venerdì 19 febbraio 2021



2002

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Da Honoré de Balzac, Fisiologia del matrimonio (1829), in Paolo Orvieto, Misoginie. L'inferiorità della donna nel pensiero moderno. Con antologia di testi, Roma, Salerno editrice, 2002 («Piccoli saggi», 13), pp. 244-249.

 

 

  Honoré de Balzac, Il cugino collezionista, in Carlo Fruttero, Franco Lucentini, Viaggi di nozze al Louvre, Torino, Allemandi, 2002.

 

  Da: Le cousin Pons.

 

 

  Honoré de Balzac, I marmi di Venezia sotto la pioggia, in Venezia, Milano, Touring Club Italiano, 2002 («Le nuove guide d’oro»), pp. 119-120.


  Venezia sognata dai romantici poteva deludere il viaggiatore al suo arrivo in città. Così nella primavera del 1837 Balzac, alloggiato al Danieli, nell’appartamento occupato tre anni prima da George Sand e Alfred de Musset, esterna delusione in una lettera indirizzata all’amica milanese, la contessa Maffei. La prima impressione, negativa, si attenuerà dopo qualche giorno, quando riconoscerà che “per vedere Venezia bisogna avere più tempo e libertà”.

 

Venezia, martedì 14 marzo 1837.

 

  Cara Contessina [C. Maffei],

  Io e il mio compagno di viaggio siamo arrivati qui questa mattina, accompagnati da una pioggia a dirotto che non ci ha lasciato da Verona, di modo che non mi era difficile vedere Venezia emergere dalle acque. Se lei mi permette d’essere sincero e se non mostrerà la mia lettera a nessuno, le confiderò, senza leggerezza o disprezzo, che non ho avuto da Venezia l’impressione che mi aspettavo, e non per aver poco ammirato tante pietre o opere umane, perché ho il più sacro rispetto per l’arte. L’errore sta in quelle miserabili stampe inglesi che abbondano nei keepsakes, nei quadri di quella legione di disprezzabili pittori di genere, che mi hanno così spesso mostrato il palazzo Ducale, la Piazza e la Piazzetta, sotto tante luci vere o false, in tante posizioni, sotto tanti aspetti distorti, con tante fantasie licenziose di luce, che non avevo più alcun riferimento reale, e la mia immaginazione era come una civettuola, a tal punto consumarsi d’amore in tutte le sue forme intellettuali, che, quando arriva al vero amore, a quello che si rivolge alla mente, al cuore e ai sensi, non è più presa da questo santo amore. Inoltre avevo visto così tanti marmi sul Duomo, che non avevo più desiderio dei marmi veneziani. I marmi di Venezia sono come una vecchia che doveva essere stata bella e di ciò ne aveva goduto tutti i vantaggi, mentre il vostro Duomo è ancora tutto pimpante, giovane, addobbato come una sposa di ieri, con le sue blonde, le mantiglie traforate e ricamate, i tulle freschi, i capelli spazzolati e pettinati, il collo d’alabastro. Inoltre la pioggia calava sopra Venezia un mantello grigio che poteva essere poetico per questa povera città che cede da ogni parte e che d’ora in ora sprofonda nella tomba, ma era poco gradita ad un parigino che gode per due terzi dell’anno di questo mantello di nebbia e di questa tunica di pioggia. C’è una cosa che mi attrae: è il silenzio di questa città morente, solo questo, che incontra le mie segrete inclinazioni, che, malgrado le apparenze tendano alla malinconia, mi farebbe amare la permanenza a Venezia ...??

 

 

 

 

Edizioni bilingue.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto. Pierre Grassou, a cura di Giovanni Greco e Davide Monda – testo francese a fronte, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, (settembre) 2002 («Bur Classici», 1411), pp. 217; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Giovanni Greco, Davide Monda, Noterelle storico-critiche sopra un “capolavoro” arcinoto, pp. 5-31;

  Cronologia, pp. 33-38;

  Testimonianze e giudizi critici, pp. 39-82;

  Bibliografia, pp. 83-88;

  Davide Monda, Nota ai testi, pp. 89-90;

  Il capolavoro sconosciuto, pp. 97-161;

  Pierre Grassou, pp.  163-215.

 

  Le Chef d’oeuvre inconnu rappresenta probabilmente il punto più alto della riflessione di Balzac sull’arte e sulle complesse dinamiche formali, conoscitive e ricettive riguardanti la creazione artistica. In questo racconto, che ha conosciuto diverse edizioni tra il 1831 e il 1837, Balzac pone al centro della sua attenzione di scrittore e di filosofo la teoria del genio e le relazioni tra arte e vita. Se si considera, allo stesso tempo, la sua fortuna letteraria, Le Chef-d’oeuvre inconnu appartiene senza alcun dubbio alla schiera delle opere più lette e celebrate dell’intera Comédie humaine. Nonostante le differenti impostazioni metodologiche e i molteplici ‘tagli’ interpretativi, l’attenzione della maggior parte dei commentatori si è focalizzata sul pensiero estetico di Frenhofer, le cui concezioni artistiche manifestano e rispecchiano per intero l’evoluzione del pensiero di Balzac.

  Questa nuova edizione italiana del racconto filosofico balzachiano e di Pierre Grassou offre al lettore un accurato apparato esegetico e critico-bibliografico di assoluto valore.

  Contrariamente alla maggioranza dei rilievi formulati da molta parte della critica novecentesca, l’intento dei curatori è quello di proporre una lettura «positiva» del capolavoro balzachiano sia in senso estetico sia in senso etico. Si tratta, in altri termini, di evidenziare «quelle valenze morali e terapeutiche» insite nel testo al fine di poterlo leggere e interpretare anche come «un racconto-saggio d’amore e sull’amore» (p. 13). All’opposto della mediocrità borghese incarnata da Pierre Grassou – l’anti-Frenhofer per eccellenza –, Frenhofer rappresenta il vero filosofo, un «mistico ricercatore del Vero» (p. 22), per il quale dipingere equivale ad amare in senso assoluto. Egli nutre infatti, nei confronti della sua modella, un amore puro, un amore che, con un sentimento analogo al «sublime trasporto ficiniano», trascende ogni sorta di «commercio carnale» e spinge «l’anima a [...] spendersi al di là di ogni utilitarismo, a sacrificarsi senza limiti in favore delle creature amate» (p. 25). L’idealismo e lo slancio platonico-cristiano di Frenhofer non consentono di applicare alla sua concezione di arte e di creazione artistica i canoni e il linguaggio della pittura tradizionale, tra lui, Porbus e Poussin, ogni contatto o confronto costruttivo risulta impossibile e la distanza tra i due modelli di linguaggio artistico si rivela incolmabile: «incomprensibile e condannabile per gli uomini, l’espressione artistica più autentica di Frenhofer può essere capita e stimata» solo dall’intelligenza divina, da «quel grande Creatore» che, leggiamo in Séraphita, «si pone in noi, ci rapisce, ci magnifica e ci moltiplica in Lui» (pp. 29-30).

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Francesco Fiorentino. Traduzione e note di Maria Grazia Porcelli, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2002 («BUR», L 1130), pp. 626.

 

  Cfr. 1997.

 

 

  Honoré de Balzac, Storia imparziale dei Gesuiti. Prefazione di Michele Ranchetti, Milano, Edizioni Medusa, (ottobre) 2002 («Le porte regali», 18), pp. 115.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Michele Ranchetti, Prefazione, pp. 5-10;

  Storia imparziale dei Gesuiti, pp. 11-73;

  Breve del nostro S. Padre Papa Clemente XIV per la soppressione dei Gesuiti, pp. 75-100;

  Costituzione del nostro Santo Padre Papa Pio VII, per la divina provvidenza Sovrano Pontefice, diretta a ristabilire la Società di Gesù nel suo antico stato in tutto il mondo cattolico, pp. 101-113.

 

  L’autenticità balzachiana dell’opera appare oggi come un dato non più contestabile, nonostante alcune ipotesi formulate, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, in base alle quali la paternità del testo sarebbe da attribuire, anche se in maniera non esclusiva, a Horace Raisson. Per lungo tempo misconosciuta o addirittura ignorata dalla critica, l’Histoire impartiale dei Jésuites merita di essere sottoposta ad una attenta rilettura in riferimento, da un lato, alla questione riguardante la formazione delle idee politiche balzachiane, dall’altro, al rilievo assunto, nel testo, dalla tematica religiosa.

  Nella Prefazione a questa recente edizione italiana dell’opera – che si avvale della traduzione ormai datata (ma rivista per l’occasione) di G. Morsiani risalente al lontano 1927 (cfr. I Gesuiti, Roma. Tip. ed. laziale) – Michele Ranchetti osserva che, per Balzac, il carattere religioso della Compagnia di Gesù assume un’importanza particolarmente rilevante in quanto modello disciplinate dell’ordine «rispetto alla conservazione dell’equilibrio nella società civile e religiosa» (p. 9).

 

 

  Honoré de Balzac, Viaggio da Parigi a Giava. Trattato degli eccitanti moderni. A cura di Graziella Martina, Como, Ibis, (luglio) 2002 («Minimalia»), pp. 122.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Graziella Martina, Presentazione, pp. 9-16;

  Viaggio da Parigi a Giava, pp. 17-72;

  Trattato degli eccitanti moderni, pp. 75-121.

 

  Pubblicato nella sua edizione definitiva ne «La Revue de Paris» il 25 novembre 1832, dopo un lungo e costante lavoro di revisione operato sul testo della prima versione redatta tra il dicembre 1831 e il gennaio 1832, il Voyage de Paris à Java rappresenta senza dubbio uno tra i racconti più singolari della produzione letteraria balzachiana. L’insolito e suggestivo viaggio fantastico alla scoperta del mito orientale, il cui esotismo attrae, con i suoi riti e i suoi misteri, non solo Balzac ma una larga parte degli scrittori romantici, trova per la prima volta la sua felice collocazione nel panorama editoriale italiano grazie a questo elegante volumetto curato da Graziella Martina.

 

  pp. 14-16. Se la botanica ha smentito l’esistenza dell’upas, ci ha fornito nel tempo informazioni sempre più dettagliate sulle caratteristiche di piante come il tabacco, portato in Europa da Cristoforo Colombo. Balzac espone con molta precisione gli effetti derivanti dal suo abuso: vertigini, disturbi dell’equilibrio, azione irritante delle vie respiratorie... Oggi noi sappiamo che essi sono causati dalle sostanze acide e catramose che si formano durante la combustione della cellulosa nonché dalla nicotina, che lo scrittore non nomina mai. Per una ragione molto semplice: la nicotina è stata scoperta soltanto più tardi, nel 1865. Lo stesso vale per la caffeina, scoperta nel 1875, trentasei anni dopo il libro di Balzac, inserito nel 1839 nella sezione “Studi analitici” della Commedia umana. Tuttavia, Balzac descrive con accuratezza gli effetti dell’uso di caffè: stimolazione del sistema nervoso, chiarezza di idee, lucidità di memoria, facilità di ragionamento e di parola, senso di benessere e di lieve euforia, scomparsa della stanchezza, stimolo dell’apparato muscolare, aumento delle secrezioni gastriche con effetto favorevole sulla digestione ... e anche quelli dell’abuso: palpitazioni, disturbo del ritmo cardiaco, tremori, sudorazione, ipereccitabilità nervosa, acidità di stomaco e insonnia. Per questa descrizione, lo scrittore si avvale della propria esperienza di caffeinomane. Infatti, proprio lui, che in questo testo raccomanda la moderazione, non l’ha mai messa in pratica in prima persona ed è morto a soli 51 anni di ipertrofia cardiaca, causata da eccesso di caffè. Ma questo nettare mortale ha fatto scaturire dalla sua mente “come da un rubinetto aperto” le bellissime storie in cui si muovono i duemilacinquecento personaggi da lui creati. Di questa sua amata bevanda, di cui offriva volentieri degustazioni agli amici, conosciamo anche la ricetta: una miscela di Borbone, Martinica e Moka. Però se Balzac ha consumato caffè in abbondanza, in compenso non ha mai toccato l’alcool. Per questo, l’episodio della sua ubriachezza deve essere stato un avvenimento talmente raro ed eccezionale da indurlo a riportarlo quasi identico nei due racconti. Dato che le bottiglie scolate, in compagnia di un amico, erano state diciassette, non c’è da stupirsi se avevano lasciato come conseguenza una percezione alterata e distorta della realtà con fenomeni allucinatoti e travisamenti di quello che gli stava intorno ... Gli altri eccitanti moderni di cui parla e il cui abuso è in grado di modificare la società, sono l’alcool, il tè e, curiosamente, lo zucchero.

  Con il suo tono a volte apocalittico, a volte predicatorio, sempre intriso di un’ironia leggera, questo trattato balzachiano redatto ‘tra il serio e il faceto’ fa tornare in mente il titolo di un vecchio film: La situazione è tragica ma non seria.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Una guida di Parigi, sulle tracce di Balzac, «Giornale di Brescia», Brescia, 19 agosto 2002, p. 12.

 

  «Ho dipinto il mostro in tutte le sue facce» scriveva Honoré de Balzac all’amica Madame Hanska a proposito dell’amata Parigi, che percorreva ogni giorno a caccia di ispirazione. Quella «Parigi ai tempi di Balzac», che lo storico francese Marc Gaillard racconta ora in un saggio romanzato uscito per l’editore Presses du Village, una vera e propria guida sulle tracce dello scrittore, che ci accompagna a scoprire la capitale francese tra il 1815 e il 1850. gli «anni ruggenti» in cui la città divenne la culla del Romanticismo. Oltre che come testo letterario, questo percorso al seguito dell’autore della «Commedia umana», conoscitore innamorato della Ville Lumière, può essere considerato una vera e propria mappa della città che in quel periodo si affermò come l’Atene dei tempi moderni. Nato a Tours nel 1799, Balzac si trasferì con la famiglia nella capitale, dove iniziò gli studi di giurisprudenza e sì impiegò come scrivano presso un avvocato e un notaio, prima di dedicarsi alla scrittura, vera propria passione che gli costò anni di duro apprendistato prima di raggiungere la celebrità. Nella Parigi dell’Ottocento convergevano tutte le intelligenze più vive del continente. I lungosenna che costeggiano il Louvre, la folla intorno alla fontana di Place des Innocentes, la varia umanità delle Halles. Qui Balzac incontrava i tipi umani più diversi che diverranno la materia dei suoi romanzi. I soldati napoleonici in congedo che popolavano la zona del Palais-Royal e dell’Ecole Militaire verranno ritratti nel «Colonnello Chabert». I borghesi in redingote e i perdigiorno di «Le illusioni perdute» e di «Papà Goriot» sono quegli stessi che lo scrittore osservava dal suo pied-à-terre sopra il cafè Frascati, affacciato sugli Champs-Elysées. Il giro continua lungo i Boulevards des Capucines e des Italiens, dove la vita si accendeva verso sera. Luogo di incontro obbligato è Tortoni, antica pasticceria italiana sui boulevards oggi scomparsa, fondata da un gelataio napoletano e consacrata nel 1832 dal «Journal des dames et des modes» come miglior gelateria e «chocolaterie» di Parigi. Da Tortoni, Balzac si incontrava con Alfred de Musset, Eugène Sue ed altri scrittori per osservare le dame del gran mondo. Tanti i ricordi della Parigi di Balzac, forse troppi per essere percorsi tutti.

