domenica 30 agosto 2020



1971

 

 

 


Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Il sublime sociologico. Honoré de Balzac (Papà Goriot), in AA.VV., Cent’anni dopo. Il ritorno dell’intreccio. A cura di Umberto Eco e Cesare Sughi, «Almanacco Bompiani 1972», Milano, Casa editrice Valentino Bompiani, (novembre) 1971, p. 89;

 

  Vautrin alias Collin. Honoré de Balzac (Papà Goriot), p. 111;

 

  La fanciulla dagli occhi d’oro. Honoré de Balzac (Storia dei Tredici), p. 156.

 

  Alle pp. 2-3 e a p. 184, sono riprodotte alcuni disegni di personaggi della Comédie humaine, tra cui: Le Père Goriot, Lucien Chardon de Rubempré, Henry de Marsay, Eugène de Rastignac, César Birotteau, Ursule Mirouët, Félix Gaudissart, Raphaël de Valentin, Séraphita, Louis Lambert.





Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Liviana Fontana. Illustrazioni di Claudio Mazzoli, Varese, Varesina Grafica Editrice, (settembre) 1971 («Collana “Tesori di ieri”, 3»), pp. 166; ill.

 

  Il romanzo è arbitrariamente suddiviso in sette capitoli altrettanto arbitrariamente titolati (Il signore di Saumur; Un ospite non invitato; La scoperta dell’amore; L’avaro; Una lezione d’economia; Grandi dolori; L’orfana). Non è riportata la dedica ‘A Marie’ inserita da Balzac nell’edizione Charpentier del 1839. Siamo di fronte ad una traduzione in cui sono frequenti omissioni di intere sequenze testuali a cui si succedono sviste od errori linguistici veri e proprî.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Traduzione di Grazia Deledda. Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1971 («Biblioteca Romantica», 7), pp. 255.

 

  Cfr. 1930 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Una figlia d’Eva. Traduzione di Enrico La Stella, Roma-Milano, Edizioni Corte, 1971 («Narrativa»), pp. 157.

 

  La suddivisione in nove capitoli che si ritrova nell’edizione originale del romanzo (Souverain, 1839) e, in seguito, soppressa da Balzac nell’edizione Furne del 1842, è, in questa nuova traduzione di Une fille d’Eve, modificata in tredici capitoli. Si segnalano, nel corso del testo, alcune scelte piuttosto arbitrarie del compilatore che non sempre si attengono ad una rigorosa aderenza al modello francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. A cura di Marina di Juvalta. Ristampa, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1971 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni», IV-100), pp. 329; 1 ritratto.

 

  Cfr. 1957; 1964.



  Honoré de Balzac, La Storia dei Tredici. Traduzione a cura di Alessandro Prampolini, Firenze, Industria grafica L’Impronta I Classici Unedi, (luglio) 1971 («Scrittori stranieri»), pp. 318.

 

  Edizione pubblicata su licenza della Casa Editrice G. C. Sansoni.

 

  Cfr. 1965.

 

 

 

Adattamenti e riduzioni.

 

 

  H. de Balzac, Il Mistero della duchessa. Libera riduzione dal romanzo di H. de Balzac interpretato da Rosalba Grottesi nella parte della Duchessa Antonietta, Claudio de Renzi nella parte di Armando e con: Maurizio ... Gianfranco de Angelis – François ... Tony di Mitri. Fotografia ... Carlo De Marchi; costumi di Werther e Ferroni. Regia di Corrado Lener, «La Romantica di ‘Sogno’», Milano, N. 1, 15 Novembre 1971, pp. 3-66.

 

  Adattamento-riduzione de La Duchesse de Langeais in forma di fotoromanzo.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Maria Luisa Astaldi, Manzoni ieri e oggi, Milano, Rizzoli, 1971.

 

  Alle pp. 392-393, l’A. riferisce dell’incontro tra Balzac e Manzoni.

 

 

  Anna Banti, Balzac e il suo 007, «Paragone/Letteratura», Firenze, Anno XXII, n. 252, febbraio 1971, pp. 61-68.

 

  Non mi sembra che la critica di laboratorio, consistente nel sottoporre alla lente del microscopio l’uno dopo l’altro, i diversi campioni di un tessuto narrativo, si addica all’opera balzachiana, almeno sino a che la gran matassa della Comédie non sia dipanata filo a filo, in tutte le sue componenti umane e culturali. Molto si è scritto e si continua a scrivere su di essa, e tuttavia parecchie ombre rimangono là dove l’interesse dell’affezionato rilettore viene attratto da figure magari di secondo piano, ma indicative e feconde di sviluppo tuttora vitali. Innumerevoli, infatti, sono le proposte che il Nostro ha offerto alla posterità: la quale, dopo averle raccolte e assimilate, spesso neppure avverte da che mani le abbia ricevute. Fra le tante, sia lecito fare un esempio di modeste proporzioni, ma, a mio parere, piuttosto stimolante e, che non guasta, divertente.

  Da circa un secolo noi consumiamo nelle più diverse forme e articolazioni la letteratura di suspense: ebbene, salvo errore ed omissioni, non ho mai trovato nelle pagine degli specialisti che le origini più sostanziose di questo genere possono agevolmente scoprirsi nella Comédie. Non alludo, sia chiaro, alle vicende di Vautrin, alias Jacques Collin, alias abate Herrera, questo eroe dai muscoli turgidi e dal cervello infocato che ricorda un Jean Valjan (sic) impenitente. Il personaggio che mi azzardo a citare non ha scene madri, e astenendosi dal gesto teatrale, fa capolino quando uno meno se lo aspetta a sciogliere discretamente nodi imbrogliati: dopo di che si rimbuca dietro lo schermo di una vita privata, forse segretamente pubblica. È il nemico gelido di chi si oppone ai potenti, ma soprattutto è il confidente del governo, il servitore della ragion di Stato. Sappiamo che si è formato alla scuola di Fouché, oggi lavorerebbe per l’Intelligence Service; ha i caratteri dell’intellettuale cinico e la determinatezza dell’uomo d’azione. Più giovane del suo maestro passerà con le medesime mansioni dai tempi di Bonaparte primo console fino a Luigi XVIII che lo metterà a capo della sua contre-police. Il suo nome è Corentin.

  Dalla penna di Balzac nasce (senza modelli riconoscibili come, per Vautrin, Vidock (sic)) nel 1827, data del romanzo Les Chouans. Sorto dall’oscuro magma postrivoluzionario, nel 1799 — anno VIII — raggiunge la Bretagna per liquidare il giovane capo degli insorti, Le Gars, all’anagrafe marchese Alfonso di Montauran: lo accompagna una specie di Mata Hari settecentesca, la bellissima Mad.lle de Verneuil che dovrà irretire Le Gars e consegnarlo ai repubblicani. Ed ecco come Balzac ce lo presenta:

  ‘Un uomo piccolo e secco caracollava ora davanti, ora dietro la vettura’ (la corriera su cui viaggia la Verneuil)’... Il suo costume era l’esatto specchio della moda che produsse a quei tempi le caricature degli Incroyables. Immaginatevi un individuo infilato in una marsina dalle falde così corte che sul davanti lasciavano scoperti cinque o sei pollici di gilé, mentre sul dietro la coda si allungava come quella di un merluzzo. Una enorme cravatta gli si avvolgeva al collo con tanti giri che la piccola testa uscente da quel labirinto di mussolina giustificava il paragone gastronomico del capitano Merle’ (che l’aveva definito una testa d’oca in vetta a un paté) Lo sconosciuto portava un pantalone aderentissimo, stivali alla Souwaroff e uno smisurato cammeo bianco gli serviva di spilla sulla camicia ... Aggiungete ... il contrasto comico dei colori, giallo nei pantaloni rosso nel gilé, cannella nella marsina ... Pareva aver toccato i trent’anni ma ne aveva appena ventidue ... il suo portamento accusava una certa eleganza di modi tipici di un uomo beneducato ... Merle, che gli aveva lanciato uno sguardo sardonico, si scontrò con uno di quei visi impenetrabili abituati dalle vicissitudini della Rivoluzione a nascondere il minimo segno di emotività’.

  È ovvio che un tipo simile non è simpatico a nessuno: non a Mad.lle de Verneuil che ha accettato per capriccio di collaborare con lui, non al comandante Hulot e ai suoi bleus, repubblicani leali che detestano Fouché e la sua politica di spionaggio. Ma lui, Corentin, non ne soffre anche se, invaghito della sua compagna di viaggio, dispera di conquistarla. Sa bene che la sua faccia (‘una caraffa di limonata’) non piace, che l’eleganza del suo costume ha qualcosa di falso che insospettisce l’uomo comune: il destino dei poliziotti, in ogni tempio, è di tradire la loro identità anche con gli abiti più normali. ‘Costui ha la polizia sul viso’, dice Montauran; ma già Corentin aveva osservato con tanto acume il suo antagonista, da pensare: ‘Voglio essere impiccato se questi è un repubblicano; ha nelle spalle il movimento degli uomini di corte’. Del resto, a parte la bella ragazza che dovrà perdere, il cittadino Corentin è troppo razionalmente impegnato per provare risentimenti e dispetti che durino più di un minuto. Quel che gli importa è conservare una fredda lucidità, il colpo d’occhio infallibile, doti che gli schiuderanno le porte della haute-police, non come gregario ma come uno dei suoi gerarchi, meglio ancora capo segreto. Tali ambizioni lo portano a una sorta di saggezza distaccata che gli fa tenere, ormai convinto degli amori fra la Verneuil e Montauran, questo discorsetto al candido Hulot: ‘Voialtri militari non sapete che esistono parecchi modi di fare la guerra. Servirsi abilmente delle passioni degli uomini e delle donne come di molle da far muovere a vantaggio dello Stato, sistemare queste ruote al loro posto nella gran macchina che chiamiamo un governo, divertirsi a chiudervi i più indomabili sentimenti come delle cariche sotto sorveglianza, non è creare come Dio, piazzarsi al centro dell’universo? ...’.

  Un programma di questa fatta gli permette di sopportare e quasi di favorire come mezzo di manovra il suo scacco di innamorato respinto. Sorvegliando la passione dei due protagonisti non esita, con una falsa lettera di Montauran, a scatenare la tragedia che è poi il successo della sua missione. Davanti a Marie de Verneuil ferita a morte non batte ciglio, il caso ha voluto che la liquidazione del capo degli Chouans coincidesse con la sua personale vendetta: una soddisfazione di più, anzi l’unica a cui Corentin sia sensibile. Altrove Balzac spiegherà come una spia rimanga impassibile alle più roventi ingiurie ma conservi a lungo il rancore per chi ha ferito il suo orgoglio.

  Quando rivediamo Corentin, quattro anni sono passati, siamo nel 1803 e ripresentandocelo in Une ténebreuse affaire (1841) Balzac dimostra di non averlo mai perduto di vista durante circa un ventennio. Eccolo che viene avanti da uno dei viali del parco di Gondreville, già domain (sic) dei Simeuse, venduto come patrimonio nazionale a un prestanome di Malin, Consigliere di Stato. Corentin non è cambiato, Balzac sembra anzi compiacersi di descriverlo con gli stessi termini e giri di frasi usati all’inizio di Les Chouans, quasi a indicare la fissità del suo carattere: un anticipo di innumerevoli esemplari di poliziotti. Aggiunge, tuttavia, che la sua eleganza è ora più raffinata e le sue maniere tradiscono l’abitudine della buona società. Ma: ‘il suo viso livido pareva non avere una goccia di sangue, il naso camuso gli dava l’aria sardonica di un teschio, gli occhi verdi erano impenetrabili, il loro sguardo era discreto come doveva essere la bocca, sottile e sigillata’. Il suo costume è pressappoco eguale a quello descritto nel 1827, ma sopra la marsina porta uno spencer alla moda della jeunesse dorée e al posto del cammeo un gioiello di valore. I suoi stivali alla Souwarof scricchiolano, scintilla il pomo dorato del bastoncino con cui Corentin, camminando, frusta l’aria. ‘Una espressione fatua e quasi impertinente tradiva una sorta di superiorità nascosta’. Lo accompagna colui che gli ha dato i primi rudimenti del mestiere, La Peyrade, già allievo di Lenoir, un quarantacinquenne bonaccione e corrotto che da maestro è disceso a una posizione subordinata. Corentin non è ancora autonomo, ma è un fidato di Fouché e sarà il motore di un processo clamoroso contro i due emigrati de Simeuse e Michu, il loro uomo di fiducia. Mentre il suo compagno ama la buona tavola e le donne, lui è rimasto ‘senza passioni e senza vizi’: appartiene alla diplomazia e lavora per l’arte pura.

  Oggi, Corentin rifiuterebbe l’aiuto di una Marie de Verneuil. Sono tempi torbidi, il gioco politico è vorticoso, c’è in aria una cospirazione contro il primo Console, il doppio e triplo gioco è di moda perché non si sa da qual parte il vento stia per spirare. Per ordire la trama con cui avviluppare i due ci-devants cospiratori Fouché gli ha dato carta bianca: veda lui, Corentin, se sarà il caso di usarla. Non esistono più gli schietti repubblicani, ma politici che oscillano fra il Pretendente, i nobili amnistiati e il pericoloso Bonaparte. E chissà, si chiede Corentin, mentre indaga, se per caso Malin non sia della congiura, chissà che lo stesso Fouché non ne faccia parte? Un sospetto che gli suggerisce di guadagnarsi copertamente la fiducia della cugina e dei parenti dei cospiratori che vivono nel superstite castello di Cinq-Cignes. Malgrado la sua abilità non ci riesce: l’altera Laurence lo umilia ed esaspera la situazione colpendo con la sua cravache di amazzone le dita di Corentin che tentavano di aprire un suo scrignetto a doppio fondo. ‘La spia’ commenta, come sopra si accennava, Balzac, ‘sostantivo energico sotto il quale si confondono tutte le sfumature che distinguono gli addetti alla polizia, ha questo di magnifico e di curioso: che non si arrabbia mai. Ha l’umiltà cristiana dei preti, è avvezzo al disprezzo cui oppone una barriera che la folla degli sciocchi non avverte. Agli insulti risponde con una faccia di bronzo e va dritto al suo scopo come un animale il cui solido guscio non può essere scalfito che da una cannonata: ma allora la bestia tanto più s’infuria quanto più ha creduto nell’impenetrabilità della sua corazza’. Ebbene, la frustata di Laurence ha questo effetto e decide della sorte dei Simeuse. ‘Ne ho fatto crepare una che non valeva meno di lei’ mormora Corentin al compagno Peyrade ‘se costei mi ricapita a tiro le ripagherò la sua staffilata’.

  A questo punto le maglie della trama si chiudono, una solo alternativa rimane al rappresentante della ragion di Stato che, se il suo piano riesce, potrà anche soddisfare il suo desiderio di vendetta Sequestrare un Consigliere di Stato, un senatore, e un delitto gravissimo e a Corentin non mancano uomini che funzionino egregiamente come contrifigure (sic) dei Simeuse e come testimoni a loro carico. Il processo viene celebrato a Troyes e divulgato per tutta la Francia. Anche questa volta una lettera falsificata taglia le flebili speranze degli accusati: i gentiluomini otterranno grazia a patto di servire il neo imperatore; Michu, il vassallo fedele, salirà al patibolo.

  Questa operazione politica congegnata in ogni particolare, dall’invenzione alla scelta degli esecutori, alla realizzazione, laurea Corentin all’esame finale di accesso alla haute-police. Il lettore può supporre che rientrato nell’ombra non abbia degnato di attenzione i misfatti di Ferragus, le tenebrose audacie della Histoire des Treize, faccende che riguardavano il capo della sûreté. E quando il barone di Maulincour ha la prova che la polizia di Parigi non scopre mai nulla e si fa sonoramente burlare, al sorriso di Balzac sembra unirsi un ghignetto di Corentin: chi, d’altronde non ricorda che fra non molto Scotland Yard sarà sempre scavalcata dai grandi détectives? Nel frattempo Corentin sta diventando un maturo signore dai costumi irreprensibili, con una terribile leggenda alle spalle che è il suo vanto, il suo glorioso curriculum. Non lo turbano rimorsi: Montauran, Marie de Vemeuil, i Simeuse, Michu non sono le sue vittime, sono i nemici del governo, comunque retto e configurato e il governo va difeso con ogni mezzo: raggiro, pugnalata anonima, contre-police al servizio privato del sovrano. Una morale che ha tutta l’aria di essere ancora viva e di voler durare a lungo.

  Non sappiamo quando Corentin-uomo morirà: come personaggio balzachiano egli sopravvive all’ultima impresa, alquanto degradante, a cui lo vediamo partecipare insieme a Contenson e La Peyrade che ridotti in bassa fortuna, vi perderanno la vita. Il suo è questa volta un intervento di straforo assunto quasi per ozio: par d’indovinare che stanco di una grigia inattività di burocrate egli accolga volentieri l’occasione di muoversi a favore del vecchio Peyrade che ha bisogno di soldi per maritare convenientemente una sua figlia naturale, Lydie. Col tempo e attraverso una lunga consuetudine di collaborazione, il cuore di Corentin si è aperto a un sentimento di amicizia tiepida, senza stima, indulgente. Perché, dopo tutto, il povero Peyrade crapulone non dovrebbe sfruttare una passione senile del banchiere Nucingen per trame denaro e ottenere di esser di nuovo assunto nella polizia statale? Come un buon artigiano che anche in tempi di magra non perde il gusto del mestiere, al primo avviso dell’amico, Corentin prepara il suo piano ed entra in scena: non è più il muscadin impertinente di Une ténebreuse affaire, ma ‘un uomo sui cinquanta dal volto gessoso, il volto che la vita mondana dona ai diplomatici. Veste di panno blu, ha un portamento assai elegante e ha quasi l’aria di un ministro di Stato: scendendo da uno splendido cabriolet getta le redini al domestico’. Nel colloquio col barone, parla come se invece di uno sporco traffico esponesse le condizioni di un trattato di pace: ‘non c’è figura retorica che possa rendere il tono tagliente, netto, perentorio del discorso di Corentin, il barone stesso lo notò e il suo viso ebbe una espressione di stupore che da gran tempo aveva ceduto all’impassibilità’. Da ultimo col medesimo tono impone il ricatto: faccia parlare, Nucingen, al Prefetto di Polizia per mezzo di Gondreville; ditegli che si tratta di favorire uno di quelli che han saputo sbarazzarlo dei Simeuse. Vedrete che obbedirà ...’.

  Mai Corentin si era tanto scoperto e per un motivo così meschino: la sua decadenza è cominciata, il disegno della sua inflessibile figura sbiadisce. A questo primo cedimento che lo colloca al livello di un Contenson altri ne seguiranno. Intanto prenderà a truccarsi, a travestirsi alla maniera degli spioni di bassa forza e quasi a simbolo del suo avvilimento, per la prima volta incontrerà, faccia a faccia Jacques Collin: anzi sarà lui a ravvisarlo sotto le spoglie di un infimo leguleio. Ormai lo scontro fra lui e il forzato è inevitabile, aggravato dal fatto che prestandosi a difendere l’onore dei Grandlieu e a rivelare la fonte a cui attinge denaro Lucien de Rubembré, il celebre agente di Luigi XVIII finisce per somigliare a uno scalcagnato segugio dei nostri giorni. Inoltre comincia ad aver paura: Jacques Collin o lo si elimina o lo si inserisce negli ingranaggi polizieschi. A questa conclusione egli giunge d’accordo col Procuratore Generale Grandville a cui si è presentato nella figura di un vecchietto infermiccio. Al primo sguardo Collin scopre che i suoi occhi non hanno l’età denunziata dal travestimento e di fronte all’autore della rovina di Lucien la violenza sta per sopraffarlo: tuttavia si domina e patteggia la sua nomina a successore del capo della sûreté, Bibi-Lupin. Solo alla fine del colloquio, in luogo di un abbraccio di riconciliazione, Corentin riceve una strizzata che lo lascia senza respiro: ‘lo serrò sul suo cuore come un fantoccio, lo baciò sulle gote, lo sollevò come una piuma e lo depose fuori della porta’. ‘Voi vi chiamate lo Stato’ aggiunge ‘come i lacchè si chiamano col nome dei loro padroni, io voglio chiamarmi la Giustizia’. Ormai la retorica del secolo ha vinto, optando per l’eroe maledetto, il tenebroso giustiziere della società dei potenti, colui che non perdona.

  ‘La haine fait vivre’ confida infatti alla sua complice Jacqueline, alias Asie, alias Madame Nourrison, alias Madame de Saint Estève, maestra di nequizie. Se la vendetta progettata abbia poi avuto luogo, Balzac non dice, egli ha deciso di abbandonare al suo destino il singolare personaggio che aveva disegnato con mano così ferma e, bisogna dirlo, con involontaria ammirazione.



  Lina Bertolacci, «La peau de chagrin» de H. de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alan Freer, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Commercio, 1971.



  Francesca Bisol, Les “Esquisses” de Balzac dans les Scènes de la vie privée. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1971.

 

 

  Lorenzo Bocchi, Fra i ghiottoni della «belle époque», «Corriere della Sera», Milano, Anno 96, N. 181, 4 ag0sto 1971, p. 5.

 

  Su Christian Guy, La vie quotidienne de la société gourmande en France au XIXe siècle.

 

  I tre giganti dello scorso secolo — Balzac, Dumas padre e Hugo — erano famosi anche come ghiottoni. L’autore della «Comédie humaine» invitò un giorno in un ristorante del Palais Royal, Chez Véry, il suo editore Werdet. Mentre questo si accontentò di un potage e di un pezzo di pollo, Balzac attaccò con due dozzine d’ostriche di Ostenda, continuò con dodici costolette, un anatroccolo con broccoli, un paio di pernici arrosto, una sogliola alla normanna, e concluse con un dolce, il tutto debitamente annaffiato. Lo scrittore conosceva e frequentava i migliori ristoranti di Parigi. Se ne servì per inquadrare i suoi personaggi, come Lucien de Rubempré al Rocker de Cancale di rue Montorgueil o Rastignac al Café Anglais.

 

 

  Luigi Capuana, Balzac [1882], in Walter Mauro, Capuana. Antologia degli scritti, Bologna, Edizioni Calderini, 1971, pp. 62-68.

 

  Si tratta dello studio apparso nel «Corriere della Sera» del 2-3 febbraio 1880 e successivamente pubblicato negli Studii sulla letteratura contemporanea. Seconda serie del 1882.



