mercoledì 31 marzo 2021



2012

 

 

 

 

Adattamenti in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Le Colonel Chabert. Adaptation, exercises et notes Olivier Beguin; révision Laurence Ollier; édition Silvie Proser, Milano, La Spiga languages; Recanati, ELI, 2012 («Lectures facilitées»), pp. 62; 1 CD audio.

 

 

 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Albert Savarus, in Donato Sperduto, Balzac, l’ambition et l’amour. Albert Savarus. Introduction de André Vanoncini, Fasano, Schena editore; Paris, Alain Baudry & Cie, 2012 («Biblioteca della Ricerca. Cultura Straniera», 160), pp. 43-147.

 

  Il curatore mantiene la suddivisione in 60 capitoli del testo sulla base dell’edizione del romanzo pubblicata ne «Le Siècle», 29 maggio-11 giugno 1842.

 

 

 

 

Edizioni bilingue.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto. Acqueforti e incisioni su legno di Pablo Picasso con il testo originale in lingua francese e con un saggio di Brunella Pelizza, a cura di Luigi Bonanate, Torino, Nino Aragno editore, (aprile) 2012 («Biblioteca Aragno»), pp. XXLV-192; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Luigi Bonanate, Prefazione, pp. VII-XLIV;

  Nota su questa edizione, p. XLV;

  Il capolavoro sconosciuto. Introduzione di Pablo Picasso, pp. 3-21;

  Il capolavoro sconosciuto, pp. 22-128;

  Le chef-d’oeuvre inconnu, pp. 131-165;

  Brunella Panizza, Pablo Picasso, la molteplicità del segno, pp. 167-191.

 

  Tra le maggiori e più note edizioni di pregio relative ai romanzi della Comédie humaine, si annovera senza alcun dubbio quella che riguarda Le Chef-d’oeuvre inconnu, pubblicata nel 1931 da Ambroise Vollard e corredata da tavole di Picasso: 12 acqueforti originali; 16 pagine di disegni, più altri 4 disegni e 67 incisioni su legno.

  Questa nuova edizione italiana del racconto filosofico di Balzac riproduce sostanzialmente l’edizione Vollard conservandone rigorosamente l’affascinante impaginazione, alquanto suggestiva per il lettore che intenda scoprire il dialogo casuale, quasi involontario, ma certamente magico tra Balzac e Picasso.

  L’origine delle illustrazioni per il Chef-d’oeuvre inconnu è da ricondursi al periodo di sperimentazione stilistica dell’artista. Come osserva Brunella Pelizza, «Picasso non ha voluto illustrare in maniera descrittiva il contenuto dell’opera di Balzac (p. 173): soltanto nella tavola IV delle dodici acqueforti che compongono il secondo gruppo di incisioni, e che hanno come tema Il pittore e la modella, è possibile individuare l’unica testimonianza in qualche modo «direttamente riconducibile al libro di Balzac».

  È proprio sul tema dell’impossibilità di realizzare il quadro perfetto, ovvero di compiere il processo dell’atto creativo senza eccessi e senza traumi che riflette Luigi Bonanate nella sua Prefazione al testo balzachiano. Se le illustrazioni di Picasso non commentano il Chef-d’oeuvre inconnu, la scoperta della tematica del legame tra creatore e creatura, ossia tra artista (pittore) e modella rappresenta non soltanto uno dei soggetti prevalenti della pittura di Picasso a partire dal 1914, ma corrisponde ad una delle tracce fondamentali che si pone Frenhofer nel testo balzachiano. In che cosa dunque si incontrano Balzac e Picasso? si chiede Bonanate: essenzialmente «nel nesso pittore/modello» (p. XLI), nel modo in cui «il pittore si pone di fronte alla realtà» (p. XL), nella «rivoluzionaria e provocatoria opera di smantellamento della visione unilaterale, tradizionale e frontale del pittore che guarda il modello e lo riproduce» (p. XLIII).

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Cura e traduzione di Roberto Bonchio. Edizione integrale, Roma, Grandi Tascabili Economici Newton, (gennaio) 2012 («Grandi Tascabili Newton», 732), pp. 113.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Roberto Bonchio, Prefazione, pp. 7-19;

  Nota biobibliografica, pp. 20-31;

  Il colonnello Chabert, pp. 33-111.

 

  Dedicato alla contessa Ida de Bocarmé, mediocre pittrice e amica di Balzac, nonostante lo scrittore la definisse «una vecchia intrigante», Le Colonel Chahert apparve per la prima volta ne «L’Artiste» tra il 20 febbraio e il 1° marzo 1832 con il titolo di: La Transaction. Diversi furono, successivamente, i luoghi e i momenti che scandirono le varie edizioni del testo balzachiano: la presente edizione italiana dell’opera riprende la suddivisione in tre parti del romanzo che fu mantenuta fino all’edizione del 1839.

  Le Colonel Chahert è un romanzo che, nella sua rappresentazione critica della società durante e dopo la Restaurazione, analizza con lucida consapevolezza, scrive Roberto Bonchio nella sua Prefazione al testo, «la storia e la critica della società, l’analisi dei suoi mali e la messa in discussione dei suoi principi» (p. 11). Di questa società, dominata da volgari e spietate logiche affaristiche, Chabert si configura conte il simbolo dell’escluso, del disadattato, il quale, umiliato e offeso storicamente, psicologicamente e socialmente, incarna «il frutto delle contraddizioni della transazione» (p. 16) proprie del suo tempo. Asciutto ed incisivo nella trasfigurazione letteraria di una intensa e drammatica tragedia individuale, Le Colonel Chabert scandisce «un punto di passaggio importante e avvierà per Balzac lo sviluppo delle grandi prospettive della Commedia umana» (p. 18).

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Saggio introduttivo di Stefan Zweig. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2012 («Classici moderni»), pp. 267.

 

  Cfr. 2007.

 

 

  Honoré de Balzac, La fanciulla dagli occhi d’oro. Cura e traduzione di Lucio Chiavarelli. Edizione integrale, Roma, Grandi Tascabili Economici Newton («Grandi Tascabili Newton», 689), (gennaio) 2012, pp. 126.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Lucio Chiavarelli, Introduzione, pp. 7-14;

  Nota biobibliografica, pp. 15-26;

  La fanciulla dagli occhi d’oro, pp. 27-125.

 

  Dedicato ad Eugène Delacroix, La Fille aux yeux d’or è, tra tutti i romanzi brevi di Balzac, quello che, meglio e più di ogni altro, scrive Chiavarelli, esemplifica la «mostruosa triplice natura: di narratore, di politico e di pittore» (p. 7) dello scrittore francese. Il curatore evidenzia l’importanza di quest’opera e la sua fondamentale novità nella produzione narrativa balzachiana e ne sottolinea «l’inattesa e misteriosa unità» (p. 12). La Fille aux yeux d’or è un’opera scritta «da due narratori che tentano in continuazione di sopraffarsi reciprocamente: il Balzac-affarista cinico, obiettivo, analitico sino all’esasperazione e il Balzac-indagatore del cuore umano, appassionato, sintetico sino al mistero» (p. 11). Attraverso il racconto di una torbida e lacerante passione amorosa nel caotico contesto parigino che la contiene, Balzac spezza l’unicità prospettica della narrazione e allarga «il territorio dove esercitare le sue analisi a tutta la realtà sociale» (p. 14).

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Traduzione di Dianella Selvatico Estense e Gabriella Mezzanotte; con uno scritto di Alessandro Piperno, Milano, Oscar Mondadori, 2012 («Oscar classici», 669), pp. XLIV-752.

 

  Per la traduzione, cfr. 2005. Per quel che riguarda lo scritto di A. Piperno, cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione e traduzione di Maurizio Cucchi, Roma, La Biblioteca dell’Espresso, 2012 («I grandi romanzi. [Prima serie]», 14), pp. XXXIII-247.

 

  Cfr. 2004.

 

 

  Honoré de Balzac, Un debutto nella vita, a cura di Mauricio Dupuis, Roma, Robin edizioni, (luglio) 2012 («La Biblioteca»), pp. 257.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Un debutto nella vita, pp. 7-196;

  Postfazione, pp. 197-209;

  Appendice. Laure Balzac Surville, Il viaggio in cuculo, pp. 210-238;

  Honoré de Balzac – Cronologia delle opere, pp. 239-256.

 

  Pubblicata, a puntate, ne «La Legislature», tra il 26 luglio e il 4 settembre 1842 col titolo di Le Danger des mystifications, questa «scène de la vie privée» balzachiana è dedicata, non a caso, a Laure de Surville, sorella di Balzac, la quale consegnò, anni prima, il manoscritto di un racconto intitolato: Le Voyage en coucou (successivamente inserito, nel 1854, nella raccolta: Le Compagnon du foyer) che, per dichiarazione dell’autrice stessa, avrebbe direttamente ispirato il testo balzachiano.

  L’opera di Laure de Surville è presentata, in traduzione, nell’appendice di questa nuova edizione italiana a di Un Début dans la vie, curata, anche per quel che riguarda l’apparato delle note al testo, da Mauricio Dupuis.

  Nella sua Postfazione all’opera balzachiana, il curatore si sofferma nell’analisi della struttura – originariamente suddivisa in 14 capitoli – e delle dinamiche interne del racconto con particolare riferimento alla circolarità del sistema dei personaggi (cfr. pp. 204-209).

 

 

  Honoré de Balzac, Un episodio durante il Terrore a cura di Silvia Truzzi. Traduzione di Roberto Rossi. Illustrazioni di Marco Scalia, «il Fatto Quotidiano», Roma, Anno 4, n° 197, 21 agosto 2012, pp. 18-19; n° 198, 22 agosto 2021, pp. 14-15; ill.

 

  Per la traduzione, cfr. 2001.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  “Il capolavoro sconosciuto” di Honoré de Balzac e Pablo Picasso, «Il Foglio», Milano, 26 agosto 2012.

 

  Balzac scrive sull’arte e Picasso illustra la letteratura. “Ancorché totalmente artificioso, l’incontro tra Balzac e Picasso consegue il più alto tasso di notorietà artistica che sommando i due creatori si possa immaginare (potremmo cambiare i nomi, ma difficilmente si totalizzerebbe maggior celebrità cumulativa)”, ricorda il curatore Luigi Bonante (sic), che non è critico d’arte o letterario, ma studioso di relazioni internazionali. “L’uno e l’altro sono, nella loro arte tra i massimi rappresentanti storici (il confronto è ‘tra un testo filosofico inesauribile e un artista incomparabile’)”. L’incontro è propiziato dal luogo. Una lapide sull’edificio al numero 7 di Rue des Grands-Augustins a Parigi ricorda che Balzac vi ambientò il racconto “Le chef-d’oeuvre inconnu”.

  La stessa lapide ricorda che Pablo Picasso “visse in questo immobile dal 1936 al 1955 è in questo studio che dipinse ‘Guernica’ nel 1937”. “Il capolavoro sconosciuto” è invece del 1831. Il pittore Poussin - realmente esistito - è amato da Gillette: una fanciulla obbediente, gioiosa e bellissima, che per lui sarebbe disposta a tutto, tranne che posare nuda per altri artisti. Ma è proprio quello che succederà, quando lui la spinge a spogliarsi davanti al vecchio ed esaltato pittore Frenhofer (personaggio immaginario), che vuole compiacere per sottrargli i segreti della sua grandezza artistica. A Poussin e all’altro pittore effettivamente esistito Porbus, Frenhofer rivela infatti che da dieci anni sta lavorando a un ritratto femminile, e che non permetterà a nessuno di ammirarlo prima che venga terminato. Tre mesi passano, e il ritratto sembra infine completato. Ma Frenhofer non è ancora soddisfatto: vorrebbe ancora altre certezze su alcuni dettagli della bellezza femminile. Poussin convince allora Gillette a posare nuda per lui, e dopo pochi istanti Frenhofer può dire che la sua “opera è conclusa, ed ora posso mostrarla con orgoglio”.

  Ma il quadro è ora ridotto a un insieme di “colori ammassati confusamente, e delimitati da una moltitudine di linee bizzarre, che formano una muraglia di pittura”, e dal quale solo un piede “fuoriusciva da quel caos di colori, toni, sfumature indecise, una sorta di nebbia senza forma: ma un piede delizioso, un piede vivo!”. Gillette maledirà Poussin. L’ormai impazzito Frenhofer morirà nella notte, dopo aver bruciato tutte le sue opere. E a questo inquietante apologo sull’impossibilità dell’arte perfetta e dell’amore perfetto, per il centenario della novella, nel 1931, il grande mercante d’arte Vollard dedicherà un’edizione illustrata da Picasso.

 

 

  Eliana Rita Anicito, ‘Le roman du peintre’ e l’avventura della scrittura. Il processo creativo in evoluzione: da Balzac a Mirbeau. Tesi di Dottorato. Coordinatore: prof.ssa M. T. Puleio, Università degli studi di Catania, Facoltà di Lingue e letterature straniere, Dottorato di ricerca in Francesistica, XXIV, Ciclo 2008-2011, maggio 2012, pp. 312.



  Silvia Baroni, «Il personaggio-autore. L’ultima incarnazione di Vautrin». Tesi di laurea, Relatore: prof. Daniele Giglioli, Università degli Studi di Bergamo, 9 novembre 2012.

 

 

  Mario Baudino, Javier Marías. “Amico Shakespeare, una sorgente di fertilità”, «La Stampa Tuttolibri», Torino, Anno XXXVI, Numero 1841, 8 dicembre 2012, p. VIII.

 

  Nel suo ultimo romanzo appena tradotto in Italia, Gli innamoramenti, Javier Marías cita almeno quattro autori cui è legato: ovviamente Shakespeare, e poi Cervantes, Balzac e Dumas. Li cita perché i suoi personaggi leggono e quindi discorrono di libri, ma anche perché fanno parte di una sua costellazione ideale di lettore, ne descrivono piuttosto bene la latitudine. E affida anzi a un personaggio cruciale, l’enigmatico Diaz-Varela, una dei suoi convincimenti più tenaci: «Quanto accade nei romanzi è indifferente e si dimentica, una volta terminati. Le cose interessanti sono le possibilità e le idee che ci inoculano e ci portano attraverso i loro casi immaginari, rimangono a noi con maggiore nitidezza dei fatti reali e li teniamo in maggior considerazione».

  Questo, detto a proposito di un romanzo breve di Balzac, Il colonnello Chabert, dove si racconta di un ufficiale dato per morto in battaglia, che invece sopravvive ed esce fortunosamente dalla fossa comune in cui è stato gettato; quando però, dopo qualche anno, lo sfortunato colonnello tenta di riprendere il proprio posto nella società, si trova in una situazione paradossale. Tutti lo considerano morto, e non hanno la minima intenzione, né il minimo interesse, a cambiare parere. «In questo caso la storia del colonnello ha una funzione precisa, che riguarda il tema del mio libro. Ci permettiamo la nostalgia dei cari scomparsi anche perché sappiamo che non è possibile un loro ritorno. È successo nella letteratura, ma nella realtà direi che non accade. Se uno torna dopo tre giorni, passi. Dopo tre anni è davvero un grosso pasticcio».

