mercoledì 7 ottobre 2020



1978

 

 



Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Ritratto di Papà Grandet [traduzione di Gabriella Alzati], in Riccardo Marchese, Uomini nella vita e nell’arte, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1978, pp. 148-150.



 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, I Capolavori. [Eugénie Grandet. Papà Goriot. La cugina Bette. Allegri racconti]. A cura di Enzo Caramaschi, Milano, Mursia, 1978(«I grandi scrittori di ogni paese. Serie francese», 5), pp. XXVIII-801.

 

  Cfr. 1969.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Bette. Introduzione e note di Maurice Allem. Traduzione di Ugo Dettore, Milano, Rizzoli Editore, 1978 («Biblioteca Universale Rizzoli. I tascabili», L 201), pp. XXXIII-521.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Maurice Allem, Introduzione, pp. I-XXV. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Cronologia della vita e delle opere, pp. XXXVI-XXXIV;

  Opere di Balzac tradotte e pubblicate in italiano, pp. XXXV-XXXVI;

  La cugina Betta, pp. 13-468;

  Note, pp. 469-519.

 

 

  De Balzac, Pene di cuore di una gatta inglese. Traduzione dal francese di Francesco Delmastro, in AA.VV., Scene della vita privata e pubblica degli animali. Disegni di Grandville, Roma, Savelli, 1978 («Cultura politica. Sezione arte», 211/1), pp. 121-149; ill.

 

  Cfr. 1970.

 

 

  Honoré de Balzac, Le sollazzevoli istorie. Prefazione di Guido Davico Bonino, Milano, Club degli Editori, 1978, voll.2, pp. X-226; 227-456.




 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac (Honoré de), in Grande Enciclopedia Universale Illustrata. 2. arb-berch, Milano, Rizzoli Editore, 1978, pp. 639-640; 1 ill.


  Scrittore francese (Tours 1799-Parigi 1850). Il padre, Bernard François Balssa, che mutò presto il suo cognome in Balzac, era nato da una famiglia di contadini; era stato prima segretario di un procuratore, poi segretario al Consiglio del re e, nel 1799, vicesindaco di Tours. Honoré trascorse l’infanzia lontano dall’ambiente familiare: studiò sei anni nel collegio oratoriano di Vendôme dove passò gran tempo a leggere e a sognare. Nel 1814 il padre fu trasferito a Parigi e il giovane Honoré si stabilì con la sua famiglia per quasi dieci anni nel quartiere del Marais, che lasciò tracce sulla sua opera in modo non meno notevole che la nativa Turenna. La famiglia l’aveva destinato alla carriera notarile: Balzac cominciò a studiare contro voglia diritto nel 1816, fece pratica presso un avvocato e un notaio, ma contemporaneamente seguì i corsi della Sorbona e frequentò le biblioteche leggendo con entusiasmo Sterne e Rabelais. Laureatosi in legge, nel 1819, seguì la sua vocazione letteraria e si stabilì in una soffitta (rievocata in Facino Cane), consacrandosi al suo lavoro di scrittore. Per tutta la vita sognò di ottenere successo come tragediografo, ma la prima tragedia, Cromwell, fu un fallimento. Nel 1822 cominciò un periodo di intenso lavoro e in tre anni, con gli pseudonimi di lord R’hoone e Horace de Saint-Aubin, pubblicò alcuni romanzi di scarso valore letterario, ma in cui già si intravedono l’estro che sboccerà nei Racconti faceti (Contes drolatiques, 1832-1837) e gli interessi storici, scientifici e mistici dell’autore della Commedia umana. La gloria non arrise ai suoi progetti letterari e Balzac, nel 1825, decise di darsi agli affari: diventò editore, creò una tipografia e una fonderia di caratteri, accumulando sfortunate esperienze che si conclusero, nel 1828, con 50.000 franchi-oro di debiti. Questo fallimento e l’amore per una donna, Laure de Berny, che Balzac chiamò la Dilecta e che divenne la protagonista del Giglio della (sic) valle, determinarono il definitivo suo ritorno alla letteratura. Nel 1829 apparve il primo romanzo firmato Honoré de Balzac: Gli sciuani.

  Dal 1829 al 1832, Balzac fu brillante collaboratore di giornali e riviste. Nell’ambiente letterario strinse solide amicizie tra cui quella con George Sand. Diventato legittimista, espose le sue idee monarchiche nel Medico di campagna (1833). È il periodo del suo dandysmo e della vita mondana; frequentò Nodier all’Arsenal e vari salotti. Conobbe allora la marchesa di Castries, che gli ispirò poi La duchessa di Langeais (1834) e, nel 1832, gli arrivò la prima lettera firmata «la Straniera», inizio di un lungo «dramma d’amore» con la contessa polacca Ewelina (sic) Hańska (1800-1882) che Balzac sposerà nel 1850 e la cui influenza sarà grande sull’uomo e sull’opera.

  Cominciò allora un periodo felice di lavoro: Balzac, con la sua opera, cercò di trasferire su un piano sociale la teoria unitaria dello studioso Geoffroy Saint-Hilaire. Abbandonò il giornalismo e inquadrò le opere passate e future in un trittico, intendendo comporre così una storia della società. La prima parte è costituita dagli Studi di costume, in cui introdusse le Scene della vita di provincia (nel 1833, Eugenia Grandet) e le Scene della vita parigina (tra le altre Papà Goriot (sic) 1834- 1835); la seconda parte comprende gli Studi filosofici in cui riunì La pelle di zigrino (1831), Luigi Lambert (1832), Séraphita (1833) e La ricerca dell’assoluto (1834); la terza parte comprende gli Studi analitici, di cui il primo saggio, La fisiologia del matrimonio, era stato pubblicato nel 1830. Dal 1834, Balzac fece ricomparire sistematicamente i suoi vecchi personaggi nelle nuove opere e fece esporre da Félix Davin, in due prefazioni, la sua concezione del romanzo. Diresse il giornale Chronique de Paris (impresa fallita, descritta in Cesare Birotteau). Tra il 1835 e il 1839, furono pubblicati alcuni suoi importanti lavori (Il giglio della valle 1835, Le illusioni perdute (sic) 1837-1839). La sua intensa attività letteraria fu interrotta da numerosi viaggi: nel 1835 era a Vienna dalla Hanska, fu per due volte in Italia e, nel 1838, partì per la Sardegna dove l’attirava la chimerica impresa di sfruttare le miniere d’argento dell’isola. Nel 1839 ritornò nell’ambiente letterario e collaborò attivamente alla creazione della Société de (sic) gens de lettres di cui fu uno dei primi presidenti. In quel periodo scrisse Una tenebrosa vicenda (o Un tenebroso affare), pubblicò Il gabinetto delle antichità (1839), mentre l’editore Charpentier riuniva in quattordici volumi i suoi romanzi. I suoi drammi continuavano a non riscuotere successo (Vautrin, nel 1840, Le risorse di Quinola, nel 1842), ma Balzac, che stava completando e rimaneggiando la sua opera per perfezionarne l’unità, ebbe la gioia di vedere pubblicati i primi volumi della Commedia umana, titolo definitivo dato alla raccolta dei suoi romanzi. All’inizio del 1842 un avvenimento cambiò il destino di Balzac: la morte del marito di Ewelina Hanska. La speranza di sposare «la Straniera» dominò allora la sua vita e lo condusse attraverso l’Europa: nel 1842 fu a Pietroburgo, nel 1845-1846 accompagnò la Hanska attraverso la Germania, il Belgio, l’Olanda, la Svizzera e l’Italia. La sua attività letteraria diminuiva intanto, anche per l’aggravarsi di alcuni disturbi fisici. Dopo la Casa di scapolo (La Rabouilleuse, 1842) e Splendori e miserie delle cortigiane (1839-1847), pubblicò I parenti poveri (La cugina Betta, 1846; Il cugino Pons, 1847, l’ultimo romanzo pubblicato). Fu ancora in Ucraina presso la Hanska; rientrato in Francia durante la rivoluzione del 1848, ne ripartì poco dopo senza avere potuto pagare i suoi debiti, maledicendo i repubblicani. Sperava di poter rappresentare L’affarista (Le faiseur) alla Comédie-Française e di entrare infine all’Accademia di Francia. Questa speranza fu delusa, ma il 14 marzo 1850 si avverò il sogno di diciotto anni: sposò a Berdicev Ewelina Hanska. Ritornarono insieme a Parigi in maggio, ma Balzac era gravemente malato e morì il 18 agosto. Il 21, al Père-Lachaise, dove fu sepolto, Victor Hugo pronunciò un famoso elogio funebre. In vent’anni Balzac aveva composto un’opera gigantesca: un piano steso nel 1845 prevedeva 137 romanzi di cui 85 furono portati a termine, 50 rimasero abbozzati, mentre 6 vennero ideati in seguito. La Commedia umana con i suoi duemila personaggi dà un quadro molto vivo della società francese del tempo, dominata dalla potenza del denaro, su cui si staglia l’ombra di Napoleone. I personaggi hanno tutti una loro vita, una genealogia e sono inquadrati anche in senso geografico, in modo che, come diceva Balzac, riescono a «dare un’idea delle differenti regioni del nostro bel paese». Balzac fu un osservatore dotato soprattutto di una profonda intuizione: seppe cogliere e individuare le idee, i sogni, i gusti del tempo e rappresentare un mondo e un’epoca. Victor Hugo diceva della Commedia umana: «Si vede andare e venire, camminare e muoversi, sgomenta e terribile, la civiltà contemporanea fatta realtà». A questa sua immensa opera, vero affresco storico della Francia alla vigilia dei tempi moderni, Balzac lavorò con un ritmo disordinato e pazzesco, giorno e notte, vestito della famosa tunica di cachemire bianco, nutrendosi di caffè e come il Dante dei Proscritti «domandando le parole al silenzio e le idee alla notte».

 

  Opere principali.

 

  La commedia umana (La comédie humaine), titolo con cui Honoré de Balzac riunì i suoi romanzi e che non era stato stabilito dallo scrittore all’inizio dell’opera. Balzac aveva dapprima intitolato Scene della vita privata i due volumi di romanzi di costume pubblicati nel 1830, poi, nel 1834, aveva ingrandito il suo piano raggruppando gli altri romanzi già scritti in varie scene: Scene della vita di provincia, Scene della vita parigina, Scene della vita politica, Scene della vita militare, Scene della vita di campagna; l’insieme di queste opere aveva come titolo generale Studi di costume. In quello stesso anno Balzac prevedeva anche un gruppo di Studi filosofici e un altro di Studi analitici. Già nel 1837 il romanziere immaginava una edizione collettiva delle opere pubblicate: avrebbe riunito sotto il titolo di Studi sociali le tre serie di studi. Il progetto si realizzò quattro anni dopo con il titolo più significativo: La commedia umana. Nel 1842 cominciò la pubblicazione collettiva dell’opera che fu completata nel 1848 con diciassette volumi. Balzac, incoraggiato da questo successo (che non ebbe però la fortuna economica che lo scrittore si riprometteva), allargò il suo piano: per consolidare l’architettura dell’opera, per equilibrarne le diverse parti, egli progettò di aggiungere, agli ottantacinque romanzi già scritti, cinquantadue nuove opere. Riuscì però a scriverne solo sei prima di morire.

  Gli sciuani (Les Chouans) [1829], dapprima intitolato L'ultimo degli sciuani (1828), poi inserito tra le Scene della vita militare. Gli sciuani sono monarchici insorti contro il governo rivoluzionario, e il romanzo è ambientato in Bretagna nel 1799. L’eroina del romanzo, Mademoiselle de Verneuil, viene mandata dai repubblicani a spiare il marchese di Montauran, intorno al quale si raccoglie il movimento degli sciuani. Innamoratasi di lui, gli rivela di essere una spia. Vuole salvarlo, ma i due vengono scoperti insieme e uccisi dai rivoluzionari.

  La pelle di zigrino (La peau de chagrin) [1831] (Studi filosofici). Raphaël de Valentin, spinto al suicidio dalla povertà che gli impedisce di soddisfare le sue passioni, incontra uno strano vecchio che gli offre un talismano, una pelle di zigrino grazie alla quale i suoi desideri saranno immediatamente esauditi. Ma la pelle si restringe a ogni desiderio soddisfatto e abbrevia la vita, di cui è simbolo. Alla fine di un anno tumultuoso Raphaël, divenuto ricchissimo, muore, trascinato da una forza ineluttabile a consumare la pelle, cioè la propria vita. Il romanzo, che riprende il tema del Faust, è frutto della moda romantica del racconto mistico e fantastico; Balzac vi dispiega le inesauribili risorse della sua fantasia intorno ai temi del suicidio, del gioco, dell’amore, della volontà e della frustrazione, del materialismo e dell’idealismo.

  Eugenia Grandet (Eugénie Grandet) [1833] (Scene della vita di provincia). Eugenia Grandet è una ragazza di provincia figlia di un ex bottaio di Saumur che con abili speculazioni ha accumulato una considerevole fortuna. Il padre, accecato da una sordida avarizia, tiranneggia la moglie e la figlia, assecondato dalla fedele domestica Nanon. In questa squallida atmosfera dominata dalla figura del vecchio avaro, Eugenia Grandet vede anche sfumare il suo sogno di sposare il cugino Carlo e trascorre una grigia esistenza senza gioia.

  Il medico di campagna (Le médecin de campagne) [1833] (Scene della vita di campagna), romanzo che l’autore scrisse in settantadue ore. In un villaggio del Delfinato dove si è ritirato, il dottor Benassis riscatta i suoi errori passati prodigandosi per il bene del contado: lotta contro il cretinismo che condanna alla degenerazione gli abitanti di una vallata senza sole, organizza l’artigianato locale e, con l’aiuto del parroco, dà prosperità materiale e dignità morale alla gente del luogo. Tra i numerosi episodi figura la straordinaria biografia di Napoleone, raccontata dal soldato Goguelat durante le veglie.

  Papà Goriot (Le père Goriot) [1834-1835]. Dopo un’esistenza interamente dedicata alle figlie, levate per matrimonio a un grado sociale superiore al suo, papà Goriot profonde le proprie sostanze per loro, col risultato di essere abbandonato e finire squallidamente la sua esistenza in una pensione. Testimone della sua decadenza è lo studente Eugène de Rastignac, che lo assiste nell’agonia e ne segue le esequie, ricavando, dall’esperienza della corruzione e dell’ingratitudine umana, un’amara concezione della società, in cui decide con volontà spregiudicata di conquistare il successo, rifiutando l’alleanza dell’ex forzato Vautrin, un altro compagno di pensione. Compaiono nel romanzo alcuni dei grandi personaggi della «commedia umana», i rappresentanti di quell’implacabile lotta per l’esistenza che è il tessuto crudele della rappresentazione del mondo in Balzac.

  Il giglio della valle (Le lys dans la vallée) [1835] (Scene della vita di provincia). L’opera s’intesse intorno alla delicata figura di Madame de Mortsauf, una giovane donna che vive sacrificata all’egoismo e alla demenza del marito, tutta dedita alla cura dei figli, in un castello della valle dell’Indre. A toglierla dallo squallore sopravviene l’incontro col giovane Félix de Vandenesse: ne nasce un idillio spirituale che il giovane tradisce, anche se non dimentica, attirato nel vortice dell’amore sensuale della marchesa Dudley. Madame de Mortsauf muore, consumata dalla sua triste esistenza e dalla gelosia. Romanzo della rinuncia, Il giglio della valle sta, nello svolgimento storico del romanzo d’analisi, tra La principessa di Clèves di Madame de La Fayette, a cui spesso è stato avvicinato nonostante l’opposta conclusione spirituale del dramma della rinuncia, Domenico di Fromentin e L’educazione sentimentale di Flaubert, ai quali forse servì di modello. La protagonista s’ispira alla figura di Laure de Berny, amata da Balzac.

  Casa di scapolo (La Rabouilleuse ou le (sic) ménage de garçon) [1842] (Scene della vita di provincia: «Gli scapoli»). Nella narrazione s’intrecciano tre vicende: l’infelice predilezione della vedova Agathe Bridau per il figlio snaturato e vizioso, Philippe; le bassezze di quest’ultimo; la debolezza di uno scapolo, Jean-Jacques Rouget, fratello di Agathe, tiranneggiato dalla serva-amante Flore Brazier che tenta, con l’aiuto di un altro amante, il capitano Gilet, di ereditare la sua fortuna. Philippe Bridau, ucciso in duello l’amante di Flore, induce lo scapolo al matrimonio con la donna e alla morte di lui sposa egli stesso Flore di cui più tardi si libera simulando un incidente ed ereditando così la fortuna dello zio. Acuta indagine della vita di provincia durante la Restaurazione, il romanzo ebbe una lenta elaborazione, contrariamente agli altri di Balzac, e cambiò più volte titolo.

  Splendori e miserie delle cortigiane (Splendeurs et misères des courtisanes) [1839-1847] (Scene della vita parigina). Comprende quattro parti: La felicità di Esther, Quanto viene a costare l’amore ai vecchi, Dove portano le cattive strade, L’ultima incarnazione di Vautrin, e può essere considerata la continuazione delle Illusioni perdute. Vi si ritrovano Lucien de Rubempré e l’ex forzato Vautrin, ora alleati per dare la scalata alla società. L’unità del romanzo non va ricercata tanto nell’intreccio quanto nel tono, che è quello del romanzo poliziesco o «nero», particolarmente avvincente. È l’opera in cui Balzac si serve più abbondantemente della sua tecnica preferita, quella del ritorno dei personaggi, che sono qui numerosissimi. Documento sociologico e storico di prim’ordine, apre la serie dei grandi romanzi parigini in cui l’autore rappresenta la vita tumultuosa e spietata della città moderna.

  La cugina Betta (La cousine Bette) [1846] (Scene della vita parigina: «I parenti poveri»). Betta, semplice contadina, testarda e invidiosa, viene ospitata a Parigi da una ricca cugina. Per vendicarsi di Wenceslas che ama e che si è fidanzato con la figlia della cugina, con infernale perfidia riesce a trascinare i suoi benefattori alla più completa rovina. Come nel Cugino Pons [...], Balzac realizza in quest’opera alcuni dei suoi personaggi più sinistramente grandiosi.

  Il cugino Pons (Le cousin Pons) [1847] (Scene della vita parigina: «I parenti poveri»). Il protagonista è un musicista trascurato da tutti che usa i suoi scarsi guadagni facendo collezione di oggetti d’arte e pian piano mette insieme numerosi esemplari di valore. Quando è ormai vecchio e malato i parenti si rendono conto del valore della sua collezione e complottano per strappargliela. Vedendosi portar via ogni cosa, muore di dolore.

 

 

  Il grande amore di Balzac, «La Provincia», Cremona, Anno XXXII, N. 31, 7 febbraio 1978, p. 4.

 

  In Ucraina nella sua ricchissima tenuta vive l’anziano nobiluomo polacco Hanski con la moglie giovane e bella, Eva, la figlioletta e una corte di domestici. Eva Hanska si annoia, ama gli intellettuali e gli artisti e scrive una lettera a Balzac firmata «l’Etrangère». A Parigi Balzac, sempre immerso nel lavoro e nei debiti, è innamorato della duchessa de Castries che lo tiene in bella mostra come ammiratore, ma rifiuta di essere la sua amante. Balzac, per seguirla in un viaggio, si fa prestare i soldi dall’amica Zulma Carraud, e da sua madre; alla vigilia del viaggio riceve la prima lettera di Eva, che lascia inevasa. Durante il viaggio madame de Castries è molto crudele con lui e rifiuta di amarlo, umiliandolo profondamente. Balzac decide che per lui la duchessa è morta. Torna a lottare con i debiti e risponde ad Eva; la corrispondenza si fa intima e amorosa; Eva dà un appuntamento in Svizzera a Neuchâtel. Balzac parte pieno di speranze.

 

 

  Il grande amore di Balzac – Parte prima, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno LV, Numero 6, 5-11 febbraio 1978, p. 53.

 

  In Ucraina nella sua ricchissima tenuta vive l'anziano nobiluomo polacco Hanski con la moglie giovane e bella, Eva, la figlioletta e una corte di domestici. Eva Hanska si annoia, ama gli intellettuali e gli artisti e scrive una lettera a Balzac firmata «l’Etrangère». A Parigi Balzac, sempre immerso nel lavoro e nei debiti, è innamorato della duchessa de Castries, che lo tiene in bella mostra come ammiratore, ma rifiuta di essere la sua amante. Balzac, per seguirla in un viaggio, si fa prestare i soldi dall’amica, Zulma Carraud, e da sua madre; alla vigilia del viaggio riceve la prima lettera di Eva, che lascia inevasa. Durante il viaggio madame de Castries è molto crudele con lui e rifiuta di amarlo, umiliandolo profondamente. Balzac decide che per lui la duchessa è morta. Torna a lottare con i debiti e risponde ad Eva; la corrispondenza si fa intima e amorosa; Eva gli dà un appuntamento in Svizzera a Neuchâtel. Balzac parte pieno di speranze.

 

  Seconda parte, N. 7, 12-18 febbraio 1978, p. 57.

 

  Balzac si reca al pic-nic organizzato dagli Hanska, felice della gentile accoglienza e pieno di ammirazione per il lusso e la raffinatezza di cui i suoi ospiti si circondano. Eva lo affascina e trova modo di isolarsi con lei e farle una dichiarazione in piena regola; la donna ne è lusingata e i due si lasciano con promesse d’amore. Balzac torna a Parigi dove trova la sua casa presidiata dai creditori. Ben presto arriva un invito degli Hanska a raggiungerli a Ginevra per passare il Natale con loro. Balzac, trovati miracolosamente soldi, parte felice. La festa di Natale celebrata dagli Hanska secondo tutte le vecchie usanze polacche lo conquista ed egli è sempre più innamorato di Eva. Passa un brutto momento quando riceve come regalo di Natale dal marito di Eva una lettera di appassionato amore, che egli ha inviato alla donna e che la governante gelosa ha rubato e consegnato al marito. Balzac inventa subito una scusa abbastanza goffa: la lettera è stata scritta per scherzo; Hanska (sic) sembra credergli volentieri. Eva intanto, in una locanda diviene l’amante dello scrittore. Balzac ha finalmente avuto la sua contessa. A Parigi ora è ricevuto in molti salotti; conosce una nobildonna bella e spregiudicata, la contessa Sara Guidoboni Visconti; ha con lei una breve avventura. Eva frattanto dall’Ucraina arriva a Vienna e qui i pettegolezzi delle amiche le riferiscono le ultime prodezze di Balzac.

 

  Terza parte, N. 8, 19-25 febbraio 1978, p. 57.

 

  Eva ingelosita dai pettegolezzi delle parenti ed amiche scrive a Balzac una lettera di commiato. Balzac, nel riceverla, decide di partire per Vienna per riconquistarla. Raccolti a fatica un po’ di denari parte in carrozza per Vienna. Al suo arrivo Eva non lo vuole ricevere, mentre il marito si mostra al solito molto cortese. Balzac segue Eva mentre posa nello studio di un pittore e riesce a riappacificarsi con lei. A Vienna egli incontra fra la gente semplice e gli studenti molti ammiratori, mentre i salotti aristocratici lo guardano con un po’ di sospetto. Il tempo felice passa in fretta, gli Hanska tornano in Ucraina e Balzac a Parigi. Qui un indovino gli predice che solo dopo sette anni di duro lavoro e di attesa tornerà il successo. Gli anni passano, Balzac è sempre in lotta con i creditori; egli vive ora con una governante, Luisa Bugnol, che ha cura di lui ed è anche la sua amante. Lo scrittore però pensa sempre alla contessa lontana. Finalmente arriva la partecipazione di morte di Hanska, ma è seguita dal divieto di Eva di raggiungerla a Pietroburgo dove ella si deve recare per difendere i suoi interessi in un processo intentatole dai parenti del marito, che profittando anche delle voci sulla sua relazione con Balzac, vogliono toglierle la eredità. Balzac è malato, Liszt va a trovarlo e gli dice che sta partendo per un giro di concetti che lo porterà anche a Pietroburgo. Balzac lo prega di andare a trovare la contessa Hanska a suo nome. Liszt si innamora di Eva, che però dopo un breve esitare lo congeda; finalmente la donna si decide a scrivere al suo Honoré, concedendogli il permesso di venire a trovarla come «vecchio amico».

