mercoledì 31 luglio 2019



1935

 


 

Traduzioni.

 

 

  O. de Balzac, La Cugina Betta, Torino, Edizioni A. B. C. (Tipografia Ditta Fratelli Pozzo), 1935 («Collana Resurgo»), pp. 484.

 

  Questa traduzione (anonima) di La Cousine Bette, fondata sul testo dell’edizione definitiva Furne (1848), è lontana dal potersi definire soddisfacente per le eccessive libertà che il compilatore si prende col testo balzachiano nel corso di tutta l’opera. Un esempio è dato dalla traduzione della prima pagina del romanzo:

 

  p. 55 [Cfr. Balzac, La Cousine Bette, a cura di Anne-Marie Meininger, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1977, t. VII].

 

  La physionomie de ce capitaine appartenant à la deuxième légion respirait un contentement de lui-même qui faisait resplendir son teint rougeaud et sa figure passablement joufflue. A cette auréole que la richesse acquise dans le commerce met au front des boutiquiers retirés, on devinait l'un des élus de Paris, au moins ancien adjoint de son arrondissement. Aussi, croyez que le ruban de la Légion-d’Honneur ne manquait pas sur la poitrine, crânement bombée à la prussienne. Campé fièrement dans le coin du milord, cet homme décoré laissait errer son regard sur les passants qui souvent, à Paris, recueillent ainsi d’agréables sourires adressés à de beaux yeux absents.

  Le milord arrêta dans la partie de la rue comprise entre la rue de Bellechasse et la rue de Bourgogne, à la porte d'une grande maison nouvellement bâtie sur une portion de la cour d’un vieil hôtel à jardin. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 5. La fisionomia di quel capitano appartenete alla 2a legione, denotava un essere soddisfatto di se medesimo, si indovinava in lui uno degli eletti di Parigi, per lo meno un ex-aggiunto del suo dipartimento. E naturalmente non mancava sul suo petto, spavaldamente eretto alla prussiana, il nastro della Legione d’Onore.

  La vettura si fermò nella parte della strada compresa fra le vie Bellechasse e di Borgogna, alla porta di una casa recentemente costruita su di una parte del cortile di un vecchio palazzo.

 

 

  O. de Balzac, Il Cugino Pons, Torino, Edizioni A. B. C. (Tipografia Ditta Fratelli Pozzo), 1935 («Collana Resurgo»), pp. 404.

 

  Nonostante qualche libertà stilistica presa dall’anonimo compilatore, la traduzione (esemplata sul testo dell’edizione Furne, 1848) può ritenersi, nel complesso, adeguata.

 

 

  Onorato Balzac, Modesta Mignon. Romanzo, Milano, Edizioni «Aurora» (Tip. Lucchi - Milano), 1935 («Collana romantica»), pp. 288.

 

  La presente versione italiana di Modeste Mignon si fonda sul testo dell’edizione Furne (1845) e non sulla ultima versione del romanzo controllata da Balzac (Furne corrigé), come testimonia la traduzione dell’incipit: «Verso la metà del mese di ottobre 1829 […]», modificato da Balzac, nel testo del “Furne corrigé”, in: «Au commencement du mois d’octobre 1829 […]».

  Nel complesso corretto, il testo italiano presenta, in alcuni punti, errori di trascrizione come, ad esempio, a p. 7, dove la «Pysiologie du mariage» è erroneamente reso in: «Psicologia del Matrimonio».

 

 

  Onorato di Balzac, Papà Goriot. Traduzione integrale di Mara Fabietti, Sesto San Giovanni (Milano), Edizioni «A. Barion» della Casa per Edizioni Popolari - S. A. (Tip. Casa per Edizioni Popolari S.A.), 1935, pp. 312.

 

  La traduzione che Mara Fabietti fornisce di Le Père Goriot si basa sul testo dell’edizione Furne (1843) e può ritenersi corretta e rispettosa del modello balzachiano.

 

 

  Onorato Balzac, Papà Goriot. Traduzione di A. Bassani, Milano, Edizioni “Aurora” (S.A. Locatelli, Sommaruga, Monesi), (febbraio) 1935, pp. 286.

 

  A differenza dell’opera precedente, questa versione italiana di Le Père Goriot, che A. Bassani redige sulla base del modello dell’edizione Furne, non merita certo di essere ricordata per rispetto e fedeltà nei confronti del testo balzachiano. Valga, come esempio, questa citazione tratta dall’incipit del romanzo:

 

  p. 49. [Cfr. Balzac, Le Père Goriot, a cura di Rose Fortassier, in La Comédie humaine … cit., 1976, t. III].

 

  Madame Vauquer, née de Conflans, est une vieille femme qui, depuis quarante ans, tient à Paris une pension bourgeoise établie rue Neuve-Sainte-Geneviève, entre le quartier latin et le faubourg Saint-Marceau. Cette pension, connue sous le nom de la Maison Vauquer, admet également des hommes et des femmes, des jeunes gens et des vieillards, sans que jamais la médisance ait attaqué les mœurs de ce respectable établissement. Mais aussi depuis trente ans ne s’y était-il jamais vu de jeune personne, et pour qu’un jeune homme y demeure, sa famille doit-elle lui faire une bien maigre pension. Néanmoins, en 1819, époque à laquelle ce drame commence, il s’y trouvait une pauvre jeune fille. En quelque discrédit que soit tombé le mot drame par la manière abusive et tortionnaire dont il a été prodigué dans ces temps de douloureuse littérature, il est nécessaire de l’employer ici : non que cette histoire soit dramatique dans le sens vrai du mot; mais, l’œuvre accomplie, peut-être aura-t-on versé quelques larmes intra muros et extra. Sera-t-elle comprise au-delà de Paris ? le doute est permis. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 5. La vecchia signora Vauquer, nata Couplans, da quarant’anni tiene a Parigi una pensione borghese situata in via Neuve-Sainte-Geneviève, tra il Quartier Latino e il sobborgo di Saint-Marceau. Questa pensione, conosciuta col nome di «Casa Vauquer», accoglie ugualmente uomini e donne, giovani e vecchi, né mai la maldicenza ha osato attaccarne i buoni costumi.

  Da trent’anni però non si era mai visto un giovane, e tra questi vi si fermava soltanto colui che potesse disporre di un ben magri stipendio. Tuttavia nel 1819, epoca in cui ha inizio questo dramma, vi si trovava un’infelice giovinetta.

  Sebbene la parola dramma, abbia perduto molto del suo valore, per l’uso erroneo ed eccessivo nella letteratura decadente di questi tempi, deve necessariamente essere usata qui: non che questa storia sia drammatica nel senso vero e proprio della parola, ma, ad opera finita, si sarà forse versato qualche lacrima intra muros et extra.

 Sarà essa capita anche fuori di Parigi? Si può dubitarne.

 

 

  Onorato Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Romanzo, Milano, Edizioni S.A.C.S.E., 1935, pp. 254.

 

  Si tratta della medesima traduzione del romanzo di Balzac pubblicata, nel 1933, dalla S. A. Elit di Milano.

 

 

  Onorato Balzac, Storia dei Tredici. Scene della vita parigina. Ferragus. La duchessa di Langeais. La ragazza dagli occhi d’oro, Milano, Casa Editrice Sonzogno, 1935 («Collezione Sonzogno», 18), pp. 315.

 

  Cfr. 1903 e successive ristampe.

 

 

  Onorato Balzac, Vautrin. Romanzo, Milano, Edizioni S.A.C.S.E. (S.A. Locatelli, Sommaruga, Monesi), (ottobre) 1935, pp. 255.

 

  Anche in questo stesso caso, è riproposta la medesima traduzione della quarta parte di Splendeurs et misères des courtisanes pubblicata a Milano da S. A. Elit nel 1933. 

 


 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Giurisprudenza della Cassazione. A. Sentenze, «La Giustizia penale Parte quarta. La procedura», Roma, Anno XLI, Volume XLI (I della 5° Serie), 1935, pp. 304-305. 

 

  f) il condannato per decreto. Pare impossibile che un condannato, sia pure per decreto, non sia imputato. […]. Che. se la condanna per decreto, per decorrenza di termini, diventerà esecutiva, avremo un condannato che non è mai stato imputato.

. Meglio ricorrere ai romanzieri per avere una più esatta, più umana e. diciamola pure, più giuridica definizione dell’imputato Ascoltiamo il grande Balzac (Splendori e miserie delle cortigiane, pag. 270 della traduzione italiana Treves):

  «Notate quest’espressione d’«imputati». Il nostro codice ha creato tre distinzioni essenziali nella criminalità: imputazione, prevenzione, accusa. Finché non è firmato il mandato d’arresto. i presunti autori d’un reato comune o d’un grave misfatto sono degli «imputati»; sotto il peso del mandato d’arresto, essi divengono dei «prevenuti», e rimangono puramente e semplicemente prevenuti finchè prosegue l’istruttoria. Terminata questa, non appena il Tribunale ha giudicato che i prevenuti dovevano esser deferiti alla Corte, essi passano allo stato d’«accusati», allorquando la Corte reale ha giudicato, dietro richiesta del Proc. Gen., che vi sono estremi sufficienti per tradurli in Corte d’assise. Quindi, le persone sospettate d’un reato passano per tre stati differenti, per tre crivelli, prima di comparire davanti a quella che si chiama la giustizia del paese. Nel primo stato, gli innocenti posseggono una massa di mezzi di giustificazione: il pubblico, la guardia, la polizia. Nel secondo stato, essi sono davanti a un magistrato, confrontati a testimoni, giudicati da una Sezione di Tribunale a Parigi, o dall’intero Tribunale nei dipartimenti. Nel terzo, essi compaiono davanti a dodici consiglieri, e la sentenza di rinvio davanti alla Corte d’assise può, in caso di errore o per difetto di forma, essere deferita dagli accusati alla Corte di cassazione.

  Il giurì non sa quante autorità popolari, amministrative e giudiziarie esso schiaffeggia, quando manda liberi degli accusati. Quindi, secondo noi, a Parigi (non parliamo delle altre giurisdizioni), ci sembra molto difficile che un innocente segga mai sulle panche della Corte d’assise».

 

 

  Notizie della ribalta. Scrittori, commedie, interpreti …, «Il Regime fascista», Cremona, Anno XIII, N. 24, 27 Gennaio 1935, p. 3.

 

  «Mercadet», la migliore delle commedie di Balzac, scritta verso il 1840, sarà riesumata dalla Compagnia Tofano-Rissone-De Sica.

 

 

  I «lunedì letterari» di San Remo. Una conferenza di René Benjamin, «Corriere della Sera», Milano, Anno 60, N. 49, 26 febbraio 1935, p. 6.

 

San Remo, 25 febbraio, notte.

 

  Oggi René Benjamin, l’autore della «Vita di Balzac», considerato uno dei più sentimentali e brillanti oratori francesi, ha parlato per i consueti «lunedì letterari» riassumendo le lettere d’amore che Onorato di Balzac scrisse alla polacca Madame Hanska. L’oratore ha dimostrato che, pur vivendo gli innumerevoli personaggi dei suoi celebrati romanzi, Balzac non ebbe che un ideale amoroso, e la sua vita fu tutta una battaglia poiché la grandezza dell’animo suo si dibatteva nella miseria del corpo. La conferenza culminò in una simpatica calorosa manifestazione italo-francese.

 

 

  I «lunedì letterari» di San Remo. Una conferenza di René Benjamin, «Il Regime fascista», Cremona, Anno XIII, N. 40, 26 Febbraio 1935, p. 5.

 

  Nessun «lunedì letterario» come l’odierno, ha mai riunito, nel teatro del Casino Municipale, tanto pubblico cosmopolita nel quale si notavano accademici, scrittori musicisti e personalità politiche straniere. Ciò si spiega con l’annunzio che René Benjamin, autore della vita di Balzac, considerato uno dei più sentimentali e brillanti oratori francesi, avrebbe parlato nel suo idioma. René Benjamin per oltre un’ora ha dilettato l’imponente uditorio riassumendo, con sentimento squisito, con espressioni a volte mordaci e a volte commoventi e delicate, le Lettere di amore che Onorato di Balzac scrisse per quindici anni consecutivi alla polacca Madame Hanska, facendo rivivere i suoi amori e dimostrando come la sua vita non abbia avuto che ideali amorosi e sia stata tutta una battaglia perché la grandezza dell’animo suo si dibatteva nelle miserie del corpo.

  La magnifica conferenza è culminata in una calorosissima dimostrazione italo-francese.

 

 

  Balzac in una conferenza di Benjamin, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 49, 26 Febbraio 1935, p. 4.

 

  L’odierno lunedì letterario ha riunito nel teatro del Casino Municipale un pubblico imponente e cosmopolita nel quale si notavano accademici, scrittori, musicisti e personalità politiche straniere. Ciò si spiega con l’annuncio che René Benjamin autore della Vita di Balzac considerato uno del più sentimentali e brillanti oratori francesi avrebbe parlato nel suo idioma.

  Il Benjamin per oltre un’ora ha dilettato l’imponente uditorio.

  La magnifica conferenza culminò in una simpatica e calorosa manifestazione italo-francese.

 

 

  Asterischi, «Enotria. Rivista vinicola d’Italia», Milano, Anno XXIV, N. 3, Marzo 1935, p. 160.

 

  Un giorno Balzac e Dumas andarono a pranzare al ristorante insieme e ordinarono una bottiglia. Bevettero a turno, con entusiasmo, finché la bottiglia contenne un solo bicchiere di vino. Senza complimenti, Balzac se lo vuotò e bevette. Dumas, subito risentito osservò all’autore della «Commedia umana»: se mi fossi servito io da bere mi sarei accorto che vino ce n’era per uno solo e l’avrei lasciato a voi rimanendo senza.

  — E non siete voi rimasto senza, dunque! ... -— rispose sorridendo caustico, scrollando le chiome ribelli, Onorato di Balzac.



  Commenti e notizie letterarie. Un epistolario inedito di Balzac, «Le Opere e i Giorni. Rassegna mensile di politica – lettere – arti – etc.», Genova, Anno XIV, N. 4, 1° Aprile 1935, pp. 67-68.

 

  Vedono la luce in questi giorni a Parigi la corrispondenza, fino ad oggi inedita, di Honoré de Balzac e Mme Zulma Carraud (Colin ed.). Di queste lettere dà notizia André Maurois in The New York Times (febbraio 10) ricordando che la signora Zulma Carraud, moglie di un ufficiale di artiglieria, fu per tutta la vita buona amica, e non amante di Balzac. Balzac era affezionato alla casa dei Carraud a Saint-Cyr; fu lì che sentì raccontare molte delle storie del Colonel Chabert e del Médecin de campagne; e la casa dei Carraud ad A[n]goulême gli fornì lo sfondo a molti dei caratteri delle Dernièrs illusiones (sic). Fu in casa Carraud infine che egli scrisse Louis Lambert (e com’è noto in una sola notte) La Grendière.

  Zulma Carraud era anzitutto un’amica della sorella di Balzac, Laura; e per tutta la vita, amò quietamente suo marito. Pur essendo una borghesina, non mancava di intelligenza e di sensibilità ed è probabile che sentisse qualche cosa di più che della semplice amicizia per Balzac; era molto meravigliata o dispiaciuta delle idee monarchiche del romanziere, e le attribuiva alle manovre delle marquises di cui era gelosa.

  Per lei Balzac, quando conosceva meno le marquises e scriveva, La grenadière «aveva meno spirito e più cuore».

  Forse Balzac sarebbe vissuto più a lungo e più felicemente se avesse sposato Zulma Carraud. Ma, conclude Maurois, in questo caso non sarebbe stato Balzac. E questa fu la tragedia di Zulma Carraud.

 

 

  Victor Hugo “principe dei reporter”, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 83, 6 Aprile 1935, p. 3.

 

  [A proposito di una recente edizione di Choses vues].

 

  Nel tomo II […], una Morte di Balzac, prodigiosa, ove tutto è caratterizzato in qualche modo, dal mobilio dell’albergo della via Fortunée al colore del cadavere e al genio del grande romanziere, dell’altro titano.

 

 

  Verso la resipiscenza?, «Corriere della Sera», Milano, Anno 60, N. 128, 29 maggio 1935, p. 1.

 

  Le società, fondate su principi moralistici, non devono lasciar insorgere il dubbio che il loro scrupoloso funzionamento sia ispirato da interessi privati. Balzac scrisse in uno dei suoi corrosivi paradossi che «la virtù è una organizzazione». E non è vero. Ma è vero che molto spesso le false virtù, i falsi scrupoli morali si organizzano ai danni degli ingenui.



 Cronache di vita e cultura femminile. Olimpia Pélissier, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CVC, N. 182, 1 Luglio 1935, pag. II.

 

 Balzac si vendicò egli pure tratteggiando nella contessa Fedora della sua «Peau de Chagrin» il carattere e i tratti della bella Olimpia. Ma questa non se ne dolse; le sue lettere a Balzac della collezione Lovenjoul, che vanno dal 1831 al 1835 ce la mostrano sempre civettuola e terribilmente stuzzicante; ma niente amore fra i due. A poco a poco si strinse invece una franca amicizia.

 

 

  Il mondo letterario. Ritorna Balzac, «L’Italia Letteraria», Roma, Anno IX, N. 32, 11 agosto 1935, p. 6.

 

  Marcel Bouteron, che è una competenza oramai sulla figura artistica di Honoré de Balzac e la sua opera, si è accinto a darci un’edizione di questo scrittore corredata di prefazioni, note e commenti quali egli solo è in grado di fornirci. La “Pléiade” pubblica oggi due primi volumi della “Comédie Humaine” (che uscirà in numero complessivo di dieci volumi) con una prefazione sua che è una perfezione di esegetica balzachiana. Può interessare i nostri lettori il seguente brano, a proposito del ritorno degli stessi personaggi nei romanzi che compongono questo ciclo:

  “Il ritorno perpetuo degli stessi personaggi da un romanzo all’altro de “La Comédie humaine”, le ricomparse ossessionanti di Vautrin, Rastignac, Gobseck — per non parlare che delle figure principali — costituisce uno dei processi più interessanti della tecnica balzachiana. La sua scoperta non sembra anteriore al 1833, ma l’autore la mette in pratica solo nel 1834, come primo tentativo ne “La femme de trente ans” e poi come sistema ne “Le père Goriot”. Ne possiamo dedurre che questo procedimento è nato dopo che Balzac ebbe iniziato la sua attività letteraria, quale frutto delle sue meditazioni, del suo bisogno di organizzare ed armonizzare una produzione che diventava ogni giorno più abbondante e varia. “Non basta essere un uomo — egli scriveva infatti bisogna diventare un sistema”. Nel 1833 Balzac ha già prodotto un buon numero di opere, legate bensì le une alle altre da un legame, ma così tenue che sfugge agli occhi della critica e del pubblico. Difatti il giudizio corrente su di esse è che Balzac ha creato dei romanzi disparati, che sono piuttosto delle novelle divertenti. Balzac ne è punto sul vivo. Sebbene ancora confusamente, egli sente che quei romanzi, quelle novelle sparse, sono le prime pietre di un grandioso monumento futuro. Ed ecco che un bel mattino — secondo quanto ci ha lasciato scritto Laure, sua sorella egli ha improvvisamente la rivelazione del piano, grandioso secondo il quale raggrupperà e coordinerà il materiale disperso, ed allora un canto di vittoria esce dal suo petto, in note irrefrenabili che Laura, attonita, ascolta religiosamente. Sì, egli avrebbe fatto quel che Walter Scott aveva omesso di fare: avrebbe collegate le une alle altre le sue composizioni passate e future, in modo da formarne una storia completa, ogni capitolo della quale sarebbe stato un romanzo. “La società francese – egli scrive — sarà lo storiografo, io non sarò che il segretario ...”. Così, per rendere più evidente il legame fra le scene che componevano l’insieme, Balzac immaginò di farvi comparire gli stessi personaggi, di unificare per mezzo del loro ritorno incessante nella varietà infinità della cornice, il dramma gigantesco che mette in azione tutto un mondo sociale. Balzac, inquadrando la sua opera in un piano generale, le conferiva un’unità per così dire esteriore, superficiale; quindi, animandola di una figurazione unica, ha completato questa unità apparente con un’unità iniziale ed organica.

 

 

  Olimpia Pèlissier (sic), «La Gazzetta di Puglia. Corriere delle Puglie», Bari, Anno XLIX, N. 140, 12 giugno 1935, p. 3.

 

  Fu in quell’ambiente, dove Olimpia troneggiava, che un giorno E. Sue introdusse Onorato Balzac. Il Balzac prese subito fuoco per la bella ospite e si mise a farle una corte spietata e assidua. Olimpia non se ne commosse. Questa donna fredda che aveva testa e non cuore, aveva rigorosamente fissato la curva del suo destino, e nulla l’avrebbe fatta defettere. Che cos’era Balzac allora? Un romanziere di terz’ordine, un giornalista carico di debiti: il matrimonio con lui sarebbe stato un buon affare per lui, non per lei. E la fiera Olimpia non pensava affatto a fare la felicità degli uomini che la circondavano. Aveva già avuto delle scene disgustose con Horace Vernet al quale l’univa un’antica relazione, ed egli si era vendicato di lei prendendola a modello per il suo quadro «Giuditta e Oloferne» che figurò ai Salone del 1831. Il pittore aveva reso in modo attraente il carattere di durezza imperiosa di quel bel viso femminile pieno di sprezzo. Ora Olimpia non voleva nulla più di tutto ciò.

  Balzac si vendicò egli pure tratteggiando nella contessa Fedora della sua «Peau de Chagrin» il carattere e i tratti della bella Olimpia. Ma questa non se ne dolse: le sue lettere a Balzac della collezione Lovenjoul, che vanno dal 1831 al 1833 ce la mostrano sempre civettuola e terribilmente stuzzicante; ma niente amore fra i due. A poco a poco si strinse invece una franca amicizia.



  Girovagando. Enciclopedia degli aneddoti. Una lettera non consegnata, «Ultime notizie. Il Piccolo delle ore diciotto», Trieste, Anno XIII, 7 agosto 1935, p. II.

 

  Il barone Giacomo Rothschild, era grande amico di Balzac. Una volta il romanziere si recò dal barone Rotschild perché voleva fare un viaggio a Vienna e si trovava, come al solito, senza denari. Rothschild gli presto tremila franchi e gli diede una lettera di raccomandazione per suo nipote, capo della casa Rothschild a Vienna.

  Durante il viaggio, Balzac aprì la lettera suggellata e la lesse, ma trovandola un po’ fredda non la consegnò. Ritornato a Parigi, il barone Giacomo gli domandò se aveva consegnato la lettera.

        No — rispose con orgoglio Balzac — l’ho ancora qui; eccola!

        Mi dispiace, soggiunse sorridendo Rothschild, perché, vedi questo piccolo geroglifico sotto la mia firma? E’ un segno convenzionale che ti apriva un credito di venticinquemila franchi presso mio nipote.

 

 

  Lope de Vega l’esaltatore della vita e dell’ardimento, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 215, 9 Settembre 1935, p. 3.

 

  Nella ma inesauribile attività e nell’incessante fecondità Lope de Vega ricorda un altro grande scrittore: il Balzac; e come lui era un vero gaudente: capace di sperperare in poco tempo tutto quel denaro faticosamente guadagnato, in tante ore di lavoro notturno, sotto l’assillo creatore del genio. Per l’uno e per l’altro una grande passione fu l’«eterno femminino».

 

 

  Il Bandello commemorato di Antonio Baldini a Tortona, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 243, 11 Ottobre, 1935, p. 3.

 

  Egli ha osservato che la potenza dello stile e della fantasia del grande scrittore, se coltivata in modo diverso, avrebbe potuto oscurare lo stesso Balzac.

 

 

  Teatro, «L’Illustrazione Italiana», Milano, Anno LXII, N. 42, 20 Ottobre 1935, pp. 711-712.

 

  p. 711. Il celeberrimo personaggio balzacchiano di Mercadet si appresta a fare la sua riapparizione così sulle scene italiane come su quelle francesi: da noi in una riduzione scenica di Alessandro De Stefani, affidata all’attore Sergio Tofano: a Parigi in un adattamento di Charles Dullin dal titolo Le faiseur. Di questo sarà regista ed interprete lo stesso Dullin all'Atelier.

 

 

  Teatro, «L’Illustrazione Italiana», Milano, Anno LXII, N. 43, 27 ottobre 1935, pp. 842-844.

 

  p. 843. La Compagnia di Antonio Gandusio rappresenterà, nel prossimo novembre, al Quirino di Roma, una nuova riduzione scenica di Eugenio Gara del Mercadet di Balzac. Gandusio impersonerà la figura del celeberrimo affarista. Il lavoro verrà rappresentato con fedeli pittoreschi costumi dell'’poca.

 

 

  La vita teatrale. Nel nostro Salone. Lo spettacolo inaugurale di mercoledì prossimo, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 287, 2 Dicembre 1935, p. 3.

 

  Mercoledì 4 dicembre, alle ore 16, inaugureremo il nostro teatrino. Allo spettacolo inaugurale parteciperà un eletto gruppo di attori che attualmente agiscono in vari teatri torinesi. Antonio Gandusio, con i suoi compagni, — la Baghetti, la Carli, il Sormano, il Campi, il Carloni, la Sani, la Seripa — presenterà, come abbiamo annunciato ai nostri amici il primo atto di Mercadet, la commedia di Eugenio Gara (da H. di Balzac), alla quale l’egregio attore, uno dei beniamini più cari alle folle torinesi, ha legato la sua arte con una personalissima interpretazione.

 

 

  Carignano. Stasera: “Mercadet” nell’interpretazione di Gandusio, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 291, 6 Dicembre 1935, p. 3.

 

  Stasera al «Carignano», la compagnia di Antonio Gandusio riesumerà «Mercadet» di Balzac, nella traduzione italiana di Eugenio Gara. Questo capolavoro teatrale balzacchiano, che il Gara, traducendolo opportunamente, ha reso più vicino al nostro tempo, fu abbozzato nel 1838 e rappresentato nel 1851, cioè un anno dopo la morte di Onorato di Balzac. La commedi era in origine in cinque atti, ma talmente densa di situazioni, che la realizzazione scenica appariva quasi impossibile. Fu il Dennery che, con opportuni tagli, e riducendola in tre atti, la presentò nel 1851 alla «Comédie Française». Il successo fu grandissimo. In Italia fu recitata da Giovanni Emanuel che vi apparve interprete fortissimo; poi fu tentata da Ettore Paladini, durante i primi anni della guerra, all’«Argentina» di Roma, ma il tentativo passò inosservato. Gandusio ne affidò la nuova, versione a Eugenio Gara, scrittore e attore, che, essendo amico personale di Gandusio ne conosce ogni possibilità e risorse interpretative Ma, per qualche anno, pure studiando la parte e il carattere, il Gandusio non osò portare il «Mercadet» sulla scena: gli pareva, un ardimento da cui la sua probità artistica rifuggiva; ma in questo anno l’interpretazione era, ormai maturata: due mesi di prove intense, accurate, finalmente Gandusio potè apparire in «Mercadet», sulla, scena del «Quirino» di Roma, dove ottenne un ottimo successo. Stasera il pubblico torinese assisterà quindi a un vero spettacolo d’arte, che non mancherà di destare il più vivo interesse.

 

 

  Carignano. Il successo di Mercadet, «La Stampa della Sera», Torino, Anno 69, Num. 292, 7-8 Dicembre 1935, p. 3.

 

  Al «Carignano» ieri sera, la Compagnia Gandusio ha riesumato Mercadet di Onorato di Balzac.

  Il pubblico ha seguito questa celebre, e quasi mai rappresentata, commedia di Balzac – tradotta da Eugenio Gara – con la curiosità più viva, con interessamento che, salvo qualche tratto qua e là, potremmo dire ininterrotto, anzi crescente. Antonio Gandusio ha dato a Mercadet tratti, accenti di sottile birbanteria, di astuzia nascosta e canzonatrice, sfacciata e cauta, che hanno ottenuto effetti penetranti. Egli è stato insinuante e aggressivo, bonario e prepotente, sfuggente e audace, con una misurata linea scenica, con un mordente e una vivacità di eccellente rilievo. Molti applausi hanno coronato questa sua interessante interpretazione. Colorita la messa in scena, divertenti gli altri attori. E ad ogni atto calorosi applausi. […].

