mercoledì 24 febbraio 2021



2003

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Il Mosè in Egitto di Rossini, in AA.VV., Moïse et Pharaon ou Le passage de la Mer Rouge: opera in quattro atti. Musica di Gioachino Rossini; libretto di Luigi Balocchi ed Etienne de Jouy, Milano, Edizioni del Teatro alla Scala, 2003, pp. 128-143.

 

  Programma di sala che contiene il libretto dell’opera in lingua originale con traduzione italiana a fronte, argomento, discografia, saggi e contributi di: F. Cella, C. Toscani, P. Gossett, B. Cagli, H. De Balzac, G. Ravasi, G. Laras, A. Vitalini, V. Crespi Morbio, L. Bramani, M. Bucarelli, F. Degrada, L. Bellingardi. Prima rappresentazione nell’ambito della stagione: Teatro degli Arcimboldi, 7 dicembre 2003.

 

 

  Honoré de Balzac et Alii, Aforismi: parole di saggezza, Cavallermaggiore, Gribaudo Tempo libero, 2003, pp. 191.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il cugino Pons. Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo. Traduzione di Ugo Déttore, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, (maggio) 2003 («Bur Classici», 1447), pp. 440.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Pier Vincenzo Mengaldo, Introduzione, pp. 5-33;

  Cronologia della vita e delle opere, pp. 35-44;

  Il cugino Pons, pp. 45-433.

 

  Le Cousin Pons rivela, come molti altri testi narrativi balzachiani composti negli ultimi anni di vita dello scrittore, un significativo sistema di rimandi e di intersezioni con altre opere della Comédie humaine. Il rilievo assunto da questa tecnica – che riflette in controluce il sistema di rinvii tra romanzo e romanzo presente nelle Préfaces – si inserisce perfettamente, osserva Mengaldo, nella «mentalità analogica che è assolutamente tipica del romanziere, e che stilisticamente si esprime nella copia quasi incontrollata delle similitudini» (p. 10). L’applicazione della pratica analogica alla descrizione psicologica e comportamentale dei personaggi tende a fissare la natura stessa dei protagonisti in tipi piuttosto che in individui, senza, tuttavia, inibire «l'affondo psicologico» che li caratterizza e che «è affidato anzitutto ai dettagli» (pp. 14-15). A questo, contribuisce in misura determinante il reticolo di monologhi e di dialoghi che animano la forza teatrale o melodrammatica del romanzo. Da questo punto di vista, è possibile affermare che Le Cousin Pons (l’opera forse più strettamente parigina di tutta la Comédie) è, tra i romanzi di Balzac, quello più particolarmente dotato di un «assetto “polifonico”» (p. 18), per il fatto che, in esso, l’intreccio di linguaggi disparati si rivela come assolutamente determinante nel far progredire l’azione romanzesca rispecchiando la «mimesi del caos parigino» e la sua «socialità insieme verticale e dispersiva» (p. 19). L’analisi delle tematiche e delle forme di costruzione narrativa consentono a Mengaldo di concludere che Balzac «non è il poeta dell’unitario, ma del molteplice e del dissonante», colui che, in altri termini, ha assunto la visione come lo strumento più potente per rendere il verosimile come «la faccia stravolta del vero» (p. 33).

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Bette. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Lucio Chiavarelli, Roma, Biblioteca Economica Newton, 2003 («Biblioteca economica Newton. Classici», 121), pp. 320.

 

  Cfr. 1999.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2003 («Superbur Classici», 266), pp. 201.

 

  La traduzione italiana di Gabriella Alzati risale al 1949. Il romanzo è preceduto da una breve Nota introduttiva (pp. 5-6), in cui è presentato un sommario e alquanto superficiale profilo biografico-letterario dell’autore con alcuni brevi riferimenti all’opera in questione, la cui ‘fabula’, «storia in grigio d’un grigio destino di donna», secondo la definizione del Valeri (p. 6), si fonda sulla diretta osservazione della drammatica complessità del vero.



  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Renato Mucci, Novara, De Agostini, (febbraio) 2003 («Capolavori della letteratura universale in miniatura»), pp. 607.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Garzanti, 2003 («I grandi libri», 25), pp. LXI-174.

 

  Cfr. 1984 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, I Giornalisti. Monografia della stampa parigina. Traduzione di Laura Franco, [Prefazione di Nantas Salvalaggio], Milano, La Biblioteca di Libero, 2003 [19 luglio], pp. 158.

 

  Cfr. 1992.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Garzanti Editore, 2003 («I grandi libri»), pp. LXIII-649.

 

  Cfr. 1966 (per la traduzione); 1983 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Torino, La Stampa, 2003 («I classici La Stampa», 27), pp. LXIII-247.

 

  Pubblicato su licenza della Garzanti libri nel 2003; in allegato al quotidiano «La Stampa» di Torino il 29 giugno 2004.

 

  Cfr. 1990 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, I proscritti. A cura di Daniela de Agostini. Postfazione di Andrea Mazzucchi, Roma, Salerno Editrice, (maggio) 2003 («Faville», 23), pp. 111.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Daniela de Agostini, Introduzione, pp. 7-36;

  I proscritti, pp. 37-87;

  Andrea Mazzucchi, Postfazione. Dante “per” Balzac, pp. 89-109.

 

  Pubblicato in forma pre-originale nel 1831 e, successivamente, nel 1835, nella sua prima edizione originale, Les Proscrits rappresentano il «peristilio» di quell’edificio letterario, Le Livre mystique, nel quale Balzac fornisce la sua personale chiave di lettura del rapporto uomo mondo-Dio, con il preciso intento di consolidare e di perfezionare i fondamenti estetico-filosofici della propria arte letteraria.

  Se considerato in relazione al vissuto del romanziere, osserva D. De Agostini nella sua Introduzione, il romanzo è la testimonianza esemplare della «svolta decisiva rappresentata dalla fine del 1830 e gli inizi del 1831» (p. 9), nel momento cioè in cui, dopo la pubblicazione della Physiologie du mariage e quella delle Scènes de la vie privée, Balzac si dedicava quasi esclusivamente all’attività giornalistica. Nei Proscrits, dunque, lo scrittore «riflette la propria condizione di ‘proscritto’, di bandito dallo spazio letterario e costretto a perseguire con ostinazione un discorso politico solitario» (p. 14) e a riflettere sui meccanismi della propria scrittura romanzesca. Grazie ad una rinnovata interpretazione della filosofia di Swedenborg, Balzac getta le basi di una nuova visione dell’uomo e del cosmo che troverà, in Louis Lambert e in Séraphîta, il suo naturale sviluppo, ma definisce, allo stesso tempo, «quello che dovrebbe essere il vero compito del romanziere-narratore capace di leggere nell’universo da lui creato i segni che lo porteranno alla scoperta del “segreto” dei sentimenti, delle azioni, del pensiero dell’uomo» (p. 17). È una sorta di “viaggio agli inferi” quello compiuto da Balzac attraverso i suoi personaggi per affrancarsi dalla condizione di esiliato della letteratura e liberare «l’energia interiore necessaria alla creazione di un’opera anzitutto visionaria» (p. 24).

  Da questo punto di vista, scrive A. Mazzucchi nella sua documentata postfazione, risulta quanto mai illuminante la forza suggestiva esercitata su Balzac da Dante: la costruzione e l’interpretazione del personaggio dantesco come precursore delle teorie swedenborghiane e la «particolare modalità di ricezione mistica ed esoterica della Divina Commedia» consentono di comprendere meglio, nei Proscrits, «la centralità del versante visionario e cosmico della poetica balzachiana e di evitare il rischio di una troppo netta contrapposizione tra la dimensione storico-realista del romanticismo francese e quella magica, intuitiva e simbolista» (p. 104).

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Lo scrittore Fuentes: omaggio a Balzac, «Avvenire», Milano, 23 ottobre 2003, p. 25.

 

  Carlos Fuentes vorrebbe «morire scrivendo», come accadde allo scrittore francese Balzac, uno dei suoi modelli letterari. Lo ha detto il romanziere messicano, che a Città del Messico ha ricevuto l’onorificenza di ufficiale della Legione d’Onore per volontà del presidente della Repubblica francese Jacques Chirac. Fuentes come Balzac ha progettato una «commedia umana» che conta finora una ventina di volumi.

 

 

  Daniela de Agostini, Introduzione, in Honoré de Balzac, I Proscritti ... cit., pp. 7-36.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Claudio Beretta, Letteratura dialettale milanese. Itinerario antologico-critico dalle origini ai nostri giorni, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 2003.

 

  p. 599. Di quest’ultima parte vorremmo ricordare un episodio che riguarda Honoré de Balzac che Rajberti incontrò casualmente nel 1837 in casa di un nobile signore. Balzac asseriva d’essere un ottimo magnetizzatore, capace di guarire, secondo la terapia di Mesmer e di altri, fondata sul magnetismo animale, dei soggetti malati, specialmente di nervi: aveva operato meraviglie a Parigi e si offriva per una prova immediata [...].

  Sull’aneddoto balzachiano riferito da Giovanni Rajberti, cfr. 1851.

 

 

  Mariolina Bertini, L’oeuvre pionnière de René Guise et de Raffaele de Cesare, in Collectif, Balzac et l’Italie. Lectures croisées, Paris, Musées/Des Cendres, 2003, pp. 27-40.

 

  L’A. ricostruisce con equilibrio (e ammirazione) i momenti fondamentali dell'intensa attività critica di due tra i maggiori esponenti della critica balzachiana: René Guise e Raffaele de Cesare, la cui magistrale lezione esegetica e metodologica ha contribuito e contribuirà ancora per lungo tempo a formare le più diverse generazioni di studiosi balzachiani e non. Dalla pubblicazione (con P. Laubriet) di Douleurs de mère nel 1961 sino all’immensa rassegna bibliografica sulla Prima fortuna di Balzac in Italia ed oltre, R. de Cesare ha saputo portare nuova luce e valorizzare in modo rigoroso e sistematico un campo di indagine (quello appunto su Balzac e l’Italia) fino ad allora caratterizzato da una sterile discontinuità. Dal canto suo, R. Guise ci ha consegnato nuove e importanti testimonianze di acume critico nei suoi studi sull’italianismo balzachiano e sulla presenza di Dante nella Comédie humaine. Senza timore di essere smentiti, crediamo che nelle pagine scritte da De Cesare e da Guise si riflette in maniera limpida e assoluta la lezione di due maestri e «une incomparable leçon de méthode»: De Cesare e Guise, osserva l’A., «ont représenté dans l’histoire de la critique balzacienne, un exemple de rigueur absolue» (p. 38).

 

 

  Mariolina Bertini, Balzac paladino dei gesuiti, «L’Indice dei libri del mese», Torino, N. 1, gennaio 2003, p. 18.

 

  Honoré de Balzac, Storia imparziale dei gesuiti, ed. orig. 1824, trad. dal francese di G. Morsani, prefaz. di Michele Ranchetti, pp. 113, € 13, Medusa, Milano 2002.

  Honoré de Balzac, Il Capolavoro sconosciuto. Pierre Grassou, ed. orig. 1837 e 1839, a cura di Giovanni Greco e Davide Monda, testo francese a fronte, pp. 214, € 9,30, Rizzoli, Milano 2002.

 

  Il 1824 è un anno importante e piuttosto misterioso nella giovinezza di Balzac. Rinunciando momentaneamente (la rinuncia durerà cinque anni) alla vocazione di romanziere, il futuro autore della Commedia umana collabora allora a un giornale di orientamento liberale – il “Feuilleton littéraire” –, ma al tempo stesso redige in forma anonima due pamphlets apparentemente d’ispirazione reazionaria, il primo a favore del ristabilimento del diritto di primogenitura, il secondo in difesa dei Gesuiti.

  È questo secondo testo che ora arriva, per la prima volta, nelle librerie italiane, con una prefazione di Michele Ranchetti che ne storicizza le intenzioni apologetiche e le lacune dottrinali. Se il pamphlet a favore del diritto di primogenitura era certamente un’opera su commissione, concepita negli ambienti dell’opposizione liberale allo scopo di gridare poi allo scandalo davanti alle sue tesi provocatoriamente ultraconservatrici, diverso è il caso della Storia imparziale dei Gesuiti: senza alcuno scopo politico immediato e senza alcuna presa di posizione estrema, l’autore vi auspicava un clima di tolleranza per la Compagnia di Gesù, della quale ammirava la tradizione pedagogica e “gli eminenti servigi resi alle scienze e alle arti”. Come ha sottolineato il più autorevole specialista del Balzac meno canonico, Roland Chollet, il futuro romanziere coglieva l’occasione per abbordare due temi che gli stavano particolarmente a cuore: da un lato la necessità di un crudo e razionale realismo politico, dall’altro l’ammirazione per il dispiegarsi della volontà e dell’energia. Sono proprio questi temi che ci consentono di scorgere in trasparenza, dietro l’anonimo polemista del 1824, il creatore di Vautrin e l’autore di memorabili pagine a venire su Caterina de’ Medici, su Marat, su Robespierre.

  A differenza della Storia imparziale dei Gesuiti, il Capolavoro sconosciuto non è una novità per il pubblico italiano: ricordiamo, tra le più recenti, l’edizione Passigli del 1995. Per la prima volta, però, i curatori di questa preziosa edizioncina hanno corredato il testo di note e vi hanno aggiunto un’esauriente antologia di interpretazioni critiche, commenti e testimonianze di artisti e scrittori. Grazie a questi apparati, la parabola del geniale pittore secentesco Frenhofer, che finisce per tradire e sfigurare la propria opera volendone portare la perfezione rappresentativa al di là dell’umano, svela al lettore tutte le proprie implicazioni e si afferma come enigmatica profezia del destino dell’artista moderno. Una scelta brillante e inconsueta dei curatori ha affiancato al Capolavoro sconosciuto, scritto da Balzac nel 1831 e rielaborato nel 1837, Pierre Grassou, del 1839: un racconto nel quale si incontrano il Balzac realista, attento ai gusti pittorici kitsch dei commercianti arricchiti, e il Balzac umorista più fantasioso e paradossale.

 

 

  Mariolina Bertini, Schede. Honoré de Balzac, “I Proscritti”, ed. orig. 1831, a cura di Daniela De Agostini, postfaz. di Andrea Mazzucchi, pp. 111, € 8, Salerno, Roma 2003, «L’Indice dei libri del mese», Torino, N. 2, febbraio 2003, p. 37.

 

  Forse sull’onda del successo recente di Notre Dame de Paris di Hugo, anche Balzac, nel 1831, tenta di richiamare in vita nei Proscritti la Parigi medioevale; in particolare, le bicocche sorte sul greto della Senna dietro alla cattedrale e un po’ schiacciate dalla sua ombra imponente. Vi abitano due esuli, guardati con sospetto dai parigini: un bellissimo adolescente, solitario e disperato, e un individuo inquietante dal volto scarno e dallo sguardo “brillante e lucido come quello dei serpenti e degli uccelli'’. Quando il più giovane dei due tenterà di uccidersi, l’altro lo salverà e lo distoglierà dal suicidio con una straordinaria narrazione poetica, nella quale ricorrono arcangeli e ombre, zaffiri fluttuanti e cieli di opale, mari di fiamme e mondi “che zampillano come fiori in una prateria”. Solo alla fine del racconto il lettore comprenderà il misterioso incanto della voce che dispiega davanti al ragazzo che ha tentato di morire “gli spazi immensi, gli abissi infiniti”: è la voce di Dante, stabilitosi a Parigi per sfuggire ai Guelfi e per ascoltare le lezioni di teologia di Sigieri di Brabante in quel “vico delli strami” che sarà poi ricordato nel Paradiso (X, 136-38). Più suggestivo che documentato, il racconto balzachiano attribuisce anacronisticamente a Sigieri una “teologia della luce” con forti coloriture swedenborghiane, suggerendo di scorcio una lettura “iniziatica” di Dante evidentemente arbitraria e antistorica, ma non priva di fascino. Ricca di preziosi strumenti, questa nuova edizione aggiunge al testo, ben tradotto e ampiamente annotato, due saggi complementari: la prefazione di Daniela De Agostini, che inquadra il racconto nella Commedia umana e ne sottolinea i temi e le strutture specificamente balzachiane, e la postfazione di Andrea Mazzucchi, attenta alle fonti e al contesto della ricezione di Dante nel XIX secolo.

 

 

  M.[ariolina] B.[ertini], Schede. Honoré de Balzac, “Viaggio da Parigi a Giava. Trattato degli eccitanti moderni, ed. orig 1832 e 1839, a cura di Graziella Martina, pp. 121, €8, Ibis, Como-Pavia 2002, «L’Indice dei libri del mese», Torino, N. 4, Aprile 2003, p. 41.

 

  Per il pubblico italiano, che già dispone di diverse traduzioni del Trattato degli eccitanti moderni, il vero motivo d’interesse di questo grazioso volumetto è il Viaggio da Parigi a Giava, per il quale Balzac si ispirò ai racconti di un conoscente reduce dalle Indie. È un Balzac in stato di grazia quello che si sofferma, in questa breve narrazione di gusto sterniano, sugli amori di un esotico uccellino, il bengali, con i calici profumati delle rose; sulle lunghissime capigliature delle pallide giavanesi, sulla vita sociale delle scimmie, caratterizzata dal sistema elettivo; sul più velenoso di tutti gli alberi, l’immenso upas, circondato dagli scheletri e dai teschi delle sue vittime che scintillano al sole. Il direttore della “Revue de Paris”, dove il testo apparve nel novembre del 1832, ritenne di dover risparmiare ai suoi lettori benpensanti e alle sue pudibonde lettrici la descrizione delle movenze feline delle giavanesi, e la tagliò: bell’omaggio indiretto alle capacità di seduzione della scrittura balzachiana, che i miraggi di un esotismo sognato rendono in queste pagine particolarmente scintillante e suggestiva. La traduzione è accurata, anche se le petites maîtresses che ungono diligentemente le loro fluenti capigliature a pag. 29 non sono “piccole amanti”; sono la versione femminile del “petit maître”, dandy di raffinata eleganza.

 

 

  M.[ariolina] B.[ertini], Schede. Honoré de Balzac, “Il cugino Pons”, ed. orig. 1847, trad. dal francese di Ugo Dèttore, introd. di Pier Vincenzo Mengaldo, pp. 433, € 10,50, Rizzoli, Milano 2003, «L’Indice dei libri del mese», Torino, N. 10, Ottobre 2003, p. 38.

 

  Nella primavera del 1847, Il cugino Pons esce, in trenta puntate, sul quotidiano “Le Constitutionnel”, con grande successo. Balzac, la cui stella era stata un po’ oscurata nei primi anni quaranta dai trionfi dei Misteri di Parigi di Sue e dei romanzi storici di Dumas, dal 1846 è di nuovo uno dei “marescialli” del feuilleton e domina la scena letteraria parigina, per il breve tempo che ancora gli resta da vivere e nel quale raggiungerà l’apice della popolarità. Del feuilleton, Il cugino Pons ha l’intreccio serrato e la scena debordante di personaggi minori, spesso caricaturali; ma al posto delle agnizioni, dei duelli e dei rapimenti cari agli altri feuilletonistes, Balzac propone al suo pubblico il più piatto e borghese dei drammi, quello di un’eredità contesa. È l’eredità del modesto musicista Pons, che in anni e anni di pazienti ricerche presso i rigattieri ha messo insieme una straordinaria collezione di oggetti d’arte. Intorno al suo letto di morte se la contenderanno, senza esclusioni di colpi, personaggi provenienti dalle più diverse sfere della società parigina, portinaie intriganti e giudici altolocati, antiquari senza scrupoli e loschi uomini d’affari. Spicca, sola figura innocente e piena di candore, l’amico fraterno di Pons, il musicista tedesco Schmucke, disarmato davanti a uno scontro di interessi che lo trascende e lo esclude. Romanzo intricato e polifonico, Il cugino Pons ci ricorda – come sottolinea nella sua bella introduzione Mengaldo – che “Balzac non è il poeta dell’unitario, ma del molteplice e del dissonante”; il suo realismo reca “il marchio quasi shakespeariano dell’eccesso e dell’estremo”, perché in lui il verosimile altro non è che “la faccia stravolta del vero”.

 

 

  Veronica Bonanni, Boccace dans les «Contes drolatiques», in Collectif, Balzac et la nouvelle (III), «L’École des lettres» (second cycle), n. 13, Juillet 2003, pp. 153-163.

 

  Dans le prologue du Quint dixain des Contes drolatiques, Balzac défend son ouvrage contre ceux qui y voient un simple pastiche sans aucune originalité, un collage construit en coupant et collant quelques nouvelles du Moyen Age et de la Renaissance. Si cette accusation était fondée, il faudrait considérer aussi comme des pastiches tous les ouvrages des vieux conteurs, de Boccace à Marguerite de Navarre, où, un peu comme dans les contes de fées, on retrouve toujours les mêmes intrigues, les mêmes situations et les mêmes thèmes. Amants cachés dans des coffres, maris cocus et contents, servantes complaisantes, méprises nocturnes, plaisanteries de mauvais goût sont seulement quelques-uns des ingrédients incontournables de la nouvelle traditionnelle.

  Mais si la réécriture et l’emprunt sont des procédés très courants dans la tradition de la nouvelle, comment expliquer l’originalité de chaque conte? Qu’est-ce qui permet de construire des édifices différents avec les mêmes pierres? C’est, selon Balzac, la «manière», le style, la façon de raconter, cette qualité indéfinissable qui imprime au texte une marque unique.

  Pour lui, l’essentiel n’est donc pas de nier ses emprunts, mais d’affirmer une manière propre: le vrai pastiche serait d'écrire «à la manière de», même sans rien emprunter. D’ailleurs, il serait difficile à l’auteur des Contes drolatiques de cacher ses nombreux souvenirs de lecture, si aisément reconnaissables pour un lecteur ayant quelque compétence dans le domaine de la nouvelle.

  On connaît depuis longtemps, grâce aux études de Pietro Toldo et à l’édition Pléiade des Oeuvres diverses, plusieurs sources possibles des Contes drolatiques. Mais je crois qu’il reste encore un vaste terrain à explorer, surtout pour ce qui concerne les références aux nouvelles italiennes, que Balzac avait probablement lues dans de vieilles traductions françaises. Exploration d’autant plus difficile à mener que l’on ne peut affirmer en toute certitude quels étaient les auteurs italiens lus, ou au moins connus, par Balzac. Si l’on s’en tient aux noms qu’il cite, il aurait connu Dante, Pétrarque, l’Arioste, le Tasse, Machiavel, le Lasca, Giraldi Cinzio, Bandello, l'Arétin et Boccace. Mais on ne sait pas quel était son niveau de connaissance de ces auteurs, et on ne peut même pas exclure qu’il ait lu quelques nouvelles d’autres auteurs italiens dans des anthologies.

  Le recueil de nouvelles italiennes le mieux connu de Balzac était sans doute le Décaméron de Boccace. Cité plusieurs fois dans la Comédie humaine, célébré parmi les «grands conteurs» dans Petites misères de la vie conjugale, Boccace est aussi évoqué comme l’un des inspirateurs des Contes drolatiques.

  Certains emprunts probables ont déjà été remarqués: dans la Mye du roi, un homme croyant être couché avec une jeune femme se retrouve avec une vieille servante, comme dans le Décaméron (VIII, 4) ; l’amant, dans l’Incube, passe pour un revenant, comme dans le Décaméron (VII, 1); des réminiscences de Boccace (le Décaméron, II, 10) se mêlent, dans le Péché vesniel, à celles de La Fontaine (le Calendrier des vieillards).

