mercoledì 24 marzo 2021



2009

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto e altri racconti. Prefazione di Davide Rondoni. Traduzione e note di Davide Monda, Milano, BUR Rizzoli, (aprile) 2009 («BUR 60 – Letteratura Universale»), pp. 141.


  Struttura dell’opera:


  Davide Rondoni, Prefazione, pp. 5-10;

  Il capolavoro sconosciuto, pp. 11-45;

  Pierre Grassou, pp. 47-73;

  Gambara, pp. 75-141.

 

  In una nuova veste grafica, nell’anno in cui viene celebrato il sessantesimo anniversario della Biblioteca Universale Rizzoli fondata nel 1949, è proposta all’attenzione dei lettori italiani questa trilogia di racconti balzachiani: Il Capolavoro sconosciuto, Pierre Grassou e Gambara, tradotti e curati, nell’apparato delle note al testo, da Davide Monda. Nella sua prefazione ai testi (pp. 5-10), Davide Rondoni si sofferma sul concetto di arte oltre che sulla natura, sulle regole e sulle dinamiche (fondate sul rapporto dialettico tra libertà e ubbidienza) proprie della creazione artistica assumendo come termine di confronto proprio Le Chef-d’oeuvre inconnu di Balzac. L’arte, a suo giudizio, è anzitutto «teatro dell’umano» (p. 6): nel racconto filosofico balzachiano un tetto, scrive l’autore, «che ci riguarda come uomini contemporanei proprio perché riguarda gli artisti contemporanei» (p. 5) – lo scrittore ci consegna un’opera avvincente, «un enigmatico racconto per nostro scandalo, e per la dignità drammatica di quel che chiamiamo arte» (p. 9).

 

 

  Honoré de Balzac, Il cugino Pons. Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo. Traduzione di Ugo Déttore, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2009 («Classici moderni»), pp. 433.

 

  Cfr. 2003.

 

 

  Honoré de Balzac, La Cugina Bette. Traduzione di Sara Marini, Milano, Oscar Mondadori, 2009, pp. 395.

 

  Cfr. 1996.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Bette. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzione di Francesco De Simone, Milano, Garzanti, 2009 («I grandi libri»), pp. XXI-438.

 

  Cfr. 1983 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Garzanti, 2009 («I grandi libri»), pp. LXI-174.

 

  Cfr. 1984 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Garzanti, 2009 («I grandi libri»), pp. LXIII-649.

 

  Cfr. 1966, per la traduzione; 1992.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Anna D’Elia, Milano, Rizzoli, 2009 («Capolavori. I più grandi romanzi della letteratura straniera», 8), pp. 320.

 

  Cfr. 1995.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. Introduzione e note di Maurice Allem. Traduzione di Irma Zorzi, Milano, Rizzoli, 2009 («Classici moderni»), pp. XXXIX-295.

 

  Cfr. 1982.

 

 

  Honoré de Balzac, Pene di cuore di una gatta inglese, traduzione dal francese di Elga Mugellini, in AA.VV., Le più belle storie di gatti. Dai più grandi scrittori di ogni epoca, Torino, Edizioni «L’Età dell’Acquario», 2009, pp. 5-24.

 

  Pubblicato in prima edizione nel febbraio del 1841 all’interno della miscellanea di racconti intitolata: Scènes de la vie privee et publique des animaux (Hetzel et Paulin), Peines de coeur d’une chatte anglaise ha avuto una discreta fortuna editoriale in Italia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento: meritevoli di essere segnalati sono altresì alcuni adattamenti teatrali della novella, l’ultimo dei quali, sotto la direzione di Alfredo Arias, nel 1999, ha goduto di un notevole successo da parte della critica e del pubblico.

 

 

  Honoré de Balzac, Trattato degli eccitanti moderni (1839), in AA.VV., Stupefatti!, Prato, Piano B edizioni, (febbraio) 2009, pp. 7-34.

 

  Come più volte ribadito dallo stesso Balzac, il Traité des excitants modernes, pubblicato nel maggio 1839 dall’editore Charpentier, vuole essere una sorta di integrazione della Physiologie du goût di Brillat-Savarin. I termini della questione posti dallo scrittore in questo testo, riguardano gli effetti legati all’assunzione, e più frequentemente all’abuso di cinque sostanze (l’alcool, lo zucchero, il tè, il caffè e il tabacco) in relazione non soltanto alle loro nefaste conseguenze fisiologiche sulla persona umana, ma anche in rapporto al destino stesso delle nazioni. Se l’ubriachezza «getta un velo sulla vita reale, spegne la coscienza delle pene e dei dispiaceri, permette di deporre il fardello del pensiero» (p. 17), l’assunzione, a digiuno, di caffè produce una sorta di «vivacità nervosa» (p. 22), caratteriale e intellettuale; il tè, osserva sempre Balzac, «guasta la donna tanto nel morale quanto nel fisico» (p. 24), mentre l’assunzione di tabacco, a causa degli effetti prodotti sulla funzionalità delle mucose, rende il fumatore «quasi inebetito» (p. 30), apatico, insensibile ai «movimenti dell’amore» (p. 31) e fortemente menomato nelle sue facoltà generative.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac, un ritratto tenero e doloroso dalla sorella Laure, Verona, «L’Arena»; Vicenza, «Il Giornale di Vicenza»; Brescia, «Bresciaoggi», 7 febbraio 2009.

 

  La prima sorpresa è il racconto inquietante di un’infanzia cupa e infelice che segnò la vita di Honoré de Balzac, forse spingendolo a reagire e a voler sfondare nella vita. Per riuscire, come racconta la sorella dello scrittore in queste affettuose pagine, scritte otto anni dopo la morte, ne patì di ogni genere e soprattutto si mise in mano agli strozzini. Il grande cantore della grande borghesia francese, l’autore di ritratti fedeli e quindi naturalmente spietati, veniva da una famiglia borghese non meno ricca di contrasti e chiaroscuri, di miserie e grandezze che lo scrittore, seppe poi riconoscere sempre, quasi istintivamente, un po’ per esperienza e un po’ per rabbia personale.

  Lui e la sorella Laure, che si sarebbe sposata Surville, appaiono in quel contesto profondamente soli e solidali che solo sorreggendosi a vicenda riescono a sopravvivere alle tenebre in cui li trascinano i genitori. Il peggio è quando la madre, che Honoré definì poi sempre «un mostro», li divise e chiuse lui in un collegio rigidissimo. Una madre anche lei poveretta e costretta a un matrimonio orribile, a 19 anni con un uomo di oltre 50.

  «La madre di Balzac – annota Daria Galateria nelle sue pagine di introduzione al volumetto – è solo uno dei grandi tomi di questo ritratto di scrittore .... L’apoteosi e il romanzo della vita di Balzac è stato il matrimonio con madame Hanska, l’aristocratica polacca che gli aveva scritto in termini assai accesi, firmandosi “l’inconnue ...” (la sconosciuta, ndr). Balzac la corteggiò dal 1841, anno in cui era rimasta vedova, e le sposò nel 1850. poco prima di morire.

  Di questo matrimonio, tutto quello che si dice, è che il fratello si recò in due occasioni nella Russia meridionale. Tanto puntiglioso riserbo merita un approfondimento».

  Madre e figli, che questa tenne a distanza, la ritenevano responsabile di aver abbreviato la vita dello scrittore, non l'amavano e vedevano come lui ne fosse irretito a suo e loro danno. Quanto al resto, a cominciare dai grandi debiti fatti per poter vivere nel bel mondo in cui ha bisogno di sfondare, è cosa nota, ma viene raccontato e visto in un’ottica nuova, quotidiana e affettuosa, e per questo spesso reticente, allusiva, pronta a giustificare. Il ritratto è comunque vivo, di un uomo che ha perso tulle le «illusioni borghesi» e non si risparmia, che abusa di sé e fatica, dedito totalmente al lavoro e incapace di un sano rapporto con i soldi e quel che guadagna. «Il mio dovere verso di lui e verso tutti si ferma qui: solo i forti hanno il diritto di giudicarlo come scrittore», conclude Laure il suo scritto, dopo aver accennato alle dolorose circostanze che lo portarono prematuramente alla morte.

  Balzac è considerato il maestro del romanzo realista. Scrittore prolifico, ha elaborato un’opera monumentale – la «Comédie humaine» – ciclo di numerosi romanzi che hanno l’obiettivo di descrivere in modo quasi esaustivo la società francese contemporanea all’autore o, come si dice spesso, di «fare concorrenza allo stato civile». La veridicità di quest’opera colossale ha portato Friedrich Engels a dichiarare di aver imparato più dal “reazionario” Balzac che da tutti gli economisti.

 

 

  AA.VV., La commedia umana di Balzac. Omaggio al romanziere assoluto, a cura di Alessandro Demma, Milano, Skira, 2009, pp. 63; ill.

 

  Il volume presenta il catalogo della mostra allestita presso il Castello di Rivalta (provincia di Torino) dal 26 settembre all’8 novembre 2009: questo importante evento ha inteso celebrare il romanziere francese nel ricordo del suo soggiorno nell'antico maniero piemontese il 10 agosto 1836 dove Balzac scrisse Le Cheval de Saint Martin in onore della contessa Polissena di Benevello. Per l’occasione, otto artisti italiani contemporanei hanno voluto fornire con le loro opere, e attraverso tecniche e linguaggi diversi, una particolare visione della società del nostro tempo confrontandola con quella descritta dallo scrittore due secoli prima. Su questo particolare aspetto, riflette Alessandro Demma, curatore del catalogo, nell’intervento che inaugura le pagine del volume (pp. 13-15 e 16-18): egli osserva che «attraverso l’utilizzo di differenti linguaggi (pittura, scultura, fotografia, video, installazione), confrontandosi con l’opera di Balzac e con gli spazi del Castello di Rivalta, gli artisti interpretano e riattualizzano [...] una nuova possibile visione di Balzac sulla commedia umana contemporanea» (p. 13). Sul romanzo Le Cousin Pons, sulla figura del collezionista e sulle riflessioni balzachiane intorno al sistema dell’arte si sofferma Angelo Trimarco (pp. 19-20 e 21-22), mentre Stefania Zuliani (Chimere. Balzac e il capolavoro possibile, pp. 23 25 e 26-28) sottolinea la singolare originalità di Sarrasine, un racconto nel quale «si manifesta con dissimulata potenza la capacità di rivelazione insita in ogni autentico capolavoro, origine ed esito dell’opera stessa [...], dispositivo comunque sfuggente alle regole della ragione, alle prescrizioni di un’estetica che si sottrae agli umori, alle contraddizioni impure della produzione» (p. 23).

  Tra le tematiche affrontate dai diversi artisti (il duo AfterAll, Maura Banfo, Filippo Centenari, Stanislao Di Giugno, Paolo Grassino, Mariangela Levita, Domenico Antonio Mancini, Perino & Vele), figurano l’analisi dello sguardo balzachiano come esperienza di confine tra realtà e visione, il tema religioso legato a quello del gioco d’azzardo, la metafora della città, il mito dell’androgino, i territori della patologia sociale in relazione con i nuovi stili di vita e i nuovi modelli della civiltà metropolitana contemporanea.

 

 

  Vincenzo Accattatis, Balzac e la giustizia, «Il Ponte», Firenze, anno 64, n. 10, ottobre 2009, pp. 106-111.

 

  In questo breve intervento, l’A. sottolinea la sorprendente attualità del discorso balzachiano relativo al concetto di giustizia e, in particolare, allo statuto ed al ruolo dell’uomo di legge nella società moderna. Riferendosi, in modo specifico, a due testi della Comédie humaine: Le Père Goriot e, soprattutto, L’interdiction, egli pone all’attenzione del lettore alcune riflessioni circa la funzione del giudice rispetto alle regole e ai valori imposti dal sistema socio-politico ed economico del primo Ottocento. L’A. rileva, attraverso l’analisi del personaggio del giudice Popinot, che nella società borghese la giustizia imparziale non può essere realizzata e sottolinea in quale misura la figura integerrima, lucida e scrupolosa dell’uomo di legge venga sistematicamente emarginata dal sistema bonapartista.



  Loïc Artiaga, Balzac et l’Index (1841-1864), «Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Italie et Méditerranée», Roma, 121-2, 2009, pp. 413-426.

 

  Il presente studio costituisce un tassello importante dell’ampia sezione che forma il secondo fascicolo della silloge, dedicata interamente alle relazioni tra letteratura e censura nel XIX secolo. Esso riprende, rivisto e aggiornato, il testo del saggio che L. Artiaga ha dedicato, nel n. 127 (1er trimestre 2005) di «Romantisme» all’esame dei rapporti tra l'opera di Balzac e i decreti di condanna all’Index librorum prohibitorum promulgati dal la Sacra Congregazione dell’Indice tra il 1841 e il 1864.

  L’A. fornisce con equilibrio e competenza il quadro tematico ed ideologico delle osservazioni (i pareri) formulate dai vari consultori a proposito dei testi balzachiani esaminati: sono censuranti i riferimenti balzachiani alla filosofia di Swedenborg e al magnetismo animale, l’abuso del lessico religioso riferito a personaggi e a situazioni immorali, il disprezzo dell’autorità e dei ministeri ecclesiastici, l’esaltazione dell’elemento criminogeno della società. La profonda distanza culturale che separa l'Index e l’universo romanzesco balzachiano determina un approccio diretto e deciso dei censori nei confronti dei testi presi in esame e riflette, in tal modo, l’opposizione netta tra due mondi tra loro antitetici quello proprio della curia romana e quello del romanzo “tout court”.

  In appendice vengono riportate integralmente le citazioni di quei passi contenuti nel Lys dans la vallée ritenuti dal canonico Pio Bighi degni di censura e che sono trascritti nella sua relazione di richiesta di condanna del romanzo all’Indice dei libri proibiti (Decr. del 16 settembre 1841).

 

 

  Elena Beninati, Balzac mio fratello, ovvero il privilegio dell’amore fraterno, «L’Occidentale» [on line], 4 gennaio 2009.

 

  Balzac mio fratello, ovvero il privilegio dell’amore fraterno. Dalla penna dell’amata sorella Laure, questo sentimento è addirittura additato come il primo che il futuro scrittore ricorderà dell’infanzia. Ecco dunque Balzac bambino affidato alle cure di una balia, quasi dimenticato in collegio; Balzac adolescente riamato dalla famiglia, euforico al punto da attestare con la penna ogni emozione con un’intelligenza talmente lucida da rivelarsi visionaria; e ancora Balzac maturo incompreso e poco stimato, che pecca di superficialità per eccesso di zelo e mancanza di senso pratico.

  Un uomo, pare, che ai doveri ha anteposto primi fra tutti quelli del cuore, e di fronte al fallimento e al rammarico di non essere ancora riuscito, è capace di ostinarsi animosamente. Ma per Laure, Honoré è innanzitutto fratello, complice e difensore, riferimento affettivo e fonte di inesauribile gioia e dolore.

  Il ritratto non lo minimizza e in ultima analisi gli rende fede. Un autore – sostiene sempre Laure – che rese omaggio alla dialettica del contrasto, considerato, annota la sorella, “che il romanzo di costume non può limitarsi a dipingere la virtù per ammaestrare gli uomini Se coloro che ritengono il contrario si mettessero all’opera, riuscirebbero a dimostrare che mio fratello aveva torto”.

  E’ stato difatti impossibile, nonostante le più virulente accuse che invidiosi e nemici gli mossero contro, dar torto ad un uomo che trascorse la seconda parte della propria vita a raccogliere ciò che aveva lasciato germogliare in cuore durante la prima. E’ quel che Laure sostiene dell’esperienza umana di Balzac: maniacale osservatore e fantasioso ricreatore di ambienti realmente conosciuti e personaggi avvicinati, capace di gettar luce sulla spontaneità dell’indole umana senza perderne di vista la depravazione. Della sua società divenne un caratterista, e alla sorella che lo redarguiva per la serrata somiglianza di certi suoi personaggi ad individui della loro cerchia sociale, Balzac rimbrottava: “Credete che la gente si conosca? Che esistano specchi capaci di riflettere l’essere morale?” Dell’essere morale egli è stato intraprendente e fine commediografo, degli esseri umani amante, figlio e fratello, ma solo ai forti spetta, secondo Laure, il compito di giudicarlo un grande scrittore.

 

 

  Clotilde Bertoni, Scrittori giornalisti, giornalisti scrittori, in Letteratura e giornalismo, Roma, Carocci editore, 2009 («Le bussole. Studi linguistico-letterari», 365), pp. 9-27. 

 

  Il giornalismo tema letterario, Ibid., pp. 87-130.

 

  Soprattutto in questi due capitoli dell’interessante monografia che Clotilde Bertoni dedica allo studio dei rapporti tra giornalismo e letteratura si ritrova un numero significativamente ampio e articolato di riferimenti a Balzac ed alla sua attività giornalistica strettamente collegata e complementare a quella di romanziere. È, infatti, attraverso il giornalismo che il futuro autore della Comédie humaine focalizza la sua attenzione sulla contemporaneità contribuendo a distoglierlo dagli schemi e dai motivi propri del romanzo storico: da questo punto di vista, la stampa periodica segue su più piani l’impianto della Comédie. Sviluppatasi dal giornalismo, osserva l’A., l’opera balzachiana «non rinunzia del tutto alla libertà e alla prensilità al giornalismo intrinseche; il che contribuisce a differenziarla dai mondi di invenzione autosufficienti, dotati di un fascino liscio e uniforme, e a renderla mondo narrativo aperto, in contatto e discussione costante con il proprio tempo» (p. 13).

  Il romanzo della Comédie humaine che più d’ogni altro stabilisce un legame stretto, struggente e denso di significati con l’universo della stampa periodica è senza dubbio Illusions perdues, in cui l’asprezza dello scrittore nei confronti del giornalismo, delle sue regole, dei suoi oscuri meccanismi, dei suoi ricatti risulta inequivocabilmente documentata e riccamente argomentata. Tuttavia, precisa l’A., «l’affresco delle Illusioni è più composito di quanto trapeli dai messaggi palesi, la coscienza del potere del giornalismo oltrepassa il secco verdetto negativo per inoltrarsi nella complessità delle sue logiche» (p. 90). Se il giornalismo si configura come uno spazio minaccioso e corrotto, in grado di stravolgere i destini individuali, esso risulta «straordinariamente congeniale all’affrancamento da vecchi parametri di giudizio e all’incentivazione di altri tagli di scrittura» (p. 91). In tal senso, il giornalismo introduce nel romanzo una pluralità di codici e di voci che contribuiscono a far evolvere la sperimentazione giornalistica in sperimentazione letteraria.



  Veronica Bonanni, Giochi col tempo. I “Contes drolatiques” di Balzac, in AA.VV., Memoria e oblio: le scritture del tempo. Atti del Convegno annuale dell’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia Comparata della Letteratura, Lecce, 2007, a cura di Carlo Alberto Augieri e Niccolò Scaffai, «Compar(a)ison An International Journal of Comparative Literature», vol. II, 2009, p. 117-124.

 

 

  Danielle Bouverot, Italie et musique selon Balzac. «Massimilla Doni» (1839), «Studi comparatistici», Moncalieri, 4, Anno II, Fascicolo II, Luglio-Dicembre 2009, pp. 255-270.

 

  Pubblicato in prima edizione nell’agosto 1839, Massimilla Doni rappresenta un testo fondamentale della Comédie humaine per comprendere i fondamenti dell’estetica musicale balzachiana contestualizzata nelle atmosfere, nei personaggi e negli ambienti della civiltà italiana. In questo senso, è la «place de l’Italie et de sa musique dans l’oeuvre la plus italienne» della Comédie humaine ed è, allo stesso tempo, il rilievo del concetto di bellezza attraverso cui l’Italia e la musica si confondono così efficacemente nel racconto a suscitare il vivo interesse dell’A. in questo studio. L’esame dettagliato del vocabolario tecnico-musicale utilizzato da Balzac, meticolosamente classificato e confrontato con i dizionari socialistici dell’epoca: il Dictionnaire de l’Académie française (1835) e La Musique mise à portée de tout le monde di M. Fétis (1839), consente di valutare pienamente in quale misura l’Italia regni, in Massimilla Doni, «non seulement parce que tout le projet est italien dans cette nouvelle de Balzac, mais parce qu’elle incarne la musique. De même la place des mots italiens dans la langue musicale concerne toutes les formes de musique et à toutes les époques» (p. 269).

 

 

  Cristina Ciancio, Dalla fiducia nei mercanti alla fiducia nei mercati. Leggi e gustizia commerciale nel “César Birotteau” di Balzac, in AA.VV., Diritto di parola. Saggi di diritto e letteratura a cura di Felice Casucci, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009 («Diritto e Letteratura», 1), pp. 113-142.

 

  È sullo sfondo dei principi che stanno alla base della nuova e cruciale codificazione commerciale napoleonica per quel che riguarda la regolazione degli scambi economici che si collocano la storia e le vicende di César Birotteau nei primi anni della Restaurazione. Il romanzo balzachiano, pubblicato dopo una lunga gestazione alla fine del 1837, è analizzato, in questo studio di Cristina Ciancio, alla luce del suo peculiare interesse storico-giuridico, oltre che letterario, con particolare riferimento «alla giurisdizione commerciale ottocentesca e ai problemi connessi ad una efficace amministrazione della giustizia in un contesto regolato dalle leggi napoleoniche e post-napoleoniche» (p. 115). Dopo aver descritto sommariamente la genesi e i contenuti dell’opera, l’A. si sofferma con particolare attenzione su alcuni punti del César Birotteau ritenuti cruciali e sotto la prospettiva giuridico-letteraria ed affrontati da Balzac in questo romanzo: il funzionamento dei Tribunali di Commercio, il ruolo crescente della speculazione, le disfunzioni nelle procedure fallimentari, il significato che può assumere nella società ottocentesca la riabilitazione del mercante fallito.

