lunedì 27 luglio 2020



1964

 



 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, I Capolavori della “Commedia Umana”. I. Papà Goriot - Il Colonnello Chabert - Un tenebroso affare - Facino Cane - Sarrasine. Introduzione di Pietro Paolo Trompeo. Traduzioni di Renato Mucci, Oete Blatto, Maria Ortiz, Roma, Gherardo Casini Editore, 1964 («I Grandi Maestri», 3) pp. XI-480.

 

  Cfr. 1950.

 

 

  Honoré de Balzac, I Capolavori della “Commedia Umana”. III. Storia della grandezza e della decadenza di Cesare Birotteau – I Parenti poveri: Il cugino Pons – Il rovescio della storia contemporanea – Il curato di Tours, Roma, Gherardo Casini Editore, 1964 («I Grandi Maestri», 10), pp. 718.

 

  Cfr. 1952.

 

 

  Honoré de Balzac, I Capolavori della “Commedia Umana”. IV. L’illustre Gaudissart – Il Gabinetto delle Antichità – I Contadini. A cura di Paolo Russo, Roma, Gherardo Casini Editore, 1964 («I Grandi Maestri», 32), pp. 597.

 

  Cfr. 1958.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. A cura di Maria Luisa Belleli. Con 16 tavole di Aligi Sassu, Roma, Curcio Editore, 1964 («I classici Curcio»), pp. 252.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. A cura di Gemina Fernando. Ristampa, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1964 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni», 142), pp. 263, 1 ritratto.

 

  Cfr. 1951; 1959.

 

 

  Honoré de Balzac, Fisiologia del matrimonio. Traduzione dal francese di Maghinardo Baviera, Milano, Edizioni del Borghese, (giugno) 1964 («I Libri del Borghese», n. 24), pp. VI-318.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Maghinardo Baviera, Prefazione, pp. I-VI. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Fisiologia del matrimonio, pp. 9-313.

 

  Questa versione italiana de La Physiologie du mariage (nel complesso corretta) inizia con la Meditazione I. Il soggetto, omettendo la traduzione tanto della Dédicace quanto dell’Introduction.

 

 

  Honoré de Balzac, Gobseck. Traduzione di Marisa Lolli, Milano, Rizzoli Editore, (luglio) 1964 («Biblioteca Universale Rizzoli», 2116), pp. 90.


  Struttura dell’opera:

 

  Marisa Lolli, Nota, pp. 5-8. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Gobseck, pp. 8-89.


  Il testo è suddiviso in quattro capitoli secondo il modello dell’edizione originale Mame-Delaunay (aprile 1830); la traduzione, nel complesso corretta, si fonda sul testo dell’edizione Furne del 1842.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. A cura di Marina Juvalta. Ristampa, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1964 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni», 100), pp. 329, 1 ritratto.

 

  Cfr. 1957.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. La ricerca dell’assoluto. Prefazione di Silvio Locatelli, Traduzione di Maria Serena Battaglia, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1964 («I classici di tutti i paesi», 14), pp. 543.

 

  Cfr. 1958.



  Honoré de Balzac, La pelle viva. Libera riduzione da “La pelle di zigrino” di Honoré de Balzac, «I Romanzi Diabolici», Roma, Anno II, N. 20, 1 Agosto 1964, pp. 127.

 

  Questa discutibile riduzione del romanzo balzachiano è preceduta dalla seguente Premessa (pp. 3-4):

 

  Nella raccolta dei «Pensieri, soggetti, frammenti» di Honoré de Balzac, si trova questa nota: «L’invenzione di una pelle che rappresenti la vita. Racconto orientale». E’ la prima idea di questo romanzo, che non doveva affatto diventare un racconto fantastico, orientale, bensì, al contrario, una storia contemporanea, parigina.

  La pelle di zigrino, animale dell’oriente, le cui origini si perdono nell’antichità e la cui bellezza e agilità hanno dato luogo a molte leggende. Mosè, secondo la Bibbia, aveva proibito di accoppiarlo ai suoi congeneri. Da qui la sua rarità. Lo zigrino è il re zoologico dell’Oriente. Le superstizioni turche e persiane gli attribuiscono un’origine magica, e il nome favoloso di Salomone si mescola ai racconti dei narratori del Tibet e della Tartaria, intorno alle prodezze attribuite a questo nobile animale.

  Balzac ha fatto di un frammento della sua pelle, la vita umana stessa, che i desideri e la troppa passionalità conducono fatalmente a morte. Nel suo ineluttabile consumarsi, è l’impossibilità di ogni aspirazione che ecceda i limiti umani. Il Satanico antiquario che la regala al protagonista del libro ne fa il simbolo dei due elementi che corrodono la linfa vitale: volere e potere. In effetti, per sopravvivere a questi due termini, che raccolgono tutto, c’è un solo mezzo: non desiderare più niente. Cosa praticamente impossibile, che equivale a una morte nella vita. A questa pelle di zigrino è legato un incantesimo, secondo il quale colui che la possiede può soddisfare all’istante ogni suo desiderio, al prezzo, però, di un simultaneo raccorciamento della pelle e della vita stessa. La morte coinciderà con la fine del talismano.

  Romanzo strano, allucinante, angoscioso, che porta l’intelligenza e la filosofia sul piano della magia. Esso rappresenta il tentativo di Balzac di svincolarsi dal suo colorito realismo, per conquistare sfere di più intensa spiritualità. Esso è il capolavoro del grande romanziere francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Gli Sciuani. Romanzo, Milano, Club degli Anni Verdi, (giugno) 1964 («Anni Verdi», 47), pp. 247.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Presentazione, pp. 11-13; [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Gli Sciuani, pp. 15-199;

  La Pensione Vauquer, pp. 201-246.

 

  Il romanzo è suddiviso in tre parti non titolate senza la trascrizione della dedica a Th. Dablin. Fin dall’inizio, il lavoro di traduzione è stato condotto con estrema imperizia, singolare libertà e scarsa aderenza al modello francese. Si consideri, come esempio, proprio l’incipit del romanzo:

 

  p. 505. [cfr. Balzac, Les Chouans ou la Bretagne en 1799, a cura di Lucienne Frappier-Mazur, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléaide’, 1977, t. VIII].

 

  Dans les premiers jours de l’an VIII, au commencement de vendémiaire, ou, pour se conformer au calendrier actuel, vers la fin du mois de septembre 1799, une centaine de paysans et un assez grand nombre de bourgeois, partis le matin de Fougères pour se rendre à Mayenne, gravissaient la montagne de la Pèlerine, située à mi-chemin environ de Fougères à Ernée, petite ville où les voyageurs ont coutume de se reposer. Ce détachement, divisé en groupes plus ou moins nombreux, offrait une collection de costumes si bizarres et une réunion d’individus appartenant à des localités ou à des professions si diverses, qu’il ne sera pas inutile de décrire leurs différences caractéristiques pour donner à cette histoire les couleurs vives auxquelles on met tant de prix aujourd’hui, quoique, selon certains critiques, elles nuisent à la peinture des sentiments. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 17. Durante i primi giorni di settembre del 1799, un centinaio di contadini e un numero abbastanza grande di borghesi tutti partiti la mattina da Fougères per dirigersi a Mayenne, salivano la montagna detta Pelerine, posta a metà strada tra la città di Fougères e quella di Ernée. Questi uomini, divisi in gruppi, offrivano alla vista una collezione di abiti così bizzarri, che vale la pena descriverli.

 

  Segue la traduzione delle prime venticinque pagine del Père Goriot, inserite, alla fine del volume, con funzione eminentemente riempitiva.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Vittorio Lugli. Traduzione di Marise Ferro, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1964 («Nuova Universale Einaudi», 42), pp. XX-571.


  Struttura dell’opera:

 

  Vittorio Lugli, Prefazione, pp. VII-XX. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Splendori e miserie delle cortigiane, pp. 1-569.

 

  Per la presente traduzione, è stata seguita l’edizione curata da Antoine Adam per i “Classiques Garnier” (1958), anche per quel che riguarda le note al testo.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Presentazione, in Honoré de Balzac, Gli Sciuani ... cit., pp. 11-13.

 

  Honoré de Balzac, il più grande scrittore francese dell’ottocento, scrisse una cinquantina di volumi nella sua breve vita (cinquant’anni! Nacque nel 1799 e morì nel 1850), romanzi che radunò sotto un unico titolo: La commedia umana, e che descrivono la Parigi e la società della sua epoca, cioè quella che va dalla fine della Rivoluzione alla fine del regno di re Luigi Filippo. Egli, in quell’opera immensa, volle descrivere l’uomo e la donna di diversi ceti sociali nelle loro passioni e nei loro caratteri e riuscì a costruire una galleria di personaggi straordinari, mai descritti e rappresentati in nessuna letteratura.

  Gli Sciuani Les Chouans in francese, è l’unico romanzo storico scritto da Balzac (se non si toglie qualche novella e L’envers de l’histoire contemporaine, che hanno appena uno sfondo storico). E’ anche il primo firmato col suo vero nome. Negli anni precedenti Gli Sciuani, egli aveva scritto romanzi popolareschi sotto lo pseudonimo di Horace de Saint Aubin. I romanzi successivi, quelli che gli daranno la fama e la gloria, sono più completi e sono soprattutto lavori di finissima psicologia oltre che essere la base del romanzo realista come si svilupperà, di anno in anno, di scuola letteraria in scuola letteraria, fino ai nostri giorni.

  Gli Sciuani è un romanzo che si può definire romanzesco. I personaggi sono romantici, esaltati e fuori di quella che noi, abituati al naturalismo (che non è sempre vero) chiamiamo «verità umana». Ma quanto prestigiosa bellezza nel carattere di Maria di Verneuil! Ella è quella che i romantici chiamavano una «anima di fuoco». Appassionata, seducente, libera, instabile, pronta all’odio come alla vendetta, pronta all’amore come all’immolazione, è uno dei personaggi romantici più avvincenti.

  Vicino ad essa si muovono caratteri estremamente realisti: la spia Corentin, astuto e perfido; il comandante Hulot, onesto, leale, diritto, pieno di una ruvidezza di soldato che non esclude una gentilezza di cuore e di maniera degne del più sensibile signore. Il contrapposto di Maria di Verneuil, il giovane capo Sciuano, non le è inferiore in romanticismo, ma non è affascinante come lei. Egli non ha l’anima di fuoco.

  La storia d'amore di Maria di Verneuil è nel centro di una vicenda storica, la Sciuaneria, e nel cuore di un paese dove si svolse la lotta Sciuana: la Bretagna. Che cosa fu la Sciuaneria? Una insurrezione monarchica in opposizione alle conquiste rivoluzionarie, che mise in moto soprattutto i contadini della Bretagna e della Normandia poiché nelle loro terre si erano rifugiati molti aristocratici perseguitati e perché la posizione geografica del loro paese, in faccia alla Manica, permetteva comunicazioni con l’Inghilterra dove si erano esiliati i monarchici fuggiti per non morire sulla ghigliottina. Tale guerriglia, più che guerra, fu capitanata nella sua prima fase da un certo Jean Cottereau, detto Chouan, e da lui prese il nome. Egli incitò i suoi compaesani a rifiutare di servire la Repubblica instaurata per opera della Rivoluzione, li armò e si mise, con essi, fuori legge. Per rimettere ordine in quelle province ribelli il nuovo Stato mandò truppe regolari di soldati. La Sciuaneria fu una guerra civile e una lotta partigiana insieme. Fu una ribellione inutile poiché i tempi si evolvevano per quella fatalità che vuole l’umanità sempre in cammino verso conquiste politiche e sociali nuove, anche se fatte nel sangue e con armi alla mano. Tutti i capi Sciuani, difatti, finirono o uccisi in battaglie o imboscate o giustiziati sulla ghigliottina.

  Il Gars, il capo Sciuano descritto da Balzac, è personaggio di fantasia, ma è ricalcato su modelli veri. E la sua storia, che è una storia d’amore e di morte, in quell’epoca di cupi eroismi, era una storia possibile, anche con i suoi fanatismi e i suoi foschi eccessi, tutti i giorni.

 

 

  Due romanzi alla radio, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XX, N. 147, 24-25 giugno 1964, p. 11.

 

  Giovedì 2 luglio, alle 17.45, nella rubrica «Radiosalotto» del secondo programma radiofonico, andrà in onda la prima delle quattro puntate di Gli impiegati, romanzo di Honoré de Balzac, adattato per la radio da Enrico Vaime. La regia è di Giorgio Bandini. L’interpretazione è affidata alla Compagnia di prosa di Torino della R.A.I.

  La trama è la seguente. Poiché il barone di La Billardière, capo divisione del ministero, è in fin di vita, si accende la lotta alla successione tra i due capi ufficio, Rabourdin e Baudoyer, e le loro rispettive famiglie che ne spalleggiano le aspirazioni. Rabourdin sarebbe il successore di diritto, per la sua anzianità, la sua capacità, la sua serietà. Baudoyer invece, ha altrettante possibilità di riuscire per le sue capacità di intrigo.

  Grandi alleate del due antagonisti sono le rispettive mogli: la signora Rabourdin, giovane e bella, non esita a usare le arti della dolce lusinga per conquistare il segretario generale del ministero, il signor Des Lapeaulx, e lo stesso ministro; la signora Baudoyer si batte a sua volta con le armi di concrete promesse di benefici per coloro che debbono prendere l’importante decisione, non trascurando nemmeno di scatenare una efficace campagna della stampa conservatrice; per cui Lapeaulx, dimentico degli smaglianti sorrisi della signora Rabourdin, e attratto dalla possibilità di far suoi certi terreni, si orienta verso la nomina dell’insignificante Baudoyer, motivando la sua decisione, dinanzi al meravigliato ministro, con la scoperta di un documento che comprometterebbe la posizione dello sfortunato Rabourdin.

 

 

  Balzac poliziotto, «Il Gargano. Organo di rinascita garganica», Foggia, Anno XV, N. 6, 30 giugno 1964, p. 3.

 

  Balzac è tra i padri del romanzo poliziesco? Il grande romanziere aveva effettivamente la passione degli intrighi che fioriscono intorno ai fuorilegge e ai forzati. Il pubblico adorava le storie di evasi, e, nelle appendici dei quotidiani, abili manipolatori lavoravano a soddisfare questo gusto. Splendori e miserie delle cortigiane, che esce in questi giorni nella «Nuova Universale Einaudi» tradotto da Marise Ferro, è un gremito e patetico «giallo» ma di ben altro livello artistico. «Anche dove l’intrigo è falso, i personaggi sono veri — scrive Vittorio Lugli nella sua introduzione — E nessuno fra gli specialisti del genere aveva mai raggiunto un così felice effetto di ansiosa sospensione».

  E’ la storia di Lucien de Rubempré, della bellissima Esther «la cortigiana romantica redenta dall’amore», e dell’evaso Vautrin, che vuole saziare la sua fame di vita e di potenza attraverso il debole Lucien, innalzandolo alla ricchezza. al grande matrimonio, e agli onori.

 

 

  Un romanzo sceneggiato da Enrico Vaime. «Gli impiegati» di Balzac, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XLI, N. 27, 28 giugno-4 luglio 1964, p. 22.

 

  Tutta una serie nota e fortunata di opere letterarie e teatrali francesi sul mondo della burocrazia, che va da Maupassant a Courteline e continua a dilettare milioni di lettori e di spettatori, ha forse il suo capostipite ne Gli impiegati di Honoré de Balzac, nell’affresco in cui quel formidabile osservatore ha fissato una piccola burocrazia ministeriale di tempi ormai lontani, dando tra l’altro dell’impiegato una delle più incisive e agnostiche definizioni: «un uomo che scrive seduto in un ufficio» (e, a coronare l’agnosticismo, il personaggio a cui è dovuta la definizione, l’usciere, aggiunge, a dimostrazione dell’importanza dell’impiegato: « che cosa saremmo noi senza di lui?»).

  Parigi 1830, dunque. Divisione Ministeriale la Billardière, i cui impiegati paiono un campionario della fauna burocratica di sempre: l’intrigante spione, il geniale pettegolo e sfaticato, il vecchio onesto e metodico, il mediocre ossequioso, il giovane affamato e arrivista, l’oppositore politico tacitato con uno stipendio, il lavoratore serio e riservato. La divisione, o meglio i suoi signori impiegati, è in fermento, perché il vecchio capodivisione, Barone Flamet De la Billardière Attanasio Giovanni Francesco Michele è morto, lasciando aperto il problema della successione. Il nuovo capo sarà Saverio Rabourdin, onesto, intelligente, attivo, ma imprudente al punto da preparare e custodire malamente un suo progetto di riforma burocratica (il che costituisce — ci assicura tutta la letteratura sulla burocrazia — il massimo dell’imprudenza) oppure l’incapace Isidoro Baudoyer, che conosce alla perfezione una sola arte quella di dare ed avere, di scambiare su una perfetta bilancia i favori resi e ricevuti? Le armi si affilano, ciascuno si prepara a giocare le sue carte. Mentre Rabourdin conta sulla sua onestà e sul suo diritto e Madame Rabourdin, più spregiudicatamente, sul proprio fascino femminile usato come mezzo di convinzione nei riguardi del segretario generale, Clemente Des Lupeaulx, in casa Baudoyer si punta sugli appoggi, le amicizie e i ben calcolati ricatti, da esercitare sul medesimo signor Des Lupeaulx. Chi vincerà è fin troppo facile immaginarlo, ma, insieme all’amarezza con intrighi del mondo della restaurazione, c’è in Balzac la vivacità e il brio della commedia, il gusto di indagare nel microcosmo burocratico.

  Di questo romanzo, che si iscrive nella Commedia Umana tra le scene di vita parigina, Enrico Vaime, giovane autore non alle prime armi con il lavoro radiofonico, ha approntato uno svelto adattamento in quattro puntate, che ne semplifica l’intrigo conservandone io spirito. La prima puntata, introduzione e presentazione del tema, è una spigliata e gustosa galleria di personaggi.

 

 

  Balzac poliziesco?, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XX, 22-23 luglio 1964,p. 5.

 

  Balzac è tra i padri del romanzo poliziesco? Il grande romanziere aveva effettivamente la passione degli intrighi che fioriscono intorno ai fuorilegge e ai forzati. Il pubblico adottava le storie di evasi e, nelle appendici dei quotidiani, abili manipolatori lavoravano a soddisfare questo gusto. «Splendori e miserie delle cortigiane», assai ben tradotto da Marise Ferro (Einaudi - L. 2000) è un gremito e patetico «giallo» ma di ben altro livello artistico. «Anche dove l’intrigo è falso, i personaggi sono veri — scrive Vittorio Lugli nella sua introduzione — e nessuno fra gli specialisti del genere aveva mai raggiunto un così felice effetto di ansiosa sospensione».

  E’ la storia di Lucien de Rubempré, della bellissima Esther «la cortigiana romantica redenta dall’amore», e dell’evaso Vautrin, che vuole saziare la sua fame di vita e di potenza attraverso il debole Lucien, innalzandolo alla ricchezza, al grande matrimonio e agli onori.



 L’avventura sarda di Balzac. Conversazione, Terzo Programma, 8 agosto 1964, ore 19.20.

 

 Trasmissione radiofonica.

 

 

  L’epistolario di Balzac. Gli rubarono (a Milano) l’orologio d’oro, «Corriere della Sera», Milano, Anno 89, N. 238, 18 ottobre 1964, p. 11.

 

  L’epistolario di Balzac, che le edizioni Garnier stanno pubblicando, è giunto al terzo volume, uscito da poco. Si va dal 1836 al 1838 e in questi anni Balzac per tre volte soggiorna in Italia (a Torino, a Milano e a Genova).

  Il primo viaggio ha inizio il 25 luglio 1836 ed è compiuto in compagnia di «Marcel». cioè di Carolina Marboury travestita e si limita a Torino.

  Il secondo viaggio comincia il 14 febbraio 1837. Balzac arriva a Milano cinque giorni dopo e prende alloggio alla Bella Venezia in piazza San Fedele. La «società» milanese lo accoglie calorosamente: i Sormani-Andreani, gli Archinto, la marchesa Trivulzio, il barone Galvagna. la contessa Maffei (e lo si vede dallo scambio di lettere) gli usano molte cortesie.

  Ma il soggiorno è movimentato da un fatto curioso: il 28 febbraio Balzac subisce il furto dell’orologio. Nell’epistolario c’è la lettera con la quale denuncia l’accaduto. Essa dice: «Alle quattro e mezzo, sopraggiungendo dalla contrada Magnani sulla piazza San Fedele, all’angolo dell’albergo Bella Venezia. un giovane, molto alto, si è buttato su di me e, afferrandolo per la catena, mi ha sottratto l’orologio.

  La catena vale 150 franchi, l’orologio 800 franchi. E’ a ripetizione e il quadrante ha cifre romane. La chiavetta è d’oro e attaccata con due catenelle dello stesso modello di quella più grande».

  Ma la sera stessa il principe Porcia, ciambellano dell’imperatore Ferdinando I, comunicava a Balzac: «Il ladro è stato preso. La storia del furto è già diffusa in tutta la città. Riavrete l’orologio e il vostro nome darà persino sveltezza alla nostra polizia».

  L’anno seguente, il 21 aprile sbarca a Genova e prosegue subito per Milano. Vi rimane due mesi e per ridare un’immagine di come fosse gradito basta trascrivere quel che il 6 giugno la contessa Terzi gli scrive: «Le mie figlie ed io non possiamo rassegnarci all’idea di non rivedervi. Venite dunque a darci un saluto questa sera, nell’ora che più vi piacerà: per tutto il resto della giornata sarò in casa».

 

 

  Vittorio Abrami, Balzac: un universo ancora da esplorare, «Il Popolo. Quotidiano della Democrazia cristiana», Roma, Anno XXI, N. 211, 9 Agosto 1964, p. 3; 1 ill. [Balzac in una scultura di Rodin].

 

  L’opera del grande scrittore francese, che unisce il profondo realismo sociale alla visione dichiaratamente cristiana della vita, torna ad essere oggetto di un vivace interesse critico nella prospettiva dell’esperienza odierna.

 

  Domandava le parole al silenzio notturno e la compagnia ad una vecchia caffettiera di porcellana alla quale aveva finito per assomigliare. L’immagine del maestro di Tours, avvolto nella sua ampia vestaglia, di fronte ai suoi fogli tormentati, il suo caffè ed i suoi fantasmi, è una delle più pittoresche e patetiche di tutte le letterature.

  Volete dunque conoscere l’orario di lavoro di Balzac? Andava a letto alle sei di sera; si alzava a mezzanotte; lavorava difilato fino a mezzogiorno.

  E’ stato a quel modo che ci ha lasciato il frutto della sua bontà creatrice: «La Comédie humaine».

  La magia evocativa di quei volumi, la sicurezza di presentazione, e vitalità dei suoi duemila personaggi, avevano stupefatto anche i lettori dei suoi tempi. Non era raro che gli venisse domandato: «Ma come fate ad aver il tempo di osservare in quel modo?». Honoré de Balzac rispondeva sorridendo: «Come volete che abbia il tempo di osservare? Ho appena quello di scrivere».

  Come tutti i creatori. Balzac sapeva certo prendere appunti cogli occhi; ma, soprattutto, portava il mondo nel suo cervello e nel suo cuore. Come Shakespeare, si potrebbe aggiungere. Perché solo il grande visionario può essere un grande realista, vivendo nel mondo dei fatti. In quanto vive in quello della verità (e non viceversa: quest’ultima essendo l’illusione del letterato «realista»).

  Balzac: un collo taurino, una mascella forte, una fronte olimpica ed un occhio un po’ sognante: il volto di un visionario padrone dei suoi sogni.

  Rodin ha visto Balzac meglio di molti biografi che insistono regolarmente sul lato caricaturale del personaggio, senza intuire la sua personalità creatrice; lo ha raffigurato nel modo più felice: avvolto snella sua famosa vestaglia, massiccio e tuttavia non terrestre (ha lo sguardo volto verso l’alto come conviene a titani e poeti del suo stampo).

 

Aneddoto.

 

  Honoré de Balzac era un uomo piacevolissimo nella sua vita privata, dotato di una pazienza inesauribile. Conoscete l’aneddoto sul tentativo di furto alla sua abitazione in rue Cassini a Parigi? Lo scrittore sorprende dunque un ladro in piena notte, al «lavoro». Scoppia in una risata omerica e gli dice: «Mio povero amico, voi vi affannate a cercare di notte quello che io non riesco a cercare nemmeno di giorno». E, accompagnatolo alla porta, riprende a scrivere.

  Sui suoi metodi di documentazione e sulla loro ingegnosità, eccovi un episodio (probabilmente aneddotico).

  Si racconta dunque che una volta inviò un domestico al suo editore, col pacco del manoscritto sottobraccio. Dopo qualche settimana, si presenta lui stesso, agitando la celebre canna da passeggio col pomo d’oro. Domanda notizie del lavoro e l’editore cade dalle nuvole. Finalmente si riesce a scovare il manoscritto in cantina. C’è segnato in rosso di pugno dell’editore: «Cattiva imitazione di Balzac. Da non pubblicarsi». S’impappina e biascica delle scuse. «Perdonatemi, maestro, ma siete molto distratto». Balzac sorride. Si era «dimenticato» di firmare il manoscritto!

  L’uovo di Colombo di Honoré de Balzac è stato quello di non limitarsi a darci una storia limitata a «lui», «lei» e «l’altro», ma a presentarci un quadro completo, a scene successive, della società. Tutti gli ambienti sociali — o quasi — ci sfilano di fronte, con una precisione ed un rilievo stupefacente. C’è il medico, il commerciante, il contadino, l’impiegato, la donna del bel mondo e la prostituta. Vi sono dei personaggi che non dimenticheremo più: il patetico Goriot, il sinistro Gobseck, l’inquietante Vautrin, il languido Rubempré, l’ilare Gaudissart, l’isterica «cugina Bette», l’irritante e comico Grandet e così via.

 

Fede cattolica.

 

  Lo scrittore di Tours rimane — assieme a quello di Grenoble — il romanziere più ammirato, studiato e celebrato dell’Ottocento francese e continua ad imporre la sua prepotente presenza nel nostro tempo. C’è stato chi ha passato la sua vita a leggerlo e rileggerlo scoprendovi sempre nuove bellezze: citiamo soprattutto Marcel Bouteron (e, per Stendhal, Martineau). Tra i cattolici, gli ammiratori dell’uomo che scriveva di comporre alla luce della verità eterna religiosa («J’écris à la lueur de deux vérités éternelles: La Religion, la Monarchie», nella prefazione alla «Comédie Humaine») sono numerosi. Va ricordato soprattutto Béguin che chiarì l’importanza del cristiano Balzac, al di là di certe fantasticherie prese a prestito da Svedenborg (sic) o Saint-Martin, ed il legittimismo ideologico raccolto nel salotto della duchessa d’Abrantès. Non è possibile trascurare un altro studioso di Balzac, Curtius, che seppe presentare — in un saggio rimasto forse insuperato — il valore filosofico ed etico della «Comédie Humaine», distruggendo le vecchie interpretazioni di Sainte-Beuve e Weiss. Meno persuasivo Gaétan Picon, che in un volumetto molto diffuso anche all’estero, confuse spesso Balzac col suo Malraux. Arbitrarie anche le interpretazioni di Lukács e di Wurmser (in un saggio uscito proprio in questi giorni presso l’editore parigino Gallimard).

  André Maurois prepara da tempo una biografia di Balzac. Nella sua ultima raccolta di saggi vanno appunto sottolineate — accanto a pagine di intelligente volgarizzazione su altri autori — quei fogli dedicati ad Honoré de Balzac e che potrebbero costituire un frammento della biografia dell’uomo di Tours (A. Maurois, De La Bruyère à Proust, Edizione Fayard, Parigi, 1964; A. Wurmser, La Comédie inhumaine, Editore Gallimard, Parigi, 1964).

  Vi potremmo citare ancora altri studi — più brevi, ma non senza interesse — apparsi recentemente su giornali e riviste, e che hanno per oggetto l’inesauribile «Comédie Humaine».

  Balzac continua dunque ad essere ammirato da critici e studiosi delle tendenze più differenti, e, a volte, delle correnti più opposte. E’ un’altra riprova della ricchezza del mondo balzacchiano, trascendente la figura stessa del suo creatore, che, per certi aspetti, appartiene al suo tempo e non al nostro.

  Il suo messaggio rimane dunque attuale. Lo scrittore si è rifiutato di idealizzare la società e non ha esitato a mostrarcene piaghe. Lo ha fatto senza furori, senza fanatismi e senza profetismi (contrariamente a quello che pretende Wurmser). E senza disperazioni.

  La sua visione rimane quella di un pessimista sorridente, che sa come in un mondo come il nostro si possa fare fallimento come il suo César Birotteau, il commerciante vittima della sua scrupolosa onestà, e che potremmo avere delle grosse delusioni anche facendo il bene come Goriot, martire del suo affetto paterno.

 

Idolatria dell’oro.

 

  Ma se Balzac non è un utopista, è ancora meno un complice: sa vedere nella superstizione dell’oro, la colpa della società.

  La fine di Balzac fu tragica. Morì, come aveva previsto nella «Peau de Chagrin», ancora nella maturità; a cinquantun anni. «Morrò spossato, morrò di lavoro e d’ansietà, lo sento ...» (in una lettera del 1847).

  Ma per quale follia preferì dunque bruciare a quel modo l’esistenza, se poteva anche rendersene conto? Perché era illogico come tutti gli artisti, che fanno il sacrificio della loro vita per aiutare gli altri a vivere; noi tutti, Ma nella sua notte intravedeva il sole: «La gloria è il sole dei morti».

 

 

  Maghinardo Baviera, Prefazione, in Honoré de Balzac, Fisiologia del matrimonio ... cit., pp. I-VI.

 

  Esordio d’un autore trentenne assetato di notorietà e di scandalo, la Phisiologie (sic) du Mariage s’inscrive come scolta avanzata rispetto alla compatta adunata di romanzi, al poderoso assembramento di personaggi della Comédie humaine. Alle soglie della Comédie, di questa sanguigna epopea borghese dove il denaro è diventato linfa vitale e ragione stessa dell’esistenza di una società che ha ridotto costumi e sentimenti a convenzioni sopravvissute soltanto come svuotati ricordi, ci attende un trattato dall’apparenza frivola: una compilazione come se ne componevano su svariati soggetti, destinate a sparire educatamente dopo un breve successo mondano. Ma la Phisiologie di Balzac ha per mira il Matrimonio, il grande accusato di tutto l’ottocento borghese, vittima sacrificale e, nella fissità di questo suo ruolo, immutabile protagonista di un’intera letteratura. Si direbbe che Balzac abbia voluto misurarsi in anticipo con questo pilastro della società borghese, prima di accingersi a narrarne la canzone di gesta. Teorizzare il matrimonio, estrarre dalla realtà i suoi princìpi, ha come il valore di un preludio sistematico a tutto un vorticoso mondo in cui il sistema si potrà scorgere soltanto alla lontana, nella contemplazione distante e panoramica di un grande campo di battaglie e sconfitte umane.

  È il matrimonio spogliato di fascino, questo, che mira ormai soltanto a salvare la dignità: il matrimonio uscito smorto e squallido dall’indifferentismo sessuale del diciottesimo secolo, malconcio per gli assalti del romanticismo, negazione istituzionale del sublime, antitesi legislativa di quell’amore-passione che Stendhal giudicava il solo degno di accendere sensi e fantasia per mezzo di un meraviglioso quanto inavvertito inganno. Resta, insomma, la eccelsa finzione legale che consente, sola, la trasmissione dei patrimoni, la filiazione certa e legittima (certa nelle carte notarili, almeno, anche quando la realtà sconosciuta o sussurrata delle alcove vi contraddica): chiave, in una società che ha eletto la ricchezza come scopo dell’esistenza, per aprire i forzieri e indirizzare le fiumane di denaro per i certi canali preordinati dal codice civile. Il denaro è penetrato nelle vene della società francese dopo la Restaurazione, e vi tien luogo del sangue: è il denaro contante delle speculazioni, delle frodi, dei commerci, delle forniture militari, dell’usura: il denaro visibile che si contrappone all’educata astrazione della proprietà fondiaria che era stata alla base della più calma economia del secolo diciottesimo: il danaro luccicante che riscalda l’agonia di papà Grandet: «Mettimi un po’ d’oro qui, comandava il morente alla figlia. E allora lei gli allineò un po’ di marenghi sulla tavola. E lui restava ore intere con gli occhi fissi sui marenghi, come un bimbo che quando comincia a vedere guarda stupidamente lo stesso oggetto, e come a un bambino, gli sfuggiva un sorriso stento: ‘Mi tien caldo’, diceva».

  Quanto la Comédie rispecchi, testimone fedele più di qualsiasi saggio di statistica o storia economica, la realtà di una intera società civile, lo ha dimostrato in un recente libro (La Comédie inhumaine, Paris, Gallimard, 1964) uno scrittore che ha insieme la profondità critica del letterato e una vena epica di economista storicizzante, André Wurmser; che suggerisce addirittura un modo diverso di leggere la Comédie di Balzac; diverso, diciamo, dal solito metro letterario dei valori estetici. Vi sono romanzi, nella Comédie che, morti o languenti dal punto di vista artistico, han diritto alla vita perché parti insopprimibili di un intero affresco che non tollera mutilazioni antologiche o il trucco estetico dell’ingrandimento dei particolari. Dove il volo dell’arte si abbassa, la Comédie rimane opera di costume e di storia. Come si potrebbe dire, rispettando le necessarie proporzioni e differenze, dell’altra Commedia, quella della nostra letteratura.