 

 

  A teatro. Carignano. Domani sera un’altra novità: “Carolina, o il treno per Venezia”, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 293, 9 Dicembre 1935, p. 3.

 

  Al Carignano, nuove festose accoglienze, ieri pomeriggio e in serata, alla divertente commedia di Balzac «Mercadet», nella magistrale interpretazione di Antonio Gandusio e dei suoi ottimi collaboratori.

 

 

  Cose dette. Balzac, i viaggi e il pianoforte, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 304, 21 Dicembre 1935, p. 3.

 

  Nel 1847 il celebre autore della «Comédie humaine» attraversava la Germania per recarsi a visitare l’amica contessa Rzewuska a Wierzchownia nell’Ucraina: viaggio, per quell’epoca, lungo e disagevole durante il quale il grande romanziere dovette più volte passare dalla ferrovia alla diligenza e alla carrozza. Siccome poi non sapeva il tedesco, gli occorsero tutte sorte d’incidenti non precisamente graditi. Ciononostante egli intuì perfettamente quale sarebbe stato lo sviluppo futuro delle comunicazioni.

  Nelle pagine dedicate a quel viaggio e pubblicate soltanto pochi anni or sono si legge: «I nostri nipoti non potranno mai misurare a quali seccature questi tronconi di linee ferroviarie esposero i loro avi: essi troveranno un’Europa così accuratamente fasciata d’acciaio come un immenso pianoforte ordito di corde. Non avranno che sedersi sopra uno qualunque dei suoi tasti e la ferrovia li lancerà a destinazione, esattamente come un pianista sa ottenere la nota voluta».



 N. A., «Madonna Imperia» di Franco Alfano, «Radiocorriere. Settimanale dell’Ente italiano audizioni radiofoniche», Torino, Anno XI, N. 35, 25-31 Agosto 1935, p. 11.

 

 Ispirandosi ad uno degli intrecci di quei Contes drolatiques dell’autore di quell’immenso arazzo di studi di costumi che è la Commedia umana, gli autori di Madonna Imperia — un poeta dal gusto finissimo e un musicista dalla più viva passionalità e dalla più raffinata sensibilità, insieme, Arturo Rossato, cioè, e Franco Alfano — non potevano, senza recar pregiudizio all’opera cui si accingevano, non astrarsi dall’atmosfera che forse è la sola ragion d’essere del racconto boccaccesco, che reca tutto il sapore dell’arte balzacchiana: quell’atmosfera che è fatta di beffarda sarcasticità, la quale non poteva trasportarsi in un’opera di poesia destinata a rivestirsi di morbidi veli di melodie e di armonie.

 Ed è così che quella che in fondo non era che la beffa di un subalterno ai superiori, beffa compiuta con la complicità, la chiameremo così, d’una bellissima femmina che cede al capriccio d’una mezz’ora, diventa la storia gentile d’un sogno di giovinezza e di purezza che s’affaccia, per un attimo, al cuore di una cortigiana che forse non aveva mai conosciuto fino ad allora l’amore.

 Del racconto balzacchiano non restano in piedi, oltre alla bella e luminosa protagonista, che il giovane Filippo e il buon Vescovo di Bordò, che giunge all’ultima scena per concludere, con una sua frase innocente e fiduciosa e, a sua insaputa, così ironica e beffarda, l’allegra vicenda. [...].



 Lucio d’Ambra [Renato Eduardo Manganella], I romanzi del patriarcato. Anime in sottordine. Romanzo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore. 1935.

 

II.

I messi della legge. 

 p. 21 [Edizione del 1944]. «Asino che sei, Sigfrido mio! Tu parli come un critico o come uno di quei pittori senz’estro che stentan la vita sopra un solo capolavoro illusorio. Tu non lo conosci – hai proprio tempo da perdere, tu, con la lettura! – un racconto di Balzac che si chiama Il Capolavoro sconosciuto. È la storia d’un pittore che vuole la meraviglia del quadro unico ed immortale e a furia di dipingere e ridipingere su quei due metri quadrati per tutta la vita s’accorge un giorno di non avere, spennellando il giorno intero, dipinto altro che il nulla … Io [Innocenzo Bronte] no. Io son nato per dipingere per davvero».

 

 

  Lucio d’Ambra, Letture, «Corriere della Sera», Milano, Anno 60, N. 12, 14 gennaio 1935, p. 3.

 

  Degli altri non so. So di me. E sì. Romanziere, io non leggo romanzi. Non già che io non ritorni sovente alle pagine dei nostri grandi maestri, da Balzac, lettura mia d’ogni giorno, al caro e saggio Manzoni che non s’è mai letto abbastanza nelle righe e tra le righe. […].

  Come saranno meno dolorose per te, scrittore mal ricompensato dalla gloria e dal denaro, le tue giornate di fatica e di ansia se potrai paragonarle alle folli notti di Balzac per far fronte ai creditori uccidendosi di lavoro a cinquant’anni appena e a stento raccogliendo tra gli uomini del suo tempo, lui genio immortale, una rinomanza da romanziere di second’ordine da potersi tutt’al più paragonare con Eugenio Sue ...

 

 

  Lucio d’Ambra, Antologia dell’amore per Roma. Il “Cardinalino” e Maria Bashkirtseff, «Corriere della Sera», Milano, Anno 60, N. 56, 6 marzo 1935, p. 3.

 

  L’immaginazione sintetica dei posteri si accontenta di poter riassumere tutto Goethe vedendolo disteso sotto un pino decorativo nell’immensità della campagna romana, tutto Byron evocandolo nelle sue galoppate adriatiche su la gialla spiaggia del Lido, tutto Balzac fermandolo nella stanza notturna dove, vigile in mezzo a Parigi addormentata, egli aggiunge un popolo di fantasia a tutt’un popolo vero.



  Lucio d’Ambra, L’arte di vivere secondo Rossini, «Radiocorriere», Torino, Anno XI, N. 13, 24-30 Marzo 1935, p. 8.

 

  A tutto era pronto a rinunziare, ma non alla tavola. E quando una sera Balzac, spiegando la furia del suo lavoro disse davanti a lui che per scrivere troppi libri non gli restava certi giorni neppure il tempo di mangiare, Rossini si volse ad un amico e sottovoce domandò:

  «Ma allora, se non mangia, perché scrive?».

 

 

  Lucio d’Ambra, I “ponti”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 60, N. 297, 13 dicembre 1935, p. 3.

 

  Da Rousseau discendono tutti coloro che hanno proclamato, per un secolo e più, che un bel quadro o un bel libro son belli in ogni Paese e che però gli uomini, scambiandosi questi doni di Dio, dovevano spiritualmente arricchirsi. Senonché, se non è possibile disconoscere che un arricchimento spirituale si produce veramente quando la nostra personalità viene ad essere rinforzata da elementi che le erano estranei e se è giusto affermare che il più francese degli scrittori, il grande Balzac, fu arricchito dall’influenza di Walter Scott ch’egli riconosceva come «un trovatore moderno che imprimeva un’andatura gigantesca ad un genere di componimento, il romanzo, fino allora ritenuto ingiustamente secondario», il pericolo delle influenze straniere su lo spirito nazionale è nell’eccesso dei loro apporti, i quali possono giungere a snazionalizzare interamente uno spirito.

 

 

  F.[ilippo] Àmpola, Recensioni. Critica letteraria. Paolo Arcari: “Balzac”, Brescia, Morcelliana, pp. 201, L. 8, «La Nuova Italia. Rassegna critica mensile della cultura italiana e straniera», Firenze, “La Nuova Italia Editrice”, Anno Sesto, Numero 6, 20 Giugno 1935-XIII, pp. 200-201.

 

  Le parole con cui l'Arcari dedica a Giuseppe Motta «nel nome del Manzoni questo libro sul Balzac» stanno a rivelare, alle soglie stesse dell’opera, con quale deposizione di spirito egli si sia accinto a scrivere questa sua nobilissima biografia.

  Disposizione di spirito — questa dell’Arcari — che sembra, a prima vista, la meno atta a una integrale comprensione di uno scrittore come il Balzac.

  Se c’è una figura di uomo e di artista, infatti, opposta a quella del Balzac, essa è proprio quella del nostro Manzoni, di cui l’Arcari è così fervido e antico ammiratore, e il cui nome ricorre spesso, per ragioni, diremo, di contrasto, nel libro, come a segnare una piega e un atteggiamento mentali completamente diversi. I due nomi che l’ironia delle umane cose ha voluto riunire sotto la stessa bandiera del romanticismo, possono piuttosto mettersi l’uno di fronte all’altro come espressione di due concezioni della vita e dell’arte addirittura antitetiche.

  Teso tutto alla conquista del mondo esteriore; perduto dietro «un sogno dello sfrenato e dell’immenso», come disse il Croce; figura di «visionnaire passionné», come apparve al Baudelaire; torbido e disuguale; privo di quel superiore senso di euritmia che è la dote essenziale del Manzoni, il Balzac ci apparisce come figura tipicamente rappresentativa di quella borghesia francese venuta dalla rivoluzione, per la quale il fenomeno religioso resta sempre ai margini della vita dello spirito, senza impegnare a fondo le forze più vitali dell’anima; strumento di governo, più che problema o conquista interiori.

  Basta opporre alla brutale presa di possesso che il Balzac fa del mondo che lo circonda la fine sensibilità del Manzoni, fatta tutta di sottile penetrazione; quel pudore segreto con cui egli si accosta alla vita dell'anima come ad una cosa sacra; quel suo sorriso benevolo e indulgente che è anche atteggiamento, sì, di superiorità spirituale, ma anche coscienza della pochezza umana, per vedere quale abisso divida i due scrittori del secolo passato.

  Studiare, dunque, come fa l’Arcari, la figura del Balzac, non semplicemente, come egli dice, «nel nome del Manzoni», ma con un atteggiamento che non sapremmo definire se non manzoniano, costituisce già, di per se stesso, una posizione psicologica quanto mai interessante e tale da destare subito nel lettore un senso di legittima curiosità.

  Quelli che si sono occupati della figura del Balzac, sono stati assai spesso soggiogati da questa forza della natura, come disse il Brunetière, e hanno sentito incombere su di loro non solo la sua opera massiccia, ma — vien fatto quasi di pensare — anche la sua stessa figura fisica colossale e titanica, quale apparisce dalla statua grandiosa del Rodin.

  Basti citare per tutti il Benjamin, autore de «La prodigieuse vie d’Honoré de Balzac», apparsa diversi anni fa, che il Neri chiama giustamente colorita e chiassosa, e il cui titolo così significativo rivela da solo la solita tendenza a dare risalto alle qualità già così prodigiose del Balzac.

  Ora l’Arcari, in questa sua biografia che, scarsissima di dati e di fatti, finisce, coll’essere quello che dovrebbe sempre essere ogni vera biografia, cioè una storia dello spirito dello scrittore e, implicitamente, una visione critica della sua opera, cerca, senza lasciarsi schiacciare, come alcuni dei suoi predecessori, dall’ombra colossale dello scrittore, di accostarsi con quel largo senso di simpatia umana di cui egli giudica largamente dotato il Balzac, all’anima del grande romanziere francese, attraverso un’inchiesta che vorremmo dire fraterna, tanto essa è penetrata da un’amorosa curiosità di conoscere il segreto di quella figura angosciosamente umana per quel tormento della sua brama inappagata che, malgrado il suo innato robusto ottimismo, lo accompagnò fino alla tomba.

  La vita del Balzac, dominata da «l’appetito delle cose esterne», da «l’ebbrezza delle cose esterne», dalla coscienza finale de «l’insufficienza delle cose esterne», apparisce così, attraverso il libro dell’Arcari, tutta palpitante di umanità, non più prodigiosa, come quella prospettataci dal Benjamin, ma piuttosto dolorosa e dominata da un alto senso di tragicità. E nulla è più atto a renderci l’immagine esatta di quella vita arsa da tutte le brame, perduta dietro i miraggi della Parigi del periodo post-rivoluzionario, e infine stanca e delusa, come le tre figure di Luciano di Rubempré, di Eugenio di Rastignac, di Raffaello di Valentin, che l’Arcari considera così originalmente come i tre volti del dramma dello scrittore.

  Atteggiamento manzoniano, si diceva; non solo per quello sforzo di umile, fraterna comprensione della figura dello scrittore da cui è animato tutto il libro, ma anche perché, tenendo lo sguardo costantemente rivolto al Manzoni, in cui egli vede realizzata quella pienezza di vita spirituale che fece difetto al romanziere francese, l’Arcari ha modo di illuminare, come avevano finora ben pochi fatto, e come egli aveva mostrato già di saper fare nei suoi profili del Manzoni stesso, del Pascal e dell’Amiel, certe pieghe riposte dell’anima di un artista, a prima vista così compatto, come il Balzac.

  Questo libro dell’Arcari, assieme all’altro recente e così interessante di Vittorio Lugli su Montaigne, sta a dimostrare, ancora una volta, quale profonda differenza divida la concezione nostra della biografia, intesa come storia drammatica di uno spirito, da quella francese, così legata, in generale, alle vicende della personalità pratica dello scrittore.

 

 

  F. B., Teatri e concerti. Al Carignano: “Mercadet”, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 292, 7 Dicembre 1935, p. 2.

 

  Il pubblico ha seguito questa celebre, e quasi mai rappresentata commedia di Balzac — tradotta da Eugenio Gara — con la curiosità più viva, con interessamento che, salvo qualche tratto qua e là, potremmo dire ininterrotto, anzi crescente. Non è il caso di parlare a lungo di questi tre atti, classificati ormai da un pezzo nei manuali letterari: ci basti rilevare ancora una volta la straordinaria vitalità del protagonista, il signor Mercadet. capostipite, o meglio, avo di tanti altri affaristi e avventurieri, poi comparsi sulle scene, e che ha in sé una così ricca complessità di sfumature, di atteggiamenti, sfiorata davvero, suscitata alla turbinosa evidenza di un’arte realistica e romantica insieme, dal genio balzachiano. Se la commedia non ha in sè quell’omogenea forza rappresentativa, quell’unità e agilità d’ispirazione, di fattura, che risolvono teatralmente i grandi fantasmi nati dall’osservazione e dalla poesia — la poesia del mondo del denaro che il Balzac sentiva con epico furore —; il personaggio di Mercadet, con le sue invenzioni, con quel doppio gioco, di ciarlatano e di illuso che gli conferisce una specie di lirica grandezza, basta da solo ad attrarre, a soggiogare gli spettatori. Mercadet imbroglia, inganna, immagina per i suoi inganni ed imbrogli le più inverosimili smargiassate: ma è tale la sua foga, il suo ardore, la su potenza fantastica nel sognare la ricchezza e i mezzi per conquistarla, che finisce col credere egli stesso alle sue immaginazioni: o per lo meno non sapreste dire fino a che punto la sua malafede sia calcolata, e quando diventi istinto, ispirazione, forza irresistibile. Perciò egli affascina i creditori sulla scena e il pubblico nella platea; per la sua umanità bizzarra, complicata, comunicativa oltre ogni dire. La serie delle sue trovate, i colpi di scena, la commedia ch’egli recita nella commedia, sono oltremodo divertenti: lo spettatore attende dal personaggio esattamente la gioia di effetti scenici ch’esso gli darà Ma v'è qualcosa che va oltre il divertimento estroso e curioso: è l’ombra tragica e burlesca che il piccolo uomo proietta dietro di sé, che lo fa a tratti giganteggiare. Una di quelle ombre che si alternano nette e decisive alle crude e balenanti luci del romanzo balzachiano. Antonio Gandusio ha dato a Mercadet tratti, accenti di sottile birbanteria di astuzia nascosta e canzonatrice, sfacciata e cauta, che hanno ottenuto effetti penetranti. Egli è stato insinuante e aggressivo, bonario e prepotente, sfuggente e audace, con una misurata linea scenica, con un mordente e una vivacità di eccellente rilievo. Molti applausi hanno coronato questa sua interessante interpretazione. Colorita la messa in scena, divertenti gli altri attori. E ad ogni atto calorosi battimani.

 

 

  Francesco Bernardelli, Narratori. Aldo Palazzeschi: “Sorelle Materassi”, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 33, 7 Febbraio 1935, p. 3.

 

  Quella lucidità compita, inesorabile di Remo. che conduce, che sentiamo condurrà sino al fondo la sua opera di distruzione; quel suo fare lieve, disinvolto, che irretisce le povere donne, le svuota d’ogni volontà; quella vicinanza della glaciale perfidia e di un turbato candore — tutto ciò mette nel cuore lo sgomento. E’ una sensazione forte; ci ha ricordato a tratti, e lo diciamo con tutta circospezione, la sensazione di certe pagine del Balzac, di un Ménage de garçon ad esempio. Questo giovanotto che non fa nulla — nulla più e nullameno del male necessario alla sua fortuna e al suo piacere che non commetterebbe la più piccola scorrettezza inutile, pur essendo capace di qualsiasi eccesso quando ciò gli convenga, questo giovanotto così padrone di sè, così simpatico e così repulsivo, è nella letteratura d’oggi una figura di primo piano.

 

 

  Bevil., Teatri e concerti. Boccascena. Il fischiatissimo Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 73, 26 Marzo 1935, p. 4.

 

  Non tutti sanno che Balzac è stato un fischiatissimo autore drammatico. Meglio così, hanno pensato i posteri, perché, forse, non si sarebbe avuto l’immortale ciclo della Commedia Umana. Anzi, per l’esattezza storica, bisogna precisare che fu proprio il primo parto teatrale che indusse Balzac a cambiare strada e votarsi al romanzo: giovanissimo, compose un Cromwell, che, ufficialmente letto ad amici e familiari, gli procurò una così solenne unanimità di catastrofici giudizi, da stracciare il copione.

  Il genio è follia, ha proclamato l’antropologia universale; in molti casi è, soprattutto, paranoia; e quella di Balzac fu una paranoia teatrale. Tutta la sua fulgida e sterminata gloria di romanziere non attenuò in lui l’idea fissa di far del teatro; restò incapponito dall’alba al tramonto, dall’adolescenza alla vecchiaia. Era un miraggio d’arte? Nient’affatto: fu sempre, al contrario, un miraggio economico. Balzac — e lo si sa bene — è stato uno degli scrittori più finanziariamente angustiati; i conti, nelle sue tasche, non tornavano mai; il dare prevalse costantemente sull'’vere; i suoi lettori furono legioni, i suoi creditori sono stati manipoli; subì processi e sequestri, obbligato spesso a cambiar di casa, e, più spesso, a celare l’indirizzo; così che, una volta, durante una crisi acuta, comunicò pubblicamente che la sua nova dimora era sotto l'albero venticinquesimo, a destra dei Campi Elisi.

  Orbene, come i comuni mortali, angosciati dal bisogno, puntano le supreme speranze su di una cartella di lotteria, Balzac le puntò usque ad mortem sul teatro; fidava più su di una commedia di successo che su dieci romanzi; vedeva nel teatro l’affare, un infallibile affare. Fischi e fiaschi non lo fiaccarono; la illusione sfavillò, sempre, purissima: bastava una nuova idea perché egli almanaccasse nuove cifre, le sommasse con un totale di ricchezza. «Ho un soggetto meraviglioso — parole di Balzac — un dramma nel quale avrà una parte Federico Lemaître. Successo assicurato, trionfo indiscutibile! Almeno centocinquanta rappresentazioni a cinquemila franchi ciascuna; settecentocinquantamila franchi. Al dodici per cento guadagnerò più di ottantamila franchi di diritti». Ed era come se gli ottantamila franchi li avesse avuti in tasca e dovesse provvedere a spenderli.

  La più amara esperienza non lo distolse. Due, tre commedie nemmeno ebbero il fiato di arrivare alla ribalta; due, tre altre, appena arrivate, furono sepolte. Ma non è il teatro un gioco di Borsa, un listino di titoli, un azzardo di speculazione? Non bisognava scoraggiarsi; dieci speculazioni possono fallire, l’undecima riuscire, ed ecco la salvezza. Assoldò persino un collaboratore, lo stipendiò e se lo fece vivere accanto come «produttore di soggetti»; lo martirizzò per un mese, svegliandolo in piena notte: «hai trovato?». Il produttore trovò un bel mattino la porta dalla quale, atterrito, non rientrare mai più. Balzac, ostinatissimo, si presentò anche ad Harel, il direttore della Porte Saint-Martin che stava per fallire e gli propose un suo Vautrin tolto dal romanzo che allora furoreggiava. Si combinò lì per lì e subito dopo Balzac era da Gautier a comunicargli: «Leggerò domani ad Harel un dramma in cinque atti». Il dramma non c’era; non c’era la trama, mancava la sceneggiatura, mancavano i personaggi. Il piano di Balzac era di far scrivere i cinque atti a cinque amici in cinque ore. Un piano da prestidigitatore.

  Otto o nove sono stati i lavori scenici che Balzac vide crollare. Gli si rimproverava una deficienza capitale: di guastar la trama negli sviluppi. La fantasia ciclopica che Balzac possedeva dava bensì un lumen, dava lampi abbaglianti, ma quando lo scrittore s’accingeva a fissarli divenivano fiammelle, o, peggio, strabici luminelli inafferrabili. Conflitto insanabile tra la sintesi e l’analisi. Ad ogni modo un successo teatrale Balzac finì col conquistarlo, sincero e duraturo: lo conquistò con quel Mercadet rappresentato al Gymnase quando — poco dopo la morte — i fiori sulla sua tomba cominciavano ad avvizzire ...

 

 

  O. C., La bilancia libraria. “Balzac” di Paolo Arcari (Ed. Morcelliana, 1934), «Augustea», Roma, Anno X, N. 2, 31 Gennaio 1935-XIII, p. 57.

 

  Paolo Arcari ha voluto darci a distanza di un secolo dalle opere più caratteristiche dello scrittore di Tours, una sua interpretazione della personalità di Balzac, guidandoci a osservare il congegno spirituale.

  Superfluo è far presente le doti speciali del critico, le quali si riverbererano (sic), penetranti e delicate, nel giudizio, via via composto, intorno al prodigioso scrittore francese.

  A Paolo Arcari, la vita ha dato di cogliere il vibrare delicato dell’animo. per l’interno travaglio; e, accanto ad una generosa curiosità di spirito, il bisogno di scoprire il problema interiore che dà colore e calore alla vita, problema che a ognuno si impone, e che ognuno tenta risolvere.

  Così, pur in altro mondo di idee e sentimenti, l’avevamo visto, ad esempio di fronte alla possente figura di Pascal; così lo ritroviamo di faccia alla produzione poderosa di Honoré de Balzac.

  Nè queste personalità è meno ardua a giudicarsi, se pur giudizio completo si possa trarre dell’uomo, guardando all’opera: o se meglio l’opera non riveli quello che l’uomo avrebbe voluto essere.

  Di Balzac, come di alcuni altri non meno vigorosi scrittori, è difficile trovar la misura. Per i contemporanei egli fu come una fonte di meraviglie, forse esistenti, ch’egli si compiacque ad enumerare, e far brillare, con accorti avvicinamenti di contrasti. Egli fu, del periodo successo alla classicità napoleonica, il suscitatore di scorci sociali, e di scorci psicologici, quale il suo secolo aveva bisogni di supporre, per dar ragione delle apparenze, per dar motivo alla sua nuova attività. Un tratteggio leggero, e pur significativo, eguale, e pur non monotono, corre da una narrazione all’altra, da una favola all’altra, raramente rompendosi, senza troppo accentuare, e senza mancare gli effetti. Tutto un fregio di fi gure umane si discioglie dall’opera balzachiana, e vive perenne, ora, ancor meglio d’allora appena nata, in cimento di altre immagini, di altri gusti, di altri ideali.

  Ma Paolo Arcari altro cerca, ed egli stesso ce ne avverte: di chi produsse tante opere, «la biografia non c’è: l’elenco delle opere non c’è; qui il giudizio complessivo è in ogni riga ed in nessuna».

  Paolo Arcari non viene a darci lo schema di uno spirito, o il dramma di un martirio, sì, invece, la parabola di una vita, che vi pone in evidenza, e a spiegare l’ampia opera costruita. Ed essa è riassunta in tre momenti, che sono tre modi di sentire, celati forse per istintivo orgoglio, o forse anche respinti nella profondità dell’anima, che spesso non vuol riconoscersi allo specchio della propria parola: appetito delle cose esterne; ebbrezza delle cose esterne; insufficienza delle cose esterne. Il presentimento, l’incontro con la vita l’adattamento a questa, adattamento incompleto, possono, infatti, dar ragione del lungo, inesauribile cercare balzachiano; possono spiegare il meraviglioso sforzo della volontà, che vuol superare il reale e concreto mondo quotidiano: giungerlo attraverso alla violenza negatrice delle cose: salvarlo dal naufragio delle cose stesse, travolte dal deludente possesso.

  Per il multiforme e perenne ciclo umano riprodotto, che la critica mette in luce, da un capo all’altro, senza tolleranza di sospensione, si svolge la lettura del nuovo libro dell’Arcari.

  Così il consenso va spontaneo a lui, e per lui si sente come una parte rilevantissima della personalità balzachiana, aggiunga significato nuovo, e quindi nuova possibilità di vivere, a tutta l’opera, la quale, con altra vita, aveva avuto rigoglio nel secolo scorso.

  «Balzac» dell’Arcari è quindi un contributo utilissimo alla critica italiana della letteratura straniera: una volta ancora esso riafferma l’efficacia, si direbbe musicale, d’ogni forte interpretazione soggettiva.

 

 

  C., Bollettino bibliografico. Honoré de Balzac, “Correspondance inédite avec Madame Zulma Carraud (1829-1850)”. Un volume in-16, de la Collection «Ames et Visages», Librarie (sic) Armand Colin, Paris, «Rassegna di Studi Francesi. Periodico settimanale», Bari, Anno XIII, N. 1, Gennaio-Febbraio 1935, pp. 43-44.

 

  La publication intégrale des lettres de Balzac et de Madame Zulma Carraud, — tant souhaitée par les innombrables fidèles du grand romancier, et que leur présente en cet ouvrage M. Marcel Bouteron, le savant balzacien, — va fournir à leur curiosité le plus remarquable des documents biographiques et littéraires.

  M. Bouteron a conduit celte publication avec un zèle pieux et une diligence minutieuse qui n’ont d’égales que sa modestie et son ingéniosité dont témoigne surtout une table analytique des matières parfaitement originale, qui permettra aux lecteurs de retrouver avec la plus grande facilité, dans le décousu inévitable d’une correspondance de trente années, le détail ou le développement qui les auront frappés.

  Cette volumineuse collection de lettres intimes fera connaître mieux encore, non seulement le train de vie de Balzac, mais l’élaboration souvent tragique de son œuvre: ses grandeurs, ses misères; elle révélera (sic) dans tonte leur ampleur ses idées politiques et sociales, dans toute leur ingénuité ses projets commerciaux et financiers; elle évoquera enfin l’homme entier, esprit et cœur, se livrant dans le confiant abandon d’une amitié exceptionnelle.

  A l’accueillant foyer de Madame Carraud, d’abord à l’Ecole militaire de Saint-Cyr, puis à la Poudrerie d'Angoulême, — où ses fonctions appelèrent successivement le Commandant Carraud, — enfin dans le domaine de Frapesle (sic) en Berrv, — où il prie sa retraite, — Balzac, toujours accablé de travail, de soucis et de dettes, est venu, «avec la sainte bonhomie de l'amitié», puiser des forces, abreuver ses désirs de tendresse, se retremper pour les luttes ...

  Ainsi se dévoile, en même temps que certains des sentiments et des idées les plus secrets de Balzac, l’âme d’une femme d’élite qui sut donner à l’amitié la plus clairvoyante et la plus pure tonte la puissance d’un amour.

 

 

  G. C., La Lega decide oggi la data delle sanzioni, «Corriere della Sera», Milano, Anno 60, N. 262, 2 novembre 1935, p. 7.

 

  Il progetto degli esperti anglo-francesi, dei quali tre giorni fa si faceva gran caso a Parigi, o appaiono come proposte concrete di un Governo disposto a trattare fin da ora sopra un minimo ragionevole o si restringono, appena si toccano, come la simbolica peau de chagrin di Balzac.

 

 

  Luigi Chiarelli, La casa senza specchi, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 103, 30 Aprile 1935, p. 3.

