giovedì 13 agosto 2020



1967

 

 


 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Études sur la «Chartreuse de Parme». Suivies de la réponse de Stendhal. [Préface de V. del Litto]. Seize gravures de Paolo Toschi d’après le Corrège, Parma, Istituto Statale d’Arte Paolo Toschi, (maggio) 1967, pp. 147.

 

  Struttura dell’opera:

 

  V. del Litto, Préface, pp. 11-19. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Études sur M. Beyle (Stendhal), “Revue Parisienne du 25 Septembre 1840”, pp. 21-113;

  La réponse de Stendhal. Premier brouillon, pp. 115-124;

  La réponse de Stendhal. Second brouillon, pp. 125-131;

  La réponse de Stendhal. Dernier brouillon, pp, 133-143;

  Notes, pp. 144-145.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Onorato de Balzac, Les Contes Drolatiques (Le sollazzevoli storie). Traduttori: Abro Abadra, Mila Dorio e Furio Sclavo, Milano, Ortles Editore, (maggio) 1967 («Scrittori immortali», 1), pp. 256.

 

  Struttura dell’opera:

 

  L’Editore, Prefazione. Balzac sconosciuto, p. 5. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Les Contes Drolatiques, pp. 6-255.

 

  Siamo di fronte alla traduzione, piuttosto libera e disinvolta, della prima decina dei Contes balzachiani.



  Honoré de Balzac, Non è una colpa: da «Le péché véniel». Traduzione e libero adattamento di Bepi Planelli, «I Grandi Narratori», Roma, Anno IV, N. 64, 20 Dicembre 1967, pp. 5-110.

 

  A questa discutibile versione del Péché véniel, segue, alle pp. 111-128, l’adattamento di un altro conte drolatique balzachiano sempre appartenente alla prima decina: La Mye du roy (L’Amante del re).


  I testi mutuati da Balzac sono preceduti dalla seguente Premessa (pp. 3-4):

 

  «Ecco dei racconti difficili da digerire, pieni di gustosi episodi, conditi a puntino per quegli illustri buongustai a cui si rivolgeva quel gran figlio di Turenna che era Rabelais.

  Quest’opera è un prodotto delle ore liete di bravi monaci paciocconi, piacevoli storie che narrano di antichi canonici e di donne timorate che vivevano quando ci si sollazzava senza badare che per le risa potesse scoppiare la pelle.

  Prendete quest’opera come se fosse un gruppo scultoreo o una statua nella quale l'artista ha dovuto riprodurre certi particolari. Sarebbe egli stato uno sciocco a ventidue carati se al posto di quei particolari ci mettesse soltanto delle foglie di fico, perché quelle opere, come questi racconti, non sono fatti per i conventi.

  Comunque ho avuto cura di ripulire gli antichi manoscritti che ho recuperato, di quegli antichi vocaboli che portano lo scandalo fra le verginelle di manica larga e le virtuose con tre amanti.

  Bisogna pur fare qualcosa per i vizi della propria epoca ed ho ritenuto opportuno ricorrere alle perifrasi che, per chi ben sa leggere, sono più evocative della schietta parola.

  Ma ridete in pace ché il riso è la virtù dei puri di cuore.

  Risparmiatemi le vostre critiche e leggete ciò che segue col favore della notte anziché del giorno. E attenti a non dar e questo libro in mano alle pulzelle che sennò prenderebbe fuoco».

  Con questo prologo Honoré de Balzac dava inizio a «Le (sic) contes drolatiques», «I racconti ridanciani», una raccolta di trenta novelle di cui diamo qui un assaggio con «Péché Véniel», il «Peccato veniale».

 

 

  Honoré de Balzac, Storie licenziose 1. Traduzione di Anita Licari e Gianni Celati, Bologna, Sampietro, (luglio) 1967 («Piccola collana», 70.113), pp. 235.

 

  In questo volume, sono raccolte le traduzioni dei contes balzachiani compresi nella prima decina. Non è presente, prima della traduzione del Prologue, quella relativa all’Avertissement du libraire.

 

 

  Honoré de Balzac, Storie licenziose 2. Traduzione di Amadeo Amadei, Bologna, Sampietro, 1967 («Piccola collana», 70.113), pp. 243.

 

  In questo volume, sono raccolte le traduzioni dei contes balzachiani compresi nella seconda decina. Come le versioni italiane dei racconti appartenenti alla prima decina, anche la traduzione dei testi che formano questa seconda raccolta ci pare, nel complesso, corretta.



  Honoré de Balzac, Un’oscura vicenda. A cura di Valentina Bianconcini, Bologna, Edizioni Capitol, (giugno) 1967 («Collana Flaminia», 54), pp. 245.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Valentina Bianconcini, Honoré de Balzac, pp. 5-8. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Un’oscura vicenda, pp. 9-244.

 

  Il romanzo balzachiano è suddiviso in tre capitoli titolati secondo il modello dell’edizione Furne (1846), ma non è riportata la dedica dell’opera a M. de Margonne.

  La traduzione ci pare in diversi punti alquanto approssimativa, frettolosa e scarsamente fedele al testo originale.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Illusioni perdute, «La Provincia», Cremona, Anno Ventunesimo, N. 2, 4 gennaio 1967, p. 5.

 

  Da questa sera, sul Sencondo (sic) TV, andrà in onda il teleromanzo «Illusioni perdute» di Honoré de Balzac. Questa la trama della prima puntata: Lucien de Rubempré è un giovane poeta che vive con la madre e la sorella Eva nella provincia francese, durante gli anni della Restaurazione. Le sue ambizioni lo spingono ad evadere dal piccolo ambiente, aiutato in ciò dalla contessa Naïs de Bargeton, che a sua volta aspira alle glorie mondane di Parigi e che ha fra i suoi ammiratori il barone de Chatelet. Questi, naturalmente, mal tollera l’infatuazione della bella donna per il giovane poeta. Ma la contessa organizza un ricevimento per permettere a Lucien di leggere i suoi versi davanti alla distratta e maldicente aristocrazia locale. Lucien tuttavia non avverte la rete di pettegolezzi che si va intessendo intorno ai suoi rapporti con la nobildonna e intanto, essendo la sorella Eva in procinto di concludere un umile matrimonio, teme che la cosa possa spiacere alla contessa de Bargeton. Il poeta infatti si illude di sposarla qualora dovesse restare vedova.

 

 

  Balzac all’ultima tappa, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XXIII, N. 39, 15-16 febbraio 1967, p. 10.

 

  Si conclude stasera il lungo viaggio televisivo della riduzione a puntate di «Illusioni perdute» di Honoré de Balzac, con la messa in onda, sul secondo programma della settima ed ultima puntata nell’adattamento e con la regìa di Maurice Cazeneuve, passata dai teleschermi francesi a quelli italiani.

  Come s’era visto nella precedente puntata, l’ambiziosissimo Lucien s’era lasciato indurre, per avidità di denaro e di potenza, a cadere nella trappola tesagli dai suoi avversari politici. Sconfessando tutto il suo passato, il giovanotto ha accettato di collaborare con i circoli monarchici, provocando l’implacabile vendetta dei suoi ex-colleghi, i quali stroncano ferocemente la carriera artistica di Coralie, la ragazza di Lucien.

  Ferito da un avversario in duello, Lucien viene trasportato in pessime condizioni a casa di Coralie. Per comprare le medicine la donna non esita a lavorare tutte le sere come comparsa in quello stesso teatro che ha segnato la fine dei suoi sogni artistici. Lucien lentamente guarisce, ma lo sforzo di Coralie è superiore alle sue forze e la ragazza s’ammala. Per salvarla bisogna portarla in montagna e non ci sono soldi. Disperato Lucien chiede un prestito a Lausteau (sic) che gli propone di vendere a un editore il suo romanzo. Accetta ma ne ricava un compenso irrisorio. Alla fine, disperato e amareggiato, il giovane va da Camusat (sic); sarà proprio da lui che riceverà la somma. Coralie potrà morire serenamente. A Lucien non resterà che fuggire da quella Parigi portandosi dietro le sue «illusioni perdute».

 

 

  Balzac a puntate, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XLIV, N. 84, 26 marzo 1967, p. 15.

 

  Va in onda alla radio domani la prima puntata della riduzione del romanzo di Balzac «Gli Chouans», regia di Dante Raiteri. L’opera di Balzac è l’unica che si occupi degli avvenimenti che ebbero luogo nel periodo della grande Rivoluzione francese: la storia degli «Chouans» si volge in provincia, durante le rivolte di ispirazione reazionaria e sanfedista.

 

 

  Un romanzo di Honoré de Balzac. Gli Chouans, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLIV, n. 13, 26 marzo-1° aprile 1967, p. 54.

 

  Dallo studio notarile cui, nel 1816, era stato avviato dal padre, Honoré de Balzac non trasse certamente grandi benefici pratici (come dalla contemporanea iscrizione alla Sorbona), o almeno li ricavò a modo suo, vale a dire mutuando dalla precisione burocratica del linguaggio degli atti legali la visione di un particolare aspetto dell’umanità. La sua vera ambizione era quella di guadagnarsi da vivere scrivendo: l’accordo fu presto raggiunto, nel senso che Balzac venne praticamente confinato a Parigi senza il sostentamento indispensabile, in attesa di dare alla luce l’opera che l’avrebbe reso famoso. In realtà l’opera (per la precisione il Cromwell del 1821) fu un fiasco, che però non servì a scoraggiare il suo autore che, per guadagnarsi da vivere, si diede a scrivere sotto pseudonimo, romanzi «neri», per lo più atroci e terrificanti, che incontrarono assai presto il pieno favore del pubblico. Ma gli anni che seguirono furono assai duri per Balzac ridotto, in seguito a fallimenti e a speculazioni sbagliate, sull’orlo del precipizio: ebbene, nonostante le preoccupazioni di natura economica, Balzac continuò furiosamente a scrivere e nel 1829 dava alle stampe il suo primo autentico romanzo, Gli Chouans, che è il vero e proprio capostipite di quella lavica, torrentizia produzione, immensa, realistica, visionaria e sempre geniale che l’autore stesso avrebbe complessivamente intitolata La commedia umana. Gli Chouans prende l’avvio da un episodio storico. ma si ingannerebbe chi pensasse che il pretesto storico sia servito a Balzac per una indagine rigorosa su quelle particolari vicende: lo sviluppo dell’azione storica è appunto soltanto un pretesto, a Balzac serve quel tanto indispensabile all’ambientazione e alla definizione del carattere dei personaggi veri e di conseguenza anche di quelli inventati.

  Partecipano ai primi due episodi del romanzo gli attori: Corrado De Cristofaro; Gino Mavara; Franco Morgan; Carlo Ratti; Adolfo Geri; Dario Mazzoli; Renata Negri; Ezio Busso; Gino Susini; Franco Giacobini; Andrea Matteuzzi: Franco Luzzi; Livio Lorenzon; Livia Giampalmo; Adriana Vianello; Claudio Sora; Dante Biagioni; Cesare Polacco. E inoltre: Alessandro Borchi; Maurizio Manetti; Rinaldo Mirannalti; Renato Moretti; Gianni Pietrasanta; Enzo Rispoli.

 

 

  Gli antipasti di Balzac, «Stampa Sera», Torino, Anno 99, Numero 110, 10-11 Maggio 1967, p. 7.

 

  La Valle della Loira è una delle più rinomate regioni gastronomiche della Francia. I piatti più famosi sono: fra gli antipasti i «rillon et rillettes» (impasto fuso di carne e grasso di maiale: erano prediletti da Balzac): budini bianchi, ripieni di petto di pollo, carciofi farciti. Fra le pietanze: galletto cucinato con i vini della regione (impiegati anche nella preparazione della trippa, delle uova alla gelatimi, dei filetti di coniglio); animelle di vitello, scaloppine alla crema: luccio, carpa farcita al vino bianco, le «matelotes» (anguilla al vino vecchio). La selvaggina, di cui è ricca specialmente la Sologne, viene cucinata in una serie incredibile di modi diversi. Notissimo è il pasticcio di allodole di Pithiviers. Quanto alla frutta basta ricordare le fragole di Sminuir, le prugne di Tours, pere ed albicocche di Angers. Ottimi anche i formaggi regionali. [...].

 

 

  Si gira in Russia un film su Balzac, «Stampa Sera», Torino, Anno 99, Numero 286, 4-5 Dicembre 1967, p. 6.

 

  Negli studi cinematografici di Kiev, in Ucraina, si sta concludendo la lavorazione del film Così è la vita, dedicato a Balzac. A Leningrado si girano intanto le scene degli incontri dello scrittore con lo zar Nicola I e il conte Orlov. Il regista Timotej Levciuk ha dichiarato che la troupe dovrà recarsi a Parigi per girare gli esterni. Il film è dedicato all’ultimo periodo della vita di Balzac con il soggiorno in Russia e il matrimonio tra lo scrittore e la contessa Evelina Ganskaja (sic).



  Valentina Bianconcini, Honoré de Balzac, in Honoré de Balzac, Un’oscura vicenda ... cit., pp. 5-8.

 

  [...]. Questo romanzo fu pubblicato per la prima volta a puntate nel giornale «Le Commerce» nel 1841 e fu definito dall’A., nella prefazione alla edizione in volume del 1843, come una vicenda vecchia di quarant’anni «che ha avuto per punto di partenza un fatto vero sepolto nel mare tempestoso della vita privata, e noto soltanto in qualche cerchia del mondo parigino».

  Si tratta di un fatto realmente accaduto: il senatore Clemente de Ris (chiamato Malin nel romanzo) fu rapito alle tre del pomeriggio, nel proprio castello di Beauvais nei pressi di Tours, il 23 settembre del 1800. Il ratto, effettuato di pieno giorno, passò come l’opera di partigiani monarchici, e nel romanzo venne ricollegato alla grande congiura monarchica contro Napoleone Primo Console del 1803, che fallì terminando con la fucilazione del duca d’Enghien.

  Si tratta dunque di un romanzo storico, ma non alla maniera di Walter Scott chè il Balzac, da quel grande analizzatore di uomini e avvenimenti che fu, cerca di individuare e ambientare con tocchi sapienti serrati incalzanti, i suoi protagonisti: quattro gentiluomini emigrati, protetti e spalleggiati dalla loro cugina Lorenza de Cinq Cygne e dal loro guardacaccia Michu. Ma anche la polizia coi suoi intrighi, onnipotente nell’ombra, può considerarsi un personaggio di primo piano; come pure alcuni personaggi storici evocati dall’A. con rapide battute: Fouché, Talleyrand, soprattutto Napoleone la cui personalità si fa sentire per tutto il corso del romanzo e si manifesta nella scena, mirabile per vivezza e concisione, del campo di Iena, lodata da Paul Valéry come rivelatrice dell’arte somma del Balzac.

  I quattro gentiluomini, rientrati in Francia per prender parte alla cospirazione di Rivière e compagni, sono costretti a rimaner celati per quattro mesi nel mezzo di una grande foresta, poi indotti dalla necessità a fare atto di sottomissione al Primo Console, diciotto mesi più tardi accusati di aver rapito il senatore Malin e processati insieme col guardacaccia Michu, il maggiore indiziato.

  Si tratta di un racconto notevolissimo e drammatico, ma che non ha niente di orrido nè lungaggini, e dà al lettore una continua sospensione d’animo perché l’A. darà la chiave del mistero soltanto nelle ultime pagine. Ben condotta è la descrizione fatta dal Balzac, con simpatia ma con distacco, di un ambiente familiare ostinatamente monarchico e inoltre dei compromessi ai quali i suoi membri devono adattarsi se vogliono sopravvivere. Si tratta di un romanzo corale in cui fra i tanti personaggi primeggiano l’umile Michu, che si sacrifica per i suoi padroni, e la contessina de Cinq Cygne, una delle più attraenti figure di donna che il Balzac abbia saputo tratteggiare.

  Ben realizzata è l’esistenza di una famiglia aristocratica che per venti anni subisce le tragiche vicende e conseguenze della Rivoluzione francese — abolizione dei titoli nobiliari, alienazione dei beni terrieri, scatenamento del Terrore — poi si illude di un ritorno alle normalità col Consolato e con l’avvento di Napoleone, ma senza rendersi conto della rivoluzione avvenuta anche nelle idee e nel costume. La morale del racconto è forse che «l’uomo è in balia dello Stato»: i cinque condannati del processo erano innocenti come innocenti erano i trentamila morti della battaglia di Iena.

 

 

  U. Bz., Un romanzo noioso, «La Stampa», Torino, Anno 101, Numero 9, 12 Gennaio 1967, p. 7.

 

  E’ «Illusioni perdute» di Balzac: lento, superficiale, mal recitato.

 

  L’esordio ci aveva lasciati perplessi; ora, almeno, la perplessità è caduta e possiamo tranquillamente scrivere che si tratta di un racconto noioso e quasi, del tutto privo di interesse. Anche la seconda puntata — e ancor più della prima, diremmo — è stata lenta e superficiale: abbiamo assistito alle schermaglie mondano-amorose di alcuni personaggi in costume mentre una voce fuori campo si preoccupava di spiegarci quel che le immagini non erano riuscite a chiarire. Non vogliamo sostenere che oggi la lettura delle due opere di Balzac: «I due poeti» e «Un grand’uomo di provincia a Parigi» sia particolarmente stimolante ed entusiasmante: però in alcune pagine, in alcuni episodi c’è una turgida forza che nella riduzione televisiva non si avverte mai, neppure di sfuggita. Di livello modesto la recitazione, mal aiutata, fra l’altro, dal doppiaggio: Imbambolato il giovane ed eccessivamente grazioso protagonista, manierata Anne Vernon e affetto da un perenne, sgradevole ghigno l’amico di famiglia, il signor di Chatelet.

 

 

  U. Bz., Pallido Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 101, Numero 39, 16 Febbraio 1967, p. 5.

 

  Dunque è scesa la parola fine sul romanzo di Balzac. Bilancio: negativo.

  «Illusioni perdute» ha deluso sin dalle prime battute: ritmo lento, recitazione mediocre, mancanza di una drammaticità interiore che sostenesse e animasse il racconto: al centro un giovane protagonista troppo imbambolato. In più Balzac non è popolare in Italia. Manzoni — lo citiamo per via della sua presenza televisiva con «I promessi sposi» — è un po’ nell’orecchio di tutti: alcuni passi, anche soltanto per «sentito dire», sono famosi, alcune figure, di generazione in generazione, sono diventate familiari, quasi proverbiali. Quanti telespettatori hanno letto «Illusioni perdute»? Quanti hanno letto qualcosa di Balzac? Per rendere il mondo colorito, complesso, brulicante, inquieto dello scrittore francese occorreva lavorare di finezza e in profondità. Invece la riduzione tv è stata tutta o quasi tutta in superficie. Così questo provinciale Lucien, ambizioso arrampicatore sociale, s’è trasformato in un damerino dai riccioli biondi buono solo per una piccola commedia sentimentale; e le cricche che lo stritolano si riducevano ad un andirivieni di chiacchieroni di intriganti in tuba e mazza da passeggio: la satira di un certo giornalismo politico a base diffamatoria e ricattatoria in pratica non esisteva perché l’ambiente era descritto senza vigore e senza crudeltà. Al solito, quando si tratta di riduzioni non ben riuscite, la sostanza non è arrivata sul video e sono arrivati esclusivamente i fatti e i personaggi, svuotati però di forza e di convinzione. Resta un certo decoro formale, il che non dice niente. Resta l’ipotesi che qualcuno vada a ricercarsi Balzac nei libri: ma ci crediamo poco.

 

 

  Enzo Caramaschi, Balzac tra Romanticismo e Realismo, «Annali di Cà Foscari», Venezia, Volume VI, 1967, pp. 41-65.

 

  [...]. In Italia il Balzac si è imposto relativamente tardi. Se per i contemporanei gli aspetti più evidenti e spettacolari della sua opera erano l’accettazione della natura umana come d’un fatto compiuto e la celebrazione, al di là del bene e del male, delle energie individuali, come potevano la moralità e il moralismo del nostro Risorgimento esser disponibili per il «messaggio» balzachiano? D’altra parte il Balzac si faceva storico della società contemporanea: ora, l’oppressione straniera (come la dittatura interna) orienta verso l’intemporale o verso il passato la letteratura e l’arte di un popolo, incoraggia l’evasione fantastica per scoraggiare la discussione e ritardare la presa di coscienza: per parlare dell’umanità del suo tempo, il Manzoni aveva dovuto presentarla in costume secentesco. [...].

  Nessuno è mai stato meno classico, scriveva di lui il Gautier nel 1858, insistendo sulla «modernità assoluta» del suo genio per sottolineare l’originalità e l’ardua solitudine della sua impresa, condotta a controcorrente della tradizione letteraria, a dispetto della gerarchia dei «generi», a contropelo del purismo imposto alla lingua francese dal Seicento luigiano. Il paradosso storico del Balzac è stato infatti quello di condurre il suo immenso sforzo sul terreno del romanzo, che nella gerarchia tradizionale dei generi letterari, tenacemente sopravvissuta di fatto anche se non di diritto alla cosiddetta rivoluzione romantica, occupava il settore più basso: e di concentrarlo quella rappresentazione del mondo e dei «costumi» moderni che la scuola di Hugo aveva abituato il pubblico colto a considerare come «inutile, borghese e mancante di lirismo». A questo è dovuto, tra l’altro, il ritardo con cui la statua del Balzac assumerà nella prospettiva dei posteri le sue dimensioni effettive. Il Balzac faceva da solo: e doveva piegare all’espressione del concreto, del particolare, del pittoresco una lingua di cui tante generazioni avevano fatto soprattutto uno strumento di analisi psicologica e di discorso logico. Egli dovette quindi «foggiarsi una lingua speciale, composta di tutte le tecnologie, di tutti i gerghi della scienza, delle arti figurative, del teatro, persino della sala anatomica. Ogni vocabolo che diceva qualche cosa era il benvenuto, e la frase, per riceverlo, apriva un inciso, una parentesi, e si allungava compiacentemente».

  Come s’era aperta la sua adolescenza solitaria e studiosa ed un’esperienza tanto vasta e profonda dell’umanità e della vita contemporanea, e come un così robusto realismo aveva saputo innestarsi sul suo primo misticismo? Per far rapidissimamente tesoro delle esperienze molteplici e deludenti della sua fervida, attivissima, burrascosa giovinezza, c’era voluto quello straordinario dono di osservazione e di divinazione che egli ha evocato in quelle pagine di Facino Cane (1836) che sembrano rispondere poeticamente agli interrogativi che la nota prefazione del Davin alle sue Etudes de moeurs en France un XIXe siècle si era posta poco prima con abile retorica [...]. Pagina che definisce mirabilmente l’«alienazione» del creatore e mostra come possano essere fecondi per un romanziere quelli che il Baudelaire chiamerà i «bagni di moltitudine». In un testo meno nostalgico ma più ambizioso, di poco anteriore al precedente (Théorie de la démarche, 1833), il Balzac aveva osservato che la estrema rarità, nella letteratura universale, dei grandi osservatori del comportamento umano va in primo luogo imputata al fatto che tale «osservazione» presuppone la riunione nella stessa persona di qualità tra di esse incompatibili come la lentezza metodica e il colpo d’occhio geniale: oltre che la conciliazione nella stessa opera di esigenze pure spesso antitetiche come quelle artistiche e quelle scientifiche. [...].

  Per il Balzac dunque osservazione e divinazione psicologica convergono e coincidono, il chiedersi se esse coincidano anche nella sua opera vorrebbe dire riaprir la vecchia questione che tanti critici di oggi continuano a creder giovane: Balzac osservatore o Balzac visionario? [...].

  Per anni il Balzac aveva nutrito l’ambizione di diventare il Walter Scott francese: e il suo primo romanzo importante, Le dernier Chouan, l’aveva scritto tra il 1828 c il 1829 su un argomento estremamente scottiano della storia di Francia. A lungo aveva pensato (ci pensava forse ancora nel 1839 scrivendo la seconda parte di Illusions perdues) ad una «storia di Francia pittoresca»; ma aveva finito col rinunciarvi, perché il suo tempo gli offriva una materia più viva e palpitante. La fase fondamentalmente solitaria della sua vita si chiude appunto attorno al 1829: Parigi, il giornalismo, la letteratura, i salotti, le passioni, le vanità, gli intrighi gli offrono ormai uno spettacolo da cui egli non saprà più distogliere gli occhi: il Balzac farà del romanzo la storia profonda e integrale di un’epoca, ma quest’epoca sarà il presente.

  Anche se le motivazioni profonde ne sono in parte diverse, l’evoluzione balzachiana prefigura così la traiettoria che percorrerà tra poco il romanzo di «costumi», e che dal romanzo storico farà nascere il romanzo «realista», il giorno in cui il romanziere degli anni Cinquanta preferirà invitare il lettore ad una presa di coscienza piuttosto che a un’evasione, e sposterà dal passato al presente quell’attenzione minuziosamente descrittiva ad un ambiente che dapprima, negli anni romantici, di tale attenzione era apparso degno soltanto perché esotico, lontano cioè nello spazio o nel tempo, capace quindi di far evadere e sognare ... Mentre essa conferisce alla narrativa un interesse più diretto e più attuale, tale evoluzione comporta nuove ed ardue difficoltà — sulle quali la prefazione del 1835 alle Etudes de moeurs, meno discreta del proemio del 1842 perché firmata da un amico, non mancava di attirare l’attenzione per suggerire la superiorità del Balzac sul suo maestro Walter Scott.

  Ma al di là del merito di sormontare queste accresciute difficoltà psicologiche e tecniche, le pagine del ’42 rivendicano più nettamente che mai la portata filosofica della storia che è implicata e illustrata dalla Comédie humaine. Praticamente per tutto l’Ottocento, il romanzo francese che oggi si direbbe di avanguardia reagirà all’accusa di essere un genere culturalmente ed artisticamente minore con l’affermarsi altra cosa, qualsiasi cosa fuorché romanzo: durante il romanticismo storia, con il realismo e il naturalismo scienza, con il simbolismo poesia. Anche in questo il Balzac apre la strada al romanzo del suo secolo: pensando ai lettori prevenuti che potrebbero riconoscere alla sua opera un valore puramente «pittoresco» e rifiutarsi di prender sul serio quanto venga accertato o avanzato in un libro «impropriamente chiamato romanzo» perché servito sotto una forma che per secoli era stata usata solo per raccontare e per divertire, egli insiste sul «valore filosofico» di questa storia della società contemporanea che dichiara ormai di perseguire attraverso il romanzo di costumi moderno.

  Fin dal 1835 il «doppio gioco» balzachiano utilizzava esplicitamente la forma del romanzo per «farsi capire dall’uomo politico come dal filosofo mettendosi alla portata delle intelligenze medie» ed aspirava a «interessare tutti restando fedele alla verità». Torto avrebbe quindi il lettore che, cercando nei romanzi del Balzac soltanto un romanzo, ne saltasse a piè pari le dissertazioni di filosofia religiosa, politica o sociale col pretesto che esse interrompono il filo del racconto. E sempre meno gli basterà l’ambizione storica: per elevarsi al disopra del pittoresco e della «nomenclatura» la storia non può rimanere agnostica, dichiara il proemio del 1842: essa deve ancorarsi a delle «opinioni ferme», cioè a dei dogmi. [...].

  Volontà di sistemazione che testimonia insieme della persistenza nello scrittore maturo delle idee mistiche della giovinezza — ora integrate al suo realismo e che segretamente lo fecondano, lo fanno significare al di là del fatto e del dato, qualche volta contro il fatto — e dell’ambizione, caratteristica del suo genio e caratteristica dell’epoca romantica, di abbracciar tutto l’esistente e di trascenderlo, conferendo alla sua opera valore d’arte, valore di storia, valore di filosofia.

  Valore di scienza anche, nell’accezione e con le risonanze che il termine prenderà nei due decenni successivi alla sua morte: il Balzac si vuole non solo il Walter Scott, ma anche il Buffon della società francese dell’Ottocento (ed anche qui egli ha aperto la strada al suo secolo). Tra le molte idee che vengono enunciate nel proemio del ‘42, due, analoghe e convergenti, sono spinte dall’autore fino alle loro estreme conseguenze per sottolineare la novità e al tempo stesso la sistematicità della sua impresa. Il condizionamento ambientale dell’individuo – in primo luogo quindi la professione che egli esercita – lo struttura così profondamente e radicalmente da diversificarlo, rispetto ai suoi cosiddetti simili, allo stesso modo e grado in cui nel mondo animale una specie si differenzia da un’altra. All’aspetto passivo di questa influenza corrisponde un aspetto attivo: se l’individuo viene modellato dal suo modo di esistenza e dal suo tipo di attività, a sua volta egli esercita un’azione altrettanto decisiva sul suo ambiente immediato, materiale, fisico, lo modella insomma come una specie di conchiglia: le cose sono la «rappresentazione materiale» che le persone «danno del loro pensiero», esse fanno dunque parte integrante della sua personalità e concorrono in modo essenziale alla sua definizione. [...].

