»? E nel nostro secolo non è stato proprio Pirandello, l’esploratore delle profondità psichiche quando sradicate vengono alla superficie storica dell’uomo, a proclamare che solo con la maschera la verità è credibile? Solo che quelle pirandelliane sono «maschere nude»: maschere che hanno bollato a fuoco la carne dei volti che le hanno sostenute, in una tragica e paradossale compenetrazione fenomenologica.

  La società francese tra il primo Impero e l’età di Luigi Filippo offrirà invece il grande materiale che darà origine alla Commedia umana. Ma vorremmo segnalare, già nel titolo, il permanere di questo valor «comico», nel miglior senso dantesco, d’un realismo assoluto ma anche recitato a fini esemplari e classificatori, cioè d’un realismo in partenza ideologico, nell’utopica idea del grande affresco sociale, di cui la Commedia umana è permeata. Le varie «scene» — della vita privata, della vita di provincia, della vita parigina, della vita politica, della vita militare, della vita di campagna — sono i cerchi, i gironi, i cieli di questo cosmo sociale che pulsa in termini biologici. Il divino è divenuto l’umano, il concentrico dantesco ha perso il centro: lo zoliano e positivistico «ventre di Parigi», il nuovo centro «basso» del naturalismo della fine del secolo, è ancora lontano, coi suoi fini rivoluzionari, e in Balzac non è determinante. Il cosmo sociale in ebollizione della Commedia umana non ha un centro prefissato: esso pulsa dappertutto, in una caotica policentricità in cui solo le passioni, il cuore o le ambizioni umane, tendono a dare un centro momentaneo, un punto di coagulo nella massa amorfa e agitata che lo scrittore «studia». Non si dimentichi che la tripartizione della Commedia è in: Studi di costume, Studi filosofici, Studi analitici; ma la lente del naturalista trema ancora in mano al grande ideologo, divenuto con la Restaurazione il grande possessore di idee naturali, di «idee» sulla natura sociale dell’uomo. Il suo naturalismo è ancora quello classificatorio di Buffon, non quello evoluzionistico di Darwin.

  E’ facile sbagliare il senso della lettura della Commedia umana: Balzac può essere considerato un grande realista in senso lukacsiano e basta, oggi si direbbe uno scrittore impegnato ad esaurire, a fini nomenclatori di conservazione, il panorama di un’epoca in grande trasformazione e che ha segnato il trionfo della borghesia capitalistica sulle rovine dell’Impero napoleonico. Dice Lukács: «Se i residui feudali determinano la necessità della Rivoluzione, dalla loro dissoluzione, dal continuo sviluppo degli elementi capitalistici, si determina al tempo stesso l’oggettiva impossibilità di un ritorno all’antico. Nonostante i disperati tentativi della Santa Alleanza per ripristinare o conservare le condizioni politiche anteriori al la Rivoluzione, la rapida avanzata del capitalismo in Europa si compie senza tregua, con tutte le sue conseguenze ideologiche e politiche, ed entra, anche durante il dominio della Restaurazione, in continue e sempre più acute contraddizioni con la sua politica e ideologia ufficiale. In Francia è Balzac il grande storico di questo processo in cui la potenza del denaro trionfa su tutte le apparenze della nobiltà, e in cui quei pochi individui isolati che prendono sul serio l’ideologia della Restaurazione diventano tragicomici “cavalieri della triste figura”»[2]. C’è anche questo, è chiaro, ma il filo delle ragioni in mano al romanziere è più sottile e complesso. Già Macchia stesso ci mette in guardia sul valore provocatorio, e insomma di tipo romantico, di questa «realtà» balzacchiana, di questo intrico naturale che è la società francese in tutti i suoi meandri, di questa foresta perigliosa che è la Parigi tanto di Baudelaire quanto di Balzac: «Della giovanile esperienza resterà fedelmente in Balzac il piacere nascosto di riconoscere, da qualsiasi parte ci volgiamo, essenze e forze demoniache, irrazionali e misteriose. Resterà una maniera rozza, incredibile di sviluppare vicende romanzesche. Ma se nella prima produzione egli si affidava all’immaginario per arrivare alla realtà, si affiderà poi alla realtà per scoprire l’immaginario. Escluderà i “faits imaginaires” per sostituirvi “ce qui se passe partout”. La vita parigina — scriveva Baudelaire nel 1846, sotto la suggestione di Balzac — è feconda di argomenti poetici e meravigliosi. Il meraviglioso ci avvolge e c’impregna come l’atmosfera, ma noi non lo vediamo”. Balzac lo vedeva, e su quel suo secondo sguardo articolava la vita della sua immensa Parigi, e anche Baudelaire articolava la sua in quella Commedia Umana in versi che sono le Fleurs».

  E’ dunque un’immensa, espansiva avventura dell’essere che vuole sentirsi tale in un voraginoso accrescimento di sé attraverso gli altri. La società balzacchiana acquista un valore centrico se al centro è l’autore, un io che diviene, e un po' per volta è, tutti gli altri per sentire romanticamente di più, e più esteso, il possesso, e il dominio altrimenti impossibile e sfuggente, di se stesso. In questi ultimi anni Balzac è stato letto appunto con strumenti critici più acuminati e ne è risultata più evidente questa trama più sottilmente immaginaria ed egocentrica di cui è contesta la realtà della Commedia umana. Che anzi, io direi, è tale, ha cioè questo valore «comico», di grande affresco che contiene tutto e il contrario di tutto, in maniera la più credibile e la più incredibile, proprio perché al centro è questa autentica «volontà di potenza» che è lo scrittore Balzac, in pieno romanticismo con la maschera del grande realista sul volto per conquistare — lui diceva «studiare» — più realtà, cioè per avere più dominio di «ce qui se passe partout». E la «realtà» è tutta mossa da questo segreto lievito soggettivo, da questa saliente eccentricità immaginaria. Balzac in verità vuol nascondere, o forse meglio condizionare nei gradi successivi del reale, questa sua vertiginosa volontà di un io al centro di un universo sociale che si manifesti come terreno di conquista e di espansione di quell’io romantico altrimenti incontenibile. Volontà e desiderio sono i grandi motori della Commedia umana: e i suoi personaggi, centinaia di personaggi, sono segretamente invasati da questo inarginabile desiderio che superando via via i limiti si trasforma in immaginazione debordante e in avventuroso delirio, morsi dalla tarantola di una volontà d’essere che è sì il carattere trionfante della borghesia protoindustriale del secolo e costituisce la sua volontà di affermazione, ma che ne costituisce altresì il male oscuro, l’orgasmo segreto, la vertigine ossessiva. L’insoddisfazione o l’esibizionismo sociale hanno anche questo nascosto motore d’un io romantico in espansione che adopera, e divora; la realtà proprio per scoprirvi al di là la regione sconfinata dell’immaginario: che è la realtà stessa fatta propria dall’io, la realtà dell’io. Per cui l’organizzazione sociale è la stessa scala percorribile o impervia dell’io; e certe indimenticabili figure balzacchiane, come Eugénie Grandet, sono le figure scalari, e quasi le orme pazienti, che segnano i momenti d’un moto centrifugo per l’io narrante che è in verità un io concupiscente. Risulta, la loro grazia indimenticabile, in quell’essere lasciato indietro, in quell’affondare in se stesso come nel proprio luogo ultimo, in un centro emulsivo, in quel loro liberarsi dalla febbre, spossate e convalescenti, sulla scia sconvolta di un’utopia sociale che prosegue scintillante oltre di loro.

  Dice nel bellissimo saggio su Balzac, Georges Poulet: «Il primo momento in cui si rivela l’essere balzacchiano, il punto di partenza della sua esistenza cosciente, non è un momento in cui saprebbe atterrarsi nella pienezza del suo essere presente, uguale a quel che esso è nell’istante in cui è. Nulla di meno cartesiano o di meno corneliano di questo Cogito balzacchiano, che è quello d’un essere subito orientato verso quel che non è, verso quel che desidera essere ... Essere, è desiderare, cioè voler essere ... L’essere balzacchiano si scopre dapprima come una specie di vuoto vivente, di richiamo alla vita. È piuttosto un bisogno di esistere che non un’esigenza: “Ho fame, e niente s’offre alla mia avidità!” — “Io contengo nel mio seno questa fame, questa sete, questo ardore dell’inferno.” – “Ho sete del mondo, mi chiama, mi reclama”. Un tal essere non può sopportare il suo momento d’esistenza che legandola subito e tutt’intorno all’universo. L’isolamento gli sarebbe insopportabile: “L’uomo ha orrore della solitudine”. Ha orrore di sentirsi limitato alla sua sola coscienza d’essere, staccato dal mondo e dal tempo, chiuso nella cinta del presente. Deve sentirsi vivere in un momento immerso nel tempo, circondato da distese. È il momento d’un pensiero che richiede, intorno e davanti a sé, un mondo in cui potersi versare, svolgersi, possedersi»[3].

  È questa, concludiamo, la società di Balzac: questo enorme possesso conoscitivo dell’io romantico, che tanto più si possiede quanto più si sente mimetizzato negli altri, fuso in quell’immensa galassia in espansione che è la società borghese degli anni Trenta, con tutto il suo bene e il suo male secolari negli individui e nuovi nelle partizioni sociali, nuovi cioè come spettacolo: bene e male così avviluppati in un tutto unico che l’io stesso dello scrittore poteva materialmente toccarsi rassicurato in ogni singola parte di un tale immenso e indistricabile viluppo che sentiva agitarsi in ogni suo membro come il proprio stesso corpo. Le urla di Balzac mentre componeva nella sua camera, sono le grida di una gestante che metta al mondo fisiologicamente il corpo stesso del proprio essere, che è, più che essere al mondo, essere il mondo, ma insieme sono il vagito originario di quell’io corporeo.

 

 

  Piero Bigongiari, Tutto Balzac, «La Nazione», Firenze, 5 agosto 1969.

 

  Cfr. scheda precedente. L’articolo costituisce una sorta di versione leggermente ridotta dello studio pubblicato ne «L’Approdo letterario»: esso si conclude con: “un’utopia sociale che prosegue scintillante oltre di loro”.



  Piero Bigongiari, L’Approdo. Rassegna di letteratura francese: “Tutto Balzac”, Programma Nazionale, 24 marzo 1969.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Carlo Bo, Aprite Balzac dove volete, «L’Europeo», Milano, Anno XXV, N. 5, 30 gennaio 1969, p. 89.

 

  Salutiamo con gioia l’impresa dell’editore Casini: la traduzione completa della “Commedia umana” di Balzac.

 

  Ecco intanto il primo volume (contenente Al gatto che gioca a pelota, Il ballo di Sceaux, Memorie di due giovani spose, La borsa, Modeste Mignon) curato da un giovane e intelligente studioso di letteratura francese, Massimo Colesanti, e presentato da Giovanni Macchia. Perché apprezziamo in modo particolare l’idea dell’editore Casini? Lasciamo da parte tutte le considerazioni di carattere culturale e cerchiamo di fare un discorso molto semplice ma, a nostro avviso, indispensabile. Balzac potrebbe rappresentare per i nostri narratori (in questa sua presenza totale) un monito, un avvertimento. Non soltanto un esempio irrepetibile e chiuso ma, al contrario, la sollecitazione che viene dallo spettacolo stesso della vita: potrebbe, cioè, suonare come una raccomandazione a non perdersi nei giuochi, nei trapianti, nelle implicazioni gratuite della moda.

  Che cosa insegna Balzac, oggi, anche al lettore più sprovveduto, anche a chi per la prima volta apra il suo libro e si trovi coinvolto in una navigazione che non conosce porti provvisori? Balzac insegna a credere nella vita mentre gli ultimi sacerdoti del romanzo hanno sempre preferito insistere sui dati e sulle ragioni dell’esistenza. Nel giro di un secolo il romanzo europeo ha più o meno direttamente, più o meno coscientemente respirato grazie al polmone Balzac ma, tolte alcune eccezioni, nessuno ha più avuto la forza di ritentare un’esperienza del genere.

  Si è lavorato sui margini, si è insistito sui particolari e spesso si è lasciata da parte la memoria stessa di Balzac, considerato un maestro ingombrante o pericoloso o, per lo meno, non sicuro. In questo senso si è anteposto il dato della letteratura a quello della vita da raccontare e alla fine si è gettato il guanto, nel momento in cui si sarebbe invece dovuto accettare la lotta con la vita e prendere di petto fatti e uomini. È stato l’assillo del particolare studiato in se stesso che, a poco a poco, ha impoverito e sterilizzato il romanzo, intendiamo questo romanzo grosso, confuso, disordinato alla Balzac.

  Ecco perché il lettore poco per volta ha perso il gusto del contatto, non ha più avuto la forza di sopportare tutto quanto c’è di ingombrante, di poco pulito nella nostra vita e ha scelto la strada del laboratorio. Rileggere Balzac a questa luce non avrebbe soltanto un’efficacia salutare, non sarebbe appena un rimedio ma servirebbe a farci capire quale è stata e resta la funzione del romanziere. La concorrenza con la vita, chi l’ha più accettata?

  Se il romanzo si è perduto per strada, se ha deriso e tradito i suoi primi caratteri lo si deve proprio alla mancanza di coraggio e di pazienza che ha paralizzato la famiglia comune dei romanzieri che sono venuti dopo. Fino a raggiungere delle punte paradossali, per cui la vita è stata messa sullo stesso piano delle immagini intellettuali o culturali ed è stata in tal modo privata della spinta che le consentiva la creazione dei fatti, delle trame, insomma la libertà. Perché questo appare ancor oggi al lettore ingenuo il dato capitale della forza di Balzac, il bisogno, la fede nella creazione. Far concorrenza alla vita significava per Balzac pretendere la massima libertà di movimenti. La riprova l’avete subito, aprite dove volete la Commedia e non la lascerete. Quanti altri scrittori hanno saputo vincere una battaglia del genere?

 

 

  Lorenzo Bocchi, Dizionario per Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 94, N. 155, 6 luglio 1969, p. 13; 1 ill.

 

  Non sono molti gli scrittori che hanno ispirato un dizionario, neppure in questo nostro tempo di fanatiche specializzazioni. I ferventi stendhaliani sparsi per il mondo conoscono i preziosi volumi del Divan pubblicati da quel maniaco medico trasformato in libraio che era Henri Martineau: Le Petit Dictionnaire Stendhalien e Le Calendrier de Stendhal. Il pontefice massimo di quella strana religione letteraria era riuscito a ricostruire, quasi giorno per giorno, tutta la vita del «milanese» e a presentare riuniti tutti i personaggi in qualche modo legati alla sua vita.

  I ferventi lettori di Balzac — sono anch’essi numerosi — apprenderanno con piacere la pubblicazione, da parte dell’editore Larousse, di un Dictionnaire de Balzac. E’ una guida di ottocento voci, indispensabile per non perdersi nei meandri dell’opera e della vita dell’autore della Comédie Humaine. Basti un esempio: il dottor Bianchon, un personaggio balzachiano che non va mal al di là della funzione di comparsa, fa capolino in ben ventiquattro volumi, mentre la primadonna Eugénie Grandet è presente soltanto in uno.

  Nel dizionario figurano tutte le donne che ebbero una parte importante nella vita tumultuosa dello scrittore, come Madame de Berny, Madame Hanska o Madame d’Abrantès. Sono ricordati persino George Sand, che fu soltanto una buona amica di Balzac, e Sainte-Beuve, che con i suoi attacchi finì per influenzare positivamente anche se involontariamente il genio dello scrittore. Balzac, naturalmente, non si rese conto di tale influenza e ricambiò l’ostilità con non minore convinzione. Su La Revue Parisienne scrisse: «Sainte-Beuve ha avuto la paralizzante idea di restaurare il genere noioso. E’ un lavoro titanico voler variare la noia ... Ben presto la noia vi salta agli occhi e vi addormenta con la potenza del magnetismo, come in quel povero libro che egli chiama L’Histoire de Port-Royal».

  Il dizionario comporta anche numerose illustrazioni e cartine, geografiche o topografiche, sulle quali si possono seguire gli itinerari dei viaggi di Balzac in Europa o gli episodi salienti della Comédie Humaine.

 

 

  Santi Bonaccorsi, L’«affarista» Tino Buazzelli stasera all’«Angelo Musco», «La Sicilia», Catania, Anno XXV, N. 9o, 1 aprile 1969, p. 7.

 

Uno stupendo esemplare di «zoologia» sociale.

 

  E’ ben raro che un grande romanziere, un grande poeta, riesca, in virtù del suo genio, anche un grande autore di teatro [...].

  Pochi, pochissimi i nomi di grandi scrittori che, effettuando a un tratto una più o meno fuggevole incursione in teatro, siano riusciti a lasciarvi, stampata indelebilmente, la loro orma. [...].

  In questa esigua schiera può ben figurare anche il nome di Honoré de Balzac, perché, senz’alcun dubbio, il suo «Mercadet» è una delle commedie più vive del teatro francese posteriore a Molière e nella stessa monumentale produzione dell’autore della «Commedia umana» si colloca in primo piano, fra le opere di maggior risalto e significato.

  Scritta al culmine della traiettoria balzachiana, essa vi ha dei precisi preannunci, dei chiari «precedenti», e non solo perché segue ad altri mediocri tentativi scenici quali «L’école des ménages», «Pamela Giraud», «Le (sic) Marâtre». Giovanissimo, nel periodo in cui, sotto vari pseudonimi (Lord R’hoone, anagramma di Honoré, e Orazio di Saint Aubin, e perfino uno femminile, Aurora Cloteaux), egli sforna dieci romanzi all'anno e «Codici» e «Fisiologie» a non finire, secondo la moda del tempo, e numerosi «L’art de ...» (fra le altre, anche «L’arte di metter la cravatta»), Balzac aveva scritto una «Arte di pagare i debiti e di soddisfare i creditori senza sborsare un soldo»: è appunto l’arte in cui il suo Mercadet si dimostra così impareggiabile maestro.

  Qualche anno dopo, nel 1838, scrivendo di teatro al suo amico Dablin, affermava: «A teatro non c’è altra possibilità che il vero, come io ho tentato di fare nei miei romanzi»; e il suo teatro che, in fin dei conti, si riduce al «Mercadet», si mantiene in consonanza assoluta con la tematica fondamentale della «Commédie (sic) humaine»: la rappresentazione, nel più grande affresco letterario che sia mai stato realizzato, della «zoologia sociale» del suo tempo.

  In questa «zoologia sociale» Mercadet è il tipico esemplare di una ben definita specie: quella dello speculatore che non vive in quel mondo che fu argutamente denominato «La Scribie» perché creato dal «teatro teatrale» di Eugène Scribe; un mondo «dove tutti gli uomini sono colonnelli o agenti di cambio, dove gli alberi producono biglietti di banca, dove la preoccupazione dei personaggi è quella di far carriera e dove tutti gli amori onesti sono coronati da un matrimonio con ricca dote».

  Mercadet è invece un personaggio ben reale, autentico, di un mondo in cui domina il denaro, dove il «faiseur» (l’affarista, era questo il titolo dato da Balzac alla sua commedia, rappresentata postuma nel 1851 col titolo che le è rimasto) è un protagonista; un mondo che Balzac guarda con un misto di simpatia e di ripugnanza, da cui si sente attratto e respinto, e di cui fu il pittore insuperabile e il poeta epico.

  Non occorre forse aggiungere altro, forse per sottolineare il sapore di attualità che nel nostro tempo e nel nostro mondo un testo cosiffatto può avere.

 

 

  Remo Borsatti, Sembra nato per Balzac, «La Provincia», Cremona, Anno XXIII, N. 115, 17 Maggio 1969, p. 6.

 

  Tino Buazzelli, balzacchiano recidivo. [...].

  Nei due lunghi tempi della commedia [Mercadet] il Buazzelli ha dato ancora una volta al protagonista quel tono arioso, spaccone, esaltalo, eloquente, a volte esplosivo a volte sottile, in una attenta misura. Per farlo entrare in teatro (e dargli modo di restare sulla scena), Balzac bisogna cominciare col tagliarlo. Non diciamo che non sia grande. Certo è che per una capienza ed una prospettiva spettacolari appare greve, corpulento, smisurato. E’ avvenuto così che, per essere rappresentato ai giorni nostri, il non mai leggibile per intero Honoré s’è dovuto piegare alle cure di un suo contemporaneo, il D’Ennery, e di un nostro, il Terron.

 

Una sentenza di Gide.

 

  Il personaggio dell’affarista Mercadet pende sul capo di ogni confronto teatrale da più d’un secolo. C’è stata una critica, anche recente, che se ne è lasciata suggestionare. E qui siamo tentati di citare una sentenza di Gide, che dice che quando il pubblico ha la maschera il personaggio ha la faccia sgombra; quando la maschera l’ha il personaggio, è ad una platea senza finzione che questi si rivolge. Altrettanto si può dire per i «tipi» che stanno crucciando, alambiccando, estetiche anche moderne. Insomma: il pubblico ha bisogno di caratteri esorbitanti. Questo Mercadet, questa sublime vescica entro la quale si può mettere fiato a volontà e vederla gonfiare sino allo scoppio, è la irrazionale riprova d’un secolo di mortificazioni teatrali.

  Si capirà da quel poco che sinora abbiamo detto che non lasciamo passare la verosimiglianza storica dei personaggi di Balzac, e non invochiamo nessuna società ad esprimerli, alcuna lettera controluce ad interpretarli. «La commedia umana» resta la conquista di un irruente visionario che si ingigantisce nelle controfigure, che inventa situazioni per viverci. In ogni personaggio, non una passione nel proprio alveo. Come Restif de La Bretonne (quello della «Ronda del gufo») andava in giro, nelle notti rivoluzionarie di Parigi, alla ricerca dei suoi tipi, così Balzac rimaneva notti e notti a tavolino a lavorare a lume di candela, a creare personaggi, a ingrandirli, con quella sua foga truculenta e vigorosa, seguendoli nei loro moti istintivi, descrivendoli nei loro aspetti deteriori. Per questa incapacità di sintesi Balzac non potè essere l’autore drammatico ch’egli avrebbe voluto essere, attirato dalla possibilità di quel rapido guadagno di cui aveva sempre più urgente bisogno. La sua opera è monumentale come la sua figura era atletica; le sue pagine fluenti come lunga era la sua chioma.

 

Dieci pagine al giorno.

 

  Tornando a «Mercadet», per dare a questa gigantesca figura il segno della credibilità, ci sarebbe voluto il genio di Molière, là dove Don Giovanni si trova alle prese con il «Convitato di pietra». Convitato finale, invece, dell’estro di Balzac è un rachitico Godeau. Balzac è grande, lo sappiamo tutti, ma avrebbe dovuto avere per lo meno una serva che gli strappasse dieci pagine al giorno per esserlo ancora di più. Chiaro?

  La accurata riduzione in chiave moderna e la lucida traduzione di Carlo Terron sono frutto d’un lavoro sagace. Non era infatti possibile presentare nella sua integrità originale la commedia: il teatro ha le sue esigenze. [...].



  Tino Buazzelli, Una domanda a Tino Buazzelli, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVI, n. 10, 9-15 marzo 1969, p. 3.

 

  «Ho letto che, grazie a Balzac, Tino Buazzelli esordisce nella regìa. Cos’è che spinge certi uomini di teatro a cimentarsi sempre in nuove esperienze, ad allargare la loro partecipazione allo spettacolo? [...]». (Giuliana Glisenti, Pescara).

 

  [...]. Prenda appunto Mercadet l’affarista, un testo di Balzac che ho già interpretato 11 anni fa. Ebbene, oggi ho sentito il bisogno di farne una riedizione critica, in assoluta libertà, senza neppure il regista tra i piedi. E Balzac si presta a queste attualizzazioni, perché è moderno. Ho approfondito il suo personaggio, l’ho reso meno comico: la casa di Mercadet è un cumulo di automatismi, potrebbe essere la casa dell’uomo d’oggi. La sua vita è moderna: è dominata dal denaro e dalle risoluzioni finali fortuite e fortunate, rappresentate dalle vincite alla lotteria. Un po’ come siamo noi, non le pare? Nel lavoro di Balzac, c’è addirittura un personaggio — Godot — che ha originato il detto «aspettando Godot». Il che simboleggia la ricerca di soluzione ai nostri problemi che noi facciamo non cominciando da noi stessi, ma dagli altri; insomma aspettiamo sempre che qualcuno venga in nostro aiuto, dal cielo o dal fondo dell’urna del Lotto. Questo sarebbe il testo che nove volte su dieci i registi presentano come comico, capisce? E per farle un altro esempio della modernità di Balzac, voglio dirle che uno dei migliori saggi sulla sua opera è stato scritto da un certo Carlo Marx! [...].

 

 

  A. Calaciura, L’eterno innamorato del demonio della grana, «Il Giornale di Sicilia», Palermo, 30 marzo 1969.

 

 

  Enzo Caramaschi, Presentazione, in Honoré de Balzac, I Capolavori ... cit., pp. VII-XXXIII.

 

  Cfr. 1967: Balzac tra romanticismo e realismo.

 

 

  Vito Carofiglio, Balzac, in AA.VV. I Protagonisti della storia universale. XIX secolo: la Restaurazione, Milano, C.E.I., 1969, pp. 253-280; ill.

 

  [...]. Propositi e principi.

 

  Il romanzo elevato a interpretazione filosofica della storia attraverso la rappresentazione di tutta la società condanna l’attività letteraria che sia mero sfogo psicologico ed evasione per l’autore che la esplica e per il lettore che la subisce: questo è un proposito estetico-ideologico, o se si vuole moralistico, che Balzac ha sempre difeso per sé, in teoria e in pratica. Con finta e peraltro passeggera umiltà e passività, Balzac formulava così la ragione intrinseca alla sua Commedia: «La Società francese doveva essere lo storico, e io non altro che il segretario». Cioè la sua sarebbe stata una semplice opera di sistemazione di avvenimenti-personaggi inscritti già nella storia sociale del tempo, un’opera di scelta in funzione filosofica e letteraria attraverso scandagli nell’oceano dei fatti alla ricerca del tipico, del significativo, dell’interessante. La storia «dimenticata da tanti storici, quella dei costumi», sarebbe stata scritta così, in virtù della maggiore libertà di cui gode l’artista, lo scrittore, che può disporre dell’arsenale della sua immaginazione riordinatrice e dell’osservazione dei fatti della vita individuale. È un’interpretazione, come si vede, abbastanza romantica del «fare storia», che lo stesso Michelet non dispregia, ma che si giustifica pienamente sul piano letterario. Del resto, il proposito di Balzac non appare estemporaneo né peregrino, sullo stesso piano della riproduzione e interpretazione della realtà, a storicisti quali Marx e Engels.

  Ma nell’«inventoriare» personaggi e fatti della società francese, a quali «principi» si attiene Balzac? La Commedia umana fu scritta quasi tutta sotto la Monarchia di Luglio, Monarchia borghese uscita da una Rivoluzione borghese con un re borghese, Luigi Filippo: 1830-1848. E Balzac fu invece legittimista, difensore della continuità del «vecchio regime» abbattuto dalla Rivoluzione dell’89 e rialzato durante la Restaurazione. Odiò profondamente la Rivoluzione borghese del 1830 come aborrì l’imborghesimento della Francia prima e dopo il ’30. Questo atteggiamento politico assunse una determinazione precisa nel 1832, quando Balzac aderì al partito legittimista e progettò di presentarsi candidato alla deputazione. Questa adesione implicava due scelte in una: la via monarchica tradizionale come potere politico e la chiesa cattolica come guida spirituale e morale. «Il cristianesimo ha creato i popoli moderni, ed esso li conserverà. Di qui la necessità del principio monarchico. Il cattolicesimo e la regalità sono due principi gemelli». La formulazione del suo conservatorismo non potrebbe essere più netta. Ed ecco invece una variazione ancora più assolutistica, contro cui proprio la storia contemporanea gridava: «Io scrivo alla luce di due verità eterne: la religione, la monarchia, due necessità che gli avvenimenti contemporanei proclamano, e verso i quali ogni scrittore di buon senso deve cercare di ricondurre il nostro paese». Un invito dunque all’engagement dello scrittore (benpensante) alla causa cattolico-monarchica. Di queste idee, raccolte nella Prefazione del ’42, tutta la Commedia umana offre la trasposizione narrativa con grande fedeltà fin dalle prime opere pubblicate. La tesi legittimistica è sempre sottesa o apparente, ma l’immaginazione balzacchiana ha saputo conferirle tipi di esemplificazione che hanno motivato l’ammirazione e l’interesse di lettori lontanissimi dalla ideologia dell’autore. Pensiamo ancora a Marx e Engels, contemporanei di Balzac, interpreti di quella stessa realtà che Balzac interpretava da un punto di vista opposto, in senso reazionario. Prendiamo la famosa lettera che Engels scrisse a Margaret Harkness nel 1888, senza discuterla nei dettagli: vi si diceva: «Balzac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comédie humaine un’eccellente storia realistica della società francese, poiché, sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa contro la società nobiliare che, dopo il 1815, si era ricostituita ed era ritornata a inalberare, nei limiti delle sue possibilità, il vessillo della vieille politesse française. Egli descrive come gli ultimi avanzi di questa società, per lui esemplare, andavano a poco a poco soggiacendo all’assalto del ricco e volgare villan rifatto o venivano da lui corrotti; come la grande dame, la cui infedeltà coniugale era solamente un mezzo di affermarsi perfettamente adeguato al modo con cui si disponeva di lei per il matrimonio, faceva posto alla signora della borghesia che si prendeva un marito per amore della cassaforte o del guardaroba; e intorno a questo quadro centrale raggruppa una storia completa della società francese dalla quale io, perfino nelle particolarità economiche (ad esempio la ridistribuzione della proprietà reale e personale dopo la Rivoluzione francese), ho imparato più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statistici di professione di questo periodo messi insieme. Certo Balzac fu un legittimista politicamente; la sua grande opera è una continua elegia sull’inevitabile rovina della buona società; tutte le sue simpatie sono per la classe condannata a tramontare. Ma, non ostante ciò, la sua satira non è mai così pungente, la sua ironia non è mai così amara come quando fa entrare in azione proprio gli uomini e le donne con cui più profondamente simpatizza, e cioè i nobili». Questo stralcio di lettera merita di essere riportato abbondantemente perché è la base per una lettura obiettiva e moderna dell’opera balzacchiana (oltre ad offrire l’avvio per un dibattito di estetica del romanzo realista in ambito marxistico). Va precisato comunque che il legittimismo di Balzac non è né ridotto né attenuato dalla presa di coscienza che la nuova classe borghese arriva all’egemonia politica, economica e sociale, grazie alla sua vitalità. Si potrà dire, paradossalmente, che il realismo della Commedia umana vien fuori grazie al legittimismo e nonostante il legittimismo dell’autore.

  Quanto al titolo, egli stesso diceva: «L’immensità di un piano che abbraccia nel contempo la storia e la critica della società, l’analisi dei suoi mali e la discussione dei suoi princìpi, mi autorizza, credo, a dare alla mia opera il titolo sotto il quale appare oggi: La Commedia umana» (Pref. del ’42).

 

  L’ideale del gran mondo.

 

  Con la caduta di Napoleone (1815), la vecchia nobiltà francese cercò la rivincita sotto la Restaurazione, ma fu una «nobiltà senza privilegi». Essa poteva raramente avvalersi di titoli riconosciuti prima della Rivoluzione. I nobili presero perciò titoli a loro piacimento, salvo quello di duca (che spettava al re concedere). Come segno di distinzione nobiliare, molti si attribuirono la particella de, la quale «acquistò un significato che non aveva mai avuto nell’Ancien régime» (Dupeux). Balzac, nato Honoré Balzac, e senza che il padre potesse lamentare privazioni rivoluzionarie di titolo nobiliare, con un disinvolto appiglio sulla linea dei Balzac d’Entragues, si impossessò della nobilitante particella nel 1831; il frontespizio della Pelle di Zigrino recava infatti «Honoré de Balzac» come autore. La particella era il sintomo di una frustrazione che Balzac, ormai introdotto nel gran mondo, doveva sanare, e non un semplice tic pseudonimico. In Cesare Birotteau (1837) v’è una spia in tal senso significativa. Cesare, il commerciante in mania di grandezza, amplia e decora la propria casa per darvi un gran ballo al quale saranno invitati personaggi del gran mondo, illustri rappresentanti della scienza, della giustizia e del commercio ... Parla all’architetto Grindot, invitandolo al ballo e facendogli suonare alle orecchie la serie di personaggi illustri, tutti preceduti dal fatidico de (meno quelli appartenenti al mondo commerciale). Arriva la moglie di Cesare mentre questi è nel pieno del suo slancio oratorio e, rivolto a lei, fa la presentazione: «Oh, tesoro, ti presento l’architetto de Grindot ...». La sottolineatura della particella è di Balzac, il quale pertanto fa dell’ironia sul commerciante in vena di nobilitamento. Questa ironia è da prendere come eventuale auto-ironia e auto-critica? Ad ogni modo l’improvvisazione del de, oltre ad avere la sua importanza agli effetti della costruzione narrativa in quell’episodio e nel contesto del romanzo, è una piccolissima spia di un uso del tempo che Balzac ha utilizzato a fini drammatici anche nelle Illusioni perdute: Lucien (Chardon) aspira a farsi riconoscere ufficialmente come de Rubempré.

  Ma ben altre dimensioni assume altrove questa impellenza del gran mondo. Quali sono i caratteri che Balzac gli attribuisce, come si presenta, come evolve nella Commedia umana? Innanzi tutto occorre dire che, salvo episodi secondari, il gran mondo non è il mondo aristocratico ancien régime. Il mondo aristocratico tende sempre più a rompere il suo carattere chiuso, di classe a cui non sia consentito «derogare», per accogliere invece rappresentanti della nuova classe in ascesa. Nella più esemplare delle scene di gran mondo, il ballo presso la viscontessa de Beauséant, in Papà Goriot, vi si comprendono invitati appartenenti all’alta borghesia finanziaria, e il dramma di Delfina de Nucingen (nata Goriot) consiste nella sua aspirazione ad arrivare in casa della marchesa d’Espard e della Beauséant, nel faubourg Saint-Germain. I toni epici e drammatici con cui Balzac descrive gli eroi di quest’alta società, con tutto il «sublime» della rappresentazione, non ingannano il lettore né tanto meno con essi s’inganna Balzac: ormai il gran mondo è un mondo misto, alla presunta purezza della razza si allea il denaro della nuova gente. L’aristocrazia che viveva di privilegi presso le passate corti, che faceva gestire i suoi latifondi, è costretta a venire a contatto con i grossi commercianti, banchieri, speculatori di borsa, e si è fatta essa stessa commerciante, con grande scandalo e disdegno del buon Balzac. In effetti, come opposizione al quadro ideale e, nonostante tocchi drammatici, idilliaco dell’aristocrazia di Papà Goriot, si dovrà collocare il quadro decaduto che di essa ci offrono Le Illusioni perdute (sic) attraverso una pungente affermazione di Carlos Herrera: «... I feroci amanti di Uguaglianza o Morte del 1792 diventano, fin dal 1806, complici di un’aristocrazia legittimata da Luigi XVIII. All’estero, l’aristocrazia, che oggi troneggia nel suo quartiere Saint-Germain, ha fatto di peggio: è stata usuraia, è stata commerciante, ha fatto dei piccoli paté, è stata cuoca, mezzadra, pecoraia». Ex-rivoluzionari che si stropicciano agli aristocratici sconsacrati, ed aristocratici emigrati all’estero per non cedere al nuovo corso rivoluzionario che «derogano» dalle sublimi leggi della tradizione nobiliare: due condanne in un sol fiato. Se questo giudizio sugli aristocratici del nobile quartiere parigino sia in proprio del personaggio o sia dell’autore, non è possibile sapere esattamente. Prendiamo atto comunque che tra la pubblicazione di Papà Goriot (1834-1835) e l’ultima parte delle Illusioni perdute (1843), da cui il brano riportato è tratto, intercorrono otto anni: Balzac poteva rimproverare forse all’aristocrazia di non aver fatto niente intanto per opporsi al suo declino di classe egemone. E sarebbe ancora dunque un singulto legittimistico in Balzac, il giudizio di Carlos Herrera! Nel 1835 invece, in un passo del Giglio nella Valle, si poteva leggere: «la grande figura dell’emigrato, uno dei tipi più rispettabili della nostra epoca». Tra l’idea dell’aristocrazia di Papà Goriot e quella che in quel passo si adombra, fatte le debite distinzioni di circostanze locali (Parigi-Campagna) e di altro, c’è concordanza: l’aristocrazia è la classe eroica, nella buona e nella cattiva fortuna. E il suo eroismo forse vorrà confermarsi permettendo ad alcuni estranei di penetrarvi, non senza sforzi e aggiramenti: saranno i politici provenienti dalle altre classi, saranno i banchieri, saranno alcuni intellettuali. Penetrazione che avverrà sempre più, man mano che si procede negli anni trenta e quaranta, cioè che le forze che hanno potentemente appoggiato la monarchia borghese-liberale nel 1830 prendono sempre più in mano la società francese. Una figura campeggia in questa storia di penetrazione reciproca di classi: il banchiere barone de Nucingen.

 

  Borghesia e società capitalistica.

 

  La borghesia non sorge in Francia né con la Rivoluzione del 1830 né con quella del 1789. In tutto l’arco del secolo precedente essa è una classe che avanza, che s’impone sempre più socialmente, economicamente e perciò politicamente, ha una sua ideologia morale che è quella della felicità legata al benessere. «Si può benissimo in tal senso qualificare il XVIII secolo come “borghese”» (Mauzi). E comunque la sua èra comincia con la prima Rivoluzione francese e si stabilizza con la seconda. Balzac sembra ignorare le ascendenze settecentesche di questo processo e lo limita, per le solite ragioni controrivoluzionarie, alle due date, 1789 e 1830, che sono sì propellenti borghesi. Nonostante le sue arie, amicizie e teorie aristocratiche e legittimistiche, Balzac è un borghese come borghesi furono i suoi genitori, e gli riesce di scrivere una «storia dei costumi» francesi contemporanei che è soprattutto la storia dei costumi di una Francia borghese e in via di sviluppo borghese, con un atteggiamento sentimentale che tradisce in un certo modo, in apparenza, le sue stesse premesse ideologiche. Come già nella realtà storica, la sua opera divide il mondo borghese in due e anche in tre sfere: l’alta, la media e la piccola borghesia. L’immaginazione sociologica di Balzac non si arresta comunque dinanzi a questa tripartizione della società borghese, come fosse in fase statica, ma la attiva dall’interno, facendoci vedere le interferenze tra l’una e l’altra, i movimenti di interesse economico, sociale, politico, dall’una all’altra. Ebbene, se ad una di queste tre sfere va la sua ferma antipatia, e la sua denuncia vi si blocca con accanimento, è quella dell’alta borghesia, finanziaria e finanziario-industriale. Un personaggio la rappresenta alla sommità: il barone di Nucingen, astuto, senza scrupoli morali, il politico della finanza, speculatore tutto dedito alle sue macchinosità bancarie, insomma «ladro» di alta classe e sempre impune, come Balzac lo fa chiamare da alcuni suoi personaggi e come lui stesso lo chiama. Gareggia coi Rothschild e spera di mettersi al sicuro come loro moltiplicando i suoi milioni in operazioni dalle quali chi esce dissanguato e perdente è il piccolo azionista, il commerciante in difficoltà, gli onesti, gli ingenui che si fanno trascinare nel le oscure mene finanziarie. Ecco un campione di questo personaggio e della società che lui incarna, nella dichiarazione di un azionista convinto: «... Sapete la morale di tutto questo? Il nostro tempo non vale più di noi! noi viviamo in un’epoca di avidità in cui non ci si preoccupa del valore della cosa, se ci si può guadagnare passandola al vicino; e la si passa al vicino perché l’avidità dell’azionista, che crede a un guadagno, è uguale a quella del fondatore, che glielo propone!» (La Casa Nucingen). Ora, se si considera che Couture, che fa questo ragionamento, è para-liberale politicamente, la connotazione negativa che il monarchico Balzac ha voluto immettere nella relazione tra appartenenza politica e visione della società, è evidente. Come è evidente lo spirito che si nasconde dietro questa risposta di Blondet, monarchicho (sic): «Bisognerebbe portarlo alla conclusione che il denaro degli sciocchi è per diritto divino il patrimonio delle persone intelligenti». In questo, come in moltissimi altri punti di critica del sistema «liberale», Balzac sembra far echeggiare i propositi che circondavano le scandalose e criminali speculazioni finanziarie senza alcuna base economica reale («commercio astratto»: Balzac) che si perpetrarono fra il 1820 e il 1830 e che, sia pure moderate dalla dottrina del giusto mezzo sotto il regno di Luigi Filippo, continuarono negli anni seguenti. In un altro passo della Casa di Nucingen (1838) si stabilisce in maniera viva la relazione tra finanza, politica ed etica: «Se ad un angolo di strada tre ragazzini innalzano una bandiera, ecco una rivoluzione. Ma questo pericolo, per quanto grande possa essere, mi sembra ancora inferiore a quello della demoralizzazione del popolo. Una Cassa di Risparmio è l’inoculazione dei vizi generati dall’interesse in persone che non sono trattenute né dall’educazione né dal ragionamento nelle loro combinazioni tacitamente criminali. Ecco gli effetti della filantropia. Un grande politico deve essere uno scellerato astratto, senza di che le Società sono mal guidate». Ma tant’è: l’«arricchitevi» era ormai un proclama pubblico dei finanzieri Laffitte e Casimir Périer, primi ministri di Luigi Filippo. Il popolo stentò a capire che non era interessato dalla formula: e si preparava il 1848, rivoluzione popolare, sfocio di parecchi tentativi fatti negli anni precedenti, non essendo sfuggito che proprio il popolo era stato ingannato dalla Rivoluzione borghese del ’30.

  La posizione di Balzac, dicevamo, era fortemente critica nei confronti dei manovratori del pubblico denaro, ma, con tutte le sue simpatie aristocratiche, egli ci ha lasciato un quadro meno acre e francamente positivo della media borghesia commerciale, anch’essa vittima del mondo della finanza e dell’alta borghesia industriale. La Storia della Grandezza e della Decadenza di Cesare Birotteau (1837), o più semplicemente Cesare Birotteau, è la storia di un fallimento di un commerciante, e della spogliazione che ne consegue: Balzac ha voluto che questa storia fosse «il poema delle vicende borghesi alle quali nessuno scrittore ha pensato, tanto sembrano prive di grandezza, mentre sono (...) immense: non si tratta di un solo uomo qui, ma di tutto un popolo di dolori». Il tono commosso di queste note e la sempre viva partecipazione che Balzac non lesina a questa storia esemplare ci dicono a sufficienza che qui c’è una corda personale oltretutto a risuonare: Balzac inseguito e braccato dai suoi molteplici creditori legati al fallimento della sua impresa editoriale-tipografica e al suo immoderato bisogno di lusso. La trasposizione letteraria è comunque attuata con tale arte che è impossibile scorgervi altro che qualche nota più accorata del solito. Balzac si propone di rappresentare un «eroe» dei nuovi tempi, e nello stesso tempo di giudicarlo: la decadenza di Birotteau comincia nel momento in cui egli indugia a celebrarsi, e si sente solleticare dall’ambizione di sollevarsi nelle sfere sociali superiori con leggerezza e imprevidenza (Balzac che non sa rinunciare alla sua vita di dandy). Errori di calcolo che quel tipo di società proprio non perdona e che provocano la morte civile e commerciale. Comunque la sua fondamentale onestà salva il commerciante fallito dall’ignominia. La critica balzacchiana si svolge sia sul piano proprio di Birotteau che su quello di Nucingen, di du Tillet e compagni.

  Ma se di Nucingen e compagni Balzac pensa che sono degli assassini protetti dalla legge, nel migliore dei casi pensa dei commercianti medio e piccolo-borghesi che sono onesti: come Birotteau, appunto. Ma con ciò il suo giudizio sulla società capitalistica e commerciale è inalterato: da una parte i grossi furbi e i pescecani, dall’altra la massa di ingenui laboriosi in espansione economica, i quali aspirano più o meno consciamente a diventare dei Nucingen. Il giudizio di Balzac sul commerciante non è così tagliente come quello di un altro mangiaborghese dell’epoca, Baudelaire, per il quale vale senza appello la formula: «è commerciante, cioè ladro» («lettera inedita» di Baudelaire alla madre, gennaio 1864); ma non è meno negativo nel complesso, perché ne mette in risalto la meschinità intellettuale e spirituale, l’avarizia, la mancanza di idee politiche (almeno le grandi), i suoi cattivi gusti, le ambizioni sociali «sbagliate». Denunce che troviamo ancora nei romanzi Gli impiegati e I piccoli borghesi, nei quali entrano soprattutto in scena famiglie appartenenti al mondo impiegatizio, — anch’esse in vena di piccolo eroismo moderno sulle tracce del vecchio mondo aristocratico. In questa comune spinta verso l’ascensione sociale non c’è un livellamento delle coscienze, perché ciascuno porta nelle sue aspirazioni come nei propri modi di vivere i caratteri della classe a cui appartiene. In questo è l’eccezionalità del realismo di Balzac. Perché «la base su cui poggia il realismo balzacchiano è la costante rivelazione dell’essere sociale come fondamento di una coscienza sociale, proprio in ed attraverso quelle contraddizioni che necessariamente vengono alla luce all’interno delle diverse classi tra l’essere e la coscienza sociale. Perciò giustamente, nel romanzo I contadini, Balzac afferma: «Dimmi ciò che hai e ti dirò che cosa pensi» (Lukac’s [sic]).

 

  Gli intellettuali e il potere.

 

  In una società fondata sulla rigida distinzione di classi, come quella dell’ancien régime, i rapporti tra l’intellettuale e il potere politico erano, salvo eccezione, di dipendenza dell’uno dall’altro e meglio di sottomissione dell’uno all’altro, cioè sempre del primo al secondo, ovviamente. Nel Settecento invece la funzione dell’intellettuale è di contestazione del potere: i filosofi e letterati raggruppati intorno all’Enciclopedia esemplificano eminentemente questa posizione. La Rivoluzione dell’89 glorifica per così dire la posizione dell’intellettuale fattasi luce durante il secolo. L’Impero e la Restaurazione, con la nuova impronta militaristica della vita il primo e il risorto spirito assolutistico il secondo, frenano la penetrazione nel mondo politico dell’intellettuale, relegandola alla sua funzione illuministica, contestativa. La monarchia borghese invece riapre gli orizzonti politici all’intellettuale, la società stessa li impone: la borghesia, dalla quale provengono quasi tutti gli intellettuali del tempo, assicura la propria permanenza nella vita della nazione anche attraverso il sostegno da parte dell’intellighentsia. La sempre maggiore diffusione della stampa e la sua utilizzazione nelle battaglie politiche sono nello stesso tempo sfocio e molla di un fenomeno sociale che pone gli scrittori sempre più nel mezzo della politicizzazione della vita seguita alla grande Rivoluzione.

