martedì 24 luglio 2018



1922


Traduzioni.


  Honoré de Balzac, Pensieri, in AA.VV., Antologia dei Cattolici francesi del secolo XIX (De Maistre – Bonald – Lamennais – Balzac – D’Aurevilly – Hello – Veuillot – Bloy). Traduzione e notizie di Domenico Giuliotti, Lanciano, R. Carabba Editore, 1922, pp. 60-64.

  Cfr. 1920.


  De Balzac, Caterina De’ Medici e Maria Stuarda, Firenze, Editore Quattrini Casa Editrice Italiana (Stabilimenti Grafici A. Vallecchi), 1922 («Biblioteca Amena Quattrini», 205), pp. 97.

  Cfr. 1921.


  Onorato Balzac, La donna di trent’anni. Traduzione di Mariano D’Aspro, Firenze, Editori Carpigiani & Zipoli (Tip. Carpigiani & Zipoli), 1922, pp. 144.

  Cfr. 1921.


  O. di Balzac, Eugenia Grandet. – El verdugo. – Ufficiali di cavalleria. – I guanti rivelatori, Milano, Fratelli Treves Editori, 1922 («Biblioteca Amena», N. 701), Sesto e Settimo migliaio, pp. 269.

  Cfr. 1906; 1915; 1918.


  Balzac, Fisiologia del matrimonio o Meditazioni sulla felicità e la infelicità coniugale, Firenze, Adriano Salani Editore, 1922 («Biblioteca Salani Illustrata», 20), pp. 255.

  Cfr. le ristampe del volume a partire dalla prima edizione del 1885.


  Onorato Balzac, I Gesuiti. Traduzione di G. Morsani, «Conquista Cattolica», Roma, Anno I, N. 14 – Anno II, N. 5, 20 Agosto 1922 – 4 Febbraio 1923, p. 2.

 

  Nonostante qualche scelta lessicale piuttosto discutibile, questa traduzione italiana di Histoire impartiale des Jésuites (avril 1824) fornita da G. Morsani può ritenersi corretta. Il testo sarà edito in volume nel 1927.


  Il testo balzachiano è seguito dalla seguente nota del traduttore:

  A dimostrare la rarità del pamphlet balzacchiano (assolutamente sconosciuto in Italia) che abbiamo portato a conoscenza dei nostri lettori, non sarà inutile riportare qui la nota che l’Editore Calman (sic) Lévy, poneva a principio del volume col quale pubblicava separatamente il pamphlet stesso estratto dalle opere complete nel 1880:

  «I recenti decreti relativi alle Congregazioni religiose hanno fatto rivolgere vivamente la pubblica attenzione sull’ordine dei Gesuiti.

  La presente «Storia imparziale» non è dunque soltanto un’opera letteraria di grande valore, ma costituisce anche un singolare documento per la storia politica del secolo nostro. Essa non era nemmeno molto conosciuta, non essendo stata pubblicata, fino ad ora, che nell’edizione definitiva delle opere complete di Onorato Balzac.

  L’editore si è perciò indotto a farne una ristampa speciale, alla portata di tutti coloro che vogliono conoscere l’opinione di uno scrittore tanto eminente su ciò che fu attraverso i secoli la potente Compagnia di Gesù».


  Balzac, Giovanna la pallida. Traduzione di Ettore Jona, Milano, Fratelli Treves Editori, 1922 («Biblioteca Amena», N. 726), pp. 326.

  Cfr. 1910; 1919.


  Onorato di Balzac, I Celibi. I. Pierina. Il curato di Tours di Onorato di Balzac (in due volumi), Milano, Fratelli Treves, Editori, 1922 («Biblioteca Amena», N. 737), Quinto migliaio, pp. 260.

  Cfr. 1907; 1918.


Studî e riferimenti critici.


  Marginalia. Balzac, Napoleone e un colonnello d’artiglieria, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXVII, N. 5,29 Gennaio 1922, pp. 3-4.

  Quale fascino esercitassero sul genio di Balzac la figura di Napoleone e le sue gesta non ignorano quanti abbiano una certa familiarità con l’opera ciclopica del romanziere. Un paio d’anni prima della guerra fu pubblicato a Parigi un grosso volume dal titolo suggestivo «Napoléon par Balzac» composto con una serie di episodi e di racconti tratti dalla «Commedia umana» che appunto si riferiscono ad eventi e persone del primo Impero. Un sintomo dell’ossessione napoleonica di Balzac ci è anche offerto da quella raccolta di «Massime e di pensieri di Napoleone» che il romanziere pubblicò, come racconta egli stesso in una lettera a Mad. Hanska, in uno di quei momenti di difficoltà finanziaria che rappresentavano piuttosto la regola che l’eccezione nella sua travagliata esistenza: raccolta che egli era venuto mettendo insieme sette anni di seguito trascrivendo in un registro, mano a mano che le incontrava nelle sue letture, parole o sentenze di Napoleone degne di particolare ricordo. Sono oltre cinquecento massime o pensieri che hanno il loro interesse anche se un critico di autorità indiscutibile come Federigo Masson ha potuto dire che di quei motti forse meno di dieci, e neppure testuali, è dato di ritrovare nelle opere e nella corrispondenza di Napoleone. Moltissimi invece valgono a indicarci quale idea il romanziere avesse «voluto» farsi del suo eroe. Tutto ciò vien fatto di ricordare mentre vede la luce un carteggio inedito fra Balzac e il colonnello Périolas che due collaboratori della Revue des Deux Mondes (nel fascicolo del 15 gennaio 1922)[1] additano come un consulente o un informatore di Balzac, per quanto abbia rapporto con le «scene della vita militare». Queste scene avrebbero dovuto culminare nel romanzo che fu divorante aspirazione di Balzac e non fu mai tradotto in realtà: nella Bataille (di Wagram) a proposito del quale si legge in un suo libro di note e di appunti: «Fare un romanzo intitolato la Battaglia nella prima pagina del quale si senta il rimbombo del cannone e all'ultima il grido di vittoria e che dia al lettore l'illusione di assistere ad una vera battaglia come se la vedesse dalla cima di un monte, con tutti gli accessori, uniformi, feriti, particolari. La vigila e l’indomani della battaglia. La più poetica da farsi sarebbe quella di Wagram …». Luigi Nicola Périolas, entrato in servizio a diciott’anni nell’armata d’Italia, aveva preso parte in qualità di artigliere, alle campagne napoleoniche e a molte delle più famose battaglie fra cui Wagram e la Moskowa. Quando Balzac lo conobbe, nel 1828, era capitano istruttore di artiglieria a St. Cyr, e negli anni immediatamente successivi s’inizia il periodo più fervido dell’elaborazione balzacchiana delle scene della vita militare. Nel maggio del 1832 il romanziere scrive al capitano – ed è il quarto di questi inediti –: «aspettatevi di vedermi piombare a casa vostra come un aerolito un giorno della settimana ventura, e se avete a cuore la letteratura e i suoi progressi, abbiate la bontà di ricercare tutto quanto, uomini, libri, cose, memorie, amici ecc. ecc. può fornirmi le migliori risposte a mille domande, a mille indagini relative alla battaglia di Wagram —raccogliete i vostri ricordi e credete nell’amicizia». Il capitano si prestò gentilmente a per il giorno indicato aveva riunito a casa sua, fra altro, quattro fantaccini superstiti dalla gloriosa giornata. Ma un incidente di vettura impedì al romanziere di esser puntuale al convegno! Il capitano lo avvertì che difficilmente avrebbe potuto ritrovare una occasione così favorevole per «documentarsi»: ma Balzac sperava che i ricordi personali dell’amico gli sarebbero bastati. Ciò che lo stesso Périolas non ammetteva come spiega giudiziosamente in una sua lunga lettera, di data di poco posteriore, dove, tra altro, è detto che lo spirito di chi fa la guerra è così preoccupato e chiuso che non possono non sfuggirgli quei particolari che più debbono interessare un romanziere: «quello che preme è vivere e marciare: tutto il resto è insensato o indifferente». Gli elementi o i frammenti che dovevano costituire l'epopea della «Battaglia» finirono per la maggior parte in quel «Medico di campagna» che è una vera e propria antologia napoleonica e Périolas pur rimanendo assai caro a Balzac non ebbe più occasione di frequenti rapporti con lui. Tanto più che le vicende della carriera militare lo avevano allontanato dalla scuola di St.-Cyr. Il consulente militare di Balzac andò in pensione nel 1845 col grado di tenente colonnello.


  Ricagli e Stampoli, «Pss … pss umorale settimanistico», Bari, Anno III, N. 3, 4 Febbraio 1922, p. 5.

  La frase celebre

  Una donna non perdona mai a chi l’offende in pubblico ed a chi la rispetta all’oscuro

Balzac.


  L’inaugurazione della Mostra Piccinni a Roma, «Corriere delle Puglie», Bari, Anno XXXVI, N.° 39, 16 Febbraio 1922, p. 3.

 

  Egli come il pittore dal «Capolavoro conosciuto» del Balzac tenda alla attuazione del sogno espresso dall’arte, quello di creare attorno alla figura l’aria in modo che le figura sia viva, sia nuova ed il pennello non segni soltanto i contorni dell’immagine ma secondi la superficie delle sue curve nelle sue forme plastiche.


  Marginalia. I primi passi letterari di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXVII, N. 8, 19 Febbraio 1922, p. 3.

  Giova, a documentarli, una testimonianza preziosa, quella della madre che, trepidante per la fama del figlio e preoccupata dei suoi difetti di carattere, sfoga apertamente i suoi sentimenti nella corrispondenza con la figlia Laura alcuni saggi della quale sono pubblicati per la prima volta nelle pagine de Les Annales. La madre, Anne-Charlotte Sallambier che a diciannove anni aveva sposato il cinquantenne Balzac, derivava dalle sue velleità letterarie la strana pretesa di accompagnare e di consigliare il figlio nella sua incipiente carriera di scrittore. Ma questi si ribellava ai freni materni e il dolore della madre inascoltata traboccava senza reticenze nelle lettere alla figlia. Quante raccomandazioni per una revisione accurata del manoscritto di «Clotilde»! Ma Onorato rispondeva che i gusti dei lettori son troppo diversi perché egli dovesse prender norma da quello materno, e che uno scrittore deve mantenere a ogni costo la sua personalità. Figuratevi le recriminazioni della madre quando l’asprezza della critica sembrava avvalorare le sue benevole censure. «Tutti gli errori — così ella scrive — che avevo segnalato ad Onorato, sono risultati effettivamente tali; quelli che hanno letto «Clotilde» hanno confermato il mio giudizio. Quanto mi duole di aver visto giusto! Onorato aveva quasi finito per persuadermi ed anche io mi aspettavo degli elogi: invece ecco una delusione». Quindi la madre s’indugia a ricercare i difetti del figlio troppo presuntuoso e ne attribuisce la colpa a una compagnia scapigliata che gli guasta il gusto e gli fa perdere il rispetto delle convenienze. Di questa presunzione l’afflitta informatrice potrebbe citare degli esempi tipici che assurgono al significato di veri aneddoti della gioventù di Balzac. Un giorno è la signora di Berny che si lagna con la madre del contegno sprezzante che il giovane Onorato tiene in casa sua dove è accolto con tanta familiarità. D’un’altra cosa si lamenta la madre: che il giovane romanziere non curi quanto dovrebbe la pubblicità delle sue opere nei giornali. A lui sembrava abbastanza avere ottenuto la promessa di un articolo da qualche scrittorello entrato da pochi giorni nella redazione di un grande giornale; ma ci voleva altro: «bisognava andare direttamente dai capi e cercare protezioni senza numero». Ormai Anne-Charlotte non si fa più illusioni sulla sua influenza sull’animo di Onorato e preferisce di lasciare alla figlia lontana, presso la quale ora si trova il giovane scrittore, l’incarico «di una lunga conversazione, ma senza quel tono di scoraggiamento che, dati i suoi principi, potrebbe riuscirgli fatale. Gli si faccia sentire specialmente che egli ha bisogno di osservarsi e soprattutto di credersi meno sapiente e meno istruito di quello che non sia realmente». La corrispondenza continua ancora per qualche anno in un tono sempre più aggressivo e irritante fino a che, lasciata da parta la critica, diviene un documento penoso dei rapporti troppo tesi fra Balzac e la sua famiglia.


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 47, 24 Febbraio 1922, p. 3.

  A volte non è piacevole aver rapporti con romanzieri dalla fantasia esuberante ... E’ nota la storiella del cavallo bianco che Balzac «regalò» a Jules Sandeau. Balzac, nel salotto di madama de Girardin, aveva descritto questo suo magnifico dono con tanto calore, con tale precisione di particolari, dal colore del mantello al nome alla razza, al mercante venditore, che non solo tutti i presenti furono convinti della realtà del regalo, ma finì per credervi lo stesso Balzac. Il quale, incontrato poco dopo Sandeau, gli chiese: «Dunque sei contento?». «Di che?» «Ma del cavallo!» replicò Balzac, indignato di tanta ingratitudine ... Eppure Sandeau poteva ritenersi fortunato: capitò ben peggio — narra Excelsior — a due studenti, che abitavano vicino al grande romanziere e che questi aveva preso a benvolere. Un giorno Balzac, visitatili nella loro modesta stanzetta: «Bisogna avere dei bei mobili — esclamò —. Il lusso è una cosa indispensabile». E poco dopo, ritornati da una scampagnata, i due ebbero la sorpresa di trovare la loro cameretta trasformata: tappeti, mobili costosi, gingilli di gran prezzo. La prima loro idea fu che, essendo in arretrato con la pigione, fossero stati sfrattati dal padrone di casa e sostituiti da un ricco inquilino. Ma giunge Balzac, trionfante: «Questo — esclama con gesto largo — è un regalo che vi faccio. Tutto è pagato: non preoccupatevi». Commossi di tanta generosità, i due non sapevano come ringraziate. Ma ecco, qualche giorno dopo, un conto spaventoso. Come! non era tutto pagato? Macchè! Balzac aveva semplicemente detto ad un vicino negoziante di mobili di portare in casa degli studenti tutta quella grazia di Dio ...


  Cronache varie. Lettere inedite di Balzac, «La Siepe. Rivista illustrata d’arte letteratura e attualità», Roma, Anno II, Num. 3, Marzo 1922, p. 142. 

  La Revue des deux mondes pubblica alcune lettere inedite di Balzac alla sua Dilecte (sic). Questa corrispondenza era stata ritrovata dal visconte Spoelberch, ma è disgraziatamente incompleta. La signora Berny, l’indimenticabile Dilecte, aveva sul letto di morte, ordinato a suo figlio di bruciare tutte le lettere dell’illustre amico. La signora Hinne, maritata al magistrato de Berny, aveva conosciuto Balzac nel 1822; ella aveva quarantacinque anni e nove figli. Balzac aveva appena ventitré anni. Le lettere, scampate al fuoco, ci mostravano un Balzac molto ardente, che nell’amica, non trova nè candore nè semplicità; e Balzac non la crede la “più fiera nè la più graziosa” tuttavia dice: i baci di lei sono “deliziosi” e la chiama Laura senza però petrarcheggiare, e la chiama anche talvolta “mamma” per la sua tenerezza infinita.

  La signora De Berny fu veramente una provvidenza: lo soccorse in ogni lavoro e in ogni impresa dandogli persino quarantacinquemila franchi, che Balzac del resto pagò più tardi ... al cinque per cento d’interesse. La sproporzione degli anni doveva influire nell’amore e Dilecte dovette contentarsi dell’ufficio più modesto di amica, non senza violenti ritorni di gelosia e di passione. Le sue lettere sono squisite di finezza e di nobiltà.


  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 107, 5 Maggio 1922, p. 3.

  L’asta della biblioteca di Henry Meilhac ha dato, in tre sedute, 403.632 franchi […]. Fra i libri dell’epoca romantica venduti a peso d’oro si citano: Le lys dans la vallée di Balzac, esemplare con dedica dell’autore, 1600 franchi […].


  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 117, 17 Maggio 1922, p. 3.

  Un giudizio di Oscar Wilde su Onorato Balzac! «Si è detto di Trollope — scriveva un giorno Oscar Wilde — che egli accresceva il numero delle nostre conoscenze senza aggiungere alcun nome al nostro carnet da visite: ma dopo aver letto la Commedia Umana si comincia a credere che i soli esseri reali siano le persone che non esistettero mai: Luciano di Rubempré, papà Goriot, Orsola Mirouet, Margherita Claes (sic), il barone Houlot, la signora Marneffe, il cugino Pons, De Marsay, tutti portano con sè una specie di illusione contagiosa della vita. Essi dominano la nostra immaginazione e sfidano il nostro scetticismo. Una lettura assidua di Balzac conclude il grande paradossale inglese — riduce i nostri amici vivi allo stato d'ombre e le nostre semplici conoscenze non sono più che ombre di fantasmi».


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 122, 23 Maggio 1922, p. 3.

  E’ stato detto in questa rubrica come Balzac traesse l’idea di Vautrin, delinquente dalle mille risorse e dalle più ingegnose metamorfosi, capostipite di tutta la letteratura poliziesca, che ha infierito in questi ultimi anni, dal forzato Vidocq, divenuto capo di polizia e da Balzac conosciuto personalmente. Ma vi fu un altro personaggio di quel tempo — ricorda Excelsior — dalle mirabolanti avventure, al quale Balzac avrebbe potuto essersi ispirato: Pietro Cognard, detto il conte di Sant’Elena. Cognard, condannato, regnante Napoleone, a 14 anni di lavori forzati, scappa dal penitenziario di Brest è si rifugia in Ispagna. Ivi partecipa alle guerre ed ottiene le decorazioni degli ordini d’Alcantara e di S. Vladimiro. In Catalogna, fa la conoscenza di una donna, che era stata al servizio del conte di S. Elena e che, alla morte di costui, aveva trattenuto presso di sè alcune patenti. Cognard prende le arie di un «hidalgo» e, munito di quei documenti, ritorna in Francia, ove sa destreggiarsi sì bene che Luigi XVIII lo nomina comandante di una legione. Ma la sua audacia e la nostalgia della patria lo rovinano: riconosciuto da un antico compagno di penitenziario, è sottoposto ad una prova pubblica: scoperte su di una sua spalla le lettere T. F. (travaux forcés), che allora erano impresse a fuoco a tutti i condannati, Cognard è smascherato. Balzac fa che il suo eroe Vautrin, più accorto, faccia sparire le lettere infamanti col vetriolo ...


  Marginalia. Gli elementi storici in Vautrin, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXVII, N. 22, 28 maggio 1922, p. 4.

