sabato 26 dicembre 2020



1992

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, A cena col castrato, in Massimo Montanari, Convivio oggi. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’età contemporanea, Roma-Bari, Editori Laterza, 1992 («Storia o società»), pp. 27-32.

 

  Da Sarrasine.

 

  Un racconto dopo pranzo, Ibid., pp. 32-34.

 

  Da La locanda rossa.

 

  Piccoli borghesi, Ibid., pp. 50-53.

 

  Da I piccoli borghesi.

 

 

  Honoré de Balzac, Pensieri di Honoré de Balzac, «Seagreen. La rivista più lucida di fine secolo», Bologna, numero 15/16, Inverno 1992/1993.

 

 

  Honoré de Balzac, Un’ascensione dalla terra al cielo. Dal primo capitolo di “Séraphita”, romanzo di Honoré de Balzac. Traduzione dal francese di Alessandra Vindrola, «Rivista della montagna», Anno XXIII, N. 147, Dicembre 1992, pp. 50-52; ill.





Edizioni bilingue.

 

 

  Honoré de Balzac, La musa del dipartimento, a cura di Maria Grazia Porcelli. Introduzione di Francesco Fiorentino con testo a fronte, Venezia, Marsilio, (febbraio) 1992 («I Fiori blu. Collana di classici francesi»), pp. 430.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Francesco Fiorentino, Introduzione, pp. 9-25. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Maria Grazia Porcelli, Cronologia, pp. 27-33;

  La musa del dipartimento. La muse du département, pp. 35-418;

  Note al testo, pp. 421-427;

  Riferimenti bibliografici, pp. 429-430. 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, L’Albergo Rosso. La Grande Bretèche, Roma, Romedit, («Gialli d’Autore»), Supplemento a «Paese Sera», aprile 1992, pp. 98.

 

 

  Honoré de Balzac, La casa del mistero, in Racconti gialli, a cura di Andrea Ambri e Marzio Tosello, Palermo, Sellerio Editore, 1992 («Il Castello», 4), pp. 21-42.

 

  Cfr. 1988.

 

 

  Honoré de Balzac, La Commedia umana. Racconti e novelle, a cura di Paola Dècina Lombardi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1992 («Oscar classici», 117-118), voll. 2, pp. XXXIII-413; 541.

 

  Cfr. 1988.

 

 

  Honoré de Balzac, La donna di trent’anni. Traduzione di Gianna Tornabuoni. Introduzione di Paola Dècina Lombardi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (agosto) 1992 («Oscar classici», 235), pp. XXXIII-225.


  Struttura dell’opera:


  Paola Dècina Lombardi, Introduzione. “I conti che non tornano”, pp. V-XXV. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Genesi del romanzo, pp. XXVI-XXVIII;

  Bibliografia, pp. XXIX-XXXIIII;

  La donna di trent’anni, pp. 1-224.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Il medico di campagna. Introduzione di Pietro Paolo Trompeo. Traduzioni di Renato Mucci e Maria Ortiz, La Spezia, Fratelli Melita Editori, 1992, pp. 356.

 

  Per le traduzioni e l’introduzione di P. P. Trompeo (Chiose a Balzac), cfr. 1950.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Guida alla lettura, a cura di Enzo Barnabà, Torino, Loescher, 1992 («Letteratura francese»), pp. 199; Livre de l’enseignant, pp. 39.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet, a cura di Antonio Parisi. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Edizioni Archimede, 1992 («I libri verdi», 1), pp. 239; Guida alla lettura, a cura di Antonio Parisi, pp. 80.

 

  Per la traduzione, cfr. 1984.

  Il romanzo è suddiviso in sei capitoli ed è preceduto, a p. 7, da una breve introduzione (Per entrare nel romanzo).

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Garzanti Editore, 1992 («I grandi libri», 25), pp. LXI-175.

 

  Cfr. 1984.

 

 

  Honoré de Balzac, I giornalisti. Monografia della stampa parigina. A cura di Carmine De Luca. Traduzione di Laura Franco, Catanzaro, Abramo editore, (ottobre) 1992 («I cammelli», 4), pp. 179.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Carmine De Luca, Introduzione, pp. 7-27. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Nota al testo, p. 28;

  I giornalisti. Monografia della stampa parigina, pp. 29-176.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Garzanti Editore, 1992 («I grandi libri», 36), 2 voll., pp. LXIII-653.

 

  Cfr. 1966 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, La messa dell’ateo. Traduzione di Maria Ortiz, in AA.VV., I più bei racconti francesi, La Spezia, Fratelli Melita Editori, 1992, pp. 37-52.

 

  Cfr. 1951; 1957; 1989.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Pietro Paolo Trompeo. Traduzione di Renato Mucci, La Spezia, Fratelli Melita Editori, 1992, pp. 292.

 

  Cfr. 1950.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Il colonnello Chabert, La Spezia, Fratelli Melita Editori, 1992, pp. 266.

 

  Cfr. 1950.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti Editore, 1992 («I grandi libri», 90), pp. LXIII-245.

 

  Cfr. 1990.

 

 

  Honoré de Balzac, Patologia della vita sociale. Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Traduzione di Paolo Tortonese e Paola Minsenti, Torino, Bollati Boringhieri, (settembre) 1992 («L’età moderna», 8), pp. XXXVI-149.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. VII-XXXIV. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Nota al testo, p. XXXV;

  Trattato della vita elegante, pp. 1-56;

  Teoria dell’andatura, pp. 57-101;

  Trattato degli eccitanti moderni, pp. 103-129;

  Note, pp. 131-149.

 

 

  Honoré de Balzac, Peccato veniale. Illustrazioni di Michela Giacòn, Viterbo, Edizioni Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 1992 («Fiabesca», 23), pp. 75; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Peccato veniale, pp. 7-71;

  Nota sull’autore, pp. 73-74.

 

  Non è indicato il nome del traduttore. Nella Nota sull’autore, rileviamo grossolani refusi riguardanti, in particolare, la trascrizione di alcune date.

 

 

  Honoré de Balzac, I piccoli borghesi. Nota introduttiva di Italo Calvino. Traduzione di Luciano Tamburini, Roma-Milano-Torino, «l’Unita»-Einaudi, 1992 («Centopagine», 11), pp. 203; allegato a «l’Unità» del 14 dicembre 1992.

 

  Cfr. 1981.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Anna Premoli e Francesco Niederberger, Milano, Garzanti Editore, 1992 («I grandi libri», 57), pp. LXI-551.

 

  Cfr. 1968 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Trattato della vita elegante. Traduzione di Guido Tutino, illustrazioni di Gavarni, Milano, TEA, 1992 («I tascabili del bibliofilo», 3), pp. 138, ill.

 

  Cfr. 1917; 1982.

 

 

  Honoré de Balzac, Un episodio ai tempi del Terrore. Traduzione di Enzo Di Mauro, Genova, Il Melangolo, (maggio) 1992 («Nugae», 24), pp. 50.


  Struttura dell’opera:

 

  Un episodio ai tempi del Terrore, pp. 7-44;

  Enzo Di Mauro, Nota, pp. 45-50. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Letteratura francese, «Scuola e didattica», Brescia, 4, Anno XXXVIII, 15 Ottobre 1992, pp. 95-96.

 

  «Non c’è una sola opera di M. de Balzac dove si mostri in maniera più sorprendente e più completa ... l’attrazione continuamente sentita dall’autore della Fisiologia del matrimonio per gli irritanti sapori della corruzione»: così, il 15 giugno del 1843, l’autorevole «Revue des Deux Mondes» stroncava La Musa del dipartimento. Ed echi di questo scandalo raggiunsero addirittura il parlamento. La storia di Dinah, ardente e ambiziosa musa provinciale, che trasgredisce e calcola, che non resiste né al desiderio erotico né all’ambizione, è stata disapprovata a lungo, anche nel nostro secolo, da chi privilegiava una interpretazione «idealista» dell’opera di Balzac. È solo molto recente il riconoscimento di questo romanzo come «un capolavoro misconosciuto», come il più flaubertiano (e uno dei più moderni) dei romanzi di Balzac. Si tratta piuttosto di un romanzo «balzachiano» per eccellenza. Lo scrittore nel pieno della maturità vi riunisce alcuni dei temi maggiori della sua opera: la donna di trent’anni, l’adulterio, la fatuità dei giornalisti, la vita provinciale, la formazione delle nuove fortune. E tutto è raccontato con una lucidità amara e disingannata, prima di allora forse sconosciuta e ancor oggi imbarazzante. La Musa del dipartimento viene per la prima volta presentata in una versione italiana moderna con testo a fronte, adeguatamente commentata da M. G. Porcelli e F. Fiorentino dall’Editore Marsilio (Padova 1992, pp. 430, L. 22.000).

 

 

  Ieri e ieri l’altro, «La Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 12 novembre 1992.

 

  «Onorato da Balzac era un grande intenditore di caffè. Ne fece oggetto di studio e nei suoi scritti lo considerò il più energico e stimolante e più grande amico degli uomini d'ingegno. Secondo Balzac un buon caffè significa buone idee. Si narra che egli ne abusasse tanto, che lo si deve considerare una delle cause della sua morte.

  «L’azione del caffè — conclude Balzac — è potente per gli uomini che si dedicano alla vita intellettuale. Le idee si allineano come i battaglioni della Grande Armata sul campo di battaglia. I ricordi vengono a passo di carica. La cavalleria leggera della comparazione sfida al galoppo, l’artiglieria della logica accorre coi suoi carriaggi; i motti di spirito echeggiano come un fuoco di moschetteria, le figure si ergono e la carta si copre d’inchiostro».

  Si vede proprio — commenta il «Figaro» — che Balzac. prima di scrivere le sue mirabili pagine, beveva un buon caffè.



  Balzac, Honoré de, in Enciclopedia Zanichelli, a cura di Edigeo, Bologna, Zanichelli Editore, 1992, p. 191, 1 ill.

 

  (Tours 20.5.1799-Parigi 18.8.1850) Scrittore francese. Dopo un’infanzia difficile in provincia, si trasferì a Parigi e nel 1819 interruppe gli studi di giurisprudenza per dedicarsi all’attività letteraria. Contrasse enormi debiti tentando di far fortuna con varie imprese editoriali e tipografiche, tutte fallite. Dal 1830 alla morte compose e pubblicò, oltre a una trentina di racconti e 5 opere teatrali,96 romanzi, a partire dal 1841 ordinati nella vasta trama della Commedia umana. Attraverso il ritorno sistematico dei personaggi da un romanzo all’altro e la suddivisione del progetto in tre sezioni diverse (Studi filosofici, Studi di costumi, Studi analitici), B. diede vita a un grande affresco della società francese dell’epoca della restaurazione, esercitando una profonda influenza sulla narrativa europea della 2a metà del secolo. Il metodo espositivo dei romanzi, variamente definiti come storici, di costume o realisti, intendeva comunque pervenire alla rappresentazione dell’interazione tra personalità individuale e ambiente sociale attraverso la descrizione dei caratteri esteriori dell’uomo, così come delle passioni che ne animano il comportamento. Degli Studi filosofici fanno parte i suoi primi romanzi: La pelle di zigrino (1831); Luigi Lambert (1832); La ricerca dell’assoluto (1834). Gli Studi di costume riuniscono la maggior parte dell’opera; Eugenia Grandet (1833); Il medico di campagna (1833); Papà Goriot (1834); Il giglio della (sic) valle (1836); Splendori e miserie delle cortigiane (1839-47); Le (sic) illusioni perdute (1843); La cugina Betta (1846); Il cugino Pons (1847); I contadini (1855). Gli Studi analitici infine comprendono solo due opere: La fisiologia del matrimonio (1829) e Piccole miserie della vita coniugale (1855 [sic]).

 

 

  Nello Ajello, I difficili rapporti tra lo scrittore e i giornalisti. A morte la stampa! Gridò Balzac, «la Repubblica», Roma, 14 novembre 1992; 1 ill.

 

  Ecco che, ancora una volta, un genio della letteratura se la prende con i giornalisti. La notizia non è di giornata, trattandosi di Honoré de Balzac. Ma il suo libro, intitolato appunto I giornalisti - monografia della stampa parigina (1843), che la casa editrice Abramo sta per pubblicare a cura e con una prefazione di Carmine De Luca, non era mai uscito in italiano. Da queste pagine emerge un Balzac maturo e scettico. Ha quarantaquattro anni (morirà a cinquantuno, e la sua fine verrà descritta con desolato verismo da Victor Hugo nel suo diario, sotto la data 18 agosto 1850). Ha già pubblicato quasi tutti i grandi romanzi. E questo opuscolo si potrebbe definirlo un pamphlet di costume, se un tale marchio – “études de moeurs” – l’autore non avesse voluto stamparlo sull’intera sua produzione. L’ambiente dei giornali non è d’altronde un argomento ignoto all’arte balzachiana: già quattro anni prima di questa Monografia, in Un grand homme de province à Paris (seconda parte delle Illusions perdues), ne aveva scandagliato, attraverso il suo protagonista Lucien Chardon, le grandezze e le miserie. Soprattutto le seconde. All’astio feroce che Balzac riserva a questo mestiere e ai suoi addetti – ricorda opportunamente De Luca presentando il volume – non sono estranei certi tratti della sua vita: furono tutt’altro che felici i rapporti con il mondo dei giornali, che il romanziere intrattenne in maniera abbastanza intensa e nelle vesti più svariate, da collaboratore di riviste di moda a editorialista politico, da autore di feuilletons a puntate ad appassionato quanto infelice editore dei periodici La cronique (sic) de Paris e la Revue parisienne. Un’attività che lo occupò (mai tuttavia in maniera esclusiva) per un quindicennio, dai venticinque anni ai quaranta inoltrati. Nel romanzo del 1839, il mondo giornalistico era apparso al suo sfortunato eroe Lucien un luogo “pieno di pozze fangose in cui egli avrebbe dovuto lordare la propria coscienza”.

  Ora, nei Giornalisti, i giudizi di Balzac diventano ancora più acuminati. Sono atroci le definizioni, le sentenze, i neologismi che egli scaglia in direzione del proprio bersaglio. Non se ne salva nulla. Il suo tipico gusto classificatorio percorre l’intera gamma del lavoro giornalistico: editori, ispiratori politici, direttori, editorialisti, critici, redattori parlamentari e mondani, tutti allineati in un’unica bolgia. I generi e i sottogeneri che si moltiplicano in questa sua requisitoria sono frutto, insieme, di osservazione diretta e di fantasia linguistica, e il diluvio della Nomenclatura giornalistica è così ricco che si può riprodurlo solo in parte. Il «Pubblicista» può essere, a seconda della propria vocazione, un «Uomo di Stato» o un «Panflettista», uno «Scrittore monobiblico» (autore, cioè di un libro solo, e non si fa fatica ad immaginare quale considerazione gli riservi chi ne ha scritti un centinaio), un «Nientologo» o un «Autore con le certezze». A sua volta, il Giornalista presenta cinque possibili varianti: «Direttore-Redattore capo-Proprietario-Gestore», «Tenore», «Fabbricante di articoli di fondo», «Factotum». Alla quinta specializzazione, quella del cronista parlamentare, viene affibbiato il soave nomignolo di «Camarillista». Il «Giornalista uomo di Stato» si divide in «Uomo politico», «Attaché», «Attaché distaccato», «Politico con gli opuscoli». Il Critico può presentarsi nelle varietà più ingegnose, fra le quali «Giustiziere delle grandi opere», «Negatore», «Burlone», «Incensiere».

  Come, secondo una massima di Giovenale, l’indignazione detta i versi, così in Balzac l’avversione suggerisce gli epiteti. Il prefatore di questo libro ne ha contati trentanove. Oltre ad affibbiargli dei nomignoli, di questi suoi dannati Balzac fa la parodia, imitandone la prosa, a seconda dei casi goffa, untuosa o vendicativa. E’ la parte più ostica per il lettore attuale, dato che i riferimenti riguardano la politica dell’epoca, di cui Balzac conosce ogni minuzia e di cui sferza non soltanto i protagonisti, ma anche le comparse.

  Rimane, a lettura compiuta, un mucchietto di aforismi d’autore sul pianeta Stampa e sui suoi abitanti. Queste sue sentenze brucianti Balzac le chiama «assiomi». La Stampa è, «per sua vergogna, libera solo con i deboli e gli isolati». «Si ucciderà la stampa come si uccide un popolo: dandogli la libertà». La regola morale seguita dai giornalisti è la seguente: «Colpiamo prima, spiegheremo poi». Essi «vivono isolati, divisi dalle loro pretese e si conoscono poco fra loro, tanto hanno paura di avere cattive amicizie». «Per il giornalista tutto ciò che è probabile e vero». Il suo è un regno nel quale «meno idee si hanno più ci si eleva». Insomma, «se la Stampa non esistesse, non bisognerebbe inventarla».

  Alla piramide di maldicenza che gli scrittori di tutto il mondo hanno costruito, da Gutenberg in poi, intorno al giornalismo, Balzac ha contribuito portando un proprio masso di granito. I giornalisti è infatti una vendetta d’autore in forma di pamphlet. Occorre aggiungere che il Balzac davvero grande è altrove?

 

 

  Luciano Anselmi, Balzac in visita all’Italia, «Concertino. Bimestrale di varia cultura», Milano, anno I, numero 2, 1 ottobre 1992, pp. 15-16.

 

  Cfr. 1974.



  Giusi Baldissone, Balzac: la novella contro il romanzo, in Le voci della novella. Storia di una scrittura da ascolto. Prefazione di Giorgio Barberi Squarotti Firenze, Leo S. Olschki, 1992 (“Biblioteca di lettere italiane”, 40), pp. 177-180.


 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, in Honoré de Balzac, Patologia della vita sociale ... cit., pp. VII-XXXIV.

 

  A partire dal 1834 – l’anno in cui nascono Père Goriot, Séraphîta, La Recherche de l’Absolu, Balzac è come dominato da un’idea che attira a sé, assorbe e trasforma, simultaneamente, tutti i suoi progetti in fieri e tutti i suoi testi già scritti: l’idea della futura unità architettonica della sua opera, per la quale prevede, come titolo generale, Etudes sociales. Tra l’aprile e il dicembre del 1834, il disegno d’insieme dell’edificio che diverrà poi la Comédie humaine comincia a profilarsi davanti alla fervida immaginazione del romanziere con un’impressionante nettezza di contorni: la base sarà costituita dalle Études de moeurs, nelle quali saranno ricreati tutti i sentimenti umani sullo sfondo dei più vari contesti sociali; le cause di questi stessi sentimenti verranno messe in luce nelle Etudes philosophiques, che costituiranno in qualche modo il «secondo piano» dell’ambiziosa costruzione; a coronare il tutto verranno poi le Etudes analytiques, che non studieranno più né gli effetti né le cause, bensì i princìpi, vale a dire quegli elementi fondamentali che, combinandosi, creano le condizioni della vita associata come gli elementi chimici creano quelle della vita organica. [...].

  Ma nel 1834 l’edificio delle Etudes sociales, benché incompiuto al pari della Madeleine, non era allo stesso stadio d’incompiutezza in ogni sua parte: alle Etudes de moeurs e alle Etudes philosophiques erano destinati all’incirca quaranta racconti, già pubblicati in varie sedi, mentre le Etudes analytiques presentavano un panorama ben più vago e sguarnito, limitato alla Physiologie du mariage, apparsa la prima volta nel 1829, al Traité de la vie élégante, ironico codice del dandysmo uscito a puntate su «La Mode» nel 1830 e a uno studio di fisiognomica sociale, la Théorie de la démarche, del 1833, che Balzac considerava una necessaria estensione del Traité de la vie élégante.

  L’edificio progettato da Balzac rischiava così di innalzare, su basi imponenti, un coronamento almeno in apparenza derisorio; gli effetti e le cause, minuziosamente sviscerati, avrebbero dato vita a una galleria indimenticabile di tipi e di individui, mentre i princìpi sarebbero stati oggetto di una trattazione tronca e manchevole, arbitrariamente limitata ai machiavellismi coniugali e alla sfera d’azione della classe privilegiata protagonista della «vita elegante». In realtà, nella Phisiologie (sic) du mariage, nel Traité de la vie élégante e nella Théorie de la démarche erano presenti contenuti filosofici che i titoli frivoli o scherzosi dissimulavano completamente; ma tali contenuti - la volontà umana e le sue «proiezioni», il fluido vitale e il suo dispendio, la decifrazione indiziaria della vita esteriore – erano, per il pubblico, difficili da percepire perché esposti senza solennità, senza enfasi, in uno scintillio elusivo e garbato di aforismi, motti di spirito e paradossi.

  Dati questi presupposti, Balzac si trovava di fronte a un difficile problema: come conciliare la vocazione speculativa delle Etudes analytiques con i testi a sua disposizione, che sarebbero stati inevitabilmente recepiti come leggeri e marginali? In che modo evitare che i lettori avvertissero come una caduta la transizione dal sublime delle Etudes philosophiques al comico che permeava la rabelaisiana Phisiologie du mariage, animava l’irriverente Traité de la vie élégante e trionfava nella Théorie de la démarche dove ai soli animali – in un mondo di umani trasformati in automi o marionette – era riservata l’armoniosa perfezione dei movimenti? Una soluzione possibile era prevedere, per le Etudes analytiques, un grandioso ampliamento, che ne allargasse l’orizzonte e la portata; in quest’ottica Balzac progettò una misteriosa Anatomie o Analyse des corps enseignants – consacrata, nelle sue intenzioni, a tutti i fenomeni che agiscono sulla formazione dell’uomo sin dal periodo prenatale – e una non meno nebulosa Monographie de la vertu. Poi il turbine delle creazioni narrative, che gli editori e il pubblico preferivano di gran lunga ai trattati e alle teorie, distolse il futuro autore della Comédie humaine dall’arduo terreno dei princìpi: per qualche anno le sue energie furono assorbite dalla stesura del Lys dans la vallée, d’innumerevoli racconti, delle prime parti delle Illusions perdues e la questione delle Etudes analytiques rimase provvisoriamente accantonata.

  Fu nel 1838 che Balzac, riportato da alcune contingenze editoriali alle Etudes analytiques, ne risolse parzialmente il problema con un geniale gioco di prestigio onomastico, che avrebbe dovuto sottrarre definitivamente il Traité de la vie élégante e la Théorie de la démarche al loro destino di fatuità, dispersione e radicale irrilevanza. Il gioco di prestigio consistette nel ribattezzare il Traité e la Théorie; per i due testi uniti, ed accorpati a un inedito trattatello sugli eccitanti moderni, Balzac inventò un titolo carico di gravi e suggestive risonanze: Pathologie de la vie sociale. Certo, anche sotto la nuova etichetta, molte pagine restavano improntate alla leggerezza più disdicevole e libertina; ma il nuovo titolo, da Balzac commentato e illustrato con eloquenza suadente, le ammantava di un’austerità accigliata sconfinante nel moralismo ed esorcizzava – almeno in apparenza – ogni fermento rabelaisiano e sterniano. Nobilitati da una denominazione che li collegava alle più elevate preoccupazioni di Balzac – in particolare alla riflessione, di ascendenza rousseauiana, sui danni della civiltà e sulla forza dissolutrice del pensiero – i tre testi potevano ormai collocarsi senza timore di scandalo nel cuore delle ambiziose Etudes analytiques. [...].

  Il destino della Pathologie de la vie sociale può aiutarci a capire in che modo Balzac ha concepito l’unità della propria opera, in che modo l’ha perseguita e realizzata per radicarsi, «come un cedro o come una palma», nelle «sabbie mobili» della letteratura del suo tempo. Non l’ha pensata come un’armoniosa, naturale unità organica: se l’avesse concepita così non avrebbe potuto rifondervi disinvoltamente un testo come il Traité de la vie élégante, segnato con tanta forza, nella struttura, dalla pratica giornalistica, e forse nemmeno un opera come la Physiologie du mariage, così datata, così legata a un gusto contingente, a una moda transitoria. L’ha concepita, piuttosto, come un ininterrotto ritorno del pensiero sulle proprie tracce, alla ricerca di una coerenza frammentata, di un lavoro di riflessione disperso nella pluralità del reale, di un’intuizione fuggevole da ricostruire in un paziente dialogo con le cose. È in questa unità soltanto che poteva integrarsi, con la sua forma eteroclita c le sue innumeri scorie, la Pathologie de la vie sociale, aneddotica e gergale, disordinata e irriverente, dispersiva e frivola; in quest’unità soltanto – non unità della forma, ma della tensione costante verso il vero – la Pathologie poteva lasciar confluire le sue ricchezze non immediatamente visibili, il suo tesoro, ben dissimulato sotto il velo della leggerezza irridente, di osservazioni e intuizioni sulla vita associata e su quell’«uomo interiore» che è sempre, in ogni contesto, l’oggetto privilegiato della riflessione balzachiana. [...].

 

 

  Gabriella Bosco, Svelati i tormenti di Eva Hanska, la nobile polacca che divenne moglie dello scrittore dopo una lunga relazione. Madame Balzac sposa 5 mesi tradita 17 anni, «La Stampa», Torino, Anno 126, Numero 41, 11 febbraio 1992, p. 13; ill.


  Il romanziere, «uomo di penna e di menzogna»: «Io non amo una donna alla volta, ma tre o sette».

 

  Ci furono molte donne nella vita di Honoré de Balzac, nobili e mature, giovani e nubili, belle e meno belle. Il grande scrittore le deluse tutte. Suscitava in loro il massimo del desiderio, ed era poi incapace di soddisfarle. E’ quanto ci racconta la sola tra tante che egli sposò dopo 17 anni di amore «per lettera», la contessa polacca Eva Hanska, la più delusa. A darle voce è Irene Stecyk in una grossa biografia romanzata scritta in prima persona, La Balzac (ed. Olivier Orban, da pochi giorni in libreria), 500 pagine di passioni strazianti, lacrime, tradimenti e dichiarazioni infuocate. Filo conduttore lo spettro della triste, cupa, immensa, incolmabile delusione.

  Lettrice entusiasta dei quattro tomi di corrispondenza tra Balzac e la contessa. Irene Stecyk si è immedesimata nella «travolgente» figura di lei al punto da condividerne ogni pensiero. Per fugare «l’ingiusta ombra e l’oblio» calati sul suo bel volto il giorno stesso della morte prematura di Balzac, Eva Hanska nata Rzewuska ci narra i fatti come lei li visse. Ricostruita dalla Stecyk la storia prende toni melodrammatici, la scrittura cede sovente a eccessi di trasporto, i dialoghi immaginari abbondano di esclamativi, sospiri e urla strozzate. Ma la trama e sostanzialmente vera, basata su documenti che la Stecyk dichiara di aver solo «umanizzato».

 

La sfida dell’Etrangère.

 

  Tutto comincia dalla fine, 18 agosto 1850. Honoré de Balzac agonizza, da tre giorni privo di coscienza. A vegliarlo si alternano la madre e la sorella, medici e domestici vanno e vengono dalla stanza in rispettoso silenzio. Lei, la moglie, entrata in quella casa tre mesi prima finalmente legittima del «suo» Balzac, è nella stanza accanto con gli occhi asciutti. Nell’attesa del trapasso, «l’ultimo tradimento», più forte del dolore è l’amarezza. Mal sopportata dalla suocera, detestata dalla cognata, profondamente odiata dalla donna che per tanti anni fedele aveva servito lo scrittore nell’illusione di diventarne un giorno la sposa, Eva Hanska soffoca. Sin dal primo momento quella casa le aveva ispirato un moto di fuga. Ex palazzina di piacere di un finanziere libertino, Balzac l’aveva acquistata e arredata con cura per lei. La sua «follia», la chiamava, della rue Fortuné (sic). Mai nome fu meno adatto.

  La sera del 20 maggio 1850, in arrivo dall’Ucraina dove il 14 marzo erano state finalmente celebrate le nozze tanto attese e sempre rimandate, Balzac e signora erano rimasti a lungo chiusi fuori. Il cameriere, François Munch, aveva apparecchiato la tavola e acceso le candele rosse, aveva messo lenzuola fresche nel letto da sposo del padrone, e poi si era seduto in un angolo per sprofondare in una follia definitiva. Cattivo auspicio? Eva Hanska ripensa alla salute del marito, giù gravemente compromessa quel 20 di maggio e da allora deterioratasi rapidamente. Con il freddo nel cuore si chiede se non è vittima, lei, di una maledizione ereditaria ora giunta all’ultima tappa, ossessione di tutta la sua vita.

  Diciannovenne, innamorata del bel cugino Taddeo, era stata costretta a sposare il conte Hanski, più vecchio di suo padre ma ricchissimo, per salvare la famiglia dalla rovina economica. Prima che nascesse Anna, una lunga serie di cinque bambini morti aveva attristato l’intera sua giovinezza. Unica distrazione, la lettura: Gli Sciuani, Le scene della vita privata, La pelle di zigrino, romanzi francesi che avevano acceso in lei fantasie e svegliato fantasmi. Nel 1832, tra le nevi interminabili di Wierzschownia dove l’eco delle rivolte che incendiavano l’Europa giungeva attutita, la pallida stanca contessa aveva deciso di scrivere una lettera all’uomo lontano e sconosciuto, autore dei suoi sogni, Honoré de Balzac. Gli scrisse «come si lancia una sfida alla famiglia, a Dio e a se stessi, come ci si uccide offrendo il proprio petto al vento folle del Nord». Si firmò «l’Etrangère».

  Balzac, lusingato, lasciò passare parecchi mesi. Poi inserì un messaggio tra gli annunci di La Quotidienne, unico giornale francese autorizzato in Russia: «M. de Balzac ha ricevuto la lettera. Solo oggi può darne notizia su queste colonne, gli rincresce di non sapere a chi indirizzare la risposta ...». Si ingaggiarono così entrambi in una storia fatta solo di parole e tenuta insieme dall’impossibilità, dalla lontananza, dagli ostacoli.

  «Io ho voluto quest’uomo, e mi è stato dato. Per mia disgrazia e per la sua», disse la contessa a Lirette, dama di compagnia e sua sola confidente, che aveva accettato di coprire la tresca epistolare fingendosi lei destinataria e innamorata. La terza lettera di Balzac, scritta da una mano diversa rispetto alle prime due, già denunciava un inganno. L’Etrangère si era librata in esaltanti sfere romanzesche, cadeva ora nelle maglie di un sordido raggiro. «Sappiate, cara diffidente, che ho tante scritture quanti sono i giorni dell’anno – la rassicurò lui –, senza per questo essere in alcun modo versatile». Perennemente assillata da presentimenti, segni del cielo e moniti divini, ansiosa di inventarseli per poi vederli coincidere con la realtà, Eva Hanska lesse in quel fatto il proprio destino: «Uomo di penna e di menzogna».

  Si incontrarono a Neuchâtel nel 1833, consenziente perché ignaro l’anziano conte, premuroso nel soddisfare i desideri della capricciosa moglie. Balzac era basso, goffo nel camminare, aveva i denti guasti, vile d’aspetto. «La vostra anima ha dei secoli, signore», gli aveva scritto lei immaginandolo alto e bello. La disparità con il Balzac reale fu causa di un dolore acuto, ma labile. In quel primo incontro come nei successivi (Ginevra, Vienna, San Pietroburgo, Dresda) tutto avveniva in sordina – fugaci amplessi, mezze frasi, sguardi – col solo scopo di nutrire poi interminabili lettere, sogni di felicità future capaci di trasfigurare qualsiasi bassezza. Tradita ogni giorno per 17 anni dal suo «Noré», Eva seppe di esserlo e ne soffrì, ma godeva di un vantaggio sulle altre. Non già la ricchezza, come volevano le calunnie dei malevoli, bensì l’alone di irrealtà.