  Il convient cependant de rester prudent: l’intrigue de la nouvelle VIII, 4 de Boccace se retrouve également dans plusieurs recueils de nouvelles, et il est possible que Balzac se soit référé à une autre version. La nouvelle VII, 1 et l’Incube, de même, ont en commun la trouvaille qu’a la femme de faire passer son amant pour un être surnaturel, mais ce thème est développé d’une manière très différente chez les deux auteurs. Cette incertitude dans la détermination de la source est d’ailleurs normale quand on a affaire à la nouvelle traditionnelle, qui, comme je l’ai déjà souligné, présente souvent les mêmes thématiques et les mêmes sujets. En revanche, il semble que les emprunts de la nouvelle II, 10 de Boccace dans le Péché vesniel soient plus précis. D’autres références au conteur italien dans les Contes drolatiques, moins connues, peuvent encore être évoquées. […].

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Gautier critique de Balzac, «Cahiers de l’Association Internationale des Études Françaises», mai 2003, n° 55, pp. 501-518.

 

  […]. Son évocation de l’écrivain, quoique moins romancée et théâtralisée que celle de Gozlan, si riche en dialogues cocasses et en scènes hautes en couleur, c’est avant tout un récit, qui met le lecteur en présence d’un Balzac personnage promenant sa «joie rabelaisienne et monacale» de la rue Cassini à la rue des Batailles, de Passy aux Jardies et au pavillon Beaujon, au milieu des luttes, des efforts et des bizarreries d’une existence d’artiste compliquée et tumultueuse.

  Car le héros de la biographie de Gautier est bien une incarnation de l’artiste, tel que Balzac l’avait théorisé et décrit dans son essai de 1830 publié dans La Silhouette; de l’artiste qui poursuit «l’art pour l’art lui-même» à travers les contradictions perpétuelles et inévitables de sa vie, dont les bourgeois n’arrivent pas à comprendre le décousu apparent et la nécessité profonde. Un écho précis des formules balzaciennes de 1830 vient par exemple conclure, dans l’essai de Gautier, la description — amusée et affectueuse — de la négligence vestimentaire de Balzac, courant «aux imprimeries porter la copie et chercher les épreuves» avec un chapeau gras et de gros souliers tout à fait dépourvus d’élégance […].

  Balzac, qui voyait dans l’artiste un «souverain» méconnu, avait utilisé l'expression «princes de la pensée»; Gautier reprend ses mots presque à la lettre, au moment même où il saisit, de l’écrivain, une silhouette qu’on dirait sortie tout droit de la Théorie de la démarche. C’est d’ailleurs toute la narration de Gautier qui semble baigner dans la lumière des puissantes pages balzaciennes de 1830 sur les Artistes […]. «L’artiste marche la tête dans le ciel et les pieds sur cette terre. C’est un enfant, c’est un géant», écrivait Balzac dans La Silhouette; or, c’est justement un Balzac tout à la fois «enfant» et «géant» que Gautier met en scène, en fixant, avec la prodigieuse efficacité de sa mémoire picturale, quelques-uns des souvenirs de sa longue fréquentation amicale du romancier. Même les anecdotes les plus rebattues, comme celle de l’ameublement imaginaire des Jardies avec des phrases écrites au charbon sur les murs nus: «tapisserie des Gobelins, glace de Venise, tableaux de Raphaël» deviennent, à la lumière de cette dialectique du géant et de l’enfant, des clés valables pour l’univers de la création balzacienne […].

  Gautier saisit un des points forts du créateur de La Comédie humaine: l’imagination de Balzac s’épanche dans la vie quotidienne, s’empare des données prosaïques de la réalité brute et refond le tout dans sa puissante fournaise. Les romans et les drames qui en ressortent font parfois partie d’une sorte de légende vécue et parlée, qui accompagne et redouble la rédaction des romans écrits dans une jubilation de l’imaginaire partagée avec les amis les plus fidèles.

  C’est dans cette perspective qu'il faut lire les pages de Gautier qui évoquent le moment où Balzac écrit Facino Cane […].

  Par cette «infusion de désir», par un regard magnétique qui rappelle celui de Vautrin, le Balzac de Gautier s’empare de son biographe, l’attire au coeur de son royaume enchanté et lui transmet sa passion de l’imaginaire, sa «puissance de vision», son ivresse du rêve. Gautier met en scène dans cet épisode une sorte de genèse idéale de sa biographie de Balzac: née à l’enseigne de la complicité et de la contagion, elle ne se situe nullement sur le terrain de la critique, mais sur celui de l’essai-récit capricieux et divaguant. On dirait qu’elle se rattache, pour les continuer, aux arabesques de deux textes balzaciens de 1830 et de 1833, le Traité de la vie élégante et la Théorie de la démarche. Cette filiation secrète est bien en harmonie avec la nostalgie persistante de l’époque d’Hernani et d’Antony, cette nostalgie qu’on respire, à peine dissimulée par un humour de bon ton, dans tant de pages de l’auteur de l’Histoire du romantisme. Entouré d’une aura de confiance et de bonheur, le Balzac des années trente domine ainsi la reconstruction biographique de Gautier et la transforme en une sorte d’émouvante recherche de la jeunesse perdue. C’est cette tonalité qui marque la différence la plus évidente entre l'étude de Gautier et celle de Taine. […].

  C’est que, dans La Comédie humaine, Taine choisit les parties à sauver avec la rigueur implacable de l’homme distingué qui, dans un magasin débordant de bric-à-brac, ne trie que les objets d’une valeur certaine, dignes de figurer dans son appartement d’un irréprochable bon goût. Gautier au contraire, en flâneur et en curieux, dans ce même magasin multiplie les trouvailles et découvre dans les moindres babioles des trésors qui parlent à sa mémoire et à son imagination, qui suscitent son enthousiasme. Son goût qui n’a rien d’exclusif ni d’étriqué, qui lui permet d’aimer la pantomime et le théâtre populaire, les tours de force des acrobates et les romans décriés de Paul de Kock, lui permet aussi d’opposer au Balzac de Taine un Balzac à part entière; un Balzac aimé dans chaque ligne et dans chaque coin de son oeuvre, sans rien sacrifier de la richesse multiforme et diverse de son génie.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Balarouth: Balzac ritrattista nel 1822, in AA.VV., Tra parola e immagine. Effigi, busti, ritratti nelle forme letterarie. Atti del Convegno, Macerata-Urbino, 3-4-5 aprile 2001, a cura di Luciano Gentilli e Patrizia Oppici, Macerata, Università degli studi – Facoltà di Lettere e filosofia, 2003, pp. 247-254.

 

  Il tema del ritratto occupa un posto di primo piano nell’opera di Balzac, se considerato alla luce del progetto estetico più generale che presiede alla peculiarità delle singole creazioni narrative e che intende offrire ai lettori la perfetta illusione della vita perennemente “en action”. In questo senso, la pratica del ritratto, che, ad esempio, in Sarrasine, sembra essere collegata «a una concezione della fatalità dai forti connotati romantici e melodrammatici» (p. 248), è avvertita dallo scrittore come uno tra gli elementi centrali della stia poetica romanzesca, come un «elemento tra i più tipici e irritabilité» (p. 249).

  In Une Heure de ma vie, racconto giovanile che Balzac scrisse tra il febbraio e il marzo 1822, il personaggio di Balarouth, il vagabondo che diventerà il fedele servitore e l’amico del giovane romanziere, prefigura alcune suggestive figure della Comédie humaine nelle quali è possibile scorgere la proiezione delle tensioni tipicamente balzachiane verso la ricerca (e lo studio) dell’uomo interiore da cui procede la storia segreta del genere umano. Posto accanto al peristilio del Théâtre-Français, Balarouth smaschera gli artifici di una tradizione aulica ormai desueta: la sua connotazione grottesca ed eroicomica, puntualizza bene l’A. «funge da correttivo al patetico ed è allo stesso tempo, per Balzac, un elemento di discreta e coscientissima autoparodia, in perfetta consonanza con il modello sterniano» (pp. 252 253).

  In questo personaggio simbolico, la cui espressione stoica e magnanima stride non poco con la sua condizione (esteriore) di mendicante, è scritto «il suo destino di conoscitore impareggiabile delle strade parigine» (p. 253): egli, infatti, saprà infondere a Balzac la propria energia vitale e il proprio sapere metropolitano, per poi essere dimenticato dallo scrittore che già, però, ne ha interiorizzato la scienza.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Ritratto e mélodrame: una costellazione balzachiana, in AA.VV., Narrare/Rappresentare. La parola letteraria, lo schermo, la scena, a cura di Francesca Torchi, Bologna, CLUEB, 2003, pp. 117-130.


  Il mio tentativo di mettere a fuoco una costellazione balzachiana – quella nella quale s’incontrano il tema del ritratto e la categoria del melodrammatico – verterà su due quadri e un disegno (immaginari) che spiccano con particolare rilievo nelle Scènes de la vie privée, la raccolta di sei racconti che Balzac pubblicò nell’aprile del 1830. Due quadri e un disegno chiamati a svolgere un’importantissima funzione nel dispositivo narrativo: quella di fornire, all’intreccio della novella di cui fanno parte, lo spunto iniziale dal quale deriveranno tutti i successivi sviluppi. Centrali dunque nella diegesi; eppure in qualche modo quasi esclusi dalla rappresentazione, non descritti, sacrificati e marginalizzati nel testo a beneficio di altri elementi visuali. E su questa esclusione che mi propongo di riflettere, e sulla simultanea accentuazione di un’implicita teatralità dell’immagine a mio parere destinata in qualche modo a compensarla.

  Le opere immaginarie sulle quali intendo soffermarmi sono – se ci atteniamo all’ordine cronologico di stesura dei testi nei quali compaiono — innanzitutto i due quadri raffiguranti la protagonista di Gloire e malheur, Augustine, dipinti del pittore Théodore de Sommervieux, perdutamente innamorato di lei; poi il ritratto del giovane proscritto abbozzato, all’indomani della seconda e definitiva sconfitta di Napoleone, da Ginevra di Piombo, eroina La Vendetta. Sia le opere di Sommervieux, sia il lavis abbozzato da Ginevra ci condurranno, nel corso della nostra analisi, non tanto verso il mondo della pittura, che Balzac affronterà nella sua specificità soltanto con Le Chef-d’oeuvre inconnu, quanto verso quello del teatro, presente al suo immaginario in forma a volte sotterranea ma costante. [...].

 

 

  Gabriella Bosco, Alain Robbe-Grillet specchio dell’io, «La Stampa ttL», Torino, Numero 1385, 1 novembre 2003, p. 7.

 

  Si è detto che rispetto al romanzo tradizionale di Balzac o Dickens, quello moderno cessa di interessarsi all’oggetto della descrizione per concentrarsi sul suo movimento. In realtà io non descrivo ma costruisco. Creo la mia coscienza proiettandola verso il mondo esterno, e lei a sua volta attraverso la proiezione verso l’esterno fa sorgere il mondo. Balzac, o peggio ancora Dickens, erano scrittori la cui coscienza capiva il mondo, e ce lo spiegavano. Kafka, Svevo non capiscono il mondo, ed è per questo che scrivono. Lo fanno per capire il mondo e loro stessi. Certo il lettore ne risulta spiazzato. Il lettore di Balzac e Dickens può essere totalmente fiducioso nel narratore.

 

 

  Claude Bremond, Il matrimonio del castrato (a proposito della concezione barthesiana dell’antitesi), «Boll 900», n. 2, Dicembre 2003.

 

  [...]. Da dove viene allora l’accezione in cui Barthes considera il termine di antitesi? Non si tratta in realtà della figura della retorica in senso proprio, ma di un’estensione metaforica di questo senso. I dizionari notano in effetti che, con un passaggio dal proprio al figurato, l’antitesi comincia a designare, a partire dal XIX secolo, non più un’opposizione frastica che gioca su parole o pensieri espressi, ma un’opposizione referenziale tra due individui o due principi: «un tale è l’antitesi vivente di suo fratello». È in questo senso derivato o imbastardito che Hugo, su scala cosmica, parlerà di un’«antitesi universale» tra principi in lotta. È anche in questo spirito manicheo che all’inizio di Sarrasine il narratore può, senza peraltro utilizzare la parola, interpretare lo spettacolo che gli è offerto come una figurazione simbolica dell’«antitesi» che oppone la Vita e la Morte. Barthes, preoccupato di dare alla sua ipotesi l’appoggio di una base linguistica o semiologica, si sente in dovere di identificare verbalmente la sua idea dell’antitesi con quella della retorica classica. Ma questa concezione non resta in lui meno allineata a quella dei romantici (e qui anche di Balzac), con la sola differenza che i principi antinomici che si affrontano nella cosiddetta antitesi non hanno più come campo di battaglia il mondo, oggettivo o soggettivo, naturale o soprannaturale, sociale o materiale, ma lo spazio misterioso del corpo, come principio materiale di fatto smaterializzato, concepito come un campo chiuso in cui bruciano a forza di battersi, per fortuna separati da muri senza porte che si superano come «passe-muraille», le coppie di contrari lessicali. Barthes ha decapitato la figura retorica della realizzazione frastica in cui essa trovava un senso. Ha trasformato un fatto di parole in un fatto di langue. Ma inciampa sull'impossibilità di drammatizzare questa forma di opposizione: quale senso trarre dallo scontro mitico dei termini interno ed esterno, caldo e freddo, vita e morte, legati sintagmaticamente dalla barra paradigmatica che ad un tempo li unisce e li oppone? Possiamo spremere finché vogliamo questa frutta secca, ma non ne uscirà nessun succo. Sola risorsa possibile: a prezzo di una certa dose di iniezioni antropomorfiche, riconvertirli in attori di una favola allegorica. Grazie a questo trattamento, che riporta il simbolo all’aneddoto che si diceva di voler ripudiare, l’«opposizione» linguistica diventa inimicizia, la «barra paradigmatica» funge da muro di Berlino, ed i termini antagonistici, mossi da qualche pulsione viziosa, saltano il muro per dare e ricevere il bacio della morte tra le braccia dell’avversario. Questo immaginario così approssimativo porta in sé la sua stessa condanna. Barthes, riferendosi di passaggio all’ossimoro, avrebbe dovuto riconoscere che la barra dell’antitesi, lungi dal costituire l’ultimo parapetto contro una mescolanza esplosiva dei termini, può essere alzata senza inconvenienti: questo tropo, classico quasi quanto l’antitesi, gioca proprio su questa soppressione. Anche se Hugo avesse definito Olivier non «aquila dagli occhi di colomba», ma «aquila-colomba» o «eroe dagli occhi di aquila-colomba», la compresenza all’interno di uno stesso soggetto di due predicati solitamente incompatibili non avrebbe posto un problema molto più difficile da risolvere. Se la trasgressione dell’antitesi nell’ossimoro presentava per i contravventori l'ombra di un pericolo, il Cardinale di Richelieu avrebbe certamente proibito il Cid per il fatto che certi versi, che trasgredivano l’inflessibile barra che separa l’oscurità dalla luce, provocava negli spettatori delle convulsioni tali da turbare l’ordine pubblico. Naturalmente si possono sempre immaginare, a proposito di certe coppie antitetiche, delle forme di sacralizzazione, individuali o collettive, dei condizionamenti pavloviani che conferiscano alla trasgressione un carattere di scandalo intollerabile: «sudore e grido»! Per fare un esempio non privo di rapporti con il nostro argomento, l'espressione «ces messieurs-dames» applicata da Proust alla coppia Charlus-Morel può divertire gli uni e produrre sugli altri l’effetto castrante del riso. Ma tali rigidità non possono riguardare la figura dell’ossimoro e, ancor meno, quella dell’antitesi, né nella sua generalità né nella sua normalità. [...].

  L’antitesi, intesa come antagonismo reale (e non essenzialmente verbale) di due forze antinomiche, sarà forse, più dell’antitesi retorica classica, capace di giustificare la concezione barthesiana di due termini che si affrontano in una condizione di ostilità feroce e implacabile? Non si capisce perché. Forse certi manichei irrigidiranno in un antagonismo senza uscita principi contrari come il Bene e il Male, la Vita e la Morte, la Castità e la Lussuria, la borghesia e il proletariato, il Leggibile e lo Scrivibile, ecc. condannati a sfidarsi al di sopra della barra della loro opposizione come due cani di maiolica, che si guardano in cagnesco, su un caminetto. Ma questa rigidità è solo un’opzione tra altre, che ammette in ogni caso altre scelte alternative alla trasgressione catastrofica a cui Barthes pretende di ridurre la soluzione del conflitto. Ci si stupirà di come l’autore di S/Z, ben poco marxista in questo, ragioni senza ipotizzare un progresso dialettico capace di operare la sintesi dei termini antinomici.

  È la norma dell'antitesi retorica, e non un’ideologia antiquata, che richiede l’integrazione dialettica dei due termini contrari in una sintesi che operi la loro conciliazione. È vero anche per il modo in cui il narratore di Sarrasine trae la morale dalla sua chimera: dapprima stupefatto dal capriccio della natura che ha messo in contiguità, sotto il contorno dell’«arabesco», il corpo del Vegliardo e della giovane donna, si riprende e realizza che questa entità mostruosa, da una parte illustra con una sineddoche, in una delle sue realizzazioni parcellizzate, la coesistenza universale dei contrari Vita e Morte, e dall’altra figura metaforicamente una sorta di matrimonio a cui si può assistere ogni giorno a Parigi. Questa integrazione dell’antagonismo iniziale sarà decifrata nella prospettiva di Barthes solo come un’illusione automistificatrice, una banalizzazione della tensione tragica dei contrari: Barthes scommette sul peggio. Ma perché, da parte nostra, non considerare come un partito preso drammatico, magniloquente fino al burlesco, il rifiuto di prendere in considerazione lo sforzo di normalizzazione operato dal narratore e apparentemente convalidato dal solo testo che sia effettivamente stato scritto, quello di Balzac?

 

 

  Annie Brudo, Les pièces inachevées du «Théâtre» de Balzac, in AA.VV., Lingua, cultura e testo. Miscellanea di studi francesi in onore di Sergio Cigada, a cura di Enrica Gavazzi e Giuseppe Bernardelli. Volume IX – Tomo 1, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 139-152.

 

  Nell’ambito della frenetica attività di scrittura balzachiana, il ricco e variegato mosaico delle “oeuvres avortées” costituisce una testimonianza esemplare della intensità progettuale e della fecondità artistica del romanziere francese. Accanto alle opere narrative in cantiere, più volte annunciate e mai portate a definitivo compimento, merita senza dubbio una attenzione particolare l’insieme delle cosiddette “pièces avortées”, vale a dire quelle opere teatrali progettate e mai concluse che attraversano l’intero percorso letterario di Balzac dal 1820 al 1848. Queste «pièces inachevées et quasiment ignorées», osserva A. Brudo, [...] «témoignent non seulement de la prodigieuse fécondité et de l’intérêt permanent que Balzac cultiva pour le théâtre, mais elles nous renseignent surtout sur la création et sur l’élaboration de son oeuvre colossale dont le théâtre constitue [...] une étape fondamentale, voire la source même de son inspiration» (p. 140). In queste opere, Balzac non disdegna alcun genere e sviluppa una varietà di tematiche che risentono certo dell’influenza di autori stranieri quali Shakespeare, Machiavelli, Byron, Scott o Cooper, ma che già assumono una peculiarità storico-letteraria propria. Balzac, puntualizza l’A., intende fermamente contribuire «au renouvellement du théâtre comme il avait contribué à celui du roman» (p. 149): la filiazione tra teatro e romanzo si pone quindi come un principio-cardine della poetica letteraria balzachiana e, da questo punto di vista, è possibile condividere con l’A. l’assunto secondo cui «l’inachèvement, chez Balzac, est rarement l’indice d’un échec, d’un ratage; il s’inscrit plutôt dans le processus créatif, dans la question de la génétique de l’oeuvre» (p. 151).

 

 

  Antonia S. Byatt, La morte di Lucien de Rubempré, in AA.VV., Il Romanzo. Volume quinto. Lezioni, a cura di Franco Moretti, Pier Vincenzo Mengaldo e Ernesto Franco, Torino, Giulio Einaudi editore, 2003, pp. 173-189.

 

  Personaggio ambiguo e contraddittorio, Lucien de Rubempré conclude in modo tragico la sua tormentata esistenza in Splendeurs et misères des courtisanes. Dopo il primo tentativo di suicidio sventato in extremis da Vautrin in Illusions perdues, Lucien soccombe sotto il peso insostenibile della sua debolezza e della propria impotenza nel non saper trasformare le proprie illusioni in atti di forza (morali, psicologici e intellettuali) che gli avrebbero consentito, risolvendo i contrasti tra provincia e Parigi, di superare la frattura tra mondo poetico e mondo reale. Tentato (come Cristo) dalle forze demoniache del male e della corruzione incarnate da Vautrin, Lucien si mostra, contrariamente a Rastignac, vulnerabile: in questo senso, l’angelica bellezza della figura balzachiana non sarebbe altro che l’opaco riflesso della generale corruttibile debolezza dell’intero genere umano.

  Le similitudini animali utilizzate da Balzac per svelare il carattere dei suoi personaggi (maschili e femminili), il modello scientifico e le risonanze mistico-religiose che formano e attraversano le strutture e gli spazi della Comédie humaine conducono l’A. a riflettere sulla rappresentazione balzachiana del reale e sulla capacità (pressoché unica) dello scrittore di connettere tra loro la grandiosità e la stravagante proliferazione di persone, di indizi e di dettagli «nel tessuto di una prosa mutevole» (p. 188) che rispecchia il concetto stesso di comprensività balzachiana. Da questo punto di vista, la connessione alla Comédie di Illusions perdues di Splendeurs et misères des courtisanes offre «ai lettori una chiave per capire in che modo Balzac costruiva la gigantesca volta e quindi gli schemi decorativi delle sue creazioni» (p. 189).

 

 

  Stefano Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in AA.VV., Il romanzo. A cura di Franco Moretti. Volume quarto. Temi, luoghi, eroi, Torino, Giulio Einaudi editore, 2003, pp. 611-640.

 

  [...]. Non c’è dubbio, intanto, che il desiderio di predisporre una rete interdiegetica in grado di far gravitare cospicue masse testuali entro una medesima orbita vada spostato molto prima di quel 1842 che sancisce, anche contrattualmente, la nascita della Comédie humaine. L’elefantiasi ha radici lontane. È certamente già virale nel 1824, quando il giovane Balzac, con la memoria a un Walter Scott che avrebbe saputo «elevare il romanzo al grado filosofico della storia», progetta la Histoire de France pittoresque, una serie pluriromanzesca che definisce «opera immensa» e di cui ci restano solo Gli Sciuani, L’excommunié e Le gars, malgrado l’intenzione di scrivere romanzi in numero proporzionale agli eventi storici della Francia dal dominio dei Franchi al XIX secolo. A decidere del fallimento dell’impresa non è certo la lenta, spossante risalita del narratore attraverso mille anni di storia o l’idea che un testo romanzesco debba costituire solo «una delle pietre dell’edificio che l’autore cercherà d’innalzare», ma il sopraggiungere di nuovi progetti. La rete persiste e comincia a organizzarsi in pangee narrative denominate scènes («Scènes de la vie privée», «Scènes de la militaire», «Scènes de la vie politique»).

