giovedì 27 agosto 2020



1970

 

 



Estratti.


 

  Honoré de Balzac, Il signor Grandet. Trad. di G. Deledda, in Rosanna Serpa, Elvira Finelli, Grandangolo. Letture di varia umanità e materiali di lavoro sui secoli XVIII, XIX, XX, Firenze, Sansoni, 1970, pp. 399-402.

 

  p. 399. Honoré de Balzac nacque a Tours riel 1799 e si dedicò alla letteratura dopo una serie di esperienze diverse in campo commerciale, che gli fruttarono preoccupazioni e debiti in gran numero, ma anche una vasta conoscenza degli uomini e dei loro casi. Ebbe straordinaria capacità di lavoro, che tuttavia stroncò la sua forte fibra a soli cinquantun anni (morì a Parigi nel 1850).

  Eugenia Grandet comparve nel dicembre del 1833 ed è il quinto volume di Studi di costume nel XIX secolo e il primo delle Scene della vita di provincia (l’insegna della Commedia umana doveva comparire solo nel 1842).

  La trama è insolitamente semplice, anche se raccoglie tutti i temi classici del romanzo balzachiano: le grandi fortune ammassate dai borghesi intorno alla fine del Settecento, l’artigiano che diviene capitalista, la fanciulla semplice e pura, il cacciatore di dote, questa presenza «fisica» e ossessiva del denaro e delle passioni che provoca, incarnata nel grande personaggio di papà Grandet, un uomo che sul letto di morte dice alla figlia, che invoca la sua benedizione: «abbi cura di tutto [s’intende delle ricchezze che è costretto a lasciarle] e me ne darai conto laggiù».

  Anche se è Eugenia a dare il titolo al romanzo, la sua tenue e misera storia di ragazza sacrificata impallidisce al gran fuoco del carattere e delle gesta di papà Grandet.

 

  Come aspetto, Grandet era un uomo grosso e basso, alto cinque piedi [...] di una ereditiera della quale si parlava per venti miglia intorno e anche nelle diligenze da Angers a Blois?





Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnnello Bridau (Un ménage de garçon). Traduzione di Maffio Maffii, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1970 («Biblioteca romantica», 18), pp. 453.

 

  Cfr. 1932; 1933; 1950.

 

 

  Honoré de Balzac, La duchessa de Langeais. Romanzo. Traduzione di Claude Fusco Karmann, Milano, Garzanti Editore, (febbraio) 1970 («I Garzanti», 217), pp. 195.


  Struttura dell’opera:

 

  Honoré de Balzac. La duchessa de Langeais, pp. 3-9. [Cfr. La sezione: Studî e riferimenti critici];

  La duchessa de Langeais, pp. 15-195.

 

  In copertina: Il romanzo che vendicò Balzac di un amore tradito.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet, Novara, Madis, 1970, pp. 166.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Alberto Guadalaxara. Illustrazioni di Rialdo Guizzardi, Bergamo, Editrice Janus, (maggio) 1970 («Collana Centauro. Capolavori e romanzi»), pp. 155; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Presentazione, pp. 7-8;

  Eugenia Grandet, pp. 9-154.

 

  Il romanzo è suddiviso in sei capitoli titolati secondo il modello dell’edizione originale Béchet del 1833-1834. Siamo di fronte ad una traduzione molto lontana dal potersi definire fedele e aderente al testo francese per la presenza, assai frequente, di omissioni e di riduzioni che si ritrovano fin dalle prime pagine del romanzo. È lo stesso traduttore che, nella breve Presentazione del romanzo, dichiara che: «Per rendere più accessibile ai giovani il romanzo, abbiamo ritenuto opportuno togliere quei brani che avrebbero appesantito il racconto, senza peraltro modificare il testo originale. In tal modo il giovane lettore potrà conoscere gli straordinari personaggi di questo capolavoro di Honoré de Balzac, non mediante pagine riassuntive, ma per mezzo della stessa parola viva dell’autore» (p. 8).

 

 

  Honoré de Balzac, Modesta Mignon. Traduzione di Ada Sori, Firenze, Vallecchi Editore, 1970 («Il nostro club. Classici del romanzo»), pp. 294.

 

  Cfr. 1940; 1943.

 

 

  Honoré de Balzac, Pene di cuore di una gatta inglese, in AA.VV., Scene della vita privata e pubblica degli animali. Disegni di Grandville. Testi di De Balzac – L. Baude – E. de La Bedollierre – P. Bernard – P. J. Stahl. Traduzione di Francesco Delmastro, Torino, Ruggero Aprile Editore, 1970, pp. 135-169; 8 ill.

 

 

  Honoré de Balzac, Le sollazzevoli istorie (Les Contes drolatiques). Traduzione dal francese di Aurelio Valesi, Milano, Feltrinelli Editore, (luglio) 1970 («Universale Economica Feltrinelli. Serie letteratura. Narrativa», 609), pp. 438.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Aurelio Valesi, Presentazione, pp. 5-8;

  Le sollazzevoli istorie, pp. 9-435.

 

  Edizione pubblicata su licenza dell’Editore Sugar; per la traduzione e la Presentazione, cfr. 1965.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e Miserie delle Cortigiane. Volume primo. Traduzione a cura di Attilio Turri, Roma, Enrico La Stella Editore, s. d. [1970?], pp. 272.

 

  Di questa traduzione (nel complesso corretta) di Splendeurs et misères des courtisanes non siamo stati in grado di individuare con precisione l’anno di pubblicazione anche se riteniamo probabile che esso si collochi all’inizio degli anni settanta. Per quanto ci risulta, l’opera è rimasta incompleta, cioè limitata soltanto al primo volume che termina con il capitolo intitolato: I lamenti di Nucingen. Il titolo del primo capitolo: Una veduta del ballo dell’opera (Une vue du bal de l’opéra modificato, nella versione ‘Furne corrigé’ in Comment aiment les filles) farebbe pensare che l’edizione di riferimento sia quella dell’edizione De Potter, datata 1845 ma pubblicata nell’agosto 1844. Non è riportata la dedica del romanzo al principe Alfonso Serafino di Porcia.

 

 

  Honoré de Balzac, Un tenebroso affare. Versione e riduzione di F. E. Introduzione e note di Valentino Gambi Vicenza, Edizioni Paoline, (dicembre) 1970 («Il Focolare», 55), pp. 240.


  Struttura dell’opera:

 

  Valentino Gambi, Introduzione, pp. 9-21. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Un tenebroso affare, pp. 23-239.


  Il testo è suddiviso in tre capitoli più una Conclusione secondo il modello dell’edizione Furne (1846). Si tratta di una versione ridotta, e non sempre esemplarmente tradotta, della scena di vita politica balzachiana.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 


 

  Raro talento istrionico di Tino Buazzelli in “Mercadet” di Balzac, «Il Cittadino», Lodi (?), 9 gennaio 1970.

 

 

  Da Balzac alla Malesia, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Milano, Anno LXXIV, N. 31, 6 febbraio 1970, p. 7.

 

  Andrà in onda stasera la prima puntata di questo romanzo [Papà Goriot] di Balzac che dipinge il mondo cinico e corrotto della borghesia francese post-napoleonica. Il protagonista è Tino Buazzelli, che del romanzo ha curato anche la sceneggiatura e la regia.

  Nella pensione Vauquer di Parigi abitano molte persone: Vautrin, un uomo strano e sicuro di sé; Eugenio De Rastignac, un giovane di nobile famiglia decaduta; la signorina Vittorina Taillefer, diseredata da un padre ricco che non vuole più sapere nulla di lei; papà Goriot, un ex-commerciante che conduce una vita misteriosa e solitaria.

  Rastignac vuole entrare nel bel mondo ed essere ricevuto dall’alta società; ma Eugenio non possiede né molto denaro, né un gran nome. Il migliore sistema per un giovane di bell’aspetto e sprovvisto di beni di fortuna è diventare l’amante di una bella donna. La scelta è presto fatta: la baronessa Delfina di Nucingen, moglie di un banchier e figlia di papà Goriot.

  Questi dopo avere ceduto tutte le sue ricchezze alle figlie (la seconda è ora contessa di Restaud, vive modestamente, vedendo di nascosto le due giovani donne.

  Vautrin, intanto, vuole convincere Eugenio a sposare Vittorina Taillefer, ma Eugenio preferisce gettarsi alla conquista della affascinante Delfina.

 

 

  Stasera sul video «Papà Goriot», «Corriere della Sera», Milano, Anno 95, 6 febbraio 1970, p. 12.

 

  [...]. L’azione si svolge nella pensione Vauquer a Parigi dove abitano molte persone: da Vautrin, un uomo strano, a Eugenio de Rastignac, un giovane di nobile famiglia decaduta, dalla signorina Vittorina Taillefer, diseredata da un padre ricco, a papà Goriot, un ex commerciante che conduce una vita misteriosa e solitaria.

  Rastignac vuole assolutamente entrare nel bel mondo, ma non ha né denaro, né un gran nome. L’unico suo asso nella manica è una cugina, la viscontessa di Beauséant, che in effetti lo prende a ben volere. Il miglior sistema per un giovane di bell’aspetto e sprovvisto di beni di fortuna è diventare lo amante di una bella donna. La scelta è presto fatta: la baronessa Delfina di Nucingen, moglie di un ricco banchiere. Delfina è figlia di papà Goriot. Questi, dopo aver ceduto tutte le sue ricchezze alle figlie — la prima, Anastasia è ora la contessa di Restaud, la seconda è appunto baronessa — scacciato dai generi, vive modestamente vedendo di nascosto le due figlie.

  Ma c’è qualcun altro che pensa all’avvenire di Eugenio. E’ Vautrin che vuol convincerlo a sposare la Taillefer: ci penserà lui con i suoi sistemi, a convincere il padre della ragazza a darle il denaro che le spetta. Ma Eugenio preferisce seguire i consigli della cugina.

 

 

  Tv: Papà Goriot muore, «Corriere della Sera», Milano, Anno 95, 13 febbraio 1970, p. 12.

 

  Sul secondo canale questa sera si conclude il breve tele-romanzo che Tino Buazzelli — interprete principale, regista e sceneggiatore — ha tratto dal Papà Goriot di Honoré de Balzac.

  Dopo aver scoperto alcuni segreti nascosti dietro la vita della pensione Vauquer, Eugène de Rastignac prosegue nei suoi ambiziosi tentativi di conquistare Parigi. Nel frattempo Vautrin ha dato, avvio al suo progetto di eliminare il fratello di Victorine Taillefer, la cui morte per-metterà alla ragazza di entrare in possesso di un’immensa ricchezza. Ma su questi soldi Vautrin non metterà mai le mani perché, proprio il giorno in cui il fratello di Victorine verrà ucciso da un sicario, sarà arrestato.

  La polizia ha infatti scoperto, su informazione della vecchia Michonneau, che Vautrin è un forzato evaso. Un altro dramma si abbatte poi sulla pensione. Un giorno, le due figlie di Goriot arrivano sconvolte dal padre in cerca d’aiuto: i mariti hanno scoperto la loro doppia vita, e minacciano di rovinarle. Spinte dall’astio e dal dispetto le due sorelle si scagliano l’una contro l’altra. Il dolore di assistere alla rovina morale delle figlie alle quali ha tutto sacrificato, segna la fine del vecchio Goriot. Durante la lunga agonia, gli verrà a mancare anche il conforto della vicinanza delle figlie, prese dalle loro occupazioni mondane. Morirà benedicendole, assistito soltanto da Rastignac e dallo studente Bianchon.

 

 

  Televisione. Papa Goriot, «Vita d’oggi e scuola», Roma, Anno III, N.ri 1-3, Gennaio-Marzo 1970, p. 26.

 

  «Papa Goriot» che la televisione, per iniziativa di Buazzelli ci ha fedelmente presentato come sceneggiato è considerato il capolavoro di Bolzac (sic), ma, per i critici, anche l’opera che maggiormente mostra i suoi limiti. I vari protagonisti sono scolpiti a tutto tondo, con caratteri ben definiti tanto che il loro comportamento è scontato e non offre alcuna sorpresa. Sono dei veri e propri personaggi, tipici della letteratura dell’Ottocento: papa Goriot è l’uomo che esprime l'amor paterno e per esso si perde; le due figliole, Anastasia e Delfina, vane ed egoiste, con le loro colpe portano alla morte il padre; Rastignac è il giovane arrampicatore sociale che vuol conquistare Parigi; Vautrin è l’uomo che si è posto fuori della società e lotta contro di essa.

  Precisa e dettagliata è la descrizione dell’ambiente in cui vive questa folla di personaggi emblematici e la pensione nella quale si muovono diventa anch’essa simbolica.

  Il dramma finisce sconsolatamente, ma noi in esso dobbiamo principalmente vedere un’epopea borghese nel quadro dello avvento della società capitalistica vista assetata di potenza e di piacere. Per il raggiungimento di tali finalità i vecchi ideali tramontano e ne nascono altri, ma su tutto domina il denaro, visto da Balzac come il nuovo demone che ormai tutto muove e per il quale tutti lottano. Ecco perché il personaggio che emerge è Vantrin (sic)— debolmente interpretato da Paolo Ferrara (sic)— la cui sete di potere nasce dal giudizio pessimistico sul mondo. Egli ha riconosciuto il congegno delle molte iniquità che motivano le azioni umane e vuol lottare contro tutte le forze sociali per piegarle al suo dominio e operare il bene anche a dispetto della società stessa. Lo dobbiamo considerare un contestatore ante litteram e non è raro ascoltare dai variopinti personaggi che popolano l’attuale scena del mondo discorsi del tipo di quello che Vautrin fa a Rostignac (sic): «Una rapida fortuna è il problema che si pongono cinquantamila giovani che si trovano tutti nella vostra situazione. Voi rappresentate una sola unità di quel numero. Da ciò potrete immaginare gli sforzi che dovrete compiere e l’accanimento della lotta. Dovrete sbranarvi reciprocamente come ragni entro un vaso, dato che non ci sono cinquantamila buoni posti: Sapete come ci si fa strada? Col lampo del genio o con l’accortezza della corruzione. Bisogna penetrare in questa massa d’uomini come una palla di cannone, o infiltrarvisi come la peste. L’onestà non serve a nulla ... Di corruzione ce n’è tanta, il talento è raro. Perciò, la corruzione è l’arma della mediocrità che abbonda, e voci ne sentirete dovunque la punta ... E così, l’uomo onesto è colui che tace, e si rifiuta di condividere un tal sistema di vita. Non vi parlo di quei poveri iloti che ovunque sgobbano senza essere mai ricompensati del loro lavoro, e che io chiamo la confraternita delle ciabatte del buon Dio.

  Certo, là è la virtù in tutto il della sua sciocchezza, ma là è anche la miseria ... Se vi parlo così del mondo esso me ne ha dato il diritto, lo conosco bene. Credete che lo biasimi? Per niente. E’ stato sempre così. I moralisti non lo cambieranno mai. L’uomo è imperfetto. E’ talvolta, più o meno ipocrita, e gli ingenui dicono allora ch’egli è o non è morigerato. Non accuso i ricchi in favore del popolo: l’uomo è il medesimo in alto, in basso, al centro. Per ogni milione di questo alto bestiame si trovano dieci persone risolute che si mettono sotto a tutto anche alle leggi: io sono di queste. Se voi siete un uomo superiore, marciate diritto e a testa alta. Ma dovrete lottare con l’invidia, la calunnia, la mediocrità, contro tutti!».

  Questo è Vantrin: un personaggio ed è logico che oggi egli, con tutti gli altri, nel momento in cui la letteratura narrativa ha bandito il racconto tradizionale basato sulla storia, l’intreccio e i personaggi, non può trovare buona accoglienza presso i critici. Ma presso il pubblico? Qual è stato l’indice di gradimento Papà Goriot? E teniamo presente l’edizione lasciava molto a desiderare. [...].

 

 

  Mercadet – Seconda parte, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVII, n. 13, 29 marzo-4 aprile 1970, p. 69.

 

  Incalzato da uno stuolo di creditori che non gli dà requie, Augusto Mercadet, un affarista senza scrupoli, piantato in asso all’improvviso dal socio Godeau, è stato costretto, per salvarsi, a combinare un matrimonio d’affari per la figlia Giulia. Nel corso del fastoso ricevimento che ha allestito per annunciare il fidanzamento della figlia, Mercadet fantastica sulle favolose speculazioni finanziarie che spera di realizzare, mettendo a frutto i capitali millantali dal futuro genero De La Brive. A sventare in tempo le illusioni del padre, provvede la perspicacia di Giulia, che non tarda a capire come il suo pretendente non sia altro che un piccolo filibustiere spiantato. Il fidanzamento va a monte, e Giulia, col consenso paterno, può abbandonarsi fiduciosa al suo amore per il generoso Adolfo Minard, prontissimo a sacrificare i suoi faticati risparmi per salvare Mercadet dalla bancarotta. Incapace, per una volta, di speculare sui sentimenti altrui, Mercadet rifiuta l’offerta di Minard e si affida, per trarsi d’impaccio, al suo talento di istrione iperbolico. Per tenere a bada i creditori, fare credere loro che è in arrivo da Calcutta il suo ex socio Godeau, divenuto ricchissimo e ansioso di mettersi in affari con lui. La vicenda si conclude con una maliziosa girandola di colpi di scena che fanno esplodere la complessa moralità del testo balzacchiano, proprio nel momento in cui lo spettacolo sconfina in un brillantissimo «divertissement» paradossale e farsesco.



  Honoré de Balzac. La duchessa de Langeais, in Honoré de Balzac, La duchessa de Langeais … cit., pp. 3-9.

 

  […]. Nella complessa architettura della Comédie humaine, La duchessa de Langeais si situa in un punto di molteplici incontri. Appartiene innanzitutto a una trilogia sui generis che Balzac prospetta come una serie non chiusa, una scelta di episodi ipoteticamente più numerosi. Ma a sua volta questa trilogia — che s’intitola Histoire des Treize, e di cui La duchessa de Langeais costituisce il secondo «momento» — rientra in una delle sezioni più dense e brulicanti dell’opera: vale a dire le Scene della vita parigina che — assieme alle Scene della vita di provincia, alle Scene della vita militare, eccetera — s’inquadrano negli Studi di costume, la prima e la più vasta delle tre parti in cui lo scrittore ha inteso suddividere il suo grandioso ciclo romanzesco.

  Certo sarebbe errato lasciarsi confondere da un siffatto, rigoroso sistema di coordinate, fino a escludere la possibilità di trarre dal suo alveo questo lungo racconto e farne lettura a sé stante. Al contrario. La duchessa de Langeais — storia variamente contrappuntata di un amore tragico, ancorché salottiero — vive di vita autonoma, s’irradia di una luce vivida e non riflessa. Non parrà ozioso, tuttavia, dire qualcosa di più intorno alla cornice formale e psicologica del romanzo: spiegare, per esempio, che designi il titolo della trilogia. Chi sono in effetti, questi Treize? È lo stesso Balzac a rivelarcelo nella préface: «A Parigi, e durante l’impero, tredici uomini ... dotati tutti di un’energia abbastanza grande per restar fedeli ad un’unica idea, abbastanza leali fra loro per non tradirsi ... abbastanza forti per porsi al di sopra di ogni legge ..., criminali, certo, ma altrettanto sicuramente dotati di alcune delle qualità che fanno grandi gli uomini, e appartenenti alla razza degli uomini d’eccezione». Una sorta, insomma, di oscura e fantastica consorteria, segreta e votata al segreto. Ma, continua Balzac, per un caso che «l’autore deve momentaneamente tacere», egli è venuto a conoscenza di alcune vicende vissute da uno o più componenti del gruppo, e ha scelto di raccontare «le più dolci», scansando di proposito «i drammi grondanti sangue, i romanzi ove rotolano teste mozzate ...». La duchessa de Langeais è appunto una di tali avventure ove «scene di purezza succedono alla tempesta delle passioni», ed è vissuta da uno di tali uomini: Armand de Montriveau.

 

  I personaggi. Realtà e simbolo.

 

  Se in altri frammenti della Comédie le sue apparizioni risultano accidentali o addirittura meteoriche, qui Montriveau attua una funzione dinamico-psicologica di portata determinante. Egli appartiene — dicevamo — a quella schiera di fuorilegge nei quali lo scrittore ravvisa non l’indegno giustamente respinto ai margini della società, ma un temerario di qualità e animo superiori, e pertanto incapace di soggiacere alle costrizioni della società stessa. D’altro canto Montriveau — generale napoleonico di alterna fortuna, temprato sui campi di battaglia e dalla crudele prigionia in Africa — incarna, a ben vedere l’eterno e quasi mitico «eroe» allo stato puro, abituato alle lotte ma inerme di fronte all’inopinata insidia delle complicanze amorose. Come tutti gli uomini che non conoscono ragioni di vita al di fuori di quelle interiori, Montriveau è, per natura e per vocazione, un solitario: un anarchico e al tempo stesso un asceta. Non è da stupire che egli ceda con abbandono totale e quasi innocente alla passione per Antoinette de Langeais, bellezza alla moda e regina dei salotti parigini nei primi anni della Restaurazione. Ne sarà l’amante per un sol giorno: ogni altro momento di questa laison (sic) un po’ barocca, più vagheggiata che vissuta, verrà stemperato da Antoinette in un gioco di espedienti dialettici, di aforismi ora galanti ora moralistici, di concessioni apparenti e di ritegni studiati.

  Certo non è difficile — sia pure nei mutati termini della trama romanzesca — cogliere un’eco del deludente amore di Balzac per la marchesa di Castries; anzi, la coincidenza di talune circostanze si accentua a tratti fino a rasentare l’indiscrezione. È lecito supporre che Balzac abbia voluto superare il proprio turbamento attraverso la creazione, trovare nella pagina scritta una compensazione all’umiliante realtà e trarre una specie di «lezione» dalla prova subita. Tuttavia parrebbe errato indugiare troppo sulle implicazioni personali dello scrittore, e perfino sull’aspetto meramente cronachistico della vicenda: La duchessa de Langeais non è infatti un semplice romanzo «di ambiente» a sfondo autobiografico, sia pure ad alto livello. Ci sembra invece essenziale osservare come in Motriveau s’incontrino tutti i temi del «Disordine» di Balzac, tutte le forze anarchiche della sua opera; e questo in un romanzo apparso nel 1834 — anno quarto del regno «borghese» di Luigi Filippo — ove peraltro convergono le nuove idee sull’ordine, l’autorità, il legittimismo e il magistero gerarchico. Quanto alla cieca passione di Montriveau per la Langeais, essa assume quel valore di «conquista» intesa come raggiungimento incondizionato, come sublimazione assoluta, che permea di sé tanta parte della Comédie. Del resto, la stessa fase conclusiva della narrazione, razionalmente antitetica al nucleo centrale degli avvenimenti (Antoinette, fattasi monaca dopo la rivelazione malgré elle, del proprio amore per Montriveau, muore allorché egli la raggiunge nel suo remoto convento, uccisa dal contrasto dell’amore terreno che essa aveva voluto superare in quello divino), riflette un’analoga visione simbolica: esprime, insomma, il Balzac più genialmente paradossale, e quasi metafisico.

 

  Due drammi contrapposti.

 

  Si può dunque affermare che ne La duchessa de Langeais convivono elementi naturalistici ed elementi fantastici. i quali talvolta si compendiano, talaltra emergono distinti o giustapposti. È indubbio, nondimeno, l’apporto preminente di una sostanza narrativa d’ordine realistico. Ma si tratta — è il caso di notare — di una realtà affatto particolare, che non rispecchia la pura cronaca. Se infatti Balzac nutriva la sua invenzione coi dati dell’esperienza, evitava di riprodurre tout-court i fatti della vita, tramutandoli in materia di romanzo. La sua è, piuttosto, una realtà dettata e rielaborata dalla fantasia. Visionnaire o voyant, come lo definirono Baudelaire e Gauthier (sic), egli «inventa» la sua realtà; senonché tale realtà immaginata risulta così aderente al vero (e in ciò risiede gran parte del mistero, del miracolo balzachiano), da identificarsi alla fine con la realtà stessa. Si guardi, per esempio, all’accesa e tumultuosa forza inventiva che si sprigiona fin dalle prime pagine, alla possente e inquietante «stretta» finale, e, più ancora, alla fitta rete delle notazioni di costume, di un’evidenza puntigliosa, capillare, diremmo tattile, che sembra quasi voler negare al lettore il contributo sussidiario della propria immaginazione.

  Una parola a parte suggerisce, invece, il lungo studio dedicato al Faubourg Saint-Germain, il quartiere parigino che fu sede e culla delle tradizioni aristocratiche. Concepita in forma chiusa, questa dissertazione storico-politica trova collocazione nel primo squarcio del romanzo: e tuttavia, lungi dall’esercitare una pura funzione preparatoria, essa acquista un valore complesso, proiettato in direzioni diverse. Se per un lato, infatti, costituisce il singolare documento delle opinioni e della dottrina politica di Balzac nei primi anni della sua maturità, d’altro canto — con la serrata e icastica descrizioni delle prodigalità, degli agi e delle contraddizioni di una classe investita d’un ruolo al quale non sa più assolvere — introduce al romanzo «interiore»; ne è il presupposto e al tempo stesso il paradigma, l’implicito commento. Queste pagine non sono dunque lo sfondo, il complemento corale a un dramma intimo: né ci sembra lecito — a differenza di alcuni critici — ravvisare in esse una digressione caratterizzata da finalità proprie e avulsa dalla realtà del contesto narrativo. Al contrario, ne La duchessa de Langeais noi assistiamo al dramma «individuale» della duchessa e a quello «sociale» dell’aristocrazia: due drammi distinti, attuati su piani diversi, ma equivalenti e paralleli. La gran dama e il Faubourg sono due organismi parimenti disadattati; mentre la disfatta di Montriveau ad opera di Antoinette de Langeais riproduce, sul piano personale, l’ingiuria subita dal Paese, defraudato dei servigi che aveva il diritto di attendersi dal patriziato. Riaffiora così la tipica simbologia balzachiana. A loro volta il saggio e il romanzo finiscono per contrapporsi, per diventare l’uno il simbolo dell’altro. E per ripercuotersi a vicenda, esaltando il proprio significato in un reciproco effetto di risonanza.