  S’era creduto finora che il grande personaggio balzacchiano fosse soltanto un’incarnazione di Vidocq, ma un collaboratore delle Annales rievoca la storia di due forzati celebri, le cui gesta sembrano rivivere in Vautrin. Balzac pensò certamente a Pierre Croignard, che dopo aver passato quattro anni al bagno di Tolone, riuscì ad evadere e ad arruolarsi, con falsi attestati, nell’esercito napoleonico durante le guerre di Spagna. Ma non bastò all’audace impostore il grado di capo di battaglione, perché profittando della relazione contratta con una giovane donna, già amica di un emigrato, il conte di Sainte Hélène, morto in Spagna, pensò di sostituirlo durante la restaurazione per colorire i suoi disegni di sconfinata ambizione. E infatti, dopo i Cento giorni, fu ricompensato del suo zelo monarchico col grado di tenente colonnello della Legione della Senna. Ma il cambiamento di fortuna, e anche di stato civile, non aveva modificato i suoi vecchi istinti briganteschi, quello specialmente di rilevare le impronte delle serrature nelle case che l’ospitavano, per facilitare le operazioni di svaligiamento ai malandrini assoldati. Perfino al Ministero della Guerra Coignard ricercava le sue vittime; ma un giorno fu denunziato da un suo antico compagno di pena che lo aveva riconosciuto durante una rivista per uno di quegli impercettibili segni che tradiscono la condizione del forzato. Balzac si ricordò indubbiamente di questa identificazione nella scena di riconoscimento de «La Dernière Incarnation de Vautrin». Pensava a Coignard anche nel primo atto, dove Vautrin, in abito da sera, si rivolge al servitore Giuseppe, suo affiliato, e gli chiede le impronte di tutte le serrature del gabinetto del duca. Si ricorda, inoltre, che al quarto atto Vautrin comparisce in uniforme da generale, dopo aver dato istruzioni ai suoi complici nell'atto precedente. Né qui si arrestano le fonti di Balzac che conobbe anche la storia avventurosa di quel personaggio sbalorditivo che fu Collet: un truffatore che si compiaceva dei più strani travestimenti e che in pieno giorno si burlava della polizia, presentandosi alle guarnigioni in veste da generale ispettore, accettando i pranzi che gli offrivano le autorità, facendosi consegnare con falsi ordini delle somme vistose.


  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 136, 8 Giugno 1922, p. 3.

  Anatole France non ha, da qualche tempo, una buona stampa. Gerard Bauer racconta nell'Opinion questo curioso aneddoto: «Io mi ricordo dello stupore e della delusione che ebbi un giorno di Anatole France. Ero con lui nel suo giardino di Turena, che si stende dolcemente lungo un pendio molle e chiaro. Parlavamo di ciò che amavamo e della provincia che ha dato origine a spiriti così perspicui. France nominava Descartes e Paolo Luigi Courier. Io sognavo a Balzac, alla sua giovinezza a Tours e poi a Vendôme, a tutti gli ardori che egli vi provò e che ci ha rappresentati in «Luigi Lambert». Io lo citavo, esprimendo la mia ammirazione. Anatole France si raddrizzò nella sua poltrona, con un movimento vivo come egli non ne ha mai di solito, e, il volto animato, come se io gli avessi proposto una cattiva azione, rispose: «Ah, no! Non quello là ... non è vero? Egli ha davvero esteso i limiti della bestialità».


  Ted l’invisibile dal film della “Campogalliani & C. di Torino”, «al Cinema», Torino, Anno I°, N. 1, 22 Giugno 1922, pp. 8-9.

  p. 8. A questo punto facciamo la conoscenza di Marbus, che compare improvvisamente agli occhi stupiti di Ted e lo invita ad accompagnarlo nella propria abitazione. Quivi Marbus mostra a Ted un vecchio bastone da passeggio che è appartenuto al suo antenato Onorato De Balzac e che ha il potere meraviglioso di rendere invisibile chi lo passa dalla mano destra alla sinistra.


  Tra “films” e “filmisti”. Storia d’un film in Piazza S. Marco, «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno III, N. 12, 25 Giugno 1922, p. 15.

  [Pietro Silvio Rivetta] Ha messo in scena, con fortuna, qualche film suo e qualcuna di quelle sciagurate riduzioni cinematografiche da Balzac che molti abbiamo, per volontà degli industriali imbalzacchisti, su la pura nostra coscienza, e che, se mai, il grande romanziere potesse tornare al mondo e vederle, assicurerebbe alle nostre spalle le più energiche manifestazioni della famosa canne de M. de Balzac … […]. (Da «L’Epoca»).


  Notizie ed appunti, «Rassegna critica della letteratura italiana», Napoli, Anno XXVII, N. 7-12, Luglio-Dicembre 1922, p. 311.

 

  Errata-Corrige. — Nella recensione del Checchia al libro del Gigli, Il Balzac in Italia, pubblicata nella Rass. (XXVI, 7-12), due volte, alle righe 21 e 25 della p. 219, è stato stampato “Carlotta” il nomo della contessa Maffei: si corregga “Clara”.


  Cfr. 1921.


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 191, 11 Agosto 1922, p. 3.

  I viaggi di Balzac in Italia hanno dato origine a una ricca letteratura ch’è servita a farci conoscere l’inguaribile malumore, lo spirito negatore e l’eccessiva acredine del grande romanziere contro il nostro paese. Era del resto di moda allora — scrive Le opere e i giorni — dir male dell’Italia, se si pensa che Mérimée aveva sentenziato che «l’Italia è il paese ove fiorisce il brigante, epperciò indispensabile all’esistenza del romanzo» e se, secondo Dumas, il nostro paese non aveva d’onesto che le statue recanti la firma di Michelangelo. Ospite di Venezia, ove venne il 1837, Balzac non mancò di far sfoggio di questo deplorevole costume. Invitato a pranzo dalla contessa Soranzo, anche quell’amabile convito detto occasione all'autore della «Commedia umana» di fare dell’invereconda maldicenza, rintuzzato il più spesso, ma invano, dal conte Tullio Dandolo, un aristocratico puro, ch’era fra i commensali. Parlando del Manzoni, Balzac non si peritò di definire i «Promessi Sposi» un romanzo pieno di tessitura, che non regge alla prova d’una traduzione e di dichiarare di non aver mai letto nè il Grossi nè il d’Azeglio solo perché avevano voluto imitare il Manzoni ... Caduto il discorso su Chateaubriand e chiesto a Balzac se egli aveva dimestichezza col grand’uomo, rispose: «Lo vedo spesso, quando ne ho il tempo». «Come vive?» «Ritiratissimo, come ingrugnito». «Perché?» «Perché la sua ora è passata e gli cuoce che l'attenzione pubblica non si occupi di lui». «E’ vero che egli è sordo?». «E’ naturale che lo sia: non sente più parlare di sé». Il frizzo fu applaudito, benché malignetto. Avendo il conte Dandolo pregato Balzac di ricordarlo a Chateaubriand da lui conosciuto a Londra, Balzac rispose: «Sarebbe tempo sprecato; non si ricorda che di sé». E la prima volta che vide piazza S. Marco potè dire con la consueta prosopopea: «Voilà un joli échantillon du Palais Royal!». La conversazione di casa Soranzo e i frizzi di Balzac pubblicati sui giornali destarono negli ambienti aristocratici e intellettuali enorme clamore e grave scandalo, al punto che Balzac fu raccomandato alla polizia come delinquente pericoloso ...


  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 221, 18 Settembre 1922, p. 2.

  La bellezza può essere anche una questione di casta, come osservò il signor di Balzac: «Per un borghese, una duchessa non è mai brutta».


  Bibliografia. Estero. A. Getteman. – “Balzac et la musique”, «Musica d’oggi. Rassegna di vita e di coltura musicale», Milano, Anno IV, Numero VIII-IX, Settembre 1922, p. 249.

  Il grande scrittore francese amò la musica inten­samente, le fece parte larghissima ne’ suoi romanzi, fu in relazione coi maggiori musicisti del tempo, dedicando ad essi parecchi lavori. Qui si mette in risalto la rara sensibilità e perspicacia di Balzac, che, tra l’altro, precorse il concetto dei motivi con­duttori wagneriani, quando Gambara, il composi­tore protagonista d’uno de’ suoi romanzi, dice di usare nell’atto primo «dei motivi di cui le frasi saranno sviluppate nel terz’atto»; e parimente pre­corse la concezione d’una trilogia lirica. Per ciò fu detto «commentatore di Wagner prima di Wag­ner».


  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 238, 7 Ottobre 1922, p. 3.

  Non sono molti coloro che sanno come tra le opere di Onorato Balzac esista anche un Traité de la vie élégante. Si tratta di un manoscritto che non fu stampato mai, ma che esiste ben conservato alla Biblioteca Nazionale, dove un editore si recò a copiarlo. Il trattato comincia con una sentenza: «Si può diventare ricchi; non si diventa eleganti se tali non si è nati». Descrivendo il dandy del suo tempo, Balzac osserva che il colmo dell’eleganza consiste nell’ottenere quell’insieme di armonia dell’abbigliamento per cui un uomo possa passare inosservato fra i suoi simili. Oggi, il dandy ricerca precisamente l’effetto opposto, quello, cioè, di venire osservato. In questo, gli uomini differiscono dalle donne che, quando sono eleganti, amano esserlo anche soltanto per se stesse. Le donne che si lagnano dell’ostilità che incontrano da parte dell'uomo nell’esercizio di una professione o di un impiego, saranno stupite di apprendere che sino al 1675, vestire le donne era monopolio dei sarti. Le sarte, o meglio le figlie nubili dei maestri sarti, potevano vestire i bambini dei due sessi sino all’età di otto anni. Non di meno, esse riuscivano, a dispetto della sorveglianza dei colleghi, a tagliare e a confezionare abiti per signora. Finalmente, nel 1675, un rescritto regale concesse loro il diritto di confezionare vesti, gonne, giustacuori e «camicette».


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 258, 27 Ottobre 1922, p. 3.

  I letterati, quando possono, sono spesso dei mangiatori formidabili e non per nulla la sapienza popolare parla di «fame da poeta» per antonomasia ... E’ stato osservato inoltre che in genere, per un bizzarro fenomeno d’inversione, gli scrittori allegri apportano nell’arte di ben mangiare e meglio bere una specie di mistica gravità, mentre gli scrittori seri sono dei mangiatori d’esuberante gaiezza. Nella letteratura francese — dice Excelsior — sono numerosi gli esempi di ghiottoni: da Rabelais a Montaigne, che fece indigestione di tartufi all’olio ed aceto, a Rousseau, che, si preparava con cura le marmellate predilette. Ecco la lista dei piatti divorati da Balzac in una sola volta: antipasto, otto dozzine d’ostriche, una sogliola, dodici costolettine d’agnello, un pezzo d'anitra con navoni, un paio di pernici arrosto, frutta, caffè, liquori!


 Rassegne e polemiche, «Il Nuovo Patto. Rassegna italiana di pensiero e di azione», Roma, Anno V, N. 10-12, Ottobre-Dicembre 1922, p. 387.

 Romagnoli e Balzac occupano con grande benefizio dei lettori un terzo di colonna del Corriere della Sera. Il poeta italiano rievocatore della civiltà mediterranea, il grecista geniale che ci ha ridato a Siracusa il rito degli spettacoli classici all’aperto, richiama gli italiani sull’entusiastico amore di Balzac per l’Italia e per gli Italiani. La sua visita a Venezia ispirò un delizioso racconto Massimilla Doni (1839) dove non si esalta l’Italia della Romanità e della Rinascenza, ma proprio quella sua contemporanea «la cui decadenza è deplorata da viaggiatori sciocchi e da poeti ipocriti» e che nel nome dei suoi geni i quali dominano ogni punto della scienza umana cui volgono la loro attenzione «regna sempre sul mondo che sempre verrà ad adorarla».


  Giovanni Ansaldo, Incontri e scontri. Note su Veuillot e sulla reazione, «La Ronda letteraria mensile», Roma, Anno IV, Numero 5, Maggio 1922, pp. 335-343.

 

  p. 339. La Francia, io credo, è l'unica nazione che oggi possa ancora darci dei pellegrini. Nelle sue masserie e nei suoi castelli, lungo i fiumi regali e ai margini delle sue foreste, i missionari e i commessi viaggiatori hanno scarsa fortuna. La terra è impregnata di chiesasticità. La divisione del lavoro della Chiesa gallicana ricompare nella Terza Repubblica, il regime dei proprietari provinciali o dei proconsoli tipo Liautey: laici sedentarii e missionarii consacrati dal crisma. Nel fondo della provincia vive ancora, vive più che mai quel tipo, che l’Illustre Gaudissart di Balzac trovò in fondo alla Turenna:

  «Notre pays est un pays qui marche à la grosse suo modo, un pays où jamais une idée nouvelle ne prendra. Nous vivons comme vivaient nos pères, en nous amusant à faire quatre repas par jour, en nous occupant à cultiver nos vignes et à bien placer nos vins. Pour tout négoce nous tâchons bonifacement de vendre les choses plus cher qu’elles ne coûtent. Nous resterons dans cette ornière-là sans que ni Dieu diable puisse nous en sortir». [citaz. da L’illustre Gaudissart].

  Questo è un pellegrino potenziale: un Veuillot imbozzolato.


  S. Azzolini, Pudori!, «La Plebe. Organo della Camera del Lavoro di Molfetta», Molfetta, Anno II, N.° 3, 19 Febbraio 1922, p. 4.

  Però castissimi sagrestani, se il vostro ragionamene paradossale dovesse valore, buona parte della produzione letteraria italiana ed estera dovrebbe essere data alle fiamme, dalla Divina Commedia al Decamerooe (sic), dalle novelle di Franco Sacchetti all’Orlando Fu­rioso, dalle Commedie del Macchiavelli (sic) ai romanzi di Balzac di Zola di Mirbeau ecc. - E D’An­nunzio dove lo mettete?


  Raffaello Barbiera, Giovanni Verga nella vita letteraria e mondana di Milano, «La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera», Milano, Anno XXII, N. 3, Marzo 1922, pp. 168-172.

  p. 172. Questa confessione artistica [il Barbiera si riferisce ad una lettera inviatagli dal Verga il 29 aprile 1904] ci toglie dalla serra della scuola e ci porta nel regno della grand’arte libera ed eterna, fra i creatori di caratteri, di tipi, di anime; fra i romanzieri originali, si chiamino Manzoni, Balzac, Dickens …


   Raffaello Barbiera, Achille Torelli in casa del Manzoni e le dame ammiratrici, «La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera», Milano, Anno XXII, N. 4, Aprile 1922, pp. 257-262.

  p. 261. Anche nei tardi anni, la gentildonna [Teresa Visconti-Sanseverino] clemente rideva col suo piccolo riso, di questi versi stravaganti. La cecità la colse nel tramonto della vita, come sua madre, la contessa Sanseverino, una dama coltissima, graziosissima, che aveva conosciuto il Balzac a Parigi, dove andò un bel giorno a trovarlo su in una soffitta, ricca d’ogni lusso e di rarità preziose da ricordare La peau de chagrin, il racconto dello stesso Balzac, epicureo dell’immaginazione e della vita.


  Paolo Bellezza, Il demone della vanità letteraria, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 233, 28 Settembre 1922, p. 3.

  E c’è, più fatale di tutti, almeno per la borsa, il demone degli affari. Ne era invasato — oltre al Balzac, come tutti sanno — il Lamartine.


  Vittorio Bersezio, Le prime armi, in AA.VV., Il Primo passo. Note autobiografiche di A. D’Ancona – A. Bartoli – V. Bersezio – G. Biagi – L. Capuana – G. Carducci – A. Chiappelli – G. Chiarini – G. Costetti – F. Filippi – R. Fucini – O. Guerrini – P. Lioy – I. Del Lungo – P. Mantegazza – G. Marradi – F. Martini – G. Massari – G. Mazzoni – P. Molmenti – E. Nencioni – F. D’Ovidio – E. Panzacchi – M. Rapisardi – F. de Renzis – G. Rigutini – R. de Zerbi raccolte per cura di Ferdinando Martini e Guido Biagi, Firenze, G. C. Sansoni – Editore, 1922, pp. 25-36.

  p. 33. Cfr. 1882.


  Adolfo Bianchi, Balzac a Venezia, «Le Opere e i giorni. Rassegna mensile di politica lettere arti etc.», Genova, Milano, Casa Editrice Alpes, Anno I, N. 6, 1° Agosto 1922, pp. 42-45.

  Si tratta della riproduzione dell’articolo pubblicato ne «La Vita internazionale» e ne «La Vedetta d’Italia» nel 1921.


  Angiolo Biancotti, Le ispiratrici. La “Dilecta” di Balzac, «La donna. Rivista Quindicinale Illustrata», Roma-Torino, Anno XVIII, N. 365, 5 Gennaio 1922, pp. 21-22.

  Louis Lambert, che, con Séraphîta, La recherche de l’absolu ed i romanzi filosofici di Onorato di Balzac, raggiunge le vette d'un pensiero altissimo e — se pure la critica ufficiale mostra di non accorgersene o accorgersene appena – di vera e pura lirica, come tali de­stinati a imperitura bellezza, Louis Lambert, pubblicato nel 1832, portava questa suggestiva dedica: «Et nunc et semper dilectae dicatum».

  Per lungo tempo questa «dilecta», cui il romanziere aveva offerto la più alta e nobile delle sue crea­zioni restò avvolta in un mistero. Solo la corrispondenza del sommo, pubblicata parecchio tempo dopo la sua morte, il volume delle «Lettres à l’Etrangère» (M.me Hanska poi divenuta sua moglie) e le ricerche pa­zienti degli studiosi riuscirono a individuare in «M.me de Berny» la ispiratrice migliore, la donna vera­mente superiore che per dodici anni restò legata a la vita di Balzac, con tutti i vincoli dell'amore e della devozione. E quando, la mutabilità dell'amante e i cru­deli avvertimenti della età avanzata, la trasformarono in un’amica dolce, paziente, materna, fu una sorella-madre, come lo sanno essere soltanto le donne ve­ramente eccelse per gli uomini che amano. Essa seppe rassegnarsi al destino, ma senza nessuna di quelle ri­volte o di quegli impeti d'odio e di malignità vendi­cativa, che spesso mutano il ricordo d’un’amore (sic), in una amarezza senza fine triste. Si rassegnò, ma non senza dolore. Vi sono delle passioni, delle fiamme che il ghiaccio degli anni non estingue nel cuore. Ed è per questo forse che la crisi di dolore di M.me de Mortsauf (la protagonista del romanzo Le Lys dans la vallée) all'agonia, potè turbare la giusta delicatezza di tante anime veramente cattoliche. Essa è dolorosamente umana. E Balzac ne aveva indubbiamente sotto gli occhi lo spettacolo reale, nel momento in cui l’oscura e fe­dele amica della solitaria e combattuta giovinezza, con­sentiva a vivere l'agonia del cuore, prima di quella del corpo stanco e malato.

  E restò, la «Dilecta».

  Continuò, fino alla morte, come se l’era promesso, a essergli materna; volle anzi portare affetto a colei nella quale Balzac trovò la realtà di tutti i suoi sogni d'amore. Pertanto, quando Balzac l’iniziò ai segreti della sua relazione con M.me Hanska, dovette non poco soffrire, nel vedere la gioia dell’uomo amato vicino ad una più fortunata rivale, per quanto si sforzasse la ragione a dimostrargliene, la necessità. Sorde e mute rivolte le infuriarono nell’anima; Balzac le intravide, le comprese. Mai esse scoppiarono tempestose. Ed il genio potè compire quanto aveva divisato, senza troppo curarsi dell'angoscia nascosta, ma per questo ben più viva, dell’amica sua.

