domenica 31 gennaio 2021



1997

 

 

 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Le colonel Chabert. Texte présenté, annoté et analysé par Lanfranco Binni et Sergio Panattoni, Milano, Garzanti Editore, 1997 («Lectures françaises»), pp. 221.

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Fisiologia urbana, in AA.VV., Parigi, Milano, Touring Editore, 1997 («Le Vie del Mondo – Viaggi d’autore», 5), pp. 94-96.

 

  Da Ferragus.

 

 

  Honoré de Balzac, Lungo il fiume d’oro, in AA.VV., Valle della Loira, «Meridiani», Milano, Anno X, N. 57, Aprile 1997, pp. 48-54; ill.

 

  A p. 54, è riportato, in traduzione italiana, un estratto tratto da Le Lys dans la vallée.

 

 

  Periscopio. Che cosa sono le ragazze di vita, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, 30 novembre 1997, p. 1.

 

  Le donne che hanno vissuto la vita giungono a una assoluta indifferenza circa le forme esteriori dell’uomo. Somigliano al critico letterario di oggi, che, sotto alcuni aspetti, può esser loro paragonato, e che arriva a una profonda noncuranza per le formule d’arte: ha letto tante opere, ne vede passare tante, si è talmente abituato alle pagine scritte, ha subito tanti finali, visto tanti drammi, scritto tanti articoli senza dire quello che pensava, tradendo così spesso la causa dell’arte a favore delle sue amicizie e delle sue inimicizie, che arriva al disgusto per ogni cosa e tuttavia continua a giudicare. C’è bisogno di un miracolo perché questo scrittore produca un’opera, così come l’amore puro e nobile esige un altro miracolo per schiudersi nel cuore di una cortigiana.

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane, traduzione di Maria Grazia Porcelli, Bur, Rizzoli, Milano 1997, pagg. 52-53.

 

 

  Periscopio, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, 16 marzo 1997, p. 1.

 

  Non esiste nella creazione una legge che non sia equilibrata da una legge contraria: tutta la vita è risolta dall’equilibrio. Così, nel tema che ci occupa, l’amore, è certo che se date troppo, non riceverete abbastanza. La madre che manifesta ai suoi figliuoli tutta la sua tenerezza, crea in loro l’ingratitudine, perché l’ingratitudine viene probabilmente dall’impossibilità in cui ci si trova di sdebitarsi. La donna che ama più di quanto non sia amata sarà necessariamente tiranneggiata. L’amore duraturo è quello che tiene sempre le forze di due esseri in equilibrio. Ora, questo equilibrio può sempre stabilirsi: quello dei due che ama di più deve restare nella sfera di quello che ama di meno.

  Honoré de Balzac, Fisiologia del matrimonio, traduzione di Maghinardo Baviera, Edizioni del Borghese, Milano 1364, pag. 82.

  L’opera contiene anche un Catechismo coniugale (alle pagg. 56-59) in cui, tra l’altro, si legge: L’uomo che entra nel gabinetto di toiletta di sua moglie, o è un filosofo, o è un imbecille); e ancora: Ogni notte deve avere il suo menù.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Béatrix. Traduzione di Giancarlo Buzzi. Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Note di Claudia Moro, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (gennaio) 1997 («Oscar classici», 402), pp. XXXV-401.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. V-XIX. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Cronologia della vita e delle opere principali, pp. XXI-XXVII;

  Pierluigi Pellini (a cura di), Bibliografia essenziale, pp. XXIX-XXXV;

  Béatrix (dalle Scene della vita privata), pp. 1-352;

  Claudia Moro (a cura di), Note, pp. 353-399

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto. Traduzione di Carlo Montella e Luca Merlini, Roma, I Racconti di «Repubblica», n° 10, 30 giugno 1997, pp. 45.

 

  E’ impossibile resistere a Balzac (1799-1850): si entra nelle sue storie e non si vorrebbe più uscirne. Qui assistiamo nella Parigi del Seicento a una discussione sulla vera essenza dell’arte. Due pittori già al culmine della gloria disputano davanti al quadro di cui uno di loro è autore. Un giovane avidamente li ascolta: si è introdotto abusivamente e ciascuno lo crede amico dell’altro. E invece si tratta di Nicolas Poussin.

 

 

  Honoré de Balzac, L’eredità del peccato. Traduzione dal francese di Renato Mucci. Introduzione di Daria Galateria, Roma, Jouvence, (maggio) 1997 («Orizzonti femminili», 2), pp. 102.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Daria Galateria, Presentazione, pp. 7-12. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  L’eredità del peccato, pp. 13-102.

 

 

  Honoré de Balzac, Il giglio nella valle. Traduzione di Anna Ponti, Roma, «L’Unità»-Tutto Truffaut; Milano, Rizzoli Editore, 1997 («I libri dell’Unità»), pp. 264.

 

  Per la traduzione, cfr. 1961.

 

 

  Honoré de Balzac, L’interdizione. La messa dell’ateo. A cura di Stefano Doglio, Faenza, Mobydick, (ottobre) 1997 («Lunaria», 7), pp. 165.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Stefano Doglio, Balzac e le risorse del realismo paradossale, pp. 7-28. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  L’interdizione, pp. 29-136;

  La messa dell’ateo, pp. 137-164.

 

 

  Honoré de Balzac, La musa del dipartimento. Traduzione di Maria Grazia Porcelli, Venezia, Marsilio editore, 1997 («I Tascabili»), pp. 197.

 

  Cfr. 1992.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot, a cura di Antonio Parisi. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Principato, (marzo) 1997 («Leggere Narrativa Straniera»), pp. XXIX-249.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Antonio Parisi, Introduzione, pp. V-XXVIII;

  Bibliografia essenziale, p. XXIX;

  Papà Goriot, pp. 1-184;

  Integrazioni, pp. 185-232;

  Appendice: Erich Auerbach, Il realismo d’atmosfera; Honoré de Balzac, L’«inferno» parigino; Principi della vita elegante; William Shakespeare, La tragica sorte di re Lear, pp. 233-242.

 

  Il romanzo è suddiviso in quattro parti titolate secondo il modello della seconda edizione Werdet (maggio 1835).

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli, Milano, A. Mondadori, 1997 («Leggere i classici», 18), pp. XV-282.

 

  Cfr. 1985.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Francesco Fiorentino. Traduzione e note di Maria Grazia Porcelli, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, (marzo) 1997 («Classici della BUR», 1130), pp. 629.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Francesco Fiorentino, Introduzione, pp. 5-13. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Bibliografia essenziale, p. 15;

  Splendori e miserie delle cortigiane, pp. 16-617;

  Principali personaggi ricorrenti, pp. 619-627.

 

 

  Honoré de Balzac, Storia dei Tredici. Ferragus. La duchessa di Langeais. La ragazza dagli occhi d’oro. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzioni di Attilio Bertolucci, Barabara Ellena Besi, Claude Karmann Fusco, Milano, Garzanti Editore, 1997 («I grandi libri», 202), pp. XXIV-322.

 

  Cfr. 1977.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Ernesto Calindri interpreta Balzac, «L’Unione sarda», Sassari, 18 novembre 1997.

 

 

  Geografia di un romanzo, «L’Unione sarda», Sassari, 28 settembre 1997.

 

 

  Il Goncourt a Rambaud “nipotino” di Balzac, «la Repubblica», Roma, 11 novembre 1997.

 

  Il premio Goncourt – uno dei più prestigiosi riconoscimenti letterari francesi – è stato assegnato quest’anno allo scrittore Patrick Rambaud, per il suo romanzo La Bataille (La battaglia), già premiato dall' Accademia francese. La Bataille è un romanzo storico ispirato da un’idea letteraria, quella di riprendere un progetto lasciato incompiuto nel secolo scorso da Balzac. Il grande romanziere aveva intenzione di descrivere la battaglia di Essling, in Austria, nel 1809, che si concluse con una carneficina. Secondo gli storici persero la vita almeno quarantamila persone. Tra i personaggi del romanzo ci sono anche Napoleone e il giovane Stendhal.

 

 

  Sette giorni in libreria, «la Repubblica», Roma, 7 luglio 1997, p. 24.

 

  Honoré de Balzac L’eredità del peccato. Traduzione di Renato Mucci. Introduzione di Daria Galateria, Jouvence pagg. 102, lire 14.000.

 

  Il titolo originale di questo lungo racconto di Balzac è La marana e in Spagna, come argomenta lo stesso Balzac, fin dal XIII secolo Marana ha sempre significato donna di piacere. In breve, le cento pagine narrano d’una cortigiana spagnola, discendente da una stirpe di donne di piacere, che affida sua figlia Juana a una famiglia di onesti commercianti sperando che non segua il destino di tutte le sue antenate. Ma entra in scena un ufficiale italiano, un po’ balordo, che insidia la ragazza. E Juana così si deve dibattere tra passione e dovere costretta com’è a portare il peso d’una certa eredità.

 

 

  Nello Ajello, La caduta dei colonnelli, «la Repubblica», Roma, 7 dicembre 1997, p. 2.

 

  Non è bastata – siamo ormai all’oggi – la sagoma di Gérard Depardieu, semplice e commovente Colonnello Chabert nel film omonimo tratto da un romanzo di Balzac, a risollevare le sorti di quegli ufficiali, sempre sul punto di salire al vertice generalizio ma spesso frustrati in questa ascesa. Fini riesce dove perfino Balzac è fallito? Da qualche ora la domanda ci assilla.

 

 

  Sibilla Aleramo, Il mio Balzac, in Andando e stando. Cura di Rita Guerricchio, Milano, Feltrinelli Editore, 1997 («Universale Economica Feltrinelli», 1460), pp. 123-125.

 

  Cfr. 1933.

 

 

  Louis Aragon, A Balzac io sputo in faccia, «la Repubblica», Roma, 17 aprile 1997.

 

  Dal romanzo “La Défense de l’infini”, anticipiamo un brano inedito.

  Scrivo e parlo come se Gustave Flaubert non fosse mai esistito. Non credo ai Messia letterari. Marcel Proust mi annoia mortalmente, e Giraudoux non vale una cicca. I poeti, mi si passi l’espressione, sono degli stupratori di mosche. Dopo il brutto Pierrot Laforgue, il mondo è affetto da poesia putrida, da Arthur Schnitzler a T.S. Eliot, per non parlare dei francesi: fanno del loro meglio, quei vermiciattoli. Ebbene, io faccio del mio peggio. Mi sembra il buon momento per mandare una buona volta a quel paese Honoré de Balzac.

  (...) Quelli che si rifanno a Balzac, osserviamoli un po’ da vicino.

  Morand, per esempio. Parlo senza collera di Morand. Non è cattivo, è un droghiere. Ma che non mi si parli più con un tono mistico dei droghieri che vendono i secoli scomparsi. Una riga di Benjamin Constant, una riga di Diderot, una parola della Monaca Portoghese, romanzo secentesco, ed ecco il nostro Balzac a terra. (...) Quando penso a Honoré, capisco il disprezzo che certi spiriti come Paul Valéry e André Breton nutrono per i romanzi. In fin dei conti a Balzac gli sputo in faccia.

 

 

  R. B., Con Calindri aspettando Godeau, «Panorama», Milano, 28 marzo 1997.

 

 

  Brigitte Battel, “Le Sorcier” e “Le Magicien” a confronto. Horace de Saint-Aubin e Alphonse Esquiros, in AA.VV., La Magia, «Bérénice. Rivista quadrimestrale di studi comparati e ricerche sulle avanguardie», Anno V, N. 13, marzo 1997, pp. 64-68.

 

 

  Marco Beck, Esploratori dell’infinito, «Jesus», n. 8, 1 agosto 1997, pp. 88-89.

 

 

  Mariolina Bertini, Ossessivo Balzac, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XIV, N° 5, maggio 1997, p. 15.

 

  Mario Lavagetto, La macchina dell’errore. Storia di una lettura, Einaudi. Torino 1996, pp. 185, Lit 24.000.

 

  Nell’ultima pagina di questo saggio racconto l’opera di Balzac è assimilata a una città “inesauribile e notturna”, dove il lettore può inoltrarsi in cerca di avventure. È un’immagine (Proust avrebbe detto una metafora) che coglie nel segno: grazie al ritorno dei personaggi da un romanzo all’altro, all’intrecciarsi e al parziale sovrapporsi delle loro vicende, il lettore assiduo dei romanzi di Balzac non segue mai, fino al suo appagante scioglimento, il filo luminoso di un singolo destino, ma procede sempre a tentoni in una pluralità spaesante, simile a quella di una metropoli sconosciuta. Deve sforzarsi di conquistare ogni precaria certezza con pazienti ritorni sui propri passi, e solo di rado è soccorso dalla folgorazione di un riconoscimento imprevisto. Curiosamente, per una sorta di magnetismo, i lettori più sensibili a questa «senza labirintica del cosmo balzachiano sono spesso attratti dalle stesse zone della Commedia umana: Roland Barthes nel 1970 e Michel Serres nel 1987 [...] si sono cimentati entrambi con Sarrasine; Francesco Orlando, in una densissima nota della seconda edizione de Gli oggetti desueti (Einaudi. 1996), e Mario Lavagetto in questa lettura magistrale, sono stati invece risucchiati dal perturbante scenario de La grande Bretèche, il giardino inselvatichito della casa abbandonata che porta questo nome e che nasconde le tracce di un adulterio e di un assassinio.

  È proprio lo spettacolo di sfacelo che offre quella dimora feudale a porre in moto il racconto balzachiano: il narratore-protagonista vuol penetrarne a ogni costo il mistero, e vi riuscirà, grazie ad altri tre narratori successivi (un notaio, un’ostessa, una cameriera), ognuno dei quali gli fornirà un frammento della tragica vicenda che egli è chiamato a ricostruire come un mosaico o un puzzle. Benché la vicenda sia di ambiente aristocratico – coinvolge una coppia di antica nobiltà provinciale e un grande di Spagna, l’amante della moglie, che finirà murato vivo sotto gli occhi dell’amata –, quelli che la raccontano al protagonista, che è il medico Bianchon, di aristocratico non hanno proprio nulla: si tratta di un notaio di provincia e di due donne del popolo. Il racconto finisce dunque (è questo il nucleo della lettura di Orlando) per essere la mesta in scena, in un’ottica tutta borghese. Dell’“esemplarità sontuosa dello spreco aristocratico”, di cui la dimora in rovina diviene il suggestivo emblema.

  L’interpretazione di Orlando prescinde dal divenire del testo, dalle sue varianti, per coglierne uno dei contenuti nascosti. Il saggio di Lavagetto, invece, sviluppa un avvincente e rigorosissimo discorso narrativo ponendo da una serie di interrogativi sulla genesi del testo. Se la Grande Bretèche ha tutte le apparenze della casa infestata, il testo che ne narra la storia si aggira, proprio come uno spettro, per l’opera di Balzac; viene spostato da un volume all’altro, attribuito a narratori diversi, modificato in piccoli dettagli cruciali che l’occhio del critico individua come rivelatori. È un testo fantasma che rimanda a un ben preciso scheletro nell’armadio: quegli amori adulterini della madre di Balzac, di cui il romanziere fu da bambino lo scomodo testimone, e da adulto il narratore crudele e assetato di immaginarie vendette.

  Costruito come un racconto poliziesco, La macchina dell’errore ha tra i suoi numi tutelari Calvino e Perec; infatti, con una tecnica che li evoca entrambi, attribuisce la “lettura”, di cui il saggio è la storia, a un personaggio fittizio e umbratile, L1, che in un momento imprecisato anteriore al 1979 esplora i misteri e le contraddizioni de La grande Bretèche, trascinando il lettore affascinato in una serie di emozionanti peripezie esegetiche. Il gioco non è però fine a se stesso e si inserisce, molto brillantemente, nella più recente critica balzachiana, attenta – penso a Nicole Mozet, a Roland Chollet – al Balzac meno prevedibile delle opere “minori” e agli effetti di discontinuità e di frattura evidenziati da Lucien Dällenbach nella Commedia umana. Dietro L1 si profila così un agguerrito teorico della letteratura, che del seducente enigma poliziesco si avvale per ricordarci che le smagliature e i lapsus di un testo ne fanno parte, insopprimibilmente; e che, secondo un suggerimento di Barthes, anche l’autore stesso e il suo contesto biografico altro non sono che testi in attesa di decifrazione.

 

 

  Mariolina Bertini, Cartografie del desiderio, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XIV, N° 9, Ottobre 1997, p. 6.

 

  Saranno il Balzac di Illusioni perdute (1838-43) e il Dickens del Nostro comune amico (1865) a scoprire il tessuto di mediazioni che costituisce la nuova realtà sociale dell’Ottocento; i loro eroi non dovranno più affrontare, secondo l’antico modello della fiaba, un antagonista, un malvagio emergente da qualche oscuro altrove, ma dovranno invece trovare il loro posto in un mondo purgatoriale (né infernale, né paradisiaco) in cui tutto ciò che è estremo tende a scomparire, a favore della grigia palude delle classi medie, o di anonime forze – come il giornalismo e il denaro – che svolgono tra i soggetti sociali ambigui ruoli di mediazione.

  Con Balzac e con Dickens – sia pure tra scarti e contraddizioni – il romanzo si rivela uno straordinario strumento per la lettura dello spazio urbano: l’apparente caos della metropoli, percorso in tutti i sensi dagli itinerari dei personaggi, si ordina in zone disposte gerarchicamente, tra cui circolano flussi ben precisi di desiderio, di ricchezza, di potere. Non sempre, però, un puro scopo di conoscenza orienta la macchina narrativa: possono intervenire, a programmarla, ragioni ideologiche, motivazioni tutt’altro che disinteressate nel cui funzionamento è utile riuscire a penetrare.



  Anna Bonezzi, Analisi di “Honorine” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Maria Bertini, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, anno accademico 1996-1997.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, in Honoré de Balzac, Béatrix ... cit., pp. VII-XIX.

 

  Secondo l’interpretazione fornita da Mariolina Bongiovanni Bertini nel suo saggio introduttivo che precede il testo di Balzac (pp. VII-XIX), Béatrix potrebbe definirsi un’opera dai due tratti, un testo la cui stesura, largamente interrotta, rende chiara al lettore la «giustapposizione di due romanzi, scritti in momenti diversi e opposti nell’ispirazione e nell’atmosfera» (p. VII). La prima parte del romanzo, pubblicata nel 1839 sul «Siècle» col titolo di Béatrix ou les Amours forcés, rappresenta senza dubbio «uno dei momenti più lirici dell’intera Comédie humaine» (p. XVII), grazie all’efficace e poetica rappresentazione del paesaggio bretone, la cui varietà di sfumature si trova sublimata nella figura di Félicité. Ma il vero centro del romanzo del 1838-39 – la cui conclusione, di ambientazione parigina, uscirà sul «Messager» nel 1845 – risiede nella coppia Félicité-Béatrix, olla cui origine, come sottolineato dai biografi balzachiani, si pone il breve soggiorno a Nohant nel febbraio del 1838. Da questo soggiorno, precisa Bongiovanni Bertini, Balzac riportò almeno «due immagini durature, destinate a determinare la «cristallizzazione» di Béatrix: la generosità senza confini di George – ottima madre, amica affettuosa, amante devota – e l’ingannevole trasparenza dell’altera Arabella-Marie» (pp. XV-XVI): nella rivalità tra George Sand e Marie d’Angoult, Balzac «avrebbe costruito il suo romanzo, elaborandone la verità psicologica e lasciando invece da parte la realtà fattuale che poco aveva a che fare con il suo mondo immaginario» (p. XVI).

 

 

  Eric Bordas, L’orient balzacien ou l’impossible narratif d’un possible romanesque – l’exemple de “La Fille aux yeux d’or”, «Studi Francesi. Rivista quadrimestrale», Torino, 122, Anno XLI, fascicolo II, maggio-agosto 1997, pp. 322-330.

 

  Si Balzac à travers ses voyages n’a jamais mis les pieds au-delà du continent européen, si aucun des récits des Études de mœurs, versant le plus considérable de La Comédie humaine, ne se passe ailleurs qu’en France, son œuvre romanesque comme sa correspondance, abonde pourtant en références à l’Orient. Simples allusions très vagues le plus souvent: la mention d’un nom propre exotique, l’image d’un animal sauvage, semblant déjà suffire à figurer ce rêve ouvert par l’idée d’un ailleurs. Balzac n’a donc aucune connaissance directe d’une réalité géographique extra-européenne, mais cette absence de repères exacts est largement compensée par le travail d’un imaginaire nourri à des sources livresque presque obligées pour un homme cultivé de son temps. On se propose ici d’étudier cet étrange rapport d’un imaginaire à un référent mal connu, et de voir en quoi cette méconnaissance est une dynamique poétique pour l’écriture du romancier. L’exemple du récit intitulé La Fille aux yeux d’or, qui date de 1834-1835, permettra de comprendre comment l’Orient peut ne pas un être un lieu référentiel pour l’écrivain, mais fondamentalement, du point de vue de l’énonciation du récit, un possible romanesque qui est de la même façon un impossible narratif. […].

