lunedì 6 luglio 2020



1958

 


 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Le Réquisitionnaire par Honoré de Balzac, in Giuseppe Lami, Contes et nouvelles des meilleurs écrivains français, Torino, G. B. Petrini Editore, 1958, pp. 117-141.

 

  Alcuni tagli sono presenti in questa trascrizione del racconto filosofico balzachiano. Il testo è preceduto dalla seguente nota (p. 118):

 

Honoré de Balzac (1799-1850).

 

  La prima metà del XIX secolo, che aveva visto la grande affermazione romantica, segnò anche l’inizio di una sempre maggiore reazione al romanticismo, accusato di alterare e di idealizzare la vita anziché riprodurla fedelmente.

  Sorse così una letteratura basata non sul sentimento o sull’immaginazione, bensì preoccupata di ricercare la verità oggettiva senza eccessive preoccupazioni morali o estetiche.

  Questo movimento letterario, che annoverò scrittori di chiara fama quali Balzac, Mérimée, Flaubert, Maupassant ed altri, prese il nome di realismo ed ebbe una notevole influenza sugli scrittori della seconda metà del secolo scorso.

  Balzac fu il precursore ed uno dei maggiori rappresentanti della corrente realista. Nato a Tours nel 1799 da famiglia modesta, egli compì gli studi a Parigi e si dedicò ben presto alle lettere.

  I suoi inizi non furono facili, ma nel 1829, la pubblicazione del romanzo Le dernier Chouan lo fece conoscere al grande pubblico; due anni dopo un altro lavoro, La Peau de chagrin, lo rese celebre.

  I suoi numerosissimi romanzi (ricordiamo, in particolare, Eugénie Grandet, Les Chouans, Le Père Goriot, La Cousine Bette e Le Cousin Pons) insieme a non pochi racconti — gli scritti a carattere narrativo di Balzac sono più di novanta — costituiscono un’opera immensa, che egli chiamò La Comédie Humaine.

  L’ambizione di Balzac era di fare entrare nella sua opera tutta la società contemporanea, in maniera da tramandare ai posteri una documentazione viva e precisa dell’epoca in cui egli visse.

  Le due novelle incluse in questa raccolta: Le Réquisitionnaire e Une évasion, hanno per sfondo il tormentato periodo della Rivoluzione francese. Tratti dalla Comédie humaine, questi racconti, il cui interesse drammatico è vivo dal principio alla fine, ci danno un’idea della potenza creativa di questo grande scrittore.

 

 

 

Estratti in lingua francese.

 

 

  Une évasion par Honoré de Balzac, Ibid., pp. 143-153.

 

  Da: La Muse du Département.

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Il racconto del sabato. Le delizie degli scapoli, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XIV, N. 117, 17-18 maggio 1958, p. 5.

 

  Da: Petites misères de la vie conjugale.



  Onorato di Balzac, Nel deserto, in AA.VV., Il Contanovelle. Novelle e racconti da Sacchetti, Gozzi, Maupassant, Jerome e altri narrati da Milli Dandolo illustrati da Carlo Parmeggiani, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1958 («La Scala d’oro. Biblioteca graduata per i ragazzi concepita e diretta da Vincenzo Errante e Fernando Palazzi. Serie quarta per i ragazzi di nove anni», N. 5), pp. 103-110.

 

  Da: Une passion dans le désert.


 

 

Traduzioni.

 

 

  Onorato de Balzac, I Capolavori della «Commedia umana». L’illustre Gaudissart. Il Gabinetto delle antichità. I Contadini. A cura di Paolo Russo, Roma, Gherardo Casini editore, 1958 («I grandi maestri», 32), Volume IV, pp. 597.

 

  Struttura dell’opera:

 

  L’illustre Gaudissart, pp. 1-50;

  Il Gabinetto delle antichità, pp. 51-218;

  I Contadini, pp. 219-595.

 

  La traduzione dei tre romanzi qui raccolti è da ritenersi fedele e corretta.

 

 

  Honoré de Balzac, Il medico di campagna. Traduzione di Alfredo Jeri, Milano, Rizzoli Editore, 1958 («Biblioteca Universale Rizzoli», 1254-1256), pp. 244.


  Struttura dell’opera:

 

  Alfredo Jeri, Nota, pp. 5-8;

  Il medico di campagna, pp. 9-243. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].


  La versione italiana che A. Jeri fornisce de Le Médecin de campagne non ci pare qualitativamente esemplare per fedeltà e aderenza al modello francese, come dimostra, a nostro avviso, una certa disinvoltura da parte del compilatore nei confronti del testo balzachiano fin dalle prime pagine del romanzo:

 

 p. 385 [cfr. Balzac, Le Médecin de campagne, a cura di Rose Fortassier, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1978, t. IX].

 

  En 1829, par une jolie matinée de printemps, un homme âgé d’environ cinquante ans suivait à cheval le chemin montagneux qui mène à un gros bourg situé près de la Grande-Chartreuse. Ce bourg est le chef-lieu d’un canton populeux circonscrit par une longue vallée. Un torrent à lit pierreux souvent à sec, alors rempli par la fonte des neiges, arrose cette vallée serrée entre deux montagnes parallèles, que dominent de toutes parts les pics de la Savoie et ceux du Dauphiné. Quoique les paysages compris entre la chaîne des deux Mauriennes aient un air de famille, le canton à travers lequel cheminait l’étranger présente des mouvements de terrain et des accidents de lumière qu’on chercherait vainement ailleurs. Tantôt la vallée subitement élargie offre un irrégulier tapis de cette verdure que les constantes irrigations dues aux montagnes entretiennent si fraîche et si douce à l’œil pendant toutes les saisons ; tantôt un moulin à scie montre ses humbles constructions pittoresquement placées, sa provision de longs sapins sans écorce, et son cours d’eau pris au torrent et conduit par de grands tuyaux de bois carrément creusés, d’où s’échappe par les fentes une nappe de filets humides. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 11. Nel 1829, in un bel mattino di primavera, un uomo sulla cinquantina percorreva a cavallo una strada di montagna che conduce a una grossa borgata net dintorni della Grande Certosa. La borgata è capoluogo d’una popolosa plaga la quale si stende, conchiudendovisi, per il lungo di una valle.

  Un torrente sassoso, spesso all’asciutto, ma in quella primavera gonfio per lo sciogliersi delle nevi, bagna la valle che, stretta fra due montagne parallele, è come vigilata torno torno dalle alte cime della Savoia e del Delfinato. Il paesaggio fra la catena delle Mauriennes non offre gran che di particolare, simile com’è a tant’altri; ma la zona attraversata dall’uomo a cavallo ha ondulazioni e giuochi di luce che non si vedono dappertutto: ora la valle s’allarga Improvvisamente in un ampio e irregolare tappeto di quel verde bellissimo che la costante irrigazione montana mantiene tenero e fresco in ogni stagione; ora una segheria mostra i suoi rustici scomparti su ridossi ameni, le cataste dei lunghi abeti nudi, e il rivolo d’acqua che, incanalatovi dal torrente, scorre poi in grosse rettangolari tubature di legno scortecciato dalle cui fenditure vien giù tutt’una trina di fili d’argento.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino (La peau de chagrin). La ricerca dell’assoluto (La recherche de l’absolu). Prefazione di Silvio Locatelli, traduzione di Maria Serena Battaglia, Novara, Edizioni per il Club del Libro, 1958 («Collana dei grandi narratori», 3), pp. 547.

 

  Struttura dell’opera:

 

  S.[ilvio] L.[ocatelli], Prefazione, pp. 5-19. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  La pelle di zigrino, pp. 21-314;

  La ricerca dell’assoluto, pp. 315-534;

  Cenni biografici, pp. 535-543.

 

  La traduzione di M. S. Battaglia è collazionata sul testo stabilito da Marcel Bouteron per l’edizione completa de La Comédie humaine (Bibliothèque de la Pléiade, 1951) e sui testi curati da Jean Adhémar e da Maurice Allem.

  Trascriviamo qui, integralmente, le pagine relative ai Cenni biografici redatte verosimilmente dallo stesso Locatelli e presenti alla fine del volume:

 

  Balzac nacque a Tours da genitori non originari di quella città, il 20 maggio del 1799. Era il giorno di Saint-Honoré (sic) e del santo lo scrittore ebbe il nome. Il padre, Francesco Balssa, che mutò ben presto il nome in Balzac, era di Nougaïrié, donde viene il ceppo dei Balssa; la madre, Anna Carlotta Laura Sallambier, era invece parigina. Molte qualità del padre si ritroveranno nel figlio: Francesco Balzac era un uomo geniale, pieno di idee, — originali e fantastiche anche, — vigoroso, sanguigno; leggeva molto, parlava molto, mangiava molto e beveva molto. Balzac non ereditò molte delle qualità materne, ma, tuttavia, furono anch’esse determinanti nella sua formazione.

  Il matrimonio tra Francesco Balssa e Laura Sallambier non fu felice. Laura aveva trentadue anni meno del marito. Giovinetta poco più che diciannovenne, si uni ad un uomo di oltre cinquant’anni, nel pieno della sua maturità. Laura era molto graziosa, intelligente, di spirito fantasioso, amante delle letture mistiche e di scienze occulte, dell’eleganza e del denaro. L’accordo col marito durò poco. La madre di Balzac mancava di arrendevolezza: era, anzi, piuttosto autoritaria. L’unione non fu neppure un modello di virtù.

  Honoré ebbe un fratello: Henri, che emigrò in America, dove morì giovane, e due sorelle: Laura e Lorenza. Laura fu la sua confidente, la donna in cui trovò tutto l'affetto che la madre, nella sua fin troppo palese preferenza per il figlio adulterino, sempre, o quasi, gli negò. Malauguratamente, Honoré comprese assai presto le ragioni per le quali lui, «figlio del dovere e del caso», non ebbe tutta la dedizione materna, e fu giudice di sua madre. Pare anzi che l’abbia dipinta nei tratti più spiacevoli della Cousine Bette. Nelle lettere a Zulma Carraud, alla de Berny e alla contessa Hanska, egli parla sovente di questa sua amarezza.

  Honoré Balzac trascorse i suoi primi anni a Tours. Il padre vi era stato trasferito dal 1797, come ufficiale municipale addetto all’amministrazione degli approvvigionamenti, e qui divenne amministratore dell’«Hospice général».

  La madre poco si curò dell’educazione del figlio, il quale la udiva sempre sognare e vagheggiare grandi fortune. «La grande fortune aujourd’hui est tout», ella soleva ripetere; e per sfuggire ad una realtà sconfortante, si tuffava nella lettura dei libri di scienze occulte e mistiche, che furono presto i libri amati anche da Honoré e il cui influsso si farà poi sentire nella sua opera grandiosa.

  Honoré imparò a leggere e a scrivere all’esternato Legay di Tours, poi passò al collegio Vendôme, diretto dagli Oratoriani. Già davanti al suo nome brillava un de nobiliare. Il padre l’aveva inaugurato al fonte battesimale della secondogenita Laura, di un anno soltanto minore di Honoré. Per sei anni Honoré rimase dagli Oratoriani. La madre si disinteressò completamente di lui; gli fece una sola visita ed egli non si recò mai a casa. Il ragazzo non era un allievo modello. Ebbe una crisi mistica in occasione della prima comunione, poi si diede alla lettura di tutto ciò che gli capitava fra le mani. Fu un lettore avido ma disordinato, difetto che conservò sempre. Spesso punito per la sua intolleranza ad uno studio metodico, infine, deperito e sofferente, venne rimandato a casa e, dopo un breve periodo di riposo, fu iscritto al ginnasio di Tours.

  Un anno dopo questo avvenimento, nel 1814, tutta la famiglia si trasferì a Parigi, seguendo il padre, nominato direttore della prima Divisione parigina degli Approvvigionamenti. Honoré fu messo all’istituto Lepître, dove lo stesso signor Lepître lo prese a ben volere, inculcandogli forse le sue idee monarchiche assolutistiche che Balzac non rinnegò più.

  Bene o male, più male che bene, il giovane Honoré conseguì il baccellierato nel 1816 e, mentre faceva pratica in uno studio legale, quello di Guyonnet de Merville, frequentò i corsi di diritto alla Sorbona. Tre anni dopo, finiti gli studi in diritto e seguiti i corsi di lettere, al momento di decidere la propria carriera, Honoré rifiutò di entrare nello studio notarile di un amico paterno, e dichiarò di voler fare lo scrittore. Il padre si oppose, la madre fece altrettanto, avversando il figlio con pervicacia La vita in famiglia divenne impossibile. Finalmente, il padre cedette e decise di concedergli due anni di prova. Entro tale termine Honoré doveva dimostrare il suo talento. La madre, visto che la famiglia si ritirava a Villeparis (sic), poiché Francesco de Balzac aveva raggiunto i limiti di età per il servizio attivo, cercò un alloggio per il primogenito e gli trovò una mansarda al numero 9 di rue Lesdiguières.

  In due anni, con un appannaggio meschino, appena bastante per non morir di fame, Balzac avrebbe dovuto vincere la sua battaglia. Il tempo era insufficiente. Honoré conobbe un’amica della sorella Laura, Zulma Tourangin Carraud, si legò a lei di una purissima amicizia e ne ebbe consigli e conforto. Finalmente, nel maggio del 1820, lesse in famiglia la sua prima tragedia, il Cromwell. L’opera non piacque affatto. Decisero di ricorrere al parere di un estraneo. I biografi sostengono che venne chiamato il professor Surville, padre dell’uomo che avrebbe in seguito sposato la sorella Laura, ma i pareri sono discordi: si fa anche il nome del poeta Andrieux. Comunque fosse, anche questo parere fu negativo. Balzac avrebbe dovuto arrendersi, per mantenere fede ai patti. Il giovane invece rinunciò alle tragedie, rientrò in famiglia, ma continuò a scrivere. E così, nel 1821, conobbe, proprio in famiglia, la signora de Berny, figlia di un musicista tedesco. Honoré, che aveva ventun anno meno della donna, madre di otto figli, si legò tuttavia a lei di tenera amicizia, poi l’amò con tutta la dedizione di un cuore giovane assetato di comprensione. Il loro amore durò fino al 1836, anno in cui la signora de Berny scomparve. Balzac conservò sempre per lei un ricordo pieno d’affetto e di venerazione. L’influsso della donna sul giovane scrittore fu sensibile. Ella lo indusse a non abbandonare le lettere e gli diede il gusto dell’eleganza e delle cose belle. Fu prodiga d’amore e piena di abnegazione, e fors’anche lo spinse a tentativi industriali che, disgraziatamente, risultarono disastrosi.

  Honoré, preso d’ammirazione per Walter Scott, cercò di seguirne le tracce. Trovò persino un editore: Le Poitivin, che gli stampò e pubblicò, uno dopo l'altro, sette romanzi, pagandolo. Convinto però che si sarebbe ucciso di fatica prima di raggiungere la ricchezza, Balzac, incoraggiato dalla de Berny, nel 1825, si improvvisò editore. In società con Canel, si indebitò fino al collo. Tentò ancora e i debiti aumentarono. Per rifarsi, creò una fonderia di caratteri con Laurent e la stessa signora de Berny. I debiti salirono alle stelle. La madre intervenne per salvare il figlio dalla bancarotta fraudolenta, e fu un bel gesto. Ella sacrificò tutta la sua fortuna, ma i debiti non poterono essere completamente pagati. Balzac subì l’agguato dei creditori per tutto il resto della sua vita e mille volte dovette inventare ingegnose macchinazioni per sfuggire ai più accaniti, sempre però tacitandoli quando aveva la possibilità di farlo.

  Lo scrittore, dopo l’insuccesso industriale, tornò al mondo delle lettere col furore di chi vuol conquistare la gloria e di chi vuol sopravvivere. Superato il dolore per la morte del padre, avvenuta nel 1829, aiutato dalla signora de Berny, prese a frequentare i salotti per farsi conoscere. Ben presto incominciò a pubblicare articoli e racconti su giornali e riviste. Il primo vero successo lo ottenne con Le Dernier Chouan, ou la Bretagne en 1800 e con la Physiologie du Mariage in quel medesimo 1829. George Sand fu la prima ad andarlo a trovare e si complimentò con lui. Nel 1831 Balzac pubblicò La Peau de chagrin. Fu un grande successo.

  La sua fama si diffuse particolarmente nel mondo femminile. La duchessa di Castries gli scrisse una lettera melata. La donna era amabile e civettuola, Balzac se ne innamorò e cadde contemporaneamente nel dandysmo e in un esagerato amore per il lusso. Sognò per un istante il matrimonio; ma, a Ginevra, nel 1832, ruppe improvvisamente i rapporti con la bella donna e il sogno subito svanì. L’amore per la de Berny rimaneva invece sempre saldo, e intanto Balzac continuava a scrivere un romanzo dopo l’altro. Pubblicò La belle Imperia, la prima decina dei Contes drôlatiques, dallo stile pregevolissimo, scrisse La Grenadière, La Femme abandonnée, Le Curé de Tours e diversi racconti. Il suo talento apparve vigoroso e di rara potenza creativa.

  Gli giunsero lettere d’ammirazione da tutte le parti del mondo e tra queste una, anonima, della contessa Evelina Hanska Rzewuska, in data 7 novembre 1832. L’«étrangère» scrisse per scherzo, di concerto con alcune amiche, e Balzac non seppe mai che la relazione, per cui si legò tutta la vita alla bella polacca, nacque per giuoco da salotto. La contessa non glielo rivelò mai. Nello stesso anno in cui apparve il suo capolavoro, Eugénie Grandet, e la seconda decina dei Contes drôlatiques, Balzac conobbe la bella straniera, a Neuchâtel, in Svizzera. Era il 25 di settembre del 1833. Per cinque giorni lo scrittore fu ospite dei coniugi Hanska. Il suo cuore prese a palpitare di un nuovo amore e dal giorno di Natale del medesimo anno al febbraio del 1834 egli passò giorni incantevoli con la contessa polacca. Poi ritornò accanitamente al lavoro. Scrisse La Duchesse de Langeais, concluse la terza decina dei Contes drôlatiques, lavorò a Séraphita, incominciò il Père Goriot, pubblicò La Recherche de l’Absolu e trovò persino modo di accendersi d’amore per la contessa Guidoboni-Visconti. Furono mesi e anni di grande attività. Balzac prese a viaggiare molto in provincia, il suo taccuino si arricchì di note, le sue giornate di lavoro furono estremamente intense. Ecco come egli ce ne descrive una: «Mi corico alle sei di sera o alle sette, come le galline; mi svegliano all’una del mattino e lavoro fino alle otto, dormo ancora un’ora e mezzo; poi prendo qualcosa di poco sostanzioso, una tazza di caffè puro, e mi aggiogo al mio fiacre fino alle quattro; ricevo, faccio un bagno, o esco, mi corico».

  Non un minuto della sua giornata era lasciato all’ozio.

  Col successo vennero anche i guadagni, ma i debiti erano ancora molti e i creditori per niente disposti a transigere. Sotto il nome della «Vedova Durand», nel 1835, egli affittò un appartamentino in rue des Batailles, sia per avere un ritiro dove lavorare in pace, sia per evitare l’arresto di cui era minacciato per non aver prestato il regolare servizio nella Guardia nazionale. La de Berny, nel medesimo anno, si separò giudizialmente dal marito. Non era però il caso di pensare al matrimonio. Nessuno comprese perché mai la nobildonna avesse atteso tanto per decidere una separazione del genere, quando da moltissimi anni ella viveva di fatto separata dal marito.

  Balzac passò alcuni giorni felici con la donna amata alla Boulonnière, vicino a Nemours, ma tra i due, più che di amore si doveva parlare di una solida e carissima amicizia. Un anno dopo, la morte della de Berny, la Dilecta, gettò lo scrittore nello sconforto. Egli la pianse sinceramente. Il dolore venne vinto ancora una volta col lavoro. Balzac acquistò la rivista La Chronique de Paris, si circondò di collaboratori pieni di talento, ma i debiti si accrebbero. Dovette ringraziare la Guidoboni, se gli riuscì di sfuggire agli uscieri per una cambiale non pagata. Per due mesi, egli visse segretamente in casa dell’aristocratica donna, ai Champs-Élysées, e quando venne scoperto, per salvarlo dalla prigione, la generosa ospite gli prestò il denaro per saldare il debito. Anche i giorni di segregazione non erano trascorsi nell’ozio. Egli scrisse infarti La Maison Nucingen, La Femme supérieure, Gambara, alcuni Contes drôlatiques e, dopo aver abbandonato il rifugio dei Champs-Elisées (sic), il César Birotteau. Stanco di peregrinare da un alloggio ad un altro, nel settembre del 1837 Balzac decise di costruirsi una casa. Acquistò les Jardies, nome piuttosto pomposo per del terreno e una catapecchia sulla strada di Versailles, e vi fece costruire una casa che gli costò novantamila franchi. Credette di aver fatto un affare. Ma i soldi mancavano. Partì allora per la Sardegna con l’intenzione di sfruttare delle miniere d’argento abbandonate dai Romani. Aveva avuto tale notizia da un commerciante di Genova. Sembrava una cosa pazzesca e Balzac non ne concluse niente; ma le miniere, in seguito, vennero realmente sfruttate da altri imprenditori ed egli ne fu amareggiato. La casa venne costruita, nel frattempo, e Balzac abbandonò l’appartamento di rue Cassini e quello di rue des Batailles. Si trasferì alle Jardies con i Guidoboni-Visconti. Ebbe ospite anche Victor Hugo, ma nel luglio dei 1840 dovette vendere la casa e ne ricavò soltanto diciassettemila e cinquecento franchi. Il colpo fu duro. La salute dello scrittore incomincio a risentire del troppo lavoro. Balzac si ritirò in un appartamento di Passy con la madre La convivenza dei due era però impossibile. C’era incompatibilità di carattere vera e propria. Balzac subì anche la delusione di un fiasco teatrale (14 marzo 1840). Il suo Vautrin venne seppellito tra i fischi. Ma così come un anno prima si era risollevato dalla delusione di non aver saputo convincere i giudici e il pubblico dell’innocenza del notaio Peytel, accusato di aver assassinato la moglie e un domestico, così come si era risollevato dall’insuccesso della rivista La Revue Parisienne, che egli aveva cercato di lanciare scrivendola tutta da solo, si immerse nuovamente nel lavoro. Le forze questa volta gli mancarono. Nel maggio del 1841 si ammalò piuttosto gravemente. Unica soddisfazione: l’accordo con Furne & Cie, Dubochet, Hetzel e Paulin, che si riunirono nell’ottobre per pubblicare l’edizione completa delle sue opere. Balzac sembrò ritrovare la salute e quando, nel gennaio dell’anno successivo, ricevette la notizia che il conte Hanski era morto, pensò seriamente al matrimonio. Un nuovo fiasco teatrale con Les Ressources de Quinola non lo avvilì. Lo entusiasmò invece la prima edizione della Comédie Humaine, uscita con la sua celebre Introduzione. Il teatro, tuttavia, continuò a tentarlo, ma il suo dramma Paméla Giraud cadde sul palcoscenico de La Gaieté. Balzac decise di partire per Pietroburgo Era il mese di luglio del 1843. Finalmente, poté unirsi alla contessa Hanska. Senonché, la salute incominciò a declinare: colpito da infiammazione all’aracnoide, Balzac rientrò in patria a piccole tappe. Il viaggio fu assai penoso. Non passò un anno da tutto questo e lo scrittore diede di nuovo la misura del suo grande talento. Per la prima volta pubblicò integralmente La Femme de trente ans, scrisse la prima parte di Les Paysans e la seconda di Splendeurs et Misères des courtisanes. Poiché la Hanska si trovava a Dresda, egli la raggiunse e, insieme con lei, con la figlia della donna amata ed il fidanzato di questa, partì per l’Italia. Ma quando nel 1846 la contessa, a Dresda, diede alla luce un bambino nato morto, Victor-Honoré, Balzac si trovava a Parigi e ne fu addoloratissimo! Pensava sempre più intensamente al matrimonio e spese cifre favolose per arredare la casa di rue Fortunée, che aveva acquistato per accogliere la sua «Fata del Nord». La Cousine Bette, uno dei più grandi romanzi di Balzac, apparve proprio in quel periodo e di quel periodo è l’inizio del Cousin Pons, l’ultimo capolavoro dello scrittore Balzac non stava bene, la malattia cominciò nuovamente a tormentarlo. Anche la Hanska aveva bisogno di cure e venne a Parigi per alcune settimane; poi ripartì. Nel settembre del 1847, egli affrontò un duro viaggio. Raggiunse la Hanska a Wierzchownia e con lei visitò l’Ucraina; poi, agli inizi del ‘48, tornò a Parigi. Finalmente, un suo lavoro teatrale, Le (sic) Marâtre, il 25 maggio, venne accolto favorevolmente al «Teatro Storico». Balzac esultò. Offrì il suo Mercadet le faiseur al «Teatro Francese», ma l’opera venne data soltanto dopo la sua morte e fu un trionfo. Quest’ultimo è, infatti, il miglior lavoro teatrale dello scrittore.

  Il successo al «Teatro Storico» era valso almeno a risollevarlo dalla delusione di non essere stato eletto alla Costituente, nell’aprile di quello stesso anno. Balzac non ebbe, decisamente, fortuna in politica. Le sue ambizioni vennero regolarmente frustrate. Non raggiunse la Camera, così come non riuscì a farsi eleggere all’Accademia di Francia. Qui, venne infatti respinto nel 1839, nel 1847 e nel 1849, mentre nel 1841 preferì, dopo i primi sfavorevoli approcci, rinunciare alla candidatura.

  Deluso dunque di non aver potuto far rappresentare il Mercadet, Balzac tornò in Russia nel settembre, ma il viaggio lo costrinse a letto. Venne curato amorosamente e si ristabilì. Credette di essere completamente guarirò e chiese ancora alla Hanska di sposarlo. Il matrimonio, ottenuto il permesso dell’imperatore, venne celebrato il 14 marzo del 1850 a Berdicev, in Ucraina, nella chiesa di Santa Barbara. Balzac si sentiva felice, ma la gioia durò poco. Il viaggio di ritorno lo prostrò. I coniugi giunsero a Parigi il 21 maggio e si recarono subito alla casa di rue Fortunée. Bussarono, ma nessuno rispose. Il domestico, che era rimasto di guardia, era impazzito. Bisognò chiamare un fabbro e fargli scassinare la serratura. Balzac si avvilì e la sua fede nelle cose occulte gli fece credere a un tristissimo presagio. Sconforto e malattia lo abbatterono. Il 31 maggio ci fu un consulto di medici. La scienza era ormai impotente. L’11 luglio si manifestò una peritonite. Per oltre un mese, Balzac rimase inchiodato nel suo letto di dolore, spasimando, e il 18 agosto, di domenica, si spense, senza riconoscere Victor Hugo accorso al suo capezzale.

  Tutto il popolo di Parigi seguì i suoi funerali. Victor Hugo, Alexandre Dumas, Sainte-Beuve e il Ministro degli Interni ressero i cordoni del carro funebre. Sainte-Beuve, nonostante una vecchia inimicizia con Balzac, appariva sinceramente commosso. Victor Hugo aveva gli occhi gonfi di lacrime e, al cimitero Père Lachaise, pronunciò un discorso memorabile.

  La Francia aveva perduto il più vigoroso narratore del XIX secolo.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. Traduzione di Camillo Sbarbaro, Milano, Mondadori, 1958 («Biblioteca romantica Mondadori. Sezione romanzi-racconti», 523-524), pp. 340.

 

  Cfr. 1947.

 

 

  Honoré de Balzac, Scritti critici di Honoré de Balzac, a cura di Mario Bonfantini, Milano, Feltrinelli Editore, (marzo) 1958 («Universale economica. Serie Storia e Filosofia», 247), pp. XXIII-184.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mario Bonfantini, Prefazione, pp. V-XXIII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Sulla “Certosa di Parma” di Stendhal, pp. 1-68;

  Dal “Feuilleton” (1830):

  “Opere complete” di Paul-Louis Courier [...], pp. 71-72;

  Fisiologia del matrimonio, o meditazione di filosofia eclettica su la felicità o l’infelicità coniugale; pubblicata da un Giovane Celibatario. – 2 vol. in-8, [...], pp. 73-75;

  Ricerche sul Credito fondiario, ciò che esso è e ciò che dovrebbe essere [...], pp. 76-77;

  Hernani o l’onore castigliano, dramma di Victor Hugo [...], pp. 78-93;

  Corso di Storia degli Stati Europei dopo lo sconvolgimento dell’impero romano d’Occidente, sino al 1789; di M. S. F. Schoell, 1830. [...], pp. 94-101;

  Saggio sulla scienza e sulla fede filosofica, di Frédéric Ancillon [...], pp. 102-107;

  Dell’umanità nelle leggi criminali, e della giurisprudenza su alcune questioni che nascono da tali leggi, del signor De Molènes [...], pp. 108-112;

  Richelieu, Cronaca francese, di M. James [...], pp. 113-116;

  Storia dell’Ammiraglio Coligny, del Signor de La Ponneray, pp. 117-120;

  Il sacerdote, [...], 1830, pp. 121-122.

 

  Da “La Caricature” (1831):

  Indiana, di George Sand, pp. 125-126;

  La donna del mio cuore, di Eugène L’Héritier, p. 129.

 

  Da “La Chronique de Paris” (1836-37):

  Discorsi sul Suicidio, del signor Abate Guillon, Vescovo del Marocco [...], pp. 133-140.

 

  Dalla «Revue Parisienne» (1840):

  Lettere sulla Letteratura, il Teatro e le Arti, pp. 143-145;

  Victor Hugo, pp. 146-149;

  Su Sainte-Beuve, a proposito di “Port-Royal”, pp. 150-181.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  L’Amico dei libri, Una “pelle” dal magico potere, «Grazia», Milano, Anno XXXI, 8 Giugno 1958.

 

  Nella Biblioteca Moderna Mondadori è apparso in questi giorni un romanzo di Honoré de Balzac: La pelle di zigrino (L. 500). Nel libro si racconta la storia del giovane marchese Raffaello de Valentin, che ha deciso di suicidarsi perché ridotto alla più nera miseria. Mentre attende la notte per mettere in atto il suo proposito, si reca nel negozio di uno strano antiquario, che gli fa dono di una pelle di zigrino dal magico potere. Essa può soddisfare qualunque desiderio, ma ogni volta che esercita la sua straordinaria virtù si restringe, e contemporaneamente accorcia la vita di chi la possiede. Dipende dal marchese, quindi, scegliere tra gli infiniti desideri possibili quelli per i quali valga la pena sacrificare i propri giorni. Ma è difficile resistere alle lusinghe della pelle miracolosa, e la vita di Raffaello de Valentin viene a poco a poco distrutta, finché lo zigrino si riduce alle misure di una fogliolina di quercia. Ora il marchese, benché giovanissimo, porta sul volto i segni della fine imminente. La gente si rifiuta di frequentarlo, ed egli è costretto a fuggirne lontano, rifiutandosi l’ultima gioia: quella di portare con sé la fanciulla che ama, Paolina, perché esaudire questo desiderio significherebbe bruciare in un attimo il poco tempo che gli rimane da vivere. Ma ormai è troppo tardi per salvarsi. Paolina, ignara di tutto, riesce a trovarlo, e nell’amore che lo spinge contro ogni calcolo ad abbracciarla, il marchese muore.