  Balzac, come abbiamo visto, non fu estraneo a questo movimento, se nel 1832 si progettò la sua candidatura per il partito legittimistico. In un passo della Mestatrice (1841-1842) egli fa dire: «È arrivato il regno dei borghesi e delle parole, sottomettiamoci. Oggi lo scrittoio fa tutto. L’inchiostro sostituisce la polvere da sparo, e la parola è al posto della pallottola». Il nesso tra stampa e società borghese non potrebbe essere colto più chiaramente da un legittimista nostalgico di un regime in cui la politica si faceva giusto con la polvere da sparo. Ora, la capitalizzazione della società francese non può non interessare anche la stampa e le opinioni. Il regno della manipolazione delle intelligenze attraverso la parola scritta è arrivato, Balzac ne sente tutta la terribilità, e a denunciarla egli dedica la prima e soprattutto la seconda parte delle Illusioni perdute, tra gli anni 1837 e 1839, anche se l’azione si svolge tra il 1819 e il 1823. Ciò che spinge Luciano dalla provincia a Parigi è «la gloria, il potere, il denaro». A Parigi egli scopre il «quarto potere», capace ad ogni momento di mettere in difficoltà un ministero. Ma chi abusa del «quarto potere» nella Francia della Restaurazione? I partiti e i gruppi dell’opposizione, liberali e repubblicani. L’asservimento dell’intelligenza alla merce, ai calcoli bassamente politici, ai capricci e alla malvagità di alcuni individui assetati di potere (e la fama è anche potere), non tocca invece gli scrittori di un certo Cenacolo filomonarchico, che si raggruppa intorno a D’Arthez. Lucien, dopo breve tempo, a Parigi, si lascia coinvolgere dal meccanismo della stampa di tendenza avente per fini non interessi puramente sociali e letterari ma personali, privati, equivoci; D’Arthez è l'eroe «puro» dalle mistificazioni giornalistiche e politiche al quale vanno incondizionate le simpatie di Balzac. Vivacissimo ma esecrando è Lousteau, che teorizza giusto la depravazione dello spirito, il suo assoggettamento alle leggi della realtà quale essa è: pure lui ha avuto le sue illusioni venendo a Parigi, le quali sono cadute andando a cozzare contro il «meccanismo del mondo». Seguendo un movimento contrario, Alberto Savarus ha lasciato Parigi per la provincia, preferendo Besançon (Alberto Savarus, 1842). Nell’intenzione di farsi eleggere deputato monarchico in provincia, avendo rinunciato a far fortuna pecuniaria nella scellerata capitale, questo avvocato si farà il difensore dei commercianti. Ma, egli dice, «il potere e la gloria, questa immensa fortuna morale che cerco, non è che secondaria: è per me il mezzo della felicità, il piedistallo del mio idolo». E anche qui spunta una posizione personale dell’autore, rivelata dalla corrispondenza; che è una posizione quanto mai romantica, priva di motivazioni sociali e politiche di fondo. Savarus non è comunque un arrivista. Demagogo, opportunista e disonesto è invece l’avvocato La Peyrade, l’«ipocrita moderno», lo definisce Balzac. Chiamato l’«avvocato dei poveri», questo filoliberale scopre ad un certo momento le sue carte: «Eh che! mi credete l’amico del popolo?... — disse sorridendo — occorre un portavoce alla fama, la quale non si fa mica sentire parlando a fior di labbra ...; e, senza un certo nome, a che serve il talento? L’avvocato dei poveri sarà quello dei ricchi» (I piccoli borghesi).

  «Il vizio sociale della società borghese è l’ambizione» (A. Wurmser). Balzac ha scoperto questa molla e l’ha braccata nella sua Commedia: ne è roso Luciano come Rastignac come tantissimi altri. Alla fine di Papà Gcriot, rivolto a Parigi che egli domina dalla collina di Sainte-Geneviève, Rastignac dice: «E ora a noi due!» La splendida carriera politica, minutamente seguita da Balzac nell’evolversi della grande opera, vuole essere simbolica: studente in legge, introdotto nel gran mondo parigino, e poi senza capirci molto in quello dell’alta finanza (grazie alla sua relazione con la moglie di Nucingen), Rastignac diventa abile «politicante», giungendo a farsi nominare Pari di Francia e poi ministro della Giustizia negli ultimi anni della Monarchia di Luglio. Come già avrebbe voluto Giuliano Sorel del Rosso e Nero di Stendhal, questi personaggi ambiziosi, questi intellettuali «deviati» trovano uno sbocco secondo una linea nient’affatto o non sempre rettilinea nel mondo della politica, dal quale è consentito loro dominare una parte di mondo sottostante. «Per un poeta significa abdicare, disse Modesta [a Canalis = Chateaubriand e Lamartine], la politica è la risorsa degli uomini positivi ... — Oh! signorina, oggi la tribuna è il più grande teatro del mondo, ha sostituito il campo chiuso della cavalleria, sarà il punto d’incontro di tutte le intelligenze, come il traguardo era in passato quello di tutti gli spiriti coraggiosi» (Modesta Mignon). La politica come una giostra di cavalieri!

  Come D’Arthez si oppone a Luciano, così il pittore Joseph Bridau (pure lui nostalgico della grande monarchia) si oppone ai pittori che legano i loro prodotti alla speculazione commerciale, non dispregiano la «società basata unicamente sul potere del denaro» e ambiscono ai riconoscimenti ufficiali da cui traggono valore commerciale le loro opere (La Mestatrice). Sono, questi pittori, liberali politicamente e classicisti artisticamente; Bridau è monarchico e romantico. Questi incroci tra il nuovo in politica e il vecchio in arte (letteratura inclusa) e viceversa furono un po’ il folclore politico-culturale che le monografie sulla civiltà della prima metà dell’Ottocento in Francia si compiacciono a riportare: è un dato di fatto comunque in Balzac.

 

  Il proletariato e la malavita.

 

  «Nell’ottobre 1827, all’alba, un giovane (...) che nell’insieme annunciava quello che la fraseologia moderna chiama così insolentemente un proletario, si fermò sulla piazzetta che si trova in Provins bassa». Così Balzac apre il romanzo Piera (1840). Questo riferirsi alla «fraseologia moderna», per criticarla, nella definizione sociale dell’operaio che entra in scena, più che stupirci (o dopo averci stupito a tutta prima) rivela ancora una volta l’ideologia politica professata da Balzac. Il quale non si lascia sfuggire qui l’occasione di fare un prestito fraseologico a un certo vocabolario moderno, per precisare subito dopo in maniera di rettifica che il «giovane operaio» riconobbe la casa che cercava. Ebbene, Balzac sapeva benissimo che la «fraseologia moderna» che insolentiva su quell’individuo sociale rispondeva a una dottrina socio-politica: il social-comunismo, che per l’appunto chiamava l’operaio moderno proletario. Il termine era stato usato proprio in Francia negli anni trenta e vi si era diffuso negli anni quaranta. Nel 1848 Marx e Engels parlavano di «proletari» come di «operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale» (Manifesto del Partito Comunista). Operai dell’industria, della fabbrica moderna. Giacomo Brigaut, il giovane della scena di Piera, è apprendista falegname. Del luogo di lavoro, della bottega di Brigaut non sappiamo nulla. Balzac sorvola su elementi che invece avrebbero fatto il grande interesse di Zola. Egli ci lascia solo notazioni generiche e di tipo moralistico sul personaggio e non sul suo posto di lavoro. Ad ogni modo, nel momento in cui Brigaut arriva su quella piazza in cerca di Piera, è operaio a Parigi; quello che accade in quella breve scena iniziale lo fa deciderti per un trasferimento a Provins. Né di Parigi né di Provins sappiamo nulla: tutto è interiorizzato nel giovane operaio, sicché noi sappiamo dei suoi sentimenti amorosi c sociali, del suo modo di vestire e della sua aria, ma niente delle sue condizioni di lavoro. Le quali tuttavia, nel momento in cui sono collocate in provincia, si presume che siano artigianali e pertanto giustificano poco la qualifica di proletario che Balzac gli vuole polemicamente attribuire e togliere nello stesso tempo, dissociandosi dalla terminologia socialista e comunista dell’epoca. Questa operazione rivela in Balzac alcune scelte che non è difficile mettere in luce. Pare che in questo caso egli abbia voluto non far dipendere la natura interiore, sentimentale e intellettuale, dell’operaio dalla sua condizione socio-economica quotidiana, come altrove egli è propenso ad accettare. Il «dimmi ciò che hai e ti dirò quel che pensi», che si trova ne I contadini, Balzac non lo ritiene valido nelle relazioni della vita intima e associata di Brigaut, perché gli interessava farne un eroe sia pure di second’ordine, e veramente quasi in sordina, con una bontà e grandezza d’animo, con un’onestà, che altrimenti egli non concede in proprio alla condizione operaia parigina e provinciale. E questo è da legare col fatto che il padre di Brigaut era stato violento sostenitore della causa regale? (Gli sciuani) e pertanto è nel figlio operante, più del precedente detto realistico, l’altro: «buon sangue non mente»? Sappiamo che questi elementi contano nel quadro delle genealogie che Balzac ama tracciare con così puntigliosa fiducia. Giacomo allora riscatta, in questa luce, la sua condizione operaia sia pure onestissima, per riportare il proprio stato su quello dei sentimenti e della razza, con le implicazioni ideologiche che vi sottostanno.

  Il conflitto terminologico proletario-operaio non trova riscontro altrove in Balzac, né prima né dopo Piera: La ragazza dagli occhi d’oro (1834-1835) e Il cugino Pons (1847) assumono «proletario» come termine generale di classe popolare; altrove, come ne I contadini (1844) si parla di «poveri» e di fenomeno del «pauperismo» al quale è fatta legare la «classe» contadina. Nella Ragazza dagli occhi d’oro, prendendo atto della bruttezza della popolazione parigina e volendone spiegare le cause a ciascun livello sociale, Balzac osserva che come legge generale è da considerare «l’oro e il piacere». E cominciando dal basso, egli dice: «L’operaio, il proletario, l’uomo che muove i piedi, le mani, la lingua, il dorso, l’unico braccio, le cinque dita per vivere; ebbene, quello, che per primo dovrebbe economizzare il principio della sua vita, va al di là delle sue forze, lega la propria moglie a una macchina, logora il figlio e l’inchioda a un ingranaggio». È indubbiamente qui il proletario di cui parlano Marx c Engels: l’«operaio moderno» legato all’«uso della macchina», accessorio e nello stesso tempo schiavo della macchina. Ma Balzac, lungi dal presentare la famiglia del proletario sotto la sferza del bisogno materiale di sussistenza, ce la fa vedere come allettata diabolicamente da qualche sottocapo che promette un «salario eccessivo» sia in nome dei capricci della città sia per bocca del mostro chiamato. Speculazione. L’amore sfrenato e scomposto del guadagno è alla base di questa dissoluzione fisica dell’operaio: nello stesso tempo egli è schiavizzato dall’oro e dal piacere ed è schiavista a spese della moglie e dei figli. Le poche pagine che in questo racconto Balzac dedica alla condizione dell’operaio moderno parigino sono le sole nelle quali egli si avvicini in maniera meno esteriore e superficiale a questo banco di prova della dottrina sociale e politica moderna; e sono pagine che rasentano l’epico senza avere la grandiosità delle pagine di Victor Hugo sul popolo di Parigi o quelle di Eugène Sue: ma, a differenza di questi due, che hanno rappresentato piuttosto il sottoproletariato, Balzac ci ha offerto, sia pure ai margini della sua opera, una vivacissima e non folcloristica rappresentazione del proletario. Sicché non interessa tanto se, da un punto di vista narrativo, La ragazza dagli occhi d’oro sia una delle opere in cui è evidente un vizio di composizione, uno squilibrio tematico e di dimensioni tra la prima e la seconda parte. «Dovunque, e in ogni cosa, esplode a Parigi, la disuguaglianza delle condizioni, in questo paese assetato di uguaglianza. Questa immutabile forza delle cose si rivela perfino negli effetti della Morte. Nelle famiglie ricche, un parente, un amico, gli uomini d’affari, evitano questi orrendi particolari a quelli che piangono; ma in ciò, come nella ripartizione delle imposte, il popolo, i proletari senza aiuto, soffrono tutto il peso del dolore» (Il cugino Pons). La morte di Pons ha scatenato tutta la canea di gente che vive intorno al fenomeno della morte e la canea di gente che ha l’intenzione segreta di spogliare il morto dei beni lasciati in eredità all’amico Schmucke. Corre un legame tra la condizione economica del proletario, diseredato «naturale», la sua vessazione «sociale» attraverso il sistema di contribuzione che egli è il primo a sopportare, e lo scempio ritualistico (della legge) sugli «affranti».

  Sull’idea della bruttezza del popolo parigino (e non in questo caso popolazione) Balzac ritorna nel romanzo postumo I piccoli borghesi. «Celeste Thuiller, bruttina e di debole costituzione, era proprio una figlia del popolo di Parigi, i cui discendenti sono raramente belli, essendo il prodotto della miseria, di un lavoro eccessivo, di case senz’aria, senza libertà d’azione, senza nessuna delle comodità della vita». Sia pure solo affacciandosi ancora una volta, indirettamente, sul mondo operaio di Parigi, Balzac sottolinea i fattori biologici mettendoli in relazione con le condizioni economiche e urbanistiche. Semplice filantropia o analisi scientifica delle interrelazioni tra lavoro, urbanistica, biologia ed estetica del corpo umano, queste osservazioni sono tenute nel massimo conto dagli storici che si interessano all’analisi qualitativa (attraverso i testi letterari) delle condizioni della classe lavoratrice (laboriosa) dell’Ottocento in Francia.

  Sul proletariato rurale Balzac ha scritto (e non condotto a termine) un grosso romanzo, I contadini, interamente dedicato al problema della proprietà fondiaria nel passaggio dall’aristocrazia alla borghesia. Balzac mette il dito qui sulla piaga che ogni buon legittimista doveva lamentare e cercare di denunciare in pubblico nell’illusione di contribuire a sanarla: la divisione fra borghesi e contadini del grande possesso fondiario che era stato un simbolo e una realtà del vecchio mondo feudale. Partendo, ancora una volta, da punti di vista opposti, Balzac in quest’opera e Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e nel Diciotto Brumaio concordano nell’analizzare il fenomeno della capitalizzazione e della parcellizzazione della proprietà fondiaria come «il crollo finale della vecchia aristocrazia e il finale perfezionamento dell’aristocrazia del denaro» (Marx). Balzac non ancora osava parlare di «crollo» e parlava con timore del pericolo che i costumi aristocratici venissero «inevitabilmente modificati» nelle campagne attraverso la divisione continua delle fortune patrimoniali. La rappresentazione di un gruppo aristocratico in lotta contro tale processo è un po’ il canto del cigno che Balzac concede alla classe aristocratica: la grandezza dei sentimenti, la loro elevatezza, la cultura, gli atteggiamenti di questi nobili sono estremi omaggi alla società della quale una vecchia signora poteva dire con una (tragica) battuta di spirito: dal 1830 resto a Parigi in estate, «non vado più nei castelli da quando ne hanno fatto delle fattorie». In un supremo sforzo, generoso quanto inutile, per mettere in guardia dallo «spettro [che] si aggira per l’Europa — lo spettro del comunismo» (Marx-Engels), Balzac giunge a dire: «Qualunque cosa si faccia, i proprietari non capiranno la necessità della disciplina che rese la Chiesa un mirabile modello di governo, che nel momento in cui si sentiranno minacciati in casa propria, e sarà troppo tardi. L’audacia con la quale il Comunismo, questa logica vivente e in azione della Democrazia, attacca la Società nell’ordine morale, annuncia che fin da oggi, il Sansone popolare, diventato prudente, scalza le colonne sociali nella cantina invece di scuoterle nella sala da banchetto».

  In realtà i contadini che vediamo all’opera nel romanzo non sono ancora costituiti in classe, ma c’è indubbiamente in loro una solidarietà di gruppo locale che attenta alla proprietà fondiaria sotto la spinta di un borghese, interessato a metter tutti nel sacco, aristocratici e contadini. E qui è la lucidità di Balzac, che nel momento in cui ci fa vedere i contadini nella loro aspirazione a diventare borghesi, a diventare padroni del proprio pezzo di terra da lavorare lontano dalla sottomissione al vecchio signore, ci mostra la tragedia che incombe su coloro che hanno fatto prestiti per soddisfare quella aspirazione. Sicché si può affermare che Balzac ha in questo romanzo «delineato magistralmente le linee essenziali della tragedia della proprietà parcellare contadina» (Lukac’s).

  Il contadino, uscendo dallo sfruttamento feudale (che Balzac non riconosce), cade in quello capitalistico (che Balzac analizza), retrocedendo nella via di sviluppo della sua condizione sociale ed economica. Balzac cerca di addurre delle ragioni al conflitto che i contadini ingaggiano, contro morale, con i vecchi padroni.

  Innanzi tutto egli ritiene che «l’uomo assolutamente probo e morale, nella classe dei contadini, è una eccezione», perché, «per la natura delle loro funzioni sociali, i contadini vivono di una vita puramente materiale che si avvicina allo stato selvaggio al quale li invita l’unione costante con la Natura. Il lavoro, quando schiaccia il corpo, toglie al pensiero la sua azione purificatrice, soprattutto in persone ignoranti. Insomma, per i contadini, la miseria è la loro ragion di stato ...». Nella Ragazza dagli occhi d’oro Balzac metteva in relazione la «fisionomia cadaverica» del proletario con l’usura del suo corpo sotto la sferza dell’oro e del piacere, nei Contadini egli mette in relazione il loro mondo morale e intellettuale, violento e fraudolento, con la loro condizione di abitanti delle campagne e col loro tipo di «funzione sociale» massacrante. Ma da ciò a proporre una politica economica e sociale che affranchi il contadino dalla brutalità della sua condizione naturale (la sua «ragion di stato») ne corre parecchio, e Balzac non può abbracciare questo tipo di dialettica. Il contadino miserabile non è una piaga della società, o meglio il pauperismo rurale è una conseguenza dell’imborghesimento delle campagne sopravvenuto alla Rivoluzione: solo il riordinamento feudale e paternalistico del sistema di produzione agricolo può ricondurre alla «moralizzazione» delle campagne, purché sia valido aiuto il braccio della Chiesa. Allo stato attuale delle cose il contadino è un «cattivo soggetto», al cui confronto la canaglia parigina è fatta di santi. È tutto dire. L’anti-arcadia di Balzac è consacrata qui. E veniamo alla canaglia parigina.

  Anche questo è un elemento abbastanza marginale del mondo balzacchiano. Come già il proletariato, così il sottoproletariato. Anzi, con la connotazione negativa di criminalità che offre la «classe» dei contadini, con la loro condizione di «miserabili» per natura, e quindi pericolosi per la società costituita, fra proletariato rurale e sottoproletariato parigino corre un filone di analogia. Il parallelismo tra «classe laboriosa e classe pericolosa» comunque non esiste così chiaro come in Sue e in Hugo, ma giusto, si può parlare di «classe» dei miserabili e dei poveri che questi due scrittori propongono all’attenzione dei lettori e delle autorità politiche? Marx ha scritto parole sarcastiche su Hugo e Sue perché il loro è un sottoproletariato di delinquenti, di straccioni, di mendicanti, che possono essere asserviti alla reazione politica (come accadde nell’elezione di Napoleone III). Tuttavia si deve rilevare che la tendenza alla criminalità nei «miserabili», nei «poveri», si spiega proprio con la loro condizione economica e sociale, povertà e miseria: che è una prospettiva moderna dell’analisi della criminalità (L. Chevalier).

  A differenza di Hugo in particolare, Balzac non presenta dunque un popolo sia pure di straccioni e banditi per necessità o piacere. La malavita di cui Balzac ci ha lasciato un quadro meno fugace e anzi compiaciuto e interessante si trova quasi tutta in Splendori e miserie delle cortigiane (1839-1847). Appena legata alla classe proletaria, essa ha i caratteri di un sistema sociale chiuso, a parte rispetto alla società comune, e parallela ad essa oltre che in lotta con essa. Più che teppa, essa è associazione di banditi in guanti gialli: e meglio essa è l’una e l’altra, come classe inferiore e classe superiore: un mondo ordinato gerarchicamente, la cui aristocrazia è data dalla numerosità di crimini commessi e dalla vicinanza alla pena capitale. Di questo mondo sui generis Vautrin è l’espressione più alta e singolare. Il personaggio era stato già presentato da Balzac in Papà Goriot col nome di Vautrin, sotto il quale si nascondeva, sempre nella finzione romanzesca, il famoso evaso Giacomo Collin; e nelle Illusioni perdute, sotto le mentite spoglie di Carlos Herrera, nome con cui passa in Splendori e miserie, finché ridiviene Collin.

  È una figura diabolica, con una forza fisica stroardinaria (sic), terribile d’aspetto, audacissimo, intelligentissimo: un gigante, un genio del male, come piaceva all’immaginazione romantica, quella stessa a cui si deve il victorughiano Jean Valjean. Nel momento in cui viene scoperto nella pensione di Papà Goriot e ammanettato, egli dice di sé: «Un forzato della tempra di Collin, qui presente, è un uomo meno vile degli altri, e un uomo che protesta contro le profonde delusioni del contratto sociale, come dice Gian Giacomo, di cui mi glorio di essere discepolo. Insomma, io sono solo contro il governo con la sua montagna di tribunali, di guardie, di bilanci, e me li metto nella manica». L’aspetto demoniaco del personaggio è corroborato da un sostrato ideologico che potremmo dire libertario, anarcoide. Egli dice, contraddicendo parecchio la sua proclamata ascendenza rousseauiana: «L’uomo è imperfetto. (...) Io non accuso i ricchi a favore del popolo: l’uomo è lo stesso in alto, in basso, in mezzo ...». Sicché, superbo individualista e giustamente demoniaco, egli è contro tutti. E tuttavia, già in Papà Goriot egli tende ad uscire dalla sua solitudine morale, sociale, intellettuale e a «fare scuola»: adesca Rastignac, in difficoltà economiche, senza peraltro riuscire a farlo sua creatura. Riuscirà invece con Luciano di Rubempré, che egli salva in extremis dal suicidio alla fine delle Illusioni perdute, comprando per così dire (e secondo la sua natura diabolica) il corpo e l’anima del giovane. In Splendori e miserie delle cortigiane è la sua epopea: in questo romanzo i suoi trascorsi penali ci sono spiegati, l’ambiente dei criminali di cui egli amministra dall’esterno la cassa durante il loro soggiorno nelle case di pena vien messo a sua volta in primo piano, ci passano dinanzi i suoi spalleggiatori esterni, assistiamo alla «cattura» della splendida cortigiana Esther che egli lega nello stesso tempo (per soddisfare la passione dell’allievo) a Luciano e al barone di Nucingen (per cavargli soldi), pattuisce con la giustizia la propria integrazione nella società civile, fa carriera nella polizia come esperto degli ambienti fuorilegge e si imborghesisce, andando in pensione ricco. Questo profilo di Vautrin-Collin fa pensare a un personaggio di romanzo giallo di altissima classe letteraria e di grande penetrazione sociologica e criminologica. Anche questa non è figura statica nel corso degli anni (si guardi all’interno della Commedia o si guardi alle date di composizione delle opere suddette). Lo spontaneismo, l’individualismo, il demonismo assoluto da cui era caratterizzato in Papà Goriot non scompaiono affatto nelle opere successive, ma la sua coscienza sociale e la sua natura di «uomo in rivolta» prendono maggiore consistenza: dal fortissimo quadrilatero che egli ha formato (lui stesso, Luciano, Rastignac, Esther), non è possibile fuggire (se non con la morte): egli è il cervello che assoggetta i suoi adepti affidando a loro come un compito morale, sociale e politico eversivo. Valga soprattutto quello che è assegnato a Esther nei suoi rapporti con Nucingen: «quest’uomo, egli le dice, è un ladro di grandi Borse, è stato senza pietà per tantissima gente, si è ingrassato con le fortune della vedova e dell’orfano, tu sarai la loro Vendetta!». Così facendo, egli si è assunto a proprio carico il destino di una folla di individui da vendicare dal ladro e assassino legalizzato che è il finanziere Nucingen: allora capiamo che Vautrin è anche un po’ Balzac in proiezione ideologica! Il criminale Vautrin, ladro di gran classe, è a sua volta giudice di ladri e criminali che la società moderna non riconosce come tali. Davvero si può dire che «il significato del personaggio supera il personaggio stesso» (L. Chevalier).

  Non disgiunto, anche sul piano storico e sociologico, dal tema-fenomeno della criminalità è quello della prostituzione. E Balzac giustamente in questo grande romanzo li ha associati strettamente. Vi sottostava una analisi che egli ha portato alla luce nelle parti dottrinarie (digressioni funzionali) del romanzo. Riteniamo soprattutto questa riflessione: «La prostituzione e il furto sono due proteste viventi, maschio e femmina, dello stato naturale contro lo stato sociale. Perciò i filosofi, gli innovatori attuali, gli umanitari, che hanno per coda i comunisti e i fourieristi, arrivano, senza, sospettarlo, a queste due conclusioni: la prostituzione e il furto ...». Magari sospettandolo per più di un motivo.

 

  Parigi.

 

  Nel sistema planetario della Commedia umana Parigi è il sole che tutto illumina; della cattedrale sarebbe l’altare maggiore; del mondo «un vero oceano». La Commedia umana esiste in funzione di Parigi. Non si può concepire il proposito di fare la storia dei costumi contemporanei francesi senza averne prima riconosciuto la matrice, il focolare centrale. E Balzac, parigino oriundo provinciale, è un titano in lotta con la divinità che è la capitale: ma è un titano vittorioso, che piega Parigi nel laboratorio della sua immaginazione, e ne fa l’autopsia, la classifica, per poi rincollare, innestare tutto con una sorta di folgorazione (fiat lux) e presentarcela bellissima e terribile, al cannocchiale o al microscopio, vitale e putrefatta, odiosamata. Sue coi suoi bassifondi, Hugo con le sue fogne (anche umane), non danno l’idea della totalità della vita che si svolge nella Parigi balzacchiana: questa inerisce al proposito di presentarla nelle sue spinte, nelle sue accensioni, nei suoi meccanismi, nelle sue manifestazioni, nei suoi effetti, per dir tutto: nella sua essenza e nella sua esistenza.

  Non si inganni chi non ha ancora avvicinato la Commedia umana: Parigi non è solo nelle scene della vita parigina, essa è quasi dovunque nell’opera, al primo posto nell’ambientazione o in secondo piano. Tante scene di vita provinciale acquistano la loro specificità proprio grazie al termine di paragone apertamente stabilito che è Parigi.

  A cominciare dall’alto, sul piano dell’aristocrazia e della borghesia, Balzac ci fa vedere grandezze e miserie e il loro equilibrio: ed è, bisogna dire, la predilezione dello scrittore, che non si stanca mai di ritornarci su, facendo variare personaggi e avvenimenti, illuminandoli di nuova luce. Gobseck, Papà Goriot, Cesare Birotteau, Illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane, che sono alla sommità dell’edificio balzacchiano, tengono alla vita aristocratica e borghese chi più chi meno: le interazioni fra le due classi, di cui s’è visto, sono messe in luce e seguite come nel loro processo storico. La civiltà parigina come «campo di battaglia» e alta scuola per riuscire nella società attirerà una miriade di gente della provincia, esemplarmente Rastignac, Luciano. «Tra il salottino blu della Restaud e il salotto rosa della Beauséant, [Rastignac] aveva fatto tre anni di quel Diritto parigino di cui non si parla, benché costituisca un’alta giurisprudenza sociale che, imparata bene e ben praticata, conduce a tutto» (Papà Goriot). Rastignac, studente in legge e frequentatore del gran mondo parigino come dandy, non mancherà giustamente di far carriera politica, non smentendo così i principi dell’alta scuola in cui, mettendo da parte gli studi universitari, si era introdotto (sia pure in bolletta e sul punto di vendersi al dannato Vautrin). «A Parigi il successo è tutto, è la chiave del potere», si sentenzia ancora poco lontano. Ma per arrivare al successo, occorre denaro, e chi ne è privo cerca di procurarselo con tutti i mezzi, non escluso il crimine. Più o meno nella stessa epoca, scrivendo da Parigi, Lambert diceva che nella cosmopoli francese «il punto di partenza in tutto è il denaro. Occorre denaro anche per fare a meno di denaro» (Luigi Lambert). Per soddisfare le grandi passioni amorose e mondane, i calcoli politici, le mire finanziarie, la sete del potere, le ambizioni intellettuali, la carriera scientifica: dovunque alla base il denaro, e alla fine pure. La Parigi borghese (ormai nel senso più ampio) è l’inferno per il moralista e l’ideologo politico, e nello stesso tempo il paradiso per l’analisi della civiltà moderna. I bei sentimenti non reggono più, né i grandi. Si ha un bel dare balli fastosi quando alla porta bussa ormai per la vecchia o giovane signora aristocratica il demone della Necessità, come per la moglie del banchiere il desiderio di elevazione mondana e l’agiatezza economica non assicurano felicità. Parigi è la città che stritola i sentimenti «naturali» delle persone perbene (la morte di Goriot è un «elegante parricidio»), l’usuraio è nel suo studio scuro che attende con aria maledetta la moglie infedele del nobile signore (Gobseck), ricatti, vessazioni, prevaricazioni fisiche, morali, economiche, tengono in una morsa tutti, dal più esposto al meno esposto degli appartenenti all’alta società. Parigi è un transatlantico (Balzac dice «nave», credo, in un punto) sempre in pericolo di avarie, di falle mortali, e il «si salvi chi può» se lo ripetono tutti; è ad ogni modo Parigi un «vero oceano»: con pesci grossi e pesci piccoli.

  Nella rappresentazione balzacchiana di Parigi quartieri e popolazione della classe elevata hanno di gran lunga il sopravvento su quelli della classe lavoratrice e infima. Ma questo sopravvento non impedisce allo scrittore di fare della Parigi operaia e miserabile penetranti descrizioni qua e là nella sua opera. In Papà Goriot ci si avvicina al mondo popolare, cioè siamo quasi ai margini di esso, grazie alla posizione centrale che nel romanzo occupa la «pensione» della signora Vauquer: il potere irradiante di questo ambiente» è in conflitto più o meno latente, simbolicamente o no, col potere del gran mondo, sia per i connotati fisici che per quelli morali. Ma poi ne sappiamo molto di più sui quartieri operai e depressi attraverso Una doppia famiglia, Cesare Birotteau, la prima parte della Ragazza dagli occhi d’oro e di Ferragus, Il cugino Pons. Allora si scende nella sentina del transatlantico, si sprofonda nel torbido fiume sotterraneo che scorre sotto gli spessi strati alti dell’oceano, si entra nella «giungla parigina» abitata da selvaggi che minacciano l’ordine sociale, che vivono nella melma e quasi se ne compiacciono, cadono nei luridi rigagnoli e fanno fatica a rialzarsi. Qui si annidano la malattia, il delitto, l’abbrutimento, la fame, l’alcolismo, la prostituzione più marcia, la mortalità precoce. Alla disuguaglianza economica fa riflesso la disuguaglianza biologica e morale: Balzac non si lasciò sfuggire la relazione. «Ti amo, capitale infame», dirà Baudelaire, e pazientemente ne canterà gli orrori sul suo corpo, sulla sua anima, sul suo cervello, sulla folla anonima; Balzac invece ha esclamato una volta in termini perentori, dinanzi ai problemi che la morte di Pons faceva sorgere emblematicamente: «c’è da odiare la civiltà, da preferire i costumi dei selvaggi»; e aggiungeva motivando (in un passo già riportato): «Dovunque, e in ogni cosa, esplode a Parigi la disuguaglianza delle condizioni, in questo paese assetato di uguaglianza». E, allo stesso modo di Baudelaire, egli ne celebrò le miserie, aggiungendovi con la sua intensità onnivora i fasti. Allora ci si chiede che significato ha in Balzac, in lui che della vecchia e immonda Parigi aveva deprecato l’esistenza, questo lamento: «Ahimè, la vecchia Parigi scompare con una rapidità spaventosa», «la vecchia Parigi se ne va, seguendo i re che se ne sono andati» (I piccoli borghesi). È un lamento tipicamente romantico legittimato da obiettive considerazioni sulla furia demolitrice che si abbatté sulla vecchia Parigi già nella prima metà del secolo e che trovò un «geniale» ordinatore e teorico in Haussmann (un altro reazionario) durante il Secondo Impero. «La vecchia Parigi non c’è più», dirà anche lui polemicamente Baudelaire, «Parigi cambia» (Il cigno). Sotto il piccone cade spesso qualche casa della vecchia Parigi che il senso della storia urbanistica e architettonica avrebbe dovuto salvare dall’ignoranza e dalla speculazione di costruttori, ma indubbiamente il piccone colpisce soprattutto i vecchi miserabili quartieri di Parigi: Balzac, volendo salvare la sua pagliuzza d'oro, non s’accorge forse di contraddire il sentimento di pietà e di ribellione che dettava le sue pagine sui quartieri dell’immonda città, sulle condizioni subumane in cui si svolgeva la vita colà. Che poi l’operazione di «pulitura» di Parigi vecchia potesse anche avere (come avrà certamente in Haussmann) fini di strategia antirivoluzionaria e anti-barricadera. questo è un altro conto, che esula dalle considerazioni balzacchiane e pertanto dalle nostre.

 

  L’irrazionale.

 

  Del grande osservatore e realista Balzac si è potuto mettere in dubbio prestissimo questa caratteristica. Baudelaire dette prova anche a proposito di Balzac di una delle sue solite contraddizioni: ha sempre considerato il romanziere come un grande storico, un realista (osservatore) finché nel 1859 dichiara di essere stato più volte stupito che la grande gloria di Balzac fosse di passare per un osservatore: «mi era sempre parso che il suo merito principale consistesse nell’essere visionario, e visionario appassionato». Lasciamo stare la flagrante contraddizione del poeta tra momenti diversi di giudizio sul romanziere (lasciamo stare cioè considerazioni sulla cattiva memoria dei propri scritti o sulla sua falsa coscienza). In realtà, il realista appassionato di cui finora ci siamo occupati è homo duplex, è anche «visionario appassionato». Non si può infatti capire né la gloria né la fortuna di Balzac se non riconoscendolo nella sua interezza, se non restituendo Balzac a Balzac. È giusto dire, come qualcuno ha detto (Picon), che bisogna guardarsi «dall’accogliere i romanzi “realisti” della fine come un superamento delle prime esperienze metafisiche», che in lui non c’è «movimento dialettico» ma «tensione drammatica» che percorre l’insieme delle sue opere. Cioè, e meglio, la pubblicazione di tante opere a sfondo «filosofico», irrazionale, come dovremmo più esattamente dire, nei primi anni trenta, non deve far dimenticare o ignorare la pubblicazione di opere fortemente realistiche negli stessi anni. È la sezione degli studi filosofici che contiene le opere in cui la componente irrazionale è sfruttata pienamente, per tesi. Ebbene fra il ’30 e il ’31, accanto a numerosi pannelli degli studi filosofici, La pelle di zigrino in particolare, troviamo se non altro Gobseck, un capolavoro della componente realistica; nel ’33, accanto a Luigi Lambert troviamo Eugenia Grandet; nel ’34 infine Balzac lavora contemporaneamente su Serafita e Papà Goriot. Lo stupore è semmai questo! Le due componenti non vanno scisse non solo perché erano compresenti nella filosofia e nella visione del mondo di Balzac, ma anche perché Balzac ha cercato di compenetrare l’una nell’altra. E tipico, quasi programmatico per l’insieme dell’opera balzacchiana, è il commento che egli fa dopo che Raffaele, nella Pelle di zigrino, ha subito la visione nel negozio dell’antiquario: «Questa visione aveva avuto luogo in Parigi, sul quai Voltaire, nel diciannovesimo secolo, tempo e luoghi in cui la magia non doveva essere possibile». Balzac invece proprio qui insinua la possibilità che la realtà meglio determinata, Parigi e una sua strada precisa (il cui nome è anche simbolico avallo di razionalismo), possa contenere e rivelare in un momento dato la sua carica «seconda», il suo aspetto notturno, un mondo «fantastico». E Balzac si opponeva giusto a che queste determinazioni «seconde» non fossero qualificate come «filosofiche» (da cui Studi filosofici): «fantastiche» evidentemente non aveva attinenza secondo lo scrittore con l’«altra» realtà, non alludeva alla relazione che si stabiliva tra il visto con la «seconda vista» e la persona particolarmente dotata di «dono di specialità». Il tema allegorico che Balzac propone nella Pelle di zigrino è fondamentale per tutta la sezione «filosofica»: la sovreccitazione intellettuale ed edonistica porta alla disorganizzazione fisica e alla morte: l’irrazionale risiede nel valore risolutivo della pelle di zigrino che si accorcia ad ogni desiderio di Raffaele, nel dramma del giovane che vede la sua vita legata alla magia dell'irriducibile pezzo di pelle, e nella credibilità «fantastica» della storia che il racconto vorrebbe assicurare. Altrove, nella Ricerca dell’Assoluto per esempio, è una allegoria alchimistico-chimica a costituire il dramma del romanzo: Baldassarre Claës manda in rovina la sua famiglia, causa la morte della moglie e distrugge il proprio fisico per la ricerca della legge che trasforma i minerali e che, nella fattispecie, produce diamanti in laboratorio: e anche in questo caso un uomo vive una vita «seconda» per realizzare un principio «filosofico». E ancora Luigi Lambert, il genio del «Trattato della volontà», arriva alla disincarnazione, comunemente alla follia, per attingere «alla luce attraverso il suo mondo interiore». Lambert postula una corrispondenza tra il proprio corpo e l’«azione elementare» che egli vuole svolta su un piano spiritualistico; e Balzac (lo «io» che, compagno di Lambert, ne rievoca la vita e la filosofia) sostiene che la filosofia spiritualistica (e la prassi che ne deriva) di Lambert è una pura filosofia materialistica perché farebbe del mondo delle idee, della volontà, del pensiero prodotti e attività fisiche: si avrebbe allora sostituzione di filosofia scientista all’occultismo al quale inclina Lambert. Lo «io» del romanzo sostiene che l’uno è l’altra cosa, ma non si può non notare la preoccupazione in proprio di Balzac di dare come un fondamento scientifico e naturalistico a una filosofia che porta a prima vista nel soprannaturalismo. E in questa operazione di recupero, egli si avvale di Lavater e di Gall.

  L’opera più straordinariamente significativa di questo indirizzo irrazionalistico rimane Serafita, il fiore più puro e singolare, e a suo modo affascinante, del discepolo di Swendenborg, di Saint-Martin, i teosofi della «Chiesa anteriore». Pare che Balzac sia stato iniziato alla dottrina e ai poteri occulti: quest’opera, per quanto narrativamente sacrificata dato il suo carattere saggistico-dottrinario, è una limpida esemplificazione del doppio conflitto sofferto dall’androgino: da una parte Serafita-Serafito è in tensione amorosa rispettivamente con un uomo e una donna, perché la sua natura fisica e il suo sguardo sono ambigui, dall’altra è in conflitto con un rappresentante del cristianesimo ufficiale moderno, perché la sua natura semi-angelica e in via di evoluzione spirituale verso il totale angelismo, mal si concilia col concetto che ha della relazione fisico-spirito un ministro di culto del cristianesimo che ha deviato dal cristianesimo «primitivo», quello che si ricollegava con le religioni orientali per riunirsi in una sola, unica religione, secondo le credenze teosofiche. Serafita «sente» Dio e gli angeli e gli spiriti celesti — egli-ella non può essere di questo mondo, è un individuo superiore, che aspira a ricongiungersi con le sfere musicali, profumate, colorate che sente sopra di sé — è di passaggio sulla terra (scandinava) in cui si trova a vivere questa fase del vivere eterno.

  Da ciò si comprende che il cattolicesimo balzacchiano, se politicamente si rifà a quello ufficiale e tradizionale teocratico-monarchico, sul piano fideistico è eterodosso, ammesso comunque che il discepolo dei teosofi quale rivelano gli Studi filosofici assuma in proprio le grandi linee dottrinali che egli rievoca ed esemplifica, e c’è da ammetterlo, perché assai diffuse nell’intera sua opera. Si vedano come ultimi esempi, e questa volta appartenenti alle Scene della vita di campagna, Il curato di villaggio, Il giglio nella valle. Del resto, Balzac ha scritto che considerava Luigi Lambert e Serafita le sue opere migliori, e ha scritto, ben più gravemente per chi ama lo scrittore come grande realista: «Si può fare Goriot ogni giorno; Serafita non si fa che una volta nella vita» (lettera alla signora Hanska).

 

  Quanto costa l’amore.

 

  Il processo di capitalizzazione della società postrivoluzionaria investe, com’è da attendersi, anche la vita sentimentale. L’amore in varie forme cade sotto il dominio del denaro. Questa interrelazione entra nella Commedia umana come una tematica precipua della rappresentazione della società francese in via di imborghesimento e pertanto di progressiva corruzione morale: denaro e amore sono i temi principali della Commedia e, in quanto Balzac li lega l’uno all’altro, rivelano una concezione tragica dell’amore. Non che manchino pagine, capitoli e romanzi interi dedicati all’amore «romantico», puro e purificato, angelicato, che faccia vittime sentimentali e spirituali, che leghi nel bene e nel male due individui: si pensi a Enrichetta di Mortsauf (Il giglio nella valle), a Piera, a Eugenia Grandet. a Eva Chardon (Illusioni perdute), a Orsola Mirouët e ad altre ancora. Ma giusto alcune di queste sono vittime del rapporto che nella metropoli come nella provincia si stabilisce tra l’amore e il denaro, tra il matrimonio e la dote. L’obiettività balzacchiana fa prendere atto di questa situazione generale: «L’alta borghesia si comporterà come in passato l’aristocrazia. I nobili volevano ragazze con quattrini per concimare le loro terre, i neo-ricchi di oggi vogliono doti per il loro conto in banca» (I piccoli borghesi). È quanto si ricava dalla vita del barone di Nucingen, che sposa Delfina Goriot con una grossissima dote per assicurarsi le spalle in Borsa, e alla signora non ne incolse poi tanto male se, con un marito privo di attenzioni e per giunta infedele, le fu tacitamente permesso di farsi gli amici che le piacevano (noti i dandies de Marsay e Rastignac), a patto che non le costassero molto, cioè che non gli (a lui marito) costassero molto. Quando poi Nucingen, ormai vecchio, si innamora fino a fare follie (anche economiche) di Esther, allora si tocca come l’apogeo di questa relazione tra l’amore e il denaro in una battuta del barone alla moglie che gli dà un consiglio su come deve comportarsi con la bellissima e costosissima cortigiana: «Foi siede un puona moclie! Vate dei tepidi, et io li bago ...» (con accento alsaziano, col quale parla sempre). È il sublime di questa vita matrimoniale fondata sull’amore-interesse (quello economico-mondano): come riconoscenza per il buon consiglio di Delfina, il marito promette di pagare qualunque debito da lei contratto, che non può essere a sua volta che debito legato a una relazione amorosa extra-matrimoniale. E ancora, sempre intorno a questo personaggio-chiave della Commedia: Esther è lanciata da Herrera (Vautrin-Collin) nelle braccia del barone finanziere: un capitalista di tal fatta non può trattare che col capitale: e Herrera fa passare giusto la bellezza della ragazza «allo stato di capitale» da maneggiare con cautela e ardire; Goriot spende i suoi ultimi averi per metter su una garçonnière nella quale Rastignac possa degnamente incontrare Delfina, compiacente il padre. In questa sfera di tipicità di rapporti amorosi tra marito e moglie, moglie e amante, padre e figlia, regna la commedia drammatica dell’amore che Balzac ha voluto rappresentare e che, stando alla sua dichiarazione riportata sopra, poteva rappresentare giornalmente senza pericoli di sfasatura tra l’oggetto rappresentato e se stesso, tra l’oggetto e il pubblico destinatario che in esso doveva riconoscere un mondo pietoso ma niente affatto fuori del proprio tempo, anzi pietoso perché inerente al proprio tempo. «Dio mio, quant’è bella. — Sì, ma è cara». Queste battute non si riferiscono a una prostituta di lusso, ma, dette da mamme distinte, si riferiscono a Natalia Evangelista, protagonista del Contratto di matrimonio: un romanzo nel quale si assiste a una vera battaglia tra due notai che rappresentano gli interessi dei due contraenti il matrimonio, Natalia e Paolo, in un gioco sottile di calcoli e previsioni, di smascheramenti di beni e di intenzioni che entrano nel «contratto»; ed è una rappresentazione serissima alla quale non toglie nulla l’intenzione balzacchiana di far scaturire il sorriso del lettore da circostanze che si preannunciano drammatiche «La madre è una filona che approfitta della bellezza della figlia per imporre delle condizioni. ..»: anche qui dunque la bellezza femminile come capitale e come difesa del capitale. Che è, nel caso di Natalia, una sorta di prostituzione della ragazza al capitale attraverso il «contratto» e l’indegna lotta tra i due notai.

 

  Eroi e tipi.

 

  Se dalla Commedia umana dovessimo ricavare dei personaggi da collocare in una galleria d’arte o in un museo di cere, il compito non sarebbe difficile ma certo lungo e laborioso. Ma se, per un capriccio alla Dalì e prendendo spunto da una immagine dello stesso Balzac, volessimo costruire la testa dell’autore per metterci tutto il mondo di figure che vi sono state concepite e si sono mosse, allora la mostruosità di questa testa ci apparirebbe mitologica e supererebbe le stesse mostruosità simboliche di Dalì. A migliaia si sono affollate figure in questa testa, chiedendo ognuna il proprio posto, situandosi in un momento e pronte a risorgere nel sistema ciclico qua e là. In fondo tale sistema, con tutta la possibile ipertrofia della creazione balzacchiana, è il più «economico» che ci sia: assicura la varietà dei personaggi in funzione del ciclo, tende a evitare il più possibile pastiches e ripetizioni di tipi già noti. (Ripetizioni ci sono, ma soprattutto nei secondi e terzi piani.) Molti dei personaggi ci è occorso di presentarli durante l’esposizione, tantissimi mancano ancora e moltissimi saranno sacrificati perché qui non si faccia un repertorio di personaggi balzacchiani (che peraltro esiste).