 

 

  Michele Bertolini, Mostri e deformazioni sociali nell’opera di Balzac: il caso “Sarrasine”, in AA.VV., Estetica e morfologia. Un progetto di ricerca a cura di Luigi Russo, Palermo, Centro Internazionale di Studi di Estetica, 2012 («Aesthetica Preprint»), pp. 23-30.

 

  L’interesse di Balzac per le implicazioni epistemologiche e metodologiche delle scienze della vita è ampiamente documentato, a cominciare dall’ammirazione esplicita nei confronti di Cuvier e di Geoffroy Saint-Hilaire. Nonostante le affermazioni di stima per Cuvier che attraversano le pagine de La peau de chagrin o La théorie de la démarche, il romanziere decreta nell’Avant-propos della Comédie humaine la vittoria di Geoffroy Saint-Hilaire su Cuvier nella celebre querelle des analogues del 1830, che vede contrapposti i due scienziati di fronte al mondo accademico francese e tedesco, con uno spettatore di eccezione quale Goethe. La scelta di campo a favore di Étienne Geoffroy Saint-Hilaire è motivata soprattutto dal forte principio di unità e dalla credenza nella connessione come principio profondo della realtà che emerge negli scritti dello scienziato, oltre che dall’efficacia dell’analogia come strumento euristico di comprensione universale della realtà. Balzac è alla ricerca di una verità ontologica, che possa proporsi come ragione invisibile del mondo dei fenomeni visibili, e trova nel principio di unità di composizione di Geoffroy Saint-Hilaire, peraltro già anticipato secondo Balzac dalle ricerche di Leibniz, di Buffon, di Bonnet, al tempo stesso un’ipotesi fondata e un modello metodologico di comprensione del mondo.

 

  1. Il mostro come monumento.

 

  Balzac è attratto dalla dimensione monumentale che acquista la scienza della vita con Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire, inseparabile da un’attenzione per la dimensione del tempo, ovvero la capacità di passare «dallo studio di una sincronica del vivente a uno studio diacronico: la biologia propriamente detta, che si definisce per la sua dimensione storica», una dimensione certamente non estranea alla costruzione del suo monumento letterario.

  Tuttavia, la concezione dell’articolazione sistematica del regno animale come monumento che è possibile ricavare dai due scienziati non è la stessa: Cuvier affascina Balzac per la sua capacità analitica di dedurre logicamente da un dettaglio l’insieme, di ricostruire «dall’osso frontale, mascellare o crurale di qualche animale un’intera creatura, «sia pure antidiluviana», riuscendo a classificare l’individuo scoperto seguendo il principio della correlazione delle parti nel tutto. Il metodo di Cuvier risponde a un principio economico ed estetico particolarmente seduttivo agli occhi di Balzac: esso permette di cogliere i nessi necessari che legano un frammento all’insieme, restaurando così l’unità organica dell’animale. L’omaggio a Cuvier nelle prime pagine de La peau de chagrin si svolge non a caso nella bottega di un antiquario, dove si ritrovano accatastati oggetti, opere d’arte di epoche diverse, tra le quali trova posto lo sguardo retrospettivo e indiziario dello scienziato capace di far risorgere un intero animale da un’impronta o da un osso.

  Lo spirito analitico di Cuvier si preclude tuttavia consapevolmente la possibilità di vedere le variazioni e le transizioni da una forma all’altra, che rispondono alla legge di variabilità, corollario del principio del piano unico di composizione. Il suo monumento non riesce a restituire la stratificazione temporale di diverse specie in un’unica, inedita forma: presupponendo l’eterogeneità delle specie come un dato da cui partire, Cuvier può cogliere la necessità formale interna che lega le parti dell’animale all’insieme, ma senza raggiungere il principio di variabilità di un’unica forma che è alla base della variazione delle forme viventi, afferrando in una sintesi unitaria l’uno e i molti.

  Accanto a questa indagine ricostruttiva del vivente come monumento, emerge, proprio grazie alle ricerche teratologiche dei Saint-Hilaire, un’altra concezione che privilegia la possibilità di una visione doppia o plurale in una stessa forma, di una profondità temporale racchiusa nella forma mostruosa: la possibilità cioè di leggere la diacronia nella fissità, la variazione nell’unità. Il mostro si offre in questo caso come uno scrigno di memoria da interpretare, offrendo uno spunto prezioso a chi, come Balzac, intende articolare con il suo progetto letterario una storia dei costumi umani e sociali sistematica. Balzac riesce a dare unità, coerenza e intelligibilità al suo progetto, introducendo degli elementi di classificazione sociale analoghi ai principi di classificazione naturale e a definire la possibilità di analizzare le specie sociali attraverso un’estensione del metodo analogico già applicato da Saint-Hilaire nel confronto fra diverse specie animali.

  L’ambiente (milieu) è agente di differenziazione sociale delle specie umane, le cui deformazioni risultano da una progressiva moltiplicazione e variazione di «un solo animale, [...] che prende la sua forma esteriore o, per parlare più precisamente, le differenze della sua forma, negli ambienti in cui è chiamato a svilupparsi». La società opera in analogia con l’operare della natura senza dover rispettare i limiti fra le specie biologiche, nella misura in cui è caratterizzata da una maggiore mobilità e dinamismo: il caso, il talento individuale come le passioni degli individui entrano in gioco come moventi e motori delle trasformazioni sociali. Il principio di variabilità diventa un principio euristico fondamentale per comprendere lo spettro delle differenze fra le classi e le professioni, così come risulta decisivo per classificare gli uomini lo studio dell’eleganza, del portamento, del riflesso lasciato sulle cose dalle nostre abitudini.

  Se quindi il mostro, biologico e sociale, può offrire un’immagine del tempo e assumere il valore di un monumento per lo scienziato che sa considerarlo come la manifestazione di una legalità della natura, la teratologia e l’embriologia acquistano un valore euristico inedito. Il mostro [...] permette di vedere la memoria di sviluppo dell’embrione, ovvero la sua correlazione con la scala degli esseri. Nell’anomalia dell’organo fissato quasi fotograficamente allo stadio di sviluppo di un animale posto più in basso nella scala degli esseri, si rende manifesta quella memoria che altrimenti pare cancellarsi nello sviluppo normale dell’embrione, al punto che la deformazione appare come uno spettro di memoria della scala naturale degli esseri. La memoria è inseparabile in Geoffroy Saint-Hilaire come in Balzac da una cornice morfologica di manifestazione, da una possibilità di visione della forma. Attraverso la stratificazione di diversi stadi di sviluppo biologico che il mostro esibisce, Balzac può cogliere suggestioni feconde: il mostro diventa depositario di una memoria biologica che riassume la storia dello sviluppo generale dei viventi, così come i mostri sociali di Balzac restituiscono, oltre a caratteristiche mostruose innate, le diverse fasi di sviluppo della storia individuale, i riflessi dell’ambiente sociale e della storia collettiva.

  Nella Comédie humaine si alternano quindi, sulle premesse poste dalla teratologia di Étienne e Isidore Geoffroy, veri e propri mostri sociali, incapaci di adattarsi alle trasformazioni dell’ambiente sociale in cui si trovano a vivere, come Louis Lambert o Balthasar Claës, e anomalie diffuse, prodotte dall’ambiente e trasmesse a tutti gli individui di una stessa specie per via di filiazione, deformazioni pervasive del corpo e dei comportamenti, che giustificano le possibilità di adattamento di alcuni personaggi all’ambiente. In questo caso gli individui si sono adattati a un milieu che assume sempre di più l’aspetto di uno specchio, di una seconda pelle dell’individuo, in un gioco di deformazioni reciproche e di mutui accomodamenti dell’organismo all’ambiente e dell’ambiente all’organismo. Le deformazioni grottesche che investono i personaggi si realizzano in una vita patologica che consente comunque la prosecuzione delle attività vitali e sociali e che deve essere distinta dalla mostruosità in senso stretto: l’anomalia diventa un agente di trasformazione e di metamorfosi sociale.

  Lo sforzo dello scrittore francese si presenta come un monumento di cui s’intravede l’impianto complessivo attraverso i dettagli, attivando uno sguardo insieme microscopico e macroscopico: un organismo in parte mostruoso, se si pensa agii spostamenti di posizione di certe opere, simili alle inversioni degli organi interni nei mostri biologici. Un monumento che si sviluppa intorno a un germe giovanile, che nasce da basi fisiologiche e che si articola come una storia dei costumi sociali, un’anatomia storica dell’umanità, colta nelle sue diverse fasi di sviluppo temporale, e in cui la vita dell’individuo è posta sempre in relazione con una cornice dai confini ora più stretti (la provincia), ora più ampi (la capitale), un ambiente che esige dall’uomo un adattamento e che costituisce una premessa per l’apparizione del personaggio. All’interno di questo monumento in cui si specchia il tempo, è possibile circoscrivere un nodo problematico: l’apparizione, difficilmente classificabile, di un mostro eterodosso che interroga il problema del rapporto fra tipo e variazione.

 

  2. L’ossessione del neutro e del misto: Sarrasine tra l’ermafrodito e l’androgino.

 

  Sarrasine si presenta come un mostro doppio, un testo-ermafrodito, posto a cavallo fra due secoli (la festa parigina del 1830, la scena romana del 1758, teatro della storia della folle passione di Sarrasine per il castrato Zambinella), al limite fra la notte e il giorno, fra un esterno gelido e freddo e un interno caldo e luminoso, fra due racconti, uno incastonato dentro l’altro, come un feto abortito dentro il corpo adulto del presente, fra due arti (la scultura e la musica), fra due diverse collocazioni all’interno della Comédie humaine. Spesso mediato da letture biografiche o psicoanalitiche, il racconto risulta interessante proprio per la sua collocazione difficilmente inscrivibile nell’edificio complessivo della Comédie.

  Il mostro è qui segnato da un’ambiguità sessuale che non si manifesta esteriormente: Zambinella si presenta come una giovane cantante dalla radiosa bellezza che rinnova per lo scultore il mito della «statua di Pigmalione scesa per lui dal piedistallo», rifiutando quella corrispondenza tra deformazione interiore ed esibizione esterna della deformità che a rigore caratterizza le forme di mostruosità più gravi. Se il mostro non mente, l’ermafrodito piuttosto si nasconde, dissimulando la sua identità duplice. Zambinella, che ha etimologicamente “due esseri in lei”, svela, sia pure per via negativa (maschio privo di virilità e donna solo nella voce e nell’aspetto), la compresenza dei due sessi, racchiudendo nella sua memoria l’immagine mitica dell’ermafrodito, che il racconto s’incaricherà di dissigillare.

  Senza presupporre un’influenza diretta, suggerita peraltro dalla corrispondenza personale fra Isidore Geoffroy e Balzac, è possibile riconoscere un’affinità teorica fra l’ambiguità evanescente di Zambinella e il tentativo di classificazione dell’ermafroditismo neutro e misto proposto da Isidore Geoffroy Saint-Hilaire nella sua Histoire des anomalies, pubblicata fra il 1832 e il 1837, nella misura in cui Sarrasine e la teratologia pongono il problema filosofico del misto e del neutro. Anomalia segnata da un contrasto fra l’esterno e l’interno (le modificazioni degli organi sessuali esterni di copulazione possono aggiungersi o non aggiungersi alle modificazioni degli organi interni di riproduzione), l’ermafroditismo misto e l’ermafroditismo neutro, due categorie che non sono veramente separate, presentano i caratteri della specie di appartenenza, ma senza i caratteri della differenza di genere, a differenza dell’ermafroditismo bisessuale che manifesta la presenza contemporanea dei due apparati sessuali più o meno sviluppati. L’assenza di una precisa dominante sessuale viene giustificata sul piano scientifico come un’anomalia per arresto di sviluppo degli organi sessuali. [...].

  Se sul piano classificatorio il misto e il neutro individuano un limite di investigazione per l’anatomia comparata e la teratologia, in cui il vivente risulta difficile da classificare, viceversa su un piano strutturale e tipologico, prossimo al pensiero di Étienne Geoffroy, l’ermafrodito può essere interpretato alla luce del tentativo di avvicinarsi, attraverso progressive variazioni, a un tipo ideale che non è a rigore né maschile, né femminile, come l’Adone dipinto citato nel racconto di Balzac e che attraversa uno dei riferimenti decisivi di Sarrasine: il Salon del 1767 di Diderot. Proprio nell’autore dei Salons è possibile ritrovare una fonte decisiva per la riflessione morfologica sulla deformazione, capace di rendere conto della mobile dinamicità della natura, dove il modello ideale viene suggerito attraverso la comparazione e l’analogia tra organismi diversi, come luogo della variazione morfologica o approssimazione infinita nel trascorrere delle sue variazioni.

  Sarrasine cerca di sintetizzare entrambe le polarità dell’ermafrodito, la dimensione romantica di perfezione ideale e quella di imperfezione e incompletezza mostruosa, propria della mitologia classica come del pensiero scientifico, problematizzando l’immaginario romantico di Balzac sull’androginia come condizione di perfezione finale del genere umano dominante in Séraphita. La storia del giovane scultore è un racconto di perdita e caduta: perdita della scultura, della passione, della vita, che si compie al prezzo di un ritorno all’originaria confusione delle arti, di una discesa verso lo spazio nascosto di una neutralità originaria, che investe l’identità dell’arte, la sua origine dal rito funebre. Il fantasma di una regressione della scultura verso la sua base architettonica apre nuovi problemi di classificazione: dalla tassonomia delle specie naturali e sociali al problema della classificazione delle arti e alla loro possibile sintesi in un mostro ibrido che contempera a un tempo il canto di Zambinella e Mariannina, l’immobilità della statua scolpita e la scrittura di Balzac.

  Sarrasine, come l’artista evocato da Diderot nel Préambule del Salon del 1767, è alla ricerca di un modello ideale di bellezza che ha invano cercato nei singoli dettagli belli della natura. Credendo di scorgerlo nella bellezza di Zambinella, si affretta a ricreare la sua perfezione sulla tela e nel marmo: scoperto l’inganno – la bellezza ideale ha assunto per rivelarsi la maschera di una creatura degradata – Zambinella diventa mostro agli occhi di Sarrasine, un mostro che svuota la terra di tutte le donne. Alla fine del racconto, Sarrasine, privato di ogni piacere ed emozione, è ricondotto allo stato neutro del castrato, a un vuoto del linguaggio e del corpo che non è possibile pronunciare. L’assimilazione per contatto di Sarrasine e Zambinella prelude alla morte dello scultore al posto di colui che avrebbe dovuto essere ucciso, come nel Corésus et Callirhoé di Fragonard, il quadro commentato da Diderot nel Salon del 1765, che evoca l’immaginario dell’ermafrodita. Allo stesso tempo, il modello ideale incarnato dalla statua si rovescia nell’immagine ibrida di un monumento della follia dell’artista, «un arpia celestiale che bollerà tutte le altre donne con un marchio d’imperfezione». Sarrasine grida a Zambinella la sua disperazione: «Senza posa penserò a quella donna immaginaria vedendo una donna reale», mentre indica la statua; persino le scelte lessicali di Balzac sottolineano il processo di regressione biologica dello scultore.