  La storia è narrata nello stile avvincente, tipico di Balzac. I personaggi balzano fuori da queste pagine, ricchi di una prepotente vitalità. Ancora una volta stupisce la ricchezza psicologica di questo grande narratore, che ha saputo ritrarre nella sua Commedia Umana più di tremila personaggi diversi. Forse lo aiutava in questa continua, snervante creazione (Balzac scrisse i cinquanta volumi della Commedia dai trenta ai quarantanove anni) la sua natura estremamente complessa e contraddittoria. Come analizzava gli altri, Balzac amava infatti analizzare se stesso, e di volta in volta scopriva di avere qualità e difetti così opposti, da concludere filosoficamente: «Nulla più mi stupisce di me stesso. Finisco per credere che io non sono altro che uno strumento del quale le circostanze si servono».

  Honoré de Balzac nacque il 20 maggio 1799 a Tours e morì a Parigi nel 1850. Nessuno, quand’era ragazzo, pensava che egli sarebbe diventato veramente quello che le sue sorelle avevano soprannominato con leggera derisione «il grande Balzac».



  Leggenda e storia del caffè, «Notizie Lavazza», Torino, N° 8, Agosto 1958, pp. 11-13.

 

  p. 12. A proposito non sono dimenticate ancora oggi le famose sbornie di caffè prese da personaggi illustri; il grande romanziere Balzac passò la vita a lavorare e sorbire caffè. Non è un paradosso: i suoi romanzi sono circa un’ottantina e le tazze di caffè da lui consumate sono, secondo scrupolosi biografi, non meno di trentamila.

 

 

  Antonio Aliotta, Il pessimismo di Balzac, «Il Giornale d’Italia», Roma, Anno 80, 20-21 maggio 1958, p. 3.

 

  Il verismo nel campo dell’arte è un’assurda pretesa. Può, infatti, la scienza aver di mira la riproduzione della natura, quale si suppone, esistere indipendentemente da questa o quella personalità, nei suoi tratti che sono eguali per tutti, ma lartista non può e non deve spogliarsi della sua impronta individuale. Perciò il cosiddetto verismo effettivamente non ci dà la rappresentazione oggettiva della realtà naturale o sociale, ma una deformazione, una immagine unilaterale, di essa, che ne mette in rilievo solo gli aspetti deteriori. Alla radice di ogni realismo è una visione pessimistica del mondo e della storia. Non deve meravigliarci ritrovarlo nell’acuta analisi che Alfredo Niceforo (Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli, vol. LXV) ha fatto della Commedia umana.[1]

  Una prima prova del pessimismo balzacchiano sta nel fatto che mentre fisionomie, ove è quasi sempre luce di qualche bellezza, vengono date a personaggi i cui sentimenti e le cui azioni sono tutt’altro che raccomandabili, i pochi infelici che si muovono sulla scena di tanto tanto, mossi da squisita bontà non solo vengono quotidianamente battuti dalle asprezze della vita e naufragano sugli avversi scogli, ma si presentano con aspetti alquanto brutti. Nel Medico di campagna la gentilissima Fosseuse, spirito angelico, ha un viso piatto che nulla ha da vedere con le «folgoranti bellezze delle mondane. Nell’Interdizione il buon giudice, creatura sovranamente buona, detto il giudice dei poveri o il San Vincenzo di Paola del suo quartiere, ha il viso smorto, quasi d’un vitello, un volto che per alcune sue linee sembra esprimere stupidità e le gambe storte; e la povera Nanon, un’umile serva che fa da schiava nel romanzo Eugenia Grandet, è semplicemente un orrore. Michu, l’oscuro eroe d’Un tenebroso affare, che si sacrifica per un’idea sino all’estremo supplizio, ha una faccia ributtante, iniettata di sangue, dalle linee mongoliche, incorniciata di capelli rossastri. In La ricerca dell’assoluto l’angelo custode di quel pazzo di Claës, la dolcissima e rassegnatissima Pepita, non era davvero una bellezza con la sua fronte giallastra, col viso marcato dai segni del vaiuolo e per di più storpia e rachitica.

  Una certa dose di falso e di male è necessaria per far carriera nella Commedia di Balzac: pochi granelli, ed ecco nei Piccoli borghesi Monsieur Minard che giunge ad essere grande e ricco commerciante di droghe coloniali, sindaco dell’XI quartiere di Parigi, giudice al tribunale di commercio, persona onoratissima e rispettabilissima, pur avendo cominciato col vendere cioccolata falsificata e foglie di tè già bollite e ribollite. Una dose massiccia, invece, e quindi punto d’arrivo trionfale, sia pur attraverso improvvise precipitazioni, troviamo nel seguire in Un ménage de garçon le avventure di Filippo Bridau, ladro, assassino, che diventa colonnello del più bel reggimento della guardia reale e conte di Brambourg, accolto dovunque si aprissero nobili e ricchi salotti. Chi poi volesse passare dal profano al sacro, s’imbatterebbe in quell’abate Troubert, losco personaggio sotto umili sembianze, abilissimo nel carpir testamenti, che corona la sua carriera col grado di vescovo, mentre l’anima di santo dell’ingannato abate Birottau (sic) vede finire la propria vita nella miseria e nel dolore (Il curato di Tours).

  Balzac distingue i birbanti in due categorie: i carnassiers, le bestie feroci, come il banchiere Taillefer de L’albergo rosso, che comincia la sua carriera con un furto macchiato di sangue; e i rettili, come Monsieur Des Lupeaulx de Gl’impiegati che arriva a tutto con le sue arti subdole. Ecco la fotografia di questo perfetto galantuomo «Egoista e vanesio, duttile e altero, libertino e ghiotto, avido e discreto, ma discreto come una tomba dalla quale nulla esce che possa smentire la benevola iscrizione destinata ai passanti: coraggioso quando si tratti di chiedere, ma capace di compromettersi, quando debba scavalcare ruscelli di qualsiasi larghezza; incredulo, ma sempre presente ad ogni grande messa affollata di scelto pubblico ...».

  Tutti malvagi dunque, i personaggi della Commedia? Balzac si è accorto della possibile accusa e, pur proclamando che «la corruzione sociale prende colore da tutti gli ambienti in cui al sviluppa» e che per cento volte egli ha dovuto creare spregevoli personaggi che altri hanno dipinto una sola volta nelle loro narrazioni, si difende facendo notare quante figure irreprensibili compaiano nei suoi romanzi, figure di primo piano, da Pierrette e da Ursule Mironet (sic), da Eugénie Grandet a Madama Jules, a Eve Chardon, una quindicina circa, ed altrettante di secondo piano. Ma quei personaggi virtuosi vanno a finir male: nella Commedia umana hanno poca fortuna gli onesti, i buoni, gl’ingenui perché su di loro trionfano i filibustieri.

  Che cosa è mai la proclamazione dei diritti e la ricerca della libertà da parte di questo o quel gruppo sociale? Scrisse Balzac nel Rovescio della storia contemporanea: «Ogni associazione di uomini si forma proclamando come scopo il raggiungimento di una superiore e universale idealità, ma ogni membro di quell’associazione, rientrando in casa propria, dopo aver preso parte, a una rumorosa riunione in cui sono stati espressi i più nobili sentimenti altruistici nelle forme più sfavillanti, escogita il modo di servirsi di esso come d’un trampolino su cui spiccherà il salto per raggiungere i suoi fini ambiziosi».

  E’ vero chi I gigli della valle (sic) si aprono con un credo ottimistico, affidato agli amorosi e quasi materni avvertimenti che la contessa di Mortsauf dà al giovine felice, quand’egli deve avventurarsi, incauto e inesperto, nell’inferno della vita parigina; ma è pur vero che in realtà a nulla servono quei consigli nella lotta contro le asprezze sociali. E qualche riserva fa anche la buona contessa, quando paragona la società ad «una sala di giuoco in cui intorno al tappeto verde si affollano i giocatori anche falsando il giuoco che può aver fine, tanto con la conquista d’un milione, quanto con una condanna all’ergastolo». Ma, nonostante tutto «siano regola perenne il dovere e l’assistenza verso tutti e specialmente verso chi è da meno di voi ... L’onestà, l’onore, la lealtà, l’affabilità contano fra gli strumenti più sicuri e pronti per raggiungere la fortuna». Che importa, se ciò accadrà un po’ tardi? «Fortuna altrimenti raggiunta è costruita sulla sabbia e cadrà in polvere, mentre la fortuna dei buoni sarà di solida fattura: ogni sorta d’astuzie e d’inganni finisce con l’essere scoperta, mentre la lealtà conduce a buon porto». Si osservi però che la contessa di Mortsauf è presentata da Balzac come, un’antica discepola di quel Saint-Martin che fu un filosofo mistico il quale insegnava a sopportare ogni sofferenza e purificare l’anima per mezzo del dolore e della carità per elevarla al cielo. In essa raffigura una donna che a lui fu carissima e dalla quale fu assai amato; poteva rappresentarla con colori diversi dal rosa e dall’azzurro?

 

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  Io direi che nel fondo del pensiero di Balzac c’è, come in molti pessimisti, un’esagerata aspirazione a una forma troppo pura di bontà e le tinte scure che prevalgono nella sua pittura della realtà nascono dal contrasto con quell’ideale. Gli manca la giusta misura. Anima irrequieta non si appaga di ciò che la vita gli offre e attribuisce a difetto della natura quel che viene dalle sue sfrenate ambizioni. Nelle sue lettere alla sorella Laura, all’amica e confidente Madame Carraud, all’ignota Louise, alla duchessa d’Abrantès si lamenta che la sua vita sia una strana e continua disillusione e che solo nel lavoro il suo cuore si plachi e trovi conforto. Non mancano le preoccupazioni finanziarie: «Ohimè! la mia vita da schiavo attaccata alla gleba dei suoi debiti». «La natura aveva creato in me un essere di amore e di tenerezza, ma la vita mi ha costretto a scrivere e descrivere i miei desideri, invece di soddisfarli». Giudicando serenamente, si potrebbe osservare che il torto fu suo personale, non della vita.

  Alfredo Niceforo analizza con molta finezza quella situazione spirituale. Non è un pessimismo congenito, come quello che intristisce sovente lo spirito del malinconico per innato temperamento, ma piuttosto essenzialmente un misticismo acquisito che viene dalla reazione intellettuale alla sconfitta delle eccessive pretese. Quando, aspettandosi dalla vita ogni successo, ci si accorge invece che avviene il contrario, uno dei modi di consolare se stessi della tremenda disavventura sta appunto nel dipingere quegli orrori, nel caricarne le tinte, nell’insister sull’inesorabilità dei mali dell’esistenza. Si carica sulle cose quell’accusa che si dovrebbe fare a se stessi. L’io profondo si sfoga contro la realtà esteriore, trova sollievo nel vendicarsi di essa, dipingendola coi più foschi colori.

 

 

  Luigi Barzini jr., Gioventù bruciata 1830, «Corriere della Sera», Milano, Anno 83, N. 193, 14 agosto 1958, p. 3.

 

  Ma vi è forse una importante differenza, degna di studio. Si tratta dell’amore. Racconta Honoré de Balzac, nella Cousine Bette, che il barone Hector Hulot si distingueva a prima vista come un sorpassato, «uomo dell’Impero». Gli uomini della sua generazione e del suo tempo «si riconoscevano per il portamento militare, per i frac blu con bottoni d’oro abbottonati fino al collo, per le cravatte di taffetà nero, per il tratto pieno d’autorità appreso nell’abitudine del comando dispotico. Nel barone, nulla, dobbiamo ammettere, aveva l’odore del vecchio. La vista ancora buona gli permetteva di leggere senza occhiali, la bella faccia lunga inquadrata da favoriti, ahimè! troppo neri, era animata dalle sfumature marmoree dei temperamenti sanguigni. Il ventre, trattenuto dalla cintura, si manteneva, come dice Brillat-Savarin, al maestoso. Una grande aria aristocratica e molta affabilità servivano di mascheratura al libertino. Era un uomo a cui brillavano gli occhi quando guardava una bella donna, che sorrideva a tutte le belle, anche a quelle che passavano e che non avrebbe mai rivisto». «Quest’uomo dell’Impero, abituato al genere Impero, doveva ignorare le mode dell’amore moderno, i nuovi scrupoli, la diversa retorica inventata dopo il 1830 per cui la povera donna debole finisce per farsi considerare vittima dei desideri del suo innamorato, come una Suora di carità che fascia le ferite, come un angelo che si sacrifica. Questa nuova arte d’amare impiega infinite parole evangeliche per favorire le opere del demonio La passione è oggi un martirio Si aspira all’ideale, all’infinito, e si vuol diventare migliori attraverso l’amore. Tutte queste belle frasi sono un pretesto per mettere ancora più d’ardore nella pratica c più di rabbia nelle cadute che nel passato. Questa ipocrisia, che è la malattia nel nostro tempo, ha fatto incancrenire la galanteria. Si è due angeli ma ci si comporta come due demoni, appena possibile L’amore di prima non aveva il tempo di analizzarsi, tra due campagne militari, e andava di successo in successo come l’Impero». Tali tattiche moderne furono impiegate da Madame Marneffe, moglie di un dipendente del barone, con molta efficacia «Grâce à ces manoeuvres sentimentales, romanesques, et romantiques, Valérie obtint, sans avoir rien promis, la place de sous-chef et la croix de la Légion d’honneur pour son mari».

 

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  Chiaramente il barone Hulot si sentirebbe invece a suo agio tra noi. L’amore, oggi, nella gioventù bruciata, come in coloro che non sono più giovanissimi è notoriamente spogliato di tutte le trepide timidità, fantasie, reticenze, finzioni, ed esalazioni poetiche che sono durate, forse, fino alla seconda guerra mondiale. Nulla è più brutale, sincero, elementare, impavido dell’amore d'oggi, e non solo del piccolo amore divertente, della galanteria balneare senza impegno, ma anche «della grande passione, del sentimento duraturo sul quale si distruggono o si fondano le famiglie e col quale si mettono al mondo i figli. Si è tentati di pensare che. in questo tempo disincantato, si è tornati, non si sa come, alle abitudini dell’Impero, a una franchezza d’altri tempi, e non agli artifizi di Madame Marneffe. Sembrerebbe, a dire il vero inevitabile che, nel vuoto morale dei nostri tempi, in cui tutto si risolve nei suoi elementi fondamentali, in cui ogni manifestazione si semplifica nei suoi istinti primordiali, la fame, la paura, il desiderio, l’interesse, la lotta per la supremazia, per il potere, o per sopravvivere, anche l’amore sia tornato a quello che era, probabilmente, in lontani tempi primitivi e insicuri, a quello che è sempre stato, surrettiziamente, in Italia, e che è nelle campagne. (I contadini non attribuiscono grande importanza ai loro amori campestri, si sposano per ragioni pratiche, raramente lasciandosi turbare dai sentimenti, e non badano se la fidanzata sia bella o brutta, ma vogliono che sia buona, obbediente, e forte). Perché, quindi, in un’epoca così simile alla nostra, il tempo di Carlo X e di Luigi Filippo, l’amore è scomparso invece in una vaga nuvola di ipocrisie deliziose, ipocrisie che, d’altra parte, finivano per diventare quasi verità, poiché gli uomini riescono sempre a sentire i sentimenti che la moda e la letteratura della loro epoca impongono loro? Nell’oscillare perenne tra una forma e l’altra, perché son toccati a noi Boccaccio e Machiavelli e a loro Petrarca, e non Boccaccio o Petrarca a tutti e due?

 

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  Va notato tuttavia che l’amore praticato da Madame Marneffe, l’amore, per intenderci, che diventa quello della Signora dalle Camelie, della moglie del Padrone delle Ferriere, e di mille altre eroine, successive, l’amore degli adolescenti del recente passato, (i quali davano in ciniche escandescenze quando scoprivano trattarsi di una finzione) non è in realtà molto lontano dallo spirito di oggi. Infatti la signora impiega la nuova sospirosa tecnica per far fare carriera al marito e farlo decorare della Legion d’Onore. E’ un amore, il suo, che tende, in fondo, all’interesse familiare, al comfort, alla casa ben ordinata e lustra. Con quei primi aumenti di stipendio di Monsieur Marneffe, forse la moglie avrà installato la sala da bagno, il gabinetto inglese, e la stufa Franklin. Si sospetta, quindi, che la semplicità brutale e la franchezza del giorno d’oggi siano in realtà in disaccordo con i tempi, che, come si è detto, tendono alla ricchezza e agli elettrodomestici, alla costruzione di nidi familiari e alla perfetta lucidatura dei pavimenti. Si è tentati, infine, di concludere, da quanto precede, che l’amore di oggi sia solo in apparenza diverso da quello del 1830, ma si tratti in realtà di una retorica equivalente alle moine e ai sospiri di Madame Marneffe, adattata ai tempi. Gli uomini di oggi sono senza dubbio più sordi, più stanchi, più distratti. Non capiscono le sfumature (così come non le capiscono in politica, in letteratura, e in conversazione). Si accorgono appena che una donna è bella quando la vedono in bikini su una spiaggia. La lotta per conquistare il futuro si è fatta spudorata e dura. Le Madame Marneffe contemporanee sono forse costrette a fingere amori schietti e viscerali, però sempre con lo stesso scopo in capo, quello di condurre l’uomo a comprare un appartamentino civettuolo in città, o un villino capriccioso in periferia, fornirlo di frigorifero, televisore, radiogrammofono, bagni vari, cucine elettroniche, aspirapolvere, pianelle di feltro per non guastare la lucidatura dei pavimenti, e una macchina alla porta. Si tratta, comunque, di una ipotesi.

 

 

  Carlo Bo, Grandi narratori francesi dell’800: Balzac ha aperto un nuovo mondo, Secondo programma, 8 gennaio 1958.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Mario Bonfantini, Prefazione, in Honoré de Balzac, Scritti critici ... cit., pp. V-XXIII.

 

  Se il paradosso di quel letterato d’oltralpe : che “non v’è nulla di così inedito come la roba stampata” contiene qualche parte di verità, esso si adatta benissimo agli scritti critici di Balzac i quali, subito dimenticati nonostante quel certo rumore che sollevarono al loro apparire, e poi raccolti e pubblicati una sola e unica volta nello spazio di più di un secolo, in un volume divenuto presto introvabile, si potrebbero davvero considerare come il più bell’inedito della letteratura francese.[2]

  Ben pochi fra gli studiosi stessi del grande romanziere sono stati quelli che hanno mostrato di tenerne conto, o anche soltanto di averli esaminati. E persino il più famoso di tali scritti, il lungo articolo sulla Chartreuse de Parme, che valse da solo, si può dire, a consolare Stendhal della lunga incomprensione di critica e pubblico, sebbene da tempo noto agli stendhaliani ed entrato ormai, per merito del Lukács, nel vivo delle nostre discussioni sulla portata sociale dell’opera di Stendhal, anche quel saggio, così importante ed interessante per tanti aspetti, è tuttavia assai più citato che letto.[3] 

  Basterebbe ciò, crediamo, a giustificare il nostro lavoro. Ma questi scritti di Balzac non hanno soltanto, come in tale memorabile occasione, un potere stimolante e illuminante. Pur attraverso le loro tipiche intemperanze, gli ardori e le preoccupazioni polemiche, anzi proprio in grazia di tale schiettezza immediata, nell’accordo e nell’urto con le idee e la mentalità del suo tempo, queste pagine ci portano nell’intimo e nel vivo del pensiero e delle passioni del creatore della Commedia umana: ci fanno assistere alla nascita o alla riaffermazione di quei principi (o magari “fissazioni” ) morali e sociali e politici oltreché letterari, che lo guidarono nella sua opera di romanziere, e che egli d’altronde, precorrendo in ciò come è noto i Naturalisti, cercò di coonestare e incerare con le creazioni del narratore.

  La sola storia di questa attività critica, che pur rimase ben secondaria rispetto all’altra sua tanto più nota, sarebbe un appassionante capitolo di quello che giustamente si suol chiamare il romanzo della sua vita.

  Sul principio del 1830 Balzac è appena uscito dalla sua rovinosa intrapresa di editore, stampatore e fonditore di caratteri che, coi novantamila franchi di debiti (somma enorme a quel tempo), peserà su gran parte della sua vita. È ben deciso a dare ormai il meglio della sua attività alla letteratura; ma non ha rinunciato per questo a tentare qualche nuova impresa, che gli consenta la facile ricchezza e, soprattutto, la soddisfazione di padroneggiare anche il mondo pratico. Come scrittore d’altra parte, dopo le prime esperienze nel “romanzo nero” ed essersi provato in quel genere minore delle “Fisiologie” allora di moda, aveva pubblicato da poco Le Dernier Chouan, dove tra le mirabolanti avventure si faceva già luce il disegno d’una approfondita analisi politica e morale. Ambiva ora ad allargare le sue vedute e, subito, manifestare il suo ingegno nel folto della gran guerra letteraria scatenata dal movimento romantico: dire la sua in tutti i campi e su tutti i libri, saggiando alla prova della pagina scritta e della polemica quel tumultuar di pensieri suscitatogli dentro dalle immense letture e dalle febbrili meditazioni di tutta la giovinezza.

  Eccolo quindi creare, con quell’Emile de Girardin destinato alle più alte fortune giornalistiche del secolo e con due altri soci men noti, il Feuilleton des Journaux politiques: una specie di “Appendice” o supplemento settimanale di “tutti i giornali quotidiani” stampato nel loro stesso formato (ed era già una novità per un ebdomedario), il quale trattasse ampiamente e compiutamente tutte le questioni culturali, letterarie e anche storiche, filosofiche, scientifiche e in un certo senso politiche, che i quotidiani trascuravano. L’informazione dei nuovi libri doveva esser completa. Il che era anche lo scopo delle due pubblicazioni sue concorrenti: L’Universel, Journal de la Littérature, des Sciences et des Arts, che uscì dal principio del 1829 al luglio del ‘30, e la più duratura Gazette Littéraire. Ma il primo era un quotidiano, interamente legato al partito legittimista, e che aveva presto permesso alla politica militante di dilagare nelle sue pagine; e la Gazette, piuttosto anodina e grigia, restava troppo limitata alla letteratura in senso stretto. D’altronde Balzac si preoccupò di stabilire a venti franchi l’abbonamento del suo settimanale, proprio per far concorrenza a quest’ultimo il cui prezzo era di cinquanta. Non solo, ma con la sua tipica preoccupazione delle finanze, egli si affrettava ad avvertire nel suo programma (apparso in forma di avviso pubblicitario il 3 marzo 1830 nel Journal des Débats) che l’abbonato alla sua rivista, evitando di cercar notizia di tutte le nuove pubblicazioni presso i librai, e di sottostare ai prezzi che quelli facevano, avrebbe risparmiato “perdite incalcolabili di tempo e denaro”. È da notare infatti che a quel tempo l’editore soleva fissare un prezzo suo proprio ad ogni libro stampato, e i librai nella vendita lo maggioravano per trarne la loro parte di utile, spesso in modo arbitrario ed eccessivo: Balzac perciò, col suo settimanale, mirava addirittura a sopprimere o almeno a ridurre ad una semimpotenza tutte le librerie! Ed era già un pericolo per la sua impresa.

  Ciò non toglie che questo “Feuilleton” uscisse regolarmente, a partire da quel marzo, sembra per ventun numeri: ucciso soltanto, secondo l’affermazione del famoso bibliofilo Jacob, ripresa senza vagliarla dagli altri pochi studiosi dell’argomento, dalla rivoluzione delle tre Giornate di Luglio. Ma il fatto è che, pur accettando l’ipotesi dei ventun numeri (che secondo altri furono solo diciassette), il conto cronologico non torna. Si hanno notizie di dissapori sorti abbastanza presto tra i soci dell’impresa, che pare abbiano disgustato Balzac e l’abbiano indotto a rallentare, a partire dal decimo numero, la sua collaborazione; la guerra dei librai, e la sua instabilità in queste cose, debbono aver fatto il resto.

  Esistono oggi, alla “Nationale” di Parigi, soltanto sette numeri della rivista, dal quinto all’undecimo, più alcuni foglietti di specimens, estratti dei due o tre primi numeri. Ma, anche da questa parziale raccolta, l’attività di Balzac critico in quei pochi mesi del 1830 appare prodigiosa. Dando sino a quattro o cinque recensioni dense ed approfondite per ogni numero, egli si occupa, con lo stesso brio travolgente e un’informazione sicura e una sorprendente abbondanza di idee, di tutto e di tutti: del Trattato della Luce di Herschell, come delle Opere complete di P. L. Courier, di uno studio sul Credito Immobiliare come della dottrina di Saint-Simon, di giurisprudenza penale e di curiosità letterarie, di filosofia e di critica politica, di problemi morali e religiosi, e soprattutto di storia, senza tralasciare la questione, allora così attuale, del romanzo storico. Non manca nemmeno, fra i suoi articoli, un “pezzo” di curioso sapore, il rendiconto della sua Physiologie du Mariage, uscita in quei giorni. Un’attività notevolissima, di cui la nostra scelta, facilitata in questo caso dalla relativa brevità degli scritti, varrà a dare sufficiente idea.

  Privato di questo organo, Balzac fornirà ancora a La Caricature, l’importante giornale umoristico e satirico che egli ebbe nel complesso sempre favorevole, un’altra collaborazione: assai breve questa, ma non priva di alcune gustose paginette di cui pure diamo esempio. Poi fu completamente assorbito dalla sua attività di creatore, della quale egli aveva chiarito a se stesso i principi. E non ripensò al giornalismo se non verso il 1836.

  Il regime di Luigi Filippo si è ormai assestato, rivelando compiutamente il suo carattere e permettendo così di organizzarsi anche alle varie correnti di opposizione. Fiero dei suoi primi altisonanti successi di romanziere, e di romanziere sociale, penetrato della grande idea romantica che il poeta-vate, e quindi anche uno spirito ispirato e di tal vastità qual era il suo, potesse anzi dovesse far sentire la sua voce nell’arena dove si discutevano i destini della società (cosa che, come vedremo, con la sua generosità abituale egli augurerà anche all’Hugo), Balzac ambisce ormai alla politica. Acquista perciò (a mezzo di cambiali) un vacillante ebdomedario, la Chronique de Paris di William Duckett, e lo trasforma in un grande settimanale, assoldando generosamente e radunando in una prestigiosa redazione critici e pubblicisti e letterati di primo piano: fra cui Gustave Planche (assunto in esclusiva), Alphonse Karr, Charles Nodier, Jules Sandeau, e il giovine Théophile Gautier, cui questa collaborazione aprì la via alla notorietà e al successo giornalistico. Tutte le branche della letteratura e dell’arte erano così assai ben provvedute; senza contare le penne degli illustratori, tra cui spiccava l’amaro e possente genio satirico di un Daumier. La politica la trattava lo stesso Balzac, per lo più in forma critica cogliendo il pretesto da qualche pubblicazione, e dedicando ogni cura a quella che sembra esser stata allora la sua fissazione, e che era d’altronde il campo nel quale il regime del “re borghese” si mostrava più incerto e sprovveduto, la politica estera. Su questi suoi articoli i giudizi sono contrastanti: il diligente Lumet, nel libro già citato e che ci serve di guida, afferma che alcuni suoi saggi di politica estera “hanno la proporzione di lunghi studi diplomatici, e rivelano vedute potentemente limpide sulla politica generale dei diversi blocchi europei, sulla situazione particolare della Francia e la condotta che essa doveva tenere fra gli avversari e gli amici”; e già il bibliofilo Jacob affermava essere inutile aggiungere che “quegli articoli hanno spesso una portata immensa dal punto di vista filosofico”. Ma il malizioso Karr una volta, durante una discussione nella sede stessa della rivista, accusò Balzac (giocando sul doppio senso della parola “étrangère”) di fare una politica estranea, a tutti i governi presenti, passati e futuri! Balzac cioè, con tutta la sua ostentazione di una informazione precisa e minuta, a un grado magari a bella posta sorprendente, finiva per abbandonarsi poi, sulla scorta di intuizioni e giudizi di notevole chiaroveggenza e indubbio acume, a brillanti quanto intemperanti improvvisazioni da romanziere; e il pubblico si dove stancare abbastanza presto di quelle vertiginose diatribe, in cui l’autore voleva insegnar tutto a tutti, e arrivava fatalmente al chimerico e all’astratto. Della politica interna inoltre si diceva assai poco: come se Balzac non volesse per allora scoprire le sue batterie, e preferisse continuare a confidare ai romanzi l’illustrazione c la divulgazione dei suoi “principi” e per la parte letteraria mancava un vero programma: un’idea comune che desse una direzione e una coerenza agli scritti dei pur valenti critici da lui riuniti. Fedele al suo proposito, Balzac non se ne occupò mai di persona. Tanto che il Lumet ha creduto di poter raccogliere nel suo volume tre recensioni di Balzac in tutto, apparse in questa Chronique: d’una pubblicazione sul problema della vita conventuale (dove il Nostro si mostra risolutamente conservatore e antilluminista), d’un libro che oggi si direbbe di “fantascienza” (una stroncatura assai spiritosa), e d’un altro sul suicidio: che gli diede occasione a pagine veramente bellissime, da noi qui inserite.

  Uscita la prima volta il 3 gennaio 1836, con l’ambizioso sottotitolo di “Critica politica, amministrativa, scientifica, letteraria, artistica e industriale”, subito sostituito con quello più modesto di “Giornale politico e letterario”, la rivista, dopo il successo dei primi tempi, in cui Balzac, sempre troppo fiducioso, si affrettò a trasformarla in bisettimanale, ricadde nelle precarie condizioni di quando egli l’aveva acquistata. Invano Balzac, nel tentativo di rimetterla a galla, vi pubblicò, contro il suo personale interesse, anche le primizie di qualche suo racconto: la pubblicazione si trascinò sempre più stentatamente, finché nel luglio 1837 egli fu costretto ad abbandonarla in situazione disastrosa. Anzi, per le scadenze delle cambiali non pagate, rischiò la prigione per debiti, da cui lo salvò soltanto l’intervento della sua compiacente amica, Madame Visconti.

  La penosa esperienza non sembra tuttavia aver scoraggiato Balzac. Giacché nel 1840, giunto al colmo della sua fama e ormai sostenuto, malgrado le violente opposizioni, da una schiera di letterati a lui devoti oltreché dall’immenso numero dei lettori, egli ritentò l’impresa, fondando la Revue Parisienne.

  Nonostante la conclamata floridezza dell’industria, e soprattutto dell’alta finanza, il regime incominciava ormai, agli occhi più avvertiti, a mostrar le sue crepe: rivelava soprattutto, natural conseguenza delle basi che si era date, quella spudorata corsa al guadagno e quella scandalosa corruzione nei ceti superiori della società, di cui Balzac si era fatto denunciatore e cantore insieme in tanti suoi romanzi. Di qui la sua idea che fosse ormai tempo di tornare in lizza.