 

 

  Giorgio Albani, Tino Buazzelli è il protagonista di «Papà Goriot» alla TV. Il ventre dorato di Parigi, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVII, n. 5, 1°-7 febbraio 1970, pp. 78-79.

 

  L’attore ha anche curato la sceneggiatura e la regìa del romanzo di Balzac che dipinge il mondo cinico e corrotto della borghesia francese post-napoleonica.

 

  C’è un modo sicuramente sbagliato di leggere Papà Goriot, che darebbe al lettore l’illusione di cogliere tutta l’essenza del capolavoro balzacchiano mentre non gli consentirebbe, in realtà, di andare al di là della superficie più appariscente. A metterci in guardia contro un rischio di questo genere provvede lo stesso Balzac quando, nelle prime pagine del romanzo, esprime il suo timore che, dai lettori che non conoscono a fondo la realtà sociale della Parigi 1820, la vicenda di papà Goriot venga assunta come un semplice dramma perfino straziante.

  E’ evidente che per Balzac la dolorosa vicenda della paternità delusa dall’egoismo filiale non può acquistare significati autenticamente universali se non viene collocata nel più vasto contesto della «comédie humaine», intesa come il vasto teatro in cui i destini individuali si collegano con le leggi della natura e della società.

  Al concludersi della sua faticosa carriera di commerciante, il vecchio Goriot vive unicamente dell’amore fanatico per le sue due figliole, Anastasia e Delfina. Logorandosi quotidianamente per garantire alle figlie un avvenire commisurato sulla sua scala di valori, il vecchio è riuscito a procurare loro uno stato sociale molto superiore al suo.

 

Amore cieco.

 

  Anastasia ha sposato il conte Restaud, l’altra il barone Nucingen. Pronte a cedere a tutte le lusinghe della società in cui le ha installate l’intraprendenza paterna, l’una e l’altra non tardano a farsi un amante e a ingolfarsi in una vita dissipata, di cui sarà ancora una volta il padre a pagare le spese.

  Accecato da un amore privo di misura che lo porta a scusare qualsiasi colpa delle figlie, spogliato di ogni suo avere dal loro egoismo rapace, papà Goriot sarà costretto a trascorrere gli ultimi suoi giorni nella squallida pensione della signora Vanquer. In questo tetro ricettacolo di tutti gli esemplari più tipici di un’umanità sradicata, Goriot incontra Eugène de Rastignac, un giovane ambizioso, arrivato dalla provincia col fermo proposito di «conquistare Parigi», e che diventerà l’amante di Delfina. Nonostante la pietà che prova per il vecchio e la sua simpatia per Vautrin, un ex forzato in perenne polemica con la società che l’ha messo al bando, Rastignac non tarderà a compiere la sua scelta definitiva: in un mondo corrotto che non è disposto a concedere il successo se non a chi accetta le sue leggi, Rastignac si aprirà una strada con le armi della corruzione. A confermarlo definitivamente nel suo amaro proposito sarà proprio la morte desolata del vecchio, al quale le figlie non hanno saputo offrire neppure il conforto di un rimpianto.

  La molla di tutto il racconto è dunque il dramma privato della paternità vissuta come una passione totale e irreparabile che incide sul destino del protagonista i segni della tragedia.

 

Epopea sociale.

 

  Ma il tema dominante si irradia in un tessuto così fitto di rapporti con un ambiente storicamente determinato che il racconto si risolve in una grandiosa epopea sociale. «La passione è tutta l’umanità», ha scritto Balzac. Nel linguaggio dell’autore della Comédie humaine, ciò significa che la passione è l’intermediario attraverso cui l’individuo si inserisce nella realtà totale, agendo e reagendo nel contesto storico in cui il destino l’ha collocato.

  Se il senso sublime di paternità che instaura Goriot nella sua dimensione di personaggio si corrompe e scatena la tragedia è dunque perché il suo nobile sentimento si è configurato secondo i moduli imposti da un codice sociale che non concede spazio ai valori autentici. Amare le proprie figlie significa per Goriot consentire loro di penetrare nel ventre dorato dell’alta borghesia post-napoleonica perché nella Parigi del ‘20 gli unici valori che contano sono il potere e il denaro: a differenza di Rastignac, che ha capito le regole del gioco e le ha immediatamente assunte con cinica coerenza, Goriot si è illuso di poter conciliare la sua morale privata, tutta imperniata sui sentimenti, con la logica tutta immorale della società in cui vive. Rastignac è un personaggio deprecabile ma lucido, papà Goriot è patetico. Ma al pari del cinismo di Rastignac, il patetismo di Goriot serve a Balzac per condannare tutta un’epoca e il modello di vita a cui si ispirava, in nome di un ideale più umano.

 

 

  Alberto Arbasino, Il Giappone come segno, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XXVI, N. 185, 21-22 agosto 1970, p. 3.

 

  Barthes è stato molto recensito e intervistato a proposito di queste due emozionanti «fatiche». Ha risposto all’Express: ho inteso decomporre Sarrasine come un film al rallentatore, per analizzare più profondamente un testo-limite dove Balzac si spinge molto lontano, verso zone di se stesso che comprendeva male, e su cui non ha mai riflettuto né intellettualmente né moralmente benché stessero passando nella sua scrittura ... E poi; secondo me, la critica è innanzitutto un’attività che decifra; in stili molto diversi e su principi ideologici molto dissimili, ma il fine resta costantemente lo stesso, tentare d’impadronirsi del senso vero di un testo, interrogandone le apparenze per scoprire la sua struttura, la sua essenza profonda, il suo segreto ...

 

 

  Luigi Bàccolo, Furbi o sciocchi ma sempre bricconi, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVII, n. 13, 29 marzo-4 aprile 1970, pp. 40-42; ill.

 

  In un carosello di passioni e interessi meschini, il ritratto feroce del mondo degli affaristi. Una tragedia del denaro e del successo finanziario come misura dell’uomo.

 

  Un autore d’oggi lo avrebbe forse intitolato: Aspettando Godeau ... Godeau è il personaggio-chiave del Mercadet, il «deus ex machina» che non compare mai in carne ed ossa, lo zio d’America che salva la situazione in extremis, il socio di Mercadet rientrato dalle favolose Indie giusto in tempo per sistemare gli affari tumultuosi e pericolanti dell’affarista protagonista: è la divinità della tragedia classica che appare all’ultima scena per mettere ordine nel mondo confuso degli uomini.

  Augusto Mercadet che combina e scombina affari all’ombra sempre incombente della Borsa e dei milioni, sua moglie che si sforza di salvare la sua dignità borghese e l’affetto per la famiglia, sua figlia Giulia che chiede all’amore di Adolfo Minard di proteggerla dal mondo ossessivo del denaro, gli stessi affaristi Verdelin, Goulard e Pierquin che circondano come omuncoli il grand’uomo Mercadet: tutti aspettano Godeau, cioè la soluzione dei loro più o meno sporchi affari (salvo Giulia il cui tenero affare è l’amore) da un intervento misterioso e improbabile.

  Questo è teatro nella più genuina tradizione classica. Ed è peccato che Balzac ci sia arrivato tardi, deluso oramai dall’esperienza precedente. Il Vautrin, che è del 1840, è un tal drammaccio a base di intrighi assurdi, di figli smarriti e ritrovati, di mascheramenti e di colpi di scena, da rendere credibile la leggenda che la «pièce» fosse stata composta in una sola notte, un atto a testa, per opera di cinque amici in vena di bravate letterarie. Un po’ meglio Les ressources de Quinola (1842), storia di un inventore del vapore in pieno secolo XVI: una bizzarra commedia che la critica tende attualmente a rivalutare. Meglio ancora Paméla Girard (sic) (1843), centrata attorno a una gentile figura di donna che sacrifica il proprio buon nome alla salvezza di un giovane aristocratico coinvolto in una congiura politica, ricavandone amarezza e ingratitudine: è Goldoni filtralo attraverso la Comédie humaine. Con La Marâtre (1843), lotta fra una figlia e una madre per l’amore di un uomo, si sfiora il capolavoro.

  Ma quando arrivò al capolavoro, questo Mercadet che la televisione italiana riprende opportunamente, Balzac era disgustato del teatro e del resto era poco lontano dalla morte; difatti l’opera fu rappresentata postuma il 23 agosto del 1851, al «Gymnase»: non senza che, beffa ultima della sorte, il testo fosse stato ridotto e manipolato da un praticone del teatro, quell’Adolphe Philippe d’Ennery meglio noto come autore delle Due orfanelle.

  Nelle storie letterarie e teatrali, dall’epoca di Balzac fino alla nostra, quei suoi lavori hanno sempre trovato poco posto, con appena qualche riga in più per il Mercadet. Il Brunetière vi notava una mancanza di interesse per quel che passa sul palcoscenico, una staticità di trama che non arriva mai a eccitare la curiosità degli spettatori.

  Nelle due più recenti storie del teatro, il critico Silvio d’Amico si limita ad additare gli «evidenti difetti di costruzione» del Mercadet, pur riconoscendo che il carattere del protagonista è «uno dei meglio rilevati che il teatro francese abbia conosciuto da Molière in poi»; Vito Pandolfi vi accenna di passaggio. Meglio, quell’intelligente uomo di teatro che è Carlo Terron, dopo aver fatto i grandi nomi di Rabelais, di Molière e di Gogol, conclude per la straordinaria modernità del Mercadet, la commedia o tragedia del denaro per il denaro, del successo in Borsa come misura dell’uomo.

  E giudica la commedia un capolavoro così grande da osare di mettervi le mani per sfrondarlo e accomodarlo, nella edizione preparata per il Piccolo Teatro di Milano (Einaudi, 1959); testo che è servito per l’allestimento alla televisione.

  E’ un eccellente lavoro, che ha oltre tutto il merito di togliere di mezzo il momento più debole del dramma, quella convenzione finale del l’affarista deciso a ritirarsi in campagna con la moglie, improbabile e falsa. Ma tant’è, non c’è speranza di vedere Mercadet nel suo testo integrale, nei suoi cinque atti tumultuanti, con quell’assenza di misura, quell’ebbrezza dell’abnorme, che sono il gusto e il genio di Balzac. Così riassettato, Balzac è un po’ meno lui, ma il teatro, si sa, ha le sue esigenze: in Francia, per quel che ci consta, continuano a servirsi della riduzione di d’Ennery, il «mastro carpentiere» del teatro ben fatto (e di quella riduzione si sarà servito anche Gandusio nella sua celebre interpretazione di una trentina d’anni fa); da noi, la riduzione del Terron ha il pregio di essere anche una interpretazione del Mercadet in chiave moderna, conservando intatta, se non l’azione, la virulenza del testo, adatta alla ferocia del mondo rappresentato. Che è un mondo di bricconi, bricconi furbi come Mercadet, e bricconi sciocchi come Monsieur de La Brive. Balzac, sempre povero e sempre sognante di milioni (sognava anche di sfruttare miniere d’argento in Sardegna con lo stesso spirito con cui spedisce il suo Godeau nelle Indie), amava quel mondo almeno quanto lo detestava; borghese e legittimista in tutte le fibre del suo essere, nelle medesime fibre era anche rivoluzionario e per così dire contestatore: combatteva contro se stesso col furore che metteva in tutte le cose sue. Costruì il suo personaggio di quel contrasto, esaltandosi e demolendosi in lui, a colpi di aforismi, che era il suo modo di schematizzare la realtà sociale della Monarchia dei banchieri; da cui si sentiva affascinato e disgustato, volta a volta e contemporaneamente.

  La voce di Giulia, presa nei suoi complessi della poca avvenenza e dell’amore puro, e la voce di madame Mercadet con i suoi aneliti a una più intima vita di famiglia, cercano di inserirsi timide e sottomesse fra le grandi battute del grand’uomo Mercadet che lancia senza saperlo la filosofia del secolo affarista: «Il credito è la ricchezza dei Governi; i miei fornitori sconoscerebbero le leggi del Paese, sarebbero incostituzionali e radicali, se non mi lasciassero in pace!»; «La vita è un perpetuo imprestito!» ... L’aforisma filosofico non disdegna neanche di camuffarsi da battuta di spirito: al creditore Goulard che gli rinfaccia «Voi avete il mio denaro», Mercadet ribatte: «Bisogna bene che il denaro sia in qualche posto»; e all’affarista Mercadet che lo supplica pateticamente di «compiere una buona azione» risparmiandolo, il borsista Verdelin replica: «Oggi sono così poche le “azioni” buone» ...

  Lo spettatore deve aver l’impressione che sulla scena si svolga un fantasmagorico carosello di Cavalieri della Borsa, un tripudio di Azioni in rialzo e in ribasso, un torneare di affaristi non meno grandioso di quello che metteva di fronte i campioni combattenti per la propria Dama: un caos di passioni fin troppo chiare. Un attore come Buazzelli dovrebbe trovarci il suo pane.

  Tanto più se terrà a mente come Balzac, straordinario interprete dei propri personaggi, leggeva agli amici le scene del Mercadet (secondo quanto racconta Théophile Gautier): «Leggeva senza indicare atti né scene né nomi, assumendo una voce particolare perfettamente riconoscibile per ogni personaggio; le intonazioni di cui dotava le diverse specie di creditori erano di una spassosa comicità: ce n’era di rauchi, di melliflui, di precipitosi, alcuni parlavano strascicando, altri minacciando, altri piagnucolando. Era tutto uno stridio, un mugolìo, un brontolìo, un borbottìo, un urlìo su tutti i toni possibili e gli impossibili. Il Debito cantava dapprima un “a solo”, sostenuto sùbito da un coro immenso. Dappertutto sbucavano creditori, di dietro la stufa, da sotto il letto, dai tiretti del canterano; ne saltavano fuori dalla cappa del camino, ne filtravano dal buco della serratura; altri davano la scalata alla finestra come innamorati; certuni sprizzavano da un baule come diavoletti di giocattolo, altri passavano attraverso i muri come se si spalancasse una porta segreta; era un corteo, un frastuono, un’invasione, una marea montante ...».

  Era insomma del puro teatro.

 

 

  Renato Barilli, L’ultimo saggio di Roland Barthes. Balzac a nudo, «il Resto del Carlino», Bologna, 5 maggio 1970, p. 11.

 

  S/Z, di Roland Barthes (Paris, Editions du Seuil, 1970, pp. 278, L. 3150).

 

  Per due anni Roland Barthes, assieme ai suoi allievi dell’Ecole Pratique de Hautes Etudes, ha vivisezionato riga per riga un breve racconto di Balzac, Sarrasine. Quest’impresa analitica, che forse non ha precedenti nell’opera del capo-fila della nouvelle critique, pur non nuovo a exploits del genere, è ora registrata in un saggio contrassegnato da una specie di sigla enigmatica, S/Z, il cui senso risulterà più avanti.

  Un tale incremento di furore analitico si spiega col fatto che Barthes ha operato un importante mutamento, rispetto ai panni con cui ci si presentava qualche tempo fa. Sotto un certo aspetto, si tratta di un ritorno alle origini, e di un abbandono delle vesti strette ricavate dalla linguistica, con la relativa credenza che esista un «codice» privilegiato per la comprensione di un gran numero di territori d’indagine: una sorta di chiave passe-partout offerta appunto dai modelli della linguistica e della semiologia. Quella chiave universale, Barthes l’aveva applicata con zelo e puntiglio alla moda (Système de la mode) e, cosa che più ci interessa in questa sede, al racconto (Analisi del racconto, e forse qualcuno ricorderà certe riserve che ci avveniva di sollevare in quell’occasione). Ora, il colpo di scena: Barthes esordisce in quest’ultimo saggio criticando coloro che tentano di ritrovare una «grande struttura narrativa», per poi applicarla e spiegare ogni tipo di racconto, in ogni epoca e in ogni letteratura. Come se egli stesso non fosse stato il principale esponente di un tal indirizzo!

  Non più un codice unico, dunque, ma una pluralità di codici, anzi una loro profusione senza fine, per poter intendere un testo. Questo vive appunto una vita «plurale», o meglio, si costituisce come «differenza», come scarto continuo rispetto alla possibilità di essere imbrigliato entro una unica rete di significati. Al limite, Barthes vorrebbe respingere addirittura la distinzione tra produttore e lettore: questo ultimo dovrebbe riprendere per suo conto il testo, «riscriverlo», sollecitarlo a una continua emanazione di sensi. Anche se poi il critico francese è il primo a riconoscere l’improbabilità di questa meta ultima, almeno per i testi di altri tempi, e dalla «riscrittura» passa così, più cautamente, a una «lettura», pur sempre enormemente articolata. Così come la pluralità infinita dei codici si fissa, all’atto pratico, nella scelta di cinque codici privilegiati, che sono quelli che presiedono alla spietata vivisezione del racconto balzacchiano.

  Naturalmente, questo invito alla varietà degli approcci possibili ci trova pienamente consenzienti, e anzi ammirati per l’invenzione veramente prodigiosa con cui Barthes li sa moltiplicare, almeno a prima vista. Le secche semiologiche appaiono assai lontane; psicanalisi e tematica, retorica e stilistica, perfino economia e sociologia si ritagliano una fetta ampia negli interessi attuali del critico, come appunto era ai suoi inizi. Ma viene meno con questo la tentazione di ricercare una clavis universalis? Purtroppo non lo si può dire. Pur nella veste policroma, varia, cangiante delle mille osservazioni locali felici e pertinenti, la mano del critico spinge inesorabilmente verso un «come dovevasi dimostrare». A un certo punto, egli dimentica di avere davanti un testo particolare e storico, ragionando piuttosto come se fosse alle prese con il testo tipico, con l’essenza stessa del racconto. La moltiplicazione dei sensi si arresta, o meglio si converte in una specie di senso ultimo e definitivo.

  Perché Sarrasine? Il racconto, posto in appendice al saggio, così che ogni lettore può condurre agevolmente una verifica in proprio, poggia su due piani: prima di tutto, la Parigi dell’800, affarista e spregiudicata, mondana e pettegola, in uno dei cui salotti più frequentati appare un vegliardo che ha in sé qualcosa di ripugnante e di glaciale. Di qui lo spunto, per il portavoce dell’intera storia, di indagare su quella persona misteriosa per poi riferirne a un’amica, che in cambio dovrebbe concedergli i suoi favori. Ma la storia risulta fosca e rattristante: quel vegliardo è il rudere di un famoso castrato o «musico» della corte papale settecentesca, il cui nome d’arte era Zambinella e di cui s’innamorò pazzamente un giovane scultore, appunto Sarrasine, fino al duro disinganno finale, e alla morte violenta che gli venne data dal «protettore» ufficiale di Zambinella.

  Impossibile riferire le mille sottigliezze di analisi del saggio barthesiano, e le mille illuminazioni di ordine metodologico. Ma, come si diceva, un senso, o almeno una fascia di sensi poco alla volta si afferma sugli altri: il racconto è una corsa alla castrazione; di Sarrasine prima di tutto, che conosciuta la reale identità della donna amata, perde la capacità stessa di amare e di creare. Un destino, questo, che come osserva Barthes era già contenuto nel nome stesso, il quale infatti, secondo la fonetica francese, suona irrimediabilmente femminile. E non sarebbe stato più appropriato Sarrazine, con la zeta? E non sta in ciò un tentativo di celare, o di procrastinare la mutilazione? «Z» è sibilante come una sferzata, come un taglio repentino. Qui, bisogna riconoscerlo, il critico si spinge molto avanti in fatto di libertà di «lettura», Anche il narratore della storia, poi, è raggiunto e colpito dal senso di impotenza che si leva dal racconto che riferisce alla sua dama, così da essere respinto da questa. E infine anche la Parigi edonistica e materialistica dei salotti è sconvolta da quel principio di confusione insito nella presenza del castrato. Ma in realtà, è il racconto stesso a divenire il luogo privilegiato della confusione e dello scambio dei sensi. Sarebbe comodo che i «significanti» corrispondessero ai «significati», che il sesso maschile fosse distinto da quello femminile, che le fortune sociali mostrassero la loro provenienza, che infine la narrazione «rappresentasse» il nocciolo reale delle cose. Essa invece si incarica di mettere in moto una serie di reazioni a catena, di scambi e di metonimie senza fine. Il racconto «racconta se stesso», si costituisce come «fuga da», come vuoto che decongestiona un troppo pieno. Barthes insomma ritrova, alla fine della sua analisi, le cifre stesse della poetica che egli stesso persegue, assieme a Blanchot, al gruppo di «Tel Quel», a buona parte della nouvelle critique.

  Inutile dire che, nel nome stesso della pluralità di un testo, altri sensi potrebbero emergere. Per esempio, perché lasciarsi scappare la contrapposizione palmare tra due sistemi: la Parigi prosaica, borghese, realistica dell’800, e l’Italia romantica, favolosa, romanzesca come uno stereotipo, ove possono avvenire fatti mostruosi e leggendari? Balzac si è divertito a far convivere nello stesso racconto due «stili» altrimenti incompatibili, o se si vuole usare il termine preferito dalla semiologia, diciamo pure due «codici» storici, ciascuno con i suoi luoghi e passaggi preferiti, ove il più datato dei due, quello settecentesco, introduce quel carattere di deliziosa stereotipia e quasi di cattivo gusto che circola abbondantemente in Sarrasine, mentre l’altro ha il compito di assicurare un controllo, ovvero in un certo senso di «fermare» il tono troppo facile e enfatico del primo. Il dosaggio è perfetto e spiega il fascino che emana da questa magnifica prova.

  Si dirà che estrarre qualche senso in più viene a confermare la concezione barthesiana della natura plurale dei testi, e il diritto di chiunque a una «riscrittura». Ma la nostra controproposta non è rivolta soltanto a compiti suppletivi, ad aggiungere «qualche senso in più». Vuole al contrario ricordare un vasto ambito di codici di cui Barthes non sembra tenere alcun conto: i codici storici, cioè i vari sistemi di romanzo, e il loro succedersi, contrapporsi talvolta, talaltra integrarsi, in un gioco di azioni e reazioni senza fine. Questa pare essere la principale fonte di ricchezza interpretativa. E se ad essa sostituiamo la monotonia di un codice fabbricato «qui e ora», anche se affascinante e ingegnoso, rischiamo di infliggere un impoverimento mortale alla vita plurimillenaria del racconto.

 

 

  Lorenzo Bocchi, Il romanzo dei capolavori, «Corriere della Sera», Milano, Anno 95, 16 marzo 1970, p. 3.

 

  Su: Jean Robichon, Le roman des chefs-d’œuvre.

 

  […] «Les Rougon-Macquart» probabilmente non esisterebbero senza Balzac e «La comédie humaine». Robichon descrive la visita fatta nel dicembre 1868 dal figlio dell’ingegnere Francesco Zola ai fratelli Goncourt. A questi annunciò il progetto di un’opera in otto volumi, un seguito di Balzac, la storia della società attraverso una famiglia francese. «Sapete che non si trova un solo operaio nei 97 romanzi di Balzac?» aggiunse Zola. «Sì, ce n’è uno» obiettò Edmond de Goncourt, tirando fuori «Pierrette». «All’alba di un giorno d’ottobre del 1827 un giovane di circa sedici anni e il cui aspetto annunciava quello che la fraseologia moderna chiama insolentemente un proletario ...». Non era gran che, ma Balzac aveva scritto la fatidica parola. Zola poteva darci «L’assommoir» e «Germinal».

 

 

  Guido Boursier, Naufraghi della ricchezza, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVII, n. 37, 13-19 settembre 1970, pp. 36-37.

 

  L’opera di Balzac, con la regìa di Ernesto Cortese, è il potente affresco d’una società chiusa e meschina in cui i sentimenti vengono travolti dall’avarizia e dall’arrivismo.

 

  «Più corto che piccolo, grasso e ripieno, la testa infossata tra le spalle, la schiena precocemente curva, le braccia ridicolmente brevi, un torso sproporzionato pesava sulle cosce e le gambe da bassotto saltellavano più che camminare». Di nemici Honoré de Balzac ne aveva parecchi e certo chi lasciò queste tre o quattro righe di ritratto non doveva nutrire nei riguardi dello scrittore sentimenti proprio tenerissimi. Tuttavia così era Balzac, un fisico torpido e impacciato, maniere che nonostante tutti i suoi sforzi facevano sorridere l’alta società parigina, e al di sopra di tutto ciò una fantasia, un talento eccezionale, uno spirito, secondo Victor Hugo, inesauribile, «le palesi ali del genio». E Baudelaire aggiungeva: «Honoré de Balzac, voi, il più eroico, il più romantico, il più singolare e il più poetico tra tutti i personaggi che vi siete estratti dall’intimo».