  La storia di Cesar Birotteau è in un primo momento la storia etica e morale di un mercante profumiere che si pone in una situazione di conflitto nei confronti delle regole di mercato e del mondo stesso, per poi divenire un calvario umano e sociale di eventi che vedono il protagonista in balia di speculatori e di truffatori che lo condurranno al fallimento. Balzac, osserva l’A., «si divide tra critica severa ad un sistema di leggi che di fatto sosteneva speculatori e arrivisti, a discapito di mercanti onesti e dei creditori, da un lato, mentre dall’altro ha parole di scherno per la “bêtise de la vertu” di Birotteau» (p. 119). La storia di Cesar Birotteau è, in alto termini, la storia di una condanna spietata e senza appello da parte di Balzac: il personaggio balzachiano è rappresentato come «una figura tragica e grottesca nella sua ingenuità, anello debole di un ingranaggio nel quale quelli come lui sono sempre e comunque destinati a soccombere» (ibid.). Il Birotteau di Balzac è quindi una figura caricaturale di «martire del commercio, guardato con sufficienza, con pietà, ma anche con severità» (p 139) dal proprio creatore. Allo stesso tempo, però, la lettura del romanzo ci consente di valutare la complessità delle problematiche legate al funzionamento della giustizia commerciale nella Francia del primo ventennio del XIX secolo e di penetrare, guidati dalla geniale mente artistica di Balzac, nelle pieghe più intricate, complesse e nascoste di un sistema giuridico-commerciale che non è ancora in grado di sostituire al prestigio di una classe privilegiata «la fede nella forza delle nuove leggi» (p. 127).

 

 

  Antonio Debenedetti, Balzac, amatissimo fratello. Il genio ritratto con pudore, «Corriere della Sera», Milano, 7 gennaio 2009, p. 40.

 

  Nel 1858, quando la sorella Laure scrive questo ritratto inquietante proprio nella sua troppo sottolineata affettuosità, Balzac è morto da otto anni. Il genio, entrato da protagonista nella storia, ha dunque cancellato l’uomo. Assistiamo perciò, pagina dopo pagina, all’apoteosi d’un talento. Tutto, anche i dolori d’una infanzia infelice, diviene così materiale di costruzione d’una esemplare esistenza d’artista. Honoré bambino finisce rinchiuso dalla madre, da lui più tardi definita «un mostro», nella solitudine d’un severissimo collegio. Si veda, a proposito d’una tale esperienza, quanto nota Roberto Galasso in una pagina del suo bellissimo La folie Baudelaire. Sono note, perché raccontate dai biografi, le successive difficoltà incontrate da Balzac. In questo libro, però, assumono un rilievo nuovo e diverso. A darglielo, come emerge dalla scrupolosa e coinvolgente introduzione di Daria Galateria, sono le reticenze, i silenzi suggeriti a Laure dal pudore e dall’affetto. È sua madre, che protegge, allorché distende un velo di reticenza sulle conseguenze avute nei rapporti coi figli dai peccati commessi da chi a 19 anni era andata sposa d’un uomo di 51 È del suo amato fratello che Laure racconta evocando, insieme al lavoro forsennato, l’abuso di sé e lo scriteriato rapporto con il denaro. Questa memoria famigliare costituisce insomma un utile contributo a capire l’autore delle Illusioni perdute, di quello che Lukács ha definito il grande romanzo del disinganno borghese.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, “Contro i poteri forti, come il mio Balzac”, «La Stampa Tuttolibri», Torino, 9 maggio 2009, p. XXIII.

 

  Intervista a André Schiffrin.

  Poi mi sono immerso nei classici, soprattutto i russi, che mio padre aveva tradotto e pubblicato nella sua Pleiade ma è Illusions perdues di Balzac l’opera rivelatrice. L’ho letta quando ho cominciato a lavorare alla Pantheon Books, e ho scoperto che i meccanismi dell’editoria e della vita letteraria e sociale come pure la corruzione, le pressioni sui media e le regole del mercato non erano molto cambiate».

  Denunciando il potere delle élites e del denaro, è dunque Balzac ad aver alimentato il suo senso di giustizia e la vocazione all’impegno?

  Certamente. [...].

 

 

  Elena Del Panta, Balzac, il romanzo palcoscenico, in AA.VV., Tradizione e contestazione II. La manipolazione della forma nella letteratura francese dell’Ottocento, a cura di Maria Emanuela Raffi. Atti del Convegno di Padova, 19-20 Giugno 2008, Firenze, Alinea editrice, 2009 («Carrefours. Testi & Ricerca/Textes & Recherche», 8), pp. 81-97.

 

  La questione, assai rilevante, che riguarda la contaminazione tra i generi come uno dei principi fondanti delle strategie narrative peculiari della poetica romanzesca e della scrittura narrativa di Balzac trova, in questo studio, la dovuta considerazione da parte di Elena Del Panta. Considerando anzitutto la produzioni giornalistica dello scrittore intorno al 1830 (data che coincide con la prima rappresentazione di Hernani), l’A. mette in evidenza, da un lato, gli elementi caratteristici dell’accesa polemica balzachiana contro il dramma romantico; dall’altro, la specifica e dichiarata esigenza, da parte dello scrittore, di riabilitare il romanzo come genere ponendo come fondamento della sua modernità l’assunzione di quella «energia drammatica che il teatro ha perduto» (p. 83). Come il teatro, osserva l’A., e meglio del teatro, «il romanzo immaginato da Balzac, sarà dunque al tempo stesso poesia, azione e spettacolo; soggetto nuovo e più vigoroso dell’antagonista che si propone di assorbire, potrà davvero rendere conto della totalità del reale» (pp. 84-85). Numerosi sono, nella Comédie humaine, i romanzi che rimandano direttamente alle strutture ed alle dinamiche proprie del teatro e, in particolare, del dramma. L’A. considera particolarmente due romanzi; La Peau de chagrin e Honorine, dove «il romanzo si fa palcoscenico e racconta la vita come rappresentazione» (p. 85) e dove lo scrittore, concentrando nel tessuto narrativo tutte le facoltà e tutti gli espedienti del romanzo-dramma, teatralizza l’universo «mobile e contrastato» delle finzioni e delle passioni «raccontandone sia “le spectacle”, sia le “coulisses” e le occulte “machines”» (p. 88).

 

 

  Alessandro Demma, La “commedia umana” di Balzac. Omaggio al romanziere assoluto, in AA.VV., La commedia umana di Balzac ... cit., pp. 13-15; La “comédie humaine” de Balzac. Hommage au romancier absolu, pp. 16-18.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Enzo Di Mauro, Il titanismo di Balzac guardato con gli occhi di una sorella, «Il Messaggero», Roma, 19 gennaio 2009.

 

  Il titanismo di Balzac – vale a dire quella sorta di inarrestabile bulimia che ambiva a ricostruire il mondo intero in un libro ovvero in una costellazione di libri – è l’emblema del suo secolo.

  L’idea di forza, di potenza che stava (e sta) alla base della Comédie humaine rappresenta per noi, ormai, una nozione di risoluta impraticabilità, frutto di una forma e di una soggettività che ci appaiono remote, perdute per sempre. Regolata com’è da una solidità che non consente crepe e fratture, quella di Balzac è insieme l’impresa di uno scrittore e di un architetto di cattedrali. Parigi, la provincia francese e poi gli uomini e le donne dei ceti emergenti, i parvenu e gli sconfitti, la nuova borghesia post-rivoluzionaria e la finanza con le sue leggi spietate, l’esplodere della folla in un brulichio indistinto, la città in via di trasformazione, pronta a diventare un luogo di disappartenenza, una fucina di quelle masse e di quelle dinamiche di sistema fino ad allora inedite – ecco, tutto questo, e molto altro, trova posto nella grandiosa costruzione circolare e a incastro della Comédie, ciclo narrativo improntato al tempo stesso a crudo realismo e a vibrante visionarietà.

  Ma, pure, la compattezza per intero ottocentesca di Balzac si sostiene su un grumo doloroso, nevrotico, ossessivo che lo rende assolutamente moderno. Non a caso, già nel 1923, Ernst R. Curtius apriva il suo bellissimo, insuperato saggio monografico con un capitolo intitolato al “mistero” di quell’autore e subito citava alcuni passi delle lettere, alcune delle quali indirizzate a madame Hanska. “Conosco bene la sofferenza”, si legge in una missiva del 1828, “e nessuno potrebbe indovinare la mia età basandosi sull’aspetto allegro che ho sempre. Non che abbia dovuto subire rovesci di fortuna, ma sono sempre rimasto curvo sotto un terribile fardello.

  Potrà sembrarvi un’esagerazione o un espediente per suscitare il vostro interesse; no, niente potrebbe darvi un’idea di quella che è stata la mia vita fino all’età di ventidue anni. Sono stupito di non aver più avversari che il destino. Anche se interrogaste ciò che mi circonda, non riuscirete a far luce sulla natura dell’infelicità. C’è chi muore senza che il medico sia in grado di dire quale malattia lo abbia inghiottito”. Lo scrittore, qui, era in procinto di festeggiare il suo trentesimo compleanno ed erano, dunque, di là da venire i mille personaggi che avrebbero popolato il suo ciclo, entrando e uscendo, scomparendo e riapparendo, anche a distanza di parecchio tempo e di parecchi romanzi.

  La mente di Balzac, in quel momento, potremmo dirla ancora libera, pressoché sgombra di tutte quelle vite immaginarie, di quei fantasmi, di quei persecutori. Era piuttosto alle prese con tentativi di scrittura di altra natura che avrebbe più tardi addirittura disconosciuto e ripudiato. Nel 1837, già immerso nella composizione della Comédie, scriveva alla Hanska: “Sono inspiegabile per tutti, nessuno conosce il segreto della mia esistenza, né io intendo confidarlo ad alcuno”. E nel 1843: “Dacché vivo, la mia vita è dominata dal cuore, e questo è un segreto che lo custodisco gelosamente; non ho rivelato tutto neanche a te che sei il mio grande e unico amore”. Dunque, si tratta di un dolore nascosto, segreto, mai svelato e irraggiungibile persino interrogando le persone più care e vicine. Del fatto che lo scrittore non avesse torto troviamo conferma leggendo Balzac mio fratello (Sellerio, introduzione di Daria Galateria, traduzione di Roberta Ferrara, pag. 178, euro 9,00), una delicata, svelta memoria scritta nel 1856 da Laure Surville nata Balzac. Honoré era morto sei anni prima, a cinquantun anni, e la sorella sente, così scrive, di “avere un dovere”, anzi due, verso l’uomo il cui destino a quel punto coincideva con quello della letteratura francese, il primo, di “rendere noti dei dettagli che oggi sono la sola a conoscere”; il secondo, di “troncare sul nascere tutte le leggende che non mancano mai di fiorire intorno ai nomi illustri”.

  Con ogni evidenza, dunque, la posizione di Laure è difensiva, la sua penna animata dal desiderio di sopire, di anestetizzare. L’infanzia e la prima adolescenza di Honoré trascorrono – così pare – senza traumi rilevanti, tuttavia all’ombra di uno madre poco disposta a elargire tenerezze ed elogi a quel figlio che ancora non mostrava alcun segno del suo prodigioso futuro. La permanenza settennale al collegio di Vendôme, però, si conclude in maniera drammatica: il ragazzo cade “in una sorta di coma tanto più preoccupante in quanto i maestri non se ne spiegano la ragione. Poiché mio fratello passava per uno scolaro negligente, non potevano attribuire quella specie di malattia cerebrale all’affaticamento intellettuale”. Aggiunge Laure: “Debole e smagrito, Honoré sembrava uno di quei sonnambuli che dormono a occhi aperti”. Si tratta di un episodio ormai divenuto celebre e che resta inspiegabile. Inespugnabile, appunto. Il ritratto di Balzac dipinto dalla sorella – come annota Daria Galateria nell’introduzione – non può che risultare reticente, anche quando si parla del complicato rapporto dello scrittore col denaro. Una dinamica infernale, senza via d’uscita: affinché gli editori noi approfittassero della sua povertà, egli doveva mostrare al mondo i segni tangibili di un benessere, e più tardi di un lusso, che lo costringeva ad accumulare debiti: i debiti, a loro volta, lo obbligavano a lavorare giorno e notte per riuscire a pagare gli interessi. Quegli “sforzi prodigiosi” – e quel continuo inseguire e convincere i creditori a rinnovare le cambiali – finirono di certo per accorciargli a vita. Né Laure dice una parola su madame Hanska, la nobile polacca che Balzac inseguì nel corso di quegli anni laboriosi e che poi sposò quasi in punto di morte Si recò, per lei e per ben due volte, a San Pietroburgo e, nella speranza che lo raggiungesse prima o poi a Parigi, meticolosamente arredò una casa come se fosse una reggia. Diventò, quell’amore, una colossale impresa, non meno imponente della Comédie. La sorella tace forse per perbenismo o forse per vendetta contro quella donna straniera, di certo un’avventuriera, che si era accaparrati il cuore e la mente dell’illustre congiunto. E però Laure ci consegna un’immagine domestica del fratello che pure sentiamo in massima parte vera: la bontà d’animo, la generosità, la frenesia, la forza, la fatica, il sacrificio, anche la goffaggine. Si osservi come fosse un acquerello questo Balzac in abiti da lavoro: “In casa portava sempre un’ampia veste da camera di cachemire bianco, foderata di seta bianca, tagliata a ferma di saio e stretta da un cordone di seta; sul capo la calotta dantesca di velluto nero, sempre confezionata dalla mamma, che aveva adottato dai tempi della mansarda e da allora aveva continuato a usare”.

 

 

  Stefano Doglio, Balzac e la musica. Musica e musicisti nella “Commedia Umana”. Parte II, «Sìlarus. Rassegna bimestrale di cultura», Battipaglia, Anno XLVIX, n. 261, Gennaio-Febbraio 2009, pp. 20-29.

 

  Fra gli scrittori francesi del primo Ottocento, quello il cui nome viene più spontaneamente associato alla cultura musicale è senza dubbio Stendhal, con le sue monografie su Haydn, Mozart e Rossini e il suo culto per Cimarosa proclamato perfino in sede di ultime volontà. Ciò non toglie che un pari interesse per la musica possa ravvisarsi anche in Balzac, che, come testimoniano dediche e digressioni dei suoi lavori, fu in rapporti di frequentazione diretta, se non proprio di amicizia, con parecchi dei più rappresentativi musicisti del suo tempo, e che, a differenza del collega, non confinò le tematiche musicali in una produzione saggistica a latere, ma le incorporò organicamente nel proprio onnicomprensivo universo romanzesco, dove è possibile reperire un campionario pressoché completo delle angolature narrative da cui esse possono essere affrontate.

  Il livello più semplice può individuarsi nella mera digressione estemporanea, dove il riferimento musicale non ha alcuna relazione diretta con l’azione rappresentata, ma s'insinua nel testo per associazione d’idee o anche del tutto gratuitamente (magari sottendendo il più o meno inconscio intento di ricollegare ai fatti narrati una sorta di “colonna sonora ante litteram), Balzac ce ne fornisce un esempio particolarmente appariscente con l’excursus sul finale della Quinta di Beethoven che conclude la prima parte del César Birotteau (e che verrà simmetricamente rievocato alla fine della seconda parte, con un vero c proprio effetto di Leit-Motiv): un passo dove una similitudine decisamente pretestuosa tra la situazione descritta e il brano musicale si espande sino a formare una vera e propria parafrasi emozionale di quest’ultimo, che viene rappresentato attraverso la libera successione delle immagini extramusicali evocate nello scrittore. Il brano menta di essere riportato per intero, come documento di una sensibilità in cui l’entusiasmo per la composizione si associa al totale fraintendimento del suo spirito [...].

  Tra le figure di musicisti create da Balzac, la più importante è sicuramente il cugino Pons, ex promettente compositore insignito del Prix de Rome, e ridottosi per inerzia a sbarcare il lunario impartendo lezioni private e dirigendo l’orchestrina di un teatro di varietà. Nella sua vicenda, che è la tragedia di un’anima candida stritolata dall’aridità e dalla rapacità, la musica non ha peraltro un ruolo essenziale; e non si può dire neppure che l’abbia nella gerarchia delle sue passioni, dove i posti d’onore spettano al collezionismo d’arte, alla gastronomia ed al culto dell’amicizia. [...].

  Quanto al suo inseparabile amico Schmucke, lui pure musicista, si tratta di uno dei più classici casi di quei personaggi che, nati come macchiette, finiscono quasi loro malgrado per crescere sino a sfiorare la sublimità. Con il suo goffo e disarmato candore e il suo accento grottescamente teutonico, cui ben di rado l’ingegno dei traduttori nesce a rendere giustizia, l’attempato pianista aveva già all’attivo un lungo tirocinio di caratterista nei romanzi balzachiani, accreditato di fugaci ma frequenti apparizioni soprattutto nella qualità di insegnante di pianoforte per ragazze dell’alta società, quando lo scrittore decise di promuoverlo a spalla di Pons, facendone l’incarnazione di un’amicizia totalizzante in cui si fondono tutte le sfumature della devozione canina e dell’abnegazione angelica. Sentimenti che, catalizzati dallo strazio, vanno a incidere sulla sua anima di artista nella scena in cui egli improvvisa per l’amico morente, dando origine ad un ulteriore esempio di parafrasi emozionale, dedicata stavolta ad una musica immaginaria, contrappuntata di curiose e interdisciplinari intuizioni critiche e coronata, come già le altre, da un brusco e ironizzante richiamo alla realtà, che l’atrocità del contesto rende ancor più efficace [...].

  Il gusto tipicamente tedesco dell’improvvisare per se stessi o per una cerchia di intimi [...] ricorre con una certa frequenza nelle narrazioni di Balzac, e vi si associa abitualmente a presentimenti di morte. Così per esempio nella Grenadière, dove Lady Brandon, l’ultima volta che riesce ad alzarsi, improvvisa lungamente al pianoforte (e la descrizione stavolta si sviluppa in termini pittorici, dove si confondono il volto diafano della donna, le testoline ricciute dei bambini e il paesaggio svizzero appeso sopra il pianoforte); o nell’Envers de l’histoire contemporaine, dove l’inferma Vanda esegue le proprie variazioni sulla preghiera del Mosé all’harmonium regalatole da Godefroid.

  Né sono, del resto, questi gli unici casi in cui Balzac si mostri sensibile al motivo romantico dell’associazione tra suggestione musicale e presagi di morte: il massimo dell’intensità poetica, sotto questo profilo, viene raggiunto nel Médecin de campagne con l’episodio del canto di un giovinetto tisico in mezzo ai boschi, dove l’impressione musicale, in sé elementare, viene amplificata e caricata di valenze emotive per effetto dell’atmosfera malinconicamente misteriosa che la circonda. All’ora del tramonto in mezzo ad una natura incontaminata.

  L’attività didattica di Pons e Schmucke ci introduce ad un ulteriore viraggio dell’atteggiamento narrativo verso la musica: quello che si potrebbe definire di tipo sociologico, dove essa vene in considerazione quale componente della formazione culturale dei personaggi. L’interesse di Balzac in questo senso, localizzato essenzialmente sull’educazione musicale delle fanciulle di buona famiglia, si manifesta soprattutto nei primi anni quaranta, indotto con ogni probabilità dall’osservazione diretta degli studi della nipote Sophie, che ha costituito senz’altro il principale modello per alcune figure di jeunes filles accomplies che compaiono, raffigurate con autentico sentimento paterno, nei romanzi di quel periodo. Si tratti, segnatamente. delle protagoniste eponime di Ursule Mirouët (1841), a lei espressamente dedicato, e di Modeste Mignon (1844).

  Della cultura musicale di quest’ultima, l’autore ci fornisce addirittura la prova documentale, presentandoci direttamente, “grazie ai progressi della stampa”, lo spartito di una romanza per voce e pianoforte da lei improvvisata su versi del suo poeta favorito Melchior Canalis. destinato nel prosieguo dell’azione a diventare uno dei più autorevoli, anche se non dei più simpatici, pretendenti alla sua mano. La composizione, per la quale lo scrittore si avvalse dell’ausilio tecnico del notissimo operista Daniel Auber, contribuisce ad indurre nei circospetti familiari della ragazza i primi sospetti che lei sia innamorata; e, per questo romanzo, la rilevanza della componente musicale si esaurisce qui.

  Più complesso è il caso di Ursule Mirouët, un testo dove sul conflitto di base fra l’impietosa rappresentazione delle meschinità provinciali e la delicata introspezione sentimentale si innesta un curioso interesse per il mondo del paranormale, e in particolare per il “magnetismo animale” mesmeriano: aspetto che finisce per diventare uno dei motori della vicenda per via delle doti medianiche rivelate dalla ragazza. Proprio alla scoperta di questi poteri nella nipote si ricollega la graduale conversione del prozio e tutore, dottor Minoret, dall’iniziale razionalismo scettico di matrice illuminista alla religione positiva (vicenda che rispecchia le bislacche esperienze religiose della madre di Balzac); e da questa conversione, con motivazioni perlomeno curiose, viene fatta a sua volta discendere la decisione di assecondare la vocazione musicale di Ursule [...].

  Affidata alle cure dell’immancabile Schmucke, la dolce orfanella non tarda a sviluppare un’agguerrita tecnica, che metterà in mostra, insieme ad un insospettato tratto di carattere, quando, dovendosi esibire di fronte a dei parenti antipatici, propinerà loro per dispetto nientemeno che una proibitiva trascrizione della Settima di Beethoven [...].