  Così nella Phisiologie. Al di là del desiderio di piacere, di far colpo; al di là del manifesto brancolare d’uno scrittore che cerca il suo ritmo e il suo respiro; delle concessioni alla moda; al di là, infine, di quel fluente, turgido, prolisso incedere d’una prosa che ha già alcuni dei pregi e tutti i difetti della prosa balzacchiana, si ritrova nella Phisiologie, intero, il matrimonio borghese. Cinico quadro, del quale non si è mancato di rivolgere a Balzac il rimprovero. Ma è un cinismo, diremmo, che è nelle cose. La vita coniugale tutta nell’alcova, sì: e fuori di quella, in una sottile, inesausta guerra di supremazie, di finte concessioni a mascherare sostanziali vantaggi acquisiti, reciproco continuato inganno di due esseri soli costretti a farsi compagnia; guerra e soltanto quotidiana guerra, in luogo della solidarietà poetica ed umana forse sognata, certamente delusa. Ma l’alcova della Phisiologie è un’ara, un trono, una tomba, un mausoleo tutt’insieme: più ancora, è una rocca, un campo di battaglia dove ceti e generazioni combattono una battaglia lunga quanto la vita. La somiglianza profonda dell’amore e della guerra non era ignota agli scrittori della generazione precedente. Qui, però, Balzac vede il campo del combattimento dalla parte opposta della collina. Egli non si è allineato come inviato speciale al seguito degli attaccanti, che si studiano di entrare nella rocca nemica. È entrato nella fortezza assediata e vive la vita dell’assediato, fra i difensori, coi loro terrori e le loro speranze. È un altro segno dei tempi, della mutata sensibilità che vede rovesciato in un secolo il punto di visuale e di prospettiva del secolo precedente. L’idea, se si vuole, è ancora settecentesca. I fratelli Goncourt nella loro Femme au dix-huitième siècle avevano avvertito, per primi con assoluta consapevolezza, quel parallelismo fra la tattica amorosa e l’arte della guerra che dava ai ragionamenti libertini una andatura da accademia militare: «È forse in questa guerra e in questo giuoco dell’amore che il secolo rivela le sue qualità più profonde, le sue risorse più segrete, e quasi una prerogativa di duplicità che non ci si aspettava dal carattere francese. Quanti grandi filosofi, quanti grandi politici senza nome, più abili di Dubois, più insinuanti di Bernis, fra questo piccola schiera di uomini che fanno della seduzione della donna lo scopo dei loro pensieri e la grande impresa della loro vita ... Quante combinazioni fra il romanziere e lo stratega! Non ce n’è uno che attacchi una donna senza aver fatto quel che si chiama un piano, senza aver passato la notte a passeggiare su e giù e girare intorno alla posizione ... E, una volta cominciato l’attacco, essi sono, fino in fondo, quegli stupefacenti commedianti, uguali ai libri dell’epoca loro; in cui non un solo sentimento si esprime, che non sia finto o dissimulato ...».

  Un nome di personaggio, viene subito alla mente, Valmont: e, con lui, il suo inventore, il suo libro: Les liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos che, neanche a farlo apposta, era un generale; e il cui unico tremendo romanzo esprime la convinzione, oltre il gelido fuoco della sua vicenda e la perfezione letteraria, che nessuna donna sia una piazzaforte così irresistibile, lei e la sua virtù, da poter trionfare di una diabolica macchina escogitata per espugnarla. Passato mezzo secolo, Balzac varca il fossato della fortification regulière, ed entra nella cittadella assediata. Laclos aveva scritto l’Attaque, egli scriverà la Défense des places, se vogliamo mutuare, spezzandolo, il titolo di quell’opera di Vauban che, ricordata oggi soltanto dai bibliofili o dagli storici dell’arte militare, ebbe più che non si creda importanza e peso sugli scrittori dei suoi tempi.

  La sua difesa è quella d'un Cambronne che, ritto sugli spalti, si diverta ad insultare il nemico, senza risparmiare apostrofi ai difensori impalliditi, allineati dietro di lui. È una difesa pro domo sua, come la Comédie testimonierà. È come un necessario preludio precettistico, presa di misure, verifica di proporzioni, che prelude al vasto sistema che verrà architettato, romanzo su romanzo, nella Comédie. Della Comédie, si è detto, v’è qui molta della crudezza, ma non trasfigurata né diluita in creature viventi, personaggi, esseri vivi. C’è, si è detto ancora, della volgarità. Ma Balzac non è un ragionatore; la lucida serenità, l’estenuata finezza o la scarna argomentazione di chi sa proseguire un intero libro sul filo di un ragionamento teso ed astratto, ipotesi dopo ipotesi, non fanno per lui. Sarà soltanto nella vasta fiumana del suo raccontare ch’egli potrà distendere quel colorito pesante e grumoso, quella massiccia e turgida vena realistica ed impoetica, fino a farle assumere le trasparenze della poesia.

  La sua macchina procede macinando sogni e statistiche, astuzie e volgarità grossolane, stritolando perfino tenui e perfetti fiori della sensibilità reticente e scaltramente libertina, come il racconto che occupa tutta la Meditazione XXIV, messo in bocca al vecchio commensale, sul tema dell’impossibilità di resistere, da parte di un uomo, alle astuzie ordite da una donna, racconto di cui Balzac si appropria, lasciando ambiguamente intendere che ve ne fosse una redazione scritta, «stampata in venticinque esemplari da Pierre Didot»; mentre in realtà si tratta di un piccolo capolavoro della letteratura erotica del diciottesimo secolo, quel Point de lendemain del barone Dominique Vivant Denon, che, conosciuto finora soltanto in piccole edizioni libertine (la più recente, benché senza data, è circa del 1955) varca proprio ora i cancelli solenni della Pléiade. Su questo scorcio di narrativa settecentesca, brutalmente ficcato, esattamente come una miniatura può stare nel mezzo di un robusto bozzetto tirato giù alla brava, scrisse un penetrante elzeviro Giovanni Macchia («Balzac e il libertino», Corriere della Sera, 10 marzo 1964) che definisce la nostra Physiologie come un «brillante ed un po’ cinico esordio» della sua carriera; dove Balzac «ammassa tutto ciò che può essergli utile per provocare un’aria di scandalo tra i benpensanti ed i buoni borghesi della Parigi del 1829. La sua idea della donna annuncia tutte le astuzie e le civetterie delle protagoniste del teatro di Feydeau e della stessa Parisienne di Becque».

  Esatto. Purché, però, non si circoscriva la Physiologie soltanto fra i più o meno riusciti precedenti di una letteratura piccante e grassoccia. Essa ha un suo posto in quella grande Odissea che attraverso Adolphe, Madame Bovary, Thérèse Raquin, arriva ad Un amour de Swann, come alla conclusione del grande ciclo del triangolo amore-passione-matrimonio nel secolo diciannovesimo. È la prima diagnosi di una istituzione in crisi, in una società critica. Quali richiami e vivi rintocchi che garantiscano la sopravvivenza; quali echi risuonino invece sfocati e inerti come testimonianze di costumi morti, vedrà il lettore. Cui tuttavia consegniamo il libro, altrimenti introvabile, nella convinzione di offrirgli un libro ancora capace d’interessare e divertire: un libro vivo.

 

 

  Mario Bonfantini, Lukàcs all’ombra del dogma, «Corriere della Sera», Milano, Anno 89, N. 244, 25 ottobre 1964, p. 11.

 

  In verità il nostro critico non può fare a meno di riconoscere in Zola un grosso e poderoso «realista»; ma queste ammissioni, che sono pur ben ragionate (come ad es. a pag. 170), egli si affretta poi a dimenticarle: per ribadire sempre quella pesante e globale condanna, che equivale insomma a rimproverare a Zola ... di essere stato Zola, e non Balzac!

  Perché Lukàcs invece di considerare — come dovrebbe — il realismo (e sia pure «realismo critico») quale un modo fondamentale della creazione artistico-letteraria che variamente si manifesta secondo le epoche e i temperamenti degli scrittori, avendone una volta per tutte riconosciuto la perfetta realizzazione nelle opere di Balzac, si è fatto di questo sempre rispettabile e utile esempio addirittura, un modello assoluto a cui commisurare tutti gli altri narratori. I quali, di conseguenza, saranno da giudicare tanto più validi, «giusti», e quindi utili al progresso e allo sviluppo della nostra civiltà, quanto più si avvicinano a questo ideale; aberranti, e quindi anche artisticamente limitati o addirittura inconsistenti, in quanto se ne discostano.

  E ciò con una così palese contraddizione a quel suo metodo storicistico (per lui essenzialmente marxista) di cui va egli stesso orgoglioso, da indurci a stupire che non se ne renda conto, e arrivi su questa via ad affermazioni persino patetiche nella loro ingenuità. Come quando, criticate con molta finezza certe aberrazioni della letteratura odierna, egli viene ad esclamare che, invece, «abbiamo tanto bisogno di un buon realismo alla Balzac»!

Ma il fatto è che, come sempre accade in simili casi, la causa di una tal cecità è da ricercare nel più profondo della sua forma mentis. Lukàcs, alla fin fine, accarezza l’idea che quando le «condizioni obiettive» della società permetteranno il trionfo in letteratura del realismo critico di tipo balzacchiano ogni errore o «deviazione» dell’arte si renderà per sempre impossibile, appunto perché egli non si è liberato di quella parte utopistica del pensiero di Marx per cui l’avvento di una «società senza classi» porterà ad una liberazione dell’umanità assoluta e definitiva.

  Ed è qui, ancora una volta, «l’ombra del dogma», a oscurare così stranamente il suo spirito.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac, Honoré de, in AA.VV., Le Muse. Enciclopedia di tutte le Arti, Novara, Istituto Geografico De Agostini, Volume secondo Baldan-Calle, 1964, pp. 20-24; 5 ill.

 

  Romanziere francese (Tours 1799-Parigi 1850). Di famiglia originariamente contadina, ma diventata borghese già da una generazione (la particella nobiliare fu sistematicamente adottata dallo scrittore solo dopo il 1830), inizia i suoi studi a Tours, li continua nel collegio di Vendôme e quindi a Parigi, prima negli istituti Lepître e Ganser, successivamente alla facoltà di legge, di cui però interrompe i corsi al termine del primo esame del ‘baccalauréat en droit’. Dopo un breve periodo di apprendistato in studi notarili della capitale, abbandona definitivamente la pratica del notariato per dedicarsi completamente all’attività letteraria. Gli inizi, faticosi e singolarmente mediocri, non sono coronati da alcun successo: alcune note filosofiche, una tragedia storica in versi, di intonazione classicheggiante (Cromwel [sic]), un romanzo di avventure, confuso e farcito delle più disordinate imitazioni (Falthurne-Savonati), un secondo romanzo di accento ideologico (Sténie ou les erreurs philosophiques), ed altri abbozzi ancora minori, non escono nemmeno dai cassetti dell’autore, che non tarda a perdere ogni illusione sulla qualità di questi primissimi ed infelici tentativi. Ma persistendo nella decisione presa (e questa manifestazione di una volontà ferma e caparbia sarà il segno costante entro cui tutta la vita etica dello scrittore sarà iscritta), Balzac non si lascia scoraggiare dai risultati di una vocazione che si presenta per ora come una delle più velleitarie. L’unica diversione dal programma tracciato sarà questa: che il giovane scrittore, consapevole della propria impreparazione culturale e insofferente della lunga fatica necessaria per scrivere quel capolavoro accarezzato nei suoi sogni di gloria, decide di ripiegare per ora verso forme narrative più facili e di successo più sicuro.

  Entrato in rapporto con un gruppo di scrittori e giornalisti parigini, inizia a scrivere, da solo o in collaborazione con taluno di essi, una serie di romanzi che, non pretendendo avere alcuna preoccupazione artistica, si propongono solo di sollecitare il gusto di un pubblico comune (o addirittura volgare) di lettori attraverso la narrazione delle peripezie più complicate e grossolane e dei sentimenti più assurdi: qualcosa di equivalente a quel tipo di bassa letteratura che cinquant’anni dopo fu chiamata d’appendice, ed oggi decora pagine di settimanali illustrati o edicole di giornali. La pubblicazione di tale genere di opere si presenta agevole e consente al giovane Balzac una certa indipendenza economica oltre che una utile introduzione nel mondo giornalistico ed editoriale della capitale.

  Fra il 1822 e il 1825 appaiono così, sotto diversi pseudonimi, una decina di romanzi di cui otto almeno sono attribuibili a Balzac: L’Héritière de Birague (1822), Jean-Louis (1822), Clotilde de Lusignan (1822), Le Vicaire des Ardennes (1822), Le Centenaire, La dernière Fée (1823), Annette et le criminel (1824), Wann-Chlore (1825), ed altri opuscoli di circostanza quali: Du droit d’aînesse (1824), L’histoire impartiale des Jésuites (1824) e il Code des gens honnêtes (1825). Nella speranza (delusa) di aprirsi una strada anche nel campo teatrale con successi più lucrosi, Balzac abbozza altresì vari drammi e commedie, mentre in segreto, con un impegno letterario più serio ma altrettanto infelice, redige l’inizio di un lungo poema, Foedora (1823), e un Traité sur la prière (1823).

  A leggere i romanzi pubblicati nel quadriennio 1822-1825, nessuno potrebbe immaginare che l’autore di essi («Écrivain français à 2 fr. la page», come firma scherzosamente in una lettera alla sorella) possa essere quello stesso scrittore destinato a diventare, dieci anni dopo, l’illustre creatore delle Scènes de la vie privée e, più tardi, davanti alla posterità, uno dei più grandi narratori francesi di tutti i secoli. Non che manchino in questi otto romanzi degli anni oscuri di giovinezza (e particolarmente in Wann-Chlore che di tutti è il migliore) una impostazione narrativa spesso piacevole per la sua irruenza, alcuni spunti intelligenti, qualche finezza psicologica nell’abbozzare un ritratto. Ma la stoffa del grande narratore, sia pure in via di formazione, è inesistente e ci vuol tutto l’entusiasmo di una ammirazione ‘a posteriori’ per riconoscere in queste migliaia di pagine la prefigurazione di un talento narrativo che fonderà in poetico amalgama profondità di analisi ed armoniosa misura di personaggi e di avvenimenti. Inverisimiglianza e macchinosità di peripezie, insostenibile accentuazione del ‘tipico’ nei personaggi, abbandono all’estemporaneità di una espressione che non si controlla e che conosce le bassure di una prosa sciatta e volgare, imitazione scadente di modelli letterari, costituiscono, al contrario, i caratteri dominanti — e francamente insopportabili — di tutta questa produzione segreta degli anni giovanili.

  I cattivi maestri che hanno sovrainteso all’apprendistato narrativo di Balzac (i romanzieri ‘neri’ inglesi dell’ultimo Settecento; quelli francesi dell’età imperiale), la facilità e il ritmo precipitoso di questa produzione (cinque romanzi nel solo 1822!) hanno avuto il risultato artistico che si meritavano e che non potevano avere diverso. Un dato positivo, tuttavia, emerge da questa difforme produzione romanzesca: nel suo disordinato fiorire, essa ha comunque consentito allo scrittore una conoscenza del mestiere, una agevolezza tecnica da cui saprà trarre notevole van raggio in seguito. E’ sul terreno accidentato e pietroso delle onere di giovinezza che pur fruttificherà più tardi, miracolosamente, la Comédie Humaine.

  Intanto, però, l’attività letteraria giovanile subisce, col 1825, una improvvisa interruzione. Sensibile alla gloria poetica, ma sensibile anche alla conquista della ricchezza, Balzac decide di tentate una speculazione industriale che gli consenta guadagni rapidi e sostanziali. La missione letteraria non è abbandonata; ma, nei progetti dello scrittore, è solo rinviata a tempi migliori: ancorata ad una superba situazione economica, sarà, anzi, più sicura, più degna di quella vocazione artistica che in Balzac, anche nei momenti più apparentemente mercantili, conserva sempre un suo profondo carattere aristocratico.

  Il sogno è di breve durata e conosce un desolante risveglio. La speculazione industriale, iniziatasi nel 1825 sotto forma di un vasto progetto editoriale assume ben presto un andamento amministrativo catastrofico. Esso non solo inganna completamente i calcoli di Balzac, ma si conclude, tre anni dopo, nel 1828, in un colossale fallimento che lascia il dilettante industriale oberato di debiti per una cifra complessiva di circa 60.000 franchi (circa 20 milioni di oggi).

  La liquidazione disastrosa degli affari riconduce in tal modo Balzac, più presto e diversamente da quanto non avesse sperato, alla vita letteraria (mai abbandonata completamente, del resto, neppure durante gli anni commerciali). La differenza sostanziale, rispetto ai progetti del 1825 è che l’attività narrativa non si presenta ormai più come uno svago dell’immaginazione, l’ideale ozio di un dilettante agiato cui l’esistenza quotidiana non serba sorprese quotidiane, ma come l’unico mezzo di guadagno, l’ultima possibilità rimasta di sopravvivenza. D’ora in poi, l’intensissima produzione letteraria di Balzac sarà condizionata dalla necessità (mai pienamente realizzata) di pagare i debiti di giovinezza e di fronteggiare una situazione economica in progressivo ed angoscioso peggioramento.

  Sulle ceneri dell’uomo d’affari rovinato risorge dunque il romanziere — e stretto nella morsa del bisogno ancor più che per il passato. Ma un romanziere che, questa volta (a tal punto l’infausta esperienza industriale, le letture e gli incontri di questi tre anni lo hanno maturato), ha una dignità letteraria, una originalità, un piglio ben diversi da quelli degli anni giovanili. Dopo alcuni mesi di assestamento e di ricerca, Balzac si rivolge ad un soggetto storico, ma di storia recentissima, che evoca fatti di una attualità ancora cocente: la rivolta della Bretagna legittimistica contro le truppe della Repubblica, all’alba del secolo. Nasce così Le Dernier Chouan (titolo primitivo degli Chouans, 1829), il primo vero capolavoro di Balzac e la prima opera da lui riconosciuta e firmata che, pur attraverso la trasparenza degli influssi di Walter Scott, rivela una propria, seducente originalità ed ha quasi l’innocenza di una forma nuova.

  Le Dernier Chouan, romanzo storico, inserisce nelle vicende militari e politiche della Francia repubblicana la narrazione di un amore infelice e fatale; e la struttura del racconto dispone in un riuscito equilibrio la componente della rievocazione storica con quella di una sottile e patetica tematica amorosa. Ma tale convergenza è solo una tappa, felice e momentanea, dell’ispirazione balzacchiana. Sulla tematica storica ha ben presto ragione quella psicologica ed è su di essa che Balzac, affrancandosi sempre di più dagli schemi scottiani ed avviandosi più decisamente verso l’analisi della realtà sociale e sentimentale a lui contemporanea, compie le sue successive prove narrative. Le quali, varie nel tono e nelle proporzioni, hanno in comune la raffigurazione dei piccoli fatti veri della vita quotidiana, di figure umane uniformi e scolorite, solo apparentemente insignificanti, che, attentamente scrutati, svelano l’esistenza di segrete rivalità, di combattute passioni o di misteriose sofferenze. Raffigurazione ora in chiave ironica, spregiudicata, sarcastica, gaiamente cinica (La Physiologie du mariage, 1829), ora in chiave seria che, con un pathos sorretto da una luminosa profondità analitica, indugia su «quel quadro vero di costumi che le famiglie seppelliscono nell’ombra e nell’intimità delle mura domestiche» (La paix du ménage, Le bal de Sceaux, La Vendetta, La maison du chat-qui-pelote, Une double famille ecc.).

  L’apparizione (1830) delle prime Scènes de la vie privée (è sotto questo titolo che Balzac riunisce una parte dei racconti ora citati) e, contemporaneamente, una varia ed intensa attività giornalistica in varie riviste parigine, lanciano lo scrittore nel mondo letterario francese e gli assicurano una improvvisa celebrità. E perfettamente a ragione. Senza inventare nulla di nuovo, fedele alle forme tradizionali del romanzo o della novella, attento agli stessi eterni temi dell’amore e dell’infelicità umana, Balzac dà vita ad una forma letteraria che è nuova perché rifiuta di far ricorso ai luoghi comuni (atroci, crudeli ed inverisimili) cari ad una certa voga romantica, ed è animata invece da un’analisi spietata, senza retorica e senza infingimenti, del cuore umano in personaggi che non sono di eccezione, nulla hanno di eroico e vivono entro i quadri abituali della vita nobiliare, borghese e finanche popolare di ogni giorno.

  Con la celebrità verrà anche, finalmente, la ricchezza tanto desiderata: diritti d’autore sensibilmente alti per l’epoca e che l’autore saprà far moltiplicare grazie ad un meccanismo commerciale in cui si rivela singolarmente abile presso direttori di riviste ed editori, senza disprezzare nemmeno vistosi lanci reclamistici. Ma tale ricchezza, oggi come in seguito, sarà divorata non solamente dal pagamento dei debiti contratti nel fallimento del 1828, ma, ancor più, dalle tentazioni di una esistenza fastosa, dal piacere, irresponsabile e quasi fanciullesco, di eleganza e di lusso, nonché dalli più caotica gestione dei propri affari. Spinto lungo la china di nuove spese e di nuovi debiti, stretto in un inestricabile groviglio di cambiali, lo scrittore, come già si è accennato, è costretto ad intensificare la propria produzione narrativa – unica sua fonte di guadagno – per le più elementari necessità pratiche di vita.

  Dal 1830 al 1850, anno della morte, la vita di Balzac è essenzialmente assorbita dalla sua opera. I numerosi amori (Madame de Berny, la duchessa d Abrantès, Madame du Fresnay, la contessa Hanska, la contessa Guidoboni-Visconti, Madame de Valette, Madame de Brugnol), i viaggi frequenti (in Isvizzera, in Austria, in Italia, in Germania, in Russia), i facili spostamenti di domicilio, provocati dal vigile assedio dei creditori, le varie e sempre vane o rovinose iniziative commerciali, le sfortunate candidature politiche ed accademiche, processi, liti, sequestri giudiziari movimentano l’esistenza, veramente turbinosa, di Balzac e ne disegnano un quadro caleidoscopico difficile a seguire nel suo sempre mutabile svolgimento. Ma, in fondo, non costituiscono che degli episodi (talora folkloristici e tragicomici, talaltra drammatici) della sua biografia, né arrivano a distrarre Balzac da un impegno umano che resta fondamentalmente consacrato alla sua vocazione insopprimibile di scrittore.

  E’ difficile trovare una immagine appropriata a dare una idea del ritmo di vita di Balzac che ha del prodigioso e, quasi, del mostruoso. Nell’atto stesso in cui è capace di tener testa alla caotica situazione economica in cui si trova immerso, di viaggiare da un capo all’altro d’Europa, di intrecciare i più complicati legami sentimentali, di organizzare i più strani (spesso assurdi) progetti d’arricchimento, egli è costantemente presente all’adempimento della sua missione letteraria: e nella quotidiana attuazione della sua vocazione di scrittore identifica, in ultima analisi la sua intera esistenza.

  Un terribile metodo di lavoro (che si prolunga dalle otto alle dodici ore di tavolino al giorno, e che, in certi periodi, raggiunge le sedici ore) inchioda Balzac alla costruzione di un colossale edificio letterario, di cui è, al tempo stesso, artefice e prigioniero. Novantun romanzi, trenta racconti drolatiques, cinque drammi e commedie, alcune centinaia di articoli diversi costituiscono (senza parlare di un certo numero di frammenti e di romanzi incompiuti) il risultato veramente ciclopico di questo ventennio di smisurato lavoro in cui Balzac si proponeva, quanto a vastità di disegno, di «compiere con la penna ciò che Napoleone aveva compiuto con la spada», e, quanto a numero di personaggi creati (circa 2500), di «far concorrenza allo stato civile». Ambedue le immagini appartengono allo stesso scrittore, consapevole, dunque, delle dimensioni dell’affresco che andava via via scoprendo davanti agli occhi stupiti (e non sempre benevoli) dei contemporanei.

  Fin dall’anno 1830, una prima preoccupazione di racchiudere entro nette linee strutturali generali l’insieme dei romanzi e delle novelle sovraintende al meccanismo della creazione balzacchiana. Sotto il titolo di Scènes de la vie privée, il narratore aveva già raccolto, come si è visto, un certo numero di racconti. Più tardi, mentre le Scènes de la vie privée si arricchiscono di nuovi romanzi (1832: La bourse, Le Curé de Tours, una parte della Femme de trente ans), Balzac affianca ad esse quelli che si chiamano per ora Romans et Contes Philosophiques (1831: e con titoli leggermente diversi si chiameranno l’anno successivo Contes Philosophiques e Nouveaux Contes Philosopbhques) e che racchiudono opere narrative di una intonazione più meravigliosa e di una più bizzarra invenzione, dove l’abbandono al simbolo è più evidente e l’osservazione lascia il posto all’interpretazione (in chiave sedicente filosofica) dei paradossi sociali antichi e moderni (La peau de chagrin, La comédie du diable, El Verdugo, L’enfant maudit, L’elixir de longue vie, Les proscrits, Le chef-d’oeuvre inconnu, Le réquisitionnaire, Étude de femme, Les deux rêves, Jésus-Christ en Flandre, L’Église, Maître Cornélius, Madame Firmiani, L’auberge rouge, Louis Lambert).

  Con gli anni 1833-1834, questa struttura si organizza e si precisa sottolineando più chiaramente le due grandi direzioni, più realistica l’una, più simbolico-fantastica l’altra, lungo le quali si svolge l’ispirazione balzacchiana. Le Scènes de la vie privée, cui si aggiungono, nel 1833, le Scènes de la vie de province e, nel 1834, quelle della Vie parisienne, perdono in certo modo la loro autonomia e diventano ripartizioni di un unico grande ciclo avente prospettiva e titolo unici: Les études de moeurs au XIXe siècle (1833). I Contes Philosophiques diverranno definitivamente (1834) Études Philosophiques. In due prefazioni celebri (firmate da F. Davin, ma ispirate dallo stesso Balzac) i caratteri generali, distintivi di questi due ambiziosi cicli, saranno ribaditi e precisati.

  Inoltre, sempre nel 1834, i rapporti fra romanzo e romanzo non vengono solo rinsaldati entro le opere appartenenti ad uno stesso ciclo, ma anche fra i due cicli. Numerosi ponti cominciano a collegare Études de moeurs a Études Philosophiques grazie ad un nuovo procedimento strutturale: la presenza dei ‘personaggi ricorrenti’. In altre parole, Balzac inventa ed utilizza l'espediente del ritorno sistematico dei personaggi da un romanzo all’altro. D’ora innanzi, i protagonisti dei nuovi romanzi saranno scelti fra quelli apparsi nei romanzi precedenti, mentre con opportuni ritocchi, nelle successive edizioni dei romanzi già pubblicati, le caratteristiche dei vecchi personaggi saranno ‘aggiustate’ in modo da armonizzare la loro personalità alla nuova reincarnazione e da giustificare il loro comportamento nelle nuove avventure in cui saranno introdotti.

  Quest’espediente tecnico-narrativo (singolarmente complicato se si pensa che giungerà ad esercitarsi, fra il 1840 e il 1850, in un mondo fantastico popolato da 2500 personaggi!) ha, a prima vista, un aspetto tutto meccanico e nasce, indubbiamente, su considerazioni più commerciali che artistiche: lo sfruttamento, cioè, della curiosità del pubblico che la riapparizione di personaggi noti stimola e tien più desta. Ma, a parte il fatto che il genio di Balzac saprà trasformare tale accorgimento in una plausibile ed avvincente invenzione estetico-strutturale, esso denuncia contemporaneamente una ulteriore preoccupazione di unità strutturale del mondo balzacchiano. Balzac non si contenta più di essere un uomo, ma, come fa dire ad un suo portavoce, ambisce ad essere un ‘sistema’.

  Per quasi un decennio (dal 1835 al 1842) l’attività narrativa dello scrittore si svilupperà su questi due binari paralleli: da un lato, Études le moeurs, di cui sono già progettate nuove suddivisioni (Scènes de la vie militaire, Scènes de la vie politique, Scènes de la vie de campagne), tendenti a completare sotto tutti gli aspetti sociali il vasto affresco della vita francese dalla Rivoluzione alla Monarchia di Luglio; dall’altra parte, Études Philosophiques, più attenti (sic) come già si è detto, ad una analisi filosofica delle cause profonde ed ultime di quella situazione di cui Études de moeurs rappresenterebbero, appunto gli effetti.

  E’ questo il periodo della piena maturità artistica balzacchiana, la più felice stagione del suo genio che s’apre con quel capolavoro che è il Père Goriot (1834-1835) e prosegue, con ritmo intenso, con opere perfette dalle armoniose proporzioni, quali, per esempio, Le contrat de mariage (1835), Le Lys dans la vallée (1835-1836), L’interdiction (1836), La vieille fille (1836), Illusions perdues (1837-1843), Le Cabinet des Antiques (1838), Béatrix (1838-1844), Une ténébreuse affaire (1841), ecc. Che lo scrittore si proponga di smascherare gli intrighi di interesse che si nascondono dietro un matrimonio apparentemente d’amore; la congiura — cui tutta la società tien mano — per spogliare un onesto gentiluomo dei suoi beni in favore della moglie adultera e dissipatrice; la passione sottile ed insidiosa che invade cuore e sensi di una donna virtuosa; le pene d’amore, comico-drammatiche, di una zitella di provincia ingenua e danarosa; il disincanto e la decadenza morale di un giovane poeta di provincia, precipitato nell’inferno del giornalismo parigino, di cui diventa vittima e complice; ovunque egli riesce a dare un alto interesse drammatico agli avvenimenti, un volto convincente di verità ai personaggi, una sicura inquadratura storica e sociale alla vicenda; ed ovunque perviene a realizzare l’ambita intenzione di fare di ogni romanzo lo specchio di uno dei momenti della grande storia dell’uomo e della società. Nel complesso di tutta l’opera balzacchiana, L’interdiction, La vieille fille, Illusions perdues e (con intermittenze tonali dovute a virtuosismi stilistici, talora suggestivi, ma non sempre consentanei al genio dello scrittore) Le Lys dans la vallée, si iscrivono pertanto fra i più autentici capolavori della narrativa ottocentesca francese: modelli e magistrali punti di riferimento cui ancor oggi si guarda — ad oltre cent’anni di distanza — come ad esempi impeccabili di tecnica e di potenza fantastica.

  Con il 1842, i due grandi affluenti di Études de moeurs e di Études Philosophiques si riuniscono in un grande fiume che ne accomuna le acque. Nasce la Comédie Humaine, l’opera somma e complessiva, l’«equivalente letterario moderno della cattedrale francese medievale», la quale, sotto questo titolo (reminiscenza dantesca in chiave tutta umana e quasi diabolica?) riassorbe in sé i due precedenti cicli e ne aggiunge un terzo (Études analytiques) in verità misterioso perché rimasto allo stato di progetto. In un prospetto editoriale che accompagna il primo fascicolo dell’opera, Balzac enumera i titoli di ben 137 romanzi, scritti o da scriversi, ed in una celebre introduzione (datata nel luglio 1842) annuncia orgogliosamente caratteri e significato della immensa opera ciclica, inventario gigantesco dei vizi, delle virtù, delle passioni, dei caratteri, degli avvenimenti principali della società francese e, contemporaneamente, trattato sistematico di quei princìpi generali che di tale società regolano il caleidoscopico ed apparentemente contraddittorio movimento.

  Nonostante questi ambiziosi progetti (a completare la Comédie Humaine Balzac prevedeva, nel 1842, l’invenzione di altri cinquanta romanzi circa), l’attività narrativa dello scrittore, negli ultimi otto anni di vita che gli restano ancora, sarà inferiore a quella del decennio precedente, sia come mole, sia come qualità.

  Logoro nella salute che comincia a sentire il peso degli sforzi disumani indurati per tanti anni; in aspra lotta contro una situazione economica che peggiora e che diventa tanto più insopportabile quanto più lo scrittore avanza negli anni, questi è distratto altresì da una vicenda d’amore (iniziata, nel 1834, con la contessa polacca Eva Hanska, la cosiddetta «Étrangère») che si trascina con alterne vicende, non accenna a risolversi e ritarda l’approdo ad un porto di salvezza finanziario non meno che sentimentale (il matrimonio con Madame Hanska non avverrà che nel 1850, in Ukraina, quasi in articulo mortis). Infine Balzac è vittima della voga narrativa che invade da un decennio il mondo letterario francese: quella del roman-feuilleton, genere di successo, più lucrativo e, stante anche le abitudini di lavoro dello scrittore, più facile a redigersi per il suo spezzettamento in puntate, ma nel quale le preoccupazioni compositive sono evidentemente meno rigorose, mentre la misura classica del racconto si perde nell’affastellamento ad effetto di troppe e diverse avventure.

  I principali romanzi balzacchiani di questi ultimi otto anni (1842-1850) sono: La Rabouilleuse (1841-1842), Les mémoires de deux jeunes mariées (1841-1842), Albert Savarus (1843), La muse du département (1843-1844), Splendeurs et misères des courtisanes (1838-1844), L’envers de l’histoire contemporaine (1843-1845), Modeste Mignon (1844), Les parents pauvres: La cousine Bette e Le cousin Pons (1846-1847). E’ certo che ognuno di questi romanzi ha pagine di altissima potenza evocativa, presenta e sviluppa situazioni narrative inventate con una magistrale genialità e con quella naturalezza che è anche testimonianza di una impeccabile sicurezza di mestiere. Ma è altrettanto certo che ognuno di essi, esaminato nei particolari architettonici che lo compongono, svela numerose stanchezze d’ispirazione, ripetizioni inutili, il calcolo dell’arabesco che infittisce la pagina, qualche procedimento stilistico non indispensabile. Anche i capolavori di questo periodo non vanno del tutto esenti da tali difetti e, soprattutto, da quello di un dialogo talora troppo mimetico che ha perduto la vivacità essenziale, tipica dell’arte balzacchiana precedente. Ma, per una giusta distinzione fra le opere componenti quest’ultimo gruppo di romanzi, è opportuno ricordare, a parte, La muse du département (melanconica storia di una unione adultera che, estinta ormai la fiamma di una capricciosa passione, si trascina nella monotonia, amara e irritata, di una vita in comune), L’envers de l’histoire contemporaine (evocazione chiaroscurale di un episodio della miseria e della carità parigine: l’una e l’altra avvolte in una atmosfera di misteriosa sospensione), e quel capolavoro — quasi senza incrinature — che è La cousine Bette (epos moderno della devastazione che la lussuria di un alto funzionario, la cupidigia di una cortigiana borghese, la fredda e vendicativa gelosia di una cugina povera, provocano nella vita di una famiglia francese).

  L’ultima produzione di Balzac, fatta di luci e di ombre, rappresenta pertanto il risultato di una forza narrativa, arricchita dal genio e dall’esperienza, ma meno unita, dove pregi e difetti sono più apparenti. Tramonto singolarmente intenso di colori i cui giochi luminosi sono pieni di suggestioni, ed hanno effetti talora meravigliosi, pur non annullando la presenza di contrasti cromatici e di zone d’ombra. La misura classica delle proporzioni, l’equilibrio perfetto dell’invenzione, così faticosamente tentati dallo scrittore lungo la sua produzione giovanile, miracolosamente raggiunti in quella degli anni 1835-1842, si spezzano di nuovo nell’ultimo periodo, incapaci di resistere alla forza, più prepotente che mai, di una natura geniale, indocile ad ogni freno.

