venerdì 17 maggio 2019



1929



 

Traduzioni.

 


  Onorato di Balzac, I Celibi II. Casa di scapolo, Milano, Fratelli Treves Editori (Tip. Treves), 1929 («Biblioteca Amena», N. 738), Nono migliaio, pp. [I-III]-287.

 

  Cfr. 1908; 1916; 1918; 1919.

 

 

  Balzac, Studi filosofici. Caterina De Medici. Traduzione di Gildo Passini, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1929 («Tutto Balzac», 18), pp. 494.

 

 Esemplata sul testo dell’edizione definitiva Furne del 1846, questa traduzione di Sur Catherine de Médicis può essere giudicata, nel complesso, corretta.

 

 

  Honoré de Balzac, Claes (sic) l’alchimista (La recherche de l’absolu). Traduzione di I. R., Milano, Edizioni “Delta” (Arti Grafiche “Amatrix”), (luglio) 1929 («Scrittori italiani e stranieri a cura di Gian Dàuli», XXXI), pp. 255.

 

  La versione italiana di questa ‘étude philosophique’ balzachiana, fondata sul testo dell’edizione definitiva Furne (1846), può ritenersi sufficientemente corretta nonostante la presenza di qualche errore di trascrizione e di interpretazione e alcune imprecisioni di traduzione del modello francese.

 Alle pp. 9-10, è presente una breve nota: Honoré de Balzac, a firma: Gli Editori che trascriveremo integralmente nella sezione: Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac, Scene della vita di campagna. I Contadini. Romanzo. Traduzione di Amilcare Locatelli, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1929 («Tutto Balzac», 17), pp. 494.

 

  L’edizione definitiva di Les Paysans è stata pubblicata nella «Revue de Paris» tra il primo aprile e il 15 giugno 1855. È probabile che il Locatelli si sia riferito per la sua traduzione italiana del romanzo balzachiano a questo modello: si tratta, a nostro avviso, di una versione piuttosto disinvolta e non sempre rigorosamente rispettosa del testo di riferimento. Non mancano altresì errori nella trascrizione di date e di nomi proprî.

 

 

  Onorato di Balzac, “Les contes drolatiques” (Le sollazzevoli historie). Prima Decina. Traduzione di Giosuè Borsi e di Fernando Palazzi. Disegni di Gustavo Rosso (Gustavino). Seconda edizione, Roma, A. F. Formíggini Editore (Modena, Tip. G. Ferraguti & C.), (febbraio) 1929 («Classici del ridere», 37), pp. IX-259.

 

  Nota dell’editore alla I edizione, pp. VII-IX.

 

  Cfr. 1920.

 

 

  Balzac, Scene della vita di campagna. Il Curato del villaggio. Romanzo. Traduzione di Amilcare Locatelli, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1929 («Tutto Balzac», 16), pp.365.

 

  Il modello di riferimento di questa traduzione di Le Curé de village è quello dell’edizione definitiva Furne del 1845. Anche per questa ‘scène de la vie de campagne’, il Locatelli, come già era avvenuto per la traduzione di Les Paysans, fornisce una versione italiana che non può certo ritenersi esemplare per correttezza e fedeltà rispetto al testo di riferimento.

 

 

  Onorato Balzac, Eugenia Grandet, Firenze, Editore Quattrini, 1929 («Il Romanzo universale. Serie per le famiglie», 53), pp. 142.

 

  Alle pp. 5-6, è presente la traduzione del Préambule des premières éditions 1833-1839: Prefazione all’edizione del 1834, in cui è clamoroso l’errore relativo alla data di composizione del testo qui trascritta: Settembre 1873 (sic).

  L’opera è suddivisa in sei capitoli (a cui segue la Conclusione) secondo il modello dell’edizione originale del romanzo (Béchet, 1833-1834). Il testo di riferimento su cui l’anonimo compilatore ha condotto la sua mediocre traduzione del capolavoro balzachiano è quello dell’edizione definitiva Furne (1843).

 

 

  O. Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo, Milano, Casa Editrice Bietti, 1929 («Biblioteca réclame», 33), pp. 252.

 

 Cfr. 1924; 1928.

 

 

  Onorato Balzac, La finta Amante, Firenze, A. Salani, Editore, 1929 («Il Romanzo per Tutti», 83), pp. 80.

 

  Questa traduzione italiana di La Fausse Maîtresse presenta una suddivisione del tutto arbitraria del testo in dieci capitoli (la prima edizione del romanzo pubblicata nel «Siècle» dal 24 al 28 dicembre 1841 conteneva una suddivisione in cinque capitoli successivamente soppressi da Balzac nell’edizione Furne del 1842): anche la qualità del testo italiano ci pare lontana dal potersi dire soddisfacente.

 

  La traduzione del romanzo di Balzac è presente alle pp. 1-25; ad essa segue: Emilio Richebourg, I Martiri del matrimonio, pp. 26-80.

 

 

  Balzac, Fisiologia del Matrimonio, Milano, Società Anonima Notari (Istituto Editoriale Italiano), 1929 («I Libri divertenti», 25), pp. 284.

 

 Siamo di fronte alla traduzione parziale e fortemente lacunosa dello studio analitico balzachiano.



  Balzac, La Forza nervosa (Balzac), «Nuova Medicina Italica. Rivista di Medicina pratica, Scienze affini e Problemi professionali», Napoli, Anno II, N. 3, Marzo 1929, pp. 205-206.


  Estratto da Splendeurs et Misères des Courtisanes.


 

  Balzac, Il notaio. (Traduzione di Roberto Braccesi), Firenze, “Nemi” (Tipografia Barbèra, Alfani e Venturi proprietari), 1929 («Bibliotechina dell’Ottocento», N. 1), pp. 59. [Con disegno di Gavarni].

 

  Struttura dell’opera:

 

  Avvertenza, pp. 5-6; Il notaio, pp. 9-58; Note, p. 59.

 

  Si tratta della traduzione, piuttosto originale e a volte discutibile del testo: Le Notaire pubblicato nel tomo secondo di: Les Français peints par eux-mêmes datato 1840.

 

 

  Onorato Balzac, Papà Goriot di Onorato Balzac. Romanzo. (Traduzione italiana di J. Girardi), Milano, Casa Editrice Sonzogno della Società An. Alberto Matarelli (Stabilimento Grafico Matarelli), (10 agosto) 1929 («Collezione Sonzogno [dei grandi autori]», N. 4), pp. 315.

 

 Cfr. 1902.



  H. de Balzac, Babbo Goriot. Scene della vita parigina [Continuazione e fine], «al Cinemà», Torino, Anno 8, N. 1 – N. 11, 6 Dicembre (sic; lege: Gennaio) – 17 Marzo 1929, pp. 12-(14)-15.


  Cfr. 1928.

 

 

  Balzac, Scene della vita politica. Un tenebroso affare. Romanzo. Un Episodio sotto il Terrore. Traduzione di Giuseppe Castelli, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1929 («Tutto Balzac», 15), pp. 371.


  Struttura dell’opera:

 

  Un tenebroso affare, pp. 7-338;

  Un Episodio sotto il Terrore, pp. 339-370.

 

  Condotta sui testi dell’edizione definitiva Furne 81846), la traduzione di queste due ‘scènes de la vie politique’ balzachiane può ritenersi, nel complesso, corretta nonostante qualche arbitrio stilistico rilevabile nella resa in lingua italiana del modello francese.

 

 


 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Collezioni, nuove edizioni, ristampe, «La Parola e il Libro. Mensile di coltura popolare», Milano, Anno XII, N. 1, Gennaio 1929, p. 27.

 

  Della nuova traduzione delle opere complete di Balzac, l’editore «Corbaccio» ha dato ultimamente alla luce tre altri volumi, il primo dei quali contiene un capolavoro conosciuto del grande scrittore, il «Cugino Pons» nella nuova traduzione di Giuseppe Castelli (in-16, p. 480, L. 9,50); gli altri due contengono opere assai meno note e per questo anche più interessanti. «L’illustre Grandissart» (sic) tradotto da Jolanda Monaco Bancivenni, mirabile ricostruzione della vita di provincia è seguito dalla «Musa di Provincia», nello stesso volume (in-16, pag. 370, L. 8). Il terzo volume, tradotto da Tiziano Ciancaglini contiene altri due romanzi appartenenti al ciclo «Scene della vita di provincia», e cioè «Pierina» e «Il curato di Tours» (in-16, p. 324, L. 7,50). Rileggendo i capolavori Balzacchiani nella nuova bella edizione integra, abbiamo potuto ammirare anche meglio le doti di esuberanza e di robustezza dello scrittore, la sua profonda penetrazione, il suo quadro vigoroso e insuperabile della vita borghese. Il quarto «Luigi Lambert» (in-16, p. 340, L. 7,50) è uno studio filosofico.

 

 

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 48, 24 Febbraio 1929, p. 3.

 

  Come e quanto leggono quelli che scrivono? Il Mezzogiorno ha compiuto un’inchiesta, nel passato e nel presente, dalla quale è risultato che Giorgio Byron leggeva pochissimo. Victor Hugo moltissimo. Onorato Balzac, occupato invece a scrivere giorno e notte, non aveva tempo nemmeno di guardare i libri inviatigli in omaggio che si accatastavano nel suo studio donde emigravano, nei giorni di dura bolletta, verso i rivenduglioli che li acquistavano in blocco.



 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CLXXXVII, N. 99, 4 Aprile 1929, pag. III.

 

 La questione tanto dibattuta dei quadri, attribuiti a Murillo, a Tintoretto — scrive il Temps — prova come i collezionisti molte volte vengono ingannati. E ciò perché, ai tempi nostri, molti mancano di quella coltura storica ed artistica indispensabile per riconoscere l’autenticità degli oggetti d’arte. Un tempo le collezioni erano la particolarità di un piccolo numero di persone di gusto e di elevata coltura. Prima del 1850 gli oggetti d’arte erano una materia così poco conosciuta, che, quando nel romanzo di Balzac Il cugino Pons offre a sua cugina, la signora de Marville, moglie del presidente alla Corte reale di Parigi, un ventaglio della Pompadour, dipinto da Watteau, essa lo interrompe dicendogli: «Ma come sapete che è di Wat ... como avete detto?» Balzac si burla dell’ignoranza della signora de Marville, ma lui dal canto suo, prendeva Watteau per un contemporaneo del Regno di Luigi XV e non sapeva che il celebre pittore delle forosette moriva il giorno stesso che la Pompadour vedeva la luce. [...]. Dove trovare adesso quei collezionisti della prima metà del secolo scorso che riuscivano a riunire come il famoso Cugino Pons di Balzac, un Sebastiano del Piombo, un Bartolomeo della Porta, un Durer, un Rubens, un Van Dyck ecc.? [...].



 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CLXXXVII, N. 94, 9 Aprile 1929, pag. III.

 

 Il dott. Nacquart, un medico e scienziato molto noto, che fu presidente dell’Accademia di medicina dl Parigi, e che ha lasciato dei dotti libri, fra i quali un «Trattato della nuova fisiologia del cervello» fu lo amico di Balzac, il quale gli dedicò «Il giglio della (sic) valle». Ora — scrive il «Figaro» — da Marcello Bouteron storiografo è stata trovata la corrispondenza di Balzac col dott. Nacquart, corredata di qualche prezioso documento. In questa geniale corrispondenza si riflettono tutti gli aspetti di una amicizia che durante più di trent’anni non si smentì un momento. Il medico ammirava il suo illustre cliente, ma si permetteva di rivolgergli delle osservazioni critiche per incoraggiarlo a salire sempre più in alto. Il dottore con una abnegazione perfetta, gli curava tanto lo spirito che il corpo, e per assicurargli la libertà dello spirito, egli si sforzava di rimediare a questi imbarazzi finanziari, di cui troppo spesso soffriva l’illustre scrittore. Una volta per sempre il dottore lo aveva invitato ad attingere alla sua borsa. Balzac usava del permesso e non faceva troppe formalità. Se sul tavolo dello scrittore piombava la lettera minacciosa di un creditore, o l’annuncio di una cambiale in scadenza, egli metteva da parte le pagine del romanzo incominciate e scriveva in fretta un biglietto che il suo servo recava al buon dottore: «Sono inchiodato in casa da uno spaventevole raffreddore, ed ho un lavoro da bue. Se voi non potete darmi 550 franchi, di cui ho grande bisogno. abbiate almeno la compiacenza di rimetterne 350 al mio servo che deve fare un pagamento per conto mio». Il dottore rimetteva 500 franchi e scriveva al suo cliente: «Guarite dal vostro raffreddore e rientrate nella vostra integrità organica perfetta. E’ il voto di un medico che crede all’equilibrio del fisico e del morale. Ora, le preoccupazioni di denaro indeboliscono ad un tempo il morale ed il fisico».

 

 

  Libri d’arte. Brustolon, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 107, 4 Maggio 1929, p. 3.

 

  Lo scultore in legno Andrea Brustolon (1662-1732), celebratissimo a Venezia nei diciassett’anni che vi rimase, an cora sui primi decenni dell’Ottocento godeva in Italia e fuori di tanta fama che Balzac, menzionandolo nel suo «Cousin Pons», lo chiamò molto romanzescamente «le Michael-Ange de la sculpture en bois».

 

 

  Corriere teatrale. Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 113, 11 Maggio 1929, p. 5.

 

  Cerchiamo di passare brevemente in rassegna i film più interessanti comparsi in questa e nella scorsa settimana nei cinematografi milanesi.

  Bisogna nominare Vautrin per rispetto di Wegener, l’indimenticabile interprete di Golem: un uomo che ha dato al cinematografo, quando era ancora quasi del tutto da fare, la sua fede, la sua arte, la sua maschera possente, e anche il suo denaro, e questo lo ha perso; però tutto il resto gli è rimasto.

  Il film doveva essere una trasposizione, in scenario contemporaneo, dell’«Ultima incarnazione di Vautrin», che è il bisnonno di tutto il romanzo poliziesco moderno, da Conan Doyle a Edgar Wallace. Ma, fuori di Wegener, veramente non si può dire che gli altri facciano, come Balzac soleva dire dei suoi personaggi, «concorrenza allo stato civile». La fattura del solito medio stile tedesco, preciso ma un po duro, è senza trasparenza. Niente di straordinario la fotografia.

 

 

  Veglia sugli allori, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, A. F. Formíggini, Anno Dodicesimo, N. 7, Luglio 1929, p. 214.

 

  Cfr., in questa sezione, C. M., Notiziario, «La Rassegna».

 

 

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 174, 22 Luglio 1929, p. 3.

 

  Sembra che l’ombrello non fosse molto usato dai nostri antenati, forse perché una volta era enorme, pesante e antiestetico. Forte di questa prevenzione generale, — scrive Il Regime Fascista, — un industriale parigino verso il 1769, creò «il parapioggia pubblico». I parapioggia erano depositati in determinate botteghe: si versava uno scudo per cauzione e lo strumento veniva ceduto in affitto per sei soldi. Ma gli affittavoli di parapioggia non fecero fortuna. Tuttavia se Balzac ne avesse incontrato uno, non gli sarebbe capitata l’avventura, che sovente egli stesso si compiaceva dì narrare. Un giorno, sorpreso dalla pioggia per la strada, si riparò sotto un portone. A un tratto, alzando gli occhi verso la casa di fronte, vide una donna che, a intervalli, sollevava le tendine della finestra e lo guardava. Poco dopo un domestico gli si avvicinò e, a nome della sua padrona, gli consegnò un ombrello. Stupefatto, confuso, Balzac salutò la dama, sempre a metà dissimulata dietro le tendine, e si allontanò con il sorriso del vincitore. Il giorno dopo si levò, contro suo costume, di buon’ora, fece il bagno, si profumò, si mise il suo migliore abito, comperò un paio di guanti bianchi e si presentò dalla signora con un parapioggia di seta tutto nuovo, che sostituiva galantemente quello che gli era stato imprestato. La dama ricevette il visitatore, e gli spiegò candidamente i motivi che l’avevano spinta a compiere il suo atto: «Sarò franca, signore: attendevo un amico che doveva venire qui, proprio la stessa ora, in cui voi vi trovavate sotto il portone della casa di fronte. Siccome la vostra presenza là poteva essere variamente interpretata dal mio amico, vi ho mandato il parapioggia per farvi allontanare al più presto».

