giovedì 4 febbraio 2021



1998

 

 

 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac et Alii, La fête. Textes choisis et analysés par Annie Oliver Genova, Cideb, 1998 («Textes et perspectives»), pp 127; ill.; + 1 audiocassetta (60 min. ca.). Livre du professeur, pp. 45.

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Un processo politico sotto l’Impero (da Un caso tenebroso, trad. Pierluigi Pellini, Palermo, Sellerio, 1996), in AA.VV., Il giudice e il suo scriba. Narratori davanti alla legge. A cura di Enzo Di Mauro, Firenze, Liberal Libri, 1998, pp. 34-48.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto. Prefazione di Geno Pampaloni. Traduzione di Carlo Montella e Luca Merlini, Firenze, Passigli, 1998 («Passigli narrativa»), pp. 69.

 

  Cfr. 1983 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Claës l’Alchimista (La recherche de l’Absolu), «Arkete. Esoterismo, sacralità, gnosi», Siena, Università degli Studi, Dipartimento di Studi storico-sociali e filosofici, Parte prima-Parte nona, 5 luglio-13 novembre 1998.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Traduzione di Roberto Bonchio, in Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Henry James, L’Inquilino fantasma, a cura di Gianluca Barbieri, Milano, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 1998 («Specchi. La voce narrante», 16), pp. 5-54.

 

 

  Honoré de Balzac, La Commedia umana. Scelta a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini. Volume primo, tomi I e II, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1998 («I Meridiani»), pp. 1826.

 

  Cfr. 1994.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Bette. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzione di Francesco De Simone, Milano, Garzanti, 1998 («I grandi libri Garzanti»), pp. XXI-438.

 

  Cfr. 1983.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Garzanti, 1998 («I grandi libri Garzanti», 25), pp. LXI-174.

 

  Cfr. 1984 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, La falsa amante (dalle Scene della vita privata). Con un saggio di Henry James. Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Traduzione di Giuseppe Guglielmi. Note a cura di Claudia Moro, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (febbraio) 1998 («Oscar classici», 432), pp. 143.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. 5-15. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Cronologia della vita e delle opere principali, pp. 17-23;

  Pierluigi Pellini (a cura di), Bibliografia essenziale, pp. 25-31;

  La falsa amante, pp. 33-95;

  Claudia Moro (a cura di), Note, pp. 97-112;

  Henry James, Honoré de Balzac (1902), pp. 113-141.

 

 

  Honoré de Balzac, Mercadet, l’affarista. Libera traduzione e riduzione di Carlo Terron, Milano, Sipario, 1998 («I classici del teatro»), pp. 96.

 

 

  Honoré de Balzac, Passione. Honoré de Balzac a Madame Hanska, in AA.VV. Parole d’amore. Raccolta di lettere d’amore. A cura di Renata Discacciati. Prefazione di Natalia Aspesi, Milano, Rosellina Archinto, (gennaio) 1998, pp. 51-52.

 

  Traduzione della lettera di Balzac a Eve Hanska del 12 dicembre 1845.

 

 

  Lontananza. Honoré de Balzac a Madame Hanska, Ibid., pp. 101-102.

 

  Traduzione della lettera invita dallo scrittore, da Dresda, a Madame Hanska nell’ottobre 1843.

 

 

  Honoré de Balzac, Sarrasine. Traduzione di Rosanna Farinazzo; con uno scritto di Jean Reboul, Milano, SE, 1998 («Piccola enciclopedia», 130), pp. 71.

 

  Cfr. 1993.

 

 

  Honoré de Balzac, I segreti della principessa di Cadignan (dalle Scene della vita privata [sic]). Traduzione di Giuseppe Guglielmi. Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Note di Claudia Moro. Con un saggio di Théophile Gautier, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (febbraio) 1998 («Oscar classici», 431), pp. 151.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. 5-13. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Cronologia della vita e delle opere principali, pp. 15-21;

  Pierluigi Pellini (a cura di), Bibliografia essenziale, pp. 23-29

  I segreti della principessa di Cadignan (dalle Scene della vita parigina), pp. 31-101;

  Claudia Moro (a cura di), Note, pp. 103-116;

  Théophile Gautier, Honoré de Balzac, pp. 117-148.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Traduzione di Marise Ferro. Introduzione di Pierre Citron, Torino, Giulio Einaudi editore, 1998 («Einaudi Tascabili. Letteratura», 44), pp. XLV-573.

 

  Cfr. 1991.

 

 

  Honoré de Balzac, Storia dei Tredici. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzioni di Attilio Bertolucci, Barbara Besi Ellena, Claude Fusco Karmann, Milano, Garzanti, 1998 («I grandi libri Garzanti», 202), pp. LIX-323.

 

  Cfr. 1946; 1970; 1977 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Trattato della vita elegante a cura di Tiziana Goruppi, Pisa, ETS, 1998 («Melusina», 2), pp. 126.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Tiziana Goruppi, L’abito che fa il monaco, pp. 7-27. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Trattato della vita elegante, pp. 29-125.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  I Vezzeggiatori, «Donna moderna», Milano, 13 febbraio 1998.

 

  Vita mia. Lo diceva Honoré de Balzac alla contessa polacca Evelina Hanska. si sposarono dopo una relazione epistolare durata 20 anni.

 

 

  Daniela de Agostini, Honoré de Balzac, “La Commedia umana”, «Lingua e Letteratura», Milano, IULM, Anno XIV, Numero 30-31, Primavera-Autunno 1998, pp. 155-158.


  Il primo dei due volumi che Mariolina Bongiovanni Bertini dedica al grande affresco della Commedia umana, muove da due assunti che si complementano vicendevolmente: presentare al lettore italiano una scelta di testi che, nella loro pur sacrificata varietà, riflettano l’incessante attenzione del romanziere francese a quell’unica sostanza, o energia, che attraversa e ispira la vita della sua opera organica, in ogni punto e aspetto del suo respiro; privilegiare, d’altra parte, all’interno di un universo di smisurata ambizione e di immensa proporzione, il suo carattere di cosmo unitario percorso da forze che si intersecano a vicenda. Guidata dall’aiuto del compianto Luciano De Maria, principale artefice di questo progetto, l’intenzione della curatrice è dunque quella di documentare il più possibile lo spaziare del genio balzacchiano nei generi più diversi – dal realismo provinciale alla fantasmagoria parigina, dal registro mondano a quello filosofico e mistico, dalla più lucida ironia al più appassionato lirismo –, attraverso una selezione di opere che «non potrà non risultare dolorosa, spezzare i più intimi legami tra i testi, lasciare da parte pagine e personaggi memorabili». L’immagine della Commedia umana che il lettore desume perciò inoltrandosi nel labirintico e complesso universo balzacchiano qui presentato, sarà ad un tempo, e necessariamente, parziale, e rispecchiante il senso più profondo della sua strategia di composizione.

  Nel filo conduttore che cuce sottilmente il saggio introduttivo dell’opera, nei saggi a ouverture dei romanzi, infine nelle densissime note, a cura di Claudia Moro, che commentano la ricchezza e la specificità di ognuno di essi, emerge quella che è stata fin dall’inizio della sua ricezione la peculiarità dello scrittore: la sua sublime contraffazione del mondo, l’inebriante e monumentale confusione tra finzione e verità, la sua capacità di cogliere il «fiore della vita» per fare dell’opera d’arte il duplicato, perfetto come un trompe d’oeil, del mondo reale. Ed essa viene spiegata attraverso l’immagine, in negativo, che si inscrive nelle figure cui lo scrittore affida le sue personali riflessioni sul genio: lo «scacco» dell’artista che Balzac rappresenta diventa lo specchio nel quale lo scrittore proietta e esorcizza lo sforzo mai abbandonato di non esaurire la totalità di un universo e l’unità che lo contraddistingue. Se è dal genio scientifico di Cuvier che Balzac fa derivare il primo dei modelli che lo ha guidato nella sua ricostruzione di un mondo, è dalla lezione di un genio analogo, Lavater, che egli ha desunto la capacità di ritrarre lo stesso mondo nel suo costante e ininterrotto movimento.

  Modello capitale del genio induttivo, Cuvier guida lo scrittore nella sua ricerca indiziaria: dal frammento alla compressione e ricostruzione del tutto che lo ingloba e lo forma, dal particolare alla sua contestualizzazione, progressivamente prende forma l’universo rappresentato nella Commedia umana. D’altro lato, diluita e amalgamata nella sostanza stessa della sua opera romanzesca, nella quale assume la particolare figura della onnipotenza dei segni e della loro decifrazione, la lezione di Lavater si traduce invece nel trionfo del lavoro dell’interprete, chino sul geroglifico immenso della vita contemporanea. Semiologo, dunque, più ancora che storico del suo tempo, Balzac è lettore e interprete del frammento per leggere in esso e dietro di esso quella «scintilla di luce» che accomuna il particolare al generale, il momento al suo divenire nel percorso circolare che procede verso quel punto originario che Dante aveva chiamato «luce intellettual piena d’amore da cui l’uomo è generato».

  Al centro di ognuno dei romanzi qui raccolti, un «mistero del cuore umano», che già Proust aveva intuito operare sotto le vicende esteriori e apparenti del dramma, nella forma di «misteriose leggi della carne e del sentimento». Nelle tre Scene della vita privata che aprono il volume: La Falsa amante, Béatrix, e Père Goriot, nelle due Scene della vita di provincia: Eugénie Grandet e La musa del dipartimento; e nelle due Scene di vita parigina: la Storia dei Tredici e i Segreti della principessa di Cadignan, che lo concludono, leggiamo ad un tempo le vicende biografiche che ne hanno accompagnato e alimentato la genesi, e il loro trasmutarsi in un intreccio narrativo che, pur conservandone la traccia, si costruisce intorno alle «segrete» tensioni delle anime e delle vite dei protagonisti. Se nella Falsa amante si confrontano il mistero e l’ambigua complessità di due universi affettivi e di due mondi – quella della passione e quello dell’amicizia; quello parigino, duplice anch’esso, e quello polacco –; e se in Béatrix Balzac disegna, ritagliati in uno scorcio pittoresco della selvaggia Bretagna, le delusioni i disincanti di un duplice amore contrastato; nella terza Scena di vita privata, riscopriamo tutta la potenzialità del creatore che ha saputo intrecciare in quello che è considerato il suo capolavoro, Le Père Goriot, i temi della filosofia, della politica, dell’economia e della mistica.

  La conoscenza che scaturisce dal dolore è il tema della prima delle Scene di vita di provincia: in Eugénie Grandet coesistono la genialità dell’intrigo, del calcolo, della tattica, e la cinica fatuità del dandy parigino nel quale si consuma il destino della più celebre eroina balzacchiana, quel dramma di interessi e di senti­menti che si inscrive in una delle tante «sperdute province, tranquille in superficie, ma segretamente devastate da tumultuose passioni», solo apparentemente in opposizione con il mondo metropolitano. Eugénie Grandet è allora, manifestamente, «il romanzo dello scontro di questi due mondi che si attraggono, si alimentano e intrat­tengono un gioco complesso di scambi e di inganni». La medesima cornice, in cui si alternano egoismi e slanci di cuore, fa da sfondo al romanzo che apre il secondo tomo di questo primo volume balzacchiano: e cioè quel «capolavoro misconosciuto» cui Balzac ha dedicato un lunghissimo periodo di gestazione, La musa del dipartimento, che fonde in un elaborato gioco di mise en abyme e di autotestualità, le risorse più creative del suo autore. La Musa di Sancerre, e con lei Diane, protagonista dei Segreti della Principessa di Cadignan, spiccheranno allora tra le figure femminili in cui creatività e passione da un lato si eludono vicendevolmente, dall’altro alchemicamente si fondono per creare, nella prima, la «donna superiore» che dalle delusioni dell’adulterio rinasce più pura nella perfezione del suo ruolo materno e nella elevazione del suo rango sociale; nella seconda, la «donna di genio» capace di sfruttare mirabilmente quelle stesse leggi del mondo parigino che l’avevano sovrastata per conquistare l’amore dell’«incorruttibile seguace della verità», lo scrittore Daniel d’Arthez.

  La Storia dei Tredici, uniti non già da un segreto d’amore ma da un «segreto di odio», mette in scena, nei drammi che la costituiscono, i volti diversi della grand’ville, protagonista assoluta delle tre vicende di fallimenti in essa raccontate. «Paesaggio congeniale» a eroi passionali e disincantati, «patria di tutti i contrasti e di tutti gli enigmi», labirintica come l’opera che ritrae, Parigi è lo specchio non solo dei Tredici, ma anche di un tratto fondamentale della scrittura balzacchiana: della sua tensione verso un sapere assoluto che si rivela irraggiungibile, ingannevole e sfuggente, e che incrina la «presunta pienezza» di un testo che non cessa di muoversi fra illusione e realtà, mito e storia, individualità e totalità.

 

 

  Marianne Arnould, Jean-François Coremans, Le Père Goriot (Honoré de Balzac), in 100 libri in uno. Traduzione di Luisa Coeta, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1998 («Oscar Saggi», 529), pp. 341-344.

 

 

  G. B., Michel Burton un detective per Balzac, «La Stampa», Torino, 7 giugno 1998.

 

 

  Andrea Baggioli, Il romanzo di Balzac e le tematiche del teatro musicale nel primo romanticismo francese, «Nuova rivista musicale italiana», 1/4, gennaio-dicembre 1998, pp. 32-70.

 

  L’analisi condotta dall’A. nella prima parte di questo interessante studio evidenzia i caratteri di una patologia comune ad alcuni personaggi-chiave della Comédie humaine balzachiana: il tentativo di superamento di un limite, sia esso estetico, come nel caso di Frenhofer, di Gambara o del cantante Genovese, sia socio-politico come accade alle figure di rilievo descritte nei romanzi che formano il cosiddetto “ciclo di Vautrin”. L’eccesso di ingegno ostacola fino ad impedire una conciliazione seppure parziale tra l’elemento ideale e quello empirico: le differenti epifanie del medesimo fenomeno sono accomunate dal medesimo stato di una emarginazione sociale che conduce al fallimento. Se l’idea di superamento di un limite, nelle sue diverse sfaccettature estetiche, sociali, affettive ed economiche, pare essere una prerogativa dei personaggi maschili, le donne, al contrario, sono «coloro che sanno porsi di fronte alla vita con un atteggiamento pratico e concreto» (p. 36): anche il rapporto conflittuale che si  genera con l’istituzione familiare contribuisce quindi a stabilire un rapporto simbolico «all’interno del quale la moglie o il matrimonio rappresentano l’obbedienza ad uno schema prestabilito, mentre l’arte e il legame con l’amante, l’infrazione alla regole sociali» (p. 40).

  Benché lontana dall’esprimere la complessità e la problematicità delle tematiche presenti nei romanzi di Balzac, la produzione librettistica del primo Ottocento rivela, ad un attento esame, «significati che vanno ben al di là del semplice percorso narrativo» (p. 48). L’analisi di opere quali Masaniello ou le pêcheur napolitain di Moreau e Lafortelle e di La Muette de Portici di Scribe permette a Baggioli di evidenziare alcuni punti di contatto, tematici e strutturali, con i testi balzachiani esaminati in precedenza e che ritroveremo anche nei libretti del Guillaume Tell di Rossini e di Robert le Diable di Meyerbeer. Tuttavia, da un punto di vista ideologico, le distanze rispetto ai romanzi balzachiani risultano profonde: Balzac, precisa l’A., «approda ad un pessimismo che non lascia scampo, laddove il libretto d’opera, cercando di lusingare le frange più democratiche, fa opera di propaganda politica difendendo l'assolutismo, ribadendo la necessità di mantenimento di rigide barriere di classe, mettendo in luce la pericolosità di qualsiasi possibile cambiamento nell’ordine sociale considerato in senso trascendente anziché quale prodotto di una evoluzione storica» (p. 62).

 

 

  Gianluca Barbieri, Analisi del testo. Balzac. “Il colonnello Chabert”. James. “L’inquilino fantasma”, in Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert ... cit., pp. 94-103.

 

 

  Andrea Battaglini, Una Touraine tanto Honoré, «Il Sole 24 ore. Domenica», Milano, N. 334, 6 Dicembre 1998, p. 45.

 

  Una delle caratteristiche del territorio francese è quella di conservare castelli, abbazie, villaggi storici circondati da una natura intatta. Ciò grazie per lo più a una bassissima densità abitativa (106 abitanti per chilometro quadrato) e a uno scenario immenso ben preservato. Unica eccezione forse i noti castelli della Loira, più precisamente della Touraine, la profumata terra natia di Honoré de Balzac. Qui sembra che la natura non abbia voluto oscurare l’incantevole magia architettonica dei castelli residenziali, decorati e cesellati, né quella dei borghi umidi e solitari vestiti di ardesia e acquattati assieme ai mulini in riva ai fiumi. Luoghi ideali della scrittura, insomma come dimostra la produzione turennese di Balzac che vi ambientò anche Il curato di Tours, Il Giglio nella valle ed Eugénie Grandet, e vi compose appunto La Grande Brèteche, Louis Lambert, Il peccato Veniale, L’illustre Gaudissart, La Grenadière o La Rabouilleuse.

  Oggi la regione bagnata si accinge a onorare Honoré per il bicentenario della nascita (1799-1850). Gli schizzi di Rodin, preparatori alla scultura che campeggia nell’omonimo museo parigino, e le caricature di Daumier già imperano nei tappi e nelle etichette di Pineau bianco imbottigliato a Vouvray nelle cantine quattrocentesche del prediletto castello di Moncontour, che Balzac voleva comprare e che immortalò ne La femme de trente ans.

  Guardando la curva del fiume verde-ambra accarezzata da una luce morbida, quasi polverosa, l’autore della Commedia umana gustava il vino equilibrato e generoso di Vouvray con cui sovente annaffiava i suoi irregolari pasti rablesiani. Era capace, dopo due o tre giorni di digiuno e di scrittura diurna e notturna, di deglutire anche cento ostriche e sei pernici in un solo pranzo. [...].

  Nel castello di Saché Balzac trascorse solo brevi soggiorni in fuga dalla stressante vita di società parigina e dal consueto assalto dei creditori. Il legame con «un luogo malinconico, pieno di armonie troppo serie per le anime superficiali ma caro ai poeti il cui animo è impregnato di maestizia» fu comunque forte sia perché il proprietario, monsieur de Margonne, era un vecchio amico di famiglia sia perché nella cameretta con il letto a baldacchino, lo scrittoio minuto con la verde lampada a olio e la vista a cannocchiale sulla valle la scrittura fu fruttuosa. Una stanzetta così piccola che quest’estate Gerard Depardieu, impersonando Balzac nel nuovo film biografico di Josée Dayau [...] non poteva neanche girarsi tanto da costringere la produzione a ricostruire l’ambiente negli studios parigini. I saloni del castello sono stati ricostruiti in stile ottocentesco e il piano superiore trasformato in un museo che rievoca con vecchie edizioni, busti dei personaggi balzacchiani, stampe e ritratti la vita e l’opera del grande romanziere.

  A Tours, dove nacque il 20 maggio 1799 (la casa in Rue Nationale fu bombardata) e dove ritornò anche con M.me Hanska, Balzac concentrò le sue attenzioni rivelate ne Il curato di Tours intorno alla cattedrale gotica e fiammeggiante, all’attiguo chiostro della Psalette e alle quattrocentesche scale a chiocciola esterne delle case di rue Constatine e Paul-Louis-Courier, più che sulla pittoresca place Plumerau disegnata dalle facciate a traliccio e sede un tempo del “mercato dei cappelli”. Anche di quelli che calzavano nel Collegio Oratoriano Ronsard di Vendôme dove Balzac studiò dal 1807 al 1813. [...]. Di fatto soffrì di solitudine: la madre venne a trovarlo solo due volte in cinque anni. Ben diverso l’affetto per il castello di Frapesle della cara amica Zulma Carraud a Issoudun dove nello chalet costruito apposta per ospitarlo in libertà scrisse e ambientò La Rabouilleuse. In suo ricordo lo chef-collezionista issoldunoise Alain Nonnet ha riattato nella locanda La Cognette, già citata da Honoré, una sala balzacienne con lettere, busti, stampe e ritratti dell’autore cui ha dedicato un menù con alcuni dei suoi piatti preferiti: zuppa di lenticchie, carpe della Brenna all’antica, gamberetti di fiume e torta di marzapane, mandorle e cioccolato.

