mercoledì 1 luglio 2020



1957

 



 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Le cousin Pons. Introduction et notes par Maria Polenghi, Milano, Carlo Signorelli Editore, 1957 («Scrittori stranieri»), pp. 215.

 

 


 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il curato di Tours di Honoré de Balzac (Trad. di Maria Ortiz), in AA.VV., Le più belle novelle dell’Ottocento. Prefazione di Mario Bonfantini, Roma, Gherardo Casini Editore, 1957, Volume I, pp. 52-99.

 

  Cfr. 1951.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Roberto Ortolani, Milano, Ed. G. Maradei (Unione Tipografica), (maggio) 1957 («La collana d’oro»), pp. 207.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 576.

 

  Il romanzo è suddiviso in sei capitoli (più la Conclusione) secondo il modello dell’edizione originale Béchet (1833-34); è tuttavia riportata la dedica ‘A Marie’ inserita per la prima volta da Balzac nell’edizione Charpentier del 1839 (su cui si fonda la traduzione, nel complesso corretta).

 

 

  Honoré de Balzac, La messa dell’ateo (Trad. di Maria Ortiz), in AA.VV., Le più belle novelle dell’Ottocento ... cit., Volume II, pp. 37-52.

 

  Cfr. 1951.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione e traduzione a cura di Marina di Juvalta, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1957 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni fondata da Arturo Farinelli, diretta da Giovanni Vittorio Amoretti», 100), pp. 329; 1 ill. [Honoré de Balzac. Da un dagherrotipo. Fot. Nadar].


   Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 576.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Marina di Juvalta, Introduzione, pp. 5-9. [Cfr la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Papà Goriot, pp. 11-328.

 

  Il romanzo è suddiviso in sei capitoli secondo il modello della seconda edizione Werdet (maggio 1835) su cui si fonda anche la traduzione (nel complesso corretta, ma a volte piuttosto piatta); non è ovviamente riportata la dedica a Geoffroy Saint-Hilaire inserita da Balzac soltanto nell’edizione Furne (1843).

 

 

  Honoré de Balzac, Lo zigrino. Traduzione di Irma Zorzi, Milano, Rizzoli Editore, (febbraio) 1957 («Biblioteca Universale Rizzoli», 1116-1118), pp. 255.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 576.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Nota, pp. 5-9. [Cfr la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Lo zigrino, pp. 11-254.

 

  Il modello di riferimento della presente traduzione è quello dell’edizione Furne (1845); non è tuttavia riportata la dedica a Monsieur Savary. Nel complesso, la versione italiana che Irma Zorzi fornisce dello studio filosofico balzachiano può ritenersi abbastanza corretta.

 

 


 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Segnalazioni, «Il Foglietto. Giornale della Daunia», Foggia, Anno XLII (nuova serie), N. 15, 18 aprile 1957, p. 3.

 

  Lo scrittore garganico Giuseppe Cassieri, che si va sempre più meritatamente affermando nell’attività letteraria, per la regìa di Pietro Masserano Taricco ha trasmesso dalle stazioni «del terzo» un programma radiofonico dedicato a «Balzac in Italia».

 

 

  Stendhal. L’ultimo romanzo d’amore, «Stampa Sera», Torino, Anno XI, Numero 229, 27-28 Settembre 1957, p. 8.

 

  Il libro [La Chartreuse de Parme] esce. Balzac scrive alla signora Hanska: «Beyle ha pubblicato, a mio parere, il più bel libro che sia apparso da cinquant’anni a questa parte ... Se Macchiavelli avesse scritto un romanzo, sarebbe stato questo ...». L’11 aprile Stendhal incontra Balzac. Il critico letterario Forgues, che assisteva al colloquio, l’ha raccontato piacevolmente. Balzac, dopo avere subissato Stendhal di complimenti, non gli risparmiò nessuna critica, specialmente sul suo modo, di scrivere! E Stendhal sembrava ascoltarlo con l’aria più rispettosa.

 

 

  Nota, in Honoré de Balzac, Lo zigrino ... cit., pp. 5-9.

 

  [...]. Il giovane Raffaello de Valentin, rimasto orfano e solo, vive asceticamente in una soffitta parigina, lavorando con grande tenacia intorno a una Teoria della volontà, opera dalla quale spera di ottenere un giorno fama e ricchezza. La sua vita è misera, ma non infelice: le speranze nel futuro e il dolce sorriso della figlia dell’affittacamere, Paolina, che di tanto in tanto viene a trovarlo, rischiarano lo squallore della sua realtà; mentre in una immaginativa senza freni egli libera le più ardenti visioni, accese, dai divoranti desideri che lo tormentano.

  Ma il fortuito incontro con un amico di vecchi tempi migliori (il Rastignac che così spesso ritorna, nei romanzi del Balzac), dà improvvisamente un nuovo indirizzo alla sua esistenza. Rastignac, infatti, lo presenta alla bella contessa Fedora, donna di moda nel gran mondo parigino, una specie di moderna Turandot dal cuore di gelo sotto l’apparente galanteria, e costei accentra d’improvviso su di sé ogni desiderio e ogni aspirazione di Raffaello. Per conquistarne l’amore, egli non esita ad abbandonare ogni sua altra occupazione, e per seguirla nel suo tenore di vita s'ingolfa nei debiti, sino a trovarsi in una situazione senza via d’uscita. Ma tutto è inutile: Fedora rimane insensibile alle sue pene, e Raffaello, dopo un’ultima e vana visita a una casa di gioco del Palais-Royal, decide di togliersi la vita.

  Ecco, però, che il misterioso dono di un pezzo di pelle conciata, uno «zigrino», fattogli da un vecchio e strano antiquario, ancora una volta muterà completamente il destino di Raffaello. Infatti, a quella pelle è legato un incantesimo, secondo il quale colui che la possiede può soddisfare all’istante ogni suo desiderio, al prezzo, però, di un simultaneo raccorciamento della pelle e della sua vita stessa: e la morte coinciderà con la fine del talismano. Nel primo momento d’incredulità, Raffaello si sofferma solo sulla parte positiva dell’incantesimo, e subito soddisfa al suo bisogno più urgente, quello di essere ricco. Ma, divenutolo, resta agghiacciato dalla scoperta che veramente la pelle magica – che egli ha disteso su un panno bianco, disegnandone in rosso il contorno – si è visibilmente contratta. E quel dito bianco tutto intorno allo zigrino diventa la sua idea fissa, che non lo abbandona un istante. Decide di non desiderare più niente, ma non può trattenersi dal chiedere l’amore di Paolina, da lui ritrovata per caso una sera a teatro, e divenuta nel frattempo una ricca ereditiera. Ma, con sua grande sorpresa, lo zigrino questa volta non si restringe: infatti, l’amore di Paolina era già cosa sua, senza che egli se ne rendesse conto, fin dal tempo della sua vita in soffitta.

  Raffaello trascorre così una dolce parentesi di tenero amore: ed è alla vigilia delle nozze con Paolina, allorché, un giorno, gli viene riportato lo zigrino che egli, nel tentativo di liberarsi da ciò che era divenuto il suo incubo, aveva scaraventato in fondo a un pozzo. Raffaello resta allibito: la pelle è ormai ridotta al minimo; quante, cose deve egli aver desiderato e ottenuto senza avvertirlo! L’ossessione di perdere la vita da un momento all’altro lo riprende: abbandona Paolina senza darle alcuna spiegazione e, dopo aver tentato invano, con ogni mezzo a disposizione della scienza, di distruggere lo zigrino maledetto, si ritira a vivere solo, immerso nel terrore che un desiderio possa sfuggirgli irriflessivamente, inconsapevolmente.

  La sua vita è divenuta un inferno: malato di nervi, atterrito, egli prende a vagare da un luogo all’altro, cercando invano di recuperare la salute. Ma non riesce a sfuggire al suo destino, e troppe volte accade qualcosa che lo induce a desiderare, avvicinandolo alla morte. Finché, ritiratosi nuovamente nella sua casa, nascosto alla vista di tutti, in compagnia solo della morte che si porta addosso, è raggiunto una sera da Paolina, che ha scoperto il suo rifugio ed è riuscita a penetrarvi, e che tenta in ogni modo di riconquistare l’amore di lui. Di fronte alla sua dolente, disperata bellezza, repentinamente l’assale il desiderio di lei, desiderio che gli stronca l’ultimo anelito di vita.

  Preceduto dalla pubblicazione di alcuni suoi frammenti nei periodici «La Caricature», «La Revue des Deux Mondes» e «La Revue de Paris», Lo zigrino apparve, come «romanzo filosofico», nell’agosto 1831, presso l’editore Gosselin et Canel, in due volumi; ed è curioso ricordare che proprio in questa edizione l’autore sfoggiò per la prima volta, dinanzi al suo nome, quella particella nobiliare a cui solo il suo genio gli dava diritto: «de Balzac». Successo assai vivo, il primo grande successo del Balzac; talché l’opera fu ristampata ben due volte lo stesso 1831. Nel 1833 ne apparve la terza edizione, nel 1835 la quarta; e finalmente, nel 1845, il romanzo fu incluso negli Studi filosofici, seconda parte della Commedia umana, comprendente una ventina di romanzi dei cento circa che compongono l’intera Commedia.

  Degli Studi filosofici così scrisse lo stesso Balzac nell’introduzione al suo monumentale ciclo narrativo: in essi «il movente di tutti i fatti si trova dimostrato ... i danni del pensiero sono descritti sentimento per sentimento: ... nel primo volume, Lo zigrino ... la vita stessa è descritta alle prese col desiderio, principio di ogni passione».

  Non più, quindi, come negli altri romanzi del Balzac, la rappresentazione oggettiva e veristica degli avvenimenti, ma interpretazione degli avvenimenti stessi su un piano filosofico e psicologico: in questi romanzi degli Studi filosofici è il tentativo del Balzac di svincolarsi dal suo colorito realismo per conquistare sfere di più intensa spiritualità.

  Di fatto, però, come non possono dirsi «realistici» gli altri romanzi del Balzac, tanto la sua fantasia vi è sempre presente, trasfiguratrice e iperbolizzante, così non possono definirsi «filosofici» questi, dove, fortunatamente, le brevi parti speculative cedono subito all’afflato robusto e vivificatore della sua immaginazione.

  È vero: il talismano che egli pone, nel presente romanzo, al centro della vicenda, fondendo, in un’assurda astrazione, i due contrastanti concetti di «volere» e «potere», dimostrerà, nell’ineluttabile consumarsi della vita di chi lo possiede, l’impossibilità di ogni aspirazione che ecceda i limiti umani. È vero pure che, dopo aver dedicato il romanzo «Al signor Savary, Membro dell’Accademia delle Scienze», il Balzac vi pose, quale epigrafe, il ghirigoro che lo Sterne disegna (Tristram Shandy, IX, IV) per indicare il mulinello che il caporale Trim traccia in aria col bastone; e vuol ricordare, quindi, che la libertà umana si conquista solo col superamento delle passioni. Ed è vero, infine, che quello della «volontà» fu un tema prediletto dello scrittore, se già all’età di tredici anni aveva scritto un Trattato della volontà che un suo maestro confiscò e distrusse.

  Ma è vero anche – ed è quello che conta – che nello Zigrino la tesi e l’assurdo acquistano quella potente, allucinata realtà propria del Balzac dei grandi capolavori, nei quali, come scrive il Croce, egli «si muove tra ammirato e atterrito, quasi come in una visione apocalittica».

  Dalla sua comparsa a oggi, il successo dello Zigrino s’è perpetuato senza interruzioni e senza affievolimenti. Non sarebbe possibile enumerarne le edizioni e le ristampe, nell’originale francese o attraverso le traduzioni che ne furono fatte e rifatte in pressoché tutte le lingue del mondo. Ma valga ricordare, non sia che come curiosità e indiretta riprova della immediata e continua popolarità del racconto, le riduzioni teatrali che se ne eseguirono a Parigi: nel 1832 (un anno circa dopo la prima pubblicazione), al teatro della Gaité, un «vaudeville» parodistico in tre atti, di Simonin e Nezel, col sottotitolo «Stravaganza romantica» ; nel 1851, all’Ambigu-Comique, un anonimo dramma fantastico in cinque atti e sette quadri; nel 1921, all’Opéra-Comique, una commedia lirica in quattro atti, libretto di Decourcelle e Carré e musica di Charles Levadé. Un film ne trasse, inoltre, nel 1913, il regista francese Albert Capellani.

  Il titolo originale La peau de chagrin è stato sempre reso, nelle numerose traduzioni italiane del romanzo, con La pelle di zigrino. Poiché, tuttavia, nel sostantivo «zigrino» è già implicito il senso di pelle conciata mediante uno speciale processo che ne conserva l’originale ruvidità o vi imprime caratteristiche granulazioni (e vari anzi, sono gli animali che la forniscono: certi squali, l’asino, il mulo e altri), non si è voluto perpetuare qui una forma che a fil di logica appare errata.

 

 

  G.[iovanni]B.[attista] Angioletti, Balzac al lavoro, in L’anatra alla normanna, Milano, Fabbri Editore, 1957 («Nuovi saggi», 5), pp. 35-39.

 

  Cfr. 1956.

 

 

  L. B., Ribalte di Parigi. Non ha aggiunto nulla, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XIII, 22-23 marzo 1957, p. 11.

 

  Una delle più applaudite battute del nuovo spettacolo del Théâtre National Populaire di Jean Vilar, «Le Faiseur» di Balzac, è la seguente: «In Francia noi abbiamo un menù di principi politici vario quanto quello di un ristorante. Il partito d’avvenire si chiama socialista, forse perché non è sociale. In Francia bisogna sempre prendere il rovescio della parola per trovarne il vero significato». L’attuale Governo francese è a direzione socialista. Vilar ha dovuto pubblicare un comunicato per precisare che non ha aggiunto nulla al testo originale di Balzac.



  Carlo Bo, “La Commedia umana”, il romanziere come storico, in AZ Panorama: Enciclopedia monografica della letteratura. Libri nel tempo. Collana diretta da Giovanni Enriques, Edgardo Macorini, Geno Pampaloni, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1957, pp. 206-209; 5 ill.

 

  Quando Honoré de Balzac (1799-1850) pubblicò nel 1842 la prima edizione delle opere complete col titolo di Commedia umana si trattò piuttosto di sistemare una vecchia idea che non di cedere al gusto di una trovata.

  Il titolo, che ha un evidente rapporto con quello di Dante e sembra gli sia stato suggerito da un amico, rifletteva infatti una sua lontana ambizione di fare una storia del proprio tempo. Sin dal 1835 Félix Davin, ombra del Balzac, nel l’Introduzione agli studi filosofici, sottolineava la volontà di dare un senso generale ai diversi contributi offerti dalle singole opere. Il Davin metteva inoltre in rilievo il tentativo del Balzac di fare del romanzo la storia dei costumi, la grande storia dell’uomo e della società. Lo stesso Balzac nel 1842 avrebbe confessato: La società francese è lo storico, io non devo esserne che il segretario.

  Nell’immensa costruzione del romanziere (che di solito viene suddivisa in Studi di costumi, comprendenti le Scene della vita privata, quelle della Vita di provincia, quelle della Vita parigina, quelle della Vita politica e infine quelle della Vita di campagna; in Studi filosofici e in Studi analitici) conviene quindi vedere anzitutto il disegno di dare della vita del tempo un quadro il più possibile completo ed esauriente, nonostante le molte lacune denunciate dalla critica e certe soluzioni affrettate, d’altronde abbastanza plausibili. Il romanziere è arrivato ben presto a questa concezione globale dopo alcuni anni di prove confuse, di esperimenti ricalcati, ma non bisogna dimenticare che il modo della preparazione e dell’educazione letteraria rispondeva perfettamente alla sua natura.

  L’amore e un interesse infinito per tutte le manifestazioni della vita lo hanno portato a trovare – quasi subito – un eccezionale equilibrio fra il caso particolare e il senso generale della umanità, sperimentando all’infinito le proposte della psicologia per raggiungere un vasto quadro delle possibili reazioni umane.

  Non c’è dubbio che lo studioso del carattere umano si sia staccato dalla grande lezione di Molière ma il suo tentativo e stato molto più vasto e ambizioso: Balzac non si è limitato a dare di un vizio, di una deformità una sola immagine, ma attraverso molte immagini ha dato una definizione basata sulla realtà e suscettibile infine di altre notizie, di nuove aggiunte. La sua opera, considerata da questo punto di vista e tenuto conto dell’arco della sua attività, è enorme: la storia della società francese inseguita attraverso un larghissimo numero di opere si riflette e si definisce in più di duemila figure. Ma non solo la vastità e la minuzia dell’indagine balzacchiana devono stupirci, quello che più conta è l’ordine della presentazione di quel mondo romanzesco confrontato con la realtà.

  Per obbedire all’intuizione geniale della ‘Commedia’ come mondo unico, lo scrittore ha scoperto un meccanismo prodigioso, vale a dire quello di far ritornare sistematicamente in tutti i romanzi i personaggi della sua fantasia. Con questo sistema Balzac costringeva il lettore a un’eterna presenza dei personaggi e fissava il mondo dell’immaginazione intorno a un numero preciso di fantasmi riconoscibili immediatamente: in questo modo la misura del romanzo trovava di colpo quella – assai più sicura e ricca di vita – della storia.

  Se ci limitiamo a studiare la sua figura nel quadro del romanzo, non si può fare a meno di segnare l’importanza della sua scoperta, lo straordinario spostamento di confini rappresentato dalla Commedia umana non solo negli anni del suo lavoro ma per tutti gli anni che sono venuti dopo: Balzac, da questo punto di vista, va considerato come un innovatore senza uguali o, meglio, come un vero e proprio rivoluzionario: e la sua rivoluzione non si è limitata a qualche accorgimento tecnico ma ha centrato di colpo la natura stessa del romanzo e la sua importanza dal punto di vista sociale.

  Naturalmente un tale capovolgimento non sarebbe stato possibile se il grado della partecipazione dello scrittore alla sua invenzione non fosse stato totale, se, cioè, Balzac nella vertiginosa carriera di romanziere non fosse riuscito a fare coincidere la sua immaginazione con la realtà.

  Sin dalle prime prove concrete lo sforzo dell’osservatore veniva a un certo punto ripreso e continuato dallo scrittore di intuizione e soltanto in questo modo Balzac non restava prigioniero delle infinite prove d’analisi e dei diversi documenti accumulati e si noti che il colpo dell’intuizione segnava l’avvenuta trasformazione, il passaggio dal caso particolare al generale, dall’uomo della fantasia a quello della realtà.

  La fedeltà al mondo globale, unico, è rintracciabile anche in un altro fatto: il romanziere assiste costantemente i suoi personaggi, anche quando non sono presenti, anche quando tacciono per lunghi periodi, lo scrittore li conserva in un clima di perpetua evocazione, ha cura di sistemarli e proteggerli nell’ambiente, insomma fissa il suo mondo su una rete perfetta e sicura di ‘corrispondenze’. A torto alcuni critici hanno trovato superflua tale cura di descrizione d’ambiente, in realtà non si accorgevano dell’importanza del linguaggio delle cose e degli oggetti, di questa seconda partecipazione all’evocazione del mondo.

  Osservazione, descrizione, intuizione sono i tre momenti che portano il romanziere Balzac all’invenzione e quindi a un senso più alto di storia (la storia prodigiosa della Francia dal 1800 al 1850) e all’ultimo e pericoloso tentativo di organizzare la visione del mondo in un trattato, in uno studio definitivo.

  In questa luce e chiaro che non contano tanto i risultati particolari, anche se ogni lettore è libero di scegliere, nell’ordine dei capolavori, La cugina Betta (1846) o Papà Goriot (1834-1835) o, come suggeriva Alain, Il giglio della (sic) valle (1835); caso mai più che una disposizione per opere sarebbe augurabile una divisione per caratteri, anche se in ultima analisi non sia possibile arrivare a discriminazioni assolute e addirittura irrevocabili.

  Certi vizi del cuore, umano sono stati studiati e classificati da Balzac non in un unico quadro, nell’ambito di una sola figura, ma hanno continuato a colpire la sua fantasia e per questo sono stati ripresi, allargati e perfezionati in diverse immagini: si pensi all’avarizia del notaio Cornelius, a quella di Gobseck o a quella di Grandet e si vedrà che nessuna obbedisce a uno schema, ma si nutre invece liberamente della linfa stessa della vita. Allo stesso modo la vergogna di Filippo Brideau si distingue e si completa in quella del barone Hulot.

  Si aggiunga ancora che i personaggi balzacchiani non sono mai fissi ma, pur restando legati a un’immagine centrale, subiscono le reazioni e i contraccolpi del tempo: ecco il caso dell’abate Birotteau che, protagonista de Il Curato di Tours (1832), ricompare ne Il giglio della valle (1835) e nella Storia della grandezza e della decadenza di Cesare Birotteau (1837), senza tener conto dell’ordine interno del tempo della Commedia ma per un evidente bisogno di completezza e di definizione di un tipo umano.

  Infine per il rapporto delle corrispondenze un personaggio balzacchiano resta sempre dotato di una immediata qualificazione, di un passato a cui dovrà essere fedele e per questo ogni volta che riapparirà sulla scena (non si trascuri l’evidenza teatrale delle rappresentazioni romanzesche del Balzac) l’attenzione del lettore è già pronta e l’emotività generale disposta. Tale regola è rispettata specialmente quando si tratti dei personaggi centrali della Commedia, di un Rastignac, di un Vautrin, del barone Hulot, della signora Marneffe: si direbbe che la fantasia dello scrittore resti eccitata da questa avvertita presenza del lettore e naturalmente sono questi i momenti dei colpi di scena, delle battute, delle impareggiabili divinazioni di Balzac e ancora in queste occasioni sembra giusta la definizione – preferita da alcuni critici – di scrittore veggente.

  Il senso della divinazione balzacchiana è in parte spiegabile con la profonda conoscenza che lo scrittore aveva del mondo o, come diceva Sainte-Beuve, della corruzione del mondo. Il grande critico aggiungeva che non solo Balzac conosceva tale corruzione ma era in grado di aggiungervi qualcosa: nella boutade bisogna scorgere una parte di vero e, cioè, che Balzac era in grado di aggiungere qualche luce alla realtà offerta dalla società del suo tempo, ma era luce che derivava dal soccorso del genio.

  Una riprova di questo la si ha tutte le volte che il romanziere sceglie un argomento di vita vissuta: per esempio in Un tenebroso affare (1841) gli ultimi storici hanno visto una geniale trasposizione del rapimento del senatore Clément de Ris. Balzac – è stato detto – trova la verità al di fuori dell’esattezza. Lo scrittore era costante- mente suggestionato dai fatti e per la conoscenza che aveva degli uomini riusciva a inventare personaggi che non solo reggevano quei fatti, ma finivano per rintracciare quella prima realtà. In questo senso la Commedia completa e illumina la storia. Del resto lo scrittore non procedeva mai su un piano solo: l’ambiente (è stato il primo e indiscutibile assertore dell’importanza dell’ambiente nella costruzione spirituale di un uomo), il carattere, il gioco dei fatti sono i diversi piani di avvicinamento alla conclusione provvisoria di ogni romanzo; di qui si capisce come il ‘tempo’ del romanzo balzacchiano viva al di fuori di ogni singola rappresentazione e cerchi piuttosto di ripetere naturalmente il tempo della vita umana: per questo una lettura intera della Commedia oppure quella di un repertorio dei personaggi riescono a farci comprendere l’unità e la contemporaneità dei diversi movimenti e la logica successione dei personaggi.