  I caratteri dell’arte balzacchiana sono stati identificati da intere generazioni di lettori e di critici con quelli del realismo; e s’è parlato di lui come di un osservatore scrupoloso dei fenomeni sociali e psicologici del suo tempo, e, più che di un poeta, di uno storico che utilizza documenti ‘veri’: nel caso particolare, quelli dell’età di Luigi Filippo, assidua ai commerci, affascinata dalle grosse speculazioni finanziarie, fedele alla religione del denaro e di tutto ciò che con esso si ottiene. Sulla scorta di alcune affermazioni dello stesso scrittore, ed in piena temperie positivistica, la sua opera è stata definita un complesso di vere e proprie inchieste sociali, una raccolta di documenti il cui valore letterario sarebbe addirittura secondario rispetto all’autenticità e all’importanza scientifiche (Brunetière).

  L’opposta valutazione critica (timidamente avanzata già da alcuni contemporanei e luminosamente proclamata da Baudelaire nel 1859: «J’ai été mainte fois étonné que la grande gloire de Balzac fût de passer pour un observateur; il m’avait toujours semblé que son principal mérite etait d’être visionnaire, et visionnaire passionné») è stata considerata per molti decenni una proposta vuota di senso, e non ha difatti trovato, nemmeno oggi, diritto d'asilo né nei manuali letterari né nei libri di divulgazione.

  Sia pure non senza contrasti (anche recentissimi e, in verità, più scaltriti), la visione critica più autorevole che oggi si è imposta, è diversa e riconosce allo scrittore un dono di prestigiosa invenzione artistica che non ubbidisce ai dati del reale, ma li torce e li trasforma secondo regole segrete, individuali e tutte ‘poetiche’. Senza voler negare una iniziale postulazione realistica alle situazioni narrative della Comédie Humaine, è oggi impossibile non individuare nello svolgimento di esse la presenza ininterrotta di quella energia e di quella potenza che, proprie dello scrittore, si infondono nei suoi personaggi, sedicenti reali, e ne fanno degli esseri più forti e più convulsi, più appassionati nei loro vizi o nella loro abnegazione, più grandi e più terribili degli altri uomini. Questo processo di grossissement tipico degli eroi della Comédie Humaine non è meno ravvisabile nella descrizione dei fatti e nello sviluppo degli avvenimenti: i quali, apparentemente veri e minuziosamente fotografati, si rivelano infine diversi da quelli reali perché ricreati da una fantasia che li deforma e li carica di significati simbolici. Sicché, se di realismo si vuol assolutamente parlare, converrà precisare subito che la definizione non sfiora che i più esterni contenuti narrativi di Balzac; mentre non appena si è penetrati nell’interno del suo mondo poetico ciò che domina è una magia esasperata e già simbolica del reale.

 

  Segue una Bibliografia essenziale. Questo illuminante profilo di R. de Cesare è completato da alcune note di Carlo Terron sull’attività teatrale di Balzac:

 

  A paragone della narrativa, l’attività del Balzac commediografo occupa un posto marginale; seppur da lui stesso sottovoluto e trascurato, tuttavia non trascurabile, sotto il duplice punto di vista della coerenza coi temi e coi modi del narratore e della influenza — tramite i romanzi — esercitata sul teatro successivo, giacché egli anticipa e scavalca per così dire il tempo e il repertorio romantico per agganciarsi alle esigenze e, fino a un certo punto, alle forme realistiche a sfondo documentaristico-sociale. Del resto, un’autentica drammaticità, per non dire una vera e propria teatralità, è già implicita nella visione del romanziere: nello stagliare i personaggi, sviluppandone ed accentuandone il carattere fino a rasentare la esemplarità del tipo, per cui ogni suo ritratto risulta un uomo e, insieme, una passione universale, un individuo e un vizio; nel suo spiccare il dialogo dalla narrazione, nel collocare persone, vicende e cose in ambienti reali e inconfondibili, condizionati a un costume e ad uno stato sociale ed economico che fa corpo con essi medesimi, rilevandoli in una terza dimensione colta in continuo divenire: nel suo raccontare, insomma, che è innanzitutto rappresentazione. Di qui, l’influsso determinante ed inequivocabile che la sua opera narrativa esercitò sul teatro dell’Ottocento. Si può, senza possibilità di smentita, asserire che, in mancanza del romanzo di Balzac, il teatro francese non sarebbe stato quello che fu. «A teatro — egli scrisse — ogni parola deve essere un mandato di cattura spiccato contro i costumi dell’epoca. Non soggetti minori, meschini; trattasi di cogliere il fondo delle cose ... abbracciare la società e giudicarla ... Sotto ogni battuta che rimane, devono esserci mille pensieri soppressi». Lo scarso e disuguale repertorio lasciato comprende: Vautrin (1840), Les ressources de Quinola (1842), Pamela Giraud (1843): tre insuccessi; La marâtre (La matrigna), opera confusa ma potente una requisitoria contro l’ipocrisia (una sorta di Tartufo in gonnella) che mina l’istituto famigliare (1848) e finalmente: Mercadet ovvero Le faiseur (L’affarista), l’opera di gran lunga più importante, rimasta, sia pure attraverso vari rimaneggiamenti, in repertorio, ritratto di un prepotente realismo fantastico esteso a un quadro di sarcastica comicità, manifesto in forme di vaudeville (1831) Nel 1910 venne rappresentata postuma L’Ecole des ménages. Innumerevoli le riduzioni per il teatro dei suoi romanzi compiute da terzi.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac nel maggio 1836, «Contributi dell’Istituto di filologa moderna, serie francese», Milano, Vita e Pensiero, Vol. III, 1964, pp. 53-185.

 

  I primi giorni del mese di maggio 1836 trovano, come è noto, Balzac, milite più volte renitente della Guardia Nazionale, tuttora detenuto per indisciplina nella prigione dell’«Hôtel de Bazancourt». Arrestato nella sua casa di rue Cassini la mattina del 27 aprile, e condannato ad una settimana di carcere, lo scrittore è rilasciato solo sette giorni dopo, la mattina del 4 maggio, allorché può finalmente raggiungere, furioso contro Luigi Filippo e gli «épiciers» di Parigi, il proprio domicilio.

  La libertà riconquistata è un dono incalcolabile, e Balzac, conclusa infine questa settimana di detenzione che gli ha ostacolato ogni attività, spera, con la sua instancabile presenza, di riuscire a dipanare in breve i suoi sempre più aggrovigliati affari. Ma la situazione che lo attende al suo ritorno, non è certo di quelle che facciano troppo assaporare la gioia d’esser tornato libero, ed è tale da togliergli ben presto ogni illusione su di una possibile sistemazione del proprio bilancio. Le condizioni economiche che lo scrittore ha lasciato disastrose una settimana prima, sono andate forzatamente peggiorando durante la sua assenza, ed il caos degli affari a cui dover far fronte ai primi di maggio è di quelli che farebbero drizzare i capelli in testa a finanzieri ben più freddi ed esperti di Balzac. [...].

  Il disagio economico personale dello scrittore non è certo reso più sopportabile dalle speranze di un migliore andamento delle speculazioni finanziarie in cui questi si trova impegnato. In tale campo di attività, dispendioso di tempo e di energie, tutto disillude le attese, giustificate o no, di Balzac. La gestione amministrativa della «Chronique de Paris», i progetti di fortunate cessioni editoriali, in luogo di incamminarsi verso soluzioni favorevoli, si impantanano in vie senza uscita, accrescendo drammaticamente le preoccupazioni dello scrittore.

  Le prospettive per la «Chronique de Paris», stante il bilancio dei mesi precedenti, non potevano certo aprirsi d’improvviso ad ingenti fortune: ma sta il fatto che potevano essere meno sconfortanti di quanto, in realtà, si presentano ora. [...]. Il giornale ha qualche, lettore d'eccezione (Liszt che, di passaggio da Lione, ne scrive a Madame d’Agoult; Hammer-Purgstall che a Vienna ne scorre gli estratti riportati da altri giornali), ma continua a mancare di un vero e proprio pubblico, di abbonati, di sostenitori. Le spese di gestione crescono paurosamente e l’insufficienza di denaro liquido nelle casse dell’amministrazione pone questa davanti ad insormontabili difficoltà e all’alternativa più radicale: o nuovi capitali o il fallimento.

  Balzac è appena uscito di prigione che, al suo rientro in rue Cassini, trova una lettera, cortese ma perentoria, di Max Béthune, gerente responsabile del giornale, che lo mette al corrente degli ultimi sviluppi della situazione e gli ingiunge di versare le somme dovute all’amministrazione a termini del contratto del dicembre 1835. [...].

  A salvare, in ultima istanza, la «Chronique» dall’ormai irreparabile fallimento resta sempre aperta, è vero, una soluzione: quella di attrarre nella speculazione qualche nuovo grosso capitalista grazie al quale far affluire denaro contante nelle casse. Ma è soluzione puramente platonica. [...].

  Verso la fine del mese un nuovo esperimento di salvezza in extremis è tuttavia ancora tentato: la diffusione di un lungo e documentato prospetto pubblicitario che, nell’esporre senza risparmio di lodi il quadro dell’attività della «Chronique» nei primi cinque mesi del 1836, si propone di sollecitare l’interesse del pubblico e di fare affluire nuovi abbonamenti. [...].

  In luogo «li diminuire il passivo alleggerendolo con l’apporto di qualche notevole entrata, essi [gli affari editoriali di Balzac] non recano alcun sensibile vantaggio al bilancio dello scrittore nel corso del mese di maggio.

  Tutto è fermo sul fronte dei Contes drolatiques la cui laboriosa vendita continua a trascinarsi in interminabili trattative senza concludersi mai [...]. Un nulla di fatto contrassegna anche, per tutto il mese, il progetto della cessione della «sixième livraison» e, accessoriamente, di tutta la serie delle Etudes de moeurs dalle mani di Madame Charles Béchet a quelle di Edmond Werdet. [...].

  [...] questo di riunire la pubblicazione delle due grandi serie di romanzi (le Etudes philosophiques e le Etudes de moeurs) sotto l’egida di Werdet, disinteressando Madame Béchet, la cui più che legittima insistenza nell’esigere la consegna degli ultimi due volumi promessi è diventata insopportabile a Balzac, costituisce uno dei tanti problemi di questo mese. A ragione, lo scrittore pensa che, una volta raccolto l’insieme della sua opera nelle mani di un solo editore, fidato, docile e personalmente devoto, egli potrà non solo ottenere tutte le dilazioni di tempo di cui avrà bisogno per terminare con calma i romanzi promessi e pagati, ma anche esigere crediti maggiori. [...].

  Rotti i ponti con Madame Béchet, la cui pace non è che una breve tregua, Balzac comincia a capire che anche le risorse pecuniarie di Werdet hanno un limite e che la sua volontà non è disposta a seguirlo fino all'ultimo; che insomma un «problema Werdet» già comincia a porsi e in modo tale da destare più di una preoccupazione.

  Parallelamente agli affari economici c finanziari relativi alla «Chronique de Paris» e alle trattative con Werdet e Madame Béchet, occorre parlare anche della speculazione concernente il canale della bassa Loira e dei propositi di una carriera ufficiale (l’Accademia, un Ministero): propositi che, alimentati da ragioni pratiche, Balzac fantasiosamente comincia a coltivare nel mese di maggio.

  Qui le prospettive più liete si sostituiscono completamente a quelle ben più tristi che abbiamo finora descritte e, stando alle dichiarazioni dello scrittore, dovremmo pensare che tutte le sconfitte subite negli affari siano sul punto di essere riparate da una grande vittoria capace di riguadagnare tutto il perduto e di rimuovere, in breve, ogni difficoltà finanziaria. [...].

  Lo scrittore già si vede mediatore fortunato della speculazione, ricco in pochi giorni di alcune centinaia di migliaia di franchi (e senza metter fuori un centesimo di tasca propria!) [...].

  Il secondo disegno è invece nuovo e prende radici, per la prima volta, in questo mese, sul terreno della «Chronique de Paris». Allorché la rivista, nei primi mesi del 1836, pur andando già male, non lascia presagire una «débâcle» a così vicina scadenza, Balzac aveva progettato di affiancarle un giornale politico quotidiano. [...].

  [...] oltre che dai problemi posti dalla situazione economica e finanziaria, le preoccupazioni di Balzac sono anche tenute vive, nel maggio, dall’avvicinarsi dell’udienza definitiva del processo per il Lys dans la vallée la cui risoluzione costituisce per lo scrittore — nel campo artistico non meno che in quello editoriale — una questione fondamentale. [...].

  A pochi giorni di distanza dall’inizio dell’udienza, la sentenza si presenta molto incerta. In linea di diritto, le responsabilità sono abbastanza equamente divise fra Buloz e Balzac, e, se da una parte Balzac non ha difficoltà ad accusare la «Revue de Paris» di illegittima trasmissione delle bozze di stampa del Lys alla «Revue Etrangère» di Pietroburgo, ad invocare dal tribunale la protezione dei diritti dell’ingegno e a far valere i danni morali subiti dal suo prestigio letterario, d’altra parte Buloz ha altrettanto buon gioco nel porre davanti al tribunale le prove dell’inosservanza dello scrittore ai propri impegni verso la «Revue de Paris» e nel denunciare la sua abituale scorrettezza professionale. L’assoluzione di una o dell’altra delle due parti è, in altre parole, legata non solamente ai documenti d’appoggio depositati presso i giudici dai due contendenti, ma, soprattutto alle arringhe degli avvocati e alla loro abilità. [...].

  L’Histoire du procès auquel a donne lieu le Lys dans la vallée (tale il titolo originale dell’articolo quale apparve per la prima volta nelle colonne della «Chronique de Paris» del 2 giugno) porta la data del 30 maggio e fu interamente scritta, secondo quanto Balzac stesso dichiarerà alcune settimane più tardi a Madame Hanska, nel corso di una sola notte. [...].

  [...] dividendo la sua Histoire in una breve introduzione di carattere generale ed in un lungo «précis» espositivo dei fatti, Balzac inizia esalando tutto il suo rancore contro la campagna di stampa scatenatasi contro di lui e che è giunta persino a inventare, a suo danno, inesistenti condanne giudiziarie. In particolare, egli denunzia le malignità di rutti quei giornali che, in luogo di occuparsi del valore dei suoi romanzi, lo denigrano e lo abbattono con l’arma del ridicolo predendo (sic) spunto dalla sua figura d’uomo, dalle sue presunte insolvenze commerciali, dalle sue manìe araldiche o d’eleganza, dalle sue proclamate conquiste femminili. Poiché gli aspetti umani della sua personalità sono i primi ad esser posti in causa è da questi che lo scrittore comincia la messa a punto dei fatti: i suoi rapporti con gli editori, egli afferma, sono commercialmente perfetti, le sue fortune amorose sono frutto di pure fantasie, le sue abitudini — in realtà le più semplici – sono  state esagerate a bella posta e, ancora una volta, per far colpo sulla immaginazione del pubblico, la sua prestigiosa canne è molto meno sfarzosa di quella di uno dei tanti lions o dandys (sic) parigini. E, quanto al suo nome, esso è quello che è: se non è imparentato a quello degli Entraigues, non è perciò né meno antico né meno degno: appartiene all’antico ceppo autoctono delle Gallie, ed è corredato della particella nobiliare come possono testimoniare gli atti pubblici riguardanti suo padre, François-Bernard.

  Da questa difesa (che non manca, in realtà, di qualche spunto fantasioso) intesa a por fine alle maldicenze dei giornali intorno alla propria vita intima, Balzac passa a quella che tocca più da vicino la sua personalità di scrittore. E qui, venendo all’esame della questione del Lys, spiega come la cessione da parte di Buloz delle bozze di stampa del romanzo alla «Revue Etrangère de Saint-Pétersbourg» non solo lo abbia danneggiato economicamente (trattandosi di cessione non contemplata nel contratto) ma gli abbia nociuto soprattutto sotto il punto di vista morale e professionale. Le bozze di stampa necessitavano tuttora di una radicale revisione, mancavano di molti passi e, in altri luoghi, non rappresentavano che un provvisorio «scenario». Pubblicate in tali condizioni in una rivista straniera, esse gettavano infatti un enorme discredito sulla dignità letteraria dell’autore e diffondevano dell’opera una immagine ben diversa da quella che sarebbe stata la definitiva.

  Rimasti vani tutti i tentativi per una soluzione amichevole della questione (alla fine dicembre 1835) Balzac ammette di avere interrotto per rappresaglia, prima della scadenza del contratto, i propri rapporti con la «Revue de Paris» alla quale riconosce di essere debitore di un conto residuo. Ma insorge contro la chiamata in giudizio per inadempienza contrattuale, provocata da Buloz, contro tutti i procedimenti presenti e passati della «Revue de Paris», e, di nuovo, contro la mobilitazione della stampa parigina (direttamente scatenata da Buloz) che, soprattutto in occasione del processo, non si è fatata scrupolo di architettare menzogne.

  È in questa ultima parte dell’Histoire che Balzac giustifica e precisa tutti i suoi rapporti editoriali con i successivi direttori della «Revue de Paris» e con i direttori d’altre riviste cui aveva precedentemente collaborato. [...].

  Fra le tante preoccupazioni e le ansie d’ogni genere che, come si è Visto, fin qui rendono incredibilmente movimentato il mese di maggio, va aggiunta ora un’altra contrarietà (di rilievo minore, è vero, ma in ogni caso molto sgradevole) che viene a colpire inattesamente Balzac in quella cruciale settimana che segue il processo del Lys dans la vallée. L’aspetto più bizzarro del fatto è che esso arriva dalla parte più inaspettata: da quella, cioè, di una amica di molti anni con la quale (sia pure dopo una breve parentesi di cattivo umore) lo scrittore aveva riallacciato i più amabili rapporti. E non meno strano è che questo fatto non è motivato da alcuna intenzione offensiva, ma si propone, al contrario, di costituire un omaggio del culto letterario femminile votato all’autore prestigioso di tante scene della vita umana.

  Vogliamo accennare a Madame Delphine de Girardin e alla pubblicazione del suo romanzo, La canne de M. de Balzac, apparso appunto a Parigi, dall’editore Dumont, il 19 maggio 1836 e che conosce, fin dalla sua apparizione, un grosso successo nella stampa e fra il pubblico francesi. [...].

  Ma novità — e novità spiacevole — sono la tessitura narrativa, il carattere, il tono di esso che Balzac ignorava e che sono ben diversi da quelli che si attendeva allorché, alla pubblicazione del romanzo, egli ne intraprende la lettura. Contro ogni aspettativa, lo scrittore non solo si vede sostituito nel ruolo di personaggio principale da un suo presunto mirabolante bastone, e diventato oggetto di una costante ironia che gioca finemente con le sue debolezze umane, ma comprende subito i grossi imbarazzi che l’opera può creargli, offrendo nuova esca a tutti i pretesti scandalistici della campagna di stampa di cui da tempo, ed ora in modo particolare, è l’abituale vittima.

  Il romanzo, molto noto ai suoi tempi, è oggi, a distanza di quasi 130 anni, completamente dimenticato. [...].

  [...] è molto probabile che le intenzioni di Madame de Girardin, nello scrivere la Canne de M. de Balzac, non siano state quelle di ferire le suscettibilità nè di danneggiare la reputazione dello scrittore: noi siamo anzi sicuri che, al contrario, il proposito dell’autrice sia stato quello di proclamare, con questo libro, la genialità dell’intuizione psicologica dello scrittore e di presentargli l’omaggio di una «ghirlanda» femminile. Ma è altrettanto certo che il mezzo ed il momento scelti erano i meno adatti; e che la fantasia di Delphine serviva sì Balzac, ma a rovescio delle sue intenzioni. In luogo di giovargli sul piano letterario, lo metteva nei più seri imbarazzi, esponendolo a tutto un diluvio di commenti, comici, satirici, irritati, tutti, in ogni caso, indesiderabili. [...].

  Meno documentabile degli aspetti biografici fin qui, via via, rievocati, ci si presenta ora la ricostruzione della vita intima di Balzac, dei suoi rapporti con la famiglia e di tutti quegli altri legami sentimentali, come sempre abbastanza complicati (e misteriosi), della sua esistenza.

  Per ciò che riguarda la situazione familiare dello scrittore, ci sembra naturale supporre che lo stato di tensione persista e che i normali dissapori con la madre e i contrasti col fratello Henry non siano affatto cessati. [...].

  Anche sui rapporti dello scrittore con Madame de Berny le informazioni a nostra disposizione mancano completamente; e qui sappiamo di certo che mancano non per non essere esistite ma per essere andate distrutte. Non crediamo tuttavia (e già si è avuto occasione di dirlo nei mesi precedenti) che relazioni molto intense possano aver legato i due ex amanti. Una breve assenza dello scrittore da Parigi (probabilmente fra il 17 e il 26 maggio), ha fatto supporre ad alcuni biografi un viaggio alla Bouleaunière, la casa di campagna, presso Nemours, dove Madame de Berny abita e dove, fra breve, si spegnerà. Ma questa non è che una delle tante supposizioni, e neppure delle più convincenti, che si possano avanzare per giustificare il misterioso viaggio. Nelle condizioni di tensione e di attrito esistenti ormai da tempo fra Madame de Berny e il figlio Alessandro, da un lato, Balzac dall’altro, un soggiorno alla Bouleaunière, in maggio, ci sembra, al contrario, tutt’altro che probabile.

  Più ricche sono invece, naturalmente, le informazioni relative ai rapporti con Madame Hanska, rapporti che non sono peraltro, neppur essi, molto intensi. Balzac, continuando la sua lettera-diario iniziata il 23 aprile, prima della sua detenzione all’Hôtel de Bazancourt, la conclude appena uscito di prigione, dopo il 4 maggiore la spedisce il 5 o il giorno successivo. Il 9 maggio invia ancora a Kiev (dove l’Etrangère prolunga la sua permanenza) un biglietto di poche frasi ufficiali relativamente alla richiesta che la corrispondente dovrebbe fare in Russia per ottenere un esemplare della seconda edizione del Livre Mystique pubblicato pochi mesi prima. Non è che il 16 maggio, giorno del proprio onomastico ed anniversario dell’arrivo di lui a Vienna, l’anno precedente, che Balzac riprende la penna per accingersi a scrivere una lunga lettera all’Etrangère. Ma, iniziata il 16 maggio e scritta per poco più di una pagina, questa lettera sarà interrotta, ripresa solo il 12 giugno e spedita, un mese dopo l’inizio, il 16 giugno. [...].

  È solo qualche settimana dopo, fra la fine di maggio ed i primi di giugno che Balzac riceve infine, quasi contemporaneamente, due lettere di Eveline Hanska, insieme ad una terza, di Wenceslas Hanski, spedita da Kiev nella seconda metà di maggio, che complimenta la più recente produzione letteraria dello scrittore ed annuncia l’arrivo di un dono. [...].

  Frutto degli amori di Balzac e della Contessa, il 29 maggio 1836 nasce a Versailles Lionel-Richard Guidoboni-Visconti. Il bambino è naturalmente riconosciuto come proprio dal conte Giulio-Cesare-Emilio Guidoboni-Visconti che ne denuncia la nascita, avvenuta domenica, 29 maggio, alle 11 di sera, «chez ses père et mère». Ma la paternità di Balzac sembra (per quanto è almeno possibile essere sicuri in queste cose) altrettanto certa. La sola testimonianza esplicita di un contemporaneo, il giudice Lambinet, non è veramente di quelle che determinano una convinzione assoluta, giacché, come si è avuto già l’occasione di notare, costui non è una fonte sempre ed in tutto ineccepibile. Ma, fatta una debita parte al temperamento sarcastico e maligno che gli vieta ogni oggettività di giudizio, il Lambinet, giudice a Versailles e attento osservatore di quel piccolo mondo nel quale vivono, per vari mesi dell’anno, i Guidoboni-Visconti, è, come già anche si è detto, persona in genere ben informata. [...].

  Lambinet, come si è detto, è l’unica fonte contemporanea che ci ragguagli sul retroscena della nascita di Lionel-Richard. Né nell’«entourage» familiare di Balzac (Laure, normalmente bene informata degli amori del fratello), né nella cronaca scandalistica di Parigi né, infine, da parte dei due principali interessati alla vicenda (ma è possibile pensare proprio ad essi per la rivelazione di un tale segreto?) è mai trapelata a nostra conoscenza alcuna indiscrezione che, confrontata con la testimonianza del Lambinet, possa contribuire a darle maggior credito.

  Esistono, comunque, degli indizi indiretti, da parte dello stesso Balzac, che avvalorano la testimonianza del Lambinet e ce la fanno apparire più che verosimile. L’«esplosione» gioiosa della paternità balzacchiana è un fatto, anzitutto, così tipico della psicologia dello scrittore che non lascia alcun dubbio sulla sua autenticità. [...].

  E v’è forse di più. In una delle pagine dei ricordi di Lambinet che abbiamo già citate, questi ha parlato dei soggiorni estivi nel 1838, 1839, 1840 di Sarah Guidoboni-Visconti e del figlio a Les Jardies, e «des bizarreries, des caprices, des imaginations excentriqucs dont le père adultérin était ravi, et dont la mère était glorieuse». È anche qui difficile che Lambinet abbia mentito. Come non collegare infatti la raffigurazione di questo quadro familiare con le espressioni della dedica di Béatrix, indirizzata A Sarah e datata, appunto da Les Jardies nel dicembre del 1838? [...].

  Mai come in questa occasione possiamo rimpiangere la distruzione di tutte le carte appartenenti a Sarah Guidoboni-Visconti, le quali non ci avrebbero forse dato la conferma della paternità balzacchiana di Lionel-Richard, ma ci avrebbero certamente illuminati su questo momento così importante degli amori fra Balzac e la Contessa. Ma tant’è. I documenti non s’inventano, e la ricerca del biografo non può che arrestarsi qui alle scarse notizie indirette e alle ancor più scarse supposizioni su alcuni indizi diretti, che abbiamo finora esposte. Le altre informazioni su Lionel-Richard Guidoboni-Visconti (morto all’età di 39 anni) non portano purtroppo alcuna altra precisazione sulla sua nascita e sui suoi primi anni di vita, gli unici fatti interessanti la presente ricerca, e non meritano quindi di essere qui riferite.

  Più facile, anche perché più semplice, è invece la ricostruzione degli amori — tutti epistolari questi, e sempre intrecciati a distanza — con l’enigmatica Louise. La relazione dello scrittore con la misteriosa corrispondente, sebbene con un ritmo diventato ormai molto meno intenso, continua infatti nel mese di maggio. [...].

  Alcune informazioni desunte dai documenti rimasti ci consentono di ricostruire anche, sia pure frammentariamente, qualche episodio relativo alle amicizie di Balzac durante il maggio.

  Lo scrittore si è certamente incontrato, verso la prima metà del mese, con Auguste Borget rientrato da Issoudun a Parigi verso la fine di marzo o i primi di aprile. Con lui e, forse, con altri amici (Sandeau, Regnault) ha anche passato un’allegra serata inaffiata così abbondantemente di vini da farne risentire più tardi le dolorose conseguenze al povero Borget.

  Durante questa sua permanenza nella capitale, Borget non ha naturalmente mancato di corrispondere con Zulma Carraud alla quale ha comunicato le notizie dello scrittore e, forse, le sue lamentele sul lungo abbandono epistolare in cui questi si è visto lasciato dalla comune amica di Frapesle. Si riallaccia così, grazie al soggiorno di Borget a Parigi (che fa da tratto d’unione fra i due amici) dopo una interruzione di quasi sei mesi, la corrispondenza fra Balzac e Zulma Carraud. [...].

  Con sicurezza si riaffaccia invece, sulla scena delle amicizie balzacchiane, la figura della duchessa d’Abrantès di cui possediamo due lettere indirizzate allo scrittore il 16 e il 28 maggio. La povera duchessa, mal ridotta in salute e peggio ancora in finanze, era stata operata il 14 maggio di un tumore al braccio destro dal dottor Jobert de Lamballe. [...].

  Ma lo scrittore né risponde né si fa vedere all’ospedale [...].

  Dei rapporti intrattenuti dallo scrittore con le sue conoscenze aristocratiche d’oltre confine, in genere sempre abbastanza intensi, non ci è stata conservata, nel mese di maggio, che una lunga lettera del barone Hammer-Purgstall, relativa all’arrivo a Vienna di un esemplare del Livre Mystique e alla lettura di esso, di cui l’orientalista austriaco si dice entusiasta. [...].

  Molto ridotta rispetto ai primi mesi del 1836 ci appare, nel maggio, la vita mondana di Balzac che, come nell’aprile, ci si presenta appartata dalle riunioni di salotto o dagli spettacoli e sembra aver avuto un ritmo molto calmo. La presenza dello scrittore non è infatti segnalata né alle rappresentazioni dell’Opéra o del Théâtre Italien né a quei ricevimenti aristocratici o diplomatici un tempo assiduamente frequentati. Balzac è stato forse in visita da Madame Kisselef come si proponeva fare all’uscita di prigione; ma se anche ha attuato questo proposito, esso sembra essere stato l’unico avvenimento mondano del mese. [...].

  Anche nel mese di maggio, non molto diversamente da quanto è avvenuto nell’aprile, l’attività letteraria di Balzac si presenta scandita in un ritmo meno vasto e vario. L’unico lavoro a cui lo scrittore attende, senza interruzione e con incontentabile impegno stilistico, è quello di concludere definitivamente, rivedere e correggere nelle ultime bozze di stampa il testo del Lys dans la vallée. L’imminenza della soluzione del processo, da una parte, l’orgoglio, dall’altra parte, di fare di questo romanzo, nato in mezzo a tante discussioni ed attaccato prima ancora della sua pubblicazione definitiva, un’opera impeccabile, incitano il narratore a superare se stesso ed a limare, sempre più preziosamente, le pagine del suo libro. [...].

  Tutto il mese di maggio è dunque assorbito da questa continua ed instancabile messa a punto del Lys dans la vallée. Le altre opere in cantiere, promesse o dichiarate pronte per la stampa agli editori ed al pubblico, subiscono un tempo d’arresto o continuano a riposare, in informi schemi, sul tavolo dello scrittore. Né degli Héritiers Boirouge, né delle Illusions perdues, né del seguito del Cabinet des Antiques, né de La Torpille o del Président Fritot abbiamo, per ora, notizia alcuna. [...].

  Più intensa dell’attività narrativa è invece, anche in maggio, quella giornalistica, a carattere politico, nella «Chronique de Paris». Per la rubrica di critica politica internazionale, Balzac scrive otto lettere sulla France et l’Etranger che portano la data del 4, del 7, dell’11, del 14, del 18, del 21, del 25, e del 28 maggio e che sono rispettivamente pubblicate nella rivista di giovedì 5, di domenica 8, di giovedì 12, di domenica 15, di giovedì 19, di domenica 22, di giovedì 26 e di domenica 29 maggio.

  Si tratta ancora una volta di un complesso di articoli abbastanza ragguardevole, sia come numero sia come ampiezza (14 colonne circa di grande formato) sia, infine, per gli argomenti trattati che, come già rilevato, riguardano settori estremamente tecnici, ed alquanto periferici rispetto agli interessi narrativi e letterari dello scrittore. Indipendentemente da tutto ciò, Balzac profonde in queste pagine, con imperturbabile sicurezza, tutta la sua competenza, reale o immaginaria, sui grandi problemi di politica internazionale che occupano le cancellerie dell’intera Europa. [...].

  E veniamo ora, per concludere l’inchiesta biografica nel mese di maggio, alla valutazione che la stampa francese contemporanea formula sullo scrittore e sulle sue opere.

  Alcuni giudizi sono già stati riferiti, come il lettore ricorderà, nelle pagine precedenti, allorché si è parlato del processo del Lys dans la vallée e della pubblicazione della Canne de M. de Balzac. Nelluno e nellaltro caso, i giornali francesi, prendendo occasione dalle arringhe degli avvocati o ricamando intorno ai fatti narrati nel romanzo di Madame de Girardin, gareggiavano nell’indirizzare a Balzac, a seconda degli umori, rimproveri indignati, sarcasmi, ironie ... Tutto ciò riguardava comunque più la figura dell’uomo e gli avvenimenti privati della sua vita che non la sua opera narrativa, giudicata in se stessa, nei suoi valori puramente letterari. [...].

  Avvertiamo subito che in questo mese — per la prima volta dacché ci siamo proposti di seguire l’atteggiamento della stampa francese nei confronti di Balzac, durante il 1836 — la critica si dimostra abbastanza favorevole allo scrittore. Salvo un lungo articolo su Jane la Pâle, pubblicato nel «Courrier Français» del 30 maggio, le recensioni, i riferimenti, le allusioni [...] sono fondamentalmente positivi per l’opera balzacchiana per la quale hanno parole di simpatia o, addirittura, caldi ed inattesi elogi. [...].

 

 

  Raffaele de Cesare, Il Balzac di Belli, «Aevum», Milano, Anno XXXVIII, fasc. I, gennaio-aprile 1964, pp. 194-201.

 

  L’incidenza della cultura francese sulla formazione intellettuale belliana è [...] di una singolare imponenza [...].

  Le citazioni di Balzac reperibili nell’opera belliana sono quattro. Tre di esse, senza data, appartengono alle pagine dello Zibaldone; la quarta si riscontra in una lettera a Giacomo Ferretti, da Roma, il 18 giugno 1838.

  La successione cronologica fra le testimonianze dello Zibaldone e quella della lettera a Ferretti non pare molto difficile da stabilirsi. Senza poter fissare con precisione la data esatta di redazione delle singole menzioni dello Zibaldone (la cui stesura rimonta al 1817 e si prolunga fino al 1853), è certo tuttavia affermare fin d’ora che tutte e tre sono posteriori al febbraio 1832, ed è lecito supporre che siano anteriori al 1838.

  Secondo ogni verisimiglianza, le tre testimonianze dello Zibaldone (scritte l’una accanto all’altra, lo stesso giorno o a breve distanza di giorni) si dispongono dunque in un periodo di tempo precedente quello della lettera al Ferretti del giugno 1838. [...].

  Una inattesa difficoltà in cui si imbatte subito lo studioso riguarda le prime tre citazioni. Apparentemente impeccabili nella loro referenza bibliografica, esse diventano del tutto oscure allorché si voglia situarle nella fitta selva delle opere di Balzac e verificarle sul testo originale. Né La Fosse de l’avareLes Trois soeurs sono titoli di opere rintracciabili nella Comédie Humaine, nelle Oeuvres de jeunesse, nei Contes Drolatiques e nemmeno nelle Oeuvres Diverses o nel Théâtre. E non solo non si conosce alcun romanzo o racconto balzacchiano che porti questi titoli, o romanzo o racconto che li rechi almeno come sottotitoli o come titoli di capitoli, ma la più accurata indagine sui titoli delle edizioni preoriginali del fecondissimo romanziere francese dà, anche in questo quasi inestricabile settore, un risultato ugualmente negativo. In breve, dei titoli citati da Belli nessuna traccia in nessuna edizione preoriginale e originale o in nessuna riedizione dell’opera balzacchiana.

