giovedì 4 marzo 2021



2005

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, La gente muore con filosofia. Da: Il medico di campagna, «Recenti progressi in Medicina», Roma, Volume 96, Numero 1, Gennaio 2005.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, La Commedia umana. Scelta e introduzioni di Mariolina Bongiovanni Bertini. Volume Secondo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (ottobre) 2005 («I Meridiani»), pp. 1831.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Nota all’edizione, pp. IX-X;

  Tavola delle abbreviazioni, pp. XI-XII;

  Illusioni perdute.

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. 5-81;

  Illusioni perdute (dalle Scene della vita di provincia). Traduzione di Dianella Selvatico Estense e Gabriella Mezzanotte, pp. 83-804;

  Splendori e miserie delle cortigiane.

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. 807-863;

  Splendori e miserie delle cortigiane (dalle Scene della vita parigina). Traduzione di Marise Ferro, pp. 865-1442;

  Claudia Moro (a cura di), Note, pp. 1443-1690; 1691-1828

 

  Nella sterminata e cromaticamente intensa geografia narrativa della Comédie humaine, Illusions perdues e Splendeurs et misères des courtisanes rappresentano sicuramente, per l’eccezionale modernità del loro spessore letterario e ideologico, due tra le ‘oeuvres capitales’ più esteticamente innovative dell’intero ciclo romanzesco balzachiano.

  Questo secondo volume de La Commedia umana, presenta le traduzioni integrali delle due opere di Balzac: D. Selvatico Estense e G. Mezzanotte hanno curato la versione italiana di Illusions perdues, mentre, per quel che riguarda Splendeurs et misères des courtisanes, il testo di riferimento è quello di Marise Ferro del 1961 (Torino, Einaudi) opportunamente rivisto per l’occasione. Prezioso è l’apparato delle Note ai testi di Claudia Moro particolarmente utile al lettore italiano per orientarsi nella fitta selva delle citazioni e delle allusioni letterarie, storico-geografiche e politiche di non sempre facile e immediata comprensione.

  L’«oltraggiosa e contraddittoria modernità» (p. 9) di cui parla M. Bongiovanni Bertini a proposito di Illusions perdues si spiega con il carattere polifonico delle strutture letterarie e dei registri narrativi che informano il tessuto romanzesco dell’opera. Nonostante la caotica frenesia che caratterizza il suo metodo di lavoro (e che non gli consentirà di avere sotto gli occhi una versione complessiva del proprio testo), Balzac riesce ad imprimere ad Illusions perdues i caratteri e le forme, in miniatura, di «quella nebulosa in espansione che è La Comédie humaine» (p. 33) presentando la sua opera come «insostituibile ‘effetto di reale’ [...] e come spregiudicata adozione del principio tutto irrealistico della suspense [...] ereditato dai palcoscenici del mélodrame» (p. 9). Particolarmente significativa è, nel romanzo, l’immagine simbolica di Angoulême e la sua trasfigurazione letteraria secondo una logica lontana dal realismo referenziale; esemplare, da una prospettiva diversa, è la genesi de La Torpille, «uno degli esempi più impressionanti della sovrana disinvoltura con la quale Balzac rifiuta il dogma sainte-beuviano della ‘continuità’ del racconto» (p. 23). Ma Illusions perdues è soprattutto il ‘roman d’apprentissage’ di Lucien all'interno dei tortuosi ed insidiosi labirinti del mondo letterario e giornalistico parigini. Proprio nel trattamento della poesia e del linguaggio giornalistico, la polifonia non solo tragica, ma ironica di Illusions perdues restituisce nel suo insieme «il gusto di un'epoca precisa con la sua folla di stereotipi, tic, manierismi ed effimere mitologie» e svela una pluralità di prospettive che esaltano «il carattere poliedrico del tema affrontato» e ne illuminano «sotto angoli diversi le molteplici sfaccettature» (pp. 43 e 44).

  Soltanto pochi critici (e si tratta, in particolare, di scrittori quali Proust e James) hanno colto nella «struttura policentrica» del romanzo balzachiano il suo carattere esemplare. Trascurato dalla critica ottocentesca (Taine, Lanson, Brunetière), rivalutato da Lukács come «poema tragico che tratta della ‘capitalizzazione dello spirito’» (p. 65), Illusions perdues ha avuto, proprio grazie a Proust e a James, la sua illuminante consacrazione a capolavoro della modernità attraverso, da un lato, la celebrazione di Vautrin come «genio del romanzo» (p. 70); dall’altro, grazie allo «smantellamento dell’icona del Balzac realista» (p. 72) per il carattere poliedrico e la forza inesauribile dell'opera in cui si trovano esaltate (cfr. a questo proposito gli studi di Picon e Chollet) le sue componenti mitiche e fantastiche.

  In questa prospettiva storico-letteraria di vasto respiro dove la realtà romanzesca balzachiana sfugge a qualsiasi rigido confronto con un referente esterno al testo, si colloca a pieno titolo Splendeurs et misères des courtisanes, un’opera epica, la cui storia accidentata, complessa e irregolare porta alla luce, erodendone in profondità le fondamenta, la prosaica e contraddittoria realtà parigina. Ancora una volta, qui come in Illusions perdues, è attraverso la figura di Vautrin, «il genio polimorfo e decifratore della forma romanzo» (p. 844) che Balzac svela un orizzonte letterario che «rilancia la narrazione e la prolunga verso nuovi sviluppi» (p. 840). L’ambigua natura proteiforme di questo personaggio – che in fondo non è altro che la prerogativa irrinunciabile del romanzo come genere – e la sua ironia sacrilega introducono nella narrazione «il fermento di un dubbio sistematico e disgregatore»; è, osserva la curatrice, «l’inflessione di una voce non autoriale, ma paradossalmente autorevole, che contribuisce in modo decisivo alla polifonia del testo» (p. 849) e alla rinascita del codice romanzesco come forma del mito e specchio di una modernità liberata dai vincoli della tradizione classica.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Traduzione di Giancarlo Buzzi. Introduzione di Henry James, Milano, Oscar Mondadori, (gennaio) 2005 («Oscar classici», 606), pp. LIV-207.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Henry James, Introduzione, pp. V-XXXVI; tratto da La lezione di Balzac [1905], 1993.

  Cronologia, pp. XXXVII-XLVIII;

  Bibliografia, pp. XLIX-LIV;

  Eugénie Grandet (dalle Scene della vita di provincia), pp. 1-205.

 

  Tra i romanzi della Comédie humaine che, insieme al Père Goriot, hanno attirato maggiormente l’interesse dell'editoria italiana dalla prima metà dell’Ottocento fino ai giorni nostri, si annovera senza alcun dubbio Eugénie Grandet, romanzo psicologico dai potenti risvolti sociali, di cui esce ora, in Italia, una nuova edizione curata nella traduzione da G. Buzzi e introdotta da un denso saggio di H. James tratto da uno studio del 1902. Secondo James, né Eugénie Grandet né gli altri più celebrati romanzi di Balzac possono concepirsi al di fuori di quel progetto letterario che è La Comédie humaine, un progetto in cui il mistico processo di «trasformazione del materiale esposto alla fiamma dell’arte» (p. XXIII) proietta «sul colore dell’aria» di cui lo scrittore «soffonde più o meno inconsciamente il suo dipinto» (p. XVI) l’emanazione del suo spirito, del suo temperamento, della sua storia. In questo senso, e in virtù della sua «interna forza espansiva» (p. XXXI), l’opera di Balzac rappresenta per James una lezione, in quanto, a suo giudizio, nessuno romanziere «merita considerazione quanto colui o colei (...) che offra a uno spirito critico l’opportunità di un momento educativo di una certa intensità» (p. V).

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  L’isola delle miniere. Quando la Sardegna era come l’Eldorado, «La Nuova Sardegna», Sassari, 4 maggio 2005, p. 51.

 

  Negli ultimi mesi del 1837 i debiti di Honoré de Balzac erano arrivati alla ragguardevole somma di 200.000 franchi. La Sardegna fu il tentativo estremo di raddrizzare una situazione disperata. Forse la Sardegna non era l’Eldorado, ma c’era abbastanza argento da potersi arricchire. Nel sud dell’isola, nei dintorni di Iglesias, la vena di galena argentifera correva qualche centinaio di metri sottoterra e in certi punti addirittura affiorava. Argento c’era anche nel nord, nella Nurra, in un giacimento sfruttato sin dall’antichità e ora abbandonato. L’attività di secoli aveva lasciato montagne di scorie, che eccitavano le più disparate fantasie A Genova, un certo Pezzi convinse Balzac che fosse un ottimo affare sfruttare le scorie d’argento sarde. Organizzare il viaggio (prendendo altro denaro a prestito) fu questione di poche settimane e il 12 aprile 1838, a bordo di una paranza di pescatori di corallo diretti in Africa, Honoré de Balzac giunse ad Alghero. La prima tappa fu la Nurra, dove però scoprì che la concessione per lo sfruttamento delle scorie era stata già data e che a ottenerla non era stato altri che l’infido Pezzi. Decise allora di puntare a cavallo verso Sassari, e poi verso Cagliari, dove giunse dopo cinque giorni di un viaggio in diligenza più scomodo che avventuroso.

  Alla contessa Hanska (che poi avrebbe sposato), da Alghero dove era appena sbarcato dopo una penosa quarantena, scrisse: «Qui comincia l’Africa». Qualche giorno dopo, sempre alla contessa: «L’isola è interamente deserta, veri selvaggi, nessuna coltivazione, distese di palme spontanee, cisto e capre dappertutto che brucano tutti i germogli e mantengono le piante all’altezza della cintura». E alla madre: «I paesani mangiano pane di farina di ghiande e di argilla e dappertutto è gente nuda. Nei giorni di Pasqua ho visto masse di creature distese al sole a guisa di greggi, lungo i muriccioli terrosi delle loro spelonche». La missione nel sud dell’isola si dimostrò non meno deludente di quella nella Nurra. Al “Concordia”, l’albergo del quartiere di Marina dove soggiornava a Cagliari, gli venne data una notizia che era una mazzata: solo il dieci per cento delle scorie a cui aveva puntato era piombo, e solo il dieci per cento di quel piombo era argento. Per ricavare qualche chilo d’argento da quelle montagne di scorie ci sarebbe voluta una fortuna. L’avventura sarda di Balzac si concluse in un’ultima disperante settimana a Cagliari, in attesa che la fine del cattivo tempo consentisse alla sua nave di partire per il Continente, senza soldi, amareggiato per il fallimento. [...].

 

 

  L’anniversario della morte di Honoré de Balzac, «La Sicilia», Catania, 18 maggio 2005, p. 21.

 

  Irrequieto, braccato dai creditori, consacrato alla fama con l’opera «La fisiologia del matrimonio», che scandalizzò gli ambienti borghesi parigini, e con la «Commedia umana», opera monumentale che riassume tutta la sua produzione narrativa, Honoré de Balzac è stato uno fra i massimi esponenti della corrente letteraria del realismo. Oggi si celebra l’anniversario della sua morte, avvenuta a Parigi, nella lussuosa casa di rue Fortunée (ora rue Balzac), la sera del 18 agosto 1850. Se l’opera letteraria di Honoré de Balzac è straordinaria, altrettanto lo fu la sua vita rocambolesca: ritratto come un uomo grasso, con i baffi e dallo sguardo acuto e bonario, di lui sappiamo che beveva enormi quantità di caffè, a causa dei quali soffriva di una grave insonnia; che era assalito dai creditori ai quali sfuggiva travestendosi da donna; che era devoto al denaro, eppure generoso; e che, come lo descrissero i suoi amici letterati, era uomo di buon carattere, celebre per le sue numerose amanti, ma capace di inseguire per tutta l’Europa la misteriosa «straniera» che divenne, sei mesi prima della sua morte, sua moglie. Il capolavoro di Balzac, la «Commedia Umana», doveva contenere 150 episodi ma che fu realizzato per due terzi. I titoli più famosi sono «Père Goriot» (1834-1835), «Eugénie Grandet» (1833), «La cugina Betta» (1846), «La ricerca dell’assoluto» (1834) e «Illusioni perdute» (1837-1843). L’opportunismo, l’avidità, la pochezza dei sentimenti, i vizi della società moderna vengono qui rappresentati dimostrando quale profondo conoscitore Balzac fosse degli uomini e delle donne del suo tempo, dall’aristocrazia all’alta, media e piccola borghesia, dal proletariato al sottoproletariato, dalla città alla provincia al villaggio. Lontani da ogni tipo di idealizzazione, i personaggi sono invischiati in problemi materiali, come quelli del lavoro e del denaro.

 

 

  Nino Agostinetti, Un amore zaratino e Balzac, «La Rivista dalmatica», volume LXXX, numero 2, aprile-giugno 2005, pp. 16-19.

 

  Oggetto di questo breve intervento di N. Agostinetti è un frammento del testo balzachiano Un début dans la vie nel quale si narra l’avventura amorosa del pittore Schinner a Zara, in Dalmazia: da questo episodio, l’A. trae spunto per riflettere sulla descrizione balzachiana della città e del territorio, frutto, probabilmente delle notizie avute nel corso degli incontri e delle conversazioni con alcune personalità di spicco della cultura italiana nei salotti milanesi e veneziani durante il soggiorno del 1837.

 

 

  Vittorino Andreoli, Quando le colpe dei figli pesano sui padri, in L’alfabeto delle relazioni, Milano, BUR Saggi, 2005, pp. 36-43.

 

  Cfr. 2004.

 

 

  Cetta Berardo, Caffè da leggere, Torino, L’Ambaradan editore, 2005.

 

  pp. 67-68. Balzac, da caffeinomane incallito, suggerisce «agli uomini di straordinario vigore» un modo particolare di berlo, una specie di esplosivo, cioè caffè macinato, schiacciato, freddo e anidrico, a digiuno.

  «Questo caffè cade nel vostro stomaco, che è un sacco vellutato all’interno, tappezzato di aspiratori e di papille; non vi trova niente, aggredisce questa delicata e voluttuosa fodera, e diventa una specie di alimento che cerca i suoi succhi; li strapazza e li sollecita come una pitonessa che chiama il suo dio, malmena quelle belle pareti come un carrettiere che brutalizza dei giovani cavalli; i plessi si infiammano, bruciano, e fanno salire le loro scintille fino al cervello».

  Per Balzac, prolifico scrittore, la pozione era fonte di ispirazione per le infinite trame della sua Comédie humaine.

 

 

  José Bergamin, La chimera di Balzac, in La bellezza e le tenebre. Nei labirinti della parola poetica. Traduzione di Andrea Fantini, Milano, Medusa, 2005 («Le porpore», 12), pp. 111-114.

 

  L’assoluta modernità dell’universo narrativo di Balzac risiede nel fatto di porsi come «puro mondo del romanzesco più autentico» (p. 114), come un’idea ispirata da un misterioso volto di donna che, come una creatura chimerica, afferra la mano dello scrittore e lo conduce verso fantastici cieli.

 

 

  Renato Bertacchini, La commedia di Balzac? Tragica, «Libero», Milano, 16 dicembre 2005, p. 25; 1 ill.

 

  Scriveva 20 ore al giorno, inventò 2000 personaggi, si dedicò perfino al commercio. Morì a cinquant’anni ucciso dai vizi e dal superlavoro.

 

  Oltre un secolo dalla morte (Parigi, 1850), Honoré de Balzac appare il gigante narratore della “Comédie humaine”, meravigliosa, incompiuta cattedrale di parole. Vera e propria forza della natura, l’uomo Honoré dorme pochissimo, e bevendo caffè a tazze, scrive diciotto, venti ore al giorno, vuole essere dominatore della letteratura: «Quel che Napoleone non riuscì a compiere con la spada, io lo condurrò a termine con la penna». Effettivamente il grandioso, il superlativo (e il pletorico) contrassegnano Balzac tanto nella parabola biografica quanto nella carriera artistica. Forte, corpulento, sanguigno, tenta avidamente la fortuna con azzardi speculativi. Sfrutta miniere d’argento abbandonate dai Romani in Sicilia (sic). Coltiva ananas a Ville- d’Avray. Importa sessantamila querce dalla Polonia per fornire di traversine le ferrovie francesi. A questi affari folli corrispondono altrettanti insuccessi. Fattosi editore tipografo, titolare di una fonderia di caratteri, colleziona debiti fino alla bancarotta.

  Scrittore d’appendice e giornalista, è un avventuroso donnaiolo a temo pieno. Contano molto per Balzac gli amori e le amicizie femminili, specie di nobildonne predilette dal suo innato snobismo. Mme de Berry (sic), avanti negli anni ma di squisita sensibilità, resterà sempre per lui “la Dilecta”. Corteggiate e amate la fiera duchessa d’arantes (sic) e la piccante Mme Marboury, sua compagna nel primo viaggio in Italia, la focosa contessa Guidoboni-Visconti lo aiuta nelle difficoltà economiche sempre in agguato. Alla fine, Balzac, sposa in Russia, nel marzo 1850 Mme Hanski (sic), ricca ereditiera polacca, che l’ha tenuto a lungo sulla corda. Di ritorno a Parigi con la moglie nel maggio, il 18 agosto Honoré muore cinquantunenne, distrutto da un’esistenza di fatiche, superlavoro e dissipazioni. Somme enormi di energie spese nel mestiere di giornalista e scrittore: 91 romanzi compiuti nell’arco di quattordici anni, altri 50 progettati e avviati; duemila personaggi; più di diecimila pagine per la sola “Comédie humaine”; e poi una serie infinita di racconti, opere teatrali, articoli e pezzi-pubblicistici. Tutto bene, onore al merito. Ma per il lettore d’oggi, la vastità della Commedia costituisce un ostacolo quasi insormontabile. Come potrà il lettore del terzo Millennio – distratto dai mass media, con solitudine e silenzio (necessari alla lettura) sempre più brevi – accostarsi ai cicli, alle catene episodiche delle “Scene di vita”? Distribuite, moltiplicate in “Scene della vita privata”, “di provincia”, “politiche” e “militari”? Riuscirà a districarsi nello sbalorditivo caos delle strutture, delle descrizioni realistiche e delle “visioni”, con tali e tanti individui, caratteri, tipi da far concorrenza all’Anagrafe?

  Occorre per il lettore odierno un panorama selettivo, che gli valga insieme da invito e da bussola. Opportuno, dunque, praticamente e criticamente motivato, giunge in libreria il secondo Meridiano Mondadori dedicato a ‘‘La commedia umana”. La curatrice Mariolina Bongiovanni Bertini vi ha accolto e fornito di documentate introduzioni, i romanzi del ciclo di Lucien de Rubempré, “Illusioni perdute" (nuovamente tradotte da Daniella Selvatico Estense e Gabriella Mezzanotte) e “Splendori e miserie delle cortigiane” (nella classica versione di Marine Ferro).

  Le “Illusioni perdute" (1837-43) si aprono nella primavera del 1821, abbozzano i destini inizialmente paralleli di due giovani poco più che ventenni, poveri e ambiziosi. Lo stampatore David Gèrard (sic) (significativa figura autobiografica) progetta l’utilizzo di ingredienti vegetali poco costosi per produrre carta di alta qualità a prezzo talmente basso da rivoluzionare il mercato. Il suo proto lucine (sic) scrive versi. Entrambi sognatori (“I due poeti” s’intitola la prima parte del romanzo), hanno però indole assai diversa. Il plebeo David è generoso, costante, leale. Invece Lucien, rampollo di nobile famiglia, dietro una seducente bellezza efebica nasconde incostanza e fragilità morale che lo predispongono a disonesti compromessi. Defraudato della sua invenzione (che arricchirà altri); mediocre e deluso, David però finisce i suoi giorni dedicandosi allo studio delle farfalle: punitivo, ironico tramonto. Il fragile Lucien tenta il suicidio; poi accetta l’illusoria protezione di un misterioso prelato spagnolo, il falso canonico Herrera, la cui volontà di ferro è destinata a insinuarglisi dentro e a dominarlo.

  In “Splendori e miserie delle cortigiane” (1837-43) risaltano due prototipi dell’immaginario balzachiano: da un lato Esther, la prostituta redenta dell’amore; dall’altro Wautrin (sic), galeotto e sbirro, ribelle satanico contro la società.