  Non c’è dubbio che l’impressione finale della Commedia sia quella offerta da un’interpretazione del suo mondo (il mondo della Rivoluzione e dell’Impero, della Restaurazione e di Luigi Filippo) depurata da ogni residuo di cronaca e fissata definitivamente in precisi termini di storia. Solo nei libri confusi degli inizi Balzac sceglieva soluzioni improvvise, ‘romanzesche’ ma, una volta raggiunta la maturità, sperimentò una formula più larga del tempo e spostò l’accento drammatico sulla condizione, sulla natura dei suoi personaggi. Balzac tende a privare i fatti di ogni colore d’eccezione o almeno a lasciare ai fatti una responsabilità limitata, una ragione complementare.

  A volte i fatti, che pur costituiscono una solida armatura, non hanno altra funzione che quella di sottolineare o meglio di eccitare i contrasti dei vari caratteri: si veda, per esempio, nel giuoco dei rapporti della famiglia Grandet come la drammaticità dei fatti riesca a puntualizzare la lezione dei sentimenti buoni e cattivi che fanno la storia di quella famiglia, l’amore vergognoso del denaro nel padre e il sentimento puro dell’amore nella figlia.

  In altre occasioni lo scrittore ricorre, per il processo interiore della passione che lo interessa, al dialogo e bisogna appena avvertire che nessuno come Balzac ha conosciuto tanta ricchezza e novità di dialogo (diretto, indiretto, travestito, allusivo).

  Se si pensa ai grandi romanzieri francesi, inglesi e russi dell’Ottocento non si può non riconoscere che Balzac è stato lo scrittore che ha rovesciato la concezione stessa del romanzo e senza legarlo alle norme di una scuola l’ha tenuto costantemente in contatto con la vita. Balzac ci appare come soggiogato dal peso del proprio lavoro e dalla grandezza dell’impresa e non c’è dubbio che, al pari dei suoi maggiori contemporanei, egli ha sentito l’esempio di Napoleone e nel riflesso magico di quell’esempio ha pensato di procedere a una nuova sistemazione del mondo.

  Anzitutto al lavoro del ricostruttore, dell’evocatore o semplicemente del narratore (si tenga presente che il modello della sua gioventù è stato Walter Scott) ha preferito quello dell’inventore e del creatore. Balzac non ha voluto scrivere romanzi che ripetessero il modo e il tempo di una data vita, di un dato periodo, ma romanzi che fossero o invenzioni o incarnazioni e si è scoperto l’ufficio di storico e di creatore.

  Ripensiamo ancora alla frase di Sainte-Beuve sulla parte aggiunta di corruzione per capire fino a che punto si premunisse il romanziere: Balzac non ha esagerato nella pittura del male (La cugina Betta è il capolavoro di questa conoscenza moltiplicata all’infinito), Balzac ha voluto ricordarci che la realtà supera la fantasia e che il mondo ha sempre l’ultima parola in fatto di clamorose rivelazioni.

  Pochi come Balzac hanno saputo registrare le nuove potenze del mondo moderno, il denaro, la polizia, il giornalismo, i rapporti umani, le relazioni mondane, i nuovi punti di resistenza nella lotta dell’uomo contro il mondo.

  Ha ordinato la materia informe di un mondo nuovo, ha portato avanti lo studio dell’uomo, ha allargato le basi della psicologia, pur restando fedele all’unità dell’intelligenza umana. Nessun altro scrittore può essergli avvicinato per la profondità e l’ampiezza degli interessi (un centinaio di opere da Gli Sciuani del 1829 al Cugino Pons del 1847), per l’irruenza della creazione e soprattutto per il fine fedelmente inseguito di riconoscere l’uomo in tutti i suoi riflessi: dalla più squallida realtà all’evocazione di carattere mistico.

 

  Nella sezione intitolata: Dizionario letterario degli scrittori, delle opere, dei personaggi e degli stampatori famosi, sono contenute le seguenti voci:

 

  Balzac Honoré de, pp. 467-468.

 

  (Tours 1799 Parigi 1850). Romanziere francese. Di famiglia modesta e borghese, iniziò nel 1816 gli studi di giurisprudenza e lavorò presso un notaio. Lasciato il diritto per la lett., acquistò nel 1821 una stamperia a Parigi. L’impresa si rivelò ben presto disastrosa e così ebbe inizio quella catena di debiti insanabili che B. doveva trascinare per tutta la vita. Aspirò invano al Parlamento nel 1832 e all’Accademia Francese nel 1848 e nel '’49. Fra i suoi pochi amici, contò sull’affetto sincero della Sand, di Hugo e di Gautier e fu il primo ad ammirare l’op. di Stendhal all’apparire della Certosa di Parma. [...].

  Segue un lungo elenco di titoli dei romanzi e dei racconti della Comédie humaine.

 

  Eugenia Grandet, p. 546.

 

  (Eugénie Grandet, 1833). Romanzo di Honoré de Balzac. Fa parte delle Scene della vita di provincia ed è forse il più famoso di tutta la Commedia Umana. E. G. è la figlia di un commerciante che, attraverso abili speculazioni, la pratica dell’usura e l’avarizia più sordida, ha ammassato un’ingente fortuna. L’interesse del romanzo è dato proprio dal contrasto fra la cupidigia tirannica del padre, che può essere accostato all'Arpagone di Molière, pur senza presentare nulla di comico, e la nobiltà generosa, spinta fino agli estremi della rinuncia, di E. che sacrifica il poco che ha ad un cugino che ama ed affronta il duro castigo del padre, restando infine sola con la sua eredità nella vecchia dimora. L’ambiente di provincia e la famiglia Grandet sono rese con una potenza di tocco poche volte uguagliate dallo stesso Balzac.

 

  Papà Goriot, p. 661.

 

  (Le père Goriot, 1834-35). Romanzo di Honoré de Balzac, appartenente al ciclo della Commedia umana. P. G. totalmente schiavo della passione che lo lega alle sue due figlie, a tutto disposto pur di accontentarle, pagherà con la solitudine dei suoi ultimi anni la debolezza dimostrata in vita. Una Parigi crudele, un mondo corrotto e corruttore sono ritratti dal romanziere con arte implacabile.

 

  La Pelle di Zigrino, p. 664.

 

  (La peau de chagrin, 1831). Op. di Honoré de Balzac, interessante soprattutto per la storia dei sentimenti dell’a. che il protagonista Raffaele, impersona; l’atteggiamento romantico verso la vita, intesa come lotta che brucia gli anni di sacrificio, è la molla che spinge Raffaele a consumare rapidamente la sua giovinezza. Una pelle di zigrino, suo talismano, che gli consente di esaudire ogni desiderio ma che si accorcia ogni volta, è l’immagine della vita stessa del protagonista, che a ventisette anni morirà, dopo essere precipitato nella bolgia sociale che il mondo gli ha posto davanti.

 

 

  Carlo Bo, Grandi narratori francesi dell’800. Balzac. La vera vita di Balzac, Secondo Programma, 16 Dicembre 1957; Il romanzo come conquista, 18 Dicembre 1957; Vocazione di narratore, 23 Dicembre 1957; La realtà e il mistero, 30 Dicembre 1957.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Roger Caillois, Lo scenario e l’eroe in Balzac, «Tempo presente. Informazione e discussione», Roma, Anno II, Numero 1, Gennaio 1957, pp. 57-60.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 575.

 

Magìa della città.

 

  Si ammette oggi volentieri che il romanzo di Balzac deriva dalla narrativa popolare e non da quella classica, allo stesso modo in cui si propende a far risalire il teatro di Molière alla farsa piuttosto che al teatro classico. Quasi tutte le opere di Balzac, a cominciare da quelle giovanili ch’egli poi sconfessò, come Argow le pirate ou Jeanne la folle (sic), si riallacciano al romanzo popolare di Ducray-Duminil per quel che riguarda la Francia, oppure al romanzo nero di Mathurin, di Lewis o di Anne Radcliffe per quel che riguarda l’Inghilterra; mentre invece si collocano assai più lontano dai cicli realistici di Restif de la Bretonne, di cui Balzac soltanto più tardi potrà sembrare un emulo più dotato e ambizioso. Il Centenaire è assai più vicino a Melmoth, del quale è una copia dissimulata, di quel che Le lys dans la vallée non somigli alla Princesse de Clèves o Manon Lescaut, esso ci appare come una sorta di tragedia in cinque atti dove alla rappresentazione scenica si è sostituita la narrazione. Lo scenario non viene mai descritto per se stesso, gli eroi hanno un aspetto fisico astratto e intercambiabile; [...]. Balzac si propone invece di descrivere un mondo e di descriverlo sistematicamente, se non addirittura scientificamente (come talvolta sembra essere convinto di fare). I suoi intenti sono all’opposto di quelli di Madame de La Fayette, dell’abate Prévost, di Benjamin Constant. Vuol fare concorrenza allo stato civile, che è quanto dire: moltiplicare i personaggi e individualizzarli. Toglie a prestito da Walter Scott l’idea di far rivivere lo «spirito di un’epoca». Scrivendo Les Chouans è convinto di raccontare «una vicenda istruttiva per tutti i popoli». Inoltre, non dubita un solo momento della fondamentale portata della sua funzione di romanziere.

  Balzac è indotto dalla serietà della sua ambizione a concepire il disegno di un’opera enciclopedica; o, almeno, si sforza di ordinare le opere già scritte e quelle progettate entro uno schema prefisso. La distribuzione adottata, che sembra suggerita da semplici criteri di praticità, si rivela ben presto come «multidimensionale», cioè valida per differenti sezioni della realtà. Lo avverte lo stesso autore nella sua introduzione: ciascuna delle due parti, egli dice «ha un senso, un significato, ed esprime un’epoca della vita umana. Le Scene della vita privata rappresentano l’infanzia, l’adolescenza, i loro errori, mentre le Scene della vita di provincia rappresentano l’età delle passioni, dei calcoli, degli interessi e delle ambizioni. Le Scene della vita parigina offrono il quadro delle inclinazioni, dei vizi e di tutti gli impulsi sfrenati che ricevono stimolo ed eccitazione dal particolare ambiente delle capitali, dove è dato incontrare ad un tempo il bene e il male spinti ai loro estremi. Ognuna di queste tre parti ha un suo colore locale ...». Più oltre, definisce le Scene della vita di campagna come «la sera di questa lunga giornata». Viene in tal modo abbozzata una specie di complessa architettura il cui principio, eretto a sistema, ispirerà costruzioni come l’Ulysses di Joyce [...].

  Dopo aver stabilito ciò, dovrebbe esser facile rintracciare la fonte di queste preoccupazioni, da una parte nell’interesse che Balzac sempre nutrì per le teorie occultiste, e dall’altra nelle polemiche nate in quel tempo intorno alla classificazione degli esseri viventi. Forse non è stato ancora osservato fino a qual punto il convergere di queste due sfere d’interessi abbia naturalmente prodotto una concezione dell’«opera letteraria totale», simile a una specie di microcosmo perfetto: tête complète et parfait diadème.

  L’edificio doveva essere coronato da due opere che sono menzionate nel progetto del 1845 e i cui titoli sono estremamente significativi: Monografia della virtù e Dialogo filosofico-politico sulle perfezioni del XIX secolo. Di questi due titoli, il primo mette l’accento sullo spirito «etico», il secondo sullo spirito «moderno» dell’impresa balzachiana. Nel raffronto, se non nell’identificazione, di questi due termini, risiede in realtà l’apporto essenziale di Balzac alla storia delle idee. Sotto questo profilo, la sua critica di Walter Scott ha un carattere dimostrativo, mentre l’adozione di un partito preso morale gli appare come la stessa giustificazione della sua attività. «La legge dello scrittore – egli dice nella già citata introduzione alla Comédie humaine – quella che lo rende tale, e che (non ho tema di dirlo) lo fa eguale e forse superiore all’uomo di Stato, è una qualche decisione sulle vicende umane, un’assoluta dedizione a dei princìpi». In una lettera a Hyppolite Castille è ancora più esplicito: «Ogni scrittore deve avere come scopo quello di moralizzare il suo tempo, senza di che si riduce alla funzione di semplice ‘divertitore’».

  Come Baudelaire, Balzac si mostra un deciso fautore della grandezza del suo tempo. Ammira Fenimore Cooper, ma ritiene che le insidie della grande città siano più interessanti di quelle della foresta o della giungla. Qui è il vero predominio dell’elemento selvaggio; qui pullulano i pericoli più minacciosi, più foschi, più infidi. [...]. In Splendeurs et misères Balzac mette in luce questo punto: «La poesia di quel terrore che viene sparso nel cuore delle foreste americane dagli strattagemmi delle tribù nemiche in conflitto, poesia da cui Cooper ha così spesso tratto partito, si poteva applicare ai più minuti dettagli della vita parigina. I passanti, i negozi, le carrozze, una figura ritta dietro una finestra, tutto ciò presentava, per gli uomini ai quali era affidata la difesa del vecchio Peyrade, lo stesso enorme interesse che nei romanzi di Cooper è annesso a un tronco d’albero, un nido di castori, una roccia, una pelle di bisonte, un canotto dell’ormeggio, un cespuglio a fior d’acqua».

  Già nel Père Goriot, Vautrin aveva rivelato a Rastignac i vantaggi che offriva una grande capitale: «Parigi è simile a una foresta del Nuovo Mondo nella quale siano in fermento venti diverse specie di popolazioni selvagge, dagli Hurons agli Illinois, che vivono sui prodotti forniti dalle differenti classi sociali ... Avrete a che fare con la città più compiacente del mondo. Se c’è un milionario macchiato di qualche infamia che gli alteri aristocratici di tutte le capitali d’Europa rifiutano di ammettere nella loro cerchia, Parigi accoglierà costui a braccia aperte, accorrerà alle sue feste, farà onore alle sue cene e brinderà alla sua infamia ...». [...].

  Il romanzo moderno, quell’affresco vasto e dettagliato a un tempo nel quale Balzac si sforza di rappresentare la complessità sociale della sua epoca, non è la continuazione di una letteratura interamente occupata a produrre descrizioni intemporali e sottoposte a mille condizioni arbitrarie e accademiche. Il suo tentativo non può nemmeno definirsi come la traduzione diretta di una realtà immediatamente presente: malgrado tutto, ha bisogno della via traversa della letteratura per esprimere l’abituale e il quotidiano. Balzac ricorre ai dati più romanzeschi, più esotici, forse i più gratuiti, per collocarli da dominatori nell’ambiente sorprendente nel quale tutti trascorrono la loro esistenza ma del quale nessuno ancora scorge la ricchezza inesauribile e la spietata intensità.

 

L’eroe ribelle e conquistatore.

 

  Il ciclo intitolato Splendeurs et misères des courtisanes non è soltanto la storia dell’ultima incarnazione di Vautrin: esso illustra, piuttosto, la sua apoteosi. Già nel Père Goriot il ritratto del personaggio era compiuto: ne mancavano soltanto le dimensioni. La morale di Vautrin era già stata formulata per intero nel discorso col quale egli tenta Rastignac. Al giovane egli aveva detto che la volontà è la condizione principale per vincere la «grande partita» che lo esorta a giocare contro tutti i suoi simili: «Badate di alzarvi ogni mattina con una volontà più forte di quella che avevate il giorno prima». Vautrin non nasconde le difficoltà che si frappongono al successo, e l’ostinazione di cui deve armarsi l’ambizione per raggiungere la mèta: «Quello di far fortuna in poco tempo è il problema che si pongono in questo momento cinquantamila giovani che si trovano tutti nelle vostre condizioni. Siete una semplice unità di questa massa. Da questa circostanza potete valutare gli sforzi che vi si richiedono e la durezza del combattimento».

  Le decisioni possibili sono soltanto due: l’accettazione supina oppure la ribellione. Vautrin ha fatto la sua scelta sotto l’influenza della lettura della Vita del Cellini. Confessa di aver imparato da essa «ad imitare la Provvidenza che ci colpisce a casaccio e ad amare la bellezza ovunque la s’incontri». Inoltre, ha riflettuto a fondo sull’attuale struttura del disordine sociale. Ha deciso di approfittarne, di mettersi al disopra di ogni cosa, anche delle leggi. Questo ribelle ci appare senza dubbio avvolto in una luce romantica, ma non è né un debole, né un sognatore, né un velleitario; non è un vinto, bensì un conquistatore. Per lui la poesia non è evasione dalla realtà, ma un invito a impadronirsene: «Sono un grande poeta. Le mie poesie non le scrivo: esse consistono in azioni e in sentimenti». Non c’è onestà di princìpi, non ci sono virtù. Ci sono soltanto avvenimenti e circostanze. Sta all’uomo superiore piegare gli uni e le altre ai propri disegni.

  Così, già fra le mura della pensione Vauquer, il vangelo della volontà di potenza si presenta chiaro e compatto. Ma l’apostolo manca di prestigio e di personalità. È un truffatore mediocre e bisognoso che si prodiga in facili giochi di parole e in scherzi grossolani; i suoi gesti e i suoi discorsi sono impregnati di una indefinibile volgarità. La sua figura grandeggia soltanto al momento del suo arresto, quando al colmo dell’ira comprende che i poliziotti non attendono che il minimo pretesto per ucciderlo. Allora si calma di botto, dando prova della «più grande potenza umana». E qui Balzac non fa risparmio di superlativi lirici né di similitudini impressionanti, come quella della goccia d’acqua fredda che in un batter d’occhio può dissolvere il «vapor fumoso» capace di sollevare intere montagne. Fa di Vautrin un simbolo, lo trasforma bruscamente nel rappresentante di tutta una nazione degenerata, di un popolo selvaggio e logico, brutale e duttile: «Nel giro di un attimo Collin divenne un poema infernale nel quale si specchiarono tutti i sentimenti umani, tranne uno: quello del pentimento. Aveva lo sguardo dell’arcangelo caduto che desidera in eterno la guerra».

  Questa trasfigurazione avviene solo nel momento in cui l’eroe sparisce dalla narrazione, pronto tuttavia a risuscitare sotto sembianze che, finalmente, saranno proporzionate al suo significato: il misterioso e potente eroe di Splendeurs et misères, colui che esercita nell’ombra un dominio occulto e illimitato. L’autore vorrebbe certificare di aver trovato nella realtà l’originale del suo personaggio, quando scrive a Hyppolite Castille: «Posso assicurarvi che il modello esiste, che è di una grandezza spaventevole e che ha avuto un posto nel mondo del nostro tempo. Quest’uomo è stato tutto quel che è Vautrin, eccettuata la passione che io gli ho attribuito». [...].

  L’imperturbabile onnisciente Vautrin, che tiene segretamente Parigi nelle sue mani, assume ormai un senso mistico. Egli esercita sulla capitale lo stesso potere fantasmagorico e clandestino che detiene la Società dei Tredici; quello stesso potere che il silenzioso Gobseck ha saputo procurarsi – sebbene in proporzioni minori – praticando l’usura, e al quale giunge Z. Marcas prima di morire sfinito e ignoto.

  Questo tema ha una funzione essenziale, come ognuno sa, nel mondo drammatico di Balzac. La grande città è un mondo ricco e denso nel quale tutte le possibilità si realizzano e le passioni si esasperano fino a raggiungere il punto di incandescenza. Nella città, anonimi demiurghi mascherati tramano senza posa macchinazioni inestricabili e decisive. Al centro di questo universo infuocato troviamo Vautrin: è la figura principale, che incarna nello stesso tempo il genio del male e il potere creatore dell’energia intelligente. Rubempré nella sua lettera d’addio classifica Vautrin tra quegli esseri eccezionali che rappresentano per la società un pericolo pari a quello di un branco di lupi sguinzagliati in piena Normandia: «Dotati di un immenso potere sulle anime docili, le attraggono e le stritolano. È uno spettacolo bello e imponente, nel suo genere. È la pianta velenosa dai colori fastosi che incanta i bimbi nel bosco ... È la poesia del male». Caino e Abele hanno lasciato ciascuno una sua discendenza, come anche Vautrin soleva ripetere. Caino rappresenta la perpetua rivolta, e Vautrin discende da Adamo attraverso questo ramo maledetto: «Tra i demoni di questa discendenza, se ne incontrano di quando in quando di terribili, che riassumono in sé tutte le forze umane e somigliano a certi ardenti animali del deserto la cui esistenza ha bisogno di quegli immensi spazi della natura».

  Ma Rubempré s’inganna; e anche Vautrin illude se stesso quando immagina di poter essere pienamente felice conducendo una vita patriarcale, vivendo a guisa di sovrano in qualche vasta proprietà degli Stati Uniti e disponendo di ogni cosa a suo capriccio. Esseri siffatti, al contrario, non possono concepirsi nella solitudine e negli spazi vuoti. Essi possono fiorire soltanto nello Stato moderno, in seno alla civiltà industriale, con le radici affondate nelle grandi città. Lo scrittore ha compreso a perfezione che non poteva collocarli altro che nel cuore di una grande capitale. Più assai che constatarli, li inventa; più che osservarli, li suppone. Pare quasi che sia obbligato a crearli per via di deduzione. E poiché di fronte al mostro occorre l’eroe che lo combatta, Balzac, nel descrivere la potenza e la complessità dell’universo cittadino tal quale si stava formando al suo tempo, fu spinto a concepire dei personaggi abbastanza sovrumani da poter vagabondare in quel tremendo labirinto senza sperdervisi, e da affrontare con qualche possibilità di successo i pericoli inediti e sempre risorgenti che pullulano in quelle vie senza uscita.

 

 

  Giovanni Calendoli, L’amarezza di Balzac addolcita dal “vaudeville”, «La Fiera letteraria», Roma, Anno XII, 19 maggio 1957, p. 8.

 

  Fra gli spettacoli del «Theâtre National Populaire», ai quali abbiamo avuto fin oggi occasione di assistere in Italia e in Francia, Le Faiseur di Honoré de Balzac, ora presentato nel Teatro Eliseo ci sembra uno dei più importanti. La regia di Jean Vilar contiene un preciso elemento di invenzione, anche se si risolve in un discutibile spostamento del tono del testo. [...].

  Honoré de Balzac, nella società del suo tempo, ha individuato con chiarezza una realtà umana, che era essenziale, poiché ancora oggi conserva intatta la sua attualità. Molte battute che Auguste Mercadet pronuncia con sussiego, che fanno parte integrante del suo codice, sembrano aggiunte a posteriori dal regista ed invece sono scritte nel testo originale, che Jean Vilar ha intelligentemente sfrondato, ma non assoggettato a mutamenti ad aggiunte: dopo un secolo esse raggiungono immutabilmente l’obiettivo in maniera diretta. Dopo Le Faiseur, che pur è stata rappresentata per la prima volta soltanto dopo la morte dello scrittore, ben poco rimane da modificare nel ritratto dello speculatore moderno: Auguste Mercadet crea società fittizie, impiega capitali in borsa nella speranza di inserirsi vantaggiosamente nelle oscillazioni dei titoli, conduce un tenore di vita fastosamente appariscente, esige che la moglie e la figlia parate con abiti lussuosi si mostrino nei locali alla moda, immagina strabilianti combinazioni di affari, combatte strenuamente con una agguerrita schiera di creditori; ma, soprattutto considera il denaro come la misura di tutte le cose e secondo questa misura considera persino gli affetti familiari.

