domenica 21 giugno 2020



1956

 

 


 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Des Artistes, Città di Castello, G. Paci – Editore – Libraio, 1956, pp. 20.

 

  Da «La Silhouette», 25 février, 11 mars, 22 avril 1830.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet, con introduzione di Gaspare D’Aguanno, Trapani, “La Combattente”, 1956, pp. XVI-131.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Gaspare D’Aguanno, Honoré de Balzac (1799-1850), pp. V-XV; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Bibliographie, p. XVI;

  Eugénie Grandet, pp. 1-130.

 

 

 

Estratti e Riduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Scene della vita privata. All’insegna del gatto che gioca a palla (La Maison du chat qui pelote. Romanzo. 1830). Riduzione di Alfredo Jeri, in AA.VV., Trame d’oro. Enciclopedia di letteratura narrativa. Capolavori di tutti i tempi e di tutti i paesi narrati dai migliori scrittori italiani. Volume terzo con 14 tavole in rotocalco e a colori e 399 illustrazioni nel testo, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1956, pp. 701-705; 2 ill.

 

  Gobseck (Romanzo. 1830). Riduzione di Gustavo Brigante Colonna, Ibid., pp. 705-709, 2 ill.

 

  Il Colonnello Chabert (Le Colonel Chabert. Romanzo. 1832). Riduzione di Croce Zimbone, Ibid., pp. 710-717, 3 ill.

 

  La Donna di trent’anni (La Femme de trente ans. Romanzo. 1842). Riduzione di Croce Zimbone, Ibid., pp. 718-723, 4 ill.

 

  La Falsa amante (La Fausse maîtresse. Romanzo. 1842). Riduzione di Alfredo Jeri, Ibid., pp. 724-728, 3 ill.

 

  Onorina (Honorine. Romanzo. 1843). Riduzione di Alfredo Jeri, Ibid., pp. 729-734, 4 ill.

 

  Modesta Mignon (Modeste Mignon. Romanzo. 1844). Riduzione di Luisa Benedetti Minelli, Ibid., pp. 735-743, 3 ill.

 

  Scene della vita di provincia. Eugenia Grandet (Eugénie Grandet. Romanzo. 1833). Riduzione di Lea Bindi Senesi, Ibid., pp. 744-749, 5 ill.

 

  Il Giglio della (sic) valle (Le Lys dans la Vallée. Romanzo. 1835). Riduzione di Alfredo Jeri, Ibid., pp. 750-754, 3 ill.

 

  Pierrette (Romanzo. 1839). Riduzione di Simonetta Palazzi, Ibid., pp. 754-759, 2 ill.

 

  Orsola Mirouët (Ursule Mirouët. Romanzo. 1841). Riduzione di Adele Albieri, Ibid., pp. 759-767, 4 ill.

 

  Casa di scapolo (Un Ménage de Garçon ou La Rabouilleuse. Romanzo. 1842). Riduzione di Alfredo Jeri, Ibid., pp. 768-774, 5 ill.

 

  Scene della vita parigina. Ferragus (Romanzo. 1833). Riduzione di Alfredo Jeri, Ibid., pp. 775-778, 3 ill.

 

  La Duchessa di Langeais (La Duchesse de Langeais. Romanzo. 1834). Riduzione di Alfredo Jeri, Ibid., pp. 779-783, 4 ill.

 

  Papà Goriot (Le Père Goriot. Romanzo. 1834) (sic). Riduzione di Lea Bindi Sereni, Ibid., pp. 784-791, 5 ill.

 

  Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau (Grandeur et Décadence de César Birotteau. Romanzo. 1837). Riduzione di A. D. Fontanelli, Ibid., pp. 791-800, 6 ill.

 

  La Cugina Betta (La Cousine Bette. Romanzo. 1847). Riduzione di Adelaide Pintòr, Ibid., pp. 801-806, 3 ill.

 

  Il Cugino Pons (Le Cousin Pons. Romanzo. 1847). Riduzione di Adelaide Pintòr, Ibid., pp. 807-814, 5 ill.

 

  Scene della vita militare. Gli Sciuani (Les Chouans. Romanzo. 1829). Riduzione di Alfredo Jeri, Ibid., pp. 814-822, 6 ill.

 

  Scene della vita di campagna. Il Medico di campagna (Le Médecin de Campagne. Romanzo. 1833). Riduzione di Alfredo Jeri, Ibid., pp. 822-828, 5 ill.

 

  Studi filosofici. La Pelle di zigrino (La Peau de Chagrin. Romanzo. 1830). Riduzione di Romano Maurizi, Ibid., pp. 829-834, 4 ill.

 

  Luigi Lambert (Louis Lambert. Romanzo. 1832). Riduzione di Andreina Negretti, Ibid., pp. 835-839, 4 ill.

 

  Il Capolavoro sconosciuto (Le Chef-d’oeuvre inconnu. Racconto. 1832). Riduzione di G. B. Colonna, Ibid., pp. 840-842, 3 ill.

 

  La Ricerca dell’Assoluto (La Recherche de l’Absolu. Romanzo. 1834). Riduzione di Gino Regini, Ibid., pp. 844-850, 4 ill.

 

  Mercadet l’affarista (Mercadet ou Le faiseur. Commedia di 5 atti, in prosa [1840]; ridotta a 3 atti da Philippe Dennery [1851]). Riduzione di Romano Maurizi, Ibid., pp. 851-856, 5 ill.



  La Basilica di San Pietro (da Une lettre a Mme Surville, marzo 1846), in Tito Poggio, Cieli d’Italia. Il nostro Paese nelle impressioni di scrittori stranieri. Illustrazioni di Amedeo Boschetti, Torino, Società Editrice Internazionale, 1956, p. 224.

 

 

  Prima impressione [sul viaggio di Balzac in Sardegna] (da una lettera a Mme Hanska), Ibid., p. 320.

 

 

  Terra forte e selvaggia (da una lettera, aprile 1838), Ibid., p. 322.

 

 

  Honoré de Balzac, Lo scialle di Selim, ovvero l’arte di vendere, «La Domenica del Corriere. Supplemento settimanale illustrato del nuovo “Corriere della Sera”», Milano, Anno 58, N. 34, 19 Agosto 1956, p. 15.

 

  Cfr. 1955.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Onorato di Balzac, Gli Allegri Racconti (“les contes drolatiques”) raccolti nelle abbazie di Turenna e narrati dal signor Onorato di Balzac per l’esclusivo divertimento dei pantagruelisti e non altri. Tradotti da Angelo Maggi [e Fiorella Ricci] per la prima volta pubblicati in Italia con 425 incisioni di Gustavo Doré, Napoli, Istituto Grafico Editoriale, (ottobre) 1956, pp. 751, ill.

 

  Traduzione integrale e moderna (piuttosto libera e non sempre fedele al modello originale) dei Contes drolatiques balzachiani affidata ad Angelo Maggi ed arricchita dalle incisioni di Gustave Doré. Il compilatore, si legge nella Prefazione alla silloge (p. 7), ha «inteso dimostrare che anche il francese rabelaisiano si può rendere nell’italiano di oggi, in una lingua parlata, viva e colorata».

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Margherita Galante Garrone, Torino, Edizioni S.A.I.E., 1956, pp. 295.

 

  Cfr. 1954.

 

 

  Honoré de Balzac, Gli Impiegati di Honoré de Balzac, a cura di Augusto Pancaldi, Milano, Feltrinelli Editore, (maggio) 1956 («Universale Economica. Serie Narrativa», 212-vol. LXXXIV), pp. XIII-257.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Augusto Pancaldi, Prefazione, pp. V-XIII; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Gli Impiegati, pp. 1-255.

 

  La suddivisione del testo in tre parti e in dieci capitoli rimanda al modello delle edizioni pre-originale («La Presse», juillet 1837) e originale del romanzo (Werdet, 1838), mentre la traduzione, nel complesso corretta, si fonda sul testo dell’edizione definitiva Furne del 1844.

 

 

  Honoré de Balzac, La Pelle di zigrino. A cura di Giorgina Vivanti. Terza ristampa della prima edizione, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1956 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni fondata da Arturo Farinelli, diretta da Giovanni Vittorio Amoretti», 47), pp. 324; 1 ritratto.

 

  Cfr. 1934; 1942; 1947.

 

 

  Honoré de Balzac, Piccole miserie della vita coniugale. Traduzione di Felice Filippini, Milano, Rizzoli Editore, 1956 («Biblioteca Universale Rizzoli», 960-962), pp. 233.

 

  Struttura dell’opera:

 

  F.[elice] F.[ilippini], Nota, pp. 5-11; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Piccole miserie della vita coniugale, pp. 13-231.

  Come segnalato nella Nota che precede lo studio analitico balzachiano, la traduzione (nel complesso corretta) è condotta sul modello dell’edizione Chlendowski (1846) che, a sua volta, riprende il testo edito, due anni prima, ne Le Diable à Paris.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 


  Honoré de Balzac, in AA.VV., Trame d’oro … cit., p. 701.

 

  Nato a Tours nel 1799, il Balzac studiò giurisprudenza ed esercitò dapprima la professione di avvocato. (sic). Ma in seguito, attratto dalla letteratura, vi si dedicò completamente. Autore di un gran numero di romanzi, egli sa ritrarre in essi molteplici tipi e situazioni. Dotato di una fantasia calda e inesauribile egli dipinge tutti gli aspetti della vita umana, sa darci un quadro vivo e drammatico del mondo borghese, delle sue convinzioni, delle sue miserie e della sua grandezza. Sa ben equilibrare il verismo con un’esigenza sentimentale romantica che gli fa perseguire intenti morali anche in pagine in cui dipinge situazioni crude e realistiche. Il romanzo che gli diede notorietà fu Les chouans, pubblicato nel 1829, al quale seguirono numerose altre opere: La pelle di Zigrino, Eugenia Grandet, Papà Goriot, Il giglio della valle (sic), La cugina Bette, Pierrette, Il curato di Tours, Una (sic) donna abbandonata, ecc. Più tardi volle ricollegare tali opere in una più vasta dal titolo La comédie humaine. Il Balzac fu anche autore di una brillante commedia dal titolo Mercadet l’affarista.



  Minime della storia, «Illustrato Fiat. Periodico mensile», Torino, Anno IV, n. 2, 29 febbraio 1956, p. 10.

 

  Quando Honoré de Balzac ereditò da uno zio. vecchio e avaro una cospicua sommetta, così scrisse agli amici, partecipando la notizia: «Ieri, alle ore cinque antimeridiane. mio zio ed io siamo passati a miglior vita».

 

 

  Altri libri in vetrina. Papà Goriot va a Mosca, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XII, N. 84, 7-8 aprile 1956, p. 4.

 

  Victor Hugo, Balzac, Maupassant, Stendhal e Verne vengono in testa ai «best sellers» stranieri in U.R.S.S., con una tiratura globale di 35 milioni di esemplari; [...] chissà che ad esempio il balzacchiano «Père Goriot» non si sia trasformato a Mosca in una denuncia sociale della insensibilità dell’aristocrazia che spoglia spietatamente il «proletario» Goriot?

 

 

  G.[iovanni] B.[attista] Angioletti, Balzac al lavoro, «La Nuova Stampa», Torino, Anno XIII, N. 113, 15 Maggio 1956, p. 3.

 

  Tra la potenza e la perfezione, Balzac scelse la potenza; ma sarebbe un errore credere che per questo egli si contentasse di una scrittura trasandata o approssimativa. La maggior parte del suo gigantesco lavoro non era consacrata al fare, bensì al rifare. Nella sua casa di rue Basse (ora rue Raynouard), in quel vivo e allora gentile sobborgo di Passy diventato poi un grosso quartiere parigino, il grande «visionario» passava ogni giorno da quattordici a diciotto ore allo scrittoio: una macchina, un motore alimentato da un numero inverosimile di tazze di caffè. Non c’è forse nella letteratura di tutti i tempi un esempio di applicazione così tenace, di un accanimento così inflessibile verso se stesso («Per un mese intero — scriveva a un amico — non potrò lasciare la mia tavola, dove getterò la mia vita come un alchimista getta l’oro nel crogiuolo»). Sono cose abbastanza note; ma non tutti sanno o riconoscono che oltre a ciò Balzac era di uno scrupolo formalistico quasi frenetico: superato soltanto dal suo contemporaneo Flaubert. La prima stesura dei suoi romanzi era tutta di getto, è vero, e le cartelle appena asciugate venivano mandate in tipografia; ma all’arrivo delle bozze cominciava la tortura per lui, e assai più per gli infelici correttori. Cancellava, aggiungeva, buttava via intere pagine, incollava strisce sui margini, ed erano tante le varianti che aveva dovuto inventare nuovi segni di richiamo oltre ai convenzionali. Rispediva al tipografo quella devastazione paurosa. Ma non era finita: le seconde, bozze subivano non minori sevizie, le terze un po’ meno, rimanendo tuttavia quasi indecifrabili; e le quarte, le quinte, qualche volta le seste e le settime, si schiarivano a poco a poco come per un ostinato lavaggio; fin che sui fogli già stampati le ultime correzioni assumevano finalmente l’aspetto della normalità. Il risultato era che l’editore, fuori di sé per l’esasperazione; faceva pagare all’autore il costo di tutti quei rifacimenti; e i creditori, per tacitare i quali Balzac si era sottoposto a così inumana fatica, presto tornavano a nuovi e più furenti assalti.

  Questa sua casa, diventata ora un museo, ci sembra troppo piccola, troppo fragile per una simile tempra. Bassa, lunga e stretta, si affaccia da un’altura sulla Senna, in mezzo a un giardinetto dove troneggiano cinque o sei alti ippocastani in fiore. Una casa per giovani sposi, o per vecchi pensionati ai quali anche una sola ora di lavoro appare ormai come una disillusione di più da sopportare: non per quello scapolo che vi venne ad abitare quarantenne, nel colmo delle proprie forze, violento, impetuoso, incapace di fermarsi, di riposare, avido di piaceri, sensuale, protervo e bonario di volta in volta, sempre sferzato dalla fantasia come da un vento di tempesta, orgoglioso, verboso, pronto alle risate esplosive come alle più folli prodigalità; di Balzac, insomma, che tutti i suoi biografi ci hanno presentato, tanto da suggerirci l’immagine un po’ irriverente di un mangiatore di fuoco, o di uno di quei maturi sollevatori di pesi che sbalordiscono la gentarella nelle piazze suburbane; e il collo taurino, il torace potente, il volto dove ogni tratto sembra trasmodare nella genialità, nello stupore infantile e nella sprezzatura popolaresca, sembrano fatti apposta per avvalorare la nostra impressione. Ma una visita a questa casa suscita ben diverso giudizio.

  Balzac, per quanto certa critica tendenziosa si sforzi di negarlo, era un letterato nel senso più completo della parola, oltre a un uomo d’ordine e perfino, nel significato migliore, un benpensante. Avere una casa dove rifugiarsi era sempre stato il suo ideale; e dopo tanti vagabondagli, si era fissato a Passy come in un piccolo monastero tutto per sé, dove nulla lo deliziava quanto i semplici strumenti del suo lavoro: le penne (le preferiva nere, di corvo), le bottiglie d’inchiostro, le risme di carta bianca e resistente, un po’ sonora al tatto. A parte il caffè, non gli occorreva altro: lavorava da mezzanotte alle otto della mattina, consumava una frugalissima colazione, riprendeva a scrivere fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio, dopo qualche breve sosta e una passeggiata in città, tornava allo scrittoio e vi rimaneva fin quando, verso le otto di sera, andavi a letto. A disturbarlo non veniva mai nessuno, salvo i fattorini delle tipografie e, purtroppo, quegli indomabili creditori. E là i suoi fantasmi prendevano nomi concreti, preparandosi ad entrare come persone vere nel mondo dei vivi: Lambert, Rastignac, Bette, Pons, mille altri. In ognuno, come ben mostra Gaétan Picon nel suo esemplare Balzac par lui-même, uscito ora nelle «Editions du Seuil», metteva qualcosa di se stesso, ognuno arricchiva della propria memoria, specie quella dell’infanzia («Il ricordo — scriveva alla contessa Maffei — è uno dei modi che possono aiutarci a rendere l’aria pura e a far brillare il sole nella nostra anima»). Ma, come si diceva, il maggior lavoro era quello delle bozze, quando il narratore usciva dal limbo nebuloso delle prime impressioni per addentrarsi nel labirinto incantato delle parole giuste e delle frasi attentamente misurate. Allora la sua fatica diventava disperante ed entusiasmante a un tempo. Gli mancava, è vero, il senso della musica, del ritmo, della sintassi breve e perentoria; ma non commise mai l’errore, indegno di ogni vero artista, di considerare lo stile, la forma, come oziose superfluità. Anzi, se un terrore lo invadeva, era proprio questo, che non gli dessero il tempo di correggere, di limare, di perfezionare. Era nato con un dono stupefacente di forza, di fiato; ma come i grandi tenori sanno che la voce potente non basta per giungere alle vette del «bel canto», così egli sapeva che l’intuizione, la visione, la psicologia non bastano per giungere alla grande e durevole arte letteraria. Certe sue pagine sembrano perfino troppo dense, troppo romanticamente indugianti e compiaciute nelle descrizioni, addirittura troppo evocative: ma erano quelle che lo rendevano felice, dandogli la misura di una raggiunta dignità di scrittore. D'altra parte, per lui il problema della vita non era la durata, «ma la qualità, la varietà, il numero delle sensazioni». Crediamo che quando il metodo di lavoro di Balzac sarà più conosciuto, e quando nella sua vita privata avranno il posto che meritano queste lunghe soste domestiche, allora si vedrà quanto il «lottatore» della «Commedia umana» dovesse alla quiete di dimore come questa di Passy; e allora tutto il sovrabbondante, il reiterato che nella sua opera oggi ci disturba, verrà dimenticato. Il Balzac che ha scritto: «La vita del poeta è un così continuo sacrificio che gli occorre un’organizzazione gigantesca per potersi abbandonare ai piaceri di una vita comune», è il vero Balzac. Egli non smentisce la legge universale della fantasia creatrice, quella che impone proprio quel sacrificio costante, impone il lavoro, l’incontentabilità, la dedizione. Nella sua casa di rue Basse, lontano dal chiacchiericcio dei piccoli letterati perdigiorno, Balzac potè in piena coscienza coronare se stesso poeta.

  E oggi ci sembra quasi commovente che sotto la casa dove egli visse per tanti anni si sia aperta una «avenue Marcel Proust»: in onore di un altro scrittore che tra le quattro pareti di una stanza trovò quella calma, quel silenzio nei quali il suo glorioso predecessore scoprì «un non so che di dolce e di inebriante come l’amore».



  Yvan Audouard, Attenti all’insonnia, «Stampa Sera», Torino, Anno X, N. 213, 12-13 Settembre 1956, p. 3.

 

  Balzac, la cui fantasia creativa era costantemente in moto, non risparmiava al sonno i suoi strali. «Dormire? – usava egli esclamare – sempre dormire! Perché dormire? Per gli uomini come me la scienza dovrebbe trovare il mezzo per riposare soltanto un quarto d’ora!».

  Ma in questo campo Balzac non fu buon profeta e vide più chiaro la scienza medioevale che era riuscita a dimostrare come un cane potesse sopravvivere a venti giorni di digiuno ma non a cinque di insonnia.

 

 

  Erich Auerbach, All’hôtel de La Mole, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. Traduzione di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhäuser. Introduzione di Aurelio Roncaglia, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1956 («Saggi»).


  pp. 238-255 [edizione del 1964]. Un altro scrittore della generazione romantica, Balzac, il quale possedeva altrettanta forza creativa e un’aderenza alla realtà di gran lunga maggiore, si è assunto come suo compito particolarissimo la rappresentazione della vita contemporanea, e può esser considerato, accanto a Stendhal, il creatore del moderno realismo. Egli è di sedici anni più giovane, ma i suoi primi romanzi caratteristici appaiono press’a poco contemporaneamente a quelli di Stendhal, vale a dire verso il 1830. Quale esempio del suo modo di rappresentazione riportiamo dapprima il ritratto della signora Vauquer, proprietaria di una pensione, nel romanzo Le père Goriot nato al principio del 1834. Precede un’esattissima descrizione del quartiere in cui trovasi la pensione, della casa, delle due stanze a pianterreno; da tutto l’insieme nasce l’impressione profonda d’una povertà, d’un vecchiume e d’un abbandono disperati, e veramente con la descrizione materiale viene insieme suggerita l’atmosfera morale. Dopo la descrizione della sala da pranzo compare finalmente la padrona di casa [...].

  Il ritratto della padrona è legato alla sua apparizione mattutina nella sala da pranzo; ella compare in questo centro della sua attività, introdotta quasi, al modo delle streghe, dal gatto che salta sulla credenza; e poi s’inizia una minuta descrizione della sua persona. La descrizione si muove lungo un motivo principale che viene ripetuto più volte: il motivo della consonanza della sua persona e del luogo, la pensione, da un lato, e la vita che lei conduce dall’altro; in breve, l’armonia fra la persona e quello che noi — e talvolta già lo stesso Balzac – chiamiamo il suo milieu. Questa consonanza viene suggerita in modo efficacissimo: dapprima per mezzo del suo corpo avvizzito, grasso, sudicio e repellente e dei suoi abiti, tutte cose che s’accordano con l’aria della stanza; poco dopo, in relazione col viso e col giuoco della fisonomia, il motivo viene ripreso con tono più moralistico, e cioè con più energica accentuazione dei rapporti scambievoli fra la persona e il milieu: «sa personne explique la pension, comme la pension implique sa personne»: qui si conviene il raffronto con la galera. Indi segue l’impiego di termini medici; questo «embonpoint blafard» della signora Vauquer, quale prodotto della sua vita, viene comparato al tifo, conseguenza delle esalazioni d’un ospedale. Infine la sua sottoveste assume il valore di una specie di sintesi dei diversi locali della pensione, come assaggio della cucina e anticipata presentazione degli ospiti; questa sottoveste diventa per un istante il simbolo del milieu, e poi il tutto viene riassunto nella frase: «quand elle est là, ce spectacle est complet»: non occorre dunque più aspettare la colazione e gli ospiti, tutto è già incluso nella persona di lei. Non pare dunque sussistere un premeditato ordinamento delle diverse riprese di questo motivo dell’armonia e della consonanza; e nemmeno si può dire che Balzac abbia seguito un piano sistematico nella descrizione della comparsa della signora Vauquer; la serie delle cose nominate – il berretto, la pettinatura, le pantofole, il viso, le mani, il corpo, e ancora una volta il viso, gli occhi, la pinguedine, la sottoveste – non lascia intravvedere traccia alcuna di composizione; e nemmeno vi è accennata una separazione fra il vestiario e il corpo, e non sono posti confini fra la nota fisica e il significato morale. Tutta la descrizione, per quella parte che finora abbiamo esaminato, si rivolge alla fantasia imitatrice del lettore, al ricordo di persone e d’ambienti simili; la tesi dell’unità di stile «del luogo», in cui sono inclusi anche gli uomini, non si fonda su dati di ragione, ma è invece presentata come un dato di fatto immediato, sensibile e penetrante, puramente suggestivo, senza dimostrazione. In una frase come questa: «ses petites mains potelées, sa personne dodue comme un rat d’église ... sont en harmonie avec cette salle où suinte le malheur ... et dont Mme Vauquer respire l’air chaudement fétide ...» si ritrova già premessa la tesi dell’armonia con tutto quanto questa racchiude (significato sociologico-morale di mobili e capi di vestiario, determinabilità degli elementi non ancor visibili del milieu mediante quelli già dati ecc.). Anche l’accenno alla galera e al tifo sono soltanto similitudini suggestive, non anche dimostrazioni o un primo principio di queste. La mancanza d’ordine e l’irrazionalità sono conseguenze della furia con cui Balzac lavorava; ma non provengono tuttavia dal caso, poiché la furia stessa è in buona parte conseguenza della sua traboccante pienezza d’immagini suggestive. Il motivo dell’unità di luogo ha afferrato lui stesso con tale forza che gli oggetti e le persone che formano un ambiente acquistano per lui una specie di secondo significato, diverso da quello afferrabile razionalmente, ma di gran lunga più essenziale: un significato che non si può designar meglio che con la parola «demoniaco». In quella sala da pranzo coi suoi mobili e arredi vecchi e consunti, ma in fondo in-nocenti per un cervello tranquillo, non eccitato dalla fantasia, «trasuda la disgrazia e si è rannicchiata la speculazione»; in mezzo a queste triviali cose quotidiane si celano streghe, e in luogo della vedova grassoccia e disordinata, si vede guizzar fuori un topo. Si tratta dunque dell’unità d’un determinato ambiente riprodotta completamente con mezzi suggestivi e sensoriali, sentita come rappresentazione complessiva organico-demoniaca.

  La parte che segue della nostra citazione, in cui il motivo dell’armonia non è più accennato, esamina il carattere e il passato della signora Vauquer. Ma sarebbe errato voler vedere in questo distacco fra la sua apparizione da un lato e il suo carattere e la sua storia dall’altro, un intenzionale metodo compositivo. Ancora una volta affiorano in questa seconda parte tratti fisici («l’oeil vitreux»), e spessissimo Balzac muta anche l’ordine o mischia gli elementi somatici, morali e storici d’un ritratto. L’esame del carattere e del passato in questo nostro caso non serve a chiarire un qualche cosa, bensì «a porre in giusta luce» l’oscurità di madame Vauquer, vale a dire a mettere in penombra il demoniaco subalterno e triviale. Quanto alla storia della sua vita, la padrona della pensione appartiene alla categoria delle cinquantenni «qui ont eu des malheurs» (plurale!) Balzac non fornisce alcuna spiegazione sul passato di lei, bensì riproduce, in parte in discorso indiretto, le chiacchiere informi, lamentose, involute e bugiarde che lei stessa è solita tenere con coloro che le rivolgono premurose domande. Anche qui egli ci dà nuovamente quel plurale ambiguo che si sottrae a una franca spiegazione: il suo defunto marito ha perduto il suo patrimonio «dans les malheurs», precisamente come alcune pagine dopo un’altra vedova ambigua dice di suo marito, che sarebbe stato conte e generale, che era caduto «sur les champs de bataille». A ciò corrisponde il demoniaco volgare del carattere di madame Vauquer; essa appare «bonne femme au fond», sembra povera, e invece possiede, come è detto più oltre, un discreto patrimonietto, ed è capace d’ogni abiezione per migliorare solo di poco la propria sorte – l’abietta e volgare grettezza dei fini di questo egoismo, la mescolanza di stupidaggine, di furberia e di celata energia vitale produce ancora una volta l’impressione di repellente fantasma; di nuovo s’affaccia il paragone con un topo o con qualche altro animale a cui la fantasia degli uomini attribuisce con ribrezzo un potere demoniaco. La seconda parte della descrizione è dunque un completamento della prima: dopo che nella prima madame Vauquer è stata presentata come sintesi dell’unità dello spazio da lei dominato, nella seconda viene scavato il suo essere impenetrabile e abietto che in quello spazio deve poi operare.

  In tutta la sua opera, e così in questo testo, Balzac ha sentito i luoghi, e in verità i più diversi, come un’unità organica, anzi demoniaca, e ha cercato di trasmettere questa sensazione al lettore. Non soltanto, come Stendhal, egli ha collocato gli uomini, di cui con serietà narra la sorte, nella loro cornice storica e sociale esattamente circoscritta, ma ha inoltre inteso questo legame come necessità; ogni spazio si tramuta per lui in un’atmosfera morale e sensibile di cui s’imbevono il paesaggio, la casa, i mobili, le suppellettili, gli abiti, i corpi, il carattere, il comportamento, il sentire, l’agire e la sorte degli uomini, e in cui poi la situazione storica generale a sua volta appare come un’atmosfera totale abbracciarne tutti i singoli spazi di vita. È degno di nota il fatto che tutto questo gli è riuscito ottimamente e nella maniera più legittima per la media e piccola borghesia di Parigi e per la provincia, e che invece spessissimo la sua rappresentazione della classe elevata gli riesce melodrammatica, falsa e, contro le sue intenzioni, perfino comica. E nemmeno in altre occasioni è libero dall’iperbole melodrammatica; ma, mentre questa solo assai di rado e a proposito degli strati infimi e medi arriva a toglier verità all’insieme, invece, a proposito dell’alta società, anche intellettuale, non giunge a creare l’atmosfera genuina.

  Tale realismo atmosferico di Balzac è un prodotto della sua epoca; è esso stesso parte e prodotto d’un’atmosfera. Quella stessa forma dello spirito – la forma romantica – che per prima ebbe così acuto il senso dell’atmosfera e dello stile delle epoche passate, del Medioevo e del Rinascimento, e scopri inoltre il carattere singolare di civiltà esotiche (Spagna, Oriente), produsse anche la comprensione organica per la caratteristica atmosferica dell’epoca propria in tutte le sue molteplici forme. Storicismo atmosferico e realismo atmosferico sono strettamente legati; Michelet e Balzac vengono portati da uguali correnti. Gli avvenimenti che si svolgono in Francia appunto fra il 1789 e il 1815, e le loro ripercussioni nei decenni seguenti, portarono come conseguenza che fosse proprio la Francia a dar vita, per prima e con più forza, al moderno realismo contemporaneo, e l’unità politica e culturale del paese le dette a questo riguardo un grande vantaggio sulla Germania; la realtà francese, con tutta la sua varietà, si lascia abbracciare come un sol tutto. Non meno di questo romantico immedesimarsi nell’atmosfera dei diversi ambienti ha contribuito allo svilupparsi del realismo moderno anche un’altra corrente romantica, quella mescolanza di stili, a cui già spesso si è accennato, la quale ha consentito che divenisse oggetto di rappresentazione letteraria ogni e qualsiasi persona con tutta la sua complessa vita giornaliera, Julien Sorel come il vecchio Goriot o madame Vauquer.

  Queste considerazioni generali mi sembrano chiare; molto più difficile è descrivere con una certa esattezza il sentimento da cui è dominato il particolare modo di rappresentazione di Balzac. Le notizie da lui stesso fornite al riguardo sono numerose e offrono anche numerosi punti d’appoggio, ma sono confuse e contraddittorie; quanto egli è ricco di pensieri e di trovate, altrettanto è sfornito della capacità di separare i diversi elementi del suo sentire, d’incanalare l’irrompere d’immagini e di paragoni suggestivi ma oscuri, e, in genere, d’esercitare la critica contro il fiume della propria ispirazione. L’insieme delle sue riflessioni filosofiche, per quanto piene di acute e originali osservazioni particolari, sbocca in una macroscopia fantasiosa, che ricorda il suo contemporaneo Hugo; e invece per una spiegazione della sua arte realistica occorre una diligente separazione delle correnti che in essa confluiscono.

  Nell’avant-propos alla Comédie humaine (apparso nel 1842), Balzac inizia la spiegazione della sua opera con una similitudine fra il regno animale e la società umana, ispirandosi alle teorie di Geoffroy Saint-Hilaire. Questo biologo, sotto l’influsso della contemporanea filosofia tedesca della natura, aveva sostenuto il principio dell’unità tipica dell’organizzazione, vale a dire il concetto che nell’organizzazione delle piante (e degli animali) esista un piano generale. A tal proposito, Balzac si richiama ai sistemi di altri mistici, filosofi e biologi (Swedenborg, Saint-Martin, Leibniz, Buffon, Bonnet, Needham), per arrivare infine a questa formulazione:

  Le créateur ne s’est servi que d’un seul et mème patron pour tous les êtres organisés. L’animal est un principe qui prend sa forme extérieure, ou, pour parler plus exactement, les différences de sa forme, dans les milieux où il est appelé à se développer ...

  Tale principio viene immediatamente trasferito alla società umana:

  La Société [con l’iniziale maiuscola, come poco innanzi Natura] ne fait-elle pas de l’homme, suivant les milieux où son action se déploie, autant d’hommes différents qu’il y a de variétés en zoologie?

  E quindi Balzac raffronta le distinzioni fra un soldato, un operaio, un impiegato, un avvocato, un fannullone, un dotto, un uomo di Stato, un mercante, un marinaio, un poeta, un mendicante, un prete con quella fra il lupo, il leone, l’asino, il corvo, il pescecane e così via ...

  Da ciò appare innanzi tutto che egli cerca di fondare le sue idee sulla società umana (tipo «uomo» differenziato dagli ambienti) mediante analogie biologiche; il termine milieu, che qui per la prima volta compare in senso sociologico e a cui era destinata una così grande fortuna, l’ha imparato da Geoffroy Saint-Hilaire, che a sua volta l’aveva trasportato dalla fisica alla biologia; ora esso vien trasferito dalla biologia alla sociologia [...]. Il biologismo che sta davanti alla mente di Balzac, come si può dedurre dai nomi da lui citati, è mistico, speculativo e vitalistico; ma con ciò il modello, il concetto «animale» o il concetto «uomo», non è affatto pensato come immanente, bensì quasi come un’idea platonica reale; i diversi generi e specie sono soltanto «formes extérieures»; e inoltre queste non sono date come mutevoli secondo un’intima legge storica, ma come stabili (un soldato, un operaio ecc., come un leone, un asino). Sembra che qui Balzac non abbia completamente compreso il concetto di milieu, quale l’ha praticamente usato nei suoi romanzi. Non la parola, ma la cosa – milieu nel senso sociale – esisteva già molto prima di lui; indiscutibilmente Montesquieu possiede questo concetto; ma mentre Montesquieu presta assai maggiore attenzione alle condizioni naturali (clima, terreno) che a quelle prodotte dalla storia umana, e si sforza di costruire i diversi ambienti come forme tipiche stabili alle quali di volta in volta applica il modello di costituzione e di legislazione che loro si confà, Balzac è invece praticamente del tutto in balia degli elementi strutturali del suo ambiente storicamente e perennemente mutevoli; e nessun lettore arriva da solo al pensiero, che egli sembra sostenere nell’avant-propos, che a lui stia a cuore il tipo «uomo» o anche soltanto il tipo specifico («soldato», «mercante»): quello che si vede è il personaggio singolo, concreto, intimo, corporeo e storico, nato dall’immanenza della condizione storica, sociale, corporea ecc.; non il «soldato», bensì, ad esempio, il colonnello Brideau, congedato dopo il crollo di Napoleone, decaduto e avventuriero in Issoudun (La Rabouilleuse).

  Dopo l’ardito raffronto fra la differenziazione zoologica e sociologica, Balzac si sforza di dimostrare le particolarità della Società di fronte a quelle della Natura; e le trova innanzi tutto nella molto maggior varietà della vita e dei costumi umani, come pure nell’impossibilità nel regno animale del tramutamento d’una specie in un’altra («l’épicier ... devient pair de France, et le noble descend parfois au dernier rang social»); inoltre specie diverse si parificano («la femme d’un marchand est quelquefois digne d’être celle d’un prince ...; dans la Société la femme ne se trouve pas toujours être la femelle d’un male»); e vengono menzionati anche i rari drammi amorosi fra gli animali e la diversità d’intelligenza negli uomini. La frase riassuntiva suona così: «L’État social a des hasards que ne se permet pas la Nature, car il est la Nature plus la Société». Per quanto questa frase sia inesatta e macroscopica, per quanto patisca sotto il peso del proton pseudos del paragone che ne è alla base, tuttavia contiene un giudizio storico istintivo («les habitudes, les vêtements, les paroles, les demeures ... changent au gré des civilisations»), e vi si trovano anche concetti dinamico-vitalistici («si quelques savants n’admettent pas encore que l’Animalité se transborde dans l’Humanité par un immense courante de vie ... »). Delle speciali possibilità di comprensione che ha l’uomo nei riguardi dell’uomo non si fa parola, nemmeno in una formulazione negativa, e cioè che esse gli mancano nei riguardi degli animali; al contrario, la relativa semplicità della vita sociale e psichica degli animali viene accettata come un dato di fatto obiettivo, e solo proprio alla fine si trova un accenno al carattere soggettivo di tali nozioni: «... les habitudes de chaque animal sont, à nos yeux du moins, constamment semblables en tout temps ...».

  Dopo questo trapasso dalla biologia alla storia dell’uomo, Balzac continua con una polemica contro la storiografia consueta, a cui rimprovera d’aver fino ad allora dimenticato di scrivere la storia del costume; ed è questo il compito che lui si è assegnato. Ma non fa parola dei tentativi di storia dei costumi che sono stati fatti fin dal secolo XVIII (Voltaire), non giungendo così a un’analisi che spieghi la differenza della sua rappresentazione dei costumi da quella dei suoi eventuali predecessori; non nomina nessun altro che Petronio. Considerando le difficoltà del suo compito (un dramma con tre o quattromila personaggi), si sente incoraggiato dall’esempio dei romanzi di Walter Scott; qui ci muoviamo completamente dunque nel mondo dello storicismo romantico. Spesso anche qui la chiarezza del pensiero viene pregiudicata da formule d’effetto e di fantasia: ad esempio, la formula «faire concurrence à l’État-Civil» si presta a malintesi, e la frase «le hasard est le plus grand romancier du monde», ficcata nel mezzo d’un concetto storicistico, abbisogna per lo meno d’un commento. Spuntano però alcuni motivi caratteristici e importanti: innanzi tutto l’idea del romanzo di costumi come storia filosofica, e soprattutto l’idea, da lui anche altrove energicamente affermata, che la sua attività sia attività storiografica, idea su cui torneremo, e inoltre la giustificazione, in questo genere di opere, di tutti gli stili d’ogni statura, volgare e sublime; da ultimo la sua intenzione di superare Walter Scott, in quanto egli colloca tutti i suoi romanzi in un unico quadro, la società francese del secolo XIX, cosa anche questa che definisce come opera di storia.

  Ma con ciò il suo disegno non è esaurito; egli vuole ancora render conto separato «des raisons ou de la raison de ces effets sociaux» dopo che gli sia riuscito di ricercare questo «moteur social», vuole infine anche «méditer sur les principes naturels et voir en quoi les Sociétés s’écartent ou se rapprochent de la règle éternelle du vrai, du beau». Qui non ci deve interessare che a lui non sia dato d’attuare dimostrazioni teoretiche al di fuori della cornice d’un racconto, e che perciò egli possa tentare di portare a compimento i suoi disegni esclusivamente nella forma di romanzi; qui c’interessa soltanto di stabilire che a lui non bastava la filosofia «immanente» dei suoi romanzi, e che questa insufficienza lo induce dopo tante spiegazioni biologiche e storiche, a servirsi di modelli classici: «la règie éternelle du vrai, du beau»; categorie che praticamente nei suoi romanzi non può più mettere a profitto.

  Tutti questi motivi, biologici, storici, classico-moralistici, si trovano effettivamente sparpagliati nella sua opera. Balzac ama moltissimo le similitudini biologiche; parla di fisiologia o di zoologia a proposito di fenomeni sociali, parla di «anatomia del cuore umano»; nel testo qui sopra citato paragona l’influsso d’un ambiente sociale alle esalazioni che produce il tifo, e in un altro passo del Père Goriot afferma di Rastignac che si è dato alle teorie e alle seduzioni del lusso «avec l’ardeur dont est saisi l’impatient calice d’un dattier femelle pour les fécondantes poussières de son hyménée». Non occorre citare qui motivi storicistici, poiché lo spirito individualizzante e atmosferico dello storicismo costituisce lo spirito di tutta l’opera sua, ma voglio citare almeno uno fra i molti passi, per mostrare come di rappresentare storicisticamente di continuo egli fosse consapevole. Il brano è tratto dal romanzo provinciale La vieille Fille; si tratta di due signori anziani, abitanti ad Alençon, l’uno tipico ci-devant, l’altro uno speculatore dei tempi della rivoluzione e fallito:

  Les époques déteignent sur les hommes qui les traversent. Ces deux personnages prouvaient la vérité de cet axiome par l’opposition des teintes historiques empreintes dans leurs physionomies, dans leurs discours, dans leurs idées et leurs costumes».

  In altro luogo dello stesso romanzo, a proposito d’una casa d’Alençon, parla dell’archetipo da essa rappresentato; qui non si tratta dell’archetipo d’un’astrazione senza storia, bensì di quello delle case borghesi d’una gran parte della Francia; la casa, di cui ha prima descritto il caratteristico odore locale, merita tanto più il suo posto in quest’opera, in quanto essa «explique des moeurs et représente des idées». Nonostante molte oscurità ed esagerazioni, elementi biologici e storici si fondono ottimamente dentro l’opera di Balzac, poiché s’addicono al carattere dinamico-romantico di essa, che talvolta si trasforma anche in magico-romantico e demoniaco. In ambedue i casi si sente l’influsso di «forze» irrazionali. Invece l’elemento classico-moralistico fa molto spesso l’effetto d’un corpo estraneo.

  Esso si manifesta in modo speciale nella tendenza di Balzac a formulare sentenze generali moraleggianti. Talvolta, come osservazioni particolari, sono acute, ma per lo più sono generalizzate oltre misura; talvolta poi non sono neanche acute, e se, come spesso avviene, sono tirate per le lunghe, arrivano a essere vere e proprie scempiaggini. [...].

  Balzac ha l’ambizione d’essere un moralista classico; talvolta si trovano in lui addirittura reminiscenze di La Bruyère (ad esempio, in un passo del Père Goriot, dove vengono descritte le conseguenze fisiche e spirituali del possesso del denaro, a proposito dell’invio di denaro a Rastignac da parte della famiglia). Ma è cosa che non si adatta al suo stile né al suo temperamento. Le migliori sentenze morali si trovano nel contesto del racconto, là dove non pensa affatto a fare il moralista, come quando in La vieille Fille dice con tempestiva spontaneità di mademoiselle Cormon: «Honteuse elle-même, elle ne devinait pas la honte d’autrui».

  Interessanti notizie sul piano generale che si andava nella sua mente a poco a poco formando, ce le dà egli stesso, specialmente al tempo in cui lo formulò definitivamente, e cioè nelle lettere scritte intorno al 1834. In queste interpretazioni di se stesso si debbono specialmente rilevare tre motivi, che troviamo tutti l’uno accanto all’altro in una lettera alla von Hanska dove è detto (p. 205):

  Les Études de Moeurs représenteront tous les effets sociaux sans que ni une situation de la vie, ni une physionomie, ni un caractère d’homme ou de femme, ni une manière de vivre, ni une profession, ni une zone sociale, ni un pays français, ni quoi que ce soit de l’enfance, de la vieillesse, de l’âge mûr, de la politique, de la justice, de la guerre ait été oublié.

  Cela pose, l’histoire de coeur humain tracée fil à fil, l’histoire sociale faite dans toutes ses parties, voilà la base. Ce ne seront pas des faits imaginaires; ce sera ce qui se passe partout». […].

  Che Balzac chiami storia i suoi (sic) Études des Moeurs au dix-neuvième siècle – così come Stendhal già aveva dato al suo romanzo Le Rouge et le Noir il sottotitolo: Chronique du dix-neuvième siècle – significa in primo luogo che egli intende la sua attività inventiva e artistica come un’interpretazione della storia, anzi addirittura una filosofia della storia, come poteva inferirsi dall’avant-propos; in secondo luogo, che concepisce il presente come storia, il presente che è il risultato della storia. Ed effettivamente i suoi personaggi e le sue atmosfere, per quanto attuali siano, sono sempre presentati come fenomeni scaturiti da avvenimenti e da forze storiche. Per rendersene conto, basta leggere la descrizione della nascita del patrimonio di Grandet (Eugénie Grandet) o la carriera di Du Bousquier (La vieille Fille) o quella del vecchio Goriot; prima di Stendhal o di Balzac non si trova nulla di così consapevole ed esatto, e l’ultimo supera di gran lunga il primo nel collegamento organico fra l’uomo e la storia. Tale concezione e tale prassi sono del tutto storicistiche. [...].

 

 

  A.[nna] B.[anti], Appunti. Picon: Balzac, «Paragone», Firenze, Anno VII, n. 84, dicembre 1956, pp. 91-93.

 

  Non c’è critico, io credo, che non si sia augurato più volte, affrontando i problemi suscitati da uno scrittore preponderante, di scoprire fra le sue carte qualche pagina confessionale sul senso che egli intese dare al proprio lavoro: una scoperta che risparmierebbe a molti fatica ed errori. Purtroppo così espliciti documenti di autocritica sono più unici che rari, sicché al monografo ed esegeta non resta che la speranza di ravvisarne qualche segno involontario nel folto della creazione diretta. Tale compito di indagine e di raccolta in cui i fatti, per così dire, parlano, si è proposta la Collana francese ‘Écrivains de toujours’ delle Editions du Seuil, in volumetti che si presentano come un commentato schedario di passi eloquenti, pagine rivelatrici, frasi tolte a scambi epistolari: col risultato di raggiungere per vie traverse quelle dichiarazioni di autocritica (l’autore ‘par lui-même’) così difficilmente rintracciabili nel corso di una vita d’artista. La Collana conta ormai più di 36 numeri e alcune felici ricostruzioni. Fra queste ultime ci sembra che vada particolarmente segnalato il ‘Balzac par lui-même’ dovuto alle cure di Gaétan Picon.

  Morto il 18 agosto 1850, appena cinquantunenne, non c’è dubbio che Honoré de Balzac, questo scrittore di vastissima portata e ancor fondamentale per la narrativa europea, seguita a tutt’oggi a destare presso il pubblico colto una disattenta e distaccata considerazione: quasi la sua opera, non più assimilabile e vitale, fosse ormai di quelle che, legate al colore di un’epoca, si dice che ‘datano’. A riprova, non ci sembra di rammentare che sei anni fa, il centenario della sua morte sia stato celebrato (a prescindere da certe laboriose speculazioni di carattere ideologico) con l’abbondanza e la qualità dei consensi che, per una volta, l’occasione favoriva. Tanto più meritevole, dunque, l’acuta indagine con cui il Picon si è studiato di ripristinare e mettere a fuoco, su pagine-documento, un’opera invasa dal luogo comune più che consacrata sul piano dei classici; e neppur frequentata da quelle appassionate parzialità che circondano, per esempio, il nome di Stendhal. Né c’è da meravigliarsene, se un simile atteggiamento del nostro tempo verso ‘La Comédie Humaine’ era già implicito nel giudizio di Albert Thibaudet che la riconosceva prodigiosamente anticipatrice, ma sino al 1914: e definiva ‘romanzo storico’.