 

 

  Occhio sul mondo. La dieta di Balzac, «Il Secolo Illustrato. Settimanale di attualità», Milano, Anno XVIII, N. 37, 7-14 Settembre 1929, p. 2.

 

  Balzac praticava un sistema di lavoro singolare. Per parecchie settimane si chiudeva senza veder nessuno, viveva frugalmente, consumando solo un’enorme quantità di caffè e lavorava diciotto ore al giorno.

  Terminato il lavoro che si era prefisso, si offriva dei pranzi degni di Gargantua nelle trattorie più in voga. Ecco, per esempio, la lista di un pranzo al quale invitò uno dei suoi editori, dopo uno dei suoi periodi d’astinenza.

  Cento ostriche d’Ostenda, una sogliola, dodici costolette di montone, un’anatra guarnita di rape, due pernici, oltre agli antipasti, alle verdure, alla frutta — fra l’altro, dodici pere scelte — al dolce. Tutto ciò innaffiato da diverse bottiglie, e terminato con alcune tazze di caffè, alcuni liquori ...

  Indovinate ora quanto poteva costare un pranzo simile in una trattoria elegante! Oggi, coi vini, ci vorrebbero parecchie centinaia di lire: all’epoca di Luigi Filippo, il conto importava sessantadue franchi e cinquanta!

  Il più bello è che il conto, lo pagò l’editore, il quale essendo ammalato di stomaco aveva mangiato solo un’ala di pernice!

  Balzac adorava la frutta di cui faceva largo consumo. Ma soprattutto adorava il caffè: si dice che nei periodi di lavoro intenso ne consumasse fino a cento tazze al giorno.

  Bisogna dire, però, che egli preparava il caffè in modo speciale. Non lo macinava ma lo triturava: «in tal modo — egli diceva — si sbriciola in molecole che trattengono il tannino liberando l’aroma». Era quindi molto più igienico; inoltre, egli faceva spesso l’infuso a freddo.

  Quando era molto stanco, consumava una specie di essenza di caffè ottenuta così: caffè macinato, pressato, freddo e anidro (cioè senza acqua o quasi) preso a digiuno. Era, insomma, semplicemente della polvere di caffè, che gli dava un grande eccitamento che egli descrive così: «Tuto si agita, le idee si mettono in movimento come i battaglioni di un grande esercito, e la battaglia comincia. I ricordi arrivano al passo di carica, bandiere al vento; la cavalleria leggera delle similitudini si sviluppa in un magnifico galoppo; l’artiglieria della logica accorre coi suoi affusti …».

  Non è più polvere di caffè; è polvere da sparo.



 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CLXXXVII, N. 307, 3 Novembre 1929, pag. 3.

 

 Si sa che nella prima metà del secolo scorso vi era la prigione per i debiti e ai tempi di Balzac era in pieno vigore. I cattivi pagatori venivano colti all’uscita del loro domicilio da uscieri, che avevano l’ordine di rinchiuderli. Il povero e grande romanziere lo sapeva meglio di tutti. I suoi libri sono pieni di storie di questo genere. Lo sapeva tanto bene, che aveva appigionato a Passy una casa che presentava un inestimabile vantaggio. Aveva un’uscita segreta in un cortiletto, diventato poi la via Berton. Quando gli uscieri giungevano, Balzac filava per questa porta e andava a cercarsi un asilo altrove, ciò che gli conveniva di più, che di alloggiare per un tempo indeterminato nelle carceri di Clichy. Da qualche anno vi è un museo Balzac. Quattro camere modeste, cinque o sei mobili, una cinquantina di libri e un giardinetto con una porticina segreta, della quale il conservatore del Museo, un poeta, descriveva l’uso che ne faceva il grande romanziere. Come conservatore questi aveva il diritto, del quale non si valeva, di abitare nella casa di Balzac. Era scarsamente retribuito e quando venne il giorno di fare la sua dichiarazione al fisco, diede l’indirizzo della casa di Balzac. E poichè era deciso a non pagare, attese tranquillamente che si venissero a sequestrare i cinque mobili, o i cinquanta volumi del museo. L’anima di Balzac lo aveva ispirato, ma il fisco fu misteriosamente informato che il conservatore abitava altrove. Lasciò Balzac tranquillo e andò a requisire il poeta nel suo domicilio personale.

 

 

  Si cerca il proprietario di 12 milioni di lire, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 264, 5 Novembre 1929, p. 4.

 

 Londra, 4 novembre, notte.

 

  Balzac diceva che quando voleva un soggetto per un nuovo romanzo si affacciava alla finestra. Il paradosso è più vero che mai e la vita dà ancor sempre dei punti alla fantasia dei novellieri.

 

 

  La Filodrammatica del Dopolavoro, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 277, 20 Novembre 1929, p. 6.

 

  La Filodrammatica del Dopolavoro La Compagnia della Federazione provinciale delle Filodrammatiche, presieduta da Dante Signorini, rappresenterà sabato, 23 corr., alle ore 21, nel Teatro del Dopolavoro, in piazza Castello 20, sotto la direzione del prof. Rinaldo Rondolino Mercadet l’affarista, commedia in 3 atti di Onorato di Balzac Questa produzione, rappresentata per la prima volta a Parigi, al teatro Gymnase. il 9 settembre del 1851, rappresenta nella sua riesumazione quasi una novità, che la Compagnia mette in scena sempre seguendo il suo programma di diffusione di cultura; e fa sperare in un intervento di pubblico tale che ripaghi gli sforzi compiuti dai bravi filodrammatici nell’allestimento del lavoro.



 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia. Anno CLXXXVII, N. 341, 7 Dicembre 1929, pag. III.

 

 L’occhio, dicono i poeti, è lo specchio dell’anima, e Onorato di Balzac teneva certo conto di ciò nel ritrarre i numerosi personaggi della sua «Commedia umana». Per questo illustre romanziere — scrive il «Temps» — l’occhio azzurro è quello dell’uomo d’azione, sia esso chimerico o realista. Secondo lui gli occhi neri la passione. Ma quelli dalla tinta indecisa, i grigi, i verdi, i gialli, egli li presta a figure eccezionali e segnate dal destino. Così è «Michu» nel «Tenebroso affare» uomo violento, condannato per le sue colpe. «I suoi occhi giallastri e chiari offrivano come quelli della tigre, una profondità interiore, nella quale si perdeva lo sguardo di coloro che li fissavano. Luminosi, rigidi, immobili quegli occhi finivano per spaventare». Di quel colore giallastro chiaro sono pure quelli dell’usuraio «Gobseck» e del forzato «Vautrin». Gli occhi grigi, che possono illuminare anime ben diverse, in qualche caso, secondo Balzac, hanno lo stesso effetto di quelli giallastri. Così «Gilet» nella «Casa del celibe» ha degli occhi grigi, spenti che hanno qualche cosa di smarrito e di erotico. Nella «Casa del gatto che fa le fuse» il signor Guillaume, il cui volto pallido, emaciato, rivelava la pazienza, la saggezza commerciale e quella specie di astuta cupidigia che richiedono gli affari ha due piccoli occhi verdi trasparenti. Bruni e profondi sono quelli dell’«Abate Chaperon» in «Orsola Mirouet». Il viso di un uomo casto, osserva Balzac, ha qualcosa di radioso e gli occhi neri animano quel viso irregolare. Nel «Medico di campagna» il «dottor Benassis» l’amante pentito, che esita fra il suicidio e la Certosa, e che diventa il benefattore di un piccolo villaggio, ha gli occhi neri animati da uno sguardo vivo ed intelligente. Si può dire che Balzac ha il simbolismo dello sguardo e questo simbolismo è così rigoroso, che se un suo personaggio cambia di carattere, cambia nel tempo stesso il colore dell’iride.

 

 

  D. A., Diarii romani. Il palazzo che chiude le porte, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 64, 15 Marzo 1929, p. 3.

 

  I Lancellotti appartengono un poco a quelle «anime morte» che il grande Balzac descrive così magistralmente nel Cabinet des antiques.

 

 

  Paolo Arcari, La Turenna di Balzac (Appunti d’un viaggio in Francia), «L’Illustrazione Italiana», Milano, Anno LVI, N. 45, 10 novembre 1929, pp. 745-748, 12 ill.

 

  Tours e la Turenna hanno, nella Francia centrale ed occidentale, fama di spenderecce e goderecce. Da Orléans a Tours, in un tragitto di nemmeno un centinaio di chilometri, sfumerebbe — a sentire le male lingue — la leggendaria saviezza di questa nazione risparmiatrice: secondo il proverbio regionale, ad Orléans si metton da parte mezzi gli interessi, a Blois sono tutti coscienziosamente consumati, e a Tours, poi,

 

on mange les intérêts et le capital

à Tours pays de carnaval.

 

  La Turenna fu, per verità, festosa di Corti e di lettere. Fra l’Indra e la Loira, da Luigi XI ad Enrico V, re e regine di corona sono convenuti a celebri residenze di piacere di caccia di fasto: e, attorno a Tours, parlano all’ospite i loro emblemi e le loro ambizioni; frusciano, quasi, col vento delle foreste profonde, le memorie di illustri amori, di paurosi delitti, di sventure e di audaci imprese. I re delle lettere, i principi della poesia sono altrettanto costanti e propri signori del luogo. Gloria regionale di questa Toscana, di questa non mistica Siena della Francia, sono i Ronsard, i Rabelais, i Descartes; sulle rive del Cher, non lungi dalla metropoli di Turenna, si leva il ricordo d’uno dei più greci uomini dell’Ottocento, Paolo Luigi Courrier, amico delle Muse e d’Italia; il Courteline è una fama e un lutto di ieri. Ma l’ombra più grande, che prima e quasi sola si cerca, è l’ombra di Balzac, di questo grande artiere che, dalla fucina senza pace, in una temperatura d’eccitazione mortale, ha estratto alla vita la folla della Commedia umana.

  Di Turenna lui? Di Tours lui? Non avrà fatto che nascervi! Il suo legame sarà occasionale, una semplice pedanteria dello stato civile! ... Nelle vie della città vecchia e della nuova — dove ora tra le case spente, tra i caffè deserti, c’è tanto silenzio alle nove di sera in estate ed in autunno — che mortorio doveva essere un secolo fa!

  Sì, certo. Ma non per questo Tours e la Turenna sono un insignificante dato di passaporto nella vita del Balzac; perché Tours e la Turenna servono a farci comprendere ed a spiegarci l’uomo e l’opera.

 

*

 

  Già, dei cinquantadue volumi balzacchiani, parecchi ci riconducono fra questi boschi, fra questi castelli, fra questi fiumi. Il che significa qualcosa, eppur molto meno del colore del ricordo, del genere dell’ispirazione.

  Dove mi piace immaginarlo più spesso nella sua giovinezza e nei suoi ritorni è là, fermo e terzo fra le due statue — che non esistevano ancóra — del Rabelais e del Descartes, sul “ponte di pietra„ che esisteva già dal 1777 e che Onorato voleva far ammirare con linguaggio tecnico: “Questo ponte — uno dei più bei monumenti dell’architettura francese — è lungo millenovecento piedi e le due piazze che lo terminano a un capo e all’altro sono assolutamente uguali”. E là, appoggiato al parapetto, che egli, nel suo entusiasmo filiale prorompeva in vanti e confronti di panegirico. “Al par di Venezia, Tours — dirà nella Donna di trent’anni — sembra uscir dal seno delle acque”. E nella Granatiera: “Il paesaggio è altrettanto vasto che quello della baia di Napoli o del lago di Ginevra”. I fascini della laguna, dei golfi, dei laghi tutti assieme: le ginestre di Spagna, gli oleandri d’Italia e i gelsomini delle Azzorre! Quante volte, nelle stagioni del suo rapido declinare, il Balzac deve aver rimpianto, con la fede della nostalgia e della malattia, le portentose benefiche influenze della contrada tepida come le spiagge più solatie e meridionali.

  La tentazione letteraria di superare in virtuosità gli effetti del pittore, lo riconducono, sempre più innamorato, davanti alla gloria della Turenna nello splendore della primavera, nella sinfonia dei suoi tre incanti: la magnificenza della Loira maestosa, la giocondità delle scalee di vigneti, l’orrore della rupe precipite incombente sulla riva incantata. Le abitazioni dei vignaiuoli scavate nel vivo della roccia, la tenacia del coltivatore nell’appollaiare la propria casa sulla parete che si scoscende e minaccia, gli hanno serrato l’anima di un brivido indimenticabile. “Una vecchia tranquilla su un blocco di roccia franata gira il suo arcolaio sotto un mandorlo in fiore, guarda i viandanti ai suoi piedi, sorridendo del loro spavento”. Nelle ripetizioni, nelle insistenze del Balzac c’è una dimestichezza di natura estetica: anch’egli può dire con un suo personaggio di amare la Turenna “come un artista ama l’arte”.

  Ma c’è — più intima ancóra e più potente — la consuetudine dell’anima rimasta giovine al proprio sogno, il bisogno acuto di ricollocarsi, fedelmente, nella situazione istessa nella quale il sogno affluiva e si espandeva più blando più propizio più tenero. Quale compagnia quella delle nuvole bianche, che in Turenna non mancano mai, che mutano ad ogni istante, che viaggiano sempre, che si riflettono in mille incanti ineffabili! Nella uniformità degli affanni umani, il Balzac si trasmuta e ringiovanisce egli stesso per questo perpetuo ringiovanirsi della dolce Turenna. La fantasticheria è lì, è nell’aria: non c’è che da non respingerla, non c’è che da accordarsi colla temperie circostante. Lasciarsi vivere, trasformare, rinnovare, difendere. Il sogno che alita tutto attorno preserva dalla fine: “senza la Turenna forse non vivrei più”.

  Mentre è appoggiato al parapetto del “ponte di pietra„, o mentre dalle alture immediate e suggestive di Rochecorbon e di Vouvray il Balzac si immerge nella contemplazione, ecco che nella sua anima di narratore contratto e febbrile si insinua e si diffonde “uno stupore voluttuoso”.

  Che egli non abbia mai sofferto in provincia?

  Avrà conosciuto sofferenze di bimbo in una terra di ghiottonerie e di dolciumi. Avrà invidiato qualche volta quella “bruna marmellata„ di cui i suoi coetanei spalmavano felici le fette di pane della loro colazione. E una marmellata sui generis, una sorta di salsiccia senza involucro, che egli ha cura di citare con molta considerazione: “le celebri rillettes e i celebri rillons di Tours„.

  Avrà probabilmente patito del sussiego di qualche dea dell’Olimpio provinciale che egli ricorda nei suoi romanzi coi blasoni, colle parentele, colle vicende finanziarie, coi tratti atavici, come per intima e lunga conoscenza. Quei Listomère e quelle Listomère! Ritornano da per tutto, molto più di quanto appaia negli indici e nei repertori della Commedia umana. In men che non si dica ritrova il segno particolare di famiglia: “impertinente come tutte le Listomère che recano l’impertinenza allo sborsar della dote”. Avrà anche sofferto di qualche ignoranza della sua opera e del suo magistero di scrittore, avrà sbuffato di impazienza contro i provinciali arretrati, scioperati, lenti a muoversi nei pochi metri del loro recinto, incapaci di leggere e di capire l’ultimo romanzo. Una volta lo sentiamo esclamare: “Tours, una delle città meno letterarie di Francia!”.

  Ma tutto ciò non gli ha impedito di popolare le rive della Loira colle sue fantasie più confidenti: “Quando un poeta ha goduto di quelle scene di Turenna, i suoi sogni vengono spesso a ricostruirgliene favolosamente gli effetti romantici ... d’ogni parte dolci magie avvolgono l’anima, la rendono indolente, innamorata, la stemprano e la cullano”.