  Il personaggio è rappresentato da Honoré de Balzac con spietata crudeltà, e con profonda amarezza; nel mostrarne i meschini risvolti e la nauseante bassezza, permeata di fanatismo, lo scrittore non ha esitazioni. Il ritratto è veramente compiuto e proprio per questo non ha nulla perduto della sua attualità. Ma, al contrario, quasi completamente fallita è l’articolazione dell’azione e degli altri personaggi intorno a questa figura centrale, se si eccettua la smagliante galleria di creditori, nel dipingere la quale Honoré de Balzac ha profuso non soltanto la sua scattante fantasia, ma anche la sua prodigiosa esperienza personale. Ognuno di questi creditori possiede una sua personalità esattamente definita e fin dalla prima apparizione mette in opera, con una orchestrazione psicologica variatissima, una maniera propria di torturare il povero Auguste Mercadet. Un’intera gamma di accenti si svolge dalla sufficiente e offensiva arroganza del proprietario Bredif alla flautata e crudele umiltà di Violette.

  Per il resto, l’azione ricade in formule convenzionali e la conclusione della vicenda, con l’insperato ritorno del fantomatico Godeau (al quale non è rimasto insensibile Samuel Beckett), riprende la sua cadenza dai ritmi consueti a Molière senza averne la forza.

  Jean Vilar, sul piano dello spettacolo, ha risolto questa carenza strutturale della commedia con un colpo d’ala: ha dato il massimo rilievo alle scene fondamentali, nelle quali la frenesia affaristica di Mercadet si esprime con colorita e turbinosa violenza, e queste scene ha collegate l’una all’altra con motivi da «vaudeville», ottimamente sostenuti dalle musiche di Maurice Jarre. In tal modo ha trasferito la tagliente amarezza della rappresentazione di Honoré de Balzac su un piano di fonia più pungente e più lieve, che maschera abilmente gli squilibri della commedia. [...].

 

 

  Giuseppe Cassieri, Balzac in Italia. Avventure e disavventure dello scrittore francese durante la sua permanenza a Torino, Milano e Venezia negli anni 1836 e 1837. Programma a cura di Giuseppe Cassieri; regia di Pietro Masserano Taricco, Terzo Programma, 4 aprile 1957; 11 e 12 Settembre 1957; 19 Dicembre 1957.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  M. Castiglione Humani, Balzac in Italia, «L’Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, N. 255, 2-3 Novembre 1957, p. 3.

 

  Vi giunge, fin sul limitare, nel 1832, ma non entra, si arresta ai confini mormorando: «Sono alle porte d’Italia, e temo di soccombere alla tentazione di entrarvi». Quale preparazione poteva vantare per la conoscenza del bel paese»? Lunghe, intense, affannose letture degli anni di formazione, i suoi inevitabili contatti colla cultura romana classica durante gli studi di legge; ma di ciò quasi nulla apparirà nella vasta opera sua, quasi che nessuna traccia avessero lanciato nel suo intelletto, che si rivelerà antitetico al classicismo. Aveva trentatré anni quando giunse alle porte d’Italia, e già la sua vita aveva fatto due esperienze; ripudiata la professione legale alla quale lo destinava il padre, tentato con costante insuccesso varie imprese che gli dessero il pane pel corpo e per lo spirito, – quale editore, stampatore, scrittore si ritrovò circa alla metà del suo cammino terrena con molti debiti e un domani incerto.

  Il futuro non sarà assai migliore: molta fatica l’attende, costante disordine e inquietudine lo terranno preda passiva, incapace di liberazione; la tempra di eccezionali possibilità andrà a poco a poco distrutta da un logorio diuturno, sottile, implacabile.

  Sarebbe dovuto scendere in Italia da Ginevra, senza mezzi economici, appoggiato a generosi amici; ma prima sollecita il consenso della madre, della sorella, quella Laura Surville che ci ha tramandato tante interessanti notizie su di lui. Il consenso non venne, che la mancanza di pecunia appariva alle due donne difficoltà insuperabile; Balzac rinuncia, e per non soffrire troppo permette a se stesso. «Ripartirò a febbraio per Napoli». Speranze e sogni gli erano necessari più del pane, le illusioni aiutano a vivere.

  Verrà la prima volta in Italia nel 1836 e 37, una rapida corsa di venti giorni, mèta Torino attraverso il Sempione: oggetto della visita una questione legale. Nulla ci dice che vide, che sentì nella affrettata visione dell’Italia piemontese, ma sappiamo che solo un anno dopo ritorna, e questa volta bene avviato alla contessa Maffei, verso il suo brillante salotto milanese. E ha un oggetto letterario l’attira, la raccolta delle notizie intorno alle guerre dei francesi in Italia; se l’oggetto è solo un pretesto giustificante la buona gita, si è certi che questa pausa giovò ai tormenti dell’animo inquieto. Ebbe liete, accoglienze dall’olimpo letterario specie femminile, fu in ogni forma onorato e plaudito, l’interesse suscitato sincero.

  Dopo un mese Balzac se ne partiva per Venezia. Pausa ancora, più ineffabile, penetrato l’artista dalla sottile malia del paese, che segnerà memorie profonde e rivivrà nelle sue pagine d’arte, solo turbata da quella penosa discussione in casa Soranzo sul capolavoro manzoniano. Il francese non è invero felice quando asserisce che nel romanzo il «tessuto è fiacco, e che debitore del buon successo alle attrattive dello stile, regge alla prova di una traduzione». Qualcuno obietta che il Grossi e il D’Azeglio hanno pure imitato Manzoni, al che Balzac ribatte imperterrito: «Appunto per ciò non volli leggere quei due romanzi». La Gazzetta di Venezia scriverà pochi giorni dopo di Balzac che era «uomo che se fosse vissuto a Sparta lo si sarebbe gettato giù dal Taigete».

  Ritroveremo l’incanto di palazzo Soranzo allo Procuratie Vecchie in Massimilla Doni, una delicata novella che concepita a Venezia e realizzato più tardi nella nostalgia dei ricordi, reca l’espressione d’una più profonda umanità, ove la poesia è sostenuta da una realtà forte.

  Tornò dopo pochi mesi in Italia, e fu arrestato a Genova dalla peste; visitava poi Firenze, seminando rancori e simpatie. Ignazio Cantù gli rimprovero d’intrattenersi soltanto «nelle sale e nei ritrovi» e trascuri di conoscere meglio il nostro paese attraverso «le pinacoteche, i gabinetti, le biblioteche», sì che «venuto a visitarci ignaro di ogni nostra cosa, ne sia ripartito ugualmente ignaro». A Genova si scrissero per lui degli epigrammi. «Balzac corre in Italia da corriere – ché correr colla peana è il suo mestiere».

  La società milanese ebbe più frequenti e lunghi contatti con Balzac che vi si intrattenne anche per la stesura dei romanzi della Commedia Umana, dove le sue maggiori creazioni sono l’espressione di una umanità umanizzata. E più profondamente si afferma là dove sa rinunciare alla vita facile, per entrare ad operare in libertà nelle più alte e disperate visioni che lo conducono per le lunghe strada del mondo.

  La contessa Maffei fu generosa di ospitalità e di amicizia, e colla squisita dolcezza della sua natura operò talvolta veri prodigi su quello spirito artigliato da contrasti e difficoltà sempre nuove; gli offrirono comprensione ammirata la Senseverino, la Bolognini, «femme très spirituelle», la Belgioioso. Eppure questa vivida corona di belle dame non gli impedisce di scrivere che le italiane hanno scarse risorse»; degli uomini non parla affatto, forse non li conobbe, o mostra di non ricordarli. Si era bene incontrato col Manzoni, ce ne informa il Cantù. «Io mi persuasi che Balzac non avesse letto i Promessi Sposi tanto ne distonavano i discorsi che tenne; non parlò che di sé, di un romanzo nuovo che scriveva, d’un commedia che farebbe furore sul teatro; dissertò su quel vago suo panteismo, né mai mostrò un’idea di reale umanità».

  Ancora questa volta la severità è eccessiva. Balzac disse che al veder Manzoni gli era parso ravvisare Chateaubriand, benché troppo dissimili i due spiriti, diverso il sentimento, opposti i valori della vita. «Il pittore di Lucia non poteva seguitare nel discorrere di donne quello in cui è concupiscenza fino l’amore di sposa»; senza intesa sulle finalità dell’arte, non si può credere al Cantù quando scrive che Balzac non conoscano i Promessi Sposi. Anche senza aderire ai principi manzoniani, il romanziere francese dove avere avuto la sensazione di quella grandezza artistica, morale, spirituale, e forse un attento esame della Commedia Umana ci potrebbe donare le prove del ricordo del celebre romanzo italiano, in alcune singolari immagini, come in talune personali espressioni.

  La prima nota di totale ammirazione la udiamo dal Balzac quando nel 1845 visita Roma in compagnia della donna del cuore. L’amore e la gloria alfine raggiunta, la tranquillità economica intravista, sono i nervi distesi per un poco in circostanze così favorevoli, che consentono allo scrittore di «vedere» bene. Scopre Roma, la sua bellezza antica, e cosa non meno grande, scopre Dante; e il principe Caetani che l’immette nella conoscenza del poema divino, e la commozione che ne seguì fu pari all’altezza del soggetto. In queste nuove disposizioni di spirito è pronto a godere di un nuovo beneficio che Roma gli offre, la visita a Gregorio XVI che lo riceve «distintamente».

  Questa volta egli considera l’Italia sotto un nuovo aspetto, la grandezza spirituale dell’Urbe lo tocca, la nobiltà degli italiani lo convince. «Questo popolo di antichi sovrani dona ancora dei re che si chiamano Canova, Rossini, Paganini». Si arresta al piano artistico, che è quello più vicino alla sua sensibilità, ma che cosa sul piano dello spirituale poteva dirgli la Roma papale, ch’egli fosse pronto ad intendere? Che gli rivelasse l’alta patria dell’anima, quel misero e quel cielo in cui l’uomo è immesso? Nei suoi primi romanzi Balzac aveva fatto professione di ateismo; più tardi gli vedremo scrivere un trattato sulla preghiera. Come si concilia l’apparente dissidio?

  Il mondo della sua creazione non è sempre disattento o lontano dai problemi dello spirito, dubitoso nella fede; vi appare sovente in sicurezza di una vita superiore, anche se la sua arte non è la guida dell’anima, non dona la sublime testimonianza di Dio. Dall’età giovanile alla maturità il suo spirito diviene par gradi più alto e più degno, fino a nutrire una feda nella divinità, attestare un credo verso la Provvidenza. Quando il Traité de la prière viene redatto ci appare un nuovo velo [?] del Balzac materialista, benché in tutto non cancelli l’antico, e la malattia venuta dal piano filosofico non sia interamente scomparsa; pure se le sue intenzioni di fede sentano l’incoerenza, e allorché vuole apparire mistico ci appaia piuttosto poeta.

  Dopo il viaggio a Roma, Balzac ha ben visto la completa bellezza del nostro paese nella natura, nel sole, nell’arte, nel mondo dello spirito. E’ preda dalla bellezza, ha sognato, perdutamente sognato di «abitare a Chiavari, acquistare un palazzo a Venezia, una casetta a Sorrento, una villa a Firenze», per seppellirsi colà «in un bel paesaggio, sotto un moggio di fiori, a fronte del bel mare, e d’una vallata che valga il mare, quale quella che si scorge da Fiesole».

  E’ la grandezza ad invertirlo, oltre la bellezza, quello cha può valutarsi obiettivamente, più di quanto non sia materia d’intuizione.

  Ma non è l’artista lo scopritore, il creatore e il custode della bellezza che Dio ha posto nelle cose?

 

 

  Emilio Cecchi, Il centenario di “Madame Bovary”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 82, 30 aprile 1957, p. 3.

 

  Le analogie tecniche di Flaubert non sono con gli inventari e gli alberi genealogici di Balzac, ma con il sistema di associazioni ed evocazioni enunciato nel famoso sonetto: Correspondances di Baudelaire, ch’è come la chiave di volta di tutta un’epoca.

 

 

  Ermanno Contini, Le prime romane. Il «T.N.P.» all’Eliseo.Le faiseur” di Balzac, «Il Messaggero di Roma», Roma, Anno 79, N. 129, 12 maggio 1957, p. 3.

 

  Il teatro fu per Balzac un amore non corrisposto. La sua sfrenata immaginazione si esaltava continuamente al pensiero dell’immediata risonanza che poteva avere una commedia e, soprattutto, del rapido accumularsi dei diritti d’autore durante le repliche. L’ambizione è il bisogno di guadagno, esasperati dall’ostilità della critica e dal disordine dispendioso della sua esistenza, gli facevano considerare l’appello diretto alle folle delle platee come una rivincita e una salvezza. Con la facilità, l’entusiasmo e la sicurezza che sempre lo sostennero, Balzac moltiplicò tentativi e progetti ricorrendo perfino all’aiuto di collaboratori ora per farsi suggerire idee, ora per essere aiutato dall’esperienza del mestiere, ora per portare a termine più in fretta una sceneggiatura. Una sera arrivò addirittura a proporre a quattro amici di scrivere durante la notte un atto ciascuno in modo da poter incassare l’indomani un provvido anticipo; e a Gautier che, sopraffatto dalla sua eloquenza, gli chiedeva la trama da svolgere ribattè irritato che se aveva bisogno del soggetto non ne sarebbero venuti fuori in tempo. Che è, come tanti altri suoi, un autentico tratto da «faiseur».

  Da quando, appena ventenne, compose un Cromwell, che fece sentenziare ad un professore amico di famiglia poter egli far tutto tranne lo scrittore, fino al successo de «La marâtre», strappato faticosamente ad uno scarso pubblico due anni prima della morte, Balzac non ebbe mai fortuna sulle scene; i tre lavori che era riuscito a stento a far rappresentare caddero malamente. E questo «Mercadet. le faiseur» che gli ha assicurato un solido. posto nella letteratura drammatica, venne rappresentato soltanto postumo nella riduzione di D’Ennery, l’autore delle Due orfanelle. La stupefacente fecondità della fantasia, la forza e l’impeto dell’inventiva, l’alacre vitalità della facondia, erano così imperiose in lui che si abbandonava al loro flusso tumultuoso, senza riuscire a frenarle. Non sapeva dominare la materia, che gli urgeva dentro, ma ne era anzi dominato con un compiacimento che era quasi ebbrezza, come, da Saint-Beuve a Croce hanno osservato quasi tutti i maggiori critici. Ciò gli impediva di scegliere, di proporzionare, di sfuggire ai pericoli di una sregolata sovrabbondanza di episodi e di sviluppi, di variazioni e di sorprese.

  Se di tale esuberanza soffrono spesso i suoi romanzi (anche i migliori, nei quali caratteri e passioni sono talvolta eccessivi e rischiosamente caricati), le opere di teatro ne restano sopraffatte. Il gusto dell’eloquenza e della battuta, il piacere dell’intrigo e delle trovate gli prendono la mano. E questo spiega, oltre ai ripetuti insuccessi, l’impossibilità di rappresentare integralmente le sue commedie piene di prolissità e di ripetizioni. Jean Vilar nel riprendere «Le faiseur», ha preferito alla classica riduzione di D’Ennery, una nuova versione da lui stesso ristretta in tre atti, la quale, senza cambiare una sola parola al testo, ne mette in evidenza sia l’ingegnosa pienezza della costruzione, sia certa sorprendente attualità. La quale non si limita alla romanzesca sfrontatezza con la quale gli affaristi e gli speculatori d’ogni tempo si difendono dalla rovina con i più spericolati espedienti; nè alle piccanti allusioni politiche che sono ancora e sempre valide; ma si estende alla rabelesiana foga con cui marca il carattere del protagonista pronto nelle più disperate situazioni a partire in quarta, ad architettare ottimistici piani, a tessere imbrogli, a costruire castelli in aria, a inebriarsi dei suoi espedienti.

  Questa caricatura del borghese arrivista e trafficante, carico di intraprendenza, avido di ricchezza, sicuro della sua industriosità della sua potenza, ha la travolgente vitalità di una forza della natura; la forza vergine della nuova società formatasi con la Rivoluzione e l’Impero, consolidatasi con la Restaurazione e destinata a dare il suo marchio al secolo. L’amore per l’iperbole, così congeniale alla natura e al genio balzachiano. si spinge un po’ troppo oltre nel colorire il disegno; ma l’intuizione che è alla base del personaggio è, come sempre, viva e pregnante. E se un residuo di meccanicità settecentesca, se un eccesso di predisposizione e di accomodante facilità, non dessero alla vicenda, specie al secondo e al terzo atto, un che di artefatto, la commedia sarebbe ancora viva ed efficiente. Fortunatamente Jean Vilar ha improntato la recitazione a un tono quasi vaudevillesco che fa accettare le forzature della vicenda e delle situazioni spremendone un umore da grande farsa classica che fa tutto accettare e tutto rende saporitamente gustoso: dai molti strattagemmi di Mercadet per fronteggiare i creditori, al mancato matrimonio d’interesse di sua figlia Julie, con un affarista più azzardoso e rovinato di lui. al provvido ritorno dall’India del socio che partendo l’aveva rovinato, alle nozze di amore di Julie col figlio naturale di costui che l’improvviso arrivo del padre fa diventare ricco e gradito.

  Jean Vilar ha sfruttato al massimo la risorse della parte dando all’eloquenza di Mercadet e alla sua gesticolazione la irresistibile tournoure (sic) con la quale i prestidigitatori presentano i loro giochi di destrezza. [...].

 

 

  Carlo Cordiè, Centenario di Honoré de Balzac, in Saggi e studi di letteratura francese, Padova, CEDAM – Casa Editrice Dott. Antonio Milani, 1957 («Pubblicazioni dell’Istituto Universitario di Magistero di Catania. Serie letteraria – Monografie», N. 4), pp. 119-130.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 575.

 

  Cfr. 1950. Oltre alle varianti formali presenti in questa versione dello studio su Balzac, trascriviamo il periodo con cui si conclude l’analisi del Cordiè inserito a integrazione del testo del 1950:

  p. 130. «Proprio per questo la definizione di «visionario», discussa in merito al Balzac dopo più di cento anni di critica, deve essere intesa nel preciso suo valore di definire quel mondo e quelle aspirazioni: per la conquista dell’arte e l’esigenza della verità».

 

 

  Carlo Cordiè, La «physiologie de la cravate», il barone de d’Empesé e l’ombra del Balzac, «Siculorum Gymnasium. Rassegna semestrale della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania», Catania, N. S., a. X, n. 2, Luglio-Dicembre 1957, pp. 238-264.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 576.

 

  Lo studio approfondisce e sviluppa quanto l’A. aveva già espresso in un contributo pubblicato nella rivista «Letteratura» del gennaio 1938.

 

 

  Carlos D’Aguila, Varietà, «La Provincia», Cremona, Anno undecimo, N. 131, 2 giugno 1957, p. 3.

 

  Ci avviciniamo ai giorni degli esami scolastici. A questo proposito, come si comportarono, sui banchi della scuola, i personaggi celebri il cui nome è passato alla storia? [...].

  Nel collegio di Vendôme Onorato de Balzac, non ha certo lasciato il ricordo di buon allievo. E con motivo. Sovente rinchiuso nella cella di punizione, egli si divertiva a onorare i muri di grafiti vendicativi.

 

 

  Sandro De Feo, Guardie e ladri, «Corriere della Sera», Milano, Anno 82, 21 febbraio 1957, p. 3.

 

  E non è un caso che Dickens. Balzac e Dostoievski siano autori, tra l’altro, di alcuni tra i più bei racconti di detection, «Il mistero di Edwin Drood», «Delitto e castigo» e tutto il grandioso ciclo di Vautrin. La Londra di Sherlok Holmes [...] era stato Dickens a evocarla, un doppione misterioso della città reale, dai contorni divorati; [...]. Lo stesso discorso, e su un piano di visionarietà ancora più deformante, vale per la Parigi di Balzac e i suoi banditi e poliziotti. [...].

  «Il meraviglioso ci avvolge e ci abbevera come l’atmosfera; ma noi non lo vediamo ... perché gli eroi dell’Iliade li abbiamo continuamente accanto, o i Vautrin, o Rastignac. o Birotteau». (Baudelaire, Salon del 1846).

 

 

  Antonietta Drago, Ispiratrici e protagoniste. A me il suo cuore, a Dio il suo genio, «Tempo», Milano, Anno XIX, N. 47, 21 Novembre 1957, pp. 53-54; 1 ill. [ritratto di Laure de Berny dipinto da Lepère].

 

  Laura de Berny si esprimeva così commentando il suo affetto per il grande scrittore francese Honoré de Balzac che, più giovane di lei di venti anni, la amò religiosamente per tutta la vita.

 

  Naturalmente è difficile, sebbene storicamente importante, stabilire in quale momento esatto avvenisse il primo incontro fra i giovani Honoré de Balzac e Laura Antonietta Hinner de Berny unica e sola sua ispiratrice. Probabilmente il fatto si produsse a Parigi, quando ancora adolescente, ragazzo ombroso e pieno di complessi, si muoveva goffamente in mezzo ai ricevimenti materni, oppure a Villeparisis, il villaggio in cui la famiglia Balzac era andata a ritirarsi dopo alcuni rovesci di fortuna e la andata in pensione del padre, che per molti anni aveva degnamente ricoperto la carica di Consigliere alla Corte reale.

  Sia a Parigi che a Villeparisis egli poteva incontrare frequentemente madame De Berny, buona amica di sua madre e madre a sua volta di ben otto figli, perché nella capitale come nella residenza di campagna di entrambe le famiglie, l’incarico di portare ambasciate, biglietti, pacchettini e commissioni, era affidato appunto a Honoré, che alla sua età poteva benissimo fare da galoppino.

  Il futuro romanziere aveva diciannove anni quando si innamorò, ed era appena tornato da un soggiorno di due anni che i genitori, assai scettici circa le sue vocazioni, gli avevano concesso di trascorrere a Parigi, in strettissima economia e dove avrebbe dovuto in men che non si dica scrivere il primo romanzo, o dramma storico a scelta, trovare un editore, diventare tutt’a un tratto celebre, ricchissimo.

  Naturalmente dovette rientrare in famiglia con il cuore attanagliato da molteplici rancori e delusioni, subire mordendo il freno i sarcasmi degli intimi, il risolino degli ignoranti, e suo padre stesso che pure era forse l’unico ad avere un briciolo di fede nelle possibilità di Honoré, esclamava sentenzioso: «Oh, i romanzi! Essi sono per i popoli d’Europa quel che l’oppio è per i cinesi!».

  In quel periodo dunque di estrema scontentezza e umiliazione, condannato suo malgrado a vivere in campagna dopo il fallimento parigino, l’amicizia di Balzac con madame de Berny aveva avuto molte occasioni per rafforzarsi. Egli si sentiva profondamente attratto dalla splendida signora di quarantatre anni compiuti e che avrebbe potuto comodamente essere sua madre, ma così viva, piena di slanci giovanili arricchiti da generosità materna, che lo commuovevano compensandolo un poco della scarsità d’affetto sempre sofferta da parte della propria madre, donna piuttosto asciutta ed egoista. Laura era ancora bella, elegante, e quando circondata dalle sue figlie, tutte in chiare vesti di villeggiatura e grandi paglie di Firenze cariche di nastri e fiori di campo, veniva a far visita ai signori Balzac, non era esagerato dire che in mezzo ad esse poteva essere confusa come un’altra sorella.