  Il fatto è che il nostro individualismo, esasperato da parecchi decenni di esperienze capillari, può accomodarsi al ritorno di un Melville, di un Conrad, di un James, ma non ospitare il fenomeno balzachiano, dove l’individuo costantemente si ritrova e si perde, unico e multiforme, atomo e atmosfera: un mondo dove l’autore intreccia e moltiplica e proprie assenze e presenze. Ne è indice, infatti, l’interrogativo stupito con cui il Picon inizia il suo primo capitolo: ‘Une création sans créateur?’ ‘Nulle oeuvre’ egli scrive ‘ne domine à ce point son créateur, jusqu’à nous suggérer qu’elle l’engendre’; soggiungendo più sotto: ‘il semble ... qu’il ait été non le potier modelant le vase d’argile, mais l’espace nul qui ne prend forme qu’entre ses parois’.

  La meraviglia, in effetti, nasce dalla stessa antinomia Honoré de Balzac-Balzac. Massiccio e sanguigno provinciale il primo, ingenuamente ambizioso, ingenuamente avido delle cose appetibili di questa terra: le belle frutta, l’amore, la ricchezza, il lusso, gli onori; passato, a misura che la vita lo trasporta velocemente, attraverso esperienze che hanno tutte lo stesso colore fallimentare e che tuttavia non scoraggiano il suo ostinato ottimismo. Personaggio enigmatico il secondo, plurivalente e contraddittorio in tutto fuorché nella costruzione di un intero mondo che farà alla fine, come fu detto, concorrenza allo stato civile. Le esperienze su cui si basa una simile creazione appaiono così varie, così specifiche ed estese da eccedere i limiti di un’unica personalità, e persino di un solo sesso, di una sola classe. Oggi, una storia che ha già della leggenda ci assicura che esse scaturirono dalla volontà e dalla facoltà d’invenzione del Balzac notturno, questo fantasma dalla zimarra bianca e dalla caffettiera di porcellana sempre pronta, concesso al colore dell’età romantica. Domani, cancellata per caso la cronaca che ne fa fede, potranno, osserva il Picon, attribuirsi a una serie di narratori, legati in armonica catena ad arricchire un’anonima epopea.

  Questa l’impostazione, fin dalle prime pagine, del volumetto che, quasi autobiografia post litteram, ha per trama una rete di confidenze epistolari e di quelle confessioni indirette dove l’uomo Honoré sembra pensare ed esprimersi sotto i panni di un suo protagonista. Scegliendole e soppesandole, tuttavia, il critico procede con grande cautela, memore che l’autore della Comédie si è dichiaratamente pronunziato per lo scrittore che ‘tiene la propria creazione a distanza’. Tanto più indicativo, a questo proposito, come interpretazione e commento, il passo che il Picon cita da ‘La peau de chagrin’: ‘Il se passe chez les poètes et chez les écrivains, réellement philosophes, un phénomène moral inexplicable, inoui ... C’est une sorte de seconde vue qui leur permet de deviner la vérité dans toutes les situations possibles ... Ils inventent le vrai par analogie, ou voient l’objet à décrire, soit que l’objet vienne à eux, soit qu’ils aillent eux-mêmes vers l’objet’. Par di leggere, in una variazione lievemente esoterica, la teoria del ‘verosimile’ del nostro Manzoni.

  Ma: ‘écrivains réellement philosophes’. Che cosa ha inteso con tale definizione lo scrittore che desiderava tenere le proprie creazioni a distanza? È per spiegarselo che i più recenti critici e lo stesso Picon si sono indirizzati all’esame dei romanzi metafisici, riuniti sotto il titolo di ‘Études philosophiques’: La peau de chagrin, appunto, e Louis Lambert e Séraphita: preparati, come sappiamo, dalle incessanti letture alla Biblioteca de l’Arsenal, fra il ’18 e il ‘20. Il problema, ci sembra, potrebbe risolversi nella messa a punto di quel che fosse, nel tempo e per un uomo della mentalità di Balzac, ‘filosofia’: una mescolanza di intuizioni miracolose, quelle che gli servirono a tracciare le grandi arterie della Comédie, metropoli delle passioni; e di vaghe teorie swedenborghiane, moneta che il romanticismo spese e diffuse largamente. Ma il genio di Balzac ha il potere di aprire le porte più segrete anche con le chiavi false: ed ecco un passo che trasforma una metafisica da salotto in anticipazione sorprendente: ‘En se rendant chez la Marquise, Clarles obéissait à un de ces textes préexistants dont notre expérience et les conquêtes de notre esprit ne sont, plus tard, que les développements sensibles’. ‘Un de ces textes préexistants’: così intitola Gaétan Picon  il quarto capitolo del suo volumetto, e bisogna riconoscere che la allusione si attaglia straordinariamente a tutta l’opera balzachiana. Ciascun capitolo dell’operetta porta, del resto, un titolo parlante che testimonia dell’acutezza del critico quasi con maggiore efficacia di ogni citazione o documento: ‘En fermant les yeux j’y suis’, ‘Usages de l’imaginaire’, ‘Dédoublement et Délégation’, ‘Le désir et sa puissance’. Ma chi è Balzac? sembra chiedersi il commentatore a ogni capoverso, non mai soddisfatto del passo che gli era parso decisamente rivelatore. ‘Moi qui n’existe que par l’espoir et qui suis un phénomène d’espérance’. Speranza, desiderio, potenza del desiderio: spiegazioni ingegnose, mezze verità recuperate. L’argomentazione convince, la pagina avvince. Eppure, se fosse lecito al raro affezionato ammiratore di formulare una richiesta, credo che egli vorrebbe esser rassicurato sulla attuale validità poetica del suo Preferito sentendosi confermare le scelte del proprio gusto dalle ragioni di un’analisi stilistica che spieghi il meccanismo della pagina balzachiana e sconfigga, alla fine, il famoso e detestabile ‘Balzac écrit mal’.

  S’intende che esaudire una simile istanza esula dal carattere e dal compito del volumetto del Picon: il quale tuttavia, sembra spesso sul punto di orientare le sue citazioni nel senso che si diceva, trattenendosi poi a malincuore nei limiti che la Collana gli assegna. Ed è proprio questo suo trasparente desiderio a farci rimpiangere che lo scintillante capitolo di Albert Thibaudet pur illuminando così magistralmente la presenza di Balzac nel secolo XIX, non abbia voluto approfondirne il segreto testuale. Solo alla fine delle venti pagine che condensano nella sua ‘Histoire’ il succo morale, sociale, storico della Comédie, ci è dato leggere che ‘la question (quella della scrittura) ne se pose plus guère’, e che ‘le style de Balzac est un style de travail et de mouvement’. Ci siamo, pensa il lettore, ecco chi spiegherà l’incanto delle pagine che amo, non antologiche certo, ma inesprimibilmente fuse nel blocco di ciascun romanzo ad alto livello. ‘Une force de la nature’ rincalza Thibaudet ‘prend nécessairement un style de flux, un style de marche’. Ma siamo purtroppo all’ultimo paragrafo dove l’estroso critico conclude con una immagine di gran finale, quella di un ‘piétinement ... puissant et non musical’. ‘Et l’oreille elle-même finit par reconnaître que c’est la Grande Armée qui passe’. Dove il pregiudizio epico sacrifica il riconoscimento della più dimessa, della più pura elegia.

  Nel fitto addensarsi di referti testuali intesi a confessare il suo Protagonista, Gaétan Picon ha soprattutto il merito di avere introdotto, nel quadro dell’epopea, la verità umana che si è risolta in poesia. La poesia ancora inesplicata di Eugénie, di Armande, di Mademoiselle Cormons. La voce filata delle passioni silenti.



  Mario Bonfantini, I grandi narratori del realismo romantico. Balzac, in Disegno storico della letteratura francese, Milano, La Goliardica, 1956, pp. 317-321.

 

  Honoré de Balzac (Tours, 1799-Parigi, 1850), di famiglia borghese mediocremente agiata, che veniva dal Sud, compì gli studi parte a Tours e parte a Parigi in collegio, non senza soffrire del duro carattere della madre. Iscrittosi alla Facoltà di Giurisprudenza, e facendo al contempo lo scrivano in uno studio notarile, rivelò sui vent'anni la sua vocazione letteraria, ottenendo dal padre un modestissimo assegno per dedicarsi completamente ad essa. Cominciò con una produzione di desolante mediocrità, imitando il «romanzo nero» di importazione inglese in narrazioni melodrammatiche a forti tinte (L’Héritière de Birague, Jean-Louis ou La Fille trouvée, Le Vicaire des Ardennes, Argow le pirate) finché, insofferente di quei mezzi insuccessi e della sua misera vita, si imbarcò con un amico in uno grandiosa speculazione tipografico-editoriale, col risultato di consumarvi grandi energie per alcuni anni e di caricarsi di debiti che gli peseranno poi per quasi tutta la vita. Il fallimento di tale impresa, e i consigli del Latouche, lo persuasero a ritornare a scrivere, e stavolta Balzac vi portò una reale maturità, oltre ad una vasta cultura e ad una amplissima informazione in tutti i campi del sapere e delle attività umane, che la sua insaziabile curiosità gli aveva fatto accumulare in quegli anni di silenzio. Contarono molto per lui in tal periodo, come anche in seguito, gli amori e le amicizie femminili, specie di nobildonne cui lo portava il suo innato snobismo (tanto che incominciò ad aggiungere al suo cognome quel de nobiliare cui non ave va alcun diritto): fu dapprima Mme de Berny, donna già innanzi negli anni ma di squisita sensibilità e di grande intelligenza, che resterà sempre per lui «la Dilecta», quindi la duchessa d’Abrantès, la contessa Guidoboni Visconti (che lo aiutò anche più d’una volta nelle sue difficoltà economiche), e infine Mme Hanska, la nobildonna polacca gran feudataria, che aveva incominciato n scrivergli dal 1833 firmandosi «l’Etrangère», e che Balzac riuscirà a sposare solo nel 1849, ormai malato e prossimo alla fine. A queste amicizie e frequentazioni pare si debbano attribuire, almeno in parte, la tendenza ad un misticismo spiritualista che animerà più d’un suo romanzo, e la precoce adozione di una sommaria ideologia politica, che può essere qualificata con la celebre formula «del Trono e dell’Altare» ma che non gli impedirà in pratica le più grandi audacie e una quasi assoluta indipendenza nel giudicare dei fatti sociali.

  Con tale cultura e questo bagaglio di idee, Balzac iniziò la sua carriera nel 1829, con Les Chouans, avventuroso romanzo ambientato nella rivolta al governo rivoluzionario di Parigi da parte della Normandia cattolica e legittimista, che mostra già nell’autore un’eccezionale capacità nell’evocare luoghi e personaggi e nel creare una particolare «atmosfera», e, sempre nel ‘29, con La Physiologie du mariage, ampio trattato semiserio, riboccante di sentenze e di aneddoti, dove si rivelano già le inclinazioni dell’autore ad una sistematica indagine della vita sociale. Sviluppando questa tendenza Balzac stese e pubblicò nel 1830 una serie di racconti che raccolse sotto l’unico titolo di Scènes de la vie privée, tra cui si trovano già alcune grandi cose come Gobseck, ritratto di un usuraio, e La Maison du chat qui pelote, studio estremamente suggestivo del mondo dei negozi. Del 1831 è La Peau de chagrin, lungo racconto mistico-magico, che denuncia la vena spiritualista da cui uscirà più tardi Séraphita. Dopo di esso Balzac, tornando al, suo realismo sociale, inizia quella che sarà la serie dei suoi capolavori, racconti lunghi o grandi e complessi romanzi: Le colonnel Chabert, Le Curé de Tours, e Louis Lambert, in parte autobiografico (1832); Le Médecin de campagne, racconto semiutopistico in cui egli espone un suo curioso sistema di socialismo autoritario o paternalistico qua le unico rimedio alla «questione sociale», e Eugénie Grandet (1833), il grande romanzo romantico d’un amore che durerà quanto la vita dell’eroina, a dispetto d’ogni delusione, dove si trova al contempo il più celebre ritratto di avaro della letteratura occidentale, «le père Grandet»; e, nel 1835, Le Père Goriot, il dramma dell’amor paterno ripagato dalla più nera ingratitudine, intorno a cui si agita il mondo dell’alta finanza, e dove appaiono già alcuni personaggi destinati a restar famosi, dal giovane arrivista vittorioso Rastignac alla mitica immagine dell’ex forzato Vautrin.

  Già dalla fine del ‘33 Balzac aveva pensato a collegare l’uno all’altro questi suoi romanzi, facendovi riapparire gli stessi personaggi se pure in modi diversi, così da creare un immenso ciclo di racconti, destinati a lumeggiar tutti i più diversi aspetti della società contemporanea. In cerca di un titolo complessivo per quest’opera gigantesca, egli adottò prima la formula di «Studi dei costumi del XIX secolo», poi di «Studi sociali», e infine, nel 1841 (dietro suggerimento di un amico, il De Belloy, e con chiaro riferimento all’opera di Dante), la denominazione famosa de «La Comédie humaine».

  Ma sebbene il nome, e se vogliamo anche la precisa intenzione programmatica, venissero tardi, si può dire che dal 1830 in poi Balzac votasse già tutte le energie a questo grandioso disegno, che egli andò man mano realizzando con una attività che ha del favoloso, scrivendo e pubblicando in meno di vent’anni oltre novanta opere narrative, fra veri e propri romanzi e racconti lunghi. In questo periodo, Balzac trovò anche modo di compiere alcuni grandi viaggi (fra cui più d’uno in Italia, che egli conobbe assai bene anche nella sua letteratura), di occuparsi di critica e di letteratura militante (fu il solo dei contemporanei a riconoscere ed esaltare il genio di Stendhal in un lungo interessantissimo saggio sulla Chartreuse), e di nutrire ambizioni politiche, acquistando e dirigendo via via numerosi periodici (il «Feuilleton» nel 1830, la «Chronique de Paris», dal 1836 al ‘37, la «Revue Parisienne» nel 1840); ma la sua vita fu e restò nel complesso quella del romanziere. Anche se egli fece diversi «excursus» nelle epoche precedenti, della Restaurazione, dell’Impero, e della Rivoluzione, e trovò il tempo di scrivere un racconto sulla Parigi medievale in cui campeggia la bellissima figura di Dante (Les Proscrits), e si dilettò a gareggiare coi «conteurs » del XV secolo e con Rabelais stendendo la serie dei Contes drôlatiques in un francese deliziosamente antiquato, il fuoco della sua ispirazione fu nel complesso concentrato su quella società francese della monarchia di Luigi Filippo, di cui egli riuscì a dare un quadro completo: illuminandola in tutte le sue forme di vita, nei caratteri sociali e morali, attraverso a personaggi tipici d’ogni ceto, ritraendola con scupolosa (sic) minuzia di realista e con l’empito ispirato di un «visionario». A dare un’idea della vastità dell’ambito della Comédie humaine, ne riferiamo i titoli delle «sezioni», con i romanzi e i racconti più notevoli di ciascuna:

  Scènes de la vie privée (Le père Goriot, Le colonel Chabert); Scènes de la vie de province (Eugène [sic] Grandet, Le Lys dans la vallée, Ursule Mirouet, Le curé de Tours, Les Illusions perdues [sic]); Scènes de la vie parisienne (Grandeur et décadence de César Birotteau, La cousine Bette, Le cousin Pons); Scènes de la vie politique (Une ténébreuse affaire); Scènes de la vie militaires (sic) (Les Chouans); Scènes de la vie de campagne (Le Médecin de campagne, e Les Paysans); Études philosophiques e Études analytiques (La recherche de l’absolu, La peau de chagrin, La Femme de trente ans, Les Employés [sic]) ... Questa immensa produzione è dominata da un’idea base: la società contemporanea corre alla rovina perché pervasa dalla sete del denaro, corrosa dalla manìa degli affari, e va perdendo di vista gli ideali morali che possono essere conservati soltanto dalla Religione: onde i toni crudamente satirici delle sue poco lusinghiere pitture della società del tempo di Luigi Filippo, il re borghese, dominata dal famigerato consiglio «enrichissez-vous!». Ma quello che conta non è il substrato ideale, abbastanza semplicista, né il tessuto intellettuale, brillante e ricco ma piuttosto comune, bensì la meravigliosa capacità creativa: quella titanica forza che spinge Balzac a popolare i suoi libri di centinaia e centinaia di personaggi, tipi esemplari di eccezionale vitalità, con le loro inconfondibili caratteristiche, molti dei quali resteranno famosi alla stregua di veri e propri personaggi storici (egli si vantava di fare concorrenza «allo Stato civile» cioè, diremmo noi, all’Anagrafe!). In tutte le sue concezioni, Balzac è impetuoso, fortissimo, eroico: tende a situazioni estreme, a caratteri e drammi esemplari. Ottiene risultati di potenza insuperabile, ma non di rado si abbandona allo stile retorico e declamatorio, per la sua manìa di cercare ovunque tragedie e sentimenti puri, assoluti. Tale fu la sua furia creatrice che molti suoi libri possono sembrare dei «romanzi d’appendice» eseguiti da uno scrittore di genio. – Non mancano però opere perfette, autentici capolavori del gene re: soprattutto novelle, lunghi racconti, Le colonel Chabert, Pierrette, il mirabile Curé de Tours; e i romanzi più semplici come Eugénie Grandet, Le Père Goriot e altri. Tutte le opere, insomma, dove Balzac evitò soverchie complicazioni nell’intrigo, approfondì potentemente, scavando nelle anime, con quel suo stile insistente, minuzioso, fatto di frasi a catena e tocchi successivi che si accumulano instancabilmente sino a raggiungere gli effetti più grandiosi.

 

 

  Mario Bonfantini, A propos de “réalisme” stendhalien (Stendhal a-t-il été le maître de Balzac?), in AA.VV., Journées stendhaliennes internationales de Grenoble (26-28 mai 1955). Discours et communications, Paris, Le Divan, 1956, pp. 75-82.

 

 

  Giuseppe Cassieri, Balzac in Italia. Avventure e disavventure dello scrittore francese durante la sua permanenza a Torino, Milano e Venezia negli anni 1836 e 1837. Programma a cura di Giuseppe Cassieri; regia di Pietro Masserano Taricco, Terzo Programma, 3 Gennaio 1956.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Raffaele de Cesare, Alfred de Vigny e Honoré de Balzac (Note complementari), «Studi Urbinati di storia, filosofia e letteratura», in Urbino, presso l’Università degli studi, Anno XXIX, Nuova Serie B, N. 1-2, 1956, pp. 101-164.

 

  Fernand Baldensperger ha già studiato da par suo, con quella vasta erudizione e quella generosa ricchezza di suggestioni che caratterizzano ogni sua ricerca, i rapporti fra il Vigny e il Balzac in un articolo che rimane ancor oggi, a distanza di oltre venti anni, fondamentale a ricostruire i lineamenti di questo interessante capitolo di storia letteraria. [cfr. F. Baldensperger, Balzac et Vigny. Juges et parties, «Le Correspondant», t. 1652, 25 juillet 1931, pp. 195-222].

  Inutile pertanto riprendere qui da capo la questione e riproporla nei suoi noti sviluppi al lettore. In margine allo studio del Baldensperger ci sia piuttosto consentito di indicare altri elementi che, rinfoltendo la storia di questi rapporti, vengono a porli in maggiore luce e illustrano con nuovi particolari le vicendevoli influenze dei due scrittori. I quali, diversi quanto altri mai per condizione familiare, per indole, per vocazione umana non meno che intellettuale, si sono nondimeno incontrati su alcuni aspetti di una problematica etico-estetica, hanno combattuto (sia pure con armi differenti e talora ostili) una stessa battaglia, hanno foggiato alcuni stessi miti in una comune fede nella grandezza dell’arte. «Attirés et repoussés l’un vers l’autre par leurs pôles secrets» ha detto di essi il Baldensperger; e certo i due scrittori, pur manifestandosi per circa un quarto di secolo più ripugnanze che affinità, ora mostrando di ignorarsi, ora esprimendo l’uno sull’altro giudizi ingiusti o severi, si sono conosciuti a fondo nella loro attività letteraria e da essa hanno tratto, vicendevolmente, suggestioni e spunti. Sì che sotto le apparenze di una estraneità o, addirittura, di una più o meno velata ostilità (ma assai più viva da parte del Vigny che non da quella del Balzac) testimoniano oggi a noi, in una serie di incontri intellettuali, un legame che non è certo dei meno interessanti nella storia letteraria francese del XIX secolo.

  Dai nuovi elementi che una certa familiarità con le opere dei due scrittori ci consente di elencare qui, la fisionomia complessiva dei rapporti fra il Vigny e il Balzac potrà forse — sia pure senza mutare nelle sue linee essenziali le conclusioni del Baldensperger — acquistare un più preciso rilievo, accogliere sfumature più rispondenti al vero e presentarsi così più vicina alle ragioni profonde, e non sempre molto evidenti, che li hanno determinati e guidati.

 

* * *

 

  Già, oltremodo suggestivo sarebbe riportare al 1824 l’origine dei rapporti fra il Balzac e il Vigny, piuttosto che al noto incontro del 1827.

  Nell’aprile del 1824 il Vigny pubblica infatti, a Parigi, presso l’editore Boulland, Eloa ou la soeur des anges; nel corso, forse, di questo stesso anno (la data è tuttavia incerta ed ogni precisazione sembra impossibile), Balzac redige quel secondo abbozzo di Falthurne (Falthurne-Séraphita) che, come è noto, non ha nulla in comune con il primo abbozzo dallo stesso titolo, ma è invece da considerarsi una frammentaria anticipazione di Séraphita. Orbene, nelle pagine di questo frammento sono ravvisabili talune analogie con l’atmosfera mistico-amorosa del poemetto vigniano, tali da far pensare con sufficiente verisimiglianza ad un primo debito letterario del Balzac verso il poeta angelistico e passionale di Eloa.

  Non si tratta, è vero, di richiami precisi che tocchino particolari momenti dell’affabulazione, bensì solo di reminiscenze vaghe, di carattere contenutistico o tonale, onde l’ipotesi di una dipendenza non ha quella conferma che solo può imporre il linguaggio sicuro dei testi. Ma anche ridotte ai loro più generici lineamenti, tali affinità testimoniano comunque una partecipazione del Balzac a quelle dubbie esigenze mistiche e a quelle fonti di ispirazione o modi di espressione, tendenti a risolvere i dati narrativi in luce, in colori, in musica, che sono caratteristici di Eloa.

  Anzitutto nel mito. Balzac traccia infatti nel frammento del 1824, l’assunzione al cielo di una creatura più che umana: Minna. E questa fanciulla, giunta in cielo, è accolta dal coro delle gerarchie angeliche che le si fanno attorno magnificandone la pietosa e caritativa bontà. Tutto ciò richiama da vicino l’arrivo in cielo di Eloa (e l’accoglienza qui ricevuta) non solo per l’invenzione in sé, ma per la stessa configurazione del coro angelico, per il modulo col quale si susseguono cantici e lodi. Anche la raffigurazione di Minna, quale viene tratteggiata dal Balzac fra fulgori di luci eteree e scorci di femminile bellezza sembra conservare il ricordo di quella di Eloa dove, parimenti, le luci mistiche non celano una terrestre venustà. E verrebbe altresì fatto di ricondurre ad una reminiscenza di Eloa quella scena d’amore fra Minna e Falthurne che il Balzac si proponeva di descrivere a lungo e di cui ha consegnato nel frammento una traccia e talune notazioni particolari.

  Fin qui, se non ci inganniamo, le affinità riguardano un aspetto strutturale della leggenda, il significato di un messaggio mistico (alquanto torbido, per la verità) di amore e di pietà. Più importante ci sembra una affinità formale, più distintamente rilevabile, e cioè quella che può essere stata determinata da una influenza del Vigny poeta di chiaroscuri, di immagini musicali o di allusioni cromatiche, artefice di sfumature misteriose che son suggerite, più che dette, grazie al gioco evocativo di un costante richiamo a similitudini di fiori, di pietre preziose, di metalli, di profumi o di luci policrome. Linguaggio corrente, si dirà, in certi cenacoli letterari di quegli anni, e non molto indicativo, quindi. Ma non è senza meraviglia il vederlo applicato, quasi negli stessi termini del Vigny, dal Balzac ancor fresco di ben diverse avventure narrative e opposti moduli stilistici; né manca dallo stupirci il modo stesso, stentato e quasi scolastico con cui il Balzac utilizza questo materiale formale, quasi come un prestito troppo recente ed esterno. Anche qui alcuni raffronti testuali potranno forse indicare meglio tali affinità espressive : si osservi il modo con cui è rievocato dal Balzac il paesaggio soprannaturale — il cui dato celeste o infernale si scioglie in visione magica — e quanto questo modo si rifaccia a quello della rievocazione vigniana; si pensi a certe caratterizzazioni angeliche che, nei loro tocchi luminosi ed evanescenti, il Balzac di Falthurne sembra riprendere da Eloa, si pensi infine all’accentuazione — e quasi all’orgia sensoriale — che invade di colori, di suoni, di odori la scena celeste descritta dal Balzac e che rinvia anche qui, sia pure maldestramente, a certi virtuosismi vigniani.

  Come già si è detto, i raffronti da noi indicati sono troppo vaghi per accertare una dipendenza vigniana da parte del Balzac o per far risalire Falthurne-Séraphita (che appartiene a quel «tournant» spirituale ed artistico in cui il Balzac si trova appunto nel 1824-1825) ad una influenza di Eloa. Una constatazione rimane comunque possibile: l’esistenza di una affinità strutturale e formale, sufficientemente identificabile, fra Falthurne-Séraphita ed Eloa. Tale affinità può essere del tutto casuale o può risalire, indipendentemente da Eloa, ad una tradizione, al tempo stesso spirituale e stilistica, a cui lo stesso Vigny si rifaceva. Ma è possibile anche pensare che sul momento mistico balzacchiano del 1824, la recentissima pubblicazione di Eloa (opera che, per altre vie sappiamo non ignota al Balzac), la notevole fortuna incontrata subito da questo «mystère», la caratteristica stessa del poemetto di esprimere in forma, per così dire rappresentativa, esigenze analoghe a quelle che saranno di Falthurne-Séraphita, non solo non siano state estranee, ma abbiano in qualche misura provocato la loro influenza.

  Non è, ripetiamo, che una ipotesi, ma una ipotesi suggestiva e degna di qualche considerazione.

 

***

 

  Nel 1830 la conoscenza personale del Balzac col Vigny dura ormai (anche se forse limitata ad uno o due incontri) da tre anni. Quella letteraria non è meno recente: nelle «Annales Romantiques» del 1827-1828 i due scrittori hanno pubblicato insieme dei versi; nella «Silhouette» del 9 gennaio 1830, Balzac ha fatto una allusione scherzosa ad un «jeune poète romantique» che è forse da identificarsi col Vigny; e l’11 febbraio, nello scrivere per lo stesso giornale, Une vue de Touraine, si è ricordato di un rilievo vigniano aff[i]dato ad una nota pagina di Cinq-Mars.

  Ma, fin dall’inizio, i rapporti sembrano essere stati quanto mai distaccati, privi sia di quel calore sentimentale che può avvicinare due uomini prossoché (sic) coetanei sia di quella simpatia nata da una mutua stima letteraria. Da parte del Vigny il sentimento-base sembra essere stato dettato dall’alterigia propria alla sua natura d’aristocratico, dalla coscienza di se stesso, scrittore ormai affermato, e, forse anche, dall’orgoglio dell’autore che non ha visto insomma nel Balzac se non il tipografo del suo romanzo e il cattivo poeta delle «Annales». Da parte del Balzac — che sta facendo, fra il 1827 e il 1828, le sue prime segrete classi sul romanzo storico — c’è, indipendentemente da una sottile animosità verso certi aspetti esteriori del nobile ex-ufficiale e poeta romantico — una avvertibile ostilità letteraria verso Cinq-Mars. Il giudizio dell’autore del Dernier Chouan su questo romanzo storico è infatti nettamente negativo. E il 14 aprile 1830 la recensione per il «Feuilleton des journaux politiques» dell’opera dello James su Richelieu offre al Balzac l’occasione più adatta per esprimere alcune severe osservazioni sul romanzo vigniano e per fissare altresì i propri termini di dissenso, se non dalla tesi generale dell’opera, dal metodo ivi seguito nel rispettare la verità storica [...].

  E, ancora nel correggere, più avanti, i numerosi errori storici in cui, non meno del Vigny, era caduto lo James, il Balzac trova modo di insistere sulle arbitrarietà o sulle approssimazioni di Cinq-Mars: sia nel rilevare che «aujourd’hui, le plus humble lecteur de nos chroniques sait que le traité signé par Cinq-Mars avec l’Espagne fut envoyé à Richelieu par Olivares lui-même», e che quindi la scena «inventée par M. de Vigny pour faire voler ce traité» non ha alcun valore; sia per ricordare l’indifferenza del romanziere verso ogni tratto storico capace di rendere più vera e più intima la vita dei personaggi.

 [...].

  Nemmeno la morte riesce dunque a conciliare il Vigny con la memoria del Balzac e a svelare a lui quella grandezza chiaramente legata al genio e non alla sola perseveranza o ostinazione. Gli altri, pochi, riferimenti che si susseguono nella Correspondance e nel Journal vigniani dal 1850 al 1863 riguardano infatti annotazioni o maliziose o ostili. E a proposito dell’atteggiamento del Vigny dopo il 1850, merita ancora rilevare, col Baldensperger, che le relazioni successive del poeta con Madame Balzac-Hanska, lungi dall’operare questo riavvicinamento postumo, lo resero, al contrario, più difficile. È già stata avanzata l’ipotesi, quanto mai verisimile, che tali relazioni si siano stabilite per l'intervento di un comune amico, il pittore Gigoux, amante di Madame Balzac-Hanska. Orbene, lo scambio di lettere avvenuto negli ultimi anni fra il Vigny, Gigoux e Eva Balzac-Hanska se non rivelano una compiaciuta connivenza del Poeta — il quale non ignorava l’esistenza del legame fra il pittore e la vedova dello scrittore — per questo intrigo, sono tuttavia del tutto estranee ad ogni ricordo del grande narratore scomparso.

  Le relazioni mondane del Vigny con Madame Balzac-Hanska non incidono dunque in una migliore conoscenza o in più illuminati giudizi dell’opera del Balzac. Incidono semmai in un altro settore della biografia segreta del Vigny, quello dei suoi senili amori con Augusta. La recente pubblicazione delle Lettres à Augusta [Froustey] rivela infatti come nel 1859 (lettera dell’11 maggio) e nel 1861 (lettera dell’8 ottobre), il Vigny sperasse servirsi della sua conoscenza con Madame Balzac-Hanska «qui est entourée des familles du Nord et qui cherchera» per trovare un posto di istitutrice alla giovane amante. Solo nella lettera dell’8 ottobre 1861 l’interessamento per una sistemazione pratica si accompagna a quello di natura culturale, con una indicazione relativa alle letture consigliate per Augusta la cui cultura sta anche a cuore al vecchio poeta. Ed è qui che cade di proposito il nome del Balzac. Ma nemmeno in questa lettera il tono del Vigny si rialza in un apprezzamento schiettamente favorevole o s’accende di simpatia. E il consiglio a leggere il Lys dans la vallée non che ubbidire alla preoccupazione di non far stancare troppo Augusta della più faticosa lettura della Histoire du Bas Empire, testimonia, una volta di più, nei termini, almeno, in cui è formulata, una naturale incomprensione della complessità del genio balzacchiano:

 

  Pourquoi n’as-tu pas lu le Lys de la vallée (sic) que tu as? Par ce seul livre tu connaîtras Balzac, et cette lecture te reposerait de l’Histoire du Bas Empire Romain qui ne tardera pas à te fatiguer. [cfr. Alfred de Vigny, Lettres d’un dernier amour. Correspondance inédite avec Augusta, a cura di Verdun-Saulnier, Genève, Droz, 1952, p. 64.

 

* * *

 

  Le note qui aggiunte a quelle già raccolte dal Baldensperger non mutano sensibilmente — ripetiamo — le conclusioni a cui quel critico è giunto nel suo saggio. Esse rivelano comunque un maggior peso dei debiti contratti dal Vigny verso il Balzac o, se di debiti non si può parlare, una più fitta rete di affinità. Giacché, pur evitando di affermare che tutti i luoghi, comuni ai due scrittori, e in cui il testo balzacchiano detenga una priorità cronologica, costituiscono sicure testimonianze di una dipendenza vigniana, il ragguardevole numero delle concordanze citate indica la presenza di un intenso rapporto culturale fra i due scrittori, importante anche se del tutto indipendente. Inoltre, queste note complementari ci rafforzano nella convinzione di una conoscenza, abbastanza diffusa, che il Vigny doveva avere dell’opera del Balzac. Già si sapeva della lettura vigniana della Physiologie du Mariage e di Séraphita. Alla conoscenza di queste opere si può ora aggiungere quella, assai probabile, di alcuni fra i romanzi di giovinezza e dei primi racconti delle «Scènes de la vie privée», degli Artistes, degli scritti varii aventi attinenza con la situazione del poeta e con i problemi di proprietà letteraria, dell’intero Livre Mystique e, infine, del Lys dans la vallée.

  Anche (ed in modo testualmente più accertabile) il debito balzacchiano verso il Vigny aumenta. E attraverso le numerose reminiscenze o suggestioni qui proposte e le esplicite citazioni indicate risulta altresì ben chiaro come l’opera del Vigny, narrativa, teatrale, poetica, sia stata in maniera pressoché completa nota al Balzac.

  Pur mostrando, grazie alla indicazione di più frequenti relazioni letterarie, una conoscenza vicendevole dei due scrittori più assidua di quanto forse finora non si pensasse, queste note complementari riaffermano comunque la sostanziale assenza di simpatia umana, quasi l’impossibilità di un accordo sentimentale non meno che intellettuale, fra il Vigny e il Balzac. I quali, quasi coetanei, protagonisti degli stessi eventi storico-culturali, partecipi di certe esperienze spirituali o politiche comuni (il saintsimonismo, il legittimismo), fiduciosi in taluni degli stessi miti romantici (l’arte e l’artista) e parimenti ostili a certe espressioni etico-politiche del potere, quale almeno s’andava raffigurando a partire dalla rivoluzione di luglio, si sono nondimeno rivelati estranei, se non ostili, nella realizzazione dei loro, pur comuni, ideali; ed hanno trovato in una diversa educazione, in un temperamento quasi opposto l’ostacolo maggiore a vincere una insopprimibile diffidenza, un astio, talora, o un trattenuto disprezzo.

  Veramente, sotto questo punto di vista, l’atteggiamento del Balzac è assai più comprensivo e generoso di quello del Vigny. Giacché se il Balzac ha taciuto l’origine di certe reminiscenze o suggestioni che gli venivano dall’opera vigniana; se ha espresso nette riserve su Cinq-Mars e condannato le conclusioni di Chatterton (e chi, del resto, oserebbe oggi dargli torto?), ha proclamato con altrettanta chiarezza il suo entusiasmo per i Poèmes antiques et modernes, per Stello ed ha riconosciuto nel Vigny uno dei rari talenti francesi contemporanei cui l’eccellenza lirica e narrativa conferiva uno straordinario carattere di distinzione.

  L’atteggiamento del Vigny, al contrario, permanentemente contrassegnato da un senso di altero distacco, dalla costante consapevolezza di una superiorità artistica e da un piglio, mai dimesso, di sufficienza, mai piega verso un gesto di cordialità o una professione di vera stima per la personalità o per una qualunque delle opere del Balzac: di quelle opere da cui, a varie riprese, aveva forse tratto spunti, suggestioni, richiami, e di cui, in ogni caso aveva abbracciato idee o proposte. È certo arrischiato chiudere una ricerca di fonti o un repertorio di corrispondenze, come il presente studio, con una notazione psicologica. Ma è forse legittimo far risalire, in parte almeno, questa incomprensione. ad una questione in certo modo di carattere (effetto di riservatezza aristocratica, naturale diffidenza per ogni forma narrativa troppo vistosa) ad un aspetto di quella durezza umana che, come già alcuni critici hanno dimostrato, contrassegna così sovente i rapporti del Vigny con i suoi contemporanei.

  Solo ricorrendo infatti a quest’ordine di motivi, per quanto rischiosi ed arbitrari possano essere, è possibile forse comprendere l’atteggiamento verso il Balzac del Vigny: atteggiamento che, alla luce dei fatti fin qui esposti, scopre invero una inesplicabile sordità verso le manifestazioni di un genio letterario che già nettamente s’imponeva, almeno fra i contemporanei più avvertiti nei suoi termini di autentica grandezza.



  Gaspare D’Aguanno, Honoré de Balzac (1799-1850), in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet … cit., pp. V-XV.

 

  Sa vie.

 

  Honoré de Balzac est né à Tours, en 1799. Il fit ses premières études au collège de Vendôme, et il semble qu’il ne fut pus un très bon élève.

  Ses études terminées, il se rendit à Paris, où il mena une vie agitée et aventureuse. Doué d’un esprit éveillé et d’une imagination puissante, il rêva le succès et la gloire. C’est pourquoi, se sentant humilié d’être un simple clerc de notaire, il se mit à écrire toutes sortes d’ouvrages: contes, drames, romans et même quelques poésies, qu’il ne publia pas ou qui ne réussirent pas à attirer sur lui l’attention du public.

  Alors, désespérant d’atteindre la renommée par les lettres, et aussi parce qu’il avait hâte de s’assurer le bien-être matériel, il se voua successivement à de différentes entreprises industrielles entre autres une fonderie de caractères typographiques, une typographie, l’exploitation de mines d’argent en Sardaigne[2], la culture en serre d’ananas – entreprises qui ne prospérèrent point et lui firent contracter des dettes énormes.

  Entre temps, son roman historique «Les Chouans» (1829) avait eu un certain succès. Il comprit alors que sa véritable voie était là, et pour payer ses dettes, tout en réalisant son rêve de gloire, il se condanna (sic) à un travail écrasant. «Il faut écrire, écrire tous les jours pour conquérir l’indépendance qu’on me refuse! Essayer de devenir libre à coups de romans, et quels romans!» s’écriait-il.

  Son existence, pendant vingt ans, ne fut plus qu’un dur travail, au point qu’il fut défini «un galérien de la plume».

  Il s’enfermait chez lui pendant des semaines et des mois, sans voir personne, et, les volets fermés, à la lumière des bougies et revêtu d’une bure de dominicain, il travaillait quinze, dix-huit heures d’affillée (sic).

  Voici ce qu’il écrivait à Mme de Girardin qui se proclamait son disciple: «Le maître est un esclave ; il est toujours couché à six heures, au moment où vous allumez la vie, les bougies de votre élégante cage, où vous faites briller votre esprit; ... il se lève à minuit et demie, pour travailler douze heures».

  Le jour il revoyait, développait, achevait le travail de la nuit, corrigeait les épreuves, sans s’accorder aucun repos, sans fumer (il n’a jamais fumé), mais abusait du café qui stimulait ses facultés intellectuelles et le tenait bien éveillé. Et ce fut cet excès de travail, peut-être aussi l’abus du café, qui le tua, à 51 ans, en dépit d’une constitution des plus robustes qui lui aurait permis une longévité plus grande.

  Balzac mourut en 1850, à Paris, au plus fort de sa renommée, laissant inachevée une œuvre colossale, de plus de 40 volumes, à laquelle il donna le titre de «Comédie humaine», titre qui lui fut suggéré .par le marquis de Belloy, enthousiasmé par la «Divine Comédie» de Dante, après son retour d’Italie en 1841.

 

Son œuvre.

 

  La «Comédie humaine» se partage en trois groupes:

 

  a) Etudes de mœurs;

  b) Etudes philosophiques;

  c) Etudes analytiques.

  De ces trois groupes, le plus important est le premier, «Etudes de mœurs», lequel se subdivise, à son tour, en six parties:

 

  a) Scènes de la vie privée (Le Colonel Chabert, le Père Goriot, etc.);

  b) Scènes de la vie de province (Eugénie Grandet, Le lys dans la vallée, etc.) ;

  c) Scènes de la vie parisienne (Grandeur et décadence de César Birotteau, le Cousin Pons, etc.);

  d) Scènes de la vie politique (Une ténébreuse affaire, Le Député d’Arcis);

  e) Scènes de la vie militaire (Les Chouans);

  f) Scènes de la vie de campagne (Le médecin de campagne, Les paysans, etc.).

 

  «Eugénie Grandet» est donc un fragment de cet ouvrage gigantesque, et l’un des plus beaux; c’est la tragédie de la cruauté lente et muette de l’avarice.

  C’est un de ces romane dont la lecture nous entraîne et nous émeut. Les personnages, sculptés de main de maître, sont inoubliables par leur relief, leur vérité et leur vie. Nous sentons leurs passions, leurs joies et leurs tourments, comme si nous les voyions vivre sous nos yeux.

  Le roman était destiné à la revue «L’Europe littéraire» mais dès la publication du premier chapitre (19-9-1833), à la suite d’une querelle avec le directeur de la revue, Balzac le fit paraître en librairie en décembre 1833.

 

Analyse du roman.

 

  — C’est l’histoire d’une famille de la Touraine, riche et respectée, aux mœurs provinciales très simples, que le chef, M. Grandet, tyrannise poussé par le plus hideux des vices: l’avarice.

  Le sujet est simple: Eugénie est une jeune fille bien élevée, douce et soumise à l’autorité de son père, ainsi que l’est sa mère.

  Courtisée par deux jeunes gens qui voient en elle le meilleur parti de la ville, elle ne nourrit aucune sympathie pour ces prétendants intéressés.

  Un jour arrive de Paris son cousin Charles, muni d’une lettre d’introduction de son père auprès de son oncle Grandet; ses affaires ont mal tourné, et il a décidé de se suicider pour ne pas survivre à son déshonneur. C’est pour cette raison qu’il a éloigné son fils adoré, qu’il recommande à l’affection de son frère.

  Ce jeune homme si élégant, si beau, si fin et tellement malheureux intéresse vivement Eugénie, qui s’éprend de lui. Mais Grandet n’entend pas que son héritière épouse un homme sans argent et sans avenir, et il est bien content de l’expédier aux Indes, selon le désir de feu son frère.

  Charles promet à sa cousine de lui être fidèle et de revenir après fortune faite.

  Plusieurs années passent, pendant lesquelles Eugénie a le malheur de perdre ses parents.

  Immensément riche mais seule et triste, elle attend avec confiance son cousin; celui-ci cependant l’a complètement oubliée.

  Ayant amassé une petite fortune. Charles rentre en France, décidé de reprendre la vie élégante de la capitale, et cède aux avances de la comtesse d’Aubrion, qui lui promet le titre de comte et des charges importantes pourvu qu’il épouse sa fille. Ainsi s’évanouit à jamais le beau rêve d’Eugénie.

  Mais loin d’en vouloir à son cousin parjure, elle se venge comme font les âmes généreuses: ayant appris que Charles ne pourra épouser la fille de madame d’Aubrion s’il n’a payé les dettes de son père, elle aide pécuniairement son cousin, à l’insu de ce dernier, et lui permet de réaliser son bonheur. Quant à elle, n’ayant pour toute consolation que la charité et la religion, elle, achève sa triste existance (sic) dans sa maison froide et solitaire. —

  Ce petit drame, que cause et domine l’avarice du père Grandet, nous fait sentir à quel point ce malheureux est l’esclave de sa passion honteuse. Il n’existe pour lui qu’un seul dieu: l’or.

  Le modèle de son héros fut fourni, semble-t-il, à Balzac par un célèbre avare de Saumur, où il se rendit probablement entre 1830 et 1833, et qui s’appelait Jean Nivellau. Les spéculations de celui-ci, trois ou quatre fois millionnaire, avaient beaucoup d’affinités avec celles du père Grandet, dix-sept fois millionnaire.

  Mais si ce Nivellau a été le point de départ pour la création de son avare, c’est dans son imagination que l’auteur a trouvé la vérité de son type immortel. Grandet est un homme puissant, une sorte de conquérant, un despote de l’or en tout point pareil à son créateur qui aimait la conquête et la puissance. En effet Balzac appréciait l’argent non pas en soi, mais parce qu’il en avait besoin pour mener l’existence qu’il convoitait.

  Balzac ne rêvait que tonnes d’or et tas de diamants et, au moyen du magnétisme – qu’il pratiqua longtemps – il chargeait quelques somnambules de rechercher la place où pouvaient être enfouis des trésors volés ou perdus. D’où ses entreprises commerciales qui l’endettèrent.

  Sans être un avare – au contraire, personne plus que lui n’aimait dépenser – Balzac sentait la puissance de l’argent, subissait peut-être l’étrange fascination qu’exerce une pièce d’or, et comprenait comment elle peut éblouir de sa splendeur et devenir une sorte de divinité.

  Aussi pouvons-nous dire qu’aucun ouvrage ne fui plus lié à sa vie que «Eugénie Grandet», soit par la peinture de l’avare, d’une vérité saisissante, soit parce qu’on trouve dans le dandy Charles quelque chose de Balzac lui-même – alors que le jeune et élégant Honoré, sanglé dans son fameux complet bleu à boutons d’or massif, avec sa canne au pommeau ciselé, fréquentait les rendez-vous de l’élite, partout recherché pour sa verve et son éloquence.

  Mais outre la vérité des caractères, nous devons observer, dans notre roman, la vérité de son milieu.