  Senza volersi compromettere con le dottrine di sansimonisti e fourieristi e neppure con le correnti più propriamente socialiste che già si delineavano (tutte cose che egli conosceva assai bene e lo tentavano anche, nonostante i grossi difetti che vi trovava), mettendo persino un po’ in sordina le solenni affermazioni sull’assoluta priorità della Monarchia e della Religione — i due grandi “flambeaux” alla luce dei quali, a sentir lui, scriveva tutti i suoi romanzi — Balzac questa volta teorizza e consiglia meno, per abbandonarsi completamente alla sua vena satirica. Assumendo di peso, con sovrana disinvoltura, il formato e il carattere della mordace pubblicazione, Les Guêpes che aveva fatto la fortuna di Alphonse Karr (il quale si limitò ad una bonaria quanto spiritosa protesta), egli forniva un nutrito volumetto mensile, in cui ai rari saggi di notevole estensione si mischiavano articoli di curiosità e vere “rivelazioni” su tutti i fatti e le persone più in vista della vita pubblica parigina, e violente satire politiche (fra cui le argutissime Lettres Russes, unanimemente lodate), pezzi scandalistici, aneddoti, stelloncini e tratti di spirito. La sua testa di turco era soprattutto Thiers, cui non risparmiò colpi d’ogni genere. E se v’era in ciò della gelosia, o quanto meno il superbo e puerile sdegno di non essere lui al suo posto, per far vedere finalmente come si doveva far la politica, sembra che nel complesso stavolta abbia ben ragione il Lumet, quando osserva che il tono predominante di Balzac in tali occasioni è quello d’un riso enorme e divertito davanti alla grottesca commedia della vita politica: quasi un atteggiamento olimpico, di cui la sua bonarietà fondamentale valeva però a smussare l’antipatia.

  Il successo infatti pare sia stato grandissimo; alme no pel primo numero, del 25 luglio 1840, e pel secondo, del 25 agosto. Nel terzo (il 25 settembre), Balzac, rivolgendosi agli abbonati, si giustifica di alcuni piccoli errori di fatto in cui la rivista è incorsa, promette migliorie, e annuncia che d’ora in avanti essa non si baserà più unicamente su di lui perché, dato che i principi sono ormai ben stabiliti, egli potrà chiamare a collaborarvi alcuni valentissimi scrittori. Tanto maggiore è dunque ancor oggi la nostra sorpresa, nel constatare che quel terzo numero non ebbe mai un seguito, sebbene Balzac avesse già preparato in parte la materia del quarto ...

  Si affacciò naturalmente il sospetto d’una pressione del potere politico. Ma appare abbastanza evidente che una pubblicazione come quella, infinitamente meno leggera, nonostante il suo brio, di qualunque umoristico-satirico, non potesse continuare ad avere il successo dei primi numeri: basata com’era su brillanti improvvisazioni e su un travolgente pettegolezzo intellettuale, e avulsa in fondo da qualunque interesse di parte che potesse alla lunga sostenerla. Giacché è quasi inutile ricordare che, per non parlar d’altri, gli stessi conservatori legittimisti ebbero sempre la più viva e giustificata diffidenza verso quello strano campione dei loro princípi. Balzac probabilmente non trovò i collaboratori che sperava. E dové stancarsi lui stesso abbastanza presto dell’enorme lavoro personale cui, dato il suo irremediabile individualismo, egli era obbligato a sottoporsi per quegli straripanti sfoghi d’umore: tornando così, per sua fortuna, ai suoi interessi più veri.

  Nel primo numero della Revue, la parte della critica letteraria era ancora abbastanza svariata ed adatta. Oltre ad alcuni frizzanti stelloncini, vi figurava una specie di avant-propos o primo esempio di sue “Lettres sur la Littérature, le Théâtre et les Arts – A Madame la Comtesse E.”: due paginette assai vive; quindi un parallelo piuttosto ampio tra Fenimore Cooper (lettissimo e molto stimato a quel tempo) e Walter Scott, ricco di spunti geniali; ed una rapida e arguta recensione di Les Rayons et les Ombres dell’Hugo. Ma nel secondo numero la lunga e pesante stroncatura del Port-Royal di Sainte-Beuve, sebbene più che degna d’attrarre oggi la nostra curiosità, stonava con tutto il resto e doveva riuscire piuttosto indigesta ai lettori. E anche il gran saggio su Stendhal, così interessante per noi, che occupava non meno d’una settantina di pagine del terzo numero, dové sembrare al pubblico più che altro un enorme sfogo personale, al pari di quello sul Sainte-Beuve e con la sola differenza che, mentre nel primo si esalava una vena satirica di raro accanimento, e contro uno scrittore che stava già acquistando un notevole prestigio, nel secondo il critico si abbandonava ad un lunghissimo ditirambo, su un romanziere ancora assai poco gustato.

 

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  Da quanto già detto, si potrà intendere come sia difficile discernere negli scritti critici di Balzac che qui offriamo, tutti così pieni di vita, l’interesse “di relazione” o documentario — il gusto di coglier sul vivo i pensieri d’una personalità di scrittore così spiccata e di sentirci trasportati insieme nel mezzo della vita culturale e della mentalità dei suoi tempi — dal valore più propriamente “attuale” di certe sue idee, principi e giudizi. E parrà anche naturale che Balzac, riversando in queste pagine tutto se stesso, con tutto il suo spirito e il suo ingegno e la sua effettiva cultura, non evitasse né squilibri né intemperanze. Acuto ma parziale, pieno di vigor persuasivo e di buona fede ma sempre pronto a partire da un’osservazione giusta per amplificarla con la sua prestigiosa potenza verbale sino a generalizzazioni azzardate, Balzac critico va letto appunto tenendo conto della varietà e molteplicità di interessi che egli aveva e che è sempre in grado di offrirci, anche quando possiamo trovarci scandalizzati da qualche sua perentoria sentenza o sconcertati da qualche tirata. E il fatto è che, pur nei momenti di minor equità, la sua eccezionale esperienza del “mestiere letterario”, la sua passione — fin troppo imperiosa — del bello e del grandioso e la ricca generosità del carattere ci permettono di trovare, si può dire ad ogni pagina, una quantità di cose belle, giuste e profonde.

  Il saggio su Port-Royal gli fu dettato, come è facile vedere, da un vero furore contro il Sainte-Beuve: forse l’unico caso in cui si potrebbe parlare di odio nella vita di Balzac, e abbastanza giustificato dai sornioni attacchi e dalla critica ostinatamente denigratoria quanto abilmente condita di elogi pervasi anch’essi d’un sottile veleno, di cui il più gran critico francese dell’Ottocento aveva fatto oggetto ogni suo libro. E l’insofferenza, per non dir peggio, da parte del Sainte-Beuve, non solo dei difetti ma delle stesse qualità sovrane di Balzac scrittore, naturalmente precluse al suo genio, fu così tenace che ancora una quindicina d’anni dopo la morte del romanziere, il Flaubert confidava ad un suo corrispondente d’avere “litigato due ore” col Sainte-Beuve, nel vano tentativo di dimostrargli che non era stato giusto trattare Balzac nel modo come egli l’aveva trattato! La pubblicazione del primo volume di Port-Royal fu dunque per Balzac l’occasione lungamente attesa per una rivalsa. Che riuscì, dato il suo carattere, pesante e violenta, e talvolta per sin pedantesca. Tuttavia anche in questo saggio, dove allo sdegno contro Sainte-Beuve si unisce l’avversione più spinta allo spirito e all’azione del giansenismo, non mancano i motivi di interesse: nell’analisi della “natura letteraria” dell’autore, dove la malignità riesce più d’una volta a far centro; e in quella visione dell’opera della monarchia francese portata a termine da Luigi XIV, che è di innegabile grandiosità e gli suggerisce degli “aperçus” di impetuosa chiarezza.

  Il punto di partenza della politica di Balzac stava, come è noto, nel tipico paternalismo antirivoluzionario del De Maistre e più ancora del De Bonald. Ma egli vi metteva di suo tutta la sensibilità per la “questione sociale” dei tempi nuovi, accolta nel suo gran cuore di romanziere, di osservatore accanito e profondo; e il suo ideale della funzione della religione nella società era in fondo quello d’un fervente ammiratore del Lamennais. L’ideologia politica di Balzac (spogliata però in notevole parte di questa sua umanità) contribuirà non poco, attraverso la possente voce dei suoi romanzi, alla ideologia conservatrice del Taine e alle idee d’un Barrès. Quel suo superbo dispregio d’ogni mezzo termine, che gli faceva esaltare con pari entusiasmo l’assolutismo monarchico-religioso vagheggiato dal romanticismo medievaleggiante, e l’intolleranza eroica dei giacobini del Novantatré, con la sua profonda sfiducia verso il regime affaristico e censitario e il sistema parlamentare del “juste milieu” di Luigi Filippo, lo porteranno a vagheggiare, qui come nei romanzi, una strana specie di governo dittatoriale fervido di preoccupazioni sociali, anzi addirittura socialiste. Molti di noi stimano di poter asserire, oggi, che si trattava di un pericoloso errore; ma non bisogna dimenticare che questo errore fu la grande tentazione dell’Europa continentale, da Napoleone III e da Guglielmo II fino ai giorni nostri. E le feconde contraddizioni del suo temperamento vulcanico, sempre pronto a riconoscere ed esaltare ovunque la verità e la giustizia solo che gli riuscisse di vederle, permise a Balzac tuttavia, come il lettore potrà verificare qui, pagine di sorprendente giustezza e di commovente umanità.

  Persino la sommaria idea, mutuata dal Bossuet e ripresa dall’idealismo romantico, del genere umano che è ineluttabilmente guidato verso il Progresso dai misteriosi ed eterni decreti della divina Provvidenza, a patto che non voglia disconoscerne i dettami espressi nel Cattolicesimo, gli offre la possibilità di dissertare con innegabile altezza di vedute della Storia e del metodo storiografico. Su questa traccia, sin dal 1830, nelle lunghe recensioni ad una Storia degli Stati Europei e ad un Saggio sulla Scienza, Balzac andava ben oltre i limiti teologici di quella prima idea, per giungere, in una sorprendente pagina, alla chiara visione di quello che i posteri chiameranno “storicismo romantico” o storicismo senz’altro. E il fatto che egli possa essere stato aiutato in ciò dal saggio, allora celebre quanto oggi dimenticato, Comment finissent les dogmes dello Jouffroy (che egli non cita), non toglie nulla al suo merito[4].  Del resto la sua naturale chiarezza di giudizio davanti ai “fatti” gli permetterà di proclamar subito la superiorità del metodo storiografico del “sinistrorso” Mignet, di fronte a quello del Thiers. E se può esser facile oggi sorridere della sua perentoria affermazione che l’unità d’Italia non potrà farsi se non sotto la presidenza del Sommo Pontefice, non dobbiamo dimenticare l’importanza che assumerà di lì a poco quell'idea (di cui Balzac, sempre aggiornatissimo, aveva trovato forse il seme nel Tommaseo) presso tutti i nostri grandi uomini del partito neoguelfo. E anche nella filosofia pura, il suo solenne rifiuto dell’eclettismo alla Cousin, allora al colmo degli onori, appar sostenuto da argomentazioni seriamente fondate.

 

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  È naturale tuttavia che la nostra curiosità sia attratta di preferenza dai suoi giudizi letterari. Bisogna tener conto anche qui che furono pagine quasi sempre improvvisate, nelle quali la vivacità polemica e la capacità di “agitar delle idee”, doveva essere secondo Balzac il carattere dominante: stese perdippiù nella febbrile urgenza di passare “de la copie” al tipografo in attesa, e in cui troviamo anche talvolta qualche frase poco chiara o qualche grosso errore di stampa (che il Lumet fedelmente riprodusse, e che noi traducendo ci siamo sforzati qua e là di correggere). Il che se può nuocere ad una prima lettura, concorre a dar loro tuttavia un altro segno di quella schiettezza immediata che ancor ci seduce.

  Qui il suo fiuto e il suo calor d’entusiasmo per le lettere gli servono spesso mirabilmente: si tratti di discernere le “promesse” d’un giovane autore destinato magari poi a restare oscuro, o di proclamare solennemente l’immancabile grande successo del primo libro importante della giovane Sand, Indiana. E il lettore d’oggi potrà restar sorpreso del riconoscimento conferito ad un Sue, solo se ignaro del peso e dell’influenza che quello strano scrittore di romanzi d’appendice, pieno di fermenti sociali, esercitò sullo stesso Balzac, come sull’Hugo e addirittura su un Dostojevskij.

  Del resto ogni autore importante del tempo è trattato con acuta e generosa equità, pur tra le giuste limitazioni: come, rispetto al romanzo storico, il Vigny del Cinq-Mars. E, oltre a questa difficile equità verso i contemporanei che erano magari anche rivali, troviamo qui il sapore della pronta percezione e dell’impressione immediata d’un lettore di allora. Sui primi truculenti romanzetti di Hugo il Balzac (che aveva da rimproverarsi qualche peccatuccio analogo) scivola con indulgenza. La sua stroncatura dell’Hernani, spiritosissima, se oggi può sembrar banale più di quanto lo fosse sul momento, è pur ricca di osservazioni chiaroveggenti sull’arte e sul carattere del grande Victor; e le note sulla sua poesia di Les Rayons et les Ombres sono tutto sommato di grande giustezza: con l’entusiasta riconoscimento della sovranità indiscutibile dell’ancor giovine lirico, che non va però senza una esatta valutazione, condita di bonaria malizia, di quella tendenza di Hugo allora già incipiente, ad una oscurità di sentenze olimpiche, apodittica e profetica.

  Il suo pezzo forte, e il maggior titolo al nostro interesse e alla nostra riconoscenza è, come ormai si sa bene, il lungo saggio sulla Chartreuse de Parme. Qui in verità Balzac ha sfalsato un poco il significato dell’opera, o meglio non ne ha inteso appieno il sovrano equilibrio poetico, mettendo troppo in rilievo la parte “politica” ed esagerandone il valore relativo e assoluto: con un trasporto d’ammirazione, un’insistenza nell’analizzare certe scene e battute e sentenze del libro, celebrandole con frasi che per un lettore di gusto un po’ difficile sembrano sfiorare il grottesco. Ma v’è il calore e l’entusiasmo di un sommo scrittore al colmo della sua fama, che si china sull’opera di un altro grande sino ad allora misconosciuto (spettacolo così raro!) e impegna tutta la sua cultura, il lungo amoroso studio dell’arte e ogni facoltà di sentimento e d’ingegno nello sforzo di immedesimarsi in lui e di meglio comprenderne il libro: con un generoso sdegno per l’ingiusto destino letterario di uno Stendhal, espresso in accenti che non si possono leggere senza commozione. Tutto il saggio ne ha beneficiato: risultando nel suo complesso un “pezzo” di formidabile vigore, che si può ancor leggere e rileggere da più punti di vista, cavandone sempre un profitto.

  Si potrebbe dire, coniando una di quelle immagini a lui care, che la critica di Balzac applicata al libro di Stendhal sia stata come un possente reagente chimico su un quadro annerito dal tempo, che mettendo sulle prime in esagerato rilievo certi tratti, facendo spiccar troppo certi colori, ne rivela però una quantità di significati e intenzioni prima insospettati. In questo caso si trattava in verità d’una pittura troppo in anticipo sui tempi: di un modo di scrivere e di valersi dell’analisi che lo stesso Stendhal, quando era in vena di ottimismo, pensava — come è noto — destinato a venir compreso solo verso il 1880. Balzac, nel complesso, ci arrivò subito. E il fatto stesso d’aver esagerata la parte politica e sociale, cioè il suo peso nella concezione intera della Chartreuse, valse o meglio poteva valere a richiamar l’attenzione su un carattere fondamentale dell’opera di Stendhal narratore, che doveva aspettar tanto tempo prima d’essere riconosciuto. L’idea che tutti quegli intrighi politici della immaginaria corte di Parma, di sapore così deliziosamente “suranné” e tenuti appositamente dall’autore in un’aura un po’ favolosa, fossero così ricchi di allusioni alla situazione politica dell’Italia di quel tempo, oggi finalmente riconosciuta appieno (e ridotta anche nei suoi giusti limiti), con quel rapporto fra la corte di Ranuccio-Ernesto (che era poi Francesco IV di Modena) e un principato italiano rinascimentale, fra la politica del conte Mosca e i dettami di Machiavelli, fu e resta cosa di grandissimo valore. Che non ha perduto d’altronde ogni possibilità di suggestioni nuove: se pensiamo all’energica affermazione che il modello del conte Mosca sua stato Metternich. E si ha l’impressione che, in questo forzar la mano su tale aspetto della Chartreuse, Balzac avesse presente, senza dirlo, il libro ben più intensamente politico e “sociale” che Stendhal aveva scritto dieci anni prima, quel Le Rouge et le Noir che egli aveva certo letto assai bene e che con ogni probabilità gli servì anche di modello.

  Né bisogna trascurare una messe di osservazioni particolari, intuizioni e giudizi sicuri, che si deve chiamar sorprendente. La valutazione delle intenzioni di Stendhal nel creare quello sconcertante personaggio di Ferrante Palla, non potrebb’esser più giusta. L’analisi del carattere e delle oscillazioni di sentimento della San-Severina, se pur trattata con una certa pesantezza di mano che era d’altronde anche di Balzac romanziere, resta di precisione rara. Giustissima poi l’osservazione sulla “tangibilità” del paesaggio italiano: di tutti quei lunghi che lo Stendhal non dipinge propriamente alla Chateaubriand, ma si accontenta di evocare in modo incantevole, di suggerire con pochi tocchi. E non è anche merito da poco l’aver capito l’intensità e la perfezione poetica di una figura episodica come quella dell’Abate Blanès, il parroco astrologo.

  Strano è che poi sulla fine del suo studio, venendo a parlare dei non molti difetti dell’opera che egli ha tanto esaltata, Balzac suggerisca, in un rifacimento eventuale dell’autore, di sopprimere proprio quella figura, come una digressione inutile che ritarda l’azione. E così avrebbe voluto che Stendhal cominciasse subito il romanzo con Fabrice a Waterloo. Evidentemente cedeva qui alla tentazione di sostituire il suo gusto a quello di Stendhal. Ma non è senza interesse ricordare che Stendhal stesso, pur avendo garbatamente polemizzato col suo critico per certe osservazioni, si era accinto a rifondere parzialmente il libro proprio seguendo tali suggestioni.

  Il Lukács, nel suo saggio già qui ricordato, ha efficacemente parlato del rapporto Balzac-Stendhal così creatosi. E ha pure messo in rilievo l’importanza delle prime pagine del saggio, nelle quali Balzac distingueva — in tutta la letteratura del tempo ma guardando come è chiaro specie alla narrativa — tre grandi “scuole” o correnti: quella delle idee, di più diretta derivazione settecentesca, cui gli sembrava appartenere Stendhal; quella delle immagini, la più nuova (cioè più propria mente romantica); e una terza maniera, eclettica o meglio di sintesi fra le due prime, che egli stimava eminentemente sua. Distinzione la quale, nel suo obbligato schematismo, può lasciar perplessi; ma resta una traccia fondamentale per chi voglia capir bene l’origine del grande romanzo sociale ottocentesco, e i veri rapporti del romanticismo, soprattutto francese, col razionalismo illuminista.

  E la visione che Balzac aveva della cultura del suo tempo appare ancor più larga e sfumata, quando si tengano presenti altre sue osservazioni: quella sui possibili sviluppi avvenire della “letteratura delle immagini”, che si affida tutta ad una intuizione del mistero del mondo (e qui egli intravvede il Simbolismo); e l’importanza che egli dava alle qualità di “osservatore” del Sue; e soprattutto la sua affermazione (oggi un po’ sorprendente ) della “verità” cui arrivava la Sand attraverso alle sue effusioni sentimentali. Evidentemente per lui il “realismo” non poteva accontentarsi soltanto della limpida razionalità di Stendhal (scrittore che, come è noto, riuscirà insopportabile a un Flaubert). Osservazioni e affermazioni che, quando si uniscano alla mordente chiaroveggenza, alla puntuale precisione e alla patetica energia con cui Balzac affrontò in questi suoi scritti ogni argomento di carattere sociale (vedasi qui, oltre ai già nominati: Ricerche sul Credito fondiario, Del umanità nelle leggi criminali, Il Sacerdote, Sul suicidio), «sono singolarmente illuminanti: a meglio comprendere il carattere che egli volle imprimere all’opera sua maggiore, e utili a correggere una certa nostra tendenza all’astrazione ideologica, riguardo alle origini del “realismo ottocentesco” di cui tanto oggi si parla.

 

 

  Mario Bonfantini, Stendhal e il realismo (saggio sul romanzo ottocentesco), Milano, Feltrinelli, 1958, pp. 179-190.

 

  [...] non si può negare che l’esempio di Balzac abbia concorso in pratica più largamente di quello di Stendhal a far nascere nella mente dei lettori quella specie di immagine ideale del grande romanzo ottocentesco, sociale o di costume che dir si voglia, e abbia influito nel complesso non meno di lui — anzi in qualche caso come per Flaubert assai più — sugli autori che la coltivarono per tutto il secolo.

  Vi sono state per ciò parecchie ragioni. E la prima che ci si offre naturalmente è quella dell’ampiezza stessa e della molteplicità dell’opera: della sua formidabile mole, che torreggia ancora ai nostri occhi come un imponente acrocoro nel lontano orizzonte del secolo; e di quel dichiarato impegno a coprire con essa tutta l’area della vita sociale del tempo in tutte le sue più caratteristiche manifestazioni, tanto da giustificare il dantesco titolo di Commedia umana. E della grande impressione che ciò avrebbe fatto in ogni modo, Balzac stesso era ben cosciente, come basta a dimostrarci la celebre esplosione di giubilo con la quale egli salutò la grande idea, balenatagli quasi improvvisa, di legare insieme tutti i suoi romanzi per mezzo di personaggi ricorrenti e di illustrare così, in un solo immenso ciclo, tutta la società di Luigi Filippo: “Je serai un grand homme!’’ Dove è chiaro che egli non pensava tanto che sarebbe diventato perciò migliore e più veramente grande scrittore, quanto che la sua “grandezza” si sarebbe in certo modo materializzata, divenendo anche esteriormente sensibile, visibile e tangibile, agli occhi del gran pubblico.

  Ma questa non è evidentemente ragione di gran peso, né di vera profonda influenza.

  Più importante invece il fatto che egli sia stato un efficacissimo creatore di tipi, corrispondenti ciascuno ad un atteggiamento morale predominante nell’uomo e alla sua funzione nella vita sociale: con una osservazione così minuta e precisa e con una tal forza icastica di rappresentazione, che, come è noto, quando ancor oggi si pensa all’avaro, o al finanziere senza scrupoli o al giovane avventuriero deciso a far fortuna a tutti i costi, sia pure nel nostro diverso ambiente sociale (il quale tuttavia, per le sue strutture fondamentali, non differisce poi tanto da quello d’allora da cancellar certe somiglianze), la nostra mente va subito a Papà Grandet, al Barone di Lucingen (sic), a Rastignac ... E a questa tipizzazione, come è noto, concorreva in modo eminente ciò che Balzac chiamava la “Fisiologia”, i cui principi egli riteneva stabiliti per sempre dagli studi del Cuvier, e soprattutto del Geoffroy Saint-Hilaire. Le cui idee (che furono dapprima abbastanza simili) si possono così riassumere: le caratteristiche delle varie specie del mondo animale — come d’altronde del mondo vegetale — che hanno servito a catalogarle nell’età precedente in base appunto alla diversità degli organi e alla morfologia esterna, non sono in realtà fatti casuali ed estranei al funzionamento vitale dei singoli individui animali e all’ambiente nel quale essi vivono; c’è in ogni animale, e quindi in ogni specie, un certo numero di caratteri tipici fondamentali, i quali hanno tra loro un legame necessario, e ne escludono certi altri. Ogni specie, insomma, presenta alla struttura una sua necessità funzionale e una sua armonia costituzionale; e ciò è sempre in rapporto con le necessità ambientali. Quindi, come sarebbe assurdo immaginare animali destinati a viver nei Tropici che fossero dotati della ricca pelliccia degli orsi polari, così è dal considerarsi impossibile in rerum natura, ad esempio, un animale che abbia il collo e il becco dello struzzo e il corpo di un rinoceronte ...[5] Concetti che erano ripresi appunto dal Balzac, non senza una certa forzatura, quand’egli proclamava (e nell’Avant-propos della sua Comédie e in una non meno eloquente lettera a Madame Hanska) che: “l’animal est un principe qui prend sa forme extérieure, ou, pour parler plus exactement, les différences de sa forme, dans les milieux où il est appelé à se développer”; arrivando addirittura ad affermare che “les espèces zoologiques résultent de ces différences” e che quindi, trasferendo tal principio nella nostra vita sociale, “il a existé, il existera de tout temps, des espèces sociales comme il y a des espèces zoologiques ...”.

  Non è qui luogo di rilevare la sommarietà di certi enunciati e l’arbitrarietà di certe illazioni. In pratica, come è noto, fondendole con altre suggestioni come quelle che gli venivano dalla fisionomistica del Gall, e da una certa quantità di osservazioni empiriche tradizionali vecchie quanto il mondo, Balzac ne trasse il principio, applicato poi da lui in modo così suggestivo, dei rapporti fra certe caratteristiche somatiche e fisionomiche degli individui e il loro carattere e le loro inclinazioni e passioni segrete. E ancora l’altra constatazione, applicata spesso con sistematica monotonia (e già divulgata nel secondo decennio del secolo da una quantità di più o meno burlesche Fisiologie non senza la partecipazione dello stesso Balzac): che nell’esercizio d’una determinata professione rispondano di necessità non solo certi ben noti e tradizionali modi di fare – che sono in realtà parte del cerimoniale ad essa inerente — ma addirittura certi tratti del carattere, di quelli che in francese si chiamano con bellissima metafora “plis de l’âme”, da tale esercizio prodotti, e che tutto ciò finisca a modificare anche, oltre all’apparenza esterna, la stessa costituzione fisica; onde con altra metafora, presa dai linguaggio teatrale, il “physique du rôle”, del Notaio, del Medico di campagna, del Mercante d’antiquariato, del grande avvocato e così via. Ed è ben noto come questa specie di segnaletica ormai convenzionale — alla cui formazione oltre al Balzac concorsero commediografi non eccelsi ma di innegabile efficacia come lo Scribe, e scrittori satirici e macchiettisti come Henri Monnier, il creatore dell’immortale Joseph Prudhomme — si sia perpetuata appunto nel teatro, e faccia ancor oggi parte del bagaglio di conoscenze indispensabili ad ogni buon “caratterista”.

  Due “regole” che, come si sa, servirono mirabilmente a Balzac sia per creare certi “ritratti in piedi” di suoi personaggi di meravigliosa evidenza, sia per tipizzarne con eccezionale efficacia una quantità di altri secondo la lor professione o condizione sociale.

  E soprattutto (qui tocchiamo la parte forse più originale e più squisitamente poietica dell’opera sua), estendendo il principio dei rapporti fra l’individuo e l’ambiente, egli ne cavò quelle descrizioni introduttive a certe sue storie che sono veramente magiche e non si cancellano più dalla memoria: come le prime cinquanta pagine della Maison du Chat qui pelote, o quella città tutta corsa di ruscelli all'alba che introduce alla storia di Pierrette, e la descrizione della canonica e dell’alloggio attinente che sarà così ferocemente disputato nel Curé de Tours, e le prestigiose figurazioni della facciata della casa di Claës nella Recherche de l’absolu, o la descrizione della casa in cui è Grandet — che ci dà in anticipo tutto il suo carattere e la vita di lui e sua figlia — e che è a sua volta nella città di Saumur. Un modo di impiantare una narrazione che è una qualità capitale dell’arte sua: nella quale la sua “sensibilità prodigiosa pel dettaglio”, secondo l’osservazione del Baudelaire, si accomunava a quell’altra sua capacità sovrana d’una specie di sintesi inventiva e rivelatrice per la quale ancora Baudelaire userà l’epiteto oggi famoso di “visionnaire”.

  Al punto che, mentre le due regole precedenti sono state poi anche gustosamente contraddette — e molti narratori hanno tratto efficacissimi effetti dal contrasto tra il genere di attività e il carattere dell’individuo, e si sono compiaciuti a presentarci vecchi e militari timidi e sensibili come fanciulle, atletici beccai sentimentali, e magari efferati giustizieri dal fisico delicato e dagli azzurri occhi di vergine, come il Chevalier de Touches del D’Aurévilly — quest'ultimo principio è invece rimasto fondamentale nella narrativa, anche di altissimo livello, di tutto un secolo, fino ai giorni nostri: tra i massimi elementi pei quali si può dire che Balzac contribuì validamente alla sua instaurazione a fianco di Stendhal; e servirà più tardi ancora a svincolare l’arte della messinscena a teatro da ogni verismo freddamente oggettivo per spingerla a rendere soprattutto “l'atmosfera”, e passerà finalmente, sempre con la stessa efficacia se non maggiore, nel cinematografo.

  Ma tutto ciò non toglie che le basi vere su cui poggia quasi sempre la prodigiosa opera di creatore del Balzac, il suo “realismo”, sian della stessa natura di quello di Stendhal; e cioè non già una pedissequa pittura della vita di certi ambienti tutta in superficie, secondo le più immediate apparenze (come appunto intenderà grossolanamente la sua lezione lo Champfleury), bensì una rappresentazione che, basandosi sul giudizio d’ordine storico, al di sotto e per mezzo di esse mettesse in luce e rendesse intuitivi, sensibili alla fantasia prima ancora che all’intelletto, le ragioni vere, i motivi profondi della vita di quel dato ambiente sociale in un dato paese e in un dato momento.

  E poiché Balzac lo fece con quell’evidenza violenta e talvolta persin grossolana che era propria del suo temperamento di scrittore, e magari gridando al contempo il metodo e lo scopo ai quattro venti, e fu sul subito tanto più famoso di Stendhal, di questo nuovo “metodo di composizione” ossia di questo nuovo realismo, destinato poi a trionfare per tutto un secolo, egli fu ritenuto per lo più l’inventore. E già è avvenuto a noi stessi una decina d’anni fa, scrivendo su Balzac a proposito del centocinquantenario della sua nascita, di notare con quanta comica superficialità certi giovani critici d’oggi, sulle orme del vecchio Brunetière ma peggiorandolo, si fossero buttati ad attribuire a Balzac il primato e addirittura l’esclusiva non solo di questa geniale applicazione della Storia alla narrativa, ma addirittura d’una “nouvelle manière” di concepire la Storia: attribuendogli cioè esattamente quei meriti che vanno resi a Stendhal.

  Giacché, a parte quel nuovo modo di concepire la Storia di cui la priorità se mai andrebbe a tutto il romanticismo in genere, e in particolare allo stesso Walter Scott e al Barante e al Thierry e al Mignet (che il Balzac mostrò di conoscere e saper apprezzare assai bene), per quanto riguarda la sua introduzione nell’arte narrativa — e nella narrativa d’argomento contemporaneo — non solo, come abbiam visto, la priorità è indiscutibilmente di Stendhal, ma vi è più di una ragione per credere che egli sia stato in ciò il vero iniziatore, il “maestro” di Balzac: dal quale a sua volta il “sistema” passò ad altri, anche a quelli cui, per un’idiosincrasia particolare del gusto, i libri di Stendhal riuscivano ostici, come fu il caso di Flaubert.