  La scelta di repertorio attribuita ad Ursule non è censurabile sul piano strettamente storico, perché all’epoca in cui è ambientato il romanzo (che inizia nel 1829) erano in effetti già disponibili varie trascrizioni pianistiche della Settima, che, anzi, era proprio stata la prima sinfonia beethoveniana a venire adattata per pianoforte. Ciò non toglie che l’idea di far eseguire una composizione di simile complessità tecnica ed espressiva ad una giovane dilettante appaia, in definitiva, romanzesca almeno quanto i poteri paranormali che le vengono accreditati. E ben più inoffensivo sarà il brano, un foglio d’album di Hérold, che la degna allieva di Schucke sceglierà quando si troverà a doversi esibire in casa del giovane amato: scelta che comunque offrirà il destro all’autore per un’ulteriore digressione che, oltre a contenere interessanti spunti di filosofia dell’interpretazione musicale, vale anche a spezzare una lancia in favore di un compositore un tempo famosissimo e del quale oggi si ricordano praticamente soltanto l’ouverture Zampa e il balletto La fille mal gardée [...].

  La musica quale linguaggio naturale dell’amore ha un suo feudo specifico nei territori più scopertamente romantici e patetici della narrativa balzachiana. Si pensi in particolar modo ad Etienne, il diafano protagonista dell’Enfant maudit, e alla malinconica ballata di cui egli si serve per comunicare prima con la madre morente, e poi con l’amata Gabrielle. L’inizio dell’idillio fra i due giovani, creature eteree ed ignare di ogni materialità, che scoprono l’amore cantando la stessa melodia fra l’incanto di una natura incontaminata come loro e della quale si sentono parte, rappresenta un po’ la risposta balzachiana il modello di Paul et Virginie: e, se una nota specifica può vedervisi, essa sta proprio nella concezione della musica come veicolo che conduce all’intuizione ed alla comunicazione di un sentimento sconosciuto. Si tratta di un motivo più avvertito che sviluppato: tuttavia non si può negare che esso dia luogo a pagine di notevole suggestione, anche se non tra le più personali dello scrittore.

 

 

  Francesca Dosi, Balzac et Rivette : l’énigme d’une rencontre, «Le Courrier balzacien», n° 7-8-9, 4e trimestre 2009, pp. 35-42.

 

 

  Francesca Dosi, «Out One» de Jacques Rivette et «Histoire des Treize» d’Honoré de Balzac, «Le Courrier balzacien», n° 7-8-9, 4e trimestre 2009, pp. 43-46.

 

 

  Francesca Dosi, Le jeu d’acteur dans «Ne touchez pas à la hache», «Le Courrier balzacien», n° 7-8-9, 4e trimestre 2009, pp. 50-52.



  Valentino Fortunato, Altre apparizioni nel XIX secolo. Florilegio, in Il telegrafo ottico e la letteratura, Matera, Altrimedia Edizioni; Roma, Libreria Libetta, 2009, pp. 205-219.

 

 

  Massimo De Grassi, Michelangelo del legno, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 80, 22 Marzo 2009, p. 35.

 

  «Pons, più felice dei conservatori dei tesori di Dresda e di Vienna, possedeva una cornice del famoso Brustolone, il Michelangelo del legno». Questa affermazione di Honoré de Balzac, contenuta nel romanzo Le cousin Pons, scritto tra il giugno 1846 e il maggio dell’anno successivo, e pubblicato a puntate in quello stesso 1847 sulle pagine di «Le Constitutionnel», costituisce una delle più celebri e citate attestazioni della fortuna internazionale di Andrea Brustolon. Non era però la prima, Balzac aveva ricordato pochi anni addietro la perizia dello scultore definendolo «Michel-Ange des cadres».

  Una cornice di “Brustolone”, o supposta tale, trovava effettivamente spazio tra gli inventari dei possedimenti personali dello scrittore francese ed era stata acquistata durante il viaggio a Torino nell’estate del 1836. Del resto, la gran parte delle opere che il musicista Pons descrive nel romanzo erano parte integrante delle raccolte artistiche di Balzac stesso, che proprio per questo si sentiva più felice dei conservatori dei musei di Dresda e Vienna. Il gusto per un collezionismo eclettico, o per la «Bricabraquie», secondo una sua calzante definizione dell’approssimazione di tante raccolte borghesi, traspare frequentemente nel vasto epistolario balzachiano, anche se purtroppo non ci sono ulteriori riferimenti a Brustolon.

  Per lo scrittore le citazioni del bellunese si inserivano nel quadro di un’attenta disamina delle tipologie storiche della cornice, tra le quali ovviamente spiccava quella veneziana, di cui l’artista bellunese era considerato un eponimo, tanto da diventarne il Michelangelo. Non ci sono testimonianze dirette su come sia maturata in Balzac questa consapevolezza, soprattutto in un momento in cui la fama dello scultore era legata a pochissimi testi, quelli di Cicognara e Agosti, su cui ci si soffermerà in seguito, e poco altro.

  Un’indicazione in questo senso poteva essere arrivata al romanziere francese durante il suo soggiorno veneziano del marzo 1837, forse da una visita al Museo Correr, aperto pochi mesi prima, dove erano esposte «due cornici a leggeri fogliami, fra cui sporgono putti dorati», che supporteranno a lungo la fama dello scultore bellunese, anche se risulta oggi difficilmente sostenibile la loro piena autografia. [...].

 

 

  Luciana Grasso, Rivette-Balzac: Ne touchez pas la hache, in AA.VV., Traversées: percorsi linguistico-letterari. Studi per Giuliana Costa Ragusa, a cura di Annie Brudo, Palermo, Flaccovio, 2009 («Lingua e testo», 8), pp. 121-127.

 

 

  Isabelle Miller, La pasta a Odessa, il teatro a Wierzchownia. L’altra “Commedia umana” di Balzac, in Capolavori incompiuti. Il gusto dell’imperfetto, Costabissara (Vicenza), Angelo Colla Editore, 2009, pp. 119-132.

 

  Nella catastrofe della rovina, vedendosi abbandonato, papà Goriot ha un ultimo sussulto. Per riguadagnare la sua fortuna e le carezze delle proprie figlie, si lascia trascinare in un nuovo progetto lare la pasta a Odessa. «Fatemi guarire, fatemi guarire. Capite? Bisogna che guarisca […]. Andrò a fabbricare amido in aghi a Odessa. Sono furbo, io, e guadagnerò milioni».

  Tredici anni dopo aver scritto queste righe, a febbraio 1948 (sic!), Honoré de Balzac ha alle spalle quasi novanta romanzi e saggi, riuniti nel titolo La commedia umana, quando Parigi, fenice politica rinata dalle sue ceneri del 1789, del 1815 e del 1830, conosce nuove scosse. La monarchia è rovesciata per la terza volta in sessant’anni. Il palazzo delle Tuileries, simbolo del potere reale, viene saccheggiato. Balzac si dispera: non ha la fibra repubblicana. Se solo avesse soggiornato un altro mese in Ucraina, dalla contessa Hanska, si sarebbe risparmiato lo spettacolo di questo disastro. Ora deve richiedere un visto per ripartire quanto prima per Wierzchownia. Disperato, e pure rovinato – niente di sorprendente in questo, per lui la rovina è una malattia cronica. «Gli operai formano un esercito, hanno chiesto, annunciando l’intenzione di non demordere affatto, di lavorare meno e di essere pagati di più. Il che significa quadruplicare i prezzi della manodopera. È il capovolgimento del commercio». Giornali e libri soffrono immediatamente della crisi. Balzac ha portato dall’Ucraina un nuovo romanzo, L’Initié. Potrà pubblicarlo? E se no, come si guadagnerà da vivere? Cosa farà aspettando che ritorni la calma? Va a teatro. «I giornali non prenderanno più romanzi fino a che gli affari andranno così, e sarà una cosa lurida. Non devo aspettarmi nulla se non dal teatro».

  E così, attiva tutti i suoi contatti nell’ambiente dello spettacolo. Incontra i fratelli Cogniard, direttori del Teatro Porte Saint Martin. Alla Comédie-Française, una buona notizia: Buloz, che lui detesta, viene sostituito da Lockroy, che è suo amico. E il 25 marzo, in serata, Balzac si reca al Teatro del Gymnase dove Marie Dorval, attrice consacrata, «la migliore di Parigi», ha il ruolo principale. Alla fine della rappresentazione, la raggiunge in camerino: deve farle una proposta. Non ci si deve stupire di ritrovare, tre giorni dopo, Marie Dorval e Hippolyte Hostein, direttore del Teatro Historique, da Balzac, rue Fortunée a Parigi – oggi rue Balzac –, in questa residenza privata ammobiliata con cambiali firmate su degli acconti per libri che non sono ancora stati scritti. Per tutta la vita Balzac ha frequentato il mondo del teatro parigino, e per tutta la vita ha scritto opere teatrali. E proprio così che ha cominciato, come doveva fare, a quel tempo, chiunque volesse ottenere la gloria letteraria.

  All’età di vent’anni, si lanciava in una tragedia: Cromwell. Consegnata, per un parere, ad un professore del Politecnico di cui era stato allievo il cognato di Balzac, il testo ritornò con questa annotazione: «che l’autore faccia qualsiasi cosa, tranne che praticare la letteratura». Sepolto Cromwell, Balzac fece pratica su racconti e novelle, poi sui romanzi. Mentre seguiva la vena narrativa, gli Hugo, i Dumas, i Vigny conoscevano la gloria sul palcoscenico. Nel 1839 vide arrivare il suo turno: l’opera L’Ecole des ménages fu accettata e programmata dal Teatro della Renaissance, ma ahimè rifiutata all’ultimo momento: alla fine le preferirono L’Alchimista di Alexandre Dumas. Ritornò nel 1840 con Vautrin, serie di avventure di questo personaggio scappato dal romanzo Papà Goriot che aveva incontrato il favore del pubblico – lo stesso Victor Hugo se ne servirà un po’ più tardi per dar forma al suo Jean Valjean ne I miserabili. Sin dalla prima lettura di questa nuova opera, Harel, il direttore del Teatro Porte Saint Martin, scritturò Frédérick Lemaître, l’attore che faceva accorrere le folle. Lemaître adorava il ruolo e amplificava la natura di «ladro filosofo e canzonatorio» di questo personaggio già mal visto dalla censura della monarchia di Luigi Filippo, che aveva preteso una serie di correzioni sul testo prima di darne l’autorizzazione. La prima rappresentazione, il 14 marzo 1840, fu un successo, ma non ce ne sarebbero state altre: il Ministero dell’Interno vietò su due piedi l’opera per «immoralità aggravata dall’attore principale». Almeno Balzac aveva sentito gli applausi del pubblico.

  E non ne volle all’attore, del resto aveva già altri progetti per lui. Gli scrisse un’opera su mistura: Mercadet, commedia contemporanea di un uomo rovinato di fronte ai suoi creditori. Frederick Lemaître chiese alcune modifiche, si portò a casa il manoscritto, con l’intenzione di proporlo al Teatro de l’Ambigu dove era appena stato scritturato per un altro spettacolo. Il successo di Lemaître, che aveva un ingaggio dopo l’altro, soffocò Mercadet: a forza di essere trascinato in giro fu dimenticato.

  Due anni dopo, Balzac ritornò con un’altra opera, Le risorse di Quinola, al Teatro dell’Odeon. Quinola è un cugino spagnolo di Scapin e di Figaro, messo accanto a un inventore geniale e ingiustamente sconosciuto. La pretesa di eguagliare Molière e Beaumarchais, la volontà d’inventare il dramma sociale moderno, la baraonda provocata la sera della prima, che Balzac aveva tenuto ad organizzare di persona invitando il minimo dei giornalisti, furono severamente puniti dai critici. Inoltre la compagnia era mediocre, essendo Marie Durval (sic), per la quale era stato scritto il ruolo femminile principale, in quel momento in tournée. L’opera viene ritirata nel giro di tre settimane. Umiliazione per l’autore, che nemmeno la nascita, quello stesso anno, de La commedia umana, prima edizione delle sue opere complete fino ad allora pubblicate in modo disperso, raccolte da Furne, riesce a consolare.

  Tuttavia, a quel tempo, il teatro comincia a perdere la supremazia sul romanzo. Del resto quest’evoluzione è dovuta, in parte, allo stesso Balzac che, da Émile Girardin, direttore del primo quotidiano con molti lettori, «La presse», ha inventato nel 1836 un programma commerciale di fidelizzazione della clientela, pubblicando il primo romanzo d’appendice della storia letteraria, La Vieille Fille (La zitella). A teatro, un’opera deve fare molte repliche, e l’autore deve aspettare la fine delle rappresentazioni e l’ora del bilancio per essere pagato; mentre con gli editori di giornali e di libri, in teoria, testo consegnato è testo pagato. Ora ogni giorno si lanciano nuovi giornali, che hanno pagine da riempire. Mentre bisogna riconoscere che dall’Hernani di Victor Hugo, che risale al 1830, più niente di nuovo è stato creato per il teatro.

  Ma se il teatro non è più il crogiolo della creazione letteraria, è ancora luogo di prestigio. A seconda delle sale, è l’epicentro o della vita mondana o del divertimento popolare. Ad ogni modo è qui che un autore deve provare di essere un vero scrittore, capace di maneggiare ben altro che questi «brandelli di lingua avvizzita e deformata a causa dell’abitudine, dei romanzieri di questi tempi, di scrivere alla svelta grossi libri», come sottolinea il critico della «Revue des Deux Mondes» a proposito delle Risorse di Quinola.

  Sei anni dopo, gli avvenimenti del febbraio 1848 riattivano quest’ambizione latente. La prima edizione de La commedia umana è ora completa.

  Ma l’opera è anche compiuta? Certo no, e relativamente a due aspetti. Innanzitutto, quanto alla dimensione orizzontale – quella del numero di volumi sullo scaffale. Rimangono tre romanzi iniziati in Ucraina, ma di cui lo scrittore si disinteressa da qualche tempo: Le Théâtre comme il est (Il teatro come è), La Femme auteur (La donna autore) e Un caractère de femme (Un carattere di donna). Senza contare i romanzi iniziati alcuni anni prima, e lasciati in attesa, come Il deputato d’Arcis e I piccoli borghesi. Ci sono anche tutti quelli previsti nel programma pubblicato nel 1845 con il titolo «Catalogo delle opere contenute nella Commedia umana» con quest’avvertenza: «Le opere in corsivo sono quelle che restano da fare». Si tratta di una cinquantina di titoli, disseminati in tre parti, Studi di costume, Studi filosofici e Studi analitici, tant’è vero che questa terza parte, già molto magra, non contiene che due opere realizzate. Nel 1845, in effetti, la grande impresa di pubblicazione è in corso, e l’autore concepisce quella che potrebbe essere una seconda edizione, migliorata, completata. Annuncia i libri futuri, precisando, come se si trattasse di un contratto, il numero di cartelle, fino al numero di caratteri per pagina: «Ogni tomo dovrà comporsi di almeno 40 cartelle (640 pagine) in 8° grande, in carattere philosophie su corpo petit-romain, in modo da far stare tremila battute in una pagina». E ricapitola per la contessa Hanska: «Ho fatto il catalogo delle opere che comporranno la Coméd[ie] hum[aine], sono 125, ne restano da fare non più di 40, ed è quello che occuperà dolcemente la n[ostra] vita per dieci anni». E se cambia parere tre anni dopo, tralasciando queste quaranta opere a vantaggio di progetti di opere teatrali, resta il fatto che la serie degli ottantotto titoli esistenti occupa già un bello spazio sullo scaffale. Per lui, l’essenziale è fatto.

  C’è poi la dimensione verticale, quella delle differenti versioni di uno stesso testo. Ogni testo di Balzac è stato pubblicato più volte quando era vivo, prima in riviste o giornali, in seguito in volume presso diversi editori, poi nell’edizione Furne de La commedia umana, che Balzac, in vista di una seconda edizione, aveva incominciato a correggere sul suo esemplare personale dal 1849 continuandola fino alla morte, agosto 1850. Non è quindi Balzac ma la morte che, interrompendo il suo lavoro, ha fatto di queste correzioni parziali la versione finale. Con Balzac, si può essere sicuri che ci sarebbero state, ancora e ancora, altre modifiche, perché non c’è niente di definitivo nella scrittura di Balzac e perché questa è la sua maniera di creare. I sondaggi in profondità dei diversi strati della sua scrittura mostrano le brutte copie cancellate i testi corretti dopo la pubblicazione, le varianti, le trasposizioni, gli spostamenti di un estratto da un romanzo all’altro, gli echi, i reimpieghi che forniscono sempre nuove possibilità di lettura. Balzac corregge senza sosta e, poiché i suoi tipografi gli fatturavano le modifiche apportate sulle pagine composte, si rovina nei giri di bozze. E, anche dopo la pubblicazione, rifà della pagina stampata una brutta copia: taglia e incolla, cancella e ricomincia. E sempre nel testo futuro. Non ha mai finito. Non molla mai. Mai rinuncia al suo statuto di autore, non abbandona mai completamente un romanzo ai suoi lettori. E come Goriot con le sue figlie: fino alla fine si vuole padre onnipotente, senza limiti, inesauribile. Anche la commedia umana, questa grande serie aperta di romanzi a pareti divisorie mobili e a porte a battenti, i cui personaggi passano dall’una all’altra, è incompiuta per principio, si potrebbe perfino dire per principio creatore.

  Al contrario, ciò che sembra profilarsi è la conclusione di una fase della carriera di scrittore di Balzac, la fase del romanzo. E una questione tanto di status e di riconoscimento quanto di ricerca di nuove possibilità di scrittura.

  Questa voglia, l’aveva già provata una volta. Forse, anch’essa, era stata innescata da una rivoluzione politica, quella del 1830. All’epoca, Honoré de Balzac era soprattutto conosciuto e apprezzato per i suoi testi brevi. Nel 1832 Amédée Pichot, allora direttore della «Revue de Paris», gli chiedeva dei racconti, genere in cui Balzac eccelleva «poiché il pubblico», scriveva Pichot, «è una mula testarda, che voi avete perfettamente definito in quello che dite delle specialità a cui esso condanna un autore. A voi di lottare isolatamente contro il pregiudizio». Balzac aveva già rifiutato questo cammino tracciato e rispondeva: «Quanto a fare solo dei racconti, non importa [sic] il mio parere, altra eresia forse, l’espressione piè rara della letteratura, non voglio essere esclusivamente uri raccontatore. Altra è la mia sorte. La prova riguarda solo me». E la prova lo riguarda ancora, sedici anni dopo, quando, romanziere rispettato, rifiuta di lasciarsi rinchiudere nell’etichetta del romanzesco. Come Amédée Pichot nel 1832 gli aveva richiesto dei racconti, così ora Madame Hanska l’esorta a limitarsi prudentemente ai romanzi. Senza dubbio lei ha di lui un’immagine un po’ caricaturale: è il campione dei ritratti, delle descrizioni, e delle considerazioni in cui il narratore sviluppa la sua visione del mondo. Non considera le lunghe scene di dialoghi all’interno dei romanzi. Dimentica anche la forma ibrida, libera, di un testo come Fisiologia del matrimonio che risale al 1829, prima della grande fase romanzesca, con i suoi sketch, le risposte pronte, gli aforismi che assomigliano a buone battute di scena, proiettate fuori da un vulcano creativo, quasi solidificate nell’aria come pietra pomice di cui hanno la causticità leggera senza aver toccato la lava fertile ma a volte appiccicosa del narrativo.

  Così, nella grande rimessa in questione di quella primavera del 1848, Balzac ha più che mai voglia di fare esperienza altrove. Non che sia trasportato dall’onda rivoluzionaria, tutt’altro. Forse è proprio un riflesso reazionario. Se si presenta alle legislative, lo fa senza convinzione, un po’ per orgoglio, un po’ per opportunismo. Non sarà eletto. Soprattutto, prende il pretesto della crisi economica per distogliersi dal romanzo e giustificare la ricerca di nuove fonti di reddito nel teatro. Quando il direttore della rivista «Le Musée des familles» rinuncia a pubblicare L’initié, esulta: «Vedete che ci vedevo chiaro, sarebbe valso di più fare La matrigna, e voi mi avete pregato di scrivere dei romanzi! E com’era giusto tutto quello che vi dicevo sullo stato della Francia e sugli affari da fare! V[oi] potete mettere in banca le v[ostre] terre a 6? e avere 8, 9, e 10 a Parigi [...]. Ci sarà a guerra civile fra 3 mesi. [...] Vedete che ero profeta, e che, quando trovavo inutile lavorare, senza sapere come sarebbero andati i giornali, sentivo il temporale, e voi mi dissuadevate dal fare opere teatrali, e io volevo scrivere solo opere teatrali», scrive a Madame Hanska, anche se qualche riga dopo riconosce che la situazione non è migliore là che qui: «ho paura che i teatri non facciano incassi poiché è la prima cosa di cui si può fare a meno». La sua malafede è un segno del suo entusiasmo: «Se faccio nel teatro il cammino che ho fatto in letteratura, sono salvo, e ricco! Porre un problema significa già risolverlo ... Vi porterò una seconda corona, quella del palcoscenico, l’avrete e sarà magnifica! Siatene certa. Ah! Quale ebbrezza! Quale felicità offrirvi questo difficile alloro. I Coigniard [sic] vengono domenica per negoziare, negozierò sabato con i Varietà. I francesi [n. b.: gli attori francesi e l’Ambigu verranno più tardi [...] Non parlatemi delle stupidaggini di cui mi avete accennato a proposito dei pericoli del palcoscenico».