  Par un usage peut-être innocent, mais en homme de son temps, le narrateur balzacien ne peut éviter que les métaphores les plus banales, mais toujours signifiantes, ne reviennent sous sa plume pour écrire le récit. L’exotisme alors n’est pas seulement cet ailleurs que le Parisien va investir de ses fantasmes, il est à la fois une source de production romanesque en tant que stimulant pour l’imaginaire, et une limite à ne pas dépasser, figurée par l’éloignement spatial qui la définit. L’exotisme oriental peut servir à guider une signification au sein d’un récit, à le colorer, à l’éclairer, il ne peut pas pour autant écrire ce récit, tout simplement parce qu’il est ce qui n’existe pas et qui ne peut surgir que dans son effacement. Les pistes proposées par la langue narrative, certes, se recouperont: l’image du despote et du sérail conduit le récit, les métaphores animales relèvent d’une expressivité un peu naïve qui demeure fidèle à elle-même. Il n’empêche que ces indices, qui se proposent comme des signes, travaillent le texte par dissémination. Le paradigme oriental n’est jamais qu’une matrice signifiante. Toutes les libertés sémantiques sont possibles. […].

  Telle est la dynamique romanesque du paradigme oriental dans La Fille aux yeux d’or: l’Orient n’est ni un lieu – puisque Balzac y fait aussi bien entrer l’Espagne que la Chine et les Antilles –, ni un référent exact, mais un possible romanesque qui est de la même façon un impossible narratif. On ne peut développer en récit ce qui n’est qu’images, fragments, projections, propositions. Paquita mourra d’avoir voulu être aimée, c’est-à-dire existentialisée au-delà de sa permanente d’objet-instant voué au plaisir. Le texte s’écrit précisément dans cet entre-deux de ce qui n’est plus sans jamais avoir existé, à l’image d’un Orient de bazar dont l’existence intempestive, autrement que sur le mode du kitsch ou du pittoresque humoristique, aurait fort embarassé (sic) un bourgeois de la Monarchie de Juillet.

 

 

  Annie Brudo, Langage et représentation dans «Vautrin», «L’Année balzacienne», Paris, 1997, pp. 311-324.

 

  Cfr. 1996.

 

 

  Vito Carofiglio, Cristallisations balzaciennes chez Proust, in AA.VV., Marcel Proust. Camins creuats. III. Atti del Congrès internacional Victor Siurana. (Lleida, 23-26 d’octubre 1995), Ed. Angels Santa, Lleida, Universitat de Lleida, Pagès editors, 1997, pp. 143-156.

 

 

  Raffaele de Cesare, Tra Catullo e Balzac, «Studi Francesi. Rivista quadrimestrale», Torino, 123, Anno XLI, fascicolo III, settembre-dicembre 1997, pp. 525-528.

 

  Catullo non è un nome ignoto alla cultura classica di Balzac: cultura peraltro non molto ampia e, certo, assai meno approfondita e rigorosa di quella di altri scrittori francesi contemporanei.

  In quella serie di note prese fra il 1818 ed il 1819 che va sotto il titolo di Discours sur l’immortalité de l’âme, il poeta latino è citato, in un elenco abbastanza sconcertante, con altri elegiaci dell’antichità, accanto a Boileau ed a Shakespeare ed insieme a due condottieri famosi (Alessandro Magno e Giulio Cesare) fra coloro che contribuiscono a formare l’immaginario letterario e la consapevolezza culturale storica del mondo occidentale e ne sublimano le condizioni di vita: esempi ignoti, viceversa, al selvaggio del Canada, il quale non manca tuttavia di dolcezza nei costumi ed ha il dono di ignorare la menzogna ed i vizi della società civile.

  In una parte delle Oeuvres de l’abbé Savonati, battezzata oggi dagli editori Agathise, che precede la redazione di Falthurne I e che probabilmente risale al maggio-giugno 1820, una seconda menzione rinvia a Catullo, modello di quei “morceaux de poesie admirables” dove l’eros femminile è rivelato nei suoi aspetti più dolci e più cattivanti.

  Quasi venti anni dopo, nel 1838, due testi ritornano ancora sul ricordo del poeta veronese.

  Il primo è La Maison Nucingen (dicembre 1838) quando, nel delineare ad opera di Bixiou il ritratto di Isaure d’Aldringger per invocarne una adeguata descrizione da parte di un poeta che, come Catullo, sia sensibile all’incanto della bellezza muliebre. Veramente, il lettore che consulta oggi in questo passo i romanzo balzacchiano (sic) non vi ritrova più il nome di Catullo e s’imbatte, invece, in quello di Evariste-Désiré Parny. Ma il riferimento al nome del poeta settecentesco francese di pari ispirazione sensuale, più intensamente elegiaco e, certo, più vicino del poeta antico alla conoscenza ed al gusto dei Francesi contemporanei, è frutto di una correzione fatta dallo scrittore a partire dalle seconde bozze. Nel manoscritto e nelle prime bozze è il nome di Catullo quello a cui Balzac ha inizialmente pensato.

  Il secondo romanzo è La Torpille (sempre dicembre 1838), diventato successivamente, col titolo Comment aiment les filles, la prima parte di Splendeurs et misères des courtisanes.

  Qui, nel corso di una delle scene preliminari, Blondet si lancia in una paradossale elegio (sic) – suggerito, appunto, dalla Torpille – della cortigiana di classe che dà lustro e fama ai poeti che ne celebrano le attrattive. Lesbia e Catullo, insieme a Lydia e ad Orazio, a Delia ed a Tibullo, a Cinzia ed a Properzio rappresentano naturalmente le “autorità” più illustri che Blondet invoca a sostegno delle sue affermazioni.

  Tre anni più tardi, nella primavera del 1841, Le martyr calviniste (prima parte di Sur Catherine de Médicis, pubblicato in origine sotto il titolo Les Lecamus ne “Le Siècle” dal 23 marzo al 4 aprile 1841) inserisce un riferimento – per la verità alquanto inatteso – al carattere amoroso della ispirazione lirica catulliana. Diciamo inatteso perché esso fa la sua apparizione nel corso della violenta discussione immaginata a Ginevra fra Calvino e i due emissari protestanti Théodore de Bèze ed Antoine de Chandieu. Nel colloquio tempestoso, il carattere crudele di Calvino si rivela prepotentemente. E alle riserve che Théodore de Bèze oppone alla proposta di far uccidere il duca di Guisa, capo della fazione lorenese, lo spietato riformatore esplode con un moto di ira, rimproverando all’interlocutore mancanza di fermezza virile, debolezza e viltà d’animo:

 

  […]. Tu n’es qu’un âne, un godelureau, un poète, va faire des Catulleries, des Tibullades, des acrostiches! Hue!

 

  Sempre nel 1841, Ursule Mirouët (“Le Messager”, 25 agosto-23 settembre 1841) contiene un nuovo richiamo all’opera lirica di Catullo. Nell’esporre ai suoi due buoni amici, l’abbé Chaperon ed il giudice Bongrand, le sofferenze che la vita non potrà mancare di riservare ad Ursule, giovinetta di natura tenera e soave, dalla sensibilità delicata e squisita, il dottor Minoret osserva:


  - Aussi, mes amis. dit le docteur, une chose qui ne ferait que de la peine à une femme pourra-t-elle tuer ma petite Ursule. Ah! quand je ne serai plus, élevez entre cette chère fleur et le monde cette haie protectrice dont parlent les vers de Catulle: ut flos etc.

 

  A differenza delle precedenti citazioni, la referenza è qui, come si vede, più appropriata e più precisa nel suo rinvio testuale. Ursule Mirouët è coerentemente paragonata alla “virgo innupta” cantata da Catullo nei noti versi di Vesper adest, iuvenes consurgite ... [...].

  Questi versi di Catullo dovevano essere rimasti ben impressi nella memoria di Balzac se, qualche anno dopo, fra l’aprile ed il luglio 1844, lo scrittore riprenderà la stessa immagine del fiore immacolato applicandola al ritratto morale di Modeste Mignon, protagonista dell'omonimo romanzo, altra “fleur enfermée comme celle de Catulle”.

 

***

 

  Al catalogo finora noto e qui nuovamente registrato delle reminiscenze catulliane di Balzac si può aggiungere, crediamo, un’altra unità meno esplicita ma forse non meno interessante. Essa è individuabile in un passo di Mémoires de deux jeunes mariées, pubblicati per la prima volta ne “La Presse”, fra il 26 novembre 1841 ed il 15 gennaio 1842.

  Vogliamo indicare i versi di chiusura del primo dei due “sonetti” d’amore che Felipe de Macumer invia a Louise de Chaulieu. La genesi di questi due “sonetti” che il romanziere immagina essere stati scritti in ispagnolo, tradotti in prosa francese dalla stessa Louise de Chaulieu ed inviati all’amica Renée de l’Estorade, è abbastanza oscura. Essi presentano infatti una curiosa contaminazione stilistica francese e spagnola, mescolano metafore rinascimentali, barocche e romantiche, scintillano di un vivo cromatismo ed abbondano di elementi esotici rari a trovarsi nella paletta pittorica del romanziere; e di essi è difficile scoprire l’invenzione stante la scomparsa del manoscritto originale dell’opera. [...].

  Comunque si voglia o si possa risolvere la questione dell’attribuzione delle due composizioni (ma Balzac, quand’anche non sia stato l’autore di esse, se ne è assunta intera la paternità) sembra indubbio che gli ultimi sedicenti versi della messa in prosa del primo sonetto rivelino una reminiscenza catulliana. [...].

 

 

  Raffaele de Cesare, Postface, in Honoré de Balzac, Les Fantaisies de la Gina, Rezé, Séquences, 1997, pp. 35-73.

 

  «Tout est mystère autour des Fantaisies de la Gina», osserva Raffaele de Cesare all’inizio della sua postfazione al testo della novella balzachiana. Questa aura di mistero che avvolge, infatti, non soltanto la genesi, la redazione e la fortuna del récit, ma le ragioni che spinsero Balzac a rinunciare alla sua pubblicazione, risulta esser dipanato dal saggio dell’autorevole critico italiano che, con il consueto rigore, svela gli antecedenti letterari (il romanzo inglese Belinda di miss Maria Edgeworth e La Chartreuse de Parme) che presiedono al concepimento dell’opera, a cui si affiancano, con pari dignità e importanza, le esperienze personali vissute dal romanziere a Milano tra il 1837 e il 1838, ospite della contessa Eugenia Vimercati Tadini, moglie di Giangiacomo Bolognini, le cui relazioni amorose con il principe Porcìa forniranno a Balzac lo spunto per le vicende narrate nel racconto. Pubblicato per la prima volta – e in traduzione italiana! – nel 1848, nel Keepsake milanese, Il Ricordo d’amicizia, il testo delle Fantaisies de la Gina rimase sconosciuto, in Francia, fino al 1922; la sua composizione, posteriore al soggiorno milanese del 1838 si collocherebbe, secondo De Cesare, tra il 1840 e il 1843, tenuto conto anche del fitto «réseau de correspondances thématiques et stylistiques d’une importance diverse, mais toutes assez curieuses» che lega Les Fantaisies de la Gina «a plusieurs oeuvres balzaciennes de ces années» (p. 50), da Les Fantaisies de Claudine (1840) a Honorine (1843). Dopo aver risolto anche gli ultimi enigmi riguardanti le ragioni del «silente absolu [...] dont Balzac a entouré son conte «(p. 60), vale a dire il fatto che «le poids de la réalité sur la fiction était trop manifeste» (p. 61), e la dedica a Sophie Grévedon del manoscritto, De Cesare svolge, nell’ultima parte del suo studio, alcune considerazioni sulle qualità propriamente letterarie della novella balzachiana: un racconto «à l’invention cohérente, au style alerte et primesautier [...] construit avec bonheur, habilement gradué et même avec mesure et grâce» (p. 66), che, nell’arricchire «ce cycle italien qui occupe une si grande partie de la Comédie humaine, [...] nous plonge peut-être dans les secrets du coeur, dénonçant les déboires et les voeux d’une «chasse au bonheur» particulièrement menacée autour des années 1840 1843» (p. 70).

 

 

  Maria Grazia Conti, Aspetti della Spagna ne “La Comédie humaine” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Maria Bertini, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, anno accademico 1996-1997.

 

 

  Roberto Cossu, Calindri il mattatore. Un cinico, ironico, perfetto Mercadet, «L’Unione sarda», Sassari, 20 novembre 1997.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, Una feritoia per Balzac, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, Anno XXII, 1042, 23 gennaio 1997, p. 4; 1 ill.

 

  Lavagetto e una strana Fortezza.

 

  Che nell’enorme costruzione della Commedia umana ci fossero qualche cardine poco oliato, alcune pareti male intonacate e piccole crepe d’assestamento, era cosa da far «sanguinare il cuore». Di Balzac. Ma per quanto ansioso di porvi rimedio, perennemente incalzato dai creditori e perciò oberato di lavoro, come se soltanto sottoponendosi a un sistema autocoercitivo avesse potuto erigere un’opera tanto grandiosa, quel «letterato onesto» sapeva anche di avere il tempo contro. «Quanti errori ci ho lasciato!» confessava a Mme Hanska il 2 marzo del 1843, vergognandosi di aver inserito in La donna di trent’anni un «melodramma indegno» che avrebbe voluto riscrivere. E in quella lettera che dipingendo uno dei suoi periodi più neri – salute a pezzi, ostilità sul versante umano, vertiginoso elenco di volumi da completare e consegnare – lasciava presagire l’inizio della fine. Indirettamente forniva una possibile giustificazione ad errori molto più marginali. Come quello che a dispetto delle spiegazioni di autorevoli critici e studiosi una decina d’anni fa ha incuriosito e intrigato così tanto Mario Lavagetto da lanciarlo in una ricerca trasformatasi, a forza di congetture e di riscontri, in un labirinto dove il filo gli si è imbrogliato tra le mani. Perduto tra piste ingombre di materiali, il nostro detective partito lancia in resta ha dovuto – e immagino per disperazione – deporre le armi senza trovare la risposta che cercava. Ma intanto attorno alla smagliatura di un testo della Commedia umana aveva costruito un laboratorio fitto di schede, commenti e citazioni utili a illustrare la Storia di una lettura come recita il sottotitolo de La macchina dell’errore appena pubblicato da Einaudi.

  Se l’appassionante tentativo di esegesi è rimasto sospeso, e per il lettore non addentro all’universo balzacchiano sarà difficile districarvisi, il percorso sempre più serrato mette in moto un congegno che quasi in un gioco di specchi proietta il rincorrersi e il moltiplicarsi di lettura e scrittura. Come nel precedente Stanza 43, un lapsus di Proust, dove a partire da certe fessure della Recherche e da alcune dichiarazioni dello scrittore ha svolto un’affascinante riflessione sul rapporto tra autobiografismo e finzione narrativa, a interessare Lavagetto che insegna Teoria della letteratura sono infatti i rimandi e i meccanismi della narrazione: per quanto progettata algebricamente, come ambiva Balzac – ci dice il saggista – essa non è esente dalla macchia dell’errore inevitabilmente collegata secondo Freud all’elaborazione artistico-letteraria e per Victor Sklovskij fonte di energia. Sugli stessi presupposti una macchia individuata nel romanzo La musa del dipartimento è stato il pretesto per ricostruire la macchina balzacchiana.

  Ed ecco, in sintesi, il retroscena che ci riporta a quella maledetta primavera del 1843. Dovendo confezionare un romanzo in due settimane per completare le Scene della vita di provincia del secondo volume dell’edizione Furne, Balzac prese La grande Bretèche ou les trois vengeances, un testo del 1837 a sua volta costruito sull’accorpamento di materiali precedenti, che nel contesto di una serata tra amici in un salotto di provincia metteva in scena tre racconti di adultèri ferocemente puniti, con lo scopo di mettere in guardia l’inesperta padrona di casa con velleità intellettuali. Lavorando su quell’impianto, corresse il tiro – la messa in guardia si trasformò in trappola per scoprire le reazioni dell’eroina e del suo supposto amante. Gonfiò poi il testo prolungando la vicenda con il racconto dell’adulterio che la musa del dipartimento, realizzate le sue ambizioni, finirà per consumare fuggendo a Parigi proprio con uno dei narratori di quelle storie truci. Ma curiosamente, in quel romanzo veniva strozzato proprio La grande Bretèche, La grande bertesca, cioè una fortezza con le tipiche feritoie per spiare il nemico (ma il titolo allusivo, chissà perché a Lavagetto sembra essere sfuggito). Era il racconto più avvincente, eppure Balzac si limitò a citarlo come; «L’ultimo quadro del Grande di Spagna che muore di fame e in piedi nell’armadio in cui l’ha murato il marito di Mme de Merret». E la giustificazione addotta – la notorietà della storia ripresa anni prima in un vaudeville – poco regge. Tant’è vero che ripubblicando qualche mese dopo La musa del dipartimento presso Souverain, l’autore faceva ricomparire quel racconto nella sua interezza per ridurlo di nuovo nell’edizione definitiva della Commedia umana. Finalmente c’era l’indicazione: «(Vedere Altro studio di donna)» che ha permesso a Lavagetto di andarselo a leggere.

  A questo punto, invece di considerare quel passo falso e le incertezze di collocazione come un segno del desiderio di valorizzare al meglio un racconto ben riuscito che è una variante moderna e più raffinata del tema letterario del cuore mangiato; anziché ipotizzare che per Balzac quella variazione sul tema della donna malmaritata fosse più efficace in un altro contesto – e d’altronde in una lettera del 1837 sfuggita al nostro saggista Balzac dice di aver «riarrangiato, cioè incorniciato meglio di quanto lo fosse prima» La grande Bretèche – l’autore de La macchina dell’errore disseziona il testo, spulcia il manoscritto e l’epistolario, ricostruisce puntigliosamente le possibili fonti – da Pia de’ Tolomei alla Stendhaliana Mme de Reynal, e arriva al grumo, al buco nero del rapporto di Balzac con la madre adultera formulando altre suggestive ipotesi. Intanto, il quadro si è complicato, il ricercatore s’è spinto troppo oltre avvicinandosi certamente di più ai segreti e alle strategie dello scrittore, ma senza venirne a capo rispetto all’interrogativo di partenza. Che abbia commesso anche lui un errore di valutazione, puntando su un dato marginale e in fondo molto meno intrigante di altri punti deboli o segni distintivi di Balzac, come li definiva Henry James?

  Comunque ha funzionato, e l’energia sprigionata pur mettendo a dura prova il lettore lo cattura sfidandolo a risolvere il puzzle proposto dall'autore. In fondo, la falla nella Musa del dipartimento non era un pretesto per arrivare a questo?

 

 

  Andrea Del Lungo, Gli inizi difficili: per una poetica dell’incipit romanzesco, Padova, Unipress, 1997 («Biblioteca francese», 3), pp. 238.

 

  Se, come afferma Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, «la prima riga della prima pagina d’ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori dal libro», la questione dell’incipit offre elementi di estremo interesse per un’analisi problematica delle frontiere dell’opera, viste in relazione alle dinamiche di passaggio che si realizzano, nelle forme d’inizio, tra produzione e ricezione del testo o, in altri termini, tra la parola del mondo e quella, appunto, dell’opera.

  Questo studio di Andrea Del Lungo si struttura in due parti fondamentali, comprendenti, rispettivamente, sei e cinque capitoli, e si pone come obiettivo generale quello di fornire una trattazione sistematica della complessa natura dell’incipit nella storia moderna del genere romanzesco, analizzandone le tipologie e le funzioni sia dal punto di vista della ricezione dei testo, sia in prospettiva diacronica, stabilendo una classificazione delle differenti modalità d'esordio applicate, in un secondo momento, ai romanzi della Comédie humaine balzachiana. Nella prima parte del saggio (Per una poetica dell’incipit, pp. 13-134), l’A., avvalendosi con equilibrio degli apporti forniti dalla recente metodologia critica, conduce un’attenta riflessione sulla rilevante questione della delimitazione dell’opera d’arte (non soltanto letteraria) e della determinazione delle sue frontiere in relazione alle scelte di contenuto, di stile e ideologiche che, da queste, vengono determinate. Posto alla soglia del testo letterario, l’incipit realizza, da questo punto di vista, una serie di passaggi (presa di parola; entrata nella finzione; ingresso nell'universo romanzesco e nella storia letteraria) che, nel loro carattere fortemente arbitrario, rendono l’inizio «un luogo decisionale» (p. 22) di forte spessore letterario e programmatico. Punto strategico di contatto con il lettore e, parallelamente, con gli elementi del (para)testo, l’incipit racchiude in sé i segni della finzione, nonché alcuni topoi narrativi, su cui Del Lungo si sofferma più dettagliatamente nel quarto capitolo, proponendo una suggestiva analisi di alcune situazioni-tipo narrative, in cui le due questioni-chiave dell’esordio, lo sguardo e il passaggio, giocano un ruolo di primo piano «nell’ingresso tematico della finzione e nell’universo romanzesco» (p. 78). L’esame delle differenti forme di dissimulazione o di esposizione dell’arbitrio (i modi d'inizio) e delle diverse funzioni dell’incipit annuncia, per quel che riguarda i capitoli seguenti, la rigorosa messa a punto delle forme d’inizio che l’A. sintetizza in cinque punti o livelli (codificante; seduttiva e tematica, a livello generale; informativa e drammatica, nel caso particolare degli incipit). L’esistenza di «vari livelli tematici di entrata nella finzione che coinvolgono il lettore in modi diversi, secondo una struttura determinata dall'incrocio della tensione informativa con quella drammatica» (p. 120), conduce Del Lungo a fissare quattro categorie classificatorie delle forme d’esordio (statica; progressiva; in medias res e sospensiva), da cui scaturisce l’analisi degli incipit balzachiani condotta nella seconda parte dello studio (Modelli e variazioni nell’opera di Balzac, pp. 137-209).