 

 

  Daniela Battistoni, Un romanzo incompiuto di Balzac: “L’Excommunié”. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Maria Bertini; correlatore: Prof. Patrizia Oppici, università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere moderne, Anno accademico 1997-1998.

 

 

  M.[ariolina] B.[ertini], Honoré de Balzac, «Les fantaisies de la Gina», pp. 72, FF 65, Séquences, Rezé, 1997, «L’Indice dei libri del mese», Torino Anno XV, N. 4, Aprile 1998, p. 48.

 

  La casa editrice Séquences manda in libreria, in un volumetto estremamente elegante, una novella poco conosciuta di Balzac, Les fantaisies de la Gina (I capricci della Gina). Protagonista è una bella nobildonna genovese sposata a Milano; per qualche misterioso motivo tiene sulla corda, senza concedersi, un giovane ammiratore di cui è innamorata, e a un certo punto, con un futile pretesto, lo costringe a un lungo viaggio lontano da lei. Soltanto la conclusione della novella svela l’enigma e riunisce felicemente gli amanti; né frivola, né crudele, Gina nascondeva il segreto di una malattia che la costringe a offrire al ferro del chirurgo “il più bel seno del mondo”. Si intrecciano in questo testo temi squisitamente balzachiani, come l’esasperata tensione dell’eros inappagato, ed echi stendhaliani, inevitabilmente ridestati dallo sfondo milanese. Con una scelta particolarmente felice, l’editore ha affidato il compito di ricostruire la storia del testo e quella delle sue fonti – letterarie e biografiche – al maggior studioso italiano di Balzac, Raffaele de Cesare, che ha corredato il volume di una splendida postfazione.

 

 

  Mariolina Bertini, Nel bronzo, l’io caleidoscopico del creatore della “Commedia umana”, «L’Indice dei libri del mese», Anno XV, N. 9, Ottobre 1998, pp. 47-48.

 

  1898: le Balzac de Rodin, pp. 462, FF 410, Éditions du Musée Rodin, Paris 1998.

 

  Non sarà facile tener dietro, nel 1999, al moltiplicarsi delle mostre, dei convegni, delle celebrazioni di vario genere che saluteranno i duecento anni trascorsi dalla nascita di Balzac. Dato per spacciato negli anni cinquanta e sessanta dai teorici del Nouveau Roman, che ravvisarono in lui il prototipo del più greve e superato realismo ottocentesco, l’autore della Comédie humaine ha smentito alla grande i suoi affossatori, come dimostra la critica recente più attenta alle sue contraddizioni e alla sua modernità, alle sue intuizioni sociologiche e alle sue incursioni nel fantastico, alle sue ricerche stilistiche e alle sue battaglie per la dignità dell’artista come soggetto economico. Un’occasione per riflettere su tutto questo in una prospettiva nuova ci è offerta ora da un volume a più voci, nato come catalogo di un’esposizione parigina: 1898: le Balzac de Rodin. Organizzata dal Musée Rodin, la mostra è stata innanzitutto la ricostruzione esaustiva — attraverso abbozzi, studi e progetti — della genesi della statua dedicata da Rodin al romanziere; ma è stata anche, come emerge dal catalogo, un’indagine fruttuosa sulla fortuna di Balzac tra Otto e Novecento, colta in una serie di risvolti iconografici – ma anche ideologici e interpretativi – dei più sorprendenti. All’origine di tutto c’è l’immagine poderosa di Balzac, scomparso nel 1851 (sic); un’immagine che nella seconda metà del diciannovesimo secolo incombe su Parigi come un fantasma, senza trovare uno spazio che ne consacri definitivamente il ricordo. Un primo progetto di monumento, caldeggiato da Alexandre Dumas, è affossato dalla vedova Balzac che, meschina e sospettosa come poche, accusa l’autore dei Tre moschettieri di speculare a proprio profitto sulla memoria dell’illustre collega; le autorità latitano, altre iniziative successive si insabbiano. E tuttavia la gloria di Balzac verso la fine del secolo cresce irresistibilmente, le edizioni delle sue opere si moltiplicano; nel 1888 torna d’attualità l’idea del monumento, di cui si fa promotrice la Société des gens de lettres. Il primo scultore cui l’opera viene affidata, Henri Chapu, traccia il piano di una raffigurazione allegorica che desta qualche perplessità: Balzac in piedi, in abito monacale – si sa che amava lavorare drappeggiato in una veste da camera che ricordava un saio –, scruterà con aria perspicace un prosperoso nudo femminile, seducente incarnazione della Commedia umana. Ma il gruppo marmoreo, che dovrebbe venir collocato sotto i lucernari di un elegante passage parigino, non viene eseguito perché Chapu si ammala e muore. È a questo punto che la Société des gens de lettres decide, nell’estate del 1891, di affidare il monumento a Rodin: la decisione è dovuta in massima parte al suo nuovo presidente, Zola, che intuisce quanto la modernità dell’arte di Rodin sia affine all’estetica balzachiana e adatta a esprimerla nella forma più congeniale. In seguito, quando Rodin chiederà proroghe su proroghe per portare a termine l’opera, Zola non si sentirà di appoggiarlo sino in fondo; ma gli va riconosciuto il merito di aver compreso con precoce sicurezza che lo scultore di Balzac non poteva essere che Rodin, e di essersi battuto per questa scelta, nel 1891, con energica determinazione.

  Comincia a questo punto un’avventura artistica tormentata e appassionante, che i primi tre saggi del catalogo, dovuti ad Antoinette Le Normand-Romain, una delle direttrici del Museo Rodin, ci consentono di seguire da vicino. Inizialmente, avido di documenti e di immagini, lo scultore opera una sorta di immersione totale nell’iconografia balzachiana: consulta febbrilmente esperti e perfino pronipoti del romanziere, decifra quadri e pastelli, busti e medaglioni, ritratti e caricature, che il catalogo puntualmente riproduce e sui quali ci offre un accurato studio di Martine Contensou. La sete di concretezza che in questa fase ossessiona Rodin lo conduce in Touraine: spera di trovare, nella terra natale dello scrittore, qualche modello in cui ne riviva il tipo fisico. Quello che è allora il massimo esperto e collezionista di documenti balzachiani, Spoelberch de Lovenjoul, lo mette in guardia: benché nato a Tour (sic), Balzac era di padre meridionale e di madre parigina. Ma, contro ogni verisimiglianza, la fervida ricerca di Rodin raggiunge il proprio obiettivo: un sarto, che molti

anni addietro ha lavorato in Touraine per Balzac, indica allo scultore un carrettiere, un certo Estager, la cui testa ricorda in modo impressionante quella del romanziere da giovane. Rodin modella maschere su maschere del robusto omaccione dal sorriso vacuo: non persegue una somiglianza psicologica, ma i volumi giusti da cui partire alla ricerca di un Balzac emancipato da ogni stereotipo. Tra difficoltà, polemiche e ingiunzioni della Société des gens de lettres, che ha fretta di veder terminato il lavoro, la lotta dello scultore si prolunga sino al 1898: afferrata e dominata la somiglianza fisica, in una serie di nudi la cui corpulenza, spesso radicata al suolo da un sesso imponente, sfida tutti i canoni classici senza mai cadere nel grottesco, Rodin sembra gettarsela alle spalle, per creare un Balzac potentemente stilizzato. Nella versione definitiva della statua la prominenza del ventre non è dissimulata, ma, sotto il drappeggio irrigidito del saio monacale, allude alla misteriosa fecondità dell’artista. I contemporanei avranno l’impressione di trovarsi di fronte a un dolmen, a un menhir, a un enigmatico monolito, dotato però di occhi magnetici; occhi – dirà Paul Cézanne – “che bevono a gran sorsi il mondo, e si richiudono appassionatamente su di lui”.

  In attesa di esser fusa in bronzo, la statua in gesso viene esposta al Salon de la Société nationale des beaux-arts, e si scontra con l’incomprensione del pubblico: insensibili alla concentrata energia che lo scultore ha infuso nella sua creatura, i parigini la paragonano a un pupazzo di neve con l’accappatoio o con la camicia di forza, a una foca, a un gigantesco rospo chiuso in un sacco. Artisti e poeti sono di tutt’altro avviso (si leggano i giudizi di Monet, di Wilde, di Rilke, di Rodenbach e di molti altri, citati nel catalogo), ma sul momento è il filisteismo a trionfare: la Société des gens de lettres rifiuta l’opera di cui lo scultore accetta di restare, restituito ogni compenso, “il solo proprietario”. Le polemiche che seguono divideranno l’opinione pubblica francese quasi quanto il contemporaneo caso Dreyfus. Non casualmente, saranno per lo più i sostenitori dell’innocenza dell’ufficiale ebreo a difendere il capolavoro irriso e misconosciuto dai benpensanti; Rodin, però, perseguendo un’impossibile neutralità, rifiuterà l’appoggio, troppo politicamente connotato, degli intellettuali dreyfusardi. Questo intricato capitolo è ben ricostruito nel catalogo da Frédérique Leseur, mentre un dettagliato studio di Stéphanie Le Follic rende conto delle polemiche che ancora negli anni trenta accompagneranno la postuma realizzazione in bronzo della statua e la sua collocazione, nel 1939, all’angolo tra i boulevard Raspail e de Montparnasse, dove si trova tuttora.

  “Quest’opera di cui tanto si è riso, che hanno sbeffeggiata non potendola distruggere, è la risultante della mia vita intera, il perno stesso della mia estetica”, dichiarò Rodin a un giornalista nel 1908; nessuno studio meglio di questo catalogo – di cui non ci è purtroppo possibile ripercorrere qui tutti i contributi – può aiutarci a comprendere sino in fondo questa affermazione dello scultore. I testi di carattere storico collocano l’opera nel suo tempo; l’apparato di schede, e il saggio conclusivo dovuto ad Agnès Lascio, rendono conto degli aspetti tecnici; Roland Chollet, uno dei massimi studiosi di Balzac, indaga con sensibilità il lungo processo per cui Rodin, partito da quel “feticismo del vero” che lo spinge in un primo tempo a documentarsi con maniacale precisione, se ne libera progressivamente per dar vita a una figura, tutta metaforica e ideale, dell’artista concentrato nella sua lotta solitaria. Figura che è, certo, una splendida interpretazione di Balzac, ma che è soprattutto il più geniale degli autoritratti. È da questa intuizione capitale che è opportuno partire per rileggere oggi il Balzac di Rodin e per comprendere finalmente il suo rapporto – non ovvio, non letterale, ma estremamente profondo – con l’“io caleidoscopico” del creatore della Commedia umana.

 

 

  Patrizia Bertolani, L’uso didattico delle opere di fantasia. Il testo letterario come strumento di conoscenza, in AA.VV., Soggetti e Cattivi Soggetti. Per la catalogazione semantica delle opere di fantasia. Atti dell’omonimo convegno. Padiglione della Cultura di Leno (Bs), 29 maggio 1998.

 

  La demistificazione dei valori borghesi viene poi documentata con precisione, sempre in Francia, da Balzac, in quella indagine minuziosa nei meccanismi che regolano e devastano la sua società, dominata dal profitto, dal denaro, dall’accumulazione.

  L’analisi lenta, spietata, nuda della famiglia e degli affetti, in Eugénie Grandet o Père Goriot, permette di entrare tra quei fantasmi tristi, uomini e donne in declino, vittime sacrificali di un progresso incontrollato. La realtà viene rappresentata con squallore, con modalità e strategie che ci conducono verso la conoscenza di un mondo che, in Francia, è già fine di un sogno.

  E’ proprio l’introduzione dell’opera Père Goriot, con la pensione Vaquer (sic), che ci accompagna nel “milieu”, nell’ambiente sociale, sede dell’incontro dei personaggi.

  Nulla è più triste a vedersi di questo salotto ... La stanza abbastanza mal pavimentata ...”.

  E. poi, ancora il caminetto delle grandi occasioni, i mobili, rottami della città, e quegli oggetti, uno dopo l’altro, basterebbero a rappresentare la condizione di molti: “questa mobilia ... vecchia, screpolata, imputridita, tremante, rosa, monca, orba, invalidata, agonizzante ... Qui, nel regno delle miserie umane, vive l’eroe dimenticato del romanzo: papà Goriot”.

 

 

  Federico Bertoni, Alla ricerca del romanzo. 4. Il risveglio di don Chisciotte, in Romanzo, Scandicci, La Nuova Italia Editrice, 1998 («Biblioteca. Letteratura», 14), pp. 22-31.

 

  pp. 23-24. Alla vigilia dell’epoca moderna, la follia di don Chisciotte rappresenta l’ultima e patetica resistenza alla necessità di varcare questa soglia, oltre la quale non sarà più possibile adeguare il mondo ai sogni (o ai libri) con una logica così stringente. È come se i fondamentali temi romanzeschi si sviluppassero nel confronto dialettico delle due età dell’uomo, lungo una serie omogenea di opposizioni binarie: infanzia/maturità, innocenza/esperienza, sogno/veglia, apparenza/realtà, illusione/delusione, desiderio/repressione, e così via.

  In questo senso, la vicenda di Lucien de Rubempré, protagonista di Illusioni perdute di Balzac, non è soltanto una parabola sul necessario processo di educazione di ogni uomo. Non illustra semplicemente un sottogenere che Lukács ha definito «romanzo della delusione». Perché il passaggio dall’innocenza all’esperienza, per Lucien, la distruzione dei «sogni dorati» da parte delle lezioni «amare e fredde», sembra far parte davvero di un archetipo universale: è il modello di una separazione di mondi – di coscienze e di approcci nei confronti del reale – su cui il romanzo moderno ha definito la propria identità. L’antitesi tra realtà e desideri0, mentre fornisce il soggetto della vicenda narrata diventa insomma uno schema per organizzare il mondo e l’esperienza, come appare esplicitamente in una lettera scritta da Lucien alla sorella: se «il presente e freddo, squallido, meschino, l’avvenire è roseo, splendido e ricco».

  Anche la struttura drammatica del romanzo viene ricalcata su questo schema dialettico. La parabola di Lucien percorre la distanza geografica ed esistenziale tra due universi, tra il luogo familiare e l’altrove, tra il punto noto dell’origine e lo spazio sconosciuto della ricerca. Perché le illusioni si perdono sulla strada che conduce dalla provincia a Parigi, verso quel miscuglio di gloria e di infamia che alleva tanti «uomini invidiosi, avidi e perfidi», dove si combatte e si mente e si ama e si tradisce l’amico per uno stupido interesse, dove non si arriva a niente «se prima non si è riusciti a farsi un callo nel punto più sensibile del cuore». Lo scopo del personaggio romanzesco consiste dunque nell’esplorazione di un altrove, nella comprensione di uno spazio straniero e affascinante che sembra promettere un recupero del senso. Dopo il suo arrivo a Parigi, «Lucien si vedeva separato da quel mondo da un abisso e si chiedeva con quali mezzi avrebbe potuto valicarlo, poiché voleva diventare pari alla dinamica ed elegante gioventù parigina». Il trauma di una separazione tra l’io e il mondo non è mai così duro, per lui, come quando sogna di conquistare gli ambienti che lo seducono e lo escludono (la letteratura, il giornalismo, il gran mondo dei salotti e delle dame), dove si entra dopo un tirocinio di «dure lezioni» e di «prove» che trasformano l’uomo in altro da se stesso.

  Così, in questa dialettica di interiorità ed esperienza, la tensione tra l’io e il mondo (tra l’immaginazione e il reale) configura l’orrore e il dovere di una presa di coscienza, mentre l’opposizione tra il romanzo moderno (novel) e le forme narrative precedenti (romance) incomincia a trascendere la dinamica interna del sistema letterario.

 

 

  La città romanzo. 3. Il primo Ottocento: tra Romanticismo e realismo, Ibid., pp. 48-58.

 

  pp. 55-57. L’altro gigante del primo Ottocento francese, l’uomo fatto romanzo, il Napoleone della penna, il più formidabile narratore della letteratura occidentale, imprime alla forma e alla materia del romanzo un canone che nessuno, in seguito, potrà permettersi di trascurare. Ciò che lascia sgomenti, nel rapporto con Balzac, è proprio il senso monumentale e policentrico dell’architettura romanzesca: «non basta essere un uomo» scrive nell’introduzione agli Studi di costume, «bisogna essere un sistema [...] Walter Scott più un architetto». La Commedia umana diventa allora una cattedrale, un universo con la sua geografia, la sua genealogia e la sua araldica. Il principio del ritorno dei personaggi – ripresi e moltiplicati da un romanzo all’altro – è la grande trovata che permette a Balzac di costruire un romanzo unico, un Libro dei libri, a immagine della società di cui ha voluto esprimere la verità globale. L’idea prima di questa impresa, scrive infatti nella prefazione, gli è venuta «da un paragone tra l’Umanità e il Regno animale», da una parziale analogia che si può riscontrare tra le «Specie Zoologiche» e le «Specie Sociali». Fare «concorrenza all’anagrafe» significa allora costruire un sistema completo della società (o della «natura sociale»), nel quale i tipi — più degli individui – possano essere descritti e classificati in una composizione unitaria. La struttura prevede tre grandi strati sovrapposti: gli Studi di costume (divisi a loro volta in sei «gallerie»: Scene della vita privata, di provincia, parigina, politica, militare e di campagna), che descrivono gli «effetti» e formano «la storia generale della Società»; gli Studi filosofici, che risalgono alle «cause» degli eventi; e gli Studi analitici, che dovrebbero ricercare i «principi» di tutto il movimento.

  Quanto all’atteggiamento di Balzac, si sa che il suo intento programmatico era di essere uno «storico fedele e completo», «il più umile dei copisti», un semplice «segretario» che si limitasse a riprodurre con esattezza un documento preso «dalla vita reale». Ma il suo realismo, come ha detto Baudelaire, non ha niente a che fare con la piatta mimesi di una riproduzione fotografica: la società che ha fuso e ricreato nella Commedia umana è un universo trasposto, condensato, a volte trasfigurato da una prospettiva visionaria (si pensi a La pelle di zigrino). Più che da un travaso del mondo nel romanzo, l’illusione di realtà deriva da una scomposizione e combinazione di frammenti, da un mosaico brulicante di dettagli nei quali, soli, si trova il «vero», ma che diventano la materia prima di una grande immaginazione creatrice. In fondo, la qualità epica e quasi soprannaturale del realismo balzachiano è che il suo mondo non riproduce passivamente il nostro, che non ci propone un calco o una copia di quel che già conosciamo: il suo romanzo è un’«augusta menzogna» che ha il potere di inventare una nuova verità.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, «Anthony» d’Alexandre Dumas dans «Le Rendez-vous» de Balzac. D’Adèle à Julie, «L’Année balzacienne», Nouvelle série, 19, Paris, Presses Universitaires de France, 1998, pp. 157-176.

 

  L’A. analizza il celebre episodio narrato nella parte finale di Premières fautes – primo capitolo de La Femme de trente ans che, fino all'edizione del 1842, costituiva il quinto momento de Le rendez-vous. Nel sottolinearne la marcata teatralità, Bongiovanni Bertini ricostruisce l’origine di queste suggestive pagine, individuando nei momenti-chiave del primo e del quinto atto di Anthony di Dumas i loro motivi ispiratori, in relazione ai tratti psicologici di Julie d’Aiglemont e alla progressione drammatica degli eventi, ponendo altresì in risalto quel «détournement radical» (p. 166) operato da Balzac nei confronti del testo dumasiano che «ramène le personnage masculin à de plus hautes proportions pour mettre en pleine lumière l’héroïne et la terrible pression que les exigences contradictoires de l’amour-passion et de la morale publique font subir à la femme» (p. 174).

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, in Honoré de Balzac, La falsa amante ... cit., pp. 5-15.

 

  Il 1841 – l’anno in cui Balzac pubblica, tra il 13 e il 28 dicembre, su «Le Siècle», La fausse maîtresse — è un anno importante nella storia del feuilleton-roman, vale a dire del romanzo a puntate che i principali quotidiani francesi, a partire dal 1836, ospitano con regolarità e con crescente successo. Sino al 1840 la misura media di un feuilleton-roman si aggirava intorno ai sei episodi; corrispondeva a quella di una lunga novella e permetteva ai lettori di seguire, senza eccessivi sforzi di memoria, il filo dell’intreccio e il destino di un limitato numero di personaggi. Tra il dicembre del ʼ40 e il settembre del ʼ41, tuttavia, un successo imprevisto e strepitoso interviene a mutare le regole del gioco: Mathilde di Eugène Sue, con le sue 89 puntate, si impone all’attenzione dei parigini e li costringe a tuffarsi ogni giorno nelle pagine della «Presse» per sapere se l’aristocratica eroina è riuscita a sfuggire ai tentativi di stupro del «Mefistofele mulatto», l’infame Lugarto, che la perseguita [...].