  Naturalmente, per giungere fino a lei e trovare il coraggio di confessarle i propri sentimenti, Honoré dovette superare non pochi ostacoli in se stesso, in famiglia e nella società piccolo-borghese di cui egli era un prodotto, ma era tanta la bontà di Laura, così sincero il suo interessamento ai problemi ancora ingarbugliati del giovane, così evidente e spontaneo il desiderio di aiutarlo, di tendergli la mano, che già rivelandosi, questo amore complicato di tanti sotterranei impulsi si presentava come un sentimento dei più rispettabili.

  Più le stava vicino e più sentiva la nobile natura dell’attrazione che doveva fedelmente scaldarlo e confortarlo tutta la vita, e dal suo canto Laura finì per cedere in un totale abbandono, accettare l’amore del giovane letterato, sentendo rinascere in lei sogni giovanili, sensazioni mai conosciute nonostante l’età matura e le esperienze passate. Diede anche prova di molto coraggio, affrontando una simile avventura proprio al momento in cui la maggiore delle sue figlie stava rendendola nonna.

  Era nata a Versailles il 24 maggio 1777, dal musicista tedesco Hinner, arpista della regina Maria Antonietta, e da Luisa Quelpée de Laborde, dama d’onore della sovrana medesima. Aveva così avuto il privilegio di avere un re e una regina per padrino e madrina, tenuta per procura al fonte battesimale dal duca di Richelieu e da Laura Augusta di Fitz-James, principessa di Chimay. Rimasta vedova ancor giovanissima, sua madre si ritirava a Livry e passava a seconde nozze con Francesco Régnier, cavaliere di Jarjaye, ex-aiutante maggiore generale del regio esercito e uno dei più devoti ufficiali di Maria Antonietta, che in tutti i modi, a rischio della propria vita, tentò di far evadere dalla prigione del Tempio.

  Il nome del cavaliere di Jarjaye basterebbe da solo a evocare l’atmosfera di pericolo e appassionata fede in cui si erano svolti i primi anni di Laura Hinner; tempi di fughe, cospirazioni, arresti, lacrime e sangue sparsi nelle ore più tragiche della Rivoluzione e che avrebbero necessariamente lasciata la loro impronta nervosa, eccitata, nella fanciulla che non ancora sedicenne dava però prova di buon carattere accettando di diventare la moglie del signor Gabriel de Berny, ventiquattro anni più vecchio di lei. Particolare che potrebbe spiegare ampiamente il distacco, per non dire l’indifferenza del vegliardo, che soltanto tre secoli prima avrebbe avuto il diritto di far decapitare la moglie, all’apparire di Honoré de Balzac nella vita e nella casa di Laura.

  Quando ciò avvenne, essa viveva con il marito quasi completamente cieco, afflitto dagli acciacchi dell’età avanzata, e gran parte dei suoi figli, in una grande villa posta all’estremità del villaggio di Villeparisis, fiancheggiata da una fattoria di cui sentendosi un po’ Maria Antonietta al Trianon, e del resto donna d’azione fornita di buon senso pratico, le piaceva occuparsi attivamente. Il che non le impediva di essere sempre una gran signora, una gran signora che nel giovane timido e goffo, di nascita tutt’altro che nobile, aveva indovinato a colpo d’occhio l’aristocrazia della intelligenza.

  Aveva subito capito che per prima cosa bisognava ridargli la fiducia in se stesso, e questo è uno dei meriti principali che le vanno riconosciuti, ma ben presto comprese anche di doverlo aiutare a far quattrini e questo le riuscì molto meno. Non era facile per lui, neppure seguitando a scrivere come aveva tentato di fare fino allora romanzetti d’avventure senza una vera impronta personale e a proprie spese, e allora la santa donna cominciò a compiere prodigi di amore e sacrificio, squalificandosi completamente agli occhi della società. Avrebbe potuto lasciarsi andare ormai a una vita tranquilla ed egoista nel suo angolo di provincia, scrivendo magari per il proprio diletto libri rosa per signorine come sembra le fosse passato talvolta per la mente, ma davanti al genio del suo amante non esitò a rinunciare, a dimenticare se stessa mettendosi al suo servizio.

  Si trasferì a Parigi, prendendo casa nel faubourg Saint Denis, mentre dal suo canto Honoré andava ad abitare in una cameretta in rue du Rois-Doré, aiutata dal vecchio marito che si era trascinata dietro e per la buona pace sottoscriveva a uso dell’amico di famiglia petizioni al signor ministro degli Interni, di cui data la cecità non conosceva forse neppure il contenuto, ma che sollecitavano il permesso di aprire una tipografia in rue del Marais-Saint-Germain.

  Quando finalmente l’ottennero, cominciò per gli amanti una vita di intenso quanto inebriante lavoro. Avevano immaginato di stampare edizioni di lusso di Molière e di La Fontaine, le quali avrebbero dovuto dare un gran margine di guadagno e che invece, alla resa dei conti, si rivelò un pessimo affare, per la mancanza di esperienza degli editori improvvisati che non avevano la minima idea di come si stampa, si lancia e si vende un libro.

  Allora, sempre con il consenso del marito il quale domandava solo di essere lasciato in pace, Laura de Berny cercò di salvare dalla rovina finanziaria il giovane amico che aveva preso a proteggere con tutta l’anima e avrebbe abbandonato solo davanti alla soglia del successo; e con regolare contratto, il 3 febbraio 1828 diventava sua socia apportando i capitali necessari. Inutile sacrificio, sembra, se appena due mesi dopo bisogna chiudere bottega, ricorrere a una frettolosa liquidazione, che a Honoré de Balzac lasciava personalmente un passivo di novantamila franchi, incubo e tortura fino all’ora della morte.

  Il disastro li travolse ambedue, tuttavia ognuno dal suo canto, e mentre Laura insieme al marito ormai rimbambito andava a stabilirsi a Versailles presso la figlia sposata, Honoré dopo aver firmato rinunce, procure e averla abbracciata ancora una volta, si recava a Fougères, ospite del generale barone de Pommereul, vecchio amico di suo padre, presso il quale cominciò a scrivere Le dernier chouan il romanzo storico destinato a socchiudergli finalmente le porte del successo.

  Occorre aggiungere che nè lui abbandonò mai Laura nè Laura lo abbandonò mai? Il loro amore aveva trovato il suo nido nelle alte regioni dello spirito e dell’anima, perciò sostenuto, guidato a distanza e per corrispondenza da colei ch’egli seguitava a chiamare la sua Diletta. Balzac fece il suo ingresso nella società, ebbe i primi amici influenti; conoscenze e relazioni di una certa importanza per chi come lui voleva tutto dalla vita, denaro, amore, gloria. Per mezzo di Laura sempre dietro le quinte divenne frequentatore assiduo del salotto di Sofia Gay, dove conobbe Lamartine, Latouche, Filarete Chasles e Girardin, personaggi che con il loro prestigio lo sostennero e aiutarono sempre, strinse una lunga tenera amicizia che non fece molto piacere a Laura con la duchessa d’Abrantès, diede inizio al romanzo epistolare quanto platonico con la bella signora Zulma Carraud.

  Riceveva ormai lettere d’amore da ignote ammiratrici, che a un certo momento potevano rivelarsi magari delle contesse polacche, e le avventure non gli mancarono, per la fama di grande amatore ch’era riuscito a fabbricarsi soprattutto sulla carta stampata, e sebbene il suo fisico fosse ancor meno prestante di quello che Rodin doveva eternare nel “sacco di farina”. Ma nè il carteggio e l’amore infelice quanto effimero con la duchessa di Castries, nè i diciassette anni di amore per corrispondenza con madame Hanska, riuscirono mai a sciogliere i legami che lo tenevano avvinto fin dalla nascita a Laura de Berny l’amante-madre.

  Nessun’altra ebbe mai come lei il privilegio di leggere per prima i suoi manoscritti, di esprimere senza paura giudizi al riguardo indicandogli con sicura autorità i punti meno felici perché li rivedesse, e sempre era lei a correggere le bozze di stampa, a seguire attentamente, attivamente, ogni opera una volta lanciata in pasto alla critica, al pubblico, preoccupandosi della sua sorte, soffrendo o viceversa andando in delirio quasi si fosse trattato di un parto del proprio genio, per ogni insuccesso o trionfo di Honoré de Balzac.

  Già nella Fisiologia del matrimonio aveva cercato di analizzare, crudelmente talvolta, il tormento di un uomo giovane, appassionato, condannato ad assistere un giorno dopo l’altro al declino, alla rovina di una donna amata che inesorabilmente invecchia sotto i suoi occhi, viceversa il tormento della donna che si sente imbruttire e invecchiare sotto gli occhi di un amante ancor giovane. Laura però non era una sciocca, aveva saputo quel che faceva, quel che sarebbe fatalmente accaduto e quel che poteva aspettarsi, e saggiamente senza aspettare le umiliazioni era riuscita a staccarsi da lui al momento giusto, non un minuto prima nè dopo, situandosi al disopra della gelosia e dei rimpianti, rimanendo così l’unica a dominare la sua vita spirituale, lasciandogli il più dolce dei ricordi.

  Più tardi, Laura de Berny, rimasta vedova immaginiamo, ebbe a compiere alcune migrazioni, trasportandosi da Versailles e Villeparisis a Saint-Rémy sur l’Oise dove possedeva qualche terreno. Era gravemente malata e i suoi ultimi anni erano stati funestati come per un castigo di Dio dalle più atroci sciagure che possono colpire un cuore di madre. Armando il figlio prediletto, un ragazzo di venti anni, era morto tubercolotico, così come di tubercolosi si era spenta a diciannove anni Alessandrina. Una vera ecatombe, complicata dalla lunga, misteriosa e perciò incurabile malattia che aveva reso l’ombra di se stessa Maria Teresa, mentre Agostina impazziva e non vi era altro rimedio che mandarla in manicomio. Disperate (sic), la povera Niobe si rifugiava allora presso il superstite Luigi, il figlio maggiore abitante a Nemours, e qui Honoré andava spesso in triste pellegrinaggio a portarle il conforto della sua vista: «Non venire», lo supplicava in strane resipiscenze di civetteria, «faccio spavento, aspetta almeno che mi ritorni un’illusione di salute!».

  Nei rari momenti di pace, leggevano ancora insieme come ai bei tempi qualche libro, commentarono per esempio Voluttà di Sainte-Beuve, e press’a poco a quel tempo Balzac portava a compimento il romanzo di cui da moltissimi anni aveva accarezzata l’idea, Le lys dans la vallée, interamente dedicato a Laura che gli aveva ispirato la figura di madame de Mortsauf la protagonista. Come sfondo Balzac si era servito dell’amena vallata in cui scorre il fiume Indre e il villaggio di Saché, un angolo tranquillo che entrambi conoscevano benissimo, un paradiso terrestre senza peccato, dove aveva saputo risuscitare gli echi della prima sua ubriacatura d’amore, dei primi accenti della sua anima, l’immagine infine della bellezza già matura, in equilibrio sul filo di un radioso tramonto, di Laura de Berny, così come gli era apparsa nei giorni di Villeparisis quando era riuscito a piegarla al suo amore.

  Poco tempo dopo, nel luglio 1836, a 59 anni. Laura Antonietta Hinner de Berny moriva in seguito ad aneurisma. Assolutamente disperato, non sapendo a chi ricorrere per essere consolato del grande amore che perdeva se non alla donna che presentemente giurava di amare al disopra di tutto, si rivolgeva alla contessa Hanska: «La celeste creatura», scriveva fra le lacrime, «di cui madame De Mortsauf è solo una pallida copia, mi incuteva rispetto assai più di un pubblico intero, perché era sincera e voleva soltanto il mio bene, la mia perfezione. Vi nomino sua erede ...».

  Ma del patrimonio spirituale e sentimentale di Laura, nè la contessa polacca, nè altra creatura al mondo poteva essere la degna crede, nessuno avrebbe mai potuto sostituire la preziosa, la rara donna sempre pronta, vigile, necessaria com’era stata regnando nel cuore e nella vita del romanziere.

 

 

  Marise Ferro, Una cortigiana inventata, «Stampa Sera», Torino, Anno XI, Numero 285, 2-3 Dicembre 1957, p. 3.

 

  A volte si impara molto di più da un’invenzione che dalla realtà e dall’esperienza. Dico questo perché sto traducendo il libro di Balzac Splendeurs et misères des courtisanes e ricevo una lezione di vita che, se sono intelligente, potrà servirmi per sempre. Col naso su pagine a volte disordinate, dove si sente già l’incrinatura che la malattia e i terribili viaggi imposti dalla riluttante madame Hanska fecero sul cervello dello scrittore (Splendeurs et misères des courtisanes è stato finito nel 1847, tre anni prima della sua morte), una volta di più devo riconoscere che solo lo scrittore di genio riesce a cogliere forme imperiture dell’animo umano. Sono su pagine di Balzac, va bene, il nome dice tutto, ma se fossi alle prese con la traduzione di Proust quando parla di Odette Swann o di Dostojewski (per assurdo, perché non so una parola di russo) quando parla di Sonia o di Grusegnenka, sarebbe lo stesso, imparerei le medesime cose. La cortigiana mi è rivelata dall’invenzione — che si dovrebbe chiamare veggenza — dello scrittore di genio. Mi fermo, poiché in questi giorni la tratto, vivo con essa come se fosse di carne e di ossa, alla Esther descritta in Splendeurs et misères des courtisanes.

  Esther, più di lady Roxana, più di Moll Flanders, più di Odette Swann, più di Manon potrebbe essere la cortigiana tipo. Figlia di una bellissima olandese ebrea e di poca, virtù, figlia di un usuraio, Esther rimasta sola, senza istruzione, senza educazione all’infuori di quella ricevuta per la strada, cadde nella prostituzione per vivere. Era bellissima e intelligente, in poco tempo riuscì a diventare una cortigiana alla moda, ricercata, ricca e conosciuta nell’ambiente della Parigi gaudente del tempo. Aveva le qualità delle donne della sua classe portate al massimo grado; il grado in cui, se l’anima prevale, la cortigiana può arrivare alla redenzione; se prevale la mente la cortigiana può arrivare alla vendetta sociale, cioè alla ricchezza, a una posizione di primo piano e rispettabile, alla vera emancipazione dalle regole, le ipocrisie, i conformismi che intruppano gli uomini mediocri Era generosa, buona, sincera, intelligente; sapeva ridere e parlare; sapeva vestirsi e spendere il denaro; sapeva tacere; sapeva riconoscere a prima vista, nell’uomo, il difetto o il vizio da sfruttare. Era, insomma, una cortigiana affascinante e acuta.

  Ma doveva incontrare, nella sua breve vita, oltre all’amore il male, il male nel suo assoluto e nella sua orribile potenza L’amore era incarnato da Lucien de Rubempré, poeta e bel giovane, squattrinato e debole di carattere, ambizioso ma inconseguente e senza la freddezza necessaria per arrivare ad appagare le sue ambizioni. Il male era incarnato da Jacques Collins, alias Vautrin, alias Trompe-la-Mort, uno dei personaggi più grossi della letteratura, cardine della legge che vuole, una società costituita e ordinata, il suo opposto, il sovvertitore, il ribelle. Vautrin era l’opposizione in tutte le sue forme il vizio in tutta la sua grandezza, il male in tutto il suo infinito. Vedere Esther innamorata di Lucien de Rubempré, il giovane che aveva salvato dal suicidio e che amava più di un figlio, e immaginare un piano grandioso attraverso il quale sfruttando da par suo la cortigiana, e le sue qualità di cortigiana, arrivasse a dare a Lucien, ch’era povero, onore, ricchezza fama, lustro e posizione sociale, fu tutt’uno.

  Vautrin, sotto la veste del prete spagnolo don Carlos Herrera, mosse alla conquista della cortigiana. Vi riuscì. La tolse dal vizio, la mise in un collegio signorile, le fece dare una educazione, belle maniere quando la vide perfetta la portò a Lucien. I due giovani si amarono senza ritegni. Ma ...

  Uno scrittore come Balzac non può mai sbagliare psicologicamente e fare, come Alessandro Dumas figlio con La Dame aux camélias, di una cortigiana una donna innamorata con purezza sublime. La povera Esther purificata per volontà di un despota e per amore, man mano sentiva la sua anima diventare pura, sentiva il suo corpo deperire. Il suo corpo non poteva vivere senza il disordine, la varietà, i pranzi succulenti miseri fatti a tutte le ore della notte, i sonni diurni, le orge, desiderio del maschio, la sensazione d’essere, bella e ingannevole come la fiamma, ad ogni ora del giorno e della notte preda di una forma di vita che brucia tutti i pensieri. Il bianco, il semplice, il pulito — l’innocenza e la vita onesta, insomma — la uccidevano.

  Vautrin, per non vedere Esther disincarnarsi e diventare stupida, dovette modificare i suoi piani. Disse alla ex-cortigiana: «Vivrai di nuovo da cortigiana, ma la tua vita impura, così come avrei voluto compierlo attraverso la tua vita pura, salverà Lucien». E riportò la bellissima ebrea nel vizio, la costrinse a vivere come viveva prima del tentativo di redenzione. Per portare denaro nelle tasche di Lucien de Rubempré (ignaro, bene inteso) la costrinse a depredare garbatamente il banchiere e barone de Nucingen, il Lupo Cerviero.

  Non mi dilungherò a parlare del Lupo Cerviero e dei suoi rapporti con Esther, che amava. Mi sarebbe difficile riportare il sapore, l’incisività, la cattiveria dei dialoghi tra la cortigiana e il vecchio banchiere innamorato. Dirò soltanto che Esther fece il suo mestiere e lo fece bene, ma non bene fino in fondo perché amava Lucien. Era pronta sacrificare se stessa, ma voleva una ricompensa, voleva la stima dell’uomo che amava anche se viveva da cortigiana. Vautrin la bollò con queste parole: «Mia cara, ho cercato di metterti sulla via del Cielo, ma la cortigiana pentita sarà sempre una mistificazione, anche per la Chiesa; e se mai ve ne fosse una ritornerebbe cortigiana in paradiso. Tu sei nata cortigiana, vivrai cortigiana, morirai cortigiana poiché, nonostante le seducenti teorie degli allevatori di bestie, non si può diventare, in questo basso mondo, che ciò che si è. L’amore di una cortigiana dovrebbe essere, come in tutte le creature degradate, un mezzo per diventare madre; tu, invece, ami da femmina ...». Esther, nonostante tutta la sua buona volontà, non riuscì, pure amando, né a salvare se stessa né a salvare Lucien de Rubempré. Incapace d’essere, come giustamente dice Balzac, madre, non potè arrivare all’atto di disinteresse totale in favore di un altro, anche amato, e le riuscì meglio il suicidio, cioè la fuga.

  Traducendo parola per parola un libro si entra nell’anima quasi, dello scrittore che si traduce. E’ una violazione, certo, ma d’ordine superiore. Se colgo stanchezza, la caduta dello stile di Balzac, da quali illuminazioni sonò ricompensata! Il personaggio che a poco a poco scopro mi si rivela forse meglio che all’autore stesso che lo inventò perché è fuori della fatica d’ogni germinazione, intero, rappresentato, vivo. Così pure non avendo mai conosciuto di persona cortigiane, attraverso Esther Gobseck posso dire di sapere come sono; così imparo (ma lo sapevo, lo sapevo!) che non vi può essere creazione o verità se non fatta o scoperta da un uomo di genio.

 

 

  Marise Ferro, Case di carta, «Stampa Sera», Torino, Anno XI, Numero 297, 16-17 Dicembre 1957, p. 3.

 

  [...]. Una descrizione mi è rimasta impressa e vale la pena ch’io la riporti; è la descrizione del salotto della Fille aux yeux d’or, Paquita, la protagonista della famosa novella di Balzac, quell’essere ambiguo a cui il romanziere diede un’anima misteriosa. Il salotto dovrebbe rappresentarne appunto l’ambiguità. «La metà della stanza formava una linea circolare mollemente aggraziata, che si opponeva all’altra metà del tutto quadrata e in mezzo alla quale brillava un camino di marmo bianco e oro. La parete circolare era ammobiliata da un divano turco, cioè un materasso posto sul pavimento, grande come un letto, in cascemir bianco rialzato da cordoni di seta nera e scarlatta disposti in losanghe. Lo schienale di quell’immenso divano si alzava parecchi pollici più alto dei molti cuscini che l’arricchivano. L’intera stanza era tappezzata di una stoffa rossa sulla quale era drappeggiata una mussola delle Indie che ricordava, per la disposizione ad arricciature alternativamente concave e convesse, una colonna corinzia; questa tappezzeria era fermata in alto come in basso da una banda di stoffa scarlatta sulla quale correvano arabeschi neri. Sotto la mussola il rosso diveniva rosa, colore amoroso; e tale colore era ripetuto nelle tende della finestra formate da una mussola delle Indie foderata di taffetà rosa e ornata di frangie nere e scarlatte. Sei doppieri dorati contenenti ognuno una candela erano appesi lungo le pareti a regolare distanza per illuminare il letto; dal soffitto bianco pendeva un lume d’oro. I mobili erano ricoperti di cascemir bianco ornato di arabeschi neri e scarlatti. La pendola, i candelabri del camino erano in marmo bianco e oro. E vasi elegantissimi contenevano rose di tutte le varietà, fiori bianchi o vermigli ...».

  L’oro, il nero, il bianco e il rosso compongono i colori di questa stanza dove l’amore sarà mortale. Il sangue della ragazza dagli occhi d’oro macchierà le pareti di mussola e il divano di cascimir bianco. Balzac, che amava i colori e che dava loro dei simboli, nella fusione del rosso, del bianco e dell’oro voleva designare le passioni delle sue eroine: l’odio, l’amore e l’avidità. Bel decoro, romanzesco oltre ogni dire, che, pure, Balzac aveva rifatto uguale nel suo salotto di via Cassini. Oggi solo la fantasia lo accetta, ma per questo rimane vivo. [...].

 

 

  Nino Franck, Jacques Hillairet chi è? Sa tutto di Parigi, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XIII, 16-17 gennaio 1957, p. 3.

 

  Ovest. - Cambiamo epoca. Hillairet mi conduce nella provinciale, nella spaesante Rue Berton, in pieno quartiere ormai aristocratico e dovizioso: a Passy, nella casa di Balzac divenuta museo. Ma quello che più dei cimeli istruisce sullo scrittore è la struttura della casa, con due entrate, una principale e aulica, al terzo piano, sulla Rue Raynouard, l’altra meschina, a pianterreno, nella Rue Berton. Installazione tattica dell’uomo di genio, sempre in lotta con i creditori: annunziati questi a un’entrata, Balzac subito sgattaiolava via, per l’altro uscio.

 

 

  Giuliano Gramigna, Promettente puntata di «Lascia o raddoppia». Anche questa sera due finalisti: si parla di Napoleone e di sci, «Corriere della Sera», Milano, Anno 82, 14 marzo 1957, p. 6.

 

  Man mano che il tempo passa e la nostra esperienza di spettatori-cronisti di «Lascia o raddoppia» si fa più ampia e soda, cresce la curiosità di scoprire i piccoli segreti, i «ressorts» di quel giocattolo un poco mostruoso che è il telequiz. Balzac attraversò di corsa Parigi per andare ad annunziare alla sorella che aveva avuto d’un tratto, davanti alla mente, la visione del piano completo della «Comédie humaine»; le sorprese che può riservarci la piccola «comédie» del giovedì sera sono molto meno grandiose e del resto le nostre pretese più modeste.