  Marilena Casagrande, Les mémoires de deux jeunes mariées de Balzac: étude de deux femmes. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1971.

 

 

  Carlo Cordié, Balzac, «Cultura e scuola», Roma, Anno X, n. 37, gennaio-marzo 1971, pp. 76-84.

 

  Una seduta della TV italiana dedicata ai giochi letterari e culturali, tempo fa, mostrò che la figura di Honoré de Balzac era meno nota di quanto si supponesse. Mostrata l’immagine (famosa nella documentazione grafica del romanziere e della sua fortuna) del «re del romanzo ottocentesco» e formulata la domanda in un modo un po’ ellittico intorno ai «meriti storici» dell’opera sua, il presentatore si sentì rispondere: «Thierry». Risposta che mostrava cultura nel candidato, ma che non combaciava con la richiesta concernente il Balzac. La cosa cadde fra proteste non accolte (o non capite) e l’indifferenza di altri concorrenti. Anche Balzac ha la sua leggenda (e magari nera). Pronuba la TV, più di un romanzo suo (o gruppo di romanzi) è oggi meglio conosciuto che non per l’addietro. Ma lo scrittore non ha ancora completa comprensione da parte del pubblico: forse a causa dell’immensa mole della produzione narrativa e la molteplicità, spesso dispersiva, delle occasioni con cui la si rievoca. Basti però dire (allo scopo di segnare un punto a favore del romanziere) che, quando si dice ‘Balzac’, si allude all’autore di Eugénie Grandet e del Père Goriot: e non si richiama più l’attenzione su un notevolissimo letterato del Seicento, per il quale bisognerà dire con completezza: Guez de Balzac. È già qualcosa, e, quando si «è letti dal proprio portinaio» (s’intende, mediante i feuilletons dei quotidiani più in voga o anche tramite collezioni popolari di letteratura), si è raggiunta la vera fama.

  Tanta è la serie dei contributi di questi ultimi decenni che, a dire il vero, è necessario non spingerci troppo addietro al fine di fare un panorama, sia pure rapido, intorno a Honoré de Balzac e alla sua opera letteraria. Ormai repertori bibliografici quali quelli del Rancoeur e del Klapp sono in mano di tutti gli studenti universitari che s’interessano di lingua e letteratura francese (dovrebbe esser così almeno nelle intenzioni) e quindi non è difficile metter insieme una serie di schede al fine di fare un quadro delle tendenze della critica e di comprendere i gusti degli editori. Sarà, per altro, utile partire da una pubblicazione periodica, tutta dedicata al Balzac sotto forma di annuario. Ha nome «L’Année balzacienne», ed esce dal 1960 (che forma così il suo primo anno). Diretta da Jean Pommier. segue a «Études balzaciennes» pubblicate dal Groupe d’Études balzaciennes (chiamato G. E. B. con una di quelle sigle care ai personaggi di più romanzi avventurosi che l’autore prediligeva nella sua ricerca quotidiana di mistero). È ora uscito con lodevole esattezza il X volume (che concerne il 1970). La casa Garnier ha messo in cantiere decine di ristampe critiche dei maggiori libri del romanziere, e, anno per anno, li ha dati al pubblico. Al fine di semplificare un elenco che rischia di diventare lungo, basti qui tener presente la copertina del volume X, predetto: e, senza aver bisogno di consultare centinaia di contributi e decine di recensioni, si vedano in ordine rigorosamente alfabetico (articoli esclusi) le seguenti opere col nome del curatore: Béatrix (Maurice Regard); Le cabinet des antiques (Pierre-Georges Castex, valentissimo redattore-capo dell’«Année balzacienne»); César Birotteau (Pierre Laubriet); Les Chouans (M. Regard); L’envers de l’histoire contemporaine (M. Regard); Eugénie Grandet (P.-G. Castex); Histoire des treize (P.-G. Castex); Illusions perdues (Antoine Adam); Le lys dans la vallée (Moïse Le Yaouanc); La Maison du chat-qui-pelote - Le bal de Sceaux - La vendetta (P.-G. Castex); Le père Goriot (P.-G. Castex); Les petis (sic) bourgeois (Raymond Picard); La Rabouilleuse (Pierre Citron); Splendeurs et misères des courtisanes (A. Adam); La vieille fille (P.-G. Castex). Un posto a parte per l’importanza dell’impresa va fatto alla Correspondance, i cui testi sono riuniti, classificati e annotati da Roger Pierrot, conservateur à la Bibliothèque Nationale; sono usciti a tutt’oggi 5 tomi, con lettere dal 1809 all’agosto 1850 (con supplementi per anni addietro).

  Chiuso il ciclo che si può definire eroico dei Bouteron e aperto quello scientifico dei fedeli della Bibliothèque Spoelberch de Lovenjoul, forse non si trovano in quest’ultimo decennio imprese rivelatrici, ma solo lavori e studi di buona filologia e di accurata e tenace arte editoriale. È molto difficile che in un decennio si mostrino, in tutte le loro qualità, iniziative che in indagini pazienti hanno la loro preparazione; nondimeno di alcune di esse è necessario dire sùbito il bene che meritano. Anzitutto la ristampa del Dictionnaire des personnages fictifs et anonymes de la «Comédie humaine» del compianto Fernand Lotte, con prefazione di Marcel Bouteron (nuova edizione del 1967), va tenuta presente dal pubblico. Dal 1969 è, comunque, a disposizione il Dictionnaire de Balzac di Félix Longaud, con più di 800 articoli lodevolmente accolti dalla critica e destinati a grande diffusione. Un libro intero si potrebbe fare con l’elenco delle edizioni delle opere del Balzac, dove avrebbero il dovuto risultato le imprese delle «Oeuvres complètes» a iniziativa di più studiosi e specialisti. Piace, per altro, tener conto di successive ristampe di volumi della raccolta della Comédie humaine allestita dal Bouteron nella «Bibliothèque de la Pléiade», fra il 1935 e il ‘37 in 10 volumi; ora una particolare importanza ha il tomo XI, del 1960 (ristampato nel ‘64). Esso è un vero complemento dei dieci che lo precedono, e contiene i Contes drolatiques précédés de La Comédie humaine (Oeuvres ébauchées, II: Préfaces). Testo, notizie e commento illustrativo sono dovuti a Roger Pierrot. Ma si aggiunga l’indice della Comédie humaine a cura di F. Lotte, ricco di sigle per facilitare il lettore. Anzitutto c’è un Index de personnes réelles et des allusions littéraires (pp. 1133-1301, con relative note). Segue l’Index des personnages fictifs (pp. 1303- 1725, anche questa volta con le note che li concernono). Se si pensa al minutissimo carattere impiegato, un corpo sei, un’intera enciclopedia è a disposizione dei volonterosi. Coi personaggi che ritornano e simili elementi della compagine della Comédie humaine, c’è modo di cogliere il Balzac in torto di distrazione verso i suoi duemila personaggi più che non sia possibile con gli autori di poemi cavallereschi, a cominciare dall’Ariosto. A questa edizione della «Bibliothèque le la Pléiade» è opportuno dare la preminenza, non fosse altro per la maneggevolezza e l’eleganza dei volumi (anche senza la necessità di andare a rifugiarsi in un’isola deserta, ammesso che la si trovi al mondo). Varie imprese editoriali destinate agli acquisti di nababbi e al gusto dei bibliofili rischiano di rimanere nel limbo delle buone intenzioni: comunque non favoriscono la lettura, che invita a segni di matita a margine, a orecchiette a modo di segnalibri. L’ideale del bibliofilo è di tenere un volume a fogli chiusi, cioè senza tagliare una sola pagina: il che, per un «lettore», è tutto dire. Ad ogni modo, si segnalino le Oeuvres complètes illustrées, pubblicate sotto la direzione di Jean-A. Ducorneau (sic) (facsimile dell’esemplare «Furne corrigé» dell’edizione originale della Comédie humaine con correzioni manoscritte di Balzac; un’altra collezione di Oeuvres complètes, diretta da Maurice Bardèche sotto l’ègida della Société des études balzaciennes; un’altra, con prefazione e note di Roland Chollet, apparsa a Losanna, e veramente completa in 30 volumi, ad esclusione dell’epistolario, ma con i Contes drolatiques, il teatro e i romanzi di gioventù (cioè Jean-Louis; Le Vicaire des Ardennes; Argow le Pirate; Wann-Chlore). La Comédie humaine, sempre con R. Chollet, a Parigi, con prefazione di P.-G. Castex, presentazione e note di P. Citron, esce dal 1966. Una indicazione a parte merita la nuova edizione delle Lettres à Madame Hanska (che nel testo francese si pronuncia al modo solito, ma secondo la grafia polacca, non sempre usata - Hanska -, va reso con «Hagnska»), prima edizione integrale sugli autografi a cura del Pierrot: il testo appare sia a sé, sia nella serie delle Oeuvres complètes illustrées. Di tutte queste iniziative la più utile è, senza dubbio, ai fini della documentazione, la riproduzione in facsimile, con carte e copertine, dei romanzi di gioventù che abbiamo già ricordato in una serie di opere complete: i 16 volumi del «Cabinet romantique» dei Bibliophiles de l’originale sono meritevoli di molta attenzione. In una biblioteca, specialmente universitaria, fanno un bell’effetto il Vicaire des Ardennes (dall’edizione di Pollet 1822) o il Wann-Chlore (dall’edizione di Canel e Delongchamp 1825); rilegati in rosso e, di solito, con due tomi in un volume, incitano alla lettura anche se il nome del Balzac non è fatto mai.

  Di alcune nuove edizioni Garnier di opere di Balzac si è già detto all’inizio della presente rassegna. Alcune decine di ristampe meritano di essere segnalate dato l’interesse dei lettori ad un autore così rappresentativo; anche un’edizione critica, inizialmente riservata a istituti universitari, trova il suo sbocco in un mercato che va dall’Australia al Canada e non accenna a diminuire. Iniziamo coi Paysans, a cura di Franco Simone che vi unisce una post-face di notevole interesse, Essai historique et critique sur «les Paysans»: l’opera è uscita a Torino nel 1966, e anche la post-face è reperibile a sé in un estratto di grande formato. Le Illusions perdues, secondo il ms. della collezione Spoelberch de Lovenjoul, a cura di Suzanne Bérard, è uscita nel 1959 e la includiamo lo stesso nella nostra lista poiché se ne parla sull’«Année balzacienne» del 1960. Pierre Citron ha curato, come edizione dichiaratamente critica, Le Colonel Chabert nel 1961. Suzanne Bérard ha dato, nel '63, Une ténébreuse affaire; e nella combinazione editoriale Garnier-Flammarion (parallela all’impresa Garnier del periodico specializzato e della collezione di testi di Balzac) sono usciti La femme de trente ans, a cura del Citron, nel ‘65, e la Physiologue (sic) du mariage, a cura di Maurice Regard, nel ‘68. Un’iniziativa della Librairie José Corti (a cui si devono testi di grandi autori, ineccepibilmente curati da specialisti) è l’edizione, condotta sul testo inedito della versione originale, per Gambara (a cura del citato Regard, nel 1964) e di Massimilla Doni (a cura di Max Milner nel medesimo anno: col testo inedito del manoscritto originale). Uscito a Bruxelles e diffuso dalla Librairie Corti di Parigi, è Le curé de village, in una prima edizione conforme alla pubblicazione del feuilleton del 1839: il testo è stato apprestato da M. Enriquez. Tra le pubblicazioni dell’Università di Digione è uscito L’Enfant Maudit, a cura di François Germain nel ‘65, nel medesimo anno è apparsa l’Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau con prefazione di Gilbert Sigaux. Non occorre tener conto di numerose ristampe in collezioni popolari; esse confermano la grande fortuna del romanziere, ma non recano contributi speciali né per il testo né per la sua illustrazione. Per scrupolo si possono menzionare i tre volumi «ronéotypés» d Les Employés, edizione critica e commentata da Anne-Marie Meininger; citati dalla critica come un contributo universitario, qualora l’opera venga messa a stampa, formeranno una specie di «pre-originale» da raccomandare ai bibliofili.

  Questo è il decennio della preparazione scientifica, come si vede da edizioni critiche e da contributi speciali. Sembra che manchino lavori suggeriti da sintesi di natura, si oserebbe dire, romantica come era stato per la generazione che aveva arditamente condotto studi e testi dal termine della prima guerra mondiale alle soglie del nostro tempo. Ma a corredo del suo Balzac romancier (che è del ‘40; un classico da mettere accanto ai volumi di Ernst Robert Curtius e di pochissimi altri) Maurice Bardèche ha pubblicato, nel ‘64, Une lecture de Balzac: non «livre savant», non opera di volgarizzazione, dichiaratamente estraneo alla biografia, fornisce un metodo: «une certaine manière de lire, c’est-à-dire de comprende Balzac». Resta nell'àmbito della biografia sottilmente intrecciata all’opera secondo un modo a lui classico Le Prométée (sic) d’André Maurois, del 1965: ma dell’attivissimo accademico di Francia, ora scomparso (e a lui tanto si deve per la conoscenza aneddotica e toponomastica di Balzac, come si è visto alla TV francese e a quella italiana) l’opera, in onore del romanziere, non è piaciuta agli specialisti né ai critici letterari versati in filologia, come risulta da una vera «stroncatura» dovuta a Jean Pommier in quello stesso anno. Del Balzac, l’homme et l’oeuvre, dell’abbé Philippe Bertault uscito in nuova edizione nel ’60, si dica il bene che merita nell’àmbito della divulgazione scolastica e non solo in esso: il piccolo libro conserva doti di esemplicità e di chiarezza che furono dello studioso: con la notizia della sua morte si chiude «L’Année balzacienne 1970».

  Nel campo biografico (dove biografia indica formazione intellettuale e studio dei contatti con l’ambiente) ha acquistato una posizione preminente negli studi italiani su Balzac Raffaele de Cesare, già favorevolmente noto per studi critici e per ricerche erudite sul romanziere. Con varî studi, anche di notevole mole, egli sta illustrando l’anno 1836 nella vita complessiva del Balzac: la minuzia dei raffronti induce ad un esame complessivo di tutta la produzione critica relativa all’autore. Quanto riguarda il gennaio di tale fu pubblicato nel ’59; e, di anno in anno, seguono i contributi giunti fino al settembre 1836. Anche un soggiorno romano del Balzac nell’aprile del 1846 è stato illustrato con numerosissimi raffronti (nel 1963); si devono allo studioso contributi su un aneddoto della Physiologie du mariage per una controversa questione («Stendhal ou Latouche?») del 1961 e sulla formazione dell’italianismo di Balzac l’influsso di Stendhal, del ‘63-’64. (Ed a questo proposito si accenni al VII congresso internazionale stendhaliano organizzato a Tours dal 26 al 30 settembre 1969 per iniziativa di Victor Del Litto e dedicato ai rapporti fra Stendhal e Balzac: il de Cesare ha rappresentato brillantemente l’Italia accanto ai migliori specialisti del Groupe d’études balzaciennes); sono attesi gli Atti delle relazioni e delle comunicazioni). Per la loro importanza biografica si devono qui registrare, col 1966, la comunicazione di Franco Simone sugli amici torinesi di Balzac e, in particolare, di Costanzo Gazzera e, sempre per il soggiorno del romanziere a Torino nell’agosto 1836, le note di Albert Maquet su due testimonianze inedite di Carlo Boucheron. Si tratta di contributi eruditi della vecchia e buona scuola.

  Per venire alle opere di interesse generale dedicate a Balzac e alla sua opera va anzitutto ricordato che molta produzione sull’autore si collega con le necessità della critica universitaria: destinati ad un pubblico di specialisti, molti contributi non raggiungono il grande pubblico, e sono perfino difficili da acquistare. Vari libri sono anche dovuti, a richiesta di editori, a critici o a letterati di grido. Non è quindi facile nel giro di pochi anni stabilire il valore effettivo di vari studi, se essi non sono dovuti a specialisti di provata assiduità verso un autore così difficile da abbracciare dopo lunghi anni di studio. In questo caso, oltre che nelle riviste specifiche di lingua e letteratura francese, nell’«Année littéraire» le varie recensioni sono utili al lettore. Ad ogni modo una rapida segnalazione può essere adatta ad una specie di «pesca reale», se si tratta di acquisti per biblioteche letterarie. Anzitutto, di André Wurmser, si veda la Comédie inhumaine, del 1964: il grosso libro di intonazione marxista tiene conto della documentazione dei capolavori. Se si pensa che anche i critici sovietici apprezzano il lato storico e sociale della Comédie humaine, indipendentemente dalle idee (piuttosto conservatrici, anzi reazionarie) del Balzac, possiamo fare credito alle varie interpretazioni sul realismo del Balzac stesso, di Stendhal e di altri, ad opera di György Lukács, Mario Bonfantini e diversi critici del nostro tempo. Un bel libro è, del compianto Albert Béguin, Balzac lu et relu, del 1965: riedizione del Balzac visionnaire, con 16 prefazioni scritte per ristampe moderne di capolavori del romanziere. La silloge è a cura di Gaëtan Picon. Di un Balzac dramatiste di Pierre Descavcs (1960), de Les opinions littéraires de Balzac di Geneviève Delattre (1960), dell’H. de Balzac, di E.-J. Olivier (1964), del Balzac’s «Comédie humaine» di Herbert J. Hunt (1964: edizione riveduta d’un precedente volume), di Pattern of failure in «la Comédie humaine» di Charles Affron (1966) e di The physical setting in Balzac’s «Comédie humaine» di A. J. Mount (1966) si fa presto a dire che sono contributi di più Università e centri di cultura: Inghilterra e Stati Uniti d’America fanno a gara con la Francia nello studiare il romanziere e nell’illustrarne parti e atteggiamenti dell’opera complessiva. È anche vero che, settore per settore, la discussione di questi e di altri contributi mostra una volta di più come alcuni motivi della critica contemporanea riecheggino quanto è già stato presentato e discusso da decenni. A volte arbusti trapiantati in altre zone recano frutti migliori: così si dica dell’interesse che, nel Nuovo Mondo, è volto al realismo del Balzac e al carattere sociale della sua opera. Per questa parte l’elenco può essere continuato in modo da mostrare una ricchezza di informazione in più parti del mondo, a conferma dell'unità della cultura europea ora diffusa in tutti i continenti. Del ‘61 sono le seguenti opere critiche: Jean-Hervé Donnard, Balzac: les realités économiques et sociales dans «La Comédie humaine»; Pierre Laubriet, L’intelligence de l’art chez Balzac: d’une esthétique balzacienne - del ‘62, A. G. Canfield, The Reappering characters in Balzac’s «Comédie humaine»; del ‘65, André Allemand, H. de Balzac: création et passion e Unité et structure de l’univers balzacien; Per Nykrog, La pensée de Balzac dans «la Comédie humaine». Étude de quelques concepts-clés (uscito a Copenhagen). Studi speciali sono, a loro volta, quelli di Olli Välikanges, Les termes d’appellation et d’interprétation dans la «Comédie humaine» d’H. de Balzac (1965, uscito a Helsinki). Dello stesso anno ha un interesse tutto particolare, per le ristampe su ricordate, un volume di Pierre Barbéris, Aux sources de Balzac: les romans de jeunesse; e, per l’argomento, va pure citato un libro di Wilhelm Hendrikues Van der Gun, La courtisane romantique et son rôle dans la «Comédie humaine» de Balzac (uscito a Assen). Si vedano, per raffronti fra la Jeune sibérienne di X. de Maistre e La peau de chagrin, le ricerche di Marcel Reboussin, Balzac et le mythe de Foedora (del 1966). Altri contributi hanno illustrato particolari atteggiamenti del romanziere, la sua mentalità, le sue aspirazioni. Basti citare, di Gretchen R. Besser, Balzac’s Concepts of Genius: the theme of superiority in the «Comédie humaine» (del 1969). Un Album Balzac dal 1962 fa parte della «Bibliothèque de la Pléiade», a cura di Jean Ducorneau; anche un Balzac en Touraine, con fotografie di R. Thuillier e prefazione di P.-G. Castex, è destinato a grande diffusione. Molto meno lo è il prezioso tomo 520 del Catalogne général des manuscrits des bibliothèques publiques de France, con la Bibliothèque Spoelberch de Lovenjoul di Chantilly a cura di Georges Vicaire (1961). Sono descritti i 499 volumi di manoscritti riguardanti Balzac. Date le consuetudini conservative dell’illustre biblioteca, diretta dal Pommier, ci sarà lavoro garantito per i posteri: è meglio, per altro, «conservare» bene che studiare senza piena conoscenza di causa, e rovinare o disperdere manoscritti e testi rari. Di centinaia di articoli di vario interesse riguardanti Balzac e l’opera sua non è qui possibile dare notizia, ma basti rimandare alle rassegne dell’«Année balzacienne» e almeno a due pubblicazioni italiane: l’una apparsa negli «Annali di Ca’ Foscari» per il 1967 (Enzo Caramaschi, Balzac tra Romanticismo e Realismo) e l’altra, perché di un ospite, il cattedratico belga Roland Mortier, in «Studi francesi», del ‘62 (Le destin de l’artiste dans la «Comédie» balzacienne).