  È naturale che Balzac – non ancora ridotto al silenzio dagli esorbitanti trionfi dei Mystères de Paris e del Comte de Montecristo desideri in questo periodo rivaleggiare con Sue, sfidarlo, contrapporsi a quelle che, in una lettera a madame Hanska, definisce le «stupidités» di Mathilde; per questo, dopo esser stato presente, nel corso dell’anno, su ben quattro quotidiani, tra novembre e dicembre realizza il tour de force di fornire quasi simultaneamente il feuilleton a due importanti giornali, rivali da sempre. «Le Siècle» e «La Presse». «Le Siècle» ospita, dal 13 al 28 dicembre, La fausse maîtresse; «La Presse», dal 26 novembre al 6 dicembre e dal 27 dicembre al 3 gennaio 1842, i Mémoires de deux jeunes mariées. Si tratta di due testi di ben diverso respiro: i Mémoires, costruiti sulla contrapposizione tra due esistenze femminili, l’una fondata sulla passione romantica, l’altra sul sacrificio di sé alla famiglia, costituiscono un vasto romanzo con il sostrato di una riflessione sociopolitica imponente; La fausse maîtresse è invece una narrazione rapida e paradossale, incentrata su una situazione bizzarra che non manca di elementi ambigui e grotteschi. Se scrivendo i Mémoires Balzac voleva «soffocare» la frivolezza di Sue con la propria gravità, scrivendo La fausse maîtresse voleva dimostrare di saper sorprendere il proprio pubblico, non ricorrendo, come Sue, alle abusale ricette del romanzo gotico, ma calando una psicologia d’eccezione, con aspetti eroici, nel contesto ben poco eroico, se pure piccante e curioso, della società parigina contemporanea. [...].

  È dunque un «mistero del cuore umano», non un intreccio di fatti a collocarsi al centro della Fausse maîtresse: il mistero dell’attrazione invincibile che lega il conte polacco Thaddée Paz a Clémentine du Rouvre, la giovane sposa del suo compatriota, benefattore e fratello d’armi Adam Laginski. Per nascondere la propria passione, e suscitare nell’amata un irrevocabile disprezzo, Thaddée si attribuisce una «falsa amante»: la cavallerizza Malaga, muscolosa e sfrontata eroina del circo. Il giovane non ha però la forza sovrumana di reggere l'avvilente finzione sino alle estreme conseguenze e finisce per abbandonare il tranquillo esilio parigino, arruolandosi al servizio dello zar. Rischierà la vita dopo aver lasciato a Clémentine una lettera che confessa il suo sconvolgerne segreto. Su questo segreto, e sulle fantasticherie colme di rimpianto della giovane donna, si chiudeva nella prima stesura manoscritta, La fausse maîtresse [...].

  Elegante ed elusivo, questo finale mal si conciliava con le leggi del feuilleton; Balzac proprio per questo vi giustappose la pagina finale che leggiamo ancora oggi, in cui Thaddée, rimasto segretamente a Parigi, continua, negli anni successivi alla sua presunta scomparsa, a vegliare non visto su Clémentine, e la salva in circostanze romanzesche. Derogando alla propria poetica, Balzac, con quest’ultima pagina, strizzava l’occhio agli appassionati di Sue: dovevano rendersi conto che l’autore di Mathilde – debitore, tra l’altro, di più di uno spunto alla balzachiana Histoire des Treize – non aveva il monopolio delle apparizioni improvvise, dei travestimenti misteriosi, dei tentativi di ratto nel cuor della notte.

  D’altronde, c’era nella Fausse maîtresse un altro ammiccamento ai lettori di Sue, una sorta di messaggio cifrato per gli amanti del romanzo a chiave. La palazzina dei Laginski era l’esatta riproduzione di quella che Eugène Sue si era fatta costruire recentemente al numero 71 di rue de la Pépinière, completa di serra c padiglione cinese. Quanto all’arredamento, ingombrando sino all’inverosimile di ogni sorta di bibelots il boudoir di Clémentine, Balzac aveva obbedito rigorosamente ai più recenti dettami della moda. [...].

  Due Parigi differenti, che non comunicano tra loro, costituiscono lo sfondo della Fausse maîtresse: la Parigi elegante in cui Clémentine, viziata e capricciosa, va al ballo, cura i suoi fiori esotici e passeggia in carrozza al Bois, e la Parigi povera e canagliesca dove Malaga, tra uno spettacolo e l’altro, si stira da sé i costumi di scena, aspettando un ricco protettore da sfruttare. Thaddée Paz in entrambi gli ambienti è clamorosamente fuori posto. La sua antica e severa nobiltà – discende da un ramo dei Pazzi di Firenze trapiantato in Polonia – non s’accorda né con la fatuità della Parigi mondana dei Laginski né con il mondo di mantenute e di clowns su cui regna Malaga. Se le origini italiane apparentano Paz all’universo di Stendhal, l’amore disperato per cui si sacrifica, non senza conoscere una paradossale felicità, lo avvicina a una schiera di personaggi balzachiani che lo hanno preceduto sulla stessa via: papà Goriot. avidamente proiettato nella vita delle figlie, madame de Mortsauf, annullata sino al martirio dalla passione per il giovane Félix, il Jacques Collin-Herrera di Splendeurs et misères des courtisanes, che vede nel diletto Lucien «la propria anima visibile». È proprio Collin-Herrera ad offrire, in una pagina del ʼ38. la più commossa esaltazione dell’amour sans espoir. [...].

  Jacques Collin-Herrera [...] propone come ideale di abnegazione la propria passione assoluta, relegata nell’ombra e nel silenzio dalla morale comune e dalle leggi sociali. L’amour sans espoir di Thaddée Paz, benché condannato con minor rigore dalla società del tempo, ha molto in comune con quello di Collin-Herrera: l’ebbrezza del sacrificio, l’illusione di maternità nei confronti dell’oggetto amato, l’eroismo di fronte al dolore. È forse questa analogia così evidente ad aver contribuito alla singolare interpretazione della Fausse maîtresse che Proust accenna per bocca del barone di Charlus. Eccellente balzachiano – come uno dei suoi modelli, Robert de Montesquiou –, Charlus ama parlare di quel che predilige nella Comédie humaine: ma, proiettando sul terreno letterario le proprie segrete preoccupazioni, finisce per soffermarsi sempre su qualche aspetto che lo riconduce al mondo di Sodoma. [...].

  All’interno della Fausse maîtresse, accanto all’attualità parigina colta dal vivo e al motivo profondamente balzachiano dell’amour sans espoir, gli studiosi hanno riscontrato anche un elemento autobiografico di una certa rilevanza. Il 1841 è un anno di crisi nei rapporti di Balzac con madame Hanska: alcune lettere vanno inspiegabilmente perdute, la corrispondenza si dirada. In realtà, il sogno matrimoniale di Balzac si avvicina alla sua realizzazione perché Eva Hanska in novembre resta vedova, ma il romanziere lo saprà soltanto ai primi di gennaio del ’42. Con La fausse maîtresse egli rivolge dunque all’amata lontana, di cui teme la gelosia e la freddezza, un messaggio e un apologo: la costanza di Paz è la fedele immagine della sua; se madame Hanska la misconoscerà andrà incontro, come Clémentine, a un eterno rimpianto. Perché il messaggio fosse più chiaro, Balzac mise in scena il mondo degli aristocratici polacchi in esilio, cosa che gli consentì di citare amici e parenti dell’amata; battezzò poi il protagonista Thaddée, attribuendogli il nome di un cugino di madame Hanska che le era cavallerescamente devoto.

  Nonostante questa intenzione così chiara e diretta, resta, nella Fausse maîtresse, qualche cosa di enigmatico, come rilevava il barone di Charlus, o piuttosto di singolarmente discordante. Le due eroine, la fragile Clémentine e la possente Malaga, dovrebbero contrapporsi radicalmente l’una all’altra: invece Paz, per un oscuro gioco di allusioni, nell’ultima conversazione con Clémentine designa quest’ultima con il nome della rivale, confondendo le due donne in un voluto effetto di ambiguità. Balzac sembra suggerire così che tra la signora di suprema eleganza, abile a tessere pericolosi intrighi, e l’agilissima acrobata che affronta il salto mortale, vi sono forse più analogie che differenze.

  Se Clémentine e Malaga, sovrapponendosi, paiono riformulare il motto citato da Balzac nella Fille aux yeux d’or, «gli estremi si toccano», Paz presenta a sua volta una fisionomia sconcertante. La sua nobiltà – d’animo e di stirpe – non è mai così evidente come quando l’Inferno della volgarità parigina sembra inghiottirlo tutto intero. Quando, nel pandemonio del carnevale, Clémentine lo vede apparire, Paz indossa la giacca verde e i pantaloni rossi rattoppati del più cinico e triviale bandito del teatro ottocentesco, Robert Macaire. Soltanto in un mondo che non teme il grottesco e il difforme, il cappello sfondato di Robert Macaire può posarsi sul capo di un eroe che è stato paragonato, poche pagine prima, a Dante e a Michelangelo; soltanto nel mondo della Comédie humaine, che accoglie e fa proprie, senza esitare, tutte le dissonanze della modernità.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, in Honoré de Balzac, I segreti della principessa di Cadignan ... cit., pp. 7-13.

 

  Ai primi di giugno del 1839 un gran temporale danneggiò gli scoscesi pendii argillosi su cui sorgeva la casa di Balzac a Ville d’Avray, Les Jardies. Il romanziere, mentre ispezionava la sua proprietà, i cui terrazzamenti erano già stati messi a dura prova dalle piogge di primavera, cadde, si lussò una caviglia e fu costretto a un mese di immobilità. Fu quasi certamente durante questo periodo di forzato riposo che scrisse uno dei suoi racconti più complessi ed enigmatici, Une princesse parisienne, che nel 1844 sarebbe stato inserito nella Comédie humaine con il titolo Les secrets de la princesse de Cadignan. [...].

  La duchessa Diane de Maufrigneuse fa la sua prima comparsa sulla scena balzachiana nel 1838, nel Cabinet des antiques. Il racconto è ambientato nel 1822 e ricostruisce la disastrosa educazione parigina di un giovane aristocratico di Alençon, Victurnien d’Esgrignon. L’ingenuo Victurnien viene mandato a corte dal padre nella speranza che faccia una brillante carriera, ma le seduzioni del gioco, del lusso e dell’amore hanno facilmente ragione del suo carattere privo d’energia. È la ventisettenne Diane de Maufrigneuse, una delle regine della società più elegante, ad iniziarlo ai costosissimi piaceri della vita parigina. Audace ed affascinante, incline al libertinaggio ma anche capace d’imprevedibili magnanimità, Diane porterà il giovane sprovveduto a un passo dalla rovina, salvandolo però in extremis dal disonore della corte d’assise, dove rischiava di finire per via di un falso. Già in questo racconto, una delle caratteristiche principali di Diane è quella di essere una consumata e capricciosa commediante: per sedurre Victurnien sa assumere l'aspetto di una bellezza «serafica» e «velata», «dall’anima bianca come la neve appena caduta sulla vetta più alta delle Alpi»; per salvarlo, invece, attraversa la Francia in abiti maschili, modello ineguagliabile di studiata insolenza, maneggiando con dandystica disinvoltura un emblematico frustino.

  Nella Princesse parisienne, ripresentando la sua eroina invecchiata di una decina d’anni, ed economicamente rovinata benché sempre ammiratissima dal fior fiore dell’aristocrazia, Balzac ne modificò il destino in modo radicale: decise di porre fine alla sua trasgressiva carriera di don-Giovanni al femminile per farla approdare, alle soglie dell’età matura, ad un grande, ultimo amore corrisposto e felice. Oggetto di questo amore sarebbe stato Daniel d’Arthez, lo scrittore legittimista dalla mente profonda e dall’anima pura che in Illusions perdues cerca di contendere il giovane Lucien de Rubempré alle tentazioni dell’ambiente giornalistico, devastato dall’arrivismo, dalla malafede e dal risentimento. È stato notato che, di un’unione analoga, Balzac aveva sotto gli occhi un esempio illustre: l’aristocratica Cordelia de Castellane e il conte Molé, più volte ministro degli Esteri dopo la Rivoluzione di Luglio. Forse egli si ispirò a qualche confidenza ricevuta sulle intime vicende di questa coppia celebre; ma fu sul terreno della finzione romanzesca, delle sue strutture temporali e della sua logica interna, che dovette risolvere i problemi che poneva il singolare incontro da lui immaginato tra il nobile e disinteressato d’Arthez e la sensuale ed accortissima Diane; tra il seguace incorruttibile della verità e l’artista insuperata della finzione erotica e mondana. Come trovare, innanzitutto, un punto di contatto tra la vita appartata e sobria del genio e quella tutta artificio e calcolo della principessa? Balzac risolse questa impasse insinuando surrettiziamente nella vita di Diane un antefatto carico di conseguenze capitali. Questo antefatto è l’amore puro e cavalleresco votato a Diane, tra il 1829 e il 1832, da un giovane repubblicano, fraterno amico di d’Arthez, Michel Chrestien; noi lettori ne veniamo a conoscenza retrospettivamente, dalle confidenze che Diane fa alla sua arnica, la marchesa d’Espard, nelle prime pagine dei Secrets. L’amour de loin del mite rivoluzionario idealista è, nell’esistenza di Diane, una sorta di presentimento che aprirà la via al vero amore, all’amour-passion di d’Arthez. Due anni prima di morire negli scontri del cloître Saint-Merry, Michel, il più generoso degli eroi balzachiani, salva il marito di Diane durante un combattimento, nel luglio 1830. È come se un barlume di luce, cui non è estraneo il valore simbolico del suo cognome, penetrasse grazie a Michel nella vita della consumata coquette, destandovi un’inattesa nostalgia: l’amore privo di egoismo del giovane saint-simoniano traccia davanti agli occhi disincantati dell’esperta seduttrice il profilo imprevisto di una felicità sconosciuta, di un paradiso inaccessibile le cui leggi coincidono con la gratuità assoluta dell’amore. Cresciuta nel mondo dell’interesse e dell’autoconservazione, Diane è attratta con forza da questa gratuità dell’amore che contraddice tutte le leggi a lei note; avverte la necessità di abbandonarvisi senza condizioni, senza riserve, senza difese. Per questo, quando si accorge di provare per d’Arthez quello stendhaliano amour-passion che Michel provava per lei, non ne coglie soltanto la profondità, ma anche la prossimità irriducibile con la morte, con l’annullamento, con la fine. [...].

  Diane, benché abbia ormai a suo modo rinunziato al «mondo», è costretta, per accedere all’autenticità dell’amour-passion, a portare ad una perfezione suprema la sua scienza mondana: deve presentare a d’Arthez la propria vita passata in un’ottica che la giustifichi, descrivergli la Diane di ieri come una vittima inerme, e non come l’appagata e cinica protagonista di una società a lei congeniale. Rielabora dunque la propria vita precedente rileggendola con gli occhi dell’amato; la falsifica, certo, dipingendosi come traviata quasi a forza da un mondo odiosamente corrotto, ma la falsifica in uno slancio così perfetto e totale di adesione all’etica, alla spiritualità, al pensiero dell’amato, che la sua falsificazione diventa un gesto radicalissimo di abnegazione in cui si dissolve ogni residua durezza dell’io. È questo amore di Diane, non la possibile verità del suo racconto e delle sue giustificazioni, ad unirla a d’Arthez nella coppia più paradossale e inscindibile della Comédie humaine. Quando d’Arthez infatti si trova a confrontarsi, nel salotto di madame d’Espard, con la compatta falange degli ex amanti di Diane, che ne rievocano il passato libertino con malevola ironia, non oppone loro l’improbabile innocenza dell’amata, ma la legittimità del suo libero passato di leggerezza e di avventure. Diane, sottolinea d’Arthez, non ha fatto che vivere secondo le stesse leggi di coloro che ora la condannano [...].

  Ma non c’è gesto, segno, parola recente di Diane in cui d’Arthez, geniale decifratore di segni, come d’altronde Balzac, non abbia colto la pulsione rigeneratrice dell’amour-passion: Diane è ormai al di là di quelle leggi di egoismo, di sopraffazione, secondo le quali ha per anni vissuto, mentre i suoi antichi amanti in quelle leggi sono ancora invischiati ed è presumibile che non se ne emanciperanno mai. Nel suo racconto-finzione, la principessa ha sacrificato i valori e le leggi del proprio passato a quelli di d’Arthez; d’Arthez risponde sacrificando la propria etica severa alla levità trasgressiva in cui Diane ha vissuto gli anni della sua dissipata giovinezza. Il sacrificio reciproco rende così possibile la conquista della piccola isola accerchiata e fragile dell’amour-passion, dove gli amanti aspetteranno la morte, ormai indifferenti ad ogni gloria mondana, nella prigione stendhaliana della peritura e fuggevole tenerezza felice.

 

 

  Gabriella Bosco, Balzac di bronzo, un sacrilegio lungo otto anni, «La Stampa», Torino, 14 agosto 1998, p. 19.