 

 

  Giuliano Gramigna, Stasera a «Lascia o raddoppia». Tenta per i 5 milioni l’allegro studente nigeriano, «Corriere della Sera», Milano, Anno 82, 31 ottobre 1957, p. 10.

 

  Balzac potrebbe dire che «Lascia o raddoppia» lo imita, o meglio imita il procedimento tipico del romanzo: dalla folla astratta e inanimata degli appassionati di tutta Italia, la TV pesca via via di giovedì in giovedì tre o quattro personaggi che diremo rappresentativi per certi caratteri più accesi, curiosi, bizzarri: fra costoro, poi, quando è fortuna (momento che, nel campo della creazione romanzesca, corrisponde al massimo di invenzione poetica dello scrittore), riesce a fissare addirittura un tipo, in cui con evidenza davvero esemplare si incarnano i segni di una passione, di una inclinazione umana, di una natura. Questi personaggi tipici, che non sono poi molti, il telespettatore che abbia assistito alle cento trasmissioni del quiz finisce per vederli spiccare, contro lo sfondo grigio e ormai sbiadito di decine e decine di serate, allo stesso modo che, (se è lecito fare il paragone), dalle nebbie un poco vaghe e incerte delle letture escono fuori con vivacità inequivocabile, poniamo, Pickwick o Fabrizio Del Dongo, Goriot o Don Abbondio, Sancio o Mastro don Gesualdo.

  Balzac appunto ci ha lasciato la sua galleria di tipi eterni: il Padre, il Soldato, l’Avaro, il Forzato, il Giovane inventore ecc.; più modestamente, ma con tipizzazione non meno energica, lavorando su materiale umano anziché di fantasia, «Lascia o raddoppia» ci ha dato la Ragazza Bionda, con Paola Bolognani, l’Entusiasta con il maestro Buronzi, la Vecchia Signora, il Contadino-poeta, lo Snob e così via (citiamo le prime immagini che ci vengono alla memoria).

 

 

  Victor Hugo, Le Cose Viste. La morte di Balzac, «Storia illustrata. Rivista mensile», Milano, Anno I, N° 1, Dicembre 1957, pp. 63-65; 2 ill.

 

  In una potente e bella testimonianza, la scena grandiosa: solitario, alla luce di un candeliere, si spegne il creatore della “Commedia Umana”.

 

  All’interno della traduzione del celebre articolo di V. Hugo sulla morte e sui funerali di Balzac, è presente, a p. 64, questa breve nota biografica: Fu sommerso dai debiti.

  Honoré Balzac (dopo il 1830 firmò sempre De Balzac) nacque a Tours il 20 maggio 1799. Diciassettenne lavorò presso un avvocato e un notaio, dopo aver iniziato studi di giurisprudenza. Fece l’editore accumulando una tale quantità di debiti che dovette lavorare tutta la vita come scrittore per tentar di sanarli. I suoi romanzi più famosi – Eugenia Grandet, Papà Goriot, Onorina, Il cugino Pons – fanno parte del ciclo della Commedia Umana. In gioventù amò la signora de Berny. Nutrì poi una grande passione, per un’aristocratica polacca, la contessa Hanska, che sposò cinque mesi prima di morire.

 

 

  Marina di Juvalta, Introduzione, in Honoré de Balzac, Papà Goriot ... cit., pp. 5-9.

 

  Non a torto è stato detto da un grande scrittore francese contemporaneo, che Le père Goriot rappresenta la porta, attraverso la quale conviene penetrare nell’immenso mondo di quell’opera immortale, che Balzac chiamò a buon diritto «Comédie Humaine».

  Non già che questo romanzo domini l’opera di lui, nè raggiunga la perfezione, ma esso si può paragonare ad un crocicchio, da cui si diramano le grandi strade che egli tracciò nel fitto della sua «forêt d’hommes».

  La Casa Vauquer, in cui l’Autore ci introduce fin dalle prime pagine, dal cui odore di muffa e di stantìo ci sentiamo impregnati e, direi quasi ossessionati, quella camera da pranzo nauseabonda, con la scatola a compartimenti numerati, dove i pensionanti tengono i loro tovaglioli macchiati, è il punto di partenza da cui spiccano il volo i personaggi balzachiani, i cui destini formano i fili che s’intersecano nella trama della «Comédie Humaine».

  Troppo vi sarebbe da dire, e sarebbe del resto impresa da «far tremar le vene e i polsi», accingersi a parlare dell’immensa opera di Balzac in una breve introduzione, quando non sono bastati volumi e volumi a dare un’idea esatta delle proporzioni gigantesche di questo genio, la cui creazione è stata inesauribile e travolgente.

  Per conoscere Le père Goriot che non è forse il più noto fra i suoi libri, ma che, malgrado i difetti di cui lo tacciano i critici, rimane pertanto uno dei suoi capolavori, vuol dire farlo amare, vuol dire affezionarsi ai suoi personaggi, ai loro vizi, alle loro passioni, fino a soffrire con loro, come sofferse Balzac nel crearli e nel farli soffrire.

  Delle due figlie di papà Goriot, una, Delfina, moglie del banchiere Nucingen, ci introduce nel mondo della finanza, l’altra, Anastasia, contessa di Restaud, ci spalanca le porte del «Faubourg Saint-Germain» centro della nobiltà parigina, in cui il giovane Eugenio de Rastignac vuol penetrare, a costo di compromettere la sua coscienza.

  Bianchon, il grande medico della «Comédie Humaine» che, secondo la leggenda, Balzac invocò durante la sua terribile agonia, ci è presentato qui ancora alle prese coi suoi studi e con le sue preoccupazioni per sbarcare il lunario.

  Vautrin, il forzato evaso, brutale e senza scrupoli, è forse il personaggio più vivo in contrasto con la figura centrale di «papà Goriot», simbolo dell’amore paterno spinto quasi fino alla follìa, figura che Balzac ha reso leggendaria e immortale.

  Tutti, anche i personaggi secondari che si muovono in questo ambiente corrotto e tarato, sono descritti con tanta vivezza di immagini, da suscitare in noi impressioni indimenticabili.

  Dalla signora Vauquer, padrona della «Pensione Vauquer», donna avida e senza cuore, alla signorina Michonneau, che, per tremila franchi, tradisce Vautrin consegnandolo nelle mani della polizia, tutti hanno una personalità così spiccata e reale, che ci pare di vederli, di ascoltare le loro parole, e di sentire le loro passioni.

  Se la figura di «papà Goriot» ci appare dapprima scialba e a volte irritante nella sua mansuetudine, e in quel suo umiliarsi e annullarsi di fronte all’egoismo delle figlie, essa si fa man mano sempre più luminosa, fino ad assurgere ad una grandiosa sublimità, dinnanzi alla quale ci inchiniamo intimiditi e reverenti.

  Nelle ingenue e incoerenti frasi del suo vaneggiamento, quando il suo cervello ha ricevuto il colpo mortale che le figlie, nel loro spaventoso egoismo, gli hanno inferto, trapela una tale profondità di amore e di dedizione, che ci sentiamo stringere da un nodo alla gola, e vorremmo con tutto il cuore poter lenire il suo tremendo martirio.

  Balzac, con la sua prodigiosa facoltà di immedesimarsi nel personaggio da lui creato, «de se dedoubler» quando descrive la morte di «papà Goriot» sa suscitare dentro di sè una così allucinante atmosfera, che egli, mentre fuori imperversa la tempesta con tuoni e lampi, rovesciato sui cuscini del suo letto, soffre come se fosse realmente papà Goriot, geme e si lamenta, e crede di vedere, vicino a sé, Bianchon e Rastignac che cercano di calmarlo. E in preda a questa allucinazione, riprende la penna, e scrive così in fretta, per non turbare l’ispirazione, che segna solo le prime lettere di ogni parola. Scrive tutta la notte fino al mattino inoltrato, e quando ha finito il suo capolavoro, la camera è in un disordine spaventoso: le coperte del letto in mezzo alla camera, il calamaio sul piattino di una tazza, la tazza sulla sedia, fogli di carta dappertutto: l’ultima pagina di Papà Goriot con l’ultima frase recante la data


«Saché, settembre 1834»

 

  è rimasta posata sul letto: un letto che non è più quello del romanziere Balzac, ma quello dell’agonizzante Goriot.

  La descrizione delle esequie di «papà Goriot» nel finale dell’ultimo capitolo, è, nel suo malinconico squallore, estremamente patetico: Eugenio de Rastignac segue il convoglio con i domestici che le figlie, nella loro spaventosa aridità di cuore, hanno mandato con le loro carrozze stemmate; e dopo la preghiera dei defunti, recitata frettolosamente dal prete, egli si trova solo, vicino a quella misera tomba «où il ensevelit sa dernière larme de jeune homme» e, dominando con lo sguardo, dall’alto del cimitero di «Père Lachaise» quel «faubourg» inaccessibile che regna fra la colonna di Vendôme e il «Dôme des lnvalides», lancia a Parigi la sua sfida, con la famosa frase: «A nous deux maintenant», che rivela una travolgente piena di amarezza, di disinganno, di rancore e di vendetta contro quel mondo senza anima: ma per potervi penetrare, egli dovrà prima rinunciare alla sua.

  Romanzo indimenticabile, che ci fa maggiormente sentire il desiderio di una conoscenza più ampia e più profonda di tutte le opere che compongono l’immortale «Comédie Humaine».

 

Nota bio-bibliografica.

 

  Honoré de Balzac nacque a Tours il 20 maggio 1799. Dopo aver trascorso alcuni anni in un collegio religioso senza dar prova alcuna del suo ingegno, venne iscritto, nel 1816, alla Sorbonne affinché vi seguisse gli studi notarili. Ma non potè mai seguire la sua vera inclinazione: quella dello scrittore. Dopo alcuni insuccessi letterari accompagnati da disastri finanziari per cervellotiche speculazioni — speculazioni alle quali ricorrerà sempre, e con poca fortuna, nel corso della sua vita — riuscì ad affermarsi come narratore.

  Ebbe numerose amicizie: l’Hugo, il Gauthier (sic), George Sand; non poche relazioni amorose, fra le quali caratteristica e significativa quella per la nobile polacca Madame Hanska che conobbe personalmente soltanto dopo un lungo scambio epistolare e sposò nel marzo del 1850. Morì il 18 agosto dello stesso anno.

  Vastissima è la sua produzione letteraria. Le opere raccolte sotto il titolo di Comédie humaine comprendono 40 volumi; 10 volumi sono dedicati ai Contes drolatiques.

  Fra i romanzi ricordiamo appena: Le curé de Tours; La peau de chagrin; Luis (sic) Lambert; Eugénie Grandet; Le médecin de campagne; Le Père Goriot.

  Bibliografia: Oeuvres, a cura del Bouteron e del Longuon (sic), in 40 volumi, 1911-40; A. Le Breon (sic), Balzac, l’homme et l'oeuvre, 1905; A. Bellessort, Balzac et son oeuvre, 1925; E. R. Curtius, Balzac, 1933 (traduzione francese dell’opera tedesca); P. (sic) G. Gigli, Balzac in Italia, 1920; P. Arcari, Balzac, 1934.

 

 

  Arturo Lancellotti, Balzac era geloso del grande successo di Sue, «Stampa Sera», Torino, Anno XI, Numero 153, 28-29 Giugno 1957, p. 3.

 

  Così I Misteri di Parigi riempirono dieci volumi invece dei due stabiliti. Intanto, il direttore del giornale, per acuire la curiosità del pubblico, ogni tanto lasciava passare due o tre giorni senza pubblicare l’appendice, perché — diceva — Sue era malato. E allora giungevano a lui lettere da tutte le parti, augurandogli una pronta guarigione. Qualche volta poi era proprio Sue a sospendere l’invio delle cartelle perché, scrivendo giorno per giorno, si trovava dinanzi a situazioni complicate che non riusciva a risolvere. Allora diceva: — Se i miei personaggi fossero creature viventi, dovrebbero uscire in qualche modo da questo ingranaggio. Dunque una soluzione ci dive essere. E finiva col trovarla. I 300.000 franchi da lui guadagnati per questo romanzo turbavano i sonni di Balzac, geloso di tanto successo.



  Luigi Magnotti, Balzac, in Le Soleil. Livre de lecture, littérature et conversation française à l’usage des écoles moyennes supérieures en conformité des derniers programmes, Napoli, Morano Editore, 1957, pp. 47-48.

 

  Balzac (Honoré de) né à Tours (ancienne capitale de la Touraine) en 1799 est le chef de l’école réaliste. Il commença ses études au collège de Vendôme et les acheva à Paris. Ses parents le voulaient notaire, mais il se sentait poussé vers la littérature. Pour gagner de l’argent il s’associa avec un imprimeur et se lança dans plusieurs entreprises commerciales, mais les affaires n’allaient pas bien. Pour payer ses dettes et pour vivre il se mit à travailler avec ardeur et constance.

  Il composa en vingt ans (1829-1850) quatre-vingt-seize romans ou nouvelles qu’il groupa sous le litre (sic) de Comédie humaine [il corsivo, qui e in seguito, è nostro]. «Tous ces livres -— a dit V. Hugo — ne forment qu’un livre, livre vivant, lumineux, profond, où l’on voit aller et venir et marcher et se mouvoir, avec je ne sais quoi d’effaré et de terrible mêlé au réel, toute notre civilisation contemporaine».

  La Comédie humaine est une oeuvre gigantesque où Balzac a peint, d’une manière admirable, des scènes de la vie de province, des scènes de la vie de Paris, des scènes de la vie politique, des scènes de la vie militaire, etc.

  Balzac a peint dans cet ouvrage plus de cinq mille personnages.

  Voici les principaux romans qui composent la Comédie humaine dans lesquels domine toujours une idée philosophique. Scènes de la vie privée: La Femme de trente ans, Modeste Mignon, Béatrix, Le colonel Chabert, Le père Goriot.

  Scènes de la vie de province: Eugène (sic) Grandet, Le lys dans la vallée, Les illusions perdues (sic), etc.

  Scènes de la vie parisienne: César Birotteau, La cousine Bette, Le cousin Pons, etc.

  Scènes de la vie militaire: Les Chouans.

  Scènes de la vie politique: Une ténébreuse affaire.

  Scènes de la vie de campagne: Le Curée de village, Le médecin de campagne etc.

  «C’est lui — dit Zola — qui a écrasé la littérature idéaliste et menteuse, c’est lui qui a assigné au roman la mission de peindre la société contemporaine, sans souci de moralité ni de beauté».

 

  Conversation.

 

  — Où est né Balzac? — A quelle école appartient-il? Où fit-il ses études? — Quelle était sa vocation? — Pour gagner de l’argent que fit-il? — Qu’est-ce qu’il a écrit? — Qu’est-ce que (sic) domine dans ses romans?

 

 

  Clotilde Marghieri, La signora Carraud, «La Nazione», Firenze, 28 dicembre 1957, p. 3.

 

  I fedeli di Balzac saranno contenti: sta per apparire una ristampa della corrispondenza completa di Balzac e della sua fedele amica Zulma Carraud, quella che le «Lettres à l’Etrangère» e la corrispondenza generale ci avevano solo fatto intravedere, lasciandoci a mezza strada di una affettuosa curiosità.

  E’ a lei che Balzac aveva dedicato «La Maison Nucingen», con queste, tra le altre, lusinghiere parole: «Vous, qui êtes pour moi tout un public à la fois éclairci, judicieux et indulgent». Grande omaggio, da uno scrittore e di quelle proporzioni, sentirsi insignita dal negletto, e pur così essenziale, compito di intelligente «lettrice!». Nella sua remota e modesta provincia, la signora Carraud dovette constatare, con commossa felicità, che può anche accadere che gli umili siano esaltati.

  Ma chi era questa Zulma Carraud, dal nome pretenzioso: Zulma? Un nome che sa di avventure procellose, richiama estrose immagini di alcove e di scimitarre. E invece niente di tutto questo. Madame Carraud era una donna alla buona, cordiale, dotata di viva intelligenza e di interesse per le cose dello spirito; piena di buon senso ma a questo aggiungeva quel tale granello di pepe con cui condire di impertinenza i più saggi consigli per renderli amabili oltre che preziosi. Ed era virtuosa, se Dio vuole, senza saperlo!

  Zulma Tourangin era stata amica di collegio di Laura di Balzac, sorella del romanziere e aveva sposato, nel 1816, il capitano di artiglieria Carraud, di vent’anni più vecchio di lei, e direttore della scuola di Saint Cyr. Fu qui che conobbe Balzac e che lo frequentò per dieci anni di seguito perché il piccolo mondo militare che viveva dei ricordi della Rivoluzione e dell’Impero attraeva infinitamente lo scrittore. Il capitano Carraud aveva combattuto in Italia, a Napoli e nelle Calabrie; il suo amico Periolas aveva combattuto a Wagram; Chapuis, altro compagno, aveva comandato una compagnia di granatieri a Waterloo.

  Riuniti insieme gli amici si raccontavano storie raccapriccianti tra una partita di «tric-trac» e una di «réversi». Balzac parlava e li faceva parlare; ascoltava tutto anche avendo l’aria di pensare ad altro e poi ricordava ogni cosa, con una memoria di avaro. Molti dei suoi racconti militari, nacquero qui, nella triste casa adiacente alla scuola di Saint Cyr, dove la presenza della signora aggiungeva un sorriso. Poi, dopo le famose giornate del 1830 il capitano Carraud, sospettato a torto di simpatia per il passato regime, fu destituito dalla sua carica e mandato ispettore alla polveriera di Angoulême. E’ quasi un esilio; certo, la solitudine. Ma anche qui Balzac li raggiunge e ad Angoulême le visite del romanziere facevano epoca. Partito lui, il tempo si divideva così: prima e dopo le visite di Balzac. E nell’intervallo si leggevano i suoi libri, che dico, si divoravano, commentando personaggi e vicende; oltre il chiuso dei salotti «démodés» si spaziava nei vortici della «Comédie Humaine». Mirabile lentezza di un tempo che sapeva assaporare le cose!

  Poi: Balzac partito, la signora Zulma ingannava le attese con lunghe epistole piene di notizie provinciali (che il romanziere raccoglieva gelosamente). Ad ogni nuovo libro di lui, che Balzac le inviava, rispondeva con un diluvio di elogi, commenti, critiche; ad ogni dichiarazione politica, con un attacco in pieno, giacche l’atteggiamento monarchico e le velleità aristocratiche di Balzac dispiacevano fortemente alla signora Carraud, repubblicana arrabbiata; e tanto più in quanto indovinava nelle simpatie del suo amico lo zampino femminile della perfida madame de Castries. «Même la femme idéale n’est pas de prix à payer la conscience de l’homme le plus médiocre». Era fiera, la signora Carraud e usava un fiero linguaggio. Anche il suo amore per il lusso, quel «tilbury» di elegantone, le dispiacevano; soffriva di non vederlo grande in tutto. «Que celui qui a peint Louis Lambert devrait peu avoir besoin de chevaux anglais!». La mite colomba sapeva anche beccare, ma tornava colomba. «Quand toutes vos duchesses vous manqueront, je serai toujours là». Balzac lo sapeva anche troppo e con docile grazia accetta tutto da lei. (Balzac, quando non era scelto, sceglieva bene). No, la signora Zulma non aveva simpatia per quelle donne di lusso che infiammavano l’immaginazione di Honoré. «Ces formes fugitives, aux manières énivrantes, ces enveloppes satinées ...». E accoglieva nel cuore il contraccolpo di tutte le pene, di tutte le vicende di quella frenetica vita. E’ a lei, alla sua capacità di saperlo ascoltare, che dobbiamo l’abbandono e le confidenze di Balzac, un Balzac che infine si distende e si racconta; è per lei che il gigante schiavo riesce di tanto in tanto a sottrarre al regime delle sedici ore di lavoro, qualche sosta ristoratrice; la signora Zulma è la sua domenica di riposo ...

  Intanto, passati ancora alcuni anni, il capitano Carraud è messo a riposo e la famiglia si ritira nella propria tenuta di Frapesle, che Balzac descriverà più tardi nel «Le lys dans la vallée». Le visite si ripetono anche qua, dove la «camera di Balzac» è sempre pronta ad accogliere l’ospite desiderato. Ma dopo una prima, dopo una seconda visita, queste si diradano; anche le lettere si fanno desiderare. Da paesi iperborei è già arrivata la prima missiva di quella Straniera che doveva presto incatenare al suo carro il destino di Balzac. La signora Zulma attende e non interroga. Interrogare è già troppo e lei ha il genio della discrezione. Non era lei, del resto che aveva tracciato questo ritratto della compagna ideale dell’artista? «A un artiste il faut une femme désintéressée; il faut qu’elle sache s’effacer quand l’ami quitte le monde des réalités, pour l’y recevoir, le sourire aux lèvres et la joie aux cœur, quand il y revient; il faut qu’elle puisse tout tolérer car l’homme qui vit de rêves doit s’égarer quelquefois, mais il faut que sa tolérance soit mystérieuse car la tolérance est amère à qui en est l’objet. Il faut qu’elle puisse vivre de cette gloire qu’elle arrose de larmes en secret».

  Stupende parole; davvero; e non avrà per caso, la signora Carraud, tracciato il proprio ritratto? E qui già so la domanda che mi aspetta al varco: ma tutto questo, dunque, non era amore?

  Da Wieckmonia (sic), in Ucraina, finalmente pazzo di gioia, «fou de bonheur», Balzac annunzia a Zulma il suo matrimonio con la contessa Eva de Hanska, la misteriosa Etrangère. « Ah, — le scrive — je n’oublierai pas vos maternités, votre sympathie divine ...» E la invita a Parigi, dove finalmente avrà una sua casa. E in questa casa egli moriva solo sei mesi dopo, quasi avesse sfidato il destino gridando troppo forte la sua felicità.

  L’erba non era ancora alta sulla tomba dell’amato Honoré che già la contessa Hanska era promessa ad un altro. Ma Zulma conservava gelosamente le care memorie dello scomparso leggendo e rileggendo quei libri che aveva visti nascere. Più tardi vedova, quasi cieca raccontava ai suoi due nipotini piccole storie graziose, che raccolte in volume, ancora oggi, nella remota provincia, leggono i nostri bambini nella collezione della «Bibliothèque rose».

 

 

  Walter Mauro, Il sesto anno di vita del Teatro Popolare. “Le Faiseur” di Balzac portato sulle scene da Vilar, «Il Paese», 4 aprile 1957, p. 3.

 

  L’esemplare attività del grande complesso che occupa ormai un posto preminente nella cultura francese - Gli odi e le simpatie di Balzac nella sua esilarante commedia - Successo a Parigi.

 

  [...]. In questi giorni, il Teatro Nazionale Popolare ha inaugurato il suo sesto anno di attività, con una divertente e seducente rappresentazione di «Le faiseur» di Balzac, un lavoro, questo, già presentato nel 1934 da Dullin, ripreso poi nel 1945 dallo stesso nel teatro Sarah Bernhardt, poco prima della morte, ed ora magistralmente messo in scena da Jean Vilar, che nel ruolo di Mercadet ha trovato uno dei migliori impieghi per la sua innata comicità. «Le faiseur» è stato pubblicato nel 1840; e basandosi sulla data di composizione, questa opera si può situare al centro delle «Illusions perdues», di cui i personaggi sembrano continuare l’azione.

