sabato 10 ottobre 2020



1979

 

 


 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Bette. Traduzione di Emma Defacqz, Milano, Garzanti Editore, 1979 («I grandi libri», 3), pp. XVII-419.

 

  Cfr. 1973.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Traduzione di Alfredo Fabietti e Emma Defacqz, Milano, Garzanti Editore, 1979 («I grandi libri», 25), pp. XVIII-168.

 

  Cfr. 1976.

 

 

  Honoré de Balzac, Père Goriot. Traduzione di Mara Fabietti e Emma Defacqz, Milano, Garzanti, 1979 («I grandi libri Garzanti», 90), pp. XIX-261.

 

  Cfr. 1974.

 

 

  Honoré de Balzac, La ricerca dell’assoluto. Traduzione di Andrea Zanzotto, Milano, Garzanti, 1979 («I grandi libri Garzanti», 128), pp. XXII-183.

 

  Cfr. 1975.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Traduzione di Anna Premoli e Francesco Niederberger, Milano, Garzanti, 1979 («I grandi libri Garzanti», 57), pp. XIX-549.

 

  Cfr. 1968; 1974.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac, chi era costui?, «Stampa Sera», Torino, Anno 111, N. 305, 17 Novembre 1979, p. 37.

 

  Ringrazio per la benevolenza usatami dal Suo giornale, che giovedì scorso ha voluto dedicare un breve commento all’inesattezza compiuta da una rivista che mi aveva immeritatamente attribuito la paternità di «Madame Bovary» e alla mia conseguente lettera di rettifica. Non posso tuttavia fare a meno di rivolgere, una seconda simbolica tiratina d’orecchi al Suo redattore che mi presenta ai lettori come «romanziere francese vissuto nella seconda metà dell’Ottocento». Ora. nulla mi sarebbe più gradito che confermare che il redattore dice il vero. Io stesso, nella mia giovinezza, ebbi a lungo la convinzione di poter arrivare a vedere questa famigerata «seconda metà dell’Ottocento», un poco come voi ora ambite a veder l’alba dell’anno Duemila. Ma, non per mia volontà, proprio quand’ero ormai in prossimità del traguardo, l’implacabile falce della morte recise il sottile filo della vita, come — se mi è permesso segnalare — molti prontuari di storia della letteratura hanno la bontà di ricordare. Le sarò quindi grato se vorrà provvedere a correggere l’imprecisione. Mi premurerò inoltre, non appena possibile, di inviarLe una mia breve bio-bibliografia, che potrete utilmente consultare qualora, in futuro, abbiate nuovamente la gentilezza di citarmi sul giornale. Con molto rispettosi ossequi. Honoré de Balzac, Parigi.

 

 

  Da Parigi «Gatta inglese» di Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 18 novembre 1979, p. 19.

 

 

  M. A., Lettera di Balzac, «Stampa Sera», Torino, Anno 111, Numero 297, 8 Novembre 1979, p. 5.

 

  L’ironia è arte difficile, ammoniva Petrolini. La si può trovare anche in una rubrica di lettere dei lettori come quella pubblicata sull’ultimo numero di un settimanale. Una delle lettere porta nientemeno la firma di Honoré De Balzac, romanziere francese vissuto nella seconda metà (sic) dell’Ottocento: «A proposito di un vostro articolo, sono molto lieto che il giornalista si sia occupato di me e di altri miei amici: essere ricordati è un gran conforto. Tra l’altro però scrive anche di una Madame Bovary che dovrebbe essere uscita dalla mia penna. E’ vero: romanzi ne ho scritti tanti e non mi ricordo nemmeno più tutti i titoli a memoria, ma una cosa è certa: la Bovary è una creatura di Gustave Flaubert, che certamente il giornalista conoscerà così come conosce il critico moraviano Sandro Gennari. Tanto gli dovevo, così come dovevo la rettifica al mio amico Gustavo con il quale passo lunghi pomeriggi d’ozio oltretombale a leggere la sua bella rivista». Insomma, un lettore spiritoso che di fronte a un errore di informazione di un giornalista si sente in dovere di rettificare, scrivendo e firmandosi Honoré De Balzac. C’è chi pensa che l’idea non sia stata tutta sua. Sembra infatti che la lettera sia stata sollecitata al sedicente Balzac da una telefonata: «Pronto? E’ Balzac? Sono il dottor Flaubert. Guardi che in un articolo pubblicato sull’ultimo numero del tal settimanale che forse le è sfuggito, le hanno attribuito un mio romanzo. Le spiace rettificare?». Così Balzac avrebbe preso carta e penna e si è messo a scrivere la lettera.



  Alberto Abruzzese, Hoffmann, Balzac, Wilde e Dorian Gray, in La Grande Scimmia. Mostri, vampiri, automi mutanti: l’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione, Roma, Casa editrice Roberto Napoleone, 1979, pp. 43-53.

 

 

  Theodor W. Adorno, Lettura di Balzac, in Note per la letteratura. 1943-1961. Traduzione di Enrico De Angelis, Torino, Giulio Einaudi editore, 1979 («Paperbacks», 102), pp. 133-150.

 

  Quando il contadino viene in città tutto gli dice: chiuso. Le porte possenti, le finestre con gli stoini, gli innumerevoli uomini che egli non conosce e ai quali non può parlare pena il ridicolo, perfino i negozi con merci inacquistabili lo respingono. Una cruda novella di Maupassant vive della figuraccia del sottufficiale che in un ambiente estraneo scambia per un bordello una rispettabile cerchia familiare: al bordello, al misterioso e attraentemente proibito, somiglia negli occhi dell’arrivato tutto ciò che gli è sbarrato. La distinzione sociologica che fa Cooley tra gruppi primari e secondari basandosi sull’esistenza o inesistenza di rapporti da faccia a faccia, la sente dolorosamente sul proprio corpo chi viene sbattuto bruscamente dall’uno all’altro gruppo. Balzac fu in letteratura di certo il primo di tali paysans de Paris e mantenne il suo habitus anche quando seppe perfettamente come stavano le cose. Ma contemporaneamente si incarnavano in lui le forze produttive della borghesia sulla soglia del capitalismo maturo. Ingegno pieno di trovate, egli reagisce alla situazione di chiusura: bene, allora io mi metterò a pensare a quello che succede dietro le quinte e il mondo avrà qualcosa da stare a sentire. Il rancore del provinciale che con indignata ignoranza si inebria di ciò che, in base all’idea che egli se ne è fatta, questa gente combina perfino in quelle primissime cerchie in cui meno ci se lo aspetterebbe, diventa il motore di una fantasia esatta. A volte gli viene fuori un romanticismo da quattro soldi, al cui andazzo commerciale Balzac ai suoi inizi tenne compagnia; a volte la beffa infantile di frasi del tipo: ogni volta che di venerdì verso le undici antimeridiane si passa davanti alla casa di Rue Miromesnil 37 e le persiane verdi del primo piano non sono ancora aperte, si può essere sicuri nella notte precedente ha avuto luogo un’orgia. Ma a volte le fantasie compensatorie di costui che è estraneo al mondo colgono il mondo in maniera più esatta di quella del realista che è stato in lui celebrato. L’estraniazione che lo ha spinto a scrivere come se ogni frase della penna zelante costruisse un ponte verso l’ignoto, è essa stessa l’essenza misteriosa che egli vorrebbe indovinare. Ciò che separa gli uomini gli uni dagli altri e li allontana dal poeta mantiene anche in azione il movimento della società, il cui ritmo i romanzi di Balzac imitano. Il destino di Lucien de Rubempré, avventurosamente escogitato e inverosimile, viene messo in movimento dai mutamenti tecnici, descritti da intenditore, sia del procedimento di stampa sia della carta, che hanno reso possibile la letteratura come produzione di massa; il cugino Pons, il collezionista, è fuori moda anche perché come compositore è rimasto indietro ai progressi per così dire industriali della tecnica di strumentazione. Tali intuizioni di Balzac compensano tanto la ricerca poiché discendono da un concetto della cosa e di nuovo lo ricostruiscono, mentre l’accecata ricerca letteraria si sforza di cancellarlo. Alla sua intuizione intellettuale è diventato manifesto che nel capitalismo maturo gli uomini, come più tardi dirà Marx, sono maschere di carattere. La reificazione irraggia con freschezza mattutina, con i colori brillanti dell’origine, destando più terrore della critica dell’economia politica al meriggio. L’agente di un istituto di pompe funebri intorno al 1845, che sembra il genio della morte, nessuna satira dell’americanismo nei duecento anni successivi, nemmeno quella di Evelyn Waugh, lo ha superato. La disillusione, che diede luogo a uno dei suoi più grandi romanzi e a un genere letterario, è l’esperienza secondo la quale gli uomini sono scissi dalla loro funzione sociale. Il carattere totalitario della società, che in un primo tempo è stato pensato teoricamente dall’economia classica e dalla filosofia hegeliana, egli lo ha citato in maniera determinante facendolo calare dal cielo delle idee giù nell’evidenza sensibile. Quella totalità non rimane per nulla semplicemente estensiva, semplicemente fisiologia di tutta quanta la vita nelle sue diverse branche, che vorrebbe costituire il programma della Comédie humaine. Essa diventa intensiva in quanto nesso funzionale. In essa infuria la dinamica: la società si riproduce solo come totale, passando attraverso il sistema, mentre c’è bisogno anche dell’ultimo uomo come cliente. Certo, ciò appare in una prospettiva raccorciata, fin troppo immediata, come sempre quando l’arte osa evocare a livello intuitivo la società divenuta astratta. Ma gli scempi individuali con cui gli uomini reciprocamente, visivamente si strappano di mano il plusvalore invisibilmente di già appropriato, fanno venire in primo piano in maniera così plastica la mostruosità come potrebbe riuscire unicamente passando attraverso le mediazioni del concetto. La Présidente, per sue manovre intorno all’eredità, ha bisogno del leguleio e della portiera: l’uguaglianza è sviluppata nella misura in cui la falsa totalità usa a proprio profitto di tutte quante le classi. Perfino l’elemento da romanzo d’appendice, su cui il gusto letterario e la conoscenza del mondo arricciano il naso, ha la sua verità: solo al margine si svela ciò che avviene tra le pieghe della società, nel sottobosco della sua sfera di produzione, da cui in una fase più tarda montarono gli orrori totalitari. L’ora di Balzac era favorevole a una tale verità eccentrica, la verità dell’accumulazione primitiva, di un medievale furore di conquistatori in mezzo alla rivoluzione industriale francese del primo Ottocento. L’appropriazione di lavoro altrui non si è di certo mai realizzata puramente in base alle leggi di mercato. L’ingiustizia che è insita in quelle stesse leggi aumenta con quella di ogni singola azione: un plusprofitto di colpa. Gli esperti possono accusare Balzac di utilizzare la cattiva psicologia dei film. Ma in lui c’è abbastanza psicologia buona. La sua portiera non è semplicemente un mostro bensì era ciò che i suoi concittadini chiamavano una persona commovente, prima di venir presa dal suo social disease, dalla bramosia. Balzac sa altrettanto bene in che modo i conoscitori – la cosa — passano sopra al semplice motivo del profitto e come la forza di produzione vada al di là dei rapporti di produzione; sa anche in che maniera l’individuazione borghese, rigoglio di tratti idiosincratici, contemporaneamente distrugga gli individui, divoratori inveterati oppure avari; egli intuisce che il mistero dell’amicizia è l’elemento materno; il suo istinto capisce che per il nobile la minima debolezza diventa fatale: per esempio Pons entra nell’ingranaggio della decadenza a causa della sua golosità. Madame de Nucingen di fronte a terze persone parla di una aristocratica chiamandola per nome per destare l’impressione di avere rapporti con costei: è una cosa che potrebbe stare in Proust. Ma quando Balzac dà realmente ai suoi personaggi tratti da marionetta, questi si legittimano al di là della sfera psicologica. Nel tableau économique di una società gli uomini agiscono come le marionette nel modello meccanico del tableau stesso al castello di Hellbrunn. Non a caso molte delle caricature di Daumier somigliano a Pulcinella. Nello spirito di Daumier le storie di Balzac dimostrano l’impossibilità sociale della buona riuscita e dell’integrità. Esse sogghignano: chi non è un delinquente deve colare a picco; a volte lo urlano. Perciò la luce dell’umano cade su ciò che è ignominioso, sulla puttana, capace di grande passione e di autosacrificio, sul galeotto e assassino, che agisce da altruista disinteressato. Poiché per il sospetto fisiologico di Balzac i cittadini borghesi sono criminali; poiché ciascuno che ciondola ignoto e impenetrabile per la strada appare come se avesse commesso il peccato originale di tutta quanta la società – per questo i delinquenti e gli esclusi sono per lui uomini. Ciò forse spiega il fatto che egli scoprì per la letteratura l’omosessualità cui è dedicata la novella Sarrasine e su cui si basa la concezione di Vautrin. Di fronte all’irresistibile imporsi del principio di scambio egli forse sognò che quest’amore disprezzato, a priori disperato, desse dell’amore stesso una specie di immagine non mutilata: egli lo attribuisce al falso canonico, che come capo di banditi ha abbandonato lo scambio fra equivalenti.

  Balzac nutriva un particolare amore per i tedeschi, per Jean Paul, per Beethoven; gli venne ricompensato da Richard Wagner e da Schönberg. Nonostante la tendenza visuale la sua opera ha in complesso un che di musicale. Se molta produzione sinfonica dell’Ottocento e degli inizi del Novecento nella sua inclinazione per le grandi situazioni, nell’appassionato crescere e precipitare, nella indomabile pienezza di vita, fa pensare ai romanzi, quelli di Balzac, archetipi del genere, sono musicali nel loro impetuoso correre, nel loro produrre figure e di nuovo nel loro ripiegare su se stessi, nel porre e trasformare caratteri che pare che si incalzino sul filo del sogno. La musica romanzesca, accecata rispetto ai contorni dell’oggettualità, sembra ripetere per così dire al buio, nella testa, il movimento di tale oggettualità; ma la testa gira a colui che, attendendo spasmodicamente il seguito, sfoglia frettolosamente le pagine di Balzac, come se tutte le sue descrizioni e azioni fossero pretesto per un suono selvaggio e variopinto che lo inonda. Essi si rendono conto di quel che il pentagramma dei flauti, dei clarinetti, dei corni e dei timpani promettevano al bambino prima che questi potesse propriamente leggere la partitura. Se la musica è la ripetizione del mondo disoggettualizzato nello spazio interiore, allora lo spazio interiore dei romanzi di Balzac, proiettato all’esterno come mondo, è la retrotraduzione della musica nel caleidoscopio. Dalla descrizione che Balzac dà del musicista Schmucke si può anche ricavare dove andava a parare la sua germanofilia. Essa è della medesima natura dell’influenza del romanticismo tedesco in Francia, del Franco cacciatore e da Schumann fino all’antirazionalismo del XX secolo. Tuttavia di fronte al terrore latino della clarté l’oscurità tedesca nel labirinto delle frasi di Balzac non incarna soltanto tanta utopia quanta viceversa i tedeschi ne hanno rimossa dall’illuminismo. Oltre a ciò Balzac ha probabilmente alluso alla costellazione di ctonio e umanità. Infatti umanità è il ricordarsi della natura nell’uomo. Egli la segue lì dove l’immediatezza si rannicchia per nascondersi al nesso funzionale della società e fallisce. Ma altrettanto arcaica è anche la forza poetica che l’amaro scherzo della modernità sprigiona in lui. L’uomo totale, per così dire il soggetto trascendentale, che dietro la prosa di Balzac si atteggia a creatore, a colui per il quale la società si è stregata divenendo seconda natura, è elettivamente affine all’io della grande filosofia tedesca e della musica che a questa corrisponde, l’io che ricavandolo da se stesso pone tutto ciò che è. Mentre per tale soggettività l’umano diventa loquace grazie alla forza dell’identificazione originaria con quell’altro che essa sa di essere, contemporaneamente è anche sempre inumana nell’atto di violenza che bistratta l’altro e lo rende suddito della sua volontà. Balzac incalza tanto più da presso il mondo quanto più se ne allontana, creandolo. L’aneddoto secondo il quale nei giorni della rivoluzione di marzo volse le spalle alle vicende politiche e andò al suo scrittoio dicendo «Torniamo alla realtà», lo descrive con fedeltà, anche se è inventato. Il suo gesto è quello dell’ultimo Beethoven, che in camicia, brontolando di rabbia, scrisse sulla parete della sua stanza a caratteri cubitali le note del quartetto in do diesis minore. Come nella paranoia la rabbia e l’amore si intrecciano. Non diversamente gli spiriti elementari fanno le loro burle agli uomini e aiutano i poveri.