  Viene così negata o svalutata come un’astrazione o come una convenzione l’indeterminatezza dell’uomo della letteratura classica, mentre viene codificato, col prestargli delle basi e di conseguenza delle giustificazioni (ed una specie di necessità) scientifiche, quel relativismo. quell’irruzione delle diversità comandate dal tempo o dallo spazio, che nella prima fase del romanticismo rispondevano soprattutto ad una volontà descrittiva, a un’esigenza di pittoresco, a un desiderio di esotismo. [...].

  Nel 1833 la balzachiana Théorie de la démarche codificava scherzosamente «l’arte di alzare il piede» esprimendo in forma ironicamente dottorale e dottrinale l’ambizione di conoscere, dal modo di camminare, «l’uomo tutto intero». In quegli anni il Balzac si atteggiava a dandy e, ostentando un capovolgimento alla Brummel o alla Byron della comune, gerarchia dei valori pratici, osservava in favore della nuova «arte» o scienza che «in ogni cosa la dignità è sempre in ragione inversa dell’utilità». Ma al di là della mistificazione aperta e confessa ritroviamo nel trattatello quell’ambizione così balzachiana di indurre il generale dal particolare più sfuggente — più «insignificante» per chi non avesse i suoi occhi di lince — che lo scrittore collocava già allora sotto il patronato del Cuvier («un particolare conduce logicamente all’insieme»).

  Ambizione tipicamente ottocentesca, che il Settecento non aveva avuto, che il Novecento non ha più, ma che corre attraverso tutto il secolo di Balzac [...]. Se l’uomo romantico ha a lungo consolato la sua solitudine con l’orgoglio di credersi unico, la letteratura nata col romanticismo ha insegnato allo scrittore l’orgoglio di render unico l’oggetto descritto: «rileggete quest’opera caleidoscopica, non vi troverete né due abiti uguali, né due teste che si assomigliano» (prefazione del 1835 alle Etudes de moeurs aux XIXe siècle, firmata Félix Davin). La stessa ambizione parla nel proemio del ’42, anche se qui lo scrittore si esprime in prima persona, anche se ora la sua voce tradisce la sicurezza di chi ha già un’opera dietro di sé e l’impegno tenace di difendere quest’opera illustrandone, allargandone, moltiplicandone i significati. Soltanto, nel ’42 le dottrine biologiche del Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844) si prestano meglio di quelle del Cuvier (1769-1832) a patronare l’impresa dello scrittore: in quanto l’«unità di composizione organica» va nel senso di quel monismo evoluzionista nel quadro del quale meglio si lasciano conciliare le sue aspirazioni ed intuizioni mistiche con le teorie scientifiche cui volentieri egli affida la difesa e l’illustrazione dei suoi metodi di indagine romanzesca.

  Perché se nella produzione balzachiana c’è una fase mistica che sembra chiudersi attorno al 1835, un filone mistico attraversa tutta l’opera e colora sino alla fine il pensiero dell’autore. Certo, il mondo narrativo dei primi «studi filosofici», come ha osservato il Béguin, era «un altro mondo» mentre quello degli «studi di costumi» è «questo mondo, visto altrimenti». E i personaggi nati dal sogno o dalla fantasticheria mistica cedono progressivamente il passo, dopo il 1830, a dei personaggi che sembrano appartenere al mondo di tutti. Ma il Balzac «non ha mai smesso di credere alle interferenze tra il mondo visibile e il mondo invisibile», come ha fortemente documentato il Castex: e «con la stessa virtuosità, egli sa render presenti ai nostri sensi le scene immaginate oppure trasformare in fantasmagorie le scene osservate». [...].

  Il giovane Balzac si convinse che tutti i fenomeni dell’universo si lasciano ricondurre all’azione di un’unica sostanza, di un’energia, di un fluido che nell’uomo prende la forma del Pensiero: «pensiero» che non ha nulla a che vedere con il cogito, che è volontà, tensione, passione (come fuori dell’uomo può essere «elettricità, calore, luce, fluido galvanico, magnetico, ecc.»).

  Convinzione che apriva le porre alla metapsichica, alla telepatia, all’ipnotismo, e che al centro delle precoci preoccupazioni metafisiche del Balzac rivela un aspetto pratico, conquistatore, imperialista per così dire: l’adolescente dovette sperare che a forza di intensità e grazie ad una disciplina metodica il genio possa giungere ad imporre al mondo e agli uomini il proprio pensiero, che fa tutt’uno con la propria volontà. (Ancora nel ’31 egli penserà che l’uomo superiore — lo «scrittore realmente filosofo», come scrive pensando a se stesso — sia dotato di qualità che la scienza non è in grado di spiegare, grazie alle quali un contatto diretto si stabilisce misteriosamente, senza le mediazioni correnti, tra il suo spirito e la complessità inesauribile dell’esistente). [...].

  La robusta materialità della sua opera non esclude da essa la spiritualità: l’autore lo proclama ed è sincero. Materia e spirito, l’antitesi per lui non ha senso, o almeno incertissime sono le frontiere che li dividono. Come l’adolescente appassionato non separava, nel suo misticismo, l’esigenza di purezza, il desiderio di conoscenza, la volontà di potenza, l’autore trentaduenne della Peau de chagrin si chiederà se «gli uomini hanno il potere di far venire l’universo nel loro cervello» o se «il loro cervello è un talismano grazie al quale essi aboliscono le leggi del tempo e dello spazio»: e sempre il Balzac si rifiuterà di contrapporre osservazione e divinazione, vista e «seconda vista». Indissociabili rimangono la sua rappresentazione della società e le intuizioni metafisiche e mistiche che comandano la sua concezione dell’universo e dei rapporti ideali tra uomini.

  Fedele ancora nel 1842 alle ipotesi metafisiche della prima giovinezza, lo scrittore fa appello alla tradizione mistica per dominare dall’alto il dibattito delle teorie scientifiche contemporanee cui, in questa summa delle sue idee che vuol essere il proemio della Comédie humaine, egli riallaccia metodi e problemi della sua creazione romanzesca. E sostiene — per renderla garante della solidarietà tra aspetti spirituali e aspetti materiali del suo universo fantastico — la convergenza fra le teorie dei «più bei geni in istoria naturale» e le intuizioni degli «scrittori mistici che si sono occupati delle scienze nelle loro relazioni con l’infinito». [...].

  Anteriore al momento in cui l’autore decide di collegare i suoi racconti, «scene» e romanzi facendovi sistematicamente ricomparire gli stessi personaggi, Eugénie Grandet non ha legami organici col resto dell’opera. Rare sono le evasioni dal piccolo mondo provinciale, e se si eccettua Charles Grandet i personaggi hanno solo rapporti occasionali con la società della capitale. Concepita originariamente come novella (novelle o scene erano state in quegli anni la maggior parte delle sue pubblicazioni, e il Balzac faceva ancora figura di conteur più che di romanziere), Eugénie Grandet aveva rapidamente assunto le proporzioni del romanzo, conservando tuttavia della novella la semplicità della linea narrativa. L’opera sfugge all’intenzione prima dell’autore, rivelandosi più ricca di virtualità, di sviluppi, di significati: è il primo effetto della maturità artistica, del raggiunto pieno possesso delle proprie doti di scrittore. Ma non perde il carattere lineare di una storia patetica e drammatica in cui le complicazioni sono evitate e che procede verso la sua conclusione con il rigore, la necessità, l’essenzialità di una pièce del teatro classico. All’economia dei mezzi, alla concentrazione degli effetti, alla purezza dello schema è dovuta — e non solo a quello che c’è di patetico e romanzesco nella vicenda — l’intensità dell’impressione di lettura che lascia questo romanzo: che fu il più immediatamente celebre (e rimarrà, accanto al Père Goriot, il più popolare) tra i romanzi del Balzac, a tal punto che l’autore doveva in seguito ostentare una certa irritazione di fronte alla parzialità del pubblico in favore di esso, perché tale parzialità si risolveva a suo parere in ingiustizia nei confronti di altre opere sue. [...].

  Il titolo ci presenta il libro come la storia melanconica e romantica di una fanciulla tradita dalla vita perché nata non per quello che passa ma per quello che dura: sacrificata e ingannata dal padre, insidiata dalla buona borghesia che le sorride pensando solo alla sua eredità, delusa dall’amore che in lei è rimasto promessa e speranza dell’amore. Col che l’autore ha voluto insistere sull’aspetto dinamico del racconto per fargli equilibrare l’aspetto statico della descrizione, per rivendicare la portata romanzesca di una «scena della vita di provincia». E in un preambolo ed un epilogo al romanzo che ha poi finito col togliere, egli ha illustrato il valore simbolico dell’eroina, si è scusato di averla forse troppo aureolata d’oro, ha spiegato perché egli stimi la donna capace di tante perfezioni. Spiegazioni che non ha sentito il bisogno di darci per il vecchio Grandet, figura di una potenza e di un rilievo che fanno pensare a un personaggio di Molière in chiave shakespeariana ...

  Due forze uguali e contrarie, cioè spinte da una stessa energia indomabile che va fino in fondo e cozzanti tra di loro perché l’una è tesa verso la conquista e il dominio delle cose di quaggiù, l’altra è mossa da un bisogno di assoluto: una schematizzazione come questa è ben lungi dall’esaurire la ricchezza dell’opera ma può suggerirne la struttura. Dall’urto di queste forze nasce il dramma, dal confronto delle due personalità e delle figure che le fiancheggiano, come di quella che compare bruscamente un istante per preparare l’urto e scomparire poi, scaturisce una lenta, progressiva, implacabile caratterizzazione delle anime, delle mentalità, delle ambizioni, degli stili di vita, dei rapporti di forza nel mondo chiuso e stagnante della provincia francese durante il primo trentennio dell’Ottocento, che un’intensa, avvolgente, abilissima suggestione di atmosfera fa vivere, o vegetare, davanti a noi. [...].

  L’interesse di accertamenti di questo ordine non è soltanto sociologico: una conseguenza più direttamente letteraria può esserne tratta. Con l’istituire un preciso rapporto fra l’ascesa dell’eroe balzachiano e l’evoluzione delle strutture della società contemporanea, essi rendono più plausibile tale ascesa nella misura in cui l’eccezionalità della congiuntura spiega ed attenua quella del profitto che l’economizzatore, l’uomo d’affari, lo speculatore ha saputo trarne.

  E confermano così quell’impressione di verità umana che, più piena forse che ogni altro libro del Balzac, ci dà Eugénie Grandet: dovuta al fatto che i protagonisti rimangono umani pur essendo figure d’eccezione, che il loro creatore li idealizza senza farli smisurati, senza mitizzarli, e, figli di Balzac, essi continuano ad appartenere a un’umanità con cui il lettore comune si i sente a livello. Dovuta anche all’abile lentezza con cui è condotto un racconto in cui gli eventi vengono preparati, portati, sostenuti da un flusso di «minuzie» ambientali che descrivono tutto, spiegano tutto, fanno la storia di tutto, contribuendo a conferire alla vicenda un carattere di quotidianità e insieme di interiorità cui l’opera deve la sua forza suadente. [...].

  Ma attorno al dramma, al «dramma che tutti esigono» ed al quale soltanto rischiava di prestare attenzione il lettore frettoloso, c’è lo sfondo, almeno altrettanto importante per l’artista [...]. Se si pensa subito a questo libro quando qualcuno parla del «realismo» balzachiano, è che dramma e sfondo vi sono fusi con un’arte che si direbbe abilissima se non vi si sentisse, dietro l’abilità ormai consumata, l’impeto e la spontaneità del genio. [...].

  La verità cui il Balzac tendeva dalle prime «scene della vita privata» (anche se la precisazione più esplicita al riguardo la troveremo in una prefazione del 1839 al Cabinet des Antiques) era una verità sintetica, in certo senso simbolica, non documentaria: che aspirava ad esser largamente significativa e rappresentativa [...], non a possedere l’autenticità dell’accaduto, dello storico. Per cui il «realismo» balzachiano [...] apriva più legittimamente la strada ad un realismo «classico» come saranno quelli del Flaubert e del Maupassant (in certa misura anche quello dello Zola), che ad un realismo «aneddotico» come quello «artista» dei Goncourt o quello dei «realisti senza stile» [...].

  Le Père Goriot inquadra in uno studio di costumi realista — di un «realismo» partecipe e vibrante, di un realismo ancora romantico e che guardando trasfigura — la descrizione di una lenta, inesorabile, fatale distruzione: quella di un uomo che è vittima di una passione che lo possiede ed alla quale in certo senso si identifica, in certa misura si riduce. [...].

  Libro abilissimo del resto, di una ricchezza che è profusione senza rischiar mai di diventar confusione. Romanzo «drammatico» anche per l’arte del dialogo — ciò che differenzia mirabilmente i numerosi personaggi messi a confronto dall’autore è la voce, il linguaggio di ciascuno — e per la composizione. Più largamente orchestrato di tutti i precedenti, anche se esso rimane fedele alle strutture del racconto balzachiano quali si ritrovavano ultimamente in Eugénie Grandet: una lenta esposizione, un’ampia parte centrale che mostra i personaggi in azione durante un periodo cronologicamente breve ma psicologicamente denso ed intenso, poi una fase — più rapida perché preparata da tutto quanto precede — che costituisce il centro drammatico dell’opera. Certo, con il Balzac le distinzioni rigorose di ordine strutturale (o di ogni ordine?) sono impossibili: nel Père Goriot sarebbe difficile trovare il momento in cui termina effettivamente l’esposizione e comincia l’azione. Vi è comunque efficacemente applicata e magnificamente illustrata quella tecnica della preparazione, della progressione e della culminazione drammatica che veniva al Balzac da Walter Scott e che è stata definita dal Bardèche come «la legge della pietra che rotola», «la combinazione di una crisi relativamente corta e di una lunga fase di preparazione»: «la massa del romanzo deve pesare sopra una scena capitale, in virtù di una specie di legge meccanica della narrazione», e «il centro del romanzo è tanto più drammatico quanto più fortemente si fa sentire il peso di ciò che precede». «Drammatico», anche se a volte, almeno alla prima lettura, la parola che verrebbe piuttosto in mente è «teatrale»: perché al teatro fa pensare la consumata abilità del narratore a tener desta e tesa fino all’ultima riga la curiosità del lettore [...].

  Il «ritorno dei personaggi» — che il Sainte-Beuve giudicò controproducente dal punto di vista dell’interesse di curiosità e di novità che il lettore di romanzi cercava, almeno alla fine degli anni Trenta, nell’opera di un romanziere; che apparirà invece al Proust come l’idea per eccellenza geniale dello scrittore — va inquadrato nella tendenza balzachiana a far partecipare il minimo particolare alla totalità immensa del suo inondo, a far approfittare, a tutti gli effetti, la parte del tutto. Agli effetti dell’interesse umano e romanzesco: i lettori hanno davanti a loro un personaggio cui il fatto che la sua vicenda non cominci né si concluda con il libro che stanno leggendo conferisce la distanza, la mobilità, le dimensioni di un vivente: una figura di cui si formano immagini diverse secondo il variare della prospettiva e dei tempi: un essere fittizio che conserva di fronte a loro un margine di incognito e di virtuale. Agli effetti anche della portata «filosofica» dell’insieme: sappiamo che il Balzac ha sempre insistito sul valore generale e il significato dottrinale della sua opera («non basta essere un uomo: bisogna essere un esterna»), forse perché, sapendosi creatore incomparabile nel dominio del concreto, sentiva i suoi movimenti impacciarsi sul terreno dell’astrazione e della teoria: certo perché, soffrendo della scarsa considerazione di cui il romanzo soffriva ancora verso la metà dell’Ottocento presso l’opinione colta, provava quotidianamente il bisogno di rivendicare la portata storica, o scientifica, o sociologica, o filosofica delle sue opere. D’ora in poi egli concepirà queste come tanti capitoli di una stessa opera, e la prefazione del 1835 alle sue Etudes de moeurs presenterà l’innovazione in funzione di quella «grande storia dell’uomo e della società» che egli sta scrivendo e che certi lettori potrebbero aver la leggerezza di prendere per una serie di romanzi e di novelle ...

  E d’ora in poi egli rimaneggerà i libri già pubblicati per stringere il più possibile i loro legami con l’insieme. I «personaggi ricomparenti» del Père Goriot, che nell’edizione Werdet e Vimont (1835) erano ventitré, finiranno così col diventare, secondo le statistiche del Canfield, cinquanta. Ma più che richiamare il passato, il nuovo sistema dei «ritorni» apre nel nostro romanzo verso il futuro. [...].

  Diversi sono la tecnica e lo spirito che troviamo, a distanza di oltre un decennio, nella Cousine Bette, opera nuova e in certo senso inattesa, anche se i due «eroi» che vi muovono tutto sono a loro volta mossi da due passioni che raggiungono l’intensità divorante e distruttrice della monomania balzachiana [...].

  Abbandonando la tecnica che gli è familiare il romanziere lancia i personaggi nell’azione dalla prima pagina, e riesce ad incuriosire, ad appassionare, a sconcertare il lettore fino all’ultima [...]. Questi personaggi d’eccezione sono largamente rappresentativi, anche se l’intensità tipica che l’autore conferisce loro li spinge (come succede spesso a Balzac) fino alla caricatura. [...].

  Ma gli eroi del Balzac sono grandi in forza non della loro biografia immaginaria, ma di quello che il loro creatore ha deciso di farne: virtù o vizio, potenza o debolezza, Grandet o Hulot, che importa l’uomo di fronte alla vicenda che utilizza, costruisce, trasfigura il personaggio? Il Balzac ha, in parte inconsapevole, l’orgoglio dell’artista sprezzante, indifferente alla qualità della materia perché conta soltanto sulla potenza che possiede di trasformarla, di lasciarle il suo marchio. [...].

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. H. de Balzac, “L’Enfant maudit ». Edition critique établie avec introduction et relevé des variantes par F. Germain, Paris, Les Belles Lettres, 1965, «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», Firenze, Anno XX, N. 1, Marzo 1967, pp. 69-71.

 

 

  Carlo Cordié, Balzac controluce, «il Resto del Carlino», Bologna, 1 Marzo 1967, p. 3.

 

  Molti sono i «miracoli» della Televisione italiana [...].

  La TV ha quindi messo in onda [...] il Conte di Montecristo [...]. E, subito dopo, ha dato in pasto serale le Illusioni perdute. Nientemeno che una trilogia di romanzi del Balzac, che ha destato più di una preoccupazione; e vari spettatori, un po’ intinti di lettere, sotto stati interrogati dai curiosi, a cominciare dagli amici e dai conoscenti.

  Alcuni sono andati a consultare il Dizionario letterario Bompiani (che ha il vantaggio di essere scritto in italiano) e, in ordine alfabetico in un volume delle opere, hanno trovato la voce vivacemente svolta da Mario Bonfantini [...]. Gli entusiasti della Comédie humaine sono serviti con notizie illustrative e l’esame delle tre parti che convergono nel formare il trittico delle Illusions perdues nella seconda edizione del ciclo stesso, quella delle «Scene della vita di provincia». Essi hanno titolo Les deux poètes, 1837; Un grand homme de province à Paris, 1839, e Les souffrances de l’inventeur, 1843.

  Balzac, si può dire, non è mai stato fuori moda in Italia, come si vede da edizioni scolastiche e ristampe popolari. Si aggiunga che, da qualche tempo, si notano in editoria testi stampati con eleganza: si citino Splendori e miserie delle cortigiane, nella traduzione di Marise Ferro e con introduzione di Vittorio Lugli (e al nostro finissimo critico si debbono altre pagine sul romanziere francese); Eugenia Grandet, con traduzione e prefazione di Maria Luisa Belleli e con sedici tavole a colori di Aligi Sassu. Il primo testo è uscito nel 1964 nella «Nuova Universale Einaudi» e il secondo, lo stesso anno, nei «Classici Curcio». Poiché del Balzac una traduzione italiana dei Contes drolatiques con illustrazioni del Dorè è data, a scelta, in dono da un grande settimanale nostro, è giusto menzionare anche un’ampia silloge de Gli allegri racconti e di Tutto il teatro del Balzac, a cura di Gianni Nicoletti, uscita dal Mursia (nel 1961 e, in seconda edizione, nel ’66) nella traduzione di A. Fortuna e del Nicoletti stesso.

  Ai giovani scolari si consiglia di leggere Eugénie Grandet nel testo francese curato da Roger Pierrot per la Casa Sansoni nel 1959 (collana «Les petits classiques français» diretta da Antoine Adam della Sorbona). Agli amatori e ai buongustai si ricorda, a complemento di altri dieci volumi, un undecimo coi Contes drolatiques preceduti dalla Comédie humaine (Oeuvres ébauchées, II – Préfaces), a cura del Pierrot e con l’aggiunta di un ricchissimo indice della stessa Comédie humaine compilato da Fernand Lotte, nella «Bibliothèque de la Pléiade», alla data del 1965. Ai collezionisti si annuncia l’edizione dei Paysans presso le Edizioni Fògola di Torino, ed a scatola chiusa, dato che in mia mano è pervenuto solo l’estratto di Franco Simone, Essai historique et critique sur «Les paysans». L’edizione deve essere stata rapidamente presentata in una rassegna televisiva, se la memoria (che ad altre cose deve però badare) non inganna.

  L’elenco ora propinato al paziente lettore è ridotto al minimo. Si tratta di opere che sarà bene conoscere anche a corredo dell’improvvisa passione conculcata dai teleschermi, strumenti di tal suggestione psichica che non si possono metter da parte con sdegnosa noncuranza.

  Trattandosi di interpretazioni connesse col gusto del nostro tempo, è meglio fare i conti in anticipo; per sapere almeno di qual veleno si debba morire (senza nessuna allusione alle cure di mitridatizzazione, alla Conte di Montecristo).

 

*

 

D'altra parte è anche giusto ragguagliare i ben intenzionati, intorno agli antidoti che di tanto in tanto compaiono in vetrina con nuove etichette, tanto più quando si tratta di prodotti originali. Per la critica basti rimandare alle pagine (non tutte recenti) di Maurice Bardèche, di Félicien Marceau, di Alain, di Ernst Robert Curtius e di altri valenti esegeti. Ma accanto ai contributi stranieri connessi con i periodici volumi dell’«Année balzacienne» (che cercano di colmare il grande vuoto lasciato dalla scomparsa del Bouteron) è da segnalare con insistenza e simpatia quanto da vari anni va pubblicando Raffaele de Cesare, anche in relazione ai suoi nutritissimi ed eruditi corsi tenuti a Milano (e a Bologna alcuni anni fa). Ai numerosi suoi contributi piace ora aggiungere quelli che concernono alcuni mesi della vita del Balzac, dal gennaio al luglio 1836. Si tratta di sette capitoli con alcune centinaia di pagine (in attesa delle altre parti a completamento della meticolosa impresa di seguire il romanziere passo per passo). Tali puntate mensili, per dir così, si trovano (citando alla rifusa per semplificare le cose) nei «Contributi del seminario di filologia moderna: serie francese» dell’Università Cattolica del S. Cuore, volumi I, II, III, IV, dal 1959 al ’66), in «Saggi e ricerche di letteratura francese» dell’Università di Pisa, volumi I del 1960, e III, del ’63, e nelle «Memorie» dell’Istituto Lombardo, Classe di Lettere, Scienze, morali e storiche, volume XXIX, ,1965,fascicolo 1 (e qui son pagine 222 per il mese di. giugno). Per toccare solo altri, anni, si veda dello stesso studioso, il Balzac a Roma negli «Studi in onore di Carlo Pellegrini», del 1963: si tratta del viaggio dell’aprile 1846.

  Infinite sono le vie per giungere al mondo di Balzac, dalla televisione all’erudizione: c’è di tutto un po’. Sappia anche il lettore, nella sua discrezione, passare di grado in grado alla comprensione di un mondo artistico della più grande importanza, e unire l’immediatezza degli strumenti audiovisivi alla lettura dei testi (originali o tradotti) e allo studio vero e proprio dell’opera letteraria e della personalità dell’autore. Le stesse ricerche biografiche di Raffaele de Cesare favoriscono la conoscenza dell’uomo Balzac, avventuroso e drammatico a volte come uno dei suoi personaggi. E non è poco.

 

 

  Marie Cordroc’h (a cura di), Balzac, in Jules Hetzel, un grande editore del XIX secolo. Da Balzac a Giulio Verne. Tradotto da Giannina Alloiso, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Tip. V. Allegretti, 1967, pp. 34-37.

 

  Balzac [...] era entrato in relazione con P.-J. Hetzel in occasione della pubblicazione delle Scènes de la vie privée et publique des animaux di cui fu attivo collaboratore. Molto presto i loro rapporti supereranno quelli fra autore e editore per dar luogo a una confidenziale amicizia, come mostrano le numerose lettere che si scambiarono dal 1840 al 1846. Nel 1841 Balzac concluse con Hetzel e i suoi soci due contratti per la pubblicazione delle sue Oeuvres complètes, col titolo La Comédie humaine, ma Hetzel, più che Charles Furne o J.-J. Dubochet, fu l’anima dell’impresa, occupandosi della produzione e della illustrazione di questa grande edizione. Nel 1842 Hetzel pubblicò altre due opere di Balzac, le Notes remises à MM. les députés composant la Commission sur la propriété littéraire e una edizione illustrata dell’Histoire de Napoléon racontée dans une grange par un vieux soldat. Per quanto spesso in difficoltà finanziarie, Hetzel aveva firmato numerose cambiali per aiutare Balzac, acquistandogli, per esempio, molti scritti destinati a una nuova raccolta illustrata, Le Diable à Paris. Sono delle cambiali firmate da Balzac a Hetzel e passate da quest’ultimo a un creditore esigente, che provocarono appunto la loro rottura nel 1846. Nel 1845, Hetzel aveva ceduto a Furne i suoi diritti per una nuova edizione della Comédie humaine, e pubblicato con il titolo Paris marié degli estratti delle Petites misères de la vie conjugale illustrati da Gavarni. Dopo la morte di Balzac, Hetzel ebbe parecchie contestazioni con la sua vedova su dei vecchi debiti. Quando acquistò da Dutacq i diritti di pubblicazione della scelta di Pensées de Balzac, Hetzel scriveva a Dutacq: «Io devo essere nel piccolo numero di quegli uomini nei quali Balzac, anche dopo la freddezza che era seguita ai nostri buoni rapporti, conservava una assoluta fiducia. Con grande ingenuità mi lodava per quello egli chiamava la mia rovinosa buona fede. Ho di lui cento lettere che l’attestano».

 

  37. Contratto concluso tra Balzac, Furne, Hetzel, Paulin et Dubochet, Parigi, 2 ottobre 1841 — Fotografia dell’originale conservato nella Biblioteca Spoelberch de Lovenjoul, A. 245, fol. 34-35.

 

  Contratto per la pubblicazione delle opere complete di Balzac. Sotto il titolo generale di La Comédie humaine, esso sostituisce un contratto concluso il 14 aprile 1841 tra Balzac da una parte e Hetzel, Dubochet e un banchiere di nome Sanches dall’altra. Balzac riceveva un acconto di 15.000 franchi su una percentuale di 50 centesimi per volume, per una tiratura di 30.000 copie. Il numero dei volumi non era fissato: Paulin si ritirò dall’affare dopo il secondo volume. Furne pubblicò da solo una nuova tiratura nel 1846 e, nel 1848, un volume supplementare [...].

 

  38. Lettera di Balzac a Hetzel [Passy, ottobre 1841]. 4 pp., indirizzo.

 

  Subito dopo la firma del contratto di cui sopra, l’edizione di La Comédie humaine fu messa in macchina presso gli stampatori Béthune et Plon. In questa lettera Balzac stabilisce una lista di illustrazioni per la sua opera scegliendo accuratamente gli illustratori, sperando (senza tuttavia ottenerlo) di «decidere Ingres a farci Eugénie Grandet». [...].

 

  39. Abbozzo della prefazione di La Comédie humaine, autografo di mano di Hetzel. 3 cc.

 

  Balzac, prima di scrivere nel luglio 1842, il celebre Avant-propos de la Comédie humaine, aveva pensato di domandare una prefazione successivamente a Charles Nodier, a Hippolyte Rolle (il critico del National) e a George Sand. Alla fine di giugno del 1842, Hetzel gli aveva scritto: «Non è possibile che una vostra edizione completa, la cosa più grande che si sia osato fare delle vostre opere, esca in pubblico senza qualche vostro scritto che la preceda [...]. Ho letto quello che avevate cominciato; mi è sembrato meglio di tutto il resto, di un tono migliore». I tre foglietti esposti contengono, di mano di Hetzel, un testo assai simile a quello dell’inizio della prefazione. Nel verso del secondo foglietto, ugualmente di mano di Hetzel, si legge: «prefazione rifatta». Si tratta probabilmente della copia rimaneggiata da Hetzel del testo più sopra citato, cominciato da Balzac. È dunque su suggerimento di Hetzel, e con il suo aiuto, che Balzac scrisse l’Avant-propos de la Comédie humaine. «ventisei pagine che [lo] avevano affaticato più di un’opera». [...].

 

  40. Oeuvres complètes de M. de Balzac. La Comédie humaine ... Paris, Furne, J. J. Dubochet et Cie, J. Hetzel et Paulin, 1842-1846, 16 vol. in-8 - B. N., Impr., Y2, 15754-15770.