 

  Quarta parte, N. 9, 26 febbraio-4 marzo 1978, p. 57.

 

  Balzac si reca a Pietroburgo, Eva lo ama sempre ma, dopo un felice autunno trascorso insieme, Balzac riparte solo ben sapendo che molte cose lo dividono sempre da Eva. Lo zar ha assegnato alla vedova un vitalizio ma proibisce le nozze con Balzac. Due anni sono passati; Eva è a Dresda per il matrimonio della figlia e invita Balzac a raggiungerla. Dopo le nozze i due maturi amanti raggiungono la coppia in luna di miele e i quattro viaggiano sereni e felici. Eva aspetta un bambino da Balzac. Lo scrittore la fa entrare clandestinamente in Francia con la figlia e tenta di organizzare un matrimonio segreto. Eva si trova male a Parigi, ha uno scontro con Luisa. Il bambino nasce prematuro e muore. Luisa ruba le lettere di Eva e ricatta Balzac. Eva paga il riscatto ma lascia Parigi.

 

  Quinta parte, N. 10, 5-11 marzo 1978, p. 61.

 

  Dopo due anni Balzac raggiunge Eva, nella tenuta in Ucraina dove vive felice nel lusso. Eva però non si decide a sposarlo, i debiti lo costringono a tornare a Parigi dove assiste alla rivoluzione del ‘48. Un anno dopo è di nuovo da Eva, però è molto malato. Solo quando sa che morirà Eva si decide a sposarlo e insieme con lui torna a Parigi. Balzac non sopravviverà però che pochi mesi.

 

 

  Televediamo. Attenti, il cadavere c’è, «Stampa Sera», Torino, Anno 110, 7 febbraio 1978, p. 22.

 

  Il grande amore di Balzac (rete uno, ore 20,40). Pierre Meyrand nella parte di Balzac e Beata Tyskiewicz in quella di Eva Hanska interpretano questo sceneggiato sulla vita di Balzac. Ma chi è Eva Hanska? Moglie di un nobile polacco, giovane e naturalmente bellissima, Eva conduce un’esistenza pigra e lussuosa in Ucraina, circondata di sfarzo, letteratura ed arte. Ammiratrice di Balzac, inizia a scrivergli lettere a Parigi, firmandole «l’étrangère». Il romanziere, dal canto suo, ha un rapporto tempestoso con la duchessa de Castres (sic), scrive moltissimo ed è oberato dai debiti. Alla seconda lettera di Eva stabilisce di risponderle, ed avvia così una corrispondenza fitta e via via più intima con la sconosciuta sostenitrice. Dopo alquanto tempo si danno un appuntamento a Neuchâtel in Svizzera. Nasce «il grande amore di Balzac».

 

 

  Televediamo. Aspetta la moglie e muori, «Stampa Sera», Torino, Anno 110, 14 febbraio 1978, p. 22.

 

  Il grande amore di Balzac (rete uno, ore 20,40) — Dopo intensi rapporti epistolari, Honoré de Balzac ed Eva Hanska finalmente si incontrano in casa della contessa. Si lasciano dopo scambievoli promesse d'amore, e Balzac ritorna a Parigi. Si ritroveranno ancora a Natale, quando il romanziere viene invitato per qualche tempo a Ginevra dagli Hanska. Piccola complicazione quando il marito di Eva intercetta un’infuocata lettera d’amore di Balzac a Eva, ma lo scrittore, con prontezza, spiega al conte che si è trattato di uno scherzo. Ritornato un’altra volta in Francia, Balzac ha una breve avventura con la contessa Guidoboni Visconti, circostanza che fa andare Eva su tutte le furie.

 

 

  Oggi vedremo. Il grande amore di Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, 14 febbraio 1978, p. 8.

 

  Ora Balzac è finalmente a tu per tu con Eva, e ha modo di farle una dichiarazione in piena regola. Carico di promesse e d’amore, lo scrittore lascia Ginevra e fa ritorno a Parigi, ove trova la casa presidiata dai creditori. Ma il Natale si annuncia e, con esso, la chance di rivedere Eva a Ginevra. Nonostante colpi di scena a non finire. Balzac ed Eva riescono a diventare amanti a dispetto del marito di lei. A Parigi ora l’artista torna, trionfante, ad occupare un «podio» nei migliori salotti. E’ giunto il suo momento. Ad Eva, che fa su e giù dall’Ucraina a Vienna, non rimane che il pettegolezzo, il racconto delle ultime prodezze del suo amato.

 

 

  Oggi vedremo. Il grande amore di Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, 21 febbraio 1978, p. 8.

 

  Terza puntata dello sceneggiato di coproduzione francopolacca. Eva, resa gelosa dei pettegolezzi, scrive a Balzac una lettera di commiato. Balzac si reca a Vienna per riconquistare l’amore della donna. Al suo arrivo, Eva si rifiuta di riceverlo, mentre il marito si mostra affabile e cortese.

  Ma Balzac riesce a vincere le resistenze della donna e a riappacificarsi con lei. Ha inizio un periodo lieto per lo scrittore. che incontra tra gli studenti molti ammiratori: i giorni felici hanno termine quando Eva e il marito ripartono per l’Ucraina. Balzac torna a Parigi. Passano gli anni: lo scrittore convive con una donna. Luisa, che gli fa da amante e da governante. Giunge intanto la notizia che il marito di Eva è morto. Balzac vorrebbe recarsi subito a Pietroburgo per raggiungere la donna, ma il suo precario stato di salute glielo impedisce. Al suo posto, messaggero d’amore, parte il musicista Franz Liszt, il quale, appena conosciuta Eva, si innamora di lei. Eva lo congeda e scrive a Balzac invitandolo a recarsi da lei a Pietrogrado.

 

 

  Oggi vedremo. Il grande amore di Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, 28 febbraio 1978, p. 8.

 

  Un intero autunno trascorso insieme da Eva e Balzac. A Pietroburgo, convince lo scrittore che molte cose lo dividono ancora dalla donna; tra l’altro lo zar proibisce le nozze tra i due. Passano due anni e Balzac e la nobildonna si ritrovano a Dresda; Eva aspetta un bambino e lo scrittore riesce a farla entrare clandestinamente in Francia. Eva si trova malissimo a Parigi, il bambino nasce prematuro e muore. Successivamente la donna, amareggiata, lascerà la capitale francese.

 

 

  Il grande amore di Balzac, «La Provincia», Cremona, Anno XXXII, N. 52, 28 febbraio 1978, p. 4.

 

  Balzac si reca a Pietroburgo, Eva lo ama sempre ma, dopo un felice autunno trascorso insieme, Balzac riparte solo ben sapendo che molte cose lo dividono sempre da Eva. Lo zar ha assegnato alla vedova un vitalizio ma proibisce le nozze con Balzac. Due anni sono passati: Eva è a Dresda per il matrimonio della figlia e invita Balzac a raggiungerla. Dopo le nozze i due maturi amanti raggiungono la coppia in luna di miele e i quattro viaggiano sereni e felici. Eva aspetta un bambino da Balzac. Lo scrittore la fa entrare clandestinamente in Francia con la figlia e tenta di organizzare un matrimonio segreto. Eva si trova male a Parigi, ha uno scontro con Luisa. Il bambino nasce prematuro e muore. Luisa ruba le lettere di Eva e ricatta Balzac. Eva paga il riscatto ma lascia Parigi.

 

 

  Balzac e i pretori, «Stampa Sera», Torino, Anno 110, N. 51, 28 febbraio 197, p. 22.

 

  Il grande amore di Balzac (Reteuno, ore 20,40, quarta puntata) — Balzac si reca a Pietroburgo, Eva lo ama sempre. Ma, dopo un felice autunno trascorso insieme, Balzac riparte solo, ben sapendo che molte cose lo dividono da Eva. Lo zar ha assegnato alia vedova un vitalizio e proibisce le nozze con Balzac. Due anni sono passati. Eva è a Dresda, per il matrimonio della figlia e invita Balzac a raggiungerla. Dopo le nozze i due amanti raggiungono la coppia in luna di miele e i quattro viaggiano sereni e felici. Eva aspetta un bambino da Balzac. Lo scrittore la fa entrare clandestinamente in Francia con la figlia. Il bambino nasce prematuro e muore.

 

 

  Giorgio Albani, Vidocq? Un eroe inventato da Balzac, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno LV, Numero 20, 14-20 maggio 1978, pp. 48 e 50.

 

  p. 50. Fortuna che un bel giorno, in un caffè di Place Vendôme — è il 1832 —, riesce a incontrare Balzac e a interessarlo alla sua vita. «La realtà è davanti a voi, monsieur», dice il ladrone redento. «Ho assalito diligenze, banche, truffato tutti, persino gli usurai, ho avuto le più belle donne di Parigi e poi ho riacciuffato evasi, falsari, criminali». Balzac trasformerà Vidocq in un memorabile personaggio; basta rileggere Papà Goriot, con quel Vautrin che diviene parodia satanica dell’«honnête homme» del secolo dei lumi, moralizzatore senza principi. Testimone fraudolento, avvocato del male, irresistibile Tartufo di oggi e di ieri.

 

 

  Maurice Allem, Introduzione, in Honoré de Balzac, La cugina Betta ... cit., pp. I-XXV.

 

  La Cugina Betta è uno dei romanzi più complicati di Balzac. Non disordinato. Anzi, è molto chiaro, a linee nette. Concepito, come del resto Il cugino Pons, come un racconto, divenne, sviluppo su sviluppo, uno dei romanzi più voluminosi dello scrittore che, giunto finalmente alla conclusione, diceva in una lettera alla signora Hanska (27 novembre 1846): «E pensare che quest’opera è più lunga del doppio di quanto avevo previsto per l’insieme delle due storie di Parenti poveri!».

  Questo titolo annuncia nella Cugina Betta la storia d’una parente povera tra parenti ricchi. Una storia così potrebbe essere sorridente, edificante, gradevolmente toccante; come potrebbe essere dolorosa, lamentevole, drammatica. Per una parente povera, dei parenti ricchi possono essere protettori generosi e affettuosi; come possono essere duri, arroganti e taccagni.

  Ma poiché l’autore si chiama Balzac, sempre immerso in conflitti domestici, bisogna aspettarsi un dramma. La cugina Betta è un dramma, e dei più cupi, come è un dramma Il cugino Pons. Il 15 giugno 1846, ancor prima di aver dato inizio a questi due romanzi, Balzac scriveva alla signora Hanska: «Il vecchio musicista [il primo titolo della storia del cugino Pons] è il parente povero coperto d’ingiurie, col cuore gonfio. La cugina Betta è la parente povera coperta d’ingiurie che vive in tre o quattro famiglie e si vendica di tutte le sue sofferenze. Queste due storie, con Pierina, fanno la storia dei Parenti poveri». La giovane, la graziosa, l’innocente Pierina è, di questi parenti poveri, quella trattata con maggiore crudeltà. Il cugino Pons, dopo l’affronto fattogli dai suoi ricchi parenti, non paragonabile comunque al martirio della piccola Pierina Lorrain, cade vittima delle manovre di certi furfanti; e sono queste a fare gli episodi più spaventosi del dramma che lo uccide. Lisabetta Fischer (chiamata familiarmente Betta) non viene né maltrattata, come Pierina, né scacciata come Pons, dai suoi ricchi cugini. Al contrario, essi l’accolgono con cordialità. L’aiutano a farsi un’istruzione, a imparare un mestiere e, se lei non si spaventasse dei rischi di un commercio, arriverebbero anche a sistemarla. Non si comportano da parenti cattivi; la parente cattiva è lei. È povera, certo, ma sempre meno grazie ai loro consigli e al loro appoggio, e le danno la possibilità d’esserlo meno ancora e forse persino di arricchire. Di questo aiuto, di queste offerte, Lisabetta non serba alcuna riconoscenza. È che il suo odio è anteriore alla loro fortuna, cioè alla fortuna di sua cugina Adelina. Sono cresciute insieme in un villaggio dei Vosgi, ma quanto Adelina è bella e affascinante tanto Lisabetta lo è poco; Adelina è più avvenente, quindi anche più vezzeggiata. Non deve, come Lisabetta, lavorare nei campi, è una signorina. E Lisabetta una contadina. «La gelosia» dice Balzac «era la base del suo carattere». Se questo difetto l’aveva già innato, il modo diverso in cui venivano trattate poteva solo acuirlo e farlo rivolgere contro la cugina. Infine l’inaspettato, bel matrimonio o, come scrive Balzac, «il fantastico matrimonio» di Adelina, doveva svilupparlo ulteriormente. Questa cugina, moglie d’un personaggio titolato, ricco, un alto funzionario e un bell’uomo, commette un grande errore, nella sua bontà, chiamando Lisabetta a Parigi. Perché impone alla parente povera e gelosa lo spettacolo continuo della sua fortuna e, almeno nei primi tempi, della sua felicità. La gelosia di Lisabetta, invece di trovare nella benevolenza e nelle premure di Adelina e del barone Hulot un rimedio, se ne alimenta.

  La gelosia genera l’odio, spesso subdolo, come inerte, ma pronto ad animarsi alla prima occasione. Questa Lisabetta, che non ha né fortuna né bellezza, non ispira amore. Ma è capace di bruciarne. Già matura, s’invaghisce di un artista polacco esule in Francia, molto più giovane di lei, ed anche più povero, che le strettezze hanno portato alla disperazione. Sta meditando il suicidio. Lisabetta per caso lo scopre. Accorre da lui e lo aiuta; lo salva. L’amore che ben presto gli dimostra assume i panni d’una sollecitudine materna, ma di madre inquieta di gelosia e tirannica nell’amore. Ora, la giovane cugina di Lisabetta, la figlia di Adelina, Ortensia Hulot, eccitata nella curiosità da mezze confidenze vuole conoscere quest’artista. Ci riesce. Ora non è più un giovane povero. Lisabetta gli ha procurato qualche lavoro. Il suo talento comincia ad essere apprezzato. Può sperare in nuove commissioni. Sembra avviato ad un futuro brillante. Ortensia Hulot è graziosa. L’artista, un nobile — si chiama conte Venceslao Steinbock — è affascinante. I due giovani si piacciono. Ben presto sono fidanzati.

  Lo stupore, il dolore, la furia di Lisabetta quando viene a saperlo, sono brace che riaccende il suo odio per la famiglia Hulot. Ormai si dedicherà solo a soddisfarlo. Ha per vicini i Marneffe, una famiglia singolare. Infatti la signora Marneffe è una cortigiana, e della specie più intrigante e pericolosa. Il marito è un pover’uomo, un piccolo funzionario che sopporta, e sfrutta anche, la condotta immorale della moglie. Ora accade che il barone Hulot, superiore di Marneffe al ministero, ha notato la signora Marneffe. La cerca. La corteggia. Le fa gradire i suoi omaggi e generosità.

  Lisabetta diverrà l’amica, la socia, quasi la serva della signora Marneffe. Suo tramite si vendicherà di tutti gli Hulot: di Adelina, che sarà ridotta in miseria dalle enormi spese del barone Hulot per la nuova amante; di Ortensia, attirando dai Marneffe il conte di Steinbock, che la signora Marneffe vuole, e naturalmente, ottiene, per amante; dello stesso barone Hulot, dandogli come rivale presso la signora Marneffe un grasso borghese, un ex commerciante ricco e vanitoso, Celestino Crevel, la cui figlia è moglie del figlio Hulot. Questo Crevel, cui il barone Hulot aveva portata via un’amante, aveva cercato, con raro cinismo, di vendicarsi prendendo per amante la stessa baronessa, ma non c’era riuscito; il suo amor proprio avrà almeno la soddisfazione di dividere con Hulot la signora Marneffe, con la speranza di riuscire un giorno a prendere il suo posto presso di lei.

  La signora Marneffe manovra ben presto quattro amanti insieme: Hulot, che rovina e che, rovinato da lei, ricorre, per trovare denaro, ad affari disonorevoli, dolosi per lo stato francese, che gli faranno perdere, dopo il denaro e l’onore, il suo alto impiego nell’amministrazione; Crevel, cui riesce a spillare ancora più soldi che a Hulot, e da cui riuscirà abilmente, quando l’immondo Marneffe sarà morto, a farsi sposare; Steinbock, il suo preferito, che tiene per amante anche dopo il matrimonio con Crevel, ma che, geloso di un altro assiduo della casa Marneffe, infastidisce la sua amica con domande, rimproveri, controlli a tal punto che un giorno lei, per allontanarlo per qualche tempo lo insulta, e lui finisce per ritornare accanto alla moglie che lo perdona; infine, il quarto habitué, il barone Montez de Montejanos, un brasiliano, naturalmente dei più ricchi, un ex amante della signora Marneffe, che allora aveva sognato di sposare. Tornato dal Brasile dove aveva dovuto restare a lungo, era corso di nuovo da lei sempre pieno di ardore e speranza, senza che la presenza e le attenzioni dei suoi tre rivali gli facessero nascere nessun sospetto; quando dei buoni amici lo mettono al corrente che la signora Marneffe sta per diventare la signora Crevel medita un’atroce vendetta: a matrimonio celebrato riesce a inoculare a tutti e due, facendogli mescere un certo veleno animale di cui un negro al suo servizio conosce il segreto, una terribile e orrenda malattia che, assicura, «può essere guarita soltanto in Brasile». Infatti i medici francesi, persino il famoso Bianchon, rimangono interessati ma sconcertati dalle manifestazioni di questo male, e i due infelici muoiono sfigurati e corrosi.

  Questa storia, che presenta vari altri personaggi, alcuni molto strani e inquietanti, è ricca di episodi patetici o drammatici, melodrammatici anche, che permisero a Balzac di vantarsi di aver superato Eugène Sue, i cui romanzi uscivano nella stessa appendice del Constitutionnel che ospitò anche le due storie dei Parenti poveri.

  Nella Cugina Betta vivono alcuni dei personaggi più veri, più caratteristici e celebri della Commedia umana. Il barone Hulot, prima di tutto, grand’ufficiale della Legion d’onore. All’apice della decadenza e della miseria, prova vergogna di se stesso davanti ai suoi e si esilia dalla propria casa; riceverà il consiglio e il soccorso dell’amante che aveva a suo tempo portata via a Crevel. Sotto falso nome va a nascondersi in qualche sobborgo dove, sempre dominato dal demone della sua sensualità, conduce settantenne una vita di concubinaggio con cortigiane precoci, ancora adolescenti. Quando la situazione della sua famiglia migliora, torna prospera, una volta scoperto e riportato a casa dalla moglie che s’è consacrata alla sua ricerca, convinta che a settant’anni passati la lava del desiderio debba essersi ormai raffreddata, la stessa moglie lo sorprende una notte alla caccia d’una grassa e volgare ragazza di cucina della loro servitù, cui Hulot assicura, per prenderla per la vanità, che ben presto sarà vedovo e lei, se vorrà, baronessa. La baronessa, toccata da quest’ultimo colpo come da una folgore, vi soccombe, e il barone, ottantenne, sposa come promesso la sua volgare e forse ultima conquista. Ultima, almeno, nel romanzo, che finisce in questo colpo di scena. Hulot appare una specie di mostro, se con questo termine s’intende un essere dominato, senza un attimo di libertà, da un’unica e violenta passione o, se si preferisce, da un vizio padrone e imperioso. Come Goriot, come Grandet, come Birotteau, come Filippo Brideau, Hulot è uno di quei caratteri eccessivi che Balzac amava penetrare, che era bravissimo a dipingere, in cui ciò che sembra partecipare di esagerazione non è che il risalto singolare che l’autore ha saputo dare alla realtà.

  Così la baronessa Hulot è un carattere di rara unità. Tutta abnegazione, sottomissione. È stata fin dal matrimonio e sempre sarà riconoscente all’uomo che l’ha distinta, arricchita, elevata e amata. Quando lo vede in preda alla furia del piacere, accetta, non senza soffrirne ma senza lamentarsi, ogni infedeltà, come fatalità di cui non è lui a essere responsabile, e per le quali quindi non potrebbe volergliene né punirlo. Non ha mai una parola di ribellione contro di lui. Quando Hulot fallisce, la baronessa, per evitargli il disonore, arriva fino a compromettere il proprio onore. Nello smarrimento in cui si trova, nel suo slancio al sacrificio, si abbassa fino ad offrirsi a quel Crevel, così ricco, che un giorno aveva voluto comprarla e lei aveva respinto. Ma adesso è lui a respingerla con parole offensive che la riportano a se stessa. Non avrà bisogno di darsi: e se anche ne avesse avuto bisogno non sarebbe certamente riuscita a risolvervisi. Un rimorso così nobile e pronto riscatta la vergogna dell’approccio che ha tentato e che la umilia, rivela quanto è assoluta la dedizione che porta al suo indegno marito. E quando l’ultima infamia di questi la uccide, Balzac ha una di quelle espressioni inattese, profonde e luminose insieme, che spiegano come abbia potuto scrivere alla signora Hanska (il 6 dicembre 1846), che era opinione diffusa che avesse terminato La cugina Betta nel genio; perché è un tratto di genio, e che rende sensibile il lungo e silenzioso dolore che è stata la vita coniugale della baronessa Hulot, dire di lei: «E si videro, cosa rara, uscir lacrime dagli occhi di una morta».

  Crevel, in tutta la sua vanità, la sua volgarità e insolenza, è un tipo eminentemente rappresentativo di borghese parvenu in un’epoca che di questa razza non faceva certo difetto.

  La cugina Betta è come un ragno che tessa più tele. Impegnata a compiere le sue numerose vendette sa, nelle varie case in cui mena la sua trama, far mostra d’amicizia. È abile a simulare e dissimulare. Mostra di servire quelli cui in realtà nuoce, e riesce a conservare la fiducia di quelli che inganna. I parenti ricchi di cui affretta e aumenta le disgrazie continuano ad accoglierla bene. Le angoscie di Ortensia, e soprattutto di Adelina, sono piaceri per il suo animo basso. Tra questi intrighi cerca di condurne uno a proprio profitto: ambiziosa di elevarsi intanto che Adelina a poco a poco decade, manovra per farsi sposare dal maresciallo Hulot, fratello maggiore del barone. E ci riuscirebbe se le malversazioni del barone non portassero il maresciallo a morte. Finché lei stessa muore quando i suoi cugini ritrovano la fortuna; il pensiero che l’Adelina che ha sempre odiato, alla cui rovina s’è tanto a lungo e con tanta tenacia dedicata, potrebbe finire per trovare la felicità, affretta la fine della parente povera e cattiva.

  La storia della Cugina Betta è un frutto dell’immaginazione di Balzac. Il 20 giugno 1846 scriveva alla signora Hanska: «Ho tutto da inventare per La cugina Betta». È però possibile che ne abbia tratto qualche elemento dal caso Colomès, che aveva visto giudicare alle assise della Senna il 13 dicembre 1845? L’imputata, signora Colomès, era la nipote del maresciallo Soult Aveva quarantacinque anni. «Era, scriveva Balzac, pazza di un giovane e, per lui, per procurargli il denaro che lui spendeva con le attrici della Porta San Martino, faceva dei semi-falsi commerciando biglietti sottoscritti da sottoscrittori immaginari. Ha voluto farsi carico di tutto, e lui ne è rimasto fuori. Non ha permesso al suo avvocato di imputarlo. (...) La disgraziata, per il denaro da dare a quel giovane, si concedeva a degli usurai, a dei vecchi! (...) Ed è la nipote del fratello del maresciallo, e moglie di un ingegnere capo del Genio civile, deputato». André Le Breton d vede «in germe tutto il dramma della Cugina Betta, e la passione tardiva che lega Lisabetta a Venceslao, e l’eroismo infame della signora Hulot quando si offre al vecchio Crevel, e il delirio erotico del consigliere di Stato Hulot, e la vergogna, la disperazione di suo fratello, il vecchio maresciallo». Io non ci vedo così tante cose. L’età della signora Colomès è pressoché quella della cugina Betta; la cugina Betta soccorre con i suoi risparmi lo sfortunato Steinbock, ma non come la signora Colomès aiutava il suo giovanotto; la cugina Betta non regala a Steinbock, presta, e poi l’obbliga a lavorare, e si dà da fare per tenerlo lontano dalle donne. E Steinbock non somiglia in nulla al giovane della signora Colomès, un vero e proprio gigolò. Inoltre anche la signora Marneffe dà soldi a Steinbock. Nella prima versione del romanzo Balzac scrisse che gliene dà, ma nelle versioni posteriori corregge che gliene presta. Comunque, sia che presti sia che regali, non si concede per questo a dei vecchi. Certo, per amanti s’è presa due vecchi, ma non per i begli occhi né per i piaceri di Steinbock. La signora Marneffe è, come la signora Colomès, moglie di un funzionario, anche se modesto. Qualche somiglianza quindi c’è, ma la signora Marneffe è molto più giovane. Per finire, tra la prodigalità con cui sembra si sia prostituita la signora Colomès e l’iniziativa insensata della signora Hulot verso Crevel c’è tanta differenza d’intenzione e di fatto che una loro anche minima assimilazione nella mente di Balzac mi sembra improbabile e quasi impossibile.