 

  Clelia cercava ora il terzo marito. […] Oggi, a cinquantacinque anni, cercava il terzo marito: nei salotti, nei teatri, nelle feste di beneficenza, nei ritrovi sportivi. ovunque insomma si può trovare un marito. Ma ancora non aveva incontrato nessuno che cercasse moglie — lei, per moglie.

  Cinquantacinque anni — un’età. Ai tempi di Balzac, della prosa di Balzac, Clelia sarebbe stata una donna chiusa oramai nelle tetre prigioni delle rinunzie, una vecchia donna abbandonata ai suoi rimpianti e alle sue sterili voglie: rassegnata se non pacificata.



  Enzo Ciuffo, Interferenze, «Radiocorriere», Torino, Anno XI, N. 23, 2-8 Giugno1935, p. 39.

 

  Gli scrittori si dolgono — con gli amici di casa — di non ricevere, come accadeva in tempi più felici per la letteratura, una copiosa corrispondenza epistolare di amorosi sensi da parte delle lettrici e ammiratrici.

  Pare che le donne di questo novecento disamorato abbiano rinunciato alla smania romantica di affermare per iscritto, sopra fogli colore di cielo, la loro dedizione sentimentale al poeta del libro preferito. Gli scrittori sentono che manca qualcosa alla loro gloria: non il plebiscito positivo della critica, ma l’aureola di carta delle epistole misteriose.

  Quando leggono — perché anche gli scrittori leggono — la storia della sconosciuta che per due lunghissimi anni appassionò Chateaubriand, sollevandolo sopra fragili pagine nell’atmosfera rarefatta e preziosa dell'amore casto e immateriale; quando leggono l’avventura, anch’essa epistolare, di Onorato Balzac con la nominata Zulma Carraud, conclusasi con la solenne dichiarazione: «Non, mon cher maître et ami, je préfère que, seules, nos âmes s’unissent!» ; quando leggono queste platoniche vicende, certo, i nostri scrittori provano una furtiva delusione.

  Gli ideali che essi sognano dovrebbero avere ben altro epilogo, e quasi si consolano di non ricevere così sterili messaggi d’amore. Ma è una consolazione di breve durata, poiché credono che, al posto del Visconte e del signor Onorato, essi avrebbero piegato in altra guisa gli eventi. Come diceva il loro collega: «On ne badine pas avec l’amour».

 

 

  Sac. Giovanni Colombo, L’aspetto religioso di Balzac, «Scuola cattolica. Rivista di scienze religiose», Venegono Inf. (Varese), Anno LXIII, Gennaio 1935, pp. 87-100.

 

  Questo borghese di Tours ebbe un’educazione cristiana assai sbiadita in una famiglia dove il padre, un giovialone che digeriva egregiamente, era volteriano di idee e rousseauiano di sentimenti; dove la madre, donna autoritaria e suscettibile, era più superstiziosa che religiosa. Però dagli otto ai quattordici anni (1807-1813), fu a scuola dagli Oratoriani di Vendôme che lo conobbero alunno sonnolento e taciturno con subitanei risvegli, studente svagato ma lettore insaziabile e onnivoro.

  Proseguì gli studi a Parigi, manifestando confuse aspirazioni letterarie. Ma il solito beffardo destino che perseguita gli uomini di lettere, lo costrinse allo studio ostico delle pandette e nel contempo a lavorare presso un avvocato e poi presso un notaio. Solo nel 1819 i genitori, a prova per due anni, gli permisero di dedicarsi alla letteratura. Tutto solo in una mansarde di via Lesdiguières, sotto i tegoli come in una piccionaia, le fantasie gli si accesero vorticosamente. «C’è fuoco in via Lesdiguières n°. 9 — scrive a Lorenza, la sorella confidente; — c’è fuoco alla testa di un povero giovanotto ed i pompieri non sanno come spegnerlo. Ve l’ha appiccato una bella donna ch’egli non conosce ... si chiama Gloria». Si dice che abbia sfornato quaranta libri in cinque anni, di cui otto superstiti ancora, benché segnati con diversi pseudonimi.

  Se sono veramente suoi, come pare, è interessante notare l’entusiasmo rivoluzionario con cui l’autore sventola idee democratiche ed irreligiose. Del suo ateismo giovanile restano altre testimonianze, ad esempio una lettera del 1822 alla sorella: «E tu vai ancora alla messa, e pieghi ancora le ginocchia davanti alle superstizioni e ai gessi della Chiesa?».

  Più interessante ancora è l’improvviso ritorno alle posizioni tradizionali. Sono del 1824 due opuscoli, l’uno in difesa del diritto di primogenitura, l’altro in difesa dei Gesuiti: due cause allora molto impopolari. Giocava dunque a drappeggiarsi di volta in volta con idee diverse, per un gusto paradossale e sofistico, o invece Balzac scriveva per convinzione?

  Per convinzione scriveva, giacché il suo spirito s’orientava verso quell’ideale di restaurazione politica e religiosa Che nel 1842 gli ispirerà queste parole: «Scrivo alla luce di due verità eterne: la religione e la monarchia, due necessità proclamate dagli avvenimenti contemporanei verso le quali ogni scrittore deve sforzarsi di ricondurre il nostro paese» (1).

  A questo orientamento spirituale, da cui non si distolse più, contribuì l contatto con qualche amico cattolico e legittimista come il Thomassy. Il Balzac, avrebbe voluto perfino scrivere un Traité de la prière, se il Thomassy non l’avesse dissuaso, persuadendolo che occorreva un’esperienza che a lui mancava.

  E non si deve sottacere l'influsso profondo che esercitò sul suo animo la Dilecta. La signora de Berny fu l’unica ad amare con disinteresse il romanziere, che di lei ci lasciò un velato ritratto nella figura di Madame de Mortsauf (Le lys dans la vallée), e un ricordo che trema di malinconia nella dedica di Eugénie Grandet «A Maria. Che il vostro nome sia messo qui come un ramo d’ulivo benedetto, preso da non so qual albero, ma certamente santificato dalla religione, e rinnovellato da mani pietose perché sempre verde protegga la casa».

  Essa fu che l’aiutò in una impresa di stamperia e fonderia di caratteri, quando il romanziere sperò stampando, di raggiungere quella fortuna che gli era sfuggita scrivendo. Invece riuscì un disastro: vi buttò dentro 100.000 franchi, e dopo due anni liquidava tutto con grossi debiti. Balzac dagli affari non ricavò mai se non l’arte di descriverli.

  La complicazione finanziaria è nei suoi romanzi un ingrediente universale, come nei libri dei filosofi idealisti lo spirito e l’autocoscienza. Era dotato d’un’impareggiabile inventiva affaristica, prosperosa fin tanto che restava nella sfera del sogno romanzesco, disastrosa appena discendeva sul piano delle inesorabili realtà. Le quali non valsero a disincantarlo. Negli ultimi anni di sua vita progettava ancora d’importare dalla Polonia 60.000 tronchi di querce: ci vedeva, in quattro e quattr’otto, il guadagno d’una sommetta come 1.200.000-franchi.

  La morte lo sorprese a cinquantun anni (17 agosto 1850): sposo novello di cinque mesi. La straniera che dal fondo dell’Ucraina «gli lanciava i fiori dalla sua ammirazione verbale», la castellana polacca, la contessa Eva Hanska fu la meteora affascinante per diciotto anni sul cielo balzachiano. Quanta attesa! bisognava che prima restasse vedova, che poi traesse infino al co’ la spola dell’eredità, che inoltre maritasse convenientemente la figliuola, e che da ultimo lo sapesse distrutto da un’irrimediabile malattia di cuore. Per pietà lo sposò. Così la sua vita, turgida di lussuosi desideri, non fu diversa da uno qualunque dei suoi romanzi. Abbattuto dall’ultimo attacco cardiaco, gli fu amministrata l’Estrema Unzione, e spirò.

 

***

 

  Per evadere dai debiti e dai debitori, per vivere nella società aristocratica, per crearsi intorno un’atmosfera di commodi, egli scrisse. Si coricava col sole «avec son dîner dans le bec», si levava a mezzanotte, prendeva un caffè nero e denso che come un nastro di velluto gli sciava giù nello stomaco vuoto a mettergli in azione le batterie fantastiche. E senza intermittenza fino a mezzodì riempiva d’inchiostro fogli sopra fogli. Così in vent’anni (1829-1850) nacque la Commedia umana: una novantina di libri, una selva di spiriti spessi, tremila personaggi (2). Il superbo titolo che si riallacciava e contrapponeva al medievale Dante, ingrandì l’animo del borghese ottocentesco che si sentì fatto maggiore di sè, e in una lettera alla Straniera si pose tra i quattro uomini più grandi del suo secolo, in riga con Napoleone, Cuvier, O’ Connel (sic), poiché egli portava una società intera nel suo cervello.

  Specialmente a chi vuole indagare il sentimento religioso che fra tutti è il più delicato e, quando è sincero, profondo e pudico, ardua cosa è addentrarsi nei dedali della città balzachiana senza smarrirsi, scrutare sul volto gaudente o straziato di molta gente per indovinare il loro nudo cuore.

  Per venire speditamente a qualche conclusione si potrebbe convocare a un giudizio universale tutti i personaggi del mondo di Balzac, e giudicarli a uno a uno, e spartirli: i buoni alla destra, i cattivi a sinistra. Non è tutta una massa dannata la popolazione della Commedia umana, ma qua e là fiorisce di sincera religione, di probità, di onestà professionale, di santi affetti coniugali e figliali e paterni. Incontriamo dei buoni preti (3) come gli abati Bonnet, Dutheil, Brossette; dei professionisti integerrimi, o che almeno si sforzano sinceramente d’esserlo, come il medico Orazio Bianchon, l’avvocato Grandville, il giudice Popinot, il notaio Chesnel, il commerciante Birotteau; delle donne fedeli al loro aspro dovere, che sanno sopportare soffrire amare tacere. Tralasciamo pure l’ambiguo giglio della valle, ma Adelina Hulot d’Ervy, la figlia e più ancora la moglie di Grandet sono delle cristiane.

  Ma questi buoni non sono molti, nè i più rappresentativi. Una folla innumerevole d’invidiosi, di ribelli, di sensuali, di lapidatori, di rapaci, di oppressori tumultua nella babelica Commedia umana. E dagli sfondi lividi si staccono (sic) gigantesche e monolitiche le raffigurazioni del male: la cugina Betta, cioè l’invidia; il bottaio Grandet, cioè l’avarizia; Hulot, cioè la lussuria; papà Goriot, cioè l’amor paterno idolatrico; Vautrin cioè la ribellione all’ordine sociale. Una potenza procellosa affascina, travolge, disperde nella sua rapina individui e famiglie: il danaro.

  E quando si fosse riusciti e sceverare perfettamente buon grano e zizania nel campo di Balzac, che cosa si potrebbe ricavare se non la pessimistica constatazione che le prede del male sono più numerose delle conquiste del bene? È vero: «la fauna umana ulula e fischia, come sulle rive d’un lago equatoriale strisciano e si acquattano rettili e belve. Dalla vipera alla tigre, tutte le specie più velenose sono rappresentate in questo bestiario degli appetiti». Ma non era così anche nel mondo reale, quel mondo di risaliti, di borghesi, cittadini o provinciali, in cui sei rivoluzioni in cinquant’anni avevano scatenati istinti cupidi di possesso e di potere?

  La somma dei personaggi buoni o cattivi, la classificazione degli episodi in onesti e disonesti, non serve a misurare il valore religioso d’un’opera o la spiritualità d’un autore. L’argomento è indifferente, poiché è soltanto lo spirito che conta. Il martirio di S. Sebastiano è potuto diventare un teatro immorale: gli intrighi nefandi d’una monaca sono diventati una lettura edificante che si lascia in mano tranquillamente perfino a’ giovanetti. Non è vero forse che la pace solenne, la saggezza armonica, il respiro di fede, ch’erano nell’anima del Manzoni, si sentono in ogni vicenda del suo libro, in Don Rodrigo come in Lucia?

  L’artista, simile a Dio, creando i suoi personaggi ci soffia in faccia un alito di vita che li vivifica e nel medesimo tempo li giudica. Ogni personaggio che vive nell’arte porta in sé il proprio giudizio. Questo giudizio bisogna cogliere, per decidere della religiosità d’un’opera e del suo autore.

  Ma non è facile, perché il cuore delle creature fantastiche è un mistero come quello degli uomini di carne, ed occorre un’intelligente esperienza per cogliere con precisione la natura di un sentimento fra le complicatezze infinite della loro psicologia.

  Balzac in molte pagine, con sovrabbondevole eloquenza, ha esaltato o rappresentato il fascino della liturgia, della musica sacra, del canto fermo, (4) fino a intenderne e gustarne l’accensione del sentimento che si riversa e si gradua senza la mediazione logica della parola, nella liricità pura del vocalizzo. La melodia O filii et filiae di Pasqua, il Dies irae della morte sono per lui poemi immensi ov’è un’eco di splendori, gioie, prosperità svanite (Massilla (sic) Doni). Ma specialmente il Dies irae lo commoveva, sentendovi il grido dell’anima pentita che trasale davanti alla maestà di Dio. «Mai, in nessuna religione umana, i brividi dell’anima, sradicata fuori dal corpo dalla violenza della morte e tempestosamente agitata in cospetto della sfolgorante maestà divina, sono stati espressi con tale vigore. Gli artisti e le loro composizioni devono umiliarsi davanti a questo grido dei gridi. No, non vi è nulla che possa rivaleggiare con questo canto che riassume al di là della tomba le passioni umane, per condurle palpitanti ancora davanti al Dio vivo e vendicatore ... Questi accordi che stridono di folgori e di lampi han potere di scuotere le immaginazioni più intrepide, i cuori più ghiacciati, e perfino i filosofi. Ascoltandoli, par che Dio tuoni. Le volte di nessuna chiesa restano immote: ma tutte tremano, parlano, riversano ondate di spavento con l’impeto degli echi ... E’ impossibile giudicare la religione cattolica, apostolica e romana senza aver prima riempito il cuore con le commozioni di quest’inno tremendo, di questi gridi che frangono le anime, di questo religioso sgomento che s’ingrandisce di strofa in strofa, fin che, spegnendosi l’ultimo accento, vi lascia la coscienza intrisa di un sentimento d eternità. Siete venuti alle prese con la grande idea dell’infinito, e tutto tace allora nella chiesa. Non si fa parola; ma in quel momento gl’increduli stessi non sanno quel che sono» (Ferragus. La sottolineatura è di Balzac).

  E’ evidente che questo romanziere realistico, eppure così cedevole alle pastosità romantiche, scrivendo di musica sacra, subisce l’influsso di due capitoli che Chateaubriand ha dedicato l’uno al canto gregoriano e l’altro ai rapporti tra religione e musica nel suo Génie du Christianisme.

  Ma più evidente ancora è che la sensibilità musicale lo riconduceva nostalgicamente ai giorni della fanciullezza, quando alla festa sua madre conduceva ai solenni riti della cattedrale di Tours; ai giorni della giovinezza quando nel coro del collegio di Vendôme, cantava coi compagni innocenti che poi la vita disperse chi sa dove, chi sa come.

  Quello che resta poco evidente è se Balzac amatore squisito d’ogni musica, attraverso alla musica sacra, arrivasse proprio alla grazia di Dio che illumina la miseria del cuore umano, e invoglia a risorgere con lacrime di pentimento, con propositi virili di sacrificio, e sforza a riprendere il cammino su di una strada novella, remota dagli intrighi e dalle cupidigie mondane; o se invece si cullasse sulle sacre melodie non chiedendo altro che una sterile dolcitudine estetica.

  Alla prima posizione, propria di chi veramente intende la religiosità della musica sacra, mi par certo ch’egli non giungesse mai. Dalla seconda spesse volte si sforza di sollevarsi: e diceva che «gli increduli non possono amare la musica che è un linguaggio celeste sviluppato dal cattolicesimo»; diceva pure che la musica insieme alla religione e all’amore «rappresenta il bisogno di ogni nobile spirito di trascendere il proprio io per salire a Dio» (La Duchesse de Langeais).

  Riconosciamogli un merito: prima ancora che i Benedettini di Solesmes restituissero alla primitiva e virginea freschezza i canti gregoriani, Balzac scrivendone con gusto e con rispetto intelligente, destò in ambienti assai profani la simpatia verso il canto fermo.

  Già m’è avvenuto di ricordare parole d’ammirazione che il romanziere rivolge al Cattolicesimo.

  I riconoscimenti non si potrebbero desiderare nè più frequenti, nè più ampi, seri ed eloquenti di meditata tristezza. «Più ci pensa, più trova la religione buona per la famiglia, per le classi, per la nazione, per la Francia, che hanno tanto bisogno di credere». Di credere non in una vaga fede qualsiasi, ma in quella cattolica.

  È risaputo il giudizio sfavorevole e penetrante, i suoi sentimenti avversi, più volte espressi, sul Protestantesimo di Lutero e di Calvino (5). «Essi, invece di una fede necessaria alla società, trascinarono dietro a sè una filosofia curiosa, armata di martelli, avida di rovine. La scienza si slanciava splendente delle sue false luci nel seno dell’eresia. Si trattava non della Riforma di una Chiesa, ma della libertà indefinita dell’uomo che è la morte di ogni potere. Si trattava nientemeno che dell’annullamento della Religione e della regalità, sulle rovine delle quali tutte le borghesie del mondo dovevano patteggiare». (Caterina De’ Medici).

  Balzac arriva fino a dire che la morale intolleranza di Calvino fu più implacabile e feroce dell’intolleranza politica di Robespierre. Arriva fino ad accusare il Calvinismo e le sue propagini di ogni insufficienza morale della società a lui contemporanea. «La Francia — scrive ancora nel suo romanzo Caterina De’ Medici — è oggi un paese che si occupa unicamente d’interessi materiali, senza patriottismo, senza coscienza, nel quale il potere è senza forza, dove la forza brutale è divenuta necessaria contro le violenze popolari, dove la discussione estesa alle minime cose soffoca ogni azione, dove il danaro domina ogni questione e dove l’individualismo, prodotto orribile della divisione all’infinito, sopprime tutto, anche la nazione, poiché l’egoismo un giorno o l’altro l’abbandonerà all’invasione». Diagnosi fosca ma, dopo un secolo, sotto più d’un aspetto riconosciuta vera.

  Anche l’inferiorità spirituale della spregiudicata lady Dudley di fronte alla signora di Mortsauf è addebitata al Protestantesimo, con queste parole: «Il Protestantesimo dubita, esamina, uccide le credenze: è dunque la morte dell’arte e dell’amore» (Le lys dans la vallée). Era convinto che la riforma protestantica avendo scalzato le fondamenta della gerarchia e dell’autorità, ha isterilito le capacità più nobili dello spirito umano. «Gli onori che rendete alle autorità costituite, non sono la garanzia di quelli che vi sono dovuti? — dice a Felice di Vandenesse il Giglio della valle, con nella voce una vibrazione che ci rivela l'acconsentimento di Balzac; e soggiunge: — Voi avete succhiato nei vostri licei il latte della Rivoluzione, e le vostre idee politiche possono risentirsene. Ma, inoltrandovi nella vita, imparerete quanto i principi! della libertà mal definiti sono impotenti a crear la felicità dei popoli».

  Contro gli elementi corroditori della civiltà, il Cattolicesimo appariva a Balzac una capace forza reattiva: l’unico sistema massiccio e completo d’opposizione agli istinti depravati dell’uomo, la più valida armatura dell’ordine sociale. «Sono grandi idee le osservanze rigorose create dalla religione romana: esse tracciano sempre più innanzi nell’anima i solchi del dovere con la ripetizione degli atti che conservano la speranza e il timore. I sentimenti corrono sempre vivi in quegli alvei profondi che trattengono le acque, le purificano, e rinfrescano incessantemente il cuore e fertilizzano la vita con gli abbondanti tesori d’una fede nascosta» (Le lys dans la vallée).

  Dopo tutto questo, dopo aver difeso la religione cristiana e la Chiesa cattolica, così da tirarsi gli sdegni dei liberi pensatori (6), la condanna della Chiesa lo colpiva a diverse riprese, ed ancora l’ultima edizione dell’Indice dei libri proibiti (1929) ritiene sotto censura le sue opere, con questa frase generica «omnes fabulae amatoriae» (7). Come mai?

  La licenziosità delle prime opere, Physiologie du mariage, Contes drolatiques, che ottennero un successo di scandalo, misero sull’allarme, e indussero a giudicare più pericolose di quello che altrimenti sarebbero parse le opere successive.

  E poi Balzac, se riconosce il Cattolicesimo per i suoi benefici frutti sociali, non credette nè capì la sua interiorità divina e sublime. Non poteva capirla: la vita che viveva, la società che frequentava gli facevano un grosso velo. La Verità non si lascia raggiungere se non da chi è interiormente preparato da quelle condizioni che Dante ha sintetizzato in un verso del Paradiso:

 

con occhio chiaro e con affetto puro.

 

  Orbene Balzac non solo praticamente visse fuori della morale cattolica ma anche intellettualmente pensò fuori del dogma, cattolico. Il quale è di tal natura che, chi lo rifiuta in parte, lo rifiuta tutto. In una lettera alla contessa Hanska confida nettamente il suo pensiero, così da non lasciare perplessi: «Politicamente io sono di religione cattolica: sono con Bossuet e con Bonald, nè mi staccherò mai. Davanti a Dio, sono della religione di S. Giovanni, della Chiesa mistica ... Lo swedenborgisino è la mia religione».

  Emmanuele Swedenborg, nato a Stoccolma nel 1688 da un pastore luterano, ingegnere e naturalista valente, dopo una visione avuta a Londra nel 1745, si credette destinato a rivelare al mondo il senso spirituale delle Scritture, operando sulla religione cristiana una epurazione e uno sviluppo simile a quello che il cristianesimo aveva operato sull’antico giudaismo. Naturalmente non era l’ardua teologia di questo sistema che affascinava Balzac, ma quell’aria di morbido misticismo, di esaltazione dell’umanità fino alla sfera dell’angelismo, e le apocalittiche descrizioni simili a lampi di magnesio. «Questa dottrina - scrive Balzac nel Lys dans la vallée dà la chiave dei mondi divini, spiega l’esistenza mediante trasformazioni in cui l’uomo s’incammina ai sublimi destini, libera il dovere dalla sua degradazione legale, applica alle pene della vita la dolcezza inalterabile del quacchero, e ordina il disprezzo della sofferenza inspirando un non so che di materno per l’angelo che noi portiamo al cielo. È lo stoicismo che ha un avvenire. La preghiera attiva e l’amore puro sono gli elementi di questa fede che esce dal cattolicesimo della Chiesa romana per rientrare nel cristianesimo della Chiesa primitiva».

  È sempre seducente alle passioni umane una dottrina religiosa che prometta l’unione con Dio al di fuori dell’aspra via di una totale abnegazione e purificazione degli istinti corrotti! Così Balzac che nei fatti sociali sentiva tanto bisogno di ordine e di chiarezza, nei fatti dell’anima volle evadere dalla precisione e nitidezza del cattolicesimo della Chiesa romana illudendosi di rientrare nel cristianesimo della Chiesa primitiva, mentre invece si smarriva nelle nebbiose fantasie del misticismo nordico. Così con stupefacente incoerenza, accoglieva ed esaltava nella vita interiore quella spiritualità protestantica disgregatrice che aveva scacciato dalla vita esteriore coi flagelli della sua prosa eloquente. Ibridi compromessi intellettuali e pratici che si ripercossero anche nella sua arte. Tralasciando Seraphita (sic), romanzo nebuloso alla Swedenborg, lo stesso Lys dans la vallée è costruito sopra un intrico di sdoppiamenti, che sarà ogni altra cosa, ma non quello che l’autore vorrebbe: un giglio per gli altari cattolici.

  Lei, una Lenoncourt, aveva giovanissima sposato il signor di Mortsauf trentacinquenne che dodici anni d’esilio e molte dissipazioni avevano non solo precocemente invecchiato, ma reso ipocondriaco, e padre di due figli malati. Nella verde e fiorita valle dell’Indre, dove questa famiglia dimorava, capita il giovane conte di Vandenesse.

  Allora ella spezzò la sua vita: rimase la madre sofferente e la compagna paziente di suo marito pazzoide che la chiamava Bianca; ma divenne Enrichetta che con tutta l’arsura d’un cuore deluso amava fino a morirne il conte di Vandenesse. Il quale, a sua volta, per lei che gli chiedeva «il glorioso amor degli angeli» aveva nome Felice, e per la britannica marchesa Dudley a cui lasciava il fangoso amore terrestre, aveva nome Amedeo.

  Lo sforzo d’amare soltanto col cuore, in rispetto «delle catene legali», è il rogo di santa e di martire su cui Balzac fa consumare la signora Mortsauf, aureolandola di un pathos artisticamente spesso banale, religiosamente quasi sempre fumoso e disgustoso.

  Ognuno ricorda come una simile situazione è stata ripresa dal Fogazzaro, raffinandola squisitamente; ma non ha potuto schiarirla moralmente e religiosamente, poiché il suo cuore non era del tutto libero e la mente del tutto snebbiata. Anche il corposo Balzac tenta di sollevarsi fino alla purezza del matrimonio sidereo. E scrive: «Le stelle splendono dall’alto sugli uomini: perché l’anima, questa stella umana, non avvilupperebbe de’ suoi fuochi un amico, quando non si lasciano andare verso di lui che dei pensieri puri? ... Gli astri si comunicano così il moto e la luce». «Non corpore sed lumine ...» scriverà con espressioni affascinanti Antonio Fogazzaro.

  Ma, prima assai di questi due, un altro, senza cadere nell’astrattismo di angelizzare gli uomini in terra per poi umanizzarli in cielo dove invece neque nubent, neque nubentur, aveva visto il matrimonio molto più in su delle stelle: «Questo sacramento è grande: io dico in Cristo e nella Chiesa. Uomini, amate le vostre mogli come Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei ...» (Eph. 5,23) — Questo è il matrimonio cattolico, veramente totalitario e per nessuna guisa sfaldabile.

 

***

 

  Ora Paolo Arcari ha pubblicato un libro rapido e succoso su Balzac, che è una sintesi acuta e limpida di cui si sentiva bisogno in Italia (8).

  L’Arcari, serbatosi immune dal formulismo filosofico e spesso ermetico dei crociani, ha fatto critica letteraria proseguendo una via sua, con il gusto della chiarezza, con un saporito buon senso. I precedenti studi, specialmente quello sul Manzoni e sul Parini, ci vengono in mente davanti a questo su Balzac; anzi egli ce li richiama con opportuni accostamenti tra il romanziere francese e quei nostri grandi (pag. 35, 63, 65, 116, 155-6).

  Inoltre l’Arcari stesso è un romanziere, con un’idea originale e profonda del romanzo che merita d’essere conosciuta: «Il romanzo è la rivendicazione della vita privata. E’ un genere che costituisce di per se stesso una rivoluzione sociale delle più vaste ed è – attraverso i più impensati travestimenti – la conseguenza della importanza che il cristianesimo ha conferito alla esistenza individuale. Il romanzo è la vita privata assunta ad importanza di storia: è l’epopea del periplo sociale di ognuno, e della conquista o della disfatta del singolo».

  Infine l’Arcari come romanziere ha sentito e rappresentato alcune situazioni affini a quelle di Balzac, risolvendole però in una luce cattolica. Ad esempio, la tirannia del danaro in Palanche. Dunque egli, cattolico romanziere critico, aveva le migliori doti per il lavoro a cui’ s’accinse. E non ci ha delusi.

  Duecento paginette: parrebbero troppo smilze per una foresta come la Commedia umana. Eppure gli bastano. Tra la pluralità e la varietà seppe discendere fino all’essenziale e comprenderlo in una linea semplicissima.

  Si potrà dire molto di più, ma di diverso poco.

  Evitato il serio pericolo di sperdersi nelle molteplici apparenze esteriori, l’Arcari mirò subito a cogliere quel respiro che vivifica e giudica i fantasmi artistici, ossia si collocò nel centro germinale della sterminata produzione, nello spirito stesso di Balzac. Quivi fece convergere il fascio di luce eterna che vien dal Vangelo. E vide.

  Quello che vide raccontò in tre ampi capitoli che formano lo schema del suo libro.