 

  Il nome di Paulin compare dopoil tomo II (il tomo XVII, complementare, è stato pubblicato dal solo Charles Furne nel 1848). In testa al tomo I (pp. 7-32), figura l’Avant-propos datato luglio 1842. Non se ne fa menzione sul frontispizio poiché il volume era stato pubblicato a dispense, 10, da marzo a giugno 1842; ogni dispensa, in media di tre fogli (quarantotto pagine) era venduta a 50 centesimi, ovvero a 5 franchi il volume. Ogni volume di questa edizione fitta, illustrata, stampata su carta bella, conteneva la materia di parecchi volumi delle edizioni precedenti. Le copertine dei primi tre volumi fanno notare che vi si trovano per 15 franchi (e in più degli inediti) romanzi e novelle pubblicati in 11 volumi al prezzo di 66 franchi. Balzac e Hetzel preoccupati di lottare con i contraffattori belgi, prendevano così parte alla rivoluzione dell’editoria francese cominciata verso il 1840; aumento delle tirature, allargamento del mercato, migliori metodi di produzione permettevano il ribasso dei prezzi di vendita. I volumi da 1 a 16 sono stati pubblicati con centosedici incisioni di legno fuori testo, incisioni dovute ai più celebri illustratori romantici: Tony Johannot, Gavarni, Meissonnier, Henry Monnier, Bertall, Daumier, ecc. ...

 

  41. Lettera di Henry Monnier a Hetzel, martedì 9 [agosto 1842 (?)], 1 p.

 

  Henry Monnier fu uno degli illustratori della Comédie humaine.

  «Vi pregherei di inviarmi tutto quello che è uscito di Balzac, due volumi, credo, più la dispensa di Ursule Mirouët. Avrete alla fine della settimana la grande Nanon tutta incisa da un uomo di mia fiducia».

  Il tomo V della Comédie humaine che conteneva Ursule Mirouët e Eugénie Grandet, è segnalato nella Bibliographie de la France del 15 aprile 1843 (il I tomo era stato pubblicato nel luglio 1842). Due disegni di Monnier: il curato Chaperon e Mme de Portenduère illustrano Ursule Mirouët. Balzac soddisfatto scriveva a Monnier: «Il tuo curato Chaperon va molto bene». [...]. Anche «la grande Nanon» di Monnier compare nel tomo V.

 

  42. Les Ressources de Quinola, comédie en 5 ac.tes, en prose, et précédée d’un prologue par M. de Balzac. Paris, H. Souverain, 1842, in-8 - Collezione Bonnier de La Chapelle.

 

  Esemplare che reca nell’occhietto questa dedica autografa:

 

Al mio caro Hetzel

da Balzac.

 

  Rappresentata per la prima volta all’Odéon, il 19 marzo 1842, Les Ressources de Quinola furono accolte male dal pubblico e dalla critica.

 

  43. Louis Lambert, suivi de Séraphîta par M. H. de Balzac ... Nouvelles éditions revues et corrigées. Paris, Charpentier, 1842, in-18 - Collezione Bonnier de La Chapelle.

 

  Esemplare con dedica autografa:

 

A testimonianza dell’amicizia dell’autore

H. de Balzac.

 

  44. Histoire de l’empereur, racontée dans une grange par un vieux soldat, et recueillie par M. de Balzac. Vignettes par Lorentz. Gravures par MM. Brévière et Novion. Paris. J.-J. Dubochet et Cie, J. Hetzel et Paulin, 1842, petit in-16 - B. N., Impr., Z. Larrey 160.

 

  Edizione messa in vendita nel dicembre 1841 (datata 1842) al prezzo di 1 franco. È la prima edizione separata, fatta con l’approvazione di Balzac, di questo estratto del Médecin de campagne che, fino dalla sua pubblicazione nel 1833, era stato oggetto di molte contraffazioni popolari.

 

  45. Paris marié, philosophie de la vie conjugale par H. de Balzac, commentée par Gavarni. Paris, J. Hetzel, 1845, petit in-8 - Collezione Bonnier de La Chapelle (tav. II).

 

  Questo volumetto estratto dalle Petites misères de la vie conjugale è stato pubblicato in 20 dispense a franchi 0,15. Comprende venti illustrazioni fuori testo e quaranta vignette incise su legno nel testo. Dapprima annunciato sotto il titolo Philosophie de la vie conjugale (come in Le Diable à Paris dove era uscito nelle dispense dell’agosto 1844) fu intitolato Paris marié perché formasse collezione con Parti dans l’eau e Paris à table di Eugène Briffault.

 

 

  V.[ictor] del Litto, Préface, in Honoré de Balzac, Études sur Stendhal … cit., pp. 11-19.

 

  Le 25 septembre 1840 a paru la troisième livraison de l’éphémère Revue Parisienne fondée par Balzac et dont il assurait à lui tout seul la rédaction. La plus grande partie — 69 pages sur 124 — en était consacrée, sous le titre Études sur M. Beyle (Frédéric Stendhal [sic]), à la Chartreuse de Parme.

  Cet article a joui, et jouit encore, d'une juste célébrité. Balzac y décernait à son contemporain un brevet de gloire. Il n’hésitait pas à qualifier son roman de «chef-d’œuvre». Il ajoutait: «M. Beyle a fait un livre où le sublime éclate de chapitre en chapitre ... ». Et, comme il était d’un tempérament exubérant, il renchérissait: «... il a écrit Le Prince moderne, le roman que Machiavel écrirait s’il vivait banni de l’Italie au XIXe siècle».

  Certes, Balzac n’est pas le seul qui ait parlé, et d’une manière élogieuse, des œuvres de Stendhal du vivant de ce dernier. Le romancier grenoblois a été beaucoup plus lu, et apprécié, qu’on ne le croit d’ordinaire. Le recueil que nous préparons des articles dont il a été l’objet et des témoignages de ceux qui ont été directement ou indirectement en relation avec lui réservera sous ce rapport plus d’une surprise. L’idée, si bien enracinée, d’un Stendhal inconnu et méconnu relève en grande partie de la légende. Il est vrai que Balzac déplore, en parlant de la Chartreuse de Parme, que «depuis six mois que cette œuvre surprenante a été publiée, il n'y ait pas un seul journaliste qui l’ait lue, ni comprise, ni étudiée, qui l’ait annoncée, analysée et louée, qui même y ait fait allusion ...». Mais ces paroles ne doivent pas être prises au pied de la lettre: elles sont démenties par les faits. Et s’il exprime son intention de «faire une bonne action» en rendant «justice à un homme d’un talent immense», on doit moins l’attribuer à un défaut d’information ou à une forme de présomption qu’à son désir de rendre un hommage éclatant au génie de Stendhal.

  Plus d’un siècle s’est écoulé depuis. Les études stendhaliennes n’ont cessé de progresser s’attachant à l’investigation de plus en plus fouillée de la personnalité et de l’œuvre de l’écrivain. Cependant l’article de Balzac n’a rien perdu de son intérêt. Si quelques-uns des jugements formulés par l’auteur de la Comédie humaine sont incertains et approximatifs, il n’en reste pas moins vrai qu’il a été le seul à l’époque qui ait saisi l’un des principaux aspects de la Chartreuse de Parme: son actualité, à savoir les multiples attaches de l’affabulation avec l’histoire contemporaine. Une constatation analogue s’impose en ce qui est de es remarques pertinentes sur le personnage à première vue si déconcertant qu’est Ferrante Palla: elles viennent à l’appui de l’idée que l’actualité dont est imprégné le roman ne constitue pas le fond du décor, mais exerce son influence sur l’intrigue et, surtout, sur la psychologie des différents personnages. Même le classement liminaire que Balzac fait de la littérature de son temps en trois grandes catégories: la littérature des images, soit l’école plus proprement romantique, la littérature des idées, dont selon lui, Stendhal est «l’un des maîtres les plus distingués», enfin la littérature éclectique, où il se range lui-même, ce classement, tout en étant par trop schématique, doit retenir l’attention, car on ne peut manquer d’y voir une tentative d’expliquer l’évolution du roman au XIXe siècle dans la filière de la tradition du siècle précédent.

  C’est dire la place de tout premier plan que l’essai de Balzac occupe dans l’histoire de la critique.

  Passons maintenant à l’autre volet du diptyque: la réponse de Stendhal. Ici, une mise au point s’impose, l’opinion courante d’après laquelle, en prenant connaissance de l’article de Balzac, il aurait été «bouleversé de bonheur», se révélant inacceptable à l’examen.

  Le consul de Franca à Civitavecchia reçut le numéro de la Revue Parisienne le 14 octobre 1840. La joie qu’il éprouva en le parcourant n’égala que sa surprise. Il faut toutefois se garder de croire que sa joie fut sans mélange. Balzac assortissait ses louanges d’un certain nombre de réserves portant sur la structure du roman et sur le style. Les premières n’ont pas étonné Stendhal. L’éditeur de la Chartreuse de Parme ayant exigé de lui qu’il «sabrât» sans pitié la dernière partie sous prétexte que le deuxième volume était trop gros, il s’était appliqué, dès le mois de novembre 1839, à apporter des corrections à son ouvrage et il avait même envisagé de refondre quelques épisodes.

  Ce qui, au contraire, le toucha au vif, ou, plus exactement, le chagrina, ce furent les griefs que Balzac lui faisait relativement à son style. «Le côté faible de cette œuvre, déclarait-il, est le style ...». Et encore: «Sa phrase longue est mal construite, sa phrase courte est sans rondeur. Il écrit à peu près dans le genre de Diderot, qui n’était pas écrivain ...».

  Or, Stendhal était conscient d’avoir un style personnel, bien supérieur à celui de la plupart des écrivains du temps, grands et petits. Il avait beaucoup réfléchi, au cours de son long apprentissage littéraire aux questions de style. Le reproche de mal écrire dut provoquer en lui un choc. Aussi fut-il plongé dans l’embarras et la perplexité: il se trouvait dans l’obligation de remercier Balzac et, en même temps, de s’expliquer, voire se disculper, sur ce point précis.

  Le surlendemain, 16 octobre, il jeta fiévreusement sur le papier un brouillon de lettre. Le relisant à tête reposée, il le trouva plein d’un «égotisme effroyable» et y apporta de nombreuses retouches. Peu satisfait encore, il rédigea, les jours suivants, un troisième brouillon afin d’avoir une «lettre plus légère». Et c’est, paraît-il, la copie de ce troisième brouillon qu’il fit partir, non sans pousser un soupir de soulagement, le 30 octobre. Précisons que le texte définitif n’est point parvenu jusqu’à nous. On peut même se demander si Balzac jamais reçut la lettre de Stendhal. En effet, ce dernier lui écrit six mois plus tard, à la date du 4 avril 1841: «M. Colomb (…) a une longue lettre à vous adressée par ma reconnaissance en octobre 1840 …».

  Il est indispensable d’entrer dans tous ces détails parce que Romain Colomb, le premier éditeur de la correspondance de Stendhal, poussé par le désir de donner un texte cohérent, a amalgamé à tort et à travers différentes parties des brouillons précités. Ce texte, si artificieusement construit, a été repris par Adolphe Paupe. Mieux avisé, Henri Martineau a publié l’un après l’autre, les trois brouillons sans chercher à reconstituer à tout prix la lettre telle, qu’elle a pu effectivement être expédiée à Balzac.

  A notre tour, nous donnons ici le texte intégral des trois brouillons. La collation des manuscrits nous a permis de redresser un certain nombre de lectures. Nous reproduisons aussi, ce qu’on n’avait jamais fait, les notes marginales de Stendhal et les principales variantes. L’intérêt des unes et des autres est indéniable. Elles contribuent à mettre en lumière la prudence et le soin avec lesquels Stendhal a pesé ses mots. Elles trahissent la peine qu’il a eue pour composer sa lettre et exprimer sa pensée. Ces brouillons sont un document littéraire; ils sont surtout un document humain.

  L’article de Balzac — qui n’a été réédité dans son intégralité qu’un très petit nombre de fois et qui, à l’heure actuelle, est pratiquement introuvable en librairie — et la réponse de Stendhal forment un ensemble d’une importance primordiale. Tout lecteur de Stendhal, tout critique se doit de les connaître. […].

 

 

  Lucio Delnò, I libri che hanno “sanno di bruciato”. Le Sollazzevoli historie di Balzac, «Men. Settimanale degli uomini», Roma, Anno II. Una serie di puntate da febbraio a maggio (?) 1967.

 

 

  L’Editore, Prefazione. Balzac sconosciuto, in Honoré de Balzac, Les Contes Drolatiques … cit., p. 5.

 

  Balzac non ha bisogno di essere né illustrato né prefato. È da domandare invece quanti, fra i milioni e milioni di lettori di Balzac, conoscano o abbiano letto Les contes drolatiques; pochi, rispondiamo noi, e pochissimi fra quelli delle ultime generazioni.

  Il grande e immortale scrittore francese scrisse queste novelle, e con l’intenzione di scriverne a centinaia, in un momento di artistica vena e forse per diletto. Egli stesso, nel prologo, dice perché; lo si legga, ché noi non ce la sentiamo di aggiungere nulla. Spetta al lettore, che molto riderà a crepapelle a ogni novella, farsi un giudizio; si troverà di fronte a un Balzac inaspettato e sconosciuto, e che ha fatto ridere, e fa ridere ancora, tutta la Francia e quanti leggono il francese.

  I traduttori hanno fatto meglio che potevano; han tradotto letteralmente in un italiano senza pretese d’imitare gli scrittori boccacceschi dal Boccaccio in poi; si sono limitati a dare un tono prosastico qua e là antiquo, e ciò per non mettere il lettore contemporaneo nei guai di una lettura pretenziosa e faticosa.

  Riteniamo di aver fatto cosa utile e dilettevole a stampare questo Balzac; il lettore, stufo di una narrativa carica di alienazioni e priva di allegria, potrà, finalmente, ridere.

 

 

  Friedrich Engels, Il realismo di Balzac, in Karl Marx, Friedrich Engels, Scritti sull’arte. A cura e con un’introduzione di Carlo Salinari, Roma-Bari, Laterza editori, 1967 («Universale Laterza», 64), pp. 159-163.

 

  Balzac, che io ritengo maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella “Comédie humaine” un’eccellente storia realista della società francese, poiché, sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa contro la società nobiliare che, dopo il 1815, si era ricostituita ed era ritornata a inalberare, nei limiti  delle sue possibilità, il vessillo della “vieille politesse française”. Egli descrive come gli ultimi avanzi di questa società, per lui esemplare, andavano a poco a poco soggiacendo all’assalto del ricco e volgare villan rifatto o venivano da lui corrotti”. [...].

 

 

  Giansiro Ferrata, I due Balzac, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, anno 44, n. 1, dal 1° al 7 gennaio 1967, pp. 30-31.

 

  Nel nuovo teleromanzo, che è stato realizzato in Francia, si contrappongono le due nature, quella leggera e volubile e quella goffa ma ricca di energie spirituali, dell’autore della «Commedia umana».

 

  Nel 1837 quando pubblica il romanzo I due poeti col quale si inizia il ciclo delle Illusioni perdute, Balzac ha trentotto anni. E’ nella piena maturità anche del suo lavoro letterario, dopo un lungo periodo di tentativi incerti, di romanzi «a peso» buttati giù per guadagnarci da vivere e di più ambiziose iniziative commerciali, il cui esito fu sciagurato — un periodo venuto a concludersi nel ’29 con il primo romanzo che portava il nome dell’autore, L’ultimo sciuano (ribattezzato poi Gli sciuani). Nel ‘31 usciva fra l’altro La pelle di zigrino, nel ‘33 l’Eugenia Grandet, nel ’34 Papà Goriot, opere a cui già parecchie altre, diventate in breve famose, si aggiungevano anno per anno. Con la sua eccezionale capacità di lavoro e resistenza alla fatica, Balzac si era ormai decisamente avviato all’impresa della Commedia umana, come egli avrebbe definito per la prima volta nel ‘41 l’insieme delle opere narrative da lui scritte (a parte quelle ripudiate) o allora messe in progetto: 137 secondo la lista del ‘45.

 

Quattro uomini.

 

  «Insomma — scrive Balzac a madame Hanska nel ‘44 — ecco la partita che sto giocando. Quattro uomini avranno avuto una vita immensa: Napoleone, Cuvier, O’Connell, e voglio essere io il quarto. Il primo ha vissuto della vita stessa dell’Europa; si è inoculato una serie di armate! Il secondo ha sposato la terra! Il terzo si è fatto entrare un popolo nella carne! Per mio conto, avrò portato un’intera società nella testa!». («Società estesa a più di duemila personaggi» —, specifica il curatore dell’edizione de La Pléiade, Marcel Bouteron — le cui vicende si ripercuotono dall’una all’altra parte degli «studi di costume», degli «studi filosofici», degli «studi analitici», trittico nel quale Balzac distribuì l’enorme repertorio della Commedia umana). Le Illusioni perdute sono il ciclo narrativo in senso stretto, più direttamente portato a offrirci linee e punti di prospettiva generale per le opere, per la vita stessa di Balzac. Da una parte la ricostruzione cronologica del lavoro e dei vari momenti di pubblicazione per i tre romanzi che compongono questo ciclo, ci rivela un seguito di coincidenze con il maturare dell’ideologia legata al gigantismo, o enciclopedismo, della commedia balzacchiana nel suo aspetto complessivo. Dicevo che il primo romanzo in questione, I due poeti, esce nel ’37: proprio allora Balzac annuncia alla donna più rappresentativa tra le molte protagoniste e comprimarie dei suoi rapporti amorosi (quella stessa signora Hanska da lui infine sposata nel ‘50, poco prima di morire), l’intenzione di raccogliere sotto un unico titolo, Studi sociali in quel momento, la massa delle sue opere fatte e da fare.

 

Unità nel diverso.

 

  L’idea di riunirle invece sotto l’insegna della Commedia umana gli si presenta, abbiamo detto, nel ’41, e prende forma definita nel ’44-45; erano usciti da poco tempo, rispettivamente, il secondo e il terzo romanzo del ciclo, Un grand’uomo di provincia a Parigi, il David Séchard poi chiamato Le sofferenze dell’inventore, e rappresentano con gli Splendori e miserie delle cortigiane di gran lunga i principali risultati del lavoro di Balzac in quegli anni. Ebbene, la materia trattata in questa trilogia e nelle opere dove si ritrovano alcuni dei suoi maggiori personaggi, dagli Splendori e miserie delle cortigiane a qualche altra, porta in sé nel modo più chiaro il variare e l’intrecciarsi o il rispondersi a distanza di situazioni, ambienti, caratteri largamente formativi di un’unità nel diverso, di una «discordia concorde» nelle vicende e nel linguaggio, che aiutano subito a capire perché Balzac abbia dato alle sue opere il titolo generale di Commedia umana.

  La prima e l’ultima parte delle Illusioni perdute si presterebbero benissimo a chiamarsi, senz’altro, scene della vita di provincia, una tra le molte denominazioni sovrapposte dall’autore ai titoli dei vari romanzi. La seconda parte, invece, come gli Splendori e miserie delle cortigiane, dove Lucien Chardon de Rubempré conclude tragicamente le proprie avventure, rientrerebbe con naturalezza tra le scene della vita parigina. Angoulême e Parigi diventano, nell’insieme della vicenda, quasi il contrapporsi di due Francie del primo Ottocento, dove lo studio della società, o insomma la Commedia umana, trova reciproche illuminazioni. Romanticismo e realismo: analisi storica e sociologica immersa profondamente in due zone o addirittura in due «mondi del lavoro» antitetici, per molti aspetti, come la piccola industria tipografica ad Angoulême e il giornalismo di più corrotta indole «moderna» a Parigi. Aristocratici, borghesi, artigiani di provincia: intrico vertiginoso (almeno per l’ex provinciale Lucien) di ceti e costumi parigini poco dopo la Restaurazione. Tutto questo, nelle Illusioni perdute, è già una traccia per alcuni grandi riferimenti all’indagine nel vivo di un’epoca, come Balzac adesso si riprometteva di svolgerla da ogni lato della propria esperienza e intelligenza.

 

L’aquilotto.

 

  I due protagonisti, i due «poeti» della volontà di vivere, nella prima giovinezza, con fedeltà assoluta ai loro ideali, Lucien Chardon e David Séchard, costituiscono intanto anche le immagini rappresentative di una duplicità nella natura dello stesso Balzac, certamente da lui considerata nel delineare gli elementi fondamentali della vicenda. Lucien, l’ambizioso e affascinante Lucien, l’«aquilotto» che si invischierà nella rete di una Parigi troppo complessa per i suoi fragili artigli, è un «alter ego» del Balzac dimostratosi più soggetto alle passioni, agli impulsi disordinati e chimerici, non esclusivamente in età giovanile. Alla vigilia delle Illusioni perdute, nel ’36, si era risolta in un disastro l’impresa giornalistico-finanziaria della Chronique de Paris, acquistata temerariamente dallo scrittore, che non era pur ancora riuscito a liberarsi dai debiti contratti nove anni prima, improvvisandosi come gerente di un’azienda tipografica, e si era anzi sprofondato in nuove difficoltà con la sua vita dispendiosa e la smania per gli oggetti d’arte. Anche le debolezze di Lucien con le donne, il suo trovarsi non a dirigere ma a subire le conseguenze erotico-sentimentali delle sue stesse attrattive, hanno, per il romanziere, una parte di fondamento autobiografico. Ma assai più intimo risulta il legame con l’altro protagonista, David Séchard, il «bue» nei confronti dell’«aquila» Lucien Séchard è ricco — nell’apparente sua goffaggine non limitata all’aspetto fisico — di energie spirituali. Si tratta di una figura collocatasi, con tutto il proprio peso, «al disotto» dell’altra, così alata, leggera, volubile, per tenere disponibile nel suo rapporto con l’uomo Balzac una rivincita morale che emerge nell’ultima parte del ciclo. Poco importano, di per sé, questi elementi autobiografici, nello sviluppo dei motivi che rendono le Illusioni perdute uno tra i maggiori risultati del narratore. Meritano tuttavia anch’essi di venir ricordati, come uno stimolo a sentire l’eccezionale rispondenza tra il mondo oggettivo e quello soggettivo, nel superiore equilibrio di un’opera ancora meravigliosamente moderna.

 

 

  Giancarlo Franceschetti, Un quadro di Gérard fonte probabile dello «Chef- d’oeuvre inconnu», «Studi francesi», Torino, 33, Anno XI, fascicolo III, settembre-dicembre 1967, pp. 407-425.

 

  Considerato il numero consistente e l’ampiezza delle note al testo, riportiamo il testo dello studio omettendo la loro trascrizione.

 

  Le Chef-d’oeuvre inconnu, un enigmatico racconto di Balzac di cui sono irreperibili manoscritti e bozze, come è risaputo ha quale protagonista Frenhofer, un pittore tradizionale che diviene inaspettatamente ermetico nella vecchiaia. Balzac ce lo presenta come un pazzo e l’immagina vissuto fra il Cinque e il Seicento, però circoscrive l’azione nel ristretto arco di tempo che va dal dicembre 1612 al marzo 1613.

  Questo pittore il quale, nella breve narrazione balzacchiana, ci viene raffigurato anziano ma straripante di vitalità esaltata e pontificante, ricco, soddisfatto, generoso, insigne nella sua arte ma estroso e imprevedibile, e che s’impadronisce di prepotenza del primo piano in un racconto assai travagliato, costituisce l’unico «personnage fictif» in un esiguo ma autorevole consesso di pittori, introdotti per la prima volta, non senza meraviglia per i lettori, nella Comédie humaine. Personaggio reale è infatti Mabuse, non più in vita nel racconto, ma del quale Frenhofer figura l’unico discepolo-idolatra, e personaggi reali sono Porbus e Poussin, i quali ebbero effettivamente, nell’epoca 1612-1613, coerenti con le indicazioni fornite da Balzac per la sua finzione: rispettivamente quarantadue anni e diciotto.

  In merito al comportamento di Frenhofer, all’ultima tela di Frenhofer ed alla novella stessa di Balzac, bisogna dire che siamo dinanzi ad una triplice crux interpretum. Per conto nostro, abbiamo fatto un’esperienza logorante. Anche supponendo di possedere un’idea nitida del comportamento e del messaggio pittorico del vecchio mentecatto, avvalorata da una pazientissima collazione delle varianti e degli avatars a cui fu assoggettato il racconto da un narratore che, quanto a insoddisfazione, fece quasi concorrenza al suo pittore; anche supponendo di aver trovato la versione che elimina senza appello ogni altra soluzione ugualmente probabile su cui la mente si era precedentemente soffermata poco o molto, purtroppo all’atto pratico, ossia quando si tratta di stendere un rendiconto circostanziato e documentato, le nebbie introdotte ad arte da Balzac anziché dissiparsi tendono a riprodursi! Lectio facilior, o lectio difficilior? Più si ha familiarità con le consuetudini di lavoro e la forma mentale stessa di Balzac, e più appare attendibile che la strada della soluzione non s’identifichi con la via comunemente battuta e che sembra ovvia, ossia l’interpretazione esterna, che, dinanzi alla dichiarata follia del protagonista, si contenta di dichiarare a sua volta la follia, non procedendo oltre la constatazione: pressappoco come il compito di un giudice si considera pacificamente finito, di fronte a un perentorio non luogo a procedere.

  Noi sosteniamo che Balzac, col suo gusto innato per il travestimento, ha creato un così magistrale intreccio di sostanze e accidenti, dati aderenti alla realtà e dati illusori e avulsi dalla realtà, sincerità c simulazione nei personaggi, che il tentare di ricostruire Le Chef-d’oeuvre inconnu è impresa simile alla riproduzione e, ciò che è più arduo, la descrizione veritiera e convincente, di uno sfondo lontano, di un paesaggio in cui le montagne si confondono con nuvole e brume. E lo strano è che la lotta con gli elementi tanto più somiglia a una lotta vittoriosa quanto meno siamo analitici, proprio come nel campo fotografico, dove la nitidezza è inversamente proporzionale all’ingrandimento. Ne abbiamo una controprova nel fatto che, prima o al difuori dei poderosi sforzi compiuti dal Laubriet (che oggi primeggia fra gli esegeti del nostro racconto, anzi, strettamente parlando, può essere riguardato come l’unico esegeta specifico esistente), anche le occasionali e sommarie intepretazioni (sic) che ne fornirono, in studi non esaurienti, il Bonfantini o il Croce o il Pierrot o il Mortier, suonano come interpretazioni di chi ha capito tutto ciò che è dato capire nel messaggio pittorico ultimo del folle Frenhofer. E cioè, se non andiamo errati nell’individuare il denominatore comune di quelle rapide intuizioni, anche prima che intervenisse nella vessata questione il Laubriet, era concordemente acquisito che Frenhofer è un pazzo imperscrutabile, ma anche un precursore incompreso. Conclusione non compromettente, facile (troppo, direi) e che, nel contempo, non preclude più approfondite esplorazioni, pur contenendo implicita una confessione d’impotenza.

  Col Laubriet l’impegno di scandagliare la novella, con tutte le sue oscurità e incongruenze, appare spinto al massimo. Eccoci informati sulla tecnica pittorica di Frenhofer, la propedeutica pittorica improvvisata da parte di Balzac, le fonti e la fortuna dello Chef-d’oeuvre inconnu. [...].

  Il Laubriet [r]icostruisce il personaggio del protagonista, magari anche sconfinando nel terreno psicopatologico e somatologico per verificare a posteriori la demenza, ma non ci dimostra il fallimento del racconto, le sproporzioni fra struttura e poesia, le preoccupazioni utilitaristiche del narratore, in cerca di alibi per nascondere l’inconfessabile e, quindi, impegnato più in ingegnose organizzazioni che in rese poetiche; e finalmente le sfocature di cui soffrono, sacrificati dal preminente Frenhofer, i personaggi di Poussin e Porbus, ma più ancora Gillette, preziosa e umile comparsa senza volto. Questo era essenziale, e questo nessun critico ha finora saputo o voluto svolgere.

  [...]. Comunque, adesso altro ci preme, e di questo vogliamo parlare prevalentemente, rimandando a poi corollari e deduzioni. Noi abbiamo creduto di individuare una fonte a tutti ignota dello Chef-d’oeuvre inconnu in una tela notissima dell’Ottocento, opera di un pittore illustre e positivamente conosciuto da Balzac, e raffigurante una personalità muliebre di primo piano. Si tratta della Récamier di Gerard.

  I riscontri, pur proponibili fin dall’edizione del 1831, divengono secondo noi conclamati nella versione definitiva. E anche questo ci sembra indicativo. Il racconto, che già in origine aveva in Hoffmann una componente appariscente, e difatti già ravvisata, nel travaglio di rifusione ed ampliamento a cui il narratore lo assoggettò venne a caricarsi di una nuova componente ispiratrice, più occultata ma più complessa. Una tela reale, di palpitante attualità e fama negli anni Trenta del secolo scorso, serve a Frenhofer quale archetipo ideale del suo magistero pittorico. Ad essa l’esaltato maestro di pittura fa riferimento sia quando stronca la Maria Egiziaca di Porbus, sia quando, cedendo alle pressioni degli estimatori, consente, se non a mostrare, almeno a descrivere parzialmente il suo capolavoro; sia, infine, quando descrive (secondo i critici che ci hanno preceduto) o simula di descrivere (secondo la nostra tesi massimalista) la Belle-Noiseuse finalmente mostrata a Porbus e Poussin.