  Ci fu Laure de Berny, la «Dilecta», amante anziana e anche un po’ madre, poi amica, poi morta. Ci fu Maria du Fresnay, che diede a Balzac un figlio illegittimo. La contessa Sarah Guidoboni-Visconti, Henriette de Castries, Caroline de Marbouty. Ognuna di loro ingannata a turno e tutte ugualmente per la scrittura, lavoro notturno mostruoso per enormità ma anche per cinismo. Balzac si diceva schiavo di se stesso, costretto a fare della vita una finzione. L’Etrangère, consapevole, spiava in ogni nuovo libro i segni del più recente tradimento e intanto indagava, speranzosa: anche lei forse ora presente, in qualche frase o gesto.

 

«Un giorno scoppierò».

 

  18 agosto 1850. Balzac sta per soccombere al suo male, solo cinquantunenne ma corso consapevolmente alla morte pur di dar vita alla Commedia umana. «Ipertrofia cardiaca»: ai primi attacchi (sdoppiamento della vista, rumori assordanti, perdita dei sensi) aveva detto alla spaventatissima futura moglie che già intuiva – da poco vedova del conte Hanski – l’esito fatale di quella diagnosi: «E’ la mia vita che soffre di ipertrofia, non il mio cuore. Io non scrivo un libro alla volta, ma cinque o dieci. Non amo una donna alla volta, ma tre o sette. Le idea non mi vengono in mente dieci a dieci, ma cento a cento, mille a mille». Troppe parole, impegni, debiti, disperazioni. «Fremo dalla testa ai piedi. Un giorno scoppierò come una macchina infernale».

  Era stato a Torino per incarico della Guidoboni-Visconti, a svolgere per conto suo e del marito alcune pratiche di successione ereditaria. Si era portato dietro Caroline de Marbouty con la quale aveva trascorso «tre notti senza sonno» all’Hotel Europa, «in una camera un po’ teatrale, con un immenso letto al centro rialzato su una pedana». A lei, Eva, indignata di quel doppio tradimento, aveva scritto: «Tra madame de Marbouty e me non c’è stato altro che poesia di viaggio». Tutti l’avevano visto con quella danna vestita da uomo, alla George Sand: il conte Sclopis, che lo aveva accolto nel suo salotto; «il saggio Pellico», che invece si era mostrato «dubbioso».

  Poi c’erano state le tante speculazioni sbagliato, dalla tipografia al commercio di ananas. Soldi gettati, lo sperpero. Eva, vedova immensamente ricca (grazie all’intervento dello Zar in persona che aveva posto fine agli intralci giudiziari del fratello del conte Hanski), ebbe paura di scoprire Noré interessato. Procrastinò ancora le nozze ora possibili, nonostante il male di lui si aggravasse. Volle prima veder sistemate la figlia sposandola a un nobile, Georges Mniszech: entomologo collezionista di coleotteri, destinato a precoce demenza. Non ancora moglie dello scrittore, si trovò ad aspettare un figlio da lui. Desiderò perderlo, per timore di vedersi preferita. Era una bambina, la perse. Arrivata a Parigi, in quella ex palazzina di piacere della rue Fortuné, c’era stato ancora il ricatto della femme de chambre, Louise de Brugnol: convinta in cuor suo di diventare lei un giorno madame Balzac, se ne era andata portandosi dietro 22 lettere compromettenti dell’Etrangère e minacciando vendetta.

  Abituata ai grandi saloni delle sue residenze polacche, per tre mesi Eva Hanska aveva assistito senza parole al lento calare su di lei dei bassi soffitti di quella casa di morte.

 

 

  Philippe Bruneau, Balzac e la civiltà materiale, in Europa 1700-1992: storia di un’identità. Vol. 3: Il trionfo della borghesia, Milano, Electa, 1992, pp. 191-197.

 

 

  G.[iovanni] Cacciavillani, Balzac minore ma non tanto, «il Piccolo», Trieste, 20 marzo 1992, p. 5; 1 ill.

 

  «La musa del dipartimento», opera tarda del grande romanziere, fu duramente stroncata e rimase misconosciuta dalla critica. Ora una più attenta rilettura consente di scoprire che il libro (riedito in Italia nella raffinatissima collana di «Letteratura universale» della Marsilio) sintetizza alcuni dei temi più cari all’autore e, per modernità compositiva e strutturale, può essere annoverato tra i suoi capolavori. Con buona pace degli sperimentalismi d’oggi.

 

  Quando uscì «La musa del dipartimento», nel 1843, opera tarda di Balzac e piuttosto misconosciuta dalla critica, le reazioni della stampa furono unanimemente negative il foglio culturale più importante, la «Revue des deux mondes», parlò di «esalazioni mal sane e nauseabonde» e di morbosa attrazione dell’autore per «gli irritanti sapori della corruzione».

  Il romanzo, per altro, che mette in scena Dinah Piédefer. provinciale che abbandona il vecchio e odioso marito per andare a vivere a Parigi col giornalista Lousteau, ma che poi fa ritorno a casa quando al marito arride il successo, non ha mai goduto le simpatie dei lettori, anche i più raffinati. Per Alain, il racconto «è penoso», per Béguin, Balzac «non ha mai scritto nulla di più triste e di più cinico»; per Picon, è sbagliato il «tono» ...

  E’ ora merito di Francesco Fiorentino riproporre questo testo misconosciuto, nell’ambito della raffinatissima collana di Letteratura universale Marsilio, con una puntuale nota introduttiva e per le cure di Maria Grazia Porcelli (pagg. 430. lire 22 mila). Fiorentino si rifà in [pa]rte a nuove, recentissime valutazioni, in base alle quali «La musa del dipartimento» non solo sintetizza alcuni dei temi più cari all’autore (la donna di trent’anni, l’adulterio, la vita di provincia, l’ambiente giornalistico, la formazione di nuove fortune), ma, per la sua modernità compositiva, strutturale, sarebbe da annoverare fra i più ricchi e moderni capolavori balzacchiani.

  Dunque, a una rilettura più attenta del testo, emergono alcuni assi portanti di grande interesse. In primo luogo, la tensione fra provincia e Parigi, come dire fra la ripetizione del sempre uguale (calato in una demistificazione dell’idillio campestre) e la sorpresa del molteplice, l’incontro con l’altro. In secondo luogo, una riflessione (già pre-freudiana) sulla creazione letteraria come terapia sublimatoria rispetto alla libido rimossa. Nella fattispecie questa sublimazione fallisce. sicché la vera terapia, per Dinah. sarà costituita dal suo appassionato abbandonarsi alla passione proibita: la sua storia col giornalista sta racchiusa tra due «sguardi rossi» («Un fiotto di sangue in tumulto si precipitò nelle sue vene e la stordì»).

  In terzo luogo, c'è bensì il motivo dell’adulterio, ma per quanto appassionata, Dinah non si lascia accecare dal desiderio: «Sa prevedere e calcolare e una simile competenza nell’universo balzacchiano viene considerata una qualità straordinaria». Inoltre, il suo apparente cinismo non è che una manifestazione del suo senso pieno della realtà: se in un primo momento si abbandona completamente all’amore, in un secondo momento sa risolvere il problema dinastico della propria famiglia e ricollocarsi a fianco del marito in una fase in cui la logica delle cose lo esige.

  Infine, come sottolinea Butor, nel romanzo si parla continuamente di letteratura (in varie forme e a diversi livelli). E Balzac non perde l’occasione di contrapporre l’estetica del nuovo romanzo realista a quella del romanticismo d’epoca imperiale. Più in particolare, Balzac fa riferimento a un grande capolavoro romantico — l’«Adolphe» di Constant — e ne fornisce una replica, una rivisitazione «dalla parte del reale».

  Ben lontano dai capolavori visionari del maestro – siano questi entro il registro del «sublime dell’infimo» o entro quello dell’analisi psichica profonda (che contribuisce in non piccola parte alla definizione ottocentesca dell’inconscio) — questa «Musa del dipartimento» merita sicuramente le attenzioni del lettore, non fosse che per misurare la distanza che corre fra un romanzo «minore» di Balzac e la miseria degli sperimentalismi del romanzo francese (e non solo francese) contemporaneo.

 

 

  Italo Calvino, Nota introduttiva, in Honoré de Balzac, I piccoli borghesi ... cit., pp. V-X.

 

  Cfr. 1981.

 

 

  Maria Vittoria Carloni, Col naso di Balzac, «Panorama», Milano, Anno XXX, n. 1356, 12 Aprile 1992, p. 147.

 

  Sull’Institut Guerlain di Parigi con una breve menzione al César Birotteau di Balzac.

 

 

  Sveva Casati-Modigliani, Il cigno nero, Milano, Sperling & Kupfer, 1992.

 

  p. 201. Emiliano li dominava dall’alto di un ramo della grande sequoia, raggiunto con l’ausilio di una lunga scala. Aveva quattordici anni e leggeva, con trasporto, La ricerca dell’assoluto di Balzac.

 

 

  M. Cast., Balzac autore “satanico”, «Corriere della Sera», Milano, 17 maggio 1992, p. 37.

 

  De Balzac? Nell’Italia timorata del 1872, nemmeno una riga del romanziere scomparso 22 anni prima doveva finire sotto gli occhi dei devoti. La censura della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti si abbatté su «Splendori e miserie delle cortigiane» e su «Omnia scripta ejusdem auctoris», in base al decreto del 20 giugno 1864.

  Implacabile, l’edizione dei libri proibiti, stampata a Monza nel 1850 e recuperata dallo studioso di storia locale Paolo Cadorin, venne corredata da ben 5 appendici per sanzionare le pubblicazioni «maledette» uscite fino al 1874, tra cui appunto quelle di Honoré de Balzac.

 

 

  Giorgio Celli, Il flauto magico degli scienziati, «la Repubblica», Roma, 16 luglio 1992, p. 33.

 

  Ma se le magagne scientifiche di Buffon erano destinate a venire in luce a poco a poco, il suo bello scrivere lo fa sconfinare dalla zoologia nella letteratura, e sono gli scrittori che nell’Ottocento vanno a scuola da lui. Valga un solo esempio: quando Balzac progetta la sua Comédie humaine, dichiara di voler portare a termine nel sociale, e dunque tra gli uomini, una investigazione simile a quella che Buffon aveva condotto tra gli animali, anche se intende superarlo, e non imitarlo.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac e gli affari Guidoboni-Visconti in Lombardia. Aggiunte e precisazioni relative al calendario milanese e veneziano di Balzac nel 1837, «Aevum», Milano, Anno LXVI, fascicolo 3, settembre-dicembre 1992, pp. 601-617.

 

  Premessa.

 

  Comincio col chiedere scusa al lettore del titolo, lungo e disadorno, di questa ricerca; ma la prolissità e l’ineleganza di esso sono determinate dalla necessità preliminare di spiegare con la maggiore esattezza i propositi ed i limiti delle pagine che seguono.

  In altre parole, io non intendo esporre qui lo stato e la consistenza di tutti i beni posseduti in Italia da Emilio Guidoboni Visconti e il groviglio di questioni che la gestione di essi e la loro liquidazione cagionarono per molti anni. Né, di conseguenza, mi propongo di riferire su tutto ciò che, in questo campo, Balzac fece, quale procuratore generale del conte e suo agente fiduciario, a Torino, nel 1836, a Milano e a Venezia nel 1837 e, in veste meno ufficiale, nuovamente a Milano nel 1838 o, nella stessa Francia, a Parigi e a Sèvres, attraverso rapporti epistolari con avvocati ed uomini d’affari italiani, dopo i suoi soggiorni nella Penisola.

  Qui, mi interessa solo porre in risalto, nel modo più preciso possibile, l’attività di Balzac in favore dell’amico Guidoboni Visconti durante il soggiorno milanese e veneziano dello scrittore francese, circoscritto fra il febbraio e l’aprile 1837, limitatamente cioè a quanto era rimasto allora del grande patrimonio dei Guidoboni Visconti nel Regno Lombardo Veneto, ed alle controversie che emersero e furono dibattute in questi mesi.

  Un esame generale della situazione patrimoniale dei Guidoboni Visconti — che pur sarebbe interessante studiare come parte di una storia sociale ed economica delle grandi famiglie della aristocrazia italiana fra la Restaurazione e l’Unità — non rientra assolutamente nei propositi della presente ricerca. Né vi rientra una indagine, compiuta e sistematica, dei rapporti che legarono per quasi un quindicennio Balzac ad Emilio Guidoboni Visconti e, soprattutto, alla moglie di questi, la contessa Frances Sarah Lovell. [...].

  Dunque il lettore non troverà qui una esposizione organica dello stato patrimoniale di una antica e doviziosa famiglia dell’aristocrazia italiana giunta per un succedersi vario di circostanze (dispersione territoriale in più Stati sovrani, cattiva amministrazione, lontananza e forse anche indolenza dell’ultimo proprietario) al termine della sua opulenza dinastica, ma solamente una cronistoria di alcune fasi di esso. E – parallelamente – una cronistoria dei tentativi che uno scrittore francese, ignaro della lingua, degli usi, dei costumi italiani, non dotato di una speciale competenza in fatto di amministrazione patrimoniale e nemmeno particolarmente fortunato nei suoi affari personali, ma per di più all’oscuro delle norme della giurisdizione vigente nel Lombardo Veneto, portò a termine nel 1837 per fronteggiare una complicata situazione patrimoniale ed un difficile problema di eredità, per sbrogliare l’intricata matassa dell’una e dell’altro, far luce su rendiconti e bilanci ed arrivare infine, ad iniziare la liquidazione del residuo attivo esistente.

  La maggior parte dei documenti che seguono è stata tratta [...] dallo spoglio delle carte di una famiglia milanese — quella dei conti Sormani Andreani — che con i Guidoboni Visconti ebbe rapporti stretti e continuati almeno dall’inizio del secolo XIX. Per quanto mi risulta, pur concernendo fatti e questioni in parte già noti, essi sono tutti inediti ed aggiugono (sic) o precisano elementi nuovi.

  La registrazione di essi è stata comunque integrata — al fine di offrire al lettore un quadro più chiaro e più esauriente della successione degli avvenimenti – da alcuni documenti (inediti o editi) estratti da altre fonti.

  Tutti sono disposti nel loro ordine cronologico ed elencati sotto l’indicazione del giorno e del mese secondo un ideale calendario quotidiano: soluzione anch’essa poco elegante ma che ha il pregio di una più rapida e più vantaggiosa consultazione.

  L’attività di Balzac a Milano ed a Venezia, fra il febbraio e l’aprile 1837, ha un ritmo così intenso e febbrile da lasciare stupito anche chi conosca la incredibile pienezza delle giornate dello scrittore e sia abituato ad assistere alle manifestazioni quotidiane della sua straordinaria energia.

  Già le cronache biografiche [...] lo hanno mostrato, in questi mesi, occupato dagli impegni della più vivace vita sociale e mondana di Milano e di Venezia, frequentatore assiduo dei salotti dell’alta società, dei teatri di quelle due capitali, partecipe a ‘conversazioni’, a riunioni, a conviti, interlocutore di scrittori e di artisti italiani, turista infaticabile nelle sue visite a chiese, monumenti ed a musei. Presente a tutto, egli campeggia su di ogni scena del teatro milanese o veneziano, recitandovi la parte primaria del protagonista.

  Le notizie che sono qui aggiunte alla cronistoria già nota lo rivelano ora altrettanto operoso su di una ben diversa ribatta.

  Immedesimato nella missione che gli è stata affidata dagli amici Guidoboni Visconti nel Lombardo Veneto, egli attende ad essa con foga ininterrotta e con esemplare diligenza. E ad essa dedica gran parte del suo tempo in conferenze con avvocati e con uomini d’affari, nel disbrigo di numerose pratiche amministrative e giudiziarie, in interminabili sedute negli studi notarili. Instancabilmente attivo, egli sorveglia con assiduità ogni operazione, riesce a trarsi d’impaccio fra mille pastoie giuridiche, risolve varie questioni, ne avvia altre verso la soluzione adoperandosi in tutto con sollecitudine ed in tutto rivelando una consumata abilità.

  A tutto ciò si può anche aggiungere che, nel suo insieme, questo secondo viaggio italiano di Balzac si è effettuato all’insegna delle circostanze più fauste. L’attività svolta da lui, durante il soggiorno milanese e veneziano, in favore dei Guidoboni Visconti soddisfece, per quanto ora sappiamo, le aspettative del conte e della contessa ai quali lo scrittore aveva risparmiato i fastidi e le preoccupazioni di un non gradito viaggio oltralpe ed ai quali riportò, di ritorno da Parigi, una somma abbastanza ingente di denaro. Quanto a se stesso, Balzac assaporò le gioie di una lunga vacanza lontana da tutti quei problemi personali che, a Parigi, ne angustiavano le giornate; conobbe più largamente forse che prima e che altrove, i piaceri della celebrità e le soddisfazioni di una notorietà ‘europea’; penetrò negli incanti di quella ‘poesia del viaggio’ che più di una volta aveva definita — o definirà — come la più affascinante di tutte. E compì una esperienza intellettuale che non dimenticò e che non fu fra le minori della sua esistenza di uomo e di scrittore. [...].

 

 

  Massimo Colesanti, Balzac e la moltiplicazione della vita, in Giovanni Macchia, Luigi De Nardis, Massimo Colesanti, La letteratura francese. Dall’Illuminismo al Romanticismo, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1992 («Le letterature del mondo»), pp. 591-601.

 

 

  La “Comédie humaine”: personaggi e interpreti, Ibid., pp. 601-610.

 

  Cfr. 1974.

 

 

  Massimo Colesanti, Custine fra Stendhal e Balzac, in Omaggio a Custine nel bicentenario della nascita (1790-1990). Atti del seminario internazionale di Palermo, 30 novembre-1 dicembre 1990, a cura di Anna Maria Rubino, Palermo, Flaccovio editore, 1992 («Quaderni dell’Istituto di lingue e letterature straniere»), pp. 69-74.

 

  Sulla copia da lui posseduta della Vie de Rossini, Stendhal annota l’11 aprile 1839:

 

  Beau soleil, vent frais de l’est; sur le boulevard, M. de Balzac, trouvé chez Boulay, me vante la Chartreuse: supprimer Parme. Rien de pareil depuis quarante ans. M. de Custine pense de même, dit-il; fort supérieur à Rouge et Noir.

 

  Ecco uno di quegl’incontri illuminanti, non meramente curiosi o aneddotici, ma significativi, e di cui ci saremmo lamentati con la storia se non fossero avvenuti. Significativo per l’aperto riconoscimento di un’opera eccezionale, e da parte di giudici addetti ai lavori, amici certo, ma non in tutto e sempre compiacenti, pronti anzi piuttosto a dire sinceramente la loro, come registra anche questo breve appunto, che non a limitarsi ad una generica “flatterie”. Significativo anche perché riunisce e disegna qui, per un momento, una innegabile “famille d’esprits”, un triangolo non certo equilatero, ma che appare solidamente innervato nella struttura narrativa del romanticismo francese. Sappiamo del resto che Balzac confermò allora a viva voce — ed anche questo è interessante — quanto aveva già scritto a Stendhal il 5 aprile precedente, dopo aver letto la Chartreuse, in una lettera celebre, in cui l’elogio “absolu, sincère”, insieme a non poche osservazioni e correlazioni, anticipa il lungo, entusiastico studio che egli dedicherà al romanzo l’anno dopo sulla “Revue Parisienne”. E sappiamo anche che Stendhal aveva ricevuto e letto questa lettera il giorno dopo, il 6 aprile, lo stesso giorno in cui aveva ricevuto e letto una lettera analoga di Custine [...].

  In realtà, se la lettera di Balzac è più lunga e circostanziata, più impegnata nel cogliere l’originalità di un capolavoro, di “un grand et beau livre”, a segnare, e non per modestia, certe differenze [...], non è che la lettera di Custine sia soltanto genericamente complimentosa o superficiale. La differenza di levatura, il “décalage che notava Stendhal, dipendeva soprattutto dal diverso prestigio, dalla diversa autorità ch’egli doveva ragionevolmente attribuire all’uno e all’altro dei suo (sic) corrispondenti, con i quali era in rapporto da almeno dieci anni: una scala di valori già allora definitivamente “classée’’. Ma Custine, ponendo l’accento sulla “guerre au mensonge", sull'esaltazione dell'amore, sul rifiuto di ricorrere “à aucun des artifices ordinaires de la composition”, mostrava sia pure sinteticamente di aver riconosciuto ancora una volta la qualità di fondo della scrittura di Stendhal, e le affinità, il “lien” che a lui lo univano, nonostante le profonde divergenze di opinioni politiche e religiose che da lui lo dividevano.

  Questo episodio, sul quale mi sono preliminarmente soffermato, va tuttavia inquadrato in un periodo particolarmente denso di scambi epistolari fra i tre scrittori, non a caso in coincidenza con il lungo congedo di Stendhal a Parigi (1836-1839), ma anche, dopo alcuni anni di silenzio, con una feconda ripresa dello stesso Stendhal e di Custine, che non è che pubblicassero quattro o cinque volumi all’anno, come il titanico Balzac. Non è mia intenzione rifare qui la storia di tutti questi rapporti, a volte anche fitti e continui [...]. Se mai, prima di passare a fatti più specificamente letterari, conviene ricordare qualche tratto, qualche atteggiamento, per meglio comprendere la situazione di Custine, che fra Stendhal e Balzac, maestri da lui riconosciuti e ammirati, e a cui si rivolge continuamente per consigli, pareri, suggerimenti, non è che sia in una posizione di equilibrio, o di equidistanza, ma piuttosto sbilanciata, e in sostanza e in gran parte assai personale, per qualità, eccessi e difetti. [...].

 

 

  Roberto Cotroneo, Sentite che Balzac, «L’Espresso», Roma, Anno XXXVIII, N. 19, 10 maggio 1992, p. 115.

 

  Gli scrittori italiani reinterpretano i racconti dei grandi della letteratura. Una sfida in campo aperto.

 

  C’è chi ha scelto Balzac, chi Conrad, chi Flaubert. Difficile prevedere che cosa accadrà di questi racconti: ma, come si può immaginare, ci sarà chi naufragherà malamente e chi invece riuscirà a stupire per originalità e bravura.

 

 

  Pietro Crivellaro, Balzac inatteso poeta dello sci, «Rivista della montagna», Torino, Anno XXIII, N. 147, Dicembre 1992, pp. 46-49; ill.

 

  La prima, illustre citazione dello sci nella storia della letteratura si trova in uno sconosciuto romanzo di Balzac scritto nel 1835, Séraphîta. Siamo cioè in anticipo di sessanta-settant’anni almeno sulle prime iniziative dei pionieri che introducono la pratica dello sci nelle Alpi, importandola dai paesi scandinavi, negli anni a cavallo tra ʼ800 e ʼ900. Più o meno, un secolo fa. In sé la cosa non è una gran scoperta perché questo lo sa chiunque abbia appena sfogliato qualche testo di storia dello sci, libri che manifestamente prediligono gli aneddoti e le note di colore alle ricostruzioni convincenti. Anzi, oltre a ciò, è soprattutto conosciuta una famosa illustrazione del racconto di Balzac con due ragazze in romantico costume da “Via col vento” che pattinano vezzosamente sci ai piedi. [incisione di G. de Staal in H. de Balzac, Séraphîta, Marescq, 1852, qui riprodotta]. [...]. La verità è che agli sciatori (e agli alpinisti), oltre al titolo di merito che può nobilitare l’albero genealogico dello sci in cerca di illustri antenati e imprimatur culturali, di Balzac non gli frega nulla. E a rigor di logica hanno anche ragione a non uscir troppo dal seminato dello sci. A meno che, così fregandosene, non rinuncino anche ad altre piccole, divertenti scoperte, lì pronte dietro l’angolo di una minima curiosità in più sul romanzo e sul suo autore. Come mi sembra che accada in questo caso. Vediamo dunque perché.

  Intanto il primo problema da risolvere è trovarlo, il romanzo di Balzac, tra i quasi cento che è riuscito a scrivere nella sua non lunga ma forsennata carriera (nato a Tours nel 1799, morto a Parigi nel 1850). Cosa non facilissima, dato che il nostro è un testo “minore". Ma nemmeno impossibile: attualmente in Italia lo si può trovare nel mercato dei remainder’s per diecimila lire in un’edizione di Reverdito del 1986, con un interessante saggio del filosofo Franco Rella in appendice, «L’atopia erotica».

 

Ma che romanzo “minore”!

 

  Filosofo?, erotica? Fin dai primi cenni possono sorgere reazioni di sconcerto e di curiosità, a conferma che spesso basta cominciare e si scoprono cose sorprendenti. Risulta che questo romanzo fa parte, nel grande sistema narrativo della Comédie humaine di Balzac, della sezione intitolata «Studi filosofici» che, a dispetto dell’apparente marginalità, è l’esatto centro, il perno su cui lo scrittore intende far ruotare il suo mondo affollato di 2500 personaggi. Perché? È semplice: è quello in cui enuncia la chiave della redenzione della sua disperata umanità, cioè una fede. Oltre tutto, in Séraphîta, anziché osservare e descrivere i costumi, le traversìe e le emozioni degli altri, riflette sulla cosa che più gli sta a cuore al mondo, il suo grande amore.

  Già, in mezzo a una folla di amanti e di avventure galanti, Balzac è stato vittima di un grande amore, proprio nel periodo tra il 1832 e il 1836, quando romanzi come La pelle di zigrino, Eugénie Grandet, Père Goriot lo sistemano nell’empireo dei massimi scrittori dell’epoca. Lui, grassottello e dal fisico per nulla seducente, anzi ad occhi malevoli quasi sgradevole con i capelli unti e la pancia, e tuttavia avido di successo e di belle donne, mentre trasloca di nascosto per sfuggire i creditori e si destreggia tra un’amante e l’altra, anche lui si innamora una volta per tutte. Di chi? Benché le storie della letteratura lo considerino l’anello di trapasso dal romanticismo al realismo, da perfetto romantico ci casca con una nobildonna straniera, che non ha mai visto nemmeno in ritratto. È una storia romanzesca che vale la pena accennare.

 

Un’ammiratrice sconosciuta.

 

  Il 28 febbraio 1832 una sconosciuta ammiratrice che inganna la noia divorando le riviste parigine nella remota Ucraina, gli scrive una prima lettera firmandosi «L’Etrangère», la Straniera. Balzac sta al gioco e le risponde, il 2 aprile, con un annuncio in codice sulla “Gazette de France”. Alla terza lettera – tra le poste del tempo e comprensibili patemi amorosi è passato un anno – le scrive «Je vous aime, Inconnue». La sconosciuta è Eveline Hanska, moglie trentenne del conte Wenceslao Hanski, «grosso come una torre» che non gode però di una salute di ferro. Riusciranno a vedersi la prima volta in campo neutro a Neuchâtel in Svizzera nell’estate 1833, naturalmente alla presenza del marito di lei che lo riceve con prudente cordialità. Nel gennaio 1834 soggiornano per 44 giorni sul lago di Ginevra: si può immaginare l’inverno sul lago consacrato dai numi del romanticismo da Rousseau a Byron, con le montagne innevate tutto intorno e i ghiacciai scintillanti del Monte Bianco in lontananza. Sguardi furtivi, cenni d’intesa, ma da vera aristocratica la signora non si concede facilmente e capitolerà solo in extremis, dopo quattro settimane.

  È quello il periodo in cui Balzac concepisce Séraphîta, uno strano romanzo mistico, inconsueto per le sue tematiche, che compare sulla “Revue de Paris” nel 1834. La versione definitiva, che gli costa tremenda fatica («questo libro mi uccide e mi schiaccia»), uscirà alla fine del 1835, come sta scritto al fondo del libro: «Ginevra e Parigi, dicembre 1833-novembre 1835». Nel frattempo l’infaticabile scrittore ha rifatto Louis Lambert e scritto le Lys dans la vallée. La dedica «A Madame Eveline de Hanska» è esplicita e allude quasi ad una committenza da parte dell’amata: «Signora, ecco l’opera che mi avete chiesto. Non siete stata voi a impormi questa lotta, simile a quella di Giacobbe, dicendomi che il disegno, sia pure il più imperfetto, del personaggio da voi sognato, come fu da me sognato durante l’infanzia, sarebbe stato comunque qualcosa per voi? ...». I due amanti si affannano a rendere sublime e innocente il loro amore: «Siamo noi due», scrive Balzac.

  La storia si svolge in Norvegia, fatto molto insolito nella geografia balzacchiana che colloca pochissime storie fuori da Parigi e dalla provincia francese. Siamo nella zona dello Stromfjord, tra Drontheim e Cristiania, da cui prende il nome l’omonima tecnica di curva in sci ma che è anche l’attuale Oslo. Sulla scena domina la mole del Falberg: «La sua cresta, perennemente avvolta in un manto di neve e di ghiaccio, è la più aspra della Norvegia e per la vicinanti del Polo il freddo, a un altitudine di milleottocento piedi, è uguale a quello che regna sulle cime più elevate del globo». Siamo in Norvegia – sostiene in modo convincente Rella nel suo commento – perché la storia di un amore sublime deve accadere ai limiti della realtà, in una regione più estrema e a quei tempi ancor meno frequentata dell’Oriente, meta di viaggi e di resoconti. Il momento in cui si svolge il racconto Séraphîta è alla fine dell’inverno rigidissimo tra il 1799 e il 1800, per la precisione intorno alla metà di maggio. Se si nota, siamo nel primo anno del secolo, mentre si compie il primo anno di vita dello scrittore, nato precisamente il 20 maggio 1799. Un momento aurorale, di rivelazione, l’inizio di un’epoca nuova.

 

Lo sci, un mezzo prodigioso.

 

  Il primo capitolo dei sette di cui è composto il romanzo è quello che più ci interessa per l’uso degli sci, ma è anche quello più movimentato e importante che imposta la storia, per il resto caratterizzata da lunghe digressioni filosofiche. Come si vede dal montaggio di brani che pubblichiamo, lo sci è il mezzo di un’ascensione prodigiosa all’inaccessibile vetta del Falberg. In particolare dell’inaccessibilità della montagna dato per scontato – per Balzac e i lettori del tempo non ha bisogno di tante spiegazioni – ci aiuta a capire uno dei moventi dell’introduzione dello sci nelle Alpi alla fine del secolo: muoversi agilmente in montagna, d’inverno, è impossibile perché si sprofonda nella neve. Questo fu il problema che stimolò gli alpinisti. Bisognerebbe avere le ali come gli uccelli, o gli angeli. A meno che ... ecco qui la rivelazione degli sci, strumento prodigioso per “volare”, per superare i limiti imposti dalla natura alla nostra debolezza corporea. Lo sci in fin dei conti è per Balzac la metafora di un volo sovrumano come quello degli angeli, che permette di abbandonare il livello terrestre per elevarsi alla perfezione del cielo.

  Séraphîtüs infatti, la guida misteriosa che conduce Minna in cima al Falberg, come sulla montagna della trasfigurazione, non è una creatura di questo mondo, come la Séraphîta di cui si innamora Wilfrid, il fidanzato di Minna, nel secondo capitolo. Scraphîtüs e Séraphîta sono anzi la stessa persona, un androgino che riunisce in sé il sesso maschile e quello femminile, una creatura angelica. Ecco perché la lotta di Giacobbe/Balzac con il suo angelo. Frammenti di spiegazioni sul misterioso personaggio verranno forniti nel terzo capitolo dal padre di Minna, il pastore Becker, che rievoca e illustra in una lunga digressione la teosofia di Emanuel Swedenborg (1688-1772), importante figura di scienziato e pensatore svedese in gran voga tra gli intellettuali francesi dell’Ottocento. Ma il pastore Becker ha già risolto il problema considerandola solo una ragazza stramba e capricciosa: per Balzac è il rappresentante della religione istituzionale, incapace di riconoscere la verità più autentica. A lui viene contrapposto David, il vecchio servitore di Séraphîta, che incarna la fede ingenua e dunque più anemica.