  Rallentiamo la marcia di Balzac, e osserviamolo mentre ammicca alla lealtà e ne espianta generosi, informi lembi. È contro quel non-formato che il suo impulso sistemico si accanisce, anche perché – giusta la coeva Théorie du conte – egli crede che «il racconto sia ancora la più alta espressione della letteratura» e ha necessità di un’energia testuale che sappia aggregare il pulviscolo diegetico. Siamo alle soglie della Comédie: il cantiere è aperto da tempo, i lavori morfologici fervono, le commesse tematiche vengono puntualmente evase, e la «cattedrale di carta» comincia la sua ascesa. Il passaggio dall’immagine scottiana del romanziere quale storico ufficiale di una nazione a quella del narratore che si dedica alla raccolta, classificazione, manutenzione dei moeurs indica un’ossessione di completezza, il desiderio di immettere in un’opera quanto più materiale referenziale sia possibile, la volontà di fungere da «segretario» della società contemporanea. Vincolato all’attività giornalistica svolta da Balzac nei primi anni Trenta, questo pulviscolo si divide in archititoli contenenti romanzi autonomi che vanno e vengono da un editore allaltro, da un aggregato diegetico allaltro. Almeno per adesso, l’unica cosa certa è il desiderio di proiettare sulla realtà un principio federativo, e non solo secondo modalità romanzesche: nelle vesti di recensore letterario, il 20 febbraio 1830 Balzac dichiara ai lettori della «Mode» di «voler tracciare un quadro che comprenda tutte le opere letterarie degne di attenzione della nostra epoca», o addirittura di costruire «un monumento che si segnali più per la quantità e l’insieme dei materiali che per la bellezza dell’edificio». Nel 1834 la langue della Comédie sta per diventare quello che poi sarà, una struttura ternaria («Etudes de moeurs», Etudes philosophiques» e qualcosa di simile alle posteriori «Etudes analytiques») offerta a un pool di editori (Werdet, Souverain, Delloye e Lecou). Adesso non resta che descrivere tutte le patologie sociali, le «professioni», i «luoghi» urbani ed extraurbani, i comportamenti femminili e maschili in ogni fascia di età o ceto sociale, le azioni «fisiche e morali», «civili e naturali», e si giungerà ben presto alla definizione ultima della Comédie humaine, edita da Furne tra il 1842 e il 1846.

 

2. Il mansionario del romanziere: censire e miniaturizzare.

 

  Così, pressapoco, i fatti. Da questo momento il romanzo europeo mostrerà una marcata tendenza a flettersi in archi diegetici sempre più ampi, a inglobare porzioni di realtà dai territori sconfinati: il romanzo diviene sur-roman, e la ciclizzazione una necessità di mercato. Perché? Osservando la genesi del processo ciclico in Balzac è possibile ricavare alcune provvisorie conclusioni, cominciando dalle

  a) trasformazioni del mercato editoriale. Sensibile all’incidenza statistica del romanzo sulle vendite complessive nel settore belles lettres e incessantemente in cerca di denaro, Balzac conosce gli aspetti tecnici del commercio librario in quanto egli stesso, negli anni 1824-28, ha intrapreso la strada dell’editore e dello stampatore, segno inequivocabile del desiderio di controllare l’iter produttivo, dall’ideazione romanzesca alla stesura, stampa e distribuzione del libro. Da un lato, la minuziosa conoscenza del mercato del libro e dei comportamenti di un pubblico che egli vorrebbe più reattivo e manipolabile lo convince che la leggibilità integrata della sua «opera monumentale» si rafforzerà attraverso una centralizzazione dei processi fabbricazione materiale. Dall’altro, proprio il fallimento delle sue iniziative imprenditoriali spiega la genesi di un romanzo «totale», la cui superficie quadrata è proporzionale alla futura redditività. L’esposizione debitoria – una costante nell’evolversi del romanzo ciclico – va dunque annoverata tra le cause di processi di ciclizzazione che consentono agli autori di incamerare anticipi sugli utili futuri. Beninteso, l’operazione deve essere impeccabile, altrimenti dà poco o nessun frutto presso i lettori: quando Balzac comincia a pubblicare uno stesso testo nella triplice forma del roman-feuilleton sui giornali (l’esordio spetta alla Zitella, edita sulla «Presse» tra il 23 ottobre e il 4 novembre 1836), di costosi volumi in-8° distribuiti in libreria, di più economici in-18° stampati da Gervais Charpentier, il lettore si trova dinanzi all’alternativa di sentirsi ingannato (perché scopre un vecchio testo sotto nuovi contrassegni paratestuali) o confuso (perché non ha sufficienti chiavi d’accesso al metatesto della nascente Comédie), Un pasticcio, dove i demarcatori di genere (scènes, études) appaiono sotto i titoli del singolo romanzo (ad esempio nella pubblicazione sui giornali) o sopra (nell’edizione Charpentier) o ancora occupano posizioni ambigue, come nel caso della Pelle di zigrino edita nel 1838 da Delloye e Lecou: nei titoletti ricorrenti di pagina pari si legge «Etudes sociales, Deuxième partie», in quelli di pagina dispari «Etudes philosophiques, La peau de chagrin».

  Chi, eccettuata forse Madame Hanska, avrebbe potuto capirci qualcosa? Infatti i volumi restano invenduti, i magazzini non smaltiscono le scorte, gli editori sono preoccupati e ne danno notizia a Balzac: «Le nostre vendite dell’in-12° sono deludenti, e la situazione diventerà addirittura disastrosa se continuerete a voler ristampare opere già edite; nessun libraio è disposto ad acquistarle, e ogni nostra attività si scontra con la loro inerzia». Malgrado ciò, il sogno onnivoro di Balzac si spiega anche con le trasformazioni degli atti di lettura e la nuova distribuzione del tempo libero. Il quadro è complesso. Va innanzitutto registrato il passaggio da un orientamento che confida nell’edizione delle «opere complete» dei classici – ciò che durante la restaurazione faceva dell’autore il garante ultimo di un insieme eterogeneo di generi letterari – a un orientamento che prevede, durante la monarchia di Luglio, la concentrazione in appositi insiemi (collane, opere collettive, ecc.) di testi omogenei per genere. Soprattutto, il romanzo sottrae utenti al teatro e alla lirica, sino ad allora vincenti, grazie al declino di un’editoria periferica che distribuiva à colportage testi brevi e di piccolo formato (novelle, fiabe, parabole) e alla simultanea nascita del roman-feuilleton, contraddistinto dalla pubblicazione di un testo a tranches consecutive. La narrazione breve entra in una fase di stallo perché la ricezione istantanea, «non durativa» del testo è ormai incompatibile con un pubblico desideroso di vivere in partita doppia la propria esistenza. Questo vuole la prima generazione di abbonati: imporre un’armoniosa cronocrazia, stipulare un patto di addomesticamento del tempo quotidiano in cui essi fungono, di fatto, da narratari.

  All’inizio la rivoluzione feuilletoniste è solo una riforma circoscritta, che comporta un incremento delle pubblicazioni di testi narrativi en livraisons, cioè segmentati in fascicoli o puntate; una maggiore demarcazione dei contrassegni di genere; un lento istituzionalizzarsi delle cosiddette «tre molteplicità» di tempo, luogo e azione (vertiginosi salti temporali, diffrazione gli avvenimenti su spazi articolati, costante genesi di intrecci secondari, digressioni e metaintrecci); infine l’obbligo, da parte del romanziere, di scrivere tutto o in parte il testo mentre si viene pubblicando, con le possibilità di permutazione e rallentamento che ne conseguono. Difficile non cogliere in tali fattori la poligenesi del romanzo ciclico, benché sia ampiamente mostrato come la storia di Balzac non coincida affatto con quella del roman-feuilleton: lo testimoniano le sue reiterate dichiarazioni di disistima, la difficoltà a pianificare in anticipo i decorsi diegetici e a rispettare i tempi di stampa, gli eccessi descrittivi («Les paysans vanno molto bene», scriveva a Balzac il direttore del «Constitutionnel» in una lettera del 6 dicembre 1844, «ma andrebbero ancor meglio se voi sacrificaste qualche descrizione»). Anche i tempi mostrano un romanziere che manca l’appuntamento con il destino: la Comédie fallisce commercialmente tra il ʼ42 e il ʼ45, quando roman-feuilleton sta trionfando grazie ai giornali, e solo nel momento in cui l’edizione en livraisons comincia ad arretrare Balzac trova il successo con un roman-feuilleton, La cugina Bette (1846). Un funesto paradosso.

  Ma è un vero paradosso? Il contratto della Comédie viene stipulato nel pieno del trattamento dilatorio cui Sue, Dumas e Soulié sottopongono l’intreccio romanzesco, imponendo di fatto il meccanismo della ricomparsa dei personaggi: si tratta ora di iniziare dai nodi patetici dell’intreccio e risalire alle cause, fornendo retroscena psicologici e documentazioni sociologiche impeccabili. Infatti, con Eugénie Grandet e Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau l’ordine narrativo comincia a ospitare analessi esplicative e prolessi colme di virtualità, mentre la «crisi» tragica si frammenta in peripezie multiple corrispondenti a ciascuna livraison; si potrebbe addirittura dimostrare come i testi rimasti allo stadio di progetto – fra i tanti previsti dal catalogo della Comédie, pubblicato il 22 maggio 1846 sull’«Époque» – fossero quelli che mal si adattavano alla nuova morfologia feuilletoniste, di cui la Comédie riprende anche il principio della ratealizzazione editoriale: circa 120 tranches settimanali, con irregolarità e lacune che provocano nei lettori un certo disappunto. È dunque il feuilleton – ha concluso con una formula convincente Isabelle Tournier – ad aver salvato Balzac dal romanzo balzachiano, costringendo lo statuto semiotico del narrare a una progressiva

  b) ciclizzazione morfologica. Poiché la divisione in generi (études) e specie (scènes) si mostra inferiore alle ambizioni di Balzac, sin dal 1833 egli pensa di adottare la tecnica del ritorno degli stessi personaggi in romanzi differenti (nota come «système des personnages reparaissants») quale agente di stabilizzazione della massa testuale: vi è spinto dall’opera di Fenimore Cooper, che nei suoi romanzi aveva utilizzato un personaggio base, e dalla consapevolezza che proprio in ciò l’opera di Scott si sia rivelata difettosa. La vulgata descrive un Balzac che irrompe in casa della sorella Laure Surville, comunicandole la decisione di mettere le proprie opere in rapporto di consanguineità. In effetti non è un’invenzione di poco conto. Ma la si deve brevettare, sottoporre a sperimentazioni su ampia scala, farne il contrassegno inequivocabile di una realtà d’autore: griffata e fittiva, certo, eppure ingombrante come la realtà di primo grado. Concepita inizialmente come uno strumento di riduzione della complessità testuale e di correlazione intrasistemica dei singoli romanzi, la tecnica del personnage reparaissant costituisce adesso un fattore di espansione di tale massa.

  I conti sono presto fatti: Balzac annota che, per approssimarsi a un’idea delle tipologie umane, la massa diegetica deve importare sulla pagina almeno «tre o quattromila personaggi» da dividersi per classi sociali (aristocrazia, borghesia, popolo), professionali (finanzieri, commercianti, gens de lettres, dandies, ecc.) e generazionali, non senza un effetto di moltiplicazione indotto dalle dinamiche spaziali (un aristocratico di provincia ha comportamenti differenti quando si trasferisce a Parigi, e viceversa) e dal principio dell’ereditarietà. Non solo: questi stessi personaggi, vocati a un polisomatismo che ne moltiplica la presenza (è il caso di Jacques Collin, definito in Splendori e miserie delle cortigiane «una sorta di colonna vertebrale che collega Papà Goriot a Illusioni perdute e Illusioni perdute a Splendori e miserie»), sono poi destinati a incontrarsi secondo combinazioni numericamente non saturabili. Correlazione (reliement), apparizione (apparition) e ripetizione (répétition) sono i lemmi ossessivi di questa nuova, ciclopica cattedrale, in cui l’autore armeggia di continuo intorno ai limiti del testo ed è costretto a inventare inediti strumenti di scasso per gestire una pletora di personaggi (secondo i calcoli del Groupe International de Recherches Balzaciennes, circa 460) che non stanno mai fermi, alzano la voce e pretendono di farsi sentire. In genere, tali strumenti consegnano a un narratore necessariamente intrusivo l’onere di sunteggiare brevemente la storia pregressa di un personnage reparaissant o, più sommariamente, di limitarsi a un rinvio bibliografico; ma altrettanto spesso sono gli stessi personaggi a citare le imprese li qualcuno che li ha preceduti nella Comédie, con un effet de réel che morrà il grado di perfezione epistemologica cui il romanzo si sta avvicinando. Nulla sembra fittizio, niente è stregato dalla disappartenenza e dall’esilio.

  A rendere più efficace questo testualismo illimitato contribuiscono infine una decisa restrizione degli spazi (la Comédie non oltrepassa facilmente i confini della Francia), un ricompattamento del decorso temporale limitato sostanzialmente agli anni in cui visse Balzac, con una preferenza per la Restaurazione), l’ingresso di personaggi che favoriscono nel lettore un sight-seeing sull’intero tracciato narrativo (è il caso di Lucien de Rubempré, un provinciale di Angoulême che si trasferisce a Parigi). Il testo si nebulizza in un network di rinvii che da un lato conduce all’ampliamento concentrico degli intrecci, dall’altro trasforma la lettura in un gesto di suturazione cui sfugge un senso ne varietur; comprendere è correlare, riannodare, tessere un sistema coerente di tipologie, eventi, tempi. Di nuovo, ragioni, cause di una crescita incontrollata del romanzo ciclico, che trova supporto logistico in un’ulteriore funzione antropologica, definibile con Niklas Luhmann

  c) riduzione della complessità. Nella genesi della Comédie agiscono forze uguali e contrarie. Da un lato troviamo la ricerca analitica delle pietre con cui costruire la «cattedrale di carta», l’accumularsi di quelli che Balzac definisce ripetutamente «dettagli» o «massa e ammasso dei materiali, nella convinzione che «soltanto i dettagli costituiranno d’ora innanzi il merito delle opere chiamate impropriamente Romanzi». Dall’altro la tesaurizzazione dei «dettagli» (i moeurs) può essere garantita solo da un’opposta tendenza alla sintesi unitaria attraverso cui, al modo di Cuvier, il romanziere fonderà «una scienza naturale della Società». Questa totalizzazione induttiva dai moeurs ai principes – si avvale del compattamento tipografico dell’edizione Furne, senza bianchi eccessivi né titoli di capitoli, divisioni, note ed epigrafi, ma necessita soprattutto di un’architettura interna che possa gratificare «l’incontestabile facoltà» dell’uomo di «registrare tutto, numerarlo, impacchettarlo, imbottigliarlo, classificarlo, ritagliarlo». Delegata ai personaggi della Comédie – a Séraphîta che invoca l’Uno, a Louis Lambert che scopre una presenza monista dietro la molteplicità della Materia, ai Félix de Vandenesse del Giglio nella valle, convinto che la natura tenda a un’assimilazione unitaria di ogni organismo –, l’«incontestabile facoltà» agisce in Balzac nella forma di un’ansia divorante a concludere i testi iniziati, a eutrofizzare i moeurs per consolidare i principes.

  Tuttavia, perché ampliare il quadro diegetico sino a trasformare il romanzesco in una cartografia borgesiana, coincidente con i territori catalogati? Contrariamente a quanto pensava Brunetière, pronto a salutarvi l’imponente ingresso della storia collettiva nella modernità, per Giacomo Debenedetti Balzac gulliverizza sistemi sociali sempre più complessi per fornirne una mappa catastale, un doppio razionalizzato e depurato in grado di assicurare «a scadenza illimitata l’ordine del mondo» e un suo creativo riadattamento. Ma per fare ingresso in un plot «come se» fosse un mondo, è necessario che tutto vi prenda dimora: la realtà, con i suoi illimitati détails («La mia opera ha la sua geografia così come ha la sua genealogia e le sue famiglie, i suoi luoghi e le sue cose, le sue persone e i suoi avvenimenti [...], insomma tutto il suo mondo»); poi l’autore, che vi si smarrisce sia pure contro voglia («Nella mia vita ho fatto dei lavori inutili per vivere, e li definisco inutili in quanto al di fuori della mia opera»); infine il lettore, immedesimato nei personaggi romanzeschi, basculante tra res factae e res fictae, spettatore di un’opera che ha cancellato la possibilità stessa di un «oltretesto» e insieme enunciatario di azioni che lo coinvolgono per intero.

 

 

  Silvia Collazuol, La comédie humaine: progetto per un teatro anatomico Balzachiano. Riduzione teatrale e progetto di regia de “I due poeti”: primo episodio di “Illusioni perdute”. Relatore: prof. Dominique Pitoiset; correlatori: proff. Luca Fontana, Francesca Covatta (2003), Università Iuav di Venezia, Facoltà di design e arti, Corso di laurea specialistica in Scienza e tecniche del teatro, Anno accademico 2002/2003, Sessione autunnale.

 

 

  Romano Costa (a cura di), Il giovane Balzac, per i gesuiti un baluardo, «il Manifesto. Alias», Roma, N. 2, Anno 6, 11 gennaio 2003, p. 19.

 

  «Otto gesuiti vennero in Francia nel 1542; e nel 1560, cioè nello spazio di diciotto anni, sotto il mutevole essi erano riusciti a interessare al loro ordine tutto lo Stato», fa i conti Honoré de Balzac nella Storia imparziale dei gesuiti (Medusa, pp. 113, € 13). Un pamphlet in difesa dei gesuiti, il cui ordine nel 1773 era stato definitivamente sciolto da papa Clemente XIV. Quando scrive questo libro Honoré ha venticinque anni, e da dieci un Breve di Pio VII ha riammesso l’ordine di Sant’Ignazio, ma il giovane legittimista, quello che condanna dello scioglimento dell’ordine e della confisca dei suoi beni, è l’arbitrio perpetrato nei confronti di una Società legittimata dalla militanza originaria della sua costituzione: un «baluardo più durevole delle monarchie, composta d’un gran numero di persone, legata a molteplici interessi (... ), una entità politica ben altrimenti interessante che un semplice privato».

 

 

  Paola Dècina Lombardi, Balzac, le silence de Rossini et «le suicide de l’art», in Collectif, Balzac et l’Italie ... cit.., pp. 107-128.

 

  L’A. ripercorre i momenti e le circostanze che consolidarono l’amicizia tra Balzac e Rossini – un’amicizia, scrive l’A., «à une seule voix, celle de Balzac» (p. 109) –, tra cui val la pena di segnalare il loro incontro a Bologna nel 1837. È nel racconto Massimilla Doni (dove Balzac ci offre una suggestiva analisi del Mosè rossiniano) che è possibile estendere il discorso delle affinità profonde che legarono i due artisti alla luce delle loro idee in materia di estetica musicale. Balzac, osserva l’A., «choisit Mosè in Egitto, et non Moïse et Pharaon parce qu’il est plus véritablement rossinien et italien» (p. 123): del Mosè (italiano), lo scrittore «met en lumière le caractère éthique et héroïque. Il touche ainsi au cœur du silence du Rossini» (p. 125) ; la figura del compositore pesarese, conclude l’A., è «fortement présente dans le récit balzacien comme figure de référence du discours sur le ‘suicide de l’art’» (Ibid.).

 

 

  Andrea Del Lungo, Plaisirs du titre et souffrances du commencement. À propos d’une ébauche inédite de Balzac, «Genesis», n° 21, 2003, pp. 9-25.

 

  Nello sterminato fondo Lovenjoul della Bibliothèque de l’Institut, è conservato, sotto la segnatura Lov. A 99, 17, 18, 19, un documento balzachiano inedito: Souffrances secrètes, comprendente tre frammenti inseriti nel dossier del manoscritto di Ferragus, ma provenienti, in realtà, dal manoscritto della Théorie de la démarche, la cui redazione è contemporanea a quella di Ferragus (febbraio 1833). La decifrazione (tutt’altro che agevole) di questo breve schizzo balzachiano conduce Del Lungo ad affrontare la delicata questione dell’«entrée en écriture chez Balzac» (p. 9) e a riflettere sugli atti materiali che la concretizzano e sulle diverse fasi dell’approccio allo spazio testuale. Nella prima parte dello studio, l’A. si concentra sulla funzione genetica del titolo (assai prossima a quella dell’incipit): in Balzac, osserva Del Lungo, il titolo è «à la fois une ouverture génétique et une marque d’appropriation» (p. 10), una sorta di libido dominandi che si esplicita attraverso tre modalità: il “titre à projet’, la “page de titre” e “l’inscription du titre”. Se l’iscrizione del titolo procede dunque dal piacere di veder realizzata l’opera a venire, lo scrittore si urta successivamente contro le difficoltà dell’inizio e contro gli insuccessi del processo creativo, come è testimoniato dall’abbandono dello schizzo qui presentato al pari di numerose altre “oeuvres avortées” della Comédie humaine. Tuttavia, e in questo risiede l’interesse del frammento balzachiano, Souffrances secrètes presenta «un certain nombre de motifs et de topoi liminaires que l’on retrouve dans d’autres oeuvres du premier Balzac»; questa ratio autorizza quindi a supporre «l’existence d’un véritable modèle de commencement qui serait de l’ordre de la contemplation romantique: un début ‘intimiste’» (p. 23) che si oppone a quel modello di incipit fortemente strutturato su cui si costruisce generalmente l’universo finzionale balzachiano «par la détermination exacte des coordonnées spatio-temporelles de l’histoire» (p. 24). In questo senso, il fallimento del progetto creativo legato a Souffrances secrètes risulta particolarmente significativo perché segna una trasformazione radicale nella poetica dell’incipit in Balzac.

 

 

  Andrea Del Lungo, Balzac postmoderne. L’oeuvre-miroir, l’oeuvre-réseau, l’hyper-roman, in Collectif, Penser avec Balzac, sous la direction de José-Luis Diaz et Isabelle Tournier, Saint-Cyr-sur-Loire, Christian Pirot, 2003 («Balzac»), pp. 213-224.

 

  Ajoutons un post- à cette étiquette à la mode, souvent considérée comme dissimulation trompeuse d’un vide conceptuel : car le postmoderne est une «notion» suspecte aux yeux de la critique française, peut-être en raison de son caractère vague, flou, indéfinissable. Le terme même de postmoderne, emprunté à l’anglais, est tout à fait ambigu, parce qu’il évoque à la fois une idée de rupture et de continuité par rapport à la modernité, en assignant à celle-ci une délimitation historique presque inconcevable. En effet, penser le postmoderne nécessite d’imaginer et de concevoir la fin de la modernité : à savoir de réfléchir à l’histoire selon une vision linéaire et téléologique, supposant des fins et des commencements, alors que la pensée postmoderne semble vouloir théoriser une perception du temps anti-linéaire et déhiérarchisée : paradoxes de la postmodernité ...

  Pourquoi alors, vu la difficulté à dépasser les catégories logiques traditionnelles, ne pas envisager aussi la fin de la postmodernité? (admettons au moins qu’elle existe : dans le cas contraire, nous serions obligés de constater que philosophes, artistes et critiques débattent sur rien depuis trente ans). Je crois qu’il serait possible de supposer une nouvelle rupture historique, au moment où une seconde révolution informatique offre des formes de communication relevant du réseau global, qui tendent à effacer les coordonnées spatio-temporelles de la réalité, et dans lesquelles l’idée de distance se trouve remplacée par l’épaisseur virtuellement infinie de l’hypertexte. Et ce tournant historique me semble se situer au seuil du nouveau millénaire, période qui pourrait alors être qualifiée de postpostmoderne — au risque de sombrer dans les abîmes de la préfixation, avant de trouver le courage d’inventer une autre terminologie.