  Nella lettera alla sorella in cui l’autore di «Père Goriot» le confida l'ebbrezza subita che ha provata al primo incontro con M.me Hanska a Neuchâtel, le enumera le persone a cui non può comunicare il colmo della sua felicità. «Non certo a Lei, la più cara, che è ancora di me più gelosa che una madre del latte che somministra al suo bimbo». Essa non ama la Straniera, perché la Straniera sembra essere ciò che mi conviene. La Straniera è noto, non è altri che M.me Hanska. E nella prima lettera che a quest’ultima scrisse senza pur saperne il nome, notava che per riconoscenza del piacere che la sua anonima missiva gli aveva procurato, le aveva voluto dedicare il quarto volume delle Scènes de la vie privée. Avrebbe posto in test a come dedica la formula enigmatica Diis ignotis accompagnandola dal timbro con cui essi aveva sigillata la lettera; in tal modo l’ignota avrebbe compreso che questa, non certo comune dedica, era a lei indirizzata. «Ma – aggiunge — una persona che è per me un’altra madre e di cui debbo rispettare i capricci ed anche la gelosia volle che questo muto segno di testimonianza dei miei sentimenti, scomparisse».

  M. de Lovenjoul, che fu a parte di tutto ciò che concerne la vita dell'autore della «Commedia Umana», assicura che Balzac soffrì non poco della rottura avvenuta tra lui e M. (sic) Du Berny. Rottura d'intimi rap­porti: Che l’amicizia restò; solenne, alta, disinteres­sata, come avviene tra le rare persone, anche di sesso diverso, che uscite dal pericolo del tempestoso amore e delle piccole miseriole umane, delle solite banali rot­ture, salgono nel ricordo, nella confidenza reciproca, nella dolce consuetudine della comunione dell’anime; nella purificazione di tutti i loro sentimenti, un gra­dino più alto ancora di quell’acropoli che ogni vero ed alto amore costruisce, ma che spesso crolla mise­revolmente in rovina per le piccole colpe d’uno dei due amorosi costruttori.

  Balzac, rimpianse la Dilecta, sinceramente; senza le vuote ipocrisie piagnone di molti altri Egli con­fessa, che non trovò mai tenerezza uguale a quella che gli prodigò questa amica dei tempi difficili, nemmeno quella di M.me Hanska. Questo nuovo amore, che sembrava dovesse cancellare ogni ricordo delle an­tiche passoni. non riuscì invece mai a velare nel cuore dell’autore della Recherche de l’absolu il ricordo della prima donna che amò. Ancora a M.me Hanska egli scriveva nel 1840; quattro anni dopo la morte della Dilecta «Ah, vi prego non paragonatevi con M.me de B... Essa fu per me d’una bontà infinita e d’una devozione assoluta; essa fu ciò che fu. Voi siete per la vostra parte completa, come essa lo fu dalla sua. Non si paragonano mai due grandi cose. Esse sono quelle che sono».

***

  La Dilecta, durante i suoi dieci anni di unione con Balzac, gli fece dono assoluto di sè: gli fu amante, madre, amica illuminata e soccorrevole; fu tutto quello che può essere una di quelle rare donne di grande cuore e d'intelligenza superiore, per un’uomo (sic) giovane cui il genio concede il dono meraviglioso della miseria popolata di sogni e l’ostilità della sorte, acuita dalla necessità assillante di vincere la scaltra e malvagia fortuna.

  Benché sposata, essa trovava il mezzo di venir da lui ogni giorno, anche soltanto per due ore, prima che i loro nodi si allentassero. E per lei che aveva velato d’azzurro la finestra della piccola camera dell'appartamento sovrastante la sua stamperia della rue des Marais, Saint Germain.

  Egli ebbe da sostenere in famiglia una curiosa lotta per questa tendina, azzurra, cui si aggiunse la tappezzeria dello stesso colore. Dovette dimostrare l’assoluto bisogno del cambiamento. Comperò della stoffa, invece della carta e si sostituì egli stesso all’operaio tappezziere con l’aiuto d’un suo amico Henri de Latouche.

  E la Dilecta veniva in questo piccolo nido ad incoraggiarlo, consigliarlo nelle sue imprese di tipografia da cui si riprometteva la ricchezza e l’indipendenza e che si risolsero in un debito di circa centomila franchi.

  Il disastro sarebbe precipitato intero sul grande ro­manziere forse sommergendolo; M.me de Berny, in­tervenne, aiutandolo non solo con la parola e l’amore. Gli diede in prestito quarantacinque mila franchi. Se­condo Balzac, ella lo pregò in ginocchio di accettare questa somma, di soccorso inevitabile per non nau­fragare. Ma Balzac restituì nel 1836 interamente la somma, aggiungendovi seimila franchi a titolo d’interesse. Questo per sfatare la leggenda che l'autore della «Comédie Humaine» fosse solito a valersi dell’ammirazione femminile per trarla ai suoi fini materiali.

  Infatti, quando più tardi, M.me Hanska, volte servirsi d’un tale precedente per fargli accettare il suo aiuto, in mezzo alle sue quasi continue difficoltà finanziarie, Balzac rifiutò Perché a suo modo di vedere, la protezione che si può accettare nei primi anni di esordio, senza esserne o sentirsene feriti, diventa un’insulto (sic) quando si è giunti alla maturità.

***

  Il dolore che provò Balzac alla morte di M.me de Berny, lo gettò in uno stato di prostrazione nervosa quasi letargica. Dormì per quindici o sedici ore al giorno, per quattro o cinque giorni; impotente a scrivere, a pensare, a muoversi. «La persona che ho perduta — scriveva all’Ignota — era per me più che una madre, più che un’amica, più di quello che qualunque altra creatura può essere per un’altra. E’ un fatto che non si può spiegare che colla divinità. Essa mi aveva sorretto con la parola, con i fatti, con la devozione durante la grande tempesta. Se vivo lo devo a lei: essa era per me tutto; per quanto – a causa della sua malattia – da due anni, non ci vedessimo più, noi eravamo visibili a distanza l'un l’altro; essa reagiva su di me; essa era un sole morale».

  Anche a rischio di ingelosire e perdere M.me Hanska, egli le parlava di M.me Berny, sempre, nelle lettere frequentissime che le inviava in Ukraina: «Sì, insisteva, sono stato guastato da quella donna meravigliosa; lo riconosco nel lavoro che faccio per perfezionare ciò che Essa non fece che abbozzare in me». Confessa a sua sorella Laura che è inconsolabile della perdita di questa unica amica! La sentiva, ogni giorno, rinascere in cuore! Privato dei suoi consigli letterari e del suo aiuto nella vita, l’invocava nei momenti difficili. «Che direbbe Ella, se vivesse?» Fino a che Essa visse, Balzac le sottoponeva ogni suo lavoro; ne sollecitava le critiche, teneva massimo conto delle sue osservazioni. M.me de Berny, scriveva, non fa dei complimenti. A Lei le critiche». M.me de Berny, fu così profondamente commossa della lettura che Balzac le fece della lettre aux écrivains, quando fu fondata la Société des Gens de lettres, da averne una crisi di cuore. Dopo aver letto Le Lys dans la vallée corretto e perfezionato secondo le sue osservazioni, M.me de Berny, dichiarò a Balzac che non poteva dirgli altra parola sul suo libro che questa: Esso rispondeva perfettamente al suo titolo; era realmente un Lys dans la vallée. «In bocca sua, soggiunge Balzac, questo è un grande elogio! essa è ben difficile».

  L’elogio di questo capolavoro fatto da M.me de Berny, che rilevava la compiuta attuazione dello scopo che Balzac si era proposto e dell’identità esatta dell’opera col suo soggetto, acquistano valore dal fatto che la de Berny aveva indubbiamente ravvisata se stessa in M.me de Mortsauf. Senonchè Balzac ama precisare quanto di vero e di artificiale ci sia nella figura d’arte; e quello che scrive è ancora un’esaltazione della Dilecta! M.me de Mortsauf del «Lys dans la vallée» è «una pallida espressione delle minute qualità di questa persona (M.me de B.); vi è un lontano riflesso di lei, poiché provo orrore a prostituire le mie emozioni al pubblico, e mai nulla di ciò che accade sarà conosciuto». Promessa che fu, Balzac vivo, lealmente mantenuta.

  Questo pudore del resto si comprende, e Balzac stesso deve essersene compiaciuto non poco. Nondimeno noi sappiamo che molti dei suoi sentimenti per M.me de Berny egli li esprime nell’amore di Felice de Vandenesse, e che è solamente la Berny che gli servì di modello per M.me de Mortsauf. Se si vuole avere un’idea dell’amore di M.me de Berny per Balzac, e se ci teniamo a conoscere nel suo insieme ed in tutti i suoi chiaroscuri questo amore così nobile, così generoso, così delicato, tenero e colmo di malinconia, rileggiamo: Le Lys dans la vallée e saremo appagati pienamente.

  Ma se la nostra curiosità non si appagherà di quanto Balzac scrisse ed il riflesso che proietta su noi quest'anima bella non sarà sufficiente a renderci soddisfatti; anzi acuirà il desiderio di conoscere più da vicino, umanamente, la creatura buona e cura, allora sfogliamo i libri di Biret, di Hanotaux, e Vicaire e sapremo che M.me de Bernv, figlia di Filippo-Giuseppe Hinner e Luisa Margherita Amelia Auquetpée de Laborde dama della regina Maria-Antonietta nacque a Versailles il 23 maggio 1777 ed ebbe per padrino Luigi XVI e per madrina Maria-Antonietta, rappresentati rispettivamente da Antoine Duplessis-Richelieu, duca di Fronsac, e dalla duchessa de Fitz-James principessa di Chimay. Arrestata con la madre — che era passata in seconde nozze con il cavaliere de Jarsayes — e giudicata dal Tribunale rivoluzionario, in base all’amicizia che la regina Maria-Antonietta, aveva dimostrato alla signora di Jarsayes, fece, in carcere la conoscenza con Mr. de Bernv e lo sposò l’8 maggio 1793. Non si sa altro del marito che era d’un carattere violento e facile al litigio. Balzac gli dedicò Madame Firmiani. E’ il solo indice nei suoi scritti, dei rapporti che ebbe con il marito della donna amata con così costante fervore.

  Da quest’unione M.me de Berny ebbe nove figli. Da quanto lasciò detto Balzac, sembrò, che la famiglia abbia procurata alla «Dilecta» più dolori che gioie. I tormenti che le causarono non furono estranei al male che l’uccise. Essa era istruita, intelligente, sentimentale e priva, nella sua casa, del nutrimento spirituale necessario al suo spirito. Realizzava, completamente, il tipo, celebre a quel tempo della «femme incomprise». Essa se ne doleva; gli anni fuggivano, senza che il raggio di sole sciogliesse quel cerchio di gelo in cui la sua vita era stretta. I suoi lamenti contro la vita che sempre più la disilludeva, ed i lamenti di Balzac che la trovava così ostile alle sue ambizioni, furono il non ultimo motivo d’un immune rimpianto sul loro destino. Da una mutua pietà sorse la loro unione d’anima. La qualità delle comuni sofferenze fece veder loro quanto fossero degni l’un dell’altra. Ed i tesori della loro sentimentalità si confusero così imperiosamente, da far scomparire la differenza d’età; l’anima, del resto, in creature come M.me de Berny, non ha autunni.

  Dopo la piena maturità, si spegne, uccisa dai primi geli e non langue in una semivita, simile ad una lunga agonia popolata di qualche fantasma di speranza; pietoso incanno di tenaci illusioni che non vogliono morire.

  Sembra del resto, che il genio del romanzesco avesse combinato e voluto così bene il legame di M.me de Berny e Balzac che il duca di Fitz-James – nipote di Maria-Antonietta e parente della Dilecta – fu uno dei suoi sostenitori davanti i legittimisti quando al creatore di Rastignac saltò in capo di diventare deputato. Questo capriccioso genio del romanzesco non dimenticò di trarre dalla vita stessa di M.me de Berny, gli elementi della catastrofe che ne distrusse l’ardente e malinconico romanzo d’amore. Quella M.me de Castries che attirò Balzac nelle sue grazie. per mezzo di una corrispondenza per cui Egli credette che la sua corrispondente ignota fosse innamorata di lui senza conoscerlo, viveva in famigliarità con la famiglia Fitz-James, parente della Dilecta. Di modo che M.me de Berny, ricorrendo alla sua madrina e parente, duchessa di Fitz-James, perché aprisse a Balzac un’utile porta di qualche grande casa del Faubourg Saint-Germain, si può dire che condusse senza saperlo verso la rivale fortunata l’amante adorato.

  Siamo sempre più avidi, oggi, di conoscere in quali rapporti i romanzi corrispondano alle realtà che i loro autori poterono esperimentare. Vogliamo sopratutto, sapere, fino a quale punto essi sono stati sinceri nel dipingere se stessi ed i loro amori, negli amanti e negli amori descritti. Ecco una delle ragioni per cui i biografi non si concedettero tregua fino a tanto che non conobbero bene le donne amate da Balzac e come egli le aveva amate. Divulgate le sue relazioni con M.me de Berny, non ci meravigliamo di tutte le inverosimiglianze, anche in quelle donne che eleva alle rare sublimità dell'amore. Il modello vivente di tutto il sublime e l’eroico che nella femminilità descritta da Balzac, si trova: M.me de Mortsauf, M.me Hulot, M.me Claës, non fu che uno vivente, soffrente, amante: M.me de Berny.


  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Dostoievschi (sic) minore, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 97, 23 Aprile 1922, p. 3.

  Questo è il caso dell’Orfana. I personaggi, pur mutando nomi e avventure, passano dall’uno all’altro quadro, ed il cielo è comune. Il qual modo di creare si chiami, se si vuole, barbarico; purché non si dimentichi che fu la barbarie di Shakespeare e di un civilissimo che seppe, fino a un certo punto, rimbarbarire, Balzac. Ma questi lo faceva troppo apposta, ed era troppo sapiente, di umane e divine cose.


  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Lo Stupido Secolo XIX, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 147, 21 Giugno 1922, p. 3.

  [Su: Léon Daudet, Le Stupide XIX Siècle].

  Allora Daudet s’intenerisce, specie di grande inquisitore che dovrebbe mandar sul rogo cari compagni di estetici simposi, e a uno a uno gli stupidi di quello stupido secolo li mitria e li corona, i dannati li manda chi in Paradiso e chi in un blando Purgatorio. In Paradiso vanno, tra gli altri, Balzac, De Musset, Becque, Alphonse Daudet, Mistral. Ci va anche Stendhal, previa una mite condanna condizionale. In Purgatorio c’è posto per Taine, per Hugo («lirico senza pari»), per Flaubert, per Pasteur, per Charcot e fors’anche per Sardou. Balzac, se avesse il senso del féerique, sarebbe addirittura uguale a Shakespeare. […].

  E il pio Chateaubriand gli garba, naturalmente, meno dell’incredulo Stendhal; e si vede bene che i motivi capitali per cui divinizza Balzac non sono d’ordine politico e morale. Sulla profondità ritmica della sua prosa ha un'osservazione da maestro.


  AC., Libri di cui si parla. Italia. “Giuseppe Giusti” – Le più belle pagine – scelte da Aldo Palazzeschi […], Milano, Fratelli Treves, editori […], «I Libri del giorno. Rassegna mensile internazionale», Milano, Anno V, N. 9, Settembre 1922, p. 467.

  Perché questo Giusti è un compagno spirituale e intellettuale perpetuo; e come in Francia è perpetuo Balzac il cui Cesare Birotò (sic), per non citare altri, è d’oggi […].


  G. C., Balzac inedito e milanese, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 270, 10 Novembre 1922, p. 3.

  Non c’è dubbio che il fascicolo manoscritto, rilegato in marocchino violetto, venuto a galla qualche settimana fa a Parigi in una vendita all'asta, e pubblicato dal Figaro, sia del Balzac inedito, autentico e autografo. C'è tanto di firma e di dedica a una signorina Grèvedon (sic), potente ai suoi tempi nel mondo teatrale parigino, di cui doveva tener qualche conto il romanziere illustre ma giovane autore del «Mercadet». Il manoscritto è stato esaminato graficamente e storicamente dai più esperti balzachisti e nessuno ha trovato un argomento per impugnare l’autenticità del breve ma interessante racconto che si intitola «I capricci della Gina». Ci sarebbe soltanto quello dell’essere inedito: Balzac era moderno anche in questo, che non gli piaceva tenere nel cassetto quello che gli era uscito dalla fantasia. O questa volta aveva riconosciuto d’aver fatto cosa troppo inferiore alla forza costante del suo ingegno? No; la ragione per cui fino ad oggi la pubblicazione è stata negata a questi «Capricci della Gina» è una ragione intrinseca, di delicatezza. Si tratta di una novella a chiave che, se la novella fosse stata pubblicata quando fu scritta, tutti i lettori avrebbero troppo facilmente trovata ... a Milano. Oggi pensa di averla ritrovata, senza muoversi da Parigi, un eruditissimo balzachista, Marcel Boutron (sic), che, forte della sua familiarità biografica con Balzac e della prescrizione del tempo, non esita ad adoperarla con garbo ma, secondo lui, senza dubbi.

  La «capricciosa» Gina fu una creatura incontrata da Balzac nei suoi due viaggi milanesi del 1837 o del 1838 e il suo caso singolare, per quanto le facesse onore, era di quelli che la più elementare discrezione imponeva di tacere. Passando dalla vita milanese di ottant’anni fa all’arte di Balzac, certo la Gina e il suo fedele innamorato, marchese Gregorio Ventura, hanno trasformato alquanto la loro fisonomia. ma il Boutron crede di poterli riconoscere negli allora viventi contessa Eugenia Bolognini Sforza Attendolo, nata Vimercati, e nel principe Alfonso Serafino Porcia, dimoranti lei al vicolo dei Cappuccini e lui poco lontano, sul corso di porta Orientale che, come tutti sanno, è oggi il corso Venezia. Con l’una e con l’altro Balzac, nelle sue dimore milanesi, era stato in stretti rapporti di amicizia, ospite del principe Porcia e frequentatore assiduo della «spirituelle» contessa Bolognini, in un certo bel salone a stucchi, «testimone delle loro dispute e dei loro racconti». La cordialità era rimasta viva tra la bella e intelligente dama milanese e il grande romanziere francese, che amò designarla come la «sua perfetta amica» e a lei dedicò il racconto «Una figlia d’Eva». Trasparenza se non di eventi di personaggi, poiché il terzo personaggio dei «Capricci della Gina», sempre secondo il Boutron, sarebbe addirittura lui, Balzac stesso, testimone ma in certo senso anche motore dei casi che il novelliere racconta autobiograficamente.

  Gina colpisce Balzac, osservatore insaziato dell’anima femminile, per un contegno che sembra troppo capriccioso anche al giudice più esperto della donna e dei suoi capricci. Gina ha un maritò da cui praticamente vive separata, è bella — bruna, di carnagione bianca — e virtuosa. Ma il marchese Gregorio, «la più simpatica natura di giovane signore che si aggiri intorno al Duomo», se ne innamora; Gina se ne accorge e parrebbe ben disposta a corrispondergli. Non gli lesina qualche segno di preferenza ma solo in pubblico, «una delle più grandi crudeltà che possono permettersi le donne virtuose». In privato Gina è maestra nel tener Gregorio alla debita distanza, e lo innamora fino all’esasperazione. «Gregorio era come uno di quegli uccellini che i ragazzi maligni si divertono a far saltare da un dito all’altro per dar loro l’illusione di salire». E Gregorio rimane sempre allo stesso punto.