  A contarli, questi personaggi, ci si perderebbe: l’impresa gigantesca della Commedia umana, che il Napoleone della letteratura — gli piaceva chiamarsi così — aveva intenzione di condurre a termine, comprendeva centotrentasette titoli e, nel 1845 (a 46 anni, cinque anni dopo moriva), quando firmò il contratto con gli editori che sostenevano lo sterminato progetto, erano pronti centoventi titoli in cui suddividere circa novanta romanzi già scritti. Si capirà, a questo punto, che una delle diatribe che ancora si svolgono attorno a Balzac, se cioè sia principalmente un grande visionario o un grande realista, difficilmente si potrà risolvere poiché in questa produzione torrenziale possono senza dubbio trovar argomenti tutt’e due le tesi. Grande visionario e grande realista insieme, per tagliar corto; scrittore capace di far girare la testa con il suo tumultuoso ingegno, capace di piacere alle più raffinate intelligenze della sua epoca e anche di ottenere un vastissimo successo popolare, tant’è che Sainte-Beuve, miope com’era, cacciava appunto Balzac nel ghetto sottoletterario dei «feuilletons», tutt’al più ponendolo in concorrenza con Eugène Sue. C’è invece ben altro — anche se a dirlo si scopre l’ombrello — nelle trame di Balzac che la semplice storia emozionante e appassionante; c’è uno scandagliare nel profondo dell’uomo con il bisturi di una sensibilità e d’una capacità d’osservazione straordinarie, c’è la cronaca del tempo in tutte le sfumature, ci sono le «verità misteriose» che conquistavano Proust e Hofmannsthal, e «la gente tipica nelle situazioni tipiche» che ha fatto spendere sonore parole di lode a Marx e a Lukács.

  Insomma quelle storie sono, come s’usa dire, immortali, sempre valide anche per il grande pubblico d’oggi, che le guarda magari con occhio più disincantato, ma ugualmente emozionandosi e appassionandosi. A Balzac si è così ispirato, con sottigliezza appena viziata da un sospetto di calligrafia, il cinema nelle splendide immagini della Ragazza dagli occhi d’oro di Albicocco, mentre la televisione ha recentemente presentato gli sceneggiati di Papà Goriot e delle Illusioni perdute. Va ora in onda alla radio, nel ciclo dei romanzi del mattino (quindici puntate d’un quarto d’ora ciascuna), Eugenia Grandet, nella riduzione di Belisario Randone e con la regìa di Ernesto Cortese, un’altra delle più famose vicende di Balzac, per alcuni il suo capolavoro. Questione di gusti, ma indubbiamente, cucendo i vari movimenti della sua opera con il filo rosso d’una tesi, in fondo, semplicissima — l’oro, il denaro soffocano i sentimenti e possono distruggere —, Balzac ha dato mano ad un affresco potente dove si stagliano figure che lasciano il segno. Sullo sfondo d’una chiusa società provinciale campeggia papà Grandet, ex bottaio che, raggiunta la ricchezza con abili speculazioni, la conserva e l’aumenta con una feroce avarizia. Accanto a lui Eugenia, la figlia «bella come una Madonna», dall’animo troppo dolce e romantico, vittima predestinata della meschinità e della voracità altrui. Con trasporto delicatissimo, con ingenuità e fervore — queste sono fra le migliori pagine di Balzac — è descritto il nascere dell’amore di Eugenia per il cugino Carlo che, fermatosi per breve tempo in casa Grandet, sembra contraccambiarla e riparte promettendo eterna fedeltà.

  La vita di Eugenia è tutta condizionata da questo incontro decisivo: nel ricordo di Carlo sopporta le angherie paterne, la sua avarizia sempre più furibonda che diventa follia sul letto di morte allorché, passando il suo patrimonio alla figlia, il vecchio minaccia «mi renderai conto di tutto laggiù». Carlo, frattanto, si è trasformato da ragazzo ingenuo in avventuriero, si è imbarcato in avventure piratesche, si è arricchito, ed Eugenia è ormai un ricordo di gioventù, quasi da vergognarsene. Ignorandone l’enorme ricchezza (i Grandet a suo tempo lo avevano ospitato molto modestamente), si è ridotto a un mediocre matrimonio d’interesse, e ad Eugenia che lo aspettava non resta che la solitudine anche se ha accettato di sposare — con l’impegno che le nozze resteranno bianche — un anziano pretendente. Vedova a trentasei anni, impegnerà quella massa di soldi su cui è naufragata la sua esistenza in opere benefiche.

  Piuttosto debole nella parte finale, il romanzo è di una penetrazione formidabile nella sua prima parte, cogliendo le pieghe più riposte del vecchio Arpagone, la sua anima maniacale, diventata quasi una cosa sola con il vizio e pronta ad accendersi di cupidigia, sulla soglia dell’Aldilà, per un crocefisso d’oro. Dalla tradizione della commedia al romanzo la figura dell’avaro si dilata a livelli travolgenti, simbolo dello sfrenato arrivismo di un mondo senza ideali, quello della Restaurazione, e guardata tuttavia con una carica umana che non sa nascondere un lampo d’ammirazione per la terribile energia del vecchio, tutta tesa al suo scopo.

  Su questo carattere, su quello di Eugenia, tanto mite e rassegnato quanto fermo nelle sue decisioni e nelle sue scelte, sull’evolversi di quello di Carlo dalla freschezza giovanile — sia pure viziata dal lusso e dall’ozio — alla mancanza di scrupoli del mascalzone, su questi tre blocchi hanno lavorato il riduttore e soprattutto il regista, cercando di sottolineare, dei tre personaggi, la complessità e, ad un tempo, la granitica decisione nello sbagliare, per egoismo o per spirito di sacrificio. Cercando, dunque, di presentarli secondo un’ottica moderna, cogliendo nel romanzo, «popolare» nel senso migliore del termine, quella grande conoscenza che Balzac aveva di una «commedia umana» di cui attraverso i secoli è più che altro cambiata soltanto la facciata.

 

 

  U. Bz., Il tumultuoso Mercadet, «La Stampa», Torino, Anno 104, Numero 66, 1 Aprile 1970, p. 7.

 

  Povero Balzac. Grandissimo romanziere, col teatro ingranava assai meno bene. Scrisse un paio di copioni scellerati secondo il più basso gusto dell’intrigo, poi non ricavò né da «Pamela Girard (sic)» né da «La marâtre», testi più centrati e curati, le soddisfazioni che sperava. Voltò le spalle alla scena e non si lasciò allettare a buttar giù una pièce se non verso il 1850: azzeccò quella che è considerata la sua cosa migliore, «Mercadet», ma non sentì mai gli applausi del pubblico perché morì prima. La commedia fu data postuma, nell’agosto del 1851, ed ebbe accoglienze non entusiastiche ma favorevoli. In seguito tutto il teatro di Balzac cadde nell'oblìo: si salvò soltanto «Mercadet» che piacque a diversi attori, fra cui particolarmente a Dullin. In Italia «Mercadet» ha incontrato Tino Buazzelli Nel 1958 Buazzelli l’ha interpretato al «Piccolo» di Milano, e nella stagione 1968-1969 l’ha ripreso — interprete e regista — con una sua propria compagnia. Adesso, eccolo sul video, in un allestimento che la televisione ha avuto la solita pessima idea di spezzare in due parti (la seconda la vedremo domani sera, e questo è già un vantaggio, dal momento che in altre circostanze s’è dovuto aspettare pazientemente una settimana). Naturalmente se si dice «Mercadet» si dice Buazzelli ed infatti anche in Tv l’autorevole attore è stato protagonista e responsabile della regia. Dopo tanto lavoro sul personaggio del favoloso agente di cambio che non poteva che nascere dal cervello di Balzac, dopo tanto amore per questa figura esuberante e turbinosa, dopo tante repliche in ogni angolo d’Italia e tanti, consensi, Buazzelli è ormai entrato nella pelle di Mercadet e ne è in grado di esprimere con salda padronanza, con impeto colorito, con una bravura per la quale si potrebbe persino parlare di compiaciuto virtuosismo se, sotto, non ci fosse una grossa sostanza Interpretativa, tutti gli aspetti affascinanti, e divertenti, dalla farsa al dramma. [...]. Comunque ci sembra lecito dire sin d’ora che Buazzelli ha saputo mettere in piedi uno spettacolo robusto che procede con la sicurezza di un congegno collaudato da tempo. Fanno da corona al protagonista Gabriella Giacobbe, Nicoletta Languasco e altri attori che si danno attivamente da fare per rendere con evidenza il tumultuoso mondo di Balzac che con la sua avidità, la sua corsa al benessere, il suo culto dell’oro conquistato a tutti i costi può indubbiamente indurre a paragoni con certi ambienti del nostro tempo. Non dimentichiamo però che il testo recitato da Buazzelli non è esattamente quello originale di Balzac, ma quello, riveduto e rielaborato da Carlo Terron, un vero specialista in operazioni del genere, che se qua e là ha tagliato scene ridondanti e ha modificato battute non più comprensibili dalle platee di oggi, s’è tuttavia sforzato di conservare la violenza di pittura della commedia e la sua carica polemica verso gli sfrenati affaristi senza scrupoli, che sono bersagli buoni in qualsiasi epoca.

 

 

  Raffaele Carrieri, Brogliaccio. Modigliani e Foujita, «Corriere della Sera», Milano, Anno 95, 18 ottobre 1970, p. 3.

 

  Tienilo in mente: le vecchie sono le vere padrone di Parigi. Per scrivere del loro potere ci vorrebbe uno come Balzac. Balzac scoprì la donna di trent’anni e la impose all’attenzione dei contemporanei che erano rimasti, in fatto di donne, al Medio Evo. Prima di Balzac una trentenne era considerata un frutto maturo: le primizie, come al tempo di Carlo Magno, non dovevano superare i quattordici. A venti erano già zitelle!

 

 

  Carlo Cassola, Fogli di diario, «Corriere della Sera», Milano, Anno 95, 14 agosto 1970, p. 3.

 

  O prendiamo la funzione sociologica, la documentazione della realtà sociale. Sappiamo quanta parte ebbe nel romanzo ottocentesco. Balzac, per esempio, vale più come sociologo che come romanziere.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac nel settembre 1836, «Contributi del Seminario di Filologia Moderna. Serie Francese», Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, Editrice Vita e Pensiero, Volume sesto, 1970, pp. 1-126.


  [...]. Privo nel modo più assoluto di denaro contante, impossibilitato, d’altra parte, di realizzare grosse somme attraverso importanti affari librari o giornalistici (tutto ciò che era vendibile in fatto di libri e di articoli è stato fatto o tentato; e le sue «riserve» di manoscritti sono letteralmente a secco) Balzac può, nella migliore delle ipotesi, colmare con la sua attività pubblicistica solo una piccola parte del suo pauroso passivo. Ed altrettanto evidente è che, stante l’ammontare del deficit, la ricerca di un prestito adeguato a dargli respiro ed a metterlo nelle migliori condizioni di serenità e di lavoro intellettuale (dal quale, in ultima analisi, può solo arrivare la salvezza economica) è di una estrema difficoltà e quasi impossibile. Un prestito di questa importanza esige finanziatori con forti disposizioni di capitali, non reperibili certo né presso quei vecchi e generosi amici già messi a duro contributo con la precedente speculazione della «Chronique de Paris», né presso editori o direttori di riviste ai quali lo scrittore — lo si è già accennato — non può, per ora almeno, fornire in cambio la pubblicazione di nuove opere letterarie.

  Nell’impossibilità di attingere a nuove fonti di finanziamento, inesistenti per chi, come lui, è momentaneamente sprovvisto di copie, o di ricorrere alle vecchie amicizie che già avevano investito i loro fondi nello sfortunato acquisto del giornale (madame Delannoy, per esempio), Balzac non ha aperta davanti a sé che una sola via di uscita: quella rappresentata da Werdet, diventato recentemente il suo editore unico e, ciò che più conta, l’uomo deciso a legare il proprio destino a quello del «suo» autore, disposto a condividerne, fino in fondo, la favorevole o l’avversa fortuna. [...].

  Gli affari di Werdet, negli ultimi mesi, non sono andati bene, e Balzac ha largamente contribuito, da parte sua, a farli andar male sia con le sue continue richieste di denaro sia con l’imposizione di un nuovo contratto (quale quello dell’acquisto delle Etudes de moeurs) particolarmente gravoso per le barcollanti finanze dell’editore. Il credito di Werdet è, negli ultimi tempi, in serio ribasso negli ambienti commerciali parigini e nessun successo editoriale vale per ora (né varrà in seguito) a rialzarlo in un mercato librario poco attivo ed indifferente.

  Le difficoltà finanziarie in cui Balzac, a proprio immediato vantaggio, ha spinto Werdet si ritorcono dunque, alla lunga, contro Balzac stesso che a sua volta deve tener in piedi, e far di tutto per salvare, il suo finanziatore mettendo a disposizione di lui anche ciò che gli resta (e non è molto ...) del proprio credito commerciale. [...].

  Penetrare entro le maglie di questa aggrovigliata rete di operazioni finanziarie, far luce completa sul modo con cui, giorno per giorno, Balzac e Werdet si aiutano vicendevolmente attraverso l’emissione di cambiali e il ricorso allo sconto e all’usura resta dunque un lavoro complicato e tutt’altro che sicuro nelle sue conclusioni. E tanto più complicato ed insicuro quanto più queste operazioni finanziarie, per le maggiori difficoltà economiche in cui versano Balzac e Werdet, si infittiscono necessariamente nelle settimane di settembre; mentre, per queste stesse circostanze, i rapporti personali fra scrittore ed editore, avvelenati dalle comuni angustie, diventano tesi, conoscono urti e contrasti e si avviano verso la rottura. [...].

  Dai conti che — un mese più tardi, il 1° ottobre 1836 — saranno definiti fra Balzac e Werdet, sembra risultare anzitutto che Werdet ha saldato, per Balzac, varie cambiali in scadenza fra il 1° e il 30 settembre registrate nell’Echéancier. [...].

  Altri piccoli crediti di Werdet nei confronti di Balzac sono registrati in un successivo Compte général chiuso il 10 ottobre. Ma si tratta di ben poca cosa: una fattura non bene specificata di 40 fr., il 5 settembre; il costo di un esemplare degli Chouans richiesto dall’autore all’editore (vedremo più avanti la ragione di questa domanda) ammontante a 10 fr.

  Dal canto suo. Werdet resta debitore verso Balzac dei diritti d’autore per la seconda «livraison» delle Etudes philosophiques che sono conteggiati, nel corso di questo mese, a favore dello scrittore nella misura di 2362 fr. e 50 cent. [...].

  Quanto ci è rimasto della sua corrispondenza a Balzac in queste settimane ci è certamente di grande aiuto: [...] le tre lettere di Werdet ci dicono, fondamentalmente, che la sua situazione finanziaria è agli estremi, che egli si sente sull’orlo del fallimento e cerca disperatamente, da un lato, di difendere il poco credito che gli rimane sulla piazza commerciale di Parigi, dall’altro, di arginare le nuove, continue e pressanti richieste di Balzac. [...].

  Da una parte, Werdet è all’orlo del fallimento né può essere più di alcuna utilità al suo autore. Fin qui, di buona o di cattiva volontà, per generosità, per calcolo o per interesse, è intervenuto in tutte le maniere a favore di Balzac e, in contraccambio dei servizi resi, ha anche preteso che lo scrittore spendesse a sua volta la propria firma in un gioco di cambiali fittizie i cui proventi gli sono surrettiziamente pervenuti; d’ora in poi, egli non potrà far più nulla per il proprio associato; anzi, contribuirà in parte a trascinarlo con sé nel suo imminente fallimento. D’altra parte, i rapporti fra editore e scrittore, infrangendosi contro difficoltà di cui l’uno attribuisce le responsabilità all’altro, sono giunti ad uno stato di notevole tensione. Se, ufficialmente, ciascuno prende ancora le difese dell’altro è perché, difendendo l’altro, difende se stesso ed i propri interessi pericolanti: vero e proprio gioco da compari, si sarebbe tentati di dire, che recitano ancora una volta una parte, con la loro bella maschera in volto, per ingannare, con la farsa di un inesistente accordo, il colto pubblico e l’inclita guarnigione dei creditori e degli usurai di entrambi.

  Un altro «banchiere» di Balzac, a noi già conosciuto per i precedenti interventi finanziari in favore del romanziere (fra cui quello recentissimo della cessione delle Etudes de moeurs), è Buisson. Ma se il discorso si è fin qui svolto esclusivamente intorno al nome di Werdet e se di Buisson non si è fatto alcun accenno fra coloro a cui lo scrittore attinge i propri mezzi di finanziamento, è perché, mentre l’importanza del primo è essenziale negli affari di Balzac, la partecipazione del secondo ha ben poca rilevanza nel corso di questo mese. Che questo abituale finanziatore o scontista di Balzac si trovi nella impossibilità di mettere a disposizione la propria firma o somme di denaro liquido nelle mani dello scrittore, o che egli, già troppo impegnato verso di lui in prestiti vari, in sconti di cambiali, in fatture ancora non pagate, in avalli di garanzia etc. etc., si rifiuti di intervenire nuovamente, sta il fatto che durante le settimane di cui ora ci stiamo occupando, nessun nuovo intervento di Buisson è registrato nell’apporto di nuovi soccorsi al bilancio balzacchiano. [...].

  Dopo Werdet e dopo Buisson è venuto ora anche il momento di parlare di Emile Regnault. La sua posizione economica non è certo assimilabile a quella del primo (che, per quanto in cattive acque resta sempre a capo di una importante casa editoriale) né a quella del secondo (modesto, ma sicuro capitalista). Al contrario, Regnault non è che un giovane medico, all’inizio della professione, senza alcuna situazione personale che gli permetta un largo maneggio di denaro o il godimento di un ampio credito. Eppure, [...] il suo nome ricorre più di una volta, nell’Echéancier di settembre fra coloro che sono legati alle operazioni finanziarie di Balzac; e già del resto ricorreva nelle pagine dedicate ai precedenti mesi del 1836, nel corso delle quali a varie riprese lo si è visto firmare all’ordine del romanziere varie cambiali, ora per far cosa gradita all’amico, ora per rimborsarlo delle spese da lui sostenute per la vita in comune in rue Cassini. [...].

  Accanto agli impegni, più o meno considerevoli, [...] rimane [...] aperto il problema, quotidianamente incombente, di un andamento di casa non solo appesantito da un insieme di spese indispensabili o utili, ma anche da molte altre, assolutamente irragionevoli, che l’ammirevole impreveggenza di Balzac par quasi prendersi il gusto di inventare.

  Vogliamo accennare al cambiamento di domicilio ed alla nuova installazione — che ha appunto luogo in questo mese — dalla rue Cassini in rue des Batailles a Chaillot.

  Per una serie di ragioni, [...], Balzac ha deciso di abbandonare la sua casa dei pressi dell’Observatoire, troppo esposta alle ricerche dei creditori e ai sopralluoghi della Guardia Nazionale, e di ritirarsi nel più nascosto appartamento di Chaillot, al n. 13 della rue des Batailles, già abitato da Sandeau e, di tanto in tanto, dal romanziere stesso. Fin dal 6 settembre, egli ha stipulato un regolare contratto d’affitto con il proprietario della casa di Chaillot (un certo Dangest a cui lo scrittore era già del resto ricorso per sconti di cambiali) ed ha accettato anche le condizioni, abbastanza onerose, di un canone annuale di affitto di 700 fr., ripartito in quattro rate trimestrali di 175 fr. ciascuna. A perfezionale il suo progetto di irreperibilità personale e ad allontanare il pericolo di eventuali sequestri mobiliari, egli ha accuratamente evitato, inoltre, di far comparire il proprio nome in tale contratto d’affitto che, in luogo del romanziere, è firmato dal dottor J.-B. Mège, un compiacente amico, generosamente disposto a togliere Balzac anche da questo imbarazzo. [...].

 

***

 

  [...] il romanziere, sprovvisto di manoscritti e già impegnato, per contratto, a consegnar almeno due nuovi racconti già pagati e solo parzialmente scritti [Illusions perdues e la Vieille fille], non è in grado di prendere per ora nuove importanti iniziative editoriali molto lucrative, capaci di risolvere radicalmente la sua situazione finanziaria.

  Consapevole, tuttavia, della fondamentale importanza che, soprattutto nelle circostanze presenti, ha per lui la ripresa di tali affari (gli unici veramente sicuri e capaci, ora o in seguito, di costituire un fermo appiglio di salvezza) egli cerca di sistemare vecchie trattative, di intraprenderne delle nuove, e di stringere ulteriori rapporti commerciali con editori e direttori di giornali. [...].

  Dopo alcuni mesi occupati da altri pensieri (la liquidazione della «Chronique de Paris») o dedicati alla vacanza (il viaggio in Piemonte), lo scrittore, fin dagli ultimi giorni di agosto, ha ripreso alacremente la penna ed è deciso a riconquistare il favore del pubblico — che equivale ovviamente per lui a moneta sonante.

  Talune di queste operazioni editoriali riguardano comunque ancora il passato e non hanno altro fine che quello di liquidare situazioni tuttora pendenti. [...].

  Di immediato profitto economico è invece la cessione del manoscritto della Vieille Fille ad un secondo acquirente; e questo è certamente l’affare editoriale più importante che Balzac abbia compiuto nel corso di questo mese.

  [...] dopo aver proposto quest’opera a Bethune, il romanziere chiede al suo ex associato di sostituirla con altre due novelle. Il progetto è legato ad una offerta che dovette giungere a Balzac nella prima metà del mese, da parte di Emile de Girardin, e che dovette certamente allettare, per la cifra proposta e per la clausola di un pagamento immediato, lo scrittore più «désargenté» che mai.

  I rapporti fra Balzac ed Emile de Girardin, per molto tempo amichevoli e quasi fraterni, erano passati, due anni prima, attraverso una brusca e violenta rottura che, nel 1834, aveva addirittura rischiato di provocare un duello fra i due. Più tardi, grazie agli sforzi compiuti dalla suocera di Emile, Sophie Gay, e, soprattutto, dalla moglie, Delphine de Girardin, che, con estremo tatto, eran volute restar fuori dalle «querelles de gendre et de mari», un ravvicinamento s’era prodotto, e Balzac aveva accettato, il 16 marzo, l’invito ad una grande serata letteraria, in casa dei Girardin, rue Saint-Georges. [...].

  Nel quadro, veramente originale, della redazione della «Presse» (che può realmente essere considerato uno dei primi quotidiani moderni francesi, e che avrà subito una inimmaginabile tiratura), Balzac è l’uomo che fa per Girardin: Balzac che, nella «specialità» a lui affidata (Scène de la vie privée), rappresenta veramente «la providence des revues» — e non solo nei commenti sarcastici della stampa pronta a servirsi di questa espressione per sottolineare l’immensa vanità dello scrittore, ma in un suo vero e preciso significato storico, nell’attrazione, cioè, esercitata dal suo nome verso un pubblico così numeroso da far aumentare la tiratura delle riviste in cui sono pubblicati i suoi racconti.

  Purtroppo delle trattative intercorse fra Emile de Girardin e Balzac a proposito della collaborazione letteraria del romanziere alla «Presse» sappiamo ben poco o, per essere più esatti, nulla di preciso. Ignoriamo quando cominciarono, se furono iniziate attraverso la mediazione (che ci appare probabile) di madame de Girardin, come si svolsero e come furono condotte. Allo stato attuale della nostra documentazione non possediamo neppure il contratto della Vieille Fille e non conosciamo di conseguenza la somma che Balzac ricevette, a termini di contratto, in cambio del manoscritto. [...].

  Tanto sotto l’aspetto economico quanto sotto quello psicologico (Balzac ha bisogno, dopo un silenzio di alcuni mesi, di un rilancio reclamistico della propria attività letteraria), l’affare della cessione della Vieille Fille alla «Presse» si rivela dunque eccellente. Non altrettanto importante, ma ugualmente positivo è anche un altro affare editoriale che lo scrittore riesce a concludere in questo mese. Vogliamo accennare alla cessione dell’ultima opera che rimane ancora a disposizione di un eventuale editore, e cioè dei Contes drolatiques, sia nella parte già scritta (1° e 2° «dixains») sia in quella che è nei progetti dell’autore e rimane ancora da completare (3° «dixain»). Si tratta di un affare che, tanto nella sua soluzione globale quanto in quella parziale, non è facile e che si trascina avanti da mesi senza approdare ancora ad una attuazione definitiva. Nel corso di settembre esso riesce finalmente, almeno in parte, a sboccare in trattative precise e ad arrivare a porto coronando così, verso la fine del mese, le speranze e le lunghe attese dello scrittore.

  Alla ricerca di un editore per la vendita dell’intero complesso dei Contes drolatiques, Balzac non aveva mancato di mettersi in campagna anche attraverso la mediazione della duchessa d’Abrantès, persona irrequieta ed in contatto con vari ambienti letterari ed editoriali parigini. E costei doveva avere informato lo scrittore della possibilità di vendere la raccolta di novelle a Dumont, editore abbastanza noto, ricco ed alla moda. Dumont aveva pubblicato, pochi mesi prima, in una elegante edizione, la Canne de M. de Balzac di madame de Girardin, ed era quindi in rapporti d’affari con la scrittrice. Ripresi ed intensificati i contatti col «clan» Girardin, Balzac pensa ora di rivolgersi a Delphine stessa e di illustrarle l’interesse che per Dumont avrebbe avuto questo affare, nella speranza che l’amica voglia spendere una parola autorevole in favore del progetto. [...].