  Un elenco come il presente si potrebbe chiudere, salvo a osservare che ci sono lavori particolari ancora meritevoli di attenzione. A dire il vero, gli studi dedicati ai vari capolavori della Comédie humaine e a problemi dell’arte e della vita del romanziere sono tali e tanti, anche nello stretto giro di un decennio, da far rimanere meravigliati, e qualche volta perfino diffidenti. Vastissima è l’opera del Balzac, ma la produzione critica che la concerne ha un’ampiezza da far pensare che il mondo intero esamini spiriti e motivi (e documenti sociali, s’intende) della Comédie humaine con una passione irrefrenabile. Limitandosi alle indicazioni essenziali, la nuova lista mostrerà il lato rappresentativo di un romanziere che rivisse nel suo spirito il trapasso dalla Rivoluzione francese al 1848, con particolare riguardo all’età napoleonica, alla Restaurazione e alla Monarchia borghese. Forse in questo immenso materiale (ricco di tipi e di situazioni) sta il fascino perenne di Balzac. Ecco un lavoro universitario (tesi principale di dottorato) di Suzanne Jean Bérard: La genèse d’un roman de Balzac: «Illusions perdues» (1961, diviso in due parti: I, Thèmes et expériences; II, Du manuscrit à l’édition). Uno studio di Jacques Borel concerne «Le lys dans vallée» et les sources profondes de la création balzacienne (1961). Del medesimo anno è l’indagine di Pierre Laubriet, Un catéchisme esthétique: le «Chef-d’oeuvre inconnu» de Balzac (tesi complementare con testi, in appendice, dello Chef-d’oeuvre inconnu, nelle versioni del 1831 e ‘37 e varianti). Un contributo belga è quello di J. Henriquez, Les manuscrits de premier jet d’H. de Balzac (Bruxelles, 1964, in due parti: I, Le manuscrit primaire du «Curé de village» (1837), e II, Les ajoutés importants, ou manuscrits secondaires (1838). Contributi inglesi sono quelli di Donald Adamson, The Genesis of «Le cousin Pons» (1966) e di Peter W. Lock, Balzac, «le père Goriot» (1967). È statunitense quello di Bernard N. Schilling, The Hero as failure: Balzac and the Rubempré cycle (1968). Uscita in Svizzera è, di Olivier Bonald, La peinture dans la création balzacienne: «Invention et vision picturales de ‘La Maison du chat-qui-pelote’ au ‘Père Goriot’» (1969). Tutte queste opere illustrano in modo monografico libri del Balzac, ben noti in tutto il mondo. Potranno avere un loro pubblico fedele che accanto ad un capolavoro metterà l’illustrazione critica, almeno come «introduzione alla lettura».

  Bisogna, d’altro lato, prendere il proprio bene «dove si trova», e quindi le ragioni di spazio non sono sufficienti per escludere la registrazione di contributi solo in apparenza minori. Si veda quindi, a corredo dell’edizione già citata, lo studio di Franco Simone, Un romanzo esemplare di Balzac: «Les paysans» (negli «Studi in onore di Italo Siciliano», 1966): con osservazioni vivaci e pertinenti. Si aggiungano contributi vari, quali Un quadro di Gérard, fonte probabile dello «Chef-d’oeuvre inconnu» di Giancarlo Franceschetti (in «Studi francesi», 1967), di Colin Smethurst e Bruce Tolley, The source of the «Postscriptum» of Balzac’s «Physiologie du mariage» (nella «Revue de littérature comparée», 1965) e di Anthony R. Pugh, The Genesis of «César Birotteau»; questions of chronology (in «French Studies», 1968). Come omaggio all’«Année balzacienne» citiamo almeno Graham Falconer, Le travail de style dans les révisions de «La peau de chagrin» (del 1969), e, dell’alacre direttore Jean Pommier, «La Muse du département» et le thème de la femme mal mariée chez Balzac, Mérimée et Flaubert (1961); come giunta alla derrata, dal volume del medesimo Pommier, Dialogues avec le passé: Études et portrait littéraires (1967), si vedano Les préfaces de Balzac: Balzac et W. Scott (contributo in cui sta scritto opportunamente, magari in risposta alle inchieste sul realismo: «Le vrai de l’art n’est pas celui de la nature»). A proposito di alcune belle pagine di Pietro Paolo Trompeo sul Balzac il fedele discepolo Luigi de Nardis raccolse ne Il sorriso di Reims e altri saggi di cultura francese un vivace scritto su Balzac e l’Assoluto. In esso si leggeva: «L’intuizione balzacchiana è di aver ricondotto tale immissione del fantastico, del sopra-sensoriale, al rango di elemento disgregatore della realtà: e, il più delle volte, di una realtà ben definita, quella della società francese del primo Ottocento. È l’intuizione di un ‘momento’ della storia della società francese; ad essa dobbiamo la potenza rappresentativa dei personaggi balzacchiani, ‘eroi moderni’, con le parole di Baudelaire, simboli di una società in disgregazione; ad essa dobbiamo la grande arte realistica di Balzac, fatta di osservazione e di intuizione». Un caso particolare e magistralmente illustrato si trova in uno studio di Vittorio Lugli: Nota a un romanzo di Balzac: «Le médecin de campagne» (negli «Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora», 1963).

  Non è compito dei presenti ragguagli bibliografici tener conto dei lavori che documentano le fortune del Balzac nel mondo e in particolare in Italia, con traduzioni e imprese editoriali. Ma poiché si è citato il Lugli, viene in mente il titolo di uno studio che ha dato nome ad un libro del francesista scomparso: Dante e Balzac. La Commedia «umana» sta accanto alla Divina Commedia, e, per molti, anzi si è sovrapposta ad essa in più di una parte del mondo. Se qualche turista passa a Roma per Via Michelangelo Caetani, «noto dantista», non trascuri di ricordare col gentiluomo nostro la dedica de Les parents pauvres (la quale è del 1846) e la fonte suggestiva d’un titolo che arieggia il capolavoro dantesco. Poiché non sarà mai dimenticato Dante nella ricerca del significato della Comédie humaine, terminiamo col Lugli la nostra rassegna: «Questa nuova Commedia è tutta romantica, orgogliosamente legata alla terra, all’umano, anche se tenta di esaltare l’uomo fin con le speranze, i sogni ultraterreni. Però giustamente l'autore l’ha chiamata umana. Ha indicato la distanza tra l’opera sua e quella dantesca, e così anche ne ha rivelato i rapporti. E alla grandezza sovrana del poema italiano, nell’età fervidissima e ambiziosa, nel primo Ottocento francese, ha fatto il più sincero, il migliore omaggio».

  [...].



  Gabriella Corsi, “Mémoires de deux jeunes mariées”: Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Francesco Orlando, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1971, pp. 33.



  Mircea Eliade, Mefistofele e l’androgine. Traduzione di Enrico Pinto, Roma, Edizioni Mediterranee, 1971.

 

L’androgino nel XIX secolo.

 

  pp. 89-90. Séraphita è senza dubbio il più affascinante dei romanzi fantastici di Balzac. Non certo a causa delle teorie di Swedenborg di cui è imbevuto, ma perché Balzac è riuscito a illuminare con la luce dell’arte un tema fondamentale dell’antropologia arcaica: l’androgino considerato come l’immagine esemplare dell’uomo perfetto. Sono noti il quadro e il soggetto del romanzo. In un castello al limite del villaggio di Jarvis, vicino allo Stromfjord, viveva un essere strano, bello, di una bellezza, mutevole e melanconica. Come alcuni personaggi di Balzac, egli sembrava nascondere un terribile «segreto», un «mistero» impenetrabile. Ma questa volta non si tratta più di un «segreto» simile a quello di Vautrin. Il personaggio di Séraphita non è un uomo consumato dal proprio destino e in conflitto con la società. È un essere qualitativamente diverso dal resto dei mortali e il suo «mistero» si collega non a certi episodi tenebrosi del suo passato, ma alla stessa struttura della sua esistenza. Infatti il misterioso personaggio ama Minna e ne è riamato: ella lo vede come un uomo, Séraphithus; ma egli è amato anche da Wilfred, agli occhi del quale egli è donna, Séraphita.

  Questo perfetto androgino era nato da genitori che erano stati discepoli di Swedenborg. Benché non fosse mai uscito dal suo fiordo, non avesse aperto alcun libro, parlato con alcun sapiente, né praticato alcuna arte, Séraphitus-Séraphita dava prova di un’erudizione considerevole e le sue facoltà mentali superavano quelle degli altri mortali. Balzac descrive con patetica ingenuità le qualità di questo androgino, la sua vita solitaria, le sue estasi contemplative. Tutto questo basandosi evidentemente sulle dottrine di Swedenborg, poiché il romanzo fu scritto soprattutto per illustrare e commentate le teorie swendenborghiane sull'uomo perfetto. Ma l’androgino di Balzac appartiene ben poco alla terra. La sua vita spirituale è tutta rivolta verso il cielo. Séraphitus-Séraphita vive solo per purificarsi e per amare. Benché Balzac non lo dica espressamente, si comprende che Séraphitus-Séraphita non può abbandonare la terra prima di aver conosciuto l’amore. Può darsi che si tratti dell’ultima, più preziosa perfezione: amare realmente e congiuntamente due esseri di sesso diverso. Amore serafico evidentemente, ma non per questo amore astratto, impersonale. L’androgino di Balzac ama due persone ben distinte; resta dunque nel mondo concreto, nella vita. Qui, su questa terra, non è un angelo: è un uomo perfetto, cioè un «essere totale».

  Séraphita è l’ultima grande creazione letteraria europea che abbia come motivo centrale il mito dell’androgino. Altri scrittori del XIX secolo hanno ripreso il soggetto, ma le loro opere sono mediocri, se non pessime.

 

 

  Gian Giacomo Ferrara, Honoré de Balzac et le roman noir, Roma, Istituto universitario pareggiato di magistero “Maria SS. Assunta”, s. d. [1971?], pp. 153.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Introduction;

  Chapitre I. Le roman noir;

  Chapitre II. Du roman noir à Balzac;

  Chapitre III. L’Histoire des Treize et le roman noir;

  Chapitre IV. Le Cycle de Vautrin;

  Conclusion;

  Bibliographie.

 

  Trascriviamo alcune pagine tratte dall’Introduction (pp. 3-6):

 

  Dès sa jeunesse, Balzac a lu et apprécié les romans noirs. Au moment même où il cherchait sa voie dans le genre romanesque, il s’appliquait à les imiter; il prenait pour inspirateurs A. Radcliffe, Lewis ou Maturin: ses oeuvres de jeunesse en témoignent. Bien qu’il ne les ait jamais reconnues, nous ne pouvons douter de l’authenticité d’un certain nombre de celles-ci; on a analysé très précisément la part du genre noir dans chacune d’elles; on a souligné les emprunts et montré dans quelle mesure Balzac assimilait cette technique. Imitation évidente d’un apprenti romancier qui, peut-être, parodiait à l’occasion ses modèles; il est possible que L’Héritière de Birague et Jean-Louis soient des pastiches. Il ne devait jamais s’affranchir de cette influence profonde et durable. Elle pèse sur la plupart de ses ouvrages et Balzac lui-même reconnaissait cette dette, maints passages de la Comédie Humaine le prouvent; quels éloges ne fait—il pas d’Ann Radcliffe? Il cite son nom plus souvent que tout autre, sur un mode plaisant ou sérieux. Dans la préface de l’Histoire des Treize il dit avoir le désir de conter quelques épisodes de certaine vie secrète sous l’Empire “curieuse autant que peut l’être le plus noir des romans de Madame Radcliffe”; il explique dans Sarrasine que “l'histoire de la maison Lanty offrait un perpétuel intérêt de curiosité, assez semblable à celui des romans d’Ann Radcliffe”.

  Ce sont des personnages comme Henri de Marsay qui éprouvent “cette sensation froide que ... procurait la lecture d’un de ces romans d’Ann Radcliffe où le héros traverse les salles froides, sombres, inhabitées de quelque lieu triste et désert”; comme ce chirurgien qui, séjournant en Espagne, se trouve être “sinon le héros, du moins le complice de quelque périlleuse intrigue aussi noire, aussi obscure que peut l’être un roman de Lady Radcliffe”, ou encore Bianchon qui déclare aux Sancerrois “si vous ne croyez pas à ces mots: robe frôla dans le silence! toute la poésie du rôle de Schedoni inventé par Mme Radcliffe dans le Confessional des Pénitents Noirs, vous êtes indignes de lire des romans”.

  Balzac ne néglige pas les autres romanciers “noirs”; il va jusqu’à comparer Maturin à Goethe et Melmoth à Faust. Il imprime en 1828 le Jeune Irlandais; quelques années plus tard, il demande à sa mère de lui envoyer ce livre (juillet 1832) et il publie en 1835 une suite du Melmoth de Maturin.

  Ecrivant désormais des romans moeurs, avec le dessein de faire “le tableau de la société, moulé pour ainsi dire sur le vif avec tout son bien et tout son mal” et semblant condamner ses premiers maîtres parce qu’“un auteur doit dédaigner de convertir son récit, quand ce récit est véritable, en une espèce de joujou-surprise ...” il n’abandonne pas cependant les procédés des romans noirs et leur romanesque. Il en use seulement avec plus de discrétion que dans les années 1822-1825, période où, avec Hugo et Nodier, il suivait une mode. Il agit maintenant par goût et non plus par nécessite.

  Quelque penchant naturel l’orientait, puisque tout au long de sa carrière il puisera à cette source. Il eut été facile de montrer la continuité de la pensée balzacienne sur ce point, en prenant comme exemples des contes et nouvelles: L’Auberge Rouge, El Verdugo ou Un Drame au Bord de la Mer – on a souvent parlé de la grande place qu'ils font à l’horrible – mais le roman noir offrait autre chose à Balzac et ce n’est pas cette seule tendance qui marque son oeuvre; à côté des procédés, des éléments morbides ou macabres, il y avait les personnages et une complète image de la société qu’on a parfois méconnue, mais qui a influencé la conception des différentes parties de la Comédie Humaine. Ces courts récits ne nous permettaient pas de le montrer assez nettement par la date même de leur rédaction (1830), ils étaient trop proches de la période d’apprentissage et aucun des protagonistes n’a une personnalité qui l’autorise à figurer auprès du Schedoni de Mrs Radcliffe, du Moine de Lewis ou de Melmoth. C’est pourquoi nous avons choisi de centrer notre étude sur des romans écrits entre 1833 et 1847, au moment où Balzac produisait des chefs-d’oeuvre d’art réaliste, comme Eugénie Grandet ou le Médecin de Campagne. Ce sont l’Histoire des Treize, le Père Goriot, la fin des Illusions Perdues, et Splendeurs et Misères des Courtisanes, livres dominés par l’ombre d’une même silhouette gigantesque, celle de Vautrin. “Espèce de colonne vertébrale qui, par son horrible influence, relie pour ainsi dire le Père Goriot à Illusions Perdues et Illusions Perdues à cette étude” (Splendeurs et Misères des Courtisanes).

  Le romancier à succès, le citoyen conformiste qui fréquentait les salons du boulevard St. Germain, reniait ses premières oeuvres mais utilisait encore des matériaux de semblable origine; ses créations romanesques évoluaient à Paris, ayant “les goûts, les vices et toutes les choses effrénées qu’excitent les moeurs particulières aux capitales” mais étaient encore redevables à l’école “frénétique” dont les oeuvres quelques années auparavant avaient acquis une immense faveur.

 

 

  Giuliano Gramigna, Che appetito, con Balzac!, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XXVII, N. 159, 10-11 luglio 1971, p. 7.

 

  Vive e appassionanti come racconti le analisi critiche che riguardano l’autore della «Commedia umana», Watteau, Chateaubriand, Baudelaire, il romanticismo, raccolte da Giovanni Macchia nel volume «I fantasmi dell’opera».

 

  «Si mangia molto nei romanzi di Balzac» (mentre, si domandava acutamente lo stesso Balzac, «C’è qualcuno che mangia in René di Chateaubriand?»): la questione gastronomica è un sintomo che diventa straordinariamente significativo se rapportato a un sistema coerente. «Chateaubriand immagina eroi poetici che non mangiano. Gli eroi di Balzac sono afflitti dalla fame e dal denaro: dal loro bisogno di realtà». Il capitolo su Balzac (Il pubblico come protagonista: B. e la mitologia del romanzo) è, insieme con quello su Watteau, il più affascinante e nello stesso tempo il più indicativo dell’operazione critica condotta da Giovanni Macchia nel suo nuovo libro I fantasmi dell’opera (Mondadori) [...].

  Il mito del cibo in Balzac conduce a conclusioni profondamente diverse da quelle dedotte dalla bulimia o fame canina flaubertiana da J. P. Richard in un famoso saggio che Macchia cita mimandone la frase d’avvio. Di là si arrivava a una tecnica della liquefazione e della compenetrazione, per Balzac Macchia conclude, coerentemente, per una costruzione grandiosa, aperta ma solidamente contesta di realtà visionaria che si fa omologa (ma non mero specchio) della realtà vitale del rapporto scrittore-pubblico.

  I miti introduttivi del mangiare e del denaro (ciò che si direbbe l’avidità di concretezza di Balzac – se non fosse più giusto chiamarla la sua avidità di romanzesco) conducono al mito fondamentale, molto bene isolato da Macchia, del pubblico quale protagonista: ma un pubblico, come provano le acutissime pagine sull’apprendistato di Balzac, dai cattivi romanzi degli inizi («gli inizi di Balzac furono vili, quasi tetri, addirittura umilianti») alla Comédie, travolto anch’esso dal piano reale al visionario, all’immaginario.

  Va da sé che un discorso come quello di Macchia non può giustamente concludere che ad accertamenti di questo genere: «Nulla di più falso che salutare in Balzac il capostipite e il responsabile più accreditato del romanzo tradizionale, a tre dimensioni, lì dove tutto ciò che si vede esiste e tutto ciò che esiste si vede, con i personaggi a tutto tondo che si sporgono avanti e che uno può accarezzare o respingere».



  Teresa Li-Calzi, “Les Chouans” Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alan Freer, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1971, pp. 45.



  Francesca Lotti, Balzac et le conte fantastique. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1971.



  Mariella Maccario, “Le lys dans la vallée” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore Alan Freer, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1971, pp. 45.

 

 

  Giovanni Macchia, Il pubblico come protagonista. Balzac e la mitologia del romanzo, in I fantasmi dell’opera, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1971 («Saggi e testi»), pp. 117-204.

 

  Cfr. 1967.



  Anna Maria Macelloni, “Eugénie Grandet” de Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alan Freer, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1971, pp. 45.



  Annarosa Malacarne, L’amour et l’ambition dans l’œuvre romanesque de Balzac. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1971.

 

 

  Renata Mecchia, Il recente saggio di Barthes. Rilettura di Balzac, «Paese sera», Roma, Anno XXII, N. 49, 19 febbraio 1971.

 

  Si ha l’impressione di assistere al rilancio di una critica impressionistica in questa minuta analisi del racconto «Sarrasine».

 

  E’ doveroso avvertire il lettore di S/Z della possibilità che quest’ultima fatica di Barthes riservi almeno due sorprese: la prima è che, pur conservando in buona misura la consueta scorrevolezza stilistica, o il consueto talento di divulgatore intelligente e ad altissimo livello, B. non si perita di eseguire qui una sorta di pastiche dei testi ben più esoterici di Derrida, condividendo e riproducendo, dall’autore del De la Grammatologie, l’abitudine di affidarsi a ingeniosità o giochetti linguistici, a raffinatezze grafiche, ecc. Naturalmente, non si tratta, o non si tratta sempre, di un pastiche del tutto gratuito, ma è proprio l’utilizzazione continua della terminologia e anche — come dire? — di certe «movenze» del discorso derridiano, a rendere in certo modo rischiosa la lettura e l’interpretazione di S/Z da parte del lettore che ignori o non ricordi — come è pure possibile, data l’assenza di citazioni esplicite, o di note esplicative — i termini fondamentali della critica di Derrida allo strutturalismo; è ovvio, infatti, che un tale ipotetico lettore potrebbe, magari, essere indotto a scambiare, ad esempio, per meramente casuale la comparsa della espressione « gioco di codici », precludendosi, così, la comprensione di tutto quanto, nelle argomentazioni di B. si appoggia alla contrapposizione derridiana della nozione di «struttura» alla nozione di «jeu» (gioco) «campo di sostituzioni infinite all’interno di un insieme finito». [...]

  Con ciò, B. sembra avere concluso l’avventura della critica francese contemporanea, proponendo quello che, con buona pace di Derrida e Tel Quel, non sembra se non un rilancio teorico, relativamente scaltrito, di una sorta di critica impressionistica: critica che, come è ormai ora di dire, non rinuncia a scegliere, tra i testi «moderatamente polisemici», un poco noto racconto di Balzac, Sarrasine, in cui si narrano gli equivoci, verbali e situazionali, che permettono a un giovane artista di scambiare un cantore castrato per una donna e innamorarsene. Naturalmente occorre aggiungere che le osservazioni di Barthes non ci sono più offerte in un discorso continuo, come poteva accadere negli ormai remoti Saggi critici: la «analisi progressiva» si esplica, infatti, frantumando il testo in una serie di «lexies» o «unità di lettura», determinate arbitrariamente, e per ognuna delle quali vengono annotate le connotazioni possibili e/o le sigle dei codici individuabili: sicché resta intatta l’apparenza «scientifica» degli strumenti usati da B. in questa sua proposta di un aggiornamento su basi derridiane dell’operazione critica. [...].



  Maria Angela Melchiorri, La vengeance dans l’oeuvre de Balzac. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1971.

 

 

  Rocco Musolino, Il «caso» Balzac, in Marxismo ed estetica in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1971 («Nuova biblioteca di cultura», 104), pp. 129-148.

 

  [...] resta da riproporre una questione importante, la questione critica dell’opera letteraria balzacchiana, di solito indiscussa perché il suo chiarimento viene dato come acquisito; e a ciò non è estraneo, crediamo, il fatto — incontestabile — che Balzac sia più citato che letto o studiato dai critici materialisti. Resta da vedere cioè se i risultati artistici, il realismo di Balzac, siano in contraddizione, come sulla scorta di Lukács comunemente si intende, con le tendenze ideali e morali dello scrittore, e in che senso, e fino a che punto; oppure se, alla luce di una richiesta severamente e integralmente storicistica, non si trovino nella Comédie humaine elementi tali da esigere una spiegazione più complessa e più circostanziata, e tali da consentirci di concludere che quella contraddizione ideale è, a guardar bene, solo apparente e sussiste solo nel quadro di un’osservazione generica e fondamentalmente extra-estetica.