  Balzac croyait qu’on ne peut faire un portrait exact si le fond du tableau ne reflète pas la réalité. Ainsi, jouissant d’un esprit d’observation aussi prodigieux, ne pouvait ne pas mettre son entourage dans son œuvre. Voilà que l’on retrouve Rose, sa fameuse cuisinière, dans la «Grande Nanon». Aussi n’a-t-il pas seulement décrit la maison du père Grandet dans ses plus menus détails, mais il a donné une vie aux objets qu’il nous à (sic) présentés. Autour de l’avare et de sa fille gravitent Saumur et ses habitants, cette société provinciale que l’auteur connaît à la perfection, avec toutes ses laideurs et ses méchancetés.

  Deux passions dominent dans le roman: l’avarice et le commérage.

  «Eugénie Grandet» est un ouvrage bien triste ; l’héroïne est le symbole de la tendresse, de l’amour chaste, généreux et fidèle, de la résignation au malheur, de même que l’exécrable Grandet incarne la soif de l’argent, qui dégrade tout et détruit les plus beaux sentiments humains.

 

***

 

  La plupart des ouvrages formant la «Comédie humaine» roulent sur la «question d’argent» qu'ils étudient dans ses différentes manifestations. Ce n’est pas l’amour qui rend coupables des crimes les plus variés, les personnages de Balzac, mais l’argent.

  A l’époque où parurent ses premiers ouvrages, le roman se bornait à la peinture d’une passion unique: l’amour. Et c’était un amour qui semblait ne pas connaître les misères de notre existence quotidienne, car les personnages de ces romans ignoraient les besoins matériels qui affligent la plupart des hommes, entre autres les soucis de l’argent.

  Peintre consciencieux de la réalité, Balzac comprit que la société moderne est dominée au contraire, par l’argent, et que c’est lui le pivot de presque toutes nos actions. Il voulut donc montrer l’importance du facteur économique dans la vie de ses héros; ainsi, par exemple, dans son roman «La peau de chagrin» il décrit un amant préoccupé non seulement de savoir si son amie l’aime, mais encore s’il a assez d’argent pour payer la voiture qui devra la ramener chez elle.

  Il faut observer que, de son temps, le gros public ignorait cette fièvre du gain qui sévit aujourd’hui, et que seulement les banquiers jouaient à la bourse. C’est pourquoi le mouvement des capitaux, les spéculations, les chiffres, les calculs, les angoisses que causent les affaires, tout cela étonna et rebuta les lecteurs, passionnés de contes sentimentaux.

  Les romans de Balzac, furent donc critiqués, furent considérés lourds et ennuyeux. Mais ensuite on comprit que le but de l’auteur n’était nullement celui d’intéresser par des intrigues plus ou moins bien nouées, mais de peindre la société tout entière, avec ses types et ses problèmes. Alors son œuvre fut appréciée à sa juste valeur et eut un succès considérable.     

  Balzac avait, avec une nature exubérante, une imagination des plus fertiles, et une ambition sans bornes. Lui-même aimait s’appeler le «Napoléon des lettres», et sur le socle d’une statue du grand empereur, qui trônait dans son cabinet de travail, il avait gravé ces mots: «Ce qu’il n’a pu faire avec l’épée, je le ferai avec la plume».

  Il voulut en effet créer un monde: sa «Comédie humaine» est une vaste revue des mœurs de son temps, où nous recontrons (sic) une foule de types inoubliables, des centaines de personnages de toutes les classes et de toutes les conditions, qui vivent d’une vie intense, dans un milieu que l'écrivain excelle à peindre avec une exactitude de détails vraiment remarquable.

  Balzac peut être considéré, par ce côté, comme le représentant du réalisme en France.

  Selon lui, le romancier doit peindre les hommes tels qu’ils se présentent à son observation, tout comme le savant étudie et décrit les espèces animales et végétales Il fera ainsi une étude naturelle de la famille humaine, telle que la société l’a façonnée.

  Il écrivait à cet égard, dans la préface de son roman «La maison du chat qui pelote» (sic): «La société ne fait-elle pas de l’homme, suivant les milieux où l’action se déploie, autant d’hommes différents qu’il y a de variétés en zoologie? Les différences entre un soldat, un ouvrier, un administrateur, un avocat, un oisif, un savant, un homme d’état, un commerçant, un marin, un poète, un mendiant, un prêtre sont, quoique plus difficiles à saisir, aussi considérables que celles qui distinguent le loup, le lion, l’âne, le corbeau, le requin, le veau marin, la brebis, etc. Il a donc existé, il existera donc de tout temps des espèces sociales comme il y a des espèces zoologiques».

  Nous comprenons, par ces mots, que Balzac se proposait de peindre les différents aspects de la société, incarnés dans les types du financier, du savant, du commerçant, du collectionneur, etc.

  Mais parmi ces personnages il préférait ceux qui ont une nature énergique, une volonté de fer, des passions profondes et même monstrueuses; et il se plaisait à décrire les grandes luttes pour la conquête de la richesse, du pouvoir, du plaisir, de la Science.

  L’influence de Balzac sur le roman fut puissante. Parmi ceux qui ont puisé chez lui il faut citer Flaubert. Que de «Emma Bovary» trouvons-nous dans l’œuvre de Balzac!

  En Italie l’influence de Balzac se ressent chez Fogazzaro attaché aux lacs et aux montagnes des environs de Vicence, mais surtout chez deux Siciliens: Verga et Pirandello. Verga dont l’œuvre enracinée dans son village de Vizzini est une peinture de Mœurs. Chez Verga, comme chez Balzac, l’intrigue est toujours insignifiante. Quant à Pirandello, la peinture des mœurs chez lui est presque inexistante, mais l’esprit, la philosophie, l’amertume sont balzaciens.

  Balzac est, après Molière, le plus grand créateur de types humains. Comme le célèbre auteur comique du XVII° siècle a peint la société de Louis XIV, lui nous fait connaître les mœurs françaises sous la Restauration et la monarchie de Louis Philippe. Il a fait revivre les ministères, les salons, les tribunaux, les magasins, les ateliers, les garnis; toutes les grandeurs et les misères du grand monde et de la bourgeoisie, soit à la capitale que dans la province.

  Comme Molière, il a créé des êtres aux traits marqués, des êtres possédés par des passions tyranniques et douloureuses, nuisibles pour eux-mêmes et pour leur prochain.

  Mais Balzac va plus loin que Molière.

  Son imagination puissante le transporte au-delà de la vérité objective: sous sa plume, la réalité se transforme en une sorte de sur-réalité. C’est ainsi que l’individu devient le symbole d’une conception abstraite. Tout en gardant sa physionomie particulière, sa façon de parler et d’agir, qui le distinguent des autres, il est le représentant dune catégorie d’êtres semblables: lincarnation vivante dune idée.

  Aussi le père Goriot symbolisera-t-il l’amour paternel, Grandet l’avidité de l’or, Rastignac l’ambition, le baron Hulot la soif du plaisir, la cousine Bette la jalousie, etc.

  L’être humain obéit, chez lui, à une passion unique qui attire à elle toutes ses énergies, et son caractère présente une cohérence et une logique qui prennent la valeur d’une démonstration. Or, peindre des personnages entièrement absorbés par une passion, c’est imaginer une vérité toute virtuelle: la vérité de idéalistes.

 Ainsi Balzac qui partait de l’observation objective de la vie, atteint l’idée-type dans quelques-unes de ses créations.

  Si nous poussons plus loin l’analyse de son œuvre, nous trouverons, dans sa «Comédie humaine», une idée philosophique profonde, d’où sort une affirmation qui forme l’unité de son œuvre entière: toute existence est une lutte perpétuelle entre les forces créatrices et conservatrices de l’être et les forces destructrices. D’un côté la raison et l’activité spirituelle constituent pour l’homme une source de vie; de l’autre côté la sensibilité et la passion sont pour lui une source de mort.

  Or l’observation et l’expérience disaient à notre auteur que la passion est plus forte que la raison, que la mort triomphe de la vie: conclusion, comme l’on voit, profondément pessimiste, qui dominera toute la littérature de la seconde moitié du XIX° siècle.

  Ajoutons encore que, en véritable précurseur, Balzac a porté dans le roman cette tendance qui annonce Zola par la classification de ses contemporains en classes sociales.



  Giovanna D’Errico, Honoré de Balzac et Le Réquisitionnaire. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1956.

 

 

  Felice Del Beccaro, Scrittori francesi, «Giornale del mattino», Firenze, Anno III, 6 ottobre 1956.

 

  Di Gaëtan Picon ricordiamo una vivace conversazione tenuta l’anno scorso all’Istituto Francese di Firenze, dove il valoroso critico allora insegnava. Il Picon parlò di taluni aspetti, i peculiari naturalmente, dell’attuale critica francese e lo fece con un rigore, una sicurezza di penetrazione, un potere di sintesi che, assieme al dono, diciamo così proverbiale, di un eloquio brillante, finì per incantarci. [...].

  Oggi, Gaëtan Picon presenta una specie di ritratto di Balzac (G. P., Balzac par lui-même, Parigi, Aux éditions du Seuil, 1956), in quell’agile collana, in buona parte riuscita, che s’intitola «Ecrivains de toujours» e che si è imposta all’attenzione di un largo strato di lettori, non soltanto in Francia.

  Mantenendosi fedele allo spirito della collana stessa, il Picon ha compiuto un vero e proprio lavoro di revisione, una sorta di ripensamento della vicenda dell’arte balzacchiana, giuocando su di un intelligente contrappunto di testi per far spiccare, con un raro gusto della prospettiva, la personalità dello scrittore, liberandola dai soliti luoghi comuni, dai passaggi obbligati a cui si trovano quasi sempre costretti gli esegeti che si propongono un obbiettivo di divulgazione.

  Questo titanico lottatore, impegnato da quattordici a diciotto ore al giorno a tavolino, sempre sovraccarico di lavoro, sempre preso da un’autentica passione, o meglio ancora frenesia creatrice, fu, al di là di certe apparenze, uomo ed artista di inflessibile disciplina, così scrupoloso ed attento allo stile, ai movimenti anche più esterni della scrittura, da esser costretto a correggere le stesse bozze di stampa perfino sei o sette volte.

  Il Picon considera, in tutta la loro pregnante dialettica, gli ideali di Balzac rapportandoli ai risultati concreti dell’enorme lavoro, a principiare dalla ricchezza e dalla gloria che furono come leve per quel possente intelletto. La realtà fu per lo scrittore il campo in cui esercitarsi, il solo in cui ritrovarsi intero dopo tanta tenace ricerca. Dalla vita disagevole dei collegi di Vendôme e di Parigi, dagli studi di diritto, sempre con quel richiamo squillante della filosofia, dal lavoro grigio nella soffitta della rue Lesdiguières alla triste esperienza affaristica ed infine al successo pieno e continuo, Balzac appare nella sua immagine più vera, che è lineare e complessa ad un tempo. Trisfiguratore (sic) senza pari della realtà, che, ricompone in una vasta sintesi, il romanziere è ritratto come per mezzo di saquenze (sic) abilmente saldate. La bravura del Picon è, in questo senso, indiscutibile; ma non si tratta di bravura soltanto chè al mestiere, per quanto consumato, si può arrivare con mezzi anche limitati. Nel nostro caso si avverte, chiaro, il lavoro dell’impegno, attraverso una fitta ed agile problematica; di un impegno lucido e sicuro che realizza senza esitare non appena si è impadronito di un disegno netto e razionalmente atteggiato.

 

 

  Emilio Enrici, Svelato Balzac segreto, «Il Giornale», Napoli, 22 giugno 1956, p. 3.


  Uno specialista di Balzac, fervente della sua opera, Félicien Marceau nella notevole opera che egli consacra a «Balzac et son monde» (Gallimard-editore-Parigi), ha fatto questa importante confessione che egli aveva «letto Béatrix [il corsivo, qui, come in seguito, è nostro] una prima volta senza notarvi nulla». Anche senza essere infanti molti fra i lettori e fra gli ammiratori della Comédie humaine hanno potuto condividere questa impressione soprattutto nel tempo nel quale Balzac scriveva, e nel quale il pudore del pubblico, pur senza ignorare nulla dei dietroscena costanti nella umanità, era meno provveduto dei lettori della letteratura di oggi, sulle anomalie dei costumi. E’ stato necessario che Gide e Proust con tutto il loro seguito, dicessero le cose a colpi di bomba, perché i lettori di oggi si avvedessero senza meravigliarsi delle relazioni di Vautrin e di Rubempré, e del caso di «La Fille aux yeux d’or» che era già nel 1815 una «prigioniera». E’ un luogo comune dire che Balzac ha tutto visto delle cose del suo tempo. Bisogna precisare: tutto visto e tutto conosciuto, il che spiega come mai questo diavolo d’uomo (Gautier lo chiamavo in questo modo) abbia avuto la possibilità di saperne tanto sull’uomo, i costumi, la società, preso come era nel turbine incessante delle sue creazioni. Si dirà che era un genio, e che l’immaginazione intuitiva supplisce all’esperienza. Ma tutti i nuovi lumi portati su Balzac e sulla sua opera dai suoi esegeti, mostrano, invece, l’esperienza di questo prodigioso scrittore, in modo che si ritorna sempre allo stesso punto: dove e quando ha avuto il tempo di saper tanto pur nel suo continuo schiacciante lavoro? Balzac non ha dato informazioni se non materiali (progetti fatti, numeri di pagine scritte e volumi) sul lavoro, e nessuna sul lavoro di fantasia tranne che in «Facino Cane» così spesso citato per dimostrare la facilità che egli aveva di entrare nella pelle, nell’animo, nelle abitudini d’un personaggio immaginato o realmente incontrato. Si sa anche che Balzac aveva il dono di far parlare i suoi interlocutori e di provocare le loro confidenze. Alcune donne, quali La duchessa D’Abrantès, Madame de Berny, Madame Carraud, Madame de Castries, Marbouty, e poi Madame Hanska gli hanno molto insegnato sulle donne. Ricevuto il germe, la fantasia del romanziere se ne impadroniva, lo riscaldava, lo faceva crescere. Il resto è sviluppo, e sviluppo nel senso del vero, che l’ingrandimento al livello dell’opera gigantesca, non ha fatto mai cessare d'essere vero. Certo in Balzac c’è del visionario, ma nel quale la visione procede da un piccolo dettaglio osservato direttamente o a lui trasmesso da un altro. Non per questo tutto ciò è meno favoloso, e davvero all’altezza di un mondo creato tutto dalle opere di questo demiurgo: il mondo di Balzac, che la vita finirà anche a volte, par imitare. In lui, c’è l’osservatore, fatto doppio dal profeta.

  Son questi alcuni dei temi del libro di Félicien Marceau, che va lodato prima di possedere Balzac così bene, di averlo così bene letto, di ricordarsi così esattamente e così a proposito di tanti dettagli. Ma nessuna conoscenza completa si ha senza amore, e Félicien Marceau ama Balzac, e lo ama e ne parla da vero romanziere quale egli è: gran vantaggio per un critico, per un erudito, un commentatore quello di essere tanche un romanziere: si sa che cosa sono la fantasia e la creazione letteraria. Nel mezzo di questo mondo balzacchiano, una vera foresta, Félicien Marceau si trova a suo agio. Non soffoca, non si lascia schiacciare. E, per continuare nell’immagine, si può dire che egli della foresta conosca ogni albero, ogni arbusto. Bisogna aggiungere che Marceau, disinvolto, vivo, pieno di nervoso talento personale, ha scritto un libro che non fa torto alla sua erudizione, e si legge come un romanzo, il romanzo di un’opera.

  Inoltre Marceau ha aggiunto un suo Index di tutti i personaggi balzacchiani, ma raggruppati per categorie analitiche: la geografia sommaria del mondo del romanziere, le donne, le vecchie zitelle, la vita letteraria, artistica, galante. Una seconda parte tratta i temi: idee generali, amore, volontà di potenza, l’assoluto, i luoghi e i tempi, la politica, il danaro ecc. In somma tutto Balzac analizzato, anatomizzato, diviso in categorie; una specie di puzzle disfatto e ricostruito. La Comédie humaine interamente disarticolata per una precisa revisione, pezzo per pezzo, i suoi dietroscena illuminati da un getto di luce potente e precisa, con Balzac sempre presente con le sue innumerevoli citazioni. A proposito di una di esse, il cui testo Balzac aveva voluto impresso in italico, Marceau ammira il perché puramente tecnico, di grande efficacia. Il Vecchio Faguet, che sapeva leggere, aveva già segnalato la «virtù del sottolineato» per mettere in evidenza un’osservazione o un, pensiero che, altrimenti, non attirava l’attenzione del lettore o distratto o frettoloso. Le citazioni che Marceau fa di Balzac sono eccellenti: provocano la riflessione, incitano ad andare a ricercare la frase nel contesto originale. Così che par di vedere il libro di Marceau aperto sulle vostre ginocchia, e intorno a voi dieci tomi delle opere di Balzac per cercare e ritrovare una scena, un dialogo, ed ecco che vi immergete, letteralmente, in Balzac per tutta una giornata! Félicien Marceau può essere contento, in quello che voleva è riuscito pienamente: ci ha indotti in curiosità, ci ha innamorati, e noi siamo ripartiti in felice navigazione.

  In questo non vi è che Balzac, ma c’è anche l’intelligente Marceau, sottile lettore. In principio si è riportata la confessione di Marceau, di aver letto Béatrix una prima volta senza capirla tutta. Ma non che Balzac sia difficile, è che Marceau ha ben penetrata la ragione di una possibile incomprensione. Balzac è discreto, non dice tutto, spesso si accontenta di indicare una via, che presentata in modo più esplicito, potrebbe apparire scandalosa. Alcuni esempi tratti dalla fisiologia dei personaggi, alcuni dettagli di anomalie o di atroci vendette per malattie comunicate, parole di mestiere, progetti di ragazze lasciano intravvedere un realismo balzacchiano, contenuto ma reale, del quale non ci si rende sempre conto alla lettura del romanzo, trascinati dal dinamismo del racconto; Ciò giustifica e spiega il «tutto saputo e tutto visto del suo tempo» da non imputare al visionario, ma da accreditare all’osservatore. Balzac non ha solamente inventato, egli ha soprattutto «guardato». Altro punto importante messo molto bene in luce da Marceau per corroborare la tesi del realismo di Balzac e l’aderenza fra alcuni suoi personaggi, e appunto personaggi davvero esistiti. Così Rastignac, freddo, arrivista portato al potere dalla rivoluzione del 1830, rassomiglia al giovane Monsieur Thiers; Marsay ha in lui del Morny, come lui giovane bastardo diventato capo di governo; il nobile e puro d’Arthez rassomiglia ai Vigny; Canalis, ridicolmente fatue (sic), sarebbe per metà Lamartine; il pittore Joseph Bridau ha certamente del Delacroix nelle sue origini e nella sua fisonomia. Inutile insistere su questa contaminazione fra romanzesco e realtà: è possibile anche che la vita finisca per rassomigliare ad un romanzo!


 

  Marise Ferro, Peonie scarlatte e ortensie azzurre, «Stampa Sera», Torino, Anno X, N. 166, 17-18 Luglio 1956, p. 3.

 

  Il mio amore per la letteratura, quest’anno, a Parigi, mi ha fatto andare a visitare i cimiteri. Da tempo desideravo vedere il Père Lachaise solo perché Rastignac, il personaggio che nell’opera di Balzac personifica l’arrivista, alla fine del romanzo Le père Goriot, dopo avere assistito alla sepoltura del vecchio Goriot, esclama rivolgendosi alla città che domina da un’altura: A nous deux maintenant!

  Volevo vedere la Parigi che Rastignac apostrofò. Balzac la descrive in pochi periodi: «Rastignac, rimasto solo, fece qualche passo verso il punto più alto del cimitero e vide Parigi, tortuosamente coricata lungo le due rive della Senna, dove incominciavano ad accendersi i fanali. I suoi occhi si fissarono avidamente tra la colonna della piazza Vendôme e la cupola degli Invalides, quartiere in cui viveva l'alta società in cui voleva penetrare ...». Rastignac non vide di più, doveva prepararsi a combattere le sue battaglie di ambizioso. Io, invece, dallo stesso punto in cui certamente Balzac sostò immaginando il suo personaggio, vidi una Parigi immensa coricata in quella nebbia azzurrina che sale dalle grandi pianure e vela amorosamente alberi, case, cicli. La torre Eiffel ai tempi di Balzac non esisteva e nel paesaggio dolcissimo egli, più fortunato di noi, non vide l’orribile intrico di metallo. Non vide nemmeno i grandi boulevards, quegli squarci panoramici e magniloquenti che Haussman fece fare e che creano la Parigi moderna. Vi erano, però, tutti gli elementi che formano l’incanto di Parigi e ch’egli meravigliosamente descrisse. [...].

  Desideravo vedere la tomba di Balzac, ma benché avessi sotto il naso una pianta del cimitero, come trovarlo in quel meandro di vialetti aperti fra migliaia di tombe? Confesso che la pigrizia fu più forte del mio amore, rimandai la tomba di Balzac a un’altra volta, e mi avviai lungo il grande viale semicircolare che porta all’uscita.

 

 

  Marise Ferro, Nei vecchi castelli della Loira. Sangue e ombre regali, «Stampa Sera», Torino, Anno X, Numero 266, 13-14 Novembre 1956, p. 3.

 

  Fermarsi a Tours vuole dire, per il viaggiatore che abbia gusti letterari, riandare lungo certi itinerari balzachiani e ricordare ciò che egli scrisse della città e della provincia. Per prima cosa, per quanto occasionalmente, egli vi nacque, da un padre meridionale e da una madre parigina, nell’agosto (sic) del 1799. Si vantò d’essere «tourangeau»? Non lo ricordo, e per una balzachiana quale mi vanto d’essere, è una gravissima mancanza. Descrisse Tour (sic) e la Touraine molte volte nella sua opera, ne Le curé de Tours, l’Illustre Gaudissart, La Grenadière, Le lys dans la vallée, e ne esagerò un poco, almeno agli occhi di noi italiani, le bellezze. Descrivendo la Grenadière, per esempio, villa «situata a un miglio dal ponte di Tours, nei punto in cui il fiume, largo come un lago, è disseminato di isole verdi», dice ch’era: «... nel cuore della Touraine, una piccola Touraine dove tutti i fiori, tutti i frutti, tutte le bellezze del paese sono rappresentate. Vi è l’uva d’ogni contrada, pesche e pere di ogni specie, e campi di meloni vicini alle ginestre di Spagna, gli oleandri d’Italia, ai gelsomini delle Azzorre. La Loira scorre ai vostri piedi. La si domina da una terrazza alta trenta metri sulle acque capricciose; la aera si può respirare le brezze venute dal mare e profumate dai fiori agitati lungo la strada. Una nuvola errante che ad ogni momento cambia forma e colore nel cielo di un perfetto azzurro, dà mille aspetti nuovi ad ogni particolare del magnifico paesaggio che si offre agli sguardi da qualunque punto lo si guardi».

 

Paese nordico.

 

  Noi, leggendo una descrizione di tale genere, immaginiamo subito l’aria profumata, i fiori e i frutti sparsi con dovizia, il cielo azzurrissimo. Non credo che la Touraine sia cambiata molto dal tempo in cui Balzac la descrisse e La Grenadière (1832), pure oggi, chi vi viaggia, non vede fiori e frutti sparai ovunque, non respira brezze profumate, soprattutto non vede mai, o molto raramente, il cielo azzurro. La Touraine, pure essendo una regione stupenda, rigogliosa, fertile, pittoresca e ridente, è un paese nordico. Il cielo vi è instabile, di un azzurro tenue, scolorito dai frequenti rovesci di pioggia, l’aria vi è freddina anche in agosto, i fiori vi sono di bellissimi colon ma grazie all’arte della coltivazione e i frutti, all’infuori dei meloni molto più dolci e profumati che da noi, non possono neppure lontanamente essere paragonati alle pesche e pere di Versilia o di Cesena o di Albenga, tanto per rimanere solo all’Italia del nord. Il fatto è che lo scrittore, anche di genio come Balzac, descrive senza riferimenti di contrasto, adoperando il linguaggio del vocabolario, che ha una precisione matematica, per cose mutabili e che la immaginazione del lettore vede secondo le proprie esperienze. Chi visita la Touraine, quindi, credendo sia il soleggiato e profumato paese descritto da Balzac, avrà una grossa delusione. [...].

 

 

  F.[elice] F.[ilippini], Nota, in Honoré de Balzac, Piccole miserie della vita coniugale ... cit., pp. 5-11.

 

  [...]. I trentasette capitoli che compongono le Piccole miserie della vita coniugale (nell’originale: Petites misères de la vie conjugale) sono nati in varie occasioni, e sono stati raccolti nella fitta selva delle collaborazioni giornalistiche che Balzac non smise mai di esplicare, nel vano intento di riuscire infine a liberarsi dai debiti per poter attendere in pace alla sua monumentale opera di romanziere. I brani di questo libro videro la luce in date che oscillano tra il 1830 e il 1845.

  L’anno in cui Balzac raccoglie tutta la materia sparsa delle Piccole miserie della vita coniugale redigendone il gruppo più compatto di capitoli, il 1845, è pure l’anno in cui il fecondo artista restò più silenzioso. Le cronache editoriali registrano solo la pubblicazione di Un Homme d’affaires.

  Un lungo periodo d’impazienza interiore è giunto all’acme, alla crisi: Balzac è interamente assorto nelle vicissitudini strane e strazianti del proprio matrimonio con la signora de Hanska.

  Nella primavera di quell’anno, l’inaccessibile e gelida creatura gli rivolge un cenno; desidera vederlo. Immediatamente, senza darsi cura delle migliaia di lettori che aspettano il seguito dei suoi romanzi, né dei giornali che gli hanno versato anticipi e maledicono quel dannato uomo sul quale è impossibile far calcolo, Balzac butta i manoscritti nel cassetto e si stacca con un sospiro di sollievo dalla letteratura: lo chiama il libro della sua stessa vita.

  Incarica la sola creatura fedele di cui si fidi, la vecchia madre, di temporeggiare con i creditori; che il redattore capo Girardin sbraiti, e moderi come gli garba l’impazienza dei suoi lettori; che l’Académie, dopo avergli fatto fare anticamera per tanto tempo, vada al diavolo.

  Honoré de Balzac si reca a Dresda. E ha inizio un periodo stranamente muto della sua rabbiosa esistenza; sappiamo solo che s’incontrava ogni giorno con la signora de Hanska, la quale dalla Polonia s’è recata al seguito la figlia, la contessa Anna, e il fidanzato di questa, il conte Mniszech. Balzac non lavora, Balzac si trastulla in una frivola esistenza, in cui fa un poco la parte del buffone: ha battezzato la piccola società «la compagnia dei saltimbanchi»; e la compagnia compie delle tournées di piacere a Carnstadt, a Karlsruhe, a Strasburgo.

  Balzac riesce ad attrarre la piccola troupe a Parigi, dove affitta una casa. Si abbandona al piacere di far conoscere loro la sua città: chi meglio di lui è in grado di farlo? In agosto sono a Fontainebleau, a Orléans, a Bourges; mostrerà loro Tours, la sua città natale. Da lì si dirigono verso Rotterdam, l’Aja, Anversa e Bruxelles. Dopo un breve allontanamento di Balzac chiamato a Parigi, egli raggiunge il terzetto a Baden Baden: e infine, a ottobre, partono insieme da Marsiglia per dirigersi su Napoli. Honoré de Balzac realizza infine il sogno di un viaggio in Italia, e al fianco di una diletta amante!

  Durante quei viaggi, Balzac non scrive una parola. L’uomo che solitamente trascorre quindici ore ogni giorno allo scrittoio non verga nemmeno una lettera. Non vi sono più amici, editori, redattori, debiti: v’è l’amore soltanto, l’amore e la libertà. La Commedia umana è dimenticata.

  Ma la signora de Hanska non era all’altezza di quell’immenso giubilo. Nulla c’induce a credere che quella donna fosse disposta a sposarlo: sembra invece che – già matura, matronale e sfatta – si lasciasse volontieri andare a vivere con lui, dividendone il destino e il denaro, senza impegnarsi mai. Lui, il grande genio, possedeva e coltivava sentimenti borghesi; lei, l’aristocratica, godeva di una maggiore libertà di spinto. Starsene con lui in compagnia della figlia e del futuro genero passi; anzi può essere delizioso. Ma una cosa Eva sembra paventare al disopra d’ogni altra: trovarsi sola con lui.

  Il poveretto, intanto, fedele al destino d’immensità che accompagnò ogni suo atto, s’è votato alla ricerca di un palazzo degno di lei, e lo sta ammobiliando con cose di pregio, spendendo tutto il suo tempo presso antiquari e affaristi senza scrupoli. Col suo denaro sempre così scarso, ma soprattutto buttando via una quantità di tempo ben più prezioso, egli ammobilia infine un hôtel particulier in via Fartunée: dove riuscirà finalmente a portare la de Hanska, impalmata l’anno della morte, il 14 marzo del 1850, nella chiesa di Santa Barbara della capitale ucraina di Berdicheff.

  La signora de Hanska segue di malavoglia, lungo un viaggio orribile, Honoré de Balzac che ha perduto se stesso ed è malato, quasi cieco (soffriva di quel trismus di cui discorre nel diciannovesimo capitolo di questo libro, Assolo di carro funebre; sorta di trasalimenti della palpebra ch’egli descrive come «convulsioni nervose che mi fanno battere i nervi degli occhi, delle guance, e trasalire i muscoli del cranio»), fino alla via Fortunée, dove lo scrittore aveva ordinato alla madre di far disporre un’accoglienza trionfale: fiori, candelabri accesi; come per una lugubre festa.

  Ma lo aspetta una scena che nemmeno nel più sinistro dei suoi romanzi egli avrebbe saputo immaginare. Il treno è giunto in ritardo, s’accostano in fiacre alla casa ... (Il servo François ha eseguito il compito suo: la palazzina è illuminata dal suolo agli abbaini.) Suonano: nessuna risposta. Balzac tira impaziente la corda della campana ... S’adunano dei vicini. La signora è rimasta nella carrozza mentre Balzac ha mandato per un fabbro che scardini il portone. Così come ha forzato la soglia del matrimonio, dovrà forzare l’accesso della propria dimora.

  E ha luogo una scena fantastica. Trovano François in una camera: è improvvisamente impazzito. E mentre la gente accorsa s’impadronisce del folle per trascinarlo al manicomio, Balzac fa penetrare Eva de Hanska-Balzac nella casa che gli è costata tanti anni di fatiche. Essa scrive alla figlia: «Bilboquet» (l’omino col piombo al piede, il nostro «misirizzi», soprannome dato a Balzac in famiglia) «è giunto qui nelle peggiori condizioni: non può più camminare e soffre di sincopi ininterrotte».

  Povero Balzac. Invocava Bianchon, il medico Orazio Bianchon, il luminare della Commedia umana al quale egli aveva fatto compiere dei miracoli: «Ah, sì, so ben io. Bianchon ci vorrebbe. Bianchon saprebbe salvarmi, lui!».

  Quando, nella notte dal 17 al 18 agosto 1850, Balzac muore, solo sua madre lo assiste. Da tempo la signora Eva de Balzac se ne è andata.

  Abbiamo ricostruito qualche frammento dell’esperienza matrimoniale di Balzac, per il contrasto evidente ch’essa offre con il contenuto di questo libro sul matrimonio, con cui egli, con molto spirito e tanta grazia, aveva ripreso la vecchia Fisiologia del matrimonio, del 1829, l’opera che aveva fatto di lui un autore a successo. Con quel libro aveva voluto tentare lui pure il genere delle «fisiologie», quelle divagazioni più o meno argute e istruttive che allora conoscevano una grande voga. E aveva sollevato un vero e proprio scandalo (vale qui ricordare che Omnes fabulae amatoriae di Honoré de Balzac sono state messe all’Indice, tra il 1841 e il 1864), per il cinismo – più rabelaisiano che convinto – con cui riduceva la vita coniugale al tepore dell’alcova. Lo scrittore vi aveva profuso un po’ della sua titanica energia, mista a quella volgarità che nelle opere maggiori risulta moderata e soverchiata dalla potenza fantastica e dall’impeto della creazione. Ben altro, qui.

  Protagonista incantata di questo libro è Parigi, di cui si diceva che fosse «il paradiso delle donne, il purgatorio degli uomini, l’inferno dei cavalli ...».

  V’è un passaggio di Facino Cane che dipinge benissimo la disposizione, addirittura la rabbia di Balzac nell’osservare la gente e le cose, per servirsene nelle sue piramidali costruzioni, fedele al proprio carattere d’uomo di scienza e di sogni, di grande visionario che analizzava il mondo secondo principi metodici rigorosi, quasi da esperto clinico (diceva Oscar Wilde che Balzac era «una notevolissima combinazione del temperamento artistico con lo spirito scientifico»):

  «Una sola passione mi trascinava lontano dai miei diletti studi: ma non si tratta forse di un altro genere di studio? Andavo a contemplare i costumi del sobborgo, i suoi abitanti, i suoi caratteri. Malvestito come un bracciante, indifferente al decoro, non li mettevo affatto in guardia contro di me; sapevo mescolarmi ai loro gruppi, vederli concludere i loro affari e litigare quando finiva il lavoro. In me l’osservazione era già divenuta intuitiva: essa penetrava l’anima senza trascurare il corpo; o meglio, coglieva così bene i particolari esteriori, che tosto si recava al di là, dandomi la facoltà di vivere la vita dell’individuo su cui s’esercitava, e concedendomi di sostituirmi a lui, come il derviscio delle Mille e una notte assumeva i tratti e l’anima delle persone pronunziando certe parole. Quando, tra le undici e mezzanotte, incontravo un operaio che rincasava con la moglie dall’ “Ambigu-Comique”, mi divertivo a seguirli dal boulevard del Pont-aux-Choux fino al boulevard Beaumarchais ... Ascoltando quella gente potevo sposarne la vita, mi sentivo i loro cenci sulle spalle, camminavo con i piedi nelle loro scarpe sfondate; i loro desideri, i loro bisogni, tutto passava nella mia anima, e la mia anima passava nella loro; era come il sogno di un uomo sveglio ...».

  Il passeggiatore meraviglioso sapeva mettere a profitto il tesoro delle sue osservazioni.

  Nel ventiduesimo capitolo di questo libro, Balzac dà un’idea della propria tecnica creativa: «È difficile diventare uno scrittore e conoscer la lingua in cui ci si esprime, prima di avere sgobbato come un Ercole per dodici anni; bisogna aver scrutato fino in fondo tutta la vita sociale, per essere un autentico romanziere, dato che il romanzo è la storia privata delle nazioni; i grandi narratori (Esopo, Luciano, Boccaccio, Rabelais, Cervantes, Swift, La Fontaine, Lesage, Sterne, Voltaire, Walter Scoti, gli arabi ignoti delle Mille e una notte) sono a un tempo dei geni e dei colossi d’erudizione».

  Questo libro è il trastullo di un genio, che vi profonde il tesoro delle proprie annotazioni su una vita di cui solitamente ritraeva in maniera potente i drammi e le convulsioni. V’è spesso la pagina felicissima, la scena acutamente ritratta, l’osservazione degna di un Daumier (come i notai del contratto di matrimonio, schizzati in una litografia ironica con queste parole: «... due orribili notai: uno piccolo, l'altro grande»).

  E v’è soprattutto la capacità intuitiva di Balzac, che sapeva entrare nei panni di tutti i suoi personaggi. Dopo la prima parte, le miserie viste dal sesso maschile, egli si lascia calare con grande felicità nella giungla dell’animo femminile, e descrive le molestie matrimoniali, e le delusioni – grande tema balzacchiano! – tutto compenetrato nel nuovo ruolo, e con la medesima convinzione, col suo magico potere di rendere probabile, insostituibile ormai, tutto ciò che sfiora.

  Ecco la storia delle pubblicazioni della presente opera.

  Il 4 novembre del 1830 il creatore della Commedia umana pubblicava il capitolo XVIII, La campagna di Francia, sotto il titolo di Les Voisins e a firma Henri … nella «Caricature», in una prima versione che differisce sensibilmente da quella definitiva, ripresa già nel «Diable à Paris» nel 1844.

  L’11 novembre del 1830, la «Caricature» pubblicava il capitolo XIX, Assolo di carro funebre, col titolo Une consultation, a firma Alfred Coudreux: versione che fu anch’essa ulteriormente elaborata.

  Tra il 1839 e il 1840 Balzac pubblicava sulla «Caricature provisoire» i capitoli dal II al IX, e i capitoli XXIII e XXIV.

  Nel 1844, una serie di capitoli (precisamente quelli dal X al XIX, e. il XXXVII e ultimo, col Finale) escono sul «Diable à Paris».

  Infine, la «Presse» dell’annata 1845 pubblica tutto il resto, vale a dire i capitoli XX, XXI, XXII, XXXV e XXXVI.

  I trentasette capitoli delle Piccole miserie della vita coniugale apparvero per la prima volta raccolti, in ottavo, da Chlendowski, in cinquanta dispense di mezzo franco ciascuna, tra il 1845 e il 1846: ai trentasette capitoli già apparsi, era stato aggiunto il primo, che fa da prefazione all'opera.

  Nel 1846 Balzac ne licenzia una nuova edizione parziale, da Hetzel, illustrata da Gavarni, sotto il titolo di Paris marié, Philosophie de la Vie conjugale.

  Nel corso dello stesso anno, Roux e Cassanet pubblicarono l’edizione completa, non illustrata, in tre volumi.

  Infine, dopo la morte di Balzac, nel 1855 le Piccole miserie occuparono il posto loro assegnato nella Commedia umana, fra gli Studi analitici, come séguito della Fisiologia del matrimonio (Edizione Houssiaux, volume XVIII). In tali Studi analitici, terza grande suddivisione della Commedia umana, Balzac prospettava di inserire anche l’Anatomie des Corps enseignants, la Monographie de la Vertu e il Dialogue philosophique et politique sur les perfections du XIXe Siècle, che non vennero mai scritti.

  Il testo da noi utilizzato è un esemplare dell’edizione Chlendowski (ripreso nelle Opere complete edite da Louis Conard. 1928) che appartenne personalmente a Balzac ed appare corretto qua e là di suo pugno.

  Alcuni dei personaggi che figurano in quest’opera compaiono anche in altre dello stesso autore. Eccone l’elenco:

  Signora Mahuchet: Les Comédiens sans le savoir;

  Giuseppina du Ronceret: Béatrix, La Muse du Département, La Cousine Bette, Les Comédiens sans le savoir;

  Adelaide Schinner: La Bourse;

  Ferdinando du Tillet: César Birotteau, La Maison Nucingen, Les Petits Bourgeois, Un Ménage de Garçon, Pierrette, Melmoth réconcilié, Illusions perdues, Les Secrets de la Princesse de Cadignan, Une Fille d’Ève, Le Député d’Arcis, La Cousine Bette, Les Comédiens sans le savoir;

  Claudio Vignon: Illusions perdues, Une Fille d’Ève, Honorine, La Cousine Bette, Les Comédiens sans le savoir.

  Vedasi, per quanto riguarda tali romanzi, e la vita e l’opera di Balzac in genere, il volume già apparso in questa stessa collezione: T. Gautier, Vita di Balzac, con appendici e repertori a cura di A. Crimi, B.U.R. nn. 430 -431 [cfr. 1952].

 

 

  Nino Frank, Serve il giornalismo ai giovani ambiziosi?, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XII, 9-10 febbraio 1956, p. 6.

 

  Prima dell’ultima guerra, Rastignac, piombato a Parigi per conquistarla, avrebbe senza il menomo dubbio deciso di entrare in un giornale: il giornalismo menava ancora a tutto, e senza che fosse più necessario «en sortir». Ma ora le cose sono molto cambiate: e Rastignac preferirebbe la radio o la televisione. [...].

  Se Balzac fosse con noi, direbbe come me: cerca piuttosto d’entrare alla televisione...

 

 

  Arnold Hauser, La generazione del 1830, in Storia sociale dell’arte. IV. Arte moderna e contemporanea. Traduzione di Maria Grazia Arnaud, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1956 («Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria», 66), pp. 11-96.

 

  pp. 73-96. I caratteri di Balzac sono più coerenti, meno complicati e problematici di quelli di Stendhal; in certo modo essi segnano un ritorno alla psicologia delle opere classiche e romantiche. Sono monomani, soggiogati da una sola passione e ogni loro passo, ogni parola sembra obbedire a un ordine. Ma quel ch’è strano è che tale costrizione non menoma la verosimiglianza delle figure, che risultano in definitiva più reali di quelle stendhaliane, meglio rispondenti per altro, con le loro antinomie, alle nostre concezioni psicologiche. Ci troviamo di fronte al mistero di un’arte travolgente, benché straordinariamente disuguale di valore, che costituisce un fenomeno fra i più inesplicabili nella storia della creazione artistica. Del resto i personaggi di Balzac non sempre sono così semplici come si usa affermare: alla loro maniaca unilateralità spesso si associa una grande ricchezza di tratti individuali. Forse sono meno brillanti e «interessanti» degli eroi stendhaliani, ma appaiono più vivi, inconfondibili e indimenticabili.

  Si è chiamato Balzac gran pittore di ritratti, riconducendo l’irresistibile efficacia della sua arte alla potenza delle sue figure. Di fatto, parlando di Balzac, si pensa anzitutto alla giungla umana dei suoi romanzi, alla folla e alla varietà dei tipi a cui dà vita; ma per lui il fattore psicologico non è il più importante. Quando si cerca di chiarire l’origine del suo mondo, ci si deve sempre rifare alla sua sociologia, parlando delle condizioni materiali da cui sorge il suo cosmo intellettuale. A differenza di Stendhal, Dostojevskij o Proust, per lui c’è una cosa più essenziale, più irriducibile della realtà psichica. Un personaggio non ha importanza di per sé; comincia ad essere interessante e significativo soltanto come rappresentante di un gruppo sociale, come esponente di un conflitto tra opposti interessi di classe. Lo stesso Balzac considera sempre i suoi personaggi come fenomeni naturali e, quando vuol indicare i fini dell’arte sua, non parla mai della sua psicologia, ma sempre soltanto della sua sociologia, della sua storia naturale della società e della funzione dei singoli individui nella vita dell’organismo sociale. Tuttavia, non già come «dottore in scienze sociali», come gli piacque chiamarsi, egli divenne il maestro di un nuovo tipo di romanzo, ma come assertore della nuova idea dell’uomo, secondo cui «l’individuo esiste solo in rapporto con la società». Come da una scoperta geologica si può trarre tutto un mondo, — egli dice nella Recherche de l’absolu, — così ogni monumento di una civiltà, ogni casa, ogni mosaico esprime tutta una struttura sociale; tutto è espressione e testimonianza di quel grande processo. Una sorta d’ebrezza, d’estasi lo afferra di fronte a questa causalità sociale, a questa legge ineluttabile, che sola può spiegare il senso del presente, c quindi risolvere il problema su cui s’impernia tutto il suo mondo. La Comédie humaine difatti deve la sua intima unità, non al concatenarsi dell’azione, né al ricorrere dei personaggi, ma alla presenza di questo problema come motivo dominante, che in realtà ne fa un unico grande romanzo, la storia della moderna società francese.

  Balzac libera la narrativa dalle angustie dell’autobiografia e della pura psicologia, in cui si era rinchiusa nella seconda metà del Settecento. Egli spezza quei limiti di vicenda individuale, cui si attenevano tanto i romanzi di Rousseau e di Chateaubriand, che quelli di Goethe e di Stendhal, e si emancipa dallo stile di confessione che era stato proprio del Settecento, pur non riuscendo, naturalmente, a spogliarsi d’un tratto d’ogni elemento lirico-autobiografico. Balzac anzi trova il suo stile assai lentamente: in un primo tempo continua la letteratura in voga durante la Rivoluzione, la Restaurazione c il romanticismo, e anche nella piena maturità conserva reminiscenze di certi mediocri romanzi precedenti. Egli non può negare che la sua arte derivi dal misterioso romanzo nero e dal melo-drammatico romanzo d’appendice, come da quello amoroso e storico; e il suo stile discende da Pigault-Lebrun e da Ducray-Duminil, come da Byron e da Walter Scott. Non solo Ferragus e Vautrin, ma anche Montriveau e Rastignac rientrano nella serie romantica dei ribelli, dei proscritti, e il gusto del romanzo nero riaffiora, non solo nella vita degli avventurieri e dei delinquenti, ma, come è stato osservato, anche nella descrizione della vita borghese. La società moderna con i suoi politici, burocrati, banchieri, con gli speculatori, i gaudenti, le cocottes, i giornalisti, gli pare un incubo, un’implacabile danza macabra. Egli concepisce il capitalismo come una malattia della società e per un certo tempo vagheggia l’idea di trattarla da un punto di vista medico, in una Patologia della vita sociale. La sua diagnosi è che esiste un’ipertrofia del desiderio di profitto e di potenza, e la causa del male sta per lui nell’egoismo e nell’irreligiosità dell’epoca. In tutto egli vede le conseguenze della Rivoluzione e imputa il crollo delle antiche strutture gerarchiche monarchia, Chiesa e famiglia —- all’individualismo, alla libera concorrenza e alla smodata, sfrenata ambizione. Balzac descrive con mirabile acume i sintomi dell’epoca d’espansione economica in cui vive la sua generazione, penetra le fatali contraddizioni interne del sistema capitalistico, ma nello spiegarne l’origine dà troppa parte all’arbitrio, ed egli stesso non crede fermamente alla cura che prescrive. L’oro, il luigi d’oro e lo scudo, le azioni, le cambiali, le polizze e le carte da gioco, ecco gl’idoli e i feticci della nuova società: il «vitello d’oro» è qui una realtà più tremenda che nel Vecchio Testamento e il richiamo dei milioni è più seducente di quello della meretrice apocalittica. Balzac ritiene che le sue tragedie borghesi, anche se imperniate soltanto sul denaro, siano più crudeli del dramma degli Atridi; e infatti le parole di Grandet morente alla figlia: «Tu me ne renderai conto laggiù», superano in orrore i toni più cupi della tragedia greca. Le cifre, le somme, i bilanci sono qui gli scongiuri e gli oracoli di una nuova mitologia, di un nuovo mondo magico. Come nella favola i doni degli spiriti malvagi, qui i milioni emergono dal nulla e subito spariscono, dileguano. Balzac facilmente scivola in un tono fiabesco, quando si tratta di denaro. Gli piace far la parte di quei geni che coprono di doni i mendicanti, e con i suoi eroi si rifugia volentieri in un’orgia romantica di sogni. Ma sugli effetti ultimi dell’oro, sulle devastazioni ch’esso provoca, sull’avvelenamento dei rapporti umani che determina, egli non s’inganna mai; il suo senso della realtà mai lo tradisce.