 

 

  «Cent’anni di solitudine» sarebbe un plagio. «Marquez ha copiato Balzac», «La Nuova Sardegna-Spettacoli», Cagliari, 21 agosto 2002, p. 1.

 

  Per scrivere «Cent’anni di solitudine» lo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez ha copiato «La ricerca dell’assoluto», uno dei capolavori di Honoré de Balzac. La provocatoria e diretta accusa è stata formulata in Guatemala da un altro famoso scrittore colombiano, Fernando Vallejo. Secondo Vallejo, autore del romanzo «La vergine dei sicari», portato al festival di Venezia nel 2000 dal regista americano Barbet Schroeder, per il suo romanzo Marquez avrebbe attinto pesantemente da «La recherche de l’absolu», scritto da Balzac nel 1834.

 

 

  Maison de Balzac, in Parigi, Milano, Touring Club Italiano., 2002, p. 539.

 

  […]. La maison de Balzac si trova nella proprietà chiamata La Folie-Bertin. Una scala accede al padiglione dove lo scrittore ha vissuto dal 1841 al 1847; tra queste mura sono nati i più di 2000 personaggi della Comédie humaine. Uomini e donne ritratti nella società francese della Rivoluzione alla fine della monarchia di luglio, una società stregata dal potere del denaro e in preda a passioni divoranti. Nel museo sono raccolti molti dei manoscritti di Balzac, i suoi oggetti personali e i suoi ritratti.

 

 

  Sibilla Aleramo, Il mio Balzac, in Orsa minore. Note di taccuino e altre ancora, Feltrinelli, 2002, pp. 83-85.

 

  Cfr. 1933; 1938; 1997.

 

 

  Max Andréoli, Le ‘renversement’ dans le récit balzacien, in AA.VV., Début et fin de la narration balzacienne. Textes réunis par Francesco Fiorentino, Taranto, Lisi, 2002 («Palazzo Ateneo», 1), pp. 111-122.

 

  Sulla presentazione del Convegno, Cfr. 2000.

 

  L’A. pone la sua attenzione su una modalità particolare di restituzione narrativa dell’incipit romanzesco, il «renversement ou retoumement» (p. 112), attraverso cui Balzac esprime, sotto la prospettiva filosofica e metafisica, il carattere duplice e contraddittorio dell’uomo e del mondo. L’analisi di Andréoli verte, in modo particolare, su tre testi: La Maison du chat-qui-pelote, Eugénie Grandet e Illusions perdues. A suo giudizio, nel procedimento del ‘renversement’, grazie al quale «l’inversion finale reflète l’image complète ou quasi symétrique du début», si determina la circolarità di una figura narrativa plurale e significativa: «le début et la fin, puntualizza l’A., ne marquent pas nécessairement un contact manqué entre des sphères; néanmoins ce modèle, revêtant diverses formes, convient à maints romans de La Comédie humaine» (p. 114).

 

 

  Alfonso Bernardelli, Classici del romanzo europeo da Stendhal a Kafka, «Lo straniero», Roma, Anno 6, N. 21, marzo 2002, pp. 104-126.

 

 

  Mariolina Bertini, Presenze essenziali. Qualche evocazione dell’Ottocento letterario nella “Recherche”, «Quaderni Proustiani», Napoli, 2, 2002, pp. 54-62.

 

 

  Mariolina Bertini, Fra i grandi pittori nella Parigi del ‘600: torna «Il capolavoro sconosciuto» dello scrittore francese. Balzac, il genio dell’arte si perde nei cieli, «La Stampa», Torino, 14 ottobre 2002, p. 29; 1 ill.

 

  Scrivendo, nel 1858, la più bella biografia di Balzac che esista, Théophile Gautier sottolineava la modernità del genio balzachiano. Balzac, spiegava, era in grado di insinuarsi nella mente dei propri contemporanei, di vivere e rappresentare alla perfezione le emozioni e i pensieri di un uomo d'affari, di un aristocratico o di una cortigiana del diciannovesimo secolo. Però, aggiungeva, «le ombre del passato non obbedivano al suo richiamo. Non seppe mai, come Goethe, evocare dal fondo dell’antichità Elena la bella, e farle abitare il gotico maniero di Faust. Salvo due o tre eccezioni, tutta la sua opera è moderna; si era appropriato dei vivi, non resuscitava i morti». Tra queste eccezioni la più notevole, insieme a quello straordinario «falso» rabelaisiano boccaccesco che sono i Contes drolatiques, è certamente Il Capolavoro sconosciuto, ambientato nella Parigi del 1612, che torna ora nella Bur Rizzoli in una nuova edizione a cura di Giovanni Greco e Davide Monda. Nato nel 1831 come «racconto fantastico», ampliato e promosso a «racconto filosofico» nel 1837, questo testo breve è stato un po' trascurato dalla critica ottocentesca per essere poi riscoperto nel ʼ900 da pittori, scrittori e critici come uno dei punti più alti e più enigmatici della riflessione balzachiana sul genio e sull’arte. Le prime pagine del racconto ci introducono in uno scenario estremamente suggestivo: lo studio del ritrattista Porbus, rivale di Rubens alla corte di Maria de’ Medici. Nel vasto atelier la luce piove da un alto lucernario sulle tele del maestro, sui broccati d'oro, sulle antiche armature, sulle Veneri di marmo «amorosamente levigate dal corso dei secoli». Lo spettacolo è pittoresco, ma più pittoresco ancora è un personaggio di cui Porbus riceve la visita: il vecchio, celebre e ricchissimo pittore Frenhofer, il cui mefistofelico profilo sembra emergere dal chiaroscuro di una tela di Rembrandt. Dietro Frenhofer, un altro visitatore s’insinua nello studio di Porbus, alla ricerca d’insegnamenti e di protezione: è un giovanissimo provinciale desideroso di dedicarsi alla Honoré de Balzac (1799-1850) pittura e porta il nome, non ancora illustre, di Nicolas Poussin. Benché Porbus sia un pittore di grande successo, e Poussin offra una prova estemporanea del proprio talento, copiando con pochi tratti di matita. un quadro del padrone di casa, è Frenhofer (l’unico dei tre che non sia mai esistito, che sia mera creazione di Balzac) a dominare la scena. Si impone agli altri due con la sua concezione dell’arte audace e singolare. Per lui l’artista non deve copiare la natura ma esprimerla, lottare per cogliere la mobilità sempre in fuga delle forme viventi, rubare al creatore una scintilla del fuoco divino. Frenhofer ha tentato di concretizzare questo ideale nel suo ultimo quadro, che non ha mai mostrato a nessuno: il ritratto di una cortigiana, Catherine Lescault, soprannominata «la bella scontrosa». Nei confronti di questo dipinto, il vecchio pittore ha sviluppato negli anni una passione esclusiva e un po’ folle. Sentendosi al tempo stesso padre e amante della sua «bella scontrosa», ne è diventato geloso come Pigmalione avrebbe potuto essere geloso della sua statua d’avorio che Venere trasformò miracolosamente in una donna viva. Frenhofer ritiene di aver compiuto un miracolo analogo con la propria arte, di aver catturato l’essenza della vita, il segreto della natura. Ma quando, nel finale del racconto, mostrerà finalmente il suo «capolavoro sconosciuto» a Porbus e a Poussin, ottenendo in cambio di poter contemplare la splendida nudità di Gillette, amante e modella di Poussin, i due si troveranno di fronte a un’indecifrabile «muraglia di pittura». In un caos di colori, in una nebbia senza forma emerge, unico particolare riconoscibile, un piedino femminile straordinariamente perfetto. Il genio di Frenhofer, passato al di là delle apparenze terrene, si è «perso nei cieli», commenta Poussin. Sulla sua parabola rifletteranno Picasso, che illustrerà liberamente il racconto, e Cézanne, che in Frenhofer riconoscerà un alter ego, una figura fraterna negli sforzi dolorosi della creazione. Rispetto ad altre precedenti edizioni, molti sono i pregi di quest’ultima, corredata di apparati impeccabili, completata dal testo francese a fronte e arricchita da Pierre Grassou, racconto minore ma molto divertente su un pittore mediocre e volenteroso, votato dai suoi riflessi di «uomo d’ordine» al borghesissimo ruolo di copista.

 

 

  Michele Bissiri, Il romanzo della prima metà dell’800. Honoré de Balzac (1799- 1850). Dalla Sardegna con amore: lettera a Eve Hanska, in Lo spirito dei Sardi. Sardegna tra viaggio e romanzo nella letteratura francese dal ʼ700 al ʼ900, Firenze, Atheneum, 2002 («Oxenford. Universale Atheneum»), pp. 32-39.

 

  Cfr. 2000.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Désir mimétique et mélodrame: une lecture de «Pierrette» d’Honoré de Balzac, in AA.VV., Début et fin de la narration balzacienne ... cit., pp. 81-98.

 

  L’A. attribuisce a Pierrette un’importanza fondamentale all’interno del discorso letterario balzachiano. In questo romanzo, dove sono denunciati «les dégâts produits, dans un contexte social déterminé. par le désir médiat et par la rivalité mimétique débouchant à la fin sur le sacrifice, provisoirement pacificateur, d’une victime innocente» (p. 83), i feroci tratti del realismo di Balzac si sovrappongono alle soavi tonalità idilliache che connotano la figura di Pierrette, in una sorta di progressione estetica che trova la sua più alta ed intensa realizzazione, psicologica e morale, nelle forme del melodramma.

 

 

  Filippo Maria Caggiani, Il Capolavoro sconosciuto di H. de Balzac. Tesi di laurea, Università degli studi di Bologna, Dams, 2002.

 

 

  Roland Chollet, «La Comédie humaine» a-t-elle un début et une fin?, in AA.VV., Début et fin de la narration balzacienne ... cit., pp. 9-32.

 

  L’A. riflette sulla costante e tenace ossessione balzachiana di fornire al lettore gli strumenti per percepire la leggibilità specifica del monumento-Comédie humaine. Siamo di fronte a una questione cruciale della poetica letteraria di Balzac: le variazioni presenti nella rappresentazione mentale che lo scrittore si fece della sua opera perennemente provvisoria e in divenire riguardano il «leitmotiv du monument et de sa lecture, le problème irrésolu, informulé, omniprésent cependant, de la narrativité en conflit avec la monumentalité» (p. 27). L’A. esamina le ambiguità della metafora monumentale applicata alla Comédie humaine, attraverso cui Balzac seppe decretare il suo atto di nascita come autore letterario, assicurandosi il privilegio di «constituer son oeuvre romanesque en propriété unique inaliénable» (p. 32) e fornendo ai lettori la libertà di percorrerla, di esplorarla e di abitarla in uno spazio senza un inizio e senza una fine prestabiliti in maniera assoluta.

 

 

  Francesco de Cristofaro, Gli ossi di Cuvier, in Zoo di romanzi. Balzac, Manzoni, Dickens e altri bestiari, Napoli, Liquori editore, 2002 («L’armonia del mondo», 2), pp. 27-96.

 

  Nell’Avant-propos alla Comédie humaine, Balzac afferma esplicitamente che la società sua contemporanea può essere letta e rappresentata come un grande zoo, stabilendo, in questo senso, un sostanziale isomorfismo tra uomo e animale. Tuttavia, si chiede l’A., «quanto è rispettata, quanto si diffonde dentro le pratiche concrete del romanziere quella correlazione programmatica?» (p. 28).

  In questo studio, Francesco de Cristofaro ricostruisce e interpreta il complesso e variegato mosaico delle specie zoologiche della Comédie, assimilate ad altrettante varietà socio-antropologiche e, di tatto, adoperate «in quella scrittura ‘infinibile’ come risorse tematiche e soprattutto metaforiche della mimesis» (ibid.). Se nel racconto Une passion dans le désert, Balzac «mene a segno [...] alcune metafore zoomorfe di un’esattezza straordinaria» (p. 35) conferendo all’animale «la parvenza d’una donna del demi-monde» (p. 34). ne La Fille aux yeux d’or la caratterizzazione animalesca dei personaggi investiti di una funzione narrativa fanno del testo balzachiano «il paradigma perfetto di quella particolare declinazione metaforica dello zoomorfismo» (p. 41) che assume lo statuto di «codice, di metalinguaggio, invadendo in modo indiscriminato lo spazio delle relazioni fra i personaggi» (p. 44).

  Lo studio mirato di numerose altre opere della Comédie consente all’A. di produrre una ‘tassonomia ragionata’ dell’immaginario zoomorfo balzachiano e di individuare, nella prosopopea e nella prosonografia. gli automodelli e gli assi portanti dello zoomorfismo messo in opera dallo scrittore.

 

 

  Andrea Del Lungo, ‘S/Z’, ou les envers de la critique balzacienne, in Collectif, Barthes, au lieu du roman, textes réunis et présentés par Marielle Macé et Alexandre Gefen, Paris, Éditions Desjonquières, 2002 («Nota Bene»)», pp. 111-125.

 

  L’histoire que je voudrais retracer ici est celle d’un amour impossible, d’une fascination dangereuse, d’un oubli volontaire. Du romanesque pur, me dira-t-on ; et pourtant l’intrigue ne relève en rien de la fiction. Il s’agit plutôt d’une histoire métacritique, de l’aventure d’une lecture, celle de S/Z, dans le domaine de la critique balzacienne. Or, cet aspect de réception de l’ouvrage de Barthes n’a pratiquement pas été évoqué, si ce n’est de manière très marginale, dans la remarquable histoire, également métacritique, que Claude Bremond et Thomas Pavel racontent en procédant à rebours de Barthes à Balzac. L’aventure de S/Z en Balzacie est cependant passionnante, surtout en raison de ses envers cachés: véritable relation inavouable, pouvant aussi bien mener au lac d’indifférence qu’à la mer d’inimitié – pour rester dans le romanesque –, cette histoire traverse les étapes des passions fatales, du soupçon au refoulement, de la peur à la mise à mort.