  Nella celebre lettera di Engels a Margaret Harkness si legge tra l’altro: «Sono molto lontano dal vedere un errore nel fatto che Lei non abbia scritto un romanzo schiettamente socialista, un romanzo di tendenza, come noi tedeschi lo chiamiamo per rendere onore alle idee sociali e politiche dell’autore. Non è assolutamente questo il mio parere. Quanto più nascoste rimangono le opinioni dell’autore, tanto meglio è per l’opera d’arte. Il realismo di cui parlo può manifestarsi anche a dispetto delle idee dell’autore. Mi permetta un esempio: Balzac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comédie humaine un’eccellente storia realistica della società francese, poiché sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa contro la società nobiliare che dopo il 1815, si era ricostituita ed era tornata a inalberare il vessillo della vieille politesse française. Egli descrive come gli ultimi avanzi di questa società, per lui esemplare, andavano a poco a poco soggiacendo all’assalto del ricco e volgare villan rifatto o venivano da lui corrotti; come la grande dame, la cui infedeltà coniugale ero solamente un mezzo di affermarsi perfettamente adeguato al modo con cui si disponeva di lei per il matrimonio, faceva posto alla signora della borghesia che si prendeva un marito per amore della cassaforte o del guardaroba; e intorno a questo quadro centrale raggruppa una storia completa della società francese della quale io, perfino nelle particolarità economiche (ad esempio la ridistribuzione della proprietà reale e personale dopo la Rivoluzione francese) ho imparato più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statistici di professione di questo periodo messi insieme. Certo Balzac fu un legittimista politicamente; la sua grande opera è una continua elegia sull’inevitabile rovina della buona società; tutte le sue simpatie sono per la classe condannata a tramontare. Ma, non ostante ciò, la sua satira non è mai così pungente. La sua ironia non è mai così amara come quando fa entrare in azione proprio gli uomini e le donne con cui più profondamente simpatizza, cioè i nobili, E i soli uomini dei quali egli parla sempre con ma ammirazione sono i suoi più recisi avversari politici, gli eroi repubblicani del Cloître Saint Méry, gli uomini che a quell’epoca (dal 1830 al 1836) erano i veri rappresentanti delle masse popolari. Che quindi Balzac sia stato costretto ad agire contro le simpatie di classe e i pregiudizi politici a lui propri, che abbia visto la necessità del tramonto dei suoi diletti nobili e li descriva come uomini che non meritavano alcuna sorte migliore; e che abbia visto i veri uomini dell’avvenire dove a quell’epoca, solamente, era dato trovarli: tutto questo io considero come uno dei maggiori trionfi del realismo e come uno dei tratti più grandiosi del vecchio Balzac». [...].

  Vero è che Lukács, nel tentativo di convalidare materialisticamente la tesi di un Balzac bifronte (reazionario-progressista), tende a esaltare hegelisticamente la potenzialità espansiva del «contenuto» storico-reale nel processo artistico, venendo così a contrapporre a un soggettivismo estetico di tipo idealistico-crociano un oggettivismo estetico di tipo idealistico-hegeliano, senza uscire con ciò dal gioco metafisico delle ipostasi. Sennonché egli deve pur correggere il sottinteso meccanicismo materialistico della sua proposta, se vuole in qualche modo considerare la funzione dell’artista nel processo artistico, e giustificarla altrimenti che come presenza passivamente ricettiva, tabula rasa: a questo fine, non gli resta che tornare al suo punto di partenza, al criterio del tipico artistico o categoria della particolarità, intesa quale «intuizione sensibile», cioè al concetto che costituisce il pendant mistico-romantico del concettualismo estetico hegeliano. Ed è una conferma: che quel semplice «a dispetto» engelsiano possa assurgere in Lukács a chiave di volta di una teoria del realismo non si spiega se non rinviando al concetto dell’arte come «intuizione sensibile». [...].

  Di per sé, una esplicazione strettamente estetica della «contraddizione» ideologica attribuita a Balzac non consente infatti di rimuovere i residui romantici già riscontrati così nel criterio engelsiano come nella teoria di Lukács.

  Occorre vedere, anzi tutto, che i rilievi engelsiani su Balzac non denotano, propriamente, una pura e semplice contraddizione delle vedute ideologiche dello scrittore: il generico «a dispetto» engelsiano, da Lukács sancito teoricamente, non resiste, infatti, a un esame critico ravvicinato dell’atteggiamento ideologico-letterario di Balzac. Si tratta di comprendere che la satira a cui Balzac sottopone la nobiltà del suo tempo proviene non da una sorta di «auto-critica» — come pretende stranamente Lukács — e neppure da una tendenziosità tepida o superficiale, ma da un attestamento intellettuale complesso, che risulta, anzi, legato a radicate e intransigenti convinzioni reazionarie, e che solo schematizzando (schematizzando oltre il lecito) può riassumersi in un odi et amo: da una parte, fedeltà indiscussa all’ideale monarchico-assolutistico e nostalgia nella trascorsa magnificenza aristocratica, della vieille politesse, française, e. dall’altra — conseguentemente e non contraddittoriamente — amarezza e disprezzo per la decadenza e degenerazione presente della classe che quell’ideale dovrebbe rappresentare; quindi, per contrasto, e per intolleranza di ogni soluzione politica di tipo medio o di compromesso — quale Balzac vedeva a esempio nel governo di Luigi Filippo — «ammirazione non dissimulata» — di tipo moralistico, diciamo noi — per gli avversari politici, «gli eroi repubblicani del Cloître Saint Méry, gli uomini che in quell’epoca (dal 1830 al 1836) erano i veri rappresentanti delle masse popolari». Si può dedurre, da questo atteggiamento, una contraddizione ideologica di Balzac? [...]. Non una semplice contraddizione ideale di Balzac, dunque, ma — se mai il lapsus non solo verbale di un Engels disposto a sottovalutare, di fronte ai risultati realistici dell’opera letteraria, la coerenza delle convinzioni ideologiche dello scrittore.

  Vediamo, per altro, che a favore della tesi del bifrontismo balzacchiano non depone di certo la viva rappresentazione letteraria della spinta crescente della borghesia contro la vecchia classe nobiliare e cortigiana, improntata com’è, quella rappresentazione, a una critica violenta e senza misericordia del mondo appunto borghese e dei suoi eroi, i parvenus, che in uno dei romanzi di Balzac (Le lys dans la vallée) sono paragonati alle scimmie, «delle quali hanno l’abilità; li si vede in alto, si ammira la loro agilità durante l’ascesa ma, arrivati in cima, non si scorgono altro che i loro lati vergognosi». Senza dubbio, una critica proveniente non da spirito progressistico, ma, al contrario, da posizioni ideali del passato, e rivolte più al passato che al futuro, eppure critica acuta e veritiera, tanto che a buona ragione si può dire, con Marx, che Balzac — il Balzac che sapeva bene come non solo gli uomini, ma anche gli avvenimenti principali della vita si formulino attraverso dei tipi — si distingue per la sua profonda comprensione delle condizioni reali, e perfino che egli «non fu solamente lo storico della società dei suoi tempi, ma anche il profetico creatore di figure che si trovavano ancora allo stato embrionale sotto Luigi Filippo e che solo dopo la morte di costui, sotto Napoleone III, dovevano raggiungere il loro completo sviluppo». Tanto più notevole appare la chiaroveggenza critica dello scrittore quando si osservi che egli individua e denuncia i mali più nascosti della borghesia proprio nella fase in cui questa classe è in ascesa e si pone nella società francese come classe dirigente. Ma l’accento distruttivo della critica balzacchiana non si spiega per intero se non in riferimento alla sua tendenziosità conservatrice (che letterariamente si traduce nel presentimento apocalittico del collasso della civiltà, in una concezione pessimistica regressiva della storia); né al di fuori di tale riferimento si spiega — a meno di non voler giungere, per assurdo, a vedere in Balzac un fautore degli ideali rivoluzionari — l’ammirazione non dissimulata per gli eroi repubblicani. Lo stesso scrittore, infatti, si incarica di indicarcene le ragioni e i limiti moralistici. Si veda, nel famoso saggio sulla Chartreuse de Parme di Stendhal, il brano [...] che riguarda il personaggio di Ferrante Palla, medico, poeta ed eroe liberale: «Noi non ci occupiamo dell’oggetto della fede di quest’uomo. Egli ha la fede, e il san Paolo della Repubblica, un martire della Giovine Italia, è grande nell’arte, come il san Bartolomeo di Milano, come lo Spartaco di Foyatier, come Mario sulle rovine di Cartagine. Tutto ciò che egli fa, tutto ciò che egli dice è sublime. Egli ha la convinzione, la grandezza, la passione del credente. Per quanto alti siano, come fare, come concezione, il principe, il ministro e la duchessa, Palla Ferrante, questa superba statua, messa in un angolo del quadro, esige la vostra ammirazione. Malgrado le vostre opinioni, o costituzionali o monarchiche o religiose, egli vi soggioga ...». E più in là Balzac aggiunge: «Palla Ferrante è il rappresentante di una famiglia di spiriti che vive in Italia, sinceri ma illusi, pieni di talento ma che ignorano i funesti effetti della loro dottrina». Come si vede, i limiti della «ammirazione» di Balzac sono precisi e, per il nostro assunto, molto significativi. D’altra parte, dell’inclinazione dello scrittore all’elogio generico dell’eroismo, l’eroismo che Croce chiama «dell’energia» o «della passione vuota», la Comédie humaine offre esempi diversi e non meno eloquenti: basti qui accennare all’alone eroico e affascinante di cui lo scrittore circonda nei suoi romanzi il personaggio dell’«infernale» Vautrin. Insomma, il fatto che l’opera realistica di Balzac sia valida e apprezzabile anche (e soprattutto, vorremmo direi nell’àmbito della critica storico-materalistica, non può portarci a concludere con Lukács, se non a prezzo di un’astrazione ideologica, che la concezione del mondo balzacchiana, quale si desume dal tessuto narrativo della Comédie humaine, sia ma concezione di tipo progressistico: l’opera di Balzac rappresenta, sì, un elemento culturale di progresso, ma solo nel senso che essa consegue dei valori conoscitivi, indissociabili dalla sua artisticità. E si intende che cogliere l’artisticità, cioè la consistenza conoscitiva di tale opera nella sua pienezza, significa anche fornire la spiegazione di ciò che a quei valori si oppone o non giunge, di tutto ciò che in Balzac vi è di artisticamente fiacco e irrilevante.

  Inutilmente cerchiamo nella critica lukácsiana un chiarimento diretto delle ragioni artistiche della grandezza di Balzac. La critica lukácsiana di Balzac, per altro non priva di meriti, riesce critica estetica solo molto parzialmente, in forma occasionale e in certo modo equivoca, poiché in essa il giudizio storico-culturale non è mediato da un’analisi dei rapporti interni dell’opera letteraria, ma pretende di implicare tale analisi di per se stesso, così da porsi in genere di qua o di là dei valori propri del testo. [...]. Il limite storico-scientifico del procedimento critico lukácsiano si evidenzia, per tanto, in una vera e propria fuga dall’artisticità della Comédie humaine. Si può dire che nel saggio su Les paysans (come in quello su Les illusions perdues) (sic) Lukács non chiarisce le ragioni per cui diciamo che Balzac è un artista e non uno storico, non ci dice cioè che cosa di più o diverso Balzac ci offra in confronto di uno studio storiografico dei problemi di cui tratta il romanzo. Secondo il filosofo ungherese, Balzac è — letteralmente — lo storiografo della vita privata dell’epoca della Restaurazione e della «monarchia di luglio»: si pone quindi il problema di stabilire come e quanto i riferimenti storico-sociali del romanzo sa adeguino a una veduta storica rigorosa (si tratta, nella fattispecie, della lotta tra latifondisti e contadini nella Francia della prima metà del secolo). Dalla misura di questa adeguazione Lukács deduce la grandezza di Balzac, né ci nasconde il criterio regolativo intimamente contraddittorio secondo il quale egli viviseziona il corpo letterario: ogni elemento narrativo che, preso per se stesso, esuli da un’esatta prospettiva storico-sociale è ritenuto elemento non realistico, indicativo dell’intenzionalità pessimistico-elegiaca che è il riconosciuto contrassegno artistico del romanzo (il frazionamento del latifondo — scrive Lukács — è «una tappa di quella rivoluzione che, iniziatasi nel 1789, secondo le previsioni di Balzac finirà col collasso della civiltà. Questa prospettiva determina il tono fondamentalmente pessimistico e tragicamente elegiaco di tutto il romanzo»); per contro, ogni elemento narrativo che di per sé rientri in una valida concezione dei problemi sociali è detto elemento tipico, realistico, significativo del progressismo (involontario) di Balzac, e quindi della vera grandezza artistica (involontaria) del romanzo. [...].

  A questo punto, si può vedere come la fuga dall’artistico, che si riscontra nella critica lukácsiana di Balzac, sia legata strettamente alla tesi del bifrontismo ideologico dello scrittore: di ciò rende conto a sufficienza la constatazione che Lukács, ogni volta che nei saggi indicati si spinge fino a suggerire una caratterizzazione d’ordine estetico (che rimane, del resto, scopo a se stessa), è obbligato a smentirsi, in quanto non può non fare riferimento alla tendenziosità reazionaria di Balzac: così quando riconosce «il tono fondamentalmente pessimistico e tragicamente elegiaco» del romanzo Les paysans, o, nel Truffamorte (Vautrin) di Les illusions perdues (e di Le père Goriot), «il ghigno satanico dell’amara saggezza balzacchiana», o in generale «il pessimismo del mondo artistico» dello scrittore. Tutto ciò non esclude, s’intende, la validità — parziale — dei saggi lukácsiani, la loro ricchezza documentaria e la consapevolezza che il filosofo ungherese mostra di possedere della complessa fenomenologia storico-sociale a cui Balzac si riferisce nei suoi romanzi. Un rigoroso ampio studio critico-estetico della Comédie humaine può anzi avvantaggiarsi di certe indicazioni, più o meno frammentarie e chiuse, ma esatte e potenzialmente feconde, dei saggi lukácsiani su Balzac: liberata dalle unilaterali deduzioni che Lukács ne trae, pare fondamentalmente giusta, o verificabile, la considerazione che il giudizio sui fatti e sui personaggi è espresso dallo scrittore nelle forme dell’ironia (nel senso, se si vuole, che questa è l’arma con cui il letterato Balzac reagisce alla frustrazione ideologica impostagli dai nuovi tempi politici e sociali). E s’intende che sul piano di una critica storica, marxistica, della Comédie humaine non è da escludere o trascurare il supporto misticheggiante (Swedenborg) dell’ironia letteraria balzacchiana («Dio, che è l’infinita preveggenza, avrebbe gettato la specie umana sul globo terrestre, senza preoccuparsi di ciò che essa sarebbe divenuta?»). Pare, comunque, che la visione ironica dello scrittore sia il segno distintivo delle opere per le quali si dice che Balzac è un «maestro di realismo».

  La misura dei valori artistici di Eugénie Grandet, già distorta da certa lacrimosa critica tradizionale (interessata unilateralmente al patetismo del personaggio di Eugenia), è, per esempio, nella dimensione ironico-grottesca in cui si muovono, più o meno ottusamente, tutti i personaggi, in vario modo coinvolti e perduti nel mostruoso meccanismo sociale che si giustifica con il mito borghese del denaro. Scrive Balzac nel suo romanzo: «I filosofi che incontrano delle Nanon, delle signore Grandet, delle Eugenie, non hanno forse il diritto di pensare che l’ironia è il carattere profondo della Provvidenza?» E alla catarsi ironica, realisticamente determinata ma pessimisticamente giustificata e coerente, verso la quale Balzac dirige i personaggi e i loro drammi, non sfugge il vero protagonista del romanzo, Grandet, motore cieco della geniale tragicommedia degli equivoci in cui sono inviluppati gli altri personaggi; un tipo, Grandet, sul quale lo scrittore costruisce pagine artistiche tra le più alte e significative, in chiave grottesca, appunto: si pensi all’orrore (cristiano) — ironicamente mediato — della morte del bonhomme («Quando il prete avvicinò alle sue labbra il crocifisso d’argento dorato per fargli baciare il Cristo egli fece un gesto spaventoso per afferrarlo è quest’ultimo sforzo gli costò la vita ...»). L’ironia di Balzac cade su tutto il finale: l’accumulazione della ricchezza, già esclusiva ragione di vita per Grandet, non vale a risolvere (ma pur sempre a causa di un equivoco) il dramma di Eugenia, che è l’erede, vittima paziente e ignara di una imperiosa e oscura «provvidenza», misticamente intesa; e che tuttavia non è accostabile, contro le apparenze, all’Ermengarda manzoniana, per il fatto che in Balzac il dramma dell’esistenza non si pone come «provida sventura» o mistica identificazione tra disgrazia terrena e grazia eterna, ma è destino senza riscatto, non-senso, disperato gioco umano. Quanto poco lo scrittore sia incline al patetismo e quanto sia coerente invece col suo amaro disegno ironico, risulta chiaramente anche dalle pagine finali del romanzo, dove la «santità» di Eugenia — la quale «non ha insudiciato la propria anima a contatto del mondo» — appare subito corretta o sminuita dalla «durezza della zitella» e dalle «abitudini meschine che provengono dall’angusta vita provinciale», per cui il dubbio cade anche sulla purezza della generosa beneficenza dell’erede («Ella accumula con cura le proprie rendite e forse sembrerebbe un po’ tirchia se non smentisse la maldicenza con un nobile impiego della sua ricchezza ...»).

  Il pessimismo ironico-fatalistico di Balzac campeggia in Le père Goriot, dove la figura del prodigo genitore è, per manifesta intenzione, una sorta di pendant moralistico dell’avaro Grandet, e dove il fulcro drammatico è dato dal contrasto sentimentale e ambientale, ironicamente sottolineato, che caratterizza i rapporti del popolano con le figlie «aristocratiche». Così, riaprendo a caso il romanzo, vediamo come si concluda ironicamente la morte di Goriot («Oh, è proprio morto — annunciò Bianchon ridiscendendo. — Andiamo, signori, a tavola! — esortò la vedova — La minestra si raffredda»); e come ritorni anche qui concretamente l’idea della vita come caos (Rastignac: «Amico mio, ho ascoltato finora gridi e lamenti. C’è un Dio! oh, sì, c’è un Dio, e ha creato un mondo migliore, in cui la nostra terra è un non senso ...»), sicché anche Vautrin, il demoniaco Truffamorte, che muove le fila del destino di Rastignac, finisce per apparire al servizio di un disegno soprannaturale, la cui provvidenzialità è sfuggente, misteriosa.

  Per contro, il venir meno dell’ironia coincide, nell’opera di Balzac, con una inferiore rilevanza artistica e di significato, senza escludere la caduta nei meccanismi o nel gusto involuto delle così dette «storie di anime»: si veda, per esempio, il monotono, prolisso Le lys dans la vallée, che fa pensare a una sorta di biografia in chiave «spirituale», dominata e mortificata dal mito cattolico del peccato, e in buona parte improntata a una retorica dei sentimenti che rasenta il bigottismo. Ma l’ironia di Balzac toma in primo piano nelle pagine finali del romanzo, dove sembra suggerire un’amara variante della Presidentessa di Laclos: questa impazzisce e muore per aver acconsentito alla propria umanità, a prezzo della perdita di una superba purità di credente; la pazzia e la morte della protagonista di Balzac provengono al contrario dall’aver sacrificato gli impulsi erotici e sentimentali all’esaltazione religiosa: e qui lo scrittore ci dà la pagina più viva del romanzo.

  Si è soliti ammirare, in genere, l’abilità geniale con cui Balzac muove i propri personaggi, tale che questi sembrano vivere di vita propria, al di fuori di un piano narrativo, e tale che lo scrittore può apparire un fedele «cronista» di vicende reali: ma è, questo, un modo solo metaforico di significare la verosimiglianza e la corposità della narrazione balzacchiana, e insieme, appunto, il superiore distacco ironico che è dell’autore rispetto ai personaggi. Si pensi in particolare al gusto balzacchiano dell’anticipazione narrativa, in funzione del contrasto tra ciò che i personaggi fanno e dicono, tra le loro attese e i loro programmi, e gli sviluppi effettivi della vicenda: è il gusto ironico e pessimistico di chi sa già come le cose andranno a finire, di chi vede già la destinazione dei personaggi nella storia, in quella storia: che è già chiusa, senza vere prospettive, nonostante il nesso che lo scrittore stabilisce tra le vicende del ciclo: sappiamo, a esempio, che il finale, solenne «A noi due, ora!», che in Le père Goriot Rastignac rivolge a Parigi, è una sfida solo apparente: segna la sua prostituzione, la sua resa al conformismo, al già divenuto («Come primo atto della sfida ch’egli lanciava alla società, Rastignac si recò a pranzo dalla signora di Nuncingen (sic)»).

  Si capisce, finalmente, perché suoni assurda, o quanto inesatta sia (ed equivoca sul piano del metodo), l’avvertenza che Lukács, coerente con le proprie impostazioni, pone a proposito di Balzac nella introduzione ai Saggi sul realismo: «Non è un vero realista, non è uno scrittore veramente notevole colui che riesce a dirigere e regolare il corso dell’evoluzione dei propri personaggi»: avvertenza destinata, del reso, a obbligate implicite smentite all’interno degli stessi testi lukácsiani. [...].

  Pare inoltre che l’indicazione di luoghi letterari balzacchiani, quali esempi dell’ironia pessimistica dello scrittore, contribuiscano a convalidare un’ipotesi critica intenta al riconoscimento che nell’opera di Balzac non vi è puro e semplice contrasto tra rappresentazione artistica e tendenze ideologiche, e tanto meno una «autocritica» di tali tendenze, ma che in essa la tendenziosità di Balzac agisce in forma complessa eppure, in certo modo, conseguente, e quindi resta tutt’altro che estranea alla misura artistica dello scrittore; un’ipotesi volta — in altri termini — al riconoscimento che la tendenziosità, in quanto nudo schema politico-ideale, è di per sé condizione necessaria ma non sufficiente dell’opera d’arte, poiché questa vive non di schemi o di semplici atteggiamenti, ma di idee concrete; e, pertanto, che la capacità di osservare e rappresentare artisticamente la vita, la storia, deriva, nei grandi scrittori (Balzac o Tolstoi o Manzoni), dalla ricchezza e concretezza delle idee in cui traducono la loro tendenza; e, finalmente, che Grandet (o Goriot) non è L’ebreo di Verona, che Balzac non è un qualsiasi reazionario, ma è un grande scrittore reazionario, un pensatore dallo sguardo acuto, e non un parente prossimo o lontano di Padre Bresciani (ch’è suo contemporaneo e scrittore tendenzioso assai, eppure resta solo un fazioso scribacchino); sì che a ragione si possa dire che la grandezza artistica della Comédie humaine, che non va scambiata tout court con la sua ricchezza e perspicuità sociologica (anche se da questa rimane inseparabile), rappresenta sì un «trionfo del realismo», ma non certo a dispetto dello scrittore, e che per tanto è il trionfo del realismo di Balzac. [...].

  Il caso di Balzac è eccezionale, sì, ma nella misura in cui è eccezionale che un reazionario sia anche un grande pensatore e un grande scrittore (e vale la pena di osservare, di passaggio, che nel campo della filosofia e delle scienze in genere tale eccezionalità non ci sorprende, né d sgomenta: si pensi alla statura filosofica di Hegel, innegabile, e riconosciuta anche da chi vede, nel pensatore tedesco, «il filosofo della Restaurazione»). [...].