  Può essere apparso chiaro che la concezione della storia in Balzac è una concezione eroica: non mancavano esempi per questo nella storia della storiografia francese, da Bossuet a Saint-Simon, da Voltaire a Michelet. E sembra che Balzac li coniughi tutti questi esempi, in altri termini coniuga eroismo individualistico a eroismo di masse. Pertanto la concezione della storia che da questo mondo di finzione si ricava non è affatto classista e si avvicina a quella di Michelet. La miriade di eroi balzacchiani sono tutti uomini superiori che si sono distinti per la loro genialità di pensiero e di azione, per la loro volontà anche se votata all’insuccesso, per la loro immaginazione anche se sprecata in una vita dissoluta, per la loro grandezza di animo anche se declinante, per la loro sofferenza disperata o fiduciosa, per le loro macchinosità politiche e finanziarie ... E sono a volta a volta o nello stesso tempo eroi positivi e negativi, scuotono a loro modo la storia, promuovono l’azione, che è subita dai non-eroi, dalle comparse. È un ideale napoleonico quello che sta dietro tale concezione eroica: un ideale innestato su quello del vecchio mondo cavalleresco. E questo non necessariamente nella rappresentazione di personaggi della vita politica e militare, ma proprio come tipo di immaginazione storica per cui sia stabilita un’interazione fra i diversi livelli sociali. Eroi balzacchiani sono grandi industriali, speculatori, banchieri, grandi medici, grandi politici, grandi avvocati; ma sono anche tipi come Bianchon appena studente in medicina e già raggiante di una sua ancora racchiusa grandezza in Papà Goriot, come David umiliato dal padre e perseguitato dalla legge (Illusioni perdute) come Eugenia, come la cugina Bette, entrambe frustrate sentimentalmente ed eroticamente, come Pons, parassita con una sua dignità e intuito artistico e soprattutto grande nella amicizia con Schmucke, come Schmucke stesso affranto dal dolore per la perdita dell’amico e schiacciato dalla canea di predoni. E invece tipi sordidi come il padre Grandet, avaro-speculatore, come il padre Séchard, avaro-testone, come Rigou, «spilorcio epicureo» (Lukac’s), non paiono raggiungere nemmeno una grandezza negativa: sono dannati anche in questo, pur se riuscitissime figure del mondo balzacchiano. Ambiguo come eroe è invece Vautrin, ed in questo è la sua natura diabolica. Straordinariamente vivo e moderno ha voluto Balzac l’«illustre Gaudissart», con caratteri che lo stesso personaggio richiedeva: il commesso viaggiatore, «una delle più curiose figure create dai costumi dell’epoca attuale», una macchina umana, un persuasore di professione, pronto alla battuta, interessato a tutto e da niente interessato, Balzac gli fa fare carriera e milioni col passare degli anni (e da un romanzo all’altro).

  Balzac ce li consegna tutti dopo un esame completo della loro persona (soprattutto della loro fisionomia), della classe sociale di appartenenza, delle loro espressioni abituali o tic. Dopo di che passano nell’azione e nella storia ciclica, salvo rinnovata presentazione e ulteriore chiarimento al loro «ritorno». [...].

 

 

  Luigi Carrer, Sopra una modernissima definizione della poesia [1839], in Scritti critici. A cura di Giovanni Gambarin, Bari, Gius. Laterza & Figli, 1969 («Scrittori d’Italia», N. 242), pp. 98-101.

 

  pp. 98-99. Quando un romanziere francese di molto grido, in una dell’estemporanee lezioni di letteratura date nel suo breve soggiorno in Venezia, definiva la poesia «stilla aromatica stemperata in un fiasco d’acqua», mostrava, senz’avvedersene, quanto possa mancare ad un novellatore famoso per meritarsi il titolo di poeta.

  Secondo la definizione anzidetta, la poesia starebbe assai più nell’allargare che nel ristringere l’espressione de’ sentimenti; e per verità non gli mancavano esempi, specialmente tra’ suoi connazionali, d’una tale poesia. E nemmeno la «stilla aromatica» troviamo in molte poesie italiane, ma sola e schiettissima l’acqua; tutt’altro che ottima in questo caso, checché ne cantasse Pindaro.

  Ma la vera poesia perdonimi il romanziero, non diffusione, è concentramento. Che quanto dal poeta si accenna possa da altri allargarsi, non so negarlo, e me ne assicura il Papà Goriot, fiasco d’acqua resa piacevole dalla stilla aromatica infusavi dallo Shakespeare: nego bensì che prendendo da altri e allargando, se ne faccia poesia.

  Non siamo qui per dettare precetti inopportuni al luogo ed al tempo, ma con sole poche parole ed ovvie osservazioni crediamo di poter convincere chi fosse di contrario parere. Con qual prò? si domanderà da taluno. Se non altro, quello di persuadere ai giovani che la concisione e la parsimonia sono doti indispensabili al vero poeta. [...].

 

Lo Scott e il romanzo francese anteriore al 1830 [1837], pp. 439-445.

 

  pp. 443-444. Voluttà è libro per le anime appassionate, per gl’ingegni melanconici; potrebbesi soltanto rimproverare all’autore certo tuono di pretesa e di ricercatezza, che mal s’appaia alla gran semplicità del soggetto. A questa specie di romanzi viene ad unirsi Eugenia Grandet, episodio pieno di sensitività, la migliore senza dubbio delle innumerevoli opere di Balzac, e che noi gli desideriamo d’imitare e d’eguagliare, ancora il più spesso che potrà.

  Il romanzo filosofico conviene meglio alla Francia che il romanzo storico; meglio anche del romanzo di costume. [...].

  Balzac, dotato d’infinita facilità, non ha mai potuto creare uno svolgimento verosimile.

 

 

  Emilio Cecchi, Balzac giornalista, in Aiuola di Francia, Milano, Il Saggiatore di Alberto Mondadori, 1969 («Saggi di Arte e di Letteratura», 22), pp. 22-27.

 

  Cfr. 1911.

 

 

  Emilio Cecchi, Il centenario di Balzac [1950], Ibid., pp. 28-31.

 

  Cfr. 1950.

 

 

  Ghigo de Chiara, Mercadet l’affarista di Honoré de Balzac al teatro Quirino, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Roma, Anno LXXIII, N. 118, 22 maggio 1969, p. 5.

 

  [...]. La commedia — tradotta da Carlo Terrori (sic) con esperta finezza — racconta (come si sa) le avventure patrimoniali dell’affarista parigino Auguste Mercadet, il quale — sempre in bilico sull’orlo della rovina definitiva — gioca la sua partita sul fronte degli avidi creditori inventando nuove ipotetiche imprese, suscitando speranze, manovrando sentimenti e risentimenti, mescolando transazioni private (specula anche sul matrimonio della figlia) e listini di borsa, appellandosi ora alla pietà dei suoi avversari ora alla loro sete di guadagno. Ne viene fuori un clamoroso personaggio dalla fantasia ribollente, un poetico avventuriero mille volte più vitale ed umano di tutti coloro ai quali egli ha allentato infinite fregature: sicché davvero Mercadet merita, alla fine, il trionfo che l’autore gli concede facendolo uscire da una inesauribile catena di guai col provvidenziale ritorno dall’America di un ex socio d’affari che ha fatto fortuna e che non ha dimenticato i suoi debiti verso l’antico compagno di cordata.

  Una recitazione rapida (talvolta anche troppo) accompagna la guerra privata del signor Mercadet, cui Tino Buazzelli conferisce sicura simpatia, dinamismo travolgente e comicità di ottimo stampo. [...].

 

 

  Nicola Chiaromonte, Balzac e l’impulso cinetico, «L’Espresso», Roma, Anno XXV, N. 23, 8 giugno 1969, p. 25.


  Ad eccezione degli (sic) Etudes philosophiques, i romanzi di Balzac — la Comédie humaine — possono facilmente apparire come una miniera di drammi e melodrammi, scritti in forma narrativa per urgenza di fantasia e d’espressione, più che per necessità intrinseca. Impianto della trama, tumulto dell’azione, estremità dei conflitti, pathos, colpi di scena, c’è di che immaginare che Balzac avrebbe potuto essere una specie di Shakespeare dell’Ottocento. Ma in realtà è vero tutto il contrario: non c’è romanziere meno teatrale di Balzac. Il suo fascino è tutto d’immaginazione, e niente d’azione obiettiva, o di situazione. Le sue sono trame fantastiche, non drammatiche: esercitano il loro potere allucinatorio per la convinzione con cui sono sognate, l’energia da gran condottiero di fantasmi con cui sono manovrate e portate avanti, l’intrepidità per cui il romanziere non si ferma dinanzi a nessuna improbabilità, incongruenza o eccesso, ma trascina le situazioni, passioni e avventure più smisurate verso la verosimiglianza, costringendo il lettore a seguirlo, magari incredulo e sul punto di ridere di tanta temerità e tuttavia affascinato fino all’ultimo.

  Per giustificare (abbastanza inutilmente) il turgore, i sussulti, la concitazione disordinata dello stile balzacchiano, Albert Thibaudet ha avuto un’immagine felice: «Balzac», ha scritto, «avanza in uno scalpitar di cavalli e di uomini in marcia, potente e non musicale. E l’orecchio stesso finisce per riconoscere che quella che passa è la Grande Armata ...». Balzacchiana doppiamente, quest’ultima immagine, perché non c’è dubbio che l’ambizione del creatore di César Birotteau e di Vautrin, di Rastignac, di Gobseck fosse proprio di condurre un esercito sempre più folto di fantasmi alla conquista d’Europa; e, quando diceva di voler «fare concorrenza allo Stato civile», voleva dire proprio questo: imporre i suoi personaggi, la sua Parigi, la sua Francia della Restaurazione come la verità vera, a scapito eterno dell’illusoria realtà obiettiva, registrata nelle gazzette e ossequiata nei salotti, nei gabinetti dei ministri, negli uffici delle banche, negli studi dei notai e degli avvocati. L’esistenza vera gliela poteva dare solo lui, il romanziere, il condottiero di fantasmi, a quella popolazione di schiavi dell’ambizione, del piacere, del danaro: vittime di un mondo che erano incapaci di capire e quindi anche di goderne.

  Tuttavia è trascinato dal miraggio precisamente di quel mondo, dall’ambizione di dominarlo con i mezzi ad esso propri, cioè il danaro e la fama, che Balzac passava le notti a popolare la sua epoca di finzioni che si sovrapponevano immediatamente alla realtà e nelle quali noi oggi riconosciamo la Parigi e la Francia del suo tempo al punto che la Chaussée d’Antin, la rue Saint Roch, la rue des Petits Champs, la rue de Grenelle, sono ancora oggi le strade dei personaggi di Balzac, anzi l’immagine che le evoca.

  Non c’è esempio di uno scrittore posseduto dalla volontà di potenza al punto in cui ne fu posseduto Balzac; né c’è esempio di una volontà di potenza coronata da un tale successo. E non c’è neppure esempio di uno scrittore posseduto come Balzac da quello che Joyce chiamò «l’impulso cinematico», considerandolo esiziale alla compiutezza e al distacco dalla realtà necessaria alla vera opera d’arte e, prima ancora, all’artista. Il proprio dell’impulso cinetico secondo Joyce è quello che spinge l’artista a fare della sua opera la continuazione del proprio impulso vitale, dei propri desideri, delle proprie passioni e delle proprie frustrazioni. Vero è che, per quanto laboriosamente la scomponesse e la cifrasse, Joyce non scrisse mai altro che la sua autobiografia; e Dublino, per lui, non fu luogo meno privilegiato che Parigi per Balzac. Ma la distanza rimane grandissima, fra i due; ed è una distanza di coscienza. Joyce era cosciente dell’illusione romantica, Balzac ne era trasportato, Joyce mirava, in sostanza alla creazione mitologico-lirica, Balzac al dominio sull’immaginazione dei contemporanei. Strumento di questa volontà fu il romanzo totale, la sostituzione, cioè, al mondo reale di un mondo immaginario quanto più completo e folto possibile; ma soprattutto tale mondo doveva essere animato visibilmente da quel Primo Motore mobilissimo di cui gli era stata data per privilegio la visione. Tale motore non è sicuro che sia il danaro che produce danaro, come naturalmente piacque a Marx di vedere, o l’ambizione e neppure la volontà di potenza, sebbene questi siano effetti essenziali dell’impulso da cui discende il tumulto della “commedia umana”. Il vero segreto è la sopravvenuta mancanza di scopo dell’esistenza, l’ateismo radicale, la liberazione della volontà e delle passioni da ogni norma superiore. Di questo, certo, il danaro è il segno visibile. Ma simbolo ben più significante è la peau de chagrin, il raggrinzirsi della vita a ogni voglia esaudita di cui è vittima Lucien de Rubempré (sic).

  Romanziere com’era per volontà prima ancora che per natura, Balzac scrisse anche più di una commedia. Disse — con molto acume — che il poeta comico doveva possedere «un’immensa capacità di giudizio» e che a teatro «ogni parola dev’essere un mandato di comparizione contro i costumi dell’epoca». Ma era appunto questa capacità che egli non poteva esercitare. Romanziere totale, Balzac poteva soltanto inventare storie.

 

 

  Giovanni Antonio Cibotto, Applauditissimo Tino Buazzelli a Vicenza vero mattatore in “Mercadet l’affarista”, «Il Gazzettino», Venezia, 2 maggio 1969.

 

 

  Pietro Citati, Profilo di uno scrittore. In Balzac un mistero inesplorato, «Il Giorno», Milano, 22 maggio 1969, p. 6.

 

  Ernst Robert Curtius: «Balzac», traduzione di Vincenzo Loriga, pag. 352, L. 2500, Il Saggiatore.

 

  Quando Ernst Robert Curtius pubblicò, nel 1923, la prima edizione del suo bel libro su Balzac, la rinascita balzacchiana era ormai un fatto compiuto. Baudelaire aveva descritto l’occhio visionario ed ardentissimo, che incupiva tutte le ombre e infuocava tutte le luci: Oscar Wilde aveva affermato che la più grande tragedia della sua vita era stata la morte di Lucien de Rubempré; Hofmannsthal e Rilke avevano visto in Balzac il modello dell’arte che essi sognavano: le «Mille e una notte» nel cuore delle capitali moderne, i fiori azzurri del sogno tra i particolari minuziosi e atroci della realtà quotidiana. Infine Proust aveva appena portato la sua ultima pietra al grande monumento balzacchiano: riscrivendo la «Comédie Humaine», rappresentando un’altra volta Vautrin, imprestando immagini, trovate melodrammatiche e ambizioni conoscitive.

  Ernst Robert Curtius raccolse e sistemò queste scoperte: e vi aggiunse una quantità di solide e intelligenti osservazioni, che conservano ancora oggi tutto il loro valore. Con l’eleganza saggistica che aveva appreso dalle sue letture inglesi, disegnò il profilo di Balzac uomo: spiegò talune qualità della sua arte: compose un capitolo importantissimo di storia della cultura, ricostruendo le idee metafisiche, psicologiche, fisiologiche, scientifiche, religiose di Balzac, i suoi, rapporti con Swedenborg e l’alchimia.

  Tuttavia il libro di Curtius non appartiene propriamente nè alla saggistica psicologica, nè alla critica letteraria, nè alla storia della cultura. Come, per Balzac, «il principale fenomeno della vita umana è quell’energia senza forma a cui egli dà il nome di volontà». Curtius scorgeva dietro i libri e l’esistenza apparente di Balzac un’energia senza forma: una minacciosa corrente vitale, tanto spirituale che fisica, tanto intellettuale che poetica, limacciosa come un fiume, inconscia come un sogno, provocatoria come un gesto, cosciente come una costruzione sistematica ... Questa corrente vitale rivelava una mirabile coerenza: la stessa coerenza che può avere un’isola appena emersa, con i monti e le rive, i fiumi e i vulcani ancora accesi, dove tutte le masse di roccia, i fuochi e le acque stanno in un perfetto, ma pericoloso equilibrio.

  Così il compito di Curtius diventava quello di scendere in quest’isola senza nome, di cui forse perfino i libri realizzati davano un’idea approssimativa ed incerta. Come un geologo, che racconta la storia di un territorio incisa nelle pieghe delle rocce o dietro la superficie del paesaggio, come un archeologo, che ricostruisce da qualche relitto la topografia di una città perduta, egli rappresentava l’ossatura nascosta, le grandi colonne vertebrali, le profonde leggi e strutture archetipiche dell’isola-Balzac.

  Credo che alla sapiente descrizione di Curtius non rimanga molto da aggiungere. Ma Balzac conserva un «mistero» di altra specie, che nessuno ha mai saputo esplorare completamente. La qualità della sua rappresentazione realistica, il carattere fondamentale della sua arte narrativa — qualcosa che prima di lui non era mai esistito e che, dopo di lui, riaffiorerà soltanto nella «Recherche» — attendono ancora uno studioso ed un interprete.

 

 

  Carlo Cordié, Prefazione, in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet ... cit., Roma, Tumminelli, 1969, pp. VII-XXXIX.

 

  Vita del Balzac. Qualche notizia in merito alla vita del fecondo romanziere mostra come tutta la sua esistenza, o almeno i momenti più salienti di essa, siano serviti a preparare nella sua complessità la concezione e la compagine dell’intera opera letteraria, ed in particolare della Commedia umana. È importante sottolineare l’atteggiamento psicologico dell’autore: il lettore di oggi ne può seguire lo svolgimento nella febbrile attività, assumendo come indice di valutazione la sua avventurosa esistenza, così come l’autore stesso ha considerato la genesi e lo svolgimento dei suoi personaggi.

  Nato a Tours, il 20 maggio 1799, Honoré Balzac insieme alla sorella Laure venne allevato da una balia nel sobborgo di Saint-Cyr. Piccolo ancora, fu messo in una specie di asilo a Tours, fini quindi in un collegio di Vendôme dove rimase fino all’aprile del 1813. Il collegio era retto da due ex religiosi, secolarizzatisi al pari di tanti altri durante la Rivoluzione, e non è da escludere che il contatto con essi abbia contribuito a suscitare nel Balzac quei sentimenti manifestatisi poi, nell’opera Su Caterina dei Medici, sotto forma di teorie legittimiste e controrivoluzionarie.

  Del ricordo di quegli anni e di una sua crisi mistica, connessa con la prima comunione, rimangono alcune tracce in un romanzo, Louis Lambert. Qui giova mettere in rilievo un fatto di una certa importanza: che per sei anni il ragazzo non tornò mai in famiglia e, quanto a sua madre, lo andò a trovare una sola volta. Avvenimenti di questo genere incidono profondamente nell’animo di un giovane, tanto più se incline alla meditazione, alla nostalgia, al risentimento e, insieme, lasciato senza guida nel contatto con il mondo.

  Il passaggio da Tours (la “provincia”) a Parigi (la capitale, la città del successo e della fama per ogni giovane francese) è determinato dal cambiamento di residenza della famiglia A Parigi difatti si trasferiscono i suoi e Honoré continua gli studi nella pensione del monarchico Lepître, e quindi all’Istituto Sganzer e Beuzelin. Anni di maggiore interesse per la formazione del giovane sono quelli che vanno dal 1816 al ‘19: Balzac compie i suoi studi di giurisprudenza, fa pratica presso l’avvocato Guyonnet de Merville (che sarà appunto il Derville della Commedia umana), si impiega poi presso un notaio e alla Sorbona frequenta alcuni corsi letterari. Nel 1819, da scrittore principiante e pieno di zelo, comincia a comporre opere di cui è rimasta traccia nella documentazione che concerne la sua preparazione.

  Nel 1820 torna in famiglia a Villeparisis, dove i suoi si erano stabiliti. Nel 1822 si innamora di Madame de Berny, di ben 22 anni più anziana di lui: da questo affetto, tenero e delicato (durato fino alla morte della “Dilecta” nel 1836) lo scrittore e l’uomo ricevettero un benefico influsso. Honoré scrive intanto vari romanzi che firma con diversi pseudonimi: essi sono di ragguardevole mole e mostrano un interesse vivissimo per le descrizioni, oltre che per l’intreccio, mentre motivi avventurosi — desunti da una varia tradizione francese e inglese — si mescolano alla ricerca psicologica. Si può in questo periodo preparatorio tener conto della delicata amicizia allacciata con un’amica della sorella Laure, cioè Zulma Carraud, nata Tourangin. Un non ampio ma notevole carteggio mostra nella saggia giovane un carattere sensibile e ricco di umanità sì da influenzare lo scrittore nelle sue prime comparse in società.

  Col 1825 i biografi di Balzac segnalano una svolta nella sua vita, indirizzata ora verso un predominante interesse per gli affari. Le lettere sono lasciate da parte, almeno momentaneamente, e un’attività febbrile di editore, tipografo e fonditore di caratteri coinvolge la fortuna commerciale di tutta la famiglia: si tratta di imprese fallimentari che graveranno a lungo sulla vita dello scrittore. Nel 1827 il Balzac torna a scrivere: chiede alle lettere (ed al successo che da esse si prefigge) quella fortuna invano cercata negli affari, e nel 1829 (anno della morte del padre) pubblica con successo la Fisiologia del matrimonio, in realtà un trattato e non un romanzo. Qualche fortuna ha nello stesso anno il suo romanzo storico, Gli Chouans, che, ambientato nel cuore della Rivoluzione francese, gli permette di studiare caratteri, moventi, interessi e ambizioni mescolati alla lotta politica di un periodo immediatamente precedente la sua epoca. Nel 1830 va collocata la vera introduzione dello scrittore nella società parigina del tempo, profondamente permeata dalle innovazioni e dai propositi del romanticismo, che, in particolare, in Francia, si immedesimava col risveglio spirituale che accompagnava l’ascesa politica della borghesia. E in quei salotti, dove si intrecciavano le schermaglie della “bataille romantique”, si formavano e si sviluppavano quei germi che, non per nulla, intorno al ‘30 coincisero con il maturare della borghese rivoluzione di luglio e con l’avvento di Luigi Filippo d’Orléans. Tra i salotti in cui Honoré si fa sempre più notare (specialmente dopo la pubblicazione delle Scene della vita privata) sono quelli del barone Gérard, di Sophie Gay e della colta e brillante Madame Récamier. Negli anni successivi l’attività dello scrittore va aumentando. Le idee e i programmi si intrecciano a nuovi propositi. Il 1831 vede la grande divulgazione della Pelle di zigrino, forse anche in merito ad alcuni elementi misteriosofici connessi con la trama stessa. Un motivo dandystico unito alla brama di riuscire ed una tendenza al lusso, ormai irrefrenabile, caratterizzano l’opera del Balzac. Moltissimo egli lavora, soprattutto di notte, sotto l’eccitazione del caffè e d’ora in poi la sua attività di artista sarà intimamente legata alle vicende dell’uomo. Nel ‘32 pensa di farsi eleggere deputato neolegittimista, ma non vi riesce. Inizia a scrivere le Sollazzevoli istorie, almeno la prima parte intitolata alla Bella Imperia. Scrive nel 1833-34 Duchessa di Langeais e il Medico di campagna: nel primo si parla di un amore disilluso e, nel secondo, della bontà di un mondo che può dare tranquillità all’animo. Risultano già evidenti alcuni dei motivi fondamentali della Commedia umana. Del 1833 è anche Eugénie Grandet, il romanzo più tipico del Balzac, che ora viene presentato in questa veste editoriale al lettore italiano. È del medesimo anno l’incontro con Eveline Hanska, una contessa polacca che gli aveva scritto parole di ammirazione, dapprima anonime, e che il Balzac stesso aveva soprannominato l’“Etrangère”, l’ammiratrice sconosciuta, iniziando con lei una corrispondenza epistolare: si sviluppa così, in modo singolare e significativo, un amore che giungerà fino al matrimonio, quando la contessa sarà libera. Nel ‘34 lo scrittore si dà sempre più alla vita mondana, trascorrendo parte del suo tempo tra ricevimenti e serate d’onore, pur portando avanti i suoi lavori in modo frenetico, tanto anela al successo finanziario e letterario. Pubblica La ricerca dell’assoluto, basato su principi chimici (la pietra filosofale degli antichi alchimisti) e Papà Goriot, romanzo di stile vigoroso e dalla forte impostazione psicologica. In quest’ultimo si nota il ritorno sistematico dei personaggi, elemento fondamentale della Commedia umana. Nel 1835 il Balzac si trasferisce in un appartamento segreto, noto cioè ad alcuni intimi, per lavorare con tranquillità anche sedici ore al giorno, fuggire i creditori ed accogliere qualche amica. Pubblica nel novembre e dicembre sulla “Revue de Paris” Il giglio nella valle, romanzo che mostra nello scrittore una grande esigenza di purezza e sincerità. Nel ‘36 compie un viaggio in Italia e soggiorna a Torino, si reca poi in visita da Talleyrand, al castello di Rochecotte, presso la duchessa di Dino (già l’anno precedente aveva avuto un colloquio col Metternich a Vienna). Come a Torino lo scrittore era stato accolto dalla migliore società, così nel 1837, nel suo viaggio a Milano, potè visitare il Manzoni e trovare accoglienza da parte della aristocrazia cittadina. La sua fortunata permanenza in Lombardia era stata facilitata dalla conoscenza dei conti Guidoboni-Visconti e soprattutto dall’amicizia con la contessa, la “baccante bionda”, una delle sue non poche relazioni amorose. Lo scrittore passò quindi a Venezia, Genova, Livorno e infine a Firenze. Tornato a Parigi, conobbe più amaramente che per il passato il pungolo degli uscieri giudiziari per i suoi numerosi debiti e subì anche perdite finanziarie di non scarso rilievo. Nel ‘38 si recò in Sardegna attratto dalla speranza di concludere affari vantaggiosi nel campo delle miniere, ma ne riportò una delusione. Nel ‘39 scrisse un Memoriale sul processo Peytel (un notaio che era stato condannato a morte per la presunta uccisione della moglie e di un domestico) che non ebbe alcuna ripercussione in campo giudiziario; infatti il prestigio della penna del romanziere non giungeva a mutare il corso della giustizia. Nel medesimo anno il Balzac pose la candidatura all’Accademia Francese, ma non fu accettata anche perché il romanzo non veniva ancora considerato come un genere letterario abbastanza serio ed elevato.

  Col 1840 inizia un nuovo ciclo dell’attività dello scrittore. Dopo l’insuccesso del suo dramma Vautrin (insuccesso dovuto anche in parte al divieto di rappresentazione posto dal ministro dell’Interno, per la rassomiglianza di un attore in parrucca con Luigi Filippo), fonda la “Revue Parisienne”, in formato di libro, di cui è unico redattore. Di questa rivista uscirono soltanto tre numeri, ed in uno di essi, in data 25 settembre, comparve un articolo di ampia mole, ancor oggi famoso, sulla Certosa di Parma, ricco di elogi per Stendhal. Anche questa impresa, destinata ad un grande pubblico, non ebbe alcun successo: lo scrittore fu anzi costretto a vendere una sua proprietà per far fronte alle spese. Nel ‘41 Balzac si ammala in modo preoccupante e a mala pena può tornare al suo lavoro, vagheggia intanto l’insieme della Commedia umana e stipula dei contratti con alcuni editori.

  Gli avvenimenti si succedono: il 10 novembre 1841 muore il conte Hanski, marito di E veline; pochi mesi dopo, il 16 aprile 1842, si annuncia la vendita della prima puntata della Commedia umana. Nel ‘43 Balzac si reca a Pietroburgo e vi incontra Eveline, al ritorno si sofferma in Germania e in Belgio dove visita musei e luoghi importanti. Il ‘44 lo vede, nuovamente malato, continuare a fatica il suo lavoro di scrittore. Nel frattempo e nei due anni successivi i rapporti con la contessa Hanska e con i familiari si fanno più intensi e nel ‘47 essa soggiorna a Parigi. In questo periodo Balzac si dedica intensamente al suo lavoro per poter arredare con lusso la nuova casa di rue Fortunée, dove pensa di abitare dopo il matrimonio con Eveline. Con lei si incontra di nuovo, all’estero, anche nel ‘48. In quest’anno, così ricco di avvenimenti politici, lo scrittore pone, senza successo, la sua candidatura all’Assemblea Costituente, mentre con un dramma, La matrigna, incontra il favore del pubblico. Alla morte dello Chateaubriand, avvenuta nel luglio dello stesso anno, tenta nuovamente di ottenere un seggio all’Accademia Francese. Sofferente di cuore, sebbene i sintomi del suo male si facciano ora più evidenti, nel ‘49 si reca in Ucraina dove torna nel '50 per unirsi in matrimonio con Eveline, il 14 marzo. Cerca quindi di ritornare con la sposa a Parigi e dopo un viaggio, assai affaticante per le condizioni di salute che vanno sempre più peggiorando, giunge finalmente a casa. Qui, purtroppo, si aggrava di giorno in giorno anche per l’insorgere di una peritonite e il 18 agosto muore fra atroci dolori. Ha così termine l’avventurosa esistenza e la febbrile attività dello scrittore della Commedia umana. Victor Hugo, che era stato in visita da lui poco prima che morisse, terrà memoria di quest’ultimo incontro nelle sue Cose viste, e parlerà dello scrittore con tono eloquente e sincero nella sua orazione al Cimitero del Père Lachaise.

  L’opera romanzesca del Balzac. L’enorme attività letteraria di Honoré de Balzac è divenuta proverbiale: il breve arco dei suoi anni mostra la febbrile operosità di chi, con la Commedia umana, volle rappresentare la società moderna con propositi grandiosi volutamente paragonati con la Commedia divina di Dante Alighieri: e, se l’aggettivo “divina”, sotto la penna del Boccaccio, veniva a dare un diverso valore al termine di “commedia” voluto da Dante, è evidente che, nel romanziere francese, il corrispettivo “umana” ha valore antagonistico. Voleva significare ai contemporanei e ai posteri che un autore aveva preso molto sul serio la sua incombenza di narratore: non era solo un descrittore di fantasia, ma uno storico, un giudice dell’età sua, dalla Rivoluzione alla Restaurazione alla Monarchia di luglio al ‘48: quel che Napoleone aveva fatto con la spada, egli l’avrebbe compiuto con la penna. La frase ambiziosa sulla statuetta dello scrittoio ha un significato che non bisogna sottovalutare. Balzac si è letteralmente bruciato al lavoro, come una farfalla al lume. Di varie decine di opere stese o abbozzate (per non citare quelle divisate nei piani della sua opera ciclica) forse il pubblico di tutto il mondo non conosce oggi che i capolavori: anche se essi non sono sempre i più idonei a far valutare la complessità e la ricchezza spirituale di un autore quale il Balzac, son pur significativi per l’immediatezza della descrizione e la pittura dei caratteri. Uno di questi libri, tipici tanto da essere considerati rappresentativi, è Eugénie Grandet, pubblicato alla fine del 1833, dopo lunghi anni di ricerca letteraria ancor oggi non bene studiati nel loro insieme. Accanto a Papà Goriot, dell’anno successivo, si può considerare — anche per i difetti della composizione — come uno dei più singolari prodotti dell’età romantica. È giusto che il lettore di oggi si avvicini a tale libro come ad un documento storico del più alto interesse: nello stesso tempo è opportuno mettere in evidenza, di là dalle solite ammissioni accademiche e scolastiche, che cosa rappresenti quel romanzo nel complesso dell’opera dell’autore nei primi anni del suo successo.

  Grandissima è stata la fortuna avuta dal Balzac in tutto il mondo. Si potrebbe dire che ancora oggi, nei vari continenti (forse più dello Zola considerato dal punto di vista della polemica sociale e della “protesta” per l’Affare Dreyfus), l’autore della Commedia umana è stimato il romanziere per eccellenza dell’Ottocento francese ed europeo: molto più di Stendhal e di Flaubert che pure hanno doti tutte proprie nella creazione artistica e, inoltre, sono apprezzati in modo particolare per motivi ed atteggiamenti del nostro secolo. Si è così detto che un autore come il Nostro sapeva “narrare” una storia, senza che il lettore sentisse alcuna complicazione di natura soggettiva nella stesura di una pagina. Cosa non del tutto vera, se si considera il lungo cammino con cui il Balzac pervenne alla perfetta efficienza di tutti i suoi strumenti letterari, dapprima volti — con un’attività pubblicistica molto varia, anzi diseguale — al romanzo di costumi, alla narrazione sentimentale, alla pittura storica. Si allude in modo speciale alla vastissima produzione giovanile, mandata nel mondo letterario sotto più pseudonimi. Oggi, per la gioia dei bibliofili, è stata ristampata l’opera narrativa di gioventù del Balzac e quindi è più facile tener conto di tale produzione nella varia e complessa opera di lui: d’altra parte, è anche da considerare che non sempre i lettori gustano quei tentativi. Tali volumi possono dare esca alla ricerca dei collezionisti, ma nel complesso rappresentano la preistoria dell’attività feconda e duratura dell’autore. Ed è opportuno menzionare uno dei più schietti e vivaci interpreti del Balzac — appunto Maurice Bardèche nel suo Balzac romanziere, del 1940 — per segnalare le sue pagine su tale attività preparatoria: da mettere accanto all’esame dei primi abbozzi del 1819-1820 e alle osservazioni sull’ arte del romanzo nel 1820”. Anche per Balzac ebbe grande influenza, se non l’arte, almeno il metodo di Walter Scott: nello studiare i costumi della sua Scozia, il romanziere inglese portò veramente una nuova tecnica, con l’abbandono del “romanzo nero” (o “gotico”) e d’ogni escogitazione di caratteri eccezionali e di storie mirabili per soggetto, ma discutibili per realizzazioni. Del resto, molte delle vecchie abitudini misteriosofiche e tenebrose resteranno nel nuovo Balzac e, se lunga fu la sua strada prima di trovare una vera manifestazione del suo mondo interiore, forse più ardua fu quella di Victor Hugo che, da Han d’Islanda, del 1826, giungerà ai Miserabili ricchi di tutte le vicende spirituali e politiche dell’autore, combattente per la libertà ed esule. Anche se il generoso poeta francese diverrà simbolo di una Francia laica e progressista, con una gloria che si irradierà sul romanzo di Cosette e di Jean Valjean, il suo libro sarà ricco di motivi romantici e farà tesoro di tutto un nuovo mondo letterario, compreso quello di fattura popolare. (E qui sarebbe difficile giudicare, a distanza di oltre un secolo, come lo stesso pubblico leggesse Paul de Kock e Paul Féval e insieme lodasse Victor Hugo, Eugène Sue e naturalmente, quando perveniva a comprenderli, Stendhal e Flaubert e altri autori, assai poco inclini a favorirne i gusti e le tendenze).

  Accanto ai romanzi di giovinezza sono le “opere diverse”. Con questo titolo si sogliono oggi considerare tre ricchi volumi: circa duemila pagine in 8° di fitta composizione, rivedute nel testo da Marcel Bouteron e da Henri Longnon, mostrano una sorprendente attività pubblicistica, dal 1824 al 1848. Oltre metà di questa raccolta di scritti sparsi, di varietà, di recensioni, di satire e di divagazioni era già stata scritta su periodici vari al momento della pubblicazione di Eugénie Grandet. Un’attività del genere — con numerosi pseudonimi — rivela un’esuberanza senza limiti e spiega molte cose nella natura dello scrittore. Molte volte quella che potrebbe essere una dispersione, porta invece a realizzare qualche piccolo capolavoro di prosa. Ed un ghiribizzo momentaneo spiega la genesi di qualche opera duratura. Come nei primi anni del suo noviziato letterario il Balzac tentava tutte le vie per riuscire (e, nella vita pratica, passerà di insuccesso in insuccesso), così nel periodo combattivo del primo romanticismo francese il desiderio di assecondare il pubblico con un argomento non lontano dalle sue richieste può aver portato qualche beneficio. Come deve essere avvenuto per il personaggio di Eugenie Grandet (in un romanzo che, poste le premesse dell’ambiente, era già quasi tutto steso, come fu detto da Mario Bonfantini, e non senza ragione). Del resto anche Flaubert, allorché scriveva il Cuor semplice alla “maniera” della sua carissima amica George Sand, lasciava da parte le ricerche storiche del primo degli altri due “racconti”, cioè San Giuliano l’ospedaliere, per effondersi dietro i ricordi di gioventù. Ora proprio per Eugénie Grandet si è detto che il personaggio aveva ben poco di balzacchiano: in quanto la delicata creatura, non abituata a lottare nella vita ed a farsi strada con astuzia e con forza (anche per allacciare rapporti sociali con altre famiglie mediante un buon matrimonio), finisce col chiudersi in un mondo sentimentale: di rinunzia, se non di disfatta. E, quanto al padre— il terribile avaro papà Grandet, che si è fatto ricco e potente con le astuzie della politica e coi raggiri del commercio —, è fin troppo balzacchiano per contrasto. Come nondimeno proprio Eugénie Grandet sia considerato un capolavoro rappresentativo dell’opera del Balzac nel suo complesso — e questo per giudizio di lettori di oltre un secolo, insieme con quelli di Papà Goriot — è un elemento da tener presente nel considerare la figura e la produzione del romanziere francese.

  L’autore cercava animosamente un vero successo letterario con Eugénie Grandet, dopo quello delle Scene di vita privata del 1830. Un grande scandalo — che ebbe la sua utilità per far largamente conoscere lo scrittore nei salotti e nelle relazioni con l’ambiente letterario e culturale di Parigi — fu quello della Fisiologia del matrimonio, del 1829. Anche La pelle di zigrino, coi suoi elementi romantici e la tendenza al misterioso e all’abnorme, che saranno largamente sfruttati dall’autore con la creazione di personaggi come Vautrin e altri malfattori energetici e passionali, ebbe un notevole posto nei gusti del pubblico nel 1831. Si potrebbe dire che dalla fortunata riuscita di alcuni dei libri ora citati il Balzac potè abbandonarsi, come uno scolaretto uscito di collegio (come egli fu in gioventù), al fascino del lusso, alla moda del dandysme, ai brividi dell’applauso del popolino e all’ammirazione dei salotti (compresi gli amori con dame titolate o di ragguardevole posizione sociale). Che poi il Balzac aderisse proprio nel 1832 alla fazione neolegittimista e ponesse le basi delle sue “idee” politiche e sociali in un modo che non era certo il più abituale in quel periodo storico anelante a riforme e finito in nuove rivoluzioni, nel febbraio e poi nel giugno 1848, è argomento degno di considerazione: non deve però distrarre il lettore di oggi nel giudicare nel suo complesso l’opera romanzesca dell’autore e nell’avvicinarsi, attraverso una traduzione, ad un capolavoro. Esso è meritevole di attenzione, sia perché rappresentativo di un gusto storicamente ben caratterizzato, sia perché dotato di qualità che attirano interesse, anzi simpatia, per gli stessi elementi della sua prosa. Questo risultato è da ritenere positivo: le stesse critiche limitative vanno tenute presenti, ma alla fine sono pur da dimenticare di fronte all’innegabile validità di un successo che non era solo momentaneo. Così nella gran massa dei romanzi scritti allo scopo di dipingere la società francese, fra il 1831 e il ‘42 (e in questo anno venne trovato il titolo definitivo di Commedia umana per l’intera opera ciclica) Eugénie Grandet mantiene i suoi pregi: anche se è necessario mettere da parte, più di una volta, il solito ritratto di un Balzac creatore di caratteri di eccezione, si possono assaporare fin dalla descrizione della cittadina di Saumur alcune delle più intime e segrete qualità dello scrittore.

  Il Balzac descrittore e “visionario”. L’opera dello scrittore è rappresentata in modo sorprendente dalla Commedia umana, opera così complessa da essere stata studiata con metodi di classificazione cronologica e ideologica: si è pensato ad un’esigenza scientifica di sistemazione. Naturalmente si è tenuto conto — dato il ciclo che è stato interrotto dalla morte dell’autore, poco più che cinquantenne — anche dei progetti e degli abbozzi. Senza scendere ad esaminare questioni particolari, conviene seguire la traccia di quanto è indubbiamente fondamentale nel valutare l’eccezionale sforzo di Balzac nel rendere la società del suo tempo: in questo schema di classificazione servono i quadri delineati da miss Ethel Preston e da Marcel Bouteron, e accolti da Philippe Bertault in un suo semplice e limpido manuale introduttivo su Balzac: l’uomo e l’opera, uscito nel 1946 e rielaborato in seguito. Il primo dei tre settori in cui si può dividere la Commedia umana è quello degli “Studi di costume” (con cinque parti: I, Scene della vita privata; II, Scene della vita di provincia; III, Scene della vita parigina; IV, Scene della vita politica, e V, Scene della vita di campagna). Il secondo settore è quello degli “Studi filosofici” e il terzo quello degli “Studi analitici”. È evidente come il primo settore sia quello più ampio (almeno per quanto ci ha lasciato l’autore nella sua instancabile attività, stroncata dalla morte), ma non è da trascurare, per la complessità dei motivi letterari e filosofici (come risulta dai titoli degli ultimi due settori), la singolare adesione dello scrittore sistematico, tale da sviluppare premesse fin misteriosofiche della sua giovinezza. E questo serva a mettere in evidenza che il Balzac vantato come “padre del realismo”, ma anche chiamato “visionario” con molte ragioni dal Baudelaire (per accenni che la critica da Ernst Robert Curtius a Albert Béguin svilupperà nel nostro tempo), aveva nettamente mostrato come il mondo reale fosse un dato da esaminare dietro i principi estetici e morali. Tanto meno si può ora valutare l’intero ciclo della Commedia umana come uno specchio storico della Francia, dalla Rivoluzione al 1845: vi è invece segnata la traccia di passioni e di ideali di varia natura in un intreccio veramente singolare ed inconfondibile. S’intende che l’influenza del Balzac con tutto l’armamentario storico e cronistico del suo ciclo è stata immensa sui contemporanei e sui posteri: basti pensare, con diversi intenti, ai cicli di Zola, di Proust e, ai nostri giorni (almeno per riflesso di un modello irraggiungibile), a quelli di Romains, di Duhamel e di altri vari.

  Si è detto che i romanzi di giovinezza e le opere diverse sono più consultate che lette; si aggiunga che l’Epistolario, iniziato nella raccolta complessiva da Roger Pierrot nel 1961 con l’annuncio della pubblicazione di almeno quattrocento lettere inedite, sarà certo argomento di studio da parte degli specialisti. (E largamente ne ha tenuto conto, nelle sue minute ricostruzioni biografiche, il più erudito balzacchiano che abbia l’Italia del nostro tempo, Raffaele de Cesare). Ma non è meno evidente che il pubblico si avvicina, almeno per spirito di collezione, alla raccolta degli scritti della Commedia umana. Nel testo curato dal Bouteron fra il 1935 e il ‘37 in dieci volumi nella “Bibliothèque de la Pléiade” (anche con successive ristampe), questa pregevole raccolta, munita di indicazioni bibliografiche e di note illustrative, è stata la più diffusa nel mondo in questi ultimi trent’anni, anche per le sue doti editoriali di maneggevolezza. Non sarebbe certo possibile fare viaggi, specialmente in aereo, con le opere complete in testi ottocenteschi di grande formato e di carta pesante. Ed una specie di complemento editoriale è stato aggiunto nel 1959, nella medesima collezione, con un volume che contiene le Sollazzevoli istorie (per così rendere il pur composito e celebre titolo di Contes drolatiques) a seguito della Commedia umana — appunto con una XI parte —, le “Opere abbozzate”, secondo gruppo, e le “Prefazioni”, a cura del Pierrot (che ben ha conchiuso, nella suddetta impresa, l’opera del compianto Bouteron); a sua volta Fernand Lotte vi inserisce un suo indice delle persone reali e delle allusioni letterarie e un indice dei personaggi fittizi della Commedia umana. (Il volume è stato migliorato nella seconda edizione del 1965, e si è tenuto conto dei contributi della pubblicazione spedale dedicata allo scrittore — “L’Année balzacienne” — a modo di annuario, ad opera di Jean Pommier e di altri a partire dal 1960).

  Tutto questo apparato editoriale non esclude che il lettore si possa trovare intimorito da più migliaia di pagine di minuta composizione dell’intera Commedia umana e che sia viceversa attirato dai titoli dei singoli capolavori sulla sovraccoperta. Così nel volume III, fra Ursule Mirouët e I celibi spicca proprio Eugénie Grandet. Le altre opere — compreso Il parroco di Tours — sono meno universalmente note. Si potrebbe però anche dire che qualche fortunata riduzione televisiva, ai giorni nostri, ha attirato l’attenzione su gruppi di romanzi ed ha favorito la lettura diretta (nell’originale francese o in traduzione italiana) di alcuni libri di innegabile valore documentario. Nel qual caso si torna all’opinione — che a Parigi fu espressa in congressi letterari al Collège de France — che gli storici di mestiere trovano più interesse nella lettura della Commedia umana per le trasformazioni della società francese, con dati statistici e psicologici che si direbbero moderni sotto la sfera della sociologia, che non nei libri di storia propriamente detti. In un altro senso, cioè nell’esame dell’individualismo romantico, è stata detta la stessa cosa per Stendhal e Il rosso e il nero proprio nel valore di “cronaca”. E qui viene in aiuto quella classificazione della Commedia umana messa dal Bertault al termine della sua piccola monografia: e, fra i due romanzi poco fa citati, proprio Eugénie Grandet è all’inizio delle Scene della vita di provincia. Forse non sarà senza interesse ricordare che una riduzione televisiva italiana riguardava il gruppo finale dei romanzi di tali Scene, cioè Illusioni perdute (composto di tre libri: I due poeti; Un grand’uomo di provincia a Parigi e Le sofferenze dell’inventore). Ma il triste e pur rassegnato finale — quello del ritorno alla provincia, ritenuta infeconda e ingrata — non fa dimenticare le ebbrezze dei successi parigini, e gli amori, e le sale dorate e le tentazioni e i piaceri della Capitale. Invece Eugénie Grandet è tutta provincia. Lo stesso cugino Charles — con la partenza e poi col fortunato ritorno dalle Indie — è solo un motivo connesso con la storia della purissima creatura che dà nome al romanzo. Illusioni e rinuncia al mondo maturano in Saumur, città che oggi non potrebbe essere definita triste, seppure le giovani “si lagnino” del luogo, come ha voluto dire Félicien Marceau in un brillante repertorio ragionato su Balzac e il suo mondo, del 1955. (E per complemento si ricordi, del Lotte, il Dizionario biografico dei personaggi fittizi della “Commedia umana”, uscito nel ‘52 con una premessa del Bouteron. Ma si osservi che lavori del genere sono un po’ condotti in una sfera positivistica che “entomologizza” o “botanizza” immagini e sentimenti espressi dal Balzac in modo inconfondibile e magari contraddittorio, per questo o quel mutamento di psicologia a distanza di anni, nella varia vicenda dei personaggi: che furono calcolati in duemila, con tutti i loro “ritorni”, come se si fosse alle soglie d’un nuovo Giudizio universale). Ciò che allo specialista del mondo letterario e, anche, filosofico (o almeno culturale) del Balzac, è chiaro dal confronto di testi e abbozzi e piani nella visione d’insieme d’una Commedia umana non interamente composta, offre invece difficoltà al lettore che ha bisogno di una concezione tutta calata nell’arte ed unitaria nella sua realizzazione. Forse a lui non sfuggono le diseguaglianze di ispirazione (tra la prima parte di Eugénie Grandet, ad esempio, e tutta la storia, compresa quella di papà Grandet fino alla morte); ma non nega mai la sua simpatia per uno scrittore che ha saputo così schiettamente evocare la “vita di provincia” da interessare ancora oggi in condizioni ambientali così differenti. Vuol dire che anche nella costruzione “visionaria” di papà Grandet e in quella sentimentale e (tradizionale) di Eugénie ha visto due facce della stessa medaglia: l’una, esagerata nel senso dell’avarizia e, l’altra, spinta agli estremi della costruzione (non meno visionaria) della purezza e della rinuncia. Le due creature, anche se psicologicamente su un piano diverso nell’animo del lettore, hanno una potenza di immaginazione che va tenuta presente nel loro valore complementare. Nello stesso settore d’un Giudizio universale della Francia della Restaurazione c’è posto per demoni d’inferno e per angeli di paradiso: con un sol colpo d’occhio si può fare riferimento alla ispirazione dantesca di Michelangelo nella Cappella Sistina e alle ambizioni antagonistiche, coscienti  o meno, del Balzac, in special modo nel soggiorno romano sotto l’influenza del dotto Michelangelo Caetani quando verrà rielaborando il piano d’insieme del suo ciclo.