  A Freud non è sfuggito che il paranoico ha un sistema come lo hanno i filosofi. Tutto è connesso, dovunque o sono rapporti, tutto serve a uno scopo segreto e sinistro. Ma ciò che va maturando nella società reale, di cui Balzac a volte parla come quelle contesse che dicono bien bien perché parlano un francese in maniera fluente, non ne è affatto distinguibile. E si forma un sistema di dipendenze e comunicazioni universali. I consumatori servono la produzione: se non possono pagare le merci, il capitale entra in una crisi che li annienta. La natura del credito incatena il destino dell’uno a quello dell’altro, che lo si sappia o no. Riproducendoli, l’intero minaccia di crollo coloro di cui si compone, e, finché la sua superficie non è ancora del tutto fittamente compatta, permette di guardare nel potenziale del crollo. Nei luoghi più inattesi della Comédie humaine riaffiorano come viaggiatori di gallerie personaggi ben noti, i Gobseck, i Rastignac, i Vautrin, in costellazioni che possono essere escogitate soltanto da un maniaco di rapporti e possono essere ordinati soltanto dal Dictionnaire biographique des personnages fictifs de la «Comédie humaine». Ma le idee fisse, che suppongono dovunque all’opera le medesime forze, provocano dei corti circuiti nei quali per un attimo brilla il processo complessivo. Perciò la lontananza del soggetto dalla realtà si capovolge, con l’ossessione che ha della realtà, in eccentrica vicinanza.

  Balzac, che simpatizzava per la restaurazione, percepisce nel primo industrialismo dei sintomi che si è soliti ascrivere soltanto alla fase della degenerazione. Nelle Illusions perdues anticipa l’attacco di Karl Kraus alla stampa; costui si è appellato a Balzac. Proprio i giornalisti della restaurazione se la passano in lui peggio di tutti gli altri; la contraddizione fra la loro ideologia e il mezzo a priori democratico li forza al cinismo. Tali situazioni oggettive non vanno d’accordo con i sentimenti politici di Balzac. I conflitti nel nuovo modo di produzione che si sta imponendo sono così aspri quanto la sua fantasia e proseguono nella struttura delle sue creazioni. L’aspetto romantico e l’aspetto realistico in Balzac si sovrappongono in una dissolvenza storica. I finanzieri, pionieri dell’industria non ancora stabilizzata, sono avventurieri epici: il poeta, nato ancora nel Settecento, salva le categorie dell’epica portandole nell’Ottocento. Sullo sfondo dell’ordinamento preborghese scosso ma persistente, la razionalità sbrigliata assume elementi irrazionali, così come fa l’universale nesso di colpa che quella ratio resta; nelle sue prime scorrerie di rapina essa prelude all’irrazionalismo della sua fase tarda. Le norme dell’homo oeconomicus non sono ancora diventate norme di comportamento standardizzate degli uomini; la caccia al profitto somiglia ancora alla bramosia di sangue dei cacciatori non addomesticati, l’intero alla cieca concatenazione del destino. La invisible hand di Adam Smith diventa in Balzac la mano nera sul muro del cimitero. Ciò di cui la speculazione di Hegel nella filosofia del diritto ebbe altrettanta paura quanta ne ebbe il positivista Comte, le tendenze disgregatrici del sistema che rimuove le strutture naturali, all’appassionata osservazione di Balzac brilla come natura caotica. La sua epica si inebria di ciò che i teorici riescono a sopportare così poco che Hegel invoca l’arbitrato dello stato e Comte quello della sociologia. Balzac non ha bisogno né dell’uno né dell’altra poiché in lui l’opera d’arte stessa si presenta come quell’istanza che con gesto ampio abbraccia le forze centrifughe della società.

  Il romanzo balzachiano vive della tensione fra le passioni degli uomini e una costituzione del mondo che tendenzialmente non tollera più la passione perché disturba il meccanismo. Le passioni si potenziano a causa delle proibizioni e delle rinunce cui sono soggette allora come sempre, diventando mania. Insoddisfatte, esse divengono contemporaneamente deformate e insaziabili, peculiarità patologiche. Ma gli impulsi non scompaiono del tutto negli schemi sociali. Essi si aggrappano ai beni che seguitano a essere irraggiungibili, in particolare a quei beni sui quali c’è un monopolio naturale, oppure si manifestano come avarizia, come bramosia di denaro e fame di terre al servizio del capitalismo espansivistico che, finché non si è affermato in tutto e per tutto, ha bisogno delle energie aggiuntive degli individui. La parola d’ordine enrichissez-vous fa ballare i personaggi di Balzac. Mentre il mondo preindustriale fin dentro il XX secolo rivolge a coloro che non si sono ancora adattati ad esso il doppio significato della parola bazar, nel senso di mille e una notte e di emporio, di favola e di commercio — e il caso diede questo nome a uno dei più importanti allievi di Saint-Simon —, gli uomini gli impazzano davanti, al tempo stesso emissari e cavalieri erranti: agenti del plusvalore e Don Chisciotte di una ricchezza dal cui ampliamento essi, aristocratici senza molto lavoro, sperano di acquistare qualcosa, cavalieri in cerca di ventura che vanno alla carica contro i mulini a vento della fortuna la quale in base alla legge della rata del profitto medio li sbatte a terra. Così variopinta è l’irruzione del grigio, così incantevole il disincanto del mondo, e tanto è possibile raccontare del processo, la cui prosa cura che presto non ci sia più niente da raccontare. Come il lirico dell’epoca, anche il suo autore epico ha colto i fiori del male, lì dove sull’atlante popolare socialista è scritto «palude del capitalismo». Se l’aspetto romantico dell’opera di Balzac può soggettivamente pur sempre scaturire dall’arretratezza storica, dallo sguardo precapitalistico di colui che come vittima della società liberale guarda appassionatamente all’indietro e tuttavia vorrebbe partecipare dei suoi premi – esso discende nondimeno in egual misura dalla realtà sociale e da un realistico intendimento formale che mira a questa. Balzac ha soltanto bisogno di descriverla con un sobrio e amareggiato «così terribile è il mondo», e le protuberanze catastrofiche diventano aureola.

  Quale lettore tedesco di Balzac, che prende coscienziosamente in mano l’originale francese, non verrebbe indotto alla disperazione dagli innumerevoli vocaboli a lui sconosciuti che indicano differenze specifiche di oggetti e che deve cercare nel dizionario se non vuole andare a tentoni nella lettura, finché rassegnato e vergognoso si affida alle traduzioni! Ne è probabilmente responsabile la precisione artigianale del francese stesso, il rispetto di sfumature sia del materiale sia dell’elaborazione, in cui si deposita tanta cultura. Ma Balzac esagera. A volte egli presuppone la conoscenza dell’intera terminologia tecnica di settori specializzati. Ciò cade in un contesto più ampio della sua opera, il quale spesso con le prime frasi di un racconto risucchia il lettore nel suo interno. La precisione finge una estrema vicinanza alle situazioni e in tal modo una presenza corposa. Balzac esercita la suggestione del concreto. Essa però è talmente valore eccedente che non ci si può abbandonare ad essa senza sospetti, non la si può attribuire all’infausta pienezza dell’intuizione epica. Piuttosto quella concretezza cui il suo zelo rinvia è esorcizzazione. Per venir capito adeguatamente il mondo non può più venir intuito. Il realismo letterario venne superato poiché come rappresentazione della realtà non colse la realtà: di tale situazione non c’è testimone migliore di Brecht, che poi si infilò nella camicia di forza del realismo trattandolo da costume da mascherata. Egli ha visto che lo ens realissimum sono processi, e non fatti immediati; e non si lasciano riprodurre: «la situazione viene complicata dal fatto che meno che mai una semplice riproduzione della realtà dice qualcosa sulla realtà. Una fotografia delle industrie Krupp o della AEG non dice praticamente nulla su queste istituzioni. La realtà vera e propria è scivolata nella funzione. La reificazione dei rapporti umani, e dunque per esempio la fabbrica, non ci dà più i rapporti stessi». All’epoca di Balzac ciò non era ancora riconoscibile. Egli ricostruisce il mondo in base ai sospetti dell’outsider. Per far ciò egli, reattivamente, ha bisogno dell’assicurazione permanente che le cose stanno appunto così e non altrimenti. La concrezione sostituisce quell’esperienza reale, che semplicemente manca non soltanto in maniera quasi inevitabile ai grandi poeti dell’era industriale, bensì diventa commensurabile al concetto specifico di questa. La singolarità di Balzac getta luce su un filone di prosa di tutto quanto l’Ottocento a partire da Goethe. Il realismo, che viene perseguito anche da persone dall’orientamento idealistico, non è primario, bensì derivato: realismo per perdita della realtà. L’epica, che non è più padrona dell’oggettuale, che essa cerca di nascondere, deve esagerarlo col suo habitus, deve descrivere il mondo con una precisione esagerata, appunto perché il mondo è diventato estraneo e non si lascia più mettere a portata di mano. Nella nuova oggettualità, che poi in opere come Le ventre de Paris di Zola venne spinta fino alla dissoluzione del tempo e dell’azione, cioè a una delle sue conseguenze moderne, è insito già nel modo di procedere di Stifter, anzi nelle formule linguistiche del tardo Goethe, un germe patogeno, l’eufemismo. Analogamente i disegni degli schizofrenici non propongono un mondo di fantasia derivato dalla coscienza isolata. Piuttosto essi scarabocchiano i particolari degli oggetti perduti con una acribia che esprime lo stato di perdita. Questa, e non una integra somiglianza con le cose, è la verità del concretismo letterario. Secondo il linguaggio della psichiatria analitica si tratterebbe di un fenomeno di restituzione. E perciò è così sciocco equiparare principî stilistici e realistici della letteratura a un rapporto — secondo il cliché della zona orientale — sano e non decadente con la realtà. Questo rapporto è normale, a prendere tale parola enfaticamente, lì dove il soggetto poetico bandisce l’inessenza sociale spezzando la facciata dell’empiria indurita e perciò alienata.

  Marx corrobora con Balzac una nota sulla funzione capitalistica del denaro in contrapposizione ai tesori di altri tempi: «Escludere il denaro dalla circolazione rappresenterebbe l’esatto opposto della sua valorizzazione come capitale, e l’accumulazione di merci nel senso di tesaurizzarle sarebbe mera pazzia. Così in Balzac, che ha indagato tutti i diversi aspetti dell’avarizia, il vecchio usuraio Gobseck è già svanito di mente quando comincia a farsi un tesoro accumulando merci». Ma la via che porta Balzac a quella «profonda conoscenza degli effettivi rapporti umani» che Marx gli attesta altrove, va in una direzione opposta all’analisi economica. Come un fanciullo lo affascina l’incubo e la follia dello strozzino. Il suo emblema è il tesoro di cui infantilmente si circonda. E folle lo è diventato per ragioni storiche, quale rudimento precapitalistico nel cuore del pirata della circolazione. Tale cieca fisiognomica, poesia non orientata teoreticamente, soddisfa la teoria dialettica e coglie la tendenza. Non si fonda un rapporto legittimo di arte e conoscenza allorché: l’arte prende in prestito tesi dalla scienza, le illustra, le anticipa per poter venir poi raggiunta da questa. Essa diventa conoscenza lì dove senza riserve si affida al lavoro sul suo materiale. Ma in Balzac questa fu la fantasia di una fatica che non riposa finché i suoi prodotti non sono così uguali a se stessi da eguagliare anche la società davanti alla quale battono in ritirata.

  Dall’illusione borghese, secondo cui l’individuo è essenzialmente per sé e la società ovvero il milieu lo influenza dall’esterno, Balzac è ancora oppure già libero. I suoi romanzi non soltanto rappresentano il prevalere di interessi sociali e in particolare economici sulla psicologia privata, bensì anche la genesi sociale dei caratteri in se stessi. Essi vengono innanzitutto motivati dai loro interessi, quelli della carriera e del guadagno, prodotto misto della condizione feudale-gerarchica e della compagine capitalistico-borghese. Vi è tuttavia riconosciuta la divergenza fra determinazione umana e funzione sociale. Coloro che in forza dei loro interessi fungono da ruote del meccanismo, conservano un residuo di interiorità che nello sviluppo più tardo perdono. Esso non si accorda con gli interessi e la psicologia degli interessi. Le medesime persone, che da boss dell’economia rovinano i loro concorrenti parimenti con mezzi economici e criminali, in Balzac rovinano se stessi quando li soggioga il sesso, per il quale gli interessi non lascerebbero a loro tempo. L’anziano, brutale, cinico Nucingen, cade goffamente sotto la giovane e fresca Esther, che alla maniera delle puttane e impiegando il meglio delle sue forze lo inganna su di sé mostrandosi come l’angelo che invano si è buttato sotto le ruote della fortuna per salvare l’amato.

  Il conte de Rhétoré cerca di guadagnare per la causa del realismo Lucien Chardon, da un giorno all’altro arrivato come giornalista, con le seguenti parole: «Vous vous êtes montré un homme d’esprit, soyez maintenant un homme de bon sens». In tal modo ha codificato la concezione borghese di ragione e intelletto. Essa è il contrario di ciò che Kant proclama sull’argomento. Lo spirito – le «idee» – non dirigono, non «regolano» l’intelletto, bensì lo ostacolano. Balzac diagnostica quella sanità che ha una paura mortale che uno possa essere troppo bravo. Chi viene dominato dallo spirito, invece di dominarlo come mezzo, considera la cosa come scopo. Ripetutamente egli, per esempio in associazioni, soggiace a coloro cui questo è indifferente: egli non fa che frapporre ritardi. Essi possono dedicare la loro intatta energia alla tattica per raggiungere qualche cosa. Di fronte ai loro successi lo spirito diventa stupidità. La riflessione che non si accontenta delle situazioni, delle esigenze e delle necessità di volta in volta date, la non ingenuità insomma, come ingenuità fallisce. Il bon sens e l’esprit non sono semplicemente la medesima cosa bensì fra di loro c’è una antinomia. Chi ha esprit difficilmente capirà per bene i desiderata del bon sens: «La lingua degli uomini non l’ho mai capita». Il bon sens però è sempre sul chi vive per difendersi dall’esprit come tentazione a vane digressioni. Ciò che lo psicologo Lipps chiamò la strettoia della coscienza, la quale a nessun uomo permette di attualizzarsi sotto tutte le dimensioni oltre la limitata provvista delle sue forze libidiche, procura che si possa avere soltanto l’uno o soltanto l’altro. Chi sta al gioco senza offendersi disprezza l’anima candida considerandolo uno stupido. L’incapacità degli uomini a innalzarsi al di sopra della loro immediata situazione di interessi, riempita dagli oggetti di azione, non risiede primariamente nella cattiva volontà. Lo sguardo che supera l’elemento prossimo, lo lascia dietro di sé come cattivo e ostacolato nel funzionamento. Oggigiorno non mancano studenti che temono di imparare attraverso la teoria troppo sulla società: come potrebbero poi esercitare i mestieri per i quali li qualifica lo studio. Essi finirebbero in quella che amano chiamare schizofrenia sociale. Come se il compito della coscienza fosse, per cavarsela meglio, quello di spazzare via delle contraddizioni che non risiedono affatto nella coscienza bensì nella realtà. Allo stesso modo questa, come riproduzione della vita, pone agli individui esigenze legittime, così come attraverso la medesima riproduzione minaccia mortalmente se stessa e tutti. Per l’intelletto che si autoconserva, un eccesso di ragione finisce con l’essere un danno. Viceversa qualunque concessione al meccanismo della prassi dominante non soltanto macchia lo spirito che non vuol lasciarsi fuorviare bensì arresta il suo movimento, lo istupidisce.

  Nella famosa lettera scritta in vecchiaia a Margaret Harkness, fatalmente canonizzata nell’estetica marxista, Engels ha celebrato il realismo di Balzac. Forse l’ha ritenuto più realista di quel che non appaia a leggere le sue opere settant’anni più tardi. Ciò probabilmente sottrae alla dottrina del realismo socialista un po’ della autorità che essa motivi adducendo le pagelle di Engels. Più essenziale tuttavia è l’ampio allontanarsi di Engels stesso dalla teoria che poi diventò ufficiale. Quando preferisce Balzac «a tutti gli Zola passati, presenti e futuri», difficilmente vorrà aver inteso altro che quei momenti attraverso i quali lo scrittore più antico è meno realista del successore dagli intendimenti scientifici, che non a caso sostituì il concetto di realismo con quello di naturalismo. Come nella storia della filosofia ogni positivista non è positivista a sufficienza per colui che lo segue bensì è un metafisico, così vanno le cose anche nella storia del realismo letterario. Ma nell’attimo in cui il naturalismo giurò sulla riproduzione protocollare dei fatti, il dialettico si mise dalla parte di quel che i naturalisti ora tacciavano di metafisica. Egli si rifiuta all’illuminismo automatizzato. La verità storica stessa alla fine non è altra che quella metafisica che si manifesta e si rinnova nella permanente decadenza del realismo. Proprio la fedeltà alla facciata di un procedimento purificato dalle deformazioni balzachiane armonizza, sia nell’industria culturale sia nel realismo socialista, con l’intenzione calatavi, da cui il narrare di Balzac non si lascia distogliere neanche per un secondo: la pianificazione trova la sua conferma nei dati destrutturati, e la pianificazione letteraria è la tendenza. Contro di questa, e con ciò implicitamente contro tutta l’arte tollerata all’Est dall’epoca di Stalin, si volge il veleno delle frasi di Engels. La grandezza di Balzac per lui si afferma appunto nelle rappresentazioni che vanno contro le sue simpatie di classe e i suoi pregiudizi politici, che sconfessano la tendenza legittimistica. Il poeta è dalla parte dello spirito del mondo perché la forza della produzione originaria, che compenetra la sua prosa, è collettiva, tutt’uno con quella storica. Engels definisce ciò il più grande trionfo del realismo di Balzac, la «dialettica rivoluzionaria nella sua legittimità poetica». Questo trionfo però era legato al non piegarsi della prosa di Balzac di fronte ai fatti reali, che invece fissa finché non diventano trasparenti, lasciando scorgere la loro inessenza. Lukács ne ha fatto un timido cenno. Tanto meno si tratta in Engels, come Lukács subito riassicura, «di salvare l’imperitura grandezza del suo» - balzachiano - «realismo». Il concetto specifico di realismo non è una norma costante: Balzac lo ha strapazzato per amore della verità. Le invarianti del resto sono inconciliabili con lo spirito della dialettica, anche se il classicismo hegeliano le rivendica.