  L’affare con Dumont non si concluderà. [...].

  A questo punto, nell’impossibilità di cedere l’intero complesso dei Contes drolatiques, Balzac ripiega sulla soluzione di vendere la parte di essi ancora inedita (il 3° «dixain») che ha il pregio della novità e, quindi, di una migliore sistemazione editoriale; ma, d’altro canto, ha il grosso svantaggio per l’autore di essere fin qui solo parzialmente scritta! ... [...].

  La situazione finanziaria ed economica [...], l’insufficienza delle, pur notevoli, iniziative editoriali che non riescono ad apportare soccorsi adeguati ai bisogni ben più esigenti dello scrittore non mancano beninteso di influire sulle condizioni psicologiche di lui. Naturalmente ottimista e dotato di forza morale capace di superare ogni ostacolo, Balzac, questa volta, teme di se stesso ed ha il terrore di soccombere davanti a resistenze più grandi di lui.

  A leggere le poche lettere che il romanziere scrive nel corso di settembre a madame Hanska e ad alcuni amici, l’impressione che egli stia attraversando una profonda crisi morale s’impone avvertibilmente. [...].

  Gli è che [...] ci sono, accanto alle gravi difficoltà finanziarie ed economiche, altri fatti che contribuiscono a tenere in ansia lo scrittore sul piano della propria salute fisica, sul piano affettivo ed anche su quello di numerose contrarietà, minori se si vuole ma non perciò meno irritanti.

  Fra queste ultime contrarietà c’è innanzitutto una disavventura che non è nuova nella biografia di Balzac e che non è certo delle più gravi, ma che pur ha il suo peso perché rappresenta una costante minaccia alla tranquillità dello scrittore e può mettere in difficoltà il suo orario notturno di lavoro e il calendario, già carico, dei suoi quotidiani appuntamenti d’affari. Vogliamo riferirci ad una seconda ingiunzione della Guardia Nazionale che condanna lo scrittore, costantemente negligente al servizio, ad altri 8 o 10 giorni di prigione. [...].

  Ignoriamo i rapporti di Honoré con la madre (con ogni probabilità assente da Parigi e tuttora residente a Chantilly), ma, dopo tutto ciò che sappiamo della vita fra madre e figlio nei mesi precedenti, abbiamo ogni legittimo motivo per ritenerli non buoni o, comunque, estremamente distaccati. [...].

  Quanto ad Henry, il fratello prodigo, il cui ritorno in Francia ha contribuito al peggioramento dei rapporti fra Honoré e la madre, egli, per quanto sappiamo (ma le notizie, anche qui, nel mese di settembre, fanno difetto), abita sempre, con la moglie e il figlio [...] in una posizione economica e sociale di estrema mediocrità [...].

  A Parigi rimane Laure, la sorella prediletta, l’unica che, in quello strano mondo familiare dei Balzac, abbia conservato costanti e affettuosi rapporti col fratello, l’unica a cui questi si rivolga a cuore aperto e di cui riconosca le qualità dell’animo e dello spirito. Ma anche qui, nel corso vertiginoso degli impegni dello scrittore, gli incontri sono rari e, per di più, difficili. In tutto il mese, Laure ed Honoré si sono incontrati una volta sola il 29 settembre, e l’incontro è stato rapido, quasi clandestino, insufficiente ad infondere un po’ di coraggio ai due fratelli, l’uno e l’altro socio il peso delle ansie e della miseria. [...].

  In tutto il corso di settembre, Balzac scrive all’Etrangère una sola lettera che, redatta nella notte fra il 30 settembre ed il 1° ottobre, porta la data (leggermente inesatta) del 1° ottobre. E tale lettera è inviata in risposta ad una sola lettera di madame Hanska, spedita probabilmente dopo la prima metà del mese, e pervenuta a Parigi, a quanto Balzac stesso afferma, il 30 settembre.

  Inoltre, il tono della lettera balzacchiana è tale da illuminarci eloquentemente sull’irritazione e, quasi, l’astio che, da tempo ormai, contrassegnano i rapporti sentimentali fra i due amanti lontani, incapaci di una fiducia reciproca e, forse, neppure desiderosi di conservarla. [...]. Giustamente insospettita dalle ragioni e dalle circostanze del viaggio piemontese, madame Hanska doveva aver centrato tutta la sua lettera sul capitolo dei rimproveri. E, ancora, se tali rimproveri fossero stati l’espressione delle sofferenze di una donna innamorata che, negli interrogativi senza risposta della lontananza, vede dappertutto fantasmi rivali ed esaspera la propria gelosia! Balzac, nel suo amor proprio di uomo e di amante, avrebbe potuto accoglierli come una indiretta testimonianza di passione. I rimproveri di madame Hanska sembrano invece aver assunto un tono francamente spiacevole ed ingiurioso; ed ella non ha solo manifestato nella sua lettera quei «sentiments blessants» che condannano senza alcuna attenuante d’affetto, ma ha anche largamente adoperato quelle «phrases qui percent le coeur» nelle quali Balzac non ha avuto difficoltà a scoprire uno sdegnoso distacco, uno sprezzante atteggiamento di indifferenza sentimentale. [...].

  Attraverso il lancio di tali accuse, L’Etrangère mirava ad un obbiettivo ben più importante di quello di colpire le vere o presunte infedeltà passeggere dell’amante. Resa guardinga dalle conseguenze di un legame di cui cominciava ad avvertire gli elementi negativi, Eve Hanska si preparava una uscita onorevole di disimpegno dalle promesse, fatte due anni prima a Balzac, di un amore eterno. In altre parole, consapevolmente o inconsapevolmente, in buona o in cattiva fede, per riflessione o per spontanea indifferenza, l’Etrangère approfittava dei veri o supposti tradimenti di Balzac per riprendere la propria libertà sentimentale incautamente impegnata a Ginevra nel 1834 e a Vienna nel 1835. A questo fine, concluso il capitolo delle accuse, la lettera doveva passare ad un altro ordine di argomenti. E qui madame Hanska, da un lato, affermava l’esistenza in lei di una profonda trasformazione spirituale che tendeva ad estraniarla da qualsiasi affezione terrena e a renderla contraria all’idea di un qualsiasi nuovo eventuale legame coniugale; dall’altro, esigeva dallo scrittore la distruzione delle lettere fin qui inviategli. Movimenti apparentemente diversi, ma in realtà concentrici, tendenti sia a far scomparire ogni traccia della passione di un tempo e di ogni troppo avventata (e fors’anche troppo arroventata) promessa, sia a formarsi un alibi religioso che, inclinandola verso una vocazione di solitudine, le rendeva impossibile l’abbandono ad affetti troppo mondani.

  Ignoriamo anche qui, per le ragioni che si sono già dette, i termini esatti in cui erano formulate queste considerazioni e questa richiesta. Ma è certamente possibile dire che la parte della lettera concernente questi due punti era la più insidiosa e quella sulla quale meno potevano far presa le giustificazioni, di qualsiasi carattere o tono, dello scrittore.

  È chiaro dunque che soprattutto qui Balzac deve far ricorso ai suoi più consumati procedimenti psicologici per sventare il pericolo di una rottura. Ed è interessante notare che le sue reazioni di fronte all’improvviso atteggiamento assunto da madame Hanska, a parte la loro abilità tecnica, comprovano quella curiosa posizione sentimentale del romanziere che si è venuta via via delineando nel corso dei mesi precedenti.

  Balzac è certamente meno innamorato dell’Etrangère di quanto non lo fosse stato fra il 1833 e il 1835; e gli amori recenti con la contessa Guidoboni-Visconti, l’avventura recentissima con Caroline Marbouty hanno indubbiamente contribuito a raffreddare di molto un affetto che la prolungata lontananza geografica e l’umore incostante di Eve Hanska hanno già seriamente compromesso. Ma egli tiene nel modo più fermo [...] a non rinunziare ad un legame che la morte di madame de Berny ha recentemente avvolto di un significato simbolico più intenso e che l’avvenire potrà comunque trasformare in un porto di sicurezza sentimentale ed anche economica. [...].

  Sempre avvolti nell’ombra più discreta rimangono gli amori di Balzac per la contessa Guidoboni-Visconti. [...].

  Silenzio ancor più completo anche sui rapporti tra Balzac e Louise. [...].

  Il primo settembre, il romanziere comincia a scrivere a colui che, fra le amicizie piemontesi, aveva subito assunto un posto d’onore: il conte Federico Sclopis di Salerano. Ma la lettera, iniziata appunto il 1° settembre, rimarrà interrotta, per varie settimane, sullo scrittoio di Balzac e non sarà terminata e spedita che alla fine del mese. L’interruzione — dovuta all’intenso susseguirsi degli impegni dello scrittore — non incide né sul carattere amichevole né sul tono molto cordiale della lettera, la quale rivela la stima e il sincero attaccamento nutriti per Sclopis. Essa mette al corrente il destinatario del viaggio di ritorno in Francia, del terribile lavoro e delle angustie morali sofferte al suo rientro a Parigi, conferma l’invio di un dono promesso, si raccomanda per una rapida conclusione del processo dei Guidoboni-Visconti e, infine, riconoscente dell’ospitalità piemontese, prega il corrispondente di ricordarlo presso tutti gli amici rimasti al di là delle Alpi, a cominciare, naturalmente, dalla madre di lui. [...].

  L’invio dei propri romanzi che Balzac la con inusitata larghezza ai suoi amici piemontesi [...] [Sclopis e Saint-Thomas] ci è confermato per altra via ed attraverso altre testimonianze. I volumi destinati in dono a Federico Sclopis («les trois ouvrages que j’ai le plus soignés»), indicati nella lettera del 1°-30 settembre, sono la terza edizione (1836) del Médecin de campagne e la seconda edizione (1836) del Livre Mystique contenente Les Proscrits, Louis Lambert e Séraphita. L’autore dovette portarli alla fine del mese all’Ambasciata Sarda a Parigi con la preghiera di farli inoltrare a Torino col plico diplomatico, appena possibile. La spedizione non fu tuttavia molto rapida; il 5 ottobre essi non erano ancora pervenuti allo Sclopis, ed è probabile che gli pervenissero solo verso la fine del mese. [...].

  Nell’intraprendere ora il discorso sulla attività letteraria di Balzac nel mese di settembre, la prima considerazione che converrà fare sarà quella di sottolineare l’intensificarsi di una singolare ripresa di lavoro intellettuale.

  Dopo mesi svogliati o indolenti in cui lo scrittore, preoccupato dall’andamento dei suoi innumerevoli affari economici o distratto dalle novità del suo viaggio transalpino, ha deposto la penna o appena l’ha tenuta in mano per tracciare qualche rapida annotazione narrativa, già gli ultimi giorni di agosto avevano obbligato Balzac a riaggiogarsi al suo tavolo di lavoro. Risultato di questo ritorno alle occupazioni letterarie, più o meno gradite, era stata la revisione dei volumi componenti la 2a «livraison» delle Etudes philosophiques e della nuova edizione della Dernière Fée [...].

  Ora, questa ripresa letteraria continua, ed anzi aumenta di intensità, nelle successive settimane facendo del mese di settembre un periodo di straordinaria produzione creatrice (fra i più ricchi dell’intera esistenza balzacchiana) ed assumendo un ritmo così accelerato da stupire lo stesso biografo dello scrittore, abituato a sorprendere, nella vita prestigiosa del suo eroe, i più inattesi ed incredibili «tours de force» narrativi. [...].

  Fra il 3 e il 14 settembre, Hippolyte Souverain, nella collezione delle Oeuvres de jeunesse dello pseudo Horace de Saint-Aubin, ripubblica il testo, rivisto da capo a fondo, della Dernière Fée. Fra il 18 e il 24 settembre, Werdet mette in commercio i cinque volumi della seconda «livraison» delle Etudes philosophiques (tomo II, Maître Cornélius; tomo 22, Jésus Christ en Flandre, Melmoth réconcilié e l’Eglise; tomi 23 e 24, Histoire intellectuelle de Louis Lambert e l’inizio dell’Interdiction; tomo 25. fine dell’Interdiction) anch’essi — salvo Louis Lambert ampiamente corretti.

  Dai primi alla fine del mese, Balzac redige metà della Vieille Fille, la Perle brisée, una parte imprecisata del Secret des Ruggieri, corregge ed amplia l’Enfant maudit. Inoltre, inizia presumibilmente la revisione de: volumi destinati a costituire la terza «livraison» delle Etudes philosophiques (che [...] ha promesso a Werdet di fare uscire entro lo stesso mese di settembre). Infine non è da escludere che (pur non mettendovi mano) egli pensi alla continuazione e fine di quel terzo «dixain» dei Contes drolatiques ceduto ad Auzou, ed a vari progetti che vedremo più tardi; e che partecipi alle numerose correzioni apportate al testo del Vicaire des Ardennes. [...].

  Una parola è ora indispensabile sui disegni letterari progettati lungo il settembre che — come se tutto ciò che Balzac ha scritto nel corso di questo mese non bastasse! — si agitano con imprevedibile intensità nella fantasia dello scrittore.

  Il primo ed il più importante di questi progetti è quello della preparazione della terza «livraison» delle Etudes philosophiques. Fin dai giorni antecedenti alla pubblicazione della seconda «livraison», Balzac già pensa alla nuova serie che, come le precedenti, dovrà essere composta di cinque tomi e dovrà contenere sia opere già edite in riviste sia opere totalmente inedite. [...].

  Anche nel mese di settembre l’atteggiamento della critica contemporanea francese di fronte a Balzac ed alla sua opera rimane sostanzialmente immutato.

  L’apporto delle valutazioni concernenti sia i suoi romanzi sia la sua personalità umana non è molto imponente. Esso si raccoglie intorno ad una quindicina di testi rappresentati da qualche recensione, da un «pastiche», da più numerosi spunti di cronaca, riferimenti ed allusioni. Ma, pur circoscritto in questi limiti di ampiezza, tale complesso critico, se così si può chiamare, continua a conservare inalterata la sua carica di ostilità, sia essa fondata su di un dissenso d’ordine puramente letterario sia invece motivata da segrete avversioni personali. Né importa se il tono con cui si manifesta sia ora serio ora ironico ora sarcastico e caricaturale: esso denuncia sempre un profondo malanimo verso lo scrittore.

  A parte due o tre eccezioni [...] Balzac resta sempre, dunque, uno dei bersagli preferiti dei giornalisti francesi del suo tempo. E come lo è senza esclusione di colpi così lo è pure senza distinzione di provenienza. Contro di lui si accaniscono, con una concordia degna di migliori obbiettivi, i caustici redattori di giornali più o meno scandalistici come lo «Charivari», il «Corsaire» o «Psyché», non meno di quelli severi di periodici seri e rispettabili come la «Revue des Deux Mondes», la «Nouvelle Minerve» o il «Siècle».

  Il carattere delle accuse mosse al romanziere resta anch’esso pressocché immutato. E, come ripetutamente si è avuto l’occasione di rilevare in precedenti occasioni, si appunta ora sulla povertà della sua ispirazione poetica e della sua vigoria drammatica, ora sulla sostanza dei suoi temi (che mescolano pochi spunti belli a moltissimi assurdi, che affondano in un misticismo di cattiva lega o nel compiacimento di inesistenti problemi sociali o nello sfarzo di un falso ed insopportabile enciclopedismo), ora sulla sua tecnica narrativa che viola ogni accettata convenienza letteraria e, soprattutto, sul suo stile di scrittore che inventa barbari costrutti sintattici o inintelligibili neologismi, stile che sarebbe sopportabile solo se, almeno, fosse traducibile in francese! Senza risparmiare l’uomo, la critica continua ancora a coinvolgere nei suoi attacchi anche le vanità e le frivolezze mondane di Balzac, il suo snobismo di «roturier» che si pretende nobile, gli aspetti più personali (più o meno accettabili, è vero, ma in ultima analisi, estranei alle questioni letterarie) della sua esistenza. Ed anche qui, il giudizio dei contemporanei, accigliato, scandolezzato, beffardo o cinico, non conosce limiti e sconfina senza ostacoli nell’insulto o nella calunnia.

 

 

  Remo Ceserani, Balzac Honoré de, in AA.VV., Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970, Volume I, pp. 505-506.

 

  Scrittore francese (Tours 1799-Parigi 1850). Alla grande voga di D. nell’Ottocento francese non si sottrasse neppure l’opera di B.: egli richiamò nel titolo stesso della sua Comédie humaine il titolo del poema dantesco, alluse in molti luoghi dei suoi romanzi a D., a Francesca, a Beatrice, all’Inferno e al Paradiso, introdusse addirittura D. fra i personaggi della Comédie, facendolo protagonista del romanzo breve Les Proscripts. (sic)

  Benché il titolo della Comédie humaine (1842) non sia stato mai da B. collegato esplicitamente con quello del poema di D., tutti i critici hanno messo in rilievo il legame fra i due titoli e la contrapposizione fra l’inferno della città moderna di B. e l’inferno medievale di D. che si riscatta nel paradiso divino (ma il rapporto va inteso in senso largamente allusivo). Sull’origine vera e propria del titolo, le testimonianze sono contrastanti: alcuni studiosi ritengono che esso fosse suggerito al B. dal giovane amico Auguste de Belloy, appena tornato dall’Italia pieno di ammirazione per D.; il Baldensperger ha invece avanzato l’ipotesi che il suggerimento fosse venuto dal giovane inglese Henry Reeve il quale, in una lettera a un amico scritta nel 1835, dopo aver riferito di essere stato presentato a B. e di aver appreso da lui il grande piano dell’opera in costruzione, aggiunge: “Se Balzac ha bisogno di un titolo per questa grande opera ... mi permetterei di suggerirgli la parodia della Divina Commedia di Dante, perché questa commedia moderna è tutta diabolica, la Diabolique Comédie du sieur de Balzac” (Memoirs and letters, I, Londra 1898, 39).

  Dagli elenchi che gli studiosi hanno compilato delle reminiscenze dantesche nell’opera di B., risulta che esse sono molto frequenti. Già in Wann-Chlore ([1824]; cfr. L’Oeuvre de B., a c. di A. Béguin e J.-A. Ducourneau, Parigi 1950-53, XV 1583) egli cita in italiano tre versi del canto di Francesca (If. V 82-84): R. Guise riferisce che sul manoscritto, a questo punto, il B., dopo avere invano tentato di tradurre i tre versi, scrisse: “Le Dante est intraduisible”. Al canto di Francesca egli si richiama molte altre volte e c'è anche un suo tentativo di libera traduzione dei vv. 127-138, che è tra le poche poesie da lui scritte: Un lendemain (cfr. Baldensperger, Orientations étrangères ..., pp. 165-167). Molto frequente è anche il riferimento al passo iniziale del c. III dell’Inferno, citato anche in italiano (cfr. per es. Le curé de Tours [1832], in La comédie humaine, a c. di M. Bouteron, Parigi 1935-1959, III 822: “Dans la città dolente des vieilles filles ...”). Questi riferimenti sono prova di un contatto diretto del B. non solo con le traduzioni francesi dell’Inferno, ma anche con qualche passo del testo italiano. Per il resto i suoi richiami all'opera dantesca sono generici e spesso imprecisi e per lo più si riferiscono o all’atmosfera infernale nel suo insieme o al personaggio di Beatrice come ispiratrice d’amore (per es. in La Femme de trente ans [1831-34], in Comédie, cit., II 837: “Le visage de Madame d’Aiglemont était une de ces poésies terribles, une de ces faces répandues par milliers dans la Divine Comédie de Dante Alighieri ...”, e in Le lys dans la vallée [1835-36], in Comédie, cit., VIII 883: “Elle devint ce qu’était la Béatrix du poète florentin, la Laure sans tâche du poète vénitien, la mère des grandes pensées, la cause inconnue des résolutions qui sauvent, le soutien de l’avenir, la lumière qui brille dans l’obscurité comme le lys dans les feuillages sombres ...”). Un caso particolare è quello della Fille aux yeux d’or (1834-35), un romanzo che è come un viaggio attraverso i cerchi dell’inferno parigino e ha fatto pensare a molti critici, fra cui il Curtius (che cita anche un giudizio in proposito di Hoffmansthal), il Bardèche e il Lugli, a un’atmosfera tipicamente dantesca (c’è anche, in quest’opera – cfr. Comédie, cit., X 309 – un’allusione alla ‛donna schermo’, interessante perché allora la Vita Nuova non era ancora stata tradotta in francese).

  L’atteggiamento di B., come quello di molti altri scrittori francesi dell’epoca romantica, è di curiosità viva per l’opera dantesca, ma egli ha una conoscenza assai superficiale di quello che a lui pare “le gigantesque labyrinthe de la Divine Comédie” (L’enfant maudit [1831], in Comédie, cit., IX 691). A quelle citate bisogna però aggiungere alcune altre testimonianze, dalle quali risulta un contributo più originale di B. alla voga dantesca in Francia: una curiosa aggiunta ‛romanzesca’ alla mitologia di D. personaggio e un insolito e personale interesse per l’aspetto mistico della Commedia. Nei tre romanzi che fecero parte del Livre mystique – e sono, nella Comédie humaine, tra gli (sic) Études philosophiques: Les proscripts (1831), Louis Lambert (1832) e Séraphîta (1834-35) – è dato a D. un rilievo particolare. Di Les proscripts egli è addirittura il protagonista del quale viene raccontato il presunto viaggio a Parigi (ne aveva parlato di recente A. de Montor) e l’incontro con Sigieri di Brabante: D. è presentato come un uomo dall’aria fosca e misteriosa e dall'occhio penetrante; Sigieri (il cui nome in quel tempo era noto solo ad alcuni cultori di scienze esoteriche) è raffigurato come un precursore di Swedenborg. Anche negli altri due romanzi B. insiste sull’analogia fra la struttura dell’universo dantesco (che egli però dimostra di conoscere in modo approssimativo) e la visione dell’universo a cerchi concentrici di Swedenborg (cfr. Louis Lambert, in Comédie, cit., X 381; Séraphîta, in Comédie, cit., X 513; anche la visione con cui si chiude Séraphîta sembra avere un’impronta dantesca, ma B., in una lettera a Madame Hanska [cfr. Lettres à l’étrangère, I, Parigi 1899, 172] dichiara di avere avuto in mente Raffaello). In Aventures administratives d’une idée heureuse (1834, incompiuto) D. è ricordato, sempre nella stessa vena mistica, per la sua capacità di riunire in sé le qualità contraddittorie dell’Occidente terrestre e giocoso e dell’Oriente voluttuoso, simbolico e celeste: “Dante seul a soudé ces deux natures d'idées. Son poème est un pont hardi jeté entre l’Europe et l’Asie, un Poul-Sherro sur lequel les générations des deux mondes défilent avec la lenteur des figures que nous rêvons sous l’empire d’un cauchemar”.

  A partire dal 1839 interviene qualcosa di nuovo nell’atteggiamento di B. verso D.: i riferimenti a Beatrice, che viene chiamata anche “Bice”, diventano più precisi (cfr. per es. Massimilla Doni [1839], Comédie, cit., IX 381-382; Béatrix [1839-45], in Comédie, cit., II 418-420, 463 e 500); un verso del Paradiso (XXVII 9), tipicamente ‛balzacchiano’, viene insistentemente citato: “senza brama sicura ricchezza” (Mémoires de deux jeunes mariées [1841-42], Comédie, cit., I 217; Béatrix, in Comédie, cit., II 469); viene in più occasioni sostenuta la superiorità del Paradiso sull’Inferno (cfr. Modeste Mignon [1844], in Comédie, cit., I 436, e in vari altri luoghi, anche della corrispondenza). È probabile che il nuovo atteggiamento e la migliore conoscenza dell’opera dantesca siano una conseguenza dei viaggi di B. in Italia (1836-38) e dei contatti avuti con letterati italiani a Milano e Roma (forse anche dei contatti con Stendhal). A Roma, in particolare, egli assisté ad alcune riunioni in cui Michelangelo Caetani teneva lezioni sull’opera dantesca. Di quest’episodio è conservato ricordo nella dedica allo stesso Caetani di Les parents pauvres (1846; Comédie, cit., VI 133-134: “Jusqu’à ce que je vous eusse entendu, la Divine Comédie me semblait une immense énigme ...”).

 

  Bibl. - Oltre alla bibl. generale citata alla voce Francia (particolarmente i contributi di A. Counson), Si vedano specificamente sui rapporti tra B. e D.: G. Gigli, B. in Italia, Milano 1920, 199; F. B.[aldensperger], Une suggestion anglaise pour le titre de la “Comédie humaine” de B., in “Revue littér. comp.” I (1921) 638-639; E. R. Curtius, B., Bonn 1923 (traduz. franc. Parigi 1933); Id., Wiederbegegnung mit B., in Kritische Essays zur europäische Literatur, Bonn 1950, 95-119 (traduz. franc.: Essais sur la littérature européenne, Parigi 1954; traduz. ital.: Studi di letteratura europea, Bologna 1963); M. Pisani, L’Italia nella “Commedia umana”, Napoli-Genova-Città di Castello 1927, 33 e 85-88; F. Baldensperger, Orientations étrangères chez H. de B., Parigi 1927, 165-167; M. Bardèche, B. romancier, ibid. 1940; P. Arcari, B., Brescia 19492, 141-150; V. Lugli, D. e B. con altri italiani e francesi, Napoli 1952, 11-37; E. Borne, Note sur la pensée politique de D. et de B., in “Terre humaine” aprile 1953, 69-79; F. Zulli, Dantean allusions in “La comédie humaine”, in “Italica” XXXV (1958) 177-187; R. De Cesare, L’italianismo di B. e l’influenza di Stendhal, in “Studi francesi” VII (1963) 450-461; VIII (1964) 50-66; Id., B. a Roma, in Studi in onore di C. Pellegrini, Torino 1963, 609-648; R. Guise, B. et D., in “L’année balzacienne” 1963, 297-319 (lo studio più esauriente sull’argomento); ID., B., l’“italien”, in “Rivista di letter. mod. e contemp.” (sic), XVII (1964) 51-65.