 

La figura di Mercadet.

 

  «Certo Balzac fu un legittimista politicamente: la sua grande opera è una continua elegia sull’inevitabile rovina della buona società; tutte le sue simpatie sono per la classe condannata a tramontare. Ma, non ostante ciò, la sua satira non è mai così pungente, la sua ironia non è mai così amara, come quando fa entrare in azione proprio gli uomini e le donne con cui più profondamente simpatizza, e cioè i nobili. E i soli uomini dei quali egli parla sempre con franca ammirazione, sono i più recisi avversari politici ... Che quindi Balzac sia stato costretto ad agire contro le simpatie di classe e i pregiudizi politici a lui propri, che abbia visto la necessità del tramonto dei suoi diletti nobili e li descriva come uomini che non meritavano alcuna sorte migliore, e che abbia visto i veri uomini dello avvenire dove a quell’epoca era dato trovarli: tutto questo io considero come uno dei maggiori trionfi del realismo, e come uno dei tratti più grandiosi del vecchio Balzac». Esattamente. Con la veggenza prodigiosa tipica dei grandi spiriti, Engels ha colto perfettamente il tratto fondamentale della tematica di Balzac, in questa lettera a Miss Harkness del 1888; e la contraddizione che sembra dominare in tutta l’opera dello scrittore francese, perpetuamente in bilico nel tragico dilemma tra nobiltà e terzo stato, è soltanto apparente: in realtà Balzac, monarchico fedelissimo. disposto a tutto, pur di evitare una rivoluzione ormai inevitabile, assiste impotente al lento e. inesorabile disgregarsi dell’aristocrazia francese, vittima e al tempo stesso responsabile compiaciuta della sua profonda crisi, e di fronte all’inevitabilità di una situazione umana che va rovinosamente precipitando, diviene «il più violento accusatore dei suoi idoli, smaschera i tradimenti dell’aristocrazia, tocca le piaghe più dolorose della società del suo tempo, condanna senza pietà i traffici del clero, ci dà, insomma, rinunziando alle sue «sacre convinzioni», il ritratto di quello che vede, la realtà palpitante di quegli anni».

  «Mercadet ou le faiseur» vive, dunque, nel clima e nella atmosfera stessa, in cui si agita la folla variopinta della «Comédie humaine», circa duemila personaggi, appartenenti alte più disparate classi sociali, dalle più umili alle più nobili, intrise delle più diverse passioni: l’amore, la ricchezza, la potenza. Stavolta l’ambiente è la Borsa, con i suoi loschi affari, la sua continua aria di «bluff»: Mercadet (un Jean Vilar vecchio e superbo) è uno di quei grandi affaristi di Borsa, che tutto il mondo crede ricco e che è, al contrario, sull’orlo della rovina, dopo dieci anni di più o meno fortunati intrighi. Eppure, malgrado tutto, costui è un uomo simpatico, che si fa perdonare facilmente la poca coscienza: egli si è fatto scroccare fior di quattrini dal suo socio, Godeau, che ora è fuggito in India. La partenza di quest’ultimo obbliga Mercadet ad intraprendere tutta una serie di acrobazie finanziarie, per mantenere il proprio tenore di vita ed anche per salvare la faccia. Ma le ultime operazioni di Borsa hanno avuto esito catastrofico e i creditori han posto l’assedio, mentre il proprietario minaccia il prelevamento dei mobili, già ipotecati e i domestici reclamano le paghe, minacciando uno sciopero. Mercadet usa ogni mezzo di difesa ora servendosi della sua eloquenza, ora della sua fertile immaginazione: «Ah! Un uomo nella sfortuna somiglia ad un pezzo di pane gettato nel vivaio dei pesci: ogni pesce gli dà un colpo con i denti!». Buon padre di famiglia, Mercadet ama teneramente sua figlia, dotata di un certo talento artistico, ma fisicamente infelice. Per cui. Quando M. Minard, giovane scribacchino innamorato di Julie, si presenta a Mercadet, per chiedergli la mano della fanciulla, il padre, nascondendo la testa di sua figlia tra le spalle, prorompe: «Signore, io non sono uno di quei padri ciechi; Julie non ha quella bellezza che fa gridare; è modesta e rassegnata: non è nè bene, nè male». La realtà è che Mercadet non vuole un genero senza fortuna, non avendo egli stesso nulla da offrire a sua figlia: egli cerca un marito ricco, sulla cui fortuna poter poi speculare in Borsa. L’occasione sembra presentarsi nella persona di M. de la Brive, ricco pretendente e proprietario di vasti terreni. Mercadet già pensa di convertire quei terreni in quattrini sonanti, ma M. de la Brive si rivela ancora più spiantato di lui e unicamente interessato a Julie ... scambiata per una ricca ereditiera, destinata a restituirgli il perduto blasone.

 

Una satira attuale.

 

  La scena in cui M. de la Brive dà gli ultimi ritocchi al personaggio che si propone di creare, è di una bruciante attualità e non ha lasciato indifferente il pubblico francese. «Per essere al potere, oggi non vi si chiede ciò che potete fare di buono, ma ciò che potete fare di cattivo. Non si tratta dì avere del talento, ma di ispirare paura. Anche all’indomani del mio matrimonio, avrò io la aria grave del principe? Ma io sarò socialista! La parola mi piace. A tutte le epoche, mio caro, ci sono degli aggettivi, che sono la chiave delle ambizioni. Prima del 1789, si diceva economista; nel 1805, si diceva liberale. Il partito di domani si chiama sociale, forse perché insociale: poiché in Francia, bisogna sempre prendere l’inverso della parola per trovarvi il vero significato». Ma dopo il mancato matrimonio, il giovane M. de la Brive aggiunge: «Io non sono più socialista, divento comunista!». Tuttavia Mercadet, da buon «faiseur», si salva sempre, poiché, quando la moglie rivela le soperchierie del marito ai creditori, il ritorno di Godeau, con anfore piene di soldi, salva la situazione; il finale è esilarante a sorpresa: il giovane Minard che si scopre figlio di Godeau, sposerà Julie, con nozze fastose. [...].

 

 

  Walter Minardi, Romanzesche avventure di un genio del romanzo. Il demone dell’oro ossessionò la vita di Balzac, «Il Messaggero di Roma», Roma, Anno 79, N. 243, 2 settembre 1957, p. 3.

 

  Questo prodigioso architetto della «Commedia umana» che per avere la ricchezza si sarebbe dedicato al commercio delle granaglie, fu condannato ai lavori forzati della penna che, pur assicurandogli la gloria, non gli offrirono mai la sicurezza economica.

 

  Nella vita e nelle opere di Onorato di Balzac, c’è un motivo dominante che ricorre coll’insistenza ossessiva di un’idea fissa: il denaro.

  «Il denaro, dovunque il denaro, sempre il denaro — scrisse di lui il Taine — esso fu il persecutore e il tiranno della sua vita ed egli ne fu la preda e lo schiavo: questo dominatore e carnefice lo piega sul suo lavoro, lo incatena, lo ispira, lo perseguita nel suo riposo, nelle sue riflessioni, nei suoi sogni, offusca la sua vista, domina la sua mano e spande nelle sue opere i riflessi del suo splendore».

  Infatti, in nessun’altra opera letteraria ricorrono così frequenti motivi attinenti il denaro, gli affari, le speculazioni, come nella «Comédie Humaine»; e nessuno scrittore prima di Balzac aveva saputo rendere così umane e possenti le passioni dei protagonisti suscitate dall’avidità di guadagni o dall’avarizia. Balzac aveva compreso che il denaro è il grande motore del mondo, perciò i suoi romanzi brulicano di affaristi, di banchieri, di procuratori, di agenti di cambio, di usurai, come Mercadet. come Nuncingen, come Gobsek, e di gente prodiga, sempre assetata di ricchezze o pitocca, tormentata dal possesso come Vautrin, come Hulot, come Grandet. Tutti questi personaggi assillati dal demone dell’oro sono gli autentici rappresentanti della società di quel tempo in cui il denaro premeva con tutto il suo imperio e la sua potenza, ma sono altresì l’impressione di una forma mentis che in Balzac aveva assunto i caratteri di una vera e propria mania, o di un «complesso di Mida» come oggi direbbe uno psicanalista.

 

Esordio a Parigi.

 

  Nato a Tours il 16 (sic) maggio 1799, giorno di Sant’Onorato dal quale prese il nome, Balzac fu, fin da giovanetto, assillato dal desiderio di gloria e di ricchezza. Poco più che ventenne si trasferì a Parigi dove visse per cinque anni in una soffitta scrivendo romanzi che gli rendevano appena il necessario per vivere, ma poi stanco della vita grama che conduceva, depose la penna per acquistare una stamperia in via Saint Germain dove si mise a stampare le opere di La Fontaine. Egli aveva pensato che era più agevole vendere libri che scriverli, e che tale speculazione industriale potesse arricchirlo, ma dopo breve tempo fu costretto a liquidare la azienda assediata di creditori.

  Un’altra delle sue balorde speculazioni che avrebbe dovuto renderlo milionario fu quella degli ananassi. Gli era venuto in mente che coltivando una piantagione di ananassi nel territorio parigino c’era da fare quattrini a palate. Secondo i suoi calcoli, mettendo a dimora centomila piante che avrebbero dato migliaia di frutti da vendersi a cinque franchi l’uno, si potevano guadagnare ogni anno quattrocentomila franchi. Infatuato da quest’idea, prende in affitto una casetta con annesso giardino nei sobborghi di Parigi e progetta di affittare anche una bottega nel centro della città per la vendita al minuto. Fortunatamente interviene il suo amico Gautier che riesce a dissuaderlo evitandogli un altro dissesto.

  In verità, l’autore di «Mercadet l’affarista» non era proprio tagliato per gli affari; il suo facile entusiasmo. la sua accesa fantasia, la sua ingenuità accompagnata da una cieca inesperienza commerciale, l’avrebbero condotto a vendere sorbetti in Alaska.

  Ma intanto le sue condizioni economiche agonizzano per i continui salassi e la febbre dell’oro si fa più bruciante che mai. Occorre pagare il sarto Buisson che gli è creditore di 4 mila franchi di vestiti e poi c’è un grosso conto da pagare alla drogheria del «Mortaio d’argento», per caffè e candele. Per tacitare la cagnara minacciosa dei suoi creditori Balzac si rituffa nell’estro febbrile della creazione che gli consente di baloccarsi coi milioni immaginari del banchiere Nuncingen e di trasferire i suoi progetti megalomani fra le speculazioni dell’usuraio Gobsek (sic).

  Per mesi e mesi lavora sedici o diciotto ore su ventiquattro; egli non accorda all’animalità che sei ore di sonno penoso e convulsivo prodotto dal torpore della digestione dopo un pasto frettoloso. Impaludato, nel candido saio domenicano egli lavora come un forzato senza concedersi tregua, ingollando tazze su tazze di caffè che gli procurano uno stato di continua sovreccitazione.

  Gli occorre denaro, tanto denaro e per guadagnarlo egli si assoggetta ad un lavoro da Sisifo, incatenato allo scrittoio come un galeotto alla palla di ferro. Ed è grazie ad una volontà sovrumana, sorretta da un temperamento d’atleta e da una reclusione da monaco che Balzac riesce ad edificare il colossale monumento letterario della «Comédie Humaine».

  In realtà Onorato di Balzac guadagnava molto, ma spendeva il doppio. A Parigi c’era soltanto Eugenio Sue che lo battesse in fatto di guadagni con le sue bustarelle di 15 mila franchi che la amministrazione dei teatri gli allungava settimanalmente per i suoi diritti d’autore; nessuno però superava Balzac nel tono di vita sfarzoso e nel dissipare vere e proprie fortune. Di notte la villa di sua proprietà, le Jardies, splende illuminata da 300 candele e i suoi domestici indossano la livrea color tabacco con le iniziali in oro H. B. Egli possiede uno splendido cocchio guidato da un gigantesco auriga in palandrana azzurra, ha un palco agli Italiens, frequenta i salotti di Rothschild e della contessa d’Appony e i suoi abiti danno il tono alla moda come quelli di Giorgio Brummell.

 

Splendide bizzarrie.

 

  I bottoni dei suoi abiti tagliati dalle forbici magistrali di Buisson erano d’oro, il suo prezioso occhialetto era stato fabbricato dagli ottici dell’Osservatorio e la sua inseparabile mazza, valutata 10 mila franchi, aveva il pomo d’oro circondato da una corona di turchesi. (Questo famoso bastone era oggetto dei commenti sbalorditi dei parigini e ispirò alla Signora di Girardin un mediocre romanzo intitolato appunto «La canne de Balzac».)

  I suoi guadagni tuttavia erano sproporzionati alle sue ambizioni da Nababbo, che gongolava quando poteva épater il suo prossimo.

  Una sera nel salotto di moda me Gay, Balzac ostentando la munificenza di un principe orientale, pregò lo scrittore Jules Sandeau di accettare in dono un suo cavallo arabo. Sandeau sbigottito per l’offerta eccezionale voleva esimersi, ma Balzac insisteva: «Dovete accettare come segno di affetto il mio cavallo arabo, altrimenti ricorderò per tutta la vita il vostro rifiuto».

  Non era il caso di ostinarsi nel diniego: Sandeau finì per accettarlo ma attese invano il cavallo arabo, nè seppe mai che Balzac ne possedesse uno. Il padre di Vautrin era maestro di millanterie. Egli era venuto in rapporti con l’editore Werdet che compensava le sue opere con molta generosità, e il romanziere lo esortava ad essere per lui quello che era stato Archibald Constable per Walter Scott. Questo privilegio non era molto vantaggioso per l’editore il quale doveva continuamente sborsargli forti anticipi per soddisfare le sue smanie da Nababbo.

  Werdet temeva che Balzac avesse fatto suo il motto di Blondet: «Il denaro degli stupidi è per diritto divino il patrimonio della gente di spirito». Così si stancò di fargli credito e ruppe i rapporti con lo scrittore. Allora cominciarono per il grande Onorato giorni durissimi. Oberato dai debiti è costretto a disfarsi della sua proprietà, la (sic) Jardies, che brulica d’ipoteche. L’aria di Parigi diviene opprimente per lui; egli si sente affaticato come un «galérien de plume» per il grande sforzo mentale che gli è costato il «Luigi Lambert» per cui ne risente tali emicranie che assomigliano a veri e propri attacchi di follia. Occorre cambiare aria, cambiare metodo di vita, e soprattutto occorre sottrarsi alla muta accanita dei creditori che non gli dà tregua.

  Da qualche tempo Balzac covava il progetto di un viaggio in Sardegna avendo saputo che esisteva colà una antica miniera d’argento lasciata in abbandono e che doveva racchiudere favolose ricchezze; e ora davanti al suo sguardo sorge la visione allettante di quella terra promessa, come una fata Morgana. Allora decide di partire per l’Italia e per intraprendere il viaggio si procura 500 franchi impegnando alcuni oggetti preziosi al Monte di Pietà.

  Le ricchezze da maraja, i tesori nascosti erano l’idea fissa, l’incontenibile «dada» del grande scrittore, il quale — già altra volta — s’era messo in testa di avere individuato il luogo dove Toussaint aveva seppellito un tesoro, convincendo gli amici a partecipare alla spedizione di recupero. Furono persino comperate le vanghe e le zappe, ma il tesoro di Toussaint non vide mai la luce. Stavolta però il progetto di Balzac poggiava su basi più solide e su indicazioni più precise. Infatti nella primavera del 1837, Onorato di Balzac, trovandosi a Genova durante uno dei suoi frequenti viaggi in Italia, conobbe un negoziante del luogo, certo Giuseppe Pezzi col quale discorrendo della Sardegna, citò un passo di Tacito in cui è detto che in quella terra esistevano ricche miniere d’argento. Il negoziante disse che dovevano trovarsi in una località chiamata Argentara, fra Alghero e Sassari, dove vi erano ancora tracce di piombo da cui, nell’antichità, si era estratto l’argento. L’indicazione colpì la mente fantasiosa di Balzac il quale pregò il genovese di mandargli a Parigi un po’ di quelle scorie.

  Tornato a Parigi Balzac parlò del progetto argentifero ad alcuni amici fra cui il comandante Carraut (sic) il quale lo indirizzò al chimico Biot che aveva inventato un processo speciale per l’estrazione dell’oro e dell’argento. Nel frattempo sopravvennero i rovesci economici che gettarono Balzac in un mare di debiti. Allora senza attendere le scorie di piombo che il negoziante Pezzi aveva promesso di mandargli, decide di partire per la Sardegna salendo sull’imperiale della diligenza Parigi-Lione-Marsiglia. Da quest’ultima città raggiunse Tolone dove si imbarcò per Ajaccio, giungendo in porto il 25 marzo 1842 (sic). In tale data scriveva a Madame Hanska. colei che divenne più tardi sua moglie, per informarla del suo viaggio, concludendo per giustificare quella impresa pazzesca: «Quando voi saprete che questa mia spedizione è una impresa disperata per non finire sotto i colpi della sfortuna, non vi stupirete; del resto non rischio che un mese di tempo e 500 franchi contro una bella e grande fortuna».

  Naturalmente si recò a visitare la casa di Napoleone, che era stato l’idolo della sua giovinezza ed al quale egli si rassomigliava.

  Dopo un noioso soggiorno di una settimana ad Ajaccio, finalmente Balzac potè imbarcarsi su un trabiccolo di pescatori di corallo diretto in Africa e che lo avrebbe sbarcato in Sardegna. La navigazione durò cinque giorni, durante i quali Balzac conobbe la vita dura dei marinai, ma poi la barca fu costretta a restare altri cinque giorni in quarantena, in vista del porto di Alghero, per il pericolo del colera, finché il governatore dell’isola diede il permesso di sbarco e Balzac, finalmente, potè mettere piede a terra.

 

«Qui l’Africa».

 

  In una lettera a Madame Hanska Balzac descrive la Sardegna come un luogo selvaggio popolato da gente cenciosa o seminuda e dalla pelle abbronzata come quella dei meticci. «L’Afrique commence ici» dice lo scrittore. Quantunque siano già passati oltre cento anni, sembra inverosimile che a quei tempi la Sardegna fosse in uno stato di così primitiva inciviltà. Balzac attraversò molte regioni a cavallo e ciò che egli descrisse rammenta le pagine di Livingstone, nei suoi libri di viaggi nel continente nero.

  Un’immensità di terre brulle come un deserto, in cui brucano le capre; foreste vergini popolate di cinghiali e di scoiattoli e poi ancora infinite solitudini, rade abitazioni di sassi e di fango, senza camini, col fuoco acceso in mezzo alla stanza, nere di fuliggine, e abitate da creature macilente e cenciose. Davanti ai tuguri gli uomini, pigri e indolenti, stavano immobili al sole come ramarri; le donne, dal volto olivastro e dai seni smunti, intente a macinare e a impastare il loro pane di ghiande. Da Alghero a Sassari e da Sassari all’Argentara il viaggio fu massacrante, ma pittoresco; la lunga cavalcata, attraverso deserti e foreste, col miraggio allucinante di una montagna d’argento dovette suscitare nello spirito fantasioso di Balzac sensazioni di eroe leggendario di Walter Scott, ma purtroppo i suoi sogni dovettero sfumare di fronte alla cruda realtà.

  Giunto all’Argentara, sfinito per la lunga cavalcata, Balzac trova che la miniera è già stata occupata da quel tale Pezzi negoziante genovese il quale l’aveva preceduto ottenendo l’autorizzazione del governo piemontese per lo sfruttamento della miniera.

  Il disinganno di Balzac fu grande, e in una lettera alla sorella parla di tremenda sventura e di milioni sfumati. In realtà pare che le scorie dessero il 10 per cento di piombo e questo il 10 per cento d’argento, tuttavia c’era di che mordersi le dita per l’occasione perduta.

  Dopo la crudele delusione Balzac andò a Cagliari e si imbarcò per Genova, ma poi fu costretto a passare per Milano per rimediare un po’ di denaro per il ritorno. Giunto alla capitale lombarda con le pive nel sacco riversa tutta la sua amarezza in una lettera a Madame Hanska che egli chiamava «chère confidente de mes tristesses e (sic) de mes erreurs».

  Ora è necessario ricominciare daccapo, riprendere la vita monacale. curvo sul tavolo come un forzato della penna, e inventare ancora complicate storie romanzesche che si trasformeranno in moneta sonante.

  Così questo genio straordinario che si poneva egli stesso al livello di Napoleone, Cuvier e O’Connel (sic), questo grande dottore in scienze umane, come egli stesso si definiva, questo prodigioso architetto della «commedia umana» che per avere la ricchezza si sarebbe dedicato al commercio dei laterizi o delle granaglie, era condannato ai lavori forzati della penna che non gli diedero mai la ricchezza ma che lo posero in prima fila nell’eccelso arengo degli immortali.

 

 

  Alfredo Niceforo, Figure di delinquenti e di “malfattori” nella Commedia umana balzacchiana, «Diritto criminale e criminologia», Milano, Anno X, N. 2, Aprile-Giugno 1957, pp. 77-88.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 576.

 

  [...]. pp. 80-88.

  3. Jacques Collin, detto Vautrin o Trompe-la-Mort, e in altri modi ancora. Innanzi tutto, è proprio da dirsi che Vautrin sia un delinquente nato nel senso di «tipo sottoevoluto», atavico, primitivo? No davvero. La stupefacente figura di Vautrin non è affatto di tipo sottoevoluto; ha, bensì marcatissime note di inferiorità morale e anche bestiale, ma è pur contrassegnata da intelligenza vasta ed audace, il che non depone certamente per una collocazione di lui tra i delinquenti nati di tipo sottoevoluto; si potrebbe soltanto affermare essere egli un delinquente «endogeno» nel senso che le caratteristiche somatico-psichiche, e soprattutto psichiche, che lo spingono al delitto sono di natura congenita. Se si considerano le varie classificazioni e sottoclassificazioni che l’antroposociologia recente e meno recente ha fatto dei delinquenti (e sono variatissime) non riesce davvero facile collocare senz’altro Vautrin in una di esse, a meno di riavvicinarlo al folle morale, tanto è fantastica, incredibile, romanzesca e irreale quella figura. Essa si presta mirabilmente, ancora una volta, a mostrare ciò che altrove più volte avemmo a indicare nei riguardi del realismo e non realismo dell’arte balzacchiana. Si ha un bel dire, ripetendo un’antica osservazione, che l’arte balzacchiana ha reso realista la finzione e ha reso al tempo stesso finzione la realtà; sta di fatto che assai spesso l’immaginazione e il romanzo sovrastano e tramutano i colori della realtà la quale, tuttavia, sempre si trova all’origine e nella estrinsecazione descrittiva formata dagli scenari della Commedia umana e dai moti dell’animo dei personaggi balzacchiani. Personaggio fantastico e stupefacente! Di suo vero nome Jacques Collin, abitante le galere e poi lanciato sotto falsi nomi — tra i quali quello significantissimo di Trompe-la-Mort — attraverso il mondo dei vivi che egli vuole ingannare, defraudare, uccidere o dominare, travestendosi or con questo or con quell’abbigliamento, fu definito «le plus grand criminel de la Comédie humaine». Ricco di intelligenza, tanto che accennando ad essa Balzac si lascia sfuggire il nome di Napoleone, dichiara guerra al mondo e alla Società che egli profondamente disprezza, e più volte siffatto disprezzo che tinge di foschi colori ogni amara e cinica riflessione che egli fa dell’umana Società, appare in una serie di osservazioni che abbiamo chiamato il «credo sociale» di Vautrin ... «essere sovrumano — come fu detto — nella lotta contro la Società». Uccide suoi avversari con il veleno e getta nella perdizione, per vendetta, donne innocenti che a causa di ciò impazziscono; cerea suggestionare e condurre al delitto giovani che, venuti dalla provincia a Parigi, in questa città cercano fortuna e trionfo; esercita da sovrano le funzioni di capo in un gruppo di malfattori detto dei «Grands Fanandels» e tiene con molta autorità (diciamo così) il nobile posto di banchiere dei forzati maneggiando l’ammasso dei denari rubati; è direttore della Società dei Diecimila, così chiamata perché i suoi componenti dovevano impegnarsi a non commettere un furto inferiore a diecimila franchi. Più che romanzesco personaggio, davvero, che sfugge in ultima analisi a una vera e propria classificazione antroposociologica, tanto romanzesco che finisce egli ... con il passare alla polizia!