  S/Z est un livre qui brûle. Un livre que tous les balzaciens, depuis trente ans, se trouvent obligés de citer en note ou d’insérer en bibliographie sans vraiment s’y référer pour de bon – aussi bien pour refuser la lecture de Barthes que pour avouer une dette à son égard –, ce qui est certainement la meilleure façon d’en éteindre le feu. Les pages qui suivent ne visent qu’à sonder les motivations d’un tel exorcisme. […].

 

 

  Michel Delon, Balzac et l’embourgeoisement de Brutus, in AA.VV., Bruto il Maggiore nella letteratura francese e dintorni, a cura di Franco Piva, Fasano, Schena editore, 2002, pp. 333-343.

 

 

  Elena Del Panta, «L’histoire que je vais vous raconter ...». Figure del narratore nella «Comédie humaine», «Rivista di Letterature moderne e comparate», Firenze, vol. LV, nuova serie, Fasc. 4, ottobre-dicembre 2002, pp. 413-431.

 

  Tra le cosiddette opere della maturità balzachiana, c’è un racconto, Autre étude de femme, di cui già Proust, nel suo Contre Sainte-Bcuve, evidenziava l’importanza per l’innumerevole e sorprendente concentrazione di attori (di voci narranti) su un palcoscenico narrativo abbastanza ristretto. Il testo si struttura in fatti in cinque situazioni di comunicazione, coordinate di volta in volta tra loro da un personaggio diverso su cui tutti gli altri concentrano il loro sguardo e la loro attenzione.

  Così come, in alcune prefazioni ai romanzi della Comédie humaine, Balzac aveva utilizzato la figura di Rastignac per concentrare un insieme di personaggi e di romanzi in un reticolo di rapporti che vedeva l’eroe parigino in una posizione privilegiata rispetto agli altri, nel salotto di Mlle des Touches ogni personaggio ricompone la dispersione caotica degli invitati intorno al proprio discorso, provoca le loro reazioni e genera altre storie, altre narrazioni, altri récits.

  Le diverse tipologie della scrittura e della narrazione si presentano dunque, all’interno dell’opera di Balzac, come estremamente variegate e dinamiche, sfuggendo costantemente alla rigidità e alla univocità interpretative.

  In questo studio, Elena Del Panta illustra, avvalendosi di numerosi riferimenti testuali significativi tratti da vari racconti balzachiani, quali Sarrasine, Une passion dans le désert, Facino Cane, La Maison Nucingen, Autre étude de femme e Z. Marcas, alcune importanti modalità di restituzione finzionale dell’io narrante, o, in altri termini, del binomio ‘auteur/narrateur’, cogliendo, «come in un fermo-immagine», i luoghi in cui questa figura bifronte «lascia prevalere l’una o l’altra parte di sé» e quelli in cui si ricompone nell’entità metastorica identificabile per convenzione in un “Balzac” assurto a figura di “Autore”» (p. 414).

 

 

  Luigi Derla, Il diritto e il rovescio del “Curé de village” di Balzac, «Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della critica», Milano, 43, Nuova serie, Anno XXIII, Gennaio-Giugno 2002, pp. 127-136.

 

  Nelle intenzioni programmatiche di Balzac, Le Curé de village è concepito come un’opera dai toni dichiaratamente apologetici e tesa, in particolare, a celebrare la sublime potenza del pentimento cattolico: «loin d’offrir l’intérêt romanesque, assez avidement recherché par les lecteurs», leggiamo nella prefazione del 1841, il romanzo avrebbe dovuto costituire, secondo lo scrittore, solo «l’antefatto del «vero libro»» ponendosi in tal senso, agli occhi dei lettori. più come un romanzo a tesi che come un testo meramente letterario.

  In realtà, osserva Derla, Le curé occupa un posto a sé nell’architettura della Comédie humaine soprattutto per «l’originalità della tecnica e della struttura narrative» (p. 127): il romanzo di Véronique, di Tascheron e, di riflesso, dell’abbé Bonnet riflette anzitutto una storia di passioni, di delitti, di espiazioni che si ritaglia e si riconquista una propria autonomia romanzesca a discapito del marchio indelebile di ‘romanzo cattolico’ che Balzac avrebbe voluto imprimere alla sua opera.

  Il «carattere intimamente contraddittorio» del Curé, puntualizza l’A. nella parte conclusiva del suo intervento, deriva dall’«effetto contrario a quello che Balzac si proponeva: [...] non la condanna ma l’apoteosi della passione; non la sublimazione della santità cattolica, ma di una santità, quella di Véronique, romanzesca, frutto del suo cordoglio per l’amante che la giustizia umana le ha ucciso, e che il prete le imponeva di rinnegare» (p. 137).

 

 

  Francesca Desiderio, Honoré de Balzac, in Letteratura francese, Milano, Alphatest, 2002, pp. 36-37.

 

  Sommaria presentazione della attività letteraria di Balzac a cui seguono i riassunti di tre romanzi: Eugénie Grandet, Le Père Goriot e Illusions perdues.

 

 

  Mariella Di Maio, «La plus horrible de toutes les histoires» : la Bérésina de Balzac, in Collectif, Napoléon, Stendhal et les romantiques. L’Armée - la guerre - la gloire. Actes du Colloque organisé par le Musée de l'Armée, Stendhal aujourd’hui (Société Internationale d’Études Stendhaliennes et HB (Revue internationale d’études stendhaliennes), Paris, Musée de l’Armée, 16-17 novembre 2001. Textes réunis par Michel Arrous, Saint-Pierre-du-Mont, Eurédit, 2002, pp. 221-236.

 

  Pubblicato in prima edizione ne «La Mode» di Émile Girardin tra il 15 maggio e il 5 giugno 1830, Adieu ha trovato la sua collocazione definitiva soltanto nel 1835 all’interno delle Études philosophiques. Racconto “filosofico”, dunque, dai marcaci contorni storici che rendono lo scritto balzachiano ancor più suggestivo se considerato alla luce del mito napoleonico così ampiamente presente nell’immaginario creativo dello scrittore. Adieu è fondamentalmente il racconto di una tragedia, di un dramma storico (la disfatta francese del la Beresina) che penetra prepotentemente nei risvolti più intimi e profondi della storia e della psicologia dei personaggi. In questo senso, osserva l’A., per Balzac, «le drame de la retraite de Russie représente une expérience extrême, une expérience des limites, qui marque une régression infime» (p. 225). Dal punto di vista della struttura e delle dinamiche narrative proprie dell’opera, Balzac si avvale di uno schema narrativo, quello della ripetizione, attraverso cui la compenetrazione tra modello storico e registro teatrale risulta particolarmente efficace. In Adieu, scrive l’A., «un thème joue un rôle essentiel: celui de la reproduction du monde, de la compétition entre Histoire et théâtre. Ce thème est traité sur le registre catastrophique et apocalyptique» (p. 231). La disfatta della Grande Armée in terra di Russia rappresenta, a tutti gli effetti, la fine di un mondo: in piena Restaurazione, Philippe de Sucy (il protagonista del racconto insieme a Stéphanie de Vandières), vecchio soldato di Napoleone, «essaie de réconstituer une page d'histoire, un épisode du passé» configurandosi, allo stesso tempo, come storico e regista del dramma Attraverso questa ricostruzione, egli spera, invano, di «donner un avenir à la femme qu’il aime», di ridarle «la raison et la plonger a nouveau dans la dimension du temps et de l’espace, qui est le propre de l’Histoire» (p. 232).

 

 

  Franco Fido, Dialogo/monologo, in AA.VV., Il romanzo. A cura di Franco Moretti. Volume secondo. Le forme, Torino, Giulio Einaudi editore, 2002, pp. 251-269.

 

  pp. 259-260. La lucidità (e al limite la finzione consapevole) che Stendhal delega o attribuisce a vari suoi personaggi – il conte Mosca nella Certosa di Parma, il padre di Lucien Leuwen, lo stesso Julien Sorel fino a un certo punto della sua storia – è appannaggio, nel grandioso ciclo della Commedia umana di Balzac, di pochi privilegiati come Vautrin o Rastignac, sempre padroni delle loro parole. Gli altri «recitano» coscienziosamente il copione previsto dall’autore per caratterizzarli (fino ai tic verbali e alla balbuzie) e soprattutto per caratterizzarne l’ambiente: per un esempio fra i tanti si rilegga la conversazione in casa Grandet il giorno del compleanno di Eugénie, con le due famiglie dei Des Grassins e dei Cruchot che si battono a colpi di politesses per assicurare al loro candidato la mano della giovane ereditiera, e il commento del narratore onnisciente durante la partita che chiude la serata: «Gli attori di questa commedia, volgare ma interessante [...] sembravano ascoltare le battute del vecchio notaio [...] ma tutti pensavano ai milioni di Grandet».

  Da un lato, filtrando attraverso la sua prise en charge di sociologo e demopsicologo la voce dei personaggi, e riducendo le loro eventuali riflessioni silenziose a un’ovvia lettura di pensiero, Balzac riesce paradossalmente a salvare un loro mistero, qualcosa che rimane al di là dell’espressione, come se il lettore avvertisse una scontata entropia dei sentimenti e delle idee tra il loro nascere e la puntuale trascrizione romanzesca in dialoghi e monologhi: si pensi ancora all’Eugénie degli ultimi capitoli della sua storia.

  Dall’altro, la sua fedeltà al proposito annunciato nei titoli – Scene della vita di provincia, Scene della vita parigina – giunge fino a rifare il verso ai personaggi che non sono di madrelingua francese, come nel charabia mezzo tedesco del barone Nucingen, o a sceneggiare i dialoghi, col nome del personaggio in stampatello in testa a ogni battuta, e le didascalie del narratore in corsivo, come in un testo teatrale.

 

 

  Francesco Fiorentino, Au commencement, la maison. Un incipit balzacien, in AA.VV., Début et fin de la narration balzacienne ... cit., pp. 99-110.

 

  L’A. analizza le tre diverse versioni dell’incipit de La Maison du chat-qui-pelote (la cui prima edizione risale al 1830 con il titolo di Gloire et malheur), il racconto che inaugura il grande ciclo della Comédie humaine. Interrogarsi sulle «différentes options de débuts signifie, donc, per Fiorentino, pénétrer à l’intérieur du laboratoire de Balzac, au moment même de sa formation» (p. 99). Rispetto alla prima versione, le due versioni successive (compresa quella definitiva) «représentent un saut de qualité décisif de l’art du récit balzacien» (p. 101): anzitutto, esse costituiscono un momento importante nel processo di autonomia del romanzo rispetto ai protocollo del sapere (storico, filosofico, scientifico); in secondo luogo, esse fissano «une modalité de début pour laquelle le romancier aura une prédilection»: la descrizione di un edificio costituirà, infatti, «la modalité balzacienne de commencement la plus fréquente: une sorte de label imprimé dans l’incipit de ses oeuvres» (p. 102). È il rapporto dialettico tra esterno e interno nella descrizione della ‘maison’ a costituire il motore dell’immaginario romanzesco balzachiano: da questo contrasto, si riflette non solo una caratteristica capitale della modernità, ma anche uno dei principi dinamici più incisivi dell’arte narrativa balzachiana.

 

 

  Théophile Gautier, Parola d’ordine per entrare a casa Balzac, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 301, 3 novembre 2002, p. 31.

 

  Balzac in quel tempo abitava, a Chaillot, in Rue des Batailles, una casa dalla quale si scorgeva una vista meravigliosa; il corso della Senna, il Campo di Marte, la Scuola militare, la cupola degli Invalidi, gran parte di Parigi e, più lontano, le alture di Meudon. Non era facile penetrare in quella casa, custodita meglio del giardino delle Esperidi. Due o tre parole d'ordine erano richieste, per timore che si divulgassero, Balzac le cambiava spesso. Io ricordo queste: al portiere si diceva: “La stagione delle prugne è arrivata”, e quello vi lasciava varcare la soglia; al domestico accorso sulla scala al suono della campana bisognava sussurrare; “Porto trine del Belgio”, e al cameriere bisognava assicurare: “La signora Bertrand sta bene”. Allora eravate finalmente introdotti. (Théophile Gautier, Vita di Balzac, a metà).

 

 

  Giovanni Greco, Davide Monda, Noterelle storico-critiche sopra un capolavoro arcinoto, in Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto. Pierre Grassou ... cit, pp. 5-31.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Francesca La Serra, «Les Deux Amis» di Honoré de Balzac. Traduzione e commento. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Maria Bertini; correlatore: prof.ssa Alba Pessini, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia. Corso di laurea in Lingue e Lingue straniere moderne, Anno accademico 2001-2002.

 

 

  Veruschka Lambruschi, Due romanzi con un unico tema: “Ernest Maltravers” di Edward Bulwer-Lytton e “Modeste Mignon” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Maria Bertini; correlatore: prof. Diego Saglia, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e Lingue straniere moderne, Anno accademico 2001-2002.

 

 

  Tommaso Landolfi, Dissezione di Balzac, in Gogol a Roma, Milano, Adelphi, 2002, pp. 235-239.

 

  Cfr. 1955.

 

 

  Giovanni Longoni, Sorpresa, Balzac difende i gesuiti perché maestri di mangiapreti, «Libero», Milano, 12 dicembre 2002, p. 19; 1 ill.


  Tra i successi della Compagnia cita il fatto che Voltaire aveva studiato da loro.

 

  «Ignazio di Loyola, giovane, coraggioso, bello, di gentile portamento, ricco di nobili qualità e in grado di condurre a compimento le più grandi imprese, si reca dalla bella innamorata, le espone con parole di fuoco la sua divina vocazione; e ben presto incoraggiandosi reciprocamente a un sublime sacrificio, risolvono di mettere l’intero mondo fra loro. Ignazio di Loyola consacrandosi alta Santa Vergine, fa voto d’intraprendere un pellegrinaggio in Terrasanta». Questo ritratto lirico e appassionato del fondatore della Compagnia di Gesù si deve al più insospettabile degli apologeti del cattolicesimo: Honoré de Balzac.