  Esaminiamo pertanto questa tela. Quando si dice: gli imponderabili ... Allorché, come dicevamo, Frenhofer si degna di anticipare una descrizione del capolavoro supremo tuttora negato agli sguardi, noi osserviamo che, nello spirito della sua precettistica tanto insistente nel raccomandare il fondale (cioè lo stacco delle figure e degli oggetti dall’atmosfera, in cui tanto carente si era dimostrato Porbus), egli si esalta stranamente a decantare un fiocco da tenda, che si suppone esista nella famosa tela. Egli esclama infatti: «Tu serais tenté de prendre le gland des cordons qui retiennent les rideaux».

  Ecco precisamente l’imponderabile che può guidarci ad un esame comparativo della tela di Gérard e degli elementi paralleli, desumibili dall’edizione ampliata dello Chef-d’oeuvre inconnu, che rimane poi la definitiva. Nella Récamier di Gérard esiste, in verità, un tocco notevole che lo rende palpabile e di prepotente evidenza in primo piano.

  Ma procediamo con ordine. In tale pittura si nota subito una nobile e severa scenografia neoclassica. Due colonne si ergono sul lato destro, di sbieco, e una tenda rossastra maschera il paesaggio retrostante (un parco, una casa) tesa dietro la figura muliebre, fra il capitello della colonna in secondo piano e il capitello di una lesena al margine sinistro del dipinto. In simile scenario, privo d’intimità domestica e alquanto pretenzioso, campeggia la dama.

  Direi che si tratti di un’istantanea predisposta, poiché la donna appare provvisoriamente seduta su un divanetto Impero, anziché coricata come la vediamo in altri ritratti, in cui invece è in atteggiamento di riposo o in lettura. Ciò che conferisce vibrazione di vita al quadro è precisamente quell’instabilità della positura, e anche il fatto che la veste, sebbene copra l’intera persona, non è in ordine. La mano sinistra è posata mollemente, quasi per una velleità subconscia di trattenere la coperta color oro antico, che sta sempre più scivolando fuori posto, mentre però l’attenzione della dama pare rivolta altrove, impegnata cioè in discorsi o pensieri più elevati e degni di lei. La mano destra, a parte la rara bellezza del pollice, lungo e sottile, è un prodigio di vita, perché sembra esprimere, nel molle abbozzo di apertura delle dita, un gesto persuasivo che completi con grazia un discorso pacato. Tutto però è dominato da una tensione vaga, verticale, che fa immaginare la bella donna in procinto di alzarsi, forse per suggellare, col mutamento di posizione, l’argomento espresso a voce.

  Già ho accennato all’evidenza aggressiva del fiocco in bilico sulla spalliera del divano, davanti alla spalla destra della donna. Volendo sottilizzare, non è ben chiaro se detto fiocco appartiene al cuscino o al cordone della tenda: in quest’ultimo caso, che direi improbabile, l’aderenza di dettaglio rispetto al testo balzacchiano sarebbe perfetta. Ma che importa? Anzi, è forse il caso di dire che un’aderenza parziale, anziché totale, in questo dettaglio, costituisce argomento più valido per il nostro assunto. Già Madame Récamier faceva parte delle donne che avevano creduto di riconoscersi, non precisamente lusingate, nella Foedora della Peau de chagrin. Anzi, si dà il caso che quest’ultimo romanzo fosse contemporaneo alla stesura originaria dello Chef-d’oeuvre inconnu! Quindi, speriamo di non far la figura di chi vuol provare una tesi ad ogni costo, se ribadiamo che niente appare più verosimile di qualche ritocco, introdotto a bella posta da Balzac nel soggetto sfruttato. Né l’alterata funzione del fiocco dev’essere unico elemento inteso a «démarquer» la tela di Gérard. Frenhofer, ad esempio, a un certo momento citerà come elemento della sua Belle-Noiseuse un treppiede, inesistente nel quadro di Gérard. Sconveniente e compromettente sarebbe stata una troppo fedele somiglianza, e d’altro lato sappiamo quanto siano diverse le consuetudini creative di Balzac [...].

  Ma per seguitare l’esame parallelo [...], possiamo sottolineare, ai fini della nostra tesi, nella Récamier di Gérard, un intero grappolo di altri elementi notevoli. Cominciamo dai bellissimi occhi, ignari della tragica predestinazione alla cecità senile. Notiamo che, laddove in altri ritratti la dama teneva il capo eretto ed esprimeva con lo sguardo una fierezza regale che, in concomitanza con acconciature più spiccatamente neoclassiche, le induriva perfino i lineamenti, nel ritratto di Gérard il capo è mollemente inclinato, e lo sguardo si fissa sull’osservatore da sotto in su, con soavità pensosa e quasi umile. Insomma, la donna appare conscia ma non superba della sua bellezza, cosicché, grazie all’espressione più distesa, le stesse fattezze del volto paiono acquistare in morbidezza.

  L’ultimo rilievo fa scaturire un’osservazione sulle guance. Chi ravvisa più, nel ritratto di Gérard, il volto quasi angoloso col quale la stessa donna appare nel ritratto forse più diffuso oggi nell’iconografia manualistica, che fu dipinto nel 1826 da Dejuine e raffigura la dama all’Abbaye-aux-bois? Gérard ha valorizzato la rotondità delle gote non meno di quanto fece David nel famoso quadro «protestato». Inoltre, ciò che più preme a chi, per così dire, guarda con un occhio Gérard e con l’altro Balzac, è una tenue ombra sulla guancia destra: effetto raffinato e difficile che, se non costituisce illusione di un osservatore prevenuto dalla lettura balzacchiana, verrà riprodotto in ben due luoghi distinti, e non di sfuggita, nello Chef-d’oeuvre inconnu.

  Ci sembra del pari positivo che non possa sfuggire il felice stacco assunto dalle spalle della dama rispetto alla tenda rossastra, ancor più accentuato dai lineamenti del braccio sinistro nel tratto fra la spallina della veste da camera e il gomito. E si potrebbe aggiungere che la spallina suddetta, essendo caduta, incrementa un «négligé» che, per voler riuscire naturale ad oltranza, finisce col riuscire eccessivo. E ciò non rende un servizio a colei che, dopo tutto, era una rispettabile dama titolare di uno stimato e celebre salotto, e forse può avere incoraggiato l’ispirazione balzacchiana, orientata verso uno sfruttamento degradante del suo modello figurativo. In fin dei conti, qui si tratta di provare che il ritratto di una donna bella e rispettabile ha ispirato il ritratto (più descrittivo che figurativo) di una donna bella, ma non rispettabile, che doveva costituire il monumentum aere perennius e la fonte di più o meno limpidi vagheggiamenti del vecchio Frenhofer, personaggio inventato su misura da Balzac. Grosso modo, esistono a parer nostro almeno dieci elementi di parallelismo fra Gérard e Frenhofer, ma per il momento, a qualcuno di essi, accenniamo appena in via di anticipazione e non senza riserve. Per esempio, l’illusione prestigiosa della respirazione è una risorsa ben vantata, con ingenua esaltazione, da Frenhofer nel suo capolavoro: non sappiamo però se nel quadro di Gérard risorsa analoga possa risaltare a prima vista, qualora l’osservatore sia sgombro da prevenzioni balzacchiane. Tornando ai riscontri più palesi, notiamo che, sebbene il quadro di Gérard non possa dirsi marcatamente chiaroscurato come, poniamo, la Vocazione di San Matteo del Caravaggio (più familiare a noi Italiani) o il Saint Joseph charpentier di Georges de La Tour (per citare uno stupendo quadro del Louvre più familiare ai Francesi), tuttavia vi sono zone di luminosità abbagliante. Si osservi il candore della veste! Lo stesso candore, quasi spento, dopo l’interruzione determinata dalla coperta color oro antico, fa una capricciosa ricomparsa sotto le ginocchia della donna. Anzi, in tale regione il disordine è così organizzato, che la veste sovrabbonda a terra come uno strascico, ma, certamente di proposito, lascia visibili i piedi nudi, larghi e di robustezza poco femminea, ma con dita singolarmente esenti da deformazioni (penso per contrasto a ciò che rovina la Primavera di Botticelli) e con alluci di finezza così poco comune, analogamente ai pollici, che non riesco a immaginarli ignorati da quel Frenhofer il quale, per il relativo riscontro, adoprerà una buona volta i pennelli e i colori, e non le solite ciance precettistiche! E avremo, nel suo caos, un’isola splendida, chiara e rivelatrice.

  Eccoci al punto. Quella carenza nell’abbigliamento, inconsueta e quasi provocante, forse mirava a far uscire la Récamier dalla storia contingente, per farla entrare in una atemporale iconografia neoclassica. Non dimentichiamo lo scenario. Ma c’è di più: sotto il Direttorio, l’allora giovanissima Récamier, insieme con altre pioniere di eleganza spregiudicata, aveva appunto esteso il neoclassicismo alle calzature. Non arrivò, come Joséphine, a inanellare i piedi, ma ruppe il ghiaccio coi sandali «à cru». E ciò non poté non costituire un oltraggio, impunibile ma effettivo e conturbante, a quel falso pudore secolare che considerava innominabili, e tanto meno ostensibili, gli umili ma innocenti strumenti dell’umana deambulazione. Posando, poi, per Gérard e gli altri pittori, la Récamier aggrava tale anticonformismo, perché mette in bella mostra i piedi completamente nudi.

  Ripeto: siamo al punto, specialmente quanto a Balzac. Difatti l’ultimo elemento esaminato nel quadro di Gérard ci pone in tangenza con una pista impensabile di referenze, tematiche e lessicali, nell’ambito dell’opera balzacchiana. Senonché, le piste di una certa specie impongono cautele, per non compromettere la dignità e la serietà di un contributo. È vero che nel 1966 certi tabù sono caduti da tempo, ma all’epoca di Balzac [...] la provocazione della sensibilità sussisteva, tanto evidente e documentabile, che non si può assolutamente disconoscerla [...]. Voglio però aggiungere, se è lecito un inciso poco pertinente [...] che conferiva una indebita carica erotica all’ultimo elemento illustrato del quadro gérardiano: il «piede femminile».

  L’esame del quadro, con esso, sarebbe esaurito, se non fosse che l’elemento «sgabello» costituisce un annesso importantissimo. Infatti lo sgabello su cui la Récamier posa il piede sinistro illumina di luce diretta un passo balzacchiano capitale, ma non citabile integralmente sia per la fastidiosa verbosità, sia per la gravitazione libertina, che non si può in alcun modo devitalizzare. E ne riceve luce riflessa la novella dominata da Frenhofer. La derivazione immediata del binomio «piede + sgabello» esula dal cosmo della Comédie humaine e pertiene ad una sede espressamente libertina e, si può dire, contemporanea: i Contes drolatiques. [...]. Ebbene, nel Péché vesniel si ravvisa appunto il tema di un piede femminile posato su uno sgabello, suscitatore di un’incredibile procella sensuale. [...].

  Ora, secondo me, l’idea madre del capolavoro sconosciuto (per esso intendendo tanto la tela quanto la novella) trae origine dalla scalza Récamier. Ma è un’idea destinata alla clandestinità: si tratta di un’occultata bramosia, inappagata e ossessiva, che Balzac con una mano scarica su Frenhofer, e con l’altra bolla di follia e maschera con sotterfugi. [...].

  Ma il tema numero uno non deve farci perder di vista gli altri elementi del parallelismo Gérard-Frenhofer che qui si vogliono esporre. Procediamo dunque ai riscontri di ritorno. Cioè, se finora abbiamo illustrato Gérard in funzione di Frenhofer, passiamo adesso al procedimento inverso, e illustriamo, con un occhio sempre pronto alla verifica su Gérard, i passi concreti della precettistica frenhoferiana che ci sembrano concorrere a dar vita alla nostra tesi.

  Cominciamo dalla critica del vecchio maestro alla Maria Egiziaca di Porbus. Questo pittore, non di prim’ordine ma, nell’epoca 1612, già maturo e qualificato, nella finzione balzacchiana figura degradato a perfezionando, il quale sottopone, in stato di soggezione, una sua opera (magnifica) al pittore immaginario, presentato come molto più anziano, consumatissimo nell’arte sua e, soprattutto, invadente e pieno di sé. Ora il personaggio fittizio, Frenhofer, viene evidentemente istituito portavoce di istanze che sono balzacchiane. Frenhofer troverà carenti, nell’opera di Porbus, certe risorse le quali per noi ricostruiscono, a vista d’occhio, la Récamier di Gérard, anche se si tratta di un discorso didattico tenuto in astratto e [...] affatto avulso dalla concreta realizzazione di Frenhofer sulla tela, dovunque non si tratti del piede ma di altre regioni anatomiche, o elementi scenografici, o abiti, o suppellettili, con le rispettive risorse. E aggiungiamo che, quantunque, circa il materiale svolgimento, le teorie frenhoferiane a contenuto gérardiano abbiano subito un importante arricchimento nella stesura definitiva del racconto, è innegabile che la stessa versione originaria già esprimeva in forma esplicita, benché compendiaria, ideali pittorici tali da rinviarci a Gerard. [...].

  A mio avviso è certissimo che Balzac è affetto dal complesso di Psammetico. [...].

  Claustrato in un regime di operosità casta, ipertrofica e monocorde [...], con sussulti di mondanità e megalomania in una vita prevalentemente occupata in un lavoro creativo «matto e disperatissimo», Balzac, quando concepisce Le Chef-d’oeuvre inconnu, ha una vita affettiva che non è normale né quanto a oggetto, né quanto a soddisfazione. Lo comprendo perfettamente se, nell’epoca in questione, in cui frequenta sia Gerard, sia l’ambiente della Recamier, sente il bisogno di crearsi rifrazioni effimere, clandestine e raffinatissime in sede letteraria, che Freud avrebbe chiamato sublimazioni della libido. Né trovo strano, una volta acclimatato in uno strano ordine d’idee, che in quell’epoca egli concepisca, in Frenhofer, un suo double il quale funga da strumento figurativo del suo edonismo clandestino: un pittore, cioè, il quale raffiguri in esclusiva l’oggetto di così peregrino e ossessivo feticismo.

  Del resto, mi pare che un moderno abbia la sensibilità, la cultura e l’occhio stesso preparati si da poter trovare significativo a prima vista, e perfino interessante, il capolavoro sconosciuto di Frenhofer. Nella sensibilità di un moderno vi sono sedimenti lasciati da intere scuole pittoriche e produzioni letterarie. Quel che è enigmatico in Frenhofer, è esplicito in Renoir, pittore, e in Hugo, poeta. Per di più un moderno, a lungo andare, può scoprirsi sensibilizzato, anziché assuefatto, di fronte ai milioni di copie frenhoferiane ambulanti che ad ogni estate aggrediscono il suo sguardo, non sempre infelicemente, né innocentemente, provenendo da calzature femminili non più ermetiche ma complici di una cosmesi procace, sconosciuta all’Ottocento.

  [...] Frenhofer sa quel che vuole esprimere, e lo esprime meravigliosamente, facendogli il caos e la nebbia intorno per meglio esaltarlo.

  In funzione di tale tesi, tutto diventa logico nel comportamento di Frenhofer: sprezzo ironico verso gli antichi pittori i quali, a scanso di fraintendimenti, scrivevano «currus venustus» o «pulcher homo» sulle loro opere; commiserazione per i pittori della «classe» di Porbus, i quali si affannano a disegnare una donna, laddove il pittore geniale deve vederla, e saperne cogliere la proteiforme espressività; riluttanza a mostrare il quadro incompiuto, del quale ogni sguardo estraneo perpetrerebbe una profanazione; dichiarazione, non più professionale ma umana, di essere più amante che pittore; esaltazione sul piano professionale e sul piano umano allorché appare Gillette; felicità, degenerante in orgasmo equivoco, quando la seduta è terminata e il capolavoro è compiuto. E finalmente, nel ripensamento del 1837, diventano logiche le stesse reazioni pendolari, provocate in Frenhofer dalla stroncatura radicale di Poussin: prima la costernazione, poi la protesta esplosiva, infine la tragedia del fallimento riconosciuto, che procede dall’accasciamento a una nuova esplosione: il supremo furore distruttore e autodistruttore.

  Ma Balzac fin dal 1831 conosce Hoffmann! Quindi, se Gérard gli serve da alibi descrittivo, la pura e insondabile pazzia di Berklinger (il quale descrive una quantità di cose introvabili in una tela vergine) gli serve da alibi psicologico, che dovrebbe interdire ogni indagine. Balzac sa, ma i lettori non lo devono capire, che in Frenhofer c’è più calcolo che follia. E in ogni caso egli non è più folle di Psammetico, il quale fa cercare per tutto l’Egitto la proprietaria di un prezioso sandalo. Egli pure, in una folgorazione istantanea, identifica la parte col tutto. Il re egiziano contrae un matrimonio sulla cui solidità nessuno metterebbe la mano sul fuoco; il pittore di Balzac, passato l’effimero orgasmo davanti a una tela che per lui non è una tela ma «une femme», crollerà per effetto del colpo basso, ma preciso, che gli assesterà il geniale Poussin nell’edizione 1837: su quella tela, «tôt ou tard», il vecchio capirà che «il n’y a rien». Anche troppo presto, purtroppo, egli se ne rende conto, disilluso come pittore e come neo-Pigmalione.

  Aggiungiamo un chiarimento contenutistico che ci sembra necessario: è credibile, a fil di logica, che un pittore tecnicamente eccelso come Frenhofer, capace di ravvivare con pochi tratti fulminei il dipinto imperfetto di Porbus, rimanga bloccato per tanti anni, nella lavorazione del capolavoro, per un travaglio di ordine tecnico? No! Non si tratta di involuzione, a parer mio. La questione è diversa: è la modella idonea che, per un pittore così esigente, si rivela praticamente irreperibile. Infatti, abbiamo al riguardo non solo saltuarie dichiarazioni da parte di Frenhofer, ma perfino, quale testimonianza di ben maggior peso, una crisi di sconforto: il vecchio dispera di trovare la donna che sblocchi il capolavoro dal punto morto. Se Porbus, segnalandogli la bellezza perfetta di Gillette, non avesse fatto capitolare Frenhofer dopo deboli schermaglie, quest’ultimo, in pieno Seicento, si sarebbe imbarcato bellamente per l’Asia! Gillette, in un momento in cui Balzac diventa terribilmente reticente, consente il compimento del capolavoro evitando viaggi intercontinentali. E io scommetterei che nella misteriosa seduta Frenhofer non le ha chiesto che di scalzarsi. Infatti essa non ha di che ritenersi insidiata, ma umiliata, sì.

  Questa trama del racconto, che credo si possa ricostruire, nella versione del 1831 era già mascherata, ma non abbastanza. Prova ne sia che, davanti al vecchio estatico, quando il capolavoro è finalmente di pubblico dominio, non solo Porbus e Poussin, benché diversi per maturità, esperienza e temperamento, si rendevano conto delle «jouissances» localizzate nell’esiguo «morceau de toile» che conosciamo, ma la narrazione terminava così. Quale imprudenza! Per il nostro occhio, assuefatto all’oscurità dell’edizione 1837, la versione del 1831 riesce di chiarezza solare. Se Balzac non avesse rielaborato il racconto, ingigantendo, con più massiccio ricorso a Gérard, il vaniloquio di Frenhofer (non solo tecnicamente coerente, come ci ha dimostrato il Laubriet, ma anche, e specialmente, con funzione simulatrice e dissimulatrice, come purtroppo al Laubriet è sfuggito), penso che più di un lettore, senza bisogno di lenti speciali, avrebbe individuato la filigrana podomaniaca del cosiddetto conte fantastique uscito nel 1831 su «L’Artiste», dove il neo-Pigmalione, anziché bruciato, pareva felice.

  Per fortuna [...] nella più sofisticata versione del 1837 si rimedia in extremis istituendo Poussin portavoce del ben noto, e inatteso, commento demolitore. Così il lettore o dimentica il piede, o ritiene di doverlo ignorare, e si convince di aver da fare con un pazzo puro di cuore come Berklinger. A coronare il suo sviamento, poi, sopraggiunge l’inedita tragedia, terribile e attendibile, che si ha anche il diritto di non percepire come qualcosa di posticcio e utilitaristico.

  Qui ha termine la conclusione che, prevalentemente contenutistica, potrebbe preparare il terreno a un’indagine supplementare, più esauriente e pertinente sui tre piani in cui ci sembra sussistere tuttora una lacuna della critica: piano esegetico, piano estetico, piano psicologico. Movendoci con maggiore agio in tali direzioni, fra i principali accertamenti si registrerebbe il fallimento dei caratteri umani scolpiti dal pur esperto narratore. Per converso, si riscatterebbe da un immeritato oblio quel Frenhofer nelle cui vene scorre tanto sangue balzacchiano: certo non meno che in Rastignac o in Mercadet. Il vecchio pittore è una proiezione, deformata e senile ma tremendamente vitale, della psicologia balzacchiana nella particolare colorazione dell’affettività repressa e abnorme. Carattere potentissimo e immaturo, ricchissimo e contraddittorio, vecchio nume della pittura con libidini da collegiale, prepotente e generoso, gioviale esteriormente e tormentato intimamente, degno di ammirazione e pietà, Frenhofer ha avuto tutto dalla vita: talento, salute, energia, brio, gloria e perfino ricchezza, ma non l’equilibrio affettivo. E in ciò ravvisiamo il trentenne Balzac, il lavoratore forzato e casto della Comédie humaine. Ma mentre questi si riduce a introdurre, in quantità minime e sapientemente occultato come merce di contrabbando, l’oggetto del suo feticismo nelle pieghe clandestine dell’opera letteraria — ora come sogno di Louis Lambert o del paggio René, ora come tentazione del filosofo misogino ospite di Fatmé, ora come argomento matrimoniale per Rastignac — il vecchio potente e infelice si riduce a mendicare dai propri pennelli l’irraggiungibile Venere scalza, amletico e illuso Pigmalione.

  Resta, comunque, da stabilire se un carattere di tal fatta basta a riscattare, dal limbo delle opere mancate, una novella in cui, per consapevolezza autocritica, proprio la sollecitazione più vitale, che è di natura edonistica, è stata deliberatamente soffocata e resa irriconoscibile.

 

 

  G., Teleromanzo da Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 92, N. 3, 5 gennaio 1967, p. 13.

 

  Secondo teleromanzo a puntate. nel giro di quattro giorni (non si ha, evidentemente, il timore di inflazionare il genere). Domenica, esordio dei Promessi sposi; ieri sera, sul secondo canale, puntata d’apertura della riduzione per TV di un’opera famosa di Honoré de Balzac, Illusioni perdute, adattamento e regia di Maurice Cazeneuve. coproduzione della Rai, della TV francese e del secondo canale tedesco. Tanto concorso non sembrerà troppo per affrontare il monstrum Balzac, anche se del ciclo Illusioni perdute, composto di tre larghe narrazioni distinte ma in continuità (I due poeti, Un grand’uomo di provincia a Parigi, Le sofferenze dell’inventore), e scritto fra il 1837 e il 1843, verrà utilizzato solo il materiale dei primi due episodi.

  Dopo Manzoni, Balzac. A rigore, ci sarebbe da compiacersi di questo afflusso di grandi scrittori: e dopotutto, viene da dire, Balzac è una tale splendida selva da sopportare con minor danno le violente potature, le riduzioni, gli impoverimenti che il piccolo schermo fa per forza subire alla pagina. Ma con tutto l’apparecchio romanzesco, con il ricorso non raro a effetti di feuilleton, un libro come Illusioni perdute offre la pulsazione insopprimibile di una realtà visionaria più vera della stessa vita, che è appunto la forma dello stile balzacchiano.

  Purtroppo nella prima delle sei puntate vista ieri sera, di tutto ciò non resta nemmeno la traccia più labile. E’ vero che nel raccontare la storia del debole, bello, ambizioso poeta di provincia Lucien Charton (sic) o meglio de Rubempré, la dedizione al presunto genio della sua famiglia e dell’amico David, la protezione amorosa della contessa de Bayeton (sic) etc., il regista-riduttore doveva per forza tralasciare molto. Ma ne è venuto fuori, almeno per ora, un mediocre romanzo ottocentesco. con personaggi convenzionali come burattini, con meccanismi alquanto banali. Dov’è quel fiato, quel «più grande del vero» che sono tipici di Balzac? Una vignetta stinta, senza personalità neanche nel travisamento. Fra gli interpreti, tutti francesi, spiccava solo Anne Vernon.

 

 

  G., «Illusioni perdute». TV: Non è Balzac ma va un po’ meglio, «Corriere della Sera», Milano, Anno 92, N. 9, 12 gennaio 1967, p. 12.

 

  La seconda. puntata delle Illusioni perdute di Balzac ridotte per il piccolo schermo, ha rappresentato un miglioramento innegabile rispetto alle battute iniziali: per scrupolo di coscienza il cronista deve annotarlo. Non staremo a misurare se e quanto dello specifico balzacchiano sia passato dalle pagine alla narrazione per immagini curata da Maurice Cazeneuve (si tratta come già fu detto, di una coproduzione italo-francese-tedesca): ma se la puntata della scorsa settimana per la sbiaditezza della definizione psicologica, per la genericità del modo di raccontare, non faceva vedere proprio nessuna differenza fra Balzac e un qualunque feuilleton ottocentesco, ora i tempi si sono un po’ più stretti, la materia sembra meglio disporsi, la figura di Lucien, fra debolezza e ingenuità giovanile, quella della signora di Bargeton fra affetto e vanità, vengono fuori meglio.

  S’intende è la pura favola che ha la meglio sul tono: ma almeno queste scene delle delusioni di un giovane «grand’uomo» di provincia a Parigi, dove la protettrice l’ha portato dopo lo scandalo, toccano una certa esteriore efficacia.

 

 

  D. G., Balzac esordisce sul Secondo («Almanacco» per il Primo), «Stampa Sera», Anno 99, Numero 3, 4-5 Gennaio 1967, p. 7.

 

  Sul Secondo alle 21,15 prende il via Illusioni perdute di Honoré de Balzac portate sul piccolo schermo da Maurice Cazeneuve, sceneggiatore e regista quarantaquattrenne che è un po’ il Sandro Bolchi della tv francese. Il riferimento è appropriato perché, come ti è già detto, questo programma è stato definito la vetta più alta della tv d’Oltralpe, con un bilancio di due milioni di nuovi franchi che al consuntivo si rivelò di sette, cioè circa 900 milioni, pressappoco quanto si dice sia costato I promessi sposi (ma purtroppo qui a sostenere la spesa è stata solo la Rai-tv). [...]. La trama è abbastanza fedele alla narrazione di Balzac pur presentando solo i primi due dei tre episodi che compongono Illusioni perdute: «I due poeti» e «Un grand’uomo di provincia a Parigi»; il terzo «Le sofferenze dell’inventore» è stato omesso essendosi calcolato che per far stare tutto il romanzo sarebbero occorse venti ore di trasmissione.

  L’azione è situata ad Angoulême negli anni della Restaurazione. Lucien Chardon, giovane e bellissimo poeta, figlio d’un farmacista ma a cui la madre ha trasmesso il titolo nobiliare de Rubempré, vive con lei e con la sorella Eva, sognando la gloria ed amando, corrisposto, l’ancor giovane contessa Naïs de Bargeton. Nel salotto di lei, il più brillante della città, cerca di raccogliere i primi lauri con la lettura dei suoi versi ed intanto freme di gelosia verso un altro corteggiatore, l’altezzoso barone de Chatelet e freme per il fidanzamento della sorella con Davide Séchard, suo amico sì ma di estrazione popolana.

 

 

  D. G., Don Chisciotte sul Primo Balzac per il Secondo, «Stampa Sera», Torino, Anno 99, Numero 27, 1-2 Febbraio 1967, p. 7.

 

  Ai fedeli del teleromanzo il Secondo offre alle 21.15 la quinta puntata di «Illusioni perdute» di Honoré de Balzac nell’accurata trascrizione televisiva di. Maurice Cazeneuve, il Bolchi della tv francese. Un racconto attento, scrupoloso, fedele al testo ed al ritmo del grandioso edificio letterario balzachiano, di cui si è adattata per il piccolo schermo una piccola parte soltanto (due episodi dell’opera originale), ma estremamente lenta, fredda, senza vibrazioni. O forse dipende, confessiamolo, dalla nostra ignoranza su quella società francese della Restaurazione inquadrata dalle telecamere? Stasera faremo la conoscenza della terza delle protagoniste femminili dopo Naïs de Bargeton (Anne Vernon) e Madame d’Espard (Nadia Gray): è l'attricetta Coralie, personaggio interpretato dalla bella Elisabeth Wierner. Di lei il deluso poetino Lucien, passato al giornalismo ed alla critica drammatica, scrive un elogio che prelude ad un amore, il secondo della sua vita.