  Balzac, confidente di Gregorio e amico di Gina, non riesce a convincersi che la bella manovri così soltanto per quintessenza di civetteria. Combina una prova da cui risulta indubbiamente che anche Gina ama Gregorio, molto. Riesce anche a far parlare il marito – personaggio secondario — ma neppure dalle confidenze ottenute da questo, dopo un desinare bene inaffiato, scopre una ragione plausibile della freddezza della Gina. Quando anche Gregorio ha la confessione di essere amato, per tutto compenso si sente dare un ordine: di andare a Londra a prenderle uno di quei canini «King Charles» che allora venivano di moda. E Gregorio parte. Resta solo Balzac ostinato a scoprire il segreto. Ma anche la Gina sparisce, «le sfingi hanno le ali». Quando finalmente arriva a riscoprirla a Torino, in casa di un’amica di lei, viene a sapere che la Gina sta per sottoporsi ad una operazione. Era ammalata ad un seno, da non sopportare un abbraccio. Per amor di Gregorio si sottopone al taglio crudele. «In Gina — dice Balzac — riconobbi quella grandezza romana che a volto brilla in tutto di suo splendore sulla fronte della antica regina del mondo». Certo Gina, nella sua apparente capricciosità, è una creatura che l’arte di Balzac tratta con ammirazione: figura di quella femminilità italiana, cara anche a Stendhal, in cui la passione e l’istinto divengono, anche intelligenza ed eroismo. Gina, chiunque ella fosse nella sua lontana vita mortale, non è certo di maniera, e la novella sarebbe degna di Balzac senza pensare ai riferimenti che può avere, più o meno precisi, con una certa realtà.

  Tanto più che il «verismo» di Balzac, se è vero per la pienezza che dà alle sue creature, non è mai di quel verismo fotografico che assai più tardi venne di moda tra scrittori infinitamente più poveri di lui di immaginazione. Appena entrati nella fucina sempre ardente del suo ingegno, i casi della realtà si ricomponevano liberamente in una realtà fantastica. E a questa giova fermarsi forse anche quando si ha l’illusione di trovare dentro il romanzo della semplice cronaca.

  La novella ha piuttosto sapore particolare perché ci avvicina singolarmente un Balzac del 1837 o 1838, sulla via di diventare milanese quanto Stendhal, che lavora in una camera verso porta Venezia, frequenta la contessa Maffei, «si dondola sul corso, si mette in mostra alla Scala, firma gli album delle belle ammiratrici, e ci disegna anche». In un album della duchessa Litta Visconti Arese fece la sua caricatura mettendosi fra un sacco d'oro, su cui scrisse «i miei sogni» e una inferriata di prigione su cui, esagerando, scrisse «le mie realtà». L’ombra della prigione per debiti non abbandonava Balzac nemmeno fra i suoi trionfi milanesi, intento com’era a scoprire in Italia ancora dell'anima femminile, ancora della commedia umana.


  P. C., Ultime teatrali. Due nuove commedie sulle scene parigine, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 113, 12 Maggio 1922, p. 5.

Parigi, 11 maggio, notte.

  «Vautrin» è un personaggio di Balzac che può essere considerato come l’antenato di tutti i Sherlock Holmes e gli Arsenio Lupin dei romanzieri modernissimi. Balzac del resto non lo trovò nella sua inesauribile fantasia; lo prese dal vero poiché un secolo fa la polizia segreta era diretta da un ex galeotto, che ne aveva fatto di tutti i colori e che finì col mettere la sua astuzia a servizio dello Stato. Lo stesso Balzac ebbe l’idea di porre sulla scena il singolare personaggio, ma il Vautrin non ebbe che una sola recita benché egli si fosse illuso di fare fortuna. Venne riesumato durante la guerra e riadattato da Camillo Antona-Traversi.[2]

  Edmond Guirad. autore di drammi estratti dai romanzi di Tolstoi, ha rifatto per conto suo un nuovo Vautrin spigolando gli episodi nei vari romanzi di Balzac e facendo sfilare sulle scene Rastignac, Rubempré, la cortigiana Ester, e via dicendo. Il protagonista malandrino sfugge alla polizia, che lo ha snidato in una modesta pensione. Salva dal suicidio il solingo e povero marchese di Rubempré, lo affida ad Ester costringendo Ester a concludere un turpe mercato con un banchiere israelita perché, col milione dello scotto, Rubempré possa fare un eccelso matrimonio, e finisce col farsi accalappiare sul corpo dei due amanti, i quali hanno preferito la morte al disonore. Nel secondo atto del dramma è ricostruito con grande lusso di particolari un ballo nel ridotto dell’Opéra di un secolo addietro: il protagonista sfida le autorità travestito da canonico spagnolo. Il dramma ad intreccio, a base di trabocchetti e nascondigli, recitato alla Comédie Française, è stato applaudito alla prova generale, e corrisponde ai gusti del pubblico. Ma i critici che assistevano alla prova, si mostrarono molto severi, giudicando il lavoro privo di carattere letterario e più adatto a un teatro secondario. La parte del protagonista è assunta dal vecchio e notissimo attore De Féraudy.


  P. C., Corriere parigino. […]. Un processo per un romanzo. […], «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 128, 30 Maggio 1922, p. 3.

  Il processo ha rievocato il ricordo delle note toccate a scrittori molto più autorevoli del Béraud da parte di lettori suscettibili. Balzac dovette cambiare più volte i nomi di certi suoi personaggi e Zola era continuamente amareggiato dalle proteste degli omonimi […].


  P. C., Recentissime. Un altro processo sensazionale. L’uomo tagliato a pezzi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 150, 24 Giugno 1922, p. 5.

  Dopo il marito ucciso e nascosto in un baule, il marito tagliato a pezzi. Dopo il dramma a sfondo psicologico e letterario, che faceva pensare a Balzac, un dramma sensuale e macabro che sembra preso di sana pianta da un romanzo notissimo di Emilio Zola e messo anche sulla scena, «Teresa Raquin».


  P. C., Corriere parigino. […]. Il tormento dei pingui, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 307, 23 Dicembre 1922, p. 5.

  La ressa sotterranea è il tormento degli nomini pingui e l’autore premiato dall’accademia Goncourt avrebbe potuto aggiungere sull’argomento un capitolo al suo «Martirio dell’obeso», da lui scritto dapprima come una novella per la raccolta delle «Oeuvres libres» e poi ampliato per riempire un volumetto. Gli uomini dalla pancia maestosa e dal volto paffuto sono ora in voga e si accorgono di essere in buona compagnia, a cominciare dal maresciallo Joffre che fa un lieto contrasto col mingherlino Foch. E’ vero che vi è una gradazione anche nell'obesità e che non tutti vogliono essere trattati alla stessa stregua. Così il critico Paolo Souday, che è semplicemente tarchiato, non sembra troppo contento di essere incluso nell'elenco dei pingui a cui il Béraud ha dedicato il suo libro. Egli si consola pensando che nell’adipe può albergare comodamente anche il genio: l’esempio di Balzac è eloquente, ed è un incoraggiamento per tutti gli scrittori che si arrotondano sedendo al tavolino da lavoro e rifuggono dalle fatiche improbe degli esercizii fisici.


  Arrigo Cajumi, Un romanziere: Edouard Estaunié, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 165, 12 Luglio 1922, p. 3.

  «Le mie idee sul romanzo in generale e, in ispecie, sulla mia opera? Non vi ho mai pensato di proposito e la sua domanda mi conduce a riflettere su di una materia nuova». — Con la squisita cortesia che gli è propria, Edouard Estaunié si raccoglie istante e si appresta a rispondermi. […]. «Precetto fondamentale: creare degli esseri viventi. Nel romanzo tutto è subordinato all'azione e ai caratteri: lo stile è un mezzo, un servo. Ammiro Flaubert, ma mi riattacco a Balzac. Ho orrore della psicologia che si trascina, dottrinale, diffusa, esplicativa: essa deve balzare — come nei classici — dalla descrizione dei fatti». […] «I miei modelli? — Quello che ho detto: Balzac». […].

  Uguale e singolare audacia informava Le ferment che seguì quattro anni dopo [1899], disilludendo i politici con la rivelazione che l’Estaunié, indipendente, non sottostava che al suo temperamento di scrittore. Zola soffia a intervalli, con il suo impeto rude, su questo romanzo come sul precedente [L’empreinte], ma la sua vena balzachiana è di una più salda evidenza. […]. La capacità tecnica dell'Estaunié si mostra ormai in piena luce, e nelle pagine più vigorose il maestro della Comédie humaine era esemplato: una scena tra padre e figlio nella prima parte degna di chi scrisse Les paysans, la scena finale di chi creò Rastignac. […].

  Potenza eccezionale ed istinto drammatico trionfano nelle Choses voient (1912) […]. C’è molto Balzac, e lo Zola di Thérèse Raquin, ma aspri, disseccati, con minori prospettive e scorci. […].

  Il primo capitolo dell’Ascension de M. Baslèvre (1919) è di una intonazione prettamente balzachiana. […].

  Di buon grado, per quel che concerne l’istinto di romanziere, riconosciamo che nella letteratura francese contemporanea egli non ha emuli, e l’unico che la nuova generazione gli possa opporre, Marcel Proust, ricrea degli elementi consunti e, pur con innegabile valore, esaspera delle vecchie formole. Ciò che rende impossibile una qualifica diversa da quella di romanziere eccezionale è la forma magra e povera, lo stile di uno schematismo indifferente ed arido (rotto soltanto a tratti da ottimi squarci o da qualche pagina mossa) che impoverisce e sacrifica la genialità del lavoro e le toglie rilievo. Il Balzac non fu certo uno stilista, ma dalle sue pretese artistiche, dalla copia, dall'abbondanza, dalla fluidità anche prolissa della sua prosa i suoi romanzi trassero incomparabile vita: persuadersi che la soavità, la grazia, la poesia, sono indispensabili nella materia più severa perché aiutano a meglio rappresentarla, che scrivere con garbo e con cura è un piacerò divino, è indispensabile per Edouard Estaunié.


  Arrigo Cajumi, Libri di cui si parla. Francia. Critica e dottrina, «I Libri del giorno. Rassegna mensile internazionale», Milano, Anno V, N. 8, Agosto 1922, pp. 428-430.

  [Su: Paul Bourget, Nouvelles pages de critique et de doctrine, Paris, Plon, 1922].

  p. 428. Un suggestivo, ma non abbastanza ricco, saggio su Mérimée nouvelliste, un mediocre Stendhal, delle ottime pagine — pur non esenti da esagerazioni e da preconcetti — sul Cousin Pons, ed altre su Maupassant e Barrès. Poco libero, per la sua diversa concezione del romanzo (composizione anzitutto), di fronte a Flaubert, e troppo legato alle idee di Balzac per non trascurarle a vantaggio dell’arte, ferocemente ingiusto verso Rousseau, Bourget ritrova sè stesso in una sottile nota sul Sainte-Beuve […].


  A.[rrigo] Cajumi, Politica e letteratura. A proposito di “Lo stupido secolo XIX”, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 189, 11 Agosto 1922, p. 3.

  «Politique d’abord» il motto di Maurras determina l’orientazione letteraria. Stabilito il presupposto: rovesciare i valori del liberalismo, assumere al cielo i santi della reazione (Mistral regionalista, Balzac difensore della monarchia assoluta, Barbey d’Aurevilly cattolico militante, ecc.) il libro [cfr. Léon Daudet, Le Stupide XIX Siècle] è nato, sospinto con grandi squilli di tromba verso i fedeli del Monarca, a preconizzare l’avvento del salvatore


  A.[rrigo] Cajumi, Sull’arte e la vita di Dostoievski, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 297, 15 Dicembre 1922, p. 3.

  Flaubert, Balzac (ma nondimeno ad Eugénie Grandet si può contrapporre La Rabouilleuse) non sono tutto: Dickens, Tolstoi, la Eliot, romanzieri grandissimi, creatori di figure immortali, stanno al loro fianco, da pari a pari.


  G.[iulio] Caprin, Fiamminganti, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 312, 30 Dicembre 1922, p. 4.

  Conoscete la bella storio avventurosa del buffonesco e poetico Menspigel, raccontata alla fine del secolo scorso da Charles De Coster? Io son l’anima della Fiandra — dice l’eroico e piacevole Bertoldo fiammingo, antispagnuolo e anticattolico. Ma per scrivere l’Eneide nazionale fiamminga il De Coster non potò che adoperare il francese, un bel francese drolatico al modo di Balzac, che convenisse alla bella grassezza in cui si incarna l’anima della Fiandra.


  Caputo, Corrispondenze. Da Bolzano. Cinema Eden, «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno III, N. 18, 25 Settembre 1922, p. 17.

  La «Lombardo film» ci ha dato una lunghissima avventura tratta dal Balzac Vautrin contro Rastignac: grande interesse per gli amatori di sensazioni, e magistrale e tipica l’interpretazione di Giovanni Grasso, sempre impeccabile sotto le diverse e molteplici incarnazioni.


  Filippo Carli, La Borghesia fra due rivoluzioni, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1922.


Capitolo IV.

L’altro nemico.

  p. 72. La Borsa di Parigi si sviluppò considerevolmente: nel 1 826 non vi si quotavano che 42 valori, nel 1836 se ne quotavano già 44 a interesse fisso e altrettanti a interesse variabile; nel 1841 la foga borsistica era divenuta tale che i valori quotati nella Borsa di Parigi erano divenuti 54 a interesse fisso e 204 a interesse variabile. Naturalmente vi furono degli eccessi, e li sferzò a sangue Balzac, in quella sua meravigliosa «Commedia Umana» che è lo specchio più fedele della società di Luigi Filippo.


Capitolo VIII.

Due simboli.

  p. 163. La Banca e la Borsa presuppongono la società anonima che consenta anche ai più modesti risparmiatori di prendere parte al festino del capitalismo, poiché il gioco di Borsa si fa sopratutto sui titoli privati, non sui titoli di Stato che sono troppo pesanti.

  Nel 1905, alla Borsa di Parigi le operazioni salivano a 233 miliardi, di cui soltanto 46 sulle rendite francesi e 187 sull'insieme degli altri valori. Quale enorme sviluppo dalli' epoca della Monarchia di luglio, quando i finanzieri di Balzac «se gavaient d’or», e dai primi giorni del secondo Impero — il listino di Borsa del 1832 non conteneva che 126 valori — ai primi del secolo XX, quando il listino ufficiale della Borsa di Parigi comprende 800 titoli, e 1 100 se vi aggiungono anche quelli trattati en coulisse!


  André Castanou, Marcel Proust, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CCXXI – Della Raccolta CCV, Fascicolo 1218, 16 Novembre 1922, pp. 335-343.

  pp. 337-338. Il ritratto di Odette non è il classico ritratto in piedi cui Balzac e Flaubert ci hanno abituati: viene ottenuto da mille toccatine disseminate che andiamo scoprendo, come rinveniamo, l’uno dopo l’altro, i ritratti di una signora posti di qua e di là nel suo salotto. […].

  I due principali tipi femminili proustiani non attraversano nessuna crisi, nessun conflitto di coscienza tra passione e dovere; fa totalmente difetto il soggetto preferito dei moralisti francesi, scrivano una tragedia o un romanzo; non c’è che il ritracciare amoroso dei più minuti rilievi di un’esistenza, sparsi nel racconto, come a caso, con arte meravigliosa. Novità ancora, questa, portata nel romanzo francese da un’opera pullulante di tante altre.

  Di Balzac si direbbe che ha pagato la cameriera, frugato nella scrivania, guardato attraverso il buco della chiave. Proust ha potuto risparmiarsi queste indagini. I suoi personaggi vengono verso di lui, benché non facciano più di cammino che egli stesso verso di loro. E precisamente in questo punto d’incrocio risiede il segreto della loro vitalità. Proust è come il grande attore che giudica la sua parte, non recitandola meno genialmente.


  Carlo Chistè, Corrispondenze. Da Trento, «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno III, N. 14, 25 Luglio 1922, pp. 36-37.

  p. 36. Gran Cinema Estivo. […]. Sotto i ponti di Parigi, dal romanzo di H. Balzac, per l’interpretazione del classico atleta Mario Guaita Ausonia e di Fede Sedino; edizione della Casa «De Giglio» di Torino. Questo romanzo, sotto una geniale direzione artistica, sarebbe riuscito meravigliosamente, invece, purtroppo, non riesce del tutto a soddisfare il pubblico. Se vi mancasse Ausonia, che è diventato il beniamino del pubblico, cadrebbe senz’altro. Gli esterni di Parigi sono girati troppo in fretta e male, avrebbero dovuto attendere delle giornate migliori e non girare solo per terminare nel più breve tempo il lavoro. Lo si sa che a Parigi vi è quasi sempre la nebbia, ma allora invece di prendere gli esterni in autunno tardo, si poteva aspettare la primavera avanzata.


  P.[ietro[ Croci, L’avventura di Salise, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 295, 9 Dicembre 1922, p. 3.

  Pallido, magro, con una barbetta a punta, il Tasso a ventott’anni traversò le Alpi tra i gentiluomini del suo protettore cardinale Luigi d’Este. […]. Il Balzac pretende che un giorno il poeta dovette prendere a prestito uno scudo che dimenticò poi di restituire: forse gli premeva di stabilire un precedente illustre per dare un carattere di maggior nobiltà ai proprii debiti.


  G. D., Nel mondo degli Artisti. Hesperia, «La Cine-fono. La rivista fono-cinematografica», Napoli, Anno XV°, N. 451, 10-25 Giugno 1922, pp. 57-58.

  […] Hesperia è dotata di tanta e di tanto grande sensibilità intuitiva che pur nelle forme rudimentali d’un tempo era di una efficacia grandissima.

  Tale quale come – se mi è permesso il paragone letterario – Balzac si affacciava di colpo sui più profondi problemi dell’anima femminile, mente Zola ricavava (e non sempre) il quia di tali problemi mercè una diligente catalogazione di fatti.


  Siro Di Rosa, Un centenario. Teofilo Gautier, «Il Giornale di Bergamo. Quotidiano politico della sera», Bergamo, Anno IV, Num. 254, 9 Novembre 1922, pp. 1-2.

 

  Legato di fraterna amicizia con Onorato di Balzac, di cui fu anche segretario, Teofilo Gautier, fu un collaboratore assiduo del grande romanziere.

  I due scrittori erano ben fatti per essere d’accordo: avevano la stessa anima chimerica e gli stessi appetiti per il lavoro. Balzac però fu più chimerico del Gautier, che lo trovava troppo minuzioso nelle analisi, come ebbe a scrivere Italo Fiorentino nei suoi squisiti aneddoti. Ma l’uno e l’altro avevano un sentimento comune e degno di essere ammirato: l’amore profondo e coscienzioso per la loro arte. In una lettera al suo editore, a proposito della «Phisiologie (sic) du mariage», Onorato di Balzac scrisse un giorno queste parole: «C’è qualche cosa che mi impedisce di fare coscienziosamente male», parole ammirevoli per un uomo, di lettere che Teofilo Gautier avrebbe ugualmente scritto. [...].

  Sul declinare dei suoi anni, viveva con la famiglia [...]; non era più il dandy del 1834, il giovane scrittore di «Fortunio» che sognava corteggiare le dame dell’epoca, ma rimaneva ancora un lavoratore assiduo instancabile, un mangiatore pantagruelico, e in questo assomigliava a Onorato di Balzac, un parlatore pittoresco, e dava agli amici l’impressione di tutto sapere.