 

 

  A darcene chiaro indizio ci sono anzitutto le date. Poiché fu solo dopo Armance — il qual libro come vedremo fu per l’ancor giovane stampatore-scrittore una vera illuminazione — che Balzac sino allora oscillante tra le grossolane attrattive del romanzo nero e l’episodio storico-drammatico alla Scott o la pittoresca ironia delle Fisiologie (inclinazioni che dovevano sboccare, al suo ritorno alla letteratura militante nel ‘29, negli Chouans e nella Physiologie du Mariage), venne a quelle fini analisi della vita mondana e di complicati caratteri femminili sullo sfondo del loro ambiente sociale che gli diedero il primo grande successo delle Scènes de la Vie privée (fra cui il Bal de Sceaux ci sembra rivelar meglio un certo debito nei riguardi di Armance). Ma fu soprattutto dopo Le Rouge et le Noir, che Balzac affrontò decisamente, coi chiari propositi che abbiam visto, sia in Eugénie Grandet sia nelle altre prime Scènes de la Vie de province e poi col Père Goriot, col Médecin de campagne ecc., quella specie di storia intima della società del suo tempo, di cui non pare egli avesse avuta nemmeno l’idea prima del 1830-31, e di cui Le Rouge et le Noir offriva un formidabile esempio.

  E bisogna anche ricordare che quando alcuni anni dopo, nel 1840, egli celebrerà la Chartreuse di Stendhal nel modo che sappiamo, i suoi entusiasmi andranno soprattutto agli intrighi politici della corte di Parma, e alla abilità sovrana con cui Stendhal, in un limitato ambiente ed evitando giustamente i grandi personaggi storici, aveva saputo dare perfettamente l’idea dei meccanismi segreti della politica della Restaurazione, nonché in genere dell’alta politica di tutti i tempi: esattamente quello che Balzac aveva già cercato di fare e tenterà ancora in seguito, non senza immettervi per parte sua una buona dose di quella ingenuità romanzesca che gli era probabilmente connaturata, ma era puranche un’eredità delle sue rinnegate esercitazioni giovanili.

  Proprio a proposito della politica della Restaurazione, ci si aspetta da una riga all’altra, leggendo quel suo saggio, che egli venga a nominare Le Rouge et le Noir, e si resta sorpresi che ciò non accada. Nel che devono aver confluito due ragioni: ch’egli ammirasse assai meno tal libro, il quale gli doveva sembrare ancor più “mal scritto” di quello che stava analizzando; e che d’altronde la sua penna rifuggisse magari senza ch’egli ne avesse coscienza dal farne il nome, come quello che avrebbe rivelato un po’ troppo chiaramente una importantissima fonte del suo famoso programma di romanziere, e persino del modo onde era stato realizzato. Ma lo conosceva assai bene, avendogli dedicato nelle sue Lettres de Paris del 1830 alcune righe (il lettore le potrà riscontrare nell’introduzione del Martineau all’edizione Garnier del Rouge et Noir, p. XXXI), le quali mostrano la grande impressione che esso gli fece, come d’un testo capitale, fra i pochi veramente rivelatori della tremenda crisi della società contemporanea. E gli dovè restare impressa quella maniera, che dopo l’esempio di tale Chronique de 1830 noi dobbiamo chiamare tipicamente stendhaliana, di cominciare il racconto con la descrizione, analitica e sintetica a un tempo, puntualissima ma anche largamente allusiva a tutta la situazione della Francia, di una data città o cittadina: posizione geografica, un po’ di storia, costumi e carattere degli abitanti, situazione economica ... tratto decisivo, in cui è concentrata un po’ tutta la lezione del nuovo romanzo sociale: di cui Balzac si impadronì e che applicò senz'altro, quando cominciò il suo primo vero capolavoro, Eugénie Grandet che è del '33, con la famosa descrizione di Saumur. Per cui dobbiamo considerare il Saumur di Eugénie, il Provins di Pierrette, il Le Havre di Modeste Mignon, e forse più ancora il Guérande di Béatrix e il Sancerre della Muse du Département come altrettante repliche evidentissime del Verrières di Le Rouge. et le Noir. E proprio nella Muse du Département, un anno dopo la morte di Stendhal, Balzac ne ha citato ancora con affetto e reverenza il nome, dicendo che tutte quelle sfumature dell’amore “découvertes par notre esprit d’analyse et que la société moderne a créées [siamo noi a sottolineare, perché il pensiero è tipicamente stendhaliano], un des hommes les plus remarquables de ce temps, dont la perte récente afflige encore les lettres, Beyle (Stendhal) les a, le premier [sottolineiamo ancora noi perché l’ammissione è preziosa], caractérisées”.

  Siamo sicuri che una ricerca più sistematica condotta su tutte le opere di Balzac metterebbe in luce altre prove. Ma come dimenticare, ancora, che Stendhal stesso aveva tracciato, fin dal 1826, in quel passo del suo Nouveau complot contre les industriels pubblicato anche dal Globe e che noi abbiamo già qui citato, esattamente il primo programma di quella specie di alta commedia di costume che c’era da creare mettendo in scena i maneggi dei grandi banchieri e finanzieri dei tempi nuovi: quel programma che Balzac avrebbe così arditamente fatto suo?

  Ci limiteremo a concludere, per ora, appellandoci all’opinione di Zola, in quei Romanciers naturalistes che sono la più valida delle sue opere critiche (e che la critica dei professionisti oggi troppo spesso trascura), nel saggio su Stendhal: dove il suo acume e la naturale sensibilità dello scrittore lottano di continuo contro il preconcetto naturalistico personale, per cui vero “realista” è solo colui che insiste quanto si conviene sugli aspetti materiali del mondo, e sa mostrare i suoi interessi politici mettendo in scena le “masse”. Il che non gli impedisce però, anche in tema di naturalismo, di vedere in Stendhal l’autore di “oeuvres complexes qui ont déterminé, avec celles de Balzac, l’évolution naturaliste actuelle”; precisando poi e ampliando questa sentenza col dire che: “Stendhal appliquait en philosophe des théories que nous tâchons aujourd’hui d’appliquer en savants”, e che, se pure “sa formule n’est point encore la nôtre”, tuttavia “la nôtre découle de la sienne”. Cosicché bisogna riconoscere che: “Stendhal est pour nous le père de Balzac”.

 

 

  Certo una notevole differenza v’era, fra la maniera di concepire l’arte narrativa di Stendhal e quella di Balzac. Che Balzac stesso sottolineò, rivolgendo nel suo studio sulla Chartreuse, dopo tante lodi, così dure critiche allo stile di quello scrittore ancora quasi oscuro nel, quale egli proclamava di aver trovato un maestro e un suo pari: le sole critiche sulle quali Stendhal nella sua bella lettera di risposta si impuntò, ribadendo arditamente il suo punto di vista.

  In esse, accusando i periodi di Stendhal d’essere troppo secchi e scuciti, e le sue frasi di mancare di “rondeur”, Balzac veniva a rimproverare in sostanza alle pagine del suo autore e quindi a tutto il libro, di mancare un po’ di quel pathos, di quel diffuso calore sentimentale di cui abbondavano per contro i libri suoi, e che aveva e avrebbe valso tanto presso i suoi lettori, esercitando su di essi un fascino che noi troviamo oggi di qualità piuttosto impura. (Ed è piccante vedere al riguardo il giudizio che dava Stendhal, per contro, dello stile di Balzac: “... Io non dubito ch’egli scriva i suoi romanzi due volte. La prima volta li scrive in modo intelligente, la seconda poi li infronzola di bello stile neologista, pâtiments de l’âme, il neige dans son coeur, e di simili belle cose!” Trovandosi in ciò curiosamente vicino all’opinione di Zola, nel saggio sul Balzac del libro testé ricordato: per cui quel grande sarebbe stato abbacinato dall’”éclat du groupe romantique” del 1830, e dal desiderio di gareggiare con quell’immaginoso linguaggio.) Ma è pur vero che, siccome ogni grande scrittore ha sempre i difetti delle sue qualità, v’è una certa ingiustizia (come ben notava già Baudelaire) nel rimproverare a Balzac quel calore, quella tedenza (sic) amplificatoria, diciamo, pure quell’enfasi, che è poi il segno della sua inclinazione, per dare più rilievo alla verità di certe analisi e rappresentazioni di personaggi caratteristici o addirittura simbolici, a fare più grande del vero.

  E alla radice di tutto ciò v’è, ancora, una certa corrente mistica che, come è noto, serpeggiava nei meandri dell’anima di Balzac; e che, oltre a rivelarsi nello stile, si manifestava per l’appunto ora in forma ingenua, col simbolismo di certi suoi personaggi i cui sentimenti vengono ad assumere proporzioni smisurate (Goriot o la mistica della paternità, Eugénie o la mistica della fedeltà femminile in amore), ora in quelle improvvise aperture sull’inconoscibile, o meglio sulle supreme verità cui lo spirito umano può attingere solo per una specie di intuizione-rivelazione di carattere vagamente quanto intensamente religioso. Un misticismo che, come Balzac stesso ebbe cura di dichiarare, aveva la sua fonte nel deismo magico di Swedemborg (sic), e si collegava, nel Balzac ammiratore della discussa terapeutica miracolosa del Principe-vescovo di Hohenlohe, ad altre eredità settecentesche: dal magnetismo animale al mesmerismo, con una forte dose di quell’amor del Mistero che era comune a quasi tutti i romantici. Una corrente che non sembra aver influito gran che sugli sviluppi del romanzo europeo (il misticismo nichilista di Dostoevskij è di tutt’altra natura), o comunque vi influì assai meno del suo metodo di composizione e dei suoi schemi storicistici, in parte connaturati a quelli, di Stendhal per la comune temperie in cui vissero e in parte come abbiam visto derivati direttamente dai suoi. Mentre tale influsso si ritrovò nella lirica: non per nulla chi intese più a fondo la natura dell'arte di Balzac nell’Ottocento, fu un poeta, Baudelaire, e lo stesso Balzac parlando della letteratura o scuola letteraria “delle immagini” arrivò a intravedere il Simbolismo.

  Nel che Balzac si trovava come è noto agli antipodi di Stendhal, nemico irreducibile d’ogni rivelazione mistica e sospettoso d’ogni metafisica; il quale pensava che “c’est à l’anatomie comparée que nous devons demander les plus importantes révelations sur nous mêmes” preconizzando con tali parole quella disciplina che oggi, si chiama Psicologia sperimentale.

  E ciò basta a spiegare perché i due non potessero intendersi sullo stile; dato che esso non è altro, in letteratura come in pittura, (secondo la definizione di Stendhal nella Histoire de la Peinture), se non “la teinte particulière de l’âme” dell’autore, la quale diventa visibile “dans le clair-obscur, le dessin, la couleur”.

  Ma per quanto riguarda quella “scienza positiva dell’uomo” sia in sé che in quanto animale socievole, malgrado il tanto vantato attaccamento di Balzac alle teorie scientifiche del Saint-Hilaire e la sua ambizione di individuarne e descriverne le “specie sociali,” non sembra davvero che proprio Balzac, e colle sue tipizzazioni tanto efficaci in sede poetica quanto frettolose e sommarie per non dir altro dal punto di vista scientifico, e con le sue aperture mistiche, abbia contribuito a farla progredire in qualche cosa, né che avesse anche soltanto idee molto chiare in proposito.

  Contrariamente a Stendhal che, come abbiamo visto, le aveva invece chiarissime, e aveva in ciò il vantaggio d’una ben più solida base filosofica, ancorato com’era alle dottrine degli Ideologi.

 

 

  Achille Bosisio, Balzac, l’Italia e Venezia, «Ateneo Veneto», Venezia, Vol. 142, n. 2, luglio-dicembre 1958, pp. 21-25.

 

  Undici volumi di scene della vita privata, dieci della vita di Parigi e dieci della vita di provincia, quattro di vita politica, tre di vita di campagna, uno di costumi militari, sette di studi filosofici e quattro di studi analitici; a fianco di questi cinquanta volumi della Commedia Umana, racconti e novelle, fiori rari e sontuosi, germogliati sullo stesso terreno, adorni delle medesime grazie.

  In questo complesso caleidoscopico, permeato di quella spiritualità eletta ed acuta con la quale non contemplò soltanto la superficie visibile delle varie epoche, ma le spiò dietro le quinte, svelandone i miseri segreti; fra quel popolo prodigioso di creature, delle quali, nella chimica dei sentimenti, considerò le equivalenze di tutte le passioni, le così dette eroiche come le cosidette ignobili, «avvezzo ad ammirare una perfetta canaglia, un Vautrin, non meno di un genio morale, un Louis Lambert, a non far mai distinzione fra costumati e scostumati, ma a misurare di un uomo soltanto il valore volitivo e la intensità psichica (S. Zweig)»; fra quel turbine altrettanto prodigioso di eventi espressi dall’intimo, fra il tumulto della vita e il succedersi dei casi, sui quali ha impresso il suggello della sua arte inimitabile, non pochi sono i personaggi, le vicende, gli ambienti di origine e di carattere italiani. Nei Deux Proscrits (sic) è notevole il culto che professa per Dante dal quale mutuò il titolo per l’intera sua opera. In Facino Cane, il protagonista della breve e triste storia è l’ultimo erede di un fantastico principato di Varese, oriundo di Venezia, il quale, dopo aver perduto il potere e sperperato le cospicue ricchezze e dopo essere stato l’amante di una dogaressa, si riduce a mendicare per le vie di Parigi. L’Elixir di una lunga vita, racconto di una terribilità hoffmanniana, si svolge in Ferrara; Caterina de’ Medici, è ambientato per la maggior parte in Toscana e d’ambiente italiano è pure la Vendetta. Purtroppo in tutte queste opere lo sfondo scenico è costituito da una Italia di maniera con paesaggi di seconda mano, e storie e leggende non sempre sono comprese e rettamente interpretate come, del resto, è accaduto a V. Hugo; gli atteggiamenti dei personaggi e le vicende politiche sono spesso travisati. Quando componeva queste opere il Balzac non aveva ancora visitato l’Italia, come Alfred de Musset quando scriveva a diciott’anni, per incarico della Comédie Française, la Nuit Venitienne, nè quando, nel 1828, cantava Venise la rouge e Venezia per lui era ancora un sogno dorato che doveva tramutarglisi in un sogno macabro di lì a qualche anno dopo aver vissuto l’avventura più bruciante della sua vita e avere abbandonato «au fond d’un verre» le sue più care illusioni.

  Il 18 settembre 1832 Onorato Balzac scriveva da Aix alla sorella Laura «Je suis aux portes de l’Italie et je crains de succomber à la tentation d’y entrer», alla stessa guisa di W. Goethe che sessant’anni addietro per la prima volta, e press’apoco con le stesse parole, dall’alto del S. Gottardo aveva sospirato verso la terra dell’avventurosa Mignon. Il duca di Fitz-James aveva invitato lo scrittore ad unirsi alla comitiva formata, oltre che dalla sua famiglia, da madame De Castries, che al Balzac era particolarmente cara, una delle più belle, delle più adulate, delle più aristocratiche dame di Parigi; l’itinerario comprendeva Genova, Napoli, Roma; il Balzac aveva già fatto i suoi conti per affrontare la spesa; più che altro lo attraevano la comodità del viaggio largamente organizzato e — non dimentichiamo il de nobiliare e il famoso stemma allo sportello della vettura — l’idea di essere «avec la haute société». «Je ne saurais jamais trouver une semblable occasion». Il dieci ottobre i viaggiatori partivano da Aix, il 6 erano a Ginevra; ma qui il romanziere rinunciò bruscamente a proseguire con la scusa che improvvisi e urgenti affari lo richiamavano a Parigi. Così almeno scriveva alla madre; ma si può anche supporre che qualche attrito con Madame de Castries lo decidesse al ritorno. Non più di un anno dopo creava nella duchessa De Langeais un tipo di donna leggero, artificioso, incostante ed era forse la sua vendetta per il trattamento inflittogli dalla bella compagna di viaggio la quale così, per i suoi meriti o per i suoi demeriti, passava alla storia: le vendette degli artisti servono almeno a creare dei capolavori!

  Ma di lì a cinque anni, il 19 febbraio 1837, lo scrittore arrivava finalmente a Milano dove diceva di essere disceso per sistemare gli affari della famiglia dei suoi amici conti Guidoboni Visconti. E questa è una delle sue tante invenzioni: chi mai, infatti, avrebbe affidate le proprie matasse da sbrogliare a lui, immerso nei debiti fino alla gola, a cagione delle speculazioni tutte quante fallite, che si sorreggeva appena sotto il peso delle cambiali scontate e rinnovate dagli usurai? «J’ai plus de deux cents mille francs de dettes» gemeva scrivendo da Milano alla nobildonna polacca Evelina de Hanska, nata contessa de Rzewuska, sua ardente ammiratrice, l’Etrangère dapprima, con la quale intrattenne per anni ed anni una copiosissima corrispondenza, «l’immortelle aimée» di poi, «chère confidente de mes tristesses et de mes erreurs» che, rimasta vedova, egli potè finalmente fare sua moglie nell’ultimo periodo della travagliata esistenza. In verità era venuto in Italia per trovare un po’ di quel sollievo e di quella pace alla quale il suo spirito tanto anelava. E, sotto questo aspetto, le sofferenze del Balzac non sono leggendarie od immaginarie come quelle di tanti altri uomini più o meno illustri. Sono invece una realtà sorda e spietata che lo abbranca e lo attorce e lo dilania, stringendolo in un cerchio infernale di debiti, che lo obbliga ad un lavoro di forzato della penna, chino sopra il tavolo di lavoro per ore ed ore, per giorni interi, per notti intere, sostenuto da una serie incalcolabile di tazze di caffè, per fornire quel determinato numero di pagine, per formare il feuilleton per il giornale che dovrà uscire il giorno dopo (la Cousine Bette, «venti capitoli scritti currenti calamo, la notte per l’indomani, senza tirare il respiro», così scrive a Madame Hanska), il capitolo da passare in tipografia al proto che deve consegnargli per la correzione le bozze del capitolo precedente, ancora umide di stampa, odorose di inchiostro e di olio denso, di esalazioni di piombo. La povertà o, meglio, l’indigenza, il sacrificio che cominciarono a tormentarlo fino dalla giovinezza i debiti, le speculazioni rovinose furono l’incubo, lo spettro, la sua tortura perenne. Anche negli ultimi anni della non lunga esistenza, quando con il matrimonio progettato con madama Hanska pareva che i suoi tormenti finanziari dovessero alfine dargli tregua, sempre il bisogno di denaro per non essere a carico della futura moglie, per soddisfare impegni più o meno recenti, fu il suo assillo, sino al giorno dell’immatura morte. Anche per questo condannato che sa che non gli resta che ben poco tempo prima di morire possiamo pensare che come per Mozart, come per Chopin è il presentimento della morte vicina che lo spinge a quella sua frenesia di creatore foggiando il più eroico, il più singolare, il più romantico, il più poetico ed il più patetico, come disse il Baudelaire, di tutti i personaggi che si era tratti dal cuore.

  Giunto, dunque, in Italia il soggiorno di Milano gli fu allietato fin dal principio dall’accoglienza entusiastica dei salotti, dei veri salotti di quel tempo dove l’aristocrazia dello spirito non la cedeva all’aristocrazia del blasone. Le dame più colte, più intelligenti, e nello stesso tempo più eleganti, facevano a gara per averlo loro ospite, per esibirlo nel loro palco alla Scala dove prendeva posto senza abbandonare la sua canna di malacca sormontata da un’impugnatura preziosa; ed egli le ricambiava con attenzioni squisitamente letterarie, scrivendo negli albi, dedicando ad esse ed ai loro mariti novelle e romanzi. Alla madre della futura duchessa Eugenia Litta, che diventerà una passione giovanile di Arrigo Boito, dedica con una lettera delicatissima Une fille d’Eve la cui protagonista si chiama essa pure Eugénie, la triste infanzia della quale gli fa pensare all’infanzia felice di quest’altra Eugenia che erediterà dalla madre la dolcezza del profilo di certe madonne di Carlo Dolci, di Cristoforo Allori «qui semblent abstraites tant elles sont loin de nous». Ma colei che lo incantò veramente, per la quale provò «une vive tendresse» ed alla quale conservò una lunga amicizia fu la piccola Maffei, la contessa Clara o Chiarina, moglie del trentino Andrea Maffei, che fu ad un punto dall’essere geloso del Balzac, nel cui salotto si adunava il fior fiore della società milanese ed alla quale cinque anni dopo, nel 1842, dedicava un racconto scritto proprio per lei «La fausse maîtresse» che fa parte del ciclo della Vie privée ed alla quale regalò le bozze dei «Martyrs ignorés», bozze che sono tutte una selva di cancellature, che hanno addirittura l’aspetto di un altro lavoro rampollato dal primo, mezzo sepolto anch’esso fra i pentimenti, la cui composizione doveva avere atterrito il più coraggioso tipografo. Ed alla Maffei il Balzac è debitore del titolo di un altro racconto di soggetto italiano «Gambara», che era il cognome della veneranda madre di lei, Ottavia Gambara di Brescia. Il protagonista del racconto, che vide la luce alla fine di quello stesso anno 1837, è un calco dal vivo di quel non celebre, ma non ignoto musicista tedesco Strunz che gli fu amico e lo introdusse nel regno della musica nel quale l’entusiasta Balzac non rimase che en amateur, lo stesso Strunz che rivestirà le spoglie del commoventissimo Schmuke del Cousin Pons; e nel «Gambara», dove vengono svolte alcune singolari teorie musicali, si trova un curioso parallelo tra Rossini e Beethoven, tra il sensualismo italiano e l’idealismo germanico. Nel novembre del 1838 in una affettuosa lettera da Parigi confida alla Maffei di lavorare ad una opera intitolata «Massimilla Doni» «qui fera tressaillir plus d’un coeur italien» e le narra che mentre stava scrivendo questo racconto, per tenersi in tono, aveva ingaggiato un pianista, il medesimo Strunz, al quale la Massimilla è dedicata, perché gli suonasse tutte le opere del suo prediletto Rossini (tra le carte del Rossini venne trovata anche una romanza su parole del Balzac) e che alla angosciata sublime preghiera del Mosè «dal tuo stellato soglio» gli sembrava d’assistere alla resurrezione di un popolo; ed il presagio di là ad un decennio doveva divenire una realtà gloriosa.

  Quel racconto è pieno di passione italiana e veneta. In esso rivive la Venezia del medio evo, del rinascimento, del secolo XVIII, fino alla fine della repubblica e prima dell’oppressione austriaca, con tratti più veri e più sentiti che nelle altre opere di soggetto italiano o veneziano. Egli è che durante il soggiorno milanese non aveva saputo resistere all’intenso desiderio di visitare Venezia.

  Venezia circonfusa di mistero gentile e melanconico apparve sempre di una prestigiosa bellezza all’anima dei poeti e degli scrittori francesi; ridestò la loro fantasia, seppe insinuarsi nei loro cuori con le infinite malie dei suoi palazzi continuati nei riflessi delle acque, con le sue cuspidi traforate, con gli archi aerei, con le sue penombre lievi come le parole semispente che i flutti mormorano alle rive. E taluni come il già ricordato De Musset, come lo stesso Balzac, l’hanno tanto sognata, che l’avevano descritta prima di vederla; prima di calcare le pietre delle calli silenziose avevano veduto i rii snodarsi sotto l’arco dei ponti, i campielli ingioillarsi (sic) di vere, avevano veduto le glicini a sprazzi effondere le mura corrose di un sereno fresco di cieli, avevano inseguito l’eco di una blanda voce, avevano intraveduto una leggiadra figura attraverso l’apertura di un vano che inquadrava la sala di una dimora patrizia o la prospettiva di un piccolo orto chiuso tra pareti altissime.

  Il Balzac vi giungeva il 14 marzo 1838; «la Gazzetta privilegiata» del giorno seguente nella rubrica «Arrivi e partenze» registrava l’arrivo «del celebre autore francese» il quale aveva preso alloggio all’albergo Reale di proprietà del Danieli. Il 16 marzo nello stesso giornale si legge un saluto di Tommaso Locatelli, gazzettiere nato che passava per un Gaspare Gozzi redivivo. Una sera il Balzac, durante questo suo breve soggiorno veneziano, fu ospite in casa della contessa Mocenigo Soranzo, in quella Procuratia vicino alla quale Giustina Renier Michiel aveva tenuto aperto per tanti anni il suo salotto famoso e nella quale dieci anni dopo, il 3 novembre 1848, veniva portato a morire Alessandro Poerio, il poeta-soldato napoletano colpito durante l’eroica difesa di Marghera.

  In quella sera, a quella mensa, fra gli altri invitati, sedeva un egregio lombardo, anche lui amico di Clara Maffei, il conte Tullio Dandolo. Il Balzac da principio non si era fatto molto notare; parlava poco e mangiava molto, specialmente frutta della quale era ghiottissimo; quando prese a parlare uscì in acerbi giudizi sui Promessi Sposi, nonostante la stima che professava per il Manzoni che tra qualche giorno avrebbe visitato a Milano, nonché sui romanzi di Massimo D’Azeglio e di Tommaso Grossi, che, allora, tutti leggevano e che egli confessava di non avere letti.

  Il Dandolo lo rimbeccò piuttosto vivacemente; il Balzac, acceso d’ira, uscì in espressioni sarcastiche che minacciavano di degenerare in una lite. Ma il tatto squisito della padrona di casa che sorgeva prontamente a porgere le tazzine del caffè agli ospiti, riuscì a smorzare le contraddizioni ed a far morire la disputa. Il giorno dopo, qualche eco se ne diffondeva in città; la non grande distanza dalla Procuratia al Liston bastò perché si giungesse a buccinare di un duello tra il grosso Balzac e lo smilzo gentiluomo lombardo, il quale già la notte stessa era ripartito per Milano. La disputa ebbe uno strascico fra il critico letterario della Gazzetta privilegiata, quello del Vaglio, che pure si stampava a Venezia, e quello della Fama, giornale letterario di Milano, che non risparmiò le più aspre censure ai romanzi del Balzac. E gli storici ricordano che al museo di Padova esiste manoscritta una poesia in vernacolo veneziano un anonimo dalla facile, benchè prolissa e confusa vena, il quale pretende nientemeno che di mettere in canzonatura il famoso scrittore.

  L’anno seguente il Balzac tornò in Italia per rintracciare nella Sardegna certe miniere di piombo già sfruttate e abbandonate fin dall’epoca romana. In quel piombo fantastico egli vedeva già luccicare i più ricchi filoni d’argento che lo avrebbero finalmente liberato dalle incombenti preoccupazioni finanziarie. Nell’occasione visitò Firenze che gli lasciò una gradevolissima impressione. Ma Venezia è la città italiana per la quale anch’egli, come quasi tutti gli artisti ed i poeti stranieri più o meno celebri, non esita a dichiarare la sua predilezione (R. M. Rilke giunse addirittura a chiamarla la sua «città metafisica»). In quel rapido soggiorno di prima primavera, benché funestato dalla pioggia, la città gli apparve ravissante come era apparsa al suo Victurnien del Cabinet des antiques, accanto al quale mademoiselle Armanda avrebbe voluto farsi cullare in gondola, felice di essere amata «en voyagent sur le sein de cette amoureuse reine des mers italiennes». In una lettera a madame Hanska il Balzac, dopo avere scritto che Venezia e la Svizzera sono le due creazioni, l’una umana, l’altra divina che fino ad allora, gli sembravano incomparabili e insuperabili, così prosegue: «Venise que je n’ai vue que pendant cinq journées, dont deux pluvieuses, m’a ravi: je ne sais si vous avez remarqué dans le grand canal, après le Palais, une petite maison a deux croisées gothiques; toute la façade n’est que gothique pur. Tous les jours je m’y suis fait arrêter et j’ai souvent été ému aux larmes».

  Non il fantasma della bionda Desdemona egli rievoca dinanzi alle due finestre gotiche affiancate di palazzo Contarini, «mais» continua «j’ai connu tout le bonheur que deux personnes pouvaient y ressentir en y demeurant étrangères, au monde entier».

  Quella felicità non era nato per goderla se non nel sogno. Nel maggio 1850, nella chiesetta di Sainte Barbe a Berditchef, in Russia, poteva finalmente sposare la vedova madama Hanska, avendo tra i testimoni il genero di lei, il conte Giorgio Miniszech, che venezianamente chiamava Zorzi. Dopo qualche giorno partirono per Parigi ove giunsero alla fine di maggio. Magro e sparuto, alla malattia di cuore che da anni lo minava, s’era aggiunta un’ostinata bronchite che gli mozzava il respiro; non si reggeva più sulle gambe, appena giunto dovette mettersi a letto dal quale non si alzò più.

  Il 19 agosto chiese al medico quanto tempo gli rimanesse; gli occorrevano almeno altri sei mesi per redigere il suo testamento letterario. Siccome la risposta tardava a venire disse che gli sarebbero bastate anche sei settimane. Dalle ambigue parole del medico comprese che non gli restavano che poche ore; l’indomani, 20 (sic) agosto 1850, spirava tra le braccia della vecchia madre che lo aveva amorosamente assistito. Due mesi prima le aveva dettato una lettera, l’ultima, a Téophile Gauthier (sic) — al quale aveva dedicato Les secrets de la Princesse de Cadignan — lettera che è tutta uno strazio dell’anima. Sotto il nome, con mano tremante aggiunse «Je ne puis ni lire ni écrire» e questa dovette essere per lui la più atroce e la più immeritata condanna.

 

 

  Gherardo Caminiti, L’universo poetico di Balzac, «La Giustizia», Roma, Anno IX, 6 Aprile 1958, p. 3.

 

  Continuando la serie delle «soirées littéraires» la Comédie Française, dopo l’omaggio a Molière e Victor Hugo, ci ha invitato l’altra sera a rievocare insieme «L’Universo di Balzac».

  Il compito non era facile e solo la Comédie Française possedeva i mezzi tecnici ed umani atti per misurarsi con una delle più grandi e gigantesche figure della letteratura francese. Madame Beatrice Dussane, celebre decana della «Maison de Molière», dopo aver detto, appunto, delle difficoltà che presentava la scelta dei brani da leggere, in un autore la cui fecondità fu sempre geniale, diede la parola ai «comédiens», ciascuno dei quali lesse dei brani de «Le Lys dans la Vallée», «La Physiologie du Mariage», «Le Père Goriot», «La Peau de Chagrin», ecc.

  La rappresentazione fu perfetta in sé; gli attori si son prodigati con passione nell’arte difficile della lettura ad una voce; i decori, sobri ma sicuri, evocarono di volta in volta uno scorcio dell’universo balzachiano: dalla povera «mansarde» degli inizi, a quei salotti lussuosi ed alla moda ai quali egli desiderò tanto appartenere. Ed il pubblico, foltissimo, ha apprezzato nel loro giusto valore gli sforzi degli animatori della serata tributando a ciascuno di essi calorosi applausi.

  Riconosciute queste qualità, confessiamo di essere rimasti insoddisfatti: un po’ come se un amico nel proporci un lauto pranzo ci avesse offerto in realtà uno spuntino. Ci è sembrato, infatti, che la vita di Balzac, così ricca di avvenimenti, di eventi, di anedotti (sic), di particolari mal conosciuti o scarsamente interpretati, si prestasse più idealmente alla «causerie», alla discussione, alla analisi, che alla sola lettura ad una voce.