  Una seconda difficoltà riguarda la quarta citazione ed è difficoltà analoga alla prima, aggravata dalla approssimatività con la quale Belli rinvia alla sua fonte. Ballerine, e ballerine ebree, non mancano nei romanzi della Comédie Humaine, anzi fanno in essi apparizione abbastanza frequente. Ma, a nostra conoscenza, la prima di esse si presenta nella Torpille pubblicata nell’ottobre del 1838 e quindi posteriormente alla citazione belliana. Inoltre, né qui né altrove, è questione di quel particolare – sul quale Belli mette così vistosamente l’accento e sul quale dunque il testo originale doveva aver già insistito – della squallida rappresentazione nel «deserto teatro».

  Ogni difficoltà viene rimossa se avanziamo l’ipotesi che l’attribuzione di Belli sia sbagliata e che le citazioni ora riportate vadano pertanto cercate altrove che nell’opera di Balzac. Ma, a spiegarci come un lettore, vigile quale Belli, sia stato tratto in uno stesso inganno, e per ben quattro volte, bisogna altresì supporre che la fonte dello sbaglio sia unica e che l’annotatore sia caduto in una disavventura analoga a quella che gli eruditi ed i critici d’oggi chiamano un errore di schedatura.

  In questa caccia all’errore, la prima congettura che si offre è quella che suppone un equivoco provocato in Belli dalla presentazione esterna di una di quelle numerose raccolte miscellanee di racconti di cui Balzac, nominato o anonimo (ma noto), sia stato collaboratore. Tratto in inganno dalla presenza di Balzac nelle pagine della raccolta, Belli può essere stato facilmente indotto ad estendere la collaborazione balzacchiana ad altre opere che si fossero ritrovate nello stesso volume e che non fossero state invece sue, ma di altri novellieri.

  La fortuna ci ha permesso di verificare la nostra supposizione e di poterla documentare convenientemente, conducendoci a riprendere in mano, non molto tempo fa, una delle prime di queste raccolte che, come è noto, hanno conosciuto una grande voga nella cultura francese tra il 1830 e il 1850. Vogliamo alludere ai Contes Bruns par une <tête à l’envers>, pubblicati a Parigi fra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 1832 dall’editore Urbain Canel e contenenti, senza nome di autore, dieci racconti di Honoré de Balzac, Philarète Chasles e Charles Rabou. È proprio qui, infatti, nelle pagine di questa rara edizione romantica (ben conosciuta agli studiosi di Balzac e di Stendhal), che si trova la soluzione del nostro microscopico enigma balzacchiano-belliano!

  Opera in comune dei tre scrittori, come ora si è detto, i Contes Bruns contengono due racconti di Balzac, quattro racconti di Chasles e quattro di Rabou.

  Appartengono a Balzac il primo racconto in cui ci si imbatte, ad apertura di libro, Une conversation entre onze heures et minuit e il decimo che lo chiude: Le Grand d’Espagne. Appartengono a Chasles, il secondo, L’Oeil sans paupière, il quarto, Une bonne fortune, il sesto, La Fosse de l’avare, il settimo, Les Trois soeurs. Appartengono a Rabou, il terzo, Sara la danseuse, il quinto, Tobias Guarnerius, l’ottavo, Les Regrets e il nono, Le Ministère Public.

  Come si vede, già i titoli del sesto e del settimo racconto ci mettono sulla traccia di almeno tre delle citazioni belliane. E non solo i titoli, ma gli stessi testi. La Fosse de l’avare, che è una storia abbastanza stravagante (la cui intonazione, ora terrificante ora grottesca, vuol richiamare moduli shakespeariani e hoffmanniani) riproduce il dialogo tra il becchino Garcias e il suo aiutante José e narra la improvvisa resurrezione del vecchio avaro Andrea Ferrero di cui i due, in un cimitero di villaggio nei pressi di Badajoz, stanno appunto scavando la fossa. Inutile riferire la complicata storia dell’avaro, raccontata da Garcias, ed il suo inaspettato, grottesco epilogo. Basti dire che, lungo appunto il dialogo fra i due becchini (a p. 253 dell’ed. Canel) ritroviamo, parola per parola, il passo che Belli ha trascritto. [...].

  La stessa costatazione vale per le citazioni de Les Trois soeurs. Questa storia, che è in verità molto diversa dalla precedente, sembra inserirsi piuttosto nella corrente di un certo romanticismo, vago e nebbioso, che s’affissa (alquanto velleitariamente) in una tematica tutta spiritualistica. E disegnando profili di creature d’eccezione, sofferenze di anime d’élite, rievocati in atmosfere di mezze-tinte, albari o crepuscolari, essa ripercorre la trista vicenda della malattia e della morte per consunzione di tre giovani sorelle in una contèa d’Inghilterra. In un luogo del racconto (p. 276 dell’ed. Canel) una di queste tre sorelle, Caroline Beautoun, espone le proprie idee letterarie su quegli scrittori che, troppo numerosi a parer suo, anziché scrivere ciò che sinceramente e profondamente pensano, sacrificano alla moda del giorno, si abbandonano al gusto del loro pubblico, sono, in altre parole, i «flatteurs ... courtisans» dei loro lettori. Idee giustissime – anche se esposte un poco vagamente – nel corso delle quali affiora la seconda citazione belliana [...].

  L’altra citazione è poco distante. [...].

  Identificate le prime tre citazioni, resta in sospeso l’attribuzione della quarta allusione, quella della lettera a Ferretti del giugno 1838 rievocante, come si ricorderà, «la ebrea di Balzac nell’eternità del deserto teatro».

  Ma ancora una volta sono i Contes Bruns a darci la chiave dell’enigma. Il primo racconto di Rabou (terzo della raccolta) si intitola, come abbiamo detto in precedenza, Sara la danseuse. [...]. Ed ecco di cosa si tratta: una giovanissima ebrea tedesca, Sara, ha deciso, ad onta della opposizione paterna, di fare la ballerina. Venuto il giorno del suo debutto, ella danza, in un teatro di Berlino, alla presenza del pubblico più elegante di quella città. Ma il suo debutto è rumorosamente interrotto dal padre che, penetrato sulla scena, maledice la figlia disubbidiente e reproba.

  Qualche giorno dopo il vecchio ebreo muore; Sara, diventata l’amante dell’ambasciatore di Francia, si trasferisce a Parigi pregustando tutte le gioie di una vita d’arte e di galanteria. Lungo la strada, però, la carrozza ribalta, l’ambasciatore è gravemente ferito e Sara muore.

  Giunta nell’al di là, la giovane danzatrice trova naturalmente chiusa la porta del Paradiso. E, apertasi invece quella dell’Inferno, Satana escogita per Sara questa singolare pena di contrappasso: essa danzerà, per l’eternità, in un teatro sontuoso, deserto di spettatori, silenzioso di applausi (pp. 156-157 dell’ed. Canel). [...].

  Non è chi non veda il nesso diretto che lega l’allusione della lettera belliana al passo ora citato di Sara la danseuse. Ancora una volta la referenza va così espunta da Balzac; e trasferita invece a Rabou.

  Il problema delle citazioni pseudobalzacchiane di Belli è dunque risolto con la restituzione ai legittimi proprietari, Philarète Chasles e Charles Rabou, dei quattro passi tratti dai Contes Bruns.

  Ma scomparso Balzac dal catalogo, esplicito ed annotato, delle letture belliane, bisognerà concludere che il Poeta romano non abbia letto nulla dello scrittore francese?

  Allo stato attuale delle nostre conoscenze, la risposta appare, certo, negativa. Ma a me pare impossibile che, annotati con tanto interesse tre degli scritti raccolti nei Contes Bruns, Belli non abbia letto, almeno, i due racconti autenticamente balzacchiani del volume e cioè i frammenti della Conversation entre onze heures et minuit e Le Grand d’Espagne. Sono, con i Regrets di Rabou, i pezzi più belli della raccolta, ed uno di essi doveva sicuramente richiamare a Belli curiose analogie con avvenimenti della cronaca scandalosa romana a lui contemporanea.

  È difficile che Belli non v’abbia gettato l’occhio. E d’altra parte, il fatto d’aver attribuito a Balzac i racconti di due pubblicisti allora poco noti in Francia (e quasi del tutto ignorati in Italia) come Chasles e Rabou non costituisce una testimonianza indiretta della conoscenza (e fors’anche della ammirazione) di Belli per il futuro autore della Comédie Humaine?

 

 

  Raffaele de Cesare, La formazione dell’italianismo di Balzac (1820-1836) e l’influenza di Stendhal (II), «Studi Francesi», Torino, 22, Anno VIII, fascicolo I, gennaio-aprile 1964, pp. 50-66.

 

  [...] è giunto ormai il momento di domandarci quale parte competa a Stendhal nella genesi dell’italianismo balzacchiano e quale importanza abbia avuto la sua influenza.

  I vari studi dedicati ai rapporti fra i due scrittori ci permettono ormai di dire che la conoscenza letteraria di Stendhal, da parte di Balzac, risale agli anni 1824-1825 ed è in ogni caso anteriore alla lettera 106 della Correspondance (difficilmente databile con precisione, ma probabilmente attribuibile al 1825) e all’edizione preoriginale della Physiologie du mariage (1826).

  Come è noto, nel primo di questi due documenti, Balzac riferisce a Madame d’Abrantès, a proposito della sensibilità delle donne spagnole, un aneddoto che è tratto di sana pianta da De l’Amour; nel secondo, utilizza a più riprese una serie di considerazioni sulla educazione femminile che appartiene allo stesso trattato stendhaliano.

Ma, oltre a De l’Amour, Balzac conosceva anche le Lettres écrites de Vienne en Autriche ... su Haydn, Mozart e Metastasio (1815), l’Histoire de la peinture en Italie (1817), Rome, Naples et Florence (1817), Racine et Shakespeare (1823 e 1825), la Vie de Rossini (1823), gli articoli di critica d’arte, sul Salon de 1824, pubblicati nel «Journal de Paris» (agosto-dicembre 1824) e quelli di critica musicale (le cosiddette Notes d’un dilettante) cominciate a pubblicare, nello stesso giornale, dal settembre 1824?

  È molto difficile poterlo affermare, e la risposta più cauta che si debba dare è forse quella negativa. Giacché, se è lecito supporre che Balzac abbia potuto leggere nel «Feuilleton littéraire» del 30 aprile 1824, la lettera aperta di Stendhal ad Auger relativa alla polemica romantica la supposizione non trova purtroppo un sostegno storico sicuro. E se è suggestivo far risalire le menzioni a Bianca Capello, nella lettera già citata di Balzac a Madame d’Abrantès ed in un’altra alla stessa del 22 luglio 1825 (?) ad una reminiscenza delle note pagine dell’Histoire de la peinture en Italie, bisogna riconoscere che nulla è meno certo. [...].

  Quanto alle opere di critica musicale di Stendhal, i riferimenti balzacchiani alla musica tedesca, a quella italiana e a Rossini in particolare, sono così scarsi ed insignificanti negli anni che vanno dal 1820 al 1826 che ogni conoscenza delle Vies de Haydn, de Mozart et de Métastase e della Vie de Rossini ci sembra legittimamente da escludere.

  In altre parole è dunque estremamente probabile che, alla data del 1826, Balzac non conoscesse che il solo trattato De l’Amour. Ma quattro anni dopo, alla fine del 1830, le conoscenze stendhaliane di Balzac ci appaiono notevolmente più ampie. Nella ricostruzione di questa seconda fase dei rapporti fra i due scrittori, i dati storici che ci assistono, per quanto esigui, sono preziosi. Sappiamo anzitutto che, ad un’epoca non precisata ma grosso modo localizzabile fra il 1829 ed il 1830, Balzac e Stendhal si sono incontrati e conosciuti di persona. [...].

  Quanto al primo incontro personale, cui si è fatta allusione, esso è quello che, secondo ogni probabilità, è avvenuto nel salotto del barone Gérard in una serata dell'inverno 1829-1830. Su di esso, in ogni caso, una informazione un po’ vaga, ma che ha tutti gli aspetti della attendibilità storica, ci è offerta dallo stesso Balzac in una pagina, ormai ben nota, dei Contes Bruns. [...].

  Il 15 dicembre 1829, l’editore Levavasseur fa pervenire a Balzac, dietro richiesta di quest’ultimo, una copia di Rome, Naples et Florence (edizione del 1827) e delle Promenades dans Rome (1829). Né passerà molto tempo che Balzac leggerà anche Le Rouge et le Noir [...].

  Ignoriamo purtroppo se, durante questi quattro anni, Balzac abbia preso conoscenza di Armance (1827), delle novelle pubblicate nel 1829 e nel 1830, dell’articolo su Lord Byron à Milan, e se, mosso dalla curiosità destata in lui dalle recenti letture, sia andato alla ricerca delle opere precedenti di Stendhal non ancora conosciute. [...].

  Una cosa comunque rimane certa, e cioè che, alla fine del 1830, Balzac ha conosciuto altre tre nuove opere capitali di Stendhal (Rome, Naples et Florence, Les Promenades dans Rome, Le Rouge et le Noir) e che dalla lettura di esse, come ora vedremo, è subito rimasto fortemente stimolato. [...].

  Il primo documento che si offre alla nostra attenzione è un brano abbastanza ampio del Bal de Sceaux (redatto alla fine del 1829 e pubblicato nell’aprile del 1830) che si può leggere verso la fine del racconto. Maximilien de Longueville – la cui rottura sentimentale con Emilie de Fontaine è già consumata – è seduto ad un tavolo accanto ad una duchessa napoletana; Mademoiselle de Fontaine è poco discosta. [...].

  Bernard Guyon nella sua fondamentale tesi sulla Pensée politique et sociale de Balzac ha già rilevato l’importanza di questo brano e ne ha già sottolineato la discendenza stendhaliana. Inutile quindi soffermarsi qui su tutti gli elementi che sorreggono l’intelaiatura psicologica del dialogo. Basti solo ripetere che esso, nello stabilire una distinzione capitale fra l’amour-vanité delle Francesi (tipico di Mademoiselle de Fontaine) e l’amour-passion delle Italiane, di cui la duchessa napoletana si fa portavoce, rivela tutta l’adesione che Balzac porta ad una idea-chiave che (non è il caso di dire qui se falsa o esatta) in Stendhal assurge a vero e proprio sistema.

  Persino nella Vendetta (pubblicata nell’aprile del 1830), racconto così lontano da un modulo stendhaliano e in cui l’italianismo è così sovente di accatto, è possibile scoprire, in qualche minuto particolare, alcune reminiscenze stendhaliane. [...].

  Balzac sembra ricordarsi di lui [Stendhal] nella scelta di certi nomi di persona, nel tentativo di localizzare il racconto in una sua più precisa cornice storico- geografica, nella messa in rilievo di certe reazioni del pubblico romano a teatro e, infine, nella riaffermata antitesi fra «l’esprit d’une Parisienne et l’âme passionnée digne de l’Italie». Siamo sempre lì: se, per il paesaggio geografico, Balzac resta ancora abbastanza incerto fra i suoi informatori che, in mancanza di meglio, fonde insieme, per il paesaggio morale – o, almeno per un aspetto di esso – fa ormai definitivamente sua la distinzione inventata da Beyle nell’amore al di qua e al di là delle Alpi.

  Né solo in questa antitesi della vita sentimentale Balzac segue le orme psicologiche di Stendhal. Scendendo dai fatti più generali a particolari più minuti, il primo non disdegna nemmeno di appropriarsi di qualche tratto di folklore, utile anch’esso a svelare alcuni caratteri della psicologia italiana, sottolineato dal secondo nelle sue opere di viaggio.

  Il fatto ci sembra verificato dalla lettura di un’altra pagina balzacchiana della fine del 1830. Si tratta di quel curioso frammento della Mort de ma tante, abbastanza enigmatico nelle sue intenzioni, che «La Caricature» pubblica nelle sue colonne il 16 dicembre 1830. Riscontriamo anche qui la stessa tecnica composita che ci ha rivelato Sarrasine: Richard de Saint-Non presta gli elementi per l’inquadratura geografica; Latouche si offre per certe tirate politiche che stigmatizzano gli oppressori (ma nel caso particolare Balzac avrebbe dovuto, più esattamente, sostituire i Borboni ai Tedeschi) e per certe impressioni di costume; le relazioni di viaggio di turisti francesi sono ricordate per dirne tutto il male possibile. Ma anche Stendhal è presente per una pennellata che vuol precisare il carattere napoletano. [...].

  Questa presenza di Stendhal nell’opera balzacchiana, sia per quanto riguarda i temi d’amore in generale, sia per quanto più particolarmente concerne taluni aspetti della psicologia e dei costumi italiani, non fa che intensificarsi nei quattro anni successivi (1831-1834). [...].

  [...] una curiosa analogia che La Peau de chagrin (agosto 1831) rivela con il capolavoro stendhaliano a proposito di un atteggiamento di Raphaël de Valentin verso Foedora: analogia che ha tutta l’aria di una ripresa balzacchiana da un episodio di Julien Sorel e di Madame de Rênal, e, infine, l’aneddoto Ecce Homo, raccontato da Stendhal ed inserito, fra altri racconti di Une conversation entre onze heures et minuit, nei Contes Bruns (febbraio 1832)97. Tutti questi testi non riguardano infatti né l’Italia né gli Italiani e ci interessano solo come altrettante testimonianze dei rapporti, più generali, fra i due scrittori. [...].

  Fra i racconti facenti parte della Conversation entre onze heures et minuit e inseriti nei Contes Bruns è necessario gettare anche un colpo d’occhio più attento su l’Histoire du capitaine Bianchi e su La Maîtresse de notre colonel. [...].

  Ma uno dei testi più importanti di questo periodo è certamente quel capitolo della Femme de trente ans (A trente ans) che vede la luce nella «Revue de Paris» dell’aprile 1832. [...].

  Vi appare in primo luogo il tema generale dell’«affadissement» del mondo sociale francese contemporaneo con tutte le sue ripercussioni sentimentali, che è tema dominante di Beyle, e di cui ambedue gli scrittori identificano in parte le responsabilità nella fine dell’ancien régime e nel governo costituzionale delle due Camere. [...].

  Altrettanto beyliana è, qualche mese dopo, l’altra riflessione sulla naturalezza delle passioni italiane che nessuna affettazione e, soprattutto, nessun falso pudore riescono a guastare. Si tratta di una frase della Femme abandonnée (settembre 1832) che è abbastanza significativa della nuova esplorazione dell’anima femminile italiana quale Balzac – abbandonati certi luoghi comuni delle opere di giovinezza – sta compiendo in questi anni [...].

  C’è tutta una serie di testi, da Rome, Naples et Florence a Promenades dans Rome che svolgono, come è noto, la stessa idea e, sia pure con sfumature diverse e con esemplificazioni sempre rinnovate, ribadiscono lo stesso assioma. Le Italiane hanno una vocazione troppo prepotente ed esclusiva per l’amore vero, per compiacersi di quello narrato: di qui la loro sconcertante naturalezza, ignota alle Francesi, di splendide «creature» («Le beau naturel, chez les femmes, est ... toujours altéré dans les pays à romans»); di qui la loro indifferenza o il loro disprezzo per i romanzi che non leggono o che considerano di nessun interesse esistenziale [...].

  Qualche reminiscenza stendhaliana svela anche, a nostro parere, il racconto Les Marana (dicembre 1832-gennaio 1833) in cui Balzac non solo riprende l’espressione di «beltà folgorante» per attribuirlo, più giustificatamente, alla magnifica cortigiana («superbe mot crée pour elle à Milan par ses passionnés adorateurs»), ma insiste su alcune abitudini di giovinezza del marchese Montefiore che hanno, anche, un certo timbro stendhaliano. [...].

  Come le testimonianze presentate dimostrano, l’analisi della psicologia italiana e dei costumi d’oltr’alpe che si incontra nei romanzi balzacchiani a partire dal 1830, si modella dunque sovente su testi di Stendhal. Sovente, ma non sempre. Esistono nella produzione letteraria di questi quattro anni – allo stesso modo che in quella precedente – opere di Balzac che ben poco debbono all’Italia di Stendhal e che, anzi, da questa, si allontanano singolarmente. Quella stravagante fantasia che è Olympia ou les Vengeances romaines (che, prima di trovar posto nella Muse du Département era stata pubblicata, sotto il titolo di Fragments d’un roman publié sous l’Empire par un auteur inconnu, nelle «Causeries du Monde» del settembre 1833) continua, per esempio, a ripercorrere le strade di vecchie letture pseudo-italiane dove si aggrovigliano avventure assolutamente inverosimili di briganti, di adulteri, di lussurie e di omicidi. [...].

  Una osservazione quasi analoga è il caso di fare per il frammento La Fin d'un dandy (di data incerta, ma sicuramente fra il febbraio 1832 e il 1835) che accenna ad una ricostruzione di una Roma tutta fantastica «à la manière d’Hoffmann».

  Più complicato è il problema per il frammento Douleurs de mère [...]. Questo frammento, scritto ad una data imprecisabile (ma certamente anteriore al 1836 e, molto probabilmente, al 1834) si svolge a Napoli, dopo la caduta di Gioacchino Murat, in piena restaurazione legittimistica, e pone in scena personaggi napoletani e siciliani dalle reazioni psicologiche subitanee e dai gesti impulsivi, tipici del Mezzogiorno. Ma il forte colore italiano dell’ambiente e dell’intreccio, interrotto alle sue prime azioni, è quanto di meno fuso si possa immaginare. Vogliamo dire che esso è tratto da una tavolozza dove i colori sono gettati alla rinfusa e sono della composizione più diversa. [...].

  La parte che si taglia Stendhal è tuttavia abbastanza caratteristica e significativa. [...].

  A differenza di quanto si è fin qui notato, i richiami a Stendhal, nei due anni successivi (1835-1836) sono invece singolarmente rari e quasi insignificanti. Tale silenzio potrà dipendere da un diminuito interesse di Balzac per l’Italia che è in effetti caratteristico di questo periodo. Sta comunque il fatto che, per trovare reminiscenze stendhaliane nell’opera balzacchiana del biennio 1835- 1836, bisognerà andare a cercarle in certi minuti dettagli della narrazione e non sempre sarà possibile dire con certezza se esse risalgono poi direttamente a Beyle. [...].

  [...] abbastanza probabile è anche l’origine stendhaliana di un richiamo a Leonardo da Vinci che leggiamo nelle aggiunte alla 2a edizione (1835) del Papa Gobseck [...].

  Non meno suggestivo sarebbe infine supporre che la scelta del nome Cane per l’eroe dell’omonimo racconto balzacchiano, Facino Cane

  Le presenti note sulla formazione dell’italianismo balzacchiano e sull’influenza esercitata da Stendhal non possono che arrestarsi alla primavera di quest’anno che conclude apprendistato italiano del nostro romanziere. Qualche mese dopo la pubblicazione di Facino Cane, questi compirà il suo primo viaggio in Italia e tutta la sua documentazione, fin qui esclusivamente libresca e fondata su informazioni di seconda mano, comincerà ad essere controllata ed arricchita da una serie di nuovi dati legati alla diretta esperienza del viaggio. Immerso nella vita quotidiana delle città visitate, a contatto immediato con numerosi Italiani, uomini d’affari, aristocratici, artisti e studiosi, Balzac avrà occasione di farsi un’idea personale dell’Italia e di verificare le sue opinioni, per così dire letterarie, sulla realtà concreta che, ad ogni ora del suo soggiorno, gli si presenta sotto gli occhi.

  È venuto dunque il momento di concludere. E, a questo punto, quali conclusioni trarre sull’importanza e sui limiti dell’influenza di Stendhal su Balzac anteriormente al primo viaggio di questi in Italia? [...].

  La lettura di De l’Amour risale agli anni di giovinezza di Balzac ed annovera certo questi fra i primi (e i pochi) lettori dell’ammirevole libretto stendhaliano. Ma l’influenza di esso, pur agendo subito su alcuni temi generali balzacchiani (il meccanismo della passione, la «cristallizzazione», i problemi dell’educazione femminile in ordine alla felicità coniugale, ecc.) non sensibilizza per ora Balzac per ciò che riguarda le applicazioni italiane della teoria generale d’amore che pur ricamano, in filigrana, l’intero trattatello. È solo alla fine del 1829 che le letture più estese (e questa volta specificatamente italiane) delle opere di Stendhal interessano l’italianismo di Balzac. L’impressione che questi ha riportata deve essere stata certamente molto intensa giacché di qui in avanti, Stendhal sembra essere uno degli informatori più sovente interrogati da Balzac sui problemi d’oltralpe: soprattutto su quei problemi che toccano alcune reazioni della vita sentimentale e che si differenzierebbero sensibilmente da quelle cisalpine.

  Ma impressione intensa non equivale ad impressione esclusiva, e pur diventando uno dei mediatori più importanti fra Balzac e l’Italia, non resta tuttavia il solo. Luoghi comuni romantici influenze staëliane, hoffmanniane, casanoviane, byroniane, il mai completamente dimenticato bagaglio delle inconcepibili rappresentazioni del «romanzo nero inglese, continuano a sollecitare l’ispirazione di Balzac, ad affiancarsi ed a sovrapporsi alla visione beyliana.

  Questa confusa giustapposizione di tanti (e così diversi) elementi che, in varia misura, si prolunga fino al 1836 è bizzarra, ma, a rifletter bene, non tale da stupirci molto. Balzac non ha mancato certamente di misurare la profonda distanza intellettuale esistente fra Beyle e gli altri suoi informatori (la lettura di Le Rouge et le Noir lo ha rafforzato in questa idea) né di valutare la prospettiva, tutta diversa, donde muove il giudizio beyliano sull’Italia. Ma, privo d’ogni esperienza diretta di questo paese, ignorante della sua lingua, è nella situazione di chi manca di un sicuro criterio valutativo per discriminare gli apporti dei suoi numerosi informatori. Incapace di potere giudicare chi abbia meglio saputo interpretare il complesso volto dell’Italia e ne abbia analizzato con più verità i meccanismi psicologici, egli accoglie un po’ dovunque i materiali della sua ispirazione e s’accontenta di un eclettismo che, se a noi appare oggi abbastanza grossolano, aveva tuttavia per lui il grande vantaggio di non creargli troppi problemi.

  Non è, come abbiamo detto, che dopo il primo viaggio a Torino nel 1836 e, soprattutto, dopo i successivi, che Balzac, in grado di controllare con la propria esperienza i dati della sua cultura, si accorgerà come la propria «découverte de l’Italie» coincida per tanta parte con quella di Stendhal. Sarà allora, e solo allora, che la maggior parte delle altre influenze qui indicate tramonterà più o meno definitivamente, mentre quella di Stendhal assumerà una funzione catalizzatrice sempre più importante.

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensione. E. Martinez Estrada, “Realidad y Fantasia en Balzac, «Cuadernos del Sur», Instituto de Humanidades, Universitad Nacional del Sur, Bahia Blanca, 1964, «Rivista di Filosofia neoscolastica», 58, I, gennaio-febbraio 1964, p. 140.

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. H. de Balzac, “Gambara”. Edition présentée par M. Regard, Paris, J. Corti, 1964, «Studi Francesi», Torino, 24, Anno VIII, fascicolo III, settembre-dicembre 1964, pp. 508-510.

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. A. Wurmser, “La Comédie inhumaine”, Paris, Gallimard, 1964, «Studi Francesi», Torino, 24, Anno VIII, fascicolo III, settembre-dicembre 1964, p. 571.

 

 

  Carlo Cordié, Guida alla lettura della letteratura francese. L’Ottocento, in AA.VV., I Cinque libri del sapere. Il Libro delle letterature, Milano, Garzanti Editore, 1964, pp. 711-751.

 

  pp. 728-734; 2 ill. Accanto a Stendhal, diversissima da lui e da lui incompresa, un’altra grande figura: Honoré de Balzac (1799-1850). Diversità, tuttavia, che rimane più negli aspetti esteriori delle due produzioni che nel loro valore intimo: perché a Stendhal, assai più che non agli scrittori contemporanei ancor calati nel puro clima romantico, Balzac si ravvicina nel suo attento, quasi scientifico studio di caratteri e di costumi. Nella sua vastissima opera da lui raccolta in gran parte nel ciclo che intitolò «Commedia umana», Balzac, più ancora che artista, vuole essere, potremmo dire, scienziato: certo medico morale della società di Luigi Filippo, dominata dall’avidità del guadagno, dagli interessi, dagli intrighi, priva di quelle, energie morali che avevano sostenuto l’ordine sociale nei tempi passati. Così anche in lui, come in Stendhal, appare quella continuità fra il Settecento intellettuale e l’Ottocento fantastico che il romanticismo sembrava avere interrotto. La mente torna a imporsi sul cuore e si pone problemi, e rivela mali e vizi; ma, in egual tempo, non sono dimenticate le esperienze del romanticismo e i valori lirici che esso ha rivelato: vi è profondo, nell’opera di Balzac, il senso dell’angoscia umana, della umana incapacità al trionfo del bene e di ciò che di migliore è nell’uomo. Lo scrittore non si abbandona sfiduciato e oppresso in questo pessimismo, ma lo sente nell’intimo, e lo soffre, e lo fa risaltare in tutta la sua drammaticità influendo sullo stesso Victor Hugo, che va ponendo mano ai suoi romanzi sociali. Per questo, Balzac non è solo un pittore della società del suo tempo: egli ne trasfigura i motivi, tende alla caratterizzazione eccezionale dei personaggi in una sfera di grandiosità subendo a sua volta influenze dall’Hugo e spesso sconfinando nel romanzesco e nel visionario, ma levandosi non di rado a un clima di grande, cupa tragedia. Traduciamo qualche pagina di uno dei più celebri, e forse del più perfetto tra i romanzi balzachiani: Eugenia Grandet (Eugénie Grandet), storia di una fanciulla, figlia di un uomo ricchissimo e mostruosamente avaro, che sacrifica la sua vita per l’amore di un cugino conosciuto solo pochi giorni prima della sua partenza per le Indie. Il cugino è arrivato in casa Grandet dopo la morte di suo padre, fratello del vecchio Grandet, il quale, in un’ultima lettera, si è rivolto a questi perché aiuti il figlio a emigrare; subito Eugenia si è sentita attratta verso di lui: per fargli onore ha perfino fatto acquistare, a insaputa del padre, e con denaro proprio, delle candele di cera, lusso che in casa Grandet deve essere ignorato. Adesso il vecchio Grandet, salendo nella stanza del nipote, si accorge di quello spreco. [...].

  È facile osservare subito in questo passo due motivi diversi: da una parte la singolare capacità, nello scrittore, di tracciare un carattere o una situazione in poche battute; dall’altra la compiacenza di distaccarsi dal soggetto sia per approfondirlo quasi scientificamente, sia addirittura per fare divagazioni di carattere generale. Entrambe sono caratteristiche proprie dell'arte del Balzac. Già nelle poche parole dette al nipote, angosciato per la morte del padre, la figura del vecchio Grandet è scolpita a tutto rilievo: non è un malvagio consapevole nè un ipocrita cosciente: è un uomo arido, concreto, capace solo di intendere l’interesse, scaltro solo negli affari. Osservate la battuta: «Siete al buio. Male, male: bisogna vederci chiaro in quello che si fa»: non è un tratto di spirito ma una spontanea affermazione di carattere; si pensi che il padre di Carlo si è ucciso per aver fatto fallimento: nelle parole c’è, quindi, anche un freddo rimprovero per l’operato del fratello. I suoi tentativi di consolazione sono goffi e superficiali, propri di chi non sente commozione alcuna, ma in questo limite, sono sinceri: Grandet non fa nulla per esagerarli, è convinto che rappresentino il massimo della solidarietà umana, così convinto che se ne stupisce egli stesso e lo fa notare. Se vi è dell’istrionismo, è sincero anch’esso e il primo a crederci è lo stesso Grandet. Il tragico di questo personaggio è nell’essere naturalmente così, non nel volerlo essere. Poche battute bastano egualmente a delineare il carattere della signora Grandet: il suo ripararsi dietro l’orazione serale, quel «Lascia fare a me, non mi mangerà mica», quel «Va, va a letto» dopo l’accenno della figlia al pianto del cugino sono altrettanti tocchi maestri che mettono in luce un buon senso mite, in parte rassegnato in parte sempre vigile. Eugenia, infine, è considerata più a fondo, in un suo agire esteriore, già di per sè rivelatore del suo animo, e in una introspezione attenta e minuziosa che tuttavia non perde mai il suo valore lirico, talora limitata ai soli moti del suo cuore, talora sconfinandone fino a raggiungere un tono sentenziale, una generalizzazione che nasce spontaneamente dall’osservazione particolare. In questo mondo tutto rappresentativo e drammatico, l’intervento dell’autore che viene a commentarsi di volta in volta lascia talora perplessi. È innegabile che una divagazione come la prima del passo trascritto: «Gli avari non credono in una vita futura ecc.», spezza il clima della rappresentazione: Balzac tende qui a sostenere il compito che si è imposto di medico morale di una società ed è talmente sicuro dell’intensità e della vivezza della narrazione che si permette di abbandonarla un istante per incastonare in essa una riflessione generale. Per giudicarne il valore bisogna considerarla non tanto in rapporto al brano presentato, dove prende particolare rilievo nel giuoco delle proporzioni, ma in rapporto a tutta l’opera, dove tali distacchi non sono eccessivamente numerosi; ci si accorge allora che essi vengono a formare un altro clima, meditativo, che si intreccia col clima rappresentativo e ne tempera, con la asciuttezza, il rilievo a tutto tondo delle immagini. Le altre generalizzazioni, invece, sono sempre legatissime alla osservazione particolare e la ampliano, dànno all’immagine un valore intellettuale oltre che emotivo, la rendono più ricca e completa entrando decisamente a far parte integrante di uno stile. Viene così fissato un accordo tra la virtù rappresentativa e la capacità critica, tra la sintesi dell’intuizione e l’analisi dell’intelletto, che concilia e fonde le esperienze diverse di due secoli ed è destinato a divenire caratteristico nella tradizione della narrativa francese.

  Con Balzac siamo già in piena reazione al romanticismo: alla letteratura «auto-biografica», intesa cioè come un mezzo che serve all’autore per la conquista di se stesso, per chiarire o lasciare drammaticamente sospesi dubbi e problemi suoi propri, per ricercarsi attraverso le sue immagini e i suoi personaggi, si va sostituendo la letteratura impersonale, in cui l’autore quasi scompare per lasciare in primo piano, distaccati da lui, vivi di se stessi, i personaggi e gli avvenimenti.