  Il modello ideale, luogo dell’ambiguità sessuale perché privo di quelle determinazioni specifiche che solo le funzioni vitali possono dare, diventa in Balzac mostro: la “colpa” di Sarrasine consiste nell’aver cercato di ipostatizzare il tipo ideale riducendolo a feticcio, irrigidendo il processo della variazione morfologica, e replicando così la colpa di Pigmalione. Al tempo stesso il suo tragico destino diventa momento euristico di rivelazione del doppio potere del neutro e del misto: tipo ideale afferrabile per approssimazione attraverso una continua variazione delle forme (l’androgino intermedio fra il mondo umano e il mondo divino) e forma regressiva, impura, imperfetta, che deriva dalla compresenza di caratteri opposti o dalla loro assenza (l’ermafrodito neutro e misto). L’incontro con la deformità mostruosa diventa in Balzac un momento necessario di conoscenza e approfondimento degli enigmi della forma, un’esperienza del limite in cui le trasformazioni devono essere inscritte.



  Mariolina Bertini, Chiara Bongiovanni, Dramma, “mélodrame” e romanzo: tipologie e mescolanze di generi nell’età romantica, in AA.VV., Da un genere all’altro. Trasposizioni e riscritture nella letteratura francese a cura di Daniela Dalla Valle, Laura Rescia, Monica Pavesio, Roma, Aracne editrice, 2012 («Lettere francesi», I), pp. 377-387.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Milano I° marzo 1837. I diritti dell’autore: Manzoni e Balzac, in AA.VV., Atlante della letteratura italiana, a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, volume terzo. Dal Romanticismo a oggi, a cura di Domenico Scarpa, Torino, Giulio Einaudi editore, 2012, pp. 113-118.

 

  La visita di Balzac ad Alessandro Manzoni quella sera del 1° marzo 1837 in via Morone, a Milano, nel salotto rosso dove l’autore dei Promessi Sposi soleva ricevere i suoi pochi amici fu un evento eccezionale ma, per certi versi, atteso. «Il più fecondo dei nostri romanzieri», come molta parte della pubblicistica non soltanto lombarda si compiaceva di etichettare Balzac, godeva, in quegli anni, di una posizione privilegiata in seno all’aristocrazia milanese che lo accolse con cordialità e ammirazione nei propri salotti. L’unica eccezione fu appunto il salotto di casa Manzoni dove lo scrittore francese fu condotto grazie alla mediazione del marchese torinese Felice Carron de Saint-Thomas. Le testimonianze e i ricordi di quella visita, che personalità autorevoli quali Stefano Stampa e, soprattutto, Cesare Cantù lasciarono in diverse occasioni successive al quel primo marzo del ’37, – a cui devono aggiungersi i pregiudizi e le riserve culturali e morali nei confronti della persona di Balzac, della sua opera e, in modo particolare, dei suoi giudizi, più o meno fondati ma non certo entusiastici, sui Promessi Sposi – non fecero che evidenziare, quasi fino all’esasperazione, l’atmosfera di totale chiusura, di diffidenza e di incomunicabilità che mantenne Manzoni e Balzac in una totale e irrimediabile estraneità reciproca. Non furono, scrive Mariolina Bongiovanni Bertini, «le differenze di carattere o di educazione a frapporre tra i due romanzieri una barriera insormontabile, ma l’impossibilità in cui ognuno dei due venne a trovarsi di apprezzare il valore dell’opera dell’altro, per ragioni ideologiche e culturali» (p. 115). Si disse che Balzac parlò esclusivamente di sé: in realtà, furono la questione della dignità dello scrittore e quella della tutela della proprietà letteraria a stimolare la spontaneità e l’intensità dell’eloquenza balzachiana. Richiamandosi ai modelli di Rabelais e, in modo particolare, di Beaumarchais, Balzac pone sempre al centro del suo discorso il romanzo: è questa, infatti, la posta in gioco che egli vorrebbe condividere con Manzoni, il punto di riferimento su cui egli ritorna instancabilmente anche quando l’autore di Louis Lambert e del Médecin de campagne si sofferma sul proprio ruolo nella evoluzione della letteratura e sulla ricezione della propria opera. E Manzoni? Che cosa poteva ribadire od opporre lo scrittore italiano a così tanta «glorificazione della finzione romanzesca?» Ai suoi occhi, osserva l’A., «quella finzione rappresentava, nei suoi rapporti col Vero, un nodo problematico complesso e forse insolubile»: nella genealogia tratteggiata da Balzac, Manzoni «vedeva una tara insanabile, un insospettato lato oscuro; non poteva rispondere al romanziere parigino che con un silenzio elusivo, il silenzio di chi avrebbe avuto troppe cose da dire» (p. 117).

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Du théâtre au roman: l’«Olympia» de Balzac et le mélodrame, «L’Année balzacienne», 2012, troisième série, 13, Paris, Presses Universitaires de France, novembre 2012, pp. 277-293.

 

  L’A. riflette sul «côté mélodramatique de la création balzacienne» ponendo al centro del suo studio il «souvenir d’un mélodrame de 1808, Olimpia ou «la caverne de Strozzi» che «fait surface en 1833 dans un récit-pastiche de Balzac, aussi énigmatique que drôle: Fragments d’un roman publié sous l’Empire par un auteur inconnu [Olympia ou les vengeances romanesques]» (pp. 278-279), un testo che, nella sua versione definitiva, sarà inserito da Balzac ne La Muse du Département.

 

 

  Isabella Bossi Fedrigotti, Interno giorno. Gli oggetti e il tempo nelle stanze dei ricordi, «Corriere della Sera-La Lettura», Milano, 29 gennaio 2012, p. 19.

 

  Honoré de Balzac, “La Maison du chat-qui-pelote.”

 

  Altro grande arredatore di stanze è, ovviamente, Balzac. Nel suo racconto La Maison du chat-qui-pelote, uno dei suoi più antichi, tradotto nelle varie versioni italiane per lo più come «Al gatto che gioca a pelota», egli dipinge con accuratezza l’interno del negozio di stoffe dove, in dedizione e devozione, lavorano monsieur e madame Guillaume assieme alle due figlie, Virginie — brutta —e Augustine — bella — e i due commessi, aspiranti fidanzati nonché aspiranti soci. E il termine dipingere non è usato a caso in quanto Balzac davvero pittura il quadro di una realtà commerciale austera, laboriosa, sapiente e calcolatrice, e il bancone, le balle di stoffa, i cartoni numerati, le forbici, il metro, i ferri per marcare i tessuti, la poltrona rivestita di marocchino consunto, i vecchi sgabelli, la scrivania doppia e la cassa che arredano la bottega perfettamente interpretano lo spirito della famiglia Guillaume. Quando Théodore, pittore aristocratico innamorato di Augustine, si apposta fuori per cercare di incrociare la sua bella, quel che gli appare attraverso la piccola finestra pare un quadro di Vermeer: il commerciante chino sul suo lavoro in un’atmosfera raccolta, severa, silenziosa, quasi come dentro a una chiesa. Come mai, ammirando quel quadretto, Théodore non ha capito subito — come, invece, il lettore — che un matrimonio tra un artista fantasioso e disordinato e una ragazza cresciuta ed educata in quella bottega non avrebbe potuto funzionare?

 

 

  Peter Brooks, Balzac alla fine della vita di Freud, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXIX, N. 9, Settembre 2012, p. 14.

 

  È riportata, in questa pagina, la parte iniziale dell’intervento pronunciato da Peter Brooks in occasione del colloquio «C’è del metodo in questa follia. L’irrazionale nella cultura romantica», organizzato dalla Fondazione Malatesta a Santarcangelo di Romagna il 25-26 maggio 2012.

  Il giorno prima di chiedere l’iniezione fatale, Freud termina la lettura di un romanzo di Balzac, La Peau de chagrin, un'opera che, come affermò lo stesso Freud, «riguarda la restrizione e l’inedia» e che rivela, per il protagonista Raphaël de Valentin, l’esito fatale del desiderio e della sua soddisfazione. La scoperta della realizzazione del desiderio in tutta la sua pienezza, scrive Brooks, «è anche scoperta della morte come inevitabile conseguenza del desiderio». La pulsione di morte al servizio del principio del piacere riporta l’individuo indietro, verso ciò che Freud chiama, in Al di là del principio di piacere (1920), la «quiete primordiale». Le modalità a tinte gotico-melodrammatiche su cui poggiano la struttura e i ritmi narrativi del romanzo mettono in rilievo anche gli «aspetti gotici e melodrammatici della psicoanalisi stessa»: in questo senso, la psicoanalisi propone una «melodrammatizzazione della vita psichica, esattamente come Balzac propone un intenso psico-dramma. Balzac e Freud [...] stanno tra di loro in un rapporto irrealizzato, mettendo ognuno in evidenza un aspetto essenziale dell’altro».

 

 

  Andrea Del Lungo, La réminiscence qui tue: Balzac, “Adieu”, in Collectif, L’Ombre du souvenir: littérature et réminiscence, du Moyen Age au XXIe siècle, études réunies par Jean-Yves Laurichesse, Paris, Classiques Garnier («Rencontres», 27. Série Études dix-neuvièmistes, 12), pp. 141-155.

 

  Honoré de Balzac pourrait difficilement être considéré comme un romancier de la mémoire, et a priori encore moins comme un romancier de la réminiscence, attaché qu’il est à déchiffrer, à sonder, à disséquer, de son bistouri d’analyste, la société contemporaine. Il s’agit en quelque sorte d’un écrivain du présent, dont la devise bien connue est de «faire concurrence à l’état civil», et dont l’aspiration consiste à être le «secrétaire de la société française : d’un réel qui serait au fond encore plus invraisemblable et complexe que le roman lui-même. L’association fondamentale entre l’Histoire et l’histoire des vies privées, ainsi que la nécessité, comme le dirait Auerbach dans Mimesis, de représenter l’homme profondément intégré dans un contexte social, économique et historique donné, constituent les principes de ce réalisme moderne qui se tourne résolument vers l’actuel et le contemporain. Autant de facteurs qui montrent à quel point le roman balzacien, du point de vue des mécanismes de la mémoire, semble fonctionner comme enregistrement plutôt que comme remémoration: enregistrement d’un état social, qui est donné au lecteur en guise de témoignage historique extraordinaire – employé d’ailleurs par les historiens et les sociologues eux-mêmes – et qui pourrait ensuite faire l’objet d’une remémoration ultérieure.

  Il est donc évident qu’une telle fonction d’enregistrement laisse peu d’espace à l’expérience individuelle et romantique du souvenir, de même qu’à une expérience de mémoire partagée. En effet, une thématique fondamentale du roman de toute époque aurait pu faire glisser l’ombre du souvenir – pour reprendre le titre de notre travail collectif – dans le roman balzacien: cette thématique est la guerre, en tant qu’événement marquant de la grande Histoire, qui laisse des traces ineffaçables dans la mémoire collective, tout comme dans les mémoires individuelles. Cependant, on observe dans cette fresque immense de La Comédie humaine une relative absence de la guerre en tant que thématique ou sujet du récit; la preuve en est l’échec à peu près absolu d’une section que Balzac avait projetée, les Scènes de la vie militaire, où auraient dû trouver place les récits de guerre, et qui ne se compose finalement que de deux textes : le premier roman que Balzac signa en 1829 de son propre nom, Les Chouans, retraçant un épisode de la guerre postrévolutionnaire de 1799; et une très brève nouvelle, Une passion dans le désert, de 1830, qui raconte l’égarement d’un soldat de l’armée de Napoléon pendant la campagne d’Égypte.

  Une telle absence témoigne de la difficulté d’écrire cet indicible qu’est au fond la guerre, ainsi que de figurer littérairement le signe d’une mémoire collective. Deux autres exceptions nuancent cependant cet échec : la première est constituée par le récit des anciens soldats de Napoléon dans Le Médecin de campagne, qui forge le mythe de l’Empereur «ami du peuple»; la seconde exception fera précisément l’objet de mon analyse. Il s’agit d’Adieu, une courte nouvelle au cœur de laquelle se trouve enchâssé le récit de l’épisode le plus douloureux de toutes les guerres napoléoniennes : le passage de la Bérésina, et la débâcle de l’armée française poursuivie par les Russes au cours d’une retraite que l’hiver précoce rend dramatique. Nous pouvons sans doute y lire la meilleure réussite de Balzac en écrivain de guerre […].

  Il n’en reste pas moins que le tableau de la Bérésina représente le cas à peu près unique – exception faite des Chouans – où la guerre, cet événement indicible, trouve une forme de récit dans le roman balzacien, même s’il s’agit d’un récit dérobé, filtré et partiel: en effet, la guerre est constamment vue d’en bas – et non selon une vision panoramique que Zola saura donner dans La Débâcle –, voire de derrière, car la nouvelle décrit une retraite telle que l’arrière-garde de la troupe peut la percevoir. L’intérêt est moins porté au fond sur la catastrophe collective, sur cette Bérésina qui annonce la fin de l’Empire, que sur les conséquences de cet épisode de guerre sur les vies privées, sur les hommes et les femmes victimes du drame.

  À cause de ce traumatisme de l’Histoire, une femme perd la raison ; et pour la lui faire recouvrer, son amant essaie de construire une sorte de «théâtre de la mémoire», par la reconstitution à l’identique, ou presque, de cet épisode traumatique, dont l’effet sera funeste : telle est pour l’essentiel l’intrigue d’Adieu. Mon exposé porte sur le presque de la phrase précédente, c’est-à-dire sur l’aspect incomplet et imparfait de la reconstitution fictionnelle de l’événement historique, et sur ses conséquences. Après avoir détaillé l’intrigue afin d’étudier l’association que le texte postule entre perte de raison et perte de mémoire, j’essayerai de montrer que le clivage entre les deux personnages marqués par la tragédie de l’histoire relève d’une opposition entre mémoire et réminiscence; à partir de ce constat, il sera possible d’avancer une interprétation inédite de la fin de la nouvelle, et notamment du scénario fictif de la Bérésina, dans lequel la réminiscence joue un rôle capital et, comme l’annonçait mon titre, se révèle fatale. […].