  La caccia al denaro e al profitto distrugge la vita famigliare, allontana la moglie dal marito, la figlia dal padre, il fratello dal fratello, trasforma il matrimonio in un’associazione d’interessi, l’amore in un affare e incatena le vittime l’una all’altra come schiavi. Si può immaginare nulla di più sinistro dell’obbligo imposto dal vecchio Grandet alla figlia, erede della sua ricchezza? o di quei tratti del carattere paterno che riaffiorano in Eugénie, appena essa diventa padrona di casa? C’è qualcosa di più spettrale di questa forza della natura, di questo dominio della materia sulle anime? Il denaro estrania l’uomo da se stesso, distrugge gli ideali, corrompe gl’ingegni, prostituisce artisti, poeti, studiosi, del genio fa un delinquente, trasforma in avventurieri e in giocatori d’azzardo coloro che erano nati per essere dei capi. La classe sociale più responsabile della spietata economia monetaria, quella che ne trae il massimo profitto, è naturalmente la ricca borghesia; ma la lotta selvaggia e bestiale ch’essa scatena, coinvolge tutti i ceti: l’aristocrazia, che ne è la vittima maggiore, come le altre classi. Eppure, di fronte all’anarchia del presente, Balzac non trova altro rimedio da proporre se non un rinnovamento di quest’aristocrazia, che vorrebbe educata al razionalismo e al realismo borghese e aperta ai plebei d’ingegno. Egli è un ardente fautore della feudalità, ammira gl’ideali intellettuali e morali ch’essa rappresenta e ne deplora la rovina; ma appunto per questo è tanto più spietato e obiettivo nel descriverne la degenerazione e anzitutto la deferenza per le borse d’oro della borghesia. Lo snobismo di Balzac fa sempre un effetto penoso, ma i suoi scarti politici sono affatto innocenti, poiché, sebbene sostenga con tanto zelo la causa dell’aristocrazia, egli non è un aristocratico, il che, come giustamente si è notato, muta la sostanza delle cose. Il suo atteggiamento è tutto speculativo; non viene dal cuore né dall’istinto.

  Balzac non solo è uno scrittore borghese fino al midollo, che attinge spontaneamente e profondamente dall’intimo orientamento della sua classe, ma è anche il più felice apologeta della borghesia, e non dissimula la sua ammirazione per quanto essa ha fatto. Solo, è pieno d’isterica paura e fiuta dappertutto disordine e rivoluzione. Egli combatte tutto quel che minaccia l’ordine costituito e difende tutto quello che pare sostenerlo. Il miglior baluardo contro l’anarchia e il caos sono per lui il trono e la Chiesa, e il feudalesimo e soltanto il sistema che consegue al loro dominio. Egli non considera affatto la monarchia, la Chiesa e la nobiltà quali sono diventate dopo la Rivoluzione, ma soltanto gl’ideali ch’esse rappresentano, e combatte la democrazia e il liberalismo perché sa che tutto l’edificio gerarchico fatalmente crollerà, se si comincia a criticarlo. Egli pensa infatti che «una potenza discussa non dura».

  L’uguaglianza è una folle utopia, in nessun luogo del mondo si è attuata. E come ogni comunità — prima d’ogni altra la famiglia — riposa sul principio autoritario, così tutta la società deve reggersi su questo principio. I democratici e i socialisti sono astratti sognatori, non solo perché credono alla libertà e all’uguaglianza, ma anche perché idealizzano smisuratamente il popolo e il proletariato. Pure gli uomini sono in fondo tutti uguali; tutti pensano al proprio vantaggio e fanno solo i propri interessi. La società nel suo complesso è dominata dalla logica della lotta di classe; la guerra tra ricchi e poveri, forti e deboli, privilegiati e paria non avrà mai fine. «Ogni potere tende alla propria conservazione» (Le Médecin de campagne), e ogni classe oppressa a distruggere i suoi oppressori: questi i fatti immutabili. Ma Balzac, a cui sono già familiari i concetti della lotta di classe, conosce anche il metodo rivelatore del materialismo storico. «Uno scassinatore si manda all’ergastolo, — dice Vautrin nelle Illusions perdues, — mentre un uomo che con una bancarotta fraudolenta rovina intere famiglie, se la cava con qualche mese ... I giudici che condannano il ladro fanno buona guardia alla barriera tra ricco e povero ... ma sanno che il bancarottiere causa al massimo uno spostamento della ricchezza».

  Questa è la differenza essenziale tra Balzac e Marx: il poeta della Comédie humaine giudica la lotta del proletariato esattamente come quella delle altre classi, una lotta cioè che mira a vantaggi e privilegi; Marx invece vi scorge l’inizio di un’èra nuova e, nel suo trionfo, l’attuazione di una condizione ideale e definitiva. Prima di Marx, e in forma che Marx stesso giudicherà esemplare, Balzac scopre la natura ideologica del pensiero. «La virtù comincia con il benessere», dice nella Rabouilleuse, e nelle Illusions perdues Vautrin parla del «lusso dell’onestà», che ci si può permettere solo quando si disponga di posizione e censo adeguati. Già nel suo Essai sur la situation du parti royaliste (1832) Balzac indica come proceda il formarsi dell’ideologia. «Le rivoluzioni si compiono, — egli afferma, — prima nelle cose e negli interessi, poi si estendono alle idee e infine si trasformano in principi». Il nesso che lega il pensiero all’esistenza materiale e la dialettica di vita e coscienza, egli li scopre già in Louis Lambert dove l’eroe, com’egli osserva, dopo lo spiritualismo della sua giovinezza, vede sempre più chiara la materialità del pensiero. Evidentemente non fu un caso se Balzac e Hegel riconobbero quasi a un tempo la struttura dialettica dei contenuti della coscienza. L’economia capitalistica e la moderna borghesia erano piene di contraddizioni e mettevano in luce il duplice condizionamento dello sviluppo storico più chiaramente delle civiltà precedenti. Le basi materiali della società borghese non solo già di per sé erano più trasparenti di quelle del feudalesimo, ma il nuovo ceto dirigente era assai meno preoccupato dell’antico di travestire ideologicamente le premesse economiche del suo potere. Del resto, la sua ideologia era ancora troppo recente, perché se ne potesse dimenticare l’origine.

  Nella concezione di Balzac il tratto saliente è il realismo, la considerazione nuda e obiettiva dei fatti. Il suo materialismo storico e la sua teoria delle ideologie non sono che obiettivazioni del suo senso della realtà. E questa posizione realistica e critica Balzac la mantiene anche di fronte a quei fenomeni a cui sentimentalmente è legato. Così, pur con le sue opinioni conservatrici, egli sottolinea soprattutto la forza incoercibile dello sviluppo che ha portato alla moderna società capitalistico-borghese, e non cade mai nel provincialismo degli idealisti nel giudicare la civiltà della tecnica. Egli è nettamente favorevole all’industria moderna, nuova potenza universale; ammira la moderna metropoli con le sue grandi proporzioni, il suo dinamismo, il suo slancio. Parigi lo inebria; egli l’ama pur così viziosa, anzi forse per la mostruosità dei suoi vizi. Infatti, quando parla del «grand chancre fumeux, étalé sur les bords de la Seine», ogni parola tradisce il fascino che si cela dietro l’espressione violenta. Il mito di Parigi nuova Babilonia, citta di luci notturne e di segreti paradisi, patria di Baudelaire e di Verlaine, di Constantin Guy e di Toulouse-Lautrec, il mito della Parigi pericolosa, seduttrice, irresistibile, ha la sua origine nelle Illusions perdues, nell’Histoire des Treize e nel Père Goriot. Balzac è il primo scrittore entusiasta di una moderna metropoli, il primo che si compiaccia di fronte a un impianto industriale. Parlare di «délicieuses fabriques» in mezzo al dolce paesaggio di una valle, non era ancor venuto in mente a nessuno. Quell’ammirazione per la nuova vita, creatrice pur nel suo impeto spietato, è un compenso al pessimismo balzachiano, e la sua forma di speranza, di fiducia nell’avvenire. Egli sa che non è più possibile ritornare alla vita patriarcale e idillica della piccola città e del villaggio; ma sa pure che questa non era affatto così romantica e poetica, come di solito la si descrive, poiché «naturalezza» non significava che ignoranza, malattia e povertà (Le Médecin de campagne, Le Curé de village). Il «misticismo sociale» dei romantici gli è affatto estraneo, nonostante le sue inclinazioni per il romanzesco e specialmente sulla «purezza morale» e l’«innocenza» dei contadini egli non si fa illusioni. Giudica le qualità buone e cattive del popolo con la stessa obiettività con cui analizza le virtù e i vizi dell’aristocrazia e il suo atteggiamento verso le masse è altrettanto poco dogmatico, contraddittorio anzi, che quello, di odio e amore insieme, verso la borghesia.

  Balzac, senza volerlo e senza saperlo, è uno scrittore rivoluzionario. Le sue vere simpatie lo portano verso i ribelli e i nichilisti. La maggior parte dei suoi contemporanei lo sentono politicamente infido; essi sanno che in fondo egli è un anarchico, sempre solidale con i nemici della società, con chi è fuori rango, con gli spostati. Louis Veuillot osserva ch’egli difende trono e altare in un modo che potrebbe valergli tutta la riconoscenza dei loro nemici. Alfred Nettement nella «Gazette de France» (febbraio 1836) scrive che Balzac vuole vendicarsi della società per tutte le ingiustizie subite in gioventù, e solo per questo esalta le nature antisociali. Nei suoi ricordi (ottobre 1833) Charles Weiss sottolinea che Balzac si dichiara legittimista, ma parla sempre come un liberale. Victor Hugo afferma che, volente o nolente, egli appartiene alla razza dei poeti rivoluzionari, e nelle sue opere si manifesta il cuore di uno schietto democratico. Zola infine rileva il contrasto tra gli elementi palesi e quelli latenti della sua visione e osserva, prevenendo l’interpretazione marxista, che l’ingegno di un poeta può benissimo contrastare con le sue opinioni. Ma il vero senso di questo antagonismo lo scopre e lo definisce Engels. Per primo egli studia in forma suscettibile di ulteriore sviluppo scientifico la contraddizione tra le vedute politiche e l’arte del poeta, formulando così uno dei più importanti principi euristici della sociologia artistica. Da allora in poi è acquisito che arte progressista e politica conservatrice possono benissimo coesistere e che ogni onesto artista che descriva fedelmente e sinceramente la realtà fa opera di per sé illuminante e liberatrice. Un tale artista contribuisce involontariamente a distruggere quelle convenzioni e quegli schemi, quei tabù e quei dogmi su cui poggia l’ideologia reazionaria, ostile al progresso. In una lettera divenuta celebre, dell’anno 1888, a una certa miss Harkness, Engels scrive fra l’altro: «Il realismo di cui parlo può manifestarsi perfino nonostante le opinioni dell’autore ... Balzac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lunga superiore a tutti gli Zola passati, presenti e futuri, nella Comédie humaine ci dà un eccellente storia realistica della “società” francese, descrivendo quasi a mo’ di cronaca, quasi anno per anno, dal 1816 fino al 1848, la pressione sempre crescente della borghesia in ascesa contro la società nobiliare che dopo il 1815 si ricostituì e, per quanto poteva, tenne alta la bandiera della vieille politesse française. Egli descrive come gli ultimi residui di questa società per lui esemplare a poco a poco soccombano all’assalto dei volgari arricchiti, o ne vengano corrotti ... Certo, Balzac politicamente era un legittimista; la sua grande opera è un continuo epicedio sull’inevitabile decadenza della buona società; tutte le sue simpatie vanno alla classe condannata. E tuttavia la satira non è mai più acuta, né l’ironia più amara, di quando entrano in scena appunto gli uomini e le donne di quella classe più profondamente cara all’autore, la nobiltà ... Che Balzac sia così costretto ad agire contro le proprie simpatie sociali, i propri pregiudizi politici, ch’egli veda ineluttabile il tramonto dei suoi diletti nobili e li descriva come gente che non merita destino migliore; e che egli veda i veri uomini del futuro soltanto là dove allora si potevano trovare — questo io lo considero uno dei massimi trionfi del realismo e uno dei più grandiosi tratti del vecchio Balzac».

  Balzac è un naturalista che si abbandona alla forza espansiva di una volontà artistica, tutta tesa ad arricchire e differenziare il materiale dell’esperienza. Ma si esiterà a considerarlo veramente tale, se per naturalista s’intende chi si adegua perfettamente ai dati della realtà, e usa lo stesso criterio di verità in tutti i piani dell’opera. Piuttosto si dovrà constatare che la sua fantasia romantica e la sua inclinazione al melodramma finiscono sempre per avere la meglio e che spesso egli non solo sceglie i caratteri più eccentrici e le situazioni più inverosimili, ma addirittura costruisce i fondi delle sue storie in modo che non è possibile immaginarseli concretamente, e solo i colori e i toni suggeriscono l’impressione voluta. Definirlo senz’altro un naturalista può solo condurre a delusioni. È assurdo e vano paragonarlo, come psicologo o ricreatore di ambienti, ai maestri del più tardo romanzo naturalistico, quali Flaubert o Maupassant. Le sue opere vanno godute come descrizioni della realtà e insieme come sogni tra i più audaci e sfrenati; pretendere che esse siano qualcosa di diverso da questo miscuglio indiscriminato di elementi, ne impedirà sempre la comprensione. L’arte di Balzac è dominata da un appassionato desiderio di abbandonarsi alla vita, ma in complesso è relativamente poco quel che essa deve all’osservazione diretta; il più è invenzione, immaginazione, sentimento.

  Ogni opera d’arte, anche la più naturalistica, è un’immagine ideale e una versione leggendaria della realtà. Anche nello stile meno convenzionale certi elementi, come, ad esempio, i colori chiari e le macchie senza contorni della pittura impressionistica o le figure incoerenti e inconsistenti del romanzo moderno, noi le accettiamo senz’altro, come veri e giusti. Ma in Balzac la descrizione della realtà è ancora più arbitraria che nella maggior parte dei naturalisti. Egli suscita l’impressione della vita soprattutto sottomettendo dispoticamente il lettore al suo capriccio, alla totalità microcosmica del suo mondo fittizio che esclude a priori la concorrenza della realtà empirica. Le figure e gli scenari appaiono così autentici, non perché i singoli tratti con cui sono disegnati corrispondano all’esperienza reale, ma perché il loro disegno è altrettanto sottile e circostanziato, che se fosse stato osservato e ritratto dal vero. Il senso di esser di fronte a una densa realtà, ci viene dal fatto che i singoli elementi di quel microcosmo sono inscindibilmente connessi, e le figure appaiono inimmaginabili senza l’ambiente, i caratteri senza l’aspetto fisico, le persone senza gli oggetti circostanti.

  Le opere classiche sono isolate dal mondo esterno: chiuse nella loro sfera estetica stanno l’una accanto all’altra, in una rigorosa solitudine. Qualsiasi tratto naturalistico, ogni evidente dipendenza da un modello rompe l’immanenza di questa sfera, e ogni struttura ciclica che intervenga a collegare le diverse rappresentazioni artistiche annulla l’autonomia dell’opera singola. Per la maggior parte le opere medievali sono composizioni aggiuntive di questo tipo, che includono più unità indipendenti; tali sono l’epos cavalleresco e i romanzi d'avventura, con la loro vicenda interminabile e le figure in parte ricorrenti; tali i cicli della pittura medievale e gli innumeri episodi dei misteri. Balzac, con il suo sistema, con l’idea della Comédie humaine come quadro unitario in cui includere i singoli romanzi, in pratica ritorna proprio a questo modo di composizione medievale, facendo sua una forma per cui non avevano senso e valore l’autonomia e la cristallina perfezione dell’opera classica. Ma come è giunto Balzac a questa forma «medievale»? Come ha potuto questa tornare attuale a metà dell’Ottocento? La concezione medievale era stata interamente eclissata dal classicismo rinascimentale, dall’idea di unità e subordinazione. Finché il classicismo si era mantenuto in vigore, la composizione ciclica non aveva mai potuto affermarsi; ma il classicismo durò soltanto finché durò la convinzione di poter dominare la realtà materiale. L’arte classica decade quando nasce il senso della soggezione dell’essere alle condizioni materiali. Anche in questo senso i romantici precorrono Balzac.

  Zola, Wagner e Proust segnano le tappe ulteriori di questo sviluppo e affermano sempre più la tendenza all’opera ciclica, enciclopedica, universale, in contrasto con il principio dell’unità e della scelta. L’artista moderno vuol essere partecipe di una vita che appare inesauribile e non si lascia chiudere nella misura di un’opera singola. Egli può esprimere la grandezza solo ricorrendo all’estensione, la forza solo rompendo ogni limite. Proust era evidentemente conscio delle sue connessioni con la forma ciclica di Wagner e di Balzac. «Il musicista (Wagner), — egli scrive, — dovette provare la stessa ebrezza di Balzac quando guardò alle sue creazioni con l’occhio di un estraneo e, insieme, di un padre ... Egli allora osservò che sarebbero state assai più belle, se unite in un ciclo da figure ricorrenti e aggiunse un’altra pennellata, l’ultima, sublime, all’opera sua ... un’unità che era un complemento, ma non certo un artificio ... un’unità prima non riconosciuta, ma perciò tanto più vera e vitale ...».

  Dei duemila personaggi della Comédie humaine, oltre quattrocentosessanta ricorrono in più romanzi. Henry de Marsay, per esempio, lo incontriamo in venticinque opere diverse e in Splendeurs et misères des courtisanes compaiono centocinquanta personaggi che anche altrove hanno una parte più o meno importante. La ricchezza delle figure trascende l’opera singola e si ha sempre l’impressione che Balzac non ci dica tutto quel che ne sa. Quando fu chiesto a Ibsen, perché all’eroina di Casa di bambola avesse dato un nome esotico, rispose che era il nome di sua nonna che era italiana. La nonna veramente si chiamava Eleonora, ma da bimba la chiamavano col vezzeggiativo di Nora. All’obiezione che tutto ciò non compariva affatto nel dramma, egli rispose stupito: «Ma i fatti sono fatti». Thomas Mann ha pienamente ragione: Ibsen rientra nella stessa categoria a cui appartengono gli altri due grandi del teatro ottocentesco, Zola e Wagner. Anche in lui l’opera singola ha perduto la microcosmica compiutezza della forma classica. Aneddoti come quello di Ibsen riferito non si contano nei rapporti di Balzac con i suoi personaggi. Notissimo è quello di Jules Sandeau, che mentre sta raccontandogli di sua sorella malata, viene da lui interrotto: «Tutto bene, ma torniamo alla realtà: che marito daremo a Eugénie Grandet?». Altrettanto nota la domanda con cui aggredisce uno dei suoi amici: «Lo sai chi sposerà Félix de Vaudeville? Una Grandeville. È proprio un buon partito». Ma il più bello e caratteristico è l’aneddoto di Hofmannsthal, che fa dire a Balzac in un dialogo immaginario: «Il mio Vautrin la ritiene [la Venezia salvata di Otway] il più hello di tutti i drammi. Io do molta importanza al giudizio di un uomo come lui». Per Balzac l’esistenza dei suoi personaggi anche fuori dell’opera è una realtà così evidente, che potrebbe sempre dire che cosa pensano, o dovrebbero pensare, Vautrin o de Marsay o Rastignac di un dramma o di un libro qualsiasi. E va tant’oltre in questo, che gli avviene spesso di richiamarsi a personaggi della Comédie humaine anche quando non compaiono affatto in quel determinato romanzo, e di citare i titoli di certe parti dell’opera complessiva come fonti d’informazione oggettive.

  Si sa quanto volentieri Paul Bourget sfogliasse il Répertoire della Comédie humaine, il «Chi è?» dei personaggi di Balzac. Ancor oggi questa passione serve a riconoscere un vero «balzacien» ed è, in ogni caso, il segno di una effettiva comprensione della natura di quest’opera inscindibile dalla vita reale, solo in parte concepita e solo in parte valida sul piano estetico. Balzac rappresenta nella storia dell’arte un momento fuggevole, che sta fra l’epoca esclusivamente artistica della poesia classica e romantica e la successiva fase dell’estetismo di Flaubert e di Baudelaire: la breve ora di un’arte completamente immersa nei problemi del presente. Nell’Ottocento non c’è scrittore più lontano di lui da l’art pour l’art e dal purismo artistico. Non è possibile gustare senza disagio e a pieno le opere di Balzac, se fin da principio non ci si rende conto ch’esse sono un miscuglio mal dosato, in parte grezzo, che ben poco ha a vedere con i principi classicistici del «nulla di più e nulla di meno» e della riduzione ad un unico piano dei dati dell’esperienza. L’opera d’arte d’un sol getto è sempre una finzione; anche le creazioni più complete sono piene di elementi caotici e disparati. Ma i romanzi di Balzac sono davvero l’esempio tipico dell’opera riuscita a dispetto di ogni norma estetica. Giudicandoli coi criteri delle opere classiche, sarà facile riscontrarvi le più grossolane offese alle leggi dell’arte, anche a quelle più liberali. Sotto la loro diretta impressione, quando non si è ancora spenta nell’animo nostro la furia suicida dei personaggi, la tempesta delle scene, la voce crudele dei delusi e dei ribelli, saremo obbligati ad ammettere che in queste opere quasi tutto quel che si può analizzare razionalmente è «sbagliato». Dovremo concedere che Balzac non sa comporre né sviluppare nitidamente l’azione, che i suoi caratteri sono spesso confusi ed eterogenei come gli ambienti e gli sfondi, che il suo naturalismo non soltanto è incompleto, ma anche scorretto, e talvolta la sua psicologia è, non solo inverosimile, ma anche goffa e sommaria. E soprattutto non ci si potrà dissimulare che a tutte queste insufficienze si aggiungono difetti di gusto da far rizzare i capelli; che al nostro autore manca ogni senso critico, e ogni mezzo è buono per lui pur di sorprendere e soggiogare; che più nulla gli rimane della cultura settecentesca, del suo riserbo, della sua eleganza, della sua amabile scorrevolezza; che il suo gusto è degno del pubblico dei peggiori romanzi d’appendice; che per lui nulla è mai eccessivo, esagerato, stravagante; ch’egli è incapace di esprimere quanto gli sta a cuore senza enfasi e senza superlativi; che è sempre pronto a vantarsi, a sballarle grosse e a raccontare fandonie; che è un disgustoso ciarlatano appena vuol darsi l’aria di studioso e di filosofo e, come pensatore, è tanto più grande quanto meno sa d’esser tale, quando pensa e ragiona secondo il suo spontaneo sentire, gli immediati interessi della sua vita e la sua posizione storica.

  Specialmente sgradevoli sono i suoi difetti di gusto in fatto di stile: l’abbondanza confusa del suo discorso, la pesante solennità, le metafore studiate e pompose, l’entusiasmo sempre acceso, la commozione che vuol essere sempre sublime. Nemmeno i dialoghi sono impeccabili; anche qui ci sono punti morti e toni «falsi», come le stecche di un cantante. È noto come Taine cerca di spiegare e giustificare le singolarità stilistiche di Balzac. Ammesso che in letteratura ci sono vari linguaggi ugualmente legittimi, fa notare che l’autore della Comédie humaine non si rivolge più al pubblico dei salotti del Sei e del Settecento, ad un pubblico cioè sensibile alle più lievi allusioni e non solo ai colori sfacciati e ai toni acuti, ma a gente su cui ha presa solo ciò che è strano, sensazionale, eccessivo, in altre parole i lettori del romanzo d’appendice. Ecco, senza dubbio, un ottimo esempio di critica sociologica; infatti, sebbene molti autori della generazione di Balzac abbiano saputo evitare i suoi errori stilistici, pochi sono stati così intimamente uniti al loro tempo. Ma invece di scusare le pecche di Balzac non si dovrebbe piuttosto cercar di capire quell’immediata contiguità di grandioso e di scadente che c’è in lui? E la spiegazione sociologica non dovrebbe anzitutto dimostrare che le caratteristiche del suo stile sono legate sua stessa origine plebea e che egli è l’espressione intellettuale della nuova borghesia relativamente incolta, ma straordinariamente viva e capace?

  È stato ripetutamente osservato che nelle sue opere Balzac fa un quadro della generazione successiva più che della propria, e che i suoi nouveaux riches e parvenus, i suoi speculatori e avventurieri, gli artisti e le cocottes sono tipici del Secondo Impero più che della monarchia di luglio. Di fatto, pare che la vita abbia imitato l’arte. Balzac è di quegli scrittori profeti, che sono in ultima analisi più visionari che osservatori. Profeta, visionario: sono veramente parole dettate dall’imbarazzo e più che altro servono a dissimulare la nostra perplessità di fronte a un’arte, di cui ogni insufficienza par che accresca il magico effetto. Ma che altro dire davanti a un’opera come il Chef-d’oeuvre inconnu che unisce la più profonda intuizione della vita e del presente a un’incredibile ingenuità? Vi si narra di Frenhofer il più grande allievo di Mabuse, l’unico a cui il maestro ha trasmesso l’arte d’infondere vita alle figure dipinte. Da dieci anni egli lavora a un’opera — un’immagine femminile — sforzandosi di giungere al più alto fine di ogni arte, al segreto di Pigmalione. Ogni giorno egli si sente più vicino alla mèta, eppure rimane sempre qualcosa d’invincibile, insolubile, irraggiungibile. Crede che sia colpa della realtà, del fatto che non ha ancora trovato il modello adatto. Un giorno Poussin, nel suo entusiasmo per l’arte, gli conduce la sua amica, che si dice abbia il corpo più perfetto che mai sia stato dipinto. Frenhofer è affascinato dalla bellezza della donna, ma poi i suoi occhi si distolgono da quel corpo giovanile e tornano al quadro incompiuto e impossibile a compiersi. La realtà non lo trattiene più, egli ha ucciso in sé la vita. Ma il quadro, l’opera della sua vita, che egli, più geloso che Poussin della sua donna, finora non ha voluto svelare a occhi estranei, il quadro non è che un incomprensibile groviglio di linee sinuose e di macchie sovrapposte, accumulate nel corso di tanti anni, sotto cui non si distinguono che le forme di una gamba perfetta. Balzac ha preveduto il destino dell’arte dell’ultimo secolo e l’ha rappresentato da artista in modo insuperabile. Egli ha individuato le conseguenze dell’estraniarsi dalla vita e dal pubblico e meglio dei più colti e intelligenti fra i suoi contemporanei ha compreso la minaccia dell’estetismo e del nichilismo, il pericolo di autodistruzione che doveva divenire una paurosa realtà al tempo del Secondo Impero.



  Mario Luzi, L’«Opium chrétien». Introduzione – Spirito di lotta, in Aspetti della generazione napoleonica ed altri saggi di letteratura francese, Parma, Guanda Editore, 1956 («Collana di testi, saggi e monografie», 3), pp. 251-315.

 

  Cfr. 1938.

 

 

  Somerset Maugham, Honoré de Balzac, «Il Romanzo per tutti. Rivista quindicinale del nuovo “Corriere della Sera”», Milano, Anno XII, N. 2, 15 Gennaio 1956, pp. 55-62, 8 ill.; N. 3, 1° Febbraio 1956.

 

  Non era un realista come lo era in parte Stendhal e come lo fu il Flaubert di «Madame Bovary». Era un romantico e vedeva la vita non quale era in realtà, ma più colorita, magari sfarzosa, grazie ai gusti e alla predisposizione che divideva con i contemporanei.

 

  Di tutti i grandi romanzieri che hanno arricchito con le loro opere i tesori spirituali del mondo, Balzac è, secondo me, il più grande. E anche l’unico a cui io, senza esitazione, attribuirei il genio. Genio è una parola che si usa con una certa facilità, al giorno d’oggi. E viene attribuito a persone che un giudice più sobrio troverebbe solo dotate di talento. Genio e talento sono due cose ben differenti. Parecchie persone hanno talento; che non è raro, mentre il genio lo è. Il talento è destro, scaltro; può essere coltivato: il genio è innato e molto spesso lo si trova congiunto a strani difetti.

  Ma cos’è il genio? Il dizionario ci dice che è «una facoltà congenita di un tipo elevato, come quella che si attribuisce a coloro che sono stimati fra i più grandi in qualsiasi ramo dell’arte, della speculazione mentale o della pratica; è capacità istintiva e straordinaria per la creazione fantastica, per il pensiero originale o per la scoperta». Ebbene, la capacità istintiva e straordinaria per la creazione fantastica è proprio la qualità che Balzac aveva. Non era un realista, come era in parte Stendhal e come lo fu Flaubert in Madame Bovary, era un romantico; e vedeva la vita non quale era in realtà, ma più colorita, magari sfarzosa, grazie ai gusti e alla predisposizione che divideva con i contemporanei.

  Ci sono scrittori che hanno conquistato la fama grazie a uno o due libri; talvolta perché, dalla quantità di libri scritti, solo uno s’è dimostrato di grande valore (tale è il caso della Manon Lescaut di Prévost) talvolta perché la loro ispirazione, venuta da una particolare esperienza o dovuta ad una particolarità del temperamento, servì solo per una produzione letteraria di piccola mole. Tali scrittori dicono quanto hanno da dire una volta per tutte e, se scrivono ancora, o si ripetono o scrivono cose di scarso valore. La fecondità di Balzac, come romanziere, era prodigiosa. Naturalmente, non era scrittore che producesse sempre al medesimo livello artistico. Nella massa della sua opera è impossibile che egli risulti sempre al più alto livello.

  I critici letterari son portati a guardare con diffidenza l’eccessiva fecondità degli scrittori. Io penso che essi si sbaglino. Matthew Arnold invece considerava la fecondità come una caratteristica del genio. [...].

 

Prodigiosa conoscenza degli uomini.

 

  La scena di Balzac era data dalla vita del suo tempo, da tutta la vita, e i confini di tale scena erano ampi come quelli del suo Paese. La conoscenza che aveva degli uomini, comunque se la fosse formata, era vasta e profonda, sebbene in talune direzioni fosse meno esatta che in altre; ed egli descrisse la classe media della società, medici avvocati impiegati giornalisti bottegai parroci di villaggio, in modo più convincente di quanto non abbia descritto il mondo dell’eleganza o quello del proletariato cittadino o quello dei contadini. Come tutti i romanzieri, scrisse con più successo dei malvagi che dei buoni. La sua fantasia era stupenda; la sua facoltà creativa straordinaria. Era simile ad una forza della natura, ad un fiume gonfio e tumultuoso che inonda le rive e dilaga dovunque, oppure ad un uragano che procede selvaggio e terribile sulle campagne tranquille e attraverso le strade delle città popolose.

  Come pittore di costumi, il suo dono particolare non consisteva soltanto nel considerare gli uomini nei loro mutui rapporti (tutti i romanzieri, eccetto gli scrittori di romanzi d’avventura puri e semplici, fanno questo) ma anche, e specialmente, in rapporto al mondo in cui essi vivono. La maggior parte dei romanzieri prende un gruppo di gente (talvolta composto solo di due o tre persone) e lo tratta come se vivesse sotto una campana di cristallo. In tal modo l’artista ottiene spesso un effetto più intenso ma, nel contempo, disgraziatamente, un effetto di artificialità. Gli uomini non vivono soltanto ciascuno la sua vita ma vivono anche nelle vite degli altri: nella sua stessa vita ciascuno recita la parte del protagonista: nelle vite degli altri le parti sono talvolta importanti e talvolta modeste. Uno va dal barbiere per farsi tagliare i capelli; la cosa non ha alcuna importanza per il cliente ma, a causa di una eventuale osservazione dello stesso, la cosa può rappresentare un punto cruciale nella vita del barbiere. Comprendendo tutto ciò che è implicito in questo Balzac si trovò in condizioni di dare una visione vivida e immediata dei mille aspetti della vita, con le sue confusioni disappunti e illusioni e anche con gli effetti significativi prodotti da cause lontane e sproporzionate. Credo che egli sia stato il primo romanziere a soffermarsi sugli effetti, tanto importanti, dei motivi economici nella vita di ciascuno. Egli non avrebbe trovato sufficiente dire che il denaro è la causa, la radice di ogni male; pensava anche che la brama del denaro, il suo desiderio, costituiscono la molla principale delle azioni degli uomini.

  Bisogna tener sempre presente questo: Balzac era un romantico. Il romanticismo, fu una reazione al classicismo, ma oggidì è più conveniente raffrontarlo al realismo. Il realista è un determinista ed egli tende, nella sua narrazione, ad una verosimiglianza logica. La sua osservazione è quella del naturalista. Il romantico trova la vita di ogni giorno piatta e monotona e cerca di evadere dal mondo reale in un mondo creato dall’immaginazione. Cerca perciò l’avventura e ciò ch’è strano vuole sorprendere e stupire e se, per ottenere tale scopo, racconta cose improbabili egli non se ne cura. I tipi che inventa sono decisamente marcati. Le loro brame non hanno freni. Essi disprezzano l’autocontrollo, che considerano la virtù scialba del borghese. Approvano di tutto cuore il detto di Pascal: Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point. Ammirano colui che è pronto a sacrificare tutto e non esita davanti a nulla pur di conquistare la ricchezza e il potere. Tale atteggiamento, nei confronti della vita, si adattava bene alla tempra esuberante di Balzac; si esagera appena dicendo che se il romanticismo non fosse esistito, lo avrebbe inventato lui.

  La sua facoltà di osservazione era minuziosa e precisa, ma egli se ne servì come base per la costruzione di un mondo fantastico. L’idea che ogni uomo ha una passione dominante ben si adattava al suo istinto. Si tratta di un’idea che è riuscita sempre gradita ai romanzieri, perché permette loro di conferire una forza drammatica alle creature della loro fantasia; queste spiccano a tutto tondo e il lettore, al quale non si chiede nulla oltre il sapere che si tratta di poveracci o libertini, arpie o santi, le capisce senza alcuno sforzo. Noi oggi, specialmente grazie alle opere dei romanzieri che han cercato di interessarci alla psicologia dei loro personaggi, non crediamo più che gli uomini sono tutti d’un pezzo. Sappiamo che sono costituiti di elementi contrastanti e perfino inconciliabili; sono proprio tali discordanze che ci interessano e, poiché sappiamo che esse si trovano anche in noi, suscitano la nostra simpatia. I più grandi personaggi di Balzac sono formati sul modello di quei vecchi romanzieri che assegnavano ad ogni tipo la sua passione dominante che lo assorbiva tutto ad esclusione delle altre. Più che di personaggi, si tratta di tendenze, brame personificate: ma sono presentati con una tale forza meravigliosa, concretezza e chiarezza di tratti che anche se il lettore non può credere in loro non può neanche dimenticarli.

 

Ritrattino di Balzac.

 

  Se aveste conosciuto Balzac quando egli aveva superato da poco la trentina lo avreste visto così: un tipo basso e atticciato, piuttosto grassoccio, dotato di spalle poderose e di un torace massiccio sicché non vi sarebbe neanche sembrato piccoletto, con un collo taurino la cui bianchezza contrastava col colorito vivo della faccia; e una bocca sensuale, sorridente, particolarmente rossa. Denti guasti e giallognoli. Naso corto con ampie narici. Quando David d’Angers gli fece il busto, lui gli disse: «State bene attento al naso! Il mio naso è un mondo!». Aveva una fronte nobile, sormontata dalla chioma folta e nera pettinata all’indietro come una criniera. Gli occhi castani, con pagliuzze d’oro, avevano una vita una luce un magnetismo fantastici; quegli occhi impressionavano talmente da non far notare che i lineamenti della faccia erano irregolari ed anche volgari. L’espressione era gioviale, schietta e anche garbata. Lamartine disse di lui: «La sua bontà non era quella dovuta all’indifferenza o alla noncuranza, era una bontà affettuosa, intelligente, affascinante che ispirava la gratitudine e che v’impediva di non amarlo». Era dotato di una vitalità esuberante, sicché il fatto solo di trovarvi in sua compagnia v’infondeva simpatia. Se poi davate un’occhiata alle sue mani restavate colpito dalla loro bellezza. Erano piccole, bianche e soffici, mani prelatizie con le unghie rosee. Balzac ne era molto orgoglioso.

  Se vi foste imbattuto in lui in una qualsiasi giornata feriale lo avreste trovato, che indossava un abito liso con i calzoni impillaccherati, le scarpe sporche e, infine, con un cappello vecchio e repellente. Ma nelle serate, trovandosi in un ricevimento, faceva la sua figura con la giacca turchina adorna di bottoni d’oro, i calzoni neri, il panciotto bianco, le scarpe di coppale, la biancheria fine e i guanti gialli. Gli abiti, di solito, non gli stavano bene addosso e Lamartine aggiunge che Balzac sembrava un ragazzino cresciuto troppo in fretta nell’ultimo anno.

  I contemporanei di Balzac concordano nel dire che, in questo periodo, egli era semplice fanciullesco gentile e di buonumore. George Sand ha scritto che era sincero sino alla modestia, fanfarone come un grande di Spagna, fiducioso, espansivo, molto buono e un po’ tocco, ubriaco di acqua, dissoluto in fatto di lavoro e sobrio in quanto alle altre passioni, positivo e romantico, credulo e scettico. Non era bravo, come causeur. Non era, pronto a ribattere e non aveva il dono della battuta pronta: la sua conversazione non era nè allusiva nè ironica: ma quando aveva qualcosa da raccontare la sua verve riusciva irresistibile. Prorompeva a ridere per quello che stava per dire e tutti quanti ridevano con lui. Ridevano ascoltandolo e ridevano guardandolo. André Billy dice che la frase «scoppiò a ridere» sembrava creata apposta per lui.

  La più bella biografia di Balzac è stata scritta da André Billy ed è dal suo libro mirabile che ho preso le informazioni che ora darò al lettore. Il vero nome del romanziere era Balssa e i suoi avi erano fattori e tessitori; ma il padre, che agli inizi della carriera era stato impiegato presso un notaio, riuscito che fu dopo la Rivoluzione a emergere in società, cambiò il nome in Balzac. A cinquantun anni sposò la figlia di un pannaiuolo che s’era arricchito come fornitore dello Stato e Honoré, il maggiore dei quattro figli, nacque nel 1799 a Tours dove il padre era amministratore dell’ospedale. Presumibilmente aveva ottenuto tale posto perché il padre di Madame Balzac, l’ex-drapier, era diventato in qualche modo il direttore generale degli ospedali di Parigi. Risulta che Honoré a scuola era discolo e aveva poca voglia di studiare. Alla fine del 1814 il padre divenne il fornitore di una divisione dell’esercito di stanza a Parigi e si trasferì nella capitale con la famiglia. Fu deciso che Honoré dovesse fare l’avvocato e dopo aver preso la laurea il giovane entrò nell’ufficio legale di certo maître Guyonnet. Come se la cavasse ce lo dice molto bene un biglietto mandatogli un mattino dal capo degli impiegati: «Monsieur Balzac è pregato di non venire in ufficio oggi, dato che c’è molto lavoro da sbrigare». Nel 1819 il padre si ritirò in pensione e decise di trasferirsi in campagna. Si stabilì a Villeparisis, un villaggio sulla strada di Meaux. Honoré rimase a Parigi poiché era stato stabilito che un amico della famiglia, un notaio, dovesse passargli lo studio quando, dopo alcuni anni di pratica, il giovanotto fosse capace di sbrigarsela da solo.


Scenate in famiglia.

 

  Ma Honoré si ribellò. Voleva fare lo scrittore, lui! Ci teneva sul serio. Vi furono scenate nella famiglia ma, alla fine, nonostante la continua opposizione della madre, una donna severa e che badava al sodo, che lo scrittore non amò mai, il padre cedette, almeno fino al punto da permettergli di fare un tentativo. Fu stabilito perciò che Honoré avrebbe potuto disporre di due anni per vedere che cosa fosse capace di fare. Il giovanotto si stabilì in una soffitta, per la quale pagava sessanta franchi oro all’anno, e la arredò con un tavolo due sedie un letto un armadio e una bottiglia vuota che facesse da candeliere. Aveva vent’anni. Ed era libero.

  Per prima cosa scrisse una tragedia e quando la sorella stava per sposarsi andò a casa portando seco il lavoro teatrale, che lesse alla famiglia riunita e alla presenza di due amici. Tutti concordarono nel dire che la tragedia non valeva granché. Allora venne mandata ad un professore il cui giudizio fu questo: l’autore poteva fare tutto tranne lo scrittore. Balzac, irritato e scoraggiato per il fatto che non poteva essere un poeta tragico, se ne tornò a Parigi. E decise di fare il romanziere, visto che la via del palcoscenico gli era preclusa. E scrisse infatti due o tre romanzi ispirati da quelli di Walter Scott, Anne Radcliffe e Maturin. Ma i genitori erano già arrivati alla conclusione che l’esperimento era fallito e gli ingiunsero di tornarsene a Villeparisis con la prima diligenza. Ed ecco che uno scrittore da strapazzo, che il giovane Balzac aveva conosciuto ed Quartiere Latino, venne a trovarlo proponendogli che, loro due, scrivessero un romanzo in collaborazione. Così Honoré cominciò una lunga serie di romanzi popolari, che egli scrisse talvolta da solo e talvolta in collaborazione, sotto svariati pseudonimi. Nessuno sa quanti libri sfornassero nel periodo che va dal 1821 al 1825. Certuni asseriscono che si tratti di una cinquantina. Non conosco alcuno che ne abbia letti molti di questi, eccetto George Saintbury il quale ammette che tale lettura richiedeva un certo sforzo. Per la maggior parte erano romanzi storici, perché allora Walter Scott era al culmine della fama e i romanzi erano scritti apposta per approfittare della moda letteraria. Erano anche pessimi, ma riuscirono di qualche utilità a Balzac, perché gli insegnarono il valore dell’azione rapida, espediente necessario per trattenere l’attenzione dei lettori. Gl’insegnarono anche l’utilità di trattare argomenti che il popolo considera di primaria importanza: amore ricchezza onore o vita. Può darsi anche che gl’insegnassero ciò che gli veniva suggerito dalle sue stesse tendenze naturali, e cioè che uno scrittore, per essere letto, deve occuparsi delle passioni. La passione può essere abietta, volgare o innaturale ma, se è abbastanza violenta, non è priva di qualche grandezza.

  Mentre era così occupato Balzac viveva in casa. Fu là che fece la conoscenza di una vicina, una Madame de Berny, la figlia di un musicista germanico, che era stata al servizio di Maria Antonietta come una delle sue cameriere. Ora la signora aveva quarantacinque anni: aveva anche un marito malaticcio e querulo, da cui aveva avuto sei figli oltre ad uno avuto da un amante. Divenne l’amica di Balzac, poi la sua amante e gli restò sempre devota fino alla morte, che avvenne quattordici anni dopo. Si trattò di una relazione curiosa. Honoré l’amava come amante, ma trasferiva su di lei, inoltre, l’amore che non aveva mai sentito per la madre. Madame de Berny non era soltanto l’amante, ma anche la confidente sempre pronta a consigliare, incoraggiare e a proteggere, con l’affetto disinteressato, il giovane. L’affaire fece sorgere uno scandalo nel villaggio e la signora Balzac, com’era naturale, disapprovò indignata la relazione del figlio con una donna abbastanza anziana da poter essere sua madre. I libri, per di più, gli rendevano poco finanziariamente, e lei si preoccupava per il futuro del figlio. Un conoscente consigliò il giovanotto di mettersi negli affari e pare che l’idea abbia allettato Balzac. Madame de Berny tirò fuori quarantacinquemila franchi e, messosi con un paio di soci, Honoré divenne editore, stampatore e fonditore di caratteri. Non era tagliato per gli affari, però, e non si intendeva di contabilità. Tanto è vero che addossava alla ditta le spese personali riguardanti il sarto, il gioielliere, il calzolaio e perfino la lavandaia. Dopo tre anni, la società andò in liquidazione e la madre dovè sborsare cinquantamila franchi per tacitare i creditori.

  Dato che il denaro ha così larga parte nell’esistenza di Balzac è bene cercare di ragguagliare le somme citate al valore attuale della moneta. Tale ragguaglio non riesce cosa facile a causa delle continue svalutazioni e forse il miglior modo di dare un’idea dei franchi di allora consiste nel vedere cosa si potesse fare con un certo numero di franchi. I Rastignac erano gentiluomini di campagna. La famiglia, consistente in sei persone, viveva in provincia senza esagerare nelle spese, con tremila franchi all’anno. Quando essi mandarono il primogenito Eugène a Parigi per studiarvi giurisprudenza, il giovane prese una stanza nella pensione di madame Vauquer e con quarantacinque franchi al mese aveva il vitto e l’alloggio. Con soli tredici franchi al mese si poteva avere il vitto, nella stessa pensione.

 

Esperienza economica.

 

  Perciò la somma di cinquantamila franchi pagata dalla madre ammonterebbe oggi ad una cifra ben alta anche se espressa in franchi francesi attuali. Magari ad un venti milioni.

  L’esperienza nel mondo degli affari, per quanto disastrosa, fornì allo scrittore una certa conoscenza delle cambiali e delle transazioni economiche, conoscenza che gli fu poi utile nei romanzi scritti successivamente.