  Per quattro anni amante del bellissimo Lucien, l’ebrea Esther, nel mondo del vizio, si conserva buona e altruista, quasi una sorella verso le amiche in disgrazia. Sprezzante, nemica dei ricchi perfidi e profittatori, esaspera abilmente il banchiere Nucinger (sic), mediante una lunga, calcolata resistenza. Ultimo esemplare di una stirpe di meretrici d’alto rango, Esther pratica con fierezza l’arte della seduzione. Ma ha anche il coraggio di abbandonare “i dolcissimi errori della dea Venere”, quando l’amore autentico per Lucien le rivela gioie e sofferenze mai prima conosciute. Femmina dominatrice, appartiene, secondo Balzac, a una specie sociale in via d’estinzione. Per le donne come lei, filantropi e riformatori proprio allora in Francia stanno progettando isolati quartieri-ghetti. Auspicano ossessivi controlli di polizia, affidati magari a professionisti del male e della corruzione sul tipo di Wautrin, capo della polizia segreta che sequestra, strumentalizza e tortura professioniste del sesso.

  Ben noti a Balzac, i “discours” 1834, lei iniziative che regolamentano la prostituzione a Parigi, nel momento stesso in cui ritrae la cortigiana Esther, diabolica nel potere di seduzione e viceversa angelica nella devota fedeltà a Lucien. Intorno a lei dilagano i luoghi, i posti equivoci della mondanità parigina. Maschere, travestimenti e torbidi intrighi. Ignobili eminenze grigie praticano lo spionaggio sessuale. Accanto alla povera Goulaeuse. prostituta da strada, sosia Lydia, la figlia del banchiere Nucingen, venduta dalla turpe, feroce Asia ad una mezzana (tornerà a casa in preda alla follia). Impressionante il quadro delle viuzze malfamate tra il Palais Royal e i boulevards, cuore notturno della prostituzione più squallida. Alla zona dell’osceno, lercio mercato, si contrappone il vasto parco del Convento, che Esther – separata da Lucien, distrutta dal dolore, prima di avvelenarsi – contempla con occhi disperati da “gazzella morente”.

 

 

  Mariolina Bertini, Balarouth: Balzac portraitiste en 1822, «Cahiers de littérature française», I, Bergamo-Paris, University Press-Edizioni Sestante; L’Harmattan, Janvier 2005, pp. 33-38.

 

  M. Bertini considera, riferendosi al romanzo giovanile balzachiano une Heure de ma vie (febbraio-marzo 1822), il personaggio di Balarouth il vagabondo che diventerà il fedele servitore e l’amico del romanziere – che prefigura alcune suggestive figure della Comédie humaine nelle quali è possibile scorgere la proiezione delle tensioni (tipicamente balzachiane) verso la ricerca e lo studio dell’uomo interiore. La sua connotazione grottesca ed eroicomica offre a Balzac «l’occasion d’une autoparodie, discrète mais délibérée, en accord parfait avec son modèle, Sterne» (p. 37). Questo personaggio simbolico, conoscitore impareggiabile degli spazi parigini, saprà infondere a Balzac la propria energia vitale e il proprio sapere per poi essere dimenticato dallo scrittore che già, però, ne ha interiorizzato la scienza.

 

 

  Mariolina Bertini, «Une puissance un peu matérielle» : lectures de Balzac dans «Jean Santeuil», in AA.VV., Les pas d’Orphée. Scritti in onore di Mario Richter, a cura di M. Emanuela Raffi, Padova, Unipress, 2005, pp. 337-354.

 

  Gli anni intercorsi tra il 1895 e il 1900 («les années de Jean Santeuil») rappresentano un momento decisivo della formazione balzachiana di Marcel Proust. Il contesto culturale e i dibattiti letterari particolarmente vivi in quegli anni intorno alla figura di Balzac e alla sua opera — stimolati anche dal rilievo di un evento editoriale importante quale la pubblicazione delle Oeuvres complètes (tra cui la Correspondance con Mme Hanska, presso l’editore Michel Lévy – accesero in Proust il desiderio e l’interesse di moltiplicare e di approfondire le sue letture balzachiane. I riferimenti tratti dalle lettere di Marcel alla madre (segno di un dialogo vivace, «teinte d’humour et de complicité intellectuelle» (p. 340), costituiscono in questo senso una testimonianza esemplare. Ma è soprattutto in funzione di Jean Santeuil che Proust «projette à l’époque d’augmenter et d’approfondir ses connaissances quant à la Comédie humaine» (p. 341). Le citazioni dei ‘romans de mœurs’ balzachiani presenti in Jean Santeuil rivelano che l’attenzione di Proust nei confronti di Balzac si concentra quasi esclusivamente «sur le témoin de la vie aristocratique, sur le romancier des phénomènes sociaux en voie d’extinction [...] ou en transformation rapide» (p. 342). La lettura di opere quali Le Curé de village o Illusions perdues consentono a Proust di cogliere «l’organisation symbolique» (p. 344) degli spazi narrativi di Balzac: un Balzac che, sottoposto all’operazione di riscrittura proustiana, si ritrova «épuré de toutes ses scories, de tout élément gênant et irrégulier» (p. 345).

  Il Balzac di Jean Santeuil, puntualizza l’A., è dunque «une présence aux contours incertains, aux traits imprécis» (p. 349): nel capitolo della sezione «Autour de l’ ‘Affaire’» che l’editore ha intitolato «Révélations?», un episodio dai contorni e dalla matrice balzachiani (Une ténébreuse affaire) imprime incontestabilmente la sua intensità narrativa più diretta, la sua «puissance un peu matérielle» alle forme della scrittura proustiana. L’ ‘affaire Dreyfus’, scrive l’A «en faisant ressortir des analogies troublantes, donne une dimension nouvelle au texte balzacien, que l’on pourrait qualifier d’hyperréaliste» (p. 353).

 

 

  Giovanni Bogliolo, Balzac, il mondo è un trompe-l’oeil, «La Stampa-ttL tuttoLibri», Torino, Numero 1491, 3 dicembre 2005, p. 3; 1 ill.

 

  Per rendere attuale Balzac non è necessario impugnare i referti di morte che sono stati stilati per il Romanzo prima dell’annuncio di ogni sua nuova, presunta trasfigurazione né riscattare lo scrittore simbolo della grande narrativa ottocentesca dal discredito di cui si è voluto coprire. E’ sufficiente leggerlo. Il problema, semmai, è come.

  Balzac ha scritto poco meno di cento romanzi, che sono, sì, opere autonome e autosufficienti, ma fanno anche parte di un organismo complesso, la Commedia umana, che è a sua volta a pieno titolo un’opera che chiede di essere conosciuta in quanto tale e dalla quale i singoli componenti non possono impunemente essere avulsi. La collocazione in una delle tre parti in cui essa si suddivide – gli Studi di costume, gli Studi filosofici e gli Studi analitici – e in una delle sei sezioni in cui si articola la prima attribuisce a ogni romanzo una connotazione particolare; la conoscenza delle diverse avventure di cui i personaggi sono già stati o saranno protagonisti, comprimari o comparse è essenziale alla comprensione di ogni loro apparizione; la disseminazione di riflessioni, digressioni, analisi e teorie, a volte rivelatrici, a volte peregrine, avvolge l’intera costruzione in una rete di senso che si riverbera su tutti gli elementi che contribuiscono a formarla. I romanzi di Balzac, insomma, non finiscono né cominciano; hanno sempre un prima e un dopo.

  Edizioni complete e sapientemente annotate di quest’opera monstre esistono, almeno in francese; a non esistere quasi più sono i lettori capaci di affrontarla con la voracità dei contemporanei di Balzac, mai sazi delle generose porzioni settimanali di romanzo, che ammannivano loro i Dumas, i Sue e gli altri feuilletonistes. E’ sotto questo aspetto che Balzac può dirsi inattuale.

  Perciò quella che sta portando a compimento con rigore e passione Mariolina Bongiovanni Bertini – la pubblicazione di una scelta di romanzi, che al loro valore intrinseco aggiungano quello di essere esemplificativi delle ramificazioni strutturali, delle emergenze tematiche, delle ambizioni sociologiche, delle digressioni analitiche e della straordinaria varietà di toni, registri e stili dell’intera opera – è un’impresa generosa e necessaria: dodici volumi della Pléiade concentrati in tre dei Meridiani, novantun romanzi ridotti a diciotto. Una selezione severissima, ma non una decimazione; piuttosto una calcolata riduzione di scala per adeguare la Commedia umana – tradotta in maniera ineccepibile e sostenuta da un ricco, illuminante apparato di studi introduttivi e di note – alle disponibilità di attenzione del lettore di oggi.

  In essa si può infatti spaziare tra la vita di campagna e di provincia e quella di Parigi, nella realtà privata come in quella politica e in quella militare, assistere al ritorno dei personaggi, penetrare in un mondo completo e autosufficiente in cui, come giurava Balzac, all is true e perfino sembra, per effetto di uno stupefacente trompe-l’oeil, più vero del reale. Una sua regolare frequentazione, osservava Oscar Wilde, «riduce i nostri amici a ombre e i nostri conoscenti a ombre di ombre». In questo secondo volume, che comprende i due romanzi del ciclo di Lucien de Rubempré, Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane, della Commedia umana si arriva direttamente al cuore. Intanto perché si segue, in un arco di tempo relativamente breve, ma denso di avventure e di mutazioni, l’intera evoluzione di uno dei suoi personaggi più significativi: il giovane provinciale, ambizioso e vacuo che, per fiacchezza d’animo, dissipa bellezza, intelligenza, valori. Poi perché la sua vicenda e le molte che in qualche modo le sono connesse illustrano alcuni dei temi principali dell’opera (i sogni della giovinezza che s’infrangono contro la realtà, la fragilità dei sentimenti, la forza delle passioni, il potere del denaro) e si snodano attraverso gran parte degli strati sociali, degli ambienti professionali e all’interno di quella folla variopinta di uscieri, portinai, artigiani, mezzane, delinquenti e dorme di piccola virtù che costituiscono di volta in volta lo sfondo o il primo piano di tutti i romanzi di Balzac.

  E’ un vero asse portante e insieme un crocevia, in cui s’intrecciano i percorsi di tanti personaggi di estrazione e destino disparati, molti dei quali (ne hanno contati 147!) hanno avuto o avranno spazio e risalto in altri romanzi. Tra questi s’impone l’inquietante, luciferino Vautrin che, da quando appare a Lucien sotto le spoglie di un prete spagnolo, assume per lui il ruolo di salvatore e nella vicenda quello di onnipotente demiurgo. E’ l’irruzione del fantastico nel reale o meglio l’emergenza di quella faccia oscura e perturbante che il reale abilmente cela, ma che piccole incongruenze, coincidenze inspiegabili, accadimenti inconsulti lasciano a tratti trasparire. «Colonna vertebrale» della sua opera, l’ha definito Balzac; allegoria del male assoluto e insieme, per quei capovolgimenti di senso che la realtà della vita e quella dei romanzi non cessano di offrirci, soccorrevole benefattore; personificazione, per una volta, del destino in un mondo come quello balzachiano, in cui del destino che agisce sugli uomini e negli uomini non si fa che descrivere minutamente gli effetti e interrogare senza posa il mistero.

  Chi frequenta la letteratura non si stupirà di questo impasto di reale e di fantastico; ancor meno quelli che sanno che Balzac, forzato della scrittura, confessava di non aver tempo né desiderio di osservare una realtà che gli bastava immaginare. Per il pubblico dei reality show invece, che crede che la realtà sia quella che si spia dal buco della serratura di una telecamera, sarà una bella, provvidenziale scoperta.

 

 

  Loredana Bolzan, Segreti e bugie. Balzac nel cuore femminile, «Rivista di Letterature moderne e comparate», Firenze, vol. LVIII, nuova serie. Fasc. 1, gennaio-marzo 2005, pp. 33-57.

 

  L’idea di una raccolta omogenea di studi sull’universo femminile intitolata: Études de femme nasce e si matura progressivamente in Balzac a partire grosso modo dal 1832 come testimoniano le numerose tracce di questo progetto presenti nella Correspondance. Oggetto di studio privilegiato dallo sterminato campionario di tipologie umane e sociali quali sono descritte da Balzac nella sua opera, la natura femminile ha come sua primaria connotazione quella di resistere ad ogni razionale delucidazione e ad ogni univoca rappresentazione di tipo realistico: per questo, la sua trasposizione letteraria attraverso le forme della scrittura narrativa può considerarsi, sia dal punto di vista narratologico sia da quello più propriamente metodologico, una sfida di ordine ontologico poiché il suo oggetto, il cuore femminile, «sembra per definizione refrattario non solo a ogni conoscenza unilaterale ma all'enunciazione stessa della propria verità» (p. 33). La trasfigurazione romanzesca di questa insondabile dimensione del cuore umano propria dell’universo femminile, vista nelle sue implicazioni tematiche e metodologiche, implica anche il ricorso a tecniche e a strategie di scrittura predisposte e funzionali alla esplicitazione di tutte quelle sofisticate varianti connesse alla duplice categoria ‘menzogna-verità’: accanto al classico ricorso alle tecniche della dissimulazione inerenti alle strategie di seduzione, Balzac ci propone, all’interno della variegata schiera dei suoi ‘racconti al femminile’, anche l’intermittente complicità tra opacità e mistero del vero e discorso che trova il suo punto estremo di confusione semiologia e morale nella depravazione incarnata in modo sublime dalla princesse de Cadignan. Nell’affermare infatti «il primato della mistificazione come regola dei rapporti interpersonali» (p. 50), il racconto: Les Secrets de la princesse de Cadignan amplifica le vertigini di un paradosso sentimentale, mondano e morale, che «dà luogo alla doppia verità intorno alla principessa, in quanto la cruda legge dell’opinione, che ne ha certificato irreversibilmente l’identità, mette a nudo il conflitto fra l’apparire e l’essere, con il prevalere del marchio indelebile della depravazione di cui gli altri propagano la fama» (p. 51).

 

 

  Mariapia Bonanate, Con Balzac e Melville in una Torino magica, «Il nostro tempo», n. 26, 3 Luglio 2005, p. 8.

 

  Su: Massimo Romano, La tabacchiera di Casanova.

 

  [...] Balzac esibisce la sua eleganza pacchiana per le strade torinesi e lascia straripare la sua golosità e sensualità, infastidito da una città che non gli è congeniale.

 

 

  Veronica Bonanni, Archeologie letterarie. Balzac, Bandello e la tradizione della novella, Padova, Unipress, 2005 («Biblioteca francese», 12), pp. 226.

 

  Struttura dell’opera:

 

  I. La scoperta di Bandello;

  II. Alle soglie del testo;

  III. Balzac conteur;

  IV. Le “Novelle” nei romanzi;

  V. Le eredità della novella;

  Appendice.

 

  Se, come osserva R. Barthes, «tout texte est un intertexte», l’operazione critica condotta da Veronica Bonanni alla ricerca di influenze, echi, tracce della tradizione novellistica medievale e rinascimentale europea nell’opera di Balzac si rivela quanto mai opportuna e fruttuosa se considerata in relazione al contesto tutt’altro che generico e astratto della cultura letteraria del XIX secolo. Il legame di Balzac con la tradizione della novella si mostra particolarmente vivo nel corso di tutta la sua attività di scrittore, anche se, nel caso specifico di Bandello, tutti i riferimenti all’autore italiano sono posteriori al 1838 (fino al 1847). I commenti di Balzac su Bandello, che nella dedica dei Parente pauvres a Michelangelo Caetani considera il degno «successeur de Boccace», non indugiano mai, «in un discorso critico, articolato, che spieghi le ragioni profonde del suo interesse» (p. 3). Balzac ha certamente letto le Novelle in traduzione (quella di P. Boaistuau del 1559) prima che nell’originale e possedeva con tutta probabilità l’opera di Bandello, assieme a quelle di altri autori di novelle, nel testo originale della Raccolta di novellieri italiani (Firenze, Borghi, 1833-34) come testimonia la fattura del 19 gennaio 1837 relativa alla rilegatura di libri commissionata a Wagner. se, dunque, Balzac conosceva l’opera bandelliana, è necessario «capire che cosa, in quel libro, abbia acceso la sua curiosità di lettore» e cercare di ricostruire e di valorizzare «il rapporto di alogico», il «processo intertestuale della scrittura (e della lettura)» (p. 6) per comprendere il ruolo attivo del testo e, ancor più, dell’ipertesto bandelliano nei confronti dell’arte narrativa e della poetica letteraria balzachiane.

  Nel secondo capitolo del volume (Alle soglie del testo), l’A. concentra la sua attenzione sul sistema dedicatorio della Comédie humaine: è a partire dal 1838, che Balzac assume come propria la consuetudine di anteporre una dedica alle proprie opere e considera come primaria, sul modello della cornice paratestuale presente nelle lettere dedicatorie bandelliane, l’esigenza di privilegiare l’epistola dedicatoria lunga. Nella lettera dedicatoria alla contessa Sanseverina, lo scrittore francese cita ufficialmente per la prima volta l’autore italiano, nella dedica al Caetani, Bandello si erge a simbolo di una «alliance intime de et de la France», ossia di «una piccola comunità internazionale» (p. 29) che si estende tre la Francia e l’Italia. Balzac, come del resto Stendhal, si mostra particolarmente colpito dal sistema dedicatorio di Bandello: in esso, puntualizza l’A., egli intravede la possibilità di «fare della cornice paratestuale [...] la testimonianza documentaria di un’epoca, in cui si percepisce ancora, in maniera quasi palpabile, il fermento della vita» (p. 30).

  Questo ‘ritorno al passato’ si rivela dunque, per Balzac, «una strategia per allargare il campo del narrabile» (p. 43). Nel caso dei Contes drolatiques – la cui scrittura è quasi contemporanea a quella delle Scènes de la vie privée – si tratta, allo stesso tempo, di un’operazione di «archeologia linguistica» che, estendendo gli orizzonti del dicibile e del narrabile attraverso il recupero ‘archeologico’ del passato, si configura come un «luogo di sperimentazione in cui la libertà della lingua cinquecentesca viene presa a modello per travalicare i limiti imposti dalla tradizione classica» (p. 46) e aprire nuove strade per plasmare nuove creazioni nel presente. In altri termini, la lettura delle novelle assieme a quella di W. Scott «è stata un impulso allo studio della realtà quotidiana nella sua dimensione storica» (p. 52). Preziose sono, da questo punto di vista, le analogie tra alcuni testi dei Contes drolatiques e della Comédie humaine e le novelle di Bandello messe in luce dall’A.: La Grande Bretèche, racconto del terrore e storia di una vendetta o La Vendetta, in cui il tema del dispotismo paterno rimanda a modelli quali Shakespeare e lo stesso Bandello. Proprio La Vendetta pare una versione moderna della storia di Romeo e Giulietta, in cui «la rappresentazione di costumi arcaici nella Parigi del XIX secolo è resa possibile dal ricorso a personaggi originari di una terra in cui le regole sociali sono rimaste immutate da secoli; una sorta di sopravvivenza dell’antico nel mondo moderno» (p. 106).

  Questa «nostalgia del racconto delle origini» (p. 118), di una narrazione libera dagli stretti vincoli del pensiero, implica la rivalutazione del ‘conte’ come genere letterario serio, elevato, filosofico. Esemplari e degni di attenzione sono i legami intertestuali tra la produzione novellistica di Bandello e alcuni celebri romanzi della Comédie. Secondo Bonanni, è Splendeurs et misères des courtisanes l’opera in cui il ricordo delle letture bandelliane (assieme a quella di Shakespeare e di altri scrittori) riaffiora in maniera «più diffusa, precisa e significativa» (p. 131) nella sua duplice connotazione tragica e comica, sono, in particolare, la figura di Esther (che insieme a Lucien forma la coppia dei «nuovi Giulietta e Romeo del mondo moderno» (p. 120), e le analogie (‘drolatiques’) con La Belle Impéria ad attirare maggiormente l’attenzione dell’A. La doppia natura dell’ispirazione balzachiana, «ci fa capire ancora meglio la doppia natura bassa e sublime» del personaggio di Balzac, in cui «sono ripresi i modelli di un personaggio comico (Impéria) e di un personaggio tragico (Giulietta), entrambi presenti nella raccolta di Bandello» (p. 133).