  Nel definire una tipologia funzionale dell’incipit, l’A. aveva colto, nel modello statico, il tratto fondamentale, anche se non esclusivo, della forma iniziale del romanzo realista, per quel che riguarda essenzialmente la tendenza alla pienezza e alla profondità della rappresentazione spazio-temporale. L’intera opera di Balzac è attraversata da una costante «riflessione sulla questione dei limiti» e l’incipit costituisce, da questo punto di vista, «il luogo testuale in cui viene definita e affermata una poetica di composizione del romanzo» (p. 138) collegata alla precisa volontà, più volte esplicitamente dichiarata nelle préfaces, di affermare la completezza e l’organicità dell'opera in divenire, attraverso l’assunzione, da parte dello scrittore, di un ruolo demiurgico assegnato alla «presa di parola, in una impossibile – ma sempre affermata – tensione verso l’inizio assoluto» (p. 143). Nel cogliere le variazioni in senso cronologico (a partire cioè dai Romans de jeunesse) dei modelli e delle strutture tematiche dell’inizio, che si accompagnano sempre ad esitazioni della scrittura e ad una poetica dell’instabilità e del movimento, vengono esplorate le diverse forme d’incipit presenti nei romanzi balzachiani dei primi anni Trenta, in cui, come avviene nell’esordio della Recherche de l’absolu, «i modelli relativamente dinamici stabiliti negli anni precedenti si complicano, nell’inserimento di un onnipresente discorso di commento da parte di un narratore sempre più autoritario che afferma talvolta il suo ruolo demiurgico, e ponendo i principi e le leggi del mondo rappresentato» (p. 183). In particolare, è, alla fine del 1833, la pubblicazione di Eugénie Grandet a determinare, con un’assunzione tutt’altro che esclusiva del modello statico, il punto di svolta nella scrittura balzachiana dell’inizio: questa nuova forma di incipit permetterà infatti a Balzac di «inglobare nello spazio romanzesco l’intero universo referenziale, regolandolo e ordinandolo diversamente» (p. 189). La descrizione architettonica, fondata sulla dialettica tra casualità e analogia, fornirà la chiave essenziale di tale sintesi nell’ambito di un mosaico formato da alcune strutture tematiche e simboliche, quali l’antitesi, l’ouverture e il Leitmotiv che «tessono i loro fili tra vari inizi dei romanzi della Comédie humaine, rivelando i modi di collegamento nella creazione di un intreccio estremamente dinamico» (p. 197).

 

 

  Paola Dentella, Dal Colonel Chabert di Balzac alle due riscritture filmiche di René le Henaff e Yves Angelo. Tesi di Laurea. Relatore: prof. Alberto Castoldi, Bergamo, Istituto Universitario, Facoltà di Lingue e letterature straniere, Anno accademico 1996-1997.

 

 

  Massimo Dini, Il capolavoro abita qui, «Il Mondo», n. 41, 18 ottobre 1997, pp. 58-62.

 

 

  Stefano Doglio, Balzac e le risorse del realismo paradossale, in Honoré de Balzac, L’interdizione ... cit., pp. 7-27.

 

  Se l’intero complesso della Comédie humaine può essere letto come «un colossale poema giuridico» (p. 7), per il continuo intrecciarsi di temi e di risvolti tecnico-giuridici nella vita quotidiana, le Scènes de la vie privée consegnano all’attenzione del lettore alcune opere, in cui «la componente giuridica non rappresenta tanto lo sfondo o l’oggetto materiale del racconto, quanto piuttosto il suo motore» (p. 9). Da questo punto di vista, anche nei testi qui presentati, il ricorso a procedimenti di scrittura che sviluppano una grande varietà di registri espressivi, sospesi fra «parodia e compiaciuto tecnicismo» (p. 20), rivela, nella spiccata vocazione alla rappresentazione teatrale, uno dei tratti più incisivi della loro «démarche» narrativa. In altri termini, «la rappresentazione di situazioni e stari d’animo in contrasto col senso comune può essere orientata a portarne in luce le ragioni profonde, razionalizzando il paradosso: un indirizzo che spalanca gli orizzonti della narrativa verso qualunque aspetto del reale, e presenta ottime potenzialità anche nel campo del fantastico» (p. 21).

 

 

  Francesco Fiorentino, Introduzione a Balzac, Bari-Roma, Laterza editori, 1997 («Gli Scrittori», 11), pp. 177.

 

  Cfr. 1988.

 

 

  Francesco Fiorentino, Introduzione, in Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane ... cit., pp. 5-13.

 

  Con Splendori e miserie delle cortigiane, si completa la trilogia del ‘ciclo di Vautrin’ iniziata con Papà Goriot e proseguita con Illusioni perdute. Curata nella traduzione e nell’apparato delle note di Maria Grazia Porcelli, il testo balzachiano è preceduto dal saggio di Francesco Fiorentino, in cui, dopo aver ricostruito i momenti fondamentali della storia editoriale del romanzo, vengono illustrati i tempi principali che nutrono questo capolavoro: l’involuzione, nel progressivo declino, degli ideali e dei sentimenti del mondo giovanile, votato, qui più che in altri luoghi dalla Comédie humaine, a cadere vittima della società e dei personaggi che la attraversano; il doppio legame tra Lucien de Rubempré e Vautrin; la melanconica resa di quest’ultimo – il grande ribelle della Comédie – che, specularmente a Balzac, esaurisce le sue forze nella perpetua sfida al mondo; il potere, sempre determinante, del denaro. Ma Splendori e miserie delle cortigiane è anche quello che, tra i romanzi di Balzac, «ha contratto il più cospicuo debito» (p. 11) con l’estetica del roman-feuilleton, il cui nuovo mondo di pubblicazione impone, negli anni quaranta, «regole narrative, che mutano profondamente il codice romanzesco» (p. 10). In particolare, al testo balzachiano appartiene una delle costanti che Fiorentino giudica preminente nel romanzo popolare, vale a dire l’onnipotenza «dei personaggi che conducono il gioco, i quali sfuggono non soltanto alle leggi del codice penate ma anche a quelle della verosimiglianza» (p. 11).

 

 

  Ivo Franchi, Nei luoghi degli scrittori. Sulle tracce di Balzac, in AA.VV., Valle della Loira ... cit., p. 162.

 

  Nato a Tours il 20 maggio 1799, il padre della Commedia Umana ha lasciato nella “sua” Valle della Loira parecchie tracce e testimonianze. Per uno scherzo del destino, si trova ben poco di lui nella città natale. Il nome dello scrittore compare soltanto sulla targa di un’anonima stradina del centro, a fianco dell’Hôtel de Ville. Basta tuttavia spostarsi verso nord-est per giungere a Vendôme che, all’interno del Parco Ronsard, ospita l’antico Collegio dei Padri Oratoriani, attuale sede del municipio. Qui il giovane Honoré fece i suoi studi rivelandosi (come molti grandi romanzieri) un allievo indisciplinato. Dopo il trasferimento a Parigi, la Loira diventerà per Balzac un autentico rifugio. Nel Castello di Saché [...], sulle rive dell’Indre a sei chilometri da Azay-le-Rideau, lo scrittore – assillato dai creditori – soggiornò a lungo tra il 1823 e il 1837, ospite del proprietario Monsieur de Margonne. Da vedere il parco e il museo allestito nel maniero, dove sono raccolti oggetti, dipinti e rari manoscritti balzachiani: inoltre, è possibile visitare la camera da lavoro in cui lo scrittore concepì alcuni dei suoi libri più famosi, da Il giglio nella valle e Papà Goriot a La ricerca dell’assoluto. Una curiosità: uscendo dal castello, al centro della piazza principale, fa bella mostra di sé uno dei coloratissimi mobiles di Alexander Calder, l’artista americano contemporaneo anche lui frequentatore della cittadina, che donò questa scultura alla municipalità di Saché. Altri luoghi cari a Balzac si ritrovano nella Loira Occidentale: a Saumur. per esempio, “protagonista” delle pagine di Eugénie Grandet, lungo la ripida strada che s'inerpica verso il castello; e ancora nel borgo medievale Guérande, sul confine con la Bretagna, teatro della travolgente storia d’amore narrata in Béatrix.

 

 

  Daria Galateria, Presentazione, in Honoré de Balzac, L’eredità del peccato ... cit., pp. 7-12.

 

  Con il titolo L’eredità del peccato, viene presentata, nella collana “Orizzonti femminili” della società editoriale Jouvence, la traduzione, curata da Renato Mucci, de Les Marana, novella pubblicata per la prima volta sulla «Revue de Paris» nel 1832 e inclusa, nel 1834, nelle Etudes de moeurs, per poi trovare la sua collocazione definitiva, pur con qualche variante, nel 1846 tra le Etudes philosophiques. Nella sua breve ma efficace introduzione, Daria Galateria, rivisitando alcuni episodi mondani della vita dello scrittore, afferma che Balzac, nonostante le professate nostalgie borboniche, «amava perdutamente il moderno», anche se, ne Les Marana, «questa fervida devozione verso il proprio tempo, si complica con due miti – quello, per l’appunto, dell’Italia (e di una Spagna) esotica e passionale, e il vagheggiato amore materno – che colorano delle loro venature intemporali gli eccessi del racconto» (p. 10). Per quanto riguarda il primo tema, quello italiano, ricordiamo che, nel 1837, Antonio Lissoni, ufficiale di cavalleria nell’esercito napoleonico e testimone oculare del famoso assedio di Tarragona, pubblico un opuscolo intitolato Difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiate dal Signor di Balzac nelle sue Scene della vita parigina e confutazione di molti errori della Storia militare della guerra di Spagna fatta dagli Italiani, in cui sottolinea, punto per punto, le inesattezze storiche e i pregiudizi culturali in cui era incorso Balzac nel redigere la propria opera.

 

 

  Giorgio Giorgi, Esempi di realismo fantastico in H. de Balzac, in Percorsi nel Fantastico. Prefazione di Gianfranco de Turris, Rimini, Il Cerchio Iniziative editoriali, 1997 («Fantasia»), pp. 219-224.

 

  L’A., muovendo da alcuni testi della Comédie humaine, attribuisce al fantastico balzachiano il potere di insinuare nel lettore «una riflessione inquieta, una insidiosa interrogazione sulle illusioni, sulla fragilità e sulle miserie dell’esistenza e della realtà sensibile» (p. 223).

  Cfr. 1986.

 

 

  Fabio Giovannini, Il morso dell’artista, in Il libro dei vampiri. Dal mito di Dracula alla presenza quotidiana, Edizioni Dedalo, 1997, pp. 21-25.

 

  pp. 24-25. Lo stesso destino bruciante tocca in sorte al pittore Frenhofer immaginato da Balzac, e che permette di ritornare alla creazione artistica più vampirica. la pittura. Nel racconto di Balzac la modella o la musa non è mai raggiunta dal pittore, che cerca inutilmente la perfezione. Eppure quell’intangibile musa femminile che il vecchio pittore ricerca riesce egualmente a vampirizzarlo e a distruggerlo.

  Il Frenhofer di Balzac. che agisce nella Parigi seicentesca, dissipa il suo talento nella ricerca dell’assoluto e della vita. Frenhofer vuole riprodurre nell’arte la vita, vuole succhiare nella tela il palpito vitale e la sua bellezza.

  Anche Balzac, ci ricorda Geno Pampaloni, voleva che le figure dei suoi romanzi avessero il soffio tiepido della vita, voleva cogliere lo spirito, l’anima e l’immagine profonda degli oggetti e delle creature. In una parola: voleva vampirizzare la realtà. La linfa vitale deve essere sottratta alla realtà per portarla nell’arte. Con questa energia universale Balzac vuole rinsanguare i suoi personaggi, allo stesso modo di Frenhofer. Ma Frenhofer è un vampiro sempre assetato e mai saziato: la donna dalla bellezza assoluta che cerca è un’illusione irraggiungibile.

  Quando riesce a dipingere una Belle Noiseuse è per coprirla di altre macchie di colore, per distruggere il vampiro che ha creato. Frenhofer vuol possedere la natura stessa, in parallelo con il vitalismo di ogni vampiro e anche del romanziere Balzac. Vuole dare immortalità al suo amore e alla sua arte.

  Mentre parla della sua creatura il vecchio Frenhofer dimostra il suo vampirismo, sembra tornare giovane: i suoi occhi scintillano di vita, le sue guance pallide diventano soffuse di un rossore vivo, un sangue nuovo gli circola nelle vene. Ma come sempre, l’artista vampiro è anche vittima delle sue vittime. Frenhofer ha creato un dipinto vampiro e questo lo porterà alla morte. La natura gli sfugge ancora. Dopo aver posseduto il ritratto, dopo avergli infuso la pienezza traboccante della vita. Frenhofer è ridotto a un pallido fantasma, la sua vita è stata risucchiata dalla interminabile ricerca dell’assoluto.

  Per Alberto Abruzzese, il pittore Frenhofer è vampiro anche verso il pubblico dei suoi quadri, il sangue degli altri deve vivere in lui che è morto. Ma si potrebbe aggiungere anche che vampiro è il suo quadro, che quella bellezza «immortalata» nella tela porta alla morte, toglie l’ultima goccia di sangue.

  La tela stessa, quindi, può trasformarsi in vampiro.

 

 

  Enzo Golino, Balzac, che spione!, «L’Espresso», Roma, 13 marzo 1997.

 

  Un medico, il dottor Bianchon, è il narratore a cui Honoré de Balzac affida il compito inquisitorio di far luce sulla misteriosa vicenda che si è svolta tra le mura di una vecchia casa, La Grande Bretèche, nei pressi di Vendôme. Come sempre accade, Balzac spia la società del suo tempo proprio alla maniera di un medico che palpa il corpo umano per analizzarne lo stato di salute. La scrittura penetra a fondo nella materiale consistenza dei luoghi, dei personaggi, delle idee.

  “La Grande Bretèche”, terribile storia di adulterio degna di figurare nel Pantheon del genere noir, convinse Mario Lavagetto a cimentarsi in un saggio sull’opera di Balzac. Mentre scriveva, il saggio diventava anche una parabola sulla critica letteraria. Un equilibrio instabile dunque, che disturbava l’autore: infatti il libro, scritto tra il 1982 e il 1986, è uscito solo nell’autunno scorso. Lavagetto confessa di aver vinto il pregiudizio della perfezione, che rischia di sottrarre verità alla creazione artistica, alla vita, e di cancellare quella che Viktor Sklovskij, il sublime formalista russo, chiamava l’energia dell’errore.

  Lavagetto non si limita a sperimentare un consiglio di Balzac, decostruzionista ante litteram: Prendi il racconto, spezzagli le reni come si rompe la carcassa di un pollo, poi lascialo lì, spezzato, rotto. E dopo averlo disarticolato nelle giunture più profonde, gli tesse intorno una rete ossessiva di riferimenti biografici e fonti bibliografiche, illumina enigmi filologici e persino errori di stampa, scopre le incertezze narrative di Balzac.

  Una sorta di psicosi da accertamento e una grande capacità diagnostica trasformano la critica letteraria di Lavagetto in clinica letteraria, sotto le ali di Doktor Freud e sulle orme di illustri predecessori.

  Alla fine di una indagine così accanita anche nei suoi fallimenti, il lettore si immedesima nel critico, entrambi appagati di aver aggiunto intelligenza al testo balzachiano.

 

 

  Claudio Gorlier, Nell’oceano del romanzo, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, Anno XXII, 1084, 13 Novembre 1997, p. 6.

 

  Con Balzac, altro invito a nozze, nel segno della «triangolarità»» della Comédie humaine, e la «natura indiretta dei rapporti sociali». Prendete, a pagina 118 del libro di Moretti, la cartina punteggiata che si riferisce a Splendori e miserie delle cortigiane, ove si mette a fuoco un momento cruciale, con il contrasto solo apparente tra aristocrazia e mondo del crimine, «Parigi come campo di battaglia». Una scoperta incessante.

 

 

  Giuliano Gramigna, Un saggio di Lavagetto. E il maniaco Balzac finì sotto inchiesta, «Corriere della Sera», Milano, 21 febbraio 1997, p. 33.

 

  Negli ultimi cinquant’anni la critica ha spostato la figura di Balzac romanziere, rispetto alle classificazioni canoniche: Balzac naturalista, più realista del reale; magari “volgare”, come gli rimproverava Proust; ma poi cosciente, in anticipo, dell’importanza delle strutture, “maniaco di rapporti” che attraversano, in rete fittissima, tutta la Comédie humaine; Balzac moderno – e antimoderno – perfino sperimentale.

  Forse ora gli si aggiungerà un altro tratto: di attizzare il gusto romanzesco in un critico dei più fini, mentre fa critica.

  Per questa virtù’ supplementare, mi riferisco a La macchina dell’errore pubblicata ora presso Einaudi (pagine 185, lire 24 mila) da Mario Lavagetto, docente a Bologna di teoria della letteratura, studioso di Umberto Saba, di Italo Svevo, di Marcel Proust, e titolare del volume ancora oggi fondamentale Freud, la letteratura e altro (1985), che esplora i doppi territori della psicoanalisi e della teorica letteraria.

  La macchina dell’errore ha un sottotitolo: “Storia di una lettura” e difatti s’incentra su un racconto di Balzac, “La Brande Bretèche”, truce vendetta di un gentiluomo geloso che costringe la moglie a lasciare morire l’amante dietro una porta murata (ho condensato scelleratamente.

  Ma come nel testo balzachiano, così anche nel saggio-lettura di Lavagetto, tutto è così e insieme altro da così. Intanto, una provocazione sta già nel titolo, che tira in ballo un refuso della traduzione italiana dell’Uomo Mosè di Freud, per cui la “macchia dell’errore” si è trasformata nella “macchina dell’errore”.

  Tuttavia: che cosa ha a che fare un titolo parafreudiano con Balzac? Non si tratta di una squisitezza citazionale. In effetti, quel refuso emblematizza il procedimento critico di Lavagetto nel suo libro, che parte da una certa nozione di testo letterario: “Si potrà’ sempre sostenere che in origine (nelle sue origini mitiche) il testo è nato per nascondere! è un “tessuto” ma, ad un esame minuzioso, rivela smagliature, rattoppi, buchi; così come nella macchina ci sono cortocircuiti, avarie, difetti di funzionamento ...”. L’errore è parte insopprimibile della macchina-testo, epperò della macchina-Balzac; a tratti ne è l’elemento-rivelatore.

  E’ la pratica d’infiltrazione, di ascolto attraverso crepe e vuoti, propria del critico Lavagetto; la chiamerei magari la critica dei sentieri che sembrano perdersi nel bosco, non condurre in nessun luogo, e invece immettono su tracce e domande via via più’ sottili e fondamentali.

  Nella Macchina dell’errore, Lavagetto ha fatto anche qualcosa di più’ inopinato. Scontata la premessa che ogni lettore sia pure un inquisitore, ha articolato la sua ricerca come una sorta di “racconto nella critica” (per contagio di quel genio fabulatorio che è Honoré de Balzac?), dando vita a una figura intermedia di lettore fittizio, abbastanza anonimo per essere libero e flessibile; ma anche abbastanza appassionato per funzionare da quasi-personaggio.

  Alla sua responsabilità’ è affidata l’inchiesta sul comportamento bizzarro del racconto “La Grande Bretèche”. Il quale scompare letteralmente dal volume La muse du département, dove ne resta solo, come dire?, il guscio vuoto, per venire coinvolto in una serie di incarnazioni, migrazioni, incertezze, prima di allogarsi definitivamente nella Comédie humaine (Autre étude de femme).

