sabato 27 marzo 2021



2010

 

 

 

 

Adattamenti in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Le père Goriot. Adaptation, exercices et notes: Olivier Béguin; révision: Valerie Durand; illustrations: Juan Jorgi; édition: Sylvie Proser, Milano, La Spiga languages; Recanati, ELI, 2010 («Lectures très facilitées. Livres d’activité»), pp. 62; ill.; 1 CD-Audio.

 

  Cfr. 2000.

 

 

 

 

Edizioni bilingue.

 

 

  Honoré de Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro. La fille aux yeux d’or. Testo originale a fronte. Traduzione di Angelita La Spada, Milano, Alia Editrice, (febbraio) 2010, pp. 171.

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Sillabario. Salotti, «la Repubblica», Roma, 15 luglio 2010, p. 38.

 

  Da: Gli Impiegati.

 

  Mentre la serata sembrava eterna alla signora Rabourdin, in Place Royale si svolgeva una di quelle commedie che si presentano a Parigi in sette salotti ad ogni cambiamento di ministro. Il salotto dei Saillard era stipato. Il signore e la signora Transon arrivarono alle otto. La signora Transon si precipitò ad abbracciare la signora Baudoyer, nata Saillard. Balaille, capitano della Guardia Nazionale, entrò poco dopo con sua moglie e il curato di Saint-Paul.

  «Signor Baudoyer», disse la signora Transon, «voglio essere la prima a farvi i complimenti: hanno reso giustizia alle vostre qualità! Andiamo, vi siete ben meritata questa nomina».

  «E possiamo ben dire che tutto si è svolto senza imbrogli», esclamò papà Saillard. «Non siamo intriganti, noialtri, e non andiamo alle serate intime del ministro!».

 

 

  Honoré de Balzac, Sillabario. Banchieri, «la Repubblica», Roma, 1 aprile 2010, p. 44.

 

  Da: La banca Nucingen.

 

  Ma, disse Couture, spiegata così la banca, nessuna attività economica è possibile. Più di un banchiere credibile ha persuaso, con l’approvazione di un governo credibile, i più sottili investitori di Borsa a sottoscrivere dei titoli che in un dato tempo si sarebbero deprezzati. Che c’è di meglio? Emettere titoli per pagine degli interessi su certi fondi, mantenerne alto il corso e poi disfarsene.

  Su piccola scala, disse Blondet, l’affare può sembrare singolare. Ma in grande, è alta finanza. Se voi prendete cinquemila franchi dal mio sécretaire, finite in prigione. Ma se con il sapore di un grande guadagno, abilmente fatto gustare a mille investitori di borsa, voi li spingete a sottoscrivere i titoli di non so quale repubblica o monarchia in fallimento, emessi, come dice Couture, per pagare gli interessi dello stesso debito, nessuno potrà reclamare. Ecco i principi dell’età dell’oro in cui viviamo.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Les Chouans. Una passione repubblicana, traduzione di Giuseppe Grandi, Torino, Beppe Grande, (maggio) 2010 («Gl’infiniti mondi», 5), pp. XVI-380; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  La redazione, Introduzione, pp. VII-XI;

  Nota bio-bibliografica, pp. XII-XVI;

  Les Chouans, pp. 1-375.

 

  Non si può certo dire che, a confronto di altre opere della Comédie humaine, Les Chouans ou la Bretagne en 1799 abbia goduto, in Italia, di attenzioni o di interessi editoriali meritevoli di essere sottolineati e di essere semplicemente segnalati come significativi. Pubblicato in prima edizione nel marzo 1829 e preceduto dall’importante documento estetico programmatico intitolato: Avertissement du Gars, questo romanzo balzachiano ha avuto, dalla prima metà dell'Ottocento ad oggi, soltanto due traduzioni italiane integrali pubblicare rispettivamente nel 1928 (trad. di T. Ciancaglini, Milano, Corbaccio) e nel 1964 (Milano, Cino del Duca).

  Nella «Introduzione» che precede il romanzo di Balzac, sono messe in luce le tematiche principali dell’opera sotto la prospettiva storica e sentimentale: ne Les Chouans, si legge, «si incontrano gli elementi essenziali del pensiero balzachiano sulla doppia vista (la Spécialité), che consiste nel vedere le cose del mondo materiale così bene come quelle del mondo spirituale attraverso gli sguardi estasiati, la storia e la creazione romanzesca» (p. X). Vengono altresì sottolineati il rilievo assunto nell’opera dalla figura di Mlle Verneuil, un personaggio sorto «da qualche incontro lontano, uno spettacolo, una presenza teatrale, che hanno improvvisamente rivelato all’autore l’ideale di donna» (ibid.), e l’importanza del dialogo che, insieme all’abilità descrittiva mostrata dal giovane scrittore, contribuisce a rendere questo romanzo un «dramma in tutta la sua verità, un vero gioiello nel rendere il peso della grande storia su quella piccola, privata» (p. XI).

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet nella traduzione di Grazia Deledda. Introduzione di Riccardo Reim. Edizione integrale, Roma, Newton Compton, (maggio) 2010 («Grandi tascabili economici», 656), pp. 159.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Riccardo Reim, Balzac, la «Comédie humaine» e la famiglia Grandet, pp. 5-8;

  Stefano Doglio, Nota biobibliografica, pp. 9-11; 11-17;

  Eugénie Grandet, pp. 19-159.

 

  Cfr. 1994.

 

 

  Honoré de Balzac, Il medico di campagna. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzione di Andrea Zanzotto, Milano, Garzanti, 2010 («I grandi libri»), pp. XXII-227.

 

  Cfr. 1977 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Pensieri, in AA.VV., Antologia dei Cattolici francesi del secolo XIX (De Maistre – Bonald – Lamennais – Balzac – D’Aurevilly – Hello – Veuillot – Bloy). Traduzione e notizie di Domenico Giuliotti, Lanciano, Rocco Carabba Editore, 2010 («Cultura dell’anima», 74), pp. 60-64.

 

· Ristampa anastatica dell’edizione pubblicata nel 1920.

 

 

  Honoré de Balzac, Sarrasine. Traduzione di Rosanna Farinazzo; con uno scritto di Jean Reboul, Milano, Feltrinelli, 2010 («Universale economica», 2216), pp. 60.

 

  Cfr. 1993. Su licenza della casa editrice ES/SE.

 

  Pubblicato in prima edizione, nella «Revue de Paris» (21 e 28 novembre 1830) e successivamente inserito nei Contes philosophiques (1832) e nei Romans et contes philosophiques nel 1833, Sarrasine troverà la sua definitiva collocazione nel 1835 all’interno delle Scènes de la vie parisienne.

  Nel saggio che segue il testo di Balzac – edito nel 1967 nei «Cahiers pour l’Analyse» – (“Sarrasine” ovvero la castrazione personificata, pp. 51-60), Jean Reboul sottolinea il carattere onirico dell’opera, nella quale il narratore «si sforza di comunicare il sentimento di dissociazione che prova, che è il tema della novella e che sarà chiarito solo dal progressivo svelarsi della situazione» (p. 52). Sarrasine di Balzac, osserva l’autore in conclusione, non ha equivalenti nella letteratura francese: è una novella «carica come una pila di forze tanto più distruttive, all’epoca, in quanto non erano affatto delucidate (e anzitutto all’autore stesso)» (p. 60).

 

 

  Honoré de Balzac, Sarrasine. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 2010 («I grandi libri», 832), pp. LXII-37.

 

  Cfr. 2000.

 

  Nella presentazione del testo, che segue una più ampia e generale introduzione sulla formazione artistica e sul percorso letterario dello scrittore, Binni sottolinea la natura “anfibologica” del racconto balzachiano. nel quale «la compresenza di elementi fantastici e di elementi realistici» ne fanno uno dei testi «più enigmatici c più aperti a svariate interpretazioni» (p. LVI) dell’intera Comédie humaine. Se, attraverso «un gioco di specchi e di antitesi», si ritrova, in Sarrasine, una suggestiva galleria di motivi che «s’incrociano e si oppongono», è il tema dell’arte quello che sembra dominare su tutti. Come altri celebri scritti di Balzac, Sarrasine è «una meditazione sull’arte», e, in particolare, «sul paragone fra le arti»; «alla stabilità e ai limiti della scultura – osserva Binni – si contrappongono, nel racconto, la libertà e l’universalità della musica, che riunisce in sé tutti i generi e che simboleggia, forse, la ricerca di quel capolavoro, infinito e androgino, che Sarrasine ha inutilmente tentato di raggiungere» (p. LVII).

 

 

  Honoré de Balzac, Studio di donna. Il messaggio La donna abbandonata. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Piero Pagliaro, Milano. Garzanti, 2010, («I grandi libri»), pp. LXVI-75.

 

  Cfr. 2000.

 

  Edite rispettivamente ne «La Mode», ne «La Revue des deux mondes» e ne «La Revue de Paris» tra il 1830 e il 1832, le opere qui presentate appartengono ad una delle fasi più intense della creatività artistica di Balzac ed offrono la rappresentazione di una fenomenologia dei tipi femminili la cui focalizzazione narrativa ed ideologica appartiene a tutti gli effetti al disegno unitario dell’opera generale in divenire. Rispondendo a quella «suggestiva immagine dell’Onda mulier che emerge come metafora paradigmatica» (p. LXII). Le rappresentazioni della donna che si delineano dietro alle finzioni romanzesche mettono in luce, osserva P. Pagliaro nella sua Prefazione alla raccolta, il suo ruolo di «catalizzatrice di milieu e di situazioni che, pur integrandosi sempre perfettamente allo sfondo della Restaurazione, si mantengono in una sfera di autonomia che le rende universali» (p. LXIII). Ed esproprio in questo fondamentale elemento “romantico” delle passioni che il Balzac realista e il Balzac visionario, la vita e l’opera, si richiamano e si sovrappongono in una «perenne, reciproca, tensione polare» (ibid.). La passione divelta allora la chiave di volta per comprendere tutto il sistema narrativo balzachiano poiché, senza di essa, scriverà lo stesso romanziere nell’Avant-propos del 1842, «la religion, l’histoire, le roman, l’art seraient inutiles».

 

 

  Honoré de Balzac, La trentenne. Traduzione e postfazione di Myriam Cristallo; con un saggio di Charles-Augustin de Sainte-Beuve, Milano, Oscar Mondadori, (settembre) 2010 («Oscar classici», 645), pp. XLII-229.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Introduzione. Charles-Augustin de Sainte-Beuve, Balzac, pp. V-XXI;

  Paola Dècina Lombardi (a cura di), Cronologia, pp. XXII-XXXIII;

  Id., Bibliografia, pp. XXXIV-XLII;

  La trentenne, pp. 1-203;

  Note, pp. 205215;

  Myriam Cristallo, Postfazione, pp. 217-228.

 

  Questa nuova edizione italiana de La Femme de trente ans di Balzac presenta in realtà, nella traduzione del testo, la versione che M Cristallo ha redatto nel 1995 quando il romanzo balzachiano fu pubblicato nella collana «I Classici classici» dell’editore Frassinelli. Alla stessa Cristallo, dobbiamo l’esaustivo apparato delle note al testo e la «Postfazione» nella quale si ripercorrono i momenti fondamentali della vita e della produzione romanzesca dello scrittore francese con un’attenzione particolare al romanzo in oggetto, che l’A. definisce «il primo romanzo veramente balzachiano» (p. 220) in quanto studio di un’epoca e di una società storicamente determinate: un’opera formata nel tempo da una serie di racconti in cui risulta già applicato in nuce il principio del ritorno dei personaggi.

  Pubblicato su «Le Constitutionnel» il 2 settembre 1850, poche settimane dopo la morte di Balzac, questo denso saggio commemorativo sul romanziere francese scritto dal Sainte-Beuve è inserito in apertura del presente volume come Introduzione al romanzo. Almeno nelle intenzioni, ma il tono di questo ritratto potente ed incisivo resterà, salvo qualche velato accenno polemico, equilibrato e benevolo nel corso di tutto il suo svolgimento, Sainte-Beuve intende comporre uno studio sul Balzac «con un sentimento sgombro da ricordi personali» (p. V). Balzac, scrive il critico, «è stato certamente un pittore dei costumi del nostro tempo, e forse il più originale, il più adatto e il più penetrante. Ha subito consideralo l’Ottocento il suo argomento, una sua cosa; vi si è dedicato con passione e non ne è più uscito» (pp. V-VI). Egli ha saputo rinnovare la tradizione, giudicando il proprio tempo nella sua totalità e nei suoi aspetti più salienti: da questo punto di vista, l’invenzione balzachiana del tipo della donna di trent’anni rappresenta una delle scoperte più vere nell’ambito del romanzo intimo» (p. VIII). Il lato analitico del Balzac, fondato sulla penetrante osservazione della realtà, si vede continuamente penetrato ed alimentato dalle facoltà immaginative, intuitive e visionarie dell’autore: Balzac «aveva la pretesa della scienza, ma quel che aveva soprattutto, in effetti, era una sorta di “intuizione filosofica”» (p. XI). Egli era come sempre in preda alla sua opera, ne era come inebriato: l’opera di Balzac, osserva ancora Sainte-Beuve, «ha guadagnato in vivacità e in calore dalla stessa ebbrezza dell’artista, attraverso la quale trovava modo di insinuarsi una squisita finezza» (p. XII). Se sono tre gli aspetti fondamentali in un romanzo, vale a dire i caratteri, l’azione e lo stile, Balzac eccelleva soprattutto nella pittura dei caratteri, facendoli vivere e scavandoli «in modo indelebile» (p. XV). Al contrario, nei romanzi balzachiani. è l’azione che pare debole, mentre lo stile risulti al critico «fine, sottile, coerente, pittoresco, senza alcuna analogia con la tradizione» (ibid.). Questo continuo alternarsi di sobrietà e di eccesso lo si ritrova ne Les Parents pauvres e ne La Cousine Bette, in particolare: un romanzo che, studiato a parte, «si presterebbe a riflessioni che non riguarderebbero solo Balzac. ma tutti noi, sottolinea Sainte-Beuve, figli più o meno misteriosi o confessi di una lettura sensuale» (p. XVIII). Rispetto ai suoi contemporanei (Sand, Sue, Dumas), Balzac è, agli occhi del critico, lo scrittore che «stringe e scava di più» (p. XX); la sua opera, egli osserva in conclusione, ha fatto scuola e questa scuola ha fatto il suo tempo: essa «ha dato i suoi talenti più vigorosi, quasi giganteschi; buona o cattiva che sia, si può pensare oggi che il meglio della sua linfa si è esaurito» (ibid.).