  Nei capitoli successivi («I nembi del santuario», «Gli addii», «Il cammino per giungere al cielo», «L’assunzione»), si narra l’impossibilità per la creatura angelica di sopravvivere nell’ambiente terrestre, il suo distacco dal mondo sensibile e, in una visione mistica a cui assistono i due amanti Minna e Wilfrid, il suo ricongiungimento con gli spiriti celesti, come Serafino, della categoria degli angeli più vicini a Dio.

  La teosofia di Swedenborg, venata di ascetismo, è manifestamente la concezione prediletta dalla contessa Hanska, condivisa da Balzac. Un’ideologia funzionale al loro stato di amanti impossibili. Per trovar conforto all’infelicità del loro amore travolgente, innescato da una fatalità provvidenziale (le lettere) ma dall’appagamento impossibile (la distanza, il marito), i due amanti credono che dall’amore-sacrificio scaturirà un livello superiore di conoscenza che è quella dello spirito che si raggiunge fuori della vita mortale. Ma prima dei due amanti, passerà a miglior vita togliendo il disturbo alla fine del 1841 il povero conte Hanski. Altri impedimenti insorgono però a dilazionare il coronamento del grande amore; fino al marzo 1850, quando Balzac riesce finalmente a sposare la sua contessa in Ucraina. Si può dire in articulo mortis, perché l’infelice scrittore fa appena in tempo a ritornare a Parigi che si rimette a letto per non rialzarsi più. Morirà ad agosto, ad appena cinquantuno anni, dimostrando che i grandi amori o sono impossibili o non sono.

  Come si vede, per gli sciatori (e gli alpinisti) è ben più che un aneddoto. Oltre ad anticipare la descrizione tecnica dell’uso degli sci, Balzac anticipa con l’intuizione dei grandi artisti il significato ascetico e di purificazione della montagna e delle escursioni invernali, cioè la concezione “spiritualista” classica dell’alpinismo e dello sci in cui tuttora si riconoscono tutti quelli che respingono la concezione “competitiva” (e materialista), considerata più moderna. In realtà sono due facce di un’unica realtà che convivono nell’alpinismo e nello sci, come la materia e lo spirito convivono nella persona umana, come i due sessi convivono nell’androgino di Balzac.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, I conti che non tornano, in Honoré de Balzac, La donna di trent’anni ... cit., pp. V-XXXIII.

 

  Cfr. anche 1991.

 

  [...]. Tale rivisitazione della Nuova Eloisa, in termini drammatici ma più aderenti alla realtà, non poteva che entusiasmare un vasto pubblico femminile, affascinato sì dalle riflessioni, dagli interrogativi e dalle esplorazioni sulla coscienza divisa della protagonista ma anche dai colpi di scena, dalle situazioni melodrammatiche e avventurose, tipiche del racconto popolare, che pervadono il romanzo. In questo miscuglio ancora poco amalgamato e già rivelatore di due delle linee di forza della Comédie, si possono rintracciare i motivi d’interesse e di popolarità del romanzo. [...].

  Considerando “sommità poetica” della vita femminile i trent’anni, “che rendono la donna preferibile a tante giovani inesperte”, Balzac sfatava certamente il pregiudizio che, raggiunta questa tappa, la donna fosse ormai finita come amante, soggetto di piacere e oggetto di desiderio. Quando poi proponeva una protagonista pronta a “dichiarar guerra al mondo per rinnovare, anzi spezzare le leggi e gli usi”, o quando le faceva sostenere che il matrimonio è una prostituzione legale in cui l’uomo ha tutti i diritti e la donna solo doveri, le metteva in bocca delle espressioni di fede sansimoniana tanto in voga all’epoca, per discuterle e renderle materia di riflessione.

  Il tema dell’amore e dell’emancipazione femminile, com’è noto, caratterizzarono tutta la letteratura dei primi decenni dell’800. Era il momento della grande “emancipazione del 1830” e, mentre un romanzo come La Nuova Eloisa affascinava un pubblico sempre più ampio, le idee di Madame de Staël sulla sensibilità e sulla passione amorosa che danno grandezza eroica alla donna trovavano una cassa di risonanza sia in numerose opere letterarie che in riviste quali “La femme libre” e “La femme nouvelle”. Insieme alla propaganda delle seguaci delle teorie sansimoniane, particolarmente attiva tra il 1827 e il 1830, opere letterarie e riviste contribuirono a diffondere un modello di eroina romantica che nella sua lotta per il diritto all’amore si rivelava superiore all’uomo grazie alle sue qualità di intuito, di cuore, e anche di ragionamento.

  La donna di trent’anni matura in questo clima. Balzac però non si limita a registrare un fenomeno. Lo discute, sottolineandone anzi alcuni aspetti pericolosi. Per esempio, critica l’influenza di certa letteratura che suggerisce a Julie l’uso del laudano, e vede la “virilizzazione” della donna non come una conquista ma come un elemento di deprivazione. [...].

  Accanto alla “virilizzazione” femminile, il disconoscimento e la critica del maschile, l’antagonismo dei sessi pervadono la letteratura di questo periodo, e la Comédie humaine non fa eccezione. Vi incontriamo figure di mariti mediocri o di padri egoisti e autoritari che avviliscono l’esistenza di donne sensibili e intelligenti. Quanto agli amanti, anche quando sono giovani “di grandi speranze” come Charles de Vandesse che riesce a far capitolare la «donna di trent’anni», appaiono sbiaditi e in ombra rispetto alle loro partners. Molti sono anche i romanzi che Balzac ha costruito sul rapporto antitetico uomo-donna, matrimonio-amore, natura-legge sociale, termini di un dibattito affrontato nella Physiologie du mariage, un’opera in cui lo scrittore esordiente aveva indirettamente criticato l’insufficiente impostazione degli articoli sulla donna, sul matrimonio e sulla famiglia, nel Codice Napoleonico, avanzando proposte così audaci da far scandalo.

  La sua posizione però è ben diversa da quella delle Sansimoniane. La libertà che rivendica per la donna è finalizzata alla acquisizione di una dignità che la reintegri volontariamente e felicemente nel ruolo familiare di moglie-madre. E infatti si coglie un’ombra di rimpianto verso la famiglia patriarcale, depositaria e garante di valori rassicuranti nello sconsolato sfogo di Julie col prete che cerca invano di “addolcire il suo cuore disseccato dal dolore”.

  A lei, Balzac affida una virilità intellettuale segnata da un disagio del vivere che l’accomuna, anziché metterla in antagonismo, ad eroi come Obermann, René e Adolphe, “svirilizzati”, secondo alcuni critici del tempo, rispetto a tutte le eroine “virili” protagoniste dei romanzi di maggior successo. [...].

  Molte eroine balzachiane, tra cui Julie, conoscono la loro stessa malinconia ma a renderle diverse è lo sforzo, spesso fallito e pagato a caro prezzo, teso a rompere certi schemi di comportamento, a imporre nuovi valori e ad affermare i diritti della personalità femminile senza stravolgerne la natura. Qui la loro grandezza, anche se il risultato è, comunque, inquietudine e conflitto, lacerazione e malinconia, stati d’animo che rendono moderni questi personaggi se guardiamo alla frantumazione dell’io e alla crisi del soggetto che pervadono la letteratura europea dalla fine dell’ottocento in poi.

  Questo aspetto di crisi della protagonista, evidenziato in almeno metà del romanzo, è presente più o meno consapevolmente preordinato anche nel resto, tanto da poterlo considerare un primo elemento di unità. [...].

  In questa trama soggetta a suggestivi sbalzi crescenti e decrescenti rispetto alla pienezza di vita della protagonista, si nota un movimento oscillatorio e delle costanti che si ripetono in modo più o meno accentuato. Scompigliata e ricomposta di continuo dalla sorte, l’esistenza di Julie potrebbe essere rappresentata come un diagramma di flusso con frequenti brusche impennate, con dei massimi di breve ma intensa gioia e dei minimi di profonda desolazione intervallati da lunghi tratti di malinconia.

  Ad accentuare i sovrassalti di questa linea di vita è anche la rappresentazione del tempo, il modo in cui Balzac lo fa vivere al suo personaggio: estremamente dilatato il tempo della coscienza al quale, in rapporto al resto, è dedicato molto spazio; follemente accelerato il tempo storico, che, come ha scritto Proust, viene contratto al massimo per rendere più sensibile la sua fuga e la sua irreversibilità, per mostrare col massimo d’efficacia i suoi improvvisi effetti, tanto crudeli da sembrare inverosimili.

  Pur fornendo una conferma del progetto originario che ha presieduto alla elaborazione dei testi riuniti ne La donna di trent’anni, a dare però unità al materiale del romanzo non è tanto il capriccio del caso coi suoi avvenimenti clamorosi, quanto, come già detto, l’esperienza emotiva della protagonista. [...].

  L’insistenza con cui Balzac affronta la conflittualità dei ruoli femminili, mostrando figure mancate rispetto al modello di moglie-amante-madre è una spia dell’ansia con cui pare aver vissuto l’immagine della donna. [...].

  Partendo dall’ambiguità di Rousseau, Balzac, con La donna di trent’anni, sembra aver voluto fornire una riflessione in proposito. Con premesse diverse come diversi sono i tempi. Sono cambiati i padri e i mariti. È cambiata, non in meglio, l’educazione delle giovani. Che la nostra Julie esca da Ecouen, il Collegio femminile ispirato ai principi educativi del Codice Napoleonico, e che la sua scelta matrimoniale si riveli pessima suona come una critica all’educazione “moderna” altrettanto insufficiente di quella tradizionale, perché come il Memorandum d’Ecouen dimostra, si risolve per le giovani in una reclusione rispetto al mondo reale.

  Per Julie D’Aiglemont poi, la situazione si complica perché le mancano quei conforti come la religione e delle solide radici familiari che, secondo Balzac, favoriscono la tenuta dei valori necessari all’equilibrio dell’individuo e al buon funzionamento della società. Infatti l’educazione illuminista ricevuta dal padre insegna a Julie a ragionare egregiamente, ma non le basta né a proteggersi dal dolore né a raggiungere un equilibrio che le eviti tanti drammi.

  Pur constatando, come Rousseau, lo scarto tra valori morali in uso e valori naturali, di fronte al conflitto tra principio del dovere e principio del piacere, Balzac non propone nessuna mediazione o soluzione. Sottolinea l’importanza dell’educazione femminile, critica le ragioni di interesse economico e sociale che sviliscono il matrimonio, ma l’ago della sua bilancia oscilla tra l’idea di un nuovo ordine e la constatazione della realtà, tra ragione e sentimento, tra individuo e norma. Vagheggia madri sacrificate nell’amore ma partecipa al dramma delle amanti consumate dall’amore. E questa ambivalenza la si ravvisa in altri testi dello stesso periodo cui La donna di trent’anni fa da nucleo e da corollario insieme. [...].

  La differenza di tono che si registra tra la prima parte del romanzo in cui prevale sia l’analisi psicologica che la partecipata adesione al dramma di Julie, e la seconda, all’insegna del melodramma, che mette in scena le sue pesanti responsabilità e il suo fallimento, non deriva da una malcalcolata giustapposizione. Nella costruzione sbilanciata de La donna di trent’anni, nel suo laborioso assemblamento, vediamo tradotte ansie, aspettative e timori di fronte al debordare del sentimento. A ispirare certe improvvise virate infatti non è tanto un calcolato richiamo all’ordine in linea con l’intento morale più volte dichiarato, quanto la paura del disordine che la passione genera.

  Dunque, La donna di trent’anni così aderente ai temi più dibattuti dell’epoca da sembrare un’ottima operazione editoriale, mentre affronta, riassumendoli, i nodi della condizione femminile analizzati singolarmente in altre opere, risulta pur con tutti i suoi difetti, uno dei primi tasselli di quella complessa rappresentazione del mondo che è la Comédie humaine.

  Verificare attraverso delle varianti il modello della Nuova Eloisa, il suo modello femminile fin dagli anni della giovinezza oltreché un punto di riferimento assai in voga, significava per Balzac sottolinearne le contraddizioni e dimostrarne il carattere assoluto. Proprio per questo, era un ideale cui non poteva rinunciare. [...].

  La realizzazione di questo sogno, tanto più agognata quanto imperfette erano le situazioni della realtà cui aveva dato forma letteraria, avrebbe dovuto finalmente ricomporre l’ambivalenza del suo rapporto con la figura femminile. Il romanzo ne è tutto intriso: se l’io bambino dello scrittore proietta in Julie “madre colpevole” e in Hélène figlia infelice il proprio bisogno d’amore frustrato e il suo rancore, in Julie a trent’anni e in Hélène compagna del pirata, l’adulto, liberato delle scorie del risentimento e dell’invidia, personifica due espressioni della donna che vorrebbe avere vicina: la donna che “tutto capisce”, che sa farsi grembo, “schiava e sovrana”. Proprio come una madre. Dunque, l’antica ferita era insanabile.

  Molte testimonianze autobiografiche rivelano che dalla prima esperienza con la madre [...] deriva a Balzac un inesauribile bisogno di affermazione e di riconoscimento. Esso si canalizza nell’attività letteraria ma anche in forme di risarcimento – possesso molto più tangibile. Sono due aspetti che convergono nella idealizzazione di Madame Hanska che, oltre al finissimo ingegno e alle doti morali, ha ai suoi occhi il grande privilegio di appartenere alla grande aristocrazia. Se un tempo s’era accontentato di aggiungere un “de” al proprio cognome per nobilitarlo, più tardi l’idea del matrimonio con la plurititolata Madame Hanska lo avrebbe ossessionato [...].

  Neanche questa volta i conti tornano. Balzac fa appena in tempo a sposare la sua Eva e ad accoglierla nella “reggia” di rue Fortunée che muore e, ancora una volta, oberato da quei debiti e da quelle insolvenze che, come un sistema autocoercitivo, gli avevano permesso di erigere, almeno in parte, una colossale, ambiziosa costruzione che lo portò a dissipare la propria vita in nome di una grande passione: la letteratura.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, Macchia difende lo scrittore: era la moglie a tradirlo. Balzac vittima di Eva, «La Stampa», Torino, Anno 126, Numero 50, 20 febbraio 1992, p. 17


  «Donna terribile, lo fece morire».

 

  Lui, l’autore della Commedia Umana, un incallito dongiovanni, un mentitore, e lei, Eva Hanska, una vittima? «E’ una sciocchezza!», esclama Giovanni Macchia. Il grande francesista difende Balzac dalle ombre cupe che getta sulla sua figura la biografia romanzata della moglie uscita la scorsa settimana o Parigi (La Balzac, ed. Olivier Orban), scritta da Irene Stecyk sulla base della corrispondenza fra i due: La Stampa ne ha parlato l’11 febbraio [cfr. supra l’articolo di Gabriella Bosco].

  L’idea di una Madame Hanska tormentata dai tradimenti divertirebbe assai i contemporanei di Balzac, e più ancora il biografo Octave Mirbeau che nel 1907 in una pagina memorabile, ahimè cancellata dalle storie letterarie, fece un fosco ritratto della contessa polacca basandosi sulla testimonianza del pittore Jean Gigoux che ne era stato l’amante. Racconta Mirbeau che il 18 agosto 1850, verso le 22,30, mentre Balzac agonizza, la quarantacinquenne Eva è a letto con Gigoux. Un’infermiera che dietro la porta grida: «Il Signore sta per andarsene ...» non riceve risposta. Solo poco dopo, all’annuncio che «il Signore è morto», Madame Hanska dà segni di inquietudine. Singhiozza, dice che non vuole vederlo. Gigoux, che resterà prudentemente tra le coperte, la convince a indossare una «vestaglia bianca sporchissima» e a scendere. Il giorno dopo, la novella vedova si mostrerà «tanto afflitta, tanto letteraria ... Andromaca in persona ...».

  Questa pagina scatenò un processo: Anna Mnizech, la figlia, ottenne che quella testimonianza infamante fosse cancellata dal libro di Mirbeau ed è alla passione bibliofilo di Giovanni Macchia che ne dobbiamo il recupero. Nel saggio L’Andromaca di Balzac, Macchia ha messo in evidenza altri elementi per tracciare un ritratto poco accattivante. Innanzitutto la testimonianza di Victor Hugo. Quel giorno, visitando il moribondo dopo cena, apprese da una domestica in lacrime: «Il Signore muore ... la Signora si è ritirata nella sua stanza».


I «cento io» dell’artista.

 

  Insomma, Madame Hanska confermava il suo ruolo di eroina negativa nell’atroce epilogo di quel romanzo sbagliato – anche se «il più ardente, il più sconclusionato», come dice Macchia – rappresentato dalla voluminosa corrispondenza di un geniaccio al quale la sua donna, oggetto di venerazione o ideale assoluto, affibbiò l’epiteto Bilboquet (strumento per giocare al diabolo).

  Sommerso dalle lettere delle ammiratrici che, secondo il malevolo Sainte-Beuve, avrebbe attratto descrivendone con compiacenza inquietudini e debolezze, alla prima epistola, impostata a Odessa il 28 febbraio 1832, lui non dà troppo peso e le fa rispondere – pare – dall’amica d’infanzia Zulma Carraud. Alla seconda lettera in cui L’Etrangère insiste con lusinghe e offerte di sé come musa ispiratrice, Balzac ci casca, direbbero i detrattori della contessa, come gli era successo qualche tempo prima con la marchesa de Castries che ancora lo teneva sulle spine. La risposta però non è menzognera, come sostiene la Stecyk. Certo, Balzac non rivela lo zampino dell’amica, ma dice il vero a proposito delle sue tante scritture, la cui «mobilità proviene da un’immaginazione che può concepire un’infinità di cose e restare vergine, come lo specchio che non è scalfito dai riflessi».

  Tante scritture, con le loro formule letterarie, corrispondevano ai «cento io» di un artista, come spiegò in una pagina che potrebbe essere intitolata Teoria del racconto. Non è poi menzognero quando confessa, oltre la passione divorante per la letteratura e il lavoro accanito, la relazione con la Dilecta, l’anziana Laure de Berny, che gli fa da amante-madre da più ai dieci anni. Interessante è invece quanto tra le righe si intuisce della personalità della «straniera»: civetterie, curiosità pettegole, esaltazioni, vittimismo. Secondo Curtius, Balzac si ostinò a vedere nella Hanska un’altra Dilecta, benché più giovane, e la «essenziale meschinità» di lei gli procurò parecchie delusioni.

  La corrispondenza nei primi anni fu piuttosto rada, e gli amori di Balzac, brevi e spesso non ricambiati, si contano sulle dita. Lui le dice di amare non uno ma tre, sette donne alla volta? Come si può cadere nell’errore grossolano di vedervi il dongiovanni che si vanta? Lo scrittore che già in vari romanzi e racconti ha analizzato la figura femminile nei ruoli di figlia, moglie, madre e amante più tardi le scriverà: «Tu sei tutta la mia famiglia ... madre, amica, sorella, fratello, compagno, amante ...». Solo dopo la morte del conte Hanski, nel 1842, le lettere di lui s’infittiscono, diventano pagine di un diario quotidiano, di una chiacchiera quasi delirante in cui c’è posto per tutto: l’amore appassionato, la confessione di antiche ferite o amarezze, disillusioni presenti; progetti e resoconti di entrate e uscite, ritratti di contemporanei, pettegolezzi e scorci della vita di società, indubbiamente i più richiesti dall’inquilina del castello di Wierzgovnia (sic). Intanto, maturata l’idea del matrimonio, dal 1845 comincia a parlare di lei come della «fidanzata». Si copre di debiti per contribuire a rendere una sorta di reggia il palazzotto di rue Fortunée. E quando due anni dopo lei decide di installarsi a Parigi, comincia uno stillicidio di tenere attese e cocenti delusioni. Allora, incurante di bronchiti, gonfiori sospetti e crisi cardiache; rallentando o addirittura sospendendo il lavoro, per raggiungerla si lancia in due viaggi estenuanti.

 

Nessuna traccia di amore.

 

  Che la contessa non incontrasse la simpatia degli amici di Balzac, non stupisce. Nelle lettere che scrisse alla figlia appena arrivò a Parigi o nei primi giorni di vedovanza, non c’è alcuna traccia d’amore o di devozione, solo qualche segno di pena e molti pettegolezzi, molte disquisizioni sul denaro: diritti d’autore da recuperare, contratti vantaggiosi da firmare, conti da pagare e oggetti d’arte che amerebbe comprare. Qualche tempo dopo, chiamò in giudizio Dumas per impedirgli di organizzare un concerto i cui proventi sarebbero serviti per erigere un monumento sulla spoglia tomba dell’uomo che Wilde definì «inventore» del XIX secolo. Se ne occupò lei, facendo apporre su una modestissima colonnetta il calco del busto firmato da David d’Angers, e fra le tombe dei Grandi al Père Lachaise quella di Balzac è davvero una delle più misere. Ma non basta. Rovistò tra i manoscritti e affidò la continuazione de Les petits bourgeois a uno scrittorucolo; rintracciò gli antichi collaboratori per avere conferma della paternità di testi giovanili firmati con pomposi pseudonimi che il marito aveva disconosciuto. Ed è pure forte il sospetto che non abbia esitato a vendere, anonimi, abbozzi frammentari di testi.

  L’intraprendente vedova si dette molto da fare anche sul piano amoroso. Quasi subito divenne l’amante di uno scrittore trentenne che dichiarandosi un allievo del marito si recò a farle le condoglianze. Ora, nemmeno la pubblicazione della loro corrispondenza, più o meno due anni fa, giova all’immagine di Madame Hanska. Semmai, ne rafforza l’antipatia o lo stereotipo dell’eroina capricciosa, sensuale, dispotica e anche un po’ masochista pur di tenersi l’aitante giovanotto ed essere al centro di un melodrammone amoroso. «Sostenere che Balzac la tradiva e la trascurava mentre lei ne soffriva, è una sciocchezza» ribadisce Macchia. «A giudicare dai documenti, era una donna terribile. Coi suoi capricci lo estenuava e alla fine lo mise talmente in ansia da impedirgli di scrivere. E’ a lei, ragione di vita ma dispensatrice di poche gioie e molti dolori, che Balzac deve la sua morte».

 

 

  Carmine De Luca, Introduzione, in Honoré de Balzac, I giornalisti ... cit., pp. 9-27.

 

  Esattamente centocinquant’anni fa, nel 1843, Honoré de Balzac dava alle stampe un pamphlet dedicato all’affollato e irrequieto panorama del giornalismo parigino. Questo pamphlet risulta oggi per più aspetti di sconcertante attualità.

  I giornali erano nati non da molto tempo; l’adozione, in Francia, di moderni metodi di diffusione dava alla Stampa un’influenza crescente sull’opinione pubblica e sui governi; il giornalismo godeva, soprattutto nel periodo della monarchia borghese di Luigi Filippo, di alto prestigio, era una professione che stimolava a Parigi e in provincia molti appetiti di scalata sociale. Accedere alle colonne dei giornali significava avere a che fare comunque con il Potere. Avere il Potere era altra cosa. Dalle redazioni dei giornali tuttavia – come documenta lo stesso Balzac nel romanzo Illusions perdues — se ne poteva acquisire e mantenere.

  Erano anni di fermenti politici e di vivaci intelligenze. «A quell’epoca – osserva Italo Calvino nella “Nota introduttiva” all’incompiuto I Piccoli Borghesi (Einaudi, Torino 1981) — la società era avida di conoscersi e di descriversi forse ancor più di adesso, e questo bisogno era servito da una molteplicità di strumenti», fra i quali le numerose «monografie» (come questa, appunto, dedicata alla Stampa) e le varie «fisiologie» (in queste pagine Balzac fa ironica allusione a una Physiologie du cigare, lui che aveva una predilezione particolare per il sigaro, elevandolo a simbolo del dandysmo). L’autore della Comédie humaine scrisse numerosi studi di costume, un po’ opuscoli di regole del bel vivere, un po’ microtrattati di una sociologia nascente: un Traité des excitants modernes nel quale elabora elogi sperticati per il caffè, una Théorie de la demarche, una Physiologie du mariage, una Physiologie de la toilette, una Physiologie gastronomique, una Physiologie de l’employé ...

  La Monographie de la presse parisienne rientra nell’ambito di quegli strumenti conoscitivi di cui parla Calvino: è il ritratto di un ambiente formicolante per aspirazioni più o meno legittime, mappa di un gruppo sociale mosso da incontenibili ambizioni, ironica esplorazione e sanguigna rappresentazione di una categoria avidamente spinta a ritagliarsi il più ampio spazio possibile nella gestione del potere.

  Esordisce sono l’aspetto di un formalissimo catalogo della «specie» giornalistica e si presenta come parte di un trattato scientifico (titolo: Trattato del Bimane in società). Quasi fosse un attento naturalista, Balzac procede nella rappresentazione di fatti e misfatti giornalistici, utilizzando le strutture espositive di una fredda indagine scientifica. Ma ha in serbo, roventi e corrosivi, gli strumenti stilistici della caricatura e del sarcasmo.

  Due i generi al vertice della piramide: il «Pubblicista» e il «Critico», il cui carattere principale «è di non averne nessuno». Le loro abitudini sono caratterizzate dal fatto che «vivono isolati, divisi dalle loro pretese e si conoscono poco tra loro, tanto hanno paura di avere cattive amicizie».

  Ovviamente, come ogni specie animale, anche queste che Balzac studia e analizza nella giungla senza confini certi che è Parigi, si distinguono in sottogeneri. Il «Pubblicista», a seconda delle caratteristiche specifiche, diventa «Giornalista» o «Uomo di Stato» o «Panflettista» o «Nientologo» o «Pubblicista col portafoglio» o «Scrittore monobiblico» o «Traduttore» o «Autore con le certezze». Otto sottogeneri che hanno in comune la qualità di occuparsi comunque e sempre di «fuscelli galleggianti dell’Attualità». Il «Critico», invece, i cui caratteri generali «sono notevoli soltanto nell’essenza, nel senso che esiste in ogni critico un autore impotente», riesce a prodursi in cinque sottogeneri: «Critico della vecchia guardia», «Giovane critico biondo», «Grande critico», «Feuilletonista», «Piccoli giornalisti». Per essi – osserva Balzac – non si tratta più di avere idee, conta molto di più dire le cose in una maniera che si risolva in ingiurie, oppure vezzeggiare e corteggiare la mediocrità.

  I sottogeneri, a loro volta, si distinguono in varietà.

  Per esempio, il Giornalista ha cinque varietà: «Direttore-Redattore-capo-Proprietario-Gestore», «Tenore», «Fabbricante di articoli di fondo», «Factotum», «Camarillista». Quattro ne ha il Giornalista-uomo di Stato: «Uomo politico», «Attaché», «Attaché-distaccato», «Politico con gli opuscoli». E tre ne ha l’Autore con le certezze: «Profeta», «Incredulo», «Settario».

  Più o meno altrettanto articolata la costellazione dei «Critici». Il Critico della vecchia guardia si presenta sotto la duplice forma dell’«Universitario» e del «Mondano». Il Giovane critico biondo ha tre varietà: «Negatore», «Burlone», «Incensiere». E il Grande Critico può vestire i panni di «Giustiziere delle grandi opere» o di «Eufuista». Il Piccolo giornalista può riprodursi in cinque tipi differenti: «Bravo», «Buffone», «Pescatore», «Anonimo», «Guerrigliero».

  Insomma, tra generi, sottogeneri e varietà Balzac enumera, indaga e rappresenta ben trentanove tipi di scrittori che affollano il pianeta Stampa, «parola adottata – chiarisce Balzac – per esprimere tutto ciò che si pubblica periodicamente in politica e in letteratura, e dove si giudicano le opere di coloro che governano e di coloro che scrivono, che sono due maniere di guidare gli uomini». [...].

  Esiste un testo perfettamente parallelo alla Monographie che dà ragione degli stretti rapporti in Balzac fra scrittura saggistica e scrittura letteraria. Si tratta di Un grand homme de province à Paris, seconda parte di Illusions perdues. I due scritti hanno lo stesso contenuto, raccontano il medesimo ambiente, quello del giornalismo. Ma lo fanno da due punti di vista diversi. Nel pamphlet Balzac esamina i meccanismi che fanno funzionare la macchina istituzionale della Stampa, che alcuni decenni dopo comincerà a chiamarsi «quarto potere». [...]. Nel romanzo la macchina è in pieno funzionamento, attraverso il protagonista Lucien e il suo accompagnatore Stéphane Lousteau le pagine analizzano le ipocrisie, le arroganze, gli egoismi, le violenze che la alimentano, la materia umana che tritura, le vittime che semina. Le ruote della macchina nel romanzo acquistano nome e cognome, diventano persone fisiche.

  Seguire le azioni del romanzo significa per il lettore della Monographie avere a disposizione una mappa a vivaci colori della Parigi giornalistica. Sulla carta è segnata con il rigore del dettaglio preciso e vivo la variegata geografia della Stampa: i luoghi di ritrovo, le redazioni, le testate, i personaggi: protagonisti, comprimari, comparse ...

  Lucien, il protagonista del romanzo, venuto dalla provincia a Parigi con grandi illusioni e speranze, è alla ricerca di una sistemazione. Ha scritto un romanzo e dei sonetti. Spera di pubblicarli. Dopo aver tentato inutilmente di entrare nel mondo dell’editoria libraria [...]. È l’avvio di una giornata importante per Lucien. L’inizio di un viaggio straordinario nel mondo dei giornali, dove — scopre subito – tutto è apparenza, precarietà, mediocrità, ipocrisia.

  Le tappe del viaggio — tutto si svolge in una serata — sono scandite e si susseguono con assoluta regolarità. Punto di partenza è l’appartamento di Lousteau [...]; la seconda tappa si svolge lungo le Galeries des Bois, un «ignobile bazar» dove «fiorivano le notizie e i libri, le giovani e le vecchie glorie, gli intrighi dei politicanti e le menzogne della stampa». La libreria Dauriat, terza tappa del viaggio di iniziazione per Lucien, è il centro del caleidoscopico mondo della stampa e dell’editoria; qui si svolge uno straordinario fervore di incontri, qui Lucien conosce le persone che contano. La libreria Dauriat è il passaggio d’obbligo per l’accesso alle redazioni. Se si è accettati qui, si sarà accolti favorevolmente là. La tappa successiva, la quarta, è la prima di una commedia al Teatro Panorama-Dramatique: il palco di proscenio in prima fila dove i due amici trovano posto è il luogo del primo battesimo di Lucien (qui conosce Coralie, la giovane attrice che si innamora di lui), ma è anche il luogo in cui ha drammatici momenti di consapevolezza rispetto alla «china del precipizio» in cui è ormai destinato a cadere: «Quella mescolanza di alti e bassi, di compromessi con la coscienza, di superiorità e di viltà, di tradimenti e di piaceri, di grandezze e di servitù, lo lasciava stupefatto come un uomo che assista ad uno spettacolo incredibile». Quinta e ultima tappa, la cena a casa di Florine, la donna di Lousteau. Vi si svolge un vero e proprio rituale di legittimazione di Lucien come giornalista: la lettura pubblica della sua recensione dello spettacolo appena visto è un vero e proprio trionfo tributato al talento del giovane che – osserva Balzac — «ebbe il torto di esibire subito tutta la sua intelligenza».

  È, il viaggio di Lucien lungo le cinque tappe descritte, una vera e propria discesa agli Inferi, un doloroso passaggio per il girone dei vizi e dei peccati del mondo giornalistico, «disseminato di scogli e pericoloso, pieno di pozze fangose in cui egli avrebbe dovuto lordare la sua coscienza».

  L’immagine infernale non è gratuita. Balzac qualche anno prima, nel 1835, nel romanzo La fille aux yeux d’or aveva definito e rappresentato Parigi come «un inferno che prima o poi troverà il suo Dante».