  C’è una frase del Balzac, più volte citata dagli studiosi, in riferimento a Napoleone, a Cuvier e a O’ Connell: “Quanto a me, avrò portato tutta un’intera società nella mia testa!”. Questa osservazione, che innalza l’autore ad una sfera mitica, va però valutata nella sua importanza, proprio in merito alla natura della sua arte, non al materiale da lui variamente modellato al fine della creazione. Definito Balzac come il Buffon della società francese della Restaurazione e della Monarchia di luglio, non è pertinente insistere sui motivi realistici della sua “storia”: anche se molte impressioni e suggestioni della vita dell’epoca sembrano ispirate ad un esame da cronista. Egli avrebbe tramandato ai posteri uno “spaccato” d’una società in evoluzione. Vinti e vincitori, nell’agone del mondo che va dagli Chouans ai banchieri di Luigi Filippo, sono visti in un modo unitario. E qui è opportuno tener presente la considerazione già menzionata: quella di un Balzac visionario, che deforma la realtà nella prospettiva irreale di ambienti e caratteri in scarso legame con la realtà dei suoi tempi, anche se essa fu molto complessa, dalla Rivoluzione all’età napoleonica e alla successiva storia, di regime in regime. Il Croce, nel saggio raccolto in Poesia e non poesia, ha ricordato come un motivo assai degno di considerazione (e anche di condanna per persistenti indussi del primo romanticismo e dello stesso preromanticismo nel suo insieme) quel tendere allo straordinario che fu dello scrittore. Né va dimenticato che proprio il Sainte-Beuve, che senza ritegno notava i difetti del Balzac sia per la composizione, sia per lo stile in generale, si lasciava poi sfuggire il meglio dell’autore. Se oggi poi teniamo presenti gli sviluppi critici di Ernst Robert Curtius e di Albert Béguin, già ricordati, anche l’osservazione del Baudelaire sull’“ardore vitale” del Balzac ha il suo giusto rilievo: perché tale ardore si diffondeva in tutte le sue creature e ne permeava la vitalità artistica. Come lo scrittore sogna a occhi aperti nel credere il legittimismo unica salvezza per una Francia uscita dalla Rivoluzione e dall’età napoleonica, così immaginava personaggi chimerici, enormi nelle fattezze, irreali nella vicenda. Ma anche in questo continuava la tradizione del romanzo “nero” della Radcliffe e del Lewis, come faranno altri dal Sue all’Hugo. Era un motivo romantico che aveva origini nella misteriosofia del Settecento, nella costruzione dell’Universo, nell’opera dell’Uomo: titanismo che si confondeva col satanismo, e magari con l’apologia dei forzati, caratteri di eccezione. Anche Stendhal farà suoi alcuni di questi elementi e perfino la figura di un’Italia dei veleni e dei pugnali — per una alfieriana pianta-uomo più forte nella penisola che non altrove — avrà la sua ragion d’essere. Il creatore di Rastignac e di Vautrin (quest’ultimo un autentico galeotto da bagno penale con radici nella realtà) potrebbe mostrare in simili caratterizzazioni arbitrarie uno dei difetti più vistosi. Ma in tal modo anche un Balzac creatore di caratteri (sia pure in atmosfera romantica) prendeva consistenza: almeno di fronte a Dante e alle sue figure di Farinata, di Capaneo, di Ulisse. Tutte si sarebbero potute vedere — come disse il De Sanctis per Ulisse nella Commedia “divina” — emergere come piramidi in mezzo al fango. Insistere però in queste osservazioni vorrebbe dire preferire in Balzac l’abnorme, l’insolito, l’occasionale. La fortuna del romanziere presso gli ammiratori del Lautréamont (pur con tutte le limitazioni del caso) ha qualche ragion d’essere: e, del resto, l’autore dei Canti di Maldoror con una lieve modificazione aveva tolto il suo pseudonimo dal protagonista d’un romanzo del Sue, Lautréaumont, del 1837.

  A limitare quanto di arbitrario può annidarsi nella concezione ciclica della Commedia umana (almeno dal momento in cui l’autore pensò all’organicità strutturale della sua impresa) può valere la considerazione che proprio Eugénie Grandet, al pari di Papà Goriot, è un romanzo steso prima del piano d’insieme. In più, va osservato che di intere opere che si potrebbero chiamare cicliche anche prima di Balzac, come le Memorie di un uomo di nobile condizione dell’abate Prévost, rimane interamente vivo solo un libro — e di piccola mole — come Manon Lescaut. E quanto a Zola e a Proust, non tutti i volumi dei Rougon-Macquart o di Alla ricerca del tempo perduto conservano un identico valore. A maggior ragione, per il Balzac, che solo in un secondo tempo pensò a raggruppare e sviluppare il complesso dei romanzi in un ciclo d’insieme, vale la legge per cui un libro è vivo per il suo intrinseco ed effettivo mondo, non per le concezioni dell’autore.

  Si è tanto detto della potenza immaginativa di Balzac, del senso della vita che entra prepotentemente nella sua opera (anche nelle ambizioni e nelle illusioni dei personaggi, sia trionfatori sia falliti) che potrebbe piacere un ritorno a Eugénie Grandet come al libro della purezza e della rinuncia (e in un modo assai più consentaneo e naturale che non nel pur celebrato Giglio nella valle). Non si tratta solo di cogliere grandiosi caratteri, ma parole di umili, sentimenti soffocati, pensieri inespressi. (E in questo il romanzo di Balzac, all’infuori degli eroi della giornata, ha tanto di moderno per una ricerca di sincerità, di modestia, di bontà). L’aver sempre visto il Balzac come creatore di caratteri di eccezione ha fatto mettere da una parte lo scrittore che si è soffermato su personaggi di minor consistenza, almeno nel fatto tradizionale della prosopopea letteraria. Ma con Eugénie Grandet, dove la purezza e l’idealità sono spinte all’estremo (con una caratterizzazione irreale: anche se in un mondo relegato in provincia) sussistono gli elementi di un Balzac “visionario” allo stato puro: appunto nel contrasto con papà Grandet, accanito ed avido affastellatore di ricchezza da non potersene staccare che in morte. (E in modo tragico, anche quella volta, quando dice alla figlia — erede delle sostanze — che, nell’amministrazione del patrimonio, essa dovrà rendergli conto nell’al di là!). Ma è forse tempo di parlare direttamente del romanzo, proprio alla soglia della sua traduzione italiana.

“Eugénie Grandet” e la provincia francese. La grande fortuna di Eugénie Grandet (fin presso i critici cattolici e, nientemeno, presso il pur severo Sainte-Beuve che vi scorse quasi un capolavoro) indispose il Balzac: egli temeva di non essere compreso dai contemporanei proprio nelle qualità che più sentiva sue. Esse invece rifulgeranno nell’analisi della società della sua epoca e si concreteranno nel grande piano del 1841 connesso col titolo di Commedia umana. Del resto, anche la dedica dei Parenti poveri a Michelangelo Caetani (“don Michele Angelo Cajetani, prince de Téano”, alla data dell’agosto-settembre 1846) mostra che il romanziere si sente storico della sua età. Egli vedrà in un nuovo grandissimo affresco “grandezza e decadenza” e “splendori e miserie” per citare parte di due suoi titoli. Non gli sarà quindi stata accetta l’ammirazione per il ritratto di una soave creatura che gli ricordava una persona: quella Maria della dedica del 1839, sempre circondata da un alone di mistero fin che, in anni a noi vicini, André Chancerel e Roger Pierrot l’hanno identificata con una giovane signora amata da Balzac, che appunto da lei credeva di essere stato fatto padre di una bambina chiamata col cognome del legittimo marito. Per di più il romanzo mostra un fiero carattere di avaro, quale papà Grandet che pur non darà il nome al libro; e in modo particolare spicca la pittura della provincia — la cittadina di Saumur nei suoi costumi e nelle sue abitudini familiari ¬ nella prima parte dell’opera.

  Si delinea fin da questi rapidi cenni del contenuto del romanzo un modo di comporre che, pur avendo portato alla nomea di capolavoro per una fusione abilissima di elementi contrastanti, ha varie diseguaglianze. A poco serve tener conto dei giudizi ammirativi di gran parte della critica: Dostoevskij e Mauriac, forse anche in nome di un cristianesimo degli “umiliati” e degli “offesi” in una provincia che soffocava ogni slancio verso la luce, potevano essere colpiti dalla figura di Eugénie come “naturalmente cristiana” secondo le esigenze della società in cui è costretta a vivere. Che Gide sia rimasto disincantato, e ben presto, dalla lettura di un simil testo non fa specie: non vi notava alcun pimento degno di interesse per il suo gusto. Ma dovrebbe colpire la riserva (che giunge fin a essere negativa per gran parte dell’opera) di un giudice non accademico quale il Croce. Nel citato saggio, dopo aver ammirato “la stupenda pittura della casa di provincia e dell’ambiente familiare nel quale fiorisce l’affetto gentile della giovine Eugenia”, egli nota come papà Grandet e la madre e la stessa figlia si vengano “rettorizzando in tipi fissi”. Si aggiunga che con un padre, avaro maniaco, e con “un carattere senza carattere come quello del cugino fidanzato” la storia dell’amore di Eugénie “che prometteva di riuscire commovente e poetica, si sperde nell’insignificante”. Si notano anzi, mentre il romanzo precipita (quasi l’autore non avesse più materia da narrare), scorci troppo rapidi, diseguaglianze e impoverimenti di stile: e di questo si dice – con un esempio scelto bene, senza dubbio – che “in qualche punto, arieggia la prosa di un componimento di scuola”. Così il critico, dopo aver messo in evidenza la ricercatezza e l’amore dello straordinario e dell’abnorme in Balzac, finisce col colpirlo nel tallone d’Achille di una prosa che sa di cronaca. L’impressione semplificatrice (per ragioni polemiche, come denota fin il titolo di Poesia e non poesia) non è priva di valore ad una verifica filologica e tematica: e sia permesso menzionare ancora una volta Raffaele de Cesare che, nella sua ammirevole passione per il romanziere di Tours, nel 1953 e nel ‘54 pubblicò un preciso saggio sulla genesi di Eugénie Grandet e una “lettura” sui motivi artistici del romanzo. La conclusione di quest’ultimo lavoro, pur con tutti i suoi limiti all’ispirazione dell’artista, è tale che forse la sottoscriverebbe oggi il Balzac, appunto perché il fortunato libro della sua giovinezza non rientrava nel più vasto disegno creativo affrontato con l’insieme della Commedia umana. (In un primo tempo essa si sarebbe dovuta chiamare Studi sociali, in un modo che avrebbe accontentato l’autore per la vastità della materia trattata, non per il tono letterario che fu ben divinato nel contrasto, magari per ragioni di umiltà collegata con la visione della vita di ogni giorno, in merito a Dante e alla Commedia “divina” ben divisa in tre distinti regni). Piace dunque ripetere il giudizio finale del de Cesare: “se è impossibile accogliere la collocazione di Eugénie Grandet fra i capolavori della “Comédie Humaine” (o riconoscervi, addirittura, l’unico capolavoro) è pur sempre accettabile identificare in essa una fra le più interessanti testimonianze dell’arte del Balzac alla soglia dei primi grandi romanzi della maturità”. Viene quindi sottolineata la costruzione a mosaico del romanzo secondo l’esame delle fonti: essa non è senza rapporto col frammentarismo che Eugénie Grandet “scopre in sede estetica e, soprattutto con le disparità poetiche ravvisabili nella tessitura del romanzo”. Il Balzac è insomma meglio riuscito con la figura dell’avaro che rispondeva alla sua tendenza a descrivere personaggi straordinari (come sempre più si vedrà nella restante produzione): a sua volta, il tema d’amore (e si pensi che appunto l’eroina dà nome al libro) era rifatto su precedenti esempi letterari per gran parte e “sciupato da un uso che, utilizzandolo, non lo arricchiva”. E qui la trasfigurazione artistica è riuscita, “più difficile e meno felice”. Solo sopperisce alla esiguità delle fonti un’ispirazione sorretta da vivi ricordi autobiografici dell’autore: ma essi non furono tali da creare, dice il critico, un capolavoro rappresentativo.

  Al sentire tanti giudizi limitativi (mettendo da parte il disappunto dello stesso autore per le eccessive approvazioni da parte del pubblico per il suo romanzo finalmente regolare e tradizionalista nella figura dell’eroina eponima) il lettore di oggi rimane perplesso. Si potrebbe osservare che la fortuna dell’opera non è del tutto collegata con le doti artistiche sue, e che essa si è diffusa in ogni ceto del pubblico, come da noi in passato certi romanzi popolari hanno avuto una accoglienza più che calorosa e affettuosa, solo paragonabile con quella data ai Promessi Sposi (e, quanto alle parti storiche, più per assentimento verso la scuola che per intima convinzione). Tutto questo non esclude però che Eugénie Grandet — al pari di Papà Goriot, forse dotato di elementi più decisivi in fatto di realizzazione artistica – sia sempre stato considerato un libro tipico nella produzione ciclica del Balzac. Proprio perché stava a sé: ed era un condensato di motivi diversi, ma non discordanti, non solo di quel che il romanziere voleva fare con la sua penna, ma soprattutto di quello che aveva fatto. Trattandosi di un romanzo di un trentatreenne, aveva molti elementi di una felice giovinezza che era passata, senza sciuparsi, ma quasi facendo le prove con vari pseudonimi — come Horace de Saint-Aubin e Lord R’ Loone (sic) fra il 1822 e il ‘25 — con opere singolarmente romantiche nei difetti e nei rari pregi quali Il vicario delle Ardenne (col suo seguito Annetta o (sic) il criminale) e, fra vari altri, Wann-Chlore. La riproduzione in facsimile fatta pochi anni fa (e conchiusa da un volume critico di Pierre Barbéris, Alle fonti del Balzac, del 1965) serva almeno a mostrare il lungo cammino compiuto da un artista diseguale e irrequieto quale il Nostro. Un libro come Eugénie Grandet è, pertanto, un vero punto di arrivo in quel 1833. Del resto, le numerose ristampe (escludendo quelle che possono avere necessità scolastiche) indicano un favore che — sia per i pregi, sia per i difetti — non è mai venuto meno. Basti segnalare, nel testo francese curato e presentato dal Pierrot, un’edizione fiorentina integrale del 1959 e una traduzione italiana, condotta da Maria Luisa Belleli con prefazione e note, con sedici tavole a colori di Aligi Sassu, a Roma nel 1964.

  Sulla divulgazione, a dir poco eccezionale, del romanzo in ogni parte del mondo (forse anche sulla scia di Paul e Virginie di Bernardin de Saint-Pierre) ci sarebbe da parlare molto senza concludere con un giudizio di valore; ma non si vorrebbe osservare che i difetti abbiano favorito un omaggio al Balzac preparato da altre opere di autori minori. Un po’ come capiterà anche ai Miserabili dell’Hugo, letti da taluni con lo spirito con cui si affrontano opere del Sue, e non crediamo opportuno menzionare celeberrimi titoli di romanzi di autori italiani dell’Ottocento per spiegare come il capolavoro del Manzoni penetrasse in alcuni ambienti popolari. Del resto, anche l’ammirazione del giovanissimo Leopardi per Il cimitero della Madeleine di J.-J. Regnault-Warin (opera che ebbe un’immensa diffusione in Italia come romanzo pseudostorico e filomonarchico, dai primissimi del secolo XIX in poi) sta pur a significare qualcosa nel campo della psicologia dei lettori di un dato periodo. Non si consideri quindi il Balzac avulso da una simile atmosfera in un momento in cui in Francia ben pochi romanzieri di valore (se si tolgono Stendhal, su cui torneremo presto, e l’Hugo di Nostra Signora di Parigi del 1831) hanno una vera produzione letteraria a pochi anni dalla proclamazione del romanticismo, cioè dal fatidico 1830, che segna l’avvento della Monarchia borghese.

  Varia nella sua complessità è l’opera ciclica del Balzac. La Commedia umana nella sua totalità è quanto di meglio rappresenta uno spirito creatore la cui fatica venne anzi tempo interrotta dalla morte. Nondimeno quando si deve scegliere un esempio probante per l’arte del Balzac, si pensa a Eugénie Grandet o a Papà Goriot. Chi scrive le presenti righe ha dovuto risolvere una perplessità del genere, quando si mise di fronte le 79 “voci” di opere del Balzac stese da vari specialisti per il Dizionario Bompiani (senza passare alla zona dei personaggi) e dovette allestire un piccolo Dizionario di centouno capolavori della letteratura francese non molto tempo fa: e scelse quindi le presentazioni dei due suddetti romanzi, rispettivamente dovute a Mario Bonfantini e a Ferdinando Neri. Fare diversamente sarebbe stato trascurare il gusto d’un vasto pubblico e proporre un’aleatoria indicazione critica per specialisti, allo scopo di promuovere un mutamento di gusto. Quasi come quando si volle — e fu l’ardito e compianto Elio Vittorini — preferire qualche madrigale del Tasso agli episodi celebri della Gerusalemme liberata. Una specie di forza d’inerzia domina anche i giudizi letterari: e non è sempre facile uscirne, in special modo allorché ci si rivolge al pubblico con nuove iniziative editoriali che hanno bisogno di larghi consensi per affermarsi. Ogni generazione si rifà una sua storia letteraria e una sua personale antologia; ma anche ai più animosi architetti dei nostri giorni non è dato mettere in pratica un aforisma tanto bello quanto irrealizzabile: quello di rifare, ad ogni generazione, tutte le città. Tanto più che già ci sono tanti mutamenti (come aveva detto con dolore Charles Baudelaire in immagini famose); d’altra parte, in una guerra più o meno manzoniana contro il Tempo, solo chi merita sopravvive nel gusto dei posteri. Almeno da questo punto di vista la fortuna del poliedrico Balzac non mira a diminuire: diversi saranno i giudizi, ma uniforme è l’ammirazione per alcuni suoi libri veramente rappresentativi. Anche Eugénie Grandet, con i suoi scorci e le sue allusioni, è romanzo degno di un autore quale il Balzac, definito romantico e realista per motivi spesso fra loro contraddittori, e sempre caro al lettore per un “amor di vita” che da ogni parte si manifesta.

  Il Bonfantini, che nel suo Ottocento francese (1950 e quindi ’66) ha fatto posto a Stendhal e a Balzac, a Flaubert e a Mérimée, non cade nel difetto che fu rimproverato anche all’ottimo Pietro Paolo Trompeo, stendhaliano d’Italia per eccellenza: di non riconoscere Balzac come “storico” del suo tempo. Il giudizio che di Eugénie Grandet il Bonfantini ha dato — compresi tutti i limiti, accertati una volta di più ad una rilettura critica — merita di essere tenuto presente, anche perché a esso è facile fare rinvio sia nel corpo del Dizionario Bompiani sia nel volumetto su indicato. Si mostra di preferire la prima parte, con la descrizione di Saumur e della famiglia Grandet. L’amore di Eugénie per il cugino Charles, colpito da tanta sciagura nella perdita del patrimonio e nel suicidio del padre, è considerato come uno degli elementi più efficaci della compagine dell’intero romanzo E qui merita di essere riletto quanto dice il critico non solo perché rispecchia un’opinio communis che ha la sua ragion d’essere, ma soprattutto perché le stesse considerazioni si fondano su nuove e dirette impressioni di lettura: “Questa prima parte è la migliore: i personaggi acquistano incomparabile rilievo, i fatti si intrecciano e sviluppano classicamente nel giro di brevi giorni, e l’amore di Eugenia è colto con una delicatezza che non fu forse mai più raggiunta dal Balzac. Il resto non è che la conclusione: la storia della vita di Eugenia, tutta condizionata da quel primo episodio decisivo, cui si contrappone il classico ritratto dell’avaro, il personaggio del padre, che va acquistando via via una terribile imponenza”. Resta qualcosa da dire per quei lettori che non avessero sentore alcuno della trama: Eugénie, ricca ereditiera, specialmente dopo la morte della madre (della quale non rivendica la parte di sostanze con soddisfazione del terribile genitore), è rimasta fedele al suo sogno d’amore, nella lontananza del cugino andato nelle Indie a tentar la fortuna. Quando ne torna avventurosamente ricco, Charles non pensa più alle promesse scambiate con la cugina (che, del resto, non sa ereditiera di tanti beni e di tanto denaro), e s’accomoda con nozze mondane ma mediocri. Eugénie, nel frattempo rimasta orfana anche di padre, paga i debiti del fratello di lui, non riconosciuti da Charles, e acconsente a lasciarsi sposare (con un matrimonio “bianco”) da uno dei suoi vecchi pretendenti di Saumur. Rimasta vedova a trentasei anni, come dice il Bonfantini, “finisce la sua vita nella solitudine, riversando in beneficenza quanto più può dei suoi tesori”. Ma lasciamo ancora una volta la parola al critico, proprio per il carattere rappresentativo della sua “voce”: “Debole, affrettata in questa parte, l’opera tuttavia splende di una forza d’arte incomparabile: il personaggio di Eugenia e quello del padre sono giustamente considerati fra i più felici della numerosissima schiera dovuta alla penna di questo genio creatore. Lo stile appare qui non meno mobile, penetrante c sentito, e senza dubbio assai meno minuzioso e greve che non in molte altre opere dello stesso romanziere, il quale non si è abbandonato quasi mai a quelle troppo lunghe digressioni moralistico-sociali, che conferiscono interesse a molte delle sue opere ma ne alterano la pura linea”.

  Questa la conclusione della “voce” stesa dal Bonfantini e largamente nota ai lettori. (E di essa facciamo menzione, anche se molti che disdegnano manuali divulgativi e bibliografie, poi mostrano di farne uso per i loro stessi lavori invece di ricorrere alle pure fonti del sapere: eppure, come per la quercia caduta del Pascoli, a tutti viene beneficio). Ma anche nel suo Disegno storico della letteratura francese, di recente data e più volte riedito, il critico definisce Eugénie Grandet: “il grande romanzo romantico d’un amore che durerà quanto la vita dell’eroina, a dispetto d’ogni delusione, dove si trova al contempo il più celebre ritratto di avaro della letteratura occidentale, ‘le père Grandet’”. E a questo proposito, dato il carattere pedagogico assunto per più generazioni da schemi e giudizi di storie letterarie, giova aver sott’occhio per l’Italia quanto si legge nella notissima Storia della letteratura francese di Carlo Pellegrini, del 1939, e in tutte le successive edizioni: “Eugénie Grandet è il romanzo dell’avarizia in contrasto colla gentilezza degli affetti più puri: Eugénie è una soave figura di donna che soffre in una casa di provincia, trovandosi fra un padre che è dominato celebri esemplari di questo tipo tradizionale”.

  Questi giudizi sono sostanzialmente di natura letteraria, e tengono conto dei modelli classici attinenti alla raffigurazione dell’avaro, da Plauto a Molière. Ma se, per l’amore e il vagheggiamento di una soave creatura, il Balzac ha fatto tesoro della sua esperienza autobiografica, per il restante mondo di Saumur — vera provincia, nonostante i ricordi degli Ugonotti e di Duplessis-Mornay — non è da negare che l’intera vita contemporanea è entrata, con irruenza, con prepotenza, con insistenza nella compagine del romanzo. Tutto questo è rammemorare e tanto più se si considera che la stessa provincia analizzata dal nostro romanziere è pure valutata e giudicata (con diversi intenti) da Stendhal. Il libertino Henri Beyle, che osò solo in qualche documento mettersi quella particella nobiliare che Honoré Balzac si appropriò con baldanza, proprio ne Il rosso e il nero (del 1830) e nell’incompiuto e cosiddetto Lucien Leuwen (composto dal 1832 al ‘35) sottopone ad una rigorosa indagine di caratteri e di ambienti la società francese; egli investe tanto il mondo della Restaurazione nella sua “cronaca del secolo XIX” (come dice il sottotitolo de Il rosso e il nero) quanto gli ambienti conservatori e il sottogoverno della Monarchia di Luigi Filippo nelle pagine che sono state pubblicate postume. Sono quindi due province differenti e Saumur di Balzac ben vale Verrières immaginaria di Stendhal per restare al romanzo di Julien Sorel. Cade quindi opportuno esaminare il valore di provincia in Balzac, anche se questa definizione, nell’ambito della Commedia umana, non ha il significato energetico che assume — per la preparazione alla vita e alla conquista in società, anche senza successo — in Stendhal, estraniato, al pari del suo allievo Mérimée, in una società troppo diversa da quella sognata dagli illuministi e dagli uomini della Rivoluzione.

  La società di Saumur (e, in genere, della provincia francese) è retriva in Balzac. La sua conoscenza dà un senso di disagio. E questo va a scapito del romanzo, che sta come in un angolo molto remoto nella struttura d’insieme del ciclo. Ma vien bene — per fare una nuova citazione di lettori moderni — ricordare quel che scriveva il giovane Antonio Banfi al suo fraterno amico e collega Mario Rossi nel 1913, a poca distanza dalle sue lauree in lettere e in filosofia, e da un perfezionamento a Berlino e agli inizi del suo insegnamento nei licei: “Mi son preso Eugénie Grandet di Balzac. Lo trovo pieno di buone intenzioni e di ottimi principi e savoir-faire, ma non mi so entusiasmare. Io credo che si tratti proprio di una forma mentis intollerante della finesse francese. Dopo vorrò vedere la Chartreuse de Parme di Stendhal. Guarda che di Taras Bulba di Gogol c’è una traduzione francese edita dagli Hachette”. Questa singolare citazione merita di essere segnalata ai cultori di Balzac, perché non andranno mai a cercarla in un saggio di Paolo Rossi, figlio di Mario, su Hegelismo e socialismo nel giovane Banfi, apparso in una rivista filosofica nel 1963 e quindi, a modo di prefazione, a pagine del Banfi stesso su Hegel nel 1965. Anche se inserita in una pubblicazione di tutt’altra natura, almeno a stare alle classificazioni tradizionali, la testimonianza suddetta merita di essere apprezzata nel suo interesse sostanziale: la documentazione di un disagio di natura, si potrebbe dire, sociologica. Il giovane filosofo aveva colto il lato letterario del Balzac nella costruzione della figura dell’avaro Grandet e nella contrapposizione della sua figliola tanto aliena dall’egoismo del denaro, e non poteva valutare gli elementi negativi — antirivoluzionari — di Balzac con un Grandet che fa fortuna coi beni nazionali e simili considerazioni.

  La stessa analisi della provincia francese ha condotto — con più vasta ricerca e con precisi intenti critici — il già citato Bardèche che, nei suoi noti libri su Stendhal e su Balzac, ha messo in luce la valutazione di un mondo antirivoluzionario, non sempre apprezzato dalla critica dei nostri giorni, anzi qualche volta duramente combattuto per ragioni ideologiche. Lasciata da parte la ricca monografia su Balzac romanziere, resta da prendere in mano un altro vivace e suggestivo libro, frutto di venticinque anni di familiarità con l’opera dello scrittore: Una lettura di Balzac, del 1964. È uno studio d’insieme non entrato ancora nel giro delle citazioni letterarie d’uso, anche per il fatto di essere di troppo recente data. Le nostre referenze poi hanno lo scopo di rendere più note alcune delle meditazioni fatte dal critico, a corollario dell’opera maggiore sul Balzac romanziere, del 1941. Del resto, questo studio d’insieme parte da alcune premesse che investono tutta la Commedia umana: la vita è analizzata da Balzac come un mondo naturale in preda a passioni, a smodatezze, a vizi proprio per una carica di elettricità (parola di grande efficacia nel tempo suo) dovuta alla stampa, alle idee politiche, alle guerre, alle ambizioni. In questa lotta per l’esistenza ci sono vincitori e vinti. Ma come si è già detto, Eugénie Grandet — proprio nella zona isolata delle Scene della vita di provincia — partecipa solo di riflesso al mondo vorticoso e conturbante scatenato dalle passioni seguite alla Rivoluzione e dallo sconvolgimento di un’intera società. E perciò nella sua trattazione il Bardèche, ad un certo momento, ricorda le acque più calme della Commedia umana, in “quelle cittadine di provincia dove le passioni s’incrostano insensibilmente, dove le volontà si comprimono nel silenzio, dove ogni avvenimento fa rumore e onde come una pietra gettata in una palude” ed accenna ai “cantoni subdoli e segreti della vita provinciale”. Se nelle Scene della vita politica si nota l’azione immediata degli eventi a modo di terremoti (con un paesaggio dove “la sofferenza e la catastrofe sono leggibili”), le Scene della vita di provincia sono ciò che la geografia chiama penepiani: il tempo fa sparire i contrasti, arrotonda e acquieta tutto, anche se all’origine c’è lo stesso evento geologico. In tal modo i fatti della storia sono un elemento “la cui importanza è mascherata da interessi, da spettacoli e da accidenti estranei che sono il vero soggetto. La storia è unicamente sfondo”. E subito c’è la riflessione che andava fatta per Eugénie Grandet: che la presenza del passato è sensibile anche in un romanzo calmo come quello; e, “insomma, la politica spiega la fortuna di papà Grandet”.

  I temi del romanzo e la figura della protagonista. L’esame che il Bardèche fa del romanzo, potrebbe non essere condiviso per il disdegno mostrato (del resto, sulla traccia delle idee espresse più volte dal romanziere) nei riguardi degli effetti sociali della Rivoluzione francese. Ma è innegabile che l’indagine condotta sui personaggi minori che reggono la cosa pubblica a Saumur – e su chi sa profittare della nuova situazione, fin che gli è possibile, e poi va avanti per forza propria nei suoi affari, come papà Grandet – è magistrale. Si dice appunto che “la geografia sociale della provincia, per il fatto che sostiene il comportamento del nuovo ricco, è fornita dalla liquidazione della Rivoluzione. Ciò non conta nel dramma, è semplicemente il suolo sul quale si cammina, ma è il suolo sul quale si cammina, non bisogna dimenticarlo”.

  Qui è evidente la diversa valutazione del termine “storico” dato al mondo del Balzac. Egli ben coglie — dietro concezioni alla Joseph de Maistre — gli sconvolgimenti della società, i suoi rapidi e infecondi mutamenti, le inevitabili rovine. Il Balzac con grande disinvoltura verso i fatti storici (dice il critico: e aggiungiamo con un soverchio disprezzo delle idee di progresso e di civiltà legate agli sforzi del Popolo in nome dell’Illuminismo e dei principi dell’89), deforma gli avvenimenti: per farli più veri, li modifica. Ma, per la natura dell’arte, questa qualità non può essere negata. A buon diritto il Bardèche ricorda, a chi non lo sapesse, che “Walter Scott era prima di tutto uno storico nel romanzo storico, e Balzac in esso fu anzi tutto un romanziere”. La diversa consistenza delle loro opere lo sta a dimostrare.

  Per soffermare l’attenzione su Saumur, nella cui descrizione si apre il romanzo di Eugénie Grandet con mirabili pagine, è da considerare come la calma provincia sia la zona più lontana dalle agitazioni parigine, che hanno visto tante ambizioni e tante rovine. Si sente appena, dice il Bardèche, che è “la provincia di un paese in convalescenza”. E qui il critico affronta proprio alla base la concezione del realismo collegato con una abusata definizione dell’arte di Balzac: e si dice che non si tratta certo della provincia di Stendhal “che ha la politica a fior di pelle”. E la differenza — appunto fra Saumur di Balzac e Verrières di Stendhal — è già un primo enigma. Lo stesso Balzac ha parlato di “vita privata”. Quindi la storia “vi tiene il solo posto che essa occupa nella maggior parte delle vite private, che è ben poca cosa”. E qui il Bardèche spinge la sua analisi fino alla constatazione più lontana della tradizione di molti giudizi letterari; si nota il silenzio e l’apparente assenza del “sistema” dell’autore e così è lasciato il romanzo come allo stato puro, posto su un ciglio. Si può pensare a monografie staccate dal pensiero centrale del Balzac, e in tal modo Eugénie Grandet è “all’incirca totalmente in margine alla Commedia umana”. Questo spiega come il romanziere si indisponesse al sentir parlare bene del libro: “egli sentiva che era un modo di non parlare di lui”. Nondimeno lo stesso critico deve confessare che i vari romanzi delle Scene della vita di provincia hanno una grande suggestione nel loro insieme come panorami di costume. E se Grandet regna a Saumur con la sua potenza di uomo di affari e di intrighi di varia natura, “il regno di Grandet a Saumur è così grave quanto quello di Nucingen a Parigi”. E si aggiunga, quanto alla grande casa bancaria, che, per una sorta di Nemesi della Commedia umana, lo scialbo Charles Grandet — che disilluderà l’ingenua cugina dimenticando il suo amore — finirà danneggiato nel terzo fallimento della Casa Nucingen (appunto ne La Maison Nucingen) perdendo circa mezzo milione di franchi. Per chi ama veder collegati i personaggi del ciclo e gradisce i loro “ritorni”, anche questa notizia ha il suo valore se collegata con Eugénie Grandet. E ancora il Bardèche insiste sul “trionfo dei mediocri” nella vita di provincia e sul giudizio negativo dato dal Balzac sulle varie novità imposte alla società francese dalle leggi rivoluzionarie. Non è più la saggia provincia dei secoli passati (e qui il critico meriterebbe ancora una volta il titolo di “nostalgico” che gli venne affibbiato dal Benedetto per il suo libro su Stendhal romanziere).

  Le cure dell’autore per il suo romanzo sono meno note di quanto risulti dalle osservazioni della critica sullo stile. Non sarà inutile considerare, che a partire dalla terza edizione del 1843, vennero soppressi il Préambule e la Post-face delle edizioni del 1834 (in realtà, dicembre 1833) e del 1839. Tali scritti avevano la data del 1833 e ora si possono leggere, ad esempio, in appendice all’edizione fiorentina del 1959, già ricordata: e s’aggiunga, per indicarne l’importanza, che è apparsa in una collezione diretta da Antoine Adam, della Sorbona. Le varianti meritano di essere studiate, anche se spesso sono legate a questioni meramente pratiche, ad esempio la cronologia dell’epoca e dei singoli personaggi. Al fine poi di considerare Eugénie Grandet come un’opera a sé (come fu appunto con la seconda edizione del 1839) si ricordi che l’edizione originale del romanzo apparve nel primo volume delle Scene della vita di provincia il quale costituiva, a sua volta, il tomo quinto degli “Studi di costume nel XIX secolo”. L’impresa editoriale del 1839 (con una copertina alla data del '40) faceva parte di un complesso di 14 volumi di opere del Balzac in piccolo formato e a prezzo ridotto: la nuova edizione era riveduta e corretta, come da dichiarazione. Finalmente col testo del 1843 – quello da tenere per base con le correzioni di un esemplare dell’autore, conservato nella biblioteca Spoelberch de Lovenjoul a Chantilly — compare trionfalmente il titolo generale di Commedia umana. Si tratta appunto del tomo V che contiene inoltre Ursule Mirouët e Pierrette. Su questi elementi bibliografici, preparatori per una critica del testo tanto più necessaria con un autore moderno che fu spauracchio dei tipografi per le sue incessanti correzioni di bozze, aggiunte e excursus senza fine, si fonda una buona lettura del romanzo. Come si fa coi classici di ogni tempo. E Balzac lo merita, anche se andò più dietro alle cose che alle parole e se la sua prosa non ebbe origini strettamente letterarie, ma fu suggerita dalla vita stessa e dall’esperienza.

  Quel senso della vita, quell’ardore, che spesso la critica studiò come un incentivo allo straordinario e all’abnorme in Balzac, si denota, anche nella ricerca del piccolo, della descrizione minuta. È stato detto che Eugénie Grandet è il libro dei contrasti: fra l’avaro e la soave figlia, fra l’ambiente meschino e i nobili ideali della giovane. Ma forse i più grandi contrasti — almeno con la raffigurazione tradizionale di un Balzac inventore di caratteri di eccezione — si notano proprio nelle descrizioni del romanzo, a cominciare da quella delle viuzze della cittadina di Saumur. Tanto si è parlato della mente visiva e fin olfattiva di Balzac (ad esempio, con l’odor di stantio d’una pensione, con lo scrostarsi di un vecchio muro in opere famose). Si consideri quindi anche in Eugénie Grandet la minuzia descrittiva che sa di quadro fiammingo: e, questo, nel pieno valore evocativo del termine. Se si parla di realismo, si consideri che semmai si tratta di adorazione del reale in tutte le sue particolarità compositive, come faceva notare Matteo Marangoni in non dimenticate lezioni di metodo; e si può parlare anche di quell’intimismo ottico che proprio nei Fiamminghi è stato messo in evidenza da Roberto Longhi in suoi studi critici. Poiché anche il campo della psicologia è stato se non proprio sovvertito, almeno innovato dalla psicanalisi e dalla tecnica moderna, il concetto di “realtà” ha subito, a sua volta, notevoli variazioni. Non è necessario interpretare alcuni capolavori letterari coi mezzi audiovisivi di oggi per rivelarne tutta la ricchezza espressiva, ma basti rifarsi all’esperienza letteraria e critica di Marcel Proust e di Alla ricerca del tempo perduto. Proprio il riferimento a Vermeer di Delft giova a trasfigurare il motivo della minuzia realistica dei Fiamminghi: e nel caso del Balzac — creatore delle eccezionali figure di Vautrin e di altri esseri ritenuti impossibili in natura — piace una volta di più insistere su motivi di intimismo e di meditazione nella stessa solitudine di una cittadina come Saumur. Un motivo di più per ammirare toni e movenze di Eugénie Grandet è questo carattere evocativo, sia pure nell’esigenza di fare la storia del costume e della stessa politica: non è necessario credere Balzac precursore di Proust nei toni minori, indipendentemente dalle creazioni spinte agli estremi delle possibilità della verosimiglianza umana (per quanto di mostri di ogni genere sia prodiga la nostra specie). Basti saperne godere la modulata prosa, che in uno spaccato gigantesco esamina la società e giunge a dichiarare che “la storia di Francia vi è dentro tutta intera”.

  Una minuzia del genere, almeno nelle premesse della vera azione del libro e nei vari frastagliati ricami, potrebbe indurre a credere ad una deformazione come si nota proprio in alcuni pittori, come Bruegel il Vecchio o Jeronymus Bosch. Pur senza insistere, una definizione del genere non è erronea. Posto il criterio della classificazione in Balzac (per classi e ricchezze, e quindi caratteri e vicende deterministicamente concepite: in anticipo a Zola, si direbbe), si potrebbe vedere una caratteristica di quella nomenclatura sociale di cui parla il Bardèche. Balzac è sì un naturalista preciso e metodico, ma anche un poeta, un evocatore, e (siamo sempre alla definizione di Baudelaire) un “visionario”. Per spiegare la vita degli abitanti di Saumur, si analizzano i muri delle vie e gli spigoli delle finestre. Un viso è considerato nelle sue smorfie, nelle sue rughe, nelle sue eccentricità. Qui si potrebbe pronunciare ancora una volta (come fecero alcuni contemporanei) il nome di Gavarni. Solo che la realtà volge alla caricatura, alla satira. Motivo non estraneo al Balzac (che fu perfino definito reazionario per la sua lotta contro i principi della Rivoluzione), ma inadatto a porre nei giusti termini la natura del mondo artistico del romanzo. Anche Eugénie Grandet ha un valore unitario a sua maniera: i singoli episodi saranno disarmonici nell’insieme, ma i particolari sono condotti con una omogeneità che colpisce. La tecnica del piccolo e del minimo ha il suo valore: si tratti appunto delle vie di Saumur o degli oggetti della mensa di casa Grandet, e non c’è modo di mascherare una immensa possibilità di descrizione di tutto il reale. Le pagine diverse (e piuttosto disperse, anche se raccolte) del Balzac pubblicista e giornalista mostrano un brio indiavolato nel parlare di tutto. Balzac descrive, come Leonardo disegna; lo scopo scientifico condiziona l’estro dell’arte. Né è alieno dalla caricatura a cui si accennava in alto. E, questo, per la ragione stessa delle cose. Balzac potrebbe anche dire che la provincia, rovinata dalla Rivoluzione, lo ha fatto diventare legittimista. Una metamorfosi del genere non sarebbe nemmeno l’unica, né al suo, né al nostro tempo. Non se ne faccia quindi una esclusiva colpa all’autore. Giustamente si è fatto notare come studi recenti, minuziosi e eruditi, mostrino una volta di più come Balzac sia stato influenzato da particolari della vita vissuta: un nome di città, un documento notarile, un fallimento, un processo. Tutta la vita premeva con la sua forza (potente e irregolare come è dell’esistenza tutta e dell’immensa Natura) nella mente di Balzac. Non aveva che da inquadrarne gli elementi. Da tanto lavoro dell’artista dedito al suo lavoro non doveva venir fuori un mosaico di migliaia di pietruzze, ma un affresco possente, un’opera ciclica unica al mondo. Se il lettore di oggi si sofferma su particolari a prima vista insignificanti è proprio per ammirare il prodigio di una tecnica espressiva, pari alla cura di pittori che sembrarono artigiani e decoratori perfino in parti delle loro opere non soggette allo sguardo d’intenditori, ma relegate dietro mobili di sacrestia o fra elementi architettonici. Conosciuta in età più tarda, tale perizia ha destato ammirazione per la perfetta armonia del lavoro; al pari delle rapide sinopie scoperte dai moderni, tali parti vanno godute nella loro potenza espressiva.

  Una lettura “alla fiamminga” andrebbe fatta per Eugénie Grandet. Dialoghi (che mostrano l’abilità dell’autore anche in tale settore: e ben noto è il suo teatro), descrizioni lente, scorci che si direbbero audacissimi (e ce ne sono anche in Stendhal e in Flaubert, oggi meglio valutati nelle loro innovazioni stilistiche e seguiti da non pochi imitatori): tutto giova a spiegare l’ammirazione che lettori di tutto il mondo hanno per un libro del genere. Forse per questo senso dell’umile vita di ogni giorno — fatta di idealità ma anche di rinuncia — il romanzo è intitolato all’eroina. E nei contrasti col padre e con l’ambiente cittadino meglio rifulge la traccia di un’esistenza sacrificata. Poste le linee fondamentali della narrazione e indicati i temi persistenti del narratore, non è da nascondere — proprio come avviene in certi dipinti dedicati alle vite dei santi e ai loro miracoli — un interesse per i particolari di tutt’altra natura, e magari la preferenza per fiori, animali, pietre, alberi. Come è evidente perfino da Giotto che pur tanto anticipa il senso rinascimentale della figura umana e che sempre aspira a narrare, non a decorare.

  L’ammirazione per i particolari descrittivi di Eugénie Grandet — secondo un gusto che è molto collegato con i principi estetici del nostro tempo — non deve però allontanare il lettore dall’atmosfera del romanzo ottocentesco in cui il capolavoro si inserisce. Il valore della narrazione — che è appunto un romanzo, non un diario e nemmeno un racconto nel senso abituale del termine nella critica francese — sta proprio nella complessità con cui i protagonisti sono visti nel loro ambiente. Nel caso nostro spicca l’interesse per la figura di Eugénie, almeno quanto — se non forse di più per la varietà delle vicende attraverso cui passa la sua esperienza di vita, per schiva che fosse in quell’angolo di remota provincia — quella di suo padre. Da questo punto di vista non è arbitrario parlare dei personaggi del romanzo, al modo con cui avrebbero fatto — nel pieno rispetto delle conquiste critiche moderne — un Francesco De Sanctis, un Attilio Momigliano, un Luigi Russo: indulgendo senza dubbio alla psicologia e alla valutazione episodica di alcuni particolari, ma considerando le qualità descrittive di Balzac al solo scopo di rendere appieno le figure di un quadro d’insieme.

  In questo caso — con tutte le limitazioni che comporta una specie di metodo critico enunciativo di figure e non più solo di toni e di atmosfere — è utile prendere in mano il Dizionario Bompiani nel volume complementare dei personaggi (del 1950 e successive riedizioni). Facile è notare l’importanza di Grandet, così registrato alfabeticamente e con la spiegazione che è Félix di prenome. Non insistiamo sui motivi del romanzo isolati tutti attorno alla figura dell’avaro: essi hanno lo scopo di accentuare quella tinta caricaturale (magari inconscia nella deformazione letteraria) che pervade gran parte del libro, almeno fino alla prima metà: dopo di che si passa ai toni tragici con la morte di un avaro ossessionato e ossessionante di quella fatta. La voce è stata stesa da Mario Bonfantini, autore di quella dell’opera, come si è già riferito. Invece di un critico che è anche narratore, la voce relativa a Eugenia Grandet (appunto sotto il prenome come personaggio di fantasia nell’elenco alfabetico) è di un narratore che è anche critico: Giorgio Bassani. Per le variazioni sottilmente letterarie intorno alla protagonista del romanzo a lei intitolato, tale pagina merita di essere letta per la simpatia che desta verso intime qualità morali.

  “Figlia di un avaro e ricchissimo affarista di provincia (v. Grandet), rappresentante tipico della nuova borghesia affermatasi con la Rivoluzione, e di una mite e dolce figura di succube domestica, Eugenia ha ereditato dal padre, duro e autoritario, la fermezza del carattere; dalla madre, rassegnata e santa, la pietà e la spiritualità: in una sorta di sintesi delle qualità migliori dei due coniugi che par quasi riflettersi nella forte e placida serenità della sua bellezza casta e raccolta. Ed è appunto questa bellezza che, già centro delle mire ambiziose dei “partiti” più cospicui di Saumur, non sembra indegna dell’interesse del cugino Carlo, delicato e viziato parigino in visita agli zii provinciali, del quale Eugenia perdutamente si innamora. L’amore di Eugenia, avversato dal padre calcolatore per la sopraggiunta rovina finanziaria di Carlo, non andrà oltre la dolcezza senza peccato dei primi giuramenti di fedeltà eterna, in un primo casto bacio: e se per Carlo, sospinto dallo zio verso le Indie lontane in cerca di fortuna, il ricordo del piccolo intrigo con la cugina non resterà presto nella memoria che come una parentesi assurdamente sentimentale e romantica da dimenticare e da arrossirne ora che la vita “vera”, con tutti i suoi diritti, lo richiama alla realtà delle cose, per Eugenia, invece, questo ricordo rimarrà incancellabile, a esso ella resterà fedele come al più prezioso di tutti i suoi averi, di esso la sua vita, tutta interiore, si nutrirà per sempre, con l’abbandono fidente di uno spirito piamente religioso. La legittimità poetica di Eugenia è tutta raccolta nell’iperbole della sua vocazione di bontà, nel suo viso dolce, tranquillo e bello “come quello della Madonna”. È un personaggio costruito senza nessun lusso di perplessità psicologiche, semplice e solenne come un esempio tipico, platonico, vivo di una inestinguibile vita ideale”.