  Come mezzo di circolazione, denaro, il processo capitalistico raggiunge e modella le persone di cui la forma del romanzo vuole catturare la vita. Nello spazio vuoto tra quel che avviene alla borsa e quel che succede di basilare nell’economia, da cui quella temporaneamente si distacca sia che ne sconti i movimenti sia che si autonomizzi per dinamica sua propria, si concentra vita individuale in mezzo alla fungibilità totale e sbriga le faccende del nesso funzionale passando attraverso la sua individuazione: questo è il clima della figura rothschildiana del barone Nucingen. Ma la sfera della circolazione, di cui si possono raccontare cose avventurose – i titoli a quell’epoca salivano e scendevano come le ondate sonore dell’opera – contemporaneamente distrugge l’economia, nella quale lo scrittore Balzac in gioventù si impegnò appassionatamente come homme d’affaires. L’inadeguatezza del suo realismo in definitiva risale al fatto che, per amore della descrizione, non spezzò il velo del denaro, e difficilmente poteva già spezzarlo. Lì dove la fantasia paranoica è in rigoglio, egli è simile a coloro che negli intrighi e nelle congiure di banchieri e magnati della finanza si illudono di tenere fra le mani la formula del destino sociale che domina gli uomini. Balzac è il membro di una lunga serie di scrittoti che va da Sade, nella cui Justine si trova la fanfara balzachiana «insolent comme tous les financiers», fino a Zola e al primo Heinrich Mann. Seriamente reazionario in lui non è l’orientamento conservatore bensì la sua complicità con la leggenda del capitale arraffatore. Vivendo in stretto contatto di gomito con le vittime del capitalismo, egli ingigantisce a mostri gli esecutori della sentenza, i capitalisti che presentano la cambiale. Ma gli industriali, nella misura in cui li si incontra, vengono assegnati al lavoro produttivo, alla maniera di Saint-Simon. L’indignazione sulla auri sacra fames fa parte dell’eterna provvista dell’apologetica borghese. Essa cambia discorso: i selvaggi cacciatori si limitano a dividersi la preda. Anche questa parvenza però non è spiegabile adducendo la falsa coscienza di Balzac. La rilevanza del capitale finanziario, che anticipa l’espansione del sistema, nel primo capitalismo è incomparabilmente maggiore che più tardi e a ciò corrispondono le usanze, che sono da speculatori e usurai. Il romanziere può intervenire meglio lì che nella vera e propria sfera della produzione. Proprio perché nel mondo borghese non si può raccontare di quel che è decisivo, il narrare perisce. Le manchevolezze immanenti al realismo balzachiano sono potenzialmente già il verdetto sul romanzo realista.

  Quello che Hegel riteneva lo spirito del mondo, il grande movimento storico, era l’ascesa della borghesia capitalistica. Balzac la dipinge come un itinerario che non fa più crescere l’erba. I traumi che la vittoria economica della borghesia si lascia alle spalle nell’ordinamento tradizionalistico profetizzano nei suoi romanzi il fosco futuro che vendica nella nuova classe l’ingiustizia, che questa eredita e prosegue dalla vecchia classe abbattuta. Ciò ha mantenuto giovane La comédie humaine anche nel suo invecchiare. Il suo slancio, la sua dinamica è quella neonata della crescita economica. Ciò dà al ciclo il suo respiro sinfonico. Anche la resistenza alla tendenza è ispirata dalla tendenza. Il sottotitolo dato alla sua opera principale da De Coster, che ha in comune vari aspetti con Balzac, ma li rovinò lasciandoli scadere a grossolana affermatività, cioè «un libro allegro nonostante morte e lacrime», lo può reclamare anche l’autore dei Contes drôlatiques. Il progresso della società nel suo complesso, che scorre attraverso La comédie humaine, non è la stessa cosa della curva della vita individuale. Esso splende anche sulle vittime di tutti i raggiri in una maniera che oggi non toccherebbe più nemmeno alle persone felici, nel caso che queste andassero a finire in una qualche narrazione. Il piacere puberale di leggere Balzac si nutre del fatto che sul tormento di ogni singolo si inarca muta la promessa di una giustizia del tutto, come un arcobaleno. Il fondamento materiale dei due romanzi su Rubempré viene posto nella storia dell’invenzione di David Séchard. I delinquenti provinciali lo ingannano privandolo del frutto di essa. Ma l’invenzione si impone e dopo tutte le catastrofi questa degna persona, grazie a un’eredità, consegue nonostante tutto un modesto benessere. Ulrich von Hutten, che perisce perseguitato e sifilitico, esclamando che vivere è una gioia, è quasi il modello dei personaggi di Balzac, proveniente da quella preistoria borghese la cui crepe e i cui dirupi lo sguardo del romanziere riconosce dalla vetta.

  Lucien de Rubempré comincia da giovane esaltato con alte ambizioni letterarie. Balzac forse dubita del livello delle doti di costui che esordisce con sonetti sui fiori e con un’imitazione dei bestsellers di Walter Scott. Ma Lucien è delicato, vulnerabile, tutto ciò che poi si chiamerà differenziato e introverso. In ogni caso egli ha tanto talento da creare un nuovo tipo di critica teatrale per l’appendice giornalistica. Diventa un gigolò, complice del suo salvatore, il grande delinquente che alla fine egli stesso tradisce. Chi traffica ingenuamente con lo spirito senza sporcarsi le mani, in base ai mores del mondo, che non ha voluto farsi insegnare, è viziato. Egli rifiuta la scissione di felicità e lavoro. Anche nel lavoro e nella sua fatica egli cerca di non sporcarsi con ciò con cui deve patteggiare chi vuole arrivare a qualche risultato. Il mercato sceglie con molta precisione fra ciò che ha cattiva fama in quanto spirituale autosoddisfacimento dell’intellettuale e ciò che viene apprezzato, che è socialmente utile e che dal profondo del cuore fa ribrezzo allo spirito che lo crea; il suo sacrificio viene ricompensato nello scambio. Chi non è pronto a sacrificarsi potrà magari anche aver fortuna: ma dò lo rende cagionevole. La configurazione di purezza e egoismo fa entrare il mondo nel campo di ciò che è estraneo al mondo. Poiché Lucien ha rifiutato il giuramento borghese, il mondo tende a precipitarlo al di sotto del borghese, a degradare il bohémien a pennaiolo in vendita, a straccione. Egli si impantana più facilmente degli altri senza nemmeno propriamente accorgersene e il decorso del mondo usa tale circostanza per aggravargli la pena. Pieno di fiducia, Lucien sdrucciola in situazioni le cui implicazioni, ebbro come è, a mala pena vede. Nel suo narcisismo si immagina che l’amore e il successo siano propriamente per lui, mentre fin da principio è utilizzato semplicemente come figura fungibile. La sua esigenza di felicità, non ancora adeguata e modellata da un adattamento alla realtà, ha in dispregio i controlli i quali potrebbero denunciargli che le condizioni del suo soddisfacimento distruggono quelle della esistenza spirituale — della libertà. Inconsciamente in lui finisce col predominare il momento parassitario, il quale deturpa tutto lo spirito: da ciò che i borghesi chiamano idealismo soltanto un passo separa dalla servitù venale di colui che, sia pur a ragione, si ritiene da troppo per guadagnarsi la vita col lavoro borghese e si rende ciecamente dipendente dall’uguale da cui si ritrae spaventato. Gli si cancella perfino il confine fra ciò che gli è permesso e il tradimento: la coscienza di quel confine si rafforza unicamente nell’affaccendarsi, cui si ritiene superiore. Fra l’entusiastico legame amoroso con Coralie e la corruzione Lucien non è capace di distinguere. Tuttavia quest’ingenuo vi cade dentro troppo spesso e improvvisamente perché le cose possano finire bene; la scorciatoia viene punita come delitto poiché per così dire riconosce innocentemente ciò che si nasconde sui sentieri della giungla dell’equivalenza borghese. Il talento che, invece di formarsi in silenzio, osa buttarsi a capofitto nella corrente del mondo, è salutato dalla forca. Antonio è diventato il cinico moralista Vautrin. Egli spiega le cose al bravo giovinetto che non solo ha dovuto abbandonare le sue illusioni ma diventare quel mostro a proposito del quale l’illusione lo ha ingannato.

  Fra le scoperte del letterato Balzac va annoverata la non identità dello scritto con lo scrittore. La critica di tale non identità fu dall’epoca di Kierkegaard uno dei motivi caratterizzanti dell’esistenzialismo. Balzac è superiore a quest’ultimo. Egli non istalla lo scrittore a criterio di misura dello scritto. Il suo ingegno è imbevuto troppo profondamente di artigianato, lo scrittore sa troppo precisamente che la poesia non si esaurisce per esempio nell’espressione pura di un sé di cui si pretenda l’immediatezza, per scambiare anacronisticamente il poeta con la pizia la cui voce risuona unicamente dell’ispirazione attinta alla propria profondità. Dalla muffa di una tale concezione ideologica del poeta — la medesima che poi servì ad aizzare contro il letterato – il cattolico Balzac era tanto libero quanto dal pregiudizio sessuale e da qualunque puritanesimo. Egli concede al pensiero il lusso di spaziare oltrepassando la persona che lo pensa. I suoi romanzi preferiscono prendere come regola la parola della ballerina acrobatica Mignon: fatemi apparire finché esista. Tutta quanta La comédie humaine è una possente fantasmagoria, la sua metafisica è la metafisica dell’apparenza. Nell’attimo in cui diventa la ville lumière, Parigi è la città di un’altra stella. Le condizioni per riconoscerla come tale sono sociali. Esse trasportano lo spirito molto in alto, la di sopra della casualità e della fallibilità di colui che diventa suo possessore; anche la forza produttiva spirituale si moltiplica in virtù della divisione del lavoro che gli esistenzialisti ignorano. Quel che di talento Lucien ha fiorisce febbrilmente contraddicendo ciò che è e contraddicendo il suo ideale. Per un paio di mesi egli è realmente uno scrittore unicamente grazie a ciò che fa inferocire le persone probe come trasformismo del letterato. La non identità dello spirito con i suoi portatori è la condizione dello spirito e contemporaneamente la sua macchia. Essa annuncia che soltanto in mezzo al sussistente di cui si libera egli rappresenta ciò che sarebbe diverso, e che lo rovina se si limita unicamente a fargli da rappresentante. Nelle vicende partecipi della divisione del lavoro egli è vicario dell’utopia, che pur svende e rende uguale all’esistente. Esistenziale lo spirito lo è troppo, non troppo poco.

 

 

  G. D. B., Quei tormenti d’amore della gatta di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 113, Numero 265, 20 Novembre 1979, p. 17.

 

  A più di due anni dal suo esordio, approda stasera in Italia, al Piccolo di Milano, uno dei più begli spettacoli francesi recenti, Peines de coeur d’une chatte anglaise, allestito dal gruppo Tse, una formazione mista di attori francesi e sudamericani, guidati dal regista argentino Alfredo Rodriguez-Arias. [...]. Il testo è nientemeno di Balzac. Si tratta di un racconto commissionato all’autore della Comédie humaine da Grandville, uno straordinario disegnatore di animali antropomorfi —fox-terriers in gonnella, gufi in marsina, topi gru, cornacchie, e gatti naturalmente — tutti agghindati secondo i dettami della moda. Balzac scrisse una storia di una trentina di pagine a stampa: quella di una gattina inglese, Beauty, che, dopo un severo tirocinio di belle maniere, fa il suo ingresso nel bel mondo, sposando, giovanissima, un vecchio gattone ricchissimo. Ma ecco farlesi innanzi uno spumeggiante gatto francese, Briquet. E’ l’addetto culturale dell'ambasciata francese a Londra. Corteggiata e sedotta l'irreprensibile milady, che non resiste dinanzi a tanto ardore, Briquet vorrebbe fuggire con l'amata a Parigi. Lascerà la pelle sotto le bastonate delle zelanti guardie del corpo della signora. Costei, in lacrime, abbandonerà la fastosa dimora londinese, si ritirerà in campagna, diverrà celebre rievocando, in un romanzo che ha lo stesso titolo della commedia, le sue pene d'amore perdute. Arias, aiutato dall’intelligente riduzione teatrale di Geneviève Serreau, ha tratto da questo mélo uno spettacolo raffinato e, a suo modo, lievemente perverso. Gli attori recitano incappucciati nelle loro maschere (stupende, e del tutto nello stile di Grandville): ma hanno un tale senso del ritmo, una gestualità così fresca e scattante che l’interpretazione non è mai estetizzante o meramente decorativa. Anzi, sin dalle prime sequenze, si capisce subito che il registro della messinscena è quello dell’irrisione: un’irrisione faceta e discreta, ma incisiva.



  Michail Bachtin, Estetica e romanzo. A cura di Clara Strada Janovič, Torino Giulio Einaudi editore, 1979 («Einaudi Paperbacks», 107).

 

Le forme del tempo e del cronotipo nel romanzo.

 

  pp. 393-394. Nei romanzi di Stendhal e Balzac compare una nuova località di componimento degli eventi del romanzo: il salotto (in senso ampio). Naturalmente, non è in questi scrittori che esso fa la sua prima comparsa, ma in loro esso acquista la pienezza del suo significato come luogo di intersezione delle serie spaziali e temporali del romanzo. Dal punto di vista dell’intreccio o della composizione qui avvengono gli incontri (che ormai non hanno il precedente carattere specificatamente fortuito dell’incontro sulla «strada» o nel «mondo straniero»), si annodano gli intrighi, si compiono spesso anche i loro scioglimenti e, infine, cosa di particolare importanza, avvengono i dialoghi, che acquistano significato decisivo nel romanzo e svelano i caratteri, le «idee», e le «passioni» dei protagonisti.

  Il significato che il salotto ha per la composizione e per l’intreccio è perfettamente comprensibile: durante la Restaurazione e la monarchia di Luglio, vi si trova il barometro della vita politica e di quella degli affari. Le reputazioni politiche, bancarie, sociali, letterarie vi erano costruite e distrutte, le carriere vi nascevano e finivano, i destini dell’alta politica e dell’alta finanza si compivano, il successo o l’insuccesso di un progetto di legge, di un libro, di una commedia, di un ministro o di una cortigiana-cantante si decidevano. Le gradazioni della nuova gerarchia sociale vi sono pienamente rappresentate (e riunite in un sol luogo e in un sol tempo). Infine, sotto forme concrete e visibili vi appare l’onnipresente potere del nuovo signore della vita: il denaro.

  L’essenziale in tutto questo è l’intrecciarsi dello storico e del pubblico-sociale col privato e persino con l’intimo, l’intrecciarsi dell’intrigo privato personale con quello politico e finanziario, del segreto di Stato col segreto d’alcova, della serie storica con quella dei costumi e della biografia. Qui sono concentrati e condensati i connotati concretamente visibili sia del tempo storico sia di quello biografico e quotidiano, e nello stesso tempo essi sono strettissimamente intrecciati tra loro, fusi a formare gli unitari connotati dell’epoca. L’epoca diventa concretamente e narrativamente visibile.

  Naturalmente, i grandi realisti – Stendhal e Balzac – non si servono soltanto del salotto come luogo di intersezione della serie temporale e spaziale e di condensazione delle tracce del corso del tempo nello spazio. È un luogo tra gli altri. Balzac aveva una capacità eccezionale di «vedere» il tempo nello spazio. Ricordiamo almeno la splendida raffigurazione che egli fa delle case come storia materializzata, le immagini delle vie, della città, del paesaggio rurale così come sono stati elaborati dal tempo, dalla storia.

 

 

  Giovanni Bogliolo, Perché leggere Honoré de Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 113, Numero 16, 19 Gennaio 1979, p. 15.

 

  Honoré de Balzac: «La cugina Betta», intr. di Maurice Allem, trad. di Ugo Dettore, ed. Rizzoli [...].