  4. - Due categorie: delinquenti delle carceri e «malfattori». Detto quanto sopra nei riguardi del «più grande delinquente (Vautrin) della Commedia umana» domandiamoci ora quali gli altri, anche di profilo appena accennato, figuranti nell’opera balzacchiana. Qui bisognerebbe distinguere — il che sino ad oggi non ebbe a farsi studiando l’opera balzacchiana — tra delinquenti, diremo così, delle prigioni, da un lato, perché legittimamente condannati entrarono e uscirono da esse, e «delinquenti» non delle prigioni o «malfattori», dall’altro, come altrove avemmo a chiamarli, perché le loro male arti, condannevoli anche dalla morale più spicciola, furono tali da rimanere nascoste e non suscitare riprovazioni (anzi, portarono al successo). Dell’una e dell’altra categoria, ma in ispecie della seconda, si trovano esemplari nelle scene della Commedia umana.

  I primi — delinquenti delle prigioni — si chiamano: Bibi-Lupin, che appare anche sotto il falso nome di Gondureau; Bourignard, detto Ferragus; Crochard; Sélérier, detto Fil-de-soie e un altro modo ancora; la Puraille, di suo nome Dannepont; Rigandon, detto le Biffin. Ne troviamo parecchi, per quanto appena profilati, quando si descrive il carcere della Conciergerie; qualcuno di essi — miracolo della romanzesca e irrequieta immaginazione balzacchiana! — abbandona il carcere per diventare uomo di polizia, come già ricordammo essere avvenuto per l’ex forzato Vautrin, ed altri, come Ferragus, agisce indisturbato e potente, sebbene nell’oscurità, tra le romanzesche avventure della vita, fuori del carcere; ne diremo tra breve alcunché.

  Dei secondi vi sarebbe a lungo da dire, insistendo soprattutto sul «pessimismo sociologico» e anche psicologico che ispira di continuo avventure e scene della Commedia umana [...].

  5. I «malfattori». - Tra i delinquenti, dunque, non delle carceri o che mai finirono in carcere e che anzi ottennero successo nella vita grazie alla loro mancanza di senso morale (qualcuno commise delitti veri e propri rimasti ignoti) ecco il banchiere Nucingen, alto maestro nell’estorcere denaro al pubblico grazie a inganni e a simulazioni, vero delinquente che sa tuttavia rimanere nel quadro della legalità apparente, pronto a ogni speculazione e mosso dal principio «qu’il n’y a que des apparences d'honnêtes hommes»; ed ecco [...] il commerciante Minard che comincia la sua carriera con lo spacciare alimenti falsificati e finisce, sempre ascendendo, giudice di tribunale; Philippe Bridau, ladro c assassino, che si porta poi ad alte sfere sociali, proprio come fa il banchiere Taillefer, del medesimo stampo e già assassino impunito; ed ceco l’abilissimo abate Troubert che sempre più in alto ascende grazie alle sue male azioni, ed ecco ancora il signor Du Tillet, rispettato ovunque, ma con un passato di trafficante, proprio come accade per l’antiquario Magus e per il rivendugliolo Rémonencq che sa intelligentemente carpire ricchezze altrui; il signor Des Lupeaulx, d’altra parte, non arriva forse a tutto nonostante le sue male arti, o grazie ad esse? Di Mercadet, abile e fortunato intrigante, già dicemmo. Persino Rastignac, tanto idealizzato ai nostri tempi e che fu preso come modello e come ideale da qualche balzacchiano dei nostri dì, non cominciò la sua carriera, povero e miserabile, rifiutando (è vero) di ubbidire alle suggestioni criminali di Vautrin, ma facendosi mantenere, o quasi, dalla sua amante, sposa a un ricco banchiere? Infatti, un personaggio della Commedia, Bixiou, dice di lui, disprezzare egli la Società umana e non ammettere l’esistenza della virtù e dell’onestà se non a titolo di eccezione (come gli aveva insegnato Vautrin).

  E che dire di quel Ferragus (detto Bourignard), ex forzato che svolge fuori del carcere la sua vita diventando temutissimo capo della associazione dei Tredici i quali, si noti, non sono affatto veri delinquenti ma, come fu detto da qualche balzacchiano, sono pronti a divenir tali se l’impegno e la fedeltà nei riguardi dei compagni ciò esigessero? I Tredici sono associati per unire le singole capacità e la bravura di ciascuno al fine di creare una forza irresistibile da impiegarsi, sia per il bene che per il male, secondo le necessità di ciascuno di essi. Figure misteriose, più che romanzesche e spesso ammirevoli ... tanto è il fascino che è loro conferito dalla fantasia del nostro grande narratore!

  Ma quale analisi potrebbe condurre lo psicologo o il criminalista su figure di tal genere, or ora indicate come figure di «malfattori», per confrontarle con quelle che le moderne ricerche scientifiche sull’argomento hanno presentato? Invero, descrivendo e facendo agire quelle figure, sia pur mirabilmente, con grande evidenza e assai accanto al vero, non vi è traccia, in quelle descrizioni, sia caso per caso che in generale, di uno schema del meccanismo psichico grazie al quale i bassi istinti di preda, ai sopraffazione, di egoismo e analoghi — tanto vivacemente agenti in quei personaggi — vengono a dominare, nè vi è traccia del meccanismo psicologico grazie al quale ogni individuo, pur conoscendo intellettualmente i precetti, le norme e le esigenze del vivere sociale, sa trovare ai propri occhi una «autogiustificazione» e più spesso ancora una vera e propria legittimazione della propria condotta immorale. Sarà dato più tardi assai a qualche pagina di psicologia e di psicosociologia dedicata all’esame della struttura e delle attività di difesa dell’«Io», di trattare largamente il tema. Ciò non toglie che i personaggi or ora indicati, e quelli analoghi che si muovono nella Commedia, non costituiscano, anche attraverso romanzesche esagerazioni, un lucidissimo specchio della triste verità! Ancora una volta il realismo balzacchiano, pur mescolato di sovrana finzione, è di guida per ben comprendere la condotta degli uomini o, meglio, di non pochi uomini in Società, tra inganni ed astuzie.

  Affrettiamoci intanto a guardare l’altra categoria di personaggi e cioè i delinquenti delle carceri, sempre nella Commedia.

  6. - Carcere e carcerati. In verità, dalle figure di siffatti delinquenti delle carceri — e che vedremo proprio nel carcere — non v’è gran cosa da ricavare nei riguardi di una psicologia criminale così come oggi essa è prospettata dalle moderne ricerche scientifiche, ma è piuttosto degno di vivo interesse il quadro realistico che Balzac fa del carcere in cui vengono profilati i delinquenti in questione. Infatti, con qualche insistenza e ricchezza di particolari Egli descrisse «quel formidabile apparato della nostra giustizia criminale», come Egli stesso scrive, che è il carcere e nel nostro caso speciale la Conciergerie. La terza parte di Splendeurs et misères des courtisanes e poi tutta La dernière incarnation de Vautrin, scritte nel 1846 e nel 1847, si svolgono quasi per intero tra le mura del carcere [Le pagine dei due romanzi qui citati sono quelle dell’edizione del Centenario balzacchiano, non illustrata (1900 e anni seguenti), N. d. A.]. L’arrestato è quivi trasportato per mezzo del panier à salade (carrozzone dai piccoli finestrini a spranghe di ferro), minuziosamente descritto per la distesa di due fitte pagine; è una descrizione che, nonostante il suo sviluppo, avvince il lettore, come sempre o quasi sempre fanno le pur lunghe descrizioni e divagazioni balzacchiane. A tale proposito, il documentatissimo Autore non si lascia sfuggire l’occasione di insegnare quale differenza passi, secondo il diritto criminale francese, tra: inculpé, prévenu, accusé, détenu e anche tra: maison d’arrêt, maison de justice ou maison de détention; nè Egli dimentica — prima di entrare nello svolgimento del dramma — di spiegare in che modo si svolge un processo criminale, perché meglio il lettore ne possa comprendere le successive fasi (Splendeurs et misères, ecc., p. 292). E neppure, mentre si entra nel carcere della Conciergerie, si lascia da parte una lunga pagina sulla drammatica storia di quella prigione, compresa una efficacissima descrizione dell’architettura sua, dura e severa, e compreso il ricordo che di là uscirono i criminali più orrendi e le vittime tutte della politica, come re e regine, Danton e altri. Frattanto, l’arrestato scende dal panier à salade ed è immesso nella Souricière (letteralmente: trappola), che è un insieme di celle ove il detenuto aspetta l’arrivo del giudice istruttore o l’ora di apertura di seduta del tribunale che deve giudicarlo: sopra di essa, il corpo di guardia. Attraverso i cancelli che si aprono e chiudono successivamente (e soltanto il secondo si apre quando il primo sia ben chiuso) si penetra nel cuore del carcere, tra nere mura, sotto alte volte, per scale sotterranee. Si fa anche menzione delle abitazioni dei guardiani, del parlatorio, della «pistola», cella speciale per coloro che possono permettersi il lusso di pagare una pensione. Qui il nostro grande realista, nel trasportare i suoi due eroi del delitto — il feroce Carlos Herrera, che è Vautrin, e il debole suggestionato Lucien de Rubempré — tra le mura del carcere, dopo aver tutto tinto in nero, mette mano alle tinte rosee, assicurando che la pretesa tortura del carcere — insufficiente alimentazione, umide pietre trasudanti delle pareti, rozzezza (per non dire altro) dei carcerieri e via dicendo — è semplicemente materia da teatro (Splendeurs et misères ecc., p. 308). Ieri, sì, ma oggi — dice sempre il Nostro — no.

  Della prigione, poi, in cui era stato immesso l’ex forzato Jacques Collin, detto Trompe-la-Mort, sotto il nome dell'abate Carlos Herrera e già altra volta mascherato sotto il nome di Vautrin, larghissima è la descrizione, ne La dernière incarnation ecc., animata dal movimento e dal discorrere dei più vari e loschi personaggi, quivi rinchiusi. Insieme al narratore, voi entrate nel cortile ove innanzi e indietro passeggiano i carcerati «antichambre de l’échafaud et du bagne» (La dernière ecc., p. 29). Il patibolo può diventare — osserva l’esuberante nostro narratore frammettendo, come ognor Egli fa, il patetico romanticismo al più crude realismo — un piedestallo da cui si va al cielo, ma quel gelido cortile, più gelido del patibolo, rappresenta tutte le infamie della terra insieme senza possibilità di riscatto alcuno. Su quaranta metri di distesa e trenta di larghezza si trovano in quel momento riuniti cento e più individui, in attesa della Corte d’assise, quasi tutti venuti fuori dalle più miserabili classi della Società, mal vestiti, e dalla immonda fisonomia ... nessun sorriso; tutto è oscuro e tetro, dalle arcate e dalle mura agli uomini che là si muovono, tutto è muto — le mura e la coscienza — tutti diffidano l’uno dell’altro, a meno che tra qualcuno di essi non vi sia una di quelle amicizie, che può dirsi oscura e sinistra come il luogo, già nate nel bagno penale e che nel bagno persiste. In quel gruppo non si trova forse anche il delatore (mouton) messo tra loro per compiere spionaggio? Uno di questi cortili, in ogni prigione, ha qualche cosa in sè che lo fa rassomigliare fortemente a un ospedale di pazzi. «Le crime et la folie ont quelque similitude» (La dernière ecc., p. 32). Anche là, come accade dovunque gli uomini si aggruppano, predomina la forza fisica (o morale) formandosi una aristocrazia del delitto e dei delinquenti che si impone al resto della massa (Balzac qui si mostra conoscitore di quella psicologia delle folle e dei gruppi per la quale in un gruppo di santi governa il più santo, mentre — in forza della medesima legge — in un gruppo di assassini governa il più assassino). Colui che dovrà lasciare il capo sul patibolo dominerà, in quel tetro cortile, ogni altro; i momenti di svago passano spesso nel far caricatura di ciò che avverrà in Tribunale o in Corte d’assise con schernevoli ripetizioni di ciò che dirà l’accusatore pubblico o il presidente. Al quale proposito si mettono in scena, in quel cortile, l’assassino la Pouraille — un soprannome formato dalla parola pourriture, marciume, e dal suffisso dispregiativo e deformativo aille — di cui si narrano i portenti, oggetto, per la ragione di cui sopra, di terrore e di ammirazione da parte dei camerati. E si mette pur in scena l’ex forzato Sélérier, detto l’Auvergnac e anche detto le père Ralleau e anche le Ralleau e anche le Rouleur e detto infine Fil-de-Soie, recidivo più volte per furti qualificati, oltre che la figura dell’ex forzato Riganson, detto le Biffin (poiché sua concubina era una tale soprannominata la Biff... ammirevole gioco di linguaggio; nel linguaggio popolare, e anche nel gergo, Biffin significa cenciaiolo). Tutti parlanti — siamo sempre in quell’orrendo cortile — «la langue des grecs (truffatori), des filous (ladri) et des assassins» (La dernière incarnation, ecc. p. 35). Non si dimentichi: la Pouraille e Fil-de-Soie appartenevano, come già dicemmo, alla celebre società criminale detta dei Diecimila (senza allusione, davvero, a Senofonte, ma sol perché l’associazione non poteva occuparsi di furti c assassini da cui ricavare meno di diecimila franchi), mentre le Biffin faceva parte della non meno celebre compagnia di ladri e affini detta dei Fanandels, o compagni, e Trompe-la-Mort, e cioè Vautrin, vale a dire il personaggio principale del romanzo, era stato il cassiere di tale rispettabile ente autonomo; un cassiere — ben s’intende — che aveva profittato largamente dei fondi a lui affidati e che intendeva profittarne ancor più. Tutti chevaux de retour (recidivi che tornano in prigione) che già avevano mangiato le gourganes (parola della lingua corrente che indica una sorta di fava che si dà in pasto ai prigionieri) e che in quel cortile, chiuso da muri su cui si aprono porte e finestre sbarrate, guardate da sentinelle, stanno come il ragno al centro della sua tela. Segue una drammaticissima scena in cui il triunvirato degli assassini e ladri — la Pouraille, le Biffin e Fil-de-Soie — riconosce l’infedele cassiere, Trompe-la-Mort — allora allora introdotto nel cortile nel suo travestimento e cioè da sanglier (deformazione ironica, forse, della parola saint) — il tutto con schernevoli invettive, sarcasmi e ingiurie in pieno gergo.

  E infine, sempre in quella Dernière incarnation, in cui si svolgono le sopra dette scene, l’autore della Commedia umana non si fa scrupolo di soffermarsi, e non per breve spazio di tempo, a descrivere quella cella di prigione ove il condannato a morte passa l’ultimo suo dì; una orrenda scatola di pietra; grosse e impenetrabili muraglie; in alto, breve apertura armata di formidabili sbarre di ferro, mentre il condannato giace avvinto con catena al piede del letto e stretto in una specie di camicia di forza. Ognor si rimane nelle tenebre (La dernière incarnation ecc., pp. 62-63). Il tutto, con digressioni sull’orrore ed il tormento dell'isolamento cellulare (p. 62). Pagine, ancor oggi di piena attualità? Isolamento cellulare che è il vuoto, vuoto fisico e morale. La solitudine — continua Balzac — è solo permessa al genio che la popola dei suoi fantasmi o al mistico che la illumina con le luci che gli piovono dal cielo. Per chi non appartiene a una di queste due categorie di uomini, la solitudine della cella è «la suffrance (sic) multipliée par l’infini» (p. 62).

  Nello scenario del carcere, infine, anche un nuovo e strano profilo; quello di Sanson il carnefice, «uomo grande e grosso, il cui volto rubicondo e allungato non mancava di una tal quale distinzione» (La dernière incarnation ecc., p. 73), con relativa storia e documentazione circa la famiglia Sanson, in cui la esecuzione delle alte opere si tramandava di padre in figlio.

  7. - Etiologia del delitto secondo Balzac. Per quanto Balzac fosse attento e attentissimo osservatore della vita — che Egli guardava e sentiva, ripetiamo, attraverso il proprio temperamento — e per quanto l’ambiente fosco del delitto e del carcere, quello degli uomini di polizia, dei magistrati conducenti l’istruttoria, siano stati da lui più volte presentati, non può dirsi essersi Egli soffermato, sia pure a quando a quando, ad esporre idee sue circa ciò che oggi chiamiamo «etiologia del delitto» o «criminogenesi». Perché l’uomo o, piuttosto, questo o quell’uomo agisce e si conduce con azioni criminose? Breve cenno, tuttavia, potrebbe ricavarsi, se non facciamo errore, da quella pagina del romanzo: Albert Savarus (p. 209) (10). In quel romanzo, delineando la figura fisica e morale di Rosalie de Watteville e mostrandola in quanto al fisico sottile, fragile, piatta, insignificante, dalla pelle disseminata di lentiggini, vestita senza gusto, e accennando poi alle possibili cause della condotta maligna e perfida di lei, il Nostro par faccia comprendere che la condotta, in generale, è prodotta da un complesso di cause diverse. E cioè, dall’eredità, talché «nelle famiglie gli umori, i caratteri, lo spirito, il genio, riappaiono (attraverso le generazioni) a grandi intervalli proprio come accade per le malattie ereditarie e quindi del carattere (in ciò che esso ha di ereditario) e poi dall’educazione familiare, e poi ancora — o simultaneamente — dall’ambiente» (l’ambiente di provincia nel caso specifico di Rosalie). D’altronde, par che Balzac accenni al carattere congenito (un carattere di ferro, sempre nel caso specifico di Rosalie), sottintendendo, bene inteso, che esso è in funzione dell’eredità. In altre pagine, potrebbe forse rilevarsi una interpretazione del delitto e della condotta quale prodotto dell’ambiente sociale e soprattutto della povertà, come si legge in un passo del romanzo: L’interdiction (p. 216). In quel romanzo, mettendo sulla scena il buon giudice Popinot, il Nostro fa notare che, mentre per qualche tempo vedeva «i risultati giudiziari senza scorgerne le cause, a poco a poco giunse a risalire verso di esse scoprendo l’infinita povertà dei miseri, penetrando nelle soffitte, studiando le crudeli necessità che conducono gradualmente i poveri alle azioni più biasimevoli e misurando infine le lunghe lotte di costoro», fu preso da compassione. Origine sociale del delitto? Teoria unilaterale, monocorde e, vorremmo dire, quasi cieca. Forse che, risalendo la scala sociale e pervenendo insino agli strati economici e professionali più elevati, non si trovano a ogni gradino condotte criminali, o perfide, o esprimenti l’assoluta mancanza di senso morale, proprio come accade per i delinquenti più bassi ed abbietti? Lo stesso Balzac ciò più volte ammette ed anzi ciò più volte illustra con il mostrare di quanta crudeltà e cattiveria siano rivestite le lotte tra individui in ogni campo della Società (il «pessimismo» sociologico di Balzac, di cui avemmo a dare dimostrazione altrove). Insomma, una dottrina etiologica del delitto ha da tener presente una serie di fattori, o forze, o cause, o concause, ben diversi l’uno dall’altro ma agenti contemporaneamente, con maggiore forza l’uno, con minore l’altro — secondo i casi, i luoghi, i tempi, le persone — sullo stesso individuo.

  Come che sia, vorremmo far notare a proposito di questa etiologia del delitto, la quale pur avrebbe dovuto attirare a fondo l’attenzione di un realista e naturalista quale Balzac, che a quell’epoca gli studi sui delinquenti considerati «sotto il rapporto etiologico, morale e intellettuale», non mancavano, ed erano, anzi, studi originalissimi che, non privi davvero di qualche audacia e illusione «scientifica» (date le credenze scientifiche del momento), costituirono davvero un chiaro annunzio di ciò che la scienza doveva in avvenire mettere in evidenza. Ma Balzac, che pur chiaramente proclama doversi le sue scene e i suoi personaggi ispirare alle dottrine naturalistiche, tener presenti i risultati delle scienze naturali e mediche, e che pur con tanta abbondanza cita nomi di illustri naturalisti quali Cuvier, Lamarck, Saint-Hilaire, e altri, non sembra aver conosciuto le grandi opere in proposito quali, ad esempio, l’originalissima e audacissima opera del dottor N. Lauvergne: Les forçats considérés sous le rapport physiologique, moral et intellectuel, ecc., che si pubblicò a Parigi nel 1841, opera di cui anche le pagine italiane dei fondatori e dei cultori dell’antropologia criminale e della criminologia, ebbero spesso a far citazione. In essa si parlava soprattutto delle fisonomie speciali a certi delinquenti, delle bozze craniche, delle «teste bizzarre» proprie ad alcuni forzati, dello studio frenologico c psicologico del delinquente, ecc., insistendo soprattutto sul fattore biologico-individuale della delinquenza, e si parlava delle diverse categorie psicologiche di assassini, del costume della vendetta, delle varie categorie di ladri grandi e piccoli. [...]. Del resto, l’epoca in cui Balzac scriveva aveva visto in Francia grandi opere che conducevano esame biologico e sociale sulle classi pericolose della Società e sulla prostituzione [...]. Non si può dire crediamo che la vigile e irrequieta curiosità di Balzac si sia di quelle opere interessata. Per contro, conosceva Balzac assai bene la vita e le avventure di Vidocq ex forzato e poi fondatore della prima squadra mobile di polizia, oltre che le opere di costui sul delitto e sui delinquenti.

  Comunque sia non sarebbe forse azzardato giudizio l’avanzare che soprattutto nei tipi di delinquenti, di criminaloidi e simili, figuranti sullo scenario della Commedia, la fantasia e l’intrigo d’appendice prendano la mano e quasi travolgano la conoscenza della realtà [...]. Ma, ciò detto, non si dimentichi che sempre rimane Balzac tra i primi e i primissimi che vollero e seppero vedere la realtà anche in tutte le sue meno romantiche forme e descriverla attraverso le doviziose tinte della fantasia.

 

 

  Carlo Pellegrini, [Balzac], in Storia della letteratura francese. Terza edizione. Nuova ristampa, Milano-Messina, Casa Editrice Giuseppe Principato, 1957, pp. 392-397; 419.

 

  Cfr. 1939; 1946.