  Mais tout ceci n’est pas l’objet de cette étude. Ayant pour cible la critique balzacienne — nullement postmoderniste, je crois —, ces pages se proposent de tracer un bilan des lectures «modernistes» de l’œuvre balzacienne, et de souligner aussi l’impasse de certains chemins interprétatifs. Les questions que je voudrais poser sont les suivantes: comment lire Balzac aujourd’hui, après ce modernisme critique désormais institutionnalisé? Et encore, qu’est-ce que nous pouvons amener de cet auteur, au fond éminemment classique, dans le nouveau millénaire et dans la nouvelle époque qui semble commencer en correspondance avec cette date symbolique? Pour y répondre, j’essaierai d’esquisser ici trois définitions métaphoriques de l’œuvre balzacienne, correspondant à autant d’images parfaitement adaptées, me semble-t-il, aux formes et aux modèles de notre monde actuel. La première image nous vient de Balzac : c’est le célèbre «miroir concentrique» emprunté à Leibniz. La deuxième, l’œuvre comme réseau, dérive de la mise en relation de tout ce qui fait «miroir» chez Balzac. La troisième renvoie enfin à l’hyper-roman, tel qu’Italo Calvino le définit: une œuvre-monde, qui résume toute une tradition et qui reste cependant ouverte, potentielle, illimitée. […].

 

 

  Mariella Di Maio, La matière d’Italie: Stendhal, Balzac, in AA.VV., Lingua, cultura e testo ... cit., pp. 395-408.

 

  La matière d’Italie rappresenta uno degli assi portanti della scrittura narrativa di Stendhal e di Balzac: se nell’opera balzachiana, scrive M. Di Maio all’inizio di questo suo contributo, il mito italiano «est surtout de l’ordre de l’écrit et de la création» e «se construit presque uniquement sur un système de prêts et d’emprunts culturels», in Stendhal, al contrario «le choix de l’italianité c’est le choix de devenir ‘autre’ pour devenir ’soi’» inglobando le influenze letterarie e le proprie esperienze personali in una sorta di «mythe de sa propre origine» (p. 395). In questo senso, risulta più che legittimo interrogarsi sulle cause dell’interesse verso l’Italia nutrito dai due romanzieri e appare ancor più fecondo indagare sulle modalità di restituzione narrativa de La matière d’Italie concentrando la propria attenzione su un corpus ben circoscritto ma altamente significativo di testi allo scopo di portare alla luce «des traits communs dans l’attitude des deux romanciers» verso l’Italia. Intimamente legato a un «désir de culture» e «de nature», la vocazione di raccontare l’Italia e gli Italiani assume, in Stendhal come in Balzac, un «caractère passéiste» (p. 391) che nasce da un rifiuto assoluto del presente storico e dell’attualità socio-politica. Nell’opera dei due scrittori, i modelli letterari e le istanze storico-politiche si intrecciano continuamente riflettendo i tratti della intensa «vocation intertextuelle» insita nel loro italianismo. Per entrambi, osserva l’autrice, la deriva sociale e politica dell’Italia «correspond à l’“inquiétante étrangeté” des Italiens qui, eux-mêmes, sont hors de l’Histoire» (p. 400). Grazie a Stendhal, il mito retrospettivo dell’Italia (e, in modo particolare, dell’Italia rinascimentale) informa e plasma il pensiero politico e sociale di Balzac e sarà proprio nell’articolo sulla Chartreuse de Parme del 1840 che si determinerà a pieno titolo, sotto il segno di Machiavelli, «l’aboutissement de son cheminement vers la matière d’Italie» (p. 408),

 

 

  Charles-Herni Favrod, “Solo in bianco, nero e grigio ...”, in AA.VV., L’Italia d’argento. 1839/1859. Storia del dagherrotipo in Italia, a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli, Firenze, Alinari, 2003, pp. 9-14.

 

  p. 14. Honoré de Balzac è stato ritratto mediante la dagherrotipia a Parigi, nel maggio 1842, in Rue des Batailles, l’attuale Rue Raynouard. Ripreso di tre quarti, con la camicia aperta e le bretelle tirate giù, una mano sul petto, la posa non è convenzionale e a quell’epoca è dovuta sembrare completamente eccentrica. L’uso esigeva infatti che l’uomo, in un ritratto, portasse la marsina, sia prima che dopo l’invenzione della fotografia. Balzac è stato dunque il primo ad offrire un’immagine trascurata, con lo sguardo in lontananza e il gesto di autodesignazione che ne fanno un personaggio fuori norma alla maniera di Napoleone o dell’antichità romana. Il suo genio disprezza tutto ciò che è convenzionale: posare umilmente di faccia e immobile.

  Per lungo tempo questo dagherrotipo (8,3 x 6,7) è stato attribuito a un fotografo ambulante, mentre sul retto reca la sigla L.A.B., con le iniziali intrecciate, e l’etichetta ‘Ritratto in dagherrotipia eseguito all’ombra, in alcuni secondi, in Rue Saint-Germain l’Auxerrois 65, a Parigi’. Si trattava dunque di Louis Auguste Bisson e possiamo ritenere che anche il fotografo ha contribuito all’originalità del risultato, dove la luce proviene da destra e mette in risalto la larga fronte di Balzac, l’anno stesso in cui lo scrittore dà alla propria opera il titolo generale di Commedia umana. Vale la pena di riflettere su quanto egli dichiarò a Nadar che gli aveva chiesto in prestito il dagherrotipo per farne delle riproduzioni su carta e per utilizzarlo nel suo Pantheon del 1854. Come l’essere primitivo che teme sempre che gli venga sottratta una parte di sé, Balzac usava la fotografia per una sorta di trasfusione e di metamorfosi. “Ogni corpo nella natura è composto da una serie di spettri, in strati sovrapposti all’infinito, fogliacci in pellicole infinitesimali, in tutti i sensi in cui l’ottica percepisce questo corpo. Poiché l’uomo non è mai stato capace di creare qualcosa dal nulla ossia di materializzare un’apparizione, ogni operazione di dagherrotipia deve appropriarsi, staccare e utilizzare uno di quegli strati impalpabili del corpo presenti nella sua linea di mira”.

 

 

  Federico Ferrari e Jean-Luc Nancy, Iconografia. Il ritratto del romanziere, in AA.VV., Il romanzo ... cit. [segue p. 426].

 

  Gli spettri dell’autore.

 

  1842. Pare che Balzac fosse terrorizzato dall’invenzione di Daguerre, Niépce e Bayard: egli riteneva che i corpi fossero composti da diverse impressioni di spettri, sovrapposte all’infinito, e che ogni operazione di impressione la lastra argentata implicasse la perdita di uno spettro. Eppure come non cedere a una tale tentazione demoniaca? Non era solo questione di narcisismo, il ritratto dell’autore si configurava come una sorta di prova sperimentale per verificare la possibilità di una creatio ex nihilo. E Nadar, nel suo Quand j’étais photographe, che forse per primo nota come l’idea balzachiana di una «teoria degli spettri» debba porsi in relazione con l’apparente impossibilità umana di creare, «cioè di dar concretezza a una cosa solida a partire da un’apparizione e dall’impalpabile, ossia dal nulla fare una cosa». Balzac davanti a Bisson doveva domandarsi: da dove provengono le immagini? E immediatamente dopo: e da dove sorgono i personaggi, le storie, le parole che si materializzano nel romanzo? La sua risposta è stata semplice e diretta: dagli spettri. Ma uno spettro è nulla. Non è forse proprio un corpo fatto di niente, uscito dal niente e diretto verso il niente, una creatura del nulla? E se lo spettro è nulla, e il corpo è solo un insieme di spettri, allora anche il corpo è nulla. La mano di Balzac lo accarezza, questo solido nulla, per sentirne la tangibile e indubitabile presenza. Meraviglia infinita e angoscia di un essere fatto di nulla e creato dal nulla, ch’eppure è. Gli spettri si vedono, l’immagine lo testimonia: l’autore ha un corpo e un volto – il nulla è materia.

 

 

  Patrizia Finucci Gallo, Il ripostiglio di Balzac, colloquio con Gregorio Scalise, in Laboratorio di scrittura al femminile. L’esercizio dell’ombra di sé, Bologna, Alberto Perdisa editore, 2003, pp. 28-33.

 

 

  Letizia Giachetti, Tra ragione e passionalità, realtà ed imaginazione: “Sense and sensibility” di Jane Austen e le “Mémoires de deux jeunes mariées” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Francesco Casotti, Università degli studi di Pisa, Facoltà di Lettere e filosofia, Anno accademico 2002-2003, pp. 201.

 

 

  F. Gianaria -A. Mittone, In tribunale con Balzac e Kafka: il diritto è pieno di storie, «La Stampa ttL», Torino, Numero 1346, 25 gennaio 2003, p. 4.

 

  Il rapporto tra il diritto e la letteratura è antico e, pur con alterne fortune, non si è mai interrotto. Il fatto non stupisce, perché le intersezioni tra i due mondi sono fitte e mai sufficientemente esplorate, come dimostra il saggio di Bruner La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura e vita. Ma cosa hanno da dire gli scritti letterari sul diritto e sulla sua interpretazione? [...]. Alcune pagine di romanzi o racconti hanno colto i comportamenti dei cittadini di fronte alle norme, come le hanno vissute o come ne sono stati travolti. Con gli scritti letterari sono stati verificati i fondamenti della giustizia, le ragioni del punire, l’andamento del rito processuale attraverso un catalogo di testi innumerevoli, da Dickens a Balzac, da Dostoevskij a Melville, da Sciascia a Shakespeare, da Camus a Zola e a Kafka per citare i più esemplari. Altro e differente profilo è quello del diritto “come” letteratura, cioè lo studio del testo giuridico sotto la veste letteraria. [...].



  Alessia Grimaccia, Un romanzo giovanile di Balzac: “La dernière fée”. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Ludovica Cirrincione D’Amelio, Viterbo, Università della Tuscia, Facoltà di Lingue e letterature straniere moderne, Anno accademico 2002-2003, pp. 119.

 

 

  Sara Honegger, Honoré de Balzac. Un buon caffè rende noiosi, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 88, 30 marzo 2003, p. 32; 1 ill.

 

  Ironico, gaudente, aggressivo, pessimo economista, innamorato della vita: così era Balzac come l’abbiamo conosciuto attraverso la sua opera più importante, La Comédie humaine. Un attento osservatore, desideroso di scavare fra le pieghe del sociale, anche quando putride. Corrotta, in via di disfacimento, è infatti la società che appare nel breve Trattato degli eccitanti moderni, pamphlet contro caffè, thè, tabacco e alcool che anticipa di mezzo secolo l’ondata puritana. Non c’è scampo per nessuno: ciarliere, pallide e malaticcie sono le donne inglesi votate alla cerimonia del thè; potenzialmente impotenti i turchi, schiavi del tabacco; stremati dall’alcool gli abitanti di una Parigi innamorata di Rossini.

  Infine una sorta di autobiografia su-gli effetti della bevanda il cui abuso portò Balzac alla morte precoce: il caffè. Pensate renda svegli e brillanti? Errato: dopo averne bevuto, le persone noiose annoiano ancora di più. Insomma un libello moralista, divertente, che Balzac scrisse avendo ben presente Brillat-Savarin e la sua Fisiologia.

  Di tono diverso il resoconto d’un viaggio da Parigi a Giava, terra di donne con la pelle bianca, i capelli neri e i denti arancioni, dominata dall’implacabile governo della pianta dell’upas (nel cui tronco sono le stille della stricnina) ma ricca di oppio e di altre sorgenti di piacere. Un’occasione per porre a confronto usi e costumi della vecchia Europa con le tradizioni della mitica Indonesia. Salvo scoprire, alla fine, che questo viaggio ... Ma lasciamo a Balzac il piacere di un piccolo segreto.

 

 

  Fredric Jameson, Esperimenti col tempo: realismo e provvidenza, in AA.VV., Il romanzo ... cit., pp. 183-212.

 

  [...]. Sostituire la Provvidenza con energie puramente umane è sempre stata una tentazione per Balzac: il personaggio di Vautrin – che cerca disperatamente di salvare Lucien alla fine di Splendori e miserie delle cortigiane (1839-1847). proprio come all’inizio della vicenda aveva magistralmente architettato ogni cosa per il bene dello stesso Lucien – quest’idea di know-how e di savoir-faire affascinò Balzac lungo tutta la sua vita, offrendogli un modello del tipo di azione degna di esser narrata nonché della posizione dell’autore rispetto al romanzo. In questo senso, anche la pallida categoria del «narratore onnisciente» va riformulata nei termini di una vera e propria passione: l’ossessione di conoscere tutto e tutti, dalle conversazioni segrete dei grandi fino ai mystères de Paris e dei bas fonds. Balzac fu quello che i tedeschi chiamano Besserwisser, quello che sa sempre tutto e non vede l’ora di sfoggiare le proprie informazioni segrete (che purtroppo per lui non seppe mettere in pratica altrettanto bene). E certo Dickens aveva la stessa malattia, orgoglioso com’era di conoscere tutte le strade di Londra; ed è la stessa concupiscenza conoscitiva di tutti gli altri grandi narratori enciclopedici, da Trollope a Joyce.

  Per ora ci limiteremo a vedere in che modo l’idea della conoscenza assoluta si riflette sull’intreccio. La condizione superomistica di Vautrin sfocia nel fallimento (con la gratificazione «umana» della promozione a capo cella polizia, come il Vidocq della vita reale); ma questo fallimento evidenzia soltanto la sterilità della dialettica tra l’Uno e i Molti. E se il compito di conoscere i Molti fosse assegnato appunto ai Molti, come per la Società della Torre del Wilhelm Meister?

  È appunto quello che succede nella Storia dei Tredici (1833-35) di Balzac [...].

  Nel corso del racconto, questa promettente cospirazione si riduce a poco più che una serie di episodi (benché tra i più notevoli di tutta la Comédie humaine). Altrove entra invece in azione un altro tipo di dialettica, per effetto della quale la cospirazione provvidenziale trascende la dimensione etica e si colloca al di sopra del bene e del male, perché sa assecondare indifferentemente interessi feudali e individualistici – come in Ferragus – e passioni filantropiche. Balzac riesce così a immaginare con lo stesso entusiasmo una cospirazione bianca, alimentata questa volta dal conservatorismo degli ordini religiosi anziché dai fumi sulfurei dei carbonari e delle altre grandi confraternite politiche degli anni della sua gioventù. Anche la carità ha bisogno del suo Machiavelli e la figura organizzatrice del Rovescio della storia contemporanea (1846-54) osserva:

 

  Non dobbiamo forse sventare la congiura permanente del male? Coglierla nelle sue forme così mutevoli che si crederebbero infinite? La carità, a Parigi, dev’essere sapiente come il vizio, allo stesso modo che l’agente di polizia deve essere astuto come il ladro. Ciascuno di noi deve essere candido e diffidente, avere il giudizio sicuro e rapido come il colpo d’occhio.

 

  I frères de la Consolation sono meno interessanti dei Tredici, ma la cosa non dipende tanto dal loro moralismo, quanto dalla sempre maggiore «trascendenza» della cospirazione provvidenziale, che interviene dall’esterno in una situazione con cui ha un rapporto puramente contemplativo, basato sulla pietà e il giudizio morale. Un elemento immanente dell’intreccio si trasforma qui nel suo opposto trascendentale. Per capire se questa tendenza possa essere rovesciata, e dar vita a una struttura romanzesca di tipo nuovo, dobbiamo rivolgerci a Dickens. [...].

 

 

  Mario Lavagetto, Improvvisamente uno sconosciuto, in Lavorare con piccoli indizi, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 («Nuova Cultura», 96), pp. 199-223.

 

  Spesso il lettore di grandi macchine narrative come i romanzi della Comédie humaine si trova all’improvviso a fare i conti con segnali minimi, con particolari indiziari apparentemente trascurabili e insignificanti ma che, al contrario, orientano e determinano, in una sorta di patto narrativo tra autore e lettore, la struttura e l’orizzonte di attesa del testo.

  In queste pagine, che costituiscono il tessuto di un saggio fino ad oggi inedito, Mario Lavagetto riflette sul rilievo metanarrativo della figura dell’inconnu nel romanzo balzachiano: questo personaggio, identificabile a seconda delle circostanze nello straniero, nello sconosciuto o nel flâneur, che improvvisamente fa il suo ingresso sulla scena del racconto, rappresenta, a giudizio dell’A., «l’equivalente antropomorfico dell’enigma, del mistero [...] intorno a cui ruota un’infinità di mondi possibili» (p. 199) e di “possibilità romanzesche” pressoché infinite. L’alta frequenza di questa figura letteraria variabile e transitoria nell’universo letterario balzachiano porta Lavagetto a delineare i fondamenti tipologici e fenomenologici dell’inconnu in Balzac, attraverso l’analisi di un denso corpus di romanzi e di racconti della Comédie humaine (da La Peau de chagrin al Député d’Arcis). L’incertezza e il ritardo del riconoscimento di personaggi (o di categorie di personaggi), che emergono a fatica dal territorio d’ombra dell’anonimato e della precarietà perché momentaneamente privi di nome o celati dietro falso nome, propongono quasi sempre al lettore un enigma che ricalca un’esperienza antropologica e che si configura, allo stesso tempo, come una provocazione, come il perno di un’attività romanzesca «potenzialmente infinita» (p. 220) che evoca «una costellazione di romanzi possibili» (p. 223).

 

 

  Mario Lavagetto, Dans une ville aux cent mille romans. Calvino face à Balzac, in Collectif, Balzac et l’Italie ... cit., pp. 149-164.

 

  L’A. ci conduce alla ricerca e alla scoperta delle tracce di letture balzachiane lungo l’intero arco della riflessione critica e teorica di Italo Calvino, il cui interesse per le forme narrative dello scrittore francese assume una rilevanza particolare intorno agli anni 1958-59. Dallo studio sui paradigmi metaforici legali alla rappresentazione antropomorfica di Parigi presente nel saggio su Ferragus (1973) sino alle riflessioni sui meccanismi della costruzione del racconto nei Petits bourgeois (1981) e nel Chef-d’oeuvre inconnu (1988), Calvino ci ha insegnato a vedere, nel corpus della Comédie humaine, una sorta di gigantesco, debordante dispositivo di dilatazione, in cui «le monde intérieur du Balzac fantastique [...] inclut le monde infini du Balzac réaliste, car une des fantaisies infinies du premier coïncide avec l’infini réaliste de La Comédie humaine» (p. 162).

 

 

  Gérard-Georges Lemaire, Un habitué al Salon, «ART e dossier», Firenze, Numero 185, gennaio 2003, pp. 28-33; ill.

 

  Contrariamente ai suoi grandi contemporanei, Honoré de Balzac non ha mai fatto un resoconto dell’esposizione che ai suoi tempi era l’avvenimento artistico più importante del momento, il Salon. Però lo frequenta e ne trae in parte ispirazione; e vi scopre alcune opere che lasceranno un segno durevole in lui e una traccia profonda nella sua Commedia umana.

  Ciononostante, nel romanzo Pierre Grassou, pubblicato nel 1840, Balzac si produce in una critica violenta contro quella manifestazione che giudica in piena decadenza, fedele, in questo, alla visione della società francese sua contemporanea che assiste all’erosione dei propri valori dopo la caduta della monarchia. «Dopo il 1830» (anno dell’abdicazione di Carlo X) afferma lo scrittore, «il Salon non esiste più [...]. Offrendo un tempo il fior fiore delle opere d’arte, il Salon riportava i più grandi onori per le creazioni che vi erano esposte. Tra i duecento quadri selezionati, il pubblico sceglieva ancora: una corona era conferita al capolavoro da mani sconosciute. Sorgevano discussioni appassionate a proposito di una tela. Le ingiurie prodigate a Delacroix, a Ingres, non sono servite alla loro fama meno degli elogi e del fanatismo dei loro sostenitori. Oggi, né la folla dei visitatori né la critica potranno più appassionarsi ai prodotti di quel bazar. Obbligati a fare una scelta di cui si incaricava un tempo la giuria esaminatrice, la loro attenzione si stanca nello svolgimento di questo lavoro; e una volta finito, l’esposizione chiude. Prima del 1817, i quadri ammessi non oltrepassavano mai le due prime colonne della lunga galleria dove si trovano le opere degli antichi maestri, e quell’anno occuparono totalmente lo spazio suddetto con grande stupore del pubblico [...].

  Il Salon sarebbe dovuto restare un luogo determinato, ristretto, di proporzioni immutabili, dove ogni genere avrebbe esposto i propri capolavori. [...]. In luogo di un “torneo” si ha una sommossa; in luogo di un’esposizione gloriosa, un tumultuoso bazar; in luogo di una scelta, la totalità. Il grande artista ci perde».

  Balzac esprime così un giudizio radicalmente opposto a quello della maggioranza degli artisti partecipanti alla manifestazione, che reclamano invece una maggiore democraticità nella selezione delle opere. Preferisce, secondo la sua abitudine – e in totale sudditanza nei confronti della propria naturale tendenza alla malinconia — credere che il passato sia la fonte di felicità ormai inaccessibile.

  Tutto questo, però, non gli impedisce di continuare a frequentare il Salon con assiduità. Nel 1834, invia una lettera a Madame Háska (sic), la contessa polacca che sposerà poco prima di morire, in cui dichiara: «Ci sono da cinque a dieci tavole e tremilaseicento tele [...] ma se fossi ricco mi piacerebbe comunque mandarvi un quadro, un Interno di Algeri dipinto da E. Delacroix che mi sembra eccellente»: si tratta del celeberrimo Donne d’Algeri nei loro appartamenti. L’anno seguente, le fa poi osservare: «Il nostro XIX secolo sarà ben grande. Qui c’è un diluvio di talento. Vi ho molto rimpianto». E nel 1839 continua a informare la sua corrispondente: «La nostra esposizione di pittura è stata molto bella, c’erano sette o otto capolavori per ciascun genere: alcuni superbi Decamps, una magnifica Cleopatra di Delacroix, un sublime ritratto di Amaury-Duval, un’affascinante Venere Anadiomene di Chassériau, l’allievo di Ingres».

 

  L’artista, metafora dello scrittore.

 

  L’amore che Balzac ha provato per l’arte in generale e per quella dei suoi contemporanei in particolare non ha mai avuto smentite. Il fatto che lo scrittore abbia dedicato molte delle sue opere a Louis Boulanger, ad Achille Devéria od Eugène Delacroix (La ragazza dagli occhi d’oro) lo prova ampiamente. Per di più, nel piano titanico della sua Commedia umana, i pittori occupano un posto non trascurabile.

