lunedì 8 marzo 2021



2006

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, La scoperta dell’amore nell’abbraccio della morte [da La pelle di zigrino, traduzione di Camillo Sbarbaro, 1947], in AA.VV., Il racconto dell’amore. Cento storie di passione nel romanzo moderno. A cura di Guido Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2006 («ET Biblioteca», 24), pp. 185-189.

 

 

  Honoré de Balzac, Un amore travolgente lungo dodici giorni [da La ragazza dagli occhi d’oro, traduzione di Paola Masino, 1977], Ibid. pp. 206-212.

 

 

  Honoré de Balzac, Lo splendido eroismo di una cortigiana innamorata [da Splendori e miserie delle cortigiane, traduzione di Marise Ferro, 1998], Ibid., pp. 235-241.

 

 

  Honoré de Balzac da «Illusioni perdute», in AA.VV., Classici dell’omosessualità. L’avventurosa storia di un’utopia, a cura di Paolo Zanotti, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, (settembre) 2006, pp. 115-140.

 

 

  Honoré de Balzac, Sillabario. Gesuiti, «la Repubblica», Roma, 28 luglio 2006.

 

  Nel 1556, il 31 luglio, Ignazio moriva a Roma in età di sessantacinque anni, e poteva nondimeno col cuore colmo di consolazione salutare la sua Società che, sparsa in tutto il mondo, esplorava le Indie, catechizzava la Cina, l’America, il Giappone, ed eclissava i corpi accademici dell’Europa intera. Contava cento collegi senza comprendervi i noviziati, le case di professi e le missioni. L’Europa aveva accolto acclamante e riconoscente una istituzione che contribuiva al consolidamento di tutte le idee religiose, benefiche e monarchiche. Il mondo vedeva un grand' uomo in Ignazio, la Chiesa vi scorse un santo e in seguito lo canonizzò. Lainès, quello tra i discepoli che si avvicinava di più al genio del suo maestro, fu scelto a succedergli. In Francia Enrico II aveva assicurato ai gesuiti la sua reale protezione e va notato che l’utilità di essi era divenuta così evidente che l’Ordine trionfava sull’Università. La morte del re sopraggiunse ad impedire ai Gesuiti di profittare del favore che era stato loro accordato.

 

  Tratto da Storia imparziale dei Gesuiti (Medusa Edizioni, 2002).

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, César Birotteau. Traduzione di Francesca Spinelli. A cura di Paola Dècina Lombardi, Milano, Oscar Mondadori, (aprile) 2006 («Oscar classici», 623), pp. XLIV-386.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Paola Dècina Lombardi, Introduzione. Un’occasione mancata: piccoli splendori e grandi miserie della borghesia, pp. V-XIX;

  Id., Nota al testo, pp. XXI-XXV;

  Cronologia, pp. XXVII-XXXIV;

  Bibliografia, pp. XXXV-XLIV;

  Storia della grandezza e della decadenza di César Birotteau [...], pp. 1-384.

 

  La prima edizione di César Birotteau, pubblicata nel 1838 per i tipi di Boulé, costituisce il modello di questa nuova versione italiana curata da B. Spinelli e di cui viene adottata la divisione in tre parti e sedici capitoli.

  Romanzo di idee che, secondo M. Bardèche, «lega le Scene della vita parigina agli Studi filosofici» (cit., p. XVII), César Birotteau ricostruisce e rappresenta con penetrante lucidità, attraverso gli ambienti e i personaggi, il magistrale affresco della nuova classe borghese, in ascesa in un intreccio di fenomeni e di tensioni che mettono a nudo tutta la perversa ambiguità dei suoi valori. Nonostante i solidi principî morali dietro ai quali egli cerca di tutelarsi, César non può tuttavia sfuggire alla cultura del tempo che; vede «trionfare la cultura dell’apparenza» (p. IX): romanzo delle «occasioni mancate» (M. Butor), la storia di Birotteau «dà corpo all’idea che ogni organismo vivente è soggetto a una legge naturale di crescita e decrescita» (p. VI) e propone una vicenda che riflette in modo esemplare un momento dell’evoluzione dell’individuo e della società nella Francia moderna.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Bette. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzione di Francesco de Simone, Milano, Garzanti, (maggio) 2006 («I grandi libri», 3, pp. VII-438.

 

  Cfr. 1973.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. A cura di Paola Brancaccio e Anna Crisi, Milano, Principato, 2006 («Leggere narrativa straniera»), pp. XXXI-188.

 

  Cfr. 1993.

 

 

  Honoré de Balzac, Ferragus. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Barbara Besi Ellena, Milano, Garzanti Editore, (gennaio) 2006 («I grandi libri», 654), pp. LXI-115.

 

  Per la traduzione, cfr. 1982.

 

  L. Binni traccia un esauriente profilo storico-critico del percorso letterario di Balzac a partire dai romanzi giovanili. Pubblicato nel marzo 1833, Ferragus trova la sua ambientazione narrativa nel misterioso décor della Parigi contemporanea. Non si tratta, scrive il curatore, di «una dimensione separata in un proprio universo fantastico, percepibile attraverso l’immaginazione: le due realtà sono compenetrate a tal punto che ogni dettaglio quotidiano, ogni anonimo personaggio, possono nascondere presenze inquietanti» (pp. XXXVII-XXXVIII). Da questo punto di vista, Parigi diviene, in Ferragus come nell’intera trilogia dell’Histoire des Treize, «il regno del mistero quotidiano» in un susseguirsi di vicende melodrammatiche pienamente inserite in un contesto sociale ambiguo e minaccioso.

 

 

  Honoré de Balzac, Ferragus. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Barbara Besi Ellena, Milano, Garzanti Editore, 2006 «I grandi libri», 654), pp. LXI-113.

 

  Cfr. 1998.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Traduzione di Elena Giolitti. Introduzione di Maria Luisa Spaziani, Roma, Newton Compton Editori, 2006 («Classici», 66), pp. 440.

 

  Cfr. 1995.

 

  Opera dal «titolo giansenistico, malinconico e tragico» (p. 7), Illusions perdues contiene in sé e riflette con straordinaria limpidezza ed efficacia l’essenza del corpus romanzesco e della poetica letteraria di Balzac. Romanzo «impuro e moderno» (p. 9), capofila della cosiddetta letteratura industriale, Illusions perdues è alimentato costantemente dal tema dell’energia, da quel «filo che percorre la psicologia dei personaggi e adatta le situazioni, gli ambienti e gli sfondi all’eterna lotta» in un intreccio di tonalità che variano «dall’osservazione microscopica degli ingranaggi tecnici e sociali fino all’ariosità del sogno» (Ibid.).

 

 

  Honoré de Balzac, Massime e pensieri di Napoleone. A cura di Carlo Carlino, Palermo, Sellerio editore (gennaio) 2006 («La memoria», 667), pp. 109.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Carlo Carlino, Il Napoleone segreto di Honoré de Balzac, pp. 7-18;

  Massime e pensieri di Napoleone, pp. 19-106.

 

  “Agli occhi delle masse, questo libro sarà come un’apparizione; l’anima dell’imperatore gli si porrà davanti; ma per qualche spirito eletto, esso sarà la sua storia sotto una forma algebrica; vi vedrà l’uomo astratto, l’Idea al posto dell’Azione”. Con queste parole, Balzac presenta al pubblico dei lettori questa raccolta di massime e pensieri di Napoleone, raccolte da J.-L. Gaudy jeune e pubblicate in prima edizione tra il novembre e il dicembre 1838 per i tipi di Barbier.

  Numerose, osserva Carlo Carlino nella introduzione a questa prima edizione italiana della raccolta, sono le testimonianze del culto napoleonico disseminate nell’opera di Balzac: è proprio la celebrazione letteraria dell’Imperatore, in Balzac come in altri scrittori del primo Ottocento francese, a trasfigurare la figura di Bonaparte in «eroe romanzesco ambizioso e contraddittorio, ma reale, pieno di fascino» (p. 13). Al di là della loro presunta autenticità, queste massime annunciano e anticipano alcune fortunate serie di raccolte di pensieri di Napoleone che vedranno la luce a partire soprattutto dalla seconda metà del secolo. Di fatto, «queste citazioni tratte dalla corrispondenza, dai proclami, dai discorsi, dal Mémorial compongono una sorta di autobiografia indiretta» (p. 17), un collage non casuale di aforismi e di sentenze che costituisce una sorta di «breviario personale» di Buonaparte e che risponde «a ciò che Balzac voleva far dire al suo eroe, al ritratto dell’uomo che voleva immortalare» (p. 18).

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli. Introduzione di Maurice Bardèche; con una nota di Michel Butor, Milano Oscar Mondadori, 2006 («Oscar classici», 510), pp. XLVI-321.

 

  Cfr. 1999; 2000.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Francesco Fiorentino. Traduzione e note di Anna D’Elia, Milano, BUR Rizzoli, 2006 («BUR. I grandi romanzi»), pp. XXXIII-310.

 

  Cfr. 1995.

 

 

  Honoré de Balzac, Il parroco di Tours. A cura di Pierluigi Pellini. Traduzione di Clio Cicogni e Alessandra Cioncolini, Palermo, Sellerio editore, (maggio) 2006 («La memoria», 681), pp. 179.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Il parroco di Tours, pp. 7-109;

  Note, pp. 111-140;

  Pierluigi Pellini, La felicità vegetale. Apologia di un imbecille, pp. 141-169;

  Bibliografia, pp. 171-176.

 

  Potrebbe apparire alquanto singolare e in qualche modo sorprendente il fatto che Marcel Proust annoveri, tra le oeuvres capitales della Comédie humaine, accanto ad Illusions perdues, Le curé de Tours. Ma una attenta rilettura del romanzo, ora riproposto al pubblico italiano nella nuova traduzione di C. Cicogni e A. Cioncolini (corredata da un ricchissimo e utilissimo apparato di note al testo per cura di P. Pellini), consente al lettore di valutare con chiarezza e precisione l’assoluta modernità di questo testo balzachiano. Nel Curé de Tours, infatti, osserva Pellini, niente di meno interessante del personaggio e della storia di François Birotteau è elevato da Balzac alla dignità di capolavoro letterario. Forse per la prima volta nella storia del romanzo europeo (siamo nel 1832), «il quotidiano, con le sue vicende mediocri e trite, diventa degno, in letteratura, di una rappresentazione seria (non più comica)» (p. 149) inaugurando in tal senso la grande tradizione del realismo moderno. Ma questa opera di Balzac, dove sembra non esservi traccia di alcuna spiritualità e in cui l’apparente semplicità del testo lascia, in realtà trasparire tutta la sua modernità «inaugura e sorpassa il realismo balzachiano» in quanto essa «va oltre la poetica della ‘trasfigurazione’ e del ‘tipo’ promuovendo a fulcro della narrazione, e dunque implicitamente a valore, l’egoismo (irredimibile) di un individuo (mediocre; alla lettera: senza qualità)» (p. 153). Il privilegio accordato al dettaglio nel rappresentare la storia (tutta materialista) di un personaggio solo perché avulso e non riconosciuto da alcuna logica sociale fornisce a Balzac uno strumento particolarmente idoneo per denunciare, in maniera spietata «un mondo dove conta solo l’interesse»; tuttavia, la storia di Birotteau «è anche la rivendicazione materialista dei diritti minimi e quotidiani di ogni individuo, la redenzione simbolica degli oggetti che ci aiutano a sopravvivere, la promozione letteraria della più ottusa (e umana) mediocrità; l’apologia, infine, di una modernissima felicità vegetale (o animale)» (p. 167).

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. Introduzione e note di Maurice Allem. Traduzione di Irma Zorzi, Milano, Rizzoli Editore, (gennaio) 2006 («Biblioteca Universale Rizzoli. I tascabili», 356), pp. XXXVIII-297.

 

  Cfr. 1982.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  AgendA. Balzac, «L’Indice dei libri del mese», Torino, N. 4 Aprile 2006, p. 44.

 

  Si annuncia il convegno su Wann-Chlore (Macerata, 27 aprile 2006).

 

 

  Honoré de Balzac: il romanzo più forte del film rinvenuto nel greto del fiume, «La Libertà», Piacenza, 7 novembre 2006.

 

 

  Con lui la realtà divenne romanzo, «Gazzetta di Parma», Parma, 14 febbraio 2006.

 

 

 AA.VV., Sei bianco&nero o full color?, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, 23 luglio 2006, p. 31.

 

  Giuseppe Scaraffia.

 

  Full color, anzi spesso sgargiante rimane Honoré de Balzac con la sua insaziabile capacità di comprendere i motori segreti della modernità, dal denaro al sesso. Con la sua sete di lusso nel privato e, nei romanzi, il suo sguardo in grado di decrittare, ben prima di Sherlock Holmes, tutta una personalità particolare.

 

 

  Mario Ajello, Il deputato di pezza, in Storie di voto. Le campagne elettorali tra realtà e romanzo, Roma, Donzelli editore, 2006 («Saggi. Storia e scienze sociali»), pp. 206-207.

 

  In questa vivace rassegna delle rappresentazioni letterarie del ‘voto’ nella cultura occidentale, trova spazio un breve capitolo dedicato a Balzac e, in particolare, al romanzo Le Député d’Arcis, dove il protagonista, «giovane, rampante, furbo come le vecchie volpi della politica clientelare, [...] si riempie la bocca proprio di quella parola ‘progresso’, dietro la quale si cerca spesso di riunire più ambizioni menzognere che idee» (p. 31).

 

 

  G. B., Svevo, Massoni e Rubempré, «La Sicilia-Stilos», Catania, Anno VIII, n. 18, 12 settembre 2006, p. 5.

 

  Al tempo di Balzac, come insegna de Rubempré, per diventare famosi si credeva necessario scrivere un romanzo e dunque chiudersi un anno in una mansarda per poi andare col manoscritto da un libraio pieni di fiducia e già con il peso dell’alloro e del laticlavio. Oggi è vero l’esatto contrario: per scrivere un romanzo occorre essere famosi.

 

 

  Donatella Baldarotta, Le Monete, in Teatro e altri racconti, Melegnano, Montedit, 2006 («I Salici»), pp. 11-14.

 

  In Teatro e altri racconti di Donatella Baldarotta, una raccolta di diciotto brevi composizioni narrative di natura fantastica e storico-psicologica, è presente un racconto intitolato Le Monete in cui si immagina che una fata riesca ad allargare la fessura di un salvadanaio fino ad allora rimasto sempre chiuso e che le monete accumulate in secoli di storia escano fuori ad una ad una animandosi e iniziando spontaneamente «una specie di dialogo», un concerto di suoni eterogenei. Tra i diversi argomenti oggetto di questa fiabesca conversazione tra due monete, è presente quello riguardante il tema del denaro nelle opere letterarie con particolare riferimento alla figura dell’avaro e alla sua efficace e penetrante rappresentazione nei romanzi della Comédie humaine di Balzac.



  Guy Bedouelle, Balzac et la religion de l’amour rédempteur, «Plaisance. Rivista quadrimestrale di letteratura francese moderna e contemporanea», Roma, anno 3°, n° 9, 2006, pp. 31-42.


  [...] après avoir rappelé à grands traits l’évolution religieuse de Balzac telle qu’elle est présentée d’habitude, nous voudrions nous attacher à en suivre, voire à en vérifier, le développement à travers la Correspondance qu’il adresse à Eveline Hanska entre 1837 et 1848 et qui est un miroir authentique du roman de sa vie.

 

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, in Honoré de Balzac, Ferragus ... cit., pp. VII-LV.

 

  Cfr. supra.