  Elvira D’Ascola, Les nouvelles de Balzac. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1970.



  Alessandra Del Bianco, “Le medecin de campagne”. Tesi di laurea. Relatore: prof. Francesco Orlando, Università degli Studi di Pisa, 1970.

 

 

  Paola Dessy, Buazzelli dal caustico Wolfe al drammatico Papà Goriot, «Sorrisi e canzoni TV. Settimanale di attualità e informazioni radio televisive», Roma, Anno XIX, N. 6, 8 Febbraio 1970, pp. 38-41; ill.

 

  Scriveva per pagare i debiti.

 

  «Ogni parola dev’essere un mandato di cattura spiccato contro i costumi dell’epoca»: questo era il credo letterario di Honoré de Balzac, uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, nato a Tours, nel cuore della Francia, il 20 maggio 1799 e morto a Parigi il 18 agosto 1850. Cominciò a studiare da notaio ma presto venne travolto dalla sua ambizione letteraria e da una smodata mania affaristica che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Raggiunti i primi successi artistici a trent’anni, si dette a scrivere romanzi e commedie al ritmo di un’opera ogni tre mesi. Nel tempo stesso, progettava folli imprese finanziarie, quali l’impianto di una tipografia, l’importazione di querce dalla Polonia, la coltivazione degli ananassi a Parigi che finirono tutte regolarmente in gravi dissesti i cui debiti lo costringevano a moltiplicare l’attività letteraria.

  Ciò senza trascurare grandi amori, come la de Berny e soprattutto Evelina Hanska, una polacca che sposerà cinque mesi prima della morte. In più, sognava fulminanti carriere politiche, il seggio all’«Académie», il dominio della borsa. La sua figura massiccia, il volto grasso incorniciato da grandi baffi divennero popolari nei migliori salotti parigini. Le sue opere sono potenti fotografie del suo tempo, con personaggi reali fortemente caratterizzati in ambienti socialmente precisi.

 

  «Ho fatto Papà Goriot con soli trentacinque milioni: si rende conto? Spero, pero, di poter dimostrare e dar prova di questo: che si può fare un lavoro dignitoso, soprattutto con un ritmo televisivo, anche senza spendere centinaia di milioni. Ciò che sono convinto di non aver fatto, è uno spettacolo tipo Karamazov».

  Tino Buazzelli, interprete sceneggiatore e regista della riduzione televisiva di Papà Goriot, uno dei romanzi più significativi di Balzac, quando si è messo, l’estate scorsa, a registrare questo sceneggiato (in programma da venerdì sul Secondo Canale), ha subito precisato quali erano le sue intenzioni: «Desidero dare una dimensione moderna a questo capolavoro dell’Ottocento, mettere in primo piano anche il dramma del giovane Eugenio de Rastignac, alle prese con una società in crisi. Attualizzare il rapporto fra padri e figli, un altro dei cardini dell’opera balzacchiana. Esasperare i personaggi, in modo da sottolineare i loro caratteri, già evidenziati in modo magistrale da Balzac».

  Ora vedremo se le buone intenzioni di Buazzelli verranno fuori dal piccolo schermo; se si pensa che l’attore romano dichiara di aver letto tutto Balzac a diciott’anni (e, naturalmente, di averlo riletto anche in seguito), le garanzie per un suo doppio successo esistono, eccome.

  Doppio successo, in quanto non si è limitato ad interpretare il sanguigno personaggio di papà Goriot, ma ha voluto curarne la sceneggiatura e la regia. [...].

  Gli chiedo di parlarmi di Papà Goriot così come lo vede lui.

  «Era una specie di borsaro nero, che aveva intrallazzato e si era arricchito durane la Rivoluzione. Un fabbricatore di pasta, un semplice “vermicellaio” che, una volta diventato ricco, si era ritirato a vita privata nella sordida pensione di madame Vauquer. Il suo amore quasi morboso per le due figlie fa di lui un padre passionale, disposto a rinunciare a tutto per loro. Le ha sposate convenientemente a due nobili e ricchi signori, e anche se le figlie non ricambiano il suo enorme amore, ma ricorrono a lui soltanto per spillargli quattrini, egli continua ad idolatrarle ed a vivere soltanto in funzione di questi due «angeli» (che in realtà sono dei «mostri» di egoismo). Quando si accorge che una delle due figlie è attratta del giovane de Rastignac, favorisce la loro relazione. Si affeziona addirittura ad Eugenio come a un terzo figliolo».

  «Ecco — continua Buazzelli, infervorandosi nel racconto – questo personaggio è quello che mi affascina di più, perché ha spunti attualissimi e penso che molti giovani si riconosceranno in lui.

  Il ruolo sostenuto da Carlo Simoni [Rastignac] è, effettivamente, di stretta attualità. E’ un giovane studente arrivato a Parigi dalla provincia, ambizioso e deciso a sfondare, ma in fondo ancora pieno di illusioni e di ideali. A contatto col mondo corrotto e con gli ambigui personaggi della borghesia neo-capitalista, anche lui però si affila le unghie ed usa le armi della corruzione per sfondare. In una società come quella post-napoleonica, dove ciò che conta è il denaro, i personaggi si muovono spinti soltanto dalla sete di conquista del potere. Il paragone con l’attuale società è inevitabile: di qui la spinta di Buazzelli a realizzare l’opera di Honoré de Balzac. [...].

  Ancora Tino Buazzelli si sofferma a discutere di Balzac (l’autore che forse ama di più), citando due definizioni che hanno dato del grande scrittore francese due personaggi diversi come Baudelaire e Carlo Marx. Il primo lo definì «un visionario», mentre il secondo, suo grande ammiratore, disse di lui: «E’ l’esatto critico della società in cui viveva». Dal canto suo, Buazzelli considera le opere di Balzac «fondamentali», vere «pietre miliari» della letteratura mondiale. In questi giorni, l’attore sta replicando nei teatri di tutta Italia Mercadet l’affarista, un altro lavoro di Balzac. Anche di questo ha curato una riduzione televisiva, che andrà in onda dopo Papà Goriot. [...].



  Mario Di Luigi, Lettere della Primavera. Carta, penna e calamaio, «Le Stagioni. Rivista trimestrale di varietà economica», Torino, Anno X, Numero 2, Primavera 1970, pp. 41-43.

 

  p. 41. Ricordo di aver letto una volta su un giornale, non so quanto attendibile, che Balzac scriveva solo di notte e con tutto un cerimoniale esteriore abbastanza complesso.

  Non poteva lavorare se non era buio fondo, se non aveva il lume (a petrolio) adatto, se non si era rivestito di una ampia, e comoda veste da camera, se non si era legato alla cintola una catenella portante un tagliacarte e se sul tavolo non vi era tutta una risma di candidi fogli preparati alla bisogna ed un ricco mazzo di penne d’oca ben temperate.

  La storiella mi ha abbastanza interessato, perché, modestamente, io, che con Balzac ho in comune una cosa soltanto (quella di aver scritto un numero di pagine enorme), sento all’incirca le stesse esigenze. Non per la veste da camera, che non mi piace, e non per il lume a petrolio, che ricordo di aver usato solo poche volte prima della guerra in una casa, di campagna sprovvista di elettricità; ma per la carta, la penna, il tagliacarte (magari non legato alla cintola) sento all’incirca le stesse esigenze di Balzac.

 

 

  Massimo Dursi [Otello Vecchietti], Balzac nello specchio, «il Resto del Carlino», 13 febbraio 1970.

 

 

  Gemina Fernando, A me piace Balzac, «Frontiera», Cagliari, Anno III, n. 4, 1970, pp. 146-149.

 

  Più volte mi è stato chiesto perché, dovendo tradurre un romanzo francese, ho scelto per la seconda volta Balzac, e perché tra i romanzi di Balzac vado a scovare proprio queste due giovani spose che, come tutti i personaggi della Commedia umana, hanno, sì, la loro parte di interesse, ma non danno vita al capolavoro, come per esempio l’angelica Eugénie Grandet, e il suo formidabile padre, mostro di avarizia, o «Le père Goriot» col suo amore cieco e morboso, quasi contro natura, per le figlie; o altri che, vivendo nella aura di passioni tremende o ammirevoli, eccessive sempre, si muovono nelle pagine della grande Commedia, come in uno scenario che ha per sfondo la vita, (non dimentichiamo che Balzac fu l’iniziatore del verismo), e ne balzano enormi, quasi da uno specchio sul quale appare la figura nel giuoco di luci e d’ombre, alterata e smisuratamente ingrandita, sì da renderla mostruosa. Così la psicologia dei maggiori personaggi balzachiani.

  Rispondo adesso alla prima domanda: perché ho tradotto un secondo romanzo di Balzac? Ma perché Balzac mi piace; e se fra le due traduzioni esce prima «Eugenia Grandet», è perché si trattava di un capolavoro, e anche perché, dal direttore della ben nota collana dell’U.T.E.T., mi fu proposta la scelta tra «Eugénie Grandet», «Le père Goriot», e «César Birotteau»; io domandai consiglio a un insigne letterato, che mi consigliò «Eugénie Grandet»: la meravigliosa Eugenia Grandet.

  La seconda scelta è stata esclusivamente mia. Ed ecco perché: anzitutto, da buona sarda, tutto quel che riguarda la Sardegna, specie se venuto da luoghi e genti estranei all’Isola, m’interessa o mi commuove. C’è in questo libro un passaggio che mette in luce simpatica la Sardegna e i suoi banditi. Siamo sinceri: banditismo sardo non sempre ha il significato di Anonima Sequestri. Ma c’è, o almeno c’era, un banditismo cavalleresco e romantico, che aiuta il debole ma non esita a minacciare il forte, fosse pure un re. Sebastiano Satta, nel suo sconfinato amore per la terra natia e per i suoi conterranei, siano pure veduti attraverso le tragiche ombre della delinquenza, vengono trafitti come da una lama di sole, dalla luce della sua poesia. Qui si tratta del re di Spagna, Ferdinando VII di Borbone, l’essere più perfido che si possa immaginare, il rey netto, come per beffa lo qualifica don Felipe Hénarez, protagonista, assieme alla sposa, Luisa de Chaulieu, di questo romanzo.

  Luisa crede che il suo maestro di spagnuolo sia nient’altro che un borghese piuttosto strano; e anche se sa che Hénarez è spagnuolo, non sa che è discendente degli Abenceragi, dunque di nobilissima stirpe, un ispano-mauro insomma, ma di idee liberali, perciò nemico e perseguitato dal re; profugo a Parigi perché condannato a morte. Come maestro di spagnuolo entra in casa del duca de Chaulieu, ne conosce e ne ama la figlia, creatura di animo nobile e di prodigiosa bellezza. Ma Luisa, aristocratica fino al midollo, pur affermando che nelle sue vene non c’è una sola goccia per un borghese; e credendolo borghese, conoscendone la vita modesta e l’altrettanto modesto lavoro, ne è contro la sua volontà, irrimediabilmente soggiogata. E’ anche bruttissimo: «voi siete bello come un figlio dell’amore, io sono brutto come un grande di Spagna», egli stesso dirà in una lettera-testamento al suo fratello cadetto, annunziandogli che in suo favore si spoglia del titolo di duca di Soria, e in uno di tutti i beni inerenti al maggiorasco.

  Brutto, umile, povero. Ma il duca de Chaulieu sospetto che quest’essere piovuto dalla Spagna a Parigi, dove vive dando lezioni di spagnuolo a tre franchi l’ora, non sia umile come età, umile» come vuol parere. Il suo modo di fare è di una signorilità che non inganna, parla il francese come se fosse la sua lingua madre; e possiede una cultura di studioso degna delle più alte posizioni sociali. Chi è dunque quest’uomo? A forza di deduzioni, di sospetti, di indagini, Luisa riesce finalmente a sapere. Una sera agl’«Italiani», anche Hénarez era in teatro. Nel palco del duca di Chaulieu, il primo segretario dell’Ambasciata di Spagna ne racconta un’«azione sublime»:

  «— Era duca di Soria, doveva sposare una delle più ricche ereditiere di Spagna, la giovane principessa Maria Hérédia, la cui fortuna gli avrebbe mitigato l’infelicità dell’esilio; ma gli parve che, eludendo i voti dei loro genitori che li avevano fidanzati da bambini, Maria amasse il cadetto di Soria, e il mio Felipe, rinunciando alla principessa, si fece spogliare dal re di Spagna.

  — Avrà fatto questa gran cosa con la massima semplicità — diss’io al giovane uomo.

  — Lo conoscete dunque? — diss’egli di rimando, ingenuamente.

  Mia madre sorrise.

  — Che cosa può sperare, se è condannato a morte? — diss’io.

  — Se è morto in Spagna, ha diritto di vivere in Sardegna.

  — Ah! ci sono delle tombe anche in Ispagna? — diss’io per aver l’aria di prendere la cosa in burletta.

  — C’è di tutto in Ispagna, persino degli spagnuoli dei vecchi tempi — mi rispose mia madre.

  – Il re di Sardegna, sia pure con una certa inquietudine, ha accordato un passaporto al barone di Macomer — riprese il giovine diplomatico; — ma intanto è diventato suddito sardo, possiede in Sardegna dei feudi magnifici, con diritto di alta e bassa giustizia. Se Ferdinando VII morisse, Macomer entrerebbe verosimilmente nella diplomazia, e la corte di Torino ne farebbe un ambasciatore. Quantunque giovine ...

  — Ah, è giovine?

  — Sì, signorina; quantunque giovine, è uno degli uomini più distinti di Spagna».

  — Ma i banditi cosa c’entrano? — dirà il lettore.

  Ecco: leggiamo assieme il suggestivo passaggio della lettera-testamento che l’esule scrive al fratello quando si spoglia a suo favore del titolo di duca di Soria, e di tutti i beni di Spagna, assumendo in cambio il titolo di barone di Macomer e le rendite della baronia. In Sardegna potrà vivere sicuro e indisturbato:

  «Da quando i destini della mia cara Spagna furono perduti in Andalusia, scrissi all’intendente dei miei beni in Sardegna di provvedere alla mia sicurezza. Degli abili pescatori di corallo mi attendevano con una barca su un punto della costa. Quando Ferdinando raccomandava ai francesi di assicurarsi della mia persona, io ero nella mia baronia di Macomer, in mezzo a banditi che sfidano tutte le leggi e tutte le vendette. L’ultimo della stirpe ispano-maura di Granata ha ritrovato i deserti d’Africa, fino al cavallo saracino in un dominio che viene dai Saracini. Gli occhi di questi banditi hanno brillato d’una gioia e d’un orgoglio selvaggi apprendendo ch’essi proteggevano contro la vendetta del re di Spagna il duca di Soria loro padrone, un Hénarez insomma, il primo che sia venuto a visitarli dal tempo che l’Isola apparteneva ai Mori, essi che la vigilia temevano la mia giustizia. Ventidue carabine si sono offerte di prender di mira Ferdinando di Borbone, questo figlio di una razza ancora sconosciuta nel giorno in cui gli Abenceragi arrivavano da vincitori sulle sponde della Loira. Io credevo di poter vivere delle rendite di questi immensi dominii ai quali noi disgraziatamente abbiamo così poco pensato, ma il mio soggiorno mi ha dimostrato l’errore, e la veracità dei rapporti di Querevedo. Il pover’uomo aveva ventidue vite d’uomo al suo servizio e non un reale, delle savane di ventimila iugeri e non una casa, delle foreste vergini e non un mobile. Un milione di piastre e la presenza del padrone per mezzo secolo sarebbero necessarie Per mettere in valore queste terre magnifiche; ci penserò io. I vinti meditano durante la loro fuga e su sè stessi e sulla partita perduta. Vedendo questo bel cadavere roso dai frati, gli occhi mi si sono riempiti di lacrime; vi riconobbi il triste avvenire della Spagna».

  Banditi, pescatori di corallo, discendenza maura, cavalli sardo-arabi, immensa ricchezza di terra e altrettanto immensa povertà di mezzi (eterna malattia dell’Isola), ce n’è a sufficienza perché il sardo riconosca la Sardegna di oggi in quella di ieri; e nel protagonista di questa suggestiva vicenda, quasi un parente; infatti una quantità delle famiglie signorili sarde sono di discendenza spagnuola. Più in là nel tempo troviamo ancora due regioni il cui nome rivela antiche dominazioni che vi hanno impresso col nome, il tipo e il carattere degli abitanti: Is Maurreddus (i mauri), Is Sarrabus (gli arabi). Esiste pure una leggenda in cui si parla di un gigante Seraghine, nome che non inganna perché significa Saracino. E i cavalli? stupendi, graziosi ed elegantissimi, nati dal fortunato incrocio del cavallo sardo con l’arabo ai tempi delle invasioni moresche orgoglio di tutta l’ippica sarda, noto in tutto il mondo col nome di sardo-arabo, e nell’Isola acclimatatosi così bene da essere spesso detto sardo senz’altro, da esservi trovate a volte persino in liberi branchi, allo stato brado.

  Anche Felipe Hénarez ne possiede uno. Lo sfoggia in una passeggiata ai Campi Elisi. Luisa ne parla in una lettera a Renata «Nel salire per l’entrata dei Campi Elisi, vidi venire verso di me il mio Abenceragio su uno stupendo cavallo; gli uomini, che adesso son quasi tutti sensali di cavalli, si fermavano per vederlo, per esaminarlo. Egli mi salutò, e io gli feci un cenno amichevole di incoraggiamento: moderò il passo del cavallo, e potei dirgli: — Non troverete cattiveria, signor barone ... — Avete un cavallo che vi fa distinguere — conclusi.

  — Me l’ha mandato per orgoglio il mio intendente di Sardegna, che questo cavallo di razza araba è nato nei miei possessi.

  Questa mattina, mia cara, Hénarez cavalcava un inglese sauro, ancora bellissimo ma che attirava l’attenzione; quel poco di critica scherzosa era stato sufficiente».

  Luisa de Chaulieu è pazzamente innamorata di Felipe Hénarez, che sarà suo marito, poi di Marie Gaston, che sposa in seconde nozze, bellissima per quanto Felipe era bruto (sic?); e per uno sciocco equivoco creduto infedele, si dispera fino al suicidio. Ma sono astri minori, di fronte al divino spagnuolo, come lo definisce Luisa; e anche nel romanzo è un sole che illumina la parte migliore di tutta la storia.

  All’altezza di Felipe c’è solo una donna, Renata de Maucombe, compagna di collegio e fraterna amica di Luisa, come Luisa destinata alla monacazione. (Renata è stata il secondo perché della mia traduzione). Nel romanzo non è una figura romantica; sembrerebbe una calcolatrice, infatti fa un matrimonio di convenienza. Lui, Luigi de l’Estorade, è una specie di relitto dell’esercito napoleonico, miracolosamente scampato alla rotta, e tornato in patria dopo lunghe dolorose peregrinazioni per le steppe russe. Certamente disperso, fu però per tanti anni creduto morto; ma soltanto il padre si rifiutava di crederlo, e mentre la madre moriva di dolore, egli pensava ad accumulare per il figlio una ricchezza da fargli trovare al suo ritorno in patria. Il padre è profeta: l’atteso figlio è vivo, torna a casa precocemente invecchiato, ma assieme alla fortuna creatagli da suo padre, troverà la fanciulla che suo padre sogna per lui. E’ Renata de Maucombe. I genitori di Renata e il vecchio barone de l’Estorade si accordano sul destino dei loro figli. Al barone non importa che la sposa non porti una vistosa dote, egli la vuole virtuosa, bella, e appartenente a una delle famiglie della più alta nobiltà della zona. La vede in Renata de Maucombe; la vicinanza delle due case favorisce, non l’idillio, ma la conoscenza e l’assenso dei due giovani al matrimonio desiderato dai vecchi. Avviene l’accordo: Renala accetta per non tornare in convento, Luigi sa di non venire sposato per amore, ma lui è quasi innamorato, e suo padre è entusiasta della futura nuora nella quale vede tutte le perfezioni. Luigi de l’Estorade del resto, è assai migliore di quanto non appaia sul principio. Accetta questa situazione quasi assurda; e Renata fa di tutto per trarre da questo tipo mediocre, malato fisicamente e moralmente, un uomo normale da prima, poi distintissimo, quasi geniale. La storia di questi interessi provinciali (siano in Provenza) arriva a tutto quel che è bene in un matrimonio: la creazione della famiglia, i figli. In Renata, pur bellissima, c’è anche l’ideale bellezza della maternità. Della maternità vive sentimenti e sensazioni, quelle sensazioni fisiche e fisiologiche che la maggioranza degli scrittori salta a piè pari, o ne fa pagine da trattato di ostetricia. Qui no: qui siamo tra le maglie del romanzo verista, ma non cadiamo mai nell’osceno; pur essendo tutto esatto è anche tutto puro, è come una miniera d’affetti, di sorrisi, come quando la stessa Renata ci descrive una di quelle strambe voglie mangerecce che si manifestano nelle donne durante la gravidanza, e che in Renata arrivano allo sfrenato desiderio di certi aranci ammuffiti, maleodoranti, per mangiare i quali corre talvolta dalla sua casa di campagna fino a Marsiglia, dove si delizierà di questi repellenti scarti della frutteria.

  Della maternità vive pure il dramma: la descrizione delle convulsioni del bambino e dell’alternativa tra la speranza e la disperazione, narrata sempre in una lettera a Luisa, è una cosa che fa fremere ... finché, scomparso il pericolo, torna la gioia nell’anima della madre che finalmente può stringere al cuore la sua creatura risuscitata.

  Renata è una mater ammirabilis: «ho avvertito il primo movimento del mio bambino, che dalla profondità della mia vita ha reagito sulla profondità della mia anima. Questa sorda sensazione in un avviso, piacere, dolore, promessa, realtà; questa felicità che non è che per me nel mondo, e che resta un segreto tra me e Dio ... —... mi son sentita nata per essere madre ... — ... Una gioia immensa ha coronato tutti quei lunghi giorni di devozione che avevano già fatto la gioia di Luigi. — Devozione! — dico a me stessa — non sei tu più che l’amore? non sei la voluttà più profonda, perché sei la astratta voluttà, la voluttà generatrice?».

  La sensazione del nutrire diventa nella anima di Renata (e nella penna di Balzac), sentimento, arte, poesia viva e vera: «... mi hanno mostrato allora il bimbo. Mia cara, ho gridato di spavento. — Che piccola scimmia — ho detto — siete sicuri che sia un bambino? — ... — Il piccolo mostro ha preso il mio seno e ha succhiato: ecco il fiat lux! Sono stata subito madre. — ... — Partorire non è nulla; ma nutrire è partorire a tutte le ore. — ... — I mondi devono riattaccarsi a Dio come un bambino si riattacca a tutte le fibre di sua madre. Dio è un gran cuore di madre. Non c’è nulla di visibile, né di percettibile nel concepimento, nemmeno nella gravidanza; ma essere nutrice, Luisa mia, è una felicità di tutti i momenti. Si vede quel che diventa il latte, si fa carne, sboccia sulle punte di queste dita piccoline che sembrano fiori e ne hanno la delicatezza; cresce in unghie fini e trasparenti, si sfangia in capelli, si agita con i piedi. Oh, i piedi di un bimbo! ma è tutto un linguaggio. Il bimbo comincia a esprimersi per là. Nutrire, Luisa! è una trasformazione che si segue di ora in ora e con occhio attento».

  Il poema della nutrizione è lungo, si sviluppa poi per tutta la crescita del bambino in pagine meravigliose che si ripercuotono nell’anima della donna, e, perché no? in quella dell’uomo, se la sorte gli ha concesso la gioia della paternità.

  Queste sensazioni si ripetono per la piccola Atenaide, poi per l’ultimo nato, il cadetto, che secondo le leggi d’allora non avrà, come il primogenito, diritti feudali né patrimoniali, ma la madre pensa a far di lui un uomo che non sarà inferiore al primogenito né per censo né per posizione sociale. Essa fa i suoi calcoli piuttosto prosaici, naturalmente, ma che rivelando l’affetto materno che pur conoscendo la legge e non osando ritenerla ingiusta, ama tuttavia di eguale amore il primogenito, la secondogenita, e l’ultimo, il piccolo mendicante, come essa affettuosamente lo qualifica. Per questo piccolo mendicante la madre vuole costituire un maggiorasco, e per Atenaide una buona dote. I calcoli e i desideri materni, le raccomandazioni ch’essa cerca e accetta dalle amicizie altolocate che ha a Parigi, sembrano avverarsi. Di tutto scrive a Luisa, la quale non le risparmia quel po’ di garbata ironia che si può permettere un’amica sincera ma di rango superiore quale era stata la baronessa di Macomer, ma quale la signora Gaston conserva solo per il titolo di nascita; o forse per la vecchia superiorità della compagna di collegio nata duchessa de Chaulieu, non che parigina, di fronte alla compagna proveniente dalla piccola nobiltà provinciale, o addirittura campagnola della baronessina di Maucombe, attualmente contessa de l’Estorada: «... tu ci hai beffato per avere serbato il posto di presidente della camera alla Corte dei Conti, che noi abbiamo, come pure il titolo di conte, dal favore di Carlo X; ma è con quarantamila lire di rendita, dalle quali trenta appartengono a un maggiorasco, che io potrò convenientemente sistemare Atenaide, e questo povero piccolo mendicante di Renato? Non dobbiamo noi vivere secondo il nostro rango, e accumulare saviamente le rendite delle nostre terre?». E così via, con tutti i calcoli sull’avvenire dei figli, e sulla situazione brillantissima che si è conquistato il marito.