 

 

  Leo Neppi Modona, Il romanziere deluso, in Viaggiatori in Sardegna, Cagliari, Cada Editrice Fossataro, 1971, pp. 15-17.

 

  «Quanto al motivo che mi fa andare nel Mediterraneo non è né per sposarmi, né per spirito d’avventura, né per stupidaggine. E’ una questione seria e scientifica di cui non posso farle parola, perché sono tenuto al segreto, potrei dirgliela solo nell’intimità del focolare, ma quando la faccenda sarà conclusa, o bene o male, avrò rischiato solo un viaggio di piacere o distrazione».

  Così scriveva il celebre romanziere Honoré de Balzac il 20 gennaio 1838 alla signora Hanska, nobildonna polacca che il romanziere sposerà pochi mesi prima di morire, nel 1850.

  Dopo aver introdotto nei suoi romanzi personaggi industriosi destinati a brillanti successi grazie all’insolito fervore del loro cervello, in quanto il romanziere era convinto che la commedia umana si basa sul denaro e su chi lo sa usare, Balzac aveva deciso di rivestirsi lui stesso con i panni dei suoi personaggi e tentare una speculazione che in realtà aveva l’aspetto di una avventura. Nel 1837 aveva incontrato in Italia e precisamente a Genova, un negoziante, certo Pezzi, che gli aveva suggerito la possibilità di sfruttare le scorie delle miniere di piombo e d’argento abbandonate dai Romani in Sardegna. Balzac era entusiasta. Per lui la Sardegna diventò l’Eldorado: il metodo sicuro per pagare i suoi numerosi debiti, e anche per sfoggiare di fronte alla borghesia attonita la rara genialità del suo cervello. Infatti egli si sentiva incompreso come romanziere, e poteva condurre la sua vita brillante solo lavorando duramente per vari mesi dell’anno ai romanzi che gli editori chiedevano con insistenza. Prima di partire aveva iniziato la stesura di un romanzo intitolato «Lettere (sic) di due giovani spose» la cui parte centrate doveva svolgersi in Sardegna. Il suo amico Carraud che da prima si era proposto di accompagnarlo, non avendo la fantasia del romanziere, esaminò il progetto con attenzione ma rinunziò alla partenza. Una ragione in più per partire, secondo Balzac, il cui cervello funzionava meglio degli altri. Pare anche che avesse conosciuto un chimico che possedeva un segreto per valorizzare al massimo l’oro e l’argento contenuto nelle scorie. I preparativi per il viaggio furono affannosi: il romanziere dovette portare tutti i suoi gioielli al monte dei pegni e farsi prestare molti soldi dai parenti. In viaggio dovette sottoporsi a stenti durissimi, nutrendosi solo di latte, occupando i posti più scomodi nelle diligenze più traballanti. Raggiunse la Sardegna passando dalla Corsica. I paesaggi non gli interessavano, la gente che bighellonava nelle piazze gli faceva pena. Egli tendeva solo al suo Eldorado. Il 12 aprile 1838 giungeva in Alghero a bordo di una corallina diretta in Africa. La quarantena di cinque giorni al largo, lo aveva spossato: nella barca si mangiava solo pesce bollito. Appena sbarcato si diresse nella Nurra e precisamente nella zona chiamata Argentiera alla ricerca del sognato argento. Ma lì venne a sapere che il mercante genovese Pezzi lo aveva preceduto e aveva ottenuto la concessione esclusiva per lo sfruttamento delle scorie. Una nuova speranza si accese nella mente del romanziere: esistevano altre scorie al Sud, nei pressi di Domus Novas.

  Ma non aveva più soldi. In 5 giorni percorse cinquanta chilometri a cavallo e duecentodieci in diligenza. Non poté far altro che osservare i luoghi, ripromettendosi di tornare l’anno seguente. A Cagliari il romanziere era poco conosciuto, e d’altra parte i giornali del tempo avevano poco spazio da dedicargli. L’Indicatore Sardo del 21 aprile 1838 scriveva: «Notizie interne: Cagliari 19 aprile. Dal Capo Settentrionale dell’isola passò in questa capitale il signor di Balzac, celebre romanziere francese. E’ rimasto fra noi alcuni giorni, ed oggi è ripartito per la volta di Genova col battello a vapore l’Ichnusa». Ma già il 17 aprile il romanziere appare scoraggiato al massimo. Purtroppo, o per fortuna, quella che segue è l’unica descrizione che Balzac ci ha lasciato della Sardegna, perché il romanzo che era rimasto a Parigi incompiuto condurrà le protagoniste per destini diversi da quelli progettati: dobbiamo pensare che a mente calma il romanziere non ebbe il coraggio di dare in pasto al pubblico una descrizione così nera?

  La descrizione si trova in un’altra lettera alla signora Hanska: «La Sardegna somiglia alla Polinesia. Un intero regno deserto, gente selvaggia; nessuna coltivazione. Uomini e donne camminano semi nudi, coprendosi solo le parti più intime. Ho percorso da 17 a 18 ore a cavallo senza trovare una casa o qualcosa da mangiare». Perdoniamolo. Uno scrittore che viveva a Parigi non poteva avere lo spirito di Grazia Deledda, specialmente percorrendo l’isola senza soldi in due settimane.



  Elisabetta Olobardi, Aspetti del dandismo nella ‘Comédie humaine’ di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Mario Matucci, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lettere e filosofia, 1971, pp. 127.

 

 

  Pier Luigi Petrobelli, Balzac, Stendhal e il “Mosé” di Rossini, «Annuario 1965-1970 del Conservatorio di musica ‘G. B. Martini’», Bologna, Patron, 1971, pp. 203-219.

 

  Il 14 febbraio 1837 Honoré de Balzac lascia Parigi diretto a Milano Il romanziere francese, la cui fama è allora all’apice, non si muove però alla volta dell’Italia spinto da ragioni artistiche o romantico-sentimentali: egli è incaricato di una ben precisa missione d’affari, giacché è stato nominato procuratore generale del conte e della contessa Guidoboni-Visconti, entrambi abitanti a Parigi, per regolare con i parenti rimasti in Italia la transazione relativa all’eredità della madre del conte. Un viaggio d’affari, dunque; ma come ogni esperienza di vita diviene per lo scrittore esca immediata e fulminea per la sua fantasia, così questo secondo «voyage en Italie» (il primo aveva avuto come mèta Torino, ed era avvenuto un anno prima) fornirà all’artista una messe di sensazioni e di immagini che egli immediatamente trasfonderà e trasfigurerà nella sua opera. Giunto a Milano il 19 febbraio, Balzac è accolto con tutti gli onori dalla nobiltà milanese ed anche da quella austriaca, dagli ambienti cólti ed intellettuali della capitale lombarda; Andrea Maffei dedica una copia delle sue traduzioni schilleriane a «quell’uomo che dopo il tragico inglese [Shakespeare] ha gettato nei segreti del cuore lo sguardo più profondo»; lo scultore Puttinati ne esegue la statua, e Balzac incontra pure Manzoni, senza ricavarne entusiasmi eccessivi (anzi, piuttosto l’opposto). L’amicizia più viva ed autentica che lo scrittore francese riesce a stabilire durante questo primo soggiorno milanese è quella con la contessa Clara Maffei, la moglie di Andrea, il cui salotto era già allora il centro della vita intellettuale della città lombarda, proprio quella Clarina Maffei che sarà una delle amicizie più autentiche e durature nella vita di Verdi. I sentimenti di Balzac per la nobildonna lombarda assumeranno anche toni abbastanza accesi, e a lei comunicherà le impressioni del suo viaggio, a lei descriverà l’incontro con Venezia, che avviene dapprima sotto il segno della delusione, e poi del netto entusiasmo. Lasciata Milano il 13 marzo, lo scrittore giunge sulla laguna il giorno successivo, e qui incontra il barone Galvagna per discutere la transazione e firmare l’atto definitivo. La missione d’affari ha pieno successo, poiché il barone accetta tutte le proposte relative alla successione formulate da Balzac. Dal 21 marzo sino alla fine del mese lo scrittore è di nuovo a Milano; di qui parte per Genova e, via mare, raggiunge Livorno per trasferirsi poi a Firenze; il soggiorno fiorentino è dedicato soprattutto alla visita ed allo studio dei monumenti, ma la successiva tappa a Bologna sarà in primo luogo causata dal desiderio di rivedere una persona alla quale Balzac, come egli stesso ci dice, era legato da viva amicizia: è Gioacchino Rossini, che dal dicembre dell’anno precedente si era stabilito nella patria d’elezione con Olympie (sic) Pélissier. Passando di nuovo per Milano, per il San Gottardo, per il lago dei Quattro Cantoni, Ginevra e Basilea, il romanziere francese rientra a Parigi il 3 maggio; il 25 dello stesso mese egli consegna allo stampatore Plon il manoscritto di Massimilla Doni, il breve romanzo nel quale Balzac ha racchiuso e sublimato l’esperienza del suo viaggio italiano dei mesi precedenti, imperniando la trama attorno ad un tema che da lungo tempo egli, forse inconsciamente, attendeva di poter realizzare nella cornice ambientale idealmente adatta; quel Massimilla Doni che ancor oggi, a centotrent’anni dall’epoca in cui venne scritto, contiene l’analisi più minuziosa e penetrante, più ricca e più particolareggiata del Mosè di Rossini.

  Questo racconto di Balzac è ambientato interamente a Venezia, ed il romanziere attribuisce ad una rappresentazione dell’opera rossiniana alla Fenice la funzione di perno, di momento culminante della trama: durante la rappresentazione, l’opera viene illustrata dalla protagonista punto per punto, con entusiastici commenti, ad uno smaliziato ed attento medico francese, ed i maggiori interpreti dello spettacolo sono la Tinti e Genovese, i cantanti che, per vie e ragioni diverse, condurranno i due personaggi principali della storia, Massimilla ed il conte Emilio Memmi, a godere in modo completo del loro amore. Per la verità, Balzac aveva messo in guardia i lettori sul valore e sulla pertinenza delle opinioni da lui espresse in fatto di musica, affermando allo stesso tempo in modo elegantemente categorico l’indipendenza del proprio giudizio; in una lettera all’editore Maurice Schlesinger, pubblicata l’11 giugno 1837 nella Revue et gazette musicale dello stesso editore, rispondendo appunto al desiderio espresso dai lettori della rivista di conoscere il nuovo (sic) Étude philosophique e le opinioni dell’autore in fatto di musica, Balzac dichiara:

 

  J’appartiens à la classe abhorrée par les peintres et par les musiciens, abusivement nommée d’une façon méprisante, gens de lettres.

 

  e dopo aver amabilmente preso in giro se stesso, gli scrittori, i militari ed i musicisti per il loro settarismo professionale, afferma con convinzione:

 

  Je resterai toujours attaché au parti séditieux et incorrigible qui proclame la liberté des yeux et des oreilles dans la république des arts, se prétend apte à jouir des oeuvres créées par le pinceau, par la partition, par la presse, qui croit irréligieusement que les tableaux, les opéras et les livres sont faits pour tout le monde, et pense que les artistes seraient bien embarrassés, s’ils ne travaillaient que pour eux, bien malheureux s’ils n’étaient jugés que par eux-mêmes [...].

 

  Sempre da questa lettera all’editore Schlesinger veniamo a sapere che da qualche tempo lo scrittore si era formato delle idee ben precise sul Mosè [...].

  Ancora attraverso la lettura di questa lettera, che ritengo fondamentale per comprendere l’atteggiamento di Balzac nei confronti della musica, si ricava con esattezza come il viaggio in Italia, il soggiorno milanese e soprattutto veneziano, l’incontro bolognese con l’autore del Mosè abbiano fatto scoccare la scintilla che mise in moto la fantasia dell’artista, che gli permise di dare una forma letteraria alle impressioni e sensazioni suscitate dall’ascolto dell’opera, un ascolto avvenuto certamente molto tempo prima. Quest’ammirazione di lunga data assume un certo rilievo per comprendere una circostanza abbastanza curiosa e problematica: il fatto cioè che in Massimilla Doni Balzac descriva la prima, e non la seconda versione dell’opera di Rossini, il fatto che nel suo romanzo egli faccia eseguire sul palcoscenico della Fenice il Mosè in Egitto, scritto per il S. Carlo di Napoli e rappresentato per la prima volta il 15 marzo 1818, e non Moïse et Pharaon, che ne è la rielaborazione francese in quattro atti, eseguita per la prima volta all’Opéra di Parigi il 26 marzo 1827. Per cercar di vedere chiaro in questo problema, è necessario anzitutto tener presente il fatto che nel momento storico che coincide con il periodo più intenso dell’attività di Rossini vigeva ancora la prassi (una prassi, si noti bene, avallata dagli stessi compositori), di sostituire, di alternare nell’ordine, ed anche di sopprimere ad ogni ripresa, alcuni brani dell’opera che veniva rappresentata; in secondo luogo è un fatto provato che, dopo la rappresentazione di Moïse et Pharaon all’Opéra di Parigi, la nuova versione prese sì il sopravvento e divenne, per così dire, la forma definitiva dell’opera, ma non per questo si cessò di cantare il Mosè in Egitto; per fare qualche esempio: abbiamo le prove, cioè i libretti stampati per le diverse rappresentazioni, che l’opera venne eseguita nella sua prima versione a Venezia al Teatro S. Benedetto nel 1831, a Mantova ed a Vicenza nel 1832, a Torino nel 1833, a Crema nel 1835; ciò avvenne non solo in Italia, ma anche a Parigi, significativamente al Théâtre Italien (e non all’Opéra); in questo teatro Mosè in Egitto venne presentato ogni anno dal 1832 al 1835, e nel 1837, ed il libretto per la rappresentazione del 1832 contiene i pezzi esattamente nello stesso ordine in cui li descrive Balzac nella sua immaginaria rappresentazione dell’opera alla Fenice. Non possiamo tuttavia essere matematicamente sicuri che sia quella la rappresentazione cui lo scrittore assistette; ad esempio, sempre al Théâtre Italien, ma nel 1822, l’opera di Rossini venne eseguita in forma di oratorio, per una serata in onore di Giuditta Pasta; il libretto venne stampato nelle due lingue, e cioè con una traduzione francese a fronte; orbene, questa traduzione coincide letteralmente in parecchi punti con quella riportata da Balzac per i versi del libretto che egli cita nel romanzo; inoltre la seconda «prima donna» di quest’ esecuzione è M.lle Cinti, che sarà primadonna assoluta nel Moïse et Pharaon, «la Cinti», famosa per le sue bizze ed i suoi capricci, esattamente com’è famosa per gli stessi motivi, in Massimilla Doni, la primadonna che canta nel Mosè, Clarina Tinti (notare le coincidenze e le assonanze!). In ogni caso, e da quanto Balzac dichiara nella sua lettera a Schlesinger, è evidente che egli conobbe per la prima volta l’opera, e ne ricevette le più forti impressioni non già in Italia, ma a Parigi, e fu durante il viaggio italiano del 1837 che lo scrittore francese ‘scoperse’ l’ambiente ideale, e cioè la Fenice, ove collocare fantasticamente la rappresentazione dell’opera, e poter «faire passer à l’état littéraire» le sue impressioni e le sue reazioni. [...].

 

  Il personaggio è quello di Mosè, la figura del protagonista, il profeta e il liberatore d’Israele, colui che guida il popolo eletto verso la libertà, colui che rivela ai mortali, col tono possente del suo declamato, i voleri e le minacce della Divinità alla quale, solo, ha il potere di rivolgersi direttamente. Quando Mosè parla agli Egiziani, minacciando in nome dell’Eterno i castighi celesti che immediatamente piomberanno, allora la sua voce assume veramente accenti di oltretomba, ed egli parla esattamente come la statua del Commendatore nel Don Giovanni, questo Don Giovanni che è inesauribile modello di perfetta realizzazione drammatica. [...].

  È certamente questo uno degli aspetti salienti del personaggio, e la sua funzione determina il tono dell’intera partitura; è sorprendente e allo stesso tempo rivelante come Balzac ne abbia perfettamente colto la causa profonda; Massimilla Doni dirà al medico francese, prima ancora che lo spettacolo cominci:

 

  Vous allez voir comment je comprends le Moïse de Rossini [...] Moïse est le libérateur d’un peuple esclave! lui dit-elle, souvenez-vous de cette pensée, et vous verrez avec quel religieux espoir la Fenice tout entière écoutera la prière des Hébreux délivrés, et par quel tonnerre d’applaudissements elle y répondra!

 

  Proprio per mettere in evidenza questo carattere del protagonista Rossini crea la vasta scena d’affresco che apre la nuova versione dell’opera: in essa Mosè rincuora gli Ebrei «oppressi dalla sventura», ripetendone le affermazioni musicali e trasformandole opportunamente in un canto di speranza e di serena gioia. Già in questa solenne pagina d’inizio il popolo ebreo è chiaramente delineato come composto: l’alternanza precisa fra parte maschile e parte femminile del coro ha la funzione appunto di sottolineare la diversità delle componenti pur nell’unicità dello stato d’animo, che è realizzata musicalmente dall’unità tematica.

  Questo principio assume proporzioni grandiose nei numeri conclusivi dei singoli atti, dove i due blocchi, le due volontà che determinano la vicenda vengono a trovarsi in diretta opposizione: l’intervento di una forza soprannaturale determina ogni volta il capovolgimento della situazione (in generale, a favore degli Ebrei). Tuttavia l’esempio forse più impressionante di questo tipo di «scena collettiva», costruita su di una sola idea musicale che caratterizza in maniera sommaria ed icastica lo stato d’animo fondamentale, che ne determina l’atmosfera psicologica, è costituita dalla cosiddetta «scena delle tenebre», la scena con la quale iniziava il Mosè in Egitto, e che ora apre il secondo atto dell’opera.

  Fra gli spettatori che la sera del 5 marzo 1818 riempivano la sala del S. Carlo di Napoli, v’era anche Stendhal il quale, nella sua Vie de Rossini, dopo aver diffusamente parlato del suo personale scontento per la scelta dell’argomento biblico (e averne causticamente motivato le ragioni), ci descrive il suo arrivo al teatro e le sue sensazioni in questo modo:

 

  […]. Je riais au lever de la toile; les pauvres Egyptiens formés en groupes sur un théâtre immense, et affligés de la plaie de l’éteignoir, sont en prière. Je n’eus pas entendu vingts (sic) mesures de cette admirable introduction, que je ne vis plus qu’un grand peuple plongé dans la douleur; par example (sic), Marseille en prière à l’annonce de la peste de 1720.

 

  Al giudizio di Stendhal, alla fin fine basato unicamente su reazioni istintive, e abbastanza impressionistico, si contrappone quello di Balzac in Massimilla Doni. In questo romanzo, il commento di quanto avviene sulla scena è in generale affidato alla protagonista; per la «scena delle tenebre», tuttavia, lo scrittore non sa resistere alla tentazione di far seguire ai commenti entusiastici (e in fondo esageratamente nazionalistici) di Massimilla alcune osservazioni personali, i propri giudizi, che sono decisamente penetranti più ancora che suggestivi. Per la parte strettamente musicale, Balzac dichiara apertamente di essersi servito dell’aiuto del musicista Jacob Strunz, un tedesco residente a Parigi al quale dedicherà Massimilla Doni quando verrà definitivamente pubblicata nel 1839. [...].

  Sarà sufficiente affermare che tutti gli elementi fondamentali dell’arte rossiniana vi sono còlti con una penetrazione tanto più stupefacente quanto più impensata; affermazioni come: «C’est surtout la facilité merveilleuse avec laquelle il varie la forme qu’il faut admirer chez Rossini» possono costituire la chiave per un’approfondita esegesi musicale dell’arte dell’autore del Mosè.

  Si è voluto soltanto richiamare l’attenzione su di un incontro estremamente felice tra «un’opéra et un livre», un incontro che dà ancora una volta ragione al «parti séditieux» cui Balzac si vantava di appartenere.

 

 

  Georges Poulet, Balzac, in La metamorfosi del cerchio. Traduzione di Giovanni Bogliolo, Milano, Rizzoli Editore, 1971 («Saggi Rizzoli»), pp. 209-231.

 

  [...]. «L’opera d’arte» dice Balzac, «è lo spaventoso accumulo in un breve spazio di un intero mondo di pensieri». D’altra parte, per Balzac, i pensieri o passioni (nel suo vocabolario queste parole sono intercambiabili) sono «la più viva causa della disorganizzazione dell’uomo e conseguentemente della società». Da queste due affermazioni si desume che agli occhi di Balzac l’opera d’arte e la società che essa riflette sono, ciascuna entro i rispettivi limiti, uno spaventevole accumulo di forze disgregatrici. [...].

  Da Taine in poi i critici hanno richiamato spesso la nostra attenzione su questo movimento esorbitante della Comédie humaine, mettendo in rilievo i fattori di disordine che esso comporta. Indubbiamente lungo tutto l’arco dei suoi novanta volumi l’opera balzacchiana non cessa mai di rappresentare una tempesta di interessi e un turbine di volontà. Ma in genere le parole «tempesta» e «turbine» suggeriscono un mondo privo di rapporti costanti, di limite e di centro, un mondo finizione un universo dell’eccesso, del sommovimento, del movimento disordinato e illimitato delle forze oppure nella Comédie humaine c’è un principio che regola queste forze e ne rende lo spettacolo non soltanto intelligibile ma anche ammirevole?

  Una prima osservazione è che il mondo balzacchiano non è un mondo che si riduca alla pura diffusione dei suoi movimenti. Si potrebbe concepire un universo che fosse costituito semplicemente dalla libera espansione di energie illimitate; ma il mondo balzacchiano non è soltanto un mondo dell’espansione, è anche un mondo della reazione a queste espansioni. In altre parole, è un mondo in cui et sono delle spinte, ma ci sono anche delle resistenze a queste spinte, e perciò nell’apparente monismo energetico di Balzac vediamo introdursi un principio di dualità. Quanti romanzi di Balzac sono concepiti, o nella loro interezza o nel loro episodio più significativo, come «un duello tra due volontà», una che attacca e l’altra che resiste? Parigi e provincia, natura e società, vita privata e vita politica presentano la stessa combinazione fondamentale, «la lotta di due forze che produce la vita». «Scavando dentro tutte le cose umane» dice Balzac, «vi troverete quello spaventevole antagonismo di due forze che produce la vita». «La vita» dice altrove, «non è forse la lotta tra due forze?» E in un altro testo: «La vita dipende dall’azione di due opposti principi». Infine, in Louis Lambert, che tra tutte le opere di Balzac è quella in cui egli si è sforzato di formulare nella maniera più sistematica la sua concezione del mondo, scrive:

  «Il Movimento, in virtù della resistenza, produce una combinazione che è la vita».