 

  Tutto sembra allontanarci da Balzac: il vitalismo frenetico e l’intrepida euforia creativa, che contrastano con la nostra pratica, mediata e dubitativa, del genere romanzesco; la sovrabbondanza pletorica dell’invenzione, addirittura indigesta ad un’epoca come la nostra che, a detta di J. B. Barrère, ha imposto una drastica «cura dimagrante» al romanzo; l’ambizione di esaurire il catalogo dei caratteri e delle situazioni umane in concorrenza con uno stato civile che noi abbiamo da tempo rinunciato a cercare all’anagrafe; il determinismo schematico delle interazioni tra passioni individuali ed esigenze sociali il moralismo perbenista e fondamentalmente reazionario, la strumentalità della mozione degli affetti, la superficialità delle analisi psicologiche, la scarsa sensibilità formale, tutti aspetti che l’ideologia, l’informazione e il gusto del lettore d’oggi possono accettare soltanto con benevola sufficienza.

  Nella Cugina Betta poi, che pure è un romanzo dell’estrema maturità di Balzac, manca quell’assetto caratteristico della narrazione che, procedendo dal generale al particolare e dalla descrizione alla caratterizzazione, costituisce un apprezzabile motivo di unità strutturale; manca la polarizzazione attorno ad un personaggio che coordini e raccolga in rigoroso equilibrio le fila disparate delle vicende: sotto questo aspetto, il romanzo sembra addirittura scentrato, sia rispetto al titolo (il vero protagonista è il barone Hulot e non la cugina Betta, eminenza grigia di tutta la famiglia), sia rispetto al dittico dei Parenti poveri (non è la povertà, ma l’invidia femminile a mettere in moto la vendetta di Betta). E le innovazioni che Balzac apporta in questo romanzo alla sua tecnica narrativa, determinate soprattutto dal bisogno di riconquistare il favore del pubblico, sono tutte legate al gusto dell'epoca.

  Scrivendo per un giornale, il Constitutionnel, con l’assillo di consegnare i capitoli secondo le scadenze delle puntate e di vincere la battaglia del successo col rivale Eugène Sue, Balzac si adegua, almeno in parte, alle regole del feuilleton: esaspera le caratterizzazioni dei personaggi (la sensualità del vecchio Hulot, la perfidia di Betta, la bontà e la forza di sopportazione di Adelina) elevandole a dimensioni epiche, incrementa le scene madri complica le situazioni escogita colpi di scena, adegua il ritmo dell’azione alla scansione della lettura quotidiana in appendice, spazia con maggiore libertà dalla facile commozione del melodramma alla scabrosa comicità del vaudeville, dal greve realismo del dramma borghese al brivido d’emozione della tragedia.

  Eppure, quando si legge un romanzo di Balzac, anche questo suo romanzo monstre ancora più pullulante di personaggi di eventi di situazioni drammatiche, di contrasti ancora più datato degli altri nell’ideologia e nelle scelte del gusto, si dimenticano le riserve e le prevenzioni e la freddezza del critico cede il passo alla passionalità del lettore. Dopo tutto il male che se ne è potuto dire, dopo che se ne sono messi a nudo gli elementari ingranaggi e i grossolani espedienti la macchina narrativa di Balzac continua intrepidamente a funzionare, a commuovere quando vuole commuovere, a far riflettere quando vuole indurre alla riflessione e, quel ch’è peggio, a convincere della validità delle diagnosi psicologiche e sociali che abbozza, della fondatezza dei principi ideologici e morali a cui si ispira.

  Come può perpetuarsi questo equivoco? Come si può amare un’opera per il solo tempo della lettura e rinnegarla subito dopo nei principi e nelle forme? La risposta sta tutta nella straordinaria coerenza interna del mondo balzachiano e nella deformazione visionaria che lo scrittore è riuscito a contraffare sotto le specie del più convincente realismo. Se Balzac avesse descritto, seppure esasperandola, la realtà del suo tempo, se i suoi personaggi e le sue storie avessero quella portata documentaria che gli si attribuisce, il principio ordinatore, lo sguardo dell’artista tradirebbe ad ogni pagina la sua ingenua parzialità. Ma Balzac non descrive, inventa un mondo che obbedisce in perfetta sintonia alle semplici banali leggi di fatalità logica in cui crede lo scrittore, e la sua grande, inimitabile maestria sta nel conferire a questo mondo improbabile e astratto tutti i connotati della più complessa e credibile realtà.

  Nulla di più lontano, dunque, dal realismo, anche se il realismo serve da alibi per una reinvenzione — finalmente logica e coerente — del mondo. E per riduttiva e parziale che possa sembrare, questa reinvenzione doveva apparire al lettore del Constitutionnel infinitamente più confortevole e vivibile della realtà che conosceva e con cui l'identificava. Al lettore di oggi avvantaggiato dalla distanza storica, agguerrito di strumenti analitici e vaccinato contro tutti gli illusori realismi questa dimensione visionaria, anziché inverosimile e inattendibile, appare depositaria di tutto il segreto dell’arte balzachiana: più che la modestia dell’ideologia che la sottende, ne valuta la forza generatrice; più che l’implicita arbitrarietà, apprezza la coerenza interna e la ineccepibile legittimazione dell’arte. Come dire che, con un piccolo trucco, da una smaliziata prospettiva formale, si può ancora recuperare la fiducia nell’autenticità, nella superiore realtà della finzione romanzesca.

 

 

  Felice Bonalumi, Il medico di Balzac e il curato di Ravizza, «Aevum», Milano, Anno LIII, fascicolo 3, settembre-dicembre 1979, pp. 519-532.

 

  Nel 1833 Balzac pubblicò Le médecin de campagne. L’opera, scritta fra l’ottobre 1832 e il luglio dell’anno seguente, ebbe in Francia fino ni 1839 ben cinque edizioni e nel 1834 fu tradotta in italiano da G. B. Menini e pubblicata nella serie «Romanzi e curiosità storiche». Come attesta Ignazio Cantù, il romanzo era largamente conosciuto in Italia.

  Un curato di campagna di Carlo Ravizza, del quale ci proponiamo di sottolineare alcune singolari analogie col Médecin balzacchiano, fu composto tra il settembre 1839 e l’ottobre 1840 e pubblicato nel 1841. Una seconda edizione, da considerarsi definitiva per l’aggiunta di alcuni capitoli apparsi in precedenza sulla «Rivista europea», uscì nel 1852. Infine una terza edizione postuma nel 1869 ci conferma il successo del romanzo.

  La lettura comparata dei due testi suggerisce a nostro avviso alcune interessanti considerazioni. Innanzitutto, Ravizza e Balzac fanno uso di categorie di pensiero analoghe pur all’interno, e avremo modo di mostrarlo, di sistemi ideologici differenti e spesso inconciliabili, ma che rivelano una concezione simile dell’impegno e del ruolo dell’uomo nella società o, il che è lo stesso, un medesimo problema: la costruzione di una società che, come organismo unico, sappia autoregolamentarsi e progredire secondo alcuni principi generali validi per ogni ceto e ogni individuo della società stessa.

  Tutto ciò, seconda considerazione, si esplica in una costruzione formale che, pur su due piani diversi quanto a valore letterario, è tuttavia simile e si presta a livello compositivo ad alcuni possibili raffronti. [...].

  Infine, come è noto, Balzac fra il gennaio e l’agosto 1839 scrisse Le curé de village che pubblicò nella «Presse» di quei mesi e poi, nel 1841, con una importante introduzione, in volume. Egli concepì quest’ultima opera come «le pendant religieux» del Médecin, «pendant» che eleva e amplia i significati del testo. Quindi anche le nostre possibili interpretazioni: per questo ci è parso opportuno usare il Curé in funzione subordinata, quando cioè esso meglio specifica e sottolinea temi già presenti nel Médecin. [...].

  La categoria centrale che fonda tale «concezione» [dell’uomo nella società] è l’unione personale di teoria e pratica. Benassis e il curato brianzolo sono i due redentori (entrambi, contemporaneamente nell’ordine delle cose materiali e nell’ordine morale) di terre prima regno della miseria e dell’anarchia (anche qui, miseria e anarchia insieme materiali e morali). L’opera di redenzione avviene grazie alla loro azione personale, al loro impegno costante, quotidiano e la cui durata è una vita intera. Non il potere avrebbe potuto fare ciò, ma solo il dottor Benassis per la vallata del Delfinato, e il curato lombardo per la sua parrocchia brianzola. […].

  La superiorità dei due protagonisti è racchiusa nella loro capacità di affrontare i problemi con senso di concretezza, attraverso l’unione della teoria, delle cognizioni, tanto tecniche quanto più generalmente morali, con la pratica. Se medico e curato avessero preteso di inculcare i principi di cui sono portatori (principi cristiani nella visione generale, ma qui si intende anche nozioni più specifiche di igiene, economia ...) avrebbero fallito quanto se avessero cercato un puro e semplice benessere materiale, magari fondato su qualche espediente economico: è la loro unione, in ultima analisi, l’unione di morale cd economia, di benessere morale e benessere materiale, il nocciolo dell’azione del curato e del medico. Non progresso indefinito, e quanto più indefinito tanto più astratto, ma progresso «a piccoli passi», «de la lenteur» (Le Curé [...]), il cui centro è quel senso di concretezza che da un lato rimanda ad una visione generale dei principi su cui si fonda la società e, dall’altro, si àncora inevitabilmente ad una situazione reale, concreta e perciò limitata, definibile. [...].

  La concretezza, prima che materia di insegnamento, è però modello di vita, anzi è la vita stessa del medico c del curato ed il divario fra Balzac e Ravizza diviene qui insanabile, perché, se le due vite «esteriormente» convergono, le motivazioni «interiori» che le dettano sono agli antipodi. Si affaccia cioè in Balzac il motivo della riparazione, dell’espiazione che sarà poi centrale nel Curé de village [...].

  Nel curato lombardo manca invece ogni prospettiva individuale: egli si pone illuministicamente al servizio della società in generale e della sua parrocchia in particolare e non c’è alcun riferimento ad altre possibili scelte. Il suo non è che il mestiere di prete: Benassis è prima di tutto uomo. Il medico cerca qualcosa che ha perduto: la felicità? il suo ruolo di uomo davanti a Dio?; il curato applica ciò che sempre ha avuto. La scelta di medico, come del resto la scelta di essere prete, va vissuta fino in fondo: ma il primo trova la giustificazione in se stesso, l’altro nella società. [...].

  La centralità della categoria della concretezza trova conferma nell’analoga considerazione che i due autori vengono svolgendo di alcuni importanti concetti: l’idea di progresso come benessere materiale e morale; il concetto di lavoro e, infine il ruolo della religione nella società. Prendiamoli in considerazione separatamente.

  Benessere materiale e benessere morale. La categoria del progresso, pur nella molteplicità delle sue determinazioni, appare quale momento significante di quella grande figura dello Spirito che fu la Restaurazione. Natura, ragione, storia vi confluiscono c ne strutturano l’intima dialetticità (e si pensi allo Hegel della Fenomenologia, alla Restaurazione come figura conseguentemente necessaria della Rivoluzione, ma anche come infrangersi di quest’ultima, o meglio del suo spirito, nei mille rivoli delle determinazioni reali). Non saremo lontani dal vero affermando che il progresso nelle accezioni cui già s’è fatto riferimento, è il movimento sotterraneo dei due testi in esame, ma non in quanto momento teorico, non in quanto approfondimento dell’intelligibilità del concetto stesso (non dunque: «che cos’è progresso?»): ciò che Balzac e Ravizza ci danno è la sua esemplificazione pratica, la quotidianità, la sua «funzione». La domanda diventa: «a cosa serve il progresso?», ed è su questa base non speculativa ma «positiva» che l’analogia sorprende. Si comprende ora appieno perché la categoria della concretezza, e non quest’ultima, ci è parsa significante. [...].

  Il progresso come redenzione, «dirozzamento» (parola frequente in Ravizza) e secondo l’assioma per cui «le monde moral tourne sur lui-même comme le monde matériel» (Le Curé) si caratterizza come materiale e morale ad un tempo. Le sue «armi» allora non potranno che essere il lavoro e la religione, e l’universalità di lavoro e religione rimanda ad una ulteriore funzione del progresso: inserire nel moto della storia universale queste contrade sperdute, creare, dice Balzac, una fitta rete di bisogni che unisca i popoli. [...].

  Il lavoro come mezzo di dirozzamento della materia-uomo, come momento di «incivilimento» dell’uomo. Nel lavoro l’uomo si realizza, si compie, si trasforma ed anzi entra a pieno titolo nel consorzio umano [...].

  Ma se tutto, nell’ordine delle cose materiali è lavoro, una ulteriore convergenza si ha nella considerazione dell’opera di medico e curato non come lavoro ma come missione (e missione di una vita) e dunque al di fuori degli schemi e delle leggi di mercato [...].

  Il ruolo della religione nella società. [...]. Per Balzac e Ravizza la religione è il centro della società che cercano di delineare, è il punto di riferimento della intera loro costruzione e la lettura dei testi autorizza a porre in evidenza una differenza non marginale nella considerazione del rapporto religione-società. [...].

  La religione, è questa la tesi centrale di Balzac nel Médecin, ridà, o meglio, fa ritornare nella storia quei pilastri su cui si regge la vita del singolo e della società e che in un passato non lontano (la Rivoluzione!) sono stati persi, o forse solo inutilmente negati. Anche per Ravizza la religione è depositaria della verità, è il punto finale del progresso, ma come astrazione essa è un assurdo: la religione coincide sempre con la propria esteriorizzazione, con la propria positività. [...].

  Una differenza merita tuttavia d’essere sottolineata: mentre Balzac immagina che Benassis operi inizialmente su un territorio e una popolazione completamente al di fuori del corso della storia, che egli parta cioè da un livello di vita primario, di contro Ravizza fa operare il suo curato su una terra già toccata dalla scintilla del progresso, scoccata con le riforme della seconda metà del Settecento. [...].

  Ma forse il riferimento più significativo, e che torna in più punti d entrambe le opere, è quello relativo all’Inghilterra. Sia Balzac, sia Ravizza individuano in quest’ultima l’esempio da seguire, dà superare, certo sulla base di uno sviluppo autonomo, originale delle due nazioni latine, ma insomma quello è l’insostituibile termine di paragone. [...].

  Per concludere, un accenno al ruolo del popolo nei due testi. In nessuna scena del Médecin e del Curato il popolo è protagonista, anzi in nessuna scena esso compare da solo. Unica eccezione sembrerebbe essere la descrizione del lutto nella famiglia patriarcale nel romanzo di Balzac: ma la scena è preceduta da un dialogo fra Benassis e Genestas in cui il medico esalta l’onestà e la laboriosità di quelle famiglie e spiega l’importanza dei loro costumi. È una scena che ha il preventivo «assenso» del protagonista, quasi egli avesse lasciato sopravvivere quei costumi nella sua opera di civilizzazione per il loro grande significato.

  Pertanto nei due romanzi il popolo ha la funzione di approvare esplicitamente l’opera dei due redentori: linguisticamente tale funzione è resa o attraverso dialoghi diretti fra l’interlocutore (Genestas o Ravizza) e un popolano, in cui quest’ultimo esalta il medico o il curato rispettivamente, oppure descrivendo i sentimenti suscitati nel popolo al passaggio dei due protagonisti. [...].

 

 

  Carlo Carena, Il libro in tasca. Balzac: «orgia del cervello», «La Stampa-Tuttolibri», Torino, Anno V, N. 4, 3 febbraio 1979, p. 11; 1 ill.

 

  La cugina Betta, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano XXXV-519 pagine 3500 lire.

 

  Balzac cominciò a scrivere la Cousine Bette nell'estate del 1846: sabato 20 giugno annunciava alla signora Hanska che il martedì successivo avrebbe terminato il Cousin Pons e mercoledì avrebbe iniziato l'altra parte dei Parenti poveri, la cui storia era «tutta da inventare». Ma si andò avanti sino alla metà di luglio, e solo da allora, con qualche interruzione prolungata, ne scriverà regolarmente venti o trenta pagine al giorno, lavorando anche diciannove ore filate, spinto dall’obbligo delle puntate sul «Constitutionnel». Intanto districava anche il garbuglio dei propri affari, che rasentava quello del protagonista del romanzo, pagando pensioni e interessi arretrati. Così nasce, in modo prodigioso, questo capolavoro, da una continua «orgia del cervello» che prepara la tomba al suo autore. Non c’è da stupire che Balzac perdesse per via la memoria dei nomi e trovasse a fatica i sostantivi. Ma, come dice egli stesso dell’amore, «il genio che economizza non è mai il vero genio», e queste quattrocentosessanta pagine, nate da uno spasimo così forte, sono uno spreco di genialità che commuove. Smontare la macchina balzacchiana — o dickensiana o scottiana o stevensoniana eccetera — è diventato un divertimento per tesi di laurea; trovarne i sovrappiù, i luoghi comuni, fastidiosi, insipidi, improbabili, un gioco da farmacisti. Ma quando si mette in moto, è difficile scenderne e abbandonarla al suo corso. Cosa sarebbero per noi la Parigi della Restaurazione, la borghesia nella sua quintessenza ottocentesca e parigina, senza la Comédie humaine? E l’epicità del vizio, la tenerezza ironica della virtù, senza le pennellate di Balzac? Così la Cugina Betta disegna implacabilmente lo sfacelo di una famiglia d’alti funzionari e professionisti, travolta dall’erotismo caparbio del suo capo, il barone Ettore Hulot. Dietro le quinte, i rancori meschini della sua cugina Elisabetta non sono che l’incarnazione di una fatalità che trascina e poi gioca e abbatte la dissennatezza, l'audacia o la semplice grandiosità di una vita che non sia un incolore e meschino tran tran quotidiano; che è la condanna di ciò che costituisce un’esistenza. Di qui la grandiosità delle pagine balzacchiane e dei suoi protagonisti, ch’egli umilia ma non schiaccia quando non abbiano la meschinità del marito dell’adorabile signora Marneffe, amante accettata di quattro uomini contemporaneamente, ruota di questo carosello che comprende nei suoi cerchi lontani anche esempi di generosità e di abnegazione sublimi, superstiti immacolati della Vecchia Guardia napoleonica e mogli tanto più devote quanto più disingannate, animate dall’ottimismo stupido dell’innocenza. Con l’introduzione e le note utilissime tratte dall’edizione Garnier, e la traduzione collaudata di Ugo Dettore, c’è nell’edizione della BUR tutto per un invito seducente alla lettura di questo che Balzac stesso definiva un «terribile romanzo» e che la magistratura inquisì come immorale: per la descrizione pura e semplice di molti tratti o momenti della natura umana.