  L’appetito delle cose esteriori: l’animo di Onorato si sparpagliò tutto sulle cose mondane, lasciando su ognuna un brandello di sè. Il vestire, il mangiare, l’ammobigliare e ornare la casa, l’emergere nei salotti aristocratici, il guadagnare, l’arricchire, l’essere celebre invidiato amato, erano bisogni per la sua vita, congeniti nel suo sangue, acuiti da contrasti e dalle privazioni, dalle illusioni e dalle delusioni.

  L’ebbrezza cose esteriori: l’anima di Balzac fluisce e si oblia tutta al di fuori, nella pluralità della contingenza. Idoleggia, descrivendoli senza perplessità nè distacco spirituale, i gesti, i costumi, i lussi, i vezzi, i nomi, gli stemmi della società: Parigi dai molti aspetti, dai complessi tentacoli, è la somma, «l’ipostasi» de’ suoi desideri. E’ preso dalla gioia di un possesso sempre più vasto, di un piacere sempre più acuto: molte curiosità, molte simpatie, molta infarinatura scientifica ed artistica, molte parole, molti romanzi. Volle arrivare a tutto, perfino a fare il pedagogo che indirizza le greggi umane alla loro meta, atteggiandosi a pensatore e a medico che tasta il polso al suo secolo.

  L’insufficienza delle cose esterne: non dunque in lui una gerarchia dei valori e delle volontà, ma «la sua totalità ritiene molto della simultaneità orgiastica». Ed in quest’orgia, tratto tratto s’aprivano zone di vuoto, sentimenti d’insoddisfazione. Ad una ad una sente le insufficienze di una società che aveva sbandito ogni ideale per adorare unico Dio il danaro». «Il danaro in passato, non era tutto …».

  E quando con un senso di sazietà e di stanchezza distoglie lo sguardo dalle collettività, per rivolgerlo agli individui, gli vengono incontro i ceffi degli avari che non credono alla vita futura e per cui il presente è tutto; i ceffi degli invidiosi straziati dalla felicità altrui e ingordi di lagrime sui volti umani («Betta le lappava con lo sguardo come una gatta che beva del latte»); i ceffi dei prepotenti che travolgono con una mazzata mortale. Balzac li descrive con terrore; con terrore però – osserva l’Arcari con bellissima finezza – che non è quello del Manzoni negli approcci alla Malanotte od al convento di Monza, il quale come tutti i grandi credenti non si spaventa che di Dio: non si spaventa che della possibilità di albergare altre miserabili paure umane oltre il «terror divino».

  Tuttavia anche Balzac rabbrividisce davanti al male. Se vi sono dei momenti di perplessità in cui par che si faccia solidale coi vittoriosi, ve ne sono altri in cui si trova indosso il nuovo coraggio di buttarsi dalla parte dei rovinati (di Cesare Birotteau ad esempio contro il finanziere Du Tillet), pur di stare con quella morale e con quella verità che sono spropositi per il mondo.

  Dove più s’è avvicinato alla spiritualità cristiana fu in alcune sue intuizioni del dolore. La vista del dolore in altri, l’esperienza del dolore in sè, avrebbe potuto richiamare l’anima del Balzac, espansa avidamente sulle cose, al regno di Dio che è dentro di noi. Egli in ogni cuore buono spezzato dalla violenza, dalla tirannia, dalla malignità, dalla ingratitudine, con un tremito di compassione che andava facendosi sempre più interiore, intravedeva sia pure come quei c’ha mala luce, un’immagine di Cristo.

  Ecco papà Goriot «questo Cristo della paternità», che però del suo amore verso le figlie s’era fatto un vizio; ecco quel povero coso del cugino Pons, ecco le due Grandet madre e figlia, ecco Adelina Hulot d’Evry, anime in cui Balzac vagamente intuiva tesori più preziosi di quelli che cupidamente bramava; anime che sotto ai loro strazi trovavano una pace invano cercata da lui nella conquista delle cose esteriori; anime il cui simbolo è l’Agnello «il più commovente emblema delle vittime terrestri».

  Balzac arrivò dunque fino a porsi questo problema: «Ci può essere una gloria anche quando si patisce umiliati in forza altrui? Si può scegliere d’essere vinti? si può volere essere vinti?».

  Se avesse insistito in questa meditazione interiore, forse la grazia di Dio gli avrebbe mostrato quella spiegazione che invano aveva cercato al determinismo, alle teorie avveniristiche di un progresso indefinito, a certe torbide miscele di stoicismo e cristianesimo che pretendevano di riedificare la Chiesa primitiva.

  Lo studio dell’Arcari, di cui ho riassunto le linee fondamentali, sulla religiosità di Balzac raggiunge questa conclusione: «Quando egli parla della fede tradizionale, fu detto che la esalti solo per fini politici. Anche questo. Ma il Balzac è andato oltre, ha visto più largamente e profondamente. Ha visto, ha persino sentito la religione operare nella società ... Tuttavia non ne fu mai investito nè compromesso ... Non l’ha sentita operare in sè».

  Veramente tra le due affermazioni con cui l’Arcari formula il risultato della sua ricerca, par di sentire un poco stridere». In materia di religione, Balzac è andato oltre», oltre i fini politici, oltre la moda della Restaurazione; «ha visto più largamente e profondamente». E poi aggiunge: «Tuttavia la religione fu appena uno dei tanti fenomeni che egli osservava e rimase, per lui, del tutto esterna».

  Che vuol dire dunque quel «più largamente e profondamente»? Soltanto che oltre i fini politici anche fini sociali gli facevano esaltare il cattolicesimo. Ci aspettavamo di più. Che religiosità è questa di Balzac, se non l’ha mai sentita operare in sè? Tutta al di qua della religione.

  Il dramma personale del Balzac, secondo l’Arcari, ha tre volti: Luciano di Rubempré, ossia l’ansia e la sofferenza nella corsa verso le vanità mondane; Eugenio di Rastignac ossia la gioia d’averle conquistate; Raffaello di Valentin ossia l’estenuazione dietro i miraggi fino alla negazione del desiderio, all’irrigidimento catalettico. La richiesta di molto vivere concludeva con lo spettro di molto morire.

  Allora bisogna dire che Balzac è arrivato al crollo della sua illusione, senza luce alcuna di redenzione.

  M’è parso che Paolo Arcari abbia voluto prescindere troppo dagli elementi biografici: solo qualche raro accenno alla corrispondenza con la sorella; nessuno a Madame de Berny.

  E poi La peau de chagrin significa solo la rinuncia ad ogni desiderio per non abbreviarsi la vita fisica? Più forte di questa rinuncia non è l’amore di Paolina? Non è per lei che Raffaele getta la pelle di zigrino nel pozzo, gridando: «Avvenga ciò che può ...»? Per una indeprecabile magia la pelle di zigrino s’accorcia ad ogni domanda esaudita, e inscindibilmente da essa s’accorcia la vita. Ormai è ridotta a un fogli0 di pervinca: un desiderio ancora e sarà la morte. Eppure il desiderio ultimo s’accese negli occhi di Raffaele. Che vuol dire la raccapricciante scena finale?

  Ed ancora: se La peau de chagrin (1830-31) è anteriore ad Eugénie Grandet (1833) a Le père Goriot (1835), i tre volti del dramma non si possono intendere consecutivamente quasi l’uno fosse risoluzione dell’altro, ma solo come immanenti l’uno nell’altro e tutti nello spirito di Balzac. Ma dove non c’è superamento alcuno non ci può essere dramma sinceramente religioso.

  Infine m’è sembrata esagerata e quasi stucchevole l’insistenza sui medesimi motivi nel primo e nel secondo capitolo, che si potevano compendiare in uno solo, giacché il secondo appare, più che diverso, un’amplificazione del primo. Invece con quanto desiderio sarebbe stato letto un più ampio sviluppo di alcune splendide intuizioni che sono nella terza parte! Questa, ad esempio, avrebbe meritato da sola un capitolo intero: «Da ogni vittima viene al Balzac un problema».

  Quando poi la vittima è innocente e cade sotto i colpi iniqui senza ribellione, ma nell’accettazione d’un misterioso volere che le infonde una virtù serenatrice, allora più che mai l’arte di Balzac s’accende sulla cima «come se il sol gli fosse davanti»: il sole di giustizia che illumina ogni ingiustizia del mondo, cioè il Crocifisso. In tali momenti con l’approssimazione dell’artista (per usare una bella espressione dell’Arcari), il Balzac avverte d’essere alla presenza della Verità; soltanto un velo lo separa: il velo della sua figurazione fantastica.

  Da quali profondità del suo spirito Balzac chiamava su la dolce paziente signora Grandet, l’anima più cristiana della Commedia? Più che la figlia, ella ha sentito la religione puramente, altamente. Purificata dal continuo soffrire, non la minima rivolta contro l’Arpagone di suo marito. C’è proprio in quel suo dolore «un non so che di pacato e profondo che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo».

  L’ora estrema riverberò di luce la sua vita secreta, e disse parole da cui si espande la luce d’un mondo che Balzac non poteva rendere così, se in qualche momento non l’avesse avuta dentro di sè.

  «Era esile come d’autunno sono le foglie degli alberi. Una luce celeste la faceva risplendere come quelle foglie che il sole attraversa e indora. Si spense senza lasciarsi sfuggire lamento. Agnello senza macchia saliva al cielo, e non rimpiangeva di quaggiù che la dolce compagnia della sua fredda vita, alla quale i suoi sguardi ultimi parevano pronunciare mille dolori.

  Essa tremava d’abbandonare quella pecorella, bianca come lei, sola in mezzo a un mondo egoista che tentava di strapparle il suo velo, i suoi tesori. «Bambina mia, – le disse prima di spirare; – non vi è felicità che nel cielo, tu lo saprai un giorno».

  Balzac, uomo pensatore artista, non fu cattolico. Come uomo, troppe cose inutili amava e temeva perché il suo cuore riservasse ancora palpiti sufficienti per Dio.

  Come pensatore, vide bene alcuni effetti del Cattolicesimo nella società e negli individui, ma non vide bene la sorgente onde scaturivano; e di confusione in contradizione s’illuse di poter dissociare quelli da questa per sostituirvi un vago ed ibrido suo misticismo. Non seppe e non volle sacrificare la polvere del proprio io, orgoglioso e sensuale, a Colui il quale attende che il nostro cielo sia puro per divenire visibile ed agire in noi.

  Come artista, in quei romanzi ove la sua arte è più grande, ebbe intuizioni che segnano i punti del suo spirito prossimi alla Verità. Intravide la bellezza del dolore in Cristo.

 

Note.

 

  (1) Per le idee politiche di Balzac, si vedrà utilmente A. Bellessort, Balzac et son oeuvre. Paris, Perrin, 1924, pag. 190 ss. E per queste e per le idee religiose gioverà l’opera di E. R. Curtius, Balzac, Bonn, 1923. Benché difendesse il principio ereditario con ardore, il suo ideale non era tanto la monarchia a preferenza dell’impero quanto un governo forte concentrato nelle mani di uno solo.

  (2) Lasciamo la responsabilità di questo computo ad un pubblicista assai in auge nell’epoca umbertina, da qualche mese defunto il sen. Vincenzo Morello, che assumeva per proprio pseudonimo il nome di uno dei più cospicui personaggi Balzachiani: Rastignac. (cfr. Tribuna del 14 maggio 1899).

  (3) Si veda: «Les prêtres dans les romans de Balzac» nel libro di E. Biré, Chateaubriand, Victor Hugo, Balzac, Paris-Lyon, Vitte, 1907.

  (4) Ph. Bertault, Balzac et la musique religieuse, in «Le Correspondant», 25 nov. 1928, pag. 571.

  (5) Cfr. E. Fenu, Opinioni di Balzac su Calvino, nel quotidiano «L’Italia» del 25 luglio 1932. [Cfr. 1932].

  (6) Il Municipio di Tours, nel primo centenario della nascita esitò a concedere lo spazio richiesto per il monumento, e pare perché i signori del Comune giudicavano troppo clericale quel loro grande concittadino. (Cfr. «Civiltà Cattolica», serie XVII, vol. 9, 1900, pag. 176).

  (7) Si veda Louis De Brandes, Un portrait nouveau d’Honoré de Balzac, in «Études», t. 180, 1924, l’interessante n. 3, pag. 186: «Nous estimons, avec d’excellents moralistes, que cette désignation ne vise pas des ouvrages comme La grandeur et décadence de César Birotteau, Eugénie Grandet, Le Curé de Village, Le Médecin de campagne». Segnalo volentieri questa autorevole interpretazione, poiché Eugénie Grandet e Le Médecin de campagne sono due capolavori, forse i più perfetti di Balzac.

lavori, forse i più perfetti di Balzac.

  (8) P. Arcari, Balzac, Morcelliana, Brescia, 1934.

 

 

  Benedetto Croce, Balzac, in Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono. Seconda edizione riveduta e aumentata, Bari, Laterza, 1935 («Opere di Benedetto Croce. Scritti di storia letteraria e politica», 18).

 

  Cfr. 1921.

 

 

  Armando Curcio, Allegretto. Quelli che scrivono, «La Gazzetta di Puglia. Corriere delle Puglie», Bari, Anno XLIX, N. 72, 24 marzo 1935, p. 4.

 

  E’ questa la ragione per la quale io, scrittore di romanzi, ho finito col non scriverne nessuno. E’ una cosa che mi differenzia notevolmente da Balzac o da Zola, i quali ne hanno scritti troppi. Naturalmente. I signori Zola o Balzac non amavano sufficientemente il biliardo.



 Ellepi, Collezione “Romantica” Mondadori, «Lidel. Rivista italiana. Periodico mensile», Milano, Anno 17°, Fasc. 2°, Febbraio 1935, pp. 117-119.

 

 pp. 118-119. Balzac, pur non vivendo nel primo periodo del Romanticismo, è salvo dalle esagerazioni d’introspezione e di appassionati e appassionanti disordini: poichè egli è l’arditissimo pioniere del romanzo oggettivo.

 Egli vive entro e fuori. Egli riconosce romanticamente la grandezza del nostro intimo ma è dotato di fulminea intuizione psicologica e sa non copiare «i tipi» ma piuttosto riviverne con assoluta verisimiglianza le molteplici esperienze.

 «Abbandonare le mie abitudini, divenire un’altra persona attraverso l’esercizio e la esaltazione delle facoltà morali e rappresentare mille parti come voleva la mia volontà, questa fu per anni la mia occupazione preferita ...» è lui stesso a parlare: Balzac. E, in Eugenia Grandet, la sua facoltà di intuire e rivivere tutte le angoscie e le crudeltà di un avaro è portata al parossismo della verità. Il libro, concepito per adorare in forma d’arte, una casta figura di donna provinciale, cambia centro e fulcro: è l’avaro che domina.

 Libro, questo. che ci conduce, come dicemmo, ad una forma d’arte che è al di là del Romanticismo e già si avvia al verismo senza però sfiorarne gli eccessi. Volgare, disse di Balzac, il Saint Beuve (sic). In Eugenia Grandet la volgarità ci pare trasformata in forza e in umana compassione.

 Ecco, dunque, in parte, almeno per certa ramificazione di prose, il Romanticismo avviarsi al Verismo.

 Veristico il Maupassant di «Una vita» può dirsi? Certo: ma, venuto su alla scuola del Balzac, contemporaneo dello Zola, discepolo del Flaubert, egli seppe del primo e del secondo e del terzo carpire i segreti per dare alla sua arte la forza del Balzac, la lirica drammaticità dello Zola, la cosciente stilizzazione del Flaubert. [...].

 

 

  Remo Fedi, L’elemento mistico spirituale nella letteratura balzachiana (Seraphita-Seraphitus [sic]), «La Ricerca psichica (Luce e ombra). Rivista mensile», Milano, Anno XXXV, Fasc. 11, Novembre 1935, pp. 641-645. 

 

Seraphitus a Minna:

Minna, io ti amo perché puoi

essere Sua! Ti amo perché se

verrai a Lui, sarai mia!

Balzac, Seraphita.

 

  Il 23 agosto 1835 Honoré de Balzac presentava alla signora Evelina De Hanska il suo prezioso lavoretto Seraphita, con le memorande parole da lui poste come prefazione al medesimo e che, in parte, riproduciamo qui appresso:

  «Perché quest’opera non potrà appartenere esclusivamente a quei nobili spiriti che, come voi, sono difesi dalla solitudine contro le meschinità mondane? Essi saprebbero imprimervi la melodiosa misura che vi manca, e che ne avrebbe fatta, fra le mani d’un nostro poeta, la gloriosa epopea che la Francia aspetta ancora; ma costoro l’accetteranno da me come una di quelle balaustrate scolpite da qualche artista pieno di fede, ed alle quali i pellegrini s'appoggiano per meditare sulla fine dell’uomo, contemplando il coro d’una bella chiesa».

  Con tali espressioni, l’autore del Louis Lambert e della Recherche de l’absolu metteva in mostra l’esigenza di passare attraverso il crivello «du génie latin» il copioso materiale lasciato ai posteri dal sublime ingegno di Emanuele Swedenborg, materiale di troppo difficile digestione per gli stomachi della nostra «gens»; di rendere, infine, melodioso e poetico ciò che di eccessivamente denso e profondo si trova nella visione teosofico-illuministica del grande Svedese.

  In Seraphita, Balzac — sulla scorta degli Arcana Caelestia e degli altri trattati swedenhorgiani nei quali, come dice lo scrittore francese, «lo spirito di Dio proietta le sue luci più vive» — si propone d’indicare all’umanità dolorante il cammino per accedere al piano divino. Andare a Dio: ecco quello che fu e sarà sempre il grande sogno di tutti i mistici, indipendentemente dalla loro appartenenza ad una qualsiasi confessione. Il modo per giungervi non può essere che uno: la dedizione di tutte le nostre facoltà ad amare l’Essere, affinchè l'anima si metta a vibrare all’unisono con tutto ciò che ad essa si presenta come il motivo più potente dell’armonia cosmica.

  Non si tratta qui di ripetere delle vecchie canzoni o di acchiappare delle nuvole, poiché nulla è più profondamente avvertito dalla coscienza di ciò ch’è spirituale e divino, e di ciò che non lo è. Si farà osservare che l'uomo, pure avendo una tale nozione, agisce sovente secondo il principio contrario al bene, e qui viene in mente il famoso detto oraziano: Video meliora proboque, deteriora sequor; ma non bisogna dimenticare, a questo proposito, che la violenza delle passioni è tale, nella maggior parte dei casi, da avere il sopravvento su tutto il resto nell’anima dell’uomo. Ed è proprio vero, come insegna Seraphita-Seraphitus a Minna ed a Wilfrid, che l'anima può solo spogliarsi di tutto ciò che si contrappone alla sua natura, dopo essere riuscita a vincere completamente le velleità dell’istinto, acquistando così una prova palpabile della sua partecipazione al divino (applicazione psichica del concetto metafisico platonico di metessi che, nella prima metà del secolo scorso, venne largamente sviluppato, in vari campi, dal Gioberti).

  La nozione di Dio non può rimanere confinata nella sfera del sentimento e dell’esperienza intima, ma è necessario che sia, da un lato, resa sempre più evidente della potenza del pensiero, e dall’altro, ridotta quale elemento efficiente ed attivo della vita personale, nella sua costante ascensione a piani superiori. A quest’ultimo compito è adibita la volontà, ch’è da considerarsi come il grande strumento magico per raggiungere le più alle cime della vita spirituale; come la guida del pellegrino per gli aspri ed intricati sentieri che conducono al Santuario del Graal. Ma la trasformazione dell’istinto, della volontà malvagia, schopenhauerianamente intesa, in volontà buona, non può avvenire che dopo la constatazione della vanità e dell’inutilità di ciò ch’è oggetto di desiderio da parte della carne. E qui si spiega, in tutta la sua magnificenza, la trama della visione sommamente spirituale del veggente svedese, visione che Balzac sintetizza in maniera magistrale col linguaggio seguente:

  «Dopo aver sperimentato il vuoto ed il nulla, gli occhi si volgono verso la buona strada. Allora, ecco nuove esistenze da consumare, per giungere al sentiero ove brilla la luce. La morte è la sosta di questo viaggio. Gli esperimenti si fanno allora in senso inverso. Spesso occorre tutta una vita per acquistare le virtù che sono l’opposto degli errori nei quali l’uomo visse precedentemente. Così, viene prima la vita in cui si soffre e le cui torture danno sete dell’amore. Poi viene la vita in cui si ama; in cui la devozione per la creatura diventa devozione per il creatore; in cui le virtù dell’amore, i suoi mille martirî, le sue angeliche speranze, le sue gioie seguite da dolori, la sua pazienza, la sua rassegnazione, eccitano la brama delle cose divine. Dopo, viene la vita in cui si cercano nel silenzio le traccie della parola, in cui si diviene umili e caritatevoli. Poi, la vita in cui si desidera (il divino), e, infine, la vita in cui si prega. Là è l’eterno meriggio, là sono i fiori, là è la messe».[1]

  Vale la pena d’analizzare questo pilgrim’s progress. Balzac vuol far vedere come per conseguire la santificazione sia prima necessaria la piena e completa purificazione, la quale ha luogo attraverso una tremenda lotta interiore. Tutta la immane tragedia dell’anima è qui: la classica lotta fra Dio e Satana, che si disputano lo spirito umano è, in tale circostanza, trasportata dal regno dei miti e dei simboli in quello propriamente psichico. Questa battaglia, che culmina nel pentimento, ossia nel segno più evidente che il Wille zum Leben, l’elemento bestiale in noi, è rimasto sconfitto nell’agone, è veramente ciò che caratterizza la religiosità, mettendone in evidenza le strettissime attinenze con la morale. Occorre uccidere la «bestia» ch’è in noi, onde poterci inoltrare sul sentiero dell’evoluzione spirituale, ma prima è necessario — come fanno giustamente notare Swedenborg e Balzac — aver avuto esperienza della vacuità della vita indirizzata a soddisfare i desideri carnali. E’ per tale motivo che i grandi peccatori riescono a porsi più facilmente degli altri, sulla via della santità, come mostra l’agiografia di tutti i popoli. Infatti, chi ha l’esperienza del peccato passa, quasi automaticamente dal primo stadio, nel quale è concesso all’uomo di rilevare il vuoto e l’inconsistenza delle cose che riflettono la corporeità, al secondo, in cui ha sede il dolore, che finisce per spingere nelle braccia dell’amore, ma dell’amore che non fa ancora capo all’Afrodite Urania, bensì all’Afrodite Pandemia: all’Eros dalle speranze e dalle gioie accompagnate da dolori.

  Giunto a questo punto, l’uomo mette in funzione tutte le sue facoltà, fa agire ogni molla ed ogni ingranaggio di cui è composto il meccanismo del suo essere. Un tale lavoro ha, in sè, la virtù purificatrice necessaria per sopprimere in lui tutto ciò che può costituire impedimento per l’ascensione ad un piano superiore di vita. Da una parte, la constatazione della caducità di tutto ciò che ha bramato; dall’altra, l’esercizio delle più alte virtù, in primo luogo quelle della pazienza e della rassegnazione, finiscono necessariamente per far nascere nella sua anima il desiderio delle cose divine. E’ questo il segnale della disfatta dell’«io» inferiore ed il preannunzio del trionfo di quello superiore. D’ora innanzi, egli non sarà più turbato da passioni, poiché su di lui le cose terrene non avranno oramai più alcuna influenza, e potrà a buon diritto chiamarsi «libero», nei limiti che competono alla sua personalità.

  Il divino si fa trovare solo quando sia ricercato con spirito d’umiltà e di carità. Come lo stadio del dolore precede immediatamente quello dell’amore terreno, così quello dell’umiltà e della carità precede quello del desiderio delle cose divine, vale a dire dell’amore celeste.

  Ma c’è ancora un ultimo gradino da salire prima di entrare nel Nirvana, nel regno di Dio, per dar luogo a quella perfetta comunione con Dio di cui ci parlano gli Indù, nonché i grandi mistici della scuola alessandrina (neoplatonica), Plotino e Porfirio, ed alla quale agognò costantemente l’anima del più grande Padre della Chiesa cristiana d’Occidente: di Agostino da Tagaste. Che cos’è la caratteristica di tale piano di vita, in cui la potenza dello Spirito è portata alla sublimità se non la preghiera? Ma qui non bisogna equivocare, poiché vogliamo riferirci alla preghiera nel suo significato più mistico. Ciò che gli uomini intendono generalmente con questo termine, non è che una bassa imitazione della vera e genuina preghiera, ossia un atto pseudo-religioso con cui l'uomo crede di poter strappare una grazia, nel senso più volgare, dalla Divinità, inducendo questa ad infrangere l’armonia della natura per il proprio benefìcio, mentre invece non fa che ingannare sé medesimo.

  No, la preghiera, swedenborgianamente considerata, è tutt’altra cosa. Essa è, nella sua silenziosità maestosa, un «osanna» dell’anima al trionfo dello Spirito, o — come dice Balzac, parafrasando gli scritti del veggente di Upsala — la «consumazione di tutte le verità, di tutte le potenze, di tutti i sentimenti». Se essa mira a qualche cosa di diverso dall’accesso alla mensa di Adonai, non ha più diritto al titolo di preghiera. A questo riguardo, osiamo dire che soltanto chi ha potuto oltrepassare il limite che separa la zona del Relativo da quella dell’Assoluto, ha la possibilità di pregare; solo chi è riuscito a sedare le tempeste delle passioni ed immergersi nella serena atmosfera dello Spirito, acquista i requisiti necessari per esercitare ciò che nel linguaggio mistico di Swedenborg vien chiamato «culto del mondo divino».

  Il fatto si è che noi possiamo oggi parlare della preghiera solo in maniera molto imperfetta, sulla scorta di ciò che hanno lasciato scritto i grandi mistici, tenendo, peraltro, presente la difficoltà di concettualizzazione dell’esperienza del mistico. Quest’ultimo, per pregare, non ha bisogno della parola umana, giacché egli può sentire e gustare il concetto della Parola Divina.

 

* * *

  In Seraphita, come nel Louis Lambert. Balzac si rivela un finissimo osservatore della psiche umana di fronte ai problemi dello Spirito. Da una parte, egli traccia, con mano maestosa, un quadro della posizione dell’umanità rispetto al trascendente; dall’altra, egli impartisce agli uomini un insegnamento di grande rilievo, in quanto fa vedere che la scienza, pur essendo strumento divino, non basta da sola a far penetrare nel Sacrario: è necessario, a tale uopo, che la coscienza si renda conto, in maniera adeguata, dell’immenso valore e dell’enorme portata del suo contributo al prodursi dell’armonia del mondo, contributo che ha la sua ragion d’essere in un sentimento di fratellanza universale, ciò che presuppone la fede nel bene.

  Non si tratta qui di rimettere in campo gli eterni motivi di divergenza fra ottimisti e pessimisti. E’ sufficiente solo notare un fatto semplicissimo e che, per così dire, taglia le corna al toro. Se fin da principio non si ha fede nel realizzarsi di ciò a cui l’anima tende, malgrado i suoi transitori smarrimenti, non si può amare; se non si ama, non si può dirigere l’intelletto verso la comprensione delle più alte verità. E’ questo il senso profondo del solenne comandamento agostiniano: credite, amate, intelligetis. Ed è questo ciò che ci suggerisce la «ragione», scintilla divina che vibra in noi.

  Il contrasto tra fede e scienza esiste e continuerà ad esistere fino a che l’umanità si ostinerà a seguire il metodo inverso a quello sopra indicato. Il fatto si è che oggi, fatte le debite eccezioni, non esiste più la fede, la vera fede di cui parla Seraphita, ma una maschera, una parvenza, una vile imitazione di questa: facendo essa difetto, è naturale che la scienza, restando priva del suo appoggio naturale, si crei da sé medesima dei puntelli che non hanno maggiore consistenza del bastone che il bambino solleva e crede possa servirgli per non cadere. In tal modo, le possibilità armonizzatrici delle due realtà suddette sono rese sterili dalla degenerazione dell’elemento fideistico e mistico in quello canonico-ecclesiastico, e, parallelamente, dell’elemento razionale in quello intellettuale, privo d’anima. La «chiesa», da una parte; l’università, dall’altra: ecco due istituzioni umane in cui tale decadenza si è resa oggi più tangibile: due antagonisti che continuano a battersi senza essersi accorti che le loro energie vitali sono esaurite da un pezzo!

  E’ in quest'ordine d’idee che abbiamo voluto rievocare Seraphita, questo capolavoro balzachiano, che passa quasi inosservato fra l’abbondante produzione letteraria del celebre romanziere francese.