 

 

  Marise Ferro, Lettere di figli illustri alle loro madri, «Stampa Sera», Torino, Anno 96, Numero 12, 15-16 Gennaio 1964, p. 3.

 

  Su: Marcelle Auclair, Lettres à leurs mères.

 

  Le lettere di Balzac alla madre acquistano un senso se sono date cronologicamente e per esteso, in modo da avere una idea della vita dello scrittore e del suo lavoro. Poche lettere possono fare apparire Balzac addirittura un figlio duro di cuore, mentre in realtà dura di cuore era la madre.

 

 

  Marise Ferro, Cosa devono le donne d’oggi alla folle vita di George Sand, «Stampa Sera», Torino, Anno 96, Numero 242, 23-24 Ottobre 1964, p. 3.

 

  [...]. Singolare forza in una donna, e che Balzac, l’unico della sua epoca, capì. Nel 1838 andò a Nohant a trovarla e scrisse alla contessa Hanska (colei che diventerà sua moglie) la lettera seguente: «... Mi sono recato al castello di Nohant il sabato grasso, verso le sette di sera ed ho trovato la mia amica George Sand in vestaglia, intenta a fumare un sigaro dopo cena, seduta vicino al camino, sola in una stanza immensa. Calzava delle belle pantofole gialle ornate di frange d’oro, calze civettuole e sotto la vestaglia portava pantaloni rossi. Aveva il doppio mento come un grasso canonico, ma neppure un capello bianco e i suoi begli occhi erano scintillanti. E’ a Nohant da un anno, molto triste e piena di lavoro. Conduce press’a poco la vita che conduco io. Si corica alle sei del mattino e si alza a mezzogiorno; io mi corico alle sei di sera e mi alzo a mezzanotte. A Nohant mi sono adattato alle sue abitudini e durante tre giorni abbiamo chiacchierato dalle cinque di sera fino alle cinque del mattino, così ho avuto modo di conoscerla in queste tre lunghe chiacchierate, più che durante i quattro precedenti anni della nostra amicizia. E’ stato molto utile per me lederla e parlarle ... Mi ha parlato dei suoi amori. Non ne ha avuto che delusioni e si è messa a vivere a Nohant, in solitudine, condannando tanto il matrimonio quanto l’amore. Ha il maschio raro, ecco tutto. E non è, come dicono, donna amabile, cioè che desta amore. E’ virile, artista, di animo grande, generosa, sicura; insomma, ha le qualità degli uomini, ergo: non è donna. Rimanendo a chiacchierare con lei tre giorni consecutivi non mi sono mai sentito sfiorare da un desiderio, chiacchieravo con un amico. George Sand ha altissime virtù, quelle virtù che la società non capisce. Abbiamo chiacchierato con serietà, con coscienza, parlando dei grossi problemi che riguardano il matrimonio e la libertà femminile. «I nostri scritti, mi diceva George con orgoglio, preparano una rivoluzione nel costume. Sono profondamente colpita dagli inconvenienti del matrimonio e dalla maniera di considerare la libertà delle donne ...». Insomma, è una donna potente di intelligenza, debole davanti alla realtà ...». Credo che nessuno abbia fatto un’analisi più acuta di questa, brevissima, di Balzac. Oggi, con la necessaria distanza nel tempo, sappiamo che George Sand era isolata nel suo secolo come tutti coloro che preannunciano le società future. Ella fu davvero una innovatrice, seppure col gergo dei romantici. Da lei partirono i primi fermenti della emancipazione femminile, a lei si deve se la donna, oggi, incomincia a capire che i suoi diritti, come i suoi doveri, sono pari a quelli degli uomini.

 

 

  Pietro Gerbore, La commedia umana, «Roma. Quotidiano del Mezzogiorno», Napoli, Anno CI, 27 aprile 1964, p. 3.

 

  [...]. Oggi André Wurmser, in un’opera di grande respiro e solida documentazione, dipinge a larghe pennellate l’affresco di una nuova classe sociale, che fu la grande beneficiaria della rivoluzione, diede una impronta all’Ottocento francese e fu protagonista di gesta tutt’altro che onorevoli (La Comédie Inhumaine, Gallimard, Paris, 1964). Unico attendibile storico di questa società è Honoré Balzac, comunemente ritenuto un romanziere, perché prima di scriverla, quella storia, egli la visse nella propria persona.

  Due sono i modi di leggere La Comédie Humaine di Balzac. Chi la saltuariamente, soffermandosi sull’una o sull’altra delle parti più note, prova sovente delusione e fatica, perché nell’immensa opera non più d’una decina di pezzi consiste di «grandi romanzi». Invece colui il quale intraprende una lettura sistematica, cominciando dalle prime pagine di una edizione critica come quella della Pléiade, immediatamente avverte d’essere in presenza di qualcosa che oltrepassa la letteratura immaginativa e, sotto gli aspetti della, finzione, offre una verità storica convincente e travolgente. Balzac fu il sommo storico della società francese nella prima metà dell’Ottocento, che del resto egli incarnò.

  Quali sono i tratti caratteri nel processo evolutivo di questa società? Il nerbo di essa, la sua sostanza vitale e la ragione del suo movimento è il denaro, che ha preso il posto della proprietà fondiaria, matrice della società prerivoluzionaria. «La Commedia Umana», scrive Wurmser, «è un corpo dove in guisa di sangue circola il denaro». I romanzi di Balzac non avrebbero luogo se il problema del danaro non si ponesse. La origine del denaro è sempre equivoca: l’accaparramento (Goriot), la speculazione (Grandet), la frode sulla qualità delle merci (Birotteau), il ruffianesimo (Rastignac), la mediazione d’illeciti piaceri (Rubempré), l’usura (Gobseck), il falso in materia d’informazioni finanziarle (Nucingen) et coetera. Le fortune sono nate come quella di Minoret-Levrault (Ursule Mirouet). «In trentasei anni, con l’aiuto della rivoluzione aveva guadagnato 30.000 franchi di rendita». Fonti di tali fortune erano state l’acquisto di terre espropriate, l’accaparramento, l’aggiotaggio, le forniture agli eserciti, il saccheggio dei paesi occupati. Tra i fornitori degli eserciti della rivoluzione fu il padre di Balzac. Gli affari sono l’anima di questa società, divenuta protagonista nella storia nazionale ... Tutti prima o poi nella Commedia fanno affari e per primo Balzac. Egli fu «manifatturiere di romanzi» come Nucingen (al secolo James de Rothschild) banchiere e Birotteau commerciante. Infatti la massa dei lettori era prodigiosamente aumentata [...]. Poiché l’offerta era inferiore alla domanda, i prezzi del prodotto erano remunerativi. Wurmser ha conclusivamente dimostrato che Balzac non vide nella letteratura altra cosa che «una utilità sociale», un mestiere come gli altri, dove il lavoro poteva essere diviso fra artigiani, che la poesia-pittura-musica non furono attività di sua competenza, che il gusto (come quello di tutta la classe sociale alla quale apparteneva) fu esecrabile, che egli non ebbe alcun sentimento della natura. L’elemento fondamentale della sua grande e imperitura opera non fu l’arte, bensì la realtà vissuta e lucidamente vista.

  Alcune cifre addotte da Wurmser dimostrano la produttività dell’azienda Balzac. Nel 1834 egli dilapidò 30.000 franchi oro (quasi dieci milioni di vecchi franchi); nel solo anno 1840 egli guadagnò 140.000 franchi (più di 140 milioni). L’ultimo trimestre 1846 gli fruttò almeno 50.000 franchi. Se fu sempre coperto di debiti, tale è «il destino dei ricchi». Quelle cifre del resto non sono altro che un profilo del movimento ascensionale nella economia francese. [...].

  La Comédie Humaine è la immagine del mondo in cui lo autore visse e che egli portò in sé. «Questo mondo fa a meno di Dio». L’immortalità dell’anima è altrettanto indifferente ai grandi romanzi Balzac quanto a un manuale di economia politica, infatti egli ha conosciuto poche anime pie. Però la società balzacchiana non fa a meno dei preti, i quali hanno una funzione variabile secondo l’ordine sociale, né dei conventi, indispensabili a una società bene organizzata. Nondimeno le necessità di governo reclamano una religione ufficiale, che fa parte delle strutture di una monarchia costituzionale. Pertanto Balzac e le sue creature sono politicamente monarchiche e cattoliche. Ciò che la religione fu nel Medioevo e la filosofia nel Settecento adesso è la scienza. Balzac fu «scientifico anche nelle sue imposture». Ma egli fu soprattutto il «segretario della sua epoca».

  Tutta la Comédie Humaine è ricalcata sulla realtà. Ogni personaggio ha uno o più modelli nell’ambiente dell’autore. La Cousine Bette è un miscuglio della madre di lui, di Marceline Desbordes-Valmore e di una zia della Hanska; Canalis è Lamartine con alcuni tratti di Chateaubriand e Vigny. Camille Maupin è George Sand; la Duchessa de Langeais è Madame de Castries; Madame de Beauséant è la duchessa d’Abrantès? Rastignac è Thiers.

  Come Balzac è il cronista della sua epoca, così Adolphe Thiers è non soltanto l’uomo più rappresentativo del suo secolo, bensì anche la figura più balzacchiana. La biografia vera e raramente scritta di questa illustrazione dell’Ottocento francese è allucinante, tanto sembra ricalcata sui modelli della Comédie. E la cosa che a noi appare più meravigliosa è la chiaroveggenza con la quale Balzac, in Rastignac, profetizzò avvenimenti futuri della vita di Thiers.

  Rastignac arriva a Parigi con pochi franchi, discende nella miserabile Pensione Vauquer, diviene l’amante di Delphine de Nucingen e l’informatore politico del marito di costei, sposa la figlia di questa coppia e sale alla Presidenza del Consiglio. Thiers era il figlio naturale e legittimato di un buontempone il quale (come il padre di Balzac) aveva fatto forniture agli eserciti, comprato terre espropriate (come Grandet); vissuto coniugalmente con due sorelle italiane, a l’una delle quali fece due figli, messo la mano nelle casse dell’agente delle imposte e soggiornato in una prigione. Brillante allievo dell’Accademia di Aix-en-Provence il giovane Adolphe Thiers partì alla conquista di Parigi. [...].

  Balzac morì ventisette anni prima di Adolphe Thiers. Lui soltanto avrebbe saputo e voluto dirci per quali vie si era costituita la fortuna raccolta dal grande uomo [...].

 

 

  Cesare Giardini, Una felice iniziativa di Gallimard. L’Album di Balzac, «Il Piccolo. Giornale di Trieste», Trieste, 19 giugno 1964, p. 3.

 

  Nello stesso formato dei volumi che compongono la ormai notissima Bibliothèque de la Pléiade, l’editore Gallimard pubblica delle raccolte di illustrazioni dedicate a taluni scrittori le cui opere figurano nella suddetta collezione. Particolare importante: questi volumetti figurati non sono posti in vendita, ma vengono offerti in dono agli acquirenti abituali della Pléiade. A tutt’oggi sono usciti un «Album Balzac», a cura di Jean Ducorneau (sic) (1962), e un «Album Zola», a cura di Henri Mitterand e Jean Vidal (1963). Ognuno di essi contiene intorno a cinquecento figure — ritratti, luoghi, autografi, documenti, ecc. — commentate da un sobrio testo che, nell’insieme, si offre come una breve biografia dello scrittore cui l’album si riferisce.

  Balzac è per me il nome di una singolare costellazione che brilla nel lontano cielo della mia prima giovinezza. Fu Balzac, divorato verso i quindici anni, a rivelarmi per primo l’esistenza di una dimensione che era quella della grande narrativa. Zola venne soltanto più tardi, quando avevo già digerito la maggior parte dei cento titoli circa che compongono la «Comédie humaine», e gli innumerevoli personaggi della grande epopea prolungavano in me la loro vita immaginaria. Non c’erano allora edizione della «Comédie humaine» come quella Conard (quaranta volumi usciti tra il 1912 e il 1946) con note biografiche e referenze d’altro genere sui personaggi intese a rendere più facile per il lettore l’orizzontarsi nel vasto universo balzachiano. D’altronde, io non potevo ancora permettermi di affrontare la pagina balzachiana nell’originale, per cui facevo conoscenza con il «père» Goriot ed Eugénie Grandet, con César Birotteau e il colonnello Chabert, con Rastignac e Vautrin nei volumi in copertina gialla di Treves. Le traduzioni non offrivano grandi garanzie di fedeltà e di eleganza, ma, in compenso, i volumi costavano soltanto una lira.

  C’è ancora chi legge Balzac? Evidentemente sì, perché non c’è collezione economica (vedi, per esempio, il diffusissimo «Livre de poche») che non accolga le sue opere accanto a quelle, spesso tanto meno interessanti e vive, degli autori più moderni. Per me il problema non si pone: ci sono pochi romanzi della «Comédie humaine» che io non abbia letti. Alcuni li ho anche riletti e, scusate il neologismo, triletti. Quanto a quelli che, per una ragione o per l’altra, ho trascurati, e ve ne sono d’importanti, so ormai che non troverò più il tempo per aprirli ...

  In questi giorni ho sfogliato a lungo l’«Album Balzac» della «Pléiade». Immagini note si sono alternate sotto i miei occhi ad altre sconosciute. Questi francesi, mi dicevo, sono veramente straordinari: al di là dell’opera, essi cercano l’artefice, l’uomo, e gli pongono accanto le donne che ha amato, gli amici che ha frequentato, con i quali ha condiviso speranze e delusioni, si sforzano, cioè, di ricreargli intorno l’ambiente in cui ha vissuto e operato; nè trascurano gli oggetti che gli sono appartenuti, i quali, per il solo fatto che gli sono stati cari o che se ne è servito, acquistano ai loro occhi alcunché di sacro.

  Ecco, per esempio, la «cafetière-veilleuse» di Balzac, in porcellana bianca e blu, con le sue cifre sormontate da una corona, alla quale, convien dirlo, egli non aveva alcun diritto. Balzac faceva un grande uso di caffè; questa caffettiera munita di fornello per tener calda la bevanda fu la compagna delle sue notti e dei suoi, giorni operosi. In realtà, operosi è dir poco; giudichi il lettore: da mezzanotte a mezzogiorno Balzac scriveva, da mezzogiorno alle 4 del pomeriggio correggeva bozze (a volte gli accadeva di rifare pagine intere, interi capitoli, quando non l’opera intera sulle bozze); alle 5 pranzava, poi andava a dormire; si svegliava a mezzanotte ... e ricominciava. Si capisce che avesse bisogno di caffè, di molto caffè ... Questo, a lungo andare, agì come un veleno, aggravando una vecchia malattia di cuore che fu una delle cause della morte dello scrittore.

  Come è noto, Balzac morì a 51 anni. Il suo primo romanzo. «Le dernier Chouan», uscì nel 1829, quando egli era sulla trentina. L’enorme mole della «Comédie humaine» fu dunque composta in un paio di decenni. Prima di «Le dernier Chouan», che divenne più tardi «Les Chouans», Balzac aveva scritto sotto vari pseudonimi, solo o in collaborazione con altri, un discreto numero di romanzi «pour se faire la main» (così si esprime Gauthier [sic]). L’Album allinea otto frontespizi di opere scritte da Balzac tra il 1832 a il 1825 sotto nomi come Lord R’Hoome, (sic) Horace de Saint-Aubin, ecc.; ma egli ne scrisse certamente molte di più. Erano gli anni nei quali il giovane Honoré faceva il tipografo; Alfred de Vigny, di cui ristampava il «Cinq-Mars», lo descrive, senza benevolenza, come «un giovanotto molto sudicio, magrissimo, chiacchierone, il quale si impappinava in tutto ciò che diceva e schiumava parlando perché nella sua bocca troppo umida mancavano tutti i denti di sopra».

  Non doveva passare molto tempo perché questo Balzac, diremo così, primitivo — che tuttavia non doveva rispondere in tutto e per tutto alla descrizione di Vigny, almeno se si presti fede ai ritratti che proprio in quegli anni disegnò di lui Devéria — diventasse il «lion» che uno dei suoi editori, Edmond Werdet, ci presenta abbigliato così: marsina «bleu barbeau» con bottoni d’oro cesellato, calzoni neri con sottopiede, panciotto bianco di basino inglese sul quale scintillano le maglie di una catena d’oro microscopica, calze di seta nera traforate, scarpini di vernice, biancheria finissima e candidissima, guanti color burro e cilindro a larghe tese di vero castoro ... Così vestono i «dandies» della «Comédie humaine», da Henri de Marsay a Lucien de Rubempré.

  Questo Balzac «boulevardier», frequentatore di Tortoni e del Café de Paris, sopravvive di massima nelle caricature, alcune delle quali attribuite a Delacroix, nelle quali egli ostenta la lunga chioma da «jeune-France» e brandisce la famosa mazza da passeggio dal pomo d’oro cesellato adorno di turchesi, quella mazza che doveva presto diventare leggendaria e ispirare addirittura un libro — «La canne de Mr. de Balzac» — a Delphine Gay de Girardin. Secondo la leggenda, nel pomo di quella mazza, appositamente cavo, Balzac nascondeva i capelli di una donna amata. Di quale? Perché di donne nella vita di Balzac ne conosciamo parecchie. I loro volti abbelliscono alcune pagine dell’Album. La prima e Laura de Berny, la «Dilecta» dei suoi giovani anni, colei cui certo pensava sentenziando, in una pagina de «La duchesse de Langeais», che soltanto l’ultimo amore di una donna può soddisfare il primo amore di un uomo; poi vengono la marchesa de Castries che lo fece molto soffrire invano, Maria Du Fresney e la contessa Guidoboni Visconti che gli diedero rispettivamente una figlia e un figlio [?], e, finalmente, Evelina Hanska, l’«Etrangère», la bella e nobile polacca che egli sposò nellultimo anno di sua vita; e trascuro, naturalmente, le meno importanti.

  Per tornare alla questione dell’eleganza, va detto che i contemporanei e i posteri non risparmiarono a questa mania balzachiana le loro ironie. Certo, le pretese d’eleganza del nostro scrittore trovano un grave ostacolo nella sua figura. «E’ un Falstaff» scrive Gavarni con plastica evidenza: «dalla nuca al tallone corre una linea diritta, con un solo rilievo al polpaccio; quanto al profilo anteriore, è quello di asso di picche». Tuttavia, nessuno potrà negare che nel mondo della eleganza, del «fashionable», come si diceva allora, Balzac si muova da padrone. Vedete i tre piccoli trattati che egli scrisse tra il 1830 e il 1835, «La Phisiologie (sic) de la toilette», il «Traité de la vie élégante», la «Théorie de la démarche», e vedete poi, sfogliando i quaranta volumi della «Comédie humaine», come applichi i principi scherzosamente (ma non tanto!) in essi enunciati. Pochi scrittori hanno curato con più amore, più attenzione e, diciamolo, con più competenza il vestiario dei loro personaggi, e difficilmente accade di coglierlo in flagrante errore di buon gusto.

  D’altronde, questo amore dell’abbigliamento trova la sua ragion d’essere nella concezione che del mondo si fa Balzac. Egli, infatti, considera l’uomo come un prodotto sociale. Nell’esposizione del piano della «Comédie humaine», scritto nel 1842, si sente l’importanza che egli attribuisce alle gerarchie. Nel già citato «Traité de la vie élégante», quasi per segnare i confini dell’ambiente nel quale i suoi «dandies» svolgono la loro vita, Balzac distingue, frutti della civiltà, tre diverse categorie di uomini: l’uomo che lavora, l’uomo che pensa, l’uomo che non fa nulla, alle quali corrispondono la vita atti va, la vita artistica, la vita elegante. Porse Balzac pensava di poter assommare in sé questi tre modi di vita: nelle due prime categorie egli rientrava di pieno diritto; nella terza egli tentò di entrare in tutti i modi. Certo, e questo risulta da tutta la sua opera, egli sapeva che, a dispetto del proverbio, l’abito fa il monaco, e che, nella nostra civiltà, l’uomo è soprattutto ciò che mostra di essere; opinione che era, va tenuto presente, quella di Pascal quando scriveva: «Essere ben messo non è cosa vana poiché vale a dimostrare che una grande quantità di gente lavora per noi». Non conviene, dunque, essere troppo severi con Balzac che serra il suo corpo possente nella marsina azzurra a bottoni d’oro di Brummell.

  Egli è pur sempre nell’esercizio delle sue funzioni, poiché vive, studiandolo, in quel mondo «fashionable» che ha tanta parte nell’opera sua. In fondo, questa immagine non vale a cancellare l’altra che dello scrittore ci ha lasciato Gavarni in una celebre litografia: è un Balzac che veste saio come un monaco. Così vestito, con la corda ai fianchi, vero benedettino delle lettere, egli ha passata metà della sua vita al tavolo di lavoro. Il lusso esteriore era per gli altri, per il pubblico. Per sé, per le ore luminose e tormentose della creazione, egli aveva questa semplice, rozza tonaca: ed è così che lo si preferisce.

 

 

  René Guise, Balzac, ‘l’Italien’, «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», Firenze, Vol. XVII, fascicolo 1, marzo 1964, pp. 51-65.

 

  […]. Quand une question reste ainsi négligée dans un domaine largement exploré par ailleurs, deux explications sont possibles : ou elle ne présente aucun intérêt, ou, au contraire, elle se révèle si intéressante et si riche que les chercheurs hésitent à la traiter dans sa complexité et se contentent de l’effleurer par le biais d’études fragmentaires. Dans le cas de Balzac et de l’Italie c’est la seconde explication qui est la bonne.

  Nous n’avons pas, on s’en doute, l’intention de combler, du moins aujourd’hui, cette importante lacune. Nous voudrions simplement montrer que si l’Italie est actuellement un des seuls pays européens à n’avoir pas fait l’objet d’une étude de synthèse, c’est parce que l’Italie est le pays étranger que Balzac a le plus aimé. Balzac, l’Italien ... Nous espérons que lorsque nous aurons montré toute la sympathie que Balzac porte à l’Italie, et toute l’importance que, par voie de conséquence, l’Italie a dans l’œuvre et la vie de Balzac, notre lecteur sera convaincu que ce titre n’a rien d’exagéré. […].

  Notons d’abord que sur les deux mille cinq cents personnages que compte approximativement la Comédie humaine, il y a environ deux cent cinquante étrangers, originaires de vingt pays différents, si l’on compte ceux qui, francisés, sont cependant d’une origine étrangère très marquée. Or sur ces deux cent cinquante étrangers il y a une bonne centaine d’Italiens. La colonie italienne vient largement en tête des colonies étrangères de la Comédie humaine! Et il faudrait y ajouter les Italiens, nombreux encore, qui évoluent dans les œuvres de jeunesse, de Falthurne à l’Héritière de Birague, sans oublier ceux qui animent les Contes Drolatiques ...

  Si l’on compte les œuvres de Balzac, on trouve — rien que dans la Comédie Humaine — quatre-vingt-onze romans et nouvelles. Or sur ce total il n’y a que quatre œuvres — et toutes très courtes — dans lesquelles il n’y ait aucun souvenir plus ou moins direct de l’Italie. Par contre il en est une bonne dizaine qui sont très nettement italianisantes: Albert Savarus, Sarrasine, La Vendetta, L’Elixir de longue vie, Facino Cane, Les Proscrits, les Marana, Gambara, Honorine, et bien entendu Massimilla Doni. Nul autre pays n’en a inspirées autant. Et nous ne comptons pas les œuvres de jeunesse, parmi lesquelles il y a pourtant Falthurne, ni les œuvres ébauchées où nous trouverions les Fantaisies de la Gina et Douleurs de Mère ....

  Si nous voulons comptabiliser les voyages de Balzac et ses séjours à l’étranger, nous inscrivons au crédit de l’Italie, cinq voyages et huit mois de séjour. […].

  Nous pourrions aussi établir que les Italiens sont largement en majorité parmi les dédicataires étrangers de la Comédie humaine, et, continuant ce petit jeu, il nous serait facile de montrer que les Italiens viennent encore en tête de la catégorie des artistes de la Comédie humaine, que c’est l’histoire d’Italie qui fournit à Balzac le plus d’éléments et de personnages, que c’est la langue italienne qui apporte le plus de mots au vocabulaire étranger de Balzac […]. […] l’Italie mérite la première place dans le cosmopolitisme de la Comédie humaine […].

  Ce penchant de Balzac pour l’Italie se manifeste très tôt. Nous en trouvons des preuves certaines dans un écrit qui est sans doute le premier écrit romanesque de Balzac: Falthurne. […] [qui] nous révèle la sympathie de Balzac pour la langue italienne. […].

  Pour lui l’italien a plus de verve que le français, plus de sensibilité, plus de précision aussi; il est plus riche en adjectifs. […]. Et c’est exactement ce que se demande le jeune Balzac, lorsque, ayant cité quelques vers de la Divine Comédie dans Wann-Chlore, il essaie en vain de les traduire en note, avant de tout biffer et de constater: «Le Dante est intraduisible».

  C’est cette qualité poétique de la langue italienne que Balzac apprécie d’abord et il y insiste souvent. Dans L’Enfant Maudit nous voyons la duchesse d’Hérouville qui surveillait elle-même les études de son fils afin de les mesurer à la force de son enfant, le récréer en lui apprenant l’italien. […].

  Plus tard c’est dans la langue italienne que le poète Lucien de Rubempré, le héros des Illusions Perdues, trouve l’explication de la supériorité de Pétrarque dans le domaine du sonnet […].

  Cette supériorité que Balzac reconnaît à l’italien dans le domaine poétique tient essentiellement à son caractère musical. […].

  On voit que si Balzac joue de cette musicalité de la langue italienne c’est qu’elle lui paraît plus particulièrement apte à exprimer la tendresse et l’amour. […].

  Mais cet attrait pour la langue italienne […] est tout instinctif et ne repose pas sur une connaissance précise. […].

  Et c’est ce même caractère de sympathie, une admiration toute instinctive, qui ne s’appuie nullement sur une connaissance précise, qui marque l’attitude de Balzac envers les grands écrivains italiens. On sait quel magnifique hommage il rendit à Dante en plaçant, par son titre même, la Comédie humaine sous son patronage. Nous avons vu plus haut dans quelle estime il tient Pétrarque, inégalé et inégalable; il voue aussi un culte à Boccace, à l’Arioste, au Bandello, ces conteurs italiens dont il se souvient lorsqu’il écrit les Contes Drolatiques. Et il n’ignore pas Machiavel qu’il cite assez souvent aussi, et le Tasse ... […].

  Mais il n’est pas besoin de traduction pour goûter les chefs-d’œuvre de l’art: il suffit de savoir regarder et écouter. Et Balzac sait admirablement le faire. Aussi est-ce à propos de peinture et de musique que se manifestent le plus nettement, le plus pertinemment aussi, le goût de Balzac pour la culture italienne.

  Nous n’insisterons pas ici sur le culte bien connu qu’il voue à la musique italienne, à celle de Rossini, qui fut son ami, en particulier. Nous nous contenterons pour essayer de donner une idée du plaisir qu’il prend aux représentations des Italiens, de citer ce passage de Sarrasine dans lequel il évoque les sensations éprouvées par le jeune artiste, à Rome, au théâtre de l’Argentina […].

  C’est sans doute par ce goût de la musique que Balzac se sent le plus en sympathie avec l’âme italienne. Et il est significatif, de ce point de vue, que la scène centrale de ce magnifique hymne à l’Italia qu’est Massimilla Doni se déroule à la Fénice lors d’une représentation du Mosè de Rossini. […].

  […] d’autant plus qu’aux musiciens, Balzac joint souvent les peintres et les sculpteurs. […].

  C’est à Raphaël que Balzac voue, dans ce domaine, la plus grande admiration. Dès 1831, dans le Chef-d’Oeuvre Inconnu, le peintre Frenhofer, porte-parole de Balzac, rend à Raphaël ce magnifique hommage […].

  Et La Cousine Bette, nous vaut presque au même moment un véritable cours sur la peinture de Raphaël.

  Après l’œuvre de Raphaël Balzac apprécie le plus l’école vénitienne, dont il vante le coloris. C’est au Titien que vont ici ses préférences, mais il aime aussi Véronèse, le Giorgione et connaît, sur le tard, Sebastiano del Piombo. Dans l’école fiorentine, c’est Léonard de Vinci bien sûr, mais aussi Carlo Dolci, Andrea del Sarto, qui retiennent son attention, et il n’ignore pas le Bronzino, Allori, Fra Bartolommeo et le Pontormo. Et même […] il connaît Giotto.

  Il tente aussi de réhabiliter l’école bolognaise, mal connue et mal appréciée, dit-il, et parle du Caravage, du Dominiquin, de l’Albane. Il cite encore Luini — dont il admire les fresques du Mariage de la Vierge, le Pérugin et le Corrège ...

  Michel-Ange est aussi une de ses grandes admirations, mais à cette exception près, il prise moins les sculpteurs que les peintres. Mais il les connaît et en parle: Canova, Donatello, Ghiberti, Jean de Bologne et surtout Benvenuto Cellini — en qui il apprécie autant l’homme que l’artiste — sont cités dans la Comédie humaine. Et bien qu’il nous semble que Balzac ait été peu sensible aux beautés architecturales il lui arrive de parler, avec respect mais d’une façon superficielle, de Brunelleschi, Bramante et Palladio.

  Il y a donc chez Balzac une culture artistique très complète pour tout ce qui concerne la civilisation italienne. […].

  Bien avant 1836 — date de son premier voyage en Italie — Balzac avait pu admirer les tableaux italiens en France, au Louvre en particulier. Il avait pu aussi écouter la musique italienne à Paris. Mais de l’Italie et de ses habitants il ne se fait encore à l’époque qu’une image bien traditionnelle et bien livresque. […].

  Quant aux personnages italiens, il les transplante le plus souvent à Paris ou ... en Espagne. Ils semblent d’ailleurs venir plutôt d’Angleterre, à travers l’imagination de Miss Radcliffe et de ses émules, que d’Italie. Ce sont les Scélérone et Sardoni, déjà cités, de Falthurne, le Villani de l’Héritière de Birague, le Michel-l’Ange de Clotilde, de Lusignan, Montefiore et Bianchi dans Les Marana. Et les italiennes sont de même extraction: de la belle Impéria des Contes Drolatiques à l’Aquilina de la Peau de Chagrin et de Melmoth riconcilié, sans oublier bien sur la Marana, ce sont toutes des courtisanes. Sombre vision que bien peu de choses viennent atténuer. Tout au plus peut-on dans les œuvres de 1830 à 1836, constater un timide essai de réhabilitation par rapport aux œuvres de jeunesse, essai dû, sans doute, à l’influence naissante de Stendhal et qui se traduit par la mise en valeur de la passion de préférence au crime et à la vénalité.

  Pourtant Balzac sent bien tout ce que cette vision traditionnelle de l’Italie, à laquelle il est encore réduit, a d’artificiel et de tronqué, il sent bien que cette Italie qui a produit tant de grands hommes et de grandes œuvres est autre chose qu’une terre où fleurit le vice. […].

  Et Balzac vitupère contre tous ces récits de voyage, ces romans qui nous imposent une image décevante de l’Italie. […].

  Les héros balzaciens vont en Italie à la recherche du bonheur. C’est Turin, qui dans Valentin et Valentine, sert de cadre aux amours coupables de Madame Peyrade et du duc de Belgirate. C’est en Italie que Louise de Chaulieu, devenue madame de Macumer, accomplit avec son mari un merveilleux voyage de noces. En Italie toujours, que se déroule la charmante mais désastreuse équipée de Victurnien d’Esgrignon avec la duchesse de Maufrigneuse dans le Cabinet des Antiques, celle aussi de Béatrix de Rochefide avec le chanteur-compositeur Conti, dans Béatrix. […].

  Il semble que le romancier ait fait partager à tous ses personnages ce désir longtemps insatisfait qu’il avait lui-même de connaître «les enchantements de la terre où vivent les chefs-d’œuvre de l’art».

  Son appétit de l’Italie, Balzac tente plusieurs fois de le satisfaire. Il fut bien proche de la réalisation en 1832. Un magnifique projet. Il ne s’agit de rien moins que de passer six mois en Italie en compagnie d’une femme qu’il aime et qu’il espère conquérir, Madame de Castries. […].

  Nouveau projet en 1833. […] Pour 1834 peut-être? En tout cas voici un nouveau projet, terriblement tentant celui-là, puisqu’il s’agit d’aller y rejoindre la belle madame Hanska qui s'y attarde cette année-là. […].

  En juillet 1836 c’est l’escapade à Turin en compagnie de madame Marbouty. Curieuse aventure, décevante à bien des égards, mais d’où Balzac revient plus décidé que jamais à voir bientôt vraiment l’Italie. Cette fois-ci il ne perd pas de temps et des 1837 c’est un long séjour à Milan avec des échappées vers Venise, Gênes, Florence (16 février au 3 mai 1837) ; en 1838 c’est la curieuse équipée sarde; à la recherche de la fortune Balzac emprunte un itinéraire inusité. C’est par la Corse et la Sardaigne qu’il finit par rejoindre Gênes et Milan encore. Après, il y a une longue période de projets avortés, avant les deux derniers voyages, ceux où Balzac se fait le «vetturino d’amore» de madame Hanska, à Naples en novembre 1845 et à Rome en mars 1846.

  En France Balzac rêve de l’Italie; en Italie il rêve d’y passer sa vie. C’est à Venise d’abord qu’il caresse ce projet. Il en parle à madame Hanska […].

  Puis, un peu plus tard, il est séduit par Florence. […].

  Par quoi se traduit dans l’œuvre de Balzac cette sympathie incontestable et permanente qu’il porte […] aux choses et aux gens d’Italie? Le bilan que nous avons dressé plus haut nous apprend déjà que les souvenirs italiens sont nombreux dans la Comédie humaine. Nous avons vu aussi que l’image des italiens que Balzac donnait avant 1836 était plutôt défavorable. Cela lui valut d’ailleurs en 1837 d’être l’objet d’une violente attaque d’un officier italien, Lissoni, qui profita du séjour de Balzac à Milan pour publier un opuscule intitulé: Difesa dell’onore dell’armi italiane oltraggiato dal Signor di Balzac nelle sue Scene della vita parigina e Confutazione di molti errori della storia militare della guerra di Spagna fatta dagli Italiani. [...].

  […] Massimilla Doni n’est pas une heureuse exception dans l’œuvre de Balzac postérieure à 1836. Il y a en effet, à partir de cette date, une très nette réhabilitation du personnage italien, de la femme surtout. […].