 

  Parigi scoppiò lo stesso anno dell’affaire Dreyfus. Un’altra faccenda che divise il Paese tra innocentisti e colpevolisti. Anche in questo caso Emile Zola fu coinvolto e scrisse un perentorio j’accuse. Anzi, in questo caso lo aveva scritto con parecchio anticipo. Era venuto a sapere che si era deciso di erigere a Parigi una statua in onore di Alexandre Dumas. Senza aver nulla contro Dumas, Zola trovava scandaloso che a tanti anni dalla morte di un altro grande scrittore, per lui ben più' meritevole, Honoré de Balzac, non fosse ancora stata fatta la stessa cosa in suo onore. E in modo ostentatamente provocatorio aveva fatto la controproposta, concludendo l’appello così: “Che si cerchino dei giornali, che si formi un comitato, che si ottenga dal Consiglio municipale un posto, il più largo e il più centrale che sia dato trovare. Sarò soddisfatto se avrò ristabilito l’ordine e impedito un’opera di suprema ingiustizia, lo sottoscrivo con mille franchi. Darò cento franchi per la statua di Alexandre Dumas, quando avrò dato mille franchi per la statua di Balzac”. Pubblicato sul Figaro del 6 dicembre 1880. La radice dell’affaire è là, in quelle righe. La statua in onore di Balzac cominciò allora ad avere dei reali sostenitori, ma nel 1891 ancora niente era stato fatto, o meglio niente che andasse nel senso degli auspici di Zola. Pare che riuscì a farsi eleggere presidente della Société des gens de lettres unicamente per prendere in mano la faccenda e condurla in porto. Un primo scultore cui era stata affidata la realizzazione della statua, e che aveva cominciato a lavorare, Chapu, venne ucciso da una congestione polmonare. Zola riuscì a fare in modo che l’incarico venisse proposto a Rodin e che lui accettasse. E Rodin si gettò nell’impresa con un entusiasmo e un vigore senza puri. Quando otto anni dopo, molto oltre i termini previsti e dopo vicissitudini improbe, la statua fu finalmente pronta, la Societé des gens de lettres non più presieduta da Zola (il quale si era nel frattempo un po’ disamorato della vicenda, per il dilungarsi a suo parere eccessivo di Rodin) restò senza parole. Inaccettabile. La statua era inaccettabile, per la Societé. E l’affaire scoppiò. Chi si lanciò in nome dell’arte a difendere la statua di Rodin, chi in nome di valori estetici tradizionali l’attaccò. Coloro che presero parte per Rodin erano in altissima percentuale dreyfusardi. Ma a Rodin la “politicizzazione” del suo lavoro, cui tanto si era appassionato da definire un giorno la statua il pivot, il perno, della sua estetica, non piacque (lui del resto, non aveva assunto posizione ufficiale nell’affaire Dreyfus e se l’avesse fatto sarebbe stato con gli antidreyfusardi). Rifiutò la sottoscrizione, l’ennesima, che i suoi sostenitori avevano lanciato e chiese di poter riacquistare il gesso dello scandalo (la fusione in bronzo non era ancora stata realizzata), per esserne in tutto e per tutto l’unico proprietario. A distanza di un secolo, a Parigi, una mostra rievoca la storia della statua, appassionante per le molteplici implicazioni. E’ al Musée Rodin, aperta fino al 13 settembre, da vedere soprattutto se si legge a supporto il catalogo, edito dal Museo, estremamente curato e minuzioso nella ricostruzione. Tra i saggi pubblicati nel volume, particolarmente interessante è quello di Roland Chollet, grande studioso di Balzac (gli altri saggi sono per lo più affidati a storici dell’arte e specialisti di Rodin), che propone un seducente rapporto di continuità tra l’energia creatrice di Balzac e quella di Rodin, come il passaggio di una fiaccola dallo scrittore all’artista, verificatosi con il progressivo immedesimarsi di Rodin in Balzac. Mariolina Bertini, altra grande esperta di Balzac, ci ha segnalato l’interesse della mostra da un lato, la bellezza del saggio di Chollet d’altro lato. Ma perché i membri della Société des gens de lettres restarono tanto indignati di fronte al grande gesso di Rodin? La ragione addotta fu che non vi si riconosceva lo scrittore. I più tradizionalisti accusarono Rodin di aver fatto un Balzac simile a una foca (e una piccola statuetta caricaturale di un Balzac-foca prese a essere venduta per le vie di Montmartre a irrisione dello scultore, che peraltro se ne procurò una). Il confronto con la celebre statua del Baiser, che Rodin ebbe il coraggio di esporre insieme al Balzac, fece urlare al sacrilegio. Scultore di tutto riguardo per il Bacio, con il Balzac Rodin aveva tradito se stesso e i suoi estimatori. Non fu capito l’immenso sforzo che Rodin aveva fatto per creare un’opera realmente unica, che ritraesse Balzac non banalmente o solo nei tratti esteriori. Enorme era stato il suo lavoro di documentazione per “entrare” in quella statua. Quando Rodin accettò l'incarico, esistevano pochissime immagini di Balzac. Alcuni dagherrotipi tra cui quello splendido di Nadar, il busto di David d’Angers, un ritratto di Balzac giovane ch’egli aveva offerto a una donna amata, non da far circolare, e poco più. A lungo Balzac non aveva amato il suo aspetto fisico, pensarlo riprodotto era stato per lui un tabù. Molto numerose erano invece le caricature che di lui erano state fatte, ma queste poco servivano a Rodin. Si procurò anche quelle, ma soprattutto si gettò alla frenetica ricerca di ogni tipo di informazione o documento che potesse aiutarlo a farsi un’immagine sua di Balzac, il più possibile fedele alla grandiosa complessità dell’uomo. Rodin mirava a un ritratto interiore. Aveva bisogno di faticare, per arrivarci. Si recò a Bruxelles, dal visconte Spoelberch de Lovenjoul, un appassionato di Balzac che dopo la sua morte si era messo a raccogliere tutto ciò che lo riguardava, rincorrendo ad esempio ogni cosa che la vedova disperdeva, primo collezionista che fece da solo un lavoro immane e fondamentale per i futuri studiosi. Rodin consultò tutto il materiale in suo possesso, poi, contro il parere dello stesso visconte, il quale gli ricordò che la famiglia di Balzac non era di Tours benché lui vi fosse nato, si recò in Touraine. Qui trovò il sarto dello scrittore, che per dedizione al maestro aveva conservato un quadernino con tutte le sue misure, di cui si serviva quando doveva confezionargli degli abiti. Rodin le trascrisse con cura e chiese al sarto se nei dintorni non ci fosse qualcuno che nei tratti potesse ricordare Balzac. C’era. Era un vetturino. “Una goccia d'acqua”, gli disse il sarto. Quando lo vide, Rodin fu entusiasta. I volumi della testa erano perfetti. Realizzò una serie di teste del vetturino, che poi avrebbe messo completamente da parte, ma che gli servirono in quella fase di studio. Era la fase che Chollet definisce di “feticismo del vero”, lo stesso feticismo in nome del quale Balzac aveva voluto dare nomi veri ai personaggi inventati della sua Comédie.

  Una necessità, per così dire, psicologica. Il grande ventre che Rodin fece al Balzac definitivo, l’“obesità” che tanto fece discutere per il suo contrastare con i canoni del bello, era il mondo che lo scrittore portava in sé. Del cui peso e della cui possenza Rodin si sentì investito e come incaricato realizzando la statua. Quel ventre era il segno esteriore della fecondità di Balzac. La Société giudicò brutta la scultura perché non abbastanza somigliante, poco adatta all'ufficialità. Rodin se la mise in giardino, nella sua casa a Meudon. Fece realizzare da un giovane amico fotografo americano, Eduard Steichen, clichés notturni. Presenti in catalogo, sono di grande effetto. Quando morì, Rodin chiese che nessuna fusione in bronzo della statua venisse realizzata se non dopo che la città di Parigi avesse commissionato la prima. La sua volontà venne esaudita solo nel 1939. Il Balzac, per cui era stato scelto dopo lunghissime esitazioni il carrefour Vavin, all’incrocio tra boulevard Raspail e boulevard du Montparnasse, venne inaugurato alla vigilia dello scoppio della guerra.



  Carlo Castellaneta, L’amore immaginario. Romanzo, Milano, Mondadori, 1998.

 

  p. 116. Perché di questo Adelio sentiva oggi la mancanza: di continuare a ragionar d’amore con lei, senza scoprirsi, senza confessioni personali, anche se aveva ben presente una massima di Balzac letta in gioventù secondo la quale “parler d’amour c’est faire l’amour”, cosa che, doveva ammetterlo, era la trasposizione più accettabile del desiderio.

 

 

  Alberto Castoldi, Il possesso del bianco, in Bianco, Scandicci, La Nuova Italia Editrice, 1998 («Biblioteca. Letteratura», 19), pp. 15-32.

 

  [...]. Successivamente il bianco non già come assenza di scrittura, ma come eccedenza del discorso, che invoca anche l’intervento del lettore, farà parte delle soluzioni intellettualmente più spregiudicate, come nell’esempio clamoroso del Tristram Shandy di Laurence Sterne in cui, oltre alle infinite interruzioni della scrittura, sempre in lotta con gli spazi bianchi, un intero capitolo è lasciato vuoto, o virtualmente pieno di tutti i possibili interventi.

  Anche là dove, in ambito romantico, il bianco sembrerebbe connotare in funzione puramente simbolica il protagonista romanzesco, di fatto svolge un ruolo metatestuale che tematizza l’operare stesso della scrittura. È il caso di un celebre romanzo di Balzac che già nel titolo ipoteca l’idea del bianco: Le Lys dans la vallée [Il giglio nella valle] (1835). Il giovane Félix incontra, in una vallata in cui la natura è «bella e vergine come una fidanzata», il suo ideale femminile consegnato a una visione in bianco: «Il suo abito di percalle aveva prodotto il punto bianco che avevo scorto fra i vigneti». Le sue parole sono «luce parlata», il suo aspetto «vapore luminoso», il colorito del volto è paragonabile al bianco delle camelie; come afferma lo stesso Félix, la donna di cui è innamorato è il suo «bianco idolo», e per tutta la narrazione apparirà sotto questa immagine, «forma bianca» avvolta nel suo «abito bianco». Anche i fiori del prato che la circondano nelle sue passeggiate sono per lo più bianchi: «ciuffi bianchi», «campanule bianche», «piramidi nevose di gramigna», a creare una «bianca tenerezza». Al bianco corrisponde, secondo l’autore, un’idea al tempo stesso di purezza e di sottomissione, caratteristiche tipiche dell’iniziando, e la stessa protagonista. Madame de Mortsauf, lo spiega nella lettera di congedo a Félix: [...].

  Poiché il romanzo è essenzialmente costituito dalla lettera che Félix scrive alla contessa Natalie de Manerville, che intende esser messa al corrente sul suo passato, e dal momento che oggetto di questa dettagliatissima relazione è l’impossibilità di raggiungere, possedere, la «bianca forma» che gli si rifiuta pur apparendogli destinata, possiamo facilmente leggervi la lotta che impegna in quegli anni Balzac con la pagina bianca, luogo di tutte le sue sublimazioni: «sì, la mia vita è dominata da un fantasma,» dichiara Félix a Natalie «si delinea vagamente alla minima parola che lo evochi, aleggia spesso, spontaneamente, su di me». L’esito fallimentare di questa ricerca è sancito sia dalla conclusione della vicenda, dato che Madame de Mortsauf si sottrae alla passione di Félix lasciandosi morire, e apparendogli però per un’ultima volta «in abito bianco, seduta sul suo divanetto», ribadendo cioè la sua inattingibilità, sia dall’inefficacia della scrittura che non riesce a «sedurre» Natalie de Manerville [...].

  Che questa problematica sia al centro delle preoccupazioni dello scrittore è confermato, oltre che da un’annotazione un po’ singolare nel contesto balzachiano per il tono insolitamente spregiativo, vale a dire che «La donna e la carta sono due cose bianche che accettano di tutto», da un altro testo, estremamente esplicito al riguardo, e dello stesso periodo, tutto incentrato però sulla «virtualità» del bianco e del femminile coniugati alla tematica della sublimazione: Séraphîta (1835). L’ambientazione, in una Norvegia immaginaria, concentrato di freddo, desolazione e solitudine, avvolta nel bianco delle nevi, prefigura già in partenza nell’ampia introduzione descrittiva la tematica narrativa: la purezza del non-essere. In questo universo assediato dal gelo, universo della negazione, non c’è posto per la vita [...]. L’unica condizione di esistenza possibile è quella del «neutro», l’androgino rappresentato da Séraphîtüs/Séraphîta, l’essere perfetto, originario, il solo in grado di reggere con il proprio sguardo la luminosità accecante di quei luoghi [...].

  L’androgino stesso d’altronde è luce, e ritroviamo qui significativamente un’immagine che Balzac utilizza anche nel Lys dans la vallée [...].

  Ancora una volta è l’ossessione del bianco, del foglio bianco a essere sottesa a questo testo che pure intendeva rispondere a una precisa richiesta di Madame Hanska, e che lo obbligava ad avvalersi di tutti i possibili espedienti di sublimazione. La regione, immenso «deserto bianco», appare delimitata da una scrittura geroglifica, per quanto concerne i fiordi: «Non si direbbe che la natura se divertita a disegnare con geroglifici incancellabili il simbolo stesso della vita norvegese?».

  Il Nord rappresenta, come già nell’ironica visione di Rabelais, il deposito dei discorsi, delle idee: «siamo nel Nord, fra le nubi, dove regnano le astrazioni», ma il dialogo con questo universo richiede assai più che doti intellettuali, una particolare dilatazione delle potenzialità dell’anima: «capisci che soltanto l’anima elevata all’ennesima potenza può resistere a fatica, nel sogno, ai divoranti messaggi dello Spirito?». Anche così, però, sarà impossibile impossessarsi veramente delle idee, e quindi sottomettere il bianco, perché l’androgino è inattingibile: «Mai Séraphîta è stata vista nella sua nudità ... è vissuta da vergine», «Séraphîta ha in comune con noi soltanto le sembianze, e la sua sembianza è impenetrabile». Paradossalmente soltanto il divenire androgino, giunto al «luogo» della propria negazione (l’universo polare), consentirebbe di dominare la natura, diventando pura luce, identificandosi con il foglio, sede di tutte le possibili scritture [...]. L’angelo nasce dal bianco, il foglio, solo spazio deputato ad accoglierlo perché omologo. [...].

 

 

  Simona Cesena, “La Grande Bretèche” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea, Relatore: Prof. Maria Bertini; correlatore: Prof. Patrizia Oppici, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia. Corso di laurea in Lingue e letterature straniere moderne, Anno accademico 1997-1998.

 

 

  Pierre Chartier, Balzac teorico, in Teorie del romanzo. Traduzione di Beatrice Stasi, Scandicci, La Nuova Italia Editrice, 1998 («Biblioteca. Letteratura», 21), pp. 135-157.

 

  1. Balzac teorico del romanzo totale.

 

  L’opera e il progetto.

 

  Balzac ha reso conto dei suoi progetti, delle sue idee, delle sue preferenze letterarie meglio della maggior parte dei suoi contemporanei: in maniera più distesa, più precisa. Mentre Stendhal, nel corso delle sue brevi prefazioni, si limita a qualche frase ironica (pudore, prudenza?), destinata soprattutto a proteggerlo da letture politiche e tendenziose, Balzac, nelle sue prefazioni, nelle sue lettere, nei suoi articoli di critica letteraria, mediante le vie traverse di presentazioni o introduzioni suggerite o dettate a degli amici, e per finire soprattutto nella sua Premessa del 1842 alla Commedia umana, affronta sotto molteplici aspetti i problemi del romanzo e della creazione romanzesca: punti di riferimento e modelli, scelta degli argomenti, principi di composizione, trattamento dei personaggi, disposizione d’insieme e progetto generale.

  Ma si tratta di molto più che di mere osservazioni critiche. Balzac supera in genere il livello di una semplice giustificazione puntuale per innalzarsi fino alla preoccupazione teoretica di una vera e propria «poetica del romanzo». Creatore testardo, sempre intento a correggere e rimaneggiare i suoi testi, sempre in ritardo, accumulando l’una sull’altra le sue prodezze di scrittura, Balzac ha d’altra parte una coscienza molto netta della novità del suo tentativo, della sua importanza, e delle sue ripercussioni sulla concezione che del romanzo si aveva a quell’epoca. Certo, se si considerano le sue intenzioni, le sue vedute personali, le sue professioni di fede, non ci si fa che un’idea incompleta dell’apporto del Balzac romanziere, che dovrebbe essere competenza di un altro saggio. Ma per la storia delle teorie del romanzo come per la storia letteraria in genere, Balzac ha svolto un ruolo e ha esercitato un’influenza che nessun romanziere a sarebbe neanche potuto sognare prima di lui. L’opera, il progetto e il successo sono in questo senso indissociabili. [...].

 

  Il romanzo come «commedia umana».

 

  Nell’ottobre 1834, in una lettera indirizzata a Madame Hanska, Balzac, già in possesso dell’idea «geniale» del ritorno dei personaggi, espone il suo sistema in una pagina potentemente sintetica [...].

  Nessun romanziere aveva mai manifestato una simile ambizione di esaustività e di ricreazione. Balzac pretende di creare, tutto da solo, un mondo che entri in rivalità con il mondo reale, pretende di fare opera letteraria, in rivalità con le più alte, e osa esporre la filosofia, i caratteri, i principi di questo mondo-opera! È in questo senso che il romanzo viene definito da lui come il grande genere sintetico moderno, erede dei generi nobili del passato, ma più potente, più preciso e più critico di tutti quanti loro. Questa impresa gigantesca non ha bisogno, per tenersi su, di nessuna polemica con i teorici autoritari, di nessuna giustificazione estetica nei confronti dei vari Aristotele e Boileau del passato come del presente. Balzac ritiene che Scott abbia già assicurato, a quell’epoca, attraverso l’elaborazione del romanzo storico, la congiunzione di stili e generi fino a quel momento separati. A lui, Balzac, spetta il compito, ancora più alto, di unificare i materiali venuti fuori dal suo confronto a quattr’occhi con la Società, non per copiarla, ma per esprimerla, magnificarla, e trasformare in monumento artistico quello che inizialmente non era che un sogno. In questo senso il realismo al quale Balzac fa appello [...] gli permette di effettuare un salto al di là delle poetiche tradizionali, senza la pretesa di saltare al di là dell’arte: il romanzo è il genere che da solo realizza tutti gli altri, cancellandoli. Non si tratta di superare la letteratura, bensì di reinventarla.

  Nella formulazione densa e profetica della lettera a Madame Hanska, il progetto di Balzac appare così in tutta la sua potenza, ma anche con tutte le sue tensioni e le sue contraddizioni. Quali le relazioni tra l’ideale e il reale? È possibile conciliare tipizzazione e rispetto dell’individualità, le minuzie dell’osservazione con la volontà normativa dello spirito? Come immaginare il faccia a faccia tra il creatore solitario e la molteplicità dei fenomeni naturali? E via di questo passo. La proclamazione dell’ottobre 1834 è confermata e resa esplicita dalla Premessa, che riutilizza l’essenziale delle due Introduzioni, quella agli Studi filosofici e quella agli Studi di costume, rispettivamente del dicembre 1834 e dell’aprile 1835: premessa che offre un’immagine non meno ambiziosa ma più sottile e più articolata del programma teorico balzacchiano.

 

  2. «Far concorrenza all’anagrafe».

 

  L’unità di composizione.

 

  All’«inizio», secondo la Premessa, c’è la «fantasticheria», nata dalle preoccupazioni filosofiche di Balzac, dal suo interesse appassionato verso gli «scrittori mistici che si sono occupati delle scienze nelle loro relazioni con l’infinito, come Swedenborg, Saint-Martin ecc., e [verso] gli scritti dei geni più belli nella storia naturale, come Leibniz, Buffon, Charles Bonnet ecc.». Dato che le speculazioni scientifico-filosofiche fungono da cauzione per l’impresa filosofico-letteraria, all’inizio c’è dunque, presa in prestito da questi pensatori, l’idea dell’«unità di composizione». L’unità e la composizione, sarebbe questo il principio fondatore della Commedia umana: unità della Natura, composizione dell’opera, e viceversa. [...].

  Il tema secolare della varietà nelle condizioni s’incontra con le speculazioni sull’unità originale delle specie viventi e sulla loro successiva diversificazione, speculazioni elaborate nel XVIII secolo e proseguite al tempo di Balzac, come testimoniano i celebri dibattiti tra Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire. Con Balzac, il modello delle scienze naturali s’impose alla teoria del romanzo. [...].

  Balzac fa di questa concezione l’altro polo della legge di unità della composizione. In tal modo suggerisce l’idea che la sua summa romanzesca derivi fondamentalmente da idee filosofiche, tanto spiritualistiche quanto deterministiche – ma è tutt’uno, poiché sia le une che le altre postulano, contro il dualismo idealistico, l’unità della sostanza —, che con ogni probabilità provengono più dal secolo precedente che dalle tecniche romanzesche del suo stesso secolo. Analogamente, s’ispira alla «storia di costume» elaborata dall’età del classicismo, ma la vuole ancora più completa, più complessa ed esplicativa, il che gli permette di aprire la strada al significato nuovo, attuale, del termine storia, come pure a un tipo di scrittura romanzesca anch’esso correlativamente nuovo: una scrittura drammatica. Ritroviamo qui la dimensione letteraria, nel punto in cui storia e romanzo inaugurano il loro destino comune nel XIX secolo. All’interno di uno spazio di riferimento sistematico (unità della Società), la diversità non aleatoria dei personaggi esige un trattamento più vicino da un lato alla scrittura teatrale, dall’altro al procedimento scientifico: una modalità di narrazione più sintetica, più dinamica, più concertata. Il realismo balzacchiano viene a costituirsi grazie alla combinazione di caratteri disgiunti prima del suo avvento, e di stili praticati, fino ad allora, in modo autonomo e separato. La prima idea, la «fantasticheria» iniziale, rende possibile una rappresentazione letteraria che travalica l’unilateralità delle narrazioni precedenti, e conferisce loro un’ambizione filosofica del tutto nuova [...].

 

  Un’impresa «filosofica».

 

  Balzac ha sicuramente dei motivi personali per congiungere i «principi» alle «cause» e agli «effetti»; integra infatti una delle idee-forza che lo animavano prima della rivelazione del suo progetto definitivo: «Il pensiero – o la passione, che comprende pensiero e sentimento – se è l’elemento costitutivo della società, ne è anche l’elemento distruttore. In questo la vita della società somiglia alla vita dell’uomo». Attribuendo al cattolicesimo e alla monarchia la capacità di «moderare l’azione vitale» (dell’individuo contro se stesso) e, a livello sociale, quella di «presentare un sistema completo di repressione dei vizi» dell’uomo civilizzato, Balzac riprende rovesciandola la grande verità intima che ha sperimentato, in maniera straziante, nel dolore, fino all’esaurimento e alla morte: il pensiero uccide la vita. Si ritrovano i termini dello studio di Chasles del 1831, ispirati dallo stesso Balzac e ripresi all’interno della Prefazione a La pelle di zigrino: «Nella misura in cui si civilizza, l’uomo si suicida». L’intelligenza umana, affinandosi, porta il disordine e la devastazione nell’essere individuale come nell’essere sociale. Il volere distrugge, il creare uccide. Questo tema così tipicamente balzacchiano non vale certo per il romanzo del suo tempo in genere. Ma, come motore della teoria che Balzac mette a punto, e come esempio della sovradeterminazione balzacchiana (i suoi progetti successivi non si contraddicono giacché, sovrapponendosi, si allargano e si approfondiscono in continuazione), permette di comprendere meglio il legame che viene intrecciato fra la composizione drammatica, l’ambizione scientifica, la prospettiva storica e la preoccupazione filosofico-politica di Balzac

 

  3. Il dettaglio e l’insieme.

 

  L’ideale cattolico e il realismo del dettaglio.