  I suoi duemilacinquecento personaggi gli forniscono già una scorta inesauribile di drammi moderni in cui i soldi, le donne, le passioni fanno girare la società. La prova: alcuni scribacchini mediocri non si sono fatti scrupolo di saccheggiarlo e hanno adattato senza autorizzazione La pelle di zigrino, Il colonnello Chabert, Il giglio della (sic) valle, Papà Goriot, Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau. Quanto a Eugénie Grandet, ne esistono perfino due versioni concorrenti. E il pubblico non ne vorrebbe, se fossero firmati da Balzac stesso? «Bisogna che faccia sul palcoscenico gli stessi sforzi che ho fatto sui libri, nel 1830. Si tratta di trovare per la Porte Saint Martin una Pelle di zigrino, per L’Ambigu una Eugénie Grandet, per i Francesi I 13 [n. b: la Storia dei tredici] e per i Varietà un Papà Goriot. Eh! Bene, credetemi, farò tutto questo, frugherò nella mia mente, passerò i giorni a lavorare, e pagherò tutto... Di sicuro faccio I genitori poveri per la Porte Saint Martin, La matrigna per l’Ambigu, Papà Goriot per Bouffé e L’educazione del principe per i Francesi! Se tutto questo non va a buon fine, ricomincerò ... Anche Orgon sarà finito».

  A marzo 1848 Parigi è in rivolta da un mese, Balzac da quindici giorni. In questo profondo sconvolgimento risale in superficie un testo breve intitolato La vendetta, scritto alla vigilia di un’altra rivoluzione, quella del 1830. Balzac prende l’idea da un’opera teatrale, La matrigna, su cui conta molto per rilanciare la sua nuova carriera. «Bisogna che La matrigna sia La pelle di zigrino del 1848», scrive a Madame Hanska. E ancora Marie Dorval ad avere il ruolo principale. Pauline, figlia del primo matrimonio del generale-conte di Grandchamp, ex generale d’impero, ama Ferdinando, figlio di un altro generale. Nell’epopea napoleonica il conte di Grandchamp era rimasto fedele all’Imperatore, contrariamente al padre di Ferdinando. La sua seconda moglie, Geltrude, suocera di Pauline, e dunque la matrigna, è l’ex amante di Ferdinando. Tragedia che ha l’aspetto di una commedia leggera, dramma romantico alla Shakespeare, questo «dramma comico», come dice Balzac, che si vede sul punto di inventare un genere teatrale, oppone due visioni della storia: quella della fedeltà al passato, rappresentata dal conte di Grandchamp, incapace di voltare pagina e che vuole ostinatamente trasmettere intatte le sue vecchie contrapposizioni ai figli; e quella della rottura, incarnata dalla giovane coppia di innamorati, Romeo e Giulietta contemporanei, che rifiuta l’eredità delle contese proprie della generazione precedente. Il conflitto si risolverà solo con il sacrificio della giovane generazione. È proprio una storia da scrivere, in una forma o nell’altra, in quel momento di cambiamenti. [...].

  Balzac, Dorval e Hostein parlano già degli interpreti de La matrigna. Hostein propone Etienne Mélingue nel ruolo del generale, e Madame Lacressonière – sua amante – in quello di Pauline. I tre concordano un incontro di lavoro. Ci vorranno comunque dieci giorni a Balzac per scrivere i tre atti: dopotutto, non scrive più di diciotto ore al giorno. Il 9 aprile, Dorval e Hostein sono di ritorno in rue Fortunée in compagnia di Mélingue. Balzac legge la sua opera, d’un fiato, concatenando le scene, recitando tutti i ruoli, contraffacendo la voce per ogni personaggio. Il direttore e i due attori sono entusiasti. Lo lasciano complimentandosi sia per l’opera che per la performance: il testo era stato da lui in parte letto e in parte recitato e improvvisato. In realtà, ha sempre più difficoltà a leggere. L’attribuisce a un colpo d’aria, invece ha appena subito un incidente vascolare, il cui primo sintomo è un disturbo visivo. Se ne lamenta con Madame Hanska, in maniera melodrammatica, immaginandosi come scrittore cieco, adulato da un pubblico che gli sollecita due opere a stagione: «Detterò i miei drammi, non li vedrò!».

  Con brutalità ancora maggiore, la politica si incarica di distruggere questi sogni: in questo periodo di campagna elettorale che precede la prima elezione legislativa a suffragio universale (maschile) del 23 aprile 1848, il dramma è in strada e i teatri sono vuoti. Perfino Ruy Blas, del candidato Victor Hugo, non ritrova il suo pubblico abituale. «Che inferno il teatro!» esclama Balzac nella sua lettera-diario a Madame Hanska, ricredendosi per la prima volta sul suo entusiasmo. Le cattive notizie si accumulano. La sua salute vacilla, il visto per l’Ucraina tarda. Inoltre, all’inizio di maggio, bisogna rivedere la distribuzione delle parti dell’opera: Marie Dorval pensa solo al nipotino che si trova tra la vita e la morte, e l’attrice principale sfuma. Il ruolo di Geltrude va all’amante di Hostein, un’attrice di secondo rango. Nonostante questo cambiamento, la prima, che ha luogo il 25 maggio, alla fine è giudicata un successo dai critici [...].

  A volte, si dovrebbe poter raccontare una storia senza conoscerne la fine. Nel caso di Balzac, la tradizione, da oltre un secolo, vuole che si parli dei suoi ultimi mesi di vita secondo due metafore combinate: quella dei vasi comunicanti e quella del crepuscolo. I vasi comunicano – vecchia ‘idraulica’ dell’arte contro la felicità – sarebbero l'immaginazione creatrice e Madame Hanska: la seconda avrebbe prosciugato la prima. Parallelamente, secondo la metafora del crepuscolo, l’ispirazione di Balzac sarebbe già molto rallentata se non addirittura prosciugata fin dalla comparsa da primi segni della malattia, nel 1847. Il fatto di conoscere le vicende degli ultimi mesi, il penoso ritorno in Ucraina dopo il matrimonio nella primavera del 1850, le settimane di agonia prima della morte nell’agosto seguente, influenza il modo di raccontare questa storia proiettando l’ombra fatale dell’ultimo episodio sui tre anni che precedono. Tuttavia, il 30 maggio 1848, giorno in cui il Teatro Historique chiude i battenti sulla scenografia de La matrigna, Balzac propone immediatamente a Lockroy, direttore del Teatro della République, un’altra opera, I piccoli borghesi, adattamento di un romanzo cominciato tempo prima e lasciato in sospeso. Contemporaneamente promette un dramma al Teatro Historique, Pierre e Catherine, da fornire in dieci giorni. E lascia Parigi per la Touraine con due opere teatrali da scrivere e un’insufficienza coronarica. Ben presto gli echi delle sanguinose giornate di insurrezione e della repressione a fine giugno, e la notizia della morte di Chateaubriand, lo abbattono per un momento. Ma cerca subito un’altra soluzione. Rientrato a Parigi, va a trovare Frédérick Lemaître al Teatro Porte Saint Martin dove incontra Joseph Méry con Victor Hugo, il cui intervento, a giugno, presso la Commissione nazionale dei teatri in qualità di autore ma anche di deputato recentemente eletto, si è fatto notare: di fronte alla situazione allarmante in cui si trovano i teatri, il governo si appresta a versare una sovvenzione di 680.000 franchi. Sotto questi auspici favorevoli, Balzac recupera qualche giorno più tardi il manoscritto di Mercadet che aveva affidato a Frédérick Lemaître nel 1840 e, ritrovando la propria energia, riconsidera lo scenario di un’altra opera, Richard Caeur d’Éponge. Ma la notizia migliore è che il Teatro Historique rimette in scena La matrigna. Preso da euforia, subito traccia l’elenco del suo futuro catalogo. «Vedete», annuncia a Madame Hanska, «se non farò fortuna a teatro, ecco il repertorio che ho progettato: Richard Coeur d’Eponge, 5 atti – La Comédie de l’amour, 3 atti – Les Petites (sic) Bourgeois, 5 atti – La Conspiration Prudhomme, 5 atti – La Folle Epreuve, 5 atti – Le Roi des mendiants — Le Mariage Prudhomme, 5 atti — Le Père Prodigue, 5 atti – Pierre et Catherine, 5 atti – Mercadet, 5 atti – La Succession Pons, 5 quadri – L’Éducation du Prince, 5 atti – Les Courtisans, 5 atti – Le Ministre, 5 atti – Orgon, 5 atti – L’Armée rutilante, 5 atti — Sophie Prudhomme, 5 atti. In tutto 17 opere teatrali. Quinola, Vautrin e La Marâtre fanno 20 opere. [...] ecco coni gli interessi un milioncino da guadagnare in dieci anni, alla fine dei quali il Noré [Honoré] avrà compiuto sessant’anni e si riposerà nella gloria e nell’edizione completa della sua Commedia umana». Non è poi così male per un moribondo senza ispirazione.

  E in effetti il suo amico Lockroy, direttore del Teatro della République, è interessato a Mercadet, che s’intitola ormai L’affarista. È un’opera insieme divertente e d’attualità, poiché parla di debiti e di speculazioni. Così, il 17 agosto, Balzac dà lettura dei primi quattro atti agli attori dei Francesi, e improvvisa davanti a loro il quinto atto che non ha avuto il tempo di redigere ma che, nella sua testa, è pronto. Gli attori si sbellicano dalle risate. L’opera viene accolta all’unanimità da questa élite della scena parigina. E Balzac si vede già accademico. «Vi vorrei alla prima rap[presentazi]one de L’affarista», scrive il 19 agosto a Madame Hanska che, provvista ora di visto, si prepara infine a raggiungerlo, «poiché sarà, ne ho il presentimento, un grande trionfo. E la porta dell’accademia, sfondata, soprattutto. [....] Ho il coraggio, il talento e l’energia che avevo nel 1834 [...]. Invierò due opere all’anno ai Francesi, e 3 opere agli altri teatri, è quel che basta per fare fortuna, e non annoiare né mia moglie né me stesso». Bisogna portare subito il testo a stampare da “Lacrampe Fils et Cie”: la composizione e i sette giri di bozze corrette gli costeranno 432,22 franchi (1.500 euro). Mentre L’affarista è in tipografia, e La matrigna viene pubblicata presso Michel Lévy nella collezione «La Bibliothèque dramatique», Balzac rivede Marie Dorval, che cerca di riprendersi dalla morte del nipote. Le propone un ruolo strepitoso, originale, ne Il re dei mendicanti: «Troviamo una novità, poiché non posso, io, l’autore della Commedia umana ricominciare con le piagnucolose, le donne deboli che ingombrano il teatro». Deve fare in fretta, al massimo dieci giorni, dato che, con il visto in tasca, conta di partire a metà settembre. «Per allora avrò fatto comporre Il re dei mendicanti e L’affarista e partirò lasciando queste due bombe che faranno il loro effetto, dopo la mia partenza».

  Papà Goriot, in punto di morte, chiede che si faccia una legge contro la morte dei padri. Bisognerebbe farne una anche contro l’incompiutezza delle opere. Perlomeno bisognerebbe permettere a Goriot come a Balzac di partire, l’uno per rifare fortuna a Odessa con la sua pasta, l’altro per scrivere il suo teatro a Wierzchovnia. Una veggente aveva predetto a Balzac che sarebbe diventato centenario come suo padre, e non era dunque che a metà della sua vita! Aveva ancora mezzo secolo davanti a sé. Gli aveva annunciato anche una malattia grave verso la cinquantina. Aveva ragione a metà: la malattia è proprio là.

  Se non si può cambiare la fine di Balzac, si vorrebbe almeno lasciargli godere il successo prima di morire. Ma no: le sue due «bombe», Il re dei mendicanti e L’affarista, erano dei petardi bagnati; un mese dopo la sua partenza, a Lockroy fu dato il benservito e L’affarista tolto dal palinsesto. L’opera sarebbe stata ripresa solo se l’autore avesse apportato alcuni cambiamenti, e di conseguenza Michel Lévy non poteva pubblicarla così com’era. Il re dei mendicanti non fu nemmeno composta dal tipografo. Quanto a Marie Dorval, non sopravvisse a lungo al nipotino. Per Balzac, non ci fu né successo in palcoscenico, né lunga felicità coniugale.

  Ma è meglio non conoscere la fine della storia. È meglio fermarsi prima, guardare Balzac superare le frontiere per rifarsi una vita con Madame Hanska e cominciare una nuova carriera: ora che la fase romanzesca è finita, o quasi, realizzare la seconda fase, quella teatrale, essere riconosciuto in tutto il mondo e dalla posterità come romanziere e drammaturgo, e in fin dei conti aver costruito un’opera immensa, un monumento in due parti principali di cui, al momento, solo una è visibile, questa Commedia umana, che nel suo titolo, fin dall’inizio, contiene l’idea del teatro.

 

 

  Stefano A. Moretti, Un antenato, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXVI, N. 4, Aprile 2009, p. 31.

 

  Su: Charles Robert Maturin, Melmoth l’errante, Torino, Utet, 2008.

 

  Così Melmoth, “arlecchino degli inferi”, è al tempo stesso Faust e Mefistofele, poiché anch’egli è “una parte di quella forza che sempre vuole il male e sempre produce il bene”: cercando un sostituto tra i più sfortunati della terra riceve solo dinieghi, riportando al bene le coscienze dei dubbiosi.

  È qui che Balzac raccoglie il testimone, sicuro che Melmoth non avrebbe avuto la stessa risposta se solo fosse andato alla Borsa di Parigi, “dove (...) Dio stesso presta e dà in garanzia le sue entrate d’anime, perché il papa ha lì il suo conto corrente”. Nel racconto di Balzac la condizione che nessuno in due secoli aveva accettato verrà prontamente sottoscritta da un bancario disonesto, Rodolphe Castanier, da uno speculatore in rovina, e via via da mezza Parigi. La moderna città che venera solo il dio denaro è la patria ideale del mercante spagnolo che in Maturin si annoiava ai racconti, tutto preso dalla smania di guadagno. Il disprezzo della vitalità romanzesca, che permette di vedere la realtà in trasparenza e che, secondo Giovanni Macchia, Balzac aveva imparato proprio da Maturin, porta alla rovina. Esito quanto mai attuale, in tempi di grandi rivolgimenti bancari e scarse attenzioni letterarie, pensare che il diavolo stia di casa a Wall Street.

 

 

  E. Paccagnini, Classici. Balzac svelato dalla sorella, «Famiglia cristiana», Milano-Alba, 8 febbraio 2009, p. 100.

 

  Ho rivelato il suo carattere, l’ho mostrato nella vita privata, con gli affetti familiari e le amicizie, ho raccontatole molte avversità affrontate con coraggio». Così Laure Balzac conclude il racconto affettuoso che svela i risvolti misteriosi del fratello. Per far «amare, nello scrittore universalmente ammirato, l’uomo».

 

 

  Rossella Palmieri, Il piccolo Honoré troppo solo per fare «Comédie», «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 8 giugno 2009; 1 ill.

 

  «I racconti sono come un delitto», sosteneva Freud: «il problema non è compierli ma occultarne le tracce». Con questo incipit Daria Galateria, che ha curato l’introduzione, porta i lettori nel cuore del volume Balzac mio fratello, scritto da Laure Surville Balzac. sorella del noto scrittore francese nato a Tours nel 1799 e morto a Parigi nel 1850 (il libro è stato tradotto in Italia per i tipi Sellerio, pagg. 178, euro 9,00). Dalla penna dell’amata sorella prendono corpo e parola le inquietudini del bambino Honoré, costretto nel temibile collegio di Vendôme a vedere padre e madre solo rarissime volte in sette anni, prima che una sorta di coma depressivo, nel 1813, costringerà i genitori a ritirare il figlio, restituito alla vita irriconoscibile, come uno scheletro apatico.

  Quello che colpisce, nel delicato racconto della sorella Laure, è il pudore che anima le pagine, pur ricche di aneddoti, lettere ed episodi di vita quotidiana (in particolare il tormentato rapporto con la madre) che gettano un fascio di luce sullo scrittore. «Della sua sterminata corrispondenza», scrive Laure, «posso rendere noto solo ciò che riguarda lui e le sue opere: mi è consentito parlare di lui unicamente come fratello e figlio». Già, figlio. Figlio di una donna bella, ricca e maliziosa che mai ebbe attenzioni per lui, a giudicare dall’agghiacciante semplicità con cui l’autore la etichetterà: «mia madre è un mostro» (da questo sadico e ambivalente sentimento verrà fuori il racconto La Grande Bretèche, una sorta di «resa dei conti» con questa donna che sempre gli incuterà paura).

  Ha avuto più di un pregio Laure a disegnare l’intricato affresco della vita di Balzac, tortuoso proprio come quell’altro affresco che lo consegnerà alla storia, La Comédie Humaine. Laure, con una scrittura quasi iconografica ci la vedere il fratello-bambino affidato alle cure di una balia, praticamente dimenticato in collegio: l’adolescente dall’intelligenza lucida e brillante; e ancora. Balzac maturo incompreso e poco stimato, sommerso dai debiti e dalla malasorte. Eppure non sarà stata proprio la sventura a sviluppare il suo talento? Certo, non riusciremmo mai a immaginarlo ricco e felice, proprio lui, l’inquisitore dell’umanità che seppe smascherare tutti i segreti e mettere a nudo mali e sentimenti di una generazione.

  Il frastagliato ritratto di quest’uomo zelante ma superficiale, debole eppure capace di grandi sacrifici (dalla castità all’abnegazione totale nei confronti della scrittura che lo ricompenserà solo da morto) non fa che rendere ulteriore giustizia a un autore che seppe rendere omaggio alla dialettica del contrasto, considerato, annota la sorella, «che coloro che lo hanno seguito dalla culla alla tomba possono testimoniare che nei momenti di svago era lucido e lungimirante e che anche nei giorni di scoramento e di malinconia era di umore calmo e costante». Eppure nemici, detrattori e invidiosi gli mossero più di una critica, se è vero che il titolo di «romanziere più prolifico di Francia» finì col danneggiare lui e la sua intrinseca capacità di osservare e dipingere i caratteri umani più disparati, relegandolo nell’angolo dell’incompreso da vivo.

  In Balzac mio fratello, grazie alle rivelazioni di Laure si possono toccare con mano le dinamiche familiari che, trascurate dalle biografie ufficiali, dicono molto, in realtà, del carattere dello scrittore. Alla sorella Balzac scrisse moltissime lettere, specchio fedele dei suoi travagli e delle sue inquietudini, per lo più legate alla spasmodica ricerca di quella fortuna economica che era convinto dovesse arridergli.

 

 

  Matteo Persivale, Breaunna, musa inafferrabile, «Corriere della Sera», Milano, 15 settembre 2009, p. 41.

 

  L’eroina sadomaso di Watson ripropone il «teorema» di Balzac.

 

  Nella novella Le Chef-d’oeuvre inconnu, «Il capolavoro sconosciuto» (pubblicata da Bur), Balzac racconta il rapporto magico e misterioso tra l’artista e la sua musa. E indaga sulla linea di confine tra poesia e desiderio in modo così ipnotico da affascinare generazioni di lettori — e di artisti. Picasso, per esempio, era ossessionato da quella novella, che racconta il tentativo impossibile di un vecchio pittore di trasmettere per intero sulla tela tutto quello che vede nella sua (non esattamente sua poiché era l’amante di Poussin) Gilette. Jacques Rivette, il papà della Nouvelle Vague, da quella storia ha tratto il suo film più affascinante, La belle noiseuse, con Michel Piccoli e Emmanuelle Béart (anche Irma Vep di Olivier Assayas, con la sua musa — appunto — Maggie Cheung è un hommage a quella novella ancora oggi così riluttante a lasciarsi decifrare).

  Perché per un pittore — o un fotografo — inseguire quel lampo inafferrabile di bellezza è una sfida costante ma anche — e soprattutto — il tentativo paradossale di risolvere un enigma creandone un altro.

 

 

  Paolo Petroni, Balzac secondo la sorella, «Libertà», Piacenza, 11 marzo 2009, p. 34; 1 ill.

 

  Un’infanzia cupa e infelice che fu la molla del successo.

 

  La prima sorpresa è il racconto inquietante di un’infanzia cupa e infelice che segnò la vita di Honoré de Balzac, forse spingendolo a reagire e a voler sfondare nella vita. Per riuscire, come racconta la sorella dello scrittore in queste affettuose pagine, scritte otto anni dopo la sua morte, ne patì di ogni genere e soprattutto si mise in mano agli strozzini.

  Il grande cantore della grande borghesia francese, l’autore di ritratti fedeli e quindi naturalmente spietati, veniva da una famiglia borghese non meno ricca di contrasti e chiaroscuri, di miserie e grandezze che lo scrittore seppe poi riconoscere sempre, quasi istintivamente, un po’ per esperienza e un po’ per rabbia personale.

  Lui e la sorella Laure, che si sarebbe sposata Surville, appaiono in quel contesto profondamente soli e solidali che solo sorreggendosi a vicenda riescono a sopravvivere alle tenebre in cui li trascinano i genitori. Il peggio è quando la madre, che Honoré definì poi sempre «un mostro», li divise e chiuse lui in un collegio rigidissimo. Una madre anche lei poveretta e costretta a un matrimonio orribile, a 19 anni con un uomo di oltre 50.

  «La madre di Balzac – annota Daria Galateria nelle sue pagine di introduzione al volumetto – è solo uno dei grandi temi di questo ritratto di scrittore ... L’apoteosi e il romanzo della vita di Balzac è stato il matrimonio con madame Hanska, l’aristocratica polacca che gli aveva scritto in termini assai accesi, firmandosi ‘l’inconnue’ ... Di questo matrimonio, tutto quello che si dice, è che il fratello ‘si recò in due occasioni nella Russia meridionale. Tanto puntiglioso riserbo merita un approfondimento». Madre e figli, che questa tenne a distanza, la ritenevano responsabile di aver abbreviato la vita dello scrittore, non al (sic) amavano e vedevano come lui ne fosse irretito a suo e loro danno.