  Il recupero della tradizione novellistica rinascimentale grazie alla lettura dell’opera bandelliana consente a Balzac di valorizzare la scrittura narrativa attraverso il ‘conte’, un genere che, più d’ogni altro, si rivela idoneo per fissare e stabilizzare la dimensione orale del racconto nella parola scritta. In questo senso, «la modalità di circolazione del racconto orale ha tanta importanza per Balzac da essere elevata a principio della Comédie humaine» (p. 173). Si tratta, in altri termini, di una «sorta di idealizzazione della letteratura medievale, considerata come una zona franca in cui tutto è permesso» (p. 177). In questo processo di rigenerazione verso la modernità, il recupero degli autori del passato diventa fondamentale sotto il profilo estetico-programmatico. Benché relegati ai margini del maestoso edificio della Comédie humaine, i Contes drolatiques hanno indiscutibilmente avuto parte attiva nella sua costruzione in quanto «ricerca e pratica di tanti temi e procedimenti letterari che sarebbero invece entrati a farne parte» (p. 178).

 

 

  Davide Canfora, Una fonte de “I Promessi sposi”, «Quaderni di storia», Bari, Anno XXXI, numero 61, gennaio-giugno 2005, pp. 225-243.

 

  L’ipotesi formulata da D. Canfora in questo studio è che possa essere ancora legittimo da un punto di vista esegetico-culturale individuare possibili tracce balzachiane nei Promessi sposi, saggiando, in particolare, se e in quale misura un romanzo giovanile quale L’Anonyme «abbia lasciato traccia nel romanzo manzoniano» (p. 226). A suo giudizio, infatti, e l’A. avrà più volte occasione di ribadirlo con eccessiva sicurezza e disinvoltura nel corso della sua indagine, molte attuazioni di questa opera di Balzac «sono riecheggiate nei Promessi sposi e, in parte, già nella stesura del Fermo e Lucia» del 1823. Non trascurabili paiono a Canfora alcune coincidenze tematiche e alcune situazioni narrative che possono chiamare in causa il modello balzachiano: l’identità dei due protagonisti (entrambi trentenni ed orfani); la figura del conte innominato, l’antagonista dell’eroe; la trasposizione, in entrambe le opere, del celebre episodio riguardante Il Gran Condé; i riferimenti abbastanza espliciti all’auspicio della vendetta divina; alcuni accorgimenti narrativi comuni ai due romanzi, tra cui l’apostrofe diretta del narratore al lettore.

  Oltre a questi rilievi, l’A. informa il lettore circa altre similitudini di minore importanza che lo inducono comunque a ritenere L’Anonyme come «una fonte non trascurabile di Manzoni» (p. 242), il quale verosimilmente lesse il testo di Balzac trovandovi, «nel fascino dell’azione inattesa e nel romanzesco [...] il movimento indispensabile per favorire la trasformazione in narrazione autentica del ricco materiale documentario raccolto sulla Lombardia negli anni tra il 1628 e il 1631» (Ibid.).

  Alquanto singolare è inoltre l’interpretazione delle motivazioni di fondo che determinarono il fallimentare esito dell’incontro tra i due scrittori avvenuto a Milano il primo marzo del 1837. Secondo Canfora, è legittimamente possibile cogliere nell’insuccesso della visita di Balzac a Manzoni «la traccia implicita di una recriminazione: un rimprovero sottinteso, da parte di Balzac, per il parziale riuso del suo romanzo; una risposta infastidita, e forse, imbarazzata da parte del romanziere italiano» (p. 241). Che il distacco intellettuale e la reciproca incompatibilità (e insofferenza) caratteriale tra i due romanzieri abbiano trovato le loro ragioni profonde soltanto nelle parole taciute con imbarazzo e rancore circa L’Anonyme ci pare una ipotesi alquanto fragile e illusoria. A questo, aggiungiamo che le presunte similitudini e coincidenze narrative tra il romanzo balzachiano e I Promessi sposi ci sembrano a tal punto generiche ed esterne che potrebbero, per dirla con Raffaele de Cesare, riferirsi a «qualsiasi altra opera, italiana o straniera, moderna o contemporanea, che trattasse una situazione narrativa simile nei suoi tratti generali» (cfr. R. de Cesare, Balzac e Manzoni, in Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l’Italia ... cit., p. 270).

 

 

  Luciano Canfora, Quando Manzoni rubò il Condé a Balzac, «Corriere della sera», Milano, 18 gennaio 2005, p. 37.

 

  «Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma in primo luogo era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie e stabilito ciò che doveva fare, la mattina. Don Abbondio invece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe stato giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose».

  È il celebre inizio del secondo capitolo dei Promessi sposi. I commenti suggeriscono che Manzoni «trae il particolare del sonno dall’orazione funebre di Bossuet». La fonte è invece in un delizioso romanzo giovanile di Balzac neanche pubblicato sotto suo nome ma con quello di Auguste Le Poitevin d’Egreville (per il quale Balzac ventitreenne lavorava): L’Anonyme, ou ni père ni mère, scritto tra l’autunno 1821 e l’inizio del 1822, pubblicato nel maggio 1823. Qui, a poche pagine dalla fine del romanzo, il VII capitolo del libro terzo incomincia così: «Si racconta che il Gran Condé dormisse perfettamente alla vigilia di una battaglia e Ulric, che certo non era da meno del Gran Condé, quella notte non chiuse occhio. Io credo di aver capito la ragione: il Gran Condé recitava il ruolo di un altro, mentre il nostro eroe recitava il proprio». La situazione dell’eroe protagonista del romanzo, il giovanissimo Ulric, è, in piccolo, analoga a quella del Condé: è alla vigilia di un duello che deciderà della sua vita. L’ironia di Balzac nel paragonare i due è ripresa e forse un po’ infiacchita da Manzoni. Per Manzoni, Condé era tranquillo perché aveva «dato tutte le disposizioni» per la battaglia, per Balzac è tranquillo — e dorme della grossa — perché «recitava il ruolo di un altro». Sia Ulric che don Abbondio passano invece la notte insonni. La dipendenza è certa. Manzoni si è accinto al romanzo il 21 aprile 1821 e ha terminato la prima stesura (Fermo e Lucia) il 17 settembre 1823: ma nel Fermo e Lucia il paragone scherzoso col Condé manca del tutto. Nel 1824-25 Manzoni ha ripensato e limato il suo romanzo. Il primo dei tre tomi dei Promessi sposi apparirà a Milano presso Ferrario nel 1825. Quanto a l’Anonyme, il 24 maggio 1823 la «Bibliographie de la France» lo registra già come presente in libreria.

  Balzac sconfessò (ma conservò presso di sé) la massa di romanzi che aveva scritto per altri o sotto altro nome. Paola Dècina Lombardi ha ricostruito benissimo questa vicenda appassionante degli esordi di Balzac, che fa pensare anche ad altri avventurosi e prolifici creatori di pseudonimi e di rigogliose trame narrative del primo tempo della Restaurazione in Francia: come ad esempio Jacques Collin. E con la sua recentissima edizione mondadoriana di questo straordinario Anonimo, senza padre né madre (Oscar Mondadori, dicembre 2004) ci ha donato una lettura piacevole e piena di ironia, e — aggiungerei — ha reso possibile a lettori memori di Manzoni, di rintracciare una delle molte «fonti» della raffinata tessitura manzoniana. Manzoni dunque più che mai francese e divoratore di romanzi anche di consumo. Forse fu attratto da quel titolo e da quella storia di un giovanissimo virtuoso e «filosofo» che riscopre a grado a grado la vera identità sua e dei suoi.

 

 

  Sara Castagnacci, La concezione della bellezza nell’opera di Stendhal. Tesi di laurea. Relatore: prof. Giuseppe Di Giacomo, Roma, Università della Sapienza, Anno accademico 2004-2005.

 

 

  Raffaele de Cesare, La prima fortuna di Balzac in Italia. Nuova edizione riveduta, corretta ed ampliata dall’Autore, a cura di Luciano Carcereri. Prefazione di Arnaldo Pizzorusso, Torino, Nino Aragno Editore, 2005, Volumi 2, di complessive 1169 pagine.

 

  Frutto di una esperienza pluridecennale di assidue, pazienti e rigorose ricerche, quest’opera ha avuto il suo primo luogo di pubblicazione, ‘a puntate’, nella rivista «Aevum» (fasc. 3 di ogni annata dal 1986 al 1992) e si presenta ora riveduta, notevolmente accresciuta e aggiornata, e corredata di preziosissimi indici (per cura di Luciano Carcereri) e della attenta e puntuale prefazione di Arnaldo Pizzorusso.

  Colmando le lacune di studi parziali e frammentari, R. de Cesare tratteggia a tutto tondo la fisionomia intellettuale italiana del primo Ottocento con specifico riferimento alla diffusione e all’accoglienza della produzione letteraria balzachiana presentando, con il rigore metodologico e filologico che gli è proprio, un fitto e variegato corpus di documenti ordinati in schede cronologicamente disposte in una sorta di struttura in progress e organizzate all'interno di quattro sezioni: 1) le edizioni in lingua originale; 2) le traduzioni (integrali e parziali) dei testi balzachiani; 3) le riduzioni teatrali ad essi ispirate; 4) gli studi e i riferimenti critici, le recensioni, le testimonianze riguardanti lo scrittore francese e la sua opera presenti non solo nella stampa periodica coeva, ma in carteggi, note di diario, archivi privati, di cui spesso viene opportunamente fornita la trascrizione integrale.

  Il successo di Balzac nella nostra penisola fu, almeno fino al 1850, imponente anche se «l’affresco costituito dalle traduzioni delle opere» del nostro autore non spicca quasi mai per quella «incisività di disegno» o per quella «ricchezza cromatica» che avrebbero potuto assicurargli «evidenza di vita e maestria d'arte» (p. 35 dell’Introduzione). Tra il 1830 e il 1850, hanno visto la luce oltre centocinquanta edizioni e riedizioni di opere balzachiane, di cui circa un centinaio vanno annoverate tra le traduzioni originali e oltre una sessantina tra le ristampe. Se, da un lato, esse toccano quasi ogni aspetto della produzione letteraria di Balzac, dall’altro desta meraviglia il fatto che romanzi di indiscusso valore artistico quali Béatrix, Le Cabinet des Antiques, Le Colonel Chabert, Le Cousin Pons, Splendeurs et misères des courtisanes rimangano al di fuori dell’interesse editoriale del tempo. Per quel che riguarda la diffusione delle opere di Balzac all’interno del panorama frastagliato degli Stati italiani – quello che de Cesare definisce il «diagramma geografico della fortuna di Balzac» (p. 48) – non deve sorprenderci che sia proprio il Lombardo-Veneto (con Milano in testa) ad averci consegnato il maggior numero di traduzioni di testi balzachiani. Nel corso di tutta la prima metà dell’Ottocento, le traduzioni, soprattutto di opere francesi, occupano un posto di primo piano nelle strategie dell’editoria milanese. Tuttavia, il traduttore di opere francesi, e quindi anche di opere balzachiane, non sembra quasi mai in grado di comprendere appieno la lingua e lo stile dei testi di riferimento e mostra assai raramente quell’onestà intellettuale e quel rigore filologico che operazioni di tal genere avrebbero dovuto comportare. Leggendo le traduzioni italiane dei romanzi di Balzac, scrive R. de Cesare, siamo di fronte a «versioni libere, approssimative, disinvolte, largamente infedeli, mutilate di intere scene o di singoli passi narrativi, impoverite nelle sfumature psicologiche che, sommati gli uni agli altri, rendono in più di un luogo incomprensibile il testo o creano equivoci che sconvolgono letteralmente il pensiero dell’autore» (p. 36). Anche quando quelle maestranze anonime saranno sostituite da pubblicisti noti e affermati (si pensi, ad esempio, ai casi di Luigi Masieri e di Luigi Carrer), la situazione non muterà sostanzialmente e continuerà a caratterizzare molta della produzione editoriale balzachiana del secondo Ottocento e dei primi trent’anni del XX secolo.

  Sul versante delle interpretazioni e dei giudizi sull’opera di Balzac forniti dalla critica italiana nella prima metà del XIX secolo, è possibile rilevare che il grande successo editoriale dei romanzi balzachiani in Italia tra il 1830 e il 1850 va di pari passo con la ricchezza e l’eterogeneità dei giudizi che i più disparati esponenti del microcosmo culturale cisalpino hanno prodotto nell’animare il dibattito sulla personalità umana ed artistica dello scrittore francese. Se si esclude l’eccessivo ed ingiusto repertorio delle valutazioni negative aventi come oggetto vicende ed episodi legati alla vita privata del romanziere (non ultimi quelli riferiti ai suoi diversi soggiorni italiani tra il 1836 e il 1846); le accuse di immoralità rivolte con impietoso accanimento in riferimento a situazioni e personaggi descritti soprattutto nei romanzi dei cicli privato e parigino; le feroci requisitorie a lui indirizzate per aver diffamato l’Italia e l’onore degli italiani (come, ad esempio, quelle di Antonio Lissoni), risulta difficile estrapolare un insieme abbastanza omogeneo di riferimenti che abbiano saputo cogliere il valore estetico e l’importanza letteraria dell’opera di Balzac. Colpisce, in altri termini, la diffusa mancanza di un discorso critico su Balzac che esuli dalla semplice volontà di servirsi delle sue opere per gratuite disquisizioni polemiche e moralistiche. Seguendo l’andamento discontinuo della produzione libraria, l’attività critica si mantiene, in Italia, particolarmente viva e costante fino agli anni Quaranta, per poi affievolirsi progressivamente nel decennio successivo. Nelle loro interpretazioni dei romanzi balzachiani, i critici e i commentatori hanno sovente eletto un aspetto particolare della sua arte narrativa evidenziando tuttavia, in qualche raro caso, alcuni elementi importanti della sua poetica letteraria. Già nel 1831, Ettore Perrucca della Rocchetta osserva, a proposito delle Scènes de la vie privée, che «jamais les replis du coeur humain n’ont été sondés par une main plus habile»; un anno più tardi, riflettendo sui Contes philosophiques, egli nota che «les mondes imaginaires sont du domaine de Balzac»; nel 1834, soffermandosi sulle Scènes de la vie de province, ribadisce che «jamais l’anatomie de l’âme n’a été portée à un pareil degré de perfection». Dal canto suo, Luigi B. a riconosce all’opera di Balzac una importanza non solo letteraria, ma storica e morale: a suo giudizio, lo scrittore seppe «intimamente legare il romanzo alla filosofia, drammatizzare una verità, far agire lungo un sistema la scala sociale». Secondo alcuni critici, Balzac apre dunque la strada ad una nuova poetica del romanzo, in cui la portata filosofica della storia contemporanea, l’analisi minuziosa della realtà sociale e lo studio attento dell’animo umano conferiscono a quel genere letterario una dignità e una importanza fino ad allora negate. Balzac, osserva Giovanni Ruffini, «est un grand anatomiste du coeur humain, ses oeuvres attestent l’étude la plus approfondie, l’observation la plus grande»; in lui, si ritrova «uno de’ più felici pittori dei costumi del nostro secolo, di que’ pochi ingegni a’ quali è dato d’interrogare il cuore degli uomini e fan ch’ei parli il linguaggio della verità». Recensendo favorevolmente il Père Goriot, Defendente Sacchi vede in Balzac un «sommo conoscitore del cuore umano» che «svolge con fine analisi l’origine dei sentimenti e delle passioni». Con toni non meno entusiastici, Angelo Brofferio riconosce il meritato successo delle opere di Balzac in Italia, nelle quali «havvi per l’intelletto e per il cuore, per la ragione e per la fantasia, per l'uomo che medita e per la donna che ama, per il romantico che vuole lo straordinario e per il classico che segue il positivo». A partire dalla seconda metà degli anni ʼ30, la pubblicazione di opere fondamentali per il loro rilievo narrativo e programmatico (Le Père Goriot, Illusions Perdues, César Birotteau, Une ténébreuse affaire) determina nella critica uno spostamento significativo dell’interesse verso quegli aspetti del romanzo balzachiano maggiormente legati alla rappresentazione del nuovo quadro storico-sociale della Francia contemporanea. All’immagine di Balzac studioso del cuore umano, si affianca progressivamente quella che coglie e sottolinea i tratti dell’acuto osservatore dell’anima sociale. Nel suo studio del 1839, Gaspare Aureggio, loda «la felice portentosa impresa dell’autore di completamente descrivere la società» e di «fornire una pittura speciale del secolo decimonono in Francia», mentre Giacinto Battaglia definisce Balzac un poeta che, «senza aver mai scritto versi, è molto più poeta di certi nostri autori di poemi e di raccolte liriche; è pittore assai più effettivo della verità psicologica, storica e sociale di quanto il sieno certi insudiciatori di tele che si fan chiamare pittori storici e di genere!». Ancora nel 1850, in alcuni necrologi dello scrittore, Balzac è visto come colui che «ha sintesi d’uomo allucinato», che «ha saputo scoprire più d’un secreto del cuore umano, ed ha primeggiato nella pittura filosofica delle passioni», che «fu il primo e l’unico forse a introdurre il naturalismo pittorico nel romanzo». Si tratta di affermazioni, queste, che quasi sembrano anticipare le prospettive di una parte della critica balzachiana del secondo Ottocento e del secolo scorso che hanno colto, nell’autore della Comédie humaine, il punto di convergenza degli assunti e delle tecniche, solo apparentemente inconciliabili, del romanticismo e del realismo.

 

 

  Raffaele de Cesare, Di alcune sinopie balzacchiane nell’opera di Proust, in AA.VV., Les pas d’Orphée. Scritti in onore di Mario Richter ... cit., pp. 355-371.

 

  Assidua e vistosa è la presenza di Balzac nella formazione letteraria dell’autore della Recherche, il cui debito, per molti aspetti straordinario, nei confronti del suo autorevole predecessore nell’arte del romanzo è stato oggetto di importanti studi da parte di autorevoli specialisti dell’uno o dell’altro scrittore. Rivisitando con puntualità e maggiore senso critico alcune sommarie (e sbrigative) segnalazioni di influenze e di analogie tra l’opera di Balzac e La Recherche, R. de Cesare illustra in forma più ampia e analitica la natura di queste fonti balzachiane, le quali, «sinopie o reminiscenze che siano, [...] rimangono comunque congetturali e congetturalmente soggettive» (p. 358). Le riflessioni dell'autore si snodano intorno a tre episodi descritti nella Recherche, i quali rimandano a situazioni narrative presenti in altrettanti romanzi della Comédie humaine: Illusions perdues - «Les Deux Poétes» - per quel che riguarda l’ostentato e superficiale sfoggio di cultura dei protagonisti e l’uso comicamente insistito (almeno in Proust) dei diminutivi; Le Père Goriot in relazione alla scena della morte ignorata o negata per cinico egoismo o per convenienza mondana. Le Lys dans la vallée in riferimento al tema dell’ossessione sensuale e a quello dell’imperiosità degli istinti.

 

 

  Pietro Citati, L’animale storico, «la Repubblica», Roma, 31 agosto 2005, p. 33.

 

  Balzac cercava di apprendere i misteri di Parigi e del mondo. Dilatava all’estremo il suo sguardo acutissimo e vorace: esso vibrava, scintillava, possedeva le cose e la loro forza. Con questo occhio insaziabile, passeggiava per la sua Parigi reale ed immaginaria, addentrandosi sempre più profondamente nel corpo gigantesco disteso ai suoi piedi. Spalancava gli occhi sulle fessure rimaste aperte, che lasciavano intravedere un’ombra del grande mistero. Condivideva le passioni della spia, del ladro, del poliziotto, del giudice, del giocatore: le passioni del romanziere moderno. Tutto, intorno a lui, era concentrato, folto, stipato, gremito: non c’era spazio libero, corrente d’aria, respiro. I personaggi erano prigionieri dello spazio e del tempo: vivevano in carcere, senza nessun battito d’ali o redenzione metafisica.

  Dietro i particolari, Balzac mirava al centro, e dal centro ritornava alla periferia, con una spola incessante. Qualsiasi cosa raccontasse, voleva rappresentare l’Unità e la Totalità delle cose. Ma questo Uno-Tutto era un magma infuocato, concepito nel più profondo degli inferni moderni. Ogni cosa stava per esplodere: ogni creazione conteneva in sé il principio della distruzione. La Comédie humaine resta un cumulo di grandiosi frammenti, attraversati dal bagliore e dal presentimento dell’Uno: un attimo prima dell’esplosione definitiva.

 

 

  Benedetta Craveri, Scene da un Balzac visionario, «la Repubblica. Almanacco de libri», Roma, 19 novembre 2005, p. 47.