  Così — nel territorio dei castelli famosi, nel ritiro di Saché, fra Azay-le-Rideau e Montbazon — il Balzac sognerà, col suo sogno più intenso, l’amore di una castellana, una comunione d’anime nella assoluta lontananza dal mondo.

  Il giglio nella valle fu scritto sotto la signoria assoluta del silenzio, in una camera di dove Balzac guardava, assorto, certi grandi alberi canuti e spogli, attratto da un non so che di misterioso, dall’ombra umida di un anfratto soffice di muschi e di chenopodii.

  Il giglio nella valle è la più commemorata fra le opere che congiungono il Balzac alla Turenna: si va a Saché, nella dimora signorile che lo ospitò, si visita il salotto dove egli trascorse nelle conversazioni provinciali le pacifiche serate della buona nobiltà campagnuola, si sale e ci si arresta reverenti nella stanza da letto che era anche la stanza di lavoro, con la lampada delle lunghe veglie e con in un angolo, su un pancone, un arnese di tipografia, un trinciacarta indispensabile al fecondo e rapido riempitore di cartelle. Poi, si erra per i sentieri del valloncello solitario, mentre le signorine inglesi colgono per ricordo qualche fiore umile verso i penetrali del suo eremo prediletto. Pure non è Saché, non è Il giglio nella valle il più importante. Il più importante è che, pensando alla Turenna, il Balzac abbia scritto nella Donna di trent’anni: “Là muore più di un’ambizione; là voi vi addormentate in grembo ad una quieta felicità, così come ogni sera il sole si corica nelle sue coltri di porpora e d’azzurro”. Che abbia provato il bisogno di ripetere nella Granatiera: “Nessuno soggiorna in Turenna senza sentirvi l’atmosfera della felicità, senza comprendervi una vita tranquilla, spoglia di ambizioni e di cure”.

  “Più di un’ambizione vi muore„; “spoglia di ambizioni ...”: è in queste frasi la confessione dell’uomo. In Turenna il Balzac intravedeva una possibilità colma di benessere, di pace e di rinuncia, l’antitesi di Parigi che coltiva esaspera ed aizza tutte le ambizioni.

  L’estro lirico epico tragico del Balzac si è acceso infinitamente più e meglio udendo contemplando immaginando l’enorme metropoli tentacolare di quel che la sua vena idilliaca ed elegiaca si sia effusa nei tramonti placidi della Loira. Di Parigi lo fa trasalire già il solo brontolìo, un muggito sordo come quello dell’oceano, di un vero e proprio oceano. Gettatevi pure la sonda: non ne troverete mai la profondità! A Parigi tutti i brividi, tutto l'impreveduto, tutti i pericoli dell’esplorazione, poiché, “come in una foresta del nuovo mondo, vi si agitano venti specie di orde selvagge”. A Parigi tutti gli orgogli, tutti i monopoli e i brevetti della scoperta: ad ogni istante il grido pieno di baldanza

 

L’acqua ch’io prendo, giammai non si corse

 

  “Non c’è quartiere più orribile né più sconosciuto!” Chi non ha frequentato la riva sinistra della Senna, fra la via San Giacomo e la via-dei Santi Padri, non conosce nulla della vita umana”.  Il rapimento di meraviglie grandiose o di vegetazioni subacquee iridescenti ed arcane: “dolori che l’agglomerazione dei vizi e delle virtù rende grandi e solenni ..., “... fiori, perle, mostri ...„. Insomma, come dice un personaggio di Papà Goriot, “Parigi è Parigi”.

  Ma ecco il terribile prezzo, la gravosa taglia della smisurata capitale: Parigi e una vita spoglia di ambizioni e di affanni sono — per adoperare una espressione prediletta dal Balzac — due “asintoti che non possono mai raggiungersi”. Tutto è ambizione a Parigi, e, senza febbre d’ambizione, non c’è vita parigina.

  Ed ecco come la Turenna penetra ed agisce nella duplicità acuta del genio letterario. La Turenna fu, per il Balzac, la negazione concreta, sensibile della capitale che egli, d’altra parte, per un opposto passionale bisogno d’artista, preferiva e idoleggiava.

  In un vivido libro recente sulla Provincia, uno scrittore di molto avvenire, il Mauriac, ha affermato che è sempre stata concepita e sofferta nella oscurità della giovinezza provinciale l’opera che l’artista vittorioso compie in Parigi. Ma per il Balzac si tratta di meno e di più: al Balzac la Turenna non ha dato l’ispirazione iniziale, ma la misura iniziale. Gli ha dato la misura del tumulto: senza l'assidua memoria della calma di Turenna non avrebbe potuto inebbriarsi, come si inebbriò, delle tempeste di Parigi.

 

*

 

  Questi accasamenti e queste uguaglianze arbitrarie che l’immaginazione fa e deve fare per orientarsi per ritrovarsi per procedere, queste convenzioni e convinzioni coloristiche — a Venezia l’amore romantico, a Napoli l’amore spensierato, a Saint-Moritz la gioia di vivere, in provincia la siesta, a Parigi l’insonnia — sono soprattutto feconde nell’arte quando sono aggredite dal dubbio, quando si incrinano e si dissolvono nell'urto di una ipotesi o di una esperienza contraria.

  Allora può nascere il capolavoro. Allora dal conflitto di due opposte rappresentazioni, ecco Le curé de Tours. Che è un finissimo gioiello di assoluta perfezione. Perché il Balzac ha avuto quella curiosità del presbitero, delle vampe nell’ombra della vita ecclesiastica, che da un secolo ha addentato almeno una volta tutti i grandi intraprenditori di inchieste psicologiche? Dopo il palcoscenico, il palazzo, il penitenziario, il ridotto, la Borsa, anche la perquisizione in canonica? Secondo me la vita clericale ha interessato il Balzac non per sé — che il canonico Chapeloud, ad esempio, prenda sempre il suo caffè a letto prima d’andar in chiesa è non piccola incongruenza — ma come superlativo quintessenziato di vita provinciale. In Tours così “beota”, in Tours così ritardataria e sorpassata, il Balzac sceglie il quartiere più tralasciato e silente, il claustrale quartiere davanti dietro attorno alla cattedrale di San Gaziano. Alla magnifica cattedrale, la cui vista gli fa scivolare sulla schiena un diaccio di settentrione e di cimitero: “la grande cattedrale su cui il tempo ha gettato il proprio fosco mantello, impresso le sue rughe, deposto il suo freddo umido, le sue muffe e i suoi ciuffi verdi Sceglie una casa che non si sa se sia fuori o dentro della cattedrale, che si appiatta nel suo stesso recinto, che si curva nelle sue stesse vòlte: “una casa le cui mura sono attraversate dagli archi di sostegno di San Gaziano impiantati nel suo giardino angusto”.

  E in questa cornice di vecchia pietra gotica, in quest’angolo medievo superstite alla rivoluzione, udendo i propri passi sulle lastre corrose, sfiorate a quando a quando dalle ombre fugaci di un canonico, di una monaca, di una beghina, incredulo, atterrito, eccitato, il Balzac si domanda: — Ma come si fa a vivere qui? — Questa Tours claustrale “non può essere abitata che da creature arrivate a una nullità completa o dotate di una forza d’animo prodigiosa. “O dotate”: da questa nuova ammissione, da questo sospetto germina il racconto mirabile. Breve eppure più ricco di ampi romanzi. Le poste vi sono infime; a Parigi si giocano tenute immense, qui si disputano quattro mobili e due librerie: gli incidenti sono d’una grottesca minuzia: un candeliere spostato, un orologio messo in anticipo, il fuoco spento. Eppure, per questi incidenti, i cuori sussultano come nel sobborgo di San Germano per una cambiale, per una perdita al giuoco, per un amore colpevole. E l’essere giunti alla “nullità completa” del povero Birotteau, l’essersi spogliati d’ogni pensiero, non difende dai morsi delle creature di frode e di preda. Sotto l’impenetrabile silenzio di quella Tours monastica, il Balzac indaga arguisce indovina le fiamme pallide e velenose delle cattiverie, delle gelosie, delle vendette, le arti losche e lillipuziane delle anime acide ed implacabili. Tutto pare già tenebra e sepolcro: eppure, nel profondo silenzio mortuario, la battaglia occulta infuria, i forti si accaniscono sui deboli.

  Il vittorioso Troubert muove al suo nuovo regno, mentre il vinto, l’ingenuo disfatto Birotteau, povero cencio d’uomo, si distende al sole su una terrazza di San Sinforiano: e poco lunge da quel “ponte di pietra” — onde il Balzac scopriva orizzonti senza dolore — sta, come la più debole di tutte le vittime, come il più oppresso di tutti gli infelici.

  Anche lì dunque, anche lì nel cuore della salutare taumaturgica Turenna, non c’è altro per i vinti che attendere giustizia e riposo dalla morte.

 

 

  V. B., Romanzi e racconti. Tutto Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 182, 31 Luglio 1929, p. 3.

 

  La Casa Editrice «Corbaccio» s’è preso l'impegno di darci in italiano le opere complete di Balzac, che non è scrittore da leggere frammentariamente. Si ricordino le parole di George Sand: «Quand Balzac, trouvant enfin le mot de sa destinée, a saisi ce titre admirable et profond, — la Comédie humaine; quand, par des efforts de classement laborieux et ingénieux, il a fait de toutes le parties de son œuvre un tout logique et profond, chacune de ces parties, même les moins goûtées par nous au début, ont repris pour nous leur valeur en reprenant leur place. Chacun de ces livres est, en effet, la page d’un grand livre, lequel serait incomplet, s’il eût omis cette page importante. Le classement qu’il avait entrepris devait être l’œuvre du reste de sa vie; aussi n’est-il point parfait encore; mais, tel qu’il est, il embrasse tant d’horizons qu’il s’en faut peu qu’on ne voie le monde entier du point où il vous place».

  Il programma della «Commedia Umana», pubblicato nel 1842, comprendeva centoquarantatre opere. Due capolavori, «La Cousine Bette» e «Le Cousin Pons», non vi figuravano, ché non erano stati ancora concepiti; altri libri, una cinquantina circa, non furono mai scritti. Dei gruppi in cui l’autore li divise, le «Scene della vita militare» sono il più incompiuto: due soli Balzac ne diede: «Les Chouans» e «Une passion dans le désert». E vien fatto di domandarsi se dobbiamo proprio dolerci che questa gigantesca macchina egli non abbia potuto montarla tutta, e se, organica o viva nell’idea, la solidarietà che lega insieme le parti della sua opera non sarebbe divenuta artificiale nell’attuazione, diventando troppo geometrica e logica.

  Tutti sanno con quanta ostinazione il grande costruttore abbia tirato su, pezzo a pezzo, il suo edificio. Poche esistenze d’uomini furono consumate in un lavoro così improbo, accanito e continuo, e ne fanno fede le pagine della «Correspondence» (sic). Solo una volta, da giovine, se ne distrasse; quando s’improvvisò tipografo e libraio, con la speranza di ricavar dal commercio quei lauti profitti che invano aveva sperato dai suoi primi romanzi. L’azienda gli andò male, com’è noto, e si chiuse nel 1828 con una liquidazione disastrosa. Ma neanche i tre anni spesi nel tentativo commerciale che gli costò tanti grattacapi e l’impelagò in un mare di debiti, si possono considerare, sottratti alla enorme fatica del costruir la «Commedia Umana». Quel tuffo nella realtà, gli fu utile. Era proprio il senso della realtà che mancava al romanzo prima di lui. Egli ve lo introdusse a sue spese, portando il romanzo dal mondo libresco dei suoi predecessori nel pieno della vita. E Brunetière ha forse ragione di dire che non per aver fatto pratica d’avvocatura e di notariato, ma per aver dovuto egli stesso dibattersi tra le grinfie dei creditori, Balzac potè descrivere con tanta drammatica verità le peripezie del fallimento di César Birotteau. Così, quando in «Illusions perdues», volle ritrarre le angosce di David Léchard (sic), gli bastò ricordarsi di quelle che aveva subite lui nel tempo in cui faceva, come Davide, il mestiere di tipografo.

  Egli riuniva in sé due virtù che vanno, purtroppo, quasi sempre scompagnate: la verità dell’osservazione e il genio dell’invenzione. E a questo modo gli è riuscito, com’egli diceva, «di far concorrenza allo stato civile». Quante figure ha creato nei suoi libri? Due buoni balzacchiani, Anatole Cerfbeer e Jules Christophe, si provarono a farne il conto, e nel 1893 pubblicarono un «Répertoire de la Comédie Humaine», che contiene per ordine alfabetico, come in un dizionario, le biografie di tutti i personaggi di Balzac. A scorrerlo si è quasi stupiti del loro gran numero. I principali, Rastignac e Vautrin, Grandet e Birotteau, Claës e Papa Goriot, Gobseck e Gaudissart, la signora di Mortsauf e la signora di Lestorade, Agathe Rouget e Flore Brasier, tutti li avevamo a mente, ma non ricordavamo più che ce ne fossero tanti altri raggruppati intorno a quelli, e così vivi, se pure appena abbozzati. Balzac aveva ragiono di dirlo: è un mondo la sua «Commedia Umana». E in questo mondo siamo già entrati per buon tratto con la collezione di cui si parla (Opere complete di Balzac - Edizioni Corbaccio, Milano) di cui sono finora comparsi in quattordici volumi e a cura di diversi traduttori, le opere seguenti: Modesta Mignon, La cugina Betta, Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau, Il cugino Pons, Casa di scapolo, L’illustre Grandspart (sic), La Musa di provincia, Pierina, Il curato di Tours, Eugenia Grandet, Il giglio nella valle, Gli Sciuani, Luigi Lambert, Il medico di campagna.

 

 

  Antonio Baldini, Il centenario di una rivista illustre. Scrittori, autografi, bozze e penne, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 291, 6 Dicembre 1929, p. 3.

 

  [Su: «La Revue des Deux Mondes»].

 

  Ecco Balzaccone con una mano sul petto, che par che dica: «Son qua io e non occorre altro».

 

 

  Silvio Benco, Libri. Italo Svevo, “La novella del buon vecchio e della bella fanciulla ed altri scritti. Note introduttive di Eugenio Montale. - Morreale, Milano, 1929, Lire 10, «Pègaso. Rassegna di lettere e arti», Firenze, Felice Le Monnier Editore, Anno I, N. 8, Agosto 1929, pp. 244-249.

 

  p. 246. Quelle prime pagine del Vecchione a me paiono tra le più belle, sostanziose, esplicite e in ogni senso ben fatte che possediamo di Svevo: esse davvero mi richiamano Balzac all’incedere sicuro di vastità in vastità rigogliosamente fiorite di riflessioni: e pur s’innestano sulla vita con un piglio di racconto agile e leggero che dà ad ogni cosa un tocco di naturalezza e di verità.

 

 

  Silvio Benco, Ippolito Nievo, «Pègaso. Rassegna di lettere e arti», Firenze, Felice Le Monnier Editore, Anno I, N. 12, Dicembre 1929, pp. 667-676.

 

  pp. 671-672. Il Nievo lesse certamente molti più altri, anche se non lettore accanito: dalle estremità del Guerrazzi parve tenerlo lontano una sorta di suo aristocratico equilibrio; ma che cosa gli disse Balzac? […].

  Con quali autori, con quali libri, non furono le Confessioni paragonate? Col Guglielmo Meister di Goethe, coi Miserabili d'Hugo, con l’Éducation sentimentale di Flaubert, con La guerra e la pace di Tolstoi: e il Bacchelli vi aggiunge Gogol, e io dirò che ogni qualvolta ebbi a ritornare nella immaginosa realtà della cucina di Fratta e dei suoi abitatori, giubilai che esistesse un Balzac italiano. «Homère de Balzac» diceva Wagner. È una schiera di principi delle letterature moderne quella che si chiama a confronto, e alcuni sono addirittura posteriori al Nievo, almeno per l’opera memorata, quasi egli ne precorresse l’avvento; e sebbene la citazione di tanti autori e così diversi, basti ad ammonire della natura largamente generica di tali accostamenti, ne resta pure attestata la potenza d’impressioni molteplici per le quali l’ammirazione del lettore fu eccitata a cercare i suoi pari tra i più alti e più degni.