 

 

  Gaetano Feoli, Maternità, «Giornale di Lucania», Potenza, Anno XXV, N. 36, 7-8 Settembre 1935, p. 2.

 

  Pochi padri sanno l’eroismo materno. Papà Goriot è una eccezione.

 

 

  Alessandro Ferrannini, Balzac e la medicina, «La Riforma medica», Napoli, Anno LI, N. 23, 8 giugno 1935, p. 884.

 

  Una prima ragione per commentare i rapporti tra Onorato Balzac e la medicina parrebbe consistere nel numero cospicuo di medici che il grande romanziere francese ha introdotto tra i personaggi dei tanti e tanti suoi romanzi. Basti ricordare i medici Bianchon, Bénassis, Broussais, Rouget, Mignon, Dommanget, Becker, Bergeron, Grimrel, William Ellis.

  Balzac sul proscenio dei romanzi mette anche chimici, fisici, metafisici, biologi, matematici, ognuno dei quali parecchie volte scende a discutere su problemi di alto interesse medico-naturalistico, come la trasmissione del pensiero, la visione psichica a distanze straordinarie con analogia alla odierna telepatia, la perfettibilità dei sensi, la influenza della psiche nella guarigione delle malattie, la possibilità dell’apparizione dei defunti, le estasi ed altre manifestazioni psichiche dell’isterismo, gli stati catalettici che allora impressionavano come qual­che cosa di soprannaturale. Siffatti argomenti che si mantenevano avvolti nel tenebrore delle così dette scienze occulte venivano discussi e tratti fuori dal campo dei sortilegi e dei misteri.

  In alcuni dei personaggi romanzati da Balzac l’entusiasmo ossessionante per la ricerca del vero si spinge al furore, come in Balthazard (sic) autosuggestionato dalla ricerca della pietra filosofale sino al parossismo della follia che finisce con menarlo a morte.

  Come viene ricordato da A. Trillat (La Presse Méd., 2 marzo 1935), la schizofrenia, quest’anomalia psichica tanto studiata nei tempi moderni, venne personificata da Balzac in Louis Lambert con tale precisione di caratteri da destare le meraviglie di frenologi come Claude e Lévy-Valensi e indurli a scrivere un ampio articolo al riguardo nel Progrès Medical di aprile dello scorso anno.

  Anche quando non si tratti di tipi morbosi nel senso stretto della parola, parecchi tra i personaggi schizzati da Balzac sono ritratti con colori così vividamente naturali che sono rimasti nella letteratura romanzesca come indici di figure sociali. Tali sono: Rastignac, un immigrato dalla lontana provincia nella movimentata società parigina ove diventa elegante e spregiudicato dominatore; Vautrin che da galeotto evaso finisce, con essere poliziotto tra i più subdoli; César Birotteau, un commerciante che per gli eccessi della sua vanità va in fallimento; Lucien de Rubempré, poeta acclamato e bellimbusto tra i più ricercati nella élite ma che finisce con suicidarsi; Philippe Brideau, ufficiale napoleonico in pensione, dissoluto e malvagio; Barone Hulot maniaco e perfido; Eugénie Grandet sordidamente avaro (sic); «Le cousin Pons» vecchio e bamboleggiante collezionista; «Le père Goriot», tipo della debolezza paterna con le sue conseguenze perniciose; «La cousine Bette» la gelosa ossessionata; la coppia dei Marneffe, in cui s’incarnano la prostituzione e la perversità; Gabseck e Bigon (sic), tipici banchieri usurai, spregiudicati ministri per il dio dell’oro del mondo signor; Verdugen che per la sfrenata am­bizione di dominio leva contro il padre la mano armata di scure.

 

***

  Senza dubbio qualità artistiche capaci di schizzare con perfezione i tipi sociali sono fondamentalmente congenite. Si tratta di acutezza d’intuito nello scendere al fondo delle coscienze e vivacità di espressione nel plasmare attraverso l’arte le qualità psichiche repertate dallo scandaglio dell’intuito. L’ambiente intellettuale della sua vita concorse in Balzac a coltivare e perfezionare le congenite attitudini artistiche ed atteggiarle secondo la direttiva naturalistica.

  Il padre era stato amministratore dell’ospedale di Tours, che è la patria di Balzac natovi nel 1799.

  Il nonno materno era stato direttore degli ospedali di Parigi. Il padre di Balzac era fervido seguace delle dottrine naturalistiche di Gian Giacomo Rousseau ed avea pubblicato opere di sociologia e d’igiene, tra cui un libro molto apprezzato sulla rabbia. La madre era così colta da avere presso di sè organizzata una biblioteca con opere di Saint-Martin, Swedenborg, Böhm.

  In età giovanile durante il soggiorno a Vendôme viene concepito da Balzac un trattato sulla volontà ed in quell’epoca il giovine lettore accanito si sprofonda nei libri di scienziati naturalisti del valore di Réamur, Lavoisier, Berzélius, Loevenbrock, Charles Bonnet, Haller; nel tempo stesso contrae intima amicizia con Cuvier, Geoffroy-Saint Hilaire, Gay-Lussac, Vauquelin, Fresnel, più specialmente con il psichiatra Moreau de Tours, con Broussais, con il grande chirurgo Barone Guillaume Dupuytren, del quale il centenario della morte viene commemorato nell’anno corrente.

  Natura di grande artista e di grande pensatore, difettavano a Balzac le qualità di adattabilità sociale, capaci a salvaguardare dalle insidie degli scaltri e dal sopruso dei prepotenti.

  Ecco perché il grande artista e idealista fu continuamente perseguitato dai creditori. Volle slanciarsi in varie imprese industriali, come fonderia di caratteri tipografici e direzione di stabilimenti tipografici; si avventurò persino in Sardegna nel 1845 (sic) per sfruttarvi alcune miniere di argento. Ma non riuscì che a dare altro bersaglio alle mene dei creditori.

  Non era quello l’adatto campo della sua attività. Non basta conoscere a fondo la natura umana per potere sfruttare a proprio vantaggio le manifestazioni dell’attività umana. Quale più profondo conoscitore di uomini e ili ambienti sociali a paragone di Onorato Balzac? A ben 70 ascendono i volumi delle sue opere. I principali tra essi Balzac aggruppò sotto denominazione di Comédie Humaine, dividendoli in «Studi di costumi», «Studi filosofici», «Studi analitici», «Scènes de la vie privée, de la vie de province, de la vie parisienne». Vi lavorò non meno di 14 ore al giorno, soprattutto tra il 1842 e il 1846.

  Dei risultati di tanto lavoro Balzac aveva ben ragione di inorgoglirsi. Anzi tra le esplosioni di orgoglio da cui non raramente sono pervase le personalità di tanta levatura intellettuale, si citano per Balzac espressioni e paragoni come «Molière della commedia romanzata», «Walter Scott dei paesaggi e delle avventure», «Dante dei caratteri», «Napoléon des lettres». No, certe iperboli non si possono mandar buone. Di Dante sinora non vi è stato che uno solo al mondo. Come dipintura dei caratteri appena a Shakespeare è dato avvicinarsi alla potenza del grande italiano, ma, bene inteso, senza nè raggiungerla nè uguagliarla.

 

 

  Renzo Frattarolo, L’ultimo D’Ambra. “Anime in sottordine”, «Il Popolo Nuovo. Il Foglietto. Settimanale fascista del lunedì», Foggia, Anno V, N. 19, 27 Maggio 1935, p. 3.

 

  Il fecondissimo D’Ambra, il degno discepolo spirituale del grande Balzac, pubblica un nuovo romanzo […].

  Interessantissimo come romanziere oltre che come moralista, Lucio D’Ambra, franco da ogni soggezione spirituale, senz’altra disciplina formale che quella del suo gusto sopraffino, pur riconoscendogli, invero, una nativa parentela con Onorato Balzac, la cui anima aleggia in tutte le opere sue, ci fa sentire il più raro e invidiabile piacere che possa procurarci un artista della sua tempra: quello di narrare, cioè, sorridendo; di insegnare, di suggerire, di ragionare, di meditare, dilettando; ed è qui gran parte della sua popolarità e del suo successo.



  Alfredo Galletti (a cura di), Storia letteraria d’Italia. Il Novecento a cura di Alfredo Galletti, Milano, Casa Editrice Dott. Francesco Vallardi, 1935.

 

Capitolo IV.

La poesia della scienza e il “realismo”.

Le teorie di I. Taine e l’opera di E. Zola, pp. 119-120.

 

  p. 120. Il Taine aveva scritto che «il miglior metodo di indagine gli pareva quello degli artisti e dei naturalisti» e sin dal 1858, in un saggio sul Balzac, aveva definito l’autore della Commedia umana «un artista potente e pesante, che si giova ed è ad un tempo tiranneggiato da gusti e attitudini di naturalista». La parola e l’esempio furono raccolti da Emilio Zola (1840-1902), che volle essere il poeta del «naturalismo» […].

 

Luigi Capuana e le sue idee critiche, pp. 120-122.

 

  p. 122. Il «realismo» difeso dal De Sanctis era quello stesso di Giorgio Hegel, nel quale la Ragione universale e trascendente si esplica e si realizza e che comprende quindi tutta la realtà spirituale, la cui forma più alta è la coscienza; quest’altro realismo del Capuana era quello che le scienze sperimentali possono sistemare e che già il Balzac aveva voluto appropriare all’arte, affermando — prima del Taine — nella prefazione alla Commedia umana, che anche lo spirito dell’uomo è foggiato dalle cose e che i luoghi, i tempi, le condizioni professionali e sociali «determinano i caratteri».

 

Matilde Serao. Realismo e sentimentalismo romantico, pp. 129-130.

 

  p. 130. La Serao è, a modo suo, sincera verso la propria «memoria sentimentale», sia quando rappresenta schiettamente, con quella calda ed eloquente simpatia che in lei sovrabbondava, la vita reale e i veri sentimenti della piccola e media borghesia o del popolino napoletano, sia quando ci mostra, riflessa nelle azioni e nei discorsi di certi suoi personaggi imbottiti di rettorica romantica, quale inverosimile idea della «gran vita», della «gran passione», delle forze oscure e fatali che turbano le grandi anime essa si fosse candidamente foggiata negli anni giovani leggendo la Sand, il Balzac e il Feuillet.

 

Capitolo VI.

Dagli ultimi manzoniani ai nuovi mistici.

  Le antipatie letterarie di G. Carducci e la letteratura italiana contemporanea, pp. 161-163.

 

  p. 162. Oh quegli insopportabili verseggiatori, mussettiani e mürgeriani, della «Scapigliatura» milanese, imitazione smorfiosa della bohème parigina! Oh l’arte di quei poeti spiritati e sgrammaticati che hanno ridotta «la vita ad una clinica ed il mondo ad un ospedale»; di quei prosatori «che scrivono con riduzione italiana sbagliata la più bella prosa della più brutta maniera del Balzac!». Il Carducci li detesta, perché sono la negazione poetante e teorizzante di quella sanità fisica e di quella energia morale che egli tanto ammirava negli antichi.

 

Capitolo VIII.

Il nuovo secolo e la “Rivolta ideale”.

Alfredo Oriani. Il suo temperamento e la sua educazione, pp. 272-273.

 

  p. 272. Fanciullo solitario, che, prima nella casa paterna , poi nel collegio bolognese ove fu rinchiuso tra il 1862 e il ‘65, fu tormentato dall’idea di essere discaro ai suoi e posposto nell’affetto della madre al fratello maggiore; più tardi studente di giurisprudenza a Roma e a Napoli tra il 1868 e il ’72, coi sogni e forse gli appetiti di un eroe balzachiano che guardando il sobbollimento sociale e il prorompere di cupidigie da cui era invasa la nuova capitale d’Italia pensasse, come il Luciano di Rubempré delle Illusions perdues, che egli saprà forse conquistarla un giorno colla forza dell’ingegno, era poi tornato a vivere in Faenza e quindi nel paesello romagnolo ove era la casa dei suoi maggiori; e là aveva finito col trascorrere in selvatica solitudine tutta la vita, aspettando forse in quel suo romitaggio superbo che la fama venisse a scovarlo per proclamarlo principe e pontefice della nuova letteratura.

 

I primi romanzi dell’Oriani, pp. 273-274.

 

  Nei suoi libri giovanili le impronte lasciate da tali letture sono evidenti anche troppo; più profonda di tutte quella del Balzac, «il cui genio è da porre tra i primi del mondo», affermava l’Oriani in quella fantastica scorribanda critica attraverso la moderna letteratura italiana che ha intitolato bizzarramente «Diapason». E nel Balzac principalmente ammirò, per affinità di natura, la visione iperbolicamente pessimistica e insieme zoologica delle passioni e degli istinti umani, le pretese sociologiche, l’assolutismo aristocratico delle idee politiche, ed anche l’arte di conquistare la fama collo stupire, urtare, sbigottire i lettori, per asservirne così lo spirito vano e curioso. Nei primi romanzi e racconti dell’Oriani: Memorie inutili (1876), Al di là (1877), Gramigne (1879), No (1881), Quartetto (1883), v’è una miscela strana e indigesta di patetico romanticismo o di naturalismo brutale, di enfasi e di verismo, di lirismo e di pedanteria, che ricorda i più stridenti difetti delle opere giovanili del Balzac, ma da cui l’Oriani non si francò mai del tutto. E andava poi molto più in là del Balzac nella sfida lanciata alla morale convenzionale e «borghese» col ritrarre compiacentemente certi aspetti patologicamente osceni della corruzione contemporanea.

 

 

  Lorenzo Giusso, Fortune del Tasso, «La Gazzetta di Puglia. Corriere delle Puglie», Bari, Anno XLIX, N. 170, 17 luglio 1935, p. 3.

 

  Tancredi così delicato e cavalleresco, chiuso come in un’armatura nel miraggio del suo unico amore, ci appare l’esemplare di quei perfetti amanti, incapaci di transigere col loro irraggiungibile ideale che Balzac ha fissato in Le lys dans la vallée.



  Venceslao Ivanov, Realismo. Letteratura e arte, in AA.VV., Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti. Volume XXVIII. PORTI-REG, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1935, p. 940.

 

  È significativa l’attenzione con cui il Balzac va ritraendo gli affari d’industria, di banca, di commercio. La teoria segue i fatti che da tempo indicavano la nuova corrente, e appare più povera e più pedantesca – sebbene più adatta per la sua stessa esclusività allo spirito dei tempi – della creatività spontanea che la precedette. Lo stesso Balzac, il vero fondatore del realismo inteso come arte, nonostante certi elementi romantici inerenti alla sua opera, non ambiva affatto la qualifica ancora equivoca di «realista», né aveva di mira, nella sua assidua ricerca delle forze occulte che reggono la vita, l’ideale di puro empirismo caro ai dottrinari della scuola nascente.

 

 

  Cesare Vico Ludovici, La Spezia nella gloria delle armi e della poesia, «L’Illustrazione Italiana», Milano, Anno LXII, N. 17, 28 Aprile 1935, pp. -656.

 

  p. 654. Racconta Balzac di quel generale in ritiro che quando vedeva da un luogo elevato un qualsiasi raggruppamento di case in fondo valle: «Bella città da bombardare» — esclamava. — «Bella collina da spianare» — si è detto Mons. Costantini […].

 

 

  G. M., Georges Lenôtre, «Rivista di letture», Milano, Anno XXXII, N. 3, 15 marzo 1935, pp. 65-67.

 

  p. 67. Nessuno, credo, ha saputo dare come lui una impressione più diretta e immediata, se non più esatta, dei personaggi storici. Per questo dono egli mostrava la sua affinità col Balzac, di cui aveva quella genialità che sa far uscire dalle parole tutto un polverio di umanità. Inoltre l’opera sua ha dimostrato eloquentemente la meschinità di tanti di quegli eroi rivoluzionari di cui un Taine aveva già illustrato gli effetti malefici.

 

 

  L. M., “Madonna Imperia” di Franco Alfano, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 211, 4 Settembre 1935, p. 3.

 

  Un atto a sfondo e carattere boccaccesco, ricavato da un racconto di Balzac, è questa «Madonna Imperia» che Franco Alfano ha musicato su libretto di Arturo Rossato. Opera a cui l’Alfano stesso non ha voluto attribuire molta importanza; l’ha però affettuosamente curata per dar prova, in un genere diverso da ogni altro prima tentato, e per racchiudere in un breve quadro, ma con molta intensità, ricchezza di coloriti diversi per vivacità, ed espressioni, passando dal lirismo della commedia alla passionalità del dramma, dalla leggerezza della comicità quasi buffa alla pressione calorosa della sensualità. Un breve atto, in cui si condensano tutte queste varie espressioni, come tante faccie ed aspetti di vita e di arte. La vicenda di «Madonna Imperia» è molto movimentata: iniziata scherzosamente, si conclude appassionatamente. E’ una giornata di vita di quelle donne originali e tipiche del periodo della rinascenza, in cui la femmina, costretta alla finzione dell’esteriore decorosità, non cercava altro cha evadere nelle avventure amorose, che per ciò riuscivano sempre più gradite e piacevoli, quanto più richiedevano di ingegnosità e di astuzia — talvolta di rischio anche mortale — per realizzarsi.

  Madonna Imperia è una di quelle donne giocattolo di lusso e di piacere che i signori di quel tempo potevano mantenersi per abbellire la casa e la vita: rinchiuse e guardate da cameriste che si tramutavano sempre in facili mezzane, aguzzavano nel divieto il maggior gusto del frutto vietato e quando lo coglievano si sfogavano a goderlo giocondamente. Così Imperia (il nomo è proprio d’una celeberrima cortigiana romana, ma vive invece a Costanza ai tempi del Concilio) mentre se ne sta in casa attendendo alcuni invitati per un pranzo, forma l’oggetto concupiscente d’un bello ma timido giovinetto, il segretario del vecchio Vescovo di Bordò; ed egli tenta la conquista della femminetta elegante.

  S’introduce nella casa di Imperia, malgrado l’opposizione delle due cameriste, perché vuol vederla ed offrirle tutta la sua anima: Filippo è, infatti, poeta gentile e cantatore come un troviere. E subito entra nelle grazie della donna, che dapprima quasi non lo vuol guardare: le piace tanto, che cerca di liberarsi di tutti i vuoi visitatori per trattenersi con lui e sapere ciò che realmente vuole. Il Cancelliere, per ordine di Madonna Imperia, infatti, mette tutti alla porta con belle maniere: ed a Filippo presenta un facile dilemma: o andarsene ricevendo un impiego ed una borsa di danaro, o restare per essere ammazzato. Filippo sceglie l’impiego e se ne va, con dispetto di Madonna che lo riteneva d’assai più nobile animo: però, poco dopo Filippo rientra e spiega che aveva accettato l’impiego soltanto per non compromettere Madonna e ingannare il Cancelliere. Ma ciò che egli vuole da Madonna non è … l’impiego, è l’amore.

 

 

  Pietro Mancini, Contro gli Spadafora. Arringa di Pietro Mancini, «L’Eloquenza. Antologia Critica – Cronaca», Roma, Anno XXV, N. 5-6, Vol. I, Maggio-Giugno 1935, pp. 293-341.

 

  p. 326. Quale destino per queste due famiglie di parenti!!!

  Onorato de Balzac quante dolorose verità ci insegna nelle pagine immortali della «Cugina Betta».

  Ma c’è forse bisogno d’incomodare Onorato de Balzac?

 

 

  Pietro Melandri, La scena e lo schermo. La commedia di un romanziere, «L’Illustrazione Vaticana», Città del Vaticano-Roma, Anno VI, N. 23, 1-15 Dicembre 1935, p. 1301.

 

  Gandusio ha ripreso a Quirino Mercadet l’affarista di Balzac, che dal tempo di Emmanuel (sic) non era più comparso sulle nostre scene.

  Le Faiseur — come l’intitolò l’autore — è l’unica opera teatrale di Balzac, che abbia avuto fortuna, se pure non duratura; ma insomma, dopo tre o quattro prove infelici, Balzac riuscì con questa commedia a farsi applaudire da una platea gremita: una lunga serie di repliche confermò il grande successo della prima sera. La stampa fece eco, e Le Faiseur ebbe tutti gli onori della «pièce à succès». Balzac dovè vedere in sì gradevole avvenimento la conferma di quello che aveva sempre pensato di se stesso, cioè d’esser nato oltreché romanziere, anche drammaturgo, e insieme dovè illudersi di avere finalmente trovato la via di far quattrini. La morte, sopravvenutagli circa un anno dopo, gli risparmiò una duplice delusione.

  Singolare e strana la sorte di Balzac a teatro! Tranne che per Le Faiseur, le scene non gli furono benigne; se Mercadet è ancor oggi per la gente colta un nome non del tutto nuovo, chi ricorda più Les ressources de Quinola, Pamela Giraud, La Marâtres (sic)? Vautrin sopravvive nel romanzo, ma è morto nell’incarnazione scenica che l’autore volle tentare. Eppure, tra Balzac e il teatro vi sono rapporti e legami intimi: il teatro francese della seconda metà dell’ottocento discende da Balzac.

  Tra il 1850 e il 1860 si ebbe in Francia un radicale rinnovamento nel teatro. Il romanticismo è battuto in pieno, e gli succede una tendenza e una scuola che, se non è prettamente naturalistica, sboccherà nel teatro naturalistico. Si usa far risalire questo rinnovamento alla Dama (sic) aux camélias, della prima maniera di Dumas figlio; ma è un errore: la Dame aux camélias non rinnova proprio nulla; siamo ancora in pieno romanticismo; un romanticismo che si adatta ai gusti del boulevard parigino, e si sbizzarrisce nel tentativo d’idealizzare la passione: del peggiore romanticismo, dunque, a parte la virtuosità dell’allora giovane autore. Il vero rinnovamento del teatro francese si ha tre o quattro anni più tardi coi Faux Bonshommes di Teodoro Barrière, Les lionnes pauvres di Emilio Augier, e il teatro dello stesso Dumas figlio, seconda maniera.

  In che modo Balzac ha agito sul teatro di Barrière, di Augier e di Dumas? Imponendo a costoro, con l’opera sua di romanziere, svoltasi intieramente, eccettuati i primi romanzi, nella riproduzione artistica della vita circostante, imponendo, a costoro, diciamo, l’osservazione, lo studio, l’imitazione della vita e dei costumi. All’autore di teatro s’impone lo studio dal vero, da cui s’era allontanato nel turbine romantico: si ritorna indietro con un gran salto all’epoca postmolièriana, quando, per opera specialmente di Le Sage col suo Turcaret, un finanziere o affarista del tempo, si sostituiscono nel teatro i caratteri.

  In questo ritorno della vita nell’opera di teatro sta il vero sostanziale rinnovamento della scena francese nella seconda metà dell’ottocento: l’avvento della vita vera, che i pregiudizi e gli errori dominanti nel tempo poterono piegare a tesi morali non accettabili e riprovevoli, e la tecnica ancora asservita a Scribe potè velare, ancora falsare; ma la sostanza rimane quella, e si trasmette nel teatro naturalista succeduto al prenaturalista: Becque con La Parisienne e Les Corbeaux si riallaccia a Balzac.

  Come mai l’autore di un così profondo rivolgimento, del quale, se si devono condannare le deviazioni dottrinali e morali, non può negarsi che abbia rinnovato artisticamente il teatro; come mai, diciamo, l’autore di un così vasto e profondo rivolgimento nel teatro, non ebbe fortuna sulle scene? Ingiustizia o incomprensione dei contemporanei? Nè l’una nè l’altra. La ragione vera è che Balzac non aveva attitudine per il teatro. Egli smentiva avanti lettera la pretesa di Zola che chi riesce nel romanzo, deve riuscire anche nel teatro: l’attitudine al teatro, quella che egli chiamava le don, era per Zola un pregiudizio. La storia d’ogni letteratura prova come l’unione delle due attitudini, quella per il teatro e quella per il romanzo, in una stessa persona, sia un’eccezione. Il temperamento del romanziere è diverso da quello del drammaturgo o del commediografo, come l’estetica del dramma o della commedia è diversa dall’estetica del romanzo. Che un romanziere possegga il senso del drammatico e sappia renderlo nel romanzo, non implica che sappia esprimerlo anche sulla scena.

  Le Faiseur, l’unica fortunata opera di teatro di Balzac, ne è una prova. È evidente in essa la mano del romanziere, che modella i suoi personaggi con cura, li rifinisce con scrupolosità amorosa, ma cerca invano di disporli secondo le leggi della prospettiva scenica, e procede faticosamente piétinant sur place per cinque lunghissimi atti; e che per chiudere finalmente la sua commedia si rivolge a Scribe, e ricorre al colpo di scena, al deus ex machina, abbandonato a se stesso Le faiseur non riuscirebbe mai a sbrogliarsi dalle reti

in cui si avvolge; l’incapacità di trarre dalla sostanza stessa del dramma la soluzione e la conclusione è il segno dell’imbarazzo di chi tratta un genere che on è il suo.

  Non sappiamo se nella prima edizione parigina, certo nelle successive, come in quelle passate in Italia, ci ha messo le mani un uomo di quelli che i francesi chiamano le métier, Adolfo D’Ennery; e a mano a mano i cinque atti si sono condensati in tre. E la commedia regge ancora; ma rappresentarla nella sua integrità sarebbe un’audacia pericolosa.

  Certamente, anche in Le Faiseur c’è del buono, e non poco; c’è, per usare una frase stravecchia, l’unghia del leone, e nel disegno delle figure, dal protagonista a tutti gli altri che lo circondano, e nel dialogo; manca la fusione, l’amalgama, la sintesi; manca, insomma, l’opera di teatro. Per questo la lettura di Le Faiseur vi rivela spesso delle delle autentiche bellezze; ma quando voi siete giunti alla fine delle avventure di questo Mercadet, più fanfarone che lestofante, voi ritornate con pensiero nostalgico a quel grande galantuomo di César Birotteau.

 

***

 

  Per finire: ecco una tra le molte argute battute di Le Faiseur. Parla Mercadet: «Nous avons en France une carte de principes aussi variée que celle d’un restaurateur. Je serai socialiste. Le mot me plaît. A toutes les époques, mon cher, il y a des adjectifs qui sont le passe — partout des ambitions! — Avant 1789, on se disait économiste; en 1805, on était libéral. Le parti da (sic) demain s’appelle social, peut-être parce qu’il est insocial: car en France, il faut toujours prendre l’envers du mot pour en trouver la vraie signification!».




 Alfredo Niceforo, Attrazione, repulsione e circolazione nella vita sociale. Psicologia e sociologia, «Rivista di psicologia normale e patologica», Bologna, Anno XXXI, Serie III, N. 4, Ottobre-Dicembre 1935, pp. 223-246.

 

 pp. 241-242.

Insieme di qualità d’orine vario.

 

 Piu complessi modi di vedere — e forse meno discosti dal vero sono quelli che trovano ragione dell’ascendere in questa o quella «aristocrazia», non già in una sola qualità, o categoria di qualità (buone, cattive, o mediocri che sieno), ma in un insieme di qualità che potrebbero essere pur tra loro opposte o quasi antitetiche. Luce mescolata alle tenebre, come sotto la volta della Chiesa vedeva Faust nel contemplare la sacra lampada accesa nell’oscurità. Taluno ammette, ad esempio, anzi esige, che l’intelligenza costituisca il peso specifico) per ascendere, ma si affretta ad aggiungere che la sola intelligenza non basta, poichè ha da essere accompagnata da eccezionali qualità di «saper fare», eccezionali qualità— si noti — che non sempre sono in accordo con la più fine sensibilità e con il senso morale più squisito. Il Rastignac di Honoré de Balzac, il Rastignac intelligente e poco scrupoloso, il parvenu ma elegante Rastignac, tanto aiutato nella sua carriera dall’amore e dal soccorso finanziario della figlia del Père Goriot, conservava amicizia per l’illustre medico Bianchon esemplare di rettitudine, ma mentre Rastignac era quasi riuscito in tutto, Bianchon camminava a piedi, e non godeva di altra soddisfazione che del sapersi riconosciuto come medico tra i più illustri. Per cui, l’amico Rastignac diceva, alzando le spalle, e commiserando: «Pauvre Bianchon! Il ne sera jamais qu’un honnête homme!». L’uomo onesto? Dunque, nulla.