  Linda Blasi, I primi trattati sul dandismo in Francia: l’esempio di Balzac e Barbey d’Aurevilly. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alberto Beretta Anguissola, Università degli studi della Tuscia. Dipartimento per lo studio delle lingue e delle civiltà classiche e moderne, Anno accademico 2005-2006.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Desiderio mimetico e melodramma: una lettura di “Pierrette” di Honoré de Balzac, «Nuova Corrente», Genova, Vol. II, 2006, pp. 209-228.

 

  In questo studio (pubblicato originariamente, in lingua francese, nel 2002), l’A. attribuisce a Pierrette un’importanza rilevante all’interno del discorso letterario balzachiano. In questo romanzo, i pungenti tratti del realismo di Balzac si sovrappongono alle soavi tonalità idilliache proprie della figura angelica di Pierrette, in una sorta di progressione estetica che trova la sua più alta ed intensa realizzazione, psicologica e morale, nelle forme del melodramma.

 

 

  Cristina Boschini, “Addio” di H. de Balzac. Un breve viaggio tra gli spazi possibili del personaggio narrativo, «NonSoloCinema», anno II, n. 18, 14 giugno 2006. [on-line].

 

  [...]. Balzac riesce con sottile maestria ad introdurre progressivamente il lettore nei diversi spazi fisici che si delineano all’interno del testo; già nell’incipit del racconto troviamo delle spie che ci indicano una latente tensione che si sviscera solo in precisi momenti di rottura: ne è un esempio il perturbante incontro con Stéphanie o il chiarificante intervento dello zio della pazza, che permettono al lettore di ricollegarsi a delle esche disseminate da Balzac relative al misterioso passato di Philippe e motivano il passaggio dallo spazio familiare (la campagna francese) allo spazio straniante della Beresina. Si può dire che il filo conduttore di questi luoghi antitetici è la figura stessa di De Sucy, l’unico ad aver vissuto il trauma della Beresina e popolato sia la dimensione nota, rappresentata dalla campagna, sia le cosiddette soglie spazio-temporali (il convento e la ricostruzione della Beresina): è l’eroe attraversatore di spazi letterari, colui che recide la monotonia del conosciuto e permette alla narrazione di esulare nelle dimensioni “altre”. Ma la vera figura di transizione del racconto è sicuramente la bella Stephanie, la quale, passando dalla sanità alla pazzia, è l’unica in grado di attraversare ogni sorta di spazio mentale fino a divenire l’antropomorfizzazione stessa della parola “Addio”. Tale sostantivo, ha una forza emotiva tale da permettergli di fuoriuscire anche dal testo stesso per evadere nella realtà del lettore sotto forma di titolo, sottintende in sé passato, presente e futuro, proprio come accade a Stéphanie nel momento in cui rivive per la seconda volta la tragedia del 1812 (anche se in questo caso è puramente fasulla), e riesce a fondere il suo vissuto ormai superato, il presente e la drammaticità di un congedo destinato a perdurare a partire dall’ultima parola rivolta all’amante: Addio. Un viaggio che comprende la totalità delle esperienze vivibili dal personaggio narrativo, sino ad evadere nel paratesto stesso.

  Nel racconto l’ordine degli eventi non segue la reale scansione cronologica: la scelta dell’autore di affidarsi allo strumento del flash-back rappresenta una strategia per mantenere vivo l’interesse del lettore che, grazie ad alcune esche disseminate nell’incipit, intuisce sin dai primi paragrafi l’esistenza di un segreto che segna il passato del protagonista. La lettura del romanzo è assolutamente semplice e scorrevole; degna di nota la raffinata e suggestiva descrizione della notte della Beresina che, nonostante si dilunghi per diverse pagine, è capace di rendere palpabile il pathos dei personaggi, grazie soprattutto al grande realismo prodotto dalla minuzia dei particolari inseriti nel testo.

 

 

  Manuele Cappello, L’osservatore visionario ed appassionato nel romanzo “La Fille aux yeux d’or”. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Elena Del Panta, Università degli studi di Firenze, Facoltà di Lettere e filosofia, 2006.

 

 

  Carlo Carlino, Il Napoleone segreto di Honoré de Balzac, in Honoré de Balzac, Massime e pensieri di Napoleone ... cit., pp. 7-18.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Fabrizio Eduard Casu, Figure dell’arrivista nell'Ottocento: Rastignac, Sorel, Duroy. Tesi di laurea. Relatore: prof. Hélène de Jacquelot, Università degli studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 2006.

 

 

  Vincenzo Cerami, Noi scrittori e la storia, «la Repubblica», Roma, 25 ottobre 2006, pp. 46-47.

 

  Stendhal, Balzac, Flaubert hanno proposto personaggi e uomini che sarebbero apparsi sulla scena francese di lì a poco. «Balzac è grande non perché ha descritto bene la società del suo tempo, ma perché l’ha descritta come generatrice di quella che sarebbe succeduta». Qual è il senso di «rendere pubblici valori che restano ancora inosservati»? La risposta ce la offre indirettamente Ortega y Gasset nel definire intellettuale chiunque si chieda cosa succederà fra un’ora. Balzac è dunque uno scrittore intellettuale. [...].

  Erich Auerbach afferma che «Stendhal e Balzac, facendo oggetto di rappresentazione seria, problematica, o addirittura tragica, persone comuni della vita quotidiana, condizionate dal tempo in cui vivevano» hanno inaugurato il realismo moderno. Questa impostazione prevede che i suddetti autori conoscano obiettivamente il tempo storico che fa da sfondo alla vicenda, mentre è lecito il sospetto che con i loro racconti scoprano e rivelino via via, attraverso la storia dei personaggi, il tempo in cui essi vivono, cioè la Storia. Il paradigma di partenza, lo schema ideologico dell’opera, fa da pretesto. La scrittura, indagando i comportamenti e raccontandoli anche nelle fughe dal freddo schema prestabilito, finisce per rappresentare una società che si muove, che cambia faccia, che vincola le persone. Ma è lo stesso Auerbach a dirci che l’argomento dei suoi studi è «l’interpretazione della realtà per mezzo della rappresentazione letteraria». Quindi il rapporto tra letteratura e realtà è circolare: una prima realtà fa da scena al racconto, e il racconto ne palesa alla fine una seconda, non più trasognata questa volta, ma prossima al vero. [...].

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. Honoré de Balzac, “Correspondance I (1809-1835)”, édition établie, présentée et annotée par Roger Pierrot et Hervé Yon, Paris, Gallimard, ‘Bibliothèque de la Pléiade’, 2006, pp. 1604, «Studi Francesi. Rivista quadrimestrale», Torino, 150, Anno L, fascicolo III, settembre-dicembre 2006, pp. 568-569.

 

  La prima edizione, criticamente accertata, del volume che dà inizio alla Correspondance di Balzac (contenente le lettere dal 1809 al 1832) a cura di Roger Pierrot, fu pubblicata a Parigi, nella serie dei Classiques Garnier, nel 1960. Seguì, due anni dopo, l’edizione del secondo volume che raccoglieva le lettere appartenenti al triennio 1833-1835. Con cadenza regolare fu continuata infine, sino al 1969, con altri tre tomi, comprensivi delle missive dello scrittore, dal 1836 alle ultime (1850), corredate da un supplemento di quelle rintracciate durante e dopo la pubblicazione dell’intero epistolario.

  L’opera fu subito accolta con grande favore dal pubblico che vedeva così colmata una gran-de lacuna negli studi balzacchiani; e le ricerche laboriose, esemplari per erudizione e per vigilanza critica di Roger Pierrot conobbero il riconoscimento che era ad esso dovuto grazie al magistrale impegno che vi era profuso.

  A distanza di mezzo secolo (l’uscita del quinto volume è, come si è già accennato, del 1969), l’opera riappare ora alla luce nelle sue due prime parti, rivista, corretta, aumentata, assistita dalla collaborazione di Hervé Yon, che ha contribuito nell’allestimento di essa al lavoro di Pierrot.

  Pur trattandosi di una riedizione, questo “corpus” epistolare di circa tremila lettere (che, per gli anni 1809-1832, è folto di quasi duecento nuovi documenti) merita un intervento recensorio che torni, sia pure sommariamente, ad illustrare i meriti del principale curatore di esso, oggi uno dei migliori specialisti di Balzac, e del più giovane e non meno benemerito collaboratore.

  Ma, anzitutto, bisogna spendere una parola di plauso nei riguardi della casa editrice Gallimard che ha inserito nella sua ormai famosa “Bibliothèque de la Pléiade” anche le pagine epistolografiche ed i documenti ad esse connessi del grande romanziere. La “Pleiade” annoverava già il testo della Comédie humaine sia in una prima edizione curata da Marcel Bouteron, sia in una successiva (1976-1981), ben più completa, preparata, sotto la direzione di Pierre-Georges Castex, provvista di un apparato di varianti testuali ed arricchita da introduzioni, note e commenti critici di un gruppo di eminenti studiosi. Ad essa affiancava i primi due volumi delle Oeuvres diverses (1990-1996: un terzo è atteso fra breve) a cura di Roland Chollet e del compianto René Guise; un suggestivo Album Balzac (1962), repertorio iconografico riunito da Jean Ducourneau. Mancano ancora, è vero, il Théâtre e le Lettres à l’Etrangère (ma dell’uno esiste già l’edizione Guise per i tipi dei “Bibliophiles de l’Originale” (1969-1973) e, delle altre, le due edizioni degli stessi “Bibliophiles de L’Originale” (1967-1969) e del Laffont (1990) dovute entrambe a Roger Pierrot). Si può dire perciò che la collana di Gallimard raduni ormai la massima parte dell’intera opera balzacchiana; e ce se ne può attendere al più presto il completamento; coronamento che permetterà ad un pubblico più vasto di consultare rapidamente, unitariamente e fiduciosamente un “tutto Balzac”, che agevolerà cioè di seguire nel modo migliore, in ogni sua tappa, il cammino vulcanico, intellettuale e psicologico percorso dal grande scrittore.

  Premesse queste doverose parole di elogio l’iniziativa di una casa editrice attenta a favorire le esigenze di un pubblico europeo, come quella di Gallimard, è opportuno insistere nel segnalare il fatto che questa seconda edizione della Correspondance non è, come del resto abbiamo già detto, una ristampa della prima, ma una vera e propria nuova “mise sur le métier”. Essa corregge le rare sviste di lettura (inevitabili nell’allestimento di ogni epistolario), elimina le incertezze di datazione, identifica le sigle di alcuni corrispondenti, sgombra insomma molti dubbi rimasti insoluti nell’edizione precedente e, facendo tesoro dei recenti ritrovamenti e delle più approfondite precisazioni bibliografiche, approda così a una più sicura collocazione delle testimonianze epistolari distribuite ora nel loro più convincente contesto, e ad una illustrazione più completa delle vicende umane del loro autore. [...].

 

 

  Antonio Debenedetti, «Le elezioni? Strazianti come un parto». Firmato Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 6 aprile 2006, p. 45.

 

  Su M. Ajello, Storie di voto.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, Un’occasione mancata: piccoli splendori e grandi miserie della borghesia, in Honoré de Balzac, César Birotteau ... cit., pp. V-XIX.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Piernicola D’Ortona, «Un prêtre marié»: tópoi e strutture dell’espiazione. Tesi di laurea specialistica. Relatore: Prof. Gianni Iotti, Università degli studi di Pisa, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Italianistica, 2006.

 

 

  Carlotta Faillaci, Un romanzo di Balzac: “La Cousine Bette”. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Maria Bertini; correlatore: prof.ssa Alba Pessini, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Civiltà e Lingue straniere moderne, Anno accademico 2005-2006.

 

 

  Salvo Fallica, Così parlò Napoleone. O Balzac?, «l’Unità», Roma, 13 marzo 2006, p. 21.

 

  Napoleone visto da Balzac. Un grande protagonista della storia riletto nell’ottica di un grande scrittore. Storia e letteratura, vita ed interpretazione cultural-narrativa, è questo un connubio che sottende a Massime e pensieri di Napoleone, a cura di Carlo Carlino. E così la memoria storica viene rivissuta attraverso lo spirito filosofico ed interpretativo di un sommo scrittore che prova a cogliere la concezione di vita di Napoleone. Ma come nacque questa operazione cultural-letteraria ottocentesca? Lo si evince da una lettera dello stesso Balzac che nel 1838 scriveva alla «straniera», il grande amore polacco: «Da sette anni circa, ogni volta che leggevo un libro in cui si trattava di Napoleone e che trovavo un pensiero sorprendente e nuovo pronunciato da lui, lo tra-scrivevo subito su un libro di cucina che non abbandonava mai la mia scrivania; e cioè quel piccolo libro che voi conoscete, e che vi apparterrà – ahimè forse ben presto! – nel quale io annoto i miei soggetti e le mie prime idee. In un momento di malinconia – in questi giorni – essendo senza soldi, ho guardato quanti pensieri avessi annotato; erano cinquecento e oltre, il più bel libro dell’epoca, vale a dire la pubblicazione delle Massime e pensieri di Napoleone». Ed ancora, attraverso l’operazione culturale ne sappiamo di più anche sullo stesso Balzac che sostiene: «Ho venduto questo lavoro a un anziano commerciante di maglieria che è un pezzo grosso del suo distretto e aspira ad avere la croce della Legion d’onore e che la otterrà dedicando questo libro a Luigi Filippo. Il libro sta per uscire, ve lo procurerete? Avrete una delle più belle cose di questi tempi: il pensiero, lo spirito di questo grand’uomo, afferrato dopo molte ricerche, dal vostro mougick, Honoré de B(alzac)». Il libro fu pubblicato quello stesso anno a nome di J.-L. Gaudy. Vi è da notare che alcuni pensieri di Napoleone non sono riportati in maniera fedele, altri sollevano dubbi di autenticità, «altri ancora infine appartengono quasi certamente alla penna di Balzac stesso». Il punto è che l’immagine che vien fuori del Bonaparte è quella proiettata da Balzac, ovvero quella di «una creatura letteraria: eroe prometeico, genio superiore, un principe machiavelliano certo di incarnare nel proprio destino lo spirito autentico della storia». Non a caso le massime si concludono con questo pensiero: «Nuovo Prometeo, sono legato a una roccia dove un avvoltoio mi rosicchia. Avevo rubato il fuoco del cielo per donarlo alla Francia; il fuoco è risalito alla sua sorgente, ed eccomi». Napoleone o Balzac? Napoleone riletto da Balzac, o meglio un Bonaparte alla Balzac.

 

 

  Salvo Fallica, Storie. «Il parroco di Tours» di Balzac. Le leggi naturali dell’egoismo, «l’Unità», Roma, 18 settembre 2006, p. 24.