 

 

  D. G., Spettacolo di calcio sul Primo «Illusioni perdute» per il Secondo, «Stampa Sera», Torino, Anno 99, Numero 39, 15-16 Febbraio 1967, p. 9.

 

  Sul Secondo, alle 21,15 andrà in onda la settima ed ultima puntata del romanzo sceneggiato Illusioni perdute che il regista Maurice Cazeneuve ha ricavato dalle prime due parti dell’opera di Honoré de Balzac. Volendo tirare le somme prima che cali il sipario su questo primo colosso della televisione francese (costato 7 milioni di nuovi franchi, di cui circa un terzo pagati dalla Rai-tv) non si può nascondere che l’esito è apparso piuttosto deludente. Vi avrà anche contribuito il doppiaggio, tutt’altro che impeccabile, lo spezzettamento in sette episodi di 50 minuti d’un teleromanzo realizzato in quattro puntate di 90, ma, a parte alcune ottime sequenze, il ritmo pesante, lentissimo, inutilmente minuzioso non è riuscito affatto avvincente. Un’interpretazione onesta, ma priva di calore, nonostante il «cast» tutt’altro che disprezzabile che includeva noti attori di teatro e di cinema. Forse il meno convincente è stato, tutto sommato, il protagonista, il giovane troppo bello ma scarsamente virile Yves Renien, nella marsina ora dimessa ora fastosa del poetino Lucien Chardon de Rubempré che pare aver intenerito soltanto un’esigua minoranza di pietose dame, lasciando perfettamente indifferente il grosso delle telespettatrici. Lamentosa e per nulla balzachiana, infine, la voce fuori campo di Carlo D’Angelo. Stasera assisteremo al fallimento parigino dell’illuso provinciale. La vendetta degli ex-colleghi in giornalismo del transfuga Lucien è implacabile. La sera del debutto di Coralie si rivela un autentico disastro: la carriera artistica della ragazza è irrimediabilmente compromessa. E compromesso è per lui anche il titolo nobiliare tanto desiderato da anteporre al materno predicato. Ferito da un avversario in duello, Lucien viene trasportato in pessime condizioni a casa di Coralie. Per curarlo essa non esita a lavorare tutte le sere come comparsa in quello stesso teatro che ha segnato la fine dei suoi sogni artistici. Lucien lentamente guarisce, ma lo sforzo di Coralie è stato superiore alle sue forze e la ragazza s’ammala. Per salvarla bisognerebbe portarla in montagna e non ci sono soldi. Disperato Lucien chiede un prestito a Loutreau (sic) che gli propone di vendere a un editore il suo romanzo. Dalla vendita del romanzo Lucien riesce a ricavare però soltanto degli effetti che tenta inutilmente di scontare presso qualche usuraio. Alla fine, disperato e amareggiato, il giovane va da Camusat (sic); sarà proprio da lui che riceverà la somma. Coralie potrà morire serenamente. A lui non resterà che tornare ad Angoulême, povero e sconfitto. A questo punto il teleromanzo si conclude mentre Illusioni perdute prosegue in realtà con il terzo episodio «Le tribolazioni dell’inventore» come sanno gli acquirenti del «tascabile» pubblicato per l’occasione da un accorto editore. L’unico, forse, a non avere motivo di lamentarsi. Il libro infatti si è venduto. Per qualcuno è stata la scoperta di Balzac.

 

 

  Giuliano Gramigna, Pinocchio con il complesso, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XXIII, N. 18, 21-22 gennaio 1967, p. 3.

 

  [...] Balzac rivisitato. [...].

 

  Lasciamo da parte «I promessi sposi», che sono un «luogo sacro» (e giustamente) della nostra letteratura: ma proprio nello stesso periodo in cui compariva sui teleschermi l’adattamento dei gran libro, prendeva il via la riduzione di un famoso ciclo balzacchiano: «Illusioni perdute», formato da narrazioni distinte ma continuate: «I due poeti»; «Un grand’uomo di provincia a Parigi», «Le sofferenze di un inventore». Non si tratta qui di riproporre la vecchia domanda se il trasferimento di un testo letterario dalla pagina allo schermo, televisivo, o cinematografico, e quindi al fruimento di una platea (ipotetica) assai più vasta, inviti poi ad andare a trovare (o ritrovare) nel volume la realtà, autentica del romanzo o del racconto: se insomma molli spettatori si trasformino in lettori proprio in virtù di quello stimolo.

  In questi giorni Garzanti ha pubblicato in due volumi maneggevoli ed eleganti le «Illusioni perdute», nella traduzione di Argia Micchettoni, con un’eccellente notizia biografico-bibliografico-critica. Ecco che la domanda tende a spostarsi: tante, così diverse e magari incongrue occasioni, non possono suggerire anche a chi non abbia aspettato ora per farsi balzacchiano, una lettura nuova, insomma a luci diverse, del libro?

  Quello della mutabilità dei grandi romanzi è spunto insieme ovvio e appassionante. Si capisce che, come organismo che vive nel tempo e che intrattiene rapporti con altri organismi mutevoli, proprio generazionalmente (i lettori), il libro cambia: le «Illusioni perdute» non si dice per un contemporaneo di Balzac, ma anche solo per un lettore degli anni del Simbolismo sono altro da quelle che scopre un lettore d’oggi, dopo Lukàcs e lo strutturalismo. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, non sono tanto le valutazioni storiche o di costume a mutare, insomma la favola, o per lo meno il loro mutamento non è così determinante; quanto il modo della percezione della forma del libro, del suo modo di articolarsi e di essere.

  A rigore, due letture distinte della stessa opera da parte di una medesima persona si risolvono in due opere diverse. Tale capacità di «spostamento» che un libro (si parla qui sempre di libri d’alto livello, apparentemente chiusi, non d’abbozzi potenziali) possiede potrebbe indurre a una sorta di scetticismo, di relativismo. In realtà bisogna dire che i grandi libri si spostano come corpi celesti, non a caso ma secondo traiettorie, leggi che sono intrinseche alla loro natura e che generazioni e generazioni di lettori non finiscono mai di scoprire.

 

 

  Pietro Isgrò, La ghigliottina per Honoré de Balzac, «La Sicilia», Catania, Anno XXIII, N. 46, 16 febbraio 1967, p. 10.

 

  Col ritorno dello sconfitto Lucien alla natia Angoulême il video ha finito di mortificare ieri sera Honoré de Balzac. Tutti gli scrittori che salgono sul patibolo della TV vengono inevitabilmente ghigliottinati. Delle loro opere non rimane che un canovaccio sfruttato per esigenze di massa. E’ come se scremassero il latte e lo dessero a bere ai telespettatori: una bevanda con pochissima sostanza. In «Illusioni perdute» Balzac ne esce completamente scremato. Avvilito da una sceneggiatura approssimativa, il grande scrittore francese dal filtro del video appare come un mestierante o pennaiuolo da strapazzo, che affastella parole per il piatto di minestra.

  Il fatto più singolare di questa trascrizione italo-francese-tedesca consiste nell’avere concentrato gli sforzi sugli aspetti meno felici dell’arte balzacchiana lasciando in ombra, addirittura trascurandoli, quelli più riusciti e significativi. In Balzac c’è un più o meno latente contrasto fra il narratore-inventore e il moralista-ritrattista, una discrepanza a tutto vantaggio di quest’ultima faccia. Nell’introduzione alla «Commedia umana» edita da Casini, Pietro Paolo Trompeo. scrive: «Credo si possa affermare con sicurezza che in Balzac l’ambientista, il ritrattista e lo storico si lascino dietro di gran lunga il narratore-inventore: quanto questi è arruffone, tanto quelli sono vigorosi, intelligenti e profondi». Ebbene la versione televisiva del romanzo di Balzac, dell’Omero della borghesia egoista e affarista, risulta una copia maldestra di ciò che in Balzac stesso appare artificioso e intollerabilmente sdolcinato.

  E’ ben noto come molti romanzi del pletorico scrittore francese vengano banalizzati da grossolani trucchi di mestierante. Gli sceneggiatori e il regista del lavoro tev (sic; lege: televisivo?) si sono calati, a pie’ pari, in questo alveo di poesia contraffatta, di caratterizzazione di tipi estremi e improbabili. E anche qui un altro difetto di Balzac, trasportato con uguale perizia nel teleschermo. Balzac indubbiamente fu un poeta, ma un poeta combattuto da un moralismo eccessivo, autodistruttivo. Spesso i vari caratteri che lo scrittore vuole rappresentare (l’affarista, l’arrivista, l’avaro, il dissoluto) si trasformano in personaggi che guastano la struttura del racconto, la dimostrazione di un assunto preciso.

  Nelle «Illusioni perdute» televisive questo pericolo diventa costante, si tramuta in disastrosa realtà. Il giovane Lucien de Rubempré arrampicatore sociale ante litteram nella Parigi della Restaurazione, dell’affermarsi e consolidarsi del dominio borghese, è una marionetta senza quinte, senza sfondo. Non esiste la descrizione dell’ambiente, la localizzazione storica concreta in cui fatti e figure si muovono. Se Balzac fu il Tacito — più che l’Omero — della borghesia francese, colui che descrisse come un poeta storico (se ci passate l’espressione) la società francese durante la prima metà dell’Ottocento, non vediamo come in una trascrizione tv di testo balzacchiano possano tralasciarsi questi aspetti storiografici.

  Non vale l’obiezione — mossa persino da Baudelaire — secondo la quale Balzac fu un visionario. Scrive Pietro Paolo Trompeo: «Visionari a loro modo erano Tacito e Saint-Simon, della cui testimonianza non potete fare a meno per il quadro della corte imperiale romana e di quella francese sotto il Re Sole e la Reggenza. E il loro caso prova che i visionari possono veder meglio dei professori di storia». Fallita quindi l’ambientazione storica del racconto non si poteva pretendere di salvare il romanzo esclusivamente con una trama romantica e melensa, peraltro svolta in modo poco abile. Il regista ha puntato tutte le sue chances sul movimento, sul ritmo, sulla interpretazione degli attori. Ma è stato come attraversare l’Oceano in zattera.

 

 

  N. Jonard, Les romans de jeunesse de Verga. Influences et confluences, «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», Firenze, Anno XX, fascicolo I, marzo 1967, pp. 12-15.

 

 

  Giovanni Macchia, Balzac e la strada del romanzo, «Strumenti critici. Rivista quadrimestrale di cultura e critica letteraria», Torino, Giulio Einaudi editore, Anno I, N. 2, febbraio 1967, pp. 131-157.

 

  Si mangia molto nei romanzi di Balzac. I personaggi mangiano quasi quanto nei romanzi di Flaubert[1]. In Illusioni perdues c’è un giovane (è Vautrin che racconta) che aveva presa l’abitudine di mangiare la carta e, segretario del barone di Goertz, fece scomparire un giorno tra i denti un trattato tra la Svezia e la Russia. Si mangia molto e si parla anche molto, di denaro soprattutto, bene o male guadagnato. Eppure Balzac affrontò gravi fatiche prima di costringere i suoi personaggi a mangiare, a vestirsi, a guadagnare, che vuol dire a vivere la vita d’ogni giorno. Spingere un personaggio tra gli ingranaggi dell’esistenza, farlo camminare a sua insaputa, nelle ore di una giornata: questa operazione così semplice, che avrebbe distrutto i vizi parassitari degli «eroi», non riuscì ai suoi inizi nemmeno a Balzac.

  In un romanzo giovanile incompiuto, Falthurne, rimasto inedito fino al 1950[2], egli scriveva: «Dans les romans de nos jours, les auteurs s’inquiètent peu de l’estomac de leurs héros, ils leur font faire des courses, ils les enveloppent dans des aventures qui ne laissent pas plus respirer que le lecteur, et jamais ils n’ont faim. En cela ils ne ressemblent guère à l’auteur. C’est à mon avis ce qui décrédite le plus ces ouvrages; mange-t-on dans RenéEvidentemente era più facile rappresentare un eroe che un uomo comune.

  Ma, con tutte le sue critiche ed i buoni propositi, la produzione giovanile di Balzac è fitta di esseri che «non hanno mai fame» e che non pensano né a guadagnare, né a mangiare, né a vestirsi. «Avant d’en arriver à cet unique souci des peintures exactes [Eugénie Grandet, Les Parents pauvres, Le Père Goriot], il s’était longtemps perdu dans les inventions les plus singulières, dans la recherche d’une terreur et d’une grandeur fausses»[3]. Il paradosso di un romanziere impegnato è quello di mangiare su personaggi che non mangiano.

  Vi sono nella carriera degli scrittori inizi folgoranti. Gli inizi di Balzac furono vili, quasi tetri, addirittura umilianti. La stessa sovrabbondanza della sua produzione – Balzac fu sovrabbondante fin da ragazzo – le dà un carattere di facilità grossolana: come di un mestierante che sia tale prima d’aver imparato il mestiere. Non c’è lo stento, la fatica che dà nobiltà anche ad un fallimento. Si è costretti a dar ragione a quel professore del Collège de France, amico di casa Balzac, il quale, letto un suo dramma su Cromwell, si espresse gravemente con una di quelle frasi che s’incontrano non di rado nella vita dei grandi uomini, e fanno le delizie dei cattivi scolari: «Potrà fare di tutto, meno lo scrittore». E quando Balzac diventò Balzac, egli sempre così ottimista, conservò per quei romanzi scritti vorticosamente negli anni giovanili un sentimento di vergogna e insieme di affettuosa gratitudine, come se a quell’esperienza sbagliata egli dovesse pur qualcosa. Li gratificava della dura definizione di «cochonneries littéraires», eppure li ripuliva e permetteva che venissero ristampati. Finché nella prefazione alla Comédie Humaine del 1842 si espresse in modo reciso: «Je ne reconnais pour mes ouvrages que ceux qui portent mon nom. En dehors de La Comédie Humaine, il n’y a de moi que les Cent contes drolatiques, deux pièces de théâtre et des articles isolés qui d’ailleurs sont signés. J’use ici d’un droit incontestable. Mais ce désaveu, quand même il atteindrait des ouvrages auxquels j’aurais collaboré, m’est commandé moins par l’amour-propre que par la vérité. Si l’on persistait à m’attribuer des livres que, littérairement parlant, je ne reconnais point pour miens, mais dont la propriété me fut confiée, je laisserais dire, par la mème raison que je laisse le champ libre aux calomnies».

  Battiamo una strada un po’ sleale. Ci consideriamo uno di quei cattivi scolari, romanzieri falliti, che vogliono vedere come s’impara a scrivere un romanzo. Diciamo meglio: come non si scrive un romanzo.

  Balzac parte da posizioni strettamente strumentali: non teoriche o di poetiche, Tratta il romanzo come un carpentiere impiega la quantità di legname necessaria per estrarne un tavolo o un armadio. Della forma che prenderà quel tavolo ha assai vaga coscienza: bisogna lasciar fare anche al caso. Ha invece fermo il proposito ch’esso piaccia al committente: il pubblico. Così, per alcuni anni egli si esercita in corpore vili, cercando a prezzo d’insuccessi la propria strada.

  Il romanzo alla moda era allora: o il romanzo nero, gotico, livido ricettacolo d’umido e d’oscurità, dove un tenue filo di luce rischiarava abissi di terrore e di morte; o il romanzo storico o il romanzo fantastico, ricco d’elementi stravaganti. Dimenandosi tra l’una e l’altra di queste forme Balzac scivola senza ripugnanza nel romanzo d’appendice. Ma non tanto di romanzo si trattava quanto di pubblico. Considerava se stesso e il pubblico come un’unità inscindibile di cui l’uno non poteva vivere senza l’altro. E gli andava candidamente incontro come un giovinetto mal armato va in battaglia per affrontare il disastro o la gloria. Non basta. In quelle prime battaglie chiede degli aiuti, si cerca dei collaboratori, dei compagni, i cui nomi provocano ancora qualche incertezza tra gli studiosi. E perché quell’incontro o quello scontro fosse puro, quasi irresponsabile, Balzac non firma quelle incredibili storie, le quali portano il nome ora di Horace de Saint-Aubin, ora di Lord R’Hoone, ora di A. de Viellerglé: a volte dell’uno e dell’altro insieme, di sé e dei suoi amici, legati in un unico mazzo.

  Ma, pur rozzamente, già s’intravede il concetto che si affermerà in lui: l’oggettività della creazione. Ciò che si fa deve tendere ad essere un oggetto, un oggetto cui possono collaborare più mani. Solo un oggetto, anche anonimo, può andare incontro al pubblico e generare altro pubblico. L’oggetto più maneggevole ad esser esportato è il romanzo popolare. Balzac scrive romanzi popolari.

  Già i titoli dei libri, in tal genere di letteratura, sono da non trascurare. Delle due serie di titoli che ebbero fortuna nel Settecento (ripresi dal personaggio: Manon Lescaut, o dalla vicenda: Les Liaisons dangereuses) Balzac sceglie senza esitazione la prima serie: L’Héritière de Birague (romanzo storico con qualche ricordo di Walter Scott); Le Vicaire des Ardennes (molte gocce di patetismo estratte dagli immensi mari di Paolo e Virginia). Eroi ed eroine con sottotitolo come nei melodrammi: Clotilde ou le beau Juif. Annette et le criminel. Clotilde s’innamora del suo bell’ebreo; Annette del suo bel criminale (chiamato in una ristampa modificata del romanzo: Argow le Pirate). L’omicida sconosciuto affascinava la società 1820-30, contagiata dal Corsaro di Byron e da Jean Sbogar di Nodier. Balzac non può rinunziare a questi pirati che s’innamorano. Non può rinunziare a copiare da Nodier alcune scene. Un po’ di Beaumarchais, un po’ di Pigault-Lebrun vivono nella vicenda di Jean Louis ou la Fille trouvée. Ma il romanzo nero investe pienamente, col buio delle sue grotte e nell’immensità terrificante dei suoi paesaggi notturni, con la terra che sembra sognare sotto la luna, la più significativa tra queste opere: Le Centenaire ou les deux Béringheld.

  Diceva Virginia Woolf: «Un romanzo è soprattutto una storia scritta per allargare la cerchia dei nostri amici e delle nostre conoscenze. Deve servire a soddisfare la nostra curiosità sulle tante signore Browne che ci accade d’incontrare in treno, ma che le circostanze del viaggio ci fanno perdere di vista». Al giovane Balzac le signore Browne non interessavano affatto. Era improbabile incontrare in diligenza Argow il pirata o l’immenso vecchione del Centenario. Sarebbe stato difficile incontrare anche Don Rodrigo o l’Innominato. Ma i personaggi da romanzo erano tali in quanto appariva impossibile ritrovarseli nella vita. Respirare quella distanza, che li rendeva patetici o crudeli, alimentava uno dei piaceri della lettura di allora e che oggi abbiamo perduto.

  Uomini che celavano un «fatal segreto», conosciuto purtroppo da qualche temibile testimone. O eroi satanici il cui sguardo uccideva. O criminali riabilitati dall’amore. Quell’uomo che aveva visto morire tanti suoi simili freddamente e senza batter ciglio, impallidì davanti alla giovane». Qualcosa di simile accade nel Manzoni, quando l’Innominato guarda Lucia. E nello stesso romanzo non manca il rapimento. E non manca la conversione. Annette è del 1824, posteriore alla composizione di Fermo e Lucia. Ma quando i Promessi Sposi nel 1828 furono tradotti in francese, presso Gosselin e Sautelet, Balzac che in quegli anni faceva l’editore capì che un buon affare gli era sfuggito. «Manzoni est imprimé. Sautelet nous a devancés», lo informa l’amico e collaboratore Latouche. Possono averlo colpito gli elementi «neri» del romanzo.

  La sete dell’incredibile e dell’eroico, dei grandi sentimenti e delle passioni generose, un’idea della storia terrificante e sublime, la storia dei popoli oppressi, questa sete, questo delirio il popolo li riversò nel melodramma. Solo pochi scrittori riuscirono a farne grande romanzo: ma tra essi non fu Balzac. Egli pensava allora alla Radcliffe, ai romanzi che gettavano l’insonnia, com’egli diceva, nel palazzo del ricco e nella soffitta del poeta, che animavano la campagna e d’inverno davano più vividi bagliori al sarmento che crepita nel camino. Romanzi come scuola d’incubi che, pur impigliandosi in situazioni assurde e ridicole, riuscissero a trasmettere fremiti ossianici e il brivido delle apparizioni.

  Balzac dichiarò un giorno a Champfleury d’aver scritto quei sette romanzi per semplice studio: uno per imparare il dialogo, uno per imparare la descrizione, uno per raggruppare i personaggi, uno per la composizione ... Sarebbe vana fatica identificare a quale romanzo qualcuna di quelle etichette sia rimasta incollata. Erano vecchie bottiglie di essenze che sarebbero poi state dosate per preparare il forte liquore della Comédie Humaine (dove pure quel dosaggio non risulta sempre felice). Uso del dialogo; uso della descrizione. Balzac incontra inenarrabili difficoltà soprattutto nel dialogo (e il fallimento dei tentativi teatrali di questo periodo dal Cromwell a Le Nègre sta anche a provarlo). Ne daremo un esempio.

  L’ereditiera di Birague. Arrivo affannoso del conte di Morvan al castello di Birague durante la notte. Percorre a grandi passi la galleria. Bussa bruscamente alla porta della contessa Mathilde. [...].

  È il primo romanzo di Balzac, «genre troubadour». Romanzo o parodia? È da dubitare che, terminata l’Héritière, egli abbia creduto d’aver imparato «l’uso del dialogo». «Figlio di due padri», confessò l’autore[4]. Forse anche di tre. Il frontespizio porta infatti tre nomi: Dom Rago, pseudonimo di Etienne Arago, fratello dell’astronomo, autore drammatico; de Viellerglé ch’era Le Poitevin de Saint-Alme detto l’Egreville, e Balzac che firmava con il suo primo pseudonimo: Lord R’Hoone. «Non t’ho mandato Birague – scrive alla sorella il 2 aprile 1822 — perché è una vera “cochonnerie littéraire”». Questa dichiarazione può smentire ciò che dirà Champfleury.

  Uso della descrizione. La pagina che riportiamo è tratta dal Centenaire, romanzo pubblicato nello stesso anno (1822) col secondo suo pseudonimo: Horace de Saint-Aubin. Vi è descritto l’aspetto del personaggio principale: il Centenario. […].

  La descrizione, che continua per alcune pagine, così si conclude:

  Si ce vieillard eût pu être vu par l’imagination […] ou de Prométhée, avait créé un homme factice.

  Da questi esempi risulta come da due punte estreme ciò che Balzac avrebbe respinto per sempre e ciò che avrebbe utilizzato. La forza è nella descrizione, non nel dialogo, e tra molte ingenuità il potere terrificante del personaggio, specie di piramide umana che si piega sotto il peso di tre secoli, e che partecipa come di un mondo geologico in cammino, non manca di una suggestione sinistra. Rovesciate il valore delle immagini, rivestite quel volto di tenera carne, di capelli, di un giovane e insondabile sorriso, potreste avere anche un’immagine della bellezza: la bellezza della Gioconda. «Suo è il capo sul quale “si sono scontrati gli ultimi termini dei secoli”». «Ella è più antica delle rocce tra le quali siede; come il vampiro fu più volte morta e ha conosciuto i segreti della tomba». «L’immaginazione di una vita perpetua, che abbracci d’un tratto diecimila esperienze, è antica». È la pagina famosa d’un santone dell’estetismo: Walter Pater.

  Innegabilmente questa produzione ha accenti critici, quasi parodistici nei confronti di una letteratura di moda, e chiaro intento parodistico ha l’invocazione alla Musa Romantica nel romanzo di Clotilde: «O Muse nouvelle, pleine de jeunesse et de grâce, qui présidez aux compositions romantiques! Muse, qui dictiez à Goethe, son Werther; à Staël, sa Corinne; Atala, René, Paul et Virginie, le Corsaire, daignez jeter un regard de protection sur ce qui me reste à dire des amours de Clotilde et du beau Juif».

  Ma credo che non sempre sia onesto parlare di parodia. Senza saperlo, Balzac s’inoculava dei veleni che sarebbero serviti di difesa e di protezione dell’organismo. Prendeva un’oscura coscienza, attraverso altri testi, di quella che sarebbe divenuta la sua produzione futura. Era il modo d’entrare in una grande macchina come un ragazzo curioso e inesperto. Far funzionare la macchina del romanzo non nel silenzio della propria stanza, nei tentativi tormentosi, in mezzo alle paperasses, ai fogli strappati o smarriti, ma pubblicando, pubblicando bene o male, anche sotto falso nome, e mettersi in comunicazione con gli altri: per scoprire da se ciò che va e ciò che forse non andrà mai. Misurare sulla propria esperienza il peso del proprio scacco, della propria disfatta: fu questa la via scelta da Balzac, in quelle fumose e orrende «années d’apprentissage», dinanzi ad ima platea sempre più deserta.

  Ad esempio. Una delle sue benemerenze fu d’accorgersi, appena uscitane la traduzione francese, della bellezza (nera, insidiosa) di un romanzo come Melmoth, l’Homme errant, del reverendo Maturin. Egli non scrive su quel romanzo un saggio critico, come avrebbe fatto qualche giovane aspirante romanziere dei nostri giorni, ma lo utilizza: lo utilizza peggio che può, meglio che può, quando invia lettere d’amore a Madame de Berny (riproducendo passi di quel romanzo come fosse sua prosa) e quando pensa al Centenaire, in cui già si rivela la forza del suo sguardo. La morfologia del romanzo verrà poi sgominata. Ma certe punte, certi temi non verranno distrutti. Come l’apparizione del giovane inglese al falsario Castanier nel Melmoth réconcilié di vari anni dopo; come l’apparizione del giovane nella casa da giuoco della Peau de Chagrin; come l’ingresso (anch’essa un’apparizione) del criminale sporco di sangue in una sera di tempesta nella Femme de trente ans. Questo criminale, com’è stato notato, è ancora una volta l’incarnazione byroniana di Argow il pirata il quale esercita il suo potere demoniaco non più sulla candida Annette ma su Hélène, la colpevole figlia del generale, la quale scompare con lui nella notte.

  Della giovanile esperienza resterà fedelmente in Balzac il piacere nascosto di riconoscere, da qualsiasi parte ci volgiamo, essenze e forze demoniache, irrazionali e misteriose. Resterà una maniera rozza e incredibile di sviluppare vicende romanzesche. Ma se nella prima produzione egli si affidava all’immaginario per arrivare alla realtà, si affiderà poi alla realtà per scoprire l’immaginario. Escluderà i «faits imaginaires» per sostituirvi «ce qui se passe partout». «La vie parisienne – scriveva Baudelaire nel 1846, sotto la suggestione di Balzac – est féconde en sujets poétiques et merveilleux. Le merveilleux nous enveloppe et nous abreuve comme l’atmosphère; mais nous ne le voyons pas ». Balzac lo vedeva, e su quel suo secondo sguardo articolava la vita dell’immensa Parigi, e anche Baudelaire articolava la sua, in quella minuscola Commedia Umana in versi che sono i Tableaux parisiens.

  Gli inesistenti pirati e criminali che s’innamorano, nei primi romanzi, cederanno il posto agli autentici pirati e criminali della società moderna, che non s’innamorano — è stato detto — e che restano tali: Philippe Bridau, Vautrin, Gobseck. Fu questa – e non fu cosa da poco – la loro metamorfosi.

  Non è raro che un grande scrittore subisca le sue crisi. Robusti creatori, interrotti misteriosamente nella loro attività, hanno attraversato lunghe zone di silenzio prima di rimettersi al lavoro (Racine, Rossini, Verdi). In casi più gravi sentirono passare su di sé il vento d’ala dell’imbecillità, come Baudelaire.

  La crisi di Balzac, dopo aver pubblicato il suo romanzo Wann-Chlore, non maturò in un clima di silenziosa meditazione. Non c’era silenzio in lui, ma chiasso, confusione, rumore, attivismo sconclusionato. Scrisse Marcel Proust che la volgarità dei suoi sentimenti era tale che la vita non riuscì ad affinarlo. La vita: neanche il dolore – mi chiedo –, le disastrose imprese fallite, gli scacchi letterari e finanziari? In piena rottura con la famiglia, Balzac verso il 1824 era sull’orlo del suicidio.

  Quei geni che abbiamo nominato avevano al loro attivo una produzione alta, addirittura eccelsa. Balzac a ventisei anni (e non erano pochi) aveva dietro di sé una produzione caotica: romanzacci, abbozzi teatrali e «pièces» rifiutate. La sua attività letteraria s’era regolata su un tenacissimo rapporto dell’opera con il pubblico. Melmoth o Faust angelico, avrebbe venduto al pubblico la sua anima pur di trovarselo dalla propria parte: ad esso bisognava sacrificar anche il proprio nome, anche il proprio pseudonimo. Il primo romanzo di Balzac è firmato da tre autori, gli altri da due, poi da uno, e l’ultimo da nessuno. Le sue schermaglie, nell’infernale bisogno dell’oro, fanno pensare a quelle del torero nell’arena. È lì pronto per lunghi anni ad accogliere il toro, ma il toro passa per un’altra strada.