 

  E. P., Romanzi. “Anime in sottordine”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 60, N. 58, 8 marzo 1935, p. 3.

 

  Lucio D’Ambra è infaticabile. Articoli, rievocazioni storiche, pagine biografiche e romanzi si susseguono nella sua fucina. Il tenace ardore e la costante passione lo sorreggono. Egli possiede, più ancora del gusto dello scrivere, quello di farsi leggere. E’ un lavoratore coscienzioso che vuol essere, ed è, chiaro, interessante, pittoresco. Espone opinioni e meditazioni sul vivere sociale, sui costumi, sulla morale, senza ostentare tesi, ma raccontando fluidamente nell’intento di dilettare e ammaestrare i lettori attraverso i fatti e i caratteri.

  Da parecchi anni, va perseguendo un proposito nobile di ampio quadro sociale. Egli, anche in questo romanzo, cita spesso Balzac, e sempre, quando ne ha avuto l’occasione, ha manifestato la sua ammirazione per quel colosso. Ora, il proposito cui s’è accennato ha intenzione per l’appunto balzachiana: vasta tela, vasti ambienti, affreschi grandiosi: la vita, insomma, con tutti i suoi colori.

 

 

  Fernando Palazzi, Balzac Onorato, in Enciclopedia degli aneddoti. 3500 nuovi aneddoti storici di tutti i tempi e paesi, raccolti e ordinati da Fernando Palazzi. Supplemento, Milano, Casa Editrice Ceschina, Società Editrice Libraria, 1935, pp. 36-37.

 

  Nato a Tours nel 1799, morto a Parigi nel 1850; grande romanziere francese, autore della famosa collana di romanzi La Commedia umana. (V. vol. I, pag.80).

 

  7367. Balzac vestiva suntuosamente, ed era molto prodigo del suo denaro. Diceva:

  — La mia mazza che ha intorno al pomo una corona di turchesi, l’occhialino fatto dagli ottici dell’Osservatorio, i bottoni d’oro sull’abito azzurro sono cose che fanno chiacchierare tutta Parigi. Come mi diverte!

  Una sera, mentre era all’Opera, in un circolo d’amici, esclamò:

  – E pensare che a casa mia, in questo momento ardono trecento candele!

  Nessuno voleva credere e si fecero scommesse. Era vero, e Balzac guadagnò cinquecento franchi di scommessa. (Correspondant, 25 gennaio 1909).

 

 

  Enrico Pappacena, Honoré de Balzac, in Arte e vita (quasi novelle), Lanciano, Carosello & Valerio, 1935, pp. 121-134.

 

  In una lettera del Balzac, a quella Madame Hanska di Polonia, che dapprima fu lungamente con lui in corrispondenza, e infin divenne sua moglie, c’è una frase così dolorosa, che gli ammiratori del grande romanziere, anzi di questo Imperatore del romanzo sia nella letteratura francese che in quella universale non possono rileggere senza rinnovare lo strazio della loro commozione. Il povero Titano, in uno di quegli anni orribili in cui i debiti lo costrinsero a dei lavori soffocanti, angosciato dalla quarantina imminente, rattristato da una esistenza senza riposi, senza svaghi, inchiodato al suo tavolo di creazione e di martirio, si domandava ingenuamente e malinconicamente se mai ciò che era la vita ossia il godimento degli altri non dovesse essere invece per lui altro che un romanzo invano figurato!

  Sarebbe meno agevole comprendere l’opera del Balzac senza prima conoscere ampiamente l’uomo. Non è mio proposito riferire l’argomento di quasi un centinaio di romanzi, quanti il Balzac ne scrisse, di analizzarli, di studiare l’arte dello scrittore, di penetrare il significato della sua opera, abbracciandola in una sintesi critica, e inquadrandola nella storia particolare e generale della letteratura. Mi propongo, invece, un ufficio modestissimo: discorrere brevemente dell’uomo. La conoscenza dell’uomo accenderà, in chi, per caso, non ancora la conosca il desiderio di conoscere l’opera; in chi la conosca, ne farà meglio apprezzare la genesi e il valore.

  Nessuno sospettò, durante la sua vita, la tragedia di quell’ostinato lavoro, di quella tenace, vastissima, miracolosa produzione, fra le strette di ogni specie di tormento.

  E chi avrebbe mai potuto supporre? ... Egli era massiccio e sorridente; aveva la parola pronta e appropriata, nè disdegnava le monellerie, quelle monellerie cui tanto volentieri si abbandonano, come fanciulli al sole, i grandi lavoratori, appena liberi dalla loro quotidiana missione. Inoltre, egli apparteneva a quella categoria di uomini, i quali si consolano del presente, costruendo dei bei progetti per l’avvenire — e costruiranno tali illusorii edifici, per la loro mesta gioia, sino a quando la morte li prostrerà. Quali castelli in aria, povero Balzac! Poter lavorare dodici ore al giorno, invece di diciotto; avere degli spiccioli per comprare qualche ninnolo, o una sommettina per qualcuno di quei mobili antichi, ond’egli fu il primo, in Francia, a comprendere e a gustare la bellezza; vivere nell’atmosfera della donna sognata, dalla quale al contrario tutto lo divideva; essere alquanto sgravato dal peso schiacciante dei debiti ...

  E tutto ciò gli fu dalla sua— non saprei se più iniqua o se più provvida — sorte ricusato! Il destino lo curvò sulla sua opera, come curva un contadino sulla gleba, dalla quale si rialza con le reni rotte e gli occhi arrossati. Il destino ha detto: “Lavora questa terra, tu non ne ricaverai che delle gioie intrise di lagrime e degli scarsi piaceri, acerbi e fuggitivi; tutto il resto si rivolterà contro di te„. E così Balzac amò sua madre teneramente, e sua madre lo trattò da figlio ingrato; amò gli amici e gli amici si rifiutarono di comprenderlo e non seppero assisterlo; amò la gloria e non ne ricevè altro che qualche gramo fiorellino campestre, fra i tanti insulti e l’acrimonia dell’incomprensione: fatto come fu continuamente bersaglio agli attacchi di quella falsa virtù e di quella stizzosa pruderie, che ha eternamente scagliato manate e manatelle di fango sui liberi scrittori, alteri e indipendenti. Infine, egli credè di raggiungere il paradiso col dito, sposando Madame Hanska, sperò di conoscere una buona volta il gaudio di una esistenza tranquilla, resa bella da una presenza anelata; infermo, già vecchio, non potè nulla organizzare: la bella straniera lo rese tutt’altro che felice, facendo crollare il dolce e intenso sogno di affetti; egli non potè trarre argomento di letizia e di conforto nè dal suo gigantesco lavoro nè dalla sua amorosa pazienza e fedele attesa di tredici anni, compensata, da ultimo, come la gloria di Achille, dal tradimento e dalla morte; egli non rialzò il capo se non per riabbassarlo, sospirando, e la sua missione non era peranco finita, nè aveva mai avuto il tempo di essere un poco solo, almeno un poco, contento!

  Balzac nacque il 10 (sic) maggio 1799, a Tours. Fu il primo dei quattro figli di Bernardo, il quale aveva sposato Laura Sallambier, di trentadue anni più giovane!

  Balzac trascorse la sua adolescenza in quel periodo di tempo appunto che divide nettamente la Francia pensosa e sognatrice.

  Crebbe in un paese bellicoso, sovraccarico di gloria e sconquassato dai più vari drammi; lavorò in quell’epoca in cui la Francia, convalescente, ma ancora straziata, ascoltava, rapita, i suoi nuovi poeti.

  Balzac osservò la società che nasceva sulle ruine di una società, e ne costruì una egli stesso, verace e leggendaria al contempo: e la sua costruzione riuscì di poesia precisa, di realtà poetica.

  Non si sapeva bene, allora, dove sì andasse, donde si venisse. Le aspirazioni degli ambiziosi cozzavano contro la mediocrità dei tempi. L’oro introduceva la sua vile potenza in un mondo disfatto e bisognoso d’un nuovo dio materiale. Lo spirito anche rinasceva, ma le manifestazioni della sua vita erano fantastiche e pericolose, specie nelle fucine della stampa quotidiana. Si parlava di Napoleoni del giornalismo, dei Bonaparte della finanza.

  Balzac scrutava, e notava.

  Dell’oscura sala di redazione faceva l’antro shakespeariano, dove il genio e la coscienza, la menzogna e il vizio si cuociono insieme, a fuoco lento, in una magica marmitta. Poi si recava, a tarda notte, in piazza della Borsa (a Parigi) — e nell’ ombra, nel silenzio, fra gli alberi, si fermava a contemplare il tempio greco deserto, imponente e triste sotto il palpito suadente delle stelle.

  Nessuno lo attendeva.

  Strano prodigio: lo storico era nato con l’epoca stessa ch’egli era destinato a ritrarre!

  Ma il popolo francese d’allora, sgomento per la grandezza tempestosa del passato, scorato dalle basse preoccupazioni del presente, non altro desiderava e si augurava se non la canzone cullante, il ritmo ottimista dei facili poeti. Un tale periodo era maturo per Lamartine, per Hugo, per De Musset. Respinse, invece, le mani del fabbro di genio, che serravano la verità.

  Splendida era pertanto quell’alba letteraria: si aprivano i saloni agli scrittori che, sino a quel momento, non avevano conosciuto altro che i corridoi e le anticamere. La celebrità era immediata, vorrei dire fulminea. Ma Balzac aveva troppo tumido il labbro inferiore della sua bocca, un mento triplice, capelli scarmigliati, discorreva con una volubilità confusa, che non era certo l’eloquenza, e discorreva solo di sè stesso e dei suoi lavori. Gli si riconobbe parecchio talento, ma gli si decretò l’ostracismo. Balzac fu un paria della Bohème, prima che la Bohème fosse inventata. Per qualche raro onesto che intravvide e riconobbe e amò e lodò in lui il Gigante, quanti invece non ne ebbero timore! quanti non lo disconobbero! quanti non lo denigrarono! I suoi romanzi erano così poco romanzi, nel senso allora comune della parola! E poi egli aveva detto tanto male dei giornalisti — e i giornalisti ancor oggi gli serbano rancore per questo, e si vendicano di lui, affermando che scrisse male! Ma l’opera del Balzac resta e resterà quale un blocco, ove il marmo, qua liscio là ruvido, conserva la maestà incompiuta della stessa Natura!

  Se si volesse conoscere il Balzac da ciò che ne dissero gli avversarii, basterebbe consultare un interessante Dizionario di scrittori, pubblicato poco dopo la sua morte. La colonna concernente il Balzac è un monumento!

  Vi si legge che un certo Champoiseau, Presidente onorario della Società Archeologica di Tours, ebbe la buona ventura di scoprire che Balzac non aveva nessun diritto alla particella nobiliare de di cui si onorava. Vi si legge ancora che Balzac fu, in collegio, uno scolaro mediocre e, più tardi, un ambizioso disilluso, e, infine, ch’egli era costretto a far ricomporre, nelle tipografie, sino a dodici volte i suoi romanzi. Coscienza di scrittore scrupoloso, penseremmo, in ogni caso, subito, noi. Eh! ... no. Il cortese biografo ha preveduto l’obiezione e si affretta a ribattere: quelli erano sforzi penosi di autore sterile. Nè basta. Balzac, in virtù della penna di questo indulgente suo critico, diviene licenzioso, cinico, corrotto, pretenzioso, banale e declamatorio. Il biografo adduce un esempio. L’autore della Commedia umana aveva un naso distinto in due grossi lobi — anche Emilio Zola aveva un po’ il naso così —. Ebbene, posando davanti al pittore D’Angers, non ebbe forse, Balzac l’audacia di dire: — Soprattutto, studiate il mio naso? ... Il mio naso? È un mondo! Il generoso apologista insiste sulla bruttezza del Balzac, chiamandola semplicemente grottesca, e, finalmente entrando nel merito artistico, rimprovera a colui che scrisse I campagnuoli e Cesare Birotteau, ossia gli studi più completi che si abbiano, in arte, sulla vita commerciale e sulla eterna insanabile lotta fra proprietari di latifondi e contadini, rimprovera al Balzac d’ignorare il vigore della sintesi! A questo punto, invaso da un santo furore scortica e spolpa quasi tutti i personaggi della Commedia umana, riducendoli a scheletri — e trova in 97 volumi, fra 900,000 righi stampati, una ventina di frasi che egli decreta autorevolmente ridicole: le altre questa: le calde inflessioni della voce, oggi di uso comune sia in Francia che in Italia e forse altrove!

  Ed ora vediamo un po’ i giudizi dei contemporanei.

  Lamartine dichiara che Balzac, se avesse avuto lo stile sarebbe stato più grande di Molière.

  Sainte-Beuve, puntiglioso e purista, ammirava, ma s’impennava, raccogliendo i barbarismi e le improprietà di vocaboli, in quel suo staccio critico di cui si è troppo servito, e che, spesso, ritenendo i sassolini, lasciava cadere i diamanti.

  Jules Janin parlava di successi effimeri e di moralità.

  L’onore di aver compreso Balzac spetta a una donna. Le donne, in generale, hanno sempre l’anima più aperta di quella degli uomini alla Bellezza, e comprendono la Poesia, la Musica, un quadro, una statua, una cattedrale meglio di qualsiasi erudito e critico di professione: perciò Ibsen, per esempio, e lo stesso Pascoli creando, pensarono tanto alle donne! George Sand, dunque, con poche parole, ma con grande perspicacia e precisione, definì l’opera del Balzac. “Non sono romanzi come si concepivano prima di lui, i libri immortali di questo grande critico”.

  Così, è, infatti. Prima del Balzac, due tipi di narrazioni si contendevano o, meglio, si dividevano il favore del pubblico: il romanzo personale autobiografico, al quale si alternava quello epistolare, ed il romanzo storico. Balzac intuì quale dovesse essere il nuovo cammino da assegnare al romanzo per conferirgli un’importanza reale. Egli seppe elevarlo ad altezze prima non mai conosciute, lo animò di un respiro ampio, lo liberò da ogni formula e dalla schiavitù di ogni modello, penetrò, da privilegiato veggente, i misteri del cuore umano e le leggi psicologiche e morali della vita e quelli svelò, questa dipinse con olimpica serenità. Il carattere essenziale e più visibile delle sue opere è appunto quello che lo distanzia dagli scrittori precedenti: i suoi romanzi non sono confessioni personali; non hanno per soggetto personaggi ed eventi suggeriti da speciali ragioni o vicende intime. Il suo scopo, per dir così, è l'obiettività e, se qualche volta pur gli capita di descrivere sè stesso e le sue passioni o le sue avventure, si maschera e pone ogni cura per non essere riconosciuto. Nè lascia da parte, come i predecessori, quanto può sembrar comune, volgare; non esita a introdurre nei suoi racconti tutto ciò che può esser materia di osservazione, di vita, di vita reale. Balzac comprese che un genere d’arte, il quale si proponga la rappresentazione fedele della vita, non deve trascurare ciò che costituisce la trama giornaliera dell’esistenza umana e che produce la preoccupazione tanto della gran dama nel suo boudoir come di Cesare Birotteau nel suo gabinetto di lavoro o del Duca di Chaulieu nel suo palazzo suntuoso.

  Balzac è il vero primo e sublime creatore del romanzo moderno. Si pensi, non dico altro, a quel suo piccolo capolavoro che è Il Colonnello Chabert! Riferirne solo l’ordito sarebbe mezzo troppo inadeguato per rilevarne l’importanza. Bisogna leggerlo intero e attentamente, per comprendere quanta finezza di tocco ci sia in alcune pennellate, quanto acume di osservazione e di penetrazione! ... Il Colonnello Chabert, lasciato per morto su un campo di battaglia all’epoca napoleonica, torna in Francia e, dopo molte peregrinazioni interessantissime, trova che il suo decesso è stato regolarmente registrato e che sua moglie si è rimaritata. E cominciano allora la lotta e le corse negli studi notarili e legali per riconquistare almeno una pensione vitalizia! La moglie, in pubblico, finge di non rico[no]scerlo (sic) e gli dà del pazzo; ma nei colloqui intimi non può sottrarsi al turbamento che in lei suscitano le prove fornite dal disgraziato e l’eloquenza delle sue dimostrazioni. Dopo lunge (sic) vicende, Chabert, infine, fa la grande rinuncia e termina la sua esistenza nel dolore e nella miseria.

  Nessun romanziere era stato mai ritenuto degno, in Francia, di entrare a far parte dell’Accademia degl’Immortali. Dopo l’opera del Balzac, che nell’Accademia naturalmente non entrò, i romanzieri, sotto la Cupola, si seguono come i Re di una gloriosa Dinastia.

  Certo, non si può affermare che nulla, proprio nulla, sia da criticare nei tanti volumi del Balzac ... Ma a che servirebbe sottolineare quel poco che può sembrare trascurabile o censurabile, rispetto a quel moltissimo che è da prendere per buono, per ottimo, e da lodare? Il fatto è che tutti i romanzieri succeduti al Balzac hanno, a piene mani, cavato sempre tesori da quella copiosa miniera, come quella tal gente del Pascoli, che della quercia caduta ognuno taglia, ognuno prende, ognuno a sera col suo grave fascio va ... Nell’aria il pianto ... no, non di un discepolo grato, ma del Maestro stesso addolorato ...

  I contemporanei non potevano tollerare del Balzac l’immenso orgoglio. Ma Balzac era anche l’uomo da mettersi a lagrimare annunziando la morte di qualcuno fra i personaggi da lui immaginati pei suoi romanzi.

  Un giorno, mentre lavorava, tutto trasandato e scomposto, un amico entra nel suo studio e gli annuncia Madame Marneffe, l’orribile e seducente Madame Marneffe, il mostro delizioso del romanzo intitolato Cousine Bette. Balzac annoda febbrilmente la cravatta, passa una mano civettuola fra i suoi capelli arruffati ed esclama: — Fate entrare!

  Più tardi, Balzac lotterà ansiosamente contro la morte, domandando al suo medico se avrà ancora almeno otto giorni di vita, il tempo ossia di scrivere un ultimo libro, esortato dal medico stesso a star tranquillo e a mettere la sua mente in pace, nel vaneggiamento dell’agonia, egli invocherà un altro suo personaggio, il Dottor Bianchon, gridando: - Chiamatemi Bianchon! Solo lui mi può salvare! …

  Si ride di questi episodi. Bisogna invece ammirare. Si pronunci ad alta voce il nome di un personaggio preso in un qualsiasi romanzo: suonerà falso, nome-fantasma attribuito ad un essere irreale, facilmente dimenticabile. Si dica, invece, per esempio Papa Goriot: un essere sorgerà, come se gli Spagnuoli dicessero: Don Chisciotte; come se noi Italiani dicessimo: Don Abbondio ...

  Se poi ci fermassimo ad esaminare la bibliografia balzachiana, rimarremmo stupefatti notando come nel solo anno 1832 siano scaturite da quella magica penna ben ventidue tra grandi e piccole narrazioni; quasi tutte[2] gioielli perfetti! Balzac ha soli trentratrè (sic) anni! Ormai la sua scienza, la sua comprensione dell’uomo si fisserà in figure immortali ...

  Ecco il medico di campagna, anima nobile, retta, caritatevole: uomo di viva intelligenza e di alti sentimenti, il quale vorrebbe realizzare quell’organizzazione pura e sana della società, che Balzac sognava e di cui non trovava le tracce in quella ch’era uscita dalla Rivoluzione. — Ecco la dolorosa e commovente storia di Eugenia Grandet. Grandet, un avarissimo commerciante è riuscito a far fortuna negli affari, ma, quantunque ricco, lascia che la moglie e la figlia Eugenia — due donne sottomesse, affezionate, nobilissime, sempre disposte al sacrificio, come molte creature femminili del Balzac — vivano nelle ristrettezze, confinate in una città di provincia. Ma Eugenia serba in fondo al cuore un affetto intenso per suo cugino Carlo, il quale, dopo il fallimento del padre, è partito per le Indie in cerca di fortuna. La fanciulla vive nell’attesa e nella speranza. Cinque anni dopo, morti i suoi genitori, ella si ritrova in possesso di diciassette milioni e crede di poter sposare Carlo; ma questo, che a sua volta ha fatto fortuna, si è fidanzato con una signorina di famiglia aristocratica. Disillusa, Eugenia, dopo aver pagato due milioni di debiti del padre di Carlo concede la sua mano al vecchio Cruchot de Bonfons, a condizione che il matrimonio sia soltanto formale. Ben presto la giovane donna rimane vedova ed impiega il suo danaro in opere di beneficenza.

  Nel 1834 Balzac scrive il suo Re Lear, ossia quel Papa Goriot, dove non solo i personaggi sono, come nel precedente romanzo, di una verità potente, ma anche l’ispirazione centrale dimostra l'incommensurabile vastità del genio schietto. Papà Goriot è un monomane, un eccessivo. Per lui non esistono che le figliuole, al benessere delle quali si sacrifica, stimando che sia il più imprescindibile dei suoi doveri fare tutto ciò che ad esse possa riuscir gradito, anche se si tratti di cose indegne o immorali. Niente esiste al di sopra del suo amore paterno. E per le figliuole si riduce in miseria; per far piacere ad una di esse: Delphine, che si è invaghita di Eugenio di Rastignac, egli incoraggia, consiglia, guida l’ambizioso giovane e lo getta fra le braccia di lei. Miserabile, moribondo, abbandonato dalle figliole che han fatto fortuna, Papà Goriot non si lamenta, non impreca, non maledice, anzi le giustifica. E, al momento della morte, un’ultima illusione lo sorregge: che esse siano là, presso il suo povero giaciglio. Balzac ha dato a questo padre un’elevatezza ed una espressione che non palpitano in nessun altro romanzo del mondo.

  Dopo avere scritto quella Ricerca dell’Assoluto, in cui è raffigurato, con straordinaria potenza di simbolo, un erudito divenuto maniaco per la scienza, a cagione della quale trascura ogni altra cosa, Balzac volle, anche lui, cantare la sua piccola canzone sentimentale: volle essere dolce perché era forte e farsi piccolo perché era troppo grande. Il giglio nella valle è un mazzolino di fiori, oggi appassito, ch’egli depose tremando sulle ginocchia della Donna. E le donne della sua epoca gli furono riconoscenti per questo: presero quel mazzolino e ne aspirarono il profumo, con gli occhi semichiusi dal piacere. La Signora di Mortsauf — donna eroica in fatto di abnegazione —, moglie di un conte infermo ed irascibile, alla cura del quale si dedicava con fervore mirabile, in un Castello della vallata dell’Indre, nutre per un giovane un’amicizia pura, ma amorosa e gelosa. Questo giovane accetta il legame platonico, ma — lontano dagli occhi ... lontano dal cuore — è avvinto dai lacci di una passione sensuale per una Marchesa. La Signora di Mortsauf, allora, divorata dalla gelosia, si spegne nel dolore.

  Si può dire del Balzac che egli conobbe gli uomini, ma rispettò il mistero della donna. Si spinse talvolta solamente sino a descriverla vecchia e perfida, ma non osò mai attaccarla, se non dopo averla dipinta barbuta e sdentata. Di Madame Marneffe egli volle la redenzione. La malignità della donna egli la fece scaturire dall’infamia del marito, come Dio trasse Eva da una costola di Adamo. Balzac volle vedere le sue eroine sotto quella luce lattiginosa delle candele, che restituisce le grazie dell’adolescenza alle donne di trent’anni e suscita il nimbo di un idillio intorno alla conversazione di un salotto.

  Si è spesso derisa la predilezione che Balzac ebbe per il lusso; si sono dimenticate le sue mirabili descrizioni della miseria parigina e della scialba mediocrità provinciale.

  Lo si è spesso accusato di essersi ingannato nel descrivere i particolari della toilette d’una donna alla moda: che importa? Ci ha mostrato, in compenso, tutta la sua anima.

  Immaginiamoci un momento di vivere al tempo del Balzac, e di andarlo a trovare, in uno di quegli appartamentini innumerevoli a Parigi, tutti d’un medesimo stampo — dove viveva sconosciuto, sotto un falso nome.

  Balzac è solo.

  La solitudine è la sua croce e il suo orgoglio. Egli si priva di tutto, per lavorare e pagare i suoi debiti: ha trovato un mezzo eroico: va a letto alle otto e si alza alle due del mattino. Indossa la sua celebre tunica monacale di lana bianca, sui larghi pantaloni bianchi; i suoi piedi son calzati di marocchino rosso; dalla cintura gli pende un paio di forbici d’oro. Gli furono aspramente rimproverati tali accessori: sotto Luigi Filippo non s’immaginava ancora che si potesse trovar gusto a guardare e a palpare oggetti belli.

  Dalle due alle otto, la sua mano, quella mano che era tanto leggiadra, ch’egli molto curava e di cui era ingenuamente superbo, corre sulla carta; le sole interruzioni sono un bagno caldo di un’ora e una colazione frettolosa: uova, acqua, caffè: un caffè che preparava egli stesso, che desiderava forte, fortissimo, pur sapendo che gli avrebbe minato la salute. Una volta rimase chiuso ventidue giorni e ventidue notti senza mai uscire, fuori della sua cameretta, per prendere una sola boccata d’ aria.

  Un precetto importantissimo della sua igiene consisteva nel bere pochissimo vino e mangiar poca carne; in compenso, era un divoratore di frutta.

  Ma dove prendeva il tempo di vivere?

  Tutto può essere osservato, e rapidamente, quando si hanno occhi di aquila!

  Così Balzac ha compiuto il miracolo di creare, per quasi tutte le regioni della Francia, lavori nei quali l’ambiente è dipinto con una minuziosa rispondenza al vero, possibile solo nei libri cosiddetti regionali. Bastava al Balzac — il fenomeno pare che si sia ripetuto nel romanziere spagnuolo Blasco Ibanez – un celere viaggio, per intuire l’anima di un paesaggio e riprodurne le linee e i colori, come nessun altro avrebbe potuto fare, anche se avesse speso una lunga intera vita di familiarità comunicativa e poetica coi luoghi rappresentati.

  Balzac dedicò alla vita il solo tempo che fu necessario per trarne materia all’opera cui si era votato. Ma, se visse apparentemente poco, visse però con un’intensità spaventosa ed una originalità singolarissima.

  Ah! le bizzarrie di Balzac! Esse hanno fatto vuotare i calamai, per narrarle e commentarle, molto più dei suoi capolavori! Balzac che accende trecento candele nel suo appartamento, dimenticando di spegnerle nell’atto di andare a teatro; i progetti finanziari e industriali di Balzac che sogna di comprare gli escrementi di tutto un paese per spedire il concime in America; una casa dove era stata dimenticata la scala; il suo bastone enorme, i bottoni in oro massiccio e quei pasti pantagruelici in cui il poveruomo, senza dubbio per rifarsi dei lunghi giorni di dieta, inghiottiva cento ostriche e divorava dodici cotolette! E la lotta raccapricciante ed eroicomica contro i debiti che gravarono su di lui, di giorno in giorno sempre più: cominciati in giovinezza ai tempi dell’infelice tentativo di metter su una tipografia, e ch’egli affermava sempre di poter saldare entro tre mesi, poiché amava i calcoli, pretendeva di essere economo e si illudeva di possedere una spiccata abilità commerciale! Noi ci abbiamo guadagnato gli studi atroci e vibranti sugli uomini d’affari e i sinistri imbrogli del danaro.

  E questa è un’altra ragione che spiega le ostilità dei contemporanei: la questione del danaro somiglia a quella della morte: si sa che esiste, ma si preferisce di non udirne parlare. Le belle signore che hanno sposato un vecchio per i suoi scudi, i tapinelli che agognano una dote vistosa, sono tutti lettori idillici, sono i migliori soci dell’Arcadia, sono gli spettatori pregni d’ideale. La vita sembra loro laida, perché essi se la rappresentano a immagine e somiglianza dei loro pensieri e vogliono quindi distrarsi. E le distrazioni che essi desiderano sono loro ammannite sia dagli autori virtuosi e moralisti che da quelli viziosi ed osceni. Uno scrittore come Balzac che non offre protagonisti aggraziati, sempre dai capelli d’oro, dagli occhi di ametista e dalla carnagione di giglio e rosa, s’intende che dà ai nervi a chi deve celare a sé stesso le proprie magagne.