 

 

  Honoré de Balzac, Voyage en Sardaigne a cura di Corrado Piana. Traduzione di Maria Grazia Bianco, Cargeghe, Editoriale Documenta, (settembre) 2010 («Studii», 1), pp. 73.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Corrado Piana, A due passi dalla bella Italia, pp. 7-43;

  Nota del curatore, pp. 45-47;

  Nota del traduttore, p. 49;

  Voyage en Sardaigne, pp. 51-71.

 

  La tormentata e fallimentare esperienza di viaggio compiuta da Balzac in Sardegna nella primavera del 1838 – che segue le precedenti «incursioni» del romanziere francese in terra italiana nel 1836 e nel 1837 – è testimoniata in «presa diretta» da una serie di lettere (sette, per la precisione) inviate, il più delle volte nella effimera e disagevole occasionalità di un contesto ambientale ostile, a Madame Hanska dal 26 marzo al 22 aprile del 1838.

  Queste epistole sono raccolte e presentate in traduzione italiana in questo fine ed elegante volumetto curato da Corrado Piana (Direttore della Biblioteca di Sardegna) e pubblicato in occasione della suggestiva mostra documentaria: «Honoré de Balzac. Voyage en Sardaigne» allestita a cura del centro culturale di Cargeghe (Sassari) dal 15 ottobre al 14 novembre 2010.

Il «piano di fortuna» predisposto da Balzac come una sorta di reazione «di forza, di sangue, di coraggio, di speranza» a dieci anni di esistenza segnati dall’ingiuria, dalla calunnia e dai processi (cfr. lettera del 26 marzo) prevedeva lo sfruttamento delle miniere argentifere sarde e dei relativi giacimenti di scorie abbandonati e fino ad allora mai sfruttati. L’impresa, è noto, risultò disastrosa e umiliante per lo scrittore: ma l’interesse e il fascino del racconto epistolare balzachiano su questa sua esperienza di viaggio in Sardegna, una terra che è stata «per l’intero Ottocento ambito approdo di turisti per passione e viaggiatori per professione» (p. 19), risiede nel carattere epico delle descrizioni ambientali e antropologiche nonché nelle intense e sconvolgenti impressioni provate dallo scrittore nel corso del suo viaggio sull’Isola ed impresse in modo così fantasticamente eccessivo nella scrittura. Scorgere nella Sardegna l’Africa, qualcosa cioè di incomprensibilmente outré, di eccessivamente rozzo, selvaggio, desertico e primitivo rispetto agli armoniosi e vivaci splendori della «Bella Italia» ed ai convulsi ritmi della vita parigina, mostra in quale misura Balzac solleciti e spinga «la scrittura a un grado di espressione estrema, lontana dal grigiore della media e della realtà quotidiana» (p. 22). In Balzac, osserva Piana, «il viaggio è avant tout pretesto di scrittura» (p. 23) dove «l’impossibile verosimile [...] è la stona irreale del viaggiatore “voyant” che fa di velleità fortuna; l’incredibile possibile, eppure inenarrabile, è il narrativo artifizio di un autore “visionnaire” che fa di sogno vagheggio» (p. 25). In altri termini, il racconto del viaggio in Sardegna narrato da Balzac potrebbe addirittura interpretarsi come un mero artificio romanzesco. Un «suggestivo interrogativo privo però di validità probatoria – osserva Piana in conclusione –, perché se attualmente indimostrabile è la spedizione nell’Isola, altrettanto sarebbe la sua stessa indimostrabilità. Così come vano sarebbe ogni tentativo confutatorio di un crittografismo umano e artistico che proprio nel paradigma balzachiano dell’enigma cela la sua cifra stilistica, la sua cauzione teorica, che ne è anche il passe-partout per l’eternità» (p. 28).

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac nella Francia degli Chouans. Una passione repubblicana, «La Stampa Tuttolibri», Torino, Anno XXXIV, N. 1735, 9 ottobre 2010, p. VI.

 

  Il primo romanzo di Balzac, il primo «capitolo» della Comédie Humaine, è Les chouans. Lo propone, con il sottotitolo «Una passione repubblicana», Beppe Grandi editore (traduzione di Giuseppe Grande, pp. 380, € 14). E’ un capitolo della reazione alla Rivoluzione francese. I Chouans sono gli insorti nella Mayenne e nella Francia Sud-occidentale tutta. Amore e storia politica si intrecciano nell’officina balzachiana. Il ministro della Polizia Fouché confeziona una trappola amorosa per catturare il Gars, il capo dei ribelli.

 

 

  Stefano Agosti, Tempo e durata nella “Comédie humaine” di Balzac, in Il Romanzo francese dell’Ottocento. Lingua forme genealogie, Bologna, Società editrice Il Mulino, 2010 («Collezione di testi e studi. Filologia e critica letteraria»), pp. 108-149.

 

  L’esigenza programmatica di organizzare, sia pure dall’esterno e artificialmente, la pluralità e la mutevolezza dei fenomeni, delle cause e dei principi che stanno alla base del mondo contemporaneo all’interno di un sistema letterario e finzionale strutturato ed organico, ma nel contempo flessibile ed aperto, costituisce l'elemento essenziale dell’estetica balzachiana del romanzo. Nel tentativo di assicurare al proprio sistema narrativo la propria coerenza e la propria specifica dinamicità interna, attraverso, ad esempio, la circolazione del tutto cronologicamente asistematica – ma funzionale sotto la prospettiva strutturale – dei personaggi rispetto alla cronologia di produzione e di collocazione delle opere in cui viene raccontata la loro storia e vengono scandite le tappe delle loro evoluzione, Balzac «inscrive l’intera Comédie humaine [...] all’interno di una temporalità estranea alla durata» (p. 112). In altri termini, osserva S. Agosti, lo scrittore attua, pur con qualche rilevante eccezione, il «superamento del tempo come durata» e subordina il proprio sistema narrativo al «tempo come factum, al tempo che ha già avuto luogo» (ibid.): un tempo ‘sferico’, precisa l’autore, «inclusivo non solo del presente ma anche del futuro» che si avvale, per essere manifestato ed affermato, di specifici equivalenti come le descrizione, che, da questo punto di vista, risultano potentemente funzionali nel garantire «una stabilità, una generalità fuori del relativo e, per ciò stesso, fuori della durata» (p. 113). Caratteristico del genere epico, il tempo concluso, vale a dire un tempo lontano dalla storia, raccoglie ed articola attraverso la narrazione una pluralità di campi di forze: il denaro, la violenza dell’eros, che, benché sorretti ed alimentati da elementi reali ed antropologici, sono continuamente proiettati e ridefiniti nel campo dell’immaginario o piuttosto nella dimensione del simbolico, «ove la trascendenza non è mai disgiunta dalla contingenza che l’ha generata» (p. 149).

  Balzac, dunque, sottolinea Agosti dopo aver analizzato gli specifici elementi di questo organismo letterario, cioè le opere, considerate in relazione alla cronologia della loro redazione, «non è uno scrittore della profondità in quanto è uno scrittore di quel tempo assoluto che coincide con la “distanza epica” dalle cose e dagli eventi. Per cui la quantità della produzione non è altro che la conseguenza “naturale” della somma di cose e di eventi offerti all’occhio dell’auctor dalla distanza epica del tempo assoluto» (p. 139).

 

 

  Daniela De Agostini, Accordi armonici. Modernità di Honoré de Balzac, Perugia, Morlacchi Editore, 2010 («Biblioteca di Cultura Morlacchi», 15), pp. 199.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Da “Wann-Chlore” a “Albert Savarus”. Riminiscenze tristaniane, pp. 13-57; cfr. 2008;

  Godefroid, o della «étoile au front». Una fonte inedita di “Les Proscrits”, pp. 59-96; cfr. 2007;

  Balzac e le leggi della costruzione dell’opera d’arte, pp. 97-123; cfr. 1988;

  “Le Père Goriot”: generi e intrecci, pp. 125-146; cfr. 1995;

  Le parole taciute. “La Fausse maîtresse” e il differimento della dichiarazione, pp. 147-170; cfr. 1999;

  L’amore oltre l’onore: “Honorine” e la leggenda tristaniana, pp. 171-189; cfr. 1993;

  Bibliografia, pp. 191-196;

  Fonti bibliografiche, p. 197.

 

 

  Renato Barilli, Hugo e Balzac danno la supremazia alla Francia, in La Narrativa europea in età moderna. Da Defoe a Tolstoi, Milano, Bompiani, 2010 («Studi Bompiani») pp. 210-253.

 

  Il sesto capitolo di questa intensa «passeggiata condotta lungo due interi secoli della migliore letteratura europea», (p. 5 dell’«Introduzione»), porta Renato Barrili ad affrontare una rilettura, del tutto personale ma sempre legata ai testi presi come riferimento, della produzione romanzesca di tre scrittori francesi: Hugo, Balzac e Sand. Ne emerge un quadro estremamente variegato di tematiche, di personaggi, di ambienti, di vicende che, pur rispecchiando la specifica prospettiva di analisi relativa ad ogni singolo autore per quel che riguarda lo studio della società del proprio tempo, offrono al lettore una visione completa, plurale e dinamica della realtà umana collocata entro ben definiti scenari e contesti sociali, politici ed economici.

  Nel soffermarsi con attenzione sui momenti e sugli esempi più significativi del percorso letterario di Balzac, esplicitati nelle strutture, negli esempi e nei ritmi narrativi dei romanzi della Comédie humaine, l’A. sottolinea la pluralità dei codici e dei temi oltre che l’apertura e la flessibilità estrema del sistema romanzesco balzachiano. L’avventura critica di Barilli all’interno del complesso macrocontinente funzionale della Comédie humaine inizia, seguendo un criterio di progressione cronologica, da Les Chouans e dalla produzione letteraria degli anni Trenta per procedere poi nell’analisi di alcuni tra i più celebrati capolavori e concludersi con lo studio di un insieme di «perfetti capolavori, che tali sono forse perché più che in altri casi l’autore tiene a freno le seduzioni rigurgitanti del romanzesco, per affidarsi, con bisturi affilato e spietato, alla dissezione dei costumi della vita urbana» (p. 243).

  Si tratta, nello specifico, di quattro opere: Le Colonel Chabert, César Birotteau, Le Cousin Pons e La Cousine Bette, nelle quali Balzac, differenziando e variando la rappresentazione del suo repertorio di destini umani, «prosegue implacabile a infilzare nel suo spiedo sempre nuovi brani di verità palpitante», dove «la carta moschicida strappa via mirabili registrazioni in presa diretta» (p. 249).

 

 

  Mariolina Bertini, Incroci obbligati. Romanzo, ritratto, “mélodrame”, Milano, Edizioni Unicopli, 2010 («Dipartimento di Italianistica. Università degli studi di Parma. Parole allo specchio/Studi e testi», 22).

 

  Struttura dell’opera:

 

  Premessa, pp. 9-12;

  Parte prima. “Le rovine di un mondo”: la poetica di Balzac nelle sue prefazioni, pp. 13-69; cfr. 2000;

  Parte seconda. “Mélodrame” e romanzo.

  “Mélodrame” e “Roman de mœurs” in “Wann-Chlore”, pp 73-82; cfr. 2008;

  Da Adèle à Julie: “Antony” nel “Rendez-vous” di Balzac, pp. 83-101; cfr. 1998;

  “Pierrette”: “mélodrame” e desiderio mediato, pp. 103-120; cfr. 2002 e 2006;

  [...].

  Parte terza. Ritratti.

  Balarouth: Balzac ritrattista nel 1822, pp. 149-156; cfr. 2003 e 2005;

  Ritratto e “mélodrame”: in margine a due “Scènes de la vie privée”, pp. 157-171; cfr. 2003;

  [...].

  Parte quarta. Prima della “Recherche”: il Balzac del giovane Proust.

  “Une puissance un peu matérielle”: Balzac in “Jean Santeuil”, pp. 191-211; cfr. 2005;

  La memoria imperfetta: M. de Guermantes e il suo Balzac nei “Cahiers Sainte-Beuve”, pp. 213-224; cfr. 2007;

  Nota bibliografica, pp. 225-226.