  Quanto al resto, a cominciare dai grandi debiti fatti per poter vivere nel bel mondo in cui ha bisogno di sfondare, è cosa nota, ma viene raccontato e visto in un’ottica nuova, quotidiana e affettuosa, e per questo spesso reticente. allusiva, pronta a giustificare. Il ritratto è comunque vivo, di un uomo che ha perso tutte le «illusioni borghesi» e non si risparmia, che abusa di sé e fatica, dedito totalmente al lavoro e incapace di un sano rapporto con i soldi o quel che guadagna.

  «Il mio dovere verso di lui e verso tutti si ferma qui: solo i forti hanno il diritto di giudicarlo come scrittore», conclude Laure il suo scritto, dopo aver accennato alle dolorose circostanze che lo portarono prematuramente alla morte.



  Susi Pietri, L’Opera inaugurale. Gli scrittori-lettori della “Comédie humaine” I, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2009 («Mimesis Filosofie», N. 57), pp. 205.

 

  Struttura dell’opera:

 

Preliminari.

 

  Letture utopistiche.

  Da scrittore a scrittore.

  Esplorando “La Comédie humaine”.

  Storie, processi, itinerari.

  Per un Balzac “eretico”.

 

Ambivalenze.

 

  Henry James.

 

  New York, inverno-primavera 1875.

  “Un début dans la vie“. L’arte di esordire.

  “Una certa idea di Balzac”. In viaggio verso la fiction.

  “Sulle tracce di Rastignac”. Ritratto dell’autore da personaggio postumo della “Comédie humaine”.

  I “Balzac” dimenticati. Due storie di lettura.

  “Balzac-Joker” o lo show-man della “Comédie humaine”.

  Balzac-‘Gambler”. Il gioco delle carte e l'avventura delle forme.

  Il “Grande Manipolatore”. Stili del ‘senza stile’.

  “La pelle d’orso di Balzac”. Scenari e scenografie d’autore.

  “La ‘Comédie inhumaine’”. Anomie della prosa del mondo.

  “Da un Balzac all’altro”. Autocensure e ritrattazioni.

  “Balzac-orco”. Il corpo romanzesco della “Comédie humaine”.

  “La ‘Comédie’ divorante”. Fame del Libro e voracità del Mondo.

  “Nello specchio di Balzac”. Autobiografie dell’impossibile.

  “Aspettando Balzac”. Gli appuntamenti differiti.

 

Devianze.

 

  Robert Louis Stevenson.

 

  Edimburgo-Barbizon-Parigi, estate-autunno 1876.

  “Balzac en morceaux”. Frammenti di una storia di lettura.

  “Balzac-‘Idler’”. Prove tecniche di scrittura oziosa.

  “Balzac-‘Miner’” o come si nasce alla scrittura.

  “Balzac-Camaleonte”. Grammatiche della riflessività.

  “Balzac-‘Fille de Joye’”. Ritratto dell'autore da odalisca.

  “Balzac-‘Don Juan”. Sedotti e seduttori letterari.

  “Nel taschino della giacca di Balzac”. Tra distanza e prossimità.

  “Balzac-‘Walker”. La “Théorie de la démarche” e “Walking Tours”.

  “Balzac-Dandy”. Apologie della menzogna virtuosa.

  L’“altro Balzac”. Periferie della finzione.

  I “Maestri” antagonisti. Due Balzac inaugurali.

 

  Esplorando “La Comédie humaine”, pp. 35-38.

 

  Nelle pagine (e nei volumi) che seguono si tenterà un esperimento inusuale. Un grande scrittore, Honoré de Balzac, sarà sondato attraverso le letture di altri grandi scrittori, che gli hanno dedicato del tempo, delle indagini, delle inquietudini, delle domande – e degli scritti, in cui questa instancabile e insoddisfatta volontà di investigazione ha lasciato delle tracce esplicite. La Comédie humaine sarà ripercorsa e rivista alla luce di molteplici riflettori – i suoi scrittori-lettori, appunto, da Henry James a Hugo von Hofmannsthal, da Rainer Maria Rilke a Oscar Wilde (e molti altri sullo sfondo) – che la illuminano di nuovo con le loro domande “utopistiche, devastanti e terribili”, e ne sono illuminati di rimando. Si tratta perlopiù di traversate integrali dell’opera balzachiana, di lunghi viaggi nella Comédie humaine reiterati nel corso del tempo. In alcuni casi, il dialogo a distanza con Balzac emerge e si concentra in una sola, irripetibile fase della formazione di uno scrittore, talvolta si riannoda in più periodi distinti, e più spesso si prolunga indefinitamente – tanto a lungo che una vita intera non sembra bastare per venirne a capo. Sempre, tuttavia, la frequentazione assidua della Comédie humaine si esercita in sondaggi critici esigenti e intransigenti, in esplorazioni di una prossimità possibile all’opera dell’“altro”, alla ricerca di un incontro che non è mai occasionale né si lascia circoscrivere nella relativa semplificazione di un manifesto programmatico. "Balzac” può assumere, nel corso di queste ricognizioni, l’immagine del Maestro e dell’anti-Maestro, del Testimone privilegiato, del Modello inesauribile o minaccioso, dell’Antenato eroico, del Padre autorevole o dell’Autore ossessionante, del Convitato di pietra inatteso, del fratello collaterale e elettivo, del Grande Precursore, per quanto controversi ed eccentrici possano sembrare i “lasciti" reclamati dai suoi potenziali eredi. È, in ogni caso, un “autore” che impone di situarsi, di prendere posizione rispetto alla sua opera, o all’idea di “opera” che La Comédie humaine rappresenta: è “qualcuno” che richiede il compito di un’interrogazione infinita o, talvolta, di un interminabile corpo a corpo simbolico, senza via di scampo.

  Letture e riletture dell’opera balzachiana divengono così il luogo di un “lavoro critico” – lo spazio in cui si saggiano analisi e dispositivi d’indagine, si sperimentano diversi protocolli d’interpretazione, si producono nuove configurazioni – che si carica però di finalità, allo stesso tempo, “teoriche”, “estetiche” e squisitamente “creative”. La Comédie humaine che si continua a sfogliare non è mai un Grande Testo conchiuso nel recinto rassicurante del suo glorioso passato. È un’opera che si legge al presente: un cantiere aperto dell'invenzione delle forme, un laboratorio critico per ripensare i possibili della scrittura, un banco di prova magistrale del “romanzo”, dove si elaborano, e non di rado entrano in collisione, le domande più urgenti rivolte alle sue strategie, alle sue frontiere, alla sua dismisura, alla sua assenza virtuale di limiti rappresentativi, alle sue promesse, alle sue aspettative. Balzac diviene allora la “coscienza inquieta” delle opere a venire. Ci si rivolge a lui per aprire la propria scrittura o per rilanciarla, per tenere insieme il bilancio e il programma, per segnare una svolta e consumare una rottura definitiva, o, come si suol dire, per “voltare pagina”, impegnando un difficile negoziato tra il futuro imminente e il passato prossimo o lontano di ciò che è già stato scritto.

  I viaggi nella Comédie humaine di questi scrittori-lettori sono dunque delle singolarissime quests identitarie. Ogni esplorazione della Comédie si traduce in un commento, insieme, di “se stesso" e dell’“altro”, o in un auto-commento dissimulato.' Ogni ritratto balzachiano è anche l’autoritratto di uno scrittore che sta interrogando, a un tempo, se stesso, il suo rapporto con un “grande precursore” e, infallibilmente, le proprie opere, là dove le loro possibilità si fanno più problematiche e i loro esiti più incerti. In questo senso, lettura o “reinvenzione” di Balzac ed elaborazione autoriflessiva non sono mai concepibili separatamente: si esercitano l’una attraverso l’altra.

  Senza dubbio, ognuno degli scrittori imbocca il suo itinerario a ritroso verso l’universo balzachiano da un punto di partenza diverso, aprendosi un cammino proprio e personale, equipaggiandosi di mappe e strumenti interpretativi variabili. I programmi e le poste in gioco, di volta in volta, sono ugualmente marcati da differenze talvolta irriducibili, così come le biforcazioni e le incertezze di cui sono disseminati i loro percorsi, alla ricerca di un Balzac in qualche modo “riappropriato”, presente ed attuale quanto più passibile, o nel tentativo rischioso di ricongiungere i punti di vista, a un primo sguardo inconciliabili, della prossimità e della lontananza. In comune, tuttavia, resta l’esigenza di fare della lettura dell’altro scrittore (del nuovo rapporto con Balzac che vi si disputa e si conquista quasi palmo a palmo) un’esperienza radicale, ancora una volta, di trasformazione: una trasformazione in atto fra la riconfigurazione retrospettiva della Comédie humaine, attraverso quel nuovo compimento che le viene conferito dal punto di vista orientato in funzione di un lavoro attuale, in corso d’opera, e la prospettiva anticipatrice verso un nuovo spazio estetico da conquistare che, appunto, si pensa e si progetta lungo il cammino, “per interposto Balzac".

  Anche Honoré de Balzac viene quindi “trasformato”, nell'intreccio di questi ritorni riflessivi e autoriflessivi. La relazione tormentata da scrittore a scrittore, l'ibridazione di critica, poetica e scrittura si pensano (lo si vedrà caso per caso) contro statuti, ricezioni, protocolli consolidati – e a maggior ragione si sottraggono alle conclusioni sancite dalla sistemazione critica, dottrinale e precettistica del “romanzo balzachiano”. Leggere Balzac può diventare allora un’“esperienza iniziatica”, la rivelazione di un universo immaginario “più vivo della vita stessa, la via elettiva per “l’intima frequentazione” di un geniale compagno di strada, la scoperta dell’essenza del “processo di produzione” di un’opera; ma, se ogni traversata del Grande Testo balzachiano rappresenta sempre “una meravigliosa avventura” dell’autoconsapevolezza, è perché La Comédie humaine appare ai suoi scrittori-lettori un immenso spazio narrativo da esplorare di nuovo, ridisegnando tutte le sue mappe: un’operazione inaugurale e profondamente liberatoria, che diviene anzi la condizione preliminare affinché il viaggio possa effettivamente cominciare, con tutto ciò che ne potrà conseguire, di qualunque “avventura” si tratti.



  Susi Pietri, La terra promessa del racconto. Stevenson legge Balzac, Parma, Monte Università Parma, 2009 («L’eredità di Babele», 5), pp. 216.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bertini, Presentazione, pp. 7-11;

  Introduzione. Una storia di lettura, pp. 17-28;

  “La Compagnia dei vagabondi”. Edimburgo-Barbizon-Parigi estate-autunno 1876, pp. 29-76;

  “Brownies, maghi e giocatori d’azzardo”. Braemer, Highlands inverno 1882, pp. 77-120;

  “Narratori di frontiera”. Schooner “Equator”, Oceano Pacifico inverno 1889, pp. 121-174;

  “Argonauti del racconto”. Vailima, arcipelago delle Samoe inverno 1891, pp. 175-213.

 

  Trascriviamo il testo delle pagine che formano l’introduzione: Una storia di lettura.

 

  [...]. Stevenson e Balzac: non si potrebbero immaginare due scrittori più diversi, più lontani, apparentemente, l’uno dall’altro. Stevenson, geniale reinventore dei modi e delle forme aeree del romance. Balzac, identificato tradizionalmente con il novel, con il roman de moeurs, con il “realismo” letterario. Stevenson, artefice di mirabili e geometrici intrecci narrativi, dove la purezza cristallina della trama, l’incanto dell’avventura e la leggerezza mozartiana dello stile si compongono in un rigoroso equilibrio formale. Balzac, ciclopico autore della Comédie humaine: un’immensa, mostruosa opera globale che aspira a includere “la totalità del mondo” la sfera della rappresentazione; un Liber mundi alla ricerca di una nuova dimensione formale (o di una virtuale assenza di limiti formali) esteticamente omologa alla dismisura dell’immane compito mimetico che si autoassegna; e una sorta di “Sur-romanzo”, concepito come il campo sperimentale di un programma aperto del genere romanzesco, capace di mobilitare, ibridare, riflettere criticamente — se non “divorare” — tutti i generi esistenti, trasformandoli, o “digerendoli”, attraverso la stessa apertura progettuale della sua forma.

  Ma è proprio questa estrema diversità che rende ancora più appassionante il loro inatteso, sconcertante incontro. Stevenson legge e rilegge ripetutamente le opere balzachiane. Ricerca un difficile dialogo a distanza con Balzac compiendo un lunghissimo viaggio nella Comédie humaine reiterato nel corso del tempo, dagli esordi dei primi anni Settanta dell’Ottocento fino al volontario esilio polinesiano nell’arcipelago delle Samoa – una vera e propria “storia di lettura”, che ha lasciato tracce esplicite disseminate nei testi e nei contesti più disparati della sua avventura umana e letteraria.

  Balzac non è, certo, l’Autore prediletto di Stevenson. Molti altri scrittori lo precedono o lo accompagnano nella singolarissima schiera ideale di “Maestri” e “Compagni di strada” di cui Stevenson ama circondarsi, con un’ironica spensieratezza che dissimula a malapena l’intensità, e talvolta l’ambivalenza, delle sue “venerazioni”. Eppure anche Balzac figura in questa compagnia, e in pianta stabile. Vi può assumere l’immagine del Maestro e dell’anti-Maestro, del Modello, dell’Antenato eroico, del Grande Precursore, per quanto eretico ed eccentrico sia il suo aspirante “discepolo” ed “erede”; ovvero, può prendere la forma del fratello collaterale ed elettivo, o ancora, come accade in Reflections and Remarks on Human Life, quella del “grande artigiano” del romanzo: un testimone ideale del lavoro della scrittura e del suo instancabile esercizio, nonostante l’ambiguità di cui si carica, nel corso del tempo, la strana relazione che Stevenson intrattiene con lui. In ogni caso, Balzac diviene progressivamente “qualcuno” che impone di situarsi, di prendere posizione rispetto alla sua opera, o all’idea di opera” che rappresenta, mano a mano che Stevenson sonda La Comédie humaine come un cantiere aperto dell’invenzione delle forme, un laboratorio critico per ripensare i possibili della scrittura, un banco di prova del romanzo in quanto genere, dove si elaborano (e spesso entrano in opposizione reciproca) le domande più urgenti sulle sue strategie, sulle sue frontiere, sulla posta in gioco – altissima – di ogni scelti narrativa, quando ci chiediamo “cosa significa veramente raccontare una storia”.

  D’altra parte, come Stevenson stesso ci ricorda, il “suo” Balzac è appunto un maestro dei “mutamenti strategici”: delle metamorfosi che si dispiegano nell’arco di una vita intera. Letture e riletture della Comédie, stratificare nella durata di un’esistenza, si sviluppano nel tempo manifestando la loro intima connessione con la storia interna di una formazione intellettuale e con la “storicità genetica” delle diverse prospettive, opere in corso, dimensioni teoriche, interrogativi critici in cui si inscrivono. Il primo Balzac del giovane Stevenson, prevalentemente “saggista”, è molto diverso dal Balzac riletto dopo la svolta narrativa del romance nei primi anni Ottanta, come pure dal Balzac che Stevenson esplora di nuovo durante l’ultima stagione della sua scrittura, e nulla, nella prima “lettura”, lascia prevedere gli sviluppi futuri. Non esiste, quindi, “il” Balzac di Stevenson, ma ci sono dei “Balzac” distinti: dei Balzac al plurale, riconfigurati in diversi punti di crisi o di ridefinizione della carriera dello scrittore Robert Louis Stevenson, che recano l’impronta dell’autonoma singolarità di un momento chiave, di un’inquietudine teorica, di un progetto estetico, di un’opera specifica che si va elaborando. Questa prolungata attività di lettura è una “storia” straordinaria anche perché sa incorporare la modificazione, la discontinuità, i movimenti di scarto e di vera e propria rottura.

 

  Tra lettura e scrittura.

 

  [...]. In ogni momento della sua storia di lettura, la violenta intolleranza che Stevenson manifesta contro ogni immagine precostituita di Balzac – contro ogni critica convenzionale della Comédie humaine, subordinata a qualsiasi restrizione, necessità, istanza più o meno ostentata di esemplarità “classica” o di astrazione regolatrice dell’esperienza dell’opera – si mantiene sempre attiva, vigile, intransigente. Stessa aggressiva contrarietà, stessa impazienza irriverente di fronte alle letture di Balzac ben altrimenti complesse e raffinate di Swinburne, o di Henley, o di Henry James. Il rapporto con il Maestro (qualunque sia, di volta in volta, il Maestro convocato), in Stevenson, sembra volersi pensare costantemente “di nuovo” e “del tutto nuovo”: ogni volta esaminato daccapo e con un approccio studiato da una prospettiva diversa, aggirando a ogni costo tutto ciò che, sull’autore in questione, è stato costruito e classificato, inventariato e inquadrato — come in una sorta di corsa agli ostacoli la cui sola regola sia la fuga spericolata, il più lontano possibile, dai luoghi comuni della “reputazione critica” riconosciuta.

  Quando parla di romanzi, personaggi, scene della Comédie humaine, o quando “rappresenta” queste letture nelle sue stesse opere, Stevenson mira a quella specifica attività del leggere che si esercita in quello specifico spazio della comprensione critica aperto dalla relazione complessa e azzardata tra uno scrittore che legge e un altro scrittore che viene letto. Si tratta sempre, per lui, di innestare il presente dell’esperienza dell’opera altrui in un rapporto essenziale, ineludibile, che si tesse nel corso del tempo fra la costruzione critica della lettura, la ricerca inappagata, forse utopistica, del Maestro ideale, e il progetto, sempre in corso, della formazione della propria identità di scrittore, da sondare, ridefinire, rimettere in questione di volta in volta. Lettura o “reinvenzione” di Balzac ed elaborazione autoriflessiva non sono concepibili separatamente. Si esercitano l’una attraverso l’altra: ogni ritratto balzachiano è anche l’autoritratto di uno scrittore che sta interrogando, allo stesso tempo, se stesso, il suo rapporto con un “grande precursore” e, infallibilmente, le proprie opere a venire, proprio là dove le loro possibilità si fanno più problematiche e i loro esiti più incerti. Stevenson “si rivolge” ambiguamente a Balzac per aprire o rilanciare la propria scrittura, per imprimere una svolta, consumare una rottura, impegnare un difficile negoziato tra il futuro imminente e il passato prossimo o lontano di ciò che ha già scritto, o magari per convincersi che sta effettivamente “voltando pagina” – alla ricerca, comunque, di una relazione miracolosamente attiva fra la riflessione e la produzione della scrittura.

  Non stupisce, perciò, che le letture stevensoniane assumano spesso tutte le apparenze di una beffarda insurrezione contro il Balzac “ufficiale” della critica accademica e universitaria, imbalsamato nei clichés della sua canonizzazione istituzionale. Stevenson diffida apertamente delle pretese alla conoscenza dei saperi codificati dai professionisti dell’ana­lisi letteraria (“imparare un dogma in più significa solo apprendere un nuovo errore, che magari non vale affatto più di quelli in cui credevamo prima ...”). Scansa come la peste la tentazione della sistemazione critica dottrinale e precettistica del “romanzo balzachiano”, e mette allegramente fra parentesi ogni presunta autorevolezza assegnata a modelli conoscitivi impersonali, rarefatti, asettici: l’apparato teorico e concettuale del discorso sulla letteratura cede il passo all’esperienza della letteratura, privilegiando l’aspirazione a inventare un rapporto radicalmente innovativo con le proprie letture.

  Anticonformisti, indisciplinati, decisamente poco ortodossi, sono anche i modi e le forme in cui si esplicita il lungo pellegrinaggio di Stevenson nella Comédie humaine. Invece di un canonico compendio di ponderate conclusioni critiche, ci viene offerta una miriade di note, passaggi, osservazioni fulminee e spaesanti, in testi dallo statuto piuttosto eterogeneo che comprendono “consigli di lettura” così come reminiscenze autobiografiche, racconti di viaggio e trattati parodistici accanto a diari, lettere, frammenti narrativi e romanzi. Possiamo incontrare il Balzac di Stevenson in una divagazione sulle “delizie” del marinare la scuola o in una lista semiseria degli scrittori “geniali” di una “storia della letteratura” quantomai inattendibile, in un’accesa discussione teorica con Henry James o in una lettera al cugino Bob, e persino, direttamente, in un testo di finzione, dove un Balzac immaginario ci interpella e ci frastorna, immerso fra i personaggi di un romanzo che “raccontano” le loro letture della Comédie e trasformano in “narrazione” il rapporto con il loro autore. Ma anche i testi saggistici sfuggono alle demarcazioni tradizionali fra scrittura argomentativa e scrittura romanzesca. I saggi di Stevenson si organizzano ancorandosi a figure, snodi, immagini narrative, e a volte ri-narrativizzano, o ‘raccontano di nuovo’, le storie balzachiane di cui si occupano. Sono inframmezzati di affabulazioni e favole critiche, di complesse costellazioni figurali e metaforiche, di elementi manifestamente romanzeschi, di intrusioni autobiografiche, di microracconti o racconti frammentari. Quanto alle “immagini” di Balzac (i concisi ritratti in cui si condensano molte delle più profonde, originali e non di rado irriverenti letture stevensoniane), sono sottoposte anch’esse, nel corso del tempo e da uno scritto all’altro, alle peripezie, alle trame e ai conflitti che lo spazio narrativo, per definizione, legittima. Per il suo “Balzac immaginale”, ad ogni modo, Stevenson si immerge preferibilmente nella rilettura delle figure di artisti “riflesse’ nella Comédie humaine, o si lancia nell’intima frequentazione degli “scenari d’autore” che pullulano nei romanzi, nei testi teorici e nelle prefazioni di Balzac.: mitologie e finzioni d autore, autorappresentazioni dello scrittore alla ricerca di un’incarnazione fantasmatica, repertori di posture autoriali assunte via via nelle complesse strategie mediatiche balzachiane, costantemente in fermento e in ebollizione. Stevenson, evidentemente, non punta alla restituzione integrale o alla ricostruzione storica di queste “auto-immagini” create da Balzac. Semmai, nella sua veste di scrittore-lettore, si mette alla prova e ricerca se stesso grazie alla traversata immaginaria di un immaginario dell’autore proiettato in opere e in “racconti critici”: come Balzac mette in scena Balzac, come si sdoppia in un teatro di sogni e di ombre o in una galleria di specchi dove si agitano i suoi alter ego rutilanti, eguali traiettorie può assumere la configurazione dei loro ruoli, delle loro finalità, dei loro statuti possibili.