  Honoré de Balzac è stato certo il più grande creatore di personaggi vivi e veri; colui che ha dato nascita e significato al naturalismo del romanzo: «La natura sociale, che è una natura nella natura» (com’egli dirà in «Modeste Mignon»), troverà la sublimazione e la funzione di messaggio ne «Le Père Goriot». Ma prima del naturalista e dello storico vi fu un giovane poeta tragico che pochi conoscono. Vi fu quel giovane di 20 anni che abbandona la famiglia per realizzare, a Parigi, il suo sogno divorante di gloria e di ricchezza. Nella squallida «mansarde» della rue Lesdiguières, aperta a tutte le intemperie, illuminato il più spesso da una sola candela, Honoré de Balzac compone con accanimento la sua prima tragedia: «Cromwell», il cui soggetto egli ha scelto dopo aver esitato fra due altri soggetti altrettanto alla moda del momento, «Scilla» ed il «Corsaro». Egli ha fretta; egli ha fretta non solo a causa della sua ambizione, del suo bisogno di giungere su, in cima; egli ha fretta soprattutto perché il padre gli ha dato due anni per riuscire o per tornare tranquillo allo studio del notaio dal quale egli è fuggito, insofferente.

  I mesi passano veloci, i versi aumentano a fatica Balzac è come inchiodato al suo tavolo, lo lascia solo un momento per bere infinite tazze di caffè, o inghiottire in fretta una sardina schiacciata tra due fette di pane, o, ancora, la notte per delle brevi passeggiate, alla ricerca di quell’elemento e di quella atmosfera umani che gli saranno sempre necessari per stimolare la sua immaginazione creatrice. Ed infine un giorno «Cromwell» è pronto per essere letto in famiglia, davanti al cenacolo degli amici «letterati» Bastano pochi minuti: i visi si fanno desolati, sbigottiti, imbarazzati, annoiati. Il responso è unanime, ma Balzac protesta, si difende con calore, con passione. Tanto bene che ottiene se non l’assoluzione paterna, almeno una dilazione. Può tornare a Parigi e ritentare la sua «chance». Ma la carriera di tragico è finita!

  La capitale con le sue luci, con [il] suo splendore, coi suoi «boulevards» eleganti, col «gandismo» che imperversa, coi suoi cenacoli artistici alla moda lo inebria. L’atmosfera, le donne, i salotti fastuosi, la gloria che sembra là. a portata di mano lo eccitano. Vincere gli sembra facile, soprattutto quando gli editori cominciano ad accettare i suoi primi manoscritti che egli ha portato a termine in collaborazione con un amico, Le Poitevin. Ma la vena dello scrittore non è ancora trovata; si tratta per il momento di una letteratura mediocre, facile, che egli non sente di avvallare col suo vero nome. Comunque «L’Héritère de Birague» e «Jean Louis», ch’egli ha firmato con lo pseudonimo di lord R’hoone, gli fruttano 800 e 1200 frs, gli permettono di restare a Parigi, anche se i primi debiti gli fanno il terreno sempre meno sicuro. E giunge il momento in cui egli è costretto a fuggire in campagna per evitare i creditori.

 

  Degli amici di famiglia lo accolgono con affetto e premura, ma le serate sono monotone e lunghe. Si rievocano perloppiù gli avvenimenti, ancora recenti, della insurrezione in Vandea contro le truppe della Rivoluzione. La rivolta del popolo «chouan» è una delle pagine più terribili, sanguinose ed epiche della storia francese. Ad esse si sovrappongono già la leggenda che passa di bocca in bocca, le testimonianze di chi ha assistito alle lotte, di chi vi ha partecipato. Breve, ve n’è a sufficienza perché la prodigiosa fantasia ed il bisogno creatore di Balzac si mettano in moto. «Le dernier des Chouans (sic)» è scritto in tre settimane, di getto. Non è la gloria, non è la ricchezza, ma in questo libro, per la prima volta, Balzac rivela pienamente le sue vere qualità, le sue possibilità, quella forza creatrice ed espressiva che lo porteranno alla immortalità.

  Ma accanto allo scrittore, vi fu anche un Balzac uomo d’affari, uomo «tout court». Se la carriera letteraria, pur conoscendo alterne vicende, fu coronata dal successo, altrimenti si conclusero i suoi tentativi commerciali e le sue speculazioni affaristiche. Quest’uomo pur così lucido e coscente (sic) delle sue qualità intellettuali e del suo valore letterario, diveniva di una disarmante ingenuità nell’entrare nel mondo degli affari.

  Le cause che avevano spinto Balzac nel mondo degli, affari non sono difficili a comprendere: il suo bisogno di guadagnar parecchio danaro, di divenir «qualcuno», la facilità con la quale egli fa e disfa il programma della sua vita. Ma ve ne fu un’altra, importante: la delusione che le lettere gli avevano arrecata non procurandogli subito la gloria e la ricchezza che egli chiedeva loro.

  Fortunatamente fu proprio questa sua duttilità di carattere, dalla quale egli attingeva infinite risorse, che lo fece tornare alla letteratura con la stessa semplicità con la quale egli si era trasformato in uomo d’affari. Solo che la situazione adesso non è più la stessa!

  Vi sono diecine di cambiali che girano, che lo perseguitano, che lo assillano, senza contare i 40 e più mila frs. ch’egli deve a Madame de Berny, per non parlare di quelli che deve ai suoi, agli amici. Ed una volta il meccanismo diabolico messo in moto, esso non si arresterà più, non darà più requie a quest’uomo che lavora diciotto ore al giorno, spesso redigendo diversi testi alla volta, senza potersi liberare dagli uscieri, dagli ufficiali giudiziari. Quante volte ha cambiato di abitazione? Almeno quattro! Quante volte ha dovuto chiedere, all’improvviso e d’urgenza, rifugio ai suoi ed agli amici in campagna per trovarvi la tranquillità necessaria al suo lavoro?

  E questo universo di carta bollata, di angosce, di prestiti, di anticipi, di lettere di credito, di sotterfugi, di fughe si incontra, si sovrappone, si mischia in un vertiginoso carosello con il mondo degli «affari di cuore». Gli amori ancillari, che lo inteneriscono senza soddisfarlo, si affrontano con la passione, ad essa si oppone la «liaison» romantica e misteriosa, poi ancora la tenerezza, e qua e là le trame da salotto! Madame de Berny, l’amante materna, comprensiva, amica, la marchesa de Castries, la donna per eccellenza, che gli si rifiuta, lo fa soffrire, Madame de Hanska, che dovrà apportargli l’intesa finale, la contessa Guidoboni-Visconti, l’avventura facile della riuscita. Altrettanti «tableaux» di questa vita caotica e disordinata, fremente, che Balzac, mena contemporaneamente, affrontandola ora con la disperazione sincera, ora col sorriso, colla prodigiosa energia che lo anima, col suo ottimismo, la fiducia e la coscenza (sic) del suo valore; con tutte quelle risorse, insomma, che fanno di lui «une force de la nature».

  E tra la redazione di un nuovo romanzo, la vertenza giudiziaria di un editore o di un creditore, Balzac trova ancora il tempo per collaborare contemporaneamente a quattro giornali, per viaggiare (in Italia, in Svizzera, in Austria, dov’è ricevuto da Metternich, in Sardegna, per non parlare dei viaggi ch’egli intraprenderà per o con Madame de Hanska, e che lo porteranno fino in Russia). Trova tempo per divenire immortale! «Eugénie Grandet» e «Un (sic) Médecin de Campagne» son di quest’epoca, del 1833. Egli non ha ancora 34 anni! ...

  Dicevamo all’inizio che gli attori della Comédie Française avevano preferito chiedere all’opera già conosciuta, di parlarci dell’uomo, di rievocarcelo a tratti, invece di chiedere a questo nome prodigioso di parlarci di sé, di precisarci un dettaglio, un ricordo. Dicevamo anche della nostra insoddisfazione. Ma si può, in fondo, chiedere ad un uomo che, nato all’inizio del 1800, visse la prima metà di un secolo tra i più tormentati e tumultuosi, che assistette alla nascita ed alla morte di cinque regimi politici (I Repubblica, «Empire», Restaurazione, Luigi Filippo, II Repubblica), che fu amico degli uomini più celebri del suo secolo (Hugo, T. Gautier, G. Sand, Musset, Baudelaire, per non citarne che cinque), che in 50 anni realizzò una opera ciclopica che sorpassa gli ottanta volumi; si può chiedere ad un uomo simile, dicevamo, di mostrarsi nella, sua intierezza in uno spettacolo di due ore?

 

 

  Giuseppe Cassieri, Balzac in Italia. Programma a cura di Giuseppe Cassieri. Avventure e disavventure dello scrittore francese durante la sua permanenza a Torino, Milano e Venezia negli anni 1836 e 1837. Regia di Pietro Masserano Taricco, Terzo programma, 13 marzo 1958.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Raffaele de Cesare, Una recensione inedita di Balzac a Latouche, «Studi Francesi», Torino, 4, Anno II, fasc. 1, Gennaio-Aprile 1958, pp. 63-71.

 

  [...]. Si tratta di una breve recensione di dodici pagine, che allo stato attuale del manoscritto si presenta mutila ed incompiuta, consacrata ad un romanzo di H. de Latouche, France et Marie.

  Una preziosa nota apposta dal visconte di Lovenjoul nel foglio di guardia del manoscritto, informa il lettore del tenore di queste pagine e di esse disegna brevemente le vicende storiche in verità alquanto singolari.

 

  Charles de Bernard a publié dans la «Chronique de Paris» des 11 (correggi: 14) et 18 février 1836, recueil dirigé alors par Balzac, deux articles sur M. de Latouche, qui ont été réimprimés dans son volume: Nouvelles et mélanges. […].

 

  A rileggere attentamente i due articoli di Charles de Bernard e a confrontarli con queste pagine balzacchiane, è possibile verificare l’esattezza delle osservazioni dello Spoelberch. Charles de Bernard non si è solo, infatti, servito dell’autografo del maestro per riecheggiare una stessa ispirazione polemica contro l’attività letteraria di Latouche, per costruire lo schema del suo saggio, per avviare critiche metodologiche od osservazioni stilistiche, per formulare giudizi e giustificare accuse, ma, bene spesso, non ha fatto altro che trasferire nel proprio manoscritto testuali frasi balzacchiane.

  Naturalmente, davanti all’autografo del Balzac, rapido, schematico, essenziale [...], il giovane critico ha fatto opera personale nell’organizzare, nell’ampliare e nello sfumare un testo estremamente sommario. Le pagine del Balzac, a righe molto corsive e interlineate, tracciate, senza economia di spazio, con un largo margine, sono diventate tredici fitte colonne in-4 della «Chronique de Paris» dove non solo è illustrato il valore letterario di France et Marie, ma all’analisi del romanzo sono preposti un ampio cenno introduttivo riguardante la personalità di Latouche, un approfondito esame della sua attività letteraria anteriormente al 1836, giudizi sui caratteri generali della sua opera e, in particolare, una valutazione del suo penultimo romanzo (1835) Grangeneuve.

  Insomma, nel riprendere il testo di Balzac, de Bernard, pur lavorando docilmente sulla falsariga del maestro, ha dato alla recensione l’andamento di un discorso più unito, ha elaborato Io schema in più complessi nessi e in toni più ricchi, ha smussato le punte più polemiche, ha fatto, in una parola, di un abbozzo frammentario e corsivo un saggio critico concluso e meditato.

  Ma, ripetiamo, se Charles de Bernard è intervenuto personalmente sulle pagine balzacchiane, ora con ampliamenti storici e tematici, ora con maggiore cautela di giudizi e con una moderazione formale che — almeno esternamente — ha temperato l’acredine polemica dell’originale, l’ossatura della recensione originale è rimasta immutata nelle sue articolazioni essenziali, ed una valutazione negativa che ha, nella sostanza, la durezza della stroncatura, è interamente sopravvissuta nello spirito, se non nel dettato più sfumato, del saggio pubblicato. [...].

  Il confronto, fin qui avanzato, fra i due testi, mostra a sufficienza, crediamo, gli strettissimi rapporti dell’abbozzo balzacchiano con il saggio di Charles de Bernard, e delimita anche i termini dell’apporto critico personale di questo secondo. Eppure tale confronto, anche se spinto al limite estremo della documentazione, resta naturalmente incompleto né permette di fissare con sicura precisione la vera parte di originalità spettante al de Bernard. Vogliamo dire che, per quanto è possibile argomentare da alcuni dati, esso lascia indocumentabili ed indimostrabili altri debiti del discepolo verso il maestro, che pure, secondo ogni probabilità, dovettero esistere.

  Come già si è accennato, l’autografo balzacchiano è acefalo ed incompleto per la caduta di una pagina, o di un certo numero di pagine, fra il f. 1 e il f. 2: fra il primo, cioè, che termina con considerazioni generali sull’arte di Latouche e il secondo che inizia con un riassunto (già inoltrato) di France et Marie. Viene naturale, pertanto, la domanda: cosa contenevano queste pagine? E quanta parte di esse, ora mancanti ma certo esistenti allorché furono trasmesse dal Balzac al de Bernard, è stata da questi utilizzata, sia pure con trasformazioni o aggiunte?

  È ovviamente impossibile, non che dare una risposta documentata, proporre delle serie ipotesi. Ma è possibile forse avanzare la supposizione che talune osservazioni del saggio di Charles de Bernard che ancor oggi gli si possono attribuire — in mancanza dei passi equivalenti nell’autografo balzacchiano — già esistessero nelle pagine ora perdute del documento di Chantilly. E la tentazione è grande non solo di scorgere suggerimenti balzacchiani nelle due colonne iniziali del primo articolo (laddove si discetta sul diritto della critica — in rapporto all’opera di Latouche — e sui concetti di struttura e di esecuzione) ma soprattutto di intravvedere la «griffe» del maestro alla pagina successiva (166), laddove il critico si abbandona a certi voli che paiono verosimilmente troppo arditi per lui.

  E si porrebbe aggiungere ancora un’altra osservazione. Del saggio di Charles de Bernard non si è conservata che l’edizione della «Chronique de Paris»; non l’originale, non le bozze di stampa. Nella mancanza di ogni anello intermedio fra il primo abbozzo autografo e l’edizione definitiva, è lecito altresì supporre che il Balzac, così come ha trasmesso il testo del suo manoscritto al suo collaboratore, ne abbia rivisto la redazione e — quasi certamente — riletto le bozze di stampa. Ben poco purtroppo si sa dell’attività direttoriale di Balzac alla «Chronique de Paris»; ma la naturale potenza accentratrice del suo temperamento è ben nota, e un suo successivo intervento, con nuove aggiunte e correzioni di proprio pugno, sulle bozze di stampa degli articoli del de Bernard appare non solo un fatto possibile ma, ci sembra, estremamente probabile.

  3. Chiariti — sia pure imperfettamente — i rapporti che legano il testo della «Chronique» alla recensione inedita di Chantilly, il problema che ora si pone è quello della data a cui risale la redazione dell'autografo balzacchiano. Di essa conosciamo ovviamente il terminus ad quem rappresentato dalla data di pubblicazione del primo articolo di Charles de Bernard nella «Chronique de Paris»: 14 febbraio 1836. Né più difficile è ricostruire il terminus a quo offertoci dalla data di pubblicazione di France et Marie annunziata (sotto il n. 497) nella «Bibliographie de France» di sabato 30 gennaio 1836. Giovi comunque precisare che la data di pubblicazione indicata nella «Bibliographie de France» — come tutti sanno, non sempre rigorosamente precisa — anche questa volta è inesatta di qualche giorno. Fin dal 21 gennaio 1836 l’opera doveva infatti trovarsi in commercio o diffusa in «Service de presse». A questa data, Balzac riceve infatti da Werdet — che iscrive regolarmente sul conto dello scrittore la somma globale di 20 franchi — una copia di France et Marie e di Grangeneuve, il precedente romanzo di Latouche uscito nel 1835.

  Entro queste due date, alcuni giorni dopo il 21 gennaio, qualche giorno prima del 14 febbraio, è possibile quindi fissare con soddisfacente approssimazione la data di redazione della recensione di Chantilly.

  4. Un esame, anche fugace, del testo balzacchiano permette al lettore di non farsi alcuna illusione sul valore artistico di queste pagine. Già si è detto della corsività di una scrittura di getto che si snoda sui più rudimentali appoggi, non dà tempo alla meditazione di ristare su di un concetto e di esprimerlo o svilupparlo con frasi appropriate e precise; rifiuta ogni eleganza sia nello sfumare un giudizio, sia nel modulare un passaggio; fissa, invece, nella schematica immediatezza del frammento, fatti o impressioni di lettura. Qui valga solo aggiungere che la rapidità della scrittura balzacchiana è tale da compromettere talvolta la chiarezza espositiva e anche la stessa proprietà grammaticale e sintattica della espressione. Vogliamo dire che, nella foga di un dettato velocissimo (che traspare del resto nella stessa grafia non sempre decifrabile con facilità), Balzac è sovente scorretto, commette; frequenti disattenzioni sia nell’uso linguistico, sia nella struttura sintattica della frase. Alcuni periodi rimangono sospesi, privi di un essenziale nesso sintattico, altri sono confusi e quasi incomprensibili, altri infine — e sono i più numerosi — risentono delle più fastidiose ripetizioni di sostantivi, di aggettivi o di pronomi.

  Ma se il valore artistico di queste pagine è minimo, se esse sono le più lontane dall’offrirci un esempio soddisfacente della prosa balzacchiana, il significato critico che esse assumono è indubbiamente rilevante.

  Si è parlato di «stroncatura» e, in realtà, l’animosità polemica del Balzac è talmente ravvisabile che tutto porterebbe a far ritenere questa recensione così crudelmente negativa frutto del partito preso di una ormai definitiva inimicizia personale e letteraria. Ma qualunque sentimento d’acredine abbia potuto dettare quest’articolo un fatto è comunque certo: l’opera di Latouche è delle più mediocri e il giudizio del Balzac individua esattamente errori, aspetti negativi, punti deboli del romanzo.

  Basta rileggere France et Marie (anche nella prospettiva più obiettiva a noi consentita dal tempo e con occhi meno appassionati di quelli che non avesse il Balzac) per scorgere quanto questo romanzo sia veramente privo di valore letterario; quanto caotico, quanto appesantito di banalità, di inverisimiglianze, di contraddizioni strutturali non meno che poetiche. Nulla in esso si salva: né l’incatenarsi degli avvenimenti che si susseguono senza alcun legame; né il succedersi dei personaggi che — irrigiditi in tipi — rifiutano ogni vivacità umana, ignorano ogni coerenza di poesia; né l’avvicendarsi dei temi narrativi che si affastellano senza alcun ordine. Impossibile, a chiusura del libro, scorgere cosa l’autore abbia voluto fare, perché abbia così voluto disporre la narrazione, quali intenzioni abbia mai voluto realizzare.

  Ora il Balzac denuncia lucidamente tutto ciò. Con diagnosi crudele, ma con altrettanta genialità, indica tutti i difetti del romanzo: mancanza di unità, incapacità di stringere intorno ad un disegno centrale la trama di un soggetto e di coordinare a questo scopo i particolari, inverisimiglianza dell’azione e degli atteggiamenti dei personaggi, interiore povertà di afflato narrativo, errori, infine, sia contro le leggi della lingua, sia contro quelle dell’esposizione, sia anche (i più gravi) contro la storia, che lo scrittore — in nome di una polemica repubblicana ed anarchica («en haine des rois et des grands») traviserebbe o sconvolgerebbe.

  Nella sommarietà di una esposizione che — ripetiamo — è troppo veloce per essere, non che elegante, sintatticamente precisa, Balzac coglie genialmente le ragioni di un romanzo mancato, presenta a grandi linee una testimonianza di «mestiere» narrativo che — non crediamo di esagerare — svela la magistrale acutezza di chi aveva nel sangue la tecnica del romanzo. Anche solo per ciò, indipendentemente da ogni altro motivo, il documento di Chantilly merita di essere conosciuto dentro e fuori la cerchia degli studiosi balzacchiani.

  5. Né l’interesse della recensione balzacchiana è solo di ordine critico: altri interessi più ampiamente storici scaturiscono da queste pagine e si rivelano altrettanto preziosi per lo studioso del grande romanziere.

  Una volta stabilita la diretta ispirazione o, meglio ancora, la vera paternità dei due articoli della «Chronique de Paris», essi costituiscono un punto-chiave dei rapporti fra Balzac e Latouche, rapporti già ottimamente studiati, ma che, negli anni successivi al 1831, sono ancor oggi avvolti in molte zone d’ombra!

  È ben noto il contrasto fra i due scrittori avvenuto l’indomani della pubblicazione del Dernier Chouan; contrasto appianato da successive riconciliazioni, ma diventato definitivo e feroce da una parte e dell’altra, fra il 1832 e il 1833, per cause tuttora misteriose, e tale rimasto, sembra, fino alla morte dei due scrittori.

  Nella storia di questa inimicizia, la recensione del 1836 costituisce un momento di particolare interesse: uno degli episodi più enigmatici, certo, ma anche uno di quelli di maggior tensione prima della seconda, sanguinosa, recensione del 1840 a Léo. Se, allo stato dei documenti, nulla riesce infatti a spiegarci perché Balzac abbia evitato, in questa occasione, di infierire personalmente sul romanzo dell’ex-amico, e abbia preferito far passare sotto la firma di de Bernard una critica così spietata, tutto ci dice usualmente la persistenza della vecchia animosità che, anche camuffata sotto una firma d’accatto, non cessa dall’agitare il Balzac. Nel 1836, i rapporti fra i due scrittori sono dunque ben lontani dal trovarsi in quello stato di calma che il silenzio ufficiale dei due potrebbe far anche sospettare: al contrario non solo segretamente permangono nella stessa atmosfera ostile di un tempo, ma si alimentano in un dissidio ancora più velenoso.

  Per astio del Balzac, si potrebbe aggiungere, dal momento che ancora una volta è questi che prende l’iniziativa dell’attacco. Non è comunque da escludere che il colpo inferto al Latouche rappresenti, piuttosto che un’offensiva, un’azione di risposta o, per continuare ad usare la stessa immagine, una controffensiva. Sia chiaro: non si vuole qui assumere la difesa del Balzac, difesa in se stessa inopportuna e tanto più inutile quanto più — lo si è già detto — la sua recensione, pur nel tono ferocemente polemico, coglie nel segno la mediocrità artistica del romanzo di Latouche. Si vuole solo rilevare che nelle pagine di France et Marie non era difficile all’autore di Séraphita di identificare allusioni ostili alla propria opera e, in particolare, alla propria, più recente, produzione «mistica». Si pensi all’accenno, fatto dal Latouche, al rischio incombente anche su France et Marie di andare a finire, anziché nelle biblioteche private di letterati o di raffinate lettrici, nei «cabinets de lecture où la clarté du ciel s’insinue comme elle peut entre l’annonce decoupée des oeuvres de Wronski et les titres gascons d’un bouquin mystique».

  L’allusione a Séraphita è trasparente; e questo spiega perché Balzac ha ripreso nella sua recensione il passo (che Charles de Bernard ometterà) con l’evidente intenzione di rivolgere contro lo stesso Latouche l’ironia contenuta nell’allusione: «... et s’apercevant que son livre doit aller dans les cabinets <de lecture> au lieu d’aller chez les duchesses, le dégoût le prend, en pensant qu’il peut être entre des bouquins mystiques à titres gascons et les œuvres de Wronski, et il laisse tout là, comme un cheval qui, voyant son écurie ouverte, s’échappe et regagne ses steppes».

  Altri rifarà forse domani — inediti permettendolo — la storia della rottura fra Balzac e Latouche e ne traccerà gli sviluppi in tutto l’arco che va dal 1832 al 1851. Ma fin da oggi la recensione a France et Marie reca un nuovo contributo allo svolgimento di questa inimicizia che non conosce pause né esclusione di colpi; e di essa illustra un momento che fa da perfetto «pendant» all’articolo di quattro anni dopo su Léo. H. de Latouche fra la «Chronique de Paris» e la «Revue parisienne»: un obiettivo che la penna di Balzac non si stancherà mai di colpire ogni volta che la proprietà di una rivista consentirà allo scrittore di aver mano interamente libera, sia direttamente, sia attraverso il servizio compiacente di un prestanome.

  6. Di un considerevole interesse questa recensione è anche per i rapporti fra Balzac e Charles de Bernard, rapporti che nel 1836 sono già di vecchia data, ma che, proprio nel corso del primo semestre di quest’anno, si infittiscono nella frequenza quasi quotidiana di un lavoro comune. Purtroppo, qui pure, le ricerche erudite compiute sul de Bernard non sono tali da potersi dire esaurienti e, soprattutto, ben poco hanno illustrato la collaborazione di questi col Balzac al tempo della «Chronique de Paris». Non che tale intensa collaborazione non sia stata studiata; al contrario essa è stata fatta oggetto di un’ampia analisi. Ma nessuno studioso ha potuto spingere la sua indagine al di là di un censimento o di un riassunto degli articoli firmati da Charles de Bernard o da lui siglati. La cultura di questo scrittore, le fonti dei suoi articoli critici, le affinità dei suoi racconti con racconti di altri romanzieri, i suoi principi metodologici, i suoi orientamenti di critico letterario e teatrale, tutto ciò rimane ancora oscuro; e v’è molta probabilità che una ricerca in questo senso potrebbe portare domani a risultati interessanti e raffigurare la storia dell’apprendistato letterario di Charles de Bernard alla «Chronique de Paris» largamente condizionata dall’esempio e dal magistero narrativo del Balzac.

  Il retroscena della recensione a France et Marie getta comunque in questo settore, una luce nuova e mostra fino a che punto l’autorità personale del Balzac, la sua palese o segreta influenza, le sue direttive generali nell’impostazione letteraria della «Chronique de Paris» si esercitassero sui redattori della rivista; almeno sulla guardia del corpo più fedele: Charles de Bernard, Jules Sandeau, Emile Regnault.

  Purtroppo molti documenti riguardanti Balzac e i suoi «séides» sono oggi scomparsi: introvabili o irrimediabilmente perduti; né c’è molta speranza che i numerosi misteri che tuttora si addensano sulla redazione della «Chronique de Paris» vengano mai alla luce. Per quanto riguarda Charles de Bernard, una lettera di questi al Balzac, conservata a Chantilly, è uno dei pochi documenti che ci rimangono di questo periodo. E poiché essa dovette precedere di poco la pubblicazione della recensione, non sarà inopportuno segnalarla qui, in appendice alla presente notizia, e a minimo complemento di una collaborazione letteraria di cui il romanzo di Latouche non dovette, quasi certamente, essere la sola occasione.


 

  Pietro Cimatti, In libreria. Balzac critico, «Il Popolo», Roma, Anno XV, 14 novembre 1958, p. 3.

 

  Insieme all’appena uscito quarto tomo de «I capolavori della Commedia umana» di Balzac, vasta opera che Paolo Russo cura per l’editrice Casini, appare nell’universale economica di Feltrinelli una raccoltina dei suoi Scritti critici, testimone della multilateralità, del titanismo infaticabile di colui che, a torto o a ragione, definiscono il padre del romanzo moderno. La raccolta, curata de Mario Bonfantini, è inedita in lingua italiana e molto rara anche in Francia, avendo visto la luce una sola volta, nel 1912, in una edizioncina numerata oggi introvabile.

  Tutti sanno, ci avverte il presentatore, che Balzac ha mescolato alla prestigiosa attività di romanziere un paziente e geniale lavoro di critico letterario, ma tale nozione passava forzosamente in sordina mancando, di quel lavoro, la diretta testimonianza. Ora la lacuna è colmata e c’è da dire, anche a costo di macinare retorica, che fu una grande lacuna: infatti la lettura del testi, in molti casi brevi, piccole note sul tipo di quelle che vanno oggi in voga, solo in un paio di casi estesi sino al limite del saggio, ci viene a dimostrare che il Balzac recensore avrebbe meritato ben più fortuna di quanto ne ha avuta, non solo per la quantità intrinseca dei suoi giudizi ma proprio perché è dalla lettura di questi scritti critici che più completa e più schietta esce la sua figura di romanziere e di uomo.

  Che vulcano, quest’uomo: è la esclamazione che verrà spontanea appena scorse le prime pagine. Caotico, travolgente, plebeo sino all’ingiuria e raffinato fino alla crudeltà mentale, umoroso, grasso, sorprendente, prodigo di se stesso fino al capogiro (nostro, più che suo), e geniale in tutto, sia nelle pedanterie e sia nelle intuizioni lasciate lì grezze quasi attendendo una ripresa, una posteriore più paziente elaborazione. In tal senso Balzac è un maestro: un distributore vulcanico e in apparenza disordinato di idee, di spunti, di illuminazioni, di mezzi discorsi da cui s’intravedono mondi nuovi: e d’altro canto, un mastodontico fagocitore di ideali religiosi, di fermenti sociali, di impegni ideologici, di impulsi umani, napoleonico accentratore di tutte le tendenze e le aspirazioni e dunque gli errori del suo tempo. Un maestro nel senso dispotico, totalitario del termine o, per dirla col Prévost, il «massiccio balzachiano» da cui scendono tutti fiumi e che pare alimentato solo dal cielo, secondo una metafora orografica di indubbio effetto.

  Vederlo all’opera è come seguire un fenomeno naturale nel suo movimento; creazione estrosa e lavoro metodico confluiscono così armonicamente che la violenza dell’una e la pazienza dell’altro restano parimenti sommersi, e la pagina viene avanti risolta, pericolosamente calibrata, balzachiana in ogni particolare interno ed esterno. Non facciamo in tempo a stupirci d’un particolare che quel particolare è superato, ed un altro ne avanza, magari contrapposto, secondo un segreto motivo dialettico in che consiste l’humus della creazione artistica. Eccessi non ne mancano, e non potrebbe essere altrimenti, così in questi brevi scritti come, e più, nell’opera romanzesca, che alcuni dicono anzi un colossale eccesso di posizione sentimentale e di resa stilistica: ma anche, e forse proprio tale eccedere per traboccamento di buona volontà (critica, per quanto qui ci riguarda) risulta, alla lettera, eccezionale, il dato cioè di massimo interesse. E del resto, chiedere a Balzac un anti-Balzac può essere solo l’errore critico di chi ragiona sulla base di un modello precedente, ideale, di chi lavora non tanto per giudizi obiettivi di valore quanto per approssimazioni, in più o in meno, a quel suo modello ideale e come tale irreale, messo là più per castigare le individualità che per evidenziarle.

  E Balzac è Balzac: tautologia nient’affatto peregrina come parrebbe. Innamorato di Sthendal (sic), ecco che gli dedica un saggio che è un poema in prosa, una ricreazione ed un ingigantimento eccitato dalla sua «Certosa»: e potrebbe parere, questo un primo traboccamento; ma se pensiamo che tale saggio fu stilato quando Sthendal era pressoché ignorato dalla critica francese, vedremo in piena luce quanto Balzac fosse antiveggente e, in fondo, di cuore grande, compensando come poteva, con un fiume di ammirazione incondizionata, la secca critica in cui l’autore della «Certosa» era incagliato, con tutti i Sainte-Beuve che circolavano e pontificavano per Parigi. Già arrabbiato con Sainte-Beuve per suo conto, poi, ecco che in un altro saggio, apparso sulla «Revue Parisienne» a proposito di Port-Royal, si mette a inseguirlo spietatamente nelle contraddizioni, nelle debolezze, non gli perdona un errore, una posa da gran critico troneggiante, e lo fustiga, lo deride a sangue, lo ridicolizza, ce ne costruisce una spassosa immagine da zoo letterario trasudante pedanteria e, vuotaggine, infine ce lo lascia sflaccidito e targhettato definitivamente come un tedioso mollusco, di quelli e che non hanno né sangue, né cuore, né una vita violenta, o nel quali il pensiero, se c’è, si nasconde in un involucro biancastro e insipido».