 

  La commedia tragica del mondo nel realismo di Balzac. Nel racconto Il parroco di Tours, il grande scrittore francese mostra con il suo genio una triste e cinica commedia dell’umanità. Per nulla casuale, dunque, che Sellerio pubblichi questo lavoro di Balzac nella collana «La memoria». È infatti, un’opera letteraria, che ha una valenza storica, filosofica, sociale ed antropologica. Il racconto è una metafora del potere, «e della sete di potere, accentuata dalla circostanza di trovarsi imprigionata dentro la soffocante angustia di una provincia bigotta: dunque tanto più feroce e famelica, quanto più meschina e risibile nelle sue prede». Un’analisi disincantata, o addirittura sadica nell’ultima parte narrativa, «di come le energie affettive non consumate si dirigano a pervertire tutti i rapporti umani». Ma Balzac non si limita a descrivere, indaga nella realtà, negli angoli della psiche, nei meandri dell’anima. Se è lui stesso a sostenere nel racconto di inscenare «le leggi naturali dell’egoismo», in effetti letterariamente ne è il regista, narrativamente ne è il creatore. Si immerge nella dimensione interiore per scandagliare l’animo umano, e ne coglie le leggi dell’egoismo. Che lui lascia agire: «in una lotta sorda di tortuosi interessi minuscoli, che lentamente assume la grandezza del dramma cosmico». I tre personaggi protagonisti simboleggiano forme diverse dell’egoismo: dal parroco di Tours don Birotteau, «la cui bontà sfociava nell’idiozia», a «don Troubert, maligno calcolatore, nel suo disegno di potere, che lo trasforma dal canonico intrigante dell’inizio a genio del male». Ed ancora, Gamard, che incarna la figura letteraria della triste zitella, «felice di poter coltivare un sentimento così fertile come la vendetta», ma che nel gioco degli egoismi non otterrà nulla. Da cosa scaturisce la fitta rete di egoismi che dà vita al racconto? Un appartamento (della Gamard), che Birotteau crede di aver conquistato, mettendovi radici. Ma vien depredato dall’astuto Troubert. Per Birotteau era «come morire». «Era diventato simile a un vegetale: trapiantarlo voleva dire mettere a repentaglio la sua innocente fruttificazione». La vicenda divenne l’argomento di discussione nei salotti. E così Balzac racconta, alternando i registri della commedia del realismo cinico, fondendo «triviale e sublime, patetico e grottesco», con il suo stile scritturale, efficace e fluido, che penetra nella vita e la trasforma in letteratura.

 

 

  Elvira Fioretto, La paura nell’universo narrativo di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: Prof. R. Stajano, Università degli studi di Salerno, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 2006.

 

 

  Maria Concetta Giaquinto, Balzac e il caso de “La Duchesse de Langeais”. Tesi di laurea. Relatore: Prof. R. Stajano, Università degli studi di Salerno, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 2006.

 

 

  Siegmund Ginzberg, Il romanzo del capitale, «la Repubblica», Roma, 27 luglio 2006, p. 41.

 

  Il 25 febbraio del 1867, giusto poco prima di consegnare alle stampe il Primo Libro del Capitale, Karl Marx scrisse al suo amico Friedrich Engels suggerendogli di leggere due racconti di Balzac, «pieni di deliziosa ironia». Anzi, verrebbe da dire, autoironia, perché con quei personaggi potrebbe essergli venuta in quel momento una certa qual disposizione ad identificarsi. L’uno, Melmoth riconcilié (sic), è una rielaborazione del mito di Faust sulla confusione che nasce dal saperne (o pretendere di voler saperne) troppo. L’altro, Le Chef-d’Oeuvre Inconnu, parla di un genio assoluto della pittura, che dopo aver lavorato per 10 anni a dipingere e ridipingere una tela, un ritratto femminile, che avrebbe dovuto rivoluzionare l’arte fornendo «la rappresentazione più completa della realtà», si accorge improvvisamente che il risultato, a forza di ritocchi e perfezionamenti, è un pasticcio incomprensibile. «Niente, niente! E averci lavorato dieci anni». Il grande pittore passa ripetutamente dalla disperazione all’esaltazione, un momento sembra rendersi conto di aver fatto tanti ritocchi, tante sovrapposizioni di colori e pennellate da aver nascosto quel che voleva dire, il momento dopo si riprende e si dice che sono i due cui sta facendo vedere per la prima volta il quadro a non rendersi conto della genialità del risultato. Alla fine, nel racconto, brucia il suo capolavoro e si ammazza. Abbiamo una testimonianza del genero di Marx, Paul Lafargue, quello che aveva teorizzato il «diritto all’ozio», circa il fatto che quella storia di Balzac «gli aveva fatto una grande impressione perché descriveva in parte, i suoi propri sentimenti». [...].

  Una delle «ironie» che più colpiscono nel racconto di Balzac, scritto nella prima metà dell’Ottocento e ambientato nel Seicento – tra i protagonisti e ammiratori dello sfortunato genio, personaggio di pura invenzione, c’è anche un giovane Poussin – è che il «capolavoro sconosciuto» non era poi così banale, avrebbe potuto anticipare l’immensa fortuna della pittura astratta del Novecento, un modo più completo e profondo di vedere e rappresentare la realtà che nessuno avrebbe potuto capire o apprezzare anche solo qualche decennio prima. Curioso: tra i pittori affascinati dal racconto di Balzac ci fu Picasso: la serie di illustrazioni che gli dedicò mi ricordano gli scarabocchi complicatissimi dei manoscritti di Marx. Alla stregua del pittore immaginato da Balzac, Marx, anziché essere lasciato in soffitta, potrebbe essere letto come un modernista irrimediabilmente in anticipo sui tempi.

 

 

  Carlo Ginzburg, L’aspra verità. Una sfida di Stendhal agli storici, in Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli Editore, 2006 («Campi del sapere»), pp. 167-184.

 

  Su Stendhal e Balzac nell’analisi di Auerbach (Mimesis).

 

 

  Enrico Groppali, Androgini, ermafroditi, freak la letteratura dell’ambiguo, «il Giornale», Milano, 6 gennaio 2006, p. 27.

 

  Zambinella, chi era costei? Nel 1830 Honoré de Balzac battezzò con questo vezzeggiativo degno di una fata di Charles Perrault non una bella fanciulla ma, udite udite, un bizzarro vegliardo che nel suo nuovo romanzo Sarrasine, definito da Michel Foucault il più sconcertante breviario estetico dell’Ottocento, si aggira per i boulevard parigini in «un aderente gilet candido come la neve ricamato dello stesso fulgido oro che inalberava sulla bionda parrucca che gli ricopriva il cranio cadaverico».

  Chi ancor oggi percorre le righe sulfuree in cui il Padre della Comédie Humaine analizzava il comportamento di quegli individui dal sesso incerto che s’incontravano nei paraggi di Notre Dame scoprirà che quel vecchio signore era stato una femme romaine d’incredibile bellezza. Una Circe che, nella Città Eterna, mandava in delirio il pubblico maschile con le bellissime gambe ostentate senza pudore e con la voce capace di trilli sovrumani. Solo lo scultore dal femmineo nome di Sarrasine conquisterà la strana creatura. Che forse a suo tempo fu castrata per essere arruolata tra le «voci bianche» del Vaticano. Contemplandosi l’un l’altro, lo scultore dal sesso e il vecchio cadente che cela sotto una maschera le impietose ingiurie degli anni danno vita a un’immagine che Roland Barthes riteneva il ritratto ideale dell’uomo. [...].

 

 

  Virgilio Ilari, Gli italiani in Spagna, in AA.VV., Gli italiani in Spagna nella guerra napoleonica, 1807-1813. I fatti, i testimoni, l’eredità. Atti del IV Convegno internazionale di “Spagna contemporanea”, Novi Ligure, 22-24 ottobre 2004, a cura di Vittorio Scotti Douglas, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006.

 

  Nota 29. Il racconto “Les Marana” di Balzac è preceduto da una digressione storica sul 6° di linea: «Il y avait à l’armée du maréchal (Suchet) un régiment presque entièrement composé d’Italiens, et commandé par un certain colonel Eugène, homme d’une bravoure extraordinaire; un second Murat (...). Dans ce régiment, se trouvaient les débris de la légion italienne. Or, la légion italienne était pour l’Italie ce que sont pour la France les bataillons coloniaux. Son dépôt, établi à l’Ile d’Elbe, avait servi à déporter honorablement et les fils de famille qui donnaient des craintes pour leur avenir, et ces grandes hommes manqués dont la société marque d’avance la vie au fer chaud, en les appelant les mauvais sujets. (...). Napoléon avait donc incorporé tous ces hommes d’énergie dans le 6e de ligne, espérant les métamorphoser presque tous en généraux, sauf les déchets occasionnés par le boulet (...). Ce régiment, souvent décimé, toujours le même, acquit une grande réputation de valeur sur la scène militaire, et la plus détestable de toutes dans la vie privée ». Come si vede, Balzac sembra confondere il 6° reggimento italiano col 6e de ligne francese e commette anche un altro errore attribuendo il famoso episodio del granatiere bolognese Bianchini, ferito sette volte, cavaliere della Legion d’Onore, caduto sulla breccia di Tarragona e, secondo Vacani “uomo nato alla marra e all’aratro”, ad un «célèbre capitaine Bianchi, le même qui, pendant la campagne, avait parié manger le cœur d’une sentinelle espagnole, et le mangea. (...). Quoique Bianchi fût le prince des démons incarnées auxquels ce régiment devait sa double réputation, il avait cependant cette espèce d’honneur chevaleresque qui, à l’armée, fait excuser les plus grandes excès ; et pour tout dire en un mot, il eût été, dans l’autre siècle, un admirable filibustier» (Œuvres de H. de Balzac, Bruxelles, Meline, Cans et Compagnie, 1857, III, pp. 149-150).

 

“Les Marana”.

 

  Surclassato dalla Carmen di Mérimée (1845), il racconto “les Marana”, che apre le Scènes de la vie Parisienne di Honoré de Balzac61, suscitò com’è noto una sdegnata protesta di Antonio Lissoni in difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiate dal romanziere. Incentrata sul personaggio improbabile di una virago spagnola, capace di bruciare le cervella al marito piagnucolante – un piccolo furfante provenzale conosciuto durante la guerra di Spagna – per evitare ai figli l’onta di un padre in galera per truffa, e di ricevere poi gli ossequiosi poliziotti parigini con in mano «Cervantes» e la gonna insanguinata, questa storiaccia sopra le righe mette in scena, nell’antefatto, anche un personaggio italiano, il capitano Montefiore del famigerato 6° di linea; un marchese di Milano che si è mangiato il patrimonio per pagarsi «des escapades italiennes qui ne se concevraient point à Paris». Prudentemente defilatosi durante l’assalto di Tarragona per non rischiare una sciabolata sul bel viso malinconico «dont les femmes sont presque toujours dupes», ed entrato in città a cose fatte, il farfallone seduce la protagonista, che la mamma, donna di malaffare ma devota e rispettosa, ha dato in adozione per farla crescere onesta. Senonché, allarmata dai giornali, la matrona torna dall’estero in pompa magna, agguanta il moscardino, gli strappa le spalline e col pugnale alla gola e un ginocchio sulla pancia gli chiede se è sposato. Quello, ovviamente, spergiura balbettando di no, esibisce patrimoni e offre nozze riparatrici. Disgustata, l’ardente fanciulla istiga mammina a scannarle quel vigliacco. Ma in quel momento, richiamato dagli strilli del poveretto, arriva un picchetto comandato dal provenzale (ufficiale d’abbigliamento del 6° di linea) che salva la vita al collega offrendosi al suo posto per genero e marito (e futura vittima della virago).

 

 

  Alex Lascar, Honoré de Balzac. Un Prométhée créateur, Roma, Portaparole, 2006 («Petites Biographies. Collection dirigée par Cyril Grunspan», 8), pp. 95.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Préface;

  Un Prométhée créateur;

  Esquisse d’un tout petit répertoire;

  Documents;

  Bibliographie.

 

  Riproduciamo il testo della Préface presente alle pp. 7-10.

 

  Qui ne serait saisi, abasourdi? Des romans de jeunesse en nombre, toute La Comédie humaine (cent trente-sept oeuvres prévues, quatre-vingt-quinze achevées, nouvelles de toutes dimensions, mais aussi tant de vastes romans) avec ses personnages admirables, ignobles, mais si vivants, inoubliables; par ailleurs les Contes drolatiques, des préfaces multipliées et des textes théoriques, des ébauches romanesques si nombreuses et parfois développées, des pièces de théâtre, une foule d’oeuvres diverses (des essais, des articles, des récits) et de plus une immense correspondance en deux massifs: les lettres aux relations d’affaires (aujourd’hui nous disposons d’autres moyens, plus simples), mais surtout à la famille, aux amis (cinq volumes et quelques appendices) et d’autre part les lettres à Mme Hanska: durant seize années (1832-1848) Balzac tient pour l’Ève lointaine le journal de sa vie et de sa création.

  On songe à Sophocle, à Voltaire, à Goethe, à George Sand, à Hugo, à Tolstoi. Mais tous vécurent vieux. «Que Dieu vous prête vie», disaient à Balzac ses éditeurs (Avant-Propos de La Comédie Humaine). Il mourut à cinquante-et-un ans, comme Napoléon (Shakespeare à cinquante-deux). Entre la toute première parution (1822), et la toute dernière (1847), un quart de siècle. Au vrai, si l’on considère une longue interruption, et de fréquents arrêts — notamment maints voyages —, il fallut moins de vingt ans pour tout cela ! Comment éviter les hyperboles, le prodigieux, l’extraordinaire?

  Mais autre chose fascine. Presque jamais Balzac ne conçoit de laisser une oeuvre isolée. Les textes, achevés ou non, même menus, sont fragments d’un ensemble en devenir. On dirait «des pierres carrées, des chapiteaux épars, des métopes à demi-couvertes de fleurs et de dragons, qui vus au chantier, entre la scie et le ciseau du manoeuvre, semblent insignifiants et petits, et» qui sont «destiné[s] à quelque riche entablement». Car, comme l’écrit Davin, peut-être sous la dictée du romancier (Introduction aux Études philosophiques, 1834), il y a un «architecte», il y a un «dessin». Balzac c’est une force qui va, obscurément, obstinément, vers l’unité. Dès son premier recueil de nouvelles (Scènes de la vie privée, 1830), le jeune auteur manifeste sa volonté de créer des ensembles organiques. Puis il y a en 1833 ces Études de moeurs au XIXe siècle (unité et ampleur temporelle) où pourront s’épauler, se métamorphoser les romans de moeurs écrits ou à écrire. Elles seront subdivisées en séries (de la vie de province, de la vie parisienne ...) : il refuse catégoriquement à Gosselin de publier une quelconque d’entre elles séparément. D’ailleurs les Romans et Contes philosophiques deviennent Études philosophiques (comme pour montrer que la création va dans un même sens). En 1834 il conçoit un regroupement plus vaste, les Études sociales (englobant textes de moeurs, textes philosophiques). Et enfin en 1842 La Comédie humaine. On pense à Dante et à Shakespeare. Mais ce titre est si familier qu’on oublie ce qu’il a d’inouï. Jamais avant lui on n’eut une telle audace. Que de superbe dans ce titre superbe ! Mais en même temps, «beaucoup de travail donne infiniment de modestie» écrit-il dans l’Avant-Propos de 1842. Balzac toujours est double.

  Il se flattait d’être «plus historien que romancier» (Préface de La Femme supérieure, 1838), de peindre la société telle qu’elle est, avec ses misères et sans masque. Il y réussit, ô combien. Les historiens de métier l’ont reconnu, le reconnaissent, admiratifs. Mais toujours aussi il visa une explication totale, voulut être philosophe, homme d’études. « Je croyais sentir en moi une pensée à exprimer, un système à établir, une science à expliquer»: cet aveu de Raphaël, le héros de La Peau de Chagrin (1831), si proche de l’auteur par bien des points, nous renvoie à l’ambition originelle de Balzac qui jamais ne le quitta. Dès la lettre à Mme Hanska du 26 octobre 1834, il dit que ses Études sociales seront composées de trois séries: les Études de moeurs (les effets), les plus nombreuses, les Études philosophiques (les causes), les Études analytiques (les principes) en petit nombre, le tout couronné par l’Essai sur les forces humaines. Cette pyramide c’est encore celle du Catalogue des ouvrages que contiendra La Comédie humaine (1845). Tout au sommet le dernier texte devait être non plus l’Essai [...], jamais écrit, mais un Dialogue philosophique et politique sur les perfections du XIXe siècle, qui ne verra jamais le jour.