  Lucien Chardon, ribattezzato per l’occasione Lucien de Rubémpré, con nome che ne legittimi la spinta alla scalata sociale (Balzac, pure lui, a partire dal 1830 aveva aggiunto un de nobiliare al suo cognome d’origine), brucia le tappe, trova la porta giusta per essere accolto e conquistare il mondo cui aspira, subito conquista consensi, è stupito, tanto da confessare: «In una sera, mio caro, mi son capitati più avvenimenti che nei primi diciotto anni della mia vita».

  È un itinerario lungo una poco ideale galleria di ritratti di giornalisti, a partire dallo stesso mentore Stéphane Lousteau [...].

  Quando Lousteau elargisce consigli al suo protetto lo fa con un linguaggio di una crudezza da inferno dantesco [...].

  Nel seguito del romanzo, le vicende si svolgeranno in maniera tale da registrare via via la rovina economica e professionale di Lucien.

  La diabolica umanità che si aggira per redazioni, salotti, librerie e teatri così come descritta nelle vicende di Lucien spiega e giustifica sia la definizione del giornale come luogo di «perdizione del pensiero» sia la sentenza: «se la stampa non esistesse, bisognerebbe non inventarla». La stessa sentenza che chiude la Monographie.

 

 

  Marco Diani, La rivoluzione nella forma: Balzac e l’iscrizione immateriale del denaro, «Comunità. Rivista di informazione culturale», Milano, Anni XLIV-XLV, N. 193-194, Marzo 1992, pp. 425-444.

 

  Cfr. anche 1991 (versione originale in lingua francese).

 

  Sin dagli anni intorno al 1840 Balzac si pone i problemi del fattore economico, della circolazione e moltiplicazione del denaro: da “poeta”, ma anche da “dottore in scienze sociali”.

  Riconoscere che il denaro occupa un posto di primo piano nella Commedia umana non è certo una novità. Come osserva Stefan Zweig, ‘il denaro circola nei suoi romanzi. Non solo il formarsi e perdersi di grandi fortune vi è narrato, non solo le pazze speculazioni di Borsa vi son descritte e le grandi battaglie in cui si spende altrettanta energia quanta ne richiesero quelle di Lipsia e di Waterloo [...], ma Balzac per primo ha coraggiosamente dimostrato con mille esempi come il denaro fosse penetrato nei sentimenti più nobili, più fini, più immateriali”.

  Strana coincidenza: il 1847, allorché Balzac sta portando a termine La commedia umana, è la data di pubblicazione del Manifesto del partito comunista di Marx e Engels. Autori che hanno in comune l’epoca, ma soprattutto il desiderio di analizzarne le principali strutture. Il paradosso, su cui in parte ci soffermeremo nel presente articolo, è che lo studio di Marx ed Engels gode, rispetto alle scienze sociali, di un privilegio dell’esposizione discorsiva, quello della scientificità, nonché dell’enorme influenza politica dell’opera, che oscurano invece la portata teorica del lavoro di Balzac.

  Ma perché non invertire i ruoli e domandare, per una volta, al romanziere, al “poeta”, di fornire gli elementi di analisi che consentono di comprendere le società? Partendo dalle idee centrali della sociologia di Balzac avremo così, alla fine del percorso, gli elementi per una rilettura del ruolo che il fattore economico svolge secondo Marx ed Engels. [...].

  Ma è sin troppo comune leggere e criticare Balzac applicandogli la vulgata marxista: più interessante è procedere in senso inverso, e arrivare a Marx attraverso Balzac. Mettere in relazione Marx e Balzac non ha nulla di insolito: è quanto da tempo fa gran parte della critica balzachiana, che trova le proprie patenti di nobiltà nella famosa lettera di Engels a Miss Harkness o nelle osservazioni di Marx a proposito del Capolavoro sconosciuto.

  Questa lettura riconosce agevolmente all’opera balzachiana l’impostazione progressista delle analisi e delle conclusioni, limitate dall’immaturità teorica dell’epoca, che non consente l’espressione scientifica completa della società capitalistica quale la presenterà Marx. Questa curiosa oscillazione della critica fra un Balzac progressista e un Balzac reazionario può assumere forme caricaturali: e in tal caso l’autore e l’opera si trasformano in un’arena ove si affrontano “destra” e “sinistra”; ma in fondo rivela soprattutto gli orientamenti dominanti dello schema interpretativo marxista e post-marxista applicato a Balzac: con altrettanto successo – sia ben chiaro – per il Balzac progressista e per filtro Balzac, quello reazionario. L’autore che ha riconosciuto l’importanza del fattore economico, l’analista della liquidazione di tutti i valori, il cantore dell’industrializzazione, precede e preannuncia Marx e il materialismo. Il genio artistico, il “letterario”, pone quindi le basi della “scienza” presentata da Marx ed Engels vent’anni dopo. Da Marx e Balzac la lettura procede sempre nello stesso senso: lettura retrostorica e finalizzata, ove il filosofo permette di leggere e rileggere il romanziere, di esporne e presentarne “la verità scientifica”.

 

  La rivoluzione nella forma.

 

  Balzac tenta continuamente di tessere insieme i due fili, di comprendere come la pulsione verso il potere sia congenitamente legata alla circolazione capitalistica del denaro. Questi due movimenti, queste “energetiche” – della pulsione/potere e della pulsione/denaro – formano il continuum della Commedia umana; sono “l’essere” ontologico dei nuovi dirigenti, ovvero il brillante dio della nuova società. Bisogna allora studiare il passaggio, le traduzioni da una forma all’altra, e forse considerare se queste due manifestazioni non abbiano una fonte comune.

  Da buon sociologo, Balzac ha visto ciò che andava edificandosi nella società: un accordo significativo, non fortuito, fra due aspetti delle espressioni sociali, l’uno riguardante le soggettività degli attori, la passione per il potere, l’altro connesso alle iscrizioni oggettive del denaro.

  Nessuno ha avvertito tanto acutamente i tormenti che implicano, per tutti gli strati del popolo, il passaggio alla produzione capitalistica, la profonda degradazione morale e spirituale che necessariamente accompagna tale evoluzione in tutti i ceti sociali.

  Balzac ha visto con tanta chiarezza l’ambiguità dell’epoca da prefigurare direttamente, con Ouvrard e Popinot, le analisi di Marx sul monopolio creato dal denaro, analisi in cui certuni ritrovano l’ambiguità fondamentale del capitalismo costruttore: progressista nel senso che fa trionfare metodi più moderni di produzione e di organizzazione commerciale, ma anche tremendamente disumano nel senso che pone fra le mani di un numero sempre più ristretto di persone il destino di un numero sempre più grande. Livellando sistematicamente le differenze sociali, ricusando le particolarità, la rivoluzione francese preannuncia l’industrializzazione ma anche la forma monetaria in quanto equivalenza universale di ogni valore. Tuttavia la rivoluzione capitalistica del denaro preparata da questi rivolgimenti sociali e giuridici non può essere compresa se si dimentica l’altro aspetto: la convergenza e l’espressione di una passione assoluta per il potere resa possibile da questa nuova incarnazione delle forze e delle correnti sociali in seno alla nuova forma finanziaria.

  Dopo Napoleone, Nucingen: “parenti” in quanto ciò che li anima è la passione per il potere assoluto: essere dio. Ma il potere assoluto è anche morte: Bette, Goriot, Rubempré, Gobseck, Grandet, Raphaël de Valentin.

  Così, la critica della società borghese in Balzac non può mai dimenticare questa dimensione emotiva e patologica che spiega e conferisce la sua autentica dimensione al dramma sociale della rivoluzione francese. Introducendo una serie di nuovi codici, la rivoluzione ha permesso a una serie di passioni distruttive, legate a questo movimento incessante, pulsionale e mortale, di cristallizzarsi, incarnarsi e stabilizzarsi in modo privilegiato. Emerge qui una vera patologia sociale, e un’analisi delle forme finanziarie moderne. Queste nuove forme hanno certo un versante positivo, ma permettono l’instaurarsi di una tale violenza che è lecito domandarsi se l’umanità non si avvii al caos e alla distruzione.

  È quanto Balzac pensava ben prima di Marx, con una differenza importante, nella “materialità” dell’analisi.

 

  La genesi del denaro capitalistico.

 

  La genesi del denaro capitalistico trova probabilmente la sua spiegazione nei movimenti politici e sociali, in un’evoluzione storica dei gruppi sociali; ma tale spiegazione è incompleta se non tiene conto della convergenza fra questa evoluzione e una costante astorica: il movimento pulsionale individuale e collettivo per il dominio, la distruzione da morte. La critica radicale della società borghese, in Balzac, mostra il significato della convergenza fra un dato movimento sociale, che istituisce nuovi circuiti finanziari, e ciò che questi nuovi circuiti finanziari permettono: l’incarnarsi esplosivo di pulsioni mortali, grazie e attraverso queste nuove caratteristiche del denaro.

  L’opera balzachiana è così attraversata da un duplice movimento che delinea nei fenomeni sociali, individuali, l’espressione dell’energia-volontà, e analizza poi quegli stessi fenomeni in seno a una fisica o, meglio, a una fisiologia sociale: poiché si tratta di due punti di vista di una medesima realtà.

  Le corrispondenze fra il mondo oggettivo e la vita soggettiva dei personaggi non vanno lette in chiave analogica, e neppure semplicemente simbolica. Il simbolismo ammette delle corrispondenze fra le sfere materiali e spirituali che sono fondate di diritto sull’unità, ma rinuncia ad analizzarne il funzionamento strutturale. L’operazione balzachiana consiste invece nel non ridurre la specificità degli ambiti del reale, e nel non rinunciare allo sforzo esplicativo: Balzac tende a respingere le partizioni soggettività/oggettività.

  Solo in questo quadro Balzac abborda il problema del denaro. Patologo della vita sociale, aveva dunque bisogno di determinare il tasso di denaro contenuto nel sangue sociale, di questo denaro che è “il precipitato materiale dell’ambizione universale”. [...].


  Significato e maledizione del denaro.

 

  [...]. Il denaro si insinua in tutti i settori della società, perverte tutti i sentimenti, si ritorce contro chi lo manipola. Grazie ad abili macchinazioni Goriot è riuscito a trasferire nelle proprie casse i soldi dei piccoli consumatori affamati dalla penuria. Quando abbassa la guardia, l’amore paterno lo rovinerà. Così, checché si voglia, si torna sempre allo stesso punto, “al punto dal quale eravamo partiti: all’adorazione del vitello d’oro”. In questa giungla il denaro funge da artigli e zanne per sopravvivere.

 

  Il denaro vitale.

 

  Nocivo e patogeno, il denaro è anche l’indice di uno sviluppo della vita, di un ingresso nelle sfere superiori, è segno e realtà di un progresso. Benché troppo spesso trascurato, questo tema è essenziale nell’opera di Balzac: per fare un solo esempio, è al centro del Député d’Arcis e del Medico di campagna. Riferendosi al risveglio di una regione morta, quella di Arcis, Balzac proclama che “il comfort inglese vi penetrerà, il denaro vi assumerà quella rapida circolazione che è già metà della ricchezza e che si abbozza in molte contrade inerti della Francia”. Il lavoro di Benassis a Voreppe è testimoniato dal fatto che “nel paese vi era un’animazione generale. Il denaro che circolava faceva nascere in tutti il desiderio di guadagnare di più, l’apatia era finita, il villaggio si era risvegliato”.

  Che cos’è dunque il denaro? Una realtà concreta, con le sue precise regole, cui bisogna sottostare se si vuole avere successo e che anzi, nei grandi finanzieri, Nucingen, Du Marsay, implica del genio: uomini che, come i grandi artisti, hanno il dono della “spécialité”, cioè sono in grado di comprendere il significato degli eventi, di intervenire sul corso delle cose, “conoscono le leggi del mondo finanziario e pertanto vivono il loro rapporto col denaro altrimenti che in termini di ‘puro’ destino”.

 

  Il denaro e lo spirito.

 

  Ma il denaro è anche segno di qualcos’altro. Non è una forza in sé, indipendente dal resto, che si sia in qualche modo “reificata”: rinvia al più profondo della realtà sociale, al gioco di forze e di energie che la costituisce. Approcci diversi, contraddittori, ma altrettanto vari, sono dunque possibili per studiare il denaro in Balzac.

  Vi è tuttavia un filo conduttore che unisce tutti questi punti di vista.

  Il denaro svolge nel gioco sociale il ruolo che la parola svolge nei fenomeni umani in generale. Non può dunque essere considerato una forza o un fenomeno in sé, a meno di non perdere di vista un elemento essenziale della realtà sociale, percorsa anche da correnti energetiche. Ma il denaro non è nemmeno puro segno che, nella sua trasparenza, rinvia ad altri ambiti. È materia fluida, dotata di proprie leggi, di una propria massa. Esistono dunque almeno due versanti del denaro: la sua materia, la sua struttura, che ne costituiscono la sintassi, ma anche ciò che esso designa e significa: correnti, potenza, interconnessione, gioco di forze contraddittorie. [...].

  L’unico filo conduttore per raccapezzarsi consiste dunque nel ricollocare il denaro al cuore della Commedia umana, cioè restituire alla concezione balzachiana del denaro il ruolo centrale di “questa cosmologia realista” [P. Barbéris].


  L’economia finanziaria rivela l’economia libidica.

 

  Il denaro è almeno due “stati”, due ambiti. Il primo è quello della materia solida, l’oro, le merci dotate di un determinato valore, le leggi imperative della finanza, cui bisogna sottostare e che evocano l’inerzia e la solidità del minerale: in questo senso il denaro rinvia alla geologia, alla geografia, alla demografia, a tutta quella materia stabile di cui in fondo sono costituiti gli individui e la società.

  Ma la materia è essenzialmente energia e movimento, e la materia solida non è che una forza della materia/energia. Vedere nel denaro soltanto un fenomeno in sé, una catena di montagne nel paesaggio della realtà sociale considerata staticamente è un’ottica estremamente limitata. Il denaro è rivelatore di un processo molto più essenziale al centro della vita sociale. È infatti fondamentalmente movimento incessante, dinamismo, creazione, circolazione. Sotto questo aspetto, “tesaurizzare è un delitto sociale”, l’equivalente economico, in una società “produttiva”, del celibato. Ma il denaro è anche ciò che dà la potenza: nei rapporti sociali incarna e manifesta la potenza. E per ciò stesso svela che cos’è la realtà sociale al suo livello più profondo.

  La realtà sociale infatti non è sostanzialmente un determinato tipo di organizzazione della materia solida che, a questo livello, si configurerebbe in modo analogo all’organizzazione dei vegetali e degli animali in natura. Il denaro rivela e palesa piuttosto un’organizzazione della materia/energia in forma invisibile, immateriale, e nondimeno ben reale. Forma superiore di organizzazione, essa si costituisce nella sfera del pensiero ed è resa possibile dall’accumulazione, in questa nuova sfera, di rapporti umani, di energie psichiche individuali interagenti; poi, di idee espresse attraverso il linguaggio, in quanto tali idee, tali correnti psichiche, benché invisibili, sono reali, materiali. Nell’evoluzione cosmica il mondo sociale corrisponde a un progresso, a un’avanzata nell’organizzazione della materia; il denaro rivela e incarna la realtà di questo nuovo campo della materia/energia, agitato da movimenti d’urto di una violenza talora inaudita. Il progresso, in questo caso, non è evidentemente il denaro, e nemmeno la realtà sociale, ma la messa in moto in quella sfera, attraverso la parola e il denaro, di correnti, di energie psichiche sempre più intense che permettono a certi individui di vivere un’esperienza ancora più profonda fino a giungere a quella mutazione, non sociale ma morale, della “rivoluzione nelle forme”. [...].


  Superare la contrapposizione: il materialismo spiritualista di Balzac.

 

  Balzac ritiene di poter ricucire materialismo e spiritualismo, superandoli. Louis Lambert illustra con chiarezza quest’ambizione balzachiana, ancora irrisolta nel giovane protagonista: “La sua opera portava i segni della lotta che sostenevano in quella bella anima due grandi principi, lo spiritualismo e il materialismo, attorno ai quali si sono aggirati tanti grandi ingegni, senza che nessuno sia riuscito a fonderli in un unico principio. Dapprima spiritualista puro, Louis era stato indotto a riconoscere lentamente la materialità del pensiero. Sconfitto dalle acquisizioni delle analisi, nel momento in cui il suo cuore si volgeva ancora con amore a contemplare le nuvole sparse nei cieli di Swedenborg, egli non aveva ancora la forza necessaria per elaborare un sistema unitario, compatto, fuso in un sol getto”. Non si potrebbe essere più espliciti: esiste una materialità del pensiero che è quella dell’energia e che non permette di essere spiritualisti.

  Tale concezione unitaria permetterà a Balzac di affrontare i fenomeni sociali come altrettanti fenomeni immateriali senza perciò abbandonare il piano della scienza, dato che questi fenomeni immateriali non sono fenomeni spirituali, cioè appartenenti a un ordine diverso. Balzac tratta i fenomeni sociali, e umani in genere, come se fossero spirituali, evidenziandone tutta la specificità (è l’aspetto energia-volontà all’opera sulla sfera del pensiero), ma affronta i fatti spirituali come se fossero fisici: i fenomeni spirituali non sono che una forma particolare della materia.

  Questa straordinaria concezione spiega i linguaggi diversi che Balzac adotta per parlare degli stessi fenomeni – il vocabolario del mistico e quello dell’uomo d’affari, quello del religioso, ma anche quello del fisico: altrettanti tentativi di definire una realtà unica che si presenta sotto molteplici aspetti. In questa prospettiva i conflitti sociali, psichici, hanno per Balzac una realtà evidente quanto le loro manifestazioni “oggettive”. Così, per esempio, la scienza deve poter render conto di questa evidenza: che un’idea, un sentimento, può uccidere più inesorabilmente di un’arma; non è forse lontano il momento in cui la scienza potrà individuare il meccanismo ingegnoso dei nostri pensieri, cogliere la trasmissione dei sentimenti e dimostrare che l’organizzazione intellettuale è in certo modo un uomo interiore che si proietta con non minore violenza dell’uomo esteriore e la lotta che si può ingaggiare fra queste due forze invisibili ai nostri occhi non è meno mortale dei combattimenti al cui incerto esito affidiamo il nostro involucro esterno.

  Non si tratta di un’analogia, ma di un potere reale della volontà che agisce sul mondo circostante alla stregua del magnetismo mesmeriano. Ne è un esempio la lotta di classe che, per Balzac, ha luogo almeno tanto attraverso battaglie e rivolte “oggettive” quanto attraverso un conflitto intellettuale emotivo e immateriale [...].

  Le lotte ideologiche hanno almeno altrettanta realtà e forza quanto quelle oggettive (sommosse, rivoluzioni); sono anzi le forme più potenti di questo conflitto materiale, l’urto di due classi a livello dell’energia sociale. Sullo stesso registro, le produzioni sociali – abitazione, denaro, banca, proprietà, abiti – e persino l’aspetto fisico – il volto, il corpo, le espressioni – sono profondamente investiti da questa energia-volontà che travaglia la sfera del pensiero.

  La peau de chagrin offre la chiave di questo movimento. Come è noto, il talismano permette al protagonista, Raphaël, di realizzare tutti i suoi desideri, sicché egli detiene l’esatto equivalente di un patrimonio colossale. Il problema sta nel fatto che la pelle si restringe ogni volta che la si usa, segnalandogli l’approssimarsi progressivo della morte. Raphaël non tollera questa prospettiva, eppure sa che morirà. Allora l’antiquario gli spiega che l’intollerabile sta in questa fusione del potere e del volere, che tarpa lo slancio del desiderio. In fondo, la pelle di zigrino – il denaro nuovo, il denaro capitalistico che realizza il vecchio sogno di essere l’equivalente universale – può rimpiazzare lo slancio infinito del desiderio sostituendo all’infinità del movimento tutti gli oggetti possibili. È quanto del resto ha compreso Gobseck: il potere assoluto che conferisce il denaro. Dio e la morte sono qui intimamente connessi [...].

  Nucingen, Gobseck sono uomini profetici che seminano la morte intorno a sé, animati da quella cupa passione per il potere assoluto che viene dal fondo di se stessi e di cui sappiamo che è al cuore di ogni realtà esistente, quella che evoca il suo volto nascosto, la morte.

  La concentrazione del denaro nei grandi patrimoni è mostruosa. Balzac ne individua l’origine in alcune passioni costanti: non la sessualità, ma “le passioni eminentemente balzachiane: l’odio, la vendetta, l’avidità, l’ambizione, che sono più stabili, più durature”, e che ruotano tutte intorno alla morte. L’amore, la “dissipazione sessuale” provocano la rovina del barone Hulot, di papà Goriot, di Rubempré: essi non sono realmente preparati per queste nuove forme del denaro capitalistico che, grazie all’interscambiabilità universale, rende possibile il potere assoluto, la riduzione di tutti e tutto alla sua forma immateriale.

  A ciò mette capo l’analisi balzachiana del denaro nella società della sua epoca e la sua critica dell’economia politica. Tale critica radicale si inscrive in una concezione più generale delle società umane, degli individui e del loro funzionamento [...]. Il denaro, la sua circolazione, le sue regole, si possono comprendere soltanto rispetto al gruppo sociale, al suo ambiente, ai suoi sistemi giuridici, alla struttura della proprietà terriera: il che lo inscrive nel versante di un’eventuale economia politica. Ma il denaro è anche l’incarnazione delle energie immateriali, emotive e intellettuali, collettive e individuali, e si inscrive in un’“economia libidica”. La patologia del denaro – che è la critica balzachiana dello stato “borghese” – va interpretata in questa duplice inscrizione.

  Sotto il profilo politico la rivoluzione francese ha introdotto, in nome dell’eguaglianza, rapporti di dominazione e servaggio di un’inaudita brutalità. L’unica eguaglianza è quella della promozione per tutti. L’esempio di Napoleone ha dimostrato che il potere supremo era in balia dell’uomo della più umile estrazione. Abbattendo la società gerarchica dell’ancien régime (che, per Balzac, regolarizzava, probabilmente male, il fondo della realtà umana, cioè la diseguaglianza), la borghesia rivoluzionaria ha fatto posto a Napoleone: il potere supremo all’umile ufficiale.

  Non tutti i giorni si può avere un Napoleone: è l’altra lezione che la borghesia ha appreso. Bisogna allora trovare nuove regole sociali che permettano di vivere questo sogno senza far esplodere tutto. Questa codificazione esiste già, basta darle spazio: è il denaro. [...] La nascita del denaro capitalistico è ben interpretabile entro un’evoluzione politica e sociale legata alla rivoluzione francese e all’Impero. Rompendo le dighe, la rivoluzione ha rivelato il senso dell’evoluzione successiva, ovvero la ripresa secondo un nuovo codice dei conflitti per il potere: l’uguaglianza è soltanto la generalizzazione di quei conflitti, poiché tutti possono di diritto parteciparvi [...].

  Ma sono troppo numerosi, debbono divorarsi: il segreto del nuovo codice, civile e sociale, del denaro capitalistico è la guerra civile.



  Enzo Di Mauro, Nota, in Honoré de Balzac, Un episodio ai tempi del Terrore ... cit., pp. 45-50.

 

  Questo racconto, tratto da Scènes de la vie politique, ha avuto una vita lunga e travagliata. Fu dapprima pubblicato anonimo nel 1829 come introduzione ai Mémoires de Sanson, per l’appunto il boia di Luigi XVI, memorie apocrife se «apocrifa» può dirsi un’opera attribuita allo stesso Balzac. Con altro titolo, Un inconnu. Épisode de la Terreur, apparve sul “Journal de Paris” nel 1839. E ancora, questa volta firmato dall’autore, nel 1842, come Une messe en 1793. Per entrare, infine, in parte sempre riscritto, ne La Comédie humaine, due anni dopo. Vita travagliata, dunque, se anche Balzac, in calce al racconto, appone una data di composizione non giusta: 1831.

  In una sua nota di diario del 13 ottobre 1936, ricordata da Italo Calvino, Cesare Pavese scrive di come Balzac penetri «in un intrico di cose sempre con l’aria di chi fa finta e promette un mistero e va smontando tutta la macchina a pezzo a pezzo con un gusto acre e vivace e trionfale». E Un épisode sous la Terreur, nella sua esiguità di pagine, è un racconto dai meccanismi perfetti. Balzac, naturalmente, non sbaglia nulla, neppure il più piccolo colpo di scena. La storia comincia il 22 gennaio del 1793, il giorno successivo alla morte per decapitazione di Luigi XVI. È il culmine del terrore, e Parigi si mostra deserta, desolata, chiusa in una morsa terribile di paura. Difatti, il sentimento (il moto) che accompagnerà tutte le varie fasi della vicenda è lo spavento. Fin da subito. Intanto, chi è l’anziana signora che va in giro di sera in una Parigi da incubo, e cosa va cercando? E, qualche rigo più avanti, cosa ha trovato? E chi è l’uomo dal passo pesante che, come un’ombra, segue la donna? Da questo momento in poi, è un susseguirsi graduale di straordinarie rivelazioni. Fino allo scioglimento finale del mistero. Che però, in parte almeno, mistero sempre resta.

  Questo racconto è anche un perfetto manuale di suspance. Ma non solo. Si è parlato, per Balzac, di una sorta di «patologia» della visione che investe, con spietata esattezza anche la rappresentazione dei tipi umani, dei loro gesti, del loro sentire, delle strade e delle piazze in cui si muovono. Qui, in questo episodio, ogni cosa è fissata in poche righe, ma tutto risulta essere assolutamente indimenticabile. Oltre al protagonista, si pensi al pasticciere e a sua moglie, al prete e alle due religiose e alla folla di rue Saint-Honoré che assiste festosa e soddisfatta all’ultimo viaggio, verso la ghigliottina, dei «complici» di Robespierre. Terrore, dice Balzac, sempre terrore. Coscienze febbrili, pentimento e terrore.

  Coscienze febbrili e infelici. Ecco, si diceva di come alla fine ci pare di capire, di giungere al cuore della storia e delle motivazioni che la fanno esplodere. Ma, insieme, in questo racconto, si ha la sensazione che più di qualcosa si allontani dal nostro sguardo. Soprattutto, le ragioni profonde del protagonista, la sua coscienza straziata e dolorante. È come sentire una sorta di straniamento della vicinanza. Come in un film, o in un sogno. In Balzac è spesso così. Le mura che reggono la sua costruzione sono sempre, come ha scritto Giovanni Macchia, piuttosto «sgretolate» (esattamente come la casupola del racconto), «e attraverso profonde crepe penetrano all’interno fasci di luce che danno alle cose un rilievo allucinato, come se stessero per andare in rovina». Alla fine di tutto, viene voglia di chiedersi se quel protagonista, quella casupola e quelle rovine non somiglino fin troppo ad altre storie che conosciamo.


 

  Maria Donadelli, Il grottesco in Hugo e Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: prof. Gabriele Scaramuzza, Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere, 1992.

 

 

  Antonio D’Orrico, Lo zoo dei giornalisti, «Epoca», Milano, n. 2001, 16 dicembre 1992, pp. 108-109.

 

  Un secolo e mezzo fa Honoré de Balzac, uno dei più grandi scrittori di ogni tempo, pubblicò un librettino, I giornalisti, nel quale descriveva tic e tabù del mondo della carta stampata parigina. Un editore di Catanzaro, piccolo e curioso, che si chiama Abramo, ha ripescato e proposto per la prima volta in Italia quel catalogo, quel bestiario. Ed è successa una cosa strana. Quel libro sembra scritto oggi, e non a Parigi, ma a Roma, a Milano e dovunque, in Italia, ci sia una redazione.

  Tutto quello che segue è farina del sacco di Balzac, ci siamo solo limitati a suggerire, di tanto in tanto, gli esempi di contemporanei ai quali sembrano dirette le parole dello scrittore. Il risultato finale è una specie di rapporto sul giornalismo italiano alla fine del 20° secolo. Firmato Balzac. [...].

 

 

  Anna-Christina Faitrop-Porta, Honoré de Balzac, in La letteratura francese nella stampa romana (1880-1900). Studio e bibliografia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, pp. 170-173.

 

 

  Barbara Fedriga, Balzac e Dickens: Due testimoni eccellenti della miseria della coscienza borghese. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1992.

 

 

  Francesco Fiorentino, Introduzione, in Honoré de Balzac, La Musa del dipartimento ... cit., pp. 9-25.

 

  All’inizio del 1843, come già tante volte in passato, Balzac era perseguitato dai debiti. Questa volta però si sentiva esaurito, stanco, malato: il 17 gennaio scriveva a Mme Hanska che gli pesavano i quindici anni in cui aveva «incessantemente attinto a questa fonte». Non aveva tuttavia altra fonte a cui attingere e il 2 marzo comunicava, ancora all’amata lontana, il progetto di scrivere in quindici giorni «un romanzo delle dimensioni di Una figlia d’Eva».

  Il 20 marzo, puntuale, compariva nel «Messager» la prima puntata di Dinah Piédefer, il 28 aprile – il giorno prima che apparisse l’ultima puntata – veniva pubblicata La musa del dipartimento, un volume che, oltre al titolo nuovo, presentava una versione del romanzo non mutilata dai tagli imposti dalla pudibonda redazione del «Messager».

  Per riuscire in questa impresa, lo scrittore, oltre che attingere alla sua prodigiosa riserva di energie, dovette anche ricorrere ai suoi cassetti. Un quarto del romanzo è costituito da materiali di recupero: tutte le storie raccontate nel salotto La Baudraye erano già state pubblicate negli anni trenta, mentre la tirata di Dinah sulla donna di provincia era uscita un paio di anni prima, nel 1841. E dovette anche ricorrere ad alcuni dei temi più collaudati della sua narrativa: la donna di trent’anni, l’adulterio, il letterato fallito, la vita provinciale.

  Il romanzo appena apparso suscitò scandalo. L’autorevole «Revue des deux mondes», che perseguitava Balzac, parlò allarmata di «esalazioni malsane e nauseabonde»; «Dinah Piédefer è una soddisfazione che M. de Balzac ha voluto senza dubbio dare al bisogno di studi scabrosi». La storia di Dinah che lascia la provincia e il marito – l’avaro La Baudraye, vecchio e impotente – per andare a vivere a Parigi con il giornalista Lousteau che l’ha sedotta e poi torna dal marito nel momento in cui questi è all’apice del successo sociale, non ha incontrato grande favore neppure nel nostro secolo. [...].

  Proprio il rapporto tra i racconti precedenti e il nuovo contesto, oltre a illustrare l’arte balzachiana della composizione, mi pare possa anche offrire una delle chiavi principali di interpretazione del romanzo. Nella loro connessione con l’epoca imperiale, essi contrastano vivamente con l’ambientazione in epoca orleanista della vicenda di Dinah. Sentimenti forti, come la passione, l’onore, la vendetta, che dettano azioni estreme si contrappongono alla morale dell’accomodamento borghese che vige nel romanzo. Le truci e appassionate vicende dell’Impero, distanti non solo temporalmente, diventano racconti, argomenti di conversazione e strumenti di seduzione, nel salotto Luigi Filippo, teatro di una meno drammatica relazione adulterina. E a questo contrasto ideologico e sentimentale, si collega la contrapposizione tra l’estetica da racconto nero, a cui tutti i racconti intercalati si riconnettono, e la nuova estetica «realista» del romanzo che li contiene e che proprio l’universo di valori borghesi intende rappresentare. [...].

  Nella Commedia umana, La Musa del dipartimento fa parte della sezione Scene della vita di provincia, sotto sezione I Parigini in provincia. Viene dunque classificata come una storia provinciale, malgrado una parte cospicua di essa si svolga a Parigi.