  La ricchissima minuzzaglia delle recensioni, apparse sui fogli letterarii di volta in volta nati e morti nel caos dell’attivismo balzachiano, ai libri più diversi, i cui titoli non possono che farci stupire per la latitudine degli interessi di Balzac: dal Saggio sul suicidio d'un prolisso Monsignore alle Ricerche sul credito fondiario d’un tale Gastaldi, dalla Cucharacha di Sue ad un Corso di storia degli Stati europei, a tanti altri; viene poi a riproporci tutti gli aggettivi che da un secolo si danno e si tolgono a quel grande temperamento che fu Honoré de Balzac, oltre a tutto il fascino della sua pagina romanzata.

 

 

  Carlo Cordiè, La «Physiologie de la cravate», il barone de l’Empesé e l’ombra del Balzac, in La guerra di Gand e altre varietà storiche e letterarie, Firenze, Le Monnier, 1958 («Biblioteca letteraria. Pubblicazioni a cura dell’Istituto di Filologia Moderna dell’Università di Messina», III), pp. 153-191.

 

  Cfr. 1957.



  Marise Ferro, Éveline Hanska l’Étrangère, in Le Romantiche, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1958, pp. 144-155.

 

  La contessa Éveline Rzewuski era una nobilissima polacca, figlia del conte Adam Rzewuski ministro di Polonia e parente della regina di Francia Maria Leczinska, moglie di Luigi XV. A diciotto anni, senza amore, aveva sposato il conte Hanski, ricchissimo russo, proprietario della magnifica tenuta di Wierzchownia, in Ucraina, la quale contava più di tremila anime, come allora si usavano definire i contadini. Il marito aveva trent’anni più di lei e le aveva fatto fare cinque figli di cui uno solo, una femmina, Anne, era sopravvissuta. Chiusa nella sua grande proprietà, circondata dal lusso, Éveline Hanska si annoiava. Abitava un castello stupendo ch’era circondato da steppe e da sterminati campi di grano: d’inverno era chiusa in un deserto di neve, d’estate in un deserto di spighe. Dava feste, riceveva i vicini, ricambiava visite, faceva lunghe permanenze a Mosca o a Pietroburgo, ma si annoiava. Ella aveva l’anima romantica, le piaceva sognare. Vi riusciva attraverso la lettura.

  La lettura era la sua passione dominante e la sua unica vera distrazione. Come tutti i russi di nobile origine, sapeva alla perfezione il francese e leggeva con avidità i romanzieri francesi allora in voga: Victor Hugo, Lamartine, George Sand, Alfred de Vigny, Honoré de Balzac. Balzac era il suo autore preferito; nelle donne ch’egli descriveva come ancora non le aveva descritte nessuno, ella trovava parte di se stessa; Le lys dans la vallée l’aveva fatta piangere, Madame de Mortsauf, l’eroina, morta d’amore, esaltava il lato patetico (e che risulterà falso) della sua anima. Balzac era il primo romanziere che si occupava della donna per difenderla, per riconoscerle un’importanza sociale, per ammirarne la giovinezza protratta oltre i limiti prestabiliti dalla moda dei tempi. La femme de trente ans, oltre che descrivere una donna affascinante e amata proprio nell’età in cui gli scrittori romantici avevano l’abitudine di scrivere: «Era ancora bella nonostante avesse trent’anni», era un’affermazione audace, poiché proclamava la vitalità della donna e la sua giovinezza fino oltre i quarant’anni.

  Éveline Hanska, un giorno che si annoiava più degli altri, decise di scrivere la sua ammirazione al grande romanziere francese. Prese la penna, la carta e vergò una lunga lettera che firmò: «L’Étrangère». Nella lettera giurava a Balzac che era un’incognita e che voleva rimanere per sempre tale. Balzac le rispose e presto si creò fra di loro una corrispondenza animata. Balzac era fiero d’avere un’ammiratrice tanto lontana e tanto acuta; Éveline Hanska era orgogliosa di occupare un po’ del tempo prezioso del famoso romanziere. Di lettera in lettera, spronati ambedue dalla curiosità, incominciarono a raccontare qualche cosa di loro stessi, a confidarsi. Trascinata dal piacere di parlare di sé a un uomo di genio, a poco a poco Éveline Hanska uscì dall’anonimato, disse chi era, raccontò la storia del suo matrimonio, descrisse il suo castello, la sua ricchezza, la sua aristocrazia, la sua noia.

  Balzac, il quale aveva un’immaginazione di fuoco e amava oltre misura le donne aristocratiche, si accese d’amore per l’Étrangère e volle conoscerla. Éveline acconsentì, ma non poté raggiungere subito, come desiderava, il romanziere francese. Da Parigi alla Russia la distanza da percorrere in carrozza era enorme e costosa, Balzac non aveva il denaro per pagarsi un simile viaggio. Egli era povero, nonostante guadagnasse somme grosse, perché era assillato da vecchi debiti da pagare e disordinato nello spendere. Éveline Hanska, iniziata la corrispondenza con Balzac nel febbraio del 1832, dovette aspettare fino al settembre del 1833 per conoscerlo e farsi conoscere.

  L’incontro dei due corrispondenti avvenne a Neuchâtel, in Svizzera, dove i conti Hanski erano in villeggiatura. Il convegno fu su un promontorio pittoresco, oggi distrutto, che dominava la città. Mettendo piede giù dalla carrozza Éveline Hanska riconobbe subito il grande romanziere, che indossava il suo famoso vestito bleu barbeau a bottoni d’oro e uno dei suoi cento mirabolanti gilets. Siccome era impulsiva gli corse incontro, dimenticò il suo rango, la sua posizione di donna sposata e l’abbracciò. Abbracciò il romanziere, non l’uomo, poiché ancora non l’amava. Ma amava il creatore della duchessa de Langeais, di Eugénie Grandet, di Honorine, di Vautrin, di Lucien de Rubempré; amava il suo ingegno, la sua potenza creatrice, gli infiniti personaggi che la sua fantasia aveva fatto vivi e veri come se fossero vissuti.

  Éveline Hanska era una bella donna di trentadue anni, alta, un po’ grassa, dal portamento regale, elegantissima, bianca di pelle e bruna di capelli, con gli occhi neri e dolci dei miopi, la bocca piccola e ben fatta. Le sue maniere, il suo passo erano di grande dama. Balzac ne rimase soggiogato e scrisse alla sorella Laure Surville una lettera in cui descriveva con ardore la bella straniera.

  Quella prima passeggiata della contessa e del romanziere francese fu seguita da altre, che non rimasero platoniche. Éveline Hanska, abituata a comandare, ad appagare tutti i suoi capricci, non aveva pruderies; per cinque giorni fu l’amante appassionata dello scrittore e quando partì lo lasciò ubriaco d’amore, dopo avergli promesso che lo avrebbe sposato non appena fosse rimasta vedova (il conte Hanski aveva più di sessant’anni). Tornati, una a Wierzchownia, l’altro a Parigi, la corrispondenza riprese. È una corrispondenza accesa e nello stesso tempo irta di cifre, poiché Balzac aveva la mania di fare dei conti e preparava già, il conte Hanski ancora vivo e vegeto, la sua futura vita matrimoniale con l’Étrangère; egli faceva conti su tutto e non riusciva mai ad essere in pari coi suoi creditori; la sua potenza fantastica aveva un singolare sottofondo di realtà pratica, ma che non lo guariva affatto dei suoi sogni di grandezza e della sua prodigalità, anzi, pensati da lui, i numeri diventavano materia di fantasia. È una corrispondenza che occupa cinque volumi, di cui possiamo leggere soltanto quello che pensò e sentì Balzac, poiché le lettere di Éveline furono da lei distrutte.

  Peccato, manca la contropartita, e quello che ci avrebbe permesso di leggere un po’ meglio nel cuore dell’enigmatica polacca.

  Quella corrispondenza durò diciassette anni. Nella storia dei rapporti amorosi fra un uomo e una donna è questo l’unico caso in cui un sentimento dura tanto alimentato solamente dalla distanza. È vero che chi amava era Balzac, uomo prodigioso, di forte fantasia, capace di edificare mondi anche fuori dei suoi romanzi. Egli voleva a tutti i costi Éveline Hanska come moglie, l’aristocratica polacca era la sua rivendicazione sociale, la sua sfida alla povertà che lo assillava dall’adolescenza e ch’egli combatteva con un lavoro sovrumano.

  Che cosa era Balzac per la nobile Éveline? In un primo tempo fu una curiosità intellettuale, poi una vanità appagata, quindi l’amore venato di romanticismo, ma che durò poco, seppellito dalla distanza, dal tempo. Nonostante le lettere scambiate e le profferte d’amore, dal primo convegno dei due amanti al secondo passarono nove anni. Le lettere erano il solo legame che univa i due amanti. Riuscirono a tenere vivo l’amore? No. Oggi possiamo dire che quando Éveline Hanska sposò Balzac non lo amava più. Non lo amava più, ma egli le aveva dato tali prove, soprattutto negli ultimi anni, di attaccamento e d’amore (singolarissimo amore, dove la volontà entrava in massima parte, ma Éveline Hanska non lo capiva), che lo sposò per tenere fede alla parola data e perché sapeva che il grande scrittore era gravemente ammalato. Éveline Hanska, pure essendo stata attratta dal genio di Balzac, aveva proprio paura del suo genio, che le rimaneva totalmente oscuro ed estraneo. Éveline Hanska, donna terrestre, positiva, frivola, senza vista sul futuro, tutto bene considerato non sapeva che cosa fosse uno scrittore di genio e quindi non poteva capire Balzac.

  Passati i primi entusiasmi fomentati dalle letture dei romanzi, aveva presto capito che Balzac non era l’uomo che faceva per lei; era brutto, goffo, stava male a tavola, non aveva gusto, era rumoroso. Poco le importava, adesso che ne aveva le confidenze e le lettere, che scrivesse e avesse scritto libri che rivelano i lati oscuri del cuore umano, il gioco sottile delle passioni; donna fino alla radice dei capelli, e donna mediocre, aveva paura, lei aristocratica, di sfigurare vicino a Balzac. Una sua zia, del resto, saputo delle sue intenzioni di sposare lo scrittore francese, le scriveva: «Il tuo dovere, quale figlia del conte Rzewuski, ultimo ambasciatore della Polonia libera, nipote della regina di Francia Maria Leczinska, è quello di rifiutare qualsiasi unione con lo scribacchino francese». Ed Éveline Hanska, pur essendo rimasta vedova nel 1841, non si decideva a sposare Balzac.

  Egli l’aspettava pieno d’ansia, ma ella trovava mille difficoltà alla realizzazione del loro matrimonio: pendenze d’eredità con la famiglia, il matrimonio della figlia Anne (la quale era molto affezionata a Balzac), piccole scuse, insomma. La vera ragione era che il tempo e la distanza avevano ucciso in lei l’amore e che non sapeva decidersi a mantenere la promessa fatta nel 1833 e a sposare un uomo disordinato, pieno di debiti, borghese. Quell’uomo aveva già scritto la Comédie humaine, aveva riempito di caratteri vivi, di passioni, di storia, di filosofia quasi cinquanta volumi; quell’uomo aveva rivoluzionato la narrativa del suo tempo, era un veggente e un precursore, che moriva per lo sforzo del lavoro compiuto, il cuore davvero a pezzi, ma la castellana di Wierzchownia vedeva soltanto i lati borghesi dell’uomo, Éveline Hanska non era in grado di capire Balzac (mentre Juliette Drouet aveva capito benissimo Victor Hugo), pure lo sposò. Lo sposò nel marzo del 1850, cinque mesi prima che egli morisse.

  Il matrimonio venne celebrato in Russia, dove Balzac, già ammalato, aveva raggiunto la sua Étrangère. Il viaggio di nozze avvenne attraverso l’Europa, in carrozza, per tornare a Parigi, dove da anni Balzac aveva preparato un palazzotto alla sua Éveline. In quella casa erano rinchiusi tesori racimolati a fatica, ma Balzac non riuscì a goderli. Un attacco di mal di cuore lo fece cadere e si ferì a una gamba. La ferita andò in cancrena ed egli in pochi giorni morì.

  Sulla morte di Balzac e sul comportamento di Éveline Hanska pesa un mistero. Victor Hugo per primo, andato a trovare il grande scrittore morente, scrisse nelle sue cronache Choses vues il resoconto di quanto aveva visto. Sono pagine stupende, che vale la pena di riportare: «Il 18 agosto 1850 mia moglie, che in giornata era stata a trovare la signora Balzac, mi disse che Balzac era morente. Corsi a casa sua. Balzac soffriva già da diciotto mesi di una ipertrofia del cuore. Dopo la rivoluzione del febbraio era andato in Russia e vi si era sposato. Lo avevo incontrato qualche giorno prima che partisse; si lamentava già del suo male e respirava con fatica. Nel maggio del 1850 era tornato in Francia, sposato, ricco e morente. Arrivando aveva le gambe gonfie; quattro medici lo avevano visitato; uno di essi, Louis, il 6 luglio mi aveva detto: — Non avrà neppure sei settimane di vita. — Il 18 agosto c’era mio zio, il generale Louis Hugo a pranzo, ma appena alzati da tavola lo lasciai, chiamai un fiacre e mi feci portare in Avenue Fortune al numero 14, nel quartiere Beaujon, dove abitava Balzac. Egli aveva comperato ciò che rimaneva del palazzo Beaujon, alcune basse costruzioni sfuggite alle demolizioni, le aveva ammobiliate riccamente e si era creato un bel palazzotto dal grande portone aperto sull’Avenue Fortuné (sic), con un giardino lungo e stretto dove erano magre aiuole. Suonai il campanello. Splendeva una luna chiara velata di quando in quando da nuvole. La strada era deserta. Nessuno veniva ad aprire e suonai una seconda volta. La porta si aprì, una domestica apparve illuminata da una candela. — Il signore desidera? — chiese. Piangeva. Dissi il mio nome. Ella mi fece passare nel salotto, ch’era al piano terreno e dove c’era, su una mensola in faccia al camino, il grande busto di Balzac scolpito da David. Una candela era posata su un bel tavolo ovale che si trovava in mezzo alla stanza, il cui basamento era formato da sei statuette dorate di un gusto squisito. Entrò un’altra domestica piangente la quale mi disse: — Il signore muore, la signora si è ritirata nelle sue stanze. Da ieri i medici lo hanno abbandonato. Ha una grande piaga alla gamba sinistra ed è in cancrena. I medici non sanno nulla ... Un mese fa, andando a letto, il signor padrone ha urtato la gamba contro un mobile cesellato, si è ferito e dalla ferita è uscita molta acqua. I medici hanno detto: “Guarda! Guarda! ...” Nella gamba si era formato un ascesso, che il dottor Roux ha operato. Ieri hanno tolto le bende: la ferita era rossa, secca e ardente. Allora i medici hanno detto: “È perduto”, se ne sono andati e non sono più tornati. Siamo andati da altri medici, tutti hanno detto: “Non c’è più niente da fare, è perduto”. Ha passato una notte orribile. Questa mattina alle nove non parlava più. La signora ha chiamato il prete, il quale è venuto ed ha dato al signore l’estrema unzione. Il signore ha fatto un segno, come a dire che capiva. Un’ora dopo ha stretto la mano a sua sorella, la signora Surville. Dalle undici rantola e non vede più. Non arriverà a domani. Se vuole, posso chiamare il signor Surville, non è ancora andato a letto.

  La domestica mi lasciò, aspettai qualche minuto. La candela illuminava appena il magnifico mobilio del salotto e bellissime pitture di Porbus e di Holbein appese alle pareti. Il busto di marmo era, nell’ombra, simile al fantasma dell’uomo che stava per morire. Un odore di cadavere riempiva la casa. Surville entrò e confermò quanto aveva detto la domestica. Chiesi se mi era permesso vedere Balzac. Attraversammo un corridoio, salimmo una scala coperta da un tappeto rosso e piena di oggetti artistici, vasi, statuette, quadri, poi attraversammo un altro corridoio e vidi una porta aperta. Udii un rantolo alto e sinistro. Entrai nella camera di Balzac.

  Il letto era in mezzo alla stanza e in esso era disteso Balzac, la testa appoggiata su un mucchio di cuscini ai quali avevano aggiunti anche quelli di damasco rosso del divano ch’era nella stanza. Il suo viso era viola, quasi nero, inclinato a destra, con la barba lunga, l’occhio aperto e fisso. Lo vedevo di profilo e assomigliava a Napoleone.

  Una donna vecchia, l’infermiera, e un domestico erano ognuno a un lato del letto, in piedi. Una candela ardeva dietro il letto, su un tavolo, un’altra su un comò vicino alla porta. Sul tavolino da notte era un vaso d’argento. L’uomo e la donna stavano in silenzio, spaventati, ad ascoltare il morente rantolare. Un odore insopportabile saliva dal letto. Sollevai la coperta e presi la mano di Balzac. Era coperta di sudore. La strinsi, non rispose alla mia stretta. Era la stessa camera nella quale ero stato un mese prima. Allora egli era allegro, sicuro di guarire, e mi mostrava la sua gamba gonfia ridendo. Avevamo parlato con vivacità di politica. Balzac mi rimproverava la mia demagogia. Egli era legittimista ... Quando me ne ero andato, mi aveva accompagnato fino alla scala, camminando a fatica, e giunto davanti a una porta aveva gridato alla moglie: — Fai vedere a Hugo tutti i miei quadri.

  L’infermiera mi disse: — Morirà all’alba. — Ridiscesi, la mente piena della visione di quel viso livido ... Tornai a casa; era una domenica, da me c’erano diversi amici che mi aspettavano, tra gli altri l’incaricato d’affari turco, Riza Bey, il poeta spagnolo Navarrete, il proscritto italiano conte Arrivabene. Dissi: — Signori, l’Europa sta per perdere un uomo di grande ingegno.

  Balzac morì durante la notte. Aveva cinquantun anni. Venne seppellito il mercoledì ... Il ministro degli interni. Baroche, partecipava al funerale ed era seduto vicino a me, in chiesa, davanti al catafalco e di quando in quando mi rivolgeva la parola. Mi disse: – Era un uomo notevole. – Gli dissi: – Era un genio. – Il corteo attraversò Parigi e si recò lungo i boulevards al cimitero di Père Lachaise. Cadevano gocce di pioggia, era uno di quei giorni in cui sembra che il cielo versi qualche lacrima. Facemmo tutto il tragitto a piedi; io ero alla destra del feretro, Alexandre Dumas a sinistra. Quando arrivammo alla tomba, ch’era in cima alla collina, la folla era immensa ...».

  Era la folla che aveva letto i libri del grande romanziere e che si era ritrovata in César Birrotteau (sic), in papà Goriot, nel cugino Pons, nella cugina Bette, nel giudice Popinot, in Gaudissart, in Finot, in Gobsek (sic), in Ester, in Malaga, in Ursule Mirouet, in Bridau, i mille personaggi della Comédie Humaine, i quali portavano ognuno ben distinta una caratteristica del cuore o del carattere di tutti. Ai funerali, come nella camera dove Balzac era morto, mancava la moglie, la contessa Éveline Hanska. Il mistero di quell’assenza colpì molti e vi furono i denigratori i quali non esitarono a dire cose orrende sul conto dell’Étrangère. Certuni arrivarono a dire che Éveline Hanska mancava perché amava un altro, il pittore Giraud (sic), e che mentre Balzac moriva ella, nella camera accanto, posava per un ritratto. L’accusa è feroce e non è avvalorata da nessuna testimonianza. Éveline Hanska non era nella camera del marito agonizzante quando vi entrò Victor Hugo, è vero, ma dopo? Forse dopo qualche minuto, disfatta, ella piangeva ai piedi del grande scrittore agonizzante.

  La sua vedovanza non fu tragica né triste, questo è provato; come è provato il fatto che per molti anni, rimasta sola, fu l’amante del pittore Giraud. Ma ella aveva sposato Balzac per pietà e perché lo sapeva condannato; vedova, era ancora una bella donna, ricca, straniera a Parigi, abituata all’imperio, all’indipendenza. Si comportò da donna straniera, senza falsi pudori, senza ipocrisie. Non fu fedele alla memoria del grande romanziere, ma ne curò l’opera e gli interessi, ne mantenne la madre finché visse, si comportò con gli amici di lui con dignità e signorilità.

  I denigratori postumi accusano Éveline Hanska di avere esasperato e disperato Balzac, di averlo fatto correre, ammalato, da una parte all’altra d’Europa, di non averlo capito, di non avere rispettato il suo genio. Purtroppo le accuse sono giuste; infondata rimane quella di avere lasciato morire solo il grande romanziere. Frivola, capricciosa, sdegnosa e altezzosa Éveline Hanska lo era, ma non era volgare, non era cinica. Da grande signora sapeva sempre, in qualsiasi circostanza, salvare le apparenze. Non si fece vedere da Victor Hugo perché forse era sconvolta e non voleva mostrare un viso ch’era destinato all’ombra delle stanze e, anche, del dolore.

 

 

  Eugenio Gara, Il ritorno del “Mosè” alla Scala. Il “solo piacere” di Balzac ascoltare Rossini all’Opéra, «Corriere della Sera», Milano, Anno 83, N. 299, 18 dicembre 1958, p. 3.

 

  Al melodramma biblico che stasera va in scena l’autore della “Comédie humaine” ha dedicato addirittura l’ultima parte del romanzo “Massimilla Doni”.

 

  Che Rossini fosse un lettore appassionato di romanzi non risulta. Anzi, così a occhio, soppesandone i gusti e la formazione, si direbbe di no. E’ da pensare, tuttavia, che non gli sfuggissero, al momento giusto, due romanzi brevi di Balzac, pubblicati rispettivamente nel 1837 e nel ’39: Gambara e Massimilla Doni (che fanno parte, come la più famosa Peau de chagrin, delle «Etudes philosophiques»). In entrambi, infatti, la vicenda è un semplice pretesto. I dialoghi dei personaggi principali — quasi tutti italiani: Andrea, Emilio, Marco; Morosini, Cataneo, Vendramin — si aggirano principalmente sul contrasto fra musica operistica e musica sinfonica, sicché i nomi, spesso citati, di Mozart e del Carissimi, del Cavalli e di Meyerbeer si rimandano echi sonori da pagina a pagina.

  A Rossini, infine, tocca la parte del leone, con una disamina. alquanto pedantesca per un narratore, del Maometto e soprattutto del Mosè. Al Mosè è addirittura dedicata tutta l’ultima parte del secondo romanzo, il cui epilogo, una quarantina di pagine, si svolge in un palco alla Fenice di Venezia. La protagonista, Massimilla Doni, (eh sì, in fatto d’anagrafe anche D’Annunzio ha avuto i suoi precursori) una fiorentina sposata a un duca siciliano, si trova nella condizione di dovere illustrare a due ospiti, il suo amante e il suo medico, le bellezze del Mosè. «Un’opera italiana ha dunque bisogno di un cicerone?», chiede sorridendo il medico. Parrebbe di sì, dal momento che la ferratissima duchessa, dopo avere dichiarato che il Mosè è «un immense poème musical assez difficile à comprendre du premier coup», improvvisa lì per lì una dotta conferenza, su due punti almeno della quale mette conto di soffermarsi. Il primo è quando dice: «Caro Rossini, hai fatto bene a gettare quest’osso ai tedeschi che ci rifiutavano il dono dell’armonia e la scienza!». (Esclamativi sottolineature sono di Balzac). Il secondo, allorché l’infervorata Massimilla dà ali alla propria perorazione con un’immagine di questo genere: «Solo un italiano poteva scrivere questo tema fecondo, inesauribile, in tutto dantesco. Voi credete che non sia nulla il potere sognare, per un momento, la vendetta? Vecchi maestri tedeschi, Haendel, Sebastiano Bach e tu stesso, Beethoven, in ginocchio, ecco la regina delle arti, ecco la trionfante Italia!».

  Un brano, diciamolo subito, al quale Rossini — se gliel’avessero sottoposto in tempo — avrebbe levato per lo meno qualche diesis. Le iperboli dei romantici gli davano fastidio specialmente in musica, ma tutto fa credere che anche su questa pagina di Balzac, al momento della lettura, avrà fatto un segno rosso o blu: di quelli usati dai maestri per indicare che nel compito c’è qualcosa che non va. Senza contare, poi, che l’immagine del musicista in ginocchio l’aveva già adoperata lui, Rossini, parlando di sé messo di fronte alle meraviglie della Passione Secondo San Matteo di Bach e del Don Giovanni di Mozart.

 

Chiuso nella soffitta.

 

  La dedica di Massimilla Doni al maestro Jacques Strunz, quale testimonianza della riconoscente amicizia «per il coraggio col quale avete cercato, forse senza successo, d’iniziarmi alle sublimità della scienza musicale», non deve fare credere che Balzac prima d’allora non si fosse mai interessato di queste cose. Al contrario. I suoi contatti con la musica si erano intensificati sul finire dell’adolescenza. A vent’anni, dopo molti contrasti con la famiglia, riesce ad avere una soffitta tutta per sé e vi si rinchiude come un prigioniero: per scrivere una tragedia, un Cromwell che precede l’altro di Victor Hugo senza essere migliore di quello.

  Ma anche lassù il giovane Honoré ha un piccolo pianoforte e, fra una tirata e l’altra dei suoi rissosi protagonisti, si mette alla tastiera e suona un pezzo di Cramer: quel Sogno di Rousseau che è per lui «lo slancio di un’anima bella verso il cielo; dopo quella poesia veniva la voglia di pregare».

  Poi arrivarono i successi, non sempre incontrastati, del romanziere. Tuttavia, la passione letteraria non lo distaccò mai del tutto dal conturbante vizio del pentagramma. Come dimostrano, oltre ai due lunghi racconti già citati, quella Béatrix, che per poco non lo costrinse a battersi con Liszt (satireggiato nel personaggio di Gennaro Conti: «charlatan dans les choses du coeur») e infiniti accenni disseminati qua e là, in Louis Lambert come in Ursule Mirouet, in Maître Cornélius e soprattutto ne La Duchesse de Langeais, dove l’ossessione dell’organo e del canto gregoriano è quasi costante.

 

L’edizione napoletana.

 

  Assediato dagl’impegni letterari, dalle favolose bozze di stampa, che a volte minacciavano di sommergerlo, se c’era qualche cosa che riusciva a tirarlo fuori dalla leggendaria prigionia, bene, era proprio la musica. «Mi sono preso un posto in un palco all’Opéra», scriverà alla signora Hanska nel 1834, e ancora: «Noi abbiamo qui il Mosè e la Semiramide, messe in scena ed eseguite come queste opere non lo saranno mai più, e tutte le volte che dànno l’una o l’altra io ci vado. Sono i miei soli piaceri».

  L’edizione del Mosè di cui parla Balzac è naturalmente quella cosiddetta «parigina» del 1827: considerata definitiva, dopo i vasti ritocchi rossiniani, e adottata da tutti i teatri moderni, compresa la Scala dove l’opera viene ora rimessa in scena dopo anni di silenzio. Ma quale sarà stata la vera fisionomia del primo Mosè, allestito al San Carlo di Napoli la sera del 5 marzo 1818, cui mancava, tanto per citare una pagina sola, nientemeno che la preghiera dello «Stellato soglio»? Più vicina all’oratorio, questo si sa, strutturalmente meno ordinata e dal punto di vista operistico non priva di situazioni assurde. Eppure, quell’inviato speciale della posterità che si chiamava Stendhal, avendo appunto assistito alla prima recita napoletana, non aveva ancora udito «venti battute di quella mirabile introduzione, che già non vedeva più se non un grande popolo sprofondato nel dolore».

  Dove è còlta subito la prerogativa più immediata della grande musica: la capacità di trasfigurare di colpo la materia, quel tocco particolare che suscita realmente pensieri di folgorante magia. In complesso, dunque, tra Stendhal e Balzac, non si può dire che Rossini e il suo Mosè non abbiano avuto in Francia una «buona stampa». Specie se a titolo di rinforzo vi si aggiunge il Bizet di quella lettera alla madre del 31 dicembre 1858: «Rossini è il più grande di tutti, perché, come Mozart, possiede tutti i pregi: l’elevatezza, lo stile e il motivo».

 

 

  Francesco Geraci, Pagine rivelatrici. Balzac recensore e gli Italiani, «La Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXXI, Numero 335, 3 dicembre 1958, p. 3.

 

  Meteorologo delle correnti sociali, matematico della volontà — come le definì lo Zweig — chimico delle passioni, geologo delle primitive forme nazionali, essere uno Scienziato enciclopedico tanto da penetrare nel corso del suo tempo e ascoltarlo con tutti gli strumenti ed essere in pari tempo collezionista di tutti i fenomeni, un pittore verista d’ogni paesaggio, un soldato d’ogni idea, questo forma l’orgoglio di Honoré de Balzac, l’immortale autore della Commedia umana e, perciò, egli fu così instancabile nel registrare tanto le cose grandiose quanto quelle infinitesimali.

  E così l’opera sua, al dire di Ippolito Taine, divenne il più grande magazzino di documenti umani dai tempi di Shakespeare in poi. Egli non esagerava affatto quanto affermava: «Io porto tutta la società nel mio cervello». Per questo, come è stato giustamente osservato, il grande Honoré non vuole essere misurato dal singolo lavoro, ma dall’insieme, cioè non solo attraverso i suoi romanzi, mi dal complesso della sua versatile attività, che fu sempre dominata dalla ricerca e dallo studio diretto, analitico, spregiudicato di ogni manifestazione della società in cui egli viveva. Pochi sanno che Balzac ha mescolato alla prestigiosa e immensa opera di romanziere un paziente e geniale lavoro di critico letterario e altrettanto pochi coloro che conoscono gli scritti più notevoli di questa sua produzione, la quale non è affatto inferiore a quella del romanziere e denuncia a prima vista il vero genio. Il Balzac critico, recensore, saggista, scrittore di politica estera, avrebbe meritato più fortuna di quanto non abbia avuto, non solo per la selva di giudizi acutissimi, di paradossi geniali, di rapidi e perfetti ritratti di personaggi dell’epoca che proprio in quegli scritti ritroviamo, ma soprattutto perché è proprio da codesta sua attività di critico che esce « limpida e schietta» la sua gigantesca e complessa personalità di romanziere in cui creazione estrosa e lavoro metodico, raffinato gusto letterario e serio impegno ideologico, ideale religioso e fermenti sociali, confluirono tumultuosamente. Se poi si pensi all’importanza assunta dal «caso» Balzac nel dibattito estetico dei nostri giorni, «sembrerà ancor più singolare la sua fortuna di autore più citato cha letto». E, purtroppo, non solo in Italia. La conoscenza del Balzac recensore e compilatore di note di politica estera, la dobbiamo in Italia a Mario Bonfantini, il quale ha pazientemente raccolto e tradotto gli «Scritti critici» di questo grande romanziere francese (Feltrinelli Ed Milano). Nella sua acuta a lucida prefazione con cui apre codesti Saggi, il Bonfantini — autore di un recente e stupendo studio critico sul «realismo di Stendhal» edito dallo stesso Feltrinelli – tiene a precisare: «Balzac critico va letto tenendo conto della varietà e molteplicità di interessi che egli aveva e che è sempre in grado di offrirci anche quando possiamo trovarci scandalizzati da qualche sua perentoria sentenza o sconcertati da qualche tirata». Con tutto ciò troviamo, si può dire ad ogni pagina, una quantità di cose belle, giuste e profonde.