  Dopo il fallimento Balzac si trasferì con degli amici in Bretagna e là trovò il materiale per un romanzo, Les Chouans, che fu il suo primo lavoro serio firmato col suo nome. Aveva trent’anni. Da allora in poi scrisse con continuità operosa, frenetica, fino alla morte, avvenuta ventun anni dopo. Il numero dei suoi lavori è stupefacente. Ogni anno scriveva uno o due lunghi romanzi e una dozzina di romanzi brevi o novelle. Inoltre scrisse anche diversi lavori teatrali, alcuni dei quali non furono accettati, e che, salvo una eccezione, fallirono miseramente. Almeno una volta, per un breve periodo, diresse un giornale, che in gran parte scriveva da sè. Quando lavorava conduceva una vita casta e regolare. Andava a letto poco dopo il pranzo e si faceva svegliare dal domestico all’una. Si alzava indossava la sua tonaca bianca, immacolata (poiché sosteneva che per scrivere l’artista deve indossare abiti immacolati) e quindi, a lume di candela, sostenendosi con parecchie tazze di caffè nero, scriveva. Smetteva alle sette, faceva il bagno (in principio) e si stendeva. Fra le otto e le nove l’editore veniva a portargli le bozze o a ritirare un fascicolo di manoscritto; quindi si metteva di nuovo al lavoro fino a mezzogiorno, quando mangiava qualche uovo bollito beveva acqua e prendeva dell’altro caffè; lavorava fino alle sei, ora in cui pranzava innaffiando i cibi con qualche bicchiere di Vouvray. Talvolta arrivava qualche amico, ma dopo una breve conversazione Honoré se ne andava a letto. Sebbene fosse così morigerato quando mangiava da solo, se si trovava in compagnia diventava vorace. Uno dei suoi editori ha dichiarato che durante un pasto gli ha visto divorare un centinaio di ostriche, dodici cotolette, un’anitra, un paio di pernici, una sogliola, diversi dolci e una dozzina di pere. Non c’è da stupirsi se, col passare degli anni, egli ingrassasse parecchio diventando obeso! Gavarni dice che mangiava come un porco. E a tavola non aveva modi eleganti; che portasse il cibo alla bocca col coltello a preferenza della forchetta non è cosa che mi offenda (non ho alcun dubbio che Luigi XIV facesse lo stesso); ma resto male nell’apprendere che Balzac aveva l’abitudine di soffiarsi il naso nella salvietta.

 

L’inseparabile taccuino.

 

  Era un assiduo annotatore. Dovunque andasse aveva con sè sempre un taccuino e quando si imbatteva in qualcosa che potesse essergli utile o gli veniva un’idea o trovava un’immagine la segnava subito. Quando gli era possibile visitava l’ambiente dei suoi romanzi e talvolta faceva un lungo viaggio per vedere una strada o una casa che intendeva descrivere. Sceglieva con cura i nomi dei personaggi perché aveva l’idea che il nome dovesse corrispondere alla personalità che lo portava. E’ ammesso generalmente che scriveva male. George Saintbury pensava che ciò fosse dovuto al fatto che per dieci anni aveva scritto in tutta fretta nei romanzi, tanto per guadagnarsi da vivere. Tale ragione non mi persuade. Balzac era un uomo volgare (ma la sua volgarità non era parte integrante del suo genio?) e la sua prosa, di conseguenza, era volgare. Era prolissa portentosa e spesso scorretta. Emile Faguet, un critico importante ai suoi tempi, ci ha dato un libro dove sono raccolti gli errori di stile gusto sintassi di cui l’autore era colpevole; e, in verità, taluni sono talmente marchiani che non occorre una conoscenza profonda del francese per accorgersene. Balzac non era uno stilista; non gli passava per l’anticamera del cervello l’idea che la prosa potesse avere una bellezza e una grazia alla pari del verso sebbene in maniera differente. Ma con tutto ciò quando la sua volubilità esuberante non lo portava troppo lontano, era capace di darci aforismi e massime che non risultano indegni di La Rochefoucauld.

  Balzac non era scrittore che sapesse sin dall’inizio cosa aveva da dire. Cominciava con una minuta buttata giù in qualche modo, che poi riscriveva e correggeva così drasticamente che il manoscritto mandato all’editore riusciva quasi indecifrabile. Gli venivano consegnate le bozze e il romanziere le trattava come se fossero una semplice trama del suo romanzo. Non solo vi aggiungeva parole ma frasi, non solo frasi ma paragrafi e non solo paragrafi ma interi capitoli. Una volta ricevute le nuove bozze con tutti i cambiamenti che vi aveva apportati, si metteva al lavoro su quelle e vi apportava altri cambiamenti. Solo dopo questa revisione egli ammetteva che l’opera venisse stampata ma alla condizione che, in una successiva edizione, gli fosse concesso di fare un’altra revisione. Il sistema riusciva costoso per l’editore, ragione per cui succedevano spesso beghe fra editore e scrittore.

 

Privo di scrupoli.

 

  La storia delle relazioni di Balzac con gli editori è lunga, scialba e sporca e fra poco ve ne parlerò. Intanto Balzac era privo di scrupoli. Si faceva dare un anticipo su una data opera garantendone la consegna ad una certa data; quindi, tentato dalla possibilità di guadagnare più presto del denaro, smetteva di lavorare intorno al primo romanzo per poter consegnare ad altro editore un romanzo o una novella scritta in tutta fretta. Il primo editore agiva legalmente contro di lui per rottura di contratto, e le spese e i danni che Balzac doveva pagare accrescevano la mole dei suoi debiti. Perché non appena conseguì il successo che gli apportò contratti per libri che s’impegnò a scrivere (e che talvolta non scrisse) Balzac si trasferì in un appartamento spazioso che ammobiliò lussuosamente. Inoltre comprò un cabriolet e un paio di cavalli. Prese uno staffiere una cuoca e un domestico, si comprò vestiti eleganti una livrea per il domestico nonché diversi scudi che fece ornare con un blasone che non gli apparteneva. Era quello di una antica famiglia di nome Balzac d’Entragues e Honoré se ne appropriò quando fece precedere il nome dalla particella nobiliare de onde dar credito ai suoi nobili natali. Per poter pagare tutta questa magnificenza faceva debiti con la sorella gli amici gli editori e firmava cambiali che poi continuava a rinnovare. I suoi debiti crescevamo, ma egli continuava ad acquistare; gioielli porcellane mobili fini quadri statue; aveva i libri rilegati lussuosamente in marocchino e il bastone da passeggio era adorno nel manico di turchesi. Per un pranzo offerto agli amici fece decorare la stanza a nuovo o cambiare tutti i mobili. Ad intervalli, quando i creditori divenivano più pressanti, diverse di tali ricchezze venivano impegnate; di tanto in tanto arrivava l’agente giudiziario che metteva sotto sequestro la mobilia e la vendeva poi all’asta pubblica. Fino al termine della sua vita egli continuò a comprare con prodigalità insensata. Inoltre stoccava sempre gli amici ma era talmente grande l’ammirazione per il suo genio che ben di rado quelli gli dicevano di no. Le donne, di regola non prestano facilmente il denaro, ma Balzac a quanto pare riusciva anche con le donne (ed è noto che una somma prestatagli ben di rado veniva restituita). Del resto Balzac mancava completamente di delicatezza e non abbiamo alcun indizio che egli si facesse scrupolo nel chiedere il denaro alle donne.

  Come s’è detto la madre dovè cedere una parte del patrimonio per salvarlo dalla bancarotta; le doti fatte alle figlie avevano già ridotto sensibilmente il suo capitale sicché alla fine le rimase solo la proprietà della casa di Parigi. E venne il tempo in cui lei si trovò in tali ristrettezze da scrivere una lettera al figlio, lettera che è riportata da André Billy nella Vie de Balzac. Dice la missiva: «L’ultima tua lettera rimonta al novembre 1834. In quella tu accettavi di darmi, a decorrere dal 1° aprile 1835, duecento franchi ogni trimestre per aiutarmi ... Tu capivi che non potevo più vivere a seconda della mia povertà: il tuo nome era divenuto troppo noto ed il tuo sfarzo troppo evidente perché la differenza nelle nostre situazioni non risultasse stridente. Tale promessa era per te, penso, il riconoscimento di un debito. Ora siamo all’aprile 1837 il che significa che mi devi due anni dell’aiuto promesso. Di questi 1600 franchi mi hai dato, il dicembre scorso, 500 franchi come se mi facessi la carità, Honoré, per due anni la vita mi è apparsa come un continuo incubo. Non sarai stato in condizioni di aiutarmi, non ne dubito, ma il risultato si è che le somme che ho chiesto ipotecando la mia casa ne hanno diminuito il valore e ormai non riesco ad ottenere più anticipi e ho dovuto impegnare tutti gli oggetti di valore che avevo; alla fine sono arrivata al momento in cui debbo dirti: “Dammi il pane, figlio mio”. Per diverse settimane ho mangiato quello che mi passava il mio buon genero ma, Honoré, non posso continuare così. A quanto pare tu possiedi i mezzi per intraprendere viaggi lunghi e costosi di ogni specie, costosi sia in denaro che in reputazione (perché ti troverai gravemente compromesso al ritorno, a causa dei contratti che non avrai potuto rispettare). Quando penso a tutto ciò il cuore mi si spezza! Figlio mio, così come sei stato capace di permetterti ... amanti, bastoni adorni di pietre preziose, anelli, argenterie e mobilia, tua madre può anche chiederti, senza indiscrezione, di mantenere la tua promessa. Ella ha aspettato a far questo fino all’ultimo momento, ma adesso esso è arrivato ...».

  A questa lettera egli rispose: «Credo che farai bene a venire a Parigi, per parlare un’oretta con me».


I debiti e i romanzi.

 

  Il biografo di Balzac dice che, dato che il genio ha i suoi diritti, la condotta di Balzac non dovrebbe essere giudicata con il metro ordinario. E’ questione di opinioni. Io penso sia meglio riconoscere che egli era egoista privo di scrupoli e disonesto. La migliore scusa che si può trovare per la sua incapacità finanziaria è che Balzac, con il suo carattere leggero e portato all’ottimismo, era fermamente convinto di poter guadagnare somme enormi con i suoi romanzi (data l’epoca guadagnò parecchio con la penna) e somme favolose con le speculazioni che di tanto in tanto tentava la sua immaginazione ardente. Però, ogni volta che si impegnava in una di esse, il risultato era quello di lasciarlo più sprofondato nei debiti. Andiamo, Balzac non avrebbe potuto essere il grande romanziere che era se fosse stato un tipo pratico, oculato e sparagnino! Era un uomo che ci teneva molto a far bella figura, amava il lusso e aveva le mani bucate. Lavorava come un negro per rispettare gli impegni ma, disgraziatamente, ancor prima di pagare i debiti più assillanti ne aveva contratto di nuovi. C’è un fatto curioso che merita di essere segnalato. Era soltanto sotto la pressione dei debiti che Balzac si rassegnava a scrivere. Allora sgobbava fino all’esaurimento e, in tali circostanze, ha scritto alcuni dei migliori romanzi; ma quando, per qualche miracolo, non si trovava perseguitato dai creditori, quando gli agenti giudiziari lo lasciavano in pace, quando gli editori non lo citavano in giudizio, allora sembrava che la fantasia gli venisse meno ed egli non sapeva decidersi a scrivere. Balzac sostenne fino alla morte che era stata la madre a rovinarlo; questa era un’asserzione falsa perché era stato lui, il figlio, a rovinare lei.



  Alfredo Niceforo, La mano, il gesto ... e altri segni rivelatori della personalità nell’arte e nella scienza. La mano – Il gesto – Il passo – Anche il piede? – I contrassegni. Tomo primo, Roma, Fratelli Bocca Editori, 1956 («Biblioteca di scienze moderne», N. 153).

 

Capitolo I.


Dalla chiromanzia, dalla fisognomonia, e dai documenti dell’arte narrativa e figurativa ...

La mano dei personaggi della «Commedia umana», pp. 42-50.

 

  Come già abbiamo detto, nel discorrere di ogni parte del corpo per farne descrizione e interpetrazione, seguiremo il medesimo ordine, a un dipresso, che abbiamo seguito nell’opera, che precede la presente, sulla fisonomia, opera che esamina parte per parte il volto umano nei suoi caratteri descrittivi e nelle interpetrazioni che a ciascuno di essi può darsi: descrizioni e interpetrazioni della vecchia e meno vecchia fisognomonia ; descrizioni offerte dall’arte narrativa e poetiche; descrizioni (e interpetrazioni) balzacchiane figuranti in quella Commedia umana che costituisce uno dei primi monumenti, o quasi, in ordine cronologico, della narrazione realista ; passeremo poi a far menzione di ciò che ebbero a suggerire in proposito i canoni della bellezza e verremmo in seguito alle descrizioni e alle interpetrazioni dovute alle varie scienze che studiarono e studiano il tipo umano, quali l’antropologia generale e criminale, la morfologia costituzionale, ecc. senza dimenticare quel «segnalamento scientifico» che con poche ma precise parole, con numeri e con simboli, rappresenta e fa denuncia quasi fotografica (ma senza fotografia) non solo di ogni parte del volto ma anche della persona. Eccoci ora, nel seguire il sopra detto cammino, alle descrizioni e alle interpetrazioni dell’arte balzacchiana.

  Per colui che plasmò le mille statuette viventi della Commedia umana e che con tanta minuzia descrisse i tratti del volto e della persona per ciascuna di quelle figure e figurine, al fine soprattutto di farne vedere la mente e il cuore (l’esprit et le coeur), anche la mano doveva pur assumere importanza di primo ordine, tanto che con insistenza si fa descrizione di essa ogni qual volta tale o tale altro personaggio viene a presentarsi.

  Sicuro; ma ha da dirsi ora che il nostro artista, più che ispirarsi ai dettami di quel Lavater tanto da lui conosciuto e ammirato, si lascia guidare dal suo senso d’arte oltre che dal rigore del suo metodo realista. La minuzia descrittiva, cioè, e le trasfigurazioni dovute alla visione artistica, ancora una volta qui mescolano le iridescenti tinte loro. Le belle e soavi figure hanno belle e soavi mani; mano fine e delicata, inoltre, è propria a soggetti di nobil stirpe. Mano brutta e de forme è compagna di corpo e di viso brutti e deformi. Si danno, oltre di ciò, mani di uomo così delicate da sembrar femminili e, per contro, forti mani femminili da sembrar di uomo. E alle mani, per le loro caratteristiche e per il loro muoversi, si dà molte volte interpetrazione psicologica, vale a dire si vede in esse una tal quale corrispondenza con lo spirito. Tali, dunque, sono i temi ricorrenti nelle descrizioni balzacchiane della mano. Assai spesso, infine, la descrizione della mano porta seco, quasi di necessità, l’accenno al piede, ognor veduto in stretta correlazione con i caratteri della mano testé menzionali.

  Tutto, da una mano, vede Balzac — quasi con la pazienza e la doppia vista di un anatomico — facendo, per così dire, la «geografia» di quella mano e cioè descrivendo della mano stessa la forma, le dimensioni, la muscolatura, il grado di manutenzione e — quando ne sia il caso — la pelosità, e anche descrivendo partitamente le dita, la palma, le unghie e talvolta (persino) le falangi delle dita, senza dimenticare — sempre quando ne sia il caso — le caratteristiche più o meno anormali. Per le unghie si accenna, ora alla forma o disegno (ovale, ecc. ...), oro alla lucentezza, al colore, al grado di erosione o corrosione. Nè si dimentica di descrivere il polso ... In quanto alla pelle — sempre per la mano — è vista essa nel suo spessore, nelle sue rugosità, nella sua lucentezza c trasparenza, nel suo colorito, nelle sue venature e nella sua morbidezza.

  In ogni modo — diciamo ancor questo — sappia il lettore che l’immaginoso ed esuberante creatore di un Universo di personaggi non era del tutto ignaro delle pratiche chirognomoniche e chiromantiche, o alieno da esse. Qualche volta, infatti, nei suoi romanzi egli descrive tali pratiche conducendo il lettore ... nell’antro di una Sibilla (come fa, descrivendo minutamente, nei Comédiens sans le savoir) esercitante il suo mestiere tra una gallina nera e un grosso rospo: Cleopatra e Belzebù. Anche nel romanzo: Melmoth réconcilié vi è una scena del medesimo genere. Egli stesso non disdegnò ricorrere a tali pratiche volgendosi a celebri e autorevoli leggitrici dell’avvenire.

 

  a) Belle mani di donna.

 

  Dapprima, le belle mani: descrizioni e significato.

  Madame la vicomtesse Claire de Beauséant, regina dapprima dei salotti parigini, ritirata poi a vita solitaria, ha una mano che viene contrassegnata con i seguenti aggettivi, uno dopo l’altro: «bianca, quasi trasparente, sottile e delicata (fluette; si potrebbe anche dire: minuta, che l’aggettivo fluet contiene al tempo stesso i due concetti: sottile e delicato), dalle dita affilate, le cui unghie color di rosa formano un perfetto ovale» (La femme abandonée (sic), p. 202). È una bella mano. Anche bella è la mano di Massimilla Doni; è mano «bella e nobile, lunga, lucida come seta, bianca, le cui dita affilandosi terminano con unghie ben disegnate e naturalmente colorite, come se profumati colori asiatici le avessero tinte» (Massimilla Doni, p. 193). Una mano, davvero, da duchessa o da principessa ... titoli che a quella nobile fiorentina spettarono più tardi.

  Si veda ancora quanta minuzia ... quasi chirognomonica, in questa descrizione. La duchessa de Chaulieu, ancor giovane e avvenentissima, ha «una mano di rara bellezza, candida come latte e belle unghie su cui pare riposi la luce»; non basta, poiché si vuol notare «essere il mignolo leggermente distaccato, il pollice di una finezza di disegno come fosse d’avorio tornito» ... E oltre di ciò, un piedino bello come la mano e in piena armonia con essa (Mémoires de deux jeunes mariées, p. 10). Mano trasparente e dita affusolate troviamo nella contessa Clémentine Laginska, dita — si dà anche questo particolare — leggermente rialzate alla loro estremità, con unghie così lucide come fiori di mandorlo color di rosa (La fausse maîtresse, p. 59). Anche la mano della bella Diana, principessa di Cadignan, è trasparente, fluette, à doigts tournés en fuseau (Les secrets de la princesse de Codignan (sic), p. 115). Curioso accenno descrittivo è fatto per la mano di Esther, degno di menzione a parte. La mano di quella giovane donna, mano di incomparabile nobiltà di linee, è «molle, trasparente e bianca». Questa volta Balzac, prendendo a parlare da fisiologo, aggiunge che mano di tal genere è simile a quella «di una donna en couches de son second enfant» (Splendeurs et misères, etc. p. 38).

  Altre mani, come quella di Luigia o della baronessa de la Chanterie, sono da ricordare. La bella, fiera, imponente, Luigia che diventerà poi figlia adottiva del duca d’Almada e sposa morganatica di un principe, un’italiana del Trastevere romano, ha mani un po’ grandi «ma di forma elegante, di una bianchezza dorata». Un bianco d’oro (così vedeva i colori Balzac) che ben si accompagnava all’incarnato del viso. E la mano della nobile, pietosa e grave baronessa de la Chanterie, già sessantenne? «Ammirevolmente bella, priva di qualsiasi ruga, nè grassa nè magra, così bianca da destare invidia a giovane donna, e di una modellatura da poter essere degnamente copiata dallo scalpello di uno scultore». La mano, non si dimentichi, è in stretto rapporto con il modo di essere, di sentire, e di agire: quella mano, infatti «è in piena armonia con l’incantesimo della voce di quella nobile dama, con il celestiale azzurro dello sguardo» (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 45).

  Talvolta, invece di minuta descrizione, appaiono soltanto — sempre per le belle mani — pochi tocchi, ma espressivi. Le mani della duchessa di Argajolo sono «quali le più belle che mai scultore greco abbia saputo scolpire, bianchissime» (Savarus, p. 237). La mano di Madame Sévérine (Le député d’Arcis, p. 53) è «graziosa e piccola, troppo grassa», in accordo con tutta la linea di lei, donna piccola, grassoccia e piacente. Magnifica è la mano della contessa Anastasia, figlia di papà Goriot, in accordo, del resto, con un piede ben modellato (Le père Goriot, p. 38).

  Il polso e le unghie appaiono pur con qualche rilievo — come dicemmo — in cotali descrizioni. Di Laurence de Cinq-Cygne, ad esempio, si dice: «mano nobile e fluida dal polso bianco e delicato, soffuso di vene azzurre» (Une ténébreuse affaire, p. 54). La mano di Mademoiselle des Touches è «enjolivée d’ongles roses taillés en amande et côtelés sur les bords» (Béatrix, p. 94).

  Il lettore faceta il conto degli aggettivi o, come che sia, delle indicazioni che il nostro Autore ha adoperato fin qui, negli esempi addotti, per descrivere la mano di belle creature, e potrà notare come già abbondanza e la varietà dei qualificativi tenda ad uguagliare o superare quella, già cospicua, che fu propria alla fisognomonia.

  L’accenno a segni particolari lasciati dal lavoro o dall’ambiente, o in rapporto col tipo costituzionale, non manca tra tante belle mani femminili. La bella mano di Esther, romantica cortigiana venuta su dalla miseria, e tuttavia in difetto per le unghie che, guaste e corrose da lavori manuali, non avevano avuto il tempo di riprendere la loro elegante forma (Splendeurs et misères ecc., p. 40). (Per le mani degli uomini, come vedremo, tali accenni sono più frequenti). Ecco la descrizione della mano di Jeannette, servetta contadina, piccola, rotondetta e di bellissimo aspetto: la facile e paffuta servente ha braccia marmorizzate di rosso che terminano con «grosse mani ove ben distinte si vedono le fossette, con dita corte e ben fatte in punta, annuncianti forte e solida salute» (Les paysans, p. 377). Quella mano, per la sua forma, è davvero in rapporto con la figura tutta della donna, piccola, rotondetta, graziosa.

 

  b) Mani maschili, belle e da gentiluomo.

 

  Poiché di mani femminili abbiamo fin qui dato esempio, potrebbe sospettarsi — da parte di qualche psicologo entusiasta della psicologia profonda — che l’insistenza con cui il nostro creatore di figure umane sofferma il suo sguardo sulla mano femminile, provenga dalla suggestione del profondo istinto dell’Eros ... ma è pur da dir subito che anche per i personaggi maschili Balzac tiene a narrarci — quando si tratti di eleganti e delicati personaggi — delle loro mani, Ricordi tuttavia il lettore — e qui sta il punto — che Balzac aveva bellissima mano cui teneva moltissimo. Le mani di quel Louis Lambert in cui Balzac ritrae sè stesso, sono «graziose, bene affilate» (Louis Lambert, p. 62). Si senta, intanto, qualche descrizione di belle mani maschili, assai volte belle perché (come quelle di Balzac?) ricordano mani femminili. Le mani del giovane sventurato che rimane vittima, lungo la strada di campagna, sotto la diligenza che gli si rovescia sul corpo, sono «bianche, ben modellate, curate come quelle di giovane donna» (Le message, p. 261). Mani bianche e assai belle, come quelle di una donna, ha il conte Ottavio di Bauvan (Honorine, p. 16). Le mani di Raphaël de Valentin somigliano a quelle di graziosa donna, di bianchezza molle e delicata (La peau de chagrin, p. 206). Non vengono trascurale alcune particolarità delle dita e delle unghie: il giovane e bel Callisto, di una bellezza quasi femminea, ha le dita della mano leggermente incurvantisi in alto (Béatrix, p. 70). Le mani del gentiluomo de Valois — vecchio elegante, a lungo vissuto alla corte reale – assai curate, quasi mani di donna, attirano lo sguardo anche a motivo delle loro unghie di color rosa e ben tagliate (La vieille fille, p. 3).

  Sono dunque, per Balzac, veramente belle le mani di uomo che presentino linea femminile; ma hanno pur il segno della bellezza quelle di uomini appartenenti a nobile stirpe. L’elegante mano del giovane d’Esgrignon, giovane di antica razza, ha dita affusolate e leggermente incurvate in alto; bene attaccata è quella mano, e così pure ben attaccato è il piede, «indicando ciò nobile e pura razza» (Le cabinet des antiques, p. 48). Mani e piedi, anche per il nobilissimo marchese d’Espard, di antica stirpe, e cioè: «mano bianca e ben curata da gentiluomo, e piede stretto e alto» (L’interdiction, p. 270).

  La mano, davvero, tradisce non solo la stirpe, o la razza, ma anche la condizione. Quando il giovane e amoroso gentiluomo d’Estouteville, travestito da modesto apprendista — siamo nel secolo di Luigi XI — arrestato, nasconde la sua identità, il sagace Tristan, supremo magistrato di giustizia, guarda le mani del prigioniero e afferma che non si tratta affatto di mani di apprendista o di vagabondo mendicante, ma di mano di gentiluomo (Maître Cornélius, p. 284)[1].

  Il nostro romanziere ben vedeva nella mano ciò che tanti nè vedono nè sospettano; di qui quel suo descrivere, quando un personaggio si presenta, nonché il volto ma pur la mano; persino in qualche dedica dei suoi romanzi Balzac invoca le mani di colei cui quelle pagine sono consacrate. La dedica del romanzo Béatrix, volta a Sarah, implora che «le magnifiche mani di lei vogliano benedire quelle pagine». Insomma, nella mano è lo spirito, come si afferma — ancora — per bocca di uno dei personaggi balzacchiani. L’entusiasta e fantastico pittore Frenhofer — creatore di immagini vive come la vita — diceva che una mano «non è soltanto un qualchè che sta connesso meccanicamente al braccio e al corpo dell’uomo; no, poiché essa esprime e, per così dire, continua il pensiero dell’uomo stesso, pensiero che il pittore deve saper cogliere e tradur con i colori della sua tavolozza». Occorre «penetrare nell’intimo della forma, considerandola nei suoi contorni, nelle sue ondulazioni, nelle sue svolte e nella sue fughe (dans ses fuites)» (Le chef d’oeuvre inconnu, p. 318).

 

  c) Mani rozze che diventano nobili.

 

  Mano dalle belle linee, di chiara e delicata pelle, da belle e sottili dita e belle unghie, mano nobile, più volte descritta per nobili personaggi da Balzac con accenno agli opposti caratteri per la mano rozza e di rozze persone ... come abbiamo visto; [...].

 

  d) Le brutte mani.

 

  Mani caratteristiche, non certo per la loro bellezza, hanno personaggi vari del mondo balzacchiano con stigmate del lavoro, della fatica e di un avverso ambiente; e poi, vi sono mani larghe e pacifiche non belle — di buon uomo, e mani, infine, di una tale bruttezza che coincide con la bruttezza dello spirito: mani del feroce guerriero, del contrabbandiere, dell’omicida, e persino del carnefice. Ecco qualche esemplare.

  Le mani di Sauviat, mercante girovago, sono mani di instancabile lavoratore: larghe, spesse, quadrate e solcate da forti crepacci (Le curé de village, p. 8). Le mani del vecchio pescatore Cambrcemer — un terribile solitario che simigliava a quercia abbattuta dal fulmine erano «dure e coperte di peli, solcate da nervi che parean vene di ferro; mani che potevano sembrare quelle di una statua appena abbozzata» (Un drame au bord de la mer, p. 165).

  Brutte mani, larghe, tozze, non escludono bontà d’animo. Il buon giudice Popinot, anima candidissima in un corpo disarmonico, ha larghe mani e non belle, in accordo con grossi piedi (L’interdiction, p. 211); mani larghe e pelose ha il buon César Birotteau, con grosse falangi, dita solcate da pieghe, grandi e quadrate (César Birotteau, p. 229). Accenni a minuti particolari di tal genere, non davvero estetici, si trovano non infrequentemente, sia detto tra parentesi, come accade per la mano di Don Bousauier, «arricchita da piccoli ciuffi di peli a ogni falange, con grossa muscolatura attraversata da grosse e sporgenti vene» (La vieille fille, p. 17); oppure come accade per la mano di Clément des Lupeaux (sic) — un intrigante di alto bordo — che è grassoccia, quasi quadrata, dalle unghie corte (Les employés, p. 159).

Passiamo ad altre non belle mani, ma caratteristiche. Esse «ben dipingono, insieme alle linee del volto, il carattere dell’uomo». La mano del feroce conte di Mérouville, grande persecutore in guerra degli Ugonotti, è «enorme, coperta da un manto velloso così abbondante e così solcata da un labirinto inestricabile di muscoli e di vene e in alto rilievo, da simigliare a un ramo di faggio incassato in un viluppo di edera ingiallita» (L’enfant maudit, p. 7). Mano dai muscoli «consistenti e grossi» è la mano del contrabbandiere Butifer (Le médecin de campagne, p. 157). Quasi del medesimo genere, la mano del nobile gobbo — feroce nel viso — che figura in Maître Cornélius: «aspre mani, forti, solcate da peli grigi» (p. 249). Le mani del feroce galeotto Vautrin — un galeotto di genio — son «spesse, quadrate, fortemente segnale alle falangi da ciuffi di pelo folto e di un rosso ardente» (Le père Goriot, p. 17).

  E la mano del carnefice? Non scherza davvero per l’eccezionalità dei suoi caratteri; le mani di Sanson il carnefice, uomo grasso e grosso, calmo e silenzioso, sono di larghezza e spessore formidabili (La dernière incarnation de Vautrin, p. 74). Si tratta di quell’Henry Sanson che fu carnefice a Parigi nel XIX secolo, figlio di quel Charles Sanson che immediatamente lo aveva preceduto nel mestiere; Balzac, a quanto pare, lo aveva personalmente conosciuto e si era intrattenuto con lui ai fini di una documentazione realista per alcune scene della Commedia.

 

 

Capitolo IV.

Dall’antica fisognomia ecc... all’arte narrativa.

Gesti (e atteggiamenti) dei personaggi della «Commedia umana», pp. 162-175.

 

  Non si trova di frequente, nelle narrazioni più naturaliste e ispirate al realismo più obiettivo, insistenza nel descrivere dei propri personaggi i gesti e l’atteggiamento abituale quali espressione — si noti — della personalità psichica e altra del personaggio messo in scena. E ciò per quanto Walter Scott, che fu descrittore grandissimo, anche realista, e che nelle descrizioni volle non soltanto «far vedere» al lettore i personaggi e gli ambienti, ma talvolta anche i sentimenti [...]. Ma bisogna volgersi a Balzac per trovare ad ogni passo nella presentazione e nell’azione dei personaggi — minute descrizioni di gesti e di atteggiamenti, descrizioni presentate, appunto, non solo per «far vedere», ma per mostrare anima e sentimento del personaggio in questione. Si intenda bene: non diciamo con ciò che buoni romanzi e gustose novelle tacciano, o quasi, dei gesti dei loro personaggi, poiché molte di siffatte narrazioni — realiste o non realiste che siano — nel mostrare in atto la figura delle loro creature, descrivono di esse, per renderle più evidenti e vive, il modo di gestire e di atteggiarsi. [...]. Commetterebbe errore ehi credesse attribuire la sopra delta caratteristica balzacchiana alla sola nozione che il nostro fecondo narratore aveva delle dottrine di Gall e di Lavater tanto frequentemente da lui citate – dottrine che prendevano pure in considerazione, oltre che i tratti del volto, gesti e atteggiamenti — chè lo spinto di osservazione e di intuizione di cui egli era dotato e di cui tanto frequentemente egli dà lucenti prove, sarebbe bastato a produrre l’effetto in questione. Ciò nonostante, l’influenza dell’antica fisognomonia dovette pur farsi sentire. Vediamo, in ogni modo, tali personaggi in movimento.

 

  a) Varie categorie di gesti.

 

  1) Tra i movimenti della persona che ispirarono al nostro Autore fiducia per «leggere» il carattere della persona, specie se si tratta di donna, alcuni ve ne sono per i quali sembra egli avere qualche predilezione: quelli della testa, del collo ... e persino del piede. A proposito della marchesa d’Aiglemont — in tutto lo splendore dei suoi trenta anni — leggiamo che anche se non esistesse alcun indice tra i mille per mezzo dei quali le più ascose caratteristiche dell’animo si rivelano all’osservatore, basterebbe a costui esaminare con attenzione i movimenti del capo e il modo di piegare o volgere il collo, tanto varî e tanto espressivi per giudicare una donna» (La femme de trente ans, p. 124). Come si vede, Balzac penetrava, o credeva penetrare, molto più in là dello stesso Lavater! La bella e aristocratica viscontessa de Beauséant, una bionda dagli occhi neri, dalla nobile fronte, dal maestoso disegno del capo, mirabilmente posato sul collo bianchissimo, non sa forse muovere con particolarissima grazia e sapienza quella così bella testa? Sa darle «volta a volta, pose varie, ripiene di grazia e di eleganza, ora inchinandola innanzi, ora chinandola destra o a manca, or sollevandola con un certo languore». Come tutto ciò non bastasse, entrano nel giuoco dei movimenti i piccoli piedi che «or si piegano in avanti, or si avanzano fuor della gonna, or si sottraggono». Ogni movimento di lei, del resto, porta impresso quel caratteristico segno di grazia e di cortese benevolenza che è dato da buona educazione e da costante familiarità con le cose belle; quei movimenti si seguono, pur rapidi, senza urti nè scatti, con un insieme di affettata cura e di abbandono (La femme abandonnée, p. 268).

  Movimenti e carattere, dunque. Del resto, dai movimenti di una donna occupata in quelle femminili mansioni che propriamente alla donna sono specifiche, Balzac assicura potersi aver chiaro lume su ciò che in quel momento agita il pensiero della donna: «Dal modo — si legge in una pagina di Les paysans — con cui una donna, intenta al cucito, tira l’ago a ogni punto, un’altra donna sa comprenderne i segreti pensieri». Si tratta dell’infelice e gentile sposa di colui che, insidiato da volgari nemici, dovrà presto soccombere; il triste presentimento occupava lo spirito della donna intenta al suo cucito.

  2) Vi è per il nostro osservatore un complesso di atteggiamenti e di movimenti, c quindi un portamento, che annuncia il candore o l’imbarazzo laddove altro annuncia il contrario; altri gesti ancora accusano grave severità. Guardate come cammina e si muove, deliziosamente, la modesta e bella Ursule Mirouet: «con un contegno esprimente divina semplicità». Balzac adopera la parola simplesse (vecchio francese) invece di simplicité, rendendo per tal modo pii) dolce e rappresentativa l’armonia del periodo e la figura stessa della soave creatura. Invero, come egli stesso subito fa notare, «il pensiero si manifesta in tutto l’individuo e anche nei minimi particolari del portamento». Più lungi: «la nobiltà della condotta di lei ben appariva in un mirabile accordo tra i lineamenti del viso, i movimenti e la generale espressione della sua persona» (Ursule Mirouet, p. 66-67). Ed ecco gesti e portamento imbarazzati per troppa semplicità di spirito: quelli della giovane Augustine Guillaume, del resto graziosa e candida; gesti «meschini, con qualche atteggiamento comune e banale, talvolta imbarazzato». La poverina rimarrà imbarazzata per tutta la vita, non sapendo comprendere, per soverchia timidità, gli estri artistici (o le stravaganze?) dello sposo! (La maison du chat-qui- pelote, p. 29).

  Quanto diverso il gestire e il muoversi di quella spensierata, ingrata e capricciosa Anastasie de Restaud, figlia del povero papà Goriot! «Movimenti pieni di fuoco» (Le père Goriot, p. 38). Guardate anche come si muove Emilie de Fontaine, della più antica nobiltà di Francia: alta e snella, lo slanciato personale le permette di prendere a suo piacimento deliziosi atteggiamenti, or di disprezzo, or di impertinenza. Possedeva un suo proprio repertorio di quegli atteggiamenti imbronciati e di quei gesti femminili che sanno così bene accompagnare — crudeli o benigni secondo i casi — e sottolineare le mezze parole e i sorrisi. Da cui un muoversi e un andare «volta a volta imponenti, o leggeri e scherzosi, secondo necessità» (Le bal de Sceaux, p. 91). Gesti allettati aveva la duchessa de Langeais, gesti che essa sapeva a perfezione comporre «tutto rendendo armonico nei suoi movimenti, dal più piccalo e breve, allo sguardo e al modo di parlare» (La duchesse de Langeais, p. 173). Una regina dei salotti della Restaurazione! Di bellissima donna, un malizioso osservatore assicura che «l’intelligenza di lei consiste nell’arte plastica dei suoi gesti e delle sue movenze». Quella donna sa in quell’arte trionfare; anche se non la capirete quando parla, ne rimarrete tuttavia incantalo per il modo con cui essa muove la testa, con cui alza le bianche spalle, per il modo con cui sorride facendo con quel sorriso brillare una frase insignificante ... E quanta grazia in quei movimenti che fanno agitare una cassolette attaccata al suo dito per mezzo di un anello! «Grandezze artificiali, ottenute grazie a superlative piccolezze» (Autre étude de femme, p. 151).

  3) Altro genere di gesti non svela candore o imbarazzo, nè accusa artificio, ma è segno di austera e dura grandezza. I gesti «semplici e rari di quell’uomo (Marcas) avevano una specie di grandezza selvaggia» (Z. Marcas, p. 322). Grande e selvaggio, infatti, il vivace genio di quell’uomo, pur destinato a frangersi contre (sic) le mille mediocrità e le viltà insidiose degli uomini e della vita! Balzac non dimentica il suo amaro pessimismo per il quale la luce del genio e dell’onestà non brilla che dopo la morte. Le corone di alloro non si compongono forse per essere deposte sulle tombe? Quando qualcuno giunge a farsele comporre in vita, esse possono ridursi in polvere prima ancora dell’uomo che sfacciatamente ardi porle sul proprio capo.

  4) Non si può negare, davvero, che Balzac ricolleghi ad ogni passo e ad ogni costo le caratteristiche fisiche della persona e le espressioni di essa allo spirito e al carattere della persona medesima: i gesti sono l’anima. Ma non si può negare neanche che egli abbia veduto come gesti e mimica, oltre che provenire dall’interno spirito (mens agitat molem). possono pur essere il risultato di inconscia imitazione. Dell’influenza imitativa nel gestire, infatti, dice Balzac là dove, nel parlare del grande argentiere di Re Luigi XI, assicura che in continua consuetudine col duro monarca (uno di quegli spietati carnefici per mezzo dei quali lo Spirito maligno, attingendo alla perpetua sorgente che a lui forniscono la criminalità e la follia morale, tiranneggia l’umanità), ne aveva assunto persino i gesti «come sovente accade a coloro che insieme vivono in una specie di intimità» (Maître Cornélius, p. 272). Occorrerebbe, tuttavia, osservare che il fallo, da parte dell’individuo, di imitare gesti e atteggiamenti di altro — sia coscientemente, sia incoscientemente — pur deve provenire in parte dalla natura della personalità dell'imitatore, in quanto non si imita se non ciò che a noi sembra modello o ciò che su noi esercita, per tale o tale altra ragione, incanto di suggestione; ora, in quale che sia di tali casi, la «spinta» all’imitazione (cosciente o incosciente) viene dal di dentro e cioè dall’intimo tessuto della nostra personalità. La quale, quindi, sempre guida e conduce. Tanto ciò è vero, che lo stesso Balzac, nel caso or citato, dopo aver detto dell’imitazione suggestiva di cui sopra, ricorda che il fisico stesso del grande argentiere rassomigliava a quello del tiranno, E allora, imitazione sia pure, ma pur anco un sostrato di identità fisica tra l’imitatore e l’imitato. [...].

  5) Significativo per Balzac è l’armonioso complesso dei movimenti, non già di tale o tale suo vivente personaggio, ma di un tipo astratto di femminilità: il tipo della parigina, e ben si intenda, della parigina elegante. Di essa si dice non solo del vestire, del parlare, della delicata maniera di ricevere, del modo con cui assiste agli spettacoli ... ma pur del modo di muoversi. Ha, infatti, «un modo tutto suo di ammantarsi nell’iridescente cachemire ... e camminando sa dare alla propria persona un tal quale movimento armonioso. A che mai essa deve tanta armonia di movimenti così graziosi? A un angelo o a un demone?» (Autre étude de femme, p. 146). Come sovranamente intende, la parigina, ciò che Balzac chiama, con ardita espressione, la coupe de la démarche! Come e in che modo essa porta innanzi il piede, con decente e armonioso movimento che desta al tempo stesso desiderio e rispetto! Quanto diverso tale incedere da quello di donne di altri popoli, architettonicamente fatte in modo diverso dalla parigina e che, nel camminare «sembrano granatieri all’attacco di una ridotta!» L’arte sovrana di Raffaello — quel Raffaello che così spesso Balzac ama citare quando richiama ideali di somma bellezza e visioni di alta poesia — non è affatto dimenticata in tale animata pittura di armonici gesti, chè camminando la parigina sa non urtare alcuno nè farsi urtare, ma procedere a con una orgogliosa modestia, aspettando che le si faccia posto ... con linea così dignitosa e serena da far pensare alle Madonne di Raffaello nella loro cornice» (Id, id, p. 147). [...].


  b) Atteggiamenti: dolcezza, nobiltà, seduzione.

 

  Anche l’atteggiamento, la posa, l’assumere abitualmente tale o tale altro contegno — da parte di un individuo — sono, per così dire, un gesto; un gesto ... momentaneamente cristallizzato e, come tale, l’atteggiamento abituale ha lo stesso significato dei gesti. Il che vale, tanto se si tratta di spontaneità da parte della persona in questione, quanto se si tratta di artificio. Ora, atteggiamento e posa formano, naturali o artificiali, più volte obietto di descrizione nei quadri della Commedia umana. Si veda come si tratteggia e si colorisce, in quelle pagine, l’atteggiamento che esprime dolcezza o rassegnazione, quello che è tutto nobiltà, e quello ancora che è composto per sedurre ...

  La dolcissima, affettuosissima e infelice (dolcezza e devozione mai hanno fortuna sulla scena della Commedia umana ... il che pur si dà su quella della vita) Gabrielle de Beauvouloir non può che avere atteggiamenti e pose in pieno accordo, nella loro linea generale, con il carattere: alta e snella, «pendono le sottili braccia con quell’abbandono che un profondo pensiero imprime all’atteggiamento della persona ...». Simigliava essa a uno di quei capolavori della statuaria della Rinascenza «soave nelle sue linee diritte ma non dure, sicura e ferma in un disegno che non esclude movimenti e vita. Quella bella creatura, in così dolce atteggiamento, dalle linee con tanta eleganza tratteggiate, faceva pensare «al profilo disegnato sul cielo in sul cader della sera da una rondinella in volo» (L’enfant maudit, p. 83). Quali immagini! Il nostro romanziere realista è, come ognun sa, l’estensore di minutissimi inventari quando descrive, un fotografo- scrupolosamente obiettivo ... ma attraverso quale filtro di luci cangianti passano le cose che egli vede! E come siffatte fantasie si intrecciano con la precisione secca e anatomica della nomenclatura tecnica, in tante pagine della Commedia! Anche la Paolina di Louis Lambert, così devota e pronta a ogni sacrifizio, ha di solito «atteggiamento raccolto»; dai gesti e dai movimenti di lei «traspare grazia ascosa, così come le parole di lei attestano spirito dolce c carezzevole» (Louis Lambert, p. 87). Gesti e voce, ancora una volta, appaiono tra loro in armonia. Anche la voce, infatti, non è forse un gesto?

  Nobiltà di contegno, invece, oltre che dolcezza, è scolpita nella persona della baronessa de la Chanterie, sessantenne e ancor bella con i suoi capelli d’argento, la fronte soffusa di dolcezza, il viso di bianco candore. Quella nobile dama si tiene dritta e alta «in una posa che rivela, se non vecchia e nobile stirpe, per certo modi e vita di nobiltà e di aristocrazia ... Un atteggiamento che poteva sembrare altero ove non fosse stato di continuo temperato dai più affabili e cortesi modi». Nobiltà di contegno che si associa, in quella dama, con la più squisita elevatezza morale e con una voce che incanta e sottomette (L’envers de l'histoire contemporaine, p. 29). Il comportamento, la voce, l'anima ... tre lati di un solo triangolo? Correlazioni di ordine soltanto apparente, o addirittura fantasioso, o invece riposanti davvero nell’intimo della realtà e obiettivamente accertabili grazie a procedimenti che la ricerca scientifica metterà in evidenza per mezzo degli strumenti della psicologia sperimentale? Qual portamento nobilissimo — ma di genere diverso da quello or ora accennato — il portamento della bella e severa Honorine! «Esso ricordava tutti i quarti di nobiltà immaginabili, con tanta fierezza che nelle strade la più misera gente, e anche più audace, doveva trarsi di lato per far passare quella donna, gaia, tenera, fiera e imponente» (Honorine, p. 51).

  La posa della seduzione ambiziosa e vanesia, infine, è con qualche rilievo più volte disegnata dal nostro Autore. Già se ne vede traccia nell’insieme dei gesti e degli atteggiamenti di quella intelligente e seducente Emilie de Fontaine di cui più sopra; anche a proposito della bellissima Foedora si danno tratti di quella posa dipingendo proprio una delle plastiche pose favorite di lei. Quella donna si compone, dinanzi al suo interlocutore, appoggiandosi con civetteria alla parete, quasi stesse per svenire, ma pronta, tuttavia, a dileguarsi se troppo vivace sguardo venisse a colpirla; braccia — in quella posa — dolcemente incrociate ... viso rivolto verso colui che parla, come se volesse di costui respirare le parole (La peau de chagrin, p. 121).

 

  c) Gesti e atteggiamenti della follia.