 

 

  Mar. Ber., Bourdelle, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 236, 3 Ottobre 1929, p. 3.

 

  Parlare di «sfumature» a proposito di quest’arte eroica che sgorga tragicamente impetuosa da un’anima primitiva, mi sembra tanto assurdo quanto parlare di delicatezze a proposito di Balzac.

 

 

  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Grazia Deledda, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 24, 27 Gennaio 1929, p. 3.

 

  Ben audace era la signorina Deledda a vent’anni; che tesseva tre, quattro trame di romanzi nello stesso libro; più il paesaggio, il brigantaggio, la stregoneria rusticana, e altri ornamenti e «bordure»; e teneva d’occhio tutta la sua città di Nuoro, e poi scorrazzava virilmente in contado, facendosi della Sardegna un vicereame narrativo, — scènes de la vie de province, — di cui sovrano invisibile, eternato, era lontanamente Balzac.

 

 

  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Il peccato originale, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 108, 5 Maggio 1929, p. 3.

 

  Strana apparizione, invero, questa di S. G. che, dal pié di pagina sbirciando in su, bonariamente si burla di Salvator Gotta inventore dei Vela! Se ai Vela e alla loro cronologia e alla giustezza del macchinario narrativo non crede egli che l’ha creati, perché ci dovrebbe credere il lettore?

  E’ che l’idea ciclica, il proposito di colorire un gran quadro esemplare dell’epoca e del costume, gareggiando quasi con la Comédie Humaine, coi Rougon-Macquart, con Jean-Christophe, è sproporzionato ed estraneo all’ingegno di questo scrittore. Se il rumor di ferraglia, lo stridore d’ingranaggi non sempre bene unti, si avverte perfino in Balzac!



  Jacques Boulanger, Sur Zeno, «Solaria. Rivista mensile di letteratura», Firenze, Anno Quarto, N. 3-4, Marzo-Aprile 1929, pp. 13-17.

 

  p. 15. Or, rien qui soit plus vivant en nous que les personnages d’Italo Svevo. Bien entendu, ils n’y existent pas à la façon des héros de Balzac ou de Dickens. Un romancier psychologue d’aujourd’hui ne tâche nullement à résumer ses personnages en quelques traits riches et en quelques couleurs saisissantes, ni à les styliser, comme faisaient les romanciers d’autrefois. Les gens qui sont nourris exclusivement de littérature ancienne font à cet art moderne des reproches parallèles à ceux que les derniers classiques faisaient chez nous à celui de Balzac, par exemple, quand l’auteur de César Birotteau prenait les admirables héros stylisées (sic) et sans chair de la littérature classique (véritables allégories d’idées), et les individualisait, et les regardait, non plus dans une atmosphère idéale, mais dans leurs milieux. Aujourd’hui, après Dostoievski, après Conrad, Meredith, Proust et beaucoup d’autres, ce sont les personnages de Balzac, de Dickens, de Zola qui nous semblent allégoriques (quoique toujours admirables: il faut le répéter, sinon les gens pressés nous reprocheraient de sacrifier tout à l’artiste dont nous parlons). Un Svevo peint ses héros avec un détail et des nuances infinis. D’autre part, il veut qu’ils évoluent, qu’ils vieillissent au cours de son livre, qu’ils changent en restant eux-mêmes, comme nous, à mesure que le temps coule et que l’expérience nous modifie dans un sens qui n’est pas toujours celui de la sagesse. Et des personnages si complexes et mouvants ne sauraieut nous laisser dans l’esprit des images nettes et simples comme ceux de Dickens ou de Balzac. Mais nous en gardons un sentiment profond, semblable à celui d’un être vivant que nous aurions bien connu.

 

 

  Robert Brussel, Corrispondenze dall’estero. Lettera da Parigi, «Musica d’oggi», Anno XI, Agosto-Settembre 1929, pp. 364-369.

 

  p. 368. All’Opéra Comique abbiamo avuto la primizia d’una commedia lirica in quattro atti La peau de chagrin, musicata da Charles Levadé, sul testo che Pierre Decourcelle e Michel Carré hanno tratto da Balzac. Tutti conoscono il racconto filosofico di quest’ultimo, in cui la magica Pelle di Zigrino dona la felicità, ma si accorcia e diminuisce a misura che il suo possessore invecchia di parecchi anni ad ogni voto esaudito.

  La partitura di Levadé ha, oggi, tutto il valore di una rivelazione. Pensate: vi si canta perdutamente! Bisogna essere grati a questo musicista che obbediente alla sua vera natura, e desideroso di esprimerla completamente, non ha avuto timore di allontanarsi deliberatamente dalle mode del giorno e di liberarsi dalla loro dispotica tirannia. Egli ha composto così un’opera tutta ammirevole, di una strumentazione leggera che sostiene bene la voce e la circonda di grazia e di fascino infinitamente seducenti. Egli ha sopratutto ottenuto il risultato di dare l’apparenza e la seduzione del lirismo ad un soggetto che nessuno credeva potesse ispirare un musicista.

 

 

  A. Calza, Notizie e commenti. Meditazioni natalizie, «Nuova Antologia. Rivista di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Soc. Nuova Antologia; Milano-Roma, Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli, Settima Serie, Volume CCXLV della Raccolta CCCXLIII, Fascicolo 1363, 1° Gennaio 1929, pp. 120-121.

 

  p. 120. Avevo visto annunziato, l’altro giorno, tra le novità librarie che ci porterà il 1929, un romanzo che ha questo curioso titolo: Una donna che aveva i capelli bianchi ...

  Oh diavolo! — ho pensato subito. O questo è un romanzo come quelli che faceva per le nostre nonne — quand’erano ragazzine — la buon’anima di madama de Ségur, e nei quali l’amore non c’entrava mai nè per diritto nè per traverso — o il romanziere che pone questo titolo al suo romanzo in un’epoca come la nostra che (se proprio non ha) ostenta così spesso il culto idolatrico della gioventù, dev’essere una specie di fossile ... letterario.

  Leggeremo, a suo tempo, il romanzo. Non senza notare però fin d’ora che, dopo tutto — e almeno da un certo punto di vista — quel titolo può essere significativo. Perché è vero che questa è l’epoca della gioventù, ma è anche l’epoca della velocità, del progresso, del movimento sempre più incalzante verso mète sempre più nuove. Ora. nel 1832 Balzac scriveva La femme de trenta ans: cinquant’anni dopo — o giù di lì — Charles de Bernard scriveva La femme de quarante ans; è dunque più che naturale che, essendo passato un altro mezzo secolo, un altro romanziere venga ora a scrivere La donna che aveva i capelli bianchi — e che dunque, presumibilmente, non aspetta più la cinquantina ...

 

 

  Guido Cantini, Il Signor Thiers, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 180, 29 Luglio 1929, p. 3.

 

  Sta bene che tra il Thiers e il balzachiano Rastignac egli [il Reclus] riconosce esservi somiglianze non soltanto esteriori; ma insomma, in questa rievocazione puro ben fatta della vita politica della Monarchia di Luglio, non si capisce bene dove cessi il pettegolezzo e cominci la critica storica. Fu o non fu Thiers amante di quella signora Dosne di cui finì con lo sposare la figlia (come Rastignac nella Maison Nucingen sposa la figlia della propria amante. Balzac nello scolpire il personaggio di Rastignac ha preso a modello Thiers e si è servito di molti fatti, più o meno veri, che a questi venivano attribuiti!). Si dirà che ai fini della storia son faccende queste da lasciare ai servi, in anticamera; ma una biografia, se vuol essere veritiera, non deve cercare di scandagliare sino in fondo l’animo del personaggio che vuol descriverci?

 

 

  Francesco Casnati, Alla ricerca di Proust, «Vita e Pensiero. Rassegna italiana di coltura», Milano, Anno XV, Vol. XX, Fascicolo IX, Settembre 1929, pp. 576-588.

 

  pp. 579-580. La rappresentazione della società parigina e delle sue evoluzioni negli anni che vanno dalla caduta del secondo Impero alla pace di Versailles, costituisce, indubbiamente, il fondo narrativo, l’armatura, dell’immenso romanzo. Dice bene Crémieux: il brassage dei gruppi sociali, il loro sorgere, mescolarsi, decadere; l’evoluzione nella durata di alcuni tipi rappresentativi; la coscienza progressiva di sè stesso posto in questo milieu e delle grandi leggi della vita che acquista il personaggio centrale, sono il «soggetto» della Rccherche. I sontuosi ricevimenti mondani descritti nel romanzo, da quello di M.me de Villeparisis a quello della principessa di Guermantes già M.me Verdurin, sarebbero «des coupes spatiales pratiquées dans la durée», specie di belvedere sulla società in via di trasformazione, su quelli che Proust chiama i «perpétuels regroupements de forces», destinate a fare apparire «les faces les plus opposées» dei caratteri e variare i punti di vista del lettore. In questo veramente egli ha rifatta la comédie humaine. Come a Balzac, nessun ceto sociale gli è stato estraneo. Diceva già in una Chronique del 1903: «Un artiste ne doit servir que la vérité et n’avoir aucun respect pour le rang. Toute condtion sociale a son intérêt et il peut être aussi curieux pour l’artiste de montrer les façons d’une reine que les habitudes d’une couturière». Infatti, nella sua opera, al «grand monde» fa contrasto il «petit clan», alla duchessa Oriana la signora Verdurin, e tutti gli stati sociali, da Françoise serva alla principessa Matilde, da Jupien al conte di Parigi, dalla «dame en rose» a Bergotte, vi sono studiati nelle loro leggi e nei loro costumi, nei loro contrasti e nelle loro reciproche reazioni e influenze. Che egli abbia voluto fare un quadro della società di mezzo secolo, da Sédan a Verdun, non c’è dubbio, e lo provano tante cose: l’importanza data nel romanzo all’affare Dreyfus, alla guerra, al dissidio fra l'aristocrazia vecchia Francia e quella bonapartista. Quante persone, da quello Swann, che si annunciava la sera nel giardino di Combray con due timidi tintinni di campanello, — ed eccolo venire nella luce incerta «coiffé à la Bressant», — alle fanciulle in fiore che sfilano sulla marina di Balbec! La nobiltà vi occupa un gran posto. Già in Les plaisirs et les jours l’autore ne aveva fatto soggetto di studio. I blasonati formicolano nel suo romanzo come in quelli di Balzac, e come Balzac egli si compiace di descrivere le feste del gran mondo, les usages, quello che Balzac chiamava le grimoire de la politesse.

 

 

  Arnaldo Cipolla, La misera città dei diamanti, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 238, 5 Ottobre 1929, p. 3.

 

  Forse soltanto il genio di Balzac sarebbe stato in grado di riprodurre nella sua interezza il dramma diamantifero di questo Paese.

 

 

  Benjamin Crémieux, Giovanni Verga et le Vérisme, in AA.VV., Studi Verghiani […]. Inchiesta sull’opera di Giovanni Verga. A cura di Lina Perroni. I, Palermo, Edizioni del Sud, 1929, pp. 36-41.

 

  p. 41. En lui [Mastro Don Gesualdo] Verga a symbolisé le peuple victorieux de l’ancien régime, la démocratie triomphant de l’ancien régime, mais l’ancien régime dans un dernier sursaut écrasant son triomphateur. On pense à Balzac, à la fois aux Paysans et au Père Goriot.

 

 

  Lucio D’Ambra, Convegno di fantasmi in casa Primoli (Giacomo Barzellotti, Edmondo De Amicis, Scarfoglio, Louis Bertrand, Carolus Duran, Robert de Flers, Jules Claretie), in Trent’anni di vita letteraria. III. Il ritorno a fil d’acqua, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1929, pp. 47-60.

 

  pp. 50-51. E poeta era veramente Giacomo Barzellotti, filosofo e professore di filosofia. Bastava, per convincersene, guardarsi attorno negli scaffali che tappezzavano di libri il suo ampio studio di via Borgognona […]. Su quelli scaffali i gravi volumi di Spinoza o di Augusto Comte, di Haeckel e di Spencer, di Taine e di Ernest Hello facevan buona compagnia ai romanzi di Dickens e di Balzac, di Stendhal e di France, di Paul Bourget e di Daudet. […].

  pp. 59-60. Ma l’uomo «che aveva visto tutto» non aveva ancóra veduto un manoscritto di Balzac. Estraendolo dalle sue più gelose custodie, un giorno Primoli, davanti a me, lo presentò d’improvviso a Claretie. Erano grandi pagine staccate d’un romanzo, tutte coperte della grossa e irregolare scrittura da improvvisatore del grande romanziere: «Balzac? ... Balzac? ... - domandò con voce commossa e occhi ansiosi Claretie. — J’ai entre mes mains un manuscrit de Balzac? ...» Non trovava parole per dire la sua profonda commozione. Sfogliando il prezioso manoscritto, Primoli intanto ci indicò su varie pagine un piccolo cerchio giallastro. E spiegò: — «Voi sapete che Balzac, per reggersi durante le sue formidabili notti di lavoro, beveva inumerevoli tazze di caffè ... Dopo averle bevute, posava le tazze sui fogli appena scritti. Ed eccone qui, in questi cerchi, i segni ...» E vidi allora Jules Claretie aver negli occhi una luce che non era più da capodivisione vecchio o nuovo stile. Vidi gli occhi dell’uomo che per nulla poteva più commuoversi riempirsi d’improvvise lacrime. Non disse nulla. I fogli ingialliti di Balzac gli tremavano nelle vecchie mani. Poi ne sollevò lentamente uno sino alle sue labbra e proprio lì, nel dischetto giallo della tazzina del caffè, come si bacia un’imagine sacra, Claretie baciò con riverenza la gloria di Balzac e la religione della letteratura.

 

 

Il conversatore notturno (Marco Ramperti), pp. 185-197.

 

  pp. 194-195. Ma una sola parola dell’autore conviene ad un racconto come la Corona di cristallo: «sbandato». Il libro, infatti, di continuo s’avvia, devia e si riavvia. La digressione è il «pezzo di bravura» del giornalista. Difetto, questo, comune a grandi maestri. Aprite Zadig: digressioni a ogni pagina. Aprite Diderot: la divagazione ad ogni passo s’allontana dal racconto e ci vuol Dio per condurvela. E Balzac? Togliete le digressioni: portate via mezza Commedia umana. E, più vicino a noi ed a Marco Ramperti, ecco Anatole France ... Un grande artista vede e crea Bergeret: ma un prodigioso giornalista lo fa parlare.

 

* * *

  Giornalismo e romanzo, se non sono nati insieme, hanno contemporaneamente fiorito. Voltaire non sdegnava la mescolanza e, nella sua persona, la confusione. È dei letterati puri del 1928 la separazione rigorosa della «storia possibile» del romanzo dalla «cronaca reale» del giornale. Oggi, invece, sovente, il giornalista non abbandona completamente il romanziere nell’ora del componimento che vuol durare più delle rose, cioè più che l’espace d’un matin o d’un giornale. Tuttavia vi sono digressioni e digressioni. Vi sono, cioè, quelle di Balzac e quelle di Tolstoi. La digressione di Balzac fa corpo col romanzo ed il romanzo procede: e la fusione significa costruzione. Costruttore a frammenti. Tolstoi invece stacca dal romanzo la meditazione e, nello stacco, il racconto si ferma. Io avvicinerei più alle prime che alle seconde le divagazioni a tema unico ed a motivo centrale della Corona di cristallo. Il racconto ci si sbanda, ma poi si raccoglie. Par che ad ogni pagina il libro divaghi; e quel che dice è invece sempre essenziale.

 

 

Il missionario della critica (G. A. Borgese), pp. 505-517.