  Il «était condamné par sa propre constitution», écrivait jadis Henry James, «par sa manière obstinée de considérer “ce qui devait être fait” comme partie intégrante, essence même de son entreprise. [...] Il n’existait pour lui aucune échappatoire commode par la petite porte de derrière de la chose non faite ». Ce qu’il désirait — plus qu’aucun autre — c’était sortir de son obsession, mais seulement à l’autre bout, c’est-à-dire en la traversant de part en part. Comment vivait-il, lui à qui l’air manquait autant que s’il avait été en train de forer un tunnel ferroviaire sous les Alpes ? Comment vécut un tel homme ? Nous savons fort peu d’un Shakespeare; Balzac est maintenant loin de nous être inconnu.

 

 

  Mario Lavagetto, Istruzioni e proposte per l’enorme palinsesto, «Il Manifesto. Alias», Roma, anno 9, n. 4 bis, 4 febbraio 2006, pp. 20-21.

 

  È la percezione simultanea dell’Intero che dà significato a ogni «romanzo» balzacchiano: a ogni frase ci sovviene la scrittura accumulatasi alle nostre spalle —colori, epifanie, cortocircuiti, riconoscimenti.

 

  Henry James ha detto una volta che uno scrittore non crea soltanto i propri personaggi, crea anche i propri lettori. Li educa, amministra le loro curiosità, ne delinea la fisionomia, li abitua a un regime di informazioni e di attese, variabile ma non arbitrario, che comporta solo un numero limitato di deroghe. Tra tutti i grandi autori del romanzo occidentale nessuno è stato più esigente e perentorio nel creare il proprio lettore e nel prevederne le mosse – fin nei minimi particolari, con lo slancio dell’architetto e con la maniacale pazienza dell’orologiaio – di quanto lo sia stato Balzac. Il quale, scrivendo La Comédie humaine, ha programmato il proprio partner con la convinzione che «leggere sia creare in due», che la prima parola di un racconto inauguri una difficile collaborazione retta da statuti impliciti e tuttavia riconoscibili e garantiti da un’accettazione preliminare da parte dei contraenti. Balzac, come sempre onnivoro e intemperante, ha dato forma a una creatura nello stesso tempo plausibile e smisurata e che, forse, oggi è destinata ad apparire anacronistica: ha immaginato che il lettore ideale della sua opera fosse colui che, cominciando dalla Prefazione, si mettesse in viaggio e percorresse l’una dopo l’altra le tredicimila pagine che compongono La Comédie e, passando di romanzo in romanzo, acquisisse una serie di conoscenze, di competenze, di nozioni tali, di volta in volta, da permettergli di giocare la sua partita in un modo completamente diverso, con altra visuale e altri occhi da quelli di chi, un bel giorno, si fosse trovato a prendere in mano Gosbeck (sic) o La Vieille fille, La Recherche de l’absolu o Le Cousin Pons.

  Nel momento in cui gli era balenata l’idea di quella ciclopica cattedrale, dove avrebbe dovuto raccogliere i romanzi già scritti per integrarli in un corpo unico e tentacolare e arricchito man mano da nuove creazioni, Balzac si era prefisso di dar vita a un mondo di finzione, capace nondimeno di rispecchiare la realtà storica e sociale della Francia: «l’uomo, la società, l’umanità – aveva gridato con baldanza in una lettera del 22 novembre 1834 a Madame Hanska – saranno descritti, giudicati, analizzati senza ripetizioni e in un’opera che sarà come Le mille e una notte dell’Occidente». In quell’universo il lettore avrebbe dovuto immergersi e smarrirsi (come Harùn al Rashid si perdeva nelle strade di Bagdad ad ascoltare i racconti meravigliosi che gli svelavano i segreti della città) e, di volta in volta, imbattendosi negli stessi personaggi, avrebbe dovuto corredarli di tutto quanto era già venuto a sapere sul loro conto e sul loro destino.

  In tal modo avrebbe avuto la possibilità di verificare, libro per libro, qualcosa che lo stesso Balzac, in una delle sue Prefazioni più celebri, dichiarava «un vizio capitale», ma un vizio – si affrettava profeticamente ad aggiungere – «che forse un giorno passerà per un pregio»: «voi [voi lettori] troverete la parte centrale di una vita prima del suo inizio, l’inizio dopo la sua fine, la storia della morte prima di quella della nascita». Come dire che, all’interno di un universo rigorosamente newtoniano e dominato da leggi che l’opera mette progressivamente in luce, ci troviamo poi di fronte a quella che, azzardando un imprestito, potremmo definire l’abolizione della freccia del tempo. Di Florine, ad esempio, il lettore – che l’ha conosciuta donna ormai matura nelle pagine di Une fille d’Ève – ritrova l’immagine giovanile, al suo debutto sulle scene parigine, in Illusions perdues. Dove, peraltro, non potrà leggere il lungo colloquio che alla fine del romanzo lega il destino di Lucien de Rubempré a quello di Carlos Herrera senza sentire risuonare nella propria memoria il colloquio (quasi speculare e riprodotto con una serie di variazioni e amplificazioni attentamente calcolate) tra Vautrin e Rastignac (in Le Père Goriot), arrivando così ad attribuire una storia e un’identità anche allo sconosciuto prete spagnolo che sembra sbucare dal nulla.

  Gli indizi, i segnali disseminati da Balzac lungo il proprio cammino formano un intreccio affascinante e solidissimo che allena il lettore, lo abitua, lo mette all’erta, gli fornisce un intero repertorio di avvertimenti, di segnali, di codici che dovrà imparare a conoscere e a maneggiare: si trasformerà in una spia per la quale ogni dettaglio, suggeriva lo stesso Balzac, ha «l’enorme interesse che presentano nei romanzi di Cooper un tronco d’albero, un tana di castori, una roccia, la pelle di un bisonte, una barca immobile, foglie a fior d’acqua». Come potrà allora non essere d’accordo con l’autore di Jean Santeuil quando gli dichiara che la bellezza non va cercata in un singolo libro, ma nell’insieme? Che è lì, nel grande, maestoso edificio di cui Balzac ha costruito giorno per giorno la facciata, il corpo e le ali, che andrà cercata la sua più autentica e irresistibile grandezza. Come potrà non percepire nel gigantesco palinsesto l’interazione continua tra la scrittura che ha sotto gli occhi (e che percorre, riga dopo riga e pagina dopo pagina) e l’altra scrittura che si è accumulata alle sue spalle e che determina il colore, il suono, la sostanza del racconto, che produce interferenze, epifanie, meravigliosi riconoscimenti e cortocircuiti e impreviste illuminazioni?

  È proprio questa percezione del Tutto – percezione fisica, immediata, materiale – a sfuggire irrimediabilmente a chi si accinge a prendere in mano il secondo volume di quella che l’editore chiama La Commedia umana (e che non è La Comédie humaine), nonostante le ottime e documentatissime prefazioni di Mariolina Bongiovanni Bertini e nonostante il prezioso apparato di note in cui Claudia Moro ha riversato tesori di sommessa erudizione («Meridiani» Mondadori, pp. XII-1828, € 49,00, traduzioni di Dianella Selvatico Estense, Gabriella Mezzanotte e Marise Ferro). Nessuna segnaletica, per quanto accuratamente e intelligentemente predisposta, può supplire, se non in parte, all’esperienza diretta. Così i due romanzi che il lettore italiano trova in questo volume (Illusions perdues e Splendeurs et misères des courtisanes) e che Marcel Proust definiva la Tetralogia di Balzac, appaiono almeno in parte «staccati» dal resto della Comédie, mentre, nell’originale, costituiscono una sorta di gigantesca dorsale che si staglia sulle varie province in cui Balzac ha suddiviso il suo impero (Scènes de la vie privée, Scènes de la vie de province, Scènes de la vie parisienne ...).

  Si comincia da Angoulême, che sorge nel cuore del Périgord, una delle regioni centro-occidentali della Francia e che con la sua topografia, dove una città alta si contrappone nettamente a ima città bassa, si presta benissimo a rappresentare la stratificazione sociale così cara a Balzac, in quanto costruttore di storie. Lo scrupolo descrittivo è al solito estremo e poco importa se alla base c’è una conoscenza diretta e approfondita o, come in questo caso, una serie di immagini depositate nella memoria e che hanno bisogno di essere corroborate con informazioni e dettagli fomiti da premurosi collaboratori quali Zulma Carraud e il marito. Quando si metteva a scrivere, è stato detto, Balzac cadeva in una specie di trance che gli permetteva di sapere e di conoscere ogni cosa, anche quello che non sapeva o non aveva mai saputo di sapere. La sua «realtà» è il prodotto meravigliosamente dettagliato di una «visione» [...].

  Lucien de Rubempré [...] è [...] – come ha osservato Roland Chollet – [...] il «personaggio chiave», quello attorno a cui ruota l’intera peripezia. Il modo in cui Balzac ce lo mette sotto gli occhi la prima volta può essere considerato, alla luce dell’intero arco del suo destino, come un oroscopo segreto e implacabile: se qualcuno lo avesse osservato attentamente, «avrebbe ceduto alla tentazione di prenderlo per una ragazza travestita tanto più che, come la maggior parte degli uomini di spirito sottile, per non dire astuto, aveva le anche conformate come quelle di una donna. Questo indizio, di rado ingannatore, era veritiero nel caso di Lucien che il suo spirito irrequieto inclinava, quando analizzava lo stato attuale della società, a scivolare sul piano della depravazione propria dei diplomatici convinti che il successo costituisca la giustificazione di tutti i mezzi, per vergognosi che possano essere». Passeranno centinaia di pagine, alla fine delle Illusions, nel meraviglioso mondo della Comédie, tutto, non importa se scricchiolando, «si tiene»: le parole qui impiegate, ci segnala ancora Chollet, rigalleggiano nell’incontro fatale di Lucien con il «diplomatico» Carlos Herrera.

  A quell’incontro il lettore arriverà attraverso una serie di successive stazioni che lo porteranno in casa di Madame de Bargeton, nella Angoulême alta; quindi a Parigi nel mondo caotico e inebriante del giornalismo e dell’editoria; poi di nuovo ad Angoulême, dove Lucien finirà di trascinare alla rovina la propria famiglia e dove, disperato, lo vedremo avviarsi verso un piccolo specchio d’acqua, la cui profondità è rivelata dal colore della superficie «simile a una lastra di lucido acciaio»: il luogo ideale per mettere in atto un suicidio poetico, circondato da salici piangenti «tutti disposti in modo pittoresco». Ma, all’improvviso, davanti a lui si para uno «sconosciuto» «nello stesso modo imprevisto e misterioso – ha detto Lukács – con cui appare Mefistofele nel Faust di Goethe o Lucifero nel Caino di Byron», dai quali l’abate Carlos Herrera (o Vautrin o Jacques Collin o Trompe-la-Mort secondo i diversi tempi e ambienti) eredita le «funzioni». Con i suoi discorsi machiavellici, con le insinuazioni, le promesse, le blandizie gli ci vorrà poco per strappare l’anima di Lucien e ridurlo a una totale sottomissione che è sottomissione intellettuale e politica, ma anche – in modo appena velato – sottomissione sessuale. Proust, che ne ricava non pochi tratti del personaggio di Charlus, si dichiarerà – in uno dei suoi Cahiers – ammirato dall’«audacia» di Balzac che lui stesso sarebbe stato «davvero felice di poter imitare».

  Quando il lettore passa dalla grande macchina delle Illusions perdues, dove lo sforzo teorico e descrittivo di colui che aveva dichiarato di volersi limitare al molo di «segretario della società francese», arriva ai suoi risultati più articolati e profondi, e apre Splendeurs et misères des courtisanes, ha l’immediata percezione che il clima è cambiato, che tutto – i parametri interni ed esterni della narrazione, gli orologi, i tagli, i flash-back, l’apparato delle analessi e delle prolessi – verrà gestito con modi e scansioni diverse. Ci si trova, subito, ad apertura di volume, immersi nella fantasmagoria dell’ultimo ballo dell’Opéra nel 1824: splendida scena di apertura che permette a Balzac di raggruppare, secondo verosimiglianza, i componenti delle diverse classi sociali. È qui che, coperto da una maschera, vediamo tornare in scena Carlos Herrera, il gruppo dei giornalisti e degli uomini di mondo, il marchese Sixte Du Chatelet e Madame d’Espard. Balzac chiama a raccolta la società parigina delle Illusions e la schiera davanti a noi in una specie di prologo geniale: sono i personaggi e gli interpreti principali che troveremo nelle pagine successive insieme alla coppia formata da Lucien e da una misteriosa maschera sotto cui si cela, come la curiosità dei presenti scoprirà ben presto, la cortigiana Esther van Bogseck (sic). A partire da questo momento la storia viene risucchiata da un dispositivo di narrazione progressivamente e violentemente accelerato; il lettore si trova all’interno di una specie di rotor che gira a velocità vertiginosa e lo tiene schiacciato contro le pareti mentre al centro, su una piattaforma mobile, la catastrofe arriva attraverso una serie incredibile e ripetuta di colpi di scena, travestimenti, sipari a tinte forti, delitti, complicatissimi e sofisticati raggiri.

  Balzac sembra concedersi (attingendo a man bassa dalla sacca del romanzo popolare, del melodramma e dell’inverosimile) la stessa suprema, disinvolta libertà di cui usufruiscono le centinaia di narratori che pullulano nei racconti di Shérazade. Non resta che assecondarlo e magari rileggerei Oscar Wilde, opportunamente citato da Mariolina Bertini, là dove afferma; «Una frequentazione costante di Balzac trasforma i nostri amici in ombre di ombre. Chi avrà mai voglia di uscire per andare a una serata mondana (...) quando può stare in casa con Lucien de Rubempré?». E se a questo frequentatore del mondo della Comédie, si chiederà qual è stato il più grande dolore della sua vita, è probabile che non si approprierà delle parole dello stesso Wilde e non risponderà; «La morte di Lucien de Rubempré». E, tuttavia, c’è motivo di credere che quella morte si inscriverà nel novero dei «piccoli lutti» che accompagnano ogni compiuta esperienza di lettura.

 

 

  Stefano Massini, Memorie del boia, in Una quadrilogia, Milano, Ubulibri, 2006 («I testi Ubulibri»), pp. 127-160.

 

  Celando quasi fino all’ultimo la sua identità dietro le maschere prima di Jacques Renard (presunto figlio del boia di Vincennes) e poi della sua creatura narrativa: Daniel D’Arthez, Balzac giunge quasi furtivamente al cospetto di Charles Sanson, il boia della Rivoluzione. L’azione ha luogo a Parigi, nella casa di Sanson, durante una sera d'inverno dell'anno 1829: Sanson, ormai prossimo alla morte, versa in uno stato di abbandono, sprofondato nella sua poltrona, e quasi sospeso in un’atmosfera rarefatta di visioni e di incubi che mantengono tragicamente vivi «i fuochi di ieri». Distaccato cinicamente dal mondo, assistito soltanto dalla fedele Agathe, Sanson è ormai solo «un rudere, una larva del passato» (p. 140) che si trova a sfidare, in una partita a scacchi che, almeno nelle intenzioni, dovrà valere il prezzo della vita, un giovane scrittore desideroso di emergere ma ancora in attesa di formarsi completamente come uomo e come artista. È proprio a Sanson, dispensatore di morte e negazione di ogni forma di pietà umana, che Balzac chiede di soddisfare la sua sete di conoscenza dell’uomo e della vita («ho sete di capire, conoscere, scoprire, guardare. Devo sapere cos’è l’uomo, chi è l'uomo», p. 151). L’intensa e lucida drammaticità del personaggio di Sanson è resa da Massini soprattutto nella risposta che egli fornisce a Balzac poco prima di congedarsi da lui: paragonando la vita ad una partita a scacchi (quella che Balzac ha, alla fine, perduto) e l’uomo ad un qualsiasi pezzo della scacchiera, Sanson, fissando gli scacchi, dice al giovane romanziere: «Guardate questi pezzi. Guardateli (...) Ora pensate – per un attimo che questi scacchi di legno abbiano, ognuno, i loro pensieri, i loro pieno, le loro storie. Pensate che abbiano una faccia, degli occhi. Abbiano un nome ... Eppure la mia mano li muove. Questo è l’uomo, signor D’Arthez: c’è sempre una mano che lo muove. C’è sempre qualcuno che lo spinge, da una casella all’altra. (...) Non ha senso, ma questo è il gioco» (p. 157).