 

  Che in seguito, nella Premessa, Balzac debba difendersi contro l’accusa d’immoralità, lui che non aveva intavolato fino a quel punto alcuna discussione estetica, è cosa che può apparire derisoria, o vagamente ridicola. In realtà nel 1842 un romanziere doveva ancora prendere le sue precauzioni contro le minacce dell’ordine morale. Balzac evoca, a sua difesa, tutte quelle figure adornate delle più alte virtù cristiane che, a suo parere, sono così numerose nella sua opera e rese per giunta «vere» dai dettagli che compongono i loro ritratti. Felice Santa Alleanza tra cattolicesimo e realismo! La religione cattolica, alla quale s’ispira - spiega Balzac – denuncia e descrive il peccato, lo reprime, lo combatte e, se lo ritiene giusto, l’assolve! Meraviglioso viatico, tanto più efficace in quanto lascia il romanzo alla forza nuda dei suoi verbali! E rappresenta, questa religione, un sistema al di là della letteratura romanzesca, una specie di doppio che la protegge da se stessa e dai suoi detrattori, che l'abbellisce e la santifica senza men che meno intaccarla. Il cattolicesimo, con Balzac, diventa l’egida del romanzo!

  L’altro sistema di difesa e giustificazione, non più trascendente ma immanente al testo di Balzac, è dunque costituito dal ricorso ai «fatti costanti» tratti dalla vita quotidiana. La Premessa è meno eloquente su questo punto dell’Introduzione di Félix Davin-Honoré de Balzac agli Studi di costume (aprile 1835). Il fatto è che la sua prospettiva è diversa, senza dubbio più familiare ai lettori della Commedia umana. Lungi dal collegare in modo articolato l’apologia del realismo a delle rivendicazioni di moralità e al suo impegno d’idealizzazione, l’Introduzione insiste sulla «rivoluzione» romanzesca compiuta da Balzac. In accordo con le intense parole di Baudelaire («Più volte mi ha stupito il fatto che la grande gloria di Balzac sia stata quella di passare per un osservatore; mi è sempre parso che il suo merito principale fosse d’essere un visionario, e un visionario appassionato»), il suo autore afferma: «È qui il grande segreto di Honoré de Balzac: non c’è niente che sia piccolo sotto la sua penna, egli eleva, drammatizza le più umili banalità di un argomento». Il che equivale a dire che il realismo del particolare minuzioso, elevato al rango di sistema ed esaltato nell’Introduzione agli Studi di costume, non è, in verità, associato in modo fondamentale all’idealizzazione (moralizzante) dei caratteri; che è, con ogni probabilità, aiutato globalmente (e soggettivamente) dalle alte speculazioni della mistica cristiana, alleate alla scienza di un Lavater e di un Gall; ma, soprattutto, che porta dentro di sé una sua personale capacità di superamento e di grandezza. La prosecuzione dell’Introduzione permette di definire meglio questo carattere essenziale. Quello che commuove di primo acchito il lettore e che crea la magia del testo balzacchiano è, ci viene detto, la sistemazione, la disposizione, l’organizzazione delle piccole osservazioni, poiché sono queste a introdurre il dramma e a mettere in moto l’azione [...].

 

  Forze centrifughe, forze centripete.

 

  [...]. Se la passione anima il mondo sociale, questo altro mondo che è l’opera è animato dalla grande passione speculare della totalità concentrata e concertata: immagine rovesciata, ottimista, dell’energetica balzacchiana. del tragico restringimento della pelle di zigrino. Se la dissipazione centrifuga delle forze vitali riduce disperatamente fino ad annientarlo il capitale energetico di Balzac-Raffaello, la concentrazione centripeta dell’opera, e, all’interno dell’opera, di ciascuna serie, di ciascun capitolo (romanzo), di ciascun motivo, di ciascun dettaglio, assicura la loro sopravvivenza perfetta, mitica, e salva il romanziere, non dall’immoralità, questo è certo, e ancor meno dalla volgarità realistica, ma dalla morte. Il dibattito aperto dai censori investe una questione fondamentale, ma impostata male. La risposta è altrove, spostata da Balzac. Quello che conta, non è l’essere o no al servizio della virtù, ma al servizio della forza di vivere, della virtù romanzesca creatrice di un mondo, di un suo senso e di una sua dinamica. [...].

 

  4. La teoria del «tipo».

 

  Apologia del «tipo».

 

  [...]. Balzac è il primo a presentare la teoria completa del tipo, e le sue conseguenze. Questa «moltitudine di esistenze» esige delle «comici», delle «gallerie»: da qui l’architettura complessa della Commedia umana, già esposta fin dal 1834 e spiegata nella Premessa. Nel collegamento articolato dell’osservazione con la speculazione, i tipi non riguardano dunque soltanto la statica dei personaggi, ma la dinamica complessiva dell’opera, «non soltanto gli uomini, ma anche gli avvenimenti principali della vita». [...]. I tipi balzacchiani acquistano dunque il loro significato nel momento in cui entrano in azione, in una determinata società, durante una fase storica datata, circostanziata, un conflitto o un dramma umano intensamente significativi. A coloro che lo tacciano di esagerazione, Balzac replica che le menzogne, se ce ne sono, sono al tempo stesso inevitabili e ben riuscite, sono un’idealizzazione, morale ed estetica, una «protesta eloquente contro il rimprovero d’immoralità indirizzato all’autore» [...].

 

  Funzione romanzesca del tipo.

 

  [...]. Se dunque questo mondo è reso leggibile grazie al mezzo del personaggio tipico, indissociabile da una «fase tipica», con ogni probabilità è perché mira a svelare più che un paesaggio, più che uno stato, più che un’«anatomia», la verità del funzionamento del sistema sociale in generale come del comportamento delle «specie», delle classi, dei sottogruppi e degli individui particolari, poiché ha come funzione quella di rivelare – di là dalle situazioni e dalle circostanze, di là dagli scontri e dalle crisi che sono l’ordinaria amministrazione del mondo sociale, dei meccanismi, delle concatenazioni – una «fisiologia»; in breve, perché viene presentato come una struttura vivente, complessa e contraddittoria, ma niente affatto irrazionale: suscettibile invece di decifrazione. Il tipo produce significato, in quanto riassume, riflette e realizza il significato. In lui si articolano, come abbiamo visto, le «unità di composizione» disposte gerarchicamente, dalla più bassa alla più alta, ma si annodano anche «orizzontalmente» i dati drammatici dell’opera e le idee filosofiche dell’autore, fi sotto questo aspetto che il tipo, punto nodale della creazione romanzesca, è anche un punto centrale della teoria balzacchiana del romanzo.

Incaricato di garantire la coesione del progetto d’insieme, il tipo deve, attraverso la sua forza di seduzione, assicurarsi l’assenso del lettore. La sua virtù eminentemente rappresentativa ne fa il garante del verosimile: non soltanto è recepito come vero dal pubblico, non soltanto risponde alle sue attese, ma è anche considerato come rappresentativo (e spiegabile) dal romanziere. Più precisamente, Balzac pretende di rappresentare da sé, con la propria capacità d’osservazione e di divinazione fuori dal comune, la coscienza comune, storicamente nuova, della società postrivoluzionaria. [...].

 

  5. Modello o limite?

 

  Per questa strada si giunge a una conferma e a un paradosso. La conferma è quella dell’estrema lucidità teorica di Balzac, dell’accordo tra quanto si è proposto di realizzare e quanto ha realmente fatto: allargamento del romanzo, approfondimento del realismo, del verosimile romanzesco ancorato nella storia del presente. Di tutto ciò Balzac è consapevole, così come del prezzo personale da pagare, una fatica accanita e continua in cui esaurisce le sue forze. Se è ben lontano dall’essere il solo ad aver intrapreso questa strada, è lui quello che si è spinto più avanti, sino all’eccesso, e che ne ha avuto la visione più chiara. Tra questo «eccesso» e questa lucidità teorica non c’è contraddizione, non è a dispetto della sua dismisura, accettata e rivendicata, che Balzac ha rivoluzionato il romanzo, ma è con ogni evidenza a causa e in virtù di quella dismisura. [...].

 

 

  Seymour Chatman, Commento sulla storia: interpretazioni, in Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nei film. Traduzione di Elisabetta Graziosi, Milano, Pratiche Editrice, 1998 («Nuovi Saggi»), pp. 260-264.

 

 

  Pietro Citati, Angeli ed Eros nell’Io segreto di Henry James, «la Repubblica», Roma, 22 marzo 1998, pp. 34-35.

 

  Con l’arte di Balzac, James dipinge i mobili di zia Maud: «massicci e ridondanti», e le «enormi, pesanti suppellettili»: con la differenza che questi mobili non sono veramente oggetti, ma escrescenze mostruose dell’anima.

 

 

  Ernst Robert Curtius, Balzac. La memorabile biografia di un autore che mise in palcoscenico un’epoca. Traduzione di Vincenzo Loriga, Milano, Bompiani, 1998 («Saggi tascabili», 105), pp. 391.

 

  Viene riproposto all’attenzione del pubblico italiano il fondamentale studio su Balzac di E. R. Curtius dopo quasi trent’anni dalla sua prima uscita nella collana “Saggi di Arte e di Letteratura” del Saggiatore (la prima edizione dell’opera risale al 1923). Crediamo legittimo esprimere una certa perplessità per quel che riguarda la scelta del sottotitolo che oscura e travisa il valore esegetico (e per nulla biografico) di questa fondamentale opera del critico tedesco.

 

 

  Antonio Debenedetti, Robbe-Grillet. Ho ucciso Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 17 agosto 1998, p. 25.

 

  «Sapevo che il realismo ottocentesco, quello appunto di Balzac o di Dickens, non corrispondeva affatto a quanto stava accadendoci. Bisognava quindi scrivere la letteratura della seconda metà del secolo».

 

 

  Antonio Debenedetti, “La battaglia”, quando un romanzo sembra un film, «Corriere della Sera», Milano, 31 dicembre 1998, p. 33.

 

  Sono i giorni che preparano Essling, una delle battaglie napoleoniche meno note ma più’ cruente. Secondo Patrick Rambaud, autore di questo romanzo che ha vinto il Prix Goncourt 1997, i morti sarebbero stati ben quarantamila, “ventiseimila austriaci e sedicimila francesi”. Oltre fonti ridimensionano (si fa per dire) la carneficina. Ma come andarono le cose in quei tragici giorni, del maggio 1809 [...]? Se lo chiese, a suo tempo, Honoré de Balzac, che voleva dedicare un libro a Essling. E proprio la domanda dell’autore della “Commedia umana” ha fatto da lievito al romanzo di Rambaud, che sposa al documento l’aneddotica e il gusto del ritratto.

 

 

  Andrea Del Lungo, Lettres, hiéroglyphes, arabesques, in Groupe International de Recherches Balzaciennes, Balzac ou la tentation de l’impossible. Études présentées et réunies par Robert Mahieu et Franc Schuerewegen, Paris, SEDES, 1998 («Collection du Bicentenaire»), pp. 171-188.

 

  L’A. rivela, in molti incipit balzachiani, «une sorte d’exhibitionnisme de l’écriture», il cui interesse riguarda non soltanto il rapporto tra queste iscrizioni e la scrittura, ma anche «l’effet de dédoublement qu’elles comportent, puisqu’elles se concentrent au début du texte, se situant souvent en position emblématique» (p. 79).

 

 

  Elena Del Panta, Balzac: effetti di “cristallisation”, «Rivista di letterature moderne e comparate», Firenze, nuova serie, Vol. LI, Fasc. 2, aprile-giugno 1998, pp. 171-188.

 

  Il filo conduttore che lega i tre racconti balzachiani esaminati in questo saggio: Adieu, Sarrasine e Une passion dans le désert, opere pubblicate a pochi mesi di distanza nel corso del 1830, risiede, secondo Del Panta, nella significativa ambiguità dei caratteri e delle situazioni messe in scena da Balzac e nell’esaltazione di una diversità radicale, fisica e psicologica dei protagonisti che, in contrasto con una norma, illustra «l’impossibile coincidenza tra il desiderio ed un oggetto che gli è improprio» (p. 171). La perversa e luttuosa illusione di femminilità di Sarrasine, l’affascinante e sensuale parabola femminea della pantera Mignonne e l’impossibile armonia tra anima e corpo presente in Stéphanie de Vandières sono gli esempi di un sistema di duplicità e di antinomie non risolte, di un mosaico di cristallisations, grazie al quale Balzac offre al lettore singolari prospettive narrative legate al tema del desiderio per il diverso (bête o femme) e all’analisi delle trasgressioni e delle patologie riconosciute a drammaticamente illustrate in questo sue novelle.

 

 

  Claudia Del Piero, Papà Goriot, per dirla con poco, «Ex-libris», N. 12, 1998, pp. 4-5.

 

 

  Larisa Dryanski, Angoli segreti della metropoli, in Parigi, «Condé Nast Traveller», dicembre 1998, pp. 199-208.

 

 

  Laurence Durrell, Un sorriso nell’occhio della mente, traduzione di Maurizio Bartocci, Roma, Fazi Editore, 1998.

 

  pp. 76-77. Apparve il lago, come se venisse presentato sul palmo della mano di un prestigiatore invisibile, e su di esso l’isola sacra con il suo monastero e gli alti alberi, tutto come un giocattolo, così calmo, così piccolo e ben proporzionato. Le verdi sponde del lago erano di un verde irlandese. Quanto a Orta, Balzac una volta lo descrisse con una similitudine per me sospetta, come se nel complesso troppo fiorita, «una perla in uno scrigno verde» ... Ma era proprio il contrario. Non era affatto fiorito. Era increspato da quella strana opalescenza della luce e dai traslucidi cambiamenti di colore sulle montagne, che cullavano e incorniciavano l’isola. Questa sensazione vaga e indistinta rendeva tutto ora nitido ora sfocato e conferiva un senso di irrealtà, o iridescenza, all’intero paesaggio acquatico. Inoltre tutto è doppio perché quando l’acqua è calma, le montagne ci si riflettono e non si capisce da quale parte, se in alto o in basso, ci si ritrovi. A volte si ha la sensazione di camminare sul cielo. No, l’immagine di Balzac era molto esatta, e non poteva essere migliorata.

 

 

  Stefano Ferrari, Psicologia dell’artista. Il ritratto rubato: gli esempi di Melville e Balzac, in La psicologia del ritratto nell’arte e nella letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1990 («Biblioteca di Cultura Moderna», 1137), pp. 64-66.

 

  [...]. Un’altra variante di questa relazione tra artista e modello completamente sbilanciata da una sola parte si ha quando il pittore, in preda per lo più a un forte turbamento emotivo, dipinge ossessivamente una certa persona, senza che questa ne sia al corrente o addirittura senza che ci sia tra di loro una vera conoscenza. Qui si va ben oltre a un semplice furto di immagine, come nella situazione precedente, in cui si poteva comunque contare su di una precisa relazione tra pittore e modello. Qual è in questi casi lo scopo del ritratto? A prescindere da una funzione meramente ‘magico-propiziatoria’, che ricorda gli esempi di certa arte primitiva, in cui disegnare l’oggetto sembrava un modo per catturarlo o quanto meno per renderlo innocuo, sono le dinamiche di tipo affettivo che sembrano avere un ruolo decisivo e che si intrecciano con le valenze antiche della magia dell’immagine. Fare il ritratto all’insaputa del modello può essere senz’altro anche un gesto profondamente aggressivo, ma è più spesso un gesto d’amore.

  Si pensi al caso di Sarrasine di Balzac, quando l’artista, tornato a casa dal teatro in cui ha visto per la prima volta Zambinella, una creatura bellissima, di cui si è immediatamente innamorato, credendola una donna, comincia a disegnarla in tutte le pose [...].

  A questo proposito sono davvero esemplari le pagine dedicate al sorgere repentino di questa passione, là nel teatro, di fronte allo spettacolo della voce e del corpo di Zambinella, che immerge Sarrasine in una vera propria estasi dei sensi. Come dire che la componente erotica o decisamente sessuale dell’arte è presente sia a livello di fruizione che di riproduzione.

  Resta il fatto che il pittore, anche e soprattutto in questi casi in cui cerca di ‘rubare’ il ritratto di una determinata persona, evidentemente deve aver visto in essa qualcosa che lo riguarda da vicino e nel profondo e che innesca le ben note dinamiche identificatorie.

 

 

  Le seduzioni dell’arte. Pittura, ritratto e sessualità nella letteratura, Ibid., pp. 78-89.

 

  [...]. Abbiamo citato prima Sarrasine di Balzac, ma utili spunti possiamo scoprire anche in un’altra sua opera che riguarda la pittura: mi riferisco naturalmente al Capolavoro sconosciuto, dove i riferimenti alla sessualità, seppure iscritti in un contesto certamente più idealizzato e comprensivo, sono comunque numerosi: a cominciare da una sorta di contrapposizione tra amor sacro e amor profano che si concretizza nel motivo, a sua volta ricorrente, di una vera e propria rivalità tra l’amore reale per la donna e quello solo apparentemente ideale per l’arte. Di questa sterile contrapposizione farà le spese la giovane Gillette, il cui amore vero di donna innamorata viene inutilmente sacrificato a un impossibile ideale artistico. Ma è nell’ultima parte del racconto, nel delirio di onnipotenza e di scoraggiamento di Frenhofer, che si vede come l’ideale e il segreto dell’arte coincida in fondo con la sua stessa negazione: l’opera, nelle intenzioni di questo artista, deve diventare la vita, deve possederne la concretezza e il calore. E dal momento che l’oggetto del quadro a cui sta lavorando da dicci anni è una donna, la sua immagine assume ai suoi occhi una oggettività inquietante: «A volte ho quasi paura che un alito lieve svegli quella donna, e che ella scompaia». Per Frenhofer la sua opera è infatti la sua «creatura», la sua «sposa». Per questo anche lui la tiene nascosta e non la vuole mostrare a nessuno [...].

  Dati questi presupposti, diventa inevitabile lo scacco dell’artista: una concezione dell’arte così perfetta, così viva e potente, senza volersi abbassare al livello di una mera riproduzione mimetica e, per così dire, fotografica del reale, non poteva che tradursi nella sua negazione, in quell’affollato silenzio dell’immagine che si spalanca davanti agli occhi sconcertati dei suoi due ammiratori, che al posto del ritratto vedono solo «un ammasso confuso di colori delimitati da una quantità di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura». È questo infatti tutto ciò che rimane di un’opera che certamente doveva avvicinarsi alla perfezione e che l’ossessiva elaborazione di Frenhofer, pennellata dopo pennellata, ha finito per occultare e cancellare quasi totalmente. Ed ecco che di quel ritratto, di quella donna, così intensamente e così concretamente amata dall’artista, che le ha dato perfino un nome, Catherine Lescault, rimane ora, nell’angolo del quadro, soltanto un piccolo particolare, sopravvissuto alla lenta furia maniacale del maestro [...].

  In quel piccolo particolare si è come assorbita e concentrata tutta la sensualità dell’opera, e l’amore del pittore per la sua creatura si è, in un certo senso, metonimizzato per mezzo di questo spostamento, reso attraverso una così straordinaria evidenza feticistica.

 

 

  Innamorarsi di un ritratto. Riferimenti a Jensen, Proust, Balzac, Ibid., pp. 186-189.

 

  [...]. Comunque possiamo considerare come complementari, da un lato, il caso descritto da Proust di chi si innamora di una donna reale nella misura in cui essa viene identificata a un ritratto; e dall’altro, il caso di chi guarda al ritratto immaginando la donna o l’uomo reale che hanno effettivamente posato per quel quadro. È quanto avviene in Sarrasine di Balzac dove la signora che si accompagna al narratore all’inizio della storia, ammira con tanto vivo interesse l’Adone nudo dipinto nel quadro da suscitare la sua immediata gelosia (è poi solo un’ironia dell’arte di Balzac il fatto che quel modello fosse in realtà una donna e anzi in prima istanza un castrato) [...].