 

  pp. 511-512. Ma le ideologie tra cui il Borgese visse la prima parte della sua vita letteraria ed umana reggono ancóra, più che una rappresentazione diretta e disinteressata della vita, questi due primi romanzi in cui l’elemento dialettico previe tuttora su la pura sensibilità dell’artista. È del Bourget, — e, prima di Balzac, — la distinzione recisa tra letteratura a tesi e letteratura d’idee. Se la prima vuole, posto un problema, piegare il racconto o la rappresentazione, snaturandoli, a dimostrarlo, la seconda pone un problema a sostegno e a commento d’una libera creazione artistica. Balzac, nel suo famoso saggio sui romanzi di Stendhal, poneva l’una contro l’altra la letteratura delle Immagini e quella delle Idee. E se alla letteratura delle Immagini ricollegava Hugo, Chateaubriand e Lamartine, a quella delle Idee assegnava, oltre che se stesso, scrittori come Stendhal, Merimée e Musset. Ma egli affermava che certe intelligenze «bifronti» vogliono contemporaneamente il lirismo e l’azione, il dramma e l’ode, credendo che la perfezione sia in una veduta totale delle cose. Codesta scuola eclettica, cui Balzac dava per supremo patrono Walter Scott, esigeva una rappresentazione del mondo così quale esso è: con le immagini e le idee, cioè con le idee nell’immagine e l’immagine nell’idea. Attraverso queste formule Balzac, senza riuscirvi, cercava di definire se stesso e non s’accorgeva d’essersi meglio e tutto definito quando affermava che ogni immagine risponde ad un’idea o, più esattamente, ad un sentimento che è una evoluzione d’idee. Con le idee di Balzac il grande romanziere creava, attraverso i sentimenti, le immagini immortali della Commedia Umana. Ma quando riconosceva che non sempre l’idea giunge ad un’immagine, Balzac non sapeva di condannar così, tra le sue meravigliose pagine eternamente vive, le sue pagine artisticamente già morte, che son quelle dove la discussione ferma il racconto e dove, estraneo alla vita delle persone, il romanziere argomenta e perora per conto suo.

 

 

  Lucio D’Ambra, Inchiesta sull’opera di Giovanni Verga, in AA.VV., Studi verghiani … cit., p. 56.

 

  L’opera di Giovanni Verga discende, tutta libera e italiana, da una sola tradizione che è quella del realismo di Balzac da cui proviene tutt’il romanzo moderno. Il Verga stesso mi ripetè più volte di considerare Balzac il maestro dei maestri e lo scrittore che più aveva agito su lui per la rivelazione artistica del suo genio narrativo e rappresentativo.

 

 

  Lucio D’Ambra, Incontro di Verga con Zola, in AA.VV., Studi verghiani … cit., pp. 76-80.

 

  p. 76. E i due scrittori siciliani [Capuana e Verga] ricominciavano a parlare, esaltandoli, di grandi nomi francesi: Balzac, Flaubert, Zola …

  p. 78. Non aveva, Giovanni Verga, teorie fermamente stabilite. E’ il segreto, questo, dei creatori immortali. Non ne aveva Balzac. Non ne aveva Manzoni.



  Dib., Specola delle Arti. La modestia dei grandi uomini, «Radiorario. Organo ufficiale dell’E.I.A.R.», Milano, Anno V, N. 44, dal 27 ottobre al 3 novembre 1929, p. 14.

 

  Onorato Balzac scriveva ad un suo amico: «Vi saranno quattro uomini celebri in questi cinquant’anni: Napoleone, Cuvier, O’Colonnel (sic), e io vorrei essere il quarto».



  F.[rancesco] Geraci, La storia sconosciuta. Un vivace incidente fra Napoleone e la Duchessa d’Abrantes (sic), «Il Regime Fascista», Cremona, Anno VIII, N. 308, 28 Dicembre 1929, p. 3.

 

  Le memorie della Duchessa d’Abrantès, moglie del fedele Maresciallo Junot, elevato più tardi alla carica di Governatore militare di Parigi, sono poco conosciute in Italia. Nel secondo volume di queste memorie che la Duchessa scrisse per consiglio del suo amico ed ammiratore entusiasta Onorato di Balzac, facciamo la conoscenza di Napoleone intimo […].

 

 

  Lorenzo Giusso, Il viandante e le statue, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1929 («Cultura contemporanea. Biblioteca di letteratura, storia e filosofia», XXV).

 

 

Oriani, eroe romantico, pp. 21-28.

 

  p. 21. Conducendo in giro per Napoli e per Roma, come studente d’Università, e poi per Bologna, teatro delle sue prime battaglie letterarie, quella sua dispettosa e solitaria superbia di eroe byroniano congiunta alla inquietante altezza del suo ingegno, egli dovette certo soffrire quelle malattie del talento ambizioso che Balzac ha così stupendamente scolpito in altorilievo nelle Illusions perdues e in Splendeurs et miséres (sic) des Courtisanes. E non solamente il feroce tormento dell’ingegno solitario, ma gli squilibri e le devastazioni del secolo ribelle dovettero avventarsi su di Lui, come una adunata di corvi sopra un pezzo di carne mana. […].

  pp. 25-26. Certo è che questi eroi pallidi e queste donne perverse ed avide di sensazioni, questi deformi e rachitici parlano un linguaggio tribunizio ed avventano feroci critiche contro la società tiranna; nelle loro inquietudini e nelle loro maledizioni si rivelano fratelli degli eroi romantici di Byron e della Sand o di Hugo, di Indiana e di Giuliano Sorel, di Gwin-plaine o di Eugenio di Rastignac. Come i titani romantici, sono delle proteste viventi e delle ribellioni personificate che squassano la fiaccola rivoluzionaria.

 

 

Il ritorno di Faust, pp. 141-148. 

 

  pp. 141-142. Che cosa vogliono i Titani e i conquistatori dalle anime oceaniche di Balzac e di Stendahl (sic), gli Eugenio de Rastignac ed i Giuliano Sorel? La conquista immediata della fortuna nella Parigi tentacolare. Crederemo noi che solo la pura bellezza agitasse i sogni immani d’un Balzac o d’un Hugo?

 

 

La letteratura dell’irrazionale, pp. 149-161.

 

  p. 152. […] e Rovetta, gonfiato in quegli anni a Balzac italiano, componeva in una florida galleria i borghesi solidi e quadrati della sua Milano. […].

  p. 157. In una parola, la letteratura da Proust in poi, s’ingegna di non fabbricare più personaggi geometrici e statici, né caratteri ad altorilievo ma intende gareggiare con la vita che fluisce mutevole, cangiante e inafferrabile: ai personaggi statici, come sono ad esempio quelli delle commedie classiche o dei romanzi di Honoré de Balzac, si studia di sostituire esseri proteiformi, personalità che si scompongono in due, o tre «io» diversi, personaggi poliedrici e policentri condotti da giuochi di azioni e reazioni misteriosi e inafferrabili come la Vita stessa.

 

 

Borgese, pp. 165-176.

 

  p. 175. […] l’opera del Borgese viene a ricordare che un’arte abbandonata al clownismo paradossale contiene in sé i germi della dissoluzione; che il puro delirio immaginifico, non sorretto da una forte architettura morale, è un’assurdità, che una letteratura di caotica fantasia non ha luogo nell’Olimpo moderno, i cui maestri, da Balzac a Dostojewsky, da Ibsen a Tolstoi, da Leopardi a Manzoni, furono tutti acuti indagatori dei fatti morali e concepirono l’uomo come totalità, e non come gioco sensuale.

 

 

  Gli Editori, Honoré de Balzac, in Honoré de Balzac, Claes l’alchimista … cit., pp. 9-10.

 

  Affermare che Balzac è uno dei colossi della letteratura rancese è ripetere un luogo comune ribadito ormai da lunghi anni della più varia e complessa evoluzione letteraria.

  Temperamento esuberante, pieno, diremmo quasi totalitario, egli ha creato un mondo, lo ha costruito nei suoi aspetti esteriori, nei suoi significati interiori, lo ha arricchito e popolato instancabilmente, prepotentemente quasi. Il suo genio ha una operosità caratteristica: assorbe continuamente d’intorno a sé tutto il nutrimento necessario al suo spirito insaziabile, lo fonde, lo plasma, lo trasforma e lo restituisce, con un ritmo che non ha sorte, in una nuova e ricreata materia d’arte.

  Gli non ha mai indugiato, non ha tentennato mai: si può dire che il suo cervello non gliene ha dato il tempo.

  L’epopea ciclica del proprio tempo gli è così sgorgata naturalmente, dopo che naturalmente egli ha visto formarsi attorno a sé, con rapida successione, i principali elementi costitutivi.

  Nato a Tours nel 1792 (sic), morto nel 1850, in così breve spazio di tempo ha potuto elevare un edificio che senza dubbio sfiderà ogni moda ed ogni trapasso. Scene della vita privata, di quella militare, della provincia, dei campi; i problemi della vita d’ogni giorno, delle sue necessità etiche («Fisiologia del matrimonio»); l’indagine storia ed estetica; ogni aspetto ed ogni piega del mondo che fu investito e colpito col lampeggiare del genio.

  Il romanzo che presentiamo [La Recherche de l’Absolu] è fra i più sottili, originali e meno conosciuti: non dubitiamo che il lettore fedele ci sarà grato della nostra fatica.

 

 

  Alberto Lumbroso, Leggenda e verità. Romanticismo e Verismo nei funerali di Balzac, «Rivista di Roma. Politica, parlamentare, sociale, artistica», Roma, Anno XXXIII, Fascicolo 17, 1 Giugno 1928, pp. 257-261.

 

  Quando l’amico Ugo Ojetti, mal celandosi dietro lo pseudonimo di «Tantalo», cercò un titolo per quei suoi attraentissimi Ricordi vari che intendeva narrare a’ lettori del Corriere, ripensò al più fortunato dei titoli victorhughiani: Choses vues: una serie di Memorie postume, uscite nel 1887, e di cui il Nencioni ebbe, in quell’anno ormai lontano oltre otto lustri, a dire che formavano «un libro di triplice importanza: storica, biografica e letteraria» e che era «il più notevole volume delle opere inedite dell’Hugo». Fra queste Choses vues, quelle che destarono nel mondo letterario il più vivo interesse, furon le pagine su «La Morte e i Funerali di Balzac».

  Pareva finora che in Choses vues l’Hugo fosse stato più spontaneo, più sincero, più veridico, più «nature» che in qualsiasi altra sua opera. Mi capita oggi fra le mani un documento che prova il contrario.

  Il 18 Agosto 1850 la signora Hugo — l’amante ormai accertata di Sainte-Beuve — che era stata a far visita in casa Balzac, entrò pallida e commossa nella stanza del poeta e gli dette la triste nuova: «Monsieur de Balzac se meurt!». E il poeta accorse subito al capezzale dell’amico agonizzante. Balzac da più di due anni era stato assalito da una ipertrofia al cuore. Nel maggio del ‘50 era tornato dalla Russia marito, ricco, e moribondo. La donna, desiderata per anni in isposa, e amante apparsagli sempre ideale, era, divenutagli moglie, la più incurante e la più fredda delle infermiere. Quando il grande poeta entrò nella camera ove stava morendo il grande romanziere (magnifico secolo francese che vide, viventi allo stesso tempo, un Lamartine, un Balzac e un Hugo!), Balzac non dava più segno nè di conoscere alcuno nè di intender parola. Una vecchia serva vegliava questo prossimo cadavere.

  «Un odore insopportabile riempiva la stanza», dice Hugo … «Sollevai la coperta e presi la mano di Balzac. Era tutta sudata. La strinsi, ma non rispose alla mia pressione … L’infermiera mi disse: – Morrà sul far del giorno! – Morì nella notte. Aveva cinquantun anni».

  Nelle parole (il Nencioni le giudica «eloquenti» nella Nuova Antologia del 1887) che il poeta disse nel cimitero del Père-Lachaise sulla tomba dell’amico, è condensato in germe, per dir così, tutto ciò che di più giusto fu poi scritto dai critici sul gran romanziere (compresa la critica de’ nostri giorni, da Brunetière e da Lemaitre a Bourget e a Strowsky, o, in Italia, a Vincenzo Morello). Ma in quel discorso di V. Hugo è poi accennato un fatto al quale la critica (toltone il Nencioni) non ha posto a bastanza mente nel giudicar Balzac: che cioè egli era un grande poeta, quanto, e forse più, che un grande realista: «Questo lavoratore potente (disse Hugo), questo poeta, questo genio, attraverso le realtà bruscamente e largamente strappate, lascia intravvedere ad un tratto il più puro od il più tragico ideale Tutti i suoi libri non formano se non un libro solo, libro vivo, profondo, luminoso, dove si vede andare e venire e camminare e muoversi, con un non so che di stralunato (effaré) e di terribile misto al reale, la nostra società contemporanea: libro che è di osservazione e di immaginazione». Giudizio confermato dal Nencioni, ma che non si ritrova negli altri critici (il Nencioni ha scritto: «Infatti in Balzac, accanto al realista, vi è non solo un poeta, ma un visionario ed un mistico»). Si può dir che Balzac, più che la vita reale, abbia descritto il suo sogno della vita. Il discorso di Hugo è bello a leggersi. A credere alle Choses vues, si penserebbe che quelle parole e tutta la cerimonia funebre, furono commoventi, indimenticabili.

  Che pia illusione! Trovo un documento contemporaneo interessantissimo in una defunta Rivista francese del 1913, Les Entretiens idéalistes, dove Charles Callet pubblicò l’inedita «Relation des funérailles de Balzac» scritta dall’avo suo Auguste Callet[1]. Quanta profonda, sincera semplicità! E qual contrasto col rettoricume della narrazione victorhughiana! Uditene un brano, il più caratteristico:

  «Quali funerali! La religione non vi è se non una pompa, una soddisfazione alle convenienze. Alla messa, nessuno prega. Durante il Dies irae, si ascolta la musica come al teatro dell’Opéra, si bisbiglia, si criticano gli scritti del defunto. Questo, calcola ciò che guadagnerà con tale morte, scrivendo la biografia dello scomparso; quest’altro, ripassa nella sua memoria il discorso, funebre che sta per spiattellare e che ha cominciato a scrivere mentre l’eroe stava agonizzando … Nessuno si chiede che cosa mai diventerà quest’anima sorpresa dalla morte in mezzo alle combinazioni di un romanzo più o meno morale ...

  Al cimitero. Discorsi. Monsieur Hugo. Lodi iperboliche; nè misura, nè chiarezza, nè emozione, nè naturalezza; scoperta dell’immortalità dell’anima; rebus.

  Monsieur Desnoyer. Pare un’appendice del Siècle. Fa sur una tomba l’apologia del romanzo. Poi fa la critica di una legge. Epigrammi. Dissertazione letteraria e politica. Acrostico.

  Un po’ di terra sulla bara, e tutto è detto.

  Ovazione a Monsieur Hugo».

  Questa pagina è degna di esser … l’ultimo capitolo della Comédie humaine.

  Che Victor Hugo fosse, a volte, un vuoto parolaio, si sapeva. Ma si sapeva, anche, come un Renan — pur negandogli il dono di capir la storia — gli avesse riconosciuto il «genio». Certo con alquanta ironia, se non mi sbaglio; poiché (in Victor Hugo au lendemain de sa mort) scrisse di lui: «Il fut un très grand homme: ce fut surtout un homme extraordinaire, vraiment unique ... Fut-il Français, Allemand, Espagnol? Il fut tout cela et quelque chose encore. Son génie est au-dessus de toutes les distinctions de race, aucune des familles de l’espèce humaine ne peut se l’attribuer» ... «Que se passera-t-il en 1985, quand le centenaire de M. Victor Hugo sera célébré à son tour? Devant les obscurités d’un avenir qui apparait fermé de toutes parts, qui oserait le dire?» E conchiude: «Ce qui est reste de Voltaire restera de M. Hugo». Cioè ... poco.