  Nella Casa del Gatto che “pesticcia”, primo romanzo del ciclo, Balzac racconta la storia di un giovane pittore di nome Théodore Sommervieux, appena tornato da Roma, a cui è concessa una doppia rivelazione. La prima è quella che gli viene dalla vista del retrobottega di un modesto mercante di stoffe e che gli suggerisce un dipinto intimista, dal momento che al Salon «le scene di interno avevano portato una rivoluzione in pittura». Per rendere visibilmente concreto al lettore il quadro che Sommervieux inizia a dipingere, Balzac fa riferimento ad artisti olandesi come Gerrit Dou, Ter Borch, Van Mieris. La seconda rivelazione del giovane Théodore è invece dovuta all’apparizione di Augustine Guillaume, la figlia del mercante, alla finestra della sua vecchia e cupa casa di rue Saint-Denis a Parigi. È «la figura di una fanciulla fresca come uno di quei bianchi calici che fioriscono in seno alle acque». Sommervieux allora si infiamma per «l’ingenuità di quel viso [...] la calma di quegli occhi immortalati con largo anticipo nelle sublimi composizioni di Raffaello» È stupefatto di avere sotto il suo sguardo «una di quelle Vergini modeste e assorte in raccoglimento che, sfortunatamente, non aveva saputo trovare che nei ritratti a Roma», il pittore vuole a ogni costo ritrarre Augustine e lei finisce per posare nel suo atelier. Il dipinto, esposto al Salon, frutta a Sommervieux non soltanto la notorietà ma anche una certa agiatezza. Può allora sposare la sua modella, ma questa relazione ideale non regge alla prova del tempo.

  In Pierre Grassou Balzac mette nuovamente in scena Sommervieux, che accoglie nel suo studio un giovane pittore bisognoso e sprovvisto di talento. Quest’ultimo studia in un secondo tempo con Granet e con Drolling, ma non conclude niente. Il suo antico maestro finisce col dirgli in faccia come stanno le cose: «Tu fai grigio e scuro, tu vedi la natura attraverso un velo; le tue linee sono pesanti, impastate; la composizione è un’imitazione di Greuze, che riscattava i suoi difetti solo grazie a qualità che a te mancano». Grassou nondimeno persevera nella sua strada ed esegue dei falsi con scene d’interno nello stile dei fiamminghi. Presenta al Salon un quadro ispirato alla Donna idropica di Gerrit Dou, conservato al Louvre. La sua opera è apprezzata e acquistata dalla moglie del duca di Orléans. Grassou piace e riceve riconoscimenti. I ricchi borghesi appendono i suoi quadri nei salotti. Tutto gli riesce. Ma quando vede i suoi falsi figurare in bella vista nella collezione del mercante Vervelle, confessa infine la triste verità.

  In seguito Balzac crea il personaggio di Joseph Brideau, che è l’esatto opposto di Grassou. Lo scrittore lo inserisce in molti romanzi, tra cui La Rabouillaise (sic). Con tutta probabilità è Delacroix, pittore che Balzac ammira, a servirgli da modello. Come lui, alla sua prima apparizione al Salon, Brideau suscita polemiche e odi largamente condivisi. In compenso, la tela descritta da Balzac ricorda piuttosto la Giovane cortigiana presentata da Xavier Sigalon al Salon del 1822. Comunque stiano le cose, Joseph Brideau non passa inosservato e «quel magnifico dipinto, uno dei capolavori della pittura moderna, preso dallo stesso Gros per un Tiziano, preparò i giovani artisti a riconoscere e proclamare la superiorità di Joseph al Salon del 1823». Questa complessa figura di irregolare fantasioso, la cui produzione va avanti con «i più strani zigzag» si reca puntualmente al Louvre per copiare Tiziano, Rembrandt o Rubens ed è l’equivalente del creatore di genio nel quale Balzac si riconosce: «Già robusto quanto Gros nel colore, non vedeva più il suo maestro che per chiedergli consiglio; meditava allora di rompere con i classici, di mandare in pezzi le convenzioni greche e i limiti in cui si confinava un’arte alla quale la natura appartiene così come, nell’onnipotenza delle sue creazioni e delle sue fantasie». Brideau, è evidente, si schiera dalla parte dei romantici e vuol far trionfare il modernismo del colore. E permette allo scrittore di esporre la propria concezione artistica: «Tutti i grandi talenti rispettano le vere passioni, le spiegano e ne ritrovano le radici nel cuore e nella testa [...] lui amava il bello ideale in tutto; amava la poesia di Byron, la pittura di Géricault, la musica di Rossini, i romanzi di Walter Scott». Ma ciò avviene soprattutto nel Capolavoro sconosciuto, di cui Balzac redige due versioni nel 1831 e nel 1837, un «racconto fantastico» che lo scrittore trasforma in uno «studio filosofico». Questo breve testo mette in scena tre artisti: Frenhoffer (sic), che gode di un’autorità incontestata, è sulla quarantina; Porbus, più giovane di lui, è il più celebre degli artisti fiamminghi della corte di Enrico IV; Poussin, che ancora non è che ai suoi inizi. Il vecchio Frenhoffer finisce per trascinare i due colleghi nel suo atelier perché vedano un quadro al quale sta lavorando da più di dieci anni e che deve essere il degno coronamento della sua carriera: La bella scontrosa. Ma quando finalmente si rende conto che sulla sua tela non c’è nient’altro che una massa confusa e indecifrabile, decide di bruciare tutte le proprie opere. Qui, Balzac rappresenta questa violenta e imperativa ricerca dell’assoluto che è la creazione artistica, e di cui Poussin dovrebbe essere il depositario.

 

  Il pittore letterario.

 

  È ancora e sempre alla pittura che Balzac ha fatto ricorso per far risaltare con maggiore consistenza e verosimiglianza agli occhi dei suoi lettori le figure che popolano la sua rappresentazione della Francia della Restaurazione. Raffaello esprime senza alcun dubbio, per lo scrittore, il culmine della bellezza. Eugénie Grandet (nel romanzo omonimo) possiede «quegli occhi modestamente fieri, colti con tanta maestria da Raffaello», e Olympe Bijou, la piccola ricamatrice della Cugina Bette è una «ragazzina di sedici anni [dal] viso sublime che Raffaello ha dato alle sue Madonne, occhi di un’innocenza afflitta». Per Balzac, l’urbinate ha raffigurato il prototipo della bellezza femminile che si applica alla vita moderna: in Studio di donna la “Parigina” «vi dà la sensazione, mentre cammina, di avere un po’ quell’aria degna e serena delle Madonne di Raffaello nelle loro cornici». Ma lo scrittore ricorda molti altri maestri del passato, come per esempio Tiziano – nel Curato di campagna Tarcheron (sic), il padre del condannato a morte, «ha quella bella figura che Tiziano ha conferito ai suoi apostoli» – o come Zurbarán – in Splendori e miserie delle cortigiane Vautrin si fa passare per l’abate Carlos Herrera, che «sembrava scappato da una tela di Zurbaran».

  I pittori olandesi sono spesso consultati per la descrizione di commercianti o artigiani, come per esempio l’antiquario di Pelle di zigrino, che è paragonato al Pesatore d’oro di Gerrit Dou, con «il rigore impeccabile dei suoi occhietti verdi sprovvisti di ciglia e sopracciglia». Balzac ricorre agli artisti olandesi anche per rendere al meglio la descrizione di un interno borghese. Rembrandt gli serve a restituire la figura del vecchio pittore nel Capolavoro sconosciuto e Rubens a rendere concreta l’immagine delle popolane, come per esempio la pescivendola del mercato delle Halles nei Piccoli borghesi con «ventre e seni che rivendicavano un’ampiezza alla Rubens».

  Tuttavia Balzac non si ispira esclusivamente all’iconografia del passato, da Fidia a Giotto e da Leonardo da Vinci a Bruegel dei Velluti. Ama anche fare allusioni dirette alle opere che ha avuto occasione di vedere a un Salon tenutosi di recente e che sono ben presenti alla mente dei suoi contemporanei. Utilizza, per esempio, in Pierrette, L’arrivo dei mietitori nelle paludi pontine di Léopold Robert, che era stato accolto con favore dalla critica al Salon del 1831. L’Apoteosi degli eroi francesi morti per la patria di Anne-Louis Girodet (Salon del 1802) gli serve in Béatrix, e la Battaglia di Austerliz di Gérard in La donna di trent’anni. In quest’ultimo libro cita anche David, e ricorda Géricault (Ritratto di Madame Bro) in Il rovescio della storia contemporanea, così come cita Pierre-Narcisse Guérin (Enea racconta a Didone le sventure di Troia, Salon del 1817) ancora in Béatrix e Delacroix (La morte di Sardanapalo, Salon del 1827) nella Ragazza dagli occhi d’oro.

  La relazione così intima, quasi organica tra la sua concezione del realismo in letteratura e le arti plastiche è tale che lo scrittore si dispera quando viene a mancargli un modello pittorico. E per questo che deplora l’assenza di un quadro o di un’incisione quando descrive l’Ile de la Cité sotto Carlo IX nel libro su Caterina de’ Medici. «Sfortunatamente la pittura di genere allora non esisteva e la tecnica dell’incisione era agli albori; abbiamo dunque perduto questo curioso spettacolo offerto ancora oggi, ma in piccolo, da certe città di provincia in cui i fiumi sono bordati a intervalli regolari, come una merlatura, di case di legno». E nei Proscritti confessa la sua impotenza di fronte alla descrizione dell’oceano ed esclama: «Ci vorrebbe un pittore».

  Balzac trae da questa intensa relazione una filosofia, che è un’estetica elargita alla propria impresa letteraria. In primo luogo, la pittura – e l’arte in generale – ha il compito di sottolineare l’aspetto fisico degli individui ma anche la loro dimensione morale. E quando si tratta di un paesaggio, Balzac cerca un equilibrio miracoloso tra lo spettacolo del mondo e la sua rappresentazione, come nei Contadini, dove sottolinea questo accordo perfetto: «Ho finalmente gioito di una campagna in cui l’una sia sciupata dall’altra, in cui l’Arte sembra naturale, in cui la Natura è artista».

 

  La mania del bric-à-brac”.

 

  Balzac ha sempre avuto il gusto (e il vizio) del collezionismo. Se, per sua stessa ammissione, è indubbio che abbia nutrito una vera e propria «passione per il mobilio», è soprattutto arrivato a riunire un impressionante numero di libri. L’editore Edmond Werdet ha osservato da vicino questa mania dello scrittore: «Nelle sue peregrinazioni al Quartiere latino, comprò sulle bancherelle dell’usato una moltitudine di libri rari, interessanti, curiosi, che sapeva scegliere con gusto e discernimento. Fu quello il nucleo della bella biblioteca che ho avuto tante volte l’occasione di ammirare in rue de Cassini». Appassionato di tipografia, stampatore per vocazione, bibliofilo emerito formato dal suo amico Charles Nodier, quando Balzac frequenta la Bibliohèque de l’Arsenal, di cui Nodier è appunto il direttore, sente una forte emozione sia per i testi che i volumi contengono sia per il loro aspetto materiale.

  Il «demone geloso ed esigente quanto il gioco» che lo possiede e lo fa appartenere alla «classe dei sognatori», cioè alla razza bizzarra dei collezionisti («Sono tócchi, dicono i vicini. Non sono capiti e sono sempre spinti dalla loro mania. Vivono male, si fanno compatire dalla loro serva», scrive), è un demone che si vede centuplicato quando Balzac pensa di poter sposare Madame Háska, rimasta vedova. Nel 1846 lo scrittore vuole costruire un “tabernacolo” in suo onore in rue Fortunée (oggi rue Balzac). È l’architetto Santi che viene incaricato di sistemare questo tempio concepito dapprima come un museo. Balzac si fa consigliare dal conservatore del Musée de Clunv, Edmond du Sommerard, e da un pittore, Chenavard, amico di Gautier.

  Nel corso dello stesso anno Balzac viaggia in Italia e soggiorna a Roma. Là acquista diversi dipinti: un Natoire (Adamo ed Eva), un Bronzino (La siciliana), un Mirevelt (Fiamminga), un David de Heem (Fiori), un Sebastiano del Piombo (Cavaliere di Malta) che, una volta restaurato, si rivela un’opera magnifica, anche se la sua attribuzione (come quella delle altre opere, del resto) è dubbia.

  Lo scrittore fa eseguire ritratti di Madame Háska e di se stesso da Achille Devéria (un “seppiato”) e da Boulanger. Meissonnier inizia un ritratto dello scrittore nel 1843 ma non lo finisce. Poi David d’Angers ne realizza una Testa nel 1845.

  Nella casa (la “chartreuse Beaujon”) di rue Fortunée Balzac non smette di pensare e ripensare alla disposizione dei mobili, degli oggetti e dei quadri. Sui muri ancora vuoti scrive a carboncino: «Qui un quadro di Raffaello ... Qui un Velázquez... Qui, sul soffitto, un Delacroix».

  Dandy annoverabile tra i cosiddetti “lions” che si mettevano in mostra sulla terrazza del Café Tortora, Balzac è abbastanza stravagante da accordare i suoi mobili ai vestiti. Lui che è convinto che andare in giro a scovare cose da comprare sia una scienza totalmente a parte e che considera il lusso come la manifestazione del proprio mondo interiore, non vedrà mai terminata la sua dimora. Lo scrittore sposa Madame Háska a Berditcheff il 14 marzo 1850. Malato, rientra con lei a Parigi il 20 maggio. Muore il 18 agosto all’età di cinquantuno anni, lasciando incompiuti sia il suo grande ciclo di romanzi sia il palazzo che ha tanto sognato per la sua “straniera”.

 

 

  p. 31. Balzac.


  Honoré Balzac nasce a Tours in una famiglia della media borghesia nel 1799: dal 1830 aggiunge il “de” al proprio cognome. Quando la famiglia si trasferisce a Parigi, inizia gli studi di giurisprudenza e si impiega presso un avvocato. Nel 1819 tenta la via della letteratura trasferendosi a vivere in una mansarda del quartiere della Bastiglia. Scrive una tragedia, Cromwell, e un romanzo filosofico, Sténie. L’insuccesso lo indirizza al giornalismo. Per alcuni anni pubblica opere ispirate al romanzo gotico inglese, saggi e articoli; fa anche l’editore e il tipografo, ma i suoi tentativi commerciali falliscono. Un suo romanzo storico, Gli Sciuani (1829), ha infine un buon successo; segue il saggio La fisiologia del matrimonio (1830), che fa scandalo e gli dà notorietà. Comincia una brillante carriera di giornalista e romanziere. Nei primi anni Trenta manifesta anche qualche ambizione politica. Pubblica Scene della vita privata (1830), Pelle di zigrino (1831), Il colonnello Chabert (1832), Il medico di campagna (1833), Le sollazzevoli istorie (1832-1837), Eugénie Grandet (1833) e Papà Goriot (1834). É allora che Balzac decide di riunire tutti i suoi romanzi in un’opera unica, la Commedia umana, recuperando in nuove storie gli stessi personaggi, per una «esatta rappresentazione dei costumi della società moderna». Nel 1833 inizia uno scambio epistolare con la ricca nobildonna polacca Eve (Eveline) Háska, la “straniera”, il grande amore della sua vita, che lo scrittore sposa solo molti anni più tardi. Negli ultimi anni tenta senza fortuna il teatro (Vautrin, 1840; Mercadet l’affarista, messo in scena solo dopo la sua morte). Nel 1850 corona col matrimonio il suo rapporto con Madame Háska, rimasta vedova nel lontano 1841; ma lo scrittore muore lo stesso anno, la sera del 18 agosto.

 

 

  Carmina de Luca, Introduzione, in Honoré de Balzac, I Giornalisti ... cit., Milano, pp. 11-26.

 

 

  Giuseppina Luongo Bartolini, La pelle di zigrino [poesia], «Punto di Vista», n. 37, 2003.

 

Mi si scrociano le spalle gli alisei

Venti che crocchiano nelle giunture

Scoppi di temprali frappongono scialli

Alla mia fragile tenuta corporale

Sezionano la fantomatica pelle di zigrino

Fascinazione e sogno di Honoré de Balzac

Regno dello sfrenato e dell’immenso

Ironico ping pong un gioco al buio

Tra volontà e destino che al nostro

Desiderio cela improvviso lo scambio

Ferroviario, la forbice che spiazza ogni viaggio

Frena sul segno di un binario morto.

 

 

  Alberto Maisto, Honoré de Balzac. 1838, Frammenti di Sardegna: immagini e parole. La Sardegna raccontata dalle fotografie di Alberto Maisto e dalle parole di scrittori, poeti, viaggiatori di varie epoche, Sassari, Carlo Delfino editore, 2003, p. 120.


  Estratto della celebre lettera a Madame Hanska del 17 aprile 1838 tradotto in lingua italiana e in lingua inglese.

 

 

  Maddalena Mazzocut-Mis, La natura mostruosa del personaggio urbano: la bella legge di ‘soi pour soi’ nella Parigi di Balzac, in Dal Brutto al Kitch. Percorso antologico-critico, Milano, CUEM, 2003, pp. 305-316.

 

  Cfr. 2000.

 

 

  Andrea Mazzucchi, Un episodio della fortuna di Dante in Francia nel primo Ottocento: “Les Proscrits” di Honoré de Balzac, «Rivista di studi danteschi», Roma, Anno III, n. 2, luglio-dicembre 2003, pp. 468-480.

 

  Particolarmente significativo per lo studio del mito di Dante in Francia nella prima metà dell’Ottocento è il romanzo filosofico Les Proscrits, pubblicato nel maggio 1831 ne «La Revue de Paris» e assunto successivamente (nel 1835) come peristilio del Livre mystique.

  Dopo aver ricostruito la genesi del testo balzachiano, A. Mazzucchi affronta la delicata questione dei legami tra questo racconto e l’opera dantesca sotto una duplice prospettiva di lettura e di interpretazione: la prima, legata al motivo dell'esilio; la seconda, che «insiste invece sul carattere visionario ed esoterico della costruzione dantesca e sulle aperture mistiche presenti nella Commedia» (p. 474). La forza suggestiva esercitata da Dante su Balzac fu senza dubbio assai rilevante: all’interno de Les Proscrits, lo scrittore francese «assimila la propria figura di interprete del pensiero di Swedenborg a quella di Dante» (p. 476). La ricezione in chiave ermetica della Commedia da parte di Balzac non fornisce tuttavia «chiavi particolarmente efficaci per la decifrazione dell’opera dantesca» (p. 480): in ogni caso, l’assunzione della Divina Commedia in chiave mistica consente di «comprendere meglio la centralità del versante visionario o cosmico» della poetica balzachiana, dove l’analisi scientifica degli ambienti si combina con l’esigenza «quasi mistica di unità e armonia fra il mondo delle cose e quello dello spirito» (Ibid.).

 

 

  Andrea Mazzucchi, Postfazione. Dante per Balzac, in Honoré de Balzac, I Proscritti ... cit, pp. 89-109.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Eva Meineke, I misteri della città nella narrativa europea del primo Ottocento: un’analisi imagologica, «ProSpe’ro. Rivista di culture anglo-germaniche», Trieste, X, 2003, pp. 69-78.

 

  [I]n Ferragus di Balzac il labirinto appare sotto forma particolare, non esplicita e tipica di questo autore, concentrata sulla fisionomia. Applicando le teorie di Lavater al contesto urbano, Balzac classifica le vie parigine a seconda delle caratteristiche umane. La fisionomia delle vie corrisponde a precise qualità umane e lascia trasparire il tipo sociale che le frequenta. Emerge da questo metodo balzachiano il forte desiderio di conferire una struttura al contesto inafferrabile della città di Parigi, di delineare il filo di Arianna che conduce attraverso il labirinto. Egli inventa una sorta di ordine: allo spazio corrisponde un tipo sociale. Il risultato è l’insieme di piccoli mondi tutti differenti tra di loro e misteriosi, ma uniti. Il labirinto anche qui è sottinteso nel suo duplice significato: disconnessione da una parte e coesione unificatrice dall’altra [...].

  In questo contesto si assiste all’impossibilità di concettualizzazione e all’instabilità delle immagini, riflessi di una realtà distorta e degenerata. Il “mostro” sono le angosce proiettate dell’individuo che si trova a confronto con le minacce della realtà moderna. Emergono angosce profondamente umane, create dal mancato rapporto con la natura e dall’impossibilità di comprendere il mistero dell’esistenza. Vi è ad esempio tutta una serie di immagini legate alla morte. In Ferragus di Balzac il cimitero come città dei morti rappresenta una copia in miniatura della città dei vivi, cioè della Parigi dell’epoca. Nella metropoli del primo Ottocento si manifestano con diverse forme di morte, dall’omicidio e suicidio fino alla morte per povertà e mancanza d’igiene. Un’immagine tipica è quella del suicidio nel fiume della città, soprattutto nella Senna a Parigi e nel Tamigi a Londra.

 

 

  Pier Vincenzo Mengaldo, Introduzione, in Honoré de Balzac, Il cugino Pons ... cit., pp. 5-33.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Nicola Muschitello, Un’estasi bolognese tra le pagine di Balzac, «Portici. Bimestrale della Provincia di Bologna», n° 5, 2003, p. 45.

 

  Nell’undicesima sala della Pinacoteca Nazionale di Bologna, è conservata la celebre Estasi di Santa Cecilia di Raffaello che Balzac ebbe occasione di contemplare durante il suo secondo viaggio in Italia nel 1837. Furono soprattutto la bellezza astratta e l’armonia musicale del capolavoro raffaelliano a colpire lo spirito e la sensibilità artistica dello scrittore francese: questo quadro, scrive l’A., «simbolo della sacralità della musica e dell’estasi che dona, Balzac lo portò dentro di sé. Forse lo considerava una specie di spartito ideale e facilmente leggibile, che perfino uno come lui, sprovvisto di dottrina musicale, poteva leggere e godere».

  Una sublime sinfonia di colori e di linee pure che il romanziere non esitò a trasfigurare in forma letteraria in due significative opere narrative quali Une fille d’Ève e Massimilla Doni, pubblicate entrambe nell’agosto del 1839.

 

 

  Patrizia Oppici, I sogni di Ursule Mirouët, in AA.VV., Sogno e racconto. Archetipi e funzioni. Atti del convegno di Macerata (7-9 maggio 2002), a cura di Gabriele Cingolani e Marco Riecini, Firenze, Le Monnier, 2003, pp. 252-260.

 

  Tentare di misurare l’impatto della dimensione onirica negli spazi dei molteplici luoghi narrativi della Comédie humaine può apparire azzardato so non addirittura contraddittorio rispetto al solido e lucido impianto realistico e documentario dell’opera balzachiana. In realtà, e questo studio di Patrizia Oppici ce lo dimostra, «il sogno occupa uno spazio non esiguo all’interno della Comédie humaine, poiché esso è legato a certe qualità della visione artistica» (p. 252) di Balzac e alle sue particolari concezioni scientifico-filosofiche rivelate attraverso le potenzialità della finzione e della scrittura narrativa. Si pensi, ad esempio, ai romanzi mistici del Livre mystique (Louis Lambert, Séraphîta), a L’Auberge rouge o ad Ursule Mirouët, opera pubblicata a puntate nel 1841, su cui l’A. concentra in modo preciso la propria attenzione. A differenza di molti altri testi balzachiani, Ursule Mirouët è un romanzo a lieto fine che «riunisce le tendenze mistiche ispiratrici del sogno ad una narrazione impeccabilmente congegnata per produrre un effetto di realtà attraverso il ricorso al soprannaturale» (Ibid.). Grazie al sogno, infatti, l’opera acquista una dimensione etica che si vede sostenuta e rafforzata dal progetto apologetico dello scrittore; grazie al sogno, che Balzac colloca all’interno di un contesto (pseudo)-scientifico quale quello del magnetismo, Ursule non solo potrà aprirsi nuove vie di accesso ad una interpretazione della realtà, ma saprà risolvere, attraverso i sapienti e raffinati meccanismi indiziari escogitati da Balzac, il mistero che aleggia intorno all’eredità rubata del dottor Minoret.