  Comunque, ciò non toglie, certo, che Balzac abbia potuto ricordare certe circostanze e il clima del caso Colomès quando sei mesi dopo si accinse a costruire il romanzo.

  Sul personaggio della cugina Betta abbiamo questa sua indicazione: «Sto per applicarmi alla Cugina Betta, terribile romanzo, poiché il carattere della protagonista e un miscuglio di mia madre, della signora Valmore e di zia Rosalie. Sarà la storia di non poche famiglie». Come questo romanzo ebbe nel corso della stesura successivi sviluppi, così la visione primitiva dei personaggi poté subire diverse modifiche. Supponendo che Balzac abbia realizzato il personaggio della cugina Betta come lo aveva presentato alla signora Hanska, rimane difficile riconoscere i tratti di ognuno dei tre modelli dichiarati. Nello stesso periodo in cui scriveva questa storia Balzac era impegnato a mettere ordine nei suoi affari piuttosto ingarbugliati, e soprattutto a saldare prima di sposarsi tutti i debiti. La sua corrispondenza è piena zeppa di conti, fatti e rifatti in continuazione, sempre nel tentativo di dimostrare che la liberazione è vicina. Doveva soldi a sua madre da tempo. E lei lo sollecitava. Se ne lamenta nelle sue lettere alla signora Hanska. Dichiara che sua madre gli chiede più di quanto le sia dovuto e, per esempio, invece di 18.000 franchi ne reclama 57.000 «per interessi accumulati». Il primo gennaio 1845 scrisse: «Tutte le mie sfortune sono venute da mia madre. Mi ha rovinato con calcolo e senza ragione. Son sedici anni che mi dibatto nell’orribile situazione che mi ha costruito». Qualche anno prima, il 17 ottobre 1842, s’era espresso ancora più duramente: «... se sapeste cos’è mia madre. Un mostro e una mostruosità insieme! (...) Mi odia per molte ragioni, mi odiava prima che nascessi. (...) Mia madre ha una maschera che è spaventosa». È difficile che un figlio possa parlare di sua madre in termini più duri. Fortunatamente la trattava con maggiore benevolenza e persino con tenerezza, e lei non gli si dimostrò sempre esigente e pronta al rimprovero. Che lo odiasse non è verosimile; per quanto potesse avere un carattere irritabile e dominatore, le capitava anche d’essere molto materna con lui e, quando si ammalò della malattia che lo uccise, lo curò con dedizione. Anche se è vero che quand’era uno scrittore sconosciuto, o almeno ancora poco conosciuto, lo molestò e ferì spesso con i suoi consigli, i suoi rimproveri e il suo controllo, per spingerlo e persino costringerlo al lavoro. Se dobbiamo riconoscere la madre di Balzac in Lisabetta, dev’essere soprattutto quando Lisabetta soccorre, ma dirigendolo, strapazzandolo e sorvegliandolo, Steinbock; e il fatto che Lisabetta non sia guidata in queste azioni da nessun odio deve far riflettere.

  La zia Rosalie è la contessa Rosalie Rzewuska, nata Lubomirska, il cui marito Venceslao Rzewuski era nonno, dice l’Emir, della signora Hanska. Quindi per la signora Hanska era in realtà la prozia Rosalie. Sophie de Korwin-Piotrowska, nella sua opera Balzac et le monde slave [1933], così dotta e ricca di informazioni preziose per i biografi dello scrittore, dice che «è difficile determinare che tratti particolari il romanziere abbia potuto prendere» dalla zia Rosalie «per darli a Betta». I testi dei memorialisti, che su Rosalie Rzewuski l’hanno informata più di tutti, non ne rivelano nessuno, aggiunge. La Korwin-Piotrowska indica però la ragione dell’animosità di Balzac contro la zia Rosalie: l’ostilità di questa signora al suo matrimonio con la pronipote. Ostilità che si manifestava in pettegolezzi, persino in «calunnie», di cui parlano sia le lettere di Balzac alla signora Hanska, sia quelle della signora Hanska a suo fratello conte Adam Rzewuski. La Korwin-Piotrowska pensa che Balzac si sia servito della zia Rosalie «per dipingere la disperazione e l’odio che sconvolgono il cuore della cugina Betta all’annuncio del matrimonio del suo Polacco». Ma non doveva esserci odio, e tanto meno disperazione, nel cuore della zia Rosalie, che d’altronde ci viene presentata «beffarda, spiritosa e sdegnosa, piuttosto fredda ...». Se cercava di ostacolare il matrimonio, nell’ottica in cui lo vedeva, doveva farlo nell’interesse della nipote. Del resto la Korwin-Piotrowska riconosce che «la costante ostilità della zia Rosalie» è «abbastanza spiegabile se proviamo a metterci dall’altra parte della barricata». E poi la cugina Betta non cerca di impedire il matrimonio, che la tortura, tra sua cugina e Steinbock. Ma se in Lisabetta non riusciamo a ritrovare la zia Rosalie, forse è perché conosciamo la zia Rosalie troppo poco. La Korwin-Piotrowska scrive che Balzac potrebbe aver «messo a profitto anche qualche racconto della signora Hanska, qualche particolare saputo da lei e che noi ignoriamo». Osservazione molto sensata. In genere i giudizi della critica si fondano su dei testi, ma ci sono casi in cui i testi non danno informazioni sufficienti; e ce ne sono altri in cui rischiano di portare fuori strada.

  La Korwin-Piotrowska ha notato, in una lettera di Balzac alla signora Hanska del 14 luglio 1847, una parola epigrammatica di una sorella della signora Hanska sul cattivo gusto del suo defunto cognato, signor Hanska (sic). Balzac, che aveva un’immaginazione pronta a ingigantire le cose, dichiara di aver notato in questa parola una vendetta postuma, di aver «capito tutto, dalla rabbia di questa osservazione». Bisogna vederci «una delle chiavi di Betta e l'origine nel reale della sua rivalità con Adelina?». La parola in questione potrebbe benissimo essere soltanto una boutade, ed è stata detta sette mesi dopo la pubblicazione della Cugina Betta.

  Che Balzac abbia voluto mescolare nella sua concezione del personaggio della cugina Betta alcuni tratti di Marceline Deabordes-Valmore, è un fatto che stupisce. Potevano essere solo tratti simpatici. Balzac dimostrò sempre ammirazione e amicizia a Marceline. Nel 1845 le dedicò il racconto filosofico Gesù Cristo in Fiandra. Se nello scrivere la storia di Lisabetta Fischer gli venne in mente Marceline, che aveva avuto una giovinezza misera e di lavoro, dev’essere stato per raccontare la vita di lavoro, prima in Lorena e poi a Parigi, dove deve penare per imparare un mestiere e farsi un'istruzione, di quella che divenne la cugina Betta.

  E per il barone Hulot ci fu un modello? Sembra di no. Anche se l’autore delle memorie pubblicate col titolo di Balzac mis à nu [1928] pensa che Hulot sia stato costruito secondo il modello di Alexandre Doumerc, figlio di un banchiere presso il quale aveva lavorato come segretario il padre di Balzac. Questo Alexandre Doumerc era «un graziosissimo ragazzo», sembra, e, da giovane, «passava per uno dei principi della gioventù e arbitro delle moderne eleganze». Era anche poeta, scriveva versi nel gusto di Parny. E amava molto Balzac, cui chiedeva pareri «sulle sue poesie leggere». Niente di tutto questo ricorda il barone Hulot. Ma veniamo a tratti di maggior interesse. Gli piaceva la vita allegra, e la continuò anche dopo la rovina degli affari paterni. Si limitò a prendere amanti meno onorifiche, se così si può dire, e meno onerose. Secondo il memorialista, «dopo essere stato con ballerine dell’Opéra, ripiegò su una gioielliera di Palais-Royal e un’acrobata dei boulevards». Era sposato. Insieme alla moglie dovette accettare, nei dintorni di Parigi, l’ospitalità di suo suocero. Ma aveva sempre la sua acrobata, con cui «finiva di avvilirsi». «Per obbedirle rubava frutta e verdura a suo suocero, rubò persino la medaglia nuziale di sua moglie. Ogni giorno faceva nuovi progressi nella sua odiosa degradazione fisica e morale. Aveva perduto il suo fascino, il suo spirito, le sue eleganze, le sue delicatezze, aveva perduto la cura della persona e persino la memoria del proprio nome». Il memorialista assicura che «Balzac è stato cullato dal racconto delle fortune, follie e decadenza di Alexandre», e che «se ne è ricordato scrivendo I parenti poveri per dipingere il barone Hulot». Ma non dice come faccia a sapere che Balzac sia stato «cullato» in questo modo. E nemmeno l’affermazione che Balzac si sia ricordato, per il barone Hulot, di Alexandre Doumerc, è dimostrata. Ci sono, è vero, alcuni tratti comuni a entrambi i personaggi, ma come lo sono a molti vegliardi allegri. Rimane comunque possibile che Balzac abbia pensato a questo Doumerc concependo il suo Hulot. Ma dire che «l’ha mancato del tutto» potrebbe far dubitare del giudizio del nostro memorialista, se le sue memorie non fossero esplicitamente, e per partito preso, ostili a Balzac.

  In questo Hulot caduto così in basso e nel suo rivale Crevel Balzac ha fatto scoppiare un identico sentimento, un sentimento che è in questi due personaggi come una parte di Balzac stesso. Nel giugno del 1846 lo scrittore aspettava un figlio dalla signora Hanska. Il 13 le scriveva: «Vedrai cosa sono capace di fare quando lavoro per i tre lupi». I «tre lupi» sono, naturalmente, la signora Hanska, il bambino, e lui. Un’altra allusione a questo atteso figlio si trova in una lettera del 26 giugno. Balzac deve aver deciso che sarà un maschio, o la signora Hanska glielo ha fatto sperare, perché lo chiama coi nomi già scelti, Victor-Honoré. Il 22 luglio dichiara: «Victor mi dà un coraggio feroce». Diverse altre lettere parlano ancora di questo bambino, fino a quella del 20 novembre in cui, mentre sta lavorando con un accanimento che lo consuma, scrive: «Ma mia moglie e il mio V. mi danno un coraggio sovrumano». Sul finire di questo mese di novembre, in seguito a non so che incidente capitato alla signora Hanska, la speranza di questa nascita si spezza. Il dolore di Balzac è immenso. Il primo dicembre scrive alla signora Hanska: «Ho pianto tre ore, adesso, come un bambino (...) Non riesco a dire quanto soffro. Volevo tanto un bambino da te! Era tutta la mia vita! ...».

  Quando l’artificiosa signora Marneffe della Cugina Betta, incinta, convince che sta per diventare padre ciascuno dei suoi quattro amanti, Steinbock, Hulot, Crevel e Montejanos, il vecchio Crevel e il vecchio Hulot esprimono una gioia e un orgoglio paragonabili all’orgoglio e alla gioia di Balzac; Balzac glieli fa esprimere; Crevel, cui la signora Marneffe ha detto «che da certi indizi pensa che sia un maschio», esprime gli stessi sentimenti quasi negli stessi termini e con lo stesso calore di Balzac alla signora Hanska.

  Nella Cugina Betta c’è anche la signora Hanska stessa. Balzac pensò a lei, la sua Evelina, per la figura di Adelina Hulot, ancora bella, sempre desiderabile, così costante e nobile e, nonostante la breve mancanza da imputare alla sua dedizione, così virtuosa!

  Il 20 novembre, vicino a finire il romanzo, scriveva alla signora Hanska: «Ah! oggi devi immergere il tuo nasino nelle colonne della Cugina Betta, e palpitare a certe frasi sulle donne che riuniscono tutto, anima e carne, piacere e amore, e a certe altre sulla costanza». Tre giorni prima le aveva scritto: «Ci sono molte righe dettate da te nella Cugina Betta; le riconoscerai? Sì, ti batterà il cuore, dirai: questo è stato scritto per me. Quel che lui dimostra come rarità femminile sono io: la dedizione, la fierezza, la virtù ed il piacere, il divino piacere! Devi esserne molto orgogliosa, perché io penso tutto questo di te, non l’avrei mai inventato».

  Il 24 dello stesso mese rallegra la signora Hanska con una notizia di cui, dice, gli hanno fatto un «regalo» il giorno prima al Constitutionnel. La notizia che La cugina Betta turba la magistratura e «che si vuole sequestrare il libro come immorale». Balzac non si turba, non ci crede. Il romanzo non punisce il vizio in modo spaventoso? Si limita a scrivere: «Ma è un discorso da magistrato a tavola, e di uno che dev’essere un Hulot giuridico!». Sembra di sentirlo ridere, di quel riso celebre per la sua sonorità.

  Balzac cominciò a scrivere La cugina Betta nell’estate del 1846. Il 15 giugno annunciò alla signora Hanska che avrebbe fatto: «Primo: La storia dei parenti poveri, Il buonuomo Pons, che farà da due a tre blocchi della Com(media) Um(ana), e poi La cugina Betta che ne farà sedici ...». E il giorno dopo, nella stessa lettera: «Il momento esige che faccia due o tre opere capitali che rovescino gli dei falsi di questa letteratura bastarda, e che proveranno che sono più giovane, più fresco e più grande che mai. «Si tratta» come scriverà alla signora Hanska il 10 agosto «d’essere pubblicato sul Constitut(ionnel), che tira 25.000 copie, e dopo E. Sue, che vi stava pubblicando infatti Martin l’Enfant trouvé. I romanzi di Eugène Sue avevano molto successo. Si trattava di avere un successo non minore, anche maggiore, di fare un’opera non meno drammatica, un intreccio non meno coinvolgente, una lettura non meno trascinante delle sue. Inutile dire che Balzac sperava di riuscirci e sappiamo che ci riuscì.

  Il 20 giugno, un sabato, annunciò alla signora Hanska che contava di terminare la storia di Pons il martedì successivo, per mettersi subito da mercoledì a quella della Cugina Betta, per la quale, come abbiamo già ricordato, affermava di avere «tutto da inventare». Tuttavia, martedì 23 la storia di Pons non era finita; Balzac confessava di averne ancora per ventitré pagine; ma nello stesso tempo dichiarava tranquillamente d’aver promesso La cugina Betta a Véron, direttore del Constitutionnel, per il 10 luglio. Cinque giorni dopo, domenica 28, la storia di Pons è finalmente finita, ma La cugina Betta non è iniziata; il 29 Balzac annuncia che la inizierà il giorno dopo. Lo fece? In ogni caso Véron non l’ebbe per il 10 luglio. Il 15 lo scrittore prevede che non finirà I parenti poveri prima della fine del mese. I parenti poveri è l’insieme dei due romanzi. Deve lavorare all’uno e all’altro: alla Cugina Betta che sta scrivendo, e ai Due musicisti di cui sta correggendo le bozze, riprendendolo in realtà, amplificandolo, in pratica rifacendolo. La mattina del 16 luglio scrive di aver passato due notti sui Parenti poveri, e di essere appena uscito da quattro ore di correzione di bozze; il resto del tempo deve averlo dedicato alla Cugina Betta. Il 21 dichiara di avere ancora «sedici pagine da scrivere per finire la prima delle due storie del Constitutionnel». Quale intende? quella di Pons, destinata inizialmente ad uscire per prima, o quella di Betta, che uscì in realtà per prima? Probabilmente quella di Pons, che gli dava da fare, di cui non era sempre contento. Doveva superare Eugène Sue. E rimaneggiava.

  Il 18 agosto, finalmente, dà alla signora Hanska notizie sulla Cugina Betta: ne ha scritte, in giornata, 24 pagine. Il 21 agosto è arrivato alla trentaseiesima: conta di scriverne ventiquattro il 22 e trenta il 23. Il 22, soddisfatto della velocità del lavoro, scrive: «La cugina Betta è più facile da fare dei Due musicisti». Questo romanzo viene insomma meglio di quello di Pons. Deve averne meglio stabilito al primo colpo il piano, la distribuzione e le proporzioni. Il 25 agosto, un martedì, esprime la speranza di finire la cugina Betta in settimana. Ma sabato 29 né La cugina BettaIl cugino Pons sono terminati. Balzac, che già da qualche tempo rimanda un viaggio che è impaziente di fare a Kreuznach, città termale di Prussia, dove si trova la signora Hanska, si rassegna a lasciare i due romanzi. Rimane fuori Parigi una quindicina di giorni. Al ritorno si rimette all’opera con foga. Il 25 settembre scrive che ormai gli manca poco, che Il cugino Pons non finirà prima del 12 ottobre, ma La cugina Betta sarà finita già il 3. Invece non finisce il 3, e nemmeno l’8, quando comincia ad uscire in appendice sul Constitutionnel. Il 9 deve interrompere di nuovo il lavoro. Parte, e non può mancare, per Wiesbaden, dove il 13 assiste al matrimonio della signorina Anna de Hanska col conte Georges Mnizech. Quest’assenza preoccupa Véron. Tornato a Parigi il 17 riprende subito a lavorare. In 10 giorni, dice, deve fare quattordici capitoli della Cugina Betta. Il 18 scrive che il romanzo ha un successo clamoroso, e che vi si «butterà» senza darsi tregua; le due storie devono essere finite per il primo novembre. Giovedì 22, d’altronde, non mancano «più di 56 pagine per finire La cugina Betta», ed è convinto che «domenica sarà davvero finita»: domenica, cioè il 25. Ma il 23 si dà tempo fino a lunedì 26. Ed il 26 confessa di dover scrivere ancora 70 pagine, che richiederanno, secondo lui, una settimana. Purtroppo una malattia lo fa ritardare ancora. E lo costringe in seguito a prolungare le sedute di lavoro. Il 30 ottobre scrive alla signora Hanska: «Ieri ho lavorato 19 ore, e oggi bisogna che ne lavori 20 o 22. È la pubblicazione a trascinarmi. Bisogna che scriva da 16 a 20 pagine al giorno, e le scrivo, e le correggo. Il Constitutionnel ha esaurito quello che gli ho già dato, bisogna che gliene faccia dell’altro».

  Che mestiere! Fatica, ma si esalta, si scalda, si ammira. Il 24 ottobre si gloria del «successo immenso» della Cugina Betta. Il 3 novembre proclama che questo romanzo avrà un posto tra le sue opere maggiori. Il 5 scrive alla signora Hanska: «Spero che sarai contenta della Cugina Betta. Si grida al capolavoro da tutte le parti, e non sono ancora arrivati al patetico. Ci sono delle scene fiere, bisogna ammetterlo! Non sapevo quel che facevo. Lo so adesso. È il pendant di Esther». Gli mancano solo 36 pagine. Il 7 solo 32; ormai gli sembra un lavoro da poco, e dichiara tranquillamente: «Saranno finite domani domenica». Ma il lunedì gli mancano ancora 25 pagine, e ormai non si fissa più termini. Martedì 10 si concede ancora tre o quattro giorni, ma senza dire quante pagine abbia da scrivere. Forse non osa più far previsioni. Non è più padrone del suo romanzo. È il suo romanzo padrone di lui o, come ha scritto alla signora Hanska, che lo trascina, e sembra di non sapere più fino a dove lo trascinerà. Comunque, si lascerà trascinare. E dichiara: «si gonfia e s’allunga ogni giorno di più; non voglio mancare questo bel progetto. Ha bisogno di tutti i suoi sviluppi».

  L’11, comunque, giudica di aver bisogno ancora di 37 pagine; il 13 di 48. Benché lavori con avidità, questo numero non diminuirà in fretta. Il 15 gli mancano 40 pagine; il 18, 32; il 19, 20; il 20, dopo aver «lavorato molto» il giorno prima, gliene mancano 24. Il 23 si sono ridotte a 14 o 15; ma il 25 risalgono a 20. E scrive: «Questo soggetto aumenta giorno per giorno, tanto è fertile, e gli sviluppi logici mi trascinano. Ma con le venti pagine che farò oggi sarà finito». Scrisse davvero 20 pagine il 25? Non lo so. Il giorno dopo dice di doverne fare ancora 7. Ne fece solo 7 o di più? Non importa, comunque finisce La cugina Betta prima del primo dicembre, il giorno in cui dovrebbe prendere la corriera postale per andare a Lipsia, incontro alla signora Hanska, per portarla a Parigi dove hanno progettato di passare insieme un mese. Se alla fine non parte è perché all’ultimo momento riceve la notizia che il figlio tanto atteso non nascerà.

  Malgrado il dolore, deve dedicarsi senza tregua ai suoi difficili lavori, e continuare a penare. La fatica così pesante e prolungata lo sta sfinendo. D suo amico dottor Nacquart lo rimprovera per questo. È lo stesso Balzac a scriverlo il 20 dicembre alla signora Hanska: «Il signor Nacq. mi ha molto spaventato, a proposito del mio enorme lavoro. Né lui né nessuno dei suoi amici medici concepiscono che si possa sottoporre il cervello a fatiche simili. Mi dice che finirà male. Mi supplica di mettere un po’ di ragione nelle mie orge di cervello. Gli sforzi della Cugina Betta, vomitata in due mesi, l’hanno spaventato. Mi dice: «Finirà in qualcosa di fatale». Il fatto è che nella conversazione cerco con molta fatica i sostantivi. Perdo la memoria dei nomi. È proprio ora che mi riposi».

  Ma alla fine risponde ricordando i suoi debiti, gli impegni che s’è assunto per pagarli. Potrebbe aggiungere che si fa un dovere di liberarsene prima di sposare, dopo tanti anni di attesa, la sua adorata signora Hanska.

  Ma dovrà aspettare ancora più di tre anni. La sposerà il 14 marzo 1850. E il 18 agosto seguente muore. I suoi eccessi di lavoro determinano la fine fatale prevista dal dottor Nacquart.

  Il Constitutionnel disponeva le sue appendici in modo che, staccate dal giornale e piegate, formassero dei fogli in quarto. Il recto presentava a sinistra la quarta pagina e a destra la prima; il verso, a sinistra la seconda e a destra la terza. Il giornale, sfruttando a quanto sembra l’appendice delle copie invendute, e tirandone forse a parte un certo numero, formava dei volumi che offriva in premio ai nuovi abbonati. Il 3 dicembre 1846, lo stesso giorno della pubblicazione dell’ultima appendice della Cugina Betta, pubblicava l’annuncio:

  «Rinnovo di giovedì 1° dicembre — gli abbonati al Constitutionnel che sottoscriveranno al 1° dicembre 1846 riceveranno tutto ciò che è uscito di Martin l’Enfant trouvé, la cui pubblicazione è iniziata il 26 giugno e riprenderà venerdì.

  Riceveranno anche tutto ciò che è uscito dei Parenti poveri del signore di Balzac».

  L’annuncio viene ripetuto il sabato 5 e per qualche tempo viene rinnovato di quindici giorni in quindici giorni, a favore dei nuovi abbonati dei quindici giorni successivi.