  E per Hugo, ripeto, siamo documentati. Ma per Desnoyer? Chi fu questo Carneade? Io lo conosco per dovere d’ufficio, poiché, or son molt’anni, ho fatto la Bibliografia di Napoleone II. Ed allora appresi che L. F. Ch. Desnoyer è nato ad Amiens nel 1806 e morto a Parigi nel 1858: che fu non molto originale (Callet lo aveva ben giudicato nel 1850) ma molto fecondo. Dal 1829 al 1852 è stato infatti uno dei grandi fornitori dei teatri parigini de’ boulevards. Scrisse quasi sempre in collaborazione con Beauvallet, con Eug. Nus e con Dennery (il più celebre, o il meno ignoto di tutti). Ricordo di lui Le Naufrage de la Meduse in 5 atti (1839), La Bergère des Alpes in 5 atti (1852). Dal 1841 al 1847 fu «régisseur général du Théâtre français»: poi, Direttore dell’Ambigu Comigue. Fu in questo teatro, appunto, rappresentato per la prima volta il 13 giugno 1850 Le Roi de Rome, di cui i primi due tableaux si svolgono in Francia nel 1811 e nel 1814, e i dieci ultimi in Austria dal 1828 al 1832. Fu rappresentato di nuovo il 14 agosto 1852. Il Principe – Presidente (non ancora Napoleone III) diede al dramma la sua approvazione ufficiale. Fu una delle tante manifestazioni che prepararono gli spiriti alla Restaurazione dell’Impero Napoleonico col figlio di Luigi Bonaparte e d’Ortensia Beauharnais.

  Ma che questo Desnoyer meritasse l’onore di figurare accanto a V. Hugo nella cerimonia funebre di Balzac, è un'ironia della sorte ...

 

 

  C. M., Notiziario. Letterature straniere. Balzac, «La Rassegna», Milano-Genova-Roma-Napoli, Società Editrice Dante Alighieri, Anno XXXVII, Numero 1-2, Febbraio-Aprile 1929, p. 61.

 

  A Ginevra. dall’«Albergo dell'Arco alle Acque vive», nel febbraio del 1834, Onorato Balzac licenziava al pubblico la terza ed ultima Decina dei suoi Contes Drôlatiques, con una prefazione spregiudicata e briosa. A Roma, dal Campidoglio, ove ha posto da anni la sua officina editoriale, mandava per il mondo, a farlo men triste con dei Conti ridanciani o Sollazzevoli Historie, pur quest’ultima «filza» balzacchiana, nel maggio 1928, il più allegro degli editori, A. F. Formiggini, completando, con questo terzo volume, la serie iniziata or sono anni parecchi da quello spirito d’artista pagano e d’asceta cristiano, che la morte ci ha innanzi tempo invidiato: Giosue Borsi. Alla decade attuale lavorarono traduttori esperti con intelligente diligenza, e soprattutto con buon gusto e bello stile, sapido d’arcaismi, ravvivato da locuzioni colorite, d’un realismo espressivo e pittoresco: Corrado Alvaro, Riccardo Balsamo-Crivelli, Massimo Bontempelli, Francesco Chiesa, Alessandro Donati, G. Edoardo Mottini, Alberto Neppi, Francesco Picco, Enrico Piceni, Giuseppe Zucca; la versione del Prologo è dovuta a Vincenzo Errante; quella dell’Epilogo, è di penna di Ferdinando Martini.

  E il mirabile emporio di beffe, facezie, e follie amorose, non poteva avere più schietto e polito sigillo d’arte.

 

 

  Mago da Pisa, Un moralista trascendentale, «L’eco del Cinema. Periodico cinematografico mensile», Firenze, Anno VII, N. 63, Febbraio 1929, pp. 8-9.

 

  p. 9. E chi potrebbe negare che il Cinematografo non abbia cooperato, sia pure indirettamente, all’accrescimento della popolazione? … Se avesse letto Balzac, saprebbe che spesso nel matrimonio arrivano delle lettere che non erano a noi indirizzate. E lei trova condannabile quest’azione d’impulso riproduttivo?

 

 

  Mago da Pisa, Donne! …, «L’eco del Cinema. Periodico cinematografico mensile», Firenze, Anno VII, N. 70, Settembre 1929, pp. 29-31.

 

  p. 30. Inizieremo la nostra escursione con Balzac, che scriveva: La donna è una schiava, che bisogna saper mettere sopra ad un trono. Se questa sentenza, come galanteria, può sembrare indovinata, sviscerandola, ci sembra che pecchi d’eccessiva ingenuità. Noi non abbiamo forse tutti gli elementi sufficienti per giudicare esattamente quale fosse la reale posizione della donna ai tempi di Balzac; ma, se dobbiamo giudicare dai nostri giorni, ci pare che sul trono la donna ci si sia saputa metter benissimo da sé e che in quanto alla schiavitù (salvo forse nei più bassi strati sociali) non sia il caso davvero di parlarne.

 

 

  Martelletto, In punta di penna. Il medico di Balzac, «Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo di Pisa e Provincia», Pisa, Anno XXXVII, Num. 15, 13-14 Aprile 1929, p. 1.

 

  Il Dott. Nacquart, che fu Presidente dell’Accademia di Medicina di Parigi cooperò molto al successo delle opere di Balzac di cui curava tanto lo spirito che il corpo, e per assicurarsi la libertà dello spirito, si sforzava di rimediare a quelli imbarazzi finanziari dei quali assai spesso soffriva l’illustre scrittore. Una volta per sempre il Dottore lo aveva invitato ad attingere alla sua borsa. E Balzac non so lo fece dire due volte.

  Un giorno, per un chiodo che gli urgeva, mandò a chiedere la ricetta per il raffreddore e lire 500 al suo generosissimo medico che subito le mandò con questo biglietto: «Guarite dal vostro raffreddore e rientrate nella vostra integrità organica perfetta»: è il voto di un medico che crede all’equilibrio del fisico e del morale. Ora, le preoccupazioni di denaro indeboliscono il morale ed il fisico.

 

 

  Dario Niccodemi, Tempo passato. Con 17 ritratti, Milano, Fratelli Treves Editori, 1929.

 

 

Carlo Goldoni e la sua “Commedia Umana”, pp. 21-36.

 

  p. 30. Come l’opera intera di Balzac, quella di Goldoni meriterebbe, forse, di chiamarsi la Commedia umana.

 

 

Tre salotti, pp. 116-127.

 

  Adesso mi sembra che, se anche a quell’epoca lontana mi si fosse detto ch’egli [Marcel Proust] avrebbe segnato una data memorabile nella storia letteraria de suo paese e che sarebbe divenuto un poderoso rinnovatore del romanzo e che da alcuni sarebbe stato messo nell’empireo in cui respiran gloria Saint-Simon, Balzac, Stendhal e Flaubert, forse non ne sarei stupito […].

 

 

  Ugo Ojetti, Lettera a Giovanni Papini, «Pègaso. Rassegna di lettere e arti», Firenze, Felice Le Monnier Editore, Anno I, N. I, Gennaio 1929, pp. 609-614.

 

  p. 611. E due anni fu uno scrittore il quale per essere là caro a molti letterati cattolici può darsi che sia caro anche a lei, Henri Massis, ha scritto un libretto Sull’arte del romanzo dove quella presunta contraddizione tra romanzo e opera d’arte è descritta per lungo e per largo, a cominciare dalla maligna ipotesi di Stendhal sul metodo con cui Balzac doveva scrivere i suoi romanzi, in due tempi, il primo in modo corrente e ragionevole, il secondo rivestendoli e infioccandoli con belle frasi.

 

 

  Natale Orobello, Balzac, ses types principaux et ses idées. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Economia, 1929.

 

 

  C. P., Teatri. La «Peau de Chagrin» 4 atti di Michel Carré musica di Carlo Levadé, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 97, 23 Aprile 1929, p. 3.

 

  Parigi, 22 notte.

 

  Oggi ha avuto luogo all’Opéra Comique la prova generale di Peau de Chagrin, la nuova opera del maestro Carlo Levadé, su libretto di Michel Carré, la ricavata (?) dal famosissimo romanzo di Balzac. […]. L’azione di Peau de Chagrin è troppo nota perché occorra spendere molte parole a raccontarla. Per chi se ne fosse dimenticato, diremo comunque, che la pelle di zigrino è un antico talismano recante il suggello niente meno che di Re Salomone e dotata della temibile virtù di tradurre in realtà qualunque desiderio del possessore consumandosi a misura dell’impiego che questi ne fa e consumando purtroppo simultaneamente la sua vita. Il talismano è caduto. Dio sa dopo quali vicende, in potere del vecchio Jonatas antiquario parigino, il quale un bel giorno non trova di meglio da fare se non regalarlo al giovane Raffaello De Valentine (sic) che, deluso insieme dall’amore, dalla gloria e dalla fortuna, è passato davanti alla sua bottega manifestando fierissimi propositi di suicidio. Nel consegnargli la pelle fatata Jonatas avverte naturalmente il beneficiario del dono dei pericoli che lo minacciano se non saprà farne un us0 più che moderato. Ma Valentine è troppo poeta, troppo giovane, troppo innamorato per dargli retta e non ha ancora messo la mano sulla pelle di zigrino che già si butta a concepire un desiderio dopo l’altro. Primo desiderio: la ricchezza. Ed ecco entrare in bottega un notaio che va in cerca proprio di lui per comunicargli la morte di uno zio, mai sentito nominare, che lo lascia erede di otto milioni. Secondo desiderio: l’amore. Ed ecco la carrozza della bella contessa Fedora, colei per la quale il nostro eroe spasima invano, fermarsi in seguito ad un guasto di tirelle davanti alla porta della bottega e la dama scenderne a braccio del marchese Ruspoli e farsi incontro proprio a lui, Valentine, con un sorriso. Il poeta è vestito più che modestamente ed ha ancora l’aria spettrale dell'uomo da pochi istanti strappato alle vertigini della morte. Ma — o portento del suggello di Salomone! — solo a vederlo la bella Fedora, che sino a quel giorno non lo aveva mai degnato di un (sic) sguardo, sembra diventare per lui tutta favori e grazie. Non solo; ma lo prega di offrirle il braccio e di montare seco nella carrozza, anche essa miracolosamente resa alla vita, per accompagnarla a palazzo. Raffaello non sta più in sè dalla gioia e ride sul viso al prudente Jonatas che mentre esce di bottega gli mostra uno specchio sussurrando: «Badate, avete già dei capelli grigi!».

  Il terzo atto dell'opera è l’atto dell'apogeo. Siamo nel giardino della contessa durante una festa notturna. Valentine è diventato uno dei lyons (sic)di Parigi dove non si parla se non delle sue ricchezze e del suo fasto. Ma, ahimè, Fedora non si è ancora decisa ad appartenergli. Paga di vederlo ai suoi piedi, la superba donna si fa desiderare e civetta con altri e precisamente con Ruspoli, ieri messo da parte. Veramente una ragione c’è: Ruspoli è nel fiore della gioventù: Valentine ha 30 anni e ha già l’aspetto di un uomo maturo. Ma di chi la colpa? Uno che fosse stato filosofo avrebbe capito subito che in amore non esiste talismano più infallibile della gioventù. Ma Raffaello era poeta e forse anche cattivo poeta. Alle difficoltà attraversanti la sua strada non trova se non un rimedio, sempre lo stesso: chiedere aiuto alla pelle di zigrino. E la pelle di zigrino diminuisce ... non prima però di avergli gettato tra le braccia l’oggetto di tanto amore ed ai piedi il rivale che ebbe l’imprudenza di volersi battere con lui e del quale egli non ha potuto vietarsi di desiderare la morte. Ma sono vittorie di Pirro. Quando le ha riportate il talismano non è più grande di una mano e Raffaello curvo e bianco come un vecchio di sessant’anni si vede già alla vigilia di abbandonare per incantesimo, a trent’anni, tutto quello che per incantesimo aa ottenuto. Deciso a salvarsi ad ogni costo il povero uomo rinunzia ad amori, a galanterie, a vanità e tappatosi in casa giura a se stesso di non desiderare più nulla nella speranza di prolungare almeno il triste tramonto della sua vita. Ma la sorte ce l’ha proprio con lui. Un’amica di altri tempi, la buona Paolina, che lo ha sempre amato senza avere il coraggio di dirglielo e che egli aveva trascurato per correre dietro a Fedora, viene a raggiungerlo nel suo ritiro ed a supplicarlo di lasciarla vivere al suo fianco. Chi avrebbe il coraggio di rifiutare? Certo non il povero Raffaello che di coraggio non ne ha mai avuto. I due partiranno dunque insieme per l’Italia. Sennonché proprio mentre stanno per andarsene, Fedora li raggiunge e fa a Raffaele una scena di gelosia. Paolina, che ha la disgrazia di soffrire di cuore, soccombe alla commozione. Che fa Raffaello allorché si vede tra le braccia il corpo inerte della donna morta per lui? Lo avete capito. Pronunzia un desiderio e Paolina rivive mentre egli spira in vece sua, ucciso da quella suprema strappata alla corda del proprio destino. Su questa trama fiabesca che il Carré ha riassunto opportunamente nei suoi elementi essenziali, Carlo Levadé ha scritto una musica simpatica, scorrevole, calda e spesso geniale. L’atmosfera romantica dell’opera, il costume 1830, la figura di Paolina che può fare pensare a Mimì e quella di Fedora che può fare pensare a Musette, costituiscono altrettanti piacevoli richiami pucciniani che senza togliere al lavoro nulla della sua originalità lo aiutano nondimeno a scendere al cuore di un pubblico abituato per tra dizione ormai antica a commuoversi alla Bohème.

  Sin dal primo atto la spontaneità dell’ispirazione desta fiducia all’uditorio e giustifica la sua cordiale attesa il secondo atto, ancorché rialzato dal tema della Pelle di Zigrino di sapore Hoffmaniano. resta forse al di sotto del livello che avrebbe potuto raggiungere. Ci voleva più calore e più diavoleria, soprattutto dovendo resistere ormai al confronto di quel gioiello che è la Boutique fantastique.

  Ma dalla prima nota del terzo atto all’ultima battuta del quarto l’interesse melodico non cessa viceversa di mantenersi altissimo. Il finale del terzo atto col suo bellissimo duetto fra Fedora e Raffaello è una pagina di slancio veramente fresco e passionale quale da un pezzo non ci capitava più di sentire sgorgare dalla penna di un operista francese. Ed altrettanto dicasi dei due grandi duetti del quarto atto tra Fedora e Raffaello e Paolina e Raffaello, ambedue splendidamente orchestrati come d’altronde tutto il resto del lavoro.

  Riconosciamo peraltro che l'opera è stata cantata dalle signore Sibille (Fedora) e Vera Peeters (Paolina) in modo mirabile, malgrado la tessitura altissima di queste due parti. In complesso, sia come genialità di creazione che come dignità di interpretazione, Peau du Chagrin ci pare cosa rara, uno spettacolo destinato a durare e a fare della strada. Mi dicono che vari teatri di Germania ne stiano già trattando l'acquisto.

 

 

  Giovanni Papini, Su questa letteratura, «Pègaso. Rassegna di lettere e arti», Firenze, Felice Le Monnier Editore, Anno I, N. I, Gennaio 1929, pp. 29-43.

 

  p. 39. Siamo talmente occupati dal nostro io che raramente sappiamo creare, quando siamo scrittori, esseri del tutto distinti da noi, che vivano una loro vita, con viso proprio e propria anima. Non siamo, in una parola, psicologi — e vedremo che le apparenti eccezioni non contano. In Italia, per intendersi, uno Shakespeare non è concepibile e neppure un Balzac. […].

  p. 43. Un italiano autentico, ad esempio, non arriverà mai all’esprit francese, a quell’arguta leggerezza, talvolta profonda, che rende così piacevole tanta parte di quella letteratura nè riusciremo a far romanzi che superino quelli di Balzac e di Flaubert. Ma ci dovremo, per questo, disperare?

 

 

  Arturo Parisi, Un secolo di vita della “Revue des Deux Mondes”, «Rassegna di Studi Francesi», Bari, Anno 7°, N. 6, 1929, pp. 218-224

 

  p. 221. Il Balzac prese a modelli il Planche e la Sand nella creazione del suo romanzo Béatrix. Di amici il Planche potè numerarne pochi, e di inimicizie molte. Furioso contro le mediocrità letterarie non risparmiava però biasimi e censure severe neppure ai più noti scrittori e poeti, e Lamartine, Balzac, Hugo, Musset, anche quando si levava già alto il grido della loro fama in Francia e fuori, ebbero più volte a sentire l’acuto pungolo della critica mordace e spietata di chi era il braccio forte di Buloz. Egli godette comunque una grande autorità nel giornalismo e se l’acquistò in virtù della profonda e solida erudizione, del buon senso e del sano e sobrio giudizio critico, rivelando le sue belle qualità fin dal 1831 in cui s’iniziò la sua collaborazione. Fu poi tanto temuto nella critica che lo stesso Balzac, quando nel 1836 comprò la Chronique de Paris, ne cercò la collaborazione pel timor grande di averlo avversario.