  Nel 1824, il venticinquenne di belle speranze e illusioni non ancora perdute pubblicò – sotto l’influenza di Jean Thomassy, giurista cattolico e legittimista – due pamphlet anonimi, uno in difesa del diritto di primogenitura, l’altro una “Storia imparziale dei Gesuiti” – quest’ultimo ora ripubblicato dall’editore milanese Medusa.

  La parentesi cattolica di un autore noto in seguito per le propensioni verso la teosofia e Swedenborg (confluite nel romanzo esoterico “Séraphîta”) è di breve durata: Honoré comunque medita anche di scrivere un “Traité de la prière” che resterà incompiuto.

  Il giovane Balzac è un “ultra” sui generis – non dimentica infatti di citare, fra i successi dei Gesuiti, il fatto che Descartes e Voltaire avessero studiato nelle scuole della Compagnia. Ancora più singolare è il modo in cui conduce la difesa dell’ordine religioso fondato da Loyola dalle accuse di aver attentato alla vita dei principi europei al fine di sostituire al dominio di questi quello della Compagnia. Insomma, l’accusa di agire un po’ come una società segreta. La minuziosità con cui il giovane apologeta esamina gli argomenti dei nemici dei Gesuiti e li rigetta è indice di un interesse ancora più profondo.

  Il punto centrale dell’arringa balzacchiana, infatti, è che nessun popolo europeo avrebbe accettato il dominio della Compagnia. Perciò, se i Gesuiti avessero realmente mirato al potere, la loro azione avrebbe dovuto di necessità restare occulta. Ma allora a che scopo cospirare, se non si poteva poi godere dei fasti del potere? «Gli uomini», nota Balzac, «non amano il potere che in quanto esso procuri ciò che chiamano felicità». Ma in verità, l’idea di un potere arcano che opera ai margini della società controllandola però con pugno di ferro tornerà nel Balzac più maturo, in particolare nella “Histoire des treize”. Balzac è sempre affascinato dagli “arcana imperi”, anche in questa opera minore e giovanile – in cui non per caso avvicina la Compagnia di Gesù ai Templari. E poi, chissà, forse una eco dei dotti, energici e coraggiosi “cavalieri di Gesù” torna anche in quel Carlos Herrera che Lucien de Rubempré incontra nelle “Illusions perdues” (e che si rivelerà essere il forzato Vautrin): il grande criminale infatti si presenta al giovane provinciale come un prete spagnolo ...

 

 

  André Lorant, L’ouverture et la clôture dans la «trilogie passionnelle» des «Premiers romans» (1822-1825), in AA.VV., Début et fin de la narration balzacienne ... cit., pp. 61-79.

 

  L’A. esamina la correlazione tra l’«ouverture» e la «clôture». tra le prime e le ultime pagine delle opere che formano la «trilogie passionnelle» dei Premiers romans: Le Vicaire des Ardennes, Le Centenaire e Annette et le criminel, romanzi pubblicati tra il 1822 e il 1825. Si tratta, osserva l’A., di una «expérimentation créatrice» (p. 79), assunta e sviluppata da Balzac all’interno di una logica narrativa che consente al lettore di seguire l’evoluzione degli eventi e, soprattutto, dei personaggi nel corso dell’opera. Se la creazione di figure poco credibili «a permis à Balzac de mettre en oeuvre, dans le cadre de romans, ses fantasmes les plus personnels» (Ibid.), la ricerca di una visione unitaria del mondo consente allo scrittore di sviluppare alcuni temi centrali della poetica romantica, quali, ad esempio, il sogno, la natura, i misteri della scienza, il fascino della religione e delle sue manifestazioni mistiche.

 

 

  Giovanni Mariotti, Messier, il tycoon che sarebbe piaciuto a Honoré de Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 11 settembre 2002, p. 39.

 

  Un anno fa, alla vigilia dell’attentato alle due Torri, Messier si trasferiva negli Stati Uniti, col semplice programma di conquistarli. «E ora, America, a noi due», avrà pensato, come il balzacchiano Lucien de Rubempré, che nelle ultime pagine di Papà Goriot esclama: «E ora, Parigi, a noi due».

 

 

  Graziella Martina, Presentazione, in Honoré de Balzac, Viaggio da Parigi a Giava ... cit., pp. 9-16.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Pier Vincenzo Mengaldo, Deux chapitres sur «Le cousin Pons», in AA.VV., Début et fin de la narration balzacienne ... cit., pp. 33-59.

 

  L’A. focalizza la sua attenzione sui primi due capitoli del romanzo balzachiano fornendo una penetrante analisi delle tematiche narrative e dei procedimenti analogici che informano il discorso romanzesco dello scrittore. Nella parte iniziale del suo intervento, Mengaldo si sofferma, più particolarmente, su uno dei tratti polivalenti della scrittura balzachiana, di cui Le cousin Pons è eccezionalmente ricco: ci riferiamo al sistema dei «patronymes parlants» (p. 33) dietro cui si celano non solo il destino dei personaggi, ma due tra gli aspetti fondamentali della «mens balzacienne, l’ironie et l’analogie» (p. 35). Nel ritratto di Pons che Balzac offre nei primi due capitoli del romanzo – ritratto inversamente speculare a quello di Lucien in Splendeurs et misères des courtisanes –, l’A. scorge, da un lato «l’annonce, la prolepse, la synthèse de ce qui sera raconté et signifié dans ce roman»; dall’altro, «les indices de la manière générale d’écrire de son auteur» (p. 40). La pluralità dei punti di vista che ci informano sul personaggio «relève du procède typique de Balzac de l’avalanche, de l’approximation et de l’expansion» (pp. 49-50): è, in particolare, il carattere funzionale dell’espansione analogica che invade potentemente il tessuto narrativo dell’opera attraverso gli strumenti della similitudine e della digressione.

 

 

  Raffaele Morabito, Situazioni e soluzioni da Balzac a Pirandello, in AA.VV., Sylva. Studi in onore di Nino Borsellino, a cura di Giorgio Patrizi, Roma, Bulzoni editore, 2002, pp. 707-715.

 

  Per quanto distanti tra loro siano i principi e i percorsi letterari assunti e intrapresi da Balzac e da Pirandello, non è del tutto fuori luogo tentare di stabilire (pur con tutta la prudenza del caso) alcune affinità tematiche presenti nell’opera dei due scrittori, anche in considerazione del fatto che il nome di Balzac è presente in misura rilevante e significativa nel catalogo della biblioteca pirandelliana. In questo studio, R. Morabito individua la coincidenza di taluni temi di fondo riscontrabili negli autori esaminati: anzitutto, l’ossessione del rapporto arte-vita che ritroviamo espressa nel Chef-d’oeuvre inconnu balzachiano e in Diana e la Tuda di Pirandello. In entrambe le opere, scrive l'A., emerge la consapevolezza del fallimento di ogni tentativo artistico di «fissare le forme della vita; e la conclusione del processo, che nella pratica si rivela impossibile, è la morte dell’artista» (p. 710). La seconda coppia di testi sui quali l’A. concentra la sua attenzione riguarda un episodio narrato in Illusions perdues (dove è protagonista Lucien de Rubempré nel ruolo di amante di Mme de Bargeton) che, a suo giudizio, rimanderebbe ad una situazione analoga descritta da Pirandello (ma ancor prima da Verga in Eros) nel Giuoco delle parti e nel suo palinsesto narrativo: la novella Quando si è capito il giuoco. Nella figura di Leone Gala, Pirandello arriva a capovolgere «una situazione che era entrata a far parte di quelle codificate dalla narrativa ottocentesca: il marito che sfida a duello per difendere l’onore offeso d’una moglie la quale lo tradisce» (p. 714). In questo senso, puntualizza l’A., Pirandello ci pone di fronte ad «un’immagine capovolta della realtà, rovesciando le convenzioni della tradizione letteraria nel cui solco si colloca» (p. 715).

 

 

  Paolo Orvieto, Mantegazza, Michelet, Balzac, Engels, Bachofen. Natura/Cultura, in Misoginie ... cit., pp. 45-53.

 

 

  Carlo Ossola, Dante, poeta del ʼ900, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 273, 6 ottobre 2002, p. 27.

 

  [...]. Dante non è a Parigi poeta italiano, ma fu per Balzac, come poi per Hugo, come nel XX secolo per Mandelštam o per Primo Levi, il poeta della libertà, il pane che si porta in carcere, quando tutto è spento e perduto.

  L’immenso affresco della Comédie humaine si chiude nelle Études Philosophiques: dopo tanti ritratti di vita provinciale, e poi parigina, Balzac mette in scena ciò che dovrebbe durare, della vicenda umana; nel volume che raccoglie quei primi affreschi, e che Balzac, con una splendida Préface, intitola Le Livre mystique (Parigi 1835), Dante s’accampa come la guida a un’umanità redenta. Si legga soltanto qualche passo dell’Introduzione: «Dottrina dei primi cristiani, religione degli anacoreti del deserto, il misticismo non prevede né governo né sacerdozio: e per questo fu oggetto delle più grandi persecuzioni della Chiesa romana. ... Nel tredicesimo secolo (si vedano qui i Proscritti), il maestro Sigieri professa, come scienza delle scienze, la teologia mistica, regina del mondo intellettuale [...]. E vi vedete Dante che viene a far riconoscere la sua Divina Commedia da quell’illustre dottore, che oggi sarebbe dimenticato senza i versi nei quali il Fiorentino eleva la sua riconoscenza verso il suo maestro». Dante, Sigieri: la stessa «luce intellettual piena d’amore» (Par., XXX, 40), la stessa filosofia d’infinito («quest’ultimo assalto — dice Balzac — del pensiero contro se stesso»), che ha sempre accompagnato la lettura di Dante come pensatore [...]: Balzac lo pone all’origine di una scala silente di illuminati e veggenti, che poi riappare in Madame Guyon e in Fénelon e poi in Jacob Boehme, e culmina infine in Swedenborg, nel nome del quale — in Séraphita — si chiude lo slancio delle Études Philosophiques, la sete di contemplazione e rivelazione dell’umanità. [...].

 

 

  Ambra Paciscopi, L’androgino in Balzac: dalla perfezione del mito all’imperfezione umana. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Tiziana Goruppi, Università degli Studi di Pisa, 2002.

 

 

  Raffaello Panattoni, Il romanzo realistico. Il realismo in Francia. Honoré de Balzac, in Storia del romanzo, Milano, Alphatest, 2002, pp. 34-35.

 

  Honoré de Balzac (Tours 1799-Parigi 1850), infatti, nel 1842 programmò di raccogliere e di integrare tutti i suoi scritti in un’unica raccolta, per rappresentare, come in un grande affresco, un quadro onnicomprensivo della condizione umana a lui contemporanea, per riproporre nella Francia del XIX secolo ciò che Dante, in epoca medioevale, aveva tentato di mostrare nella Divina Commedia.

  Così Balzac decise di condurre, nella Commedia umana, e sempre con una descrizione precisa e documentata dell'ambiente e dell’epoca dei suoi personaggi, una minuziosa analisi della borghesia francese degli anni compresi fra 1789 e il 1848, servendosi di un insieme di novantasei romanzi divisi nei tre cicli Scene della vita privata, Scene della vita di provincia e Scene della vita parigina (sic).

  Con un processo per molti aspetti analogo a quello precedentemente utilizzato da Molière per il teatro, Balzac riuscì attraverso la narrativa a riprodurre un quadro tanto fedele e preciso della società contemporanea e a forgiare una tecnica talmente efficace per descrivere gli aspetti del comportamento umano, che dopo di lui non si è più creduto possibile esprimerli diversamente.

  Si propone di seguito la sintesi di uno dei romanzi più famosi di Balzac: Illusioni perdute (1837-1843): trilogia di racconti appartenente alle Scene della vita di provincia, compresa negli Studi di Costumi della Commedia umana. [...].

  Tramite la storia di questo giovane intellettuale. Balzac riesce dunque, con un’approfondita analisi della società borghese del suo tempo, a esprimere le contraddizioni della nuova cultura liberale che si andava affermando e a rendere ragione della condizione di una società in cui anche l’intellettuale trova nel mondo della produzione un nuovo padrone.

  Dal punto di vista stilistico, il piano narrativo lascia il posto alla descrizione, facendo sì che il luogo parli del personaggio e il personaggio del luogo con una tale precisione che in quei luoghi non avrebbero potuto abitare che quei personaggi.

  L’eroe, l’unico protagonista della storia, scompare per lasciare il posto a una moltitudine d’individui le cui azioni, nel tentativo di eliminare ogni intervento esplicativo dell’autore, sembrano essere determinate soltanto dall’evoluzione della loro psicologia. Siamo, ormai, alle soglie del Naturalismo.

  Merito di Balzac è dunque quello di aver fatto del romanzo il più importante mezzo espressivo della cultura moderna, realizzando in questa forma narrativa la “tragedia della storia”.

  Come infatti nell’antichità la tragedia aveva attribuito al Fato e alle oscure forze che governavano il destino le cause dell’infelicità umana, così Balzac era riuscito a usare il romanzo per dimostrare come nella sua epoca i privilegi di casta e i conflitti sociali dovessero essere considerati gli unici responsabili di quelle sofferenze che impedivano la piena realizzazione dell’uomo nella storia.

 

 

  Thomas Pavel, Il romanzo alla ricerca di se stesso. Saggio di morfologia storica, in AA.VV., Il romanzo ... cit., pp. 35-63.

 

  pp. 55-57. Balzac, invece, sposta lo sguardo sulla società moderna e intraprende un vasto studio della socialità dell’uomo, della sua grandezza e della sua miseria applicando il metodo di Scott, ovvero dividendo il mondo in una moltitudine di ambienti diversi, ciascuno capace di conferire ai suoi abitanti una specifica fisionomia. È per questo che in Balzac eroi ed eroine di grandezza sovrumana sono, per così dire, soggetti alla specializzazione, e che le amanti costanti e rassegnate come Madame de Beauséant in Papà Goriot (1834), gli energici giustizieri riuniti nel terribile gruppo dei «Tredici», i grandi artisti e i pensatori come Joseph Bridau in Casa da scapolo (1841-42) e Daniel d’Arthez nelle Illusioni perdute (1837-43), i filantropi come il dottor Benassis nel Medico di campagna (1833), mettono alla prova la propria forza in un ambito sociale ben definito. Poiché il fine di Balzac è la rappresentazione di tutti i tipi umani, accanto a questi eroi dipinge gli angeli decaduti, il più famoso dei quali è Lucien de Rubempré, protagonista delle Illusioni perdute. Una moltitudine di esseri laidi e meschini – l’abate Troubert nel Curato di Tours (1832), la cugina Bette nel romanzo che a lei s’intitola, il barone Hulot nello stesso romanzo – escono dalle viscere della società moderna, prodiga di stupidità e di brutture. Nel più cupo fondo di questa società troneggia, spaventoso e seducente insieme, Vautrin, il demone della Commedia umana, fratello dei grandi malfattori del romanzo gotico, del mostro di Frankestein (1818) di Mary Shelley e di Heathcliff, l’eroe di Cime tempestose (1847), capolavoro di Emily Brontë.