 

 

  Mariolina Bertini, Dal palcoscenico al romanzo: l’ “Olympia” di Balzac e il ‘mélodrame’, in AA. VV., Contatti Passaggi Metamorfosi. Studi di letteratura francese e comparata in onore di Daniela Dalla Valle, a cura di Gabriella Bosco, Monica Pavesio, Laura Rescia, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2010 («Temi e testi»,), pp. 245-258.

 

  Il rilievo ed il fascino che il genere melodrammatico assume nell’opera balzachiana trova un motivo di grande interesse nell’affiorare del ricordo di un mélodrame del 1808 – Olimpia ou la caverne de Strozzi, dovuto a un certo F.-B. Gilbert – nell’enigmatico ed esilarante récit-pastiche di Balzac: Fragments d’un roman publié sous l’Empire par un auteur inconnu [Olympia ou les vengeances romaines]. Il riferimento intertestuale è presente sia nella prima versione del 1833, sia nelle successive edizioni del 1834 e del 1843, al momento dell’inserimento nella Muse du département. È proprio sulle suggestive allusioni di questa reminiscenza melodrammatica che riflette M. Bertini in questo studio. Balzac imbastisce il pastiche di un romanzo impregnato di suggestioni melodrammatiche e «trasforma alcuni spunti della pièce del 1808 negli elementi portanti di un tipico roman noir» (p. 247). Dissimulando nelle versioni del 1833 e del 1834 (pubblicate nel «Voleur») la sua nostalgia per il mélodrame, Balzac aderisce all’abituale condanna di questo genere letterario «come genere ingenuo, stereotipato e di scarso valore letterario» (p. 257). Ma la diversa scelta operata nel 1843 «ricolloca il mélodrame e i suoi autori tra le realtà che si possono nominare senza vergogna» (p. 258). In questo senso, la citazione esplicita di Pixerecourt e del mélodrame nella Muse du département assume il valore di un omaggio nostalgico ed affettuoso.

 

 

  Mariolina Bertini, Schede – Letterature. Honoré de Balzac, “Voyage en Sardaigne” …, cit., «L’Indice dei libri del mese», Torino, N. 12, Dicembre 2010, p. 34.

 

  Spesso il viaggio in Sardegna, che Balzac affrontò nella primavera del 1838, è stato citato come esempio della sua tendenza a gettarsi, sotto la guida della sua debordante immaginazione, in imprese chimeriche, avventate, fallimentari. “Il sogno di una ricchezza improvvisa, ottenuta con mezzi strani e meravigliosi, ossessionava spesso la sua mente – scrive Théophile Gautier nella sua biografia del romanziere. – Aveva fatto un viaggio in Sardegna per esaminare le scorie delle miniere d’argento abbandonate dagli antichi romani, scorie che, secondo lui, dovevano contenere ancora una gran quantità di metallo”. Il progetto non era assurdo, anzi, realizzato da altri, si rivelò poi redditizio; assurda era l’idea di attuarlo senza capitali di partenza. Balzac sbarca ad Alghero da Ajaccio ai primi di aprile. Da Alghero raggiunge la zona mineraria dell’Argentiera; visiterà poi Sassari e Cagliari. Questo volumetto presenta la traduzione delle sette lettere nelle quali lo scrittore raccontò “in diretta” il proprio viaggio all’amata, Eva Hanska. Lettore appassionato di Fenimore Cooper, Balzac imposta il suo resoconto come un romanzo d’avventura: “Ho attraversato foreste vergini chinato sul mio cavallo e rischiando la vita; poiché, per attraversarle, bisognava camminare in un corso d’acqua coperto da una culla di piante rampicanti e di rami che mi avrebbero portato via la testa. Ci sono querce verdi giganti, alberi di sughero, allori, eriche di trecento piedi d’altezza. Niente da mangiare”. Assimilata all’Africa e alla Polinesia, la Sardegna ha uno statuto d’eccezione nella biografia dell’autore della Commedia umana: è l'unico luogo in cui abbia avuto occasione di assaporare l’ebbrezza dell’esotismo. Il resoconto di questa esperienza meritava di essere presentato al pubblico italiano. E la traduttrice e il curatore l’hanno fatto con precisione e grande eleganza.

 

 

  Giorgio Bocca, Provincia. Vizi e virtù di un simbolo della storia italiana, «la Repubblica», Roma, 3 giugno 2010, pp. 38-39.

 

  p. 39. Honoré de Balzac. Le illusioni infantili, le idee provinciali erano scomparse. La sua intelligenza si era evoluta. (Papà Goriot, 1835).

 

 

  Veronica Bonanni, ‘Une critique à courte vue’. Polemiche nelle “Préfaces” di Balzac, in AA.VV., Il discorso polemico. Controversia, invettiva, pamphlet. Atti del XXXII Convegno Interuniversitario (Bressanone-Brixen, 7-10 luglio 2005), a cura di Gianfelice Peron et Alvise Andreose, Padova, Esedra editrice, 2010, pp. 259-267.

 

  Le Préfaces ai romanzi della Comédie humaine rivestono un importante valore teorico-programmatico e rappresentano parimenti lo specchio fedele e “preso dal vivo” del progetto-Comédie humaine nel suo divenire. L’esigenza, dichiaratamente polemica, di far precedere o seguire quasi ogni romanzo o racconto da uno spazio di scrittura paratestuale il cui carattere contingente e provvisorio e la verve stilistica fanno pensare più ad un articolo giornalistico che ad una pre/postfazione vera e propria, è determinata dalle continue accuse portate da una critica spesso miope nei confronti della struttura dell’opera e della sua moralità. In questo studio, Veronica Bonanni evidenzia lo scarto esistente tra «la prospettiva di Balzac e quella della critica nel guardare a quest’opera in corso di costruzione» (p. 263) dal punto di vista dell’unità architettonica dell’insieme entro cui si inseriscono, in armonia oppure in contrasto tra loro, i singoli frammenti narrativi. Questo stesso principio spiega e giustifica, allo stesso tempo, lo “mise en scène” di figure morali e immorali, la rappresentazione, lontana da ogni idealismo, di personaggi non assoluti, ma relativi ed in continua relazione tra loro. Queste strategie di difesa adottate nelle prefazioni ai singoli romanzi saranno abbandonate da Balzac solamente quando l’edificio letterario conoscerà il suo assetto (quasi) definitivo: sarà infatti l’Avant-propos del 1842 a presentare alcuni principî generali compatibili con l’opera finita; le polemiche, le osservazioni e le giustificazioni contenute nelle singole “préfaces” «andavano quindi escluse in quanto elementi circostanziali, passeggeri e provvisori; ma anche naturalmente in quanto scomodi testimoni della frammentarietà e dell’incoerenza dell’opera nel suo farsi» (p. 267).

 

 

  Veronica Bonanni, Louis XI le plaisantin dans les «Contes drolatiques» de Balzac, in Collectif, Bien Dire et Bien Aprandre. Louis XI, une figure controversée. Actes du colloque du Centre d’Études Médiévales et Dialectales de Lille III, édité par Marie-Madeleine Castellani et Fiona McIntosh-Varjabédian, «Revue de Médiévistique» Presses de l’Université Charles-de-Gaulle, Lille III, 2010, pp. 147-160.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, L’infedele donna di Balzac, «La Stampa Tuttolibri», Torino, Anno XXXIV, N. 1736, 16 ottobre 2010, p. VI.

 

  Torna in Oscar, una nuova edizione de La femme de trente ans, romanzo tra i più singolari, e significativi, della Commedia umana. Sfatando il pregiudizio che a quell’età iniziasse il declino della seduzione femminile, Balzac all’ingenuo candore dell’eroina romantica opponeva il fascino, la determinazione e la sensualità di una donna che, disillusa dal matrimonio e inappagata dalla maternità, ritrovava la gioia di vivere grazie alla «voce potente dell’amore». Era il 1842, il romanzo fece scalpore e il successo internazionale fu così clamoroso da ribaltare il significato dell’espressione donna di trent'anni. Non a caso, ancora oggi balzaquiana e gentshina balzakovskogo vozrasta (donna in età balzachiana) in portoghese e in russo indicano una donna fra i trenta e i quaranta, all’apice della sua avvenenza perché libera e realizzata. Ma Balzac, mentre nella ricerca di indipendenza e felicità della protagonista trovava spunto per affrontare il matrimonio e l’adulterio, la maternità e la gelosia tra fratelli, rielaborava i suoi fantasmi infantili e il rapporto con il «seno amaro», o «avaro» per dirla con la Klein, della propria madre. Un ulteriore motivo d’interesse per un romanzo il cui titolo nelle varie lingue ha mantenuto opportunamente il termine «donna».

  Nella nuova edizione, La donna di trent’anni diventa invece La trentenne (Mondadori, pp. XLII-228, € 8,50) e la nuova traduzione fa rimpiangere quella di Gianna Tornabuoni (Oscar 1986). Che dire di una «carrozza che sboccò» invece di «sbucare» da dietro l’angolo; di una madre che «era gettata» e invece «giaceva» in fondo alla carrozza; di un paese «sterile» anziché «arido» o di un cuore «stuprato» anziché «avvizzito»? Quanto la traduzione penalizza il testo, il titolo disinvolto lo svilisce. Ma Mondadori ha preferito ristampare un titolo della collana Frassinelli acquisita in blocco, perché costa molto meno che di vitalizzare e ripagare i diritti di una traduzione. A dispetto di Balzac e della sottoscritta che con sofferta scelta ha deciso di non ripubblicare la sua introduzione, già rivista. Per non tradire Balzac, e i lettori.

 

 

  Francesca Dosi, Recensione / Rewiew. Susi Pietri, “La terra promessa del racconto. Stevenson legge Balzac”, Parma, Mup, 2009, pp. 215, € 13.00, «Parole rubate. Rivista internazionale di studi sulla citazione», Parma, Anno I, Fascicolo n. 1, 2010, pp. 175-181. [on-line].

 

  Susi Pietri ne La terra promessa del racconto percorre inediti tracciati di lettura e di reinvenzione immaginale per attraversare le frontiere della narrazione. Indaga i codici del racconto, esplorando orizzonti e possibilità di novel e romance, tramite lo sguardo inusuale che Robert Louis Stevenson posa su Honoré de Balzac.

  La saggista riconfigura l’approccio critico all’autore scozzese sulla base dell’intertestualità: ritrova nella lettura vorace, insistita, e nella sua costante rielaborazione, l’origine e l’approdo della scrittura e carica di un’inedita, fruttuosa complessità la gestazione del romanzo d’avventura. La inserisce, infatti, in un vivace retroterra culturale che, per la prima volta, viene analizzato in relazione alla presenza di Balzac. Presenza plurima convertita in immagine, ricomposta a mosaico, in linea trasversale rispetto all’intera produzione stevensoniana, presenza organica e coerente, benché mai piegata alla volontà di una sistematizzazione erudita.

  Sulle tracce di un Balzac reparaissant, la Pietri si avventura lungo il percorso di Stevenson, recuperandone intuizioni fuggevoli e folgoranti che riflettono sull’atto della scrittura e lo riflettono al contempo. Frammenti di un pensiero errante, ma non per questo occasionali, episodici, bensì strutturali, fondanti. Poiché il terreno dell’avventura pura, immediata è, in realtà, terra di mediazione, esplorata da Stevenson nel confronto ininterrotto con l’altro e nel costante rinvio a forme sperimentate in precedenza.

  Susi Pietri si muove a proprio agio in questa terra di confine e ci offre un saggio in divenire, dinamico, che si legge come un romance, con i suoi scarti improvvisi, i cambiamenti di rotta provocati da ogni singolo inserto, la ricerca simbolica del racconto condotta dai due eroi della scrittura che vengono a interagire e a sovrapporsi nei luoghi immaginari della finzione.

  Il movimento è scandito in tre tempi portanti, tre tappe dell’esperienza biografica e intellettuale di Stevenson, in progressione cronologica e in parallelo ai suoi spostamenti geografici: la giovinezza del saggista che sperimenta ed interroga modelli illustri, la maturità dell’autore di romanzi d’avventura, sedotto dal potere di fascinazione del ‘mago’ Balzac, e le vicende conclusive che vedono vita e narrazione confluire nell’incanto arcaico dell’arcipelago di Samoa. Tre tempi che ne sottendono altri e permettono divagazioni coscienti, in un’elaborata partitura di assonanze, dissonanze e ritorni, dettati dall’andamento ‘ondivago’ della storia di lettura dell’autore e cadenzati dalle plurime, inaspettate, apparizioni balzachiane.

  Il giovane Stevenson moltiplica i riferimenti a Balzac, nella forma di citazioni dirette o di richiami allusivi, in testi disparati, talvolta stravaganti, che vanno dalla lettera alle note di scrittura, dal commento autobiografico ai racconti di viaggio, secondo una modalità parziale e frammentaria che riproduce l’ibridazione congenita alle sue prime opere. Privilegia l’écrivain marcheur che conduce la sua indagine sulle tracce di racconti nascosti nei labirinti della capitale. Racconta il Balzac burlesco, eccentrico ed eversivo dei Contes Drôlatiques e l’osservatore originale di aspetti insoliti del quotidiano degli (sic) Études analitiques (sic), conduce inchieste provvisorie sul medesimo terreno dissertando su The Philosphy of Umbrellas (1871) e rielaborando la filosofia del matrimonio in Virginibus puerisque (1876).