  C’era un’ultima possibilità: rinunciare al romanzo. E così egli fece. Si mise a far l’editore. Era come affrontare il pubblico in altra sede, dalla parte non di chi scrive ma di chi produce libri. Vide l’editoria come aveva visto la letteratura: una fonte d’affari. Nella rovina che, dopo alterne esperienze, ne seguì, egli era riuscito a esplorare il funzionamento del fatto letterario nei due aspetti essenziali. Aveva smontato il fenomeno fino a rimetterci le penne. Insomma un assaggio di sociologia della letteratura compiuto a proprie spese. E ne utilizzerà l’esperienza in Illusions perdues.

  Ma aver individuato il posto del romanzo nella società del suo tempo non bastava. Bisognava chiedersi: quale romanzo?

  S’intravede una zona quasi impenetrabile nella vita di Balzac. Con pieno diritto egli comincia a creare la sua leggenda. Sfugge alla storia nel preciso momento in cui egli sta per entrarvi. Quattro anni dopo la pubblicazione dell’ultimo suo romanzo anonimo trova la via del grande romanzo moderno, e quasi non sappiamo come. Cioè: come in tanto breve spazio di tempo si sia formato il grande Balzac, passando dalle ingenuità da romanzo rosa di Wann-Chlore alla misteriosa bellezza della Peau de Chagrin, resterà un enigma.

  Si presentavano due strade davanti a lui: l’una era quella di perfezionare il genere che aveva sotto mano: il romanzo popolare. E sarebbe divenuto un buon collega, remuneratissimo, di Paul de Kock, di Sue, «l’adorable peintre de Kernock» come lo chiamava allora, di Paul Féval, questi cantori in brutta prosa degli inferni di Parigi e di Londra. L’altra strada fu quella che egli intraprese: la più difficile, lunga e faticosa.

  Leggendo i primi romanzi di Balzac, Baudelaire era invaso da uno strano senso di fiducia e di tranquillità. Fiducia in quello che uno scrittore può fare con il solo aiuto della volontà e del lavoro. Secondo la poetica baudelairiana quando non intervenga il «guignon», con l’aiuto di vanghe e di sonde si estraggono gioielli nascosti fin dalle Profondità della terra. I romanzi di Balzac non erano gioielli. Ma la sua opera poteva essere vista come il lungo e forsennato episodio di una volontà mostruosa; il romanzo, come il risultato di un congegno di fabbricazione, sempre più serrato e preciso; la sua letteratura, la reazione più colossale ad un’altra concepita come istinto e ispirazione, effetto spontaneo di doti naturali; una letteratura del lavoro, del «come», espressione di certezza, e di spazi longitudinali.

  Ma la volontà è una forza che può girare a vuoto, se non risulta chiaro l’oggetto su cui essa si esercita. In quei pochi anni, il romanzo si determinò proprio in quanto «oggetto» attraverso la visione di un minuto e grandioso pessimismo e la creazione di un’idea di letteratura ad esso corrispondente. La fortuna del romanzo popolare si trascinava il fallimento dei grandi miti romantici. Il romanticismo aveva alimentato in Francia una letteratura narrativa che direi di secondo grado a cui anche lui aveva partecipato. Ma che egli avesse avvertito infine il coraggio di rifiutarla, e avesse respinto l’identificazione tra buona letteratura e successo (se il successo dovesse significare un momentaneo accordo, come diceva Baudelaire, con la «bêtise» universale), o che almeno egli sapesse di non poter situare l’opera futura nel momento felice in cui uno scrittore va incontro al pubblico e il pubblico lo accoglie fervorosamente, si vide chiaro nella storia dei suoi rapporti con Eugenio Süe.

  Süe con Les Mystères de Paris e Le Juif errant guadagnò quanto forse il povero Balzac non guadagnò mai con i suoi cento romanzi. Ma dichiarava sdegnosamente che non avrebbe dato uno solo dei suoi libri per tutti quelli assai più fortunati di Sue. Sue scriveva come mangiava e beveva, per effetto di un meccanismo naturale, senza fatica e senza sforzo: «... je ne peux pas, je ne dois pas, je ne veux pas subir — scrisse una volta a Madame Hanska – la dépréciation qui pèse sur moi par les marchés de Sue et par le tapage que ont ses deux ouvrages». Süe alimentava il grande equivoco di ogni letteratura dichiaratamente popolare. Facendo piangere il popolo ammassava denaro. E con quale soddisfazione nel 1846, quasi alla fine della vita, Balzac annotava che la fortuna di Sue andava precipitando. «... On trouve cela – dice riferendosi a M. Martin ou l’enfant trouvé – hideux et honteux. Il est perdu». È la vittoria sia pur tardiva non soltanto su di un uomo, ch’egli un tempo aveva visto con simpatia, ma su un’idea di romanzo.

  Una narrativa di consumo, alimentata da un falso idealismo, continuava a crescere ed a vegetare in una società che si trasformava: la società della restaurazione che sarebbe divenuta di lì a poco quella della monarchia di luglio, una borghesia animata dagli ideali dell’utile, delle onorevoli cariche, della ricchezza, dei guadagni nell’industria e nei piccoli commerci. I poeti possono o ignorare questa realtà o combatterla per affrontare il loro ideale, il «rouge idéal». Così accadrà con quella piccola rivoluzione fallita detta dei «petits romantiques», quasi tutti sgominati dalla morte o dalle circostanze, finiti nel compromesso come Pétrus Borel o nella tragedia come Nerval. Ma il narratore, nel modo con cui comincia a intenderlo Balzac, abbandonate le assurde fantasie romanzesche fuori del tempo, deve affrontare la «vita moderna» e la società che si trasforma. È qui che il «genre roturier», di cui parlava Baudelaire, coglie il proprio riscatto. E, accanto a una forma di romanticismo minore (quello del primo Hugo romanziere, di Dumas, della Sand), si afferma il suo grande romanticismo in cui l’amore dello straordinario fa fermentare una realtà ravvicinata e descritta fin nelle repugnanti verruche di un corpo sociale mostruosamente ingrandito. La strada che sceglie Balzac non è molto lontana da quella che sceglierà in poesia Baudelaire, che reagì a Musset e a Lamartine per affermare la sua singolare natura di romantico. Ma la poesia dell’Ottocento si svolge e si sviluppa in un progressivo allontanamento del pubblico fino alla piena rottura, e il romanzo si rafforza, invece, in quella continua presenza. Diventa ragion d’essere, fonte d’ispirazione, anche per chi quel pubblico odia, e ne fa oggetto di rappresentazione, come Flaubert. Il termine «realismo», per Balzac, non è antitetico a romanticismo, com’egli aveva creduto una volta.

  Si può affermare con sicurezza che quando comincia a scrivere: Le Dernier Chouan ou la Bretagne (e aveva trent’anni), anche il suo metodo è cambiato. Veloce una volta, come Achille, ora è, quando scrive, una tartaruga. Gli scrive l’amico Latouche: « Si je savais bien les formules de l’exorcisme, je les emploierais ici; car à la lenteur tout à fait inattendue, tout à fait inexplicable avec laquelle ce fier Honoré, ce foudre de Romans, qui en a fait 4 en six semaines, a mis à parachever son Chouan, je crois que le dit Chouan a le diable au corps». (Legge libri di storia della Biblioteca Nazionale; parte, a documentarsi, per Fougères, ospite del generale di Pommereul).

  È uno scatto imprevedibile perché si volge in più direzioni. Dal 1829 al 1831 Balzac pubblica testi diversissimi. La brillante, scandalistica e pettegola Physiologie du Mariage; un romanzo su un periodo di storia recente, Le Dernier Chouan, una storia «straordinaria», La Peau de Chagrin, e alcuni racconti che sarebbero poi entrati tra le scene della vita privata. E al tempo stesso, prima di considerare il giornalismo come un’arma contro i giornalisti (è stato detto), in quegli anni che vedono la caduta di Carlo X e la rivoluzione di luglio, egli, che nella nuova società in formazione ben riconosce la potenza della stampa, passa dalla Physiologie de la toilette (1830) alle Lettres sur Paris, dal Traité de la vie élégante ( 1830) alla Enquête sur la politique des deux Ministères (1831), cioè sui due sistemi tra i quali il ministero doveva scegliere dopo la rivoluzione di luglio. Gli si configura chiaramente la condizione della libertà dello scrittore in una società democratica. In essa prendeva posto il dandy, lo storico, l’osservatore della vita quotidiana, il politico, perché nella società contemporanea esistono il dandy, l’impiegato, il finanziere, il politico. Questa forma di superiore mimetismo, fondato sulla conoscenza, è alla base di una concezione del romanzo fortemente spersonalizzata nella forma, e critica nella sostanza. Tutta una società comincia a entrare nella sua testa.

  E allora è chiaro che a formare l’opera che diverrà la Commedia Umana agisce non un criterio di scelta, ma un criterio d’estensione. Come rendersi interessante, si chiederà Balzac, alle tre o quattromila persone che compongono una società? La soluzione alla lotta già ingaggiata tra lo scrittore e il pubblico era un’altra.

  Da tempo andava distruggendosi il personaggio mitico: processo in atto fin dal Seicento, e si pensi al Chisciotte e al Misantropo. L’elemento più inquietante di queste grandi creazioni è che personalità di un’alta forza etica fossero divenuti tipici personaggi comici. Dinanzi ad un nuovo senso della realtà, ad una nuova feroce misura d’uomo, quegli esseri che inseguivano il bene, la carità, la giustizia, erano eroi negativi destinati a far ridere il pubblico, e solo in tal senso rimanevano vivi anche come creazione letteraria. Bisognava ora rappresentare non i Don Chisciotte e i Misantropi, non il palcoscenico con le sue luci e le poltrone dorate, ma gli uomini che dalla platea ridevano immersi nella penombra.

  Balzac dalla platea trascina quegli uomini sulla scena e ne fa soggetto di rappresentazione.

  Quel pubblico un tempo veniva lasciato lontano, incommensurabile, indefinito, inafferrabile, incomprensibile. Bisognava farlo divenire protagonista. E il romanzo gli offriva perla prima volta l’infinita serie di specchi ove esso avrebbe potuto riflettersi. Era il vasto pubblico contemporaneo e borghese, nella sua vanità, complessità, totalità, e non lo spaccato di una società, aristocratica o popolare, come nel Settecento in Crébillon fils, in Laclos, in Rétif de La Bretonne. Diceva Camus che la critica rivoluzionaria condanna il romanzo puro come l’evasione di un’immaginazione oziosa. Credo che Balzac la pensasse allo stesso modo. Il romanzo è la conquista del reale, e il reale è la prosa; ma il reale non è il razionale, è il «fantastico», con le sue illusioni perdute, l’amore, le ambizioni sfrenate, le cadute, le disfatte.

  Come Vautrin dinanzi a Lucien de Rubempré, Balzac dirà al suo pubblico: «Je suis l’auteur; tu seras le drame». Non l’autore testimone impassibile, come accadrà con i teorici del romanzo sperimentale, ma lo scrittore-attore che vive in un rapporto dialettico e critico quel «drame». Lontano dal sopprimere gli elementi romantici della rappresentazione, egli crede ancora nel personaggio enorme, in cui finisce col condensare il significato di una società e di un momento storico; l’immensa e miserevole società d’ogni giorno. «Car les héros de l’Iliade ne vont qua votre cheville, ô Vautrin, ô Rastignac ...».

  Per raggiungere questi risultati era necessario un totale rovesciamento della sua antica concezione del romanzo. Il romanzo non aveva alcun ufficio consolatorio: nessuna for ma di filisteismo. Promuovere il pubblico a protagonista non significava mettergli una mano sulla spalla e vezzeggiarlo. Nessun rimpianto moralistico, spenti i facili spiriti rivoluzionari. Anche per liberarsi, come scrittore, da ogni tentazione in tal senso, Balzac non ama guardare all’avvenire. La società cambia ancora sotto il Re-cittadino Luigi Filippo; egli ne coglie la trasformazione nei fatti, nelle abitudini, nei vestiti, nelle parole, nelle cose, ma la ama sempre meno. La società va avanti, con la sua borghesia, e le nuove classi politiche e gli uomini d’affari ed i giornalisti; ed egli sembra che faccia nelle idee parecchi passi indietro. Percorre la strada inversa a quella di Süe, prima romanziere mondano e poi popolare. Da una posizione un tempo ferocemente liberale diventa un aristocratico, scrive romanzi legittimisti (come nel ‘36 Le Lys dans la vallée), sempre affisando le luci eterne dell’umanità; che sono per lui il trono e l’altare. Anche i romanzi di giovinezza, irriverentemente liberali, quando si decise a ristamparli, furono modificati in tal senso. Per poco non diventa cieco seguace dei due grandi aristocratici della Restaurazione: il conte de Bonald e il conte de Maistre. Avrebbe potuto combattere quella società facendo il repubblicano come Hugo o il rivoluzionario come Sue. La combatté quasi da reazionario. E come mai quest’uomo che guarda indietro, crea proprio allora un romanzo carico d’avvenire? Consideriamo un punto: il sentimento aristocratico.

  Aristocrazia non era per lui soltanto il gusto d’aggiungere (come gli succede verso il 1831) la particella nobiliare de al suo cognome, pretendendoci discendere dai Balzac d’Entragues; o di seguire abitudini di vita lussuose, comprarsi cavalli, un cabriolet, farsi ricamare sulla coperta in pelo di capra una corona di marchese, avere un domestico, un cuoco, un cameriere. Oppure diventare l’amico e, in casi più fortunati, l’amante o di Madame de Barry (sic), o della marchesa de Castries o della contessa Guidoboni-Visconti o della duchessa d’Abrantès, o stringere rapporti d’amicizia con il marchese de Custine o il principe Schönburg. Certo, da perfetto aspirante aristocratico, spendeva assai più di quel che guadagnasse, ed anche in oggetti inutili, com’erano, secondo i borghesi d’allora, le opere d’arte. Ma la sua aristocrazia era un modo di osservare e di capire: una delle forme più vistose e costose del suo pessimismo, sentimento elegiaco per un passato che andava scomparendo, per cui egli fa dire ad un personaggio: «Oggi non c’è più nobiltà, c’è soltanto aristocrazia». Era, in contrasto agli eroi sedentari di un mondo retto sul calcolo economico, nella febbre d’arricchirsi, la visione della decadenza della nobiltà, ormai parassitaria, con lontano il rumore delle battaglie napoleoniche. E, positivamente, anche nei rapporti con la sua poetica, quel pessimismo alimentava la sua tipica crudeltà di rappresentazione.

  In tal modo, secondo Marx e Engels, che esaltarono il legittimista Balzac e quasi condannarono il socialista Zola, egli raggiunse una profonda comprensione delle condizioni in cui era nato il capitalismo francese. Nell’ossessione per certi temi: il denaro o le forze spietate che muovono il mondo, sembra d’avvertire il suono cupo, maledetto e incessante che nei tragici del Seicento si prestava alla parola: passione. Al tema: denaro, egli non disdegnò d’assegnare la dimensione che Racine aveva dato al tema: amore. Ma, lontano dal far decadere un romanzo in un pamphlet con personaggi ed immagini, egli non può non notare la «bellezza» esaltante e funebre di un simile spettacolo.

  Con tutte le sue insopportabili ingenuità, una delle grandi intuizioni di cui dobbiamo essere grati a Balzac è l’aver avvertito che la società moderna dalle forme così complesse, ricca di passato e di storia, mossa da forze economiche e dal giuoco delle ambizioni, non comporti più lo studio dell’uomo come individuo, quali erano René, Obermann o Adolphe. Ma quell’individuo vive e si continua in altri esseri che tutti insieme riflettono la vita degli altri, nei valori di tempo, d’associazione, d’abitudini. Senza accorgercene noi prendiamo i gesti, i modi di parlare e di dire, gli atteggiamenti ed anche le fisionomie, gli uni degli altri. Osservando solo il modo di camminare di qualcuno si può scoprire l’obbedienza ad una casta. È un movimento orizzontale in cui si scoprono leggi costanti.

  Ma le due forze, che muovono Balzac nell’osservazione, paiono opposte: una concentrica, l’altra quasi centrifuga. In un primo tempo sembra ch’egli tenda alla generalizzazione. E allora tutta una categoria di personaggi, come nota Butor, finisce coll’esser rappresentata da un solo viso. Altre volte (come in Ferragus) è ossessionato dalla diversità, dal numero, dalla differenza. È il Balzac che preferiamo.

  Scrittori, scienziati, banchieri, creditori, commercianti, giornalisti, domestici, soldati ecc.: tutti sono sottoposti a un rapido processo di semplificazione e classificazione, psicologico e sociale, che rientra nella grande tradizione moralistica francese. I domestici: «Il est impossible, ni par le bienfait, ni par l’intérêt, de rompre l’accord éternel des domestiques avec le peuple. La livrée sort du peuple, elle lui reste attachée». I commercianti: «Les gens généreux font de mauvais commerçants». I soldati: «La vie militaire exige peu d’idées». I magistrati: «A force de supposer des intentions mauvaises et de les comprendre toutes pour arriver à des vérités cachées sous les actions les plus contradictoires, il est impossible que l’exercice de leur épouvantable sacerdoce ne dessèche pas à la longue la source des émotions généreuses qu’ils sont contraints de mettre en doute». I religiosi: «La dévotion cause une ophtalmie morale». I re: «Le silence est ce que les princes écoutent le moins». E le pagine attraenti su quel «personnage inconnu dans l’antiquité», «une des plus curieuses figures créées par les moeurs de l’époque actuelle », personaggio che aveva interessato Balzac cento anni prima degli scrittori americani: il commesso viaggiatore.

  Ma queste dure massime che, disposte in libri di memorie, irritavano Saint-Simon e che condiscono di solito le pagine amare di ogni romanziere mondano, risultano in Balzac come trascinate da una forza concentrica, si muovono e si sciolgono nel personaggio, lo preparano prima che esso entri in scena. Balzac non si ferma a Lavater per spingere fino all’assurdo il rapporto tra il fisico e il morale. Gli basta un gesto per rivelare un uomo, come il «jet de salive» del Père Goriot. «A la manière dont il lançait un jet de salive, il annonçait un sang-froid imperturbable qui ne devait pas le faire reculer devant un crime pour sortir d’une position équivoque». Nel ritratto della signora Vauquer, il rapporto con la cosa (la sottoveste simbolo del milieu) diviene emblematico. «Sa personne explique la pension, comme la pension implique sa personne».

  Si racconta che un giorno, discutendo con alcuni amici di politica e delle sorti del mondo, Balzac interrompesse a un tratto quella conversazione cui sembrava interessato, dicendo: «E ora ritorniamo alle cose serie». Voleva dire: Ritorniamo al romanzo. L’aneddoto merita considerazione. La «serietà» del romanzo moderno (a differenza di quello settecentesco) riposava sul fatto che in esso «fantasia» e «avventura» non avevano parte preponderante. Il romanzo tracciava nella cultura contemporanea come delle linee maestre in cui si convogliavano arte, politica, religione o scienza. Il lavoro di ramificazione e di estensione in tutti i territori delle «scienze umane» era inevitabile. Come certi animali di una potenza mostruosa che si lanciano verso l’intera fauna di un paese, egli cercò di assimilare e ricreare i generi letterari esistenti per arricchire la linfa dell’immenso organismo, giovandosi di una condizione storica: il romanzo, rispetto alle altre forme espressive, era arrivato in ritardo. Ed esso diventava uno di quei prodotti splendidi, aggrovigliati e sovrabbondanti che si maturano non nell’infanzia dei popoli ma in civiltà ricche, potenti, quasi in decadenza.

  L’unico romanziere contemporaneo che può stargli accanto, Stendhal, nella sua continua altalena tra verità autobiografica (la verità dell’io) e finzione romanzesca (la verità dell’immaginazione) finiva col nutrire qualche dubbio sull’avvenire del romanzo. Si avvicinava il tempo ch’egli chiamava «l’età del sospetto». L’io autobiografico era invece come dissolto, sacrificato in Balzac all’enorme costruzione oggettiva dell’opera. Egli resta uno dei pochi autori dell’Ottocento che non abbiano quasi lasciato ricordi autobiografici o diari. Spettacoloso esempio di homo faber, che, sorretto dalla più grande certezza nel personaggio-uomo, giunge a cancellare la propria esistenza per utilizzarla nel lavoro. Sentiva che l’èra del romanzo si apriva, pane mistico della società borghese nata dal livellamento delle altre. E più che un’opera di fantasia il romanzo dell’avvenire avrebbe dovuto essere una scienza, una scienza nuova che si appoggiasse alle ipotesi del possibile per arrivare alla conoscenza con mezzi che i puri scienziati non possono adoperare: una nuova enciclopedia umana cui tutti possono attingere: storia, filosofia, fisiologia, scienze occulte e scienze naturali.

  Sarebbe istruttivo seguire i modi con cui questa falsa scienza diventa forza poetica in Balzac. Per amor del concreto, egli abbassa l’umanità, con l’aiuto dei suoi Cuvier o Geoffroy Saint-Hilaire, allo stato d’animalità. Imposta correlazioni tra le specie zoologiche e l’umanità. E noi moderni non gli saremo mai sufficientemente grati, pur nelle sue applicazioni grossolane, d’aver spostato la visione del mondo nel romanzo dal vacuo idealismo romantico alla considerazione dei fenomeni e delle cause. Dio non sta nei cieli: sta sotto di noi. Prima di veder chiaro in questo orribile accoppiamento di Corpo e di Spirito che è l’uomo, bisogna veder chiaro nel corpo. La psicologia parte dalla fisiologia. Ma è guardando nel corpo, come gli scienziati scoprono i fenomeni del magnetismo animale, che noi possiamo arrivare a riconoscervi lo «spirito», abbattendo ogni barriera tra il materiale e l’immateriale. Ancora una volta il suo procedimento espressivo non era lontano da quello di Baudelaire. Nello stesso suo sconfinato «realismo» s’innesta la forza del visionario: scoprire nella fisionomia umana qualcosa che trascenda la fisionomia: guardare le mani, le unghie, la fronte dell’uomo e scoprirvi addirittura qualcosa di profetico. Le nostre idee esalano come fossero odori. L’occhio è il mondo visto nel suo particolare che aspira all’assoluto. L’uomo è più o meno animale, l’animale più o meno pianta, aveva detto Diderot. Nella circolarità delle forme il mondo animale s’integra con quello vegetale, ma anche la terra è un uomo, secondo Swedenborg. Partito dall’occhio, dall’esperienza, è in questo ciclo che s’anima la sua visione e tutta la realtà contiene segni da decifrare.

  Considerando la struttura dei suoi romanzi, penso che due idee siano state sulle altre decisive per affermare la sua concezione: il rifiuto del «romanzo-capolavoro» e il ritorno degli stessi personaggi.

  Per chiarire la prima idea mi servirò dell’esempio manzoniano. Partiti da Walter Scott (diciamo per semplificare) Manzoni e Balzac prendono due direzioni diverse. Per varie ragioni, ma a noi ne interessa una sola. Manzoni crede nel romanzo-capolavoro, nel libro unico che racchiuda e nobiliti tutte le intenzioni dell’autore, che suggelli un’esperienza, e che debba essere fatto rifatto rivisto ripulito migliorato, perché ad esso viene affidata, quasi sfida all’eternità, la concezione della storia, della lingua, della Provvidenza, di Dio: un’anima e un libro, uno sguardo che parte da un punto e, come un fascio di luce, illumina un’opera, non potrà più ripetere quel volo.

  Per Balzac il romanziere non è l’autore di un solo libro, perché quel libro, nel momento in cui, sembra, chiude un’esperienza, ne rinnova e ne genera un’altra che si continua, come avviene nella vita, dinamicamente e inesauribilmente. La luce partiva dalle cose. Lo scrittore ne era investito a intermittenze, secondo l’infinita varietà delle forme.

  Manzoni apparteneva alla tradizione classica; considerava ancora il romanzo come un poema, perfettibile nell’armonia delle sue parti, da aprire e chiudere alla lettura, come l’Eneide o il Furioso. Il romanzo per Balzac è tale in quanto è il frammento di un tutto, parte di un ciclo in movimento, e non raggiunge nemmeno una sua unità parziale. Egli si rifà alla grande tradizione romantica, a Shakespeare e anche a Dante (il Dante dell’Inferno), per quel senso di viaggio discontinuo e crudele attraverso la realtà sofferente e malata, quasi che ogni canto della Commedia sia da solo un romanzo: e più lingue, più problemi, più nature, più realtà, l’eterno incontro di un personaggio-autore con infiniti personaggi-attori che insorgono e scompaiono.

  Balzac non seleziona, unisce. La letteratura classica francese era la letteratura delle cime, investita dal vento dei sommets, letteratura di formalisti, nell’amore dell’ordine, della misura, nella divisione degli stili. Egli più degli altri lavora a fame la letteratura dell’estensione e della profondità, con i casi quotidiani che si accendono in drammi. Proprio negli anni in cui la poesia francese elaborava, attraverso Poe, la poetica del frammento, della lirica breve ed intensa, il romanzo s’ingrossava, s’ingrandiva.

  Secondo punto. Il ritorno degli stessi personaggi. È un procedimento che non ha nulla a che fare con quello della vicenda che continua, già impiegato dallo stesso Balzac nella sua prima produzione. Si deve a un tale procedimento, che Sainte-Beuve non approvava, se i vari centri dell’universo balzacchiano vengano annodati in vista di una possibile e complessa totalità. Grazie a questi personaggi che ci ripresentano le loro storie, la Commedia Umana è un paese che ha un suo stato civile, ove si possono tenere ben schedate in tante cartelle le biografie dei suoi abitanti (ciò che è stato preparato da alcuni eruditi), e di essi sappiamo dove sono nati, chi hanno sposato, la dote e il denaro di cui dispongono, gli affari che non hanno concluso, le persone che hanno amato o ucciso, e anche i loro tentativi di sopprimersi: suicidi strani e meravigliosi, suicidi moderni, come chiamava Baudelaire quello di Raphaël de Valentin. È un grande archivio di polizia, un archivio segreto in mano ad un misterioso capo. E in questa fitta rete le esistenze si stemperano, si esaltano o si distruggono, ognuna legata all’altra come l’ostrica alla sua valva, nel movimento epico di tutto l’insieme.

  La fiducia nel personaggio provocava una specie di sostituzione di persone: l’essere immaginato, con tutti i requisiti della verità, si sostituiva ad uno dei tanti esseri della vita, che vanno e scompaiono per sempre. È la grande illusione, un’illusione d’eternità, del romanzo balzacchiano e ottocentesco: questi esseri dispongono di un fascino così intenso, che, simili a ombre davanti a noi, possono guidare il nostro destino. Anche forse senza saperlo siamo stati dominati da queste ombre, e un giorno abbiamo deciso di somigliare ad esse. Ci hanno fatto piangere e soffrire. È un’operazione che, quando è riuscita, ha raggiunto in Balzac risultati sorprendenti. Oscar Wilde amava ripetere che il più grande dolore della sua vita era stato la morte di Lucien de Rubempré in Splendeurs et misères des courtisanes. E Proust commentava che in quel caso il destino di un personaggio aveva precorso il destino d’un uomo. La morte di Lucien alla Conciergerie — che vede tutta la sua brillante esistenza mondana rovinare a causa della prova raggiunta dal giudice istruttore ch’egli viveva nell’intimità con un ex forzato – non era che l’anticipazione di quanto sarebbe accaduto proprio a lui, Wilde.

  Dall’Héritière de Birague, il romanzo si era trasformato in un complicato congegno che, imitando la natura, finiva col sostituirsi ad essa. E un ingranaggio invisibile che fa muovere cose visibili. Utilizzando il caso nel modo con cui lo concepisce Balzac, il romanziere condanna l’imprevisto a divenire certezza. Raggiunta la coscienza dell’autonomia della forma che impiega, il romanziere non fa soltanto concorrenza allo stato civile. Egli fa concorrenza a Dio. La Comédie Humaine, scrisse Thibaudet, è l’imitazione di Dio Padre. L’autore sostituisce all’infinito della creazione divina, il finito della propria.

  Balzac ha teso per tutta la vita, e di più nei suoi ultimi anni, a questo «finito», il finito dell’opera che equivaleva su per giù a 137 romanzi. Ha raggiunto non l’infinito ma soltanto «l’incompiuto». Ed è stato il dramma che ha pesato negli ultimi periodi della sua esistenza e che deve aver portato la disperazione nei momenti dell’agonia, terribile; degna, come disse Baudelaire, delle sue forze. È lo scacco finale del romanziere-Dio che lascia in tronco la sua opera: che desiste dal terminare non un libro (non era questa la sua ambizione), ma un’opera.