  Vita indubbiamente disordinata, condannata ad esistere soltanto nell’urto e per l’urto delle tendenze contrastanti; ma principio vitale, che è al tempo stesso principio d’intelligibilità universale. Ogni romanzo balzacchiano si può immediatamente comprendere sotto forma di uno scontro che mette di fronte due forze, l’una che si distende e l’altra che si inarca. Dall’azione del movimento e della resistenza risulta un equilibrio precario fin che si vuole, ma calcolabile. La vita morale non è un caos di forze aggrovigliate, se la legge che governa il moto dei corpi si può anche applicare al mondo delle volontà. Nella Comédie humaine c’è un primo fattore di coerenza e d’intelligibilità, che, propriamente parlando, costituisce la dinamica dello spinto.

  A questo primo fattore se ne aggiunge un altro. Un mondo fatto di pressioni e di resistenze è possibile soltanto perché tra gli elementi che lo compongono esiste un mezzo che consente a queste pressioni e resistenze di agire. Si potrebbe immaginare un universo ben differente, quello proustiano per esempio, in cui le idee e gli esseri non vengano mai a contatto, ma scivolino gli uni sulle altre senza esercitare pressioni o senza respingersi violentemente. Si tratterebbe però soltanto di un artificio della lanterna magica che vacilla nel vuoto dello spirito. Ma il mondo balzacchiano non è un vuoto, anzi non può affatto tollerare che da qualche parte ci sia il vuoto. «Il vuoto» dice Balzac «non esiste» [...]. All’universo newtoniano che presuppone l’esistenza di un vuoto cosmico attraverso il quale le particelle di luce si gettano senza incontrare resistenza, Balzac preferisce l’universo così come lo concepisce Herschell, un universo pieno di «una sostanza eterea, senza peso, che da ogni parte si espanda nello spazio e che, mediante ondulazioni ripetute a grande velocità, porti ai nastri occhi il senso della luce, così come le vibrazioni dell’aria producono il suono per il nostro orecchio».

  L’universo balzacchiano è dunque un mondo senza soluzione di continuità, un mondo omogeneo, in cui tutto è legato e a stretto contatto, in cui per conseguenza non c’è nulla che non sia colpito dal più piccolo movimento che vi si produce, un mondo insomma in cui le ondulazioni si propagano conquistando gradatamente tutti i punti dello spazio, in modo che ogni perturbazione particolare influenzi l’assieme, ma anche che l’assieme eserciti un’azione sopra ciascun punto determinato. La Comédie humaine è una sfera in cui ogni parte si pone in rapporto con tutte le altre e con l’assieme attraverso un movimento che si estende fino alla circonferenza, così come l’assieme si pone in rapporto con ciascuna parte mediante una pressione che risulta tanto più grande quanto più questa parte è vicina al luogo in cui convergono tutte le pressioni, cioè al centro.

  Questa sfera ha anche un’atmosfera, vale a dire un denso strato di opinioni, di tendenze e di costumi che pesa sul mondo sociale e forma attorno ad esso una seconda cintura sferica [...].

  Per Balzac [...] l’essere umano dipende dal suo ambiente; è condizionato dall’atmosfera fisica e morale che respira [...].

  Il brano maggiormente rivelatore in cui si trovi la spiegazione del rapporto determinante tra la sfera sociale e l’individuo che essa racchiude è il seguente, tratto da L’Envers de l’histoire contemporaine:

 

  La sfera in cui viveva ebbe un’azione positiva su Godefroid. La legge che governa la natura fisica in ordine all’influsso dell’ambiente atmosferico sulle condizioni degli esseri che vi si sviluppano, vale anche per la natura morale ... Egli fu preso dal desiderio di imitare quegli eroi sconosciuti».

 

  Nell’esempio precedente l’ambiente atmosferico è rappresentato da una società di beneficenza. L’influsso che esercita sulla volontà del personaggio centrale è dunque un influsso benefico, a cui conviene aderire. Non è già più la stessa cosa in quell’altra storia di associazione che è l’Histoire des Treize. Tredici giovani uniscono segretamente le loro forze per esercitare sulla società una forte azione. Dalla periferia in cui si dissimulano fino al centro della loro attività, che è l’oggetto comune dei loro desideri, essi gettano un fascio convergente di energie. Balzac è sempre stato assillato dall’idea di una gigantesca società segreta che diventasse padrona del mondo circondandolo con la rete delle sue volontà. Con questo spirito ha scritto perfino una Histoire des Jésuites. Se infatti il mondo è un assieme di forze, e se la caratteristica di queste forze è quella di tendere a dei fini, tra tutte le possibili combinazioni non ce n’è nessuna più efficace di quella in cui le diverse forze si trovano a dirigere i loro sforzi verso lo stesso fine. L’accumulo di energie orientato in una certa direzione porta al risultato più decisivo. [...]. Nella molteplicità dei movimenti che compongono l’universo balzacchiano, si realizza un raggruppamento naturale. Le forze si associano perché identico è il loro oggetto. Tutt’attorno a uno stesso polo d’attrazione le forze ruotano e si amalgamano, formando una massa periferica continua che avvolge il centro e pesa su di esso. Ma allora si pone il problema morale. Che cosa succede infatti se, invece di essere, come nell’Envers de l’histoire contemporaine, una buona società, una società di beneficenza, o, come nell’Histoire des Treize, una società in se stessa né cattiva né buona, l’associazione delle volontà convergenti è una società malefica, che distrugge coloro sui quali esercita la sua potenza? Allora il movimento appare come una coalizione dei forti contro i deboli, come un’organizzazione di volontà acquisitive diretta contro individui fatalmente spogli e schiacciati. E la combinazione che Balzac ha descritto in alcuni dei suoi romanzi più famosi. È per esempio la storia del cugino Pons [...]. Quasi in ogni romanzo di Balzac attorno a una figura che è al tempo stesso vittima e oggetto d’invidia si costituisce un cerchio di volontà avide, come, ad esempio, nel romanzo della Vieille Fille, verso il cui centro umano, dice Balzac, «convergevano tanti interessi». Balzac è il mirabile pittore di ciò che egli stesso chiama «i sentimenti collettivi», quelli che esercitano da tutte le parti, simultaneamente, la loro azione che procede da una circonferenza verso un centro. E Balzac è il non meno mirabile pittore dell’investimento di questo centro, condannato dalla dinamica sociale dell’accerchiamento, che vuole che una coalizione sia più potente di un individuo isolato.

  Alla debolezza inerente alla situazione di ogni essere accerchiato dalla società si aggiunge la debolezza inerente alla sua particolare natura. Infatti l’uomo, preso d’assalto dalla società e tuttavia costretto a cercare in essa le sue distrazioni e il suo nutrimento, dice Balzac, «è obbligato ad andare continuamente dal centro a tutti i punti della circonferenza; egli ha mille passioni, mille idee, e c’è così poca proporzione tra la sua base e lo spazio delle sue operazioni che ad ogni istante viene preso in flagrante delitto di debolezza». Ma supponendo che l’individuo, invece di mille passioni, ne abbia soltanto una, questa pericolosa concentrazione di tutti i suoi interessi può anche dare al nemico l’occasione di colpirlo in un punto vulnerabile [...]:

  Il pensiero è dunque un’arma e un veleno. [...].

  Questo punto in cui la forza affluisce e dà il colpo mortale è appunto il centro vitale dell’essere. «Ciò che chiamiamo la nostra anima» dice Balzac «[è] il punto geometrico a cui conducono le strade percorse dalle nostre sensazioni». Ma sono anche le strade che percorre e da cui si avvicina il nemico. Nella società l’uomo è dunque doppiamente vulnerabile: perché all’interno di un paese ostile si trova come una piazzaforte assediata; e perché le sue passioni gli fanno allentare le difese e a volte rivelano il punto debole in cui l’attaccante concentrerà i suoi sforzi.

  Non sempre però Balzac rappresenta il conflitto tra la società circostante e l’individualità centrale sotto la forma di un immediato annientamento di quest’ultima. Se per lui la vita è essenzialmente una lotta tra due tendenze, non conviene che una venga sconfitta troppo rapidamente dall’altra, e che ogni commedia o tragedia sociale si riduca al soggiogamento dell’uomo da parte dell’ambiente in cui è situato. In questo caso infatti alla fin fine non ci sarebbe ben presto più lotta, e conseguentemente più vita. Bisogna invece che il romanziere conferisca alle energie contrastanti una forza quasi uguale nella difesa come nell’attacco. Non sempre l’entità individuale viene schiacciata dalla società; succede anche che sia essa a schiacciarla. Dispone effettivamente di grandi risorse che può accumulare nei periodi di pace e a cui può attingere nei momenti di pericolo. Se l’essere balzacchiano spesso si indebolisce lasciando che le passioni lo trasportino dal centro a tutti i punti della circonferenza, spesso si rafforza anche con l’astinenza, l’economia dei pensieri e dei desideri, ciò che Balzac chiama «la concentrazione delle forze interiori». Per Balzac le più resistenti sono le «nature vergini». «La verginità, come tutte le mostruosità, possiede delle ricchezze speciali, delle grandezze assorbenti. La vita, che economizza le sue forze, nell’individuo vergine ha assunto una qualità di resistenza e di durata incalcolabile». La fissità morale e fisica, la vita contemplativa, la semplicità dei bisogni, l’assenza di passioni costituiscono per Balzac una specie di condizione primaria dell’essere. Quest’ultimo, tesaurizzando le sue forze e non facendole fruttare, riconducendosi al centro, vivendo soltanto, per così dire, di una esistenza virtuale e puntiforme, è come una molla compressa ma pronta ad allentarsi violentemente in caso di necessità [...].

  La forza dell’individuo è dunque direttamente proporzionale alla sua unità d’azione; e questa unità viene rappresentata da Balzac sotto la forma di una sfera i cui raggi, che sono le diverse facoltà dell’anima o la varietà delle situazioni in cui si trova l’essere, si ricollegano ad un unico centro, che è l’oggetto del desiderio. La sfera dell’anima è un solido nel quale tutti i punti periferici gettano verso il punto mediano delle linee convergenti uguali tra loro. Questa è la struttura specifica dei famosi monomani balzacchiani. Balthasar Claës, Hulot, Grandet e tanti altri personaggi della Comédie humaine sono costruiti come i raggi di una ruota incastrati nel loro mozzo. Da qualunque punto di prospettiva li si guardi, in qualunque punto della loro vita li si sorprenda, essi appaiono sempre orientati verso lo stesso oggetto, in quanto cercano la loro unità nel medesimo punto di convergenza.

  Ma non è soltanto l’unità della loro struttura che così viene ad essere manifestata; lo è anche l’intensità della loro forza. Riducendosi ad un solo impulso di esistenza, mettendo tutte le loro attività al servizio di un unico desiderio, i monomani balzacchiani arrivano mediante la concentrazione a una moltiplicazione pressoché infinita dell’energia vitale [...].

  A volte – ma raramente – in Balzac questa concentrazione attiva viene realizzata artificialmente, nel senso che viene prodotta con l’azione di un eccitante. [...].

  Ma Balzac non si interessa molto alle creazioni nel vuoto. Quel che lo interessa sono le creazioni o proiezioni nel pieno. L’oppio non consente altro che una vana dilatazione negli spazi immaginari. Vale di più un mondo di ostacoli e di pressioni, di azioni e di reazioni. Quando nell’universo balzacchiano un essere si scopre in pericolo mortale, raduna immediatamente le sue forze, prende possesso di risorse fisiche e mentali fino a quel momento insospettate, contrappone alla minaccia che lo circonda un potere di resistenza o di contrattacco quasi smisurato [...].

  Al movimento concentrico che si racchiude sul centro investito si contrappone un movimento inverso, eccentrico, con cui l’essere minacciato passa all’attacco e respinge l’invasore. È quel che avviene nel Cousin Pons, in cui si vede il vecchio musicista moribondo, scarno, quasi prostrato dalla pressione delle bramosie, alzarsi improvvisamente dal suo letto di malato e, con un’energia fisica e spirituale che non ha alcun rapporto col suo stato precedente, muovere contro i suoi nemici un’offensiva per un certo tempo vittoriosa.

  Questi sono nella Comédie humaine i capovolgimenti di fronte causati dalla dinamica della volontà. «L’anima perde in forza centripeta ciò che acquista in forza centrifuga», e viceversa. L’anima non dispone di forza centrifuga se non nella misura in cui essa si condensa preventivamente ad opera della forza centripeta. La sua capacità di espansione dipende dalla sua capacità di contrazione. Solo quando un essere si può concentrare in un punto di forza può in seguito proiettare quest’ultima all’esterno, passare, mediante l’azione, dal centro alla periferia, trasformarsi in una sfera di attività che si allarga progressivamente attorno a lui. [...].

  Nel romanzo balzacchiano si può dunque riconoscere un tipo di composizione che è l’esatto contrario del romanzo della cospirazione. Questo descrive un processo di compressione, quello un processo di diffusione e di espressione. Nella Comédie humaine non c’è nulla che risalti con maggior evidenza della proiezione della forza individuale, decuplicata dalla concentrazione. Tutti i grandi ambiziosi e passionali dell’opera di Balzac sono stati invariabilmente rappresentati da lui come persone che emanano tutt’attorno un fluido mesmerico, un’energia perturbatrice e dominatrice che allarga incessantemente i suoi effetti e il suo campo d’azione. Generalmente è la loro vita mentale e fisica a risultarne intaccata, poi il loro ambiente più prossimo, moglie, bambini, amante o amici; poi le conoscenze, l’assieme sociale di cui essi formano il centro; da ultimo la loro volontà rompe gli argini e allora tutta quanta la società diventa il campo attraversato e posseduto dalla loro attività: [...].

  Nel romanzo balzacchiano ogni essere umano si può improvvisamente costituire come potenza attiva e offensiva, determinando attorno a sé una serie infinita di effetti. A volte questi sono mostruosamente evidenti in virtù della loro violenza e della dimensione quasi cosmica in cui si sviluppano, a volte invece si succedono in maniera insidiosa e quasi invisibile, ma non senza tendere alla fine alla stessa universalità; come si sa infatti, in un mondo in cui tutto è collegato e concomitante, un movimento prodotto sulle rive del Mediterraneo si propaga fino alle coste della Cina, vale a dire nell’universo intero. Ogni nostro desiderio, per quanto debolmente noi lo esprimiamo, scatena ondulazioni a perdita d’occhio. Anche senza volerlo, noi influiamo sul mondo, spandiamo la nostra anima sopra di lui. [...].

  Nella sua effusione sferica, la volontà, che è un fluido luminoso, penetra e influenza le volontà meno forti. L’essere passionale non si espande soltanto negli spazi, ma comunica la sua passione. Tutta l’opera di Balzac è piena di queste estensioni della forza affettiva.

  Ma l’estensione di cui si tratta non è soltanto l’estensione di un’emozione; quasi sempre è anche l’estensione della stessa volontà [...].

  Come Corentin o Vautrin, l’individuo balzacchiano ama [...] assidersi al centro di un mondo in cui si irradi la sua volontà. Egli si trova contemporaneamente, in virtù della concentrazione, in un punto senza estensione e in virtù della proiezione, dovunque si estendano i suoi raggi. Perciò Goriot è lì dove è, nella pensione Vauquer, e al tempo stesso dovunque lo trasporti l’amore per le figlie [...]. Come Goriot si trova tutto quanto dovunque siano le sue figlie, così Balzac si trova tutto quanto dovunque siano le creature del suo spirito. Egli è colui che accompagna il proprio verbo, che si effonde con esso negli spazi che questo vivifica, che prende parte a tutte le esistenze sempre più numerose e lontane che fa gravitare nel suo universo. Ed è anche colui che gonfia il suo verbo, che fa crescere il suo testo come un pallone. Simile allo spirito angelico che descrive in Séraphita, Balzac «dispone del movimento e si associa a tutto in virtù dell’ubiquità». Come i pianeti e i satelliti di un mondo solare disposto in cerchi ed epicicli, le molteplici figure della Comédie humaine sono illuminate da un proiettore centrale che vi porta immediatamente la propria luce e la propria energia, quali che siano la distanza e le differenze di natura che separano queste creature dalla forza creatrice. Ognuno di questi pianeti costituisce una sfera particolare, che dispone di un proprio centro e di una propria legge. Ma tutte queste sfere sono raggruppate e tenute in movimento dalla volontà di un unico perno [...].

  Questo impenetrabile centro del Cosmo, che dà origine a tutto e che riconduce tutto a sé, è in fin dei conti il genio dello stesso Balzac. Balzac non si accontenta di stendere attorno a sé la Comédie humaine, ma la riflette dentro di sé, ve la concentra. Nell’opera di Balzac non c’è soltanto una concentrazione di forze, vi è anche una concentrazione di idee. Lo spirito vi costituisce un centro intellettuale in cui si viene a unificare tutto ciò che esso abbraccia.

  È ciò che Balzac chiama (dalla parola latina speculum: specchio) la spécialité, e che si potrebbe, forse con maggior esattezza, chiamare la centralità [...].

  Per usare quell’espressione di Leibniz che egli ripete continuamente, Balzac si costituisce dunque, o costituisce la sua opera, a «specchio concentrico». In essa l’universo si viene a riflettere e ad assorbire. Il cerchio è nel punto, il punto è nel cerchio. Invece di essere soltanto una «tempesta d’interessi» e un turbine di movimenti disordinati, l’opera balzacchiana si presenta contemporaneamente come l’espansione di un centro verso una periferia e come la concentrazione di questa periferia nel centro. È un movimento incessante, ma «espansibile e contraibile». In esso vediamo appunto, secondo l’espressione di Balzac, «il dispotismo con cui uno spirito ci costringe a subire gli effetti di un’ottica misteriosa che ingrandisce, rimpicciolisce, esalta la creazione». Infatti «l’anima ha l’ignoto potere di dilatare come pure di contrarre lo spazio».

  In tal modo Balzac afferma sempre, direttamente o indirettamente, il principio di centralità che domina la sua opera. Nell’«Introduzione» alle sue Etudes de moeurs, scritta da Davin dietro sua ispirazione, il lettore viene avvertito che alla fine scoprirà tra queste Etudes «un nesso che le farà convergere tutte quante verso un centro luminoso». [...].

  Il romanzo balzacchiano è dunque un movimento, un movimento ordinato: parte da un punto e si riconduce ad un punto; sviluppa una vita, o un assieme di vite che, procedendo da un centro e propagandosi attorno al centro, ritorna nel centro. Esso cerca di realizzare quell’accordo perfetto di cui parla un intenditore di musica in Massimilia Doni. Questo accordo «ci conduce più avanti nel centro della vita, sopra la fiumana di elementi che rianima la voluttà e che porta l’uomo al centro della sfera luminosa in cui il suo pensiero può convocare tutto quanto l’universo».

  Facendo convergere verso il centro tutti gli elementi del suo universo, l’opera balzacchiana arriva in fin dei conti a una straordinaria unità e perfino alla pura astrazione. Attraverso un paradossale ritorno dalla sua espansione nella vasta sfera della concretezza, il romanzo balzacchiano tende spesso d’altra parte a rarefarsi, ad impoverirsi, a restringersi, a rappresentare in mezzo alla sfera luminosa della realtà da lui creata soltanto il principio centrale astratto di cui le immagini periferiche non costituiscono altro che il riflesso e l’effetto. Tutto si riassorbe nel principio, tutto non è più altro che la prevedibile risultante di un’unica idea che, alla fine, è la sola che importi [...].

  Afferrando il movimento nel suo punto primario, si corre alla fin fine il rischio di non afferrare più il movimento, ma soltanto il punto. Causa ancora priva di effetto, principio ancora privo di figura, l’Uno assoluto è il Dio plotiniano in cui tende ad identificarsi il pensiero di Balzac. Ma il Dio di Plotino non è un Dio realmente creatore. Se il mondo emana da lui, questa emanazione nel suo termine estremo ha così poca importanza e perfino così poca realtà da avere l’insostanzialità di un sogno. Alla fine non resta altro che un principio privo di figura, un Dio senza universo, un punto centrale senza periferia, senza irradiazione, senza spazio. È vero che «l’astrazione contiene in embrione tutta una natura». Ma questa natura è soltanto in embrione, è virtuale, non esiste. Quando Balzac arriva dunque, come fa talvolta, al punto estremo del suo sviluppo, che consiste nel ridurre tutto al principio centrale e causale, al punto da cui scaturiscono tutte le linee, ma in cui anche tutte le linee scompaiono, sostituisce il meraviglioso sviluppo circolare di figure concrete che affollano la Comédie humaine col suo contrario, cioè col loro assorbimento in un punto in cui non c’è più nulla e che non è altro che nulla.

 

 

  Leopoldo Rigoli, Il Balzac e il Manzoni: tracce dei “Promessi sposi” nella “Comédie humaine”, in AA.VV., Atti dell’VIII Congresso nazionale di studi manzoniani (Lecco, 9-12 ottobre 1967). Editi da Claudio Cesare Sticca, Milano-Lecco, Centro di studi manzoniani, 1971, pp. 87-114.

 

  Il lettore di un saggio pubblicato dalla signora Maria Pisani col titolo L’Italia nella Commedia Umana (nella «Biblioteca Rara» dell’Ed. Perrella - Napoli, 1927) trova, prima del testo, un’Avvertenza dell’autrice con queste parole: «La fama di detrattore dell’Italia e degli Italiani, che accompagna ormai per tradizione, il nome di Onorato Balzac ...». Questa fama, che esiste ancora, nacque da una violentissima campagna di stampa scatenatasi nel 1837 contro il Balzac, con un articolo ostile del conte Tullio Dandolo pubblicato il 1° aprile 1837 nel N. 74 della Gazzetta Privilegiata di Venezia, colla data «Milano, 23 marzo 1837» e col titolo di «Simposii. Una conversazione col signor Balzac di Tullio Dandolo ad Angelo Fava». Il Dandolo, per iniziare il suo attacco colla certezza di una immediata solidarietà dei lettori, prese pretesto da un giudizio, trovato troppo sfavorevole, pronunziato dal Balzac sull’opera del Manzoni nel conversare durante un pranzo in una casa privata di Venezia.