  Susi Pietri disegna sui cieli dell’esploratore del racconto “costellazioni d’immagini multiformi dell’autore-Balzac” (p. 34): dal Balzac mineur, destinato allo scavo inesauribile della forma, “mentore di un’operatività forsennata e interminabile, eroe dell’impresa di fabbricazione narrativa” (p. 35), alle figure, antitetiche, di un Balzac flâneur, saltimbanque e fille de joye (così nella grafia stevensoniana), motore e strumento di seduzione, pronto a concedersi la contemplazione oziosa dello spettacolo della vita, nell’apprensione sensoriale e ludica del reale. Giano bifronte, ad immagine dello stesso Stevenson raccontato da James, “un bohémien sfrontato” ma “perseguitato dal senso del dovere”, diviso tra due passioni di uguale intensità, la letteratura e la vita.

  Alla reinvenzione di Balzac corrisponde la sua proiezione in senso autoriflessivo, in un processo costante di identificazione e di trasposizione del sé nell’immagine di riferimento, una sorta di mise en abyme dello sdoppiamento: Stevenson ricompone l’altro con frammenti del sé, declina la propria indagine del racconto attraverso un ventaglio composito di figure auto rappresentative.

  Susi Pietri legge in tal senso l’immagine del flâneur, parallela a quella dell’idler stevensoniano, dove il nomadismo fisico è espressione della mobilità del pensiero, concessione del proprio sguardo ad ogni singolo, fortuito aspetto della vita, trasfigurato da una fantasia libera ed incondizionata: si tratta della conversione in immagine di una vera e propria dichiarazione di metodo, antiletteraria e antidogmatica, in cui l’atto della scrittura si riconfigura come scarto e devianza, e il pensiero, empirico, flessibile, si svincola da ogni conoscenza precostituita e da ogni esigenza normativa.

  Stevenson anticipa una delle pagine più importanti della storia della ricezione della Comédie humaine. Tratteggia un Balzac assolutamente inedito per i tempi, quello che la critica più vicina a noi definirà l’Autre Balzac, e realizza, senza poterlo prevedere, la prima demistificazione delle esegesi balzachiane tradizionali, fondate sull’immagine del demiurgo del realismo romanzesco incatenato al proprio trono, inchiodato alla necessità del coronamento dell’opera monumentale.

  Susi Pietri si interroga, dunque, sulla possibile persistenza, negli anni della maturità letteraria di Stevenson, di questa reinvenzione figurale di Balzac in direzione dinamica e libertaria. Lungi dallo scomparire, cancellata dall’ingombrante progettualità della Comédie humaine, essa viene a confluire nella figura del Balzac magician, sintesi delle immagini precedenti e delle creature notturne descritte da Stevenson in A chapter on dreams (1888), i brownies, anch’essi maghi, o folletti, che emergono dalle tenebre dell’inconscio per direzionare gli sviluppi del sogno dello scrittore, per produrre racconti.

  Il romanzesco, per Stevenson, è prolungamento della fantasia notturna, semi-onirica, e si compie attraverso una rielaborazione cosciente, diurna. Ed è tra i due poli che l’autore ritrova Balzac, mago notturno che rende vivente l’archetipo della pura avventura, e artigiano diurno che organizza tecnicamente la materia del sogno. Non mago della mimesis, bensì mago in senso proprio, incantatore di lettori, creatore di altra vita. Non illusionista della verosimiglianza ma della finzione, manipolatore di destini individuali carichi di assoluto, di eroi senza tempo che vivono nello spazio essenziale, visionario, della Comédie humaine.

  Rispetto alle teorizzazioni stevensoniane di novel e romance, Balzac occupa una posizione ambigua: Stevenson lo definisce semi-romantico in A note on realism (1883) e, in A humble remonstrance (1884), lo situa in un terzo genere, di commistione, il dramatic novel, poiché associa all’esplorazione dettagliata della complessità umana (novel) l’astrazione e l’intensità del romance.

  Se permane una mobilità a cui Stevenson fa riferimento, non è quella del Balzac uomo, bensì quella del suo gesto di scrittura, evidente nella commistione di generi, nelle dissonanze di toni e registri, nella moltiplicazione dei discorsi narrativi: l’autore francese esplora, infatti, il vasto sottobosco della cultura popolare, contribuisce alla diffusione del feuilleton, recupera gli scheletri narrativi e i fantasmi iconografici del gotico, reinventa il melodramma e il fantastico.

  È nell’approccio a tale, inclassificabile Balzac che Susi Pietri coglie la pratica essenzialmente ludica della lettura in Stevenson, definita dalla saggista “anti-intellettualistica, anti-referenziale, anti-esegetica”, sogno ad occhi aperti, trasgressione al reale. Lo Stevenson lettore di Balzac raccoglie, infatti, i tasselli sparsi del romanzesco puro, si lascia coinvolgere dai dispositivi efficaci manovrati dal narratore, dal ritmo incalzante della trama, da eroi, o antieroi, che non incarnano caratteri sociali, ma forze elementari, trasversali all’opus balzachiano “per la violenza e l’estremismo simbolico di cui sono sovraccarichi” (p. 115). Vautrin, volto del destino, immagine dell’energia che circola nelle vene della capitale, Frenhofer, artista prometeico alla ricerca della vita nella propria opera, i misteriosi Treize, “corsaires en gants jaunes” alla conquista del faubourg Saint Germain. Volti essenziali dell’intensità drammatica, accumunati dallo scarto rispetto alla verosimiglianza.

  L’identificazione primaria nei personaggi, a cui ama abbandonarsi lo Stevenson lettore, esiste in relazione ad una scrittura preposta a tale effetto, destinata a provocare l’immersione nella storia e la proiezione nel narrato. La scrittura di un Balzac che attinge a piene mani agli espedienti narrativi del romanzo d’avventura per sedurre il lettore e dissemina, in un panorama verosimile, colpi di scena, morti eroiche, sacrifici di vittime innocenti. Un Balzac che induce il suo pubblico a scorgere squarci di sacralità sotto la polvere di salotti borghesi, dove covano emozioni primordiali, e ad inseguire Eros e Thanatos, che, con maschere di sfinge, percorrono i labirinti enigmatici del tessuto urbano.

  La semplicità della scelta del romance è, però, apparente: il dialogo che Stevenson instaura con Balzac si sviluppa in forme problematiche e articolate nell’ultima sua fase di narratore, durante l’esilio volontario nel Pacifico. Susi Pietri analizza The Wrecker (1889-1891) e The Bottle Imp (1891-93) tracciando una mappa di lettura intertestuale e sottolineando la centralità di Balzac negli innesti che sostengono la trama di tali opere.

  In The Wrecker il modello francese abita il protagonista, e narratore in prima istanza, Loudon Lodd. Con lui, sotto altre identità, ed altri cieli, agiscono un nuovo Vautrin e l’intera giostra di reparaissants balzachiani. Un narratore occulto, lo stesso Stevenson, rilegge in contrappunto ironico la finzione attoriale di Loudon, che recita, a Parigi, il ruolo d’artista fallito, sognando Lousteau e Rastignac in tableaux vivants che sembrano riprodurre la Scène de la vie de Bohème di Murger. In questa rilettura dissacrante delle proprie memorie letterarie, Stevenson alterna e contamina novel e romance, interseca presente e passato e introduce nuove figure dello sdoppiamento e della riflessività. Fino a che, nella costante dinamica del recupero e della reinvenzione, aperta ai mutamenti di prospettiva e di senso, ritrova in The Bottle Imp il Balzac mago di La peau de chagrin e Melmoth retrouvé. Transazione diabolica e transazione monetaria, possesso dell’anima e soddisfazione in vita del desiderio si ricongiungono in una narrazione che mescola sapientemente il fantastico tradizionale europeo, i demoni balzachiani e l’oralità sacrale della cultura polinesiana.

  Si chiude su immagini fortemente suggestive il racconto di una lettura che accompagna la vita e la creazione di Stevenson. Il resoconto di una costante pratica del doppio nella reinvenzione balzachiana, non destinata ad una legittimazione autoriale, bensì all’indagine della scrittura e all’elaborazione del racconto, in un cantiere aperto di lavoro intertestuale.

  Scrigno di stimoli interpretativi e riflessione sulla specularità, il saggio di Susi Pietri si arresta al crocevia di un triplice sguardo, quello che Stevenson posa su Balzac, quello che la studiosa rivolge a entrambi gli autori, e il nostro, di fruitori, specchio di ulteriori, potenzialmente infinite, possibilità di lettura. All’incrocio di ricezione e produzione creativa, laddove riparte, e non può terminare, un avventuroso viaggio tra novel e romance.

 

 

  Anna Fierro, Scene balzachiane. Elementi di teatralità nella “Peau de chagrin”, «Rivista di Letterature moderne e comparate», Firenze, vol. LXIII, nuova serie, fasc. 4, ottobre-dicembre 2010, pp. 397-412.

 

  L’A. sottolinea l’istanza drammaturgica, connotata da evidenti elementi presi a prestito soprattutto dal melodramma, presente nell’opera narrativa di Balzac e, in particolare, nella Peau de chagrin, romanzo oggetto del presente studio. In quest’opera balzachiana, che fino alla quarta edizione del 1834 conserva la suddivisione in 52 capitoli, del tutto paragonabili ad altrettante scene, risulta evidente «l’uso massiccio di un lessico appartenente alla drammaturgia» (p. 399) e l’impiego di alcuni procedimenti drammaturgici, come la presenza frequente di colpi di scena, la rapidità dialogica e la dettagliata descrizione di luoghi e personaggi. Alcune delle scene più rilevanti del romanzo, sotto questa prospettiva, presi in esame dall’A.: la sala da gioco, il festino organizzato dal banchiere Taillefer, l’agonia e la morte di Raphaël, mostrano, in Balzac, l’intenzione evidente di ideare alcuni episodi narrativi come vere scene teatrali, nelle quali è soprattutto il personaggio femminile, come qui, nella Peau de chagrin, è il caso di Foedora, ad assumere una palese funzione attoriale.

 

 

  Francesco Fiorentino, “L’École des ménages”. Un’occasione mancata per il teatro francese dell’Ottocento, in AA.VV., Contatti Passaggi Metamorfosi ... cit., pp. 259-268.

 

  Intorno agli anni 1838-1842, Balzac mostra una precisa consapevolezza della situazione del teatro francese oltre che una perfetta coscienza delle funzioni della presente letteratura romanzesca. Faire vrai è il proposito che, nell’École des ménages, più che in ogni altra delle sue successive pièces, Balzac pone al centro della sua poetica drammatica – oltre che romanzesca – in vista di una riforma profonda delle lettere francesi. Opera ambiziosa, dunque, questo testo costituisce, secondo F. Fiorentino, non soltanto «un capolavoro balzachiano ancora misconosciuto, ma anche una grande occasione mancata nella storia del teatro francese ottocentesco» (p. 260). Improntata sul modello della tragedia borghese, l’École des ménages contraddice l’estetica romantica prevedendo non una ambientazione storica, ma l’uniformità (tutta borghese) morale e sociale dei caratteri e delle situazioni, all’interno di una sorta di ideale unità di luogo circoscritta allo spazio domestico che possa garantire allo scrittore di faire vrai a teatro presupponendo la rivoluzione romanzesca.

 

 

  Giovanni Gavazzeni, L’eterna sfida tra l’angelo virtuoso e il demone Liszt, «il Giornale», Milano, 28 febbraio 2010, p. 35.

 

  Ammoniva Honoré de Balzac: devi giudicare Liszt una volta che hai avuto l’opportunità di ascoltare Chopin. «L’Ungherese è un demone; il Polacco un angelo». Lo scrittore aveva frequentato e ben conosciuto entrambi, e li dipinge come i Dioscuri del pianoforte, figli del Giove Ottimo Massimo del virtuosismo, Paganini. Nel romanzo il Cugino Pons, Balzac immagina un’esecuzione perfetta, dove il solista trova «temi sublimi nei quali ricamò capricci, qualche volta con la perfezione e l’afflizione raffaellesca di Chopin, qualche altra con il fuoco e la magniloquenza dantesca di Liszt, i due approcci più vicini a Paganini. L’esecuzione, raggiunto questo grado di perfezione, pone l’esecutore al livello del poeta; egli sta a compositore come l’attore all’autore, un traduttore divino di cose divine».

 

 

  Giulio Giorello, Se metti a cena Büchner e Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 7 gennaio 2010, p. 35.

 

  Se l’uomo è il compimento della natura e la società è destinata a essere governata dalla virtù, «cosa è davvero quel che in noi mente, ruba, uccide?». La questione del male nella storia può sembrare poco adatta alla conversazione a cena in una locanda. Ma potrebbe capitare, se non altro in una ben orchestrata finzione letteraria, se i commensali sono due tipi di eccezione come Honoré de Balzac (1799-1850), l’autore della Commedia umana, e Georg Büchner (1813-1837), il medico e drammaturgo cantore della Morte di Danton. Stefano Poggi, storico della filosofia, veste i panni del narratore e si immagina La cena di Zurigo (Le Lettere, pp. 197, € 16,50) tra l’eloquentissimo ed esuberante francese, in trasferta erotico-pedagogica dall’Italia alla Francia attraverso la Svizzera e il riservato e quasi timido rivoluzionario tedesco, trasferito nella città elvetica per sfuggire alle attenzioni delle autorità del proprio Paese. È il settembre 1836; da decenni Robespierre è stato divorato dal Terrore che egli stesso aveva evocato, la Francia ha conosciuto l’impero di Napoleone e la Restaurazione monarchica, mentre la Germania si è risvegliata al vento nuovo dello Spirito: guerra e industrializzazione!