  Quest’opera ha avuto la sua prima rappresentazione assoluta a Firenze (Teatro Rifredi) il 26 novembre 2004 (cfr.).

 

 

  Paolo Mauri, Capolavori contagiosi, «la Repubblica», Roma, 4 febbraio 2006.

 

  Balzac aveva pubblicato per la prima volta Il capolavoro sconosciuto nel 1831, poi con il titolo cambiato in Gillette nel 1847 in volume. è un racconto che non può lasciare indifferenti e difatti in molti se ne occuparono, interpretandolo e chiosandolo. In fondo è una ricerca sull’essenza dell’arte e del genio artistico: il pittore Frenhofer crede in ciò che sta facendo, ma ciò che egli vede (un capolavoro assoluto) non è ciò che vedono gli altri: una muraglia di pittura da cui, unico particolare perfetto, spunta un piede di donna. Nel 1873 Henry James scrisse a sua volta un racconto, ispirandosi a quello di Balzac e lo intitolò La Madonna del futuro. (Ce lo ripresenta ora Einaudi in un Millennio che raccoglie i Racconti di artisti). James ambienta la storia a Firenze: un giovane americano (ma sarebbe meglio dire un americano da giovane, visto che il racconto lo fa un signore ormai in età) visita la città soprattutto per educarsi all’arte e mentre una sera ammira il David di Michelangelo si imbatte in un curioso compatriota. In breve: verrà a sapere che costui dipinge e si nutre d’arte, visitando ogni giorno i musei e sostando davanti ai capolavori. Passa il tempo e l’ammirazione per il genio di Theobald (questo il nome dell’artista sconosciuto) e per il suo tormento crescono: ma tutto dovrà precipitare. Theobald farà conoscere all’amico la sua musa: una prospera popolana che egli ammira come bellezza suprema da molti anni senza vederne l’invecchiamento. Messo in guardia, improvvisamente tutto gli frana addosso. La sua musa è vecchia, la Madonna del futuro non verrà mai finita. Si ammala e, quando l’amico lo cerca, scopre che vive in una stanza modestissima al centro della quale c’è una tela vuota. Come il protagonista di Balzac anche Theobald ha un capolavoro nella testa, ma non lo può realizzare. Il racconto è, a suo modo, feroce. Una parodia? Preferirei parlare di contagio.

 

 

  Maria Grazia Messina, Proiezioni fra Balzac e Poe, in Paul Gauguin: un esotismo controverso, Firenze, University Press, 2006, pp. 45-51.

 

  pp. 48-49. Soprattutto La Ricerca dell’Assoluto, opera appartenente al ciclo degli Studi Filosofici di Balzac è citata da Morice fra le preferite in assoluto da Gauguin, sembra offrire un canovaccio quanto mai adeguato alla lacerata situazione vissuta dall’artista in questi anni e posta in luce dalla corrispondenza e dai ricordi degli amici e futuri biografi, Jean de Rotonchamp e Morice. La vicenda di Balthasar Claës, il ricco mercante fiammingo che disperde il patrimonio, si fa impenetrabile ai richiami affettivi, cieco alle responsabilità familiari, pur di concentrarsi sulla propria strada infine intuita, la pratica alchemica, doveva per molti versi risuonare congeniale al lettore Gauguin. Balzac delinea temi, suscita situazioni, che, anche se proprie del mito dell’artista nella sua strumentazione romantica, ritrovano un singolare riscontro nelle confessioni epistolari di Gauguin e nella posa che egli implicitamente assume negli autoritratti del periodo: dalla fisionomia "dagli occhi scintillanti” segnata da un fuoco interiore, alla pervicace determinazione con cui è condotto “il duello con l’Ignoto”, nonostante lo scacco continuo della tensione a impossibili creazioni; dall’equazione genio-infanzia, accampata sull’imprevidente “candore" di chi ricerca, a quella di genio-demone-folle avanzata dalla gente comune; dall’incomprensione della moglie, cui pure Claës sente di approntare una fama a venire, al rifiuto espresso dalla società, dove Claës è “un uomo da mettere al bando, un cattivo padre [...] assorto nella ricerca della pietra filosofale nel diciannovesimo secolo, in questo secolo illuminato, incredulo Gauguin si rispecchia nella morale “un grand’uomo non può avere né moglie né figli”, e la sua proiezione arriva al punto da attingere allo stesso frasario della novella: nello scrivere nel 1885 alla moglie Mette della propria intenzione di trasferirsi a Pont-Aven, poiché e in Bretagna che si può vivere ancora a buon mercato”, cita istintivamente dal personaggio di Balzac, che, ormai privo di risorse, prende nel corso della storia un’analoga decisione.

 

 

  Alain Montandon, “Flânerie” e passeggiate urbane, in La passeggiata. Ritualità e divagazioni. Traduzione di Maria Teresa Ricci, Roma, Salerno editrice, 2006 («Piccoli saggi», 29), pp. 148-169.

 

 

  Gabriello Montemagno, Ingegno e fame inseguendo sogni, «la Repubblica», Roma, 9 agosto 2006.

 

  Una citazione illustre, come appendice stravagante, per concludere questo viaggio nel mondo degli inventori. Lo spunto è dato da una innovazione realizzata a Palermo nel 1938 da Spartaco Mancini, e di cui abbiamo parlato in una puntata precedente. Il Mancini riuscì a produrre carta pregiata a basso costo utilizzando le lunghe foglie di una pianta che cresce spontanea in tutta l’Isola [...]. Brevetto poi acquistato da una ditta tedesca. Questa storia ha una sorprendente affinità col racconto di Honoré de Balzac nel romanzo “Le sofferenze di un inventore”, terza parte delle “Illusioni perdute”. Il grande narratore francese (conservatore e reazionario nella vita, ma dall' acutissimo taglio sociologico in letteratura, tanto da essere molto amato da Marx), con il suo realismo, descrive queste sofferenze non tanto dal punto di vista psicologico, come rovello creativo, quanto dal punto di vista degli intralci concreti, dovuti all’economia, alla concorrenza, alle macchinazioni di operatori senza scrupoli, alla società. David Séchard, questo il nome dell’inventore, ha l’ingegno e l’animo di uno scienziato. Ma di questo ha anche l’ingenuità e la mancanza di concretezza, tanto da fare esclamare a Balzac: «Sotto un inventore spesso si nasconde un babbeo!». David eredita dal padre una tipografia che ben presto, sotto i colpi della concorrenza, si risolve in un terribile fallimento economico. Ma David sa di potere uscire da quella situazione rovinosa, e anzi di potere ottenere favolosi guadagni, se riesce a realizzare una sua geniale intuizione alla ricerca di un nuovo procedimento per la fabbricazione di una carta di alta qualità e a costi straordinariamente bassi. «Perciò, per quel profondo pensatore il problema era duplice: bisognava trovare al più presto il sistema per fabbricare carta a basso costo, e mettere a frutto i guadagni della sua scoperta per far fronte ai bisogni della famiglia e della sua attività». «Quale epiteto potremmo dare alla mente capace di scrollarsi di dosso le terribili preoccupazioni causate tanto da un’indigenza da nascondere e dalla vista di una famiglia senza pane, quanto dalle esigenze giornaliere di una professione così meticolosa come quella dello stampatore, e capace nello stesso tempo di percorrere i domini dell’ignoto con tutto l’ardore e l’ebbrezza dello scienziato alla ricerca di un segreto che di giorno in giorno sfugge alle più sagaci ricerche?». «Purtroppo, come si vedrà, gli inventori devono sopportare molti altri mali, senza contare l’ingratitudine delle masse, a cui gli oziosi e gli inetti, parlando di un genio, dicono: “Era nato per fare l’inventore, non avrebbe potuto fare nient’altro. Non bisogna essergli grati per la sua scoperta, così come non bisogna essere grati a un uomo per il fatto di essere nato principe! Esercita delle facoltà naturali! E poi la sua ricompensa l’ha già trovata nel lavoro”». Balzac conosceva bene i problemi e le tecniche dello stampatore, anche perché lui stesso per qualche anno aveva gestito una tipografia e una fonderia di caratteri, che si erano concluse in un disastro. Conosceva i prezzi e le caratteristiche di ogni tipo di carta, come si evince da questo dialogo fra David ed Eve, la bella e paziente moglie: «Una risma di questa carta, formato grand raisin, non costerebbe più di cinque franchi», disse David facendo palpare i campioni a Eve che tradiva un fanciullesco stupore. «E come li hai ottenuti?» chiese Eve. «Con un vecchio telaio di crine». «Dunque non sei ancora soddisfatto?» «Il problema non è nella fabbricazione, ma nel prezzo della pasta. Purtroppo, bambina mia, tanti altri prima di me ci hanno provato inutilmente. Già nel 1794 la signora Masson aveva provato a riciclare la carta usata. E ci è riuscita, ma a che prezzo! Verso il 1800, in Inghilterra il marchese di Salisbury, e in Francia Séguin, cercavano contemporaneamente di fabbricare la carta con la paglia. I fogli che hai in mano sono stati ricavati dalla canna che cresce ovunque qui nei dintorni, l’arundo phragmitis. Ma ora proverò con le ortiche e i cardi. Se voglio che la materia prima sia a basso prezzo, devo usare le erbacce che crescono nelle paludi e nei terreni incolti. Il segreto sta tutto nella preparazione. Per ora il mio procedimento non è abbastanza semplice. Ma a parte questo, sono sicuro che darò all’industria cartaria francese il primato che detiene la nostra letteratura, e che il nostro paese avrà il monopolio della carta, come gli inglesi hanno quello del ferro, del carbone e del vasellame. Voglio essere il Jacquard dell’industria cartaria». Eve si alzò in piedi commossa. Provava entusiasmo e ammirazione per la modestia di David, e lo abbracciò stringendolo al cuore e appoggiandogli la testa sulla spalla. «Tu mi ricompensi come se avessi già scoperto quello che voglio», disse lui. Le ristrettezze economiche, le difficoltà della famiglia, le pressioni dei creditori, le ciniche macchinazioni ai danni di David da parte di concorrenti senza scrupoli come i tipografi fratelli Cointet, inducono l’inventore di Balzac ad accrescere i suoi sforzi di ricerca nella segretezza di una cantina. Fin quando si presenta alla moglie con il suo ennesimo «Ho trovato!». «Per la prima volta Eve accolse con un sorriso velato di tristezza la sublime fiducia nel successo che sostiene tutti gli inventori dandogli il coraggio di andare avanti in mezzo alle foreste vergini del paese delle scoperte. David abbassò la testa con un’espressione funerea». «Caro, non mi sto prendendo gioco di te, non rido, non dubito», esclamò Eve inginocchiandosi davanti al marito. «Ma avevi ragione tu. Avresti fatto meglio a non dirmi nulla dei tuoi esperimenti e delle tue speranze. Sì, caro, gli inventori devono nascondere il parto faticoso della loro gloria a tutti, anche alle loro mogli! Una moglie è sempre una donna. La tua Eve non ha saputo fare a meno di sorridere sentendoti dire “Ho trovato!” per la diciassettesima volta in un mese». David si mise a ridere di se stesso con una tale sincerità che Eve gli prese la mano e la baciò con religioso rispetto. Fu un momento delizioso, uno di quei fiori d’amore e di tenerezza che spuntano sul ciglio dei più aridi sentieri della miseria e talvolta anche al fondo dei precipizi». In effetti, David Séchard aveva trovato finalmente la pasta economica per la fabbricazione della carta. Ma ora doveva perfezionare l’invenzione «per non vedersi strappare di mano una fortuna che gli era costata così cara». Doveva, cioè, trovare il modo per ottenere una certa collatura della pasta negli stessi tini, e non foglio per foglio con un costo di manodopera che fa salire il prezzo. E a questo proposito Balzac fa una osservazione valida tutt’oggi. «La piaga degli inventori in Francia è il brevetto di perfezionamento. Un uomo passa dieci anni a cercare un segreto industriale, una macchina, un ritrovato qualsiasi, prende un brevetto, e si crede padrone della cosa. Ma se non ha previsto tutto, dopo di lui viene un concorrente che perfeziona la sua invenzione aggiungendo una vite e gliela strappa di mano». La storia di David si conclude come tante storie di geniali ma ingenui inventori: con i furbi che si arricchiscono sulla loro scoperta. Infatti, a causa dei debiti, dei processi e del carcere, David è costretto ad associare al suo segreto i mostruosi fratelli Cointet, che sfruttano ampiamente la sua invenzione, lasciando all’inventore soltanto i mezzi per una placida ma normale agiatezza. E così, con un’immagine bucolica di serenità, Balzac conclude la travagliata vicenda del suo piccolo genio: «David Séchard, amato da sua moglie e padre di due maschi e una femmina, ha avuto il buon gusto di non parlare mai dei suoi tentativi, così come Eve ha avuto il buon senso di farlo rinunciare alla terribile vocazione degli inventori, questi novelli Mosè divorati dal roveto ardente di Oreb. Si interessa di letteratura per diletto, ma conduce la vita felice e oziosa di un proprietario terriero. Dopo aver detto addio per sempre alla gloria, si è risolutamente schierato nella classe dei sognatori e dei collezionisti. Si dà all' entomologia e studia le trasformazioni segrete degli insetti». Infine, un dubbio mi assale. Che la lettura di queste paginette possa indurre a rivestire l’inventore di troppo idealismo? [...].

 

 

  Patrizia Oppici, Recensioni. Susi Pietri, «L’Invention de Balzac, lectures européennes, textes de Hofmannsthal, James, Pasternak, Rilke et al.», Saint-Denis, Presses Universitaires de Vincennes, 2004, pp. 242, «Rivista di Letterature moderne e comparate», Firenze, Vil. LIX nuova serie, Fasc. 3, luglio-settembre 2006, pp. 117-119.