  Il grido che chiude il libro, e con esso le memorie delle due giovani spose, è come il singhiozzo della tragedia che si spegne in un supremo anelito della maternità, semplice ma indispensabile come il respiro. E’ la conclusione di una lettera che Renata scrive al marito, dopo la morte di Luisa: «Ho il cuore spezzato. Torno dall’averla veduta nel suo sudario, era divenuta pallida con sfumature livide. Oh! io voglio vedere i miei bambini! i miei bambini! Porta i miei bambini davanti a me! (1)

 

  (1) Memorie di due giovani spose. Romanzo di Honoré de Balzac, Collana «I grandi scrittori stranieri», ed. U.T.E.T. - Torino.



  Maria Figliola, «Histoire de la grandeur et de la décadence de Cesar Birotteau». Tesi di laurea. Relatore: prof. Francesco Orlando, Università degli Studi di Pisa, 1970.

 

 

  G., Il Balzac di Buazzelli, «Corriere della Sera», Milano, Anno 95, N. 38, 14 febbraio 1970, p. 12.

 

  Si è conclusa ieri sera, sul secondo canale, la riduzione televisiva del romanzo di Balzac Papà Goriot, che Tino Buazzelli ha sceneggiato, diretto e interpretato. Certo, stipare in due sole puntate tutta la materia del romanzo non era scommessa da poco: Buazzelli ha poi voluto restituire con larghezza certi episodi-chiave, episodi cioè più ancora che necessari allo svolgimento della storia, esemplari nell’illuminare il senso profondo della rappresentazione balzacchiana: si pensi all’arresto di Vautrin, importante per il valore che questo personaggio ha nella particolare mitologia dello scrittore francese (Eugenio de Rastignac dirà di aver visto le tre grandi espressioni della società: l’Obbedienza, la Lotta e la Rivolta; la Famiglia, il Mondo e Vautrin): la sequenza relativa aveva una indiscutibile efficacia. Ma naturalmente non tutto il romanzo poteva essere raccontato allo stesso modo: così, nell’insieme. di Papà Goriot, è venuto fuori uno schema un po’ asciutto: un libro denso, rigurgitante di energia, di pietà, di violenza, dove il mondo diventa più grande del normale, finiva per restringersi, talvolta a una catena di avvenimenti, di casi (in altri punti magari spuntava un eccesso di preziosismo). Non si saprebbe, però, tutto sommato, dar la colpa a Buazzelli regista: quanto a Buazzelli attore, cioè Papà Goriot, la sua prestazione è stata eccellente. Con lui ricordiamo Paolo Ferrari (Vautrin) e Carlo Simoni (Eugenio).

 

 

  G., Il Mercadet di Buazzelli, «Corriere della Sera», Milano, Anno 95, 1 aprile 1970, p. 12.

 

  Mercadet, il protagonista dell’omonima commedia di Honoré de Balzac (in originale «Le faiseur»), di cui è andata in onda ieri sera sul «nazionale» la prima parte, è un affarista crivellato di debiti, ma è poi un debitore balzacchiano; la sua insolvenza assume dimensioni cosmiche: essa si proietta nell’universo e l’universo l’imita: «La terra fa costantemente bancarotta con il sole. La vita è un prestito perpetuo L’essere assediato dai creditori finisce per non rappresentare più una disgrazia ma una circostanza che potenzia la vitalità, stimola le invenzioni, trasforma il reale. Sfortunato come autore di teatro, Balzac intuisce però benissimo in Mercadet il fondo di una società che obbediva con slancio al nuovo imperativo; «arricchitevi!» (siamo alla monarchia di luglio) e ne cava un personaggio alla sua misura.

  Ma anche alla misura di Tino Buazzelli che, dopo avere interpretato sul palcoscenico la commedia, l’ha sceneggiata. sulla base della libera traduzione e rielaborazione di Carlo Terron (il testo originale ha dimensioni poco raccomandabili) e l’ha diretta per la TV, riassumendovi naturalmente i panni di Mercadet. Buazzelli regista ha interpolato qua e là qualche «soggetto», ha aggiunto alcuni effetti di accelerazione comica da film muto, ma si tratta di manomissioni tutto sommato accettabili: il copione di Balzac le tollera. Il tono generale era quello di un grottesco che lievitava felicemente, toccando certi toni «visionari», non appena lo spazio veniva occupato da Buazzelli. [...].



  Valentino Gambi, Introduzione, in Honoré de Balzac, Un tenebroso affare ... cit., pp. 9-21.


  Breve biografia.

 

  «Balzac e grande! I suoi personaggi sono opera di una mente universale! Non lo spirito del tempo, ma interi millenni hanno preparato con la loro lotta un tale scioglimento nell’anima dell’uomo». Così Dostoevskij ha definito il creatore della «Commedia umana».

  Honoré de Balzac nacque a Tours il 20 maggio 1799 e morì a Parigi il 18 agosto 1850.

  Apparteneva ad una modesta famiglia borghese che lo avviò alla giurisprudenza; fece pratica presso un legale, poi, chiamato dalla sua vocazione letteraria, s’installò a vent’anni in una soffitta parigina e scrisse, tra l’altro, un pietoso Cromwell in versi. Inizialmente non ebbe grandi successi, per cui volle tentare imprese editoriali, con tanto di tipografia e di fonderia di caratteri, ma con sì scarsa fortuna che gli enormi debiti contratti lo perseguitarono per tutta la vita, anche quando i frutti del suo lavoro come romanziere si erano fatti molto lauti.

  Tenuto lontano da casa da sua madre, che si dimostrò con lui di un’asprezza singolare, si buttò a capofitto in una prodigiosa produzione letteraria (basti pensare che in soli vent’anni compose 91 romanzi tra lunghi e brevi!), che sembrerebbe oltrepassare le forze di un uomo.

  Ciò non gli impedì di condurre una vita mondana molto attiva, di fare lunghi viaggi, di avere avventure amorose (si sposerà soltanto nel 1848 con la contessa polacca Evelina Hanska), di tentare la sorte, senza successo, nella politica e di mettere in piedi altre stravaganti combinazioni finanziarie. Una tra le tante: al principio del 1838 eccolo in Sardegna alla ricerca delle miniere d’argento dell’antichità, che egli pensa di poter sfruttare! ...

  Gli anni dopo il ’30 costituiscono l’epoca del suo dandysmo: carrozza e cavalli, domestici in livrea, palco all’Opéra! La mania dell’arredamento, che gli costerà così cara da metterlo in fuga davanti ai suoi numerosi creditori, si palesa nel suo appartamento di via Cassini, che fece suntuosamente ammobiliare.

  Egli lavorava di notte, vestito con la sua celebre tonaca bianca di cachemire, la caffettiera di porcellana sempre a portata di mano.

  Un figlio nato morto fu per lui un colpo terribile dal quale non si riebbe più.

  Il 18 agosto 1850 entrò in agonia. Quel giorno venne a vederlo Victor Hugo, che ha poi narrato questa ultima visita in Cose viste, e sarà Hugo, ai funerali, che dirà il magnifico elogio funebre.

 

  La Commedia umana.

 

  Il nome di Balzac è legato alla Commedia umana. Quest’opera gigantesca, che permane tuttora così viva, mentre il mondo da essa evocato è da tempo rientrato nell’ombra del passato, è stata pagata con molte sofferenze: sorta da un’esistenza magnifica e dolorosa, non ha mai cessato di affascinare i lettori.

  Il titolo, chiaramente ispirato a quello tradizionale del poema di Dante, ben corrisponde all’ambizione del Balzac di offrire un quadro completo dei pensieri, dei sentimenti, degli ideali e delle passioni dell’umanità, con preciso riferimento ai costumi sociali della sua epoca, alla Francia del Primo Impero, della Restaurazione e di Luigi Filippo, della quale egli volle essere al tempo stesso lo storico, l’interprete e il giudice.

  Le prime opere, stampate nel 1830, appaiono scritte in realtà senza un piano ben definito; ma egli le pubblicava già sotto il titolo generico e programmatico di «Scene della Vita Privata», provvedendo ben presto a collegare tra loro i diversi racconti facendovi ricorrere certi personaggi fissi (si pensi, per esempio, a Rastignac, Vautrin, Rubempré ecc.). Successivamente, dal 1834 al 1837, cominciò a suddividere la sua produzione, che si accresceva con ritmo vertiginoso, in tre grandi Parti. «Studi di Costumi», «Studi Filosofici» e «Studi Analitici», ciascuna delle quali comprendeva diverse sezioni, in modo da stabilire quasi una serie di riquadri che egli andava man mano riempiendo.

  Il titolo generale del ciclo doveva essere dapprima quello di «Studi Sociali», mentre quello definitivo, della Commedia umana, compare solo nel 1841. In quell’anno il Balzac provvedeva a una prima edizione completa dell’opera sua in sedici volumi (divenuti poi diciassette), che cominciò a uscire nel 1842. Nel 1843 venne a un altro riordinamento (che si può considerare definitivo, salvo pochi ritocchi posteriori), stendendo un «piano» che comprendeva i titoli di 135 romanzi, di cui 85 finiti e 50 abbozzati o progettati; i quali ultimi restarono incompiuti, mentre il Balzac aggiunse agli 85 già fatti altri sei romanzi, del tutto nuovi, ideati e stesi in seguito. Abbiamo così in effetto ben 91 narrazioni, frutto del lavoro di circa vent’anni, pubblicate dal 1830 al 1847, che figurano distribuite secondo il seguente schema.

  Parte prima: «Studi di Costume» suddivisa in sei sezioni:


  I - «Scene della Vita Privata»

  II - «Scene della Vita di Provincia»

  III - «Scene della Vita Parigina»

  IV - «Scene della Vita Politica»

  V - «Scene della Vita Militare»

  VI - «Scene della Vita di Campagna»

 

Parte seconda: «Studi Filosofici».

 

Parte terza: «Studi Analitici».


  Un tenebroso affare.

 

  Questo romanzo — pubblicato nel 1841 — fa parte della IV sezione «Scene della Vita Politica» della Parte prima della Commedia umana.

  La vicenda prende lo spunto da un fatto storico, il ratto del senatore Clément de Ris, a cui corrisponde il personaggio di Malin (conte di Gondreville). Malin, che conosceva il segreto di una congiura antinapoleonica, ordita da Fouché al tempo della battaglia di Marengo, viene sequestrato, per ordine del ministro, da agenti mascherati che dovevano perquisire la sua villa e impadronirsi di certe carte. Del ratto sono accusati i nobili legittimisti delle famiglie Simeuse e Hauteserre e il fattore Michu, devoto alla sua padrona, Laurence de Cinq-Cygne. All’intrigo politico, inasprito dal risentimento di Corentin, l’agente di Fouché, contro la signorina di Cinq-Cygne, si alterna l’elemento emotivo, poiché Laurence è amata dai suoi due cugini Simeuse e da Adrien de Hauteserre (quest’ultimo diverrà poi suo marito). Con ardita fierezza, Laurence raggiunge il campo di Jena e, alla vigilia della grande battaglia, ottiene da Napoleone la grazia per i suoi cugini; rimarrà vittima innocente il fedele Michu.

  Oltre all’interesse del racconto poliziesco, il libro si avvalora per la creazione del carattere di Laurence, tutta vibrante di orgoglio e, insieme, di una pura e alta passione.

 

  Balzac ... I Gesuiti e l’Italia.

 

  Balzac, nella prima gioventù incline al partito liberale tinto di sansimonismo, si legò in seguito al partito legittimista e divenne, a modo suo, difensore del trono e dell’altare.

  Buttò giù l’Histoire impartiale des jésuites nell’aprile del 1824, contando appena ventisei anni. Scarsa dunque «aetatem habebat». E tuttavia già nel 1822, con i suoi successivi pseudonimi di Horace de Saint Aubin, di Villergré (sic) e di Lord R’hoone, gli era caduta dalla penna mezza dozzina di romanzi (Les deux Hector, La (sic) centenaire, Charles Pointel, L’héritier de Berangère (sic), Le tartare ou le retour de l’exilé, Clotilde de Lusignan). L’anno dopo era la volta di La dernière fée, Marie et Christine, L’anonyme. Nel ‘24 stesso usciva Annette et l’assassin (sic); in tutto, nel periodo 1822-26, e sotto finti nomi, riuscì a pubblicare una quarantina di volumi.

  Il primo libro firmato, Le dernier Chouan, risale al ’29. Se a questo già pesante bagaglio cartaceo si aggiungano due «pièces de théâtre», i Contes drolatiques ed i novantun romanzi che costituiscono la Comédie, ci si stupisce — come già sopra dicemmo — della mole di lavoro compiuto nel corso di una vita che di pochi mesi superò il mezzo secolo.

  L’opuscolo sui gesuiti, accolto altresì nell’edizione definitiva delle opere, ebbe al suo apparire poca diffusione. Una ristampa a parte col ritratto del preposito generale P. Bechx ne fece moltissimi anni dopo a Parigi il Calmann-Lévy, in occasione dei famigerati decreti di proscrizione del 1880, ad uso di chi avesse voluto conoscere l’opinione «d’un écrivain aussi éminent» su quello che fu attraverso i secoli «la puissante Compagnie de Jésus». L’editore magnificava la vivace operetta balzachiana proclamandola un lavoro letterario di primissimo ordine ed insieme un interessante documento di storia politica ottocentesca.

  Riassumiamo in poche parole gli intenti dello scritto, esposti da Balzac «in limine libri». La narrazione, egli dice, non si rivolge a nessun partito od opinione particolare, bensì a quanti hanno retto giudizio e sensi di giustizia naturale. Ciò che l’autore chiede ai suoi giudici è di rinunciare a prevenzioni ostili o favorevoli, di formarsi un’opinione propria senza adottarne di fatte, di ascoltare la propria coscienza disprezzando il pregiudizio, di ricordare che gli elementi di questa storia provengono da scritti che spirito d’intolleranza e di partito scagliarono contro i gesuiti. Se dal complesso dei fatti riferiti dai nemici della Compagnia s’intesse una storia tutta a vantaggio di lei, egli avrà assolto il proprio compito. Presenterà pertanto tali fatti nella loro semplicità; sua eloquenza sarà la buona fede e, basandosi sempre su prove evidenti, il suo lavoro farà udire alle anime virtuose il grido dell’innocenza e la voce della ragione.

  Già il semplice fatto che un Balzac — non gesuita e clericale ancor meno — sentisse lo stimolo di levarsi a difendere con la parola scritta la milizia di sant’Ignazio, è un indice parecchio significativo. Il momento, poi, scelto per farla (si trattava nientemeno di mantenerla o meno in Francia, di dove fu sbandita cinque anni appresso) circonda d’un alone di luce molto simpatica tale difesa.

  Dovremmo anzi definirla senz’altro un’apologia vera e propria — poiché ne riveste tutti i caratteri — anche se esuberante quanto lo era il temperamento pletorico dell’inesauribile romanzatore di Tours. Se, per fare un esempio, v’è da scagionare gli ignaziani da viete accuse o da calunnie tanto atroci quanto insostenibili, egli non esita a trovar altre spalle su cui scaricarne il greve pondo, ad affermare che altri enti oppure altri individui han fatto di più e di peggio di quanto veniva attribuito ai figli del Lojola. Ed è qui che si avverte il difetto capitale del suo «pamphlet».

  Quale saggio del suo argomentare si veda, per esempio, com’egli trovi conferma della carità dei gesuiti persino in quelle famose «riduzioni» paraguaiane a ragion delle quali la Compagnia soffrì inaudite calunnie [...].

  Il signor de Balzac concludeva: «I gesuiti hanno tramandato ai popoli un bell’esempio di grandezza virtuosa, hanno inserito un consolante episodio d’umanità nella storia del Nuovo Mondo». Parole che valgono il centuplo dei frizzi, dei sarcasmi e di altre spiritose invenzioni affastellate contro «los Padres» nel suo Candide dal signor Voltaire.

  Naturalmente il libro del paffuto Honoré non va preso tutto quanto per vangelo. Di ciò che la sua penna innegabilmente brillante vi ha profuso, buona parte manca di esattezza e di equanimità. Non si dimentichi poi che il filogesuitismo balzachiano fu un fuoco di paglia. Così, in Béatrix e in Modeste Mignon, che risalgono rispettivamente al ‘38 e al ’44, s’incontrano frasi («tutte le passioni hanno il proprio gesuitismo», «disse gesuiticamente il colonnello») le quali non sarebbero sfuggite alla penna dello scrittore di quattordici o di vent’anni prima.

  Ma Balzac era incline all’«amplificatio». Nella prefazione della Comédie arrivò al punto di dire che egli scriveva «al lume di due verità eterne: la Religione e la Monarchia». E come questo non fosse del tutto vero, almeno nei riguardi della prima, lo vedremo, di sfuggita, accennando ai suoi rapporti con l’Italia.

  Vi giunge, fin sul limitare, nel 1832, ma non entra: si arresta ai confini mormorando: «Sono alle porte d’Italia e temo di soccombere alla tentazione di entrarvi». Quale preparazione poteva vantare per la conoscenza del «bel paese»?

  Sarebbe dovuto scendere in Italia da Ginevra, senza mezzi economici, appoggiato a generosi amici; ma prima sollecita il consenso della madre, della sorella, quella Laura Surville che ci ha tramandato tante interessanti notizie su di lui. Il consenso non venne, che la mancanza di danaro appariva alle due donne difficoltà insuperabile. Balzac rinuncia e, per non soffrire troppo, promette a se stesso: «Ripartirò a febbraio per Napoli». Speranze e sogni gli erano necessari più del pane: le illusioni aiutano a vivere.

  Verrà la prima volta in Italia nel 1836 o ’37 (sic), una rapida corsa di venti giorni, meta Torino attraverso il Sempione: oggetto della visita una questione legale. Nulla ci dice che vide, che sentì nella affrettata visione dell’Italia piemontese, ma sappiamo che solo un anno dopo ritorna, e questa volta bene avviato alla contessa Maffei, verso il suo brillante salotto milanese. E ha un oggetto letterario che l’attira: la raccolta delle notizie intorno alle guerre dei Francesi in Italia; se l’oggetto è solo un pretesto giustificante la buona gita, si è certi che questa pausa giovò ai tormenti dell’animo inquieto. Ebbe liete accoglienze dall’Olimpo letterario specie femminile; fu in ogni forma onorato e plaudito; l’interesse suscitato sincero.

  Dopo un mese se ne partiva per Venezia. Pausa ancora più ineffabile, penetrato l’artista dalla sottile malia del paese, che segnerà memorie profonde e rivivrà nelle sue pagine d’arte, solo turbata da quella penosa discussione in casa Soranzo sul capolavoro manzoniano: I promessi sposi. Balzac non è invero felice quando asserisce che nel romanzo il «tessuto è fiacco e che, debitore del buon successo alle attrattive dello stile, regge alla prova di una traduzione». Qualcuno obietta che il Grossi e il D’Azeglio hanno pure imitato Manzoni, al che Honoré ribatte imperterrito: «Appunto per ciò non volli leggere quei due romanzi». La Gazzetta di Venezia scriverà pochi giorni dopo che Balzac era «uomo, il quale, se fosse vissuto a Sparta, lo si sarebbe gettato giù dal Targete».

  Ritroveremo l’incanto di palazzo Soranzo alle Procuratie Vecchie in Massimilla Doni, una delicata novella, che, concepita a Venezia e realizzata più tardi nella nostalgia dei ricordi, reca l’espressione d’una più profonda umanità.

  Tornò dopo pochi mesi in Italia, e fu arrestato a Genova dalla peste; visitava poi Firenze, seminando rancori e simpatie. Cantù gli rimprovera d’intrattenersi soltanto «nelle sale e nei ritrovi» e trascuri di conoscere meglio il nostro paese attraverso «le pinacoteche, i gabinetti, le biblioteche», sicché «venuto a visitarci ignaro di ogni nostra cosa, ne è ripartito ugualmente ignaro». A Genova si scrissero per lui degli epigrammi:

  Balzac corre in Italia da corriere

  Ché correr colla penna è il suo mestiere.

  La società milanese ebbe più frequenti e più lunghi contatti con Balzac, che vi si intrattenne anche per la stesura di alcuni romanzi della Commedia umana.

  La contessa Maffei fu generosa di ospitalità e di amicizia, e, con la squisita dolcezza della sua natura, operò talvolta veri prodigi su quello spirito artigliato da contrasti e difficoltà sempre nuove; gli offrirono comprensione ammirata la Sanseverino, la Bolognini, «femme très spirituelle», la Belgioioso. Eppure questa vivida corona di belle dame non gli impedisce di scrivere che le italiane «hanno scarse risorse»; degli uomini non parla affatto, forse non li conobbe o mostra di non ricordarli. Eppure si era incontrato col Manzoni, come ce ne informa il Cantù. «Io mi persuasi che Balzac non avesse letto I promessi sposi tanto ne distonavano i discorsi che tenne; non parlò che di sé, di un romanzo nuovo che scriveva, d’una commedia che farebbe furore sul teatro; dissertò su quel vago suo panteismo, né mai mostrò un’idea di reale umanità».

  Balzac disse che al veder Manzoni gli era parso ravvisare Chateaubriand, benché troppo dissimili i due spiriti, diverso il sentimento, opposti i valori della vita. Anche senza aderire ai principi manzoniani, il romanziere deve avere avuto la inconscia sensazione di quella grandezza artistica, morale, spirituale, e forse un attento esame della Commedia umana ci potrebbe donare le prove del ricordo del celebre romanzo italiano in alcune singolari immagini, come in talune personali espressioni.

  La prima nota di totale ammirazione la udiamo dal Balzac quando, nel 1845, visita Roma in compagnia della donna che diverrà poi sua moglie. Scopre Roma, la sua bellezza antica e, cosa non meno grande, scopre Dante: è il principe Caetani che l’immette alla conoscenza del poema divino, e la commozione che ne seguì fu pari all’altezza dell’oggetto. In queste buone disposizioni di spirito è pronto a godere di un nuovo beneficio che Roma gli offre, la visita a Gregorio XVI, che lo riceve «distintamente».

  Questa volta egli considera l’Italia sotto un nuovo aspetto, la grandezza spirituale dell’Urbe lo tocca, la nobiltà degli Italiani lo convince. «Questo popolo di antichi sovrani dona ancora dei re che si chiamano Canova, Rossini, Paganini». Si arresta al piano artistico, che è quello più vicino alla sua sensibilità; ma che cosa sul piano spirituale poteva dirgli la Roma papale, ch’egli fosse pronto ad intendere? Che gli rivelasse l’alta patria dell’anima, quel mistero e quel cielo in cui l’uomo è immesso? Nei suoi primi romanzi Balzac aveva fatto professione di ateismo; più tardi gli vedremo scrivere un trattato sulla preghiera. Come si concilia l’apparente dissidio?

  Il mondo della sua creazione non è sempre disattento e lontano dai problemi dello spirito; vi appare sovente la sicurezza di una vita superiore, anche se la sua arte non è la guida dell’anima, non dona la sublime testimonianza di Dio. Dall’età giovanile alla maturità il suo spirito diviene per gradi più alto e più degno, fino a nutrire una fede nella divinità, ad attestare un credo verso la Provvidenza. Quando il Traité de la prière viene redatto, ci appare un nuovo volto del Balzac materialista, benché in tutto non cancelli l’antico, e la malattia venuta dal veleno filosofico non sia interamente scomparsa; le attestazioni di fede sentono l’incoerenza, e allorché vuole apparire mistico ci appare piuttosto poeta.

  Dopo il viaggio a Roma, Balzac ha ben visto la completa bellezza del nostro paese nella natura, nel sole, nell’arte, nel mondo dello spirito. E, preda della bellezza, ha sognato, perdutamente sognato, di «abitare a Chiavari, acquistare un palazzo a Venezia, una casetta a Sorrento, una villa a Firenze», per seppellirsi colà «in un bel paesaggio, sotto un moggio di fiori, a fronte del bel mare, o d’una vallata che valga il mare, quale quella che si scorge da Fiesole».

 

 

  Manfredo Generali, Tino Buazzelli onora Balzac, «Gazzetta di Mantova», Mantova, Anno CCCVI, N. 33, 3 febbraio 1970, p. 2.

 

  [...]. Quello che crediamo doveroso di dover sottolineare sono invece i risvolti interpretativi che Buazzelli regista ha saputo imporre a Buazzelli attore, offrendogli la possibilità di creare un personaggio in tutto aderente alla sua naturale caratteristica di protagonista comunicativo e festoso, e cioè un Mercadet gaglioffo dal quale emana una carica di estrema simpatia. Un vero sportivo della truffa e dell’inganno, che egli non esercita per personale tornaconto, ma come sfogo alla sua indole irresponsabile e a carico dell’altrui avidità. Perché soltanto l’avidità fa cadere gli ingenui sognatori di ricchezza nel giuoco e negli incredibili imbrogli dell’affarista.