  Ma perché, domanda Lavagetto attraverso il suo lettore fittizio (e moltiplicabile), queste dislocazioni? Solo perché Balzac, di fronte alla galassia che gli si sta formando della Comédie, continua ad essere incerto sul luogo adatto per il racconto? Semplici questioni di equilibri e corrispondenze? In una pagina di T. W. Adorno si celebra la “potenza a sé” della forma esterna della stampa: un libro stampato costringe il suo autore a revisioni e a riscritture; “la stampa diventa la critica della scrittura: spiana una strada dall’esterno verso l’interno”. Così, anche nel caso della “Grande Bretèche”? O su quel testo hanno agito interdetti, pressioni, perfino rimorsi di natura più complessa?

  Il Lettore di Lavagetto (insigniamolo della maiuscola!) procede nella sua inquisizione attraverso le cicatrici, le sostituzioni, perfino i vuoti che il testo esibisce. Gli avvicinamenti successivi – di sentiero in sentiero – al centro od ombelico di ciò che potremmo chiamare il “mistero Grande Bretèche”, sono atti di critica e insieme atti narrativi. Diventa romanzesco frugare in biblioteche e archivi, riprendere epistolari, pescare fonti e varianti del micromito intorno a cui si è costruita “La Grande Bretèche”. Ma spiegare non equivale a organizzare racconti?

  L’inchiesta letteraria sbocca a toccare qualcosa di profondo nella vita di Balzac, una costellazione familiare che rende ragione di tanti scambi, travisamenti, errori del racconto; di tanti, naturalmente non tutti, perché, malgrado ogni messa in chiaro, qualunque testo difende la sua forza primaria di occultamento.

  Quel discreto movimento narrativo che fa la peculiarità del libro di Lavagetto non incide minimamente sul rigore del discorso critico che vi si esprime: abbondanza di riferimenti e richiami, finezza di elaborazione teorica, lucidità di criteri.

  Del resto, perché la buona critica dovrebbe per forza disgiungersi dalla “seduzione”? Consiglio questo libro non solo agli amatori di Balzac, ma a quanti, in un saggio, vogliono vedere dispiegarsi l’intelligenza e la coerenza dell’«indagatore».

 

 

  Maria Grazia Gregori, A Milano con Balzac. Calindri fa il furfante aspettando «Godeau», «l’Unità», Roma, 6 aprile 1997, p. 10.

 

  In grande forma l’attore, pluriottantenne, è protagonista di «Mercadet l’affarista». Un mascalzone simpatico. Un imbroglione divertente. Un mago della borsa. Un antesignano dell’insidertrading, della speculazione corsara. È Mercadet, protagonista di Mercadet l’affarista, una delle più importanti incursioni di Balzac nel mondo del palcoscenico. Nell’adattamento e nella traduzione di Luigi Lunari, nello spettacolo firmato da Antonio Moretti e, soprattutto, nell’interpretazione di Ernesto Calindri, non una commedia «nera», come sarebbe anche possibile aspettarsi, ma segnata da una divertente mascalzonaggine. [...]. Siamo a Parigi, la Parigi delle facili e immediate fortune, nel momento in cui, nella prima metà dell’Ottocento, prendono corpo le concentrazioni capitalistiche, le prime «cordate» pronte a scalare qualsiasi potere. Monsieur Mercadet, affarista, vive al di sopra della sua possibilità visto che è rovinato, con i creditori alla porta e costretto a sognare per la propria figlia, bruttina, un matrimonio d’interesse. Per fortuna la moglie è riuscita a salvare la sua dote dalle mani bucate del marito anche se la figlia gli dà il «dispiacere» di innamorarsi di un giovanotto squattrinato che le parla d’amore ma che fa anche i conti con il suo conto in banca. Ovviamente il lieto fine è di casa, fra l’andare e il venire di sedicenti finanzieri, simili a degli allibratori, in un vorticoso giro di cambiali e di azioni legate a discutibili affari. Sullo sfondo, un socio fantomatico che è andato in Oriente a tentare la fortuna, tale Godeau, che si cita a ogni pie’ sospinto. Un giochino culturale, visto che il cognome si pronuncia come quello del celebre personaggio di Beckett. Con una differenza: Godeau arriva davvero, è il padre del giovane innamorato della figlia di Mercadet, di cui paga i debiti, lasciandolo libero di continuare i suoi giochi ... Nessuna interpretazione, nessuna rilettura se non il deciso partito preso della simpatia nei confronti del personaggio, caratterizza questo spettacolo, ambientato – nelle scene d’epoca di Roberto Comotti – con il preciso intendimento di fare passare una serata sorridente a scacciapensieri al pubblico. Eppure la commedia umana di Balzac potrebbe (è anche stato fatto) essere letta con maggiore profondità. [...].

 

 

  Milan Kundera, Se Balzac torna dall’Est, «la Repubblica», Roma, 22 ottobre 1997, p. 1.

 

  Durante uno dei miei primi soggiorni nella Boemia postcomunista, un amico che è sempre rimasto lì mi dice: quel che ci vorrebbe qui da noi è un Balzac! Stiamo assistendo, lo vedi, alla fondazione di una società capitalista, con tutto quello che comporta di più volgare, crudele e imbecille con gli arrampicatori sociali, gli imbroglioni, i filibustieri, e la grottesca cafonaggine dei nuovi ricchi. Alla crudeltà della politica è subentrata la crudeltà del denaro. La stupidità del commercio ha preso il posto della stupidità ideologica.

  Ma quel che rende pittoresca la nuova esperienza è il fatto che essa serba ancora fresco il ricordo di quella vecchia, che le due esperienze si sono per così dire incastrate l’una nell’altra, e che la Storia, proprio come ai tempi di Balzac, riesce a orchestrare trame strabilianti. E qui il mio amico mi racconta di un anziano signore, un alto funzionario del partito che, venticinque anni prima, aveva favorito il matrimonio di sua figlia con il rampollo di una grande famiglia borghese rovinata dalle espropriazioni, procurando subito al giovanotto (come regalo di nozze) una brillante carriera; oggi il vecchio burocrate vive i suoi ultimi anni nella solitudine: la famiglia del genero è tornata in possesso dei beni che erano stati nazionalizzati, e la figlia si vergogna del padre comunista e lo vede solo di nascosto.

 

 

  Milan Kundera, Il sipario bruciato (traduzione di Ena Marchi), «la Repubblica», Roma, 22 ottobre 1997.

 

  Il mio amico ride: ma ci pensi? è, pari pari, la storia di Papà Goriot, il potente che sotto il Terrore era riuscito a sposare entrambe le figlie con dei «nemici di classe»; poi, all’epoca della Restaurazione, le figlie non volevano avere più niente a che fare con lui, e il povero padre non poteva mai vederle in pubblico. Quel giorno ne abbiamo riso di cuore. Oggi però, ripensandoci, mi chiedo: ma perché abbiamo riso? Ne trae conferma la celebre formula di Marx: un avvenimento storico si ripete sempre sotto forma di farsa. Ma la storia del vecchio burocrate di partito è davvero una farsa? No: la sua vecchiaia non è meno patetica e triste di quella di Papà Goriot. Una situazione non acquista, ripetendosi, degli elementi comici: non è la situazione ad essere comica, è la ripetizione, il fatto stesso di ripetersi! Per ripetersi, infatti (e nel nostro caso è la Storia che si ripete), occorre essere senza pudore, senza memoria e senza intelligenza. Se un uomo dice a una donna «ti amo», non c’è nulla di comico; ma quando lo dirà per la ventitreesima volta alla ventitreesima donna, con la stessa sincerità e gli stessi occhi umidi, volenti o nolenti ci metteremo a ridere, anche se la ventitreesima donna sarà amata esattamente quanto la prima. E con questo torno all’auspicio formulato dal mio amico di Praga: e se la Boemia di oggi avesse davvero bisogno di un Balzac? Forse sì. Forse, per i cechi, sarebbe utile, illuminante, interessante, leggere dei romanzi sul ritorno al capitalismo che è in atto nel loro paese: un ampio ciclo di romanzi, ricco di personaggi e descrizioni, scritto alla maniera di Balzac. Ma nessun romanziere degno di questo nome scriverà un simile romanzo. E’ impossibile scrivere due volte La commedia umana.



  Paolo Limiti, Scusa, cosa leggi quest’estate. «La cugina Bette» di Honoré de Balzac, Garzanti, 14.500 lire, «Sorrisi e Canzoni TV», Milano, N° 32, 10-16 agosto 1997, p. 20.

 

  «L’ho letto da ragazzo: ora lo rileggo perché mi piace recuperate le sensazioni di quelle estati lontane. I personaggi sono disegnati con grande finezza, le ambientazioni magistrali».

 

 

  André Lorant, “L’Héritière de Birague”, d’H. de Balzac, sous les pseudonymes de A. Viellerglé et Lord R’Hoone, in AA.VV., Parodia, pastiche, mimetismo. Atti del Convegno Internazionale di letterature comparate, Venezia, 13-15 ottobre 1993, a cura di Paola Mildonian, Roma, Bulzoni editore, 1997, pp. 151-161.

 

  L’Héritière de Birague, opera pubblicata nel 1822 e redatta in collaborazione con Auguste Le Poitevin de L'Égreville e Etienne Arago, fa proprie in chiave ironica le tematiche e le tecniche del romanzo gotico che l’autore sovverte e ridicolizza esprimendo, «sur le ton de la parodie, ses préoccupations personnelles» (p. 161) e dando libero corso a certi fantasmi che lo ossessionavano, primo fra tutti, quello della madre.

 

 

  Giovanni Macchia, L’Andromaca di Balzac, in Ritratti, personaggi, fantasmi, a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1997 («I Meridiani»), pp. 566-571.

 

  Cfr. 1958.

 

 

  Balzac e il libertino, Ibid., pp. 587-594.

 

  Cfr. 1964.

 

 

  Nella città del romanzo: il ritorno a Balzac, Ibid., pp. 1597-1601.

 

  Cfr. 1966.

 

 

  Balzac e il romanzo d’appendice, Ibid., pp. 1602-1607.

 

  Cfr. 1966.

 

 

  L’eleganza contro l’effimero, Ibid., pp. 1608-1612.

 

  Cfr. 1982.

 

 

  Laura Mariani, Introduzione all’arte del travestimento, in Sarah Bernhardt, Colette e l’arte del travestimento, Bologna, Società Editrice Il Mulino, 1997 («Quaderni di Teatro e Storia»), pp. 23-79.

 

 

  Donata Meneghelli, Architetture, in Una forma che include tutto. Henry James e la teoria del romanzo, Bologna, Società editrice Il Mulino, 1997 («Collana del Dipartimento di Italianistica Università di Bologna», 7), pp. 61-123.

 

  Balzac, dichiara James nella Lezione del 1905, costituisce una sfida per qualunque altro pittore della vita che avesse la tentazione di rappresentarlo, di dipingerlo, di spiegarlo. La sfida è certo rischiosa, le possibilità di successo sono probabilmente scarse. Eppure James aveva già ceduto, più di una volta, a quella tentazione.

  I primi due saggi su Balzac risalgono rispettivamente al 1875 e al 1877. [...]. Seguono venticinque anni di silenzio; un silenzio che viene rotto nel 1902, quando James accetta di scrivere un saggio introduttivo alla traduzione inglese di Mémoires de deux jeunes mariées (pubblicata da William Heinemann). Nel frattempo, molte cose sono cambiate. Henry James non è più un giovane scrittore ai suoi esordi; è già il sacerdote della forma, il «maestro» di un piccolo cenacolo di devoti. Tre anni dopo, nel 1905, James decide di fare di Balzac l’argomento delle sue conferenze negli Stati Uniti. Si tratta di una scelta eccentrica che egli, evidentemente, ritiene di potersi permettere: ormai gode del prestigio sufficiente per fare «ingoiare» Balzac al pubblico americano. James sembrerebbe aver detto la sua ultima parola sull’autore della Comédie humaine. Ma otto anni dopo, nel 1913, tornerà un’ultima volta a parlare di Balzac, recensendo il volume Balzac di Émile Faguet sulle pagine del «Times Literary Supplement».

  Le date sono importanti, perché l’atteggiamento e il giudizio di James nei confronti di Balzac sono soggetti a significative modificazioni. La frattura più macroscopica è quella fra una lettura di Balzac in chiave essenzialmente realistica, dominante nel 1875 come nel 1877, e una lettura di Balzac in chiave decisamente visionaria, che emerge nei primi anni del ’900. A questo cambiamento corrisponde una modificazione percepibile sul piano stilistico: un incremento del linguaggio figurato, una densità di immagini lussureggianti, di paesaggi e di colori, quasi che James cercasse di «inseguire», con il suo linguaggio, la visionarietà di Balzac.

  Quella che abbiamo definito una lettura visionaria riflette e al tempo stesso segna una radicale trasformazione dello sguardo critico di James. Nei primi due saggi, quello sguardo è affetto da una forma di miopia, è continuamente vittima di un errore prospettico. James sembra impegnato in un curioso compito: quello di decidere cosa della Comédie humaine si può salvare e cosa invece è irrimediabilmente fallimentare, inaccettabile, sezionando con singolare acribia quell’opera che, secondo Balzac, poteva essere giudicata solo nella dimensione della totalità. Nei due saggi successivi, la prospettiva muta radicalmente. James è pronto ad accettare fino in fondo tutte le premesse da cui scaturisce l’operazione di Balzac: gli stessi «difetti», le stesse «debolezze», le immense «pretese» di Balzac, nella lezione del 1905 diventano le condizioni che hanno consentito l’edificazione della Comédie humaine, che hanno fatto di Balzac il solo autore possibile per la Comédie. [...].

  Il giudizio sul modo in cui Balzac rappresenta l’aristocrazia costituisce un indice (non l’unico) di questo mutamento di prospettiva. Lo scarto è particolarmente evidente perché James, nel 1875 e nel 1902, analizza lo stesso episodio delle Illusione perdues, formulando due giudizi diametralmente opposti. L’episodio è quello in cui Madame de Bargeton, da poco giunta a Parigi, è spinta dalla marchesa d’Espard ad abbandonare Lucien de Rubempré in un palco dell’Opera, dopo aver saputo che le sue origini (Lucien è figlio di un farmacista di provincia di nome Chardon, e de Rubempré è il nome della madre) sono diventate di dominio pubblico. Quella scena, commentava James nel 1875, è (come molte altre) improbabile e inverosimile: due aristocratiche non si sarebbero mai comportate così, non avrebbero mai violato in modo tanto plateale le buone maniere. [...].

  Le dichiarazioni di James hanno un inconfondibile sapore di ottusità critica, se non di filisteismo. Ricordano inequivocabilmente un personaggio che James non poteva conoscere ma che i lettori di Marcel Proust conoscono molto bene: quella marchesa di Villeparisis che «rimproverava a Balzac, meravigliandosi di vederlo ammirato dai suoi nipoti, d’aver preteso di dipingere una società “dove non era ricevuto”, e di cui ha raccontato mille cose inverosimili». E dietro la marchesa di Villeparisis, come dietro il giovane Henry James che scrive nel 1875, è possibile intravedere una stessa matrice: Sainte-Beuve, la sua estetica, il suo sistema di pregiudizi e di prescrizioni letterarie.

  Nel saggio del 1902, la rappresentazione dell’aristocrazia diventa invece una delle occasioni in cui il genio di Balzac risalta con maggiore evidenza, quasi con arroganza: nel presentare le sue antiche famiglie, le sue dame del gran mondo, egli ostenta tutta la consueta spavalderia, tutta la vanità che lo contraddistingue. Ma perché non dovrebbe vantarsi – afferma James – l’uomo che ha creato «la più brillante, la più storica, la più insolente e soprattutto la più vivida e dettagliata delle aristocrazie»? Principi, baroni, duchi e duchesse sono un «mazzo di carte» con il quale l’autore «gioca» a suo piacimento. È a questo punto che James torna a commentare la scena delle Illusions perdues. [...].

  James è giunto a riconoscere completamente, senza più riserve o reticenze, la grandezza visionaria di Balzac, quella grandezza che consiste nel rendere indistinguibili il «documento» e la «visione». Della voce che sarà di Madame de Villeparisis (che era stata di Sainte-Beuve) non c’è più traccia; da chi Balzac «fosse ricevuto», dove, in altre parole, egli raccogliesse le sue informazioni, sono diventate questioni irrilevanti. L’esperienza non riuscirebbe comunque a spiegare il «miracolo» della Comédie humaine: la straordinaria quantità di opere, ognuna a suo modo scavata, scolpita, compiuta, scritte in un numero relativamente breve di anni; il rapporto, mai perso di vista dall’autore, di ogni singola parte con il tutto. L’unica spiegazione possibile sta in una qualità che Balzac possedeva al grado più alto e che, nel 1905, James definirà una facoltà allucinatoria senza precedenti.

[...]. È come se James, nei saggi su Balzac scritti alle soglie della New York Edition, avesse deciso di mollare gli ormeggi e abbandonarsi alla corrente. Ricostruisce una «genealogia del romanzo», di cui Balzac è il padre fondatore, e nella quale egli è pronto a inserire se stesso come discendente: «l’uomo che è davvero il padre di tutti noi», scrive nelle prime pagine di The Lesson of Balzac. Balzac è il padre dell’opera letteraria come «metodo» e come «sistema»; il padre del romanzo – scriverà ancora James nell’ultimo dei suoi saggi su Balzac – come «una forma che include tutto, una forma senza falle o incrinature, uno stampo dalla tenuta perfetta, nel quale ogni aspetto rilevante e significativo della società che lo circondava [...] potesse essere versato e acquistare una compattezza sempre maggiore [...]». Ed è anche l’autore che ha saputo portare fino alle estreme possibilità l’intensità di illusione che il romanzo è capace di produrre; quella sorta di forza coercitiva esercitata sui lettori che finisce per revocare la realtà, per farla impallidire.

  Di una simile concezione del romanzo, la Comédie humaine costituisce la massima realizzazione. Balzac è anche il padre dell’opera ciclica, di quel romanzo totale che annulla progressivamente i propri confini. [...].

  Chi è questo Balzac evocato da James? Un autore che ripubblicava continuamente le sue opere in edizioni diverse (singoli romanzi, serie di due o tre testi, gruppi consistenti di testi, fino alla prima edizione della Comédie humaine), sottoponendole quasi ogni volta a revisioni più o meno approfondite. Nel Balzac che scriveva «le opere ristampate e gli inediti hanno richiesto uguale lavoro, poiché le prime, per la maggior parte, sono state riscritte; ce ne sono alcune in cui tutto è stato completamente rinnovato, il soggetto come lo stile», James trova un precedente in grado di legittimare, con la sua autorità, l’ossessione per il testo riscritto, «migliorato», per il testo che non cessa mai di essere scrivibile.

  Ma Balzac, per James, è molto di più. È l’autore che nel 1835, a proposito di una terza edizione della Histoire intellectuelle de Louis Lambert, sottoposta a una radicale revisione, dichiarava di avere impiegato, per togliere dalla circolazione le precedenti edizioni del testo, «la cura e denaro che altri scrittori generalmente impiegano per diffondere le loro opere. L’operazione è quasi interamente riuscita per la seconda edizione in 18°, della quale sono state distrutte circa duecento copie; in quanto alla prima, ho potuto toglierne di mezzo trecento volumi». Balzac, insomma, sembra realizzare anticipatamente il sogno che James attribuirà a Dencombe, lo scrittore di The Middle Years. E ancora, è l’autore che – lo vedremo – aveva fatto della revisione uno dei mezzi capitali per costruire quel sistema unitario chiamato Comédie humaine. Qui dunque Balzac – «che non aveva mai visto o detto tutto, che non cessava mai di spingersi avanti» – è chiamato in causa come garante del principio su cui James ha deciso di ricostruire la sua opera, la revisione: non una revisione qualunque, ma la revisione completa, sistematica, coerente. [...].

  La metafora dell’edificio esprime l’ambizione totalizzante del romanzo nel XIX secolo, il sogno di una rappresentazione sistematica ed esaustiva dell’intero campo del reale, sogno che Balzac concretizza come nessun altro romanziere ma che non appartiene solo al romanzo. È un’aspirazione di tutta la borghesia del XIX secolo; e l’edificio è anche una metafora squisitamente borghese. [...].

  La matrice fondamentale rimane un’opera singolare, la Comédie humaine di Honoré de Balzac [...].

  Ma James, allora, quando sceglie proprio l’autore della Comédie humaine per accreditare se stesso di fronte al pubblico americano, non rende la mistica dell’edificio una suggestione plausibile anche per giudicare la sua opera? E non sta forse già pensando a quell’opera nella forma di una costruzione globale? Se tuttavia la «presenza unitaria della Comédie» costituisce un paradigma che funziona inevitabilmente alle spalle di James, che forse egli colloca consapevolmente all’origine della New York Edition, c’è da chiedersi cosa fosse diventato quel paradigma nel 1905, quando l’esperienza del grande romanzo borghese, di cui la mistica dell’edificio costituiva l’iperbole e al tempo stesso la potenziale disintegrazione, si stava chiudendo definitivamente [...]. C’è da chiedersi, in altre parole, se un autore la cui vicenda è attraversata per intero da questa cruciale transizione, un autore che sperimenta personalmente il chiudersi, per il romanzo, di una serie di possibilità e l’aprirsi di un altro paesaggio, ignoto e vertiginoso, potesse rivolgersi al modello costruito dalla Comédie humaine e trovarlo attuale, ancora riutilizzabile. [...].