 

  Il multiforme Balzac che abita questo libro è frutto della riflessione di alcuni dei più grandi scrittori non francesi tra Otto e Novecento. Testi di Hofmannsthal, James, Pasternak, Rilke, Stevenson, Strindberg, Svevo, Swinburne, Cechov, Wilde e Yeats sono qui meditatamente trascelti e raccolti a formare i contorni critici di un “continente narrativo” le cui caratteristiche sono tutte da esplorare. Già è significativa la scelta dei tempi: se negli ultimi anni la critica ha saputo riscoprire un Balzac sorprendentemente vicino alle inquietudini contemporanee, Susi Pietri ci svela un’altra fin de siècle intenta a ricercarsi nell’immagine della Comédie humaine. Anche a quel tempo il ricorso a Balzac espresse una volontà di interrogazione critica dei codici del realismo e delle potenzialità della forma romanzesca. Henry James, uno degli autori più rappresentati nel libro, esprime al meglio la necessità sentita dal romanziere fine secolo di questo “ritorno al futuro” balzachiano. Piuttosto critico nei confronti di Balzac nel periodo giovanile, ne diviene invece fervente ammiratore e lucidissimo interprete negli anni della pubblicazione della prima edizione completa della sua opera, concepita appunto come una seconda commedia umana. L’effet Comédie-humaine è il titolo della prima sezione in cui si organizza il libro, a testimonianza della potente fascinazione esercitata dal mondo parallelo di Balzac, quel mondo in cui si vorrebbe poter vivere, secondo l’espressione di Wilde: “qui a lu La Comédie humaine se dit que les seuls êtres réels sont ceux qui n’ont jamais existé”, rafforzata dalla celebre boutade: “L’une des plus grandes tragédies de ma vie est la mort de Lucien de Rubempré" (il lettore le ritroverà entrambe nel libro).

  Di ben altro spessore e complessità è comunque la lezione che James sa trarre dall’opera balzachiana, che gli appare fondamentale per giustificare la forma romanzo, “l’immagine della vita”, in antitesi alla poesia, la vita stessa”. In Balzac la rappresentazione totale e totalizzante della vita appare a James di una straordinaria intensità: la materia della Commedia umana, così ricca e densa, ramificata in innumerevoli percorsi a formare uno spazio narrativo compatto e pieno di linfa, nasce da una capacità unica di penetrazione nel proprio soggetto. La passione per il dettaglio che caratterizza ogni personaggio è l’espressione di questa dote [...].

  Ma è proprio per la concezione e l’estensione della forma romanzo che Balzac affascina e sconcerta molti altri scrittori: la riflessione sulla Commedia umana come forma totalizzante e inclusiva ispira tutta la seconda sezione, L’Oeuvre-monde. Per Hofmannsthal questa visione globale è soprattutto dinamica e si concretizza come un’epica moderna dove tutto passa e si trasforma. L’importanza del denaro nell’opera assume in questa lettura una funzione simbolica che allude al fluire incessante di tutto: “A travers l’argent tout va vers tout’’. Il movimento incessante che percorre il ciclo balzachiano non provoca tuttavia dispersione perché legami sotterranei, “mystérieuses analogies”, ne assicurano una baudelairiana profonda unità, quella stessa unità che Yeats sente prefigurata in Louis Lambert, suo “livre sacré”, l’unico, insieme alla Fille aux yeux d’or di Hofmannsthal, a essere oggetto di un saggio critico appositamente dedicato. Anche questo è un dato di notevole interesse: in un’epoca in cui la critica universitaria faceva trionfare una visione di Balzac strettamente ancorata al realismo, la lettura degli scrittori è invece molto attenta a quegli aspetti di confine dell’opera che solo a Novecento molto inoltralo sarebbero stati riscoperti e valorizzati.

  L’invenzione di Balzac proposta dal libro è dunque più di un importante tassello nella ricostruzione della fortuna critica balzachiana, proprio perché elaborata non da critici professionisti, ma da romanzieri e poeti in cerca di nuove vie creative. [...].

 

 

  Patrizia Oppici, La disperazione di non trovare le pantofole, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXIII, N. 11, novembre 2006, p. 24.

 

  Honoré de Balzac Il parroco di Tours, ed. orig. 1832, trad. dal francese di Clio Cicogni e Alessandra Cioncolini, pp. 179, Sellerio, Palermo 2006.

 

  Protagonisti della storia: due vecchi preti e un’attempata zitella. Ambientazione: un chiostro umido e buio all’ombra della cattedrale di Tours. Riassunto dell’intreccio nella formulazione essenziale di Taine: “Un pover’uomo disperato perché non trova più le sue pantofole”. Da simili premesse parrebbe difficile trarre qualcosa di avvincente, o anche solo di mediamente sensato. Ma se ci si chiama Balzac, con questi ingredienti si può costruire un piccolo romanzo che rivaleggia in grandezza con Illusioni perdute (il giudizio è di Proust).

  Le Curé de Tours, pubblicato per la prima volta nel 1832, illustra in effetti alcuni dei motivi cruciali della Commedia umana. Innanzi tutto la peculiarità dei tre singolari protagonisti, “un vicario tonto, un canonico ambizioso e una zitella vendicativa”, sta nella scelta o nell’obbligo del celibato che li accomuna. Il testo fa parte di una microsezione della grande opera intitolata appunto Les Célibataires, i celibi, destinata a illustrare quella teoria energetica balzachiana esemplificata anche nella famosa Pelle di zigrino, che s’accorcia al compimento dei desideri del protagonista, insieme alla sua vita. La forza passionale risparmiata da queste vite sterili si riversa in attività compensatorie: per il canonico sarà l’intrigo che lo conduce alla mitria vescovile, mentre il parroco di modesta intelligenza si realizza tutto nell’agognato possesso dell’alloggio dei suoi sogni, un confortevole appartamento da cui l’altro prete, in combutta con la zitella proprietaria dei locali, riuscirà a scalzarlo. Quest’ultima è a sua volta motivata dall’ambizione di formare un suo salotto, che il parroco ha storditamente frustrato. Egoismo e interesse dominano i comportamenti di tutti i personaggi: i due religiosi appaiono entrambi meschinamente aggrappati alle cose terrene, carriera ecclesiastica e ricchezze materiali, e non recano alcuna traccia di vita spirituale. Ne esce uno spaccato di vita ecclesiastica decisamente corrosivo, che la critica ha accostato alle pagine più anticlericali del Rosso e il nero. Ma è alla zitella, vera “anomalia sociale”, che Balzac riserva gli strali più pittoreschi. Essendo le donne, come ognun sa, destinate per natura al sacrificio, appare particolarmente abietto ch’esse vi si sottraggano con la scusa di non trovar marito: “Brutte, la bontà del carattere avrebbe dovuto riscattare le imperfezioni della natura; belle, la loro sventura deve aver avuto cause ben gravi. Non si sa quali, fra le une e le altre, meritino maggiore ripulsa”.

  Non è certo questa visione decisamente fuori moda della vita single a fare del Parroco di Tours quel gioiello che la critica vi ha da tempo riconosciuto. Quel che lo rende un capolavoro è la capacità propria del romanziere di dare proporzioni epiche persino a una banale lite tra inquilino e proprietaria, ingigantendola nell’ambientazione provinciale, dove ogni scarto dal ritmo abitudinario della vita crea un evento suscettibile di interpretazione. È vero che in Balzac persino le portinaie sono geniali, perché il suo realismo visionario riscatta anche e soprattutto il quotidiano, accordando dignità romanzesca a fatti e personaggi fino ad allora trascurati: la parabola esistenziale di un onesto profumiere non è meno interessante di quella di un imperatore romano, e può anzi esser più istruttiva agli occhi di un lettore moderno.

  Ma nel Parroco, come nota giustamente Pierluigi Pellini nella sua postfazione, si va persino oltre, promuovendo un eroe assolutamente privo di qualità più vicino agli inetti protagonisti del romanzo del primo Novecento che al “tipo” balzachiano, grande anche nell’essere vittima. È degno di nota che Balzac scelga di consacrare nel titolo proprio il più abulico fra i tre personaggi principali: se il prete ambizioso e la zitella che concepiscono il diabolico piano hanno una loro grandiosità malvagia, risultando così più conformi ai normali canoni rappresentativi del romanziere, il curato loro zimbello ci appare solo un povero ometto compiaciuto delle sue tappezzerie. Nessuna grandezza in lui, solo un meschino egoismo che si esaurisce nella spasmodica cura del proprio comfort. D’altro canto, l’attenzione agli infimi dettagli del quotidiano rende questo piccolo romanzo esemplare di un altro cardine della poetica della Commedia umana, la tessitura del testo come paradigma indiziario da svelare attraverso un’accurata lettura, cui corrisponde l’attività ermeneutica dei protagonisti della storia.

  Seppur tonto, persino il parroco comprende infine attraverso alcuni particolari solo apparentemente insignificanti la guerra che gli è stata dichiarata: fuoco spento, candela dimenticata. pantofole spostate sono i dati dell’enigma da interpretare per arrivare alla verità della sua disgrazia. Il meccanismo deduttivo, su cui si fonda del resto quel genere poliziesco di cui Balzac è uno dei fondatori, considera tutto il reale uno sterminato campo di indizi rispecchiato nel racconto anche con le famose, e da taluni considerate micidiali, descrizioni “alla Balzac”, che tuttavia, se lette con il piglio del detective, svelano il vero attraverso i dettagli più futili: “Di quelle sciocchezze era fatta la sua esistenza, la sua cara esistenza piena di occupazioni; vita monotona e grigia, in cui i sentimenti troppo forti erano sciagure, in cui la mancanza di emozioni era felicità”. Nel mondo di Balzac, nel nostro, il romanzesco accoglie anche simili tragedie, e ci si appassiona alle disavventure di un mediocre, privato della sua piccola felicità fatta di un letto con cortine di seta e biancheria profumata al giaggiolo.

 

 

  Pier Paolo Pasolini, [Alcuni classici], in Descrizioni di descrizioni. A cura di Paola Chiarcossi. Introduzione di Paolo Mauri, Milano, Garzanti, 2006 («Saggi»), pp. 294-300.

 

  Cfr. 1973.

 

 

  Pierluigi Pellini, La felicità vegetale. Apologia di un imbecille, in Honoré de Balzac, Il parroco di Tours ... cit., pp. 141-169.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Arnaldo Picchi, Rimeditando sul “Capolavoro sconosciuto” di Balzac, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», Bologna, N. 7, 2006 [on line].

 

  In forma di lettera aperta a Davide Monda, curatore, insieme a G. Greco, di una bella edizione italiana de Il capolavoro sconosciuto (BUR, 2002), Arnaldo Picchi fornisce una reinterpretazione del testo balzachiano, di cui trascriviamo le osservazioni finali:

 

  Chiuderò con una considerazione che per un regista di teatro, come me, è preliminare. I personaggi scatenano un’opposizione grave: da una parte sono esseri autonomi, investigabili e predicabili come uomini; dall’altro sono gli ideogrammi culturali costituiti dall’insieme dei giudizi e delle predicazioni – variamente definibili – che su di loro sono venuti a conglomerarsi e in base ai quali, infine, sono lasciati in pace o assoggettati a un compito. Gabbie di leoni con gli occhi piene di savane. Pietas, allora; non c’è altro atteggiamento da prendere con gli uomini vivi, e non ce n’è allora uno diverso per i personaggi. Pietas vale un partito preso su cui non si può recedere e con il cui aiuto possiamo cercare di capire come i personaggi (e gli uomini che predicano di loro) hanno affrontato, affrontano il loro gigantesco problema.

  C’è una conseguenza seria, se si premette questo. Che una rappresentazione, un racconto, ha senso solo se questa pietas si manifesta fino al suo osso di irrinunciabilità; e oltre: al suo osso di nostra volontarietà nell’assumerla, con la volontà con la corda al collo – lo spasimo della ragione, ho detto – che la persegue; nella caducità di questa volontà – il limite su cui si spezza, e ce ne fottiamo o si piange. E così in una rappresentazione deve esserci una tale scommessa definitiva; come nella vita, dove ogni punto è un punto di non ritorno. Non c’è delirio di onnipotenza in Frenhofer. Una rappresentazione dovrebbe essere intrisa dello stesso rischio di vivere, dello stesso pesante passo della necessità di vivere (di sopravvivere). Altrimenti è figura, attori in scena; non serve a niente. Il commento, dunque, oltre ad assolvere i suoi compiti di correttezza ermeneutica, è la ricerca della via di questa pietas.

  E questo era quello che volevo dirti, caro Davide. Tutto, per ora; perché io lo so che questo maledetto testo di Balzac mi terrà dietro. Via, allora lo userò come campo base. E per avermi in modo tanto discreto (il migliore!) suggerito di prestargli la dovuta attenzione desidero ringraziarti di nuovo e con molto calore.

 

 

  Leonardo Pieri, Lukács lettore di Balzac e Mann. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Paolo Orvieto, Università degli studi di Firenze, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Italianistica, 2006.

 

 

  Elena Pontiggia, Honoré de Balzac. “Le chef-d’oeuvre inconnu”, in AA.VV., Picasso illustratore, a cura di Elena Pontiggia, Milano, Skira editore, 2006, pp. 54-71.

 

  La mostra intitolata: “Picasso illustratore” (Bari, Castello Svevo, 7 ottobre-15 novembre 2006; Milano, Fondazione Stelline, 15 febbraio-18 marzo 2007), di cui l’editore Skira pubblica con questo volume il bellissimo Catalogo, ha consentito per la prima volta al pubblico italiano di arricchire le proprie conoscenze su Picasso grafico attraverso le novanta tavole originali e litografiche che mostrano il pittore spagnolo alle prese con l’illustrazione di opere letterarie, quali Le Metamorfosi di Ovidio o Le Chef-d’oeuvre inconnu di Balzac.

  Quando, nel novembre 1931, l’editore Ambroise Vollard pubblicò l’edizione del racconto filosofico balzachiano corredato dalle tredici acqueforti originali e incisioni in legno di Picasso, il sentimento dei bibliofili fu generalmente quello di un profondo disorientamento. Nelle illustrazioni del Chef d’oeuvre inconnu (ma sarebbe più corretto parlare di evocazioni del testo balzachiano), Picasso si ispira direttamente una sola volta alle pagine del romanziere francese nella tavola intitolata: Il pittore e la modella che lavora a maglia ( 1927), in cui, scrivo Elena Pontiggia, fine ed attenta curatrice del Catalogo, l’artista affronta «il problema centrale del testo (il rapporto fra espressione e rappresentazione, fra invenzione dell’artista e comprensione dell’osservatore, fra autonomia del segno e imitazione della natura), ma ne reinvesta la lettera, variando completamente i dettagli» (p. 60). È singolare poi il fatto che, nel corso del 1927, Picasso realizzi dodici acqueforti per il libro «senza soffermarsi sulla trama narrata da Balzac e concentrandosi esclusivamente sul tema del pittore e della modella» (p. 55). Le tavole, puntualizza la curatrice, sono accomunate tutte dalla «nitidezza del disegno, anche se, a differenza delle Metamorfosi, qui Picasso si vale non solo della linea pura, ma anche del tratteggio in funzione del contrasto chiaroscurale» (ibid.).

  Come ha osservato Michel Leiris in un saggio dedicato al pittore spagnolo e tradotto in italiano nel 2003 (Il Pittore e la modella), «tutte le incisioni di cui questa storia è stata il pretesto hanno una grande purezza classica, come se Picasso avesse adottato la concezione estetica di Balzac per il quale il ‘capolavoro’, di cui sottolinea la quasi totale illeggibilità, è il frutto di un’aberrazione e il segno di un fallimento» (cit. a p. 55).

 

 

  Fabio Rocchi, “La grande padrona nazionale ci sorvolerà col suo elicottero”. Paolo Volponi e la marcia dei quarantamila, «Filologia antica e moderna», Università della Calabria, XVI, N. 30-31, 2006, pp. 347-353.

 

  [...]. Volponi è così, forse nemmeno troppo consapevolmente, vicino ad una misura da romanzo balzachiano, non certo nella forma, che è, lo ripeto, del tutto novecentesca, ma negli intenti. Anche l’autore della Comédie sposta il focus delle sue architetture narrative sul recente passato del proprio paese, in anni altrettanto cruciali in cui l’istinto alla rivolta è condannato dai tempi a placarsi; anche lui punta, attraverso l’introduzione di varie vicende esemplari, ad una interpretazione della società, anzi, ad una sua demistificazione. Dal cinismo dello scrittore francese Volponi infatti pare recuperare soprattutto la dominante capitalistica dei moventi, delle azioni dirette e indirette di personaggi manovrati da una entità malvagia e condannati alla quête perpetua di quei simulacri moderni che sono il denaro e il potere. Una storiografia a tema dunque, per nulla imparziale o documentaria. [...].