 

  Tradotto e annotato con estrema cura, ecco arrivare in libreria il secondo dei Meridiani dedicato a Honoré de Balzac. Mentre il primo volume, che comprendeva, tra l’altro, Papà Goriot, Eugénie Grandet e una scelta di racconti, privilegiava il così detto Balzac “realista”, questo secondo tomo ci mostra il Balzac “visionario”. Un ultimo volume, in cui figureranno opere come il Capolavoro sconosciuto, che ridette la passione per l’arte e il collezionismo dello scrittore, o Pelle di zigrino, che ne attesta gli interessi metafisici, concluderà il trittico all’insegna di Balzac “filosofo”. Contravvenendo all’ordine canonico della Commedia umana, questo secondo volume accorpa Illusioni perdute – che appartiene alle Scene della vita di provincia – e Splendori e miserie – che fa parte delle Scene della vita parigina – allo scopo di offrire per la prima volta al lettore italiano, riunito in un unico volume, il ciclo di Lucien de Rubembré.

  A differenza di Eugène de Rastignac, giovane provinciale nobile e squattrinato, che aveva fatto la sua comparsa in Papà Goriot per poi coronare le sue ambizioni di successo diventando ministro, Lucien de Rubembré, nato ugualmente a Angoulême, sebbene di condizione sociale più modesta, passerà di disillusione in disillusione e finirà per darsi la morte in carcere. Bellissimo e dotato di autentiche doti di poeta, Lucien tenta di farsi strada con tutti i mezzi, anche quelli più abietti, nel difficile mondo letterario parigino, ma a differenza di Rastignac, ha un carattere debole e non regge alla prova: la fine delle Illusioni perdute ce lo mostra coperto di debiti e travolto dalla vergogna mentre medita di porre fine ai suoi giorni nelle acque di un lago nei pressi della città natale. È qui che avviene l’incontro decisivo della sua vita, da cui prenderà le mosse l’intreccio di Splendori e miserie delle cortigiane. Da un sontuoso calesse ecco scendere un gesuita spagnolo Herrera, nuova incarnazione del diablico (sic) Vautrin, già noto ai lettori di Papà Goriot, il quale offre al giovane la salvezza in cambio di una dedizione totale e senza riserve. Il patto faustiano suggellava così la fine del grande romanzo sociale caro a Lukács, in cui il critico avrebbe ravvisato la tragedia generale della generazione post-napoleonica costretta a fare i conti con «l’avvenuta capitalizzazione dello spirito in tutti i campi», e preludeva allo straordinario romanzo onirico tanto amato da Baudelaire.

  Agito come una marionetta da Vautrin, Lucien compirà una sfolgorante ascesa sociale, ma ancora una volta non ne sopporterà i costi. Per procurargli i soldi necessari a fargli contrarre un brillante matrimonio, il suo mentore convince Ester, la bellissima cortigiana che ama pazzamente Lucien si è redenta per lui, a vendersi a un vecchio banchiere. Ma il suicidio della giovane donna cambia le carte in tavola proprio nel momento in cui la strategia di Vautrin sta per rivelarsi vincente; incolpato della morte dell’amante, anche Lucien si suicida in carcere, ritrovando, al momento di morire, la sua vera identità di poeta. Deciso a vendicarsi, Vautrin si preparerà invece a una nuova metamorfosi che farà dell’ex-galleotto (sic) il capo della polizia, ma non sarà una resa del male al bene.

  Come scrive Mariolina Bongiovanni Bertini, le cui belle introduzioni ci danno, alla luce di un secolo e mezzo di letteratura critica, tutte le informazioni necessarie per non perderci nella inesauribile ricchezza e complessità dell’universo balzachiano, quella di Vautrin «non è che un geniale espediente per conservare, sotto altra forma, la sua segreta e sotterranea regalità». Colui che parla tutti i linguaggi possibili e può incarnare tutti i più diversi personaggi non ci appare, in ultima analisi, nelle intenzioni del suo creatore, come l’emblema stesso dell’arte del romanzo?

 

 

  Luigi Derla, Balzac e il romanzo storico: «Une Ténébreuse Affaire», «Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della critica», Milano, Nuova serie, 49, Anno XXVI, Gennaio-Giugno 2005, pp. 67-82.

 

  In Une Ténébreuse Affaire, la breve distanza che intercorre tra il tempo dell’azione (1803-06) e quello della scrittura (1841) contribuisce a connotare l’opera balzachiana di una spiccata originalità e di uno specifico valore storico e ideologico. Il romanzo in questione costituisce infatti uno degli esempi più significativi dell’attenzione costante che Balzac dedicò allo studio delle trasformazioni della società sua contemporanea: la ricostruzione dettagliata delle oscure vicende storiche legate al rapimento del senatore Clément de Ris nel 1800 rappresenta, per lo scrittore, l’occasione forse unica per indagare e denunciare la crisi profonda delle istituzioni politiche e sociali sorte dalle ceneri della Rivoluzione e fondamento della nuova società borghese.

  In questo saggio, le riflessioni di Luigi Derla su questo ultimo romanzo storico della Comédie humaine — dove Balzac recupera alcuni modelli scottiani per poi riformularli e ricomporli in forme e strutture narrative nuove che annunciano già quelle del futuro romanzo poliziesco – ci consentono di cogliere gli aspetti essenziali del pensiero politico balzachiano e di valutare allo stesso tempo la funzionalità dell’alto coefficiente narrativo che caratterizza la vicenda storica narrata. Ultimo «romanzo storico possibile», Une Ténébreuse Affaire «predice l’imminente fine della Storia», poiché, secondo Balzac, ciò che viene dopo l’Impero rappresenta soltanto «l’assentarsi del concetto stesso di “Storia”» (p. 81) che fino ad allora aveva trovato in se stessa il proprio senso, anche filosofico, grazie ad eventi, istituzioni e figure altamente rappresentativi.



  Bob Dylan, Chronicles. Volume I. Traduzione di Alessandro Carrera, Milano, Feltrinelli, 2005 («Vite narrate Universale Economica Feltrinelli»).

 

  p. 44. Lessi anche La dea bianca di Robert Graves. Invocare la musa era una cosa di cui non sapevo ancora niente, e comunque non abbastanza per cominciare a preoccuparmene. A Londra, di lì a pochi anni, avrei incontrato Robert Graves in persona. Andammo a fare una rapida passeggiata dalle parti di Paddington Square. Volevo chiedergli qualcosa a proposito del suo libro ma non me lo ricordavo molto bene. Mi piaceva molto Balzac, lo scrittore francese. Lessi La pelle di zigrino e Il cugino Pons. Balzac era divertente. La sua filosofia era molto semplice, praticamente diceva che il puro materialismo è la ricetta della pazzia. L’unica vera conoscenza, per Balzac, sembra venire dalla superstizione. Tutto può essere sottoposto ad analisi. Tienti stretta la tua energia. Questo è il segreto della vita. Si impara molto da Mr. B., è piacevole averlo come compagno. Porta un saio da monaco e beve un numero enorme di tazze di caffè. Troppo sonno gli rallenta la mente. Gli cade un dente e lui si chiede: “Che cosa vuol dire?”. Si domanda la ragione di tutto. Una candela gli incendia i vestiti che ha addosso. Lui si chiede se il fuoco è un buon segno. Balzac fa morire dal ridere.

 

 

  Franco Fiorentino, Province, mondanité, cohabitation. Note sur l'espace romanesque chez Balzac, «Cahiers de littérature française», I, Bergamo-Paris, University Press-Edizioni Sestante; L'Harmattan, Janvier 2005, pp. 71-82.

 

  F. Fiorentino studia, avvalendosi dell’esempio narrativo balzachiano, le «virtualités narratives» della dimensione spaziale, provinciale e parigina, intesa come «principe d’organisation de l’intrigue». Se la «stabilita ontologique» (p. 73) del modello provinciale fornisce al romanzo balzachiano la «possibilité de créer un espace fermé et reglé où introduire le lecteur [...], où introduire l’intrigue» (p. 75), è nella dimensione circoscritta della mondanità che si manifesta «cet effet-province dans la vie parisienne» (p. 76) inteso come spazio chiuso ed esclusivo animato soltanto dalla presenza e dal ritorno di determinate tipologie di personaggio. La terza forma di spazio romanzesco considerata dall’A. è quella dell’«espace en cohabitation» emblematicamente rappresentato dalla figura della portiera. Nel caso della pension Vauquer, ad esempio, la ‘cohabitation’ è un espediente narrativo che consente di rendere «vraisemblables des rencontres extraordinaires» creando una «atmosphère dépressive» e introducendo la «culture petite bourgeoise» (p. 80).

 

 

  Alessandra Forella, Effetto Balzac la caduta delle illusioni, «Il Mattino», Napoli, 18 agosto 2005.

 

  Una vita avventurosa, inquieta e intensa, consumata ad appena 51 anni in una dissipazione di energie tra amori, vita mondana, lunghi viaggi, azzardi economici e lavoro indefesso. E un’opera complessa, che malgrado la sua prolifica contraddittorietà ha reso il suo autore, per Roland Barthes esponente di un romanzo assoluto, immortale. La sera del 18 agosto 1850 si spegneva a Parigi, nella sua lussuosa casa di rue Fortunée (ora rue Balzac), Honoré de Balzac, scrittore polivalente e versatile, tra i massimi esponenti della corrente letteraria del realismo. Autore di opere come Fisiologia del matrimonio, che scandalizzò gli ambienti borghesi parigini, e Commedia Umana, progetto monumentale avviato nel 1833 che riassume tutta la sua fluviale produzione narrativa, Balzac continua ad affascinare ancora oggi, 155 anni dopo la sua morte, per l’impasto straordinario di vita rocambolesca e letteratura che fu capace di incarnare, in una fase di grande transizione per la Francia.

  Ritratto come un uomo grasso, con i baffi e dallo sguardo acuto e bonario, di lui sappiamo che beveva enormi quantità di caffè, a causa dei quali soffriva di una grave insonnia; che era assalito dai creditori ai quali sfuggiva travestendosi da donna; che era devoto al denaro, eppure generoso; e che, come lo descrissero i suoi amici letterati, era uomo di buon carattere, celebre per le sue numerose amanti, ma capace di inseguire per tutta l’Europa la misteriosa «straniera» – la nobildonna polacca Eve Hanska – che divenne infine, sei mesi prima della sua morte, sua moglie. Irrequieto, braccato ovunque dai creditori, lo scrittore fu comunque consacrato presto alla fama.

  Nato a Tours il 20 maggio 1799 da una famiglia della media borghesia, il suo vero cognome era Balssa. Il padre di Honoré, Bernard-François Balzac (il «de» lo aggiungerà Honoré successivamente), era stato segretario del consiglio del re durante l’Ancien Régime, e poi a capo della XXII divisione militare di Tours, mentre la madre, Charlotte-Laure Sallambier, proveniva da una famiglia di commercianti.

  Honoré studiò al Collège de Vendôme (1807-1813), ma la ferrea disciplina del luogo era decisamente troppo per il suo spirito libero, provocandogli una grossa prostrazione psichica che lo costrinse a un anno di inattività. Trasferitosi a Parigi con la famiglia, Honoré iniziò gli studi di giurisprudenza, ma nel 1819 i suoi genitori gli concessero una tregua perché egli potesse mettere alla prova la sua vocazione letteraria: così, in una mansarda del quartiere della Bastiglia, in rue Lesdiguières, Balzac iniziò a scrivere le prime opere, votate però all’insuccesso. Si rivolse allora al giornalismo e alla letteratura di consumo, seguendo la moda e il gusto piccoloborghese dei romanzi rocamboleschi e fantastici e, divenendo anche proprietario di una casa editrice e di una tipografia, aperte grazie ai finanziamenti di amanti e famigliari: programmi ambiziosi di un uomo che, invece, non faceva altro che accumulare debiti malgrado non gli mancassero le idee, come quella di lanciare una collana economica, autentica novità per l’epoca. Presto costretto a chiudere tutte le sue attività, nelle lettere scritte alla sorella Laure egli continuava a manifestare la sua brama di gloria. Ma è solo grazie a Gli Sciuani (1829) e allo scandaloso saggio Fisiologia del matrimonio (1830) che Balzac, finalmente, raggiunge l’agognata notorietà sulla scena pubblica francese. Risale al 1833 la stipula di un contratto editoriale per la pubblicazione dei dodici volumi di «Usi e costumi nel XVIII (sic) secolo», suddivisi in «Scene della vita privata, della vita di provincia e della vita parigina»: si tratta di un abbozzo della futura Commedia Umana, nata dall’idea di riunire tutta la sua produzione narrativa in un grande affresco della società francese del suo tempo, dal Primo Impero alla Restaurazione. I titoli più celebri del progetto, che doveva contenere 150 episodi ma che fu realizzato per due terzi, sono Papà Goriot (1834-1835), Eugénie Grandet (1833), La cugina Betta (1846), La ricerca dell’assoluto (1834) e Illusioni perdute (1837-1843). L’opportunismo, l’avidità, la pochezza dei sentimenti, i vizi della società moderna si stagliano in queste opere di un profondo conoscitore degli uomini e delle donne di ogni ceto del suo tempo, lontani da ogni idealizzazione.

 

 

  Carlos Fuentes, Balzac, in In questo io credo. Traduzione di Eleonora Mogavero, Milano, il Saggiatore, 2005 («Nuovi saggi»), pp. 26-30.

 

  Credo in Balzac, dichiara Carlos Fuentes all’inizio di questo breve capitolo dedicato allo scrittore francese: e nel ripercorrere le pagine di tre fra i più inquietanti della Comédie humaine: La peau de chagrin, Séraphîta e Louis Lambert, egli trova più di una occasione per celebrare il genio di Balzac o per gettare nuova luce su alcune tematiche proprie della sua scrittura narrativa. Il genio balzachiano, scrive l’A., «si manifesta nella tensione fra il tempo e lo spazio dei suoi romanzi» (p. 27): come nel caso de La peau de chagrin e di Séraphîta, vita e morte, possesso ed esproprio delle cose, erotismo e desiderio si fondono in un’unica ma poliedrica dimensione mitica (il mito di Tantalo) che «illumina l’iconografia fantastica» (p. 28) del romanziere. Attraverso il romanzo di Balzac, è legittimo dunque chiedersi se la letteratura può sconfiggere la morte? Balzac, conclude Fuentes, «ha visto che il possesso offre la vita e alla fine la toglie. Ma ha potuto farlo soltanto nella misura in cui ha saputo identificare il suo romanzo in quanto testo, in quanto struttura verbale che conferisce permanenza e contenuto a tutto quello che rifiuta di avere l’una o l’altro, ovvero alla fugacità della vita e al possesso delle cose» (p. 30).

 

 

  Giulio Gambaro, Stendhal e Balzac: viaggiatori illustri a Genova, «Gazzettino», Genova, Gennaio 2005, p. 2.

 

  [...]. Un altro grande scrittore francese, Honoré de Balzac, di una generazione più giovane di Stendhal, non avrebbe potuto creare molti suoi lavori senza i viaggi e la conoscenza dell’Italia. Ecco l’elenco delle opere “italiane” di Balzac: “Sarrasine”, “Massimilla Doni”, “Gambara”, “Facino Cane”, “Onorina”, “Alberto Savarus”, “La vendetta”, “I proscritti”, “Su Caterina de’ Medici”.

  Questi grandi, che sono i creatori del romanzo moderno, hanno vissuto i loro itinerari italiani entrambi con vigile attenzione, con la loro capacità di assorbire non tanto luoghi e paesaggi, quanto piuttosto stili di vita e moduli di conversazione, abitudini e manie, riti e modelli di una società osservata nelle sue quotidiane manifestazioni.

  Ma l’accostamento tra Stendhal e Balzac, per quanto concerne Genova e l’Italia, finisce qui, perché i loro giudizi, come vedremo, sono divergenti.

  Per Stendhal l’Italia era un mito, la vita stessa, l’amore, la radice dell’esistenza tra il profano e il sacro; di più: per Beyle la penisola – giardino affiorante nel mare Mediterraneo – era un immenso canovaccio sul quale mettere a punto il suo pressante bisogno di scrivere. E Genova, per l’autore de “Il rosso e il nero”, era come una bella sbirciata quando si sveglia al mattino. [...].

  Honoré de Balzac, invece, a viva voce e in alcune lettere, ha scarsi riguardi nel parlare degli italiani. Gli sembrano gente non eccessivamente dotata di radicata coscienza nazionale, e tali del resto gli italiani appaiono nei libri dell’autore della “Comédie humaine” già citati.

  Nella lettera del 22 aprile 1838 (“Correspondance de Honoré de Balzac”, Calman (sic) Lévy Editeurs, 1877), indirizzata a Eveline Hanska, scrive che a Genova vi si conduce non solo una vita noiosa, ma che è una galera ... e che i genovesi sono personaggi poco affidabili.

  Ma il giudizio di Balzac su Genova e i genovesi era velato da un risentimento del momento, dovuto all’ “affaire” recentemente sfumato e di cui subito si dirà. A Genova, infatti, Balzac aveva concordato un progetto, prospettatogli dal commerciante locale Giuseppe Pezzi per lo sfruttamento delle miniere d’argento in una località della Sardegna denominata Argentara. Come stabilito precedentemente, Giuseppe Pezzi spedì all’ultimo indirizzo parigino dello scrittore il campione di materiale. Ma, non avendo ricevuto risposta, il commerciante genovese si ritenne in dovere di portare avanti per conto suo l’affare. Probabilmente Balzac, questo lo si può affermare, non ha mai ricevuto il materiale a causa dei suoi indirizzi precari, in quanto si nascondeva a numerosi creditori. E per rendersi più introvabile ai numerosi suoi “Créanciers”, proprio in quel periodo, era fuggito da rue Casini (sic) ed aveva affittato un appartamento al numero 13 di rue Batailles; ma. questo particolare è importante, infatti l’appartamento non fu affittato con il nome di Balzac, ma a nome di una fantomatica “Signora vedova Durand".

  Avuto notizia che il Pezzi aveva ottenuto il diritto si sfruttamento delle miniere, si precipitò in Sardegna per bloccare il genovese, ma invano Dalla Sardegna passò a Genova e scrisse la lettera qui sopra citata. Da questo episodio dell’ “affaire” sfumato, data l’astio dello scrittore. Senza contare che quel giudizio su Genova non fu definitivo; nel già citato “Honorine” si può leggere: “... Se la notte è bella, lo è soprattutto a Genova, ...quando le stelle brillano, quando le onde del Mediterraneo si seguono come le confidenze di una donna ... Confessiamolo: quel momento in cui l’aria odorosa profuma polmoni e o pensieri, in cui la voluttà, visibile e mobile come l’aria, vi inchioda su una poltrona mentre, un cucchiaio in mano, sfiorato gelati e sorbetti con una città ai piedi, delle belle donne in faccia, e quel momento alla Boccaccio non è possibile che in Italia e in riva al Mediterraneo”.

  E ancora: “... Era una di quelle belle genovesi, le donne più belle d’Italia, quando lo sono davvero: per la tomba di papa Giulio, Michelangelo prese pei i suoi modelli Genova”.

 

 

  Giuseppe Giusti, Alcuni errori medici di Honoré de Balzac, «Recenti progressi in medicina», Roma, Volume 96, Numero 7-8, Luglio-Agosto 2005, p. 364.

 

  Egregio direttore,

  nell’antologia “Medicina e Letteratura” è stata di recente pubblicata una splendida pagina di Honoré de Balzac, tratta da Il medico di campagna [cfr. supra]. Io segnalo ai lettori una pagina di un altro noto capolavoro dello stesso autore Il colonnello Chabert, opera di altissimo valore morale e letterario, che testimonia però una limitata competenza medica del grande scrittore francese.

  Nel suo saggio introduttivo al breve romanzo, Lanfranco Binni lo sintetizza magistralmente: «Il colonello Chabert, dato per morto, ma scampato alla morte, reclama invano la propria identità e i propri diritti (...). Disgustato dalla meschinità che lo circonda, il colonnello sceglie di morire un’altra volta, diventando un vagabondo senza nome. (...). Non vi è posto per lui in una società in cui tutto è asservito al danaro ed alle ambizioni di potere.»

  Trascrivo il racconto del colonnello Chabert, il quale narra la propria morte apparente ed il suo ritorno alla vita. La citazione che segue è tratta da una vecchia edizione del romanzo in cui è descritta con più precisione la ferita che fu inferta al protagonista:

«Due ufficiali russi, due veri giganti, mi assalirono insieme. Uno di essi mi diede sulla testa una sciabolata che spaccò tutto fino alla cuffia di seta nera che tenevo in capo e mi aprì profondamente il cranio. Caddi da cavallo e fui travolto da Murat e dai suoi cavalieri che erano venuti in mio aiuto (...). La mia morte fu annunciata all’Imperatore (...) che mandò due chirurghi per accertarsi se fossi ancora vivo (...). Quei dannati fecero certamente a meno di tastarmi il polso e dissero che ero ben morto, quindi l’atto di morte fu redatto secondo le regole della giurisprudenza militare.