 

 

  Vito Carofiglio, Arti magiche e carte in tavola: Balzac e le supreme scienze, «Lectures», 1, maggio 1979, pp. 103-131.

 

  Organico, strutturale, nella Comédie humaine, l’intreccio fra il quotidiano, il magico e il razionale, si sviluppa nel Cousin Pons giungendo a particolari coloriture, non facilmente percebili (sic) dal critico-lettore che non si sia fatto un po’ la mano in mestieri e scienze di magia e alchimia ed ermetismo e astrologia e stregoneria e via dilungando in arti di magia che tutte le comprende; la mano per così dire, a sfogliar libri e libri e scrutare sfere e tavole donde emana l’angoscia, la ricerca di conoscenze, della scienza, e della scienza delle scienze, là dove fremiti freddi e ossessivi, ardenti ed escandescenti, si placano nella scrittura e nelle immagini quanto nei segreti orali e nelle pratiche occulte di mestieri oracolari: l’ascoso, il sibillino, l’ambiguo come mezzi e rifugi di conoscenze proibite e sommerse come anche, a seconda, fastose e svettanti nella società dai confini difficili, tracciabili artificialmente in tal genere di cose supernaturali, figuriamoci poi se in più supernazionali in un’Europa rosa (da rodere) da crivelli che tutta la prendono. [...].

  L’atto di parola di Balzac figura anch’esso il magico: inesauribile e rituale ripetersi di temi, personaggi e ambienti. Ma questo poco importa, banale. Ogni grande scrittore è mago, che scopro? Balzac «sorcier»? E allora andremo a verificare se è fondato «le dicton affirmant que tout sorcier finit par être étranglé»?[1]. Non ho pensato a ricavare il «thème de nativité» di Balzac, a interrogare le sibille preposte o disposte a tal genere di parola, e quindi non so, non posso prevedere come Balzac finirà, se di buona o mila morte, se disteso o bruciato o strozzato dalla garrota del diavolo. Il ‘profano’ dice, pur mettendo la mano sui libri: staremo a vedere, e dovrebbe invece dire: non mi è dato (non mi va) di prevedere. Professione di umiltà, di qua da ogni possibile ciarlataneria e cialtroneria. Vendere l’anima al diavolo è sempre a prezzo molto alto: e Faust non è il solo personaggio esemplare di un patto infernale e vitale. Ma non confondiamo Faust con Goethe, sublime poeta che ha strangolato il suo diavolo interiore in/con Faust, e così non confonderemo Balzac né con questo né con quello dei sui numerosi personaggi indiavolati. Raphaël finisce si strangolato dal diavolo, e Balzac svolge la funzione illustrativa di un sacerdote del male, che mostra grandezze e miserie e morte di un consumato dall’energia intellettuale e passionale: e talismano e «peau de chagrin» e occhi fosforescenti e saggezza orientale e scrittura cabalistica, tutti mezzi e rivelatori di un fantastico che penetra il quotidiano e il presente, hic et nunc; ma questo è fin troppo ovvio, facendo parte delle «Etudes philosophiques» a questo scopo e illustrazione intese. Io del fantastico usato della Peau de Chagrin poco mi curo, usato e ovvio cioè, salvo indicare necessità di lettura non solo, superficiale (ma profonda e dialettica in aggiunta); mi curo d’un fantastico vergine ove scopro la chiave rivelatrice di un bisogno tremendamente esaltante del magico irradiato in ogni cosa e perfino là dove meno si sospetterebbe, come è per l’appunto essenza del magico in parola. [...].

 

 

  Vito Carofiglio, Un dottore in lettere gastrologiche e un “estomac incompris”: Balzac e Pons, «Lectures», 2, settembre 1979, pp. 89-118.

 

  [...]. pp. 110-113. Piacere della suzione e incorporazione di alimenti sono due fasi e due aspetti della attività orale, che ricoprono, nascondono, comprendono, mete pulsionali anche in un quadro clinico normale (Freud e successori lo confermano). In un quadro di evidente alterazione psichica, e diciamo psico-sociale, come quello ipotizzato da Balzac per Pons, c’è solo da osservare la maggiore facilità (e non difficoltà) di lettura, poiché il narratore ha voluto mettere in luce, attraverso i vari tropi usati, la relazione di sostituzione della pulsione sessuale (con tutti i suoi molteplici meccanismi ed espressioni) con la pulsione gastro-orale. E teniamo presente che la soddisfazione della «gourmandise», come della sessualità, implica parecchie zone gusterogene e sensi diversi: la vista, l’odorato, l’udito, il tatto, il gusto, intervengono tutti nella cultura della «gourmandise» come della sessualità.

  Il fantasma dell’incorporazione (e del cannibalismo) è potente nella prassi gastronomica, nei riti che l’accompagnano e nei miti che vi fioriscono intorno. La bruttezza mostruosa di Pons significa la negazione della sua sessualità eterosessuale: gli mancano i successi con le donne, perché le donne ravvisano nel mostro la negazione della sua virilità. La sessualità eterodiretta di Pons è deviata in parecchie direzioni, si ramifica in tre entità surrogatorie specifiche: collezione, gola, amicizia (per Schmucke) (che viene a inglobare musica). E Pons assume proprietà ‘femminee’; Pons, per rimanere solo alle questioni di gusto orale, più che «gourmand», è «friand». [...].

  Potremmo dire che, a livello immaginario, Pons rappresenta tipicamente la bisessualità: quella femminile è surrogatoria e secondaria, ma presente e discernibile. Il suo gusto per le «friandises», la sua passiva accettazione del ruolo di «écouteur», lo stesso tipo di reazione all’insulto ricevuto che si trasforma in motivo di macerazione interiore e, meccanica fisiologica, di restringimento spastico del coledoco, con conseguente versamento della bile direttamente nel sangue. L’ittero: di questo, dal punto di vista medico, muore Pons. È una sintomatologia da soggetto femminile? Certamente no, in assoluto, però nell’ottocento si diceva che «les femmes sont plus sujettes à cette affection [l’ictère, la jaunisse] que les hommes» (A. Bossu, Nouveau Compendium médical, p. 439). Ed è la malattia la cui causa può essere anche morale. Ci crediamo? Sono concordanze che possono avere valore nella strutturazione immaginaria del personaggio da parte di Balzac. Infatti la tensione stessa del personaggio ha due poli: la «Gueule» e l’«Estomac», potremmo dire il polo femminile e il polo maschile fra loro correlati. La Gueule, la Bouche, la Parole, la Conversation (anche con Faussetés e Médisances): gli elementi femminili della nostalgia di Pons, della sua «mélancolie profonde». [...].

  Pons perde la sua identità (e dignità) originaria nel suo ruolo di pique-assiette: originarietà che è anche originalità. Nel suo ruolo di mangiatore subalterno e socialmente degradato egli si ritrova perfettamente. Gli duole fino allo spasimo, allo spasmo pardon, abbandonare le chances quotidiane di soddisfare la combinata Gueule-Estomac secondo il grado delle loro esigenze. Nella crisi che sopravviene alla sua estromissione dal «firmament bourgeois», egli vive drammaticamente la necessità di tenere in mora questa sua identità surrogatoria: e perciò si dibatte e si abbatte. Si potrebbe pensare che, messo nelle condizioni sia pur obbligate di svestirsi della sua seconda identità di accatto, egli possa sentire l’impulso e recuperare la sua autenticità: da ciò il gaudio dell’amico Schmucke, incredulo di fronte al ritorno more domestico alle usanze umili, non mistificate, della tavola del povero orgoglioso della sua povertà ma pago e felice del poco consentito dalla sua condizione socio-professionale (di artista). No, Pons non può perdere senza «regrets» la sua seconda personalità, che ormai gli si è incollata alla gola e al gaster, e che è ormai la sua vera autenticità. Pons non esiste nella sua purezza ‘antica’, egli è parte di un processo che fa la sua autenticità, la quale, per lui come per qualunque altro, non esiste in sé, e non è data una volta per tutte ab origine, ma si fa, ed è in relazione col processo produttivo di cui è parte: egli è un pique-assiette parassita della società borghese. La sua autenticità è questa: musicista è preso per la gola dalla grande famiglia borghese, ma non produttore di beni, né ‘rentier’. In questa sua particolare autenticità subalterna e sotto-terziaria egli recupera immaginariamente, mi pare, anche la sua tipologia maschile. Pons, che mangia, senza ‘pagare’ se non in «monnaie de singe» (parole vacue e belle promesse, ma di che?) i suoi anfitrioni, mangia le loro sostanze, le succhia, senza contropartita equivalente. Il suo modo di «écouteur» e di discreto assenziente è la figura del buon padre confessore, discreto e quasi assente: un surrogato di tutore, un sostituto dell’autorità paterna (possibile anche per i rapporti di età coi vari parenti del clan). Ritengo che l’estromissione violenta e il desiderio di vendetta apparentemente (cioè in superficie) non motivata, che lo colpiscono, rassomiglino parecchio a un atto immaginario di controcannibalismo iniziale, che si opporrebbe al cannibalismo fantasmaticamente non più sopportabile dagli anfitrioni-parenti: Pons succhiando le loro sostanze, li succhia; ingerendo cibi, ingerisce gli stessi dispensatori della «bonne chère» di cui è ghiotto. Processi e associazioni fantasmatiche che l’antropologia, la psicanalisi e l’etnopsichiatria, possono attestare. Ebbene, al cannibalismo fantasmatico di Pons a spese dei suoi parenti non più disposti a sopportarlo (giunge il momento dello svezzamento e della liberazione dalla tutela e sopraffazioni dei tutori grandi), si oppone un processo contro-cannibalico da parte dei parenti congiurati e guidati da una mente (la Presidente, figura di donna virile). Di qui il valore simbolico della messa a morte narrativa di Pons: la grande succhiata delle sue sostanze (la collezione della casa-museo), di cui beneficiano in gran parte i suoi ex anfitrioni. Così si conclude una relazione di voracità e di cannibalismo reciproco e differito fra parenti (differito nel profondo e ad altri livelli di realizzazione sociale).

  E Pons muore semplicemente come «estomac incompris» [...].

 

 

  Carlo Cassola, Poi Lawrence degradò le donne emancipate, «La Stampa», Torino, Anno 113, Numero 93, 27 Aprile 1979, p. 3.

 

  Il rapporto di Lawrence col femminismo è un po’ lo stesso di quello di Balzac con le ideologie borghesi. Balzac non fu certo tenero col liberalismo e con la democrazia; egli voleva un ritorno all'assolutismo regio. Lawrence guarda anche più lontano, a un mitico stato di natura in cui l’uomo è un animale e la donna gli è sottomessa. Il femminismo, cioè la coscienza delle donne, per il momento è grandemente inadeguato. Le femministe non si sono nemmeno rese conto che il principale responsabile della condizione subalterna della donna è il militarismo, cioè l'abitudine che hanno tutti i popoli della terra di prepararsi alla guerra. [...].

  Non c’è dubbio che egli sia stato un pioniere, che abbia annesso alla letteratura un nuovo territorio. Sono i tempi a fornirglielo, ma il merito di Lawrence resta lo stesso grande. Tutti avevano sott’occhio il cambiamento che si stava producendo: fu solo lui a percepirlo e a rappresentarlo. Così come tutti, al tempo di Balzac. avrebbero potuto parlare dell’affarismo, dell’espansione industriale, delle speculazioni di borsa, del ruolo sempre maggiore assunto dagli avvocati; insomma di tutta quella frenetica attività che Marx ci ha descritto nel Manifesto dei comunisti. Ma fu solo Balzac a parlarne, una quindicina d’anni prima di Marx.

 

 

  Giulio Cattaneo, Quei pantaloni rossi non piacquero a Balzac, «la Repubblica», Roma, 4-5 novembre 1979, p. 14.

 

  [...] George Sand riceve un giorno Balzac in vestaglia, pantofole gialle con frange, calze «civettuole» e pantaloni rossi: fuma un sigaro.

  «I begli occhi sono sempre scintillanti, e ha sempre l’aria stupida quando pensa», commenta Balzac. «E’ una madre eccellente e adorata dai figli; ma veste la figlia Solange da maschietto, e ciò non è bene». Anche Chopin si scandalizza al primo incontro con la Sand e con i figli Solange e Maurice; tutti e tre, tanto per cambiare, in pantaloni. Balzac conclude il ritratto definendola «un uomo»: «e lo è tanto più in quanto vuole esserlo». [...].

 

 

  Giulio Cattaneo, Balzac e centomila ananassi, «la Repubblica», Roma, 7 settembre 1979; 3 ill.

 

  Nel 1829, un secolo e mezzo fa, lo scrittore dava il via alla ciclopica impresa della “Commedia umana”.

 

  Nel 1819 Balzac ventenne abitava a Parigi in una rovinosa soffitta che si affacciava su cortili squallidi e panni stesi ad asciugare E giovane frequentava la vicina biblioteca dell’Arsenale e passava gran parte della notte «a comparare, analizzare, riassumere le opere sul cervello umano dei filosofi e dei medici dell’antichità. del Medioevo e dei due ultimi secoli». «Strappare alla natura i suoi segreti» era compito dello scienziato; ma lo scrittore, se voleva capire l’esistenza aveva bisogno di quella «universalità di conoscenze».

  Per due anni Balzac visse nella soffitta di Rue Lesdiguières come i poeti squattrinati delle Illusions perdues, spendendo venti soldi al giorno per l’alloggio, il pane, il latte, il salame e l’olio per la notte. Malvestito, usciva intrufolandosi fra gli operai del sobborgo, ne ascoltava i discorsi e finiva per sentirsi simile a loro prendendosela «coi capi officina che li tiranneggiavano» o coi «cattivi clienti che li facevano tornare parecchie volte senza pagarli». «Abbandonare le proprie abitudini, diventare un altro attraverso l’esaltazione delle qualità spirituali e giocare questo gioco a volontà, tale era la sua distrazione».


Sparuto e giallo.

 

  Dopo un apprendistato di miseria e di studi sul «mondo scritto e il mondo vivente», Balzac aveva «l’aspetto di uno che esca dall’ospedale»; e in queste condizioni, «sparuto e giallo», fece ritorno alla casa paterna. Da allora non volle più ritentare l’avventura del giovane povero, ma cercò in ogni modo di arricchirsi gettandosi in imprese editoriali, nell’acquisto di una tipografia e di una fonderia di caratteri, caricandosi di debiti e rischiando fallimenti. Spese pazze a Vienna e a Parigi, nascondigli per sottrarsi ai creditori e all’arresto per non aver prestato servizio nella Guardia Nazionale. Nel frattempo passava la notte a scrivere romanzi e una quantità di articoli su problemi di scienze naturali, di economia, di legislazione criminale. di chimica, oltre che di filosofia, religione, politica, storia militare, in un vorace enciclopedismo.

  Del ‘29 è il primo libro firmato, Le Dernier Chouan, che farà parte della Comédie humaine, un complesso di cento-quarantacinque romanzi, di cui novanta portati a termine, con la divisione in tre parti: studi di costume, analitici e filosofici. La prima comprenderà le «scene di vita privata», «scene di vita provinciale», «scene di vita parigina», «Scene di vita militare», «scene di vita di campagna».