  Il ricorso alla digressione del narratore onnisciente viene però totalmente reinventato dall’innovazione introdotta dai romanzi di Balzac, che cominciano a condensare attorno a vicende tanto esemplari quanto sempre più private e marginali i grandi accadimenti della storia. Queste potenziano l’attendibilità dei fatti e cominciano ad attuare un consistente mutamento di prospettiva: il testimone si allontana dalla posizione esterna, tipica dell’onniscienza del narratore, per ricoprire funzionalità interne alla vicenda narrata. La tenuta di questo meccanismo di racconto è da un certo punto di vista complementare alla funzione di commento che il romanzo storico aveva delegato alla regia unica del narratore. In questo caso, però, il narratore allude, spiega, crea, a partire dalla presenza di un’etica costruita ex novo sulle esigenze dei nuovi tempi: una morale che non si erige più su precetti ormai tramontati, bensì, essenzialmente, sul demone dell’argent e sulle sue ricadute nell’ambiente sociale della metropoli, grande cronotopo della modernità occidentale. [...].

  Anche se Le mosche del capitale si comportano per gran parte del loro svolgersi in maniera ben diversa – seguendo da vicino le istanze dell’antiromanzo di area espressionista e la forma esplosa, per frammenti, presente già ad inizio secolo e ripresa dallo sperimentalismo degli anni Cinquanta –, il riferirsi a quel fondale socio-economico urbano e a quella strategia narrativa interpretante cui si è accennato resta irrinunciabile. La risorsa della testimonianza in qualche modo involontaria eppure decisiva si innesta sullo sfondo obbligato della società a carattere industriale e capitalistico che proprio Balzac ha avuto il merito di portare tra i primi alla luce. È il mondo delle conquiste e delle evoluzioni della borghesia possidente e imprenditoriale che parte da Gobseck e dai padri padroni Séchard e Grandet, personaggi tutti costruiti attorno alla necessità dell’accumulazione, e arriva, attraverso molteplici trasformazioni, ai Nasàpeti contro cui invano si batte il velleitario tentativo di Saraccini. La preoccupazione di garantire alla propria classe l’arricchimento è la costante di un universo narrativo che mima da vicino le forme dell’evolversi sociale. La grande città è lo scenario in cui questa corsa al denaro ha luogo, e se il capitale finanziario diventa immateriale nella realtà referenziale delle Mosche ciò costituisce una variante di un tema di lunga durata che di fatto altera soltanto le modalità di una progressione continua.

  Se il ricorso a Balzac per interpretare la funzione dell’episodio dello sciopero non è, nell’economia dell’intero romanzo, peregrino, ciò accade anche in virtù di una sottotraccia esplicita [...]: la descrizione della grande città industriale dell’incipit viene accostata in un confronto convincente al finale del Père Goriot; ma ancora più profondo è questo sostrato che parla della società occidentale a sviluppo capitalistico, un universo entro il quale l’operaio Tecraso, l’umile, il testimone comune, si sperde a causa di eventi messi in moto da ragioni senza dubbio superiori alla sua prospettiva e alla sua capacità di comprendere. [...].

 

 

  Antonio Romagnino, I pericolosi gran tour nell’Isola. Quando alla Marina Balzac cercava albergo, «L’Unione Sarda», Sassari, 26 marzo 2006, p. 23.

 

  Anche ad Honoré de Balzac piacque Marina, che percorse in lungo e in largo, per scegliersi l’albergo. Era venuto in Sardegna, per tentare di entrare nella vita mineraria dell’Isola. Ed invece prevalse lo scrittore, come confessa scrivendo alla donna amata, Evelina Hanska, il 17 aprile 1838: «Ho attraversato foreste vergini piegato al collo del cavallo a rischio della vita, perché per attraversarle bisogna camminare lungo un corso d’acqua ricoperto da una volta di liane e di rami che mi avrebbero cavato un occhio, portato via i denti, rotto la testa. Ci sono querce verdi gigantesche, alberi da sughero, lauri, eriche di trenta piedi di altezza».

 

 

  Massimo Romano, Le nuove generazioni non leggono Balzac, «Il nostro tempo», Torino, 2 aprile 2006, p. 10.

 

  C’è la sensazione diffusa che il numero di lettori che leggono o rileggono i classici sia in continua diminuzione, soprattutto tra i giovani. E tra questi, Balzac è forse uno dei meno letti. Le ragioni di questo fatto sono molteplici, ma ci pare di individuarne almeno tre più evidenti: primo, Balzac è uno scrittore che eccede nelle descrizioni e nelle digressioni, poco adatte al ritmo veloce e convulso della vita di oggi; secondo, Balzac è uno scrittore fluviale, che in vent’anni ha scritto circa novanta tra romanzi e racconti riuniti sotto il titolo «La commedia umana» per un totale di 13 mila pagine; terzo, non esiste un’edizione completa di tale opera, la più ampia, anche se parziale, è quella dell’editore Casini in sei volumi, ormai introvabile e datata nelle traduzioni, che risale agli anni Cinquanta.

  Ancora più parziale, ma di straordinaria qualità, è il progetto dei Meridiani Mondadori in tre volumi, ispirati ai dodici volumi dell’edizione Pléiade: il primo, dedicato al Balzac “realista”, è uscito nel 1994 in due tomi, che contengono «Papa Goriot», «Eugénie Grandet» e una serie di racconti. Il secondo, fresco di stampa, dedicato al Balzac “visionario”, comprende «Illusioni perdute» e «Splendori e miserie delle cortigiane». Il terzo, dedicato al Balzac “filosofo”, includerà «Il capolavoro sconosciuto» e «La pelle di zigrino» e speriamo di poterlo leggere prima che trascorra un altro decennio.

  Ottimamente curato da Mariolina Bongiovanni Bertini (pp. 828, euro 49), autrice di due splendide e documentate introduzioni al romanzi, tradotti rispettivamente da Dianella Selvatico Estense e Gabriella Mezzanotte e da Marise Ferro, quest’ultima in una versione rivista rispetto a quella einaudiana del 1964, il volume merita un plauso speciale per le note di Claudia Moro, di straordinaria ricchezza e precisione documentaria soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione dell’arte tipografica all’inizio dell’Ottocento, con il passaggio dal torchio in legno al torchio in ferro e l’avvento del torchio meccanico.

  Ambientato all’inizio degli anni Venti, «Illusioni perdute», ha una gestazione sofferta, iniziata nel 1833 e conclusa nel 1843. Il decennio più intensamente creativo di Balzac. Narra la storia parallela di due giovani, Lucien de Rubempré, poeta che vedrà i suoi sogni di gloria infrangersi contro la logica mercantile dell’industria culturale, e David Séchard, tipografo e stampatore, in cui l’autore ritrae se stesso: corporatura possente, capigliatura nera e leonina, labbra sensuali, collo taurino e sguardo magnetico. Attraverso la figura di Lucien, Balzac, come rileva la Bertini, narra «la vicenda di un ventenne di provincia attirato dal magnetismo dell’abisso parigino», registra «la trasformazione di un poeta angelico in proletario della letteratura» e soprattutto sa cogliere, prima di Baudelaire, la nascente modernità descrivendo in tutte le sue pieghe il mondo del giornalismo e dell’editoria e i meccanismi della prostituzione.

  Questo romanzo-mostro, digressivo e polifonico, sarà oggetto di critiche feroci da parte dei contemporanei, da Sainte-Beuve, che lo interpreta come un errore di percorso rispetto alla struttura più ordinata di «Eugénie Grandet», a Jules Janin che non accetta il quadro al vetriolo del giornalismo, prostituito al denaro e all’opportunismo. Ci vorrà un secolo per la scoperta della straordinaria modernità del romanzo: Il critico ungherese Lukàcs, che esalta il “realismo” di Balzac, è il primo a cogliere il fenomeno della mercificazione della letteratura, alle origini della modernità.

  Con «Splendori e miserie delle cortigiane», la cui stesura si protrae dal 1838 al 1847 e si accavalla col precedente romanzo e con altre opere. Balzac crea un intreccio romanzesco e popolare, con due figure tipiche dell’immaginario romantico, Esther, la cortigiana redenta dall’amore, e Vautrin, il ribelle satanico in lotta con la società. La curatrice è abilissima nel collocare il romanzo nel contesto storico-letterario del tempo e a evidenziare il gioco di reciproca influenza tra Balzac e Sue, che tra il 1842 e il 1843 pubblica a puntate sul «Journal des Débats» «I misteri di Parigi». Esther, soprannominata «la Torpille» («la torpedine», un pesce che immobilizza la preda con una scarica elettrica), «diabolica nel potere di seduzione e angelica nella fedeltà a Lucien de Rubempré», è un misto di Fleur-de-Marie, la prostituta angelicata, e Cécily, la mulatta divoratrice di uomini. Balzac sfida Sue sul suo terreno, quello del feuilleton, per conquistare il pubblico, ma lo supera nettamente per la complessità dell’intreccio, meno schematico e patetico.

  E’ consapevole che le sue quotazioni sono in ribasso rispetto a quelle di Sue e Dumas, che trionfava con «I tre moschettieri» e «Il conte di Montecristo», si sottopone a ritmi di lavoro forsennati per finire i due romanzi nel 1843, e ci riesce solo in parte perché deve obbedire al suo colpo di genio, l’invenzione di Vautrin, il mago della finzione, l’incarnazione stessa del romanzo. Personaggio ironico, ambiguo, lucido e spietato nella diabolica intelligenza, si trasforma e si nasconde sotto pseudonimi, l’ergastolano Jacques Collin, il bandito Trompe-la-mort, il prete spagnolo Carlos Herrera, per diventare alla fine capo della polizia, anticipa la figura del barone Charlus di Proust, compare, scompare e riappare, attraverso la tecnica balzacchiana del ‘ritorno dei personaggi’, vero collante della “Commedia”, da «Papà Goriot» a «Illusioni perdute» a «Splendori e miserie delle cortigiane».

  Come Dickens e Dostoevskij, Balzac è uno scrittore realista e insieme visionario, grande anche nei difetti, negli eccessi e nelle ridondanze. Con la sua scrittura fluviale e talvolta frettolosa per consegnare in tempo il manoscritto agli editori e ottenere il denaro necessario per pagare i debiti, ha saputo fornire la rappresentazione esauriente di un’epoca e di una società, la Francia della Restaurazione, tessendo diversi fili narrativi, regolati da un intreccio di echi e rimandi, analogie e opposizioni. Il suo intento ambizioso, che anticipa l’idea del “romanzo-cattedrale” di Proust, è quello di scrivere «‘Le mille e una notte’ dell’Occidente».

  Per la forza dell’invenzione e la molteplicità di indizi disseminati nell’opera, Balzac dovrebbe essere letto dalle nuove generazioni. E’ un consiglio di lettura forte, e per sostenerlo facciamo nostro questo giudizio di Oscar Wilde: «Una frequentazione costante di Balzac trasforma i nostri amici viventi in ombre, e i nostri conoscenti in ombre di ombre».

 

 

  Antonio Saccà, Navigando nell’ “oceano” di Honoré de Balzac, «Il Secolo d’Italia», Roma, 15 febbraio 2006.

 

  Scrivere su Honoré De Balzac significa affrontare l’Himalaya, attraversare gli Oceani. Balzac produceva a fiumane, gettava romanzi come un drago fiamme, soltanto Shakespeare ha la stessa creatività a emissione vulcanica. Balzac è un romanziere, un narratore, un accatastatore di parole, un coniatore di personaggi, uno scienziato dei cambiamenti sociali, e, semplicemente, un artista. E visse cinquant’anni. Un monaco, sotto certi aspetti. E, sempre a suo modo, un asceta. Almeno per ciò che riguarda la “pagina”. Di fronte alla quale diventa d’una estaticità incontenibile, scrivendo, riscrivendo, dilatando, complicando, sempre con qualcosa da arricchire, da cambiare.

  Balzac rese esistenziale l’analisi sociale. La sua forza cognitiva sui rapporti di classe, sul perire dell’aristocrazia; il trionfo della borghesia, l’apparizione del proletariato eguaglia per “scienza” Adam Smith e David Ricardo, per tensione le pagine che Karl Marx dedicò allo spirito dei capitalisti e ai rapporti di classe. Balzac, a differenza di Goethe, che vede nella borghesia Faust, scorge net borghese il Faust e l’affarista, l’inventore e il malandrino, e, soprattutto, l’implacabile antagonista nella concorrenza mortale, l’innovatore delle tecnologie, l’ossessionato centellinatore dell’utile, l’insonne laborioso.

  Per la collana “I Meridiani”, editi dalla Mondadori, viene pubblicato il secondo volume de “La commedia umana”, denominazione d’insieme dell’opera di Honoré De Balzac; comprende i romanzi: “Le illusioni perdute”, “Miserie e splendori (sic) delle cortigiane”. Si legga, a inizio de “Le (sic) illusioni perdute”, come il tipografo analfabeta ma vigoroso imprenditore, Jérôme-Nicolas Séchard, tratta il figlio David, sul quale ha “investito” mandandolo a studiare nuovi ritrovati a Parigi: non sono relazioni umane, sono rapporti sociali. Il padre vanta la sua tipografia, la valuta supremamente, il figlio non deve soltanto ereditare, deve sapere il valore di quanto eredita, deve valorizzare ulteriormente ciò che riceve, dunque, essenzialmente, remunerare padre. Un aristocratico, almeno nell’opinione consueta, non contabilizzava a scopi di sua remunerazione i beni che tramandava, in ogni caso, non vi è un briciolo di umanità nel rapporto del padre verso il figlio.

  Complicato, anche limaccioso il romanzo, tripartito, con la fluenza verbosa di uno Shakespeare borghese quale è Balzac. Due vicende, connesse e distinte, di Lucien Chardon, da parte di madre un de Rubempré, aristocratico, bello, con vaghe aspirazioni artistiche, e David, che tenta di forgiare una carta da stampa conveniente un inventore, al dunque. Entrambi provinciali: Lucien a tentare la conquista di Parigi, David a tentare di conquistare la provincia. Entrambi con la schiena spezzata: Lucien non sa gestire, diciamo, la sua bellezza, e si rende nemica l’amante, David si fa strappare l’invenzione della carta da spietati imprenditori rivali. La conclusione non è tragica, la tragedia appartiene all’aristocrazia, è delusiva d’ogni illusione, Lucien e David si accoccolano in provincia, vinti perché non bastevolmente spessi d’animo come necessario nella società che tra qualche decennio Charles Darwin paragonerà alla lotta animale per la sopravvivenza del più adatto.

 

 

  Antonio Saccà, Lo studio dell’esistenza firmato Honoré de Balzac, «Gazzetta del Sud», Bari, 15 febbraio 2006.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Italo Sacchetti, I “Mémoires de Sanson” di Balzac e la figura del boia durante il Terrore. Tesi di laurea. Relatore: Prof.ssa Letizia Norci Cagiano, Roma, Università di Roma Tre, Anno accademico 2005-2006.

 

 

  Daniela Scaccaglia, Parigi ne “L’Envers de l’Histoire contemporaine” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Maria Bertini; correlatore: prof.ssa Alba Pessini, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Civiltà e Lingue straniere moderne, Anno accademico 2005-2006.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, I pensieri dell’Imperatore, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 28, 29 gennaio 2006, p. 33.