  Proviamo, inizialmente a farci guidare da Marcel Proust. In una pagina della Recherche du temps perdu, Proust affida al suo narratore l’apologia del grande edificio letterario, del ciclo al cui interno si dispongono i singoli testi. [...].

  Proust sta compiendo, attraverso il je della Recherche, un’appassionata riscrittura del mito ottocentesco dell’opera globale, di cui la Comédie humaine rappresenta una sorta di grande figura generatrice. Ma se la pagina della Prisonnière costituisce la riscrittura di un mito, chi aveva scritto, o riscritto a sua volta, quel mito prima di Proust, chi lo aveva fondato? E dove nasce la metafora architettonica, che qui Proust non utilizza ma che affiorerà in altri punti della Recherche?

  È Balzac che ha fondato il mito della sua opera immensa, realizzazione parziale, amputata, incompiuta di un piano ancora più immenso. Lo ha fondato in lettere, appunti, prospetti editoriali, indici; ma soprattutto lo ha consegnato a quegli straordinari documenti costituiti dalle préfaces, che accompagnano singoli testi o gruppi di testi nelle loro progressive pubblicazioni. Attraverso il piano dell’opera, così come l’autore, mentre sta realizzando la Comédie humaine, continua a raccontarlo (a Gautier, a Félix Davin, a Madame Hanska, alla sorella Laure, a centinaia di lettori e di lettrici), Balzac ha compiuto un’impresa senza precedenti. Ha creato una ideologia dell’opera globale, unitaria, globale in quanto unitaria; ha costruito una leggenda di sé e della sua opera, procurando alla Comédie humaine l’autore di cui aveva bisogno; ha inventato la metafora, il «sostituto» capace di rendere l’opera presente, di sfidare l’incredulità e la diffidenza dei lettori: l’immagine dell’edificio e il sistema di varianti attraverso le quali, di volta in volta, Balzac la declina. [...].

  Balzac espone il progetto generale della futura Comédie humaine in una lettera a Madame Hanska dell’ottobre 1834. Il titolo è ancora quello (provvisorio) di Études sociales. L’oeuvre sarà divisa in tre grandi sezioni, che dobbiamo immaginare collocate in una struttura verticale a diversi livelli. Alla base, le Études de moeurs, sulle quali si eleveranno le Études philosophiques e, a un livello ancora successivo, le Études analytiques. […].

  L’unità che presiede all’edificio costruito da Balzac si situa a molteplici livelli: il disegno è costituito di diversi disegni sovrapposti o incastonati l’uno nell’altro. C’è lo schema che divide l’opera in tre parti distinte e la organizza secondo un criterio di implicazione logica: dagli effetti alle cause, dalle cause ai principi. La Comédie humaine non vuole essere solo una rappresentazione della società: di quella società vuole offrire una lettura, vuole indagare le leggi; e su di essa formulare un giudizio. Unità logica, dunque: disegno che racchiude i testi, che li classifica piuttosto che attraversarli.

  A questa partizione fondamentale se ne intrecciano e se ne sovrappongono altre. Le Études de moeurs saranno a loro volta suddivise in una serie di sottosezioni, che Balzac denomina scene […]. Il disegno che la sequenza di queste unità descrive è cronologico-tematico: ognuna di esse – afferma Balzac – dovrà rappresentare una faccia del mondo sociale e, al tempo stesso, una fase della vita umana. All’interno di alcune scene sussistono, nello schema definitivo, ulteriori suddivisioni. Ci sono gruppi di testi che si raccolgono sotto un titolo generale e che costituiscono qualcosa come un nucleo rappresentativo, le diverse declinazioni di un comportamento sociale, di un tipo [...].

  Coincidente con l’elaborazione del piano è anche la scoperta dell’espediente narrativo che consentirà a Balzac di compattare ulteriormente il suo disegno: la sistematica ricomparsa, da un testo all’altro, degli stessi personaggi. Le migliaia di comparse disseminate nella Comédie humaine si raccoglieranno intorno a un nucleo molto consistente di personaggi chiave che, a partire dagli anni 1834-1835, saranno sempre gli stessi. La forza del progetto di Balzac sta nel fatto che alla pur straordinaria unità logica, egli associa un’unità «vitale», secondo le parole di Proust. Con il ritorno degli stessi personaggi Balzac istituisce un universo diegetico totale e omogeneo, un mondo fittizio autosufficiente, organico, circoscritto e nello stesso tempo potenzialmente infinito. È questo universo che verrà analizzato, studiato, spiegato attraverso il disegno, l’ordine impartito ai testi. L’unità del disegno (o dei disegni) non sarebbe così rilevante se ad essa non si accompagnasse l’unità del mondo narrato. Il lettore, però, non seguirà le vicende dei personaggi dall’inizio alla fine; i segmenti di quelle vicende saranno organizzati da Balzac in un ordine che non ricalca la sequenza cronologica. [...].

  Il tempo, nell’opera, sarà una struttura intricata, dove abbonderanno i movimenti di accelerazione, i salti, i bruschi ritorni indietro. E se qualcuno, nel popoloso universo della Comédie, dovesse trovarsi troppo in mare aperto, Balzac si augura che un giorno venga compilato «un indice biografico dei personaggi che aiuterà il lettore a orientarsi in questo immenso labirinto», indice di cui l’autore fornisce anche alcuni esempi. A un mondo-mosaico, dunque, corrisponde un’opera-labirinto.

  Nella costruzione del sistema Balzac si serve di una strategia testuale decisiva: la revisione sistematica. L’unità dell’opera di Balzac è, come afferma Proust, un’unità che già esisteva, in nuce, prima dell’organizzazione di quei testi in un ciclo, in un unico disegno architettonico. Se il ritorno degli stessi personaggi non è proprio «l’ultima pennellata» impartita da Balzac, è vero che la Comédie humaine costituisce anche il risultato di un lavoro a posteriori. Quando intuisce in modo chiaro e definitivo il senso unitario della sua opera, Balzac ha già scritto numerosi testi che saranno destinati a trovare posto nell’opera ma che non sono stati scritti programmaticamente per essere inseriti nella struttura di insieme. La Comédie, insomma, ha la capacità (e forse la funzione) di riassorbire il già fatto, di conferirgli un senso supplementare e ulteriore. Si capisce, allora [...], come questa «lezione» potesse affascinare quell’Henry James che si apprestava a rileggere (e in parte a riscrivere) quanto aveva disseminato dietro di sé.

  Balzac, dunque, inizia a riprendere in mano i testi (quelli scritti a partire dal 1828) per renderli parte della Comédie humaine: attraverso una serie di modificazioni che riguardano soprattutto l’onomastica dei personaggi, ma anche la toponomastica, la rete degli episodi e dei riferimenti interni, l’autore costruisce le sue famiglie, la sua geografia, le sue genealogie, tutto il suo mondo. I personaggi attraversano gli stessi luoghi, ognuno di essi partecipa a diversi segmenti della vicenda generale; in un romanzo, il lettore ritrova nelle vesti di attori secondari coloro che erano stati i protagonisti di un romanzo precedente o viceversa. Molti dei nomi propri che attraversano la Comédie hanno dietro un’intera storia.

  Ma il piano della Comédie che Balzac arriva a mettere a punto tra il 1834 e il 1835 non ha solo una forza retroattiva: perché, dopo averlo elaborato, Balzac continuerà a scrivere opere già pensate (anche) in funzione dell’organismo unitario. Quel piano non si proietta solo all’indietro, ma anche in avanti: si struttura e si precisa grazie a un lavoro in progress, viene ripetutamente annunciato, spiegato, illustrato, approfondito nell’atto stesso del suo farsi. È qui che le prefazioni sembrano giocare, per Balzac, un ruolo fondamentale. A partire dagli anni 1834-1835, Balzac inizia a pubblicare singoli testi o gruppi di testi come frammenti di un piano in movimento, come «pezzi» della futura Comédie ancora in via di elaborazione e di definizione. Le prefazioni, allora, con cui Balzac, nella maggior parte dei casi accompagna quei segmenti, servono a mettere i testi in relazione gli uni con gli altri, a collocare ciascuno di essi all’interno dell’organismo più vasto che sta nascendo, a informare i lettori sullo «stato» dell’opera. Di questa complessa operazione, l’immagine dell’edificio costituisce probabilmente uno dei perni fondamentali, offrendo a Balzac una serie di significanti intorno ai quali aggregare e costruire un’ideologia che precede l’opera, la annuncia, la prepara, la accompagna in parallelo.

  La storia della metafora architettonica come metalinguaggio per parlare dell’opera letteraria è lunga forse quanto la stessa storia della letteratura occidentale. [...]. È da una tradizione estremamente antica, dunque, che Balzac riceve il campo metaforico (o i campi metaforici) «opera come edificio — opera come monumento»; quel campo Balzac lo «trova», come «struttura potenziale» a cui attingere e, al tempo stesso, su cui intervenire. [...].

  Il sistema di rimandi e di scambi che ha al centro l’architettura, infatti, non è solo tra finzione letteraria e realtà, ma anche tra finzione letteraria e metadiscorso critico, come dimostra perfettamente l’esempio di Balzaci l’edificio metaforico richiama e contiene gli innumerevoli edifici diegetici, minuziosamente descritti, su cui si eleva l’universo della Comédie humaine.

  In una pagina della prefazione del 1828 a Le Gars, che, con il titolo di Les Chouans, sarà il primo romanzo scritto da Balzac a trovare posto nel piano della futura Comédie humaine, compare per la prima volta il campo metaforico «opera come monumento». Il testo è ancora pubblicato sotto pseudonimo (questa volta si tratta di Victor Morillon) e la prefazione è attribuita a un anonimo amico dell’autore. A un certo punto, il prefatore dà la parola a Morillon, vale a dire «cita» una lettera in cui sono contenute alcune riflessioni dell’autore sul progetto generale che anima le sue opere [...].

  Se siamo lontani dalla Comédie humaine, nelle dichiarazioni di Victor Morillon si profila già l’idea del quadro completo, di una rappresentazione a tutto tondo. In quell’abbozzo di opera sui secoli passati, opera mai scritta, abbandonata, è contenuta anche una profezia.

  Dopo il 1828 l’immagine architettonica non riaffiora fino al 1831, quando, nella prefazione alla Peau de chagrin, troviamo un’ulteriore occorrenza. Il fatto singolare è che questa volta si tratta di un monumento auspicato, atteso; si tratta esplicitamente di un monumento che ancora non c’è, che dovrebbe esserci. [...].

  Ancora un annuncio, ancora un’indiretta profezia destinata a restare isolata, dopo la quale il monumento scompare di nuovo. Riaffiorerà come paradigma stabile solo nel 1834, quando la fisionomia dell’opera si sarà definita nelle sue linee fondamentali. Allora, il campo metaforico tratto dall’architettura si caricherà di ben altre responsabilità semantiche. L’edificio o il monumento non saranno più riferimenti generici, ma veicoli orientati verso un oggetto specifico ed esclusivo. Balzac riattualizza, nella parole del proprio metadiscorso critico, la langue metaforica che la tradizione gli ha consegnato. Ricava, da quelle immagini, qualcosa per sé e per il progetto a cui sta lavorando.

  Balzac si serve di una straordinaria varietà di veicoli metaforici, tutti ricavati dal campo semantico dell’architettura. Alcuni di questi veicoli (labirinto, edificio, monumento, castello, palazzo, casa di campagna, museo-galleria, sala, architettura-costruzione, cappella, chiesetta, cattedrale) stanno per il tutto, per l’Opera intera o per una delle sue sezioni fondamentali; altri (peristilio, piedistallo, pietra, metopa, statua, capitello, scultura-gruppo scultoreo) stanno per la singola opera, considerata come parte di quel tutto, come pezzo da collocare nella costruzione globale. La metafora, dunque, consente in primo luogo, di «dire», di «mettere in scena» il rapporto organico fra le parti e il tutto. [...].

  L’edificio, il termine che in assoluto ricorre più frequentemente nelle préfaces, interessa Balzac in primo luogo in quanto oggetto gerarchizzato, coeso e al tempo stesso articolato. Un edificio è un sistema unitario regolato da dipendenze interne [...]. Quel sistema unitario, però, non esclude la discontinuità, le articolazioni interne, le partizioni. Dire edificio, dunque, equivale a dire costruzione elevata, verticale, nella quale è possibile individuare un «sopra» e un «sotto», che descrive sempre un «basso» e un «alto», un «prima» e un «dopo» nello spazio. Una simile struttura rende conto del paradigma che organizza l’intera Comédie humaine; un paradigma induttivo, che procede dal basso verso l’alto, dal sotto verso il sopra, che consente di risalire dagli effetti alle cause e dalle cause ai princìpi. La gerarchia è quella, classica, dei tre ordini architettonici collocati uno sopra l’altro, in qualche modo stratificati. [...].

  Nella Comédie, ciascuno dei personaggi viene saturato progressivamente, attraverso diversi testi; solo a opera compiuta ogni figura avrebbe dovuto presentarsi intera e costituire un «tutto». Ma il tutto, questa volta, non è il macrotesto, è il personaggio, ognuno dei personaggi-chiave che abitano la Comédie humaine e che ricompaiono da una storia all’altra. Con un singolare effetto en abyme, il personaggio, questo elemento costitutivo dell’opera, questo «gruppo di parole», «pezzo», dunque, fatto di altri «pezzi», ripete il modello su cui è costruita l’intera Comédie humaine. La statua, insomma, è una versione miniaturizzata dell’edificio o del monumento.

  Ma edificio e monumento, nelle préfaces, non sono completamente sinonimi. Un monumento può essere un edificio, una scultura, una statua o un gruppo di statue, senza perdere o modificare i suoi tratti semantici fondamentali, che non riguardano tanto la forma o la struttura, ma piuttosto le proporzioni e il valore. Un monumento si distingue in quanto oggetto imponente, commemorativo e sepolcrale. È intimamente legato alla memoria (come testimonia la sua stessa etimologia) e alla morte, e questo legame viene garantito dalla (sic) sue proporzioni grandiose: se si eleverà al di sopra del resto, se sarà indistruttibile, se continuerà a imporre la sua presenza non solo nello spazio ma anche nel tempo, potrà testimoniare, potrà sopravvivere e far sopravvivere. Attraverso l’immagine del monumento, Balzac traccia per la sua opera un destino, e su quell’opera formula un giudizio: dichiara che la Comédie, per la sua imponenza, per la sua massa colossale, merita di durare; che è costruita, avrebbe detto Ruskin, per durare. Che non è dunque un’opera da consumare in una prima lettura; che è infinita anche perché è degna di essere riletta una seconda volta, un numero indefinito di volte. [...].

  La cattedrale sembra quasi l’oggetto architettonico per eccellenza. Costituisce infatti un’immagine che riassume in sé altre immagini, che presenta, insieme, tutti i tratti semantici attualizzati da Balzac. «Dire» cattedrale equivale a dire simultaneamente edificio, monumento, statua: equivale a dire gerarchia, verticalità, sintesi che non esclude l’articolazione e la discontinuità; equivale a dire memoria, lotta sul tempo, eternità, garantite dall’imponenza e dalla grandiosità della costruzione; equivale, soprattutto, a evocare una struttura significante capace di «portare», di contenere gli elementi mimetico-figurativi, come le grandi cattedrali del medioevo sono popolate da innumerevoli figure modellate, scolpite o in bassorilievo.

  Nelle préfaces di Balzac, le immagini architettoniche sono concentrate in un preciso arco temporale, che va dal 1834-35 al 1840: gli anni in cui Balzac intuisce il piano complessivo della Comédie humaine. Come se le metafore fossero strumenti di cui Balzac si serve per mettere a punto il suo progetto, sempre più definito, sempre più articolato; come se fossero il «modello», per riprendere Paul Ricoeur, con cui scoprire e precisare un altro modello, quello del romanzo totale, del ciclo, del sistema. E, al tempo stesso, come se le serie metaforiche fossero anche il modo di costruirsi delle singolari «credenziali» in assenza dell’opera.

  Dopo il 1840 troviamo una sola occorrenza, nel 1847, nella prefazione a Les Comédiens sans le savoir (pubblicato separatamente, e dunque fuori dal contesto della Comédie, sotto il titolo Le Provincial à Paris) [...]. Fra il 1840 e il 1847 è accaduto un fatto importante: nel 1842, l’editore Furne ha iniziato a pubblicare la prima edizione della Comédie humaine; l’edificio non è certo finito, ma la distanza fra l’intenzione e il risultato si è sensibilmente accorciata. In quell’occasione Balzac elimina tutte le prefazioni scritte precedentemente: quelle prefazioni, evidentemente, non facevano parte della Comédie humaine; costituivano una mediazione, un ponte provvisorio, una parte delle «impalcature» che l’autore, a opera conclusa, si proponeva di smobilitare.

  Alle prefazioni Balzac sostituisce un Avant-propos di una decina di pagine. Forse i lettori più fedeli si sarebbero aspettati di trovarvi un’ulteriore declinazione del campo metaforico «opera come edificio — opera come monumento»; di trovare l’immagine posta finalmente «faccia a faccia» con la sua referenza metaforica. Ma questo non avviene: la metafora architettonica non trova posto nell’Avant-propos. Quando, a un certo punto, Balzac sfiora il campo metaforico «opera come edificio», lo fa in modo elusivo, incidentale, sfuggente; lo fa, soprattutto, scusandosi con i lettori, come qualcuno che si stia prendendo una libertà non autorizzata. [...].

  A un certo punto la Comédie, o meglio quel colossale frammento della Comédie, sembra non avere più bisogno della mediazione di altri oggetti per essere «detto». Ma forse è vero anche l’inverso. Se l’opera non è conclusa, se non lo sarà mai, l’ideologia a cui essa ha dato origine e forma sembra essersi definitivamente codificata. La metafora architettonica, l’immagine dell’edificio, si «stacca» dalle préfaces a cui Balzac l’aveva consegnata e acquisisce uno statuto autonomo. [...].

  La mistica dell’edificio funziona come un germe a partire dal quale James produce molteplici variazioni. L’«oggetto» architettonico si trasforma in altri «oggetti», posti in rapporto metonimico con il primo; anche l’opera subisce una serie di mutazioni, per cui da essa si passa al materiale da cui quell’opera scaturisce, al pensiero dell’autore, all’autore stesso che l’ha creata. Le trasformazioni procedono in parallelo e disegnano alcune catene metonimiche che vale la pena di seguire: con spostamenti progressivi, James arriva a far dire a quelle immagini qualcosa di molto diverso rispetto a ciò che erano giunte a significare nelle mani di Balzac e di chi, dopo di lui, le aveva riprese.

  Nei primi due saggi scritti da James, troviamo sia l’edificio che il monumento, entrambi riferiti alla struttura complessiva della Comédie humaine. Nel 1875, la metafora dell’edificio viene fatta risalire direttamente a Balzac, senza la mediazione di Taine o di Gautier, che pure James conosceva. [...].

  James si riferisce chiaramente all’Avant-propos, che però, come sappiamo, non contiene nessun edificio, nessun blocco di pietra; c’è solo un riferimento, compiuto non senza esitazioni, alle diverse scene delle Études de moeurs come «gallerie». [...].

  Nel 1877, il monumento è la cifra con cui James chiude il suo secondo saggio su Balzac [...].

  Vale la pena di notare che, già in queste due prime occorrenze, edificio e monumento non vengono utilizzati come termini equivalenti. Sebbene entrambi stiano per l’intera Comédie, James li utilizza con sfumature di senso diverse. L’edificio sembra avere una funzione eminentemente descrittiva, mentre il monumento si carica di responsabilità valutative: dire monumento non significa semplicemente trovare un oggetto capace di richiamare per analogia, la forma e la struttura dell’opera; significa formulare su quell’opera un giudizio di valore.

  Venticinque anni dopo, comunque, edificio e monumento sono pronti a subire le loro metamorfosi. Nelle catene metonimiche che è possibile rintracciare, i due termini vengono drasticamente disgiunti. L’edificio rimane una costruzione, sebbene di genere molto diverso dalle fabbriche che abbiamo incontrato nelle préfaces di Balzac. Il monumento assume i tratti di una statua, che rappresenta una figura. Non si tratta più, però, delle mille statue che popolavano la cattedrale evocata da Balzac; qui la statua non sta né per il singolo testo, né per uno dei personaggi; è una sola, di proporzioni gigantesche, e rappresenta l’autore della Comédie humaine. Nelle manipolazioni a cui le immagini architettoniche vengono sottoposte, James continuamente sovrappone e disgiunge opera e autore, passando impercettibilmente dall’una all’altro. Nel saggio del 1902, il monumento della Comédie humaine si è trasformato nella «statua seduta di Balzac». In questo passaggio, l’opera viene a essere identificata con il suo autore. L’autentico monumento è lo stesso Balzac, una «massa» di proporzioni talmente vaste che, per girargli intorno, dobbiamo camminare lungamente. [...].