  Allora come per noi oggi è sempre il problema degli ideali che muoiono di fronte a una realtà che resiste ai nostri più profondi desideri (magari di cambiarla). Nella sua Cena Poggi ci presenta Balzac nel pieno entusiasmo della sua Ricerca dell’assoluto (1834), il «romanzo filosofico» in cui ha narrato la parabola di Balthasar Claës, alchimista più che chimico fiammingo, che disperde il suo patrimonio e rovina la propria esistenza vagheggiando una sempre più impalpabile «unità della natura», di cui l’individuo sarebbe lo specchio. Dotato di maggior rigore, Büchner gli contrappone lo specifico che emerge da ciascuna disciplina scientifica: ha in mente la puntigliosa e paziente attività sperimentale dell’anatomista, capace di sezionare il cadavere di un condannato a morte con lo stesso distacco con cui egli, con forchetta e coltello, separa le lische dalla polpa del succulento luccio servito in tavola. [...].

  Tornato a Zurigo la primavera successiva, Balzac scoprirà che il giovane Büchner è morto, consunto da un’infezione tifoide contratta durante la preparazione degli esperimenti sulla natura del sistema nervoso. Gli resta la constatazione che «senza la passione tutto è inutile: religione, storia, arte, anche il romanzo». E noi diremmo, anche la scienza.

 

 

  Pier Vincenzo Mengaldo, In terra di Francia. Balzac e altri, Pisa, Edizioni ETS, 2010 («MOD. Biblioteca della modernità letteraria»).

 

  Rispetto alla prima edizione del volume, pubblicata nel 2004 dall’editore Lisi di Taranto, questa raccolta di interventi «di un dilettante attratto dal diverso» – scrive Pier Vincenzo Mengaldo nella Premessa, p. 5 – è riproposta all’attenzione dei lettori e dei critici in forma notevolmente ampliata, rivista ed arricchita di tre nuovi studi, due dei quali inediti.

  Per quel che riguarda, nello specifico, i saggi che si riferiscono a Balzac, ritroviamo in questa silloge tre interventi già pubblicati in luoghi e tempi diversi. Il primo, “Jadis et naguère”: finezze di Balzac (pp. 49-56), ha avuto il suo primo luogo di edizione nella «Rivista di Letterature moderne e comparate», fasc. 4, 2008). L’autore analizza la struttura della Duchesse de Langeais, romanzo dove «l’intreccio si discosta vistosamente dalla fabula, e il tempo della narrazione da quello narrativo» (p. 49) ed evidenzia, a proposito della sezione del testo in cui Balzac descrive il ritrovamento della duchessa ed in quella del ritrovamento del suo corpo, l'uso di due avverbi, ‘jadis’ e ‘naguère’ impiegati dallo scrittore non in accezione realistica o obiettiva, «ma prettamente eternale, in momenti di completo égarement dei due personaggi» (p. 55).

  Negli altri due saggi, Mengaldo si concentra in modo particolate sul Cousin Pons. In Un’introduzione al “Cousin Pons”, pp. 57-74, l’autore rileva come l’applicazione della pratica analogica alla descrizione psicologica e comportamentale dei personaggi contribuisca a fissare la natura stessa dei protagonisti in tipi piuttosto che in individui, senza tuttavia inibire i dettagli delle loro peculiarità. A determinare questo effetto, contribuisce in misura determinante il reticolo di monologhi e di dialoghi che animano l’intensità melodrammatica del romanzo. Possiamo affermare che Le Cousin Pons è, tra i romanzi di Balzac, quello più particolarmente dotato di un «assetto ‘polifonico’» (p. 65), per il fatto che, in esso l’intreccio di linguaggi disparati si rivela determinante nella progressione dell’azione romanzesca rispecchiando la «mimesi del caos parigino» e la sua «sciabilità insieme verticale e dispersiva» (p. 66).

  I primi due capitoli del romanzo balzachiano costituiscono l’oggetto specifico dello studio intitolato: Due capitoli sul “Cousin Pons” (pp. 75-96). Nella parte iniziale del suo intervento, l’autore si sofferma su uno dei tratti polivalenti della scrittura balzachiana, di cui Le Cousin Pons è eccezionalmente ricco. Ci riferiamo al sistema dei ‘(cog)-nomi parlanti’ dietro ai quali si celano non solo il destino dei personaggi, ma due tra gli elementi portanti della «mens balzachiana, ironia e analogia» (p. 77). Nel ritratto di Pons presente nei primi due capitoli del romanzo – ritratto inversamente speculare a quello di Lucien in Splendeurs et misères des courtisanes —, Mengaldo scorge i tratti peculiari della concezione estetica e della scrittura romanzesca balzachiane. A questo proposito, osserva l’autore, la moltiplicazione dei «punti dei titolari dell’osservazione è comunque una componente tipica del consueto procedere di Balzac a valanga, per approssimazione ed espansione» (p. 88). In particolare, è il carattere funzionale dell’espressione analogica che invade potentemente il tessuto narrativo dell’opera attraverso gli strumenti della similitudine e della digressione.

 

 

  Francesco Merlo, Candidature immorali, «la Repubblica», Roma, 12 febbraio 2010, pp. 54-55.

 

  [...] Ebbene, è appena arrivata nelle librerie francesi una sapida, sorprendente antologia di questi scritti d’autore (Lettres à l’Académie française) che quasi sempre sono [...] untuosamente autopromozionali. Con paradossi divertenti ma significativi, come per esempio la bocciatura di Balzac a favore (25 voti contro quattro) del duca di Noailles, che di Balzac sembra un personaggio perché appunto viene ammesso tra i Difensori della Lingua francese commettendo nella sua autocandidatura un bruno errore di francese. [...].

 

 

  Patrizia Oppici, Recensioni. “L’Année Balzacienne 2008, Balzac critique”, Paris, Presses Universitaires de France, 2008, pp. 492, «Rivista di Letterature moderne e comparate», Firenze, vol. LXIII, nuova serie, fasc. 4, ottobre-dicembre 2010, pp. 447-450.

 

 

  Franco Panzerini, Un piccolo gioiello scovato nella Parigi di Honoré de Balzac, «Giornale di Brescia», Brescia, 29 maggio 2010.

 

  E’ uscito in seconda battuta, e sempre a cura dell’editore Feltrinelli, (la prima edizione uscì nel 1998) il breve romanzo di Honoré De Balzac «Sarrasine» (tradotto da Rosanna Farinazzo). Il racconto, che è un piccolo gioiello per l’eleganza della scrittura e per la ricchezza di spunti che offre, prende il via da un’elegante festa da ballo in una lussuosa villa parigina: prima un uomo in compagnia di una giovane donna e poi l’incontro con un bizzarro centenario stranamente vestito e con «la schiena curva come quella di un bracciante ...» e che con la sua presenza improvvisa ed inquietante fra tanto splendore, suscita perplessità e timori da parte degli ospiti che si interrogano sulla sua vera identità. E la vicenda, a questo punto, prende vita e forma nel suo protagonista Ernest Jean Sarrasine, che a metà del Settecento si reca a Roma ed in quella città fa la conoscenza con la cantante Zambinella. E di lei si innamorerà perdutamente, ma il suo disperato amore non potrà mai essere ricambiato. Nascerà così una storia intricata, dove insieme alla passione si intrecceranno equivoci di ogni genere, misteri, sospetti, paure, minacce di morte, rapimenti in un gioco continuo fra realtà e fantasia. Una storia amara che poi alla fine avrà un esito drammatico. Questo racconto, si legge nella presentazione del libro, è considerato uno dei capolavori della Comédie humaine, che ha suscitato l’interesse di molti eccellenti autori conte Georges Bataille e Michel Serres. Segue nel libro uno scritto chiarificatore di Jean Reboul.

 

 

  Filippo Pennacchio, Mattoni. Honoré de Balzac – “La Comédie humaine”, peso: ∞, «Finzioni. Progetto di lettura creativa», N. 15, Settembre 2010, p. 11.

 

  Padre putativo di tutti gli scrittori penanti inventariati nelle puntate precedenti e assieme autore del capolavoro ipoteticamente terminale del genere-mattone, quegli (sic) Études de moeurs au XIX siècle che provvisoriamente mutano in Études sociales e poi si assettano, predisposti a entrare nella storia, sotto la dicitura di Comédie humaine, Honoré de Balzac è stato per la letteratura ciò che, poniamo, Wagner è stato per la musica classica [...]. Balzac è stato un rigoroso, pedantissimo, enorme figlio di puttana, assimilabile per ambizione smisurata e superfetazione egoica a un personaggio che compare nel primo romanzo di David Foster Wallace – cioè, è semmai vero il contrario: è il personaggio di DFW che è assimilabile a Balzac, ma fa lo stesso –, tale Norman Bombardini, un individuo burbero e scontroso che si ingozza di cibo 24/7 e il cui proposito è, nientedimenoché, inghiottire il mondo.

  Ciò che Balzac intende e riesce a fare: ingurgitare porzioni di mondo sempre piò ampie – nello specifico, la Francia del XIX secolo e la sua variopinta fauna umana – e rigurgitarle fuori sotto forma di un enorme tableau vivant nel quale più o meno chiunque, all’epoca, avrebbe potuto rispecchiarsi & disperarsi (è noto come l’incidenza di figure romanzesche tragiche raggiungesse in quegli anni picchi vertiginosi). Di più, a riprenderlo in mano oggi, risulta chiaro come Balzac abbia codificato una prassi letteraria consistente in una serie di idee cruciali tanto per intendere morfologia e ideologia dei mattoni, quanto più in generale per definire che cos’è il romanzo e chi è colui che in calce vi appone la firma: a) il romanzo è un genere serio, sia nel senso che deve raccontare con rettitudine il mondo in cui è stato concepito, sia in senso letterale, e cioè che non deve fare ridere – semmai leggendo bisogna «piangere moltissimo», come insegna Dickens, da cui consegue che b) lo scritture non crea mondi fittizi per dilettare il lettore, ma delinea cosmogonie per spiegare il mondo e per tenerlo sotto controllo, ciò che ò possibile solo se c) si concede che la quantità venga prima della qualità e dell’eleganza formale del testo è Balzac stesso a dichiarare di voler costruire «un monumento che si segnali più per la quantità e l'insieme dei materiali che per la bellezza dell’edificio» – , dato che per conoscere scientificamente il mondo occorre inglobarne porzioni sempre maggiori. Insomma, idee geniali ed esemplari che all’epoca fecero sfracelli e di cui oggi riteniamo purtroppo solo una piccolissima parte, semplificando all’eccesso idee come realismo e opera mondo o riedificando in termini di fascismo i per altro sacrosanti capisaldi totemici della poetica balzachiana: l’appartenenza sociale determina l’ideologia e la conformazione fisica il carattere. Rock ’n roll.

  Inutile dire, giunti alla fine, che oggigiorno Balzac non avrebbe diritto di cittadinanza nel mondo editoriale, così come d’altronde è certo che di Mattoni se ne scriveranno sempre meno e che i pochi superstiti cesseranno di essere sfogliati. Perché? Le ragioni sono molte e tutte enumerabili, ma nondimeno poco o punto interessanti. Probabilmente la verità è che questi Mattoni sono pochi perché sono delle anomalie, dei mostri, degli unica, e che proprio perché tali non si sa bene da che parte prenderli non vengono letti. Ma soprattutto perché sono inverosimilmente noiosi e pesanti, perdio. Una stima del peso complessivo dei tomi apparsi in quella galleria degli orrori che è Mattoni, Balzac, escluso, si aggira attorno ai 33,386 chili. Nove libri, trenta chili, noia infinita: siate realistici, non ne avrete mai voglia.

 

 

  Susi Pietri, La seconda visione. Wilde cita Balzac. I, «Parole rubate. Rivista internazionale di studi sulla citazione» [on-line], Anno I, Fascicolo n. 1, Giugno 2010, pp. 145-154.

 

  [...]. Siamo nella raffinata biblioteca di una confortevole dimora nel Nottinghamshire, con una grande porta-finestra spalancata che dà sulla terrazza, probabilmente all’ora del tè – ovvero stiamo leggendo The Decay of Lying, scritto da Oscar Wilde nel 1889 e ripubblicato nel 1891 nella raccolta di saggi Intentions, dove si intrecciano la riflessione teorica e la poetica della rilettura, la costruzione di un’authorship ideale e l’appropriazione di Modelli e Maestri della tradizione (in questo caso, Balzac), catapultati sulla ‘nuova scena’ di un manifesto programmatico dell’estetismo. Nella complessità di questo contesto, Wilde si produce in un’inquietante serie di violazioni paradossali del mode d’emploi politicamente corretto dell’usuale pratica della citazione. [...].