  Il titolo del romanzo di Balzac, come appariva sul Constitutionnel, era: Storia dei Parenti poveri. — La cugina Betta e i due musicisti, del signore di Balzac. — Ogni riproduzione, anche parziale, di quest’opera, è vietata, e sarà perseguita come contraffazione. Parigi. Tipografia de Boniface, rue des Bons Enfants, n° 19.

  Ci si è chiesti come bisognerebbe indicare i volumi formati dalle appendici del giornale. Tirature a parte? Per un certo numero di copie sì, ma quelli estratti dalle copie invendute, o dagli abbonati nella loro propria copia, si può chiamarli soltanto ritagli, come fa Fernand Vandérem. Il Constitutionnel non si preoccupava di offrire ai suoi abbonati dei volumi omogenei; un romanzo che usciva nella sua appendice continuava la numerazione di pagina del romanzo che l’aveva preceduto e col quale sarebbe stato legato. L’8 ottobre, quando iniziò ad uscire La cugina Betta, una nota del giornale annunciò la sospensione della pubblicazione del romanzo di Eugène Sue, Martin l’Enfant trouvé, di cui era uscita soltanto la prima parte, che sarebbe continuata solo un po’ dopo, e aggiunse: «Nella breve interruzione di Martin siamo lieti di poter pubblicare I parenti poveri, La cugina Betta del signore di Balzac. La numerazione di pagina di questo romanzo seguirà quella dei Grands danseurs du roi, di modo che questi vari romanzi possano essere rilegati sotto una stessa copertina, che sarà in seguito a disposizione presso gli uffici del Constitutionnel». Les grands danseurs du roi è un romanzo di Charles Rabou. Era uscito nel Constitutionnel dal 5 al 25 giugno 1846. E fu legato in volume insieme alla Cugina Betta: il primo prendeva le pagine 1-84, il secondo 85- 244. In realtà queste appendici estratte sono copie dell’edizione pre-originale. Il titolo di edizione originale che si è voluto dargli non è adeguato: dire edizione è dire nuova composizione.

  Tra la pubblicazione della Cugina Betta nel Constitutionnel e la tiratura della tipografia Moussin apparvero delle illecite edizioni belghe. [...].

  Queste edizioni belghe seguono, naturalmente, l’appendice del Constitutionnel, e quindi non presentano interesse per rilevare le varianti. Non sono nemmeno molto sicure per la conoscenza del testo primitivo, perché nulla garantisce che le sue riproduzioni siano esenti da errori.

  La prima edizione che ci interessa è quella originale francese. Uscì nel 1847. In questa edizione, di dodici volumi, sono riuniti sotto il titolo di Parenti poveri, La cugina Betta e Il cugino Pons. I primi sei volumi uscirono nel 1847 per i tipi di Louis Chlendowski, 8, rue du Jardinet; gli altri sei nel 1848 per i tipi di Pétion, 11, rue du Jardinet. La cugina Betta prende i primi sei e una parte del settimo. Come particolare di questa edizione possiamo notare il fatto che il dodicesimo volume, che dovette sembrare troppo esiguo all’editore, fa seguire al Cugino Pons un racconto: Estella van Dick di Pietro Zaccone (da pag. 171 a pag. 371).

  Nel Constitutionnel, La cugina Betta è divisa in 38 capitoli; nell’edizione del 1847, in 132. Divisioni soppresse nell’edizione Scene della vita di provincia. I parenti poveri [Prima parte: La cugina Betta; seconda parte: Il cugino Pons] Furne et Compagnie, librai-editori, rue Saint-André-des-Arts 55, 1849, un volume in 8°. Il falso titolo colloca i due romanzi nel complesso della Commedia umana uscita presso Furne, Dubrochet (sic) et Compagnie, Hetzel et Paul, dal 1842 al 1846; porta: Tomo XVII. Primo volume supplementare. Studio di costume. Terzo libro. La particolarità di questa edizione è che Balzac vi indica all’inizio una prima parte intitolata Il padre prodigo senza indicarne in seguito nessuna seconda. È l’ultima edizione pubblicata del romanzo.

 

 

  Gabriele Armandi, Il protagonista del «grande amore» televisivo. La visita di Balzac ad Alessandro Manzoni, «L’Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, 11 marzo 1978, p. 3.

 

  Forse non si saprà mai stabilire con esattezza se debba considerarsi più romanzesca l’opera o la vita di Honoré de Balzac. Intanto, possiamo dire che la breve esistenza dello scrittore di Tours potrebbe essere espressa e riassunta parafrasando semplicemente il titolo di uno dei suoi libri più noti anche se non fra i più riusciti: «Splendori e miserie di Balzac». La versione cecoslovacca del suo più grande amore — trasmessa di recente anche dalla televisione italiana — dovrebbe aver dato un’idea, sia pure molto sommaria, di come fu vissuta un’esistenza che delle luci e delle ombre fece un’alternanza netta ed incessante. Sempre per stare al paragone tra l’opera romanzesca e la vita di chi la concepì e la espresse, siamo perfettamente d’accordo col Sainte-Beuve quando scrive: «Si può dire di Balzac che egli fu preda della sua opera, e che il suo talento lo trascinava spesso come un carro lanciato con quattro cavalli».

  Questo fatto del carro e dei quattro cavalli (voglio dire questa incontinenza di carattere e di comportamento) mi fa tornare in mente uno dei suoi soggiorni in Italia e il suo incontro, a Milano, con il nostro Alessandro Manzoni, soggiorno e incontro improntati ad una baldanza e a una spavalderia fra le più sconvenienti e — proprio perché c’era di mezzo il buono e modesto don Lisander — inopportune.

  A Milano, Balzac arrivò il 19 febbraio 1837. Da qualche mese gli era morta l’amica Laure de Berny e, non sapendo soprattutto come sfuggire all’assedio dei creditori, febbricitante e stanco per il troppo lavoro (in una notte, nell’ottobre 1836, aveva scritto il Secret de (sic) Ruggeri e, in tre, La vieille fille per assoluta necessità di danaro), espresse alla contessa Sarah Guidoboni Visconti — che viveva a Parigi e che spesso andava a riposare sul famoso divano bianco, nel salotto tappezzato di bianco e rosa dove Balzac, in tunica bianca, si atteggiava a falso monaco — il desiderio di trovare un rifugio all’estero. Per una questione di eredità, i Guidoboni avevano aperto in Italia una controversia giudiziaria e, come avevano fatto una volta mandando Balzac a Torino, pensarono adesso di ... spedirlo a Milano con una loro procura e con una consistente somma.

  La notizia dell’arrivo nella capitale lombarda del celebre romanziere, si sparse con la velocità del fulmine. Tutto il bel mondo — avvertito anche dai Guidoboni — esultò. La principessa di Belgioioso, i Litta, i Trivulzio, gli Archinto, il principe Alfonso Porcia fecero a gara per averlo nei loro salotti. In quello del Porcia, a qualcuno non sfuggì che Balzac, tentava di insidiare l’amica del principe, Clara Maffei, ma non accadde nulla di grave se il Barbiera potè dire che «nonostante i molti peccati descritti nei suoi romanzi, il romanziere viveva casto, lungi da passionacce volgari, domandando alle donne, o meglio alle Signore, da quel raffinato che era, le carezze pure della devozione, il profumo dell’anima».

  Dal canto suo, Balzac non dimenticherà, l’anno dopo, di dedicare proprio «A sua Altezza il Principe Alfonso Serafino di Porcia» il suo romanzo Splendori e miserie delle cortigiane, con queste iniziali parole: «Lasciatemi apporre il vostro nome in testa a un’opera parigina e meditata in casa vostra in questi ultimi tempi ...».

  Dopo appena dieci giorni dal suo arrivo a Milano, Balzac — ancora più gonfio e tronfio di quello che era, per le accoglienze ricevute — volle conoscere il confrère Alessandro Manzoni. La visita avvenne il primo marzo. E’ Cesare Cantù che lo dice ed è Tommaso Gallarati Scotti che lo scopre e lo rivela in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera l’8 settembre 1965, dopo aver consultato alcune note inedite dell’amico del Manzoni che si trovavano presso la Biblioteca Ambrosiana e che non furono incluse nelle Reminiscenze.

  Non ci resta, quindi, che ascoltare il Cantù: «Ho visto stasera, primo marzo — dice — M. de Balzac da Manzoni. Brutta figura: parla come un mulino a vento. Si lamentò senza fine della contraffazione libraria ed è persuaso che fra le potenze si farà una convenzione per impedirla. Parlò con gran lode di personaggi che son personificazioni di idee, come il Figaro che pur non fu inteso e che è derivazione del Panurgo di Rabelais. Egli, Filarete Chasses (sic) e Nodier, dice esser i soli in Francia che intendono perfettamente Rabelais a furia di studiarlo. Che esso volle dimostrare la nullità delle istituzioni umane e che tutto va a finire nella bottiglia. Alle maniere esagerate e spirituali d’allora oppose la materialità. Gli antichi scrittori francesi studiavano moltissimo l’idea; i moderni, troppo l’immagine. Egli, Sainte-Beuve e altri si proposero ricondurre all’idea; Sainte-Beuve scrisse Volupté e fallì; egli il Louis Lambert, il Médecin de campagne e fallì; non è nel gusto presente».

  Dei Promessi Sposi e del loro autore (che era andato a visitare evidentemente per semplice curiosità) nemmeno un accenno, sicuro com’era di essergli in tutto superiore e quindi da tenere in nessuna considerazione. Il Cantù è convinto — e lo dice nelle Reminiscenze — che Balzac era andato dal Manzoni senza avere nemmeno letto I Promessi Sposi. Anche in altri incontri che egli ebbe col romanziere francese a Milano, s’era fatto un concetto poco buono dell’ospite il quale parlava, parlava ma quasi sempre di sé e dei suoi romanzi. «Parla — annota il Cantù — come un gran che d’un’opera costatagli due anni di lavoro: La Phisiologie due (sic) mariage. Parla assai male de’ Ginevrini, calcolatori, speculatori. Poco fu contento de’ Torinesi. Mostrasi pago assai de’ Milanesi, disinvolti, senza pretenzione ecc. Trova miserabili le carrozze e i cavalli nostri, compassionevoli i caffè».

  Il Manzoni, invece durante la visita non aprì bocca. Quella specie di pachiderma «piccolo, grasso, tondo – spalle larghe, quadrate, una testa grossa – un naso come della gomma elastica, una bocca quasi senza denti» come lo descrisse una donna, doveva dargli l’impressione di un imbroglione, di uno sbruffone più da sopportare che da ascoltare e prendere sul serio.

  Dei Promessi Sposi, Balzac in ogni modo parlò a Venezia dove si recò sempre per l’affare Guidoboni. Qui, in casa della contessa Soranzo, durante una cena alla quale fu invitato anche Tullio Dandolo, dopo aver mangiato e bevuto in abbondanza, Balzac se ne uscì con giudizi superficiali e altezzosi sul romanzo manzoniano, definendolo fra l’altro «fiacco di ordito». Il Dandolo lo rimbeccò, dalle parole grosse si stette per passare addirittura alle sberle. La contessa Soranzo, con le mani nei capelli, non sapeva a che santo votarsi. La stampa ne parlò, il Manzoni quasi sicuramente venne a sapere tutto. Forse non disse niente, non si sbottonò. O forse espresse, sia pure in privato, uno di quei giudizi taglienti che era solito formulare e che formulò quando, dopo la visita di Balzac, al figliastro Stefano Stampa (presente all’incontro) che gli riferì di avere anche lui, come il Cantù, sentito dire all’ospite: «Vedete? ho tentato il genere religioso nel Medico di campagna, ma non ho avuto il successo che mi attendevo», il gran lombardo sornionamente fece osservare che «per avere un succès dans le genre religieux (e nel ripetere le parole in francese c’era una sottile ironia) non bisognava tentarlo come una speculazione letteraria qualunque, ma esserne profondamente persuasi».

  In due parole, il confrère francese e la sua albagia furono sistemati per sempre.

 

 

  Françoise Aubert, Recensioni. Enzo Caramaschi, «Voltaire, Madame de Staël, Balzac», Padova-Paris, Liviana Editrice-Nizet, 1977, pp. VIII-321, «Studi Francesi», Torino, 64, Anno XXII, Fascicolo I, Gennaio-Aprile 1978, pp. 120-121.

 

 

  Franca Bernabei, Gli intellettuali americani e la letteratura francese: 1866-1900, «Annali della Facoltà di lingue e letterature straniere di Cà Foscari», Venezia, XVII, 1, 1978, pp. 101-118.

 

  pp. 109-114. La figura di George Sand è interpretata, perlomeno nel corso degli anni ’70, alla luce del modulo politico-sociale ed etico-morale (per aver istillato idee estremamente pericolose e «depravate» sul disprezzo dei doveri domestici). Essa costituisce così un tramite tra la prima e la seconda direttiva, che è quella dell’appropriatezza e verosimiglianza narrativa e accomuna la lettura degli scrittori del realismo e del naturalismo. Questi due momenti, infatti, molto spesso non vengono distinti l’uno dall’altro e sono invece accomunati dall’accusa di fredda impersonalità e non scientifica deformazione del reale. Ai naturalisti, in particolare, si rimprovera la chiusura e la superficialità dello sperimentalismo, visto come completamente avulso da un rapporto concreto con il mondo esterno, e l’applicazione in campo letterario dei metodi di un sistema (la scienza) non compatibile con esso. Quando i due momenti vengono separati, ciò avviene soprattutto attraverso la contrapposizione tra il romanzo «alla Zola» e il romanzo «alla Balzac».

  Balzac, infatti, sembra essere l’unico autore francese che abbia riscosso maggiore unanimità di consensi. Fin dall’inizio se ne sottolineano la genialità e la grandezza: anche se a un tale riconoscimento si accompagnano a volte delle riserve, sostanzialmente ripetitive, sia di carattere formale che relative all’atteggiamento dell’autore nei confronti del proprio soggetto. Rispetto ad alcune recensioni apparse in precedenza, la critica del trentennio si distingue per una maggiore elasticità e duttilità di valutazione: si corregge l’accusa di immoralità tout court, si ridimensiona quella di una cinica rappresentazione della società. Nel corso degli anni ’70 si superano gradualmente, dunque, certi atteggiamenti cautelativi nei confronti di un autore, per dirla con Genette, «troppo originale per essere ancora trasparente al suo pubblico»: per i quali la relazione romanzo storico/«scene della vita privata» si presenta come sconcertante se non scioccante addirittura. E nell’avvertire la novità e pericolosità di una tale «indiscrezione» romanzesca, ci si trincera dietro all’accusa di freddo distacco dalle vicende rappresentate e cinismo — il che viene poi a coincidere con l’accusa di immoralità o amoralità.

  Si tende così a dimostrare l’assenza della necessaria educazione del gusto, secondo quell’intercambiabilità tra codice etico ed estetico cui si è accennato; assenza alla quale si attribuiscono, inoltre, le manchevolezze strutturali o stilistiche rilevate anche dai commenti più favorevoli. Ma, con un significativo capovolgimento di valori, alla fine degli anni ’80 e nel corso degli anni ‘90, si ammette che proprio grazie ad una tale mancanza Balzac aveva potuto raggiungere una completa ed imparziale riflessualità.

  Sembra evidente che Balzac doveva essere difeso, non solo e non tanto per il fascino della sua personalità (messo in luce dalla pubblicazione della corrispondenza e di studi biografici sul suo conto); e non solo per l’ovvio ampliarsi, nell’arco degli anni, della prospettiva sulla sua produzione in generale; ma soprattutto perché il suo «realismo» si veniva sempre più chiaramente delineando come esemplificazione vigorosamente positiva di una formula letteraria che era invece «degenerata» ad opera dei successori. La «naturalizzazione» dello scrittore si realizza attraverso un processo di estrapolazione dell’artista dal suo contesto storico, che ne fa «the great master of French fiction» in assoluto. Si ravvisa in lui, certamente, lo storiografo, l’attento analista delle differenze tipologiche riscontrabili nella società contemporanea; ma si sottolinea che l’osservazione scientifica coesiste colla creatività artistica, che l’individualità dei pur tipici personaggi non è mai sacrificata per imporre forzosamente uno schema ideologico; che il fascino dell’autore sta nella multiforme rappresentatività della Comédie e nella fedele riproduzione della «natura umana».

  Nell’universalizzare così la consapevole operazione storicistica dello scrittore di Les Études des Moeurs, è sintomatico che passi quasi inosservato un’aspetto (sic) fondamentale della «mitologia realistica» balzacchiana: l’atteggiamento di rigetto nei confronti del capitale e del «reale» da questo prodotto, cosicché, sotto la denominazione generica di «passioni umane», si dissolvono — nella spontaneità del vissuto — i rapporti tra singoli individui e condizioni economico-sociali. (Ed altrettanto sintomatico è che uno dei pochi ad avvertire, ma negativamente, la presenza di una tale problematica, sia proprio James, la cui finissima sensibilità esprime, in alcuni saggi agli inizi del ‘900, il rifiuto più netto di fronte a questa ingombrante «corporeità»; per concludere però, nell’ultimo di questi, che le stesse condizioni economiche costituiscono parte integrante della caratterizzazione dei personaggi – anche se un tale riconoscimento è attuato su un livello tecnico-formale piuttosto che tematico-ideologico.)

  Un altro tipo di «naturalizzazione» si ha nel conferire valore educativo – sia pure con opportune riserve quanto al pubblico virtualmente capace di recepire un tale messaggio – alla rappresentazione «imparziale» del «vizio» e della «virtù». Si rileva (contrapponendo «vero» a «verosimile») che il primo, pur trionfando (secondo una mimesi di riflesso del reale) è reso narrativamente possibile (secondo una mimesi di reale del riflesso) appunto perché affiancato alla seconda. Comparato ai naturalisti, dunque, Balzac appare più vicino alla «verità»: uno scrittore la cui opera rispecchia la vita così come essa è (o dovrebbe essere), non ne nega gli aspetti più cupi e corrotti, ma tramite la scrittura li neutralizza perché li inserisce in una più ampia prospettiva, li rende «veri», vale a dire elementi di un naturabile rappresentabile perché tradotto in termini di poetica.

  Non tutti i critici, comunque, concordano sull’oggettività dell’analisi balzacchiana. Lo stesso James, nel corso dei vari saggi dedicati allo scrittore, oscilla tra l’apprezzamento della «scientificità» e delle qualità di «storico» della sua età, e l’ammirazione di ordine più specificamente tecnico per la lezione di craftmanship del maestro dell’arte «della completa rappresentazione». Così, a metà degli anni ‘70, egli lamenta la presenza di un gusto per il pittoresco fine a se stesso, di carattere estetico più che morale, con delle considerazioni più o meno simili a quelle espresse da un critico della «North American Review» trent’anni prima. Anche per Perry, Balzac è incline a pericolose scivolate nel fantastico, che non ottemperano dunque alla convenzione della probabilità narrativa (Some French Novels, 1878), e il Lathrop gli si affianca nell’esprimere delle riserve sull’accuratezza dello studio sulla «natura umana» condotto dallo scrittore. Quanto ad Howells, il suo attacco al romanticismo in toto, ed una concezione evoluzionistica dello sviluppo della letteratura, lo portano a ravvisare, nel primo «realista», la presenza di una deformazione romantica, di un ricorso eccessivo a passioni melodrammatiche che, per quanto attribuibili al momento storico in cui Balzac scriveva, rappresentano tuttavia una sorta di peso morto non più ammissibile. Per il fautore di una narrativa del «commonplace», quanto mai attento al problema delle modalità di fruizione del romanzo, la falsità nei confronti della «vita» è falsità anche nei confronti dell’arte: e con questo entimema che implica il sillogismo tipico dell’illusione realista [l’Arte è (rispecchia) la vita, la Vita vera, l’Arte è vera] e nega così l’esistenza di una convenzione letteraria del reale, Howells introduce al tempo stesso un’argomentazione di ordine logico (e ideologico) perché si richiama al concetto di probabilità (o motivazione) narrativa.

  Comunque, l’insistenza con cui si obietta al «pittoresco» e «fantastico» in Balzac, è indicativa di quella tendenza extra-storica caratterizzante la visione del mondo degli intellettuali del New England, cui si accennava prima. Basti pensare alla lettura di Baudelaire, che nel 1850, in un articolo apparso su «L’Artiste», mette in rilievo la modernità e il carattere scientifico della Comédie esattamente perché considera l’ardore vitale (la passione) espresso dal suo autore un valore positivo e di centrale rilievo nell’ambito di un universo «moderno», variegato e volitivo.

  Un’ultima considerazione riguarda gli appunti mossi alla minuzia descrittiva, analitica e classificatoria dello scrittore. Anche in questo caso è utile richiamare le osservazioni di Genette, per quanto concerne la dilatazione del discorso nel romanzo balzacchiano, determinata dalla necessità di far apparire la cornice ideologica indispensabile alla comprensione della Comédie; ma responsabile, altresì, dell’affiorare di un «verosimile artificiale» che, invece di nascondere, rende più evidente l’arbitrarietà del racconto stesso. Le critiche al proposito, infatti, o sostengono esplicitamente che l’eccesso di analisi distrugge l’illusione della finzione (Modern Fiction), impedendo che i personaggi vivano di vita propria, o lamentano — sulla base di un’identica motivazione – la limitazione della partecipazione attiva (cioè immedesimazione) del lettore alle vicende narrate (The Novel and its Future). Condizioni, queste, entrambe indispensabili all’estetica rappresentazionale ottocentesca e ad una teoria letteraria convinta del valore socialmente e moralmente educativo dell’exemplum. È ovvio inoltre che, per quanto riguarda in particolare la minuzia descrittiva, sfugge ai critici il senso di quel «realismo atmosferico» di cui parla l’Auerbach; inteso come penetrazione di ogni spazio (anche interno) e delle situazioni in cui si muovono i protagonisti, di una stessa atmosfera assunta a metafora della totalità del reale.

  Ben più vistosamente, gli autori delle recensioni sui francesi hanno ignorato l’intrecciarsi delle condizioni politiche e sociali del tempo all’azione narrativa nell’opera dello scrittore che, assieme a Balzac, ha contribuito alla creazione del romanzo francese moderno: Stendhal.

 

 

  Giovanni Bogliolo, L’invenzione della realtà, in Repertorio francese. La letteratura francese in Italia negli anni Settanta, Urbino, Pubblicazioni dell’Istituto di Lingue dell’Università di Urbino, 1978, pp. 37-40.

 

  Cfr. 1977.

 

 

  Vittorio Brunori, I «negri» di Dumas e le diatribe di Soulié, in, in La grande impostura. Indagine sul romanzo popolare. Introduzione di Giorgio Luti, Milano, Marsilio editore, 1978 («Saggi», 62), pp. 30-36.

 

  pp. 30-31. Sul lavoro di qualche importanza, di stampo francese, che inaugurò la moda delle dispense, le conclusioni degli esperti appaiono curiosamente divergenti; tale onore sembra spettare tuttavia alla Zitella (uscita sulla «Presse» a partire dal 23 ottobre 1836) del povero Balzac, da tanti anni proteso con tenace accanimento alla ricerca della grossa affermazione popolare e ormai già saldamente affermato.

  Costretto a sfornare a getto continuo una serie impressionante di drammoni senza capo né coda, firmati per fortuna con gli pseudonimi più diversi, l’autore della Commedia umana riuscirà comunque a rivalersi sui cinici magnati della cultura mercificata fornendo, nelle Illusioni perdute, uno spietato e quanto mai veritiero ritratto dell’ambiente letterario coevo (si rammenta, per inciso, il memorabile capitolo riguardante l’impatto di Luciano di Rubempré con i boss librari installati nelle Galeries de bois).

  In realtà, il cosiddetto romanzo «popolare» era largamente diffuso ancor prima della nascita dell’appendice; particolare successo avevano ottenuto le vicende burlesche di Pigault-Lebrun (Il bambino del carnevale, 1792; Mio zio Tommaso, 1799), a loro volta ispiratrici delle successive composizioni del più noto Paul de Kock, il cui nome correva sulla bocca di tutti nella Parigi del 1820.