  La provincia è stata una grande invenzione romanzesca di Balzac e di Stendhal; con loro, essa si trasforma da quinta di teatro popolata di personaggi ridicoli o da luogo mitico di purezza, qual era prima del 1830, nella piccola città, popolata di zitelle e preti, di vecchi aristocratici e giovani ambiziosi, di terribili capitalisti e muse dipartimentali. E, a partire dal 1840, anche di parigini che o vi si sono ritirati o vi soggiornano per qualche tempo.

  La vita provinciale, nella Musa del dipartimento come nelle altre Scene, ha regole inesorabili, la cui applicazione è sottomessa a un controllo generalizzato: «... ci si trova sotto il tiro di quella zelante sorveglianza che fa della vita privata una vita pressoché pubblica». Un parigino come Lousteau si meraviglia che ci si possa occupare «tanto gli uni degli altri e [perdere] tempo per dei nonnulla». Questa attenzione reciproca si traduce in un tessuto di commenti, pettegolezzi, congetture con cui la piccola comunità accompagna la vita dei suoi membri eminenti. Si tratta di «quella maldicenza di bassa lega che fa il tondo della lingua in provincia». Una sorta di coro puntualmente si appella alle istanze di un ordine ferocemente repressivo verso tutto ciò che viene sentito come novità.

  La caratteristica principale della vita di provincia è infatti la ripetizione. Si ripetono sempre i medesimi gesti, le stesse battute, gli stessi discorsi. Ciò che fondamentalmente ha perduto Dinah a Sancerre è «le charme de l’imprévu». L’ha perduto perché poco alla volta ha contratto le idee e le inflessioni di M. de Clagny, ha assunto le maniere e i toni dei suoi ospiti abituali. Non ha più rinnovato il suo guardaroba. La sua stessa andatura non ha più agilità, dovendo lei muoversi in un luogo «senza accidenti, senza transizioni». Individui con le qualità di Dinah debbono per forza trasferirsi a Parigi, poiché hanno bisogno di quanto solo Parigi può loro offrire: lo stimolo all’emulazione, la sorpresa, la percezione del limite. In una parola, il confronto con l’altro da sé. Per restare in provincia e non dissipare le proprie qualità, bisogna essere come La Baudraye: come coloro che hanno «fame di terra», prescindono dagli altri e possono mettere a profitto la ripetizione, che è indispensabile per accumulare.

  Il nuovo romanzo, quello che ambisce a rappresentare e a studiare le condizioni di vita nella realtà postrivoluzionaria, non può attenersi ai confini, antichi e di sicuro effetto, del romanzesco e dell’eccezionale, deve per forza annettersi il dominio desolato e pericoloso della ripetizione. Riuscirci senza per questo fare scemare l’interesse narrativo né abbassare il tenore morale e intellettuale del discorso: è questa la sfida che Balzac si è assunta per tutto il secolo.

  La storia di Dinah, malgrado il suo compimento parigino, è una storia essenzialmente provinciale. Come provinciale è la storia di Mme Bovary, a cui Dinah viene sempre paragonata. Dinah è effettivamente una sorella maggiore di Emma ma con tutta la differenza che ci può essere tra un personaggio balzachiano e uno flaubertiano. Dinah ha delle qualità là dove Emma avrà soprattutto delle velleità. [...].

  La musa del dipartimento è soprattutto una storia di adulterio. Ma di un adulterio che, rispetto ai tanti adulteri raccontati nei romanzi ottocenteschi, ha un esito sconcertante: la moglie, sulla base di una transazione, torna dal marito assieme ai figli avuti con l’amante e riacquista la rispettabilità sociale. Come può il narratore presentare come una sorta di «lieto fine» questa soluzione così trasgressiva rispetto ai codici morali vigenti?

  La concezione che Balzac aveva della famiglia — quale emerge dalla sua produzione saggistica oltre che dai suoi romanzi – era in effetti abbastanza controcorrente rispetto all’ideologia dominante nella sua epoca. Opponendosi al primato attribuito da Rousseau alla famiglia come comunità di affetti, egli la concepisce essenzialmente come forma di trasmissione del nome e dei beni. Essa ha un valore sociale e non affettivo: difenderla equivale a difendere lo stato. Così si spiega la battaglia di Balzac contro la legge che, abolendo il maggiorasco, divideva equamente l’eredità tra i figli e frazionava i patrimoni. E sempre così si spiega la sua convinzione che tra i coniugi non debba esserci mai passione. Nel Contratto di Matrimonio, un romanzo pubblicato nel 1835, la madre raccomandava a sua figlia, appena sposata: «Pensa, figlia mia, alle mie ultime raccomandazioni e sarai felice. Sii sempre sua moglie e non la sua amante». Un’unione su cui si fonda la vita sociale non può a sua volta fondarsi su un terreno così aleatorio come quello della passione.

  Connessa con questa concezione della famiglia, la posizione di Balzac sull’adulterio (femminile naturalmente, in quanto quello maschile non aveva grande rilevanza sociale e neppure penale, se non accompagnato da convivenza) risulta necessariamente contraddittoria. Si discosta dall’incomprensione scandalizzata del tipo di quella professata dalla «Revue des deux mondes» dove il 28 febbraio del 1843 si poteva leggere che gli adulteri «debbono essere imputati solo alle cattive inclinazioni della vittima o alle seduzioni di quelle odiose creature che speculano sul disonore». Però neppure condivide una posizione del tutto assolutoria alla George Sand. Da una parte Balzac appare inflessibile per quel che riguarda le implicazioni legali dell’adulterio, a maggior ragione in quanto anche i figli successivi al primo (quindi più suscettibili di una origine adulterina) avevano ormai diritto a una parte del patrimonio ereditario. Dall’altra conserva la compassione dei Saint-Simoniani verso le donne che commettono quel «peccato» (peccato e non errore in quanto, a differenza dell’errore, il peccato presuppone il perdono). Le riscatta quella che anche per lui è la qualità femminile per eccellenza: la completa dedizione nell’amore, il totale sacrificio di sé.

  L’adulterio di Dinah ha dunque una soluzione positiva in quanto ella si immola totalmente al suo amante; ma soprattutto in quanto risolve un problema dinastico: consente alla famiglia dei La Baudraye di non estinguersi. In questa prospettiva sociale e non più di affetti, protagonista della storia diviene, a scapito degli amanti, il signore di La Baudraye, in quanto è lui che ne detta il senso ultimo. Accumula una immensa fortuna, risparmiando a danno della moglie risorse economiche e fisiche (le due cose negli avari di Balzac vanno sempre insieme). Riesce a mettere a frutto persino l’adulterio di Dinah, sia imbrogliandola circa l’eredità americana, sia procurandosi degli eredi: cioè l’unica mancanza, da lui incolmabile, alla definitiva sanzione del suo successo. La storia di Dinah e di Lousteau viene assunta nella storia del capitale La Baudraye, è funzionale a esso e quando potrebbe diventare un impedimento finisce: Dinah lascia Lousteau proprio nel momento in cui occorre dar lustro alla nuova posizione sociale del marito. Del resto basta leggere la pagina del romanzo in cui si parla dei grandi lavori agricoli di La Baudraye, che da «insetto» si è trasformato nel perfetto esponente della monarchia orleanista, «mentre [Dinah] soffriva mali inauditi», per rendersi conto di quanto possano apparire futili quelle sofferenze rispetto alle grandi imprese di questo moderno eroe civilizzatore.

  Nei romanzi di Balzac c’è sempre una logica storica, sovraindividuale, per molti aspetti inumana (in quanto è dettata dalle leggi dell’economia e della politica) che sovrasta quella privata, morale e sentimentale dei protagonisti. Non l’annulla però, perché per lui la ricerca della felicità non si identifica necessariamente con quella del senso della storia.

  Nella Musa del dipartimento è continuamente questione di letteratura. Come ha notato Butor, il libro vi compare a tutti i suoi stadi: nei racconti in salotto, come «libro parlato»; nelle opere pubblicate da Lousteau o da Jan Diaz «come oggetto che parla»; in Olympia o le vendette romane, come «carta che si tratta come qualsiasi carta straccia»: come libro che ha perso la parola (la quale gli viene però ridata da Mme de La Baudraye).

  Nel testo del romanzo vengono inseriti racconti, aforismi, poesie, pezzi di un altro romanzo riprodotti con caratteri tipografici differenti. E tutta questa letteratura diventa occasione per osservazioni, esplicite o implicite, di poetica. Così la poesia che Dinah scrive sotto lo pseudonimo di Jan Diaz, proiettandovi tutta la sua frustrazione sessuale, sembra implicare una critica per la nuova scuola poetica a cui viene assimilata: non è infatti un eccesso di autenticità uno dei caratteri maggiori della poesia romantica?

  Nella discussione intorno a Olympia, si trova invece una lucida e sintetica definizione dell’estetica del nuovo romanzo realista in opposizione a quella del romanzo d’epoca imperiale. Mentre quello «andava dritto al fatto senza alcun dettaglio», «oggi i romanzieri disegnano i caratteri e al posto del contorno netto, svelano il cuore umano». Il romanzo moderno esige «i cinque sensi letterari: invenzione, stile, pensiero, conoscenza, sentimento»; il precedente «aveva delle idee, ma non le esprimeva». In altri termini, viene qui esposta la teoria delle due scuole, quella a idee e quella a immagini, che, secondo Balzac, si contrapponevano da qualche tempo nella cultura letteraria francese.

  Soprattutto per la storia di Dinah e di Lousteau risulta determinante un romanzo illustre: Adolphe di Benjamin Constant e il saggio di Planche che lo accompagna nell’edizione Charpentier del 183923. Dinah, che identifica la propria nella situazione di Ellénore che ha sacrificato ogni cosa all’amore per Adolphe, cerca di trarre insegnamento da quell’esempio. Si ripromette di non attribuire mai «alle [sue] preghiere la forma di un comando», né di darsi «alle lagrime come a una vendetta»: «No! il mio silenzio non sarà un lamento, e la mia parola non sarà un litigio!». Il capolavoro di Constant le consente di comprendere quanto il peso dell’irregolarità sociale consumi l’amore, come la dedizione assoluta di uno solo degli amanti non basti a conservarlo. Le consente di comprendere la fatuità dell’amato. Quando, quasi traesse le conclusioni di questa lettura, ella abbandona Lousteau, questi però le contrapporrà una interpretazione maschile del romanzo: egli, come Adolphe, ha sacrificato a un amore illegittimo la parte più importante della sua vita, la sua carriera. Il finale della Musa del dipartimento diviene quindi un ripensamento del capolavoro di Constant e una sua interpretazione. Balzac stesso lo scriveva a Mme Hanska il 19 marzo 1843: «Spero che nel finale della Musa si vedrà il soggetto di Adolphe, trattato dalla parte del reale»: cioè non dalla parte degli affetti dei protagonisti, ma da quella, tipicamente balzachiana, delle ragioni impellenti della realtà.

  Da quale movente è dattata (sic) questa insistente presenza di una meditazione sulla letteratura nella Musa del dipartimento e più in generale nella Commedia umana? qual è il suo significato? Essa si differenzia dalla continua demistificazione della convenzione letteraria tipica di uno Sterne, in quanto non attenta all’integrità dell’universo raccontato che si, dà come vero, necessario e reale. Ma pure nulla condivide con quella narrativa autoriflessiva di fine ottocento e novecentesca che si assume come fine primario il racconto del suo farsi: viene infatti riconosciuto al romanzo, che si tratti di Adolphe o di racconti neri, un potere di comunicazione sociale in grazia del quale esso può insegnare, riformare, rivelare. Il discorso metaletterario di Balzac, che non è né corrosivo né dettato dalla coscienza di una separazione, da una parte corrisponde alla modesta riflessione di un artigiano sulla propria arte; dall’altra mostra come il suo autore ha la consapevolezza di essersi assunto, continuando Walter Scott, il compito grandioso di fondare per il romanzo un nuovo canone.

 

 

  Daria Galateria, Balzac, l’allegro cinghiale, «la Repubblica», Roma, 9 ottobre 1992, pp. 36-37; ill.

 

  Nella sua breve stagione mondana, una sera Balzac tentò di entrare a teatro bilanciandosi, come un qualsiasi elegantone, sulla punta degli scarpini. Ma non era la sua corpulenza «da cinghiale allegro» a creargli impaccio; gli sembrava che i gradini fossero molli; e quando riuscì, con una ragionevole dose di gravità, a raggiungere il suo palco, la vicina sussurrò strabiliata: «Ma questo signore sa di vino!».

  Balzac era in effetti completamente ubriaco, avendo scolato con un amico, per scommessa, diciassette bottiglie; ma, mentre si inteneriva superlativamente sulle onde rossiniane della Gazza ladra, ruminò contro la sua vicina il rancoroso progetto di raggiungere il palco di una duchessa sua amica; comparire in una compagnia così scelta gli sembrava indispensabile a recuperare il rispetto degli astanti. Ma la folla nel foyer si rivelò un muro. Fu Rossini, scoccandogli una delle sue gioviali battute – che lasciò Balzac inebetito come prima – a conquistargli d’improvviso la stima del pubblico; una dama pietosa e piena di piume lo prese sottobraccio, pilotandolo con decisione verso la sua vettura. Pioveva a torrenti, ma Balzac non sentì una goccia; e la sua corsa in carrozza nella Parigi notturna, resa fantasmagorica dai fumi della pioggia e del vino, costituisce una delle sue pagine più belle.

  Così Balzac aveva compreso i piaceri dell’ebbrezza, e la tendenza dei diseredati a coltivarli. Lo dichiara lo scrittore nel 1839, nel Trattato sugli eccitanti moderni, annunciato dall’editore Abramo a cura di Carlo Carlino, e ora raccolto anche da Mariolina Bongiovanni Bertini insieme al Trattato sulla vita elegante e la Teoria dell’andatura sotto il titolo Patologia della vita sociale, in stampa da Bollati Boringhieri. Balzac era in realtà un «bevitore d’acqua»; quando epicamente si raccoglieva nel lavoro, nessuna distrazione era ammessa, tirava le cortine e non distingueva il giorno dalla notte. «Da tre anni», diceva al medico, «sono casto come una fanciulla, peso gli alimenti e non bevo mai, né vino né liquori». «Quanto vi costa il vostro talento!» rispondeva ammirato il dottor Nacquart.

  Nei confronti degli eccitanti, l’atteggiamento di Balzac è perciò moralistico. I poeti Baudelaire e Gautier lo descrivono al Club dei mangiatori di hascisc. Balzac si era mostrato curioso come un bambino ma aveva dichiarato formalmente che non esisteva per l’uomo vergogna più grande o sofferenza più viva dell’abdicazione alla propria volontà. I decadenti, estenuati adepti del club gli avevano presentato un cucchiaino di dawamesk; lui lo aveva esaminato, annusato con ripugnanza e restituito; l’idea di pensare malgrado se stesso lo indignava. Dichiarò anzi che l’hascisc non avrebbe avuto nessun effetto sul suo cervello, e i presenti, soggiocati (sic) da quel teorico della volontà, ne convennero.

 

La famosa caffettiera sul tavolo.

 

  Così, tra gli eccitanti, dall’acquavite all’oppio, trova pietà in Balzac solo il caffè, perché anima alla scrittura – per il fumo, ammetteva vagamente il narghilè, cui lo aveva iniziato la scrittrice George Sand. Sul suo tavolo di lavoro sorgeva come un turibolo la famosa caffettiera di porcellana su cui aveva fatto incidere la corona dei Balzac d’Entragues – quando gli obiettavano che la nobile ascendenza era abusiva, rispondeva: «Ebbene, peggio per loro!». Però, avvisava Balzac, gli effetti stimolanti del caffè – assorbito benché gli procurasse terribili dolori di stomaco – duravano solo quindici giorni. Giusto il tempo di comporre un’opera, commentava Rossini.

  Nonostante le professate nostalgie borboniche, Balzac amava perdutamente la sua epoca, e non intendeva perderne, in nome di un’ebbrezza, la minima risonanza vitale. Baudelaire amerà il termine modernità, che include lo struggimento dei paradisi perduti; Balzac preferisce il nome contemporaneità, reso drammatico, ricco e febbrile dalla caotica coesistenza di mondi multiformi. Balzac assaporava l’imponente scontro tra le energie nuove, e insieme il patetico sentimento che, a onta delle sue titaniche argomentazioni, non fossero perfettibili. L’universo di Balzac – le sue fonti, i suoi modelli, e tutta la formicolante Parigi del suo tempo – è prodigiosamente restaurato dal ricchissimo saggio di Jean Ygaunin Paris à l’époque de Balzac et dans la “Comédie humaine” (Nizet, pagg. 309, Franchi 200): i sarti, i medici, gli usurai, le prostitute e le cinque polizie di una città in cui gli «omnibus» si chiamano, in base al percorso, «Cittadine», «Favorite», «Dame riunite», «Diligenti», «Rondini» o «Gazzelle» e nei salotti letterari si serve il thè con tartine di pane e burro – mentre ancora si contano dame dell’ancien régime che dai tempi della Rivoluzione non pagano i fornitori. La notte, la città è per lo più rischiarata a gas, e comincia a dimenticare le lampade a olio sospese a una puleggia e montate la sera da piccoli gruppi familiari: la donna puliva i vetri, il marito versava l’olio, i ragazzini strofinavano i riflettori; in certe fasi lunari, la metà dei lampioni veniva lasciata spenta.

  «Ogni capitale ha il suo poema: i Boulevards sono oggi per Parigi quello che fu il Canal Grande per Venezia», scrive Balzac, che ama aggirarsi nella folla parigina, «pimpante» come nel periodo mondano, o col cappellaccio e gli abiti inzaccherati di quando correva a consegnare le bozze ai tipografi e Andersen non lo riconosceva più. Naturalmente, Balzac sapeva che l’andatura è la fisionomia del corpo, e che solo i movimenti misurati, da consumati perdigiorno, sono eleganti, e rivelano sui boulevards i duchi.

 

Una logica così tanto romantica.

 

  Ma l’impenetrabilità neoclassica, argomenta con logica romantica Balzac, è fatalmente incrinata da una spia, un movimento, un tic rivelatore dei fantasmi interiori; «nessun vizio è perfetto». Se i sovrani di Francia, per abitudine alla rappresentazione, si dondolano come tacchini, conferendo al bacino dei Borboni la ben nota femminile dolcezza, il talento, come tutti gli abusi, comporta movimenti eccessivi. E lo scrittore si lascia eccitare e inebriare dai «mille piedi» dell’Opéra, dall' inestricabile splendore delle carrozze, per le vie «dove il prefetto di Parigi dovrebbe proibire ai poveri di passare, perché, quando vi passano, vogliono subito la legge agraria».

  Nella sua fervida devozione verso il proprio tempo, Balzac compose così infinite Fisiologie e Trattati, Catechismi, Storie e Teorie, della cravatta, dei Boulevards, del sigaro, della colazione. Tra i superbi saggi di Balzac, la zona forse più viva da esplorare oggi, la Tea aveva appena riproposto la traduzione di Guido Tutino del Trattato della vita elegante con le incantevoli illustrazioni di Gavarni (pagg. 138, Lire 13.000), mentre Carmine De Luca prepara per Abramo un’edizione della Monografia della Stampa parigina.

  Due studi, la Fisiologia del matrimonio, e l’esilarante Fisiologia dell’impiegato, che nutre il successivo romanzo Gli impiegati, fanno da sfondo al volume che un’assidua balzacchiana, Paola Decina Lombardi, dedica alla Donna e la norma nella Commedia Umana (Mosaico balzacchiano, Edizioni Scientifiche Italiane, pagg. 225, Lire 30.000). Riaffiora in Balzac, nel trattare di Amministrazione, la sapienza burocratica trasmessagli dal padre, fedele e malricompensato servitore dello stato, e l’eco dei dibattiti per la riforma del 1844 dell’esercito di funzionari creato da Napoleone. Ma quando Balzac pensa alle donne, si smuove innanzitutto il suo dolore di bambino trascurato dalla madre: «Tu e Dio sapete bene», le scriverà a cinquant’anni, «che non mi hai soffocato di carezze e di tenerezza da che sono al mondo. Hai fatto bene. Se mi avessi amato come hai amato mio fratello, mi ritroverei come lui, e in questo senso sei stata una buona madre». La lettera è riportata nella recente biografia di Pierre Sipriot, vivacissimo ritratto d’ambiente continuamente decorato da affondi e rimandi all' opera (Balzac sans masque) Laffont, pagg. 465, Franchi 150).

  E naturalmente risuonano pure, nelle ironiche Fisiologie e nei patetici romanzi sul matrimonio, le discussioni di primo Ottocento sulle donne: anni in cui gli aristocratici, per mantenere a dispetto del codice napoleonico il maggiorascato, rendevano le figlie monache o malmaritate, e la sera ballavano – in ossequio alla moda del pensiero sansimoniano, che propugnava la libertà e la comunanza sessuale delle donne – la sansimoniana, una figura di danza in cui i cavalieri si scambiavano, tra mille riverenze, le dame.

 

 

  Edmond e Jules de Goncourt, Diario. Memorie di vita letteraria. 1851-1896. Scelta, traduzione e introduzione di Mario Lavagetto, Milano, Garzanti Editore, 1992 («I grandi libri», 482), pp. XXIV-500.

 

  Anno 1852; pp. 9-10.

 

  Balzac mangiava come un porco. Quando sfiorava l’indigestione, abbuffato e sul punto di impazzire, si coricava. A mezzanotte si faceva svegliare, beveva del caffè e buttava giù grossolanamente qualche pagina. Dopo di che si metteva in moto.

  Balzac incorreggibile e asfissiante. Nella vita privata incolto e ignobile, all’oscuro di tutto: spalancava gli occhi a ogni spiegazione, era zeppo di luoghi comuni, con una vanità da commesso viaggiatore. Quando lavorava sembrava in stato di sonnambulismo e, concentrato su un punto, per intuizione, si richiamava alla mente ogni cosa, anche quelle che ignorava.

 

  Anno 1855; p. 20. (marzo)

 

  Quando Gavarni andò a trovare Peytel in carrozza, era in compagnia di Balzac, sempre terribilmente sporco: «Insomma! Perché non ha un amico?» «Un amico?» «Sì, una di quelle brave persone stupide e affettuose, come ce ne sono, che le lavi le mani e la spogli, insomma un uomo che curi la sua persona dal momento che lei non ne ha il tempo ...». «Ah!», gridò Balzac, «un amico così lo farei passare alla storia!».

  La prima volta che Gavarni vide Balzac fu da Girardin e Lautour-Mézeray, al tempo della «Mode»: un uomo grosso, con dei bellissimi occhietti neri, il naso all’insù e un po’ schiacciato, che parlava molto e a voce altissima. Lo scambiò per un commesso di libreria.

  Gavarni diceva che dietro, dalla testa ai talloni, Balzac era una linea retta con una curva all’altezza dei polpacci, mentre davanti era un vero asso di picche. E si mise a ritagliare una carta per mostrarci la linea esatta del suo corpo.

 

  p. 23. (13 ottobre)

 

  Ci torna in mente questa ambizione, la più enorme delle ambizioni che siano entrate nella testa di un mortale da quando il mondo esiste; la più impossibile, la più irrealizzabile, la più mostruosa, la più olimpica delle ambizioni; quella che neppure Luigi XIV e Napoleone messi insieme hanno avuto, quella che Alessandro non avrebbe potuto soddisfare a Babilonia; una ambizione proibita per un papa, per un imperatore, per un dittatore, per il più padrone dei padroni: l’ambizione di Balzac, che era di scoreggiare in società.

 

  (24 ottobre).

 

  Da Gavarni, rue Fontaine-Saint-Georges, giochi innocenti. Balzac: «Se smettessimo di giocare e ci divertissimo?».

 

  Anno 1855; p. 46. (ottobre)

 

  Nessuno ha notato, eppure salta agli occhi, come la lingua di Napoleone, questa lingua fatta di piccole frasi imperative e quasi monologante, che ci è stata conservata da Las Cases nel Mémorial de Sainte-Hélène, e ancor meglio da Roederer negli Entretiens, sia stata ripresa e utilizzata da Balzac per far parlare i suoi militari, gli uomini di governo, gli umanitaristi, a partire dalle tirate del Consiglio di Stato fino a quelle di Vautrin.

 

  Anno 1864; p. 119. (24 ottobre)

 

  Il movimento, i gesti, la vita drammatica hanno cominciato nel romanzo con Diderot. Fino ad allora c’erano dei dialoghi, ma niente romanzo.

  Il romanzo, dopo Balzac, non ha più niente in comune con quello che i nostri padri intendevano per romanzo. Il romanzo attuale si fa con dei documenti, raccontati o ricavati dalla natura, allo stesso modo che la storia si fa con documenti scritti.

  Gli storici sono i narratori del passato; i romanzieri quelli del presente.

 

  Anno 1875; pp. 250-251. (martedì 30 marzo)

 

  Paul Lacroix mi conferma nella confidenza che mi aveva fatto Gavarni sulle economie di Balzac nel consumo del suo sperma. Le cerimonie preliminari e i trastulli dell’amore fino alle soglie dell’eiaculazione: benissimo! Ma niente di più! Lo sperma era per lui una emissione di pura sostanza cerebrale e una specie di dispendio, di perdita, attraverso il pene, di una creazione; e una volta, in seguito a un colpo sfortunato che gli aveva fatto dimenticare le sue teorie, arrivò da Latouche gridando: «Stamattina ho buttato via un libro!».

  Tuttavia quest’uomo grosso era anche sensuale e lubrico all’occasione. E il suo più grande diletto era la caccia ... proprio, la caccia! A quel tempo aveva come amante, o qualcosa del genere, una grande dama, che era stata cameriera personale di Maria Antonietta, di cui Lacroix non vuol fare il nome e che, dice, era molto ben conservata, anche se per questo non smetteva di avere i suoi settanta anni.[1] Balzac, nudo come un verme, inseguiva carponi per tutte le stanze dell’appartamento la vecchia cerva, facendo nello stesso tempo il cane e il cacciatore.

  A questa abitudine si riannoda un episodio divertente. La signora non amava Latouche e lo accusava di essere una specie di Mefistofele, che corrompeva i costumi del suo amico. Balzac aveva dovuto prometterle di non vederlo più. Tuttavia continuava a frequentarlo, specie quando cambiava casa, perché aveva una grande fiducia nel buongusto di Latouche e gli faceva sorvegliare i lavori di tappezzeria. Un giorno, in cui si trovava da Balzac in veste di consigliere, arriva all’improvviso la dama. Balzac, imbarazzatissimo per la visita. Latouche gli dice di tranquillizzarsi e che fingerà di essere il tappezziere; e, detto fatto, sale sulla scala. La dama, seccata di trovarsi tra i piedi inaspettatamente un operaio, sbotta: «Santo cielo! Non è ancora finito l’appartamento?» «Ma sì, il tappezziere deve solo piantare un chiodo e poi se ne va». E siccome Latouche, incuriosito, non si sbrigava a scendere dalla scala, la dama riprese: «Non se ne andrà mai dunque questo tappezziere?» «Ma sì, sì, se ne va». Allora quel diavolo di Latouche scese dalla sua scala fischiando la fanfara del cervo e passò davanti alla dama esterrefatta con un grande inchino.

 

  Anno 1882; p. 306. (mercoledì 27 dicembre).

 

  Henri Renaud viene a chiedermi di far parte del comitato per l’erezione di una statua a Balzac. Ecco due belle risposte che ha ricevuto. Un deputato della Touraine ha esclamato: «Balzac? Ma non era un uomo politico!». Hugo ha detto: «Ah! Balzac ... ho un’obiezione da fare: era un monarchico!». È davvero buona da parte dell’uomo che ha scritto l’Ode sur la naissance de Son Altesse Royale Monseigneur le duc de Bordeaux.

 

  Anno 1883; p. 311. (sabato 21 aprile).

 

  Il poeta inglese Wilde mi diceva questa sera che, attualmente, l’unico inglese ad avere letto Balzac è Swinburne.

 

  Anno 1889; pp. 372-374. (mercoledì 1 maggio).

 

  A casa della principessa lunga conversazione con Lovenjoul a proposito di Balzac. In questo secolo, contraddistinto dal rispetto e dalla scrupolosa conservazione degli autografi il modo, in cui i manoscritti e le lettere di Balzac furono scopati via e buttati nella spazzatura, è ancora più incredibile, più sorprendente, più sbalorditivo di quanto si racconti di solito. Quando Balzac morì, i creditori si precipitarono nella sua casa, buttarono fuori Madame Hanska, e si lanciarono sui mobili rovesciando sul pavimento tutto quello che contenevano, tutti quei fogli che, venduti accortamente, avrebbero potuto, dice Lovenjoul, fruttare centomila franchi. E quella roba veniva regalata, veniva raccolta per strada da chiunque volesse ...

  È così che Lovenjoul ha scoperto la prima lettera, o almeno il primo foglio di una lettera di Balzac a Madame Hanska, in una botteguccia di fronte alla casa dello scrittore, la botteguccia di un ciabattino che la stava appallottolando proprio quando lui entrò. Lovenjoul riuscì poi a interessare quel ciabattino nella ricerca di tutti i documenti che potevano essere dispersi in quella strada, e questi gli fece avere due o trecento lettere, degli abbozzi di studi, degli inizi di romanzi belli e pronti a trasformarsi in cartocci, in sacchetti, in involucri per pezzi di burro da due soldi presso tutti i mercanti e i bottegai dei dintorni, e perfino in casa di una cuoca, che impiegò parecchi anni prima di decidersi a vendergli un grosso pacco di lettere. E la caccia era divertente perché, in mezzo a tutto quello sparpagliamento della corrispondenza, gli capitava a volte di rinvenire in un negozio la fine di una lettera, di cui aveva trovato l’inizio nella bottega accanto. E fu una vera gioia per lui il giorno in cui poté riconquistare, da un droghiere molto distante, la parte centrale di quella famosa lettera che il ciabattino stava accartocciando.

  Lovenjoul parla con entusiasmo di questa corrispondenza che, aggiunta agli altri documenti in suo possesso, costituisce la storia della vita intima di Balzac e rimpiange di non poterla pubblicare perché, dice, Balzac era di sua natura un ingenuo; di conseguenza le persone che la prima volta gli sembravano degli angeli, la seconda o la terza diventavano ai suoi occhi peggio che diavoli e, per questo, è terribile nei riguardi dei suoi contemporanei.

  La sua corrispondenza è anche un po’ impubblicabile per le allusioni alle sue tenere carezze e per l’accenno alle porcherie amorose che facevano lui e Madame Hanska; infatti egli non era, come si crede generalmente, un uomo casto, un asceta ... Parlando di Madame Hanska, Lovenjoul mi racconta un curioso episodio a proposito di una lettera di Balzac, che la sua amante aveva lasciato in giro ed era caduta nelle mani del marito ancora vivo. Balzac, avvertito dalla signora, scrisse al marito una lettera curiosa — una vera trovata — in cui diceva a Monsieur Hanski che sua moglie lo aveva sfidato a scriverle una lettera d’amore sul tipo di quella rivolta a Madame *** in non so più quale romanzo: insomma che si trattava di una scommessa.

  Il matrimonio poi, a cui la gran dama russa si era mostrata sulle prime poco disposta, si era reso necessario per una gravidanza di Madame Hanska. Dopo tre mesi, però, la donna abortì e allora fu ripresa da nuove esitazioni che Balzac riuscì a vincere solo con grandissima pena.

  Ho parlato a Lovenjoul della storia riferita da Giraud di una sorella, morta in ospedale, che Balzac non avrebbe voluto riconoscere. Mi dice di non conoscergli altra sorella se non Madame X, ma potrebbe trattarsi benissimo della cognata, moglie di un fratello che si era sposato in colonia. Quel fratello era il prediletto della madre, che lo aveva avuto da Monsieur X e che non amava affatto il figlio di suo marito, quello stesso Honoré che, dal canto suo, si lamenta di essere stato messo in collegio a Vendôme a nove anni, e di non esserne uscito che a sedici.