  Allusioni disinvolte alla Comédie humaine, libere riscritture delle letture altrui, appropriazioni volutamente indebite si ridispiegano in perfetta coerenza con la ‘svolta’ della riflessione estetica wildiana negli anni Ottanta. In questi anni ruggenti della sua avventura intellettuale, l’Oscar Wilde teorico magnifica ‘l’effetto-copia’ generato dal principio di non-efficienza della verità (The Truth of Masks, The Decay of Lying), inventa il plagio d’autore che distrugge l’originale (The Picture of Dorian Gray), rielabora la poetica della riscrittura, in quanto virtuale ‘plagio sistematico’, come frontiera estrema della ‘ri-creazione critica’ (The Critic as Artist, Pen, Pencil and Poison), o, diremmo noi, dell’intertestualità. Evidentemente, la posta in gioco di questa singolare scommessa estetica non consiste tanto nella violazione delle norme che regolano la circolazione dei testi, quanto nella possibilità di perpetrare un vero e proprio attentato contro l’autorità di Maestri e Modelli, la nozione stessa di tradizione letteraria, l’identità dell’opera e la sua relazione con l’insieme delle altre opere, il rapporto del soggetto con la scrittura, e, ciò che più ci interessa, lo statuto della ‘lettura’ e della ‘citazione’. Nel regime utopistico del ‘plagio’ universale, la lettura di uno scrittore da parte di un altro è automaticamente riscrittura creativa che traspone la manipolazione dei ‘prestiti’ in ‘arte dell’interpretazione’ e la ‘citazione’, esplicita o fraudolenta, in reinvenzione estetica. In questo senso la teoria wildiana del plagio, con il reimpiego dei materiali e le ‘letture’ che ne conseguono, non si concepisce mai come una semplice infrazione ludica al codice letterario e ai protocolli di lettura consolidati, ma come un’azione violenta di rottura, nonostante l’eleganza e l’amabile sorriso dell’affascinate plagiario che si incarica di ordire le sue trame di appropriazione clandestina.

 

 

Susi Pietri, La seconda visione. Wilde cita Balzac. II, «Parole rubate. Rivista internazionale di studi sulla citazione» [on-line], Anno I, Fascicolo n. 2, Dicembre 2010, pp. 137-147.

 

  [...]. In queste formulazioni estreme dell’arte della citazione come plagio o plagio vivente sembra non esistere alcun limite al parossismo della permutabilità di opposti sempre convertibili. È lo stesso movimento che tende ad avvolgere tanto il soggetto (Wilde) che l’oggetto (Balzac) delle operazioni di citazione e rilettura nelle sue operazioni antitetiche di rovesciamento e moltiplicazione degli sfondi e dei punti di vista, o, se si vuole, nel girotondo delle sue contraddizioni strategiche mai placate. Da questo incontro – per più versi inaffidabile e non garantito, e naturalmente pericoloso, nel senso in cui “an idea that is not dangerous is unworthy of being called an idea at all” – nasce un Balzac stranamente dislocato e sconcertante, estremo in tutte le sue contorsioni paradossali. Un Balzac a immagine di Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde.

 

 

  Raffaele Pinto, Balzac. La ermeneutica romanzesca del cuore, in Poetiche del desiderio. Saggi di critica letteraria della modernità, Roma, Aracne editrice, 2010, pp. 359-401.

 

  [...]. L’ammirazione nei confronti della donna appare nell’opera di Balzac come culto della femminilità, che qui, in questo epilogo [di Eugénie Grandet], ha evidenti toni stilnovistici per le esplicite analogie teologiche (“intelligent par le sentiment, comme est l’ange”), e nel romanzo si manifesta come commossa evocazione del divino nella descrizione della protagonista [...].

  Alle origini di tale divinizzazione della donna c’è il mito dantesco di Beatrice, che ha nell’ottocento un rinnovato vigore, e che in Francia, in particolare, è il lievito sotterraneo che alimenta perfino le sperimentazioni letterarie più avanzate ed eterodosse. Nella narrativa balzacchiana, però, il culto per la donna più che tema fra gli altri, si presenta come un metodo di costruzione romanzesca, forse il più attivo ed esplicito nel piano di lavoro dell’autore, sempre molto attento ai presupposti teorici della sua scrittura. Per apprezzare la dimensione ermeneutica che ha la donna in Balzac, bisogna soffermarsi su un tratto che caratterizza sistematicamente i suoi personaggi femminili, e che consiste nella dialettica fra occultazione e manifestazione dei sentimenti. Ai personaggi femminili Balzac affida la funzione di veicolare la esperienza tipicamente moderna della costruzione espressiva della personalità, quella dialettica fra interiorità ed esteriorità [...] che nei suoi romanzi si presenta come una femminile “ermeneutica del cuore”. Un esempio molto chiaro di tale dialettica lo abbiamo nella pagina che narra il timore di Eugenia che il suo desiderio per il cugino possa essere scoperto dal padre [...].

  Inversamente, in Le Curé de Tours, tratteggiando il personaggio della zitella mademoiselle Gamard, Balzac osserva che soprattutto le donne, perché più preoccupate degli uomini dai sentimenti da loro suscitati, temono di leggere nel viso degli altri espressioni di ripulsa [...].

  La ermeneutica del cuore coinvolge, nelle sue implicazioni tematiche, anche il peculiare realismo di Balzac, che si fonda sulla passione e i sentimenti, al fine di mobilitare la affettività del lettore, tanto quanto sulla razionalità della sociologia, ossia sulla oggettività del mondo narrato. Una lettura attenta delle frasi iniziali di Père Goriot illustrerà questo punto. [...].

  Balzac sembra porre qui il tradizionale problema della verosimiglianza del testo romanzesco, per assicurare la quale la conoscenza diretta, da parte del lettore, dei luoghi nei quali la storia è ambientata sembra necessaria. Concede che i dettagli potranno essere apprezzati solo fra “les buttes de Montmartre et les hauteurs de Montrouge”. Tuttavia la sua storia è così dolorosa che tutti ne saranno toccati, anche quei lettori che si difenderanno dai sentimenti che la storia esibisce considerando il libro nient’altro che letteratura (poesie). L’ampia parentesi autoesegetica si conclude con questa appassionata difesa della verità dell’opera [...].

  Si osservi come qui il cuore appaia come metafora della interiorità. A questo lato della personalità o identità morale del lettore lo scrittore fa appello, ora, come al proprio destinatario. Potremmo considerare tale appello al cuore come una romantica captatio benevoletiae dell’autore, una maniera di garantire l’identi0cazione del lettore con il protagonista, Goriot, la cui dimensione tragica dipende dal conflitto che lo lacera fra la legge del denaro e la logica dei sentimenti [...].

  C’è però in questo frammento di Père Goriot un elemento estremamente importante per intendere il mondo romanzesco di Balzac, cioè l’esigenza di verità che l’autore vuole soddisfare con la sua opera, che è cosa molto diversa dal principio della verosimiglianza che fin dalle sue origini medievali caratterizza il genere romanzesco. La domanda alla quale egli risponde [...] non è quella convenzionalmente retorica circa la possibile realtà oggettiva del narrato (luoghi, situazioni, caratteri, etc.), che comunque egli rivendica per il suo testo, ma bensì quella, senz’altro ermeneutica, circa il suo grado di verità, cioè la intima persuasione che il testo aspira a suscitare. Ciò che interessa, di tale questione, è la localizzazione della verità. Dove può essere accertata, dal lettore, la verità che il libro enuncia? Con quale ‘realtà’ il narrato deve essere confrontato, perché se ne possa verificare il contenuto?

  La fonte immediata di Balzac la ritroviamo in un passaggio del Discours sur les passions de l’amour, di Pascal:


  L’on écrit souvent des choses que l’on ne prouve qu’en obligeant tout le monde à faire réflexion sur soi même, et à trouver la vérité dont on parle.

 

  [...]. Balzac traduce sul piano romanzesco tale soggettivismo, facendo appello alla interiorità del lettore per riempire di contenuto tragico (o drammatico) la futilità psicologica e narrativa del romanzo sentimentale e cavalleresco. Si osservi come il romanzo (roman), in quanto genere, (come anche la poesia poche righe più sopra) sia definito come finzione (fiction). Pertanto l’opera (ce drame), se vuole presentarsi come storia vera, deve rinunciare ad essere romanzo. Il sacrificio è certo molto meno doloroso di quanto possa sembrare a noi, perché il rango intellettuale del romanzo, in quanto genere letterario, non ha ancora, all’epoca, il prestigio che gli daranno Balzac ed altri romanzieri della sua generazione. È comunque rivelatore il fatto che Balzac definisca come drammatica la verità, e come romanzesca la finzione, e che classifichi il suo testo secondo la prima di queste due categorie. [...].

  Tuttavia, più che nel suo versante teoretico, l’interesse che ha per noi il frammento di Père Goriot [...] consiste nel fatto che l’autore utilizza una strategia di controllo sul significato della scrittura che si dispiega nel corpo stesso del testo romanzesco (e non dall’esterno, ossia dal prologo, come è abituale in Balzac). Da questa posizione interna, l’autore fa appello ad una funzione di verità (quella interiore delle passioni) diversa da quella che emerge nella sua teoria letteraria esplicita: mentre nei testi propriamente teorici il contenuto scientifico che Balzac intende elaborare nei suoi romanzi dipende dalla capacità di comprendere e riprodurre fedelmente fenomeni, umani e sociali, oggettivamente verificabili, nella pagina iniziale di Père Goriot il contenuto autentico che il testo trasmette è riconoscibile, nella sua verità, nel cuore del lettore. Il Balzac teorico della sua opera invita a cercare il significato del testo fuori, nella realtà oggettivamente osservabile; il Balzac narratore, invece, invita qui i suoi lettori a cercarlo (e a riconoscerlo) dentro, nella esperienza interiore. Nel primo caso il significato principale della scrittura (la sua verità) è una relazione fra le parole del testo e le cose del mondo; nel secondo, il significato principale è una relazione fra le parole del testo e la interiorità di chi legge, che è invitato a completare, con la sua adesione affettiva, un senso che resterebbe altrimenti incompiuto. La differenza fra le due relazioni di significato è, sul piano pragmatico, sostanziale, giacché nella prima (con il mondo) l’opera è, staticamente, riflesso delle cose e oggetto di contemplazione da parte del destinatario; nella seconda, invece, essa entra dinamicamente in rapporto con il destinatario, in un circuito interattivo di domande e risposte che viene innestato in occasione di ogni lettura. L’ermeneutica del cuore significa allora innanzitutto l’intuizione originalissima di un nuovo statuto della produzione estetica, per la quale il lettore–destinatario interviene, con tutta la irriducibile singolarità dei suoi affetti, come soggetto attivo nella determinazione del contenuto dell’opera, la quale a sua volta, perduta ogni aureola di distaccata sacralità, entra nel vivo della comunicazione sociale dialogando e misurandosi con i soggetti reali del prodotto artistico: i suoi fruitori.

  La contraddizione fra queste due posizioni teoriche è però, sul piano dei contenuti, solo apparente, giacché esse non sono formulate, come s’è visto, negli stessi luoghi testuali. C’è invece, fra di loro, una sostanziale coincidenza estetica, poiché la ermeneutica del cuore (ossia l’appello all’esperienza interna del lettore per verificare il signi0cato del testo) che vediamo così attiva nella autogiustificazione romanzesca di Père Goriot, ha una posizione di rilievo anche nei luoghi teorici convenzionali. Nel prologo alla prima edizione della Comédie humaine, per esempio, l’insieme dell’opera è definita come “cette histoire du coeur humaine” [...].

  Il che indica che il cuore non è solo il destinatario privilegiato del testo, ma anche il suo primo oggetto di analisi e rappresentazione. [...].

  Essendo il cuore il principio di individuazione della realtà umana che l’autore si propone di esplorare, la novità del suo compito consiste in ciò: narrare la storia della umanità non attraverso gli avvenimenti della vita pubblica, ma attraverso i fatti (segreti e manifesti) della vita privata. La ermeneutica del cuore è così una scrittura e un’analisi che hanno per finalità espressiva la rappresentazione della singolarità esistenziale delle vite individuali. Rispetto a tale compito la rappresentazione del sociale è molto più lo sfondo sul quale si stagliano caratteri densamente individualizzati, che non il soggetto primario della narrazione.

  Abbiamo osservato, fin qui, la ermeneutica metaromanzesca del cuore, ossia il ruolo che il cuore gioca nella ricezione o lettura del testo e nella sua costruzione o architettura. Ma esiste, poi, una ermeneutica romanzesca del cuore, che è riflesso narrativo della prima, ossia un tema del cuore che attraversa la Comédie Humaine come uno de suoi grandi motivi dominanti. [...].

 

 

  Alessandro Piperno, Il coraggio della felicità. Tolstoj, Balzac, Fitzgerald: i grandi insegnano a crederci, «Corriere della Sera», Milano, 15 agosto 2010, p. 39.

 

  [...]. Ed ecco invece come Balzac, in Papà Goriot, dà conto dell’emozione che anima il giovane Rastignac a un passo del primo grande trionfo sessuale: «Ci sono emozioni che non s’incontrano due volte nella vita dei giovani La prima donna veramente tale di cui si innamora un uomo, quella cioè che gli si mostra nello splendore degli attributi che la società parigina richiede, non ha mai rivali. L’amore com’è a Parigi, è del tutto diverso dagli altri amori».

  Anche qui, proprio come nella scena tolstoiana, c’è un’identificazione perfetta tra un ragazzo e il luogo di sogno in cui si è ritrovato. Se là c’era una pista di ghiaccio alle quattro di pomeriggio, qui c’è Parigi la Parigi del faubourg Saint-Germain, la Parigi di Balzac.

  Certo, non ha quasi senso paragonare Lévin a Rastignac. A ben vedere i due non si somigliano in niente. Il secondo se la sogna la magnanimità del primo, per non dire del suo conto in banca. Si potrebbe persino ipotizzare una relazione tra gli alti sentimenti di Lévin e la sua solidità patrimoniale, relazione non meno profonda di quella che intercorre tra la meschinità di Rastignac e la sua indigenza. Eppure ciò che li accomuna è l’aspirazione alla felicità. E il fatto che i loro sommi creatori non provino alcun ritegno nel raccontarla. A costo di essere pacchiani. A costo di esporsi al ridicolo.