  Nel 1835 Théophile Gautier, suo futuro biografo, incontrava Balzac nel lussuoso appartamento segreto di Rue des Batailles, dove si entrava soltanto grazie a tre parole d’ordine, spesso cambiate. Lo scrittore accoglieva i visitatori in un saio bianco stretto da un cordone e il cappuccio gettate indietro che scopriva il collo “taurino”; faccia dalle guance piene e colorite. occhi neri e splendenti come carboncini, fronte ampia e nobile, sormontata da criniera bruna e ispida, «naso quadrato in punta» dalle narici aperte («Badate al mio naso: il mio naso è un mondo!»), labbra spesse. L’espressione abituale era ilare, «di allegria rabelaisiana e fratesca», voce «piena, sonora dal timbro di rame ricco e poderoso». Conversatore impareggiabile, con scoppi di riso che precedevano come una “fanfara” le caricature e le facezie, le fantasmagorie comiche e bizzarre, le tirate da grande attore. Ora aveva invece la serietà di Athos parlando «alla luce di due Verità eterne: la Religione, la Monarchia».

 

Tesori perduti.

 

  Così lo vide Gautier, che lo sempre messo a parte di progetti per far denaro, il denaro che domina tutta la Comédie humaine: Balzac sognava lo sfruttamento delle miniere d’argento in Sardegna, comprava un terreno e una casa, i Jardies pensando di piantarvi centomila ananassi, dei quali «già aspirava il profumo tropicale con le nari avidamente socchiuse» mentre guardava la neve scendere sui tristi declivi argillosi. Credeva al magnetismo e si serviva di veggenti e di sonnambuli per ritrovare tesori perduri: gli amici dovevano provvedersi di picconi, zappe, pale e poi partire tutti segretamente su un vascello verso l’isola del tesoro. «All’idea di quel metallo», la mente di Balzac, nuovo Figaro, diventava un vulcano. Fondò l’associazione del «Cavallo rosso» e i pochi affiliati avrebbero dovuto «impadronirsi dei giornali, invadere i teatri, occupare le poltrone dell’Accademia, raccogliere filze di decorazioni e finire modestamente pari di Francia, ministri a milionari». I soci si sarebbero sostenuti a vicenda decretando gloria immortale agli amici e distruggendo i nemici con beffe e maldicenze.

  A quel tempo Balzac attirava l’attenzione con la sua eccentricità, l’abito azzurro dai bottoni d’oro massiccio, la canna dal pomo di turchesi. I Jardies, uno chalet encomiato da muri che si ostinavano a crollare in una zona completamente priva d’alberi, avevano stanze decorate di scritte a carbone: «tappezzeria Gobelin», «specchio veneziano», «quadri di Raffaello». Ma Balzac abitò anche in appartamenti arredati con magnificenza come quelli di Rue des Batailles e, ancora più, di Rue Fortunée con una galleria rischiarata dall’alto che ricordava il museo del «cugino Pons». Non vi saranno state le opere di Dürer, Cranach. Giorgione, Sebastiano del Piombo, di Latour e di Liotara raccolte dal cugino Pons, ma la casa dello scrittore era gremita di mobili intarsiati di rame e tartaruga in stile Boulle, di porcellane di Sassonia e di Sèvres che pure non mancavano nella collezione del romanzo. Dimesso il dandysmo degli anni Trenta, Balzac usciva al mattino, per portare alla tipografia i manoscritti, con una tuba spelata, una giubba da caccia verde dai bottoni di rame a testa di volpe, i pantaloni quadrettati, grosse scarpe, un fazzoletto rosso attorcigliato al collo, in un abbigliamento gualcito e trasandato anche se stravagante. Non rinunciava comunque agli arredamenti sontuosi, perché era convinto che a Parigi non si credesse al genio in miseria.

  Il piano della Comédie humaine è impressionante: anche a tener conto delle sole opere scritte e pubblicate, nessun narratore europeo si avvicina lontanamente a quella mole di lavoro, nemmeno il fecondissimo Zola che pure visse undici anni di più. Balzac scriveva di notte, alla luce di sette candele, nel proprio appartamento segreto, nelle case degli amici dove sì rifugiava per sfuggire ai creditori, anche in prigione, dove scontò il mancato servizio alla Guardia Nazionale. La realtà era straordinariamente ricca, superiore ad ogni immaginazione, ma uno scrittore innamorato dell’eccesso come lui riusciva a ingrandirla, a dilatarla, avvicinando e allontanando personaggi e oggetti «con gli ampliamenti e le soppressioni dell’arte». Penetrava sicuro in qualsiasi ambiente: nei palazzi aristocratici e nei tuguri, nelle caserme e nei teatri, nelle pensioni a basso prezzo e nei tribunali, nelle case dei contadini e nel magazzino di un antiquario. Prima di lui, nessuno aveva rappresentato con tanta attrazione e disgusto la vita del giornale, il regno dell’editore, la bottega del libraio. Percorreva Parigi in lungo e in largo: secondo un bel rilievo pittorico di Gautier, «non c’era viuzza appartata, passaggio malsano, strada angusta melmosa e buia, che non diventasse sotto la sua penna un acquaforte degna di Rembrandt, piena di tenebre formicolanti e misteriose in cui brilla una tremolante stella di luce».

 

Epopea moderna.

 

  Assimilava tutti i gerghi «della scienza, dell’officina, del palcoscenico», costruiva i grandi feticci nella narrativa ottocentesca: l’industria, le banche, i giornali. Descriveva per la prima volta l’uomo, osserva Curtius, come «un essere condizionato da agenti psichici, ma anche da secrezioni organiche»: «Nella sua epopea moderna Balzac ha tenuto a sottolineare l’influsso della malattia, delle anomalie fisiologiche, delle tare segrete e delle loro reazioni sulla vita morale del singolo e sui suoi rapporti con l’ambiente». La fisiologia diventava quindi una scienza ausiliaria della psicologia e della sociologia: anzi il punto di vista fisiologico si applicava all’esame della storia. Balzac intendeva illustrare le «Specie Sociali» come Buffon aveva fatto con le «Specie Zoologiche».

 

Il grande pettegolo.

 

  La sua impresa stupisce come le sette meraviglie del mondo antico ma, oltre l’architettura grandiosa e la conoscenza delle forze che governano la società moderna, sono ammirevoli i mille particolari: i ritratti, i giochi di luce, l’infinitamente piccolo visto attraverso una lente prodigiosa, il tocco morbido col quale si accarezzano gli amati pastelli e smalti.

  L’influenza di Balzac sulla narrativa europea è stata enorme: nella avventura del giovane provinciale senza mezzi alla conquista di Parigi ha precorso, per esempio, Flaubert, Maupassant, Eça de Queiros. Preoccupato delle eventuali accuse di immoralità, Balzac faceva l’elenco delle figure «irreprensibilmente virtuose» che non mancavano certo nella Comédie humaine; ma la sua avidità dei fatti umani, la sua natura di «grande pettegolo» lo portavano a occuparsi di tutti, ritraendo con cupidigia gli avventurieri, gli imbroglioni, bellimbusti nel gran pandemonio di Parigi.

 

 

  Francesco Cioffi, Balzac jeune épistolier. Tesi di laurea, Milano, Istituto di Lingue Moderne, 1979, pp. 97.

 

 

  Pietro Citati, Parigi e l’infinito, in Il velo nero, Milano, Rizzoli Editore, 1979, pp. 105-107.

 

  Cfr. 1973.

 

 

  Gianfranco Contini, Un paragrafo sconosciuto della storia dell’italiano letterario nell’Ottocento, in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Giulio Einaudi editore, 1979 («Paperbacks», 96), pp. 207-217.

 

 

  Carla Curina, Pene d’amore per la gatta, «Stampa Sera», Torino, Anno 111, Numero 312, 24 Novembre 1979, p. 14.

 

  I milanesi sono impazziti per una gatta. E’ splendida. Il pelo morbido e candido come una nuvoletta di panna montata, le labbra del rosa più tenero, gli occhi verdissimi pieni di languore e di malia. Nessuno sa muoversi con più grazia. Nessuno sa civettare con più innocente malizia. Nessuno sa amare con più slancio. Il suo nome è Beauty. E’ la protagonista di Pene di cuore di una gatta inglese, una commedia tratta da una novella di Balzac messa in scena da Gruppo Tse formato da attori francesi ed argentini. Questa raffinata favola dopo una serie di successi (il debutto è avvenuto nel ‘77 in Iran al Festival di Shiraz) è ora approdata al Teatro dell’Arte dove gli spettatori si affollano per applaudire i bravi interpreti travestiti con i panni di animali fantastici che sembrano usciti da vecchie stampe d’epoca. Vi è un pavone impettito che gioca in Borsa, una volpe un po’ tonta in divisa da ufficiale, una cagnona affettuosa e pettegola con tendenze particolari, una cornacchia vestita di seta nera tutta chiesa e belle maniere. E poi una miriade di gatti tra cui la dolce Beauty. [...]. Con Beauty poi non ci si annoia mai. E’ una gattina dalla personalità affascinante, complessa e multiforme. [...].



  Maria Teresa Da Vinchie, La “Physiologie du mariage” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea, Università degli studi di Padova, 1979. 

 

 

  Ramon Fernandez, Il metodo di Balzac: il racconto e l’estetica del romanzo, in Messaggi. Introduzione di Gianfranco Rubino. Traduzione di Paola Ricciulli Marchetti, Palermo, Sellerio editore, 1979 («La civiltà perfezionata», 32), pp. 60-81.

 

  Presupposto che i romanzi di Balzac sono chiaramente composti da elementi eterogenei, è lecito domandarsi in quale misura questi romanzi sono opere d’arte nel vero senso della parola. Mi sembra che questo problema presenti un duplice interesse: è relativo all’estetica ancora così confusa del romanzo e riguarda il meno misterioso dei romanzieri, colui che ha esposto più sinceramente i suoi procedimenti sotto gli occhi del lettore. Proprio per questo la sua soluzione ci permetterà forse di definire con una certa chiarezza due o tre aspetti dell’arte del romanzo. Ma conviene, necessariamente, abbozzare dapprima per sommi capi il volto del romanzo, basandoci sulla pratica del romanziere e su un’esperienza europea già più che secolare.

  Niente di valido potrebbe essere detto sul romanzo prima di averlo distinto da ciò che, in mancanza di un termine migliore, chiamerò il racconto, per la buona ragione che, essendo il romanzo ed il racconto intercambiabili quanto al loro oggetto, vengono costantemente presi l’uno per l’altro. Leggete per esempio queste righe di uno spirito notevole, ma poco familiare con la tecnica elei romanzo: «Non ci deve essere nessuna differenza essenziale tra il romanzo ed il racconto naturale delle cose che abbiamo visto e sentito ... Una sola legge, ma sotto pena di morte: è necessario – e del resto è sufficiente – che il seguito ci trascini e anche che ci aspiri verso un fine che può essere l’illusione di avere vissuto violentemente o profondamente un’avventura, oppure verso quello della conoscenza precisa di individui inventati».

  Questa intelligente definizione, oltre al difetto di essere ugualmente adatta al romanzo e al racconto, lascia capire che il romanzo potrebbe anche essere un genere amorfo, il meno possibile estetico, sempre pronto a confondersi con il puro nulla, il che non è assolutamente esatto. Al contrario, un romanzo riuscito è senza dubbio il più artistico di, tutti ingeneri proprio perché il suo equilibrio estetico è più interiore, più indipendente da regole apparenti e fisse; ed è proprio per questo che è difficilmente definibile e facilmente riconoscibile quanto un giudizio intelligente ed un atto abile. Ecco come potremmo distinguere il romanzo dal racconto: il romanzo è la rappresentazione di avvenimenti che accadono nel tempo, rappresentazione che obbedisce alle condizioni di manifestazione e di sviluppo di quegli avvenimenti. Il racconto è la presentazione di avvenimenti che sono accaduti, la cui riproduzione è regolata dal narratore in conformità alle leggi dell’esposizione e della persuasione. Distinzione provvisoria e molto imperfetta, ma è meglio che niente: non ci permette forse di riconoscere in Adolphe un racconto puro, in Madame Bovary un romanzo e in Le Cousin Pons un prodotto che ha qualcosa del romanzo e del racconto senza essere completamente né l’uno né l’altro? Ma esaminiamola da vicino e tentiamo di esprimerne tutto il significato. Ci sembra il miglior modo di avviare la critica del metodo balzacchiano.

  La differenza essenziale è dunque che il fatto del romanzo accade, mentre quello del racconto è accaduto e che il racconto si ordina intorno ad un passato e il romanzo in un presente non verbale, ma psicologico. Il fatto del racconto, sottratto all’azione tempo ed a un posto effettivo nello spazio, è trasposto in idee, se così posso dire; il narratore ha dunque il diritto di rappresentarlo con una serie di segni più o meno astratti che definiscono la scena o lo stato d’animo da riprodurre: «La marchesa gli fece comprendere, con una di quelle manovre in cui le donne eccellono, che non occupava più il primo posto nel suo cuore. Ella cominciò con una scena abbastanza viva in cui lo convinse con freddezza su parecchi punti, ecc.». «Pronta a sfidare la società, ma esitando ed arrivando all’artificio in conseguenza dei suoi scrupoli; avendo più caparbietà che carattere, più infatuazione che entusiasmo, più testa che cuore, ecc.». Il racconto sostituisce in questo caso alla scena della marchesa e alla descrizione concreta del carattere di Madame de Langeais degli schemi astratti che le semplificano: il racconto fa conoscere, e non nascere, i fatti.

  Esaminando il passato, il vissuto, il terminato, il racconto non è dunque obbligato a rispettare i caratteri dello sviluppo effettivo e vivente di una scena o di un complesso psichico: può sostituire loro, e in realtà avviene spesso, un modo di presentazione che si avvicina da una parte al ragionamento e alle leggi intellettuali di combinazione, dall’altra alla descrizione e alle leggi generali della descrizione. Difatti, appena si finisce di esprimere una vita al presente che porta con sé la certezza per il suo stesso svolgersi nel tempo, appena si vuole raccontare, rendere conto, far conoscere, si ricorre volentieri ai mezzi più adatti a dimostrare e a convincere, si cercano le ragioni degli atti e il seguito intellegibile dei sentimenti che spesso non si confonde con il loro seguito reale. Siccome l’oggetto della narrazione non è più funzione delle coscienze individuali e della loro relazione in uno spazio e in un tempo concreti, e siccome si deve convincere di più nella misura in cui si fa vivere di meno, il narratore risale spesso la serie causale fino alla regione astratta delle cause generali e sposta il centro di gravità dell’opera che colloca in un luogo ideale. Così, il racconto tende a sostituire un ordine di esposizione concettuale all’ordine di produzione vivente, e le prove razionali alle prove estetiche. Certamente, le cose non accadono così chiaramente come le riflessioni precedenti potrebbero far credere. Abbiamo appena descritto il lavoro più o meno cosciente del narratore prima della redazione propriamente detta, e tutto accade, dopo, come se questo riproducesse immediatamente la realtà. Ma si riconosce facilmente un racconto dal punto di vista e dalla libertà di spostamento del narratore; dal metodo di esposizione solitamente deduttivo che ci porta dal generale astratto all’individuo concreto; dall’organizzazione dell’analisi, collegata razionalmente e indipendente dall’azione fino a formare talvolta dei gruppi isolati e autosufficienti; dal valore puramente illustrativo di questa azione che non aggiunge niente all’analisi e sembra, al contrario, determinata e giustificata da questa; da un’indipendenza relativa del narratore nei confronti delle condizioni di produzione spontanea della vita; infine, dall’aria e dal tono della narrazione, dal modo in cui l’autore aggiunge, sopprime, unisce, crea e lega insieme le parti astratte e le parti concrete del racconto.

  Ma c’è di più. Un racconto non è né un’arringa né un rapporto al Consiglio di Stato; non è un’opera puramente razionale; è in relazione diretta con la vita che racconta, la descrizione della realtà vivente e la riuscita di questa descrizione resta in fin dei conti il suo obiettivo principale e la misura del suo valore. Il narratore deve dunque risalire la china della sua concezione iniziale, stabilire un rapporto di giustificazione reciproca tra le sue idee e le rappresentazioni concrete che formano la parte estetica dell’opera. Ma un racconto risentirà sempre delle modalità della sua genesi, del lavoro intellettuale che ha presieduto alla sua formazione. Potrà anche moltiplicare le false apparenze, variare gli effetti, tradurre giustamente e bellamente le emozioni del narratore, ma non potrà fare in modo che la cosa raccontata non sia terminata, che la rappresentazione non ne sia indipendente e non obbedisca alle leggi di combinazione dello spirito impersonale. Anche la presentazione dei personaggi sarà descrittiva, il che significa che la loro esistenza dovrà essere determinata dalla descrizione, e l’analisi si appoggerà più volentieri su legami causali che su una successione vivente. C’è di più. Dato che il movimento della vita non regola il corso del racconto, sarà assolutamente necessario sostituirlo con combinazioni più o meno intellettuali il cui «concatenamento» farà «avanzare» l’opera e nello stesso tempo la equilibrerà. In ciò che viene chiamato in Francia un romanzo ben fatto, spesso bisogna vedere soltanto un racconto organizzato abilmente, nel senso in cui si dice che un giocatore di scacchi organizza abilmente la sua partita.