  Le mie ferite dovettero cagionare probabilmente un tetano o uno stato di crisi simile a quello del morbo denominato, credo, catalessi. Come spiegare altrimenti che io sia stato, secondo l’uso di guerra, spogliato dei miei abiti e gettato nella fossa comune dei semplici soldati?

  Quando rinvenni, la poca aria che respiravo era mefitica (...), non vidi nulla. Infine, alzando le mani, tastando i morti, rinvenni un vuoto tra la mia testa e il sovrastante carname umano (...). Trovai per gran fortuna un braccio staccato, un solido osso al quale devo la mia salvezza, perché lo usai come leva per aprirmi un varco tra i cadaveri che mi separavano dallo strato di terra gettato su di noi (...). Vidi infine la luce attraverso la neve, mi accorsi che avevo la testa spaccata (...) e svenni quando il mio cranio fu a contatto con la neve. Quando ripresi i sensi, mi sollevai (...) e fui finalmente liberato e soccorso da una donna (...) che aveva visto la mia testa che era sbucata come un fungo fuori dalla terra».

  Le mie critiche si rivolgono solo agli evidenti errori medici della narrazione. L’incoscienza provocata dal trauma cranico è riferita con termini inadeguati ed erronei (tetano!, catalessi!). Il racconto che descrive come il protagonista sia riuscito ad uscire dalla fossa è inverosimile e assurdo; infatti, un uomo gravemente ferito e quasi immobilizzato in uno spazio angusto in cui era difficile respirare, non aveva alcuna possibilità di aprirsi un varco tra i cadaveri che lo ricoprivano e di attraversare lo strato di terra sovrastante fino a raggiungere la salvezza.

 

 

  Michel Houellebech, Alfabeto di un pessimista. Testo raccolto da Sylvain Bourmeau; traduzione di Fabio Galimberti, «la Repubblica. Domenica», Roma, 25 settembre 2005, pp. 36-37.

 

  p. 36. Balzac. È uno che non si è tirato indietro di fronte al dossier “stato della società”. L’ambizione è estrema. Desolato di dirlo, ma non penso che ci siano state vere rivoluzioni nell’arte del romanzo da allora. Proust non è più romanzo. È uscito dal quadro, completamente. Credo che Balzac abbia definito il modello in via definitiva. E poi, Balzac mi è molto utile. Essere troppo modesti non è bene. Perciò cerco di essere un po’ megalomane, di dirmi che sono il migliore. È un lavoro faticoso, e ogni tanto si ha bisogno di sentirsi grande scrittore, altrimenti l’energia verrebbe meno. Ma di tanto in tanto è bene concedersi una piccola crisi di modestia: in questi casi evoco Balzac, e oplà, mi sento molto modesto. Bisogna mantenere un equilibrio in termini di autostima, sentirsi pessimi, insignificanti, è una necessità, e Balzac a me fa proprio questo effetto. Ha maneggiato molte più emozioni umane di me. Certo, io non sono ancora morto, ma per il momento ho fatto molto meno di Balzac, non c’è dubbio. Bene, chiudiamola qui con la mia piccola crisi di modestia.

 

 

  Emiliano Ilardi, Dalla strada alla finestra, in Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard, Roma, Meltemi, 2005 («Nautilus. Collana diretta da Alberto Abruzzese», 22), pp. 43-110.

 

  A partire dall’Ottocento, le relazioni tra romanzo e rappresentazione dello spazio urbano assumono un rilievo particolarmente profondo in relazione alla nuova morfologia della città intesa come microcosmo pubblico per eccellenza che detta le regole dei nuovi rapporti sociali. Attraverso l’analisi di due romanzi-chiave della Comédie bumaine, quali Le Père Goriot e Illusions perdues, Ilardi affronta in questo denso capitolo lo studio della Parigi balzachiana, di quel luogo, cioè, attraverso cui lo scrittore rende chiaramente percepibili al lettore «una molteplicità di campi che si trovano tra loro in una relazione dialettica» (p. 56). Si tratta di relazioni non più rigide e date una volta per tutte, ma «instabili e in continuo cambiamento» ed è proprio questa nuova forma di percepire i rapporti sociali a costituire «il motore della narrazione balzachiana» (p. 54). Soltanto uno spazio mobile e in trasformazione (uno spazio, ad esempio, come la pension Vauquer) è in grado di produrre eventi che modificano lo stato presente delle cose e poter essere trasformati in narrazione. Nel caso di Lucien, le tensioni proprie del suo desiderio di integrarsi, come protagonista, nel mondo parigino coincidono perfettamente con le possibilità che la città gli offre; ed è in questo che percepiamo il grandioso tentativo di Balzac: «trasferire la virtualità dell’immaginazione tipica del soggetto moderno allo spazio sociale in modo che non ci sia più conflitto» (p. 68). Attraverso i codici della morale, del consumo e del successo, Lucien legge, interpreta e assimila l’oscuro e impenetrabile linguaggio della metropoli restringendo lo sguardo a pochi luoghi ed esclusivamente alla loro superficie. In questo senso, il personaggio balzachiano «non si limita a osservare il contesto urbano, vuol farne parte, vuole arrivare; arrivare a possedere tutto ciò che gli offre Parigi; assumere tutte le forme che via via la metropoli gli presenta; essere in tutti i luoghi e svolgere tutti i mestieri che gli capitano; realizzare ogni fantasticheria» (p. 73).

 

 

  Anna Indennimeo, “Louis Lambert” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa, Rita Stajano, Università degli studi di Salerno, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 2005.

 

 

  Henry James, Introduzione, in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet … cit., pp. V-XXXVI.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Takao Kashiwagi, Cent ans d’études balzaciennes au Japon, «Studi Francesi. Rivista quadrimestrale», Torino, 145, Anno XLIX, Fascicolo I, gennaio-aprile 2005, pp. 65-72.

 

  L’A. traccia un preciso ed esauriente bilancio della fortuna editoriale e critica di Balzac in Giappone dalla fine del XIX secolo ai primi anni del terzo millennio.

 

 

  Stefano Lazzarin, Balzac et le corps des nobles : à propos du «Cabinet des Antiques», in Collectif, Corps, littérature, société (1789-1900). Sous la direction de Jean-Marie Roulin, Saint-Étienne, Publications de l'Université de Saint-Étienne, 2005, pp. 175-189.

 

  Se, nella prima metà dell’Ottocento, la rappresentazione letteraria della corporeità sia individuale sia quella direttamente riconducibile al sovrano subiscono una significativa evoluzione sotto la prospettiva storica, politica e sociale. Le Cabinet des Antiques di Balzac illustra, forse più di ogni altro testo della Comédie humaine, il processo di «métaphorisation du corps» (p. 176), attraverso la rappresentazione delle figure di quel “petit faubourg Saint-Germain de province” che è il salotto aristocratico del marchese d’Esgrignon. Si tratta di corpi mummificati sintomatici di una «désuétude idéologique» e di una «obsolescence d'idées» (p. 177) caratteristiche ormai dell’Ancien Régime. A questi ‘corps’ polisemici che lasciano metaforicamente trasparire i segni indelebili di eventi storici, di forze sociali e intrighi politici fa da contraltare la figura del Re, simbolo ormai svuotato di ogni significato che «se soustrait à la vision; icône de la négation, il n’est évoqué que pour être aussitôt voilé par une réticence» (p. 189).

 

 

  Marco Meneguzzo, Le musée Rodin? Dante e Balzac, «Avvenire», Milano, 17 gennaio 2005.

 

  Balzac, invece, era diventato l’ossessione di una singola figura, il suo ritratto stante: dal 1891 al 1898 si erano susseguiti innumerevoli schizzi e frammenti, e poi ben sette nudi realizzati con sette modelli differenti, per arrivare infine a un Balzac vestito di un drappo che lo isola come una pietra, come un menhir da dove fiammeggia il volto: rifiutato nel 1898, definito “feto colossale”, “forma fallica”, “sacco di carbone”, è forse la più bella scultura di Rodin, quella che Brancusi definì “l’indiscutibile punto di partenza della scultura contemporanea”.

 

 

  Francesco Merlo, Il cimitero dove la vita continua, «la Repubblica. Domenica», Roma, 23 gennaio 2005, pp. 32-33.

 

  A p. 32, immagine 8, è riprodotta la tomba di Balzac al Père Lachaise.

 

 

  Giuseppe Montesano, La belva Balzac in libertà, «l’Unità», Roma, 14 novembre 2005, p. 21.

 

  Nelle milleottocento pagine di un volume dei Meridiani, curato con rigore e passione da Mariolina Bongiovanni Bertini e riccamente annotato da Claudia Moro, sono state riunite le due opere con le quali Balzac devastò per sempre il ben pettinato hortus conclusus del romanzo ottocentesco e aprì le porte all’impura foresta del Moderno: Le (sic) illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane. In questo immenso dittico Balzac mise a cuocere molte cose: feuilleton avventuroso e lucidità sociologica, vampate romantiche e poema in prosa, analisi definitiva sulla produzione culturale e spettrografia della psiche attraverso l’economico, e poi l’amore, la scienza, Byron, l’orpello, Cuvier, la fine della giovinezza, la brama di potere, il denaro, la morte. E ci si chiede: come è possibile che questo miscuglio adultero di tutto, questa enciclopedia stracciata e ricomposta selvaggiamente, questa machine à romans che non rifiuta alcuna immondizia per alimentarsi raggiunga poi una tale intensità da sembrare la vita stessa? Balzac non ha mai cercato di mimare la vita, ma ha ricostruito una vita parallela a quella reale, un’altra vita che brilla e brulica nella febbre poetica di una verità allucinatoria: la poesia della dissonanza senza risoluzione. Non c’è forse una sola pagina in Balzac che «fili liscia», che sia fluente secondo i dettami di quello stile coulant che faceva orrore a Baudelaire, quello stile che è il segno che la prosa è sfuggita al peso dell’oggetto e scorre fluida perché è fatta solo di parole. La scrittura di Balzac ingoia una quantità enorme di cose indigeribili, antiletterarie, antipoetiche: e il segno-sfregio di queste cose irriducibili alle parole resta inciso sulla carne dei suoi grandi romanzi come sbrego, envers, cacofonia, kitsch, ciarpame: ma, alla fine, anche come il solo geroglifico nel quale leggere la verità. Dove deve arrestarsi il tentativo della letteratura di dire tutto? Non c’è fine al suo movimento verso la realtà, dicono Le illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane. La letteratura deve distogliersi disgustata dal suo contrario? No, dicono i romanzi di Balzac, perché nella cosa più impoetica c’è ancora da scavare poesia: è per questo che in Balzac la cosa-denaro con la sua oscena grandezza e le sue sottigliezze metafisiche diventa l’oggetto privilegiato attraverso cui vedere tutto, e si installa in Balzac quella fantasmagoria che svela la realtà attraverso il sogno della realtà, quel regno visionario dove ciò che è sotto gli occhi di tutti lo si vede come perla prima volta, abnorme, sublime, osceno: e il denaro in Balzac, come poi solo nel miglior Dickens e in Dostoevskij, è l’irruzione di una divinità malvagia nel mondo, e l’inizio di una Modernità che non è finita: il denaro-Balzac non è più un potere esterno all’uomo, ma un potere che permea la stessa interiorità, un elemento ambiguo che genera il male cercando il bene, inafferrabile e capriccioso, logico e mitologico, concreto e metafisico. Di qui lo stile «senza stile» di Balzac: segno di una lotta con l’estraneo inquietante che è fuori e dentro di noi, grandiosa discesa negli inferi del singolo in cui vive la folla divorante della Società, ricerca di una letteratura che trovi la poesia nell’abolizione delle mitologie del buon gusto e dell’armonia, sempre false perché sempre complici con l’orrore. Nei due bellissimi saggi di questo Balzac, Mariolina Bongiovanni Bertini è partita dal principio che i grandi artisti e le loro opere «sanno» perfettamente quello che fanno, e che gli errori che la critica supponente o impotente crede di dover rimproverare a Balzac o a chiunque, sono invece l’inseparabile rovescio delle riuscite più alte: con strumenti rigorosi e duttili, e con una sottigliezza critica che si trasmette anche alla scrittura, limpida e insieme dettagliata, la Bertini ha liberato dalla gabbietta accademica la belva-Balzac, offrendoci un’immagine di Balzac finalmente nostro contemporaneo.

  P.S. A quando un volume con Louis Lambert, Séraphîta, La peau de Chagrin e gli altri romanzi-poemi? C’è un altro Balzac, ignoto e incandescente, che aspetta lettori ...

 

 

  Giuseppe Monsagrati, Il nobile gentiluomo. Michelangelo Caetani nella Roma dell’Ottocento, in Fondazione Camillo Caetani, Alcuni ricordi di Michelangelo Caetani Duca di Sermoneta raccolti dalla sua vedova [1804-1862] e pubblicati pel suo Centenario. Con un saggio introduttivo e a cura di Giuseppe Monsagrati, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2005 («Pubblicazioni della Fondazione Camillo Caetani, a cura di Luigi Fiorani. Studi e documenti d’archivio, 12»).

 

  p. 23. Un altro celebre frequentatore di casa Caetani era stato nella primavera del 1846 Honoré de Balzac il quale qualche anno dopo, sposando Eveline Hanska, si sarebbe imparentato alla lontana con Michelangelo: Madame Hanska era infatti cugina della contessa Rosalie Rzewuska, a sua volta madre di Calista, la prima, amatissima moglie di Michelangelo che l’aveva sposata nel 1840 e l’aveva persa soltanto due anni dopo. Di quel viaggio romano del 1846 e dell’incontro con Caetani Balzac volle lasciare una testimonianza importante dedicandogli La Cousine Bette, primo episodio de Les parents pauvres del ciclo della Comédie humaine. Nella loro enfasi le parole della dedica, datata agosto-settembre 1846, ribadivano quale impressione potesse fare sugli uomini di cultura stranieri la perfetta padronanza che Caetani sapeva dimostrare come interprete del poema di Dante [...].

 

 

  Antonio Moresco, Lo sbrego, Torino, Scuola Holden, 2005.

 

 

  Francesca Nardone, Balzac il principe dei realisti? Macché, fu pure un visionario, «La Sicilia, Stilos», anno 7, n. 36, 20 dicembre 2005-2 gennaio 2006, p. 3.


  Da anni Mariolina Bongiovanni Bertini sta curando l’edizione della Commedia umana di Balzac nei Meridiani. È da poco uscito il secondo volume che comprende i due romanzi del ciclo di Lucien de Rubempré, Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane (Mondadori, pp. 1834 euro 49). Un’operazione di vasta portata culturale per diversi motivi. Una nuova traduzione delle Illusioni perdute di Dianella Selvatico Estense e di Gabriella Mezzanotte, un ricco apparato di note a cura di Claudia Moro; inoltre la traduzione di Splendori e miserie del 1961 fatta da Marise Ferro è stata interamente revisionata.

  Mariolina Bertini ci fornisce l’opportunità di leggere l’opera di Balzac attraverso una rigorosa ricostruzione dei meccanismi compositivi che governano la “Commedia umana”. La loro articolazione è tale che i singoli romanzi non sono mai a se stanti ma risultano inseriti nel consistente insieme di opere che formano il ciclo. Novantuno romanzi che, nell’edizione della Pléiade, sono distribuiti in dodici volumi. Nei Meridiani troviamo una scelta di diciotto romanzi, suddivisi in tre volumi, che facilitano l’accostamento del lettore ad un’opera monstre, dando però una visione alquanto significativa del mondo di Balzac, dalla realtà di provincia alla vita parigina, tra pubblico e privato, in compagnia di un considerevole numero di personaggi. Mariolina Bertini sfata l’immagine-cliché del realismo balzachiano, guidandoci verso una più acuta valutazione dell’arte di Balzac. Legata ai diversi periodi della sua esistenza (come viene rivelato dalla genesi delle Illusioni perdute tra 1833 e 1843), realista ma in grado di assumere anche aspetti «irrealistici». Stilos ne ha parlato con la Bongiovanni Bertini.

  Qual è la differenza tra il realismo con cui siamo abituati a pensare a Balzac e l’interpretazione che di tale realismo lei propone attraverso la lettura delle due opere presenti in questo volume?

  Vede, già quando Balzac era vivo e operante, i più perspicaci dei suoi contemporanei individuarono in lui due tendenze, opposte e complementari; quella dell’osservatore, dell’attento studioso della società del suo tempo, e quella del visionario alla Hoffmann, incline a trasfigurare il reale, a fornirne una versione fantastica all’insegna dell’onirico e del bizzarro. È negli ultimi decenni del XIX secolo che due critici, Émile Faguet e Ferdinand Brunetière, cominciano a parlare, con intenzione elogiativa, di un Balzac «realista». Sono critici d’indirizzo piuttosto conservatore: contrappongono il realismo «sano» di Balzac al realismo «brutale» e «morboso» di Zola, la cui crudezza li scandalizza profondamente. Gustave Lanson si appropria della formula, la inserisce nel suo fortunatissimo manuale su cui si formeranno più generazioni a cavallo tra XIX e XX secolo, e il gioco è fatto: per quasi un secolo Balzac è incasellato come «realista», l’etichetta gli resta appiccicata benché renda conto soltanto di un aspetto della sua opera. Quel che ho cercato di ricordare al pubblico di oggi nelle mie introduzioni, è che accanto al Balzac realista, di cui Marx e Lukács hanno giustamente sottolineato la straordinaria chiaroveggenza, c’è anche il Balzac allucinato caro a Baudelaire e a Hofmannsthal; e, accanto a questi due, c’è poi ancora il Balzac semiologo caro a Proust, interprete senza pari di segni, indizi e tracce, vero Sherlock Holmes sulle orme dei segreti della storia.

  Perché “Illusioni perdute”, rispetto agli altri romanzi, sono un’opera più vicina alla sensibilità dei nostri giorni?

  Illusioni perdute non è uno dei romanzi più letti di Balzac; data la sua lunghezza, è difficile prenderlo in esame nell’università attuale, dove spesso il calcolo dei crediti formativi impone la scelta di testi, più brevi. Chi lo legge, però, resta molto colpito dal fatto che è un romanzo proiettato verso il futuro. Nella prima parte, madame de Bargeton, la musa di provincia piena di pretese letterarie e velleità sentimentali, anticipa quel fenomeno che dopo Flaubert verrà chiamato «bovarismo»: un fenomeno che, come ha dimostrato René Girard, permea completamente il mondo di oggi, dominato da forme di desiderio mediato, inautentico, eterodiretto. Nella seconda parte invece assistiamo alla nascita dell’editoria e del giornalismo moderni nella Parigi dei primi anni ’20 dell’Ottocento: nascono i best seller imposti dalla pubblicità (come Le Solitaire di d’Arlincourt, oggi dimenticato); i problemi della distribuzione strangolano l’editoria; la concorrenza spietata costringe debuttanti e veterani a barcamenarsi tra opposte tendenze ideologiche e conventicole in lotta tra loro, all’insegna del più cinico, e spesso ipocrita, opportunismo.

  Perché i personaggi di Balzac si possono ritenere ancora attuali?

  Mah, non so se l’attualità sia una caratteristica peculiare dei personaggi di Balzac. Pensi a quel personaggio di Orazio, il chiacchierone inarrestabile che gli si affianca sulla via Sacra, e di cui il disgraziato poeta non riesce in nessun modo a liberarsi: riesce a immaginarne uno più attuale? Però a volte, in effetti, Balzac su questo terreno ci stupisce. Senta questa definizione del rienologue, il nullologo o volgarizzatore, tratta dalla sua “Monografia della stampa parigina”: «Il volgarizzatore diluisce l’idea di un’idea in una bacinella di luoghi comuni e propina meccanica mente questa spaventosa mistura filosofico-letteraria in fogli fitti fitti. La pagina sembra piena, ha l’aria di contenere un sacco di idee; ma quando l’uomo istruito ci mette il naso, sente soltanto un odore di cantine vuote. È profondo, e non c’è nulla: l’intelligenza vi si spegne come una candela in una segreta senz’aria. Il rienologue è il dio della borghesia attuale: è alla sua altezza. Un rubinetto d’acqua calda che potrebbe continuare con il suo giù giù in saecula saeculorum, senza fermarsi mai». E una pagina scritta nel 1843, pensi un po’.