  Queste “presenze balzachiane nelle opere di Stevenson, pensate e costruite sotto il segno del racconto e dell’autoracconto, non costituiscono solo una “storia della lettura di cui testimoniano, ma ci raccontano anche una vera e propria “storia”: intorno a un personaggio (lo scrittore Balzac, l’“autore-personaggio” Balzac, eroe di un’impresa letteraria memorabile e gigantesca); intorno all’enigma di un’opera che coincide, agli occhi di Stevenson, con un problematico, minaccioso modello del romanzo in quanto genere; intorno alle trame affascinanti e aggrovigliate di un avventura intellettuale e creativa trasformata talvolta in apologo esemplare; intorno all’intreccio insidioso di una relazione da scrittore a scrittore; intorno agli splendori e alle miserie della passione suprema, totalizzante, esclusiva, per la narrazione.

  Per inseguire il Balzac di Stevenson, dobbiamo quindi immergerci in una sorta di “racconto critico”, flessibile, discontinuo, frammentario. Nei testi di frontiera che ce lo consegnano – in un certo senso “extra-territoriali”, rispetto agli statuti di genere, alle categorie interpretative di convenzione, alle maglie delle discipline istituzionali – si gioca la scommessa dell’ibridazione creativa di lettura c scrittura. Invenzione, interrogazione critica, lavoro dell’immaginario, speculazione teorica, finzione, intervengono allo stesso titolo, in una conflittualità produttiva, nella complessa costituzione di questa “inconcepibile” operazione di lettura. Ma il gioco di Stevenson non è mai gratuito, né incline a una “finzionalizzazione” indiscriminata e indistinta. Il suo itinerario nella Comédie si compie in nome dell’esigenza di fare della lettura dell’altro scrittore (del nuovo rapporto con Balzac che si conquista quasi palmo a palmo) un’esperienza radicale di trasformazione: trasformazione critica, nella traversata dell’opera altrui, e trasformazione della scrittura, nello spazio presente o imminente dell’altra opera – la propria, quella di colui che legge e, come l’altro, scrive.

  Sulla scia di questa rocambolesca impresa di uno scrittore-lettore d’eccezione, sarà bene sgombrare il campo, in via preliminare, da alcuni possibili, inopportuni malintesi.

  La lettura di Stevenson non consiste in una semplice rielaborazione di varie “fonti” balzachiane, ma in un incontro, in un complesso dialogo dove il movimento dell’identificazione e della riappropriazione immaginaria – del “souci de soi” che cerca di attingere a se stesso attraverso i suoi “altri” possibili — coesiste con l’esperienza perturbante di un’alterità non assimilabile, nella doppia dimensione della prossimità da conquistare e della distanza comunque mantenuta.

  Non è un contributo fra gli altri (per quanto illustre) all’edificazione monumentale del canone balzachiano, ma una naturalizzazione “eretica” della lezione di Balzac, attraverso la ricerca polemica e anticonvenzionale di un’eredità “a rovescio”, altrimenti perduta.

  Non ci interessa in quanto modello astratto, statico e schematizzabile della lettura ma, appunto, come “storia”: come processo aperto, mai lineare, di riflessione e “complessificazione” dell’attività del leggere, dispiegata nel tempo e intimamente legata ai contesti e ai momenti specifici attraversati dallo scrittore che “sta leggendo”. È un’invenzione critica in divenire, sempre in corso d’elaborazione, esposta alla contingenza e all’instabilità, dove si inscrivono non solo le fasi transitorie ma anche le incertezze dello scrittore-lettore Robert Louis Stevenson, con i suoi andirivieni problematici nel rapporto con Balzac, e le oscillazioni tra interrogativi, sondaggi, procedure dissonanti spesso compresenti.

  Non è una “mislettura”, un deliberato fraintendimento critico da parte di un “successore” in rapporto agonistico con la tradizione e in lotta per la sopravvivenza con il “precursore”. È, al contrario, una lettura creatrice fondata su una necessità progettuale rivendicata apertamente, insieme alle motivazioni e alle complesse finalità, anche contraddittorie, che si autoassegna: un’interpretazione forte, ma forte delle inquietudini e degli interrogativi che la animano, delle prospettive inedite e mai precostituite da cui muove, delle nuove domande che sa produrre, strada facendo.

  Non è, soprattutto, la dissoluzione dell’opera balzachiana nelle nebbie impressionistiche di un esuberante lettore in eccesso di euforia esegetica. Nessuno, probabilmente, sapeva meglio di Stevenson che “i testi esistono”, e “resistono tenacemente” – per nostra fortuna – nonostante le derive ermeneutiche dei loro commentatori. Nel suo lunghissimo viaggio attraverso La Comédie humaine, l’alleanza provocatoria fra invenzione immaginale e costruzione critica non è un ostacolo o un limite, per la “storia di lettura”, bensì la sua condizione stessa. Non possiamo mai dimenticare, ripercorrendo questa “storia”, che chi la scrive, chi legge Balzac, è a sua volta un altro scrittore. Ritorni riflessivi e autoriflessivi si esercitano tra la riconfigurazione retrospettiva della Comédie humaine, attraverso quel nuovo compimento che le viene conferito dal punto di vista orientato in funzione di un lavoro attuale, in corso d’opera, e la prospettiva anticipatrice verso un nuovo spazio estetico da conquistare che, appunto, si pensa e si progetta lungo il cammino, per interposto Balzac”. Ma è precisamente questo doppio orizzonte, questa doppia possibilità di abitare creativamente due opere, la propria e quella altrui, che elargisce una profondità insospettata allo sguardo dello scrittore-lettore – e gli permette, come scrive Calvino a proposito delle sue letture dei “classici”, di sperimentare un discorso che nessun altro “potrebbe tenere al suo posto”.

  Perché Stevenson è davvero un lettore e un critico geniale della Comédie humaine. Il suo stupefacente Balzac, eccentrico e sovversivo, ricostruito avventurosamente perlustrando ampie zone inesplorate della Comédie o sconvolgendo le mappe già tracciate dei suoi territori narrativi, si rivela straordinariamente lucido, innovativo, lungimirante. È un Balzac controcorrente, “reinventato” nella contestazione permanente di ogni sua immagine consolidata dalla tradizione, in uno spazio di libertà, se non di “gioiosa vacanza”, dal commento erudito e dalla sistemazione codificata – ma senza mai venir meno all’appello dell’alterità non evacuabile delle opere, o alla “dialettica tra i diritti dei testi e i diritti dei loro interpreti" o alla “responsabilità etica” del lettore nella relazione critica. Ovvero, con le parole di Stevenson: “Nei libri ci sono tanti occhi metaforici che sembrano costantemente fissi su di noi, intenti a spiare le nostre azioni: gli occhi dei morti e degli assenti, che immaginiamo vicini nei nostri momenti più intimi e solitari, e che abbiamo sempre paura di offendere. Sono i nostri giudici, i nostri testimoni ...”.

 

 

  Susi Pietri, La vita di Honoré de Balzac. Inventar la favola e poi credere sia vera, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXVI, N. 2, Febbraio 2009, p. 11.

 

  “E poi la fortuna è cieca! – diceva. Può proteggere indifferentemente me o un imbecille qualsiasi. E non è nemmeno tanto difficile inventarsela, la fortuna! ... Basta che uno dei miei amici milionari (e ne ho parecchi) o un banchiere che non sa che farsene dei suoi soldi venga a dirmi: ‘Conosco il vostro immenso talento e le vostre difficoltà; vi occorre questa somma per sentirvi libero, accettatela senza alcun timore. Me la restituirete: la vostra penna vale milioni!’. Basterebbe questo, cara mia!”. È Laure Surville, la sorella minore di Balzac, che ci consegna questa immagine insieme tenera e divertita delle chimeriche speranze di salvezza dello scrittore, perennemente indebitato. E aggiunge, subito dopo, con malinconico disincanto: “Avvezza a quelle illusioni che facevano rinascere in lui il coraggio e il buonumore, non mi mostravo mai stupita. Inventata la favola, trovava ragioni su ragioni per convincersi che era vera”.

  Balzac mio fratello (ed. orig. 1858, trad. dal francese di Roberta Ferrara, introd. di Daria Galateria, pp. 182, € 9, Sellerio, Palermo 2008) è un seducente ritratto dello scrittore, pubblicato a pochi anni dalla sua scomparsa, ma anche una prima ricostruzione appassionata, a tratti puntigliosa, di molte zone d’ombra e margini oscuri della sua parabola esistenziale, a cominciare dall’infanzia, quella terribile infanzia di privazione ed esilio dagli affetti familiari che i due fratelli hanno condiviso fin dalla più tenera età. Il racconto di Laure si snoda mantenendo un difficile, precario equilibrio tra la volontà di testimonianza e un’inconfessabile esigenza di occultamento: la fitta trama di omissioni, allusioni velate, silenzi inesplicabili che avvolgono – accuratamente, “ma non troppo” – gli scheletri nell’armadio di famiglia. Come ricorda Daria Galateria, nell’introduzione al volume, gli accenni elusivi di Laure costituiscono un implacabile protocollo indiziario per risalire a queste “storie segrete”, i cui fili sono intessuti in innumerevoli luoghi dell’immensa rete narrativa della Comédie humaine, formando una trama talvolta inestricabile di motivi autobiografici, intrecci romanzeschi, proiezioni immaginarie e ambigue invenzioni compensative. In seguito, la critica balzachiana provvederà a ispezionare e scandagliare, più o meno autorevolmente, quasi ogni momento della vita di Balzac; ma la biografia di Laure conserva ancora l’impronta ineguagliabile della felice mescolanza di narrazione, leggerezza aneddotica, finzione retrospettiva, partecipazione empatica, affabulazione liberatoria.

  Paradossalmente, per ritrovare questo affascinante e inquietante connubio di modi così eterogenei del discorso biografico, si deve abbandonare il campo consolidato delle analisi e degli studi eruditi, inoltrandosi in un terreno infinitamente più accidentato e pieno di incognite: quella sorta di “storia parallela” della ricerca biografica balzachiana, di genere totalmente diverso, in cui si inanellano le imprevedibili biografie di Balzac prodotte da altri scrittori: un vero e proprio “romanzo della vita di Balzac”, scritto a più mani nel corso del tempo, e rilanciato da un autore all’altro. “Era proprio lui, la più forte mente commerciale e letteraria del XIX secolo; lui, il cervello poetico tappezzato di cifre come l’ufficio di un finanziere; era proprio lui, l’uomo dai fallimenti mitologici, dalle imprese iperboliche e fantasmagoriche, il grande cacciatore di sogni, senza tregua alla Ricerca dell’assoluto; lui, il personaggio più curioso, più strampalato, più interessante e più vanitoso tra i personaggi della Comédie humaine”. Baudelaire scrive queste righe nel 1845, quando Balzac è ancora vivo, e ci sta raccontando un episodio che potrebbe, verosimilmente, essere balzachiano (si tratta dei rocambolesco tentativo di pagare una cambiale con articoli d’occasione, coinvolgendo gli “incolpevoli” Gérard de Nerval, Théophile Gautier e Édouard Ourliac), ma che si rivela un ironico pretesto per celebrare, nella persona stessa di Balzac, l’imminente nascita di un mito letterario, gli albori di un’epopea leggendaria della scrittura.

  Si inaugura così lo “strano caso” dello sdoppiamento, o della perversa simbiosi, tra il Balzac anagrafico e un Balzac eroico e funambolico, di volta in volta Napoleone delle lettere, asceta della revisione stilistica, paradigma assoluto della forma-romanzo: l’oggetto privilegiato di un culto intimo eppure collettivo, nella ristretta cerchia degli addetti ai lavori, dove si incontrano (ed entrano in rotta di collisione) la celebrazione e la ricerca di affinità insospettabili, il sentimento di coappartenenza, il desiderio di identificazione, se non l’inconfessabile volontà di appropriazione, più o meno abusiva.

  I testi che compongono questo inedito “romanzo balzachiano”, non autorizzato e certo non ufficiale, sono eterogenei, spesso inclassificabili. Ricostruzioni biografiche che si vorrebbero “integrali”, coniugate con il tentativo di una lettura globale dell’opera, come Balzac, il romanzo della sua vita di Stefan Zweig, del 1908, o Prometeo. Vita di Balzac di André Maurois, del 1963. “Biografie autobiografiche”, scritte da chi ha intrecciato direttamente la sua avventura esistenziale con quella di Balzac, ne ha condiviso esperienze, stagioni intellettuali, strategie editoriali, imprese giornalistiche, incidenti talvolta esilaranti, a cominciare dal celebre, forse ancora insuperato Honoré de Balzac di Théophile Gautier.

  Saggi che, irresistibilmente, dimenticano il loro statuto saggistico e si trasformano in sfolgoranti, sintetiche “vite di Balzac”: è il caso dell’introduzione alla Comédie humaine che George Sand scrive nel 1855, o della recensione dell’epistolario di Balzac firmata nel 1877 da un giovane ma già lucidissimo Henry James, che si lancia nella spericolata lettura del “rapporto tra la vita e l’opera” inscritto tanto nelle lettere balzachiane che nella Commedia umana. E non vanno dimenticati poi i racconti puntuali di aneddoti più o meno plausibili, di episodi di pura invenzione, o di singoli momenti paradigmatici di questa “vita esemplare dello scrittore”. William Thackeray, nei suoi reportage giornalistici da Parigi, racconta in diretta l’intervento donchisciottesco di Balzac nel caso giudiziario di S.-B. Peytel, per salvare l’imputato dal patibolo. Victor Hugo scrive pagine tragiche sulla sua ultima visita a Balzac morente. Oscar Wilde reinterpreta le vibranti proteste balzachiane contro le ripetute accuse d’immoralità delle sue opere. Octave Mirbeau ricostruisce fin nei minimi dettagli, ma su basi totalmente inattendibili, la scena indiziaria di un’improbabile Morte di Balzac, con i toni e l’atmosfera di un noir, e una Madame Balzac-Hanska trasformata in “femme fatale” perfida e funesta, tra le braccia di un altro durante l’agonia dello scrittore.

  Alcuni degli episodi narrati da Laure (come il viaggio in Sardegna, a caccia delle favolose miniere d’argento dei romani, o le passeggiate notturne e solitarie per le strade di Parigi, o il famigerato saio monacale indossato per scrivere giorno e notte, o il ciclopico lavoro di revisione e correzione delle bozze, a ogni pubblicazione di un nuovo romanzo) si rincorrono da uno scrittore all’altro, ripresi e come “riscritti” in più versioni, da Swinburne a Rilke, da Cechov a Hofmannsthal, a Yeats, Kafka, Pasternak. Sono i frammenti di una molteplice biografia balzachiana immaginaria, o biofinzioni visionarie, magari inventate, talvolta, di sana pianta, o, più spesso, sono le complesse, raffinate manifestazioni di un incontro ambivalente tra il desiderio romanzesco della biografia e il desiderio biografico (e autobiografico) di un “romanzo dell’autore”, alla ricerca dell’avventura più appassionante ed enigmatica dell’esistenza di Balzac: la vita segreta di una scrittura, il lungo processo di formazione di un’opera-mondo interminabile.

  Ovvero, come scrive Henry James: “Balzac morì, come sappiamo, a cinquant’anni — logorato dal lavoro, dal pensiero e dalla passione; quella passione, voglio dire, che egli aveva profuso nel suo immenso progetto e che lo aveva dominato come una punizione degli dei (...) L’impresa rimane una delle più imperscrutabili, insondabili e definitive della storia dell’arte, e se l’autore stesso presenta una sua propria incomparabile oggettività, ciò avviene anche in virtù della sfida che la sua figura costituisce per ogni altro pittore della vita che dovesse provare, di fronte a Balzac, la tentazione di rappresentarlo, o di spiegarlo”.

 

 

  Susi Pietri, Histoires de lecture. Écrivains-lecteurs de «La Comédie humaine», «Dix-neuvième siècle», n° 46, 2009, pp. 94-95.

 

  Presentazione della tesi di dottorato del 2007.

 

 

  Stefano Poggi, La cena di Zurigo, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 197.

 

  Racconto di un incontro immaginario, a Ginevra, tra Balzac e Georg Buechner, giovane medico e rivoluzionario tedesco autore de La mort de Danton.

  Trascriviamo il testo del capitolo I intitolato: “Table d’hôte” per tre, pp. 5-17.

 

  L’idea di tornare in Francia lungo la strada che, da Milano, raggiungeva Como, e di lì Lugano, il Gottardo e infine Zurigo non era stata una cattiva idea. Il tempo era stato bellissimo, con una luce che - in quell’inizio di settembre del 1836 – già aveva il colore ambrato dell’autunno, specialmente nella discesa verso Schwyz, verso il lago dei Quattro Cantoni, con la strada che, finalmente non più tutta di repentini tornanti tagliati attraverso rovine di pietrame, percorreva con un andamento sinuoso il fondo valle ancora verdissimo, disseminato di fienili gì à ben riforniti per l’inverno. In effetti, rientrare in Francia passando per la Svizzera tedesca e il lago di Costanza per poi raggiungere Friburgo e poi Karlsruhe voleva dire allungare il viaggio di qualche giorno. Il guadagno, per i due viaggiatori, era però apparso evidente. Per Madame Caroline Marbouty nata Pétiniaud, la commedia di farsi passare per “Marcel” aveva cominciato a essere faticosa e, in fin dei conti, anche controproducente, soprattutto da quando, alla partenza da Torino per Milano, il postiglione aveva sorriso in modo tanto beffardo quanto eloquente a sentirla chiamare “Marcel” dal suo compagno di viaggio. “Marcel” – l’avevano ben visto lui e il maniscalco chiamato a controllare i ferri dei cavalli – era salito in vettura con un movimento aggraziato e ammiccante, neanche fosse una delle figuranti del Carignano. Finché fossero rimasti in Italia, il travestimento era giocoforza mantenerlo, visto il rischio assai concreto di incontrarsi con qualche conoscenza comune. Ma una volta su per i passi alpini – e non, come inizialmente previsto, lungo il Vallese, per Sion, Vevey, Losanna – tanta prudenza non aveva avuto più senso. Ad Altdorf – conclusa oramai la lunga discesa dal Gottardo – erano arrivati oramai a notte fonda, senza che nessuno facesse caso al loro abbigliamento da viaggio prima che salissero – il tempo solo per cenare con un po’ di latte, pane con le noci e formaggio – nelle camere dell’unica locanda della cittadina. Altdorf aveva avuto un figlio assai celebre, ancor più celebre ora che Gioacchino Rossini gli aveva dedicato un’opera ormai da anni tra i più grandi successi all’Opéra: Guillaume Tell. La cosa era però del tutto sfuggita agli esausti viandanti, di nient’altro desiderosi che di un letto, fosse anche crocchiarne delle foglie secchie del granturco.

  La mattina seguente, nella vettura in attesa dinanzi al Zum schwarzen Stier, al posto di “Marcel” era così salita Madame Marbouty, che i suoi amici parigini pensavano essersi confinata in campagna già all’inizio di luglio, quando in città aveva preso a fare davvero troppo caldo e quando i salotti letterari erano oramai in gran parte già chiusi Madame Marbouty era l’ultimo dei passeggeri attesi dalla carrozza di posta in partenza per Zurigo, dove l’arrivo era previsto per il tardo pomeriggio. Senza niente avere di ciò che faceva la dolcezza della campagna intorno a Parigi c ancor più lungo il corso della Loira, verso Tours, quel paesaggio rustico, ancora quasi alpestre era rasserenante, aveva una sua umile poesia, come Caroline aveva premura ripetutamente di far notare al suo massiccio compagno di viaggio, che alla fine si decideva a ricambiare l’ostensione di tanta sensibilità con un cenno di benevola condiscendenza. Di lì a qualche anno sarebbe anzi stato ancor più generoso, dedicando alla sua compagna di viaggio uno dei suoi numerosi romanzi: À Caroline, la poésie du voyage, le voyager (sic) reconnaissant.