  Una caratterizzazione di tal genere è indubbiamente stilizzata e alla linearità di non scarsa efficacia unisce anche l’impoverimento dei motivi complessi del romanzo: conseguenza inevitabile di un metodo descrittivo — la tipologia dei personaggi — che è connesso con la natura stessa dell’esposizione. D’altra parte, quando si chiude il romanzo la figura dell’eroina si staglia in un mondo solitario, dove il tremendo padre e il pettegolo ambiente di Saumur e la stessa vicenda dell’amore purissimo d’una giovane e del matrimonio d’occasione che segue (quasi offerta alla società che spia e consiglia, e costringe alle ipocrisie e alle convenienze) spariscono per lasciar posto alla figura di Eugénie. Questa sembra sempre contemplare la vita, come è raffigurata in edizioni ottocentesche ricalcate da altre di oggi, e anche dalla citata edizione fiorentina, da una finestra, fra tralci e fiori di piante rampicanti. Con un abbandono, con una vaghezza che fanno di lei un’indimenticabile figura che non ha ceduto — come fa comprendere il romanzo anche nelle sue ultime parole — alle “corruzioni del mondo”.

 

 

  Gianfranco Corsini, L’impresa di Balzac, «Paese sera», Roma, Anno XX, 23 febbraio 1969; 1 ill.

 

  Si annuncia la edizione completa della «Commedia umana» di cui esce in questi giorni il primo volume — Una lettura moderna riproposta da G. Macchia.

 

  Balzac, La commedia umana, a cura di Massimo Colesanti, prefazione di Giovanni Macchia, Gherardo Casini, 1968, Vol. I, pp. 600, L. 5000.

 

  E’ fuori moda leggere, o rileggere, Balzac? Qualche teorico della «morte del romanzo» forse risponderebbe di sì; nel senso almeno di una possibile utilizzazione moderna della Commedia Umana. Tuttavia l’editore Casini sembra di parere contrario ed ha programmato di darci, nel corso di pochi anni, tutta la grande opera balzacchiana in una nuova traduzione, basata sulla edizione francese della «Pléiade». La cura del testo e delle note è stata affidata a Massimo Colesanti; il compito di documentare l’attualità dello scrittore ottocentesco è stato assunto, nella prefazione del primo volume, da Giovanni Macchia.

  Quest’ultimo, ci sembra, ha trovato la chiave più intelligente per riproporci un romanziere il quale rischia di essere travolto dai luoghi comuni del passato e delle polemiche del presente. Macchia, infatti, ci riporta a Balzac partendo proprio dalla «crisi» che fu all’origine della sua stessa opera, per provare fino a che punto la Commedia umana possa ancora rispondere agli interrogativi che ci pone la «crisi» attuale del romanzo. Egli sottolinea, però, che «non si tratta di tentare, oggi, attraverso Balzac una restaurazione formale del genere-romanzo, di cui nessuno ha mai fissato le regole». Al contrario, la esperienza di Balzac dovrebbe aiutarci ad «affrontare la crisi» nel senso di una ricerca «di forme nuove di espressione», così come fu agli inizi del secolo scorso.

  Possiamo dunque avviarci «nel gran labirinto della Commedia umana» senza temere di compiere «operazioni sbagliate», e ricercare piuttosto tra quelle pagine tutte le «invenzioni» moderne che esse preannunciavano. Nella sua famosa prefazione del 1842 Honoré de Balzac spiegava con molta chiarezza quale fosse il suo disegno, e i lettori odierni potranno verificare nei volumi di questa nuova edizione fino a che punto la Commedia Umana realizzò il grande progetto del suo autore.

  Macchia non esita a sottolineare anche quale fu lo «scacco» della immane impresa; ma parallelamente traccia un ritratto moderno, acuto e persuasivo di questo homo faber il quale «fu spettatore e interprete di una trasformazione della società che ha qualche somiglianza con il rivolgimento cui oggi assistiamo».

  Fino ad ora non era mai andata in porto nessuna iniziativa editoriale italiana tesa a darci una edizione integrale della Commedia Umana, come ci ricorda Colesanti nella sua accurata nota bio-bibliografica, e nel giro di pochi anni la presente impresa dovrebbe colmare il vuoto tuttora esistente. Ci auguriamo perciò che i prossimi volumi seguano regolarmente, a distanza di due o tre mesi l’uno dall’altro, come il piano dell’opera ha previsto, mettano Balzac nuovamente in circolazione tra un nuovo e più vasto pubblico.

 

 

  Adriano Cossio, Il Mercadet con Buazzelli al teatro Restori di Cividale, «Il Gazzettino», Venezia, 10 maggio 1969.

 

 

  Ernst Robert Curtius, Balzac. Traduzione di Vincenzo Loriga Milano, Il Saggiatore, 1969 («La cultura. Saggi di arte e di letteratura», 23), pp. 351.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mistero;

  Magia;

  Energia;

  Passione;

  Amore;

  Potere;

  Conoscenza;

  Società;

  Politica;

  Religione;

  Romanticismo;

  Opera;

  Personalità;

  Influsso.

 

  Trascriviamo alcuni passaggi tratti dal capitolo: Opera (pp. 265-296):

 

  Balzac [...] ha attuato l’idea di totalità nel linguaggio artistico grazie a un procedimento analitico e mistico, visionario e scientifico. In tal senso va intesa sia la sua opera che il suo «eclettismo letterario». Egli accoppia, per usare la formula di Goethe, l’ideale con il sensoriale. Le radici del suo mondo spirituale affondano nella plurisecolare tradizione dello spirito francese, visto nella sua interezza. Nella sua arte realizza l’idea di totalità attingendo al patrimonio culturale francese, secondo la legge architettonica dello spirito nazionale; ma proprio mentre organizza quest’idea, attua anche un’opera che corrisponde alle più profonde aspirazioni dello spirito tedesco. Balzac, infatti, fu tutt’altro che immune da influssi culturali germanici, che ricevé a sua insaputa tramite la teosofia di Saint-Martin, il discepolo di Böhme. Il totalismo germanico gli stava davanti nella persona di Goethe, oltre che in Leibniz, alla cui metafisica egli accenna già nel 1822, e che nominerà ancora nel 1842 nella prefazione alla Comédie humaine. Possiamo dire, dunque, che l’essenza spirituale di Balzac appartiene ad ambedue i paesi. La sua visione afferra la totalità degli esseri e delle cose, e cerca di concepirli unitariamente. [...].

  Non si può capire Balzac se non partendo dal concetto di totalità, intesa questa come unità di tutti i fenomeni singoli, la totalità costituisce il fondamento comune, la radice unitaria della sua personalità e della sua opera. In lui la vita, l’attività creativa è la trasformazione della sua energia vitale, e insieme è l’espressione, o, se si preferisce, l’applicazione e la verifica del suo modo di concepire il mondo o viceversa: la sua immagine del mondo è determinata dalla sua natura creativa. Si sarebbe tentati di dire che egli è sceso fino a quell’ultima profondità dove l’intuizione conoscitiva e l’intuizione creativa si unificano, dove lo spirito si impadronisce della chiave che permette sia di conoscere il mondo, sia di ricrearlo.

  Così stando le cose, ogni tentativo di spiegare l’attività creativa di Balzac da una visuale puramente psicologica od estetica non può che portare fuori strada. Tutte le volte che lo si è fatto, ne è risultata un’immagine falsa e caricaturale di Balzac. La sua attività creativa può essere intesa solo partendo dal tutto, poco importa se il linguaggio scelto sia quello della magia, della mistica o della filosofia della natura. Similia similibus. Un’opera di portata universale, un uomo di portata universale possono essere capiti solo su uno sfondo universale. Lo stesso Balzac interpretò la propria opera in chiave metafisica. La sua teoria dell’arte ha un carattere mistico-speculativo, e contiene sotto specie di riflessione ciò che la sua opera contiene sotto specie di materia. Il suo principio è che l’arte rappresenta un mistero metafisico, un «segreto pubblico sacro» come la natura, aperto alla vista di tutti ma afferrabile solo da pochi nel suo intimo significato. [...].

  I più non vedono nell’arte che la materia; una minoranza vi scorge l’elemento plastico; ma i pochi eletti vi scorgono il senso dell’universo. Così Balzac. Moltissimi lettori hanno potuto gustare il movimentato contenuto della Comédie humaine; ma l’intelligenza della sua struttura organica e delle sue leggi interne non poteva diventare un fatto generale, e Balzac fu spesso frainteso malgrado tutte le precauzioni di chiarire il proprio pensiero con prefazioni e introduzioni. Né fu inteso quasi mai lo strato più intimo dell’opera, là dove questa coincide con il cosmo.

  Balzac si è spesso richiamato all’idea che Platone e quindi la scolastica tramandarono alla filosofia della natura e alla mistica del Rinascimento, idea secondo la quale l’uomo è un mondo minore, un mundus minor, mentre il mondo sarebbe a sua volta un uomo maggiore. Egli dichiarò di avere trovato quest’idea in Rabelais e Swedenborg, e la definì la plus grande des formules. L’uomo, come microcosmo, è tutt’uno col mondo, e vede il mondo dentro di sé. [...].

  È sintomatico che Balzac paragoni la visione interiore dell’artista alla sfera di cristallo mantica in cui l’adepto scorge il passato e il futuro. La visione creatrice è una forma superiore del vedere, in cui non esistono più i limiti imposti dalla materia e dall’individuazione, i confini di tempo e di spazio. [...].

  Nella concezione magica della natura di Balzac, codesto tipo di visione è reso possibile dalla segreta affinità che lega le cose esistenti. [...].

  Il fenomeno che Balzac descrive rappresenta un atto originale di identificazione spirituale. Intuizione è appunto il termine adoperato da Balzac. «La mia osservazione era divenuta intuitiva». Ciò non va inteso naturalmente nel senso che l’intuizione sia un’osservazione di grado maggiore; ma semplicemente che l’osservazione concentrata è una delle vie che portano alle soglie dell’intuizione. L’intuizione, però, può nascere anche in modo del tutto diverso, cioè mediante la soppressione della coscienza esterna [...].

  Balzac tentò di rendere intelligibile la natura dell’intuizione, spiegandola mediante funzioni spirituali affini. [...]. La formula deviner le vrai si ritrova con varietà di modi nella Comédie humaine, e indica quella superiore funzione dello spirito che distingue il genio dal semplice talento, in ogni sua manifestazione. [...].

  La psicologia dei personaggi balzachiani corrisponde alla psicologia di Balzac. Nell’analisi dei caratteri egli usa formule dedotte dai suoi processi psichici personali. Questo è uno dei tratti caratteristici della sua arte. Il macrocosmo della Comédie humaine riflette il microcosmo di Balzac. [...].

  L’intuizione divinatoria, come si vede, è la sorgente, la molla o, se così è lecito esprimersi, il metodo dell’arte balzachiana. Ciò non vuol dire, naturalmente, che Balzac lavorasse solo con ciò che gli forniva la sua visione interna, e che seguisse unicamente la sua ispirazione. Al contrario, sappiamo che egli completò l’una e l’altra con uno scrupoloso lavoro di osservazione e di documentazione: interrogando scienziati e uomini politici, commercianti e donne di mondo su ciò che gli stava a cuore della loro sfera di interessi; procurandosi cifre, progetti urbanistici, rapporti; raccogliendo prove e fatti con grande coscienziosità. [...].

  Si legge spesso che la traboccante fantasia di questo scrittore è una caratteristica romantica del suo mondo creativo, e inficia automaticamente il suo valore di realtà. Ma certi tratti fantasiosi, come si è visto, glieli offriva la realtà stessa. I personaggi di Balzac sono fantasiosi perché anche la vita è fantasiosa. Quante volte egli non ricorda che il contenuto fantastico della vita supera qualsiasi facoltà di immaginazione! Ha forse torto? Dov’è mai scritto che la verità debba essere grigia, monotona, se non nelle anemiche e astratte teorie di una estetica naturalistica falsa? Balzac dovette già in vita difendersi più volte dai critici che gli rimproveravano l’inverosimiglianza dei suoi romanzi. [...].

  Ma lo studio a cui Balzac sottopone la realtà non è una tecnica senz’anima come quella dei naturalisti, ma una manifestazione della sua curiosità vitale e della sua sete di conoscenza. Il reale gli serve da controllo e da sostegno dell’intuizione, che resta sempre il fatto primario, l’elemento motore. [...].

  Il concetto che Balzac ha della genialità artistica comprende però, oltre alla visione interna e al potere plastico creativo, anche un terzo momento: l’invenzione, «invenzione di una forma di un sistema o di una forza». [...].

  Così Balzac può riunire in un comune concetto di genio sia i grandi sistematici che attuarono il riordinamento delle scienze naturali, sia gli inventori di nuove forme d’arte. E con esso anche la propria originalità. La Comédie humaine è infatti, in realtà, un’invenzione nuova e, da allora, continuamente imitata: una sintesi dell’umano nella forma di un sistema di romanzi.

  Tuttavia questo sistema è geniale solo nei limiti di un’innovazione tecnica, e, una volta indicato, poteva essere imitato da tutti; come fecero Zola e molti altri. Ma i Rougon-Macquart sono la miglior dimostrazione che il sistema esterno non significa niente se manca del vivificante mistero creativo. Qual è il lettore di Balzac che non ha avvertito questo mistero in qualunque pagina della Comédie humaine? Tutte le persone sensibili hanno sempre provato, nel leggerla, quell’inconfondibile eccitazione, quell’attrazione magica, quella puissance magnetiquement comunicative, tanto per usare le parole di cui si servì lo stesso Balzac per descrivere l’effetto esercitato su di lui dalla musica di Paganini e dalla pittura di Decamps. Che cos’è dunque questo fatto ultimo e profondo dell’arte di Balzac? Non possiamo definirlo che con un’altra definizione di Balzac: è la «vita». Egli era perfettamente conscio che si trattava di una qualità ultima e irriducibile, concessa solo a pochi; di una virtù generatrice, grazie alla quale lo spirito detronizza la natura, spogliandola dei suoi privilegi e portando a compimento la sua opera. La ricreazione della vita è per Balzac la più alta manifestazione dello spirito. [...].

  Secondo la dinamica balzachiana, la totalità dell’essere è un insieme vitale infinito e unitario. Un tale sentimento dell’universo conduce inevitabilmente, in campo estetico, al principio che il supremo valore di un’opera d’arte va cercato nella vita. La teoria dell’arte è, in Balzac, un corrispettivo del suo vitalismo. L’arte tocca il suo vertice allorché lo spirito riesce ad alimentare la propria opera alle scaturigini dell’energia universale, alla fonte delle linfe vitali.

  È evidente che un’estetica come questa trae il suo primo significato da se stessa, e che non ha nessun intimo legame coi modelli storici di teorie estetiche già stabilite. Essa è altrettanto lontana dal classicismo e dal romanticismo o dal naturalismo; la sua sfera è un’altra, una sfera estranea alla storicità e assai vicina alla mistica. Quelle teorie estetiche commisurano le opere all’idea del bello o all’idea del vero o del poetico. Ma esse non possono avere un’esistenza autonoma, e quindi servire di regola, in un universo il cui fondamento è l’esperienza di energia e fenomeno, di realtà interna e realtà esterna, di durata e mutamento. Ecco perché per Balzac non può esistere un ideale di bellezza assoluta. Egli ha uno spiccato e spesso travolgente sentimento della bellezza, ma anche la bellezza è vista sempre in rapporto al fenomeno fondamentale dell’universo, la vita. La bellezza non è che il fascino, il rigoglio, l’intensità, la ricchezza della vita. Essa è la genialità sul piano del sensibile, è le génie des choses, «il segno che la natura ha impresso nelle sue più perfette creazioni, il più vero di tutti i simboli e insieme il più grande dei casi». Essa varia come la natura. Per Balzac non esiste una bellezza ideale normativa; al contrario «ogni paese ha il suo bello ideale». [...].

  L’arte di Balzac mira a comprendere in sé tutti gli aspetti del bello, del vero, del poetico. L’idea centrale della sua estetica è il concetto di totalità e di universalità. L’arte dev’essere sintesi: sintesi, del resto, era un termine di moda. [...].

 

 

  Domenico Danzuso, Balzac mette sotto accusa la società delle cambiali, «La Sicilia», Catania, Anno XXV, N. 91, 2 aprile 1969, p. 7.

 

  Honoré de Balzac, autore realistico? Certo e per sua stessa precisa asserzione: «A teatro — egli scriveva nel 1838 all’amico Dablin — non c’è altra possibilità che il vero, come io ho tentato di fare nei miei romanzi». Ma basta riflettere su «Mercadet, l’affarista» la commedia presentata ieri in anteprima al teatro «Angelo Musco» da Tino Buazzelli e dalla sua compagnia per conto dello «Stabile» catanese, per dubitarne. Alla fine dello spettacolo, anzi, addirittura ci sembra di scoprire la vera identità del personaggio più emblematico di tutto il «Teatro dell’assurdo», di quel Godot che Samuel Beckett, ci fa attendere inutilmente fin dal 1953.

  Ci si potrebbe obiettare che null’altro che un effetto fonetico accomuna il Godeau di Balzac (del quale Mercadet e i suoi creditori attendono a lungo l’arrivo), al Godot beckettiano; ma sarebbe una risposta — seppur filologicamente fondata — di puro comodo. Non è detto infatti che Godeau, non personaggio vero, ma invocato dio dell’oro (è questo il suggerimento che Terron, il traduttore e Buazzelli regista, chiaramente intendono darci), non sia uno degli aspetti — non il solo certamente — di quel mito moderno, fatto di filosofia, di religiosità e di idiozia che i due straccioni di Beckett, Vladimir ed Estragon, vanno propugnando quale irraggiungibile divinità.

  Dobbiamo dunque concludere che Beckett, irlandese di Francia, affondi le sue radici nientemeno che in Balzac? Dobbiamo escludere ciò e avvertire solo la curiosità e la casualità di un gioco della linguistica francese? [...].

  Tentare una risposta a tanti quesiti, appare impresa azzardata e sostanzialmente inutile, poiché in una materia tanto opinabile non si può neppure ipotizzare quella che, in termini giuridici, viene definita «interpretazione autentica»: le avventure del pensiero sfuggono infatti a qualsiasi tipo d’indagine scientifica o pseudo tale.

  Esaminiamo quindi la commedia sotto due altri aspetti: quello che potremmo definire balzachiano (per quanto di autobiografico c’è nel personaggio protagonista e quanto, nel contempo, di accusatorio nei confronti della società francese dell’epoca) e quello che lo stesso testo — seppure con le lievi violenze operate dal traduttore e dal regista — può rappresentare nel contesto sociale di oggi. Forse la strada da seguire ci viene indicata dallo stesso Buazzelli; si legge infatti sulla «locandina» dello spettacolo che l’azione si svolge nel «salone di rappresentanza dell’appartamento di Mercadet nel 1839. Ma — si aggiunge — avrebbe potuto accadere anche più tardi: oggi, per esempio, o domani».

  Bene. Mercadet è un faiseur, un affarista ormai ridotto al lumicino, sull’orlo dell’abisso fallimentare, anzi sulla soglia della prigione per debiti. Un uomo finito? Per nulla; la fantasia è la sua vera grandissima dote, quella fantasia che dopo la fuga con la cassa in America del suo socio Godeau, gli serve, da un lato, per ideare le più assurde e incredibili (almeno per l’epoca) imprese industriali e i più spericolati giochi borsistici; dall’altro per inventare sempre nuovi mezzi per ottenere un credito che da tutti gli è negato e contemporaneamente concesso. Eppure tutti sanno — Mercadet per primo — che i debiti non saranno pagati mai, a meno che non avvenga un autentico miracolo, che ritorni cioè Godeau, il quale, in una resipiscenza (stavamo per dire rigurgito) d’onestà non intervenga in favore dell’antico, sfortunato e defraudato socio.

  Ebbene, Mercadet e Balzac, affaristi immaginosi e sfortunati, nonché debitori insolventi sono la stessa persona. L’autore della «Commedia umana» scrisse infatti la maggior parte delle sue opere, e in particolare le poche teatrali, sotto l’assillo dei creditori. E alla base di queste difficoltà ci furono anche una serie di speculazioni sbagliate e di progetti industriali tra l’avveniristico e l’assurdo; basta ricordare, per esempio, un dettagliato schema tecnico-finanziario per lo sfruttamento di una miniera d’argento in Sardegna, quello per coltivare gli ananas in prossimità di Parigi, quello per importare dall’Europa orientale sessantamila querce, e infine un trattato sull’arte e sulla tecnica per non pagare i creditori, quel trattato che doveva divenire il breviario liturgico di Mercadet.

  Spirito balzano, dunque Honoré? Nemmeno per sogno. Solo un uomo del proprio tempo. Un borghese con i vizi, i difetti della borghesia francese postrivoluzionaria. Ma un borghese che nei propri casi personali e in quelli del suo mondo individuava un malessere che andava curato, mediante la denuncia di un modo di vivere sbagliato e sostanzialmente amorale e asociale. Sarà forse il discorso del predicatore che invita i parrocchiani a far ciò che dice, senza tener conto di quel che fa, ma è certo che Balzac come moralista aveva le idee chiare. Nel 1837 scriveva a Evelina Hansk (sic), l’«étrangère» che doveva diventare la compagna della sua vita: «Mi rendo conto dell’immensa capacità di giudizio necessaria al poeta comico. Ogni parola dev’essere un mandato di cattura spiccato contro i costumi dell’epoca ... Si tratta di cogliere il fondo delle cose ... abbracciare la società e giudicarla, seppure in forma gradevole ... Sotto una battuta ci devono essere mille pensieri».

  Al lume di quanto avanti c’è da giudicare l’operazione critica compiuta sul testo del «Mercadet» da Buazzelli. C’è da chiarire cioè la validità della commedia, in rapporto alla società attuale. Ebbene il giudizio non può che essere positivo. A distanza di oltre un secolo dalla prima rappresentazione («Mercadet» fu messo in scena, postumo nel 1851) possiamo riconoscere che un certo tipo di società non è per nulla mutato; semmai i suoi vizi si sono generalizzati in progressione geometrica. L’affarismo falso e illusorio dei Giuffrè «banchieri di Dio», l’arrivismo degli uomini politici (l’aspirante genero di Mercadet, altrettanto fantasioso del primo, ha deciso di rimpannucciare le proprie finanze attraverso la carriera politica), il gioco borsistico privo di scrupoli, la strumentalizzazione dei mezzi legali ai fini della frode, l’inutilità di tante industrie create con denaro pubblico per garantire greppie immorali, e quell’«anonima strozzini» che sempre più ampio terreno produttivistico va trovando nel ceto medio e in quello meno abbiente: ecco un quadro della società opulenta, della società consumistica, della società delle cambiali, per intenderci, che Mercadet impersona e che con un gusto irridente e corrosivo (il gusto dell’antico motto della Commedia dell’arte: Castigat ridendo mores) gli serve per sollecitare ripensamenti morali e sociali che vanno ben oltre l’effimero del comico e del divertente. [...].

 

 

  Alberta Fabris, Henry James e la Francia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1969 («Biblioteca di studi americani», 18).

 

Il James critico e la letteratura francese: gli inizi, pp. 69-118.

 

  pp. 94-98. Fra gli articoli più importanti del 1875 v’è senza dubbio quello su Balzac, che rivela un lieve cambiamento rispetto agli entusiasmi del 1867; James per la prima volta accenna alla mancanza di moralità dei personaggi balzacchiani che, tutti tesi alla conquista del denaro o di una posizione sociale o di un blasone, non trascurano nessun mezzo per riuscirvi. Balzac continuava ad essere uno scrittore straordinario ma James non poteva non notare come, simile in questo a Stendhal, egli preferisse giudicare il comportamento dei suoi personaggi dal punto di vista estetico piuttosto che da quello morale. [...].

  Né le riserve finivano qui, perché c’era tutta la questione dell’ironia «cruel and wounding ... almost sanguinary» [cfr. French Poets and Novelists] con cui Balzac dipingeva i rappresentanti della borghesia, la classe prediletta dai romanzieri vittoriani e quella su cui puntavano invece gli strali degli scrittori francesi più in vista, da Balzac a Flaubert e a Maupassant. Alla feroce rappresentazione degli aspetti negativi della vita in provincia bisognava anche aggiungere la particolare concezione che Balzac aveva delle donne, troppo spesso prive di coscienza morale, dominate completamente dalle passioni e dai vizi. [...]. Una volta messi in campo tutti i dubbi riguardo alla validità di certi aspetti della Comédie che a James parevano sgradevoli o per lo meno incomprensibili, rimanevano sempre le grandi qualità di Balzac e in particolare quel divorante amore della realtà che gli faceva ricreare con insuperato vigore sulla pagina scritta l’ambiente in cui si muovevano i suoi personaggi [...].

  Sebbene James si fosse già cimentato nell’ardua prova del romanzo continuava ad interessarsi alla questione del realismo sia che pensasse alla propria opera di scrittore che alla letteratura americana in genere. A volte, è vero, Balzac si lasciava prendere la mano dalla pura e semplice passione per il bric-à-brac; ma nei suoi libri migliori, come Eugénie Grandet e Le père Goriot, era riuscito a integrare in una meravigliosa unità stilistica i personaggi e le cose che li circondavano: questa era la grande lezione del maestro al discepolo americano che, più giovane di due generazioni, avrebbe filtrato l’esperienza balzacchiana fino a giungere alla moderna intuizione del «paesaggio stato d’animo».

  La Kelley aveva considerato questo articolo come piuttosto negativo ma forse non bisogna insistere troppo sulle riserve jamesiane, trattandosi più che altro di una sottile inevitabile revisione della sua originale posizione critica. Alcune osservazioni del resto non fanno altro che anticipare le idee dei saggi successivi. Già ora il critico accenna al «complete social system — an hierarchy of ranks and professions» che Balzac aveva creato, alla mole imponente della Comédie che poteva essere paragonata al trattato sulla filosofia positiva del Comte e che costituiva una delle prove più convincenti della dignità e delle possibilità del romanzo. Se il risultato poi era viziato da qualche imperfezione, il solo sforzo di creare un’opera come la sua bastava a renderlo diverso dagli altri, uno scrittore che si poteva prendere come maestro e come guida. [...].

 

Il James critico e la letteratura francese: la maturità, pp. 119-168.

 

  pp. 153-155. Sempre nel 1902 James pubblicò una lunga prefazione alla traduzione di Lettres (sic) des deux jeunes mariées di Balzac, apparsa a Londra prima e tre mesi dopo a New York. Per quasi trent’anni, dal lontano French Poets and Novelists, lo scrittore americano non si era più occupato in sede critica del ‘Maestro’, del romanziere più seguito e più amato ai quale ora poteva rendere un elaborato, doveroso tributo, senza che i rigorismi morali, i residui puritani, offuscassero la lucidità del giudizio.

  Il critico non dimenticava che troppo spesso il Balzac narratore era soffocato dallo storico, ma riconosceva ugualmente che egli era il romanziere par excellence, colui che ben più di Flaubert rappresentava lo scrittore ideale, serio, profondo, perspicace, immedesimato nel suo lavoro, con un alto concetto della letteratura. La povertà dei soggetti di Maupassant, l’evasione nell’esotico di una parte almeno dell’opera flaubertiana, non erano la caratteristica di chi aveva scritto Le père Goriot e di chi aveva visto nella Francia del suo tempo un soggetto dalle innumerevoli possibilità. La dignità dello scrittore o meglio del romanziere trovava in Balzac uno degli esponenti maggiori: egli trattava di tutto, di economia, di politica, di scienza e dimostrava come il romanzo fosse in un certo senso la forma d’arte più completa. [...]. Nella Comédie humaine Balzac si era proposto di offrire un quadro del suo tempo e del suo paese; ed effettivamente era riuscito ad abbracciare tutta la Francia da lui conosciuta, quella Francia che James amava di un amore difficile e combattuto ma non per questo meno reale; un paese ancora «rococò e patriarcale» dove aleggiavano i bagliori della Rivoluzione e che sembrava rinascere sotto la guida di Napoleone. Era un mondo complesso, ricco di tipi e di personalità, che offriva splendide occasioni a chi le sapeva vedere; era un mondo variato in cui il pittoresco aveva ancora la sua parte e le caratteristiche individuali delle persone un rilievo particolare. Rispetto all’America, con la sua democrazia e le sue classi sociali fluttuanti e indeterminate, la società francese, almeno dal punto di vista letterario, offriva l’inestimabile vantaggio di essere come una maglia fitta e compatta dove ogni persona e ogni cosa occupava un posto fissato da tempo immemorabile. I personaggi balzacchiani si muovevano infatti nel grande teatro costruito da una società dominata dalla monarchia e dalla chiesa, società suddivisa in gerarchie abbastanza rigide perché lo scrittore non trovasse difficoltà a dipingerle in tutta la loro interezza.

  Un giudizio siffatto presuppone un accento polemico nei riguardi della narrativa americana, che a James sembrava ancora in tessuta di motivi banali e non di fatti, di esperienze, di sentimenti umani, menti e egli aveva la consapevolezza di fare la storia del suo tempo, descrivendo contraddizioni e problemi di un mondo già in crisi. [...].

  pp. 159-165. Nel 1905, seguendo un’illustre tradizione ottocentesca che aveva visto Dickens e Thackeray, tra gli altri, parlare in America, James tenne una serie di conferenze negli Stati Uniti. Una, per noi la più interessante, è dedicata all’autore della Comédie e ha un titolo assai significativo, «The Lesson of Balzac» [...].

  Per James la Comédie rimaneva «one of the most inscrutable, one of the unfathomable, final facts in the history of art», specchio fedele della realtà francese del primo Ottocento che Balzac aveva saputo dipingere con la precisione, la ricchezza di particolari e anche l’amore di un monaco benedettino impegnato a lavorare su una lunga pergamena.

  L’ultima parte della conferenza è forse la più interessante, in quanto ci permette di vedere da vicino ciò che James riteneva essere stata la ‘lezione’ del maestro.

  I personaggi di Balzac erano figure di carne ed ossa, a tre dimensioni come diremmo oggi, con un’identità ben definita, questo perché il romanziere, come la natura, abborriva il vuoto e per prima cosa si preoccupava di descrivere l’ambiente, la casa, la società in cui si muovevano i suoi protagonisti.

  Continuando su questa linea, il critico parlava poi della «fusion of all the elements of the picture» che soprattutto in opere come Le père Goriot, Eugénie Grandet e Le curé du village era completa: «The situation sits shrouded in its circumstances, and then, by its inner expansive force, emerges from them, the action marches, to the rich rustle of this great tragic and ironic train, the embroidered heroic mantle», con un’arte che faceva di Le père Goriot «a supreme case of composition, a model of that high virtue that we know as economy of effect, economy of line and touch ». Legare tra loro i vari elementi della composizione sì da farne un vero e proprio quadro era difficile così come era difficile riuscire a dare il senso dello scorrere del tempo senza dover ricorrere al dialogo che in Balzac aveva solo valore funzionale e costruttivo. Confrontandolo con Dumas padre ne sottolinea la differenza servendosi di un’immagine molto bella e significativa: se il primo, con la sua fluidità e il suo esteso uso del dialogo suggeriva una corrente «large, loose, facile» in cui il lettore si sentiva trasportato, la prosa di Balzac era simile a una «figured tapestry, all overscored with objects in fine perspective. Such a tapestry, with its wealth of expression of its subject, with its myriad of ordered stitches, its harmonies of tone and felicities of taste, is a work, above all, of closeness».

  E nella conclusione prorompe tutta l’ammirazione per il genio balzacchiano che aveva saputo sfruttare al massimo la sua abilità tecnica, raggiungendo così risultati grandiosi. Era il suo genio che aveva in un certo modo aiutato a compensare le stravaganze della sua carriera, i suoi vent’anni di prodigalità intellettuale, facendone un «towering idol ... gilded thick, with so much gold — plated and burnished and bright in the manner of towering idols», nel Parnaso degli scrittori.

  L’ultimo saggio su Balzac fu scritto nel 1913, pochi anni prima della morte di James, ed è ispirato dal libro che Émile Faguet aveva allora pubblicato. Com’era prevedibile molte sue parole non fanno che ripetere, sottolineandoli, diversi concetti che già erano apparsi negli scritti precedenti. Il tema, se pure si deve parlare di un tema con variazioni, è sempre lo stesso; il realismo di Balzac [...].

  James arriva perfino a comprendere la necessità di parlare a lungo e in ogni particolare della questione finanziaria di fronte a cui aveva sempre, fino allora, storto il naso. Ricordiamo infatti come ancora nel saggio del 1902 egli avesse criticato le eccessive disquisizioni sul denaro in Le curé du village, in netto contrasto con Faguet e Brunetière, che avevano visto in quest’insistere sulla «auri sacra fames» uno dei motivi fondamentali dell’opera balzacchiana che rifletteva la trasformazione della società francese, avvenuta nel secolo diciannovesimo, quando l’avidità dell’entourage di Versailles si era estesa a tutta la borghesia del paese.

  In César Birotteau, come negli altri romanzi migliori, l’ambiente era costruito in modo perfetto diventando, una volta letto, indimenticabile. [...].

  Balzac aveva dato molta importanza all’abito in un mondo ormai scomparso in cui «costume had, to the last refinement of variety, a social meaning»; ma anche James, nei momenti cruciali dei suoi romanzi, non avrebbe trascurato di accennare all’abbigliamento delle protagoniste: il memorabile abito bianco con jabot di pizzo e molte collane di perle indossato da Milly Theale prima di morire, o l’abito viola e nero di Madame de Vionnet a Notre Dame.

  Tanto grande è il fervore di James da fargli accettare addirittura il fatto, già osservato dal Brunetière, che le grandi figure di Balzac non sono quelle dal carattere complesso, piene di contraddizioni. Scarsamente interessato alla vita interiore egli aveva la mano felice soprattutto nel creare personaggi tutti d’un pezzo, mossi da una sola passione che li rendeva simili ai caratteri di La Rochefoucauld. Gente mediocre, della media borghesia, spesso volgare, era descritta con tanta passione e convinzione da riuscire accettabile anche a James che prediligeva personaggi diversi. […].

  A conclusione dei saggi su Balzac non resta che sottolineare ancora una volta l’importanza dell’influsso di questo scrittore che ebbe veramente una parte fondamentale nello sviluppo del nostro romanziere americano. La solidità, il peso direi dell’opera jamesiana, come rievocazione di ambienti e di luoghi, come specchio di una determinata società, era dovuta appunto all’attenta e assidua lettura della Comédie. Nei romanzi e nei racconti James ha lasciato una galleria di personaggi che appartengono alla storia del periodo in cui era vissuto e che sono ‘fatti’, sentiti fino alla punta delle dita, anche se, superando le descrizioni minuziose alla Balzac, egli sarebbe giunto a una ‘sua’ caratterizzazione, quanto mai personale e nuova. Né l’interesse universale della sua opera può far dimenticare il filone americano della sua narrativa che riflette tutto un arco della vita del suo paese, il passaggio da una società provinciale, agricola, modesta nelle aspirazioni a una gigantesca, crudele e brutale, dedita alla speculazione più sfrenata.

 

 

  Enrico Falqui, Informatore librario. Balzac oggi, «Tempo», Milano, Anno XXXI, N. 20, 17 maggio 1969.

 

  A quasi mezzo secolo, da quando apparve a Bonn e a circa quarant’anni da quando riapparve a Parigi, ricompare adesso in Italia, coi tipi del «Saggiatore», il lungo saggio di Ernst-Robert Curtius su Balzac. A Garboli che lo presenta non sembra che sia appropriato giudicarlo come un monumento della storiografia letteraria del ventesimo secolo, poiché dei monumenti non ha né la posa né la staticità. Fatto sta che ha certamente le qualità per essere considerato, ancora oggi dopo tutto quanto si è scritto al riguardo, come uno dei solidi, oltre che più attraenti, contributi critici all’analisi e alla valutazione di colui che, quale autore della Comédie humaine, meritò di essere eletto dal Brunetière a «capostipite dell’intero romanzo».

  Il saggio si chiude con un capitolo, non del tutto esaurientemente documentato, sull’influsso esercitato dall’opera balzacchiana sui contemporanei dopo tutto quanto si è scritto così contrastante da essere passato attraverso l’esaltazione e la denigrazione e da avere indotto Sainte-Beuve a riconoscere che il successo riscosso in Francia fu di gran lunga inferiore rispetto a quello ottenuto nel resto dell’Europa. Così al Curtius tornò giusto documentare che la miglior comprensione fu tributata al Balzac dai poeti: e, dopo aver citato Baudelaire Hugo Wilde e Hoffmanstahl, conclude il saggio augurandosi che toccasse al nostro secolo l’incombenza, e la soddisfazione, di giungere ad una sintesi conciliatrice dei tanti opposti giudizi espressi su Balzac, abbracciandolo finalmente «nella sua unità e nella sua interezza, come un genio creatore che non può essere racchiuso in alcuna formula e che ha saputo ricavare dal materiale del proprio tempo un’immagine del mondo e dell’uomo di imperitura grandezza».

  E che gli anni, a tal fine, non siano trascorsi a vuoto, lo lascia credere, nell’estimazione di noi italiani, anche la fiducia con la quale l’editore Casini ha dato inizio alla traduzione integrale della Commedia umana, affidandone la cura a Massimo Colesanti, che vi ha premesso delle esaurientissime note biografiche, e la presentazione a Giovanni Macchia, che vi ha dedicato uno dei suoi studi più sottili e più orchestrati, molto appropriatamente fiducioso nella non inerte prosecuzione del genere «romanzo», ricordandoci che anche al tempo di Balzac «il romanzo appariva un genere invecchiato», vecchio ormai di due secoli.

 

 

  Italo de Feo, Riproposti i romanzi della «Commedia umana» di Balzac. Un quadro della borghesia, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVI, n. 3, 19-25 gennaio 1969, p. 40.

 

  Honoré de Balzac nacque nel 1799 e morì nel 1850: visse dunque 51 anni, come Cavour. Cominciò a scrivere a 20 anni, e non fece altro nei 31 seguenti. Ma è quasi impossibile fare un novero preciso dei suoi racconti e romanzi; sono sicuramente più di cento, al ritmo, dunque, di tre all’anno e più. Alcuni sono dei capolavori, il che non si accorda con una produzione letteraria che sembra fatta a serie.

  Il disegno di Balzac è molto semplice: fare un grande affresco della società in cui visse, che era quella francese del primo Ottocento, nella quale si consolidò e divenne effettiva classe dirigente la borghesia. Il periodo aureo della borghesia francese fu, come tutti sanno, il regno di Luigi Filippo 1830-1848), cui è rimasto, appunto, l’appellativo di «re borghese».

  Durante questo periodo la parola d’ordine più nota e più seguita fu quella lanciata dal primo ministro Laffitte, che era anche un banchiere: «enrichez-vous!» (sic), arricchitevi! Non era, si badi, semplice cinismo. Si credeva fermamente che arricchirsi giovasse al benessere della società, perché suscitava e metteva in moto energie. Non che la teoria sia sbagliata, ma, come tutte le teorie, deve essere applicata con giudizio e moderazione, altrimenti la vita e i rapporti umani diventano impossibili. Ora nel primo Ottocento questo limite di moderazione non ci fu, e la conseguenza non tardò a rivelarsi. Si trova fedelmente descritta, tale conseguenza, nei libri di Balzac e il quadro che ne risulta è orrendo: è davvero «La commedia umana», una serie di romanzi di cui Gherardo Casini ha iniziato la pubblicazione (il primo volume contiene Al gatto che gioca a pelota, Il ballo di Sceaux, Memorie di due giovani sposi, La Borsa, Modeste Mignon, pagg. 600 con illustrazioni, lire 5000).

  Per questo primo libro Giovanni Macchia ha scritto una prefazione che ricapitola la storia del genio straordinario che fu Balzac. Questi comprese quale campo immenso si aprisse davanti al romanziere che avesse portato il pubblico dei lettori a immedesimarsi coi personaggi: non più eroi, ma gente banale. Macchia scrive: «Quel pubblico, un tempo veniva lasciato lontano, incommensurabile, indefinito, inafferrabile, incomprensibile. Bisognava farlo divenire protagonista. E il romanzo vi offriva per la prima volta la infinita serie di specchi ove esso avrebbe potuto riflettersi. Era il vasto pubblico contemporaneo e borghese, nella sua varietà, complessità totalità, e non lo spaccato di una società, aristocratica o popolare, come nel Settecento in Crébillon fils, in Laclos, in Restif de La Bretonne. Diceva Camus che la critica rivoluzionaria condanna il romanzo puro come l’evasione di un’immaginazione oziosa. Credo che Balzac la pensasse allo stesso modo. Il romanzo è la conquista del reale, e il reale è la prosa; ma il reale non è il razionale; è il romanzesco con le sue illusioni perdute, l’amore, le ambizioni sfrenate, le cadute, le disfatte.

  Come Vautrin dinanzi a Lucien de Rubempré, Balzac dirà al pubblico: “Io sono l’autore, tu sarai il dramma”. Non l’autore testimone impassibile, come accadrà con i teorici del romanzo sperimentale, ma lo scrittore-attore che vive in un rapporto dialettico e critico quel “dramma”. Lontano dal sopprimere gli elementi romantici della rappresentazione, egli crede ancora nel personaggio enorme, in cui finisce col condensare il significato di una società e di un momento storico: l’immensa e miserevole società di ogni giorno».

  Se Balzac volle protagonista dei suoi romanzi l’uomo comune il suo contemporaneo Henri Beyle, meglio conosciuto sotto il nome di Stendhal, scelse a soggetto delle sue straordinarie narrazioni l’eroe; non l’eroe classico, intendiamoci, quale avrebbe dovuto venir fuori se avesse preso a modello gli uomini della Rivoluzione e dell’Impero, ma l’eroe anch’esso volgare, costretto a farsi luce in quel mondo di rovine che fu la Restaurazione, nella quale il successo poteva essere solo assicurato dall’astuzia e dal tartufismo. Ne viene fuori il personaggio di Julien Sorel — ch’è poi lo stesso Stendhal —, il protagonista del famosissimo Il Rosso e il Nero [...].

  Il Rosso e il Nero è uno dei libri eterni dell’umanità, nel quale non si sa se più ammirare la introspezione, che copia Saint-Simon e anticipa Proust, o la immaginazione che fa di Stendhal, assieme a Balzac, uno dei padri del romanzo moderno. [...].

 

 

 Carlo Fontana, Ritorno di Buazzelli in «Mercadet, l’affarista», «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Milano, Anno LXXIII, N. 263, 13 novembre 1969, p. 7.


  [...]. Certo che Buazzelli fa del personaggio di Mercadet una creazione: gli riesce un difficile gioco di equilibrio tra una comicità diciamo effusa «a fior di pelle» fatta di invenzioni, di astuzie, di blandizie; e tra una comicità contenuta, e perciò più satiricamente umoristica nella sua umanità. Già perché il personaggio di Mercadet è profondamente umano: non ha vizi, adora la sua famiglia, ma è costretto a mentire, a simulare, a intrappolare i suoi feroci creditori, per sopravvivere, per non fallire, per non essere escluso dalla Borsa; e dalla Borsa ha bisogno, più ancora che per arricchire, per credere in imprese esaltanti, per dar libero sfogo alla sua fantasia sfrenata di affari mirabolanti che poi crollano quali castelli di carta. Si avverte chiaramente la simpatia affettuosa dell’autore per il suo personaggio: Balzac, autore non fortunato di sei commedie, fu tutta la vita pieno di debiti, sempre tormentato dalla tenace persecuzione dei creditori, sempre pronto ad immaginare modi grandiosi per arricchirsi, per qualche nuova forma della sua attività; tutto questo Balzac lo sperò dal teatro, anche se a lui il teatro non fruttò mai, ché tre commedie degne del suo genio («L’école» (sic), «La matrigna», «Mercadet») non furono rappresentate che dopo la sua morte (sic). Naturale quindi che l’opera sua più riuscita canti quasi autobiograficamente la gloria del debitore. «C’è un solo stato in Europa che non abbia debiti?» «Qual è l’uomo che non muore debitore di suo padre? Gli deve la vita e non gliela può rendere. La vita è un debito perpetuo!» egli esclama. Mi sembra però che oggi la commedia non sia più solo quella del debitore, dell’affarista geniale che inventa e gonfia affari, costituisce società, lancia azioni, e, quando s’è rovinato, cerca o trova gli espedienti più furbeschi per far credere che pagherà; la sua moderna validità va ricercata soprattutto nell’impetuoso ritratto di una società, di una classe, la borghesia imprenditoriale, già malata, che vive un apparente ordine, fondato sulla speculazione senza scrupoli. E’ il «realismo critico» di cui parla Lukács; Balzac, scrittore borghese, ideologicamente legato alla nobiltà, mediante una fedele descrizioni delle condizioni reali del suo tempo, infrange le convenzioni della classe cui egli stesso appartiene, e scuote l’ottimismo del suo mondo, rendendo inevitabile il dubbio sull’eterna validità di ciò che in atto sussiste. «Mercadet, l ’affarista», è un perfetto esempio di questa posizione: ovviamente; Balzac non ne aveva coscienza, ma non per questo viene meno il vigore della denuncia, pur ridotta com’è alla formula teatrale, allegrissima o vivacissima. [...].



  Antonino Fugardi, Il ladro che fondò la polizia francese, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVI, n. 7, 16-22 febbraio 1969, pp. 20-21.

 

  Vautrin fu uno dei personaggi letterari più cari al suo autore, il celebre scrittore francese Honoré de Balzac, che gli dedicò pagine appassionate e commosse in Papà Goriot, nelle Illusioni perdute, nel ciclo di Splendori e miserie delle cortigiane, e persino un intero dramma intitolato appunto Vautrin. Ma questa vigorosa figura di evaso dal carcere, che dà con successo la scalata ad elevate posizioni sociali e che diventa persino capo della polizia, non fu inventata da Balzac, ma gli fu suggerita da uno che quelle avventure le aveva vissute davvero. «Caro amico», gli aveva detto un giorno quando lo scrittore era ancora giovane, «perché vi affaticate ad immaginare storie e personaggi? Basta guardare la realtà: essa è davanti ai vostri occhi, vicino alle vostre orecchie, sotto le vostre mani».

  Davanti agli occhi, vicino alle orecchie e sotto le mani di Balzac, c’era appunto lui. E lui era Eugène-François Vidocq, il capo della Sûreté, la pubblica sicurezza francese, l’uomo che aveva sgominato intere bande di malfattori, riacciuffato evasi, messo in galera ladri, assassini e falsari, ma che prima di porsi al servizio della legge aveva conosciuto il bagno penale, era stato disertore, aveva servito diverse bandiere, aveva truffato centinaia di persone, aveva assalito diligenze e banche.



  Tommaso Gallarati Scotti, Balzac e Manzoni, in La giovinezza del Manzoni. Prefazione di Cesare Angelini, Milano, A. Mondadori, 1969 («Le scie»), pp. 301-305.

 

  Cfr. 1965.

 

 

  Franca Gambino, Honoré de Balzac, Milano, A. Mondadori, 1969 («I giganti della letteratura», 20), pp. 134; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Honoré de Balzac, Amo gli uomini eccezionali e sono uno di questi, p. 5.

 

  Sono riprodotti alcuni estratti tratti dalla corrispondenza (M.me de Berny, duchesse d’Abrantès, M.me Hanska, G. Sand, C. Maffei) e dalla Peau de chagrin.