 

 

  Henri Focillon, Visionari. Balzac e Daumier, in Estetica dei visionari e altri scritti, a cura di Marco Biraghi, Bologna, Edizioni Pendragon, 1998 («Le Sfere»), pp. 23-37.

 

  Pubblicato nel 1940, questo studio di Henri Focillon contiene alcune riflessioni sulla Comédie humaine di Balzac, considerata nelle sue intime affinità con i risvolti visionari dell'opera di Honoré Daumier. Se «i grandi artisti non sono dei begli accidenti distribuiti nel tempo in modo casuale», ma rappresentano piuttosto «i messaggeri di un’umanità eroica che trova in loro una voce, un’autorità, dei modi d’agire» (p. 23), Balzac, come Daumier, è lontano dall’essere uno scrittore realista o un documentatore: riversando nella Comédie humaine «gli esseri che lo ossessionavano e che si agitavano silenziosamente dentro di lui» (p. 33), egli ha scelto come oggetto di studio l’uomo, trasfigurandolo però in un «monumento del pensiero e dell’arte visionaria» (p. 29) che è la sua immensa produzione narrativa.

 

 

  Théophile Gautier, Honoré de Balzac, in Honoré de Balzac, I segreti della principessa ... cit., pp. 119-148.

 

  Il testo qui riprodotto comprende le parti I, III e V del saggio intitolato: Honoré de Balzac, sa vie et ses oeuvres, pubblicato a Bruxelles nel 1858. La traduzione è di Donata Feroldi.

 

 

  Francesco Ghelli, Il diabolico padre del racconto. Vautrin e il ‘Bildungsroman’ balzachiano, «Inchiesta – letteratura», Bari, n. 122, ottobre-dicembre 1998, pp. 25-29.

 

  A detta di Peter Brooks, il quale parte proprio da un’eloquente diagnosi di Lucien de Rubempré alle soglie del suicidio, la narrativa balzachiana, intenta a rappresentare rovinose storie di ambizione e scalata sociale, con conseguente educazione alle leggi inconfessabili di una società spietata, prenderebbe le mosse dal caos di una “Francia [...] malata a causa del padre, sofferente di una generica afflizione dovuta alla mancanza di paternità: una malattia che per il reazionario e monarchico Balzac si lega senza dubbio all’uccisione del solo vero padre legittimo, il regicidio del 1793”. Se il re padre è morto, tutto è possibile, i sudditi orfani si ritrovano su un terreno franco, dove disputarsi ricchezza, favori femminili e gloria mondana senza più alcuna autorità inibitrice. Al vuoto di autorità corrisponde una straordinaria e distruttiva vitalità, un meccanismo entropico nel quale sperpero di capitali e consumo di energie umane vanno di pari passo. E il monarchico Balzac alimenta le sue trame non con la nostalgia della società organica, ma con la vitalità demoniaca del mondo moderno, ciò che fa della Francia e di Parigi in particolare un ideale terreno romanzesco.

  Durante la restaurazione, la tematica da romanzo familiare della ricerca del padre ideale si presta, come afferma ancora Brooks a proposito di Stendhal, a rappresentare tutte le questioni di legittimità e usurpazione. Trovare il padre equivarrebbe a sanzionare legittimamente il percorso erratico, irregolare, romanzesco della scalata sociale e della Bildung. Naturalmente questa risoluzione rimane, tanto in Balzac che in Stendhal, un mero ideale. Dal romanzo del caos postrivoluzionario non emerge una nuova legittimazione. Julien Sorel, per esempio, cerca, nelle varie figure paterne alle quali si lega, altrettanti tutori in grado di inserirlo in modo definitivo e incontestabile nell’alta società e di strapparlo allo squallore popolano del suo padre naturale; tuttavia nessuno di loro, neanche l’ironico, paterno narratore, può dirsi pienamente all’altezza del ruolo. [...].

  In Balzac, a differenza che in Stendhal, l’esito legittimante e acquiescente del romanzo familiare è vanificato non dall’esuberanza edipica dei “figli”, bensì dall’intraprendenza tendenzialmente fuorilegge dei “padri”, veri protagonisti latenti della sua narrativa. L’eroe giovane balzachiano infatti non è portatore di valori propri e trasgressivi come Julien Sorel; è invece un individuo prodigiosamente ambizioso, ma già perfettamente socializzato, un essere duttile, non troppo legato alle sue convinzioni politiche e morali, che prospera nell’humus parigino raccogliendo obbediente le lezioni di esperti iniziatori. Lucien Chardon de Rubempré è l’esempio migliore di quest’eroe totalmente eterodiretto della Bildung balzachiana. Egli per esempio è molto rapido a sbarazzarsi di quel radicalismo giovanile che era stato il segreto ostacolo della scalata sociale di Julien Sorel. Appena viene ammesso in un salotto nobiliare, le sue convinzioni sono pronte a cambiare [...].

  Per quanto, lungo tutto il corso di Illusioni perdute, Lucien si definisca e sia definito poeta, egli non è tanto un “genio”, bensì un “talento”, ossia un giovane bello e elegante, capace di brillare per un’effimera stagione di successo, non di lasciare opere durature. Perfino le sue recensioni giornalistiche, le sue prestazioni letterarie di maggior successo, sono in realtà esercitazioni retoriche su un canovaccio di idee suggeritegli dai colleghi più esperti. Lucien stesso, alla fine di Illusioni perdute, sembra cosciente della sua natura esclusivamente sociale e determinata, si definisce infatti uno zero [...]. Questa consapevolezza è forse l’unica stabile acquisizione della Bildung balzachiana. Lucien così è l’assoluto opposto del poeta romantico che pensava di essere agli inizi della sua avventura, con la sua identità forte, autarchica, capace di sfidare l’esclusione e l’insuccesso. Egli non è mai in sé e per sé, solo giudice di se stesso, è invece un essere sociale, un’identità foggiata dal giudizio altrui.

  Lucien è stato chiamato in causa dalla critica come esemplare “bastardo” balzachiano, ossia come l’eroe da romanzo familiare che, rinnegando il padre naturale, compie una scalata sociale basata sulla continua menzogna. E in effetti per Lucien, come del resto era accaduto a Sorel, ogni menzione del suo umile padre, il defunto farmacista Chardon, è un vero e proprio insulto. Inoltre l’alternanza di cognomi, il nobile, materno e “usurpato” de Rubempré e il plebeo Chardon, spunto fra l’altro di giochi di parole infamanti, è una sorta di termometro, per tutta la durata di Illusioni perdute, del successo o del fallimento sociale del protagonista. Tuttavia occorre ricordare che anche l’atto decisivo e trasgressivo che fa di Lucien un vero eroe da romanzo, il reiterato rinnegamento del padre, è in realtà tutt’altro che autonomo, dettato com’è dalla sua prima iniziatrice sociale, M.me de Bargeton. È lei, nobile quarantenne di provincia, nutrita da troppe letture di romantici, a formulare nel romanzo le idee più sovversive contro la famiglia, riservandole però, secondo il cliché, al solo genio [...]. Il paradosso è che un tale discorso in nome dell’autodeterminazione, che inaugura la “corruzione” del protagonista, si sposa al legittimismo più convinto (secondo M.me de Bargeton il re dovrà sanzionare con un decreto il cambiamento di cognome di Lucien) e ha come risultato l’infatuazione di Lucien per la matura protettrice. Questo episodio inaugura una situazione ricorrente. Nei due romanzi a lui dedicati, infatti, Lucien più che emanciparsi da uno spazio del paterno, passa continua- mente da un tutorato all’altro e il suo dramma risiede principalmente in una scelta di cattivi padri e maestri, non in un progetto contrastato e fallito di autonomia. Lucien tradirà infatti i “padri” buoni, il cognato Séchard e l’austero scrittore D’Arthez, che lo invitano al sacrificio e al lavoro, ossia ai tempi lenti di un’ascesa sociale onesta, preferendo i successi lampo promessi dal demi-monde di giornalisti e attrici o dai maneggi di infide e oziose nobildonne.

  Questa peculiare dinamica del romanzo familiare balzachiano raggiunge il culmine allorché Lucien passa sotto la tenebrosa protezione dell’ex forzato Vautrin. Egli stesso, dopo aver ammesso di essere un mero zero, aveva profetizzato di poter acquistare valore solo grazie a “un matrimonio con una volontà forte e spietata”. Il caso ha messo sulla strada di Lucien, quand’egli era ormai deciso a suicidarsi, proprio una tale volontà. Con Vautrin, Lucien inizia così una nuova “esistenza terribile”, una “vita gigantesca”, al di sopra delle sue forze, come la definirà nel tragico epilogo in carcere. Egli diviene un ideale personaggio da romanzo, in grado di rigenerarsi continuamente, ripresentandosi più elegante che mai sulla scena parigina, rimandando la curiosità del lettore a quella sorta di sequel costituito da Splendori e miserie delle cortigiane. Un concittadino del poeta così commenta, con rivelatrice ironia meta-narrativa, la sorprendente rinascita di Lucien: “Non è un poeta quel ragazzo, è un romanzo a puntate”. Ma il prezzo di questa esistenza intensificata, con la narrazione balzachiana che si volge dal realismo documentato di Illusioni perdute al melodramma quasi di appendice di Splendori e miserie, è una dipendenza filiale di Lucien ormai totale [...].  

  Con la sua sottomissione spirituale e carnale a Vautrin, Lucien compie quel definitivo rinnegamento del padre naturale, che con le sue sole forze, al di là delle trasgressioni sperimentate nel corso di Illusioni perdute, non aveva mai portato a termine. Ciò era apparso in modo evidente al momento del ritorno di Lucien al paese natale dopo i rovesci parigini. Giunto di fronte a due contadini, lontano ormai dalla metropoli corruttrice, egli si era presentato candidamente, mettendo da parte, insieme all’ambizione, anche la puntigliosa negazione della sua paternità naturale [...]. In pratica dopo tanti sforzi egli aveva implicitamente ammesso di essere sempre e soltanto il figlio di un farmacista di provincia; solo Vautrin riuscirà a cambiare il suo status. Il forzato che fin dall’inizio dell’incontro si rivolge a Lucien con un pregnante, sempre più affettuoso “figliolo”, proclama infine: “Figlio mio, poiché vi adotto e farò di voi il mio erede”. All’inizio di Splendori e miserie, Lucien ha ormai definitivamente sepolto lo scomodo Chardon (Vautrin sotto il travestimento del potente canonico spagnolo Carlos Herrera ha ottenuto per lui il titolo nobiliare e il cognome de Rubempré) e di fronte ai nemici di un tempo sfoggia un’in-segna araldica che è una cifrata allusione al nuovo padre e protettore: un toro rampante in un prato (Vautrin era stato nominato in Papà Goriot il “toro” della pensione Vauquer; il “prato” è nel gergo dei forzati la prigione). Vautrin è così un padre che, lungi dall’incarnare autorità e legittimità, propugna e favorisce l’usurpazione c cospira per una sotterranea rivolta. È il totale capovolgimento della facile equazione romanzesca che dovrebbe tradurre l’opposizione fra padri e figli in quella fra legge e desiderio, ordine e trasgressione, traduzione quanto mai inopportuna nella narrativa di Balzac.

  Vautrin infatti fa piazza pulita dei deboli, residui impedimenti morali di Lucien, con una particolare pedagogia che ha il suo punto forte in una sistematica, implacabile radiografia della società francese postrivoluzionaria. Egli si presenta come il fuorilegge di un’intera società fuorilegge. Questa è l’iniziale pars destruens delle lezioni di “diritto parigino” con le quali blandisce Rastignac prima e Lucien poi, senza successo il primo, vittoriosamente il secondo [...]. Vautrin svolge perciò la funzione paterna di educatore, trasmettendo essenziali ed empie massime di saggezza parigina, e, nei confronti di Lucien che incontra ormai privo di speranze e di difese, attua una sorta di totale ricondiziona-mento morale [...]. Tuttavia egli trasgredisce sistematicamente il confine fra dire e fare, insegnare e agire, manipolando il figlio adottivo e mettendo direttamente in pratica i suoi stratagemmi. Non è quindi assolutamente condivisibile la tesi di Moretti, secondo la quale Vautrin è più un “commentatore” del racconto, che un “produttore” di racconto. Al contrario, le regole strategiche di Vautrin danno impulso alla trama. Per esempio un enunciato come “nascondete il lato oscuro della vostra vita e mostrate quello più brillante”, non è una semplice denuncia del fatto che “i grandi commettono altrettante nefandezze dei miserabili, con la sola differenza che le compiono nell’ombra mentre sfoggiano le loro virtù”. Esso è anche un precetto che Vautrin suggerisce a Lucien per correggere il suo precedente errore di aver vissuto pubblicamente con una attrice dai facili costumi come Coralie, pregiudicandosi un matrimonio altolocato. Tale precetto, anziché restare lettera morta, viene funzionalizzato narrativamente nella prima parte di Splendori e miserie, allorché Vautrin si adopera, con astuzia e trasformismo, affinché la nuova, infamante relazione di Lucien con la cortigiana Esther resti segreta.

  L’aspetto manipolatore e demiurgico è del resto uno dei tratti più significativi del personaggio, un tratto che fa della relazione Vautrin-Lucien non solo una delle più riuscite esemplificazioni del patto diabolico, frequente nella narrativa ottocentesca, ma anche una continua allusione al rapporto fra autore e eroe. Vautrin del resto si connota, fin dalla sua prima comparsa nella pensione Vauquer, come un equivalente, interno al mondo romanzesco, dell’autore, un autore che rifiutando l’impassibilità del narratore onnisciente ed extradiegetico gioca, assaporando l’ebbrezza del potere assoluto, con persone e azioni reali [...].

  La sudditanza filiale di Lucien appare così come la perfetta messa in opera del programma enunciato in Papà Goriot. Il potere totale del padre sul figlio, specchio di quello dell’autore sul suo personaggio, prende a prestito ogni sorta di esempi di subordinazione: militari, familiari, metafisici [...]. In cambio di questo possesso totale (che ha come contenuto latente il possesso fisico, omosessuale di Lucien) Vautrin promette di assecondare totalmente l’ambizione del figlio, di garantirgli il successo e ogni sorta di piaceri. Egli sarà il padre che nell’ombra si sacrifica, il produttore che si affatica di nascosto, Lucien il figlio di successo, il consumatore raffinato e insaziabile [...].

  Ma a compensare questa asimmetria di ruoli subentra il tema dell’identificazione quasi soprannaturale del padre con il figlio, una vera e propria vita per procura (simile all’identificazione romanzesca). Vautrin passa così dal crudo linguaggio del possesso: egli ha Lucien, Lucien è una sua creatura, a quello del sacrificio e dell’espropriazione: a lui il fango, a Lucien la gloria; per approdare infine a una sublime conciliazione: egli è Lucien, rivive in lui [...].

  Se in Vautrin troviamo una paternità contro natura, diabolica, sterile, adottiva, demiurgica, costantemente intrusiva, in Goriot siamo invece sul versante di una paternità naturale, pressoché divina, feconda, ma rovinosa nell’incapacità di intervenire nella realtà per guidare le figlie. Nel suo monologo finale in punto di morte, prima dell’incoscienza di nuovo illusoria e consolatoria nell’attimo supremo, Goriot prende atto del suo fallimento. La sua paternità era fondata sulla base fragile del denaro [...].

  Il testo quindi sembra smentire l’apparente opposizione manichea Vautrin-Goriot, al di là del demonismo dell’uno e della santità dell’altro. Del resto nel dolore per la morte di Lucien, anche Vautrin raggiunge le vette patetiche di Goriot Quello che è forse il più grande oratore della Commedia umana è ridotto a uno stento balbettio rivolto ai carcerieri [...].

  Ciò che distingue Vautrin, tuttavia, è che egli sopravvive, nonostante tutto, alla morte di Lucien, esce indenne dall’eccesso della sua passione, pronto per una nuova “ultima incarnazione”. Goriot invece, pur nella sua naturale comprensione della creazione divina, rimane un personaggio sublime, ma di un solo romanzo, una vittima sacrificale dell’energia distruttrice della vita parigina. Anche coloro, come Rastignac, che lo curano fino alla morte piangendo sulla sua tomba la loro “ultima lacrima”, finiscono poi ugualmente per gettarsi, più smaliziati e implacabili di prima, verso nuove trame. Vautrin, invece, nel finale di Splendori e miserie, pur messo alle strette conserva sufficiente machiavellismo da ricattare nobili e magistrati usando le lettere d’amore inviate dalla contessa di Serizy a Lucien, ottenendo così per sé un posto nella polizia. Quando tutto sembra ormai all’epilogo, il forzato è capace di produrre ancora un supplemento di trama. Con questa sua immunità, Vautrin sfugge alla legge energetica delle passioni balzachiane, inesorabilmente distruttive. Egli vive una vita di azioni e sentimenti, di pouvoir, non di sola rêverie, di savoir, senza autodistruggersi. [...].

  Vautrin, figura monumentale al centro di una trilogia parigina che è un po’ il cuore dell’intera Commedia umana, è così il vero padre del racconto balzachiano, la mente machiavellica e cospiratrice perfettamente a suo agio in una Parigi dai mille intrighi segreti e romanzeschi, dove non esistono più principi, ma solo circostanze da sfruttare, casi propizi in una sorta di gigantesco gioco d’azzardo. Egli è inoltre l’immagine fedele della sterile e artificiale paternità di un artista che vuol dar vita a un mondo più vero del vero e un “superuomo” romanzesco libero ormai da rimorsi morali, “poema infernale in cui si espressero tutti i sentimenti umani, tranne uno, il pentimento”. Vautrin è una sorta di monade che riflette l’intera Commedia umana, uno scorcio, lui “poema infernale”, di Parigi “questo inferno che avrà forse un giorno il suo Dante”, ma che rispecchia anche il suo creatore, Balzac. [...].

 

 

  Carlo Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano, Feltrinelli Editore, 1998 («Campi del sapere»).

 

  p. 202. La resistenza dell’amico di Rastignac all’idea di uccidere uno sconosciuto mandarino cinese può essere considerata come un implicito riconoscimento del fatto che, come aveva affermato Aristotele, esiste “un giusto e un ingiusto per natura”. Ma ormai, con l’emergere di un sistema economico mondiale, la possibilità di guadagnare somme di denaro sulle base di distanze infinitamente più grandi di quelle mai immaginate o immaginabili da Aristotele era ormai diventata una realtà.

 

 

  Luigi Giusso, Un’analisi economica di Balzac. La bottega, un lusso che fa aumentare i prezzi, «La Sicilia», Catania, Anno LIV, N. 24, 25 gennaio 1998, p. 36.

 

  In alcune pagine, del 1845, su «Ce qui disparaît de Paris», ristampate recentemente in Francia in fac-simile, con le graziose vignette, Honoré de Balzac, il grande creatore della «Commedia umana», lamentava che tanti mestieri di strada nella metropoli stavano per essere sconfitti dalla modernizzazione (anche allora!), e sostituiti da «botteghe». Da principio si direbbe che il suo sia solo il rimpianto di un nostalgico per il colore, il pittoresco che scompare della città: quegli «ombrelli rossi», all’ombra dei quali si riparavano le fruttivendole, gli imbonimenti dei venditori all’aperto di ogni genere di mercanzia, le rammendatrici «alloggiate, come Diogene, in una (semi)botte sormontata da una nicchia fatta con dei semicerchi e della tela carata» ...«Oggi la bottega ha ucciso tutte le industrie sub dio» (che strana espressione, per dire «all’aperto»). «La bottega ha ricevuto nei suoi fianchi costosi il dettagliante di frattaglie, i rigattieri, l’ostricaro, il caldarrostaio, e tutto il mondo del piccolo commercio».