  La nouvelle de Balzac marque la destinée de ses personnages précisément dans cette scène de répétition imparfaite qui oppose mémoire et réminiscence. Hanté par la mémoire, Philippe se suicidera. Victime d’un souvenir incomplet, rendue à son corps et à son esprits troués dans le temps, incapable de recoudre son passé et d’affronter le bonheur futur, Stéphanie meurt, foudroyée d’une réminiscence.

 

 

  Mariella Di Maio, L’Italie romanesque de Balzac, in Frontières du romanesque: Stendhal, Balzac, Paris, Classiques Garnier, 2012 («Études romantiques et dix-neuvièmistes», 30), pp. 81-97.

 

  Cfr. 1999.

 

 

  Sous le signe de Machiavel: Catherine et Robespierre, pp. 99-112; cfr. 2004.

 

 

  La Bérésina de Balzac, pp. 135-148[1].

 

 

  Francesca Dosi, Balzac et Rivette: l’énigme d’une rencontre, «L’Année balzacienne», 2011, troisième série, 12, Paris, Presses Universitaires de France, janvier 2012, pp. 337-363.

 

  Francesca Dosi studia le modalità e gli esiti della costante influenza balzachiana sull’opera del regista J. Rivette: «la rencontre empathique entre Rivette et Balzac s’inscrit dans une démarche collective – in quella che caratterizzò l’estetica cinematografica della Nouvelle Vague – où l’innutrition balzacienne est perçue comme essentielle à tout discours artistique» (p. 338). Rivette, puntualizza l’A., «introduit au coeur ses récits filmiques des fragments balzaciens et d’autres bribes littéraires, les associe aux fruits de sa mémoire et y retrouve ses propres fantasmes pour nourrir son oeuvre et sa vie» (p. 341).

 

 

  Paolo Fallai, Io sono Frenhofer, «Corriere della Sera», Milano, 2 gennaio 2012, p. 9.

 

  Balzac, il Capolavoro sconosciuto drammaturgia dell’arte di esitare.

 

  Parigi, estate del 1831. Sulla rivista L’Artiste viene pubblicato in due puntate, il 31 luglio e il 7 agosto, un racconto di Honoré de Balzac, Chef-d’oeuvre inconnu, sottotitolo Conte fantastique. È «Il Capolavoro sconosciuto», su cui Balzac lavorerà ossessivamente per sedici anni, lasciandoci cinque stesure: la seconda, inserita pochi mesi dopo in una raccolta «Romanzi e racconti filosofici»; la terza nel 1837, e qui il sottotitolo cambia definitivamente in «racconto filosofico»; la quarta nel 1846, quando il «Capolavoro» viene inserito per la prima volta nella Comédie humaine; infine la quinta e ultima, nel 1847, tre anni prima di morire, quando Balzac cambia nome al racconto, che diventa «Gillette» e lo inserisce nella raccolta «Provinciali a Parigi». Ma fin dalla prima apparizione «Il Capolavoro sconosciuto» è già diventato una leggenda. L’azione si svolge «verso la fine del 1612». Tre i protagonisti maschili: Porbus, pittore di corte, un giovanissimo Poussin (entrambi realmente esistiti) e Frenhofer, un vecchio artista creato da Balzac. Tre i personaggi femminili: Maria Egiziaca, la santa prostituta del IV secolo, ritratta da Porbus e sulla quale si sviluppa il primo movimento del racconto. Gillette, giovane modella e amante di Poussin, usata da quest’ ultimo per entrare nei favori di Frenhofer. E Catherine Lescaut, leggendaria cortigiana, soggetto del quadro misterioso su cui Frenhofer lavora da dieci anni e che non ha mai fatto vedere a nessuno. Tutto il racconto tende allo svelamento finale di questa tela, attraverso una costante tensione alla ricerca della perfezione. «La missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla!» sentenzia Frenhofer rivolto ai più giovani. Ma alla fine lo svelamento della sua Catherine Lescaut («Ella è mia, soltanto mia. Mi ama. Non mi ha forse sorriso a ogni pennellata che le ho dato?») rivelerà un quadro del tutto inaspettato: «Io qui vedo soltanto dei colori confusamente ammassati, e delimitati da una moltitudine di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura» esclama Poussin. È il precipitare del racconto verso la fine, la morte di Frenhofer nel fuoco di tutte le sue tele. Capirà adesso il lettore paziente, l’elenco pedante delle date, proposto in apertura. Balzac scrive il «Capolavoro» trent’anni prima che gli Impressionisti si affaccino sulla scena parigina, sconvolgendola. Settant’anni prima dei vagiti dell’Astrattismo, un secolo prima della nascita dell’Informale. Mondrian, Kandinsky, Malevich, i futuristi non sono neanche all’orizzonte. Eppure nella condanna di Frenhofer. nella sua disperata ricerca di senso, ci sono tutti i segni del superamento del figurativo e i batteri che avrebbero fermentato nella storia dell’arte moderna. Facile capire come «Il capolavoro sconosciuto» abbia affascinato e tormentato generazioni di artisti e intellettuali. Cézanne scriveva «Io sono Frenhofer». Pablo Picasso stabilì il suo studio in Rue Grands Augustins, lo stesso indirizzo parigino in cui è ambientata la storia e qui dipingerà «Guernica». Henry James, Baudelaire, Rilke, Croce, Hofmannsthal, Italo Calvino hanno scritto su questa «tragedia in narrativa». [...].

 

 

  Anna Fierro, Ibridazioni balzachiane: “meditazioni eclettiche” su romanzo, teatro, illustrazione Thèse de doctorat sous la direction de Marco Lombardi, soutenue le 5 mars 2012 à l’Université de Florence, Scuola Dottorale in Filologia Moderna e Letterature comparate, Dottorato di ricerca in Lingue e Culture del Mediterraneo, XXIII ciclo, pp. 271.

 

 

  Francesco Fiorentino, Sulla difficoltà di raccontare una battaglia. Balzac, Stendhal, de Maistre, in AA.VV., I pensieri dell’istante. Scritti per Jacqueline Risset, Roma, Editori Internazionali Riuniti, 2012, pp. 197-206.

 

  Uno studio rigoroso sui diversi modi di considerare e di descrivere la guerra nella letteratura romanzesca del primo Ottocento francese porta a delineare almeno due importanti modelli ideologici e rappresentativi tra loro contrapposti. Da un lato, la concezione dell’eroismo militare e del carattere sacro della guerra riconosciuta e celebrata da de Maistre nelle Soirées de Saint-Petersbourg; dall’altro, la completa estraneità ad ogni idea eroica della guerra — soggetto epico per eccellenza – che Stendhal nella Chartreuse de Parme e Mérimée ne L’Enlèvement de la redoute manifestano in maniera così radicalmente marcata nei rispettivi trattamenti narrativi della guerra e, più in particolare, della battaglia.

  A Balzac, la concezione della sacralità della guerra espressa dal de Maistre appare del tutto estranea: per quanto lo scrittore fosse stato sempre affascinato dal racconto di scene militari, le sue visioni di totalità prospettica nella rappresentazione della battaglia (e non solo) imponevano di «mettre à l’oeil du lecteur la lorgnette du général» e non certo di limitarsi alle focalizzazioni parziali ed alle restrizioni di campo che lo sguardo dei personaggi di Stendhal e di Mérimée poneva in modo così incompleto, così poco autorevole e poco consapevole sulla “scena della battaglia”.

 

 

  Marie-Louise Lentengre e Franca Zanelli Quarantini, Balzac, in AA.VV, L’età moderna e contemporanea, a cura di Umberto Eco. 13. L’Ottocento. L’età del Romanticismo. Letteratura, Milano, La Biblioteca di Repubblica-L’Espresso, 2012, pp. 261-274.

 

  Cfr. 1998.

 

  In questo sintetico profilo biografico-letterario dedicato allo scrittore francese, vengono posti in primo piano alcuni tra i momenti più significativi della vita di Balzac, del suo percorso formativo nel campo della letteratura e della sua evoluzione lungo la strada del romanzo, non soltanto francese, ma europeo.

  Dominanti, anche per quel che riguarda le loro future proiezioni romanzesche, sono le influenze di alcune figure femminili sul carattere e sulle inclinazioni personali e letterarie del futuro romanziere (l’ambiguo e tormentato rapporto con la madre, la figura tutelare di Madame de Berny, l’illusoria incarnazione della felicità coniugale rappresentata da Mme Hanska). A partire dal 1823, con la pubblicazione de La Physiologie du mariage, passando per il 1831 (con La Peau de chagrin) e giungendo sino agli anni 1833 1833, Balzac si getta nella composizione parallela di più romanzi mostrando un polimorfismo creativo ancora ineguagliato: in assoluta simbiosi con la propria scrittura, egli dà luogo a un fenomeno di trasmigrazione dell’io autoriale nella finzione narrativa quale non s’incontrerà più in letteratura» (p. 266). Il privilegio dato da Balzac alla rappresentarsene narrativa della contemporaneità e della dimensione del privato si riflette nella incisività pittorica propria dell’universo dei personaggi da lui creati, veri e propri «responsabili della dinamica della rappresentazione romanzesca» (p. 271).

 

 

  Maddalena Mazzocut-Mis, Una scienza per ogni mostro. Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, Cuvier, Balzac e la querelle ... sulla “zebra mostruosa”, in AA.VV., Spazi del mostruoso. Luoghi filosofici della mostruosità a cura di Simone Guidi e Antonio Lucci, «Lo Sguardo – Rivista di filosofia» (on-line), n. IX, 2012 (II), pp. 137-149.

 

  Cfr., soprattutto, pp. 144-149. Cfr. anche 1992.

 

 

  Giampiero Moretti, “Séraphîta” e “Clara”: il mondo degli spiriti come immagine, in Per immagini. Esercizi di ermeneutica sensibile. Postfazione di Flavio Ermini, Bergamo, Moretti & Vitali, 2012 («Narrazioni della conoscenza. Andar per storie», 24), pp. 119-130.

 

  In questo saggio, Giampiero Moretti individua un orizzonte di lettura del romanzo filosofico balzachiano: Séraphîta (1835), terza ed ultima parte della trilogia del Livre Mystique. In questo roman-étude philosophique, Balzac descrive l’invisibile nel suo essere reale e reso potentemente reale, quasi tangibile, dalla parola letteraria e dalla sua trasfigurazione romanzesca. Grazie all’assunzione diretta del tema dell’androgino come metafora di una condizione e di un viatico spirituale dell’uomo, Balzac «presenta al lettore un percorso che sfocia nell’invisibile, un invisibile descritto e narrato, in quanto i sensi possono coglierlo» (p. 120). Il ruolo della visionarietà mistica e, in particolare, la nozione centrale, nel romanzo, di corrispondenza consente allo scrittore, come consentì, nel 1809, da una prospettiva filosofica, a Schelling in Clara, di oltrepassare i limiti linguistico-visivi della rappresentazione artistica attraverso una pratica della scrittura che si pone e si realizza al di là dei limiti imposti dall’esperienza sensibile. In altri termini, precisa l’A., la realtà è tale, per Balzac come per Schelling, «soltanto se in essa, attraverso di essa, traspare la trama spirituale, che ne “sostiene” invisibilmente la manifestazione corrispondendole intimamente» (p. 122). Nella parte finale dello studio, sono degne di considerazione le riflessioni di Moretti circa le affinità tra la teoria swedenborghiana filtrata attraverso Séraphîta di Balzac e gli assunti presenti in alcune opere di Strindberg e di Schönberg.

 

 

  Luca Mori, Balzac e l’inversione tra persone e cose, «Polemos. Scuola di formazione e studi sui conflitti», Trento, 2012, pp. 1-3.

 

  La prima esposizione universale si tenne a Londra nel 1851, in un palazzo di ferro e vetro montato in Hyde Park, abbastanza capiente da ospitare quattordicimila espositori di materie prime, macchine, prodotti manifatturieri e opere d’arte. Erano passati appena tre anni dalle rivoluzioni del 1848 e dalla stesura del Manifesto del partito comunista e circa sei milioni di visitatori andarono a guardare, provare, toccare e acquistare.

  Come ricorda Italo Calvino nella Nota introduttiva a I piccoli borghesi di Balzac, sono anni in cui, nella Francia della «monarchia borghese» di Luigi Filippo (1830-1848), inizia a diffondersi l’epiteto «piccolo borghese» e la letteratura descrive la comparsa di un nuovo mondo, popolato da personaggi che aspirano a salire la scala sociale, attraverso l’accumulo, il possesso e l’esibizione di ricchezza e di cose. Honoré de Balzac concepiva in quegli anni il disegno di una Comédie humaine e, come osservatore e narratore, fu apprezzato perfino da Marx, che nel terzo libro del Capitale lo menziona come scrittore capace di una «profonda comprensione dei rapporti reali» [...].

  Balzac si occupa di tipi umani e di situazioni tipiche, partendo dall’idea che il “reale” è territorio inesauribile alla ricerca, percorribile e descrivibile in modi innumerevoli. [...].

  Tra i romanzi di Balzac, il Papà Goriot offre un racconto esemplare di un certo tipo di feticismo, che scambia e sostituisce le relazioni possibili tra le persone con gli oggetti e gli status che si posseggono o si potrebbero possedere. La vicenda è ambientata nella pensione borghese della vedova Vauquer, che offre «in miniatura, gli elementi dell’intera società», in fondo a rue Neuve-Sainte-Geneviève, nel quartiere più orribile della città.

  Goriot, nuovo borghese che da semplice operaio è diventato un ricchissimo industriale pastaio, vi arriva sessantanovenne, dopo aver abbandonato gli affari e portando con sé una ricchezza inconsueta per il luogo. La scena in cui la vedova Vauquer lo aiuta a mettere in ordine le cose che ha portato con sé è indimenticabile per la descrizione della relazione tra l’entrata in scena degli oggetti e lo stato d’animo della donna [...].

  Grazie agli oggetti che porta con sé e alle annotazioni contabili che la vedova riesce a sbirciare, Goriot appare come trasfigurato. [...].