  Arnaldo Fraccaroli, I capelli verdi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 22, 26 Gennaio 1922, p. 3.

  Capricci, piccole manìe. Gli uomini illustri ne hanno di spassosissimi, ne hanno di tragici. Balzac, prodigioso creatore di tipi indimenticabili, non aveva la fissazione di voler anche essere un grande uomo di affari? Le sue iniziative commerciali si risolvevano in continui disastri, e fra le macerie dei fallimenti si ergeva la sua gagliarda figura impolverata di calcinacci, e si agitava a escogitar nuove imprese, a imaginar nuove fonti di lucro e di salvazione, che rappresentavano nuovi disastri. E lui sotto e dentro, a sbracciarsi, a arrabattarsi, non mai convinto, e sempre pieno di illusioni. Grandiosamente ironica l’esistenza di quest’uomo che vedeva così chiaro e così profondo nella vita, dai libri, e che inciampava in continui errori nella vita reale, inadatto a capire quelle persone e quei fatti che pur sapeva rendere con così nitida evidenza nei suoi scritti! Che cosa gli mancava? Probabilmente una piccola cosa volgare che molti nomini anche di pochissimo valore hanno: l’equilibrio comune. Aveva invece un suo singolare equilibrio straordinario, che direi riflesso: equilibrio d’arte.


  Aldo Gabrielli, Corrispondenze. Da Verona. Cinema Calzoni, «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno III, N. 21, 10 Novembre 1922, p. 38.

  La falsa amante («Lucio D’Ambra Film», Roma; U.C.I., Lja Formia, prot.) [1920]. Non so perché il D’Ambra, nel ridurre in film questa novella del Balzac, abbia proprio pensato di farla interpretar dallo Zanuccoli. Il personaggio della novella è un uomo sentimentale, chiuso, severo; lo Zanuccoli, ch’io ricordi, ha sempre fatto la parte, nella troupe D’Ambra, del comico o del brillante. L’efficacia della film, naturalmente, è del tutto mancata. […].


  Teresita Gaudosio, Il Giornalismo letterario in Toscana dal 1848 al 1859, Firenze, Società Anonima Editrice Francesco Perrella, 1922 («Biblioteca della Rassegna», IV).


Capitolo III.

Le figure più note della stampa letteraria toscana (1848-1859).

  p. 65. Né i giovani amici erano i primi a levarsi contro la falsità della poesia del loro tempo e a confondere in un unico disprezzo autori buoni e cattivi: altri li avevano preceduti nel cammino, e, fra essi, il Giusti.

  Aveva, questi, avuto talmente in odio le letterature straniere, da definire, con dileggio, “sonniferi i romanzi di Balzac e della Sand, le novelle del Nodier e del Merimée, le liriche del Gautier, del Lamartine, del Vigny, del Musset, dell'Hugo, i drammi del Dumas seniore, primavera letteraria che non fiorì più né di qua né di là dalle Alpi!!”.


  D. Gennarini, Giuseppe Gigli, poeta di bellezza e di bontà commemorato nell’Università Popolare di Taranto, «La Provincia. Giornale politico settimanale di Taranto», Taranto, Anno II, N. 20, 10 Maggio 1922, p. 2.

  […] «Balzac in Italia» che nel breve giro di un mese raggiunse la quarta edi­zione, nel quale volume il Gigli ripro­duce nei documenti lo stato d’animo de­gli italiani alla prima vista dell’Autore della «Commedia umana» dopo «le cri­tiche e le accuse che, quasi sempre per vezzo, ci affibbiavano gli stranieri».


  Olindo Giacobbe, Notizie bibliografiche. Rassegna italiana. Luigi Pirandello: “Novelle per un anno” – I vol. Scialle nero – II vol. La vita nuda (Bemporad, Firenze – L. 7,50), «La Rassegna italiana politica letteraria & artistica», Roma, Anno V, Serie II, Vol. IX, Fasc. XLIV, Gennaio 1922, pp. 219-220.

  p. 219. Riservandoci di tornare con più raccoglimento e riposata coscienza sull’importanza dell’opera che ci richiama alla mente la Commedia umana di Onorato Balzac, ci limitiamo per ora ad informare i lettori dell’avvenuta pubblicazione dei de primi volumi – Lo scialle nero e La vita nuda.


  Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita. Con uno studio di Olindo Malagodi. Volume primo, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1922.


I.

La famiglia e l’educazione.

  pp. 6-7. Poco lessi di autori stranieri, e di romanzi; preferii quelli di Walter Scott e di Balzac, per le loro connessioni con la tradizione storica o con la realtà attuale.


  Hamilcar, Il delitto e la terra, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 157, 2 Luglio 1922, p. 3.

  Delitto fomentato da quell’ossessione del «mio», da quell’avidità di possesso, che più aiutano a tener desta la bestia in fondo all’animo, degli esseri primitivi, cui l’immediato faticoso contatto con la terra, con l’elemento originario di ogni proprietà di ricchezza, indurisce il cuore, imprime quei caratteri mentali e morali che Balzac ha stupendamente scolpiti nel suo Les paysans.


  Ettore Janni, Giovanni Verga è morto, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 24, 28 Gennaio 1922, p. 1.

  Questo genere di semplicità, che in alcune novelle sorprende nella prima impressione di contrasto fra l’apparente tenuità dello svolgimento e la potenza dell’effetto, è nitido, è di più facile intelligenza, nei, «Malavoglia», ma è vittorioso d’un più arduo cimento nella maggiore complessità di «Mastro-don Gesualdo», dove tutta la vita d’una piccola città e le vicende di più famiglie e l’ampia parabola della grandezza e decadenza del protagonista stanno in un grosso volume senza la minima ombra di prolissità, onde il romanzo supera per questa sua perfetta composizione quel qualche romanzo di Balzac a cui può essere avvicinato.


  Giuseppe Leonardi, Nevrosi parigine. La roccaforte dei “ratés”. La Butte, «Varietas. Rivista mensile illustrata», Milano, Anno XIX, Num. 9, 1° Settembre 1922, pp. 1338-1342.

 

  p. 1341. Ma lasciamo andare. Circoliamo. Rue Gabriel, piccolo budello storto e sgangherato, che diavolo ci stai a fare quassù? Ho capito, in quella casetta che sembra una dimora modesta di topi, c’è vissuto in miseria, — va da sè, — il ciclopico Balzac. Povero Balzac, ora capisco la straziante umanità! dei tuoi Gobseck, Goriot, Grandet! La tua opera è tutto un inno alla miseria e l’ossequio a sua maestà il denaro.

  Caro lei, mi duole, sinceramente che non ve ne siete accorto prima!


  Pasquale de Luca, Gli scrittori … e l’età, «Il Lunedì del Popolo d’Italia. Domando la parola», Milano, Anno II, Numero 18, 1-8 Maggio 1922, p. 5.

  Ma guardiamo specialmente i romanzieri: Balzac, a trent’anni, era un ignoto, a trentuno si fece un certo nome con la Fisiologia del Matrimonio; la Commedia Umana venne dopo.


  Guido Manacorda, Augusto Strindberg (Nel primo decennale della sua morte), «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 236, 5 Ottobre 1922, p. 3.

  Le scienze chimiche, che egli coltiva con sfrenata passione, lo portano all’occultismo; il Seraphita (sic) di Balzac lo affratella con Swedenborg, che egli in altri tempi aveva giudicato inconcludente ed insipido


  Maxime, Corrispondenze. Da Milano. Cinema Teatro Italia. “Giovanna la pallida”, «Medusa film», «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno III, N. 9, 10 Maggio 1922, pp. 35-36.

  p. 36. Un signore X. Y., (che nel caso potrebbe anche chiamarsi – ironia dei nomi! – Illuminati Ivo) un bel girono si mette in testa di fare il soggettista cinematografico.

  […] il sig. X. Y. Prende il primo romanzo che gli capita fra le mani (uno di Balzac per esempio), ne legge il titolo, qualche capitolo qua e là, la fine – per vedere come va a finire –, butta giù un seguito di scene tanto da riempire quattro parti infischiandosi della logica, del bon senso, della fedeltà al lavoro originale, gira il tutto, e … le tour est joué!

  «Avanti signori, vengano, vengano; 2,65 ai secondi, 5 ai primi! Oggi si rappresenta il graaande capolavoro cinematografico in 4 parti Giovanna la pallida, riduzione libera di Ivo Illuminati dal romanzo d O. Balzac, interpretato dalla celeberrimaaa Silvana Morello e Kakia Kutuvali (grancassa: zim! bum!)».

  Ma – chiederanno all’uscita gli spettatori – e l’arte, e la serietà? Illusi! E chi se ne cura ancora di quelle inezie?


  Gi. Mi., Cronaca cittadina. Teatri. “Turnisi & C.” (Teatro Alfieri – 2 Maggio 1922), «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 105, 3 Maggio 1922, p. 5.

  Meraviglioso ritrattista, Onorato di Balzac. Se per una ipotesi assurda tutti i suoi poderosi romanzi, che sono delle stupefacenti gallerie di ritratti, andassero perduti, basterebbe il Mercadet a farne testimonianza. E’ perfetto, è vivo. Oggi, come ieri, come nel momento in cui il suo creatore lo modellò. Se sui suoi atti è possibile sottilizzare, onde vedere se sono più vivi il suo ingegno o la sua malizia o la debolezza altrui: se si può discutere sia egli un affarista destituito di ogni scrupolo o non piuttosto un finanziere, che molto promette e poco sa mantenere; se può essere dubbio che egli abbia l'anima torva del trappoliere, del truffatore e non quella molto più modesta dell’imbroglione per fatalità, che scompigliata una matassa, col proposito di dipanarla, sempre più l'arruffa; se si può osservare, come ebbe a notare il Sarcey, che i suoi trucchi, le sue malizie sono cucite a filo bianco e lo sfuggirgli è facile, non si può non riconoscere che Mercadet è il ritratto tipico di quegli uomini che vogliono crearsi una fortuna rapida, con un movimento, di sovente fittizio, di capitali, con le operazioni in borsa, con il giuoco sulle azioni di società, anonime, con la messa in valore di buone idee o di cattivi progetti, con la direzione dei teatri, la fondazione di giornali, la forza della pubblicità messa al servizio di un prodotto chimerico o di nessun valore, con le transazioni aleatorie di tutte le specie; uno di quegli uomini infine che con tutti i mezzi cercano di guadagnare del denaro, andando sui margini del Codice e pensando che ciò che non è proibito è permesso. E tutto ciò senza mancare di un fondo d'istintiva onestà.

  Balzac non ebbe fortuna come autore drammatico. Vivo, acclamato come romanziere, non trovò credito come commediografo. Nè il Mercadet, nè alcuna delle altre sue opere teatrali, potè affrontare la prova della ribalta. Morto, perché il Mercadet fosse rappresentato, fu necessario che il D’Ennery, nome che era di garanzia per il pubblico assicurasse che l’opera era degna di esperimento. E, se fu applaudito, si fu perché l’autore di una Causa Celebre, e di tanti altri spettacoli del genere destinati a far lagrimare il pubblico femminile, con prudenti mutilazioni rese il lavoro adatto al gusto dell'ora. E’ inutile dire che queste mutilazioni non riguardavano affatto quel tanto di romantico che Balzac pensò per inquadrare la figura del protagonista e rendere l'opera teatrale, ma quei tratti di maggiore realismo, quelle pennellate di luce e di ombra, che rendono vivo Mercadet e che mantengono anche oggi al tipo la primitiva freschezza.

  Balzac ci presenta il suo Mercadet sotto due aspetti e ci consente la facoltà di distinguerli per darci il gusto di godere del momento in cui essi si integrano. Mercadet è prigioniero di una situazione falsa creatagli dalla fuga del suo cassiere. Per non precipitare, e possibilmente trovare i mezzi per rifare la sua fortuna, egli deve riuscire a rendere pazienti i suoi creditori, a persuaderli di lasciargli quel tanto d’acqua che gli occorre per non affogare. E questo è il primo degli aspetti nel quale Mercadet ci è presentato, nell’atto cioè di ingannare, di truccare con abilità e con menzogne i suoi creditori ai quali strappa quello che hanno di più caro: il denaro. Nel secondo ce lo mostra smarrito, nella sua stessa rete imprigionato, già coll’acqua alla gola, ed in procinto di affogare e ci fa assistere all'estremo tentativo che egli fa per salvarsi, quando cioè egli tenta far credere che il suo cassiere sia tornato e che egli si trovi in condizione di poter pagare tutti i suoi debiti. E qui, con un colpo di genio, l’autore conclude la sua commedia, facendo sul serio ritornare il cassiere diventato milionario e disposto a pagare tutti i debiti del padrone. Mentre Mercadet crede di essere nel pieno dell’inganno e con un nuovo trucco di aver disarmato i creditori, la situazione si capovolge e ci dà la figura del protagonista nei suoi due aspetti che si sovrappongono si integrano per farne il tipo completo e perfetto.

  Del Mercadet, questa è la domanda che ci ponemmo ieri sera, che cosa rimane nel Turnisi e C. commedia siciliana di Hanaud, che dal capolavoro di Balzac ha preso lo spunto? Poco, pochissimo. E quel poco raffazzonato in modo così goffo da lasciare l’impressione non di aver assistito ad una interpretazione della forte opera balzacchiana, ma ad una poco felice ed irriverente parodia. Non mancarono però ad Angelo Musco ed ai suoi principali collaboratori gli applausi del pubblico, e la commedia si ripete.


 Monsieur X., Corriere parigino, «Comoedia. Periodico di commedie e di vita teatrale», Milano, Anno IV, N. 9, 5 Maggio 1922, pp. 429-431.

 p. 431. — Nell’intento di arrivare alla conservazione della casa di Balzac, in via Raynouard, tutta piena ancora del ricordo di chi scrisse la Commedia umana, il signor di Royaumont aveva formato nel 1908 una Società di «Amici di Balzac» che è stata testé ricostituita. Raggruppati intorno al ricordo di una grande gloria francese, gli amici della casa di Balzac daranno delle conferenze, organizzeranno delle riunioni letterarie, dei concerti, sia nelle sale modeste del Maestro, sia nel tranquillo giardino dove egli coltivava i suoi rosai e la sua pergola.


  Curio Mortari, Stendhal e l’amore, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 192, 15 Agosto 1922, p. 3.

  Nel suo stesso appassionato attaccamento al nostro paese, e nella divulgazione, sia pure discutibile, che della nuova vita italica egli ci ha dato nella «Certosa di Parma» o in «Dell’Amore» non vive, in sostanza, quel soffio di romanticismo che animò il nostro Risorgimento? Vive nelle sue opere, specialmente quelle dell’età più matura, quell’eterna attualità che è un privilegio e una distinzione delle menti veramente geniali. Qualcuno prendendo motivo da queste inquietudini vagabonde di Stendhal, da una certa sua frammentarietà e noncuranza di stile, ha voluto negargli le qualità definitive per essere un grande scrittore «E’ una persona di spirito, infinitamente di spirito» si disse «ma non un artista». Balzac stesso, che pure nutriva un’ammirazione sconfinata per la «Certosa di Parma» trovava che mancasse qualcosa allo stile di Stendhal.


  Francesco Nardeschi, Corrispondenze. Da Pesaro, «L’Arte del Silenzio. Periodico quindicinale Cinematografico d’indipendenza e battaglia», Firenze, Anno III, N. 24, 15 Marzo 1922, p. 15.

  Cinema Iris. […] ci ha soddisfatti «La Falsa amante». Di Balzac.

  Lucio d’Ambra ci ha presentato un lavoro davvero encomiabile. Lya Formia (Clem) s’è dimostrata valente attrice non senza però qualche menda, un po’ più di studio dal vero convincerà la Formia […]. Zanuccoli (Paz) alquanto a posto, ma non sempre chè in alcuni punti è poco efficace la maschera.


  Ferdinando Neri, Il De Sanctis e la critica francese, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», Torino, Casa Editrice Giovanni Chiantore, Volume LXXIX, 1° Semestre 1922, pp. 219-263.

  pp. 247-248. Nel Sainte-Beuve, l’interesse ch’egli sente per la poesia, e le qualità indubitabili del suo gusto, si confondono con la sua curiosità psicologica, in un’opera che sarebbe artificioso, e più d’una volta impossibile, scindere e ripartire sotto nomi diversi.

  […] la psicologia, sempre più acre e profonda, è quella che appare ne’ suoi studî critici; e il Taine vorrà appellarsi, per un’indagine più precisa dei fatti letterarî, all’esempio di Stendhal, e talora anche di Balzac … Indizî innumeri di affinità stringono in una sola rete quell’analisi pertinace e irrequieta, nel romanzo, nel dramma e nella critica. Un libro di Balzac (e da principio s’era detto che quella non era arte) dovrà essere inteso nella forma nuova ch’egli si è foggiata; la critica s’aprirà altre vie, eserciterà un’osservazione più vasta e più minuta.

  p. 262 e nota (2). […] nello studio Sopra Emilio Zola, compreso nei Nuovi Saggi, egli si piega, e s’illude, in gran parte, al programma verista dello Zola stesso, e tutto il romanzo francese dell’Ottocento n’esce impoverito, quando si pensi che non vi appare quasi il Balzac (2), e che il Flaubert è confuso nel gruppo dei realisti […].

  (2) Il «romanzo alla Balzac», che lo Zola giovane considera «come una forma già esaurita» è il romanzo psicologico, «una storia fine e conscia dell’anima …» (Nuovi saggi critici, pp. 366-67); eppure il De S. conosceva il Balzac (cfr. Saggi, ed. cit., I, p. 21, II, 72; Scritti varii, I, p. 278), e leggeva la Sand (Lettere a Virginia, cit., p. 85, ecc.).


  Alfredo Niceforo, L’istruttoria giudiziaria nell’arte e nella scienza, «La Scuola Positiva. Rivista di Diritto e Procedura Penale», Milano, Casa Editrice Dott. Francesco Vallardi, Nuova Serie, Vol. II, 1922, pp. 28-39.

  pp. 33-34. Accanto a questo prende posto, nel romanzo moderno, altro tipo, pur sorprendente ma ben diverso; assai meno squisito e meno fine. E il tipo dell’investigatore astuto, il quale sa, sovra ogni altra cosa, architettare piani infernali, aprire trabocchetti, circonvenire silenziosamente e poi serrare in invisibili maglie la preda.

  Siffatta figura fu assai cara alle creazioni romanzesche di or fa molti anni, ed è ancora assai cara all’immaginazione delle folle. Non ricami finissimi e visioni ultramicroscopiche di logica, nè uso scientifico di tracce, ma soltanto astuzia di cacciatore. È il tipo personificato dell’agente Corentin, che il Balzac lanciava sulle piste della preda negli Chouans e nel tragico episodio narrato sotto il titolo: Une ténébreuse affaire (5),

  Non nego che il Balzac abbia anche visto l’istruttore logico: no; chè nel tratteggiare l’austera e commovente figura del giudice istruttore Popinot, faceva osservare che occorro al giudice una «seconda vista giudiziaria, così nel civile come nel penale»; assicurava che ha da penetrare, il giudice, nelle coscienze, come il chirurgo nel corpo umano; poi, avvertiva che l’istruttore Popinot frugava un processo come il Cuvier l’humus del globo; o come quello trapassava di deduzione in deduzione. Anzi, il Popinot fu giudice istruttore perché «possedeva seconda vista, divinazione, genialità» (6). Ma il Balzac non credette dover trarre da siffatti elementi di che comporre le scene di un dramma giudiziario. Quando a ciò vuol venire, mette piuttosto innanzi l’astuto agente di polizia. Il Balzac, che conosceva anche quei bassifondi ove aveva regnato e regnava, come forzato prima, come ideatore e capo della squadra di polizia poi, il famigerato Vidocq (7), il Balzac, dico, dava alla figura dei suoi romanzeschi agenti di polizia le romanzesche qualità che avevano reso celebre il Vidocq, esagerandolo: e cioè, l’astuzia, l’audacia, la sfrontatezza, la diabolica concezione dei piani più perfidi.