 

  Anno 1895; pp. 433-434. (mercoledì 17 aprile).

 

  Questa sera, in un angolo del salotto della principessa, Yriarte mi ha raccontato questo aneddoto su Balzac. Hertford, il prigioniero dell’Impero, legge al tempo di Luigi Filippo La Fille aux yeux d’or, crede di riconoscere nel tipo descritto da Balzac una prostituta che aveva preso parte alle sue orge, in uno dei posti dove era stato confinato, e chiede a Jules Lacroix di invitare, a suo nome, lo scrittore alla Maison Dorée.

  Il giorno stabilito Lacroix arriva tutto solo, dicendo che gli era stato impossibile incontrarlo. Irritazione di Hertford, che costringe Lacroix a scusarsi affermando che era molto difficile arrivare a Balzac, tanto che Hugo e i suoi amici corrispondevano con lui solo per lettera. Hertford, tuttavia, con il dispotismo che mette nei suoi capricci, si intestardisce a volerlo vedere. Alla fine si stabilisce che incontrerà il romanziere, a una prima, al Théâtre de la Porte-Saint-Martin. Ma, anche qui, Lacroix arriva solo, dice che Balzac rischia di finire a Clichy, osa uscire soltanto alla sera e dedica le serate alla sua amante e ai suoi amici. Allora Hertford si mette a gridare:

  «Clichy ... Clichy! Quanto ha di debito?»

  «Ma, una grossa somma», risponde Lacroix. «Forse 40.000 franchi, forse 50.000, forse di più!».

  «Ebbene, venga e pagherò i suoi debiti!».

  A dispetto di questa promessa, però, Hertford non riuscì mai a convincere Balzac ad entrare in rapporti con lui. [...].

 

 

  Anna Jeronimidis, Anna Maria Scaiola (a cura di), Ottocento. Honoré de Balzac, in Società Universitaria per gli Studi di Lingua e Letteratura Francese, Francesistica. Bibliografia delle opere e degli studi di letteratura francese e francofona in Italia. 1980-1989, a cura di Giovanni Bogliolo, Paolo Carile, Mario Matucci, Fasano-Genève, Schena-Slatkine, 1992, pp. 218-221; 289-290.

 

 

  Maria Fatima Latronico, “Madame Bovary” di Gustave Flaubert e “Physiologie du Mariage” di Honoré de Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: Prof. Mario Iazzolino, Università degli Studi della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia, Anno accademico 1991-1992.

 

 

  Carlo Laurenzi, «La Musa del Dipartimento» di Balzac. Storia di Dinah eroina che appassisce, «il Giornale», Milano, 5 aprile 1992, p. I.

 

  Una lettera di George Sand a Balzac, datata Parigi febbraio 1842, testimonia la perspicacia della scrittrice di fronte alla tumultuosa grandezza del creatore che ammira: «siete un io eccezionale; grazie alla vostra intensità di persistenza nella vita siete in continuo rapporto con le serie infinite del non io che il vostro lo ha percorso». Nella stessa lettera George ringrazia devotamente Balzac per il dono di uno dei suoi romanzi: «Sono molto toccata dalla vostra dedica e incantata dal vostro libro— ho passato queste due ultime notti e leggerlo. Il libro è una delle cose più belle che abbiate scritto». Non sappiamo di quale libro si tratti: nel 1842 Balzac pubblicò tre romanzi il più noto dei quali è La Rabouilleuse («Casa da scapolo») ma nessuno dei tre merita che lo si classifichi fra i capolavori. Neppure La musa del dipartimento, apparso nel 1843, è un capolavoro; però sarebbe pungente e in un certo modo piccante che George Sand lo avesse accolto come un omaggio allusivo. Chissà se Balzac glielo fece avere: sta di fatto che la trama e il succo «provinciali» della Musa hanno un loro inconfondibile, inquietante sigillo «sandista».

  C’è un’eroina che appassisce a Sancerre, anelando a Parigi. Ha sposato un vecchio avido, opportunista, impotente: si è supposto con una sforzatura palese che lei, Dinah, prefiguri Madame Bovary, un’«Emma Bovary senza sogni». Ma Dinah, a differenza di Emma, non scrive lettere agli amanti bensì poesie di fattura accettabile. E Balzac, al di là di qualche contraddizione, la dipinge come una «donna superiore» o addirittura «virile». Dicono che fosse modellata su Zelma (sic) Carraud o su Carolina Marbouty ma questa era troppo frivola, al punto di seguire Balzac in Italia travestita da paggio, mentre Zelma Carraud era troppo virtuosa, anzi austera. Nessuna dalle due ipotesi regge. Tanto meno ci persuade la stessa Dinah quando si paragona all’intrepida e paziente Ellénore, protagonista femminile dell’Adolphe di Constant; anche Balzac non ci crede. Dinah scrive poesie: si trincera nella velleità letteraria cercando rifugio o rimedio alla sua frustrazione sessuale; Balzac, osserva Francesco Fiorentino nelle pagine introduttive a questa nuova versione italiana del romanzo, riconosceva all’arte un valore terapeutico e liberatorio. Ma non oltre un certo segno: Dinah finirà col seguire a Parigi il mediocre Lousteau al quale darà figli a dedizione (non proprio amore) in cambio di sesso. Correvano gli anni opachi della rottamazione orleanista. Balzac si guardava intorno a non fu mai così disincantato.

  Si può sostenere che fu George Sand il modello occulto di Dinah? Direi di sì: proprio Balzac ci mette sull’avviso: «Lousteau è ancora Sandeau» scrisse a M.me Hanska ed èaccertata l’identificazione fra Jules Sandeau, qualche anno prima, e il Lucien de Rubempré delle Illusioni perdute. Jules Sandeau, che Balzac disistimava e destestava dopo averlo protetto, era stato fra il 1830 e il 1833 l’amico di George Sand, il primo «adulterio importante» della giovane Aurore Dudevant non ancora mascolinizzata nel nome. Giovane Aurore, che peraltro affermava di sentirai decrepita: giovanissimo Sandeau, studente diciannovenne, sette anni meno di lei George Sand interruppe recisamente, crudelmente un idillio che pareva destinato a durare. Il successo di Indiana l'aveva resa indipendente e quasi ricca: Sandeau finì non proprio metaforicamente sul lastrico, Balzac gli tese una mano. Ma in George Sand, non meno che nella Dinah di Balzac, il dramma era sessuale. Fu necessario attendere un anno, il 1833, perché apparisse Lélia, romanzo largamente autobiografico della Sand, e fosse dichiarata l’intensità di quel dramma: Lélia, per ripetere André Maurois, «non è altro che una lunga confessione di impotenza carnale», Sandeau non aveva saputo guarire l’amica. Dinah e George, la George dei primi anni Trenta agiscono in parallelo: George aveva scritto con Sandeau o piuttosto per Sandeau il romanzo a quattro mani Rose et Blanche: Dinah lascia a Lousteau il merito intero di due libri «che hanno successo», interamente composti da lei: l’affetto di Dinah e George per i loro amanti è «materno»; Dinah, come già la Sand nella vita reale, si umilia al compagno procurandogli «piaceri acuti e godimenti da dannato».

  Siccome sappiamo tutto o quasi tutto su Balzac e su George Sand. la figura storica che ci intriga è Sandeau. Balzac lo salvò dalla miseria accogliendolo a casa sua; diffidava di George Sand ma il suo giudizio su Sandeau fece presto e mutare: «Sandeau è stato uno dei miei errori. Non potete immaginare una simile infingardaggine, una tale noncuranza; è senza energia, senza volontà» e Francesco Fiorentino ci ricorda che la volontà era per Balzac, abbastanza arbitrariamente, «l’attributo fondamentale del genio». Ci si può chiedere perché Sandeau continuasse ad istillare la fantasia di Balzac: Lucien de Rubempré. Alter ego di Sandeau nelle Illusioni perdute e anche in Splendori e miserie delle cortigiane, si uccide in carcere vittima giustappunto della sua fragilità di carattere; nella Musa del dipartimento Lousteau-Sandeau, «logorato dal piacere», dimostra quarantotto anni benché ne abbia solo trentasette e ostenta «un falso disprezzo per la vita come pure una misantropia posticcia». Difficile stabilire se Sandeau meritasse tanta severità. La sua carriera di letterato fu cauta e tranquilla; la rottura con la Sand lo sconvolse ma non a lungo e in ogni caso, dice André Maurois, «il suo piccolo ingegno stava per nascere da quel dolore».

  Ingegno piccolo, amministrato bene. Il romanzo Marianna (1838) à una trascrizione appassionata e non infedele dell’avventura con George Sand, colei che «prima di avere goduto, aveva esaurito tutto». Poi la commedia Il genero del signor Poirier (1854) in collaborazione con Emile Augier legittimò le modeste ma non disoneste ambizioni teatrali di Jules Sandeau. Nel ʼ47 c’era stata la Legion d’onore; nel ʼ58 lo elessero all’Accademia di Francia, traguardo vanamente ambito da Balzac. Conservatore alla Biblioteca Mazarine nel 1853, Sandeau fu nominato cinque anni dopo bibliotecario del palazzo imperiale di Saint-Cloud e nel ʼ73 ottenne dalla Repubblica un’indennità di duemila franchi «pour cause de suppression d’emploi». Morì nel 1883. Una delle ultime foto ritrae Sandeau, la cui avvenenza era stata «irresistibile», come una sorta di cinghiale: è calvo, con lunghi baffi spioventi, un guizzo sospettoso nelle fessure turchine degli occhi. Nel 1949 conservava estimatori: il «Larousse del XX secolo» parla di lui come di uno «scrittore distinto, scrupoloso, morale, dallo stile accurato».

  Honoré de Balzac, «La musa del dipartimento», a cura di Maria Grazia Porcelli. Introduzione di Francesco Fiorentino, Marsilio, pp. 430, lire 22.000.

 

 

  Carlo Laurenzi, Vicende di criminali inglesi nella «Patologia della vita sociale» di Honoré de Balzac. Meglio il fumo che la forca, «il Giornale-Lettere e Arti», Milano, 22 novembre 1992, p. I.

 

  C’erano una volta tre criminali britannici (e chi ci racconta questa favola ha giustamente l’aria di non crederci affatto) ai quali venne proposto di evitare la forca purché si sottoponessero a un singolare esperimento scientifico: uno avrebbe dovuto nutrirsi di tè, il secondo di caffè, l’altro di cioccolata. Nessuna bevanda, nessun alimento aggiuntivo erano ammessi. I tre «balordi» accettarono non immaginando fino a quale punto l’esperimento, oltre che bislacco, sarebbe stato crudele; l’uomo della cioccolata morì dopo otto mesi, «in orribile stato di putrescenza, divorato dai vermi»: quello del caffè tirò avanti due anni, riarso come calcinato dal «fuoco di Gomorra»; il più longevo – il bevitore di tè, sopravvissuto per tre anni – era ormai così magro che un «filantropo» poté leggere il «Times» alla luce di una lanterna attraverso quel torace scheletrito. Il favolista o cronista aggiunge che la «decenza inglese non aveva permesso tentativi più originali» e a proposito dell’uomo «bruciato dal caffè» osserva che di lui «si sarebbe potuto fare della calce: la cosa è stata proposta, ma è sembrato un esperimento contrario all’immortalità dell’anima».

  Il cronista o favolista è Balzac, di cui conosciamo una vena di anglofobia. Su coloro che abusano del tè ecco in quale modo ne denuncia la rovina: «Si avranno la morale inglese, le miss dal colorito livido, le ipocrisie e le maldicenze inglesi; dove li donne bevono tè l’amore è viziato alla radice: sono pallide, malaticce, ciarliere, noiose, pedanti». E ancora: «Io sono tra quelli che considerano disgrazie le innovazioni di J. J. Rousseau; lui più di ogni altro ha spinto il nostro Paese verso quel sistema di ipocrisia inglese che invade i nostri dolci costumi ... Il protestantesimo, giunto alle estreme conseguenze, è nudo come i suoi tempi e brutto come le X di un problema». Ricavo tali citazioni, inclusa quella che riguarda i condannati britannici, dal Trattato degli eccitanti moderni le cui pagine vigorose concludono la Patologia della vita sociale. Balzac vi riafferma immediatamente il suo legittimismo cattolico e, direttamente, il suo umorismo, diversissimo – più rovente, non meno mordente – dallo humour di cui si gloriano appunto gli inglesi. Mariolina Bongiovanni Bertini, autrice di una lucida introduzione alla Patologia della vita sociale, afferma come sia difficile immaginare uno humour più «nero» dell’umorismo che anima il Traité des excitants. Io non sono d’accordo; bisogna che non dimentichiamo l’esuberanza verbale di Balzac: giornalista, talora, e spesso trascinante.

  Non direi che una «corposa, schiacciante pesantezza» stagni sulle diagnosi di Balzac. La signora Bongiovanni Bertini vede giusto se individua una sorta di «sterniana levità» nei due testi che precedono il Traité des excitants (e cioè il Traité de la vie élégante e la Théorie de la démarche) formando tutt’insieme la Patologia della vita sociale che, nella sezione Etudes analytiques, fa parte della Comédie humaine. Nell’occuparsi di eccitanti, dei quali Balzac non si nasconde o magari esagera i rischi, la sua verve paradossale e visionaria non viene meno senza compromettere (tutt’altro) la fermezza del monito e della condanna. Ma riconosciamo all’artista, al grande artista, l’autonomia del gusto: gli Excitants balzacchiani si offrono al piacere, acre o disteso, di una lettura che affronta a viso aperto la piaga degli stupefacenti e nondimeno, grazie alla qualità dello stile, sembra che ne attenui l’incubo, il che poi non è.

  I paradisi artificiali, come qualche decennio più tardi li intenderà Baudelaire, furono estranei a Balzac: l’oppio, troppo caro in Francia, non costituiva un problema sociale nel 1838; l’eroina e la cocaina. che devastano i nostri anni, gli erano ignoti. Le droghe di cui parla Balzac sono essenzialmente: l’acquavite o alcol (i superalcolici). lo zucchero, il tè, il tabacco, il caffè; l’alcol genera, fra esse, il problema più severo e lo zucchero il più lieve sebbene un certo François Magendie. medico fisiologo, avesse ottenuto effetti «spaventosi» sottoponendo i propri cani a una dieta esclusivamente zuccherina. (Ma il disgusto dello zucchero, anche per i bambini, arriva presto e Balzac evita di informarci sui malanni di cui furono vittime i cani del dottor Magendie). L’alcol decima le prostitute di Parigi e «rattrappisce» la classe operaia; non ci si sottrae alla morte per più di due anni se si abusa di superalcolici. La cioccolata, qualunque cosa avesse obiettato il criminale londinese scampato alla forca, non fa parte delle droghe. Il caffè, di cui Balzac era un forte consumatore come Rossini, può rivelarsi dannosissimo, a meno che non se ne sminuzzino i chicchi «in molecole di forme bizzarre che trattengono il tannino, sostanza maligna che i chimici non hanno studiato ancora»: si ottiene il «cafiot», lodato da Voltaire ma disprezzato in genere dai francesi. L’impotenza sessuale colpisce presto gli abissini, i quali spingono al massimo grado l’abuso del caffè: «Il governo inglese è pregato di risolvere questa grave questione con il primo condannato che avrà sotto mano, sempre che non sia un vecchio o una donna».

  Fisiologo dilettante e psicologo ardito, Balzac demonizza soprattutto il fumo, vizio da cui è arduo desistere; in questo potremmo affermare che ci preceda. Per quanto lo riguarda, asserisce che il vino non ha mai avuto su lui la minima presa. Una sua colossale sbornia, l’unica della sua vita, fu dovuta (così afferma) a due sigari che Eugène Sue lo indusse a fumare e che, durante una rappresentazione della Gazza ladra al Théâtre des Italiens, determinarono in lui allucinazioni mirabolanti: «mai più ho visto tante piume, tanti pizzi, tante belle donne ... estasi indescrivibile, delizia». Gli scalini gli parvero «costituiti da una materia molle». Furono i suoi primi sigari ma sarebbe ingiusto, forse, attribuire ad essi l'esplodere delle fantasmagorie: prima che uscisse di casa diciassette bottiglie vuote rimanevano in tavola ed è improbabile che il vino non avesse mai avuto su lui, davvero, la minima presa.

  Honoré de Balzac, «Patologia della vita sociale», Intr. di Mariolina Bongiovanni Bertini, Bollati Boringhieri, pp. 150. lire 22.000

 

 

  Raffaele Manica, La Parma di Stendhal nei libri di Foscolo Benedetto e Crouzet. Dar torto a Balzac, «Il Mattino», Napoli, Anno CI, N. 15, 16 Gennaio 1992, p. 14.

 

  Cosa unisce questi due libri, oltre il nome di Stendhal, oltre il nume tutelare che è questo nome, e oltre il passaggio dell'anima, che risulta infine essere il più reale dei paesaggi? Torniamo a Balzac. Dopo aver letto la Chartreuse scriveva a Stendhal (1839), rendendo conto dell’entusiasmo che lo aveva colto durante quelle pagine («il mio elogio è assoluto»). Poi Balzac aggiungeva alcune osservazioni, ribadite anche a voce insieme agli elogi, infine consegnate, un anno dopo, a un articolo. Il centro di queste osservazioni diceva: «L’esprit ne consent pas à rester à Parme». Non occorreva tanto specificare quei luoghi, fermandosi a Parma. Parma, secondo Balzac, non era necessaria alla Chartreuse.

  Non sappiamo se Luigi Foscolo Benedetto fosse propriamente un manzoniano. Certo è che Manzoni gli stava nel cuore, e un altro rovello, accanto a quella affermazione di Balzac, era sicuramente la chiusa dell’introduzione dei Promessi sposi: «Che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d’un altro, potrebbe parer cosa ridicola». Chiusa, per altro, che dovrebbe star vicina ad ognuno, ad impedire inopportune proliferazioni, anzi a impedire proprio che nascano libri bisognosi, per esser capiti, non di se stessi, ma dei commenti che da essi stessi si generano.

  Meditando il suo Manzoni, Benedetto si decide a dar torto a Balzac: Supprimer Parme!, si stupisce; e aggiunge: «I due grandi temi della Chartreuse sono Henri Beyle e l’Italia. La scelta di Parma non è un capriccio, né tanto meno uno sbaglio. È lo sbocco necessario di un processo creativo capitale, e insieme lo sforzo supremo dello scrittore Arrigo Beyle per esprimere pienamente se stesso e la sua visione italiana». Vedendo profilarsi l’ombra del Manzoni, conclude: «Non si stupisca il lettore se per dare torto su questo punto a Balzac sono costretto ad ammannirgli un intero volume», poiché si tratta di ripercorrere le tappe, anche mentali, di Stendhal verso Parma, ovvero «la genesi profonda della Chartreuse».

 

 

  Maddalena Mazzocut-Mis, Oltre la tetralogia, in Mostro. L’anomalia e il deforme nella natura e nell’arte, Milano, Guerini Studio, 1992 («Università»), pp. 107-164.

 

  1. La «querelle» del 1830: dai «cefalopodi» alle «zebre mostruose».

 

  Il fascino di un naturalista che, utilizzando l’analogia, interpreta audacemente le mostruosità, inquadrandole in una teoria unitaria in grado di rendere conto, con il cambiamento ambientale, di qualsiasi modificazione anatomica, doveva colpire non solo la fantasia di Hugo ma ancor più quella di Balzac, da sempre interessato alle scoperte e alle innovazioni della scienza. Di conseguenza, se Geoffroy Saint-Hilaire è, per Hugo, un eroe titanico, un genio che osa sfidare il mostro-piovra, incarnazione dell’enigma del creato, per Balzac il grande anatomista, «vincitore di Cuvier», è soprattutto un uomo di scienza, che possiede la forza immaginativa di un poeta e la visione globale e penetrante di un mistico, e perciò riesce ad armonizzare la «bella legge di ‘soi pour soi’» con i principi dell’estetica e con «le idee che noi ci facciamo della potenza divina». Infatti Balzac, sebbene affascinato dalle ricostruzioni degli animali preistorici fatte da Cuvier, il quale, come un grande prestigiatore, attraverso una ben articolata e minuziosa rete di connessioni, riesce a ricostruire da un solo elemento un animale nella sua interezza, propende tuttavia con maggiore lucidità e consapevolezza verso le teorie di Geoffroy, che gli paiono accordarsi spontaneamente con la propria visione estetica del mondo.

  È questo il motivo per cui – dopo la famosa disputa del 1830 che aveva visto come protagonisti Geoffroy, Cuvier e come spettatore Goethe insieme a tutto il mondo accademico francese e tedesco – Balzac prende posizione a favore di Geoffroy, sebbene con un po’ di ritardo, senza tralasciate comunque di ritornare su alcuni temi cuvieriani, quando una visione mistico-poetica glielo suggerisce.

  Prova di un effettivo e partecipato interessamento alla disputa è un breve racconto satirico-grottesco, intitolato Guide âne, che Balzac scrive nel 1842. Nel racconto fiabesco, un certo Marmus, naturalista da strapazzo in cerca di fama, sottomette all’esame dell’accademico Cerceau – Cuvier – e al «Prométhée des Sciences naturelles» – Geoffroy – un mostro zebrato. L’essere anomalo non è altro che un asino abilmente dipinto dall’impostore Marmus che, con la complicità di un amico giornalista, diffonde la notizia della scoperta del mostro, attirando l’attenzione del mondo accademico.

  Il caso dell’asino-zebra implica necessariamente una revisione della nomenclatura e dei criteri tassonomici e accende una disputa, nella quale i sostenitori della legge del piano unico di organizzazione hanno la meglio, perché riescono a offrire una spiegazione attendibile dell’esistenza di un tale mostro.

  Il racconto, divertente e surreale, nasconde spunti di riflessione per l’eco che la disputa ha sollevato in Europa, per i fatti di costume o carrieristici legati al mondo accademico, e soprattutto per ciò che emerge da una prospettiva più strettamente scientifica.

  Facendo riferimento al caso storicamente accaduto, il Marmus del racconto di Balzac altri non è che Pierre Stanislas Meyranx, naturalista di modesta fama che, presentando all’Accademia una relazione nella quale sostiene che i cefalopodi sono come vertebrati ripiegati all’indietro su se stessi, si ripromette di dimostrare la validità universale del principio dell’unità di composizione organica. Questa tesi – abilmente rivista da Geoffroy – innesca la reazione di Cuvier, che muove contro il collega attacchi violenti e denigratori. [...].

  Balzac quindi coglie bene lo spirito del dibattito quando nel suo racconto sottolinea il trambusto che la presenza di un simile mostro zebrato, sebbene artificialmente costruito, causa in quella parte del mondo accademico, che fonda il proprio sistema tassonomico sulle cause finali. [...].

  Il sistema cuvieriano viene dunque messo in scacco dall’asino mostruoso. Non vi è causa fina e che possa giustificare la presenza di strisce gialle sul mantello di un asino che, di conseguenza, non può essere collocato m nessuno di quei quattro embranchements nei quali Cuvier, con serrate argomentazioni anatomiche, aveva suddiviso le specie viventi.

  Al contrario, l’ipotesi di Geoffroy – grottescamente modificata e portata al parossismo da Balzac – riesce a dare una spiegazione soddisfacente dell’anomalia dell’asino imputata all’influenza ambientale. [...].

  Balzac travisa il pensiero di Geoffroy quando postula un intervento modificatore dell’ambiente sull’animale adulto. Tuttavia la morale che Balzac sembra trarre dal suo racconto surreale e grottesco è degna di essere rimeditata, se non altro per la serie di considerazioni che può suscitare. La perspicacia dello scrittore – tutt’altro che a digiuno di scienza – coglie uno degli aspetti più affascinanti del pensiero del grande anatomista. Infatti se – come suggerisce Balzac – Geoffroy aveva ragione «le Scienze Naturali diventavano un giocattolo! L’Ostrica, il Polipo del corallo, il Leone, lo Zoofita, gli Animaletti microscopici e l’Uomo erano la stessa organizzazione modificata soltanto da organi più o meno estesi».

  La scienza con le sue rigide suddivisioni classificatorie non ha più ragione di esistere. Tutto diventa semplice e intelligibile, poiché il principio del piano unico di organizzazione consente di legare tutti gli animali a un’unica legge, come unica è la Causa Prima.

  Ovviamente Geoffroy non avrebbe sottoscritto nessuna delle affermazioni che Balzac attribuisce ai seguaci del piano unico, i quali riconducono le anomalie del povero asino alla legge dell’attrazione di «soi pour soi». Nonostante ciò, il racconto balzachiano stimola la discussione sul valore gnoseologico-euristico del modello del piano unico, che allarga indefinitamente la sua portata e rischia di diventare un contenitore indifferenziato, ove introdurre qualsiasi forma animale. Infatti, se un principio generale – come quello del piano unico – non può di fatto ricevere dall’osservazione empirica una dimostrazione fattuale paragonabile alla generalità del principio stesso, devono però essere messi in chiaro i criteri di scelta, in base ai quali un’osservazione o un esperimento vengono ritenuti «a favore» del principio stesso. È dunque importante sottolineare che la disputa del 1830 tra Geoffroy e Cuvier — suscitata dallo stesso Cuvier — esplode proprio quando il principio dell’unità di piano viene applicato agli invertebrati, quando cioè viene esteso universalmente a tutto il regno animale. [...].

  In conclusione, il racconto grottesco di Balzac, se da una parte stimola – con il paradosso della zebra mostruosa – alcune considerazioni di ordine epistemologico sul valore euristico-gnoseologico della analogia e del modello del piano unico, dall’altra consente di vedere nell’ipotesi di Geoffroy – che implica l’esclusione del fissismo creazionista e provvidenzialistico di Cuvier – un potente stimolo ermeneutico che dinamizza dall’interno una disciplina scientifica, la quale rischia di essere altrimenti soffocata da una serie di dati osservativi e classificatori. Come ricorda Hugo, la scienza senza grandi ipotesi muore.

  Gli elogi che Balzac rivolge a Cuvier e l’interessamento verso alcuni principi cuvieriani, quali quello della subordinazione dei caratteri e della correlazione dei componenti di un sistema organico, devono quindi essere inquadrati in un contesto preciso. Infatti, il principio anatomico cuvieriano dell’armonia tra la parte e il tutto di uno stesso animale – sorta di intuizione geniale della necessità formale, per cui un dettaglio è sufficiente per ricomporre l’insieme – interessa allo scrittore semplicemente da un punto di vista estetico. Balzac ne intuisce un’applicazione descrittiva. Infatti, il principio di correlazione delle parti permette di economizzare sui mezzi a disposizione dello scrittore, al quale possono bastare pochi tratti fortemente indicatori per caratterizzare non solo un personaggio ma l’intero insieme di un racconto. Quando Balzac descrive papà Goriot, per esempio, gli conferisce a priori come carattere dominante il «bernoccolo» della paternità e modella poi su di esso la fisionomia, l’abito, il modo di vita, perfino il carattere delle figlie, ecc.

  La concezione del rapporto della parte con il tutto giustificata da Cuvier non oltrepassa, tuttavia, le barriere che egli erige tra le diverse organizzazioni animali. La «totalità» è ridotta alla specie o all’embranchement e non si eleva mai fino all’idea del grande tutto. È questo uno dei motivi per cui Cuvier viene sminuito da Balzac al livello di uno specialista della nomenclatura. Ciò che, agli occhi di Balzac, manca a Cuvier – e che invece fa di Geoffroy un genio – è una visione d’insieme, uno sguardo inglobante e totalizzante del regno animale, della natura, del mondo e della scienza. Quando Geoffroy scrive: «La scienza è una, come posta sotto l’autorità di uno stesso principio e come colpita nelle sue diversità da un carattere di Unità di composizione», non fa che riferirsi intenzionalmente al pensiero di Louis Lambert, uno dei personaggi misuri di Balzac. Non è dunque un caso il fatto che Geoffroy, nell'ultima parte del suo percorso scientifico, si senta investito di un compito quasi profetico, di natura quasi mistica, e si schieri dalla parte di quei pensatori che, indipendentemente dall’impostazione della loro disciplina, concorrono sinergicamente alla ricerca di un principio unitario, che possa spiegare tutti i fenomeni, da quelli studiati dall’anatomia a quelli della chimica o della fisica. [...].

  Lo spirito con il quale Geoffroy affronta questa sua ultima fatica non è semplicemente quello di un ricercatore spinto, alla fine della carriera, dal desiderio di riassumere le proprie tesi in una sorta di visione sintetica più ampia, ma esso deve essere accolto come l’espressione di una presa di posizione ideologica nei confronti della scienza e del mistero della vita. La ricerca ostinata di una legge unitaria è eloquente testimonianza della certezza che l'unità sia il momento costruttivo della realtà. La legge di «soi pour soi» che, con il suo potere attrattivo e repulsivo informa tutto il reale, dal mondo organico a quello inorganico, spiega l’occorrenza delle anomalie, delle mostruosità, del mutamento, garantisce allo stesso tempo il rilevamento dell’ordine sotto un disordine apparente.

  Balzac resta affascinato da una visione unitaria così originale e allo stesso tempo tanto rischiosa. Proprio durante gli anni nei quali la legge di «soi pour soi» passa quasi inosservata nel mondo accademico, se ne legge l’elogio nell’Avant Propos alla Comédie humaine. «La bella legge di ‘soi pour soi’ sulla quale riposa l’unità di composizione [...] sarà l’onore eterno di Geoffroy Saint-Hilaire, il vincitore di Cuvier, su questo punto dell’alta scienza [...]». [...].

 

  Il mostro e il tipo.

 

  Sulla base delle premesse geoffroyiane dalle quali prende spunto, Balzac giunge alla conclusione che il metodo classificatorio, imperfetto per le specie zoologiche, si rivela tale anche per quelle sociali. Infatti, come Geoffroy, anche Balzac ritiene che qualsiasi classificazione sia imperfetta e insufficiente. A un sistema tassonomico discontinuo e supposto perfetto, entrambi preferiscono contrapporre dei principi generali – quali quello degli analoghi, delle connessioni, del bilanciamento – che permettono di abbracciare in un sol colpo tutto il «regno animale» o il «regno sociale». Le diversità si chiariscono quindi solo quando vengono rapportate all’unità dalla quale dipendono. La suddivisione dell’animalità e della società in grandi tipologie (schemi ideali ai quali sono riconducibili, sulla base di caratteristiche comuni rilevate analogicamente, una molteplicità di soggetti differenti), consente l’estensione dell’analogia nell’intento di far emergere quel piano unitario che plasma ogni forma vivente. [...].

  Quando Balzac introduce nell’Avant propos il genere o la specie, ne evidenzia il carattere relativo e arbitrario (tuttavia il riconoscimento di tale arbitrarietà non gli impedisce di usare il termine «genere» o «specie» qualora un contesto descrittivo lo renda necessario). Personaggi «mostruosi» come Louis Lambert, la cui mente farneticante agli occhi degli uomini comuni emette oracoli swedenborghiani, come Séraphîtüs-Séraphîta, androgino angelicato assunto in cielo, come papà Goriot, logorato e ucciso dal proprio istinto paterno, come Balthazar Claës, follemente coinvolto in una disperata ricerca dell’assoluto, come Paquita, creata per soddisfare il piacere, ecc. esulano da qualsiasi classificazione. I loro tratti sono variegati e complessi, mostruosi perché maniacali e spesso autodistruttivi. Essi presentano contemporaneamente caratteri, che consentono una tipicizzazione del personaggio e caratteri esasperati, che li avvicinano ai «mostri per eccesso» di Geoffroy.