  Tutto ruota attorno agli oggetti. Non è il feticismo delle merci di cui scrive Marx quando riflette sull’arcano della forma merce, su come un tavolo possa diventare cosa «sensibilmente sovrasensibile», apparendo quasi una figura indipendente dal lavoro umano e dalle relazioni sociali, analogamente a quel che accade «nella regione nebulosa del mondo religioso», dove «i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana». Tuttavia, se col termine feticismo vogliamo indicare un’inversione o una sostituzione di relazioni e affetti con cose, potremmo interpretare in questa chiave la vicenda di Goriot, facendo una distinzione tra due livelli. Tra le cose che porta con sé alla pensione, Goriot mostra di tenere in particolare a un piatto e ad una tazzina con il coperchio raffigurante due tortorelle, il primo regalo della moglie per l’anniversario delle nozze [...]. In questo caso, l’oggetto diventa il tramite di un legame ormai irrimediabilmente assente. Ma Goriot tiene molto anche ad un medaglione, in cui sono racchiuse le ciocche delle due figlie, Anastasie e Delphine, recise durante la prima infanzia (p. 303). In questo caso, la relazione potrebbe esistere, perché il padre e le figlie abitano nella stessa città e si incontrano in diverse occasioni, ma di fatto non c’è: le figlie vanno da lui soltanto perché hanno bisogno di denaro e a lui, anche in punto di morte, non resta che stringere il medaglione [...]. In punto di morte, Goriot chiama ancora le figlie con il nomignolo che avevano da piccole, ma loro non ci sono. Quanto alla vedova Vauquer, delusa nei suoi sogni di matrimonio e agio e preoccupata per il bilancio, si rifiuterà di concedere lenzuola pulite al morente. Papà Goriot, «l’equivalente romanzesco» di re Lear, è solo con i suoi oggetti, in un mondo che anche lui ha contribuito a costruire crescendo le figlie in un lusso sconfinato e diventando, ai loro occhi, l’immagine di un passato da rimuovere, non adatto ai loro rapporti con un conte e un barone, «con tanta più risolutezza in quanto è un passato prossimo e viene continuamente rinfacciato in società ai gesti e ai comportamenti delle figlie»: egli «non è altro che una funzione patema ridotta al biologico e all’economico, destituita di ogni valore e autorità». Non si tratta di sostenere che tali inversioni tra proprietà e affetti riguardino solo i nuovi grandi borghesi o i piccoli borghesi arricchiti, o che tutto inizi nella seconda metà dell’Ottocento: eppure in quegli anni qualcosa di significativo accadde. Balzac fu tra i romanzieri che seppero cogliere la comparsa di nuovi tipi umani e di nuove forme di indifferenza legate all’inversione tra persone e cose.

 

 

  Ferdinando Pappalardo, Gozzano, Balzac e le “illusioni perdute”, «Belfagor», 399, anno LXVII, n. 3, 31 maggio 2012, pp. 315-323.

 

  Si tratta di uno studio delle corrispondenze intertestuali e delle omologie semantiche esistente tra Illusioni perdues di Balzac e I Colloqui di Guido Gozzano La tematica fondamentale posta in primo piano da entrambi gli scrittori è quella relativa alla dialettica tra la dignità ed il ruolo della figura dell’artista e i meccanismi che dominano e determinano le dinamiche del mercato della cultura. I due personaggi protagonisti dei rispettivi romanzi, Lucien de Rubempré e Totò Merùmeni, prendono una decisione opposta rispetto al tentativo di (ri)affermare la nobiltà ed il primato dell’arte e dell’artista rispetto alle logiche perverse e spietate della modernità capitalistica: Lucien, preso dalla smania e dall’ambizione (che si rivelerà fallimentare) di “parvenir” ad ogni costo, vuole conquistarsi fama e fortuna perché è convinto che tutto oramai si possa risolvere con il denaro, Totò Merùmeni, al contrario, sceglie la dolorosa strada dell’esilio «per espiare la colpa di avere a lungo, ostinatamente coltivato il suo “sogno d’arte”» (p. 317) difendendo all’estremo la libertà del poeta.

  In questo senso, i Colloqui gozzaniani, dove non v’è alcuna traccia riferimento diretto a Balzac, possono interpretarsi come «un sommesso epicedio dell’Io lirico e, al contempo, della civiltà umanistica: quella stessa civiltà il cui triste crepuscolo è narrato nella Comédie humaine» (p. 322).

 

 

  Chiara Pasetti, Un introvabile di Balzac. Il Madoff dell’Ottocento, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, n. 208, 29 Luglio 2012, p. 28.

 

  Appena ripubblicata da Flammarion, la commedia Le Faiseur di Balzac, poco conosciuta sia in Francia che in Italia (le edizioni italiane più recenti risalgano (sic) agli anni 80), concepita nel 1839 ma ripresa poi nel 1844 e ancora quattro anni dopo, alia vigilia dei moti dei 1848 e del Manifesto di Marx ed Engels, rappresenta la più felice incursione nella prosa teatrale da parte del maestro del romanzo realista, il quale non ebbe mai grande fortuna come commediografo.

  Nota anche con il sottotitolo di Mercadet dal nome del protagonista (e con questo titolo venne rappresentata postuma, un anno dopo la morte di Balzac, in una riduzione altrui che ne mutilava l’opera originale ma la portava al successo sulle scene), un personaggio, a metà tra Rabelais e Molière, chiaramente autobiografico, Le Faiseur (in italiano «l’affarista», ma anche «colui che sente il desiderio di fare del nuovo», «du buzz», del rumore insomma, e di rumore il cialtrone e facondo Mercadet ne fa davvero tanto) mette in scena un uomo d’affari furbo e spregiudicato il quale, a dispetto della vita agiata che conduce, si trova in bancarotta a causa di una serie di imprese mal gestite.

  Il testo è caratterizzato da una satira pungente e da tematiche di sorprendente attualità, degne della più moderna comédie humaine; la frenesia e l’immoralità delle speculazioni economiche, il gioco spietato delle Borse, il mondo cinico degli affari, il culto del nuovo idolo, il denaro, adorato in un nuovo tempio, la Borsa. Nella nuova edizione francese si legge: «l’affare Madoff visto da Balzac», e in effetti molti sono gli elementi comuni nel sistema truffaldino di arricchimento dell’ottocentesco Mercadet e del suo epigono contemporaneo Bernard Madoff. Per tutti e due questi superbi escrocs, cui si aggiunge anche Charles Ponzi, si tratta di praticare un’arte che Wall Street chiamerà poi junk bonds, le obbligazioni spazzatura.

  Mercadet, infatti, millanta di possedere capitali del tutto inesistenti, convincendo i creditori a investire denaro in affari immaginari, e continuando a rimandare la restituzione di un capitale che non arriverà mai, e che lui tuttavia utilizza per consentire alla figlia e alla moglie, che «è un’insegna per uno speculatore», di fare la bella vita. Inseguito da tutti i suoi creditori e dagli usurai Mercadet, nella «fertilità», e folla, dei suoi «concepimenti», progetta come soluzione di maritare la figlia Julie con un milionario, che a sua volta si rivelerà un imbroglione spiantato. E alla fine si convincerà a darla in moglie all’apparentemente più modesto Adolphe Minard, contabile, grazie al quale si scioglierà il mistero intorno al personaggio di Godeau. Inventato da Mercadet per motivare il suo fallimento e quietare i creditori, Godeau «è un mito, una favola, un fantasma», il socio inesistente scappato in India con il capitale, ma con la promessa di tornare restituendo metà della fortuna accumulata laggiù. Parto dell’immaginazione di Mercadet, più volte evocato nel testo, è un espediente geniale, quasi un «plagio per anticipazione» del più celebre Godot di Beckett, singolarmente omofonico a quello di Balzac, che alla fine, vero deus ex machina, non lascerà più i creditori né il suo fantasioso creatore en attendant God(eau): si incarnerà infatti nel patrigno di Adolphe Minard (diventato dunque, improvvisamente, Adolphe Godeau), tornato da Calcutta con una fortuna «incalcuttable»!

  Inizialmente demone del denaro e della truffa, l’angelo caritatevole è tornato per salvare Mercadet. Salvarlo dai creditori, ma soprattutto dall’incubo di ritirarsi in campagna con la famiglia per occuparsi di agricoltura. E lo salverà non grazie al potere dell'oro; è il trionfo, alla fine, del potere della parola, della poesia, del sogno. La più onesta, e fertile, delle speculazioni.

 

 

  Alessandro Piperno, La commedia umana nel dramma di Goriot, «la Repubblica», Roma, 3 agosto 2012, p. 40.

 

  Mi rinvolgo a un classico, fondamentale nella storia della letteratura e anche in quella del suo autore: Papà Goriot di Honoré de Balzac. Lo considero un’opera perfetta perché unisce in sé tutte le cose che un grande romanzo deve avere: è sociale, ma anche sentimentale e descrive tre tipi umani che sono anche tre grandi personaggi letterari. Eugène De Rastignac è il giovane idealista, Vautrin è il criminale satanico e affascinante, Papà Goriot un padre che si rovina per le figlie mentre loro si vergognano di lui e continuano a sfruttarlo. Trovo che tutto ciò sia molto vero e molto toccante. Una storia senza tempo.

 

 

  Alessandro Piperno, La capanna di Philip Roth, «Corriere della Sera-La Lettura», Milano, 25 novembre 2012, p. 34.

 

  Balzac ha insegnato ai romanzieri che un singolo libro, per quanto bello e appassionante, non può e non deve bastare. Affinché l’arte rivaleggi con la vita occorre che tra ogni libro si crei una segreta promiscuità. Balzac era convinto che solo attraverso tale intreccio misterioso, sancito dalla trasmigrazione dei personaggi da un romanzo all’altro, si potesse restituire il senso del tempo.

  Il caso-Roth dimostra quanto Balzac avesse ragione. [...].

  Pensate alla giovane Amy Bellette di cui ci siamo tutti un po’ invaghiti ne Lo scrittore fantasma, che rispunta fuori — vecchia, smagrita, malata di cancro — ne Il fantasma esce di scena. Roth gioca con i ritorni balzacchiani. E lo fa meglio di Balzac. Il mondo di Balzac è troppo grande e intricato, e la sua ambizione onnicomprensiva. Roth si contenta. Dà prova di umiltà e furbizia. La sua unità di misura è la famiglia, non la società. Questo facilita il compito sia per lo scrittore che per il lettore. Conoscete nucleo sociale più commovente della famiglia?

 

 

  Alessandro Piperno, Il trionfo della volgarità. Uno specchio del mondo, «Corriere della Sera», Milano, Anno 137, N. 287, 2 dicembre 2012, p. 42-43.

 

  Pubblicato anche come introduzione a H. de Balzac, Illusioni perdute ... cit.

 

  Identificazione. Ciò che lo scrittore condivide con Lucien e senso d’inadeguatezza, voglia di riconoscimento, revanscismo, terrore di non farcela. I sogni dell’autore. Un’edizione ben curata dei suoi romanzi; il saldo dei suoi debiti; un matrimonio accarezzato da tempo. L’arte come vita: «Illusioni perdute» di Balzac. Il protagonista commette l’errore irrimediabile di scommettere tutto sulla felicità, di credere nella possibilità che i desideri umani si esaudiscano.

 

  Passy, oggi, è un quartiere residenziale di Parigi adagiato sulla riva destra della Senna. Uno spazio urbano a dir poco esclusivo (quindicimila euro a metro quadro) che gode di totale autosufficienza. Chi vive lì trova tutto quello di cui ha bisogno: e chi vive lì ha bisogno di molte cose. L'atmosfera che vi si respira quasi tutto l’anno (soprattutto quando il cielo grigio del mattino viene scaldato dai colori esotici della frutta, dei crostacei, delle tartelettes geometricamente esposti dietro le vetrine) è quella di un Natale perpetuo. Gli showroom di biancheria e di arredo per la casa meritano una menzione speciale: non ce n’è uno che non esibisca un soggiorno e una cucina in cui chiunque amerebbe trasferirsi.

  Nonostante (o forse in virtù?) di tanta distinzione, Passy non è un quartiere turistico. I bistrot sono affollati di benestanti famiglie autoctone e di studentesse americane della New York University, la cui sede parigina è una delle glorie del quartiere. Quando siedi tra loro, come uno sfiancato flâneur baudelairiano, quasi non li ricordi di essere così vicino al fiume. Passy sembra costruita per suggerire in chi vi abita l’illusione di aver raggiunto finalmente un porto sicuro. [...].

  Percorrendo questa via silenziosa hai l’impressione di essere nel classico waterfront di una metropoli internazionale. Almeno finché non ti imbatti in una modesta casupola al numero 47, stretta fra due palazzi di lusso.

  È in quel rudere sul fiume che, quasi due secoli fa, Honoré de Balzac, braccato dai creditori, si trasferì, sotto false generalità, per poter lavorare in pace al suo mostruoso progetto romanzesco. Rimase in quella catapecchia per sette anni e morì poco tempo dopo averla abbandonata. La piccolezza della scrivania di legno (unico pezzo originale della modestissima collezione) è inversamente proporzionale all’energia circostante: è su questo pezzo di legno che lavorò il più grande stacanovista della storia della letteratura. È qui dentro che, nella primavera del 1843, eccitato dall’idea di poter finalmente raggiungere l’amata madame Hanska a San Pietroburgo, Balzac scrisse in pochi mesi la terza parte di Illusioni perdute: il romanzo cui lavorava da quasi dieci anni e le cui prime due parti erano uscite da un bel pezzo. A quel tempo Passy era ancora un paese autonomo rispetto a Parigi. Solo nel 1860, dieci anni dopo la morte di Balzac, sarebbe diventato il XVI arrondissement.

  Non è suggestivo che Balzac scriva della fuga da Parigi di Lucien de Rubempré in un luogo che non è ancora Parigi ma che sta per diventarlo? In fondo, se non da un punto di vista topografico almeno da un punto di vista emotivo si può dire che Passy si trovi a metà strada tra Angoulême? la cittadina di provincia in cui Lucien è nato? e Parigi, la metropoli in cui non è riuscito a fare fortuna, dalla quale sta fuggendo, alla quale ben presto verrà convinto a tornare, e nella quale, da bravo eroe ottocentesco, troverà la morte.

  Che dire di tutto questo se non che è splendidamente balzachiano?

 

***

  «Balzac aveva tre sogni: una grande edizione ben curata delle sue opere, il saldo dei suoi debiti e un matrimonio coccolato e accarezzato da lungo tempo nel fondo dell’animo; grazie a fatiche la cui mole atterrisce l’immaginazione dei più ambiziosi e laboriosi, l’edizione si fa, i debiti si pagano, il matrimonio va in porto. Balzac senza dubbio è felice. Ma la sorte maliziosa che gli aveva permesso di mettere un piede nella sua terra promessa, subito ve lo strappò violentemente. Balzac ebbe un’agonia terribile e degna delle sue forze».

  Parole di Baudelaire, ovvero di uno dei più ferventi ammiratori che Balzac abbia mai avuto. Colgono perfettamente, la natura fatale del destino di un uomo di stupefacente esuberanza che commise l’errore di scommettere sulla felicità e di credere nella possibilità che i desideri umani, prima o poi, si esaudissero.