  De plus non content de donner dans son œuvre des exemples de personnages italiens plus vrais, plus nobles que ceux qu’il était traditionnel de voir figurer dans les romans, Balzac se fait le défenseur de l’Italie: il lutte contre les préjugés à la mode. […].

 

 

  Lector, Ritorna Balzac, «il Resto del Carlino», Bologna, 15 luglio 1964, p. 3.

 

  Nell’«Universale» Einaudi è uscito «Splendori e miserie delle cortigiane» con una preziosa introduzione di Lugli.

 

  Nella «nuova universale Einaudi» esce in questi giorni il quarantaduesimo volume, Splendori e miserie delle cortigiane, di Honoré de Balzac. La collana, com’è noto, intende presentare «libri, vivi d’ogni tempo per una biblioteca essenziale di cultura moderna». [...]. Questo Balzac porta l’introduzione di Vittorio Lugli. Non si tratta di uno dei romanzi più noti dell’autore della «Comédie humaine». Scrive tuttavia Lugli che è «uno dei più ricchi e vividi nel ciclo ... e reca intera la virtù dello scrittore magnifico, la vita che urge nelle persone, solleva le pagine che vanno leggere per la gioia e la foga del narratore».

  Il lettore godrà certamente di questa vicenda tra avventurosa e poliziesca, densa di fatti, romantica e vigorosa, condotta nella affascinante cornice di Parigi. Esther, «cortigiana romantica redenta dall’amore», si sacrificherà per il bellissimo Lucien. E la figura «luciferina» di Vautrin incomberà su tutto il quadro.

  E’ probabile che qualcuno, assuefatti come siamo a clamorose riduzioni televisive di romanzoni romantici, non sappia resistere dall’inquadrare istintivamente questa storia nei ventidue pollici del video. Ma l’arte di Balzac si ravviva anche di tocchi delicati, prettamente poetici, che assieme al profumo della poesia recano «il segno dei maestri sovrani».

  Lugli, nella lucidissima introduzione non manca di metterlo in rilievo. Vorremmo insistere su, queste poche pagine perché ci sembrano esemplari. [...].

  Dell’opera di Balzac, Lugli illumina pregi e difetti; rileva in essa la presenza del genio francese nonostante la frondosa varietà che sembra volere esaurire il campo dell’umano; e riportando un giudizio di Proust giunge alla svolta del romanzo contemporaneo. Al di qua siamo noi, che abbiamo forse perduto il senso di quell’arte. Rileggendo Balzac lo ritroviamo, ed è probabile che ritroviamo anche parte di noi stessi.



  Marisa Lolli, Nota, in Honoré de Balzac, Gobseck … cit., pp. 5-8.


  Il breve romanzo che qui presentiamo merita un posto a parte fra i racconti delle “Scene della vita privata”, apparsi nel 1830, che tutti avevano in comune il tema del matrimonio. Si tratta sempre della storia di un matrimonio infelice, ma l’impasto è più drammatico e l’impegno profondo; e la figura di Gobseck, usuraio e avaro, spietato ed onesto, simbolico e reale al tempo stesso, è una delle maggiori creazioni di Balzac e uno dei personaggi che ritornano più frequentemente nella “Commedia Umana”, sia per partecipare all’azione che per esserne solo il testimone silenzioso, di cui pur si avverte la presenza.

  L’opera, col titolo I pericoli della cattiva condotta (Les dangers de l’inconduite), apparve nell’aprile del 1830 nel primo volume delle “Scene della vita privata”, Parigi, Marne et Delaunay-Vallée. Era allora più breve e divisa in tre capitoli L’usuraio, L’avvocato, La morte del marito (L’usurier, L’avoué, La mort du mari), il primo dei quali era apparso precedentemente nella rivista “La Mode” del 6 febbraio 1830. Nei due brani delle visite di Gobseck a Fanny e alla contessa di Restaud si riconosce ancora il taglio e il tono del giornalismo.

  Nel 1835. col titolo di Papà Gobseck (Le Papa Gobseck), il romanzo entrò a far parte del tomo primo della prima edizione delle “Scene della vita parigina”, Parigi, Mme Charles Béchet.

  Più tardi, nel 1842, per la prima edizione della “Commedia Umana”, Balzac lo riunì, col titolo definitivo di Gobseck, agli altri racconti delle “Scene della vita privata”, Parigi, Furne, Dubochet, Hetzel et Paulin, edizione nota come la “Furne”. Le successive edizioni si rifanno alla “Furne corrigée”, cioè al testo della edizione Furne cui Balzac apportò varie correzioni.

  Lo studio delle modifiche relative a Gobseck, soprattutto per quanto riguarda la seconda edizione, è estremamente interessante, sia per l’indagine stilistica che per l’arricchimento successivo del personaggio dell’usuraio, il quale nella prima stesura aveva già una funzione significativa, ma comunque diversa, e appariva piuttosto disegnato che reso a tutto tondo, ancora tipo, non persona. Eco di certi personaggi dei romanzi giovanili, Gobseck era l’Usuraio e il Giustiziere, cavaliere della fanciulla povera e protettore dell’orfano, quasi una incarnazione della provvidenza, presenza simbolica, “image fantastique du DESTIN”, come appare all’avvocato dei Dangers de l’inconduite, che non ha in ancora il nome di Derville. Poi, nell’edizione del 1835, che sostanzialmente è quella che leggiamo ancora, salvo lievi modifiche, Gobseck, presente nel titolo, diventa il personaggio principale, prende corpo e dimensioni, si arricchisce di quelle coloriture che faranno di lui un uomo che tutto sa e tutta ha conosciuto, che fu pirata e corsaro, poeta a suo modo e comunque uomo probo e filosofo alla maniera di Montaigne o di Voltaire, al quale è descritto somigliante anche fisicamente.

  Si ricordi che nei 1830 Balzac non aveva ancora elaborato la sua tecnica del ritorno dei personaggi e alcune modifiche nella successiva edizione sono suggerite anche dalla necessità di far rientrare questo e altri racconti della stessa epoca nel vasto piano della “Commedia Umana”.

  Nel definitivo assestamento dell’opera, Gobseck diventa uno dei più vigorosi personaggi di Balzac. Si veda la lunga confessione a Derville. interamente aggiunta nel ‘35, che è forse eco delle teorie espresse da Vautrin nel Papà Goriot, l’opera appena terminata da Balzac. Se altrove è descritto come un vecchio ragno che ha fatto il giro del mondo e se ne sta ora acquattato nella sua tela, pronto a sorbirsi il suo uomo, Gobseck, che in Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau appare a Vautrin come un furfante di prima forza, un giudeo, un arabo, un greco, uno zingaro, e in Papà Goriot, alla contessa di Restaud come un uomo uscito dall’inferno, è pure capace di azioni generose verso chi si presenta a lui inerme e fiducioso. Così darà ottimi e disinteressati consigli al conte di Restaud, e, se si fa pagare gli interessi da Derville, è soltanto per non obbligarlo a essergli riconoscente. Derville, che ben lo conosce, dirà di lui che è l’uomo più onesto che ci sia a Parigi.

  È stato spesso notato che Balzac, ha dato a Gobseck qualcosa di sé: la curiosità psicologica, il piacere di entrare nella vita altrui, tanto da fare del personaggio una specie di “monomane della psicologia” (Marthe Spitzer, Les juifs de Balzac, Budapest, 1939). Albert Béguin notava la somiglianza tra Balzac e Gobseck dicendo che per Balzac “non c’era differenza tra la sete di conoscenza e l’avidità di possesso, tra i lampi dell'intelligenza e le gioie del potere; il personaggio di Gobseck ne è la migliore illustrazione”. E, dice ancora Béguin, l’usuraio “prova delle gioie che Balzac non ignorava: quella di conoscere i cuori e, di conseguenza, l’intelligenza delle potenze divine o demoniache che governano i destini degli uomini”, “Gobseck, Gaudissart e Honoré de Balzac sono dei demiurghi” (Balzac visionnaire, Ginevra, 1946).

  Risalta inoltre pienamente nel presente racconto la meravigliosa efficacia della tecnica balzacchiana. Gobseck completa Papà Goriot, e i due romanzi si fondono e si intrecciano. Si veda la scena tra la signora di Restaud e il marito prima che essa consenta alla vendita dei beni, scena qui appena accennata e raccontata invece in Papà Goriot, o l’episodio dei gioielli: Anastasia di Restaud ricorre al padre perché ha bisogno di un abito per mostrare al ballo della contessa di Beauséant i gioielli che il conte ha appena recuperato (Papà Goriot) andando dall’usuraio come è narrato in Gobseck. Non sono storie del passato che intervengono a spiegare gli avvenimenti, ma storie parallele, che a vicenda si completano.

  Chiuso nell’apparente meschinità della sua povera esistenza di avaro intento solo ad accumulare, Gobseck si è regalato i vasti domini del pensiero, e il senso di potere gli viene non soltanto dalle sue ricchezze, dall’Oro, ma dalla conoscenza degli uomini dei cui si sente arbitro. Ricco delle sue straordinarie e misteriose avventure, egoista dal cuore indurito o filosofo della scuola cinica, intuizione della “potenza dell’alta finanza nella società moderna” come appare a Benedetto Croce (Poesia e non poesia, Bari, 1955), piccolo e grande, Gobseck diventa solenne al momento della morte. Balzac, che gli aveva dato qualcosa di sé, vuole che si allontani da noi con estrema dignità, e lo vediamo andarsene fiero e grave, simile nel suo letto a una statua di bronzo o a quei romani stoici e severi che ancora i pittori dell’epoca si compiacevano di dipingere, dopo che l‘Impero aveva riportato alla moda Augusto e Cesare, tramite Napoleone.

  Per rendere la lettura più agevole e più facile, abbiamo conservato gli a capo che Balzac soppresse a malincuore, per la preoccupazione finanziaria di diminuire il volume rifacendoci pertanto all’edizione “definitiva” Calmann-Lévy, 1869-1876, in cui si tenne conto delle correzioni apportate da Balzac, e alla quale collaborarono la sua vedova e il visconte di Lovenjoul, appassionato studioso di Balzac. Abbiamo infine confrontato il testo con quello pubblicato nella “Bibliothéque de la Pléiade”, N.R.F., 1956, a cura di Marcel Bouteron.

 

 

  Vittorio Lugli, Balzac poliziesco, «il Resto del Carlino», Bologna, 30 gennaio 1964, p. 3; successivamente, in: La cortigiana innamorata e altri saggi, Torino, Einaudi, 1972, pp. 77-81.

 

  Splendeurs et misères des courtisanes non è tra i capolavori assoluti di Balzac, ma è pure uno tra i più ricchi e vividi romanzi del grande ciclo, recando intera la virtù dello scrittore magnifico, la vita che urge nelle persone, solleva le pagine che vanno leggere per la gioia e la foga del narratore. E, meglio forse di altre parti della Comédie humaine, ci immerge nel mondo balzacchiano, ci fa vivere in esso agevolmente. Incontriamo persone già note e le seguiamo in una nuova fase dell’esistenza, in un altro momento del loro divenire spirituale. E le nuove si accompagnano ad esse, con quasi un’aria di famiglia, plasmate dallo stesso creatore. Le Splendeurs narrano la seconda andata di Lucien Rubempré a Parigi: la prima era il soggetto di Illusions perdues. Un dittico che si raccomanda alla nostra memoria sopra tutto per la felice vena del romanziere nella sua maturità più sicura: le quattro parti delle Courtisanes uscirono fra il 1838 e il ‘47.

  Nella sua piccola città, Angoulême, Lucien Chardon de Rubempré vive col suo sogno di giovane poeta e l’amicizia di David Séchard, che pure con entusiasmo di poeta sogna di rinnovare l’arte del tipografo con un nuovo modo nella fabbricazione della carta. Perché una dama della citta ha sorriso alla bellezza di Luciano, alle sue rime, questi la segue a Parigi, dove ella forse gli spianerà la via al successo. Qui egli conosce i nobili spiriti che pensano di arrivare con la bontà dell’opera e la dignità della vita: lunga via, cui egli preferisce l’altra più facile, il giornalismo venale e ricattatore. E il suo felice ingegno lo porta ad emergere presto nella trista compagnia. Presto viene anche l’amore di un’attrice, Coralie, poiché la dama si è staccata da lui. È la pronta, equivoca fama, l’equivoca fortuna che egli cerca di consolidare abbandonando anche la sua parte politica. Sarà invece la rapida discesa, l’invilimento del suo ingegno, mentre i debiti lo avvolgono, lo abbandonano i mali amici, gli muore Coralie. Così sconfitto torna ad Angoulême, ove David, che ha sposato la sorella di Luciano, è impegnato nella più dura lotta per la sua scoperta, contro i tipografi rivali, contro il suo stesso padre, cupido e avaro, e neppure evita la prigione. Perché con una sua leggerezza ha compromesso l’onesto cognato, il reduce da Parigi, sconvolto pensa il suicidio, da cui lo trattiene uno strano tipo di abate spagnuolo, Carlos Herrera, che gli promette di riportarlo alla vita, di condurlo alla vittoria nella città della sua disfatta: solo gli chiede di abbandonarsi a lui come cosa sua.

  Lo ritroviamo infatti a Parigi, all’inizio di Splendori e miserie delle cortigiane, fornito di tutti i mezzi per la vita elegante, e con l’amore della bellissima Ester. Ancora nella prima gioventù caduta in basso, e adesso dall’amore risollevata alla purezza sempre rimpianta. La cortigiana romantica redenta dall’amore con una ingenuità, una tenerezza che è il suo fascino, una commovente gioia nell’incanto d’amore. Ma Carlos Herrera non può lasciare i due giovani nella loro segreta felicità: vuol innalzare Luciano alla ricchezza, al grande matrimonio, agli onori, e ai mezzi provvederà Ester, che sarà di nuovo cortigiana per amore di Luciano, per la volontà del terribile prete, per la ambizione e la debolezza del giovane che accetta il sovrumano sacrificio di lei. Essa cercherà la morte, vorrà purificarsi nella morte quando avrà concesso una notte d’amore al vecchio banchiere, il barone di Nucingen, la cui passione senile, veramente sofferta, conferisce una nota umana all’implacato finanziere. È l’abiezione estrema di Luciano che, imprigionato per colpa non commessa, quando apprende la morte di Ester che lo ha sempre amato e lo fa suo erede, si uccide oppresso da tanta generosità e pel rimorso di avere deposto, davanti al giudice, contro il suo protettore, anch’egli arrestato.

  Prima era stata una lotta serrata e atroce fra agenti della polizia segreta e Carlos Herrera, in cui credevano riconoscere (e non s’ingannavano) un pericolosissimo evaso, da dieci anni invano ricercato: Jacques Collin, più noto sotto il nome di Vautrin. Inseguimenti, fughe, travestimenti, e Jacques Collin resiste, sfugge alla caccia che lo avvolge, vibra colpi spietati contro gli avversari. Le due parti s’incontrano, si spiano, strisciano anche nella casa ove si compie il destino della povera Ester, il luogo dell’estrema orgia celebrante il sogno d’amore finalmente coronato del vecchio Nucingen, e fatta lugubre per la decisa determinazione della piccola cortigiana. Quando il finto prete spagnuolo è arrestato sotto l’accusa di aver ucciso col veleno Ester (e Luciano sarebbe stato il suo complice), l’accusa presto appare infondata, ma ora egli deve rispondere di tutti i crimini commessi da Jacques Collin. E l’antico forzato subito si riprende, nel nuovo stato a cui non è affatto nuovo, raccoglie le sue forze e le sue armi, ha i suoi fedeli che lo aiutano fuori e dentro il carcere, mentre prepara la difesa per sé, anzi prima quella pel suo Luciano. La morte del giovane è un crollo per lui, il solo colpo che potesse abbatterlo, e tuttavia ancora si riprende, combatte l’ultima battaglia: contro gli uomini della polizia, molti dei quali conosce col loro triste passato, la loro doppiezza, contro la giustizia, la magistratura di cui sa le debolezze, i compromessi, ed egli saprà bene profittarne. Così, stanco di stare fuori della legge, dell’ordine, vi rientra poiché l’ordine ha bisogno della sua complicità, del suo silenzio. In cambio sarà assunto come capo della Pubblica Sicurezza, ufficio che terrà molto onorevolmente, sino alla fine.

  Romanzo poliziesco? Balzac, che aveva cominciato con le terrificanti peripezie del «romanzo nero», amava questi intrighi che fioriscono intorno ai fuori-legge, ai forzati, agli evasi. Il pubblico poi era avidissimo di queste appassionanti avventure, adorava le storie di evasi, vere o immaginate. I quotidiani, moltiplicatisi dal 1830 per la libertà di stampa, con le appendici provvedevano alla richiesta dei lettori. Abili manipolatori, addetti a questa industria letteraria, lavoravano a soddisfare il gusto diffuso: tra essi uno, che li rappresenta tutti, è ben ricordato anche se non si legge più, Eugène Sue. La cui grande fortuna può anche aver incitato Balzac a queste Splendeurs et misères, che del resto non fecero ai Mystères de Paris la concorrenza che forse sperava il grande Onorato. Ma egli è a ben altro livello artistico anche in questo gremito e patetico «giallo»! Non vengono meno le virtù del creatore, anche attraverso il meccanico giuoco delle vicende. Se l’intrigo è falso (notava Maurice Bardèche) i personaggi sono veri. E nessuno fra gli specialisti del genere aveva mai raggiunto un così felice effetto di ansiosa sospensione. Morta Ester, siamo circa alla metà del grosso volume, finite le due prime parti, del felice amore della cortigiana, del suo sacrificio: tutta la rimanente azione – la terza parte e la quarta – si svolge in una sola giornata, si raccoglie nella prigione giudiziaria, colma di fatti, di colpi di scena, di sorprese, in un seguito tutto serrato e conseguente. Il fortissimo evaso, che tra i suoi nomi ha pure quello di Trompe-la-mort, guida, comanda l’azione, e la sua battaglia, entro le mura paurose, a tratti assume un aspetto epico.

  La materia interessa, appassiona lo scrittore. Nella vita moderna, così piatta e grigia per l’egualitarismo democratico, qualche varietà e colore solo recano il ladro, il forzato evaso, l’ex-lege. Vivono secondo l’istinto, sono naturali, veri, come non sono gli altri che vivono nella legge, nell’ordine, ipocritamente ossequienti alla legge, che poi sfruttano, violano coi compromessi, le sottili frodi sapienti. Contro questo ordine che cela il disordine più intimo, gli ex-lege sono una rivolta, una protesta. Costituiscono certo un pericolo per la società, un esercito sempre più numeroso che pullula, striscia ai margini, nelle pieghe nascoste delle città: stretti saldamente fra di loro, col loro ordine, il loro codice e linguaggio, pronti ad aiutarsi, e il soccorso giunge anche entro le mura della prigione.

  Ad essi la società oppone la polizia, che procede con gli stessi modi dei delinquenti, quasi con lo stesso spirito, e talora sono gli stessi uomini che passano da un campo all’altro. C’è poi la giustizia, amministrata da una magistratura che non è quale dovrebbe essere, oggi meno di ieri (è l’aperta denuncia di Balzac) perché sommessa al potere politico. Il magistrato ormai è solo un funzionario, che dal potere politico attende il premio, l’avanzamento.

  La quarta parte del libro, con la morte di Luciano conchiuso il romanzo di Ester e del suo amato, è come un’aggiunta estranea all’opera, e Balzac quasi se ne scusa, lo dichiara intitolandola appunto a Vautrin. Veramente lo scrittore non ha solo inteso di raccontare la pietosa storia della piccola cortigiana, ha voluto dare uno Studio di urgente interesse sociale. Vautrin nel cortile della prigione, nel tristo mondo ove egli è come un re, capo riconosciuto, maestro, tesoriere dei suoi compagni, conferisce al quadro miserabile una grandiosità allucinante. Con qualcosa di sinistro che non troviamo negli altri miserabili, quelli di Hugo. Ora Vautrin scopre la sua ultima arma, contro la magistratura. Il bellissimo Luciano aveva acceso il cuore di grandi dame, le cui lettere al giovane, ben compromettenti, erano un tesoro custodito da Vautrin. Si tratta dell’onore di alcune grandi famiglie, che sarà salvo, perché anche Vautrin sarà salvato.

  La figura dell’evaso prodigioso grandeggia così, alla fine di Splendeurs et misères, resta nel ricordo come il vero protagonista. Non importa cercare quanto Balzac avesse presente la figura quasi leggendaria di François-Eugène Vidocq, ladro, falsario, più volte evaso, e dal 1809 passato al servizio della Polizia, con importanti mansioni di capo. Vautrin è una vera creazione, e particolarmente cara all’autore, che l’ha anche portata sulla scena, del resto con poca fortuna. Lo conoscevamo dal Père Goriot; qui, dove si compie la sua gesta, si dimostra intera la sua persona. È come un residuo di luciferismo romantico il suo aspetto di cattivo angelo, la venefica pianta del male proclamata con tutta l’amplificazione balzacchiana; ma la sua passione per Luciano gli conferisce una nota tutta umana. È il sogno di paternità morale che si dilata con abbandono pieno perché nel giovane Vautrin ha trovato la natura tenera e debole che può interamente dominare. Reietto, che non può trovare posa, che non ha famiglia, neppure un nome suo, tutta la sua fame di vita, di azione, di potenza vuole saziarla attraverso un altro che ha tutti i requisiti esteriori per la vittoria, ed a cui egli presta il respiro possente della sua anima cupida e vasta. Quel che c’è pure di torbido, di gidiano nel suo affetto, fa più inquieta e chiusa quell’anima: accenno a zone oscure ove i moderni han voluto più arditamente procedere: Balzac s’arresta, e quel ritegno conferisce alla figura un’aura di ambigua, misteriosa tragicità.



  Vittorio Lugli, Introduzione, in Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane ... cit., pp. VII-XX.

 

  Quando rimaniamo per qualche tempo lontani da Balzac, può avvenire che ci riprendano dubbi intorno al grande scrittore, ci tornino alla mente riserve anche gravi, giudizi severi che ancora si ripetono, non sempre per negarli. Quel romanticismo deteriore che affiora anche nelle opere migliori, intrichi da racconto poliziesco, abbandoni patetici o sentimentalismi barocchi, sembrano abbassare il romanziere al livello della letteratura più grossamente popolare. E la mancanza di freno, di misura, finisce a volte per guastare scene per altro mirabili, figure robustamente sbozzate. Un autore imponente, certo; anche, senz’altro, uno dei maestri sovrani? Ma se riapriamo uno dei grandi capolavori (si ricordano, del resto, nella Comédie Humaine, cose brevi che sono riuscite perfette), ecco risentiamo il fascino intenso, ci afferra la robustissima tempra dell’artista, dell’opera. E quello che ci riprende così è proprio Balzac, il suo spirito di cui egli ha riempito le creature innumerevoli, infondendovi la sua possente energia, la volontà indomita, l’ansiosa brama di vita. Dalla presenza quasi allucinante del narratore magnifico viene all’opera come un denso sapore lirico.

  L’ha bene inteso Baudelaire (spesso – in Francia più che altrove – i poeti sono i migliori giudici e rivelatori della poesia vera), il cantore delle Fleurs du mal, che a Balzac si rivolgeva chiamandolo «le plus héroïque, le plus singulier, le plus romantique parmi tous les personnages que vous avez tirés de votre sein». Compenetrato nell’opera, perduto in essa — l’ha detto Sainte-Beuve — non ne usciva, vi abitava dentro. Troppo noti sono gli episodi che mostrano come il suo mondo fosse propriamente quello che egli veniva foggiando con La Comédie Humaine; ma è anche vero quel che Victor Hugo diceva sulla sua tomba, che Balzac domina sempre l’opera, per virtù della sua libera e vigorosa natura. E onorava col nome di poeta colui che sovente era parso un abilissimo, infaticato costruttore di storie patetiche o terrificanti, per il diletto dei facili lettori.

  Ma già nel 1858 – Balzac era morto da otto anni – la critica si portava a un livello degno dell’opera con Hyppolite Taine, che dimostrava la portata storica e artistica della Comédie Humaine: immenso magazzino di documenti sulla natura umana, come Saint-Simon, come Shakespeare. Poi era ancora un poeta, Baudelaire, ad aggiungere la nota più profonda, rivelando il carattere più intimo del creatore di papà Goriot, di Vautrin, di tanti altri ... Non semplice pittore, riproduttore della realtà, poiché entro di essa figgeva il suo spirito di veggente, come una seconda vista, e la realtà ne usciva ingrandita, esaltata, scoprendo il suo chiuso mistero. L’intuizione aveva parte non meno dell’osservazione nello scrittore «visionario»: «Je porte une Société tout entière dans ma tête», ha detto un giorno l’autore della Comédie Humaine.

  Honoré de Balzac è della generazione nata fra i due secoli, quando i fermenti della grande Rivoluzione si raccoglievano, si potenziavano nella nuova compagine imperiale. Adolescenti mentre folgorava la gloria di Napoleone, giovani vòlti all’arte, al pensiero, nella feconda pace della Restaurazione, signori del campo dopo la vittoria politica e letteraria del 1830: la generazione di Hugo, Vigny Balzac, Michelet ... Il ricordo dell’Imperatore li incita, maestro di energia. «Voglio essere Chateaubriand, o nulla» scrive Hugo su un quaderno, a quattordici anni; Balzac pensa addirittura a Napoleone: «Quel che egli ha cominciato con la spada, io lo compirò con la penna».

  Il suo sogno è la grandezza, scrivere è la vocazione. A vent’anni lascia la famiglia, e in una soffitta inizia la sua dura lotta. Fra i tentativi di poesia, di teatro, ben più promettenti si dimostrano le virtù del narratore, anche se i primi racconti, scritti in collaborazione e segnati con pseudonimi, indulgano più spesso alla truculenta fantasia del «romanzo nero». La letteratura non basta alla sua brama di successo, di ricchezza, di dominio, quindi le vane imprese, come editore, stampatore: insuccesso, fallimento, grossi debiti pagati dalla famiglia, le difficolta finanziarie che lo premeranno per tutta la vita. Più tardi, quando già lo scrittore avrà vinta la sua battaglia, ancora tentativi – una rivista fondata senza fortuna, altri più impensati – che non lo trarranno dalle strettezze, non gli toglieranno l’incubo dei debiti non pagati. Miraggio più legittimo quello del teatro: qualche fiasco, qualche buon esito, non il profitto sperato. Mercadet, il capolavoro, giungerà alla scena dopo la morte dell’autore.

  Ma il romanziere s’era affermato il ‘29 con Les Chouans, s’imponeva con la Peau de chagrin nel ‘31. Quindi una produzione densissima nella quale si seguono i capolavori, Eugénie Grandet del ’33, Le père Goriot del ’34 ... È lo scrittore alla moda, giornalista, uomo di mondo, lavoratore insonne, infaticato, certo anche per la necessità del guadagno, ma sempre con alta ambizione di artista che in vasti quadri vuole ritrarre tutta la società, tutta la vita. Dal ‘30 i romanzi si raccolgono in serie: Scènes de la vie privée, cui seguiranno le Scènes de la vie de province, le Scènes de la vie parisienne ...; dal Père Goriot il ritorno di personaggi già apparsi nei libri precedenti è l’idea felicissima, l’illuminazione di un artista veramente superiore, per cui tutta l’opera compiuta e da compiere si unisce in un mondo unico, a sé stante, autentica creazione dell’autore. Poi, nel ’41, il disegno grandioso che raccoglie tutti i volumi in un amplissimo ciclo: La Comédie Humaine. Tante parti sono solamente annunciate, e Balzac lavora indefesso pel compimento sognato, in uno sforzo che lo stroncherà prima della vecchiaia. Quanto al titolo, «Est-ce ambitieux? n’est-ce que juste?» egli si è chiesto. Veramente quel titolo è il più alto omaggio reso in Francia al nostro Poeta nell’età romantica, la sola in cui lo spirito della Nazione sia parso vicino allo spirito di Dante.

  Mentre lavora a riempire i vani della costruzione vastissima sembra non lontana la pace per il suo lavoro tranquillo. Questo scrittore tumultuoso, il cui segno par bene la forza maschia e incomposta, è anche un attento, delicatissimo studioso dell’anima femminile, e però non gli è mancato il conforto di tenere, amorose amicizie di donne. Tra queste, fin dal 1832, un’anonima straniera, che gli si rivelerà presto: la contessa polacca Evelina Hanska. Si incontreranno di tanto in tanto, più spesso dopo il ‘43, quando essa era già vedova. Sposi nel marzo del 1850 in Ucraina, Balzac, giunto a Parigi nel maggio, muore il 18 agosto, a cinquantun’anni.

  Lasciamo il teatro, i rabelesiani Contes drolatiques: incompiuta ma salda nelle sue linee, con la imponente mole, La Comédie Humaine, che Balzac stesso paragona ad una cattedrale, via via doveva meglio apparire una delle cime della letteratura narrativa di ogni tempo e luogo. Il romanzo, che fino allora era stato psicologico, o realistico, o di avventure, con Walter Scott prestigiosa evocazione storica, con Balzac invade tutti i campi, accoglie tutte le materie, assume tutti i modi, al romanzo ottocentesco mostrando l’esempio di tutte le possibilità e le libertà. L’autore fa anzitutto opera di storico, narrando la vita francese dalla Rivoluzione all’Impero, alla Restaurazione, alla Monarchia di luglio, ritraendo la società in tutti i suoi gradi, con tutte le passioni che la muovono, prima quella del denaro.

  Lo strapotere del denaro nella vita moderna è dichiarato come non era mai stato fatto — una materia quasi nuova che ha trovato il suo duro, amaro poeta. Le leggi fisiologiche e sociologiche reggono la condotta degli uomini: è il fondamento scientifico, pur incerto, che lo scrittore ha voluto dare alla vastissima rappresentazione. Ma contro questo determinismo sta la straordinaria forza delle sue creature, che lottano infaticate a svolgere la loro personalità a perseguire il loro sogno, la ricchezza, il dominio, il piacere, o la più alta affermazione della virtù. Per questo disfrenarsi di tutte le passioni, che egli dipinge quasi esaltandole con alto interesse di artista, per questo suo fondo pessimismo circa la natura umana Balzac vede la necessità di un doppio freno, la Monarchia e la Chiesa. Con un vago cattolicesimo misticheggiante, il suo ideale è nettamente assolutista, è l’adesione alle teorie di Bonald e de Maistre, mentre proprio allora, dopo il ’30, con un ritorno consapevole al più vivo spirito settecentesco, il secolo le abbandonava risolutamente, procedendo verso le più alte libertà.

  Strana figura di conservatore, che appariva immorale ai contemporanei per l’ardita pittura dei più tristi mali e vizi che affliggono la società: una pittura che è un’accusa all’ordine presente, per cui Victor Hugo lo proclamava «della forte razza degli scrittori rivoluzionari, magari inconsapevole». Il giudizio poi sempre ripetuto, confermato dalla simpatia che Balzac non nasconde per i fuorilegge, gli avventurieri, coloro che infrangono la regola, l’ordine stabilito, o lo sfidano. Comunque, il suo credo politico-morale, che par quasi abbia voluto imporsi, come le teorie fisiologiche e sociologiche, come lo stesso disegno dell’opera fermo e chiuso, rivelano lo studio di conferire tutta l’unità possibile, intima e formale, all’opera stessa, alla creazione vasta e diversa come la vita, divagante e profusa.

  Lo storico è anche poeta, creatore, e sogna l’opera totale, quella che fa intero il giro della vita. Insieme con gli uomini, tutte le loro operazioni, le arti, le varie attività. Le lunghe digressioni tecniche, circa la tipografia, la fabbricazione della carta (in Illusions perdues), i procedimenti della polizia (in Splendeurs et misères des courtisanes), i maneggi dell’alta finanza, le nozioni di agricoltura ... non si rimproverano più a Balzac, perché le pagine sono fervide del suo interesse, dell’amore per tutti gli aspetti, i modi della vita. Così il romanziere si indugia intorno ai paesi, i luoghi, gli ambienti che preparano, spiegano il destino degli uomini. E, ciò che più importa, ispirano allo scrittore brani di alto potere suggestivo. All’inizio del racconto, lo intonano. Così la Parigi baudelairiana prima di Baudelaire, davanti alla Fille aux yeux d’or, nella Duchesse de Langeais, il cupo monastero ferrigno nell’isolotto prepara alla cupa storia. E la sordida pensione Vacquer (sic) all’inizio del Père Goriot, la triste casa di Saumur ove si svolgerà la tragedia dell’avaro e della sua figliola.

  Poi, nei luoghi magistralmente evocati, tra le cose acutamente, minuziosamente segnate, sempre dominanti le creature umane: il vecchio Grandet, papà Goriot, Vautrin, Rastignac, Eugénie Grandet, la signora Marneffe, tanti altri, altre, tutti prodigiosamente vivi, più che non siano gli uomini, le donne che incontriamo ogni giorno. Però, si dice, Grandet è tutta l’avarizia, Goriot è tutto l’amore paterno, Rastignac è tutto l’arrivismo, la cugina Bette è tutta l’invidia. Ma restano creature vere, umane, cercate così dentro, fino alle più riposte pieghe, nel loro più scuro mistero.

  Altro mistero ha poi voluto cercare lo scrittore troppo spesso scambiato per un realista, ha voluto andare oltre la realtà sensibile, ha narrato casi mirabili di telepatia (nel Réquisitionnaire), patti diabolici, quasi faustiani (nella Peau de chagrin), episodi di orrore da ricordare Poe e Hoffmann, artisti che perseguono l’impossibile perfezione (il pittore del Chef-d’oeuvre inconnu), alchimisti che cercano l’unità della materia (La Recherche de l’absolu). Seguendo le correnti di pensiero che dal Settecento giungono al primo Ottocento – illuminismo, occultismo – è giunto fino al mistico Swedenborg, dietro la cui guida ha tentato il mistero della natura angelica, in Séraphita. Questo Balzac degli Studi filosofici, anch’essi compresi nella Comédie Humaine, a lungo imbarazzava i critici, lo stesso Sainte-Beuve, come una inesplicabile deviazione del maestro realista. Ora e da tempo (già l’aveva accennato il Taine) s’intende come l’autore, animosamente cercando tutta la realtà, volesse attingere anche quella nascosta e pur legata alla visibile Ancora l’ambizione dell’opera totale che adegui l’infinita complessità del mondo. E la stessa passione nell’indagare animo di un piccolo borghese nella sua mediocre vita come nel cercare la natura delle idee, la loro potenza nascosta (Louis Lambert).