  E poi il pubblico predilige gli scrittori specializzatisi e cristallizzatisi in un determinato genere: vuole che il pittore di pecorelle si rassegni alle sue eterne pecorelle; se, per caso vien fuori con una naiade, è un traditore! Balzac s’inabissa in un mondo per precipitare subito dopo in un altro, scrittore ora espansivo, ora pungente, sentimentale col Giglio nella valle, briccone nelle Sollazzevoli Historie, drammatico in Vautrin, grandiosa statua del male e della corruzione, finissimo nelle Piccole miserie della vita coniugale, e talvolta tutto ciò nel medesimo tempo. La critica inforca sopra un asino obeso, ansava e sbuffava nel seguirlo. Balzac disorientava ed irritava i lettori. In realtà, se egli si fosse ripetuto di libra in libro, ricominciando trenta volte le Piccole miserie della vita coniugale, così amare e profonde sotto la loro piacevole e ingannevole apparenza, avrebbe conquistato una rapida e diffusa celebrità. Balzac? Ah! sì ... colui che conosce così bene le donne! Lo scrittore mordace per eccellenza! Rinnovarsi è un peccato. E Balzac commise lo shakespeariano peccato di affrontare tutte le facce della vita, passando dalle Piccole miserie a Eugenia Grandet, e costituendo, col Molière e col Pascal, la triade dei supremi Geni della Francia.

  Nulla è più divertente quanto il vedere i vari partiti politici disputarsi Balzac. Sarebbe egualmente facile tratteggiare un Balzac socialista e un Balzac conservatore, anzi reazionario.

  Un romanziere, quando si occupa di politica, quando si asservisce alla politica, altera i fatti, le cose, le persone, a seconda della sua tesi. E mentisce. Balzac non ha mai mentito. Egli era di quei puri Artisti che preferiscono l’odio impulsivo del momento al freddo e costante proposito. Perciò le sue contraddizioni lo rendono immacolato nella sua umana e genuina coerenza.

  Si disse che Balzac adulò alquanto la sua epoca. Ma l’accusa provenne da coloro che si dilettavano delle porcherie di Paul de Kock e non potevano interessarsi alle sciagure di Birotteau, ossia alla filosofia di Balzac.

  Ebbe Balzac ragione di tanto scrivere?

  La risposta è semplice: produsse molto, perché molto lavorò.

  “La mia opera, scriveva nel 1834 alla Signora Carraud, deve contenere tutte le figure e tutte le posizioni sociali: essa deve rappresentare tutti gli aspetti della società, senza dimenticare nè una situazione della vita, nè una fisonomia, nè un carattere d’uomo o di donna, nè una maniera di vivere, nè una professione, nè un paese di Francia, nè la minima cosa dell’infanzia della vecchiaia della maturità della politica, della giustizia, della guerra”

  Vasto e arduo piano, che non potè essere eseguito completamente dal romanziere, sorpreso dalla morte nel periodo della piena attività. Tuttavia, quantunque molti studi di costumi manchino all’integrità del colossale monumento letterario, esso ci appare, così com’è, press’a poco quello che l’autore voleva che fosse. Egli ordinò tutti i suoi romanzi, i suoi racconti, le sue novelle, idealmente, come si sa, in una costruzione unica, cui assegnò il titolo di Commedia umana. Sulle origini e la paternità di siffatta denominazione generale si discusse già molto, e molto si discuterà sempre: il prospetto della serie apparve, la prima volta, nel 1842, e fu definitivamente fissato nel 1845, quando cioè Balzac aveva già pubblicato moltissimi romanzi.

  Egli non procedette, s’intende, nella composizione delle sue opere, secondo tale piano prestabilito; bensì disordinatamente, ed anzi pubblicò alcuni dei suoi lavori — per esempio La Donna di trent’anni, — a diverse riprese e senza neanche seguire la progressione dei capitoli. Di più egli aveva sul telaio, come il nostro Alfieri per le sue tragedie, sempre due o tre romanzi contemporaneamente. E, certo, di questo modo di lavorare non metodico ed affrettato molte sue creazioni risentono, sia nel mancato equilibrio delle diverse loro parti, sia nell’imperfezione del disegno in alcuni caratteri. Ma ciascuna delle singole creazioni fa dimenticare agevolmente i suoi particolari difetti quando si pensi al tutto in cui è inquadrata: al tutto logico e profondo, cui Balzac, trovando felicemente la parola che compendiava il significato della sua opera, la natura del suo genio, la via del suo destino, assegnò quel titolo lapidario: La commedia umana ...

  Essa è divisa in tre grandi parti: Studi di costumi, Studi filosofici, Studi analitici.

  Gli Studi di costumi poi si suddividono in: Scene della vita privata, della vita di provincia, della vita parigina, della vita politica, della vita militare, della vita di campagna.

  Con tutte queste Scene e con gli Studi filosofici ed analitici, il Balzac, possiamo dire, ha dotato la Francia e la letteratura universale di una tenuta immensa, dove si trovano parchi e steppe, querce robuste, sterpi ed alberi nani.

  Conobbe Balzac l’ansia di raggiungere la Verità Spirituale dietro le tante manifestazioni di vita che egli osservò, colse, classificò, coordinò, quasi sempre perfettamente rappresentandole?

  Interpretato alla lettera, Balzac formicola — ripeto — di contraddizioni: le ha elencate acutamente Lorenzo Giusso, presentando il poderoso studio di E. R. Curtius (Balzac, Grasset).[3] Ma attraverso tutte quelle contraddizioni, non è difficile indovinare il sentiero unico che conduce alla meta ultima: una meta certa.

  Tutti i personaggi del Balzac si scaglionano in gironi lungo una piramide che ha per base la malvagità ma culmina nell’apoteosi dell’uomo trasumanato. Allo stesso modo, si può dire, che Hegel passò in rassegna le apparizioni della storia, dalle più elementari e grezze alle più sviluppate e complesse, Balzac costruì, con un possente senso di unità, una gerarchia di creature salienti dalla cupidigia più sfrenata fino agli slanci dell’amore sublimato a volontà etica: usurai, avventurieri, truffatori, arrivisti, cortigiane, libertini, affaristi, fino a un vero e proprio coro di cherubini e serafini umani.

  Del resto. l’individuo stesso apparve al Balzac un essere a più strati profondo, capace di spingersi fino all’angelo o di precipitare fino al demone. “La vecchia sentenza che fa dell’uomo un microcosmo e dell’universo un macrantropo era per Balzac verità incontrovertibile. Quel senso dialettico, per il quale Dio e Mefistofele mantengono rapporti di buon vicinato fra loro, e il Paradiso dove regna l’eterno femminino ha bisogno dell’Inferno, e il Bene del Male, Balzac l’ha professato compiutamente. Anche per lui, Male e Bene sono inseparabilmente legati l’uno all’altro e grande è la sua compiacenza per le passioni o per le virtù assolute e per i personaggi assommanti in sè le più alte potenze del vizio o della bontà”.

  Balzac si fece, dunque, dell’Arte una fune, per dare, anche per conto suo, la scalata all’Assoluto. Facendo passare nell’Arte l’intero quadro degli esser umani, ad altro non intese se non a conoscere e a far conoscere l’Universo e Dio nel microcosmo umano.

  E, vedendo l’uomo, vedendo tale microcosmo, sempre, come la sintesi dell’intera storia dell’universo, non di rado primaverilmente come una coincidenza con l’Assoluto stesso, quell’Assoluto il Balzac riuscì a stringerselo in pugno, sentendosi fuso con la Forza creatrice del Cosmo, immergendosi nell’Unotutto, per uscirne taumaturgo che abolisce ogni dissidio fra religione e filosofia e scienza, fra speculazione così detta libera e autorità.

  Non c’è troppa distanza, in conclusione, fra le aspirazioni e le conquiste di Balzac e quelle del Faust goethiano: anche il Balzac, chi sappia ben comprenderlo come il Curtius, riuscì a carpire all’Anima del Mondo un po’ del segreto della demiurgia creatrice: perciò Balzac può essere incluso nel breve elenco degli Artisti sommi del genere umano, che al genere umano, per mezzo del­l’Arte, hanno rivelato una parte del Vero![4]

  Il genio è coronato di pazienza. Per l’esplicazione di esso occorre un’energia che malinconicamente, a poco a poco, anche si sciupa ed esaurisce, come i secoli divorano la storia che li crea, e la congerie dei libri stampati rende dapprima più scarso e poi annulla il numero dei lettori, e la progressiva diffusione della radio distruggerà la musica.

  Anche Balzac rassomiglia tanto ad un suo stesso eroe: l’eroe di quel mesto e significativo racconto che è intitolato: Peau de chagrin. La parola chagrin significa, in francese, pena e zigrino. Un giovane entra in possesso di una stupenda pelle di zigrino. Quel talismano gli permette di realizzare ogni desiderio, ma, di mano in mano che essi si traducono in realtà, la preziosa pelle si restringe, diminuisce, scompare, come la vita stessa maravigliosa e fuggitiva.

  Vanita la pelle, cessa l’esistenza e insieme il gioioso affanno del suo proprietario, che si spegne. Così cessò la dolce vita di Meleagro, quando Altea, simbolo perfetto di quel Fato che ci deve pur sempre punire delle pur inevitabili colpe, dimenticando di essere madre e resa vindice dall’impulso di una superiore giustizia, gettò tra le fiamme il tizzone, che del figliuolo rappresentava e custodiva il volger degli anni mortali.

  A cinquantun anno, Balzac, privo per due mesi di movimento e di parola, inchiodato al suo atroce letto di agonia, come una mummia, mentre la tanto sospirata straniera, divenuta alfine, dopo tredici anni di amore e di attesa, sua moglie, adultera sotto lo stesso tetto coniugale, tradiva il rantolante Titano, allo stesso modo come per lui aveva già tradito il suo primo marito, Balzac sentì che il suo tizzone era ormai consumato, che il gomitolo della sua vita era ormai tutto svolto — e morì.[5]

  Ma, forse, spirando, egli amò un’ultima volta, con disperato e sereno amore, quella vita terrestre che gli aveva ispirato tanti romanzi immortali, e ripensò le parole altra volta pronunciate, con un sorriso infantile e vittorioso: “La vie, c’est du courage!”.

 

 

Paul Bourget, pp. 153-158.

 

  pp. 153-155. Per meglio testimoniargli la loro devozione, essi [gli amici e gli ammiratori del Bourget] han voluto riunirsi a Passy, nella piccola casa che fu già dimora del Balzac. In tal modo la gentile cerimonia letteraria, in cui René Doumic e Georges Lecomte sono stati i commossi interpreti di tutti i presenti e di tutti gli ammiratori sparsi per il mondo, è stata compiuta nel nome del sommo Maestro, dell’immortale Autore della Commedia umana, che del Bourget è stato il dio. Il Bourget stesso ha descritto il colpo di folgore che ricevette quando — essendo ancora in collegio — lesse per la prima volta il Père Goriot, in una sala di lettura della via Soufflot. “Mi ricordo: era l’una: chiesi a caso il primo volume del Père Goriot. Sul marciapiede della via Soufflot mi ritrovai alle sette: avevo terminato in sei ore la lettura dell’opera intera. L’impressione prodotta in me da quella lettura — come una specie di allucinazione – era stata così forte, che, fisicamente, barcollavo. L’intensità del sogno nel quale Balzac m’aveva immerso era analoga all’ebbrezza che dà l’alcool o l’oppio. Passò più d’un minuto prima che potessi avere il senso della realtà che mi circondava, della mia stessa povera realtà. Quel fenomeno di ebbrezza immaginativa era accompagnato da una così completa impotenza a coordinare i movimenti, che impiegai un quarto d’ora per raggiungere il collegio di Santa Barbara, dove andavo a desinare. E non c’erano più di trecento metri da percorrere! Nessun libro mi aveva mai sino allora procurato i rapimenti di un’esaltazione simile. Nessuno me li ha procurati dopo … La mia vocazione di scrittore data da quel giorno …”. Sì, il Bourget avrà studiato attentamente quali modelli il Sainte-Beuve, il Taine, lo Stendhal: ma ha derivato direttamente la sua arte dal Balzac. Dal Balzac il metodo, che il Taine perfezionerà; dal Balzac il desiderio d’innalzarsi al di sopra delle cose, per scoprirne le cause, e quella tendenza – che doveva però talvolta anche danneggiare l’opera d’arte – di trasformare il romanzo in opera sociale, di farne mezzo d’insegnamento, di propaganda, cattedra di moralità …

  È giustamente sembrato, quindi, che, fra tutti gli omaggi, che si potessero rendere al Bourget, quello gli sarebbe riuscito più caro ed avrebbe insieme meglio espresso la generale venerazione, che lo avesse senz’altro designato, già sin d’ora, quale discepolo di colui nel quale si riconosce ormai universalmente il principe del romanzo francese. Al festeggiato, in ricordo del suo giubileo, è stata offerta una medaglia d’ oro.

  Poeta, critico, filosofo, Paul Bourget ha scelto il romanzo per esprimere le sue idee, perché appunto, dopo il Balzac, il romanzo è divenuto, in Francia, la forma universale, che serve a stabilire una perfetta comunione di spiriti fra autore e lettori. Il Bourget ha adoperato il romanzo come mezzo adatto per esaminare i sentimenti e i problemi che lo hanno interessato e per suggerire le conclusioni che egli ha giudicate precise e utili a divulgarsi.

  Lo studio psicologico si accorda sempre, nei volumi del Bourget, con le preoccupazioni determinate dall’assiduo meditare sui più importanti problemi sociali: tutta l’opera bourgetiana, così vasta, ha per fine precipuo l’analisi delle verità morali. L’arte del romanzo, così compreso e trattato, ha per condizione essenziale ciò che il Bourget chiama: credibilità, ossia una maniera di rendere vere le situazioni, di persuadere il lettore che i personaggi, ai quali egli prende interesse, vivono, che sono realmente vissuti.

  Nei romanzi del Balzac codesta credibilità è il risultato di un dono, in cui entra quasi un inconsapevole istinto poetico; nei romanzi del Bourget sembra invece ottenuta con lo sforzo riflesso di un lavoro potente, e mediante una tecnica scrupolosa, esperta.

  Attraverso i personaggi fittizi, quello che si manifesta costan[te]mente (sic) nei romanzi del Bourget è, per ciò, l’animo vigoroso e sincero, l’intuito penetrante e chiaroveggente dell’autore.

  Infine, le numerose opere, che il Bourget ha pubblicate, seguendo anche un piano, che, in certo modo, richiama alla mente quello della Commedia umana, sono, nel medesimo tempo, dei romanzi e degli atti di fede; nel loro insieme esse costituiscono una specie di commentario filosofico della vita in generale ed anche, per alcuni lati, della vita nazionale francese.

 

 

  Fede Paronelli, Honoré de Balzac, «La Ricerca psichica (Luce e ombra). Rivista mensile», Milano, Anno XXXV, Fasc. 11, Novembre 1935, pp. 637-638; 1 ill.

 

  Il celebre romanziere francese (Tours 1799-Parigi 1850) il fecondissimo autore della «Comédie humaine» attraverso le cui pagine ricche di potenza descrittiva, di vivacità pittoresca, di sagace e profondo spirito d’osservazione, di fine pittura delle umane passioni, merita di essere ricordato come uno dei pionieri dell’idea spiritualista, degli studiosi attentissimi di fenomeni metapsichici e sopranormali, dei credenti fervidi in un più alto destino dell’essere umano.

  In quei suoi romanzi raccolti sotto la denominazione di Studi filosofici (1), i grandi problemi della vita spirituale si affacciano e balenano sotto la ricchezza pompose della sua penna d’artista.

  Il Balzac ebbe la fortuna di assistere agli inizi del movimento spiritualista in Francia, cosa che non poteva se non rallegrare profondamente, pur senza sorprenderlo, un ardente discepolo di Swedenborg, un serio e distinto occultista quale egli era.

  In «Ursule Mirouet» abbiamo la descrizione viva, palpitante di ben tre apparizioni d’un defunto. La stessa protagonista del celebre romanzo narra a l’abate Chaperon tali apparizioni, per mezzo delle quali lo spirito del padrino le rivela circostanze dettagliate a proposito d’un furto di cui essa era rimasta vittima. In «La peau de chagrin» la potenza di un talismano segnato dal suggello di Salomone. forma il perno d’una grande vicenda psicologica.

  Nelle novelle «La recherche de l’Absolu» - «Louis Lambert» - «Les proscrits», il trascendentale ha un ruolo importantissimo, di base.

  Nel delicatissimo racconto «Jésus-Christ en Flandre», con mirabile ingenuità e grazia di stile, Balzac ci illustra il miracolo della fede, ci mostra il Cristo che cammina sulle acque tempestose del mare, traendo in salvo, tra i naufraghi, quelli che con sicurezza assoluta lo seguono poiché credono ciecamente in lui e nella sua forza divina; ci mostra in vive figure simboliche l’antica gloria e l’attuale decadenza della Chiesa, potente e feconda d’opere meravigliose allorché vivificata dalla Fede purissima, ardente creatrice di miracoli.

  In «Seraphita» la teoria swedemborghiana trova ampio e profondo sviluppo, poiché, come già dicemmo e come notiamo anche in «Ursule Mirouet» lo Swedenborg doveva aver colpito vivamente lo spirito e la fantasia di Balzac.

  «Se le idee sono una creazione propria dell’uomo» — egli afferma — se esse sussistono vivendo di una vita loro propria, esse devono avere delle forme inafferrabili per i nostri sensi esteriori, ma percettibili ai nostri sensi interiori quanto essi sono in certe date condizioni. Se è vero che le idee si muovono nel mondo dello spirito, uno spirito può percepirle. Questi fenomeni non devono apparirci più strani di quelli, ad esempio, della memoria; e quelli della memoria sono altrettanto sorprendenti ed inspiegabili quanto il profumo delle piante, che sono forse le idee delle piante».

  Ci sembra che, dopo queste parole e specialmente dopo la lettura degli studi filosofici balzachiani, non si possa più affermare che Balzac sia stato un materialista od un positivista cinico, un verista ad oltranza, come molti oggi ancora pensano o pretendono!

 

  (1) — Luigi Lambert; Frammenti d’un veggenteSeraphitus-Seraphita (sic) — Orsola MirouetI proscrittiLa pelle di zigrinoLa ricerca dell’Assoluto — Gesù Cristo in FiandraMelmoth riconciliatoIl capolavoro sconosciutoL’ultima delle fate. ecc.

 

 

  Francesco Picco, Paolo Arcari, “Balzac”, Brescia, «Morcelliana», 1934, pp. 201. L. 8., «L’Italia che scrive. Rassegna critico-bibliografica per l’Italia che legge», Roma, A. F. Formíggini Editore, Anno Diciottesimo, N. 2, Febbraio 1935, p. 33.

 

  Tracciare in duecento pagine obbiettive e lucide il profilo psicologico dell’autore della Comédie Humaine; dire del suo pensiero tumultuoso, della sua immaginazione vulcanica, della sua inspirazione straripante che si riversa per mille rivoli e feconda la materia incandescente e viva dei suoi cento romanzi. non era certo impresa da pigliarsi a gabbo. Occorreva, ben s’intende un’informazione compiuta e profonda dell’opera, una consuetudine intima con lo scrittore e un metodo di lavoro; aver cioè, oltre alla necessaria preparazione, la mano fatta. Paolo Arcari costruisce, in realtà, un Balzac, come già un Amiel, un Manzoni, un Pascal, un Parini con un procedimento suo. Ne tenta, com’egli stesso si esprime, il «ritratto» dopo d’aver guardato a lungo, e considerato a fondo l’originale; vuol cogliere fra le linee, la linea, fra le espressioni, l’espressione, nelle opere, la confessione». Vuole essere l’interprete per bocca del quale l’autor medesimo si confessi. Orbene, ne risulta, a suo meditato avviso, che «le linee dominanti» della creazione balzachiana a sono costituite «dalla bramosia dei beai più materiali e concreti della vita», come egli viene dichiarando nel capitolo che per l’appunto intitola: L’appetito delle cose esterne; dall’«ebbrezza di allargare il tumulto della loro conquista», come esemplifica in quello che segue: L’ebbrezza delle cose esterne; dalla «stanchezza e dal logorio degli insani desideri», come conclude nel terzo ed ultimo capitolo: L’insufficienza delle cose esterne. Il Balzac, cresciuto alla scuola del bisogno e che comincia a scrivere per pagare i debiti, è travagliato e sospinto da mille appetiti: di danaro, di lusso, di amori, di grandezza, di gloria. Toccato l’«apice folgorante» della fama, si sente preso da una sorta di folle ebbrezza, legato, come un forzato a vita, alla tua fatica (croce sua e delizia) di romanziere; egli vuol dire tutto ciò che ha veduto, provato, goduto, sofferto. E crea la Commedia Umana «l’opera rappresentativa della civiltà borghese ed ottocentesca».

  Ma le «cose esterne» gli si rivelano «insufficienti»; uno scoramento gli si insinua nell’animo; sente il dissidio fra la sua «logica di grande per l’ingegno e la logica del mondo»; prova «sazietà intellettuale, delusione sentimentale, repugnanza morale». E poiché non lo soccorre la fede, egli è, e rimane, uno scontento, un deluso. La sua «concezione vitaiola» è fallita.

 

 

  A.[ntonio] Porta, Appunti del bibliofilo. Critica. P. Arcari: “Balzac”. – Morcelliana, Brescia, 1934, «Alleanza Nazionale Del Libro. Rassegna di cultura», Milano, Anno II, N. 5, 1935-XIII, pp. 221 e 224.

 

  «Qui la biografia non c’è; l’elenco delle opere non c’è, il giudizio complessivo c’è in ogni riga e nessuna»; così l’Autore ai lettori «troppo intelligenti» i quali possono restare un poco perplessi davanti a questo squillo di iconoclasta contro la critica consueta. E in verità l’operetta è per eccellenza un’indagine psicologica e estetica, una rievocazione condotta con grande perizia e sicura conoscenza attraverso la foresta «spessa e viva» dell’Autore ciclopico della Commedia umana. Sono gli eroi del Balzac che parlano; l’Arcari li fa intervenire, descrivere, operare con agile sicurezza, con dominio preciso, in belle pagine appassionate, raccogliendo lo studio in tre capitoli; l’appetito, l’ebbrezza, l’insufficienza delle cose esterne, punti di riferimento per la comprensione e la sintesi del sommo romanziere del secolo scorso. Pure, come tutte le ricostruzioni, il pregevole studio, lascia una impressione di sforzo e di coercizione: gli ottanta volumi del Balzac contengono di più; la voce poderosa prorompente da un periodo storico quale fu il secondo impero (sic) e la Restaurazione supera i limiti imposti, e trasporta lo stesso autore verso affermazioni più vaste, che formano il vero pregio dell’opera. Era assai difficile unificare tanta mole, ridurla ad un comune principio, e si comprende la necessità d’uno schema, ma si ha l’impressione che il critico ci insista troppo, forzando quindi la materia per ridurla ai principi presupposti, sì che sembra perdere la sua bella e gigantesca freschezza, la sua stupenda e primitiva innocenza.

  E’ vero che il Balzac vagheggiò e cerco di conquistare con i suoi romanzi quanto la vita gli aveva conteso e negato, ma si può davvero ridurre a concetto informatore di un’opera simile la bramosia delle cose esterne materialmente intesa — «la spinta determinante, suprema, decisiva venne dalla cassetta» quando egli stesso afferma, appassionatamente: «io ho due soli e immensi desideri: essere celebre ed essere amato»?

  Questo desiderio di beni esterni non era la manifestazione di un’adesione illimitata alla vita, così tragica e panica da divenire mistica; il «gusto e la speranza della voluttà umana» non era la sua forma di comprensione e di superamento, il suo modo di sentire e di esprimere l’universale?

  La sfrenatezza del desiderio è la sua fatalità, quel singolare destino che ogni artista ricerca e si crea, nel quale soltanto ritrova sè stesso, ed a volte si chiama amore, gloria, errore; ma sempre è la condizione della creazione.

  E questa fatalità è sempre immensamente più profonda e misteriosa dell’apparenza.

  Nel paludamento di questa ambizione Balzac scrisse la Commedia Umana, e cadde gloriosamente sotto la soma, ucciso dalla sua stessa grandezza. In tutti i suoi personaggi egli s’identifica, ma li supera: egli è successivamente Grandet, Goriot, Betta, Gandissat (sic); la Restaurazione e l’avvento della borghesia cioè della strapotenza dell’apparenza e del denaro: brama, s’esalta, s’identifica e alfine s’avventa oltre.

  «Appetito di vivere», universale curiosità, universale simpatia: con lui vive, freme tutto: l’Impero, l’aristocrazia che imborghesisce, il denaro che tiranneggia: un’epoca; e descrivendola le oppone implicitamente un altro mondo, suo affanno e gaudio, sua creazione alla quale «mi ci metto con disperazione, e me ne tolgo con rammarico» (pag. 113). Questo carattere lo riconosce lo stesso Arcari, il quale dopo aver cercato di dimostrare la cattolicità del Balzac, deve poi ammettere che «essa fu appena uno dei tanti fenomeni che egli osservava, e rimase, per lui, del tutto esterna» (pag. 192).

  Balzac s’inebriava della realtà, la coglieva ovunque, la possedeva nel miracolo dell’arte, ma descrivendo ama, accusa, crea l’avvenire. Genialità antitetica, protesa su tutto l’uomo e su tutta la vita, stupendamente vitale e fantastico fra disarmonie ed esuberanze indomabili, fra Rivoluzione e Restaurazione, oscuramente proteso fra tumulti sociali, verso i sereni e supremi ideali.

  «Vivere con eccesso»: Balzac ricorda gli adoratori di Shiva, i quali credono d’unirsi alla divinità nell’ebbrezza dei sensi spinta all’estremo culmine, unione dei due mondi, e quanto può sembrare materialità è invece ascesa suprema.

  Se romanziere nel significato ultimo della parola significa genio enciclopedico, artista universale che contrappone ad un mondo reale una visione sua propria, tale fu in sommo grado il creatore del romanzo sociale, il Balzac.

  E l'opera dell’Arcari ne fa sentire il fremito ed il tumulto, e costringendo a volte a dissentire ed a discutere, induce a comprendere l’interiore organicità e ricchezza della sua interpretazione.

 

 

  Jean Prévost, La renaissance de la nouvelle en France, «Rassegna di Studi Francesi. Periodico bimestrale», Bari, Anno XIII, N. 2, Marzo-Aprile 1935, pp. 84-85.

 

  p. 84. La nouvelle ou histoire courte en prose, plus longue qu’un conte, mais plus courte qu’un roman, est un des genres les plus classiques de la France, puisqu’elle a commencé, dès le quinzième siècle, à présenter les caractères qu’elle garde aujourd’hui, et que le roi Louis XI collabora au premier recueil célèbre: Les Cent Nouvelles Nouvelles. Beaucoup plus tôt que le roman, elle a été une peinture familière et véridique de la vie. Plus tard, nos grands romanciers ont tous écrit des nouvelles aussi belles que leurs plus beaux romans. Le Curé de Tours de Balzac ou sa Femme abandonnée sont regardées par nos plus célèbres romanciers modernes, Paul Bourget et André Maurois, comme ses chefs-d’œuvre; les nouvelles de Stendhal ne sont pas moins connues.



  Alfredo Puerari, Rileggendo «Volupté» di Ste-Beuve, «La Nuova Italia. Rassegna critica mensile della cultura italiana e straniera», Firenze, Anno sesto, N. 9, 20 settembre 1935, pp. 282-285.