  Illusioni perdute racconta questa ingenuità e questa follia: un meraviglioso itinerario di autodistruzione. Non sorprende che Balzac la considerasse «l’opera capitale nell’opera». Togliete alla Commedia umana Illusioni perdute (e il suo sequel Splendori e miserie delle cortigiane), fate sparire dall’universo balzachiano Lucien de Rubempré e David Séchard, e nulla sarà più come prima. Se La pelle di zigrino è il romanzo della svolta, quello in cui Balzac trova se stesso definitivamente, se in Papà Goriot fanno la loro comparsa sulla scena due dei personaggi più rappresentativi dell’immenso ciclo balzachiano, il dittico formato da Illusioni perdute e Splendori rappresenta, nell’ecosistema della Commedia umana, lo zenit sfavillante: il luogo privilegiato in cui tutti i motivi ritornano, amalgamandosi con una gravità e una grazia che tolgono il fiato. In cui i personaggi più celebri danno il peggio e il meglio di sé. In cui Rastignac incontra de Rubempré, e in cui Vautrin riappare sotto mentite spoglie ma sempre più determinato. In cui Balzac, come solo i sommi romanzieri sanno fare, parla di sé senza mai nominarsi.

  Come dicevo, Illusioni perdute fu elaborato nel corso di molti anni, e portato a termine nell’età giusta per un romanziere. Quella in cui il vigore della giovinezza e il disincanto della maturità trovano un radioso equilibrio. Qualcosa di simile sarebbe capitato a Stendhal nei cinquantatré giorni in cui scrisse La certosa di Parma, e nei lustri in cui Flaubert avrebbe elaborato L’educazione sentimentale. Ciò che unisce questi tre capolavori della narrativa di ogni tempo è il fatto che furono vergati da uomini che iniziavano a sentirsi vecchi, e forse per questo desideravano raccontare, con il senno di poi, il fallimento delle aspirazioni della giovinezza. Romanzi generazionali destinati a divenire romanzi universali.

  Del resto, non c’è niente in Illusioni perdute con cui Balzac non si senta intimamente implicato. Balzac conosce la monotonia della vita di campagna e i lussuosi miraggi della metropoli; conosce l'odore di chiuso delle stamperie di provincia, così come l’aria insalubre delle tipografie cittadine; il pane secco della miseria, e quello fresco e profumato di una tavola ben imbandita; per non dire degli usi capricciosi dell’aristocrazia, della corruzione dei giornalisti, dell’orgoglio monastico degli incorruttibili, della dissoluta frivolezza delle cortigiane ... Ma soprattutto Balzac conosce quello stato d’animo peculiare in cui illusione e disillusione si danno costantemente il cambio: la dialettica interiore che rende la vita di certi uomini troppo ingenui e troppo ambiziosi un calvario senza fine. Dire che Illusioni perdute è l'opera più autobiografica di Balzac non significa dire che lui somigli al suo biondo eroe, Lucien de Rubempré. Ciò che Balzac condivide con Lucien è il senso di inadeguatezza, il revanscismo, la voglia di essere riconosciuto, il terrore di non farcela. Non stupisce che la genealogia di Lucien sia così controversa. È figlio di un’aristocratica di provincia e di un borghese: i suoi natali fanno quindi di lui un potenziale impostore e uno snob. Anche in questo Lucien è gemello del suo creatore. D'altro canto, la facilità con cui Lucien si fa abbindolare dalle proprie stesse illusioni non è meno balzachiana dei suoi improvvisi accessi di virtù. Basta mettere il naso nell’epistolario di Balzac per rendersi conto che la vita di quel grand’uomo fu scandita da una serie infinita di previsioni sulla propria sorte a dir poco ottimistiche. Occorre dire che le sue smanie erano talmente impetuose da non conoscere, alcuna scaramanzia. La vita lo punì, l’opera se ne giovò. Illusioni perdute è la sublime presa d’atto di tanta dissennatezza.

 

***

 

  Il più grande dolore della mia vita è stata la fine di Doctor House, la famosa serie tv americana. Sto parafrasando, o per meglio dire parodiando, Oscar Wilde, quando disse che la morte di Lucien de Rubempré era «one of the greatest tragedies of my life». La boutade estetizzante di un dandy? Un’affettazione di disprezzo decadente nei confronti dell'esperienza umana a vantaggio dell’esperienza artistica? La sagace celia di un aforista irresistibile? Forse tutte queste cose assieme ma anche parecchio di più. [...]. C’è qualcosa di folle e di magnifico nella promiscuità che talvolta si stabilisce tra la nostra vita e le opere di fantasia. Una psicoanalista una volta mi raccontò che una sua giovane paziente aveva tentato il suicidio per amore di Mr Darcy, il protagonista di Orgoglio e pregiudizio. E ho sentito dire che un giorno i barcaioli della Senna scioperarono perché Dumas, a causa d’un’influenza, non era riuscito a consegnare la puntata settimanale del Conte di Montecristo ... Ecco, diciamo che nessuno ha saputo concepire un’opera così compromessa con la vita come Honoré de Balzac. Dopo un po’ che leggi i suoi romanzi non riesci più a distinguere la differenza tra il dato reale e quello fittizio (e per i suoi contemporanei la sensazione doveva essere ancor più imbarazzante). E l’idea di far tracimare i personaggi da un romanzo all’altro, affidando loro ogni volta un ruolo diverso (che so, Rastignac è protagonista in Papà Goriot e semplice comparsa in Illusioni perdute), è un geniale tradimento del patto romanzesco tra autore e lettore. Balzac viola un vincolo oltre il quale c’è la follia. Tale violazione fa di lui il più grande e visionario romanziere del diciannovesimo secolo. A tal proposito Proust ha scritto: «Se, com’è stato mille volte osservato, i personaggi dei suoi romanzi erano per lui esseri reali, tanto ch’egli discuteva seriamente quale fosse il miglior partito per Clotilde de Grandlieu o per Eugénie Grandet, si può egualmente dire che la sua vita era un romanzo, ch’egli costruiva assolutamente nella stessa guisa. Non c’era in lui nessuna distinzione tra la vita reale (quella che, a mio giudizio, non è tale) e la vita dei suoi romanzi (la sola vera per lo scrittore)».

  Non è superfluo osservare che Proust scriveva queste parole alla vigilia dell’immersione nella Recherche, ovvero nel momento in cui si stava preparando a vivere lo spicchio di vita che gli restava in preda a una follia non meno totalizzante di quella di Balzac. In Illusioni perdute l’osmosi tra vita e arte è talmente radicale che ne risentono persino lo stile e la tecnica narrativa. La prima parte del libro, intitolata I due poeti, si svolge nella cittadina di provincia di Angoulême e racconta l'amicizia tra Lucien de Rubempré, poeta alle prime armi, e David Séchard, lo stampatore dal cuore buono e dall’ingegno fertile. Balzac descrive da par suo la vita di provincia: differenze di classe, maldicenze, questioni ereditarie, poderi contesi e vita di società. Il lettore fatica ad appassionarsi. Lo stile è lento, troppo puntiglioso. Balzac sembra indugiare su dettagli insignificanti. Solo dopo aver letto d’un fiato la seconda parte, Un grand’uomo di provincia a Parigi, che racconta in modo a dir poco funambolico l'esperienza in città di Lucien, alla ricerca di fama e fortuna, il lettore capisce perché la prima parte del libro fosse così noiosa. È attraverso tale shock stilistico che Balzac rende plasticamente la differenza tra la vita di campagna e la vita di città. La vertigine, l'eccitazione, lo stupore barocco che soverchiano Lucien appena arrivato a Parigi somigliano molto a quelli che afferrano il lettore, uscito con le ossa rotte da un centinaio di pagine molli e tediose. Ecco che d’un tratto anche il lettore (oltre a Lucien) inizia a spassarsela.

 

***

  Ha scritto Francesco Fiorentino: «Illusioni perdute costituisce la prima e più terribile requisitoria romanzesca contro il potere della stampa. Ha emesso una condanna che non avrà appello: il romanzo europeo non sarà mai benevolo con i giornali perdute costituisce la prima e più terribile requisitoria romanzesca contro il potere della stampa. Ha emesso una condanna che non avrà appello [...].

E in fondo, a ben pensarci, lo scontro tra scrittori e giornalisti descritto da Balzac in Illusioni perdute, ancora in auge nella nostra epoca, non è altro che il conflitto inevitabile tra chi impiega qualche anno per scrivere un libro e chi ne deve leggere (si fa per dire!) e recensire una dozzina alla settimana. Non è detto che lo scrittore sia più profondo e talentuoso del giornalista, e il giornalista per forza più superficiale dello scrittore. Spesso capita che un recensore brillante si occupi dì uno scrittore mediocre, e tuttavia, converrete con me, la prospettiva tra uno scrittore e un giornalista è tutt’affatto diversa. Chi scrive un libro è animato dall’illusione che il suo manufatto possa essere letto anche tra qualche tempo, se non per sempre. Chi scrive un articolo sa che esso è, per sua stessa natura, effimero. Un buon libro può concedersi qualche lentezza meditabonda. Un articolo deve essere esplosivo, a costo di risultare tranchant ... Balzac era di casa in questo tipo di scontro. E non solo perché nella sua avventurosa esistenza aveva fatto molti mestieri: editore, giornalista, drammaturgo, scrittore... ma anche perché, come tutti gli artisti controversi? alle spalle un bel numero di successi e di fiaschi?, era oggetto privilegiato di attacchi giornalistici, di sarcasmi e di pettegolezzi. La seconda parte di Illusioni perdute, Un grand’uomo di provincia a Parigi, è interamente consacrata alla dialettica implacabile tra l’intransigenza del «cenacolo» artistico che accoglie fraternamente Lucien appena giunto a Parigi, riconoscendo in lui un talento in nuce, e la combriccola dei giornalisti votati all'imprecisione, al gossip e alla maldicenza. Niente di strano. Illusioni perdute, come tutti i grandi romanzi ottocenteschi, è un’opera manichea, edificata su esasperanti dicotomie: campagna-città, povertà-lusso, prodigalità-avarizia, ingenuità-scaltrezza, virtù-vizio, lavoro-pigrizia e naturalmente la purezza giansenista del cenacelo contrapposta alla corruzione morale del giornalismo. La cosa grandiosa è che Lucien, stretto tra tutti questi fuochi, si distingue sempre per indolenza, malleabilità, mimetismo. È sentimentalmente attratto dalla via aspra ma finisce sempre con l’imboccare quella più facile. E ancora una volta il lettore è con lui. Per quanto i discorsi di d’Arthez, lo scrittore del cenacolo, siano pieni di onestà, virtù, rigore, il lettore è decisamente più attratto dalle ciniche prolusioni del bieco Lousteau, e dal suo milieu popolato di laidi commercianti, attricette minorenni, editori senza scrupoli, giornalisti prezzolati ... La filippica nella quale Lousteau spiega a Lucien perché occorre stroncare duramente un buon libro è seconda, per bellezza e verità, solo a quella con cui, nella terza parte del libro, Vautrin (travestito da Herrera) convince Lucien a ritornare a Parigi. Balzac ha una naturale attrazione per l’abiezione. Come aveva ben inteso Proust, per capire Balzac fino in fondo occorre innamorarsi della sua volgarità. Illusioni perdute, essendo «l’opera capitale nell’opera», trasuda degli impulsi primari da cui Balzac è ossessionato non meno di quanto lo sia il suo inesperto eroe. Balzac si preoccupa dell’età, dell’avvenenza e dell’eleganza dei suoi personaggi in modo a dir poco compulsivo. Il barone Sixte du Châtelet viene sempre presentato come un ex bel giovane che pateticamente non si arrende all’idea di essere invecchiato. D’altronde, Balzac non si dimentica mai di ricordarci quanto Lucien sia bello e giovane. E quanto sia malvestito. Il mirabile splendore di madame de Bargeton sbiadisce, agli occhi di Lucien almeno, non appena viene paragonato a quello emanato dalle dame parigine ... A confronto, la tragica superficialità di Balzac fa scolorire il nichilismo edonista del suo epigono Bret Easton Ellis. Nel mondo balzachiano la giovinezza, la ricchezza e la bellezza sono valori assoluti e insindacabili. Una sorta di feroce darwinismo ante litteram. Per non dire dei soldi, naturalmente. Che meritano un capitolo a parte.

  Balzac ci informa pedissequamente delle rendite e della solvibilità di ciascun personaggio. Le pagine di Illusioni perdute sono zeppe di cifre come la dichiarazione dei redditi stilata da un coscienzioso commercialista. Quando c’è di mezzo il denaro la prosa di Balzac diventa di una sensualità erotica. Così Lucien reagisce al primo luculliano banchetto cui partecipa: «Assaporava le prime delizie della ricchezza, soggiaceva al fascino del lusso, al potere della buona tavola; i suoi istinti capricciosi si risvegliavano, beveva per la prima volta vini sceltissimi, faceva conoscenza con i piatti squisiti dell'alta cucina; vedeva un ministro, un duca e la sua ballerina che, mischiati ai giornalisti, ne ammiravano l’atroce potere». E ancora: «Quel lusso agiva sulla sua anima come una ragazza di strada agisce su un liceale con le sue carni nude e le sue calze bianche ben tirate». E ancora: «Alle orecchie di Lucien, ogni cosa si risolveva con il denaro. Nel Teatro come nell’Editoria, nell’Editoria come nel Giornalismo, di arte e di gloria non si parlava neanche». (Anche in questo il mondo non è cambiato così tanto rispetto ai tempi di Balzac: ancora oggi l’argomento preferito da uno scrittore è il modesto anticipo ricevuto, non all’altezza del suo talento, e quello assai più sostanzioso elargito dall’editore al collega meno dotato). Le ragioni dell’arte e quelle sociali nel mondo balzachiano sembrano coincidere. Lucien non sogna mai la gloria disgiunta dal denaro e dal riscatto sociale. Non conosce la forza morale (o non ha l'ipocrisia?) dell’artista romantico che lavora solo per sé, e per la posterità. E ancora una volta si rivela parente stretto del suo creatore. Il quale in certe cose non poneva alcuna distinzione. E il paradosso è servito: questa mancanza di distinzione, questa grettezza, questa tetraggine fangosa e levantina fanno di Balzac l’insuperato cantore del destino umano. È la prima e più terribile requisitoria romanzesca contro la stampa, una condanna che non avrà appello.

 

 

  Manuela Raccanello, Su qualche aspetto di “Le Père Goriot” nelle traduzioni italiane, in AA.VV., Tradurre la letteratura. Studi in onore di Ruggero Campagnoli. A cura di Graziano Benelli e Manuela Raccanello, Firenze, Le Lettere, 2012 («Saggi»), pp. 143-164.