  Ecco il punto: nei suoi fianchi costosi, dice Balzac. Perché la sua tesi economica (a parte le nostalgie folkloristiche) è questa: la bottega, con i suoi spazi, i suoi marmi, i suoi ornamenti, è causa di un grande aumento dei prezzi al dettaglio. Con danno ovvio degli acquirenti e senza apparente vantaggio di nessuno. «Ci si può domandare, senza insultare Sua Altezza imperiale l’Economia politica (sic!), se la grandezza di una nazione è attaccata al fatto che una libbra di salsicce vi sia offerta su di un marmo di Carrara scolpito, o che della trippa sia alloggiata meglio di coloro che ne vivono commerciandola». Già, perché il «sistema» della bottega comporta un forte aumento dei costi della distribuzione commerciale, e quindi anche dei prezzi a cui le merci sono vendute: due, tre, quattro volte in più di prima, le ciliege, le fragole, il pesche (sic), il pollo, il carbone ... Per effetto di ciò «un pezzo da cento franchi vale oggi meno di un piccolo scudo di prima», conclude il romanziere.

  L’Economia politica è chiamata in causa, con qualche ironia, forse perché agli economisti, i quali all’epoca non sempre erano pregiati dagli osservatori comuni e specie dai letterati, il movimento verso la «bottega» appariva un progresso. In effetti tale esso poteva essere stimato, dal punto di vista dell’igiene, o dell’ambiente e delle modalità di lavoro, che diventavano migliori per gli addetti al commercio. Ma se il servizio commerciale in qualche modo si perfezionava, anche per il compratore, ciò non poteva avvenire senza costi. A Balzac sembra che questi costi non valga la pena per la società pagarli. Forse però gli aumenti di prezzi da lui deprecati erano dovuti non solo al passaggio del commercio al sistema della bottega. E comunque il fatto che la società tendesse a darsi questa forma più costosa di organizzazione commerciale è da interpretare come un sintomo di un qualche incipiente sviluppo economico, di una società che cominciava a diventare più ricca, quindi poteva permettersi certi lussi (come forse riuscivano ad antivedere gli «economisti», ancorché forse agli occhi del grande scrittore talvolta un po’ boriosi e saccenti).

 

 

  Tiziana Goruppi, L’abito che fa il monaco, in Honoré de Balzac, Trattato della vita elegante ... cit., pp. 7-27.

 

  Ricostruendo il quadro sociale e letterario della Francia negli anni Trenta, un’epoca dominata da iniziative culturali e editoriali volte a favorire il decollo di opere dalla marcata impronta fisiologica, Tiziana Goruppi mette in luce il valore altamente rivoluzionario (o antidemocratico) del trattato di Balzac che, nel porsi come profondamente antitetico rispetto ai protocolli normativi e ai ricettari precedenti, elabora un proprio discorso sull’eleganza che «finisce per andare a toccare una questione esplosiva in questo momento delicatissimo, vale a dire il principio democratico egualitario» (p. 10). Come accadrà quasi contemporaneamente in molti romanzi della Comédie humaine, Balzac coglie, con estremo rigore, le incongruenze tra l’apparire e l’essere presenti nel modello borghese e fornisce al proprio discorso sull’eleganza un orientamento marcatamente elitario, riconoscendo, in essa, il segno di un confine sociale e di provenienza (Parigi/provincia). In questo ambiguo gioco delle apparenze, di cui si fa protagonista il borghese ambizioso, emergono due tipi di eleganza: la prima, più comune, del tutto strategica e strumentale; la seconda, al contrario, «immobile, sempre uguale a se stessa» che «coincide con l’essere» (p. 19). Proprio quest’ultima connotazione risolve il volgare antagonismo borghese, sublimandolo nell’espressione suprema dell’eleganza incarnata dalle figure del dandy e, in misura diversa, dell’artista, che, imponendosi per le loro differenze e per il loro individualismo, decretano il definitivo smantellamento delle gerarchie e «la superiorità dell’Arte sulla vita» (p. 20).

 

 

  Anna Chiara Guerini, La bottega del desiderio: l’antiquario in Dickens e Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: prof. Alberto Castoldi, Bergamo, Università degli Studi, Facoltà di. Lingue e letterature straniere, Anno accademico 1997-1998.

 

 

  Angelo Guglielmi, Irrita ed incanta. Quel saggio di Barilli su Robbe-Grillet, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, 9 luglio 1998, pp. 4-5.

 

  Manzoni, e soprattutto Balzac e Zola, i grandi campioni dell’affresco storico, non vengono dopo Goethe? Non è proprio la Comédie humaine il luogo dove si celebra «l’epopea dell’uomo moderno sottomesso alle leggi della natura (dell’istinto del possesso, della lotta per il successo negli affari, per l’affermazione di sé»)? Sì, sostiene Barilli: è che moderno e post-moderno non sono due fasi distinte della creatività nell’arte, l’una successiva all’altra; ma rappresentano due momenti che compiono un lungo tratto di storia insieme, ora anticipandosi ora inseguendosi, e qualche volta mischiandosi.

 

 

  Ulisse Jacomuzzi, Honoré de Balzac. L’eleganza? La conosce soltanto il Dandy, «Il Sole 24 ore. Domenica», Milano, N. 237, 30 Agosto 1998, p. 21; 1 ill.

 

  Frac blu, pantaloni color crema che vanno a morire negli stivali neri dall’alto risvolto; al collo, una leggera e bianchissima cravatta inamidata che doveva sembrare messa su con estrema negligenza, come di fretta. Così, in abiti all’apparenza già leggermente usati — e all’uopo venivano fatti indossare prima da un servitore o strofinati con piccoli pezzi di vetro a usurarli quel tanto che bastava — si presentava, sfolgorando la corte di Carlo V, “beau” Brummell, l’arbitro della nuova eleganza ottocentesca, l’erma del dandysmo.

  A lui, obbligatoriamente, in un dialogo immaginario, fa riferimento il Balzac del Trattato della vita elegante, uscito fra l’ottobre e il novembre del 1830 sul giornale “La Mode”, rivista settimanale sulla quale penne quali quella di Jules Janin e dell’elegantologo Hippolyte Auger, codificavano le regole e gli assiomi di un’eleganza e di una vita fatta di sapiente e armoniosa discrezione, impeccabile, studiata nei minimi dettagli sino ad apparire distrattamente naturale.

  Il trattatello balzachiano andava a inserirsi in quella lunga sequela di codici e manuali — Fisiologia del gusto, Codice della toilette, Manuale del Fashionable, Guida dell’eleganza — che regalavano norme e ricette per una borghesia che cercava di vincere le proprie insicurezze di classe che, se pur aveva occupato il potere, guardava ancora all’aristocrazia con occhio pavido e insicuro di parvenu. Bisognoso di un indiscutibile e ferreo codice comportamentale che lo tranquillizzasse e lo facesse sentire arrivato, il borghese di Parigi, e ancor più quello della provincia, anelava di trovare in queste pagine consolazione all’orrore per la propria oscura origine e una prescrittività che, non ammettendo deroghe, potesse risolvere ogni incertezza.

  Eppure — come ben sottolinea Tiziana Goruppi nell’Introduzione a una nuova edizione del Trattato, Balzac, pur aderendo formalmente alla finalità didattica delle altre “fisiologie”, ne scardinava gli stessi principi informatori: la lettura della sua elegantologia non poteva risultare altro che frustrante per il lettore di elezione, poiché mostrava e dimostrava un ideale inarrivabile, fondato non sulla regola e quindi imitabile, ma sulla trasgressione, non sull’adeguamento a canoni ma sull’individualità, su quell’indecifrabile “non so che” che tagliava fuori e condannava all’ineleganza perpetua chiunque cercasse di elevarsi verso l’élite del buon gusto. Per il buon borghese suonano come campane a morto frasi come “Un uomo diventa ricco, nasce elegante”; lasciando così fuori dalla porta, a latrare, un’umanità di arrivisti, scalatori sociali, ambiziosi, incapaci di vivere il loro apparire e l’abito, che ne è la vera epifania, come un essere cui aderire completamente (“Rispettavo l il mio abito come un altro me stesso” dirà il protagonista della Peau de chagrin).

  Se nei suoi romanzi Balzac può racchiudere il fallimento di personaggi nel segno, tangibile e ineludibile, di un errore nel vestire, nella toilette, nel savoir faire (del fango sugli stivali o un arrivo inopportuno sono peccati mortali), nel Trattato egli prende feroce gusto a tracciare, con verve antidemocratica, i confini, ai più invalicabili, della vera eleganza; tranchant, annota. “Restano al di fuori della vita elegante i dettaglianti, la gente d’affari e i professori di lettere”; “l’uomo abituato al lavoro non può capire la vita elegante”.

  In pochi e rapidi aforismi al rasoio, decapita le masse belanti di coloro che si addobbano con il vestito della domenica, che se ne stanno orgogliosi e contenti di tappezzerie a frange, letto a barca e candelabri con il vetro, che coltivano il pregiudizio del cachemire: e stramazza e danna, cinico, le donne con collane e orecchini pendenti.

  L’abito come sineddoche fortemente ideologizzata di quel groviglio sociale, passi cerimoniosi e lotta al coltello, che prenderà nomi e visi nella Comédie humaine, rispetto alla quale il Trattato si pone come un punto privilegiato di osservazione, fornendo quasi un abecedario per leggere le norme e le eccezioni che presiedono al complicato balletto messo in scena da Balzac, in cui si muovono eletti e dannati sul discrimine sottile e scivoloso di un gilet, di una predella di carrozza, di un paio di guanti di percalle. Un’impalpabile semiologia del gusto, del panno e della seta, che sfugge ai più; a quelle tristi figure bigie che dalle pagine balzachiane rimbalzano, goffe e gobbe, nei disegni di Daumier e di Gavarni.

  Meglio tornare a Brummell, pietra di paragone e testata d’angolo; per poi accorgersi però che anche con lui Balzac dimostra indocilità, si concede lo scherno, l’irriverenza a sancire una propensione alla grotesque e una ribellione rispetto a ogni figura modellizzante, a ogni exemplum; è un lampo vergognoso e disonorevole che illumina il vecchio elegantone; “L’ex dio del dandysmo portava una parrucca! ... Lezione spaventosa! ... Brummell così! ... Brummell in parrucca, Napoleone vestito da giardiniere, Kant tornato bambino, Luigi XVI col berretto rosso, Carlo X a Cherbourg! Ecco i cinque più grandi spettacoli della nostra epoca!”.

  Non doveva comunque fare miglior figura lui, Balzac, teorico dell’eleganza, della cravatta e del modo di stare a tavola, quando nei saloni della duchessa d’Abrantès o in una loggia all’Opéra, si presentava, tronfio dei suoi primi successi letterari, in abiti troppo stretti per tenere il suo corpaccione e sfavillante di gioielli come una cocotte. Un parvenu senza dubbio.

 

 

  Henry James, Honoré de Balzac (1902), in Honoré de Balzac, La falsa amante ... cit., pp. 115-141.

 

  Cfr. 1988.

 

 

  Georges Jessula, Stendhal personnage de roman dans l’œuvre de Balzac, in AA.VV., Eroe e Personaggio. Dal mito alla dissoluzione novecentesca, Moncalieri, C.I.R.V.I., 1998 («Civilisation de l’Europe», 6).

 

 

  Horst Koegler, Illusioni perdute, in Dizionario della danza e del balletto, Gremese, 1998, p. 246.

 

 

  Marie-Louise Lentengre, Franca Zanelli Quarantini, Balzac, in AA.VV., Enciclopedia. L’Ottocento, Milano, Opera, 1998.

 

 

  Giorgio Montefoschi, Se il piccolo editore adotta Balzac e Mallarmé, «Corriere della Sera», Milano, 12 luglio 1998, p. 22.

 

  Con un saggio introduttivo, nel quale è letta in filigrana la Comédie Humaine, Tiziana Goruppi presenta il Trattato della vita elegante di Balzac. L’idea fondamentale, ferocemente elitaria, dello spietato scrutatore della rincorsa borghese è tutta nel IX assioma: “Un uomo diventa ricco, nasce elegante”. “Il carattere elitaristico della vera eleganza suddivide il mondo di Balzac in dominati e dominanti, suddivisione questa che riproduce il ben noto schema piramidale della società rappresentato in tutta la Comédie Humaine”, scrive la Goruppi. Il libro offre vere e proprie delizie. Per esempio nella terza parte: a cominciare dalla fondamentale considerazione che “la toilette è l’espressione della società”. Da codesta massima (Balzac sostiene che sia tanto riassuntiva che nulla, dopo, possa esser più detto “che non sia uno sviluppo più o meno felice di questo dotto aforisma”) discendono corollari validissimi: “Il bruto si copre, il ricco o lo sciocco si addobbano, l’uomo elegante si veste”.

  E se è vero che “la toilette è allo stesso tempo una scienza, un’arte, un’abitudine, un sentimento”, altrettanto vero è che “la toilette non consiste tanto nell’abito quanto in un certo modo di portarlo”. Infatti, come diceva Brummel, “se la gente vi guarda con attenzione non siete ben messo: siete troppo ben messo, troppo inamidato o troppo ricercato”. E così avanti.

 

 

  Bruno Nacci, Ida Sassi, Balzac, in Tutto letteratura francese, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1998, pp. 212-216.

 

 

  Giulio Nascimbeni, L’amore paterno, «La Lettura. Supplemento del “Corriere della Sera”», Milano, 10 maggio 1998, p. 2.

 

  Si è sempre detto che non è difficile diventare padre: essere un padre, questo è difficile. Altrettanto difficile è scegliere nella letteratura un libro di cui la figura paterna sia il centro, il motore, la luce o l’ombra dominanti. Ma non ho dubbi nell’indicare in Papà Goriot di Honoré de Balzac il romanzo che, più di ogni altro, ha raccontato l’amore paterno come una passione esclusiva, totalizzante, cieca.

  Basterà ricordare le pagine in cui Goriot, tradito e abbandonato dalle figlie Anastasie e Delphine, nel delirio che lo condurrà a una morte solitaria, crede che le due donne siano al suo capezzale e invece si trovano a un ballo. È il momento più alto e angoscioso di un sentimento che eleva Goriot al rango di uno dei massimi personaggi della «Commedia umana», sfiorato, secondo un critico, «da un raggio della tragedia di Re Lear».

 

 

  Graziella Pagliano, Balzac e il matrimonio, in Fra norme e desideri. Ricerche di sociologia della letteratura, Roma, Aracne, 1998, pp. 149-160.

 

 

  Geno Pampaloni, Prefazione, in Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto ... cit., pp. 9-18.

 

  Cfr. 1983.

 

 

  Pierluigi Pellini, Una definizione problematica. Descrizione e ‘suspense’, in La descrizione, Roma-Bari, Editori Laterza, 1998 («Alfabeto letterario», 4), pp. 23-27.

 

  Proprio l’analisi delle reazioni del lettore permette di studiare la funzione dei brani descrittivi. [...].

  Per esempio, il primo capolavoro di Honoré de Balzac (1799-1850), Gli Chouans (Les Chouans, 1829), ancora segnato dai luoghi comuni della produzione popolare, si apre sulla marcia di una colonna di soldati repubblicani, da Fougères a Mayenne. Al momento di varcare i confini della Bretagna, il comportamento delle reclute recalcitranti fa sospettare al capitano Hulot l’imminenza di un attacco degli Chouans, i ribelli controrivoluzionari (siamo nel 1799). La suspense è alimentata dal moltiplicarsi degli indizi inquietanti; quando la tensione è al colmo, compare sulla scena un sinistro personaggio, senz’altro legato ai ribelli — ma perché si presenta a Hulot? per tendere un tranello? per scendere a patti?

  La curiosità del destinatario è frustrata da una descrizione dettagliatissima dello sconosciuto (che si scoprirà essere il sanguinario Marche-à-Terre). Il lettore tende a scorrere rapidamente il brano descrittivo, o a saltarlo: l’interesse per l’abbigliamento esotico e l’aspetto feroce dello Chouan non può competere con l’inquietudine per le sorti della colonna di Hulot (le parziali riscritture del 1834 e del 1845 non riescono a trasformare in controrivoluzionario un romanzo favorevole ai repubblicani). L’inserimento dell’ostacolo descrittivo acuisce l’impazienza (al limite l’irritazione) del destinatario, ottenendo per contrasto un forte effetto di suspense: la noia dell’inopinata interruzione moltiplica le attrattive dell’azione. Inutile aggiungere che l’imboscata, puntualmente, avrà luogo. Balzac sfrutta abilmente l’espediente narrativo che consiste nel procrastinare il compimento dell’azione principale con l’inserimento di zeppe digressive (in prevalenza, descrizioni). La critica lo definisce solitamente tecnica del ritardo, e individua addirittura nell’epica antica le sue prime manifestazioni, dal momento che la struttura dei poemi omerici non prevede una scansione serrata delle azioni, tende a disperdersi in molteplici direzioni. [...].

 

 

  Il ‘flâneur’ e la fisiognomica, Ibid., pp. 36-40.

 

  La commedia umana si apre con una descrizione: una vecchia bottega di stoffe al centro di Parigi – è l’incipit di All’insegna del gatto che gioca a racchettoni (La Maison du chat-qui-pelote, 1829). Una prima redazione del passo era costituita da una sorta di dissertazione storico-sociologica sull’evoluzione della borghesia parigina: dopo la rivoluzione, si registra il trionfo dei parvenus, dei nuovi ricchi che si danno arie d’eleganza; sono sempre più sparuti i campioni della vecchia borghesia, che rispettano il ruolo sociale assegnato alla loro classe: «il flâneur, i cui godimenti sono stati raddoppiati dal piacere difficile che si incontra nell’investigazione fisiognomica da quando ha preso piede l’era delle libertà, guarda con stupore questi antichi ruderi dell’antico mondo». [...].

  Finché vigeva «l’antico ordine», sembra dire Balzac, non c’era niente da vedere: se un nobile si vestiva e si comportava da nobile, e un borghese da borghese, se apparenza e realtà coincidevano, il campo d’azione dell’«osservazione fisiognomica» era estremamente ristretto. L’indugio sui dettagli si giustifica solo nella nuova situazione di disordine sociale e morale: l’occhio esercitato dal flâneur ristabilisce le gerarchie sconvolte, intuisce il villan rifatto, restituisce i dovuti onori ai nobili decaduti. L’ossessiva minuzia delle descrizioni balzachiane consente di porre riparo agli sconvolgimenti della storia – l’architettura della Commedia umana è un disperato tentativo di ristabilire nel mondo separato della letteratura l’antico ordine sconvolto dalla Rivoluzione.

  Ogni particolare è significativo: Balzac applica in maniera estensiva i principi della fisiognomica [...], che dall’apparenza esteriore risale all’essenza interiore, dai tratti fisici ai caratteri psicologici. La realtà è composta di dettagli che sollecitano la ricostruzione indiziaria di un tutto ordinato, differente dalla superficie sconvolta della società moderna: il romanziere si fa «storico», o «archeologo», decritta «geroglifici».

  Nel nostro racconto, la descrizione della bottega del tradizionalista Guillaume prende il posto delle considerazioni di storia sociale: «i muri pericolanti di questa bicocca sembravano essere stati tappezzati di geroglifici». L’ideologo diventa archeologo, lo psicologo studioso di fisiognomica: la storia è scritta nelle cose. Descriverle significa già raccontare: la descrizione «fa, per così dire, corpo con la storia».

  Ogni dettaglio è significativo, rivela, manifesta, tradisce: sono questi i verbi che reggono la sintassi descrittiva di Balzac. [...].

 

 

  Esempi moderni; da Scott a Proust (e oltre). L’ “incipit” del romanzo storico. Il punto di vista del narratore, Ibid., pp. 49-56.

 

  [...]. Confrontare le descrizioni che aprono Eugénie Grandet e La bestia umana (La Bête humaine, 1890) permetterà di evidenziare il funzionamento (quasi opposto) di due testi riconducibili l’uno alla dominante narrativa, l’altro a quella descrittiva, e di individuare gli snodi fondamentali di due poetiche solo in parte affini: quella realista di Balzac e quella specificamente naturalista di Zola.

  Il romanzo di Balzac inizia con una descrizione condotta in prima persona dal narratore [...].

  È il narratore a suggerire i paragoni (il chiostro, le lande desolate, le rovine) e a rendersi garante della generalizzazione («talune città», non un singolo luogo). È lui a mettere in rapporto ambiente e personaggi: il «volto quasi monastico» corrisponde alla malinconia da «chiostro» dell’abitazione. Per un attimo, la prospettiva si sdoppia: accanto a quello del narratore, fa la sua comparsa il punto di vista di un ipotetico «estraneo». La scena si precisa: la città di provincia è Saumur.