  Parliamo dell’enigmatica figura di Vautrin, personaggio che appare alla fine delle “Illusioni perdute”.

  La figura di Vautrin, che affascinava Baudelaire, è una delle più complesse ed enigmatiche di tutta la “Commedia umana”. Balzac era fiero di averla creata in Papà Goriot, perché era una figura estremamente nuova. Ex ergastolano, potentissimo cassiere di una società segreta di malfattori, Vautrin appartiene alla famiglia dei grandi banditi romantici, come il Karl Moor di Schiller e l’Hernani di Hugo. Nei suoi romanzi giovanili – da lui rinnegati al tempo della “Commedia umana” – Balzac aveva già messo in scena qualche figura analoga, come il pirata Argow, dallo sguardo magnetico, dalla volontà implacabile, dal fascino sinistro e fatale. Ma gli eroi dei romanzi giovanili si muovevano in un mondo fittizio da melodramma; in Papà Goriot, la titanica figura di Vautrin, invece, è immersa nella Parigi storica del 1819. Di quella Parigi Vautrin diventa una sorta di malefico e fascinoso genius loci. È proprio lui, infatti, ad illustrarne i più segreti meccanismi al giovane Rastignac, che grazie ai suoi insegnamenti entrerà corazzato nell’arena della moderna, spietata competizione per il successo. Un altro elemento che differenzia Vautrin dai pirati di matrice romantica tipo Argow è quello erotico: Vautrin è fuorilegge anche nelle sue inclinazioni erotiche, e insegue il sogno di dominare, moralmente e fisicamente, un giovane di straordinaria bellezza, di forgiarne il destino e di assicurarne il successo facendone una sua creatura, figlio e amante nello stesso tempo. Questo sogno fallisce in Papà Goriot, dove Rastignac gli sfugge; rinasce nel finale di Illusioni perdute, quando l’efebico Lucien de Rubempré gli si presenta come vittima ideale; si dispiega finalmente in Splendori e miserie delle cortigiane, storia della sua strenua lotta per imporre con ogni mezzo l’amato Lucien alla corrotta società parigina del 1830. Quando Balzac scrive Splendori e miserie, una nuova moda si è appena imposta sul mercato parigino: quella del roman feuilleton fitto di peripezie, di travestimenti, di personaggi che cambiano identità o tornano, come Montecristo, dal regno dei morti, assetati di vendetta. Il Vautrin di Papà Goriot si adegua a questo nuovo clima e subisce una significativa trasformazione: diventa anche lui un virtuoso del travestimento, è coinvolto in rapimenti, fughe e inseguimenti senza fine. Eppure questo suo adeguarsi agli schemi della letteratura d’avventura, non fa di lui un burattino o un supereroe da fumetto: anzi, il lettore vede in lui l’incarnazione dello spinto stesso del romanzo, il solo genere che con il suo carattere plastico, molteplice e polimorfo è in grado di dar voce alla modernità.

  Alessandro Piperno ha definito Balzac espressione dell’«apostasia visionaria». Condivide questo giudizio?

  L’espressione di Alessandro Piperno riassume efficacemente un momento preciciso (sic) nella storia della “Commedia umana”: il momento in cui, alla fine di Illusioni perdute, il personaggio di Vautrin diventa centrale. Personaggio mitico, eccessivo, cui vanno stretti i codici del verisimile, Vautrin diffonde in Splendori e miserie, che è il seguito di Illusioni perdute, il contagio di una fantastica, prestigiosa irrealtà: intorno a lui Parigi diventa una città da Mille e una notte, la prostituta Esther una cortigiana del Rinascimento, il Palazzo di giustizia un labirinto al cui centro è in agguato, come il Minotauro, la Morte. Se però lasciamo da parte un momento Vautrin per considerare il divenire dell’opera di Balzac nel suo insieme, vediamo che le cose sono più complicate di come sembrano. Perché il Balzac giornalista del 1830 – dunque un Balzac giovane, quasi esordiente – pratica il fantastico da maestro, sulle orme di Hoffmann; mentre il Balzac dei Parenti poveri, ciclo tardo, contemporaneo di Splendori e miserie, sa coniugare la tendenza visionaria con il realismo più rigoroso, facendo toccare con mano al suo lettore i tendaggi sbiaditi di un salotto i cui fasti risalgono al primo impero o mostrandogli il disordine in cui vive un vecchio musicista con la stessa precisione con cui in Papà Goriot erano analizzati gli odori poco invitanti della sala da pranzo della pensione Vauquer.

  Qual è l’aspetto più significativo, dal punto di vista del linguaggio, di “Splendori e miserie delle cortigiane”?

  In Splendori e miserie si sovrappongono molti linguaggi diversi: i giochi di parole delle prostitute d’alto bordo, il gergo della malavita e l’argot delle prigioni, il linguaggio giuridico, la retorica religiosa presa a prestito da Vautrin quando si traveste da alto prelato spagnolo ... L’effetto è quello di un’autentica babele: direi che il Balzac di Splendori e miserie conferma quella vocazione del romanzo alla pluridiscorsività di cui ha parlato Bachtin. Ed è anche un Balzac con il genio del pastiche: autentico antenato di due scrittori che lo amarono moltissimo, Proust e Gadda.

 

 

  Marco Nuti, Balzac Dostoevskij e l’ “alea” del gioco, «Linguae et. Rivista di lingue e culture moderne», Urbino, 2, 2005, pp. 77-88.

 

  La dimensione ludica e, in particolare, la categoria del gioco d’azzardo (l’alea secondo la definizione di R. Caillois) rivestono, soprattutto nel romanzo dell’Ottocento, un’importanza significativa non soltanto dal punto di vista letterario, ma anche sotto la prospettiva filosofica e ideologica. Ne La Peau de chagrin di Balzac e ne Il giocatore di Dostoevskij, la sala da gioco rappresenta a tutti gli effetti la metafora della vita, in cui l’uomo il giocatore – isolandosi all’interno di uno spazio delimitato, fuori dal tempo e dalla realtà, nega l’ordine gerarchico su cui si fondano la logica e la morale della società. Sacro o diabolico, osserva Nuti, «all’origine del fascino del gioco vi è dunque una dimensione che rasenta il soprannaturale proprio in virtù dello spazio illimitato del Possibile» (p. 83). La complessa problematica del gioco d’azzardo presente nei romanzi di due autori consente di individuare un punto di contatto comune tra le due opere: «nella letteratura de l’alea, osserva l’A., non incontriamo giocatore felici»: morso dal cieco destino ludico, il giocatore «vede dissolvere la sua esigenza di razionalità e la coerenza del suo rapporto con il mondo, divenuto indecifrabile» (p. 87).

 

 

  Marco Nuti, Tra parola dipinta e pittura scritta. L’emblema del ritratto nel racconto fantastico del XIX secolo, «Sincronie. Rivista semestrale di letterature, teatro e sistemi di pensiero», Roma, Anno IX, fascicoli 17-18, gennaio-dicembre 2005, pp. 163-175.

 

  pp. 173-175. Riferimenti a Sarrasine.

 

 

  Giuseppe Panella, Forme del romanzo tra umorismo e irradiazione del sublime. La prospettiva di Honoré de Balzac, in Il sublime e la prosa. Nove proposte di analisi letteraria, Firenze, Editrice Clinamen, 2005, pp. 107-121.

 

  In questo capitolo, l’A. riflette sulle origini del romanzo moderno riferendosi inizialmente alla relazione tra humour e scrittura finzionale stabilito da M. Kundera nel suo L’arte del romanzo, per quel che riguarda più particolarmente il tentativo di cogliere e di rappresentare «la soggettività degli individui nei loro rapporto con le certezze e con la verità» (p. 109). Di rilevanza non certo secondaria è inoltre il legame tra estetica e romanzo sotto il profilo filosofico in relazione alla interpretazione del reale: da questo punto di vista, l’attribuzione di un valore non soltanto storico-letterario, ma, appunto, filosofico del suo progetto romanzesco da parte di Balzac nell’Avant-propos del 1842 si concretizza, a giudizio di Panella, in un orizzonte di scrittura inteso come quel «momento capace di verificare la novità oggettiva» di tale ambizioso progetto. La pluridiscorsività presente nell’opera balzachiana «è messa in evidenza proprio dalla volontà del suo autore di rivelarne la natura sociale e morale». In questo senso, il riferimento ad Adieu, un testo, scritto «all’insegna del Sublime» (p. 119), consente di verificare «nell’architettura della scrittura di Balzac e nella sua pratica linguistica un tipico esempio di stilizzazione che fuoriesce dalla pura imitazione stilistica e si definisce come progetto di unificazione della pluridiscorsività dell’approccio romanzesco» (p. 118).

 

 

  Susi Pietri, «La Vénus en flamme». Don et échange de la forme dans «Le Chef-d’oeuvre inconnu» de Balzac, Milano, Mimesis, 2005, pp. 248.

 

 

  Susi Pietri et Lucette Finas, Balzac au miroir de l’Europe, «La Quinzaine littéraire», 891, 1er janvier 2005, pp. 7-8.

 

 

  Alessandro Piperno, Balzac, un maestro più moderno di Proust, «Corriere della sera», Milano, 1 novembre 2005, p. 33.

 

  L’autore della «Recherche» lo giudicava volgare. Ma i suoi personaggi sono ancora attuali.

 

  D’un tratto, durante il primo convegno cui partecipai come relatore, mi colsi a origliare una conversazione tra Mariolina Bongiovanni Bertini, Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria. Da bravo Rastignac alle prese con il mio esordio in società, sapevo che quei tre accademici si contendevano lo scettro del principato degli studi proustiani di cui avevo appena ottenuto il passaporto. I loro nomi (che fin lì avevo visto soltanto stampati) risuonavano nella mia immaginazione al fianco di quelli di Swann o di Madame de Guermantes.

  Argomento della chiacchierata: Balzac. Mariolina Bertini, che da anni ne cura l’opera per i Meridiani Mondadori, sta sostenendo che il suo mondo, se possibile, è più intricato di quello proustiano: gli altri due studiosi strabuzzano gli occhi come di fronte a qualcosa di inaudito, ed io rimango stregato.

  Così scoprii Balzac, come una sfida: la scalata a una montagna ancora più alta e irraggiungibile ... Un altro paese di cui violare i confini e ottenere la cittadinanza. Uso il verbo «scoprire» invece del più appropriato «riscoprire» perché, sebbene avessi già letto molti romanzi di Balzac, trovandoli incantevoli, non avevo inteso di fronte a quale forza della natura mi trovassi al cospetto.

  Ma ora so che l’opera balzachiana può divorarti come un mostro! Sarà per questo che abbiamo dovuto attendere così tanti anni il nuovo Meridiano Balzac, il secondo di una serie che ne prevede tre? Perché cimentarsi con quell’idra è uno sport estremo? A giudicare dall’apparato di note esibito da questo volume direi proprio di sì. Claudia Moro ha fatto un lavoro impressionante, come se avesse voluto contendere a Balzac ogni grammo della sua sapienza. Perfino la versione francese della prestigiosa collana Pléiade al confronto sbiadisce.

  Insomma ecco la notizia: Balzac è in libreria con le Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane – nobilitati da una traduzione nuova di zecca e da una pesantemente rivista – per riraccontarci le avventure di Lucien de Rubempré, un arrivista senza talento per l’arrivismo.

  «Una delle più grandi sciagure della mia vita è la morte di Lucien de Rubempré. È un lutto da cui non sono mai riuscito a riprendermi completamente». E una celebre battuta che Oscar Wilde mise in bocca a un suo personaggio. Come interpretarla? Come l’ennesima dichiarazione di primato dell’arte sulla vita? Temo di no, almeno non stavolta. Wilde ci sta facendo dono — alla sua maniera – d’un’intuizione che avrebbe fatto delirare di piacere lo stesso Balzac, la cui più alta aspirazione, da un certo momento in poi della sua carriera, fu di mescolare schizofrenicamente la vita con l’arte. Il mito racconta che, dopo aver concepito il così detto «ritorno dei personaggi», confidasse alla sorella di essere diventato un genio.

  Il «ritorno dei personaggi» era il collante miracoloso che sin dai primi anni ʼ30 aveva cercato per tenere assieme la più mastodontica raccolta di romanzi mai concepita: la Commedia Umana. Sicché, d’ora in poi, i personaggi dei romanzi precedenti sarebbero ricomparsi nei successivi, e in tal modo lui avrebbe costruito un universo che potesse competere con il mondo reale. Se la vita non è divisa in capitoli e in paragrafi, perché dovrebbe esserlo l’opera d'arte? Non accade forse spessissimo che un individuo inessenziale nell’adolescenza divenga fondamentale nella nostra maturità? E viceversa? Proust, che su questo principio avrebbe fondato la sua opera, scriveva: «Tali effetti sono possibili solo grazie all’ammirevole trovata di Balzac di far ricomparire in tutti i suoi romanzi gli stessi personaggi. Così un raggio staccato dal fondo dell’opera, passando su un’intera vita può toccare, con la sua luce ambigua e malinconica, quel castello della Dordogne e la sosta dei due viaggiatori».

  Eppure, strano a dirsi, Proust, che aveva capito la portata della rivoluzione balzachiana, non riuscì a comprenderne la novità artistica. Trovava Balzac volgare. E per gli stessi motivi per cui noi dalla nostra tribuna privilegiata lo ammiriamo e lo saccheggiamo: per le discontinuità stilistiche, l’abuso dell’argot e della polifonia, gli impulsi dei personaggi oscillanti tra meschinità e sentimentalismo, l’importanza eccessiva conferita al denaro, il ricorso a trovate che non avrebbero sfigurato sui feuillettons (sic) di Sue e Dumas così popolari in quell’epoca. E temo che Proust avrebbe giudicato il nostro spasso assai grossolano. Anche se ho sempre avuto l’impressione che il suo giudizio fosse viziato dal classismo. Che in lui agisse la tipica boria del figlio di papà che arriccia il naso di fronte alle trivialità di un pezzente smanioso di affermarsi. E per capirlo basta confrontare i suoi personaggi con quelli di Balzac: i primi vivono infelicemente di rendita, i secondi si fanno il mazzo. In fondo anche la scomunica scagliata da Virginia Woolf contro l’Ulisse di Joyce scaturiva da analoghi pregiudizi. Insomma ci sta che Proust e la Woolf – quei due superbi signori decadenti — provassero istintiva ripugnanza per il realismo. E chi più realista di Balzac e di Joyce? E, allo stesso tempo, chi più di loro antirealista?

  Eh sì, perché il genio di Balzac si esprime nel ripudio dell’estetica realista a favore dell’apostasia visionaria. Mariolina Bertini, nella mirabile introduzione a Illusioni perdute, dà conto di questa abiura. Soprattutto nella parte in cui mostra la svolta critica degli anni Sessanta. Gli studi di Picon e di Chollet – che restituirono al ciclo di Lucien de Rubempré quell’aura mitica e demoniaca che fanno di Balzac un erede di Dante e di Goethe — lasciarono riemergere, dalle tenebre in cui l'avevano confinata i critici dell’800, l’enigmatica figura di Vautrin. Personaggio che i lettori di Balzac avevano lasciato in Papà Goriot, alle prese con il suo Rastignac, che d’un tratto, quasi dal nulla, risorge alla fine di Illusioni perdute, sotto le spoglie d’un gesuita spagnolo che salva Lucien dal suicidio pagando i suoi debiti e di fatto comprando la sua anima, Vautrin appare di shakesperiana magnificenza. Al punto che il suo nichilismo, la machiavellica visione del mondo, le demoniache capacità trasformiste, la pederastia repressa ci parlano di noi, ispirandoci sentimenti di sgomento. Vautrin è un mistero così tenebrosamente familiare! E lui il santo patrono della Commedia Umana, che dona al mondo balzachiano quell’inconfondibile sentore di scacco e di beffarda crudeltà. Non a caso Charles Baudelaire – che di sfiga se ne intendeva – scrisse: «Balzac aveva tre sogni: una grande edizione ben curata delle sue opere, il saldo dei suoi debiti e un matrimonio coccolato e accarezzato da parecchio tempo nel fondo del suo spirito; grazie a fatiche la cui mole atterrisce l’immaginazione dei più ambiziosi e laboriosi, l’edizione si fa, i debiti si pagano, il matrimonio va in porto. Balzac senza dubbio è felice. Ma la sorte maliziosa che gli aveva permesso di mettere un piede nella sua terra promessa subito ve lo strappò violentemente. Balzac ebbe un’agonia terribile e degna delle sue forze».

  Ho in mente la battuta con cui il pittore di successo interpretato da Nick Nolte in un geniale cortometraggio di Scorsese rimorchiava l’ennesima ammiratrice: «Quello che posso offrirti, baby, è solo una lezione di vero». È proprio con questa promessa che Balzac ci ha accalappiato, per poi, alla fine, donarci molto molto di più.

 

 

  Gianfranco Ravasi, Il mattutino. Non tutto è nelle nostre mani, «Avvenire», Milano, 7 agosto 2005.

 

  Gli eventi non sono mai neutri perché i loro effetti dipendono dai vari individui: la sventura è un marciapiede per un genio, una piscina per il cristiano, un tesoro per l’uomo abile, un abisso per i deboli. Sì, ha ragione il famoso scrittore francese Honoré de Balzac quando ci propone questa considerazione sulla sventura nel suo romanzo Cesare Birotteau (1837), storia dello splendore e della decadenza del protagonista. Lo stesso evento viene, infatti, vissuto con differenti esperienze ed esiti. Così nel caso di un fatto negativo c’è chi riesce ad attraversarlo trasfigurandolo e forse facendolo diventare persino arte, come può fare un artista. C’è, invece, chi vi precipita come in un abisso e vi annega, oppure chi lo vive come l’occasione per purificarsi, per temprarsi e liberarsi da tante illusioni: è quella «piscina» che Balzac assegna come luogo di immersione ai cristiani nel tempo della prova. Infine, c’è chi riesce ad approfittare anche della disgrazia per guadagnarci. Tutta questa varietà di risultati prodotti da un fatto identico rivela che per molti versi siamo noi a piegare e a trasformare la realtà. Questo dato dovrebbe spingerci all’impegno in ogni situazione, senza lasciarci abbattere, senza permettere che lo scoraggiamento spenga in noi ogni energia e ci renda inerti e fatalisti. [...].

 

 

  Massimo Romano, La donna in grigio, in La tabacchiera di Casanova, Reggio Emilia, Aliberti editore, 2005 («Tre»), pp. 65-82.

 

  La tabacchiera di Casanova di Massimo Romano è un romanzo di indubbio fascino e di profondità concettuale, un romanzo di ricerca e di formazione che ci conduce in quel «mondo di cristallo dove si sono congelate tutte le storie possibili» (p. 191) che è l’universo della creazione letteraria. Attraverso la metafora del naufragio, dello sprofondamento nei sotterranei di una fantasmagorica Torino del Sette-Ottocento, il protagonista, Edoardo, grazie ad un portentoso talismano (una tabacchiera che, si dice, appartenesse a Casanova) delittuosamente sottratto ad un antiquario, è chiamalo a «vivere un romanzo» (p. 36), a «varcare le soglie del mondo» (p. 37) e a penetrare in un regno sotterraneo (un paradiso che sta in basso) dove è ancora possibile «raccontare storie e inventare personaggi» (p. 89), dove «la vita immaginaria non ha confini» e la morte è soltanto «uno sprofondamento che apre luminose prospettivo, rinnovate forme di esistenza» (p. 114).

  In questo variegato e imprevedibile affresco dipinto da Romano con tocchi stilisticamente cristallini e luminosi, le storie, tutte intensamente reali anche se inventate, di alcuni indiscussi maestri del romanzo del XVIII e del XIX secolo costituiscono il soggetto e l’oggetto del narrare e della creazione narrativa. Si tratta di itinerari di storie re-inventate che non hanno mai fine e che si «moltiplicano nella mente dei lettori provocando «devastazioni e incendi, emozioni e paure, desideri e passioni che si rinnovano nei secoli» (p. 93). Particolarmente significativo, in tal senso, è l’incontro tra il protagonista e Balzac, la cui prima esperienza di viaggiatore in Italia iniziò proprio a Torino nel 1836. La facoltà di scrivere, dice Balzac ad Edoardo, non è che la logica conseguenza di una particolare facoltà dello spirito e dell’intelligenza dell’artista: quella, cioè, di essere un «viaggiatore mentale» (p. 75) dotato di una forza immaginativa che «permette di legare il visibile e l’invisibile con un filo che non si spezza» (p. 82).