 

  Partendo dalla ricezione editoriale e critica del romanzo in Italia nella prima metà dell’Ottocento, l’A. ribadisce gli assunti già formulati da Raffaele de Cesare nel suo studio sulla prima fortuna di Balzac nel nostro Paese: nonostante la lodevole solerzia intellettuale italiana nei confronti di Balzac, gravemente approssimativo, spesso infedele, ed insufficiente si rivela il livello qualitativo delle traduzioni delle opere balzachiane nel nostro idioma. Inserendosi con competenza in questo complesso ed intricato discorso sulla problematica traduttiva relativa al Père Goriot, l’A. indaga, sotto una prospettiva diacronica, sulle diverse traduzioni italiane del romanzo concentrando la sua attenzione su un corpus di testi pubblicati tra il 1835 ed il 2004. Due sono i luoghi dell’opera scelti dall’A. come «zones signifiantes del testo» (p. 150): l’incipit del romanzo e la descrizione della «salle à manger» della pensione Vauquer. L’analisi comparata sulle traduzioni di queste sequenze testuali rivela, certo in misura diversa tra testo e testo e con maggiore frequenza nelle versioni anteriori alla prima metà del Novecento, la presenza di omissioni e di improprie dilatazioni linguistiche, di esagerazioni e di amputazioni testuali le quali evidenziano le divergenze tra le singole risposte traduttive, ognuna delle quali è certamente dotata di voce propria, ma che, considerate nel loro insieme, mostrano una non sempre adeguata fedeltà al testo ed una approssimativa (e discutibile) sicurezza di interpretazione.

 

 

  Valeria Ramacciotti, Balzac e “La Recherche de l’Absolu”, in AA.VV., Metamorfosi dei Lumi. 6. Le belle lettere e le scienze, a cura di Simone Messina e Paola Trivero, Torino, Accademia University Press, 2012, pp. 263-278.

 

  Il personaggio di Balthasar Claës può considerarsi come un testimone di quella generazione che «vive il passaggio tra i due secoli» (p. 269) e come l’incarnazione di una contrapposizione tra i principi dello spirito settecentesco votato a «una ricerca razionalmente condotta» (e applicata, in quest’opera, alla chimica) e l’esigenza della visione romantica di una conquista definitiva e totale» (p. 268). L’analisi dei principali attori del romanzo balzachiano condotta da Valeria Ramacciotti consente di delineare il quadro di una vicenda in cui «tutto è portato all’estremo» (p 275); dove lo studio delle passioni umane nelle loro variegate manifestazioni nel campo degli affetti, nell’ambito del sapere scientifico e delle leggi economiche consente a Balzac di «mettere in luce la passione per la ricerca di un assoluto materiale e a un tempo spirituale, tratteggiando così una moderna figura di scienziato, uomo sottoposto come gli altri alle passioni, al dominio dell’irrazionale» (p. 278).

 

 

  Rock Reynolds, Rose Tremain. Una rosa nerissima, «l’Unità», Roma, 12 gennaio 2012 pp. 38. 39.

 

  p. 39. È un azzardo collocare «La casa della seta» accanto a Balzac e Thomas Hardy?

  «È un gran complimento! Per buona parte del 2009 ho studiato Eugenia Grandet di Balzac, da cui ho tratto un adattamento per un film non ancora realizzato, dunque è possibile che l’intensità di quella storia e il personaggio di Père Grandet, il misero contadino francese senza cuore, si siano insinuati nel mio libro.

 

 

  Rosa Romano Toscani, Memorie di un fedele servitore, Roma Portaparole, 2012 («I venticinque»), pp. 151.

 

  Il romanzo illustra la vita di Honoré de Balzac (senza che lo scrittore sia mai nominato) attraverso il racconto del fedele servitore il quale segue il suo padrone e lo ritrae continuamente in ogni aspetto della sua multiforme esistenza.

 

  Trascriviamo le pagine che formano il primo capitolo:

 

  La Modeste ha il tetto in ardesia, come il castello in fondo al pianoro su cui si specchia. La porta e le persiane azzurre interrompano la monotonia delle pietre irregolari con le quali la casa è costruita. I gerani colorano i davanzali. L’edera raggiunge il comignolo e gli arbusti di rose a abbarbicano anch’essi sui muri.

  Immobile come l’antica quercia alla quale appoggio la mia vecchia carcassa, osservo con orgoglio i filari del vigneto. Gli ultimi tralci delle viti saranno presto recisi. I raccoglitori, in fermento fin dalle prime ore del mattino, si avvicendano con cesti carichi d’uva. Un vento irriverente scompiglia i miei capelli e confonde ancora di più ricordi. I rimpianti si affollano nella mente. Una lunga esistenza ha imprigionato gli anni fecondi.

  Con struggente malinconia, ogni mattina agito la mano dalla finestra del granaio, nell’illusione di vedere tra le stanze la sua sagoma muoversi come i rami degli olmi che ombreggiano il parco. Comprare questa casa è stato un atto dovuto. La vista del castello favorirà il ripristino della memoria. Il riscatto è ancora possibile.

  Ora, seduto sotto la quercia, scrivo assorto. Mi scuote la voce di mio figlio.

  — Sono qui!, gli grido.

  — Nonno, nonno ci sono anch’io.

  Angèle vola ad abbracciarmi e la stringo al petto con tenerezza. Cresce ogni giorno di più, il vestitino di mussola bianca è diventato corto. Si siede sulle mie ginocchia ridendo. Ha gli stessi occhi di Thérèse, ma i capelli biondi e i tratti delicati sono quelli di mia nuora. Con lei riscopro le ansie e le gioie provate da padre inesperto.

  — Cosa facevi nonno?

  — Ripensavo alla vita, rispondo.

  — Il nonno ha lavorato per uno dei più grandi romanzieri di Francia e adesso anche lui scrive libri, ironizza mio figlio.

  — Davvero?, insiste la piccola.

  — Al tuo babbo piace scherzare.

  Mio figlio non può immaginare quanto necessario sia per me questo faticoso esercizio.

  — Nonno andiamo a vedere le anatre?

  Mi alzo appoggiandomi al bastone. La bambina corre inseguendo i volatili che starnazzano e si tuffano nello stagno.

  Angèle cerca allora di afferrare gli anatroccoli.

  — Lasciali andare dalla loro mamma, cerco di convincerla prendendola per mano.

  Mio figlio chiede notizie del mio memoriale. Io penso alle circostanze che cambiarono il mio destino, ma non posso rispondere. Per fortuna l’angioletto, saltellandoci intorno, attira la sua attenzione.

  — Su, ora dobbiamo andare, saluta il nonno!

  Vanno via nel futuro delle loro vite, mentre io torno alla mia, che non voglio lasciarmi sfuggire del tutto.

  Il tempo passa veloce, tra poco suonerà la campana dell’addio.

  Di nuovo seduto sotto la quercia, da lontano vedo Thérèse rincasare dall’orto — la sporta colma di verdure — si affretta a preparare il pranzo per rifocillare i contadini, mentre io, annodando il filo dei ricordi, torno con la mente a quel giorno in cui sentii pronunciare il suo nome.

 

***

 

  Gaston, il vecchio cocchiere, parlava in modo concitato. Il figlio del colonnello era venuto a portare la notizia dell’incidente. Jean de Margonne, signore del castello di Saché, era già sul calesse e mi ordinò di salire. La strada per Saint-Cyr sembrò lunghissima. Al nostro arrivo vidi il tilbury rovesciato e un uomo per terra privo di conoscenza. Il cavallo azzoppato dovette essere soppresso.

  Non conoscevo il ferito ma sapevo che si trattava di uno scrittore famoso. Era scappato da Parigi dove un’epidemia di colera, in quel mese di luglio dell’anno 1832, stava seminando il panico. Il dottor Knolte, dopo avergli fasciato la testa, per evitargli i sobbalzi del ritorno a Saché, ordinò di adagiarlo nella carrozza e di condurlo dalla sua vecchia nutrice che abitava in quel villaggio.

  Il signor de Margonne era preoccupato e arrabbiato nello stesso tempo. Quel giovane al quale era affezionato non mancava di creargli problemi. E poiché lui doveva rientrare al castello mi pregò di rimanere a vegliarlo.

  Gli restai accanto giorno e notte, sempre pronto a prestargli soccorso. A pranzo e a cena lo aiutavo a mandar giù il brodo che la vecchia preparava brontolando e pregando. Verso sera arrivava il dottore, medicava la ferita e impartiva gli ordini per l’indomani. Poggiava sul letto il basco di velluto e io mi affrettavo a spostarlo: quel gesto mi spaventava come una sorta di maleficio e mi riportava alla triste fine di mio padre. Poi, poco a poco, l’infermo si rimise in salute e, a un mese giusto dall’incidente, Gaston, il cocchiere di casa Margonne, ci venne a prendere per ricondurci al castello dove continuai a occuparmi di lui. A vederlo in piedi mi sembrava un contadino delle nostre parti più che un signore; un monaco forse; un benedettino come ne avevo visti tanti nell’abbazia: l’aria sofferente, il volto emaciato, i capelli arruffati, il corpo sfatto.

  A ottobre il malato, non ancora del tutto ristabilito, dovette rientrare d’urgenza in città. Desiderava che lo seguissi. Il signor de Margonne, allora, propose a mia madre di mandarmi a servizio, ma lei si oppose, spaventata per la lontananza, così almeno credevo. Sosteneva che quell’uomo non avrebbe avuto una buona influenza su di me, che tutti sapevano quanto fosse libertino. Sopraffatta dalle mie insistenze maledisse il giorno in cui aveva accettato di mandarmi ad assistere quel farabutto. Per me divenne molto difficile spiegare le ragioni che mi spingevano a seguirlo. L’amabilità con la quale mi trattava e la gratitudine che mostrava per ogni mio gesto furono forse alla base della mia decisione, ma non era tutto. Sentivo di aver trovato in lui una fonte a cui attingere ciò di cui avevo bisogno per crescere, e non volevo rinunciarvi. A nulla sarebbe servito discutere con mia madre. Rimasi in silenzio e aspettai. Rifiutai cibo e acqua per dieci giorni. Il suo consenso arrivò dopo aver riflettuto sulla miseria a cui mi esponeva.

 

 

  Roberta Scorranese, Ventaglio. Quel vanitoso battito d’ali. Un linguaggio segreto tra le pieghe degli sguardi, «Corriere della Sera-La Lettura», Milano, 5 agosto 2012, p. 19.

 

  «Quel ventaglio, consideralo un capolavoro dal conte Popinot, procurò alla Presidentessa, alle Tuileries, dove quel gioiello passò di mano in mano, complimenti che lusingarono eccessivamente il suo amor proprio».

Honoré de Balzac.

 

  Honoré de Balzac

  Il cugino Pons.

 

  Se Emile Zola ha usato il ventaglio per dipingere la frivolezza (anche maschile) della Parigi dei Grandi Magazzini (Al paradiso delle signore, 1883), Honoré de Balzac se ne serve per fissare i suoi indimenticabili ritratti dei piccolo borghesi mossi da ambizioni aristocratiche. Ne Il cugino Pons (1847) l’ottusità dei parvenu è affidata alla bellezza delicata di un ventaglio dipinto da Watteau e appartenuto a Madame de Pompadour che il povero Pons (il cugino sempliciotto e ingenuo) scova da un rigattiere, cedendo alla sua debolezza da collezionista, e che prova a regalare all’altezzosa cugina e alla sua famiglia. «Non si può negare a quel povero cugino — disse Cécile al padre il giorno dopo quel regalo — di essere un intenditore di queste piccole sciocchezze!». Poi, quando si scoprirà che il povero Pons, nella sua mania di accumulare trouvailles, ha messo insieme una piccola fortuna, sul ventaglio e sulle altre cianfrusaglie tutti si avventeranno come avvoltoi piumati. Quell’oggetto così finemente intarsiato, con le stecche d’avorio e il disegno di vaga ispirazione mitologica (come d’uso all’epoca) fa il giro dei salotti che contano. E diventa un biglietto da visita per la dama: «Quel ventaglio, considerato un capolavoro dal conte Popinot, procurò alla presidentessa alle Tuileries, dove quel gioiello passò di mano in mano, complimenti che lusingarono eccessivamente il suo amor proprio».

  Quella di Balzac è una «poesia» delle cose che trasforma l’oggetto in un filo conduttore invisibile nella trama del romanzo, come in Madame de ... (1951), racconto di Louise de Vilmorin [...].

 

 

  Attilio Scuderi, Proteo e il metamorfico romanzo: autori e personaggi “after” Balzac, in Il paradosso di Proteo. Storia di una rappresentazione culturale da Omero al postumano, Roma, Carocci editore, 2012 («Lingue e letterature Carocci», 147), pp. 258-263.

 

  Non basterebbe un libro intero su Balzac e Proteo, nonostante in tutta la Commedia umana – immenso ciclo romanzesco di 137 opere scritto tra 1831 e 1850, anagrafe narrativa e culturale della modernità francese ed europea – vi sia forse una sola ricorrenza diretta del mito. La troviamo nel racconto Il capolavoro sconosciuto (1831), nella Parigi del Seicento, l’affermato pittore Porbus, accompagnato dal giovane apprendista Nicolas Poussin (che nella realtà storica sarà il caposcuola del classicismo figurativo francese) dialoga con l’anziano Frenhofer, intransigente e visionario sostenitore di un’idea di arte come superamento della realtà, trasfigurazione del dato materiale, ricerca di un inappagato oltre. [...].

  L’arte non deve rappresentare la vita, spiega Frenhofer; l’arte deve essere vita, palpitante, cangiante, in costante trasformazione. Ma la vita è come Proteo, non si lascia cogliere alla prima mutazione, è ricca di sotterfugi, richiede tempo e ripetuti assalti perché si manifesti nuda, infine, al suo creatore. Attraverso la figura del profetico pittore, Balzac non sta solo formulando una teoria romantica dell’arte, ma sta esprimendo il cuore della sua idea di vita e di vitalismo, quella puissance magnétiquement communicative che è all’origine della conoscenza e della creazione, scientifica e artistica. Come il Menelao della favola, il creatore deve entrare in contatto con le fonti magiche e incandescenti dell’esistenza, mimarne le virtù performative e metamorfiche, adeguarsi strategicamente alle sue mutevoli temperature. Perché per creare bisogna avere una “doppia vista”, un’intuizione che è la condizione inevitabile del contatto con il reale profondo; ecco dunque che la ricerca della forma richiede una nuova conformazione energetica e psicologica, che lo scrittore moderno trova nella sua straordinaria attitudine simbiotica, ben descritta nell’introduzione-manifesto della novella Facino Cane (1836); qui il romanziere racconta la sua attività di flâneur metropolitano come un esercizio di stanislavskijana immedesimazione, di empatica divinazione [...].

  [...] il Proteo narratore e veggente di Balzac è la forma accentuata di un metamorfismo che è la condizione stessa dell’immedesimazione artistica; su questa stessa linea sarà collocata l’intera tradizione romanzesca francese, da Flaubert a Proust, nella ricerca di un’uscita da sé, di una trasfusione empatica e letteraria nei territori della diversità psicologica e sociale [...].