  L’attesa di Godeau ha un suo sapore grottesco e squisitamente attuale. Ed è Godeau, il vero profittatore, che col suo mitico ritorno, dopo aver incoraggiato Mercadet nei suoi rovinosi investimenti, riuscirà a salvarlo permettendogli di riprendere quel ruolo di stratega della finanza al quale non saprebbe mai rinunciare. Anche se, in fondo, dei quattrini gli importa ben poco.

  Alla sottile e misurata ironia di Nino Besozzi, Tino Buazzelli ha contrapposto il calore di una comunicativa e di una vitalità che ha esaltato il personaggio.



  Cecilia Girelli, Il teatro di Honoré de Balzac. Tesi di laurea (vecchio ordinamento), Università degli studi di Padova, 1970.

 

 

  Alberto Guadalaxara, Presentazione, in Honoré de Balzac, Eugenia Grandet ... cit., pp. 7-8.

 

  Honoré de Balzac nacque a Tours il 20 maggio 1799 da famiglia borghese. Fra il 1807 e il 1812 fu allevato nel Collegio degli Oratoriani a Vendôme e nel 1815, essendosi la sua famiglia trasferita a Parigi, proseguì gli studi nella capitale francese iscrivendosi nel 1816 alla facoltà di giurisprudenza.

  Nel 1819 ottenne dal padre, che si era stabilito con la famiglia a Villeparisis, di potersi dedicare alle lettere: abitò quindi da solo in una mansarda di via Lesdiguières dove compose la tragedia «Cromwell» che non ebbe successo. Si dedicò allora al suo genere preferito: il romanzo.

  Nel 1821 divenne socio di un editore, ma tale lavoro gli procurò molti debiti che trascinò per tutta la vita.

  Scrisse, scrisse febbrilmente senza mai concedersi un attimo di riposo, felice della sua grande potenza creativa.

  Strinse amicizia con Hugo, Gauthier (sic), George Sand.

  Nel marzo del 1850, dopo un viaggio in Ucraina, sposò Madame Hanska, una contessa polacca; malato e stanco, rientrò con lei a Parigi il 20 maggio, ma morì il 18 agosto di quello stesso anno, logorato dall’intenso lavoro degli anni precedenti.

  Immane fu la produzione letteraria di Balzac che venne da lui stesso chiamata Commedia umana e suddivisa in varie scene: «Scene della vita privata» «Scene della vita di provincia» (in cui appare Eugenia Grandet) «Scene della vita parigina» «Scene della vita politica» «Scene della vita militare» «Scene della vita di campagna».

  Oltre alla «Commedia umana» scrisse racconti, studi filosofici, commedie.

 

***

 

  In «Eugenia Grandet», considerato il suo capolavoro, Balzac pone al centro del romanzo una passione violenta, dominante e delirante: l’avarizia del vecchio Grandet.

  Vien qui narrato il destino doloroso e grigio di una ragazza che vede sfiorire la sua giovinezza tra il padre avaro che accumula oro su oro e la madre debole e malata che non osa opporsi alla tirannia e ai voleri del marito.

  Appare ad un tratto sulla scena un cugino di Parigi che abbaglia Eugenia per la sua eleganza e per il suo fascino. I due si giurano eterno amore, ma le circostanze li dividono per alcuni anni. Muore la madre di Eugenia, muore il vecchio padre avaro, lasciando erede la figlia di una ingente ricchezza.

  Dopo un lungo periodo di silenzio, giungono notizie dal cugino: egli annuncia ad Eugenia, rimasta ad attenderlo fedele, che si sposerà con un’altra donna.

  Eugenia è sola al mondo con tutto il suo oro nella grande casa vuota. Sposerà un suo vecchio pretendente: rimarrà presto vedova e si dedicherà infine ad opere di bene. Una storia triste di una triste vita di donna. [...].

 

 

  Martin Kanes, Logic and language in “La Peau de chagrin”, «Studi Francesi», Torino, 41, Anno XIV, fascicolo II, maggio-agosto 1970, pp. 244-256.



  Daniela Lucchesi, Balzac: “Eugénie Grandet”. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alan Freer, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Economia e commercio, 1970, pp. 33.



  Maria Lucchesi, “Le père Goriot” di H. de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alan Freer, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Economia e commercio, 1970.

 

 

  György Lukács, Balzac: «Les Paysans», in Saggi sul realismo. Traduzione di M. e A. Brelich, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1970 («Piccola Biblioteca Einaudi», 140), pp. 35-66.

 

 

  György Lukács, Balzac: «Les (sic) illusions perdues», Ibid., pp. 67-89.

 

 

  György Lukács, La polemica tra Balzac e Stendhal, Ibid, pp. 90-114.



  Roberta Modena, “La cousine Bette” di H. de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alan Freer, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1970, pp. 34.

 

 

  Carlo Maria Pensa, Il gemellaggio Balzac-Buazzelli, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVII, n. 13, 29 marzo-4 aprile 1970, pp. 40-43.

 

  Mercadet l’affarista; è la seconda volta, in televisione, che Tino Buazzelli incontra Honoré de Balzac. Papà Goriot, romanzo, è stato trasmesso prima del Mercadet, commedia, ma il sodalizio Mercadet-Buazzelli è assai più antico. Cominciò dodici anni or sono, al Piccolo Teatro di Milano, dove il copione, tradotto da Carlo Terron. con la regìa di Virginio Puecher, fu replicato 55 volte. L’anno scorso, al termine del suo «grande decennio» pieno di polemiche, di successi, di dichiarazioni esplosive, di vere e proprie battaglie, Buazzelli forma una sua Compagnia e riprende — interprete e regista — il vecchio Mercadet. A parte le 55 del Piccolo Teatro, sono 178 repliche; la realizzazione TV completa e corona l’operazione. A questo punto Buazzelli ha qualcosa da dirci; e noi abbiamo qualcosa da domandargli. «Papà Goriot e Mercadet l’affarista: da che cosa nasce questo fedele amore per Balzac e le sue opere?». «Dal fatto», risponde Buazzelli, «che, a mio avviso, Balzac è un autore quanto mai vivo nella nostra realtà sociale. La corsa all’oro, all’arricchimento, ai beni di consumo di questi anni è lo specchio della società che nasceva con Balzac e che Balzac ha poi reinventato nelle sue opere. Balzac è l’uomo che ha avuto più coraggio nel dire certe verità: non per niente di lui s’è occupato anche Carlo Marx, da giovane».

  «Quali sono a tuo giudizio le affinità fra Tino Buazzelli e Balzac?».

  «Qualcuno ha detto che ci assomigliamo fisicamente. Invece è ben diversa la situazione, capito? Sì, anche Balzac era grasso. Ma piccolo: un metro e sessantasei. Un tombolane, insomma. No ... che c’entra? Io sono vicino a lui per il modo di vivere nel mondo della fantasia. Sai cos’è l’invenzione umana? La possibilità di trasfigurare la realtà d’ogni giorno. In Balzac, una scrivania, un tavolo diventa un oggetto poetico. Oggi più nessuno ha fantasia; e invece la gente ne avrebbe bisogno, forse più di allora».

  «E tu credi di riuscirci recitando Balzac?».

  «Certo che ci credo. A Bologna, qualche giorno fa, un ragazzotto in bicicletta m’ha riconosciuto e m’ha gridato: “ Ahò, papà Goriot!” (“Ahò” è romanesco, ma fa conto che sia bolognese). Papà Goriot, capito? Mica ha detto “Nero Wolfe”. E’ importante, vedi? Io, di Goriot, credo d’aver colto la dimensione giusta, di aver dato al pubblico l’esatto significato che, guarda caso, è attualissimo: il problema dei giovani che devono scegliere se stare dalla parte del compromesso o dalla parte dell’onestà».

  «E’ possibile che i giovani di oggi si riconoscano in Balzac e nei personaggi di Balzac?».

  «E come no? Balzac inventa l’uomo e lo critica, pur essendo lui stesso oggetto di critica. Diciamo il verme nella mela: il verme divora la mela, e per divorarla ci sta dentro e ci sta bene. [...] Il problema fondamentale, quando si porta in televisione un autore come Honoré de Balzac, è di riuscire a darne il profumo conservandone le intenzioni.

  E’ difficile travasare un litro d’acqua in un bicchiere da mezzo litro. In TV si bada più alla realizzazione che alla riduzione e alla sceneggiatura. Sbagliato. E’ fondamentale il lavoro dello sceneggiatore: molta umiltà, al servizio dello scrittore e del pubblico. Torniamo a Balzac: a saper scegliere, in Balzac, si deve riuscire a rendere esattamente lo spirito della sua epoca». [...].

  «In ogni caso, cominciamo a vedere questo Mercadet: è molto, molto diverso da quello che ho fatto in teatro, dove il ritmo era frenetico, come in un “vaudeville”. La sceneggiatura televisiva, articolata in due puntate, mi ha consentito un respiro più lento, più polemico, con dentro un sapore più ambiguo. Con le telecamere ho scavato meglio dentro la mela, voglio dire la società balzacchiana. Guarda che cosa scriveva Balzac nel 1837: “Mi rendo conto dell’immensa capacità di giudizio necessaria al poeta comico. Ogni parola dev’essere un mandato di cattura spiccato contro i costumi dell’epoca. Non soggetti minori, meschini: si tratta di cogliere il fondo delle cose, e bisogna costantemente abbracciare la società e giudicarla in forma favorevole ... Sotto una battuta che rimane devono esserci mille pensieri soppressi ...”».

  «Dunque, se la tua prima interpretazione di Mercadet risale al 1958 sul palcoscenico del Piccolo Teatro, e l’ultima può considerarsi questa alla televisione, sono giusto una dozzina d’anni che tieni dentro di te questo personaggio. A parte gli applausi del pubblico, quali sono i maggiori motivi di soddisfazione che in così lungo tempo ti ha dato Mercadet?».

  «Il primo, un articolo di Orio Vergani [...].  

  Il secondo, la gioia di sapere che, se Honoré de Balzac fosse vivo, oggi avrebbe potuto pagare tutti i suoi debiti coi diritti d’autore del suo Mercadet tradotto e ridotto da Carlo Terron, realizzato e recitato da Tino Buazzelli».

  «Ultima domanda: che cosa ti farebbe piacere che succedesse dopo la trasmissione di Mercadet?».

  «Me piacerebbe tornà a Bologna, passà pe’ ’na strada e sentimme chiamà da un ragazzotto in bicicletta: “Ahò, Mercadet!”».

 

 

  Salvatore Pescitelli, Balzac legge e “crea” Balzac, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Milano, Anno LXXIV, N. 182, 15 agosto 1970, p. 6.

 

  Colpisce, innanzitutto, in quest’ultimo libro di Barthes (S/Z, Parigi, 1970, Seuil), una paradossale sproporzione: duecento e più pagine di analisi su un testo che ne conta appena trenta (la novella di Balzac Sarrasine): sproporzione significativa, che definisce la durata di un’impresa che è analitica e teorica insieme, e che si inscrive nel più ampio spazio dei tentativi volti all’edificazione (collettiva) di quella che lo stesso Barthes chiama «una teoria liberatrice del Significante».

  Per due caratteristiche l’approccio di Barthes al testo balzachiano differisce da quello solito degli analisti del racconto: da un lato, il rifiuto di sottomettere il testo, nella sua specificità, nella sua differenza, a una struttura narrativa generale e astratta (la Copia di tutti i racconti del mondo); dall’altro, il rifiuto di arrestare il gioco della catena significante del testo per chiuderlo in una struttura ultima, per fondare una verità.

  Soffermiamoci sul primo punto. La decisione di sottomettere il testo al «paradigma infinito della differenza» pone il problema del suo valore. La valutazione fondatrice che allora si impone, valutazione legata necessariamente alla pratica della scrittura, distinguerà tra un testo scrittibile (scriptible) e un testo leggibile (lisible). In che senso lo scrittibile (ciò che oggi può essere scritto, ri-scritto) è un valore? Risponde Barthes: «Perché la posta in gioco del lavoro letterario (della letteratura come lavoro), è di fare del lettore, non più un consumatore, ma un produttore del testo». Il testo scrittibile è il testo integralmente moderno; il testo classico è il testo il testo leggibile. Semplici prodotti, e non produzioni, i testi leggibili formano la gran massa della letteratura. Come distinguerli? Una seconda operazione si impone: l’interpretazione. «Interpretare un testo, non vuol dire dargli un senso (più o meno fondato, più o meno libero), ma al contrario apprezzare di quale plurale esso è fatto».

  La nozione di plurale definisce un testo che non soggiace al modello rappresentativo: testo reversibile, dalle reti significanti multiple e aperte, «galassia di significanti, non struttura di significati». Per un tale testo, ideale, non valgono la grammatica o la logica del racconto. Ma, ordinariamente, ci si trova di fronte a testi moderatamente plurali.

  E’ in quest’area che si situa la novella balzachiana oggetto dell’analisi. Barthes spezza l’intero testo in 561 frammenti o lessìe (unità di lettura), analizzate in un puntuale commentario; il testo parla e viene parlato nel gioco multiplo dei codici che ha messo in moto (al lettore il piacere di apprezzare le straordinarie capacità analitiche dell’Autore). Il risultato non è la fissazione di un senso ultimo (è la seconda caratteristica dell’approccio barthesiano di cui si parlava sopra), ma il dispiegamento di una fitta rete di notazioni, collegate tra loro da una serie di riflessioni teoriche. E’ su questo piano del discorso che Barthes riesce a disegnare, al di là dell’analisi specifica, i contorni del testo antico o classico e, di riflesso, di quello moderno (da questo punto di vista il testo barthesiano assume spesso la forma della preterizione: forse perché il testo moderno può solo sopportare l’allusione?). In questo doppio movimento, con questo spessore, S/Z s’inserisce magistralmente in quel settore della critica francese che ha per protagoniste rivisto come Tel Quel, che persegue con accanimento la trasformazione radicale del sapere critico sui testi. [...].

 

 

  M.[ario] P.[icchi], Un “Mercadet” attualissimo, «il Resto del Carlino», Bologna, 1 marzo 1970.

 

 

  Paolo Emilio Poesio, Aspettando Godot, «La Nazione», Firenze, 31 gennaio 1970.

 

  Non stupisce che il personaggio teatrale più riuscito di Honoré de Balzac sia quell’Augusto Mercadet che ieri sera, al Metastasio, Tino Buazzelli ha fatto rivivere in Mercadet, l’affarista nell’eccellente riduzione di Carlo Terron: non stupisce, perché assillato dai creditori, in lotta continua con la scadenza delle cambiali, vittima di affari grandiosi sognati ma mal realizzati. legato per giorni e notti al tavolo di lavoro nel tentativo di fronteggiare con una produzione letteraria che ha dell’incredibile le falle di un’economia in perpetuo naufragio, Balzac ritraeva in parte se stesso.

  Anche Mercadet vive nel girotondo inquietante dei debiti, delle scadenze, dei creditori: e non c’è, forse, nessuna battuta più autentica di quella che nel testo francese (il titolo originario, Le faiseur, il faccendiere, fu mutato in Mercadet dal Dennery quando la commedia fu rappresentata, postuma, al Gymnase il 24 agosto 1851) si legge poco prima della fine «Io sono creditore! Io sono creditore!». Battuta che Balzac dovette assaporare come un sogno mai raggiunto e irraggiungibile.

  A parte, comunque, i rapporti biografici fra autore e personaggio, Mercadet l’affarista rimane un coloritissimo quadro della Francia di Luigi Filippo, una Francia pervasa dalla febbre degli affari, delle speculazioni in borsa, dei rapidi arricchimenti. Terreno felice per gli avventurieri, per i senza scrupoli, per chi pensava solo a riempire il sacco o a crearsi una facile potenza finanziaria. Per un Mercadet, insomma, che rimasto solo a fronteggiare la muta dei creditori dopo la fuga del socio Godeau non può fare altro che tenere a bada l’impazienza altrui con l’illusorio annuncio del ritorno di Godeau.

  L’attesa di questo fantomatico individuo diviene parossistica (al punto che taluno ha opinato non essere stata estranea la lettura del Mercadet all’invenzione di Beckett dell’omofono Godot). Certo, ci sarebbero altre strade per fronteggiare le richieste sempre più incalzanti e le minacce di arresto sempre più perentorie: per esempio, mandare a monte le nozze della figlia con lo spiantato Minard per gettarla nelle braccia di un pretendente blasonato e possidente.

  Ma a Mercadet sembra non ne vada una diritta: il blasonato non ha blasone nè è possidente. Anzi, è un altro Mercadet: pronto a vantare ipotetici patrimoni nella fiducia che il patrimonio ce l’abbia, davvero, la piccola Mercadet. Così, la farandola dei biglietti di banca inesistenti non solo non ha termine, ma si allarga, come una macchia d’olio, rendendo ancora più imprevedibile la conclusione. Che sarebbe, per logica, la traduzione in carcere di Mercadet, se i furfanti non avessero pur sempre la fortuna che li assiste.

  Tutto è pronto per mistificare ancora una volta i creditori dando loro in pasto un falso Godeau che permetta di prender tempo, quando il vero Godeau arriva, carico di denari, a sanare tutti i debiti, a restituire la pace in casa Mercadet: pace della quale il faccendiere non approfitterà a lungo, pronto com’è a gettarsi di nuovo nella mischia con altri progetti grandiosi di affari mirabolanti.

  Si potrebbe anche dire che tutta la commedia è Mercadet: in quanto il personaggio domina e sopraffà il coro di figurine che lo circonda e dal quale emergono, in parte, la signora Mercadet, la figlia, nonché il pretendente spiantato, controfigura del protagonista. Ma questo nulla toglie alla vitalità prepotente di un carattere, nulla toglie al disegno comico e caricaturale di una società assetata di denaro, ormai disincagliata dai sacri principi dell’onestà, della severa operosità e così via.

  Quasi personaggio allegorico che travalica il tempo (ci sono battute del dialogo che hanno rispondenze attualissime), Mercadet è stato visto da Buazzelli come una forza della natura, ma una forza balzacchiana (il fisico stesso dell’attore ricorda quello dell’autore): e sarà inutile che io dica con quale piacere comico lo ha tratteggiato, con quale simpatia lo ha fatto rovesciare sfacciate menzogne sui suoi antagonisti, con quale impeto lo abbia fatto campeggiare dal principio alla fine in mezzo a un piccolo popolo di truffatori truffati. [...].

 

 

  Carlo Maria Reitman, Salvato in extremis l’affarista nei guai, «Il Secolo XIX», Genova, 9 gennaio 1970.

 

 

  C. S., Dall’Algeria a Papà Goriot, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Milano, Anno LXXIV, N. 27, 1 febbraio 1970, p. 7.

 

  In Papà Goriot Balzac ci offre, insieme allo smisurato e assurdo amore di un padre per le proprie figlie, la visione del mondo corrotto e cinico della borghesia francese post-napoleonica, denudandone la corruzione, l’arrivismo, il disinteresse per gli aspetti più nobili della vita.

 

 

  Vittorio Saltini, Questioni di estetica e di teoria della letteratura, Assisi, B. Carucci, 1970.

 

  Nel volume, è presente, da p. 140, un intervento sulle Illusions perdues già pubblicato, come articolo, nel 1966.

 

 

  Alberto Santacroce, Balzac e la pratica della scrittura, «Periodo ipotetico», Roma, 1, 1970, pp. 37-39.

 

  E’ opportuno, per essere chiari, enunciare subito una conclusione: l’ultima opera critica di Roland Barthes [S/Z] (costruita su un racconto di Balzac, «Sarrasine») è diversa, parziale, «faziosa» Si colloca fuori della «tradizione», è un tentativo di demolire i tabù che si sono incrostati sulla «letteratura». E ancora: quello di Barthes, è un testo che riporta alla luce due elementi esclusi come pericolosi nemici della cultura «liberale»: l’arbitrario e l’«essere della pluralità». Il testo di Barthes non rispetta la «natura» e la «verità» del racconto sottoposto ad analisi; anzi (finalmente) riimmerge il racconto nel mondo della violenza che sovverte la Totalità, nel mondo dei «sensi» che si scontrano, delle interpretazioni che si sopraffanno, delle valutazioni che non hanno un valore universale e necessario a cui sostenersi. Perciò S/Z è «anormale» anche nella costruzione, scritto a frammenti, con linguaggi diversi che si intersecano, si contestano e rompono l’«unità», lo «stile».

  In principio c’è la valutazione (évaluation) nel senso in cui Nietsche usa questo termine. [...].

  La valutazione dalla quale si parte in S/Z, per apprezzare i testi, è la scrittura, cioè una pratica, che proprio in quanto pratica presuppone l’entrata in gioco, non permette di situarsi fuori, su un piedistallo o in un posto di osservazione, vuole che ci si smarrisca nel gioco, che ci si lasci affascinare dalla «voluttà dei significanti», che si perda il gusto nevrotico dell’intangibilità dell’Uno, dell’io e del corpo. Si entra così in uno spazio che non è quello della critica letteraria che crede in una verità ultima del testo né quello della scienza che trova le sue origini nella linguistica e pensa di avere tra le mani modelli neutri e incontaminati; si entra in uno spazio insicuro, attivo in cui gli elementi in gioco non devono rispondere dei loro movimenti ad alcuna autorità, in cui le forze reagiscono l’una sull’all’altra e si contrastano in una disposizione non statica ma aggressiva. [...].

  Barthes svolge, nella gestione del racconto di Balzac, i quattro ruoli medioevali:

  quello dello scriptor che copia senza aggiungere niente, quello del compilator che aggiunge quel che non viene da lui, quello del commentator che, se mette del suo nel testo tutore, lo fa soltanto al fine di renderlo intelligibile, quello dell’auctor che rischia le sue idee ma dando loro l’appoggio di quel che si è pensato fuori di lui. Barthes moltiplica gli interventi, i punti di vista, i tipi di produzione significante che si agganciano al testo. Moltiplica le aperture della connotazione, i sistemi di senso. Usa diversi codici di riferimento, che non corrispondono d’altra parte ad alcuna legge, potrebbero essere di più o di meno non derivano da una gerarchia di valori ma sono una «prospettiva di citazioni, un miraggio di strutture». Il testo traversa i codici ed è traversato da essi [...].

  La lettura non è più un «gesto parassita», leggere «è trovare dei sensi, e trovare dei sensi, è nominarli; ma questi sensi nominati sono trascinati verso altri nomi; i nomi si chiamano, si riuniscono e il loro raggruppamento vuol di nuovo farsi nominare: io nomino, denomino, rinomino: così passa il testo: è una nominazione in divenire, una approssimazione incessante, un lavoro metonomico». L’intrecciarsi di un movimento tanto complesso porta ad indovinare un meccanismo di lettura, una lettura a caldo, una esperienza di lettura, una pratica che si inserisce nel «glissement» dei significati e che rimette in gioco tutti i pilastri che reggevano la letteratura passiva e il testo chiuso [...].

  Uno sconvolgimento di questo tipo riporta naturalmente alla luce fenomeni che erano stati seppelliti o «rimossi» e che sono propri invece di un universo pluralistico. Due esempi: l’oblio e la digressione. [...].

  L’oblio e la digressione sono [...] due sintomi del carattere «sospetto» del testo di Barthes delle sue intenzioni «sovversive», rivolte contro il sistema «librale» che impera anche nel mondo del Senso: «L’interpretazione che domanda da un testo guardato immediatamente come pluralistico — scrive Barthes — non ha niente di liberale (corsivo nostro): non si tratta di concedere un qualche senso, di riconoscere magnanimamente a ciascuno la sua parte di verità; si tratta contro ogni indifferenza, di affermare l’essere della pluralità, che non è quello del vero, del probabile o anche del possibile».

 

 

  Enzo Siciliano, Lapsus e poesia, «La Stampa», Torino, Anno 104, Numero 219, 14 ottobre 1970, p. 3.

 

  Sarrasine è un breve racconto della «Comédie Humaine» di Balzac, uno dei meno conosciuti. E’ un racconto d’ambiente italiano, la storia d’un castrato che, con la sua splendida voce, avrebbe fatto la fortuna d’una grande famiglia di Francia. Si direbbe una cronaca stendhaliana per l’ambientazione (una Roma tutta inventata, la vita del teatro di opera, festini di attori, gite ai Castelli, prelati intriganti e privi di scrupoli, un giovane scultore innamorato ...). Balzac vi ha speso quei suoi doni di lampeggiante immaginazione dentro una cornice minuta, fin quasi leggiadra.

  Ebbene, questo racconto ha raccolto un giudizio estremamente lusinghiero di Georges Bataille, che vide in esso una delle «punte somme» dell’arte balzacchiana.

  A confronto di più note e indubitabili riuscite, di cui la «Comédie Humaine» è ricca, un tale giudizio non suoni una stravaganza. E’ un giudizio in chiave personale, come possono essere spesso i giudizi degli scrittori. Una vicenda in cui si racconta, oltre ad un intrigo di denaro e di eredità, l’amore non ricambiato di un giovane artista per un travestito, creduto donna a tutti gli effetti, cioè di Sarrasine per Zambinella, non poteva non affascinare lo scrittore dell’Histoire de l’oeil: quell’artificio di scambi erotici non poteva non irretire la sua fantasia.