  Avverto subito che, se il Dandolo è stato fedele nel riferire in poche parole ogni concetto espresso dal Balzac, il giudizio stesso, pur contenendo innegabili riserve, non può dirsi irriguardoso verso il Manzoni. Credo comunque che il Balzac l’abbia formulato senza aver letto i Promessi sposi, ma desumendolo semplicemente (chi è senza peccato scagli la prima pietra) da noti articoli critici, come quelli di Etienne Jean Delécluze nei numeri del 30.10 e del 15.12.1827 del Journal des Débats, che piacevano anche a Stendhal, e quelli di Xavier de Maistre (anonimo) nel Globe dell’11-14 agosto 1827, poiché vi si percepisce chiara la presenza di concetti contenuti in quelli, un fatto che probabilmente viene rilevato adesso per la prima volta.

  Successivamente, la mala fama del Balzac in questo campo trovò un nuovo incentivo in Italia con la pubblicazione, nel 1882, di Alessandro Manzoni – Reminiscenze da parte di Cesare Cantù (ed. F.lli Treves, Milano, 1882, vol. 1°, pag. 95) che vi descriveva una visita fatta dal Balzac al Manzoni durante il viaggio di quello a Milano nel 1837, in una maniera tale da dare al lettore l’impressione di un Manzoni sopraffatto e annichilito da un clamoroso cialtrone.

  Raffaello Barbiera poi, in quella sua piacevole opera di storia aneddotica intitolata «Il salotto della contessa Maffei e la società milanese» (cap. IV, F.lli Treves, Ed. Milano, 1895), che ebbe larga diffusione, riportando notizie evidentemente avute dal Cantù e altre desunte dal racconto del Dandolo senza averle sottoposte ad un esame critico adeguato, e rispolverando il dimenticato episodio Lissoni senza averlo compreso (Antonio Lissoni aveva rivolto al Balzac nel 1837 un attacco al quale nessuno oggi riconosce un fondamento, ma che era stato un evidente pretesto per scrivere, senza pericolo, di glorie militari italiane), può dirsi divenuto l’origine più prossima di quella tradizione di avversione e disistima. Così il Barbiera, che da un lato si è reso benemerito degli studi su Balzac in Italia raccogliendo episodi e pubblicando documenti inediti, da un altro può considerarsi esser stato purtroppo veramente nocivo, per aver diffuso nella nostra epoca molti giudizi errati e aver radicato una convinzione alla quale pochi si sono poi sottratti, essendosi disteso come un velo di timore reverenziale su di essa, divenuta intangibile. Così Giuseppe Gigli, nell’ampiamente documentato suo saggio Balzac in Italia – contributo alla biografia di Balzac (F.lli Treves, Milano, 1920), si attiene alla descrizione di avvenimenti riportandone letteralmente le fonti e lascia spesso al lettore l’esame critico. E la signora Pisani invece, che intendeva combattere direttamente quella tradizione, pur avendo avuto almeno due felici intuizioni, quella dell’insufficiente imparzialità delle due fonti principali, e quella di un vero interesse che dovette esservi stato nella conversazione di Balzac col Manzoni, non trae da esse argomenti in favore del suo proposito, ma si dedica all’esposizione delle espressioni di simpatia per l’Italia e per gli italiani che si incontrano spesso lungo la Comédie humaine, l’opera complessiva del Balzac. Il timore di non apparire obiettiva ha paralizzato la sua ricerca.

  Così, quella tradizione, sia pure in forma alquanto attenuata, consistendo magari in un percettibile senso di obnubilante acrimonia contro il Balzac, è giunta fino ad oggi, viva, vegeta, operante, e fa considerare ancora il Balzac, uno spregiatore degli italiani in genere e del Manzoni in particolare.

  Dovrebbe quindi riuscir piuttosto sorprendente, per ogni fedel seguace di quella tradizione, un certo incontro che si fa in La Cousine Bette, il primo quadro del dittico Les Parents pauvres, datato «Paris, août-septembre 1846».

  Troviamo infatti verso la fine di quel celebre romanzo del Balzac una ninfetta avvenente degli infimi quartieri parigini, Atala Judici, figlia di un’antica donna di piacere e del discendente di uno di quegli alpigiani della valle di Domodossola che emigravano a Parigi, la notizia è di Balzac, per esercitarvi il mestiere tradizionale di «fumiste» o costruttore di apparati di riscaldamento.

  Occorre trascrivere il suo ritratto:

  « ...une fille de quinze ans et demi, d’une beauté tout italienne.

  Mademoiselle Judici tenait du sang paternel cette peau jaunâtre au jour, qui le soir, aux lumières, devient d’une blancheur éclatante, des yeux d’une grandeur, d’une forme, d’un éclat oriental, des cils fournis et recourbés qui ressemblaient à des petites plumes noires, une chevelure d’ébène, et cette majesté native de la Lombardie qui fait croire à l’étranger, quand il se promène le dimanche à Milan, que les filles des portiers sont autant de reines».

  Quando questa descrizione cadde sotto gli occhi di uno studente degli atenei milanesi, che non sapeva di letterature più dei suoi coetanei, anzi si occupava di discipline assolutamente estranee a queste, era alla sua prima opera nella lettura di Balzac, e conosceva pochino anche il Manzoni che non leggeva da molto tempo, egli si divertì moltissimo all’idea di poter trovare un aspetto particolarmente regale nelle belle ragazzine della progenie dei guardaportoni, anche agghindate con la veste della domenica; e non ne trasse diverso succo, pur avendo sentito una certa dissonanza tra quell’immagine e lo sfondo.

  Ma riletta casualmente quella pagina trenta o quarant’anni dopo, ed era fresco allora di qualche riflessione sulla possibilità di individuare aspetti etnici in personaggi dei Promessi sposi, gli parve subito che ne scaturisse il ricordo di una notissima figura del Manzoni con la presenza di qualche tratto indiscutibile della madre di Cecilia (Promessi sposi, cap. XXXIV), e volle vedere se quella sua netta impressione risultasse condivisa da altri, eventualità che avrebbe incoraggiato a riconoscere una reminiscenza manzoniana.

  Giovanni Titta Rosa in Balzac in casa Manzoni (scritto aggiunto in Aria di casa Manzoni, Ed. Ceschina, Milano, 1955) che sembra il più recente scritto sull’argomento di Balzac e Manzoni insieme, si limita ad asserire che a Milano, al Balzac, «anche le figlie delle portinaie gli parevano tante regine», e poiché non accenna alla figuretta, sembra che non l’abbia affatto notata come oggetto che potesse avere rapporti col Manzoni e la sua opera.

  Paolo Bellezza trova invece rimarchevole che per descrivere uno stesso oggetto, secondo lui la beltà lombarda, tanto il Manzoni che il Balzac abbia dovuto valersi delle stesse parole (A. Manzoni milanese, Milano, ed. Famiglia Meneghina, 1930), ma ciò non è esatto perché il Manzoni vedeva sopratutto una qualità interiore che traspare attraverso l’aspetto esteriore, e, invece, il Balzac descrive una parte di un complesso di materialità, un aspetto anatomico, che considera in quell’occasione un carattere proprio della bellezza lombarda come varietà della bellezza italiana. Comunque, Paolo Bellezza non vede più che un parallelismo tra le due espressioni.

  Infine la signora Maria Pisani (L’Italia nella Commedia Umana, op. cit., 1927) dichiara senz’altro che le parole del Balzac ridestano in lei l’immagine della madre di Cecilia, e ritiene di trovarsi davanti a una reminiscenza specifica, senza scendere a ulteriori esami, però, nè far commenti che spieghino la sua convinzione, che non osa imporre al lettore.

  Il bilancio del passato non è stato molto tranquillante. L’esame però che stiamo per fare ci permetterà di riconoscere e determinare una prima derivazione manzoniana smentendo già con questo la pretesa esistenza di una disistima del Balzac per il Manzoni, inizio di una credenza, persistente ancora, di una disistima generica per gli italiani, credenza però, occorre dirlo, che non si forma mai presso chi abbia letto davvero la Comédie humaine; e troveremo anche il premio di qualche risultato estraneo assolutamente imprevisto.

  Si notano, nel ritratto dato dal Balzac, parecchi elementi caratterizzanti.

  Il più singolare di essi è l’ultimo, la maestosità connaturale, la regalità di aspetto; cioè, in quanto esteriorità, l’imponenza di struttura. E’ un pregio che gli stessi milanesi non hanno mai attribuito alle loro quindicenni, sempre state comprese nella grande categoria degli spinazzitt, allusione piena di freschezza ai verdi germogli degli spinaci, adottata oggi anche per quelle personcine che nella Parigi di Balzac si chiamavano «les rats de l’Opéra» ed erano tra gli otto e i sedici anni (cfr. Les Comédiens sans le savoir, datato 1845), e corrispondono, a Milano, alle allieve della Scuola di ballo della Scala, promesse in boccio, senz’ombra ancora di una maestà di nessun genere. [...].

  E’ da notare poi che il Balzac, descrivendo una Ginevra di Piombo in La Vendetta, dice che sotto la sua fronte fiera di figlia di Corsica, aveva «dans tout le reste de sa personne, la simplicité, l’abandon des beautés lombardes». La Vendetta fu dedicata nel 1842 ad Alessandro Puttinati, lo scultore per il quale Balzac aveva posato a Milano nel 1837, per una notissima statuetta, ma venne pubblicata, per la prima volta in Silhoutte (sic) nel numero del 1° aprile 1830, e poi nel 1835, nel 1839, nel 1842. Non sappiamo dire qui se quel carattere sia già delineato nella prima apparizione, desunto in tal caso probabilmente da quadri di antichi maestri italiani, o sia stato aggiunto nel 1839 dopo viaggi a Milano e ad osservazioni personali dell’autore, o magari nel 1842 in occasione della dedicazione a Puttinati, oppure, viceversa, se il libro sia stato dedicato a questi perché conteneva di già quel particolare che avrebbe fatto piacere all’artista milanese. Comunque è indubbio che il Balzac, rivolgendosi a un tecnico della conoscenza dell’aspetto fisico delle bellezze lombarde, usava espressioni di simplicité e di abandon che sono incompatibili con quelle che avrebbe usato nel 1846 per Atala Judici. Possiamo quindi vedere senz’altro in questa maestà di Atala un aspetto nuovo e insolito, artificialmente introdotto nel tipo asserito lombardo, che il realista Balzac abbia desunto, anziché dalla realtà osservata, da una fonte letteraria da lui proposta come valida davanti a tutti quanto una realtà, e possiamo vedere quindi una derivazione di «quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo» (Promessi sposi, cap. XXXIV), considerata però come fatto materiale in modo completamente superficiale.

  È da notare anche che il Balzac non soleva usare la parola «majesté» nelle sue descrizioni di bellezze, essa compare una volta per Massimilla, che era fiorentina e non lombarda, pur avendo impiegato qualche volta «auguste», in un senso diverso però dal nostro, poiché viene applicata in casi assai discordanti tra loro, e cioè tanto per la cantante siciliana Clara Tinti, alla cui bellezza esteriore si unisce una grossolanità interiore (Massimilla Doni 1837-1839) quanto per Catherine Curieux, giovane del Limousin, il cui volto ha l’aspetto di «noblesse à la fois auguste et simple qui se rencontre parfois à la campagne chez les très jeunes filles ...» e che scompare per l’ardore del sole e per le fatiche domestiche (Le Curé de village 1837-1845). «Majesté» e «Auguste» dunque erano termini d’ispirazione in qualche modo neo-classica coi quali egli indicava la purezza di linee in aspetti esteriori o transitorii, senza nessun rapporto con la nostra augustezza e la nostra maestà. Così Paolo Bellezza, scrivendo che «è notevole che un altro scrittore moderno — straniero e francese — parlando della bellezza delle nostre donne, abbia dovuto valersi delle stesse parole. E’ il Balzac ...», non ha sospettato che il Balzac si sia avvalso, con una certa improprietà, di parole del Manzoni stesso anziché di parole suggeritegli dall’argomento, un soggetto infatti che soleva ispirargli espressioni diverse.

  Qualche impressione personale sta forse alla base del secondo elemento del ritratto, la carnagione. E’ comune in Lombardia una tinta bruna, specialmente nella zona bassa, parallela al corso del Po, corrispondendo alla distribuzione dei tipi più scuri e più chiari che fu rilevata solo con gli studi di Rodolfo Livi sulle classi di leva militare del 1859-1860-1861, così che a tempi di Balzac non se ne poteva aver sospetto senza un’osservazione diretta, tanto più che persisteva una convenzionalità di rappresentazione accoppiante la pelle bianca ai capelli neri: aspetto che si trova realmente in alcune parti d’Italia, ma che allora veniva esteso a tutti gli italiani. Lo stesso Balzac l’introdusse in Peau de chagrin (1831) e più esplicitamente in Une conversation entre onze heures et minuit (Contes bruns, 1832) riportandolo in Autre étude de femme (1842): «Je ne sais si vous avez remarqué, la singulière blancheur des Italiens, quand ils sont blancs — è un personaggio che racconta ciò, descrivendo un bell’ufficiale napoleonico, italiano — ... Ses cheveux noirs, bouclés à profusion, faisaient valoir son teint blanc comme celui d’une femme ...».

  In quei tempi romantici, infatti, si apprezzava soprattutto la carnagione candida, esemplificata spesso da Balzac con quella delle normanne, e lodata da lui anche nella propria nipote Sophie Surville contrapponendola a quella di Anna Hanska (Correspondance de H. De Balzac, ed. Calmann-Lévy, Paris 1877, lettera ottobre 1846), oppure quella tanto scura da avere un aspetto esotico. Ma il tipo bruno lombardo di carnagione, da ritenersi numericamente prevalente, non raggiunge mai tale intensità.

  Poiché tale tipo è ancora diffusissimo, abbiamo avuto occasione di sentir chiamare la tencin qualche graziosa portatrice di quell’aspetto, termine che Enrichetta Blondel traduceva col sostantivo «noiraude», poiché quel carattere molto lombardo era rappresentato nella famiglia Manzoni da Cristina (1815-1841), affrettandosi a soggiungere con sollecitudine materna che la sua bambina veniva trovata molto bellina (lettera 1.8.1818 di Enrichetta a Carlotta de Blasco), anche se non aveva la bianchezza già evidente nell[a] piccola Sofia (1817-1845), che sarebbe infatti divenuta la più appariscente delle figlie di Manzoni.

  Il Balzac introdusse tipi italiani bruni di pelle in opere posteriori a un suo viaggiare in Italia (cfr. Albert Savarus, 1842; Le Deputé d’Arcis, 1842- 1843; Les Fantaisies de la Gina, probabilmente del 1842, novella d’argomento milanese scoperta e pubblicata da G. E. Lang solo nel 1922). Per Atala Judici, che doveva realisticamente avere la pelle niente affatto bianca da lui notata a Milano, ma doveva pure apparire della più grande bellezza secondo il gusto del suo tempo, dice che la carnagione, ereditata dal lato paterno, era di quel tipo che diviene di una bianchezza abbagliante alla luce delle lampade pur essendo «jaunâtre» alla luce solare. Però il Balzac aveva prima d’allora, in Béatrix ou les amours forcés (1838-1844), attribuito questo carattere alle carnagioni olivastre descrivendo Félicité des Touches: «Elle a ce teint olivâtre au jour et blanc aux lumières qui distingue les belles italiennes ...». Ciò nel 1838.

  «Olivâtre» è un colore un po’ selvaggio, e non contrasta con la piena vitalità: infatti Félicité rispecchia l’irrequieta e ardente e vivacissima George Sand. Ma la giovane Atala, altrettanto ricca di vita, e più giovane, e fascinosa e bellissima, di sangue inoltre italiano, vien detta di colorito «jaunâtre», gialliccio, il colore della malattia. Balzac, ricordando la carnagione diversa dalla bianca osservata nel Milanese, e non trovando indicazioni di colorito nella madre di Cecilia, ha creduto di doverla esprimere derivandola da «facce dilavate del basso paese» (Promessi sposi, cap. XXVIII), come da una fonte particolarmente autorevole. Dobbiamo notare qui, una volta di più, che il Manzoni aveva occhi acutissimi: infatti egli, col rilevare, come ha fatto, tre diversi aspetti nella popolazione del Milanese, cioè «facce dilavate del basso paese, abbronzate del pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari» (ivi), ha descritto un fenomeno statisticamente esatto, cioè la diversa proporzione di tipi più scuri e tipi più chiari nelle varie zone della regione, come può osservarsi ancora in più di un luogo, non essendo scomparsa del tutto benché sia avviata a divenire impercettibile per l’enorme frammischiamento recente delle popolazioni. I tipi chiari reagiscono intensamente al sole e all’aria, riportandone quella tinteggiatura che persiste fin che persistono le suddette cause fisiche di essa, e così può mascherare anche una sottostante anemizzazione o un deperimento. Tutte cose che oggi chiunque sa, ma che a quei tempi nessuno forse sospettava. Infatti le facce descritte in quel punto da quel Manzoni dall’occhio più acuto del comune sono tutte quante delle facce «affilate e stravolte» (sic), ma solo quelle dei bruni del paese basso sono «facce dilavate», cioè denunciano anche col colore il deperimento prodotto dalla carestia che le altre nascondono sotto la tinta solare.

  Va apprezzata l’intensità espressiva di quel «dilavate», che è un termine usato dai pittori per indicare il risultato di un’operazione di schiarimento di una tinta. Ma il Balzac straniero, non poteva raccogliere queste ammirevoli finezze di precisione, che pochi lettori italiani percepiscono, anche quando operano in sede critica, e ritenne che quel dilavato indicasse il normale aspetto degli abitanti della bassa pianura, da doversi indicare, non essendo formato dal bianco, con un colore analogo a quello del deperimento della malattia, che per un realista appare, in un tipo bruno, esser gialliccio: «jaunâtre». Salvandosi poi l’impressione di fascino immenso che doveva venir prodotta, coll’asserire che quel colorito diveniva di candore abbagliante sotto le luci delle lampade. Tutto qui.

  Un terzo elemento, il colore nero dei capelli, non è pleonastico del tutto, perché in Lombardia la pelle un po’ bruna si trova anche in tipi dai capelli biondi, un biondo non chiaro ma dorato nei riflessi, però il nero accompagna in genere il bruno della pelle, si trova anche in un noto ritratto (Promessi sposi, cap. II), e completa la descrizione.

  L’immagine così introdotta dal Balzac è tutta disegnata intensamente, quasi pesantemente, sia nel complesso che nelle reminiscenze che contiene: essa deve attirare l’attenzione dei lettori, perché deve venir riconosciuta da una persona.

  Possiamo arrivare a conoscere il nome di questa persona, percorrendo un sentiero interessantissimo contenuto nel titolo del capitolo:


126. La nouvelle Atala tout aussi sauvage que l’autre et pas aussi catholique. […].


  Atala, l’artista da fiera, è dunque autant sauvage quanto la giovane Judici perché tutte e due non lo sono affatto.

  Ma «Atala» era il nomignolo portato dalla contessa Evelina Rzewuska, vedova di Venceslao Hanski, la dama polacca che il Balzac desiderava da gran tempo di sposare — avvenne infatti più tardi — quando viaggiava per l’Europa, insieme alla figlia Anna, al conte Giorgio Mniszech, aspirante alle nozze con questa, nonché al Balzac, poiché i membri della vagabonda comitiva turistica si erano attribuiti i nomi dei Saltimbanques, Atala essendo la contessa, Zéphyrine la contessina Anna, Gringalet il giovane Giorgio, e Bilboquet, l’allegro direttore della «troupe», il pacioccone Balzac.

  Il fatto è notissimo, risultando anche da una lettera 31 agosto 1845 scritta a Balzac dalla contessa e firmata «Atala et Zéphyrine» (stata pubblicata in nota alle Lettres à l'Étrangère, ed. Calmann-Lévy, Paris MCMXXXIII – Vol. III pag. 80-81), e da lettere a Giorgio Mniszech nelle quali Balzac parlava di «notre chère Atala» (lettere septembre 1846 e ottobre 1846, in «Correspondance de H. de Balzac», ed. Calmann-Lévy, Paris, 1877), dalle quali risulta chiaro che il gioco era ancora in corso quando Balzac scriveva Cousine Bette.

  Orientati in questo modo per un’evocazione della contessa Hanska come «autre (Atala)», possiamo verificare ciò che nel testo susseguente corrisponde a quel titolo. [...].

  Possiamo ritenere il ritratto di Atala Judici, un pezzo celebre [...], come l’originale del ritratto duplice della lettera alle due Surville, e vedervi un’evocazione della contessa Hanska, velata col sovrapporle un’immagine della figlia che invece di nasconderla la rafforza con la propria somiglianza, l’evocazione intima di lei più precisa e intensa e audace che vi sia in tutta la Comédie Humaine, accarezzata e realistica, delicata e sfrontata, esplicita e allusiva, un verso sconosciuto da aggiungere allo straordinario poema in migliai (sic) di strofe contenuto nelle Lettres à l’Étrangère.

  Con la sua presenza unita però al testo che gli segue, si veniva a proclamare che Honoré vedeva ancora Evelina come se avesse l’età di Anna, coll’aspetto che aveva avuto e che per lui aveva ancora, poiché le somiglia, coi fascini e le grazie della gioventù di questa, perché ella era per lui come Atala Judici appariva ad Hector Hulot d’Ervy, ed egli l’amava e desiderava sempre con l’ardore inesausto di Hector.

  Particolarmente lusinghiera si poteva sperare che apparisse questa affermazione a una donna alquanto matura, e che, dopo esser stata vista accanto a un angelo Swedenborghiano trasvolante sugli sci per le pendici nevose del Falberg prima di svolazzare definitivamente verso i Cieli (Séraphita, 1835), dopo esser stata laudata a tutto spiano nelle grazie intellettuali e fisiche (Modeste Mignon, 1844; Lettres à l’Étrangère, op. cit., Passim), si sentisse invece desiderare ancora per sue qualità intrinsecamente femminili ... Non meravigli tutto questo fuoco in Balzac, perché coincide con un’enfasi nelle espressioni affettuose che si riscontra spesso nella sua corrispondenza di quel tempo, di un barocchismo che ci lascia perplessi perché supera parecchio quello dello stile epistolare, già gonfio, proprio di quelle generazioni, e che ci stupisce oggi quando lo troviamo anche in certe lettere del giovane Manzoni.