  Al medesimo filone consumistico si riallacciava inoltre Ducray-Duminil, creatore di foschi soggetti «neri», sulla scia del tale of terror diffusosi in Francia in seguito alla notorietà conquistata dalle lugubri storie di Lewis e della Radcliffe e al quale attinse senza reticenze lo stesso Balzac.

  Concepite proprio per ottenere il favore delle masse, le opere giovanili dell’instancabile Honoré, a lungo neglette dalla critica («Vi sono nella carriera di uno scrittore inizi folgoranti. Gli inizi di Balzac furono vili, quasi tetri, addirittura umilianti» dichiara con ragione Macchia), presentano invece tutti i caratteri opposti di quelli richiesti a un potenziale campione d’incasso.

  Se, da un lato, romanzi come Annette e il criminale o Argow il pirata contengono infatti gli elementi tipici dell’appendice, dall’altro sono però inficiati da difetti davvero micidiali per un feuilleton degno di tale nome: dall’estrema prolissità del racconto, alla scarsa suspense, alle eccessive divagazioni del narratore. In conclusione, Balzac, molto più di Zola (ugualmente coinvolto nelle bassure della paraletteratura), pur sfruttando a piene mani il trito arsenale derivato dal romanticismo più deteriore, non riesce a costruire, forse suo malgrado, un intreccio di sicuro effetto alla stregua del «rivale» Sue, incredibilmente dotato nell’arte di vendere fumo e capace come pochi di stordire la gente con assurde mistificazioni e dichiarazioni demagogiche.

  A ogni modo, sarà proprio in concomitanza con gli isterismi provocati dai Misteri dell’avversario balzacchiano che si apre in grande stile la stagione d’oro del feuilleton, sebbene già da qualche tempo Véron, patron della «Revue de Paris» avesse lanciato la voga dei fascicoli quindicinali, poi ripresa da Buloz per la sua «Revue des deux mondes». Ma le manifestazioni più eclatanti del fenomeno esplodono soprattutto durante il regno incontrastato di Girardin.

 

  Balzac e i suoi esperimenti polizieschi. Gaboriau e l’avvento del detective-novel, pp. 137-144.

 

  pp. 137-139. D’obbligo, naturalmente, l’allusione a Balzac, il quale, «se non viene citato spesso a questo proposito, è perché non vi colse i suoi migliori risultati, ma il suo vigoroso potenziamento al sottogenere preferito l’ha pur dato». L’infaticabile Honoré — stakanovista delle Belle Lettere —, a parte Maestro Cornélius, dove l’elemento poliziesco (l’inchiesta condotta da Luigi XI in persona per svelare l’arcano dei continui furti accusati dal tirchio fiammingo) resta però in secondo piano a tutto vantaggio dell’analisi introspettiva, e il più felice Un tenebroso affare (apparso a puntate sul «Commerce» nel 1841 e in parte ispirato ad un fatto realmente accaduto: il rapimento del senatore Clemente de Ris), fornisce con ogni probabilità il suo più riuscite esempio di thrilling con la storia di Ferragus.

  La vicenda, pubblicata dalla «Revue de Paris» nei primi mesi del 1833, ottenne con merito uno straordinario successo che anticipava certe clamorose manifestazioni d’entusiasmo destinate a toccare il diapason all’epoca, ancora lontana, dei Misteri di Parigi: pressanti sollecitazioni sull’autore per sapere in anticipo lo scioglimento, pellegrinaggi alla rue de Soly, principale teatro degli appassionanti accadimenti, e chi più ne ha ne metta. In effetti, si ritrova in Ferragus tutto l’armamentario congeniale ad un’operazione di puro intrattenimento come questa: femmine dal passato enigmatico (l’inquietante Clemenza Desmarets), innamorati respinti improvvisatisi in un baleno investigatori (il passionale Augusto di Malincour); abbondanti pennellate di pittoresco (i meandri più riposti di una capitale ormai pronta per diventare agli occhi del mondo la Babilonia dei tempi moderni), associazioni segrete (i Tredici, «unione intima di gente superiore, fredda e motteggiatrice, sorridente e maledicente, in mezzo ad una società falsa e meschina»).

  Quindi, ammazzamenti a catena e soprattutto lui, il tremendo capo dei «Divoranti»: «eroe dai due volti, ora crudelissimo, ora sublime» capace di commettere nefandezze inenarrabili e nel contempo genitore dolce e amorevole.

  In poche parole: un’opera di consumo dal meccanismo pressoché perfetto, sebbene il romanziere tentasse di mettere le mani avanti e di distanziarsi da quei colleghi poco sensibili al sacro fuoco dell’arte e invece attenti al risultato commerciale [...].

  Procedimento, questo, che Balzac aveva ampiamente utilizzato non solo nella circostanza, dove al bagaglio tipico dell’appendice — ante litteram si badi bene — si aggiunge il ripetuto ricorso al mystery e il colpo d’ala dell’imprevedibile soluzione finale, ma anche nella maggior parte dei romanzoni di gioventù. Se si eccettuano infatti la deliziosa Ultima fata (favola anticonformistica, dove l’obbligatorio lieto fine si rovescia nel dramma) e il divertente Gianluigi o la trovatello (dalle spericolate acrobazie verbali alla Rabelais), quasi tutto il resto del repertorio dell’apprendistato balzacchiano risulta colmo degli stessi elementi disprezzati in seguito con tanto livore e che tuttavia affiorano, qua e là, perfino nella Commedia umana (a cominciare dalla fumettistica Donna di trent’anni a torto lodata da Sainte-Beuve, il quale si pentì poi amaramente del suo primo affrettato giudizio).

  Filiazione diretta dei truci personaggi appartenenti all’epoca in cui l’ancora sconosciuto autore dichiarava con umiltà: «sono povero e non desidero altro che un po’ di gloria e di denaro» (dalla préface al Vicario delle Ardenne), Ferragus è forse il primissimo modello in assoluto, seppure imperfetto, di superuomo popolaresco, la crisalide destinata a trasformarsi in farfalla nel successivo Edmondo dumassiano di Montecristo, dove le teorie dell’essere eccezionale si delineano più compiutamente rispetto ai precedenti Misteri sueiani.

  E pur riconfermando entro certi limiti l’incapacità, o la ripugnanza, di assolvere fino in fondo il proprio dovere di feuilletonista (dopo aver creato un abile clima di suspense all’inizio della vicenda, Balzac si affretta ad annullarne subito gli effetti lanciandosi in una lunga digressione sul fascino delle strade parigine: ottima, ma che trasporta per forza di cose il lettore da un’altra parte), il romanziere si permette addirittura di suggerire spunti di grande presa spettacolare ai van concorrenti. Citiamo, per tutte, la tempestosa scena madre conclusiva dove il consorte di Clemenza scopre il terribile segreto della moglie ascoltando non visto — attraverso un foro praticato nella parete — il colloquio rivelatore tra la donna e il di lei padre: espediente poi ripreso con disinvoltura da Sue (l’episodio di Rodolfo nella soffitta dei Morel) e da Hugo (Mario che assiste all’agguato teso da Thénardier a Jean Valjean).

 

 

  G. G. C., Balzac turista per amore, «Corriere della Sera», Milano, 8 febbraio 1978, p. 12.

 

  Tra l’imminente Madame Bovary e lo stendhaliano Il Rosso e il Nero di fattura russa, la nostra televisione ha pensato bene d’inserire qualcosa che riguardasse anche il terzo pontefice del realismo francese della metà Ottocento: Balzac. Solo che l’omaggio a quest’ultimo scrittore invece di tradursi in una riduzione di uno dei suoi corposi romanzi (ci sarebbe stato solo l’imbarazzo della scelta tra un numero di opere che si aggira intorno al centinaio), consiste in uno sceneggiato ruotante attorno ed alcuni episodi della sua biografia.

  Certo, le opere di Balzac hanno spesso un sottofondo autobiografico — valga l’esempio di Mercadet — ma così facendo si è ottenuto un effetto curioso. I romanzi di Balzac sono ancor oggi un classico esempio di quadri sociologici, spesso superiori a indagini espressamente condotte su questo o quel milieu (lo scrittore fu il primo a fare ampio uso del termine); in questa parziale biografia (Il grande amore di Balzac, ieri sulla rete 1) invece, vi è una sola, ovviamente torreggiante, figura, quella del romanziere stesso.

  Dopo alcune sequenze iniziali che ne preparano l’entrata in scena, Balzac ha occupato ininterrottamente il proscenio, accentuando il proprio fisico massiccio. con abbigliamenti vistosi: dai panciotti multicolori alla tunica di cachemere (sic) bianco che indossa quando lavora (l’attore è Pierre Meyrand). Accanto a lui per quanto viperine, le donne parevano fuscelli. La principale (Beala Tyszkiewcz) è la contessa polacca Hanska (la destinataria delle Lettres à l’Etrangère) che permette di creare riuscite contrapposizioni tra un ambiente nobiliare ancora feudale e quello bohémien parigino entro cui Balzac considerava le proprie, spesso traboccanti, manifestazioni amorose, capitali di gran valore da esportare clandestinamente. Il regista di questa produzione franco-polacca è Wojciech.



  Giuseppe Capograssi, Pensieri a Giulia. I. 1918-1919 a cura di Gabrio Lombardi, Milano, Giuffrè Editore, 1978.

 

  p. XXIX. Ventidue anni più tardi, da Sulmona, il 23 dicembre 1918, Capograssi scriverà a Giulia: «Ma mentre parlavo con essa [una cugina fastidiosa], una fortuna: mio zio, zio Fausto, l’avvocato, che mi viene a fare una visita lunga. Cominciammo a parlare di cose serie: mia cugina batté immediatamente in ritirata, e noi ci ingolfammo in ima di quelle conversazioni errabonde e capricciose che toccano di tutto, che girano traverso tutte le idee, che si inerpicano su tutte le cime, che sognano dinanzi a tutti i paesaggi. Parlammo di Balzac, suo e mio grande amico (...); parlammo della Chiesa (...); parlammo della Francia e dei suoi soldati e dei suoi frati (...); parlammo della Germania e della speranza che essa rientri nell’ovile antico di Pietro (...)».

 

  p. LIX. «Dunque io t’ho amata sempre. T’ho amata prima di conoscerti, amavo una certa imagine della mia mente, un fantasma ideale, delicato e vibrante, con l’anima amorosa a nudo, col cuore dalle corde molteplici e vibranti e tese fino allo spasimo. Questa imagine della mente, questo fantasma ideale eri tu; era una misteriosa anticipazione del futuro, era l’annunzio della tua apparizione nella, mia vita.

  Così io voglio che le ami molto queste due profonde e verginali anime femminili che il grande mago Balzac evoca per te ora dal mondo dei sogni. Io voglio che tu le ami molto come, io le amo, perché esse mi hanno annunziato, a me ignaro dell’amore, e ignaro del caro mistero della donna, l’amore, la donna, te, insomma, mi hanno dato forma, colore, aspetto reale al fantasma ideale che la mia anima errabonda aveva imaginato e sospirato.

  Io le ho amate quelle due anime femminili che Balzac e Stendhal, i miei due grandi amici, mi hanno presentato con potente rilievo, alla mente avida. Le ho amate, ma chi amavo, e che amavo in esse? Amavo te, Giulia, e senza conoscerti, e senza sapere che tu esistessi, io ti ho amato sotto le care sembianze di Eva Séchard, sotto la specie profonda e amorosa e schiva di Clelia Conti.

  Sai tu quanto ho sognato ogni volta che rileggevo e rivedevo queste due anime andare in giro per il mondo, portando il loro sacrifizio e il loro amore occulto e immenso? Sai tu quanto ho sognato il semplice suono di una parola profonda e cara, che l’una dice, che l’altra non dice ma esprime con tutta se stessa? [...]».

 

 

  Carlo Carena, In vacanza diventiamo peggiori?, «Stampa Sera», Torino, Anno 110, Numero 203, 4 Settembre 1978, p. 3.

 

  Le virtù borghesi di Cesar Birotteau, il profumiere di un capolavoro di Balzac, fanno sorridere e compatire; ma anche il cinismo, la sopraffazione del suo avversario Du Tillet, suo antico e beneficato commesso ora salito all’alta finanza, disgustano e sconquassano. Il rischio dell’inverno industriale è di ridurci alle dimensioni di Birotteau — e magari senza la sua bella moglie —. Ma anche quell’altro tipo che esplode sulle spiagge e nei bar, l’altra faccia o il miraggio di un Birotteau represso, è un modello disumano.

 

 

  Vito Carofiglio, Da Balzac a L’Herbier. Un dramma in riva al mare nell’occhio di Canudo, in AA.VV., Ricciotto Canudo. Atti del Congresso internazionale nel centenario della nascita (Bari-Gioia del Colle, 24-27 novembre 1977). A cura di Giovanni Dotoli, Fasano, Schena editore, 1978 («Pubblicazione della Fondazione Ricciotto Canudo»), pp. 225-230.


  Simboleggio con T1 il testo della novella di Balzac intitolata Un drame au bord de la mer e con T2 il film di Marcel L’Herbier intitolato L’Homme du large (del 1920), derivato da T1. [...]. L’equazione T2 = T1, scorretta esteticamente e falsa semanticamente, è stata comunque posta e rivendicata dal regista a suo tempo e in seguito fatta propria da due storici del cinema, Bardèche e Brasillach, i quali parlano di T2 come di una «recréation continue, une des plus parfaites adaptations qui soient» (Histoire du Cinéma), e l’affermazione ha peso in quanto Bardèche è uno dei più noti studiosi di Balzac [...].

  Canudo non consenti all’equazione, e dette d’altra parte su T2 un severo giudizio estetico/critico, che, in mancanza dell’articolo specifico scritto dal nostro teorico del cinema, ci è dato desumere dalla lettera (inedita) che il regista indirizzò al suo recensore [...].

  Mi pare infatti che Canudo cogliesse nel segno, stabilendo contrastivamente il rapporto T2/T1 sulla base del riconoscimento del personaggio principale del dramma. In T2 il padre appare personaggio astratto, secondo Canudo, non legato organicamente all’ambiente (paese e paesaggio brettoni). Il padre, dunque, avrebbe subito una cattiva traduzione, un tradimento, nel nuovo processo artistico. Credo di capire che Canudo da una parte rivela ammirazione per il singolare e potente personaggio balzacchiano e d’altra parte rimprovera a L’Herbier di non aver saputo utilizzare convenientemente le risorse tecniche e le potenzialità espressive della «officina delle immagini». [...].

 

 

  Raffele de Cesare, Alcune note su “La messe de l’athée”, «Aevum», Milano, Anno LII, fascicolo 3, settembre-dicembre 1978, pp. 557-579.

 

  [...]. [I]l valore poetico della novella — che noi ci ostiniamo a considerare un vero, piccolo capolavoro, tuttora alquanto maltrattato dalla critica — ci autorizza, crediamo, ad indugiare e a dilungarci più del previsto su questi pochi fatti concernenti la storia esterna ed interna della Messe de l’Athée [...]. Il nostro proposito [...] vuol essere quindi quello di precisare meglio, da un canto la documentazione balzacchiana relativa alla biografia (e alla leggenda) di Dupuytren; dall’altro canto, di fissare ulteriormente la natura del rapporto fra Desplein e Balzac. E, soprattutto, di situare, con una verifica testuale più estesa, la posizione dei personaggi, l’inclusione dei temi e dei motivi della Messe de l’Athée rispetto ai romanzi delle Etudes philosophiques apparsi precedentemente al 3 gennaio 1836, data di nascita del nostro racconto pubblicato, come è noto, nella «Chronique de Paris» di quel giorno.

  [...] noi vorremmo, in altre parole, far emergere quel significato centrale che la Messe de l’Athée [...] assume (per il suo messaggio [...]) nella «circulata melodia» dell’universo balzacchiano. [...].

  Nel proposito di mostrare [...] quanti elementi della biografia di Balzac e di alcuni dei suoi temi letterari più cari affiorano nella Messe de l’Athée, esse [le note che precedono] vorrebbero trasmettere la convinzione – radicata in chi scrive – che questa novella non può essere considerata — come da più parti è stato detto e ripetuto – un semplice episodio tratto dalla biografia del barone G. Dupuytren, un aneddoto che, per il suo particolare interesse narrativo, si prestava singolarmente ad essere messo in bella copia e ad essere presentato ai lettori — in gran parte legittimisti e cattolici — della «Chronique de Paris».

  Al contrario, noi speriamo di aver documentato come questa novella (occasionale o no che sia stata nelle intenzioni del suo autore) affonda le proprie radici in un terreno ben più fecondo e si ricollega, per tutta una serie di ragioni interne, ad una tematica che il cuore ed il pensiero di Balzac hanno a lungo ed appassionatamente alimentata.

  Non v’è dubbio, certo, che la vicenda biografica di G. Dupuytren abbia impresso l’avvio al meccanismo della creazione balzacchiana e che Desplein — nelle sue bizzarrìe ed eccentricità di carattere — sia il risultato di tale iniziale impulso. Ma è altrettanto indubbio che (come, del resto, è stato rilevato per tanta parte dei romanzi della Comédie Humaine) il «realismo» di Balzac si arresta qui: ai primi dati, cioè, offerti dalla osservazione di alcuni «petits faits vrais». Partito da questi, il romanziere li torce e li deforma ben presto, a suo piacimento e secondo una ispirazione ed una logica narrativa che gli sono proprie e che, con i dati del reale, nulla hanno ormai più a che vedere.

  Così, Desplein, spogliatosi (se ci si permette l’immagine) dei panni di Dupuytren di cui s’era inizialmente rivestito, non solo prende a prestito altri panni di altri personaggi contemporanei, medici e chirurghi anch’essi (Boyer, Fourcroy, ecc. ecc.) ma soprattutto, si riveste dei panni propri al suo autore e creatore. Così, Balzac trasferisce i propri umori, le proprie reazioni, le proprie sofferenze ed amarezze, i propri convincimenti morali, la coscienza della propria gloria al personaggio di Desplein che ora s’illumina di queste rifrazioni autobiografiche, ora assume il valore emblematico di oggetto-esempio di motivi etico-letterari ricorrenti e dominanti (almeno fino al 1836) nel mondo della narrativa balzacchiana.

  Insomma, il dato iniziale di cronaca, incisivamente colto dallo scrittore, grazie al dono della sua impareggiabile osservazione del reale, si dissolve nel corso della narrazione; e quando questa si conclude davanti al mistero della grande porta dei cicli, che l’intercessione di Bourgeat sembra aprire all’«ateismo» dell’illustre chirurgo, il lettore è già condotto dal genio balzacchiano nel centro di una vicenda più vasta della cronaca in cui è nata; più profonda delle occasioni da cui ha preso origine; e posto di fronte ad un paesaggio poetico nei cui orizzonti si staglia il tratto magistrale di una fantasia alta ed assoluta.

 

 

  Raffele de Cesare, Une lettre inédite de Balzac à Alessandro Mozzoni-Frosconi, «L’Année balzacienne», Paris, Garnier, 1978, pp. 49-52.

 

  L’avocat milanais Alessandro Mozzoni-Frosconi figure à plusieurs reprises parmi les correspondants de Balzac. Chargé par le comte Émile Guidoboni-Visconti, ou par l’écrivain lui-même, de défendre auprès des tribunaux du Royaume Lombardo-Vénitien les droits à l’héritage de madame Jeanne Patellani-Guidoboni, mère du comte Émile et de Massimilla Galvagna, contre Laurent Constantin (un fils de second lit, illégalement privilégié dans le testament maternel), il a dû avoir différentes entrevues d’affaires avec Balzac lors du séjour de celui-ci à Milan, en février-avril 1837. De toute manière, il lui a adressé, une première fois, un billet le 23 février ou le 2 mars 1837 pour le convoquer dans son étude avant une consultation avec la partie adverse, et il l’a assisté de ses lumières, le 12 mars, à l’occasion d’une transaction stipulée d’accord avec le baron Galvagna (veuf de Massimilla et agissant au nom d’un fils mineur), avec Laurent Constantin et son avocat.

  Balzac parti d’Italie et rentré en France, Alessandro Mozzoni-Frosconi n’a pas manqué de tenir son illustre client au courant des affaires des Guidoboni-Visconti en lui écrivant, de Milan, le 6 juin 1837, le 21 février 1838 et, ensuite, de Paris où il était de passage, le 20 juillet 1838.

  De son côté, Balzac a écrit au moins deux fois à l'avocat Mozzoni-Frosconi soit pour lui transmettre des documents demandés soit pour le solliciter de veiller avec la plus grande diligence sur les intérêts du comte. Ces deux envois, situés le premier le 16 mai 1837, le second probablement au mois de septembre de la même année, sont attestés par un passage de la lettre déjà citée de Mozzoni-Frosconi. du 6 juin 1837, et par une phrase de Balzac lui-même dans une autre lettre, adressée sans doute au baron Denois, consul de France à Milan, que M. Roger Pierrot a datée du mois d’octobre 1837.

  Malheureusement, aucune de ces lettres de Balzac, dispersées ou détruites, ne nous est parvenue jusqu’à présent.

  Une trouvaille assez inattendue nous permet de signaler aujourd’hui l’existence d’une troisième lettre inédite de Balzac à Alessandro Mozzoni-Frosconi, conservée à l’«Archivio di Stato» de Milan. Elle est datée de Sèvres, du seul quantième du jour et du mois (10 octobre); mais, d’après les cachets postaux, encore lisibles, elle appartient à l’année 1837. Une fois de plus, elle concerne les affaires milanaises du comte Guidoboni-Visconti.

  Voilà cette courte lettre que nous reproduisons textuellement en ne rétablissant que les accents:

[Sèvres, 10 octobre 1837].


  Cher Monsieur Frosconi, la loi sur la garde nationale m’a forcé de quitter Paris et de me réfugier sur la limite du dépt. de Seine-et-Oise, en sorte qu’aucune lettre ni paquet ne m’arrivera s’il n’est adressé ainsi A M. Surville, rue de Ville d’Avray, 16, Sèvres, Seine-et-Oise Faites moi le plaisir de donner cette adresse à Monsieur le baron Denois en le priant d’en prévenir le prince Porcia — Puis prenez également en note l’adresse du Comte et de la Comtesse Guidoboni-Visconti qui est avenue de Neuilly, 54, aux champs-Élysées à paris.

Trouvez ici l’expression de mes sentiments les plus distingués

de Balzac


Sèvres, 10 8bre [Adresse]

Monsieur Mozzoni-Frosconi avocat

[cachets postaux] Paris, 12 oct. 18.37. [Milano,] 19 ott.e

Milan

italie

 

  La lettre en question, bien qu’elle ne nous révèle rien de nouveau sur Balzac «milanais», confirme sur la biographie de l’écrivain dans l’automne de 1837 deux ou trois points de détail qu’il n’est pas, peut-être, inutile de souligner.

  Balzac, qui est à Sèvres depuis la mi-septembre et est en train d’aménager sa résidence des Jardies, habite provisoirement, au n° 16 de la rue de Ville-d’Avray, un appartement «loué sous le nom de Surville, chez un sieur Mérot, moyennant 100 F par trimestre». Il s’y est réfugié pour échapper aux poursuites de la garde nationale de Paris et pour ne pas s’éloigner trop de la capitale. Le changement de domicile et les raisons qui l’ont motivé sont les mêmes qu’il a communiqués à madame Hanska dans une lettre de la veille […].

  Le lendemain. 12 octobre, en écrivant à l'avocat Luigi Colla, «à Turin, pour avoir des nouvelles d’un autre procès touchant également les intérêts des Guidoboni-Visconti dans les États Sardes, il fera à ce correspondant, presque avec les mêmes mots, les mêmes recommandations […].

  Balzac prie aussi son correspondant de donner l’adresse «secrète» (du moins pour ses compatriotes) de son nouveau domicile au Consul de France à Milan et au prince Porcia. C’est un autre témoignage de cette chaleureuse sympathie et de ce commencement d’amitié qui se sont établis entre l’écrivain, le baron Denois et Alfonso-Serafino Porcia lors du premier séjour en Lombardie de 1837, et qui se resserreront davantage au cours du prochain voyage de 1838.