  Una vasta, arditissima concezione, che non solo ha poche uguali in Francia, ma sembra contraria al genio della Nazione, procedente sicuro entro limiti certi. Nella concezione stessa qualcosa di scomposto e di enorme, che è nella natura dell’artista e par lontano dallo spirito classico francese. Come Rabelais, dai mille toni e modi diversi, come spesso Victor Hugo, con tutti i venti dello spirito, tutta la lira. Eppure anch’essi sono ben francesi per la superiore chiarezza, l’umanità aperta e cordiale, lo spirito che impone all’opera una sua unità in cui si fondono tutte le linee, le voci diverse. E la possente natura, la voce clamorosa non impediscono le delicate finezze, i toni tenui nella epopea rabelesiana; nella sonante selva di Hugo troviamo le sfumate musiche verleniane; sono anche in Balzac gli scorci rapidi, folgoranti, il segno dei maestri sovrani. È l’avaro Grandet che raccomanda alla figlia la sua roba: «Tu me rendras compte de ça, là-bas». Il vecchio Goriot che confessa la sua miseria: «Mes filles, c’était mon vice à moi». In Splendeurs et mìsères des courtisanes, nella prigione ove s’è ucciso l’amato Lucien de Rubempré madame de Sérizy si precipita folle (sono le sue parole appassionate e assurde) «pour sauver le mort».

  Un’aura di grandezza è intorno all’opera, e non la sminuiscono le parti più stanche, non mai inutili all’insieme, né i difetti — piuttosto gli eccessi dello scrittore, che sono nella sua natura e fanno inconfondibile la sua voce ad ogni momento, in ogni pagina. I dubbi che ancora si manifestano circa questo classico moderno, che per alcuni quasi lo trattengono alla soglia del tempio ove si venera la gloria sicura, anche segnano l’attualità di Balzac, ancora oggetto di indagine critica, non scolasticamente collocato al suo posto. E forse opera ancora il suo esempio, la sua influenza, troppo evidente in tutto il romanzo ottocentesco, non solo quello francese. Doveva lontanare col Novecento, col nuovo romanzo, con Proust; se non che, ecco, Proust dimostra a Balzac la stima più alta, non tace il suo debito al maestro. Pur consapevole della novità che reca, non tace il sogno di apparire un giorno il Balzac della Terza Repubblica, dal 1870 al 1914. E invidia al maestro l’unità dell’opera, unità vitale, naturale, organica, solo tardi apparsa all’autore, che poi l’ha vagheggiata curata con attento amore. Mentre nella Recherche du temps perdu l’unità è logica, programmatica, voluta. Simile ad una pianta densa di succhi La Comédie Humaine, che prorompe, s’allarga vigorosa, ed ogni fronda, ogni ramo reca la sua vita necessaria, la fresca linfa.

  Così un romanzo che, uno dei più ricchi e vividi nel ciclo, non si pone tuttavia tra i capolavori assoluti, Splendeurs et misères des courtisanes, reca intera la virtù dello scrittore magnifico, la vita che urge nelle persone, solleva le pagine che vanno leggere per la gioia e la foga del narratore. E, meglio forse di altre parti della Comédie, ci immerge nel mondo balzacchiano, ci fa vivere in esso agevolmente. Incontriamo persone già note e le seguiamo in una nuova fase dell’esistenza, in un altro momento del loro divenire spirituale. E le nuove si accompagnano ad esse, con quasi un’aria di famiglia, plasmate dallo stesso creatore. Le Splendeurs narrano la seconda andata di Lucien de Rubempré a Parigi: la prima era il soggetto di Illusions perdues. Un dittico che si raccomanda alla nostra memoria sopra tutto per la felice vena del romanziere nella sua maturità più sicura: le quattro parti delle Courtisanes uscirono fra il 1839 e il ‘47.

  Nella sua piccola città, Angoulême, Lucien Chardon de Rubempré vive col suo sogno di giovane poeta e l’amicizia di David Séchard, che pure con entusiasmo di poeta sogna di rinnovare l’arte del tipografo con un nuovo modo nella fabbricazione della carta. Perché una dama della città ha sorriso alla bellezza di Lucien, alle sue rime, questi la segue a Parigi, dove forse ella gli spianerà la via al successo.

  Qui egli conosce i nobili spiriti che pensano di arrivare con la bontà dell’opera e la dignità della vita: lunga via, cui egli preferisce l’altra più facile, il giornalismo venale e ricattatore. E il suo felice ingegno lo porta ad emergere presto nella trista compagnia. Presto viene anche l’amore di un’attrice, Coralie poiché la dama si è staccata da lui. È la pronta, equivoca fama, l’equivoca fortuna che egli cerca di consolidare abbandonando anche la sua parte politica.

  Sarà invece la rapida discesa, l’invilimento del suo ingegno, mentre i debiti lo avvolgono, lo abbandonano i mali amici, gli muore Coralie. Così sconfitto torna ad Angoulême ove David, che ha sposato la sorella di Lucien, è impegnato nella più dura lotta per la sua scoperta, contro i tipografi rivali, contro il suo stesso padre, cupido e avaro, e neppure evita la prigione. Perché con una sua leggerezza ha compromesso l’onesto cognato, il reduce da Parigi sconvolto pensa al suicidio, da cui lo trattiene uno strano tipo di abate spagnolo, Carlos Herrera, che gli promette di riportarlo alla vita, di condurlo alla vittoria nella Città della sua disfatta: solo gli chiede di abbandonarsi a lui, come cosa sua.

  Lo ritroviamo infatti a Parigi, all’inizio di Splendori e miserie delle cortigiane, fornito di tutti i mezzi per la vita elegante, e con l’amore della bellissima Esther. Ancora giovanissima caduta in basso, e adesso dall’amore risollevata alla purezza sempre rimpianta. La cortigiana romantica redenta dall’amore, con una sua fresca ingenuità, una tenerezza che è il suo fascino, una commovente gioia nell’incanto d’amore. Ma Carlos Herrera non può lasciare i due giovani nella loro segreta felicità: vuol innalzare Lucien alla ricchezza, al grande matrimonio, agli onori, e ai mezzi provvederà Esther, che sarà di nuovo cortigiana per amore di Lucien, per la volontà del terribile prete, per l’ambizione e la debolezza del giovane che accetta il sovrumano sacrificio di lei. Essa cercherà la morte, vorrà purificarsi nella morte quando avrà concesso una notte d’amore al vecchio banchiere, il barone di Nucingen: la cui passione senile, veramente sofferta, conferisce una nota umana all’implacato finanziere. È l’abiezione estrema di Lucien che, imprigionato per colpa non commessa, quando apprende la morte di Esther che lo ha sempre amato e lo fa suo erede, si uccide oppresso da tanta generosità, e per il rimorso di aver deposto davanti al giudice contro il suo protettore, anch’egli arrestato.

  Prima era stata una lotta serrata e atroce fra agenti della polizia segreta e Carlos Herrera, in cui credevano riconoscere (e non s’ingannavano) un pericolosissimo evaso, da dieci anni invano ricercato: Jacques Collin, più noto sotto il nome di Vautrin. Inseguimenti, fughe, travestimenti, e Jacques Collin resiste, sfugge alla caccia che lo avvolge, vibra colpi spietati contro gli avversari. Le due parti s’incontrano, si spiano, strisciano anche nella casa ove si compie il destino della povera Esther, il luogo dell’estrema orgia celebrante il sogno d’amore finalmente coronato del vecchio Nucingen e fatta lugubre per la decisa determinazione della piccola cortigiana. Quando il finto prete spagnolo è in prigione sotto l’accusa di aver ucciso col veleno Esther (e Lucien sarebbe stato il suo complice), l’accusa presto appare infondata; ma ora egli deve rispondere di tutti i crimini commessi da Jacques Collin. E l’antico forzato subito si riprende, nel nuovo stato a cui non è affatto nuovo, raccoglie le sue forze e le sue armi, ha i suoi fedeli che lo aiutano fuori e dentro il carcere, mentre prepara la difesa per sé, anzi prima quella pel suo Lucien. La morte del giovane è un crollo per lui, il solo colpo che potesse abbatterlo; tuttavia ancora si riprende, combatte l’ultima battaglia, contro gli uomini della polizia, molti dei quali conosce col loro tristo passato, la loro doppiezza, contro la giustizia, la magistratura di cui sa le debolezze, i compromessi, ed egli saprà bene profittarne. Così, stanco di stare fuori dell’ordine, vi rientra poiché l’ordine ha bisogno della sua complicità, del suo silenzio. In cambio sarà assunto come capo della Pubblica Sicurezza, ufficio che terrà molto onorevolmente, sino alla fine.

  Romanzo poliziesco? Balzac aveva la passione di questi intrighi che fioriscono intorno ai fuorilegge, ai forzati, agli evasi. Il pubblico poi era avidissimo di queste appassionanti avventure, adorava le storie di evasi, vere o immaginate. I quotidiani, moltiplicatisi dal 1830 per la libertà di stampa, con le appendici provvedevano alla richiesta dei lettori. Abili manipolatori, addetti a questa industria letteraria, lavoravano a soddisfare il gusto diffuso: tra essi uno che li rappresenta tutti, è ben ricordato anche se non si legge più, Eugène Sue. La cui grande fortuna può anche aver incitato Balzac a queste Splendeurs, che del resto non fecero ai Mystères de Paris la concorrenza che forse sperava il grande Honoré.

  Ma egli è a ben altro livello artistico anche in questo gremito e patetico «giallo»! Anche dove l’intrigo è falso (lo notava Maurice Bardèche) i personaggi sono veri. E nessuno fra gli specialisti del genere aveva mai raggiunto un così felice effetto di ansiosa sospensione. Morta Esther, siamo circa alla metà del grosso volume, finite le due prime parti, del felice amore della cortigiana, del suo sacrificio; tutta la rimanente azione – la terza parte e la quarta – si svolge in una sola giornata, si raccoglie nella prigione giudiziaria, colma di fatti, di colpi di scena, di sorprese, in un seguito tutto serrato e conseguente. Il fortissimo evaso, che tra i suoi nomi ha pure quello di Trompe-la-mort, guida, comanda l’azione, e la sua battaglia, entro le mura paurose, a tratti assume un aspetto epico.

  La materia interessa, appassiona lo scrittore. Nella vita moderna, così piatta e grigia per l’egualitarismo democratico, qualche varietà e colore solo recano il ladro, il forzato evaso, l’ex lege. Vivono secondo l’istinto, sono naturali, veri, come non sono gli altri che vivono nella legge, nell’ordine, ipocritamente ossequenti alla legge, che poi sfruttano, violano coi compromessi, le sottili frodi sapienti. Contro questo ordine che cela il disordine più intimo, gli ex lege sono una rivolta, una protesta. Costituiscono certo un pericolo per la società, un esercito sempre più numeroso che pullula, striscia ai margini, nelle pieghe nascoste della Città: stretti saldamente fra di loro, col loro ordine, il loro codice e il linguaggio, pronti ad aiutarsi, e il soccorso giunge anche entro le mura della prigione.

  Ad essi la società oppone la polizia, che procede con gli stessi modi dei delinquenti, quasi con lo stesso spirito, e talora sono gli stessi uomini che passano da un campo all’altro. C’è poi la giustizia, amministrata da una magistratura che non è quale dovrebbe essere, oggi meno di ieri (è l’aperta denuncia di Balzac) perché sommessa al potere politico. Il giudice è ormai solo un funzionario che dal potere politico attende il premio, l’avanzamento.

  La quarta parte del libro, conchiuso con la morte di Lucien il romanzo di Esther e del suo amato, è come una aggiunta estranea all’opera, e Balzac quasi se ne scusa, lo dichiara intitolandola appunto a Vautrin. Veramente lo scrittore non ha inteso solo di raccontare la pietosa storia della piccola cortigiana, ha voluto dare uno studio di urgente interesse sociale. Vautrin, nel cortile della prigione, nel tristo mondo ove egli è come un re, capo riconosciuto, maestro, tesoriere dei suoi compagni, conferisce al quadro miserabile una grandiosità allucinante. Con qualcosa di sinistro che non troviamo negli altri miserabili, quelli di Hugo. Ora Vautrin scopre la sua ultima arma, contro la magistratura. Il bellissimo Lucien aveva acceso il cuore di grandi dame, le cui lettere al giovane, ben compromettenti, erano un tesoro custodito da Vautrin. Si tratta dell’onore di alcune grandi famiglie, che sarà salvo, perché anche Vautrin sarà salvato.

  La figura dell’evaso prodigioso grandeggia così, alla fine di Splendeurs et misères, resta nel ricordo come il vero protagonista. Non importa cercare quanto Balzac avesse presente la figura quasi leggendaria di François-Eugène Vidocq, ladro, falsario, più volte evaso, e dal 1809 passato al servizio della Polizia, con anche ufficio di capo. Vautrin è una vera creazione, e particolarmente cara all’autore, che l’ha anche portata sulla scena, del resto con poca fortuna. Lo conoscevamo dal Père Goriot; qui, dove si compie la sua gesta, si dimostra intera la sua persona. È come un residuo di luciferismo romantico il suo aspetto di cattivo angelo, la venefica pianta del male proclamata con tutta l’amplificazione balzacchiana; ma la sua passione per Lucien gli conferisce una nota tutta umana. È il sogno di paternità morale che si dilata con abbandono pieno, perché nel giovane Vautrin ha trovato la natura tenera e debole che egli può interamente dominare. Reietto, che non può trovare posa, che non ha famiglia, neppure un nome suo, tutta la sua fame di vita, di azione, di potenza, vuole saziarla attraverso un altro, che ha tutti i requisiti esteriori per la vittoria, ed a cui egli presta il respiro possente della sua anima cupida e vasta. Quel che c’è pure di torbido, di gidiano nel suo affetto, fa più inquieta e chiusa quell’anima. Accenno a zone oscure ove i moderni han voluto più arditamente procedere: Balzac s’arresta, e quel ritegno conferisce alla persona un’aura di ambigua, misteriosa tragicità.

 

  pp. XIX-XX. Honoré Balzac (il «de» comparve sul frontespizio dei suoi libri dopo il 1830) nacque a Tours, di famiglia borghese originaria del Mezzogiorno, il 20 maggio 1799. Nel 1819 troncò gli studi di giurisprudenza e la pratica presso un notaio parigino per darsi alla letteratura. Ma per una decina d’anni non compose se non mediocri romanzi di colorito e carattere popolare. Nel frattempo tentò anche imprese editoriali e comperò a Parigi una tipografia cui aggiunse una fonderia di caratteri, ma con esito disastroso. Ebbero di qui origine quei debiti insanabili che egli si trascinò dietro tutta la vita. Di questo periodo fu anche la sua «liaison» con la signora Laure de Berny (morta nel 1836): di cui ci resta il velato ritratto nella protagonista del Lys dans la vallée.

  Una svolta nella sua produzione letteraria fu segnata da Les Chouans (1829). Quattro anni dopo Balzac manifestava alla sorella Laure il proposito di collegare i personaggi dei suoi romanzi in modo da costruire una «società completa»; ed escogitava il titolo complessivo di Etudes de moeurs au XIXe siècle: «studi» ripartiti in Scènes de la vie privée, Scènes de la vie parisienne, Scènes de la vie de province, cui si doveva accompagnare una serie di Etudes philosophiques. Infine, nel ‘41, su di uno spunto fornitogli da un amico, si fermava sul titolo generale La Comédie Humaine, quasi a indicare la vastità del suo ciclo moderno, «originalmente legato alla terra, all’umano», di fronte alla Divina Commedia. Intanto tentava nuove combinazioni finanziarie; si faceva arredare lussuosamente un appartamento nella rue Cassini; fondava una rivista (la «Revue parisienne») che non andò oltre il terzo numero; e viaggiava in Svizzera, in Austria, in Germania, in Italia (dove fu più volte), spingendosi sino a Pietroburgo.

  Dal 1832 datano gli inizi del suo carteggio (e del suo amore) per un’incognita «straniera», rivelatasi poi come una gran dama polacca, la contessa Evelina Hanska: con la quale s’incontrò nel 1833 in Svizzera, nel ‘33 a Vienna e poi, sempre più di frequente, dal ‘43, in varie città d’Europa. Ospite di lei nel suo castello di Wierzchownia, nell’Ucraina, nel ‘47 e nel ‘49, il 14 marzo 1850 la sposò, per tornare subito dopo, a piccole tappe, a Parigi: dove giunse il 21 maggio e morì il 18 agosto.

  I romanzi e i racconti della Comédie Humaine sono circa ottantacinque (sic). A essi vanno aggiunti i Contes drolatiques e il teatro (Le Faiseur ou Mercadet, Vautrin, Paméla Giraud, Les ressources de Quinola, ecc.) e altri scritti minori.

  Sotto il titolo Splendeurs et misères des courtisanes si raccolgono Esther heureuse, A combien l’amour revient aux vieillards e Où mènent les mauvais chemins, usciti rispettivamente nel 1839, nel ‘43 e nel ‘46; e che si collegano strettamente a Illusions perdues, uscita anch’essa in tre parti tra il 1837 e il ’43. Chiude il ciclo La dernière incarnation de Vautrin (1847).

 

 

  György Lukács, Introduzione agli scritti di estetica di Marx ed Engels, in Il marxismo e la critica letteraria. Traduzione di Cesare Cases, Torino, Einaudi, 1964 («Piccola Biblioteca Einaudi», 43), pp. 27-58.

 

 

  György Lukács, Narrare o descrivere, Ibid., pp. 269-323.

 

 

  Giovanni Macchia, Balzac e il libertino, «Corriere della sera», Milano, Anno 89, N. 59, 10 marzo 1964, p. 3.

 

  In quel brillante ed un po’ cinico esordio della sua carriera che è la Physiologie du mariage, Balzac ammassa tutto ciò che può essergli utile per provocare un’aria di scandalo tra i benpensanti ed i buoni borghesi della Parigi del 1829. La sua idea della donna annuncia tutte le astuzie e le civetterie delle protagoniste del teatro di Feydeau e della stessa Parisienne di Becque.

  Era il Balzac. un po’ dandy un po’ provinciale, che si vestiva da Buisson in rue Richelieu e acquistava guanti e camicie da Boivin in rue de la Paix. Cominciava ad interessarsi dei mobili Boulle, leggeva Sterne ed inseguiva, attraverso memorie e cronache indiscrete, personaggi e scrittori del secolo di Luigi XV e Luigi XVI: tipi di roués come il maresciallo di Richelieu, o l’immortale Carlin, cioè l’Arlecchino Carlo Bertinazzi, che allora si credeva (ciò che poi risultò falso) fosse stato condiscepolo di papa Clemente XIV al seminario di Rimini. Non trascurava gli scrittori libertini e ad uno di essi sentì il bisogno di ricorrere direttamente, ed ecco in quali circostanze.

  Nelle «meditazioni» della Physiologie (come le chiamava, quasi si trattasse di pagine filosofiche alla Cartesio o di commenti ai Salmi) intendeva illustrare i principi strategici messi in azione in un’epoca come quella del Settecento, in cui la donna aveva raggiunto un alto grado di perfezione viziosa. E’ l’infinito capitolo delle astuzie femminili. E su quel tema si riversa l’interesse dei commensali alla fine di un pranzo per pochi intimi, offerto dal principe Lebrun traduttore di Omero e del Tasso a tempo perso, e di fatto arci-tesoriere di Francia sotto Napoleone.

  Un vecchio signore, amabile artista — dice Balzac — amico dell’Imperatore, sosteneva vigorosamente l’opinione poco virile che nessun uomo può resistere alle trame ordite da una donna. Nulla vi è di sacro per lei. Scandalo delle signore presenti. E per farle tacere il prudente commensale prende dalle tasche un libretto e in un grande silenzio comincia a leggere. Si tratta della storia, divertente ma non geniale, dovuta, secondo Balzac (che pur mostra nell’attribuzione qualche incertezza), alla penna maliziosa e arguta di uno scrittore allora famoso ed oggi quasi del tutto dimenticato: Joseph Dorat, l’autore dei Baisers.

  E’ l'avventura di un giovane, innamorato di un’avvenente contessa, e che una sera, trovandosi solo all’Opera, viene invitalo da una signora, amica della contessa (donna, e detto, scrupolosamente devota alla propria dignità), a seguirla durante tutta una notte. La storia è il racconto minuzioso e indeciso di questa notte di sogno. L’arrivo in un castello sulle rive della Senna, l’incontro con il marito da cui la signora viveva separata (e che poi discretamente s’allontana), e la lunga passeggiata nella notte di luna che è come l’iniziazione, in una serie di piccole tappe, con discorsi che vengono sempre troncati e ripresi, al rito amoroso che si svolgerà in un’alcova profumata. All’alba il giovane saprà che il suo arrivo nel castello era stato combinato dall’amante della signora. La signora aveva spinto quell’avventura verso una conclusione che l’amante non aveva previsto. Era stata lei a creare quell’indimenticabile notte d’amore. L’amante ignora e ringrazia il giovane amico. Tutto ritorna come prima. Il giovane al mattino parte dal castello, Point de lendemain.

  Il racconto, così com’era, non mi aveva fatto grande impressione finché un giorno mi venne voglia di conoscerne l’originale.

  Anzitutto scoprii che l’autore non era Dorat (che fu nel 1777 soltanto l’editore del racconto ma il barone Vivant Denon, conosciuto come autore di bei libri di viaggio in Sicilia e in Egitto (dove fu al seguito di Napoleone), e come artista e intenditore d’arte antica, antiquario e direttore generale dei musei sotto l’Impero. Tra le migliaia di persone che Stendhal conobbe nella sua fervida vita non mancava l’aimable Denon. Ma il suo nome era già scomparso dalla compagnia dei letterati quando Balzac gli dette il colpo di grazia. Poi Albert de la Fizelière ne raccontò la vita, Anatole France gli dedicò un gustoso medaglione. Ma oggi, fuor che per qualche bibliofilo e per qualche critico avveduto, egli vive nell’ombra.

  E’ curioso notare con quali semplici mezzi si possa trasformare un piccolo capolavoro, qual è Point de lendemain, in una prosa un po’ piatta e senza sfumature. Basta togliere qui una virgola, là una parola, mutare un presente in un passato, cancellare un periodo e sostituirlo con una congiunzione o con una serie di puntini, infrangere quella regola misteriosa che è il ritmo, e che in ogni opera d’arte scorre internamente come un silenzioso corso d’acqua. E si pensa anche, per contrasto, a quale imponderabile cosa sia la poesia, e con quali imponderabili mezzi si arriva all’immortalità. Non è il caso di Denon, che non giunse mai all'immortalità. Ma Balzac, pur con le migliori intenzioni, fece di tutto per sbarrargli la strada. Il fragile Denon non ha resistito a quel bonario massacro.

  A Balzac dové sembrare alquanto stonato e fuori posto che in un capitolo sulle ruses femminili si dovesse insistere sulle raffinatezze, sui silenzi, su una filigrana di sospensioni e di attese in cui è la bellezza delle pagine di Denon. Si e molto parlato della «volgarità» di Balzac. E’ indubbio che, pur in un episodio marginale, di quella volgarità egli dette esempio precoce, tanto più in quanto cercava di adattare ad orecchie borghesemente caste la prosa libertina del nostro autore. Ma era altrettanto evidente fin d’allora che quella volgarità celava un’irresistibile forza per adattare e ricreare ogni materiale che gli capitasse sotto mano. Respingeva tutto ciò cui non poteva giungere. Preferiva il violento e grossolano Béroalde de Verville (che gli fu utile per confezionare i Contes drolatiques) all’elegantissimo Vivant Denon. Volgarità voleva dire: rappresentare un mondo nel suo spessore e nella sua densità umana. Non scrivere belle pagine ma bei libri. Tutto in funzione dell’insieme. Nella sua carica vitale era chiaro che egli dovesse frantumare un delicatissimo pastello settecentesco. Resta da chiedersi per quali motivi uno scrittore che si presentava al pubblico con sì buoni auspici avesse poi rinunciato alla sua carriera. Si possono fare solo delle ipotesi.

  Point de lendemain è una delle migliori illustrazioni di quel che Stendhal chiamava amour-goût e che regnava a Parigi verso il 1760. Un quadro, cioè, fin nelle ombre, tutto color di rosa, in cui nulla, sotto alcun pretesto, doveva entrare di spiacevole. In poche decine di pagine, Denon aveva portato fino alla rarefazione questo ideale, ricorrendo a tutti i diletti e le insidie di una civiltà ormai sul declinare: il piacere e la vanità, la grazia e l’ironia. Era un’esperienza senz’amore e senza crudeltà, che aveva l’amarezza di un giuoco che sta per finire: fantasmi di sogno che svaniscono alle fredde luci dell’alba. L’incertezza e quasi la paura di soffrire toglievano al silenzioso protagonista, nel momento della sua partenza dal castello, qualsiasi coscienza: finanche il senso e la morale dell’avventura che aveva vissuto.

  Giuochi ben più crudeli e diabolici andava preparando l’amore sull’orizzonte fosco di quei tempi: Laclos. Sade. Lo scrittore Denon apparteneva ad un’altra età: all’età dei Crébillon e dei Duclos. Prese poi un’altra strada, infatti, e Point de lendemain è come un gioiello di un’altra epoca la cui luce resta appannata, chiusa entro una vecchia montatura. Quella sua estenuata raffinatezza a Balzac dové dare fastidio, egli che senza dubbio guardava all’avvenire. Non permetteva sviluppi ma soltanto una breve, isolata gloria postuma. E’ quella che oggi vorremmo dare a Denon. Il vecchio direttore generale dei Musei francesi verrà ammesso prossimamente nella Biblioteca della Pléiade.

 

 

  Riccardo Morbelli, Certi peccati dei nostri tempi. L’avarizia. Perché Balzac non scrisse l’ultima scarrozzata di Madame Grandet [...], «Stampa Sera», Torino, Anno 96, Numero 18, 22-23 Gennaio 1964, p. 3.

 

  Honoré de Balzac, a chi gli domandava come si fosse ispirato per creare quella gigantesca figura di avaro che è papà Grandet, risponderà:

  — Vi dirò, il tipo lo conobbi realmente. Di lui mi aveva parlato un mio amico che viveva in provincia. E in me nacque un tale desiderio di conoscerlo, che mi recai in quella cittadina per studiarmi quel soggetto dal vero. Capitai in un momento poco felice: la moglie di quel tale che chiameremo Graniteti era presso a morire. Bene: l’unico pensiero che assillava la mente del marito era che — se la poveretta fosse morta — egli si sarebbe dovuto sobbarcare la spesa non indifferente della cassa di zinco, per il trasporto della salma fino a Parigi, dov’era la tomba di famiglia. La moglie infatti morì. E il marito ebbe il coraggio civile, pur di risparmiare, di sistemare il suo corpo esanime in una carrozza chiusa.

  — Ma il fiaccheraio non sapeva?

  — Non sapeva niente! E con questo sistema egli riuscì a risparmiare il trasporto funebre, pagando a tassametro l’ultima scarrozzata della consorte.

  — Ma questo episodio — dicevano a Balzac — non figura nel romanzo... E lo scrittore:

  — I miei lettori mi avrebbero accusato di eccessiva fantasia. Proprio così. La realtà, in questo campo, supera spesso il sogno.

 

 

  Gianni Nicoletti, La bocca di Rosmunda, «Letteratura», Roma, N. 72, novembre-dicembre 1964, pp. 85-87.

 

  Una contraddizione (vera o presunta?) all’origine: per es. in Les Paysans Balzac scrisse il contrario del suo proposito, non la tragedia del latifondo ma quella del frazionamento della proprietà terriera in favore dei contadini (così Luckács nel noto saggio); siamo nell’ordine di una «spietata autocritica delle proprie opinioni»; Balzac pensava (pensava?) che un regime tradizionale e progressista dovesse poggiare su monarchia e chiesa (vi mescolava De Bonald e De Maistre) e insieme additava «la profonda inciviltà del sistema capitalista» e poi idealizzava «la passata civiltà aristocratica», onorava il cattolicesimo, credeva che l’unica base della vita moderna fosse il capitalismo, impegnandosi infine con l’opera (ennesima antinomia) «nell’inespressa autocritica della sua concezione utopistica». Restava da vedere come l’opera medesima avesse potuto impiantarsi su un terreno contraddittorio, come il suo modo di concepire il personaggio potesse nascere solo da «un’autocritica incosciente» ovvero (mi pare) dall’incosciente dell’autocritica e come «l’irrealtà della sua concezione» avesse il potere di farsi realtà dell’opera poetica (non sarebbe un’antitesi tra la poesia e la sua prefigurazione?). Non allora per caso André Wurmser nel volume La Comédie inhumaine, Gallimard 1964 (sono quindici anni da quando ne cominciò la pubblicazione su «Europe» in articoli separati) cita Lukács solo due volte, una di sfuggita e una per contestarlo. Il suo saggio di critica marxista non è polemico solo per Guyon, lo è anche per l’illustre confratello (e per tantissima altra gente). La soluzione è sintetica: Balzac aveva l’animo capitalista. Così l’uomo: pare che il padre non fosse nelle condizioni di arricchirsi, come fece, senza frode; cornuto per soprammercato, diede al figlio Honoré (egli era suo) doti eccellenti di amoralità, di faccia di bronzo, di materialista. Da giovane il futuro romanziere non rivelò precocità interessanti, e sarebbe stato poco male. In compenso sviluppò qualche inclinazione per calcoli ingenerosi come quando suo zio fu ghigliottinato sulla Place du Manège di Albi per aver assassinato secondo l’accusa Cécile Soulié benché si trattasse di un processo indiziario e un po’ sommario e quasi certamente di un errore giudiziario, e Balzac con tutta la famiglia non si mosse (e poteva) anzi conservò sulla «ténébreuse affaire» un silenzio assoluto pur di non perdere la pubblica considerazione e la reputazione, dimostrando cioè di sapersi amministrare benissimo in vista della fama (o della ricchezza). A un certo momento cominciò a scrivere. Ma cominciò a scrivere perché «il fallait bien choisir un métier» e la «masse lisante» era «une mine sans fond». Cioè Balzac non fu grande malgrado il suo spirito borghese ma appunto perché era un borghese (pagina 57). — Ma come, Balzac borghese? Come la mettiamo con l’artista? E l’ispirazione, la musa? — Era un borghese, certo. Solo: sapeva quanto costa il danaro, quante gioie avvelena, quante amarezze secerne, quanto divide gli uomini (ivi): gli bastava. Sapeva pure che non esistono esseri predestinati, non muse, che per scrivere occorrono soltanto osservazioni, memoria e ragione, soprattutto «application au travail» (p. 65). Balzac è grande solo perché ha detto la verità. La sua unità di stile è la verità. Quindi la contraddizione latente in Lukács è sanata. L’opera non poggia su un incosciente dell’autocritica ma sulla scienza diretta di una realtà di fatto.

  Il copioso saggio di Wurmser (765 pagine) sviluppa un atteggiamento tipico della critica francese, il biografismo. Spiega l’opera con l’uomo. Capita allora che non spiega l’uomo con l’opera (dico l’uomo autore dell’opera). Riassumiamo la sua tesi: Balzac era un borghese che nell’opera ha detto la verità. Ma ne deriva: il romanzo è scienza diretta di una realtà di fatto; la realtà di fatto rappresentata esprime con prevalenza il demoniaco del danaro e dell’arricchimento. Ora, la scienza diretta ed espressa di una realtà di fatto non è borghese, altrimenti non canterebbe né farebbe pensare al demoniaco nel danaro e nell’arricchimento illecito e smodato. Invece lo fa pensare con molto fondamento, e significa che Balzac lo pensava perché lo scrisse e se lo scrisse lo cantò. Soluzione Lukács: gli scappò dall’incosciente. Soluzione Wurmser: fu il prodotto di una solidarietà con il demoniaco. Ma a me pare che non quadrino. Respingo con Wurmser la soluzione Lukács perché introduce una nozione ambigua, mitizzante e contraddittoria in termini, l’autocritica incosciente o l’incosciente autocritico. Ma respingo pure la soluzione Wurmser perché suscettibile di implicare lo acritico. Si vedano le premesse intorno al meccanismo della creazione artistica. Ammetto che osservazione, memoria, ragione e applicazione siano sufficienti a dare origine all’opera ma a patto di aggiungervi volontà. Con le prime quattro doti Balzac avrebbe potuto essere invece che romanziere qualsiasi altra cosa, uno storico, un editore come voleva in principio, un banchiere. Ma per essere romanziere aveva bisogno della volontà di essere romanziere. In principio forse scelse un mestiere quando mestierante era, ma poi mestierante non fu. Perciò la sua volontà fu volontà così e così condizionata e si determinò in scelta (o ci può essere volontà senza scelta?). Ci siamo: la scelta fu insieme scelta del romanziere che fu, altrimenti sarebbe stata scelta di un altro e di Balzac diremmo cose affatto diverse. Ora, dato il romanziere che fu scelse la scienza diretta di una realtà di fatto. Ma espresse il danaro demoniaco e non salutare. Quindi la relazione danaro arricchimento/opera non sarà solidale ma antitetica. Come? Quando scriveva, il borghese dettava dentro la coscienza del fatto, ma è impossibile che dettasse una complicità borghese con la borghesia nel mentre era il romanziere non borghese. Caso mai si potrebbe tornare all’ipotesi di Lukács con l’avvertenza che incosciente non era il mondo autocritico bensì l’altro, il reazionario (incosciente almeno una certa ammirazione). Ma non è necessario. Balzac è uomo in quanto romanziere e non viceversa. La voluta scienza diretta di una realtà implicava di fatto per lui (non così per altri) non un giudizio ma uno spettacolo interiore, e se non si fosse comportato come il personaggio di sé stesso (il destino lo fece essere così perfino nella morte, se è vera la storia di Mme Hanska e di Gigoux) gli sarebbe parso di uscire dalla realtà, di essere irreale, e non avrebbe più scritto o avrebbe scritto per es. come Victor Hugo. La prova si ha con la semplice analisi del titolo di commedia umana (suggerito da Dante: cfr. V. Lugli, Dante e Balzac (con altri italiani e francesi), E.S.I. 1952): quella era l’unica umanità possibile (è precisamente questa la chiave della sua potenza espressiva, la certezza di essere il malato di una malattia che è la vita). Il titolo di Wurmser è invece la commedia inumana in quanto l’assunto della prassi è per lui un giudizio scientifico e un rimando etico-politico che non sta in Balzac. Si concluda: il rapporto tra l’uomo e il romanziere non è: a), borghese/romanziere - borghese - che dice - il-vero; ma b), borghese - convinto - di - non poterne - uscire /romanziere ossessionato - dalla - visione - del - mondo - borghese - da cui - non - vede scampo, quindi borghese-uomo in fase critica e borghese-romanziere che non gode ma patisce il dramma borghese (naturalmente ne patisce il contenuto non la forma). Così il romanzo ha una spiegazione globale; così pure il suo «romanticismo»; così infine che la sollecitazione della realtà di fatto si risolva quasi in delirio (quantitativamente come qualitativamente) senza includere una corresponsabilità dolosa ma con l’incubo (da «incumbo») di una responsabilità priva di uscita (e vedi che se ne possono dedurre alcune chiose sul delicato capitolo del «satanismo» nell’ottocento francese). In questo modo è pure lecita l’uscita dall’interpretazione meramente realistica che implica il rischio di ritrascinarci al Faguet («un grand souci de la vérité») e compare una critica più sostanzialmente spettacolare (= atta a svolgere la sua opera in spettacolo interiore) nella nozione di «visionario della realtà» sulla scorta dell’articolo di Baudelaire, corraborata (sic) dalle limitazioni crociane e venuta perfezionandosi sia nel Curtius sia negli apporti dell’arte che procede «du cerveau et non du coeur», e della migliore francesistica italiana: la realtà-simbolo di Carlo Bo (Proust vuole sapere, Balzac creare) l’operazione risanatrice della fantasia di Carlo Pellegrini, l’interazione osservazione-inventiva di Valeri, il «lorsqu’il peint les moeurs, il est aussi tout imagination» di Anceschi, quindi il prevalere del composito di De Cesare (in cui non manca il tono della carità), la fusione del senso politico nel senso della Comédie di Pizzorusso, il potere trasfigurativo-sentimentale di Cordiè, non una storia anzi uno «sfruttamento» di essa da parte dei personaggi balzacchiani secondo Bonfantini, e insomma una «fisiologia» in cui tutto si trasforma. A me pare che così si risanino e l’uomo e l’opera e che stiano come Mme Vaquer (sic) e la sua casa: «toute sa personne explique la pension comme la pension implique sa personne». Così volevano Focillon o Rousset.