 

  Dove mai Balzac ebbe a studiare i movimenti nell’incedere, nel gestire, nel muoversi, nell'agitarsi, degli alienati? Lavater e i suoi discepoli non si erano diffusi affatto sul tema, per quanto dedicassero qualche pagina più o meno fantasiosa alla facies dell’uomo pazzo descrivendone, con disinvoltura, «fronte vasta, orecchie larghe e diritte, viso triste, guance incavate, sguardo di traverso, pupilla dilatata, sopracciglia folte, capo e collo inclinati a destra o a sinistra, bocca semiaperta ecc. ...» riducendo in tal modo le più diverse forme dell’alienazione a un unico quadro, come se quella « fotografia » potesse riferirsi a tante e diverse forme di alterazioni e deficienze mentali quali effettivamente esistono. Ma già ai tempi di Balzac i primi psichiatri, degni di tal nome, nel descrivere (come Esquirol e altri) la facies dei loro malati secondo le varie categorie di malattie, davano pur qualche ragguaglio sui gesti e sugli atteggiamenti. L’illustre Esquirol, ad esempio, or ora rammentato e che scrisse, nel primo quarto del passato secolo, precise pagine sulla alienazione mentale, nel descrivere le varie specie di alienazione così come allora si classificava, e cioè: mania, melancolia, monomania, demonomania, demenza, idiozia. imbecillità, dà indicazioni descrittive, più o meno brevi, sui gesti e sugli atteggiamenti; anzi, per ognuna di siffatte categorie compone disegni che riproducono l’atteggiamento e la mimica del volto, e pur della persona, come nella tavola che riproduce la intera persona di una donna melancolica. Senonchè, non sembra che la Commedia umana abbia preso nota di tali informazioni, nè risulta che direttamente Balzac si sia documentato spingendo lo sguardo in questa o quella dimora ospitante le categorie varie di alienati. Ciò nonostante, qualche figura, nettamente moventesi nel campo dell’alienazione o delle più decise malattie nervose e mentali, è qua e là abbozzata nella Commedia: a parte le figure che il narratore considera forse come normali, ma che sono invece di veri e propri monomani quali papà Goriot, l’inventore Balthazar Claës e altri, il lettore della Commedia trova, ora la giovane Lydie che, impazzita, crede cullare il suo bimbo cullando invece un ammasso di stracci (Les petits bourgeois, II, p. 352), ora il cieco Facino Cane sognante ai margini della follia (nel romanzo dello stesso nome), oppure la povera Stéphanie impazzita per spavento (Adieu), oppure ancora il pittore Frenhofer che dipinge il nulla credendo di dipingere il tutto (Le chef d’oeuvre inconnu). Qualche personaggio, come il delirante Gambara, crede comporre ed eseguire musica celeste laddove non crea che disarmonico frastuono (nel romanzo: Gambara). E quel vecchio Margaritis che passa la giornata a leggere lo stesso, ormai antico, giornale? Gesti automatici, frasi incoerenti, momenti di lucido intervallo, sguardo sovente istupidito. Una signora — salutandolo — gli chiede: «Come state? State bene?» Eccolo rispondere: «Stamane mi son fatto la barba e voi?» (L’illustre Gaudissart, p. 335). Il bello si è che il gioviale Gaudissart, il quale si vantava di non farsi ingannare da nessuno, parlando con quel pazzo, per nulla si accorge della pazzia di lui e lo giudica, anzi, uomo pieno di ragione e superiore. La disavventura può sembrare ultra romanzesca ... [...]. E finalmente, tornando alle figure di alienati che si profilano nella Commedia balzacchiana, non è affatto da dimenticare la grande figura di Louis Lambert di cui il nostro Autore si ferma a descrivere il tragico atteggiamento e i monotoni gesti allora che la pazzia seppelisce vivo quel povero personaggio nel silenzio delle tenebre. Senonchè, giova far notare che gli accenni e i più o meno rapidi tratti della descrizione sembrano piuttosto provenire dalla immaginazione del romanziere che dal vero ; ciò nonostante, un giusto accenno in questo campo si fa quando si narra di quella speciale fantasticheria che psicologi e psichiatri ben conoscono e che trasforma, in alcuni soggetti, specie infantili e femminili, le dilettose figurazioni della fantasia in una quasi realtà o addirittura in una piena realtà, tanto da far vivere all’individuo che le crea, due vite: la vita materiale, quasi inavvertita, e la vita fittizia assorbente tutta la coscienza ... Alludiamo a quella Modeste Mignon, giovane romantica di vivace intelligenza, ammiratrice di Byron e di Victor Hugo, che vive in un mondo di illusioni romantiche da lei volta a volta creato, fingendosi ora la sposa di un uomo di genio, ora la consolatrice di un grande afflitto, ora incarnandosi addirittura in un personaggio di romanzo (Modeste Mignon, p. 64).

 

  d) Ancora gli alienati della «Commedia umana».

 

  Come che sia, vediamo meglio in qual modo, anche in questo campo dell’alienazione o ai margini, prenda posa o si innova qualche personaggio della Commedia, e prendiamo ad esame alcuni tra quelli dei quali si è dianzi fatto il nome. La contessa Stéphanie de Vandières, impazzita per spavento e dolore durante il tragico dramma del passaggio della Beresina, ricoverata nella villa Les Bons-Hommes, di tutto immemore, ha gesti e movenze simili a quelli di un animale, cioè presenta nel muoversi «quell’ammirevole sicurezza di meccanismo la cui sveltezza poteva sembrare un prodigio in una creatura umana» (Adieu, p. 79). Si direbbe che per Balzac i movimenti degli alienati siano movimenti meccanici, quasi che egli concepisse la trasformazione dell’uomo sano di mente nel malato mentale come trasformazione dell’uomo vivente, di carne e ossa, in un figurino meccanico, in un fantoccio. Ma ... non è pur composta di tanti fantocci — veri automi — la folla degli uomini di carne e ossa che ne circonda e che nessuna traccia, almeno apparente, presenta di alienazione mentale? La concezione balzachiana di cui sopra è piuttosto immaginaria, come ben discutibile è il metodo di guarigione tentato su l’infelice Sthéphanie, metodo in cui l’opinione e la credenza del grosso pubblico pongono fiducia; poiché la donna perdette la ragione durante lo spaventoso terrore che travolgeva un disfatto esercito in fuga, al passaggio del fiume, si ripeta quella scena dinanzi agli occhi dell’alienata e la ragione tornerà. Il metodo, tuttavia, è ripreso in esame dalla psichiatria di oggi. Piuttosto immaginario è il metodo di guarigione adoperato per la povera Lydie che, priva affatto di mente, di subito la ricupera e trova infine la pace cessando di vedere in uno straccio il corpicino del bimbo da cullare.

  Ma soprattutto atteggiamenti e gesti dell’alienazione si trovano prospettati nelle ultime pagine narranti, come dicevamo, la vita di Louis Lambert. Quando l’amico d’infanzia va a visitare l’amico impazzito e lo trova — macchia e ombra oscura e silenziosa nell’oscurità della stanza buia, così a poco a poco assuefando l’occhio, lo vede: «dritto, in piedi, con le spalle di contro al muro, i gomiti appoggiati sull’orlo della fascia di legno che forma l’alto zoccolo della parete stessa, il busto ricurvo sotto il peso della testa chinata in avanti». Così appoggiato, strofinava di continuo una delle gambe sull’altra con movimento macchinale che nessuno mai aveva potuto arrestare... Quale orribile scricchiolio, nel silenzio della stanza buia, dallo strofinarsi delle ossa l'ima contro l’altra! «Quella triste figura meccanizzata restava fissa in quella posizione per giorni interi e spesso per intere notti senza mai batter palpebra». (Louis Lambert, pp. 116-117). Una «stereotipia», dunque, come quelle stereotipie di cui effettivamente parlano gli psichiatri, per le quali i malati rimangono per ore intere nei più scomodi atteggiamenti o ripetono con tenace monotonia il medesimo gesto? Le stereotipie, come si sa, possono essere, così degli atteggiamenti (Louis Lambert appoggiato, quasi statua di gesso, contro il muro), come dei gesti (Louis Lambert strofina di continuo un ginocchio contro l’altro ... mentre altri malati, ad esempio, continuano con ostinazione a fare tre passi avanti e tre indietro) o anche del linguaggio: ripetizione all’infinito della medesima frase o della medesima parola. [...].

 

Ancora con Balzac: gesti umili e ridicoli ... e altri, pp. 175-177.

 

  Gesti umili e modesti, persino confinanti con il ridicolo, non sono trascurati dal realismo balzacchiano. O che non si mostrano persino i gesti del giovane — il visconte Savinin de Portendère, un Adone — nel radersi il volto, nel pettinarsi il crine e nell’accomodarsi sul mento la «virgule» (noi diremmo la mosca)? (Ursule Mirouet, p. 143). Vi è, dunque, nei movimenti della mano — che, armata di rasoio, rade il volto o che, con le grazie del pettine, dà ordine alla capigliatura — traccia, o impressione, della personalità? [...]

  Qualche tic motorio contrassegna tale o tale altro personaggio come accade per quel Monsieur Fraisier, piccolo, magro, malaticcio, dal viso pieno di bitorzoli; nel parlare, si grattava incessantemente il braccio destro (Le cousin Pons, p. 523).

  In quanto al gesticolare ridicolo, a cui facevano posto anche i cultori della fisognomonia, Balzac tratta ancor ciò e disegna talvolta con pochi ma efficaci tratti. Madame Guillaume, alta, magra e secca, duramente piantata dietro il banco del suo grande magazzino all’insegna dello «Chat-qui-pelote» come se fosse impalata sulla sedia, ha gesti bruschi e spezzati (saccadés) «come quelli di un telegrafo ottico». [...]. Naturalmente, anche il parlare di quella donna è secco e breve (La maison du Chat-qui-pelote, p. 29). Una donna telegrafo, privata perciò di spontaneità e di vita, tradotta in un automa che diventa una caricatura; i suoi gesti automatici sono pur in accordo, oltre che con l’impalcatura scheletrica e con la struttura fisica intera, anche col carattere e con il tono secco e breve del parlare. Si ripeta, per conseguenza: scheletro, muscoli e nervi da un lato; gesti, voce e modo di parlare dall’altro. Formano — insieme — un tutto le cui parti sono intimamente tra loro collegate. Gusto, carattere, parola. [...]

 

Sempre con Balzac: movimenti serpentini, pp. 177-178.

 

  Non sarebbe un cader nell’errore l’affermare che una delle caratteristiche delle descrizioni di personaggi, nella pittura balzacchiana, consista nel confronto con l’animale, ed ora con l’animale aggraziato o elegante, sia pure insidioso (in ispecie quando si tratti di movimenti di figure femminili), ora con spregevoli animali e da fuggirsi, o malvagi. In particolare, descrivendo figure femminili nei loro movimenti, l’autore della Commedia umana ricorre con compiacenza al confronto col serpente. E’ vero che talvolta le graziose movenze di donna sono confrontate, come già vedemmo, al volo di una rondine ed ecco la Gabrielle dell’Enfant maudit, tanto gentile e graziosa in ogni sua movenza, che quando guarda, sporgendo il capo, sembra gazzella «improvvisamente arrestarsi per ascoltare il mormorio del ruscello ove andrà a dissetarsi» (p. 84). Ma quante volte, invece, il riavvicinamento si fa con le movenze dell’insidioso serpente! Il collo della bella e triste Julie d’Aiglemont è forse un po’ troppo lungo, ma appunto perché così fatto esso sa dare alla testa le graziose, magnetiche e vaghe ondulazioni del serpente (La femme de trente ans, p. 124). Flessuosa è anche, a sedici anni, la giovane Véronique «dalle linee serpentine». E la duchessa di Maufrigneuse, quando si stende deliziosamente sulla sedia a sdraio, non assume, mettendole in rilievo, «belle forme serpentine che dal piede con grazioso movimento risalgono sino all’anca e si continuano poi in ammirevole ondeggiamento sino alle spalle»? Il collo, d’altra parte, di Louise de Chaulieu, è lungo, dotato di «quei movimenti serpentini che conferiscono alla persona tanta nobile maestà». Lince serpentine «di carattere sublime ha la persona della baronessa Hulot, insieme ad altri caratteri che a lei conferiscono il tipo delle donne nate regine». Chi ha avuto la somma pazienza di contare quante volte nella Commedia umana ricorrono confronti tra personaggi e animali — e abbiamo con ciò nominato Pierre Abraham — ha trovato che i rettili sono nominati 13 volte dei quali (siamo precisi) 9 Ophidiens. Da notare che il rispetto o, meglio, il timore riverenziale di Balzac verso il satanico personaggio che insidiò la prima Donna, non si estende alla vipera, la quale — sempre secondo le statistiche del pazientissimo ricercatore ora rammentato — è chiamata a confronto 2 volte soltanto: quando, cioè, parla della marchesa d’Espard, dal collo allungato, dalla posa flessuosa, dalla piccola testa, e dai movimenti ondulatori, il nostro narratore la paragona (la marchesa aveva lingua malefica) a una vipera; ed anche l’intrigante e filibustiere Petit-Claud, magro, freddo, cattivo e serrato nella sua lucida redingote, è presentato come «una vipera congelata».

 

Capitolo VI.

Il gesto. La stretta di mano.

Qualche personaggio della «Commedia umana», p. 214.

 

  A tale proposito faremo notare come anche a Balzac, osservatore ultravisivo, non fosse sfuggito il significato da darsi al modo di porgere e stringere la mano. L’astuto e crudele Rigou, avarissimo tra gli avari, e incisivo modello di ipocrisia, dà la mano sporgendo soltanto il dito indice (Les paysans, p. 339-340). In quel gesto non è forse tutta l’anima — mente e cuore — dell’individuo? Quante volle il lettore avrà trovato persone dallo sguardo vitreo e il volto di ghiaccio — capaci di ogni mala azione, debitamente mascherata — che in quel modo, appunto, si degnano porgergli la destra! Talvolta, tuttavia, si spingono ad affidare alla mano che stringono, due dita invece di un solo dito!

  Altro significativo modo di dare la mano: la mano della duchessa Diane de Maufrigneuse è «una bella mano, piena di tesori», ma quando avviene l’incontro con l’uomo che essa vuole abbandonare, quella mano, nella stretta, «diventa fredda e senza anima, simigliante a legno rammollito che nulla esprime; quella mano non è data, è presa» (Le cabinet des antiques, p. 120).

 

Capitolo X

Il passo.

I personaggi della «Commedia umana», pp. 285-288.

 

  Abbiamo già detto, ricordando la Théorie de la démarche di Balzac, che quell’illustre Autore promette, tra il serio e il faceto, di scrivere un intero trattato sul tema e ne dà frattanto qualche traccia, ricca di aforismi ... più o meno stupefacenti. Ricami piuttosto fantasiosi, ma intrecciati su tanti fili d’oro di verità!

 

  a) Aforismi e aggettivi.

 

  Il grande Borelli — ricorda Balzac — aveva studiato a fondo i movimenti degli animali; perché non si dovrebbe condurre medesima ricerca per l’uomo? Anche dopo la redazione del testo del Borelli, rimangono ancora moltissime pagine da scrivere al proposito (p. 20-23). Qualche aforismo dello scritto balzacchiano suona così: il modo di camminare corrisponde allo sguardo, alla voce, al respiro (p. 32); il riposo è il silenzio del corpo (p. 36); ogni movimento — o deambulazione — a scatti, rivela un qualche vizio o una cattiva educazione (p. 37); movimenti e modo di camminare non possono mentire ... Champollion va decifrando — nota ancora Balzac — i geroglifici egiziani che rappresentano il pensiero; perché non dovremmo anche noi decifrare quel geroglifico che è costituito dall’umana deambulazione? (p. 4). Lavater, continua sempre Balzac, ha già detto che tutto è omogeneo nell’uomo (e cioè: ogni parte o funzione dell’organismo è in rapporto e in consenso con le altre parti e funzioni) e, per conseguenza, anche il modo di camminare di un individuo non ha da essere meno eloquente della sua fisonomia.

  Ecco, dunque, Balzac descrivere il modo di camminare a indicazione non solo dello stato passionale del momento, ma anche e soprattutto del carattere senza che siano esclusi i soliti tocchi romantici. E così bene egli descrive, che voi vedete a una a una come camminano quelle sue figure sul palcoscenico del suo teatro — o del dramma della vita e notate come ognuna di esse abbia il suo particolar modo di incedere e come per ognuna di esse suoni diverso il passo. Diversità materiali che corrispondono a diversità (transitorie o permanenti) dello spirito? Passo sicuro e fiducioso, dice la terminologia balzacchiana, oppure passo spaventosamente calmo, passo pesante e anche passo folâtre (scapigliato e agitato), passo mobile, passo a scatti, passo lento e senza vita, e persino: passo di uomo libero e passo ecclesiastico, per non dire di altri passi ... più che romantici.

 

  b) Esempi. Il passo e il carattere.

 

  Cieca fiducia in sè stesso, proveniente dall’esperienza di esser sempre riuscito ad ottenere ciò che fortemente si desidera, si svela negli atteggiamenti e persino nel modo di camminare del vecchio e tirannico Grandet (p. 15). Passo calmo, ma di una calma che mette spavento, è il passo del polacco Adam de Wierzchownia, uomo infernale, dalla faccia angolosa e come devastata (La recherche de l’absolu, p. 73). L’ex colonnello Montcornet, uomo forte e sanguigno, antico colonnello dei corazzieri della guardia imperiale (quanta cattiveria in quei critici che fecero osservare a Balzac che non esistevano corazzieri nella guardia imperiale! Balzac stesso risponde che ben egli ciò sapeva, ma la poetica fattura del romanzo esigeva quella pittoresca tinta, come si legge nella nota dovuta allo stesso Balzac alla fine del volume Les paysans), ha passo pesante, che fa risuonare il piancito (p. 19). Per contro, l’aristocraticissima Emilie de Fontaine — bella, altera, impertinente — ha un modo di camminare che Balzac contrassegna con l’aggettivo: folâtre. Ha, cioè, una démarche folâtre (Le bal de Sceaux, p. 91). Come tradurre esattamente quel a folâtre»? Ancora una volta si dà il faticoso compito della traduzione di una nomenclatura pensata e redatta in una determinata lingua con ciò che le dovrebbe corrispondere in altra. Folâtre, in italiano. può essere reso da: scherzevole, giocoso, festevole, allegro, lieto, pazzarello, burlone, giovialone; significati cui potrebbesi aggiungere, con il vecchio italiano ormai fuori d’uso, l’aggettivo bajone (da baja) come si legge nei vecchi testi; ma a ben guardare, nessuno dei sopra detti aggettivi italiani potrebbe senz’altro adoperarsi per indicare un modo di camminare. Si potrebbe forse dire: sbarazzino? Modo sbarazzino, cioè, di muoversi e camminare?

  Vi è, d’altra parte, la démarche nobile, rivelatrice di nobile carattere. Ginevra di Piombo, bella, alta, ben fatta, ha un modo di incedere «contrassegnato da un carattere di nobiltà e di grazia al tempo stesso da imporre rispetto» (La vendetta, p. 187).

  Il modo di incedere è in relazione con tutta la persona e persino con la voce di essa o, meglio, con il modo di parlare di essa. A scatti o a scosse (saccadé) è il modo di camminare del marchese d’Espard, in armonia — del resto — con il suo modo di parlare (L’interdiction, p. 271).

  E il tragico passo di Balthazar Claës? Il monomane Balthazar Claës è un ricercatore dell’Assoluto, continuamente preso dai suoi sogni e dalle sue allucinazioni; ha, per conseguenza, il suo speciale modo di camminare: passo al suono del quale anche chi poca attenzione presta alle cose, doveva rimanere attonito. Se passi a scatti o precipitati suscitano spavento, quello di Balthazar suonava grave, lento e strascicato; si faceva «con rumore misurato da cui sembrava fosse assente la vita. Il pavimento di legno scricchiolava sotto quel passo come se due pesanti mazze di ferro lo avessero alternativamente battuto». Potevano significare quei passi, a giudicare dal suono e dal ritmo, o l’incedere indeciso e pesante di una estrema vecchiezza, o quello, maestoso, «di un pensatore che porta in sè, e seco trascina, interi mondi» (La recherche de l’absolu, p. 17).

  Vizioso, crudele, quel Filippo Bridau, nottambulo, di cui la povera madre aspettava trepidante il ritorno a notte alta: quando il passo di lui si faceva sentire esitante, lungo la scala, segno era che tornava egli a casa ubriaco o quasi ubriaco e si sentiva pure il rumore del bastone trascinato lungo gli scalini; quando aveva giuocato e perduto «il passo suo aveva un qualchè di secco, di netto, di furioso» (Un ménage de garçon, p. 74).

 

 

Capitolo XI

Fulcrum corporis: il piede.

Gli aggettivi di Balzac, pp. 311-312.

 

  Il nostro Balzac, nel descrivere da cima a fondo la morfologia dei suoi personaggi, non si lascia prendere dagli scrupoli [...] ed abbonda, anzi, nei suoi tocchi descrittivi riguardo al piede. Si potrebbe persino dire che nel guardare una persona — specie se creatura femminile — egli mai dimentica di guardare il piede e di ricorrere, perciò, a una straordinariamente ricca collezione di aggettivi e di colori. È vero che, a differenza di ciò che accade per le altre parti del corpo da lui descritte, qui egli non trae, o lascia comprendere, le più varie induzioni sul carattere della persona, e quasi sempre si limita a ridurre l’induzione a giudizio di nobiltà, di distinzione, di eleganza, sulla persona cui appartiene piede di bella fattura, distinta, elegante. Ma è pur vero che con non celata compiacenza egli si ferma — nonostante il tabù ... o la «decenza» — a insistere su cotali descrizioni. Non certo ciò egli fa — come invece accade quando descrive altre parti del corpo — per ragioni tratte dalla scienza che egli ben conosceva e cioè dalla fisognomonia, ma per altre ragioni, evidentemente, che gli fanno passare sopra quello scrupolo che abbiamo chiamato verbale o linguistico.

  La terminologia balzacchiana in proposito si presenta sotto varî aspetti. In primo luogo, essa indica — e ciò accade il più delle volte — caratteri estetici o sentiti come tali, avendosi allora [...] il piede graziosissimo; grazioso; bianco come alabastro; delizioso; vivo e statuario ... Si tratta sempre o quasi — occorre dirlo, di piede di donna. Ancora una volta appare, in forma più o meno velata, la — potremmo dire così? — sessualità del piede e il significato erotico di esso, quel significato erotico che può trovarsi, come accennammo poco sopra, all’origine della interdizione linguistica, O tabù, nei riguardi del piede.

  Altre, volte, più rare delle precedenti, il nostro Autore dà qualche particolare che chiameremo estetico-anatomico, come quando dice della grazia del punto di attacco (del piede); o del piede sottile e ben arcuato (cambré); o piede alto e stretto. Inoltre, vi è per Balzac il piede elegante, proprio a persona aristocratica, e il piede distinto. Quando poi il piede non ha fattura elegante e accusa origine plebea, esso diventa grosso, oppure largo e piatto, nè si dimenticano particolari realisti. Aggiungiamo che il confronto con animali dall’esile piede, viene pur a mostrarsi affermando così, una volta di più, quella tecnica descrittiva della persona, cara a Balzac, per la quale egli spesso ricorre al riavvicinamento con l’animale; troveremo qui il leggero piede di gazzella e quello — non meno leggero e grazioso — della biche. La biche, come si sa, è la gentile sposa del cervo, agile, svelta, nobile ed elegante nelle sue movenze e nel suo passo; del resto, l’appellativo: biche e il suo diminutivo; bichon, vengono usati come vezzeggiativi nel linguaggio di tenerezza e di amore parlando alla persona amata e vezzeggiata.

  Più di una volta, infine, la descrizione porla sui movimenti del piede — si tratta sempre di piede di donna — per indicare quanta dolce impressione possa quel movimento produrre sugli estatici sensi di un ammiratore (probabilmente di Balzac in persona) dandosi con ciò a vedere quali fossero i profondi motivi per cui il nostro pittore tanto raramente tralasciasse di fermarsi su quella parte delle sue pitture. Anzi, ben si troverà tra poco una sorta di documentazione dell’importanza che Balzac annetteva al bel piede di bella creatura femminile, sì da presentare più volte i suoi personaggi in ammirazione di graziosi piedini, rivestiti di seriche calzature, o parlanti d’amore, o ben calzati, ecc. ...

 

Le descrizioni della «Commedia umana», pp. 316-322.

 

  Veniamo, piuttosto e particolarmente, alle descrizioni, realistiche e romantiche al tempo stesso, della Commedia umana.

 

  a) Il bel piede.

 

  Ecco, intanto, per cominciare, qualche campione della terminologia estetica per il bel piede. Madame Firmiani, donna tra le più aristocratiche di Parigi, ha «mani bianchissime e piede graziosissimo» (bien mignon) (Madame Firmiani, p. 258). Il piede di Paolina, la povera Paolina della Peau de chagrin (p. 109), è mignon, vale a dire piccolo e grazioso, come quello di Peau d’âne», la giovane eroina della celebre favola; «piede grazioso in misera scarpetta». Balzac aveva in mente una delle deliziose favole di Perrault tanto popolari, ieri ed oggi, da esser note persino ad ogni bimbo, ma singolar cosa è che nella favola in questione (Peau d’âne) non si parla affatto del piede della giovane principessa nascosta e travestita sotto le spoglie di una misera e povera contadina indossante soltanto una sconcia pelle d’asino; la favola dice, invece, del dito piccolissimo di quella giovane, tanto piccolo che l’anello da cui era ornato, poi perduto (o meglio, lasciato nella pasta con cui quella bella damigella aveva foggiato una torta), e poi rinvenuto dal principe innamorato, non trovò mano alcuna di donna ad esso adatto. Diremo, piuttosto, che il nostro grande romanziere dovette pensare al piccolissimo piede di Cenerentola (un’altra favola di Perrault) scambiando senza accorgersene Peau d’âne con Cendrillon. Il piede di costei era così piccolo che la scarpetta da lei perduta, e poi trovata dal principe innamorato, non potò essere calzata da nessuna dama o damigella del Reame ... Del reato, Balzac parla altrove in modo preciso della pantofola — o pantofolina, degna di microscopico piede — di Cenerentola (Catherine de Médicis, p. 48). Continuando, ecco il piede «bianco come alabastro» della contessa di Vandières (Adieu, p. 80). Ed ecco ancora uno strano e bellissimo piede; quello, cioè ... di una ideale figura dipinta su tela: un allucinato, ma pur sovrano, pittore, credendo ritrarre su tela le divine fattezze di bellissima donna e, anzi, credendo trasformare tratteggio e colori in carne viva, dipinge invece — senza che il suo occhio di ciò si accorga — un caos pazzesco di colori in cui nessuna armonia si discerne ... salvo un graziosissimo piede femminile, piede nudo «delizioso e vivo, come frammento marmoreo di una statua di Venere greca tra le macerie di una città distrutta» (Le chef d’oeuvre inconnu, p. 341).

 

  b) Indicazioni anatomiche ... o quasi.

 

  Passando a qualche campione della terminologia estetica e, diremo così, anatomica al tempo stesso, troviamo la giovane incognita, abitante la villa dei melograni — madame Willemsen — alta e slanciata, dal viso di un ovale allungato, dai piedi graziosi da ammirare più per la grazia del loro punto di attacco, che per la loro piccolezza (La Grenadière, p. 238). La contessa Anastasie de Restaud, alta e ben fatta, aveva piede ben tagliato, bien découpé (Le père Goriot, p. 38). La seducentissima Paquita ha un piede bien attaché, sottile ben arcuato, (mince, recourbé) (La fille aux yeux d’or, p. 300). Anche il piede della giovane e soave Ursule Mirouet è piede ben arcuato (cambré) e sottile, in accordo, del resto, con una bella e graziosissima mano (Ursule Mirouet, p. 67). La correlazione tra il piede e la mano è più volte notata da Balzac: mano piccola ed elegante, piede piccolo cd dogante; mano sottile e piede sottile, mentre grosse e tozze mani si accordano con piede grosso e tozzo. [...].

  Altro particolare anatomico è dato per il piede del marchese d’Espard. definito come «alto e stretto» (L’interdiction, p. 270). [...].

 

  c) Piede «cambré» (arcuato) e piede piatto.

 

  Abbiamo visto come nella terminologia del nostro Autore torni spesso, per indicare piede di bella fattura, l’aggettivo cambré, da potersi tradurre con: ben arcuato. Il piede cambré, come si sa, in piena opposizione col piede piatto (pied plat), costituisce esteticamente una nota di nobiltà e di bellezza, mentre il piede piatto è così tenuto in dispregio che l’uomo stupido e nullo è chiamato, nel comune linguaggio francese, pied plat; si dice anche di un tale individuo (stupido e nullo) che è un cuistre, aggettivo che più propriamente si addice al pedante di infimo ordine, ma che può ben sostituire il pied plat. [...].

  Tutte le belle donne di Balzac hanno il piede cambré.

 

  d) Piedi nobili e piedi inestetici.

 

  Per Balzac vi sono puranco, e non a torto, piedi nobili, distinti, aristocratici; anzi, l’Autore della Commedia par tenga assai a fai notare siffatto carattere estetico anatomico in tale o tale altro dei suoi personaggi. Il poeta Canalis, figura aristocratica, si compiace nel mettere innanzi il suo piede elegante (Modeste Mignon, p. 80). Il piede della contessa di Mortsauf «è il piede di donna distinta ... (comme il faut), piede che reca piacere all’occhio di chi vede quando è sporto fuori dall’orlo della gonna» (Le lys dans la vallée, p. 33). Il piede di Rosalie de Watteville è le plus joli pied, un pied de châtelaine (di principessa, diremmo noi) (Savarus, p. 208).

  In quanto a piedi che hanno profilo e corpo inestetici, potevano essi mancare nei colori di pittore realista? Il buon giudice Papinot (sic) ha «grossi piedi» in accordo, del resto, con grosse ginocchia e con larghe mani (L’interdiction, p. 211). Mademoiselle Cormons, nonostante una certa bellezza della gamba, ha «piede largo e piatto»; grossa di persona, forti e grosse braccia, mani di color rosso, rotonda e grassoccia (La vieille fille, p. 44). Tutto è in correlazione! L’esame morfologico (vogliamo dire così?) che Balzac fa del piede delle sue creature, si spinge sino a particolari di aperto realismo: quando si descrive Madame Séverine (Le député d’Arcy (sic), p. 53), si dice di essa che «era così viva e sana, che al di sopra delle sue scarpette, la carne, sebbene contenuta, formava un leggero rigonfiamento». Quando particolare di tal genere si accusa assai in rilievo, il nostro Autore ne trae motivo di ridicolo per il suo personaggio. «Una grossa ripiegatura di grasso veniva fatta dalla pelle del piede della ridicola Madame Vervelle, perché troppo stretta la scarpa in cui quel piede era stato a forza costretto». Altro che il piede di Cenerentola! Medesimo tipo di piede ha la figlia della stessa Madame (Pierre Grassou, p. 309).

 

  e) Confronti con l’animale.

 

  Nella tecnica del nostro creatore di personaggi sta quasi costantemente il ricorrere al confronto con l’animale; con l’animale grazioso quando il pittore vuol dipingere il bello, con animale insidioso c temibile quando ha da dipingere il brutto. Persino il piede non sfugge al meccanismo di tale tecnica, spontanea o voluta che sia.

  Louise de Chaulieu, alta, bionda e sottile, magra, ancora educanda di collegio, ha un piede di gazzella (Mémoires des deux jeunes mariées, p. 19). Qui l’immagine è suggerita dalla leggerezza, snella e graziosa, dell’animale della favola di La Fontaine consacrata al Corvo, alla Gazzella, alla Tartaruga e al Topo, formanti amichevole società. Quando la Gazzella scompare, si chiedono — addolorati — i tre rimasti: Quel accident, tient arrêtée / Notre compagne au pied léger? (XII, 15).

  D’altra parte, la svelta rapidità e. la leggerezza della cervia (sic) in corsa deve anche suggerire a Balzac il confronto — che a prima vista potrebbe sembrare abbastanza strano — del piede di lady Dudley con quello della biche (cervia). Lady Dudley, amazzone vivace e appassionata, ha il piede della «biche», piede secco e muscoloso sotto un carnoso velo pieno d’indescrivibile grazia (Le lys dans la vallée, p. 208).

 

  f) L’ammirazione di Balzac per il piede femminile.

 

  Del piede femminile, che si mostra fuor dall’orlo della sottana e sporge da essa, Balzac ammira — e fa ammirare — puranco il movimento. Il movimento del piede deve aver avuto, per Balzac, particolare attrazione se crede egli farne cenno quando descrive l’estasi con cui due innamorati si guardano. Che cosa fanno quei due — lui e lei — che si amano, seduti uno accanto all’altro in un salotto ove tanta gente conversa? Si contemplano e godono delle sensazioni che dà la voce dell’essere amato, o il gesto, o l’atteggiamento ... ed egli «ammira il piede di lei che si muove e si avanza, la mano che palpita, le dita che stanno tormentando una collana, un pendaglio o altro gioiello» (Une fille dEve, p. 290).

  E del piede, sempre di donna graziosa e snella, che si muove sul terreno come piede di fata tra i fiori di un prato, Balzac ode persino il suono: una musica. Piccolo è il piede, di Honorine; camminando sulla sabbia del giardino «produce leggerissimo fruscio, tale che da nessun altro piede avrebbe potuto essere prodotto, facente musica armonizzante con il fruscio del vestito leggermente trascinato su quella sabbia. Una musica femminile che vibra profondamente nel cuore di chi ascolta quell’armonia, armonia da non confondersi con quella prodotta dal camminare di ogni altra donna» (Honorine, p. 51).

  Da quanto sopra è da concludere — tra l’altro — che singolare compiacenza doveva trovare il nostro pittore di volti e di anime nel fermare lo sguardo sui piedini delle sue figurine femminili. Quante volte quello sguardo e quel tocco di colore si ripetono! Ha da essere ben vigile e costante nel nostro parlare e nel nostro descrivere, il tabù del piede; il Nostro di ciò non fa caso e passa oltre non solo, ma insiste nella infrazione. Semplice obbedienza a quella specie di obbligo di tutto descrivere che Balzac aveva fatto a sè stesso e alla sua arte? Senza dubbio; ma ha da esservi un qualche di più in quel dipingere e in quell'insistenza. Probabilmente, espressione c libero sfogo ardito ma legittimo sotto lo smagliante velo dell’arte, di un istinto profondo, dominato da quel l’Eros che porta persino, nei suoi travestimenti, a quelle forme di ammirazione che psichiatri e psicologi hanno tante volte messo in luce parlando del «feticismo» del piede e della scarpetta. Più volte, invero, tale stato d’animo lucidamente traspare dalla narrazione balzacchiana. Quando, ad esempio, i due giovani incontratisi sull’imperiale di una diligenza fantasticano lungo il viaggio descrivendo e sognando la bellezza delle loro innamorate, non parlano forse dei jolis pieds di quelle dolci creature, oltre che della loro bianca pelle di seta e dolcemente profumata? (Le message, p. 260). La povera Paolina, misera e mal vestita, è pur veduta come un angelo dal giovane della Peau de chagrin che col pensiero la riveste di abbigliamenti di seta e d’oro: «Quante volte non ebbe egli a adornare di seta, nel pensiero, il piccolo piede di Paolina!» (p. 112). Nel medesimo romanzo, là dove si fa descrizione della scapigliata riunione, in occasione di una cena, di stravaganti giovani e di non meno stravaganti donzelle, ecco dirsi, a proposito di queste ultime dai ricchi capelli, dallo sguardo brillante e tutte coperte di seta e merletti, che «i piccoli piedi di esse dicevano parole d’amore» (p. 69). D’Arthez, quando a suo agio può contemplare la principessa di Cadignan, ne contempla, oltre che la forma del capo e l’armonia delle dolci linee del viso e della persona, anche il piede (Les secrets de la princesse da Cadignan, p. 103). Nel romanzo Sarrasine, l’innamoratissimo scultore, quando ammira in piena festa la misteriosa cantante da lui tanto amata «come si sente battere il cuore nel vedere il grazioso piedino di lei, calzato da una di quelle pantofoline che danno al piede femminile tanta grazia civettuola, tanta espressione di voluttà cui non si sa come un uomo possa resistere!» (p. 111). E quell’imberbe novellino, timido e ansioso, che in uno dei Contes drôlatiques è ammesso alla presenza della bellissima Imperia, non rimane attonito quando quella bellissima si toglie i bei calzari apparendo allora il piede ignudo, piccolo più che becco di cigno? (Prima novella della prima decina di novelle). Sentite, ancora, come si parla del piede della bella Paquita: «piede tale da offrire tant d’attrait aux imuginations friandes» (La fille aux yeux d’or, p. 300).

  Non vorremmo aver pronunziato, a proposito di quanto sopra e a interpetrazione dell’insistenza balzacchiana, parola troppo grave e troppo imponente: feticismo. Non si tratta certamente, nel presente caso, di quella vera e propria categoria che fu tanto illustrata dagli psichiatri e di cui pur si trovano tracce nelle popolari leggende e tradizioni, ma si tratta semplicemente di stati e movimenti psicologici che sono, nella loro forma crepuscolare, generali e quasi generali alla psicologia umana, per quanto or più or meno presenti in tale o tale altro soggetto. Non possono essi, davvero, quando si presentano in embrionali forme, rientrare nel campo della anormalità. Per uscire del campo normale e avvicinarsi al margine della psicopatia, o entrare in essa, occorre che la categoria in questione si trovi ad essere eccezionalmente accentuata o addirittura — sintomo infallibile — che essa sostituisca la categoria normale o la sopprima. Del che, ripetiamo, non è il caso per i documenti balzacchiani di cui abbiamo fatto rassegna.

 

Tomo secondo. ... Il passo – I contrassegni – La voce – La conversazione – L’abbigliamento – L’arredamento.

 

Capitolo II.

  La voce. «De nominibus vocum»; terminologia artistica e tecnica, e descrizioni dell’arte narrativa.

  Altra terminologia, ma di ordine artistico (I personaggi della «Commedia umana»), pp. 28-37.


  Ricca e varia terminologia descrittiva — e anche interpetrativa — insomma, dagli esempi testé addotti e dalle rubriche della scheda, ma più ricca ancora, e più varia, per quanto spesso audace e fantastica, la terminologia descrittiva e interpetrativa, creata e adoperata da quel Balzac la cui Commedia abbiamo preso a documentazione tipica del modo con cui l’arte narrativa realista (ma di un realismo sui generis, come quello di Balzac) descrive e interpetra i caratteri esterni della persona umana. Quel Balzac, si noti, che non solo aveva fatto dell’osservazione obiettiva e scrupolosa — sebbene non del tutto spoglia di romantico sentimento — la propria guida, ma che aveva più volte proclamato di essere ammiratore e discepolo intellettuale di Lavater.

  Accostiamoci, allora, ancora una volta, ai personaggi della Commedia umana.

  Il creatore della folla di personaggi che si muovono sulla scena del fittizio Universo formato dalla Commedia umana aveva tanta credenza nella intima correlazione esistente fra la struttura fisica del corpo umano e le sue attività fisiologiche, da un lato, e la vita dello spirito dall’altro, che anche voce e modo di parlare dei suoi personaggi egli mette in rapporto con la struttura e la vita del corpo e dello spirito di essi. Nella sua vivace e paradossale Théorie de la démarche egli aveva scritto proprio così: «Le verbe est la traduction ... de la pensée ... La parole n’est-elle pas la démarche du coeur et du cerveau?» (p. 17, vol. II delle Oeuvres diverses, edizione del 1902).

  Vale a dire che per Balzac — e non soltanto per lui — il modo di parlare (e con esso la voce?) traduce la psicologia dell’individuo. La parola è, per così dire, il modo di muoversi e di camminare del cuore e del cervello e cioè così del sentimento come dell’intelligenza. Balzac, del resto, era (come qualche balzacchiano di oggi sostiene e come vedremo), un «auditivo». Movendo da tal principio, nessuna meraviglia che, descrivendo i suoi personaggi tratto per tratto del viso, linea per linea della corporatura, particolare per particolare dell’abbigliamento, e per ogni caratteristica delle movenze e pur del passo, Balzac amasse indugiarsi sulla voce di essi, cercando quasi farla sentire agli spettatori della sua Commedia, senza dimenticare di pur descrivere il modo di parlare. Oltre di ciò e in causa di ciò, la terminologia di cui egli si serve per contrassegnare e ben descrivere tale e tale altra voce, diventa ricca e ricchissima, sì da poter la concorrenza a quella già usata da antichi o meno antichi cultori della fisognomonia, e di quella fisognomonia — non si dimentichi — di cui Balzac era conoscitore e ammiratore.

  Inutile dire che nel comporre tali descrizioni, il nostro Autore non si ispira — nè poteva ciò fare — a nozioni scientifiche quali possono essere suggerite dai vari rami di ricerche le quali, dalla fisica alla biologia, si fanno a studiare la voce umana; prende invece motivo dalle sue penetranti osservazioni, dalle sue intuizioni, e pur da quell’intimo senso che istintivamente ricorre all’analogia per trovare legami tra un dato carattere fisico della persona e un dato carattere psichico. Non basta, che egli ricorre non infrequentemente a confronti tra la voce che si tratta di descrivere e il rumore prodotto da tale o tale altro strumento od oggetto; nè dimentica talvolta (e qui forse trasparirebbe l’ispirazione di natura biologica propriamente detta) di ricorrere al rapporto che passa tra la struttura degli organi che concorrono alla fonazione e la voce stessa.

  Vediamo qualche esempio.

 

  a) Dolcezza e asprezza di voce, dolcezza e asprezza di carattere?

 

  In primo luogo, e come era da aspettarsi, appaiono con qualche frequenza le voci di carattere estremo, le quali (appunto per il loro carattere evidente, in altorilievo e che colpisce) debbono pur essere tu qualche rapporto con analogo carattere eccezionale o ben marcato, dello spinto. Analogia «magica», semplicemente, oppure vera e propria rispondenza ai fatti, trovata grazie all’osservazione dei fatti stessi e poi da spiegarsi scientificamente?

  Dunque, personaggi dalla voce dolce — come pur è dolce l’animo — e personaggi dalla voce acre — come pur l’animo è acre o un qualchè di simile. Nella classe di voci che chiamiamo dolci, la terminologia è varia, come sempre, accennandosi or a voce melodiosa, or a voce piena e grave per dolcezza, or a voce insinuante, sempre per dolcezza. Si parla persino di voce «candida», di voce calma e dolce, di voce soave, di voce fresca, ecc. Ecco, infatti.

  Honorine, appassionata figura che suscita accanto a sè umori e drammi, ha nella sua voce «una melodia che riveste la parola con la poesia di un canto grazie alle sue particolari accentuazioni» (p. 51 del romanzo: Honorine). La voce di Modeste Mignon, «di preziosa flessibilità, è con timbro al tempo stesso soave e fresco che batte così il cuore come l’udito di chi ascolta» (Modeste Mignon, p. 64). La povera Wanda, dal suo letto di dolore, esprime tutta l’anima sua nello sguardo e nella voce. «La sua voce sembrava fosse un’armonia di concerto; anima, movimenti, vita, si erano concentrati in quella voce». Il giovane Godefroid che caritatevolmente le fa visita, prega: «Parlate, signora, che mai ebbi a intendere musica pari alla vostra voce ...». (Madame de la Chanterie, p. 236).

  La voce, nel candore del suo accento, può forse testimoniare la modestia di chi parla o annunziare che le parole vengono dal cuore? Chiederemo ancor più: può essa destare, sempre col candore del suo accento, nobili sentimenti nell’animo di chi ascolta? Balzac risponde affermativamente, attribuendo tali magici poteri alla voce della nobilissima – per altezza di sentimenti – madre del pittore Schinner: «voce di accento candido» (La bourse, p. 146). E che dire della voce della bella Madame de Mortsauf? «Una luce parlata» (Le lys dans la vallée, p.31).

  Non lasciamoci ingannare, tuttavia. L’analogia tra la soave dolcezza della voce e una corrispondente soavità dell’animo non è ognor presente; [...]. Voce d’angelo e cuore di demonio ha l’Euphrasie della Peau de chagrin. Cortigiana dal serafico aspetto, dalle innocenti e delicate sembianze, quasi creatura uscita per magia d’incanto da un paese di fate, essa ha una voce douce et mélodieuse (La peau de chagrin, p. 73).

  Si badi: dolcezza di voce Balzac non dà soltanto alle sue creature femminili, ma pur a taluno dei suoi personaggi maschili; e ciò si fa, tanto per segnalare la dolcezza dell’animo, quanto allora che si tratti di figure maschili di femminea bellezza. La voce del giovane, onesto e candido, Emmanuel de Solis è quale deve accordarsi con onesta anima come la sua e anche con volto, come quello di Emmanuel, bello e regolare; e, cioè, voce melodiosa, e con quella melodia pur si accordavano i movimenti della persona (La recherche de l’absolu, p. 106). Il buon abate de Vèze, che spende la vita tutta nel soccorrere altrui proclamando che ogni buon pensiero sorgente in noi viene da Dio, ha a una voce che possiede come un incantesimo ... voce calma, dolce, in piena armonia con quella sensazione che il lontano orizzonte azzurro sul mare produce in noi» (Madame de la Chanterie, p. 4). Ha una melodia nella voce il giovane Etienne de Hérouville, debole, malaticcio, appassionato, e quella voce aumenta l’incanto che si sprigiona da uno sguardo «dal quale si esprimeva tutta una soavità di preghiera» (L’enfant maudit, p. 48). Invero, soavità e dolcezza di voce possono accompagnarsi a spirito che con rassegnazione accoglie le tristezze e le afflizioni materiali e morali. Si senta parlare il caritatevole curato di Saint-Lange, un uomo già in sul finir della vita, che aveva più volte pianto e sofferto; è una voce che «risuona dolcemente all’orecchio di chi ascolta e che scende nell’intimo, commovendo. Una voce che è ben quella dell’infelicità, piena e grave, e che sembra trascinar seco un fluido penetrante» (La femme de trente ans, p. 105). L’abate Goujet -— buona pasta d’uomo — faccia bianca e smorta, sorriso amabile, viso un po’ da bamboccio (un peu poupin), ma alta fronte e bello sguardo, ha una voce «dolce e insinuante» (Une ténébreuse affaire, p. 65).