  Verso le tre del pomeriggio, ormai nelle vicinanze di Zurigo, la vettura si fermava per una breve sosta a Thalwil, sulla sponda sinistra del lago. Il paesaggio era ridentissimo, con i meli già carichi di frutti di un bel rosso, tanto carichi che i rami più onusti avevano richiesto un sostegno supplementare, fatto di un solido palo terminante in una forcella. Pur se quel paesaggio non aveva nulla della raffinatezza dei giardini delle ville degli aristocratici e dei nuovi ricchi oramai numerose sulle sponde del lago di Como e del lago Maggiore, era proprio a quest’ultimo che i due viaggiatori avevano pensato, freschi del ricordo di quando, neanche un mese prima, erano discesi dal Sempione verso l'Italia e, lasciatasi alle spalle la severa Domodossola, si erano fermati per la none a Stresa. Tutta affacciata sulla punta settentrionale del lago, Zurigo non aveva niente delle mollezze di Stresa, ma nondimeno appariva accogliente, con le sue case minuscole tra cui si innalzavano tigli e faggi imponenti dal fogliame già autunnale e con i suoi ponti di legno sulla Limmat, il fiume che, riversate le sue acque nel lago, ne usciva poi per rifornirne la Aare, che a sua volta confluiva, a valle di Sciaffusa, nel Reno. Proprio lunga la riva della Limmat – ma sulla sponda opposta a quella da cui avevano potuto avere il primo colpo d’occhio sulla cittadina – si trovava l’albergo a cui il postiglione aveva manifestato il proposito di farli scendere. Purtroppo l’insegna – che non era difficile leggere, viste le belle lettere d’oro appena rinfrescate – non prometteva nulla di buono dal punto di vista dello scambio linguistico con il personale di servizio: non un bel Beau Rivage come a Losanna e a Ginevra, ma un misterioso Zum goldenen Hecht, e per di più in lettere gotiche. Si poteva sperare in un bilinguismo del concierge, ma era evidente che con camerieri e cameriere non sarebbero mancati i problemi.

  L’ansia dell’incertezza su cosa (e in quale lasso accettabile di tempo) sarebbe stato possibile ottenere da un personale le cui arrotate sonorità restavano notoriamente incomprensibili anche ai viaggiatori provenienti dalla Germania scompariva però dinanzi alla ferma efficienza con cui i bagagli venivano prelevati dalla carrozza e portati al piano, nella camera del signore e in quella della signora, a disposizione della quale era anzi messa una paffuta e giovanissima pastorella fresca di addestramento alle nuove mansioni e molto orgogliosa della sua impeccabile uniforme nera con tanto di crestina e grembiule inamidati. La vista poi dalle finestre delle due camere era incantevole, e contribuiva a un rasserenamento quasi definitivo degli animi: da un lato il lago, con le Alpi già spruzzate di neve e rosa alla luce del tramonto, dinanzi la quiete delle prime ombre della sera nella piazza ornata di tigli di là dalla Limmat e sulla quale si affacciavano piccole case modeste e graziose, case di artigiani e di piccoli commercianti, dove già il pasto serale volgeva alla fine e la luce parsimoniosa delle candele o di qualche lampada a olio faceva intravedere scorci di vita famigliare che, nuovamente, toccavano nel profondo l’animo tanto sensibile da essere fragile di Madame Caroline Marbouty nata Pétiniaud, madre di due figlie probabilmente tenute all’oscuro dell’ardimentoso viaggio intrapreso dalla genitrice.

  Prepotente, la preoccupazione circa cosa sarebbe stato possibile ottenere dalle cucine del Zum goldenen Hecht interrompeva però l’idillio, e non lo interrompeva tanto nell’animo di Madame Caroline, appagato dalla contemplazione di quelle serene intimità familiari, quanto in quello del suo compagno di viaggio. Questi era tutt’altro che indifferente alla autentica poesia del modo in cui, attraverso le finestre illuminate delle modeste dimore che si affacciavano sulla piazza ornata di tigli, la semplicità dei ritmi della vita quotidiana veniva a offrirsi agli occhi di un osservatore involontariamente indiscreto. Ne aveva anzi scritto – memore anche degli interni di La Tour – in più occasioni e tra l’altro in uno dei suoi racconti più belli, La (sic) double famille, dove l’austero magistrato che ne è protagonista è combattuto tra i vincoli sociali e quelli dell’amore che in modo diverso lo lega alle due famiglie a cui ha dato vita. Ma ora – essendo di complessione robusta e sanguigna, e amante di molti dei piaceri della vita - non era per lui tempo di indulgere a siffatte meditazioni: pur considerando che la fatica di una lunga giornata di lavoro iniziata all’alba riuniva le famigliole dell’altra sponda dinanzi al desco serale assai per tempo, era innegabile che l’ora della cena era venuta anche per gli ospiti del Zum goldenen Hecht. Un tono in cui la premura si univa a una concreta preoccupazione affiorava così nelle parole con cui, bussando alla porta di Madame Marbouty, la invitava a far presto, a scendere per la cena. Già – appunto – ma quale cena? Cosa sarebbe stato possibile fare imbandire in tavola? Dopo qualche giorno di un viaggio dove era stato possibile ammirare montagne grandiose e gustare una gastronomia di robusta semplicità e assoluta monotonia, era legittimo sperare nel momento in cui por fine a quella che poteva sì essere considerata una sorta di esperienza ascetica, di esercizio alla rinuncia in sé anche salutare, ma alla lunga non sostenibile e forse controproducente, visto l’equilibrio tra sostante eccitanti e sostanze calmanti che è necessario assicurare all’organismo. La speranza era legittima e si era anche fatta viva e forte non appena aveva potuto leggere un promettente rassicurante table d’hôte all’ingresso della sala da pranzo; ma era subentrato il disorientamento, lo sconcerto non appena, squadernato il menu che un adusto e segaligno maître palesemente nuovo del mestiere aveva voluto comunque presentare in duplice copia a Madame e poi a lui, si era trovato dinanzi a una selva di caratteri gotici, al riparo dei quali si annidava un peraltro striminzito manipolo di specialità della zona, presumibilmente suddivise tra quelle realizzate con prodotti ap­partenenti al mondo vegetale e a quello animale, queste ultime ripartite in tre settori monoposto, e dunque altrettanto presumibilmente occupati da manicaretti rispettivamente di origine terrestre, aerea e acquatica. Parimenti striminzita la carta dei vini, presentata con un certo sussiego, ma che non registrava più di quattro-cinque etichette (o presunte tali): a quel che era possibile decifrare, si trattava di crus del tutto sconosciuti, forse pericolosamente autoctoni. Era evidente che ogni possibilità di schierarsi per la table d’hôte oppure di optare per una ordinazione à la carte era eliminata alla radice, vista la presumibilmente completa coincidenza delle due offerte. Ai nuovi arrivati al Zum goldenen Hecht – la sala da pranzo, non molto spaziosa per la verità, non era vuota, con tre-quattro avventori sparsi – non restavano molti margini di scelta. Si trattava però sempre di scegliere, e il problema non appariva di facile soluzione.

  Il compagno di viaggio di Madame Caroline Marbouty nata Pétiniaud. letta e riletta senza fare progressi la scarna lista che gli era stata messa a disposizione, aveva così rivolto lo sguardo verso il soffitto come in attesa di una ispirazione divina, per poi abbassarlo alla ricerca del maître, deciso a tentare la sorte, pur di potere a questo punto sostenere con una qualche vivanda le sue forze illanguidite. Non aveva mai pensato di potere trovare a Zurigo le raffinatezze del Rocher de Cancale né di potere ordinare anche solo delle ostriche, del pane, del burro e del vino di Champagne come in un qualsiasi café come si deve di Parigi. Ma almeno voleva sapere se quello che comunque avrebbe ordinato sarebbe stato carne o pesce. Nel francese più sillabato possibile aveva allora cercato di ottenere qualche chiarimento, senza però riuscire ad altro risultato che un sorriso ebete da parte del maître. Questi, in realtà, pareva preoccupato soprattutto di proporgli, a gesti, l’assaggio di uno dei vini della ricca cantina.

  Era stato allora che al tavolo al quale sedevano Madame Marbouty e il suo compagno di viaggio si era avvicinato un giovane molto alto, molto compito, la fronte ampia, gli occhi grigi, il volto ovale quasi ancora da adolescente dal naso pronunciato e dalla bocca piccola ornato da una corta barba bionda, come dello stesso colore erano i baffi e le sopracciglia, colore ben diverso dal nero di quelli, foltissimi e con tanto di mosca sul mento, dell’ormai spazientito compagno di viaggio di Caroline. In un francese perfetto, solo con un leggero accento tedesco, il giovane si scusava dell’impertinenza di disturbare la cena dei signori, che però – si permetteva di rilevare – aveva visto in difficoltà nella scelta delle vivande e quindi forse bisognosi del suo aiuto. Anche lui era giunto a Zurigo da poco, abitava in un piccolo appartamento nella vicina Steingasse ancora non completamente sistemato, sì che anche quella sera, come la precedente, era venuto al Zum goldenen Hecht per cenare. La cucina non era affatto male, piatti locali, beninteso, ma preparati con ingredienti ottimi, fre­schissimi. La scelta era limitata, senza dubbio, ma compensata dalla abbondanza e dai prezzi, veramente abbordabili anche nel caso della cacciagione, per la quale il locale aveva fama di eccellere. Ma anche il pesce era curato – d’altronde era il nome dell’albergo, spiegava il giovane tedesco, che voleva dire “Al luccio d’oro” – e quella sera aveva appena sentito dire che era proprio da non perdere: pesci di lago, d’accordo, ma di carni sode e gustose come la Renke (un pesce tra i più pregiati di quelli che popolavano il lago di Costanza, parente strettissimo dei coregoni dei laghi alpini italiani), il persico e, appunto, il luccio. Pesci attivi, abituati alle fredde acque alpine nuotatori, anche predatori, come nel caso del luccio. Niente a che vedere, tanto per fare un esempio, con il sapore di fanghiglia della indolente carpa.

  L’insperata offerta d’aiuto era stata accolta con sincero entusiasmo dal compagno di viaggio di Madame Marbouty. Fugato il timore di una scelta al buio, pareva possibile, con l’aiuto del giovane tedesco, ottenere informazioni di una qualche solidità sulle vivande del menu e passare così all’ordinazione. Fattosi da parte dopo che il massiccio francese non gli aveva nascosto il suo sdegno dinanzi alla misera carta dei vini, il maître era stato pronto a cogliere il cenno imperioso con cui ora veniva convocato al tavolo dei due viaggiatori, che nel frattempo — Madame Marbouty si era mostrata invero un po’ contegnosa nei confronti dell’intruso – avevano invitato il giovane tedesco a fare loro compagnia. Questi aveva accettato, dopo però qualche esitazione, che non nasceva tanto dal timore di essere stato troppo invadente, quanto dalla consapevolezza di condannarsi in tal modo a svolgere per tutta la serata il faticoso ruolo dell’interprete. D’altro canto, era oramai difficile tirarsi indietro; e in più c’era anche da dire che il francese, assai rincuorato dalla prospettiva di potere fare affidamento su una guida che appariva d’indubbia competenza, si stava dimostrando persona di livello ed esperta del mondo, dalla conversazione tutt’altro che banale, anche se forse troppo sicura – arrêtée, per dirla in francese – nelle opinioni espresse, in particolare in fatto di medicina. Erano soprattutto l’azione del caffè, del tè e del tabacco che sembrava interessarlo e preoccuparlo. A suo giudizio, se l’effetto del tè sulle donne inglesi e della pipa sugli uomini tedeschi era palesemente tale da deprimere ogni forma di vivacità, ancor più disastrose erano le conseguenze dell’eccesso di caffè, di tabacco – e di oppio! – presso i Turchi. A soli trenta anni i sudditi di sesso maschile della Gran Porta si trovavano ridotti a non potere sperare nelle proprie facoltà generative più di un cinquantenne, e ciò a dispetto (o forse proprio a causa?) della ben maggior sapienza nell’uso di strumenti meccanici (in primo luogo il narghilé) per soddisfare i piaceri di cui gli orientali avevano dato e continuavano a dar prova rispetto agli europei. Poteva essere molto interessante riuscire a capire chi costui davvero fosse, se un personaggio un po’ singolare comunque legato all’alta società per i suoi commerci o per le sue competenze oppure un artista, quale un musicista o un pittore, visto il linguaggio ricco d’immagini e di metafore di cui faceva uso creando in più d’un caso notevoli difficoltà interpretative al giovane tedesco, che pur aveva al suo attivo la traduzione di ben due drammi di Victor Hugo: Lucrèce Borgia e Marie Tudor.

  La sospiratissima ordinazione poteva così finalmente avere luogo e metteva a dura prova il lavoro di traduttore del giovane tedesco, visto che il sanguigno francese era curioso di ogni dettaglio relativo alla preparazione delle vivande che avrebbe poi gustato. Scartata la cacciagione in base a motivazioni un po’ fumose dietro le quali era evidente nel compagno di viaggio di Madame Marbouty il timore di un attacco di podagra, maturava un orientamento del tutto favorevole al pesce: alternative, a questo punto, d’altronde non se ne davano, e quanto già emerso a favore della Renke e del luccio era apparse assai convincente. Restava però da decidere le modalità di cottura. Il maître prospettava la possibilità di una scelta – almeno in questo caso era possibile compierne una – tra una semplice bollitura (beninteso nel court bouillon di prammatica) e una ben più sapida preparazione, diversa però per la Renke e per il luccio. Per la Renke era prevista una versione elvetica della classica truite aux amandes, mentre per il luccio si prospettava una elaborazione tipicamente germanica, cioè a dire il ricorso a una ricetta in uso sul lago di Costanza e nel Baden-Württemberg, ricetta che prevedeva l’uso dello speck e della panna, con un piccolo quantitativo anche di quella cosiddetta acida. La bollitura veniva immediatamente scartata, apparendo d’altronde metodo di cottura più consono ai pesci di mare, di sapore più deciso. Saggiamente, poi, si preferiva non operare scelte a favore di uno dei due tipi di pesce e di evitare così ogni pentimento o rimorso: la commande accolta e registrata dal maître e da questi con la più grande sollecitudine trasmessa in cucina riguardava sia tre begli esemplari di Renke sia un luccio di dimensioni adeguate a placare gli appetiti che le Renke non fossero bastate a soddisfare. Definita la commande rimaneva però da stabilire quale vino avrebbe potuto accompagnare le vivande di cui era iniziata l’attesa.

  Anche in questo caso non ci sarebbe stato l’imbarazzo della scelta. Accanto a due rossi – un Borgogna e persino uno Châteauneuf du Pape, non si sa da quanto e come approdato alla cantina del Zum goldenen Hecht – i bianchi annoveravano uno Chablis e un più modesto Muscadet, cui si aggiungevano due prodotti più o meno della zona: un vinello del Vallese presumibilmente asprigno (a stare al colore verde mela che il vetro bianco della bottiglia metteva a nudo) e un vino della regione del Lago di Costanza dai riflessi rosa-aranciati, di aspetto molto più promettente, ma forse un po’ abboccato. Pur dinanzi alla modesta panoplia, l’incertezza era molta né, per superarla, era possibile far conto sulla dichiarata in competenza del giovane tedesco. Questi, tuttavia, non si perdeva d’animo, cominciando ad avvertire il flusso di simpatia che verso di lui promanava da parte del vitalissimo viaggiatore francese. La sua proposta era audace: perché non rinunciare a ordinare del vino – tanto più che non vi era nessuna garanzia che le bottiglie fossero state conservate con i dovuti accorgimenti, visto che un buon numero di esse occupava mensole e ripiani della sala da pranzo – e scegliere invece anche in questo caso un prodotto locale? Dunque non del vino, ma un sidro molto secco, quasi una birra senza peraltro l’amaro del luppolo, non sempre gradito. Se tutti potevano essere d’accordo sul fatto che le proprietà detergenti ed eupeptiche della birra ne facevano la bevanda ideale con cui accompagnare – ancor meglio quando si trattasse di birra scura – la consumazione di pesci affumicati e di forte sapore conte le aringhe e gli sgombri del mare del Nord, il Most – questo il nome del particolare tipo di sidro prodotto in quella zona della Svizzera tedesca, tra Zurigo, San Gallo e il corso dello Unterrhein – si sposava a meraviglia, con il suo gusto asciutto ma non amaro, col sapore deciso, ma comunque delicato della Renke, del luccio, financo del persico infarinato e appena fatto andare nel burro spumeggiante. In più, si permetteva di commentare il giovane tedesco, la sua bassa gradazione alcolica faceva sì che potesse essere bevuto in quantità superiore al vino, col doppio vantaggio di spegnere la sete e di assicurare un apporto più blando e nello stesso tempo più durevole di quelle sostanze sia eccitanti sia calmanti che una diffusa opinione voleva indispensabili all’equilibrio dell’organismo. Il giovane tedesco si bloccava però, improvvisamente. Temeva che il tono della voce con cui si era richiamato a quella opinione avesse tradito il suo profondo scetticismo al riguardo e potesse suonare offensivo agli orecchi del simpatico francese, che gli era apparso esserne convinto sostenitore. Il suo timore era però infondato: le restanti energie del viaggiatore francese erano tutte protese a una sorta di preparazione interiore alla degustazione di cosa si stava approntando in cucina, e la sua perorazione a favore del Most era stata molto efficace. Di comune accordo era stato stabilito di farne intanto venire in tavola una brocca, per festeggiare l’incontro con un brindisi augurale e avviare così il complesso e delicato meccanismo di una cena come si deve. Era però ancora necessario assolvere a un’ultima fondamentale incombenza, colpevolmente omessa da ambedue le parti. Allorché aveva offerto il suo aiuto ai due viaggiatori, il giovane tedesco, nell’imbarazzo di un passo che la sua innata timidezza gli faceva sentire ardimentoso, non aveva pensato a presentarsi, come d’altronde avrebbe richiesto l’etichetta; e tantomeno il compagno di viaggio di Madame Marbouty aveva avuto l’animo di imporgli di declinare le proprie generalità. Qualificandosi come il dottore in medicina Georg Buechner di Darmstadt, chiamato a insegnare presso l’Università di Zurigo, il giovane tedesco a questo punto si precipitava, orgoglioso del successo della sua missione di salvataggio, a rendere conto della propria identità. Di rimando, il dottor Buechner poteva così apprendere di sedere allo stesso tavolo con il signor Honoré (de) Balzac, uomo di lettere e giornalista, che accompagnava in un viaggio di piacere e di istruzione Madame Caroline Marbouty nata Pétiniaud, consorte di un funzionario pubblico di alto rango e animatrice tra le più vivaci della vita culturale parigina.

 

 

  Giovanni Raboni, Balzac, gli splendori nascosti del brutto cugino Pons, in Il libro del giorno. 1998-2003, Milano, Fondazione Corriere della Sera, 2009, pp. 109-110.

 

  Cfr. 1999.

 

 

  Valeria Ramacciotti, L’esilio dell’androgino, in Identità nascoste. Saggi di letteratura francese dell’Ottocento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009 («Studi e Ricerche», 73), pp. 1-18.

 

  In questo studio (risalente al 1990), l’autrice riflette sul mito dell’androgino e, in particolare, su di una sua peculiare caratteristica: quella dell’esclusione e dell’esilio, che vede accomunare tra loro quattro testi narrativi dell’Ottocento francese: Fragoletta di H. de Latouche; Sarrasine e Séraphîta di Balzac e Mademoiselle de Maupin di Gautier, pubblicati tra il 1829 e il 1835.

  In pieno contesto romantico, la rappresentazione della duplicità insita nella figura dell’androgino costituisce una componente essenziale del mito se considerata come elemento di irresolubile contrasto, di isolamento e di esclusione nei confronti della società civile. Soltanto in una dimensione di assoluta autonomia e di autoreferenzialità estetica, l’androgino sembra rivelare la propria condizione di perfezione. Dato il loro “non-essere”, l’esilio e la maledizione sono il marchio indelebile di queste esistenze fatali: in Sarrasine, Zambinella è «condannata all’esilio del teatro» (p. 13), mentre l’unico essere che, almeno in apparenza, realizza un ideale di idealità assoluta, lontano da qualsiasi rapporto o legame con la dimensione terrena, è Séraphîta, la cui spiritualità disincarnata fa, di questo personaggio, quello che M. Eliade chiamava «la suprema e irripetibile realizzazione del mito». Il tratto che accomuna tutte queste creature è dunque il non-essere: è il tentativo disperato di conciliare gli estremi di una contraddizione esistenziale e sociale in un ideale mitico che necessariamente deve sottrarsi alle logiche del mondo reale per elevarsi, come Séraphîta appunto, verso una dimensione mistica che, depurata da ogni scoria terrena, si completa e si realizza soltanto nella sfera estetica.

 

 

  Elisabetta Rasy, Lo scrittore, mio fratello, «Il Sole 24 Ore – Domenica», Milano, N. 38, 8 febbraio 2009, p. 27.

 

  Laure Surville, nata Balzac, difese la memoria del grande romanziere in un’affettuosa biografia. La sorella di Pascoli ci provò con meno talento.

 

  Una piccola, spettrale schiera di pallide figure femminili si aggira tra le quinte della letteratura. Sono le Sorelle degli Scrittori, e talvolta, ma solo talvolta, delle Scrittrici. In tempi meno ossessionati dei nostri dal demone biografico, in tempi cioè dove le biografie autorizzate e quelle non autorizzate non erano né una moda né un business, stava a loro sollevare il velo della privacy di venerati maestri o, semplicemente, aggiungere un imprevisto nome femminile al lustro di un cognome di uomo. In genere, però, lo facevano non per rivelare lati imbarazzanti o suscitare scandalo. Anzi, esattamente il contrario. Custodi di idilliache verità sconosciute e incuranti di spiacevoli verità di pubblico dominio, con mani delicate cercavano di suturare quei buchi, quelle crepe, quelle contraddizioni che separano l’opera ammirevole da una vita disdicevole o semplicemente fragile, peccaminosa e fallace come la vita di tutti. Questo il caso, per esempio, di Laure Surville, nata Balzac, questo il suo compito. Nel 1856, cioè pochi anni dopo la morte del celebre e chiacchierato fratello, instancabile scrittore ma anche instancabile debitore; velleitario quanto confusionario imprenditore, Laure si prefigge un compito: «Rendere noti dei dettagli che oggi sono la sola a conoscere e che consentiranno di scrivere una biografia fedele dell’autore della Comédie humuine». Intanto, aspettando i posteri, la biografia la scrive lei stessa un attraente libretto che oggi ci viene proposto da Sellerio, con l’ottima cura di Daria Galateria e l’impeccabile traduzione di Roberta Ferrara.