 

 

  Gabriele Perretta, Art.com, Roma, Cooper & Castelvecchi, 2002.

 

  pp. 120-122. Su Sarrasine e l’analisi di Roland Barthes.

 

 

  Adriano Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma. Le Lezioni americane di Italo Calvino, Firenze, Atheneum, 2002.

 

  Cfr., soprattutto, pp. 450 e segg.; pp. 530 e segg.

 

 

  Beniamino Placido, Le favole lette da bambini, «la Repubblica», Roma, 27 ottobre 2002, p. 34.

 

  [...]. Quanto al secondo volumetto. contiene — niente di meno — quel Capolavoro sconosciuto scritto da Balzac nel 1831 che, ammiratissimo da tutti i suoi lettori, costringe anche i più pigri fra questi a considerarlo non più come uno scrittore «realista» ma finalmente come uno scrittore «visionario».

  Si apre nello studio parigino di un pittore, di dove capita che passino varie persone che di pittura si intendono e che discutono se un quadro debba limitarsi a copiare la natura, o mirare a descriverla, carpendone ed esponendone i segreti. Come nel caso dello splendido ritratto di una cortigiana, soprannominato «la bella scontrosa».

  E’ un racconto breve che richiede però molta attenzione, molta riflessione. Da parte naturalmente del nostro lettore. Che non sappiamo se e come ce la farà a leggerlo e a ripensarlo in cuor suo. Anche se è corredato da una raffinata traduzione a fronte, nonché di note critiche accuratamente selezionate.

 

 

  Marcel Proust, Balzac naturellement ... Balzac naturalmente. Edizione a cura di M. G. Carbone; con 4 disegni dell’autore, Roma, Robin edizioni, 2002 («I grandi libri colorati», 9), pp. 63.

 

  A distanza di oltre dieci anni dalla sua prima edizione italiana (con testo a fronte), vede ora nuova luce questo suggestivo frammento letterario proustiano tratto dalla prima rara edizione dei Cahiers pubblicata, nel 1950, dalle edizioni Ides et Calendes de Neuchâtel a Parigi.

  Chiuso nella sua piccola biblioteca al secondo piano, immerso in un’atmosfera di ermetico (e balzachiano) distacco dal mondo esterno, Monsieur de Guermantes si nutre con lucida avidità delle opere di Balzac sapientemente rilegate «en veau doré avec une étiquette de cuir vert». Agli amici più intimi e fidati, egli cita come capolavori alcuni romanzi meno celebrati dello scrittore (Le bal de Sceaux, Le Lys dans la vallée, Le Contrat de mariage) e ribadisce più volte la sua ammirazione per l’autore della Comédie humaine, di cui apprezza ‘esageratamente’, al contrario della Marchesa di Villeparisis, l’esattezza dell’osservazione.

 

 

  Michele Ranchetti, Prefazione, in Honoré de Balzac, Storia imparziale dei Gesuiti ... cit., pp. 5-10.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Elisabetta Rasy, Lucien, nostro fratello nella resistenza alla modernità, «Liberal», Anno II, n° 10, febbraio-marzo 2002.

 

  L’assoluta modernità di Illusioni perdues, l’opera capitale dell’intero sistema-Comédie humaine secondo la definizione dello stesso Balzac. si pone ben al di là dell’attualità (drammatica, per certi aspetti) di alcune tematiche sviluppate nel romanzo. Paradossalmente, infatti, l’opera balzachiana è più che nostra contemporanea, poiché essa ci trasmette una lucida e intensa anticipazione dei tempi futuri, cogliendo dell’oggi qualcosa in più di quanto la stessa attualità possa cogliere. È nella figura di Lucien de Rubempré che si concentrano e si realizzano i dissidi e le tensioni più evidenti tra individuo e modernità attraverso le forme della resistenza e della dissimulazione. Lucien diventa il protagonista di una opposizione alla storia che, segnata dai tratti dell’inconsapevolezza, assume non i caratteri dell’eroismo, ma quelli, più intimi e nascosti, della mistificazione.

 

 

  Joyce M. H. Reid, Balzac Honoré de, in Dizionario Oxford della letteratura francese, edizione italiana a cura di Luciano Poggi, Roma, Gremese Editore, 2002 [1993] («I Grandi Dizionari Economici»), pp. 34-36.

 

  [A]utodenominatosi DE (1799-1850), romanziere nato a Tours, dove suo padre, originario del Midi (l’antico nome di famiglia era Balssa) lavorava nel campo delle forniture militari. Alunno del Collège des Oratoriens di Vendôme (1807-13; v. Louis Lambert), il giovane Balzac appariva esteriormente come un ragazzo tardo e grossolano, mentre passava invece il suo tempo a leggere freneticamente l’intera biblioteca della scuola, tanto da procurarsi un esaurimento nervoso. Nd 1814 la sua famiglia si trasferì a Parigi, dove egli frequentò delle scuole private ed entrò quindi in uno studio legale, in cui acquistò quella solida conoscenza della legge e degli avvocati che si ritrova poi nelle sue opere. Nello stesso tempo Balzac frequentò con interesse le popolari lezioni tenute alla Sorbonne da Cousin, Guizot e Villemain. Nel 1819 i suoi genitori gli diedero il permesso di abbandonare l’attività legale per dedicarsi alla letteratura, e gli concessero per il suo mantenimento una magra somma di denaro, grazie alla quale poté permettersi di sbarcare il lunario in una misera soffitta e dedicarsi alla scrittura di una gran quantità di poesie, opere storiche e di una tragedia (Cromwell), tutte egualmente di modesta qualità. Tra il 1820, anno in cui i suoi genitori gli imposero di tornare a casa, e il 1825 Balzac pubblicò sotto pseudonimo alcuni mediocri romanzi, per avventurarsi poi, una volta tornato a Parigi, in grandiose e talvolta assurde imprese commerciali, nella speranza di raggiungere quella tranquillità economica che gli consentisse la libertà di scrivere. Malgrado l’aiuto finanziario di Mme de Berny (v. Dilecta, La), la prima delle sue numerose amicizie femminili, Balzac si trovò presto in un mare di debiti. La sua mania per le speculazioni, per il lusso e la sua altrettanto forte passione di collezionista — cause della sua perpetua insolvenza — risalgono a questo periodo. Senza lasciarsi scoraggiare dai suoi ripetuti fallimenti Balzac tornò imperterrito a scrivere, e terminò in cinque mesi Les Chouans (1829), il suo primo successo e il primo romanzo pubblicato col suo vero nome. La sua produzione divenne da questo momento in poi prodigiosa — circa 91 romanzi e racconti composti tra il 1829 e il 1848. oltre ad una crescente attività giornalistica — e la storia della sua vita coincise con quella della sua scrittura e delle sue continue crisi finanziarie (con incredibili espedienti escogitati per sfuggire i creditori), e con quella delle sue amicizie femminili. Nel 1832 Balzac ricevette dalla Polonia una lettera di una sua ammiratrice, firmata “L’Étrangère”; da questo momento ebbero inizio la sua lunga corrispondenza e poi la sua relazione con Mme Hanska (Lettres à l’Étrangère, 1899-1906, 2 voll.), che sarebbero sfociate nel loro matrimonio, avvenuto nel 1850, poco prima della sua morte, troppo tardi perché il denaro di lei potesse essergli di un qualche aiuto.

  L’idea primitiva di Balzac di raggruppare tutte le sue opere come sezioni distinte di un insieme unitario provvisto di un unico titolo che ne indicasse l’argomento fu concepita nel 1842-8, con una edizione completa dei suoi romanzi (17 voll.) intitolata La comédie humaine (ad imitazione della Divina Commedia), suddivisa in tre gruppi principali: Études de moeurs, Études philosophiques e Études analytiques [...]. Questa articolata classificazione e l’uso del termine étude intendeva accreditare delle fondamenta scientifiche per l’intera opera e a noi rivela la piena identificazione di Balzac con un’epoca in cui Geoffroy Saint-Hilaire stava aprendo nuovi territori allo studio delle scienze naturali (era inoltre evidente in Balzac un interesse per Mesmer, Gall, Lavater e Swedenborg, particolarmente negli (sic) Études philosophiques).

  La Comédie humaine — a proposito della quale Balzac disse «Une génération est un drame à quatre ou cinq mille personnages saillants. Ce drame, c’est mon livre» — è un vasto affresco della società francese dal periodo del Consulat alla Monarchia di Luglio. All’interno della struttura genealogica e geografica dell’insieme dell’opera i personaggi — circa 2.000, appartenenti a tutti gli strati sociali — compaiono e riappaiono nei vari volumi nei diversi stadi delle loro vite, svolgendo ruoli ora di primo piano ora di comparse. Il tema fondamentale del ciclo è quello dell’onnipotenza del denaro, di fronte a cui ogni remora di natura religiosa, familiare o monarchica viene meno, per lasciare all’interesse personale il ruolo di motivazione suprema del comportamento umano.

  Il genio di Balzac si esprime nel suo dinamico vigore creativo e nella sua immaginazione sovrabbondante, sempre unita a una tensione fantastica e visionaria, resi ancor più efficaci dal loro fondersi con una notevole capacità di osservazione realistica e descrittiva (i suoi personaggi sono veri e propri esseri viventi, spinti da motivazioni plausibili; l’importanza attribuita da Balzac alla documentazione ne fa inoltre un precursore del Realismo); il suo immenso talento si evidenzia ancora nella sua maestria nel ritrarre quelle passioni che, anche se possono travolgere la vita degli uomini (si vedano l’avarizia in Eugénie Grandet, o la gelosia in La cousine Bette), e nella sua padronanza dei più disparati soggetti, dalla geologia all’architettura, al misticismo, al commercio (vedi ad esempio la descrizione del lancio di una nuova brillantina per capelli da parte di César Birotteau nell’Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau). La forza descrittiva di Balzac offre il meglio di sé nei vasti ritratti collettivi; egli non è un grande stilista, ma raggiunge la massima efficacia d’espressione attraverso le vaste risorse del suo pensiero, raggiungendo «le style nécessaire, fatal et mathématique de son idée» (Gautier). La sua grandezza è espressa dal fatto stesso che i suoi personaggi sono ancora discussi e adottati come termini di paragone quasi fossero realmente esistiti. Come ha fatto notare Bourget: «Balzac semble avoir moins observé la société de son époque qu’il n’a contribué à en former une».

  Il metodo di composizione adottato da Balzac era laborioso e faticoso; egli lavorava dalle dieci alle quattordici ore al giorno, e spesso si coricava alle sei del pomeriggio per svegliarsi a mezzanotte e scrivere fino al mezzogiorno del giorno seguente, tenendosi sveglio grandi con quantità di caffè. Spediva quindi al suo editore una prima versione schematica del lavoro, per poi completarla con una serie di bozze successive talmente intricate di cancellature e inserzioni che la spesa necessaria per correggerle superava spesso i guadagni che gli fruttavano le vendite del libro.

  Accanto alle opere già citate, Balzac scrisse la raccolta di racconti Contes drolatiques (1832-7), e una grande quantità di articoli di storia e politica destinati alla stampa periodica. Negli ultimi tempi della sua vita, tornando ad assecondare la sua vocazione giovanile, ma anche nel tentativo di salvare le sue proprietà dal tracollo economico, si applicò alla scrittura di opere teatrali, quali Vautrin (1840), Les ressources de Quinola (1842), La marâtre (1848), e Le faiseur.

 

 

  Eduardo Rescigno, Balzac Honoré de, in Dizionario rossiniano. Prefazione di Bruno Cagli, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2002, p. 72.

 

  L’A. descrive i rapporti tra Balzac e Rossini (senza dimenticare di considerare le relazioni tra io scrittore e Olympe Pélissier) di cui il romanziere fu sempre un grande ammiratore e a cui dedicò, nel 1842, Le Contrat de mariage. Pertinenti sono i riferimenti dell’A. ai due romanzi musicali della Comédie humaine: Gambara e Massimilla Doni e all’opera rossiniana: Mosé in Egitto.

 

 

  Romolo Runcini, Balzac e il caso Vidocq-Vautrin. Il fantastico urbano nella rivelazione della volontà di potenza borghese; l’enigma dell’individuo, in La paura e l'immaginario sociale nella letteratura. 2. Il “roman de crime”, Napoli, Liguori editore, 2002 («Le Mappe - Cultura e società», 10), pp. 81-172.

 

  Sul terreno dell’indagine sociologico letteraria inerente alle strutture e alle funzioni narrative del romanzo fantastico in Europa tra Settecento e Ottocento, i temi predominanti del “roman du crime” nella Francia post-napoleonica costituiscono una delle direttrici fondamentali dell’ampio e intelligente studio condono da Romolo Runcini sulla paura e l’immaginario sodale nella letteratura, di cui è pubblicato ora il secondo dei quattro volumi previsti.

  Nel denso capitolo dedicato al romanzo balzachiano, l’A. parte dalla constatazione del palese stato di crisi esistenziale e strutturale in cui versa la società francese nella prima metà del XIX secolo, una società travolta dal dilagante progredire della realtà metropolitana e dalla spietata affermazione della mentalità affaristica della civiltà borghese. Inscritto in questo contesto multiforme in continuo divenire, il testo fantastico, procedendo da una attenta descrizione realistica degli ambienti e dei personaggi, riproduce «i momenti di esitazione, o piuttosto di paura nell’attraversamento della soglia fra reale e irreale» (p. 3 della Prefazione), costituendosi come forma di un immaginario collettivo ricco di potenzialità emotive e rappresentative. Il centro focale di questo immaginario sociale è rappresentato, nei romanzi della Comédie humaine, da Parigi, «luogo esemplare dell’esistenza dell’uomo moderno» (p. 82): la forza espressiva della scrittura balzachiana nel dipingere il ritratto del criminale Ferragus o nell’organizzare e scandire i tempi della tragedia del vizio intorno ad un amore perverso sullo sfondo di una città corrotta ne La fille aux yeux d’or consente allo scrittore di «uscir fuori da stereotipi narrativi che eludono l’ambiguità e la banalità del quotidiano [...], spingendo la sua scrittura a entrare nel vivo di una realtà esistenziale fatta di situazioni contingenti dove gli eroi non sono mai eroi a tempo pieno» (p. 89). L’ambizione estetica e il disegno fantastico di Balzac non implicano, dunque, affatto un distacco dalla materialità della vita quotidiana: al contrario, il realismo balzachiano si colloca quasi costantemente in una situazione di limite tra reale e irreale, rivelando il fantastico attraverso l’«osservazione-intuizione dei segni appariscenti o velati che la società manifesta nel suo dinamico progredire» (p. 125) attraverso il confronto con il potere devastante e risolutore del denaro, da cui scaturisce la legittimità letteraria e la trasfigurazione narrativa di Vidocq in alcuni personaggi emblematici della Comédie humaine che incarnano e riflettono la natura sostanzialmente doppia del loro modello.