  Per contro, spiriti obliqui, insidiosi, petulanti, sottilmente velenosi, hanno nella loro voce caratteri ben diversi dalla dolcezza e. anzi, opposti a essa: voce stridula, o metallica, o da metallo mal risonante. La voce del biliosissimo, acre e sgarbato Pierre Petit-Claud è félée (come di vaso screpolato che dia suono falso), del tutto conveniente all’acidità del volto di quel personaggio (Illusions perdues II, p. 174). Eccovi un altro acido messere, notaio di professione, attento al denaro ... Ha «una voce metallica» oltre che movimenti «che sembrano determinati da molle a scatto». È il notaio Pierquin (La recherche de l’absolu, p. 136). Il signor Sibilet — una doppia faccia, un traditore — Ha un suono di voce un po’ sordo, ben in accordo con la linea e i tratti, poco encomiabili, del suo volto e della sua persona tutta (capelli lunghi e piatti, ginocchia e gambe storte, carnagione di uno squallido pallore, carni flosce ...) (Les paysans, p. 95). Voce lugubre da campana spezzata (cloche cassée) ha lo scarno e scheletrito fantasma che il sognatore vede durante le sue allucinazioni (Jésus-Christ en Flandre, p. 248).

 

  b) Altre voci espressive.

 

  Accanto alle voci dolci e a quelle che a lor fanno completa opposizione per asprezza o dissonanza, vi son pur voci «magnetiche» o voci che penetrano — quasi aprendo una ferita — sino al cuore. Il portentoso medico mesmeriano che — nel silenzio del suo oscuro rifugio — opera miracoli di guarigione e, grazie alla forza del suo pensiero, domina la materia, ha voce carica di fluido magnetico (Ursule Mirouet, p. 95). D’altra parte, voce «che va a ferire, penetrando, le più intime fibre di chi ascolta, quasi scarica elettrica» è la voce del diabolico personaggio che si presenta, suggerendo un delitto, al cassiere Castanier. (Melmoth réconcilié, p. 260). Di un magnetismo specialissimo, a quanto pare, è dotata la voce della cortigiana Esther, una voce «che è capace col suo suono di estrarvi di tasca e dal cuore più granitico i biglietti da mille» (Un ménage de garçon, p. 307).

  Vi è anche una voce che diremo variabile a volontà — quasi per insidia e frode — di colui che parla o, meglio, di colei che parla, poiché in tale artificio di menzogne o di seduzione pare siano sovrane le creature femminili. Voce ammaestrata, per conseguenza. Balzac si compiace parlare di ciò più di una volta, e con particolare minuzia. Occorre essere commediante nell’animo per poter disporre di tale voce e ben si sa (tale riflessione, tuttavia, non è di Balzac) che se il pagliaccio dimora di frequente tra gli uomini, chi sa ben recitare commedia, più frequentemente si trova fra le donne. Vi sono, dunque, voci che, sia per astuto magistero d’arte, sia per forza di natura, passano con eccessiva variabilità attraverso i più vari caratteri? La capricciosa, impertinente e nobile Emilie de Fontaine ha una voce «che poteva da lei essere fatta di breve chiarezza quando si trattasse di paralizzare l’interlocutore, o melodiosa e pura se, per contro, si fosse trattato, per la giovane donna, di rendersi padrona di un cuore» (Le bal de Sceaux, p. 921. Nello stesso modo, questa insorpassabile sovrana del gesto, Emilie de Fontaine. sapeva rendere terribile o dolce l’espressione della fisonomia sua, col muover delle ricche sopracciglia, con la fissa immobilità o il leggero flettersi delle labbra, con la grazia o la freddezza del sorriso (Le bal de Sceaux, p. 92). La voce della giovane Louise de Chaulieu — una incantatrice — ha «tono, quando vuole, incantatore; ora un po’ alta e di testa quando è forzata, ora melodiosa e di petto nella conversazione a due» (Mémoires de deux jeunes mariées, p. 20).

  È pur voce di cui cambiano con sorprendente mutabilità l’altezza, l’intensità, il timbro (non per artificio, si noti, ma per naturale forza della più squisita sensibilità del parlante) la voce di Louis Lambert, quel Lambert in cui Balzac volle dipingere sè stesso quale era nei primi anni della sua giovinezza e nelle affannose tragedie del suo pensiero. Una voce in cui si alternano suoni or dolci, or aspri, secondo i momenti, poiché quella voce ora si fa dolce come quella di una donna che sta per far sue confessioni, ora diventa penosa, fuori tono (incorrecte), scabra (raboteuse), se è lecito adoperare — dice lo stesso Balzac — parole di tal genere per rappresentare cotali effetti di voce (Louis Lambert, p. 21). Ma il giovane che tali vivaci anomalie presentava nella musica e nella asprezza del suo dire, non doveva forse (nel romanzo) cadere con lo spirito nelle tenebre — o nella falsa luce — della pazzia?

 

  c) Confronti significativi.

 

  La tecnica descrittiva di Balzac fa ricorso, a proposito della voce, a confronti con gli strumenti musicali, con suoni e rumori di ordine vario e anche con animali.

  Per gli strumenti: la voce del nobile de Valois è «piacevole e pastosa come gli accenti di una cornetta inglese» (La vieille fille, p. 4); per la voce della bella contessa di Mortsauf si dice che «i palpiti dell’animo di quella creatura pareva si riflettessero nei toni delle sillabe come il suono si spiega dai fori di un flauto» (Le lys dans la vallée, p. 31). La voce di Théodore de la Peyrade, un meridionale, è «quasi soave; ma innalzandosi vibrava come il suono di un gong» (Les petits bourgeois, I, p. 64).

  Suoni e rumori di ordine vario: Du Bousquier ha una voce «smorzata e soffocata, con suono che somiglia a quello che dà una sega nel mordere un legno tenero e umido». E Balzac, che vede tante cose in un tratto fisognomonico, si affretta ad aggiungere: «una voce, insomma, di uno speculatore affaticato» (La vieille fille, p. 17). Vi è anche il rumore che fa il tonfo di una pietra nell’acqua: il vecchio cadavere ambulate (un essere che figura come ombra quasi sempre silenziosa durante le feste nei grandi saloni della famiglia Lanty) ha una voce cassée «simigliante a quel suono che fa una pietra quando cade in un pozzo» (Sarrasine, p. 97).

  In quanto agli animali, la tecnica descrittiva balzacchiana ricorre a ogni varietà del mondo zoologico: la cicala, il cagnolino, i canori uccellini, il cigno. La voce della vecchia rattrappita — o quasi — Mademoiselle Michonneau (una donna che nulla più di femminile conservava e che forse era passata attraverso il vizio, la cupidigia e l’amore) è stridula c come quella di una cicala che strilla, dal suo cespuglio, all’avvicinarsi dell’inverno» (Le père Goriot, p. 14). Così la secca, pallida, piccola, scontrosa e avida Madame Zélie Minoret-Levrault ha una voce che sembra il guaito o squittio di un cagnolino: une voix glapissante (da glapir, guaire, squittire, stridere, che nell’italiano fuori uso si diceva schiattire, gagnolare) (Ursule Mirouet, p. 59). Per la bella contessa di Mortsauf, invece, si assicura che «il suo modo di pronunziare le parole che finivano con la vocale i, faceva pensare al canto degli uccelli» ... e si aggiunge: «Quando la voce di lei si faceva dolorosa, quale canto di cigno!». Non basta, che quando squilla il suo riso «è tutto un canto di rondini gioconde» (Le lys dans la vallée, p. 31).

 

  d) Qualche osservazione «realista».

 

  Se il nostro romanziere, realista e romantico al tempo stesso, ere deva poter ravvisare – un poco a modo suo – strette analogie tra la voce e le qualità dello spirito, non escludeva, davvero, esistenza di analogie o connessioni tra la voce e lo stato degli organi che concorrono alla formazione di essa; basti ad esempio il ricordare ciò che egli dice della voce del nobile de Valois o del vecchio Tonsard. Per il primo dal naso magistrale (sic) — si avverte che «ogni persona ha la voce del suo proprio naso» e però quella voce ha suoni ampi e forti (La vieille fille, p. 4). Per il secondo, e cioè per il vecchio Tonsard, si dice avere costui una voce «che viene dal palato come in tutti coloro che furono toccati da malattia che ha sbarrato la comunicazione tra il palato e le fosse nasali» (Les paysans, p. 63).

  Per finire, la voce ha forse — per Balzac — importanza segnaletica ai fini del riconoscimento di una persona? Tanta cura ha Balzac nel dare indicazioni sulla voce dei suoi personaggi, facendone quasi una particolare caratteristica di ogni personalità, che già da ciò si potrebbe concludere affermativamente: la voce costituisce per Balzac una, diremo così, delle rubriche del buon segnalamento per identificare una persona. Una pagina stessa del nostro romanziere conferma direttamente quanto sopra. Quando l’ex-forzato Jacques Collin, travestito da prete e col viso sfigurato, è introdotto nella cella dell’omicida Calvi e a lui si manifesta, questi risponde che la voce è ben quella di Jacques Collin, ma vorrebbe altra prova ancora. E intanto, il losco agente di polizia Bibi-Lupin (ex-forzato anche lui e già compagno di Jacques Collin) che assiste al colloquio travestito da gendarme, non osa aprir bocca, come pur vorrebbe al fine di impedire che i due parlino tra loro in dialetto che egli ignora, per timore di essere riconosciuto al suono della sua voce (La dernière incarnation de Vautrin, p. 75 e 76).

 

  e) La seduzione della voce. La sensibilità musicale di Balzac.

 

  Che la voce possa esercitare speciale fascino o, meglio, che certe voci e certe inflessioni di una data voce, specie femminile, possano tradursi in seduzione, è cosa che già i più antichi insegnamenti di coloro che esercitano mezzi suggestivi terapeutici, sacri o non sacri, avevano a noi tramandato. Ma pur la più comune osservazione ebbe ciò a notare; e con maggior rilievo ciò è messo in evidenza dalla sensibilità dell’artista nel descrivere — come abbiamo visto — questa o quella incantevole voce, o incantevole intonazione di voce, di tale o tale altro personaggio. Abbiamo indicato, ricordando le creature di Balzac, l’importanza che l’autore della Commedia umana dava alla voce delle sue viventi creazioni: la voce di Honorine è una melodia, quella di Modeste Mignon è soave e fresca, mentre un’armonia di concerto è la voce di Wanda ... per non dire della bella, suggestiva ed impressionante Madame de Mortsauf (tanto cara a Balzac) la cui voce era «una luce parlata». Persino certi demoni femminili, come Euphrasie, hanno, per incantare, una «voce d’angelo». Il trionfo, tuttavia, della voce che tutto rapisce — fors’anco perché trova in chi l’ascolta anima già ferita e disposta a soccombere — a noi è mostrato da Balzac quando, tra le voci che cantano la gloria e le sofferenze del Signore, nel coro delle Carmelitane che si leva dal nascosto angolo di una chiesa, colui che ascolta riconosce la voce dell’amata. Quella voce, dal timbro chiaro, era a leggermente alterata da un tremolio che le conferiva tutte quelle grazie che la timidità e la pudicizia danno alla voce delle giovanette». Una voce che «ben si staccava sulla massa del coro come quella di prima donna sull’armonia di un gran finale». Il gentiluomo che ascoltava – Montriveau – aveva riconosciuto la voce della duchessa de Langeais ... da lui già tanto amata e tornava a soccombere, spiritualmente, sotto quella suggestione (Histoire des treize, p. 139). Quella voce produceva sull’animo che la sentiva vibrare lo stesso effetto che produce un sottil filo d’argento o d’oro su una larga banda oscura. Quella voce sembrava dire: «Sì, il mio cuore è ancor pieno di passione, ma ormai mi trovo al riparo; sì, la mia anima vola ancora verso l’antico amore, ma il mio corpo rimane sotto il bruno lenzuolo di questo coro di Carmelitane da cui nessuno potrà strapparmi».

  Non è da meravigliarsi se il tanto sensibile Autore della Commedia umana, tanta seduzione sentisse nella musicalità suggestiva di una voce ... specie quando tale voce era quella di una delle sue creature destinate all’amore e alla seduzione, oltre che al dolore. Il nostro appassionato Balzac, invero, aveva (per così dire) uno spirito musicale, amante di ogni melodia, innamorato della sinfonia dei suoni. A chi è dedicata la storia di quella duchessa de Langeais che canta nel coro delle Carmelitane? A Franz Liszt. E ad ogni passo della Commedia, allora che si vuol dare immagine e sensazione di divine armonie, quale nome di continuo ricorre? Quello di Rossini. Una intera novella non è forse dedicata – Gambara – a narrare e descrivere minutamente il delirio musicale di un musicista che, con li suo violino, cerca di riprodurre le melodie che in Cielo suonano gli Angeli? Nella novella, d’altronde, ove canta la duchessa carmelitana, intere pagine non dicono forse delle ineffabili dolcezze, alternate con le più drammatiche ispirazioni, che fa sentire la voce dell’organo? Una voce che «esprime tutta l’esaltazione di un’anima in presenza degli splendori di Dio». L’organo, infatti, è certamente «il più grande, il più audace, il più sublime degli strumenti. capace di costituire da solo un’intera orchestra dalla quale l’anima si lancia verso gli spazi e percorre l’infinito che separa la terra dal Cielo» (p. 136). Anche nella coloritissima novella: Massimilla Doni si sente tutta l’armonia del canto di una donna il cui cuore si apre alle carezze dell’amore. È il canto della donna ... o quello del cuore stesso di Balzac? «Il suo canto era uno zeffiro che portava le carezze tutte dell’amore» (p. 205). E più in là si dice dell’incanto che desta la musica quando essa risulta da un perfetto accordo tra due voci cantanti o tra un canto e il sussurio (sic) del violino (p. 209).

  Sarebbe il caso di rammentare ciò che un penetrantissimo studioso balzacchiano — Pierre Abraham — in una sua opera su Balzac (Paris, 1929) scriveva a proposito della «musicalità» di Balzac. Faceva egli notare che i richiami alla pittura e alla scultura, nella Commedia umana, erano, è vero, numerosissimi, ma forse non dettati da profondo e proprio sentimento (il che, tuttavia, è da discutere) mentre una vera sensibilità, acutissima, per la musica chiaramente appare da quelle pagine. «Lo strumento fondamentale per il suo lavoro — scrive con simpatica esagerazione il citato Autore — è l’orecchio e, quindi, la musica; e non tanto, forse, la musica strumentale propriamente detta, quanto quella musica che è la musica della voce, e cioè cette musique découpée en syllabes qu’est le langage parlé (p. 62). Persino nelle creazioni dei nomi — musicali — dei suoi personaggi, Balzac, sempre secondo il citato Autore, si lasciava guidare dalla dolcezza o dalla sonorità della musica. Anche nel dialogo — sempre fa notare Abraham (p. 65) — nell’urto delle frasi pronunciate dalle diverse bocche dei suoi personaggi si sente tutta la potenza del carattere auditivo della creazione balzacchiana, «e là si trova una delle grandi forze di Balzac romanziere».

 

  Ancora Balzac. Non già la voce dei suoi personaggi, ma il loro modo di parlare, pp. 37-40.

 

  Quando il nostro Autore descrive la voce di tale o tale altro dei suoi personaggi, si ferma pur talvolta a dare qualche speciale indicazione sul modo di parlare di essi. I due temi — voce e modo di parlare — sono, infatti, strettamente connessi tra loro. Del modo di parlare, in generale e in particolare, diremo più in là a proposito di quel sintomo della personalità che è la conversazione, ma qui — poiché siamo sul terreno balzacchiano — ci fermeremo un istante per rammentare che Balzac nota, quando ne sia il caso, l’indecisione abituale nel parlare, lo speciale modo di pronunziare tanto in generale quanto nei riguardi di particolari sillabe, e nota anche gli intercalari e l’uso — soprattutto — di parole gergali da parte dei suoi personaggi, la pronunzia straniera, e anche gli spropositi abituali commessi nel parlare. Il tutto mettendo in rilievo le possibili analogie o connessioni tra quei diversi modi di parlare o di pronunziare e il carattere dell’individuo o l’ambiente sociale e professionale in cui esso vive. Ecco qualche esempio. Indeciso è il parlare del marchese d’Espard — galantuomo esemplare — ed è pure indeciso, costui, nella espressione delle idee; ma questa volta l’indecisione di voce e di esposizione trova correttivo e contrasto «nella decisione espressa dalla forma della bocca e dalle linee ben nette del volto» (L’interdiction, p. 271). Ancora una volta, si noti, qui accade ciò che pur accade nella interpetrazione psichica di una scrittura, in cui i segni di una data caratteristica debbono essere accostati a quelli delle altre caratteristiche della medesima scrittura, prima di concludere; così, nel leggere l’alfabeto di una fisonomia occorre accostare le «lettere» di una parte di essa a quelle dell’altra perché vicendevolmente si illuminino per via di completamento, di elisione e di correzione.

  Già ricordammo la speciale pronunzia delle parole che finiscono in i da parte della bella contessa di Mortsauf; Balzac aggiunge pure che le sillabe in cui si strascicava il suono ch pronunziate da lei, sembravano una carezza. Anzi, si dice ancor più affermandosi che «il modo con cui essa attaccava le t stava a denunziare il dispotismo del suo cuore» (Le lys dans la vallée, p. 31). L’esistenza di una correlazione tra il modo di pronunziare la lettera t e l’asprezza o la forza del carattere, è indubbiamente più che problematica; ma Balzac era davvero — come gran parte degli antichi e meno antichi cultori della fisognomonia un credente nella analogia associativa: grazie a tale principio, il pronunziare con forza le dentali deve essere certamente indizio di forza e di energia. Nello stesso modo, i grafologi — nello esaminare la maniera con cui si taglia (con maggior o minore pressione) la lettera t — considerano quel carattere come uno degli elementi adatti per giudicare dell’energia dell’individuo scrivente.

  In quanto agli intercalari, tanto frequenti e così stereotipati in certi individui, varrebbe davvero la pena di soffermarsi con qualche distesa su di essi: di quante diverse categorie sono essi? In quale rapporto si trovano con la psicologia dell’individuo? Sono essi più frequenti in certe categorie mentalmente deficienti? Che cosa stanno essi realmente a significare nell’attività psichica dell’individuo che parla e che invariabilmente ne fa uso? Indicano essi uno stato di automatismo nell’individuo in questione o costituiscono una specie di difesa dell’individuo timido e imbarazzato, o altra cosa ancora? Balzac insiste sull’automatico intercalare di un tale — il notaio Ragnault — che egli presenta come ridicolo alquanto. Quel notaio, lungo, sfilato, dalla fronte sfuggente (segno costante, per Balzac, di poco sviluppata intelligenza), testa piccola (id. id.) e a punta, viso scolorito, intercala a ogni istante nel suo discorso le parole: «Un momentino!». L’effetto è grottesco; tutti se ne accorgono, meno colui — naturalmente — che parla (La Grande Bretèche, p. 180). Avviene in ciò quel che avviene per quasi tutti gli atti della nostra vita: ci si accorge della macchia che è sul vestito altrui e non si vede quella che è sul nostro.

  Il realismo balzacchiano, inoltre, doveva spingere l’autore della Commedia umana a introdurre nei dialoghi dei suoi personaggi la ardita novità consistente nel far parlare quelle sue creature, quando ne fosse il caso, non già con le parole della lingua comune, ma con quelle dei linguaggi speciali in margine della lingua stessa, o fuori di essa, come a dire il linguaggio speciale del basso popolo, degli uffici di banca, dei giornalisti, delle cortigiane e dei criminali. Balzac nota pur anco con grande soddisfazione gli errori di pronuncia e di grammatica e i travisamenti linguistici di cui le persone ignoranti, o pervenute alla classe media superiore per improvviso colpo di fortuna, costellano il loro parlare. [...].

  Speciali caratteristiche del genere di cui sopra si compiace di mettere in evidenza — anche troppo — Balzac quando i suoi personaggi sono di origine straniera e parlano francese o quando, senza essere stranieri, parlano con accento straniero; egli trascrive i loro dialoghi seguendo rigorosamente una ortografia che fedelmente rappresenti quel deviato modo di pronunciare. Il nostro scrupoloso romanziere non esita a seguire e mantenere quell’ortografia lungo l’intero romanzo ogni qual volta viene in scena il personaggio che così parla. Ne sia esempio quel barone de Nucingen, di origine alsaziana, che mai apre bocca senza che le sue parole siano trascritte con pronuncia alsaziana. Medesimo metodo è seguito ogni qualvolta l’angelico musicista Schmucke apre la bocca: questi fa sempre sentire il suo accento d’oltre Reno: Montame (per Madame), les ponnes chosses (per les bonnes choses) ... ein bedid tinner (per: un petit diner) ecc. ...

  Un qualche di simile accade quando gli agenti di polizia, camuffati da inglesi, si arrabattano per la ricerca — nelle vie di Parigi e altrove — di alcuni degni compari.

  È pur da ricordare che ancor su questo punto Balzac non tralascia di mettere in evidenza speciali caratteristiche; ciò accade, ad esempio, quando nel far parlare questo o quell’individuo appartenente al basso popolo, gli fa commettere spostamenti di sillabe o di consonanti, errori di grammatica e improprietà, travisamenti di parole difficili per mezzo di assonanze; per il momento basti un esempio o più. Zélie Minard, figlia di uni portiera, ma divenuta più che agiata, si lascia scappare nella conversazione qualche sproposito che rivela la più che modesta origine; essa dice à l’hasard, invece di au hasard (Les petits bourgeois, I, p. 123). La vecchia pescivendola Madame Cardinal, che infiorava il suo dire di parole e frasi del basso linguaggio popolare e anche del più basso gergo, parla pur con travisamenti e spropositi di questo genere: une pension élementaire ... invece di une pension alimentaire (Les petits bourgeois, I, p. 309) ecc. ecc.

  Modo così fedele e quasi fonografico (se è permessa tale immagine anacronistica nei riguardi di Balzac) di riprodurre il parlare di Caio o di Sempronio, adoperando tutti i rigori dell’ortografia, risulta senza dubbio dal proposito balzacchiano di voler seguire, nelle creazioni più romanzesche, il riflesso della realtà e del naturalismo, fosse pur nelle loro forme più umili e spregiate. O almeno, prendere quel realismo e quel naturalismo come punto di partenza per il viaggio avventuroso attraverso i cieli della fantasia.

 

Capitolo IX

L’abbigliamento.

Il «vestire» nell’arte narrativa di Honoré de Balzac, pp. 223-232.

 

  [...].

  a) Dalla cravatta e dal vestire ... lo spirito e la Società.

 

  Veniamo, dunque, a quel grande romanziere realista che abbiamo scelto a maggior esponente della descrizione realista, e con tanto maggiore interesse a lui potremo accostarci in quanto egli è pur autore di due brillanti e fosforescenti monografie, una delle quali ha proprio per titolo: Physiologie de la toilette, e l’altra: Traité de la vie élégante (citeremo la grande edizione illustrata del 1902, volume II delle Oeuvres diverses e volume I, rispettivamente).

  Nella prima delle due monografie Balzac, dopo aver notato che ai suoi tempi — alla dimane della Rivoluzione — tutti vestivano su per giù allo stesso modo, espone una serie di paradossi ... abbastanza veritieri dai quali appare die, nonostante l’uguaglianza, il medesimo capo di vestiario muta aspetto da individuo a individuo denunciando, niente di meno, il carattere dell’individuo stesso. Con il che il nostro Autore prende nettamente posizione in favore della tesi che vede nell’abbigliamento l’impronta della personalità; al proposito si lancia furiosamente e brillantemente in una variopinta discussione (come già avemmo occasione di accennare) sul valore sintomatico ... della cravatta. «La cravatta — scrive il Nostro — ha oggi assunto una importanza sociale». Oltre di ciò essa è, soprattutto, «per eccellenza, tra le varie parti della toilette, quella in cui si imprime la personalità» (p. 140). Pensi il signor lettore non già alle cravatte dei nostri dì, nelle quali qualche traccia della persona può disvelarsi a causa del modo di annodare, ma alle lunghe e larghe cravatte dell’epoca balzacchiana da avvolgersi sapientemente al collo e da annodarsi con grande arte in sul davanti, arricchite da gemme e da cammei; l’estro individuale poteva in tale modo di acconciare e ornare, apparire e imporsi. Sicché non a torto l’autore della Physiologie de la toilette poteva affermare, sempre tra il faceto ed il grave, che una larga striscia di mussolina bianca, uscita dalle mani della stiratrice, uguale per tutti, è in ultima analisi a come un blocco di marmo che poteva poi andare a cadere tanto sotto lo scalpello di un Fidia quanto sotto quello di un volgare dirozzatore di pietre». In altri termini, la bianca striscia della cravatta è la materia plastica, mentre l’annodata cravatta che ne viene fuori è l’opera d’arte. Invero — continua a insegnare il nostro fisiologo della toilette — cravatta fortemente inamidata, geometricamente composta, dura, senza pieghe, da nodo piatto e quadrato, è sicuro segno di uomo secco, esatto ed egoista; quella, invece, di morbida mussolina, ondeggiante, col nodo rigonfio e pretenzioso, accusa uomo facile ed espansivo parlatore, troppo loquace, anzi, e privo di pensiero. Eccovi, d’altro canto, la cravatta di fine battista, piegata in modo grazioso, ma semplice ed ingenuo; essa rivela l’anima di un poeta elegiaco (p. 141). D’altra parte, anche riguardo alla cravatta gli uomini si dividono in tre categorie: quelli, da un lato, che ogni mattina sbadatamente e senza porvi cura si avvolgono il collo nella bianca fascia (ohimè! «gente che porta la cravatta senza sentirla nè comprenderla!») e quelli, d’altro lato, che pur sentono l’importanza della cosa e del gesto ma, poveri esseri privi di personalità propria, gregge di imitatori, non fanno che copiare le fogge altrui, «spiriti ristretti, sterili, privi di immaginazione, vero servum pecus della cravatta!»; ed infine ecco i creatori, che trovano in sè stessi la nobile ispirazione ... uomini quos aequus amavit Jupiter. Proprio così! (p. 141).

  Medesimo concetto nella seconda delle due citate monografie: Traité de la vie élégante — l’abbigliamento, cioè, rivelatore della personalità — in cui si afferma che «l’eleganza (e non solo nel vestire) è non tanto un’arte quanto un sentimento» (p. 285). Senonchè, bisogna riconoscere, continua Balzac, che la classe sociale e professionale dà la sua impronta al vestito, come bisogna pur riconoscere che la toilette è l’espressione della Società; questo ultimo aforismo, che Balzac dice di accettare in pieno, potrebbe sembrare in contradizione con quanto era stato detto prima, ma sarebbe facile cosa comporre il dissidio insegnando che, come già più volte avemmo a far notare, se la moda impone le sue linee, l’individuo fa sentire la propria personalità nella maniera con cui egli si assoggetta a quelle linee, e più o meno da presso le adotta. Come che sia, tanto valore sintomatico dava Balzac alla toilette, che si compiacque egli di creare, sia pure scherzosamente, la parola «vestignomonie» (o arte di conoscere la personalità dal vestito) proclamando: aujourd’hui même encore, la vestignomonie est devenue presque une branche de l’art créé par Gall et Lavater (p. 287).

 

  b) Minuzie descrittive. Vestiti ed anime di uomini.

 

  La spietata analisi del vestiario da parte del romanziere realista non risparmia, il più delle volte, alcun capo di esso; tutto passa sotto la lente di ingrandimento del nostro romanziere che nel descrivere conosce a fondo, o sa vivacemente creare, una esatta terminologia. Giacca, panciotto, calzoni, scarpe e calze, fibbie e bottoni, cravatte e nastri, biancheria, cianfrusaglie di adornamento, tutto è, volta a volta e persona per persona, inventariato. Ecco qualche documentazione. Il vecchio papà Goriot ha camicia di bella tela d’Olanda, e sullo jabot due ricche spille, ornate ciascuna da un grosso diamante e l’una all’altra riunite da una catenella; il vestito è di un colore bluastro; il panciotto di piqué bianco; su di esso luccica una lunga catena d’oro ornata da ciondoli (Le père Goriot, p. 21). Il buon uomo — troppo buono — è un onesto commerciante arricchito. Si senta, invece, come veste il conte Maxime de Trailles, alla moda del 1839: abito nero; panciotto di cachemire di un azzurro cupo, a disegno ricamato con fiorellini di un azzurro chiaro; calzoni neri; calze di seta grigia; scarpette verniciate. Attraverso il panciotto, da una delle asole all’altra, una elegante catena d’oro (Le député d’Arcis, p. 107).

  Altro tipo e altro vestito: Simon Giguet, individuo acre e bilioso, è sempre vestito di nero (l’abito è lo spirito?); la cravatta bianca gli fascia il collo sino in basso, e la faccia di lui, per conseguenza, sembrava scappar fuori da un cartoccio di carta bianca, tanto più che sotto quella cravatta, sùbito si presenta un colletto alto e diritto, bianco, quale di poi la moda fortunatamente ebbe a proscrivere (così scrive Balzac). D’altra parte, il vestito tutto, pantaloni compresi, è largo e ondeggiante, ma in quell’ondeggiamento l’aspro Giguet si tiene diritto e dignitoso (Le député d’Arcis, p. 14). Ancora una volta l’abito ... svela il monaco, e cioè lo spirito. L’abituale e severo vestire di Rabourdin è descritto senza nulla dimenticare: grande redingote blu, cravatta bianca, panciotto incrociato di tipo Robespierre, Pantalone nero senza staffe, calze di seta grigia, scarpini (Les employés, p. 135). Anche minuziosa è la descrizione dello strano e femmineo abbigliamento del vecchio, scheletrico e misterioso essere che figura nel romanzo Sarrasine: aveva un pantalone corto, di seta nera, largo e ondeggiante intorno alle secche cosce formando mobili pieghe come di vela abbattuta; i suoi stinchi sembravano due ossa poste in croce su una tomba. Oltre di ciò, anelli e pietre preziose alle sue dita disseccate, femminili merletti allo sparato della camicia, catena d’oro scintillante come collana di diamanti su un collo di donna; panciotto bianco ricamato d’oro, candidissima la biancheria, e nel mezzo di quei merletti un diamante di incalcolabile valore scintillante come un sole (Sarrasine, p. 98). Femminili tratti del vestire, espressione di anima femminile e anche di femminile corpo. Ed ecco Clément des Lupeaulx, furfante arrivista, alta carica della burocrazia: si presenta egli, nei suoi pomeriggi mondani, con calze di seta traforate scarpette eleganti, pantalone nero, panciotto di cachemire, fazzoletto di battista, catena d’oro, abito a coda di un azzurro scuro con bottoni cesellati, decorazioni all’occhiello ... Al mattino, invece, pantaloni grigi e scarpe che scricchiolano (Les employés, p. 159). Insomma, tutto un guardaroba in poche linee, esprimente il pretenzioso spinto del suo proprietario, pronto a ingannare — con le apparenze — il prossimo.

 

  c) Minuzie descrittive. Vestiti e anime di donne.

 

  Ed ecco ora qualche tocco di toilette femminile, dal cappello alle scarpette. La duchessa Cattaneo — una bellezza — appare vestita di mussolina, sotto un cappello di paglia, i piedini chiusi in graziose scarpette del colore della gola di piccione (couleur gorge de pigeon), calze di filo così tenui e sottili da poter essere rapite da un soffio di vento, e sulle spalle uno scialle di merletto nero (Massimilla Doni, p. 190). Per la prima passeggiata insieme all’amato, come si veste Dinah La Baudraye? Scarpe alte di pelle color bronzo, calze di seta grigia, sottana d’organdi, scialle di pizzo nero, cappellino di stoffa nera, leggera e trasparente, adorno di fiori ... (La Muse du département, p. 443). Ancora una figura: Madame Matifat che indossa vestito di velluto turchino; delle sue calze si dice di grosso cotone; scarpette di capretto; guanti scamosciati frangiali; in testa, un cappellino foderato di seta rosa, ornato di pelliccia d’orso ... Non manca alcun minuto particolare, come si vede ... anche inutile o quasi (César Birotteau, p. 370). Ben diversa figurina è la giovane Gabriella, ingenua e soave nel suo costume paesano, stretta in un corsaletto «a punta sul davanti e quadrato sul dorso, elegante, di un colore azzurro, della tinta del cielo, bello e grazioso come quello di una libellula». Ed essa — in quel corsaletto — si delinea come disegno sotto la mano di abilissimo artista: le montava sino al collo e là si tratteggiava con una scollatura ornata di leggerissimo ricamo a fil di seta d’un color marrone ... Lunga sottana, anche di color marrone, cade con sottili pieghe «sino a nascondere i piedi» (L’enfant maudit, p. 82). Quante volte la descrizione dell’abbigliamento è così precisa che il lettore la «vede» come se fosse una pittura! Ecco la principessa de Cadignan, quando sì presenta a d’Arthez: «vestita di velluto turchino dalle larghe e spioventi maniche bianche, scialletto ornato in alto da una fascia di tulle leggermente arricciato e con bordo turchino, gettato sulle spalle sino a quattro dita dal collo, come si vede in qualche quadro di donna dipinto da Raffaello» (Les secrets de la princesse de Cadignan, p. 98). Non si dimentichi che il «pittore» Balzac ricorre spesso, e con compiacimento, nel descrivere i suoi personaggi, a nomi di grandi pittori tra i quali frequentissimo è il nome di Raffaello. In fatto di particolari descrittivi assai minuziosi, si veda ancor che cosa scorge Balzac nella scarpetta di una donna o nei pressoché invisibili segni di una toilette femminile denuncianti tutta una vita. Della scarpetta della giovane Ida — gentile grisette — la descrizione mette in mostra un sottile particolare: la scarpetta della giovane Ida lascia così scoperto il piede che di quella scarpetta si vede soltanto il sottile orlo di pelle intorno al bianco della calza (Ferragus, p. 71). In quanto all’abbigliamento di una donna che non è proprio per bene (donna non comme il faut, ma comme il en faut), ma che vorrebbe apparire tale, Balzac dice così: uncini del corsetto che spuntano fuori, laccetti che mostrano il filo di un colore bianco rossastro, veste che in qualche punto mal si chiude, scarpe invecchiate, nastri del cappello più volte stirati, veste troppo gonfia (Autre étude de femme, p. 48). La pretesa rispondenza tra le caratteristiche di quel vestire e la condotta di quella donna è, senza dubbio, assai ardita: occorre lasciarne la responsabilità al nostro romanziere che tanto si diletta — e che tanto spesso è accorto — nel trarre da pochi e pallidi vestigi materiali, le più architettate ricostruzioni psicologiche. Talvolta, invece — nè poteva essere diversa- mente, dato il temperamento romantico e realista al tempo stesso del narratore — i particolari descrittivi, per il vestire, di puro carattere realista, si fondono e si intrecciano con espressioni e colorazioni sentitamente romantiche. La duchessa di Langeais, vestitasi deliziosamente per piacere a Montriveau, così appare: «Intorno al collo, come la nuvola di una sciarpa vaporosa, quale soltanto una fata avesse potuto in quel modo disporre una sciarpa, vivace di colore e resa ancor più vivace dal brillare di una pelle di seta ; la veste è di un azzurro chiaro, screziata di ornamenti che si ripetevano nell’acconciatura dei capelli, una veste che con la freschezza del suo colore sembrava dar vita alle fragili forme di quella aerea creatura: una libellula nell’atto del suo volo sullo specchio dell’acqua tra rami fioriti» (La duchesse de Langeais, p. 182). Non si dimentichi che il confronto con animale grazioso torna come uno dei motivi prediletti nelle descrizioni del nostro narratore; poco sopra anche il corsaletto di Gabriella faceva pensare a quello di una libellula, e ancor qui il muoversi della bella duchessa — nella luce iridescente del suo vestire — appare come il muoversi della libellula sullo specchio delle acque.

  Non vi è che dire: la cura con cui nella Commedia si descrivono gli acconciamenti non è soltanto espressione di un metodo realista, sia pur variegato da iridescenze romantiche, ma anche quella del sentire che l’abbigliamento è, in un certo senso, lo spirito. Chiaramente ciò appare, in ispecie per il vestito femminile, dalla dichiarazione balzacchiana: «la toilette, poesia magnifica della vita femminile, è per la donna la costante manifestazione dell’intimo pensiero, un vero linguaggio, un simbolo ... Quanta gioia in un adornarsi sapientemente meditato!» (Une fille d’Eve, p. 284).

 

  d) Minuzie descrittive di vestiti logori.

 

  Ben si comprende, dunque, perché l’indiscreto sguardo del nostro romanziere, nel descrivere il modo di vestire dei suoi personaggi — donne o uomini che fossero — si insinuasse sino al cuore di minuzie che altro sguardo, forse, non avrebbe avvertito. Per Ferragus — potentissimo capo della setta segreta dei Divoranti, che nasconde la propria personalità sotto le più misere spoglie — si descrivono, è vero, la brutta cravatta nera e sfilacciata, intorno al collo, e le scarpe scalcagnate e rotte, e pur il cappotto unto e bisunto, abbottonato fino al mento ... ma anche, nel dire dei calzoni azzurri qua e là rattoppati, si osserva che sono essi «quasi biancheggianti a motivo di una specie di peluria che li rende orribili» (Ferragus, p. 34). Per il vecchio avaro Grandet non si dimenticano i lacci delle scarpe: grosse e pe-santi, quelle scarpe, annodate con lacci di cuoio. Per le calze, si notano gli eterni rammendi. Calzoni corti di color marrone con fibbie d’argento, panciotto di velluto a righe (che alternano il giallo e il color pulce) nettamente abbottonato, larga giacca marrone a grandi falde, cravatta nera e largo cappello da quaquero. Non basta, poiché l’inventario degli indumenti si spinge a farvi notare che i grossi guanti usati da quell’uomo facevano concorrenza, per solidità e rudezza, a quelli di un gendarme; l’avaro li faceva durare quasi due anni, posandoli sempre — per non insudiciarli con stranieri contatti — sulle falde del cappello che teneva in mano (Eugénie Grandet, nelle prime pagine). Altro sinistro personaggio è quel Filippo Bridau di cui Balzac descrive con minuzia il cencioso vestire: redingote di lamentevole aspetto, pantaloni dall’orlo inferiore sfilacciato, scarpe spaccate, cappellaccio bisunto, bavero di velluto tanto sdrucito da far vedere la trama; anche il bastone, tutto scrostato è in miserrime condizioni, privo di vernice; ben mostrava quel bastone di «essere stato strascinato in tutti gli oscuri angoli dei caffè di Parigi e di aver immerso la propria sdentata e ritorta punta in tutti i fanghi della città» (Un ménage de garçon, p. 250). Dal fango del vestito e del bastone ... il fango dell’animo. Più sopra, e sempre con la solita minuzia realista, si era già mostrato lo sciagurato Bridau ancora una volta quasi cencioso: «Bavero del soprabito spaventosamente consunto, cappellaccio rognoso, scarpe scalcagnate e piene di raccomodature, redingote che mostra la corda, tasche slabbrate e lucide ...». Persino dei bottoni di quel vestito si nota uno strano particolare: sono, per vecchiaia e consunzione, come scoperchiati e sventrati; fanno essi vedere la capsula che ancor li attacca alla stoffa. Insomma, una descrizione fatta attraverso un microscopio o quasi! (Un ménage de garçon, p. 102).

  Ancora una volta, come sempre o quasi, il vestito ... è l’uomo, con tutta la vita di questo. Presentando il vecchio e ripugnante Contenson, una spia con cranio da morto e faccia del medesimo genere, il nostro romanziere descrive così: «Quale commentario della sua vita e dei suoi costumi non era mai il suo vestito! Vecchi pantaloni usati, di tessuto ordinario; panciotto venuto fuori dall’armadio di un robivecchio; giacca di un nero rossastro; catena di oro falso; camicia di percale giallastra, ornata sul davanti da un brillante falso; il collo di velluto della giacchetta è una specie di collare di ferro, lucente per consumo; unto e grasso è il cappello; le suole delle scarpe sono slabbrate e sbadiglianti» (Splendeurs et misères ecc., p. 101).

  Altra corrispondenza tra il costume esterno e il costume interno, vale a dire tra il vestito e il modo di sentire, potrebbe apparire a chi ben guarda Madame Vauquer, la padrona della modesta pensione della rue Neuve-Sainte-Geneviève. Vecchiotta, stretto il capo in una cuffia di tulle lasciante uscire ciocche di capelli falsi, male appiccicati; cammina strascicando le contorte e spiegazzate pantofole (grimacées); faccia da vecchia, grassoccia, dal cui centro scappa fuori un naso da pappagallo; personale rotondeggiante e grassoccio come il corpo di un topo ... Tutto quel corpo e quel vestito sono in armonia con l’ambiente povero, misero, trasudante malinconia in cui quella donna vive e dirige la sua pensione. Essa, ben abituata a quell’aria fetida, la respira senza esserne stomacata (Le père Goriot, p. 9). In quella stessa pensione troviamo Rastignac, ancora miserabile (ambizioso e con pochi scrupoli; diventerà poi arciricco e ministro), acconciato come segue: indossa una vecchia redingote e un assai sciupato panciotto, mentre l’ordinaria cravatta nera, spiegazzata, male annodata, come sogliono portare gli studenti, gli fascia il collo; il pantalone alla peggio, e le scarpe mostrano le loro accomodature (Le père Goriot, p. 17).

 

  e) Chiare corrispondenze tra l’animo e il vestito (umiltà, modestia, temperamento meridionale).

 

  Umiltà, modestia e anche noncuranza nel vestire possono forse collegarsi con umiltà e con modestia di un’anima assorta in non volgari contemplazioni? Il buon Popinot, magistrato integerrimo, benevolo e persino angelico giudice dei poveri, è sempre vestito di nero, come conviensi al magistrato che scrupolosamente osservi la tradizione; ma vestito di tal genere, fa notare Balzac cui non sfuggono minuzie di tal fatta, necessita continue cure; il che il buon Popinot ben si guardava di fare, assorbito come era nelle moltiplicate curo del suo magistero e delle sue opere di carità: «il color nero del vestito esige un attenzione e una sorveglianza di carattere puritano». Anche i calzoni, lucidi e consumati, simigliavano, sottili come erano, a quelle stoffe con cui si fanno le toghe degli avvocati, e in quei calzoni tante e tante pieghe impresse dall’atteggiamento contorto della persona che in alcuni punti di essi ben si vedevano le strie biancastre, rossastre o lucide, denuncianti, sia la più gretta avarizia, sia la povertà più noncurante ... sia, ancora (questo Balzac non dice, per quanto ciò da ogni parte appaia della narrazione) il completo assorbimento del cuore e della mente in tutto ciò che è fuori dal proprio personale egoismo e il concentrarsi di ogni attività in opere soccorritrici delle altrui miserie. Tanto è vero che cause diverse possono produrre il medesimo effetto! Il bravo uomo, continua l’implacabile descrizione, aveva ai piedi grosse calze di lana che facevano smorfie (sic) entro le deformazioni della scarpa. E la biancheria? Di quel tono giallastro che ogni biancheria assume quando a lungo è serbata negli armadi ... e il passaggio al bucato si fa solo un paio di volte l’anno. Naturalmente, panciotto e giacca erano in piena concordia con i calzoni, le scarpe, le calze, la biancheria. In quanto alla cravatta, sempre mal torta e ritorta al collo, senza alcuna inamidatura e sempre disordinata, spiovente sul colletto ciancicato. Le sue mani non conoscevano guanti e se ne stavano di solito piantate nelle tasche, vuote, i cui orli quasi sempre sfilacciati e unti venivano a porre nuovo tratto alla negligenza generale impressa sulla persona tutta (L’interdiction, p. 210).

  Anche la buona Madame Grandet trasferisce la ingenua bontà e rassegnazione dell’animo suo nelle modeste linee dell’abbigliamento. Sempre chiusa nel suo vestito di levantina verdastra, faceva persistere la vita di quel vestito per la durata di un intero anno; sulle spalle, un gran fazzolettone di cotone ordinario bianco, e sul davanti un grembiule di taffetas nero (Eugénie Grandet, p. 35).

  Temperamento meridionale (secondo Balzac) si accorda con la vivacità, un po’ stravagante, dei colori dell’abbigliamento; così lo sconosciuto (un cospiratore napoletano) di Massimilla Doni è vestito a con panni di cinque colori, contando il nero per un colore. Nero il cappello, di colore oliva i calzoni, rosso il panciotto su cui scintillano bottoni dorati, verdastra la giacca a coda, e di tinta giallastra collo e polsini» (Massimilla Doni, p. 201). [...].

 

Capitolo XI

L’arredamento.

Dalla fisognomonia all’arte narrativa, pp. 272-276.