  Da quando apparvero nelle pagine dei giornali letterari «Chronique de Paris», acquistata dal nostro romanziere, e «Revue Parisienne» del 1840 — ultimo tentativo editoriale del pertinace quanto sfortunato Balzac – soltanto nel 1912 quegli scritti critici rividero la luce una sola volta a Parigi, in un volume oggi esaurito e introvabile, cosicché la sua edizione italiana ha tutto il prezioso valore di una vera e propria ricoperta, per non dire di un inedito. Sotto il regime di Luigi Filippo, Balzac ambiva alla politica. Per quarto egli acquistò la «Chronique de Paris» facendone un grande settimanale. Egli trattava «la politica per lo più in forma critica e dedicando ogni cura a quella che sembra essere stata allora la sua fissazione»: la politica estera. [...].

  Ma la sua principale attività di critico si svolse nel campo letterario. Il suo pezzo forte rimane il lungo saggio sulla «Certosa di Parma» dello Stendhal, il quale – quando la scrisse – era ancora ignoto come scrittore, mentre Balzac era all’apogeo della sua fama. In queste pagine v’è tutto il calore e l’entusiasmo di un sommo scrittore al colmo della sua fama che si china sull’opera di un altro grande, sino ad allora misconosciuto (spettacolo così raro!) e «impegna tutta la sua cultura, il lungo amoroso studio», per comprenderlo ed esaltarlo! «La Certosa di Parma — egli afferma entusiasta — è nella nostra epoca e fino ad ora, ai miei occhi, il capolavoro della letteratura delle idee». Rifacendosi poi alle pagine che riguardano direttamente l’Italia e gli italiani, Balzac osserva compiaciuto: «Gli italiani, il solo popolo che vale di più dei Russi e degli Inglesi e dove il genio ha quella fibra femminale, quella delicatezza, quella grandiosità per le quali egli è, in molti casi, superiori a tutti i popoli!». E ancora: «Tutti quelli cui l’Italia è cara, che l’hanno studiata e compresa, leggeranno la Certosa di Parma con delizia. Lo spirito, il genio, i costumi, l’anima di questa bella contrada vivono in questo lungo dramma sempre cattivante, in questo vasto affresco così ben dipinto, così fortemente colorito, che tocca così profondamente il cuore e soddisfa lo spirito più difficile e più esigente». Questo libro esprime ammirevolmente l’amore com’è nei Paesi del Mezzogiorno.

  Tutti questi personaggi hanno un sangue caldo, febbrile, una rapidità di spirito che non hanno nè gli Inglesi, nè i Tedeschi, nè i Russi, i quali giungono allo stesso risultato solo attraverso combinazioni fantastiche e meditazioni solitarie. La nostra epoca deve molto al Beyle (Stendhal). Non è forse lui che ci ha rivelato per primo il più bel genio della musica, Rossini? Battiamoci per lo scrittore che meglio conosce l’Italia, che la vendica dalle calunnie dei suoi vincitori, che ne ha espresso così bene lo spirito e il genio».

  Il grande e caro Balzac ci voleva veramente bene e ci ammirava? E il grande amore che egli nutrì per il nostro Paese, del quale fu ospite, contribuì certamente a fargli comprendere ed ammirare la singolare personalità di scrittore dello Stendhal, che egli così ci descrive da vicino: «Ha una balla fronte, l’occhio vivo e penetrante, la bocca sardonica; insomma, ha veramente la fisionomia del suo talento. Beyle è uno degli spiriti superiori del nostro tempo. Egli è semplice Console a Civitavecchia. Nessuno sarebbe più qualificato di servire la Francia a Roma!».

  Il lungo e meraviglioso saggio critico di Balzac sulla «Certosa di Parma» è tutto un generoso sdegno per l’ingiusto destino letterario di uno Stendhal, «espresso in accenti che non si possono leggere senza commozione». Nel suo complesso, quel Saggio è un pezzo di formidabile vigore che si può ancor leggere e rileggere da più punti di vista, ricavandone sempre un notevole profitto.

 

 

  Hugo von Hofmannsthal, Dei caratteri nel romanzo e nel dramma. Conversazione immaginaria. Balzac, Hammer-Purgstall, in Viaggi e saggi, a cura di Leone Traverso, Firenze, Vallecchi, 1958 («Collana Cederna», 4), pp. 55-72.


  Hammer – Permettete, illustre, una domanda che da lungo tempo mi brucia la lingua. Scusatemi la libertà; sapete ch’è davanti a Voi uno dei più ardenti ammiratori della Vostra stupenda arte narrativa: ma non ci regalerete Voi ora nella piena forza della Vostra fantasia creatrice una serie simile di opere pel teatro?

  Voi tacete? Non mi volete rispondere? Devo dedurne che a Voi non piace la forma drammatica? Che per Voi il teatro non significa nulla?

  Balzac – Al contrario, Barone.

  Hammer – Bravo, bravo! Io ho pel teatro una passione sconfinata, e il nostro, a me tedesco, procura i più grandi piaceri. Ma che potrebbe diventare il teatro francese, se il Vostro genio impugnasse le redini e a potenti frustate spingesse il carro sbandato in una nuova carreggiata?

  Balzac (cortese) – Lo so, voi avete Schiller, avete l’autore dell’‘Ava’, anzitutto Raupach! Oh il teatro! che bel sogno!

  Hammer – I Vostri sogni, signor mio, usano tradursi in realtà. E che potrebbe in questo caso impedirvi? Impegni, contratti con editori? Voi li strappate come il leone le sue reti. La possibilità di un insuccesso? Balzac, un insuccesso? Balzac non sarebbe il signore sovrano del suo pubblico? Balzac più debole d’una sala di due tre mila persone? Ma, non sono le Vostre creature che la gremiscono? Non vedo a ogni ordine di posti le fisionomie uscite dal Vostro laboratorio? Non occupano tutti i palchi? la duchessa di Maufrigneuse e la principessa di Cadignan e Grandlieus (sic) con le figlie e il duca d’Hérouville, quel nano, e il barone Nucingen con la moglie, e i Rhétorés e i Navarrein e i Lenoncourts! Non vedo nella penombra, nel palco di Madame d’Espard, il bel Rubempré dietro Madame de Bargeton non più giovane, verde di gelosia? E in proscenio non c’è Rastignac, il genio dell’ambizione senza riguardi, che punta il suo lorgnon su Madame de Nucingen? Non avanza ora verso di lui de Marsay, a stringergli la mano, de Marsay che un giorno diventerà, come lui, ministro e pari di Francia? Ed ecco Bianchon, il medico, e Claude Vignon, il giornalista, e Stidmannlo scultore, e gli emigrati polacchi, Laginski e Paz e Stenbock (sic). Non si mostrano l’un all’altro il palco di proscenio mezzo nascosto, in cui la favolosa Esther, che nessuno quasi ancora conosce, velata dalle prime ombre di una tragica vita di cortigiana, osserva da lontano Rubempré? Non sfoggiano tra le grandi dame altre dame un lusso eccitante, come impregnato dalla febbre del presente? Non vedo, presso di loro, presso una Josepha, una Madame Schontz, una Jenny Cadine, entrare e uscire Bixiou e de Lora? E non scorgo più in là, con la sua bella figlia Vittorina, il signor Taillefer, il grande industriale, che ha un assassinio sulla coscienza, e non siede laggiù, travestito da prete spagnolo, capelli barba contegno voce, tutto falso, solo vivo l’occhio indomabile, Vautrin, il galeotto? Vedo forse qualcos’altro che queste figure, che si gettano a vicenda per un meraviglioso incantesimo come specchi a cento facce tutta la loro vita, i loro pensieri, le loro passioni, il loro passato, il loro futuro, mille volte moltiplicati?

  A queste frasi, a questo così raro, sincero entusiasmo d’ammirazione che coloriva più vivamente le guance del grande orientalista, a questo omaggio così forte, spontaneo, offertogli quasi a quattr’occhi, Balzac non poté reprimere un sorriso. Era il bel sorriso, raro, della pura soddisfazione, che, non con la rapidità del lampo, convulso, ma lentamente come il bel tramonto di un puro giorno d’estate si ritira dal volto e scompare. Era lo stesso sorriso che illuminava la bocca di Napoleone quando, nel pomeriggio di Austerlitz, vide l’effetto che producevano i colpi diretti secondo il suo ordine sulla crosta di ghiaccio degli stagni, coperta di migliaia di Russi e Austriaci in fuga. E forse, molto verosimilmente quel sorriso aveva in tutt’e due questi casi, esteriormente così diversi, la stessa origine: tutt’e due le volte balzava dall’anima di un grand’uomo, da un’anima destinata da natura alla conquista, nel momento in cui quest’anima vedeva ormai prossima avanti a sé la possibilità di spezzare la sorda resistenza dell’Europa al suo genio come un fastello di sarmenti secchi. La terribile energia della sua anima in lotta con la vita era per un attimo allentata; i suoi occhi spaziavano con lo sguardo lieve del viaggiatore sui pendii del Kahlenberg; nel suo contegno era l’indefinibile mutamento, l’abbandono di colui che in un’atmosfera straniera, sotto il profumo e l’ombra di alberi stranieri, parla amichevole e senza pressioni con uomini stranieri, ch’egli forse non rivedrà mai più: così Balzac si abbandonava all’attimo, nel cui vago contenuto era qualcosa del riposo d’un conquistatore ai confini di lontani paesi sottomessi, vi si abbandonava tanto che perse alcune frasi del barone e afferrò solo questa fine di un’assai lunga tirata:

  Come! Tutti quelli che siedono in teatro, il bel mondo dei palchi e della platea e il loggione, tutto deve mostrare l’unghia del leone, fuor del palcoscenico?

  Balzac – Oh certo, a me piace il teatro. Il teatro, come io lo intendo. Il teatro, su cui tutto accade, tutto. Tutti i vizi, tutte le ridicolezze, tutti i linguaggi! Com’è povero, simmetrico invece il teatro di Victor Hugo! Il mio, quello ch’io sogno, è il mondo, il caos. E una volta è esistito il mio teatro, è esistito. Lear nella landa e il buffone accanto a lui, e Edgardo e Kent e la voce del tuono intrecciata alle loro voci! Volpone, che prega davanti al suo oro, e i suoi servi, il nano, l’eunuco, l’ermafrodito, e il ribaldo! e i cacciatori d’eredità, che gli offrono le loro mogli e le loro figlie, che trascinano pei capelli le loro mogli e figlie nel suo letto! E la voce demoniaca delle belle cose, dei possessi seducenti, dei vasi d’oro, delle pietre lavorate, dei candelabri maravigliosi, così confusa con le voci degli uomini, come là il tuono. Sì, c’è stato una volta un teatro.

  Hammer – Voi intendete quello inglese intorno al ’590?

  Balzac – Sì, loro l’hanno avuto. E, più tardi anche. Ci sono dei lampi postumi. Conoscete la ‘Venezia salvata’ di Otway?

  Hammer – Credo d’averla vista a Weimar.

  Balzac – Il mio Vautrin la ritiene la più bella di tutte le opere teatrali. Io faccio gran conto del giudizio di un uomo simile.

  Hammer – Il Vostro interesse per questo tema mi fa estremo piacere. E noi avremo, ora lo so, una comédie humaine sul palcoscenico! Vedremo volare la parrucca dalla testa di Vautrin e scoprirsi l’orribile cranio del forzato. Spieremo Goriot, come solo nella stanza gelata evoca la visione delle sue belle figlie. Che scuotete il capo, signor mio? Non ci può essere alcun impedimento ormai.

  Balzac – Nulla, apparentemente nulla. Anche nella mia volontà nulla, apparentemente. E neppure mi mancano collaboratori drammatici. Non potete arrivare dall’Opéra al Palais Royal senza incontrarne uno o due. Che io mi sono voluto fare dei collaboratori. Io volevo penetrare nell’intimo di un altro. Ma avevo torto. Non ci si può cacciare nella pelle d’un asino. Volevo trovar qualcosa, ch’io non portavo in me stesso. Volevo commettere una disonestà, una delle grandi disonestà segrete. È nell’essere della maggior parte degli scrittori, commettere disonestà del genere a decine, e impunemente. Somigliano al cavaliere della ballata tedesca, che cavalca, senza saperlo, sul Bodensee gelato. Ma essi non se n’accorgono nemmeno dopo e però non cadono poi morti, come quel cavaliere. Tra usare una forma d’arte e averne le disposizioni, che abisso c’è in mezzo! Più grandi si è, più chiaro ci si vede in queste cose. Altri violentino pure le forme, io per parte mia so di non essere un drammaturgo, proprio come ...

  Qui il signor di Balzac nominò i nomi di tutti i suoi connazionali, che nel decennio precedente avevano raggiunto una grande fama, alcuni europea, appunto con le loro produzioni drammatiche, e proseguì:

  La ragione? La più segreta ragione? Io non credo forse che esistano caratteri. Shakespeare lo credeva. Era un drammaturgo.

  Hammer – Voi non credete che esistano personalità? Questa è buona! Voi ne avete create circa sei o settecento, messe in piedi, là, e da allora esistono.

  Balzac – Io non so se siano uomini, che potessero vivere in un dramma. Ricordate ciò che in mineralogia si chiama un’allotropia? La stessa materia appare due volte nel regno della natura, in forma cristallina affatto diversa, in uno stampo inaspettato. Il carattere drammatico è un’allotropia del corrispondente carattere reale; in Goriot io ho l’evento ‘Lear’, il processo chimico ‘Lear’, e sono immensamente lontano dalla forma cristallina ‘Lear’. Voi siete, barone, come tutti gli austriaci, un musicista nato. Siete per giunta un dotto musicista. Lasciatemi dunque dire che i caratteri nel dramma non sono nient’altro che necessità di contrappunto. Il carattere drammatico è una riduzione del carattere reale. Ciò che m’incanta nel carattere reale è appunto la sua vastità. La sua vastità, ch’è la base del suo destino. L’ho detto, io non vedo l’uomo, io vedo destini. E i destini non si possono scambiare con catastrofi. La catastrofe come costruzione sinfonica, ecco l’affare del drammaturgo, che è parente così prossimo del musicista. Il destino dell’uomo è qualcosa, il cui riflesso non esisteva forse in nessun luogo prima ch’io scrivessi i miei romanzi. I miei personaggi non sono che la cartina di tornasole, che reagisce in rosso o in azzurro. Quanto è grande, vivo, reale sono gli acidi: le potenze, i destini.

  Hammer – Intendete le passioni?

  Balzac – Prendete questa parola, se la preferite, ma la dovete prendere in un’estensione ancora insolita e poi di nuovo ridurla così, tirarla a un significato così particolare, come non s’è fatto finora. Io ho detto ‘le potenze’. La potenza dell’erotico per colui ch’è schiavo dell’amore. La potenza della debolezza pel fiacco. La potenza della fama sull’ambizioso. No, non dell’amore, della debolezza, della fama; del suo amore che lo serra come una maglia, della sua debolezza individuale, della sua fama speciale. Ciò che io intendo, Napoleone lo chiamava la sua stella: fu ciò che lo costrinse ad andare in Russia; che lo costrinse a dare una tale importanza al concetto ‘Europa’, ch’egli non ebbe pace finché l’‘Europa’ non giacque ai suoi piedi. Ciò ch’io intendo, gl’infelici, che in un lampo scorrono la loro vita, la chiamano la loro fatalità. Per Goriot è incarnata nelle sue figlie. Per Vautrin nella società umana, di cui egli vuole far saltare in aria le fondamenta. Per l’artista nel suo lavoro.

  Hammer – E non nelle sue esperienze?

  Balzac – Non ci sono esperienze; solo l’esperienza del proprio essere. È questa la chiave che a ognuno apre la solitaria cella del suo carcere, le cui pareti impenetrabili sono — è vero — rivestite come di tappeti sgargianti dalla fantasmagoria dell’universo. Nessuno può uscire dal suo mondo. Avete fatto qualche viaggio piuttosto lungo su un bastimento a vapore? Vi ricordate allora di una figura strana, da muovere quasi a compassione, che verso sera affiorava da un’apertura della sala delle macchine e si tratteneva un quarto d’ora sopra coperta per prendere aria? L’uomo era seminudo, aveva un viso annerito e occhi rossi, infiammati. V’hanno detto ch’era il macchinista. Ogni volta che saliva sopra, barcollava, vuotava avidamente una gran brocca d’acqua, si sdraiava su un mucchio di stoppa e giocava col cane di bordo, gettava qualche occhiata smarrita, quasi insensata ai passeggeri eleganti e allegri di prima classe, che stavan sopra coperta a bearsi delle stelle del ciclo australe; con bramosia, come aveva bevuto, quell’uomo respirava l’aria inumidita da una nuvola notturna che si sfaceva in rugiada e dal profumo d’intatte isole di palme, che s’appressava sospeso sul mare; e di nuovo egli scompariva nel ventre della nave, senz’aver neppure notato le stelle e l’aroma delle isole misteriose. Tali sono le dimore dell’artista tra gli uomini, quando egli striscia fuori barcollante e con gli occhi stanchi dal ventre di fuoco del suo lavoro. Ma questa creatura non è più povera di quelli là sopra coperta. E se tra quei felici lassù, tra quegli eletti della vita, ci fossero due innamorati che con le dita intrecciate, stretti l’un all’altro, oppressi dalla pienezza del loro animo, sentissero il precipitare delle stelle incommensurabilmente lontane — quali lascia cadere il ciclo australe in covoni, in sciami, in cataratte dalle profondità senza fondo nelle profondità senza fondo — solo come la pulsazione più forte, propagata, fino all’orlo dell’esistenza, della loro felicità — anche paragonato a questi non sarebbe egli il più povero. L’artista non è più povero di qualunque altro dei viventi, non più povero di Timur il conquistatore, di Lucullo il gaudente, di Casanova il seduttore, di Mirabeau, l’uomo del destino. Ma il suo destino non è in alcun luogo fuori del suo lavoro. Egli non deve in alcun altro luogo volersi cercare i suoi abissi e le sue cime: se no, prenderà una miserabile collinetta di sabbia per un Monte bianco, s’affannerà a scalarla, vi si pianterà sopra a braccia incrociate e sarà il riso di tutti quelli che vivranno venti anni dopo. Nel suo lavoro egli ha tutto: ha la voluttà senza nome della concezione, l’inebriante rapimento dell’invenzione, e ha l’inesauribile tormento della esecuzione. Egli ha qui esperienze per cui la lingua non ha parole e i sogni più cupi alcun simbolo. Come lo spirito dalla bottiglia di Sindbad il navigatore, egli si dilaterà come un fumo, come una nuvola e adombrerà paesi e mari. E l’ora seguente lo comprimerà entro la sua bottiglia, e soffrendo mille morti, vapore prigioniero che s’affoga da sé, sentirà i suoi limiti, i limiti implacabili impostigli, demone disperato in un’angusta prigione di vetro, traverso le cui pareti invalicabili egli vede, ghignando dal tormento, il mondo là fuori, tutto il mondo, su cui egli un’ora prima fantasticando aleggiava, nuvola, aquila enorme, dio.

  Ma fino a tal punto, tanto interamente è il lavoro tutto il destino dell’artista, che d’intorno in tutto il mondo egli è capace di afferrare soltanto le immagini corrispondenti agli stati ch’egli è abituato a vivere e rendere tra i tormenti e le estasi del lavoro. I poeti hanno fatto del più alto essere un poeta. E così abili sono essi nel vedere nei movimenti alterni di tutte le anime umane i riflessi delle proprie estasi e dei propri abbattimenti, che a poco a poco, aumentando i lettori e livellandosi in modo inquietante le condizioni, appariranno i più singolari fenomeni, e non isolati, ma in folla. Intorno al 1890 le infermità spirituali dei poeti, la loro sensibilità acuita oltremisura, l’angoscia senza nome delle loro ore depresse, la loro disposizione a soggiacere alla potenza simbolica anche di cose inappariscenti, la loro incapacità di contentarsi dei vocaboli esistenti per l’espressione dei loro sentimenti, tutto ciò sarà una malattia comune tra i giovani uomini e donne dei ceti superiori. Ché l’artista somiglia a quel Mida, sotto le cui mani tutto diveniva oro. La stessa maledizione si adempie, solo tuttavia in modo infinitamente più sottile. Benvenuto Cellini giace prigioniero nel più profondo sotterraneo di Castel Sant’Angelo; ha una gamba spezzata, i denti gli cadono dalle mandibole, da giorni lo si lascia senza nutrimento; egli crede morire; allora si condensano i suoi deliri tormentosi in un bel sogno consolatore. Egli vede il sole, ma senza raggi accecanti, come un bagno dell’oro più puro: nel mezzo poi comincia a gonfiare e crescere in alto, e se ne forma un Cristo in croce della stessa materia; a lato al Crocifisso una bella Vergine santissima, nel più amabile atteggiamento, sorridente. Ai due lati due magnifici angeli, della stessa materia. Tutto questo egli vide in realtà e ringraziava istantemente Dio con chiara voce. Egli giaceva in agonia, ma era il più grande orafo del suo secolo e la visione, in cui il cielo gli addolci la sua agonia, era la visione d’un lavoro d’oreficeria. Curvo sulla soglia della morte, i suoi sogni non erano d’altra materia da quella, in cui le sue mani potevano creare un’opera d’arte. E conoscete Frenhofer il pittore?

  Hammer – L’eroe del ‘Chef-d’oeuvre inconnu’? Certo.

  Balzac – Egli è l’unico scolaro di Mabuse. Ha ereditato dal maestro l’enorme mistero della forma, della vera forma, del corpo umano modellato di luce e d’ombra. Sa che il contorno non esiste. I suoi studi hanno la forza del lume di Giorgione e l’incarnato di Tiziano; ed egli disprezza quegli studi. Pourbus (sic) l’adora e Nicolas Poussin, che viene a conoscerlo, trema davanti a lui come davanti a un demone. Quell’uomo lavora da dieci anni a una figura di donna nuda, e nessuno ha potuto vedere il quadro. Ricordate come la storia continua. Poussin è tanto sconvolto da questo demone della pittura che gli offre per modello la sua amata, un essere incantevole di vent’anni. Si dice che questa Gilette abbia il più bel corpo, su cui mai siano caduti occhi di pittore. Offrirla al vecchio era il più folle sacrificio che l’amore facesse all’arte, al genio, alla gloria. Era un tentativo infernale, cedere il tesoro più caro, per averne in compenso la disumana magnificenza della creazione. E il vecchio? La nota appena. Da dieci anni egli vive nel suo quadro. In un delirio, che non ha quasi ormai più pause, egli sente vivere quel corpo dipinto, sente l’aria spruzzarlo, sente quella nudità respirare, dormire, animarsi, quasi balzare dalla tela, vivente. Che gli potrebbe più dare una donna viva, un corpo reale? Egli vede quel reale corpo femminile, vede tutte le forme e i colori, tutte le ombre e penombre e armonie del mondo ormai solo come una negativa, in un rapporto segreto, a lui solo comprensibile, con la sua opera. Il mondo è per lui il guscio d’un uovo ormai vuoto. Ciò che del mondo esisteva per la sua anima, egli l’ha trasfuso nella sua figura. Quanto è vano offrirgli un frutto, fosse anche il più incantevole di questa terra, contro cui le porte della sua anima si sono chiuse per sempre. Che sacrificio vano e grottesco. EccoVi qui l’artista: giovane, mentre si dà all’arte: Poussin — e maturo, mentre quasi è ormai un Pigmalione, mentre la sua statua, la sua dea, la figura delle sue mani, comincia a muovergli incontro il primo passo: Frenhofer. E Gilette: essa è l’esperienza, la pienezza delle esperienze, la dolce pienezza delle possibilità della vita: e l’uno, il giovane è pronto a cederla; l’altro non ha più occhi per considerarla.

  La vita! il mondo! Il mondo è nel suo lavoro e il suo lavoro è la sua vita. Parlate a un giocatore, a un vero giocatore — nel momento in cui si punta — del mondo. Dite a un collezionista che sua moglie è in convulsioni, che è stato arrestato suo figlio, che la casa brucia, nel momento che i suoi occhi nella bottega d’un antiquario scoprono uno smalto di Nardon Penicaud da Limoges o un paravento del genere che si comincia a chiamare Pompadour, dei bronzi modellati da Clodion. Vi guarderà con l’occhio, con cui Lear nella landa guarda ognuno che lo voglia distogliere dal pensiero che solo figlie ingrate hanno provocato la miseria di Edgardo e la miseria d’ogni creatura infelice. Ogni occhio trova qualche volta questo superiore sguardo dell’anima, che non vuol comprendere che fuori del suo caso possa esistere qualcosa al mondo.

  Hammer (modesto) – Lear dice questo nel terzo atto; in questo passo può esser considerato come pazzo.

  Balzac – Questo di ogni uomo si può dire, caro barone, e proprio nei momenti belli, sublimi, reali della sua vita. Proprio come Lear, intendo, quanto Lear.

  Hammer – Come, signor di Balzac, Voi vorreste tracciare confini così miseri, così tristi al Vostro genio? L’atmosfera dell’esistenze che si consumano da sé patologicamente, l’orribile rodìo cieco d’una mania, questa cupezza angusta vorreste scegliervi a oggetto della Vostra rappresentazione, invece di metter la mano nella vita colorita degli uomini? Non avete Voi sempre saputo cogliere il nuovo, l’interessante?

  Balzac – Il mio lavoro, barone, non ha mai conosciuto altre leggi che queste, che io Vi spiego. Ma io non ho mai sentito l’impulso di spiegarle a me stesso. La Germania filosofica m’ha appiccato, sembra, questa malattia. Solo temo, barone, che Voi mi fraintendiate pienamente se credete ch’io consideri estraneo alla sfera del mio materiale di lavoro qualche cosa tra cielo e terra. Io non so che cosa Voi chiamiate ‘patologico’: ma so che ogni esistenza umana, degna d’esser rappresentata, consuma se stessa, e per intrattenere questo incendio, non succhia dal mondo intero altro che gli elementi atti a questo bruciare, come la candela divora l’ossigeno dell’aria. Io so chi ha messo alla moda il termine ‘patologico’ per la figurazione poetica; è il signor von Goethe, un grandissimo genio, forse il più grande che la Vostra nazione abbia prodotto, un uomo, la cui forza nel gettare eserciti di concetti e conoscenze da un dominio del pensiero nell’altro non è meno stupefacente di quella con cui Napoleone gettava eserciti di soldati oltre il Po o la Vistola. Solo, i concetti con cui egli lanciava le frecce raggianti del suo spirito nel mondo, non si lasciano tendere da braccia più deboli: come l’arco di Ulisse. Ma io accetto la Vostra parola: ‘patologico’, ‘maniaco’ — tutte le posso accogliere. Sì, il mondo che io scavo dal mio cervello, è popolato di folli. Tutte sono così folli, le mie creature, così sbandate dietro le loro idee fisse, così incapaci di vedere nel mondo ciò ch’esse non vi gettino con la scintilla del loro sguardo, così fuor di senno come Lear, che prende un fantoccio di paglia per Gonerilla. Ma così sono perché sono creature umane. Per esse non ci sono esperienze, perché non si danno in generale esperienze. Perché l’intimo dell’uomo è un incendio che divora se stesso, un incendio di dolori, una fornace di vetro, in cui la massa tenace e fluida della vita riceve le sue forme, deliziosamente floreali, come i calici di Murano o eroiche, corrusche di riflessi metallici come i piatti di Deruta e Rodi. Perché ogni generazione è più cosciente della precedente, perché una singolare chimica, che si compie a ogni respiro della vita, scomporrà sempre più la vita, sicché perfino le delusioni, la perdita delle illusioni — questa inevitabile esperienza — non precipiterà nel profondo pozzo dell’anima in blocco, ma si sgretolerà in polvere, in atomi, a ogni respiro: tanto che intorno al 1890 o al 1900 non si comprenderà più ciò che noi abbiamo voluto dire con la parola ‘esperienza’.

  Patologico! Prendiamo, di grazia, i concetti in modo abbastanza ampio, e ci potranno entrare e inferno e paradiso. Io penso almeno di non rinunciare né all’uno né all’altro.

  C’è in tutto, in tutto, il germe per un feticcio, per un dio, per un dio che abbraccia tutto. Lasciamo la fedeltà a colui che ha fatto della fedeltà il suo dio. Io vedo anche colui che dell’infedeltà s’è fatto il suo dio. Si deve riuscire a afferrare Beethoven accanto a Casanova o a Lauzun. Colui che non ebbe bisogno di alcuna donna accanto a colui che ebbe bisogno di tutte. Ogni cosa è un regno, e ognuno è Napoleone nel proprio. Non cozzano l’uno contro l’altro, questi regni, sono sfere spirituali: beato chi è capace di udirne la musica.

  Sì, sono demoni tutte le mie creature, e io ho messo il fuoco inestinguibile della pazzia nelle loro teste. D’accordo! Ma d’accordo anche con me, caro barone, che il vostro musagete tedesco, il Vostro Olimpico, che il vegliardo di Weimar è stato un demone, e non dei meno inquietanti. Io non lo voglio legare al suo ‘Werther’: egli ha rinnegato quella febbre della sua gioventù. Ma tutto l’uomo, tutto il poeta, tutto l’essere! Io potrei credere d’averlo conosciuto: il suo occhio dev’essere stato più inquietante di quello di Klingsor il mago, più inquietante dell’occhio di Merlino, che si racconta conducesse come un pozzo senza fondo negli abissi dell’inferno, più inquietante dell’occhio di Medusa. Egli poteva uccidere, quell’uomo terribile, con uno sguardo, con un soffio della sua bocca, con una scrollata delle sue olimpiche spalle: poteva pietrificare il cuore d’un uomo, poteva uccidere un’anima e poi volgersi, come se nulla fosse accaduto, e andarsene tra le sue piante, le sue pietre e i suoi colori, ch’egli chiamava passioni e azioni della luce e con cui egli aveva colloqui, forti abbastanza da far vacillare le stelle del cielo. Ci furono tempi in cui lo si sarebbe bruciato, e ci furono altri tempi in cui lo si sarebbe adorato. Egli lasciava che il suo destino, che era la sua natura, portasse alla sua natura, ch’era il suo destino, tutte le vittime di cui i demoni hanno bisogno. Ciò che Napoleone chiamava la sua stella, egli chiamava l’armonia della sua anima. E quel luminoso castello incantato, ch’egli edificò di materia imperitura, credete Voi non avesse sotterranei, in cui prigionieri gemevano in attesa di una lenta morte? Ma egli non si degnava di udirli, perché egli era grande. Sì, chi ha ucciso l’anima di Enrico von Kleist, chi dunque? Oh, io lo vedo, il vegliardo di Weimar. Io lo racconterò, tutto lo racconterò. Egli è più grande e inquietante del cavallo di Troia, ma io sfonderò le porte della mia opera e lo condurrò dentro. Accanto a Séraphitus-Séraphita egli starà, come nel camposanto di Pisa la torre obliqua e il battistero stanno una accanto all’altro e si guardano in silenzio, potenti, resistendo ai secoli.