 

 

  Romolo Runcini, Origini e sviluppo del romanzo moderno, «Il Denaro», 16 febbraio 2002.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Honoré de Balzac, in Scrivere è un trucco del cuore. Ritratti, parole e immagini di 30 giganti della letteratura, Milano, Ponte alle Grazie, 2002, pp. 98-102; ill.

 

  Segnaliamo, questo piacevole dialogo che Giuseppe Scaraffia intrattiene con Balzac in questa intervista fantastica che costituisce uno dei momenti affettivamente più intensi e profondi di una serie di incontri con i giganti della letteratura occidentale che l’A. immagina di avere in occasione del suo cinquantesimo compleanno. In una atmosfera di serena cordialità sospesa tra sogno e desiderio, tra realtà (tutta letteraria) e finzione, Scaraffia “interroga” Balzac affrontando insieme a lui i temi più diversi che sono propri dell’universo umano e artistico del romanziere.


Intervista a

Honoré de Balzac

 

  Balzac, come mai prende tanti caffè?

 

  Il caffè ti scende nello stomaco. Da quel momento tutto si agita: le idee si mettono in moto come i battaglioni della Grande Armata.

 

  Qual è il suo programma giornaliero?

 

  Alzarmi ogni sera a mezzanotte, scrivere fino alle otto, fare colazione in un quarto d’ora, lavorare fino alle cinque, cenare, andare a letto.

 

  Ma non le viene mai voglia di prendersi una vacanza?

 

  A volte mi viene un violento desiderio di abbandonare tutto, di cominciare qualcosa di diverso da questa vita.

  Mi sento come i bambini quanto vogliono interrompere un gioco.

 

  Qual è secondo lei la funzione dello scrittore?

 

Oggi lo scrittore ha sostituito il prete.

 

  A proposito, lei crede in Dio?

 

  Io sono un artista credente. Non sono ortodosso e non credo nella Chiesa Romana. Se c’è una concezione che possa competere con la dottrina cattolica è quella della metamorfosi dell’uomo in base alla quale l’esistenza viene concepita come un continuo progresso verso continenti ignoti.

 

  E in conclusione?

 

  Credo nell’incomprensibilità di Dio.

 

  E crede nella comprensibilità del mondo?

 

  Al mondo non esiste niente tutto d’un pezzo. È tutto un mosaico.

 

  Come mai lei è tanto attento ai particolari nei suoi personaggi?

 

  Voglio provare che si può giudicare un uomo sulla base della sua giacca, sull’aspetto dei suoi mobili, della sua carrozza, dei suoi cavalli, dei suoi camerieri.

 

  Cos’è, secondo lei, la felicità amorosa?

 

  Una fusione completa di sentimenti, una perfetta concordanza interiore, una vivida impronta della bellezza ideale sulle azioni banali della vita. L’amore è un lusso.

 

  Come sono stati i suoi rapporti con le donne?

 

  Più di una donna mi è venuta incontro. Nessuna ha sopportato l’egoismo (apparente) del mio lavoro incessante. Sono scappate tutte. La persona più tenera al mondo ha vissuto nel massimo isolamento e nella più profonda solitudine.

 

  Ma come sono fatte le donne?

 

  Le meno astute hanno un’infinità di trappole. La più sciocca trionfa grazie alla poca diffidenza che incute. Quando non amano, le donne hanno il sangue freddo di un vecchio avvocato.

 

  Ma per lei non è importante l’amicizia?

 

  Quel che rende indissolubili le amicizie e ne raddoppia l’incanto è un sentimento che manca all’amore: la sicurezza.

 

  Perché si è consacrato interamente alla sua opera?

 

  Sapete, se ho voluto vivere nella vita del mio secolo, invece di restare felice e sconosciuto, è proprio perché mi è mancata la felicità pura e semplice. Quando ci si deve fare una fortuna, è meglio farsene una grande e famosa perché, se si deve soffrire, è meglio farlo nelle sfere alte che in quelle basse e preferisco le pugnalate ai colpi di spillo.

 

  Come mai i personaggi della “Commedia umana” sono pieni di vizi?

 

  Se il vizio non fosse immensamente seducente, se, come dice la Bibbia, Satana non fosse l’angelo più bello, chi si lascerebbe mangiare i soldi da una cortigiana, la salute dall’amore, la vita dai bagordi, il talento dalla pigrizia?

 

  Ma allora lei condanna le passioni?

 

  La passione è l’eccesso, il male. Uno scrittore ha adempiuto nobilmente il suo compito quando, prendendo come base questo elemento essenziale a ogni opera letteraria, lo accompagna con una grande lezione.

 

  Qual è la sua passione dominante?

 

  Visto che tutte le mie passioni, le mie fedi sono state deluse, dato che tutti i miei sogni svaniscono, dovevo pure crearmi una passione e ho scelto l’arte.

 

  Lei si catalogherebbe come un pessimista?

 

  Le anime belle faticano a credere ai cattivi sentimenti, al tradimento, all’ingratitudine. Quando l’hanno imparato, si innalzano a un’indulgenza che forse è l’ultimo gradino di disprezzo per l’umanità.

 

  E per questo che lei frequenta poco i salotti?

 

  Il vero poeta deve restare nascosto come Dio al centro del suo mondo, essere visibile solo tramite le sue creazioni. I grandi avvenimenti della mia vita sono le mie opere.

 

  Cosa pensa lei, monarchico convinto, di Napoleone?

 

  Chi riuscirà mai a spiegare, descrivere o capire Napoleone? Un uomo che viene rappresentato con le braccia conserte e ha fatto tutto! Che è stato il più bel potere conosciuto, quello più concentrato, aggressivo, un uomo che poteva fare tutto perché voleva tutto ...

 

  Parigi è al centro di molti suoi libri. Come la vede?

 

  Parigi è un vero e proprio oceano. Buttate una sonda, non ne misurerete mai la profondità. È un posto immorale, senza fede, senza sentimenti, ma da lì partono e lì finiscono tutti i sentimenti e le fedi.

 

  Come ci si può affermare in una società del genere?

 

  Sapete come si fa strada qui? Con lo scalpore del genio o con l’abilità della corruzione. Bisogna entrare in questa massa d’uomini come una palla di cannone o insinuarvisi come una peste. L’onestà non serve a niente.

 

 

  Marco Stupazzoni, Il mito iniziatico dell’amore angelico nel «Lys dans la vallée» di Balzac (da Laure de Berny a Henriette de Mortsauf), in AA.VV., Rappresentazioni del sacro nel Romanticismo francese, a cura di Annarosa Poli, Moncalieri, C.I.R.V.I., 2002 («Civilisation de l’Europe», 9), pp. 191-215.

 

  [...]. [C]ercheremo di mostrare, in questo studio, l’evoluzione di Madame de Berny vista da Balzac al di là o al di fuori del personaggio di Henriette de Mortsauf e di seguirne da vicino le modalità di restituzione in un altro da sé, vale a dire in una entità finzionale sottomessa a specifici imperativi estetico-letterari e ideologici che si estendono ben oltre la prima idea immaginativa e progettuale dello scrittore e che rimandano al sistema di variazioni simboliche proprie della antropologia e dell’estetica romantiche che possono generarsi dal legame affettivo tra entità corporee e creature “superiori”, le cui facoltà interiori tracciano, per coloro a cui è dato il privilegio di nutrirsi idealmente della loro intima natura trascendente, un percorso iniziatico ascensionale verso le dimensioni del sublime e dell’assoluto morale, ideologico, poetico e religioso.

  In quest’ottica, l’angelo rappresenta in Balzac una forma di assoluto, in quanto simbolo della perfezione intellettuale e spirituale dell’uomo, anche se, tra i diversi concetti del suo pensiero filosofico e letterario, l’idea di angelismo e, di riflesso, il mito iniziatico dell’amore angelico quali metafore di un cammino intrapreso dall’individuo per trascendere la propria dimensione di finitezza e di imperfezione e assurgere alla compiuta redenzione della propria inferiorità in una sfera superiore dell’esistere, si rivelano come due tra i più complessi ed ambigui. Le difficoltà di una loro precisa definizione e interpretazione non risiedono infatti soltanto nella molteplicità delle sfumature e dei significati che la parola ange assume nei variegati spazi della scrittura balzachiana, ma anche nell’indeterminatezza delle implicazioni estetiche e ideologiche che si traducono nella parola medesima. In altri termini, l’idea di angelismo, in Balzac, si esplicita attraverso il manifestarsi di una fenomenologia di figure e di forme, essenzialmente femminili, che proprio l’impossibilità di coglierla secondo rigidi canoni logici e psicologici la rende tema fecondo del suo mito romanzesco e della propria arte. [...].

  Il romanzo offre una conclusione che, per molti aspetti, si situa controcorrente rispetto alle idee e alle inclinazioni stesse dell’autore, pur assumendo come principi-guida del suo programma ideologico-letterario le due «Vérités éternelles» della Religione e della Monarchia quali «nécessités que les événements contemporains proclament, et vers lesquelles tout écrivain de bon sens doit essayer de ramener notre pays», Balzac non si mostrò mai ossessionato né dall’assoluto divino, né tantomeno dalla rigida osservanza di un’ortodossia religiosa. Nella celebre lettera a Madame Hanska del 31 maggio 1837, proclamando la sua miscredenza nel Dio della Chiesa romana, per lui incomprensibile, e la sua fede nell’unità sostanziale e perfettibile dell’uomo, egli fa propria, come sua religione personale, la dottrina swedenborghiana, in quanto sintesi di tutte le religioni, o piuttosto la sola religione in grado, con la mistica di San Giovanni, di garantire all’umanità il privilegio di accedere alla dimensione morale e filosofica delle creature superiori [...].

  Lo stesso concetto sarà ribadito dallo scrittore alcuni anni più tardi, quando, sempre in una lettera alla Étrangère del luglio 1842, egli affermerà di voler assumere solo politicamente il dogma della religione cattolica, puntualizzando però subito dopo che «devant Dieu, je suis de la religion de Saint-Jean, de l’Église mystique, la seule qui ait conservé la vraie doctrine». Appare quindi evidente il dualismo, mai superato, «fra religione mistica soggettiva e religione istituzionale» [cfr. Curtius], formalista e tradizionale, da cui Balzac trovò le idee e le forme poetiche della propria filosofia di pensiero e della propria estetica romanzesca. Il codice religioso entra a far parte di una categoria privilegiata del codice letterario e l’arte diviene dunque la più alta manifestazione della vita, in quanto immagine della compiuta bellezza che partecipa intensamente dell’universo, inglobando la coscienza stessa di Dio.

  In questo senso, crediamo non essere del tutto fuori luogo chiedersi in quale misura Laure de Berny e, dopo di lei, Henriette de Mortsauf non siano divenute, nella mente balzachiana, l’esempio e lo strumento altamente simbolici di una concezione dell’amore inteso come prova e presenza dell’infinito nel finito; di un estremo tentativo di conciliazione, nel culto della sacralità insita in tutte le forme della bellezza femminile, tra il pensiero e lo spirito, o, in altri termini, di una possibile (ma illusoria) rivincita della immaginazione artistica sulla precarietà e sulla degradazione della vita.

 

 

  Marco Stupazzoni, Un nuovo capitolo sulla ricezione di Balzac nel primo Ottocento: «Le Lys dans la vallée» e la censura dell’Indice ecclesiastico, «Quaderni del C.R.I.E.R.», Moncalieri, Anno 5, 2002, pp. 5-31.

 

  [...]. Grazie alla cortesia della Professoressa Annarosa Poli, ci è stato possibile esaminare la copia originale del Decreto di condanna dell’Indice pubblicato in data 16 settembre 1841 (sotto il papato di Gregorio XVI) e la relazione del Canonico Consultore Pio Bighi (inviata al Padre Domenicano Tommaso Antonino Degola, Segretario della Sacra Congregazione dell'Indice), conservate nell’Archivio del Santo Uffizio. Oltre al Lys dans la vallée, il Decreto contiene la proscrizione, con la formula «Opera damnata, atque proscripta quocumque loco, et quocumque idiomate, aut in posterum edere, aut edita legere, vel retinere audeat» di altre nove opere balzachiane: la Physiologie du mariage, Le Livre mystique (Les Proscrits, Louis Lambert, Séraphîta), Les Cent contes drolatiques, L’Israélite, L’Excommunié, Les Nouveaux contes philosophiques (e, in particolare Maître Cornélius, L’Auberge rouge e di nuovo Louis Lambert), e, infine, Les contes bruns (da cui però si estraggono tre racconti Sara la danseuse, La bonne fortune e Tobias Guarnerius non appartenenti a Balzac ).

  Nel paragrafo introduttivo della sua relazione, il censore dichiara di essere pienamente a conoscenza (anche se per via indiretta) della celebrità dello scrittore francese: una celebrità che, lungi dall’essere accolta con favorevole simpatia, viene presentata come l’effetto scandaloso di curiosità e di seduzione empie e perverse. Il nome di Balzac – scrive Bighi –

 

  a quel che sento, si è già reso famoso per le produzioni di simil genere empie e scandalose, le quali tutte a mio credere tendono allo scopo di togliere ogni freno alle più brutali fra le passioni, ed a far nascere dirò così, una rivoluzione contro i grandi principj e verità che riguardano il matrimonio [...].

 

  La prima grave devianza religiosa e morale che il Canonico scorge, non soltanto nel Lys dans la vallée, ma in tutta la produzione narrativa balzachiana anteriore al 1841, riguarda la concezione e la conseguente resa letteraria del matrimonio, un tema dominante del romanzo di Balzac a partire dalle prime Oeuvres de jeunesse, che già aveva fornito alla stampa cattolica e legittimista non poche occasioni di feroci attacchi e di inappellabili stroncature. [...].