  Enfin, nous avons ici la preuve — de la main même de Balzac — que les Guidoboni-Visconti, ont bien habité «avenue de Neuilly, 54, aux champs-Élysées à paris». Il n’y avait lieu de mettre en doute ni la localisation de l’épisode du garde du commerce découvrant la retraite de Balzac, ni l’identité de celle qui lui avait évité la prison pour dettes.

 

 

  Nicola Chiaromonte, Balzac e l’impulso cinetico, in Silenzio e parole. Scritti filosofici e letterari, Milano, Rizzoli editore, 1978 («Saggi Rizzoli»), pp. 203-205.

 

  Cfr. 1969.

 

 

  Timothy J. Clark, Courbet a Ornans e Besançon (1849-1850), in Immagini del popolo. Gustave Courbet e la rivoluzione del ‘48. Traduzione di Renzo Federici, Torino, Giulio Einaudi editore, 1978 («Saggi», 600), pp. 69-110.

 

 

  Guido Davico Bonino, Parigi stanza del teatro-routine applaude gli animali di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 112, Numero 120, 27 Maggio 1978, p. 7.

 

  Atmosfera lievemente depressa, tra i critici teatrali francesi, al termine di una stagione svoltasi, davvero, senza infamia e senza lode. C'è, in molti, il fastidio verso i teatri «nazionali», cioè le grandi compagnie sovvenzionate con il denaro pubblico, come la Comédie Française o il Théâtre National Populaire, per un’attività che, pur mantenendosi a livelli assai dignitosi, sfiora a tratti la routine. In altri sembra d'avvertire un'ombra di dispetto per la mancanza (a Parigi più netta che in provincia) di qualsiasi sperimentazione; anche le compagnie giovani navigano nel quieto pelago della tradizione: i fremiti della ricerca paiono non sfiorarle. Questo spiega, in piccola parte, i riconoscimenti, tardivi magari, tributati ai piccoli gruppi che dimostrano di voler fare un teatro «diverso». E’ il caso del gruppo TSE, una formazione mista di attori francesi e sudamericani, guidata da un ardimentoso giovane regista, Alfredo Rodriguez-Arias. Il loro spettacolo, Peines de coeur d’une chatte anglaise, giunto in questi giorni alla centocinquantesima replica, ha trovato uniti nel consenso i critici di tutta Parigi. [...]. Il testo è nientemeno di Balzac. Si tratta di un racconto commissionato all’autore della Comédie humaine da Grandville, uno straordinario disegnatore di animali antropomorfi — foxterriers in gonnella, gufi in marsina, topi, gru, cornacchie, e gatti naturalmente, tutti agghindati secondo i dettami della moda. Balzac scrisse una storia di una trentina di pagine a stampa: quella di una gattina inglese, Beauty, che, dopo un severo tirocinio di belle maniere, fa il suo ingresso nel bel mondo, sposando, giovanissima, un vecchio gattone ricchissimo. Ma ecco farlesi innanzi uno spumeggiante gatto francese, Briquet. E’ l’addetto culturale dell'ambasciata francese a Londra. Corteggiata e sedotta l’irreprensibile milady, che non resiste dinanzi a tanto ardore, Briquet vorrebbe fuggire con l’amata a Parigi. Lascerà la pelle sotto le bastonate delle zelanti guardie del corpo della signora. Costei, in lacrime, abbandonerà la fastosa dimora londinese, si ritirerà in campagna, diverrà celebre rievocando, in un romanzo che ha lo stesso titolo della commedia, le sue pene d’amore perdute. Arias, aiutato dall’intelligente riduzione teatrale di Geneviève Serreau, ha tratto da questo mélo animalesco uno spettacolo raffinato e, a suo modo, lievemente perverso. Gli attori recitano incappucciati nelle loro maschere (stupende, e del tutto nello stile di Grandville): ma hanno un tale senso del ritmo, una gestualità così fresca e scattante che l’interpretazione non è mai estetizzante o meramente decorativa. Anzi, sin dalle prime sequenze, si capisce subito che il registro della messinscena è quello dell'irrisione: un’irrisione faceta e discreta, ma incisiva. Queste gatte in crinolina, queste volpi in alta uniforme, e i merli, i pavoni in redingote sono una trasparente metafora della società umana. Non c’è posto, nel loro mondo, per la tenerezza: ma vi regnano l’opposizione, il raggiro, la crudeltà, proprio come tra gli uomini. Il fascino dello spettacolo sta nel contrasto tra l’eleganza delle soluzioni sceniche e musicali (c’è una Londra di tetti, per i notturni ritrovi erotici dei felini, che è indimenticabile; e ci sono deliziose gighe e romanze per violino e chitarra) e la crudeltà di fondo della favola. Per questo, a tratti, scoppia l’applauso a scena aperta: quando l’istitutrice di Beauty, che è una cornacchia maniaca della Bibbia, la colma di ammonizioni, le vieta questo e quello, le infligge aspre punizioni corporali, gli studenti delle balconate riconoscono nella gattina una di loro, una vittima della società dei padri.

 

 

  Antonietta Drago, Gli amori per corrispondenza fra Balzac e Eva Hanska in Tv. «Mio caro Bilboquet», «il Giornale», Milano, 8 febbraio 1978; 1 ill.

 

  Gli sfoghi sentimentali sotto forma epistolare accompagnarono gran parte degli amori di Balzac ed Eva Hanska, nata Rzewuska, fra Parigi e l’Ukraina, «fra deserti di grano» e l’intrico della commedia umana. Ne seguiremo per sommi capi la vicenda in Tv: ieri sera è andata in onda la prima puntata della versione cecoslovacca, protagonista una ideale Beate Tyskiewicz, che congiunge all’attualità i personaggi storici.

  Gli amanti per corrispondenza erano impazienti, mordevano il freno, stando almeno alle loro ardenti espressioni, in attesa della morte del vecchio noioso marito Venceslao, che avrebbe dato via libera al compimento del loro sogno, il sogno di poter vivere insieme, uno per l’altro (sic) e senza dover più ricorrere a sotterfugi, come per esempio quello di un carteggio semiclandestino. Eppure quando ciò avvenne, sorsero difficoltà e incertezze, soprattutto da parte della bella vedova. «Oh mia adorata», le scriveva nella luttuosa circostanza Honoré, «anche se l’avvenimento mi consente di realizzare finalmente quello che tanto ardentemente ho sempre desiderato, giuro che mai, anche nei momenti peggiori, ho avvilito la mia anima con riprovevoli auguri. Vero è che sovente mi dicevo: come sarebbe lieve l’esistenza vissuta con lei! ...».

  E lei gli rispondeva tra afflitta e suadente: «Mio caro Bilboquet ...» esortandolo ad aver pazienza, ad aver pazienza ancora un poco. Le accadeva un fatto straordinario che nulla aveva mai lasciato prevedere: non solo Eva rimpiangeva il detestato marito ma ne sentiva per motivi soprattutto esistenziali la mancanza. Si trovava infatti a dover combattere per la difesa del patrimonio e gli interessi anche della figlia Anna, contro un’avida parentela che cercava invece di spogliarla dei suoi beni, sicché fra notai, avvocati e intermediari imbroglioni, la delicata Etrangère, come Balzac la chiamava, si sentiva persa, indifesa.

  C’era un battagliero «zio Tamerlano» che voleva tutto per sé e la propria discendenza; e c’era una zia Rosalia che non le dava pace: «Non hai il diritto di sacrificare l’avvenire di tua figlia. Non è possibile che tu sposi un uomo maleducato, anzi per niente educato, di famiglia insignificante se paragonata alla tua. Non dico di no, può darsi ch’egli sia come tu dici un genio: ma questo è un fenomeno naturale che con le origini non ha niente a che vedere ...».

  Era pur vero che a tavola Honoré non sapeva stare, la stessa Eva si era trovata a dovergli insegnare che non si porta il coltello alla bocca, che non si aspira rumorosamente il brodo, eppure la tentazione di diventare Madame Balzac, la moglie di un celebre romanziere, di mostrarsi al suo fianco a teatro, in carrozza al Bois, era più forte di ogni altra, perfino dell’amore che la distanza non aveva certamente rafforzato. Né si può dire che sotto i sublimi sentimenti che infarcivano le lettere con prolungati sospiri, Bilboquet rimanesse indifferente al pensiero di sposare una contessa polacca, l’Etrangère, al castello di Wierchownia, alle migliaia di mugic che popolavano in perfette servitù l’immenso territorio circostante dalle bionde messi. Il guaio è che soltanto ora si rendevano conto del perfetto alibi costituito finché era in vita dall’ignaro marito. E allora, mentre a Parigi Balzac si ravvoltolava in ansiosi dubbi come nei fastosi accappatoi che sempre più lo facevano assomigliare al sac de farine che avrebbe ispirato Rodin, la contessa prendeva tempo, inventava sempre nuovi pretesti per allontanare di mesi, di anni il salto nel buio raffigurato al giorno in cui lo avrebbe raggiunto per diventare, finalmente!, la sposa di uno scriba esotico.

  Intanto l’assidua corrispondenza incominciata da qualche anno col tono della lettrice all’autore e poi degenerata in accenti di passione irresistibile unita a un reciproco indottrinamento era destinata a seguire il suo corso dieci anni ancora dopo la vedovanza d’Eva. Salvo incontri e soggiorni in luoghi di cura e di villeggiatura nel Nord d’Europa, dove la loro felicità era a quanto pare paragonabile «al cielo e alla natura». Messa tuttavia in forse dal clima gelido che Honoré, sofferente di cuore e d’altri acciacchi, mal sopportava: «Venti tremendi dell’Asia», inveiva secondo una geografia approssimativa, trovandosi un inverno ospite a Wierchownia.

  Ma sollevati di peso dai turbinosi venti asiatici, nel marzo del 1850 gli sposi si recarono a compiere il sacro rito nella cannella di un convento di carmelitani sepolto sotto la neve a poche verste da Wierchownia. Sposi anzianotti, lei quaranta, non tutti dimostrabili, lui cinquantuno dimostrabilissimi, grassi entrambi compirono in slitta e carrozza il disagiato viaggio di nozze fino alla casa della rue Fortunée, a Parigi, il nido ingombro d’un esotico bric-à-brac che aveva fatto esclamare a Théophile Gautier: «Avresti per caso saccheggiato i sylos di Abul-Casem?». Soltanto allora Honoré si era domandato se la casa preparata con tanta cura sarebbe piaciuta alla raffinata consorte.

  Le fece un pessimo effetto, è presto detto, ma prima che i malumori volgessero al tragico, cinque mesi appena dopo le nozze Eva si ritrovava vedova per la seconda volta. Le loro lettere, tenute in un cofanetto di velluto rosa intarsiato di avorio e malachite, erano destinate a seguire un lungo itinerario, diedero luogo a truffe editoriali, per terminare il loro viaggio sottochiave in un museo.

 

 

  Giansiro Ferrata, Le “illusioni perdute” di Balzac, in Prospettiva dell’otto-novecento, Roma, Editori Riuniti, 1978 («Nuova biblioteca di cultura» 104), pp. 201-207.

 

  Cfr. 1965.

 

 

  Sirio Ferrone, Incanta un bestiario che scava nei vizi borghesi, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, 7 febbraio 1978, p. 8.

 

  [...]. C’era una volta un racconto di Honoré De Balzac che raccontava la storia della «educazione sentimentale» di una fanciulla di povere origini, la quale, allevata secondo costumi borghesi e repressivi, mandata sposa a un ricco e impotente vecchiaccio, si innamora finalmente di un coetaneo appassionato decidendo per questo di fuggire con lui. Un altro spasimante, opportunamente bieco, intralcia il sogno d’amore e uccide a tradimento l’innamorato maschio. La fanciulla vedova fugge allora da sola e raggiunge la coscienza intellettuale del proprio destino, scrive un memoriale d’amore, innalza un monumento al perduto amante, mentre la perfida società che l’aveva resa infelice continua a celebrare i suoi squallidi riti.

  C’era poi, sempre una volta cioè nell’Ottocento, un elegante disegnatore inglese di nome Grandville il quale, nonché dipingere fra le altre cose alcune splendide illustrazioni per il Circolo Pikwick di Dickens, aveva realizzato delle curiose stampe sulla «vita privata e pubblica degli animali», dove, con gusto raffinato e con molta curiosità sociale, si rappresentava sotto forma di bestiario una commedia umana non molto dissimile da quella approntata dallo scrittore francese. [...].

  Su fondali piatti, ispirati appunto a Grandville, ma anche allusivi a un teatro modesto e popolare con le luci di proscenio e le entrate-uscite dalle quinte laterali, hanno preso corpo le storie fosche, lacrimose e sanguinanti di Balzac, trasformato per l’occasione in un parente approssimativo dell'autore dei Misteri di Parigi. E si ha l’impressione di un gustoso revival di quel teatro romantico parigino, a metà strada fra la pochade e il melodramma, che fu erede infatti della narrativa balzachiana, e fortunato non solo in epoca di restaurazione, ma anche più tardi nel secondo impero fino al Novecento. [...].

 

 

  Gaio Fratini, Duchessa vorrei baciare le sue calze viola ..., «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno LV, Numero 6, Numero 5, 2-7 febbraio 1978, pp. 24-25; ill.

 

  Splendori e miserie dell’autore di «La comédie humaine». Dall’«annosa» relazione con la signora de Berny alle cotte a ripetizione per titolate nobildonne. La patetica e tempestosa vicenda con Eve Hanska ora sul video.

 

  Balzac è un monumentale dolce, un immenso Saint-Honoré buono per cresime e matrimoni. Ma si consiglia di assaggiarlo con discrezione. Per chi lo divora c’è il rigetto. Fu lo scrittore più rumoroso del mondo. Disse Flaubert in un aforisma: «E’ un rumore molesto di carrozza nel silenzio dell’alba». A renderlo sospetto c’è subito quel «de» tra nome e cognome. Honoré Balzac lo coniò per inventarsi un’origine nobiliare.

  La sua vita è piena di episodi titanici quanto grotteschi. A vent’anni si sottopone a una specie di esame di scrittore, a Parigi, davanti ai genitori e a un paio di critici prenotati. Legge una tragedia, Cromwell, e il verdetto è di pesante condanna. I genitori considerano chiusa la carriera di Honoré e gli intimano di tornare in provincia. E’ il 1822, un anno per Balzac importantissimo. Incontra la signora de Berny, di 23 anni più anziana di lui e madre di sette figli. Lei diventa per Balzac madre, amante, consigliera. Honoré la sfrutta a dovere, chiamandola balia divina e ninfa di boschi cedui. Ecco uno stralcio di lettera: «Tu questo hai in comune con gli angeli, amore mio: gli esseri infelici come me ti appartengono». La de Berny lo aiuta anche finanziariamente e gli presta grosse cifre per la sua attività di tipografo stampatore a Parigi. Fallisce, arrivano gli ufficiali giudiziari e Honoré si nasconde nell’alcova della balia-madre-amante. Balzac ha trent’anni e per salvarlo dal disastro spiritual-economico la ultracinquantenne de Berny lo istiga al romanzo di successo. Gli dice: «Ti racconto tutto dei miei antichi amori e di quelli delle mie amiche, in provincia e a Parigi. Devi fare un romanzo che faccia scandalo».

  Nasce La fisiologia del matrimonio e l’intrecciarsi delle confessioni ha come centro l’alcova. Ma non si parla solo di amori provinciali e di adulterio borghese. Balzac la sua ninfa e balia l’ha già tradita per correre dietro a cortigiane dal sangue blu, tra il Bois de Boulogne e Place Vendôme. Ci sono pagine rivelatrici del morboso appetito balzachiano. Lo scrittore trovava un curioso spasimo espressivo nell’evocare nobildonne con particolari veli di sete e di pizzi. Voyeur e feticista all’ombra d’un romanticismo di maniera, in alcune lettere egli chiede alla Duchessa d’Abrantès di poter baciare le sue calze viola e di poter assistere, dietro una tenda, a una maliziosa svestizione.

  Il libro sul matrimonio crea immediato interesse e Balzac s’avvia a frequentare i più famosi salotti letterari. La principessa Bagration e la contessa Merlin organizzano serate in suo onore, invitandolo a recitare le più temerarie massime della sua inchiesta sull’amore. Dice Balzac: «Chi sa governare una donna, sa governare uno Stato». Oppure: «Con le donne, come per le nazioni, bisogna essere felici e spietati». Comincia la frenetica attività artistico-mondana del più sublime grafomane di tutti i tempi. In rue Cassini egli fonda una vera e propria officina di romanzi e di articoli giornalistici dedicati al costume. Arriva persino a sostenere polemiche con se stesso, firmando su un foglio con uno dei tanti pseudonimi e rispondendo su un altro col proprio nome e cognome.

  Le donne della grossa borghesia lo idolatrano, ma lui stravede solo per le aristocratiche. Sensuale e vanitoso, egli invano cela la sua anima di parvenu, di dandy impacciato, di elegantone grossolano. Per conquistare il cuore della marchesa de Castries comprò cavalli e carrozze, si servì di lacchè in livrea, ostentò bastoni da passeggio intarsiati di diamanti. Ma non ebbe che delusioni e scacchi cocenti, tanto che i vignettisti dell’epoca si sbizzarrirono in caricature esilaranti. Una maligna testimonianza del 1830 così lo descrive: «Più corto che piccolo, grasso e ripieno, le braccia ridicolmente brevi, gambe da bassotto saltellanti». Un fisico, dunque, non proprio tagliato per le scene di vita erotica che lo scrittore sognava.

  Ma lui non desiste e programma una gloria letteraria legata finalmente a qualche amore duraturo. Lo cerca nella contessa Guidoboni-Visconti e per lei compra orecchini e collane, s’indebita, la segue in Italia senza fortuna. Intanto la sua opera e la sua fama crescono mostruosamente. Siamo già nel ventennio del suo lavoro incessante, che durerà fino alla morte. Scrive e corregge bozze dalla mezzanotte fino al primo pomeriggio, avvolto in una bianca tunica di cachemire. Poche ore di sonno e poi vita mondana, esibizionismo, magnificenza. Mette alla luce 85 romanzi, molti dei quali destinati a un giusto oblio. E intanto progetta La comédie humaine per rappresentare, come in un terrificante zoo, mestieri, sentimenti, mode, vizi, differenti classi sociali. Fu un grandioso progetto rimasto incompiuto. Il suo piano prevedeva 135 romanzi, di cui oltre la metà terminati. Balzac si sentiva genio in tutte le ore del giorno e della notte e geniale voleva essere anche nei rapporti con tutte le nobildonne della sua vita. Non ci riuscì davvero e a forza di frequentare contesse, a forza di sognare i loro corpi dietro veli iridescenti e spogliarelli ante litteram, finì per non avere mai un rapporto tranquillo e stabile con l’altro sesso. Dopo l’uscita del suo autentico capolavoro, La peau de chagrin, riceve una lettera di ammirazione da una misteriosa baronessa polacca che le scrive dalla solitudine e dal tedio del suo castello in Volinia.

  Balzac le risponde con un’inserzione nella Gazette de France, il 2 aprile del 1832. Nuova lettera dell’ardente castellana, nuova risposta di Balzac, sempre a mezzo stampa. Ha inizio una relazione piena di incredibili crisi, idee irrealizzabili e mistiche, scene di gelosia, infedeltà, progetti maniacali, ricatti, minacce di suicidio, lacrime, viaggi, perdoni. La straniera, che si chiama Eve Hanska, gioca a nasconderello con Balzac, lo provoca con lettere piene di fuoco, di ingiurie, di promesse. Si vedono a Vienna, di nascosto dal marito di lei. Litigano, Eve lo graffia, lo tormenta. Lui, sull’orlo dell’impotenza, vuole soffrire per tradimenti inesistenti e la baronessa deve dunque inventarseli. E’ un amore tristissimo, basta rileggersi l’epistolario. Balzac è malato da anni e soffre d’infiammazione alle meningi. Quando s’incontra con Eve non fa che parlare di progetti pazzeschi. Per fuggire ai creditori (rischia di finire in carcere per recidive insolvenze) vuole attuare un proposito da mitomane: sfruttare in Sardegna le miniere argentifere già utilizzate dai Romani. La sua libido vaga da collezioni di preziose biancherie intime (sempre però appartenenti ad aristocratiche e cortigiane di stile) a sogni di grandezza, come per il progetto della Comédie humaine per il quale un editore non basta, ma occorre, secondo lui, un consorzio tra i Rizzoli, i Mondadori, i Rusconi di allora. Finalmente nel 1842 muore il marito di Eve e la corrispondenza s’infittisce. Balzac raggiunge la baronessa a Dresda e sa che presto sarà padre. Ma gli nascono dubbi: è mio, non è mio? Balzac vuol chiamarlo Victor-Honoré, ma Eve partorisce una bambina nata morta.

  Nel 1848 assiste disgustato ai moti insurrezionali antimonarchici e scrive subito questo fior di aforisma: «Il socialismo è un vecchio parricida. Ha sempre ucciso la repubblica, sua madre, e la libertà, sua sorella». Ora pretende un posto d’Accademico, ma ottiene solo due voti, quelli di Victor Hugo e di Lamartine. Nel ‘49 si libera un altro seggio, però questa volta nessuno lo vota. L’anno dopo decide di sposare Eve, che sempre con lui ha giocato alla diabolica tela di Penelope. La cerimonia avviene in Ucraina. La baronessa sa che Honoré ha i giorni contati e si dispone a seguirlo a Parigi, dove lo scrittore, in rue Fortunée, ha fatto arredare un appartamento lussuoso. Ma ecco scoppiare un’altra lite tremenda: la serva-padrona di Balzac (si chiama de Brugnol) ha offeso il loro segreto epistolare e ha venduto ai giornali una decina di lettere firmate Eve. Siamo alla parodia del Genio.

  Le ultime parole di Honoré sul letto di morte sono di una terribile quanto involontaria comicità: «Senza tutta questa febbre, avrei avuto ancora il tempo di scrivere un altro libro».

 

  All’articolo, segue questa nota:

 

  Balzac e la donna-cioccolatino.

 

  Amare una donna è la più temeraria delle imprese. Éugénie Grandet.

  Amarti, vuol dire consacrarsi a te senza sperare nessuna ricompensa: vuol dire vivere sotto un altro sole, con la paura di arrivare a toccarlo. Les employés.

  Una donna virtuosa o è stupida o è sublime. Physiologie da mariage.

  Le donne, quando non amano, hanno tutto il sangue freddo di un vecchio avvocato. La peau de chagrin.

  Donne ricche si diventa, nobili ed eleganti si nasce. Scènes de la vie parisienne.

  Il matrimonio unisce per la vita due esseri che non si conoscono affatto. Mercadet.

  La più sciocca donna trionfa grazie alla poca diffidenza che ispira. La fille aux yeux d’or.

 

 

  Richard Freedman, Romance, Realismo, Rimembranze, in Il Romanzo. Dal 1740 a oggi. Edizione italiana a cura di Masolino D’Amico, Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1978, pp. 51-73.

 

  pp. 56-59. Uno dei «beati pochi» fu Honoré de Balzac. la cui lunga, entusiastica recensione della Certosa di Parma apparve poco prima della morte di Stendhal ad 1842. Il prodigioso genio caratteristico di Balzac era agli antipodi di Stendhal: questi era ironico, scettico e arguto, quello romantico, spesso mistico, e di una megalomania totale. «Quello che Napoleone ottenne con la spada io lo otterrò con la penna» giurò una volta, accingendosi a tradurlo in realtà con i più che settanta volumi della sua Commedia umana, vasto panorama di romanzi vagamente connessi fra di loro e il cui tema copre nientemeno che l’insieme della vita francese agli inizi del XIX secolo, con un cast di circa duemila personaggi.