  Il narratore ne traccia un rapido schizzo topografico, passando subito a descrivere la strada in cui abita l’eroina. Si innesta qui una prima digressione, sulle abitudini di «vignaioli, proprietari, commercianti di legname». Segue la biografia del vecchio Grandet, del cui inserimento in questo punto il narratore si assume piena responsabilità [...].

  In capo a una decina di pagine, riprende la descrizione iniziale: è il momento di presentare la casa di Grandet — in successione, facciata, giardino, pianterreno.

  Il narratore gestisce in prima persona l’intera descrizione, appellandosi a tratti all’ipotetica testimonianza di anonimi passanti (o «curiosi»; o a quella di «un antiquario»), prontamente abbandonati quando si tratta di entrare all’interno dell’edificio, dove è consentito penetrare solo allo sguardo onnisciente del narratore. A un certo punto, non prima che ci sia stata presentata «la grande Nanon», la serva di Grandet, e senz’altra motivazione che l’arbitrio ordinatore dell’io narrante, l’indugio descrittivo si interrompe; il seguito è rimandato: «la descrizione delle altre parti della casa si troverà a essere legata agli avvenimenti di questa storia». Simili indicazioni di regia sono frequenti nei romanzi balzachiani: ne cito una fra le tante: «a questo punto è necessario penetrare nell’abitazione di questa zitella che era al centro di tanti interessi convergenti, e nella cui casa gli attori di questa scena dovevano incontrarsi tutti quella sera stessa» — segue descrizione.

  La costruzione dell’incipit di Eugénie Grandet è tipicamente balzachiana: quello di Papà Goriot, per esempio, è perfettamente analogo. La prospettiva è concentrica, scende dal generale al particolare: da «talune città» a Saumur, dalla città alla strada, da questa alla casa, dalla facciata alla «sala» d’ingresso.

  In Papà Goriot l’occhio del narratore, dopo una ricognizione a volo d’aquila su Parigi (che presto si restringe al Quartiere Latino, al Faubourg Saint-Marceau, poi alla rue Neuve-Sainte-Geneviève), raggiunge il giardino, la sala da pranzo e infine la cucina della pensione Vauquer, focalizza menzione sul gatto, che anticipa l’apparizione della padrona, descritta con una profusione di paragoni che accentua la violenza dell’effetto [...].

  Non potrebbe essere dichiarata più chiaramente l’interdipendenza fra personaggio e ambiente, e dunque fra racconto e descrizione. [...].

  Una simile carrellata dall’insieme alla parte si ritroverà spesso in ambito cinematografico (una sorta di zoom di avvicinamento); in un romanzo presuppone la presenza di un narratore onnisciente che si assume la responsabilità di organizzare topograficamente, ma anche ideologicamente, il reale. Quelle di Balzac, in grande maggioranza, sono descrizioni ordinate dal narratore; tale ordine è funzionale all’utilità narrativa delle informazioni trasmesse dal testo descrittivo.

  Abbiamo visto che rispetto ai romanzieri del secolo precedente, i realisti d’inizio Ottocento esaltano il ruolo della descrizione. Tuttavia, Balzac (e come lui Scott, Manzoni ...) non contravviene al precetto classicista che le impone un ruolo subalterno al racconto. Le sue sono sempre descrizioni narrativamente funzionali: nella casa di Eugénie si svolgerà gran parte del romanzo; nella pensione Vauquer abitano i protagonisti di Papà Goriot. Dal punto di vista della trama, non c’è nulla di superfluo nel profluvio dei dettagli forniti da Balzac: precisano l’ambiente in cui vivono i personaggi, definiscono la scena delle azioni. [...].

 

 

  Susi Pietri, L’esthétique de la forme chez Balzac. Thèse de Doctorat Nouveau régime. Directeur: Jacques Neefs, Université Paris 8, 1998.

 

 

  Giovanni Raboni, Scrittura creativa. Macché manuali, leggete Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 4 gennaio 1998, p. 27.

 

  Per non restare troppo nel vago, trascrivo qui di seguito alcune righe nelle quali mi sono imbattuto in questi giorni e dal cui casuale reperimento ha origine l’idea stessa di questa oziosa noterella. Si trovano in uno dei più’ curiosi e “sperimentali” fra i romanzi di Balzac, “La musa del dipartimento”, e dicono (nella bella traduzione di Giancarlo Buzzi compresa nel primo volume della “Commedia umana” in corso di completamento nei “Meridiani” di Mondadori) testualmente così: “Un tempo al romanzo si chiedeva solo di essere interessante. Nessuno si preoccupava dello stile, nemmeno l’autore. Quanto alle idee e al colore locale, zero. Pian piano, senza rendersene conto, i lettori cominciarono a pretendere lo stile, l’interesse, il pathos, informazioni concrete. Insomma, i cinque sensi letterari: invenzione, stile, pensiero, informazione, sentimento. Poi ci si mise di mezzo la critica, a pasticciare tutto”.

  Non c’è bisogno di essere d’accordo per sentirsi ossigenare il cervello. E pensare che scintille potrebbero sprizzare se si accostasse un brano come questo a uno, che ne so, di Cechov o di Hofmannsthal, di Henry James o di Céline; o provando a mettere in parallelo i “Cinque sensi letterari” identificati da Balzac con il trattato di estetica in cinque parti che André Gide, in una nota di diario del 1918, avrebbe voluto scrivere intitolando ciascuna parte a uno dei sostantivi-chiave dell’“Invitation au voyage” di Baudelaire.

 

 

  Patrick Rambaud, Notizie bibliografiche, in La battaglia. Traduzione di Egi Volterrani, Milano, Bompiani, 1998, pp. 207-209.



  Fabrizia Ramondino, L’isola riflessa, Torino, Einaudi, 1998.

 

  pp. 73-74. C’è un libro curioso e raro di Balzac, Théorie de la démarche. Si è messo a osservare per ore in vari quartieri di Parigi il modo di camminare dei suoi concittadini e ne ha tratto osservazioni sul loro carattere e sul loro ceto sociale. Osservazioni che troviamo applicate nei suoi romanzi.

  Io mi sono messa a osservare i corpi seminudi sulla spiaggia o sulle rocce larghe. E ho scoperto che erano come vestiti.

 

 

  Sergio Romano, Maupassant. Le penne sporche, «Corriere della Sera», Milano, 15 giugno 1998, p. 23.

 

  Il giornalismo entra in letteratura trionfalmente nella seconda parte delle Illusioni perdute di Balzac (Un grand’uomo di provincia a Parigi, 1839). È la storia di Lucien Chardon, giovane romanziere e poeta, ansioso di dare alle stampe i frutti della sua fantasia. Approda a Parigi con la protezione di una nobile signora, diventa giornalista, riscuote successi, guadagna denaro, seduce una giovane attrice. Attratto dalla politica rinuncia alle idee liberali e investe le sue speranze sul partito realista. Ma si smarrisce nel labirinto della società parigina, perde il denaro guadagnato, assiste alla morte dell’amante e ritorna disperato nella lontana provincia da cui aveva cominciato la sua avventura.

  Balzac ha capito che quello del giornalista è un mestiere straordinariamente moderno. Confina con la politica, con la letteratura, con il mondo accademico, con il mondo degli affari. Si colloca ambiguamente all’incrocio fra i grandi “valori” delle società di massa dopo la rivoluzione industriale: informazione, educazione, persuasione. Può apprendere notizie segrete, diffondere menzogne, proporre modelli di comportamento sociale, lanciare campagne di opinione, favorire la conclusione di un affare, la nascita di un partito, l’ascesa di un leader.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, E Flaubert giocava alla rivoluzione, «Corriere della Sera», Milano, 5 aprile 1998, p. 33.

 

  La rivoluzione fu molto fastidiosa per Balzac. La prima sei a non trovò una carrozza e dovette tornare a casa a piedi. Il giorno dopo, sentendo che il re aveva deposto Guizot, si era spaventato e aveva invocato il carcere duro, la deportazione e la dittatura. Il terzo giorno, Balzac, incuriosito, seguì un corteo e penetrò nelle Tuileries. Assistette, disgustato, al saccheggio e si portò via alcuni fregi e quaderni di scuola dei principini.

 

 

  Clara Sereni, Taccuino di un’ultimista, Milano, Feltrinelli Editore, 1998 («Universale Economica Feltrinelli»).

 

  pp. 78-79. Con il racconto Addio sembra quasi che Balzac si sia concesso una vacanza, un viaggio in territori che normalmente non occupavano la sua mente.

  Assente il denaro, che è per Balzac il motore primo e concreto di ogni azione umana e dunque anche di quasi tutte le sue storie, al centro di questo racconto campeggia qualcosa di immateriale e inafferrabile: la follia.

  Non una follia letteraria, la poetica smemoratezza che il protagonista, de Sucy, sarebbe disposto ad accettare dalla donna che un tempo ha amato. Non la pazzia di Ofelia, non quella di Orlando, e neanche l’“idiozia” dostoevskiana del principe Myškin, sinonimo di purezza di sguardo, di magica visione della verità. Con un tratto realistico che guarda con attenzione agli interrogativi che la scienza medica si va ponendo in quello stesso momento storico, la follia di cui qui si parla è l’interruzione di ogni comunicazione, il raggelarsi delle emozioni, la chiusura assoluta verso ogni relazione, la caduta totale di ogni senso del patto sociale: è la sgradevole follia “vera”, quella che aveva generalmente, come unico destino, il manicomio.

   Stéphanie, la pazza del racconto, non si cura d’altro che dei propri bisogni primari – nutrirsi, dormire –, e ha perduto ogni senso del “viver civile”, sicché si fatica a mantenerla vestita così come a farla riposare in un letto; non ha un linguaggio, o almeno non ha più un linguaggio che gli altri, i normali, siano in grado di comprendere; incapace di emozioni, incapace d’amore, sembra acquietata in una placidità animale, che fa sperare al suo vecchio zio – colui che con la sua dedizione e protezione le consente una vita libera dai muri di un ospizio per alienati – che sia comunque, a suo modo, felice.

  Sulla presunta “felicità” di chi è chiuso in un cerchio di autoreferenzialità totale si potrebbero dire molte cose, ma di quelle – forse giustamente – Balzac sembra non occuparsi, scegliendo invece di raccontare l’infelicità degli altri, di tutti coloro che, per affetto o per amore, devono confrontarsi con quel silenzio e con quell’assenza, intollerabili. È quell'infelicità che può condurre fino all’omicidio (e de Sucy vi arriva molto vicino), o che può far lievitare la creazione fantastica fino a renderla sublime, fino a inventare tentativi terapeutici di cui l’alto tasso di “poeticità” non inficia necessariamente l’efficacia.

  Il tentativo che il protagonista compie è quello che oggi, cent’anni dopo Freud, definiremmo della riproposizione del trauma: il paziente viene cioè messo nelle condizioni di rivivere quello stesso evento doloroso che ha determinato la rottura del suo equilibrio psichico.

  Non dirò, naturalmente, l’esito che questo tentativo sortisce in Addio, perché il piacere di leggere un racconto è anche nello scoprirne via via l’intreccio e poi il finale. Di certo, però, la conclusione immaginata da Balzac ha in sé due idee su cui vai la pena spendere qualche riflessione.

  La prima idea è che esistano un tempo della salute e un tempo della malattia, l’uno nettamente separato dall’altro a opera del trauma, eliminando il quale il paziente può ridiventare “normale”, può tornare “se stesso”. Il disagio psichico, cioè, viene considerato un corpo estraneo da espellere, e non un elemento costitutivo della realtà di ciascun individuo, il variare del quale fa sì che si parli, appunto, di salute o di malattia.

  La seconda idea, connessa alla prima, è che tutti gli sforzi debbano essere indirizzati esclusivamente a modificare i comportamenti dell’ammalato in direzione della guarigione, escludendo quindi la possibilità di interrogarsi sulle storture che connotano comportamenti e linguaggi della cosiddetta “normalità”.

  Due idee che, ai tempi in cui Balzac scriveva questo racconto, rappresentavano un punto di vista moderno e avanzato: esse derivavano infatti da un modo comunque attivo di porsi rispetto alla malattia mentale e alle possibilità di intervenire su di essa.

  A poco più di un secolo di distanza, molte cose sono cambiate nella percezione comune, diffusa, della follia: la separazione e l’espulsione della sofferenza psichica non appaiono più proponibili, benché proposte e ipotesi che marciano in questa direzione si riaffaccino subdolamente e continuamente alla ribalta dei dibattiti e delle legislazioni.

  Per il patrimonio culturale prodotto da quasi un trentennio di movimento anti-istituzionale immagineremmo forse oggi, per Addio, un finale diverso, che avesse in sé l’idea che anche dai malati di mente si può apprendere qualcosa, se solo si è capaci di ascoltarli; l’idea che con la sofferenza si può anche convivere, e non soltanto sopraffarla o fuggirne, comunque sconfitti; l’idea che la sofferenza, perfino nei suoi aspetti più drammatici, è anche ricchezza, e non solo deprivazione. Ma non possiamo prestare a Balzac una consapevolezza che è di oggi, e non del suo tempo. Più corretto, e più utile alla lettura, è sottolinearne invece la lungimiranza, la capacità di precorrere con l’intuizione artistica temi, idee, e addirittura scoperte, lì lì per avvenire. Del resto, sul crinale che separa l’Ottocento da quel che siamo oggi, Balzac lo si ritrova sempre in prima fila: questo suo sguardo sulla follia non è che un esempio fra i tantissimi che si potrebbero fare a proposito dell'intera sua opera, e anche semplicemente di questo racconto. Esaminando queste pagine non dal punto di vista del contenuto e dell’intreccio, ma sotto l’aspetto strettamente narrativo, colpisce ad esempio la capacità di raccontare non soltanto per immagini ma – si direbbe – addirittura per inquadrature: si sente che il cinema è già lì, alle porte, non ancora “scoperto” ma prefigurato chiaramente perché presente come desiderio, come esigenza.

  È forse soprattutto in questa capacità costante di farsi attraversare da tutte le correnti del suo tempo il genio di Balzac, gigante della scrittura più sul terreno della quantità che su quello della qualità, ciclopico costruttore di mondi tragicamente incapace di costruirsi una vita vivibile, narratore materialista della borghesia il cui sogno inesausto è di essere accettato come aristocratico, è l’adesione alle contraddizioni di un mondo e di un’epoca a renderlo per sempre contemporaneo a noi, al tempo che viviamo, alle contraddizioni che continuiamo a portarci dentro.

 

 

  Raffaella Vacchelli, Traduzione e commento alla «Lettre adressée aux écrivains français du XIXe siècle» di Honoré de Balzac. Tesi di laurea, Relatore: Prof. Maria Bertini; correlatore: Prof. Patrizia Oppici, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere moderne, Anno accademico 1997-1998.

 

 

 

 

Iconografia.

 

 

  Balzac, ritratto di Louis Boulanger (1836-37), «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XV N. 9,Ottobre 1998, p. 3.

 

  Il «conducteur de Tours» di Rodin (1891), p. 13.

 

  Studio per la testa di Balzac di Rodin (1891-92?), p. 27.

 

  Il “conducteur de Tours”, p. 30.

 

  Ritratto giovanile di Balzac di Auguste Lepère (1903), p. 37.

 

  Ritratto di Balzac in costume da monaco di Gavarni (1856), p. 40.

 

  La versione definitiva del Balzac di Rodin, p. 49.

 

 

 

 

Adattamenti in forma di fumetto.

 

 

  Max Bunker, Un tenebroso affare, «Alan Ford Special», n. 21, Luglio 1998, pp. 123.

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Dinamo T Sperimentazione teatrale, Il colonnello Chabert. Dal romanzo “Le Colonel Chabert” di Honoré de Balzac. Riscrittura scenica di M. Luca e D. Nuccettelli. Messa in scena a cura degli attori Giovanni Guardiano, Sandrina La Roche, Maurizio Lucà, Daniele Nuccettelli, 1998.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  Daniela de Agostini, Per una poetica della forma narrativa breve: il racconto e la novella nel XIX secolo, Università di Urbino, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Anno Accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Balzac, Le chef-d’oeuvre inconnu et autres nouvelles.

 

 

  Umberto Artioli, Pirandello e i “Sei Personaggi”, Padova, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia – Storia del teatro e dello spettacolo, Anno accademico 1997-1998 – Secondo semestre.


  Dalla Bibliografia: Balzac, Séraphita.

 

 

  Giangaetano Bartolomei, L’opera d’arte come documento storico-culturale, Università degli Studi di Pisa, Sociologia della conoscenza, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Papà Goriot; Eugénie Grandet; La cugina Betta.

 

 

  Giovanna Caltagirone, Unità e scissione nella rappresentazione del corpo: la convenzione letteraria realistica e quella fantastica. Università degli Studi di Cagliari, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Scienze dell'educazione – Letterature comparate, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Balzac, L’elisir di lunga vita.

 

 

  Alberto Castoldi, La modernità nella cultura dell’Ottocento, Bergamo, Università degli Studi, Facoltà di Lingue e letterature straniere – Lingua e letteratura francese II, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Théorie de la démarche, ed. ETS, 1998.

 

 

  Alba Ceccarelli Pellegrino, La moda nella letteratura francese, Siena, Università degli Studi, Sede di Arezzo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere – Lingua e letteratura francese, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Trattato della vita elegante.

 

 

  Giorgio Cerruti di Castiglione, La descrizione: problemi di tecnica narrativa e poetica otto e novecentesca, Torino, Università degli Studi, Facoltà di Lettere Filosofia, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere – Lingua e letteratura francese I, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Le Père Goriot.

 

 

  Elena Del Panta, Forme del romanzo nell’Ottocento: Chateaubriand, Constant, Balzac, Stendhal, Firenze, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia – Lingua e letteratura francese, Anno accademico 1998-1999.

 

 

  Francesco Fiorentino, Il privato, la provincia, Parigi nella “Comédie humaine”, Università degli studi di Bari, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere – Lingua e letteratura francese (A-K), Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Balzac, Gobseck, La Maison du chat-qui pelote, Le Bal de Sceaux, Le Père Goriot, Eugénie Grandet, La Muse du Département, La Duchesse de Langeais.

 

 

  Valeria Gianolio, La seduzione e le sue strategie in alcuni romanzi francesi dell’Ottocento, Torino, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di Laurea in Lingue e letterature straniere – Lingua e letteratura francese II, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Balzac, La Fille aux yeux d’or, Sarrasine.

 

 

  Mario Lavagetto, La macchina del racconto: per una teoria dei saperi narrativi, Bologna, Università degli Studi, Dipartimento di Italianistica – Teoria della letteratura. Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: L’auberge rouge; Sarrasine; Le chef-d’oeuvre inconnu; Adieu; Un prince de la bohème; Une passion dans le désert; La fille aux yeux d’or.

 

 

  Patrizia Oppici, Balzac o il romanzo d’appendice, Parma, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, Istituto di lingue e letterature romanze – Letteratura francese contemporanea, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: La Vieille Fille; La cousine Bette; L’Envers de l’histoire contemporaine.

 

 

  Valeria Ramacciotti, Protagoniste del romanzo ottocentesco francese davanti alla morte: presagi e fine, Torino, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere – Lingua e letteratura francese III-IV, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Le Lys dans la vallée.

 

 

  Domenico Tanteri, Un aspetto “perturbante”: il doppio in letteratura, Università degli Studi di Catania, Facoltà di Lettere e Filosofia – Letterature comparate, Anno accademico 1998-1999. Dalla Bibliografia: Séraphita.

 

 

  Maria Grazia Turudda, Città da romanzo: Parigi, Roma, Lisbona, Praga, New York, Buenos Aires, Londra: dalla realtà al mito, Università degli Studi di Cagliari, corso di laurea in Scienze dell’educazione – Letterature comparate, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: La commedia umana, Milano, Mondadori, 1994.

 

 

  Sandro Volpe, Dal romanzo allo schermo: adattamento o variazione?, Palermo, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia – Teoria della letteratura, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Jacques Rivette, La belle noiseuse, 1991 (da Balzac, Le chef-d’oeuvre inconnu).

 

 

  Franca Zanelli Quarantini, “Coppie d’amici”: solidarietà e complicità maschili nel romanzo ottocentesco francese, Bologna, Università degli Studi, Facoltà di Lingue e letterature Straniere – Lingua e letteratura francese II, Anno accademico 1998-1999.


  Dalla Bibliografia: Splendeurs et misères des courtisanes; Le Cousin Pons.



Marco Stupazzoni


 

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