  Abitare il «rovescio della vita» significa dunque naufragare, sprofondare nella magica atmosfera della creazione artistica: come un «visionario attento ai dettagli della vita» (p. 169), lo scrittore varca «i confini della vita terrena» ed «entra in uno spazio più leggero» (p. 79): la sola possibilità di salvarsi dall’angosciosa condizione del mondo in superficie è proprio quella di godere di questo «tesoro nascosto nel sottosuolo» (p. 191), di «assaporare l’attimo, gustare l’istante, catturare briciole di bellezza e farle scorrere adagio in bocca prima di inghiottirle» (p. 59).

 

 

  Massimo Romano, Il trovatello di Balzac, libero e felice, «La Stampa-Ttl tuttoLibri», Torino, N. 1457, 2 aprile 2005, p. 5.

 

  Prima di approdare ai grandi romanzi della Comédie Humaine, il giovane Balzac costruisce il suo apprendistato di scrittore collaborando con Auguste Le Poitevin, un faccendiere del sottobosco letterario, e pubblicando con vari pseudonimi storie di tenere fanciulle ed eroi satanici, orfanelli e banditi, pirati e criminali, ispirate alla moda del roman frénétique che mescola la Radcliffe e Byron, Scott e Nodier. Tra il 1822 e il 1825 con lo pseudonimo di Lord R’Hoone scrive L’Héritière de Birague e Clotilde de Lusignan, con quello di Horace de Saint-Aubin Le Centenarie (sic), Le Vicaire des Ardennes, Argow le pirate e Wann Chlore.

  Tra l’autunno del 1821 e l’inizio del 1822 scrive L’Anonyme, pubblicato nel 1823 con la firma di Viellerglé, ora tradotto e ottimamente curato da Paola Dècina Lombardi, che nell’introduzione cita un aneddoto narrato da Baudelaire sulla maniera geniale con cui Balzac saldava i debiti. Per pagare una cambiale di 1200 franchi, propose a un editore di giornali due articoli per la mattina seguente e ottenne un pagamento anticipato di 1500 franchi. Poi commissionò gli articoli a due scribacchini offrendo 150 franchi a ciascuno e il gioco è fatto.

  L’Anonyme è un appassionante romanzo d’avventura, frutto di una notevole perizia artigianale per un Balzac poco più che ventenne, con qualche caduta nell’ultima parte dovuta agli interventi di Le Poitevin. Il tema del trovatello, motivo antico della commedia classica, viene trattato in modo originale perché il protagonista, invece di soffrire per la sua condizione, è felice di sentirsi completamente libero. Balzac maschera il complesso del mal-aimé, la ferita infantile del disamore materno, con una storia fantastica di fughe e inseguimenti, carrozze e locande di posta, agguati e duelli, tesori nascosti e armadi segreti, conti malefici e dame velate.

  Il fatto più curioso è che quest’«opera-laboratorio, dettata dall’infernale bisogno di denaro», come la definisce Dècina Lombardi, diventa una fonte preziosa per Manzoni, lettore accanito di romanzi popolari. Il celebre inizio del II capitolo dei Promessi sposi: «Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato, secondariamente aveva già dato tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio invece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia: quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose», è un plagio del VII capitolo del III volume di Balzac: «Si racconta che il Gran Condé dormisse perfettamente alla vigilia di una battaglia e Ulric, che certo non era da meno del Gran Condé, quella notte non chiuse occhio. Io credo di averne capito la ragione: il Gran Condé recitava il ruolo di un altro, mentre il nostro eroe recitava il proprio».

  «Viellerglé, chi era costui?» deve essersi chiesto Manzoni, convinto che la citazione non sarebbe stata smascherata.

 

 

  Marco Rosci, Scrittori di bronzo, il tormento di Rodin, «La Stampa-Ttl tuttoLibri», Torino, N. 1447, 22 gennaio 2005, p. 9.

 

  Altrettanto lo è lo sviluppo di idee e di forme che porta al risultato finale di quel Monumento a Balzac che fu definito alla sua comparsa nel Salon del 1898 «feto colossale» e «massa informe», rappresentato in mostra dal bronzo dello studio finale. L’elaborazione di Rodin, che identificava se stesso nell’autore della fluviale Commedia umana fino a farsi fotografare come il monumento vivente, partì genialmente (sono entrambi in mostra) dal busto marmoreo dedicato nel 1844 da David d’Angers a «son ami De Balzac» e dalla litografia del portrait-charge in vestaglia del 1842 nel Panthéon Charivarique del grande e dimenticato Benjamin Roubaud, l’antenato romantico di Levine.

 

 

  Anna Maria Scaiola, Balzac, Honoré de, in AA.VV., Enciclopedia dei ragazzi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondato da Giovanni Treccani, Vol. I, 2005.

 

  Il maestro del realismo.

 

  Il grande romanziere Honoré de Balzac ha cercato di rappresentare nella sua opera tutti i molteplici aspetti della società francese nella prima metà dell’Ottocento, durante la Restaurazione dei Borboni e la monarchia di Luigi Filippo d'Orléans. Balzac stesso giudicava il suo progetto letterario “una delle più immense imprese che un uomo solo abbia osato concepire” e lo paragonava alle audaci spedizioni militari di Napoleone.

 

  Un’opera puzzle.

 

  In meno di vent’anni – dal 1829 al 1848 – Balzac pubblica più di novanta romanzi, con l’intenzione di dipingere la realtà pubblica e privata del suo tempo, di illustrare tutte le professioni, percorrere tutti i luoghi, esplorare tutte le età, mostrare l’uomo e la donna in tutte le loro trasformazioni fisiche o morali. Ma come ricreare questo ‘mondo completo’ nella finzione romanzesca? Lo scrittore decide di raccogliere i suoi romanzi sotto l’intestazione La Commedia umana, che ricorda – in una dimensione terrena – il poema di Dante Alighieri. Questo titolo permette di organizzare i romanzi in un sistema unitario in cui i diversi libri hanno la funzione di mattoni, o di tasselli che compongono un mosaico, o di pezzi che si incastrano a formare un puzzle. Ogni romanzo è autonomo e nello stesso tempo collegato agli altri che costituiscono l’edificio de La Commedia umana. Il romanziere ha dunque l’ambizione di lavorare non solo come un architetto, ma anche come un sociologo, uno storico della contemporaneità e persino un filosofo che, dopo aver messo in scena lo spettacolo della società, giudica, interpreta e indaga sui meccanismi nascosti dietro le quinte del palcoscenico.

  Per realizzare questo mondo nella sua ‘totalità’, Balzac pone come fondamenta della sua costruzione letteraria la sezione Studi dei costumi, suddivisa a sua volta in studi della vita privata, della vita di provincia, di campagna, della vita parigina, politica e militare. Balzac sceglie i suoi protagonisti tra i nobili di Parigi (La duchessa di Langeais) e quelli di provincia (Beatrice), il clero (Il curato di Tours), i militari (Il colonnello Chabert), i borghesi (Eugénie Grandet), gli agricoltori (I contadini), i medici (Il medico di campagna), i politici (Modeste Mignon e Z. Marcas), i funzionari (Gli impiegati), i commercianti (César Birotteau), gli emigrati (Il giglio nella valle).

 

  Personaggi in movimento.

 

  Gli attori di questa ‘commedia in cento atti’, così varia e vasta, sono circa quattromila. Come dare l’illusione della vita e il senso delle relazioni tra gli individui, delle dinamiche che animano il corpo sociale, dello scorrere del tempo, dell’incrocio dei destini e delle vicende umane? L’esigenza di inserire armonicamente tanti personaggi in un quadro unico giustifica un procedimento particolare della tecnica di Balzac: il ritorno dei personaggi da un romanzo all’altro.

  Nei romanzi circolano gli stessi personaggi che si incontrano, interagiscono e sono presentati nella loro evoluzione, in epoche e ambienti diversi. Ritoccando i suoi romanzi in vista di un’edizione definitiva, mediante sostituzioni e aggiunte, Balzac moltiplica i ‘ritorni’ dei personaggi, come il cinico e diabolico avventuriero Vautrin, l’avido usuraio Gobseck, l’onnipresente medico Horace Bianchon, il giovane Rastignac iniziato a Parigi alla vita mondana attraverso gli eventi ai quali assiste, i luoghi che frequenta, i colloqui che intrattiene.

  Il romanzo Papà Goriot denuncia la situazione di una generazione di cinquantamila giovani desiderosi di fare fortuna nella capitale: Rastignac è uno di loro. Ma tante speranze saranno deluse. La grande città, che isola nell’anonimato o suscita aggressività e violenza, non permette a un ragazzo di sfruttare energie e intelligenza: a Parigi “si può nascere, vivere e morire senza che nessuno faccia attenzione a voi”. Nelle Illusioni perdute, un giovane provinciale, poeta di talento che aspira al successo, viene respinto e umiliato dall’ambiente giornalistico ed editoriale della capitale. Il tema di Parigi, presente in scrittori dell’Ottocento come Hugo e Baudelaire, è centrale nell’opera di Balzac che ricorre per evocarla a molti paragoni di segno negativo: donna sfuggente da conquistare o mostro da sfuggire, alveare, vulcano, fogna, palude dalle esalazioni fetide, immondezzaio, inferno. Nel prologo della Ragazza dagli occhi d’oro sono descritti cinque gironi infernali come quelli di Dante, mossi dalla circolazione e dal potere del denaro, nei quali si distribuisce la popolazione di Parigi: gli operai, i commercianti piccolo-borghesi, gli uomini d’affari, gli artisti, gli aristocratici: “Gente orribile a vedersi, spiritata, gialla, consunta”.

 

  Il romanziere zoologo.

 

  Balzac stabilisce un legame molto stretto tra personaggio e ambiente, applicando alla società le teorie del naturalista Étienne Geofffoy-Saint-Hilaire, secondo il quale l’influenza dell’ambiente spiegherebbe le differenze tra le specie zoologiche.

  Il romanziere, che istituisce un’analogia tra l’Animalità e l’Umanità, estende queste teorie alle specie sociali da descrivere e classificare: come l'animale evolve in funzione dell’ambiente al quale si deve adattare, così l’essere umano è diverso a seconda del sesso, dell’epoca, dello spazio in cui si inserisce. Il viso di Z. Marcas, giovane repubblicano di genio mortificato dai politici, è paragonato al muso fiero di un leone. Il viso allungato dello scienziato Balthazar Claës somiglia a una testa di cavallo, con la pelle incollata alle ossa e le narici frementi.

  Interessato agli studi sul magnetismo e sui fenomeni elettrici, e agli esperimenti di Antoine-Laurent Lavoisier sulle proprietà chimiche degli elementi, Balzac crea con Balthazar Claës, protagonista della Ricerca dell’assoluto, il personaggio di un chimico che sacrifica patrimonio e famiglia all’idea ossessiva di individuare nella materia un elemento, un principio unico comune a tutte le sostanze del creato.

 

  Il realista e il visionario.

 

  Balzac è stato soprattutto apprezzato per l’osservazione realistica e la riproduzione dettagliata di quel che definiva un “immenso insieme di figure, di passioni, di eventi”. Già i contemporanei avevano valorizzato un altro versante della sua opera, quello fantastico o, secondo Baudelaire, ‘visionario’. Nella sezione Studi filosofici de La Commedia umana, il romanziere inserisce opere sulla scoperta dell’Elisir di lunga vita, o su un talismano magico, La pelle di zigrino, che esaudisce i desideri ma accorcia la vita del suo possessore. Il desiderio, espressione di vitalità, è un’energia, che deve essere alimentata e disciplinata, altrimenti si disgrega e si esaurisce. Anche il pensiero è una forza potente che per il suo stesso esercizio distrugge chi ne abusa. Balzac ipotizza un’interazione tra corpo e anima, materia e spirito. Balthazar Claës impazzisce e muore, consumato dal pensiero fisso delle sue ricerche.

  Questi due aspetti dell’opera di Balzac potrebbero sembrare in contraddizione: non lo sono se si accetta che l’immaginazione, le passioni, i sogni, i fantasmi, il mistero fanno parte integrante della realtà e della vita.

 

  Il viso di Z. Marcas.

 

  “Secondo un’opinione piuttosto popolare, ogni faccia umana somiglia a un animale. L’animale di Marcas era il leone. I capelli somigliavano a una criniera, il naso era corto, schiacciato, largo e tagliato in punta, come quello di un leone, aveva la fronte attraversata da un solco profondo, e divisa in due lobi vigorosi. Infine gli zigomi pelosi resi più sporgenti dalla magrezza delle guance, la bocca enorme e le guance incavate erano mossi da pieghe dal disegno fiero, ed erano messi in risalto da un colorito dai toni giallastri”.

 

  Un giudizio di Charles Baudelaire.

 

  “Tante volte mi sono meravigliato che la gloria di Balzac fosse di passare per un osservatore; mi era sempre sembrato che il suo merito principale fosse d’essere visionario e visionario appassionato. Tutti i suoi personaggi sono dotati dell’ardore vitale da cui egli stesso era animato. Tutte le sue opere sono colorate quanto i sogni”.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Honoré prima di fare la «Commedia», «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 36, 6 febbraio 2005, p. 33.

 

  «Ho solo due passioni: l’amore e la gloria», diceva Honoré de Balzac. Ma a vent’anni non aveva nulla dell’eroe romantico. Vestiva in modo trascurato, aveva i capelli sporchi, larghi vuoti tra i denti e un fisico tozzo. Era timido con le donne. Il grande affetto per la sorella non bastava per cancellare la ferita del rapporto con la madre — «Non ho mai avuto una madre!» isterica e autoritaria, concentrata sul figlio minore adulterino.

  Nel 1821 Balzac usciva da un duro periodo di miseria e di lavoro in una soffitta parigina. Nei momenti di sconforto precipitava dall’esaltazione all’idea della gloria futura alle tentazioni suicide: «Non fossi mai nato! In società si è disgraziati da soli, da morti e da vivi ...». Honoré intuiva la preponderanza del denaro nella società uscita dalla rivoluzione francese, ma era poverissimo. Per questo era entrato in uno dei tanti atelier di romanzi senza pretese, cinicamente ricalcati sul modello di quelli più venduti. Non volendo preservare il nome per opere più degne, firmava con fantasiosi pseudonimi — Lord R’hoone, Horace de Saint-Aubin, Viellerglé — le pagine buttate giù frettolosamente «per indipendentizzarsi» dalla famiglia.

  Ma proprio questa trascuratezza popola involontariamente quelle opere di tanti ritratti, in cui si riflette, ingenuamente idealizzato, il suo viso. La professione di fede del fabbro di Anonimo è quella dell’autore: «Tanto l’artista quanto il guerriero, il poeta, il saggio, il musicista devono vivere della loro arte». Così è tipicamente balzacchiana quella del diabolico chimico: «Ho soltanto il potere che deriva dalla forza della mia volontà». Le continue accuse rivolte dal trovatello, protagonista del libro, a colei che, «né donna, né madre», lo ha abbandonato, sono, osserva Paola Dècina Lombardi, «rivelatrici del complesso del malaimé che per tutta la vita sarà alla base del rapporto conflittuale tra Balzac e sua madre». Ancora molti anni dopo Honoré aveva le lacrime agli occhi quando parlava di quanto aveva sofferto nella sua infanzia. Il cattivo, un misterioso conte, è preso di peso dal romanzo gotico contemporaneo, in cui il malvagio oscilla ancora tra il demone, e il bel tenebroso. Ma l’ironia con cui il narratore si affaccia tra le pagine, prendendo in giro la trama, i lettori e se stesso, è un’eredità del Settecento. L’apprendista che irride ai letterati che «vogliono darci, a ogni costo, i lineamenti esatti dell’eroina». non è ancora il puntiglioso autore della Commedia umana. Per il giovane Balzac la descrizione è solo un inutile ornamento e non un elemento fondamentale del destino del suo eroe e una rivelazione cifrata del suo carattere.

  In questo romanzo, che cattura in fretta il lettore usando sfacciatamente tutti i trucchi del genere cappa e spada il giovane autore è sorpreso al bivio. Se avesse insistito per questa strada, Balzac avrebbe potuto diventare un secondo Dumas. Ma a salvarlo, o a sviarlo, non fu una bellissima fanciulla come quella destinata all’eroe di Anonimo, ma una matura aristocratica, madame de Berny, che aveva un anno meno di madame Balzac. Niente di più materno di una donna con nove figli e vari nipoti. In lei Honoré riuniva la madre e l’amante, al punto da chiamarla mammina. «I tuoi quarantacinque anni per me non esistono o, se per un istante li vedo, diventano una prova della forza della mia passione ... così la tua età che, se non ti amassi, ti renderebbe ridicola ai miei occhi, è al contrario un legame, una cosa piccante che mi lega ancora di più».

 

 

  Alberto Sobrero, Descrivere il mondo per dettagli. Letteratura e scienze sociali in Balzac, «I Quaderni del CREAM-Centro di Ricerche Etno-Antropologiche Milano», Milano, Università degli studi Milano Bicocca, IV, 2005, pp. 5-34.

 

  [...]. Attraverso i suoi romanzi Balzac costruisce al tempo stesso una teoria della letteratura e delle scienze sociali: l’una si appoggia sull’altra; non ci sarebbe una buona letteratura se non ci fosse un’osservazione attenta del mondo, una capacità di penetrare nei suoi dettagli, di descrivere il mondo come insegnano le scienze della natura ordinandolo per insiemi sempre più piccoli o sempre più grandi e osservando gli effetti delle combinazioni; ma se qui terminasse la ricerca avrebbe ragione Pécuchet: la letteratura sarebbe etnografia e forse una onesta etnografia, quella che Wittgenstein chiamava eziologia naturale, la descrizione dell’esistente. Il punto alto delle scienze sociali è per Balzac la letteratura, è lì che si sperimenta, si conosce al di là delle combinazioni date, si fa esperienza con il possibile, si immaginano mondi, si inventa il vero per analogia. E la letteratura spinge le scienze sociali verso la filosofia, verso la possibilità di intravedere i primi rudimenti di quel che lo stesso Balzac chiama “la metafisica della letteratura”.

  Grosso modo, del resto, questo procedere ricalca lo schema della Commedia. In primo luogo gli (sic) Études de moeurs [...].

  Balzac offre una nitida tripartizione delle Sante Scienze dell’Uomo: l’etnografia, la letteratura, la filosofia delle cose ultime (per questo Sante scienze sociali). Nella Commedia doveva esserci ognuno di questi livelli, ognuno con il suo compito, ognuno con il suo metodo: osservare e descrivere il particolare, costruire tipologie, studi di caso, comparare, immaginare per analogia, fino al punto più alto: ritrovare l’individualità capace, anche se solo temporaneamente, di renderci estranei al mondo (“Les principes, c’est l’auteur”, corsivo di Balzac). In più in Balzac c’era quella risata finale, quei cento racconti drolatiques, l’ironia sulla pretesa di prenderci per i capelli e tirarci fuori dal mondo per vederlo meglio. Altro libro sparso in tante sue pagine.

  È largamente condivisibile la tesi di Pierre Chartier secondo cui il rapporto fra scienze sociali e letteratura è in Balzac talmente lucido e realizzato da diventare almeno in Francia il punto di riferimento di tutti gli autori di romanzi venuti dopo di lui. Balzac copre tutto lo spazio letterario del secolo, fino ai suoi esiti più estremi, dal misticismo romantico al darwinismo letterario, e dentro questo spazio finiscono per essere pensati non solo Stendhal, i Goncourt, Zola, ma anche Flaubert e Maupassant. Ci stanno dentro per vicinanza o per differenza, ma comunque ci stanno dentro.

  E quel che Chartier dice per la letteratura noi lo potremmo dire per le scienze umane, per la sociologia e per l’antropologia di buona parte del secolo. L’evoluzionismo nei suoi due grandi esiti filosofico-antropologici, in Bachofen e in Frazer, ripete senza volerlo, senza saperlo, utilizzando strategie diverse, il modello balzachiano dell’opera mundi, di un’opera che partendo dal “frammento d’osso” lasci intravedere le linee di quel disegno metafisico che Balzac chiama “la storia segreta del genere umano”. Essere scienziati sociali voleva dire essere romanzieri e filosofi, e non poteva essere diversamente, del resto, in un secolo in cui le scienze sociali scoprivano in pochi decenni alterità e mondi psichici mai immaginati, dilatavano di millenni la storia umana ribaltavano convinzioni secolari. [...].