  Tuttavia, se il paradigma poliziesco non necessitava del sogno, esso, osserva l’A. in conclusione, è «indispensabile per la macchina apologetica creata da Balzac. [...] La chiave è nel rapporto che si stabilisce tra religione rivelata e scienza magnetica attraverso la protagonista: il piano provvidenziale nascosto nella trama del reale si rivela eccezionalmente nel romanzo grazie ai sogni magnetici di Ursule, una Eugénie Grandet fortunata, baciata dal talento di sognare» (p. 259).

 

 

  Francesca Orabona, Deformazioni grottesche nella Parigi del XIX secolo. La città-mostro balzachiana e la ‘ville barbare’ berlioziana, «Itinera. Rivista di Filosofia e di teoria delle Arti e della Letteratura», Milano, Dipartimento dì filosofia dell'Università degli studi, settembre 2003. [on-line].

 

  La prima metà del diciannovesimo secolo segna in Francia l’era della convergenza e della fraternità tra le arti e a Parigi si realizza il momento di massima tangenza tra mondo letterario e mondo musicale romantico. Musica e letteratura convergono intorno alle infinite potenzialità espressive offerte da una nuova categoria estetica che, a partire dalla riflessione di Victor Hugo sul dramma moderno, acquista un significato rilevante nell’arte, elevandosi a pari dignità del sublime e assurgendo a simbolo stesso della modernità: il grottesco. Categoria polivalente e multiforme, inglobante tra i suoi elementi costitutivi il mostruoso, il deforme, l’eccessivo, il caricaturale e il ridicolo, il grottesco si impone perché capace di accrescere lo spettro delle possibilità artistiche ed esprimere la pluralità e la complessità stessa di un’epoca che non può più riconoscersi nell’universo, armonico ed equilibrato, restituito dalle rigide regole e dagli statici modelli del classicismo.

  Gli anni nei quali si svolge l’attività di Honoré de Balzac (1799-1850) e di Louis-Hector Berlioz (1803-1869) coincidono con la piena fioritura del romanticismo francese. Entrambi gli autori, pur non schierandosi con esaltato fanatismo tra le file dei sostenitori della nuova scuola, tengono conto della riflessione hughiana e si prestano a una lettura nella prospettiva del grottesco, privilegiando la nuova categoria estetica come potente strumento critico d’indagine sociale e artistica circa le infinite contraddizioni che caratterizzano la capitale francese del loro tempo.

  La città-mostro balzachiana e la città barbara berlioziana, sintesi di bello e brutto, di triviale e sublime, di genialità e follia, è il luogo in cui si realizza la fusione dei contrari e la conciliazione degli elementi eterogenei di cui si compone il corpo sociale. La Parigi tentacolare del XIX secolo plasma i propri abitanti, costringendoli a continue metamorfosi adattative che li abbruttiscono sul piano fisico e morale e ne atrofizzano la sensibilità estetica. In una tale cornice, sconcertante e deformata, si trovano perfettamente rappresentati i sinistri e inquietanti abitanti della città-mostro vicino ai ridicoli e buffi monomani che popolano la ville barbare, i mostri morali di Balzac accanto ai grotteschi della musica di Berlioz.

  Dalle impietose analisi dedicate, sia dallo scrittore sia dal musicista, a indagare le cause e le manifestazioni della natura deforme e mostruosa del paesaggio urbano, traspare un potente messaggio critico sul valore dell’arte, ridotta a un’operazione puramente commerciale e subordinata al potere economico, che si impone, ancora oggi, all’attenzione del lettore per la propria imperiosa modernità. Lo spettacolo della Parigi di ieri conduce a comprendere e a rimettere in prospettiva l’immagine della metropoli di oggi. La città moderna del XIX secolo, come quella del XXI, seduce e ripugna, attrae e respinge, crea e distrugge secondo le perverse leggi dell’oro e del piacere. [...].

  Ponendosi in seno a una tradizione sviluppatasi nei secoli a partire dal Rinascimento fino a esercitare un fascino preminente all’interno del panorama culturale romantico, Balzac e Berlioz attingono inevitabilmente alle molteplici risorse categoriali del grottesco, quali l’interferenza tra i differenti regni naturali e il paragone tra ideale e basso materiale, privilegiando entrambi la deformazione mostruosa e le metamorfosi animalesche per descrivere il nuovo scenario urbano e denunciare gli spietati meccanismi economico-sociali che lo dominano. Il registro fantastique e monstrueux del grottesco berlioziano e balzachiano, lungi dal rappresentare un superficiale adeguamento alle mode letterarie di stampo hofmanniano e hughiano, si rivela chiaramente l’espressione più efficace di un nuovo tipo di realismo. Il grottesco, moltiplicando situazioni strane e bizzarre, personaggi mostruosi e folli, se in un primo momento sembra allontanare dalla realtà, riconduce prepotentemente a interrogarsi sull’infinita eccentricità del reale. La mostruosità e la follia non possono essere considerate semplicemente come il polo negativo della normalità, non sono espressione dell’irrazionale e della fantasia ma vengono valorizzate, da entrambi gli autori, come fertile stimolo di riflessione sull’arte e sulla vita.

  In Balzac e Berlioz, il grottesco, legge motrice della vita come dell’arte, utilizza la forza propulsiva del contraddittorio, esibisce le antinomie e gioca con i contrari per risolverli costantemente in unità. All’estetica del contrasto e alla logica dell’antitesi, sottesa al grottesco hughiano, lo scrittore e il musicista oppongono il principio della coincidentia oppositorum e la retorica dell'ossimoro per delineare i caratteri della Parigi del loro secolo, una totalità “mostruosamente sublime” che racchiude in sé tutte le differenze, il luogo in cui si realizza quella sintesi simultanea di bello e brutto, nobile e triviale, tipica della città moderna. [...].

  Se l’inferno metropolitano e la mostruosa identità morale dei suoi abitanti suscitano nel lettore un effetto perturbante, un ghigno amaro e una smorfia di repulsione che non riescono a esorcizzarne il timore, la città carnevalesca e i suoi folli monomani provocano piuttosto una risata gioiosa, liberatoria e rigeneratrice. Da un lato al lettore sono impedite le reazioni affettive spontanee, perché l’emozione nasce piuttosto dal distacco critico e dall'analisi della logica mostruosa che regola la società del tempo, dall’altro l’immedesimazione, ilare e compiaciuta, è inevitabilmente immediata. Il comico-grottesco berlioziano, a differenza di quello balzachiano, sinistro e costantemente accoppiato alla morte, sembra conservare ancora quel potenziale giocoso e benefico di tipo rabelaisiano.

  In entrambi gli autori, il grottesco, oltre a possedere una valenza estetica, assume una rilevanza gnoseologica e rivela delle potenzialità del tutto peculiari. Il grottesco berlioziano, grazie al suo potere altamente deformante e dissacratorio, è investito di un’alta missione pedagogica e civilizzatrice. A esso spetta il compito di educare il gusto corrotto degli artisti e del pubblico e guidarli, attraverso un procedimento ironico e maieutico, verso i principi della vera arte musicale. Il grottesco balzachiano diventa, invece, condizione euristica ed ermeneutica per indagare le leggi che presiedono alla natura del sociale. Come principio critico di riflessione sulla vita, esso costringe a una presa di coscienza più profonda della realtà e opera uno smascheramento, rivelando le strutture segrete dell’“ordine” societario.

 

 

  Michelle Perrot, Gli spazi del privato, in AA.VV., Il romanzo ... cit., pp. 495-519.

 

  Balzac, Zola e il privato, pp. 503-514.

 

  Più di tutti i suoi predecessori – e forse anche successori – Balzac fa dello spazio privato il teatro della Comédie humaine, disseminata di descrizioni facciate, interni, tappezzerie, mobili, oggetti. Con precisione notariale, egli compila l’inventario quantitativo (il numero di sedie e poltrone è un indizio di quanta gente venga ai ricevimenti) e qualitativo di un salotto o una camera: «un armadio sgangherato di ciliegio selvatico», «una modesta carta da parati», «un brutto tessuto di cotone stampato» suggeriscono la mediocrità. Le sue descrizioni vogliono essere delle rivelazioni, giacché l’interno esprime la condizione sociale, il carattere e le ambizioni degli abitanti, proprio come la fisionomia ne rispecchia il temperamento: una vera fisiognomica degli interni. In Cesare Birotteau, a casa di Molineaux, che vive di rendita nella Corte Batava, «un’indecente nudità denunciava immediatamente l’avarizia del nostro uomo»; nel salotto sei sedie impagliate, nella camera da letto «mobili del tempo di Luigi XV, un letto di un freddo che avrebbe spaventato una carmelitana». Du Tillet gode invece nel far colpo sull’ingenuo profumiere, con il suo lusso da parvenu [...].

  Soffitto, scendiletto di ermellino, un violaceo tappeto orientale, un tappeto fiammingo, la pendola con Amore e Psiche: ogni cosa esprime la ricchezza, l’agio, l’esotismo, lo snobismo del collezionista di pezzi unici. Al contrario, i Ragon stanno in rue du Petit-Bourbon-Saint-Sulpice, «in un’antica casa dall’apparenza degna, in un vecchio appartamento rivestito di legno dove ballavano pastorelle in crinolina e pascevano le pecore di quel secolo decimottavo». «I mobili, le pendole, la biancheria, le stoviglie, aveva un tono patriarcale, dalle forme nuove a furia di esser vecchie»: impressione rafforzata dai ritratti degli avi appesi alle pareti, che si trovano anche in casa della principessa di Cadignan, peraltro caduta in rovina.

  Anche il vizio e la virtù lasciano delle tracce: la camera lercia di Claparon, il sedicente banchiere, con le tende del letto frettolosamente accostate, due coperti «con i tovaglioli macchiati dalla cena della sera prima, parla della sua sordida esistenza. Viceversa, «la vita pura e semplice di Pillerault si manifestava nella disposizione interna del suo quartiere, composto di un’anticamera, un salotto e una camera. Salve le dimensioni, era una cella da certosino [...] semplice come quella di un religioso o di un vecchio soldato (sono gli uomini che meglio apprezzano la vita)». Pillerault – un repubblicano generoso e idealista – sosterrà Birotteau nelle sue tribolazioni. Del resto, gli interni manifestano sempre le attitudini morali degli individui e delle famiglie. Un matrimonio d’amore produce un nido caloroso, pur nella sua mediocrità, come l’appartamento di Minard – il povero spedizioniere degli Impiegati – e di sua moglie Zélie, operaia, figlia di un portinaio. I due abitano dalle parti della barriera di Courcelles, in un appartamento di tre stanze, da cento scudi, al terzo piano: «tendine bianche alle finestre, tappezzeria di carta scozzese a quindici soldi il rotolo, pavimenti di pietra ben lustri, mobili di noce, una piccola cucina linda». Una stanzetta serve da laboratorio a Zélie; poi, «un salotto ammobiliato da sedie impagliate, una tavola rotonda nel mezzo, uno specchio, una pendola a forma di fontana con volute di vetro e candelabri dorati col paralume di garza, infine una camera da letto bianca e azzurra: letto, armadio e scrittoio in acagiù, tappetino rigato ai piedi del letto, sei poltrone e quattro seggiole; in un angolo una culla di vimini dove dormivano un bimbo e una bimba». Donna di casa esemplare, Zélie «dava il latte ai figli, faceva da mangiare, curava la casa e i suoi fiori». Assomiglia alla «buona Maria» di cui l’economista Dupin offre un esempio nel Petit Producteur français: «C’era qualcosa di commovente in questa felice e laboriosa mediocrità», che la frequenza dell’aggettivo «piccolo» s’incarica di sottolineare”.

  Cambiare condizione sociale significa cambiare appartamento – di qui mobilità degli eroi di Balzac a Parigi – o trasformarlo. Quando diventa secondo commesso dai Ragon, alla «Regina delle Rose», il giovane Cesare Birotteau, «ricco ormai di seicento franchi, ebbe una camera dove poté decentemente chiudere in mobili a lungo bramati i pochi panni che aveva messo insieme». Vent’anni dopo, divenuto il soddisfatto inventore della «Pasta delle sultane», Birotteau sconvolge la disposizione delle stanze di casa per dare un ballo. Consigliato da un architetto, vuole «rovesciare la scala», mettere la cucina al terzo piano e il laboratorio nel solaio, come se ormai fosse necessario nascondere i luoghi di produzione e, invece, valorizzare la boutique: «La bottega sarà sciccosa, come un salotto». Costanza e Cesarina, sua figlia, non vengono dimenticate: «Ti rinnovo la camera da letto», dice alla moglie; «ti preparo un salottino e do una graziosa cameretta a Cesarina». «Graziosissima», in effetti, «con un piano, un armadio a specchio, un casto lettino con le due semplici tendine, e tutti quei mobiletti che piacciono tanto alle donzelle». Costanza si oppone a questa spesa, insorge contro questa specie di Louvre che le vogliono imporre, rifiuta le dorature previste per il salotto, a dispetto di quello che dice l’architetto: «Signora, il commercio deve brillare e non lasciarsi schiacciare dall’aristocrazia». Rovinato, il profumiere dovrà abbandonare quelli che chiama «i monumenti della mia follia», rifugiarsi al quinto piano per non vedere più quel lusso assurdo, mentre Costanza finisce in «un’orribile camera che dava sul cortile scuro e umido». La «grandezza e la decadenza» di Birotteau si inscrivono così nelle trasformazioni dello spazio privato.

  Allo stesso modo, Balzac misura l’ambizione dei Rabourdin (Gli impiegati) in base alle cure che dedicano alla loro casa. Quando Celestina decide di investire la sua energia di «donna superiore» nella carriera del marito, assume un domestico e cambia le tappezzerie dell’appartamento che, essendo figlia di un banditore d’asta, può permettersi di arredare con gusto da collezionista: tappeti turchi, armadi di Boulle, quadri d’autore, in stile rococò (che essa contribuisce a rilanciare). In confronto, l’appartamento dei Saillard, nel Marais, fatto di pezzi compositi, emana senso del risparmio. Nessuna riparazione dal 1804; trumò che hanno perso la doratura, dipinti sbiaditi, mobili d’occasione, che Balzac si delizia a enumerare: «poltrone di noce scollate e mal tappezzate, armadi in legno di rosa, tavolini dai piedi d’ottone e dal marmo spaccato, un superbo scrittoio di Boulle non ancora valorizzato dalla moda e, infine, una disparata collezione di “buone occasioni” scelte a suo tempo dalla vecchia Bidault: quadri comprati per il valore della cornice, vasellame scompagnato, [...] cristallerie, biancheria damascata, letto di piume a colonne ricoperto di seta persiana». Insomma: tutto quello che si può acquistare a poco prezzo dal rigattiere.

  Lo spazio privato non è solo un segno, ma anche una cosa, un materiale che può suscitare desiderio di possesso, e trovarsi al centro di trattative e dispute ereditarie. Ursule Mirouet è costretta ad abbandonare casa del padre adottivo (e rinunciare a molte cose che amava) perché alcuni eredi le contestano la sua legittimità di legataria. Gli oggetti infiammano il collezionista: Pons ha incominciato a interessarsi ai «capolavori della mano e dello spirito, compresi sotto l’espressione popolare di anticaglie» verso il 1810, in occasione di un soggiorno di studio a Roma. Mette in piedi la sua collezione con «le gambe del cervo, il tempo degli oziosi e pazienza dell’israelita». «Aveva il suo museo per gioirne in ogni momento». Composto di ben 1907 pezzi, è un tesoro che suscita l’invidia degli amatori e dei mercanti: gli oggetti del desiderio si trasformano così in merci che condurranno Pons alla morte. In Balzac, del resto, lo spazio privato non è solo il luogo dove l’intreccio si svolge, ma a volte anche il suo motore. Muri, pareti divisorie, finestre, porte aperte o chiuse guidano il gioco degli sguardi con cui Grandet controlla il suo mondo ed esercita il suo potere. La sua camera, separata da quella della moglie da una parete divisoria, comunica con un «misterioso stanzino», solidamente murato, che egli chiama pomposamente il suo «laboratorio» e che si affaccia su una corte con una finestra protetta da una grossa inferriata. Al piano superiore la camera di Eugénie, il suo rifugio, ha una porta a vetri attraverso cui il padre può sorvegliarla: una sorveglianza sempre più marcata, man mano che lei si si oppone alla tirannia di lui, rifiuta il matrimonio di interesse, e dice di amare il cugino (di cui ha scoperto il dissesto finanziario leggendo di nascosto una lettera). È un atto estremamente ardito per questa ragazza così rispettosa dei limiti, che la induce ad amare il cugino infelice offrendogli il suo oro. Tradimento supremo: per punire Eugénie, Grandet la rinchiude tenendola a pane e acqua, e la sua stanza diventa così la sua prigione.

  In Ursule Mirouet, la cittadina di Nemours si divide in base ad una precisa simbologia in tre «piccoli mondi»: quello dei Portenduère, vecchia famiglia aristocratica, chiusa nei propri ricordi, il cui tabernacolo è la camera del defunto Monsieur de Portenduère, ancora «nello stato in cui si trovava il giorno della sua morte». Freddo, tetro, senza fiori né sole, l’ambiente è a immagine e somiglianza dei suoi abitanti, che per sopravvivere dovranno infatti abbandonare questa casa tenebrosa. Dall’altro lato strada si trova la bella dimora del dottor Minoret e della sua pupilla, Ursule. Intorno a lei, tutto è armonia; nella sua camera, «così semplice e civettuola», si «respira un profumo di cielo». I fiori del suo giardino, la musica che ascolta, «celeste linguaggio sviluppato dal cattolicesimo, esprimono la natura squisita di questa fanciulla vestita di bianco e di azzurro. Quanto agli eredi, non abitano nella stessa via ma «in una desolazione infernale, incapaci di amare i fiori, la musica» (e le persone). Il romanzo è una lotta fra le tenebre e la luce, e luoghi e oggetti sono tutti coinvolti in questo chiaroscuro. Quando Ursule, cacciata dalla casa del dottor Minoret, si rifugia in «una casetta», sulle rive del Loing, ella conserva del tutore solo «alcuni oggetti che gli erano cari», in particolare una grande poltrona Luigi XV, dove si rannicchia per riflettere, fantasticare, e forse morire. In questo romanzo imbevuto di atmosfere alla Swedenborg, pieno di sogni e di spettri, le cose emanano un potere soprannaturale. «Numerosi osservatori sanno ricostruire le nazioni o gli individui in tutta la realtà delle loro abitudini dai resti dei monumenti pubblici o dall’esame delle loro reliquie domestiche. L’archeologia sta alla struttura sociale come l’anatomia comparata sta alla natura organica», scrive Balzac nella Ricerca dell’assoluto. Gli spazi privati raccontano la vita sociale delle persone e rivelano i loro segreti interiori perché vi partecipano attivamente. [...].

 

 

  Giuseppe Petronio, Romanticismo e verismo. Due forme della modernità letteraria, Milano, Mondadori, 2003.

 

 

  Susi Pietri, Crise de l’expérience, crise du conteur. Balzac, Hofmannsthal, Benjamin, in Collectif, Penser avec Balzac ... cit., pp. 143-151.

 

  […]. Balzac en 1831 parle d’un tournant qui vient d’arriver, dont les effets commencent à devenir visibles ; Hofmannsthal en 1902, par la fiction d’un homme de lettres imaginaire du XVIe siècle, déplace dans le passé le discours sur la crise qui concerne le début du XXe siècle; Benjamin, en 1936, analyse une transformation historique dont il retrouve les premiers symptômes dans le siècle précédent, au temps où Balzac écrit La Comédie humaine, dans l’œil du cyclone.

  Cette imbrication de temps de l’écriture, temps fictifs des œuvres présentes ou à venir, temps historiques de la crise qui s’y interroge (projetés sur le croisement des lectures et relectures réciproques : Hofmannsthal écrit trois essais sur Balzac; Benjamin fait de la Comédie un grand répertoire critique de ses Passages parisiens; Hofmannsthal tire de Benjamin, dont il fait publier l’essai sur Goethe et un extrait de l’Origine du drame baroque allemand, plusieurs stratégies de réflexion sur la forme dramatique; Benjamin lui répond par ses lettres et ses articles sur La Tour), converge vers une visibilité nouvelle — et une nouvelle turbulence théorique — de la tension entre «genèse» et «forme». Sur la scène de la dissolution de l’expérience et du naufrage de la parole, s’avance la connexion problématique de leurs processus respectifs: par leur fragmentation, par leurs brèches, ils redéfinissent les frontières d’une co-appartenance ou d’une fission, ils travaillent pour ou contre la narration en l’ouvrant au déferlement du multiple dont ils procèdent. Dans ce dialogue à distance, Hofmannsthal et Benjamin peuvent permettre de «penser avec Balzac» les possibles du processus génétique «en temps de crise»; et Balzac, à son tour, pourrait avancer, comme le dit Benjamin «non pas une réponse, mais une proposition pour continuer le discours en le relançant».

 

 

  Rinaldo Rinaldi, Balzac dans Gadda. Technique de la citation dans «La cognizione del dolore», in Collectif, Balzac et l’Italie ... cit., pp. 131-148.

 

  L’A. ritiene che la presenza di Balzac nell’opera narrativa di Carlo Emilio Gadda «est bien visible (...) sans être déclarée ou exhibée à l’aide de citations précises; elle tient à de multiples résonances, à des suggestions (...) ‘typologiques’, plus qu’à des rencontres textuelles répétées» (pp. 135-136). Se l’unico testo gaddiano in cui si fa esplicito riferimento a Balzac è il Racconto italiano di ignoto del Novecento (1925), la ricerca condotta dall’A. individua un ricco mosaico di strutture tematiche e ambientali, di nuclei testuali e di sintonie stilistiche che legano La cognizione del dolore a molti romanzi balzachiani. È, in particolare, Le Lys dans la vallée il testo da cui sembrano giungere al romanzo di Gadda le corrispondenze più ricche e articolate, le quali agiscono in profondità nella memoria dello scrittore milanese. Gadda, osserva l’A., «exorcise en somme son passé à l’aide d’une oeuvre aussi déséquilibrée que la sienne, une oeuvre dont le centre est déplacé vers les zones les plus cachées du moi; c’est un écran singulièrement homologue singulièrement homologue à sa propre vérité» (p. 144).

 

 

  Silvia Ronchey, Balzac, la commedia umana in mille caraffe piene di caffè, «La Stampa ttL», Torino, Numero 1354, 22 marzo 2003, p. 11.

 

  Honoré de Balzac non era nobile e non si chiamava Balzac, ma voleva realizzare con la penna quello che Napoleone non era riuscito a fare con la spada. Lo aveva scritto su una striscia di carta che aveva incollato sulla spada del Bonaparte di gesso che teneva sulla scrivania. «Giorno e notte» era il motto che aveva fatto dipingere sotto lo stemma dell’abusiva casata dei Balzac d’Entragues. Honoré de Balzac lavorava di notte come di giorno per costruire il suo impero di carta e la mappa delle sue conquiste era quella, sterminata, della commedia umana. Per la maggior parte dei contemporanei il merito più grande di Balzac era la capacità di osservazione. Baudelaire capì che il suo merito più grande era invece quello di essere un visionario. Malato, in punto di morte, mentre il medico gli spiegava che non avrebbe passato la notte, Balzac borbottò: «Ci vorrebbe Bianchon». Bianchon era il medico della commedia umana.