  Divisa in categorie, “Scene di vita privata”, “Scene di vita provinciale”, “Scene di vita parigina” ecc., la Commedia umana fece la sua prima apparizione fra il 1842 e il 1848. Forse la caratteristica più impressionante dell’opera è proprio la sua fecondità. Paludato in una veste monacale, tracannando innumerevoli tazze di caffè nero, Balzac scriveva tutta la notte, e sfornava un libro dopo l’altro. Creava di getto, e mandava i fogli in composizione; poi spesso rifaceva romanzi interi sulle bozze di stampa, con un procedimento costosissimo, che finì per esaurirlo del tutto a cinquantun anni. Fra un libro e l’altro trovò anche il tempo di atteggiarsi a dandy, non senza una punta di ridicolo, con i suoi guanti e i suoi bastoni da passeggio ingioiellati; di corteggiare e conquistare e conquistare tutta una teoria di dame aristocratiche, malgrado la corpulenza in continuo aumento; e di perdere la maggior parte del denaro guadagnato con i romanzi in una serie di sballate imprese commerciali, un po’ come avrebbe fatto in seguito Mark Twain.

  Se si considera la furia demoniaca con cui Balzac scriveva, non ci si sorprende che i romanzi siano di qualità variabile; semmai la cosa stupefacente è di quanti fra loro arrivino alla grandezza. Malgrado le frequenti sciatterie, praticamente ogni pagina di Balzac è impregnata della sua vitalità immensa. Capolavori individuali come Papà Goriot, Eugénie Grandet, Le illusioni perdute (sic), se considerati nel complesso della Commedia umana, contribuisco al ritratto di una società intera, descritta mediante una interminabile serie di particolari affascinanti.

  Col suo controllo totale e quasi ossessivo dei dettagli, Balzac potrebbe essere considerato un realista almeno quanto un romantico, e questo è vero anche per il suo grande successore Gustave Flaubert, malgrado lo schizzinoso Flaubert disprezzasse qualunque etichetta letteraria del genere e recasse al romanzo realistico francese dell’Ottocento, con la sua concentrazione monomaniaca, una purezza di artista non caratteristica del prodigioso Balzac. Entrambi gli uomini furono di una megalomania patologica, ma in modi diversi. Balzac si prefisse di scrivere più romanzi di chiunque altro, di comprendere la società come nessuno l’aveva compresa prima di lui. Flaubert si contentò di scrivere pochissimi libri, ma era pronto a passare giorni e settimane rimuginando problemi di struttura e di stile nella sua appassionata ricerca di quello che chiamò «le mot juste»: la parola perfetta, l’unica in grado di esprimere il suo pensiero. Il genio di Balzac fu il trionfo della vitalità sulla trasandatezza; quello di Flaubert, il trionfo della perfezione stilistica sul materiale spesso banale e indegno che la vita borghese ottocentesca gli porgeva.

 

 

  Olga Gennari, Una deliziosa favola-verità, «Avvenire», Milano, Anno XI, 8 febbraio 1978.

 

 

  Laura Medani, Balzac et la critique italienne. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1978.

 

 

  Siegbert Salomon Prawer, La biblioteca di Marx. Traduzione di M. Papi, Milano, Garzanti editore, 1978 («Saggi blu»), pp. 445.

 

 

  Wolfango Rossani, In margine allo sceneggiato Tv sul grande amore dello scrittore. Balzac e gli oggetti di lusso, «il Resto del Carlino», Bologna, 14 marzo 1978, p. IV.

 

  Il film franco-polacco ha riportato alla ribalta della cronaca un titano della penna – Una documentazione sulla passione per l’arredamento e l’abbigliamento.

 

  Il recente sceneggiato televisivo franco-polacco sul più ardente amore che Balzac abbia avuto nella sua vita, riporta alla ribalta della cronaca la figura di un titano della penna che ha certamente eretto il più grande monumento letterario che possa annoverare la Francia nel secolo XIX vale a dire la famosa Comédie Humaine formata da decine e decine di romanzi dove vivono quasi tremila personaggi, i quali, nel loro complesso, investono tutti gli strati sociali del periodo che dalla rivoluzione francese, attraverso le guerre napoleoniche, arriva al moti del 1848 con la conseguente caduta di Luigi Filippo. Un affresco imponente di dove si staccano qua e là alcune figure a tutto tondo che si ergono come delle autentiche creazioni di un genio: e pensiamo ad Eugenia Grandet, a Papà Goriot, a Jacques Collins (sic) detto Vautrin, a Rastignac, a Mercadet (sic), a Lambert, al barone Hulot, al cugino Pons e a tante altre.

  Ma se lo sceneggiato televisivo ci ha spinto a scrivere queste note, non è certamente per «scoprire» la fama di uno scrittore ormai entrato nel novero dei classici francesi e che ha motivato le più ampie indagini critiche e biografiche (dai saggi dei suoi contemporanei Saint-Beuve (sic), Teofilo Gautier, George Sand, Victor Hugo ad una serie di eminenti studi tra i quali primeggiano quelli di Lamartine, Taine, Zola, Brunetière, Thibaudet, Zweig giù giù fino alla vita redatta da quell’autentico genio della biografia che fu André Maurois) ma perché non tutti i nostri lettori, forse, conoscono la passione che il grande romanziere aveva per gli oggetti di lusso e per l’abbigliamento, passione che talvolta lo indusse a fare degli acquisti superiori alle sue capacità economiche e di conseguenza ad essere spesso tallonato dai creditori che non gli davano tregua.

  Ora per dare una documentazione non sospetta di questa passione balzacchiana per gli oggetti di arredamento e abbigliamento (celeberrimi sono rimasti, ad esemplo, il suo bastone da passeggio dal pomo tempestato di turchesi ed il suo abito blu dai bottoni d’oro autentico) ci soccorre la testimonianza di un uomo che non solo gli fu amico ma che ebbe con Balzac un sodalizio quasi fraterno: vogliamo alludere a Teofilo Gautier, scrittore eminente, studioso di poesia e poeta egli stesso (e basterebbe la prefazione che egli redasse per i Fiori del male per darne suprema attestazione) il quale, a pochi anni dalla morte di Balzac avvenuta nell’agosto del 1850, nel 1859, che è forse la documentazione più viva che sia stata tentata delle vicissitudini che accompagnarono l’esistenza di quel forzato della penna che fu l’autore della Pelle di zigrino ed i cui ribollenti umori spinsero lo scultore Rodin a far scaturire dalla pietra il suo «Balzac» con l’aspetto allucinante che rammenta la definizione di Lamartine: «Era l’immagine di un elemento».

  Ebbene da questa «vita» del grande scrittore, abbiamo scelto un particolare che getta piena luce sulla passione per le cose di lusso che nutriva Balzac e che, ad un certo momento, lo spinse ad arredare la sua casa con un fasto, non solo sproporzionato ai suoi mezzi, ma addirittura incomprensibile per un uomo tutto dedito ai problemi del pensiero e delle lettere se non si tenesse conto che in questa sua mania per la decorazione doveva giuocare un ruolo preminente l’amore che egli nutrì per la donna che sarebbe stata la creatura del suoi sogni e che egli perseguì con tenacia fino a quando fu in grado di impalmarla: vogliamo alludere alla contessa polacca Hanska, che lo seguì a Parigi negli ultimi mesi della sua esistenza e che acconsentì ad unirsi a lui dopo avere avuto l’autorizzazione dello zar a sposare lo «straniero».

  Ora, in previsione di questo matrimonio, sempre vagheggiato e mai conseguito da Balzac, per vari impedimenti che lo sceneggiato televisivo mette assai bene in evidenza, ad una certa epoca lo scrittore abitò una nuova casa sita in Rue Fortunée nel quartiere Beaujon che arredò in modo veramente principesco. Ed ecco cosa scrive Teofilo Gautier al ricordo di quegli ambienti che lo colpirono, perché in netto contrasto con l’asserita povertà dello scrittore.

  Dopo avere detto che l’abitazione aveva tutti i caratteri del «fortilizio» dove il padrone si teneva accuratamente nascosto, Gautier osserva, che un bel giorno riuscì a farsi ricevere, e così potè vedere «una sala da pranzò rivestita di quercia antica, con una tavola, un camino, credenze, controcredenze e sedie in legno scolpito, da far invidia a Berruguete, a Cornejo Duque ed a Verbruggen (tre artisti famosi dei secoli precedenti a Balzac); un salotto di damasco a bottoni d’oro, con le porte, le cornici, gli zoccoli e le strombature di ebano; una biblioteca sistemata in armadi intarsiati di tartaruga e di rame in stile Boulle; una stanza da bagno in marmo giallo con bassorilievi di stucco; un salotto a cupola, le cui pitture antiche erano state restaurate da Edmond Hédouin (notissimo paesista francese dell’800); una galleria rischiarata dall’alto e che riconobbi più tardi nella collezione del Cugino Pons (uno dei grandi romanzi dello scrittore francese). Sugli scaffali c’erano ogni genere di curiosità, di porcellane di Sassonia e di Sèvres, cornetti verde pallido in porcellana screpolata e, nella scala, ricoperta d’un tappeto, grandi vasi cinesi e una magnifica lanterna sospesa ad un cordone di seta rossa.

  «Allora avete svuotato uno dei sili di Abulcassem (ricchissimo personaggio di Le mille e una notte) — dissi ridendo a Balzac davanti a quegli splendori — dunque avevo ragione di ritenervi milionario». «Sono più povero che mai — rispondeva assumendo un’aria umile ed ipocrita — nulla di tutto ciò mi appartiene. Ho ammobiliato la casa per un amico che aspetto. Io non sono che il guardiano e il portiere della palazzina».

  «Cito — prosegue Gautier nel suo racconto — le sue testuali parole. Simile risposta, d’altra parte, egli la diede a molte altre persone stupite come me. Il mistero fu spiegato ben presto dal matrimonio di Balzac con la donna che amava da lungo tempo»: cioè la contessa polacca Eveline Hanska, nata Rzewuska — la nobildonna sposata con un aristocratico molto più anziano di lei — che gli aveva scritto per celia la prima volta di concerto con alcune sue amiche lungi dall’immaginare che lo scherzo avrebbe provocato la passione ardente di Balzac per lei.

  Ed è a questo punto che Gautier, introducendo un elemento di vera e propria predestinazione, scrive: «C’è un proverbio turco che dice: “Quando la casa è finita entra la morte”. E’ per questo che i sultani hanno sempre un palazzo in costruzione che si guardano bene dal terminare. La vita sembra non voler nulla di completo tranne la sventura. Nulla è temibile come una aspirazione realizzata».

  La casa di Balzac era finita; egli era riuscito a sposare la bella contessa polacca rimasta vedova; la sua fama assicurata in Francia e fuori; tutto si era compiuto ed allora «non restava che morire». Così Gautier, il quale pochi mesi dopo, trovandosi al caffè Florian in piazza San Marco intento a leggere il Journal des Débats, vide una notizia che lo annichilì: l’annuncio che Balzac era morto. «Per poco — scrive — non caddi dallo sedia sulle lastre della piazza a quella fulminea notizia ...». Sebbene il grande amico, poco prima della sua partenza da Parigi, gli avesse fatto sapere in una laconica tremolante riga tracciata in calce ad una lettera della moglie: «Non posso più né leggere, né scrivere» Gautier non avrebbe mai pensato ad una fine così rapida E conclude: «Ho conservato come una reliquia queste tragiche righe, le ultime, probabilmente, che abbia scritto l’autore della Comédie Humaine; era, ed io non lo compresi subito, il grido supremo, l’Eli, lamma Sabactani (la famosa implorazione di Gesù sulla croce prima di morire) del pensatore e del lavoratore». Abbiamo voluto soffermarci su questi particolari della vita e della morte del grande scrittore francese perché la testimonianza di Gautier è preziosa essendo l’espressione dell’amore e dell’amicizia di un uomo che visse gli stessi problemi di Balzac, ne condivise le passioni letterarie e fu uno dei testimoni del suo tempo.

 

 

  Wolfango Rossani, Postille ad un articolo, «L'Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, 7 aprile 1978, p. 3.

 

  Leggo nell’articolo di Gabriele Armandi [cfr. supra], apparso su queste colonne, alcuni particolari dell’incontro che avvenne a Milano nel febbraio (sic) del 1837 tra Balzac ed Alessandro Manzoni. Secondo la testimonianza di Cesare Cantù — ripresa nel 1965 in uno scritto di Tommasi Gallarati Scotti sul Corriere della Sera — il Manzoni durante il colloquio — ma meglio sarebbe definirlo «monologo» perché egli si limitò ad ascoltare quella «specie di pachiderma, piccolo, grasso, tondo ... spalle larghe, quadrate, una | testa grossa — un naso come della gomma elastica ... una bocca quasi senza denti ...» — ebbe una pessima impressione dello scrittore francese, «più gonfio e tronfio di quello che era» per le accoglienze ricevute nei salotti milanesi, che gli parve uno sbruffone più da sopportare che da prendere sul serio. Per giunta Balzac non fece alcun cenno dei Promessi Sposi, che erano usciti una decina d’anni prima, e che poi avrebbe definito «romanzo fiacco di ordito» durante un ricevimento nel salotto della contessa veneziana Soranzo, scatenando le ire di Tullio Dandolo che per poco non venne alle mani con Balzac. Ora, a parte questa raffigurazione ridicola e caricaturale che il Cantù fa di Balzac, allora sui 38 anni, in netto contrasto con il ritratto che del grande scrittore francese avrebbe dato, per esempio, un suo contemporaneo, Teofilo Gautier (si veda Vita di Balzac - pag. 92) «... un uomo tarchiato, dagli occhi di fuoco, dalle narici animate, dalle guancie picchiettate da colori violenti, raggiante di genio, che passava spinto dal proprio sogno come un turbine ...»; e sempre in netto contrasto con il fascino che, a quanto si racconta nello sceneggiato televisivo a cui allude Armandi, Balzac ; esercitava sulle donne (e si pensi alla sola contessa polacca Hanska) e non so quale fascino possa esercitare un uomo senza denti e con un naso come la gomma ...; a parte queste considerazioni ovvie, è probabile che la cattiva impressione del Manzoni fosse dovuta soprattutto al temperamento impetuoso dello scrittore francese (che lo trascinava — come scrisse il Saint (sic) Beuve per il suo talento — «come un carro lanciato con quattro cavalli»); alla sua «verve» di irresistibile causeur e non tanto alle cose che andava dicendo.

  Come avrebbe potuto il Manzoni capire la grandezza di Balzac, legata ad un tipo di realismo che gli era del tutto estraneo, lui che viveva in una sfera di visioni religiose e morali della storia e dell’uomo, in una dimensione epico-poetica? e, d’altra parte, a sua volta, il Balzac come poteva apprezzare il romanzo del Manzoni così lontano da quell’idea di socialità moderna che egli era venuto sviluppando nella sua Comédie Humaine?

  Come stupirci se ancora oggi, a distanza di quasi 150 anni da quell’incontro, I Promessi Sposi non sono riusciti a conquistarsi uno spazio europeo degno veramente del loro alto livello? Manzoni lavorava, da autentico poeta, per la glorificazione e l’affermazione della provvidenza divina, e Balzac per dare alla Francia un monumento di verità storico-sociali attraverso lo studio e l’osservazione delle condizioni umane del suo tempo. Come avrebbero potuto intendersi, a parte le differenti nazionalità ed educazione? Non c’è da meravigliarsi se quell’incontro si sarebbe tramutato in uno scontro, anche se Balzac (come in effetti era) si sentiva sinceramente cattolico e cristiano e quindi in grado di capire il valore religioso dei Promessi Sposi pur non potendo condividerne l’assunto narrativo.

  Quella che l’Armandi chiama l’albagia di Balzac, che il Manzoni — scrive — avrebbe rintuzzata per sempre, non era tanto un fatto volontaristico quanto un elemento caratteriale che nulla toglie alla grandezza del creatore della Commedia umana.

 

 

  Lucianantonio Ruggieri, Introduzione. Lo speculatore (Miseria e splendore di Mercadet l’affarista), in Lo speculatore (Miseria e splendore di Mercadet l’affarista). Commedia in due tempi da Honoré de Balzac, Roma, Bulzoni editore, 1978 («Miscellanea teatrale», 6), pp. 9-13.

 

  L’affarista Mercadet è uno strano liberale, lontano però da Bacone per cui il sapere empirico raggiunto con l’osservazione e la sperimentazione rafforza la ricchezza, lontano dal liberalismo economico rappresentato dalla Scuola di Manchester e quindi da Richard Corden (1804-1865). Lontano quindi da ogni illuminismo, non appartiene alla classe degli imprenditori perché più che un proprietario di capitale privato è uno speculatore di capitale privato (ancora non esiste, come oggi, il capitale pubblico), non è un democratico, un nazionalista, un cattolico, un conservatore, non è Honoré de Balzac; ed è Balzac solo come fatto esteriore, s’intende, poiché lo scrittore francese, pur avendo fatto anche l’affarista ed essendo politicamente un legittimista e attratto dalla classe condannata a decadere è colui che «raggruppa una storia completa della società francese dalla quale io, perfino nelle particolarità economiche, ad esempio la ridistribuzione della proprietà reale e personale dopo la Rivoluzione francese, ho imparato più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statistici di professione di questo periodo messi insieme». Quell’io risponde al nome, è bene dirlo, di Frederick Engels. E la sua attrazione verso Balzac, il quale da una parte comporta la fedeltà indiscussa all’ideale monarchico-assolutistico e nostalgia della passata magnificenza storica e dall’altra amarezza e disprezzo per la decadenza e degenerazione della classe che quell’ideale dovrebbe rappresentare, non è singolare ma un riconoscimento verso l’arte realista del grande autore della Comédie humaine.

  L’epoca di Mercadet, il 1839 in Francia, è quella della Restaurazione.

  Ovvero la nazione della Rivoluzione francese ritornata ai confini del 1792 dopo il crollo napoleonico, rivedendo sempre la stessa faccia di Talleyrand, si riprende i Borboni con Luigi XVIII, il re degli emigrati della nobiltà e del clero. I francesi rivivono Cento Giorni con Bonaparte, poi la presenza della destra degli Ultras dell’epoca, ovvero i realisti puri alla Joseph de Maistre della contro-rivoluzione, della sinistra del partito degli Indipendenti con il suo teorico Benjamin Constant, del centro-sinistra che concepisce la vita politica come un sottile equilibrio di interessi. Tra il 1814 e il 1825 il commercio estero della Francia per certe statistiche raddoppia e per altre rimane stazionario. A Luigi XVIII succede Carlo X il re della vittoria d’Algeri del 1830, vittoria che inizia l’impero coloniale francese nell’Africa del Nord ma che non salva Carlo X e nemmeno la Restaurazione.

  Nel 1830 la rivoluzione di luglio nel nome della repubblica e di La Fayette, ora comandante della Guardia Nazionale e alta rimembranza del 1789 ovvero della grande Rivoluzione francese, diventa una speranza frustrata con il nascere della nuova monarchia di Luigi Filippo, roi des Français e non più — come i re precedenti — roi de France. In Francia il tricolore ritorna quindi al posto della bandiera bianca col fleur-de-lys, Luigi Filippo che aveva combattutto (sic) sotto la Rivoluzione a Jemappes unisce certi suoi interessi verso la Camera Alla con la sinistra. Nel 1831 una legge cancella il titolo ereditario di Pari e trasforma la Camera Alta in una assemblea di nomina regia. Cade così del tutto la Francia aristocratica, vive invece la monarchia borghese orleanista come oligarchia di proprietari terrieri. La ricchezza immobiliare della Francia è già passata dalle superate famiglie legittimiste ad una glasse (sic) di gente nuova, diventata ricca sotto l’ancien régime e la Rivoluzione. Sono i personaggi dei romanzi di Balzac, come père Grandet, uomini che si servono della Rivoluzione del 1830 per abbattere sia il regime della restaurazione clericale-legittimista dei Borboni, sia ogni possibile potere dei repubblicani.

  La Francia non può ritrovare ancora un suo equilibrio, la depressione economica continua fino al 1832, scioperi, sparatorie e uccisioni di operai da parte della polizia; a Parigi l’ideologia politica sovrasta lo stesso interesse economico, continua la lotta tra clericali e anticlericali tra cui si inseriscono i cattolici «di sinistra» che si battono a fianco dei progressisti per abolire la censura, per la libertà d’insegnamento, per il suffragio universale e la separazione tra Chiesa e Stato.

  Nel 1832 l’enciclica pontificia Mirari vos, condanna tutte queste idee e, come il solito, questi cattolici si inchinano al Capo spirituale.

  I religiosi d’ogni genere cercano il potere politico della vita sociale e economica, devono esporsi di persona fino a provocare la reazione popolare. Il potere di Luigi Filippo parla d’ordine e libertà preferendosi naturalmente l’ordine, la vita si svolge tra mille difficoltà: epidemia di colera, cresce il malcontento popolare, lotta alle associazioni popolari, timori di una rivoluzione politica, insicurezza del regime, scioperi, insurrezioni e repressioni spietate illustrate quest’ultime dalle litografie di Daumier che incide, tra l’altro, una sintesi del tempo dal titolo: Un’operaio (sic) difende contro preti, re e affaristi la libertà di stampa conquistata con la rivoluzione.

  Si sente nell’aria, comunque, il settecentesco razionalismo di Voltaire; presente il 5-6 giugno 1832 Victor Hugo che dall’insurrezione della via del Cloître-Saint-Merry a Parigi ricava uno dei più importanti episodi dei Miserabili, il signor Chateaubriand «questo bello scrittore che riunisce nel modo più ripugnante l’elegante scetticismo e volterrianismo del secolo decimottavo con l’elegante sentimentalismo e romanticismo del decimonono» (K. Marx a F. Engels nel «Carteggio» in data 26-10-1854).

  Parigi 1839. L’anno in cui si svolgono gli intrighi di Mercadet.

  Mercadet, questo microcosmo, verso cui la critica sociale d’oggi può benissimo moraleggiare e la morale criticare, è privo di coscienza perché anche la coscienza è un prodotto sociale, privo di forza produttiva perché questa è realtà, alienato perché è incapace di umana comunicazione, esausto di rattrappimento intellettuale, incapace di cooperazione.

  Il denaro, o il non denaro dell’affarista, produce se stesso, compra se stesso, tutto defluisce nella cloaca bancaria della cupidigia, appartiene all’anima e viceversa in una estraneità drammatica. Il denaro, «questo schiavo unirà e dividerà ogni fede, ossequierà il maledetto e farà baciare la nauseante lebbra, alzerà il ladro e lo farà eccellenza, darà il potere sui banchi del governo» (Shakespeare: «Timone di Atene»).

  In questi anni gareggiano gli Enfants du siècle delle lettere: Alfred de Musset, nato nel 1810 e celebre nel 1830. Lamartine che nel 1830 ha quarant’anni e da dieci ha meditato le Méditations. Hugo, il gigante rabelaisiano. Dumas, George Sand la «madre» del gruppo, Mérimée, Chateaubriand.

  Nel 1830 si realizza la forza feconda di un rapporto tra rivoluzione letteraria e rivoluzione politica. Il romanticismo della Restaurazione è rivoluzionario nella forma e conservatore per le idee dei suoi poeti, dalla destra di Chateaubriand alla decorazione «rivoluzionaria» di Lamartine. Il teatro libresco di Hugo, ovvero il «Cromwell» del 1827. Il teatro di Dumas, «uno stile trovato» in la «Tour de Nesle» del 1832. Vigny con il «More de Venise» del 1829 introduce Shakespeare sulla scena francese. Musset crea una prosa del dramma romantico che non sopravvive agli anni trenta, il suo «Lorenzaccio» non viene rappresentato prima della fine del XIX secolo.

  Balzac: «la natura sociale che è una natura nella natura», il creatore di creature vive cerca gli uomini d’azione destinati come lui a grandi cose, museo vivente di un secolo francese (Saint Simon rimane il più balzacchiano degli scrittori francesi prima di Balzac, Proust quello più balzacchiano dopo Balzac). Le lettrici di Balzac gli scrivono ventimila lettere, nella sua solitudine notturna l’autore della «Comédie humaine» gioca e scrive anche «L’affarista» un tre di denari di un poker d’assi. Ovvero Mercadet: lo speculatore.