 

 

  Arturo Pedrazzoli, Storia quasi universale della Signorina, «Noi e il Mondo. Rivista mensile de “La Tribuna”», Roma, Anno XIX, N. 1, Gennaio 1929, pp. 2-10.

 

  p. 8. Malgrado i difetti di simile letteratura, la fanciulla romantica, come la Modesta Mignon del Balzac, ebbe la voglia e il tempo di leggere centinaia di volumi. La lettura fu per la signorina d’allora il primo contatto con la vita: suscitò desideri troppo alti.

  Ma, mentre le romantiche si cimentarono col sogno, le figlie delle romantiche si cimentarono con la realtà e ne ebbero la peggio.

  Alla metà del secolo XIX, alla donna fu riconosciuta universalmente una maggior libertà. Proclamata l’eguaglianza giuridica fra le razze umane, non si sapeva in qual modo giustificare la soggezione — sia pure affettuosa — nella quale si teneva la donna. Ma il giogo le fu infiorato, non tolto.

  Dopo la prima metà dell’Ottocento ecco la donna riprende animo, non si pasce più di sogni, ma lotta. La nuova letteratura incomincia a dipingere la donna qual’è. Dumas figlio, Augier, Feuillet, scrivono dei veri capolavori, ammaestrati tutti dal grande Balzac, il più vivace e fedele dipintore del suo tempo.

  L’amore trasforma le eroine di Balzac; le induce a libertà, ne fa delle ribelli. Le fanciulle di Balzac, per conquistare la libertà di amare, lottano contro la tirannia dei genitori, alla quale però in maggioranza finiscono per sottomettersi.



 Perceval [Francesco Casnati?], Ragguagli di Parnaso, «La Festa. Settimanale della famiglia italiana», Bologna, Anno VII, N. 1, 6 Gennaio 1929, pp. 25-27.

 

 p. 26. Bianca de Maj, coronata dai Trenta, ha narrato in Pagate e tacete, di intonazione tra balzachiana e verghiana, con uno sfondo di Quarantotto da oleografia, la storia di una nobildonna taccagna da disgustarne quel padre di Eugenia Grandet, che faceva i conti di cassa sui margini del giornale che gli annunciava la morte d’un congiunto.

 

 

  Concetto Pettinato, Il centenario della «Revue des Deux Mondes», «L’Illustrazione Italiana», Milano, Anno LVI, N. 52, 22 dicembre 1929, pp. 1010-1012.

 

  p. 1010. […] i “Cent’anni di vita francese„ cui la Revue des Deux Mondes ha legato il proprio nome, dai ritratti ad olio dei papi della letteratura ottocentesca — Chateaubriand, Lamartine, de Musset, Balzac, Hugo, Stendhal, Tolstoi, France, D’Annunzio — agli autografi dei libri più famosi, ai calchi in gesso delle mani che li vergarono e sin a quelle mille commoventi cianfrusaglie che tanto parlano alla fantasia del pubblico curioso : il bastone di Balzac, il calamaio di George Sand, la penna di Vittor Hugo, la babbuccia di seta verde che de Musset usava come fermacarte, il fazzoletto di Paolina Garcia, il portafogli del duca di Morny, le corone di princisbecco di Rachel. Evocare un’epoca mediante un’esposizione non è forse il solo metodo efficace per insegnare la storia a una generazione in cui tutti pretendono saperla ma nessuno si rassegna più ad impararla? Si può non aver mai letto un rigo di Balzac, ma è impossibile non farsi un’idea del personaggio al contemplarne dipinta la larga faccia gioviale da bebé Cadum e all’ammirarne al naturale le bretelle ricamate, la mazza tempestata di turchesi, il talismano, la caffettiera, la lampada da lavoro, le bozze di stampa rabescate come carte geografiche.

 

 

  Giuseppe Prezzolini, Ritorno a Rossini, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 148, 21 Giugno 1929, p. 3.

 

  Era Rossini, e con lui i suoi grandi ammiratori, Stendhal, Napoleone, Balzac.

 

 

  Carola Prosperi, Fiori di cenere, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 45, 21 Febbraio 1929, p. 3.

 

  Ritenuta [la Marquise de Castries] donna di mente superiore, si teneva al corrente del movimento politici e letterario, leggeva i giornali legittimisti e i romanzi degli scrittori in voga. Allora Balzac cominciava a furoreggiare presso le lettrici che sospiravano alzando gli occhi al cielo: «Ecco finalmente uno scrittore che eleva la donna alla sua giusta dignità e fa del suo amore una virtù celeste, un’emanazione divina ...». Balzac riceveva molte lettere di ammiratrici. Quando la carta era fine, la scrittura elegante, il profumo delicato e l’insieme rivelava la donna di mondo, raffinata, aristocratica, si turbava, si commoveva. Le grandi dame incomprese e romantiche erano il suo debole, quelle che avevano vissuto, le esperte, le disilluse, erano le donne del suo destino. La prima, Laura di Berny, aveva ventidue anni più di lui, un marito brontolone, sei o sette figli, un viso dolce e simpatico e un cuore ardente. Per lungo tempo era stata la confidente, la consigliera, la protettrice, l’amica, soprattutto l’amante, era stata la Dilecta. Per la prima aveva sentito quella fiamma divorante di vita, quel fervore impaziente di genio; a tanta sete di esperienze ella aveva donato i tesori di un passato di donna mostrato senza veli. Forse aveva creduto di attaccarsi per sempre quel cuore impetuoso, traboccante di riconoscenza. Ma ventidue anni di più! ... Venne presto il tempo di rifugiarsi nell’ombra, dietro le pesanti cortine, l’ora in cui la donna matura si vergogna di mostrare alla luce il proprio volto devastato come una rovina e si rassegna, faute, de mieux, alla parte di amica pura. Un’altra Laura le era succeduta nelle fantasticherie appassionate di Balzac, la duchessa d’Abrantès. Anche questa gli apportava un passato, e qual passato! ... Amicizie d’imperatori, passioni di principi, avventure di marescialli, tutta la corte di Napoleone. E anche qui un cuore ardente, stanco di aver amato tanto, ma non scoraggiato: Laura d'Abrantès era di quelle donne che a quarant’anni passati ricominciano sempre con le stesse illusioni e lo stesso entusiasmo. Dama di corte imperiale, certo, lei era stata, ma in che miseria, in che spoetizzanti necessità ora si trovava! ... Le sue fattezze si facevano scarnite e pronunciate, la sua voce si faceva rauca e nasale, come quella di chi fiuta tabacco. Anche lei aveva amato un Metternich, il padre, e riempito i cofanetti di lettere e di fiori secchi, ma poi i cofanetti li aveva venduti e i fiori secchi erano andati dispersi ...

  La marchesa di Castries aveva invece il suo album di ricordi a portata di mano. Quando Balzac, dietro suo invito, andò a trovarla, credette di vedere una vera gran dama per la prima volta. Quel semi cadavere elegante, pressoché immobilizzato da una paralisi crescente, avvolto in sete e in veli che celavano non solo la sua magrezza divenuta angolosa, ma anche i cerotti incollati alla pelle, gli apparve come la creatura più eterea e più misteriosa che avesse mai personificato la melanconia sorridente, il dolore velato ... Ella aveva amato, ne facevano fede i fiori disseccati nell’album che il romanziere sfogliava con mano tremante palpitando tutto d'ammirazione! Egli parlava; mai come ora si era abbandonato all’ispirazione, alla vena del suo genio travolgente come un torrente in piena, mai come ora aveva parlato del suo avvenire, con quella baldanza e quella fede che sembravano mettergli nello sguardo scintille di fuoco. La marchesa lo ascoltava sorridendo soave, esaminandolo con la abilità della donna di mondo che sa vedere senza guardare. Certo, di per se stesso egli non era amabile, piccolo grosso sanguigno, col doppio mento, il naso dalla gran punta carnosa, la bocca che parlando spruzzava saliva tra i denti mancanti ... Ma che voce calda avviluppante persuasiva, che fiamma carezzevole ardente nelle pupille vellutate, che vitalità, che calore meraviglioso entro quel personaggio tondeggiante! ... Era più divertente dei suoi romanzi e si capiva che si sarebbe innamorato con l’impeto, la passione violenta e sincera di un fanciullo. La marchesa di Castries si lasciò incensare e adorare, scambiò col romanziere le più tenere e intime confessioni, gli fece le più aspre scene di gelosia, ma ogni volta che si trattò di cedere alle sue suppliche appassionate diventò fredda e lontana. Si fece così fama di un’atroce civetta, si meritò di farsi chiamare da Balzac la «terribile marchesa» e di ispirargli la famosa Duchessa di Langeais, il tipo della seduttrice calcolatrice e fredda, che accende le passioni, se ne serve di svago e di beffa e non le soddisfa. Giustificazioni ella ne aveva. Inferma, spezzata nelle reni, destinata a una lenta morte atroce, l’amore era per lei il passato, era il dolce principe dal ben mantello azzurro ... E’ vero, che ella s’indispettì e smaniò e sofferse quando Balzac s’innamorò di un’altra, ma è noto che la gelosia è più figlia dell’amor proprio che dell’amore. Balzac stanco del suo gioco già riceveva le lettere d’una grande dama straniera che come le parigine scriveva: «Ah, finalmente ecco uno scrittore che capisco le donne! ... L’amore della donna è per voi una virtù celeste, un’emanazione divina; il mio cuore al vostro nome trasalisce ...». Questa volta si trattava d’una polacca, una specie di reclusa in un castello, in mezzo a sconfinati campi di grano, il deserto biondo dell’Ucrania. Con un marito vecchio, cinque figli di cui solo una bimba era sopravissuta, la contessa Eva Hanska non faceva che leggere Per soddisfare la sua sete di compagnia, d’avventura, d’amore. Quando dopo diciassette anni Balzac riuscì a realizzare il suo ingenuo sogno d’amore e a sposarla Eva Hanska era una donna matura, ma di una bellezza ancora inquietante. I suoi grandi occhi magnetici sotto la bellissima fronte, il mento e il naso sottili le facevano una fisionomia enigmatica sognante che i suoi contemporanei non capirono. Aveva lasciato la sua situazione eminente e la fortuna alla figlia maritata per ottenere dallo tsar il permesso di sposare uno straniero glorioso che la portava a Parigi, ma che dopo tre mesi d’agonia l'avrebbe lasciata vedova e carica di debiti. La sua riservatezza aristocratica la fece giudicare fredda e poiché sopravvisse a Balzac più di trent’anni ed ebbe altri amori e fu fino alla morte in relazione pressoché coniugale col pittore Gigoux si disse che non aveva mai corrisposto il grande romanziere e che l’aveva dimenticato. No: ma delle quattro donne mature che furono amate da Balzac e che lo amarono, ella era la sola che non avesse esperienza d’amore. Eva non aveva ancora raccolto i fiori a seccare entro l’album dei ricordi. Lo fece dopo, e scrisse sotto con la lunga mano candida le date dei giorni felici. Ora quei fiori bisogna guardarli trattenendo il respiro: cenere, polvere.

 

 

  Mario Puccini, Benedetto Croce the Critic, «Atlantica. Rivista d’Italia e d’America. A monthly review», New-York, Vol. VII, N° 3, April 1929, pp. 34-36.

 

  pp. 35-36. Certain remarks which he makes about famous writers like Sand, Zola, Dadet (sic) and Balzac, may indeed surprise us, but we cannot but recognize them as being well founded, above all those regarding Balzac. If the constructive power of this writer is undeniable, not less undeniable is the weakness of the creator, especially where his, let us sav, architectural preoccupations, hamper his inspiration. If Balzac had limited his emotions and had not multiplied them as he un-fortunately did, aiming at encyclopedic proportions, his art would have gained depth and would have lost some of its dross. But the spirit of the schoolmaster was too great and because of his prolific-ness and short life it overshadowed his more basic and essential work. According to his theory Croce does not distinguish the form from the content, but it must also be added that even where Balzac is a great creator of characters and powerful scenes (as in Cousin Pons) these is lacking a certain proportion and calmness. And his writing sometimes becomes so uneven that some of his works which, if more carefully and artistically finished would have touched sublime heights, seem slovenly and sometimes poor.

  But Croce is perhaps mistaken when he says that this fault style and lack of proportion are due “to the psychological disposition of Balzac himself to give a capricious impulse to his creations, so that his characters revolve and grow rapidly but become more and more self-centered and at times, caught in the vortex of their self-made maelstrom, they transform themselves into the opposites of what they were or reveal most unexpectedly other qualities in contradiction to and discord with the original, while their actions, as a consequence of the same maelstrom, either lose all logic or in the effort to develop the characters descend to the standards of popular serial fiction or else they come to a sudden climax and languish; and the style, which is one with those actions and those characters, falls from a natural vigor and plasticity into weakness and neglect or takes on a self-explanative tone.

  He is mistaken, for in Poe or in Beaudelaire (sic), though differently wrought and inspired, the characters revolve around them- selves and change “still more rapidly than in Balzac, and yet, because of the caution used by these artists, the result is extremely effective, even though the construction may seem less exalted and less complicated. But as a matter of fact, this is true: that seldom does Balzac attain what Croce calls the rythmic style, not because of a wrong interpretation of reality as seen in the poetic world by the writer, but because of haste and emotional turmoil. Croce is also right in not finding, in all of Balzac’s vast and substantial work, a single genuine masterpiece and in audaciously placing Manzoni’s one work before Balzac s ninety, for though he has created hundreds of characters and described hundreds of scenes and atmospheres, none of these characters or scenes approached in purity of line and esthetic severity those few created, moulded and divinely fused by our Manzoni in his immortal story.

 

 

  Marco Ramperti, Diritto d’imbecillire, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 297, 13 Dicembre 1929, p. 3.

 

  Dirò soltanto che fra 50 anni, quando il Balzac di là da venire dovrà documentare la commedia umana attuale, il rami sarà evocato nelle finzioni letterarie a figurare certa insania congiunta a certa pigrizia propria di certe zone sociali a certe ore della giornata, così come al Balzac antico, per figurare certe rimminchionate pigrizie del tempo suo, servì il gioco del domino.

 

 

  Enrico Rocca, L’opera di Stefan Zweig, «Nuova Antologia. Rivista di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Soc. Nuova Antologia; Milano-Roma, Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli, Settima Serie, Volume CCXLV della Raccolta CCCXLIII, Fascicolo 1371, 1° Maggio 1929, pp. 53-67.

 

  pp. 65-66. Nel volume Tre maestri (Drei Meister), battistrada del ciclo critico, in cui Balzac, Dickens e Dostojewski vogliono esse illustrati come tre tipi di creatori d'epopea che nel cosmo dei loro romanzi hanno suscitato una seconda realtà allato di quella già esistente, Zweig finisce per dare di quelle varie realtà l'atmosfera, il senso, il valore. […].

  Parlando di Balzac, Zweig sa comunicarci la febbre di quel fantasioso, pletorico, titanico monomane che nelle creature immaginate ha vissuto superlativamente tutte le sue brame.

 

 

  Guido Ruberti, Libri per una intera vita, «Accademie e Biblioteche d'Italia», Roma, Libreria del Littorio, Anno III, 1929, pp. 50-58.

 

  p. 55. Ricca imbandigione offre la prosa. Il magnifico sire di Balzac ci affascinerà con la sua Commedia umana, un mondo da cui non si esce tanto volontieri […].

 

 

  Italo Svevo, Profilo autobiografico di Italo Svevo, in AA.VV., Omaggio. Italo Svevo, scrittore. Italo Svevo nella sua nobile vita, Milano, Giuseppe Morreale Editore, 1929, pp. 3-16.