 

  Una raccolta di aforismi di Napoleone selezionati da Balzac, suo devoto ammiratore.

 

  Porterò a termine con la penna quello che ha iniziato con la spada!» era scritto su una striscia di carta incollata da Honoré de Balzac sulla spada del Bonaparte di gesso sulla sua scrivania.

  Balzac era nato nel 1799, alla vigilia del colpo di stato di Bonaparte, il 18 Brumaio. I primi sedici anni di vita di Honoré coincisero con la parabola dell’impero. Il suo eroe non fu un personaggio da romanzo o da fiaba, ma un uomo in carne e ossa. Uno sconosciuto piovuto a Parigi povero e senza la minima raccomandazione con l’unica risorsa di una volontà incrollabile e un’audacia senza limiti.

  Honoré entrò alle elementari mentre Napoleone promulgava il celebre Codice che spazzava via il diritto dell’Antico Regime. Imparò a conoscere l’Europa dai proclami dell’esercito vittorioso. Mentre giocava con i soldatini, vedeva passare i militari in uniforme, tra l’ammirazione delle donne e l’invidia degli uomini.

  Nel 1814 l’adolescente guardò sfilare per l’ultima volta la grande armata davanti all’imperatore. Nello sventolio delle bandiere, gli apparve Napoleone. Era solo «un ometto grassoccio», con un paio di pantaloni bianchi e in testa un tricorno «prestigioso quanto l’uomo che lo portava». Ma subito, al ritmo dei tamburi, «i cuori sobbalzarono» e tutto sembrava gridare: «Viva l’imperatore!». Era un’apparizione magica che, gli sembrò, trascendeva l’umano.

  Mentre Napoleone andava in esilio all’Elba, la madre lo riportò a Tours, dove era nato, lontano dalla capitale arresa agli stranieri vincitori. «Al momento della sua caduta, la mia ammirazione per lui divenne quasi del fanatismo, vedendolo insultare».

  L’istinto di non accontentarsi del particolare, di aspirare avidamente al mondo nella sua interezza, quest’ambizione febbrile nacque dall’esempio di Napoleone, nota Stefan Zweig.

  Anche il suo amore per la duchessa d’Abrantès fu influenzato dal fatto che la donna portava uno dei nomi più prestigiosi dell’impero e aveva conosciuto intimamente l’imperatore. «Ha visto Napoleone da piccolo, l’ha visto crescere come una persona qualunque e poi riempire il mondo del suo nome. Per me è come una beata venuta a sedersi al mio fianco, dopo avere vissuto nei cieli accanto a Dio».

  Malgrado si dichiarasse monarchico, Balzac creava al ritmo del suo mito. «Tutto si agita. Le idee si mettono in moto come i battaglioni della Grande Armata. I ricordi arrivano a passo di carica, a bandiere spiegate. La cavalleria leggera dei paragoni si dispiega a un magnifico galoppo. L’artiglieria della logica accorre, le battute arrivano in ordine sparso. Le figure si ergono, la carta si copre d’inchiostro perché la lotta comincia e finisce con torrenti d’acqua nera, come la battaglia con la polvere nera. Ogni giorno è un’Austerlitz della creazione».

  Sull’impero di Balzac, La Commedia umana, il sole di Napoleone, il «semidio della Francia» non tramonta mai. Nel Tenebroso affare c’è il bivacco alla vigilia della battaglia di Jena. Il fantasma di Napoleone spunta come un rimorso nella storia del Colonnello Chabert, da tutti credulo morto sul campo. L’eroe zoofilo della Passione nel deserto è un soldato dell’armata d’Egitto. El Verdugo è ambientato nella cruenta campagna di Spagna. In Addio palpita il dramma della ritirata di Russia. In Una donna di trent’anni c’è l’ultima grande rivista dell’esercito imperiale. Nel Medico di campagna l’epopea napoleonica viene raccontata da un reduce. Nella Vendetta appare Napoleone in persona.

  Nel 1838 Balzac confessava all’amata di avere ricopiato tutti i pensieri di Napoleone che trovava qua e là nei libri. In un momento di malinconia li aveva riletti. Erano «il più bel libro dell’epoca». Ma, squattrinato come al solito, lo aveva venduto — «Che l’ombra di Napoleone mi perdoni!» — a un commerciante che voleva dedicarlo al re per ottenere la Legion d’Onore.

  Le 525 Massime e pensieri di Napoleone erano un breviario cinico e appassionato, lucido e perentorio, un’apologia della volontà di potenza in cui Balzac e l’imperatore erano inestricabilmente mescolati. Nel 1840 lo scrittore si commosse ai trionfali funerali di Napoleone. «Nel momento in cui il corpo è entrato negli Invalides, si è formato un arcobaleno».

  «Quattro uomini hanno avuto una vita immensa», scrisse all'amata contessa Hanska, «Napoleone, Cuvier, O’Connell e io voglio essere il quarto. Il primo ha vissuto la vita dell’Europa. Si è iniettato nel sangue degli eserciti». Poi concludeva: «Io avrò portato un’intera società nella mia testa». Non sapeva di essere la prova vivente di quel che aveva scritto il suo idolo: «I grandi uomini sembrano meteore destinate a consumarsi e a bruciare per illuminare il loro secolo».

  Nel fasto della sua ultima casa si notava appena la maschera mortuaria di Napoleone. Victor Hugo non la vide mentre saliva sulla sfarzosa scala che portava alla camera dove Balzac agonizzava, abbandonato da tutti. «Lo vedevo di profilo, in quella posizione somigliava all’Imperatore».

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Honoré de Balzac. Quando il prete si innamorò dei mobili, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 248, 10 settembre 2006, p. 29.

 

  «Il parroco di Tours» è un’opera che rispecchia il tormentato rapporto dell’autore con la fede cristiana. Al centro, i drammi e le passioni del clero francese.

 

  Due preti e una zitella. Nessun amore, nessun colpo di scena, lo sfondo attutito di una città di provincia. Eppure da questi scoraggianti ingredienti Balzac ha saputo estrarre un capolavoro, indovinando le passioni dilanianti che si mimetizzano sui fondali delle vite apparentemente più quiete.

  Il rapporto dell’autore con la religione è complesso. Fino a trent’anni, Balzac rimase sotto l’influenza irreligiosa dell’Illuminismo. Sosteneva severamente che «il clero cristiano è incapace di svolgere la sublime funzione del sacerdozio».

  Durante la rivoluzione del 1830 ebbe un primo turbamento: rimase colpito dallo spettacolo del saccheggio della chiesa di Saint-Germain l’Auxerrois. Su questa emozione irrisolta si innestò, l’anno seguente, l’incontro con la sua passione finale, la cattolicissima contessa polacca Eveline Hanska.

  Preoccupata, la donna gli scriveva: «La religione ci separa». E lui ribadiva: «Io non sono ortodosso, non credo nella Chiesa di Roma». Intanto però maturava, rafforzata dalla volontà di avvicinarsi all’amata, una visione del Cristianesimo come base dei rapporti sociali.

  Nel 1842 proclamava: «Politicamente sono cattolico ... Davanti a Dio sono della religione di San Giovanni, della Chiesa mistica, l’unica a conservare la vera dottrina. Questo è quello che sento davvero». In quell’ottica i culti moderni si riducevano a echi sbiaditi dell’antica rivelazione, un “Cristianesimo senza Cristo”. Nello stesso anno, nella prefazione alla Commedia Umana, puntualizzava che il Cristianesimo era il solo culto in grado di unire e di tutelare i popoli moderni.

  Il parroco di Tours, uscito nel 1832, è un ritratto realistico e spietato dei sacerdoti, individui mancati, schiavi delle loro abitudini e delle ansie della loro lenta carriera. Anche in questo grigiore però balenano, ben nascoste, delle passioni. Il protagonista, l’ottuso, bonario don Birotteau condivide con Balzac la passione per l’arredamento al punto da desiderare la morte del suo amico e protettore, don Chapeloud, per godere dei suoi bei mobili. Non sa che l’appagamento del suo sogno segnerà l’inizio della sua agonia, orchestrata da un rivale ambizioso e dall’arida zitella che li ospita. Una trama povera che Balzac sa rendere emozionante, quasi travolgente e cupamente istruttiva. D’altro nessuno più di lui era convinto della missione divina dello scrittore.

  In una dedica a Madame Hanska aveva scritto: «Signora, il tempo delle dediche è finito. Oggi lo scrittore ha sostituito il prete. Ha rivestito la clamide dei martiri. Sopporta mille pene. Prende la luce sull’altare e la diffonde tra la gente. È principe e mendicante, consola e maledice, prega e profetizza, la sua voce non percorre soltanto la navata di una cattedrale, a volle può tuonare da un capo all’altro del mondo».

 

 

  Maurizio Shoepflin, Quando Balzac s’inchinò alla propria coscienza, «Avvenire», Milano, 20 luglio 2006.

 

  Honoré de Balzac fa pronunciare a uno dei personaggi de Le (sic) illusioni perdute la frase seguente, certo non priva di una buona dose di amaro realismo: «La coscienza, mio caro, è uno di quei bastoni che ciascuno brandisce per picchiare il suo vicino, e del quale non si serve mai per se stesso». Nell’interessante volume Testimoni della coscienza. Da Socrate ai nostri giorni, Anselmo Palini propone all’attenzione del lettore alcune personalità che, contrariamente a quanto si legge nell’espressione balzachiana, si sono inchinate di fronte a quello che potremmo definire il diktat della loro coscienza.

 

 

  Stenio Solinas, In viaggio nel mondo parallelo di Balzac, «il Giornale», Milano, 30 giugno 2006, p. 27.

 

  Questa estate consiglio di andare in vacanza con il secondo volume della Commedia Umana di Balzac (Meridiani Mondadori, 1828 pagine, 49 euro). Ora dopo ora, giorno dopo giorno sprofonderete in un mondo parallelo dove nomi, personaggi, luoghi, ambienti si riconcorrono e si intrecciano. È un’immersione così assoluta e così felice che vi farà capire quanto avesse ragione Oscar Wilde: «La frequentazione costante di Balzac trasforma i nostri amici viventi in ombre, e i nostri conoscenti in ombre di ombre. Chi avrà mai voglia di uscire per andare a una serata mondana o incontrarvi il suo amico d’infanzia Tomkins. quando può starsene a casa in compagnia di Lucien de Rubempré?». Lucien de Rubempré è l’eroe delle Illusioni perdute e di Splendori e miserie delle cortigiane, ovvero il ritratto della Francia postnapoleonica, ancora monarchica ma già repubblicana, come nessun altro scrittore ha mai saputo raccontare.

 

 

  Maria Luisa Spaziani, Introduzione, in Honoré de Balzac, Le illusioni perdute ... cit., pp. 7-11.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Michele Tavola, Vollard e Picasso. Honoré de Balzac, in AA.VV., Picasso illustratore. A cura di Elena Pontiggia, Milano, Skira editore, 2006, pp. 54-71.

 

 

  Richard Trèves, La malattia du Dupuytren, «Reumatismo», Pavia, Vol. 58, n. 3, pp. 239-242.

 

  p. 240. A conferma della sua fama, la figura di Dupuytren ispirò anche lo scrittore Honoré de Balzac. Com’è noto, questi nelle sue opere attribuì un ruolo di rilievo ad alcuni sanitari, in particolare al chirurgo Desplein ed al suo allievo fedele Horace Bianchon.



  Jens Viggo Nielsen, I Balzacs hule: Balzac som prisme for Georg Brandes og Strindberg i deres syn på forfatterollen og kunsten, «Studi nordici», Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, Anno XIII, 2006, pp. 1-17.

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  L’Affarista Mercadet di Honoré de Balzac. Traduzione e adattamento Luigi Lunari. Compagnia teatrale G.A.D. Città di Trento. Regia di Alberto Uez, 2006.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  Daniela de Agostini, Reminiscenze tristaniane nei “Romans de jeunesse”, in AA.VV., Journée Balzac. “Wann-Chlore”, Università degli studi di Parma e di Macerata, Macerata, Palazzo Torri, 27 aprile 2006.

 

  Mariolina Bertini, La mémoire imparfaite: Balzac dans le «Contre Sainte-Beuve», in Collectif, Balzac et son doublé. Balzac critique. Journée d’études, Paris, 6 mai 2006.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Proust et la philosophie de Balzac : un silence significatif, in AA.VV., Proust et la philosophie d’aujourd’hui. Colloque international, Gargnano, 28 septembre 2006. (Università degli studi di Milano. Facoltà di Lettere e filosofia).

 

 

  Vincenzo Cerami, Il racconto della storia. Lectio doctoralis, Università degli studi di Pisa, 25 ottobre 2006 (conferimento Laurea specialistica honoris causa in Letterature e filologie europee).

 

 

  Francesco Fiorentino, “Wann-Chlore”: alcuni modelli narrativi, in AA.VV., Journée Balzac. “Wann-Chlore” ... cit.

 

 

  Franca Franchi, Tre passi nel delirio, Università degli studi di Bergamo, Anno accademico 2006-2007.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, La pelle di zigrino.

 

 

  Antonella Gargano, “Stella”: un conflitto irrisolto di Goethe, in AA.VV., Journée Balzac. “Wann-Chlore” ... cit.

 

 

  Thierry Guichard, Balzac e Stendhal: le renouveau du roman français du XIXe siècle, Mantova, sala Norlenghi, dicembre 2006.

 

 

  André Lorant, Balzac et la mélancolie: le cas d’Eugénie d’Arneuse, in AA.VV., Journée Balzac. “Wann-Chlore” ... cit.

 

 

  Marco Modenesi, “Père Goriot” di Honoré de Balzac ed il film di Robert Vernay (1944), ‘Conferenze in Biblioteca’. Dal romanzo al film: cinema, teatro, letteratura, cultura, Piacenza, Biblioteca Passerini Landi, 6 novembre 2006.

  Dispensa di M. Elena Roffi.

 

 

  Patrizia Oppici, “Delphine, Corinne, Wann-Chlore”, in AA.VV., Journée Balzac. “Wann-Chlore” ... cit.

 

 

  Edgar Pankow, Das Unerhörte. Zur Übertragung von Wort und Ton bei E.T.A. Hoffmann und Honoré de Balzac, in AA.VV., Iconicità e suono: la prospettiva della trasfigurazione. Convegno internazionale a cura di Barbara Naumann e Alexandre Métraux, Roma, Istituto svizzero, 10 novembre 2006.

 

 

  Susi Pietri, Mémoires de l’autre : à propos de quelques écrivains lecteurs de Balzac, Collectif, in Balzac et son doublé. Balzac critique … cit.

 

 

  Rinaldo Rinaldi, Fisiologia dei fantasmi in “Wann-Chlore” di Balzac, in AA.VV., Journée Balzac. “Wann-Chlore” ... cit.

 

 

  Francesco Spandri, Lettura e comprensione di testi e di problematiche concernenti la realtà socio-politica della Francia moderna, Università di Roma Tre, Anno accademico 2006-2007.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Les Chouans; La Cousine Bette.

 

 

  Stéphane Vachon, L’accueil de “Wann-Chlore”, in AA.VV., Journée Balzac. “Wann-Chlore” ... cit.

 

 

 

 

Eventi.

 

 

  Eugénie Grandet di Honoré de Balzac, “Per un pugno di libri”, Rai Tre, 26 febbraio 2006. Intervengono: Andrea Camilleri, Edoardo Sanguineti, Piero Dorfles, Neri Marcorè.



Marco Stupazzoni

 

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