  E tuttavia mi piace notare come le felicità così splendidamente pregustate da Lévin e Rastignac stiano per essere negate ad entrambi da un concatenarsi di circostanze sfavorevoli Sia Lévin che Rastignac dovranno aspettare un sacco di tempo per tornare a godere quel tipo di felicità. E quando essa tornerà non avrà più un sapore immacolato e primigenio. D’ora in poi per i nostri eroi solo felicità di seconda mano.

  Il dato beffardo della felicità è che essa non è mai in diretta ma, in un certo senso, sempre in differita. Ed ecco perché di fronte a certe grandi felicità romanzesche assistiamo alla realizzazione di una specie di discrasia temporale. L’ineffabilità della felicità è sancita dal rapporto che si stabilisce tra l’eroe del romanzo e il lettore. L’eroe del romanzo — Lévin o Rastignac — è lì tutto preso dalla voluttà che sta per assaggiare. E dall’altra parte della barricata c’è il lettore che sa che si tratta di una voluttà trascorsa: qualcosa che, sebbene sulla carta debba ancora avvenire, altrove e in altro tempo è già avvenuta. [...].

 

 

  Giuseppe Scaraffia, La caffettiera di Balzac, in Torri d’avorio. Interni di scrittori francesi nel XIX secolo. Nuova edizione riveduta e accresciuta, Milano, excelsior 1881, 2010 («impronte», n. 20), pp. 89-122.

 

  Cfr. 1994.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Bevande d’autore. Buone idee con l’aroma del caffè, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 16, 17 Gennaio 2010, p. 51.

 

  [...]. Solo il caffè aveva tenuto sveglio Balzac nel suo ininterrotto lavoro. Lo scrittore usava una miscela di tre diverse qualità, comprate in altrettanti negozi. Teneva sempre pronta sulla scrivania la celebre caffettiera di porcellana con l’abusivo stemma dei Balzac d’Entrague e il “fatale motto”: giorno e notte. Si dice che, per scrivere la Commedia umana, avesse bevuto circa cinquantamila tazze. Nel suo Trattato sugli eccitanti moderni, lo esalta: «Il caffè mette in moto il sangue, ne fa sgorgare gli spiriti motori, caccia il sonno e consente di utilizzare un po’ più a lungo le facoltà cerebrali». [...].

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Elogio della passeggiata, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 93, 4 Aprile 2010, p. 47.

 

  [...]. Ma ci sono anche i bizzarri, come Balzac, che amava i vialetti dell’«elegante cimitero» parigino del Père-Lachaise, trovando tra le lapidi i nomi adatti per i suoi personaggi. Un’esperienza ripresa da Cioran, che la consigliava come un’infallibile medicina interiore. Lì, «tutto quello che succede assume proporzioni normali».

 

 

  Caterina Selvaggi, A proposito del film “Balzac” di J. Dayan. Roland Barthes, Honoré de Balzac e la decostruzione, «Psicobiettivo. Rivista quadrimestrale di psicoterapie a confronto», anno XXX, numero 1, gennaio-aprile 2010, pp. 161-172.

 

  L’omaggio a Roland Barthes e alla sua genialità critica offerto in queste pagine da Caterina Selvaggi in coincidenza con il trentennale della scomparsa del critico-scrittore, trae spunto da un confronto tra il celebre film su Balzac di J. Dayan e la recente pubblicazione, in traduzione italiana, del Journal de deuil di Barthes, edito da Einaudi con il titolo di Dove lei non c’è. L’oggetto di questo singolare confronto, ossia il complesso e controverso rapporto dei due autori con le rispettive madri, lascia ben presto spazio alle riflessioni dell’autore sulle indagini critiche barthesiane con particolare riferimento a S/Z (1968-69), dove si assiste alla distruzione di ogni canone letterario e alla riproposizione della letteratura nella sua dinamica pluralità di codici e di interpretazioni possibili. Si tratta, in altri termini, di un’operazione in cui Barthes espone la teoria critica che nega ogni interpretazione critica di un testo come ricerca di “significati ultimi”, in quanto critica e interpretazione restano sempre un orizzonte aperto. Di qui, «il vuoto di senso che tutto sottende» e, a questo proposito emerge nell’autore il sospetto che «il rifiuto di riconoscere il protagonismo del conflitto là dove è più evidente, come in Balzac appunto, nasca proprio da quel “deuil”, da quel lutto che del Journal è sì protagonista rivelando la resistenza ad “ogni” interpretazione. Il conflitto “agito” in Balzac potrebbe avvicinarsi troppo al conflitto “sopito” di Roland Barthes, protetto dallo sguardo della madre» (p. 170).

 

 

  Flavio Sorrentino, La casa del Centenario di Balzac: un Louvre dell’orrore, in Lo spazio del sotterraneo nella narrativa francese dell’Ottocento, Roma, Armando Editore, 2010 («Trame»), pp. 70-72.

 

  Il giovane Balzac, di passaggio a Parigi nell’estate del 1822, quando è ancora all’inizio della sua carriera di scrittore, si ritrova ad aver firmato un contratto per il libraio-editore Pollet, contratto che lo impegna a consegnare due romanzi entro il 1° ottobre dello stesso anno.

  Procede quindi rapidissima la stesura del Centenaire [Il centenario], uno dei due romanzi promessi (l’altro era il Vicaire des Ardennes [Il vicario delle Ardenne]).

  Il testo è chiaramente, anche se non dichiaratamente, derivato dal Melmoth the Wanderer [Melmoth l’errante] di Maturin (uscito a Londra nel 1820 e tradotto in francese l’anno successivo) e mette al centro della narrazione una questione, quella della longevità, che affascinava il giovane Balzac da molto tempo, visto che «depuis son enfance, entendait parler de longévité à longueur de journée».

  Il genere gotico ripreso da Balzac richiede scene che provochino terrore e spesso i sotterranei hanno contenuto i momenti più angosciosi o raccapriccianti della narrazione: tra i romanzi del gotico inglese i sotterranei con questa funzione si ritrovano ad esempio nei romanzi ritenuti i fondatori del genere, ovvero in The Castle of Otranto [Il castello di Otranto] (1765) di Walpole, in The Monk (1796) di Lewis e in The Italian [L’italiano] (1797) della Radcliffe: non fanno eccezione il romanzo di Maturin né il balzachiano Centenaire.

  Una volta riconosciuta la filiazione diretta del Centenaire di Balzac con il romanzo di Maturin, procedendo ad un confronto tra i due si può notare come la “versione” di Balzac riduca in modo sostanziale il numero e l’estensione degli episodi secondari e semplifichi la struttura della narrazione. I due Beringheld del titolo sono il Generale, osservatore della vicenda e fidanzato di Marianine (vittima designata della storia), e il Centenario, avo del primo. Il personaggio del Centenario è una variante della figura maledetta dell’ebreo errante, che può ottenere la durata di molte vite a patto di uccidere una fanciulla per potersi infondere del suo sangue giovane. A questo scopo, alla fine del romanzo, una volta soggiogata Marianine, il possente vecchio la conduce nella sua abitazione sotterranea per il sacrificio palingenetico.

  La casa sotterranea del Centenario è posta sotto il Louvre, trasformato durante la Rivoluzione francese da centro del potere a centro del sapere, ed è descritta come un doppio del nuovo museo: «Tu y verras un palais où toutes les sciences se sont données rendez-vous; tu contempleras une habitation où tous les pouvoirs se sont réunis». Una volta giuntavi, passando di sotterraneo in sotterraneo, Marianine osserva una grande quantità di oggetti [...].

  La prima stanza contiene una serie di oggetti di epoche e funzioni diverse, tutti legati alla lunga vita del Centenario; sono elencati alla rinfusa e costituiscono un museo esemplare e personale riunito in quell’ambiente sotterraneo. Quegli oggetti così emblematici fanno coincidere, nella vita speciale del Centenario, storia individuale e Storia collettiva. Essi indicano non soltanto l’età e l’antichità di quell’essere, ma anche il suo potere esercitato nell’ombra; questa serie di “souvenirs” indica tanto l’influenza quanto la solitudine di un uomo ormai fuori dal tempo, sentimento questo riacceso ogni volta dal ricordo degli amici dei secoli trascorsi. È la stanza destinata a rappresentare la Storia.

  La seconda stanza raccoglie oggetti ed emblemi della scienza: questo “lieu d’horreur” mette il passare del tempo sotto il segno della morte, pieno com’è di teschi e di scheletri che sembrano deridere e chiamare alla morte Marianine. Nello stesso tempo gli strumenti del sapere e della scienza qui si trasformano in strumenti di tortura dall’aspetto minaccioso. Il terrore di Marianine sorge non tanto e non solo all’idea di essere in balìa di tale personaggio, ma soprattutto alla vista di quegli arnesi misteriosi dalle forme bizzarre che avrebbero messo il sapere al servizio dell’assassinio.

  La moltiplicazione degli oggetti del passato, tutti emblematici e rappresentativi per metonimia dei personaggi e dei momenti storici più rilevanti nella storia di Francia, serve da una parte a dare profondità alla dimensione temporale (facendo comprendere a Marianine la vastità delle epoche in gioco), mentre dall’altra la congerie di oggetti della seconda stanza si risolve in un elenco che termina richiamando degli “objet bizarres” [strani oggetti] che sembrano contenere la somma dei “secrets de la nature” [segreti della natura].

  Il procedimento retorico dell’elencazione, insieme alla rappresentazione metonimica di momenti della storia e di leggi naturali tramite gli oggetti accumulati nell’abitazione sotterranea, doppio privato del museo sovrastante, servono a mettere Marianine di fronte ad un essere che domina il tempo e la natura, aumentando il suo terrore: sono quindi gli oggetti, assai più del luogo, a creare il sentimento della paura nella vittima e nel lettore.

 

 

  Il ritorno di un morto vivente: “Le Colonel Chabert” di Balzac, Ibid., pp. 139-144.

 

  Il racconto lungo Le Colonel Chabert, pubblicato da Balzac per la prima volta nel 1832 (ma con altro titolo), contiene uno dei sotterranei più singolari del XIX secolo; il cimitero da cui riemerge Chabert, colonnello dell’esercito napoleonico ritenuto morto dopo la battaglia di Eylau, è soltanto una fossa comune destinata ai caduti ricavata scavando una buca nel terreno. Tuttavia, a differenza di tutti gli altri testi considerati, qui non ci sono pareti né pavimenti; lo spazio è riempito di corpi senza vita che costituiscono una massa mobile dalla quale Chabert può uscire solo a fatica. Questo è uno dei primi racconti dedicati ai sepolti vivi, serie di storie ad effetto e di grande successo lungo tutto l’Ottocento. Tali racconti prendono spunto anche dal dibattito tardo settecentesco sul confine tra la vita e la morte e dai tentativi di dare una definizione univoca e operativa della morte biologica.

  In realtà il racconto di Balzac differisce dai suoi successori perché non narra tanto la storia di un sepolto vivo quanto dei suoi tentativi, una volta recuperata la superficie, di ritornare in possesso della sua identità, di sua moglie, che nel frattempo si era risposata e di poter riprendere la vita da militare benestante e rispettato. Il colonnello Chabert – uno dei graduati prediletti di Napoleone – dopo la battaglia di Eylau viene dato per morto e gettato tra i corpi dei caduti privo di vesti e insegne. Quando si riprende e recupera la memoria del suo nome e della sua posizione, mesi dopo la battaglia, riguadagna Parigi ma nessuno lo riconosce più per quanto è trasformato e sfigurato, neanche la moglie. Chabert, di umili origini e promosso socialmente fino al grado di colonnello grazie all’organizzazione meritocratica dell’esercito imposta da Napoleone, ritorna, alla fine del racconto, nella condizione sociale originale: si ritrova, vecchio, ricoverato in un ospizio, solo e privo di tutto.

  Il lungo resoconto che Chabert fa della propria avventura dalla battaglia contro i russi fino al ritorno a Parigi, all’unico avvocato che abbia accettato di ascoltarlo, M. Derville, serve a rendere conto dell’aspetto miserabile di un amico dell’Imperatore dal nome prestigioso. In particolare la narrazione dell’uscita dalla fossa comune piena dei corpi dei soldati morti è il momento iniziale della perdita dell’identità del colonnello. Salvatosi dalla morte per asfissia e dal gelo, Chabert perde la memoria e rimane per mesi privo della ragione e delle forze, solo dopo mesi riscopre il suo nome e il suo ruolo. [...].

  Il sotterraneo descritto dal colonnello ha in sé alcuni tratti peculiari che lo differenziano dagli altri luoghi del sottosuolo: innanzitutto è uno spazio chiuso e soffocante in cui il protagonista non ha libertà di movimento e solo a fatica e con grande sforzo riesce a scavarsi una strada verso l’uscita. Inoltre è un luogo buio nel quale Chabert deve muoversi usando il tatto e l’udito (“En ouvrant les yeux, je ne vis rien” [Aprendo gli occhi non vidi nulla]). Il tatto diventa il senso che lo guida verso l’esterno e che viene addirittura moltiplicato da un terzo braccio appartenente a un Ercole morto; l’udito rivela al colonnello un luogo terrorizzante; ciò che sente, cioè sospiri soffocati che gli fanno sospettare che non tutti siano morti, gli sconvolge la mente. Ancora più inquietante è il silenzio assoluto, vero silenzio di tomba, che il colonnello sente intorno a sé.