  Detto questo e oltre a certe mende specialistiche (come quelle rilevate su «Express» del 16 luglio), per l’incunearsi profondo nelle carni dell’opera di Balzac del rapporto tra essa e la infrastruttura della sua epoca abbiamo un libro non solo di novità rilevante ma di bellezza difficilmente uguagliabile. Una bellezza aspra. Quella stessa che sedusse il romanziere. Del suo mondo parlano le cifre: otto milioni di mendicanti su una popolazione di 35; un quarto dei parigini nasceva all’ospedale e più di un terzo moriva; la media della vita umana era scesa in sei anni a ventun anni; un medico di Nantes scriveva: per l’operaia vivere significa soltanto non morire; un’operaia parigina lavorava infatti undici ore al giorno per 15 soldi (due chili di pane = 17 soldi); quindi dilagava la prostituzione con 15.000 iscritte e 130.000 figli naturali nel 1834; [...]. Qual era l’atteggiamento ufficiale? Guizot: non c’è lotta di classe, la conquista dei diritti sociali e politici è compiuta, le finanze e la prosperità pubblica sono in stato soddisfacente quindi arricchitevi (naturalmente parla ai «borghesi»); [...]. Di qui e soltanto di qui Victor Hugo: «Je dis que de tels faits dans un pays civilisé engagent la conscience de la société tout entière ; que je m’en sens, moi qui parle, complice et solidaire» (seduta del 9 luglio 1646 [sic]).

  In mezzo sta Balzac: « A l’un la vie, à l’autre l’honneur, au dernier la fortune qui est aujourd’hui tout cela»; «Pour être avare, il faut posséder»; «Il s’agit de nos affaires»; «Nous avons été presque tous dégoûtés en apprenant que la borgeoisie (sic) trahissait le peuple»; «Il faut vous manger les uns les autres, comme des araignées dans un pot». La sua opera: una musa infernale con la bocca spalancata a bere il veleno di un dolore e a rimuginare sete di odio vero.

 

 

  Carlotta Prosperi, I grandi camaleonti, «Stampa Sera», Torino, Anno 96, Numero244, 26-27 Ottobre 1964, p. 3.

 

  Con tutte le sue pecche (e furono enormi) Fouché potè essere giudicato dallo scrittore Balzac «un uomo straordinario mal giudicato dal suo tempo. Sotto il Direttorio ascese a quell'altezza da cui gli uomini profondi sanno vedere l’avvenire giudicando il passato. Egli fu — dice sempre Balzac — uno spirito fosco, profondo, inconsueto e malconosciuto. Un genio singolare, il più grande ministro di Napoleone, che ebbe più forza stigli uomini di Napoleone stesso»

 

 

  Giuseppe Rigotti, Balzac e l’opera lirica, «La Martinella di Milano. Rassegna di vita italiana», Milano, Anno XVIII, Ottobre 1964, pp. 419-421.

 

  Balzac fu iniziato allo studio della scienza musicale dal critico Jacques Strunz, con tutta probabilità d’origine nordica, al quale manifestò tutta la sua gratitudine dedicandogli il racconto d’ambiente veneziano «Massimilla Doni». Alludendo all’opera lirica, nella dedica, dice testualmente: «Voi mi avete sempre fatto vedere le difficoltà ed il lavoro che il genio nasconde in questi poemi musicali che sono per noi fonti di godimenti divini». E poi, ancora: «Voi m’avete anche, più d’una volta, procacciato il piccolo divertimento di ridere alle spese di non pochi pretesi intenditori. Nessuno mi taccia d’ignoranza, nè suppone quanto io debba d’assistenza e di consiglio ad uno dei migliori critici musicali viventi (Jacques Strunz). Può anche darsi ch’io sia stato il più infedele dei segretari. Se ciò fosse io sarei certamente un traditore senza saperlo».

  È più che una confessione da parte di Balzac, è un riconoscersi un certo merito, appunto come intenditore. Disseminate attraverso la «Comédie Humaine» si trovano in abbondanza dissertazioni musicali e si può constatare che, più che appassionate, sono coscienziose, il che prova che lo scrittore non musicista viveva però a contatto di musicisti. È noto quanto Balzac fosse legato di sincera amicizia con Bellini (fu tra coloro che il 25 gennaio 1835 applaudirono «I Puritani» da far crollare la volta del massimo teatro parigino e che, nel settembre successivo, seguivano mesti e commossi la salma del giovane catanese al cimitero del «Père Lachaise»). Balzac poi frequentava con assiduità il salotto di Madame Olimpia Pélissier, dove troneggiava Rossini, ch’era un piccolo mondo della musica e di musicisti. E la musica era sempre il principale argomento d’ogni conversazione. E dalla musica passare all’Italia il passo era breve.

  Il grande desiderio di Balzac di varcare le Alpi doveva essere di continuo frustrato e per ragioni di lavoro e per difficoltà economiche. Solo nel 1836 potè effettuarsi il suo primo viaggio in Italia. Balzac ch’era abbastanza abile come uomo di legge, sebbene non avesse mai portato a termine gli studi in giurisprudenza, come avrebbe voluto la sua famiglia, assunse l’incarico di regolare una faccenda di eredità per conto del suo amico Conte Emilio Guidoboni-Visconti, gentiluomo lombardo, e grande appassionato di musica. Balzac non mancava mai di condividere con loro il palco che i coniugi Guidoboni-Visconti avevano al Teatro «des Italiens».

  La «Gazzetta Piemontese» annunciò l’arrivo del romanziere francese a Torino, come il maggior avvenimento della stagione. Balzac prese alloggio all’Hôtel Europa, conducendo con sè una giovane donna, Madame Marbouty, in abiti maschili e che dichiarò essere il suo cameriere personale. Immaginarsi i pettegolezzi dei salotti dove i romanzi di Balzac erano letti e riletti in originale e dove ci si teneva al corrente degli avvenimenti letterari parigini! Balzac ebbe molto da fare per smentire che il suo finto cameriere non era Giorgio Sand come si voleva fosse. Nel breve periodo che Balzac rimase a Torino (non più di tre settimane) quali teatri frequentò ed a quali spettacoli assistette non ci è lecito sapere. Ma fu un incentivo per il viaggio a Milano che doveva fare l’anno dopo, sempre per l’affare Guidoboni-Visconti.

  Balzac lasciò Parigi, ed il suo alloggio in Rue Cassini, appostato dai creditori, precisamente il 12 febbraio 1837, per intraprendere il fecondo viaggio di Milano. E qui l’accoglienza fu anche più entusiastica che a Torino, dato anche il carattere molto più aperto e generoso dei milanesi. I giornali cittadini annunciarono l’arrivo dell’ospite con sincere parole di benvenuto. Balzac scese all’Albergo «Bella Venezia», che allora era reputato essere uno dei migliori della città; nei pressi di San Fedele, di riscontro a Palazzo Marino, e caduto sotto il piccone demolitore negli anni 1926-1927. Ed ecco il plebeo Balzac, elegante alla sua maniera di quell’eleganza che i parigini chiamano con divertita ironia «élégance à deux sous», circondato da autentiche principesse e dalle stesse vezzeggiato e lusingato, emule della Duchessa di Castries e di Laura di Berny.

  La Contessa Maffei, arrischiando non poche scene di gelosia da parte del marito, volle fare da cicerone all’ospite. Ella non ebbe scrupolo di mostrarsi alle pubbliche passeggiate in carrozza con lui. Si indicava il romanziere con la mano poiché anche a Milano i suoi libri erano molto letti, pubblicati da editori milanesi in graziosissime edizioni in 24°. La contessa Maffei non poteva far a meno di condurre Balzac alla Scala e ve l’accompagnò nel palco del Principe Portia (sic) dove questo gentiluomo, che doveva diventare amico intimo del romanziere, lo accolse con la sorella. Ah, il soddisfatto sorriso di Balzac nel volgere attorno lo sguardo per la sala!

  Ma la felicità milanese è piuttosto smorzata nelle lettere che in questo periodo il romanziere scrive all’Etrangère, per timore che Madame Hanska non abbia ad insospettirsi ed ingelosirsi, lei che si preoccupava soltanto di essere la governante in capo del grand’uomo. A Milano niente editori che sollecitano, niente creditori che gli danno la caccia, niente uscieri, niente cambiali, niente minacce di sequestro di beni e di persona! Del soggiorno milanese resta una novella d’ambiente, scritta fra un invito a pranzo ed un ricevimento, «Le fantasie della Gina», venuta alla luce manoscritta, non molti anni or sono, e che fu tradotta anche in italiano, ma in essa non si parla troppo di musica.

  Il grande amore, o meglio la preferenza di Balzac per l’opera lirica dovrà effondersi soltanto a Venezia, dov’egli, approfittando del soggiorno a Milano, si recherà in carrozza da posta, munito di lettere di presentazione per alcuni alti personaggi della capitale della laguna. Nove giorni di godimenti paradisiaci e d’intensa attività, se una cosa può conciliare l’altra. La Venezia descritta in «Massimilla Doni» supera in bellezza ed in efficacia descrizioni che ne poterono fare Goethe, Lord Byron, Stendhal, Giorgio Sand, De Musset e anche D’Annunzio più tardi. Accanto alla Venezia balzachiana esse riescono fredde e di maniera. Con «Massimilla Doni» Balzac enuncia il suo «credo» nell’opera lirica.

  I protagonisti del racconto sono tutti dei patiti del teatro lirico e non possono sottrarsene neppure un istante. Vivono e ardono per il melodramma. Il tema d’eccezione ha tentato in tempi abbastanza recenti, il maestro O. Schoeck che rappresentò la sua «Massimilla Doni» all’Opéra di Parigi, il 13 marzo 1933, con discutibile successo. Stando alla critica ufficiale l’esito dello spettacolo si può riassumere in poche parole: il soggetto non è la qualità dominante bensì gli episodi; rimaneggiato dallo stesso compositore riesce debole. Musica d’un modernismo voluto in principio, poi più avanti le grandi arie in cui Schoeck fa molto bene. Gusto e maestria della scrittura vocale l’hanno portato a comporre qualche passaggio di belcanto d’un superbo trasporto. Ci fermiamo al belcanto per citare la definizione che di questo vocabolo musicale (comprendente anche tutte le sue fioriture nel senso che l’intendono i francesi), ci dà Balzac: «Incaricato di svegliare nella vostra anima mille idee dormienti, si slancia attraverso lo spazio, disseminando nell’aria i suoi germi, che, raccolti dallo orecchie, sbocciano in fondo al cuore». Romantico, vero? Ma chi di più romantico del primo romanziere realista?

  La «Massimilla Doni» di Schoeck per quanto ispirata da Balzac è molto distante dalla bellezza del racconto balzachiano, ed è a questo che bisogna riportarci per comprendere la passione musicale del suo autore. Intanto ripetiamo il giudizio di Andrea (sic) Maurois che non è da trascurare: «Massimilla Doni» resta una delle più perfette esegesi musicali.

  La suggestione nasce dalla Venezia di «Facino Cane». Pretesto appunto per fare l’apoteosi del belcanto, è un vecchio fanatico Duca Cattaneo, il quale s’è legato per contratto un tenore ed un soprano e si compiace di fonderli insieme per il suo privato godimento. «L’anima, l’intelligenza, il cuore, i nervi, tutto ciò che produce nell’uomo uno slancio e lo riconduce al cielo col desiderio o col fuoco del piacere, non tiene tanto alla musica, quanto ad un effetto preso fra gl’innumerevoli effetti della musica, ad un accordo perfetto fra due voci o tra una voce ed il cantino del violino».

  È una testimonianza di schietto amore per l’opera lirica. Per Balzac l’accordare il timbro d’una voce ad altra voce significa raggiungere l’unisono sognato, l’accordo perfetto, il sublime. Ed è ancora il romanziere fanatico per la musica, che immagina Palazzo Vendramin illuminato da una grande luce che dall’interno si diffonde sulle acque mentre la deliziosa sinfonia della «Semiramide» rossiniana viene eseguita sulle sue gradinate dall’orchestra della «Fenice», e, come se questo non fosse abbastanza, dal balcone del Palazzo si risponde col «Buona sera» del Conte d’Almaviva. Sono le fantasie che passavano per la mente di Balzac seduto in palco, alla «Fenice» durante una rappresentazione del «Mosè».

  Al temperamento di Balzac quale musica poteva conferirsi meglio di quella del Rossini? La logica non solo lo pretende ma lo esige. Il romanziere ed il compositore si possono dare la mano. Se Balzac concepisce il romanzo moderno, il musicista prelude all’opera moderna. Infatti, dalle parole che Balzac pone in bocca alla sua immaginaria eroina, vediamo come la pensava: «D’altra parte bisogna riconoscere che la musica creata da Lully, Rameau, Haydn, Mozart, Beethoven, Cimarosa, Paisiello, Rossini, e come la continueranno i bei geni di domani, è un’arte nuova, sconosciuta alle generazioni passate che non avevano tanti istrumenti quanti ne abbiamo noi oggi e che nulla sapevano dell’armonia sulla quale oggi sbocciano i fiori della melodia come su di un fertile terreno».

  E poi: «Un’arte così nuova richiede degli studi sulle folle alle quali la musica si rivolge». Balzac nota questo nel 1837 ed è quasi profezia, la sua, al grande rivolgimento che il melodramma doveva subire negli anni successivi a questa specie di predizione. «Ma musica moderna richiede una pace profonda e la lingua delle anime tenere, innamorate, propense a una nobile esaltazione interiore». A dispetto di tutte le altre arti, la musica è «la sola che ha il potere d’incatenare i nostri pensieri alla natura e che ha quindi il potere di esprimerci». È più o meno questa la conclusione del discorso di Balzac.

  Riprende quindi il tema del «Mosè», «Mosè, liberatore di un popolo schiavo! Ricordatevi di questo e si vedrà con quale religiosa speranza, la Fenice ascolterà la preghiera degli Ebrei liberati e con quale salva di applausi lo saluterà». L’allusione agli spettatori della Fenice si estende a tutti gli spettatori di tutti i teatri come quello veneziano. «I tre accordi in «do maggiore» dell’orchestra, che fanno intendere che l’«ouverture» sarà cantata, perché la vera sinfonia è il vasto tema che vien dopo il brusco attacco e va fino al momento in cui la luce appare al comando di Mosè, e si attende il dolore che viene in armonia con la sofferenza nascosta del popolo ebreo: terribile elegia di un popolo colpito dalla mano di un Dio!».

  Caro Rossini, tu hai fatto bene a gettare questo osso da rodere ai tedeschi! Soltanto un italiano (è sempre Balzac che parla) era in grado di scrivere questo tema fecondo, inesauribile, e tutto dantesco!

  Continuando l’elogio del «Mosè» di cui Balzac subiva veramente il fascino, ne fa la disanima minuziosa ed acuta per terminare con l’apostrofe: «Vecchi maestri tedeschi, Haendel, Sebastiano Bach, ed anche tu o Beethoven, in ginocchio, ecco la regina delle arti, lItalia trionfante!». Cioè il melodramma italiano.

  Esuberanze! ma consideriamo l’uomo e i tempi.

 

 

  V.-L. Saulnier, Honoré de Balzac, in Storia della letteratura francese. Traduzione di Maria Luisa Bonfanti, Torino, Giulio Einaudi editore, 1964 («Piccola Biblioteca Einaudi. Filologia. Linguistica. Critica letteraria», 40), pp. 530-533.


  Per creare il romanzo occorreva un acuto senso dell’osservazione sistematica: Balzac l’acquista presso Geoffroy Saint-Hilaire ostinandosi a classificare scientificamente i tipi sociali al fine di elaborare un vero schema organico della società. Una tecnica: se la procura leggendo Walter Scott. Il dono d’un’immaginazione divinatrice e creatrice, il colpo d’occhio sovrano che raggruppa e distingue, che penetra senza smarrirsi dietro la superficie delle cose e ne fa vedere il fondo per trasparenza, senza apparentemente abbandonare il piano superficiale: questo dono è la sua grandezza.

  Il tirocinio (1819-29). Durante una giovinezza agitatissima, Honoré de Balzac si prepara al mestiere di romanziere.

  1820: la grande fiducia. Balzac si getta a capofitto nel teatro (un Cromwell, caduto) e simultaneamente nel romanzo: Sténie è l’opera d’un principiante, del genere personale e sentimentale. Per vederci più chiaro e fare il punto sulle tecniche correnti, scrive Falthurne, un romanzo nero.

  1821-22: la formazione tecnica. Esperimenti in generi diversi, a imitazione, uno dopo l’altro, di tutti i generi di moda, allo scopo di approfondire via via in modo sistematico i vari aspetti della tecnica.

  Dapprima, sotto lo pseudonimo di lord R’hoone, in collaborazione con Et. Arago e Le Poitevin, scrive vere e proprie parodie: L’Héritière de Birague, un romanzo nero, per acquistare la padronanza del dialogo (a imitazione di Scott); Jean Louis, un romanzo alla Pigault-Lebrun, per imparare a combinare le peripezie (a imitazione di Beaumarchais).

  In un secondo tempo, solo e sotto il nome di Horace de Saint-Aubin, baccelliere, Balzac scrive delle imitazioni di maggior impegno: Clotilde, un romanzo alla Walter Scott, per prender coscienza delle proprie forze ed elaborare la parte descrittiva; Le Centenaire, ancora un romanzo nero, per coltivare il romanzo a episodi e l’arte del raccontare; il Vicaire des Ardennes, un romanzo sentimentale per imparare a maneggiare l’episodio.

  1823-25: la formazione artistica. Padrone del mestiere, Horace de Saint-Aubin si esercita nell’arte di equilibrare il tutto, e specialmente nell’invenzione; Argow le Pirate, Wann Chlore. È l’epoca in cui l’osservazione realistica si fa precisa e in cui l’artista esamina quali sono nella vita sociale i diversi «casi» drammatici che possono fornire materia a un patetico romanzesco.

  1824-29: l’indagine. Editore e stampatore sfortunato, Balzac ha rinunciato al romanzo, ma acquista l’esperienza del mondo. Entra nell’ambiente librario, conosce gente diversa, frequenta i salotti; è amico di Latouche. Si interessa a certe idee scientifiche, e le discute: quelle di Lavater e Gall sulle connessioni tra fisico e morale, di Cuvier sull’intuizione capace d’indovinare l’essere da un unico segno. Soprattutto, seguendo la moda, studia in monografie gli aspetti particolari dei costumi, delle decorazioni, degli accessori della vita (Dictionnaire des enseignes, Code des gens honnêtes).

  Verso il capolavoro (1829-34). La sua Physiologie du Mariage (le «fisiologie» fanno furore) ha successo mentre, contemporaneamente, fanno fiasco Les Chouans (1829), primo frutto del disegno d’un grande ciclo storico che costituisce il primo piano d’insieme elaborato da Balzac. Rinuncia, d’ora in poi, alla storia dedicandosi allo studio dei costumi. Ma intanto un’altra moda e un gusto un po’ frivolo lo distolgono dal romanzo lungo a favore del racconto.

  Scrive allora due serie di studi. Studi di costume, le «Scènes de la vie privée» (1a serie, 1830, Gobseck; 2a serie, 1832, Le colonel Chabert). La Femme de trente ans è connessa alla moda delle fisiologie. Studi filosofici, La Peau de chagrin (1831) e gli altri racconti filosofici in cui Balzac espone l’idea madre che ha appena compreso e che spiega tutto quanto l’individuo: la potenza distruttrice del pensiero.

  Ma la moda del racconto è passata, e Balzac aumenta progressivamente la dimensione delle sue opere. Intanto va sviluppandosi in lui l’interesse per l’intrigo (Histoire des Treize, Eugénie Grandet, 1833). Poi scopre un’altra idea madre: la corsa all’oro e al piacere è la causa prima della rovina della società. Le due vene, filosofica e di costume, possono accordarsi. Infine trova il principio della Comédie Humaine: i personaggi ritornano, ricompaiono da un romanzo all’altro (1833) permettendo un’evocazione varia ma coerente della società. Si arriva insomma al capolavoro, La Recherche de l’Absolu (1833), Le Père Goriot (1834) in cui campeggiano alcune delle creature più vigorose di tutta quanta l’opera. Rastignac l’ambizioso, Vautrin il ribelle sono i due aspetti dell’uomo alla conquista della società.

  «La Comédie humaine» (1834-50). Tra gli altri verranno poi: Le Lys dans la Vallée, 1835 (un ammirevole romanzo psicologico), César Birotteau (1837), La Cousine Bette (1840), ecc.

  Opera colossale di sintesi, quella ch’egli chiama La Comédie Humaine. Balzac ne traccia il piano generale nel 1842: « Scènes de la vie privée » (Le Père Goriot), «Scènes de la vie provinciale (sic)» (Le Lys dans la Vallée), «Scènes de la vie parisienne» (César Birotteau), «Scènes de la vie politique» (Une ténébreuse affaire), «Scènes de la vie militaire» (Les Chouans), «Scènes de la vie de campagne» (Le Médecin de campagne); «Etudes philosophiques» (La Recherche de l’Absolu). Un altro piano, del 1845, contempla 153 opere, fatte o da fare. Sforzo di produzione enorme, che Balzac conduce con la costanza e il vigore d’un contadino, grazie a un lavoro forsennato tra una visita e una passeggiata, logorandosi con le veglie e i caffè.

  I capolavori: il Lys, La Recherche de l’Absolu, Goriot, Le Chef-d’œuvre inconnu.

  Il proposito: «la storia e la critica della società, l’analisi dei suoi mali e la discussione dei suoi principi». Studiare la società come un organismo animale, le specie umane come specie naturali: sempre il gusto della fisiologia. Osservazione e immaginazione si accordano per generare un mondo. «L’invenzione, lo stile, il pensiero, il sapere, il sentimento sono i cinque sensi letterari», secondo Balzac. È noto lo scrupolo con cui egli chiede a un corrispondente di provincia di indicargli il nome d’una certa strada della sua città per poterne parlare in un romanzo con esatto rigore. È noto come l’evocazione del passato d’un personaggio e dei luoghi in cui si muove apra l’orizzonte del suo animo. Osservazione e immaginazione sono forze necessariamente abbinate, in un capolavoro, giacché il lavoro del romanziere è fatto tutto d’invenzione realistica e di visione divinatoria. Forze che, della vita, formano un quadro pessimistico d’interessi piuttosto vili in contrasto tra loro, ma che alzano, in tutta la loro statura, personaggi che hanno un proprio carattere. Essi circondano il loro autore con una reale presenza, tanto che in punto di morte Balzac vuole al suo capezzale il dottor Bianchon, uno dei suoi eroi.

  Il male, il bene ... Si tratta di spiegare e di creare. Senza dimenticare i diritti dell’ammirazione e della pietà, Balzac si dedica soprattutto alla contemplazione delle energie, nel loro sviluppo e nella loro rovina.

 

 

  Italo Siciliano, Evasione ed involuzione della fantasia, in Il Romanticismo francese da Prévost a Sartre, Firenze, Sansoni Editore, 1964, pp. 75-184.

 

  Cfr. 1955.

 

 

  Franco Simone, Con un’amica travestita da uomo. Balzac a Torino, «La Stampa», Torino, Anno 98, N. 224, 1 Ottobre 1964 p. 3.

 

  Fra tanti autori, sempre letti e ammirati, dell’Ottocento francese, nuovo e insperato successo è toccato in questi ultimi anni al Balzac. Le sollecite cure di una tecnica filologica adeguata e di una esperta critica letteraria non sono state rivolte soltanto a Victor Hugo e a Flaubert, a Baudelaire e a Mallarmé. Gli interessi di nuove esperienze storielle e critiche sono andati in primo luogo, e per ragioni comprensibili, proprio al creatore di Eugénie Grandet (1833) e del Père Goriot (1834). Di un lavoro intenso e fruttuoso rappresentano la testimonianza migliore i primi cinque volumi dell’Année balzacienne; uno strumento non più trascurabile è preparato da Roger Pierrot con la nuova edizione della Correspondance (Paris, Garnier, 3 voll., 1960-64). Ormai la genesi e la fortuna di alcuni capolavori, da un secolo patrimonio acquisito della cultura europea, non sono più un mistero. L’interpretazione degli episodi fondamentali di una vita complessa e turbinosa a tal punto è facilitata dai risultati raggiunti che finalmente è possibile precisare quale importanza letteraria abbia avuto per Balzac anche il suo primo soggiorno torinese.

  A trentasette anni il romanziere vive uno dei periodi capitali della sua esistenza. La prima edizione delle Etudes de moeurs au XIX siècle è completata: tra i romanzi pubblicati vi sono Les Chouans (1829), La Peau de chagrin (1831), Le Médecin de campagne (1833). Ma, proprio nel 1836, l’année des catastrophes, il destino sembra avversare tanta geniale operosità. Balzac paga duramente le conseguenze della sfortunata impresa della Chronique de Paris e del processo per il ritardato compimento del Lys dans la vallée. Lo scrittore ha contro di sé tutta la stampa parigina che denunzia i suoi insuccessi finanziari, il suo arrivismo sociale e politico, persino la morale dei romanzi. Né alcun conforto reca allo scrittore la sua intensa vita sentimentale. Lontana Madame Hanska, gravemente ammalata Madame de Berny. diventati sospettosi e sterili i rapporti epistolari con l’enigmatica Louise, soltanto l’affetto della contessa Sarah Lovell Guidoboni-Visconti offre al Balzac la speranza di un avvenire migliore. A metà dell’anno l’avvenire è tutto affidato al primo viaggio in Italia.

  Incaricato dai Guidoboni-Visconti della difesa di importanti interessi in una complicata vicenda famigliare, Balzac accetta di partire per Torino quando la malcerta salute lo costringe a riflettere sulla dura condizione del combattente che non può abbandonare il campo di battaglia. E’ facile pensare che lo scrittore abbia accettato l’incarico come una liberazione; è certo che, quando sarà di ritorno a Parigi, i venticinque giorni del viaggio gli sembreranno un sogno. Un sogno che soltanto ora può essere valutato nelle sue fruttuose conseguenze.

  Nella notte tra il 30 e il 31 luglio il viaggiatore parigino non giunge solo a Torino. All’Hôtel Europe di Piazza Castello prende alloggio con il romanziere Caroline Marbouty, una dimenticata scrittrice di brutti romanzi che da qualche anno sollecitava la amicizia di Balzac e che finalmente veniva accontentata con una avventura che sarà l’unica della sua vita. Travestita l’accompagnatrice con un perfetto abito maschile, Balzac si presentò alla società torinese avendo al seguito un paggio di nome Marcello. Quali siano state le accoglienze è facile immaginare.

  Introdotto presso il conte Federico Sclopis con due calorose lettere del marchese Brignole, ambasciatore parigino del re di Sardegna, e del suo primo consigliere barone Nasi, Balzac conosce naturalmente la marchesa di Barolo e, forse, Silvio Pellico; è presentato alla migliore società dalla marchesa Carrone di San Tommaso; compie l'immancabile gita «alla Superga», il 10 agosto è ospite a Rivalta della contessa di Benevello alla quale lascia come ricordo un breve racconto intitolato Le Cheval de Saint-Martin. Il 12 agosto il viaggio, che doveva continuare a Milano a Firenze, viene interrotto per mancanza di fondi. Attraverso la Svizzera la coppia, presto celebre e tanto discussa, rientra in Francia e il 22 dello stesso mese è a Parigi. Tra le quarantotto lettere che attendono il romanziere la più triste annunzia la morte di Madame de Berny. Con la mente ancora piena di ricordi torinesi, Balzac commenta: «Non mi rimane né un’ora per piangere né un’ora per riposarmi».

  In verità, proprio in quei giorni dolorosi l’esperienza torinese reca i primi frutti. Memore delle gentilezze ricevute, Balzac manda allo Sclopis due sue opere con affettuosa dedica. Per la marchesa Carrone sceglie alcuni fogli con correzioni autografe del romanzo Le secret des Ruggieri. Altri ricordi sono destinati a Vittorio di Seyssel e al conte Sauli, per tutti ha un pensiero cordiale e grato. Tuttavia, fra tante nuove conoscenze, lo scrittore dimostra di aver contratto una affettuosa amicizia soprattutto con tre torinesi che rimarranno sempre presenti nei suoi ricordi.

  Di Luigi Colla, stimato come il primo avvocato del Piemonte, Balzac non dimenticherà mai le nobili qualità di mente e di cuore e, in particolare, quella passione per la botanica che, in quegli stessi anni, gli faceva scrivere l’Herbarium Pedemontanum (1833-37). Con Felice Carrone di San Tommaso il romanziere raggiunge subito una così sicura famigliarità da considerarlo il migliore amico torinese, il più fidato per ogni consiglio e confidenza. Non a caso, quando nel ‘37 andrà a Milano, egli sarà raggiunto dal Carrone che con molto tatto preparerà l’incontro con il Manzoni. Da ultimo, non meno amichevole è il ricordo che Balzac conserva delle conversazioni con Costantino Gazzera. Rientrato a Parigi, egli manda in dono al Gazzera la prima edizione del Livre mystique. Il dono non è andato perduto come si continua a ripetere da più parti. I due volumi si trovano presso l’Accademia delle Scienze di Torino e recano sul frontespizio le dediche autografe a conferma della stima che il romanziere concepì per l’erudito abate.

  Colla, Carrone di San Tommaso, Gazzera furono gli amici torinesi che, più di ogni altro, misero per la prima volta Balzac a contatto diretto con la civiltà italiana. Negli anni in cui oltre metà della Comédie humaine è già scritta, l’autore de La Vendetta (1830) si convince a non riconoscere in Italia soltanto passioni incontrollate e mistici pentimenti, a valutare caratteristiche italiane più autentiche, a seguire Stendhal nella sua fattiva ammirazione per il Risorgimento. Quando lo scrittore è in grado di valutare una realtà che il romanzo europeo aveva ignorato per almeno due secoli, egli scrive Massimilla Doni (1839) e riconosce, generoso e giusto, che l’Italia, perduta l’antica sovranità, possiede ancora molti re. I re italiani che il romanziere ha imparato ad ammirare sono Lagrange, Volta e Rasori, Canova, Rossini e Bartolini, Galvani, Vigano, Beccaria e Cicognara. Ultimo Corvetto, il genovese diventato ministro delle finanze francesi.

  Per giungere ad ammirare un gruppo così scelto e sicuro di Italiani, Balzac dovette trascorrere, durante cinque soggiorni, almeno otto mesi in Italia. E’ certo un caso, ma è vero che dedicando di questi otto mesi almeno dodici giorni a Torino, Balzac mise a frutto un consiglio di Federico Sclopis. Saggiamente l’amico gli aveva ricordato che Torino per un Francese è la porta da cui deve scoprire l’Italia.

 

 

  Franco Simone, Satana romantico, «La Stampa», Torino, Anno 98, N. 276, 1 Dicembre 1964 p. 3.

 

  Ormai, la generazione del 1800 assomma nel diavolo, non soltanto l’ateismo e il terrore rivoluzionario, ma la liberazione dell'individuo, il rifiuto di una condizione mediocre, l'avventura spirituale, anche la volontà di potenza e il gusto della sofferenza. Sono tutti elementi, questi, che acquistano concretezza di situazione e di personaggi in Balzac. Come dimenticare che limono un contemporaneo, Henry Reeve, propose che la Comédie Humaine fosse intitolata più opportunamente la Diabolique Comédie? Tuttavia, non è esatto giudicare tutti gli eroi di Balzac copie fedeli di Vautrin. Il romanziere è ben lontano dal seguire mediocremente Schiller Byron. Il profondo ed appassionato interesse per l’uomo e per la sua lotta quotidiana convince il creatore di Les Proscrits 1830 a non cercare potenze esterne all’uomo per trovare le forze e i motivi della sua tenace ribellione. Balzac sa che se l’uomo si vuole perdere, alla sua perdita può operare da solo.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Radiosalotto. «Gli impiegati». Romanzo di Honoré de Balzac. Riduzione e adattamento radiofonico di Enrico Vaime. Compagnia di prosa di Torino della Radiotelevisione Italiana. Personaggi e interpreti: Antonio, primo usciere: Mario Pucci; Lorenzo, secondo usciere: Bob Marchese; Bixiou, impiegato: Nanni Bertorelli; Phellion, impiegato: Virgilio Cottardi; Vimeux, impiegato: Renzo Lori; Minard, impiegato: Alberto Marchè; Eleury, impiegato: Natale Peretti; Dutocq, impiegato: Iginio Bonazzi; Poiret, impiegato: Sandro Rocca; Sebastiano, segretario: Alberto Ricca; Saverio Rabourdin, caposezione; Gino Mavara; Maria, governante: Lina Bacci; Celestina Rabourdin: Olga Fagnano. Musiche originali di Gino Negri. Regia di Giorgio Bandini, Secondo programma, 2 -13 luglio 1964, quattro puntate.


Marco Stupazzoni

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