  È facile opporre ora, allo schema del racconto puro, lo schema del romanzo puro. Il romanzo trova la sua base e il suo centro di gravità là dove il racconto cerca la sua conferma e la sua conclusione: nell’evocazione spontanea e immediata della vita morale e fisica, nel corso imprevedibile di una durata psichica o di un’azione. Scene e analisi si ritrovano nel racconto e nel romanzo, ma sotto forme così differenti che un lettore esperto non può sbagliare. Il romanziere traduce la vita nel momento in cui si fa, ne esprime fedelmente le tortuosità e il ritmo e la sua intelligenza appare diretta piuttosto che direttrice. Il romanzo puro testimonia sia della facoltà toccata all’autore di rendere l’atmosfera e le sfumature di una scena immaginaria come se fosse lo spettatore di una scena reale, sia della sua facoltà di vivere della vita interiore di un personaggio diverso da se stesso. Lungi dall’essere, come nel racconto, le spiegazioni di un pensiero che le prepara e le costruisce, le scene di un romanzo sono le uniche testimonianze del suo realismo, così come le motivazioni dei suoi personaggi, lungi dal rappresentare i termini ultimi di un ragionamento causale, sono i primi dati di ogni ragionamento, di ogni ulteriore pensiero. Esiste anche un mezzo infallibile per riconoscere un vero romanzo: è sufficiente constatare che il concatenamento delle rappresentazioni sensoriali e psicologiche non dipende affatto da un ragionamento o da un ordine di produzione che non sia quello della vita, e che i personaggi non siano avvicinati, disegnati dall’esterno, ma colti da una specie di intuizione analoga a quella che ci mette in relazione con gli individui viventi. [...].

  Molti racconti – particolarmente la maggior parte di quelli di Balzac — finiscono per sconfinare nel romanzo e sono pochi i romanzi in cui la costruzione, l’annotazione dei sentimenti, i passaggi, la concezione dell’intrigo, non rivelino nell’autore una preoccupazione di intelligibilità e il gusto delle lunghe ripetizioni e delle combinazioni intellettuali. Ma è importante sapere che il processo di formazione dell’uno e dell’altro sono essenzialmente distinti. Ora, a nostro avviso, quello del romanzo dipende sempre dall’estetica mentre quello del racconto è ambiguo e spesso extraestetico. La realtà umana e non umana del romanzo è una sintesi immediata, una «posizione assoluta», sia per l’autore che per il lettore; sintesi che si giustifica e si dimostra, se così si può dire, con l’armonia e l’equilibrio intrinseco dello sviluppo. Il romanzo, come la vita, ci immerge in una presenza iniziale e ci orienta verso l’avvenire; ne conosciamo i personaggi con certezza, ma senza sapere perché, e non pensiamo a contestare la realtà delle scene più di quanto non penseremmo a negare gli avvenimenti che si svolgono sotto le nostre finestre. Il romanziere non può raggiungere questo risultato se non con un’intuizione e con dei procedimenti estetici, mentre l’autore del racconto tende a provare la parte estetica della sua opera con delle considerazioni e dei procedimenti extraestetici. Nel romanzo, l’idea viene suggerita dalla rappresentazione concreta che la rivela in qualche modo in trasparenza; nel racconto quella rappresentazione è determinata dall’idea, o almeno esposta secondo una linea ideale ed astratta.

  Se le osservazioni che seguiranno sono giuste, Balzac avrebbe avuto l’idea e la volontà di realizzare il romanzo così come ho appena cercato di definirlo e così come lo hanno realizzato i Russi, gli Inglesi ed i Francesi della seconda metà del secolo scorso; ma impedito da differenti circostanze storiche e psicologiche, non avrebbe potuto realizzare generalmente che un compromesso tra il romanzo ed il racconto, una sintesi potente ed artificiale, pensosa e geniale, che non sarebbe sfata né completamente un’opera di pensiero né completamente un’opera d’arte. In altri termini, desideroso di produrre un effetto sorprendente con l’evocazione della realtà concreta, avrebbe ottenuto questo risultato soltanto con dei mezzi astratti, sostenendo tutte le parti di quella realtà con un’armatura e delle giunture concettuali. Ne deriverebbe una confusione costante della prova estetica e della prova razionale poiché il lettore non saprebbe mai con precisione se il sentimento che ha della realtà di una scena non è invece un’illusione dovuta alla verità del commento che lo inquadra. Balzac compie la sua sintesi in nostra presenza invece di presentarcela completamente compiuta; ed ecco perché la verifica di questi giudizi è relativamente facile. Con una tenacia conturbante ed un’audacia orgogliosa prepara, lavora, spreme l’opera come il Père Goriot deformava la sua zuppiera d’argento dorato, di notte, nella sordida mansarda della pensione Vauquer. Non avremo la stessa difficoltà a determinare successivamente come stabilisce la realtà dei suoi personaggi, come esprime la evoluzione dei loro caratteri e come concepisce il senso e la dinamica dell’azione.

  Posizione dei personaggi. Abbiamo detto che nel romanzo l’esistenza dei personaggi doveva essere una «posizione assoluta» e il perché è evidente: siccome il romanzo descrive la vita presente nel momento in cui si fa, i personaggi sono forzatamente degli individui la cui esistenza e unità possono essere colte soltanto attraverso un’intuizione di insieme: devono vivere prima di essere pensati. Dimitri Roudine, M.me Bovary, Jude, Diana of the Crossways, autentici personaggi di romanzo, li conosciamo guardandoli vivere, ma dapprima, e soprattutto, attraverso il sentimento indefinibile del loro essere. Al contrario, i personaggi di Balzac sono stati delle idee pensate prima di essere individui viventi e ci viene subito sulle labbra una domanda: sono degli individui? La risposta è che finiscono per diventarlo, risposta che solleva gravi difficoltà. È stato spesso detto che Balzac preparava minuziosamente i protagonisti dei suoi drammi, ma converrebbe dire piuttosto, a mio avviso, che li fabbricava abilmente, perché l’individuo determinato non aggiunge niente per se stesso, alle linee astratte di cui è l’intersezione. Precisiamo: in genere, Balzac compone i suoi personaggi combinando tra loro tre specie di procedimenti: la definizione di uno stato civile e storico che lo situi nel tempo e in un gruppo sociale ben definito; una deduzione psicologica che parte da concezioni generali e sfocia in alcuni tratti che costituiscono il carattere del personaggio; una descrizione quasi esclusivamente visiva che comprende il suo quadro abituale e la sua abitazione, oltre che il suo volto, il suo corpo ed il suo abito.

  La concezione del personaggio è il fatto più importante di questi procedimenti e rappresenta la sua genesi. Ora, è facile vedere che in Balzac si tratta di un’operazione puramente intellettuale, a priori in rapporto all’individuo, poiché i tratti particolari attribuiti a quest’ultimo rappresentano le differenze specifiche ottenute con divisioni e suddivisioni praticate in un genere. Questo genere è abitualmente psico-sociale, perché la concezione e la definizione di uno stato civile non sono, frequentissimamente in Balzac, che una sola e una stessa operazione dello spirito che assume spesso il movimento meccanico di una dicotomia abbastanza monotona: Butscha (Modeste Mignon) è opposto a Goupil (Ursule Mirouët), il cugino Pons alla cugina Bette, Madame de l’Estorade a Clotilde de Grandlieu (Mémoires de deux jeunes mariés [sic]), il marchese d’Espard a sua moglie (L’Interdiction), il giudice supplente Popinot al giudice istruttore Camusot, ecc. Si tratta di distinzioni astratte operate su dei concetti che rappresentano tutte le possibilità che risultano da circostanze psicologiche e sociali date. Procedimento dialogo a quello dei moralisti, particolarmente di La Bruyère, che comporta il fatto che l’individualizzazione sia una specie di spiegazione e di prova del pensiero e non una sintesi iniziale. Balzac va così lontano in questa direzione che i suoi ritratti più delicati e apparentemente più individualizzati hanno, per rovescio, una armatura psico-sociale astratta: Le Lys dans la Vallée, per esempio, è l’analisi esaustiva dell’azione reciproca dell’amore casto e di una situazione sociale definita piuttosto che essere la storia di M.me de Mortsauf. Ed è proprio questa analisi che conferisce all’opera la sua coerenza e la sua solidità.

  La descrizione ha lo scopo di dare un’apparenza di vita individuale a questi tipi generali. Balzac testimonia di un’intensità visiva veramente prodigiosa nelle sue descrizioni che, però, non sono sempre viventi. Una descrizione vivente – rileggete quelle di Lori e di Hardy — è composta da tratti scelti in tal modo che la sintesi dell’oggetto si realizza immediatamente nella nostra coscienza; abbiamo l’impressione dell’insieme perfino quando ci viene dato soltanto un dettaglio, e la libertà di immaginazione relativa che ci viene lasciata è uno dei fattori dell’intensità dell’evocazione: il che vuol dire che l’artista sa risvegliare in noi un equivalente affettivo dell’oggetto che lo rappresenta, Balzac, dandoci un inventario completo dell’oggetto, ce lo fa conoscere bene ma direttamente, brutalmente, con mezzi non estetici. Se non lo ricompone mentalmente, pezzo per pezzo, il lettore non potrà coglierlo nella sua unità e non ne conoscerà che le parti che sarà capace di abbracciare con un’occhiata; non gli viene dato il mezzo di penetrare la realtà che si offre a lui. C’è di più: invece di conferire a questa enumerazione l’unità di una visione concreta immediata, Balzac, con i termini tecnici che usa e anche con l’eccesso stesso dei dettagli che annota, avvicina gli elementi della descrizione alla loro definizione oggettiva, in conseguenza della loro essenza concettuale: la descrizione balzacchiana è una ricostruzione dell’oggetto in sé ad opera di un’intelligenza che dopo aver visto, ha concepito la sua visione ed ha ricostruito, seguendo una linea astratta, la sua esperienza sensibile. Così scopriamo perfino nella descrizione dei personaggi e del loro habitat quella determinazione astratta, quel passaggio attraverso il concerto che abbiamo trovato all’origine della concezione dei tipi.

  La descrizione balzacchiana è comunque una solida base sensoriale per la posizione degli individui. L’artificio di Balzac consiste anche nel comporre questa descrizione in modo da stabilire un’equivalenza rigorosa tra i tratti fisici ed i tratti mentali al fine di farci conoscere, descrivendo la persona e l’habitat (cioè, secondo le idee di Balzac, facendo opera d’artista), il carattere e i costumi dell’individuo. Gli è anche successo di fare il ritratto di una donna soltanto descrivendo la sua dimora! Ma si tratta soltanto di un travestimento per un pensiero che rimane astratto, deduttivo e che determina a priori il rapporto tra il visibile e il morale, e credo che abbiamo qui la spiegazione di quelle sorprendenti leggi «scientifiche» che facevano sorridere Taine. Riassumendo: da una parte la genesi dell’individuo è una combinazione concettuale deduttiva, dall’altra la sua apparenza è il simbolo rigoroso dei concetti che l’hanno formato. Le sottili sfumature con le quali Balzac lo caratterizza non fanno che mettere in rilievo la quantità astratta della specificazione. Nessun gioco, nessuno spazio tra l’individuo e le coordinate astratte che lo determinano: luogo d’incontro di parecchi schemi generali, è sempre sul punto di disperdersi in idee e la sua unità è mantenuta soltanto dall’intensità convincente della visione balzacchiana. Ma, lo abbiamo visto, l’individuale, esteticamente parlando, è un’esperienza immediata che una suddivisione razionale è incapace di comunicare. Nella posizione dei personaggi, le idee di Balzac si avvicinano moltissimo all’individuale senza mai raggiungerlo come quelle serie frazionistiche che tendono infinitamente verso l’unità.

  L’evoluzione del carattere e l’azione. Vediamo ora se l’individuo si sbarazza nel corso del romanzo della sua armatura astratta e se se ne libera nell’azione. Tocchiamo qui uno dei punti più singolari dell’estetica balzacchiana: voglio parlare di un’antitesi intrinseca tra la concezione della vita e la sua espressione. Se la sintesi estetica dell’individuo non è compiuta, la sua determinazione è invece così rigorosa che non potrebbe sfuggire alla sua definizione. Di qui nasce quella specie di certezza che distingue gli atti dei protagonisti balzacchiani e che viene spesso scambiata per una qualità artistica, mentre è di natura logica: essendo la loro evoluzione una deduzione, non abbiamo, come in un romanzo, l’impressione di essere di fronte alla stessa persona, ma quella di assistere allo sviluppo di uno stesso sentimento. Vuol dire che l’evoluzione dell’individuo rimane al di fuori dell’individuo, poiché si tratta della deduzione dello schema psicologico di cui è il veicolo. Ci sarà facile, mi sembra, verificare l’esattezza di questa proposizione mettendo in luce in Balzac una tendenza a regolare la curva del racconto sia su di un processo psicologico determinabile a priori, sia su di un’azione oggettiva, esteriore agli individui e in rapporto alla quale hanno quasi il ruolo di pedine su una scacchiera.

  Il movimento del racconto balzacchiano è assicurato da quattro fattori, spesso associati nella stessa opera: l’evoluzione di una passione, la deduzione di un «caso» psicologico, la discussione di un affare giuridico ben definito, una serie di combinazioni intellettuali comunemente chiamate intrigo. Vedremo che Balzac sceglie così dei fattori dinamici prestandosi a un lavoro di concetto puro.

  È stato spesso sottolineato il carattere monomaniaco della passione nei personaggi di Balzac; in realtà la curva della passione è determinata a priori e il personaggio da essa posseduto non fa che rappresentarne le tappe successive. Questa passione presenta in effetti due caratteri: è assoluta ed aumenta regolarmente e fatalmente. È dunque possibile descriverla senza ricorrere costantemente all’intuizione dell’individuo che, lungi dal regolarne l’evoluzione, è interamente disegnato da essa. Balzac si è preoccupato così poco di modificare la curva passionale che, non appena vediamo comparire in uno dei suoi racconti un personaggio passionale, possiamo subito prevedere il seguito e la fine dell’opera. Goriot, Grandet, Claës, Hulot sono un solo ed uno stesso uomo posto in circostanze psicologiche differenti, ma non tanto differenti perché la loro idea fissa non produca sensibilmente gli stessi effetti. Si sa per esempio che il monomane, dopo aver causato la sfortuna della sua famiglia, avrà un ritorno di tenerezza e di umanità, subito seguito da una ricaduta definitiva. Le azioni del personaggio, estremamente semplificate, saranno degli esempi e delle spiegazioni; le sue parole, quando non saranno, come lo sono troppo spesso in Goriot, delle analisi mascherate da confidenze, potrebbero essere definite delle parole-definizioni, cioè riassumono il carattere del personaggio in un sunto sorprendente in cui il lavoro analitico dell’autore è spesso sensibile («Ma potrò portare via la piccola» di Hulot; «bisogna che faccia il buon Dio» di Madame Marneffe agonizzante; «io sono inviata per salvare il morto» di Madame de Sérisy; «Mi renderai conto di questo laggiù» di Grandet, ecc.), in modo che questi gridi del cuore sono eccessivamente anche gridi dell’autore. Qui Balzac si ispira direttamente alla tradizione comica classica e bisogna riconoscere che ottiene degli effetti notevoli, oltre che commoventi. La descrizione della passione è adattata alla sua immaginazione nello stesso tempo eccessiva e rigida, convincente e goffa; gli permette di immaginare una linea vivente senza essere obbligato a riprendere continuamente contatto con la vita; e la sua visione è sostenuta, e legata, dallo sviluppo oggettivo quasi logico dell’idea fissa.

  Nella posizione e nella deduzione astratta dei cast psicologici, Balzac spende tesori di intelligenza che gli assicurano una sovranità incontestabile su tutti i moralisti presenti, passati e, senza dubbio, futuri. Nessuno meglio di lui ha conosciuto la vita media ed i mille aspetti che può rivestire un’idea sociale messa a contatto dell’esperienza: rileggiamo piuttosto quelle ammirevoli analisi in cui definisce le relazioni dei fidanzati e degli sposi (Mémoires de deux jeunes mariés, Une double famille, Le contrat de mariage, Une fille d’Eve, ecc.). Il ritratto di Natalie Evangelista, per esempio, è un capolavoro e l’atteggiamento di Félix de Vandenesse nei confronti di sua moglie porta con sé una delle situazioni più profondamente e più delicatamente naturali che siano mai state concepite. Ma dal punto di vista che ci interessa in questo studio, è essenziale sottolineare che l’accento cade in questi racconti sull’analisi astratta, concepita e trattata al di fuori dell’azione e prima di essa, e che questa azione ha soltanto un ruolo complementare. Piuttosto che opere d’arte, ci sembra di leggere i rapporti di un magistrato del cuore che, andando al di là del piano medio dei giudizi storici, mette a nudo le radici di un’azione sociale. Il procedimento di Balzac consiste qui nello stabilire una relazione tra certi caratteri e certe situazioni distinguendo il meno possibile, e sempre con delle osservazioni di dettaglio, l’individuo dall’interesse che rappresenta.