 

 

  Guido Piovene, Così la videro Balzac e Victor Hugo. I misteri della vecchia Parigi, «La Nuova Stampa», Torino, Anno XIII, N. 196, 18 Agosto 1957, p. 3.

 

  Quegli illustri romanzieri collocarono la metropoli tra i miti surreali, ne diedero un'immagine che parve quasi chimerica - Ma a investigare il cuore della grande città, ci si accorge ch’essi non inventarono gran che: erano precisi e documentati - Anche oggi migliaia e migliaia di case decrepite e pittoresche, appartamenti enigmatici, scale in penombra, un intrico, un labirinto ininterrotto di edifici rabberciati e assurdi trasfigurano quel mondo ottocentesco in affascinanti motivi poetici - Quartieri che affondano, la notte, in un silenzio un po’ sinistro, ma risuscitano con la luce, ed allora vi sciama la vita del popolo, vi scorre una sensazione felice di umanità.

 

  Crisi o non crisi, amo Parigi e la vita delle sue strade, press’a poco nello stesso modo con cui amo la vita delle strade di Napoli. Mi è sempre parso di trovare un’affinità segreta tra alcuni aspetti di Parigi e la nostra città che forse è più metropoli nel senso antico. Le mie preferenze, a Parigi, non vanno ai quartieri della Rive Gauche, che attraggono di più i turisti, bensì ai quartieri popolosi e schiumosi, e tuttavia senza nulla di lurido, compresi nel triangolo i cui lati più lunghi sono le falde di Montmartre e rue de Rivoli, l’apice il teatro dell'Opera, l’epicentro rue Turbigo. Sono quelli che hanno stuzzicato di più i grandi romanzieri del secolo scorso, da Balzac a Victor Hugo, e hanno fornito più elementi alla grande metropoli, insieme realistica e immaginaria, che sotto il nome di Parigi essi hanno aggiunto al patrimonio dei miti. Sono anche i quartieri che covarono più sommosse, e certo anche per questo Napoleone III, ammaestrato dall’esperienza dei re suoi predecessori, li fece in parte sventrare dai grandi Boulevards. E’ questa finalmente la Parigi delle sorprese, delle meraviglie, di quelli che si chiamarono «i misteri».

  Balzac, Hugo «inventarono», almeno in parte, una loro Parigi, come Dickens e Stevenson in parte «inventarono» Londra; e Victor Hugo, per esempio, spesso ottiene effetti di eccentrico, di smisurato e di mostruoso, proprio mediante il numero e la minuzia dei particolari esatti, portandoli all’ipertrofia, e sconvolgendo l’equilibrio della visione naturale. Tanto che la sua Parigi, tutta documentata, appare più chimerica della luna ariostesca. Quante volte, leggendo in uno di quegli scrittori la descrizione di una casa, la si trova così complicata e assurda per viverci, che non si capisce perché gli uomini l’abbiano costruita a quel modo; a meno che, si pensa, non abbiano scelto di vivere in una casa surrealista solo per fornire elementi al gusto del mistero dei romanzieri. Eppure, girando Parigi, e specialmente i quartieri che ha detto, con uno stato d’animo investigativo, ci si accorge che in fondo quei romanzieri si scostavano dalla realtà molto meno di quanto non si pensi leggendoli; e dalla Parigi di oggi si vede sorgere il fantasma della romanzesca metropoli degli scrittori ottocenteschi. [...].

 

 

  Carmelo Puglionisi, Un sentiero d’ombra e di silenzio. Destino di Balzac, «La Sicilia», Catania, Anno XIII, N. 176, 25 Luglio 1957, p. 3.

 

  Non ebbe fortuna da vivo e continua a non averne dentro la tomba.

 

  Bello non poteva dirsi proprio no. Curioso, sì con quella sua testa possente dove l’alta fronte non riusciva a cancellare l’impressione suscitata dalle labbra spesse e dal collo taurino, sintomi di una forza vitale straordinaria e di un appetito di vivere, e di vivere bene, addirittura eccezionale.

  Quanto agli occhi, non è possibile evidentemente giudicare nemmeno per scienza indiretta. I ritratti e le caricature che sono giunte sino a noi non possono far testo in materia. Ma le impressioni dei contemporanei sono concordi e si trovano confermate dall’opera. Erano occhi che cancellavano la bruttezza del viso, la facevano dimenticare e lo rendevano attraente, con quelle loro penetranti pupille che fotografavano tutto in ogni particolare, anche nei minimi, e scendevano giù in profondità sino a percepire i moti dell’animo e a identificare le leve dello spirito.

 

L’epoca della Borghesia.

 

  Madame Hanska. la bella e stramba polacca che acconsentì a sposarlo per poi lasciarlo morire solo, come un cane, questo soprattutto amò della sua persona, da tanto fu soggiogata, dal dinamismo dello sguardo, come, del resto, prima di lei, le amiche parigine. E anche noi, posteri, siamo, per via riflessa, nello stesso caso. Volevo dire che quanto ci colpisce in Balzac innanzi tutto non è la sua vita che fu, senza dubbio, pittoresca, chimerica e sfortunata, ma non più di tante altre, oggi dimenticate. E nemmeno la sua arte di narratore non esattamente pura e scevra di innesti ibridi e di cattiva lega E’ quanto egli seppe vedere e consegnare sulla carta, l’immensa massa delle osservazioni e rilievi racchiusa nella interminabile serie dei suoi libri, nel grandioso affresco della «Comédie Humaine»: opera che prima di suscitare l’ammirazione provoca, per l’appunto, lo stupore per tutto quello che l’autore riuscì a mettervi dentro: personaggi, avvenimenti, città, salotti, vie e vicoli, stamberghe etc. e, con ciò, passioni e sentimenti di ogni sorta, di qualsiasi densità.

  Bisogna riconoscere, tuttavia, che l’epoca si prestava a un così vertiginoso possesso. Era un’epoca vergine che aspettava chi la scoprisse e la aiutasse a prendere coscienza di sé: un terreno intatto in attesa di colui che lo dissodasse. La rivoluzione francese era finita da poco, vittoriosamente. L’avventura giacobina si era conclusa male, è vero, con Napoleone come epigono. Sul trono di Francia si trovavano di bel nuovo i Borboni. La borghesia, però, trionfava dopo essersi imposta su tutta la linea o quasi. Dominava, non era più dominata. Dettava legge, non la subiva. Il vecchio mondo feudale e cattolico apparteneva ormai al passato coi suoi valori scaduti. Il sangue non contava più nulla sul terreno sociale; non aveva diritti e particolari privilegi; non bastava di per sé ad assicurare un posto predominante nella società, una funzione nello Stato. Quanto si imponeva era il denaro; ciò che contava nella lotta per la vita era la qualità umana: il carattere, l’energia, la ambizione, gli appetiti, l’intelligenza.

  Balzac, vissuto cento anni prima, avrebbe probabilmente sciupato il suo genio senza cavarne nulla di buono. Ma spuntò fuori al momento giusto, nella prima metà dell’ottocento, in un secolo che il padreterno sembrava avesse fatto apposta per lui, nuovo di zecca, uscito fresco fresco dalle officine della Provvidenza, ed egli ne fece il suo feudo personale, se lo girò in lungo e in largo, lo mise a profitto e fece la sua fortuna.

  Dico «fortuna» senza voler fare con questo nessuna maligna allusione alle disavventure finanziarie che gli amareggiarono l’esistenza e furono quelle che tutti sanno. Mi riferisco al successo letterario, postumo soprattutto, nel quale le virtù che gli son proprie, come scrittore, entrano certo in predominante misura ma che deve pure un buon contributo a quel che c’è in lui, ed è molto, di rappresentativo di un costume e di qualità che esistono sempre, e sempre stanno al primo posto.

 

Onori transitori.

 

  La Francia contemporanea ha onorato in ogni circostanza i suoi massimi scrittori. Non ha mai lasciato passare una sola occasione per rimetterli in vetrina. In questo ci sa fare come nessuno: nulla da eccepire. Serve loro ma serve anche, e per prima cosa, se stessa. Cementa lo spirito nazionale, rinsalda la tradizione, mantiene e diffonde la sua influenza nel mondo.

  E non ha preferenze, non mostra particolari inclinazioni.

  Nel 1950, tuttavia, in occasione del centenario della morte, fece un’eccezione per Balzac, forse per questo suo rimanere attuale più di chiunque. Vide in lui il suo Omero, il rapsodo della classe che fondò l’attuale regime e di esso rimane tuttora al timone: dei suoi fasti, dei suoi tipi umani, del suo mondo interiore, delle sue vittime pure.

  Le manifestazioni furono infinite a Parigi e in provincia: ad Alençon, a Tours, e Vendôme, a Fougères, a Provins e altrove. La Biblioteca Nazionale organizzò una esposizione che fu una apoteosi: manoscritti, bozze costellate di correzioni, lettere, documenti di ogni sorta, illustrazioni, ritratti, caricature, litografie e che so io ancora, in una profusione che richiamava alla mente la straripante fecondità dello scrittore. Tutto quanto si potè riunire, insomma, stava lì a sommergere il visitatore come sotto una valanga. A dirgli subito che alto prezzo si attribuisca, in Francia, alla sua opera.

  Ed è per tal motivo che si resta alquanto sorpresi nel constatare quanto poco corrispondano, a Parigi, gli onori permanenti alla fama e a codesti onori transeunti. La nazione ebbe un altro grande ciclope rappresentativo nel secolo scorso: Victor Hugo. Il poeta della Contemplations ha dato il suo nome, nella città, ad una lunga interminabile avenue che converge, con tante altre, nell’Arco del Trionfo, vertice della raggera. Riposa al Pantheon. E’ ricordato da un ampio e bene organizzato museo sistemato nella casa che abitò, a Place des Vosges, dove i pellegrini non mancano mai.

  Balzac dorme il suo ultimo sonno non so dove. V’è solo una stradetta in salita nel quartiere dei Campi Elisi, un vero spezzone, che si chiama come lui. E un vero e proprio museo non è riuscito ad averlo. Prima di sposarsi con madame Hanska e trasferirsi a rue Beaujon, egli abitò per molto tempo al 47 della rue Raymond (sic), a Passy, dove scrisse i grandi capolavori della maturità. La contessa di Limur, nel 1947, schifata, passatemi la parola, dalla taccagneria delle autorità, dette quanto occorreva per l’acquisto e la metamorfosi dello stabile intero. Il Consiglio municipale. punto sul vivo, lo dichiarò allora di pubblica utilità autorizzandone, con ciò, l’esproprio. Ma il museo, lì, non v’è ancora e chissà se mai ci sarà, ché così non possono chiamarsi le poche misere stanzette dove stanno, al pianterreno, alcuni cimelii suoi. Una irrisione. I proprietari sono riusciti ad evitare lo sfratto con sottigliezze e processi. La lite continua sempre, sfida il tempo.

 

L’opposto di Hugo.

 

  Dinnanzi a tanto abbandono e a una così flagrante disparità di destino postumo, mi sono posto, parecchie volte, l’interrogativo: Perché? Da quel recondito motivo che trae origine codesto permanente di sdegno dei parigini verso uno scrittore al quale oltre tutto la loro città deve parte, e buona parte, della sua gloria? Ma non ho saputo trovare risposta ai quesiti. Una risposta soddisfacente, intendo, in quanto, ad essere sinceri, una idea m’è frullata per la mente, di quelle, però, che si esita un po’ a comunicare agli altri.

  Balzac ancor prima che in morte, fu sfortunato da vivo, e in ogni campo: in amore, in affari, in ambizione. Non gliene andò mai bene una sola. Tutto l’opposto di Hugo che, se visse l’esilio, gustò anche, e largamente, le grandi gioie che la vita può dare a un uomo. Fu Pari di Francia, accademico, popolarissimo ovunque, amato con trasporto e devozione da una quantità di donne. E non ebbe mai bisogno di denaro.

  Che la fortuna e la sfortuna, mi son detto, sopravvivano alla morte? Se le cose stessero veramente così? E se, vera per lui, la faccenda fosse vera per tutti?

  Questo, ripeto, mi son sussurrato da me a me, e questo vi bisbiglio ora all’orecchio. Non prendete, però, sul serio, le mie parole e non impegnatevi sul sentiero che tracciano innanzi alla mente. E’ un sentiero d’ombra e di silenzio. E non si sa davvero dove possa condurre.

 

 

  A. Satto, Preamboli, «La Nazione», Firenze, 26 maggio 1957, p. 3.

 

 

  Aggeo Savioli, Il secondo spettacolo del T. N. P. di Jean Vilar. “Le faiseur” di Honoré de Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XXXIV Nuova Serie, N. 130, 11 maggio 1957, p. 3.

 

  Le faiseur (ovvero L’affarista) è Mercadet, tipico personaggio balzachiano, in cui si riflettono vividamente i caratteri concreti di altre creature dell’autore: pensiamo a Birotteau, a Grandet, alle figure dominate dalla potenza del denaro e che cercano a sua volta di dominarla, ai realistici rappresentanti di un’epoca febbrile, a cavallo fra due società, che Balzac seppe genialmente comprendere ed esprimere in forma d’arte, come nessuno più.

 

 

  Adriano Seroni, Le tesi di Balzac, in Leggere e sperimentare, Firenze, Parenti Editore, 1957 («Saggi di cultura moderna», Volume XXII), pp. 99-110.

 

  Cfr. 1955.

 

 

  Maria Luisa Spaziani, Amava il nostro paese ma non aveva letto «I promessi sposi». Balzac in Italia, «Radiocorriere. Settimanale della radio e della televisione», Torino, Anno XXXIV, N. 36, 8-14 settembre 1957, p. 9; 1 ill. [Balzac in un ritratto di Louis Boulanger].

 

  Ogni viaggio italiano del grande romanziere è significativo: segna un’epoca della sua storia personale, un aspetto dei suoi sogni generosi, della sua fantasia, della sua solitudine.

 

  Ben prima che Balzac scendesse in Italia, l’Italia era venuta a lui in vari modi. Con il Medioevo e con Dante ad esempio, che, esule a Parigi nel racconto I proscritti, più tardi gli ispirerà il grandioso titolo di Commedia umana, moderna «summa» già presagita dal trentacinquenne autore nel 1831: «Parigi, inferno che un giorno avrà forse il suo Dante ...». Era venuta a lui con la grazia e l’illimitata generosità della contessa Guidoboni Visconti, un nome antico e illustre che da solo sarebbe bastato (come più tardi basterà per Proust) ad accendere l’appassionato snobismo di Balzac. Gli era infine venuta con il fascino del personaggio rinascimentale, volontaristico e a tutto tondo, che di volta in volta si chiamerà Caterina dei Medici, Imperia, Giulio II, l’Ariosto, il Bandello, Michelangelo, incarnazioni di quel «vitalismo machiavellico», di quella virtù energetica troppo intimamente rispondenti al temperamento di Balzac per non conquistarlo.

  Fu forse anche per questo suo amore antico e italiano, identificato con un preciso valore psicologico, che nella marea dei contemporanei romanzi a successo, egli isolò ed intuì per primo il genio di un altro celeberrimo innamorato dell’Italia d’un tempo, Stendhal, autore anonimo della Certosa di Parma e teorico dell’energia come lui lo era stato della volontà.

  Il primo, vero viaggio in Italia non avvenne che nel 1836, quando dunque Balzac aveva trentasette anni. I primi mesi dell’anno erano stati rovinosi per lui: processi, sequestri, minacce, fallimenti e lunghe e tetre ore nella prigione di stato, ché i creditori non si ritiravano certo con rispetto e discrezione di fronte all’astro sempre più fulgido dell’autore di Le père Goriot, né sedici ore di lavoro quotidiano, furiosamente gettate nel crogiolo di una sbalorditiva serie di capolavori, bastavano a coprire le magnificenze, i capricci e i pazzeschi tentativi industriali dell’irrequieto romanziere tutto teso ad «arricchire rapidamente», a uscire dalla lotta snervante con il denaro e a conquistarsi una volta per tutte la tranquillità necessaria per «mettere la volta» sull’immensa cattedrale della Commedia.

  Sottrarsi agli impegni, alle scadenze, alla caccia dei creditori era un miraggio troppo invitante. Ed ecco venirgli incontro la contessa Visconti, forse l’amante più dolce e comprensiva che Balzac abbia incontrato nel corso della sua drammatica vita amorosa. La Visconti, consorte del discendente degli antichi signori di Milano, convince il marito ad affidare a quel focoso e onnipresente amico di famiglia la conclusione di certi complicati affari ereditari milanesi. Felice, Balzac parte, ma non parte solo. Nonostante la Visconti, amante parigina ufficiale, e nonostante soprattutto madame Hanska, l’altera e sospettosa fidanzata che, persa nelle nevi russe, dovrà aspettare otto anni la morte del vecchio marito, Balzac ha da pochi giorni intrecciato un amoretto provinciale con una giovanissima signora, conosciuta al solito per corrispondenza, e come una falena attratta a Parigi dalla luce del grande scrittore. Come giustificare la partenza in due e l’arrivo in una città dove la fama del romanziere corre da anni e dove basterebbe il suo pingue e inconfondibile fisico a dar l’allarme? Ed ecco una delle tante idee romanzesche che fanno dell’esistenza di Balzac la più incredibile delle sue fantasie: fa vestire la giovane amica da paggio, e quando dopo sei giorni di viaggio attraverso il Moncenisio arriva a Torino, prendendo alloggio all’Hotel Europa in piazza Castello, continuerà a tenersela vicina vestita da uomo e a portarsela dietro in tutte le aristocratiche case che lo invitano. Ne nasce una serie di spassose complicazioni: per via del travestimento, difficile da tener segreto date le grazie della signora, si sparge tra l’altro la voce che è giunta in città Giorgio Sand in incognito, reduce dalle celebri avventure e fughe veneziane.

  Nel secondo viaggio, febbraio 1837, Balzac è solo, e con maggior impegno si occupa dell’eredità Visconti per la quale la contessa è di nuovo intervenuta presso il docilissimo marito. Balzac è a Milano, scende all’Albergo Bella Venezia e l’ammirazione calda da cui si sente circondato lo consola delle avversità e tetraggini parigine. La contessa Maffei lo porta in giro nella sua carrozza, le più illustri famiglie vanno a gara nell’ospitarlo nei palchi della «Scala», la principessa Belgioioso lo invita nel suo famoso salotto. Soltanto l’incontro con Manzoni riesce alquanto freddo. Balzac non ha letto i Promessi Sposi, e, non sapendo che argomento trattare, parla un po’ troppo di sé. Poi una settimana a Venezia. Ma la città da tanti anni sognata è una delusione, piovosa, opaca, spenta. Il che non impedirà a Balzac di scrivere una deliziosa novella, Massimilla Doni, che è restata una delle più alte immagini poetiche della città lagunare. Decide di ritornare per la Riviera, risalendo a Nizza, ma giunto a Genova viene avvertito (incidente frequentissimo allora) che per una sospetta epidemia verrà trattenuto in quarantena. A parte la solita penuria di denaro, il contrattempo non è grave. Ma gravissime ne sono le conseguenze. Ecco infatti che un loquace compagno di quella momentanea prigionia, un certo Beppe Pozzi (sic) di professione mercante, per ammazzare il tempo gli parla di una sua antica pena: quella di non aver denaro da investire nelle miniere d’argento della Sardegna, deserte dal tempo dei Romani ma indubbiamente ricchissime. Basta poco per scatenare la pirotecnica fantasia di Balzac. Eccolo che risale a Parigi deciso a far denaro in fretta, con qualsiasi mezzo, per ritornare in Italia a chiedere i permessi di sfruttamento e lanciarsi nella gigantesca impresa capace di assicurargli finalmente la ricchezza e la pace. Non è la prima delle sue speculazioni sbagliate né l’ultimo dei suoi immensi ponti senza piloni di sostegno. Tutto quello che possiede verrà inghiottito dal progetto, compensi giornalistici, diritti d’autore, aiuti di amiche e parenti, terreni già comprati dove la casa dei suoi sogni avrebbe dovuto sorgere. E, per unire la beffa al danno, mentre lui si affanna a Parigi ecco quel Beppe Pozzi precederlo nell’idea, messo in sospetto dal suo ingenuo entusiasmo, e fondare poco dopo una società di sfruttamento delle miniere sarde.

  Ogni viaggio italiano di Balzac è significativo, segna un’epoca della sua storia personale, alza le insegne di una particolare follia o ebbrezza o sogno generoso. Dalla mascherata del giovane paggio alle ovazioni milanesi, dalla raccolta solitudine e forse delusione veneziana al rocambolesco progetto di far scaturire fontane di ricchezza dalle sterpaglie della Sardegna. Anche il quarto e ultimo viaggio, nel novembre del 1845, coinciderà con un «momento» della vita di Balzac, quello del ripiegamento, forse inconscio, quello del precoce autunno. E’ in compagnia di madame Hanska, finalmente vedova, finalmente libera. Dopo quasi dieci anni di attesa la «fidanzata» però indugia, rimanda, pare abbia paura di restare sola con il vulcanico amante e sempre si trascina dietro la figlia e il genero. Non sa se sposare il suo «povero mugik», il suo geniale plebeo dalle maniere così poco raffinate. Balzac aspetta, paziente e rassegnato, e tenta di tenere allegra la compagnia. Ma nelle passeggiate nei vicoli di Napoli o nella campagna romana, come un velo impercettibile di mestizia si stende tra lui e le cose. Forse presente la sua fine tristissima nel sontuoso palazzo di Parigi che sta per accoglierlo libero da ogni assillo finanziario, libero per la sua grande opera incompiuta, al fianco di madame Hanska finalmente diventata sua moglie. Il sontuoso palazzo delle sue fantasie, dove non gli resteranno che cinque mesi di vita.



  Rossano Zezzos, Biografia del denaro, «Cronache economiche», Torino, N. 174, giugno 1957, pp. 65-69.

 

  p. 69. La guerra, i prestiti, le subitanee fortune di certuni, l’ascesa di alcuni banchieri, specie in Francia, fruttificarono nella mente del creatore del romanzo borghese e provinciale, Onorato di Balzac, che ferma l’ansia dell’uomo di commercio nel «Cesare Birotteau», l’astuzia dell’uomo d’affari nel «Mercadet», l’avidità dell’avaro e l’inutilità di una ricchezza inoperosa in «Eugenia Grandet» il cui padre «mira solo ad accumulare oro a palate».

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Antologia. Da «Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau» di Honoré de Balzac, Terzo Programma, 10 Agosto 1957.

 

 

  Mercadet, commedia in tre atti di Honoré de Balzac. Traduzione di Eugenio Gara, Monteceneri, 1° dicembre 1957.

 

 

  Onorina, romanzo di H. de Balzac. Adattamento di Nicola Manzari. Compagnia di prosa di Firenze della Radiotelevisione italiana. Regia di Amerigo Gomez, Secondo Programma, 27 maggio-3 giugno 1957, quattro puntate.

 

 

  Le Serment. Episodio lirico in due quadri (da Balzac). Adattamento drammatico di Dominique Vincent, musica di Alexandre Tansman, Terzo Programma, 20 Ottobre 1957.

 

 

  La zitella, di H. De Balzac. Traduzione e adattamento di Dino De Palma. Compagnia di prosa di Firenze della Radiotelevisione italiana. Regia di Umberto Benedetto, Programma Nazionale, 20 Settembre 1957.


Marco Stupazzoni

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