 

  p. 5. Lesse molto Flaubert, Daudet e Zola, ma conobbe molto di Balzac e qualche cosa di Stendhal.

 

 

  Silvio Tissi, Inchiesta sull’opera di Verga, in AA.VV., Studi verghiani … cit., pp. 69-71.

 

  pp. 69-70. Il Verga è saturo di elementi «romantici» che si innestano a un sano e saldo «volontarismo» di profondità, più che di rilievo lucido e intenso, che ferma le audacie e fissa il ritmo, quanto mai problematico, dei personaggi verghiani. Potenza di stile alla Balzac […].

 

 

  Cesco Tomaselli, La battaglia rurale in Tripolitania. La cultura delle “primizie”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 122, 22 Maggio 1929, p. 2.

 

  Quest’anno gli ambasciatori sono stati i pomodori e le patate. Un’altra volta siete pregati di non sorridere. Balzac ha scritto parecchie pagine per raccontare le trepidazioni di Cesare Birottò, profumiere parigino, alla vigilia di lanciare sul mercato i primi barattoli della sua «doppia pasta del sultani». Qui si racconta una storia di patate che fu vissuta come un romanzo.

 

 

  Oreste Trebbi, Aneddoti teatrali raccolti da Oreste Trebbi, Roma, A. F. Formíggini Editore, 1929 («Aneddotica», VIII).

 

  pp. 153-161. È noto che Balzac pensò sempre al teatro con illusioni di guadagni immediati.

  La sua condizione amarissima di eterno perseguitato dai creditori, faceva lavorare la sua potente fantasia per escogitare ogni giorno nuove imprese e nuovi progetti capaci di toglierlo una buona volta dalle strettezze finanziarie in mezzo alle quali si dibatteva e dalle quali non riuscì mai a liberarsi fino all’ultimo dei suoi giorni.

  Ma il successo teatrale gli fu sempre nemico, e solo dopo la sua morte ebbe fortuna quel suo mirabile Mercadet che, lui vivo, i comici avevano accettato solo col patto di potergli imporre tagli e modificazioni.

  Gli aneddoti su Balzac autore drammatico, sono in genere curiosi e interessanti.

  Ai primi del 1840, ad esempio, Balzac risolvette di tentare un gran colpo. Andò a trovare Harel, direttore del teatro della Porte Saint-Martin e gli propose un lavoro che doveva intitolarsi: Vautrin.

  Senza che una riga dell’opera scenica fosse ancora scritta, il grande romanziere improvvisò davanti al meravigliato Harel, ciò che sarebbe stato il suo dramma futuro, ed ottenne all’istante una sicura promessa d’accettazione.

  Appena rientrato in casa, Balzac scrisse a Teofilo Gautier pregandolo di recarsi subito da lui. Gautier accorse immediatamente e fu ricevuto con queste parole:

  – Andiamo Théo! infingardo, tardigrado, spicciatevi! Dovreste essere qui da un’ora! Leggo domani ad Harel, un dramma in cinque atti.

  — Bravo!

  — Sì, ma aspettate, questo dramma non è ancora fatto.

  — Diamine! Allora bisognerà rimetterne la lettura ad altro giorno.

  — Ma no, lo metteremo insieme stanotte —.

  È impossibile!

  — Non v’è nulla d’impossibile. Ho una scadenza grossa per dopodomani — Bisogna che la lettura abbia luogo assolutamente, per poter chiedere un anticipo, capite?

  Gautier era sbalordito.

  — Ora, riprese Balzac, ecco come accomodo le cose. Voi fate un atto, Edoardo Ourliac, un altro, Laurent Jan, il terzo, De Belloy, il quarto ed io il quinto, e noi potremo così leggere domani il lavoro come è convenuto. Un atto di dramma consta di quattro o cinquecento righe: si possono fare cinquecento righe di dialogo in una notte e in un giorno.

  — Ma infine, esclamò Gautier, avete disposto almeno il piano, conoscete i personaggi, l’azione?

  — Ah, rispose Balzac... accasciato, se avete bisogno del soggetto, non avremo mai più finito.

  Il fatto è che la lettura non ebbe luogo all’indomani, ma qualche giorno dopo.

  Del resto di tanti collaboratori non rimase a Balzac che il solo Laurent-Jan.

  Concepito e scritto rapidissimamente, il dramma fu accolto con gioia da Harel e la prima rappresentazione venne stabilita per il 14 marzo.

  Le prove durarono circa tre settimane le quali furono veramente epiche.

  Dieci, venti, cento volte Balzac dovette riprendere la penna per ridurre, rifare, ricostruire, sopprimere, allungare scene ed atti interi per secondare l’instabile umore degli interpreti.

  Intanto l’aspettativa per questo Vautrin s’andava facendo ogni giorno più intensa, tutti parlavano delle prove che diventavano via via leggendarie, e Balzac si vedeva osservato e seguito per le vie da una folla di curiosi.

  Finalmente il gran giorno arrivò.

  Balzac non s’era accontentato di stralciare dai suoi romanzi il personaggio principale del dramma, ma ne aveva creato nuovamente il tipo dal punto di vista teatrale, ingrandendone le linee e disegnando una figura che solo l’audacia e l’arte di un attore come Federico Lemaître potevano azzardare di rendere sulla scena.

  I primi tre atti passarono senza contrasto e furono trovati un po’ deboli, ma al quarto scoppiò una inaspettata tempesta. Il Lemaître, levandosi ad un certo punto il magnifico cappello di generale messicano, scoprì un toupet piramidale che costituiva una riuscitissima caricatura del re Luigi Filippo. Era un toupet fantastico ed oltraggioso e segnò il principio della catastrofe.

  Parte del pubblico rise clamorosamente, parte fischiò con rabbiosa violenza; il figlio del re lasciò il teatro sbattendo l’uscio del palco e la sala si trasformò in una bolgia infernale.

  Vautrin era ormai condannato e potè con stento giungere alla fine fra un coro ininterrotto di proteste e di imprecazioni.

  Il giorno dopo il Moniteur pubblicava il decreto d’interdizione del dramma e così, ancora una volta, le fatiche e i sogni dell’artista gigante si sperdevano e crollavano irrimediabilmente.

  Egli aveva avuto un anticipo sui suoi diritti futuri di diciassettemila cinquecento franchi. Come restituirli? Tentò d’interessare della cosa il ministro de Remusat e si recò anzi da lui, benchè febbricitante, per chiedere che l’interdizione fosse revocata.

  Per tutta risposta, una settimana dopo, ricevette la visita di Cavé, direttore delle Belle Arti, che gli portò in una busta qualche biglietto da mille.

  — Non abbiamo potuto far di meglio, egli disse.

  — Ed io, rispose Balzac, non posso accettare. Questa non è una indennità proporzionata al danno da me sofferto. Questa è una elemosina, ed io non sono un mendicante!

 

*

 

  Con tutto ciò, Balzac continuò a pensare al teatro ed a sognare milioni e per conseguenza l’anno appresso,1841, egli scrisse una nuova commedia Les ressources de Quinola.

  In quel tempo era direttore dell’Odéon, Augusto Lireux, un uomo che desiderava i lavori difficili da mettere in iscena, che si compiaceva dei colpi d’audacia, che immaginava facilmente guadagni favolosi e che era perciò il meglio adatto per accordarsi con Balzac.

  Questi gli annunciò un giorno che gli avrebbe portato un capolavoro e gli raccontò l’argomento della nuova commedia.

  — Bravo! esclamò Lireux, voi ci leggerete l’opera vostra lunedì prossimo. E infatti il lunedì seguente tutti gli artisti dell’Odéon, fra i quali era anche Maria Dorval, si trovarono pronti ad ascoltare la lettura dei cinque atti delle Ressources de Quinola.

  Balzac lesse in modo mirabile i primi quattro atti tenendo sempre viva l’attenzione degli ascoltatori che spesso mostrarono con gli applausi la loro calda ammirazione.

  Finito il quarto atto, Balzac tacque, si asciugò la fronte madida di sudore e cominciò a raccogliere il suo manoscritto.

  — E il quinto atto? chiesero tutti ad una voce.

  — Il quinto atto? Ebbene, figli miei, non l’ho ancora scritto, ma adesso ve lo racconto.

  E fra lo stupore generale, il grande scrittore, già stanco per la lettura fatta, accennò alla meglio alla conclusione del suo lavoro, lasciando nei presenti un penoso senso di delusione.

  Malgrado questa specie di disavventura, era così grande in Lireux il desiderio di rappresentare qualchecosa dell’autore del Vautrin, che egli accettò il lavoro prima che fosse compiuto e decise d’allestirne la recita nel termine di due giorni.

  Ma quando s’incominciarono le prove, Balzac disse al direttore de l’Odéon:

  — Amico mio, stavolta desidero delle innovazioni. Anzitutto voglio tutta la sala per le prime tre recite.

  — E a me che cosa resta?

  — Voi avrete la metà degli utili che saranno non già enormi, ma prodigiosi. Inoltre pretendo che non vi sia claque.

  — Ma il pourtour, gli studenti ...?

  — Non vi sarà più pourtour, più studenti. Al pourtour, staranno i cavalieri di San Luigi, nell’orchestra i pari di Francia, nelle avant-scènes, gli ambasciatori, i ministri plenipotenziari, nella seconda galleria, i deputati e grandi funzionari, nella terza galleria, la finanza.

  Lireux era inebetito.

  — E i giornalisti, dove li collocherete?

  — I giornalisti pagheranno il loro posto.

  — Voi credete che si recheranno alla dispensa dei biglietti?

  — Non vi sarà più dispensa dei biglietti.

  — Ma non è possibile!

  — Voglio dire, riprese Balzac, che i biglietti saranno acquistati presso di me. Si aprirà la dispensa solo proforma, ecco tutto.

  Temo, balbettò Lireux, che se voi non manderete ai giornalisti i posti che loro spettano ...

  — Ancora una volta, mio caro, rispose lo scrittore con autorità, l’ho fatta finita per sempre coi giornalisti. C’è fra noi guerra da selvaggi, essi vogliono scuojarmi all’usanza dei Mohicani, ed io voglio bere nel loro cranio alla maniera dei Muscogulgi.

  Poste queste condizioni, Balzac s’occupò attivamente per preparare la sala, si provvide degli indirizzi delle dame dell’aristocrazia e fissò i prezzi dei posti. Egli voleva mettere in prima fila le più belle signore di Parigi.

  Nelle sue lettere sembrava un saltimbanco che volesse accalappiare i passanti. Tutta Parigi stordita poteva ammirare Balzac divenuto venditore di biglietti e di programmi.

  Eppure egli faceva tutto questo non per avidità, ma per la paura di restare ancora una volta mistificato dagli intermediari.

  E così, spesso lasciava la prova per installarsi nell’ufficio al posto del solito impiegato. Si presentava uno per acquistare un palco:

  — Troppo tardi, rispondeva il romanziere, ho venduto l’ultimo alla Duchessa di Doudeauville.

  — Ma noi non badiamo a prezzo.

  — Per diecimila franchi non potrei darvi neanche una seggiola supplementare.

  Un simile metodo, raggiunse nei primi giorni mirabilmente lo scopo, ma essendo corsa voce che non v’erano più posti disponibili per le prime dieci recite, la curiosità pubblica diminuì. La gente pensò che era meglio lasciare passare la grande scalmana e perciò la sera della rappresentazione, contrariamente alle previsioni dell’autore, il teatro era quasi vuoto.

  Oltre a ciò, la commedia, che pure aveva delle sicure qualità per vincere la prova, fu mal recitata e gli spettatori rimasero malcontenti allorchè s’accorsero che si trattava di un lavoro in costume e non di genere moderno.

  I fischi si alternarono quindi alle facezie, ai motti triviali d’ogni sorta ed alla fine dello spettacolo il pubblico uscì cantando:

 

C’est Monsieur Balzac

qui a fait tout ce mic-mac.

 

  Quanto all’autore, nessuno l’aveva visto nella serata, e si misero perciò a cercarlo per ogni dove. Alla fine lo trovarono, ad un’ora dopo mezzanotte, sdraiato dentro un palco ove russava superbamente. E durarono gran fatica a svegliarlo e a metterlo in un fiacre per ricondurlo alla sua abitazione.

 

 

  E. V., Saggi stendhaliani. Vita di Madame di Rénal, «La Stampa», Torino, Anno 63, Num. 256, 26 Ottobre 1929, p. 3.

 

  In Rouge et Noir noi riconosciamo a fatica il tempo, la società che hanno dato tanto filo da torcere all’inchiostro di Balzac. Quell’epoca dorata giunge a noi con la leggerezza e la disinvoltura di un’epoca che potremmo aver conosciuto noi stessi, al principio dei nostri giorni, tra l’infanzia e l'adolescenza. L’aria di quella Verrières, di quella provincia, di quella Parigi mondana ci parrebbe respirabile ancor oggi; essa è ben diversa dalle pesanti aure dei capolavori romantici, da Eugénie Grandet a Sylvie.

  In Stendhal, tranne che sulle pagine evocative delle Chroniques, il romanticismo non entra nell'ordine di un mondo, di una realtà rappresentabile; la critica potrebbe tirarlo in ballo solo a proposito di una questione linguistica od estetica; che poi ha sempre pochissima importanza Per esempio, nessuno dei personaggi che si muovono sulla scena di Rouge et Noir o della Chartreuse, mostra la faccia preoccupata e pallida del figlio del secolo, così fatale, in quel tempo, agli eroi delle due letterature dominanti di Francia e Germania. Sorel, quel disgraziato Sorel che finisce sul patibolo come un qualunque protagonista di romanzo storico, è proprio lui, invece, a stabilire una concezione della vita assolutamente postuma al tempo e allo scrittore. L’ambizione, che doveva costituirne il carattere alla maniera dei soliti tipacci della Comédie Humaine, apre sulla sua anima, per la prima volta, il campo di una sottile psicologia.

 

 

  Alfredo Vanni, Hollywood. Commedia in tre atti di Alfredo Vanni, «Il Dramma. Quindicinale di commedie di grande successo», Torino, Anno V, N. 59, 1° Febbraio 1929, pp. 4-32.

 

  p. 28. Franceschina — E’ più ricco di me. Ha scritto un romanzo?

  Roberto — In otto giorni. Nemmeno Balzac!

 

 

  Orio Vergani, Nel mondo del cinematografo. L’armata del fronte europeo, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 92, 17 Aprile 1929, p. 3.

 

  Soltanto il cinematografo non ammette esami a priori. Venisse domani il più grande direttore di scena del mondo. — un Griffith, o un Cecil Brown de Mille, o un King Vidor o un Sjostrom o un Abel Gange o un Genina, tanto per nominare artisti di tutte le nazionalità, — e tentasse, con l'eloquenza di Demostene, la drammaticità di Shakespeare e la forza descrittiva di Balzac, di darci, con un racconto, una rappresentazione parlata del più bel film del mondo, nessuna autentica possibilità di giudizio si presenterebbe all’industriale che venisse invitato a dare i mezzi per la sua fabbricazione. Le garanzie sono tutte relative.

 

 

  Lorenzo Viani, Regole avanti e dopo il matrimonio, «Corriere della Sera», Milano, Anno 54, N. 231, 27 Settembre 1929, p. 3.

 

  Asseriscono i coniugati che buona regola, dopo il matrimonio, è di dor­mire a occhi aperti. Se non che un tardo discepolo dell’Ateniese, Lallo Tinto da Pisa, sentenzia: «Chi dorme ad occhi aperti li tiene chiusi quando è sveglio». Il gran dottore Onorato Balzac equilibria: «Guai a quel marito che si addormenta prima della moglie e si sveglia dopo».

 

 

 

Iconografia.

 

 

  Balzac in uno schizzo di Bertall, in Concetto Pettinato, Il centenario … cit., p. 1011.



[1] Cfr. Auguste Callet, Balzac jugé en 1850, et un croquis de ses funérailles, «Les Entretiens Idéalistes», Décembre 1912.


Marco Stupazzoni