 

  Abbasso Napoleone, viva la Restaurazione, pp. 6-7;

  La vita, pp. 9-21;

  La Turenna di Balzac, pp. 22-23;

  Sconfitti gli assalitori di diligenze, p. 24;

  Balzac da vicino, pp. 25-32;

  Le opere, pp. 33-48;

  L’arte nell’età di Balzac, pp. 49-56;

  Antologia:

  da Papà Goriot. Traduzione di Renato Mucci, pp. 57-65;

  da Illusioni perdute. Edizione Fratelli Treves, 1909, pp. 65-75;

  da Eugenia Grandet. Traduzione di Grazia Deledda, pp. 76-83;

  da Il Giglio della (sic) valle. Traduzione di Giampaolo Tolomei, pp. 83-86;

  da Luigi Lambert. Traduzione di Gildo Passini, pp. 86-88;

  I personaggi, pp. 89-104;

  La Francia della Commedia umana, pp. 105-120;

  La fortuna critica di Balzac, pp. 121-128;

  Principali edizioni delle opere, p. 128;

  Filippica di Balzac contro la stampa, pp. 129-133;

  L’occhio spietato di Honoré Daumier, p. 134.

 

  Riproduciamo integralmente le pagine che si riferiscono alla fortuna critica di Balzac:

 

  Fin dai primi anni della sua carriera artistica, Balzac, a causa della sua personalità “pantagruelica” così lontana da ogni comune misura, provoca nel pubblico e negli ambienti artistici reazioni appassionate. Ma questo non significa tuttavia che fin dal primo momento gli arrida un successo popolare, al contrario: solo dopo la sua morte il vasto pubblico comincia ad apprezzarlo veramente. Il giudizio di molti contemporanei è stato negativamente condizionato da una clamorosa presa di posizione anti-Balzac del celebre critico Sainte-Beuve, responsabile degli anatemi che si cominciano a lanciare contro il mondo corrotto che Balzac si sarebbe compiaciuto di rappresentare. Il giudizio negativo del critico non è isolato, ma si colloca alle origini di una corrente di virulenti censori, tutti nomi di scarsa rilevanza. In compenso, molti dei più illustri scrittori del tempo esprimono sulla personalità e sulla creazione poetica di Balzac giudizi altamente positivi. George Sand vede nella Commedia Umana un ritratto fedele, un «esame quasi universale ... di tutto ciò che ha costituito la vita dei contemporanei». Théophile Gautier, Barbey d’Aurevilly, Lamartine, non nascondono la loro viva ammirazione per lui. Le pagine che dopo la scomparsa dell’amico scrive Victor Hugo, uno degli ultimi ad assisterlo sul letto di morte, sono fra le più toccanti del libro Cose viste. Con il vigore che lo caratterizza, Hugo vi afferma che «Monsieur de Balzac era uno dei primi fra i maggiori, uno dei più alti fra i migliori» e che la Commedia Umana gli appare «opera immensa e straordinaria» in cui osservazione e immaginazione rappresentano le componenti qualitative più geniali. Per Baudelaire, il poeta dei Fiori dei male, «anche i portieri della Commedia Umana hanno del genio».

  Nel periodo successivo, sopiti ormai gli slanci emotivi, comincia a comparire una serie di studi critici solidamente elaborati. Precursore, può essere considerato H. Taine (Essai sur Balzac, 1858). Taine individua il principio ordinatore della monumentale Commedia Umana in una definizione proclamata da Balzac stesso: la Commedia Umana è la storia naturale della società. Le pagine acute e penetranti del saggio conducono però ad una interpretazione eccessivamente pessimistica, che distingue nella narrativa balzachiana solo forza d’istinti, gioco d’interessi, conflitto di passioni. Una monografia posteriore di qualche decennio, L’oeuvre de Balzac di Marcel Barrière (1896), ha invece il merito di mettere in rilievo il contenuto filosofico della Commedia Umana, fino ad allora considerata solo sotto aspetti meramente letterari o moralistici. Dall’analisi dei singoli romanzi il critico deduce i principi determinanti dell’estetica balzachiana: da un lato, il rigoroso realismo nella definizione degli ambienti fisici e sociali; dall'altro, la fantasia trasfiguratrice, che ricompone questa realtà secondo un disegno ideale, volto a produrre nel lettore uno slancio verso il sublime. Si viene intanto analizzando anche la genesi della Commedia Umana. Accanto alla imponente raccolta di dati e di commenti balzachiani, Histoire des oeuvres de Balzac (1879) del visconte di Spoelberch de Lovenjoul, bisogna ricordare il prezioso Répertoire de la Comédie Humaine (1887) curato da A. Cerfberr e J. Christophe, che comprende in ordine alfabetico i dati biografici dei duemila personaggi creati dalla fantasia del romanziere e il più recente Dictionnaire biographique des personnages fictifs de la «Comédie Humaine», 1952, del Lotte. Oltre all’opera, anche la straordinaria esistenza dello scrittore viene esaminata e studiata sotto tutti gli aspetti: basta citare tra le opere principali La jeunesse de Balzac e Balzac imprimeur di G. Hanotaux e G. Vicaire, La Dilecta de Balzac di G. Ruxton. Lo sviluppo del suo pensiero si precisa progressivamente dallo studio della sua opera e delle sue esperienze reali; si tende però troppo spesso ad attribuire a Balzac i più diversi orientamenti filosofici: esiste, o si crede di scoprire, un Balzac socialista (secondo R. Bernier), un Balzac monarchico (secondo E. Biré), un Balzac cristiano-sociale, un Balzac anticapitalistico, che era poi quello esaltato da Paul Louis ed accettato dalla critica russa contemporanea e così via. Verso il 1920. grazie agli accurati controlli dei manoscritti, che consentono una messa a punto definitiva dei testi e una ampia documentazione sulla genesi dei singoli romanzi, la fortuna di Balzac in Francia conosce un rinnovamento d’entusiasmi. Marcel Bouteron, il conservatore della collezione Lovenjoul, prosegue la pubblicazione di numerosi inediti tra cui primeggia la Corrispondenza: con Zulma Carraud, con Madame l’Étrangère Eva Hanska, con la de Castries. A. Bellessort pubblica nel 1924 un saggio su Balzac et son oeuvre, in cui riprende l’idea, cara al Taine, dell’interdipendenza dell’uomo e dell’opera, ma dove insiste anche sulla straordinaria esuberanza inventiva del romanziere. Sullo stile di Balzac, i giudici sono rimasti a lungo incerti. Perfino Taine e Brunetière, che pur si collocano fra i rari ammiratori dello stile balzachiano, di cui intuiscono la profonda originalità, ne danno un apprezzamento «antologico», che lascia in ombra la vasta mole delle cosiddette «scorie» stilistiche. G. Mayer per primo fonda il suo studio (La Qualification affective dans les romans de Balzac, del 1940) su precisi criteri linguistici, e non più estetizzanti. Ne risultano indiscutibili le qualità di precisione e soprattutto di pregnanza del vocabolario balzachiano. E il grande romanziere viene ulteriormente assolto dalle accuse di trascuratezza stilistica nello studio consacratogli da Th. Bruneau nell’ultimo capitolo della Histoire de la langue française des origines à 1900.

  Il centenario della morte di Balzac (1950), ha visto una prodigiosa fioritura di discorsi, edizioni, biografie, studi; testimonianze veramente probanti dell’entusiasmo che suscita tuttora il grande romanziere. Sono troppe le manifestazioni che si tengono in suo onore in ogni regione immortalata dalla sua penna per farne anche un semplice elenco; eppure, questi omaggi locali hanno fornito alla critica molte informazioni preziose sulla geografia poetica balzachiana. Paysages et destins balzaciens (1950) il bel libro di A. Ponceau, offre una suggestiva analisi della connessione profonda che Balzac seppe stabilire fra le cornici paesistiche dei suoi romanzi e le avventure vissute dai suoi protagonisti. Nella profusione di opere e articoli occorrerà distinguere almeno il numero speciale di La Revue d’Histoire Littéraire de (sic) France (1950), il volume su Balzac patrocinato dall’UNESCO, chiara consacrazione della universalità dello scrittore, nonché le conferenze tenute alla Sorbona nel novembre 1950 da critici eminenti come Maurois, Ph. Bertault, J. Pommier, O. Chamson, F. Baldensperger, Mario Roques, e altri pubblicate in Le livre du Centenaire (Flammarion, 1950).

 

Mazzini Tommaseo e Guerrazzi gli dichiarano guerra.

 

  In Italia Balzac viene più volte, suscitando in genere, con le sue eccentricità, un alone di benevola simpatia; ma fra tanti ammiratori mondani, annovera anche oppositori tenaci, come il Mazzini, il Tommaseo, il Guerrazzi. Il Mazzini, in uno scritto del 1839 intorno alle condizioni della letteratura francese, lo accusa di scetticismo e di azione dissolutrice dei valori morali sugli animi dei giovani, che smarrirebbero nei suoi romanzi ogni incanto di speranza, ogni profumo di fede, ogni freschezza di fantasia, li Tommaseo, dolendosi della fortuna che Balzac riscuote fra i giovani italiani, lo definisce pericoloso «più d’una nuova invasione di barbari». Giudizio che non gli impedisce poi di imitarlo, specialmente in Fede e bellezza. Ignazio Cantù, e poi il fratello Cesare, lo discutono lungamente in vari articoli, contrastando invano una corrente favorevole al romanziere francese che sta sempre più diffondendosi. A Cesare Cantù aveva raccomandato lo stesso Tommaseo di infierire contro Balzac e i suoi connazionali, per liberare gli Italiani dalla «pece francese». E benché l’austriacante Voce della Verità di Modena raccomandasse dal canto suo ai propri fedeli di farsi il segno della croce contro la nuova peste, i libri pestilenziali erano largamente venduti, tradotti, imitati. Il Brofferio, pur ostile a Balzac, ne addita l’opera a modello di un certo tipo narrativo che «associa più che ogni altro l’utile al dilettevole». Il Guerrazzi scaglia furibonde invettive contro un autore che tanto contrasta con le sue aspirazioni etiche e i suoi slanci patriottici, ma non ha il coraggio di negare il valore letterario delle opere balzachiane. Nell’insieme, il bilancio dei primi rapporti fra lo scrittore e la nostra cultura non risulta troppo confortante; a ciò si deve aggiungere la dubbia pubblicità giornalistica che nasce immediatamente attorno alle sue vicende passionali, e le reazioni indignate a quelle pagine dei suoi romanzi in cui gli Italiani non appaiono in buona luce. Nell’Italia travagliata del Risorgimento sembra piuttosto paradossale il destino di questo grande autore, osteggiato tanto dagli spiriti rivoluzionari quanto dalle forze conservatrici, entrambi d’accordo nel considerarlo, ma per opposti principi, uno scrittore corrosivo, troppo povero di entusiasmi e di fede per gli uni, troppo proclive ad idee sconvolgenti per gli altri. Anni dopo, con la piena affermazione del verismo, il valore di Balzac non viene più messo in dubbio. Ma proprio quando le sue idee letterarie acquistano finalmente pieno diritto di cittadinanza in Italia, Balzac vede il suo prestigio personale offuscato da Flaubert e Zola. Anzi, il ruolo di questi ultimi sembra prevalente: la novità di Balzac è andata attenuandosi col tempo: egli appare sorpassato dalle dottrine di Flaubert, più solidamente strutturate, più rigorosamente applicate, nonché dalle teorie naturaliste di Zola. È significativa la dichiarazione del Capuana che, a proposito della genesi del suo romanzo Giacinta, confessa la confusione lasciata nella sua mente dalla contemporanea lettura di Madame Bovary (Flaubert), dei primi volumi dei Rougon-Macquart (Zola), e di opere di Balzac. Tuttavia, anche in pieno verismo, Balzac incontra alcune critiche acerbe. Nel 1872, ad esempio, l’allora giovane Fogazzaro, nel suo manifesto L’Avvenire del romanzo in Italia, senza neppure degnarsi di nominarlo, si scaglia con chiari riferimenti contro codesta «apoteosi dello sporco e del brutto, codesto trionfo della turpitudine»; sotto questo profilo, il nome di Balzac viene sempre avvicinato, a quello di Rochefort, Sue, Vallès, ed altri autori popolareschi. Balzac è oramai superato quale innovatore, e le polemiche sorte sul verismo gravitano attorno al nome di Zola, mentre «il padre del realismo» appare quasi un timido precorritore della nuova moda. Solo in epoca recente, Balzac riconquista finalmente in Italia il rango che gli spetta, e vari critici gli dedicano saggi degni d’attenzione come la rassegna storico-letteraria di G. Gigli, Balzac in Italia (Milano 1920), la brillante monografia di Paolo Arcari, Balzac (Brescia 1949), le ricerche minuziose del De Cesare, la vasta sintesi di A. Pellegrini in Dalla Sensibilità al Nichilismo (Milano 1962).

 

Anche Juan Valera io disprezza.

 

  Nella cultura ispanica, come è accaduto in altre culture, la fortuna di Balzac non è immediata, è anzi a lungo ostacolata dal successo dei suoi rivali, da E. Sue a G. Sand, che lo lasciano in ombra oppure lo compromettono in un giudizio globale d’immoralità. Ma ad una riserva nei suoi confronti contribuiscono anche pregiudizi di natura formale, riconducibili in parte alla pessima qualità delle traduzioni. Non stupirà quindi che uno dei più notevoli scrittori della seconda metà del secolo, Juan Valera, narratore, critico, poeta e traduttore, condanni in blocco la tendenza borghese della narrativa francese dell’Ottocento e si riveli particolarmente intransigente nei confronti di Balzac, considerato il peggiore rappresentante di un genere deteriore, a causa della sua immoralità fondamentale, della falsità dei caratteri analizzati, della prolissità delle descrizioni, della pretenziosa erudizione. Un’eccezione va fatta per i Racconti ameni, che riscontrano un favore abbastanza ragguardevole e lasciano tracce in autori importanti come Eugenio de Ochoa. Una delle prime voci francamente favorevoli al romanziere francese è quella della scrittrice Fernán Caballero, ma anche un grande esponente della corrente idealistica, Pedro Antonio de Alarcón, esalta frequentemente l’opera balzachiana, alla cui scuola in parte ha formato la propria esperienza. Occorre comunque attendere la fine del secolo e l’ondata della narrativa naturalistica, i romanzi di Pereda, Pérez Galdós, Palacio Valdés e della Pardo Bazán, per veder risalire la quotazione degli scritti balzachiani. Lo scrittore spagnolo che meglio ha capito e assimilato la Commedia Umana è Benito Pérez Galdós (a quanto pare, uno dei pochi ad averla letta per intero); egli ne medita a lungo il significato e mette a profitto la grande lezione nel disegno di un ciclo in cui più volte si è ravvisata la Commedia Umana spagnola.

  Anche in Portogallo lo scrittore francese desta concreti interessi, in particolare nell’ambito della narrativa che si propone intenti realistici; e il più rappresentativo dei narratori moderni, Eça de Queiroz, concepisce, sotto l’influsso della sua opera ciclica, un progetto di Commedia Umana portoghese, che troverà però una realizzazione parziale e sommaria. Tuttavia, come ha dimostrato J. Girardon con probante indagine comparatistica, molti romanzi di Queiroz rivelano ampi prestiti balzachiani, come O Primo Bazilio, e, in modo particolare, A Capital, che rinnova il tema delle Illusioni perdute.

 

Per Swinburne è il più grande maestro di morale.

 

  In Inghilterra, Balzac incontra sulle prime un’ostilità quanto mai violenta. Viene accusato delle peggiori depravazioni dalla critica ufficiale impregnata di una sensibilità puritana. La Foreign Quarterly Review pubblica nel 1832 un importante articolo sullo scrittore francese in cui si accusa la narrativa balzachiana di aver oltrepassato troppo spesso i limiti della decenza, dimostrando in varie scene un gusto così licenzioso che sarebbe stata passibile di sanzioni penali se l'autore avesse scritto in Inghilterra: per buona fortuna del pubblico inglese, conclude questo tipico interprete della mentalità anglosassone dell’epoca, lo stile balzachiano è privo di ogni attrattiva e viene così limitato il pericolo di una sua influenza nefasta. Una seconda fase della penetrazione di Balzac in Inghilterra inizia colla sua morte e si protrae grosso modo fino agli ultimi anni del secolo. Durante questo periodo, Balzac annovera un numero sempre crescente di ammiratori fra i maggiori scrittori e fra i critici più in vista. Ma se l’élite intellettuale e bilingue è ormai conquistata, al pubblico inglese, che dispone solo di alcune traduzioni pessime e incomplete, Balzac rimane in sostanza uno sconosciuto. Potremmo dunque definire questo periodo quello delle gloriose conquiste individuali, opposte all’indifferenza o all’ignoranza generali. Lo scrittore William Wilkie Collins pone Balzac tra i geni che dominano la letteratura mondiale del tempo, anche se il massimo romanziere inglese di allora, Dickens, disprezza l’autore francese. Bisogna aspettare fino al 1868 per trovare un omaggio completo ed autorevole, dovuto alla penna di Swinburne, nel saggio critico su William Blake. Swinburne si oppone all’accusa di amoralità mossa al romanziere e ravvisa anzi in lui «un maestro di morale». Il pioniere della critica balzachiana in Gran Bretagna è Henri van Laun, che pubblica nel 1869 le Selections from Honoré de Balzac; e nella monumentale History of French Literature (1876-77), attribuisce a Balzac un ruolo superiore a quello svolto dallo stesso Dickens, per l’originalità e la potenza delle sue creazioni. A partire da questo momento, quasi ogni artista eminente si sente obbligato a formulare la propria opinione su un autore la cui importanza non fa che accrescersi. Matthew Arnold segnala per primo la necessità di compiere una sostanziale rivalutazione delle sue qualità. Oscar Wilde, in un articolo gustosissimo comparso nel 1886 in Pall Mail Gazette, pone la Comédie Humaine tra i massimi capolavori del secolo. Ma l'avvenimento principale per la penetrazione di Balzac in Inghilterra è la pubblicazione della prima traduzione completa della Commedia Umana (dal 1895 al 1898), compiuta da ottimi traduttori e diretta con molta competenza da G. Saintsbury. Tuttavia, nel 1925 il pubblico inglese non è ancora del tutto favorevole a Balzac, e l’opinione piuttosto negativa espressa da P. Lubbock in The Craft of Fiction (1921) è condivisa da una parte importante della critica. Dopo tale data sono stati scritti ben pochi saggi degni di nota, e questa lacuna testimonia, se certo non più l'ostilità iniziale, almeno una persistente indifferenza. Invece nell’ultimo dopoguerra si delinea una nuova fioritura di saggi spesso notevoli, e l’Inghilterra contemporanea annovera alcuni balzachiani eminenti.

  Uno dei promotori dell’attuale diffusione dell’opera di Balzac nella cultura inglese è M. Grindea, il direttore del periodico Adam, International Review, che ha organizzato a Londra una esposizione balzachiana nel 1949, e gli ha consacrato un numero intero della rivista. Negli Stati Uniti d’America, il primo articolo dedicato a Balzac è la riproduzione di un violento attacco inglese (1836). La critica statunitense successiva è senz’altro influenzata da questa prima censura, ma soprattutto il parallelismo tra i giudizi inglesi e americani proviene da una stessa riserva morale sulla letteratura. Il comune pregiudizio etico domina – grosso modo – tutta la critica anteriore al 1870. Dopo, le valutazioni sfavorevoli si fanno più rare: gli Americani cominciano a rivolgersi verso la letteratura francese e soprattutto verso Balzac che offre loro proprio quelle qualità scarse nei loro scrittori: la forza dell’indagine psicologica, l’analisi delle relazioni tra l’individuo e l’ambiente, l’uso esemplare del dialogo. Uno studio positivo interessante su Balzac è quello di H. T. Tuckerman, uscito sul The Southern Literary Messenger (1859), che pone Balzac tra i massimi scrittori della letteratura mondiale; e lo considera tutt’altro che amorale poiché impartisce all’umanità una grande lezione, rivelandole quanto in basso possa cadere e quanto in alto possa assurgere. Agli inizi del secolo nuovo, tra la folta schiera di studi balzachiani, emergono per qualità e perspicacia alcuni saggi di Henry James. Nel suo studio più completo e rappresentativo, The lesson of Balzac (in The Atlantic Monthly, 1905), lo scrittore individua la genialità balzachiana nella capacità di evocare un mondo complesso, conciliando minuzia e intensità dei fatti descritti grazie alla finezza con cui penetra nell’intimo dei temi trattati. I tre difetti che James sottolinea sono invece l’assenza di impegno morale, il predominio della volgarità e la mancanza di gusto, compensati però dalla maestria consumata nel ritrarre un carattere, nel costruire un dialogo, nel definire una situazione e nel rappresentare la fuga del tempo.

  Se ora Balzac ha perso, negli Stati Uniti, la popolarità di cui godeva all’inizio del secolo, egli vi è comunque trionfalmente installato nel firmamento letterario, e appare interessante notare a quale altissimo rango lo collochino autori contemporanei del calibro di Thornton Wilder, John Dos Passos, James Farrell (come risulta in modo inequivocabile dalla loro corrispondenza), o critici attuali come J. Donald Adams.

 

Heine e Goethe i primi ammiratori.

 

  Nella cultura germanica Balzac ottiene un successo immediato, grazie soprattutto al favore con cui lo accolgono i massimi esponenti del romanticismo tedesco e in primo luogo Goethe e Heine. Goethe, leggendo La pelle di zigrino, osserva che «quella produzione di un bell’ingegno accennava a un guasto insanabile della nazione, che si sarebbe poi esteso ed approfondito». Heine conosce personalmente Balzac, ed esprime nei confronti della sua personalità e soprattutto della sua arte lusinghiere opinioni in Geständnisse e in Lutezia. Ma verso la metà del secolo la fortuna di Balzac in Germania comincia a calare a vantaggio di altri narratori di secondo ordine. Bisogna aspettare il bellissimo saggio di Hofmannsthal, nel 1908, per ritrovare l’entusiasmo suscitato inizialmente dal romanziere francese. Lo studio, comparso in occasione della traduzione tedesca della Comédie Humaine, rimane tuttora fondamentale per la sua penetrazione e la sua completezza. Hofmannsthal, poeta dalla sensibilità sottile, oltre che critico di vaglia, è uno dei primi autori del nostro secolo a cercare di definire la titanica grandezza di Balzac, collocandolo fra i massimi geni della cultura occidentale; e non trova altri termini di paragone per la Commedia Umana se non la Commedia dantesca o la drammaturgia scespiriana, tanto immensa gli sembrava la ricchezza poetica della fantasia balzachiana. Poco più tardi, Stefan Zweig ribadisce l’importanza ormai riconosciuta di Balzac e non esita a classificarlo fra i principali maestri della letteratura, a capo degli «architetti del mondo» (Baumeister der Welt), accanto a Dickens, Tolstoj e Dostoièvski. Un suo lavoro postumo, tradotto in francese, Balzac. Le roman de sa vie, offre un vasto e brillante panorama della carriera dello scrittore, ancor oggi di utile consultazione, sebbene gli eruditi contestino alcune sue osservazioni sulla psicologia del romanziere. Ma il contributo germanico più imponente e più valido alla comprensione del romanziere francese è quello di E. R. Curtius. Il suo Balzac, tradotto anche in francese nel 1933, è importantissimo perché indica in una profonda sintesi le grandi componenti della psicologia e dell’opera dell’autore, illuminando singolarmente il mistero della erezione della Commedia Umana. Ogni aspetto saliente del grandioso ciclo viene infatti collegato dal Curtius ad una nota caratteristica dell’indole dell’autore; ne nasce cioè un duplice ritratto, psicologico e stilistico, in cui l’attrazione verso il mistero, lo slancio energetico, le passioni in generale, l’amore e il desiderio di potenza in particolare, rappresentano altrettante linee di forza capaci di spiegare, per un fenomeno di scambi incessanti, tanto il romanziere quanto la sua creazione. Il Curtius ha il merito di presentare una visione unitaria e sistematica della Commedia Umana; essa costituisce ai suoi occhi un insieme organico, come le parti di un tutto che le comprende; e questo tutto gli si rivela organizzato in una struttura chiaramente significativa, emblematicamente presentita dal romanziere stesso quando dichiarava: «Non basta essere un uomo; occorre essere un sistema», occorre cioè concepire la creazione come un insieme organizzato secondo un’idea unificatrice. Al Curtius la critica balzachiana contemporanea deve insomma una delle prese di posizione più categoricamente unitarie, una delle interpretazioni complessive più straordinarie.

  In Olanda Balzac si afferma con un certo ritardo, ma non manca poi di conquistare i lettori. Il contributo critico dei Paesi Bassi è tuttavia alquanto modesto. I primi saggi risalgono al 1890 circa, e sono di scarsa portata, rivestendo un carattere divulgativo. Il più considerevole studio su Balzac è dovuto al Van Deventer. Anche in Danimarca, le opere di Balzac hanno una diffusione molto tardiva per la prolungata mancanza di traduzioni e per gli orientamenti della cultura danese del primo Ottocento. Solo dopo la guerra del 1870, i Danesi incominciarono ad interessarsi della letteratura romantica francese e soprattutto del realismo. Il merito di questa apertura tocca al grande critico Georg Brandes che nel suo Den romantiske Skole (Copenhagen 1882) inizia il pubblico alle opere francesi contemporanee. Buona parte dello studio consacrato a Balzac analizza acutamente la psicologia del romanziere, quale si può dedurre sia dalla biografia sia dagli scritti. Poco prima, nel 1879, lo scrittore Herman Bang aveva tracciato dei ritratti paralleli di Balzac e Zola, soffermandosi in particolare su due aspetti di Balzac: il suo darwinismo ante litteram, nella descrizione della lotta per la vita, e la sottile definizione della psicologia femminile. Nel 1899, P. Levin, in un interessante confronto con la tecnica di Walter Scott, conclude che per Balzac l’intrigo ha un ruolo del tutto secondario mentre predomina la preoccupazione di descrivere la vita, secondo la psicologia intima di un personaggio o di tutto un ambiente sociale. E se lo stile a volte è pesante, ciò è dovuto, secondo il Levin, all’immenso compito che si è prefisso lo scrittore.

  La pubblicazione di Séraphîta, ambientata in Norvegia, favorisce la diffusione di questo e di altri romanzi balzachiani nei Paesi scandinavi. Nella seconda metà del secolo, il maggior romanziere norvegese, Jonas Lie, ricorda Balzac fra le letture preferite dalla sua famiglia ai tempi della prima giovinezza, e si sente legato alla figura del francese anche da qualche similitudine di esperienze biografiche; ma è in particolare il suo tentativo di ripetere un ciclo di analisi della vita scandinava a ravvicinarlo al grande maestro di Tours.

  Poco più tardi gli esponenti meglio qualificati delle lettere norvegesi, Henrik Ibsen e Björnstjerne Björnson, si considerano più vicini all’equilibrato realismo balzachiano che non al secco naturalismo di Zola. Degli scrittori norvegesi contemporanei, Johan Bojer è forse quello che più esplicitamente ha espresso la propria ammirazione per Balzac, quando ricordava come al tempo della sua giovinezza di studentello squattrinato egli inseguisse per le biblioteche pubbliche i capolavori della Commedia Umana; e il personaggio principale del suo romanzo Il prigioniero che cantava è strettamente imparentato col Vautrin di Balzac. In Svezia Balzac, pur essendo accolto inizialmente con qualche riserva di carattere morale, diventa presto celebre. August Strindberg, che nel 1879 pubblica un’opera rivoluzionaria come La sala rossa, colloca in apertura del romanzo un’imitazione dell’esordio del balzachiano L’Envers de l’Histoire contemporaine; nell’eroe di Strindberg, Arvid Falk, si riconosce il giovane Rastignac del Père Goriot, e nella sua narrazione autobiografica Il figlio della serva si riscontrano infinite coincidenze con le vicende del Louis Lambert.

 

Dostoièvski traduce l’Eugenia Grandet.

 

  Dei Paesi dell’est europeo, è la Polonia che per prima scopre Balzac. Ovviamente ad influire su questa pronta intuizione dei valori balzachiani intervengono non solo gli stretti contatti che uniscono la Polonia romantica di Chopin alla Francia della Restaurazione ma anche, e in modo determinante, la popolarità che Balzac acquista in quel Paese durante i viaggi che compie per raggiungere Madame Hanska. Il tempo delle nobildonne polacche, nota un ironico cronista nel 1842, «trascorre tutto in visite e in letture di romanzi balzachiani». Poi, Balzac viene momentaneamente eclissato dal grande romanziere realista Émile Zola, ma a partire dal 1920 il numero delle traduzioni e degli studi critici si moltiplica, grazie soprattutto all’impegno zelante di un grande letterato, entusiastico sostenitore della poetica balzachiana, Tadeusz Zelénski, detto Boy (1874-1941). Nella Russia idealistica e romantica di Puskin e di Tolstoj la fortuna di Balzac conosce alterne vicende. Da una certa freddezza iniziale, si passa con Bielinski alla attenzione curiosa e con Dostoièvski alla autentica comprensione. Dostoièvski ha un ruolo di primo piano nella diffusione della Commedia Umana nella cultura slava: anche se l’aristocrazia e gran parte della borghesia russa parla e scrive correntemente la lingua francese, la traduzione russa di Eugénie Grandet che l’autore dei Fratelli Karamazov pubblica nel 1837 contribuisce validamente, con la sua pregevole fattura, ad avvicinare un pubblico più vasto al capolavoro balzachiano. Il realismo russo, e Gorki in particolare, si rivela abbastanza favorevole allo scrittore francese, di cui condivide l’atteggiamento di rigorosa indagine delle situazioni sociali. Qualche riserva sulle qualità stilistiche dei suoi romanzi viene invece espressa da Turghèniev, che non riconosce a Balzac doti straordinarie di scrittore: «È un etnografo» dice «non un artista». Nel mondo slavo, un posto di rilievo nella critica balzachiana occupa la Serbia, dove lo scrittore, anche grazie agli stretti apporti culturali che legano il Paese alla Francia, diventa presto un autore alla moda. Le opere che ottengono un successo indiscusso sono Papà Goriot e Eugenia Grandet.

 

 

  R. Gasparro, Un “Mercadet” soporifero, «Gazzetta del Sud», Messina, 2 aprile 1969.



  Cesare Giardini, Un dannato Melmoth, «Il Piccolo», Trieste, 4 gennaio 1969, p. 3.

 

  Ora, nel 1835, il Balzac riprese questo personaggio e ne fece l’eroe di un lungo racconto, «Melmoth réconcilié», che oggi figura tra le «Etudes philosophiques». Ebbene, dice più il Balzac sui terrori dell’uomo che sa di essere dannato per contratto in cinquanta pagine di quanto ce ne faccia sapere il Maturin nel suo grosso volume.

  Melmoth può riscattarsi se trova qualcuno che voglia prendere il suo posto, ma il Maturin che ha stabilito questa condizione, preferisce abbandonarlo al suo destino. Il Balzac, invece, salva Melmoth: questi trova un «supplente» in un cassiere fraudolento ridotto alla disperazione. Ma, evidentemente, la situazione dell’uomo che si vede continuamente aperto davanti l’inferno non è delle più piacevoli, per cui il cassiere, messa a posto la propria situazione, cede il contratto a un altro, e questo a un altro ancora, e così via di seguito ...

  Il contratto satanico, passando di mano in mano, ad onta dei suoi innegabili vantaggi, diminuisce però a poco a poco di valore, e alla fine non si trova neanche più chi lo voglia. La farina del diavolo, dice il proverbio, va in crusca ... Intanto Melmoth, giunta la sua ora, fa la fine del giusto. Isidora lo ritroverà in cielo! A questa strabiliante conclusione balzachiana forse l’autore di «Melmoth l’uomo errante» non aveva pensato.

 

 

  L. J., Buazzelli Mercadet 10 anni dopo, «Corriere d’informazione», Milano, 11-12 novembre 1969, p. 13.

 

  [...]. Perché «Mercadet l’affarista»? «Perché — dice Buazzelli — nella società contemporanea il denaro e gli speculatori regnano indisturbati: le ragioni della ripresa di questo testo sono dunque evidenti».

  La commedia, com’è noto, narra la vicenda di Augusto Mercadet, sfrenato giocatore di borsa, un uomo ricco di umori e di fantasia che non bada troppo ai mezzi coi quali conseguire il successo. Ma a un certo momento le cose si mettono male: i creditori lo assillano, il padrone di casa minaccia di togliergli i mobili. Egli allora pensa di risolvere tutti i problemi dando in moglie la figlia Giulia al ricco signor De La Brive. La situazione, però, vacilla di nuovo quando Mercadet scopre che il vero nome di costui è un altro. Fortunatamente si fa vivo all’improvviso Godeau. il socio di Mercadet fuggito molti anni prima in America con la cassa, il quale torna coi quattrini e aggiusta tutto.

  E’ risaputo che il personaggio di Mercadet è in un certo senso la proiezione di Balzac — anch’egli affarista immaginoso e sfortunato — il quale volle, con effetti disastrosi, coltivare ananas vicino a Parigi, importare sessantamila querce dalla Polonia, sfruttare le scorie di piombo in una miniera sarda, e via dicendo. Buazzelli. a sua volta, propone fisicamente la immagine di Balzac per cui è intuibile come la sua adesione al personaggio di Mercadet sia profonda, totale. «Shakespeare — spiega ancora l’attore-regista — nel ‘Timone d'Atene’ considera il denaro come un dio distruttore, mentre Balzac lo pone al sommo delle aspirazioni umane: un dio attivizzante ma nello stesso tempo nefasto. Mercadet non si rassegna a finire in campagna il destino della sua miseria; lotta, immagina, riesce a sfruttare anche la sua stessa sconfitta, pur di vivere nel mondo così com’è, basato sul denaro e sul suo gioco. Nasce da qui l’attualità di questo testo». [...].

 

 

  Tullio Kezich (a cura di), Tra Balzac e Charles Trenet, «Sipario. Rassegna mensile dello spettacolo», Milano, Anno XXIV, n° 276, aprile 1969.

 

 

  Luigi Losito, De Balzac à Stendhal, «Culture française. Quindicinale didattico linguistico-letterario», Bari, Anno XVI, 1969, pp. 299-303; 5 ill.

 

  A quanto ci è dato sapere Balzac e Stendhal non hanno avuto in vita, molti rapporti. Il primo già godeva di sicura fama quando l’altro stentava ancora a farsi leggere ed approvare.

  Il più sintomatico incontro fra questi due grandi romanzieri del XIX secolo resta certamente la recensione che l’autore della Comédie fece apparire nella Revue Parisienne del 25 settembre 1840 sulla Chartreuse de Parme, che Stendhal aveva ceduto all’editore Dupont per 2.500 franchi e che trovava pochi ammiratori o quantomeno pochi critici che ad essa si interessassero.

  Il ben noto articolo di Balzac fu carico di elogi per il romanzo stendhaliano, ritenuto senz'altro come «oeuvre extraordinaire». Tutta la prima parte è un susseguirsi di lusinghieri apprezzamenti, che dovettero suscitare nell’autore piacere e gioia:

  «M. Beyle a fait un livre où le sublime éclate de chapitre en chapitre. Il a produit ... une oeuvre qui ne peut être appréciée que par les âmes et par les gens vraiment supérieurs. Enfin il a écrit le Prince moderne, le roman que Machiavel écrirait, s’il vivait banni de l’Italie au XIXe siècle.

  ... Moi qui crois m’y connaître un peu, je l’ai lue pour la troisième fois ces jours-ci: j’ai trouvée l’oeuvre encore plus belle, et j’ai senti dans mon âme l’espèce de bonheur que cause une bonne action à faire.

  N’est-ce pas une bonne action que d’essayer de rendre justice à un homme d’un talent immense, qui n’aura de génie qu’aux yeux de quelques êtres privilégiés et à qui la trascendance (sic) de ses idées ôte cette immédiate mais passagère poularité (sic) que recherchent les courtisans du peuple et que méprisent les grandes âmes?

  ... tout m’a paru très harmonieux, lié naturellement ou avec art ...». Ma, dopo il sapore del dolce, Henri Beyle dovette provare anche l’amaro perché agli elogi seguivano le critiche negative, e non poche, tanto da dar la sensazione che Balzac si sia accannito (sic) nel voler ricercare difetti ed errori, anche là dove essi non sussistono.

  «Si j’ai trouvé de la confusion à la première lecture, cette, impression sera celle de la foule, et dès lors évidemment ce livre manque de méthode. M. Beyle a bien dispose les événements comme ils se sont passés ou comme ils devraient se passer; mais il a commis dans l’arrangement des faits la faute que commettent quelques auteurs, en prenant un sujet vrai dans la nature qui ne l’est pas dans l’art.

  Le côté faible de cette oeuvre est le style, en tant qu’arrangement de mots, car la pensée éminemment française, soutient la phrase. Les fautes que commet M. Beyle sont purement grammaticales: il est négligé, incorrect à la manière des écrivains du XVIIe siècle ...

  Ces fautes assez grossières annoncent un défaut de travail ...

... Sa phrase longue est mal construite, sa phrase courte est sans rondeur. […].

  Je souhaite que M. Beyle soit mis à même de retravailler, de polir la Chartreuse de Parme ...».

  Ma non solo per i difetti che Balzac denunziava qua e là, l’articolo non dovette far molto piacere a Stendhal. C’erano altri due fatti più gravi. Innanzitutto le citazioni erano state riportate a memoria, con molte alterazioni, o copiate malamente e poi Balzac dimostrava di non aver capito del tutto l’opera pretendendo che essa terminasse quando il conte e la contessa Mosca rientrano a Parma e quando Fabrizio diventa arcivescovo perché è allora che «... la grande comédie de la cour est finie ...».

  Il mese seguente (ottobre 1840)) Henri Beyle inviava a Balzac una lettera di ringraziamento (che pare abbia avuto parecchie redazioni) e non si sa bene se, tornato a Parigi, egli si sia rivisto con il romanziere della Comédie nè fino a che punto possa trovare conferma la notizia riportata da Sainte-Beuve, nel Moniteur universel del 9 gennaio 1854, di un prestito o di una donazione di 3.000 franchi da parte di Stendhal a Balzac « qui fut ainsi payé de son éloge».

  Della questione dell’articolo di Balzac sulla Chartreuse si è riparlato durante il VII Congresso Internazionale di Studi Stendhaliani, che si è tenuto a Tours, nei giorni 26, 27 e 28 settembre, che aveva specificatamente per tema «Stendhal et Balzac».

  E’ stato Stendhal che è andato a far visita a Balzac, che a Tours è di casa, pur non avendo l’autore del Rouge et Noir, come ha dichiarato il prof. Del Litto, presidente dell’Association des Amis de Stendhal, grande simpatia per la Valle della Loira, ch’egli riteneva essere «une triste et morne plaine».

  Abituato alle alte cime dei suoi monti e affascinato dal Rinascimento italiano, il Grenoblese non dovette sentire alcuna attrattiva per la bella e dolce Turingia, jardin de la France.

  I congressisti convenuti a Tours non hanno certamente dato ragione al loro maestro, avendo espresso la loro viva ammirazione per una regione tanto ricca di bellezze naturali, di storia, d’arte, di letteratura.

  Grandi sovrani (Carlo VIII, Luigi XII, Francesco I ...), illustri poeti e scrittori (Rabelais, Ronsard, Balzac ...), una folta schiera di artisti (vi primeggia il nostro Leonardo da Vinci) hanno illustrato questa terra.

  Come consuetudine i seri lavori congressuali si sono alternati a escursioni turistiche che hanno permesso ai congressisti di conoscere alcuni famosi luoghi e monumenti della regione. Primi fra tutti i châteaux du Val de Loire: Azay-le-Rideau, creazione del primo Rinascimento con richiami ad arte gotica, Saché[4], che data del XVI secolo, Langeais, ricco di magnifici mobili rinascimentali e di preziosi tappeti di scuola fiamminga, Amboise, legato ai ricordi di Carlo VIII, che vi nacque, Clos-Lucé ove morì Leonardo da Vinci, ecc. [...].

 

 

  Mario Luzi, Il senso e la forza di un’opera sterminata. Uno sguardo a Balzac, «Corriere della sera», Milano, Anno 94, N. 54, 6 marzo 1969, p. 11.

 

  La nuova edizione della «Commedia umana» presentata da Giovanni Macchia – Dai fumettoni di gioventù al grande realismo fantastico.

 

  Il tema Balzac. La nuova critica considera le opere letterarie dei puri dati, ma non molti anni addietro era ancora possibile accapigliarsi tra chi era disposto a riconoscere all’autore del Père Goriot tutt’al più una grossolana genialità e chi esigeva per l’universo della Comédie humaine un più assoluto rispetto. Non mancava poi un modo abbastanza elegante di eludere il dilemma uscendone, ad esempio, per la tangente della Cousine Bette o del Colonnello Chabert, esaltando cioè le pieghe per passare sotto silenzio i rilievi del mappamondo balzacchiano. Dov’è più riposata infatti la vena del romanziere filtra più nell’interno delle cose, si espande in zone più sottili e umilianti, è costretta a cercare le parole scavando nella lingua: proprio quanto richiedeva il palato del lettore un secolo dopo.

  Ho notato che i fanatici di Balzac sono individui dotati di una robusta facoltà di astrazione; ed è probabile che codesta facoltà sia necessaria per vibrare all’unisono con il macrocosmo della Comédie popolato di persone e di manichini, di situazioni approfondite e di casi raccontati alla brava, di immagini potenti e di fantasmi molto provvisori. Chi ha quel potere di astrazione s’incanala nel grande disegno e passa sopra agli inconvenienti dell’immaginazione sovreccitata che l’ha concepito e riempito peccando anch’essa spesso e volentieri di astrazione. L’idea che si ha di Balzac è comunemente quella di un autore sanguigno: ma la sua enorme carica inventiva si traduce spesso in una febbre di testa che esercita una astratta violenza sulla realtà e sulla natura dei sentimenti. Di astrazione ce n’è a fortissime dosi nella Comédie: ce n’è nell’ambizioso «cartone» visionario e volontario dell’affresco, ce n’è nella squadratura rigida del suo realismo che pure gli consente di raggiungere più volte un’intensità allucinatoria.

 

 

  Il fanatismo per Balzac che ho conosciuto in qualche maestro d’altri tempi e in qualche recente «critico di idee» sotto sotto nasconde la mitologia del genio e quella connessa della sua vulcanicità: mitologia appunto che ha per oggetto l’astratto lato spettacolare più che i moti profondi della creazione artistica. Del resto non pochi pensano che questo sia il solo tipo di lettore su cui Balzac potesse fare affidamento.

  Nonostante la sua genialità per molti versi sconsiderata è certo invece che l’autore della Comédie merita un lettore più vero. Ne dà proprio ora la prova Giovanni Macchia introducendo la nuova edizione italiana in corso di stampa presso Gherardo Casini (ne è uscito il primo volume, pp. 600, L. 5000). Macchia ha molto esprit de finesse, nessun culto speciale per i prodigi. Sospendere le proprie facoltà critiche di fronte all’ingiunzione di un mito non rientra nelle sue abitudini di studioso a largo raggio e capillare allo stesso tempo. D’altra parte non vedo in lui parentela con quei lettori capziosi, deformanti per fini particolari la natura di un testo, tra i quali Balzac ha conosciuto un insospettato revival che mi fa pensare a quello di certi naïfs nelle fasi più sofisticate della cultura. Da critico e da storico qual è Macchia si è messo nella situazione del lettore integrale e ha sentito che il tema Balzac resiste in pieno ed è più serio dell’accecamento, dell’ironia e del sofisma. Ne ha ricavato un saggio pieno di equilibrio e anche di calore mettendo la sordina al tasto dei capolavori (a cui Balzac del resto non credeva), battendo invece sul senso e sulla forza del lavoro del romanziere.

  Possiamo profittarne per mettere in chiaro sommariamente qualche idea. Il senso del lavoro di Balzac sta nello spostamento dell’obbiettivo dai destini d’eccezione a quelli comuni. La mobile, inquieta società del denaro, delle cariche, delle carriere che contrassegna la ascesa borghese degli anni trenta era stata a guardare lo spettacolo di personaggi straordinari, avulsi da sé, e ora si ritrova con sorpresa protagonista di uno sterminato romanzo, la Comédie, ne occupa con il proprio dramma tutta la scena. Il genre roturier (così ancora Baudelaire definiva il romanzo) ad opera di questo capovolgimento si conquista un’autorità, una funzione, dei connotali indelebili.

  Quanto alla forza è più difficile catturarla con una formula; ma non dovrebbe essere troppo approssimativo farla dipendere dallo speciale realismo che impronta l’operazione. Il realismo di Balzac non è metodico, conserva anzi tutto il potenziale fantastico che da povero mestierante lo scrittore aveva sciorinato nei malfamati fumettoni di gioventù. Il bisogno del meraviglioso e dell’incredibile s’insinua nelle sue storie soggettive e non è parco di conseguenze: talora dà luogo a ibridazioni impossibili, a orribili innesti; talora serve a dilatare stupendamente i tratti e i contorni di un personaggio o meglio di un tipo umano indimenticabile. Anche il mondo ravvicinato della foresta sociale contemporanea poteva assumere qualcosa di leggendario, oltre tutto così efficace per la sua intelligenza che Marx e Engels preferirono questo quadro a quello del socialista Zola.

  Impostato così il vecchio tema, non dovremmo perdonare a Balzac i grossolani congegni di parecchie sue macchine narrative, il loro stridore?



  Giovanni Macchia, La critica letteraria di Baudelaire: Anno accademico 1968-69, Università di Roma, Facoltà di lettere e filosofia, Roma, E. De Santis, 1969.



  Giacomo Miazzi, Alla vigilia del Congresso stendhaliano di Tours. Balzac, Stendhal e la «Certosa di Parma», «Gazzetta di Parma», Parma, 23 settembre 1969.

 

 

  Paolo Milano, Visto da Curtius e Macchia. Il romanziere Balzac professore di energia, «L’Espresso», Roma, Anno XV, 18 maggio 1969, p. 23.

 

  La nostra età, in letteratura, come ognuno vede e ripete, è l’età della critica. Quanto più la creazione si fa difficile e rara, tanto più diffuso e profondo si fa il commento alla creazione; (e del critico si può ormai parlare come di un protagonista). A questo si giunge per due vie: da un lato il critico letterario si fa artista lui stesso, svincolandosi in buona misura dal suo oggetto; dall’altro ed opposto, il critico si fa scienziato, chiedendo a varie discipline, dalla psicologia alla linguistica e dalla sociologia alla metafisica, strumenti di analisi e criteri di giudizio.

  Si ripropone acuta, in queste nuove circostanze, un’antica questione: come regge al tempo, la critica letteraria? Qual è, di fronte a quella di opere creative, la sua capacità di durare? Si noti, intanto, che le opere di critica letteraria propriamente dette, quando cioè il termine si intenda in senso rigoroso, sono relativamente rare. Chiaro esempio: quello che, nella civiltà letteraria europea, è stimato il capolavoro del nostro massimo critico, il “Port-Royal” di Sainte-Beuve, è in realtà un affresco di storia della cultura. Altri studi critici che hanno retto alla prova dei decenni e magari del secolo, sono di fatto opere di storia (sia pure letteraria: vedi il De Sanctis), o di filologia, o di estetica. Gli stessi saggi di Baudelaire su Poe, per dare un altro esempio, sono un manifesto estetico, o meglio, una dichiarazione di fede poetica fatta per interposto autore.