  Era un momento di particolare effervescenza per Balzac, che, tra l’altro, vedeva prossimo a scomparire colle vicine nozze di Anna l’ostacolo ufficiale per le proprie con la riconquistata contessa, questa avendo dichiarato che si sarebbe rimaritata solo dopo di aver provveduto del tutto alla vita della glia. Questo matrimonio era per lui, ormai, più che il raggiungimento di un traguardo sentimentale, il compimento del capolavoro privato della sua vita; egli pensava a un figlio, che avrebbe potuto chiamare Victor-Honoré ... Inoltre, egli sentiva con certezza di essere sul vertice della gloria letteraria […].

  Possiamo ritornare ancora una volta al famoso titolo del Capitolo 126 di Cousine Bette, che nella sua terza sezione, «et pas aussi catholique», contiene un elemento interessante, che solo adesso diviene possibile di apprezzare. «Catholique», con specificazione estrema di una confessione religiosa, sarebbe eccessivo anche per l’Atala di Chateaubriand, per la quale si adattava «chrétienne». Vi è in ciò un’allusione saporita. Balzac si dichiarava cristiano, e considerava la Chiesa Cattolica Romana un elemento essenziale della società; ma, personalmente, aveva giocherellato parecchio con Swedenborg, con Saint-Martin, «le philosophe inconnu», colla Chiesa Giovannea; con illuminati, iniziati, mistici, e non li abbandonava ancora. La contessa Hauska (sic) invece, da vera polacca, figlia di una terra compressa tra Protestanti e Greco-scismatici, era dichiaratamente cattolica, forse con un po’ di tipica esaltazione slava, e aveva insistito parecchio e più volte, ma invano, presso il Balzac perché ritornasse a una concezione meno eterodossa della fede cristiana. Atala Judici, che non sa nulla di nessuna religione, non è affatto «catholique» e aggressiva come l’«autre», ossia la contessa, che forse aveva fatto qualche altro tentativo durante un viaggio a Roma appena terminato avendovi compiuto la [?] della Settimana Santa, e condotto il Balzac a ossequiare il Sommo Pontefice.

  Si tratta dunque di un particolare dal contenuto biografico che poteva essere riconosciuto dalla contessa, ma da nessun altro, salvo da qualche curioso che cento e più anni dopo avesse letto le lettere datate Paris, 31 mai-3 juin 1837 e Passy, 12-13 juillet 1842 (Lettres, op. cit.); un segnale per lei, se ve ne fosse stato bisogno, percettibile attraverso quel mascheramento di allusioni letterarie fatto per il pubblico da fuorviare. E si completa con esso un filo sottilissimo di sommessa ironia, un sorriso nascosto sotto i baffi, che percorre tutto il titolo. Non è il solo esemplare di messaggio nascosto fra le righe, in Balzac.

  L’ardente ed esplicita proclamazione d’amore così formulata, come invito a concludere al più presto le nozze, era però un mezzo pericoloso in ragione della sua stessa intensità. La contessa Hanska era sempre piuttosto suscettibile e permalosa, e si era risentita del fatto che il personaggio che la rappresenta in Modeste Mignon riceve un certo particolare rimprovero dal proprio padre, tanto che il Balzac fu costretto a scriverle: «Maintenant, il faut bien vous dire que vous m’avez fait bien du chagrin e voyant quoi que ce soit de personnel dans la gronderie du père à la fille!» (Lettres, 26 juin-15 juillet 1844). Questa volta avrebbe potuto indisporsi gravemente, e con maggior ragione, per esser stata rammentata con un personaggio così equivoco come Atala Judici, e in un episodio troppo scopertamente allusivo a una relazione intima, che poteva se non altro porla in imbarazzo di fronte ad Anna, a Giorgio, un po’ più maturo e certo più esperto della sposa, forse più scienziato e naturalista che lion mondano dalla facile indulgenza, dotato inoltre di un carattere non sempre accomodante (Lettres, 17 janvier 1846), poiché entrambi avevano famigliare quel suo nomignolo di Atala. I due giovani conoscevano da molto tempo le aspirazioni del Balzac, ma probabilmente avevano ignorato più di un particolare ascoso di quello straordinario, interminabile romanzo. Essi parevano allora molto affezionati al Balzac, ma potevano ora mettersi a vedere in lui un avventuriero che cercasse di forzare una situazione, e non mancava certo nella cerchia famigliare chi fosse disposto a suggerire questo giudizio.

  Se la trovata del Balzac fosse però stata presa in mala parte, era già pronto il rimedio: egli aveva in realtà ravvisato nella sua «Ève-bien aimée» la nobilissima, splendida figura della madre di Cecilia, applicandone l’aspetto ad Atala Judici perché era la sola figura femminile disponibile, essendo meno impegnata quel momento delle altre da caratterizzazioni particolari, ed egli non riusciva più a trattenersi dal gridare al mondo in quel momento il proprio sentire.

  L’allusione manzoniana e il richiamo che ne consegue salvava la realtà della situazione.

  Questa derivazione dal Manzoni è dunque un elemento costitutivo essenziale e necessario, volontariamente lasciato riconoscibile.

  Comprendiamo ora perché in Cousine Bette sia stato introdotto il particolare, assolutamente superfluo nell’economia del racconto, di una ascendenza lombarda e di un aspetto milanese in Atala Judici, introdotto con elementi arbitrari e artificiosi. Balzac vi calca la mano in modo sempre più incisivo e pesante: l’aspetto da ragine (sic) è visibile, l’ha visto proprio lui, anche nelle ragazze di condizione più modesta, quando passeggiava per Milano. [...].

  Se Evelina, o magari Anna o Giorgio, avesse avuto dei dubbi sul significato di questa evocazione, cioè sul contenuto manzoniano di essa e sul suo nobile significato, poteva rivolgersi per avere una certezza ad un’autorità indiscutibile come quella della persona stessa alla quale Balzac aveva dedicato i Parents pauvres mentre li stava ancora scrivendo: «don Michele Angelo Cajetani, prince de Téano». [...].

  Il Balzac lo aveva conosciuto a Roma nel marzo-aprile 1846 durante il secondo viaggio che fece in Italia per raggiungervi la contessa, Anna, Giorgio. Anzi il Gigli, che però ignora la parentela con la contessa e che Balzac fosse già certo prima della partenza di incontrare il Caetani (Lettres, 7 mars 1846), precisa che il Balzac lo conobbe in occasione di illustrazioni dantesche che il Caetani teneva a Palazzo Farnese, e che lo ebbe a guida preziosa in giri artistici come la visita alle Terme di Caracalla (Gigli: op. cit.). Il Balzac, come appare dalla bella dedica dei Parents pauvres, un dono regale che faceva al suo principesco amico, e dalle menzioni nelle lettere alla contessa, teneva moltissima all’amicizia di questo aristocraticissimo intellettuale liberale, e teneva a che fosse conosciuta dal pubblico quanto da Evelina.

  Evidentemente a un tal personaggio di alta cultura non si potevano sottoporre interpretazioni manzoniane arbitrarie, ed Evelina poteva quindi esser sicura che la sua evocazione con un ricordo manzoniano costituiva un onorevole elogio per lei: ...vera incessu patuit dea. [...].

  L’evocazione della contessa Hanska col mezzo di Atala Judici non è mai stata riconosciuta fin’ora. [...].

  Insigni studiosi [...] sono recentemente giunti alla soglia dell’identificazione di una persona reale in questa figura, senza [...]: 1) aver riconosciuto una reminiscenza materiale manzoniana nel ritratto di Atala, e questo è già stato fatto da qualcuno, ma solamente in Italia; 2) aver trovato altre reminiscenze manzoniane in Balzac, anche nella stessa opera, [...] e questo vien fatto oggi per la prima volta; 3) aver constatato che queste ultime reminiscenze sono perfettamente congrue al testo nel quale sono introdotte; 4) notare insieme che la prima era invece eterogenea e artificiosa; 5) osservare le possibilità nobilitanti connesse con l’introduzione di questo elemento estraneo.

  Come è stato già detto, le opere di Balzac contengono altre reminiscenze di Manzoni.

  Infatti in Cousine Bette prima di Atala abbiamo incontrato un signor Rivet, fabbricante di passamanerie d’oro e d’argento, quell’oro marziale e quell’oro pretorio di cui vi fu un profluvio sulle uniformi militari e civili dell’Epoca Napoleonica come notarono concordemente il Manzoni dei versi giovanili e il Balzac di La Paix du ménage (1829-1830). [...].

  Dopo il 1826 l’Europa aveva cominciato a dimenticare la peste, mettendosi a tremare per un nuovo pericolo continuo, il ripetersi delle epidemie di cholera morbus. [...].

  Il Balzac aveva sentito il misterioso problema delle origini del flagello, atto a eccitare la sua fantasia, e lo aveva proposto in una lettera al dottor Chapelain (Correspondance, mai 1832).

  Ma già prima ne aveva scritto in forma amena, probabilmente il flagello apparendo ancora lontano e poco pericoloso. Così nella Caricature del 27 ottobre 1831 comparve un Essai d’un remède contre le choléra-morbus, ove si allude all’invasione dell’Ungheria del 1826, e nello stesso periodico, il 24 aprile 1832 scrisse delle Facéties cholériques: immediatamente dopo, però, squillò il campanello della preoccupazione con la lettera al dottor Chapelain. Infatti nel 1832 vi fu anche in Francia una terribile epidemia, ricordata allusivamente in La Femme de trente ans (1828-1844). Nel 1837 il Balzac dovette sottostare a una fastidiosa quarantena a Genova, e nel 1838 ne subì un altra ad Aiaccio e una terza ad Alghero, essendo scoppiato il colera a Marsiglia, circostanze indimenticabili perché ebbero delle conseguenze per lui. Nello stesso 1838 rammentò l’alcoolismo come flagello permanente da temersi più del colera (Traité des excitants modernes). Ricordò anche la mano di calce data sugli affreschi del castello di Blois quale misura igienica ma vandalica presa in occasione del colera (Sur Catherine de Médicis, 1843). [...].

  Un ventennio dunque di un documentato vivere di Balzac, e dell’Europa in genere, sotto l’incubo del colera. Ma quando Balzac scriveva Cousine Bette sotto l’impressione delle potenti pagine manzoniane, la realtà artistica di queste soverchiò la realtà della cronaca contemporanea, e il realista Balzac ricorse alla peste, ormai così lontana dalla mente del pubblico, ma presente per lui, per creare un’immagine che gli apparisse efficace, e impiegò per essa la credenza del contagio diffuso mediante il vestiario (Promessi sposi, cap. XXXI) [...].

  Poiché La Cousine Bette è datata «août septembre 1846»; e il secondo quadro del dittico dei Parents pauvres, cioè Le Cousine (sic) Pons, è datato «juillet 1846-mai 1847», non recherà sorpresa il constatare che la lettura dei Promessi sposi che appare fatta in corrispondenza di Cousine Bette abbia potuto lasciar traccia nell’ultima parte di Cousine Pons. Infatti vi troviamo che un monumento funebre per Henri de Marsay, quale uomo politico, adorno delle figure simboliche delle «Trois Glorieuses», cioè delle tre giornate della Rivoluzione di Luglio del 1830, viene proposto per il musicista Sylvain Pons col mutare le tre figure in quelle della Musica, della Scultura, della Pittura. La vicenda, per lo meno singolare, dice il Manzoni, del monumento di don Filippo II re di Spagna e d’altri luoghi, divenuto statua di Giunio Bruto col cambio della testa e di simboli (Promessi sposi, cap. XXII).

  Altre reminiscenze dei Promessi sposi affiorano nella Comédie Humaine, in punti assai lontani [...]. Nel Corriere della Sera del 29 settembre 1932 venne pubblicato un articolo intitolato «Per non aver letto i Promessi Sposi – Un’avventura letteraria di Balzac» colla firma di Lucio d’Ambra, pseudonimo, notissimo un tempo, del brillante e garbato romanziere e giornalista Renato Manganella.

  Racconta Lucio d’Ambra, che segue le versioni tradizionali e ufficiali dei rapporti e contatti tra Manzoni e Balzac, come questi, ritornato a Milano dopo lo scoppio della campagna di stampa contro di lui, per aver denigrato i Promessi sposi, ebbe a discutere di questa sua posizione verso il Manzoni con signore il cui nome non si dice, ma che si può riconoscere con assoluta certezza nella contessa Eugenia Attendolo-Bolognini, nata Vimercati, che già lesse e tradusse due brani dei Promessi sposi, dalle storie della Signora di Monza e della Peste. Il Balzac rimase molto impressionato da questa lettura, e, prima di partire da Milano, scrisse al Manzoni esprimendo il proprio rammarico per aver pronunciato una parola imprudente (secondo Tullio Dandolo egli avrebbe detto «di Manzoni che il tessuto del suo romanzo è fiacco, e che, debitore del buon successo alle attrattive dello stile, non regge alle prove d’una traduzione») ingrandita poi dal pettegolezzo, e aggiungendo: «Cara Italia! Per una parola tutta una città come Milano vi difende. Se mi aveste giudicato severamente a Parigi, anche il mio più intimo amico vi avrebbe dato ragione ...». La lettera fu consegnata col tramite della contessa Maffei. [...].

  Lucio d’Ambra non indica la data del fatto, che dovrebbe essere accaduto nel 1837, senza escludersi la possibilità di un accadimento nel 1838, che avrebbe del resto lo stesso valore. Vi si nota una straordinaria corrispondenza cronologica con altre risonanze manzoniane.

  Il Manzoni aveva descritto con ironia sommessa quanto amata il corrispondere di un «girigogolo» ch’era la firma di Ambrogio Spinola, colla chiarezza delle sue idee come espresse nel testo che aveva firmato. Il Balzac descrive invece la firma di un Gobseck che faceva tremare mezza Parigi finanziaria, riproducente con le sue linee, una bocca spalancata di pescecane, come corrispondente nell’aspetto al contenuto del testo, adombrante una minaccia inesorabile nella sua brevità, che stava sopra quella firma.

  Il girigogolo di Ambrogio Spinola sta nel Capitolo XXXIII dei Promessi sposi, un capitolo della Peste, una di quelle parti che la contessa Bolognini avrebbe letto al Balzac.

  La firma di Gobseck sta in La Femme supérieure. Balzac che nel 1837 verso la fine di aprile era a Milano e il 3 maggio era a Parigi, dice di aver cominciato il libro nel maggio, ma lo riprese nel giugno e lo condusse a termine con lavoro frenetico in un mese (Lettres, op. cit. 29 mai-8 juillet 1837). Egli scriveva dunque il libro a poche settimane da quella lettura, e sotto la vivissima impressione riportata. Ammirando l’ironica trovata del Manzoni, ne trasse il modo di riassumere fulmineamente davanti ai lettori, nella sua potenza, una figura da lui delineata molto prima (Gobseck, 1830). [...].

  Il nome della peste compare poi nel lungo romanzo epistolare Mémoires de deux jeunes mariées. [...].

  Un’ultima menzione della peste, ancora nello stesso senso figurato, ma con significato più amabile, anzi scherzoso, si trova nell’incompiuto Deputé d'Arcis, ma poiché quest’opera, nel tratto qui interessante, deriva direttamente dalle (sic) Mémoires de deux jeunes mariées per il procedimento del ritorno dei personaggi e per la struttura epistolare, è da queste che deriva la menzione, più che dalla lettura ascoltata a Milano.

Non si ravvisano altre possibili reminiscenze dei Promessi sposi nelle opere successive al 1838, e non meraviglia, attesa la limitatezza e la frammentarietà della conoscenza avuta allora da Balzac. [...].

  Bisogna arrivare ai Parents pauvres (1846-1847) per trovare altre reminiscenze, ma qui ve ne è un mazzetto. Troppe e troppo ravvicinate tra loro, per far pensare al semplice effetto di una comunanza di struttura mentale nei due scrittori [...]. Più ragionevole l’ipotesi di un’influenza estemporanea di letture recenti, lettura parziale e solo frammentaria avvenuta nel 1837 per la Femme supérieure e per le (sic) Mémoires de deux jeunes mariées, lettura integrale nel1846 per Les Parents pauvres [...].

  Non è, del resto, da ritenere impossibile che l’idea di leggere il Manzoni sia nata da conversazioni letterarie avute col Caetani, il quale sembra provasse viva simpatia per il Balzac (vedasi, per questi rapporti, in Balzac a Roma, di Raffaele De Cesare, negli Studi in onore di Carlo Pellegrini, Soc. Ed. Internazionale - Torino 1963), e certo trattò con lui di molti e svariati argomenti, oltre che di Dante. Comunque, anche nel non probabile caso di un inizio assolutamente accidentale, nel 1846 vi dovette essere, come si disse, una lettura totale dei Promessi sposi, che lasciò tracce immediate nell’opera di Balzac, come tracce aveva lasciato quella parziale del 1837 [...].

  Piuttosto pensando che l’ultima reminiscenza manzoniana sta nel finire di Cousin Pons, del maggio 1847, e che l’Initié fu composto dopo il settembre ed entro il dicembre dell’anno stesso, cioè quando il Balzac era fresco ancora della lettura dei Promessi sposi, preferiamo pensare che sia stata la traumatizzazione psicologica prodotta dalla meditazione di questa opera, colla folgorante rivelazione del perdono come supremo atto di quella carità la cui essenza egli perseguiva invano, a ridestare la sua fantasia suggerendogli un quarto filo di racconto, capace di riunire e concludere i primi tre in un’opera divenuta unitaria, più unitaria di quanto possano percepire coloro che non hanno potuto ravvisare il carattere manzoniano dell’ultimo racconto, e che rimproverano quindi all’opera tutta la sua discontinuità, e perfino una sua specie di contrasto con la Comédie humaine. [...].

 

 

  Anne Roche, Balzac, in Storia della letteratura francese, diretta da Jacques Roger e Jean-Charles Pajen. Edizione italiana a cura di Enzo Caramaschi e Corrado Rosso, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane 1971, tomo II, pp. 801-810.

 

 

  Vittorio Saltini, Balzac fra romanzo e politica, «L’Espresso», Roma, Anno XVII, 18 luglio 1971.

 

  [...]. Sarebbe tesi di Lukács, secondo Musolino [cfr. supra], che «i risultati artistici» di Balzac sono «in contraddizione ... con le tendenze ideali e morali dello scrittore», a cui «la realtà storica a tal punto si impone e prende la mano, da cancellare in lui le più forti convinzioni ideali». Musolino obbietta che gli ideali di Balzac sono invece il punto di vista che gli era necessario per rappresentare criticamente la realtà storica.

  Ma proprio questa è la tesi di Lukács! Egli ha sempre sostenuto che i grandi scrittori hanno potuto rappresentare le contraddizioni dello sviluppo storico solo facendo leva su ideali utopistici e su «illusioni storicamente necessarie». «Il superamento puramente ideale di contraddizioni che non sono superabili nella realtà si presenterà sempre come un’illusione», ha scritto Lukács proprio in un saggio su Balzac: «ma questa illusione, che accoglie contenuti ... quasi sempre più o meno reazionari, è necessaria socialmente in quanto dà fondamento all’affermazione, socialmente necessaria e progressiva, della “totalità” dello sviluppo sociale, smascherando senza riguardi tutte le atrocità e le bassezze della fase attuale dello sviluppo medesimo». Penso che in Balzac la cosa si configuri così: s’egli fosse stato (come assurdamente ha sostenuto Goldmann) un apologeta dello sviluppo borghese, la rappresentazione critica della società gli sarebbe stata impossibile, e se fosse stato un paladino del proletariato non avrebbe superato il patetismo romantico di Sue o di Hugo. Ma Balzac aveva come punto di vista un ideale di “natura” e di comunità, ch’egli sapeva mostrare nei personaggi come bisogno profondo ma schiacciato dallo sviluppo del capitalismo, sicché i suoi eroi o tradiscono i legami giovanili e s’adattano (come Rastignac e Rubempré) oppure, più spesso, soccombono nella giungla borghese (come accade anche agli eroi di Stendhal, nostalgicamente mossi dagli ideali della fase eroica, rinascimentale e napoleonica, della borghesia, quand’essi erano ormai esautorati dallo sviluppo capitalistico). Non a caso i romanzi, di Balzac sono più spesso intitolati alle vittime: non a Grandet ma a Eugenia, non a Rastignac ma a Goriot, e, a Cesare Birotteau, al curato di Tours, al cugino Pons ... Però poi Balzac interpretava quegli stessi valori anche come programmi per soluzioni politiche, proponendo che nobiltà, monarchia e chiesa affrontassero le contraddizioni del capitalismo, correggendole con riforme umanitarie ispirate a una sorta di socialismo cristiano. Queste prospettive (come poi quelle di Dostoievski pubblicista) erano illusorie e inducevano Balzac ad appoggiare i reazionari legittimisti, se pur con l’intenzione di convincerli a riforme. E quegli stessi programmi illusori, nella misura in cui furono esemplificati da Balzac anche in opere letterarie, ottenebrarono provvisoriamente il suo senso della realtà, dando luogo (come nel “Medico di campagna”) a libri falsi o mediocri. Ma nei romanzi riusciti la fedeltà a idee anche donchisciottesche e inattuali permise a Balzac di mantenere una prospettiva umanistica rivendicando il possibile inattuato, senza soccombere soggettivamente all’orrore che descriveva, come accadrà invece ai romanzieri irrazionalisti da Flaubert a Beckett. E appunto: la tesi di Lukács non è che in Balzac i romanzi colgano la verità in contrasto con le idee false dell’autore (come interpreta Musolino). Al contrario, il contrasto fra ideali e realtà è la condizione di tutto il grande realismo ottocentesco. La tesi di Lukács, e già di Engels, è invece soltanto che le speranze legittimiste e i sogni politici di Balzac erano smentiti già da ciò che Balzac stesso scopriva nei suoi romanzi quando usava i propri ideali come strumenti critico-narrativi e non li proponeva come programmi immediati.



  Patrizia Stefani, Le Dandysme de Balzac. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1971.



  Anita Vanzetto, Honoré de Balzac e Gustave Flaubert. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1971.


 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Eugenia Grandet di Honoré de Balzac. Traduzione e riduzione radiofonica di Belisario Randone. [...], Secondo programma, 12-30 aprile 1971, 15 puntate.

 

  Cfr. 1970.



Marco Stupazzoni