  L’immagine della statua fa scaturire una serie che, dall’organismo-macchina, arriva fino all’animale. Qui James, forse già pensando a un racconto che avrebbe scritto nell’autunno di quello stesso anno, paragona l’intenzione (dunque qualcosa che non è né l’autore, né l’opera) con cui Balzac si è misurato per tutta la vita a una bestia munita di un centinaio di tentacoli: quei tentacoli non sono altro che le innumerevoli ramificazioni in cui l’opera si andava via via articolando. [...].

  In tutta la complessa costruzione metaforica che accompagna il farsi della Comédie humaine, l’autore non abita mai gli edifici convocati sulla scena. La cattedrale, il palazzo, il castello erano tutte immagini rispetto alle quali l’autore era esterno: si trovava in un altro luogo, il luogo in cui quelle immagini (o la loro referenza metaforica) venivano costruite, osservate, descritte. Le immagini che si susseguono, si rincorrono e si ricongiungono nei saggi di James, viceversa, «contengono» tutte, insieme all’opera, al posto dell’opera, dentro l’opera, l’autore (il suo destino, la sua intenzione, il suo pensiero).

  Questa trasformazione avviene perché James costruisce le sue metafore intorno a un problema che lo aveva sempre incalzato, almeno da quando era cominciata la sua consapevole riflessione sulla letteratura [...].

  James non è certo il primo ad avere detto che l’autore della Comédie humaine è una figura più straordinaria di qualunque personaggio da lui creato. Ma, pronunciate da James, quelle parole acquisiscono un significato ulteriore: perché James è convinto che esista qualcosa come un’irriducibile tensione antagonistica tra autore e opera. Ogni opera letteraria porta, inscritti nella sua genesi, i segni di questo conflitto; e quanto più la lotta è aspra, tanto maggiore è il mistero che circonda il «processo inafferrabile» attraverso cui l’opera nasce e cresce. E questo conflitto che emerge nelle trasformazioni a cui James progressivamente sottopone le immagini originarie: l’autore contro l’opera, l’opera contro l’autore. Le metamorfosi che investono gli oggetti architettonici (e i loro referenti) raccontano la storia di questo corpo a corpo: un corpo a corpo che, almeno in due casi, prende la forma di un vero e proprio scontro fisico. Balzac diventa un «esercito» che muove all’attacco del materiale; la Comédie humaine diventa una «bestia» che cerca di stritolare, di fagocitare il suo autore.

  La lotta è in primo luogo lotta dell’autore con l’opera da scrivere, e quindi con il soggetto, con l’intenzione che nell’opera si vuole realizzare, con il mezzo che si è scelto, con la lingua. L’autore cerca di far esistere l’opera, di farla essere come vuole che sia; cerca di piegare le idee e il materiale al proprio progetto; cerca di dominare l’intenzione, di tenere sotto controllo il metodo e la sostanza linguistica. L’opera, al tempo stesso, vuole «insegnare» se stessa, rivendica la propria autonomia. [...].

  Ma quell’opera oppone anche una resistenza, come se non volesse farsi scrivere, come se volesse sfidare la volontà che cerca di dominarla: si trasforma in un labirinto. Quel labirinto, per James, è un luogo di morte in quanto luogo chiuso [...]. L’autore è prigioniero della propria opera e del proprio materiale, vi è immerso, e corre costantemente il rischio di soccombere. [...].

  Balzac è dunque il progettatore/proiettatore (projector) per eccellenza. Non è solo colui che disegna ed edifica, ma colui che, al pari di una forza centrifuga, proietta corpi e oggetti verso l’esterno, li allontana da sé, li trasferisce in un altro tempo e in un altro spazio: il «fondatore di generazioni», il «dissipatore di destini».

  La leggenda, che pure esiste, non è riuscita a prendere il posto della Comédie humaine. Se l’opera non è arrivata a cancellare il nome del suo autore, a rendersi completamente indipendente, ha però prodotto una metamorfosi decisiva. Balzac non è più «l’uomo naturale, l’Honoré battezzato e iscritto all’anagrafe»: è diventato una «costruzione» assimilabile, per alcuni dei suoi tratti semantici, solidità, verticalità, coesione, durevolezza, valore commemorativo e sepolcrale, all’edificio-monumento della Comédie. [...].

  Rileggendo la mistica dell’edificio e introducendo su quel paradigma radicali trasformazioni, James si fabbrica dunque un proprio Balzac. Ma se questo è vero, c’è un’ultima trasformazione che vale la pena di rilevare. James, evidentemente, non vuole chiudere definitivamente Balzac in un labirinto, non vuole vederlo aggirarsi in eterno nella gabbia che aveva eretto su di sé e gli riserva una via d’uscita. L’annuncio di questa trasformazione lo troviamo nelle prime righe di The Lesson of Balzac, in un espediente retorico utilizzato per organizzarne l’incipit. È come se, con un movimento emblematico, l’immagine a cui James si prepara a dare corpo gli fosse sfuggita di mano, andando a finire in un posto che non le spettava. [...].

  L’edificio, nell’uso che ne faceva Balzac, serviva a «dire» l’opera, la rappresentazione letteraria, lo spettacolo osservato, creato, trasfuso e rimesso in forma nel testo; ed egli aveva utilizzato la galleria come equivalente di una sezione della Comédie, le Études de moeurs. L’edificio (la galleria) di cui parla James, invece, è chiaramente un punto di osservazione che ospita l’autore, un luogo da cui guardare lo spettacolo. Quell’edificio, inoltre, non è più una gabbia invalicabile: è costellato di finestre che consentono di guardare fuori, forse di uscire.

  È qui che James compie l’ultimo, significativo spostamento. Il Balzac che si sporge da quelle finestre somiglia già straordinariamente a Henry James, è un Balzac «jamesiano», un padre riletto e ricostruito a misura del figlio.

 

 

  Francesca Molfino, Alessandra Mottola Molfino, Il possesso della bellezza. Dialogo sui collezionisti d’arte, Torino, U. Allemandi, 1997.

 

 

  Sonia Montemaggi, Balzac: paternità a confronto. Da “Falthurne” a “Illusions perdues”. Tesi di Laurea. Relatore: prof.ssa Alessandra Pecchioli Temperani, Firenze, Università degli Studi, Facoltà di Scienze della formazione, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere, 1997.

 

 

  Franco Moretti, Verso un atlante storico della letteratura. L’Ottocento, in AA.VV., Raccontare e descrivere. Lo spazio nel romanzo dell’Ottocento, a cura di Francesco Fiorentino, Roma, Bulzoni editore, 1997 («I libri dell’Associazione Sigismondo Malatesta. Studi di letteratura comparata e teatro», 9), pp. 67-93.

 

  pp. 77-79. Parigi, innanzitutto. La Parigi del ciclo di Vautrin, e in special modo del secondo romanzo della trilogia, Illusioni perdute. Nella carta n. 9 [Splendori e miserie delle cortigiane] ho indicato i gruppi sociali fondamentali del romanzo: cosa facile, perché la Parigi di Balzac è fatta di spazi assai ben delimitati (è cioè più ordinata della Parigi reale). C’è lo spazio dell’aristocrazia, innanzitutto (la Chaussée d’Antin, il Faubourg Saint-Honoré, il Faubourg Saint-Germain): lo spazio iniziale del romanzo, dove Lucien arriva, e da cui viene rapidamente espulso. Di qui, il racconto si sposta ad un secondo spazio chiaramente demarcato: il Quartiere Latino, il mondo del Cenacolo, dei giovani intellettuali. Più tardi, c’è il mondo dell’editoria, nei pressi dell’Ile de la Cité e del Palais Royal. Poi ancora il teatro, spostato all’infuori, a nord-est, attorno ai Boulevards. E infine, lo spazio del giornalismo: il più fluido di tutti, sparso un po’ ovunque: come è del resto giusto che sia, perché il giornalismo rappresenta nelle Illusioni perdute l’idea della mobilità – mobilità mentale, spaziale, sociale. Alla sua insegna, anzi, Lucien tenta di condurre a termine il suo movimento circolare attraverso Parigi, e di penetrare una seconda volta nel mondo dell’aristocrazia: ma fallisce, e la sua traiettoria si interrompe al Frascati, la casa da gioco che si ergeva – emblematicamente – al confine tra i due mondi. [...].

  Nelle Illusioni perdute, uno dei momenti di massima mescolanza è raggiunto alla festa di Lucien, dove sono presenti ben quattro dei cinque gruppi sociali del romanzo: giornalismo, commercio, teatro, e cenacolo. Manca l’editoria (per ragioni che non comprendo, i librai di Balzac non si mescolano a nessun altro gruppo); e manca pure – assenza ben più grave – l’aristocrazia. La quale compare viceversa in certi luoghi pubblici (il Panorama-Dramatique, l’Ambigu) dove essa invia dei suoi rappresentanti un po’ di secondo piano (il diplomatico tedesco, il duca di Rhéthoré); ma da questi spazi in cui «entra» l’aristocrazia, «esce» viceversa il cenacolo. Ogni luogo d’incontro è anche, e contemporaneamente, un luogo di esclusione: aperto ad alcuni – e chiuso ad altri. È una verità che diventa chiarissima verso la fine del romanzo, nelle cene al Faubourg Saint-Germain: l’aristocrazia vi compare al completo, ma a parte due o tre giornalisti molto particolari, tutti gli altri gruppi ne sono rigorosamente esclusi.

  Ogni spazio include dunque alcuni gruppi, e ne esclude altri: meglio, include alcuni gruppi perché ne esclude altri, e il pathos del racconto balzachiano risiede appunto in queste linee che si spostano di continuo: nelle spinte e controspinte a varcare confini invisibili, o ricacciare indietro l’intruso. La dimostrazione migliore ci viene da Splendori e miserie delle cortigiane, che è la continuazione (o meglio: la semplificazione) delle Illusioni perdute. [...]. Questa Parigi ha preso la forma di un campo di battaglia – di una trincea. Si può facilmente tracciare una linea che la taglia a metà: una sorta di «meridiano del Louvre», lungo il quale Jacques Collin, il Napoleone del crimine, dispone le sue forze, cercando di aggirarla da Nord e da Sud. Ma invano. L’intreccio del romanzo è in qualche modo tutto racchiuso in due chiese della riva sinistra: St. Thomas (dove Jacques Collin vorrebbe celebrare il matrimonio tra Lucien e M.lle Grandlieu), e St. Germain-des-Prés (dove si svolge viceversa il funerale di Lucien). Ci saranno trecento metri, tra queste due chiese; bene, Splendori e miserie è la tragedia di quei trecento metri. [...].

 

 

  Franco Moretti, Atlante del romanzo europeo. 1800-1900, Torino, Giulio Einaudi editore, 1997 («Saggi», 814), pp. 208.

 

  pp. 110-117. Ma Balzac è diverso. Anziché proteggersi dalle complicazioni di Parigi, egli individua nelle molteplici forze della vita urbana una grande chance per il romanzo moderno: per il romanzo della complessità, ho detto più sopra. Ma che significa, questa espressione?

  Cominciamo dal «come», dal lato morfologico della questione. Prima novità della Parigi balzachiana – che balza agli occhi, se si pensa a Sue, o a Hugo – è la varietà sociale dei suoi intrecci: vecchia aristocrazia, nuova ricchezza finanziaria, commercio piccolo borghese, demi-monde, professionisti, servitori, impiegati, intellettuali, delinquenti... Questi gruppi sociali, seconda novità, interagiscono di continuo, in ogni direzione, e in combinazioni sempre diverse. E, in buona sostanza, questo è tutto. Attori indipendenti, e interazioni composite: ecco la matrice (assai semplice) da cui viene fuori la narrazione (complessa) della Comédie humaine: la città-roulette della figura 33 [Illusioni perdute], dove le azioni più minute possono facilmente ingigantirsi (in una sorta di «effetto farfalla») in risultati di enorme rilievo. Nel Cugino Pons, una portiera del Marais vuole scroccare qualche centinaio di franchi a un inquilino morente – e ne fa guadagnare alcune centinaia di migliaia a un usuraio della rue Royale, e alcuni milioni a un Conte della Chaussée d’Antin. In Papà Goriot, basta che Rastignac faccia il nome di Madame de Beauséant (che vuol dire: faubourg Saint-Germain), e gli si spalancano le porte del gran mondo; poi fa il nome di Goriot (che vuol dire: «il quartiere più triste di Parigi»), e quelle porte si chiudono. Un attimo, una frase distratta, e ti cambia la vita.

  Molti soggetti che interagiscono in più direzioni; e si apre un’epoca nuova nella storia del romanzo. E di solito, con le epoche nuove, si insiste appunto sulla novità: su quanto fosse arduo il cambiamento, e degna di nota la sua realizzazione. Ma qui, la questione vera sembra proprio essere un’altra. Se gli ingredienti di base della Comédie sono così pochi, e così semplici, perché non ci aveva mai pensato nessuno? Cosa c’era di tanto difficile, in questa novità tanto semplice? [...].

  Storie prodotte da una pluralità di agenti, dicevo. Meglio: da tre agenti diversi. È così che Balzac esce dal binarismo: costruendo una struttura altrettanto essenziale di quella binaria – però diversa. Triangolare. Intrecci, cioè, che accanto all’eroe, e al suo antagonista, collocano un terzo polo narrativo – e diventano anzi, in larga misura, proprio le sue storie. Storie del Terzo: di un terzo ormai autonomo, indipendente.

  Ma chi è questo Terzo, e quali storie rende possibili? Leggendo Balzac (e poi Dickens), la risposta è sempre la stessa: il Terzo è la figura della sovradeterminazione sociale: una realtà che si frappone tra i due campi iniziali, e la cui forza costringe sia l’uno che l’altro a modificare il proprio comportamento (e in genere, a scendere a patti). Il contenuto specifico di questa terza forza cambia a seconda dei casi, naturalmente: può essere l’aristocratica Madame de Beauséant, che devia il desiderio di Rastignac da Anastasie a Delphine – oppure il grande criminale Vautrin, che quasi lo devia di nuovo, su Victorine. Nelle Illusioni perdute, è il mondo cinico del giornalismo, sospeso tra i due grandi campi balzachiani del Quartiere Latino e del faubourg Saint-Germain. In via più astratta, il Terzo può essere Parigi stessa («si preparava nella signora de Bargeton e in Lucien un disincantamento reciproco, la cui causa era Parigi»: Illusioni perdute); o il denaro (che sempre si interpone tra i giovani della Comédie e i loro desideri). Ma se il contenuto del Terzo cambia, la sua forza narrativa rimane invece costante, e così anche la sua funzione: Georg Simmel, in un capitolo della Sociologia, la descrive come «transizione, conciliazione, il venir meno dei contrasti incomponibili». [...].

  Il Terzo come mediazione, insomma: e poi, la mediazione come la vera protagonista del romanzo balzachiano. È un terremoto narrativo che avviene in tre fasi distinte, ma cronologicamente vicinissime: nella Pelle di zigrino, del 1831, il Terzo autonomo ancora non esiste, e al suo posto incontriamo anzi (per l’ultima volta) l’oggetto incantato della fiaba di magia; nel 1834, in Papà Goriot, il Terzo fa già la sua prima comparsa, in alcuni grandi personaggi isolati (e sconfitti: Madame de Beauséant, Vautrin, lo stesso Goriot); nel 1839, nella parte parigina delle Illusioni perdute, assume la forma diffusa, e pressoché incontrastabile, di interi gruppi sociali (l’editoria, il teatro, il giornalismo). E giunti a questo punto, la gerarchia narrativa si squilibra, e poi si rovescia: gli estremi melodrammatici vengono relegati sullo sfondo, mentre il primo piano viene occupato da quel che si trova «nel mezzo», e vuole mettere a frutto tale sua posizione di arbitro. Alla chiarezza del racconto a due campi — ancora avvertibile in Papà Goriot, nell’antitesi secca tra la pensione Vauquer e i palazzi della Chaussée d’Antin – subentra la vischiosità della mediazione universale (e anche, a dire il vero, un certo senso di universale sporcizia.

  Ho parlato molto di teoria narrativa, in questo paragrafo. Ma ora aggiungo che la struttura «triangolare» della Comédie – per astratta, e quasi geometrica che possa sembrare – è in realtà un prodotto della società e della storia: più esattamente, è un’invenzione compositiva resa possibile appunto dalla grande città, dove la natura indiretta dei rapporti sociali diventa una realtà inconfondibile. È ben per questo che Balzac ha finito col «complicare» quella matrice binaria che durava da sempre: perché voleva raccontare la storia di quello sterminato mercato che è la città, dove A vende a B per comprare da C, e così via nel valzer infinito delle «tre dramatis personae» (Marx) che fanno circolare le merci nel primo volume del Capitale. E come in ogni mercato, gli eroi del romanzo urbano possono certo fare fortuna, ma non ottengono mai quel che davvero volevano: perché nel gran gioco delle triangolazioni l’idea di scopo si indebolisce, e infine si perde. «Il fine raggiunto smentisce i principi da cui eravate partiti», dirà Jacques Collin a un suo discepolo: tra i due, si è incuneato il compromesso di Simmel e Freund: il segno del Terzo, e dopo Balzac della vita urbana medesima. Averlo saputo rappresentare – e anzi: aver trasformato il compromesso in un che di affascinante, grazie a una struttura narrativa di una ricchezza senza precedenti – è la grandezza, e la miseria, della Comédie.

 

  6. Campi del potere.

 

  [...]. Nelle Illusioni perdute, come si vede, il momento più affollato è la festa di Lucien e Coralie, dove compaiono ben quattro dei sei gruppi sociali del romanzo: il giornalismo (sulla sinistra), il teatro (al centro), il commercio (a destra), e i giovani intellettuali del cenacolo (in basso). Non c’è nessun esponente dell’editoria (Dauriat, Barbet, ecc.); e nessuno – assenza ben più rilevante – dal mondo aristocratico del faubourg Saint-Germain. L’aristocrazia fa la sua comparsa altrove, al Panorama-Dramatique, o all’Ambigu, nelle persone del Duca di Rhetoré e del diplomatico tedesco; ma là dove essa compare, il cenacolo subito sparisce. Ogni luogo d’incontro è insomma simultaneamente un luogo di esclusione: aperto ad alcuni, e chiuso ad altri. È una verità che diventa chiarissima verso la fine del romanzo, nelle cene del faubourg Saint-Germain: dove l’aristocrazia è presente in massa, ma tranne due o tre giornalisti, ogni altro gruppo è rigorosamente tenuto fuori.

  Ogni spazio include dei gruppi, e ne esclude degli altri; anzi, include dei gruppi perché ne esclude degli altri, e il pathos balzachiano si addensa appunto lungo questi confini tra una classe e l’altra; nelle spinte a varcare le barriere invisibili, o respingere l’intruso ambizioso. Lo rivela con brutale franchezza Splendori e miserie delle cortigiane, dove i cinque o sei spazi delle Illusioni perdute si riducono a due, e trasformano Parigi in un vero e proprio campo di battaglia (fig. 52) [L’ultima battaglia di Vautrin]). Qui, si potrebbe facilmente tracciare una linea che taglia in due la città: una Regent Street, un Meridiano delle Tuileries, lungo il quale Jacques Collin schiera via via le sue truppe, cercando di aprire a Lucien «le porte del faubourg Saint-Germain». Ma invano. E la sua sconfitta è come racchiusa in un dettaglio della parte inferiore della carta: la chiesa di Saint-Thomas-d’Aquin, in pieno faubourg Saint-Germain, dove Lucien dovrebbe sposare Clotilde de Grandlieu: un matrimonio che non avrà mai luogo. E poi, la chiesa di Saint-Germain-des-Prés, verso il Quartiere Latino, dove si svolge il funerale di Lucien, dopo il suo suicidio in prigione. Mille metri, neanche, tra queste due chiese; e Splendori, è la tragedia di quei mille metri.

  Parigi come campo di battaglia ... Splendori è la continuazione di Illusioni perdute, come è noto; ma in un senso più vero, ne è piuttosto la semplificazione, che riporta il racconto balzachiano dal nuovo modello policentrico al vecchio schema binario: campo, e anti-campo; West End parigino, e Città del Crimine. È un ritorno, un regresso che ci dice quanto fosse difficile operare con un sistema narrativo complesso. Difficile, per le molte variabili che bisogna seguire, e l’energia che l’impresa richiede; e perché l’idea è ancora così nuova (e così strana) che persino al suo artefice può sfuggirne la logica di fondo. E così, non c’è da meravigliarsi se Balzac ha voglia di semplificare, e di tornare a quel paradigma binario che Illusioni perdute aveva memorabilmente superato. Le grandi trasformazioni formali avvengono quasi sempre così, un po’ alla cieca, con scrittori che, come dire, le realizzano, ma non le riconoscono. E infatti, fu così anche per altro grande romanziere della città ottocentesca [Dickens]. [...].