  L’idea della commedia umana era nata da un confronto tra l’Umanità e l’Animalità. Quelle che Balzac chiamava le Specie sociali erano sempre esistite e sarebbero esistite sempre, come esistono le Specie zoologiche. Ma lo stato sociale ha bizzarrie che la natura non si può permettere, perché lo stato sociale è natura più società. A Marx Balzac piacque più di Sue.

  Balzac era sdentato, sporco, basso, gonfio. Aveva la testa infossata tra le spalle, la schiena precocemente curva, le braccia ridicolmente corte. Il torso sproporzionato posava sulle cosce pesanti e le gambe da bassotto saltellavano più che camminare. Portava abiti vistosi e un bastone dal gigantesco pomo intarsiato di turchesi. Eppure aveva occhi da sovrano, da veggente e da domatore, ed era il più eroico, il più singolare, il più romantico e poetico di tutti i suoi personaggi, e le donne della migliore società europea si innamoravano di lui.

  George Sand percepiva, dietro le vanterie, i cinismi e le ingenuità di Balzac, un santuario interiore di ragione, in cui poteva in ogni momento chiudersi per dominare la sua immensa opera. A volte Balzac si sentiva invadere dalla società e dal timore di divenire banale. Allora recideva ogni rapporto. «Ho capovolto la vita parigina», diceva, «e vivo al contrario, coricandomi quando gli altri si alzano e alzandomi quando vanno a letto». Andava a dormire verso le sette di pomeriggio, dopo mi pasto leggero, e si faceva svegliare a mezzanotte, per scrivere fino al mattino. Sulla tovaglia verde del tavolo da lavoro erano sempre accese due candele e posata su uno scaldino la caffettiera di porcellana bianca e blu. Il caffè di Balzac era una miscela di tre marche diverse. Ne beveva litri e litri e questo gli provocava terribili crampi allo stomaco. Ma Balzac resisteva: «Ancora un’ora e mi sarò imbarcato sul vascello del lavoro. Dio voglia che mi porti là dove desidero andare. Sono emozionato come se dovessi perdermi in questa lotta, ma ho una stella e finora nessuna nube l’ha coperta. Dio voglia che brilli sempre». «Ancora un’ora e mi sarò imbarcato sul vascello del lavoro. Dio voglia che mi porti là dove desidero andare. Sono emozionato come se dovessi perdermi in questa lotta ...»

Honoré de Balzac, Storia imparziale dei Gesuiti, Medusa, 113 p.

 

 

  Sante Rossetto, Honoré de Balzac. Un presunto figlio segreto nel cimitero di Oderzo, «Il Gazzettino», Venezia, 2 febbraio 2003, p. 14; 2 ill.

 

  Chi osservasse con attenzione tra le vecchie tombe del cimitero di Oderzo troverebbe un nome che suscita curiosità. E’ quello di Richard Lionel Guidoboni Visconti, nato il 29 maggio 1836 e morto il 18 dicembre 1875, come recita la scritta in francese.

  Ma chi era questo nobile, conte, dal nome italiano ed esistenza transalpina? Il figlio, presunto di Honoré de Balzac. Proprio lui, il grosso, corpulento, sdentato scrittore della “Commedia umana”. Figlio di natali irregolari, secondo la morale del tempo, non del tutto cancellata anche oggi.

  Il padre, che lo ha riconosciuto, era un Guidoboni Visconti, nobile, che affondava la progenie in Barnabò, il quattrocentesco signore di Milano. La madre, una inglese, era Sarah Lovell. Bellissima, narrano i contemporanei. Ed energica. Tutto l’opposto del marito conte, un indeciso e anonimo in tutto. Sarah amava i salotti parigini, dove dopo il matrimonio era venuta a vivere con il consorte Emilio. Era la Francia del secondo impero, dove i nobili umiliati dalla Rivoluzione potevano tornare alla loro vita di società. Che Sarah Lovell amava, anche perché con il suo spirito e il suo fisico vi partecipava da protagonista. E questi saloni di begli spiriti, o presunti, si contendevano lo scrittore di grido del momento: Balzac era all’apice della gloria, ma anche dei debiti da cui fu sempre inseguito nella sua vita. Di fisico era brutto, tozzo, con una bocca occupata da pochi inquilini. Di magnetico aveva gli occhi e la penna. A sufficienza per scardinare le numerose e pericolanti resistenze femminili. Tra cui, in una mansarda affittata per sfuggire ai creditori, la giovane e fascinosa Sarah. Almeno così sussurravano i maligni. Richard Lionel era il secondo figlio di Sarah. Prima era nato Gustave.

  La vicenda di questo figlio, presunto, di Balzac è narrata nel libro dell’opitergino Eugenio Bucciol “Da Versailles a villa Galvagna” (ed. Nuova Dimensione di Portogruaro). Un volume entusiasmante sotto il profilo narrativo e metodologico. Non è facile trovare in un panorama di inutile sovrabbondanza editoriale un lavoro di così egregia fattura. L’autore, che non è uno storico di mestiere, dà prova di un’alta capacità di ricerca nei meandri archivistici di mezza Europa, La notevole bravura riesce a stemperare questa ampia messe di dati in un racconto. Potremmo dire un romanzo narrato con felicità stilistica.

  La vicenda del figlio di Balzac è il filo conduttore attorno al quale ruota il mondo francese, quello russo, veneto e italiano. Per singolare coincidenza, sia Balzac che Richard Lionel sposeranno due nobildonne russe, ed entrambi per appoggiarsi al loro patrimonio. Richard, come il fratello Gustave, aveva intrapreso la carriera di ufficiale di marina. Con scarso successo perché, nonostante le buone conoscenze della madre, non andò mai oltre il grado di tenente di vascello.

  Poco più che trentenne cominciarono a manifestarsi alcuni disturbi alle vie urinarie, che lo costrinsero ad abbandonare il servizio in marina e ad appoggiarsi economicamente sempre più alle rendite russe della moglie. Fu dal ritorno da un viaggio a S. Pietroburgo, nell’inverno del 1873, che il male si aggravò. Invece di tornare a Parigi da Varsavia, arrivarono a Vienna e da qui decisero di dirottare per il minuscolo centro di Colfrancui, vicino a Oderzo. Nella campagna trevigiana vivevano, nella villa ora Giol, i baroni Galvagna, imparentati con i Guidoboni Visconti. Richard e la moglie Sophie arrivarono a Colfrancui in un inverno particolarmente gelido.

  Nemmeno il calore delle stufe della villa e la vicinanza dei parenti riuscirono a lenire i disturbi di Richard. Ma nulla faceva pensare ad una fine improvvisa. Morì “repentinamente”, come scrisse il parroco di Colfrancui nel registro dei defunti. Qualcuno ipotizzò un suicidio. Ma perché?

  Richard trovò sepoltura nel cimitero di Oderzo. Aveva 39 anni. Poco dopo morirà anche il fratello Gustave, a 44. La moglie Sophie, risposatasi con un russo, gli sopravvisse una decina d’anni. La madre, la bellissima e volitiva Sarah, visse fin quasi a ottant’anni. Se Richard fosse figlio del tombeur de femmes della “Commedia umana” lo sa solo lei. Agli altri restano i sospetti e le chiacchiere. E oggi neanche queste. Rimane solo la curiosità per questo italo-inglese, vissuto in Francia e morto a Colfrancui Ma se non fosse ancora viva l’ipotesi, pur insolubile, della sua celebre paternità né di lui né della madre oggi qualcuno si occuperebbe. Un capitolo, scritto un secolo e mozzo dopo, degno della “Commedia umana”. Come lo sognava il grande Balzac. E descritto se non con la sua bravura, con una efficacia che il corpulento Honoré apprezzerebbe. Non è privilegio di molti.

 

 

  Romolo Runcini, Il mito di Parigi, «Prometeo», vol. 21, N. 83, settembre 2003, pp. 137-145.

 

 

  Nantas Salvalaggio, Prefazione, in Honoré de Balzac, I Giornalisti ..., cit., pp. 5-8.



  Francesco Schiratti, “Le Chef-d’oeuvre inconnu” de Balzac. Essai de traduction. Tesi di laurea. Relatore: prof. Giovanni Cacciavillani, Venezia, Università Ca’ Foscari, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 2003.

 

 

  Elisabetta Settepassi, La provinciale in Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Tiziana Goruppi, Università degli studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere, Anno accademico 2002-2003, pp. 97.

 

 

  Marco Stupazzoni e Annarosa Poli, «Les Proscrits» di Balzac nelle «Osservazioni sul Libro Mistico» del teologo gesuita Padre Michele Domenico Zecchinelli per una condanna all’Indice, in AA.VV., Lingua, cultura e testo. Miscellanea di studi francesi in onore di Sergio Cigada ... cit., pp. 999-1020.

 

  [...]. Nel Livre Mystique, Balzac postula una organizzazione metafisica e mistica dell’uomo assumendo come oggetto privilegiato della propria analisi quel «fait psycho-moral» definito, per l’interposta persona di Félix Davin, nell’Introduction aux «Études philosophiques». Attraverso le forme del romanzo, Balzac intende fornire la sua personale chiave di lettura del rapporto uomo-mondo-Dio, con il preciso intento di sostenere e di consolidare, allo stesso tempo, i fondamenti estetico-filosofici del proprio sistema letterario. Grazie a una rinnovata interpretazione della dottrina di Swedenborg, secondo cui «l’homme est le moyen d’union entre le spirituel et le naturel parce que ces deux constituent son humanité et ces deux sont aussi son moyen de correspondre avec le ciel», Balzac tenta dunque di interpretare l’uomo nella sua totalità superando la netta frattura tra materialismo e spiritualismo e la distinzione classica tra anima e corpo. Il principio generale a cui sottende la dottrina mistica di Sigier, per cui è possibile, «après avoir spiritualisé la Matière et matérialisé l’Esprit», giungere sino a Dio, troverà in Louis Lambert la sua ulteriore e rinnovata conferma. Lambert, benché spiritualista, concepisce infatti «l’intelligence comme un produit tout physique» ritenendo che «les mots matérialisme et spiritualisme expriment [...] les deux côtés d’un seul et même fait».

  La questione di fondo riguarda più specificatamente la ridefinizione dell’essenza stessa dell’individuo, in base al rapporto dialettico tra il suo «être intérieur» e il suo «être extérieur». È nell’«être intérieur», concepito come una entità generata da «une substance éthérée» in grado di comunicare con le sfere dello Spirito, che si determina e si perfeziona la mutazione dell’uomo in angelo. L’angelo, infatti, non è altro che una trasformazione dell’uomo, il quale transita di sfera in sfera, dal inondo naturale al mondo spirituale e al mondo divino, attraverso una serie di metamorfosi e di purificazioni del suo «être intérieur».

  In un’epoca «en ce moment travaillé [e] par le Doute», un dubbio tutt’altro che salutare visto che, come osserva Lambert riferendosi alla società parigina, «ici le produit de départ en tout est l’argent», si rendeva ancor più necessario, come vera e propria «nécessité de l’époque», ripensare e ridefinire «les rapports réels qui peuvent exister entre l’homme et Dieu».

  Spingendo all’estremo l’analisi delle potenzialità incarnate dall’intelligenza umana associata alla spiritualità, Balzac si fa portavoce e promotore di una visione antropologica e cosmologica del creato che, rifiutando di porsi come la propagazione di idee consacrate appartenenti a una determinata ortodossia religiosa, rifletta una sorta di «monisme intellectuel qui est une dynamique de transformation».

  In questa visione ontologica unitaria, in cui, secondo l’interpretazione di H. Gauthier è possibile scorgere le strutture, le dinamiche fondamentali e il linguaggio propri dello gnosticismo – nell’organizzazione del cosmo visibile e invisibile in sfere —, l’intelligenza umana rappresenta il punto di contatto e di coesione tra i mondi e lo strumento di salvezza individuale che altro non è che la reintegrazione dell’uomo nella luce primitiva di Dio attraverso la conoscenza.

  Nulla poteva apparire in questo senso più trasgressivo e pericoloso, quasi al limite dell’eresia, a un teologo gesuita della prima metà dell’Ottocento di questa nuova visione dell’uomo e del mondo che si vedono legati tra loro da regole analoghe e dipendenti da un medesimo principio generale di unità di composizione organica e spirituale del cosmo. È indubbio quindi che i fondamenti di questa ‘rivoluzionaria’ teologia mistica tesa a ridisegnare lo statuto e il valore della religione come «humanisme transcendant» non potessero sfuggire alla Censura ecclesiastica.

  In data 16 settembre 1841 (sotto il papato di Gregorio XVI), veniva pubblicato il Decretum di condanna – con la formula «Opera damnata, atque proscripta quocumque loco, et quocumque idiomate, aut in posterum edere, aut edita legare, vel retinere audeat» – di dieci opere balzachiane: Le Lys dans la vallée [...]; Les Cent Contes Drolatiques, L’Israélite e L’Excommunié [...]; i Nouveaux Contes philosophiques [Maître Cornélius, L’Auberge rouge, Louis Lambert] e i Contes bruns [...] e Le Livre Mystique. Les Proscrits, Louis Lambert e Séraphîta, la cui relazione censoria si deve al Padre e predicatore gesuita Michele Domenico Zecchinelli, teologo della Sacra Penitenzieria. [...].

  Ci soffermeremo preliminarmente sulle Osservazioni di Padre Zecchinelli relative alla Préface du «Livre Mystique» (27 novembre-1° dicembre 1835), dove Balzac riprende e amplifica alcuni dei concetti fondamentali formulati in scritti precedenti per quel che riguarda il problema dell’origine della creazione e quello inerente alla trasmissione delle religioni mistiche.

  Il Livre Mystique – scrive Balzac – si configura come «un livre destiné à offrir l’expression nette de la pensée religieuse, jetée comme une âme en ce long ouvrage». Di questo, e alla luce dei rilievi formulati in seguito, è pienamente consapevole Padre Zecchinelli, il quale dichiara, nel paragrafo introduttivo del suo commento alla prefazione, che

 

  quantunque sembri che l’Autore scriva dei semplici Romanzi, nondimeno chiaramente apparisce che con artificioso metodo viene sviluppando un sistema religioso, del quale egli non vorrebbe comparir partigiano, ma che nondimeno da Lui si propone conte preferibile agli altri, compreso il Cattolicismo.

 

  Si tratta, in altri termini, per Balzac, di abbandonare le dottrine e i dogmi aggiunti dagli uomini nel corso dei secoli e di assumere come modello di rinnovata spiritualità il Misticismo che è «précisément le Christianisme dans son principe pur», imitando e praticando la «Doctrine des Premiere chrétiens, religion des Anachorctes du Désert». Vista l’età di profonda crisi in cui è sprofondata l’umanità intera dominata dal dubbio, dove il cattolicesimo non soltanto ha perso «le gouvernement politique du monde», ma, cosa ancor più grave, «le gouvernement moral», la questione di fondo è la seguente: «quelle forme revêtira le sentiment religieux, quelle en sera l’expression nouvelle?». Determinare «les rapports réels qui peuvent exister entre l’homme et Dieu» non costituisce dunque, da questo punto di vista, «une nécessité de l’époque», come scriverà Balzac in Louis Lambert?

  Come religione, osserva lo scrittore, il Misticismo «procède en ligne droite du Christ par saint Jean, l’auteur de l’Apocalypse»: esso «ne comporte ni gouvemement ni sacerdoce» e per queste ragioni fu «l’objet des plus grandes persécutions de l’Eglise Romaine.

  Sostenere che la nuova religione dell’uomo non comporta né governo né sacerdozio equivale, secondo Zecchinelli, a negare radicalmente l’essenza stessa e tutti i fondamenti di ogni vita cristiana. Soffermandosi in particolar modo sulla figura di Séraphîta, egli constata con visibile sdegno che:

 

  non sarà maraviglia pertanto se facendo comparir la sua Serafita come una creatura predestinata e sollevata alla cognizione dell’infinito e trasformata, dopo la morte, in un Serafino, nondimeno la rappresenta non battezzata anzi dichiara non bisognosa di battesimo siccome bastantamente pura, perché eletta avanti la nascita; e di più morta senza soccorso alcuno religioso e senza assistenza di verun Ministero sacro, eppur sollevata subito al più alto dei cieli col solo mezzo della preghiera.

 

  Come si legge inoltre nella Relazione manoscritta, «la sua Serafita, bianca e pura espressione del Misticismo, deve stimar meschina la misura del finito, siccome quella che conosce l’infinito», un infinito che «devant être comme Dieu, semblable à lui-même en toutes ses parties» non può prestarsi, secondo il Censore, all’«orribile confusione d’idee» mostrata da Balzac visto che egli «non distingue i varii sensi, nei quali può prendersi la parola infinito, e qual sia quello, ch’egli adotta».

  Nell’ottica mistica di Séraphîta, l’uomo transita di sfera in sfera, dal mondo naturale al mondo spirituale e al mondo divino unicamente grazie a una serie di trasformazioni del proprio «être intérieur». Il destino mistico dell’uomo si configura quindi allo stesso tempo come trascendente e immanente rispetto all’essenza e alle tensioni della sua anima. Séraphîta è colta nell’ultima tappa di questa evoluzione, nel momento in cui, senza essere ancora angelo, è divenuta uno spirito angelico proiettato verso la partecipazione alla luce divina.

  In questo processo di progressiva purificazione e di iniziazione ai misteri del divino, la dottrina cattolica non può ammettere né tanto meno tollerare che l’ingresso alla vita dello Spirito possa avvenire senza accedere ai sacramenti istituiti da Cristo, ognuno dei quali incarna un preciso ruolo vitale in relazione al supremo sacramento dell’Eucaristia. Senza il battesimo, in particolare, l’uomo non si libera dal peccato e non si rigenera come figlio di Dio: nel battesimo, attraverso cui si compie la rinascita dell’uomo nello Spirito Santo, egli assurge a «figlio della luce e figlio del giorno» (Prima lettera di S. Paolo ai Tessalonicesi, 5,5) divenendo «luce» egli stesso (Lettera agli Efesini, 5,8).

  Al Censore, il verbo dei Mistici incarnato in questo sistema non sembra dunque altro che «un’allegoria, come allegorici possono essere i nomi di Serafita, di battesimo, di Creatura predestinata ecc.» e ritiene che nell’idea stessa di Misticismo, inteso come sintetica congiunzione del Misticismo cristiano con le altre forme di Misticismo indiano, egiziano ed ebreo attraverso l’Apocalisse, si rifletta «quasi un estratto e una quinta essenza di tutti i misteri del Gentilesimo», la cui falsa onnipotenza si è trasmessa fino all’epoca moderna grazie alle opere degli Estatici e degli Illuminati, di Jacob Boehm, di Mme Guyon, di Fénelon, di Mlle Bourignon, ma, soprattutto, per merito della dottrina di Swedenborg – ritenuto da Balzac ultimo grande «évangéliste et [...] prophète», «la cui dottrina espone ed antepone ad ogni altra l’Autor di Serafita», e di Saint-Martin, «le dernier grand écrivain mystique».

  Commentando l’asserzione di Balzac secondo cui, nel Livre Mystique, «l’auteur s’est donc hasardé dans la plus difficile des entreprises, celle de peindre l’être parfait dans les conditions exigées par les lois de Swedenborg sévèrement appliquées», Zecchinelli nota sarcasticamente che lo scrittore sembra applaudirsi, nell’assurdo e oltraggioso parallelismo tra lui e san Pietro, «d’aver così dato una testa, un cuore, dell’ossa ad una dottrina la più incomprensibile, e di aver incarnato il verbo dei mistici» rendendo seducenti nella forma le sue azzardate opinioni.

  E così conclude:

 

  Questo piccolo schizzo del sistema dell’Autore, che si ricava dalla semplice Prefazione, potrebbe bastar forse anche solo per far giudicar tutto il Libro mistico degno di essere annoverato tra quei Proscritti, che formano il titolo del suo primo Romanzo.

 

  La struttura ciclica del Livre Mystique consente di valutare ogni opera nella sua unità, indipendente e coerente, e di valorizzarne allo stesso tempo il carattere dinamico all’interno di un disegno più vasto e significativo.

  Nella Préface, Balzac puntualizzava che «Les Proscrits sont le péristyle de l’édifice [...] Louis Lambert est le mysticisme pris sur le fait [...] Séraphîta est le mysticisme tenu pour vrai, personnifié, montré dans toutes ses conséquences».

  È possibile dunque rilevare, nei Proscrits, una coerenza ideologica destinata a svilupparsi ulteriormente nelle due opere seguenti.

  Il nucleo tematico fondante della fabula balzachiana tradotta nei Proscrits – romanzo pubblicato nella «Revue de Paris» del maggio 1831 — ruota intorno a tre personaggi principali: Dante – modello e ‘rivale’ iperbolico dello stesso Balzac – durante il suo soggiorno a Parigi; Godefroid, suo fedele discepolo, e Sigier – personaggio anacronistico poiché la sua morte risale a un quarto di secolo prima del 1308, anno in cui si svolgono gli eventi narrati, maestro di Teologia mistica nell’Università parigina. Queste tre figure sono esplicitamente presentate da Balzac come incarnazioni o metafore di altrettante tipologie umane: «La voix de Sigier leur avait célestement déduit à tous les mystères du monde moral; le grand vieillard devait les revêtir de gloire; l’enfant les sentait en lui-même sans pouvoir en rien exprimer; tous trois, ils exprimaient par de vivantes images, la Science, la Poésie et le Sentiment».

  Il modo ‘spettacolare’ in cui Balzac presenta il corso di Teologia mistica tenuto da Sigier al cospetto di un pubblico talmente vario ed eterogeneo da costituire una sorta di microcosmo sociale e intellettuale dell’intero genere umano mostra come egli consideri le rivelazioni dottrinali tradotte dal misticismo nel corso dei secoli una costante. In un’epoca, quella medievale, immersa nelle tenebre oscure e impenetrabili dell’ignoranza e della superstizione, dove «tout tremblait à la pensée d’un pouvoir surnaturel» e dove «le mot de magie était aussi si puissant que la lèpre pour briser les sentiments, rompre les liens sociaux et glacer la pitié dans les coeurs les plus généreux», la Teologia mistica rappresentava la sola via di salvezza per l’uomo, poiché «elle était la Science même», l’unica in grado di abbracciare «l’ensemble des révélations divines et l’explication des mystères».

  Una affermazione come quest’ultima riportata doveva suscitare non pochi sospetti e timori nella mente e nella coscienza di un censore cattolico. Dopo aver sottolineato in maniera alquanto sbrigativa che «il Romanzo è tutto diretto ad esaggerar il timor che incuteva nel medio evo l’idea d’un potere soprannaturale», Padre Zecchinelli coglie immediatamente il nodo centrale del discorso di Sigier che altro non sarebbe, a suo giudizio, «che l’epilogo della dottrina del misticismo, secondo il sistema, specialmente di Swedenborg abbellito dall’Autore». L’assioma da cui scaturiscono tutte le prospettive è l’unità della sostanza originale di cui tutti gli elementi dell’esistente sono la modificazione. Sigier presenta la totalità cosmica delle intelligenze organizzate in sfere distinte e gerarchizzate, ognuna delle quali si definisce in base alla sua maggiore o minore appartenenza all’unità dello spirito e si determina all’interno di un’energia vitale in perpetuo movimento da cui procedono i diversi gradi di spiritualità.