  E rimanendo sui personaggi romanzeschi, guardiamo adesso un ulteriore versante della ricca sfera del proteiforme in Balzac, relativo proprio alla costruzione del carattere del Borghese e del villain. Ciò che in Lovelace era unito, qui viene simbolicamente (e tatticamente) scisso: il borghese è rappresentato come il Proteo della giungla urbana, vero caso di enantiosemia sociale, di compresenza delle opposizioni e delle differenze semantiche (ricco e povero, nobile e malfamato, romantico e cinico, utopista e calcolatore), esattamente come l’amato Rastignac, campione d’arrivismo capace di passare in poche ore, nelle intense, drammatiche ed esilaranti pagine di quel capolavoro insuperato che è Papà Goriot (1834), dal Faubourg Saint-Germain al Faubourg Saint-Honoré, e poi dai territori dei ceti alti (borghesi e aristocratici) al Quartier Latin, corte dei miracoli perturbante e tentacolare della Parigi Sud. Ed è lì, nel labirinto dei quartieri bassi e malfamati, che Balzac trova (letteralmente, sarebbe il caso di dire, essendo l’assemblaggio creativo di un’umanità reale) quel personaggio, complementare al bourgeois, a cui consegna la sua personale palma di Proteo narrativo; mi riferisco, chiaramente, a Jacques Collin, in arte Vautrin, calco di tutti i cattivi della letteratura romanzesca e non, saccheggiato modello del villain della letteratura otto-novecentesca. Quello di Vautrin è d’altronde un vero “ciclo nel ciclo” della Commedia umana, che attraversa dall’inizio alla fine l’affresco narrativo del romanziere: da Papà Goriot a Illusioni perdute (1843), fino a Splendori e miserie delle cortigiane (1847; che culmina con il bellissimo capitolo dal titolo L’ultima incarnazione di Vautrin). Vautrin è il campione dei travestimenti e delle metamorfosi, della simulazione e della dissimulazione; la sua vita è una recita continua — milizia dell’uomo contro la malizia dell’uomo — che nasconde l’amara verità sulla società e le sue spietatezze (cfr. la “lezione di vita” che impartisce a Rastignac in Papà Goriot); è il simbolo di una società in cui l’apparenza è di per sé inganno, in cui l’assenza di storia (della modernità avanzata) cela le storie più turpi e contraddittorie. Coscienza sporca della borghesia, simbolo della devianza che diventa legge, di un napoleonismo superomistico che nasconde la nascente speculazione finanziaria, Vautrin raccoglie in sé tutta la gamma delle contraddizioni mentali e sociali: intelligentissimo e bestiale (come nella celebre scena della cattura, sempre in Papà Goriot, in cui assume una serie di fascinose e paurose connotazioni teriomorfe); sessualmente polimorfo (tendente all’omosessualità) e romanticamente innamorato dei suoi pupilli (di Rastignac come del bellissimo Lucien de Rubempré, di cui gestirà l’eredità morale dopo la morte sacrificale nelle Illusioni); dedito a un travestitismo compulsivo quanto pervicace e costante nei suoi intenti; immorale e profondamente fedele: la sua uscita di scena, nell’ultima incarnazione narrativa, come Monsignore e alto prelato (lui che era un evaso), è l’icona plastica di una società in cui Proteo ha vinto perché, nella sua polimorfia fisica e morale, interna ed esterna, nel suo metamorfismo emotivo (maschile e insieme femminile) ha saturato tutti gli spazi simbolici. Il mito in quanto catena di rappresentazioni culturali si trova adesso in una situazione opposta a quella che determinò l’eclisse simbolica in età medievale; potremmo parlare, per la cultura contemporanea, di sovraesposizione simbolica, fino (paradossalmente, ma gli estremi si toccano) alla scomparsa.

  Vautrin è molto più di un semplice villain, personaggio-azione ostaggio di un modello narrativo seriale, come talora lo si banalizza; erede di Lovelace, è lui l’antenato dei più complessi e perversi malvagi romanzeschi dell’otto-novecento: si pensi, fra tutti, alla micidiale malvagità di quella coppia di Protei e simulatori che sono Gilbert Osmond e Madame Merle, in Ritratto di signora (1881) di Henry James, per cercare un testo che stia a cavallo tra i due secoli, scritto tra l’altro da uno dei più grandi ammiratori di Balzac. Coscienza della doppiezza e dell’ambiguità di un secolo e di un ceto, Jacques Collin è (insieme ai giovani arrampicatori sociali che istruisce) la vera “macchina desiderante” dell’immaginario borghese, alter ego del romanziere e icona di un desiderio inappagabile, di un inconscio “incatenato ed evaso , rimosso e riaffiorante; simbolo di un’empatia che è anche, come ha ben ricordato Emmanuel Lévinas (1980 [Totalità e infinito]), frattura, lacerazione, conflitto, irruzione destabilizzante di un Altro irriducibile a noi. Quando si proverà, e accadrà spesso, a leggerlo come la rappresentazione di una parte sociale, per esempio della devianza e dell’imprendibilità criminale dei ceti bassi, si trasformerà in una macchina narrativa pronta alla ripetizione, acquisendo forse in leggibilità, ma perdendo il carattere perturbante e lo spessore che lo contraddistinguono [...].

 

 

  Caterina Selvaggi, A proposito di un film su Balzac: Roland Barthes, Honoré de Balzac e la decostruzione, in La relazione postmoderna. Cinema e letteratura nell’era globale in Amelio, Bellocchio, Barthes, Garrone, Saviano e Tarantino, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 149-158.

 

  Cfr. anche 2010.

 

  Il sincero tributo a Roland Barthes e alla sua genialità critica offerto in queste pagine da Caterina Selvaggi trae spunto da un confronto tra la trasposizione cinematografica della vita di Balzac per la regìa di Josée Dayan (1999) e la pubblicazione, in traduzione italiana, del Journal de deuil di Barthes, edito da Einaudi nel 2008 con il titolo di Dove lei non c’è. L’oggetto di questo singolare parallelismo, ossia il controverso e tormentato rapporto dei due autori con le rispettive madri, lascia ben presto spazio alle riflessioni dell’autore sui percorsi critici barthesiani con particolare riferimento a S/Z, in cui si evidenzia, accanto alla distruzione di ogni canone letterario, la ridefinizione del concetto di letteratura colto nella sua dinamica pluralità di codici culturali e di interpretazioni possibili. Si tratta, in altri termini, di un’operazione in cui Barthes nega ogni interpretazione critica di un testo intesa come ricerca di significati ultimi, in quanto critica e interpretazione restano sempre orizzonti aperti. Si spiega in questi termini il concetto di castrazione in S/Z come simbolo di «questo senso di vuoto dell’ordine della rappresentazione» (p. 154), di un «vuoto di senso che tutto sottende» (p. 158).

  In Barthes, «il rifiuto di riconoscere il protagonismo del conflitto là dove è più evidente, come in Balzac appunto» nasce, secondo l’autore, da «quel “deuil”, da quel lutto che del Journal è sì protagonista rivelando la resistenza a ‘ogni’ interpretazione. Il conflitto “agito" in Balzac potrebbe avvicinarsi troppo al conflitto “sopito” di Roland Barthes, protetto dallo sguardo [...] della madre» (ibid.).

 

 

  Mirella Serri, Franca Valeri.  “Al Bardo mancava una signorina snob”, «La Stampa Tuttolibri», Torino, Anno XXXVI, Numero 1830, 22 settembre 2012, p. VIII.

 

  E i libri in cosa l’hanno aiutata?

 

  «Mi hanno sempre dato un senso di libertà e sono stati una spinta a riflettere su di me. Non ho mai conosciuto l’insuccesso perché non ho mai peccato di presunzione e rischiato su qualcosa che non potevo sostenere. Mi piace anche leggere le biografie dei grandi personaggi. Ovviamente sono storie molto diverse, che vanno dalla salute cagionevole di Proust all’esuberanza vitale di Balzac, dalla longevità di Verdi, che continua a produrre capolavori anche in tarda età, alla morte precoce di Vincenzo Bellini a soli 34 anni. In ogni caso nel loro destino c’è una forte spinti che ti incoraggia ad andare avanti. Studiare l’esistenza degli artisti è una scuola di vita».

 

 

  Donato Sperduto, Balzac, l’ambition et l’amour. «Albert Savarus». Introduction d’André Vanoncini, Fasano, Schena editore; Paris, Alain Baudry & Cie, 2012 («Biblioteca della Ricerca. Cultura Straniera», 160), pp. 176; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  André Vanoncini, Introduction, pp. 5-9;

  Balzac et “La Comédie humaine”, pp. 11-24;

  La Suisse, l’amour et l’ambition, pp. 25-42;

  Balzac: “Albert Savarus”, pp. 43-147; cfr. supra;

  Dossier, pp. 149-176.

 

  Il primo semestre dell’anno 1842 rappresenta un momento cruciale della vita di Balzac e del suo percorso letterario: il 10 aprile di quell’anno è sancita la nascita ufficiale dell’edificio narrativo balzachiano con la pubblicazione del Prospectus del primo voltane della Comédie humaine; alcuni mesi prima, nel gennaio 1842, lo scrittore viene a conoscenza della morte (peraltro auspicata) del conte Hanski, marito di Eveline Hanska. Lo choc subito dal romanziere quando, il mese successivo, egli riceve il terribile messaggio dall’adorata Ève: «Vous êtes libre», è senza alcun dubbio, e in gran parte, all’origine della concezione di Albert Savarus. Come osserva André Vanoncini, «les ressemblances entre Balzac et l’intrigue romanesque, entre plusieurs personnes et leurs représentants fictifs [...] ne laissent guère de doute à ce sujet» (p. 6).

  Albert Savarus è, quindi, il romanzo di una crisi: le evidenti somiglianze riscontrabili tra le «lettres à l’Etrangère» e il testo del romanzo, percorso da continui riferimenti ad un passato idilliaco legato ai momenti trascorsi con Ève in Svizzera, illustrano con forza ed evidenza lo stato psicologico di Balzac, uomo e romanziere. Nel saggio che precede la pubblicazione integrale del testo originale dell’opera balzachiana, l’A. concentra la sua attenzione proprio sul valore mistico assunto nel romanzo dall’evocazione di questi soggiorni svizzeri dello scrittore. Già a partire dal primo e folgorante incontro con l’amata nel settembre 1835, in Balzac «la Suisse fut surtout liée au souvenir, à un passé heureux et ineffabable» (p. 27): nel 1842, scrivendo Albert Savarus, Balzac ripercorre col ricordo quei suoi viaggi tra il 1833 e il 1837 e l'evocazione di quei momenti, unici per la loro intensità, vissuti dallo scrittore con Mme Hanska in questo idilliaco “décor” che ritroviamo sia in Albert Savarus sia in altri romanzi della Comédie humaine rende evidente la consapevolezza che, per lo scrittore, «la Suisse est le pays du souvenir d’un passé heureux, passe évoqué non seulement afin de rendre plus agréable le présent, mais aussi dans le but d’influencer positivement le cours de sa vie (le futur) – en s’adressant surtout à Mme Hanska» (p. 34)

  Il personaggio di Albert, incarnazione del tipo dell’«ambitieux par amour», rappresenta altresì il punto centrale di un rapporto dialettico, quello tra l’ambizione e l’amore, che rimanda a uno degli elementi portanti del testo – il concetto di energia – su cui poggia non soltanto la poetica letteraria, ma il pensiero filosofico stesso di Balzac.

 

 

  Andrea Vannicelli, Honoré de Balzac, genio della “Commedia umana”, «Studi cattolici», Milano, Anno 56°, n. 622, Dicembre 2012, pp. 842-845.

 

  Dopo aver sommariamente riportato alcuni giudizi su Balzac romanziere espressi da alcuni scrittori francesi del Novecento, l’A. riflette sulla portata storico-documentaria della Comédie humaine mettendo in evidenza l’efficacia della rappresentazione narrativa balzachiana relativamente non soltanto alle tipologie sociali, ma anche alle particolarità dei destini familiari e personali dei personaggi. Capostipite assoluto delle nuove forme del romanzo europeo, Balzac, osserva l’autore, è convinto che «ciò su cui l’artista non pone il suo sguardo riveli solamente l’aspetto vegetativo della vita, mentre nell’opera d’arte il reale assume pieno significato» (p. 843). Da questo punto di vista, lo slancio stesso della scrittura balzachiana «finisce con il superare la mera realtà per acquisire lo spessore della saga, del mito» (p. 844).

  Vannicelli passa successivamente ad esaminare alcuni testi della Comédie humaine particolarmente illuminanti, a suo giudizio, per comprendere il valore estetico, morale e filosofico dello spiritualismo di Balzac. Al romanzo Séraphîta nel quale, sotto una prospettiva mistica e spirituale, Balzac si rivela «molto deludente», l’autore mostra di preferire opere quali Les Chouans, Le Colonel Chabert e, in particolar modo, Le Médecin de campagne per il fatto che quest’ultimo romanzo esprime, nel valore della beneficenza, uno strumento di redenzione dell’uomo e della società. Un’attenzione particolare è, infine, dedicata a due romanzi: Jésus-Christ en Flandre e L’envers de l’histoire contemporaine che «testimoniano uno sguardo cristiano in Balzac», per il quale, conclude l’A., la religione rimane sempre «qualcosa di incommensurabile e di profondamente interiore» (p. 845).

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  Mariolina Bertini, Balzac, Proust e “The lifted veil” di George Eliot, in AA.VV., Due giornate per Daniela De Agostini, Università degli studi di Urbino, Dipartimento di studi internazionali storia, lingue, culture, Sala di Lettura Palazzo Petrangolini, 5 dicembre 2012.

 

 

  Giovanni Bottiroli, “Non si racconta impunemente una storia di castrazione”. Il contagio delle identità in “Sarrasine”, Ivi.

 

 

  Andrea Del Lungo, Da Zadig a Vautrin: sul paradigma indiziario in Balzac, in AA.VV., Lumières romantiques. L’eredità del Lumi nella letteratura romantica. Convegno internazionale, Pisa, Palazzo Boileau, 22 novembre 2012.

 

 

  Michel Delon, Meurtre du mandarin: de Diderot à Balzac, Ivi.

 

 

 

 

Eventi.

 

 

  La cugina Bette, directed by Des McAnuff; screenplay by Lynn Siefert & Susan Tarr; based upon the novel by Honoré de Balzac; director of photography Andrzej Sekula; music by Simon Boswell, Roma, Koch Media, 2012, 1 DVD video (ca. 104 min.).



[1] Già pubblicato in Collectif, Napoléon, Stendhal et les romantiques. L’armée. La guerre. La gloire, Paris, Eurédit, 2002.



Marco Stupazzoni