  Tecla Mugnai, Balzac: sulle tracce di “Louis Lambert”. Tesi di Laurea. Relatore: prof.ssa Alessandra Pecchioli Temperani, Firenze, Università degli Studi, Facoltà di Magistero, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere, 1997.


 

  Patrizia Oppici, Balzac e Sue: tematica filantropica e problemi intertestuali, «Francofonia», Bologna, Anno XVII, 32, Primavera 1997, pp. 99-112.

 

  Nell’ambito degli studi inerenti ai legami tra l’opera di Balzac e quella di Sue, questo saggio di Patrizia Oppici esamina, alla luce degli apporti forniti dalla critica recente, le modalità e i significati dell’intrecciarsi di motivi e di tentativi dei due autori nella creazione di quel «romanzo della filantropia in azione» (p. 99), rappresentato, da un lato, dalla produzione narrativa di Sue che, dai romanzi marinari giunge fino ai due più famosi romanzi d'appendice: Les Mystères de Paris e Le Juif Errant; dall’altro, dal ciclo filantropico dei romanzi balzachiani che, dalla produzione giovanile (come, ad esempio, Argow le pirate), culmina nell’Envers de l’histoire contemporaine. Il problema risulta essere abbastanza complesso, in quanto la circolazione della tematica filantropica nei due scrittori non si rivela per nulla lineare, ma comprende «la possibilità di scambi a doppio o a triplo senso» (p. 104): in particolare, nel contesto ideologico dei Mystères, «beneficenza espiatoria e bienfaisance amusante manifestano una completa incoerenza, che rende evidente come le due concezioni maldestramente associate nel Feuilleton provengano da due contesti differenti: la bienfaisance amusante dalle gioie della beneficenza di origine illuministica [...]; quella espiatoria (...) può verosimilmente pervenire a Sue attraverso la mediazione balzachiana" (p. 110).

 

 

  Francesca Pacini, Salotti sbagliati, «Storie», Anno VI, N. 26, maggio/giugno 1997, pp. 39-45.

 

  Sul soggiorno milanese di Balzac nel 1837. L’A., riferendosi opportunamente alle notizie e ai commenti che, su quella controversa esperienza, la stampa coeva produsse quasi quotidianamente, illustra i momenti salienti di questa seconda avventura italiana di Balzac costellata non solo dalle intense frequentazioni di personalità importanti nei salotti aristocratici, ma da un denso campionario di pettegolezzi sulla sua vita privata e di attacchi alla sua personalità di uomo e di romanziere che si riveleranno particolarmente aspri dopo l’infelice incontro con Alessandro Manzoni.

 

 

  Antonio Parisi, Introduzione, in Honoré de Balzac, Papà Goriot ... cit., pp. V-XXVIII.

 

  Se si considera l’ampio arco di tempo che, dal 1835, giunge fino ai nostri giorni, è possibile cogliere una costante particolarmente importante che riguarda il successo del Père Goriot in Italia: un romanzo frequentemente tradotto e presente nel mercato editoriale italiano con una significativa puntualità.

  A. Parisi illustra con precisione la vita e la poetica letteraria dell’autore, analizzando, con particolare attenzione, le modalità narrative proprie del Père Goriot: la scansione del tempo e il modello teatrale, il punto di vista, il sistema dei personaggi e lo stile.

 

 

  Pierluigi Pellini, Il ritratto perturbante. Ricerche e letture intorno a un tema fantastico. Tesi di Dottorato. Relatori: proff. Remo Ceserani, Mario Lavagetto, Paolo Tortonese, Pisa, Scuola Normale Superiore, Letterature comparate, 1997.

 

 

  Carlo Maria Pensa, Estroso faccendiere in attesa di Godeau. Teatro. Mercadet l’affarista, «Letture», Milano, n. 537, maggio 1997, pp. 96-97.

 

  Per significare quanto Honoré de Balzac fosse prudente (o dovremmo addirittura dire reazionario) alcuni suoi detrattori non hanno esitato ad ammettere che, se fosse vissuto appena un po’ più a lungo dei suoi folgoranti cinquantun anni, non avrebbe esitato a schierarsi contro il povero Alfred Dreyfus, l’ufficiale israelita accusato ingiustamente di spionaggio; mentre, per altro verso, era spericolato e fantasioso soprattutto quando si trattava di affrontare imprese nelle quali rischiò più volte di naufragare.

  La sua più bella commedia, Mercadet, le faiseur, che tra l’altro egli non ebbe nemmeno il piacere di vedere in scena, nacque, naturalmente deformata con squisita ironia, proprio da quelle sue disastrose esperienze. Tra i vari termini con cui possiamo volgere in italiano la parola faiseur, ce n’è uno oggi particolarmente d’attualità: faccendiere. Solo che, a petto di certi grandi mestatori 1997, Augusto Mercadet è soltanto un divertente ed estroso dilettante dell’intrigo economico-finanziario. Nel gioco in borsa, l’arte per l’arte: non perdendo di vista, è naturale, i problemi quotidiani.

  In fondo non diversamente, come si diceva, da quello che fu, nella sua breve, bruciante vita, Honoré de Balzac, Mercadet considererebbe seriamente la possibilità di coltivare ananassi alle porte di Parigi, di importare querce dalla Polonia e di cavare argento da non so quale miniera in Sardegna. Travolto dai debiti, assediato dai creditori, tenuto d’occhio in tutti gli ambienti finanziari di Parigi, egli riesce a destreggiar si soprattutto grazie all’assenza di Godeau, il socio che, partito ormai da otto anni per le lontane Indie, lo ha sì lasciato nei guai, ma del quale è pur sempre imminente il salvifico ritorno.

  Nell’attesa di questo Godeau che – guarda caso – sembra proprio, a pronunciarne il nome, lo stesso immaginato cent'anni dopo da Samuel Beckett in En attendant Godot, Mercadet con geniale impudenza e immaginifica scaltrezza tenta anche di dare in moglie la figlia Giulia, bruttina in verità, a un facoltosissimo giovane finanziere. Con la sola complicazione che costui, vero mascalzone, si scopre più squattrinato e indebitato del quasi suocero, del quale, comunque, potrà diventar socio in affari, mentre Giulia sarà libera di realizzare il suo sogno d’amore con un povero impiegatuccio, sempre avversato da Mercadet, che però alla fine – udite udite – si rivelerà figlio, nientemeno, di Godeau. Il quale arriva veramente: ricco tanto da sistemare tutte le pendenze.

  Il Faiseur di Balzac, come già trentott’anni prima ad opera di Carlo Terron per Tino Buazzelli, è diventato Mercadet l’affarista. Il testo originale, debordante, è stato ricreato con spirito e inventiva e freschezza da Luigi Lunari; e, con la serrata regia di Antonio Moretti, ha avuto in Ernesto Calindri un protagonista splendido. Che dire di più? È stato un gran piacere sentirlo e vederlo in scena, e applaudirlo insieme con la sempre inappuntabile, gradevolissima Liliana Feldmann, con Ugo Bologna e Miriam Mesturino, Enrico Bertorelli, Andrea Montuschi, Enrico Baroni e, last but not least, come dicono gli inglesi, l’esplosivo Luca Sandri, spericolato alter ego e genero mancato di Augusto Mercadet. Al quale, per chiudere scioccamente la felicissima rappresentazione, il regista (o non so di chi altro sia stata l’idea) ha messo in mano e all’orecchio un detestabile telefonino cellulare, mentre attorno a lui tutti quanti, in argentei costumi rivistaioli, volteggiavano danzando ... Che gusto inquinare Balzac!

 

 

  Susi Pietri, “Le Chef-d’oeuvre inconnu” e la poetica del genio in Balzac, «Studi di estetica». Genio Ingegno, III serie, 16, 1997, pp. 333-368.

 

  Questo ampio saggio illustra con intelligenza e rigore la genesi e l’evoluzione delle riflessioni sull’arte e sulle complesse dinamiche formali, conoscitive e ricettive formulate da Balzac nell’ambito delle diverse versioni che, del Chef-d’oeuvre inconnu, egli ha prodotto tra il 1831 e il 1837, per quel che riguarda, più precisamente, la teoria del genio e le relazioni tra arte e vita. È, in particolare, nel pensiero di Frenhofer, elaborato per addizioni successive, che si manifestano e si rispecchiano per intero «i passaggi critici e la complessa evoluzione del pensiero balzacchiano» (p. 336). Grazie all’esplicito ricorso al potere evocativo del mito (da Prometeo a Pigmalione e Orfeo), «la parabola del genio si inscrive tra la fondazione della sua trionfale apoteosi romantica e un progressivo movimento di sfondamento del sistema della rappresentazione che ne condivide le premesse: dalla celebrazione delle virtù autopoietiche dell’“ispirazione” agli esiti nichilistici della “seconda vista”, dal simbolismo della “forma” alla sua apertura metamorfica in tensione oppositiva con la “corrente vitale”, dalla teoria dell’“espressione” alla funzione elevata a potenza del trompe l’oeil; e dalla tentazione demiurgica alla dissoluzione di ogni stabile barriera distintiva tra vita ed arte» (p. 337). Questo sovvertimento dei confini tra realtà e rappresentazione mette in gioco «tutte le variabili plurime della poetica del racconto» (p. 367), al cui interno, conclude l’A., «l’ambiguità irreversibile del ‘genio’ balzacchiano si riafferma entro due estremi correlati e opposti, la redenzione estetica della ‘vita’ e l’afasia espressiva dell’arte» (p. 368).

 

 

  Daniela Pizzagalli, La galanteria di Balzac, in L’amica. Clara Maffei e il suo salotto nel Risorgimento italiano, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1997 («Le Scie»), pp. 20-26.


  In questo capitolo, l’A. considera la galleria delle personalità storiche, politiche e artistiche che furono ospiti illustri del suo salotto dal 1834 (anno di apertura) sino al 1838: tra questi, troviamo segnalati, nel celebre libro delle dediche, Tommaso Grossi e Massimo D’Azeglio, il pittore veneziano Francesco Mayez, Franz Liszt e, non certo ultimo per importanza. Honoré de Balzac, ospite a Milano in occasione del suo secondo soggiorno italiano, nel 1837. La squisita dolcezza che caratterizzò il legame tra lo scrittore francese e la ‘piccola Maffei’ è documentata da un certo numero di lettere, tradotte per l’occasione dall’A., nelle quali Balzac non esita a confessare le sue impressioni di viaggio raccolte durante i suoi soggiorni a Milano e a Venezia. Agli amici milanesi, il romanziere dedicò diversi romanzi della Comédie humaine: a Clara Maffei, il racconto La Fausse Maîtresse dove, nota l’A. in conclusione, «la troviamo adombrata nel personaggio della contessa Clémentine, un’esaltazione dell’amicizia» (pp. 31-32).

 

 

  Folco Portinari, Il romanzo europeo? Provate a leggerlo con le carte geografiche. Diventerà più bello, «l’Unità», Roma, 6 novembre 1997.

 

 

  Bruno Quaranta, Dimmi come finisce Il Corsaro Nero, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, 13 febbraio 1997, p. 3.

 

  Pinocchio diventa un ragazzo perbene. Pereira ha fretta.

 

  -  Ed ora a noi due!

  E come primo atto di sfida lanciato alla società, Rastignac andò a pranzo dalla signora de Nucingen.

 

 

  Giovanni Raboni, Il «Godeau» di Balzac, cent’anni prima di Beckett. Aspettando un Godot che alla fine arriva, «Corriere della Sera», Milano, 20 marzo 1997, p. 33.

 

  Cosa penseremmo se leggendo o ascoltando una commedia francese contemporanea, ci imbattessimo in un personaggio che tutti aspettano e che non arriva mai, di cui tutti parlano e della cui esistenza qualcuno comincia a dubitare, e che si chiama Godeau? Dato che in francese “Godeau” suona quasi esattamente come “Godot”, sarebbe impossibile non pensare che l’autore della commedia ha voluto rendere omaggio – a seconda dei casi, fare il verso – a uno dei più famosi testi del teatro del ’900, Aspettando Godot di Beckett ...

  E invece no: perché la commedia di cui sto parlando esiste davvero, ma è stata scritta negli anni ’40 del secolo scorso, e dovremmo piuttosto chiederci se non sia stato Beckett, per caso, a trarre ispirazione, per il nome del suo invisibile deus ex-machina, da quello coniato più di un secolo prima, da uno dei più grandi romanzieri che siano mai esistiti, Honoré de Balzac, nella migliore delle sue non irresistibili commedie, Le faiseur, più note in Italia come Mercadet l’affarista.

  Ma la filiazione è, naturalmente, del tutto indimostrabile, e se ne ho parlato è perché Luigi Lunari, autore di questa nuova traduzione — riscrittura della commedia, sulla omofonia Godeau — Godot ci ha giocato parecchio, e con risultati spesso gustosi. Efficace e garbato mi è parso, del resto, l’intero adattamento, che riduce a un paio d’ore di durata un testo la cui esecuzione integrale ne richiederebbe almeno cinque, e che conferisce (sia pure a prezzo di qualche schematicità’ didascalica) l’indispensabile scorrevolezza a un meccanismo narrativo reso alquanto farraginoso dalla prodigiosa inventività di Balzac romanziere e dalla relativa imperizia di Balzac drammaturgo.

  La commedia, tanto nella versione integrale quanto nella riduzione, vive soprattutto nel carattere grandioso del suo protagonista, un affarista geniale, le cui speculazioni finiscono però immancabilmente in altrettante catastrofi, che, per evitare l’ennesimo pericolo di fallimento, non trova di meglio che progettare il matrimonio dell’unica figlia con un milionario. Ma questi si rivela ben presto un millantatore carico a sua volta di debiti; e per cavare entrambi d’impaccio, e riconsegnare la ragazza fra le braccia dell’onesto giovane di cui è innamorata, bisogna che arrivi davvero (senza comparire in scena) il più volte evocato Godeau.

  Un carattere grandioso che richiede, per tradursi in realtà scenica, un attore di grandiose risorse: ed eccolo puntualmente, quest’attore, nella persona del davvero intramontabile Ernesto Calindri, freschissimo per memoria e brillantezza, capace di non sprecare una sola battuta pungente, un solo sottinteso comico, una sola allusione alla attualità’, e di dare vitalità’ e continuità’ ritmiche all’intero spettacolo. Insomma, se l’interesse del testo di Balzac si concentra e quasi si esaurisce in Mercadet, l’interesse di questa messa in scena [...] si concentra e quasi si esaurisce in Calindri. [...].

 

 

  Franco Rella, L’estetica del romanticismo, Milano, Feltrinelli Editore, 1997.

 

  p. 81. Il realismo di Balzac, per esempio, è un’oltranza: un approssimarsi alle cose fino al loro limite estremo, fino al loro «sfondamento», fino a sfiorare l’assoluto invisibile che sta dietro il loro opaco profilo. Ed è questo che vi scorge Baudelaire, anticipando la critica di Béguin, ma cercando anche di teorizzare questa oltranza, trasformandola in una poetica e in una estetica.

 

 

  Gianni Riotta, Un «Atlante» di Franco Moretti indaga sugli spostamenti degli eroi letterari del secolo scorso. Renzo e Lucia? Cercateli sul mappamondo, «Corriere della Sera», Milano, 26 ottobre 1997, p. 35.

 

  Sentite Moretti, che confronta la geografia dell’eroe di Balzac, Lucien de Rubempré, con le peregrinazioni del Pip di Dickens: «Quando Lucien arriva a Parigi, nelle Illusioni perdute, va subito a passeggio sui boulevard e alle Tuileries, dove scopre “lo splendore dei negozi, l’imponenza degli edifici, l’andirivieni delle carrozze, il contrasto perenne tra il lusso estremo e l’estrema miseria ... giovani dall’aria felice e leggera ... donne vestite divinamente e di divina bellezza. [...]. Parigi era diversa, la città si frapponeva tra gli eroi dei romanzi e l’oggetto del loro desiderio, quasi sempre denaro, donne e gloria. Così ho riprodotto sulle carte dell’epoca il percorso di Rastignac, di Lucien, degli altri giovani dell’800, modello di generazioni di “giovani” europei». I lettori di Papà Goriot e Illusioni perdute di Balzac, come di L’educazione sentimentale di Flaubert resteranno sbalorditi. Si chiamino Lucien, Frédéric o Rastignac, gli eroi ingenui e velleitari partono dalla Parigi povera, lontana dalle luci del benessere. Eroi di romanzi diversi debuttano, letteralmente, a pochi isolati uno dall’altro. Piano piano, la marcia del romanzo li porta oltre Senna. Quando Rastignac, l’eroe di Balzac, lancia la sfida sociale e romantica al mondo, gridando “A noi due adesso” Parigi, il suo guanto colpisce la geografia.

 

 

  Federico de Roberto, L’albero della scienza (ed. del 1911). Introduzione di Rosario Castelli, Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 1997.

 

  Cfr. 1911.

 

 

  Romolo Runcini, Terrore e orrore nell’orizzonte narrativo di Honoré de Balzac, «La Questione romantica. Rivista interdisciplinari di studi romantici». Orrore. Terrore, Napoli, Liguori Editore, n. 3-4, Primavera 1997, pp. 127-135.


  La Peau de chagrin e Sarrasine sono l’oggetto di studio di questo intervento di Romolo Runcini, nel quale l’A. sottolinea la modernità dei due testi balzachiani dal duplice punto di vista della narrazione realistica e del rilievo in essi assunto da una rinnovata elaborazione del genere fantastico. Decisamente orientato verso una rappresentazione dell’attualità socio-politica del suo tempo, l’orizzonte narrativo di Balzac pare essere connotato, in queste due opere, da una precisa volontà di collocarsi in una soglia di passaggio tra reale e irreale: nella ricerca del mistero della storia, il realismo balzachiano scopre «il fantastico negli aspetti e nelle scelte più banali della vita quotidiana» (p. 131), dove la dimensione del terrore (la progressiva consapevolezza, in Raphaël de Valentin, del tragico epilogo della sua avventura del desiderio) e dell’orrore (le atmosfere macabre e inquietanti descritte in Sarrasine) si intrecciano continuamente al fine di svelare l’«envers di ogni cosa, evento o persona», attraverso cui si manifesta in Balzac, «la più felice caratterizzazione della feconda ambiguità della sua scrittura» (p. 135).


 

  Santo Sammartino, Collezioni e collezionisti d’arte in Goldoni, Balzac e Wilde: gesto privato e dimensione pubblica. Tesi di Laurea. Relatore: Prof. Paolo Procaccioli, Viterbo, Università della Tuscia, Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali, Anno accademico 1996-1997, pp. 109.

 

 

  Enzo Siciliano, Balzac, ti sei sbagliato, «L’Espresso», Roma, 4 settembre 1997.

 

  Quasi un’ossessione. Per Mario Lavagetto, i disguidi, i lapsus, le “bugie”, l’errore in letteratura costituiscono oggetto di attenzione scrupolosa, reiterata Proust, Montaigne, Balzac vengono sottoposti ad analisi lenticolari, e certi loro scarti, segnatamente inconsapevoli, cedimenti di memoria, sovrapposizioni, incollature moltiplicanti il senso d’un luogo narrativo, diventano indizi di spericolate confessioni, tradimenti ovvi d’un segreto dell’inconscio, e perciò chiavi interpretative privilegiate.

  All’origine c’è Freud con i suoi accertamenti clinici sulle menzogne dei pazienti. Per Lavagetto il paziente è l’opera d’autore, quindi l’autore stesso controtipato in essa.

  Non un caso che Lavagetto sia stato allievo di Giacomo Debenedetti, che ci invitava sempre a compiere passi a sorpresa su uno scrittore, a cercargli la verità laddove egli anzitutto non sospettasse, e i suoi affezionati lettori con lui.

  Le grandi macchine narrative, per le intrecciate conseguenzialità che costruiscono, offrono campi vasti a simili trivellazioni: e per compierle servono occhi adeguati, sensibili al caso. La terapia, in letteratura, era ancora Debenedetti a sostenerlo con ragione, è sempre di chi si pronuncia.

  Questo a mio avviso, significa quanto sofferta sia per Lavagetto la conquista d’un accostamento razionale alla compiutezza d’un’opera letteraria; quanto, cioè, il razionalismo critico, o della critica, abbia bisogno di passare per il varco di un’autodisciplina severa fino all’ascesi, - un’ascesi laica, intendo dire.

  Ne “La macchina dell’errore”, che squaderna una ricerca fittizia compiuta da un lettore altrettanto fittizio su “La Grande Bretèche” di Balzac, è proprio il lettore a perdersi dentro un intreccio di sospetti e sviste, e l’ubriacatura del leggere si tramuta in una paradossale cacofonia di ipotesi che restano ovviamente senza risposta. Da ultimo, cioè, la razionalità potrebbe dichiararsi sconfitta, e l’errore apparire di per sé energetico.