  Il Canonico individua nella figura di Félix de Vandenesse il nucleo tematico e ideologico fondante dell’intera fabula balzachiana:

 

  Dirò soltanto – scrive Bighi – che il libro tutto si aggira sulla condotta di un giovane, il quale descrive in se stesso lo sviluppo della passione fino a divenire schiavo della medesima pelle amicizie contratte con due diverse matrone congiunte in matrimonio (le cui famiglie illustri, se con verità, non saprei dirlo, si nominano e si caratterizzano) con una delle quali si abbandonò alle dissolutezze ed adulteri, coll’altra poi, che si vorrebbe far credere un modello di onestà e di virtù, si unì con vincoli di amicizia così intima e appassionata (oltre le confidenze le più avanzate) fino a cagionare la morte della medesima la quale restò vittima della gelosia concepita dall'essere stata soprafatta dall’emola più sfacciata e libidinosa.

 

  Espressione di una «puberté prolongée» e di una «virilité qui poussait tardivement ses rameaux verts», il personaggio di Félix è votato, fin dai primi anni della sua infanzia, ad una «solitude monstrueuse» rispetto ad un ambiente familiare ostile e soffocante Nei suoi anni di formazione psicologica e affettiva, descritti come un cumulo di “tourments” e di “larmes”, egli proietta le sue pulsioni e i suoi slanci solitari verso l’evasione, la compensazione e il rifugio nella lettura e nell’immaginazione (l’«amour pour les étoiles») L’Institution Lepître aggraverà ulteriormente la sua condizione di adolescente e, a Parigi, benché attratto dalle seduzioni erotiche del Palais Royal che, a quel tempo, era uno tra i luoghi più rinomati della prostituzione parigina, egli riuscirà a preservare la sua anima e il suo corpo nella castità, in attesa di convertire tutte le potenzialità energetiche fino ad allora represse nell’amore. Se nel corso di tutto il romanzo l’immagine di Félix è quella di un essere che manifesta una maturità sostanzialmente astratta ed apparente, di un «homme-enfant» che, nella sua irrisolta passività, e combattuto fra la tentazione dell’assoluto spirituale (l’amore per Henriette) e gli effimeri impulsi del desiderio carnale (la passione per Arabelle), il suo percorso formativo e la sua educazione sentimentale collocano a pieno titolo questo personaggio balzachiano nella prospettiva di un «romantisme de l’ouverture, de la purêté, de la douleur convertible en amour, du salut possible. autant que dans celui de la déploration élégiaque» [cfr. G. Gengembre, 1993].

  In questo senso, Félix appare al censore ecclesiastico ancor più pericoloso poiché egli, nella sua duplice veste di «giovane sedotto e seduttore» svolge un’azione morale altamente corrosiva nei confronti dell’istituzione e del sacramento matrimoniali, rendendosi contemporaneamente complice e vittima consapevole del duplice, per quanto simmetricamente inverso, adulterio di Mme de Mortsauf e di lady Dudley. [...].

  L’assoluta inconciliabilità tra matrimonio e felicita descritte da Balzac nel Lys induce a riflettere sulla delicata quanto efficace operazione di inversione a cui lo scrittore sottopone l’istituzione e le dinamiche della vita coniugale. Assumendo il ruolo di protettrice non soltanto nei confronti della fragilità dei figli ma soprattutto della schizofrenia maniacale del marito, Mme de Mortsauf spiritualizza la relazione matrimoniale, spinge ai suoi limiti estremi la concezione cristiana del matrimonio fondata sulla «théorie des devoirs e si illude alla fine di poter conciliare l’amore platonico per Félix con il rigore quasi monastico di una vita coniugale esemplare.

  Henriette e Félix vivono un rapporto d’amore portato al limite dell’astinenza esasperante e del martirio dei sensi Mme de Mortsauf comprende che soltanto la sua morte può essere l’unica soluzione possibile per risolvere l’incompatibilità tra amore umano e amore di Dio: liberarsi dal corpo equivarrà per lei a liberarsi dell’amore. Le «abusives croyances de l’amour platonique» illudono Henriette e Félix di poter resistere al desiderio sensuale: mai come nel Lys, il desiderio possiede un potenziale distruttivo così intensamente catastrofico nei confronti del suo oggetto. Attraverso il sacrificio, Henriette ritrova la propria natura femminile, ma tale iniziazione all’amore avviene per lei sotto la forma abnorme del calvario e del martirio. Pur tentata dalle delizie dell’amore, Henriette si sottomette alle decisioni divine e accetta ogni tipo di prova. Qualunque sia l’intensità del desiderio, Mme de Mortsauf non può tradire il suo sposo, rinnegare i suoi figli e commettere adulterio. In quanto percorso iniziatico verso l’amore divino, l’amore “terreno” deve essere assoluto, puro, senza macchia. Tuttavia, Henriette non appare creatura metafisica ed eterea, ma reca in sé, profondamente vive, le stimmate della sua umanità celando un fondo, pubblicamente inconfessabile, di donna innamorata.

  E proprio su quest’ultimo aspetto della complessa e drammatica personalità dell’eroina balzachiana che si inaspriscono le argomentazioni di condanna del Canonico. Lungi dal poter essere apprezzata quale «modello di onestà e di virtù», Mme de Mortsauf, come lady Dudley, è colpevole, secondo Bighi, di adulterio – anche se soltanto intenzionale e proiezione del suo desiderio – e di profanazione del sacramento matrimoniale. Le «più avanzate confidenze», i «vincoli di amicizia così intima ed appassionata» contratti con Félix (grazie anche alla complicità di «Sacerdoti e Confessori») costituiscono per il censore una motivazione già sufficientemente fondata per condannare entrambi i personaggi. E questo, continua il religioso, anche se «non si giunse a violare cogli ultimi eccessi il talamo conjugale», poiché, come è scritto in Matteo (V, 27-28) «chiunque guarda una donna per desiderarla – ma potrebbe ovviamente trattarsi dell’inverso – ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore».

  Tra Félix e Henriette primeggia l’estasi amorosa che si configura come paradigma più complesso e coinvolgente rispetto alla semplice corporalità. Sul piano erotico-morale, Félix prova la condizione estatica quando il corpo dell’altro è assente e trova nel vuoto dell’assenza del corpo immaginariamente desiderato la voluttà sublimata e rifiutata della vicinanza e del contatto. Félix afferma più volte nel corso del romanzo che solamente nel distacco fisico dall’essere amato e nella rigenerazione interiore prodotta dalla luce dello sguardo è possibile elevarsi verso una dimensione di pura spiritualità in cui il soggetto, ritrovando più autenticamente se stesso, prova il medesimo effetto dei «supplices qui raffermissaient la foi des premiers chrétiens, et leur rendaient Dieu visibile».

  Un romanzo dove abbondano i riferimenti biblici e dove le immagini e il lessico religiosi informano in modo così pregnante il tessuto narrativo e il registro amoroso non poteva certo apparire che blasfemo e minaccioso agli occhi di un censore cattolico della prima metà dell’Ottocento. Su quest’ultimo aspetto, il giudizio che il Canonico si forma a proposito del romanzo di Balzac è che esso,

 

  dopo averlo con somma noja e disgusto percorso [...] si può senza timore di sbagliare, collocare nei numero di quelle opere che si dicono ex professo oscene non senza l’aggiunta di empio ed irreligioso per l’abuso, enorme, e continuo che fa l’Autore dei luoghi della Sagra Scrittura applicandoli alle materie ed azioni le più laide, per il carattere altresì di pietà, che bene spesso colla più stomachevole ipocrisia v’introduce, e finalmente per le massime irreligiose che va scaltramente disseminando.

 

  Per dimostrare quanto «il più mostruoso accoppiamento di miscredenza ed ipocrisia» determini «l’irreligione e l’empietà del libro e dell’autore», vengono riportate sedici citazioni tratte dal romanzo balzachiano, di cui oltre la metà contengono riferimenti a figure e situazioni di natura religiosa e, più in particolare, di matrice biblica.

  Nella prima citazione, trascritta (come le altre) in modo impreciso e scorretto dal Censore, il quale non poteva certo tollerare che l’iniziazione all’amore (da lui giudicato profano) di Félix scaturisse grazie alla mediazione del misticismo religioso, Balzac si riferisce in maniera esplicita al testo delle Sacre Scritture nel momento in cui egli descrive l’ultima fase dell’infanzia di Félix al collège di Pont-le-Voy, prima del suo trasferimento a Parigi. La frustrazione sentimentale che, all’età di cinque anni, aveva spinto la «précoce mélancolie» e l’«intelligence sentimentale» di Félix verso una stella, lo conduce ora, all’età di dodici, a «frapper aux portes du Sanctuaire», ad immergersi «dans les mystérieuses profondeurs de la prière», sedotto «par les idées religieuses dont les féeries morales enchantent les jeunes esprits». Indotto dal suo confessore alla contemplazione del cielo «où fleurissait la palme promise par le Beati qui lugent!», Félix riconduce le sue «sublimes visions à des anges chargés de façonner [s]on âme à de divines destinées», e allude al carbone ardente posto da un angelo sulle labbra di Isaia per purificarle prima che egli diventasse il profeta di Dio.

  Per quanto il loro ideale religioso sia lontano dal poter coincidere, per Félix e Henriette la sofferenza rappresenta un valore assoluto «en tant que signe et moyen de l’appartenance au sacré». I concetti di sacrificio e di ricompensa ultraterrena si elaborano, nel Lys, all’interno di uno schema iniziatico di trasformazioni angeliche, «selon les étapes requises de l’amour, de la souffrance et de la mort» a cui si conforma la dottrina mistica di Saint-Martin. Il Censore religioso trascrive una lunga sequenza testuale in cui Balzac definisce con sufficiente pertinenza i fondamenti di questo «stoïcisme ayant un avenir» (Citaz. n. 2). Saint-Martin aveva predicato l’accettazione della sofferenza quale condizione primaria di ascesi verso Dio. Anche l’idea di angelo, sebbene risulti mediata dalle teorie di Swedenborg, è in sintonia con l’insegnamento martinista (in Louis Lambert, Balzac aveva definito l’angelo come «l’individu chez lequel l’être intérieur réussit à triompher de l’être extérieur»), ma si pone in antitesi con i precetti dell’ortodossia cattolica- secondo la quale un angelo «è uno spirito creato [da Dio], il quale non è destinato ad essere unito ad un corpo». Assolutamente intollerabile appare inoltre al Canonico l’affermazione conclusiva («La prière active et l’amour pur sont les éléments de certe foi qui sort du catholicisme de l’Église romaine pour rentrer dans le chnstianisme de l’Église primitive»), in cui si sottolinea la netta opposizione tra cristianesimo e cattolicesimo adombrando più di un sospetto sulla legittimità del potere temporale della Chiesa e dell’autorità papale. [...].

  L’amore tra Félix e Henriette rappresenta una rinascita che esorcizza il vuoto, le lacerazioni della loro vita interiore. Il reciproco racconto che i due personaggi si scambiano sulla loro dolorosa infanzia fornisce alle loro sofferenze passate il senso di una prova che li ha resi degni di entrare nei «domaine sacré de l’union de coeurs, un sacré où coexistent et se canfondent amour et religion». Le metafore della Natività e della risurrezione pasquale costituiscono, da questo punto di vista, un esempio significativo di mescolanza tra concezione cortese e neoplatonica dell’amore e codice religioso (Citaz. nn. 3 e 6).

  Una volta inseriti nella dimensione sacra dell’amore, Félix e Henriette conoscono un secondo tipo di sofferenza: la rinuncia del soddisfacimento carnale che si accompagna al calvario coniugale di Henriette. Attraverso l’espiazione del proprio corpo, Henriette vuole elevare il suo amore per Félix ad «image réelle de l’amour divin qui, selon le bon Saint-Martin, est la vie du monde». La comunione delle anime attraverso la sofferenza si compie nella scena in cui Félix si congiunge simbolicamente a Mme de Mortsauf, nutrendosi «avec une avidité pieuse» delle sue lacrime. È questa la proposizione che il Censore religioso trascrive «col massimo orrore» (Citaz. n. 7) [...].

  L’intensità della pagina in cui Félix vede Henriette quasi come la rivale iperbolica di Dio assume il valore di liturgia sacramentale dove risaltano la dialettica mistica del visibile e dell’invisibile e la perversa contraddizione tra negazione di un corpo «qui doit rester dans ses voiles» e la voluttà di un desiderio che lo vorrebbe svelato [...].

  All’immagine della Vergine Maria a cui Balzac associa metaforicamente Mme de Mortsauf come simbolo di una verginità interiore, di una vocazione alla castità che «tient dans ses belles mains blanches la clé des mondes supérieurs», si affianca, nella scena finale della morte di Henriette, quella della passione di Cristo con cui Félix si identifica immediatamente [...].

  La scelta di questa immagine potrebbe rivelarsi ricca di implicazioni per uno studio del Cristo romantico nell’opera di Balzac. Le allusioni a Gesù come a una figura profondamente umana, sottomessa ad una «obéissance passive» e incarnazione della sofferenza e del sacrificio sono numerose in molti romanzi della Comédie humaine. [...]. Come per Gesù Cristo, anche per Henriette la sofferenza si rivelerà come sublime fonte di redenzione. Se Balzac considera parallelamente Cristo come «spécialiste», come simbolo vivente dell’«homme intérieur» che «voyait le fait dans ses racines et dans ses productions, dans le passé qui l’avait engendré, dans le présent où il se manifestait, dans l’avenir où il se développait», è proprio la sua vocazione al dolore a porlo sullo stesso piano di Mme de Mortsauf e, più in generale, del poeta. [...].

  Nel Lys dans la vallée, si contano all’incirca una ventina di citazioni bibliche tratte sia dal Vecchio sia dal Nuovo Testamento. È probabile che Balzac non avesse una conoscenza approfondita delle Scritture, ma è altrettanto vero che il legame che lo scrittore stabilisce tra questo romanzo e la Bibbia è consapevole, intenzionale tutt’altro che superficiale. La Bibbia rappresenta per Balzac un’opera affascinante e di incomparabile ricchezza: del Cantico dei Cantici, ad esempio – i cui riferimenti nel Lys non sono oggetto della seppur minima attenzione da parte del Canonico – Balzac apprezza anzitutto le qualità letterarie oltre che mistiche. [...].