 

  pp. 273-276. Si legge in una pagina balzacchiana che l’abitazione è vera e propria espressione dell’epoca, e pur si legge come dall’architettura e dall’arredamento s’indovini la  Storia poiché lintera vita dei popoli, scomparsa o no, si può ricostruire non solo dai documenti, ma pur dall’abitazione e dall’arredamento: «Gli avvenimenti della vita umana, sia pubblica che privata, sono così intimamente collegati all’architettura che si possono ricostruire le nazioni e gli individui con le loro abitudini dai resti dei loro monumenti pubblici o dall’esame delle loro reliquie domestiche ... Une mosaïque révèle toute une société, comme un squelette d’ichtysaure sous-entend toute une création». Inoltre, altrove si legge e si insegna, e si impara — come la casa stessa, così come è voluta nella sua struttura o nel suo rifacimento (una specie di «arredamento», anche questo) rivela il carattere o la condotta di chi in tal modo la volle: «La casa – si legge in una delle prime pagine (p. 3) del romanzo: Pierette (sic) allorché si descrive la casa del commerciante, nell’angusta piazza di provincia, ove la piccola Pierette è allevata — è l’uomo». E si continua così: «Dalla facciata stessa di quella casa, di fresco restaurata su un fondo vecchio e antico, un osservatore ben avrebbe indovinato le meschine idee e lo stato di piatta beatitudine in cui si trova l’animo del commerciante che ha fatto fortuna e si è ritirato dagli affari». D’altra parte, nel romanzo: Béatrix (p. 11, p. 19) si fa osservare che senza la descrizione minuta del vecchio palazzo, le sorprendenti figure della nobile famiglia ivi abitante non sarebbero forse esattamente comprese; la cornice e lo sfondo hanno da passare prima dei personaggi. Vero è che in quelle pagine l’autore della Commedia umana si riferisce piuttosto all’influenza che la struttura dell’abitazione e del suo arredamento può avere sugli individui che abitano quella abitazione, ma è anche vero che più volte si leggono nelle pagine della Commedia affermazioni che indicano l’influenza inversa: l’abitazione, nella sua struttura, nel suo aspetto e nei suoi particolari, è lo specchio della persona. La casa del vecchio Grandet è «pallida, fredda, silenziosa» ... (nelle prime pagine del romanzo: Eugénie Grandet), proprio come — aggiungeremmo noi — è pallida, fredda, silenziosa, la dura immagine del vecchio Grandet. Altrove (nelle prime pagine di Une double famille) chi abita nelle due misere stanze a pianterreno, piene di ombra e di gelo? Una vecchia «da un viso pallido e rugoso, che era in accordo con la ruggine della casa ... Le numerose rughe del viso potevano essere confrontate ai crepacci dei muri». Continuando, ecco il carattere — o le abitudini — del buon medico di campagna dottor Benassis far mostra di sè, secondo Balzac, dalla porta stessa dell’abitazione di lui; modesta casa campestre la cui porta d’ingresso è minutamente descritta nella sua forma, nelle sue screpolature, con i vecchi pilastri che la fiancheggiano; chi per la prima volta ad essa si accostava, poteva conclure promptement du portail à la vie et au caractère di colui che là dietro abitava (Le médecin de campagne, p. 19). Anche dal modesto appartamento abitato dalla cugina Bette, con la tappezzeria bluastra e sbiadita che dava a tutto l’insieme, già freddo e monotono, un tono grigio, si indovinano i segni di quella mediocrità, di quella freddezza e di quel grigiume che accompagnavano, sino all’asprezza e alla cattiveria, tutta la vita di quella donna (La cousine Bette, nelle prime pagine). E la misera abitazione dell’angelico e candido musicista Schmuke (sic) con tutto il suo pittoresco disordine e la sua polvere ben mostra la rispondenza tra l’uomo e la casa! (Une fille d’Eve, p. 325). E pur nel romanzo: Un ménage de garçon si legge che l’abitazione di Agata Bridau «con la sua tappezzeria giallastra, con i suoi mattoni mal lucidati, con le stoffe di seta grigiastra e invecchiata, con il disordine dovunque ... dà il senso dell’umile vita provinciale e della fedeltà alle vecchie cose».

  Un’altra abitazione, ancora, e un’altra anima: quale triste aspetto ha l’abitazione dell’avarissimo e intrigante Gobseck! Silenzio, oscurità, disordine, abbandono, eterogeneità di mobili e di oggetti! «L’abitante e la sua abitazione si rassomigliavano; avreste detto dell’uno e dell’altro essere l’ostrica e lo scoglio» (Gobseck, p. 278). Dunque, abitazione e arredamento sono in rapporto con l’epoca, con la storia, con il carattere dell’uomo! Alquanto più tardi, Victor Hugo intitolerà uno dei capitoli dei suoi Misérables (nel secondo libro della terza parte) proprio così: «Tel maître, tel logis» ... tale il padrone, tale l’alloggio! [...].

 

  b) Specificando per l’arredamento.

 

  Più ancora dell’abitazione nel suo aspetto esterno e generale, nella sua disposizione e nel suo rifacimento, è segno della personalità (o si trova in rapporto, come che sia, con essa) l’arredamento. L’arredamento fa corpo ed anima con il corpo e l’anima dell’abitante. «Quando il giudice istruttore Popinot — come si narra nel romanzo: L’interdiction, p. 257 — entrò noi salotto della marchesa d’Espard, eccolo osservare con ogni minuzia, aspettando la marchesa, i mobili, i gingilli, e da quell’esame comprendere e spiegare l’anima della marchesa stessa. «Quell’uomo — scrive Balzac — partiva dall’elefante dorato che sosteneva la pendola, per interrogare quei mobili e venire così a leggere in fondo al cuore di quella donna». Altrove, al principio stesso del romanzo: Eugénie Grandet, l’arredamento della tetra casa dell’avaro Grandet rivela l’avarizia di costui: «Pareti ingiallite, specchio verdastro, poltrone tappezzate di disegni sfilacciati e incomprensibili, scanzie lucide di grasso, cornici con dorature screpolate, ecc. ecc. ...».

  Altrove, ancora, nel romanzo: Une double famille, p. 323, quando si fa descrizione dell’arredamento — freddo, grigio, monastico — figurante nella rigidità silenziosa dell’appartamento di una austera bigotta, Angélique, si dice: «ambiente umido, che ricorda l’incenso delle sacrestie». Nel suo Traité de la vie élégante (Oeuvres, vol. XX, p. 505) Balzac non aveva forse scritto che basta varcare la soglia di una dimora per rendersi conto del carattere di colei che quella casa abita e dirige? Il giovane pittore Schinner nel romanzo: La bourse, p. 166 — accolto nel povero e misterioso appartamento abitato da due enigmatiche donne, come cerca risolvere l’enigma? Analizzando con furtive occhiate mobili e gingilli ... poiché «i nostri sentimenti sono segnati e iscritti, per così dire, nelle cose di cui ci siamo circondati».



[1] Si tratta di quella novella (Maître Cornélius) che abbiamo altrove indicato come una delle fantasie che precorsero il romanzo giudiziario moderno poiché in essa si narra, tra l’altro, di un esame di tracce lasciate sul terreno: il terreno stesso era stato nascostamente cosparso di finissima farina perché chi sopra dovesse passarvi, a notte alta, lasciasse a sua insaputa le proprie tracce. [N. d. A.].



  Onello Onelli, Honoré de Balzac, in Senso della letteratura francese, Roma, Al pescatore di luna, 1956, pp. 104-105.

 

  Balzac est enclin à enfermer chaque personnage dans sa manie dominante. Mais la simplification, peut-être nécessaire pour le grand public, ne va pas jusqu’à la création de monstres romantiques.

  L’arriviste Rastignac, l’avare Grandet, le commerçant Birotteau, le baron Hulot, tous ces hommes fortement accusés demeurent humains puisque nous les comprenons malgré les changements de milieux qui se sont produits pendant un siècle.

 1799-1850 – La comédie humaine (cycle de romans).

 

  Seguono due Citations: la prima tratta da Facino Cane (Le métier de l’écrivain, pp. 104-105); la seconda tratta da Ursule Mirouët (Au-delà du monde physique, p. 105).


 

  Augusto Pancaldi, Prefazione, in Honoré de Balzac, Gli Impiegati ... cit., pp. V-XIII.

 

  La vicenda de Gli Impiegati prende le mosse dal ristabilimento della monarchia borbonica in Francia dopo il crollo dell’Impero napoleonico e si conclude alle soglie della rivoluzione del luglio del 1830 che doveva essere la scintilla dell’incendio che illuminò di eroici bagliori tutta l’Europa, fino al 1831.

  Siamo quindi in piena Restaurazione, in quell’incerto e tormentato periodo storico già analizzato e sviscerato da Balzac in decine di altri romanzi indubbiamente più noti di questo al pubblico italiano: e qui tuttavia l’onta e la miseria lasciate dalla disfatta di Napoleone e dai trattati del 1815, i riflessi della politica tentennante di Luigi XVIII prima e decisamente reazionaria di Carlo X poi, il malumore degli strati medi della popolazione, il lavorio sotterraneo della borghesia che andava partorendo il grande capitalismo e puntava perciò le sue carte sulla costanza dell’opposizione liberale alla sfinita aristocrazia francese, tutti questi lampi che ci fanno presagire la tempesta imminente, prendono nuovo e straordinario rilievo proprio perché, ne Gli Impiegati, Balzac ci dà il romanzo di una collettività più che la storia di un personaggio.

  In verità Les Employés, attento e minuzioso studio di una divisione ministeriale francese vista attraverso la vita pubblica e privata dei suoi uscieri, impiegati, capi, direttori, segretari generali e ministri nonché delle relative famiglie, mogli, figli, amanti, era apparso per la prima volta nel 1838 col titolo di La Femme Supérieure; e cioè a dire che Balzac aveva centrato, anche stavolta, il racconto su un personaggio principale, e precisamente su quel capolavoro di bellezza e d’astuzia tutte femminili che è Celestina Rabourdin.

Ma nelle successive edizioni il titolo cambiò. Era accaduto a Balzac di ampliare il suo studio in direzione degli impiegati come ceto sociale, di scoprire che Celestina, non poteva più reggere il peso dell’intera vicenda e quindi di vedersi costretto a mutarlo in quello più pertinente di Les Employés.

  “La femme supérieure”, scriveva più tardi Balzac, “non esprime più il soggetto di questo studio dove l’eroina, pur essendo donna decisamente superiore, non è ormai che un accessorio invece d’essere il personaggio principale”.

  E qui è tutta la spiegazione del libro.

  Se la “bella Celestina” è il centro motore della vicenda che portò alla rivolta un ministero e se, alla sua altezza, possiamo collocare soltanto la cinica figura del segretario generale Clemente Chardin des Lupeaulx, i veri protagonisti sono gli impiegati dello Stato còlti nella loro umanità, umiliati ed avviliti da una politica che faceva ricadere sul popolo il peso di un passato grande e sanguinoso e di un presente senza prospettive.

  “L’autore si aspetta d’essere accusato di immoralità”, scriveva Balzac nella prefazione del 1838, “ma egli ha già chiaramente spiegato che la sua idea fissa è di descrivere la società nel suo assieme, così com’è: virtuosa, grande, onesta, vergognosa, con la confusione dei suoi principî, i suoi bisogni nuovi e le sue vecchie contraddizioni. Gli manca il coraggio di confessarsi ancora una volta più storico che romanziere. Ma deve aggiungere che in un’epoca come questa, nella quale tutto viene analizzato ed esaminato, dove non c’è più rispetto né per il prete né per il poeta, dove s’ammazza oggi quello che si decantava ieri, la poesia è impossibile. L’autore quindi ha creduto che ormai esistesse una sola cosa da descrivere: il grande male della società; e che non ci fosse, per descriverlo, che il solo mezzo di dipingere la società, dato che il malato si identifica con la malattia”.

  Qui, in questo atto di fede nei propri convincimenti, in questa esposizione lineare dei fondamenti del suo realismo, c’è tutto Balzac. Vogliamo dire il Balzac non solo de Gli Impiegati ma dell’intera Comédie Humaine, il grande scrittore che ci ha dato un paesaggio mirabile e immortale del suo tempo.

  Uno scrittore francese contemporaneo ha scritto che i novantasei romanzi del grande affresco balzacchiano sono “un corpo dove, al posto del sangue, scorre il denaro. Balzac studia il sistema venoso della società, il movimento rotatorio e quello ascensionale dell’oro”.

  E il grande critico ungherese Georg Lukács1 ha aggiunto: “Nessuno ha vissuto più profondamente di Balzac i tormenti che il passaggio al sistema capitalistico significò per tutte le categorie del popolo, la profonda degradazione spirituale e morale che tale passaggio produsse necessariamente in tutti gli strati della società”.

  Ne Gli Impiegati è appunto raccontata la storia di uno di questi strati giunto a uno stadio impressionante di degradazione morale. Qui — come abbiamo detto — non ritroviamo i grandi personaggi balzachiani che costruiscono o distruggono fortune con stupefacente coerenza; qui non palpita la genialità usuraia di un Gobseck, la suprema intelligenza di quel “Napoleone della finanza” che è Nucingen; qui siamo lontani dalle follie dei Grandet o dalle fortune di César Birotteau. Qui sono decine e decine di impiegati statali — e potete ritrovarli anche oggi nei loro polverosi uffici — ciascuno raccontato con la sua storia, la sua psicologia, le sue vigliaccherie, le sue generosità; e in mezzo a questi navigano ministri, segretari, donne ambiziose e strozzini senza pietà, in un quadro che tocca, a volte, i vertici dell’arte balzacchiana. Per conseguenza anche qui, dove i Nucingen o i Gobseck sono figure marginali e non attori veri e propri del dramma, anche qui scorre in ogni pagina lo stesso liquido aureo, viene studiato meticolosamente “il movimento rotatorio e quello ascensionale dell’oro”. L’oro guida le vicende di tutti e per l’oro si consuma una storia fatta di sudore, di sangue e di dura e severa onestà.

  Il fatto è che mai Balzac è tentato di narrare al di fuori del tessuto storico e politico in cui la vicenda vive, anche quando mette in bocca a Bixiou le sue feroci battute, anche quando cesella quella gracile creatura che è Minard.

  Quello che Balzac esprime in ogni pagina, armoniosamente, è che “ogni azione, ogni pensiero e sentimento dell’uomo sono inscindibilmente fusi con la vita della società, con le lotte della società, ossia con la politica”.2

  Ma come tutto questo può entrate in un romanzo, cioè in una vicenda che implica un intreccio e passioni e sentimenti e slanci che sono carne e sangue e non “liquido aureo”? Come può Balzac — senza trascurare l’intrigo messo in atto da Baudoyer per la conquista del posto di capo divisione — ricollegare ogni gesto, ogni parola dei suoi personaggi a una realtà concreta, economica, sociale?

  Ne Gli Impiegati Balzac ci dà un mirabile esempio di questa sua straordinaria capacità. Un ministero non è una costruzione a sé, staccata dal tempo e dalla società che l’hanno edificata. E in un ministero vivono uomini, ciascuno con le sue idee, le sue concezioni morali, religiose o semplicemente politiche. Raccontando gli interessi dei singoli, mettendo questi interessi l’uno contro l’altro, inventando intrighi diabolici che hanno radici non solo nel cuore dei personaggi che vi prendono parte ma ben più lontano, nelle forze sociali, nelle classi che essi rappresentano, Balzac ci dà, a ogni attimo, l’essenza della realtà storica ed economica in cui ha collocato il racconto.

  Rabourdin è un uomo che crede nella necessità di una profonda riforma amministrativa e lavora sette anni a un suo piano per salvare l’economia francese dalla rovina. Con chi si scontra il riformatore Rabourdin? Prima di tutto con l’apatia di un ministro, cioè con la rassegnata filosofia del “tirare a campare” che ormai impregna di sé tutta quella parte dell’aristocrazia che non ha voluto saltare il fossato ed allearsi col capitalismo. È vero che il piano di Raubordin crolla per una serie di sporche congiure nelle quali i gesuiti e gli usurai di Parigi si trovano alleati nel sostenere un idiota, ma è pur vero che soltanto la tentennante politica del ministro impedisce il trionfo delle idee di Rabourdin ed accelera il processo di disgregazione della monarchia borbonica.

  Questo premeva a Balzac di mettere in luce prima ancora di addentrarsi nell’esame delle altre forze in campo. Le quali — dalla borghesia alleata con tutti gli strozzini e con tutte le parrocchie della capitale al clero desideroso di rivincite, dalla marcia aristocrazia che scende ai più volgari mercanteggiamenti al ceto medio strozzato fra le correnti in lotta e costretto ad “arrendersi o perire” — una volta entrate nel gioco letterario di una nomina ministeriale, concorrono tutte a completare il quadro della società francese all’alba della rivoluzione di luglio. Naturalmente corre, in tutto il libro, un continuo soffrire per quella parte che sta a cuore a Balzac, monarchico fedelissimo, disposto alle più ampie concessioni verso il clero e il capitalismo pur di evitare una rivoluzione che si sente palpitare nell’aria. Quando, ad esempio, il ministro richiama le nobili dame, presenti al suo ricevimento, ad un maggior rispetto di se stesse e della classe alla quale appartengono c’è, nel dialogato, tutta l’amarezza del legittimista messo quotidianamente di fronte al reale disgregamento dell’aristocrazia. E quando Bixiou s’impegna in quella feroce tirata contro l’amministrazione francese della cosa pubblica c’è, nelle sue parole, tutta la disperazione dell’uomo che deve essere testimone e storico del crollo delle sue utopie.

  Ma Balzac, una volta messa in moto la macchina della sua vicenda, non lascia più freni alla critica, all’ironia, alla condanna. E qui sta la forza della sua creazione e la ragione della sua grandezza.

  Balzac legittimista, Balzac sognatore d’un regime monarchico-clericale, Balzac perfino conciliatore della monarchia col capitalismo diventa, per bocca dei suoi personaggi, il più violento accusatore dei suoi idoli, smaschera i tradimenti dell’aristocrazia, tocca le piaghe più dolorose della società del suo tempo, condanna senza pietà i traffici del clero, ci dà, insomma, rinunciando alle sue “sacre convinzioni”, il ritratto di quello che vede, la realtà palpitante del 1830.

  Engels, su questa apparente contraddizione di un Balzac reazionario in politica e progressista in arte, scrisse nel 1888 una pagina che illumina tutta la forza morale e l’onestà del grande realista francese.

  “Certo Balzac fu un legittimista politicamente; la sua grande opera è una continua elegia sull’inevitabile rovina della buona società; tutte le sue simpatie sono per la classe condannata a tramontare. Ma, non ostante ciò, la sua satira non è mai così pungente, la sua ironia non è mai così amara come quando fa entrare in azione proprio gli uomini e le donne con cui più profondamente simpatizza, e cioè i nobili. E i soli uomini dei quali egli parla sempre con franca ammirazione sono i più recisi avversari politici ... Che quindi Balzac sia stato costretto ad agire contro le simpatie di classe e i pregiudizi politici a lui propri, che abbia visto la necessità del tramonto dei suoi diletti nobili e li descriva come uomini che non meritavano alcuna sorte migliore, e che abbia visto i veri uomini dell’avvenire dove a quell’epoca, solamente, era dato trovarli: tutto questo io considero come uno dei maggiori trionfi del realismo, e come uno dei tratti più grandiosi del vecchio Balzac”.3

  Chi sono i condannati ne Gli Impiegati? Rabourdin, è vero perde la partita; Fleury, il repubblicano Fleury pronto a menar le mani e a tirar di spada come un guerriero antico, viene licenziato. Il timido Minard che aiutava la moglie a far fiori di carta dopo le ore d’ufficio, dà le dimissioni. E perfino Bixou, il brillante astuto e fantasioso Bixiou, trova che non vale più la pena di vivere in quell’inferno.

  Ma non sono questi gli sconfitti, non sono questi i condannati da Balzac. Per ognuno di essi c’è una strada nuova al di fuori del ministero, cioè al di fuori della politica di un regime storicamente finito.

  L’ascia di Balzac cade su chi, nel romanzo, sembra trionfare. E il ministro che non si dispera per la perdita del “piano Rabourdin” consolandosi col dire che i suoi cassetti son pieni d’altri progetti di riforma, si sente seccamente rispondere: “Piani ne abbiamo. Quello che ci manca sono gli uomini capaci di realizzarli”.

  Balzac insomma non può non pensare che l’aristocrazia ha fatto il suo tempo, che questa classe — allontanando da sé gli uomini nuovi capaci di rimettere in sesto la Francia — ha decretato la propria condanna a morte. Balzac non può dimenticare, pur da quel convinto legittimista che è, che se forze nuove diedero grandezza alla Francia rompendo con la tradizione aristocratico-feudale, queste forze vennero dalla Rivoluzione prima e dall’Impero napoleonico poi. La Restaurazione tanto carezzata non è che una parentesi, una battuta d’arresto del grande movimento progressivo della Storia francese ed europea.

  “La Convenzione”, scrive nei suoi Impiegati dopo aver ironizzato la statica mollezza dei ministri di Carlo X”, modello d’energia, fu fatta in gran parte da teste giovani e nessun sovrano dovrebbe dimenticare ch’ella seppe opporre all’Europa coalizzata la forza di quattordici armate”.

  E più avanti aggiunge: “Napoleone solo ebbe il coraggio di scegliere fra i giovani, senza fermarsi davanti a considerazioni di censo o di casta. Ma dopo la sua caduta, l’energia ha disertato il potere”.

  Sono parole chiare che bollano lo svuotamento dell’aristocrazia e che, ancora in piena Monarchia di Luglio, fanno prevedere quale piega prenderà la storia del popolo francese avviato alle grandi lotte del 1848.

  Ma, a questo punto, non vorremmo che il lettore pensasse, a Gli Impiegati come a un “romanzo storico”. Il discorso andava fatto per dare la misura del realismo balzachiano, della sua costante aderenza alla storia del tempo: ma le capacità narrative dell’autore sono tali da trasformare quasi sempre ogni richiamo storico in gesti, in dialoghi, in intrighi, in azione viva, in passioni terribilmente umane.

  Il lento lavorio di Des Lupeaulx per vincere Celestina e conquistarne i favori è un esempio di narrativa ineguagliabile. E se Balzac letterato non cura troppo lo stile o si attarda in particolari che a tutta prima sembrano superflui, pure sa darci pagine di prosa e quadri d’ambiente d’una potenza e d’una verità sbalorditive.

  Des Lupeaulx che sorprende Celestina in faccende, la vestaglia aperta sulla camicia da notte, ancora calda di sonno, o la fantastica scena del trasloco di una amministrazione parigina, sono indimenticabili. Come, immortalati nella loro umiltà, resteranno i Minard, i Phellion, i Dutocq, i Poiret, i Bixiou, i Fleury, i Godard, i Vimeux, gli impiegati che riempiono pagine e pagine di dialoghi che direste rubati da un ufficio del nostro tempo.

  Perché, se Balzac studia il movimento dell’oro e se in ogni sua pagina sembra scorrere, al posto del sangue, il liquido aureo, pure ogni gesto, ogni voce, ogni passione sono fatte di carne e di sangue. Senza di ciò i suoi personaggi sarebbero dei manichini, una sorta di ometti messi in scala come s’usa nei grafici statistici. Ma Baudoyer che, nella sua avarizia, regala un ostensorio da seimila franchi alla parrocchia per avere l’appoggio dei gesuiti; e Des Lupeaulx che, pur desiderando febbrilmente mente di possedere la moglie del suo capufficio, si mette contro di lei quando qualcuno s’incarica di pagargli i suoi debiti; e la spia Dutocq che, solo per odio personale, si fa cieco strumento di volontà superiori e non esita a rovinare la reputazione di Rabourdin; e Celestina Rabourdin, la bella ed ambiziosa moglie del capufficio, che osa giocare d’astuzia con segretari e ministri fino al punto di farsi credere amante d’uno di essi pur di “lanciare” nelle alte sfere il troppo candido marito; insomma tutti i personaggi che s’agitano e imprecano e intrigano nel clamoroso scandalo del ministero, sono uomini e donne veri, con le passioni, i pensieri, i drammi della popolazione francese del 1830. E da essi anche oggi possiamo trarre una lezione umana, possiamo apprendere, pur nella vicenda di un romanzo, quale fu il cammino percorso, quali le lotte sostenute dalle forze nuove e progressive della società del vecchio Balzac.

 

  Note.

 

  1. Georg Lukács, Saggi sul realismo, Torino, 1950.

  2. Georg Lukács, op. cit.

  3. F. Engels, Lettera a Miss Harkness, 1888, in Marx e Engels, Sull’arte e la letteratura, Milano, 1954.

 

 

  Mario Puccini, Scoperta di Balzac, «Il Giornale», Napoli, 10 marzo 1956, p. 3.


  [...]. Il perché lo capii quando fui sui venti o intorno: che cominciai ad andare di là del libro, sul piano delle conoscenze e esperienze dirette: che raggiunsi, voglio dire, il senso della vita, non soltanto come romanzo, ma come battaglia umana e sociale. E come conquista. Che è naturalmente, e, aggiungerei, rigorosamente, l’ora sua, di Balzac: non c’è al mondo altro scrittore, francese o di dove volete, che offra in questo senso sostanzialmente quello che egli sa offrire: nessuno con Balzac e in Balzac; sa più essere malato di solitudine, anche se è un solitario. Perché ci sono anche dei solitari nei suoi romanzi (pensate anche solo a «Le cousin Pons») ma essi sono tali in quanto una passione potente li tiranneggia, e volendole obbedire o non sapendole disobbedire, si denunciano, senza accorgersene, figli di una società e di un mondo, anche se con questa società e con questo mondo non riescono ad intendersi. Ma il discorso largo e tuttavia concitato di questo scrittore; ma la mimica dei suoi personaggi sempre viva, sempre accesa, come se a ogni moto del loro animo debba psicologicamente corrispondere un gesto o un atto siano quali siano, ma energici, ma scoperti, ma rivelatori, che distanza così di forza vitale come di voce da quel pur innegabile colosso che era Victor Hugo! E con lui infatti pronti e accesi ci accampammo; sentendo di non avere solo trovato uno scrittore in lui, ma, che era ben di più, un indicatore, un mèntore. Anche se ci narrava (stavo per dire, ci discorreva) di città e di paesaggi diversi, diversissimi da quelli dove noi vivevamo; e con i quali chissà mai se ci saremmo mai incontrati. Ma tant’è: il mago apriva i suoi scenari con tale straordinaria vivezza che quasi ci pareva di vederli quelle città e quel paesaggio: e quasi quasi di muovercisi. E il meraviglioso era questo: che mentre si faceva vedere ostile a tante verità di tutti i giorni, nello specchio dove ci invitava a guardare, noi vedevamo, insieme con le vie storte, le vie diritte, insieme con le brutture, le dolcezze e le bellezze. Ed ecco che fu lui il primo con quel suo folto chiaccherìo non a scostarsi da noi stessi ma ad avvicinarci a noi stessi vieppiù: e la nostra misura umana e morale, se anche non la trovammo di botto, un giorno ci accorgevamo che era stato lui col suo diabolico genio a dirci quali strade era opportuno seguire non solo per trovarla, ma anche per affermarla.

 

***

 

  Ora lo ho riletto. Con quaranta, quasi con cinquanta anni di distacco; essendo non più sulla soglia della vita, ma ahi sulla soglia o quasi della morte. E grazie ad un ormai benemerito editore, il Casini (che in tre volumi, non ha certo potuto inserire il «tutto Balzac» ma certo il Balzac più tipico, dal Balzac del «Papà Goriot», al Balzac del «César Birotteau» dal Balzac del «Cugino Pons» a quello del «Curato di Tours») altri potranno leggerlo; giovani di provincia com’ero io, giovani di città come sono che so?, i miei figli o i miei nipoti, Forse essendo valutati dai primi in un modo, dai secondi in un altro: la provincia di oggi non è certo più la distante e soffocata provincia nella quale crebbi e mi feci io, ma è pur sempre provincia, cioè terra di solitudine e, di silenzio; e diversa è anche oggi la città per un cumulo di ragioni che qui sarebbe lungo minutamente esporre e segnalare. Ma questo lo voglio, questo io vorrei dire; che Balzac è e resta lo scrittore dell’ottocento (Tolstoi è della stessa densità anche se, sul piano artistico, tanto più in alto) che più e meglio indica al suo lettore (e nel senso umano e nel senso morale) le vie per capire e per essere capiti. Vuoi in una società nuova che stia per nascere, vuoi in una società che, al contrario, vecchia e logora stia per declinare, l’uomo balzacchiano si muove ed agisce in funzione sempre viva ed attiva; e può essere anche in ritardo sul quadrante della cronaca ma su quello della storia mai o quasi mai lo è. E direi persino che, con la sua voce e con il suo gesto, questo quadrante della storia sia proprio lui se non proprio consciamente a dichiararlo, almeno inconsciamente a determinarlo.

 

 

  Adriano Seroni, Attualità della «Commedia umana». Balzac e la burocrazia, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XXXIII (Nuova Serie), N. 313, 13 settembre 1956, p. 3.

 

  La diffusione delle opere di Balzac in versioni italiane rivolte ad un largo pubblico sta, dunque proseguendo: ai volumi già stampati e ristampati da Mondadori e Rizzoli nelle loro biblioteche economiche, si è aggiunta di recente la traduzione, a cura di Augusto Pancaldi di Les Employés («Gli Impiegati») uscita nella Universale Economica dell’editore Feltrinelli. Si tratta, nella generale economia della Commedia umana, di un libro minore di fronte ai grandi capolavori balzacchiani i cui personaggi sono diventati ormai ligure popolari e, spesso proverbiali; siamo insomma dinanzi ad uno di quegli «studi» nei quali la penna dello scrittore francese indugiò particolarmente nell’analisi di ambienti sociali della sua epoca. Siamo, in questo caso, addirittura di fronte ad un libro che, nato originariamente e formatosi attorno a un personaggio femminile, finì poi in successiva edizione, per recare fin nel titolo il segno evidente di un interesse dello scrittore ad un fatto sociale e ad un ambiente. Infatti, il romanzo che qui ci interessa, pubblicato nel 1838 col titolo La femme supérieure («Una donna superiore»), fu poi rielaborato ed assunse un titolo definitivo che intende fin dall’inizio indirizzar e l’attenzione e l’interesse del lettore sulla vita, le vicende, le persone e gli intrighi di un ministero francese (e più precisamente su una sezione di un ministero) nel periodo della Restaurazione, negli anni di Carlo X Borbone.

  Gli interessi prevalenti dello scrittore sono, anche in questo come nella maggior parte dei libri di Balzac, espressi con chiarezza; fino alla stesura di lunghe pagine nelle quali una situazione (in questo caso, la vita della burocrazia francese e i rapporti fra amministrazione, Parlamento e Corona) viene minuziosamente descritta e analizzata. Anzi, il lettore si trova qui particolarmente di fronte ad uno di quei procedimenti tipici di Balzac, per cui, mentre la macchina della vicenda è già in movimento, e i personaggi in azione, a bella posta l’autore si interrompe e lascia tutto in sospeso per offrirci una vera e propria «carta topografica» degli uffici e una serie di ritratti degli impiegati ministeriali.

  E’, in fondo, per questo interesse prevalente, che Balzac può trasformare una vicenda assai comune e diremmo elementare (quasi soggetto da leggera commedia) in un fatto storico, anzi in un dramma storico: e i personaggi presi nel giro dei fatti e dell’ambiente li può far diventare vere e proprie figure da tragedia. Una divisione ministeriale, dunque: e in essa la lotta per la successione al posto di capodivisione: due uomini in primo piano in questa lotta, dotato l’uno l’altro incapace ma l’uno e l’altro in cerca di leve del tutto estranee alla sostanza del loro lavoro per raggiungere il posto agognato; anzi, più che loro le loro donne, mogli, parenti, amanti, che finiscono per dirigere l’azione e l’intrigo dai loro salotti e dalle loro camere da letto. E in questo modo, la presenza di un personaggio losco e falso, un segretario generale del ministro, che tutto vede e valuta, dal lavoro agli amori, in funzione della propria fortuna. In secondo piano, intrigati da fatti più grossi di loro e per ciò stesso incomprensibili al loro giudizio, gli impiegati, la cui sorte finisce per dipendere da quelle estranee o sotterranee vicende. Il regno delle ambizioni represse, divenute piccole manie, del lasciar correre e dello sbadiglio: idolo e ossessione suprema e costante di ogni ora e di ogni giornata? esposto, dalla disperante caccia al passaggio da soprannumerario a effettivo, al timore del licenziamento, della discriminazione, della disgrazia.

  Questo quadro negativo può essere efficacemente riassunto attraverso una morale di pochissime righe, che Balzac mette in bocca aduno dei suoi personaggi minori: «La Camera sarà ormai l’anticamera dell’Amministrazione. La Corte ne sarà il salottino. La strada ordinaria è la cantina e ... il letto è più che mai una scorciatoia per far carriera». E in questo quadro voi potete riconoscere, veri ed essenziali protagonisti della vicenda, il posto, s’è visto, la relazione (la Francia camminava verso la rovina su una strada lastricata di meravigliose relazioni), i salotti femminili, il danaro e la vanità.

  Questi ultimi tre elementi indicati ci fanno subito ritornare alla nostra «donna superiore», anche per vedere come Balzac, sul fondo che dicevamo, riesce a creare il personaggio vivo, che non solo non annega nei molteplici elementi di una situazione e di un ambiente spesso analiticamente descritti, ma anzi da questo modo di nascita deriva una vitalità maggiore, una più evidente personalità. Ecco signorina Celestina Leprince, diventata, con troppo spiccate aspirazioni ad una vita brillante, la signora Rabourdin: la moglie di uno degli aspiranti al posto di capodivisione al ministero. Uomo serio, questi, e intelligente, tanto da dedicare il tempo libero dal lavoro alla compilazione di un memoriale di riforma per l’amministrazione e il sistema fiscale; ma anche un uomo le cui ambizioni non erano pari a quelle della moglie. La quale, non rassegnata a una vita agiata ma senza lo splendore delle prime parti, alla fine «risolse di far lei stessa la fortuna del marito».

  Le arti che Celestina adopra per riuscire nel suo intento fanno di questo personaggio uno dei meglio riusciti dli tutta l’opera di Balzac, un personaggio pieno di sfumature, complesso, che fa respirare noi lettori moderni, abituati purtroppo a trovare nella nostra recente narrativa tanti personaggi disegnati a carbon grosso. Celestina è disposta a tentare ogni via: comincia con la «via del Debito» per metter su salotto; imbocca poi la via della civetteria nei confronti del segretario generale, una via questa che la condurrà fino alla camera da letto, ma senza caduta e senza «disonore». Donna «onesta» e intrigante, personaggio le cui continue contraddizioni si fanno unità nell’azione, è la donna di un’epoca, di fronte all’epoca che la produce fatta universale. La «donna superiore» non scompare dunque di fronte ai molti personaggi che Balzac mette in azione; ma fatti e personaggi interpreta, rappresenta, come tipo. Tipo umano, no schema: Celestina, insomma, si credeva superiore là dove voleva esserlo; e sentendo vivamente le trafitture causate da una posizione che si può paragonare a quella di S. Lorenzo sulla graticola, non poteva evitare le crisi». Non è forse questo un ritratto umano? E tale proprio riesce perché Balzac ha messo in movimento, a creare un personaggio concreto, tutti gli elementi concreti che lo studio di un tempo e di una società gli offrivano; e ha ripercorso il formarsi della personalità della donna, dalle origini attraverso l’educazione familiare, insistendo sulle idee che ambiente sociale e famiglia hanno posto come capisaldi di tutta la vita nel suo cervello. Sì è che quell’aggettivo di «superiore» non è soltanto il dramma umano di un personaggio che sconterà duramente i propri sforzi per affermare tale superiorità, ma è anche il dramma storico di una classe sociale travagliata da una profonda crisi storica.

  Accanto a Celestina, non possiamo non accennare ad un altro personaggio, che ci pare, insieme alla moglie di Rabourdin, fra i meglio costruiti del romanzo: quel Chardin des Lupeaulx, segretario generale, intrigante, «domestica» di ogni ministro, la cui posizione, scrive di lui Balzac, «era quella dell’eterno compromesso: riusciva a far carriera sia nelle disfatte che nei successi». Di fronte alla «onesta» Celestina, egli è il «rettile»; sì che dalla loro intesa non potrà che uscire la rovina del povero Rabourdin. Anch’egli, come Celestina, personaggio costruito non a tesi (non è il cattivo dei melodrammi), bensì formato e prodotto e mosso e caratterizzato da multiformi elementi di un’epoca di crisi.

  Poi, sullo sfondo di una società corrotta e di una monarchia incapace, lo squallore e la polvere degli uffici e il dramma dell’impiegato: «Ora la natura, per l’impiegato, è l'ufficio. Il suo orizzonte è limitato, da ogni parte, dalle cartelle verdi. Per lui le circostanze atmosferiche sono l’aria dei corridoi, le esalazioni maschili compresse in stanze senza aerazione, l’odore delle carte e delle penne. Il suo terreno è il pavimento sparso di strani detriti e inumidito dall’innaffiatoio del fattorino. Il suo cielo è un soffitto al quale indirizza i suoi sbadigli. Infine, il suo elemento è la polvere».

  Dai salotti ministeriali e dalle brillanti signore alla polvere degli uffici del catasto. E’ un contrasto critico dell’epoca di Balzac: è un contrasto che, anche noi, a un secolo di distanza possiamo ritrovare nella nostra società.



  Gilberto Severi, “La Zitella” di Onorato Balzac, «Radiocorriere», Torino, Anno XXXIII, N. 30, 22-28 Luglio 1956, p. 33.

 

  Maria Cormon è una zitella che, pur essendo ormai sulla quarantina, ha ben tre pretendenti: uno è il cavaliere di Valois, nobilissimo ma squattrinato; l’altro è il signore di Bousquier, tanto «borghese» quanto il primo è nobile, ma benestante se non proprio ricco. Il terzo infine è un personaggio che non compare mai e che viene manovrato (inutilmente, come si vedrà) dalla madre, signora Granson, tesoriera delle dame di carità di cui la zitella è presidentessa. Com’è nella logica delle umane vicende, Valois e Bousquier cercano reciprocamente di «farsi le scarpe», mentre a sua volta la signora Granson tenta di convincere la zitella che il proprio figlio Attanasio è il miglior partito possibile. A un certo punto Valois sembra averla vinta su Bousquier perché fa perfidamente credere alla zitella che il rivale abbia sedotto e reso madre Suzanne, una bella lavandaia; per sfruttare in pieno, secondo le regole classiche della strategia manovrata, il successo ottenuto con la sua insinuazione, Valois completa il discorso affermando che Bousquier avrà tutto da guadagnare sposando Suzanne. Ma ecco apparire sulla scena, inaspettato, un altro personaggio che rischia di buttare all’aria i bei progetti dei pretendenti alla mano di Maria Cormon: è il Visconte di Troisville. che l’abate di Sponde (zio della zitella) ha deciso di ospitare in casa della nipote. Subito la Cormon. abbandonandosi ai dolci sogni della fantasia, immagina di poter impalmare il bel Visconte; senonché, sul più bello di un ricevimento da lei offerto agli amici per far loro conoscere l’ospite, questi dichiara candidamente di essere sposato da sedici anni. Svenimento «coram populo» della zitella e conseguente sua costernazione, al pensiero d’essersi in tal modo pubblicamente tradita. Ma a tutto v’è rimedio: Jacquelin, astuto quanto devoto servitore della zitella, riesce a scoprire che Suzanne è stata sedotta da un dragone di passaggio per Alençon (dove l’azione si svolge intorno al 1820), e convince di conseguenza la padroncina ad accettare finalmente le profferte d'amore di colui che il poco nobile Cavaliere di Valois aveva ingiustamente calunniato.

 

 

  G.[ilberto] S.[everi], “La camera viola” di Honoré de Balzac, «Radiocorriere», Torino, Anno XXXII, N. 41, 7-13 Ottobre 1956, p. 33.

 

  La «Grande Bretèche» (una villa poco fuori Vendôme, sulle rive del Loir) cade in rovina. Così ha voluto la Contessa Giuseppina de Merret, disponendo per testamento che nessuno vi metta piede prima che siano trascorsi cinquant’anni dalla sua morte. La stravagante disposizione nasconde uno spaventoso segreto: molti anni innanzi, un giovane spagnolo prigioniero «sulla parola» di Napoleone, era giunto a Vendôme. Dopo qualche tempo era scomparso, lasciando una lettera con la quale pregava di spendere il denaro accluso in Messe di ringraziamento per la sua evasione. In realtà lo spagnolo (del quale si erano ritrovati gli abiti sulla riva del Loir, proprio di fronte alla «Grande Bretèche») non era evaso, come evidentemente contava di fare, ma era andato incontro ad una orribile morte per opera del Conte de Merret, marito di Giuseppina. Questi, rientrando una sera dal Circolo, aveva udito dei rumori provenire dal guardaroba attiguo alla camera della Contessa, detta la «camera viola». Interpellata, Giuseppina de Merret aveva pacatamente negato che vi fosse nascosto qualcuno; e quando il marito vi si era diretto, lo aveva fermato con un gesto e con uno sguardo di dolce rimprovero: «Se aprirai quella porta» gli aveva detto «tutto sarà finito fra noi». Il Conte de Merret, che credeva ciecamente nella moglie, da tutti considerata tanto bella quanto virtuosa e pia, aveva obbedito.

  Gli era però balenata alla mente una diabolica idea: far murare subito la porta d’accesso al guardaroba, ch’era senza finestre. Se la Contessa era stata sincera, la cosa non avrebbe avuto conseguenze; se aveva mentito, egli si sarebbe vendicato atrocemente. Detto fatto, il Conte manda a chiamare un capo-mastro di fiducia e gli ordina di murare la porta in sua presenza, promettendogli una somma cospicua a patto che conservi per sempre il segreto. Dopo qualche ora il lavoro è terminato. La Contessa non ha battuto ciglio; ma quando, l’indomani mattina, crede che il Conte sia uscito, si mette disperatamente all’opera per aprire una breccia attraverso la quale l’amante possa fuggire! Così la sorprende il marito: ormai egli ha raggiunto la prova del tradimento; non gli resta che l’amara consolazione di centellinare la sua vendetta, installandosi nella «camera viola» fino a quando sarà ben sicuro che lo sciagurato spagnolo sia morto.

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, Capricci del pedante, «Corriere della Sera», Milano, Anno 81, N. 282, 29 novembre 1956, p. 3.

 

Perle e zaffiri.

 

  C’è una novella di Balzac, La paix du ménage, che si potrebbe senz’altro definire «proustiana». Con questa differenza però: che Balzac ci dà un racconto di cinquanta pagine, mentre per narrarci la stessa avventura mondana a Proust, con le sue analisi al rallentatore, non ne sarebbero bastate duecento.

  Si tratta d’una grande festa in casa d’un dignitario napoleonico, durante la quale s’intrecciano e via via si dipanano scene parlate e scene mute, d’amore e di gelosia. La folla degl’invitati intuisce soltanto una parte di quel che sta avvenendo sotto i suoi occhi nei suntuosi saloni tra due dame della corte imperiale, due ufficiali di Napoleone e un alto funzionario.

  Ma per il mio capriccio è affatto inutile riassumere il racconto. Mi basti dire che la matassa è dipanata, e il dramma incipiente trasformato in commedia a lieto fine, da una vecchia dama: «una delle più perspicaci e maliziose duchesse — commenta finemente Balzac — che il secolo XVIII aveva lasciato in eredità al XIX».

  Uno degli ufficiali e il funzionario osservano una giovane signora seduta in disparte in un canto, sotto un candelabro. «Di qui — dice uno dei due — ti sfido a distinguere sul suo collo (tanto la giovane signora era meravigliosamente bianca di pelle) le perle che si alternano cogli zaffiri della sua collana».

  I pittori di solito ricorrono alle perle per mettere in evidenza (pensate a Paolo Veronese) il florido e roseo carnato di certi nudi di donna. Balzac sembra aver tolto l’immagine da Dante, dove a questo appaion nel ciclo della Luna l’anima di Piccarda Donati e delle sue compagne: «Quali per vetri trasparenti e tersi, – ovver per acque nitide e tranquille, – non sì profonde che i fondi sien persi, – tornan dei nostri visi le postille – debili sì, che perla in bianca fronte – non vien men tosto alle nostre pupille ...». [...].

 

 

  Massimo Vecchi, Biblioteca. Zweig, Balzac, Terrosi, «La Fiera letteraria», Roma, Anno XI, 12 agosto 1956, p. 6.

 

  Di questi giorni tre novità dell’editore Feltrinelli: «La scure di Wandsbek» di Arnold Zweig, «Gli impiegati» di Honoré de Balzac e «La casa di Novach» di Mario Terrosi. Libri di notevole interesse per l’acuta analisi sociale ed umana che tutti e tre si propongono sia pure in diversi campi con diversi intenti, attraverso diversi sustrati ideologici.

  «Gli impiegati», edito per la prima volta nel 1838 con il titolo «La Femme Supérieure», è la descrizione minuziosa della vita d’un ministero francese, inquadrato in quel periodo storico che va dal ristabilimento dei Borboni sul trono di Francia fino ai fatti del ’30. con le relazioni gli intrighi e le beghe degli impiegati, dagli uscieri al Ministro, e delle loro mogli e famiglie, che tentano con ogni mezzo lecito o no di ottenere un avanzamento di grado Non c’è un personaggio principale ma una sorta di rappresentazione dilatata d’una intera categoria sociale nei suoi aspetti più miseri e generosi e dove ogni tipo è tratteggiato con così convivente concretezza da costruire mano a mano un quadro di palpitante realtà.

  Balzac è uno scaltrito manipolatore degli avvenimenti storici, politici ed economici del suo tempo e delle sue invenzioni narrative; ed ancora egli versa nel racconto il sarcasmo e l’amarezza di fronte alla decadenza di una società che egli ama, ma che condanna senza pietà per la sua viltà e degradazione. [...].

  Il denominatore comune ai tre libri esaminati è il realismo; un realismo che in Terrosi è ingenuo, in Zweig è intellettuale, in Balzac vibra di forza ed efficacia.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  La camera viola, commedia di Balzac. Secondo programma, 9 ottobre 1956.

 

 

  La donna di trent’anni, romanzo di Honoré de Balzac. Adattamento di Nicola Manzari; regia di Amerigo Gomez. Secondo programma 21 maggio-6 giugno 1956, 8 puntate.



  L’ultimo amore di Honoré de Balzac. Adattamento di Mario Vani. Compagnia di prosa di Torino della Radiotelevisione italiana. Regia di Eugenio Salussolia, Secondo programma, 14 settembre 1956.



   La zitella di Honoré de Balzac. Adattamento di Dino De Palma. Compagnia di prosa di Firenze della Radiotelevisione italiana. Regia di Umberto Benedetto, Programma nazionale, 23-24 luglio 1956.

 



[2] Balzac fit de fréquents voyages en Italie. Celui en Sardaigne à la poursuite des mines d’argent fut désastreux et humoristique. D’autant plus pénible qu’il fut roulé par un génois. Mais de cela il n’en garda pas rancune aux italiens. [N. d. A.].



Marco Stupazzoni