  Non appena Chabert esce all’aperto sviene per le ferite e durante la lunga catalessi perde la memoria. Il sotterraneo serve qui prima di tutto a far avanzare l’azione, svolge una funzione nel senso proppiano del termine, per l’avanzamento dell’azione: crea cioè le condizioni per la perdita di identità del colonnello. Il lungo periodo trascorso dal colonnello tra la vita la morte e privo di coscienza, la deformazione del corpo e del viso segnati dalle ferite, la dichiarazione di morte certificata dall’esercito e accolta con dolore dall’imperatore in persona sono gli elementi che lo privano dell’identità, prima ancora del disconoscimento interessato effettuato dalla moglie.

  Ma il risveglio nella tomba dei soldati morti in battaglia e l’esperienza che Chabert vive lì dentro hanno anche un altro ruolo, perché non solo l’esperienza è eccezionale come dichiara lo stesso colonnello («Lorsque je revins à moi, monsieur, j’étais dans une position et dans une atmosphère dont je ne vous donnerais pas une idée en vous entretenant jusqu’à demain» [«Quando rinvenni, signore, ero in uno stato e in un’atmosfera di cui non potrei darle un’idea nemmeno se gliene parlassi fino a domani»]. «Les impressions de souffrances encore plus profondes que je devais éprouver et qui ont brouillé mes idées» [«le sofferenze ancor più profonde che avrei in seguito provato e che mi hanno disordinato le idee»]) ma anche perché quello che Chabert compie lì dentro è un percorso inusuale in un luogo inusuale.

  Il racconto del colonnello descrive un luogo che normalmente nessun essere umano può raccontare; inoltre lo descrive da un punto di vista del tutto particolare. Con gli occhi, i sensi e le mani di Chabert vediamo uno spazio sotterraneo che più di ogni altro rimane interdetto agli sguardi dei vivi: la tomba – anche quando è una fossa comune, come questa – rimane sempre chiusa alla visione dei vivi, quasi a ricordare e significare l’inconoscibilità della morte. Chabert invece dal basso, dalla posizione di inferiore guarda, riconosce, scava. Guarda il cimitero dei soldati dal basso verso l’alto, trovando corpi, forse anche vivi, da scansare e allontanare; riconosce la propria posizione e la propria situazione; scava, servendosi di un braccio staccato dal corpo del possessore, un passaggio verso l’alto, attraverso i corpi. Questo sguardo portato in direzione contraria a quella usuale, cioè dall’interno della tomba verso l’esterno, da sottoterra verso l’alto, richiama la valenza che questo episodio ha nella vita di Chabert che si ritrova a rinascere privo di tutto, sia del potere e degli onori che gli venivano tributati in quanto colonnello, che del nome e delle ricchezze conquistate in anni di successi; il rinascere a una vita di stenti («Vous comprenez, monsieur, que j’étais sorti du ventre de la fosse aussi nu que de celui de ma mère») diviene il momento centrale di un viaggio iniziatico al contrario, momento che anticipa la presa di coscienza dell’irreversibilità della sua situazione e la conseguente resa a una vita in cui il colonnello non ha più niente e non è più nessuno («Pas Chabert! Pas Chabert! Je me nomme Hyacinthe, répondit le vieillard. Je ne suis plus un homme, je suis le numéro 164, septième salle»).

  Risalita verso l’alto e rinascita però qui non sono un momento positivo. Quando Chabert riemerge nel mondo entrambi – Chabert e il mondo – risultano completamente trasformati. Il colonnello, insieme al proprio nome, ha perso il proprio posto e il mondo nuovo – insieme alla moglie – non lo riconosce. [...].

  Il colonnello riconosce con molta precisione la distanza che lo separa dalla società a lui contemporanea. Questo non gli impedisce di affrontare la sua battaglia per ritornare a essere se stesso; ma quella distanza è oramai incolmabile e l’esperienza vissuta nella tomba con la conseguente e radicale trasformazione vissuta sono la causa e sigillo della sua sconfitta; Chabert si arrende al suo destino e si rifugia in un ospizio dove viene chiamato soltanto con un numero.

  All’inversione di sguardo che il colonnello ha sperimentato nella tomba corrisponde quindi una inversione di destino: chi ha visto una tomba dal di dentro e ne è uscito improvvidamente non riesce più a trovare il suo posto nella famiglia e nella società cui apparteneva. Se Chabert, dopo la prima sepoltura, aveva perso la propria identità agli occhi degli altri ma non di se stesso, alla fine a tratti neanche ricorderà più chi è e si ritroverà “sepolto”, questa volta definitivamente, nell’ospizio, a significare che alla sepoltura accidentale si può sfuggire, a quella sociale no.

 

 

  Bernardo Valli, Da Balzac a Zola, «la Repubblica», Roma, 7 luglio 2010, p. 1.

 

  [...]. Chi dice Bettencourt dice la seconda fortuna di Francia. Dice Orea. Un nome che campeggia nella pubblicità del mondo intero. Dice anche Liliane Bettencourt, 87 aiuti, vedova di André. E a questo punto si entra in zona Balzac, in una storia aggiornata della Comédie Humaine. Meglio tuttavia non abusare troppe dei grandi romanzieri del passato francese, anche se alla tentazione non resistono alcuni cronisti parigini [...].

 

 

  Federico Vercellone, Eppure Balzac ha cenato con Büchner, «La Stampa Tuttolibri», Torino, Anno XXXIV, numero 1696, 5 Gennaio 2010, p. VI; ill.

 

  Su: Stefano Poggi, La cena di Zurigo.

 

  [...]. In questo vero e proprio conte philosophique assistiamo al confronto immaginario e tuttavia realissimo tra due giganti della letteratura dell’Ottocento: Honoré de Balzac e Georg Büchner. L’incontro tra i due naturalmente non è mai avvenuto. A renderlo possibile è solo la narrazione che pone l’uno di fronte all’altro il drammaturgo tedesco e il romanziere francese. L’incontro, del tutto casuale, avviene in campo neutro. A Zurigo nella locanda Zum goldenen Hecht, Al luccio d’oro, dove i due scrittori fanno conoscenza e familiarizzano velocemente complice un’ottima cena predisposta dall’oste a base naturalmente di luccio e di un ottimo sidro della zona denominato Most. Büchner è in Svizzera per sottrarsi ai rischi che in patria corre a causa delle sue opinioni rivoluzionarie. Balzac è di ritorno dall’Italia e non è solo. Ha una compagna che clandestinamente lo accompagna. La sua per lo più tacita presenza anima nondimeno la cena alimentando il confronto tra i due e smorzandone i toni quando essi si fanno troppo accesi.

  Corre l’anno 1836: l’aria è carica di tensioni, politiche, culturali, scientifiche. Il confronto tra i due scrittori si avvia a tutto campo. L’uno non sa chi sia l’altro. Il francese, che è anche il più anziano, avvia la discussione con vena sanguigna, come un torrente in piena. Il tedesco, frenato anche dal fatto di essere più giovane, è più freddo e riservato ma lascia intendere di non voler subire l’irruenza dell’altro.

  Nonostante queste premesse che potrebbero mandare a monte il clima della cena i due si ritrovano quasi come vecchi amici che non si vedono da tempo. Si discute di molti argomenti dalla scienza, alla filosofia, all’arte, alla politica. Ne viene fuori un grande quadro d’epoca. L’incontro impossibile riproduce opinioni assolutamente reali: nulla di quanto viene attribuito ai due interlocutori è opera di fantasia; lo sono solo le circostanze legate al loro incontro.

  Che si sviluppa, come si diceva, a tutto campo, in un clima di crescente simpatia. E non si comincia affatto dalla letteratura ma dalla scienza. Si discute della camera oscura, della nascita del pensiero laddove Balzac è legato a vedute che derivano anche dalla tradizione alchemica, sin da Paracelso, mentre il suo interlocutore adotta uno sguardo ben più cauto e scientifico. Il reazionario Balzac e il rivoluzionario Büchner si scoprono infine come anime contrapposte ma assolutamente necessarie l’una all’altra.

  Il soccombere per primo alle crudeli leggi del fato sarà il più giovane. Quando Balzac torna l’anno successivo a Zurigo e va alla ricerca del grande amico di una sera apprende che questi è da poco morto di una febbre tifoidea. Sull’ultima lettera compaiono, tratte forse da un’aria italiana, tre parole di commiato alla fidanzata Minna: «Addio, piccola mia».

 

 

  Marco Vitali, Una mostra a Cargeghe, quando Balzac perse i suoi averi nelle miniere sarde, «La Nuova Sardegna», Sassari, 9 ottobre 2010.

 

  Nella primavera del 1838 lo scrittore francese Honoré de Balzac fece tappa in Sardegna per tentare di recuperare i danari investiti in alcuni giacimenti minerari dell’isola, investimento rivelatosi poi fallimentare e quanto mai incauto.

  A questa curiosa vicenda, i cui contorni non sono mai stati chiariti pienamente dagli storici, è dedicata una mostra documentaria che apre il 16 ottobre prossimo alla Biblioteca di Sardegna dì Cargeghe.

  La mostra, che resterà aperta sino al 14 novembre, si svolge in occasione del 160° anniversario della morte del grande scrittore francese (1799-1850) e ha per titolo “Honoré de Balzac. Voyage en Sardaigne”. Promossa e allestita con il patrocinio della Provincia di Sassari e la collaborazione dell’Institut de France de Paris, ricostruisce, attraverso documenti rari e inediti (anche in prima uscita mondiale), la picaresca avventura in terra sarda del romanziere, genio della letteratura dell'Ottocento realistico.

  Un capitolo mai pienamente approfondito della biografia dello scrittore che, nella primavera del 1838, incalzato da gazzettieri e creditori, fa rotta in Sardegna per coronare mai soddisfatte velleità di prosperità economica attraverso lo sfruttamento di giacimenti di scorie abbandonate nell’isola, presso l’Argentiera nella Nurra.

  Un’esperienza di cui lasciò memorabile traccia in uno sparuto numero di lettere indirizzate all'amata contessa Evelina Hanska e di cui la Biblioteca di Sardegna presenterà la riproduzione degli esemplari manoscritti: sette epistole per dieci fogli che ne ripercorrono, da Alghero all’Argentiera, da Sassari a Cagliari, il soggiorno in terra sarda.

  Una spedizione non fortunata, da cui Balzac riportò due contrapposte suggestioni: l’impressione di «una profonda e incurabile miseria» da una parte e l’incanto di «costumi di una sorprendente ricchezza» dall’altra. La mostra e accompagnata dalla presentazione di un saggio critico (pubblicato con il patrocinio dell’ambasciata di Francia) che ospita, nella traduzione a cura di Corrado Piana e Maria Grazia Bianco, la narrazione epistolare del viaggio.

  Scrittore prolifico, Balzac ha elaborato un’opera monumentale – la «Commedia umana» – ciclo di numerosi romanzi e racconti con l'obiettivo di descrivere in modo quasi esaustivo la società francese dell’epoca.

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  L’Affarista Mercadet. Traduzione e adattamento di Luigi Lunari. Regia di Alberto Uez, Stagione 2009-2010.

 

  Cfr. 2009.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  Mariolina Bertini, Evoluzioni del romanzo in Francia. Balzac e la nascita del concetto di romanzo realista, Università degli studi di Parma, Dottorato di Francesistica, 11 maggio 2010.

 

 

  Jacques Buisson, Vita e opere del romanziere Honoré de Balzac, Ventimiglia, Associazione Europea Amici della Francia, Saletta Riunioni Bar Hobbyt, 15 settembre 2010, 0re 16.00.

 

 

  Id., Le Colonel Chabert, Ibid., 20 ottobre 2010.

 

 

  Flavia Cristiani, Le jeu de la vanité: il teatro di Ippolito Nievo tra Stendhal e Balzac, in AA.VV., Congresso ADI. La Letteratura degli Italiani. 2. Rotte, confini, paesaggi, Genova, 16 settembre 2010.

 

 

  Andrea Del Lungo, Come ridere sul serio. Forme dell’ “esprit” in Balzac, in AA.VV., Modi di ridere. Forme spiritose e umoristiche della narrazione, Associazione Sigismondo Malatesta, Santarcangelo di Romagna, Rocca Malatestiana, 29 maggio 2010.

 

 

  Guido Furci, Tracce genetiche di una pratica performativa. Materiali, montaggio, produzione in “Ferragus” di Balzac, in AA.VV., Performance e performatività. Convegno internazionale dell’Associazione per gli studi di storia e teoria comparata della letteratura, Messina, 19 novembre 2010.

 

 

 

 

Eventi.

 

 

  All’opera con filosofia. Rosanna Buquicchio dialogherà con Giacomo Maramao, Elio Matassi, Maria Teresa Pansera sul volume di Stefano Poggi: La cena di Zurigo, Roma, Libreria Feltrinelli, 15 gennaio 2010.

 

  Il parroco di Tours di Honoré de Balzac, “Per un pugno di libri”, Rai Tre, 15 marzo 2010.

 

  Intervengono: Neri Marcorè, Piero Dorfles, Giancarlo Ratti e José Saramago.

 

 

  Elisabetta Cortella, Marco Cavalli, Stefania Carlesso, Lettura ad alta voce di alcune pagine di Proust, Balzac, Huysmans, Padova, Libreria “La Forma del Libro”, 18 giugno 2010.

 

 

  Honoré de Balzac. Voyage en Sardaigne, Cargeghe, Biblioteca di Sardegna, 16 ottobre-14 novembre 2010.

 

 


Marco Stupazzoni

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