 

 

  Mario Scognamiglio, Balzac editore. Una allucinante esperienza del grande scrittore, in La Bibbia del Pope e altri scritti di bibliofilia, Milano, Edizioni Rovello, 2005 («I germogli de L’Esopo»), pp. 23-28.

 

  Cfr. 1980.

 

 

  Stenio Solinas, Balzac. La Commedia ritrovata, «il Giornale-Album», Milano, 20 novembre 2005, p. 20; 1 ill.

 

  Esce il secondo volume dei Meridiani dedicato alla «Comédie humaìne». Un’intera società sfila davanti ai nostri occhi, così viva che ci pare di averla sempre frequentata.

 

  Per un paio di settimane mi sono chiuso in casa con Balzac e nessuno invito seducente, intrigante, importante, appagante, è più riuscito a schiodarmi. Sono stato spicciativo con chi mi ha chiamato al telefono [...]. Ora dopo ora, giorno dopo giorno, sono sprofondato in un mondo parallelo autosufficiente dove nomi, personaggi, luoghi, ambienti si rincorrevano e si intrecciavano.

  Un’intera società sfilava davanti ai miei occhi, colta in un momento particolare della sua storia, fra la fine della Francia napoleonica e la Rivoluzione del luglio del 1830, ma quell’Ottocento era talmente vivo, talmente presente che se fossi uscito di casa non mi sarei stupito di trovare una carrozza davanti al portone, un palco all’Opéra, un invito in qualche palazzo del faubourg Saint-Germain. Mai come in quell’immersione così assoluta e così felice ho capito quanto avesse ragione Oscar Wilde: «Una frequentazione costante di Balzac trasforma i nostri amici viventi in ombre, e i nostri conoscenti in ombre di ombre. Chi avrà mai voglia di uscire per andare a una serata mondana e incontrarci il suo amico d’infanzia Tomkins, quando può starsene a casa in compagnia di Lucien de Rubempré?».

  Lucien de Rubempré è l’eroe delle Illusioni perdute e di Splendori e miserie delle cortigiane racconti nel secondo volume della Commedia umana di Honoré de Balzac appena uscito per i Meridiani di Mondadori [...], dieci anni dopo il primo volume che raccoglieva, fra gli altri, la Storia dei Tredici, Papà Goriot, Eugénie Grandet. È probabile che ci vorrà lo stesso arco di tempo per il terzo (l’opera completa di Balzac nella Pléiade di Gallimard è di12 volumi), ma il lavoro fatto dalla curatrice Mariolina Bongiovanni Bertini e dalla sua équipe di curatori e di studiosi, Gabriella Mezzanotte, Claudia Moro, Daniella Selvatico Estense, Susi Petri (sic), Renato Capone, Francesco Scaglione, è talmente intelligente e accurato da compensare le attese e da non sfigurare rispetto all’edizione francese. Anzi, nel caso specifico del volume ora in libreria, la ricchezza dell’apparato documentario, il recupero filologico del testo, il confronto e i rimandi con gli altri romanzi del ciclo, l’annotazione puntuale rispetto al giornalismo, ai fatti politici, letterari, artistici dell’epoca, ne fanno un’edizione senza rivali in campo internazionale. Studi del genere riconciliano con l’editoria e le specializzazioni si segnalano come un atto d’amore all’oggetto studiato che non ha prezzo.

  Mariolina Bongiovanni Bertini ha anche fatto benissimo a tenere insieme Le illusioni e Gli splendori e miserie, a costo di inserire nel primo volume due romanzi che sono invece ad essi successivi. Diremo di più: per meglio comprendere la complessità e la grandezza dell’opera balzacchiana, conviene proprio partire da questo secondo volume e procedere a ritroso: per estensione, ambizione, disegno, l’ascesa e caduta di Lucien de Rubempré che qui è raccontata è il passe-partout che apre gli altri, li chiarifica e li giustifica, li completa e li nobilita. È come se per un gioco di incastri, rifacimenti, un universo già raccontato venisse sistematizzato, come se tanti piccoli precedenti interventi considerati ininfluenti, superflui e/o irrazionali, acquistassero un senso compiuto proprio nell’armonia del disegno finale. Balzac è un Proust che trasforma il tempo perduto in epifania del tempo presente.

  Come tanti, troppi suoi lettori frettolosi nell’età dell’adolescenza, spesso sviati da edizioni frettolose, da introduzioni supponenti affiancate da traduzioni infelici ... senza le giuste indicazioni su come visitare le innumerevoli stanze di cui si compone la Commedia umana e quindi condannati a sostare in anticamera o finire in cantina. laddove ci si sarebbe dovuti sedere subito in salotto o infilarsi nel budoir (sic), inchiodati infine dalla dittatura critica delle comparazioni e delle gerarchie che lo riduceva a volenteroso artigiano a petto di artisti più compiuti e più consapevoli (il coevo Stendhal, il successivo Flaubert), a lungo il giudizio su di lui è rimasto quello di una gigantesca macchina «per produrre frasi», come da sua definizione del resto, condannata dalla stessa bulimia che le dava vita. Una sorta di mostro che si nutriva della propria scrittura, ma non riusciva a elevarla a visione del mondo, consapevolezza critica, quadro d’insieme, giusto bilanciamento fra forma e contenuto. Rimanevano sì le dichiarazioni di principio, gli intenti, i proclami: ma sembravano più far parte dell’armamentario letterario ottocentesco che di una vera e coerente teoria del romanzo.

  Il secondo volume mette ora le cose a posto e ridà a Balzac quello che gli è proprio: la più completa, esauriente, autosufficiente rappresentazione di un’epoca e di una società. Talmente viva, talmente autonoma, talmente credibile da imporsi come altrettanto vera, o addirittura più vera di quella reale, da cui lo scrittore prese le mosse. Noi oggi non sappiamo di quali modelli storici Papà Goriot o Le (sic) illusioni perdute si siano nutrite per dar vita al personaggio di Eugène de Rastignac, il giovane nobile di provincia che muove vittorioso alla conquista della capitale, di Lucien de Rubempré, il bellissimo poeta che da quella capitale sarà invece sconfitto. Sappiamo solo che se dovessimo indicare un campione mondano di cinismo, uno che conosce il male per averlo visto e subìto, non compiuto, e che quindi ha messo da parte ogni illusione sul bene, diremmo che «è un Rastignac», allo stesso modo di come Eugène, preso atto della meschinità del mondo, getta il suo guanto di sfida a Parigi: «Lanciò su quell’alveare ronzante uno sguardo che sembrava suggerne il miele e pronunziò queste solenni paiole: “A noi due. Ora”». Sappiamo solo che, se dovessimo dare un nome al simbolo di una vita bruciata per debolezza, viltà, voluttà, diremmo «è un Rubempré», allo stesso modo di come Lucien, preso atto della fine di tutto, si chiama fuori: «Avete voluto farmi potente e degno di gloria, mi avete precipitato negli abissi del suicidio, ecco tutto. Da molto tempo sentivo la vertigine librarsi sopra di me».

  Nessun scrittore ci ha lasciato della Francia postnapoleonica, ancora monarchica ma già repubblicana, una messe così copiosa di informazioni. E nessun scrittore ha raccontato con miglior cognizione di causa il perché di una crisi soprattutto morale: «La giovinezza di quel tempo non somiglia alla gioventù di nessun’altra epoca: si è formata tra i ricordi dell’Impero e quelli dell’Emigrazione, tra le tradizioni di corte e gli studi coscienziosi della borghesia, tra la religione e i balli in maschera, costretta inoltre a rispettare la volontà del re, anche se il re sbagliava. Questa gioventù incerta di tutto, cieca e chiaroveggente, non contava niente: per i vecchi, gelosi di conservare nelle proprie deboli mani le redini dello Stato».

  Allo stesso modo però nessun scrittore è mai riuscito come Balzac a fare di una certa Francia la propria Francia. Su di un’epoca «fredda, meschina e senza poesia», che non ha bisogno di «anime grandi», dove «si schernivano i ministri che non erano gentiluomini, ma non si forniva abbastanza gentiluomini da diventare ministri», dove la nobiltà è disseccata, la ricchezza è ostentata, la gioventù è impotente, Balzac dà vita a personaggi che si trovano a recitare su un palcoscenico che non è il loro. Le nobildonne vorrebbero continuare a comportarsi come se ci fosse ancora una corte, mentre esiste solo la sua caricatura. I gentiluomini vorrebbero esibire solo i loro quarti di nobiltà, ma la nuova aristocrazia del denaro glieli corrode e li soppianta. Gli scrittori vorrebbero inseguire l’arte, ma il mercato chiede loro merce. Gli ufficiali vorrebbero pensare solo alla gloria, ma la gloria è stata già tutta consumata e non resta che la noia e la memoria. È questo contrasto a trasformare un’avventura galante in una tragedia, una speculazione economica in un delitto, una vocazione intellettuale in una carriera. Il generale Montriveau causa la morte di La duchessa di Langeais, il nobile de Marsay seduce e quindi uccide La ragazza dagli occhi d’oro, Diane de Monfrigneuse (sic) porta ben nascosti su di sé I segreti della principessa di Cadignan, il genio del male Vautrin crede di trovare negli Splendori e miserie delle cortigiane il campo di manovra che gli era sfuggita nella piccola pensione di Papà Goriot ... È come se tutti consumassero energie prodigiose all’interno di uno schema sociale che non sa cosa farsene, è come se i desideri e i sogni di grandezza di ciascuno finissero confinati negli spazi ristretti di forme senza più contenuto, di contenuti senza più sostanza.

  Allo stesso modo dei suoi eroi, anche Balzac è alla fine schiantato dallo sbilanciamento fra ciò che vorrebbe dare e ciò che la società è in grado di ricevere. Lavora a una gigantesca opera d’arte, lo scambiano per un onnivoro pubblicista che non sa però finire i suoi romanzi ... Si accontentano di racconti a puntate là dove c’è un’opera capitale, il monumento a cui viene sacrificata una vita. Con i due volumi della Commedia umana il lettore italiano ha ora di fronte, per la prima volta, qualcosa che rivaleggia con la Recherche di Proust. Lo onori come tali, li legga come tali. Non se ne pentirà.

 

 

  False amanti, muse, poeti e principesse, Ibid.

 

  Sono sommariamente presentati il primo e il secondo volume di: La Commedia umana curata da M. Bongiovanni Bertini per i “Meridiani” di Mondadori.

 

 

  Lionello Sozzi, Pavese: da Balzac a Proust, in AA.VV., Cesare Pavese. Atti del Convegno internazionale di studi. Torino-Santo Stefano Belbo, 24-27 ottobre 2001, a cura di Margherita Campanello, Firenze, Leo Olschki, 2005 («Università di Torino. Centro di studi di letteratura italiana in Piemonte «Guido Gozzano – Cesare Pavese», vol. 16 – Saggi), pp. 43-54.

 

  Da Balzac ... a Proust passando per Stendhal e Flaubert e per alcuni scrittori anglosassoni, il cammino della riflessione critica di Cesare Pavese sul romanzo non esita certo a «richiamarsi a punti di riferimento a tutti noti e in qualche modo esemplari» (p. 43). Tra le pagine dei Saggi letterari (1951) o in quelle de Il mestiere di vivere (Diario 1935-1959) del 1952, numerosi sono i riferimenti ai ‘grandi classici’ della letteratura europea che, in questo studio, Lionello Sozzi porta alla luce ricomponendoli in un prezioso mosaico ricco di multicolori sfumature letterarie e di suggestive implicazioni estetiche. Nel caso di Balzac, ad esempio, Pavese assume posizioni critiche che, precorrendo i tempi futuri, pongono come chiave di volta della sua poetica romanzesca la curiositas, ovvero quel particolare modo di porsi nei confronti del reale che, ricorrendo ad una scrittura simbolica, apre la scrittura stessa alla «proposta di un mistero da indagare, di un dubbio da sciogliere» (p. 45). Nessuna trascrizione del reale, in Balzac, ma «una sorta di apparente ingenuità, la capacità, cioè [...] di creare l’illusione che il mondo inventato sia la vita» (p. 46).

 

 

  Cr.[istina] T.[aglietti], Dieci anni per un volume, «Corriere della sera», Milano, 1 novembre 2005, p. 33.

 

  «Il tomo VIII de La Comédie humaine, dove c’è Illusions perdues, di cui devo ancora scrivere la fine, mi è costato tre mesi di bozze. Ma, come dice la principessa di Belgiojoso, è il volume monstre! E l’opera capitale nell’opera». Così scriveva, nel marzo 1843 Honoré de Balzac, sottolineando il carattere eccezionale del romanzo che stava per pubblicare. Un libro che, come scrive la curatrice Mariolina Bongiovanni Bertini, nell’introduzione al secondo volume dei Meridiani, «offriva la sofisticata architettura di un racconto articolato in tre parti, autonome eppure collegate tra loro; un imponente organico di decine e decine di personaggi; l’intreccio serrato di un’ampia gamma di temi diversi», una sfida per un pubblico di lettori che ancora rimpiangeva la classica e confortante semplicità di Eugénie Grandet.

  Questo secondo volume dei Meridiani Mondadori [...] contiene un altro vasto romanzo, Splendori e miserie delle cortigiane, due opere autonome, legate dallo stesso protagonista, Lucien de Rubempré. Proprio per accogliere in questo volume i due romanzi del ciclo, Mariolina Bongiovanni Bertini ha anticipato nel primo volume dei Meridiani (uscito in due tomi nel 1994) La storia dei tredici e I segreti della principessa di Cadignan che dovrebbero collocarsi rispettivamente dopo Illusioni perdute e dopo Splendori e miserie.

  La traduzione di Illusioni perdute, nuova, è a cura di Dianella Selvatico Estense e Gabriella Mezzanotte, quella di Splendori e miserie, fatta da Marise Ferro per l’edizione Einaudi del 1961, è stata completamente rivista, mentre l’ampio apparato delle note è a cura di Claudia Moro. Nella collana dei Meridiani è previsto un terzo volume dedicato a Balzac che, vista la complessità dell’opera, non si sa quando potrà essere completato. D’altronde, come scrisse Le Figaro nel luglio 1839, «il giorno in cui Monsieur de Balzac saprà finire un romanzo ... Ah, quel giorno avrete ben ragione di temere la fine del mondo!».

 

 

  Monica Trouché, Balzac e i crimini del cuore. «Sténie». La «Physiologie du mariage». «La Femme de trente ans». Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Elena Del Panta, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere moderne, 2005.

 

 

  Fabrice Wilhelm, Lucien de Rubempré, objet d’envie, «Cahiers de littérature française», I, Bergamo-Paris, University Press-Edizioni Sestante; L’Harmattan, Janvier 2005, pp. 127-141.

 

  Sulle ambiguità letterarie e ideologiche proprie del personaggio di L. de Rubempré in Illusions perdues, riflette F. Wilhelm: a suo giudizio, questa figura, che è oggetto di una universale adulazione, non è altro che «l’illusion faite chair» (p. 132). La particolarità di Lucien, secondo l’A., «est bien de posséder ces dons qui provoquent la violence passionnelle: qu’il s’agisse de jalousie envieuse ou d’une dévotion absolue mêlée d’addiction sexuelle, convoitise mortifère qui veut faire un avec l’objet pour se l’approprier et où l’on reconnaît l’envie sous le masque du désir, comme naguère sous celui de l’amitié» (p. 138).

 

 

  Maria Teresa Zanola, L’esotismo linguistico di un viaggiatore: Balzac e la lingua italiana, in AA.VV., Poetica del viaggio, «Quaderni del Dipartimento d1 Linguistica», a cura della Cattedra di Lingua e Letteratura Francese, Università della Calabria, 22, Serie Letteratura, n. 10, 2005, pp. 237-251.

 

  In questo contributo, M. T. Zanola fornisce gli elementi essenziali per ricostruire e per valutare, da un punto di vista cronologico e filologico, l’uso dell'italianismo linguistico di Balzac prima e dopo i suoi viaggi in Italia (a partire dal 1836) e visto in stretto rapporto con il ricorso alla lingua italiana da parte dello scrittore nell’uso privato e personale (la corrispondenza) e nei diversi contesti letterari della sua opera narrativa.

  Se il romanziere francese si mostra fedele seguace della dottrina romantica della ‘couleur locale’ (essenzialmente prima dei suoi viaggi nella nostra Penisola e soprattutto attraverso l’influenza di Stendhal), «introducendo semantismi dell’italiano che il francese ancora non possedeva» o dilatando «il semantismo dell’italiano stesso» (p. 243), è indubbio che, dopo il 1836, l’aumento nell'uso di italianismi negli scritti balzachiani acquisti un’importanza ben più rilevante. Considerando la tipologia dei prestiti italiani, Balzac «fa uso soprattutto di prestiti integrati, registrati nei dizionari del XIX secolo» e quindi noti e ricorrenti. In conclusione, scrive l’A., Balzac mostra una conoscenza «prudente e semanticamente fondata» dell’italiano, perché si tratta di una lingua «a cui a lungo si è esposto, [...] nella sua ricezione, attraverso i viaggi, gli incontri con italiani e italiane e, non ultimo, i testi dei libretti d’opera» (p. 251).

 

 

  Antonio Zollino, “Tre croci” e la tradizione. Balzac, in La verità del sentimento. Saggio su “Tre Croci” di Federigo Tozzi, ETS, 2005, pp. 180-184.

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Memorie del boia. Liberamente tratto da Mémoires de Sanson di Honoré de Balzac, scritto e diretto da Stefano Massini. Con Amerigo Fontani, Antonio Fazzini, Elena D’Anna; scene di Emanuele Luzzati e Roberto Rebaudengo, realizzate da Michele Ricciarini; costumi di Micol J. Medda; luci di Alfredo Piras, Firenze, Teatro di Rifredi, 29 novembre-2 dicembre 2005.

 

 

  I due poeti, Un grand’uomo di provincia a Parigi e Le sofferenze di un inventore da “Le illusioni perdute” di Honoré de Balzac. Adattamento e riduzione di Aurelio Pes, con Flavio Bucci. Rassegna “Teatro narrato. Il grande romanzo dell’800 e dell’alba del ʼ900”, Palermo, Kals’Art Teatro, Palazzo Bonaglia (atrio), 1-2 agosto

2005.

 

 

 

Letture radiofoniche.

 

 

  Elsa Agalbato legge Papà Goriot di Honoré de Balzac. Introduzione di Massimo Raffaelli. Riduzione di Giovanni Piccioni. Regia di Anna Antonelli. A cura di Fabiana Carobolante, Radio 3. Il Terzo Anello. Ad alta voce, 22 puntate, 1-2-3-6-7-8-9-10- 13-14-15-16-17-20-21-22-23-24-27-28-29-30 giugno 2005, ore 9.30.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi universitari.

 

 

  Cfr. anche 2004.

 

 

  Luciana Alocco, Balzac: il reale e la magia, Università degli studi di Trieste, Corso di laurea in Lingue e culture straniere moderne, anno accademico 2005-2006.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Massimilla Doni; Studi critici.

 

 

  Veronica Bonanni, «Une critique à courte vue». Polemiche nelle «Préfaces» di Balzac, in AAVV., Il discorso polemico. Controversia, invettiva, pamphlet. XXXIII Convegno interuniversitario, Bressanone, Casa della Gioventù dell’Università di Padova, 9 luglio 2005.

 

 

  Giorgio Cerruti, Venezia nella narrativa ottocentesca. Spazio letterario e spazio mentale, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lingue o letterature straniere – Letterature comparate, Anno accademico 2005-2006. 

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Massimilla Doni.

 

 

  Guido Davico Bonino, Le metamorfosi di Don Giovanni di Guido Davico Bonino. Tredicesima puntata, Don Giovanni non vuol morirei “L’elisir di lunga vita” di Balzac, RadioTre – Radio Tre Suite, 21 dicembre 2005.

 

 

  Rinaldo Rinaldi, Oggetti parlanti, Università degli studi di Parma – Letteratura comparata. Anno accademico 2005-2006.

 

  Seminario tenuto dalla dott.ssa Susi Pietri.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, La Peau de chagrin; Le Cousin Pons; H. James, Tre saggi su Balzac.

 

 

  Jean François Rodriguez, Letture e analisi di Balzac. « Scènes de la vie privée». «Le Colonel Chabert», Università degli studi di Verona, Laurea in Scienze della comunicazione. Editoria e giornalismo – Letteratura francese, Anno accademico 2005-2006.



Marco Stupazzoni

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