  Laure scrive bene, decisamente meglio di un’altra sorella, delle nostre lettere in questo caso, quella Maria Pascoli che a più riprese, cominciandola addirittura mentre lui era vivo, scrisse una dettagliata biografia di Giovanni, mentre con devozione inflessibile ne veniva curando e editando le carte. [...].

  Laure, pur rimanendo sempre in contatto col fratello, aveva una sua solida situazione famigliare, marito, figli, relazioni. Pure qualcosa hanno in comune: la convinzione che è necessario lavare, con l’unica conoscenza che conti – la conoscenza del cuore che è poi la conoscenza dell’origine e della stirpe – le macchie che l’invidia e la maldicenza hanno attribuito ai geniali fratelli. In questo senso Laure Surville ha due problemi, o due bestie nere: i rapporti di Balzac coni genitori, soprattutto con la madre, e i debiti di cui si era sistematicamente coperto lo scrittore in tutto il corso della sua vita e, strettamente collegati, i ripetuti fallimenti delle sue imprese commerciali. Con debiti e fallimenti Laure se la cava a buon mercato, attribuendo entrambi alla bontà del fratello e alla sua geniale intraprendenza che gli altri ottusamente non capivano. Quanto ai rapporti familiari, nella fattispecie quelli con la madre – che Balzac non sa se chiamare più pazza o più cattiva definendola per tagliar corto “un mostro” – risolve con un colpo di spugna culturale e la questione: «A quel tempo i figli non avevano il ruolo importante che oggi si vuole imporre loro in tante famiglie. Non erano nessi in mostra, erano trattati come bambini e educati prima di tutto al rispetto e all’ubbidienza verso i genitori». (Frase che, dalla modernità ottocentesca a quella odierna, di generazione in generazione ha continuato ad assolvere la sua consolante o recriminatoria funzione). [...] Laure non ha simpatia per la vita sentimentale del fratello: neppure una parola, in tuttala biografia, per Madame Hanska, l’aristocratica polacca che Balzac inseguì maniacalmente per anni e anni riuscendo a sposarla solo quasi in articulo mortis. [...].

 

 

  François Regnault, Balzac (Traduzione di Lucia Simona Bonifati), in AA.VV., Parvenze e sintoma, «Attualità lacaniana. Rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi», Milano, Franco Angeli, 10/2009, pp. 59-62.

 

  Dove parla di Balzac Lacan? Nel Seminario XVII. Il rovescio della psicoanalisi, che egli accosta al romanzo intitolato Il rovescio della storia contemporanea situato da Balzac nel terzo volume delle sue “Scene di vita parigina” secondo la classificazione del 1834.

 

  Vorrei farvi osservare che, come opere letterarie, si sono sempre lette solo cose che non stavano né in cielo né in terra. Perché reggono? Mi è accaduto nel mio ultimo passo falso – li adoro – di leggere Il rovescio della vita contemporanea di Balzac. È veramente una cosa che non sta proprio né in cielo né in terra. Se non lo avete letto, vi sarà capitato di leggere quel che vi pare sulla storia di fine Settecento e di inizio Ottocento, insomma sulla Rivoluzione francese, per chiamarla con il suo nome. Vi sarà magari capitato anche di aver letto Marx. Non ci capirete niente e vi sfuggirà sempre qualcosa. Qualcosa che si trova solo qui, in questa storia che vi farà sudare sette camicie — Il rovescio della vita contemporanea.

 

  [...]. Ma perché preferire, riguardo a questa questione del rovescio, Balzac a Marx? Una lettera, non di Marx, ma di Engels, coincide in modo straordinario con il punto di vista di Lacan [Lettera a Miss Harkness, aprile 1888].

  [...]. Ma il rovescio, secondo Balzac, è piuttosto quello che esiste tra questa borghesia, la cui descrizione è nell’insieme negativa, per quanto eminentemente romanzesca, e altre figure, essenzialmente artistiche, morali, religiose, perfino esoteriche o mistiche (che si trovano soprattutto negli Studi filosofici). Il rovescio della storia contemporanea mette in scena Madame de La Chanterie che, nel pieno cuore di Parigi, nel “Chiostro Notre-Dame”, si dirige verso un luogo segreto in cui i “cocci” dell’Ancien Regime terminano la loro vita distrutti nella pietà ed il raccoglimento.

  Nella descrizione di Parigi che introduce al racconto lesbico de La ragazza dagli occhi d’oro, Parigi è presentata come una città in tanti cerchi ispirati a Dante, per suggerire che La commedia umana è una sorta di rovescio o di diritto de La Divina Commedia. “Parigi è stata nominata un inferno”, egli dice, “questo inferno, che, forse un giorno, avrà il suo Dante”. Certamente, dice Lacan, “il rovescio non spiega alcun diritto”, ma Il Rovescio della storia contemporanea scava nel centro di Parigi uno spazio espiatorio e mistico che rende illusorie le parvenze della società laica e borghese. [...].

 

 

  Silvia Ronchey, Balzac, in Il guscio della tartaruga. Vite più che vere di persone illustri, Nottetempo, 2009, pp. 24-26.

 

  Balzac, scrive l’A., «era sdentato, sporco, basso, gonfio. [...] Eppure aveva occhi da sovrano, da veggente e da domatore, ed era il più eroico, il più singolare, il più romantico e poetico di tutti i suoi personaggi» (p. 25). Egli lavorava di notte e di giorno «per costruire il suo impero di carta e la mappa delle sue conquiste era quella, sterminata, della commedia umana»: il suo (unico) mondo, quel mondo parallelo che lo scrittore «aveva grappato alla realtà metro per metro e piegato a colpi di penna alla scrittura continuò a esistere anche senza il suo signore» (p. 24).

 

 

  Paolo Tortonese, L’activité sans acte : idée et technique dans les romans de l’artiste de Goethe à Balzac, in [Paolo Tortonese (éd.)], Le Platonisme romantique, Chambéry, Université de Savoie, p. 101-134.

 

 

  Annachiara Tosetto, Le réalisme magnétique de Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Franco Piva, Università degli studi di Padova, Facoltà di Lettere, Corso di laurea in Mediazione linguistica e culturale, 2009.

 

 

  Angelo Trimarco, Il cugino Pons, collezionista, in AA.VV., La commedia umana di Balzac ... cit., pp. 19-20; Le cousin Pons, collectionneur, pp. 21-22.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Gian Luigi Verzellesi, Balzac, l’arte come sarebbe stata letta, Vicenza, «Giornale di Vicenza»; Verona, «L’Arena», 6 aprile 2009.

 

  Perché Il capolavoro sconosciuto, il celebre racconto di Balzac, ha suscitato e continua suscitare interesse, al di là delle oscillazioni del gusto? Per rispondere alla domanda giova rifarsi al testo, tradotto e riproposto da Davide Monda in un libretto dell’editore Rizzoli : davvero funzionale in quanto offre al lettore un’introduzione orientativa e un’antologia costituita da trenta brani di addetti ai lavori interpretativi, scelti con l’intento di delineare in sintesi la fortuna critica del racconto, così come si è realizzata nel corso del tempo: dalle prime testimonianze di Sainte-Beuve, Gautier, Baudelaire, a quelle di James, Rilke, Croce, Curtius, fino alle più recenti, di Guise, Damisch, Calvino, Bongiovanni-Bertini. Dal complesso di questi contributi risulta che l’attenzione dei commentatori, sollecitata da punti di vista diversi, si è concentrata soprattutto sul personaggio principale della narrazione il vecchio e tormentato pittore Frenhofer. Il quale, nel suggestivo clima seicentesco immaginato da Balzac, dialoga con due altri artisti del pennello, Poussin e Corbus (sic), che prendono il nome dai corrispondenti personaggi storici e sono entrambi stregati dal gran maestro Frenhofer che possiede «il segreto di dar vita alle figure».

  Grazie a un piano d’astuzia irresistibile, Poussin e Corbus riescono alla fine ad indurre il loro incantatore a mostrare il suo capolavoro non ancora finito, dopo dieci armi di ricerca ansiosa «Non è una tela – dice Frenhofer – è una donna»; una «creazione che ha l’anima che io le ho donato. E chi non l'adorerebbe in ginocchio?» Così, in preda a una sorta di fanatismo idolatrico, il vegliardo esclama parole d’estasi. Ma quando i due pittori riescono finalmente ad allungare lo sguardo sul ritratto, vedono «soltanto dei colori confusamente ammassati, e delimitati da una moltitudine di linee bizzarre, che formano una muraglia di pittura». Solo avvicinandosi, «scorgono in un angolo della tela la punta di un piede che usciva da quel caos». Sconvolti dall’imprevedibile constatazione, Poussin e Corbus restano come interdetti. Istintivamente si volgono verso Frenhofer, che dapprima resiste alle loro parole di sconcerto con dure frasi di protesta. Ma poi, amaramente si rassegna a coprire con un drappo il suo capolavoro denigrato. E mette alla porta i due che, aprendogli gli occhi, hanno infranto il suo incantamento.

  Solo l’indomani, essi sapranno che Frenhofer, autore del capolavoro incompiuto e smitizzato, «era morto durante la notte, dopo aver bruciato le sue tele».

  Con queste precise parole, quasi da referto di cronaca, si chiude il racconto di Balzac nell’ultima redazione del 1847, prescelta da Monda E su questa redazione (ben diversa dalle precedenti) si è sviluppato il lavoro degli interpreti: tanto più convincente quanto più capace di far luce sul testo elaborato da Balzac, che racconta il «fallimento del sogno estetico di Frenhofer» (Bongiovanni-Bertini). In realtà, il caos, l'indeterminatezza predominante sulla tela, ha indotto uno studioso come Damisch a supporre che sia paragonabile a quella delle «muraglie di pittura che sono i pannelli di Pollock e della produzione dell’arte definita “informale”». Ma il paragone suggestivo risulterebbe sviante se si sorvolasse sulle differenze tra i fattori in confronto: senza precisare che nelle opere d’innumerevoli seguaci delle tendenze astrattiste, e similari, spicca l'intento di svincolarsi dalla figurazione secondo le teorie di Worringer (1907) e Kandinsky, patroni dell’arte non figurativa.

  Frenhofer, invece, è legato alla tradizione, alla rappresentazione, alla lezione rinascimentale in sintonia con la natura. Le sue considerazioni sulla pittura, svolte nel racconto, implicano riferimenti a Delacroix, Diderot, Baudelaire Ma tutte queste implicazioni culturali gli hanno consentito di salvare dal fallimento (ossia dall'indeterminatezza caotica) solo un piccolo particolare di un piede: una sorta di reliquia di pittura vivente, sperduta in un intrico di segni senza forma. L’intrico dell'informe cresce nelle sconcertanti figurazioni novecentesche e postmoderne, in cui ogni residuo imitativo scompare. L’impulso dionisiaco subentra sfrenatamente a quello apollineo. Ondate di pubblicità mercantile inducono al consenso. Così s’allarga il gusto, l’apprezzamento dell’eversione e della disarmonia babelica. E si restringe lo spazio per la critica, rivolta a «diagnosticare il disordine» (Amheim): ossia a verificare, caso per caso, se l’opera rientri davvero nel campo dell’arte o in quello dell’insensatezza spettacolare.

 

 

  Marisa Vescovo (a cura di), In agenda. Rivalta (To). Balzac, «La Stampa», Torino, 26 ottobre 2009, p. 32.

 

  Castello. «La commedia umana di Balzac-Omaggio al romanziere assoluto» (fino all’8 novembre). Otto artisti italiani hanno guardato al mondo di Balzac per comporre le loro opere. Tra gli altri Maura Banfo, Paolo Grassino, Mariangela Levita, Domenico Antonio Mancini, Perino & Vele.

 

 

  Enrica Villari, Come se fosse vero, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXVI, N. 9, Settembre 2009, p. 27.

 

  Susi Pietri, La terra promessa del racconto. Stevenson legge Balzac, pp. 216, € 13, Monte Università Parma, Parma 2009.

 

  Difficile da catalogare questo bel libro di Susi Pietri: non è né un libro su Balzac né un libro su Stevenson ma, in una sua maniera un po’ magica, proprio come quei “magici” raccontatori che furono i due autori cui il libro è dedicato, è insieme la fedelissima storia di una lettura (quella dello Stevenson lettore di Balzac, di cui non esisteva finora nessuna documentata ricostruzione critica) e una rivisitazione illuminante di un dilemma cruciale per il genere romanzo dell’Ottocento. I due Balzac che ricorrono continuamente nell’opera di Stevenson, senza mai ricomporsi in un’immagine unica (il Balzac “minatore sepolto sotto una frana”, ossessivamente determinato a portare alla luce la grande opera che doveva rappresentare la totalità del mondo, e il Balzac flâneur e drolatique, “mago” e principe dei narratori), sono infatti i due poli di un’ambivalenza che segnò il destino di romanziere di Stevenson, ma il cui germe era già lì, nelle riflessioni e nella pratica narrativa dell’autore della Comédie humaine. Ma sono anche, nello stesso tempo, i due estremi opposti dell’identità del genere romanzo nell’Ottocento, sempre oscillante tra l’aspirazione a incarnare la summa di tutti i saperi necessari a comprendere la modernità, da una parte, e la vocazione a incantare con la magia del racconto, dall’altra. Il romanzo come studio, lavoro, analisi e il romanzo come piacere dell’abbandono al meraviglioso di storie inconsuete: l’eterno dilemma tra novel e romance.

  Ma la storia più appassionante che Pietri ha da raccontare la affida a due magistrali analisi di The Wrecker e The Bottle Imp come meditazioni su, e riscritture di, opere e temi balzachiani. Lì Stevenson mostra sottilmente tutti gli inganni del desiderio che minacciano lo statuto del genere puro del novel, e insieme la possente minaccia che il potere diabolico ma uniformante del denaro costituisce per il genere puro del romance nel mondo moderno. Cosicché, dopo avere imparato sulle orme di Balzac che se il “primo narratore fu un dio” il meraviglioso stava ormai scomparendo dal mondo (“Più il mondo invecchia, più la narrazione diventa un’opera tormentosa e penosa”), Robert Louis Stevenson, suo allievo fedele e infedele insieme, dalla sua isola dell’arcipelago Samoa, dove gli indigeni lo chiamavano ormai Tusitala, “il raccontatore di storie”, era arrivato infine a una conclusione. Aveva ragione Tembinok, il terribile re indigeno che resisteva fieramente ai colonialisti britannici, quando gli rispose in che cosa consistesse per lui l’essenza di un racconto. “Degli innamorati, e degli alberi, e il mare. Ma non come se fosse tutto vero. Tutto come invenzione, menzogna”, gli aveva detto. È l’essenza dello Stevenson romanziere degli incanti dei Mari del Sud. Ma Pietri ci mostra che è anche, e soprattutto, il punto d’arrivo di una lucidissima riflessione critica, insieme a Balzac e su Balzac, che l’aveva portato (quando la morte lo colse all’improvviso, a quarantaquattro anni) a convincersi che, se il meraviglioso stava scomparendo dal mondo, era però destinato a sopravvivere finché ci fosse stato qualcuno capace e disposto all’incanto. Come i bambini n gli indigeni di fronte ai miracoli semplici della natura, o i maghi raccontatori di storie e i loro ascoltatori disposti a lasciarsi incantare dalla magia. Proprio come era successo, all’inizio della storia, al giovane Stevenson lettore del gran mago Balzac.

 

 

  Emanuela Zanotti, Honoré de Balzac finalmente svelato dalla sorella Laure, «Giornale di Brescia», Brescia, 28 febbraio 2009.

 

  Ci sono piccoli libri che rivelano grandi personaggi. Come questa biografia di Honoré de Balzac, tratteggiata dalla sorella Laure, donna di straordinaria cultura coniugata Surville, che ci svela l’enigma che Balzac ha sempre alimentato: “Nessuno conosce il segreto della mia esistenza, e non intendo raccontarlo a nessuno”. Ma è proprio Laure, la persona a lui più vicina durante l’infanzia e la giovinezza, a svelarne i tratti più intimi.

  “Credo di avere un dovere verso mio fratello e verso tutti: rendere noti dei dettagli che oggi sono la sola a conoscere e che consentiranno di scrivere una biografia fedele dell’autore della Comédie humaine”. Già l'elegante copertina sembra introdurci in quel salotto borghese che fu milieu famigliare e che scopriamo essere stato, nelle angherie di un maternage terribile, conforme all’epoca. I fratelli Honoré e Laure furono cresciuti dapprima dalla balia e poi da estranei nei dintorni di Tours. Honoré entrò nel terribile collegio Vendôme a 7 anni, dal 1807 al 1813 vedrà il padre due volte. Ma è la madre anaffettiva che rimane uno dei grandi temi dolorosi; tuttavia sarà sempre lei a far fronte alle infinite tribolazioni finanziarie dello scrittore. “Quanto gli è costato il suo talento?”, chiese un giorno il dottor Naquart (sic) a Balzac. Non sappiamo cosa rispose lo scrittore. Una cosa è certa: quando scriveva portava la calotta dantesca di velluto nero confezionata dalla mamma, confermando quanto, anche grazie alla scrittura, forse Honoré abbia saputo pacificare i sentimenti ambivalenti dell’amour maternel.

 

 

  Stefania Zuliani, Chimere. Balzac e il capolavoro possibile, in AA.VV., La commedia umana di Balzac ... cit., pp. 23-25; Chimères. Balzac et le chef-d’oeuvre possible, pp. 26-28.

 

  Cfr. supra.

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  L’affarista Mercadet di Honoré de Balzac. Commedia brillante. Regia di Danilo Furnari, Silvia Pipa. Riduzione drammaturgica di Raffaello Malesci. Scene e costumi: Raffaello Malesci. Luci: Danilo Furnari. Consolle tecnica: Fabio Tosato, Alessandro Viespoli. Fotografie di scena: Maurizio Balzarini. Personaggi e Interpreti: Auguste Mercadet, speculatore: Giorgio Mosca; Adolphe Minard, contabile: Giovanni Bertoletti; Michonnin de la Brieve, giovane di mondo: Dario Bono; Brédif, padrone di casa: Alessandro Rosso; Pierquin, mediatore abusivo e usuraio: Alessandro Rosso; Verdelin, amico di Mercadet: Dario Bono; Goulasd, l’affarista: Giovanni Bertoletti; Signora Violette: Audilia Esa Sudati; La signora Mercadet: Manuela Bonaiuto; Julie Mercadet: Laura Tironi; Virginie, domestica: Audilia Esa Sudati, Stagione 2009-2010.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  Michele Barzi, La città di Parigi e la letteratura del XIX secolo. Balzac, Baudelaire, Zola, Varese, Spazio ScopriCoop, 5, 12, 19, 26 febbraio 2009. (Universauser Corsi)

 

 

  Thierry Guichard, Balzac fils et père; romantisme et réalisme dans les romans de Balzac, Mantova, Sala delle Colonne della Biblioteca Comunale “G. Baratta”, Mercoledì 14 gennaio, ore 17.

 

 

  Aldo Onorati su Papà Goriot (1834) di H. de Balzac, Albano Terme, Sala Conferenze del Museo Archeologico di Villa Ferrajoli, 21 ottobre 2009, ore 17.00.

 

 

 

 

Eventi.

 

 

  Gillo Dorfles su La pelle di zigrino e su Laure de Surville, Balzac mio fratello, ‘Per un pugno di libri’, Rai Tre, 25 gennaio 2009, ore 18.00. Intervengono: Neri Marcorè, Leonardo Manera, Paolo Poli.

 

 

  La Commedia Umana di Balzac. Omaggio al romanziere assoluto, Mostra al Castello di Rivalta dal 26 settembre all’8 novembre 2009. [cfr. supra].

 

 

 

 

Iconografia.

 

 

  AfterAll. Silvia Viola Esposito ed Enzo Esposito, Lessia, in AA.VV., La commedia umana di Balzac ... cit., pp. 30-33.

 

  Una grande lente, un occhio con un diametro di circa un metro, metaforico sguardo di Balzac [...].

 

 

  Maura Banfo, Monsieur, le chapeau, s’il vous plaît, Ibid., pp. 34-37.

 

  Su: La Pelle di Zigrino.

 

 

  Filippo Centenari, Dove le cose mormorano, Ibid., pp. 38-41.

 

  L’architettura si fa segno evidente dell’esistenza, sintomo che, secondo Balzac, connota il passaggio e la storia dell’uomo.

 

 

  Stanislao Di Giugno, A Sense of Displacement, Ibid., pp. 42-45.

 

  Su: Il Capolavoro sconosciuto.

 

 

  Paolo Grassino, Quando il lavoro entra dentro, Ibid., pp. 46-49.

 

  Su Séraphîta.

 

 

  Mariangela Levita, Vogue, Ibid., pp. 50-53.

 

  L’artista sceglie “Vogue” come manuale di cambiamenti della società attuale e come riflesso contemporaneo della commedia umana di Balzac.

 

 

  Domenico Antonio Mancini, Senza titolo, Ibid., 54-56.

 

  [...] un’attenta riflessione in chiave contemporanea degli “studi” di Balzac.

 

 

  Perino & Vele, Public Invasion, Ibid., pp. 58-61.

 

  I manifesti, simbolo di quella modernità e delle trasformazioni sociali che Balzac ha raccontato nella commedia umana, diventano strumento per raccontare il presente.




Marco Stupazzoni

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