  Questo è un avvio per riferire del “Balzac’’ di Ernst Robert Curtius (1886-1956), l’ampio e famoso studio sull’autore della “Comédie Humaine” che il grande romanista tedesco pubblicò nel 1923, e che ora, poco meno di mezzo secolo dopo, viene proposto al lettore italiano. Felice è questa occasione di indagare come invecchi, (se è invecchiata), un’ottima opera critica. Il che proveremo a fare non solo rileggendo il libro, ma accostandolo a un saggio su Balzac invece molto recente, di un francesista italiano, anzi del maggiore di tutti, Giovanni Macchia. Si intitola “Il cammino di Balzac”, ed è un’introduzione di trenta pagine a una nuovissima versione integrale della “Commedia umana”, che pubblica l’editore Casini.

  Quando Curtius scrisse il suo “Balzac”, o meglio lo disse, (il libro, che nacque da un corso di lezioni, serba in qualche piega il suono della viva voce), il parere corrente su Balzac era ancora quello della critica accademica di confessione realistica. Balzac, (pensava ad esempio Gustave Lanson), è un romanziere possente ma gravato da enormi pecche, un realista minato dalla rettorica, inoltre «nient’affatto artista», giacché la sua «impotenza si manifesta crudelmente dovunque la perfezione dello stile sia necessaria al valore dell’idea». C’era, sì, su Balzac, anche una veduta opposta, quella inaugurata da Baudelaire, («A me è sempre parso che il merito di Balzac sia l’essere un visionario, un visionario appassionato»), ma era una tesi rimasta quasi senza tradizione, salvo che nei paesi germanici, dove, ad esempio, l’aveva riscoperta uno Strindberg, e ripresa uno Hoffmanstahl. Il ritratto che di Balzac ci offre Curtius, (con in mente i suoi tedeschi: Novalis e Nietzsche e il Goethe magico), è il profilo di un genio: Balzac titanico che affresca tutto un universo sociale, ma insieme un Balzac veggente e faustiano.

  Tanto Curtius che Macchia, ciascuno nel suo studio critico, guardano all’opera di Balzac (con dentro la sua vita) come a un tutto unico, che descrivono non già per singoli romanzi ma per aspetti essenziali. I capitoli del libro di Curtius si chiamano appunto “Magia”, “Passione”, “Potere”, “Società”, “Personalità” e simili, come per definire le forze all’opera, mentre quelli del saggio di Macchia si intitolano “La sete dell’incredibile”, “L’enigma Balzac”, “Il pubblico come protagonista”, “Mitologia del romanziere” e così via, poiché fanno pernio sull’idea di romanzo avverata da Balzac.

  Il mondo romanzesco di Balzac, spiega Curtius, è tutto percorso e retto da un’“energetica”, cioè da «un preciso concetto della natura dell’energia umana», con le sue continue “conversioni” dal fisico allo psichico e al cosmico, e una stessa “corrente vitale” ad animare la passione erotica, la sete di denaro, l’ambizione sociale, la visione dell’artista e l’estasi del mistico. Quanto questa tesi interpretativa sia feconda, si constata in ogni capitolo del libro, ma in nessuno come in quello sulla “Politica” di Balzac. Il Balzac fautore (come dichiarava) della «grande e bella causa del trono e dell’altare», ammiratore della Compagnia di Gesù e difensore del diritto di maggiorasco, e il Balzac opposto, quello che simpatizza con la rivoluzione del 1830, obbediscono a una stessa esigenza: affermare «tutte le forme di energia, del resto mutevoli, che riescono di volta in volta salutari e proficue» alla nazione. L’assolutismo di Balzac, dunque, «non tende a mantenere in vita forme sociali e privilegi superati: il suo è un conservatorismo energetico».

  «Gli inizi di Balzac furono vili, quasi tetri, addirittura umilianti», scrive Giovanni Macchia: ... «come di un mestierante che sia tale prima di avere imparato il mestiere». Il saggio dell’italiano illumina prima di ogni altro questo punto: come si passi dal Balzac pseudonimo dei giovanili romanzi d’appendice, scritti, si direbbe, soltanto «per far funzionare la macchina del romanzo», al Balzac, appena qualche anno dopo, autore della già bellissima “Peau de chagrin”. Di questa analisi, che è folta e precisa, non darò che una sola formula: «Se nella prima produzione Balzac si affidava all’immaginario per arrivare alla realtà, si affiderà poi alla realtà per arrivare all’immaginario», Commenterebbe Curtius: «Come si vede, la sorgente, o la molla o il metodo, dell’arte balzacchiana è sempre l’intuizione divinatoria».

  In un capitolo del suo saggio, Macchia ci avvia a risolvere la vecchia contraddizione fra il Balzac realista e il Balzac veggente. Per il costruttore della “Commedia umana”, il romanzo «avrebbe dovuto essere una scienza, ... una nuova enciclopedia», a cui tutti potessero attingere. E’ vero che troppa di questa sua scienza era dubbia; ma «questa falsa scienza», in Balzac, «diventa energia e forza poetica. ... Nello stesso suo sconfinato “realismo” s’innesta la forza del visionario: scoprire nella fisionomia umana qualcosa che trascenda la fisionomia: guardare le mani, le unghie, la fronte dell’uomo e scoprirvi addirittura qualcosa di profetico».

  Partiti ambedue da Walter Scott, Balzac, a differenza del coetaneo Manzoni, rifiuta il “romanzo-capolavoro”, unico e pazientemente perfettibile in ogni sua parte. La “Comédie Humaine”, al contrario, è una «letteratura dell’estensione» e, con la moltiplicazione dei personaggi accanto al ritorno degli stessi di romanzo in romanzo, è «un complicato congegno che, imitando la natura, finisce per sostituirsi ad essa». Il saggio si chiude con una sottile ipotesi sull’attuale crisi del romanzo, simile (pensa Macchia) a quella che il Balzac romanziere d’appendice «attraversò prima di diventare Balzac». Per lui allora come per noi oggi, si tratta «di affrontare la crisi ma allontanare la distruzione del romanzo».

  Del «Balzac» di Curtius non ho potuto accennare che la tesi di fondo; del saggio di Macchia, appena qualche spunto. Quest’ultimo mostra come la tradizione interpretativa abbracciata da Curtius si sia fatta, in cinquant’anni, sempre più articolata e profonda, e ormai domini gli studi balzacchiani quasi senza contrasti. I giganteschi difetti della sua opera, (dice Curtius in una certa pagina), non sono scindibili dal genio di Balzac. Egli è uno di quei creatori di cui parla l’antico “Trattato del sublime”, ispirati da «un soffio divino», i quali, «a volte infiammano tutto col loro volo, ma spesso inaspettatamente si spengono nel modo più misero».

 

 

  C. Milic, La sarabanda di Mercadet: genio e fantasia negli affari, «il Gazzettino», Venezia, 15 maggio 1969.

 

 

  Giuseppe Mirto, Mercadet tra il pianto e il trapianto, «Executive. Periodico mensile di politica, cultura, costume», Genova, Anno II, n. 4, Luglio 1969.

 

 

  Roberto de Monticelli, Torna Mercadet tutto Buazzelli, «Il Giorno», 13 novembre 1969.

 

  [...]. Nel tumultuoso affarista Mercadet, disinvolto, pasticcione e pieno di fantasia, c’è un evidente nucleo autobiografico balzachiano. Anche il costruttore della «Comédie humaine» visse dentro un turbine di cambiali in scadenza: anche lui escogitò in gioventù imprese più o meno sballate, destinate al fallimento e che gli misero per tutta la vita la palla al piede di enormi debiti. Contro i quali si battè a colpi di fantasia, un romanzo dopo l’altro.

  Mercadet, certo, non crea la «Comédie humaine», non racconta la torbida epopea della borghesia uscita dalla rivoluzione. E’ una proiezione dell’autore nel mondo delle nascenti speculazioni borsistiche e dell’affarismo senza scrupoli. Ma gli va tutto male, il fantomatico socio Godeau è scappato con la cassa. E lui, per difendersi, non può ricorrere che alla sua inesauribile possibilità di invenzione. Le scuse, i pretesti, i rinvii e le giustificazioni che, con formidabile istinto istrionico, sbatte in faccia ai suoi creditori volteggiano per la commedia come le farfalle di carta di quei suoi titoli azionari che non valgono nulla. L’ultima sua speranza sarebbe il matrimonio della figlia con un ricco blasonato e invece si imbatte in uno spiantato più truffaldino di lui. Ma a Mercadet non tanto il denaro interessa, quanto l’imbroglio, la cabala per procurarselo, come scrive Carlo Terron, autore di questa riduzione, che è veramente indovinata. condotta com’è con mano che, pur rimanendo leggera, si avverte, perché interviene, elimina discrepanze e prolissità e, dove è lecito, modifica, adattando alla recettività di oggi. Tutta la commedia, insomma, è un tripudio della mitomania, dell’ipotesi paradossale, della bolla di sapone con dentro il riflesso di irraggiungibili biglietti di banca.

  Certo, è una tipica commedia a protagonista, gli altri personaggi — salvo le figurette della moglie e della figlia che hanno un loro modesto rilievo — non fanno altro che coro, servono a dare la replica al geniale trombone; ma trovano anche modo di pronunciare, su politica e finanza, alcune battute che sembrano scritte oggi. [...].

  Il Buazzelli, qui regista oltre che interprete, accentra più lo spettacolo su di sè e preme sul pedale del divertimento. Su questa strada il pubblico lo segue evidentemente compiaciuto. Una scena sintetica ed efficacemente allusiva di Mischa Scandella ambienta la commedia, al centro della quale il Buazzelli si scatena impetuoso e traboccante, con quella sua recitazione-fiume, veloce e colorita e la singolare agilità mimica che sa assumere quella sua presenza massiccia; e il volto largo che, davvero, assomiglia a quello di Balzac. [...].

 

 

  [Giovanni] Mosca, Un boom del 1839, «Corriere d’informazione», Milano, 12-13 novembre 1969, p. 11.

 

  In «Mercadet l’affarista» di Honoré de Balzac il popolare attore [Buazzelli] ha giganteggiato senza risparmio di colpi trascinando il pubblico all’entusiasmo per la simpatica, affascinante figura del protagonista.

 

  Erede del tempo in cui, non ancora imperando il regista, padrone del palcoscenico era l’attore, Tino Buazzelli ha giganteggiato ieri sera al Nuovo in quella commedia di Honoré de Balzac, Mercadet l’affarista, con la quale dieci anni or sono, trionfò al Piccolo Teatro, regista Puecher.

  Questa volta regista è lo stesso Buazzelli. il quale, se si è liberato di Puecher, ha conservato la traduzione in due tempi di Carlo Terron, agile, brillante, coraggiosa nei tagli (il testo originale, che non è mai stato rappresentato neppure in Francia, conta cinque atti e dura quattro ore) e nella eliminazione d’una verbosità che oggi — la «prima» della commedia, scritta nel 1839, risale al 1840 — renderebbe pressoché inefficaci quasi tutte le battute.

  Di Balzac romanziere è inutile dire. Di Balzac commediografo due lavori «tengono» ancora, nonostante la polvere: La Marâtre, satira dell’ipocrisia borghese, e questo Mercadet, nel quale la satira alla borghesia che del danaro ha fatto il proprio Dio passa in secondo piano di fronte all’artistica prepotenza del personaggio del protagonista, Augusto Mercadet, «il poeta degli affari» lo chiama la moglie, e definizione più precisa non potrebbe darsi: non è, difatti, come i finanzieri che gli ruotano intorno, divorato dalla febbre del danaro: piuttosto, è innamorato dei rischi che l’investirlo comporta, e oltre misura compiaciuto dell’abilità con la quale, indebitato com’è per il fallimento delle sue imprese impossibili, riesce ogni volta a farsi prestare nuovo danaro dal creditore venuto con l’intenzione di farlo arrestare.

  Scrive Carlo Marx che il boom economico verificatosi in Francia sotto il regno di Luigi Filippo era dominato dai banchieri, dai re delle ferrovie, dai re delle miniere, dai re delle foreste e soprattutto dai re della Borsa, tra i quali, come vediamo nella commedia, pullulavano gli avventurieri.

  In Mercadet Balzac dipinse uno di questi, e la pittura vorrebb’essere violenta, spietata. «Ogni parola» egli soleva dire quando parlava dei compiti dello scrittore di commedie, «dev’essere un mandato di cattura spiccato contro i costumi del tempo».

  Ma questa volta il mandato di cattura non viene spiccato, Balzac s’innamora del personaggio, ed anziché infierire contro di lui ne mette in evidenza tutti i lati simpatici, fino a renderlo caro allo spettatore. Personificazione del pazzesco ritmo che gli affari, e le speculazioni, le truffe avevano assunto in quegli anni d’oro, Mercadet parla rapidissimamente, gestisce quasi freneticamente, prende volta a volta, a seconda del creditore che deve affrontare, gli aspetti più diversi, il suo dire è un fuoco di fila di aforismi, di sentenze, di paradossi, di eloquenti, affascinanti tirate, e il suo fare è quello dell’uomo meno avido del mondo, il quale però ha continuamente bisogno di danaro per pagare i debiti, perciò non bada ai mezzi per procurarselo, purché, però nuocciano soltanto ai banchieri. Respinge, difatti, i trentamila franchi offertigli da Minard, fidanzato della figlia: «Il danaro di questi ragazzi mi brucerebbe le mani, non si manovrano bene che i soldi degli azionisti».

  Appartiene, sì, al mondo degli speculatori e dei truffatori, ma, in un certo senso, in qualità di giustiziere. Il suo maggior piacere è quello di spillar danaro da chi ne ha troppo e mal guadagnato. Per ottener lo scopo si vale d’ogni espediente: si finge malato, in scena un tentativo di suicidio, non esita a piangere, a supplicare, licenzia il fidanzato povero della figlia per buttarla nelle braccia d’un giovane che crede ricco e si rivela, invece, più spiantato e più avventuriero di lui, e le sue speranze sono tutte nel ritorno di Godeau, un tipo come lui, suo socio, fuggito, però, dieci anni fa con la cassa, ma non era cattivo, un giorno si rifarà vivo, gli pagherà tutti i debiti e lo coprirà d’oro, e tanta, e così viva è la sua fede in questo ritorno che Godeau diventa un mito grazie al quale Mercadet si salva dalla bancarotta e dalla prigione: anche i suoi creditori, difatti, hanno finito col credere nel ritorno di Godeau, e vivono in quell’attesa. Non può darsi che da questo mito sia nato il titolo del più bel dramma di Beckett, En attendant Godot?

  La fede è premiata, Godeau (cioè la felicità) arriva, Mercadet è salvo, milionario, ora non sarebbe bene, propone la saggia moglie, ritirarsi in una bella villa di campagna e godersi in pace tanta ricchezza? Nel finale originale Mercadet acconsente, dirà addio agli affari e si metterà a coltivare i fiori, ma Carlo Terron s’è preso il felice arbitrio di mandare in campagna soltanto la moglie. Mercadet ci andrà dal sabato al lunedì, gli altri giorni continuerà a inventare imprese sballate: è la sua vita, la sua poesia. [...].

 

 

  [Giovanni] Mosca, Le vorticose tirate di Tino Buazzelli, «La Domenica del Corriere», Milano, Anno 71, N. 47, 25 novembre 1969, p. 95.

 

  Siamo in tempi di boom. Giusto che torni alla ribalta il boom francese del 1839, regnante Luigi Filippo, messo in sferzante caricatura da Honoré de Balzac nella commedia in cinque atti «Mercadet l’affarista» che Carlo Terron, traduttore e rimaneggiatore, ha ridotto a due tempi. Lo spettacolo integrale, mai dato neppure in Francia, durerebbe quattro ore. Scrostandolo di molte scene inutili e di una verbosità che renderebbe inefficace la maggior parte delle battute, Terron, senza mai tradire lo spirito dell’autore, lo ha reso fresco, agile, graffiante e ha messo nelle mani del mattatore Buazzelli lo strumento più adatto per giganteggiare.

  Erede dei tempi in cui, mancando ancora il regista, padrone della scena era l’attore, Buazzelli ha entusiasmato il pubblico del Nuovo di Milano, così come dieci anni fa entusiasmò quello del Piccolo Teatro. «Mercadet l’affarista» è un fuoco di fila di aforismi, di sentenze, di paradossi, di affascinanti «tirate» che il protagonista conduce sul filo d'un ritmo rapidissimo, vertiginoso, incarnazione com’è del vorticoso e non sempre limpido giro d’affari che nella Borsa parigina dell’anno 1839 decideva delle sorti finanziarie della Francia.

  «Ogni parola — soleva dire Balzac quando parlava dei compiti dello scrittore di teatro — dev’essere un mandato di cattura contro i costumi del tempo». Satira violenta perciò e specialmente contro gli speculatori e gli avventurieri che, rischiando la galera, ma senza cascarci mai, conducevano una vita da nababbi nonostante fossero indebitati fino al collo, anzi quanto più grosso era il debito, tanto maggiore era il credito di cui godevano Ma cosa avviene d’imprevisto che manda all’aria i piani dell’autore? Che la satira, buona per i personaggi di contorno, non tocca quelle del protagonista, figura più simpatica del quale è raro che abbia mai calcato il palcoscenico.

  Mercadet, difatti, non è un avido, non è un usuraio, i suoi piani di speculazione nascono più dal regno della fantasia che da un solido senso degli affari, tanto vero che falliscono tutti, cd ecco questo innamorato del rischio, questo poeta delle società in accomandita, continuamente alle prese con i creditori che premono e assediano, e ogni volta, ora fingendosi malato, ora inscenando un tentativo di suicidio, ora sbandierando il matrimonio di sua figlia con un ricchissimo proprietario terriero il quale poi si rivela uno spiantato e un imbroglione, ora dichiarando prossimo il ritorno di Godeau, riesce non soltanto a non pagare quel che deve, ma a raddoppiare il debito facendosi dare altro danaro.

  La sua loquela è affascinante, e particolare impegno Mercadet pone nello spillar danaro dai disonesti, dei quali, si rivela, in un certo senso, il giustiziere.

  Chi è questo Godeau del quale dice d’attendere il ritorno? E’ un suo antico socio fuggito molti anni fa con la cassa. Ma tornerà, pagherà i suoi debiti, lo coprirà d’oro. Ne è certo, e questa certezza riesce a comunicare ai creditori con una convinzione, con un impeto, con una eloquenza che non tardano a fare di Godeau un mito. Godeau non è più un uomo diventa in astratto, la Felicità.

  E Godeau toma davvero, paga tutti i suoi debiti, lo ricopre d’oro. «Non è finalmente arrivato il momento di ritirarci in una bella villa in campagna dove godere in pace tanta ricchezza?» propone la saggia moglie. E Mercadet acconsente. Solo, però nel testo originale, perché nella riduzione di Terron in campagna va solo la moglie, Mercadet rimarrà a Parigi a godersi il suo più bel piacere, che è quello di rischiare, di invernare, di mettere in croce i creditori che cadono nella sua trappola.

  Se andrete a vedere il lavoro, giudicherete anche voi, ne sono certo, più giusto il finale di Terron. Mercadet, in campagna, s’annoierebbe a morte. Parigi, invece, gli permette di continuare nel suo folle e, nello stesso tempo, poetico gioco. [...].

 

 

  Carla Otter Pittaro, Balzac ritrovato nella sua residenza campagnola in Turenna. Faceva pagare al rassegnato castellano trenta caffè e cento lettere al giorno, «La Sicilia», Catania, Anno XXV, N. 240, 4 settembre 1969, p. 3.

 

  Il signor di Margonne sopportava la tirannia forse in ricordo dei suoi amori con la madre dello scrittore - Forse l’autore della «Commedia umana» si sentiva figlio dell’uomo che lo ospitava in quanto fratellastro dei suoi figli.

 

  Quando Balzac annunciava il suo arrivo in Turenna, Monsieur de Margonne faceva orecchio da mercante e non gli inviava la carrozza a Tours. Che Honoré s’arrangiasse. Allo scrittore, sempre leggero di tasca, non rimaneva che fare a piedi i ventitré chilometri che collegano Tours al castello di Saché, dove risiedeva il suo ospite. Poiché la strada non era asfaltata e le estati turennesi erano (pare) molto più calde di quelle di oggi, è da credere che Balzac indirizzasse a Monsieur de Margonne un rosario di espressioni fiorite. Ancora di più a Madame de Margonne, per la quale nutriva una profonda antipatia poiché era, a suo avviso, «une femme intollerante et dévote, boussue, peu spirituelle» (intollerante e bigotta, gobba e poco spiritosa). Ma la vista del paesaggio, coi campi che si stendono a perdita d’occhio, i vigneti rigogliosi, le basse colline lontane, lo rasserenavano.

  Balzac amava la Turenna. Di quale amore, lo attestano alcune fra le più belle pagine della sua opera. La terra in cui era nato era per lui un rifugio sicuro, un baluardo contro i mangiatori d’uomini di Parigi, quasi un tenero grembo materno su cui posare il capo quando l’angoscia era più forte. La ove «le ciel est si pur», poteva dimenticare la realtà amara dell’esistenza e aprirsi alla gioia consolatrice dell’arte. Senza la Turenna non avrebbe potuto vivere, lo confessò egli stesso. Vi soggiornò dal 1828 al 1842 per lunghi periodi, scrivendo o meditando buon numero dei suoi romanzi.

  A giudicare dall’episodio della carrozza, non si direbbe che M. de Margonne ne fosse entusiasta. Il gentiluomo di campagna aveva allacciato molti anni prima una relazione con la madre di Balzac, dalla quale era nato un figlio, Charles (sic). Ora ne pativa le conseguenze.

  Balzac, approfittando di quella sorta di parentela, non solo si insediava a Saché a tempo indeterminato, ma vi spadroneggiava anche.

  Si chiudeva nella sua camera all’ultimo piano, vietando a tutti di disturbarlo e vi rimaneva per quarantott’ore filate. D’altronde chiunque vi si fosse affacciato, sfidando le ire del recluso, si sarebbe trovato nell’impossibilità di entrarvi poiché il pavimento era sempre coperto di fogli scritti.

 

Balzi e smorfie.

 

  Le cose non andavano meglio quando Balzac si decideva a scendere nel salone. Passeggiava avanti e indietro, con la testa immersa nei suoi pensieri, ignorando quelli di casa e anche gli invitati, i quali attendevano ore e magari giorni per vedere l’idolo dei salotti parigini. Si scuoteva soltanto se lo pregavano di leggere qualche brano scritto di recente. Ma allora s’immedesimava tanto da imitare con un realismo impressionante i suoi personaggi: erano balzi, smorfie, improvvise esplosioni di voce che lasciavano tutti trasecolati.

  I suoi guai non finivano lì. Balzac, si sa, beveva trenta, trentacinque tazze di caffè al giorno e a Saché manteneva immutata quest’abitudine a spese, s’intende, del padron di casa. Anzi, poiché giudicava non abbastanza ristretto il caffè che faceva Madame de Margonne, esigeva di prepararselo personalmente, miscelando diverse qualità. Sempre a spese del signore di Saché ritirava le valanghe di lettere che gli scrivevano ammiratori e soprattutto ammiratrici (il porto era allora a carico del destinatario). Come se non bastasse, non provava imbarazzo a chiedere, di quando in quando, un po’ di denaro.

  Dire perché M. de Margonne sopportasse la tirannide è difficile. Forse temeva che Balzac rivelasse i rapporti della propria madre con lui, provocando uno scandalo. Oppure anch’egli, sebbene si vendicasse con qualche dispetto, era soggiogato dalla travolgente personalità dello scrittore. Né si può escludere che gli volesse bene. Dopo tutto — ce lo ha lasciato scritto Balzac — quel signore lo aveva fatto saltare sulle ginocchia quand’egli era bambino.

  Se Balzac è la divinità, Saché è il suo tempio. In questa dimora di campagna, così signorile nella sua semplicità, oggetti e documenti che lo ricordano sono raccolti e custoditi con cura gelosa. Vi si possono ammirare ritratti suoi e dei familiari, della «Dilecta» Madame de Berny alla quale fu teneramente legato per anni, di Madame Hanska che sposò poco prima di morire, lettere, disegni, caricature. Protetti dalle bacheche, figurano alcuni esemplari delle sue famose bozze di stampa, zeppe di correzioni e richiami, che dovevano gettare nella disperazione i tipografi. C’è una vetrina che desta particolare curiosità. Vi sono allineate in bell’ordine statuette di gesso che rappresentano alcuni personaggi della Commedia Umana: papà Goriot, Grandet, Eugénie, Nanon, l’abate Birotteau, «l’illustre Gaudissart», Félix de Vandenesse, Vautrin e tanti altri. Furono eseguite attorno al 1930 e interpretano con meravigliosa aderenza l’aspetto fisico e morale che Balzac impresse alle sue creature. In una delle sale dedicate alla preziosa raccolta, lo scrittore attende al varco i visitatori: ignudo, con le possenti braccia conserte, il collo taurino piantato sulle larghe spalle, un fiero cipiglio dipinto sul volto. Così lo vide lo scultore Auguste Rodin, cinquanta anni dopo la sua morte, attraverso le sembianze di un sosia perfetto che gli servì come modello.

  Di solito i musei lasciano freddi, ma questo suscita non pochi fremiti, grazie alla passione con cui gli accompagnatori vi trascinano alla scoperta dei minimi particolari. Un turbamento ancor più profondo provoca la camera di Balzac, a cui si accede per una nuda scala di pietra a spirale, molto scomoda. Più cella che camera, ha poche e quasi misere suppellettili: un cassettone, il tavolo, una poltrona, il letto su cui egli, spesso colto dal sonno mentre era intento a scrivere, si addormentava seduto. Nulla che ricordi il lusso dell’appartamento parigino di rue Cassini, il gusto dello scrittore per i bibelots, i gingilli nei quali profondeva tanto denaro. Viene fatto di pensare come fosse vero quel che egli scrisse alla duchessa d’Abrantès a proposito dei contrasti del proprio carattere: chi lo giudicava prodigo, fatuo, pigro, aveva altrettanta ragione di chi lo riteneva economo, modesto e lavoratore. Direi di più, che fra queste pareti ov’egli si sentiva felice «comme un moine dans un monastère» si ha quasi una percezione fisica del suo febbrile creare. Mai come in quel momento l’immagine di Zweig — «ilòta del più inaudito lavoro» — appare tanto indovinata.

 

Solo debiti.

 

  La finestra della camera si apre sul grande parco di là dal quale si stende la Valle dell’Indro, il paesaggio che vive nelle pagine del Lys dans la Vallée. E’ questo, secondo i Turennesi, il capolavoro di Balzac. Ma allora, che cosa sono Eugénie Grandet e Le Père Goriot? «Ah, ce sont des oeuvres superbes, bien sûr, mais le Lys ...». Il Lys è intoccabile. Provate a dire che la natura vi è forse descritta troppo minuziosamente, vi dimostreranno con garbo tutto francese che non avete capito nulla: la vera protagonista del Lys non è Madame de Mortsauf, bensì la natura; quindi è errato parlare di lungaggini. Ammettiamo che sia così, replicate voi, tuttavia nel Lys ... Qui vi troncano la parola in bocca con un sorriso: «Voyez vous, le Lys c’est la Touraine». Di fronte a un’ammissione così schietta non rimane che ricambiare il sorriso. L’amor di campanile porta i Turennesi a vedere Balzac in una dimensione un po’ angusta. Ma ciò non toglie nulla al loro sentimento.

  Balzac è anche nostro. Noi che non possiamo vantare il privilegio d’essere suoi compatrioti, possiamo pur dire di amarlo non meno di quanto essi lo amino. Soggiornare in Turenna è un po’ rinvigorire questo amore. Se è vero che i personaggi balzacchiani sono strettamente legati al paesaggio-ambiente, è altrettanto vero che il genio dello scrittore ne ha fatto dei modelli universali e un Père Grandet, un Abbé Birotteau sono comprensibili anche avulsi dalla Turenna. Tuttavia l’atmosfera di queste contrade, dove la commedia umana della provincia continua la sua rappresentazione in certe abitudini di vita, nella mentalità e persino nel linguaggio, li fa apprezzare con una consapevolezza e una pienezza nuova.

  Anche il Balzac uomo, nei luoghi che furono testimoni della sua intensa operosità, appare sotto nuova luce. All’ammirazione si aggiunge un senso di profondo rispetto. E di malinconia. Specie quando, andando a Tours, si scorge su un’altura in lontananza il castello di Moncontour. Balzac voleva acquistarlo per accogliervi degnamente Madame Hanska. Ma i quattrini che guadagnava sfumavano sempre in affari sbagliati. Colui che accumulava fortune favolose nelle mani dei suoi personaggi era disarmato di fronte alla vita e non riuscì ad ammucchiare per sé altro che debiti.

 

 

  P. G. P., Una macchina da romanzi, «La Voce repubblicana. Quotidiano del Partito repubblicano italiano», Roma, Anno XLIX, 4 gennaio 1969.

 

  Honoré de Balzac, «La commedia umana»; vol. I; Casini; pp. 600; L. 5.000.

 

  Vi sono degli scrittori, dei grandi romanzieri che si identificano totalmente con una loro opera – e qualche volta neanche la maggiore — tanto da venirne annullati in tale maniera che il personaggio sopravanza, domina la personalità dello stesso autore. Don Chisciotte predomina su Miguel de Cervantes; è più facile ricordare Julien Sorel che il suo creatore, Stendhal; e che dire della fortuna che ha incontrato la eroina flaubertiana, quella «Madame Bovary» che ha addirittura coniato un modo di vita, un aspetto del costume, della società, della psicologia femminile?

  E così è stato anche per Balzac la cui poderosa opera di romanziere affidata alla «Commedia umana» ricca e densa di personaggi alcuni dei quali — si pensi ad Eugenia Grandet o a Cesare Birotteau — hanno compiuto nei confronti di Balzac quello che ha fatto Emma Bovary nei confronti di Flaubert: hanno finito per assumere una precisa tipologia del carattere della società in cui visse Balzac.

  Oggi molti dei personaggi di Balzac non resistono al tempo ed anche la sua Commedia umana di cui l’editore Casini ha presentato una nuova edizione con una acuta introduzione di Giovanni Macchia e arricchita da suggestive fotografie dell’epoca registra sfasature, cadute di tono, incongruenze. L’entusiasmo che provarono per il romanziere gli ambienti della buona società o della grossa o media borghesia della Francia prima e dopo il 1830, l’anno di passaggio dalla Restaurazione alla monarchia di Luigi Filippo, oggi forse non avrebbe più ragione di essere, anche se commetteremmo una ingiustizia nei suoi confronti nell’imputargli la facilità e frettolosità nello scrivere, la incredibile capacità di sfornare in breve tempo romanzi su romanzi. Quali che siano i suoi limiti di romanziere, Balzac è veramente uno specchio dell’epoca, e a parte i giudizi limitativi di un Saint Beuve o entusiasti di chi credeva di scorgere in lui un precursore del naturalismo, i suoi personaggi che affollano gli ambienti delle grandi città come quelli della provincia, risentono di quel clima che in Francia si respirava nell’anno di crisi del 1830.

  Balzac si inseriva con una forte spiccata originalità in una narrativa che fino allora era stata di consumo e che non rispecchiava minimamente i tratti psicologici di una borghesia animata – come iscrive Macchia nella prefazione — dagli ideali dell’utile, delle onorevoli cariche, della ricchezza, - dei guadagni nell’industria e nei piccoli commerci. Ad oltre un secolo dalla morte di Balzac, ci si chiede che cosa voglia dire oggi la sua «Commedia umana» e il genere di romanzo con cui egli si cimentò. «Una delle ragioni — scrive Macchia dell’interesse moderno per Balzac potrebbe essere in un procedimento apparentemente contraddittorio: la visionarietà del reale (di cui già si accorsero, prima di Baudelaire, Philarète Chasles e Gautier) rivelata col massimo della precisione». E un qualche cosa di balzacchiano la si può ritrovare, afferma ancora Macchia, in una frase di un romanziere che gli sta tanto lontano: Robbe-Grillet: «Rien n’est plus fantastique que la précision». Ma i paragoni e i confronti sono sempre difficili e pericolosi. Prendiamo Balzac per quello che è, per quello che ha rappresentato come scrittore interprete di una fase di crisi della società francese e attraverso le finissime analisi psicologiche dei personaggi e degli ambienti che popolano la «Commedia umana» ritroviamo ancora una volta una nuova sconcertante verità sulla più intima natura dell’uomo e della realtà in cui si trova a vivere.

 

 

  Elio Pagliarani, Un Mercadet tutto colore, «Paese sera», Roma, Anno XX, 22 maggio 1969.

 

  [...]. Grosso limite, questo della simpatia [di Tino Buazzelli]: quando il testo di Balzac si presta tranquillamente senza nessuna forzatura, a mettere in evidenza che quella gente, quei finanzieri pasticcioni o calcolatori, simpatici o antipatici, debitori o creditori, sono tutti orrendi. In questo spettacolo invece l’ambiguità se c’è, è proprio ridotta al minimo. E alcune battute, certo ben dette e evidenziate da Buazzelli, risultano soltanto punzecchiature.

  Allora Mercadet, è un finanziere, uno che gioca in borsa al rialzo e al ribasso, e crea più o meno fantomatiche società per lastricare le strade in maniera controrivoluzionaria (problema quello delle strade propizie alle rivote (sic), che preoccupa davvero, sotto la monarchia di luglio, o appunto dei banchieri, e lo risolse come è noto Haussmann sotto Napoleone III) o per innalzare i campanili delle chiese o per gonfiare le Baronie. Solo che, da quando gli è scappato il socio con la cassa, le faccende gli vanno male, e il suo tempo lo passa più che altro a inventare stratagemmi per tenere a bada l’orda dei creditori. (Balzac invece scriveva e scriveva per pagare i creditori, e dire che aveva fondato anche una compagnia per valorizzare la Sardegna e una altra per coltivare gli ananas nei dintorni di Parigi; Balzac non Mercadet).

  Quando troppe cose gli vanno male, Mercadet, spera di cavarsela maritando la figlia a un riccone, solo che il riccone è un altro Mercadet, che spera di sistemarsi sposando la figlia di un ricco finanziere, - cioè di Mercadet. Ultima risorsa: fingere che sia tornato Godeau, l’ex socio scappato con la cassa, con un mucchio di soldi e intenzioni riparatrici: solo che è un po’ grossa, Mercadet non è che abbia proprio una gran fiducia in quest’ultima trovata, ma poi Godeau arriva davvero coi soldi eccetera, eccetera. E poi siccome Godeau si pronuncia pressapoco come il beckettiano Godot, ecco che fa fino riempirsi la bocca di questo nome, e qualche pensatore a chiedersi se Beckett si è ispirato a Mercadet! [...].



  Henry Pastoureau, Balzac, Honoré de (1799-1850), in AA.VV., Arcana. Il meraviglioso, l’erotica, il surreale, il nero, l’insolito nelle letterature di tutti i tempi e paesi. Volume I. Direttore: Paolo Maltese, Milano, Sugar Editore, 1969, pp. 56-59; 1 ill. [Balzac visto da Rodin].

 

  Si può considerare come molto particolare il lato «nero» dell’opera del gigante scolpito da Rodin. E tuttavia questo lato è, cronologicamente, il primo ad apparire. Se l’opera si rivolta, poco dopo il 1825, per mostrare dei lati più realisti, questi lati restano tuttavia macchiati d’ombra e il lato originale, che era stato volontariamente tinto di mistero, non può essere ignorato né dimenticato dagli storici. Non si può nemmeno parlare di Balzac come romanziere nero, e lo stesso vale per Hugo, senza prima dare un breve cenno dei precedenti del genere nero nella letteratura di fantasia.

  Il marchese di Sade, convenientemente al corrente della letteratura inglese, almeno attraverso la sua traduzione francese, segnala nel suo Idée sur les romans (Idea sui romanzi), pubblicato prima dei Crimes de l’Amour (Crimini dell’amore), raccolta di novelle che apparve nell’anno VIII (1799-1800) a Parigi, che il genere nero è nato in seno a una congiuntura storica determinata come il timore latente delle scosse terribili della fine del XVIII secolo. Egli constata che durante l’ultimo anno di questo secolo, almeno in Francia, il romanzo era divenuto altrettanto difficile a farsi quanto monotono a leggersi, perché non vi era persona che in quattro o cinque anni non avesse vissuto tante sfortune quante ne potrebbe descrivere in cento anni il più famoso romanziere della lettcratura. Si dovette dunque ricorrere all’enfer per comporre dei titoli interessanti e trovare nel paese delle chimere ciò che non poteva più essere fornito dalla «storia dell’uomo in quell’epoca di ferro». A dire il vero, il primo romanzo nero sembra essere il Castle of Otranto (Castello d’Otranto) di Horace Walpole, apparso a Londra nel 1764, dove non si poteva prevedere ciò che sarebbe stato l’anno 1793 a Parigi. Ma la pubblicazione di questo romanzo nella letteratura europea sembra anche simbolizzare quasi come un sogno profetico gli eventi che sarebbero avvenuti: Walpole ha scritto il suo romanzo dopo aver visto, precisamente in sogno, sulle rovine di una grande scalinata di pietra una mano gigantesca rivestita di un’armatura. Questo autore avrà dapprima delle imitatrici: Clara Reeve pubblica nel 1777 The Old English Baron (Il vecchio barone inglese), Ann Radcliffe nel 1794 The Mysteries of Udolpho (I misteri di Udolpho). Avrà poi degli imitatori che perfezioneranno questo genere: Matthew Gregory Lewis pubblica Monk (Il monaco) nel 1796, romanzo che, subito tradotto in francese, scoppia come una bomba nell’una e nell’altra lingua. Alla bassezza insondabile dell’anima del suo protagonista, il monaco Ambrosio, Lewis associa l’intervento diretto delle potenze della notte. Dopo episodi secondari come quello della Suora sanguinante che offre il dono terribile del suo amore lascivo e l’orrore dcl suo corpo sepolcrale, l’autore ci mostra Ambrosio, incestuoso e assassino, castigato dalla mano stessa di Satana che la innalza al di sopra delle montagne per lasciarlo ripiombare nella regione più desolata della nostra terra, in fondo a un precipizio, dove la sua agonia si prolunga interminabilmente. Nel 1820 un vicario irlandese, Charles Robert Maturin pubblica Melmoth, the Wanderer (Melmoth, il viandante) la cui potenza infernale non può essere paragonata che a quella di Monk e che forse la supera. Il tema centrale di Melmoth è, come nel Monk, un patto con il diavolo. Il criminale protagonista muore senza aver potuto trovare nel corso di centocinquant’anni concessigli a questo scopo, l’innocente disposto a vendergli l’anima. Melmoth è tradotto in francese nel 1821. Nel 1822 Balzac, che ha 23 anni, pubblica cinque romanzi neri.

  Uno di essi, Centenaire (Il centenario) è, in un certo senso, ispirato da Melmoth, in un altro da un romanzo di William Godwin, Saint-Leon, pubblicato in inglese nel 1799. In quest’ultimo romanzo Godwin si ispira alla tradizione dei rosacroce e narra le avventure di un uomo che non può sopravvivere se non appropriandosi un principio necessario a qualche altra vita umana e distruggendo quest’ultima. È il caso del protagonista di Balzac, Beringheld, nato nel XV secolo e al quale una prima esperienza, riuscita, ha permesso di oltrepassare i cento anni di età. Ma, mentre Melmoth cercava un’anima, Beringheld, come l’eroe di Godwin, cerca il sangue. Il caso e le circostanze vorranno che, dopo essere riuscito, egli fallisca.

  Un altro romanzo nero di Balzac, pubblicato nel 1822 e Le Vicaire des Ardennes (Il Vicario delle Ardenne), ispirato al Monk. Il tema è, come nell’opera del Lewis, l’amore colpevole di un prete. Balzac vi si mostra molto debole. Egli si augurava un successo commerciale, che la sua mediocrità avrebbe al caso potuto procurargli Purtroppo il libro fu sequestrato e la metà almeno dell’edizionc mandata al macero. Pubblicato anche nel 1822 da Balzac, ma soltanto tenebroso, e il romanzo intitolato L'Héritière de Birague (L’erede di Birague) in cui l’autore si ricorda di Ann Radcliffe ma anche del di lei imitatore licenzioso, Pigault-Lebrun, e soprattutto del suo imitatore sentimentale, Ducray-Duminil. La protagonista di Balzac, Aloise, è come la Justine di Sade preda di ogni genere di pericoli e di disgrazie. La persecuzione che essa subisce prosegue anche nei suoi sogni, ciò che è molto moderno e potrebbe costituire soggetto di una osservazione psichiatrica.

  Sempre nel 1822 è pubblicato il romanzo di Balzac Clothilde de Lusignan ou le beau juif (Clotilde di Lusignano o il bel giudeo), che si svolge nel Medioevo dei trovatori e dei tornei, ma che ci fa anche penetrare nelle camere delle torture.

  Del quinto e ultimo romanzo pubblicato da Balzac net 1822, Jean-Louis ou la fille trouvée (Jean-Louis o la figlia trovata), non vi è gran che da dire, tranne che continua la linea dei precedenti ma con meno pregi di Centenaire o di Héritière. Altrettanto si può dire anche del romanzo pubblicato da Balzac nel 1823, La dernière fée ou la lampe merveilleuse (L’ultima fata o la lampada meravigliosa), e di quelli da lui pubblicati nel 1824, Annette et le Criminel (Annette e il criminale). ristampato con il titolo Argow le Pirate (Argow il pirata), e nel 1825 Wahn (sic) Clore, ristampato con il titolo Jane la pâle (Jane la pallida). L’autore, la cui necessità di soldi è pressante, sfrutta in essi una vena che, dopo aver fornito nel corso di sessant’anni agli appassionati del genere delle emozioni frenetiche, comincia ad asciugarsi. Il nero comincia a diventare oggettivamente o volontariamente comico, tranne qualche eccezione costituita non tanto dagli autori inglesi sopra citati, quanto dagli autori tedeschi come Arnim e Hoffmann. Balzac se ne rende conto. Egli abbandona lo pseudonimo di Horace de Saint-Aubin e di lord R’Hoone sotto i quali aveva scritto i suoi primi romanzi e, iniziando la Comédie humaine (La Commedia umana) con il suo vero nome — aggiungendo forse la particella — è non tanto agli aspetti terrificanti del mondo quanto alla diversità dei caratteri dell’uomo che egli farà appello. Ciò che egli ci mostra ormai, tranne le eccezioni che saranno segnalate, più avanti, sono le influenze, sui differenti tipi d’uomo, di una realtà materiale: il denaro, e di una realtà che secondo lui non è completamente umana: la donna.

  Tuttavia la realtà implacabile dell’uomo reale e quella di una banalità scoraggiante, degli oggetti che lo circondano, e uno di questi oggetti è la donna, saranno sempre ben lontani dal soddisfarlo. Egli sogna e il suo sogno è fantastico. Rasenta il mondo naturale e reale ma evita di impegnarvisi troppo apertamente. Seguendo la sua opera, ritroviamo a volte le prime tenebre, per esempio in La Grande Bretèche ou les trois vengeances (La grande bertesca o le tre vendette) e in Dangers de l’innocence (I pericoli dell’innocenza) (sic). Ritroviamo le scene di atrocità in Souvenirs d’un paria (Ricordi di un paria) [Mémoires de Sanson?], in L’Embuscade (L’imboscata) [cfr. Les Chouans], in Une ténébreuse affaire (Una faccenda tenebrosa). I Goupil, Fraisier, Corentin, personaggi della Comédie humaine sono figli del Melmoth, Schedoni, Ambrosio. Balzac ritornerà, del resto, a un nero quasi puro, e con successo, avendo subito l’influenza di Hoffmann, in un Melmoth filosofico; il Melmoth reconcilié (Melmoth riconciliato), del 1835-36, opera che ci rivela un Balzac che aspira alla salvezza, non certo sulle strade della Chiesa cattolica, ma con un certo ricorso all’occultismo e alla tradizione esoterica, con un misticismo alla Swedenborg la cui influenza appare, luminosa, in Seraphita (sic), più discreta ma meno certa in Ursule Mirouet.

 

 

  E.[nrico] Pani, Sono davvero lontani gli «altri tempi» di Mercadet?, «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXXXII, Numero 285, 18 ottobre 1969, p. 6.

 

  [...]. Ed altri tempi ci richiama «Mercadet». Siamo negli anni di Luigi Filippo, intorno al 1840. Orfana di Napoleone, la Francia vede scatenarsi il fervore delle nuove classi imprenditoriali nel trionfo della borghesia. Non più superbi generali ma eserciti di speculatori di Borsa. Il decoro borghese si nutre (allora!) di cambiali protestate, ed il danaro diventa, in modo esplicito, l’unico valido viatico sociale.

  Balzac conosceva bene «la commedia umana» e non lo spaventava il cinismo di un ambiente sociale, ove le spinte sinuose dell’animo umano si snodavano secondo tristi e assurdi ritmi battuti dall’economia, dalle leggi di mercato.

  Nella commedia — la migliore di un teatro balzacchiano non eccessivamente noto e fortunato — questo mondo emerge. Mercadet, speculatore affannato e l’ambiente che gli circola intorno in un convulso bla-bla, dove il danaro è la parola chiave di ogni discorso, ha, però, la simpatia di Balzac (anche egli speculatore di Borsa perseguitato dai creditori). Mercadet naviga sul mare delle cambiali come un corsaro ardito su mari infidi ma amati E ama le avventure della speculazione per un gonfio desiderio di vita. Commette madornali errori, si ingolfa in un turbinoso, ansioso modo d’essere, corre i suoi giorni sull’incubo del fallimento, ma è come un inutile poeta che corre le notti sulle pagine scritte. Una lacrima, di entusiasmi impotenti e di sogni mancati, sul suo viso non ci meraviglierebbe.

  Alla fine, quando tutto si aggiusta per l’intervento del misterioso e tanto atteso Godenau (sic), e finalmente sua figlia potrà fare un matrimonio d’amore invece d’essere «investita» in Borsa, crederete alle sue promesse di ritiro in campagna? [...].

 

 

  Giovanni Pepitoni, Ritorno a Balzac, «Il Convegno», Cagliari, Anno XXII, nn. 9-10, Settembre 1969, pp. 9-12.

 

  Le opere di Balzac sono nuovamente ai primi posti nelle vendite non solo in Francia ma anche in molti altri paesi d’Europa e di oltre oceano.

  Ritorno a Balzac, dunque?