  Solo che nel parlare di Sarrasine, e proprio nella prefazione al suo Bleu du ciel, Bataille commise un «lapsus: scrisse, e la lettera errata è lì ancora come un refuso di stampa, Sarrazine invece che Sarrasine, secondo l’esatta grafia balzacchiana. A partire da questo scambio apparentemente fortuito tra la s e la z (a dirla così potrebbe sembrare finanche una cervellotica occasione), Roland Barthes ha dipanato un saggio che è un piccolo capolavoro di grazia ed eleganza critica: S/Z (Editions du Seuil). Dico proprio grazia ed eleganza, per quella qualità di incantamento musicale che esse posseggono, ed aggiungendo che il lettore è preso da Barthes indipendentemente dal condividere al cento per cento la sostanza dell’argomento.

  Dunque, uno scambio di lettera. In francese Sarrazine è nome diffuso e comune, ma Sarrasine no; in quel gioco di lettere si nasconde però, dice Barthes, qualcosa di più sottilmente inquietante. La z addolcitasi in s nel nome del giovane scultore è passata in quello del castrato, Zambinella. Il passaggio è metaforico, naturalmente, ma sta a svelare un lapsus la cui struttura e significato sono altrimenti più complessi che non in Bataille: anzi, può coinvolgere non solo il senso del racconto di Balzac, ma una stessa idea della letteratura.

 

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  Barthes seziona riga per riga Balzac e lo commenta per più di 250 pagine. Ogni parola del testo, ogni giro di frase sono sottoposti allo scrutinio di una capziosa lente di ingrandimento, o ad una scomposizione chimica. L’indagine non è meramente sintattica e tanto meno «estetica». Barthes scende all’interno della psicologia e della sociologia implicite in un testo scritto nel 1830. E in questo compie il suo capolavoro: nel congiungere la letteratura a un costume, a una idealità forse nemmeno poi tanto remoti. Lì il critico scova i motivi di una rimozione a suo giudizio fatidica, per cui la cecità di Sarrasine a riconoscere senza esitazione un uomo in Zambinella, invece che la donna apparente, e il suo amore irrealizzabile e la sua disperazione, diventano emblematici di una castrazione espressiva: prodotta, sostiene Barthes, dal muoversi, nell’universo dell’arte, fuori della consapevolezza dei codici e dei simboli che si adoperano. Balzac sarebbe, in definitiva, prigioniero della sua stessa invenzione.

  Infatti il romanziere col dirci poi che il castrato ha fatto fortuna evirandosi e cantando, e compiacendo ai suoi protettori con la propria persona, ci offrirebbe il quadro diagnostico della società industriale in espansione, dove lo sfruttamento è legato al denaro e a un di più simbolico, il godimento sessuale, che è rispecchiamento di quel denaro. Ma ce lo offrirebbe inconsciamente, con tutti gl’infortuni del caso, e con tutto quell’apparato d’indizi repressivi che il caso, a giudizio di Barthes, contempla. Sarrasine si innamora della splendida voce di Zambinella, rovesciando per abbellimento l’intento mercenario della castrazione in sublimazione artistica.

  Barthes, come si vede, fa sposare Marx a Freud, ma tanto abilmente da addossare tutto il negativo possibile sul testo chiamato a far la parte del galeotto in queste nozze. Chi ci scapita è infatti Balzac: che resta segnato, alla fine, come uno scrittore che non ha saputo liberarsi dell’immaginazione comune a lui contemporanea; anzi di essa si sarebbe fatto obiettivo ed inconsapevole portavoce.

  In un certo senso Barthes ha buon gioco. Sarrasine non è quel capolavoro che Bataille pensava. Balzac coglie nel segno, e come nessuno, quando il denaro è da lui drammatizzato e trascinato in primo piano nel viluppo romanzesco, o quando davanti ai suoi occhi si spalancano gli abissi della società, gli intrighi di essa, il delittuoso suo determinismo. Ogni volta che l’arte o la passione d'amore balenano in lui, rischia di far cilecca; l’enfasi o rapisce e la rappresentazione si appanna. L’amore in sé poco lo coinvolge: se l’amore è mezzo o veicolo di più articolate avidità, ecco splendere la sua pagina. Così con l’arte.

  Sarrasine, invece, è vicenda tutta ambigua, dove il turbine delle emozioni collettive ruota sullo sfondo, e in proscenio si alternano svenevoli silhouettes. E dunque è di scarso rischio critico insinuare che si tratti d’un racconto più incline al non detto che all’immagine risolta e compiuta.

 

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  Ma per Barthes l’irrisolto di Sarrasine è utile alla polemica che gli sta a cuore di sviluppare. Se Balzac avesse controllato per intero i codici e il significato dei simboli usati, avrebbe scantonato ad ogni abbaglio espressivo. Questa cecità (parallela a quella del personaggio Sarrasine davanti a Zambinella) sarebbe peraltro propria di ogni scrittore «classico», il quale, per estasi dettata da rimozioni sociali, amerebbe lavorare sulla cosiddetta ispirazione, muoversi su insondabili margini di mistero. E’ questo che Barthes vuole negare, ed è qui che la sua operina, smagliante di trovate e lieve nello sfiorare e nell’utilizzare gli schemi o freudiani o marxistici, si trasforma irresistibilmente in una apodittica letteraria. Che l’ispirazione sia quell’insieme di non avvertite o coscienti determinazioni che ci condizionano nostro malgrado, è quasi inconfutabile, ma soltanto nel caso della cattiva letteratura, del Kitsch e della Mid-cult.

  A questo punto e necessario segnare più di una distanza da Barthes, perché l’invenzione poetica, quando è tale, si alimenta proprio di quel margine che egli ambirebbe escluderle. Egli vorrebbe votata l’arte alla retorica, a una scienza cioè in cui i simboli e le loro congiunzioni fossero tutte codificate e apprendibili. Solo che in questo modo l’arte, e la letteratura in particolare, si trasformerebbero in una pedantesca pedagogia. La narrativa e la poesia si convertirebbero in pura e semplice informazione, un’informazione adornata caso mai da corolle di metafore, ma pur sempre informazione.

  Questa teoria è quel che alcuni semplicisticamente credono abbia inteso Bertolt Brecht con la teoria del teatro didascalico, e che oggi si vorrebbe estendere a regola generale. Eppure le cose stanno diversamente: l’espressione poetica consiste in quelle possibilità di autotradimento cui essa si apre, in quell’alone di segrete rifrazioni che la pagina scritta porta a intravedere. Consiste in quell’avventura a proprio discapito che, come dimostra questo brillante S/Z, Balzac ha corso.

 

 

  Sergio Surchi, E’ un re Lear moderno «Papà Goriot» di Balzac, «Il Popolo. Quotidiano della Democrazia cristiana», Roma, Anno XXVII, N. 32, 2 Febbraio 1970, p. 5.

 

  [...]. «Capitolo» a sua volta della Comédie humaine, di questo realistico e grandioso affresco del costume, dei sentimenti. delle passioni della Francia del Primo Impero e della Restaurazione, Père Goriot è uno specchio dell’egoismo e dell’avidità quali possono manifestarsi nel nucleo dalla famiglia.

  Il vecchio Goriot, già commerciante, vive soltanto dell’amore per le due figlie, Anastasia e Delfina, e le due donne lo ricambiano taglieggiandolo, con ingorda crudeltà. Papà Goriot finisce male i suoi giorni, sempre più povero, rifugiato in una squallida pensioncina; mentre Delfina e Anastasia, che egli ha procurato andassero spose a due nobili, non nascondono le loro tresche e le loro colpe. Forse il vecchio ottiene il risultato dell’amore esclusivo che ebbe per loro.

  Al giovane Rastignac, che vive nella pensione e, proveniente dalla provincia, cerca di conquistare Parigi, Goriot (sic) offre qualche insegnamento sulle trame feroci della «buona società». Poi il vecchio muore, in una luca dolorosa e tragica che ricorda re Lear; e solo il giovane amico ne accompagnerà la salma al cimitero. [...].

 

 

  V., Il Goriot di Buazzelli, «Corriere della Sera», Milano, Anno 95, 7 febbraio 1970, p. 12.

 

  Sul secondo canale ieri sera è andata in onda la prima delle due puntate dello «sceneggiato» tratto da Papà Goriot, di Honoré de Balzac. Il teleromanzo rappresentava la improba fatica creativa di Tino Buazzelli, interprete principale, autore della sceneggiatura ed anche (sulle orme di Albertazzi e Panelli) della regìa. Da una prima lettura Papà Goriot potrebbe apparire come un testo adattissimo per la riduzione televisiva, così fitto com’è di eventi e di personaggi dal taglio netto. Ma proprio in questo «taglio netto» stava la trappola nella quale Buazzelli è parzialmente caduto.

  Nella Commedia umana — della quale Papà Goriot fa nettamente parte — Balzac ha lasciato confluire tutte le sue principali matrici ispirative: i feuilletons a forti tinte, Walter Scott, le concezioni filosofico-scientifiche che percorrono il secolo e le passioni per i grandi maestri francesi — Molière, La Bruyère, Saint-Simon — nel tentativo di costruire un grande affresco di quella società nata dalla rivoluzione di luglio, che sotto la monarchia borghese di Luigi Filippo aveva preso alla lettera l’invito del ministro Guizot «Enrichissez-vous!».

  Senatori, rapaci affaristi, arrampicatori sociali, femmine pazze o sottomesse affollano la commedia balzachiana, descritti dal loro autore con l’impeto dell’entomologo. Ma alla minuzia del metodo descrittivo — che non lascia nulla di inesplorato, dai dati fisionomatici, al vestiario e alle cose, Balzac univa la fantasia del visionario sicché il suo realismo, è stato notato, trascende la puntigliosità cronistica per arrivare allo «spiritualismo».

  Ora, dopo solo la prima parte, sarebbe ingiusto formulare riserve sulla fatica di Buazzelli e dei suoi collaboratori. Va tuttavia notato che lo sceneggiato appare essere rimasto un po’ alla superficie del testo, tratteggiando i singoli personaggi con eccessiva schematicità nonostante le lunghe carrellate didascaliche.

  E’, comunque, doveroso aggiungere che Buazzelli è riuscito a superare una serie di ostacoli riducendo al minimo i «vizi» recitativi del cast. Primeggia, ovviamente, lui stesso, nei panni di quel papà Goriot che lo stesso Balzac ebbe a definire come la rappresentazione di un sentimento così grande che niente lo esaurisce, né le offese, né le ferite, né le ingiustizie: un uomo che è padre, come un santo, un martire è cristiano.

 

 

  Vice, La prosa alla radio. Eugenia Grandet, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLVII, n. 37, 13-19 settembre 1970, p. 79.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (Prima puntata: lunedì 14 settembre, ore 10, Secondo).

 

  Eugenia Grandet è una ragazza costretta a sciupare gli anni della giovinezza in un piccolo paese, con la vecchia madre ed il vecchio padre, la cui morbosa avarizia gli ha consentito di accumulare una favolosa ricchezza. L’unica luce nella grigia vita di Eugenia è rappresentata dal cugino Carlo, per il quale la ragazza coltiva per sette anni un tenero sentimento d’amore. Ma un giorno Carlo le annuncia in una lettera che sposa un’altra donna. Passano gli anni. Muoiono la vecchia madre e il vecchio padre. Eugenia, fra tanta ricchezza, è sola e triste. Finirà per sposare uno del paese e per dedicarsi alle opere di beneficenza.

  Eugenia Grandet è il racconto di un’esistenza sacrificata al grigiore della solitudine e alla rinuncia ai sentimenti, e il quadro del mondo immobile della provincia, che Balzac tratteggia con lo stesso acume col quale, in altre opere, ha investigato l’universo urbano. Tra i personaggi spicca la figura del vecchio padre avaro, che permette a Balzac di affrontare il tema del denaro, tema centrale per capire la società borghese della Francia degli anni in cui visse; e, inoltre, presenza ossessiva nella stessa tumultuosa esistenza dello scrittore assillato dai debiti.

 

 

  Giuliano Vigini, Sul giorno di nascita di Balzac, «Studi Francesi», Torino, 42, Anno XIV, fascicolo III, settembre-dicembre 1970, pp. 489-490.

 

  Il giorno della nascita di Balzac non pare che abbia mai sollevato problemi. Lo si è sempre fissato concordemente nel 20 maggio (I prairial) 1799, sulla base dell’atto di nascita depositato allo Stato civile di Tours:

  «Aujourd’huy deux prairial an sept de la République française a été présenté devant moy Pierre-Jacques Duvivier, officier public soussigné, un enfant mâle par le citoyen Bernard-François Balzac, propriétaire, demeurant en cette commune, rue de l’Armée-d’Italie, section du Chardonnet, n° 25; lequel m’a déclaré que ledit enfant s’appelle Honoré Balzac, né d’hier, à onze heures du matin, au domicile du déclarant, qui est son fils et celui de citoyenne Anne-Charlotte-Laure Sallambier, son épouse ...».

  La testimonianza sembrerebbe inequivocabile, se non vi fosse — a gettare un’ombra di dubbio sulle dichiarazioni del padre (perché di dichiarazioni orali si tratta, non confermate da documenti scritti) — un’altra testimonianza: quella della figlia Laura. Se non andiamo errati, la sua biografia sul fratello Honoré, Balzac. Sa vie et ses oeuvres d’après sa correspondance, del 1858, ristampata da Calmann-Lévy nell’identica versione vent’anni dopo (1878), non è mai stata tenuta, sull’argomento in questione, in alcun conto. Ora Laura attesta espressamente che il fratello era nato il 16 maggio e non il 20: «Mon frère est né à Tours le 16 mai 1799, jour de Saint-Honoré. Ce nom plut à mon père, et quoiqu’il fût sans précédents dans les familles paternelle et maternelle, il le donna à son fils».

  Come si vede — ed è un particolare molto interessante — nome e data coincidono. Il 16 maggio, infatti, ricorre la festa di Sant’Onorato (oltreché di Sant’Ubaldo), festa che non cade mai invece il 20 maggio, dedicato a San Bernardino da Siena. Pur restando nel campo delle supposizioni, la nostra opinione è che il padre di Balzac, non avendo potuto o voluto (per ragioni che naturalmente non ci è dato di sapere) recarsi a dichiarare la nascita del figlio nei giorni immediatamente successivi, abbia deciso di operare una piccola e innocua «falsificazione», posticipando la data reale di quattro giorni, in modo che nulla risultasse di irregolare e non gli fosse chiesta ragione del ritardo, al momento della trascrizione.

  Bernard-François Balzac era, come sappiamo, un tipo piuttosto strano e di una originalità, divenuta proverbiale a Tours, che «se manifestait bien dans ses discours que dans ses actions; il ne faisait et ne disait rien comme un autre; Hoffmann en eût fait un personnage de ses créations fantastiques». Perciò, non si può escludere a priori che un personaggio di tal fatta abbia creduto opportuno rinviare al 20 maggio la data di nascita di Honoré, forse nell’intento — per un comprensibile transfert psicologico — di far coincidere il giorno di nascita del futuro scrittore con quello dell’altro figlio, Louis-Daniel, che era venuto alla luce il 20 maggio dell’anno prima ed era morto di lì a poco più d’un mese (22 giugno 1798). Quel 20 maggio rappresentava cioè, per il padre di Balzac, un riferimento significativo, e questo potrebbe essere stato un motivo valido (se si escludono quelli d’ordine più pratico e contingente) per convincerlo a uno spostamento di data.

 

 

  M. Z., Rassegna. Balzac, “Les Paysans”, «L’Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, 30 ottobre 1970.

 

  Quando Madame Hanska presentò all’editore — «Revue de Paris» — il romanzo postumo di Honoré de Balzac, «Les Paysans» suggerì anche di utilizzare quel libro per «un (sic) étude de la manière de composer de l’auteur». A cinque anni dalla morte dello scrittore, nel 1855, usciva il romanzo, e più tardi Charles de Spoelberch de Lovenjoul («La genèse d'un roman de Balzac: Les Paysans», Parigi 1901), confermava, con il sussidio d’una ricchissima documentazione, la esattezza del rilievo, fornendo le prove dell’itinerario compiuto dal racconto, attraverso trasformazioni, difficoltà, fino alla stesura definitiva ed alla finale interruzione. Né fu il solo a interessarsi del romanzo: una ricca bibliografia, in questi ultimi decenni, si è accumulata, giacché «nel modo meno atteso la storia di Les Paysans sembrava offrire la chiave utile per forzare la porta della camera di lavoro di Balzac; per entrare finalmente nel segreto dei segreti, alla scoperta di una verità difficile da raggiungere oltre le affermazioni contradittorie e le vanterie del romanziere.

  Così nota Franco Simone nel suo saggio «Un romanzo esemplare di Balzac, Les Paysans», pubblicato nel secondo volume di «Studi in onore di Italo Siciliano» presso l’editore Olschki di Firenze (p. 1097 ss.).

  Le prospettive critiche accennate nel 1964 dal Pardeche (sic) ed intraviste, tre anni prima dal Donnard, vengono riprese ed approfondite dal Simone, sulle idee del Balzac in campo politico e sociale: «La definizione secondo la quale Les Paysans sarebbero un «étude d’individuallsme féroce sur des âmes simples», ha il merito di richiamare l’attenzione, non tanto sull’impegno politico di Balzac, quanto sul modo del tutto caratteristico secondo il quale le idee politiche operano nella fantasia del romanziere. Naturalmente sviluppando questa valutazione, il quadro politico passa al secondo piano e diventa lo sfondo necessario e non la scena principale sempre unica. Di primo piano dovrebbero essere giudicati, invece, i personaggi descritti con più cura, quelli resi vivi, non dalle preoccupazioni politiche, ma dai sentimenti che le preoccupazioni politiche dominano, deludono, maturano e fanno esplodere».

  Nel 1834 Balzac incontrò a Ginevra Evelina Hanska e, ben accolto dal marito conte Venceslao poté entrare nel loro mondo, quello dei grandi proprietari terrieri polacchi ed ucraini e dei loro problemi, così da fargli suggerire l’idea di scrivere un grande romanzo, Le Grand Propriétaire, romanzo di lotte e di contrasti tra i contadini divenuti consci della loro dignità ed ansiosi di libertà, e i proprietari fermi sulle posizioni di difesa. La scena però si trasporta in Francia nella Ville-aux-Fayes, un castello rinascimentale nei pressi; di Tours, contornato da una immensa proprietà. Nei diciotto fogli in cui Balzac scrisse il primo abbozzo si delineano l’oppressione del castellano e la invadenza dei sudditi che, grazie alla evoluzione politico-sociale non hanno più freni e, forti dei propri vincoli di famiglia e di interessi minacciano con ogni mezzo la proprietà. Chi tiene testa alla rivoluzione latente è il vecchio marchese Grandlieu, mentre prepara la successione al figlio, sconosciuto ai contadini perché sempre assente (in Inghilterra). L’erede ritorna con la moglie inglese, partecipa alla lotta che finirà in «passion politique» interessata e non ideale, diretta ad uno scopo preciso: «qu’il fallait se délivrer du noble à tout prix».

  Il Donnard aveva voluto vedere, nel passaggio dal Grand Propriétaire a Les Paysans, una diversa impostazione del romanzo, il passaggio cioè dalla lotta della borghesia contro la nobiltà, a quella del proletariato, ma in realtà esiste una linea continua tra le due opere. Uno degli elementi che la assicurano è la figura (che già in altre opere il Balzac aveva disegnato) dell’amministratore, «l’intendant exclusivement occupé de sa fortune». Rimane sempre l’elemento individuale: il Balzac, nota ancora il Simone concludendo un’attenta e comparativa indagine sulle vicende della stesura del romanzo, «non può concepire una rivoluzione di massa se non come una rivolta di ogni individuo; una rivolta in cui l’uomo afferma sé stesso per salire vittoriosamente i successivi gradini della scala sociale. Deriva da questa particolare concezione — prosegue il critico — l’incapacità del romanziere di comprendere e, quindi, di descrivere le masse popolari che egli non vede come un corpo omogeneo e che, d’istinto, identifica con tipi umani particolari e singolari. I numerosi accenni ai contadini che tagliano i boschi, rubano nei campi, rovinano le campagne, rimangono semplici denunce delle esigenze di una massa che resta nell’ombra, sofferente, ma socialmente inoperosa e sempre soggetta alla volontà di chi la sa dominare e sfruttare. Balzac per primo avvertì la sua incapacità di togliere dall’ombra la massa anonima dei contadini della Borgogna. E fu così che il suo sogno di un’epopea contadina, coltivato per anni, sfumò del tutto quando lo scrittore giunse alla fine della prima parte di Les paysans.

  L’acuta analisi dei capitoli del romanzo, sia nella prima che nella seconda parte, quella rimasta incompiuta, prosegue con molte puntuali osservazioni che danno la misura del valore critico del saggio cui stiamo accennando. Il Simone studia i personaggi, le situazioni, le descrizioni, e ritrova, anche nel mancato capolavoro, un Balzac autentico. E scrive: «Les Paysans non sono, adunque, un capolavoro secondo (sic) vorrebbe una critica troppo preoccupata della difesa del contenuto sociale di un’opera e poco attenta alle forme espressive. Ma, certo, questo romanzo rappresenta un esempio se altro mai importante e tale da non essere dimenticato quando si voglia conoscere il modo di creare del narratore, la sua capacità di cercare la sua genuina ispirazione, di trovarla anche nelle condizioni meno favorevoli, di essere sempre se stesso quando altri vorrebbero utilizzarlo come strumento di propaganda o di difesa. Proprio ne Les Paysans Balzac si dimostra nel modo più convincente uno scrittore «impegnato»; impegnato soltanto con se stesso».




Adattamenti cinematografici.



  Intimità proibite di una giovane sposa. Scritto da R. Polselli su una novella di Honoré De Balzac. Regìa di Oscar Brazzi. Interpreti: Rossano Brazzi, Patrizia Rodi, Valérie Lagrange, Ulrika Hohlt, Uwe Paulsen, Renzo Petretto, 1970.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Eugenia Grandet di Honoré de Balzac. Traduzione e riduzione radiofonica di Belisario Randone. Compagnia di prosa di Torino della RAI con Anna Maria Guarneri e Antonio Battistella. Regia di Ernesto Cortese. Personaggi e interpreti: Eugenia Grandet: Anna Maria Guarneri; Grandet: Antonio Battistella; Signora Grandet: Anna Caravaggi; Carlo: Giorgio Favretto; Adolfo: Gigi Angelillo, Bonfons: Santo Versace; Des Grassins: Renzo Lori; Cornoillier: Natale Peretti; Nanon: Wilma D’Eusebio; Cruchot: Vigilio Gottardi; Jacqueline: Vittoria Lottero; Giulia: Susanna Maronetto; Alain: Pier Paolo Ulliers; Anna: Olga Fagnano; La merciaia: Misa Mordeglia Mari, Secondo programma, 14 settembre-2 ottobre 1970, 15 puntate.

 

 

 

Adattamenti televisivi.

 

 

  Mercadet di Honoré de Balzac. Traduzione e rielaborazione di Carlo Terron Sceneggiatura di Tino Buazzelli. Personaggi ed interpreti. Augusto Mercadet: Tino Buazzelli; La signora Mercadet: Gabriella Giacobbe; Giulia Mercadet Nicoletta Languasco; De la Brive: Felice Andreasi; Bredief: Roberto Paoletti; Giustino: Pupo De Luca; Teresa: Luisa Bertorelli; Virginia: Leda Palma; Goulard: Attilio Corsini; Pierquin: Werner Di Donato; Violette: Bruno Alessandro; Verdelin: Raffaele Giangrande; Adolfo Minard: Renato Campese; Berchut: Tonino Pavan. Commento musicale a cura di Romolo Grano. Scene di Misha Scandella. Costumi di Felicita Gabetti. Collaboratore alla regia: Franz Dama. Regia di Tino Buazzelli, Secondo programma, 31 marzo e 2 aprile 1970, due puntate.

 

 

  Papà Goriot di Honoré de Balzac. Sceneggiatura e regia di Tino Buazzelli. Personaggi ed Interpreti: Papà Goriot: Tino Buazzelli; Vautrin: Paolo Ferrari; Eugenio de Rastignac: Carlo Simoni; Gondureau: Pupo De Luca; Signorina Michonneau: Nietta Zocchi; Poiret: Raffaele Giangrande; Bianchon: Attilio Corsini; Il pittore: Bruno Alessandro; L’Impiegato del museo; Werner Di Donato; Primo pensionante: Claudio Dani; Secondo pensionante: Ezio Rossi; Terzo pensionante: Antonio Pavan; Signora Vauquer: Gabriella Giacobbe; Vittorina: Stefania Riccetti; Signora Couture: Rina Franchetti; Silvia: Leda Palma; Cristoforo: Roberto Paoletti; Il servo di Vittorina: Enrico Canestrini; Il capo della polizia: Andrea Aureli; Delfina: Gabriella Pallotta; Anastasia: Graziella Galvani; Conte de Restaud: Felice Andreasi; Il medico: Carlo Castellani; Teresa: Marisa Quattrini. Scene di Giorgio Aragno. Costumi di Roberto Laganè. Commento musicale di Romolo Grano. Delegato alla produzione: Fabio Storelli. Regista collaboratore Marcella Curti Gialdino, Secondo programma, 6 e 13 febbraio 1970, due puntate.



Marco Stupazzoni

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