 

 

  Marco Spada, Balzac non riuscì mai a scrivere il più bel romanzo d’amore della sua vita. La sua luna di miele si trasformò in un lungo calvario, «Stop. Settimanale di attualità – politica e cultura», Milano, Anno XXXII, N. 1533, 11-17 febbraio 1978, pp. 42-44; ill.

 

  Da diciotto anni, il più grande scrittore francese dell’Ottocento era l’amante segreto di una ricchissima baronessa polacca. Quando finalmente potè sposarla era ormai troppo tardi. Il suo fisico non resse più, logorato dagli sforzi sovrumani compiuti in tanti anni di lavoro per costruire il più colossale edificio letterario di tutti i tempi.

 

  Dice un proverbio arabo: «Quando la casa è pronta, ecco che arriva la morte». Gli antichi sultani, per scongiurare questa sventura, escogitavano allora un «trucco» ingegnoso. Facevano costruire un grande palazzo e vi mettevano a lavorare un gran numero di muratori. Ma costoro, pur faticando per anni e inni, non riuscivano mai a portare a termine l’opera.

  Questo sinistro proverbio si avvera nella vita del grande scrittore francese Honoré de Balzac. Quello che gli capita la sera del 21 maggio 1850 fa presagire che qualcosa di funesto sta per accadergli.

  Quella sera, lo scrittore arriva, dopo un lunghissimo, estenuante viaggio dalla lontana Ucraina, davanti alla sua abitazione parigina di rue Fortunée. E’ insieme con la baronessa polacca Eva Hanska, la donna che ha tanto amato e atteso per ben diciotto anni. Balzac e la nobildonna polacca si sono sposati il 14 marzo nella chiesa di Santa Barbara, a Berdicev, in Ucraina.

  Ma quella prima sera parigina si trasforma in una scena di una tragicità tale che lui stesso non avrebbe più potuto ferocemente inventare in uno dei suoi cento romanzi.

  Balzac ha dato ordine alla vecchia madre di disporre ogni cosa alla perfezione, di riservare alla aristocratica signora accoglienze trionfali: fiori, tappezzerie sulle scale, candelabri accesi. La fastosa dimora, che è costata allo scrittore un patrimonio, è illuminata a giorno.

  François, il fedele maggiordomo, ha eseguito anche lui a puntino gli ordini del padrone. Ma ora che la carrozza è giunta davanti alla casa, il portone è stranamente sbarrato. Non c’è nessuno ad attendere i due sposi. Eppure, Balzac aveva preannunciato l’arrivo quando era a trenta chilometri da Parigi.

  Lo scrittore, impazientito, tira nervosamente il cordone del campanello. Nessuno risponde. Eva Hanska de Balzac, stupita per l’imprevisto, non osa scendere e se ne resta nella carrozza. I vicini di casa, di fronte a quel trambusto, si affacciano alle finestre. Balzac, allora, decide di mandare qualcuno a cercare un fabbro che scardini il portone.

  Balzac e la moglie possono finalmente mettere piede in casa. Davanti ai loro occhi si presenta però uno spettacolo allucinante, una scena che nemmeno la vulcanica fantasia di Balzac avrebbe potuto prevedere e immaginare.

  François è solo in una stanza del palazzo e passeggia su e giù mormorando frasi senza senso. E’ impazzito. Mentre la gente accorre e si impadronisce del folle per trasportarlo al manicomio, Balzac può prendere possesso della dimora che gli è costata anni di inenarrabili fatiche.

  La contessa polacca, divenuta da due mesi la signora de Balzac, moglie del più famoso romanziere francese, scrive quella sera stessa alla figlia: «Bilboquet è giunto qui nelle peggiori condizioni: non può più camminare e soffre di atroci sincopi ininterrotte».

  Povero Balzac! Ora che l’unione da tanti anni attesa e sognata è un fatto compiuto, ora che è riuscito a costruirsi una casa degna della sua grandezza, non gli rimangono che tre mesi di vita, la moglie non l’ama e lo ha sposato solo per pietà.

  Lo scrittore non sa di essere molto malato. Ha appena 51 anni, ma il suo fisico è gravemente minato, il suo volto è sfigurato da un «trismus», una sorta di continui trasalimenti delle palpebre che egli stesso descrive così: «Convulsioni nervose che mi fanno battere i nervi degli occhi, delle guance e trasalire i muscoli del cranio ...».

  Ma, quello che è peggio, non sa che la sua Eva, la «straniera», non lo ama, non lo ha mai amato. Il suo è stato un grande amore a senso unico. Non sa, a esempio, che lei gli ha affibbiato l’oltraggioso soprannome di «bilboquet» (così i francesi chiamano quell’omino con il piombo ai piedi e che sta sempre in equilibrio). E non sa, infine, che quel suo grande amore è cominciato per scherzo in una sera di noia dell’inverno del 1832 in un castello dell’Ucraina.

  E’ qui infatti che la baronessa Eva Hanska, sposata da dieci anni al barone Venceslao Hanski, ricchissimo padrone di sterminate tenute e di immense foreste, decide di inviare la prima lettera al romanziere che ha colpito la sua fantasia di donna malmaritata a un uomo molto più vecchio.

  Da parecchi mesi si parla nel salotto della baronessa su quel nuovo scrittore parigino, un certo Honoré de Balzac, che da un anno fa trattenere il fiato a tutti: particolarmente le donne sono entusiaste e affascinate dalla sua prosa: nessuno più di lui sembra conoscere con tanta profondità l’anima femminile. Quale straordinaria intuizione ha Balzac per le donne abbandonate, lente, reiette, quale commovente indulgenza per le loro colpe e debolezze! Chi prima di Balzac ha avuto il coraggio di ammonire i mariti ruvidi e maldestri di «non cominciare la prima notte di nozze con uno stupro?».

  E così la ricchissima, bella e romantica signora polacca comincia a scrivere, così per gioco, lunghe lettere al romanziere che ha saputo leggere con tanto acume nel suo cuore.

  «Nel momento in cui lessi le vostre opere mi identificai con voi, col vostro genio; la vostra anima mi apparve luminosa, vi seguii a passo a passo». In un’altra scrive: «Il vostro genio mi sembra sublime, ma bisogna che esso divenga divino». E ancora: «Qui voi avete compreso, in poche parole, tutta me stessa: ammiro il vostro genio, rendo omaggio alla vostra anima, vorrei essere vostra ...».

  Ma la gentildonna ha paura di compromettersi. Firma le lettere con una parola misteriosa: «L’étrangère» (la straniera).

  Lettere entusiaste di mano femminile non rappresentano per Balzac un evento eccezionale. Ma sono sempre arrivate da paesi relativamente vicini. Una lettera dall’Ucraina, per un autore di quel tempo, è però un fatto straordinario. In quella lettera, inoltre, lo scrittore avverte l’inebriante profumo della nobiltà. Non può avere scritto così una piccola istitutrice, una modesta ragazza della borghesia. Soltanto nella più alta cerchia dell’aristocrazia russa si scrive un così perfetto francese e solo famiglie ricchissime possono permettersi il lusso, in quei tempi di alte tariffe postali, di farsi venire regolarmente da Parigi ogni novità libraria.

  Subito, la sempre accesa fantasia dello scrittore comincia a galoppare. Costei deve essere — dice a se stesso — una donna giovane e certamente bella, nobile della più alta nobiltà!

  La faccenda principia a farsi seria, per la baronessa. La relazione, cominciata in un momento di noia, quasi per scherzo, sta diventando troppo compromettente per la signora polacca.

  Balzac, che è riuscito finalmente a strapparle un appuntamento, non sta in sè dalla gioia e non vede l’ora di vedere da vicino la donna dei suoi sogni.

  Il primo incontro avviene dopo più di un anno, a Neuchâtel, in Svizzera. Ma la gentildonna non è sola. Sono con lei il marito, la figlia, la dama di compagnia, tutta un’intera carovana di accompagnatori, secondo le usanze della aristocrazia russa quando si mette in viaggio. L’impaziente scrittore deve perciò fare la conoscenza con il marito, che è anche lui felice di stringere la mano al più famoso romanziere francese. In quei giorni la baronessa non riesce che due o tre volte a sottrarsi per un’oretta, senza dare nell’occhio, alla sorveglianza familiare. Balzac impreca alla sfortuna e a quel dannato marito che per cinque giorni non li ha lasciati soli un attimo e che non faceva che passare dalla gonna della moglie al suo panciotto.

  Alla fine, lo scrittore ritorna a Parigi senza aver potuto cogliere la prova tangibile di quell’amore. E’ riuscito solo a rubare un bacio.

  Il secondo incontro avviene il 25 dicembre 1833, questa volta a Ginevra. All’hôtel de l’Arc, dove prende dimora, Balzac vi trova come primo saluto di Eva un anello prezioso in cui è incapsulata invisibilmente una ciocca di capelli neri, un anello pieno di promesse, che Balzac accoglie come un talismano e che non sfilerà più dal dito.

  Ed è qui che, finalmente, il romanziere gusta fino in fondo il frutto del suo amore. La baronessa ha tanto esitato, ha avuto lunghe, angosciose perplessità perché è rimasta delusa dall’aspetto fisico del suo innamorato. Lo ha giudicato grasso, basso e tarchiato.

  La sua natura aristocratica ha troppo sofferto, per di più, delle cattive maniere, del cattivo gusto, della mania di grandezza di quell’inguaribile plebeo.

  In una lettera confidenziale al fratello, la nobildonna scrive: «Ricordi di avermi predetto sempre che avrebbe mangiato col coltello e si sarebbe soffiato il naso con il tovagliolo? Bene: a quest’ultimo delitto non è giunto, ma si è reso colpevole del primo ... Però, quest’uomo mi elettrizza e mi trasporta in regioni intellettuali elevate, possiede il genio che mi fa uscire da me stessa ...».

  Per sposare la donna dei suoi sogni, l’aristocratica, inaccessibile signora polacca, Balzac dovrà però attendere diciotto anni. Quando Eva rimane vedova, può finalmente unirsi a lui, per ... tutta la vita. Ma è ormai troppo tardi!

  Il 31 maggio, dieci giorni dopo il suo arrivo, Balzac ha un’altra seria ricaduta. Il fegato e il cuore sono in condizioni gravissime. Il dottor Nacquart chiama a consulto illustri colleghi. A metà agosto insorge una violenta peritonite. La vecchia madre è al capezzale del figlio e non lo abbandona un istante. Eva è invece nelle altre stanze. Dice che non le regge il cuore a vedere il marito ridotto in quelle condizioni. Ma nelle lettere che scrive alla figlia, la cinica baronessa chiacchiera di cose futili, di merletti, di gioielli, di nuovi abiti, senza che traspaia da nessuna riga una sofferenza sincera per il moribondo, che lei chiama ancora con il nomignolo di «Bilboquet».

  Infelice e sfortunato Balzac! Ha preparato questa fastosa dimora a prezzo di indicibili fatiche, con sacrifici disperati e con ardente aspettativa per viverci venticinque anni insieme con la consorte finalmente conquistata. In realtà, vi è entrato solo per morirvi. Ha arredato il suo studio per portarvi a termine la sua opera gigantesca «La commedia umana». Lo attendono i piani di cinquanta nuove opere. Ma in quello studio non scriverà una riga. Gli occhi non servono più ed è straziante l’unica lettera da lui scritta in rue Fortunée e indirizzata all’amico Teofilo Gautier. La lettera è scritta di pugno dalla baronessa. Balzac vi ha scarabocchiato una sola riga di poscritto: «Non posso più leggere nè scrivere ...».

  Si è fatto preparare una biblioteca con costosissimi scaffali, ma non potrà più aprire un libro. Nell’immenso salone tappezzato di damasco dorato avrebbe voluto dare ricevimenti alla grande società parigina. Ma nessuno viene a trovarlo; ogni cosa gli costa fatica. Il più grande romanziere di Francia, il creatore di capolavori immortali giace solitario nella vasta dimora, in quel suo palazzo che lui aveva preparato con tanto amore per l’«étrangère», la donna sognata e con la quale voleva trascorrere lunghi anni felici.

 

 

  Silvana Tamiozzo Goldmann, G. Lukàcs «lettore» di Goethe, «Annali della Facoltà di lingue e letterature straniere di Cà Foscari», Venezia, XVII, 1, 1978, pp. 129-141.

 

  pp. 135-136. L’accurata descrizione e il frequente ritorno al topos dell’«isola» propugnata da Goethe come nucleo incorruttibile di una società, lo stesso tentativo di forzare in positivo la posizione di Engels su Goethe confermano non solo l’importanza che il critico attribuisce al poeta, ma anche la particolare ricostruzione in funzione, per così dire, goethiana, della stessa tradizione critica marxista. Goethe è di preferenza accostato ai grandi del passato, storicizzati in un ideale e progressivo cammino dell’umanità: «I Greci, Dante, Schakespeare, Goethe, Balzac, Tolstoj sono tutti egualmente espressioni adeguate alle singole grandi tappe dell’evoluzione umana, e ‘guide e modelli’ nella lotta ideologica per la formazione dell’uomo ‘totale’».

  Goethe fa parte dunque di quegli scrittori i quali «nell’operosità della loro vita hanno ubbidito, anche contro la loro epoca, al comando di Amleto: tenere davanti al mondo uno specchio e, con l’aiuto dell’immagine rispecchiata, promuovere l’evoluzione dell’umanità e il successo del principio umanistico in una società di carattere così contraddittorio, che, mentre da un lato crea l’ideale della totalità dell’uomo, dall’altro lo distrugge nella pratica» e oltre a questo si presta anche ad esempio di una delle teorie più care al critico. La stessa notissima argomentazione su Balzac anche questa sviluppata da un nucleo di Engels, se pure si presta perfettamente ad illustrare la teoria del «rispecchiamento» sembra non essere altrettanto efficace. Goethe resta, tra i numerosi artisti che si incontrano nelle pagine del critico ungherese, il riferimento esemplare: «In Balzac abbiamo il preludio fantastico al romanzo moderno nel quale trova espressione il lato reale-immaginario della vita capitalistica. In Goethe abbiamo un fantastico accordo finale dell’ultimo periodo della perfezione formale nella letteratura borghese. Goethe e Balzac «vivono» entrambi il dilagare della nuova vita e vedono le dighe delle vecchie forme crollare travolte dalla marea violenta. Balzac cerca di riconoscere le linee interne della forza di questa marea, per dare origine ad una nuova forma epica; Goethe cerca di regolare le acque per mezzo di forme rinnovate».

 

 

  Italo Vanni, Amori proibiti di Balzac, «il Resto del Carlino», Bologna, 6 gennaio 1978, p. 7.

 

  La ragazza dagli occhi d’oro, di Honoré de Balzac, Centopagine, Einaudi, pp. 96, L. 2.000.

 

  Chi legge Balzac ha l’impressione imbarazzante di stargli sulle ginocchia e di riceverne in faccia le parole brucianti, di sobbalzare ad ogni suo gesto. La pagina balla come la tolda di una nave in tempesta. Rumori, luci, colpi di vento arrivano da ogni parte. La grande porta della narrazione visionaria è spalancata e attraverso i battenti del sogno la realtà entra come un corsiero pazzo.

  Le ingenuità, le goffaggini non si contano; ma l’appassionamento del romanziere intorno alle sue creature è tale e così irresistibile la sua determinazione inventiva che ogni ombra è presa in un vortice di luce. Anche lo stile cede al fervore di un artigianato senza regole e senza stanchezze, ribollente come una mitica fucina di giganti. La creazione in Balzac è un istinto vitale, un trabocco di energie cosmiche. Nessuna meraviglia che tra lui e il reale cali il velo deformante e rivelatore della visione.

  Come attraverso un filtro di luci iridescenti è vista la materia di questo racconto famoso: «La fille aux yeux d’or», 1835: luci di oriente, nomi che suonano come nacchere e hanno l’ondulazione delle palme: Paquita, Maraquita. Balzac, parigino in tutto, metropolitano e sedentario prova le movenze della creola maliarda, aspira gli olezzi dei tropici. Si carica, alla sua maniera; si è messo in testa di scrivere un racconto malsano, di sceneggiare una «passione terribile»: «quella di una donna per un’altra donna». Sarà l’ultimo episodio della trilogia intitolata «L’histoire (sic) des Treize», dopo «Ferragus» e «La duchesse de Langeais». Balzac crede di scoprire nuovi mondi, nuovi in verità non per la letteratura che lo precedeva e lo accompagna, ma soltanto per lui che ha un pudore innato e scarsa disposizione all’erotismo eccentrico.

  L’apertura oratoria e divagante della «Ragazza dogli occhi d’oro» è un esempio memorabile dell’intemperanza balzachiana, quanto dire del suo stesso genio. Balzac scalda il motore, batte il ferro, scioglie i muscoli. Parla e parla di Parigi, in quelle pagine preliminari, del suo malcostume sociale, della sua bruttezza urbana, delle sue nequizie palesi e occulte, come un predicatore invasato. Il lettore non si orienta, non vede perché, allibisce e sta piegato sotto l’uragano in attesa che rispunti il sole. L’energia verbale profusa da Balzac in quelle venti pagine assurde è misteriosamente liberatoria. Quando l’uragano finisce, lo scrittore e il lettore, mondi creati da quella sorta di lavacro verbale, sono pronti alla storia.

  La storia è un «fumetto» esecrabile. Henri (sic) de Marsay e Margarita Euphémia Porrabéril sono fratello e sorella, figli entrambi di Lord Dudley. Scopriranno la parentela che li lega di fronte al cadavere di Paquita, una creola amata da Henri e uccisa dalla gelosa Margarita che ne è stata l’amante e la padrona esclusiva. La marchesa assassina si ritirerà impunita nel convento di Las Dolores, in Spagna: De Marsay continuerà la sua brillante vita parigina al caffè dei Feuillants.

  Che cosa ha mosso l’immaginazione di Balzac? La bellezza esotica di Paquita — che ha gli occhi gialli come una tigre — il suo ardore sensuale deviato ma non compromesso dagli amori lesbici con la marchesa; l’intrigo romanzesco attraverso il quale lei e Henri, che l’adora per averla vista una prime volta elle Tuileries, giungeranno a possedersi in un parossismo del piacere E’ la donna che regge le fila dell’intrigo, lei che supera l’uomo nella volontà di amare, lei che si concede il capriccio veramente perverso — le abitudini lasciano dei segni — di far indossare all’amante un abito femminile prima dell’amplesso. Paquita à un estremo della femminilità e dell’amore, e Balzac predilige gli estremi. Henri che sale m carrozza bendato verso convegni predisposti dalla donna, è un seduttore sedotto. Quando sospetterà Paquita di avere abitudini perverse, vorrà ucciderla. Nemmeno questa superiorità omicida gli è concessa. Arriva prima la marchesa, che sbriga con molto sangue la faccenda.

  Cos’è dunque «la ragazza dagli occhi d’oro»? Non certo un saggio acerbo di letteratura «particolare». Paquita non à la nipotina di Vautrin. Giancarlo Marmori, nella nota introduttiva, parla dello scontro di due esotismi, del dandy e della creola. Un recensore autorizzato [Giovanni Bogliolo] ha ricordato il colore di Delacroix, cui Balzac dedicò il racconto. Il libretto di Einaudi porta in copertina l’immagine di un’odalisca di Chassériau, coi seni scoperti. Ecco una traccia: la sensualità capovolta, nel senso che è la donna a volere l’uomo, a portarselo nel suo letto. In questa iniziativa incalzante e disperata è la vera anomalia di Paquita e la molla del racconto. Gli amori lesbici servono allo scioglimento cruento e aggiungono poco all’imperiosa vocazione sensuale di Paquita, il cui vero amante è Balzac, che costruisce il racconto sul proprio ardore, quell’«ardore di vita» che secondo Baudelaire era il suo segreto creativo. Gli incontri di Paquita e di Henri, le furie amorose liberate nell’intimità di luoghi strani e occulti sono i passi del racconto nei quali il motivo dominante della passione scatenata si condensa e precipita nella magica soluzione del sogno. La meteora Balzac ci è passata accanto con la sua accesa incandescenza, illuminando di visioni il nostro buio satellite.

 

 

  Claudio Zanchi, Spettacolo del gruppo TSE da una novella di Balzac, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Milano, Anno LXXXII, N. 32, 8 febbraio 1978, p. 11.

 

  Una trentina di splendide maschere (che sono poi delle teste di animali tipo pelouche: molti gatti, ma anche cani, volpi, pavoni, cornacchie, topi, farfalle), dei raffinati fondali dipinti in stile ottocentesco, pochi attrezzi scenici (una seggiola, un divano, un cesto per le immondizie, una portantina), alcuni strumenti musicali suonati in scena. Con questi semplici mezzi dodici giovani attori (otto uomini e quattro donne) danno vita a un sorprendente e curioso spettacolo. «Pene di cuore di una gatta inglese» [...].

  Il testo è stato scritto da Geneviève Serrau [...] prendendo come base una novella di Balzac (ma lo scarno volantino non precisa quale) e ispirandosi ai disegni del celebre disegnatore francese Grandville conosciuti come «Scene della vita pubblica e privata degli animali». [...].

  Con questi presupposti l’operazione drammaturgica tentata dalla Serreau (ma certo affidata anche alla interpretazione del regista Alfredo Rodriguez Arias che è anche uno degli attori) appare chiara: ribaltare un testo veristico di Balzac a sfondo drammatico (una giovane e bella ragazza campagnola viene mandata a Londra per essere educata secondo i rigidi schemi puritani della società vittoriana e poter così entrare nella classe «alta» attraverso il matrimonio con un ricco, anziano e impotente signore: si innamora poi di un affascinante diplomatico francese che viene ucciso da un altro spasimante respinto) per trarne una satira abbastanza pungente e non priva – in alcuni «siparietti» - di momenti lirici. [...].

 

 

  S.[ergio] Z.[oppi], Critica letteraria. Raffaele de Cesare, “Miserie e splendori di Balzac nel dicembre 1836”, Vita e Pensiero, Milano 170 pagine. 3500 lire, «La Stampa Tuttolibri», Torino, Anno IV, N. 13-123, 8 aprile 1978, p. 18.

 

  Con questo intervento de Cesare è giunto al termine della minuziosa ricostruzione di un anno di vita del maestro del realismo ottocentesco, un lavoro da certosino, svolto in un arco di quasi vent’anni. Il richiamo semantico che la parola certosino comporta, è l’azione da miniaturista con la quale il critico ha seguito, disegnandone minutamente i contorni, quasi ora per ora, il suo autore. Ma, proseguendo l’immagine, il miniaturista si trasforma in sostanzioso autore di mosaico, nel quale lo scrittore viene ricostruito nei particolari, fino a dominare le situazioni e l’epoca. Qualcuno avrà da dire sul metodo di indagine. Noi troviamo che ancora una volta il rapporto uomo-epoca-storia sia essenziale e rimanga predominante dell’atto della comprensione della figura letteraria, e non sia meno importante quale «introduzione alla lettura» dei testi. Lo schema, ripetuto qui e negli altri interventi, ci porta alla situazione economica di Balzac, che tutti sanno quanta importanza abbia avuto nella funzione di stimolante creativo, ai rapporti con gli editori, alla vita sentimentale, all’opera letteraria e all’impatto che la stessa ha avuto con la realtà contemporanea. L’abilità del critico sta nel passaggio dai valori dell’erudizione, non semplicemente addizionati, alla sintesi totale, nella quale l’autore si ritrova a vivere nel suo tempo, ma più vicino a noi.

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Lucianantonio Ruggieri, Lo speculatore (Miseria e splendore di Mercadet l’affarista). Commedia in due tempi da Honoré de Balzac, cit., pp. 28-128.

 

 

 

Sceneggiati televisivi.

 

 

  Il grande amore di Balzac, Regia di Wojciech Solarz. Personaggi e interpreti: Madame Hanska: Beata Tyazkiewicz; Balzac: Pierre Meyrand, Rete 1, 7 febbraio-7 marzo 1978, ore 21,30, cinque puntate.



Marco Stupazzoni

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