  Poiché le frontiere tra le specie si spostano continuamente, poiché l’individuo presenta aspetti in continua metamorfosi, che lo rendono inadatto a qualsiasi sistema tassonomico precostituito, è facile comprendere perché Balzac ridicolizzi nel Guide âne la classificazione cuvieriana e faccia propria nell’Avant propos la visione tipicizzante e unitaria di Geoffroy. La ricerca di analogie mediante confronti tra individui, che presentano nella loro singolarità caratteristiche spesso mostruose, mira alla messa in evidenza di rapporti costanti, che consentono sia l’individuazione di tipi sociali e tipologie di comportamento sia l’inserimento di qualsiasi individuo, anche mostruoso, in un’unità superiore che tutto spiega e organizza.

  Nell’universo balzachiano, il piano unitario di organizzazione consente di vedere come tutto si concateni e nulla resti isolato. Persino il ritorno degli stessi personaggi in romanzi diversi si spiega facendo riferimento a un piano unitario dell’opera balzachiana, a una connessione logica dell’intrigo, all’armonia degli scenari, degli stati d’animo, alla presenza di corrispondenze e di simboli che plasmano dall’interno la Comédie humaine. [...].

  La scelta dei caratteri compiuta da Balzac ricorda da vicino il «lavoro anatomico», cioè l’analisi meticolosa dei particolari dedicata da Geoffroy alla ricerca di somiglianze tra mostri ed esseri normali, tra tipo e tipo. [...]. Anche per Balzac il riscontro di alcune tipologie comportamentali, caratteriali, fisiologiche, fisiognomiche, e la prova che tutto nella natura si lega a un’unità superiore, che organizza e plasma sia la realtà fisica sia quella spirituale.

  Balzac «ha cercato non tanto di tracciare dei ritratti quanto di presentare dei tipi». Nascono in questo modo César Birotteau, «tipo perfetto del negoziante onesto»; «Foedora, donna senza cuore, tipo di una società senza cuore; Raphaël, simbolo della miseria clamorosa, il dandy senza uno scudo; l’infelicità stessa che procura lo studio solitario, con la gloria in prospettiva, il solaio per teatro e la sofferenza come scorta».

  Nei romanzi balzachiani non esistono individui, ma tipi; non esistono avvenimenti, ma fasi tipiche. «Individualità tipicizzate» e «tipi individualizzati». Balzac li ha ricercati in tutti gli ambienti sociali, dalle classi meno abbienti a quelle agiate, da quelle ricche a quelle nobili, invadendo la loro intimità fin nell’ambito del privato; «ispezionando sotto questi involucri, in apparenza così uniformi e così calmi, egli ne ha riesumato improvvisamente caratteri talmente molteplici e naturali al tempo stesso, che tutti si sono chiesti come mai cose tanto familiari, tanto vere, fossero rimaste così a lungo sconosciute». [...].

  Seguono i seguenti paragrafi: Il mostro sociale e l’ambiente; I mostri parigini; La “Théorie de la démarche”; Oltre il mostro; L’androgino.

 

 

  Grottesco balzachiano e grottesco hughiano. In conclusione.

 

  Séraphîtüs-Séraphîta, nella cui intimità si compie la lotta tra due forze di eguale intensità che si fondono in un doloroso ma sublime accoppiamento, è il simbolo della potenza del contrasto che, invece di fissarsi in una sterile contraddittorietà, cerca nella lotta dolorosa quella «sintesi energetica» che dà origine a un impulso produttivo. La fusione non si opera senza una drammatica sofferenza. Come nei processi chimici, anche nel cuore dell’uomo l’unione di due sostanze eterogenee può dare origine a sintesi devastanti. Séraphîtüs-Séraphîta porta dentro di sé un impulso energetico, generato da un movimento congiuntivo traumatizzante. L’antinomicità maschile-femminile viene spinta a un accoppiamento impossibile e la pienezza dell’unione angelica origina un’intima tensione sublime. Il riconoscimento di un’unità originaria spiega anche – in un contesto differente – la conclusione de La fille aux yeux d’or, dove i due fratelli uomo-donna e donna-uomo, antagonisti in amore, si ritrovano l’uno di fronte all’altra come davanti a uno specchio in una profonda ma tacita intesa. La loro indeterminatezza nella dominante sessuale si evidenzia con lo scambio dei ruoli. Il lesbismo di lei e l’effeminatezza di lui si ricompongono in un’immagine sintetica accanto al cadavere di Paquita. Il riconoscimento reciproco – i due fratelli non si sono mai incontrati prima di quell’istante – è immediato. Il legame di sangue e il comune «oggetto» d’amore diventano il vincolo di un accordo.

  Riassumendo, mentre la pienezza della figura angelica di Séraphîtüs-Séraphîta, la sua sostanza sublime, costituisce il senso di una mancanza colmata dalla forza propulsiva di una sintesi dinamica che tende all’unità, la «pienezza dell’incontro» tra i due fratelli è il risultato dell’attrazione di «affinità contrarie» che, generata da una «forza estetica», dà origine alla ricerca della soddisfazione di un desiderio di unità e completezza originarie.

  Il contrasto – che in Hugo è l’elemento primo del grottesco – nell’opera balzachiana è un dispositivo «erotico-energetico produttore di piacere e di forza». «Se è vero che ‘due sostanze dello stesso segno non producono alcuna attività’, Balzac cercherà nella congiunzione ossimorica di sostanze nemiche, nelle ‘antipatie che risultano da affinità contrarie’, l’elemento motore di una dinamica vibrante», la sintesi non dialettica degli opposti non deve avere fine, l’equilibrio tra i contrari non deve produrre pacificazione, ma suscitare incessantemente nuove forze.

  Il grottesco di Balzac – inteso quale «luogo del contrasto e della contraddittorietà» — rigetta il dualismo di Hugo e si serve dell’analogia. Il mostro diventa un elemento dinamico del contrasto che tende a una sintesi energetica. Il grottesco balzachiano non è quindi la rappresentazione evidente e statica del contraddittorio. In Balzac tutto, anche la contraddizione, si complica di rimandi analogici pluristratificati. Il grottesco – che per Hugo è una mostruosa metamorfosi del contrasto – ritorna in Balzac come espressione sinuosa, ricca di rimandi e implicazioni. Non è un insieme di elementi singolarmente reperibili, ma un nuovo prodotto, instabile, mobile, interpretabile in modi diversi, dunque in un certo senso «polisemico». Esso sembra adatto a realizzare da solo un’operazione di fusione unitaria. Questa caratteristica del grottesco «obbliga a fare una lettura mobile di un reale esso stesso doppio». La polisemia grottesca, l’ambivalenza comico-tragica sono effettivamente reperibili nei personaggi di Balzac. «Grazie a ‘grottesco’, non si può dire il tragico senza il comico, né il comico senza il tragico. Doppio significato ma anche doppio funzionamento, poiché la parola assume un ruolo nella finzione (nella commedia) tra i personaggi, ma anche un ruolo nella trasmissione del messaggio al lettore-spettatore».

  Si riscontra nel testo di Balzac una contraddizione mobile finalizzata alla sintesi energetica. Balzac combina, associa, frammenta fino a far diventare gli effetti oscillatori, «rendendo il testo contraddittorio o parodico». Il comico, il fantastico, il buffo, il burlesco, l’arabesco, la caricatura, entrano quindi «in una relazione dialogica con gli altri termini», relazione che implica una «lettura mobile di una realtà doppia».

  Hugo, al contrario, scopre nel grottesco lo strumento che rende possibile la rappresentazione della globalità nel senso di una poetica della totalità, che individua nel contrasto grottesco-sublime la sintesi inconciliata di tutte le contraddizioni insite nel reale. In Balzac, il grottesco si complica di rimandi indefiniti, di relazioni continue sia via sempre più intricate, variegate, ma nello stesso tempo riconducibili all’unità. La varietà esteriore e interiore, apparente e nascosta, la varietà di un mondo mostruoso, perché indefinitamente stratificato, deve tendere alla risoluzione in un’unità che si esprime attraverso l’analogia, la quale informa tutto il mondo balzachiano, da quello fisico a quello morale. L’occultismo, l’esoterismo, il simbolismo – che hanno un comune fondamento, quello cioè di opporre al caos mostruoso delle contingenze, un cosmo concepito come un’arcana unità sostanziale e armonica, le cui parti si corrispondono secondo un principio analogico universale – si infiltrano anche nel grottesco, facendogli assumere caratteristiche del tutto particolari. Nel grottesco balzachiano l’analogia appare nella sua potenzialità cosmico-ermeneutico-costitutiva. Infatti, per Balzac, l’uso dell’analogia è indispensabile per intraprendere un’analisi degli elementi costitutivi della realtà e consente, allo stesso tempo, una traduzione rappresentativo-simbolica del mondo e dell’uomo.

  Anche per Hugo l’universo grottescamente mostruoso nasconde, ma a un tempo rivela, la presenza dell’analogia. C’è infatti un’intima corrispondenza che lega il mondo all’uomo e l’uomo a Dio: analogia mostruosa, in quanto è l’analogia dell’antinomia. Soltanto il poeta, che possiede lo strumento analogico, traduce esteticamente l’immensità antinomica di Dio e della natura. Il poeta si rende conto che la propria immagine grottesca di homo duplex, di Titano del relativo e nano dell’assoluto, non è altro che il riflesso della mostruosità dell’universo e più ancora della mostruosità di Dio. [...].

  Il grottesco, allo stesso modo del deforme, del disarmonico, in una parola, del mostro, e quindi quell’elemento costitutivo del reale che la natura ci dona, affinché possiamo servircene per scoprire il suo enigma. È infatti nella struttura grottesca e mostruosa che la natura cela i suoi misteri. La potenzialità euristica del mostruoso — come più volte sottolineato — è tuttavia una scoperta recente che richiede nuovi strumenti di indagine sia per la scienza sia per l’arte. Geoffroy elabora la «nouvelle méthode», Hugo isola il grottesco, che si innalza a vera e propria categoria estetica a pari dignità con il sublime, Balzac sviluppa indefinitamente l’analogia. La metodologia teratologica coinvolge quindi problemi complessi, che vanno da una rivisitazione degli esordi di una disciplina scientifica, al significato della contraddittorietà romantica, fino al problema, a un tempo estetico ed epistemologico, del valore dell’analogia.

  Tuttavia, benché lo strumento di indagine cambi, l’interrogativo di Geoffroy, di Hugo e di Balzac rimane costante e si rivolge esclusivamente al più grande enigma del reale, al mostro, che sfida tanto la razionalità quanto la fantasia e che l’uomo in prima persona deve impegnarsi a risolvere. La domanda sul perché della mostruosità è una domanda sulla vita. Indagare la vita, volgendosi alla morte, significa indagare la vita dal lato che la nega. Ricercare il significato della vita, incominciando dal mostro, significa gettarsi nella vita, penetrare profondamente nel suo mistero. Il mostro che si incarna in mille forme deve essere visto, toccato, oppure solo sfiorato, ma in ogni caso va interrogato con ogni strumento a disposizione.

  Per Geoffroy, per Hugo e per Balzac, i mostri non sono gli spettri paurosi dell’angoscia, non sono fantastici demoni maligni, non sono manifestazioni di una fantasia malata, ma rappresentano il primo interrogativo dell’uomo; sono la domanda che esige comunque una risposta. Davanti al mostro l’uomo deve arrestarsi e umilmente chiedere. Chi scappa dal mostro nega a se stesso la possibilità di comprendere il mondo. La familiarità con il mostruoso non è una patologia della mente, ma la forma più immediata e anche, se si vuole, più sconcertante per indagare la realtà, per scoprire il perché della vita, dell’uomo, e il significato dell’arte e della scienza. Le leggi della mostruosità dischiudono l’ordine della creazione, manifestano l’armonia all’interno del disordine più cieco.

  A conclusione della nostra analisi emerge quindi una nuova visione del mostruoso. Esso, nella pluralità delle sue manifestazioni, è un elemento fortemente dinamico. Interessarsi del mostro diventa la condizione ermeneutica per cogliere l’immensa potenzialità della natura. Il corpo mostruoso non è separato dal resto del reale, non c chiuso nella sua singolarità, ma si apre al mondo, si fonde con la natura stessa e, superando se stesso, si trasforma in simbolo. È per Hugo uno specchio concentrante che condensa i lati opposti della natura – la regolarità e la metamorfosi, la staticità e il cambiamento; è per Geoffroy il sedimento dei movimenti evolutivi in esso rigorosamente scanditi e visualizzabili, è per Balzac un mostro sociale che, come quello anatomico, sembra stravolgere le gerarchie prestabilite, capovolgere un ordine eterno, portare lo scompiglio all’interno di un sistema razionalmente fissato. Ma comparare il mondo organico a quello sociale significa legittimare, anche per il mondo sociale, l’applicazione delle stesse leggi che governano l’anatomia, significa scoprire anche nel sociale quell’ordine e quella regolarità che governano la natura.

  La mostruosità, quindi, non solo va considerata elemento vivificatore, ma assurge a condizione indispensabile per la sopravvivenza del creato, manifestazione della sua incessante trasformazione e della sua adattabilità. Epifania della potenza della natura, principio motore di contro all’immobilità della forma, il mostro instaura la pluralità, provoca la trasformazione. L’inconsueto, l’anomalo non sono più espressione dell’irrazionale o dell’arbitrario, ma sono principi vitali che, attraverso un processo incessante di composizione e di ricomposizione, strutturano la realtà, adattandola a condizioni perpetuamente mutevoli, mettendola al riparo da forme di staticità inattendibili e infeconde. Il mostro non si scontra con l’umano e il normale, ma ne è parte integrante; non è una sconfitta della natura, ma è la manifestazione del potere vitale dei corpi viventi. E la vita stessa che pulsa e si trasforma.

 

 

  Cristina Mazzucchelli, La funzione del ritratto in alcuni romanzi di Honoré de Balzac (“La peau de chagrin”, “La Rabouilleuse”, "”Le Cousin Pons”, “La Cousine Bette"”). Tesi di laurea. Relatore: prof. ssa Francesca Merzi D’Eril, Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di Laurea in Lingue e letterature straniere, 1992.

 

 

  Claudia Moro, Letteratura francese. Honoré de Balzac, “La musa del dipartimento”, introd. di Francesco Fiorentino, Manilio, Venezia 1992, trad. dal francese di Maria Grazia Porcelli, pp. 430, Lit. 22.000, «L’Indice dei libri del mese», Torino, N. 11, Dicembre 1992, p. 26/II.

 

  Alcune opere nascono con un’inconfessata vocazione compendiaria, che solo lo sguardo a distanza di un pubblico affine può smascherare e assaporare. Così per questo romanzo-epitome il momento è venuto, dopo i tempi grami del disfavore. Chi ama insieme la letteratura habillée e le strutture messe a nudo, il conforto dei paesaggi topici e le scorribande nella metanarrazione, tra citazioni, autocitazioni e parodie, avrà qui il fatto suo. C’è tutto, perfino la divertita contraffazione di un poemetto romantico. La vicenda procede senza impacci in questo stipato repertorio. Dinah, adolescente di buona educazione e migliori ambizioni, va sposa a uno scricciolo di uomo maturo, fresco di nobiltà e a tutto inabile fuorché agli affari. Nella sonnacchiosa, maldicente Sancerre, diventa donna colta ed eloquente, e poetessa pseudonima per svariarsi dalla castità forzata; nonostante il corteggio adorante dei notabili locali e il sibilo incredulo delle mogli bigotte, si mantiene virtuosa finché il parigino Lousteau fa valere il suo magnetismo di intellettuale rapace e smagato e gabba, con la virtù di lei, l’intera provincia. Ma adulterio e concubinato hanno bisogno di Parigi, che ancora una volta si incarica di educare il personaggio; e Dinah vi apprende parecchio: la pochezza dell’amato, la cui dice sarà pronta a soccorrere, la necessità di dissimulare le vere passioni, l’attrazione delle ristabilite convenzioni sociali. Di nuovo moglie, tornerà a trionfare in provincia, luogo antonomastico — dice al proposito Fiorentino — di tutte le ripetizioni.

 

 

  Salvatore Nigro, Verga e l’ospite invisibile, «la Repubblica», Roma, 21 febbraio 1992, p. 33.

 

  Calvino riassumeva il programma al quale Balzac improntò la composizione del romanzo I piccoli borghesi. E difatti sulla contabilità, sui resoconti notarili e catastali, Balzac costruì il “portrait historique” dei piccoli borghesi della Parigi di Luigi Filippo. Allo scrittore francese, a questo suo incompiuto romanzo, ammiccò a suo tempo Giovanni Verga. Che se ne uscì in una battuta scherzosa, e sostanzialmente autoironica: “Quando morrò, si troverà una busta con su scritto: Contes mélancoliques; vi precipiterete ad agguantar l’inedito, vi troverete i conti dell’amministrazione domestica”. E non c’è dubbio che il titolo dato da Verga ai fascicoli e alle agende, su cui registrava i propri conti in partita doppia, fosse balzacchiano: equivocava su conto-racconto; e annunciava i dolori per un bilancio in passivo, immalinconendo i Contes drolatiques dello scrittore francese. Racconti chiusi nei cassetti Questi “racconti” d’ordinaria amministrazione borghese, Verga li teneva chiusi nei cassetti della propria scrivania. E ad essi aveva accesso solo il fratello Mario, che dava mano alla difficile quadratura dei bilanci.

 

 

  Barbara Paolone, “Melmoth the Handerer” di Charles Mathurin e “Melmoth reconcilié” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Gabriella Micks, Università degli studi ‘Gabriele D’Annunzio’ di Chieti, Facoltà di Lingue e letterature straniere, anno accademico 1991-1992.

 

 

  Antonio Parisi, Honoré de Balzac. «Eugénie Grandet». Guida alla lettura a cura di Antonio Parisi, Milano, Archimede Edizioni, 1992, pp. 80.

 

  Questa Guida alla lettura di Eugénie Grandet presenta varie sezioni riguardanti l’analisi e l’interpretazione del testo, il contesto storico e la capacità comunicativa del testo.

 

 

  Thomas G. Pavel, Mondi incompleti, emozioni rituali, in Mondi di invenzione. Realtà e immaginario. A cura di Andrea Carosso, Torino, Giulio Einaudi editore, 1992 («Piccola Biblioteca Einaudi», 573), pp. 154-167.

 

 

  Giuseppe Pederiali, Un divertente «trattato» sulla moda con illustrazioni di Paul Gavarni. Balzac: i miei consigli per l’eleganza, «Il Giorno», Milano, 7 giugno 1992, p. 15; 2 ill.

 

  Il volumetto tascabile andrebbe regalato a certi stilisti che spesso si lasciano prendere un po’ la mano e caricano di orpelli o di esagerate originalità le loro creazioni. Ecco qualche consiglio e qualche massima: «Il brutto si copre, il ricco e lo sciocco si adornano, l’elegante si veste»; «L’abbigliamento è l’espressione della società»; «Ogni cosa deve apparire ciò che è»; «In ogni cosa l’abbondanza dei colori è di cattivo gusto». L’autore di quest’opera non è Giorgio Armani, principe dei nostri stilisti. e neppure il conte Nuvoletta cultore dell’eleganza maschile tradizionale (e raffinato scrittore), bensì Honoré de Balzac, l’autore di La commedia umana.

  Il grande romanziere francese amava la mondanità, l’eleganza e anche il lusso; scrisse, per passione e per necessità, anche un mare di articoli sui più eterogenei argomenti Questo Trattato della vita elegante (Tea, pagg 138, lire 13.000) è del 1830 e apparve per la prima volta sul settimanale «La Mode», completato da altri tre testi pubblicati successivamente.

  Il libro è divertente, raccontato con grande verve, e pochissimo «datato»; anche oggi, bottone più bottone meno, le parole di Balzac sui «principii ecumenici dell’abbigliamento» e sul «sentimento della vita elegante» corrispondono al buon gusto corrente (quando c’è). Così come i parvenu dell’epoca, fustigati dall’autore, ricordano certi playboy da strapazzo dei nostri giorni.

  Le pagine del Trattato sono disseminate di perle: «Il lusso costa meno dell’eleganza»; «Il benessere risulta dall’armonia fra il patrimonio e il tenor di vita» Non mancano, naturalmente, aforismi discutibili o provocatori; «L’uomo abituato al lavoro non può comprendere la vita elegante».

  Il frizzante e godibile libro esce meritatamente nella collana «I tascabili del bibliofilo», impreziosito dai disegni sul tema della moda e della vita elegante di Paul Gavarni (1804-1866), un maestro del genere.

 

 

  Giorgio Rebuffa, Il trionfo del Codice civile nella testimonianza di Honoré de Balzac, «Materiali per una storia della cultura giuridica», Bologna, Anno XXII, n. 1, giugno 1992, pp. 65-88.

 

  [...]. I frammenti del mondo che Balzac ha di fronte sono di due tipi. I frammenti dell’organizzazione sociale, che ha perso quell’unità – la sua «base teologica», scriverà più tardi Flaubert — costituita da un castello di gerarchie, e sostituita dall’anomia individualistica. Come egli stesso ci dice, in un racconto terminato nel 1846, L’envers de l’histoire contemporaine: «L’associazione, una delle più grandi forze sociali e che ha fatto l’Europa del medioevo, riposa su sentimenti che, dopo il 1792, non esistono più in Francia dove l’individuo ha trionfato dello Stato ... L’amore di sé s’è sostituito all’amore del corpo collettivo».

  La seconda categoria di frammenti riguarda il piano conoscitivo: come dare una lettura «ragionevole» del nuovo mondo. Se la società ha perduto il suo centro razionalizzatore, anche lo scriverne pare, dopo il 1789, impossibile.

  Il problema stilistico e letterario di Balzac richiama quello di Jules Michelet: alla congerie dei dati bisogna trovare un filo d’ordine, facendo di romanzo e storiografia quasi la stessa cosa. L’ordine narrativo – storiografico o fantastico che sia – è invenzione. Il grande storico della Rivoluzione trova quest’ordine nel destino, nella «forza delle cose» che trascina gli uomini della Rivoluzione, costruendo così una storia di figure drammatiche. Balzac trova il senso degli eventi (forse più vicino alla verità dello storico) nelle macchine sociali prodotte dalla grande trasformazione; la Giustizia, la Burocrazia, la Legge. È in queste macchine che risiede il segreto del nuovo ordine; esse costituiscono la guida del narratore e spiegano l’apparente caos degli eventi.

  Lunghe pagine della Comédie humaine sono impegnate nella ricerca delle determinanti della condotta quotidiana; ossia dei modi in cui questa è vincolata da regole «astratte» e dai loro «guardiani», che all’astrattezza danno un senso specifico.

  Se Balzac non anticipa la teoria della «gabbia d’acciaio», ne coglie però in embrione la fenomenologia: gli apparati della giustizia sono «la più grande macchina della società» (L’envers de l’histoire contemporaine); l’organizzazione amministrativa tutto determina e tutto condiziona, facendo dei suoi vertici, le prefetture, «imperi dal piede piccolo» (Les Marana), e la struttura gerarchica è il suo motore: «Sua eccellenza Monsignor Ministro, cinque parole che equivalgono a “il Bondo Cani del Califfo di Bagdad” rappresentano un potere sacro e senza appello» (Père Goriot).

  Balzac, certo, non costruisce una teoria politica, o, peggio, una teoria letteraria. Tenta soltanto di dare ordine ad un modo di vedere la società: elabora una ermeneutica della società democratica.

  Il modo di vedere balzacchiano ha diviso il giudizio della critica. Per alcuni Balzac resta scrittore «realista», fedele al motto contenuto nella dedicatoria di Les Paysans («studio la mia epoca nel suo corso e pubblico quest’opera»): egli traduce nelle sue pagine il «bel mondo nuovo» dei primi quarant’anni del secolo, l’universo della monarchia borghese, dei rapporti mercantili e del loro ordine di classe. Per altri invece egli appare il grande visionario, capace di dare evidenza a ciò che il suo tempo non vede: le trame segrete ed invisibili, le dinamiche ed i simboli più profondi dell’età postrivoluzionaria.

  A ben vedere questi schemi della critica letteraria hanno – almeno ai nostri fini – una funzione ermeneutica troppo debole. Non vi è infatti visione fantastica che possa sfuggire al proprio tempo. Al più – come accade ad esempio in Sthendal (sic) – si può rimpiangere un altro tempo, costruire personalità di un altro secolo e metterle in conflitto con la loro epoca. E su questo conflitto tra sensibilità individuale e tempo storico costruire la loro tragicità. Ma non è così per Balzac. Nell’autore della Comédie i personaggi non hanno altra sensibilità che non sia quella del loro tempo. Se le ombre del passato, o la sua nostalgia, emergono ciò avviene non nella coscienza, ma nella vita quotidiana; ossia nello scontro tra atteggiamenti e aspirazioni legati a vecchi stili ed a vecchie sensibilità che trovano l’ostacolo di strutture politiche e sociali, che ne esigono di diversi. È lo scontro con le «gabbie d’acciaio», con le chimere vincolanti del nuovo ordine, che segna gli sconfitti, i vinti, di tutta la narrazione balzacchiana. I vinti sono sconfitti dal nuovo ordine. Essi vengono allineati nella Comédie con tipologie che ritornano.

  Sono, anzitutto, le vittime di una grande illusione di eguaglianza, dove al primo posto Balzac colloca figure femminili. Le donne balzacchiane sono vittime per ragioni quasi esclusivamente determinate dall’ordine del Code Napoléon. Esse in quanto limitate nella loro capacità di soggetti di diritto sono attori economici di rango inferiore [...].

  Vi è poi un’altra schiera di vittime, emblemi del passato che dal nuovo ordine hanno ricevuto i più gravi danni materiali. Il Colonnello Chabert, protagonista del racconto omonimo del 1832, sintetizza i caratteri di questa tipologia di sconfitti [...]. Ma il colonnello non è vittima della fortuna e della sorte, ma solo del nuovo ordine legale; sono le regole del Codice ad escluderlo dalle sue proprietà e dalla sua posizione [...]. Il fatto che il nuovo ordinamento proprietario faccia scomparire la bellezza è tema ricorrente in Balzac, e costituisce il vero argomento, per esempio, della lunga narrazione di Les Paysans. È un aspetto che meriterebbe considerazioni più particolareggiate. Basta qui ricordare che Balzac attribuisce proprio ai meccanismi giuridici una capacità di sconvolgimento devastante che fa sì che i drammi personali si annullino nei drammi collettivi, in cui trovano le loro cause determinanti.

  Un altro tipo di vittime è annidato negli ingranaggi minimi delle grandi macchine. Sono i subalterni della piramide amministrativa [...].

  In questa galleria di figure non si collocano personaggi psicologicamente complessi — tipo di approfondimento quanto mai raro in Balzac — ma simboli. Le vittime non sono tali perché trascinate da drammi esistenziali o psicologici, ma a causa dell’ordinario muoversi delle Grandi Macchine, soprattutto le macchine giuridiche. Il colonnello Chabert non può riottenere né il patrimonio né la propria identità perché un atto ha dichiarato la sua fine. La signora De la Chanterie, in L’Envers de l’histoire contemporaine, non può riavere nulla del suo status e deve vivere quasi clandestina a Parigi, perché la legislazione napoleonica ha confermato le leggi rivoluzionarie.

  Tutte le grandi vittime della Comédie sono dunque vittime di una macchina giuridica; anzi, quasi sempre della macchina giudiziaria [...].

Nella galleria delle vittime si vede bene come il rapporto delle figure balzacchiane con il loro tempo sia sempre mediato dalle Grandi Macchine. Paradossalmente l’età dell’individualismo sembra, all’autore della Comédie, quella che più limita gli spazi della vita individuale: i meccanismi istituzionali determinano la vita, lo stile, gli atteggiamenti, di tutte le sue figure. Il Codice — termine che spesso assume nella Comédie una eco simbolica – ne determina grandezza e decadenza.

  D’altronde in queste parole, che Balzac attribuisce allo stesso Napoleone, la forza condizionante delle macchine giuridiche moderne non ha più bisogno di simbologie e metafore, ma possiede la semplicità di un progetto politico [...].

  Se sono dunque le Grandi Macchine a determinare il destino, collettivo e personale, tuttavia il rapporto delle figure della Comédie con il proprio tempo conosce una peculiare fenomenologia: l’accettazione o il rifiuto dell’irreversibile. Perciò il mondo nuovo non può essere giudicato o integralmente rifiutato. L’unico rimpianto possibile è di carattere estetico. L’unica ribellione consentita, come esplicitamente affermerà Balzac nel Traité de la vie élégante, non è più politica, ma stilistica; è, appunto, «la vita elegante». L’accettazione di ciò che è avvenuto è, dunque, il punto di partenza per definire il rapporto istituito da Balzac tra le sue figure ed il loro tempo.

  Scegliamo come guida ed introduzione alla descrizione di questo rapporto un racconto esemplarmente tessuto sullo scontro dei due mondi: il mondo e lo stile dell'antico regime, contro le regole e le macchine del regime postrivoluzionario. Questo scontro è al centro di un romanzo composto tra il 1836 ed il 1839, Le Cabinet des Antiques. [...].

  Il meccanismo processuale descritto da Balzac ha due lati. Il primo è costituito dalle passioni e dagli interessi dei soggetti che ne sono protagonisti. Il secondo è il meccanismo giuridico in sé, ed in particolare il rapporto tra accusa ed istruzione. È l’intrecciarsi di questi due aspetti che per Balzac costituisce tutt’intera la macchina giudiziaria. E proprio il suo dipanarsi serve in mondo esemplare al narratore per sciogliere la narrazione.

  L’introduzione dei meccanismi giudiziari trasforma completamente lo scenario del racconto. La dinamica dapprima lenta del tempo dell’aristocrazia diviene rapidissima, ed i protagonisti stessi mutano: gli aristocratici diventano comprimari, per lasciare la scena agli agenti, piccoli c grandi, del meccanismo sociale.

  La parte conclusiva del Cabinet des antiques descrive il movimento e l’interazione di tre meccanismi sociali: il meccanismo giudiziario, il meccanismo sociologico (costituito dalle credenze e dalle aspirazioni di gruppi ed individui), il meccanismo dei poteri invisibili (costituito dai tentativi di piegare le macchine istituzionali in una direzione diversa da quella che loro è propria).

  Nella descrizione dei meccanismi istituzionali Balzac indica le passioni e gli interessi che muovono i titolari di poteri nel nuovo ordine; ed in primo luogo i membri del corpo giudiziario. Inizia così l’esplorazione di una delle Grandi Macchine; esplorazione che si sviluppa da diversi punti di vista: l’indicazione delle funzioni generali della struttura giudiziaria, la tipologia dei soggetti umani che costituiscono la macchina, la descrizione del procedimento specifico della macchina. Del processo Balzac non descrive però il meccanismo visibile (il dibattimento), ma il suo segreto: ciò che conta e che deve essere oggetto dell’analisi è la preparazione precedente l’attivazione della macchina.

  Balzac non indugia sulla retorica giudiziaria, né sulle pretese di imparzialità della magistratura imperiale, o di quelle della Restaurazione. Ed ancor meno indugia sulla retorica dell’«eguale applicazione» delle norme generali ed astratte, che gli appare un dogma chimerico. L’autore della Comédie sottolinea una esclusiva funzione che egli attribuisce ai grandi corpi dello stato postrivoluzionario, ed in particolare alla magistratura: quella di trasmettere ed applicare la volontà del «potere» nelle periferie della società. E proprio in questa ottica, egli fornisce, nel Cabinet, le ragioni per cui la Restaurazione poteva essere solo un’illusione; le ragioni per cui sotto l’apparenza di un nuovo corso politico tutto continuava come prima del ritorno dei Borbone, laddove la Rivoluzione aveva irrevocabilmente compiuto la sua opera di trasformazione.

  Infatti, rileva Balzac, la magistratura francese, così come era stata organizzata da Napoleone, era ispirata da un principio che condizionava i comportamenti dei singoli giudici: il principio della carriera. L’organizzazione in una struttura amministrativa faceva sì che ogni membro del corpo giudiziario aspirasse a migliorare la propria posizione e fosse, di conseguenza, obbediente alla volontà di chi questo miglioramento poteva procurare [...].