  Per la prima volta forse nella letteratura, tutto un cerimoniale, tutta una mitologia circondano, con molto fumo, l’atto del romanziere in lotta con l’espressione. Quando Balzac prendeva a digiuno forti tazze di caffè prima di mettersi al lavoro e le idee, diceva, si scuotevano come i battaglioni della grande armata sul terreno di una battaglia; quando sotto una statua di Napoleone poneva questo cartello: «Ciò ch’egli non ha potuto finire con la spada, io lo terminerò con la penna»; quando si vestiva da monaco, chiuso sotto falso nome nella cella inabbordabile della sua casa di Chaillot; queste sue immagini di guerra e d’ascetismo sembrano perfino ridicole, ma rivelano che il romanziere, un tempo schiacciato o mestierante deluso, si sente ormai al centro della creazione. Con quelle immagini egli dava a se stesso la rappresentazione di un’idea: l’artista solo come Dio nella fatica per la sua opera. Shelley aveva detto: «Non merita nome di creatore se non Iddio o il Poeta». Egli correggerebbe: «Non merita nome di creatore se non Iddio o il Romanziere». Cioè egli riversava sul romanzo una mitologia riservata fino allora alla poesia. Una mitologia che in seguito, almeno per quel che riguarda il romanziere, non sarà più fondata sull’idea del sacrificio, ma sul benessere.

  La vita dei grandi poeti dell’Ottocento francese, da Nerval a Rimbaud, sarà un mezzo calvario: miseria, suicidi, maledizione, disdetta, rivolta e bestemmia. Al romanziere (fu il caso di Maupassant) basteranno una decina d’anni per affermarsi e, naturalmente, per arricchirsi. I poeti restano della razza di Caino; i romanzieri appartengono a quella d’Abele. E questa condizione, nell’incerta luce di sacrificio, peserà come una condanna sulla società che quei poeti respinse. La distanza tra il poeta e il romanziere si fa sempre più irriducibile. Scompare quasi del tutto la figura del poeta-romanziere (mentre continua a sussistere quella del romanziere-poeta). I campioni della poesia pura, gli stilisti, i prosatori d’arte si lanceranno volentieri contro il romanzo tradizionale, e ne portò le conseguenze colui che all’avvenire del romanzo aveva sacrificato la vita: Balzac. Nella loro devozione stremata verso ciò che era formalmente alto e difficile, come ho già chiarito in altra sede, Balzac fu considerato soltanto un «pauvre scribouilleur».

  Nulla di più falso che salutare in Balzac il capostipite e il responsabile più accreditato del romanzo tradizionale, a tre dimensioni, lì dove tutto ciò che si vede esiste e tutto ciò che esiste si vede, con i personaggi a tutto tondo che si sporgono avanti e che uno può accarezzare o respingere. Temo che si confonda Balzac con il suo allievo Champfleury, le Splendeurs et misères des courtisanes con L’Usurier Blaizot e La Succession Le Camus; o la riproduzione scrupolosa del modello, tipica della dagherrotipia, con le violente e feroci acqueforti che caratterizzano la visione del grande romanziere. Balzac è della tempra di Daumier, non di Henry Monnier. E ammetto anch’io che la stirpe dei balzacchiani sia quasi tutta da respingere. Avesse soltanto la sua fantasia, Balzac non sarebbe altro, scriveva Zola, che «un cas pathologique»[5]. A noi moderni può interessare Balzac anche quale «caso patologico». Se non sentiamo gravare sui suoi grandi personaggi quel «sospetto» che avvilisce altri personaggi antichi e moderni, non è perché questo mondo sia modellato fedelmente sulla realtà, ma perché la sua struttura è retta da mura piuttosto sgretolate e fantastiche, e attraverso profonde crepe penetrano all’interno fasci di luce che danno alle cose un rilievo quasi allucinato.

  Una delle ragioni dell’interesse moderno per Balzac potrebbe riposare su un procedimento apparentemente contraddittorio: la «visionarietà» del reale (di cui già s’accorsero, prima di Baudelaire, Philarète Chasles e Gautier) rivelata col massimo di precisione. Vedere: l’ossessione dell’occhio, dello sguardo, che raggiunge la profondità o il «cuore romantico delle cose», su cui i nostri moderni romanzieri nutrono non ingiustificati sospetti. Eppure trovo non so quale sapore balzacchiano nella frase d’un romanziere che gli sta tanto lontano: Robbe-Grillet. «Rien nest plus fantastique que la précision». Era quel che pensava Balzac. Naturalmente noi arriviamo a ben altre conseguenze: arriviamo, direi, alla precisione nel diluvio. La realtà si è avvicinata a tal punto ch’essa ci trasmette la sua vertigine. La vertigine delle cose viste troppo da vicino: le venature, le rughe, i densi reami dell’essere: rigagnoli di materia. Non lo splendore dell’indiretto, come diceva James, ma l’accecamento del troppo diretto.

  Un’altra ragione del nostro interesse potrebbe essere nel tentativo di ravvicinare il romanzo alla scienza. Balzac fu spettatore e interprete di una trasformazione della società che ha qualche somiglianza con il rivolgimento cui oggi assistiamo. La scienza di Balzac non è la nostra. Ma è lo spirito scientifico che potrebbe servire quale nuova prospettiva ad animare la letteratura. Importa soltanto svolgere in modo non scientifico un’intuizione scientifica: è questa la parte della scienza che serve alla letteratura. La scienza può occupare uno dei domini della fantasia.

  La più fondata opposizione a Balzac, invece, potrebbe essere sostenuta da coloro che manifestano un non immotivato disgusto per la costruzione e per l’invenzione dei fatti, dell’imbroglio. Questo disgusto trascina naturalmente nel disinteresse il vecchio «personaggio». È una reazione abbastanza remota. Flaubert diceva: «Vorrei fare dei libri in cui non ci fosse che da scriver frasi ... Ciò che mi manda in bestia è dover escogitare un piano ...». E Gide non intendeva epurare il romanzo da tutti gli elementi che non gli appartengono (il mio romanzo non ha argomento, fa dire ad un suo personaggio)? E quanti non hanno assaporato l’ambizione di scrivere un romanzo su «nulla»? Questi campioni del romanzo puro sono in lotta con un genere che disprezzano. Per uccidere il «romanzesco» e la sua cattiva cucina finiscono con l’uccidere il romanzo. Si liquidano i fatti: poi sarà la volta dei personaggi, e dopo i personaggi anche quella scienza che una volta li sorreggeva: la psicologia. Sintomi della decadenza dell’umano che Balzac esaltò in tutta la sua potenza, nel bene e nel male.

  Non si tratta di tentare, oggi, attraverso Balzac una restaurazione formale del genere-romanzo, di cui nessuno ha mai fissato le regole. Non si tratta d’utilizzare dall’esterno questi contributi di miglioria. Sarebbe come assoggettarsi a uno di quei giuochi maledetti in cui da tanti pezzi confusi si deve ricomporre una figura, un disegno, le linee di un volto; e se il giuoco riesce, dopo tanta fatica e pazienza, si resta un po’ inebetiti e delusi. È preferibile allora tenersi il cubo isolato, il vuoto che supera il pieno, la linea che non aspira a divenire forma. «La letteratura attuale — ha detto un critico tedesco — non è possibile se non nella forma della sua crisi». Bisogna affrontare la crisi, ma non fino al punto ch’essa distrugga la forma stessa, cioè il romanzo, come sta avvenendo presso alcuni tenaci sostenitori del romanzo stesso. Dobbiamo affrontare la crisi e allontanare la distruzione del romanzo: ritrovare in questa crisi, com'è avvenuto nel teatro (Pirandello), forme nuove d’espressione.

  È perciò, non senza ragione, che all’inizio di queste pagine ci siamo fermati, forse più del necessario, sulla grande crisi che attraversò Balzac prima di diventare Balzac; che abbiamo mostrato quanto immenso fu il suo «senso del vuoto» prima d’arrivare alla prodigiosa ricchezza dell’opera. Ma egli affrontò fino in fondo la sua crisi, dalla cui soluzione era forse in giuoco la vita dello stesso romanzo moderno, in una delle forme che suscitò maggiori seguaci. Anche allora il romanzo appariva un genere invecchiato, che aveva ormai due secoli di vita. E non mancava chi s’augurava che fosse vicino a finire, proprio quando stava per iniziarsi in tutta l’Europa, in Russia, in America, la sua splendida stagione. Neanche io credo che oggi il romanzo stia per morire. Non so se riaprirà un’altra delle sue splendide stagioni, ma certo si apriranno ancora nuove strade. E, nell’attesa che la crisi si maturi, addentrarci, sostare, sperderci nel gran labirinto della Commedia Umana non è esercizio che ancor oggi possa deludere o condurre ad operazioni sbagliate. La sfiducia verso Balzac si basa su un difetto di interpretazione. Per qualche romanziere contemporaneo, esistono poche invenzioni attuali che non possano trovare nella sua opera annuncio e giustificazione. Vi sono poche letture che siano più utili per un narratore, che introducano meglio il lettore ai problemi del romanzo contemporaneo. Ma attenzione — avverte Butor niente malintesi. Si parla proprio di Balzac.

 

 

  Gaetano Mariani, Giuseppe Rovani fra storia, documento e poesia, in Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma, Sciascia Editore, 1967 («Aretusa. Collezione di letteratura», 25), pp. 109-200.

 

  pp. 113-124. È qui il Rovani dei tempi nuovi: nell’oggettivazione del personaggio centrale e nel rifiuto totale del romanzo storico egli è già proteso verso il verismo e le nuove teorie del romanzo, ma il suo non è e non vuole essere ancora romanzo contemporaneo; in realtà si sente incapace per un tal genere e ne ha paura: la società che egli studia è sì quella ipotizzata da Balzac ma per studiarla e descriverla ha bisogno di proiettarla nel passato, e sia pure in un immediato passato, sì da sfiorare quasi gli eventi contemporanei ma senza penetrarvi, senza sviscerarli come invece fa l’autore della Comédie: ogni paragone con Balzac deve perciò partire da questa constatazione di fondo e tener presente l’incapacità di Rovani ad offrire una convincente diagnosi della società del suo tempo, che è lo scopo precipuo dell’autore della Comédie. Di qui anche in Rovani, come in Praga e in Boito, un totale disinteresse per la definizione della borghesia come classe sociale (problema così pressante nelle pagine di Balzac) e per i rapporti borghesia-popolo. Più storico che romanziere Rovani sa diagnosticare meglio le malattie della società settecentesca lombarda piuttosto che quelle della società nella quale vive; più romanziere che storico Balzac ha l’occhio fisso al suo tempo cd il passato si risolve sempre per lui in un efficace elemento di controluce; qualcuno ha osservato che l’autore della Comédie, anziché prendere i suoi personaggi dalla storia del passato, come il suo ispiratore Walter Scott, cerca i suoi modelli nella generazione che lo ha preceduto o anche nella sua stessa generazione; io aggiungerei che anche quando i personaggi di Balzac appartengono alla generazione precedente, egli li tratta come personaggi vivi, attuali, del suo tempo, esemplari di quella società nella quale il loro creatore si muove e agisce. Per Rovani, al contrario, l’oggi si scolora sempre rispetto al passato e i fatti di ieri assumono quella rilevanza che costituisce appunto la spia della sua vera vocazione; di conseguenza i personaggi dei Cento anni sono, in tal senso, sempre inattuali, figure costantemente proiettate in un passato più o meno lontano.

  Ma detto questo, bisogna aggiungere subito che l’influenza del racconto balzacchiano sui Cento anni, anche se non è da sopravvalutare, come è accaduto ad un attento studioso del verismo italiano [Paul Arrighi], assume notevole portata soprattutto nella fase di formazione delle teorie rovaniane sul romanzo, allorché l’autore dei Cento anni si sforza di determinare i rapporti fra storia e racconto e soprattutto i rapporti fra individuo e società che nel vasto tessuto della Comédie sono i due temi più ricchi di sollecitazioni per il Rovani; sollecitante era per lo scrittore italiano l’aperto rifiuto che il francese operava nei riguardi delle «sèches et rebutantes nomenclatures de faits appelés histoires» in nome di quella «histoire des moeurs» (nei riguardi della quale il Rovani, come sappiamo, aveva peraltro manifestato la sua perplessità nel Preludio ai Cento anni) che a suo parere «les écrivains ont oublié, dans tout le temps, en Egypte, en Perse, en Grèce, à Rome, de nous donner»; da questa «histoire oubliée par tant d’historiens» il Rovani è suggestionato e affascinato ed il suo sogno rimane appunto quello di Balzac: far meglio dello storico perché più libero di questo, convinto che «le hasard est le plus grand romancier du monde» e che «pour être fécond, il n’y a qu à l’étudier». Ma certo una frase del Balzac, più di ogni altra, doveva richiamarlo profondamente all’assunto della sua materia; si tratta di un augurio contenuto nella nota alla prima edizione delle Scènes de la vie privée quando lo scrittore osserva che «entreprendre de peindre des époques historiques et s’amuser à chercher des fables neuves, c’est mettre plus d’importance au cadre qu’au tableau» e continua dicendo d’esser pronto ad ammirare «ceux qui réussiront a réunir les deux mérites, et leur souhaite d’y réussir souvent».

  Ed a questo aspira Rovani: a una fusione che il suo senso storico e la sua vivacità di narratore giornalista gli facevano sentire come realizzabili da uno spirito che riuscisse ad equilibrare storia e invenzione e che, nella calibratura dei fatti pubblici coi privati, riuscisse a muoversi sulla strada luminosamente indicata da Balzac: «J’accorde aux faits constants, quotidiens, secrets ou patents, aux actes de la vie individuelle, à leurs causes et à leurs principes autant d’importance que jusqu’alors les historiens en ont attaché aux événements de la vie publique des nations». Risolvere — parte sulla scia delle teorie balzacchiane, parte conducendo a una personale soluzione la vecchia querelle sul romanzo storico — i rapporti tra storia e fantasia è il primo intento del Rovani e vedremo nel corso del nostro studio quanto problematica e dubitosa sia l’individuazione di questi rapporti al centro dei quali si pone l’esame della società che l’autore dei Cento anni si propone di compiere obbedendo agli schemi balzacchiani. Aveva scritto il francese che nella sua opera si sarebbero alternati i rappresentanti di tutta la scala sociale e che su essa si sarebbe visto a un certo punto «l’épicier» divenire «pair de France» e il nobile discendere talvolta all’ultimo rango della società; è il quadro dei Cento anni completato, se si vuole, da un’osservazione dei fratelli Goncourt: «Hier nous étions dans le salon de la princesse Mathilde, aujourd’hui nous sommes dans un bal du peuple, à l’Élysée des arts, au boulevard Bourdon. J’aime ces contrastes. C’est la société vue à tous ses étages ...»; e Milano e Parigi sono allineate, pur nella fondamentale differenza delle loro strutture sociali, da «l’alliance intime de la splendeur et de la misère» enucleata attraverso una simbologia aspra e spietata che Balzac individuava in quel «mouvement ascensionel de l’argent» che accomuna le due espressioni del mondo nuovo — il medico e l’uomo di legge — alle tradizionali figure del passato: il nobile, il prete, il ricco per tradizione.

  Ma come per Balzac, anche per Rovani «chaque sphère jette son vrai dans une sphère supérieure » e tutti — «le paysan, le mendiant, le pâtre, le bourgeois, le ministre» — vivono in funzione delle passioni che li dominano: siano esse un amore distruttivo o un’avarizia patologica. In qual modo queste passioni determinano le vicende personali dei protagonisti e in qual modo essi, in forza di queste passioni, si inseriscono nella società del proprio tempo modificandola o restandone modificati era in fondo l’intento dell’indagine balzacchiana e il punto di partenza del Rovani: ma mentre il francese opera spietatamente nella direzione che si è prefissa offrendoci lo spaccato di quella società e la diagnosi psicologica degli individui che si apprestano a conquistarla, Rovani risolve il disegno di quella società in un quadro di storia sulla scorta di una documentazione erudita che finisce per allontanarlo sempre più dalla meta che si è prefisso: e da una parte restano, isolati e solitari esempi di indagine psicologica al di fuori del proprio tempo, quelle immagini che nell’intento dello scrittore avrebbero dovuto costituire la proiezione naturale di quella società.

  Per Balzac l’individuo sussiste in quanto sussiste un determinato tipo di società che egli ci descrive minuziosamente e esaurientemente e senza la quale il protagonista non potrebbe sviluppare le sue qualità negative o positive, esercitare le sue travolgenti passioni: Goriot, Grandet, Du Tillet, il barone de Nucingen «qui élève les fraudes de l’argent à la hauteur de la politique» agiscono in una società in cui il denaro ha ormai acquistato un ruolo determinante sino a fissare un nuovo grado di aristocrazia: nella struttura della vecchia società francese «l’argent» — come ha giustamente osservato il Bellessort — «rencontrait des barrières que la monarchie et la religion avaient dressées contre lui», il danaro non permetteva ad alcuno di innalzarsi al di sopra della propria classe; ma allorché la nobiltà lascia il campo a un’altra classe sociale, la nuova borghesia, risoluta, cinica, pronta a tutto, allora il denaro diviene il solo e incontrastato dominatore: «Une société où l’aristocratie du sang ne compte plus, où les charges ne sont plus héréditaires, où règne l’élection, légitime et surexcite toutes les ambitions de l’argent. Rien ne suspend sa marche». È in questo ambiente, e soltanto in questo ambiente, che possono agire le figure dei grandi arrivisti e affaristi della Comédie, uomini che accettano ogni compromesso per giungere alla ricchezza in quanto sono sollecitati a una tale linea di condotta dall’evolversi del mondo e della società, quella società che, uscita dalle battaglie rivoluzionarie, sembra ormai svuotata d’ogni forma d’ideale e cerca la sua nuova forza nella potenza dell’ingegno volto alla conquista del potere, con tutti i mezzi, senza esclusione di colpi. I cataclismi storici, aveva detto lo stesso Balzac, «jettent souvent les âmes à l’extremité de leurs tendances»: le condizioni storiche determinano ovviamente l’ascesa di una serie di personaggi che, forse, in altre condizioni sociali, non avrebbero avuto modo di svolgere la loro azione, di sviluppare — diciamolo pure — i loro istinti (si ricordi, nella prefazione alla Comédie, il pezzo classico sull’analogia tra «les Espèces Sociales et les Espèces Zoologiques»). È a questo tipo di società, a una Parigi lacerata e trionfante nella lotta degli interessi («La bataille des intérêts ne s’est-elle pas échauffée à mesure que la société devenait plus foncièrement démocratique? ...» ha scritto assai acutamente A. Le Breton) che Rastignac può lanciare il suo «à nous maintenant» che in altra situazione non avrebbe alcun senso; allo stesso modo il dramma di Goriot e quello di César Birotteau si iscrivono efficacemente in questo milieu ed è grazie a tale ambiente che il secondo non si chiude nei limiti del «beau drame commercial» di cui si svolgono le infinite peripezie giuridiche che Balzac ci offre in tutte le gradazioni e tutti i momenti.

  Quando un personaggio femminile della Comédie dirà che «les assassinats sur la grand-route semblent des actes de charité comparés à certaines combinaisons financières» pronuncerà uno dei giudizi più spaventosi su questa società in cui l’arrivismo non è un fatto sporadico e inspiegabile ma vero e proprio fenomeno sociale che caratterizza un mondo e una classe. La conquista delle grandi leve di potere: le banche, le industrie, i vari rami dell’economia nazionale sollecita la spiccata ricerca di quelle strade che i nuovi ordinamenti aprono agli uomini nuovi privi di scrupoli e pronti ad adattarsi alle richieste dei tempi: studiando e rappresentando questi uomini, le loro passioni e i loro appetiti Balzac costruisce infinite tessere indispensabili alla creazione di quel grande mosaico che è la società del suo tempo; la stessa potente forza dell’amore, osservata con spietata freddezza, è guardata da Balzac nelle sue resultanze sociali, elemento di distruzione, di disordine, amaro elemento di dissolvenza delle strutture della società e con il quale la società deve fare i conti. «Le terrible égoïsme de l’amour», ha, nel quadro sociale che Balzac ci propone, la stessa potenza del denaro, dell’avarizia, dell'ambizione e le figure di donne che l’amore rende esclusiviste e feroci — e di cui tutta l’opera di Balzac è piena (da Le Colonel Chabert a La Duchesse de Langeais, da La Rabouilleuse ad Albert Savarus a La cousine Bette) — trovano sempre una loro giustificazione nel clima sociale in cui si muovono senza contare che la spietata analisi del sentimento amoroso e dell’anima femminile compiuta da Balzac aprirà la strada a un’infinita serie di scoperte in tale campo si che si potrebbe addirittura osservare che, dopo la Comédie, sarà difficile un univoca interpretazione sentimentaleggiante dell’amore ed estremamente improbabile l’accantonamento di una simile visione dell’anima femminile.

  Al nostro discorso s’impone però a questo punto una precisazione ed a proposito del sentimento amoroso non sarà superfluo osservare che Rovani in tale zona della sua narrazione è, sì, vicino a Balzac, ma che quel gusto della sottile disquisizione sulle passioni, il proposito di mettere al centro di un’esistenza la passione d’amore nella sua divorante forza che annulla ogni altro sentimento e in cui si concentra tutta la potenza vitale di un individuo, la serietà profonda con la quale nei Cento anni si discorre delle passioni, tutti questi son motivi dichiaratamente stendhaliani che Rovani assorbe nelle loro articolazioni più segrete e sottili accanto a quell’amabile moraleggiare, anch’esso squisitamente stendhaliano, che a quelle disquisizioni e a quella rappresentazione non di rado s’accompagna con deliziosa ed epigrafica sentenziosità.

  Tornando ora al centro della nostra trattazione non ci sembra fuor di luogo osservare come in realtà tutto ciò che in Balzac è sistematica visione di una società articolata nel modo che s’è detto (in cui gli individui agiscono sotto la spinta, che potremo anche chiamare de- terministica, dell’ambiente) rimane nei Cento anni interpretazione rapsodica di un mondo che non si fa mai società e in cui gli individui interessano lo scrittore più come casi umani che come personaggi di quel mondo. Anche Rovani, sulle orme di Balzac, parte dal tentativo di definire una società ma irrimediabilmente finisce per perdersi dietro il personaggio: per intenderei meglio l’arrivismo del Galantino, (la cui meta suprema è non per nulla la dignità balzacchiana di banchiere e nel quale convergono ovviamente molteplici sollecitazioni balzacchiane, dalla figura del Du Tillet a quella di Rastignac) non è un fenomeno legato alla società del tempo in cui quel personaggio si muove, ma è un fatto personale che si svolge attraverso un ampio arco di anni, che travalica vari tipi di società, guida sicura nello sviluppo dei fatti, intorno alla quale si agitano le passioni e si scatenano i più vari interessi ma che nel suo fondo rimane sempre quello scontro di «péripéties juridiques» in cui un lettore attento soltanto agli eventi esteriori potrebbe risolvere il dramma di César Birotteau. La nostra osservazione mira soprattutto a porre in evidenza il ben diverso piano d’azione sul quale si muovono i personaggi rovaniani che mancano di quella grande scena che è la società della Comédie, una scena che il Rovani non poteva impiantare appunto perché, ben diversamente da Balzac, la società contemporanea intimidiva il suo ingegno e paralizzava la sua mano.

  In realtà poi quella società lombarda degli anni trenta era troppo difficile mondo per uno scrittore della tempra di Rovani: ricca di fremiti prerisorgimentali, apparentemente ovattata ma intimamente fervida ed economicamente in fermento, pronta a puntualizzare i propri problemi politici in una sfera di rapporti diplomatici ardui e complessi, sensibilizzata culturalmente da una serie di interventi che non è qui il luogo di enunciare, la società lombarda avrebbe richiesto un interprete ben più solido e smaliziato del Rovani: la Milano di questi anni non si imponeva al suo narratore come la Parigi degli anni cari a Balzac, e Rovani sconta, per tutta la sua carriera, un errore di partenza: quello cioè di essersi affidato ingenuamente agli schemi della Comédie quando sin dall’inizio, rifiutando un’interpretazione della società lombarda del suo tempo per trasferirsi in una stagione più lontana, egli si accingeva ad un’operazione ben diversa da quella balzacchiana e portava in certo modo all’esasperazione quel culto del passato che alla sua pagina proveniva dall’insegnamento di Carlo Cattaneo il quale doveva informare necessariamente — e sia pure a livello non determinante — anche il discorso del Rovani. Così l’autore dei Cento anni si trova dinanzi una serie di strumenti che egli adopera senza riuscire a farne scattare il meccanismo: così avviene per il celebre «retour perpétuel des mêmes personnages» che nella Comédie si attua attraverso una dialettica sempre nuova e sorprendente ma che nei Cento anni rimane puro espediente narrativo (a proposito del quale Rovani aveva messo le mani avanti nel citato Preludio); così avviene per il rapporto tra personaggi storici e personaggi fittizi che aveva affaticato la mente del Balzac il quale, come è stato osservato, l’aveva sapientemente risolto nel corso della Comédie sostituendo gradualmente personaggi storici con personaggi già impiegati nel corso dell’opera, mentre nei Cento anni l’impiego degli uni e degli altri appare alquanto indiscriminato e discutibile. Dove, ovviamente, il difetto di struttura si rivela più evidente è nell’ideazione di un personaggio come il Galantino che conserva le indicazioni esteriori dei personaggi tipici di Balzac ma che, venendo privato del suo retroterra sociale, concilia il suo arrivismo di marca balzacchiana con una serie di proposte stendhaliane sicché accanto alla fisionomia di un Du Tillet sussiste quella di Julien Sorel che i tempi costringono all’ipocrisia e che per « arrivare» deve ricorrere al seminario, deve camuffarsi, non può aspirare tout court, come il parvenu balzacchiano per sola forza di denaro, alla classe superiore. Il protagonista di Le rouge et le noir non avrebbe mai potuto porsi, dinanzi a Parigi, nell’atteggiamento di sfida che caratterizza Rastignac: il denaro non gli apre ancora quelle strade alle quali egli aspira c che tra il ’20 e il ‘40 (sono questi gli anni dell’ascesa di Rastignac in Père Goriot) il parvenu balzacchiano imboccherà con orgogliosa certezza. Non per nulla Julien Sorel aveva detto a chi avrebbe dovuto giudicarlo: «je n’ai point l’honneur d’appartenir à votre classe; vous voyez en moi un paysan qui s’est révolté contre la bassesse de sa fortune»; e proprio a causa di questa rivolta, e per punirlo di tale sua presunzione, la società lo elimina: ma è una società, appunto, nella quale le vecchie istituzioni conservano ancora tutto il loro fascino, la loro suggestiva potenza. Lo scarto di alcuni anni, di pochissimi anni anzi, determinerà un ben diverso ambiente e un ben diverso costume di vita nel quale il personaggio balzacchiano, ambizioso e arrivista, si ritaglierà la sua bella fetta di successo. Ma in un modo o nell’altro Balzac e Stendhal chiamano in causa la società del loro tempo: quello nella maniera che abbiamo studiato, questi assumendo un atteggiamento di aperto biasimo nei riguardi della società, unica colpevole delle vicende di Julien che condanna a morte al solo scopo di nascondere le proprie colpe nei suoi riguardi.

  Per Rovani, al contrario, non esiste un tipo, una forma di società: i Cento anni lasciano passare dinanzi agli occhi del lettore una serie di momenti storici nei quali, come dicevamo in principio, lo scrittore cerca gli antecedenti di quel mondo nel quale egli vive: ma tale ambizioso intento finisce per dissolversi tra le sue mani dai momento che, anche per il passato, era indispensabile indicare una linea unitaria di svolgimento, dare insomma a quei cento anni di storia un tema unificatore che poteva essere soltanto l’individuazione di un certo tipo di società lombarda nel suo trasformarsi da illuministica in romantica. Le Confessioni nieviane si reggevano in grazia — oltre che, ovviamente, della loro forza poetica — della presenza unificatrice rappresentata dallo spirito del protagonista-autore alla cui immagine finiscono per richiamarsi tutte le vicende e tutti i personaggi; Rovani lascia che i personaggi e le vicende della sua storia si snodino come attraverso una successione che potrebbe durare all’infinito, anni, decenni o secoli: non sorretta dall’animus nieviano né dal pathos balzacchiano di una società in fermento, la narrazione dei cento anni manca appunto di una precisa fisionomia che soltanto il tentativo di accompagnare i mutamenti degli individui attraverso i mutamenti delle strutture sociali poteva con ferirle. Venendo meno tale impostazione le figure del romanzo si muovono svincolate da ogni condizionamento ambientale e le loro azioni, pur succedendosi attraverso un secolo, potrebbero condensarsi in un decennio o in un anno, senza aggiungere che molte figure dei Cento anni, sono, per così dire, intercambiabili ed alcune di quelle che vivono in un determinato periodo storico potrebbero tranquillamente essere spostate al decennio successivo o al cinquantennio precedente: è qui il luogo di minor resistenza del romanzo, in questo pericoloso prescindere da ogni precisa determinazione ambientale che fa singolar contrasto con altre forme di oggettivazione proprie dello spirito rovaniano: è assai curioso, ma anche assai significativo, il fatto che Giuseppe Rovani il quale si sforza, quasi precorrendo i tempi, di dare al suo racconto una veste di assoluta impersonalità, rifugga d’altro lato da ogni puntualizzazione che non sia rigidamente storico cronachistica; egli accantona costantemente ogni possibilità d’interpretazione e di definizione della società ed in tal modo limita aspramente le possibilità di azione dei suoi personaggi rispetto alla propria epoca; tornando, ad esempio, a un personaggio chiave come il Galantino andrà osservato che questo parvenu non possiede in realtà mai un suo ambiente, una società che giustifichi il suo agire, sicché il Rovani è costretto a mescolare nella sua figura le qualità dell’arrivista balzacchiano con l’ipocrisia di Julien, frutto di tutt’altro ambiente. Da tale ibrido insieme vien fuori un personaggio senza dubbio ricco di fascino, ambiguo e imprevedibile ma in certo senso fuori tempo se si pensi che il suo creatore voleva farne il simbolo dei tempi nuovi mentre in realtà esso rimane un’ipotesi di personaggio fedelmente tagliato sul cliché tradizionale dell’avventuriero che le memorie e gli scritti settecenteschi avevano abbondantemente illuminato e tramandato al secolo seguente. [...].