 

  pp. 282-284. All’accezione comune si attiene lo stesso Maurice Allem nella premessa alla nuova edizione: «l’oggetto proprio del libro è la confessione e la pittura della voluttà, il racconto degli sforzi compiuti per dominarla e il coronamento di questi sforzi, con l’aiuto della grazia divina, con una conversione così intera ch’essa finisce con una consacrazione irrevocabile». Sulla via di questa interpretazione s’era messo commettendo l’errore maggiore, subito dopo la pubblicazione, Balzac, quando, per dispetto a Sainte-Beuve, gli rifece cogli stessi personaggi il romanzo ne «Le lys dans la vallée» per insegnargli, «come andava fatto»; anticipando così l’opinione comune su quella parola «volupté». Félix, il personaggio di Balzac, che corrisponde ad Amaury, ha un« giovinezza amara, triste: dalla grigia vita famigliare tormentata dalla inimicizia e quasi odio della madre, passa ad una pensione e poi ad un oratorio e in un collegio a Parigi, in cui si ripetono verso di lui odii, rancori, incomprensioni, tristezze che lo spingono a corcare il suicidio; l’altezza del parapetto della Loira glielo impedisce; il giorno che partecipa ad un ballo dal duca d’Angoulême certi «éléments morbides», certe timidezze in contraddizione coi desideri prendono come un improvviso sfogo sulle prime belle spalle che il giovane si trova davanti: «Mes yeux furent tout à coup frappés par de blanches épaules rebondies sur lequelles (sic) j’aurais voulu pouvoir me rouler, des épaules légèrement rosées qui semblaient rougir comme si elles avaient une âme, et dont la peau satinée éclatait à la lumière comme un tissu de soie». Dalle spalle al petto la descrizione continua (non ce n’è una di questo genere in tutto il romanzo di S. B.) finchè ecco che fa il giovane Félix: «après m’être assuré que personne ne voyait, je me plongeai dans ce dos comme un enfant qui se jette dans le sein de sa mère, et je baisai toutes ces épaules en y roulant ma tête ....». Lo strano è che dopo un siffatto inizio, quando più tardi conoscerà la persona, cioè Mme de Mortsauf, essa divenga «le lys dans la vallée», l’amore platonico. Nelle monotone, enfatiche pagine che ci descrivono il suo soggiorno presso di lei vediamo un Félix troppo arbitrario, la cui condotta psicologica non ha continuità di passaggi e ci presenta degli stati d'animo d’una grande superficialità. Balzac si salva ancora dove si scosta da S. B., quando guarda con sincera prepotenza intuitiva alle cose, ai fatti, o descrive ambienti, quando può parlare di affari, di commerci, di aziende, e ancora a tratti quando fa delle analisi patologiche della malattia del Duca di Mortsauf, una specie di isterico messo in contrasto dal romanziere con l’eroina, per por quest’ultima costantemente su un piedistallo ideale. Ma tutto ciò che in S. B. era «palpitation maladive» e che era l’elemento inquetante (sic), mobile così fatto presentire, così rientrato quasi nella espressione stessa per ciò che aveva di emotività, sfugge a Balzac, non è affatto capito. Egli mette della salute retorica nell’esprimere le contraddizioni di Félix perché in lui egli non poteva avvertire il dramma di Amaury. Balzac è tutto sfogo, riferimento all’esterno, S. B. ce ne allontana continuamente: così il motivo «volupté» perde la sua consistenza originaria, per divenire invece facile vibrazione fisiologica, con quel che di animalesco che ha sempre nella espressione balzacchiana. Félix, per esempio, sente «une jolie femme comme un chien flaire le gibier», egli è spesso in preda ad una specie «d’avidité d’enfant» abbastanza comica. E quanti ritratti di Madame de Mortsauf, che lunga disquisizione sulla «taille plate» e la «taille ronde»; da queste particolarità fisiche egli deduce, in genere, il carattere: «la taille plate est souple et molle, la taille ronde est inflexible et jalouse». Finchè egli esce nell’esclamazione: «Vous savez maintenant comment elle était faite». Il motivo «volupté», è per lui un ritornello al quale si richiama come ad un tema obbligato che lo fa essere eccessivo. Eppure qualcosa sente che gli sfugge, che il riferimento interiore manca, che tutto gli si traduce in gesto, o sfogo, che i fatti, l’azione non vanno avanti in quelle sale del castello tra una crisi d’isterismo e una passeggiata alla luna. Ritornano allora proprio gli abusati modi della romanticheria più scadente ed enfatica, tutto quello insomma che Sainte-Beuve aveva avvertito come invecchiato già al suo tempo e a cui s’era sottratto, pur lasciando supporre, quasi per fedeltà a tutta una tradizione letteraria, proprio quel modo e quel gusto ai gridi, alle enfasi, ai gran pianti; allora si ha quel comicissimo dono a Félix dei capelli caduti durante un anno a M.me de Mortsauf, e quel falsissimo primo bacio in cui si sente l’autore che crede tenersi sulla falsariga di Amaury contro il suo istinto e si denuncia in una espressione goffa; nell’annunciarne la santità come dice, « sans coupable ivresse, sans volupté chatouilleuse» ce la denuncia con l’abituale pesantezza; l’impossibilità per lui di riferire alla coscienza interna, al vero dialogo introspettivo un suo mondo poetico, lo porta ad una iperbolica definizione: «l’âme aussi avait un sexe», il che doveva essere per lui quell’atteggiamento di «volupté» intellettualistica e psicologica che aveva avvertita in Saint-Beuve (sic) e intraducibile per la sua arte. L’aver voluto Balzac gareggiare poi con un romanzo maturato da una lunga esperienza di gusto e di vita, troppo diversa dalla sua, lo mantiene necessariamente a distanza da personaggi che non si sentono suoi che nelle stonature; senza vera intimità e persuasività comprensiva: così è trascinato al voluto per quell’aver fissato loro una parte alla quale troppo spesso egli vorrebbe contravvenire. Il personaggio che poteva avere ancora delle possibilità di sviluppo per il suo temperamento e corrispondente a M.me R.... di Volupté, cioè lady Dudlev, cade per la schematizzazione cui è fatalmente sottoposta: «Arabelle contente les instincts, les organes, les appétits, le vices et les vertus de la matière subtile, dont nous sommes fait (sic). Elle était la maîtresse du corps. M.me de Mortsauf était l’«épouse de l’âme». E allora le immagini sul tema «voluttà» s’inseguono astrattamente come un elenco, senza quella risonanza spirituale di dramma interno che abbiamo trovato in quella M.me R.... che ha spunti già così «M.me Bovary». Arabelle diviene invece la «bête sublime» la «lionne» l’«amour fertille (sic) en plaisirs»!

 

 

  Giuseppe Rensi, Critica dell’amore e del lavoro, Catania, Casa Editrice “Etna”, 1935 («Eclettica», vol. II).

 

Il divergere dei due amori, pp. 76-78.

 

  p. 77. Anche Balzac ha, in qualcuno dei suoi romanzi, messo in scena questa antitesi [tra amore carnale e amore spirituale]. Questa antitesi per cui «lady Arabella contenta gli istinti, gli appetiti, i vizî e le virtù della materia sottile di cui siam fatti ed era l’amante del corpo; mentre la signora di Martsanf (sic) era la sposa dell’anima».

 

 

  Giuseppe Rigotti, Le donne nella vita e nell’arte di Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Luigi Sorrento, Milano, Università Cattolica del sacro Cuore, 1935.

 

 

  Giovanni Titta Rosa, Creazione di personaggio, «Il Giornale di Politica e di Letteratura. Rivista mensile», Roma, Anno X, Fasc. I-II, Gennaio-Febbraio 1935-XIII, pp. 46-57.

 

  pp. 46-47. Si racconta che un giorno un amico di Balzac, anche lui letterato e romanziere ma incapace di fare concorrenza allo stato civile, andando a trovare l’autore di Cousine Bette, appena, entrato nello studio dove Balzac lavorava tra chicchere di caffè, montagne di fogli e fumo, gli dicesse che nell’anticamera c’era certa signora Marneffe la quale desiderava di esser ricevuta. Balzac si dà una ravviata ai capelli, s’aggiusta alla meglio la veste da camera, e risponde: «Fate entrare!». La signora Marneffe non entrò, perché non era che un personaggio creato da Balzac; appunto, la fosca e seducente Madame Marneffe della Cousine Bette. E’ noto del resto che Balzac non di rado trattava i propri personaggi come persone in carne e ossa, e una volta ragguagliò un amico sulla salute — se non erro — di Père Grandet che s’era ammalato ma ora stava meglio.

  Di queste forti illusioni di Balzac di solito si sorrideva e forse ancora si sorride; ma si farebbe meglio a riflettervi un po' su. Ogni scrittore, è vero, crede fortemente alla vita che presume aver data ai propri personaggi; anche se poi si tratta di vita fittizia, cioè meglio d’una vita più supposta che reale. Tutti i personaggi infatti — anche quelli che paiono quasi esemplati dalla vita, ricalcati su di essa — si può osservare che sono, in senso strettamente etimologico, d’origine fittizia, finti; l’importante è che la finzione sia talmente robusta, concreta, che il personaggio si muova nella vita dell’arte con piena autonomia; sicché lo scrittore, quando l’ha generato, non possa cambiargli le fattezze e debba far i conti con esso quasi come — beninteso su un terreno diverso, morale e creativo — con una persona vivente. […].

  p. 48. Creare la vita è il dono princeps, la faculté maîtresse del romanziere. Si può essere i più sottili moralisti, i più fini discettatori di questa macchina complessa e sempre originale ch’è l’uomo, si può essere persino Montaigne (non è facile); con tut­to ciò, non si sarà romanzieri se anche da una considerazione astratta d’un carattere, o da una delle facoltà dell’animo umano non si saprà scendere (altri può dir salire) alla creazione di personaggi fittizi, idest reali nell’arte. Balzac faceva anzi appunto così: il suo procedimento più naturale era partire da una considerazione astratta, da una moralità osservata e ragionata in sè allo stesso modo d’un La Bruyère, prima di procedere alla generazione fantastica d’un personaggio. Diciamo meglio: in lui al moralista s’innestava immediatamente il creatore, il romanziere. Ma nella stoffa morale d’un Grandet, non è difficile cogliere il filo bianco, direi il cordone ombelicale della «moralità». Pensate a come avrebbe proceduto appunto con la Bruyère nel «bâtir» un carattere d’avaro; lo avrebbe circoscritto entro una lucida serie di considerazioni, avrebbe fissato in astratto il tipo dell’avaro. Molière e Balzac, con procedimenti tecnici differenti, fermano nel vivo il tipo, lo sciolgono in un’azione, gli creano un ambiente concreto attorno, lo fanno vivere. Questo si chiama creare la vita, generare un personaggio.

 

 

  Alfredo Rota, Virginia Oldolini Verais-Castiglione, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 84, 8 Aprile 1935, p. 3.

 

  Un mese dopo gli sposi sono a Torino, dove il conte Castiglione — per l’intercessione dello zio generale Cigala — gli ha ottenuto l’importante ufficio di capo di Gabinetto del Re Vittorio Emanuele II. — Ma quella unione di eccezione doveva durare poco. Mentre scorta a cavallo la vettura del Principe Amedeo Duca di Aosta, che ai reca a nozze, il conte Francesco Castiglione è colto da una congestione cerebrale e muore. La moglie si asciuga una lacrima con un ricco fazzoletto che poi agita civettuosamente attorno al viso come una piccola bandiera- E’ il tempo, dice Onorato di Balzac, in cui per conoscere il carattere di una donna bisogna osservare il suo modo di maneggiare il fazzoletto ...

 

 

  F. S., Corriere dei teatri. Rassegna cinematografica. “L’agonia delle aquile” […], «Corriere della Sera», Milano, Anno 60, N. 118, 17 maggio 1935, p. 5.

 

  La vita e la sorte dei demi-soldes, cioè dei militari napoleonici, che dopo la caduta dell’Imperatore rifiutarono di passare nei ranghi dell’esercito della Restaurazione, e di prestare giuramento di fedeltà, alla nuova dinastia, formano il soggetto dell’Agonia delle Aquile, film ispirato a un popolare romanzo di Georges d’Esparbès. E’ sempre difficile essere reduci. Ma per nessuno forse lo fu come per quei grandi soldati, usciti appena da una delle più fantastiche avventure militari della storia: condannati a una esistenza oscura e a una pensione di fame, essi, con quelle medaglie sul petto, e quel nome nel cuore. Dovevano essere degli straordinari tipi, e Balzac, che li ha visti, ne ha cavato un paio di personaggi monumentali.

 

 

  F. S., Corriere dei teatri. Rassegna cinematografica. Dannazione, «Corriere della Sera», Milano, Anno 60, N. 250, 19 ottobre 1935, p. 5.

 

  È questo film tratto aa una delle più belle novelle di Stevenson, II diavolo in bottiglia. La bottiglia di cui qui si parla è una bottiglia stregata, che nell’intreccio ha un po’ la funzione motrice della Peau de chagrin di Balzac: chi la possiede può appagare ogni suo desiderio sulla terra, però è designato a dannazione eterna, nè può sbarazzarsi del talismano fatale altro che rivendendolo a qualcuno a un prezzo inferiore a quello per cui l’ha comprato, senza di che la bottiglia ritornerà sempre magicamente al suo possessore; per cui l’ultimo che la compera, e non può più rivenderla, è senza scampo dannato.

 

 

  Alberto Savinio, Torre di guardia. Tacco e libertà, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 73, 29 Maggio 1935, p. 3.

 

  Abito da alcuni mesi a un primo piano. Dispongo di un terrazzino. Questo dà sopra una via di grande traffico Temetti in principio il frastuono della via avesse a turbare il mio lavoro. Mi ero ingannato. I nostri nemici sono tutti interni. La nostra scorza metafisica è impermeabile alle insidie esteriori Confessiamolo prima che altri venga a gridarcelo in faccia: i soli perturbatori di noi stessi sono le nostre idee La vicinanza, il quasi contatto con la vita degli uomini, costituisce un riposo alle fatiche dell’intelletto Questo riposo, Balzac lo trovava nel bagno. Se invece di abitare me Rainouard (sic) a Passy avesse abitato qui dove abito io, avrebbe sostituito il bagno d’acqua calda col «bagno d’umanità».



  Adriano Tilgher, Estetica. Teoria generale dell’attività artistica. Studi critici sulla estetica contemporanea. Seconda edizione [1931], Roma, Dott. G. Bardi – Editore, 1935.

 

Tesi di estetica. 25. La critica d’arte.

 

  pp. 93-94. Né la critica si arresta alla singola opera d’arte. L’intenzione (viva, dinamica) dell’artista può superare i limiti di una singola opera, darsi corpo in un ciclo di opere (Balzac, Zola) e nel corso di questo processo di attuazione cambiare, svilupparsi, crescere o decadere, come ogni organismo vivente. [...].

  Tutto quello che serve a rendere più chiara la coscienza di questa personalità artistica e dell’opera d’arte, a meglio individuarla e determinarla, rientra nel raggio della considerazione critica. Può essere utile a capire Balzac, ad esempio, studiare la fisiologia e il funzionamento del suo organismo corporeo. Tutto quello che è inutile a quel fine, ne deve rimanere fuori (per esempio, particolarità biografiche di nessun utile a farci capire l’opera sua: amori e amoretti, conti della lavandaia o del cuoco ecc.).



 Iginio Tiozzo, Figure del Risorgimento. Angelo Fava, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CVC, N. 349, 17 Dicembre 1935, pag. III.

 

 Come letterato si fece assai presto conoscere. Nel 1837, quando il Balzac, nel suo viaggio in Italia veniva a Venezia in casa Soranzo rimbeccato da Tullio Dandolo per gli stolti e falsi giudizi che dava sul Manzoni e sui romanzi pure del Grossi e del D’Azeglio che dichiarava però di non aver letto perché scritti a somiglianza dei «Promessi Sposi», il Fava in una lettera al Dandolo, comparsa sul Vaglio di Venezia il 30 marzo 1837, faceva la critica delle «Illusions perdues» e giudicando in generale tutta l’opera del romanziere, considerava che in nessuna stima teneva la donna, la sposa, la madre, e scriveva: «Balzac è un uomo da non fermarsi al limitare dell’intimo asilo del pudor femminile; Valentino anch’egli nella «Peau de chagrin» s’appiatta ad esplorare i misteri dell’alcova di Fedora, ma Fedora è la donna senza cuore e il gabinetto delle donne perdute è il solo aperto al Balzac».

 

 

  Guido Tonella, Gli amici dell’Etiopia. Consoli onorari e commercianti … di carriera, «La Stampa», Torino, Anno 69, Num. 215, 8 Settembre 1935, p. 5.

 

Personaggi alla Balzac.

 

  Uomini dalla mentalità tipica dei borghesi di Balzac, che non potendo come quelli agognare ad un blasone, supremo compimento della loro carriera, si accontentano di poter attaccare al balcone lo scudo variopinto di un qualsiasi staterello con relativa bandiera da esporre nelle grandi occasioni.

 

 

  Alessandro Varaldo, 23 possibilità, Milano, Sperling & Kupfer, 1935 («Pandora – Voci di tutti i popoli», 8), pp. 159-166.

 

  «La Svizzera è cara, ma a Venezia si vive con così poco» scriveva alla signora Hanska (la famosa straniera) il pellegrino Balzac.

  — Bisogna conoscere l’Italia, — aveva insistito la signora Sand; — è un’inferiorità vostra verso di me.

  Giorgio Sand era il collega che Balzac temeva più di tutti: dipingeva i costumi come lui, non si stancava come lui, ma faceva parlare di sè ben più di lui. Certe gelosie letterarie non si confessano mai. Ora Balzac, che non temeva Victor Hugo, che ammetteva la superiorità di Chateaubriand, Cuvier, Béranger, Lamartine e Scribe, che amava il prolifico Méry, e salutava poeta Sainte-Beuve, che incoraggiava Champfleury e Goslan (sic) e Roger de Beauvoir, taceva sempre di tre colleghi: Dumas che vendeva più di lui, la Sand che era lì lì per superarlo, e Musset che le donne adoravano.

  — Victor Hugo ha una fama superiore alla vendita delle sue opere: non guadagna ventimila franchi e sua moglie prepara la tavola.

  – Scribe? Scrive le commedie degli altri e compone le proprie alle prove.

  – Chateaubriand? Si dichiara sordo per non ascoltar che se stesso.

  – Lamartine? Piange e dimagra.

  – Béranger? Ride e ingrassa.

  Ma quando gli si chiedeva di Dumas e della Sand sviava il discorso e si profondeva in elogi di Méry e di Madama de Girardin.

  Quel giorno, a Venezia, invitato ad una colazione letteraria dalla contessa S ... [Soranzo], perché conoscesse il conte Dandolo, e il conte Dandolo conoscesse il romanziere illustre, non ci fu verso di interrogarlo sui due francesi che più interessavano gli italiani, la Sand per le polemiche intime sull’avventura veneziana, e il Dumas, le cui commedie e la cui vantata amicizia con Papa Gregorio, correvano la penisola.

  Preferì parlar d’affari.

  – Voi scrittori italiani vendete molto? — chiese al conte Dandolo.

  Tullio Dandolo, studioso e colto, una specie di De Gubernatis, era per di più — a malgrado delle convinzioni repubblicane — intimamente fiero e fedele a un’anticaglia: credeva alla missione educatrice, moralizzatrice e disinteressata della letteratura. Col Balzac ce l’aveva perché l’anno prima, col pretesto di certi atti notarili rinvenuti a Tours — così almeno si diceva — s’era insignito del «de» e firmava De Balzac: poi non gli perdonava la crudezza della morale, la pittura della vita qual’era, l’indulgenza per i peccati femminili e l’amore per il pittoresco fino al ripugnante. Interpellato a bruciapelo sopra una questione letterario-economica, quasi fosse un mercante di derrate, s’inalberò:

  — Noi Italiani consacriamo la nostra penna ad una causa buona e non chiediamo mercede.

  — Male. Siete privilegiati, voi italiani: la vostra lingua è poco divulgata e potreste regolarizzare meglio di noi la vostra produzione. Ahimè, la lingua francese è mondiale, sì, ma noi abbiamo quella piaga, che si chiama Belgio.

  La padrona di casa ebbe curiosità di conoscere il perché quel caro Belgio, ove si recava ogni anno fra parenti ed amici, meritasse un sì poco lusinghiero giudizio.

  Il signor De Balzac non si fece pregare:

  — Ecco qua — disse. — Un romanzo mio in due volumi si mette in vendita a Parigi 15 franchi, ed è gravato delle seguenti spese: quattro franchi di diritti d’autore, due franchi per gli annunci e le recensioni sui giornali (i critici costano cari e guai ad escluderne uno: esiste un Sindacato misterioso): sono dunque già sei franchi da togliere dai quindici. Il libraio, e i gabinetti di lettura godono il ribasso di franchi 3,50: altri 3,50 costa il libro per carta, composizione, legatura: totale tredici franchi, e due quindi all’editore per il suo rischio. Nel Belgio — il suo caro Belgio, signora contessa — di due volumi, a stampa fitta, ne fanno uno: non pagano diritti d’autore, godono delle recensioni parigine gratis, vendono in assoluto all’estero con uno sconto minimo, perché il prezzo di copertina è di lire cinque, e quindi fan concorrenza all’editore parigino: guadagnano senza rischio, perché stampano soltanto i libri di gran successo o di autore celebre: tirate voi le somme, signora contessa.

  Tullio Dandolo s’agitava come morso dalla tarantola. Ma l’olimpico Balzac non si occupava della galleria.

  — Possedete un mio libro, signora contessa?

  — Naturalmente: ecco l’ultimo.

  Era Un grand’uomo di provincia, che poi prese il titolo complessivo di Illusioni perdute.

  Tu quoque, comitissa! Anche voi, contessa! — piagnucolò il romanziere.

 Aveva preso fra le mani il volume, come se fosse un oggetto pestifero.

  — Ecco qua: Meline, Bruxelles! La falsificazione legalizzata. Voi leggete gratis, contessa.

  — Prego, signor Balzac ...

  Gratis per conto mio. Non riceverò un soldo da questo furto. Ma c’è di peggio. Voi sapete che ogni libro ha una sua propria fortuna: habent sua fata! Ora ce ne sono che all’estero sono più letti che in Francia. Il mio amico Mérimée, non ha venduto, fra noi, mille copie d’un suo magnifico romanzo: La cronaca del Regno di Carlo nono. E all’estero, fra America ed Europa, ventimila dell’edizione di Bruxelles, senza percepire un soldo. In Isvezia, per dirvene una, non si vendono che edizioni Meline, e così in Russia: è una sconcia speculazione! Ah! se invece di Luigi Filippo avessimo Napoleone! Il Belgio sarebbe una provincia francese e Meline salirebbe la ghigliottina!

  La contessa sbirciò il viso congestionato del Dandolo e volle interloquire. Ma sì! Chi poteva arrestare il barbero sfrenato!

  — Il vostro signor Manzoni vende molto in Italia? Credo che, tradotto, non avrebbe un gran successo fra noi. È un po’ vecchio stile. Che ne dite?

  — Dico, signor Balzac, che se in Francia ha avuto sì grande successo Walter Scott da insegnarne a tutti, l’avrebbe anche Manzoni, e, con lui, Grossi e d’Azeglio.

  — Non conosco questi signori! Chi sono?

  — Il primo un notaio, il secondo un nobile piemontese d’antica e illustre famiglia.

  — Spero d’incontrare il signor d’Azeglio, che conoscerei volontieri ... Si vendono molto i suoi libri?

  — Come quelli del signor Merimée ... a Bruxelles ...

  A malgrado del bastone fatato, che gli permetteva di leggere nei cuori, secondo Madama de Girardin, o forse perché l’aveva lasciato in anticamera, Balzac fece il suo più grazioso sorriso al Dandolo, mostrando così di apprezzarne lo spirito, veramente parigino. Ma la contessa, che conosceva i suoi polli, stornò un’altra volta il discorso.

  — Che impressione vi ha fatto Venezia, signor di Balzac?

  — Oh! curiosa! Sfaterò una leggenda maligna: non vi sono zanzare.

  — Siamo di marzo ... aspettate l’agosto ...! Ma in agosto le persone dabbene sono in campagna! E che altro vi colpì?

  — Del buon pesce ... quasi come a Marsiglia.

  Il Dandolo fremeva. Sbottò:

  — E la piazza di San Marco? Che effetto vi fece?

  Oh! Interessante. In piccolo, è un saggio del nostro Palais-Royal.

  Per fortuna vennero servite le sogliole e versato nei bicchieri di Murano il buon vino di Conegliano.

 

***

 

  Lettera del conte Tullio Dandolo ad Angelo Fava:

  «Io, che religiosamente credo che la letteratura sia un sacerdozio sociale, destinato ad illuminare e rendere migliori gli uomini, io che ne’ miei scritti, per quanto poveri e oscuri sieno, pongo la buona fede e l’entusiasmo di un neofita, io, coetaneo di Balzac, in udir proferita la bestemmia che adima la mia nobil musa nel fango della prostituzione, ne provai un fremito interno che si converse ben tosto in un vivo sentimento di orgoglio per me e per i miei confratelli d’Italia ... Ah! che diranno i posteri se leggeranno in fronte ai racconti di Balzac il motto: «La letteratura è speculazione anziché arte?».

  Lettera di Balzac alla Straniera:

  «Venezia mi ha rapito d’entusiasmo, commossi (sic) fino alle lagrime, Cara ...».

  (Usava chiamar così la Hanska, in italiano, come se fosse più degno dell’amore che l’agitava).

  «Cara, c’è sul Canal Grande una piccola casetta a finestre gotiche ... Ah! viverci la vita con voi, senza il tormento letterario, che finora fu lo scopo disinteressato della mia vita ...».

  Cessò di scrivere, afferrò un altro foglio di carta grande, slabbrato. E mormorava:

  — Oh! Venezia! Venezia!

  Scrisse in capo alla pagina: Massimilla Doni.

  E cominciò:

  «Come sanno i dotti in materia, la nobiltà veneziana è la prima d’Europa. Il suo libro d’oro precedette le Crociate».

  Sollevò il viso: l’oro del tramonto incendiava la laguna. S’alzò di scatto:

  — Basta con la letteratura. Voglio godermi ancora San Marco, unico al mondo!

 

 

  G. de Vincentiis, Un tarantino illustre. Eugenio Baroni, «La Voce del Popolo. Giornale della Provincia di Taranto», Taranto, Anno 52°, N. 27. 6 luglio 1935, p. 1.

 

  Nacquero così i grandi gruppi del Monumento, che fu la grande gioia ed il grande dolore della sua vita: la gioia che gli nasceva dall’ardore di quel suo nobilissimo sogno di arte: il dolore che lo pungeva quando l’arte resultava impari al sogno. Crisi tormentosa e segreta e che parve dovesse esaurire ogni energia dell’artefice, nello sforzo per attingere l’ardua vetta agognata; crisi che fa pensare al protagonista di quel mirabile scritto di Onorato di Balzac che è il Chef d’oeuvre inconnu.

 

 

  Michele Viterbo, Corporazione vuol dire liberazione, «La Gazzetta di Puglia. Corriere delle Puglie», Bari, Anno XLIX, N. 36, 10 febbraio 1935, p. 1.

 

  Gli anni che dividono la Rivoluzione —effettiva—dell’89, da quella — effimera — del luglio ‘30 sono ben pochi. Eppure Luigi Filippo, il «re borghese», credette di poter conquistare l’animo del suo popolo con l’invito ad arricchirsi!

  E non per nulla Balzac, il vivisezionatore della società francese della prima metà del secolo scorso, si dichiarava legittimista: cioè giungeva a preferire la Monarchia borbonica con tutti i suoi privilegi ed abusi al perverso e pervertito mondo, da lui descritto nei suoi romanzi, dei banchieri, finanzieri e affaristi tipo Nucingen e Rastignac! 

 


 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Mercadet l’Affarista. Traduzione e riduzione scenica di Eugenio Gara. Regia di Antonio Gandusio e Caramba. Interpreti: Antonio Gandusio, Aristide e Tullia Baghetti, Laura Carli, Francesco Sormano, Vittorio Campi, Pietro Carloni, Guido Verdiani, Fausto Tommei, Cele Abba, Renata Seripa, 1935.



[1] Balzac, Seraphita (trad. italiana), ed. Sonzogno, pag. 167. [N.d.A.]. 

[2] Le Martyre calviniste, Le Message, Le Chef-d’oeuvre inconnu, Le Colonel Chabert, Le Curé de Tours, La Bourse, Louis Lambert, La Femme abandonnée, Le Grenadier (sic), L’Illustre Gaudissart, Les Marana, Une passion dans le désert, la prima decina dei Contes drôlatiques, Deux Contes bruns. [N.d.A. Il corsivo è nostro].

[3] La critica d’oggi e Balzac, Il Giornale d’Italia, 22 giugno 1934. [N.d.A.]. [Cfr. 1934].

[4] Brano aggiunto, durante la revisione delle bozze, il 4 agosto 1934, al Passo di Carezza. [N.d.A.].

[5] Va ricordata la sorella Laura che gli volle bene. [N.d.A.].


Marco Stupazzoni