  Cosicché, se l’investigatore di Edgardo Poe ha, nel pensiero, qualche cosa del genio, e il Popinot del Balzac ha, nel cuore, qualche cosa dell’angelo, l’uomo di polizia del Balzac stesso non corrisponde a quei due personaggi che come la tenebra corrisponde alla luce. Non è angelo, ma spirito diabolico; e non ha, di genio, che l’astuzia intelligente, la quale sta al genio come la falsa perla alla vera.

  L’autore della Commedia umana, del resto, non prospetta quasi mai l’enimma giudiziario nel drammatico, o — se si vuole — angoscioso modo tanto caro al romanzo giudiziario propriamente detto; e cioè: un delitto è commesso, il corpo dell’ucciso giace nel sangue: chi è, dov’è l’assassino? Non nascono, dunque, nè potevano nascere le situazioni che formano i quadri del romanzo giudiziario moderno: esame del cadavere, esame delle tracce, interpretazioni, deduzioni. Ma, in una novella balzachiana, tuttavia, guizza il lampo precursore (1). Un nero castello, ai tempi di Luigi undecimo di Francia; e nel castello, un vecchio e ricchissimo avaro; e accanto all’avaro, in un nascondiglio, un tesoro. Ma chi sottrae, a notte alta, dallo scrigno, i sontuosi zecchini e le collane e le gemme? Si sono intraviste, nel buio, ombre inafferrabili scivolare per le scale della torre e per i lunghi corridoi; qualche misero servo è stato arrestato e mosso alla tortura. Il mistero permane. Ha, finalmente, un’idea, l'avaro: stendere, segretamente e a notte fatta, un velo di farina bianchissima sulle lastre del corridoio e delle scale conducenti al tesoro: e una mattina su quel velo — come di neve — l’avaro trova, nette e taglienti, le impronte di piedi del ladro: un’intera traccia, come — sulla sabbia del mare — quella del viandante. Si misurano le impronte, si cerca, si indaga, si sospetta, e si trova ... Si trova che le impronte corrispondevano al piede stesso dell’avaro, il quale, di notte, in istato di sonnambulismo, derubava se stesso, e in altro nascondiglio (dimenticato allo stato di veglia) nascondeva quel che a se stesso rapiva. Questa novella, Maître Cornélius, scritta nel 1831, è tra le prime in cui occorra il tema delle tracce di piedi, rivelatrici.

  [Note].

  p. 33.

  (5) H. de Balzac, Une ténébreuse affaire, (scritto nel 1831). Vedi specialmente i capitoli I e II. Les Chouans, in ispecie il I.° e l’ultimo capitolo.

  (6) H. de Balzac, L’interdiction, sul principio.

  (7) Vedi, ad esempio, di H. de Balzac, l’ultimo episodio di Splendeurs et misères, ecc., intitolato: La dernière incarnation de Vautrin.

  p. 34.

  (1) H. de Balzac, Maître Cornélius.


  Alfredo Niceforo, L’istruttoria giudiziaria nell’arte e nella scienza. Discorso pronunziato per la inaugurazione dell’XI anno accademico della Scuola di Applicazione giuridico-criminale presso la Facoltà giuridica della R. Università di Roma dal prof. Alfredo Niceforo, «Conferenze e Prolusioni», Torino, Anno XV, N. 16, 16 Agosto 1922, pp. 241-248.


  Cfr. scheda precedente.


  Nomenclator, Cronache parigine. […]. Un aneddoto di Balzac. […]., «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 290, 7 Dicembre 1922, p. 3.

  Balzac racconta che una volta per studiare la potenza venefica degli eccitanti più in uso ai nostri giorni, si presero tre condannati a morte e si stabilì di ucciderli alimentandoli esclusivamente l’uno di cibi a base di caffè, l’altro di cibi a base di tè ed il terzo di cibi a base di cioccolata. Ognuno di noi avrebbe preferito l’ultimo dei tre regimi: si capisce! Ma avrebbe avuto torto. Dei tre condannati, infatti, quello nutrito a cioccolata morì dopo soli tre mesi, e non appena morto il suo corpo cadde in orrenda putrefazione; quello nutrito a caffè potè tirare innanzi un anno, ma morì poi in preda a dolori atroci; il più fortunato fu il secondo, il quale resistè due anni e si spense a poco a poco, diafano e disseccato, quasi senza accorgersene. Ignoro a quali conclusioni scientifiche o pratiche l’esperienza citata dal Balzac abbia condotto coloro che la intrapresero. Probabilmente a nessuna conclusione, poiché non mi consta che da quel giorno il mondo abbia rinunciato a mangiar cioccolata. Si trattava probabilmente di un'esperienza di lusso, come tante di quelle che si compiono sui conigli e sui cani. Ma si trattava anche di condannati a morte. Ora tale non sarebbe il caso dei fornitori di glandole interstiziali.


  Armando Pappalardo, Balzac Onorato, in Dizionario di Scienze occulte. Piccola Enciclopedia di opere e fatti concernenti la magia, l’astrologia, l’alchimia, la chiromanzia, la metoscopia, la fisiognomica, la frenologia, l’oneiromanzia, la necromanzia, la cabala, la demonologia, lo spiritismo e la teosofia. Seconda edizione riveduta e corretta [1910], Milano, Ulrico Hoepli Editore-Libraio della Real Casa, 1922, pp. 54-55.

  Il grande romanziere francese autore della Commedia Umana si rivela occultista e seguace delle dottrine di Swedenborg in parecchi romanzi del gruppo degli (sic) Etudes philosophiques ... quali: Ursule Tinroviet (sic) - Seraphita - Louis Lambert - Peau de Chagrin


  Concetto Pettinato, Una visita ad Anatole France, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 92, 18 Aprile 1922, p. 3.

  Helleu parla, insinuante, di una edizione illustrata del Curato di Tours, che prepara per i mesi estivi: — Voglio mandare un artista a studiare dal vero i luoghi, i tipi. Amerei mi riportasse l’effigie autentica di una signorina Gamard, di un abate Troubert …

  — E’ strano come, ad onta del suo grande ingegno, Balzac incorra talora in distrazioni stilistiche che si spiegherebbero a stento in un uomo troppo occupato d’altro per badare a quello che fa.

  — Quanti, di rimando, che non commisero gli errori di Balzac e che non furono Balzac ...

  — Il Sandeau, per esempio: il quale non solo scriveva meglio di lui ma aveva più fantasia e al quale il Balzac rubò non poche delle tele di romanzo che lo resero celebre, mentre non avevano saputo trarre dall'oscurità colui che le aveva inventate.


  Mario Pilo, Tra i due poli della vita. Prefazione di Nicola Checchia, Torino, Fratelli Bocca, Editori, 1922.

 

I fenomeni sinestesici.

 

  p. 386. […] il Balzac gira per tutta la giornata, sotto la pioggia, il dedalo delle vie di Parigi, per cercarne uno [un nome] che gli convenga, tra la miriade che ne portano i manifesti e le insegne sui muri e sulle botteghe […].


  Carlo Placci, L’ex-moderno, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 118, 18 Maggio 1922, p. 3.

  E’ più facile per un divoratore di romanzi, che giura unicamente per André Gide e simili, intendersi con chi s’è ancorato in Balzac che con chi abbia sostato a metà strada, supponiamo allo Zola. L’adoratore di Picasso sarà più tollerante verso il devoto di Ingres che pel fervente di Monet. Ogni decennio di cammino che l’ex-moderno fa nel passato, allontanandosi, da noi, corrisponde a un indulto proporzionalmente maggiore per parte del contemporaneo attualista.


  Carola Prosperi, Fiamme estinte e ardori vivi, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 122, 23 Maggio 1922, p. 3.

  Fu la Caterina [de’ Medici] della leggenda quella che i cari romanzi di Dumas ci fecero conoscere nella fanciullezza? O la gran mente politica, l’anima generosa ed eroica come la comprese e l’amò Balzac?


  Carola Prosperi, Idillî e soldati d’Alsazia, «La Stampa», Torino, Anno 56, Num. 145, 18 Giugno 1922, p. 3.

  [Sui Romanzi nazionali di Erckmann].

  Il Balzac del Médecin de campagne non gli è certo superiore in quel singolarissimo racconto che un contadino fa della vita di Napoleone.


 Marco Ramperti, Il lepre migratore, «Il Secolo XX°», Milano, Anno XXI, N. 8, 1° Agosto 1922, p. 548.

 

 «L’amore à da combattere un nemico che tutto divora: l’abitudine».

Balzac.


  O. R., Corriere londinese. La ricetta della felicità coniugale, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 8, 10 Gennaio 1922, pp. 1-2.

  p. 1. La ricetta della felicità coniugale? Ancora un proverbio arabo? Una sottigliezza psicologica alla Balzac o alla Paul Bourget?


  Emilia Regis, La leggenda di Napoleone in una lettera inedita di Carlo Botta [a Stanislao Marchisio, 24 giugno 1833], «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CCXVIII – Della Raccolta CCCII, Fascicolo 1204, 16 Maggio 1922, pp. 153-155.

  p. 153. La leggenda napoleonica fu raccolta da poeti come il Béranger, da romanzieri come il Balzac, su umili bocche, presso poveri focolari, in villaggi oscuri, durante le veglie nelle capanne piene di uditori ingenui e fanatici; e per opera loro essa conserva tutta la potenza delle cose misteriose ed occulte, tutta la suggestività delle immaginazioni che sorte dalla realtà si smarriscono nelle regioni nebulose del sogno.

  p. 155. Ognuno s’avvede che lo storico, mentre rende omaggio, senza restrizione, al genio conquistatore di Napoleone, ammettendo che «con quel solo rotolo in mano» avrebbe saputo rendersi padrone di Parigi e della Francia, è impotente a comprendere e quindi a spiegare la conquista dell’anima del popolo. La fede della vecchia serva, rimane per il Botta una volgare superstizione ben lontana da quella religiosa aspettazione di cui il Balzac fa dono, nel suo romanzo Le medecin (sic) de campagne, che pur reca la data del 1833, alle anime semplici di Gondrin e di Goguelat, i due meravigliosi soldati di Napoleone. Gondrin non vive che per il ritornò dell’imperatore; Goguelat ne rinarra la gesta, quasi per preparare gli animi degli ingenui ascoltatori, al non lontano miracolo. Ed anch’egli, Goguelat, all’insolito uditore, che si crede in dovere di convincerlo che Napoleone è morto, risponde in tono di indefinibile compatimento: «Ceux-ci disent qu’il est mort! Ah bien! lui, mort! on voit bien qu’il ne le connaissent pas. Ils répètent c’te bourde-là pour attraper le peuple et le faire tenir tranquille dans leur baraque de gouvernement ».


  F.[ederico] de Roberto, L’Illusione. Terza edizione riveduta, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1922.

p. 64. [Errichetta Geremia] Adesso conosceva mezzo Sue; molte cose di Balzac, che giudicava però troppo lungo; quasi tutto Walter Scott. Il ricordo della sua povera sorellina morta la sorprendeva alle volte in mezzo alle immaginazioni suggerite da quei libri; allora si sentiva! invadere da una mestizia dolce, da una grata malinconia; si stimava simile a qualcuna delle eroine belle e infelici che aveva preso a modello, che le parevano altrettante maestre di vita, dalle quali aveva la segreta ambizione di essere approvata in ogni atto e in ogni pensiero.

p. 320. Gli [Giulia a Errico] diede da leggere il Giglio nella valle di Balzac, la Principessa di Clèves della signora di Lafayette, sottolineando i passaggi dov'era espressa la passione casta e contenuta; decisa questa volta a salvare l’amor suo dalla caduta fatale, a qualunque costo, a costo di morirne. [Cfr. 1891].


  Ettore Romagnoli, Fatti e commenti. Balzac e l’Italia, «Corriere della Sera», Milano, Anno 47, N. 211, 3 Settembre 1922, p. 3.


Signor Direttore,

  Leggo nel Corriere della Sera dell’11 agosto: «I viaggi di Balzac in Italia hanno dato origine a una ricca letteratura ch’è servita a farci conoscere l’inguaribile malumore, lo spirito negatore e l’eccessiva acredine del grande romanziere. Così le Opere e i giorni».[3]

  Non conosco tutta codesta ricca (?) letteratura; ma non credo mi sia sfuggito molto di quanto ha scritto Balzac; e, sebbene le mie letture non siano recentissime, ricordo, senza dubbio, che in nessun libro il Balzac parla della nostra Patria con la leggerezza e l’antipatia che ci offendono in altri scrittori francesi; e che invece dimostra sempre simpatia per l’Italia e gl’italiani, e ammirazione entusiastica per i suoi grandi artisti. Nella novella Les Marana c’è un tipo d’ufficiale italiano più abile che coraggioso; ma sarebbe davvero indiscrezione pretendere che il Balzac, il quale voleva dipingere la vita com’è, dovesse raffigurare qualsiasi italiano in sembianza d’angelo immacolato.

  E vengo al punto. Mentre si seguiterà ad arricchire codesta letteratura, che deve di necessità cercare i suoi documenti nei pettegolezzi, perché qualche giovine studioso non raccoglie invece dall’opera balzachiana i luoghi in cui il gran romanziere parla dell’Italia? Questi sono documenti solidi. Invece le parole volano; e da qui a lì, da oggi a domani, divengono tutt’altre da come furono pronunciate; e ciò che proprio aveva detto Balzac nei salotti di Milano, di Venezia e di Genova, non lo sapremo mai con sicurezza dagli sfoghi dei mediocri venuti in contatto con lui, e quasi sempre disillusi, e offesi dal suo genio.

  Vediamo, per esempio, il punto più specialmente toccato da Le Opere e i Giorni. La visita a Venezia dette luogo, da un lato, «alle recriminazioni, del resto notissime, di Tullio Dandolo (1837); ma anche ispirò un delizioso racconto, Massimilla Doni (1839).

  Lo leggano, i novissimi censori. Vi troveranno un Balzac, non amico, non ammiratore, bensì innamorato dell’Italia. Uno straniero potrebbe perfino tacciarlo di parzialità. Lord Byron è volto in ridicolo, la musica tedesca, e pure Balzac n’era fervente ammiratore, è relegata nell’ombra, perfino li medico francese, interlocutore di Massimilla, è battuto, e nella qualità più francese, lo spirito, dall’adorabile eroina. E su tutto e su tutti trionfa l’Italia. «In questo paese, la cui decadenza è deplorata da viaggiatori sciocchi e da poeti ipocriti, il cui carattere è calunniato da uomini politici, fioriscono, in ogni ramo dell’attività umana, geni possenti, come da un vecchio ceppo di vigna nuovi tralci carichi di grappoli deliziosi. Questo popolo di antichi re produce ancora sovrani, che si chiamano Lagrange, Volta, Rosari, Canova, Rossini, Bartolini, Galvani, Viganò, Beccaria, Cicognara, Corvetto. Gli Italiani dominano ogni punto della scienza umana su cui volgono la loro attenzione, dettano leggi in ogni arte a cui si consacrano. L’Italia regna sempre sul mondo, che sempre verrà ad adorarla».

  Quanti Italiani parlarono e parlano così?

  E quando ragiona dell’arte, il tono diviene ditirambico. Ecco, a proposito del Mosè di Rossini:

  «Vecchi maestri alemanni, Haendel. Sebastiano Bach, e tu stesso, Beethoven, in ginocchio: ecco la regina delle arti, ecco l’Italia trionfante!».

  Altro che i pettegolezzi di Tullio Dandolo! E non sono parole buttate là a caso. In questo romanzo, come in altri del Balzac, il genio di Rossini è studiato e inteso e spiegato con una sagacia e una sensibilità artistica da far vergognare molti critici moderni.

  E nessun italiano, credo, potrà leggere senza commozione le ardenti parole con cui Massimilla, assistendo via via alle vicende del Mosè, poema dell'affrancamento d’un popolo, piange la schiavitù d'Italia, auspica la sua liberazione e la sua novella gloria. E dalle labbra di Massimilla parla, non c’è dubbio, il cuore di Balzac.

  Conclusione rapida, e che trascendo Balzac. Se gli entomologi letterari non ne possono proprio fare a meno, seguitino pure a dar la caccia a frizzi e parole pungenti sfuggite in momenti di malumore. Ma, almeno, non vadano dimenticate, anzi siano raccolte con cura gelosa, siano ricordate con religione, le parole che i grandi hanno pronunciato per la concordia e il reciproco amore dei popoli.


  Teodoro Rovito, Letterati e giornalisti italiani contemporanei. Dizionario bio-bibliografico. Seconda edizione rifatta ed ampliata, Napoli, Teodoro Rovito Ed., 1922.

  p. 95. Ceretti Gian Pietro, valoroso giornalista di Intra, nato nel 1887, residente a Milano, ove fu per due anni redattore capo del Popolo d’Italia, pur collaborando ad altri giornali. Ha pubblicato — oltre pregevoli traduzioni di romanzi di Balzac [?] e Wells, fatte per conto delle Case Treves e Bemporad — L’emigrazione italiana nel Nord America; L’Albania in grigio-verde, studio; L’impero del Cielo, romanzo; Gli esploratori del mare, romanzo; Il segreto della vittoria. Attende ad un volume sui problemi del dopo-guerra e ad uno studio sul Giornalismo italiano. È fregiato di medaglia di bronzo al valore militare, conquistata sul Pasubio.

  p. 143. Di Belsito Giacomo, geniale scrittore e valoroso giornalista, nato a San Paolo Holsito (Caserta) nel 1885, residente da vari anni a Milano. Direttore dell’Idea Latina, condirettore della bella e modernissima rivista Ardita, collaboratore di Novella, Varietas e redattore del Popolo d’Italia, ha al suo attivo varie notevoli pubblicazioni. Citiamo: La rivoluzione francese, memorie di un istitutore; Carlo Baudelaire, vita aneddotica; Per conoscere Balzac; […].

  pp. 195-196. Gigli Giuseppe, colto letterato e valente poeta pugliese, nato a Manduria (Lecce) nel 1863. Collaboratore di Nuova Antologia, Natura ed Arte, Secolo XX, Scena illustrata, ecc., ha pubblicato: […], Balzac in Italia, libro in cui è raccolto tutto quanto si è scritto intorno al grande romanziere francese, nel tempo in cui visitò l’Italia. Prepara inoltre un'opera più complessa intorno a La vita e l’opera di Balzac.

  p. 212. Guatteri Gualtiero, fecondo giornalista e letterato, conferenziere, nato a Firenze nel 1882. Ci ha dato: […] traduzioni da Dickens, Heine, Schopenhauer, La Rochefoucauld, Balzac [?], Descartes, Nodier, Buffon, Victor Hugo.

  p. 221. Lega Antonio, giornalista fiorentino, poeta, librettista. Ci ha dato ultimamente un pregevole poema drammatico: Francesco d’Assisi, con commento musicale nel m. Carloni, pel quale ha scritto puro un libretto: Etienne, tolto dall’«Enfant maudit» di Balzac.

  p. 295. Palazzi Fernando, genialissimo scrittore e traduttore, critico di grande acume ed uno dei più autorevoli collaboratori dell’Italia che scrive; nato in Arcevia (Ancona) nel 1884, residente a Milano. Ha pubblicato: Sem Benelli, saggio critico; la traduzione dei Reisebilder di E. Heine (due edizioni); la traduzione in prosa del cinquecento dei «Contes drôlatiques», di O. De Balzac («Classici del Ridere» di A. F. Formiggini).

  p. 381. Tartufari Clarice, infaticabile ed egregia scrittrice di romanzi, novelle, commedie, nata in Roma nel 1870. Le dobbiamo: Versi nuovi; Versi di maggio; Logica, commedia; Modernissima, commedia; Dissidio, dramma; Ebe, romanzo; Arboscelli divelti, dramma; Fungaia, romanzo tradotto in tedesco; Una opinione di Balzac, commedia.

  p. 413. Zuccarini Giovanni. […] Ci ha dato inoltre un pregevole volume di critiche Schegge e Sprazzi, che è stato subito notato por lo spirito ironico e polemico e per il vibrante senso civile che tutto lo anima. Giovanni Zuccarini riconosce tre soli grandi maestri del pensiero moderno: F. Nietzsche, O. Balzac, G. Carducci, e vagheggia una nuova rinascenza italiana basata sul senso della storia, sul senso della realtà, e su l’amore virgiliano alla gran madre, la Terra.

  p. 460. Quilici Nello, valoroso giornalista livornese, nato nel 1890, residente a Bologna, direttore del Resto del Carlino. Fra le sue pubblicazioni sono degne di speciale ricordo: Traduzione, introduzione e note alla «Introduzione alla vita beata di Fichte», ed un volume su Balzac [?].