 

  pp. 145-147. A tal proposito va osservato che l’intento del Rovani nei Cento anni «di non rilevar che cose nuove o assai poco conosciute» — da noi già illustrato nelle pagine precedenti — si chiarisce meglio quando si tenga presente che fra queste «cose nuove o assai poco conosciute» lo scrittore non si limitava a inserire esclusivamente momenti e figure trascurati dalla storia ufficiale ma voleva soprattutto che si allineassero tanti spunti, tante notazioni che gli storici debbono di necessità tralasciare: mode del tempo, abitudini, curiosità, scorci di storia del costume: insomma quella ricerca dei détails che, secondo il Balzac, potevano costituire ormai il solo merito «des ouvrages improprement appelés Romans» e che egli voleva «empruntés à la réalité contemporaine, non à l’histoire, non à l'imagination». Rovani trasferisce nell’ambito della ricostruzione storica il concetto balzacchiano del détail; lo immette nel circolo dei suoi interessi per il passato privandolo di quella carica di attualità che gli aveva conferito Balzac e sfiorando così inconsapevolmente l’interpretazione del détail cara ai Goncourt: per Rovani si tratta di inezie trascurabili a prima vista, ma che pure danno da sole il volto di un’epoca e che costituiscono l’efficace intelaiatura sulla quale è possibile annodare l’infinita trama dei grandi avvenimenti che fanno la storia. Aveva scritto il Rovani in un brano dei Cento anni poi espunto dalla redazione definitiva dell’opera: «... a guisa di pitocchi, noi raccogliam per via le carte che altri gettarono e gettan via come inutili e che non furon mai sistematicamente raccolte a far libri; e, a guisa di curiosi, andiam di porta in porta a raccoglier le tradizioni orali di cui cento anni non hanno potuto ancor rompere il filo, tradizioni di cose che l’orgoglio dei letterati in toga disprezza, ma nelle quali sta pure tutta la sincerità del colore onde si ritrae un secolo; nell'attendere al quale assunto ed agli altri fini dell’arte noi non aspiriamo che a fare un lavoro di foggia insolita ...»; un brano che, nei luoghi da noi sottolineati, assai bene definisce il tipo di storia che il Rovani sognava: una storia-curiosità nella quale i piccoli e grandi fatti, eventi storici e vicende private, analisi di costume e studi d’ambiente coesistessero in un’armonia che è al fondo della stessa vita umana.

  Di qui il particolare interesse dello scrittore per tutto ciò che riguarda gli uomini, le loro azioni, anche le più trascurabili, che sembrano destinate a perdersi nella nebbia del tempo ma che in realtà possono determinare anche grossi eventi pubblici. In tal senso il racconto storico al quale aspira Rovani è tipizzato dalla definizione che nel 1828, dettando la prefazione a Les Chouans, il Balzac aveva dato di Walter Scott («un homme de génie, il connaît le coeur humain») aggiungendo che «l’histoire devient domestique sous ses pinceaux» : una storia domestica, appunto, quella sognata dall’autore dei Cento anni il quale, nelle pagine conclusive de Le tre arti, aveva acutamente osservato che «se Walter Scott e Manzoni acquistarono tanta lode per aver riprodotti i grandi avvenimenti di epoche tramontate, non ebbero lode minore quei romanzi che ci condussero attraverso ai segreti, alle miserie, alle piaghe della nostra vita». Si trattava d’altra parte di una storia sostanzialmente diversa da quella ipotizzata e realizzata dall’autore dei Promessi Sposi; se Manzoni infatti vedeva l’uomo muoversi nella Storia sempre dominato dalla presenza del Dio che atterra e suscita, fragile creatura che la Provvidenza avvia su strade a lei sola note, Rovani vuole in un certo senso approfondire il valore, la realtà delle piccole azioni che l’uomo ogni giorno compie, apparentemente trascurabili, in realtà fondamentali anche nella storia di un popolo. [...].

  La Provvidenza è davvero lontana da questo mondo nel quale una piccola meschina donna come l’avvocatessa Falchi (nella cui immagine è facilmente riconoscibile la presenza del Balzac, attento scrutatore e interprete della malvagità femminile: e qui richiamerei soprattutto la figura di Rosalie de Watteville in Albert Savarus, senza riferimenti, è ovvio, alla complessità psicologica di quel personaggio) può, con il suo detestabile comportamento, determinare un fatto fondamentale nella storia d’Italia quale l’uccisione di Prina, o la passioncella d’un uomo di primo piano —- il Beauharnais — per la moglie del conte Aquila condizionare addirittura a fine d’un Regno. [...].

 

  pp. 180-182. A proposito dei quali [i personaggi dei Cento anni] si dovrà anzitutto sottolineare che il modesto impegno posto dal Rovani nella definizione psicologica, o addirittura nell’individuazione dei personaggi e la preferenza da lui accordata a quelle figure che la storia dei cento anni gli forniva così generosamente, sono forse alle origini di quella tipizzazione del personaggio che è senza dubbio uno dei limiti più sensibili della pagina di questo scrittore. Il suo semplicismo psicologico si manifesta soprattutto nel proposito di polarizzare o concentrare uno o più vizi, una o più virtù (aveva scritto Balzac che «les sentiments nobles poussés à l’absolu produisent des résultats semblables à ceux des grandes (sic) vices») in uno stesso personaggio che di quei vizi e di quelle virtù diviene in certo modo il simbolo, il prototipo, diversamente da Stendhal (e qui ci piace chiarire il richiamo che proporremo tra breve) il quale riesce a rappresentarci mirabilmente cento virtù e cento vizi in uno stesso personaggio mentre Rovani, un po’ come Balzac appunto, fallisce totalmente in questo gioco di sfumature. Ma poiché siamo di nuovo tornati a Balzac sarebbe facile a questo punto richiamare ancora una volta la Comédie e ricordare quel che tanti critici hanno osservato sulla simbologia dei personaggi balzacchiani che finiscono per personificare, poco a poco, ognuno un vizio, una tendenza, un modo di vivere, una passione; ha scritto giustamente un critico: «Vous n’avez qu’à nommer Grandet, Goriot, la cousine Bette, le baron Hulot, madame Marneffe, Philippe Brideau, Vautrin ... C’est comme si vous nominiez la passion ou le vice dont ils sont la démarche, les gestes, la figure et la voix ...». Lo stesso Balzac, a proposito del suo César Birotteau, aveva osservato che per sei anni era stato costretto a mantenere «à l’état d’ébauche» quel personaggio «en désespérant de pouvoir jamais intéresser qui que ce soit à la figure d’un boutiquier assez bête, assez médiocre, dont les infortunes sont vulgaires et symbolisent cc dont nous nous moquons beaucoup: le petit commerce parisien» e che aveva trovato la soluzione del problema allorché si era affacciata alla sua mente la possibilità di trasfigurarlo «en en faisant l’image de la probité». Senza dubbio, quindi, i personaggi di Balzac sono costruiti in base a una precisa rispondenza al mondo dei vizi e delle passioni ma la loro simbologia non è mai astratta, esteriore, schematica, destinata com’è a risolversi nell’espressione di eterne forme d’umanità svincolate da un qualsiasi debito con la storia; legate, ma nel medesimo tempo affiancate dai legami col presente, esse vivono nel loro tempo, interamente trascendendolo; è, in fondo, il concetto che lo scrittore illumina efficacemente nell’Avant-propos della Comédie quando osserva: «D’abord, presque toujours ces personnages, dont l’existence devient plus longue, plus authentique que celle des génération au milieu desquelles on les fait naître, ne vivent qu’à la condition d’être une grande image du présent»; diversamente dal Balzac invece il Rovani lega la simbologia dei suoi personaggi al momento storico in cui essi appaiono o vivono; i loro vizi e le loro passioni sono condizionati da una determinata fase storica, addirittura da una breve vicenda che impedisce loro di essere «une grande image du présent» e che esteriorizza ed evidenzia la loro struttura simbologica.

 

 

  Zygmunt Markiewicz, Balzac et la Pologne. Mythes et réalité, «Antemurale», Romae-Londinii, Insitutum Historicum Polonicum – Societas Polonica Scientiarum et Litterarum in Exteris, Vol. XI, 1967, pp. 205-219.

 

  p. 205. Le titre même de cette étude laisse prévoir que pour tâcher de voir clair l’auteur ne pourra pas renoncer au rôle ingrat d’«avocat du diable». Loin de s’opposer à la manifestation de la vérité, il tentera en toute objectivité de présenter les principales pièces de ce procès. Il s’agira donc 1°) d’essayer d’établir ce que la connaissance des milieux polonais a apporté à la vision du monde du grand romancier, 2°) ce que les commentaires politiques de l’écrivain dans la Chronique de Paris doivent à ses relations avec les amis de Mme Hanska, et enfin 3°) en quoi l’ascendant certain de l’«Etrangère» et de sa famille a pu influer sur l’affermissement de quelques opinions de Balzac. Dans cette troisième perspective, malgré l’absence de lettres d’Eveline, plusieurs phrases de la correspondance du romancier permettent d’entrevoir le rôle joué par «Louloup» dans la formation de ces idées conservatrices. Les romans de Balzac, ses articles politiques et ses lettres à Mme Hanska constitueront par conséquent les éléments de notre dossier.

  Sa deuxième partie, par l’analyse sommaire de quelques travaux concernant le problème, essaiera de mettre en relief la dette de la science polonaise envers le créateur de la Comédie Humaine. En effet celui-ci dans son oeuvre assura à la Pologne une place beaucoup plus large que ne le laissait espérer sa difficile situation entre trois occupants; à côté de la riche galerie des Français les personnages nés aux bords de la Vistule occupent une place de choix dans le monde balzacien. […].

 

 

  Gianni Nicoletti, La bocca di Rosmunda, in Saggi e idee di letteratura francese, Bari, Adriatica, 1967, pp. 202-209.

 

  Cfr. 1964.

 

 

  Simonetta Petruzzi, La Sardegna di Balzac, «Nuova Antologia», Anno CII, Vol. 500 fasc. 2000, agosto 1967, pp. 527-537.

 

  [...]. Balzac [...] attraversò l’intera Sardegna nel corso di un suo viaggio nell’isola compiuto nel 1838. Osservatore della vita parigina e provinciale, viaggiatore attento nei suoi soggiorni all’estero, scrupoloso descrittore degli ambienti visitati, egli doveva lasciarci invece della Sardegna un quadro quanto mai sommario, dai colori falsati e foschi, quasi che in lui parlasse, fin dal suo primo accostarsi all’isola, il presagio dell’acerba delusione che vi avrebbe incontrato e della quale uomini e luoghi furono testimoni innocenti.

  A tutti è noto che la vita di Balzac fu costantemente tormentata dal miraggio irraggiungibile de «l’argent». Verso i venticinque anni aveva tentato imprese commerciali che si dovevano rivelare disastrose e compromettere per sempre la sua situazione finanziaria. Così per anni ed anni scrisse tormentato dai creditori o, peggio, dagli usurai e talvolta si imbarcò in fortunose imprese di affari sperando, ma sempre invano, di poter un giorno o l’altro porre fine a «ce perpétuel débat entre la fortune et moi». In queste sue impennate contro il destino avverso giocava, a favore di certe ardite risoluzioni, il suo carattere. «Visionnaire et visionnaire passionné», come lo definì Baudelaire, facile ai grandi entusiasmi, laborioso ed ingenuo, si gettò in queste imprese disgraziate spinto da «mon incandescence» giunta «au plus haut point».

  Fu così che, preso di entusiasmo per un certo progetto, s’imbarcò per la Sardegna. Di questo suo «plan de fortune» e del suo esito infelice abbiamo notizia dalle lettere che ne scrisse a Mme Hanska. Si è detto «scrisse» e non «inviò» poiché talvolta l’estrema povertà di «argent» lo costrinse a ritardare la spedizione: «Je ne sais d’où vous enverrai cette lettre, car j’ai si peu d’argent que je regarde à un affranchissement qui coûte cent sous» (Ajaccio, 27 marzo). E ancora dalle lettere a Mme Hanska possiamo indovinare lo stato d’animo con il quale tentava ancora una volta la fortuna leggendo: «Je suis si fatigué de la lutte dont je vous ai si souvent entretenue, qu’il faut qu’elle finisse, ou je succomberai ... Vous me dites à cela les plus belles choses du monde; mais je vous réponds que tout homme n’a qu’une dose de force, de sang, de courage, d’espoir, et ma dose est épuisée» (Ajaccio, 26 marzo).

  Mentre lo scopo del viaggio egli lo rivelerà alla Hanska soltanto quando il timore di «échouer» si sarà irrevocabilmente dimostrato giusto presagio, in questa sede sarà il caso di procedere con ordine riportando pertanto innanzi tutto l’ultima delle lettere scritte alla Hanska su questa avventura. [...]. (Genova, 22 Aprile).

  In verità, «le malheur de ne pas agir assez vite» si rivelerà a Balzac soltanto alla fine del suo viaggio, ma l’orgasmo nato in lui per questa impresa — che le disperate condizioni economiche nelle quali versava gli faceva apparire quasi questione di vita o di morte — lo rese impaziente e intollerante al punto che i disagi del viaggio gli apparvero anche più gravosi di quanto innegabilmente dovettero essere, gli uomini più incolti e la terra più desolata di quanto non fossero, sicché nell’umore nero con il quale scrisse, l’8 aprile da Alghero, nella prima lettera dall’isola affermò: «l’Afrique commence ici; j’aperçois une population déguenillée, toute nue, brune comme des Ethiopiens».

  Decisamente il viaggio era nato sono cattiva stella: già nel tratto di mare fra Tolone ed Aiaccio le cose erano andate male: «La Mediterranée a été mauvaise; il y a ici des négociants qui croient leur bâtiments perdus ... J’ai horriblement souffert» (Ajaccio, 27 marzo) e «Je l’ai échappée belle. Si je n’avais pas pris la route que j’ai prise et que je fusse venu de Marseille: il y a eu un horrible coup de vent qui a jeté trois navires à la côte». (Ajaccio, 1° aprile). Fortunatamente la navigazione da Aiaccio ad Alghero «dans une gondole de corailleurs» è «assez heureuse»,

 

  mais j’ai connu les privations des marins; nous n’avions à manger que le poisson que nous péchions et que l’on faisait bouillir pour faire une exécrable soupe. Il a fallu coucher sur le pont et se laisser dévorer par les puces qui abondent, dit-on, en Sardaigne. Enfin, ici, nous sommes condamnés à tester encore cinq jours en quarantaine sur cette petite embarcation, en vue du port, et ces sauvages ne veulent rien nous donner.

 

  La lettera è datata Alghero, 8 aprile. Balzac ha appena avuto il primo contatto con l’isola, è la prima volta che nomina i Sardi e non li chiama con il loro nome, ma li definisce «selvaggi» e questo forse perché essi «ne veulent rien donner».

  Che il mare possa essere stato cattivo, che fosse cattiva la zuppa dei marinai, che a bordo fossero tormentati dalle pulci, sono tutte notizie credibilissime, in quanto riferentisi a fatti più che possibili, ma i primi dubbi ci vengono a proposito di quei «sauvages». Più fedeli di altri popoli alle tradizioni e ai sentimenti antichi, ancora oggi i Sardi conservano dell’ospitalità quel concetto di sacro dovere, e piacere, che era presso gli antichi c pur se non donano a chi si allontana dalla loro terra tripodi e tuniche è difficile che li lascino partire a mani vuote: sarà un tappeto, sarà la riproduzione di un bronzetto, sarà una confezione di vernaccia, ma tutti devono riportare dall’isola qualcosa ed è impensabile che si sia soggiornato colà senza che il Sardo ti abbia invitato alla propria tavola. [...].

  A quella feroce lettera balzachiana dell’8 aprile, che si concludeva con la famosa affermazione «l’Afrique commence ici», farà seguito un’altra datata il 17 da Cagliari: «Je viens de faire tonte la Sardaigne, et j’ai vu des choses comme on en raconte des Hurons et de la Polynésie. Un royaume entier désert, de vrais sauvages, aucune culture ...». Ci viene il dubbio che in questa descrizione della Sardegna possa giocare il desiderio, da parte di Balzac, di ingigantire i pericoli, di pennellare tutto a forti tinte, per farsi bello agli occhi di Mme Hanska, cui poi non avrebbe retto il cuore di rimproverarlo, dati i rischi da lui corsi, quando egli avesse finito per «échouer». [...].

  Se vogliamo trovare un Balzac totalmente veritiero dobbiamo limitarci a prendere in considerazione unicamente le affermazioni che troviamo qui alla fine della lettera dove si parla di «profonde misère» e «costumes d’une étonnante richesse».

  Ancora oggi infatti chi vuole visitare l’intera isola s’imbatterà, purtroppo, in luoghi isolati e desolati in cui il tenore di vita dei pochi abitanti corre su un limite più che modesto, mentre della ricchezza degli antichissimi costumi ne siamo testimoni oggi come lo furono cento anni fa, oltre Balzac, lutti coloro che, come lui, compirono un viaggio nell’isola. [...].

  L’altra affermazione balzachiana che risulta tanto poco attendibile è quel «tout est en friche dans le pays le plus fertile du monde». Ad essa si oppone, quasi come un partito contrario, quella del Bresciani contenuta nella lettera dedicatoria premessa alla Descrizione dell’isola di Sardegna: «vedrete s’ella è ubertosa e ferace, e se può stare a concorrenza colle più amene e ricche contrade d’Italia» e sulla quale si ritorna, nel capitolo primo del volume primo della Descrizione stessa. Qui, anzi, parlando con più pacatezza e maggiore precisione il Bresciani mitiga anche un po’ la precedente affermazione che per la sua volontà di polemica lo aveva portato a quella «concorrenza colle più amene e ricche contrade d’Italia» facendolo peccare così per eccesso là dove Balzac aveva peccato per difetto. [...].

  Tuttavia ci pare assurdo che Balzac, sbarcato ad Alghero e recatosi a Sassari, non abbia notato la indubbia particolare feracità di quella zona dell’isola e che poi nel viaggio da Sassari a Cagliari non abbia rimarcato altro che quelle «forêts vierges» che lo lasciarono tutt’altro che affascinato, al contrario delle previsioni del Bresciani, e che non abbia neanche notato gli stupendi aranceti di Milis, presso i quali dovette indubbiamente passare e della cui esistenza doveva essere stato edotto dallo stesso proprietario, marchese di Boyl, che lo aveva ospitato a Torino nel ’36.

Strano ci appare infine che non ci lasci poi neppure una parola sulla città di Cagliari [...].

  Per Balzac, invece, la Sardegna rimase sempre Africa: l’orgasmo prima e la delusione poi gli tolsero quella serenità che è necessaria a ricordare le cose con esattezza e a giudicare obiettivamente gli eventi, mentre per difendere la sua dignità di deluso egli lasciava galoppare la fantasia che con grande pennello dipinse in nero i puri campi della semplice osservazione: ne venne fuori che «l’Afrique commence ici». Figuriamoci la delusione del marchese di Boyl che aveva caldamente esortato Balzac a visitare l’isola ritenendo che sarebbe stato un grande vantaggio per la Sardegna se un uomo di quel talento l’avesse fatta conoscere al mondo come terra assai interessante e degna di una migliore sorte!

 

 

  Dario Puccini e Mauro Carbonoli, I professionisti dell’entusiasmo. Piccola storia della claque, narrata da Balzac, Berlioz, Nerval Gautier, Terzo programma, 29 marzo 1967.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Giuseppe Tabasso, Tre volti per Balzac, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLIV, n. 3, 15-21 gennaio 1967, p. 49.

 

  Breve rassegna dei principali eventi che hanno segnato la carriera di Anne Vernon e Yves Renier, protagonisti dello sceneggiato televisivo tratto da Illusions perdues.

 

 

  Ulderigo, Così i più noti scrittori stimolavano la fantasia, «Il Corriere di Foggia. Settimanale indipendente d’informazioni», Foggia, Anno XIII, n. 20, 18 maggio 1967, p. 3.

 

  Balzac, assai sregolato come uomo, era invece di una meticolosità e di un’esattezza che rasentavano la pignoleria quando si metteva a scrivere uno dei suoi romanzi: alle sei di sera desinava e poi si addormentava saporitamente fino a mezzanotte, ora in cui si destava puntualmente e, dopo aver sorbito un’enorme tazza di caffè, si chiudeva nello studio per lavorare a pieno ritmo, concedendosi una tregua soltanto all’apparire delle prime luci dell’alba.

 

 

  Vice, Controcanale. Le illusioni di Lucien, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XLIV, N. 4, 5 gennaio 1967, p. 9.

 

  Sarà questo l’anno dei teleromanzi importanti? Parrebbe di sì a giudicare da questo inizio di stagione così ricco. Domenica i Promessi Sposi, ieri sera il Balzac delle Illusioni perdute, il romanzo che fa parte della seconda sezione della Comédie humaine. Non è propriamente un solo romanzo ma tre in uno e, nella suddivisione per temi delle opere balzachiane, appartiene a quelle dedicate all’ambizione. Ambizioso infatti è questo Lucien Chardon che assumerà poi il nome di de Rubempré quando la scalata sociale in cui è impegnato richiederà l’ausilio di una particella nobiliare per una migliore presentazione.

  Il clima e quello pieno di intrighi feroci, di amori calcolati, di lotta mascherata da sorrisi per conquistare il potere con tutto quello che ne deriva, clima tipico del periodo della restaurazione in Francia.

  Si parte dalla provincia da dove, nello stile classico del grande romanzo francese, inizia la scalata sociale per concludersi a Parigi. Nella capitale troveremo infatti Luciano in un altro romanzo di Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane, quando. con l’aiuto di un ex forzato capace di mille travestimenti, conoscerà giorni di grandi trionfi ma anche di grandi miserie. [...].

  Il racconto qui procede nonostante la voce del narratore come nei Promessi Sposi, fuori degli schemi semplicemente illustrativi. La vicenda si svolge nei giusti tempi richiesti dal mezzo televisivo, con alternanze ben ponderate dei fatti che interessano i singoli personaggi.

  Inoltre, [...] Le illusioni perdute sembra più completo [rispetto ai Promessi Sposi]. Pensate alle scene nel salotto di Naïs de Bargeton dove i personaggi in azione si muovono secondo un disegno registico che impedisce quei vuoti spaventosi che molti teleromanzi ci hanno quasi abituati.

 

 

  Vice, Controcanale. Ritratto di Max Linder, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XLIV, N. 11, 12 gennaio 1967, p. 9.

 

  Da quanto si è potuto vedere ci pare che il teleromanzo confermi quelle qualità che erano apparse evidenti sin dalla prima puntata e cioè una sveltezza di racconto, una recitazione mai impacciata. L’assoluta mancanza di tempi morti sicché l’attenzione dello spettatore resta sempre desta ed inoltre le scene hanno un sapore di verità altrove difficile da trovare, il regista rivela una completa padronanza del mezzo.

  Non si capisce bene perché Balzac sia stato ritenuto indegno del prima canale, cioè di quello più seguito. Ma questi sono misteri veramente impenetrabili della direzione dei programmi televisivi.

 

 

  Vice, Controcanale. Dignitose illusioni, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XLIV, N. 25, 26 gennaio 1967, p. 9.

 

  [...] il teleromanzo tratto dal testo di Balzac a cura di Maurice Cazeneuve ha riservato ieri sera un colpo d’ala impreveduto e, naturalmente, graditissimo. La cosa è particolarmente significativa poiché il brano dello sceneggiato raccontava uno dei momenti salienti del grande romanzo. In breve, l’esistenza del giovane Lucien De Rubempré, partito colmo di speranze (e di illusioni) dalla nativa Angoulême in cerca di glorie letterarie nella «favolosa» Parigi, si fa sempre più difficile, quasi disperata. Rifiutatosi di cedere il suo manoscritto ad un editore strozzino è praticamente ridotto in miseria. Unico suo conforto è l’amicizia di Daniel D’Arthez, un giovane generoso e di eccezionale intelligenza che lo introduce in un «cenacolo» di entusiasti nel quale Lucien viene accolto con fraterno calore.

  Su consiglio dell’acuto D’Arthez, il giovane si accinge a rielaborare il suo romanzo, ma ben presto le ristrettezze economiche e le continue mortificazioni lo portano ad una condizione di estremo scoramento. Al limite di ogni resistenza, una sera, torna a casa animato dai più disperati propositi, ma gli amici del «cenacolo» — avendo intuito le sue condizioni e la sua intima debolezza di fronte alle avversità — gli offrono una somma raccolta tra loro, diradando momentaneamente i suoi neri pensieri.

  Lucien, tuttavia, non riesce a risolvere il suo dramma interiore avvertendo, al contempo, la necessità imperiosa di perseguire — anche offendendo per orgoglio e presunzione coloro che lo hanno aiutato — le proprie ambizioni. Ossessionato dall’idea del denaro, decide di avvicinarsi al torbido mondo del giornalismo degli anni della restaurazione, pur essendo stato messo amichevolmente sull’avviso dai disinteressati amici del «cenacolo» sugli squallidi compromessi cui dovrà necessariamente piegarsi.

  Così Lucien, attraverso la malleveria equivoca di un giornalista senza scrupoli (ma non senza un certo talento), arriva ad accostare il potente e corrotto editore Dauriat.

  Qui appunto, s’è conclusa ieri sera la puntata, nel corso della quale se pure non ci sono sfuggiti i rimaneggiamenti – a volte eccessivamente disinvolti quali le immissioni di figure che fanno parte di «miserie e fasti nelle cortigiane» e non già delle «illusioni» – i passaggi risolti troppo bruscamente nell’arco della narrazione, riteniamo, tutto sommato, che il programma sin riuscito a mantenere un ritmo e un livello di singolare efficacia drammatica. Cosa che anche se è, come si può comprendere, ben lontana dalla emozione che può suscitare la lettura dell’originale balzachiano, depone comunque a favore di questa trasmissione televisiva [...].

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Gli Chouans. Romanzo di Honoré de Balzac. Traduzione e libero adattamento di Naro Barbato. Compagnia di prosa di Firenze della RAI. Regia di Dante Raiteri, 27 marzo-13 aprile 1967, sei puntate.

 

 

 

Adattamenti televisivi.

 

 

  Illusioni perdute di Honoré de Balzac. Riduzione e regia di Maurice Cazeneuve. Musiche di Tony Aubin. Scene di Paul Pelisson, Jean Thomen, Michel Rech. Costumi di Christiane Coste, Pierre Cadot. Personaggi e interpreti: Lucien de Rubempré, Yves Bernier;Naïs de Bargeton, Anne Vernon; David Séchard, Serge Maillant; Ève Chardon, Claude Marcault; Signor di Bargeton, Louis Arbessier;Signora Chardon, Jeannine Crispin. Produzione O.R.T.F - RAI - ZDF), Secondo programma, 4 gennaio-15 febbraio 1967, sette puntate.



[1] Cfr. G. Delattre, Les opinions littéraires de Balzac, Paris 1961, p. 208, e, sui lauti pranzi flaubertiani, J.-P. Richard, Littérature et sensations, Paris 1964. [N. d. A.].

[2] Falthurne, manuscrit de l’abbé Savonati. Texte inédit, établi et présenté par P.-G. Castex, Paris 1950, p. 34. [N. d. A.].

[3] E. Zola, Gustave Flaubert in Les Romanciers naturalistes, Bernouard, Paris 1948, p. 108. [N. d. A.].

[4] Secondo P. Barbéris, Aux Sources de Balzac - Les romans de jeunesse, Pariss 1965, p. 84, Balzac è l’unico autore di questo romanzo: affermazione contraddetta dallo stesso Balzac. Il Barbéris, il più recente studioso di questa produzione giovanile, ne è anche un troppo acceso rivalutatore. Tutti i romanzi giovanili di Balzac sono stati riprodotti in fac-simile recentemente nelle edizioni «Les Bibliophiles de l’original»: riproduzione dell’edizione originale e rilegatura identica a quella dell’esemplare di Balzac conservato nella collezione Lovenjoul di Chantilly. Le nostre citazioni si riferiscono a questa edizione.

 

[5] Cfr. E. Zola, Du Roman, in Le Roman expérimental, Bernouard, Paris 1928, p. 170.



Marco Stupazzoni

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