 

 

  Rosina Spadafora, Illusions perdues di Honoré de Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: Prof. Mario Iazzolino, Università degli Studi della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia, Anno accademico 1996-1997.

 

 

  Eleonora Sparvoli, Contro il corpo. Proust e il romanzo immateriale, Milano, Franco Angeli Editore, 1997.

 

  pp. 92-93. Balzac è senza dubbio l’anti-Bergotte. Nel Contre Sainte-Beuve Proust si scandalizza all’idea che Balzac metta sullo stesso piano l’arte e la vita: contaminando, lui per primo! E in un senso duplice. Da un lato trasferendo nei suoi romanzi persone realmente esistenti o esistite; dall’altro portandosi dietro, ovunque vada, i suoi personaggi, per discuterne con gli amici, e deciderne i destini, magari in pubblico e chiedendo consigli qua e là. Non si può separare, osserva Proust, la sua corrispondenza dai suoi romanzi, perché se è vero che Balzac considerava i matrimoni di Eugénie Grandet o Mlle Grandlieu come eventi della sua vita privata, è altrettanto vero che egli si costruiva l’esistenza quasi fosse una delle sue tante opere. Chiunque legga un romanzo di Balzac dovrà per forza appassionarsi alla trama: e cioè, in qualche modo, alla vita. Non esiste, secondo Proust, una musica di Balzac: scrittore anomalo, scrittore senza stile. Cos’è infatti lo stile se non “la marque de la transformation que la pensée de l’écrivain fait subir à la réalité”? Lo stile è deformazione, pregiudizio, partito preso. In Balzac invece la realtà non è affatto deformata, ma gettata sulla pagina così com’è, con impeto, con passione. Ed è questa, secondo Proust, la forza della sua arte. La quale però non aggiunge nulla ai fenomeni, anzi vi si annida, vi si confonde. Non è più reale della vita. Proust dice chiaramente che la realtà dei romanzi di Balzac è una “réalité selon la vie”. Dunque essi sono veri com’è vera la vita. Veri d’una verità inferiore: futile, superficiale. E non al modo in cui è vera – profondamente e stabilmente – la letteratura.

  Anche il tipo di piacere ch’essi riescono a procurare assomiglia a certe gratificazioni che offre la mondanità: la quale rende bello, elegante, “à la page”, tutto ciò che accoglie. Una frase appena divertente, nella bocca di Oriane de Guermantes diventa una trovata, una battuta che farà il giro dei salotti. Così un frammento di realtà qualunque: un paese, un cognome, il taglio d’un abito alla moda, il difetto di pronuncia d’un borghese avaro, assunto al rango di frammento artistico in un romanzo di Balzac, acquista una pesantezza d’eternità.

 

 

  Carlo Testa, The Sins of Utopia: Balzac’s “Le Médecin de campagne”, «Nineteenth Century French Studies», 25, 3 & 4, Spring-Summer 1997, pp. 280-292.

 

 

  Ugo Volli, E’ un uomo di mondo il Mercadet di Calindri, «la Repubblica», Roma, 24 marzo 1997.

 

  [...]. Fa meraviglia vederlo interpretare Mercadet l’affarista descritto da Balzac, la sua continua corsa contro il tempo per trovare qualche soldo, qualche idea, qualche giorno per rimettere in piedi la sua fortuna, senza esitazione alcuna a vendere la figlia, sfruttare la moglie, ricattare gli amici, imbrogliare, mentire, sempre però mantenendo l’eleganza parigina del tratto. Oggi si tenderebbe a un’immagine grottesca di questo fallito, lo si farebbe ridicolo o bilioso o nevrotico, comunque assai sgradevole. Ernesto Calindri invece gli dà una specie di patina mondana, non lo assolve ma neppure lo condanna, lo esilia però nello spazio delle superfici, delle apparenze sociali – rispettando in ciò certamente l’idea fondamentale di Balzac per cui il caso di Mercadet era la regola e non l’eccezione. Calindri indossa giacche da camere, maneggia fioretti, scambia azioni, combina matrimoni, minaccia suicidi con la stessa eleganza un po’ ruvida di chi conosce il gioco del mondo; la medesima lucidità rende appuntito il suo sguardo e preciso il suo gesto: è un’interpretazione del personaggio, è chiaro, ma anche un’ideologia teatrale, un modo di essere attore come uomo di mondo che è bene fissarsi negli occhi prima che scompaia. [...]. Il risultato è uno spettacolo discontinuo, con alcuni motivi di divertimento e perfino di interesse, e altri momenti un po’ più stanchi. Il che del resto corrisponde al giudizio che si è sempre dato di questa commedia di Balzac: assai penetrante sul piano sociale, costruita con minuziosa, ma forse troppo pedante e arbitraria insieme, con un lieto fine decisamente improbabile, o addirittura francamente ironico. [...].

 

 

  Paola Zanati, Balzac e il cinema francese. Tesi di Laurea. Relatore: prof. Vito Zagarrio, Milano, I.U.L.M., Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere. Anno accademico 1996-1997.

 

 

  Franca Zanelli Quarantini, «Enfants de la forêt et filles sauvages», in Sfogliando foreste. La scrittura tra gli alberi (Francia, 1761-1887), Faenza, Edit Faenza, 1997, pp. 85-109.

 

  [...] nel marzo 1830, esce su «La Mode» una novella di Balzac, Adieu, che peregrinò a lungo nell’una o nell'altra sezione della Comédie Humaine: apparsa la prima volta tra le Scènes de la vie militaire, nel ʼ32 passò alle Scènes de la vie privée col titolo mutato in Le Devoir d’une femme; infine, nel ʼ34 prese posto, col titolo definitivo di Adieu, nelle Études Philosophiques, dove rimase anche nella successiva edizione Furne. Tale fluttuazione è significativa della pluralità di letture cui [...] si presta la novella [...].

  Un aspetto in genere trascurato dalla critica – che sulla scia della prima classificazione balzachiana tende a isolare dal contesto l’episodio della Beresina – è la follia di Stéphanie, rispetto alla quale Adieu presenta un debito non dichiarato con la vicenda dell’enfant dell’Aveyron, in particolare per quanto riguarda il periodo che precede l’insediamento della protagonista ai Bons-Hommes. Come Victor infatti, anche Stéphanie è stata una fille sauvage abitatrice dei boschi, braccata dai contadini del luogo e infine catturata Come lui, rifiutava gli abiti [...] e, una volta giunta ai Bons-Hommes, continuerà a dar prova d’una prodigiosa agilità [...] giungendo un giorno a compiere un gesto del tutto simile a quello che i resoconti d’Itard attribuiscono anche all’enfant […].

  Tali analogie sono, tuttavia, di superficie: se è possibile riallacciare la novella alla cronaca dei comportamenti dell’enfant, per l’articolazione complessiva e per il senso che ne proviene appare più significativo un altro dato: Adieu costituisce infatti lo specchio narrativo della consapevolezza medica riguardo alla dipendenza della follia dalla storia, una consapevolezza che andava affermandosi precisamente in epoca balzachiana [...].

  In effetti, a partire dall’episodio della Beresina, il sema della follia si direbbe percorrere interamente la novella [...]: in realtà Adieu non fa che dilatare attorno all’ ‘assenza’ della protagonista una più vasta perdita di realtà, distribuendo nel testo una catena di segni allusivi a una pressocché collettiva déraison. Di quest’ultima non è Stéphanie l’unica vittima, ma anche [...] quell’universo maschile già colpevole della follia della guerra. Al riguardo, molte sono le tracce reperibili: nel riconoscere Stéphanie, il colonnello di Sucy cade in deliquio [...]; più tardi, l’amico d’Albion lo chiamerà apprensivamente «fou»; ancora, l’allestimento, voluto da Sucy, d'una seconda Beresina appare ai più «comme une folie»; ma quest’ultima si era già impadronita del vecchio conte de Vandières, descritto, nella sequenza della rotta francese, come «tombé [...] en enfance»; e se la sua testa, recisa di netto dal ghiaccio, non manca di valori allusivi, il suicidio finale di Sucy sembra suonare come un esplicito segno di resa al «monstre inconnu» della duplice colpa che lo divora: per la guerra realmente combattuta, e per l’altra Beresina, ciecamente ricostituita nelle campagne parigine e che sarà fatale a Stéphanie.

  D’altronde, che le due parti – l’episodio della Beresina e la rappresentazione della follia – siano strettamente correlate, in un’incessante dinamica di causa ed effetto, il testo s’incarica di mostrarlo più volte, attraverso appariscenti opposizioni: si pensi al gelo e alla neve alla Beresina, strettamente correlati alla piacevole frescura degli alberi che cingono i Bons-Hommes, a dispetto della «chaleur dévorante»; all’umanità maschile, animalesca e allo stremo in terra di Russia, cui si oppone, ai Bons-Hommes, la presenza d’una donna dalle movenze di cerbiatta, tutelata da una femmina sauvage – d’infima condizione sociale e impietosamente descritta dal narratore – che si piega alle innocenti bizzarrie dell’aristocratica padrona; al bianco e nero dell’esercito in rotta sulla neve, di contro al nero della chioma e delle folte sopracciglia di Stéphanie, e all’incarnato candido di questa «dame bianche et noire». E neppure appare trascurabile, in un testo qual è questo dove le opposizioni si stagliano con forte evidenza sensoriale e cromatica, la deriva metaforica che dalla «forêt d’hommes» della Beresina, foresta d’uomini pronti ad aggredire brutalmente e a uccidere, conduce alla «forêt de cheveux» di Stéphanie, cortina scura con cui – già protetta dagli alberi – essa s’isola ancor più dal mondo. Infine, la collocazione definitiva voluta da Balzac per la novella dopo l’iniziale incertezza – in quelle stesse Etudes philosophiques ove trova posto Louis Lambert –, se da un lato sembra suonare a conferma della coscienza storico-scientifica presente in Adieu, seppur implicitamente (giacché non vi si fa menzione né di Pinel né d’Esquirol né d’Itard), dall’altro non preclude la possibilità d intendere il testo come un primo approccio dello scrittore a una religiosità segreta e a una vertigine spiritualista che troveranno più tardi compiuta espressione in Séraphîta. Su tale ambivalenza conviene un istante soffermarci.

  Per quanto riguarda la scientificità sottesa ad Adieu, un dato di rilievo, e che parrebbe negarla, è costituito dalle forme con cui il romanziere elabora la descrizione d’una malattia mentale: mai come in questa novella – è il caso di dirlo – egli si è mosso con altrettanta libertà creativa. La follia di Stéphanie segue infatti modalità del tutto autonome rispetto a quelle che presiederanno al ritratto del fou Margaritis, ne L’Illustre Gaudissart, o del piccolo ‘crétin’, in apertura del Médecin de Campagne: un portrait, quest’ultimo, svolto dall’autore in stretta osservanza ai principi fisiognomici lavateriani, senza trascurare di significarne crudamente l’effetto prodotto – «un sentiment de dégoût involontaire pour une créature qui n’avait ni les grâces de l’animal ni les privilèges de l’homme».

  Esattamente il contrario avviene in Adieu, ove la tentazione idealistica indirizza il romanziere verso una seduttiva trasfigurazione, cui non è estraneo lo status di Stéphanie e la sua appartenenza alle classi alte: un dato, questo, che agli occhi dell’autore sembra di per sé esimere la follia da manifestazioni scomposte o impoetiche. Se essa è stata una fille sauvage, quel tempo appartiene a un passato in cui il lettore ha avuto solo un fugace accesso: nel tempo della narrazione, lo zio Fanjat l’ha già sottratta ai boschi aspri, per restituirle la sua identità ‘alta’ – ovvero il nome di «comtesse de Vandières», conferendole insieme l’aura delle creature soavemente animali, che la follia spiritualizza. A sua volta, la cornice naturale tutt’attorno si piega a una tensione descrittiva che rompe ogni legame col realismo a vantaggio d’una riscrittura del reale orientata verso il più etereo artificio. [...].

  Viene da pensare che l’autore, per rendere omaggio a tanta aristocratica follia, abbia preservato Stéphanie dalla condizione di sopravvissuta (si pensi, per contrasto, al Colonel Chabert) sottraendola al ricordo della guerra e donandole in cambio un indeterminato retour en enfance, su cui il tempo non agisce perché ogni giorno si svolge come un gioco senza fine. Alla convenzione delle bienséances, Stéphanie oppone, all’inverso, la differenza d’un corpo senza peso – il solo corpo femminile, nella Comédie, che appaia sciolto da contraintes – dove le leggi gravitazionali si vanificano in favore d’un prodigioso equilibrio che la colloca fuori dall’umano e tra gli animali eletti, capaci di volare, irraggiungibili, da un ramo all’altro. Il lettore sta dunque assistendo a una personalissima e ispirata ‘liberazione degli incatenati’, di cui il romanziere, forse inconsapevolmente, restituisce il senso nei termini più fascinosi: perché in Adieu è la superiorità del folle a trionfare sulla norma; e pur provenendo dall’altrove della follia, il linguaggio corporeo di Stéphanie ammalia, come i luoghi stessi [...]. Avvolto da una foresta «ardente et silencieuse» – l’estate del 1819, puntualizza il narratore, venne a lungo ricordata per la gran calura – lo spazio oisif di Stéphanie è fatto d’alberi ospitali e freschi, dove essa trova rifugio come in altrettante tranquille dimore, e che accolgono con benevolenza anche i due cacciatori, quando vi si inoltrano col timore estatico di chi si sente di colpo trasportato nei luoghi della «Belle au Bois Dormant». L’atmosfera rarefatta della cornice boschiva è il primo indizio dell’altrettanto irreale condizione femminile. Tra habitat ed eroina, l’uno anticipa l’altra secondo una tecnica tipicamente balzachiana; giacché la natura intorno a Stéphanie si costituisce, anticipando il sema dell’aristocratica follia [...].

  Questa fisicità mutata in assenza di peso induce a vedere nella rappresentazione fisica di Stéphanie la proiezione della tensione spiritualista del suo autore, che, qui come più tardi in Séraphîta, attraverso il tema della follia si lascia attirare dal mistero swedenborghiano. Se per Balzac, infatti, il pensiero è un fluido, non stupisce che in Stéphanie il corpo – e con esso il pensiero, sottratto dalla déraison – sia segnato da una sorta di ritorno della materia all’aeriforme; così la follia diviene pura evaporazione cerebrale, che si riflette nella leggiadria delle movenze; mentre la déraison si traduce in una diversità incolpevole, per la sollecitudine del solo uomo che, nel racconto, ne è complice – lo zio Fanjat. Interessante è comprendere il ruolo assolto da questa figura di saggio, che si contenta di curare Stéphanie semplicemente accondiscendendo al suo fare: a conforto d'una lettura in chiave medico-scientifica, si dirà che in lui si mescolano curiosità, pietà e umanitarismo – le stesse qualità che resero celebre l’operato di Pinel o d’Itard; ma non è impossibile vedervi altresì la duplicazione narrativa d’un autore che, scioltosi provvisoriamente dall’ossessione del reale, penetra con questo racconto nei territori della fantasticheria più idealizzata – cui di certo collabora il carattere di locus amoenus dei Bons-Hommes, in precisa antitesi ai luoghi della Beresina.

  Alla terrificante memoria della Storia si è sostituita in Stéphanie l’assenza di memoria; e nella rielaborazione imposta agli spazi circostanti, nella familiarità della protagonista con gli alberi, l’esperienza della follia subisce una conversione poetica ove il linguaggio – autoabolendosi, in Stéphanie, a vantaggio d’una sola parola, «Adieu» -, segna la dimissione della protagonista dalla realtà come norma e dalla guerra come orrore. Il gioco della sottrazione lessicale, che conduce al mutismo la protagonista, ha preservato, per circondarla nel testo, solo uno spazio dal nome carico di senso: dopo la «forêt d’hommes», dispersi tra le acque della Beresina. soltanto una foresta diseguale e accogliente, dove scorre acqua chiara, si aprono grotte e terrazze e crescono alberi dalle forme eleganti: regno dell’alterità indifferente all’affanno umano e che pochi uomini inermi – ‘les Bons-Hommes’ – hanno trasformato, a difesa di Stéphanie. in una forêt-oeuvre d’art [...].

  La déraison si è dunque assegnata il proprio spazio disponendosi al centro d’una foresta ideale, quasi un ottocentesco Forez riscritto in chiave di pittoresco romantico: tutto è sauvage e insieme voluto, apprivoisé come conviene alla cornice d’una femminilità che ha sconfinato in una corporeità superiore, ossia asessuata. Per frantumare in un istante il confortevole allestimento vegetale che circonda Stéphanie, è sufficiente la massiccia ipotiposi allestita da Philippe, artefice d’una nuova Beresina che egli ricostruisce sul filo dei ricordi lasciati dalla guerra e in obbedienza a una truce estetica della distruzione [...].

  Ci si può chiedere cos’abbia spinto l’autore – questo ‘appassionato visionario’, come per primo osservò Baudelaire –, a declinare la storia d’una follia con tanta spiritualistica effusione: in altri termini, con tanta compiaciuta inverosimiglianza. Per provare a rispondere, occorre ricordare che dove appaiono gli alberi, in Balzac, il testo non esita a indugiare, aprendosi a trepide rêveries (è il caso de Le lys dans la vallée), ma anche a riflessioni [...] dagli esiti inattesi [...].

  Si è appena visto, del resto, come l’esorcismo della déraison si compia in Adieu per il tramite d’uno scenario vegetale fortemente idealizzato, chiamato a difendere Stéphanie dal terrore del vero: una rappresentazione irrealistica, ma in cui batte il cuore simbolico del racconto e che costituisce la prima e ultima prova descrittiva en forêt lasciataci dal massimo creatore del realismo visionario, sempre più attratto da un’altra, più demonica foresta e da un’altra, più segreta follia: quella disseminata nelle province francesi, nelle strade e negli interni parigini («Paris, voyez-vous, est comme une forêt du Nouveau Monde », dirà Vautrin), e la cui multiforme imperfezione anima tanta parte della Comédie Humaine.

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Mercadet l’affarista, di Honoré de Balzac. Traduzione italiana e adattamento di Luigi Lunari. Regia Antonio Moretti. Musiche: Sellani e Libano. Scene: Roberto Comotti. Costumi: Antonella Poletti. Interpreti: Ernesto Calindri, Liliana Feldman, Ugo Bologna, Miriam Mesturino, Enrico Bertorelli, Luca Sandri, 1997.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi universitari.

 

 

  Maria Teresa Biason, Pastiche ou parodie?, Venezia, Università Ca’ Foscari – Storia della lingua francese, Anno accademico 1997-1998.


  Dalla Bibliografia: Balzac, Pensées, sujets, fragments, Paris, 1910.

 

 

  Claude Bremond, Conferenza su Sarrasine di Balzac, Bologna, Dipartimento di Lingue e letterature straniere, Sabato 17 maggio 1997, ore 11.00.

 

 

  Alberto Castoldi, Dal “vêtement-image” al “vêtement écrit”: gli scrittori e il “Sistema della moda” tra Ottocento e Novecento, Bergamo, Università degli Studi, Facoltà di Lingue e letterature straniere – Letteratura francese moderna e contemporanea, Anno Accademico 1997-1998.


  Dalla Bibliografia: Balzac, Le Traité de la vie élégante, 1830.

 

 

  Mario Galzigna, La Passione paterna, tra psicologia e storia. Attività seminariale sul tema ‘L’uccisione del padre, nell’ordine del reale e del simbolico’ (a partire da una lettura critica di Père Goriot di Honoré de Balzac e di Totem e tabù di Sigmund Freud), Venezia, Università Ca’ Foscari – Storia del pensiero scientifico moderno e contemporaneo, Anno accademico 1997-1998.



  Tiziana Goruppi, Dalla bella morte alla vergogna di morire, Pisa, Università degli Studi, Facoltà di Lingue e letterature straniere – Storia della cultura francese, Anno accademico 1997-1998.


  Dalla Bibliografia: Balzac, Le colonel Chabert; Le lys dans la vallée.


 

  Maria Giulia Longhi, 1. Il discorso intorno al testo: la prefazione; 2. Forme e immagini dello spazio nella letteratura francese dell’Otto-Novecento, Milano, Università Statale, Facoltà di Lettere e Filosofia – Lingua e letteratura francese V, Anno accademico 1997-1998.



  Ernestina Pellegrini, Le immagini della morte nelle opere di Balzac, Flaubert, Zola, Dickens, Dostoevskij e Tolstoi, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e filosofia – Letterature comparate, Anno accademico 1997-1998.

 

 

  Franca Zanelli Quarantini, Natura e paesaggio nel romanzo francese da Rousseau a Flaubert, Bologna, Università degli Studi, Facoltà di Lingue e letterature straniere – Lingua e letteratura francese II, Anno accademico 1997-1998.


  Dalla Bibliografia: Balzac, Béatrix; Les Chouans; Adieu.



Marco Stupazzoni

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