  Rosetta Sacchetti, La vita e le opere di Roberto Sacchetti, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1922.

  pp. 20-22. Sapeva quasi tutte a mente e cercava d'imitare nei suoi versi le poesie del Leopardi, leggeva arditamente gli storici che tentano di far rivivere le età più antiche, meditava Goethe, e rimaneva come soggiogato dalla lettura dei romanzi di Balzac». (1)

  Che egli sia stato infatti studioso e ammiratore di Balzac abbiamo la conferma leggendo l'articolo Epistolario di Balzac, (2) pubblicato parecchi anni dopo. Attraverso brani di lettere scritte dal grande romanziere alla confidente sorella Laura, il Sacchetti ci fa assistere allo svolgersi prodigioso dell’attività del suo maestro prediletto, ci fa pietosi per le sue angustie e ammirati per la sua enorme fecondità, derivante non meno dal genio che dalla ostinata sua operosità. «Il Balzac soleva confondere le due cause in una, dicendo agli amici meno animosi di lui: «Se avete coraggio, acquisterete necessariamente anche l’ingegno, poiché c'entra tanto coraggio nell’ingegno che questo è quasi tutto fatto di pazienza».

  Vero discepolo del Balzac, il Sacchetti saprà ogni giorno piegarsi con rara tenacia ad un lavoro continuo di molte ore, pur di soddisfare, dopo le fatiche del giornalismo, agli estri letterari. Ammirevole in questo articolo il giudizio sul valore di Balzac, paragonato ai più grandi letterati del suo tempo. «Tra le grandi riputazioni del secolo nessuna vale la sua: la Francia può vantare opere ugualmente vaste e forse più brillanti, quella di Victor Hugo per esempio; ma non più solide e durature.

  Balzac è capostipite: la sua grandezza cresce nelle generazioni intellettuali a cui ha dato la vita. Ha tracciato coll’opera sua un solco così profondo che la letteratura non ha potuto ancora uscirne; vi è passato Feuillet, come Flaubert, come Zola; parlo solo dei caporioni, non della folla che è infinita e di tutti i paesi. Nell'arte sua l’autore della Commedia umana dà la destra a Walter Scott e porge la sinistra all'avvenire, all’ignoto, a qualcuno che forse tarderà de’ secoli a sorgere. Quanto agli illustri romanzieri contemporanei egli li copre tutti con la sua grandezza».

  Conscio del suo valore, il Balzac scriveva: «Io avrò portato nella mia testa una società tutt’intera» e il Sacchetti conferma: «È vero: la società francese, anzi europea del secolo nostro, in fondo così molteplice e varia sotto una apparente uniformità, egli l’ha compresa, scandagliata, indovinata e, dicono, anche un po' presagita. L’ha descritta e scolpita: la storia andrà a cercarla nelle sue pagine, come cerca la decadenza romana nei versi di Giovenale». Nel suo studio per il Maestro non trascura la parte sentimentale e nei brani di lettere scelti con arte e devozione vediamo passare anche gli amori. Sopra tutti domina quello purissimo per la duchessa di Berny «donna straordinaria, ideale di gran dama, che gli si fece incontro fin dai suoi primi passi sul sentiero della celebrità. La loro relazione non varcò mai i limiti di una rigorosa convenienza. Fu lei che gli diede quella fede incrollabile nella virtù della donna, quella aristocratica elevatezza d’ispirazione che formano le attrattive più possenti de’ suoi romanzi. Una delle sue creazioni meglio riuscite, la duchessa di Langeais, quel tipo di superiore distinzione non era che il ritratto della donna che aveva saputo soggiogare colla sua amicizia seria ed inesorabile la sua tenerezza giovanile».

  Simile al Maestro, il Sacchetti avrà la stessa fede nella donna come si potrà rilevare nelle sue migliori creazioni femminili e la medesima elevatezza d’ispirazione in ogni suo scritto: dalle riviste giudiziarie alle rassegne drammatiche, dalle corrispondenze politiche alle novelle e ai romanzi.

  p. 98. Il Sacchetti stesso nell’articolo L’epistolario di Balzac già citato, a proposito delle traversie finanziarie del grande romanziere e dei rimproveri che osavano muovergli per i suoi calcoli, osserva con pacata ironia:

  «C’è ancora della gente che vorrebbe nudrire i poeti di ambrosia e non li vorrebbe lasciare entrare nella corrente umana che si precipita dietro la fortuna».

  pp. 112-113. Afferma il Molineri come il Sacchetti, studente liceale, rimanesse soggiogato dalla lettura dei romanzi di Balzac. Specie in queste descrizioni di dietroscena del teatro e del giornalismo si risente l’influsso del grande romanziere francese. Però oso dire che, se in Sacchetti manca la potenza del maestro, vi è più equililibrio (sic) e naturalezza. In Balzac troviamo l’esasperazione del male, come nelle perfidie della Cousine Bette e nelle persecuzioni sofferte dal povero Cousin Pons; in Sacchetti invece un velo di melanconia e di umano compianto si stende anche sulle più gravi brutture della vita.

  Anche un suo critico, nella biografia già citata, dice: «Il Sacchetti, benché reputasse il Balzac inimitabile maestro, ondeggiava tra il romanticismo e il realismo». (3)

  pp. 130-131. «Che nel Sacchetti vi fosse l’ingegno di un gran romanziere, più che dalle descrizioni nelle quali eccelleva, più che dall’arte di accumulare l’interesse intorno a semplici situazioni, è palesato dalla valentia colla quale egli pennelleggiava i caratteri sin dal primo introdurre dei personaggi dell’azione, e li sapeva mantenere uguali, logici, consentanei all’idea prima che li aveva generati, anche allorquando trattavasi di caratteri come quelli della zingara Luscià. Egli non cade mai nel convenzionale o nello strano: e i suoi personaggi sono uomini, non fantocci, non astrazioni; per rispetto ai caratteri appunto, come dissi, egli amava e studiava il Balzac». (4)

  p. 166. «Tuttavia egli era beato quando, dimenticata la politica, poteva alla sera discutere d’arte e di letteratura qua al caffè Biffi, col Verga, col Capuana, col Fontana e con altri, o meglio, quando a tarda ora se n’andava a casa sua, verso la stazione centrale, in una via remota, ma spaziosa, ma bella e ventilata, a scrivere i suoi cari romanzi, colla mente fissa al Balzac, suo maestro e idolo suo». (5)

  [Note]. [La numerazione è nostra].

  (1) G. C. Molineri, Commemorazione di Roberto Sacchetti, “Gazzetta Letteraria”, aprile 1881.

  (2) “Illustrazione Italiana”, Anno IV, n. 3, 21 gennaio 1877.

  (3) Biografia di B. Sacchetti. “Illustraz. Italiana”, An. VIII, n. 27, 8 luglio 1881.

  (4) G. C. Molineri, Commemorazione di R. Sacchetti, “Gazzetta Letteraria”, 9-16 aprile 1881.

  (5) Biografia di R. Sacchetti, “Illustrazione Italiana”, n. 34, 21 agosto 1881.


  Natale Scalìa, Giovanni Verga, Ferrara, S.T.E.T. Società tipografica editrice “Taddei” Dott. Alberto Neppi & C., 1922.


Capitolo I

Sommario Verghiano.


  pp. 36-40. A questo punto occorre avvertire che tutto ciò non è che un riflesso altrui. — Per quanto, parlando di Verga, abbiamo finora accennato di Dumas figlio, di Zola e di altri francesi, si è taciuto di quegli che incise sull’artista siciliano un’unghia acuta e duratura: Balzac.

  Verga è fin dai Carbonari nel cielo balzachiano. Se alcuni elementi esteriori, che via via abbiamo segnato, fanno palese influenza diretta di altre letture, codesti influssi, codesti influssi sono occasionali e saltuarii. (*) Ma Balzac è presente, sempre. — In ciò che è più intimo e mi­dollare nell’arte verghiana.

  C’è Balzac e Balzac. Quello che tutto il mondo ammira, costruttore di giganti maniaci, di banchieri falliti, di borsisti frenetici, il Balzac di Vautrin, di Goriot, di Rastignac, di Pons, di Bridau: il quale fa i conti ai suoi protagonisti, ne calcola con interessi fantastici gli arricchimenti e i crolli improvvisi, li immerge in processi spaventosi di cui egli conosce tutte le torture, li fa giocare al rialzo, li torce in passioni mostruose: proiezione interessante e febbrile della sua vita tormen­tosa e magniloquente nelle figure che balzavano con occhi di fiamma dalla fornace incandescente del suo cervello: che si dibatteva tra fantasmi di gioia e tor­menti di miserie.

  L’inferno balzachiano e troppo noto per ripar­larne, e Taine ne diede un sommario drammatico.

  Meno conosciute sono le donne di Balzac. Egli, accanto alle zitelle povere, brutte e immortali, creò una galleria di fanciulle in cui l’impudicizia e la castità, la colpa e la dolcezza hanno trovato il poeta più felice. Balzac è penetrato nel cuore femminile con una precisione così attenta, con una cura così presente, con un’arte insomma così totale, che tutto il mondo femminile moderno deriva da lui.

  Ma c’è un altro Balzac, poco noto e forse più perfetto, e che non ha le lungaggini, le descrizioni e le pretensioni antipatiche, le quali rendono illeggibili, qua e là, anche le sue opere migliori. Il Balzac di Storia dei Tredici e delle novelle: dove sono studiate le più inquiete perversioni fisiche e sentimentali, dove la fantasia del francese si abbandona con cresciuta veemenza al proprio estro. Questo Balzac ha agito in modo singolare su Verga, che ne ha tratto alcune mo­venze per la ragione centrale dei suoi romanzi. Già le persone di Verga, Pietro, Enrico, Nata e gli altri, parlano come Rastignac e Vautrin. I massimarii del siciliano sono una reminiscenza delle frasi rimbombanti con cui Balzac cingeva di satanismo le sue creature dilette, conquistatrici di Parigi e della donna. Egli aveva per il bon-mot una cura provincialesca: perché cre­deva, così, di fare dello spirito e di penetrare in quel mondo aristocratico che guardò sempre attraverso can­celli chiusi.

  Il bon-mot era allora tutta la letteratura francese. Ne facevano tutti, Daumier e Gavarni, Balzac e Philipon. Se ne dilettò anche, a suo tempo, tra un ful­mine e un rombo, Hugo.

  Ma se Balzac riesce a farsi perdonare il suo pariginismo artefatto in virtù non solo del suo genio, ma della grazia saporosa con cui esce nelle affermazioni più stupefacenti e nelle descrizioni più straordinarie, Verga, facendo parlare a codesto modo i suoi catanesi del settanta, fa sorridere. Leggiamo la ormai famosa professione di fede di Pietro Brusio: «Sì, lo confesso … nella donna che dovrei amare io vorrei tutte queste cure minute, tutte queste precauzioni delicate, tutte le perfezioni dello spirito e le squisitezze dell’educazione, tutti questi dettagli dell’assieme insomma, che servi­rebbero a formarmi l’aureola della donna che do­vrei avvicinare con la riverenza e il delirio dei sensi, che tal prestigio dovrebbe recarmi, poiché la riverenza del cuore io non l’ho più. Io amo nella donna i velluti, i veli, i diamanti, il profumo, la mezza luce, il lusso ... tutto ciò che brilla ed affascina ... tutto ciò che seduce ed addormenta ... tutto ciò che può farmi credere, per mezzo dei sensi, che questo fiore delicato del cui odore m’inebrio, che mi trastullo fra le mani, non nasconde un verme; che quest’essere non è, come il mio, debole e creta ... e allora io l’amerei ... un giorno, un’ora, ma l’amerei ...».

  Ed ora Balzac, Pelle di zigrino: “Sì, i cache­mire, i veli, i profumi, l’oro, la seta, il lusso, tutto ciò che piace non sta bene che alla gioventù”. E più avanti: “Ah, viva l’amore nella seta, nel cachemire cir­condato dalle meraviglie del lusso, che lo adornano meravigliosamente bene ... mi piace gualcire sotto i miei desideri eleganti toelette, spezzar fiori ...”.

  Di codeste reminiscenze, in Verga, ve ne sono molte. Ma, più, ci troviamo qui innanzi a una vera signoria sentimentale da cui il siciliano non riesce a staccarsi per quanto si provi. — In fondo Verga non fa che rigirare intorno alla Donna senza cuore” della Pelle di Zigrino più sopra citata. Accostarsi a Balzac a venti anni, con l’ingegno e il genio di Verga, è pericoloso. Come, oggi, tutti noi pensiamo il dialogo e la psicologia secondo Verga, così questi, dominato dal paradiso-inferno balzachiano, si esprimeva in tutta sincerità col linguaggio di Rastignac.

  Balzac, che, si può dire, viveva i suoi paradossi (egli disse a Daumier: Giovanotto, volete del genio? Fate dei debiti — ed è codesta la filosofia dei suoi gau­denti) ebbe naturalmente numerosi e anche illustri imi­tatori in tale parte secondaria della sua arte. Nè si nasconde che Verga avrà potuto leggere poco o nulla del grande francese e averne subito la signoria attraverso gli innumerevoli rifacimenti e parafrasi nostrani e foresti.

  (*) La storia e la cronaca esatte delle influenze immediate e degli stimoli vicini che più agirono su Verga, saranno notate, da par suo da F. De Roberto. I primi saggi, veramente esemplari, di codesta opera sono già apparsi nella Rivista La Lettura di Milano.


  Ildebrando Tacconi, Dal Romanticismo al Simbolismo, «La Rivista Dalmatica», Zara, Anno VI, Nuova Serie, Fasc. I, 1922, pp. 21-30.

  pp. 24-25. Se il Gautier fu un realista, rimanendo pur sempre romantico ed eccessivamente romantico in tutto solo per aver dominato le sue passioni e non esservisi abbandonato senza ritegno e misura, nella sua opera; tutti i grandi realisti non furono, in fondo, che dei romantici, i quali, in obbedienza a un sistema, tenacemente, instancabilmente, cercarono di mantenere e costringere la loro ardente fantasia entro i limiti del possibile e del reale, e d’impedire che la loro prepotente personalità ostacolasse la nitida visione della realtà e della vita. Io non parlerò nemmeno del Balzac di «Lys dans la vallée» di «Seraphita» (sic) o dei «Chouans», chè nessuno negherà questi libri siano d’ispirazione prettamente romantica, ma del Balzac, autore della «Comédie humaine», dove pure la realtà si fonde mirabilmente col sogno. Le sue opere, è vero, ci danno l’illusione della vita; le sue creature hanno tutte l’apparenza della realtà; ma non è men vero che, invece di copiare servilmente ciò che vede, egli ci descrive un suo sogno, parto della sua fantasia iperbolica. Ed è a questa sua qualità di romantico ch'egli deve l’invenzione ricca e mirabile; quel dono di tratteggiare ambienti e figure indimenticabili, per cui noi l’ammiriamo, e, l’istinto sicuro delle forze sociali, che animano e sospingono il mondo moderno. Nessuno, che abbia letto il Balzac, negherà l’esistenza di questo conflitto nell’opera sua; conflitto che, se in lui si fonde in armonia, a tutto vantaggio dell’arte, si inasprisce invece e divien tragico nel Flaubert, il quale è portato, dall’irreconciliaio (sic) contrasto di queste tendenze, al pessimismo ed alla misantropia.

  Provvisto, però, di un gusto più fine e più sicuro che non il Balzac e di una spietata autocritica, egli non ha mai confuso queste tendenze in un medesimo libro; ma ci ha dato l’esempio, forse unico, di un romanziere che scrive, alternativamente, libri d’ispirazione schiettamente romantica, come «Les tentations de Saint Antoine» e «Salambo» (sic) e romanzi esclusivamente realistici come la «Madame Bovary» e «L’éducation sentimentale».


  Mario M. Urtensteiner, Uomini d’Italia: Giuseppe Rensi, «Gerarchia. Rivista politica», Milano, Anno I, N. 11, Novembre-Dicembre 1922, pp. 648-654.

  p. 648. Dice H. de Balzac in un suo romanzo che «les sceptiques sont les hommes les plus consciencieux»[4], perché hanno almeno due coscienze, e ciò è certamente vero, in quanto tutto il mondo si sdoppia in due opposte polarità contrastanti, ineluttabilmente destinate a non conoscere nessuno spasimo d’amore che dei due corpi faccia un animo solo, così da produrre una perfetta temperanza ove le differenze siano soppresse o meglio compresse dal volere di una dualità che senza allentarsi si afferri reciprocamente in un'ansia di fusione. Tale è per Giuseppe Rensi la filosofia dei più tra i filosofi […].


  Paolo Valera, Cameroni: diffusore di Balzac e di Zola, «Avanti! Giornale del Partito socialista», Milano, Anno XXVI, Numero 31, 5-6 Febbraio 1922, p. 3.