  Ma proprio la struttura della carriera determina una trasformazione degli atteggiamenti collettivi del corpo giudiziario. La fedeltà alla monarchia restaurata, anzitutto, è solo apparenza transitoria. Lo zelo monarchico, il desiderio di far carriera dei «fedeli del Re» viene sostituito da altri sentimenti, più conformi alla natura di macchina burocratica, quale era la magistratura dopo la riorganizzazione napoleonica. La magistratura era divenuta «troppo accessibile alle meschine passioni del liberalismo»; le proclamazioni di fedeltà alla restaurazione ed ai principi del legittimismo vennero travolte dallo spirito di corpo. Il che significò, secondo Balzac, «uno spirito di imitazione» degli elementi borghesi e «costituzionali» che, inevitabilmente, dominavano un apparato a cui si accedeva, come in qualunque altro apparato pubblico, attraverso il meccanismo egualitario dei concorsi. [...].

  Questo spirito di imitazione, tipico degli apparati burocratici, fece sì, secondo il giudizio retrospettivo di Balzac, che scrive alla fine degli anni Trenta, che la magistratura «prima o poi doveva diventare costituzionale e in occasione della lotta schierarsi a fianco della borghesia».

  Ma nel periodo in cui si svolge l’azione del Cabinet des antiques, tra il 1822 e il 1830, la lotta non è ancora terminata. Le figure giudiziarie del racconto sono, perciò, ancora incerte nelle loro determinazioni politiche. La distinzione più appariscente è, per ora, quella tra ambiziosi e rassegnati.

  La descrizione di queste figure di giudici occupa quasi tutta la seconda parte del Cabinet. Non vi sono soltanto distinzioni sociologiche, relative alla loro estrazione o alle loro ambizioni di avanzamento sociale, che qualificano queste figure, ma anche le etichette politiche del periodo della Restaurazione: gli «ultras», i «ministeriali», gli «oppositori» (liberali e bonapartisti). Con queste componenti tutta la dinamica giudiziaria e processuale viene determinata da due fattori: le inclinazioni politiche e le caratterizzazioni sociali. E sono queste contrapposizioni a rendere incerto l’esito del meccanismo processuale.

  Le due figure gerarchicamente più eminenti sono il presidente e il vicepresidente del Tribunale, Du Ronceret e «il buon Blondet», così qualificato per la sua mitezza e moderazione nel periodo trascorso come procuratore rivoluzionario.

  Il primo, pur essendo «rampollo di famiglia parlamentare», discendente dalla tradizione giudiziaria di antico regime, essendosi compromesso con il «liberalesimo», vive la frustrazione dell’esilio in una sede di provincia. Cerca perciò di riscattarsi complottando al fine di imporsi almeno come capo della fazione liberale del dipartimento. Il «buon Blondet», descritto come «uno dei più notevoli giureconsulti di Francia», vive in un’evasione fantastica, non ama più il proprio mestiere e «disprezzava con tutta l’anima le proprie cognizioni giudiziarie e si dedicava invece quasi esclusivamente ad una scienza estranea alla sua professione, riservandole le sue ambizioni, il suo tempo, le sue capacità». Blondet ha ancora, però, un interesse, un’«ambizione»: collocare il figlio nella carriera giudiziaria.

  Le altre figure descritte da Balzac sono quella del distante e innominato procuratore del Re, appartenente al partito «ministeriale» e quindi «immerso nell’alta politica» e quella del giudice supplente Michu, «protetto dall’aristocrazia più stizzosa». Compaiono poi due figure chiave di giudici subalterni. Il primo sostituto del procuratore del Re, Sauvager. Questi è un oscuro borghesuccio, che vive del suo stipendio. Ed è perciò doppiamente ricattabile; in quanto senza beni di fortuna ed in quanto appartenente alla magistratura requirente, debout, amovibile a capriccio dell’esecutivo [...].

  Infine il giudice istruttore, Camusot. Anche questo personaggio è un borghese desideroso di migliorare la propria condizione. Ma possiede maggiore lungimiranza del suo antagonista Sauvager, perché non è agitato dalle passioni politiche, ma solo dagli obiettivi personali che sa ben amministrare.

  L’esito della vicenda giudiziaria è determinato dal gioco degli interessi di questi uomini.

  Vitturnino d’Esgrignon, per sostenere il suo stile a Parigi, aveva falsificato la firma di avallo di una cambiale. Tale documento giunge nelle mani del capo della fazione liberale del dipartimento, che è ben intenzionato a servirsene per screditare il simbolo dell’aristocrazia, il Gabinetto delle antichità.

  Il presidente del tribunale, che ha ambizioni politiche e che vuole mettersi in luce tra i liberali, ed il sostituto procuratore, che proprio da lui è ricattato, complottano al fine di ottenere rinvio a giudizio e condanna del giovane aristocratico. Ma per arrivare a questo obiettivo è necessaria una sentenza di rinvio da parte del magistrato istruttore, Camusot. Questi, a sua volta, manifesta inclinazioni politiche favorevoli al partito «ministeriale», che gli sembra possa fargli ottenere l’ambita sede parigina ed il conseguente più alto stipendio.

  Lo sviluppo dell’azione è a questo punto incerto.

  Tocca a Chesnel, spinto dalla fedeltà all’aristocrazia, dirigere questi interessi e volgere così a favore della sua parte il meccanismo giudiziario [...].

  L’obiettivo di Chesnel è quello di ottenere la derubricazione del reato: da falso a semplice mancanza di cautela. Il presidente del Tribunale blocca l’istruttoria allontanandosi dalla sede ed imponendo al giudice istruttore di occuparsi pro tempore solo delle funzioni di membro di collegi giudicanti, come supplente del presidente stesso. A questo punto è necessario che Blondet, che esercita, anch’egli pro tempore, le funzioni di presidente del Tribunale, prenda posizione e consenta all’istruttoria di proseguire, giacché l’esito di questa appare favorevole al giovane d’Esgrignon. Blondet è conquistato con la promessa che il figlio avrà il posto desiderato. In un primo momento vacilla [...]. Ma Camusot lo convince. Sicché è il vecchio procuratore a concludere: «Perché ci sia falso il legislatore ha richiesto l’intenzione di sottrarre una somma, di percepire un illecito profitto ... In materia privata il falso comporta l’intenzione di un illecito profitto; ma qui dov’è l’illecito profitto? In che tempi viviamo, signori? Il presidente ci lascia per far sospendere un’istruzione che dovrebbe essere già terminata. Signor Camusot, voi dovete condurre questa faccenda con la massima celerità». Camusot può infine emettere una decisione di non luogo a procedere.

  Ma la vittoria giudiziaria è un’illusione. L’aristocrazia ha irrimediabilmente perduto. La dichiarazione di Diana di Maufrigneuse, aristocratica parigina giunta in provincia a spiegare la realtà del nuovo mondo, rivela il segreto del tempo dopo la Rivoluzione: «Cari amici, non c’è più nobiltà, c’è solo dell’aristocrazia. Il Codice Civile di Napoleone ha distrutto le pergamene nobiliari, come già il cannone aveva distrutto il feudalesimo. Quando avrete del danaro sarete molto più nobili di quello che non siate adesso».

  E così l’aristocrazia scompare. Vitturnino è sepolto nell’esilio provinciale, con qualche soprassalto di «vita elegante». Chesnel muore senza illusioni. Il marchese nel 1830 vede passare il corteo che porta Carlo X in fuga verso l’esilio. E pronuncia l’epitaffio della Restaurazione e del vecchio tempo: «Les Gaulois triomphent».

 

 

  Franco Rella, La musa, l’amante e il pane di Proust, «l’Unità-Libri», Roma, Anno 41° nuova serie, n. 13, 30 marzo 1992, p. II.

 

  Baudelaire conclude il suo Salon 1846 con un grande omaggio a Balzac, colui che ha colto come nessuno la «meraviglia» e l’eroismo della vita moderna: «In effetti i personaggi dell’Iliade non vi arrivano che alle caviglie, o Vautrin, Rastignac, Birotteau (...) e tu, Honoré de Balzac, tu il più eroico, il più singolare, il più romantico e il più poetico di tutti i personaggi che hai tratto dalla tua carne». Ma forse l’elogio più grande che mai sia stato tributato a Balzac è stato messo in bocca da Flaubert ai suoi due «folli», a Bouvard e Pécuchet: «L’opera di Balzac li meravigliò proprio come una Babilonia e al contempo come i granelli di polvere messi sotto il microscopio. Emergevano aspetti nuovi dalle cose più banali. Non avevano mai sospettato che la vita moderna fosse così profonda. “Che osservatore!” esclamò Bouvard. “Io lo trovo chimerico”, finì per dire Pécuchet. “Crede alle scienze occulte, alla monarchia, alla nobilita, è abbagliato da lestofanti, maneggia milioni come centesimi, e i suoi borghesi non sono borghesi, ma dei giganti. Perché gonfiare ciò che è piatto e descrivere tante inezie? Ha fatto un romanzo sulla chimica, un altro sulla banca, un altro sulle macchine da stampa. E su come un certo Ricard aveva fatto il cocchiere, il portatore d’acqua, il mercante di cocco. Avremo romanzi su tutti i mestieri, e su tutti i piani delle case, e su ogni individuo, e non sarà più letteratura...».

  E, in effetti, nessuno ha mai avuto lo sguardo di Balzac, il cosiddetto padre del realismo. I suoi occhi si spingono verso e dentro la realtà fino a dissolverne i tratti, fino a trasformarla in un’atopia, in una sorta di allucinatoria ricerca della verità oltre ogni confine conosciuto. I romanzi esoterici, Séraphîta, Louis Lambert, da questo punto di vista, sono la rivelazione di una strategia che percorre tutta la sua opera, e che può essere riassunta in una frase della Musa del dipartimento.

  La «musa» è una intellettuale di provincia, sposa infelice di un avaro impotente, che si innamora di un giornalista scrittore parigino. Lo segue nella metropoli, ha due figli con lui, e alla fine torna dal marito – al lusso, alla bella vita a cui ha sempre aspirato – dandogli, con i figli bastardi, la discendenza di cui egli aveva bisogno. Eppure questa non è soltanto un’anticipazione del bovarismo. Sul punto di rompere con il suo amante, la donna afferma: «Voi non capite che siamo, dopo tutto, degli esseri finiti. I nostri sentimenti ci sembrano infiniti perché abbiamo il presentimento del cielo: ma qui sulla terra sono limitati dalle forze della nostra organizzazione. È delle nature fiacche e vili ricevere un numero; infinito di colpi e persistere; ma ve ne sono di più fortemente temprate che finiscono per spezzarsi sotto i colpi». Tutta l’opera di Balzac è tesa nella contraddizione di questa dualità: i limiti dell’umano e l’illimitato delle sue aspirazioni e dei suoi sentimenti. Tutta la sua opera è tesa a descrivere questa oltranza tragica: il tentativo dell’uomo di andare oltre i suoi limiti.

  Lousteau, l’amante, rimane sempre uguale a se stesso. Non avverte questa tensione, e il suo destino è quello di una irrimediabile marginalità. Dinah, la musa, è tesa oltre se stessa, ma si piega prima di spezzarsi. L’eroe nascosto del romanzo è il marito La Baudraye. che aveva «regolato i movimenti della sua esistenza con la precisione fatale che gli orologiai danno alle loro pendole», che viveva «come una talpa tutta intenta a scavare le sue gallerie sotterranee intorno a un pezzo di vigna», che sacrifica la fedeltà coniugale al raggiungimento di un fine che appare in prima istanza oltre il limite, una ricchezza sterminata, il blasone, la legion d’onore».

  La Baudraye è chiamato insetto da Lousteau. Ma La Baudraye è come Vautrin, Goriot, Rastignac, Grandet: un essere che va oltre se stesso, pagando tutto quello che c’è da pagare, pronto anche a cadere nel persegui-mento di questo «oltre». Il sapere, l’avarizia, la lussuria, il crimine, l’amicizia, l’amore, il collezionismo, tutte le passioni, in una parola, possono essere il transito per questo oltre, per questo «smisurato», per questo immane cercare l’illimitato sulla terra. E in questo aveva ragione Baudelaire. Balzac è il più grande degli eroi che egli ha creato. Anche lui, che aveva voluto essere il «segretario della sua epoca», ha spinto la sua scrittura a limiti mai prima (e forse mai dopo) raggiunti finendo per essere irretito nel paese dell’oltre che egli aveva suscitato.

  Quando Oscar Wilde afferma che il giorno più doloroso della sua vita e stato il giorno in cui ha letto della fine di Lucien nelle Illusioni perdute, voleva forse affermare di aver capito: chi, come Edipo, segue il proprio destino fino alla fine deve essere disposto alla fine di Edipo. Balzac lo sapeva. Lo sapevano Baudelaire e Flaubert. Lo sapeva Proust, che non solo ha pronunciato parole decisive su Balzac, ma che ha voluto, anch’egli «segretario del proprio tempo», costruire con la Recherche un’altra Comédie humaine, attraversando con la sua scrittura la malattia e l’attesa della morte per spingersi oltre i confini noti dell’io. È in omaggio a Balzac, ne sono convinto, che aveva definito la sua opera una Madeleine, che Proust ha ribattezzato, nell’episodio più famoso della Ricerca del tempo perduto, il pane tostato della sua infanzia in una Madeleine.

  H. de Balzac, «La musa del dipartimento» Marsilio, pagg. 430, lire22.000

 

 

  Franco Rella, Balzac on the road, «l’Unità-Libri», Roma, Anno 41° nuova serie, n. 48, 7 dicembre 1992, p. II.

 

  È stata finalmente pubblicata La patologia della vita sociale, che raccoglie Il trattato della vita elegante, La teoria dell’andatura e Il trattato degli eccitanti moderni, vale a dire il nucleo di una sezione della Commedia umana di Balzac: Gli studi analitici che, al di là degli Studi filosofici, che si proponevano indagare sulle cause dei costumi stessi, avrebbero dovuto analizzare i principi che, come scrive Bongiovanni Bertini nella sua acuta introduzione, «combinandosi creano le condizioni della vita associata come gli elementi chimici creano quelle della vita organica». Vorrei soffermarmi sulla Teoria dell’andatura che è, come scrive ancora la curatrice, «un denso intrecciarsi di registri diversi», una «sintesi dissonante e originale di comicità e metafisica».

  La Teoria dell’andatura è un testo leggero, un trattato fisionomico: sulla fisionomia gestuale e sul movimento. Eppure, come ha scritto Castex, «Balzac non è mai stato così serio». Questa opera «su nulla» ci mostra come negli atti della vita quotidiana, nella vita di ognuno, si insinui quella tensione verso l’altro che ha spinto Louis Lambert, in una delle opere più allucinate di Balzac, verso l’abisso, in cui le cose stesse sembrano prossime a tradire il loro ultimo segreto.

  Balzac, il vorace osservatore di costumi, modi, atteggiamenti si mette sulla strada e osserva le caratteristiche dei passanti, il minuscolo particolare, un nervo che vibra, un modo di serrare la palpebra, una ruga intempestiva. È l’applicazione di un metodo indiziario che ci permette «di scoprire un rimorso, un vizio, una malattia, vedendo un uomo in movimento». Ma i movimenti dell’uomo sprigionano un «fluido psichico» (ma in realtà Balzac usa lo stupendo neologismo: «animico, derivato dall’anima), che dimostra come il movimento sia connesso al pensiero, la più pura, ma anche la più pericolosa delle azioni umane.

  Il movimento, soprattutto quello del pensiero, è dispendio di vita, che ci approssima alla morte. Possiamo risparmiare la nostra vita limitando i movimenti, le azioni in cui si esprime una «prodigalità sublime». Ma il riposo assoluto, il silenzio del corpo, è atrofia: è anch’esso deviazione e morte; è pietrificazione dell’anima, congelamento dal flusso, della forza vitale, dell’intelligenza. In quarto riposo tacciono le tensioni che legano insieme le cose in una trama strana e misteriosa.

  Balzac cerca di penetrare questo paradosso. «Il magnifico museo della strada» diventa il luogo di quella veggenza che i maghi hanno cercato invano nei loro alambicchi. La vita moderna, le sue tecniche e i suoi saperi, ci permette di giungere ai limiti oltre i quali si può guardare soltanto con una «seconda vista», che ci giunge attraverso quell’esaltazione di tutti i sensi di cui parlerà Rimbaud nella «Lettera del veggente». Il movimento ci permette di scoprire il fluido «animico» portandoci, per così dire, «alle soglie di Dio». E nessuna epoca, come il moderno, è caratterizzata dal movimento, dalla velocità, dal nuovo che emerge ovunque quasi a passo di danza. È l’epoca in cui nuovi linguaggi scavano nelle vicende «del secolo più egoista» per scoprire segrete simpatie tra le cose per cui si crede che «un’idea nuova sia più che un mondo», perché essa di fatto «offre un mondo senza contare il resto». È questo amore per il nuovo, per l’incognito nascosto dentro il nuovo e che porta Balzac a collocare una sedia sulla strada e a guardare i passanti, per scoprire ricchezze nascoste, le nuove possibilità che si aprono allo sguardo e all’azione.

  Ma il genio dell’osservazione è un «genio multiplo», paradossale; scopre infatti il movimento anche nell’immobilità di forze uguali e contrapposte, l’assoluta libertà coniugata all’assoluta necessità, in un complesso, in un intrigo, che deve essere espresso da «una nuova arte espositiva». La teoria dell’andatura è «il discordo sul metodo» di questa nuova arte espositiva che Balzac sta cercando di costruire. È un metodo rischioso, aleatorio. Infatti un folle, dice Balzac, interroga per tutta la vita il movimento della porta della sua cella. Interroga questo movimento, interroga Dio, e precipita nel baratro della follia. Lo scienziato cerca di tradurre in cifre questo baratro. «Non c’è uno dei nostri movimenti, né una sola delle nostre azioni che non sia un abisso in cui l’uomo più saggio non possa perdere la sua ragione, e che non offra allo scienziato la sua squadra per cercare di misurare l’infinito». Non sappiamo chi dei due sia più prossimo alla verità. «Io, scrive Balzac, sarò sempre fra la squadra dello scienziato e la vertigine del folle». La teoria dell’andatura non poteva quindi «essere scritta che da un uomo tanto audace da costeggiare la follia senza timore, e la scienza senza paura».

  Queste parole possono sembrare eccessive per un testo «leggero», divertente, beffardo e caricaturale. Infatti La teoria dell’andatura, dice Balzac, è una «scienza di nulla». Si potrebbe pensare a una sorta di autoironia: osservazioni futili, affidate a un giornale; caricature, scritte caricaturalmente con il tono dello scienziato accademico. Ma questa frase scopre in realtà la dimensione tragica che attraversa tutto il testo di Balzac. Concludendo la sua opera egli scrive: «Se esaminate a fondo l’intero corso delle vicende umane, vi troverete quello spaventoso antagonismo tra due forze che produce la vita, ma che non lascia alla scienza una negazione come formula. Nulla sarà la perenne epigrafe dei nostri tentativi scientifici».

  Balzac, che voleva essere il «segretario della sua epoca», ha scritto questo «nulla» sotto «la dettatura del suo secolo». Lo scienziato e il folle, uniti paradossalmente in un sapere che non può essere che paradossale, scoprono insieme l’antagonismo irresolvibile che ci mette di fronte a un mistero che non sappiamo nominare altrimenti che come nulla. [...].

  Siamo a mio giudizio all’acme tragico del moderno. Balzac si è spinto tanto avanti verso questo nulla, verso questo strano e terribile paradosso, da veder continuamente emergere ai suoi bordi figure, atteggiamenti, posture, andature, traiettorie, peripezie. Cercando, dunque, ostinatamente, di trasformare questo nulla in un paesaggio.

 

 

  Mario Sesti, Balzac, anzi Truffaut, «L’Espresso», Anno XXXVIII, N. 26, 28 giugno 1992, p. 83.

 

  Su François Truffaut definito come «il più balzacchiano dei registi».

 

 

  Marco Stupazzoni, La recente fortuna critica di Honoré de Balzac in Italia. Repertorio bibliografico: 1958-1992 (con una premessa per gli anni 1948-1957), «Francofonia», Bologna-Firenze, Anno XII, 23, Autunno 1992, pp. 81-127.

 

 

  Piero Toffano (a cura di), Opere letterarie, in AA.VV., Francesistica ... cit., pp. 513-514.

 

 

  Paola Tucci, “Splendeurs et misères des courtisanes” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Mario Iazzolino, Università degli Studi della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia, Anno accademico 1991-1992.

 

 

  Barbara Vertemati, Il linguaggio metafonologico nell’opera narrativa di Balzac nel 1835. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1992.

 

 

  Emilio Vignali, Balzac, Flicoteaux e compagni, in Le pot-au feu. A tavola narratori francesi del XIX secolo, Roma, Il Ventaglio, 1992, pp. 68-73.

 

  Dopo esserci fatti prendere dai vapori del vino (è il caso di dirlo) ed aver precorso i tempi per arrivare al 1860 o addirittura al ’70, è giusto tornare indietro. A Balzac. Che ne pensate? A Balzac, questa figura gigantesca, questo Napoleone degli scrittori, come amava definirsi, che, tuttavia, nascondeva l’animo di una collegiale romantica.

  Romantico il Balzac lo fu, nonostante la sua stessa volontà, nonostante quanto abbia potuto dire e possa dire una critica, specialmente moderna, che lo ha valutato e rivalutato per il suo realismo, un realismo che c’è, ma non è tutto, nonostante il suo tile (sic) che romantico non fu. Fu romantico per la sua vita, per l’immenso sogno che nutrì, l’analisi di un’intera epoca, di una intera società, per le sue simpatie ed i suoi gusti, per le spinte che guidano i suoi personaggi: l’amore, l’amicizia, l’invidia, la dedizione, l’ambizione, anche il tornaconto e l’avarizia, ma portati agli estremi a tal punto da esulare dalla sfera dell’interesse per entrare in quella delle passioni. Lo fu per l’innamoramento di Eugenia Grandet, per la morte di Coralie e l’espiazione di Esther, per il suicidio di Julien de Rubempré, per il delirio di papà Goriot morente, per il titanismo di Vautrin.

  Le sue simpatie gastronomiche?

  Limitiamoci, nella sterminata produzione di questo ‘visionario appassionato’, come lo chiamò il Baudelaire, ad un solo romanzo [Illusions perdues], quello sulle prime esperienze di Lucien de Rubempré nella capitale: «Entrò da Very e ordinò, per iniziarsi ai piaceri di Parigi, ma cena che lo consolò della sua afflizione. Una bottiglia di vino di Bordeaux, ostriche di Ostenda, un pesce, una pernice, un dolce e della frutta costituirono il non plus ultra dei suoi desideri».

  Tutto qui. Non senza aggiungere che a Lucien «quella cena costava quanto un mese di vita ad Angoulême». Cinquanta franchi.

  Erano quelli i piaceri di Parigi. Potevano davvero consolarlo della sua afflizione? [...].

 

 

  Oscar Wilde, Balzac in inglese, in Grandi scrittori per piccoli uomini. Introduzione di Giuseppe Scaraffia. Traduzione di Bianca Lazzaro, Catanzaro, Abramo editore, 1992 («I cammelli», 3), pp. 73-78.

 

  «Pall Mall Gazette» il 13 settembre 1886.

 

  Molti anni fa, in un numero di «All the Year Round», Charles Dickens lamentava il fatto che Balzac venisse letto molto poco in Inghilterra, e sebbene da allora il pubblico abbia acquisito maggiore familiarità con i grandi capolavori della narrativa francese, è ancora legittimo dubitare che la Comédie Humaine venga realmente apprezzata e compresa dalla più generale categoria dei lettori di romanzi. Essa rappresenta davvero il più grande monumento letterario del nostro secolo, e Mr. Taine non esagera affatto quando sostiene che, dopo Shakespeare, Balzac rappresenta la nostra più importante riserva di documenti sulla natura umana. L’intento di Balzac era, infatti, quello di fare per l’umanità ciò che Buffon aveva fatto per il regno animale. Come il naturalista studiava i leoni e le tigri, il narratore studiava gli uomini e le donne. E tuttavia non era un semplice cronista. La fotografia e il procès-verbal non erano gli strumenti principali del suo metodo. L’attenta osservazione gli forniva i fatti della vita, ma il suo genio trasformava i fatti in verità, e le verità in una verità. Era, in una parola, una meravigliosa combinazione di temperamento artistico e spirito scientifico. L’ultimo lo ha tramandato ai suoi discepoli, il primo era tutto suo. La differenza tra un libro quale L’Assommoir di Zola e le Illusions Perdues di Balzac è la stessa che distingue il realismo privo di fantasia e la realtà fittizia. «Tutti i personaggi di Balzac», dice Baudelaire, «posseggono l’ardore di vivere che animava lui stesso. Tutti i suoi romanzi hanno l’intenso colore dei sogni. Ogni mente è un’arma carica di volontà. Finanche gli sguatteri posseggono del genio». Egli, naturalmente, venne accusato d’essere immorale. Pochi scrittori che trattano in modo esplicito della vita sfuggono a quest’accusa. La risposta che egli dava era caratteristica e conclusiva: «Chiunque contribuisce alla costruzione dell’edificio delle idee con un suo mattone», scriveva, «chiunque denuncia un abuso, chiunque punta il dito contro un male da eliminare, passa sempre per immorale. Se nei tuoi ritratti sei fedele alla realtà, se a furia di lavorare intensamente giorno e notte riesci a scrivere nella più difficile lingua del mondo, ti gettano in faccia il termine immorale». La moralità dei personaggi della Comédie Humaine non è che la moralità del mondo che ci circonda. Essa è parte integrante della materia trattata dall’artista, non è parte del suo metodo. Se ci fosse bisogno di una forma di censura, è alla vita e non alla letteratura che bisognerebbe applicarla. Balzac, inoltre, è essenzialmente universale, Vede la vita da tutti i punti di vista. Non ha preferenze né pregiudizi. Non cerca di dimostrare nulla. Crede che lo spettacolo della vita contenga il suo stesso segreto. «Il crée un monde et se tait».

  E che mondo! Quale panorama di passioni! Quale confusione di uomini e di donne! È stato detto a proposito di Trollope che egli ha ampliato il numero delle nostre conoscenze senza presentarci nessuno; ma dopo la Comédie Humaine si comincia a credere che le uniche persone davvero reali siano quelle mai esistite. Lucien de Rubempré, Père Goriot, Ursule Mirouët, Marguerite Claës, le Baron Hulot, Madame Marneffe, le Cousin Pons, De Marsay: ognuno porta con sé una sorta di contagiosa illusione di vita. Hanno addosso una fiera vitalità: la loro esistenza è fervida e dalle tinte accese. Non solo proviamo compassione per loro, ma li vediamo: dominano la nostra fantasia e sfidano il nostro scetticismo. Una cura intensiva a base di Balzac riduce i nostri amici viventi a semplici ombre, ed i conoscenti a ombre di un sogno. A chi importa più di andare ad una festa per incontrare Tomkins, un amico d’infanzia, quando si può restare comodamente a casa con Lucien de Rubempré? E più piacevole essere ammessi nell’alta società balzachiana che ricevere inviti da tutte le duchesse di Mayfair.

  Nonostante tutto ciò, c’è molta gente che definisce la Comédie Humaine indigeribile. Forse lo è: ma che dire, allora, dei tartufi? L’editore di Balzac non si lasciava importunare da simili critiche. «È indigeribile?», esclamava con quello che, per un editore, era un raro buon senso. «Beh, lo spero bene. Chi mai si ricorda di un pranzo che non lo è?». E il nostro editore inglese, Mr. Routledge, evidentemente concorda con Mr. Poulet-Malassis, dal momento che è impegnato nella pubblicazione di una traduzione completa della Comédie Humaine. I due volumi che al momento abbiamo davanti contengono César Birotteau, quella terribile tragedia finanziaria, L’illustre Gaudissart, l’apoteosi del commesso viaggiatore, la Duchesse de Langeais, la più splendida delle storie d’amore moderne, Le Chef d’OEuvre Inconnu, da cui Henry James ha tratto il suo Madonna of the Future, e quello straordinario romanzo sentimentale intitolato Une Passion dans le Désert. La scelta delle storie è davvero eccellente, ma le traduzioni non sono per niente all’altezza, e alcune sono decisamente cattive. L’Illustre Gaudissart, per esempio, è pieno di errori grotteschi, che umilierebbero persino uno scolaretto. «Bon conseil vaut un oeil dans le main» è tradotto: «Un buon consiglio è un uovo in mano»! «Ecus rebelles» viene trasformato in «guadagno ribelle», e delle espressioni d’uso comune, quali «faire la barbe», «attendre la ventre», «n’entrendre rien», «pâlir sur une affaire», sono tutte tradotte in modo sbagliato. «Des bois de quoi se faire un curedent» non significa «degli alberi da tagliare per fare degli stuzzicadenti», ma «tanto legno da farci uno stuzzicadenti». «Son horloge enfermée dans une grande armoire oblongue» non è «un orologio che egli teneva chiuso in un grande armadio oblungo», ma solo una pendola alta. Un «journal viager» non è «una rendita annua», una «garce» non è una «farsa», e i «dessins des Indies» non sono i «disegni delle Indie». Nel complesso, nulla potrebbe essere peggio di questa traduzione, e se Mr. Routledge vuole che il pubblico legga la sua versione della Comédie Humaine, dovrebbe ingaggiare dei traduttori con qualche piccola nozione di francese.

  César Birotteau è un po’ meglio, sebbene sia tutt’altro che privo di errorri (sic). «Scontare al di sotto del massimo» è una traduzione assurda di «subir le maximum». «Perse» è «cinz», non «cinz persiano». «Rendre le pain bénit» non è «prendere un wafer». «Rivière» non è affatto un «nastro di diamanti». E tradurre «son coeur avait un calus à l’endroit du loyer» con «il suo cuore aveva un callo in direzione dell’affitto» è un insulto nei confronti di due lingue. Nel complesso, la versione migliore è quella della Duchesse de Langeais, sebbene anch’essa lasci molto a desiderare. Una frase quale «imitare il rude logico che marciava in testa ai pirronisti mentre negava il suo stesso movimento» non coglie affatto il senso dell’«imiter le rude logicien qui marchait devant les pyrrhoniens, qui niaient le mouvement» di Balzac.

  Purtroppo ci sembra che l’edizione di Mr. Routledge non vada affatto bene. È ben stampata e graziosamente rilegata, ma i traduttori di Mr. Routledge non capiscono il francese. È un vero peccato, poiché la Comédie Humaine è uno dei capolavori della nostra epoca.

 

 

  Marco Zanelli, Come un romanzo di Balzac, «Arte», Milano, n. 225, 1 gennaio 1992, pp. 82-85; 134.

 

 

  Laura Zoccoli, Il linguaggio metafonologico nell’opera giovanile di Balzac (Annette et le criminel; Wann-Chlore; L’Excommunié; Dom Gigadas). Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1992.

 

 

  Emile Zola, La letteratura e il denaro, in Il romanzo sperimentale. Traduzione di Ida Zaffagnini. Introduzione di Ennio Scolari, Milano, Pratiche Editrice, 1992 («Nuovi Saggi», 79), pp. 173-210.

 

  Il senso del reale, Ibid., pp. 213-219.

 

  La formula critica applicata al romanzo, Ibid., pp. 226-230.

 

  «Les Chroniques parisiennes» di Sainte Beuve, Ibid., pp. 298-304.

 

  Chaudes-Aigues e Balzac, Ibid., pp. 311-319.

 

  Jules Janin e Balzac, Ibid., pp. 320-325.

 

  Cfr. 1980.



[1] Si tratta, senza dubbio, di Laure de Berny. [N. d. C.].



Marco Stupazzoni