  In quasi tutti i racconti di Balzac troviamo una azione giuridica che possiede una logica intrinseca e uno sviluppo oggettivo, ma in qualcuno questa azione assume una tale importanza che diventa il vero tema dell’opera: il contratto di matrimonio nel racconto che ha questo titolo, il processo di interdizione ne L’Interdiction, il fallimento in César Birotteau. Considerate che questa azione obbedisce a leggi di sviluppo che le sono proprie e che derivano da un ragionamento giuridico, legale. Non ritroviamo forse qui lo stesso artificio e la stessa scappatoia che nella descrizione della passione, poiché l’autore procede secondo una linea oggettiva che può essere determinata a priori, non essendo la fatalità dell’opera, in realtà, che una combinazione concettuale di natura più logica che estetica ed essendo l’espressione della vita subordinata alla sua concezione?

  Così in Balzac la creazione e il movimento della vita restano al di fuori dell’intuizione. Siccome l’individuo non è enunciato ma determinato, siccome i suoi sentimenti non vengono espressi a mano a mano che si manifestano, ma concepiti, dedotti e applicati sul personaggio, così l’evoluzione di questo personaggio è regolata da combinazioni astratte nelle quali ha il ruolo di un pezzo di una macchina. Dopotutto non sono concepiti per vivere ma per servire da pedine in una manovra che sfocia in un risultato tattico. Voi che avete assistito con tanta emozione a quelle magnifiche nascite in cui l’intelligenza arrivava a produrre vita, voi che vi rallegravate di toccare su questi esseri di ragione la carne e le ossa dei vostri simili e che sentivate sotto l’involucro rigido dell’idea il palpito dei sentimenti del vostro cuore, a partire dalla metà del libro, qualche volta, dovete disincantarvi, dire addio ai vostri amici di alcune pagine perché stanno più o meno per morire: l’intrigo si impadronisce di loro, li dispone sul campo di battaglia, li attira nelle sue strette ed artificiali vie, li obbliga a rendere all’autore esattamente ciò che aveva dato loro. Senza dubbio, i loro atti, i loro gesti, le loro maniere e i loro gridi ve lo ricorderanno, ma quanto ridotti, quanto sterili, quanto meccanizzati! Come i pezzi di una scacchiera, ciascuno ha la sua forma, il suo posto, il suo movimento, il suo campo di corsa esattamente definiti: ma questa apparente diversità pone soltanto meglio in risalto l’a priori e la rigidità della loro determinazione. Chi non è rimasto colpito, leggendo Le cousin Pons o La Recherche de l’Absolu, dalla differenza di valori tra la preparazione e lo sviluppo? Quest’ultima opera in particolare ci fa l’effetto di un busto di Dio terminato con delle gambe di bambino. Ora, questo difetto nasce precisamente dal fatto che i personaggi sono determinati in blocco, al principio, e una volta per tutte, mentre in un romanzo vivente gli individui sono creati naturalmente in ogni pagina del libro. Del resto, il procedimento dell’intrigo permette a Balzac di sostituire il suo intelletto al movimento vitale e di fare dei suoi personaggi degli elementi di combinazione direttamente utilizzabili. Ed è per questo che Vautrin è forse la creatura più viva di Balzac, perché, riunendo in sé il destino degli uomini, diventa tutt’uno con Balzac che elabora il suo intrigo.

  Da dove nasce dunque l’estrema animazione dei racconti balzacchiani? Sarei tentato di scrivere che le storie di Balzac sono capitoli di moralista spiegati da un visionario straordinario e resi appassionanti dall’intrigo, come dei romanzi d’appendice. È forse un modo di dorare la pillola, di adeguare la rappresentazione dell’uomo all’angolo visuale di una democrazia i cui membri sono tormentati, poco colti e appassionati di sensazioni vive? Senza dubbio, ma c’è di più: c’è la potente personalità di un poeta, oserei dire di un lirico che è anche un ammirevole pensatore, e che, poco capace, come i suoi contemporanei, di creare degli esseri nello stesso tempo unici e liberi, è riuscito, con un prodigioso sforzo dell’intelligenza, a fabbricare una specie di modello astratto della vita che ne rappresenta in rilievo la forma esatta, ma rigida e semplificata. Per un’ironia singolare, ma comprensibile, il pensiero di Balzac resta, in quanto pensiero, infinitamente più elastico della forma vivente che lo rappresenta; di una esattezza incomparabile, viene di solito tradito dalla sua spiegazione. Per questo (per scegliere un esempio tra mille) si è potuto rimproverargli di avere dipinto male la gente del mondo mentre ne ha preparato degli ammirevoli quadri psico-sociologici; il fatto è che le critiche si basano sulle scene in cui vivono i personaggi, non sulle analisi in cui vengono definiti. E cosa dire delle scene presentate senza preparazioni astratte come quella tra Crevel e la baronessa Hulot con cui comincia La cousine Bette e quella, ahimè!, de La Femme de Trente Ans e dell’Envers de l’Histoire contemporaine? Non si tratta forse dell’insorgere del romanticismo che approfitta di una momentanea vacanza dell’intelligenza?

  Tuttavia, siamo giusti: se le nostre analisi sono esatte, i migliori racconti di Balzac devono essere quelli che soddisfano le seguenti condizioni: riduzione delle coordinate astratte ad alcune linee semplici, naturalmente simboliche; riduzione del carattere e della vita degli individui ad alcuni semplici atti, suscettibili di distinguersi il meno possibile, dalle idee e dagli schemi generali; carattere determinato naturalmente della parte di vita presentata. Citiamo, tra i racconti che possiedono queste qualità: Le Père Goriot, Eugénie Grandet, César Birotteau, Un Grand Homme de province à Paris, Une fille d’Eve, Le médicin (sic) de Campagne, Le contrat de mariage, la prima parte della Recherche de l’Absolu, ciò che è rimasto dei Paysans, ecc. In queste opere sembra proprio che Balzac abbia raggiunto la perfezione: i personaggi restano sempre all’ombra delle idee che li dirigono e li proteggono, niente dialoghi incolori e impersonali, semplici sostituti della narrazione, ma opportune repliche che segnano le tappe psicologiche, un semplice schema che disegna discretamente l’insieme dei personaggi, delle nozioni sentimentali felicemente dedotte dalla situazione, descrizioni sobrie, un intrigo modesto, dei riassunti prestigiosi e sempre quel valore universale dell’azione singola che fa pensare a Molière, a un Molière senza acidità comica e obbligato senza tregua ad irrigidirsi contro il romanticismo, il che lo rende un po’ ampolloso. Pagine indimenticabili, veramente degne della corona di Apollo, che rappresentano un grosso progresso estetico nei confronti di Diderot e di tutti i grandi intellettualisti francesi da cui derivano, trasportandoli in un’altra sfera.

 

 

  Marcel Françon, La «Comédie humaine», «Francia», Anno XVI, n. 31, gennaio-marzo 1979, pp- 15-16.

 

  Je lis dans l’ouvrage suivant, R. Grandsaignes d’Hauterive, Le Pessimisme de La Rochefoucauld (Paris, 1914). p. 26. «Ce qui l’indigne encore, c’est la comédie humaine». […] j’ai pensé que c’est dans les Maximes de La Rochefoucauld que Balzac a trouvé la formule qu’il a rendu (sic) célèbre. […].

 

 

  Claudio Malaguzzi-Valeri, Broussais, Magendie, Balzac e «le centre gastrique», «Lectures», Bari, 2, settembre 1979, pp. 81-87.

 

  [...]. Come esempio dell’influenza sulla letteratura delle dottrine mediche, e in particolare di quelle del Broussais e del Magendie, vorrei prendere Le lys dans la vallée di Balzac.

  Le teorie di Broussais e di Magendie erano in contrasto, e particolarmente viva era la polemica tra i seguaci delle due dottrine [...]. Tuttavia in questo romanzo vi sono sia elementi della teoria di Broussais, sia osservazioni che si fondano chiaramente sugli esperimenti di Magendie. [...].

  Mi è sembrato interessante prendere in esame, tra tutte, questa opera di Balzac, poiché lo stomaco è uno dei motivi centrali di tutto il romanzo; ciò sia nella malattia del conte di Mortsauf, che attribuisce la sua infelicità, e quindi la sua malattia e di riflesso l’infelicità della moglie, che la spingerà a cercare l’amicizia di Félix, alla sua gastropatia cronica, sfociante alla fine in uno scirro; sia, e ben chiaramente, nella morte di Henriette, il cui stomaco non è più capace di ricevere alimenti. Mi sembra quindi che si possa affermare che lo stomaco è non solo l’organo centrale di alcune delle più affermate dottrine mediche parigine della prima metà del XIX secolo, ma che ha anche una grande importanza nella letteratura dell’epoca.

 

 

  Raffaele Meretti, Delicato piatto di cucina francese, «La Notte», Milano, 21 aprile 1979.

 

 

  Roberto Monticelli, Pene d’amor perduto nel cuore della gatta chic, «Corriere della Sera», Milano, 22 novembre 1979, p. 28.

 

  [...]. Eccoli qua, questi attori e mimi e danzatori e cantanti, questi fantasisti della parodia, con il loro ultimo spettacolo, che ha già due anni di vita c che come al solito è un successo europeo, Peines de coeur d’une chatte anglaise. [...].

  [...] a parte la novella di Balzac, Vita privata e pubblica degli animali, che è una presa in giro, attraverso la metafora animalesca, della rispettabilità e dell’ipocrisia inglesi, l’ispirazione autentica dello spettacolo è nelle illustrazioni che dal testo della novella trasse J. J. Grandville.

  E’ da quella iconografia affascinante, così squisitamente ottocentesca e così moderna, che esce il Bestiario insieme naïf e raffinato cui gli attori danno vita in queste scene. C’è, appunto, il senso di qualcosa di già vissuto, magari in una memoria inconscia; il ritorno di immagini perdute e familiari, il delicato — e inestinguibile — barbaglio ottocentesco che ci viene — vecchie stampe — da finzioni già fruite; da un’arte già consumata.

 

 

  Nico Orengo, Calvino: Ludmilla sono io, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, Anno V, N. 29, 28 Luglio 1979, p. 3.

 

  —Anche Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili sono composti da una cornice più dei frammenti. Non ti senti schiavo di una formula?

  «Bè ... bè ... no, anzi sento sempre di più il bisogno di costruire il libro come qualcosa di chiuso e se potessi cercherei di trovare delle cornici anche per tutti i miei racconti precedenti Del resto Balzac, contemporaneamente al suo scrivere ininterrotto, progettava e riprogettava dei containers che erano gli schemi della Commedia Umana. Ma quello lì sì che era davvero uno scrittore produttivo ... eh., eh ... già, già ...».

 

 

  Pier Paolo Pasolini, (Alcuni classici), in Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi, Torino, Giulio Einaudi editore, 1979 («Gli Struzzi», 194), pp. 223-238.

 

  Cfr. 1973.

 

 

  Clementina Paternoster, Il “romanzo nero” e gli scritti giovanili di Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Mario Matucci, Pisa, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e filosofia, 1979, pp. 143.

 

 

  Massimo Romano, Torino, città di frontiera, «Stampa Sera», Torino, Anno 111, Numero 14, 15 Gennaio 1979, p. 3.

 

  Al numero 99 di piazza Castello, quasi all’angolo con via Roma, c’è l'Hotel Europa, dove furono ospiti, tra gli altri, Balzac, Garibaldi e Alessandro Dumas. L’inesauribile inventore della Commedia Umana soggiornò una sola volta a Torino, dal 31 luglio al 12 agosto del 1836. Incaricato dai Guidoboni-Visconti della difesa di importanti interessi in una complicata vicenda famigliare, arrivò nella nostra città in compagnia di Caroline Marbouty, una mediocre scrittrice che da qualche anno sollecitava l’amicizia del romanziere francese. Balzac in quel periodo, anche per la cattiva salute, sembrava più preoccupato da progetti e ambizioni che da donne e amori. Ciò nonostante scelse l’Hotel Europa non solo per la notorietà e la bella posizione, ma per un motivo sentimentale: in quello stesso albergo si era fermata anni prima la sua futura moglie, la contessa polacca Madame Hanska. Dovrà però attendere sino a sei mesi prima della morte per realizzare il sogno delle nozze. Se i suoi romanzi riflettono la vita, la società francese della Restaurazione nei risvolti pubblici e privati, la sua vita è più imprevedibile di un romanzo. Traveste la sua accompagnatrice con un abito da uomo e, per evitare pettegolezzi, si presenta al bel mondo torinese con un giovane segretario, il paggio Marcello. La cosa suscitò la curiosità generale, divenne l’argomento principale di conversazione nei salotti della città. Il giorno dopo, il Carrone di San Tommaso, l’avvocato Luigi Colla, appassionato botanico, la marchesa di Barolo e, forse, Silvio Pellico. Nella sonnacchiosa Torino di Carlo Alberto, così restìa alle novità che fermentavano nell’Europa romantica, la visita del grande romanziere ebbe però, dal punto di vista culturale, scarsa risonanza. Il 10 agosto Balzac fu al castello di Rivalta, ospite della contessa Polissena di Benevello, alla quale dedicò un breve racconto, Le chevalier de Saint Martin, che verrà poi inserito nei Contes drôlatiques. Nel cortile c’è un tondo in terracotta rappresentante San Martino, che fornì il probabile spunto all’operetta. La barocca e quieta Torino non entusiasmò Balzac, amante dell’Italia rinascimentale, delle passioni forti e violente. Il suo temperamento estroverso e vivace mal si accordava con la severa ritrosia e la chiusa etichetta dei nobili piemontesi.



  Marcella Sartarelli, La jeune fille dans “La Comédie humaine” d’Honoré de Balzac. Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1979.

 

 

  Italo Vanni, Fra detriti e schiume ecco il romanzo moderno, «il Resto del Carlino», Bologna, 27 gennaio 1979.

 

  «La cugina Betta» di Balzac: cadute, divagazioni, ingenuità e improntitudini costituiscono la grande vitalità del romanziere.

 

  La cugina Betta, di Honoré de Balzac, Rizzoli, pp. 518, L. 3.500.

 

  Mentre scriveva questo romanzo, nel 1846, Balzac era alle prese con i conti. Pieno di debiti, molti dei quali contratti con la madre, e in attesa del matrimonio con l’adorata M.me Hanska, Balzac si trasforma in contabile di se stesso. Riempie fogli e fogli di cifre, rifà cento volte le somme, costruisce coi numeri il fragile edificio della sua felicità. «La cugina Betta» — che nella «Commedia umana» è col «Cugino Pons» il romanzo dei «Parenti poveri» — risente di quella contabilità segreta del suo autore.

  «La cugina Betta» è il ritratto di una Erinni, una furia implacabile, esecutrice infernale di una vendetta ben congegnata. Betta costruisce la rovina dei parenti per i quali non è che la cugina povera e scialba. Lei brutta, lei plebea trionferà fin quasi all’ultima pagina sulla famiglia del barone Hulot, i cugini ricchi, nobili, belli. Se la cugina Betta è personaggio centrale nel romanzo, non è il romanzo. Il quale sta piuttosto nelle scene di vita parigina, tra le più animate di Balzac. In questo libro tumultuoso si aprono dei vortici, delle spirali vertiginose. Il movimento rapinoso è impresso da quella grande energia del mondo balzacchiano che è, appunto, il danaro. A ogni vortice corrisponde un ambiente sociale: l’aristocrazia napoleonica, i circoli della cortigianeria filipparda, l’alta borghesia degli affari, il mondo dell’arte ufficiale, le etere, i giovani leoni, i vecchi impenitenti, gli avventurieri, le donne oneste, le giovinette imprevidenti, i ristoranti alla moda, gli hôtels particuliers arredati e da arredare ... Parigi!

  La cugina Betta è una forza del male in una società retta dal Male, Parigi è gonfia di corruzione e il romanzo di Balzac ne esplode. Verso questo demonismo urbano Balzac non si fa moralista ipocrita — anche se alla fine il Bene ha la sua vittoria — né cronista compiacente. Come un catalizzatore, raccoglie la scarica elettrica proveniente da quella tensione metropolitana e la trasmette in un tripudio di scintille.

  Il lettore è stupefatto, con Balzac. Stupefatto del cattivo gusto, delle cadute, delle divagazioni, delle ingenuità e delle improntitudini. Non si può scrivere peggio di così, è sicuro. Ma ecco, nel contesto della stessa pagina, lo stupore del consenso, dell’entusiasmo, tutte le certezze della vita e dell’arte. Senza transizione si va dall’accidentale all’essenziale, dalla banalità alla verità con quella tessitura ininterrotta, convulsa e un poco folle che compone la pagina balzacchiana, disordinata e iperbolica. Su quel disordine creativo cresce e si edifica il romanzo di Balzac: un delirio di vitalità. Col suo seguito di detriti e di schiume e il fragore delle lontananze, giunge fino a noi la prima grande marea del romanzo moderno.



[1] Cfr. P.-C. Jagot, Science Occulte et Magie Pratique, Paris, Drouin, 1925, p. 256. [N. d. A.].



Marco Stupazzoni

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