  Con lui, Felice Cameroni, siamo in mezzo ai romanzi moderni o più propriamente veristi. Con Balzac, il romanzo passava, dalle avventure agli imbrogli di penna, dal materiale deficiente o inferiore al romanzo della vita vissuta o da vivere. Ai tempi di Cameroni, Balzac era morto. La sua, fine ci è stata narrata da Victor Hugo. In una aura spaventosa del 1850 egli si è trovato davanti ai suoi momenti agonici, con la moglie russa, in giro, senza un pensiero per l’uomo di genio, che spirava. L’autore della Commedia umana era il romanziere più possente che avesse vissuto a trecento lire al volume, accanto a Dumas padre, il romanziere miliardario che moriva con un napoleone d’oro sulla caminiera del suo magnifico appartamento cocottizzato. Il grosso dei lettori italiani ignorava Vautrin, di Rastignac, del padre Goriot e di tanti altri tipi immortali. Felice Cameroni si è buttato nella fornace balzachiana a capo fitto. Li ha portati tutti alla superficie, li ha diffusi, invogliato gli editori che non aspettavano che la produzione carpibile e sfruttabile. […].

  E’ in quelle appendici [de «Il Sole»] che vi stendeva e incitava a leggere le scene della vita di provincia, buttandovi, tra una pennata e l’altra, i colori, gli amori, i pezzi di vita dell’autore di Eugenia Grandet. Di ciascun personaggio egli conosceva il temperamento, il carattere, i vizi, le virtù. Lo ha dimostrato Taine: Balzac era un uomo complesso. Un uomo d'affari, un uomo che sapeva ingolfarsi nei debiti. Un essere che aveva saputo iniziare la vita, romanzesca in soffitta, con dei pasti veramente pitocchi. Gli usurai furono i soli che negli squilibri finanziari lo hanno soccorso sfruttandolo anche nella miseria. E’ alla sua vita di ridancione che egli ha potuto continuare a scrivere capilavori per sedurre e fascinare i lettori ch’egli continuava a moltiplicare. Mercadet fu il suo lavoro immortale di Borsa. Il caffè lo scuoteva, lo agitava, lo metteva a tavolino a mezzanotte per dodici ore di seguito, l’ora in cui correva alla stamperia a correggere le bozze. Più eliminava da sé la penuria e più diveniva ipercritico della sua produzione. Correggeva e ricorreggeva. Egli era capace di rifare le bozze quindici o venti volte. Se smetteva era perché sentiva muggire la tempesta tipografica. Egli ha dovuto salvarsene facendosene proprietario. Se non trovava denaro a prestito fantasticava intorno a un banchiere pieno di cuore. «Servitevi della mia cassa, pagate i vostri debiti, siate indipendente. Io ho fede nel vostro ingegno. Io voglio salvare un grand’uomo». Se sciupava il tempo nella conversazione diveniva a un tratto muto e conversava con se stesso: «mostro infame, tu avresti dovuto produrre del manoscritto invece di chiacchierare».

  Il denaro fu il suo persecutore e il suo tiranno. Godeva mezzo mondo, Balzac, quando supponeva di vedere le folle correre all’insegna del Chat-qui-pelote a comperare la tela e quando riproduceva l’usuraio Gobseck, che tutti conoscevano per le sue grimaces, davanti ai debitori delirava. Insomma egli aveva capito quello che non avevano capito gli autori che si struggevano nell'invenzione della vita.

  Nella vita erano i suoi fondaci, i suoi magazzini. Egli v’entrava e involava e correva a domicilio, a indossare la sua tunica di lana bianca per riprendere la penna per altre dodici ore, tra una tazza di moka e l’altra. Politicamente egli si è creduto reazionario, legittimista, cattolico. Non fu nulla. Fu un uomo simpatico quando aveva il cappello sulle «ventiquattro» per le strade, con la sua canna a ghianda e il puntale di ferro che si faceva sentire, sul marciapiede. I suoi denti erano bianchi, serrati, magnifici.

  Fu un grande romanziere. Ha rifatto il romanzo: ne ha fatto uno storico e uno personale. E in questo senso che fu di tutti. Politicamente era zero. E’ il valore della, sua produzione che noi dobbiamo considerare. Egli è stato monumentizzato da Falguière, da Rodin e da altri. I lettori scelgano o meglio si contentino dell’uno o dell’altro. Le génie de maître è divenuto universale. Non ha malvagi nella sua corrispondenza privata. Li ha soli infarciti nei suoi volumi. Werdet fu il suo editore per 55 volumi.

  Non credo che Felice Cameroni avesse dell’umore balzachiano. Era piuttosto tetro. […]. Conosceva le [donne] balzachiane: madame di Markyans [sic, ?], la deliziosa Eugenia Grandet, ecc. Lui fu un misogino. […].

  La risata rumorosa di Balzac non deve essere stata neanche di Zola. […].

  Il signore di Médan ha avuto una vita chiassosa come nessuno. I suoi romanzi hanno avuto una base scientifica. Furono i romanzi sperimentali. Egli chiamava Balzac le maître de génie della Commedia Umana.


  Alessandro Varaldo, Prefazione in Il Falco (Cronaca del 1796), Milano-Roma, Edizioni A. Mondadori, 1922, pp. XIII-XXII.

  p. XVII. La Francia non è mai rifiorita letterariamente come dopo una disfatta: ad esempio dopo il ‘70. Ed a maggior ragione vinto l’impero e distrutto, fiorisce il romanticismo che fu, si può dire, la salvezza della letteratura non soltanto francese. Walter Scott dominò così da capitanare discepoli come Balzac (se ne vanta lo stesso autore degli Chouans: vedi Illusioni Perdute) come Hugo, come Dumas, come Merimée, come il Barante, lo storico dei duchi di Borgogna, e come il nostro bibliofilo Jacob, astro minore artisticamente, stella di prima grandezza come coscienza d'antiquario, e fedeltà di particolari cronologici. Influenza benefica ripeto, poiché il romanziere, che prendeva a maestro lo scozzese, imparava due grandi verità che ogni scrittore, il quale pretenda raccontare, dovrebbe avere impresse dinanzi agli occhi: la coscienza dei particolari, l’ausilio della fantasia.

  pp. XVIII-XIX. Il giorno infausto in cui Emilio Zola aprì il famoso libro di Claudio Bernard, fonte di tutta la sua sapienza e si pompeggiò, come d’un vestito da veglione, della teoria determinista e si documentò, la strada facilona fu aperta. Che divennero la minuziosa ricerca di Gustavo Flaubert (sono le minuzie che fanno la perfezione, diceva Michelangelo), la precisione e la proprietà dei Goncourt, ed il colore di Alfonso Daudet, davanti alle centomila copie dell'Assommoir? Madonna Fantasia fu scacciata come una serva infedele. Ed il pontefice del naturalismo (?) poteva scrivere in uno degli articoli che periodicamente mandava a un giornale russo, Le Messager de l'Europe, articoli raccolti poi nel volume Les romanciers naturalistes, queste parole di cui non si sa se lamentare più l’ignoranza o l’impudenza ”Ce qui je saisis moins c'est la profonde admiration de Balzac pour Walter Scott ... Il est très curieux de voir le fondateur du roman naturaliste (?) se passionner ainsi pour l’écrivain bourgeois, qui a traité l'histoire en romance. Walter Scott n'est qu’un arrangeur habile …”.

  Come del resto poteva comprendere una passione, semplicemente un entusiasmo di Balzac, il naturalista (?) Emilio Zola?

  p. XX. Ecco perché Onorato di Balzac, signore della Fantasia, si inchinava a Walter Scott ed ecco perché il marionettista da fiera che si inorgogliva d'una coltura occasionale fatta sopra un libro mal compreso di Claudio Bernard non lo poteva capire. Ma chi possiede la fantasia è un gran signore e non si accontenta di una facile vittoria sopra un borgo di villani: va in Terrasanta, nel regno del Prete Gianni e piange quando sente che non potrà conquistar la luna. Ma chi possiede la fantasia ama il pittoresco e costruisce pittorescamente, e narra con tutte le risorse che la decima musa gli fornisce.


  Mario Vinciguerra, Balzac come artista, «Il Mondo politico quotidiano», Roma Anno XI, N. 225, 21 ottobre 1922, p. 3.

 

  Ernesto Seillière, noto studioso dei maggiori fenomeni culturali del secolo XIX, ha pubblicato recentemente una monografia su Balzac (B. et la morale romantique - Paris Alcan). «La qualità della ispirazione morale nell’opera di H. de Balzac — dice il Seillière — è una delle questioni più controverse del nostro tempo. Da una parte vediamo Paul Bourget, seguito da Maurras e dai suoi discepoli, salutare nell’autore del Médecin de campagne il continuatore di Bonald e De Maistre, il precursore di Le Play e di Taine, un igienista sociale ... contro le dannose suggestioni della nevrosi romantica. Al contrario Emile Zola ... ci avverte di considerare come una semplice vernice ingannevole il cattolicismo ed il monarchismo di Balzac ... e di considerare invece la sua opera come democratica in primo luogo — nel senso dato dalla scuola rousseauiana. Quell’opera farebbe di lui il precursore, anzi l’inventore del naturalismo, cioè di un movimento essenzialmente romantico nella sua ispirazione come si accorge facilmente ogni spirito attento».

  Certo in un libro che s’intitola a Balzac e alla morale romantica si spiega in certo modo il tentativo di processo alle intenzioni balzacchiane. Ma tanto più in questo caso è necessario togliere ogni equivoco. La Commedia umana tratta con abbondanza, talvolta eccessiva, di argomenti sociali, politici, filosofici (in qualche volume si fa anche della teosofia).

  Era il debole di Balzac, come di molti artisti; ma non per questo bisogna dimenticare che Balzac va studiato per un artista, cioè per quello che veramente conta nella storia della cultura francese. Le sue opinioni, le sue fisime, ecc. serviranno a completarci davanti agli occhi la sua figura, per spiegarci meglio certi lati anche della sua arte, ma non più.

  Il Seillière in questo come nei precedenti suoi scritti dà alla parola Romanticismo confini così larghi e così indefiniti che può entrarci di tutto, anche la politica e la morale di Balzac, la quale, in ultima analisi, è condannata come sostanzialmente romantico-rousseauiana. Il Seillière verrebbe quindi a risolvere l’antitesi da lui posta, negando l’asserzione di Bourget, Maurras, ecc. Questa negazione è tutt’altro che esatta, perché effettivamente il pensiero politico di Balzac fu sullo stesso piano dei filosofi della restaurazione. Si pensi che egli giunse fino alla giustificazione del magiorascato, del fidecommesso e per lungo tempo rimpianse il «saggio» Carlo X.

  L’errore sta nell’aver impostato il ragionamento su una tale antitesi, la quale non regge, perché si riferisce a due elementi molto differenti della mentalità balzacchiana. Nel primo termine dell’antitesi si allude ad un Balzac politico e moralista, nel secondo a Balzac scrittore di romanzi; e poi si domanda se, essendo giunto, come scrittore, fino alle soglie del naturalismo — come giunse di fatto — non abbia contraddetto per caso ad alcune premesse ultra conservatrici delle sue opinioni politiche. E’ uno sforzo vano di mettere su di uno stesso piano fenomeni diversi e che non si possono spiegare l’uno in funzione dell’altro; anzi, messi a confronto, ingarbugliano le idee, che studiate da per loro e nel loro significato intrinseco sono molto più semplici. E chi ha posto la regola che naturalismo debba significare rousseauianismo — cioè democratismo, radicalismo ecc. —? Fu così in Zola o in altri. Ma Spencer, per esempio, fu un conservatore di tre cotte, e, nella stessa cerchia dei letterati francesi della metà dell’ottocento, i fratelli De Goncourt, naturalisti, anzi sperimentalisti, furono ultraconservatori e entichés di aristocratismo.

  Ci troviamo dunque davanti ad un esempio di più del come sia un tentativo di illusoria sintesi, risultante in una reale confusione di idee eterogenee, quello di presentare una storia del romanticismo letterario – artistico politico – sociale ecc. Il romanticismo fu fenomeno essenzialmente culturale e letterario, che ebbe ripercussioni più o meno forti nel campo delle arti plastiche. Entro questi confini si possono apportare ancora nel campo degli studi contributi concreti utili per la conoscenza di uomini e di tendenze; se no, si torna ad abusate generalità. Parlare di una «morale romantica», di una «politica romantica» è un fare variazioni intorno a generalità. Morale romantica di Giorgio Sand, morale romantica di Mazzini, morale romantica di Carlyle? Dove pianteremo le nostre tende? Si dirà che in fondo a queste o altre varie estrinsecazioni c’è qualche cosa di comune — per esempio, il senso dell’individuo, ecc. —. Non nego; ma appunto perché si pone qualche elemento che accomuna individui e fenomeni diversi nelle qualità specifiche, si resta nelle generalità, cioè si lavora in un senso inverso a quello che si richiede per fare una opera di ricerca analitica sui caratteri specifici di uno scrittore.

  Molto più istruttivo a me pare studiare come s’intreccino in Balzac — artista, s’intende — le due correnti del romanticismo e del naturalismo. Il coesistere delle due tendenze in Balzac, quel suo stare quasi a cavalcioni tra due epoche letterarie fu visto con maggiore precisione che da altri da Emile Faguet («c’è in Balzac un romantico e un realista, e c’era in lui tanto da essere ai suoi tempi il capo di una scuola, e dopo, per un’altra parte di sè stesso, il capo della scuola contraria»). Ben detto; solo che il Faguet, insieme con tutta la critica francese, generalmente, drammatizza quasi il contrasto tra romanticismo e naturalismo (questo è la «scuola contraria»); e così è portato per necessità a staccare la figura del Balzac dal corso della storia letteraria francese e presentarlo come un fenomeno unico e quasi eccezionale.

  Una osservazione più attenta della letteratura europea del secolo scorso mostra abbastanza chiaro come, il naturalismo sia stato la conseguenza fatale del romanticismo. Fu il romanticismo stesso, che, risvegliando il senso storico, di contro all’enciclopedismo settecentesco, apriva le porte anche alla realtà quotidiana del nascituro romanzo naturalista.

  Balzac è il più grande scrittore del momento di transizione. Quello che gli è più vicino è probabilmente Stendhal; ma Balzac, più caotico e più grezzo, lo supera indubbiamente per ricchezza di elementi artistici, che gli ribollono dentro, come in un vulcano.

  Piuttosto, se un fenomeno si vuol additare in Balzac, è questo: che, salvo per quello che riguarda la tecnica del romanziere, in lui si presenta uno scarso sviluppo. Poiché non bisogna dimenticare che Balzac ha cominciato dal romanticismo della prima maniera, in romanzi storici con evidenti influenze di Walter Scott (Les Chonans) (sic); e non meno evidenti sono nei primi anni le influenze della letteratura amena sensistica del settecento, senza esclusione neanche di scrittori del tipo Brillant (sic) Savarin (cfr. Physiologie du mariage); ma subito dopo, se non addirittura contemporaneamente, si fissano influenze più potenti e più decisive, cioè quelle mistiche per la lettura di Swedenborg e di Saint Martin — che il Balzac pone tra le letture giovanili in quella specie di autobiografia che è Louis Lambert — che s'intrecciarono con quelle derivate dallo studio dei naturalisti della fine del Settecento e dei primi dell’Ottocento. Anzi, proprio sotto la doppia impressione del misticismo e delle teorie di Geoffroi (sic) Saint Hilaire egli concepì l’idea di una «Commedia umana», come una storia naturale del genere umano.

  Questa doppia sorgente d’ispirazione — naturalistica e mistica — è chiaramente indicata nella introduzione alla Commedia umana (edizione del 1842):

  Sarebbe un errore credere che il grande dibattito sostenuto, in questi ultimi tempi, tra Cuvier e Geoffroi Saint Hilaire, poggiasse su di una nuova visione scientifica. L’unità di composizione, sotto altre parole, era già argomento di riflessione dei più alti spiriti dei due secoli precedenti. Rileggendo le opere straordinarie dei mistici, – quali Swedenborg, Saint Martin, ecc., e dei maggiori naturalisti ... si trovano i rudimenti della legge del sè per sè, su cui si fonda l’unità di composizione. Non c’è che un animale. Il Creatore non si è servito che di un unico modello per tutti gli esseri organizzati ... Penetrato di questo sistema anche prima dei dibattiti, ai quali ha dato materia, io vidi che, sotto questo rapporto, la società rassomiglia alla natura. Sono esistite, dunque, ed esisteranno in ogni tempo specie sociali, come ci sono specie zoologiche.

  E così via. Ora, senza attardarci in una inutile discussione sul valore intrinseco dei concetti scientifici espressi da Balzac, sul maggiore o minore coordinamento di essi, ecc. è importante invece ricavare quali furono, i punti di partenza della Commedia umana. Swedenborg e Saint Hilaire sono presentati come gl’ispiratori prossimi di una concezione cosmica, di cui l’opera d’arte doveva essere una specie di prova sperimentale. Queste, si capisce, erano illusioni. Balzac non è un filosofo e resterebbe imbarazzato fronte ai vostri sillogismi, o forse farebbe, a ragione, un gesto d’impazienza. Il misticismo fu uno dei principali elementi romantici che si fissò nel suo pensiero; tanto vero che, concretato in un’opera d’arte, esso ci appare (p. es. in Séraphita) più vicino ad Ondina, di La Motte Fouqué. Romanticismo e naturalismo sono dunque elementi paralleli e coesistenti nell’arte balzacchiana, la quale non partì dal romanticismo per giungere al naturalismo, attraverso una o più o meno lenta evoluzione. Le due tendenze sono sorte insieme su di un medesimo tronco e s’intrecciano intorno ad esso stranamente, talvolta baroccamente; ma per comprendere bene l’arte di Balzac bisogna studiarle insieme, come sono nate e come si sono sviluppate. La critica francese si è accanita ad un lavoro inverso: essa ha cercato o di tagliare un ramo o di dividere in due un tronco. Questo risponde alle tendenze scolastiche, alle separazioni per categorie, che sono tante (sic) care alla critica francese; ma la personalità artistica di Balzac è stata sacrificata.



Adattamenti lirici.


   Antonio Lega, Étienne da “L’enfant maudit” di O. Balzac. Adattamento lirico in tre atti e un epilogo di Antonio Lega per la musica del maestro Arnaldo Carloni, Pesaro, Stab, d’arti grafiche G. Federici, 1922, pp. 41.

  Fonte: Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Testo digitalizzato.



Filmografia.


  Ted l’invisibile [da: La Canne de M. de Balzac]. Regia di Carlo Campogalliani. Sceneggiatura di Carlo Campogalliani e Carlo Pollone. Fotografia: Sergio Goddio. Interpreti: Carlo Campogalliani (Ted), Letizia Quaranta (Letty), Arnaldo Firpo (Marbus), Leopoldo Lamari, Ines Lazzari, Torino, Campogalliani e C. Film, 1922.

  Una sequenza del film è visibile su:

  www.youtube.com/watch?v=d2XDDnbim28


  [1] Cfr. Marcel Bouteron, Auguste Le Sourd, Un conseiller de Balzac. Le Lt.-Conseiller Périolas. Lettres inédites, «Revue des Deux Mondes», Paris, Quatre-vingt-douzième année, 15 Janvier 1922, pp. 422-442.

  [2] Ispirandosi alla tendenza verista, l’A. adattò per il teatro alcune note opere letterarie: Resurrezione di L. Tolstoi (1902), L’Edera di Grazia Deledda (in coll. con la stessa Deledda, 1909), Vautrin di Balzac (1913).

  [3] Cfr. il saggio di Adolfo Bianchi segnalato in precedenza.

  [4] Citazione tratta da La Peau de chagrin.


Marco Stupazzoni