  Balzac scopre in Swedenborg le idee trascendenti che gli consentono di risolvere l’antitesi tra anima e corpo («les faux dogmes des deux principes et ceux du panthéisme») e, a commento, egli proclama «l’unité divine en laissant à Dieu et à ses anges la connaissance des fins dont les moyens éclataient si magnifiques aux yeux de l’homme», unità divina al centro imponderabile della quale gravitano le creazioni e a cui tendono le creature seguendo un processo di trasformazioni successive.

  Senza voler quindi «pénétrer tout à coup les desseins de Dieu», che resta il centro e il motore del creato, il sistema mistico assunto da Sigier intende offrire all’uomo gli strumenti per comprendere e per contemplare le strutture e le dinamiche del cosmo, per giungere «dans le sanctuaire où Dieu se cache à nos regards» e «saisir un infini qui échappe sans cesse à ses mains débiles».

  La spiritualizzazione della materia unita alla materializzazione dello spirito costituiscono le affermazioni centrali del discorso sui rapporti tra Dio e il creato: «la Bible à la main – scrive Balzac –, après avoir spiritualisé la Matière et matérialisé l’Esprit, après avoir fait entrer la volonté de Dieu en tout, il admettait de parvenir par la foi d’une sphère à l’autre». È nella metafora del «fleuve» (che ricorda molto da vicino la nascita dall’acqua e la rigenerazione in essa dell’uomo pronto «ad entrare nel Regno di Dio» [Gv., 3, 5], simboleggiate dal Battesimo) che si esprime in modo particolarmente intenso ed efficace la ricchezza infinita dell’energia divina: Sigier «faisait épouser d’un regard l’univers entier, et décrivait la substance de Dieu même, coulant à pleins bords comme un fleuve immense, du centre vers les extrémités, des extrémités vers le centre». Tutto il creato, quindi, è in Dio e aspira alla sua luce seguendo il «mouvement ascendant de la création» e «l’échelle mystique de Jacob», immagini dinamiche e circolari del sublime divino «qui procède par dilatation et résorption dans l’unité originelle».

  Nonostante Balzac rifiuti categoricamente, per voce di Sigier, qualsiasi complicità tra la nuova Teologia mistica e il panteismo o il manicheismo, è difficile tuttavia pensare che la sottile mente di un teologo gesuita non abbia potuto riconoscere in questo sistema qualcosa di gravemente minaccioso per l’ortodossia cattolica depositaria delle verità rivelate.

  Nella Relazione manoscritta inviata al Padre Antonino Degola, Zecchinelli afferma con toni decisi e severi che il romanzo tende proprio «a screditar la fede delle verità rivelate»: in forma più pacata, ma altrettanto drastica, il Censore si chiede, nelle pagine contenenti le motivazioni ufficiali di condanna, se il sistema descritto dall’autore non sia altro che «un’allegoria, in cui le parole: Dio, materia, spirito, fede, sfera ecc. abbian un occulto significato analogo all’oggetto, che si è proposto l’autore, e che forse è una satira degli ascetici, o di qualche individuo addetto alla Teologia mistica» e completa il suo discorso rilevando che, in ogni caso, «tal dottrina non è conciliabile colla cattolica».

  Concepire la totalità del cosmo come una «gradation réelle de spiritualité» scandita da una serie di «successives transformations de chrysalide que Dieu imposait ainsi à nos âmes» le quali, originandosi tutte dalla sostanza divina, giungono a toccare la più piccola porzione di materia inerte, significa ammettere che il «mouvement imprimé par le Très-Haut à la Nature» si impone e si trasmette attraverso una «espèce de vie infusoire» che determina il movimento ascensionale della creazione stessa. La palingenesi cosmica e la palingenesi umana troverebbero quindi certamente la loro origine in Dio, principio e fine di tutto, ma non per generazione, come secondo la Bibbia, ma per emanazione (la «vie infusoire»), nelle sue infinite combinazioni, della Sostanza unica, di una entità

 

  fixe dans son essence et dans ses facultés, qui les transmettait sans les perdre, qui les manifestait hors de Lui sans les séparer de Lui, qui rendait hors de Lui toutes ses créations fixes dans leurs essences, et muables dans leurs formes.

 

  Al di là della conoscenza che ogni uomo può avere del Creatore, la dottrina cristiana pone la linearità e la singolarità degli eventi contro la concezione ciclica del tempo considerando Dio come il creatore eli tutte le cose visibili e invisibili. Per fede, è scritto nella Lettera di San Paolo agli Ebrei (11,3), sappiamo che «i mondi furono formati dalla Parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine ciò che si vede». Il Nuovo Testamento rivela che Dio ha creato tutto per mezzo del Verbo eterno, suo figlio Gesù Cristo, ed «Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono» (Lettera di San Paolo ai Colossesi, 1,17). Tuttavia, se il fine ultimo della creazione è che Dio possa anche essere «tutto in tutti» (Prima lettera ai Corinzi, 15,28), questo non significa che la creazione possa intendersi come una emanazione necessaria della sostanza divina, poiché Dio ha creato liberamente dal nulla: «Ti scongiuro, o figlio,» leggiamo nel Secondo libro dei Maccabei, (7, 28) – contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti, tale è anche l’origine del genere umano».

  Secondo i veri principi della dogmatica cattolica, la creazione è dunque voluta da Dio come dono fatto all’uomo: da questo punto di vista, l’umanità non può essere concepita semplicemente come «un monde intermédiaire entre l’intelligence de la brute et l’intelligence des anges», come un’intelligenza che, nella scala delle possibili intelligenze cosmiche, si collochi tra «les perceptions confuses du marbre» e la sfera celeste. In questo sistema, si misconosce il valore della gerarchia delle creature espressa nell’ordine dei ‘sei giorni’ che va dalla creatura meno perfetta alla creatura più perfetta. Benché esista una solidarietà fra tutte le creazioni dell’universo per il fatto che tutte hanno il medesimo creatore, non è ammissibile pensare che, essendo la natura «une et complète», «dans l’oeuvre la plus chétive en apparence, comme dans la plus vaste», ogni forma riproduca «en petit» una immagine esatta di Dio («direbbesi – precisa a questo punto il Censore – che l’Autore accenna il sistema delle monadi Leibniziane»).

  Dio trascende la creazione ed è a essa presente. Dio è presente nell’intimo più profondo delle sue creature e in particolare nello spirito dell’uomo: ma soltanto all’uomo, essendo il solo a essere stato generato a immagine e somiglianza di Dio, è concesso di immergersi nell’infinito oceano del mistero divino, e in questo egli rappresenta, secondo la testimonianza di san Paolo, il punto più alto della Sua opera: «In Deo vivimus, movemur et sumus» (Atti degli Apostoli, 17,28).

  A ulteriore conferma degli assunti formulati in precedenza, Zecchinelli stigmatizza ancora con forza l’idea che l’essenza di un Dio che non crea si riversi come un fiume in piena dal centro alle estremità e dalle estremità verso il centro del cosmo:

 

  Sembra che l’Autor abusi di quel che dicono talvolta gli oratori cattolici, parlando della Creazione: cioè che la Bontà di Dio esci quasi fuori di sé medesimo per far esistere quel che prima non era, ed infondergli una partecipazione della sua bontà, ma non intendon per questo dir, come pensa l’Autore, che Dio diffonda la sua stessa sostanza nelle creature.

 

  In questa visione totalizzante che impone l’esistenza di una catena di esseri che vanno dall’uomo allo spirito e, inversamente, dall’uomo alla materia, il movimento che trascina incessantemente l’individuo verso il suo fine ultimo in Dio acquista un significato del tutto particolare in relazione alla dinamica del proprio «être intérieur» nel pensiero, nell’amore e nella fede. Dio misericordioso apre «son temple à toutes les créatures»: nessuna forma di peccato, nessuna guerra, nessuna disgrazia, nessuna depravazione umana può impedire «le grand mouvement imprimé par l’homme à tous les mondes». Ma occorre percorrere il cammino tracciato da Mosè e seguirne gli insegnamenti: «Déchaussez-vous pour entrer dans le sanctuaire, dépouillez-vous de toute souillure, quittez bien complètement votre corps, autrement vous seriez consumés, car Dieu ... Dieu, c’est la lumière!».

  Tutto quel che segue di questo Romanzo, osserva il Censore nella parte finale del suo esposto,

 

  serve a metter in orror la Teologia mistica; poiché l’Aut. finge, che il più giovane di questi due Proscritti [parola, che nel sistema di Swedenborg significa gli Angeli caduti dal cielo, cioè uomini ritornati in altro stato a purgar i loro traviamenti], che ascoltarono il Sigier, siasi impiccato, ma che per buona sorte, staccatosi il chiodo, non si sia fatto gran male.

 

  Zecchinelli fa riferimento al tentativo di suicidio operato da Godefroid. Godefroid, è convinto di essere un angelo «banni du Ciel» e di essere promesso a una palingenesi angelica: il suo angelismo si presenta come una possessione da parte dell’angelo della sua spiritualità umana. Il suo imprudente tentativo di liberarsi dell’«être extérieur» – i cui «sens apparents [...] peuvent être à son âme, la matérielle enveloppe d’une essence divine», nel quale si trova imprigionata la sua virtualità angelica – rappresenta una grave e fallimentare incomprensione della dottrina mistica, in quanto egli vede (romanticamente) nel suicidio «la seule route que nous ayons» per «aller à Dieu». Di questo è pienamente consapevole Dante, il quale si premura certo di consolare il giovane discepolo, ma non per questo, come scrive il Censore, «lo loda come un eroe» confortandolo a «mantenersi in tali disposizioni». Al contrario, Dante rimprovera a Godefroid che, per liberarsi dal peso dell’esilio a cui sembrano condannati, è necessario ubbidire alla voce di Dio e seguire nella rassegnazione «les rudes chemins où son doigt puissant à marqué notre route» [...].

  Al termine della sua lunga relazione sui Proscrits, Padre Zecchinelli conclude con un’ultima riassuntiva Riflessione che legittima appieno i severi giudizi censori riportati nelle pagine precedenti:

 

  Dall’insieme di questo Romanzo sembra potersi conchiudere – scrive il Censore —, che sotto qualsivoglia aspetto voglia prendersi, sarà sempre pericoloso ai Leggitori semplici e poco istruiti, e potrà insinuar loro una dottrina falsa, e contraria alla Cattolica, massimamente unito agli altri due Romanzi, che dichiarano ed amplificano le strane conseguenze del sistema dello Svedese Mistico, o Visionario.

 

  Balzac pare non essersi eccessivamente preoccupato della condanna dell’Indice ecclesiastico: nella lettera a Mme Hanska del 12 luglio 1842, egli sembra addirittura ironizzare sui provvedimenti adottati dal Sacro Collegio, considerando questi come un incidente di percorso del tutto trascurabile rispetto al progetto in divenire del sistema Comédie humaine:

 

  Séraphîta et L[ouis] Lambert ont mis contre moi tout le Sacré Collége (sic). Je continue, car ceci est arrivé tant de fois, sous tant de formes, que je ne vous le dis que parce que mon ami arrive de Rome et m’a dit cela en riant ce matin. […].

 

 

  Gabriella Turnaturi, Incontri virtuosi. La sociologia involontaria di Honoré de Balzac, in Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria, Bari, Editori Laterza, 2003, pp. 56-60.

 

  La Comédie humaine, una delle più grandi «macchine narrative» della storia della letteratura, e anche una delle più importanti miniere per gli scienziati sociali interessati alla modernità e alla soggettività moderna. Eppure il fine della narrazione balzachiana e la narrazione stessa e ad essa è estranea ogni volontà classificatoria o ansia di conoscenza. Ma è proprio grazie alla sua forza narrativa, alla «narratività pura» che l’opera di Balzac molto mostra alla sociologia. La Comédie humaine è una lucidissima rappresentazione della dinamica delle forze sociali in campo nella modernità, mostra i processi sociali nel loro farsi, nel loro trasformare e travolgere le vite individuali. Balzac fa della sociologia — scrive Franco Moretti — non perché analizzi, classifichi o costruisca tipi ideali, bensì perché fa delle forze sociali il motore principe dell’intreccio della Comédie humaine: «Le grandi forze sociali del mondo balzachiano non sono entità immote da osservare appunto come ‘sfondo’ di una vicenda, ma agenti direttamente coinvolti nella trama, producono la trama, e ciò che appare in primo piano non è altro che la risultante, spesso inconsapevole, del loro movimento». Moretti, sulla scia di Lukàcs, sottolinea come con Balzac il romanzo diviene sociologico, non perché vi ritroviamo tutti i ritratti dei borghesi ottocenteschi, ma perché la sociologia viene usata per la costruzione dell’intreccio. E quindi la letteratura si fa sociologia non perché narri tipi sociologici, ma perché mette in scena processi sociali.

  Forse nell’universo balzachiano l’esempio più calzante di questo mettere in scena i processi sociali è Le (sic) illusioni perdute, dove ad essere protagonista non è più il singolo individuo, Lucien de Rubempré, ma la rete dei rapporti sociali, tutte le diverse complicate forme di associazione che si fanno e si disfanno intorno a lui, la rete dei rapporti sociali nei quali Lucidi, il protagonista, è intrappolato, ma che, al tempo stesso, dà vita alle sue vicende: «Il romanzo di Lucien non esisterebbe a prescindere dal reticolo sociale entro cui si muove, ma ciò non implica che le sue avventure siano, per così dire, al servizio di quello sfondo sociologico, mero strumento di informazioni attendibili». Infatti, mentre divoriamo appassionatamente le avventure di Lucien, non acquisiamo informazioni, oggettività sociologiche, ma veniamo anche noi lettori presi nella rete delle relazioni sociali, nell’interconnessione di tutto con tutto e di tutti con tutti, nei processi sociali che irrompono nella narrazione.

  La descrizione che Balzac fa di Angoulême, all’inizio del romanzo è quasi un esempio di sociologia narrativa. La storia del paese, l’assetto urbanistico, le principali attività economiche, la stratificazione sociale, le relazioni fra le diverse cerchie sociali, sono analizzate da Balzac con un rigore «sociologico» degno di Max Weber.

  I trasporti, la posta, gli alberghi, i carradori, le imprese di trasporti pubblici, tutte le attività che vivono in funzione della strada e del fiume, si raggrupparono ai piedi di Angoulême per evitare le difficoltà dell’accesso alla città. Il sobborgo dello Houmeau divenne perciò una città industriosa e ricca, una seconda Angoulême, gelosa della città alta dove restarono il governo, il vescovato, la giustizia, l’aristocrazia [...] in alto la nobiltà e il potere, in basso il commercio e il denaro; due sfere sociali che sono sempre state nemiche dappertutto; è quindi difficile stabilire quale delle due città odiasse di più la rivale.

  E l’analisi dei rapporti fra i diversi ceti, le loro consuetudini, i loro tratti distintivi, sembrano anticipare le riflessioni weberiane sui ceti sociali.

  È facile comprendere quanto lo spirito di casta influisca sui sentimenti che dividono Angoulême e lo Houmeau. Il commercio è ricco, la nobiltà è generalmente povera. L’una si vendica dell’altro con un disprezzo che è uguale dalle due parti. Fra la borghesia di Angoulême si ritrova il medesimo contrasto. Il commerciante della città alta dice di un negoziante del sobborgo, con un accento indefinibile: «è uno dello Houmeau».

  Ma questa accurata analisi sociologica non fa né da sfondo né da premessa alle vicende del romanzo, è piuttosto narrazione allo stato puro, parte e al tempo stesso motore della trama. La relazione di Lucien, ad esempio, con l’aristocratica signora de Bargeton che determina il destino del giovane, è messa in moto proprio dalla specifica rete di rapporti sociali di Angoulême, dalle ambizioni artistiche della signora e dalle ambizioni sociali del giovane poeta. Tutto ha inizio dal contatto tra due esponenti di ceti diversi desiderosi di guadagnare tratti distintivi dal contatto con altre cerchie sociali. Non diversamente da come verrà narrato più tardi da Forster in Casa Howard, l’incontro e l’impossibile connessione tra il mondo delle sorelle Schlegel e quello del signor Wilcox. Come per Balzac anche per Forster la trama sociale non è uno sfondo, ma una macchina narrativa.

  Lucien de Rubempré è il provinciale che parte alla conquista della grande città spinto da un’ambizione illimitata, cerca la gloria letteraria, ma anche la ricchezza che nella Francia della Restaurazione e di Luigi Filippo c il nuovo idolo a cui tutto viene sacrificato. Lucien, bello e brillante, non sopporta il ristretto ambiente di Angoulême, cittadina della carta e dell’arte tipografica, le cui tecniche Balzac descrive con minuzia proprio nelle prime pagine del romanzo, annunciando subito che le disavventure di Rubempré saranno accompagnate da una meticolosa descrizione della società del tempo. Il grande amico di Lucien, poi suo cognato, è David Séchard che nutre le stesse ambizioni di gloria, ma che si rassegna a gestire la tipografia paterna e a occuparsi della famiglia che ha formato sposando Eve, la sorella di Lucien. Un destino al quale Rubempré vuole sfuggire a tutti i costi.

  Nell’ambiente di Angoulême le sue doti di poeta sono riconosciute e lodate, gli sono aperti i salotti, in particolare quello di madame de Bargeton di cui diviene l’amante, seguendola a Parigi dove tenterà di realizzare i suoi sogni. Ma, come le grazie della signora de Bargeton impallidiscono di fronte allo charme delle parigine, le poesie di Lucien, così apprezzate in provincia, non riscuotono alcun successo nella capitale. Il vagabondare di Lucien da un editore all’altro, fino al celebre Dauriat al quale invano propone una raccolta di sonetti, sono accompagnate (sic) da descrizioni della vita pulsante di Parigi.

  L’insuccesso si accompagna alla degradazione, madame de Bargeton lo abbandona, Lucien, disperato, senza risorse e senza prospettive, tenta l’ultima carta che gli resta: abbandona la poesia e si dedica al giornalismo mondano. La sua avvenenza lo ha fatto introdurre nei salotti ed egli sfrutta con successo questa possibilità. [...].

 

 

  Alex Woloch, Per una teoria del personaggio minore, in AA.VV., Il romanzo ... cit. pp. 659-681.

 

  p. 666. I romanzi di Balzac sono pieni di «a parte» che ricordano le riflessioni di Dostoevskij citate in apertura: «Conviene forse a questo punto fornire la storia della balbuzie e della sordità di Grandet»; «Ma per comprendere profondamente la trepidazione di cuore che agitava il brav’uomo, è necessario tracciare un rapido profilo della presidentessa». Queste interri zioni, dettate dal bisogno di fornire notizie su un personaggio che ha una sua precisa funzione da svolgere, spesso non rientrano agevolmente nello spazio loro destinato; la frase «tracciare un rapido profilo» tradisce il timore che la digressione possa deviare il corso della storia, inducendo il narratore a concentrarsi sul nuovo arrivato. Nel Cugino Pons il narratore dovrà dunque calcolare con cura il momento in cui profondersi in dettagli sulla signora Cibot: «La signora Cibot, la portiera, era il perno sul quale ruotava la vita quotidiana dei due schiaccianoci; ma essa svolge un ruolo talmente importante nel dramma che pose termine a quella duplice esistenza che conviene riservare al suo ritratto al momento della sua entrata scena»; «Ma, per capire la rivoluzione che il ritorno di Pons a quell’ora avrebbe provocato in casa sua, sono a questo punto necessarie le spiegazioni della signora Cibot».

  Queste interruzioni portano in primo piano quella tensione tra l’interiorità e l’esteriorità umana che è un aspetto decisivo del realismo sociale balzachiano. Proprio come le persone reali, i personaggi di una struttura narrativa possono essere strumentalizzati (e visti solo dall’esterno); oppure esigere una infinita attenzione (grazie alla forza della loro interiorità). Il doppio status del personaggio – che si integra nella narrazione o la sovverte con le sue rivendicazioni – ribadisce un tema centrale della Comédie humaine, dove le persone sono per un verso ridotte a un ruolo strumentale che nega la loro soggettività (come si dice nella Cugina Bette: «Bisogna considerare le persone come degli strumenti di cui ci si serve, che si prendono e si lasciano a seconda della loro utilità») – mentre per l’altro la narrazione si vede costretta ad approfondire la loro situazione, nonché la loro personale visione delle cose. Pur trasformando a ogni piè sospinto le persone in strumenti, i romanzi di Balzac sono attratti anche dalle persone in quanto tali.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  L’Affarista o Mercadet; a cura della Scuola di Teatro Sergio Tofano diretta da Mario Brusa, con Oliviero corbetta nelle vesti di Balzac, Museo Accorsi, 2003.

 

 

  Mariolina Bertini, La letteratura francese dall’età romantica al naturalismo, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lingue e letterature straniere (Letteratura francese, I anno), Anno accademico 2003-2004.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Il capolavoro sconosciuto.

 

 

  Mariolina Bertini, Immaginazione melodrammatica e strutture del desiderio in “Pierrette” di H. de Balzac, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lingue e letterature straniere – Letteratura francese (IV anno), Anno accademico 2003-2004.

 

 

Mariolina Bongiovanni Bertini, A propos de bottes: le rôle d’un détail dans «Illusions perdues», in Collectif, Illusions perdues. Actes du colloque de la Sorbonne des 1er et 2 décembre 2003.

 

 

  Massimo Blanco, Il realismo di Balzac, Roma, Università degli studi La Sapienza, Facoltà di Lettere e filosofia, Anno accademico 2003-2004.

 

 

  Margaret Collina, Medicina e parola. Letture, testimonianze, Bologna, Oratorio dei Filippini 10-11 aprile 2003. Testi scelti dalla Bottega dell’Elefante letti da Margherita Collina, al flauto Marco Cippo. Honoré de Balzac, (1833) “Il medico di campagna”.

 

 

  Andrea Del Lungo, Aux seuils de l’œuvre capitale : poétique et idéologie des préfaces d’«Illusions perdues», in Collectif, Illusions perdues ... cit.

 

 

  Francesco Fiorentino, La nascita di un nuovo luogo romanzesco: il condominio, in AA.VV., Lunga vita al romanzo. La metafora spaziale nella narrativa dell’Occidente. Convegno nazionale di letteratura, Bari, 10-12 Aprile 2003.

 

 

  Francesco Fiorentino, Enseignement et révélation: Stendhal et Balzac, in Collectif, Illusions perdues ... cit.

 

 

  Donata Meneghelli, Il romanzo dell’artista o la rappresentazione allo specchio, Università degli studi di Bologna, Facoltà di Lingue e letterature straniere – Teoria e storia dei generi letterari, Anno accademico 2003-2004 – I semestre.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Il capolavoro sconosciuto.

 

 

  Paola Tonussi, Il paesaggio in letteratura: Honoré de Balzac, Venezia, Università Ca’ Foscari, 2003.

 

 

  Isabel Violante Picon, Come si chiama il narratore della “Comédie humaine”?, in AA.VV., Toponimi e antroponimi campani nelle letterature antiche e moderne e altra onomastica letteraria, Università degli studi di Napoli ‘L’Orientale’, Dipartimento di studi comparati, 27 febbraio 2003.




Eventi.


 

Papà Goriot. Regia di Tino Buazzelli <6 febbraio 1970>, “Rai educational. Rai à la carte”, 14 aprile e 19 aprile 2003.




Marco Stupazzoni

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