  Ricordiamo intanto che certi suoi romanzi, nella prima metà di questo secolo arrivarono alle tirature più fantastiche. Non di ritorno crediamo si debba parlare, ma di una esigenza di rivedere criticamente l’insegnamento di alcuni grandi creatori del passato per riconoscere quanto del loro processo creativo e delle loro conquiste debba essere riproposto alla nostra attenzione, oggi. Rivedere Balzac come suscitatore di problemi attuali, problemi espressivi le cui soluzioni possono essere accolte o respinte. Altre ragioni possono, nonostante tutto, giustificare un interesse moderno per l’autore di Père Goriot. Balzac fu spettatore ed interprete di una trasformazione della società che ha qualche somiglianza con il rivolgimento cui noi stiamo assistendo. L’arte di Balzac potrebbe servire in una nuova prospettiva, ad animare una concezione della letteratura. La “Visionarietà’’ del reale rivelata col massimo di precisazioni[5]. Ecco in gran parte l’arte di Balzac. E’ un procedimento che Baudelaire trasferirà in poesia. Avvertiamo non sappiamo quale sapore balzacchiano nella dichiarazione d’uno scrittore, nostro contemporaneo, che gli sta tanto lontano: Robbe-Grillet: «Rien n’est plus fantastique que la précision», proprio quel che pensava Balzac. La realtà oggi si è avvicinata a tal punto ch’essa ci trasmette la sua vertigine. Non lo splendore dell’indiretto, come diceva James; piuttosto l’accecamento del troppo diretto.

  Addentrarci, sperderci, nel gran labirinto della sua opera non sarà esercizio inutile o vano. Balzac lasciò un’opera che è, come insieme, imponente: la sola, per ampiezza di concezione, per potenza di soffio, per portata sociale, che la prima metà dell’Ottocento possa contrapporre ai magnifici “insieme” che fanno grande la seconda.

  I ferventi lettori di Balzac — anch’essi tanto numerosi ancor oggi — apprenderanno con piacere «la pubblicazione da parte dell’Editore Larousse di un Dictionnaire di Balzac. E’ una guida di ottocento voci indispensabile per non perdersi nei meandri dell’opera e della vita dell’autore della Comédie Humaine. Basti un esempio: il dott. Bianchon, un personaggio balzacchiano che non va mai al di là della funzione di comparsa, fa capolino in ben ventiquattro volumi, mentre la prima donna Eugénie Grandet è presente soltanto in uno.

  Nel dizionario figurano tutte le donne che ebbero una parte importante nella vita tumultuosa dello scrittore, come Madame de Berny, Madame Hanska o Madame d’Abrantès. Sono ricordati persino George Sand, che fu soltanto una buona amica di Balzac, e Sainte-Beuve, che con i suoi attacchi finì con l’influenzare positivamente anche se involontariamente il genio dello scrittore. Balzac, naturalmente, non si rese conto di tale influenza e ricambiò l'ostilità con non minore convinzione.

  Il dizionario comporta anche numerose illustrazioni e grafiche e topografiche, sulle quali si possono seguire viaggi di Balzac in Europa e gli episodi salienti della Comédie Humaine».

  Che cosa ha visto, che cosa ha inventato Balzac? E’ stato l’amante di tutte le donne, per parlar così bene di tutte e di ciascuna Ma bisognerebbe sapere se sia necessario di “averle” per “comprenderle”. E non sarà proprio il caso di ricordare la profonda parola di Ninon De Lenclos. «Bisogna scegliere: o amare le donne o conoscerle»? Gli esseri sono naturalmente segreti, occulti, celati: non possiamo penetrarli dal di fuori, e il più accorto e chiaro veggente rischia di prestar loro le proprie idee immaginandoli a suo piacimento, secondo quanto suppone di loro in tale circostanza, in tale situazione, in tale disposizione.

  Ma bisogna notare che Balzac — questo scrittore tumultuoso e tonitruante, il cui segno par proprio la forza maschia e incomposta — è anche un attento, delicatissimo studioso dell’anima femminile. Non gli è mancato infatti, il conforto di tenere, amorose amicizie di donne. Ricordiamo soltanto le sue semplici e pure amicizie: la duchessa d’Abrantès, M.me de Berny, M.me Carraud: tutte intelligenti, sensibili, devote, prodighe di consigli, feconde di confidenze.

  Bisogna immaginare in Balzac quel “processus” di germi depositati in lui dalle conversazioni, dai racconti, dalle narrazioni e dalle confidenze. La sua immaginazione se ne impossessa; che cosa avviene, quale sviluppo ha luogo, secondo quale legge interiore? Noi non conosciamo, non sappiamo che il risultato: nascerà sulla carta bianca una creatura viva che sotto gli occhi del primo lettore, si leverà dalla pagina, scavalcherà il libro e verrà a mescolarsi, a unirsi più reale vivente che tanti viventi reali, a unirsi — dicevo — alla vita. Per sempre presente fra noi in quella vasta regione di personaggi immaginari in cui le creature dello spirito e dell’arte occupano, attraverso i nostri sogni ed i nostri ricordi, tanto posto quanto ne occupano quelle che sono veramente esistite.

  Perché le creature di Balzac sono così vive? Perché l’autore della Comédie Humaine possiede il dono essenziale, supremo del romanziere, quello, cioè, di “vedere” il personaggio ch’egli dipine (sic), di entrare «nella sua pelle» e di mostrarlo “agissant” come agirebbe egli stesso se fosse “l’altro”. «Compenetrato nell’opera, perduto in essa dice Sante Beuve (sic) non ne usciva, vi abitava dentro». Ed un poeta, Baudelaire, dimostrando «la portata storica ed artistica del michelangiolesco affresco di Balzac, aggiunge la nota più profonda e rivela il carattere più intimo dei creatore di Père Goriot, di Grandet, di Vautrin e di tanti altri ...».

  Non semplice pittore, riproduttore della realtà, poiché Balzac entro di essa figgeva il suo spirito di veggente, come una seconda vista e la realtà ne usciva ingrandita, esaltata, scoprendo il suo chiuso mistero. L’intuizione aveva parte non meno dell’osservazione nello scrittore “visionario”; «Je porte une société tout entière dans ma tête» ha detto un giorno l'autore del Colonel Chabert. E tutto egli rende chiaramente: tutte le ragioni che inducono la cugina Bette ad essere invidiosa sino al delitto. Tutte le ragioni che fanno della “bisognosa” M.me de Marneffe – sotto le decenti apparenze d’una “spirituelle” borghesuccia – una vera peccatrice. Tutto ciò che giustifica in un Rastignac, assetato di godimenti, di successo, di “potere”, un ambizioso. Tutto quello che nel profumiere Birotteau, fallito per aver avuto fiducia in alcuni lestofanti, milita in favore di questo ingenuo sventurato profondamente turbato dal bisogno di riabilitazione. Ed il Père Goriot che spinge sino all’eroismo l’amore paterno, la sua abnegazione senza limiti, nonostante l’ingratitudine delle figlie. Ed ancora la caduta d’un uomo, il barone Hulot: ieri un eroe ed oggi un dissoluto.

  I bricconi, gli imbecilli, i criminali, i grulli, le vittime, la gente onesta, i galantuomini — chè la Comédie Humaine ne è piena — uomini devoti, anime generose e sante. Ecco il “segno” superiore di questo grande “realista” di questo Balzac che i «romanciers noirs» dei nostri giorni dovrebbero aver sempre presente più di quanto non l’abbiano. Non ha dipinto un mondo triste, tenebroso, unicamente coperto d’ombra. Il male esiste. Il bene esiste, la sua “vue” dell’universo e la sua conoscenza dell’uomo sono così vasti e profondi da assicurargli la certezza di non cadere nel sistema e di non lasciarvisi impantanare. Non è pessimista per rancore o per melanconia nè ottimista per ingenuo idealismo.

  Egli sa mantenere a ciascun personaggio il proprio carattere, la sua piega o la deformazione professionale: sa scoprire l’accidente che lo modifica, l’esalta o lo abbassa.

  Questo grande “visionario” è il pittore più minuzioso, più profondo di tutta la storia letteraria francese.

  Certamente egli aveva «buoni occhi» che vedevano prontamente e ricordavano bene a lungo. Ma dove ha trovato il tempo di guardare tutto ciò che ha descritto? Ha viaggiato, ha passeggiato in lungo ed in largo per tutta Parigi, si è documentato su molte cose, ha assunto utili informazioni. Sia pure. Ma ciò non toglie ch’Egli abbia trascorso gran parte della sua vita, come un monaco nella sua cella, dinanzi ad uno scrittoio tutto coperto di fogli bianchi e di bozze di stampa, chiuso in casa per settimane e settimane, senza mai uscire. Non è stato — come lui stesso asseriva — un galérien de plume et d’encre? La sua “osservazione” è stata limitata. Ha tratto quasi tutto dalla sua immaginazione, ma l’immaginazione sua aveva, in modo incredibile, il dono di inventare la realtà. Quest’uomo straordinario ha creato la “vita” con una tale intensità, con una tale pienezza e verità che ancor oggi — a centosettanta anni circa dalla sua morte — rimaniamo profondamente turbati se riapriamo uno dei suoi grandi capolavori; e ne risentiamo il fascino intenso; e ci afferra nuovamente la robustissima fibra dell’artista, dell’opera.

  I suoi personaggi; impossibile dimenticarli. Tanto che, incontrandoli per la strada o altrove noi li riconosciamo in un subito, alla prima.

  La Comédie Humaine è un quadro estremamente ricco della vita sociale tra il 1830 ed il 1850. Il suo mondo è la borghesia, la grande, la media e la piccola, quella di Parigi e quella della provincia con i suoi tipi molto vari e diversi, commercianti, merciai, proprietari, impiegati pubblici e privati, militari, funzionari di ogni specie.

  E tutto questo mondo formicola, brulica, si agita, ciascuno col suo tic, la sua mania, nel quadro più fedele che ci sia mai stato dato in un mondo, di un’epoca. Tutte queste storie che non sono vere sono di una verità clamorosa. Con semplici parole Balzac non costruisce frasi ma edifica la realtà. Come Molière non ha stile o meglio ha altrettanti stili quanti sono i personaggi. Quando descrive, analizza o fa parlare «c’est la vie». Sì: la vita; perché nessuna realtà contingente è viva quanto la realtà dell’immaginazione e dell’arte; e perché grazie a quest’ultima, i personaggi creati dai grandi scrittori sono per ognuno di noi più veri e corporei delle persone quotidianamente incontrate. Si dice che Balzac facesse concorrenza allo Stato civile. Certo egli è con Molière il più grande «créateur d’âmes» e dopo Shakespeare è – l’ha detto Ippolito Taine –, il più grande magazzino di documenti sulla natura umana – Balzac ha visto tutto, ha osato denunciar tutto.

  Il carattere singolare delle relazioni di Vautrin e di Rubempré non gli è sfuggito e Proust, nel preparare Charlus, non ha mancato di notarlo. E che cosa è la «Fille aux yeux d’or» se non già una “Prisonnière”?. Questi vizi non datano solo da oggi ...

  Negli ottantacinque romanzi e racconti della Comédie Humaine vi sono duemila “persone”. In verità è un mondo.

  Queste cose ed altre venivo annotando e ripensando a mano a mano che procedevo nella lettura veramente appassionante delle «Memorie di due giovani spose» di Balzac che Gemina Fernando ha mirabilmente tradotto per la Collana di traduzioni «I grandi scrittori stranieri», diretta da Giovanni Vittorio Amoretti ed edita dalla UTET di Torino.

  Mirabilmente tradotta, ho detto. Ed infatti questa traduzione come tutte le vere traduzioni moderne – cerca di rispettare – quando è possibile la lingua straniera in ogni parola, in ogni sua costruzione ed in tutti i suoi modi stilistici. Ma si preoccupa anche di non violare mai la lingua nella quale traspone l’originale rispettando così contemporaneamente lo spirito della lingua in cui si traduce; tutto questo, conservandosi “fedele” al senso del testo, senza aggiungere né togliere né mutare nulla. Il volume si apre con una dotta ed illuminante introduzione del noto francesista Gianni Nicoletti. Il quale con modi insieme analitici e descrittivi, tra la esposizione e la conversazione elegante insegue il genio di Balzac, riducendolo alle sue autentiche origini.

  «Non basta essere un uomo, bisogna essere un sistema», aveva detto Balzac.

  Fascinazione ed energia, titanismo e veggenza, questi i parametri di una interpretazione ormai diventata classica.

  Dopo le intuizioni di Baudelaire, l’autore della Comédie Humaine venne sottratto al naturalismo, riguadagnato ad un’area faustiana.

  «Per Balzac ogni amore che non implichi la società è destinato al fallimento». Una diagnosi dura. Tuttavia l’unica che possa spiegare la dialettica dell’Ottocento francese, la successiva crisi della poesia, il rifiuto sociale, collettivo, dell’artista “maledetto”, il suo morboso spirito di isolamento. All’ultimo atto della commedia occidentale, la favola si consumò interamente come la meravigliosa impossibilità della speranza. «Con queste parole il Nicoletti chiude l’introduzione ai «Mémoires de deux jeunes mariées».

 

 

  Anna M. Pinnizzotto, Cronache del teatro, «Il Pensiero nazionale», Roma, Anno XXIII, N. 10, 1969, pp. 28-29.

 

  Al Teatro Quirino la Compagnia diretta da Tino Buazzelli rappresenta Mercadet, l’Affarista di Honoré De Balzac. Autore francese dell’800 Balzac fu perfetto riproduttore, nei suoi racconti e nelle sue (commedie, della società amata e odiata in cui egli viveva. I suoi personaggi sono grottesche figure dell’epoca, ma poiché incarnano gli inevitabili e indistruttibili vizi umani, sono per questo anche e sempre attuali.

  Una delle figure più riuscite è senza dubbio quella di Mercadet, l’affarista in cui dei critici hanno ravvisato alcune notazioni biografiche dell’autore. Questo personaggio, intelligente, scaltro ha il gusto delle speculazioni che non sempre però gli riescono bene, ed è continuamente sull’orlo del fallimento inseguito dai suoi creditori a cui egli, con la sua astuzia, riesce sempre a carpire altro denaro.

  Mercadet, sull’orlo del precipizio, riesce sempre a risollevarsi con ingegnose macchinazioni. Ma il vantaggioso matrimonio combinato per la figlia per rinsanguare di denaro le sue tasche vuote si rivela presto una beffa, perché il futuro genero, creduto ricco, è invece pieno di debiti. comunque sempre bazzecole al confronto dei suoi.

  Ormai distrutto, questa volta sembra proprio definitivamente, il ritorno reale o simbolico del socio in affari Godeau, fuggito molti anni prima in America con tutto il loro denaro, lo risolleva dalla disperazione. Il Godeau, dio del denaro, che Mercadet tanto ansiosamente aspetta, è quello che tutti noi oggi aspettiamo, ed è per questo che al termine dello spettacolo gli attori si rivolgono al pubblico e sembrano cercarlo in sala.

  E’ certo che la schiera dei Mercadet, in questa civiltà tecnico-industriale odierna, è andata sempre più infoltendosi in modo pauroso, e questo personaggio, quello dello speculatore ad ogni costo, c’è anche troppo noto.

  Buazzelli, con la sua innegabile bravura d’attore, ne ha fatto un personaggio portentoso, ma ha finito col cadere come regista, nel rischio di una eccessiva identificazione tra se stesso e il personaggio balzachiano, che viene fuori dallo spettacolo come una figura umana, simpaticissima, tutt’altro che cruda e grottesca.

  Mercadet è un povero diavolo, intelligente ma sfortunato speculatore. Intorno a lui ruotano la viscida schiera dei creditori, bellissime caricature di uomini ricchi e sciocchi.

  Buazzelli, con la sua regia, ha voluto dare allo spettacolo un’impronta decisamente comica, a cui hanno contribuito alcune originali trovate sceniche. Egli stesso ha scritto: «il teatro comico e tragico si equivalgono, quando rispondono a una funzione educativa». E il personaggio di Mercadet, impersonato da Buazzelli, è indubbiamente comico, però di una tale schietta simpatia da farci dimenticare che dovrebbe essere il prototipo degli speculatori odierni, che sono tutt’altro che umani. [...].



  Nora Poliaghi, Appuntamento a Tours alla fine di settembre. «Stendhal e Balzac» è il tema del prossimo Congresso stendhaliano, «Gazzetta di Parma», Parma, 13 agosto 1969.


 

  R. Rad., Buazzelli al Nuovo, «Corriere della sera», Milano, Anno 94, N. 262, 13 novembre 1969, p. 15.

 

  E’ opinione corrente che Balzac commediografo non raggiunga le altezze di Balzac narratore. Lo stesso Mercadet, divenuto ben presto personaggio proverbiale, e che ora si riaffaccia alla ribalta nella versione e riduzione di Carlo Terron le cui generose potature appaiono in più di un punto salutari, è di preferenza considerato come figura a sé stante, capace di giustificare una commedia dalla quale, a ben guardare, non chiede giustificazione. Le persone in mezzo alle quali Mercadet si muove sono insomma complementari. Né sua moglie, che pure si adopererà a salvare il marito da un disastro che le appare inevitabile, né sua figlia Giulia, fermamente decisa a eludere un matrimonio di convenienza che di fatto si rivelerebbe sconvenientissimo, né il giovane Adolfo innamorato ai lei, né i creditori numerosi e la numerosa servitù riuscirebbero infatti a vivere di vita propria. Il solo che potrebbe aspirare a una tal quale autonomia è Michonnin De La Brive, di cui Mercedet, credendolo ricco, vorrebbe farne il proprio genero senza sapere che De La Brive, spiantatissimo, sposando Giulia calcola invece di metter mano sulla dote che essa non avrà mai. Due calcoli errati che di fatto riducono De La Brive a dimensioni di controfigura. Una proiezione nella quale, lungi dall’adontarsi, Mercadet si riconosce non fosse altro per asserire che la truffa organizzata in danno di un truffatore non può essere considerata una truffa vera e propria.

  Senza dubbio la società di Mercadet è più grossolana e sommaria della società di cui fa testimonianza La comédie humaine. Ma ciò non significa ch’essa non serva ottimamente a esprimere alcuni fra i caratteri salienti dell’epoca che fu sua, a cominciare dalla avidità e dal furore che accompagnarono la esplosione dell’era capitalistica: furore avventuroso, rincrudito dal disprezzo verso la proprietà terriera che alla speculazione offriva ormai margini troppo ristretti, e tuttavia temperato dalla prudenza della, signora Mercadet le cui terre, a conti fatti, garantiscono alla famiglia un rifugio sicuro.

  Tuttavia, sono proprio la sete di danaro e i nuovi mezzi di cui la società dispone per rapidamente conquistarlo (magari a prezzo della decadenza morale fiorita nel Secondo Impero) a condizionare Mercadet; o non piuttosto si tratta di un tipo i cui calcoli sono continuamente minacciati da un eccesso di immaginazione? Il capitale, per questo affarista irretito in tante speculazioni sbagliate, è una specie di simbolo astratto dal quale la sua fantasia è ininterrottamente stimolata. In ciò Mercadet si rivela molto simile ai giocatori autentici, cui il danaro è necessario unicamente per giocare. Ed è cosa giusta individuare nella origine del personaggio una componente autobiografica, tuttavia a patto di non di ravvisarla non già nelle molte speculazioni sbagliate che amareggiarono la giovinezza di Balzac, ma piuttosto nella carica fantastica che a ognuno di quegli assurdi affari aveva dato il via. Alcuni di essi, fra i più pittoreschi, sono minuziosamente descritti da Théophile Gautier in un saggio ancor oggi esemplare.

  In questo senso non è fuor di luogo dire che Mercadet risente della autobiografia di Balzac come Bouvard et Pécuchet risente della autobiografia di Flaubert. Sarebbe anzi interessante stabilire se e per quali vie Buazzelli, che già una diecina d’anni or sono era stato protagonista della commedia di Balzac, si sia poi sentito attrarre dal personaggio di Bouvard assunto lo scorso anno; e se, e fino a qual punto, Bouvard lo abbia poi risospinto verso Mercadet, oggi riafferrato con un impeto trasfiguratore, una violenza aggressiva, e all’occorrenza un precipitoso abbandono, che di un personaggio della Parigi del 1840 finiscono per fare una figurazione allegorica [...].

 

 

  Gino Raya, Balzac cerca madre, «Nuova Antologia», Roma, Anno CIV, Vol. 506, Fascicolo 2023, luglio 1969, pp. 397-400.

 

  Cfr. 1955 e 1961.

 

 

  E. H. Rhodes, Concerning a metaphor in “Le Lys dans la vallée”, «Studi Francesi», 37, Anno XIII, fascicolo 3, settembre-dicembre 1969, p. 84.

 

  According to Francis Bar [Balzac styliste, 1963], «la métaphore [pour Balzac] peut être à la fois très elliptique et reprise par une sorte d’écho». In Le Lys dans la vallée, one metaphor particularly illustrates this peculiar combination. It occurs when young Felix de Vandenesse recalls a night of romantically intense emotion. «Pendant cette nuit baignée de lumière où cette fleur sidérale m’éclaira la vie, je lui fiançai mon âme avec la foi du pauvre chevalier castillan de qui nous nous moquons dans Cervantes, et par laquelle nous commençons l'amour».

  «Cette fleur sidérale», it is not surprising to discover, is an elliptical metaphor for Henriette. Indeed, the sentences leading up to it are wholly devoted to de Vandenesse’s dreams about Madame de Mortsauf. «Avec quelle violence mes désirs montèrent jusqu’à elle! ... A elle, se rattachèrent mes vouloirs et mes ambitions, je souhaitai d’être tout pour elle».

  The ‘flower’ part of the image is not difficult to identify. While the book’s title alone would suggest a symbolic connection, Félix-Balzac never hesitates to explain his metaphor amply and explicitly. For example, the idealized heroine is often described in terms of flowers. «Rappelez-vous le parfum chaste et sauvage de cette bruyère ... cette fleur dont vous avec (sic) tant loué le noir et le rose, vous devinerez comment cette femme pouvait être élégante loin du monde, naturelle dans ses expressions ... à la fois rose et noire». And, of course, «Elle était, comme vous le savez déjà ... Le Lys de cette Vallée».

  But how does the astral imagery tie in ? A careful scrutiny reveals that this, too, is a reprise an an (sic) earlier motif, for in the beginning of the book, Félix had described his very sentimental passion for a star. «Un soir, tranquillement blotti sous un figuier, je regardais une étoile avec cette passion curieuse qui saisit les enfants, et à laquelle ma précoce mélancolie ajoutait une sorte d’intelligence sentimentale». Because his mother forbade him to indulge in this pleasure, he explains that he developed an even stronger love for the much-desired object which acquired «irresistible attractions» for him. Finallv his star became a confidante («ne pouvant me confier à personne, je lui disais mes chagrins »), the catalyst of both «unutterable delights» and love, «tant les impressions reçues au matin de la vie laissent de profondes traces au coeur».

  This concrete use of an abstraction, a star’s metamorphosis into a beloved companion, clearly paves the way for the «fleur sidérale» to which de Vandenesse (affiances his soul. Yet one may still wonder why Balzac chose the elliptical combination of the flower and the star. Both, while expressing Henriette, as has been shown, also set the scene of the countryside. In this way Balzac achieves what Erich Auerbach calls the «’stylistic unity’ of the milieu»; that is, the harmony between the person and his surroundings which «is presented as a striking and immediately apprehended state of things, purely suggestively, without proof». By uniting flower and star, Balzac not only links Henriette with the countryside, but he also unifies her with the symbols of beauty and love.

 

 

  Mario Stefanile, Balzac e Tolstoi, «Il Mattino», Napoli, Anno LXXVIII, Numero 49, 20 Febbraio 1969, p. 3.

 

  [...] Balzac, visto così alle sorgenti della sua prodigiosa avventura nella commedia umana, il Balzac che si fa la mano ne «Il gatto che gioca a pelota», ne «Il ballo di Sceaux», nelle «Memorie di due giovani spose», ne «La borsa» e infine in quel piccolo capolavoro che è già «Modeste Mignon» ci commuove a ritrovarlo nella sua feroce ingenuità, nella sua caparbia volontà narrativa, nel suo macinare già composto e continuo tutti gli ingredienti romantici, tutte le verità di costume, tutte le illuminazioni psicologiche in una operazione che già anticipa qua e là gli esiti che verranno poi, l’affresco terribile, stupendo, inimitabile della «Commedia umana». [...].

 

 

  Mario Stefanile, Mercadet l’affarista, «Il Mattino», Napoli, Anno LXXVIII, 25 ottobre 1969.

 

 

  Domenico Tempio, Anche oggi la società è piena di Mercadet, «L’Espresso sera», Catania, Anno XIII, 2 aprile 1969.

 

 

  Italo Vanni, Una ristampa integrale e un saggio critico. Balzac e la visione, «il Resto del Carlino», 1 ottobre 1969.

 

  Balzac credeva con trasporto nell’«immensità» del secolo XIX, il cui capo culturale e sociale era naturalmente Parigi. Parigi: tutta la vita si crea e si rinnova entro le sue vie innumerevoli, nel labirinto della sua toponomastica evidente e segreta. La città moderna, col secolo contemporaneo («la contemporaneité», musa balzacchiana), è la scena del nuovo universo romanzesco, cui dà vita il genio fecondo dello scrittore. Un genio di specie diversa, per il quale non servono le comparazioni. Nuovissima è la predilezione che lo contrassegna per la realtà sociale, nel suo moto evolutivo. La società si pone prima del singolo, lo sovrasta e insieme ne stimola l’istinto di conquista. Risorge l’antinomia romantica, di cui vibra interiormente il mondo balzacchiano, non nel senso irresolubile, rinunciatario, caro alla generazione di René, ma come lotta ad armi pari, cimento di energie. Il sogno di felicità che, in quegli anni, Stendhal riceveva dalla sensibilità romantica e rinnovava nella inquieta psicologia di Lucien e Fabrizio, è dei personaggi di Balzac, ma con l’esigenza materialistica della coscienza sociale e dell’arrivismo di classe. Senza residui, senza ritorni, quasi senza poesia.

  La scienza, nella forma dell’esame sistematico e progressivo della realtà, sembra assorbire in sé la riforma balzacchiana del romanzo. E tale è la sua lezione, l’autorità anche molesta che peserà, dopo Balzac, sul romanzo moderno (con l’eccezione, prima nell’ordine, di Flaubert). Ma tale non è la sua intima natura. Molto semplicemente diremo quanto ormai i lettori sanno o, sentono e i critici più avveduti hanno segnalato, a cominciare da Baudelaire.

  La rappresentazione di Balzac tiene della visione, non meno che del documento. Le misure della realtà, presso questo ammiratore di Rabelais, si fanno smisurate, il personaggio giganteggia. L’esasperazione è la caratteristica di ogni ritratto dell’uomo e del suo ambiente. Tutto si dilata, si tende. La materia, costretta alla pazienza dal realismo, non si mostrò mai così impaziente. E la parola sembra negata alle bellezze dello stile, dalla sua stessa urgenza vitale.

  Ciò che in Balzac a prima vista sembra la regola, si rovescia presto nel sovvertimento delle regole e dell’ordine. Del suo «realismo» s’è detto e basterà aggiungere che, a tutti gli effetti, risulta il più spropositato dei realismi passati e a venire. («Balzac esagera sempre», si lamentava Sainte-Beuve). Eguale discorso per la politica balzacchiana che, mentre si raccoglie ai piedi del trono e dell’altare, ha ritorsioni schiettamente repubblicane e si avvolge nelle più rigeneranti contraddizioni. Così della religiosità dottrinale, che cede alla magìa e alla mistica, alla ricerca di appassionati sincretismi. Poiché il mondo balzacchiano, attraversato in ogni senso da postulati contrastanti, è stretto da una forza originaria: il senso della vita, l’immane energia che la vita travasa nel romanziere e che questi, in uno scambio simpatetico mai visto, le restituisce moltiplicato.

  Il lettore perdonerà la lezione abborracciata che sembriamo volergli propinare e le cui tesi gli sono ben note. Ma il romanziere della Comédie Humaine abbisogna, più di altri suoi illustri compagni, di una periodica difesa e illustrazione. Contro le comode decifrazioni del suo «realismo», che prosperarono fin dentro il Novecento; contro l’opinione di un certo pubblico male informato, che lo vuole romanziere quantitativo, anagrafico; e contro le opinioni squisite del pubblico colto, che ne depreca la volgarità del gusto e della scrittura. («Come romanziere è quasi tutto illeggibile», sentenziò Emilio Cecchi che aveva, per fortuna, le sue belle intolleranze). Ben vengano dunque, nello stato sempre malcerto della «fortuna» di Balzac, le ristampe come questa dell’editore Casini, che vuol essere, prima in Italia, integrale. (Ma intanto, come saggio di traduzioni, non c’è da stare allegri).

  Non meno opportuni i testi critici, di ieri e di oggi, in continuità e armonia, una volta tanto, di pensiero. Il saggio di Ernst Curtius (1925) è la summa imponente dell’opera e della personalità di Balzac. Come la Comédie si svolge per grandi «scene», così il critico ne ripete le sintesi in raggruppamenti emblematici di motivi ispiratori: Mistero, Magia, Energia, Passione, Potere. Politica ecc. Il procedimento è «germanico» e se ne accusa la gravezza, ma si addice a Balzac, che non nascose la sua ambizione all’universalità e totalità del fare artistico. Curtius è il più indicato a cogliere appunto quella totalità, nel pullulante realismo dell’opera e a individuarne il mistero (termine tutt’altro che sconveniente allo spirito creativo di Balzac), nel principio energetico (o corrente vitale) da cui è animata tutta la visione e nella «intuizione divinatoria» grazie alla quale si conciliano i termini antitetici di fantasia e realtà, di spiritualismo e naturalismo.

  Giovanni Macchia, in un saggio che serve da introduzione al volume di Casini e che i lettori attenti avevano già letto altrove, risale ai «tetri» inizi di Balzac e ne registra con stupore il repentino passaggio ai capolavori, alla Peau de chagrin. Un enigma, che non è solo in quel transito ma nell’intero corso dell’opera, vorremmo dire. Con i modi della sua critica altamente intellettuale, in capitoli compendiosi, Macchia avanza nella selva balzacchiana segnandone gli orientamenti. E’ il carattere visionario, che «s’innesta nello stesso suo sconfinato realismo», è il rifiuto del romanzo-capolavoro, la «letteratura dell’estensione», una letteratura «del lavoro, del come, espressione di certezza e di spazi longitudinali». Delle pagine di Macchia non si può restituire la progressione e le sintesi del pensiero, affidate a formule splendenti, per cui acquista magnifica evidenza la qualità primaria del genio di Balzac: la modernità permanente.

 

 

  Vice, Teatro. Mercadet l’affarista, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, 22 maggio 1969, p. 7.

 

  Invecchiato di più di cento anni. ma sempre «attuale», Augusto Mercadet riappare sulle tavole del palcoscenico, affiorando magai da una botola che si apre nel salone di rappresentanza dell’appartamento del faiseur. L’affarista ha tre volti, tre nomi: Mercadet Balzac Buazzelli. E’ per questo che la nuova edizione di Mercadet l’affarista, per la regia di Tino Buazzelli, appare immediatamente «unidimensionale», e perciò polverosa, lontana da una qualsiasi dimensione critica capace di chiarire i nessi, appunto, tra Augusto Mercadet, Honoré de Balzac e Tino Buazzelli. [...].

 

 

  Vice [A. Tr.], Gli speculatori di borsa sotto il tiro incrociato di Balzac, «La Voce repubblicana», 23 maggio 1969.

 

  Sugli speculatori di Borsa, su coloro che fondano oggi la loro fortuna (e il loro prestigio) sul giro delle cambiali e delle tratte, su quanti prestano denaro ad usura, sugli industriali che fanno viaggiare i loro capitali come se fossero dei vagoni ferroviari internazionali, cosa non si potrebbe scrivere per il teatro, oggi? Praticamente tutto, se appena appena si tenesse d’occhio la cronaca e — qualche volta — la vita giudiziaria. [...].

  Tino Buazzelli scegliendo [...] Mercadet, l’affarista, ha certo puntato su uno dei più corposi e insolenti personaggi del teatro del denaro: su un personaggio che l’autore della «Comédie humaine» deve avere senza dubbio incontrato nella sua tumultuosa e affannosa vita. Un personaggio che per alcuni versi rispecchia particolari momenti autobiografici.

  Trattandosi di un personaggio autentico, di un affarista istrione, di un artista dell’imbroglio, e maneggione fino all’estremo consentito dalla decenza, anche allo scopo di salvare almeno i rapporti familiari, Mercadet sembra dunque inserirsi a meraviglia nella società odierna, e con lui s’inseriscono quanti gli fanno corona e che, nell’intento di giocarlo, restano alla fine giocati.

  Balzac è molto preciso nel disegnare dialetticamente il carattere del protagonista e spesso il suo disegno si colora di sferzante cattiveria. Ogni battuta, ogni trovata, diviene una sferzata nella realistica cornice in cui si svolge la vicenda che coinvolgendo gli interessi di Mercadet minaccia di travolgere anche gli affetti della sua giovane figlia. Per quanto riguarda quest’ultima è la società borghese nel suo complesso che ne esce con le ossa rotte, in quanto gli intrallazzi, e i guadagni economici che il padre tenta di intrecciare sull’avvenire della figlia, trovano una corrispondenza negli interessi che perseguono i due pretendenti della ragazza e in fondo la stessa signora Mercadet. E se in ultimo tutto sembra aggiustarsi per il meglio, è solo un lieto fine apparente, da commedia, perché la società non viene affatto liberata dalla presenza di individui del genere.

  L’edizione di «Mercadet» che, diretta da Tino Buazzelli è stata presentata al Teatro Quirino ci sembra che abbia puntato maggiormente sui motivi esteriori — non prendiam0 in considerazione, neanche in parte, le allusioni al Godot beckettiano — che non sulla amarezza di fondo intorno a cui gravita la commedia. Ciò ha fatto sì che le risate, soffocando in parte i valori critici e satirici, abbiano tutto sommato smussato le frecciate dell’autore. [...]. Balzachianamente imponente, Tino Buazzelli ha prestato a Mercadet gli estri e gli umori del suo irruente temperamento. [...].

 

 

  Giuliano Vigini, “La ragazza dagli occhi d’oro” di Honoré de Balzac, «Letture», Milano, agosto 1969, pp. 589-590.

 

  De Balzac Honoré, La ragazza dagli occhi d’oro (tit. orig.: La fille aux yeux d’or; trad. di Attilio Bertolucci), Milano, Garzanti («I grandi libri»), 1969, 11 x 18, pp. 128, L. 350.

 

  Pur essendo stata giudicata, non solo da un Proust o da un Hofmannsthal, ma anche da alcuni critici di oggi, uno dei suoi migliori racconti, La ragazza dagli occhi d’oro (1834-1835) — appartenente al ciclo «Scene della vita parigina» — non ci sembra per la verità offrire elementi che consentano di sottrarla al silenzio in cui è stata tenuta fino ad oggi e di rilanciarla nel novero delle opere balzacchiane di più vasto impegno. Se andiamo al di là di un puro e semplice giudizio di simpatia (come è in più casi quello che Proust dà della Comédie humaine), siamo indotti, al contrario, a considerare La ragazza dagli occhi d’oro un romanzo sostanzialmente mancato.

  Non è la prevalenza dei motivi fantastico-simbolici che tengono sempre sospesa la storia a determinare la scarsa fortuna di questo libro. Le componenti così dette visionarie dell’opera — nelle quali Baudelaire intravedeva il merito più grande dell’arte di Balzac (e il termine «visionario» sarà, non sempre a proposito, ripreso da molti, in particolare da A. Béguin in un suo celebre saggio) — non sono direttamente parte in causa, in quanto non costituiscono un motivo che pregiudichi di per se stesso l’efficacia e l’autenticità artistica del romanzo. Le ragioni di fondo vanno ricercate soprattutto nell’impianto strutturale, che si regge a stento e rivela chiaramente le sue deficienze.

  Dopo un diffuso e grandioso affresco della Parigi del tempo (pp. 17-41) prende avvio e si sviluppa una cronaca d’amore che ha episodicamente tinte drammatiche ma che si riassume — sul piano narrativo — in descrizioni scialbe, sommarie, prive di spessore realistico e psicologico, non animate da quella potenza rappresentativa in cui Balzac altrove è maestro. Personaggi, situazioni, conflitti sono semplicemente abbozzati. Non bastano a colmare o a mascherare i vuoti certi effetti coloristici e sentimentali introdotti di tanto in tanto per conferire superficiali sembianze di forza e di verità a ciò che invece, internamente, non ha vita.

  L’unico centro di interesse rimangono in tal modo le pagine introduttive della vicenda vera e propria. Ci si trova immediatamente immersi in un’atmosfera da malebolgia dantesca. Questa Parigi di Balzac è denudata di ogni spoglia, le sue piaghe sono crudamente messe a nudo. Gente «smunta, gialla, terrea, orribile» (p. 17), dall’aspetto cadaverico (p. 17), «quasi infernale» (p. 18), scossa «senza tregua da una tempesta di interessi» (p. 17), mossa dall’odio e dal piacere (pp. 17, 19, 21, 34), ha ridotto questa regina del globo, la più alta artefice di progresso (p. 38), a una città scheletrica. In questo «libro orribile, sudicio, spaventoso, corruttore e sempre aperto» che è il mondo (p. 108), Parigi sembra quasi essere la «selva selvaggia» in cui più fitti si sono annidati i germi del male e perciò anche della rovina, della decomposizione. La sua gloria, le sue virtù — per le quali non mancano peraltro qua e là compiacenti accenni — restano soffocate da queste immagini a fosche tinte denuncianti con la massima eloquenza le condizioni di squallore e degradazione in cui è caduta. Questo mondo disumano, sprofondato nel fango di aberrazioni morali e sociali, è, ben inteso, un bersaglio antico, a cui avevano mirato in vario modo — tanto per fare alcuni nomi — già un Rutebeuf o un Villon, e che avrà sempre nelle varie epoche i suoi tiratori scelti. Balzac, nel XIX secolo, sarà uno dei più autorevoli nella pleiade di scrittori che, in diverse forme ma con identico entusiasmo, si sono scagliati contro la società del loro tempo, riservando naturalmente, nelle loro furiose bordate, un posto speciale al «borghese», la figura più odiata e quindi maggiormente dileggiata dagli autori francesi dell’Ottocento.

  Ma il quadro sconfortante di vita parigina che Balzac dipinge con amara precisione non è un capitolo isolato. Lo continua e lo rafforza, seppure con altri toni e su un altro piano, un più vasto senso del male del mondo e dell’imperfezione di ogni azione umana: «L’uomo, per sua disperazione, non può far nulla di perfetto, né in bene né in male, e tutte le sue opere, spirituali e materiali che siano, portano impresso il marchio della distruzione» (p. 109). Proprio da qui — da questa coscienza della miseria e del limite universale dell’uomo — nasce in Balzac «quella passione che tutti gli uomini grandi sentono per l’infinito» (p. 144) e che non è vuota enunciazione teorica ma bisogno autentico, anelito sincero verso qualcosa che possa appagare la sua sete di Assoluto.

 

 

  René Wellek, Honoré de Balzac, in Storia della critica moderna. Volume IV: Dal Realismo al Simbolismo. Traduzione di Agostino Lombardo e Rosa Maria Colombo, Bologna, Il Mulino, 1969 («Collana di testi e studi. Linguistica e critica letteraria»), pp. 9-12.


  Honoré de Balzac (1799-1850) merita giustamente di essere chiamato il padre del romanzo moderno a sfondo sociale. Nella prefazione alla Comédie humaine (1842), affermò che la sua ambizione era quella di scrivere «la storia così spesso dimenticata dagli storici, la storia del costume». Balzac si riteneva uno storico della società contemporanea che doveva applicare il metodo dei romanzi di Walter Scott alla Francia del suo tempo. Scott aveva «impresso una allure gigantesca ad un genere di composizione che fino ad allora era stato ingiustamente considerato di second’ordine». Balzac, almeno nella prefazione, riteneva che il suo compito fosse la ricerca di una tipologia sociale; rifacendosi ai risultati raggiunti dalla zoologia, vede nella società un corrispettivo del regno animale, un agglomerato di specie: gli uomini sono come delle varietà zoologiche. Inoltre, la sua opera ha «la sua geografia come ha la sua genealogia e le sue famiglie, le sue persone ed i suoi fatti». Ma a questa ambizione sociologica — o, per dirla con Balzac, «fisiologica» — si oppongono le sue convinzioni cristiane e conservatrici: i suoi romanzi debbono tutelare l’ordine sociale e religioso, ritraendo l’anarchia dell’epoca.

  Balzac non era veramente né un pensatore né un critico, ed anche durante la sua vita fu spesso osservato che non si atteneva al proprio ideale scientifico: era, piuttosto, il creatore di un mondo di fantasia, un poeta nel senso antico del termine. È certo che in molti luoghi propugnò le concezioni romantiche più spinte sul ruolo dello scrittore quale profeta ispirato, e, nonostante le sue ambizioni enciclopediche, mostrò un costante disprezzo per l’intelletto. In uno dei suoi primi articoli, intitolato Des Artistes (1830), esalta la funzione sociale dell’artista: «egli domina interi secoli; muta l’aspetto delle cose»; ma il genio è una malattia come lo è la perla nell’ostrica. L’artista è schiavo di una volontà superiore, non ha un carattere proprio perché «è solito fare della sua anima uno specchio nel quale viene a riflettersi l’intero universo». È condannato a soffrire come Cristo sulla croce. Questi sono i temi di molti dei racconti di Balzac dedicati agli artisti. Gli artisti hanno una loro facoltà particolare, che Balzac chiama strana-mente «spécialité»: una sorta di visione o intuizione intellettuale. In tal modo Balzac sottintende spesso un’estetica fortemente spiritualistica o addirittura neoplatonica. Il celebre racconto «Il capolavoro sconosciuto» («Le Chef-d’oeuvre inconnu») (1831, ampliato e rielaborato nel 1837), è fortemente impregnato, probabilmente con l’aiuto di Delacroix e di Gautier, di gergo e discorsi da studio d’artista, ma nel pungente finale, quando il capolavoro dispiegato è una tela vuota, Balzac si appella decisamente alla visione interiore. Nella pratica cercò di organizzare scrittori e artisti, con l’intento di assicurare ricchezza e fama su larga scala a sé e a loro, spesso per mezzo di progetti bizzarri. Ma sapeva anche che l’artista è solo, che la sua intuizione è personale, e che l’arte muta nel corso della storia. Era acutamente consapevole dei «cambiamenti del gusto, dei capricci della moda, e delle trasformazioni dello spirito umano», e rivela persino una consapevolezza della varietà dell’arte, che è ben lontana dal dogmatismo dei romantici, dei classicisti e dei realisti. [...].

  Questo universalismo romantico ispira anche il concetto balzacchiano di critica. Egli detesta i critici meschini che vanno alla ricerca degli errori e che scrivono mossi da pregiudizi, riconoscendo invece un genere più alto di critica, «una scienza che esige una comprensione totale delle opere, una visione lucida delle tendenze dell’epoca, l’adozione di un sistema, una fede in determinati principi».

  Non si può dire, tuttavia, che, nella pratica, la sua critica corrispondesse a questo ideale. Le sue opinioni critiche sono molteplici e coprono un campo assai vasto, mentre la sua stessa vera e propria critica letteraria è più ricca di quanto non venga comunemente ritenuto. Ma è difficile comprendere perché egli debba essere classificato «un grande critico» in virtù di un’abile analisi giovanile delle inverosimiglianze e delle incongruenze della trama dell’Hernani (1830) o per la lunga ed in complesso favorevole recensione della Chartreuse de Parme di Stendhal (1840). Lukács ha esaltato questa recensione «straordinariamente profonda» come «uno dei grandi avvenimenti nella storia della letteratura mondiale» ma, ad una considerazione serena, risulta che Balzac non fa che esporre la trama del romanzo, criticandone la composizione e lo stile e lodandone invece l’intreccio centrale come Il Principe di Machiavelli «reso moderno». Stendhal, comprensibilmente compiaciuto dell’attenzione di uno scrittore celebre, ma toccato dalle aspre parole dedicate al suo stile, gli scrisse la celebre lettera in cui affermava che «per afferrare il tono soleva leggere ogni mattina due o tre pagine del Code Civil». Ma, per quanto generosa nelle sue lodi, la recensione di Balzac non apparirà veramente acuta a chi pensi che l’intera storia di Clelia viene eliminata, mentre Stendhal è lodato per essersi attenuto esattamente alle «regole» del romanzo. Tuttavia la sua classificazione preliminare della letteratura del tempo è di un considerevole interesse: Balzac contrappone la «letteratura di immagini» (Hugo, Lamartine, Chateaubriand) alla «letteratura di idee», in cui eccelle Stendhal. Accanto a Stendhal, Balzac pone Mérimée, nonché, per quanto possa sembrare strano, de Musset, Béranger e Nodier. Quanto a sé, si colloca nel mezzo, sotto l'insegna dell’«eclettismo» (un termine davvero infelice), accanto a Walter Scott, Madame de Staël, Cooper e George Sand. Si tratta, in definitiva, di una contrapposizione fra i romantici amanti del pittoresco e gli scrittori di derivazione illuministica animali dal «senso comune», con Balzac nel ruolo di colui che sa conciliare e sintetizzare. Per ciò che concerne la sua critica, non è dunque appropriato fare di Balzac un realista, e nemmeno un precursore del realismo. L’osservazione, la raffigurazione dei costumi del suo tempo, l’interesse per una tipologia sociale, per quanto non nuovi costituiscono solo un aspetto del suo pensiero: manca a Balzac la fondamentale ricetta tecnica del nuovo realismo, ossia l’assenza dell’autore, il distacco, l’impassibilité.


 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Mercadet, l’affarista. Regia di Tino Buazzelli. [...].

 

  Cfr. 1968.

 

 

 

Adattamenti televisivi.

 

 

  Honoré de Balzac, Il nascondiglio, in I Bugiardi. Telefilm tratti da racconti di Oscar Wilde, Balzac [...], Programma nazionale, 19 settembre 1969.

 

 

  Illusioni perdute di Honoré de Balzac. Riduzione e regia di Maurice Cazeneuve [...], Secondo Programma, 9 settembre-21 ottobre 1969, sette puntate.

 

  Cfr. 1967.

 



[1] Per un certo periodo, Balzac condivise con Sue e Ch. Lautour-Mézéray, amico e collega di Girardin, il ruolo di «leone» alla moda, a passeggio in cabriolet sui boulevards, a pranzo al ristorante Tortoni, e nel palco dell’Opéra. [N. d. A.].

[2] György Lukács, La distruzione della ragione (trad. it.), Torino, Einaudi, 1959, pp. 165-6. [N. d. A.].

[3] Georges Poulet, Études sur le temps humain, II. La distance intérieure, Paris, Plon, 1952, pp. 122-3. [N. d. A.].

[4] A Saché, Balzac ha fatto numerosi soggiorni, ospite di M. de Margonne, e vi ha composto, come ricorda una lapide, alcuni dei suoi capolavori: Père Goriot, le Lys dans la vallée, la Recherche de l’Absolu, Louis Lambert. Al castello ha sede la Société Honoré de Balzac de Touraine, che presiede M. Paul Métadier, scrupoloso conservatore e vivificatori dei ricordi balzachiani ed autore di quel magnifico album «Balzac en Touraine» pubblicato da Hachette. Gli appartamenti del romanziere, e in special modo il suo studio, sonò restati intatti e sono adibiti a museo, che contiene anche dei manoscritti. [N. d. A.].

[5] Formula ripresa dallo studio di Giovanni Macchia su Balzac, ma con un evidente errore di trascrizione.



Marco Stupazzoni

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