  Anche nel Lys dans la vallée, Balzac mostra che le figure del Vecchio e del Nuovo Testamento (Isaia, Giobbe, Maria Maddalena, i Re Magi, Gesù Cristo, la Vergine Maria, Caino e Abele, Agar, Iefte) sono personaggi veri che incarnano le grandezze e i drammi dell’umanità. In questi termini, la Bibbia è posta dallo scrittore «au sommet de la littérature universelle, car sous forme de symboles et de paraboles elle révèle le mystère de la condition humaine». Un mistero che vive delle drammatiche contraddizioni tra la carne e lo spirito, tra Dio e gli uomini.

  Giunto alla fine del suo esame, dopo aver annoverato tra le cause di pericolo e di seduzione del romanzo, «la venustà dello stile», il Censore, «stanco di trascrivere tanti spropositi, bestemmie ed empietà», ritiene «desiderabile che una tale opera non solo venisse proscritta, ma che se ne perdesse affatto la memoria».

 

 

  Roberta Varini, La Vieille Fille et Le Cabinet des Antiques di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Patrizia Oppici; correlatore: prof.ssa Maria Bertini, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere moderne. Anno accademico 2001-2002.

 

 

  Bennet A. Weinberg, Les Cafêomanes: Honoré de Balzac e i piaceri e i dolori della caffeina, in Caffeina. Storia, cultura e scienza della sostanza più famosa del mondo, Roma, Donzelli, 2002, pp. 144-147.

 

  Honoré de Balzac (1799-1850), uno dei più grandi e prolifici narratori della storia, fu senza alcun dubbio un tossicodipendente. La droga che egli scelse fu la caffeina. Ignaro della sua composizione chimica, Balzac, come molti altri entusiasti della caffeina prima di lui, identificava gli effetti della caffeina con quelli del suo principale veicolo, il caffè.

  Da studente collegiale, pur di assicurarsene una scotta, Balzac si indebitò con un usciere corrotto che smerciava di contrabbando i semi proibiti, una merce coloniale ancora molto costosa. La madre era furiosa per questa sua passione, forse perché presentiva che era l’inizio di un’interminabile relazione di amore-odio con lo stimolante e di un progressivo logoramento della salute durato quasi quarant’anni. Da adulto, Balzac si addormentava presto la sera ma si levava a mezzanotte e scriveva i suoi romanzi di notte, continuando la mattina seguente e il primo pomeriggio. Era il caffè, consumato in maniera compulsiva e metodica in dosi sempre maggiori, che rendeva possibili queste elucubrazioni. Come ogni vero tossicodipendente, credeva che la sua energia creativa scaturisse dalle proprietà chimiche vitalizzanti del caffè.

  Nella tradizione della tesi di Ovington secondo cui la caffeina accorre in aiuto della Musa, Balzac, nel suo libro Traité des excitants modernes (1839), ci offre una descrizione irresistibile dell’uso della caffeina come analettico, per tenere svegli durante il lavoro, e come aiuto per l’immaginazione, in quanto stimolante di idee e immagini. In questo passo, Balzac concepisce il caffè soltanto come una droga, parlando della necessità di aumentare la «dose» per preservarne gli effetti farmacologici e osservando gli effetti tossici sullo stomaco e il comportamento instabile che il suo uso prolungato può determinare. Sarebbe impossibile esprimere in termini migliori delle sue stesse parole il racconto dell’incontro con la caffeina del più grande prosatore della storia [...].

  [...] il caffè è trattato in termini che sono comuni tra i consumatori di eroina e cocaina. Colpisce anzitutto che Balzac racconti di aver aumentato le dosi per conservarne l’efficacia a dispetto di una crescente tolleranza. Per Balzac questo processo culmina con il mangiare la polvere di caffè. Ricordando la condizione degli alcolizzati, egli descrive il comportamento socialmente inaccettabile indotto dall’intossicazione da caffeina, a tal punto imbarazzante da costringerlo a barricarsi in casa ogni qual volta assumeva il caffè in maniera smodata.

  La strada della tossicodipendenza spesso si conclude con la morte prematura. E questo fu il destino del romanziere francese, secondo la testimonianza del dottor Nacquart, il medico di Balzac, che lo conosceva fin dal 1815, l’anno in cui aveva iniziato a fare uso della sostanza tossica: «Un vecchio scompenso cardiaco, spesso aggravato dal lavoro notturno o dall’uso o piuttosto l’abuso del caffè, cui egli ricorreva per contrastare il naturale bisogno dell’uomo di dormire, lo ha infine condotto a un punto di non ritorno».

 

 

  Alessandro Zaccuri, E Balzac difende i gesuiti, «Avvenire. Agorà», Milano, 8 novembre 2002, p. 24; 2 ill.

 

  Nel 1824, influenzato da un amico cattolico, il giovane scrittore pubblicò un’apologia di Ignazio e dei suoi discepoli. Senza rinunciare al «romanzesco».

 

  Nelle ultime pagine di Illusioni perdute l’evaso Vautrin – l’anima nera della Commedia umana – si presenta sotto il più subdolo dei travestimenti. È l’abate Carlos Herrera, un sedicente gesuita spagnolo che sembra impersonare tutti i luoghi comuni della «leggenda nera» fiorita attorno alla Compagnia fondala da Ignazio di Loyola. Discepolo dichiarato del moralista Escobar, ma anche dell’«immoralista» Machiavelli, Vautrin/Herrera è la dimostrazione di come un grande scrittore come Honoré de Balzac possa permettersi di dare fondo al repertorio del «romanzesco» più prevedibile riuscendo tuttavia a scrivere un grande romanzo. Ma è anche una presenza in buona parte sorprendente, quella del gesuita finto e intrigante vero, se si considera che tra le opere giovanili di Balzac figura anche un’appassionata apologia della Compagnia di Gesù, apparsa anonima nel 1824, quando ancora l’Ordine era bandito dalla Francia.

  Si tratta della Storia imparziale dei Gesuiti che la casa editrice Medusa presenta ora con una misurata prefazione di Michele Ranchetti (traduzione di G. Morsani, pagine 116, euro 13). Come l’altro pamphlet che Balzac pubblica anonimo nello stesso anno, Sul diritto di primogenitura, anche la Storia imparziale risulta fortemente influenzato dalle idee e dalla personalità di Jean Thomassy, il giurista cattolico che il giovane scrittore (nel 1824 Balzac ha soltanto 25 anni) frequenta nel periodo in cui cerca di dare la scalata al mondo letterario e culturale parigino, Non è un’amicizia interessata, quella fra l’allievo Balzac e il maestro Thomassy, che a un certo punto riesce perfino a convincere il giovanotto a comporre un Trattato sulla preghiera di cui restano soltanto le pagine iniziali, improntate a un devozionalismo di maniera. Da narratore «puro», Balzac tenta inoltre di trasferire sul piano romanzesco il suo temporaneo entusiasmo religioso, consegnando all’intreccio di Annette e il criminale (l’ultimo dei suoi romanzi giovanili, edito anch’esso nel concitato 1824) una complessa vicenda di amore, colpa, carità e redenzione che permette di farsi un’idea del laboratorio da cui, negli anni a seguire, usciranno i capolavori della Commedia umana.

  Anche nella Storia imparziale dei Gesuiti, del resto, Balzac non riesce ad abbandonare il passo del narratore. Tutta l’opera (che ingloba anche il «Breve» con cui nel 1773 Clemente XIV sopprimeva la Compagnia e la «Costituzione» con cui nel 1814 Pio VII la riabilitava) ha lo scopo di allontanare dai discepoli di Ignazio le accuse e i sospetti della già ricordata «leggenda nera», eppure le pagine più avvincenti sono proprio quelle in cui, sia pure per contestarli, Balzac evoca complotti e regicidi di cui i gesuiti sono stati ingiustamente incolpati. «Ma il Vecchio della Montagna, che prometteva il Cielo, era gesuita?», domanda polemicamente, alludendo alla stessa figura – quella del capo della setta degli Assassini descritta da Marco Polo nel Milione – che tornerà nella conclusione della Storia imparziale. La quale – sarà bene precisarlo – non si presenta come una ricostruzione completa delle vicende dell’Ordine, ma soltanto come resoconto delle misconosciute benemerenze che i gesuiti hanno accumulato nei confronti della Francia. Come osserva giustamente Ranchetti, quella di Balzac non è e non vuole essere una storia spirituale della Compagnia di Gesù, che nel suo testo si connota piuttosto come modello di una «società perfetta» mal vista – proprio a motivo della sua perfezione – dai poteri istituzionali, prima fra tutte l’Università di Parigi. Nel suo desiderio di dimostrarsi «imparziale» Balzac non disdegna di affrontare episodi all’epoca controversi, come quello delle reducciones in Paraguay, ma insiste nel rivendicare la nascita «francese» della Compagnia, fatta risalire alla Messa celebrala da Ignazio nella chiesa parigina di Montmartre il 15 agosto del 1534. Grandi educatori (uno dei passaggi più riusciti dal punto di vista retorico è l’elenco dei francesi eccellenti formatisi nelle scuole della Compagnia), i gesuiti sono additati anche come esempi di povertà e obbedienza, virtù quest’ultima che sarebbe all’origine della famigerata «leggenda nera». «Riguardate i gesuiti come una razza straniera – scrive Balzac nella perorazione finale –, come una nazione a parte, ma non potete trattare i padri della gloria francese con più rigore dei cinesi e degli armeni. Impedireste a una scuola di bramini di sorgere a Parigi? Le vostre leggi non chiamano sul terreno tutte le industrie, non proteggono tutte le nazioni, non rispettano tutti i riti? Non avete infine proclamata la tolleranza?». Niente male, per un apprendista genio di 25 anni.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi universitari.

 

 

  Arnaldo Ballerini, La corporeità nella depressione dell'anziano: ovvero “La pelle di zigrino” di Honoré de Balzac, “Simposi tematici paralleli”, Roma, Sala Montemario, 20 febbraio 2002.

 

  In ogni momento ci troviamo a dover fare i conti con il nostro corpo, con la sua limitatezza spazio-temporale, con la sua fragilità organica, con le pulsioni istintive che emergono; in ogni momento, consciamente o inconsciamente dobbiamo lottare con esso, o sottometterci ad esso; sempre dobbiamo in qualche modo subire quanto dalla materialità nostra ci proviene e che siamo costretti ad essere. Il corpo è l’idea limite ma è anche il limite insuperabile dell’idea. La psicopatologia del corpo va soprattutto vista in questa prospettiva: esso limita qualsiasi nostra pretesa assolutistica ed è l’espressione della nostra limitatezza, in quelle circostanze in cui noi ci troviamo: esso le esprime, le caratterizza, le significa. Così noi ci troviamo, più spesso di quanto si possa supporre, di fronte al simbolo materiale della esistenza, e quando questa in qualche modo fallisce, il corpo è il veicolo di questo fallimento, la negazione di realizzazione d’essere. In tal senso il corpo è sempre qualcosa di psichico e lo è tanto più quanto lo psichico si manifesta nei suoi aspetti negativi, poiché già in partenza, nella sua accezione tematica la materialità corporea è limitazione, ostacolo e spesso, necessità irrazionale. Irrazionali e spesso incomprensibili sono le pulsioni istintive, le malattie organiche, l’incoscienza del sonno, la morfologia individuale, le necessità fisiologiche, e soprattutto la morte. Qualsiasi manifestazione psichica che indichi una mancanza di sviluppo, di un progettarsi, una cristallizzazione nel presente, un decadimento, un a destrutturazione, è anche e soprattutto manifestazione corporea. Che possa avvenire il contrario è cosa ovvia e verificabile nelle malattie organiche: ed è questo il tema del mio contributo, che si basa su osservazioni di gravi depressioni insorte nell’anziano dopo malattie somatiche non gravi, ed è interrogandomi sul ruolo del vissuto del corpo in queste persone che ho ripensato ad un famoso racconto di Balzac.

 

 

  Mariolina Bertini, Il romanticismo e dopo: le rivoluzioni letterarie nel XIX secolo, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Anno accademico 2001-2002.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, La maison du chat-qui-pelote.

 

 

  Mariolina Bertini, Ritratto e ‘mélodrame’: una costellazione balzachiana, in AA.VV., Narrare/rappresentare, Bologna, Dipartimento di Lingue e letterature straniere, 12 ottobre 2002.

 

 

  Federico Bertoni, Lo specchio del romanzo: Mimesis, realismo, mondi possibili, Università degli studi di Bologna, Facoltà di Lingue e letterature straniere, Anno accademico 2001-2002 - secondo semestre.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Papà Goriot.

 

 

  Andrea Di Bari, Laboratorio di drammaturgia. Percorso sul tema dell’identità personale nella poetica del personaggio. Il Colonnello Chabert di Balzac, San Gimignano, Teatro dei Leggieri, 15 e 16 novembre 2002.



  Francesco Fiorentino, L’invenzione della provincia: Balzac and Co, “Paradigmi e dinamiche provinciali. La cultura della provincia fra Russia e Occidente”, Bergamo, Università degli Studi, 5 dicembre 2002, ore 15.00.

 

 

  Rosanna Gorris Camos, Ange ou démon, qu’importe: angeli e demoni nella letteratura francese dal Cinquecento al Novecento, Università Statale di Milano, Anno accademico 2001-2002 - II semestre.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Séraphita.

 

 

  Valerio Magrelli, L’Ottocento: fra Stendhal e Balzac, Università degli studi di Cassino, Letteratura francese II anno, Anno accademico 2002-2003.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Eugénie Grandet.

 

 

  Rosa Maria Monastra, Romanzo e società nell’Europa dell’Ottocento, Università degli studi di Catania, Sociologia della letteratura, Anno accademico 2002-2003.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac: Papà Goriot; Illusioni perdute.

 

 

  Patrizia Oppici, La scrittura della storia nell’opera di H. de Balzac, Università degli Studi di Macerata, Facoltà di Lingue e letterature straniere - Dottorato, 2002.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Les Chouans; Un épisode sous la Terreur.

 

 

  Giangiorgio Pasqualotto, Le illusioni perdute di Honoré de Balzac, in AA.VV., Canone occidentale, Vicenza, Sala Lampertico, 15 aprile 2002.





Eventi.



  Honoré de Balzac. Papà Goriot, «Per un pugno di libri», con Neri Marcorè e Piero Dorfles, Domenica 8 dicembre 2002, ore 18,00, Rai Tre.



Marco Stupazzoni

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