  Oh, io lo vedo, e che incanto e che orrore, vederlo! Là io lo vedo, dov’egli vive, dov’è la sua vita: nei trenta o quaranta volumi delle sue opere, che egli ha lasciato, non nel vaniloquio dei suoi biografi. Ché questo importa, vedere i destini là dove sono impressi in materia divina. Io conosco una donna, oscura, che non sarà mai celebre: è figlia d’un paese asservito; un demone di fantasia, un bambino di semplicità, un vegliardo d’esperienza, cervello d’uomo, donna nel cuore; il suo amore, la sua fede, il suo dolore, la sua speranza, i suoi sogni sono come catene, assai forti da reggere un mondo sull’abisso senza fondo : e la sua vita, il suo destino, la sua anima è talora scritta sul suo volto per colui che è capace di vederla: così sta il destino di Goethe nelle sue opere.

  Leggere i destini là dove sono scritti: questo è tutto. Aver la forza di vederle tutte, come si consumano da sé, queste fiaccole viventi. Vederle all’improvviso tutte, legate agli alberi dell’enorme giardino, che solo il loro incendio illumina: e star là sulla terrazza più alta, unico spettatore, e sulle corde della lira cercare gli accordi, che leghino insieme cielo, inferno e quello spettacolo.

  In quel momento un ’landau’ passò davanti al portone esterno del giardino; dentro sedeva la signora von Hanska, nata Rzewuska. Con un movimento come Mirabeau Balzac si voltò a vederla entrare fra i castagni; e nessuno avrebbe osato voler riprendere un dialogo che un gesto così grande aveva interrotto.

 

  La fanciulla dagli occhi d’oro, Ibid., pp. 95-97.

 

  È la storia magnifica e indimenticabile in cui dal mistero cresce la voluttà, l’oriente schiude gli occhi pesanti nel mezzo dell’insonne Parigi, l’avventura s’intreccia con la realtà, la fioritura dell’anima sboccia sull’orlo della vertigine e della morte, e il presente viene illuminato da una tale torcia che s’offre davanti a noi come i grandi tempi di antichissimi sogni.

  La storia di Henry de Marsay e la fanciulla dagli occhi d’oro. La storia il cui inizio è una raffigurazione di Parigi, un enorme quadro in parole, una costruzione colossale in luce scialba e tenebra nera; e la fine è una poesia dell’oriente, dove si mescola lo stordimento della più profonda voluttà con l’odore del sangue e un non so che sopra i sensi s’alza a volo nelle sfere senza nome; il principio potrebbe essere di pugno di Dante e la fine tratta dalle Mille e una notte e l’organismo intero di nessun altro al mondo che di colui che l’ha scritto. Io non so che brama della fantasia potrebbe albergare in un lettore, che non si saziasse nei libri di quest’uomo. Egli ha qui un’introduzione, una specie di gigantesca porta dell’inferno affollata di rilievi di figure umane, assai grande e penetrante da placare la più profonda brama, che così spesso ci sconvolge, di guardare come una bellezza demonica la tremenda bruttura delle metropoli che ci rinchiudono, e le miriadi di volti, che come in un cratere infernale ci riddano incontro, di abbracciare il loro confuso mareggiare, afferrare e dissipare, e conquista e decadenza, in una visione pari a quella in cui «le forze del cielo si porgono aurei secchi». E qui c’è avventurosità da sedurre una fantasia sedicenne; ma s’intreccia intorno a un eroe che nulla è meno che ingenuo; nelle onde orientali di un’avventura che sembra agitare un mare libero eterno lucente di nuda bellezza, si specchia il volto di Henry de Marsay, uno di quei volti, che solo Balzac aveva la forza di creare, in cui gli istinti di un’intera civiltà, le sue brame più profonde, i suoi desideri più segreti, la sua più intima relazione con la femmina, col mondo, col destino, son divenuti figura, una delle fisionomie, in cui si possono rispecchiare cinque generazioni successive, interamente, dalla loro fatuità fino alla loro ultima verità. E qui infine c’è qualcosa, ch’io ho quasi pudore di spiegare con parole, una poesia dei sensi che fa vacillare e chiudere gli occhi, un’onda di stimoli e di appagamenti smisurata, che si gonfia e trabocca dal suo vaso, come l’anima da un occhio umido in agonia d’abbandono.

  Dico troppo? Troppo poco, troppo poco. E questa e solo una piccola storia, solo l’unica storia di Henry de Marsay e la fanciulla dagli occhi d’oro. È uno solo dei suoi libri, il racconto di una notte, una notte tra mille notti. E Henry de Marsay ha ancora vissuto molte cose più tardi. Non è egli intrecciato coi destini della principessa di Cadignan? E con altri più oscuri destini? Non incrocia la sua vita la molle ascesa di César Birotteau e la tremenda discesa del barone Hulot? Maraviglioso intrico di fili del destino, che nessun altro cervello umano potrà mai immaginare! Beata imperfezione della nostra memoria: noi ci possiamo muovere senza fine in questo mondo, emergono volti, su cui sono scritti destini, dall’uno sull’altro cade un guizzo di luce, poi ritorna qualcuno, che abbiamo incontrato molto tempo fa — o non mai ancora? Ci ha solo un altro parlato di lui? O solo portava un letto, su cui già sedemmo, l’impronta del suo corpo; un cuore, in cui già abbiamo gettato lo sguardo, le cicatrici della sua malvagità o della sua debolezza? Io non vorrò mai sapere d’aver letto tutti i libri di Balzac e non lo saprò mai. Ché quando io me ne prenda fra le mani gli ultimi, quello che ha letto i primi ormai sarà stato un altro.

  Maravigliosa corrente, a cui l’anima s’abbandona con gli occhi chiusi, in cui fila, come una barca incantata, su acque del colore del sangue o grige come pietra o rosate come le conchiglie, o nere del profondo dell’abisso che sotto vi si cela.

 


  A.[lfredo] J.[eri], Nota, in Honoré de Balzac, Il medico di campagna ... cit., pp. 5-8.

 

  La biografia di Honoré de Balzac (Tours, 20 maggio 1790; Parigi, 19 agosto 1850) è tutta nella Vita di Balzac di Théophile Gautier, e non potrebbe essercene una più esatta, si può dire giorno per giorno, dalla nascita alla morte, tutt’un seguito di notazioni: com’era fatto, che occhi aveva, i libri che scrisse e quelli che non scrisse, le prodigalità e le vicende sentimentali, i capitomboli economici e le sempre ritornate illusioni finanziarie; insomma, ogni cosa, e soprattutto, «naturalmente», l’entità e il significato delle opere. Dunque, non ci sarebbe altro da cercare fuor di lì, con un sentito grazie al biografo, scrittore a sua volta e per altro verso eccellentissimo (aggettivo forse il più giusto per Gautier), in certo modo «scoperto» dallo stesso Balzac, dopo La signorina di Maupin, e in definitiva basterebbe Il capitan Fracassa per siglarne la gloria letteraria, al lume della Letteratura spaziata e spaziosa, pittorica e poetica.

  Ma l’«argomento» Balzac non lo esaurisce un biografo solo, pur se scrupoloso e sensitivo al massimo; e proprio è fuor d’indirizzo il proverbio turco secondo cui quando la casa è finita entra la morte. Chi potrà mai ultimare la Casa del Pensiero balzachiano? Non ebbero un’idea del genere neppur Victor Hugo e Lamartine, introducendovisi: anzi, nel caso, la loro intenzione era d’abbellirla o in ogni modo di tenerla solatìa ... Victor Hugo col dire che «Balzac era dei primi fra i grandi, dei più alti fra i migliori»; Lamartine paragonandolo a Molière («Molière superiore in locuzione. Balzac superiore in convinzione») e asserendo di non sapere da che istinto gli fosse venuto l’insegnamento per cui «gli uomini e i luoghi sono vincolati da legassi segreti».

  «Balzac si propagherà per sempre», disse Abel Hermant il 24 novembre 1902 inaugurando a Parigi, in nome della Società dei letterati, il monumento al torrenziale autore della Commedia umana, «Balzac ebbe, come Shakespeare, la potenza di creare tipi che vivevano in carne ed ossa», aggiunse, «e si vantava egli stesso dover fatto la concorrenza allo stato civile»; e, dopo aver sottolineato che «Balzac fu letterato più di tutti, e nello stesso tempo nessuno lo fu meno di lui» (nel che c’è una verità profonda, oltre che, per un certo lato, perentoriamente inedita). Hermant concluse dicendo che il più vero monumento a Balzac era idealmente costituito dallo stuolo dei suoi imitatori, fra cui i fratelli Goncourt, Flaubert, Zola: «gruppo nel quale sarebbe ancora un onore esser l’ultimo venuto».

  Dunque, quella Casa non tari mai ultimata, e mai, così, v’entrerà la morte. Tuttavia, l’ambiziosissimo progetto di arrivare al Tutto («voglio fare con la penna ciò che Napoleone fece con la spada») non poteva non portare a deterioramenti nel tessuto di più d’una delle sue narrazioni. L’osanna sempre ripetuto, che nulla scarta per timore di scalfire l’Opera immensa, si scontra con questa asserzione. Ma quando mai la perfezione fu còmpito degli uomini? Già è gran presumere voler scorgerne la cima. L’infinita vanità di Balzac volle dire, sì, una quantità di mète vittoriosamente raggiunte; ma la vanità non trova posto nell’assoluto delle virtù. Con tutto dà, si deve riconoscere che è tuttora viva la più parte dei personaggi balzachiani (ma sono più vivi i personaggi scespiriani, pur avendo essi sulle spalle il pondo di aggiuntivi due secoli e mezzo d’età; e son rimaste più definite, più inamovibili, più «esemplari» talune figure di Molière): e qui c’entra il fatto che in Balzac c’erano cento uomini in uno solo; ossia, sbrigativamente: egli riassunse tutti i suoi personaggi, balzachiano quanto e più di essi. Attraverso la storia delle sue imprese finanziarie, dei suoi espedienti, dei suoi amori, dei suoi debiti, egli è più romanzesco dei suoi Birotteau, Vautrin, Bridau, Rastignac, eccetera. L’autoscandaglio, quando c’è l’impulso del genio, s’accosta al mistero della creazione; la concorrenza, appunto, con lo stato civile ...

  Per concludere sull’ambizione e vanità: egli desiderò di superare tutti gli stili, di pervenire a tutte le grandezze, di afferrare tutti i destini, di essere in un medesimo tempo storico e moralista, medico e legislatore, narratore epico e autore comico ... Eh, altro che il solo Napoleone! Dobbiamo metterci anche Rabelais, e Talleyrand, e Beaumarchais, e Metternich (del principe Metternich era stato il successore in amore fra le braccia della duchessa d’Abrantès), e Richelieu, per giunta alla derrata. Vanità da lui stesso del resto «dichiarata» fin da quando era un ragazzetto, e «siglata» col de nobiliare, perfettamente arbitrario, dopo il successo dello Zigrino. Il de, presupposto di una signoria, di un avviato dominio di valvassore.

  Resta lo stesso, tutti i dubbi esclusi, l’asserzione di Victor Hugo: «egli era dei primi fra i grandi, dei più alti fra i migliori». E a citarne i capolavori, da Eugenia Grandet agli Scioani, da Papà Goriot al Cugino Pons, non la finiremmo più per il lungo di almeno ottanta fra i cento romanzi veri e propri.

  Pure, c’è un libro – questo che presentiamo: Il medico di campagna (Le médecin de campagne), ritratto di un uomo più che racconto di vicende – dove il genio torrenziale di Balzac si placa «umanamente» più che altrove. È del 1833, il grande anno di Eugenia Grandet. In Benassis (il medico di campagna) Balzac ha trasfuso il meglio di se stesso, vorremmo dire il se stesso quale avrebbe voluto o sentiva di poter essere: il Balzac capintesta dei moralisti, e ciò sia detto senza alcuna intenzione men che ammirativa. Il dottor Benassis assume di mano in mano il valore di un simbolo e di un monito. È qui per dire agli uomini, con la voce e il cuore di Balzac, che a questo mondo occorrono e soccorrono soprattutto la bontà e la fede religiosa, oltre a un reggimento politico dove la demagogia sia bandita come il loglio dal grano. Dice anche – e il lettore può avvedersene – che nella confessione cattolica profondamente sentita c’è quanto basta, e n’avanza, per il superamento delle tendenze malvagie; e addita nel matrimonio l’approdo più sicuro, o di tutti il meno incerto, della felicità.

  I colloqui fra il dottor Benassis e il maggiore Genestas sono quel che di meglio si potrebbe desiderare per veder della vita le responsabilità che a ciascuno competono: e non c’è altra narrazione di Balzac dove si trovi allogata, quanto in questa, con pieno diritto a subitanea verità, la convinzione di Lamartine sull’intuito balzachiano dei «segreti legami fra gli uomini e i luoghi».



  Dina Lanfredini, I romanzieri romantici, in Carlo Pellegrini (a cura di), Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America diretta da Carlo Pellegrini. Volume primo. Letteratura provenzale. Letteratura francese, Milano, Casa Editrice Dr. Francesco Vallardi, 1958, pp. 307-316.

 

  pp. 310-313. Onorato de Balzac nacque a Tours nel 1799; fu in un primo tempo giovane di studio di un avvocato e di un notaio, ma la letteratura lo attraeva irresistibilmente. Con l’ardore che caratterizzava il suo temperamento lesse numerosissime opere della più stravagante e avventurosa letteratura inglese e francese e dal 1821 al 1825 scrisse parecchi romanzi di quel genere che non ebbero del resto alcun successo. Per vivere egli aveva bisogno di mete grandiose e difficili: sospendendo l’attività letteraria tentò una grande impresa editoriale che fallì lasciandolo immerso per tutta la vita in un mare di debiti. La necessità di placare i creditori e la prepotente vocazione gli suggerirono allora il piano colossale di una lunghissima serie di romanzi a cui dette poi il titolo di Commedia umana; per vent’anni egli si impose un lavoro da titano, trascorse le notti a creare un’opera a immagine di quella complessa società nella quale passava le giornate; la sua robusta costituzione finì con l’esaurirsi ed egli mori, appena cinquantenne, nel 1850, cinque mesi dopo che il matrimonio con Eva de Hanska, una ricca polacca, l’aveva finalmente liberato dall’opprimente fardello dei vecchi debiti e aveva coronato la romantica passione nata diciassette anni prima attraverso uno scambio di lettere e continuata nello stesso modo (le Lettere alla straniera furono pubblicate nel 1899 e nel 1906), con la parentesi di brevissimi incontri, finché la morte del marito della signora Hanska non aveva permesso la serena conclusione del lungo sogno. Appunto in una lettera del 6 febbraio 1844 alla donna amata, Balzac così riassume il suo straordinario impegno: «Quattro uomini avranno avuto una vita immensa: Napoleone, Cuvier, O’Connell e io voglio essere il quarto. Il primo ha vissuto la vita dell’Europa; nelle sue vene ha pulsato il sangue di interi eserciti! Il secondo ha sposato la terra! Nel terzo un popolo si è incarnato! E io avrò portato nel mio cervello una società completa!». Un conquistatore, un grande scienziato, un apostolo dell’indipendenza: guidati tutti e tre da un pensiero dominante, tutti e tre decisi e sicuri; e anch’egli costruirà con la stessa fede la sua opera gigantesca. Il suo fine è nello stesso tempo semplice e quasi incredibile: vuole rappresentare in una serie di romanzi tutta la società del suo tempo considerandola nei suoi principali aspetti, cioè negli uomini, nelle donne e nelle cose che li circondano, facendone la storia e la critica, l’analisi dei suoi mali e la discussione dei suoi principi. Stabilì egli stesso un piano per ordinare i romanzi che, dopo il successo di Les chouans (1829), sbocciavano rapidamente dalla sua penna feconda. La prima parte, che è restata la più importante per il numero e per la qualità delle opere, comprende gli Studi di costumi divisi in sei gruppi: scene della vita privata (Modesta Mignon, Il colonnello Chabert, Gobseck, Babbo Goriot, ecc.), della vita di provincia (Il giglio nella valle, Orsola Mirouet, Eugenia Grandet, e i tre gruppi importantissimi: Gli scapoli, Le rivalità, Illusioni perdute), della vita parigina (Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau, La cugina Betta, Il cugino Pons), della vita politica (Un episodio sotto il Terrore, Un affare tenebroso), della vita militare (Les chouans). della vita di campagna (Il medico di campagna, Il curato del villaggio); la seconda parte riunisce gli Studi filosofici (La pelle di zigrino, ecc.); la terza gli Studi analitici (Fisiologia del matrimonio, Piccole miserie della vita coniugale): in tutto Balzac contava di scrivere centotrentasette opere; ne completò novantuno e ci restano abbozzi e disegni di molte altre. Nel 1834, con Babbo Goriot, uno dei suoi romanzi migliori, inventò un nuovo interessantissimo procedimento: quello di far tornare di opera in opera gli stessi personaggi; subito si accorse dell’importanza essenziale della scoperta e scrisse: «Un gran passo è stato fatto ultimamente. Vedendo riapparire in Babbo Goriot qualcuno dei personaggi già creati, il pubblico ha compreso una delle più ardite intenzioni dell’autore, quella di dar vita e movimento a tutto un mondo fittizio i cui personaggi vivranno forse ancora quando la maggior parte dei modelli saranno morti e dimenticati». Nè si limitò a rappresentare esteriormente il complesso mondo del suo tempo, ma stabilì, a fondamento della sua immensa fatica, quei principi che erano stati il lievito di gran parte della nuova letteratura: «L’uomo non è nè buono nè cattivo; nasce con degli istinti e delle attitudini; la Società, lungi dal depravarlo, come ha preteso Rousseau, lo perfeziona; lo rende migliore; ma l’interesse sviluppa anche le sue cattive inclinazioni. Il cristianesimo e soprattutto il cattolicesimo, essendo un sistema completo di repressione delle tendenze depravate dell’uomo, è il più grande elemento di Ordine Sociale». Visto questo chiaro programma la critica ha parlato per l’opera di Balzac di romanzo sociale e realista, ma il genio dell’autore deforma la realtà che osserva. Egli studia certo con la massima cura i particolari di una scena, di un ambiente, disegna attentamente l’abito e il volto dei suoi personaggi, ma fa tutto più grande del reale; ogni sua creatura ha il suo ardore vitale e tende a diventare un tipo rappresentativo; le duemila figure della Commedia umana, anche le più umili, sono esseri eccezionali; se Balzac osserva la stanza più semplice e popolare, subito gli oggetti e le persone acquisteranno un significato speciale e il lettore assisterà a qualche straordinaria vicenda. L’avaro Grandet non è un qualunque avaro borghese, ma la quintessenza dell’avarizia, come Babbo Goriot è il martire dell’amore paterno, come Vautrin è il delinquente-tipo, la cugina Betta la malignità in persona, Cesare Birotteau l’assoluta onestà. La Commedia umana è un grande affresco in cui l’autore ha colorito ogni figura con vivacissime tinte affinchè spiccasse bene e si distinguesse tra le altre; da lontano l’effetto è stupendo e si ha veramente, leggendo un romanzo dopo l’altro, l’impressione di vivere tra il 1790 e il 1840, in quel cinquantennio così intenso e vario; da vicino si notano i difetti, si scorgono le esagerazioni, le inverosimiglianze, le inevitabili e grossolane negligenze, lo stile spesso pesante e trascurato, ma gli errori particolari nulla tolgono alla potenza dell’insieme. Nessuno potrà mai negare a Balzac l’abilità del raccontare, la capacità di tener desta fino in fondo l’attenzione del lettore attraverso le più strane avventure: e non è questa forse la dote fondamentale di un romanziere? Un altro suo grande merito è quello di essere stato il primo a studiare con eguale interesse tutte le passioni e non soltanto l’amore. La sua personale esperienza lo aiutò a far penetrare il lettore in ambienti fino allora sconosciuti, a rivelargli gli intrighi sottili della politica, la lotta dura del commercio, la vita difficile dei magistrati, le astuzie della procedura, le pazzie e le angoscie degli artisti, le miserie delle cortigiane, il linguaggio segreto delle carceri, la ferocia dei grandi banchieri, l’abile leggerezza dei giornalisti, l’eterne rivalità degli impiegati, gli eroismi ignorati dei sacerdoti e dei medici di campagna. Molti dei personaggi di Balzac ricordano figure realmente esistite, amici e nemici dello scrittore; molti romanzi, specialmente quelli della vita politica, si ispirano a episodi accaduti, ma il meraviglioso dono di impadronirsi della realtà cogliendone i motivi profondi non è mai separato da quello dell’immaginazione creatrice e la fedele cronaca del tempo non è che la trama per una grandiosa e poetica epopea dell’umanità: in fondo la splendida ambizione di Balzac è la stessa che guidava i maggiori poeti romantici. Balzac può essere considerato il maestro degli scrittori realisti, ma non scrittore realista egli stesso; il suo sguardo va oltre la realtà e vede grande, come vedeva grande Delacroix, principe della pittura romantica, che sentiva il bisogno di affermare il suo genio in quadri e affreschi di vaste dimensioni. «Mi sono spesso stupito, scrisse con la sua particolare acutezza Baudelaire. che la gloria di Balzac fosse di passare per un osservatore: mi era sembrato sempre che il suo merito principale fosse quello di essere un visionario e un visionario appassionato». Il suo ardore eccezionale, la sua straordinaria energia si consumarono nello sforzo di cogliere sotto ogni aspetto la mirabile successione di visioni che gli passava davanti: gli mancò il tempo di scegliere e di disciplinare la propria arte; perciò si ha spesso la sensazione, leggendolo, di un lavoro accuratamente rifinito in certe piarti e in altre abbozzato appena, come nel colossale monumento che Augusto Rodin, il grande scultore della seconda metà dell’Ottocento, consacrò all’autore della Commedia umana: la testa potente domina il gran corpo rozzamente tagliato nel blocco enorme.

 

 

  D.[ina] L.[anfredini], Scritti rari di Balzac e di Marivaux, «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», Anno VIII, fasc. 2, ottobre 1958, p. 310.

 

  Il volumetto-antologia di saggi e recensioni di H. de Balzac, curato da M. Bonfantini (H. de Balzac, Scritti critici, Feltrinelli, Milano, 1958, Universale Economica n. 247), ci pone prima di tutto un problema: per scritti di quel genere è utile la traduzione? Quando si tratta, come nel caso di Balzac, di pagine sparse in periodici di breve vita che difficilmente si possono trovare nelle nostre biblioteche, pagine raccolte nel 1912 da L. Lumet in un volume diventato raro non sarebbe meglio ripubblicarle nel testo originale? Il pubblico che ha bisogno della traduzione non si fermerà a testi che interessano soprattutto lo studioso e questi, se vorrà fare, per esempio, una citazione dovrà ricominciare la faticosa caccia all’originale raro. In secondo luogo poi qualità economica della collezione in cui sono pubblicati questi Scritti critici non ha permesso al Bonfantini l’accuratezza necessaria: lo stile di Balzac è talora sciatto e trascurato e la traduzione frettolosa non fa che aggravare questi difetti. Perché tanti inutili francesismi? «Celibatario» a p. 73, «bruscheria» a p. 74, «si arrangia» a p. 86, «storia dettagliata» a p. 94. Perché «montone d’oro» invece dell’espressione ormai fissa di «toson d’oro» (p. 86)? Perché mettere in una delle poche note «bevuta» per tradurre «bévue» la cui etimologia non ha nessuna parentela con «bere»? Anche le note appunto risentono della fretta. A p. 28 nella nota 8, a proposito della famosa «journée des dupes», la regina madri è indicata come Anna d’Austria mentre si tratta di Maria dei Medici. Evidentemente un semplice lapsus, ma grave per quel «lettore meno informato» al quale sono riservati i brevissimi chiarimenti (p. XXIII). Altre note invece sono inutili per eccessiva genericità, come la nota 9 a p. 29 e la nota 13 a p. 172. La trascuratezza generale dell’edizione si rivela anche in spiacevoli errori di stampa come quell’«ebdomedario» ripetuto due volte nell’introduzione (p. VII e p. IX).

  Dopo queste osservazioni che si riferiscono, più che al testo particolare, a una certa maniera di diffusione popolare di scritti che per la loro natura hanno tutto da perdere e poco da dare al lettore se si riducono a una forma un po’ trascurata, diremo che l’introduzione è chiara e vivace e che si prova piacere a rileggere il più noto (e in realtà il più importante) degli scritti critici di Balzac: il lungo e appassionato saggio sulla Chartreuse de Parme. Diremo anche che ci si sofferma con interesse su questa attività poco conosciuta di Balzac; non si scopre un grande critico, ma si ritrovano le idee e le passioni del romanziere e anche le sue contraddizioni e i suoi eccessi. Di questi l’esempio più significativo è la violenta recensione alla prima parte del Port-Royal di Sainte-Beuve, in cui l’ironia non è semplice come nelle pagine su Hernani di V. Hugo, ma aspra, spesso ingiusta; Balzac svisa con abilità il testo di Sainte-Beuve e qualche nota in più sarebbe stata utile proprio per il lettore che non ha la monumentale opera di Sainte-Beuve a portata di mano.

 

 

  S.[ilvio] L.[ocatelli], Prefazione, in Honoré de Balzac, La pelle di zigrino ... cit., pp. 5-19.

 

  «Nessuno, più tardi, potrà scrivere la storia del regno di Luigi Filippo senza consultare Balzac», ha detto Flaubert, ed è vero. Honoré de Balzac, questo colosso della letteratura francese del XIX secolo, ha vissuto nel suo tempo come pochi altri hanno saputo fare; e del suo tempo e dei suoi contemporanei egli ci ha lasciato un ritratto di cui i posteri non potranno mai fare a meno.

  Nato nel 1799 e cresciuto in un clima d’epopea o col fascino dell’epopea ancora echeggiante al suo orecchio, in un tempo in cui la Francia ha dominato la scena d’Europa e del mondo con la sua potenza e con le sue idee, Balzac si è trovato, nel pieno della sua maturità artistica, a vivere in un periodo in cui i grandi personaggi della storia erano ormai crollati e di cui solo si potevano ammirare le vestigia. Monarchico assolutista, Balzac ha vissuto ed ha scritto di un tempo in cui la monarchia non poteva essere accettata dal popolo, ancora fremente di grandi speranze e dell’orgoglio dei conquistatori.

  Come i suoi compatrioti, Balzac non ha potuto amare il regno di Luigi Filippo, di un re borghese, che è pur stato tra i più intelligenti monarchi che la Francia abbia avuto. Non era certamente lui che poteva amare un re abituato a chiamare «amici miei» gli operai che incontrava passeggiando nelle sale di Palazzo Reale; un re che amava salutare il suo popolo apparendo al balcone col tricolore in pugno per intonare la Marsigliese. Un re, che usciva come un borghese qualsiasi, con l’ombrello sotto il braccio, poteva piacere a Guizot, poteva andar bene per gli inglesi, ma non per una Francia che sognava ancora il bastone di maresciallo. Luigi Filippo invece non amava la guerra. Era un re borghese e non faceva niente per nasconderlo; era il re dei Francesi, non più della Francia. Voleva che la sua gente si arricchisse, che il benessere fosse per tutti sinonimo di pace, eppure non era un debole. Voleva reggersi sulla borghesia, che colmava di vantaggi, ma voleva governare secondo le sue idee, delle quali Guizot doveva essere l'interprete più che l’ispiratore. Sfortunatamente per lui anche la borghesia non lo amava, perché la Francia non voleva il pacifismo ad oltranza; il sangue era sempre caldo. Da nessuno amato dunque; da tutti schernito. Aveva la testa a pera e ciò fu motivo perché si cantasse così: «Adoremus in aeternum Sanctum Philippoirum». E proprio la borghesia fu la prima a rinnegarlo. In fondo, la gente amava più Thiers, l’inquieto e intrigante marsigliese, che non i cultori di una rinascita economica a danno della gloria. La ricchezza senza la gloria, per i francesi, non ha mai avuto alcun valore e il torto di Luigi Filippo fu proprio quello di aver pensato che il benessere avrebbe placato tutto.

  «La Francia si annoia», aveva detto Lamartine alla Camera, e la Francia si annoiava veramente. Per liberarsi dal tedio, non bastava neppure la corruzione. L’arrivismo fu la parola d’ordine. La stampa diventava scandalistica, facendo pesare di pari passo il proprio potere. Essa si attirò addosso il disprezzo di coloro che, come Balzac, vedevano il Paese buttato di nuovo tra le braccia dell’avventura. Nei salotti della borghesia, e financo nei camerini delle ballerine e delle attrici, si vendevano e si disputavano cariche.

 

*


  Balzac, nella sua opera vastissima, è pieno di cose del genere. Thiers, vivacemente amorale, gli suggerisce il personaggio di Rastignac, che torna con metodica sicurezza, nei suoi romanzi, a simboleggiare l’uomo che ha una sola mèta, una sola religione: il successo. Per avere successo bisogna essere perseveranti. Non importa essere dei geni, occorre lottare, sempre, senza tregua, eternamente. Questo era il credo di Balzac, questa la sua divisa, con la sola variante che, nella storia della sua vita e della sua arte, non vi è la mediocrità, ma il genio.

  La lotta di Balzac per conquistare la gloria è stata quella di un titano. Per Flaubert, scrivere era un atto di stregoneria, in cui lo stesso mago soffre terribilmente, come se da solo dovesse sopportare il peso di tutto il male che grava sul mondo. Per Balzac, scrivere è fortificarsi; scrivere è conquista. Flaubert si distrugge scrivendo. E’ la sua anima che, frammento per frammento, dona vita alle parole. Balzac si nutre delle sue parole e ne ha sempre bisogno di nuove. Ogni opera è per lui ciò che è la terra per Anteo. Toccare questo elemento significa elettrizzarsi, ritrovare nuova energia. In venticinque anni, nascono circa cento opere, vivono duemila personaggi di tutte le classi sociali; le passioni dell’uomo sono analizzate ad una ad una. Ma anche Anteo muore. Anche il mito scompare. Balzac si consuma. Ha preteso troppo da quel massiccio corpo che Rodin raffigurò come un tronco saldato alla terra e dalla terra indissolubile. La natura aveva fatto di Balzac un uomo costrutto per diventare vegliardo e l’uomo muore a cinquant’anni. Nella sua frenesia di creare e di vivere, nell’osservanza della «teoria della volontà», nel superamento eterno, egli si è scavato la tomba alienandosi il riposo, lavorando sempre con l’accanimento di chi sa che fino all’ultimo avrà un messaggio da far conoscere.

  Non a caso abbiamo accennato alla «teoria della volontà»; essa fu un’idea molto cara a Balzac. Si disse che egli divenne scrittore per scommessa. Non è esatto. Forse scommise con sé stesso di diventare grande, ma scrittore lo fu per vocazione.

  A vent’anni Balzac si libera della famiglia. Anch’egli, come avverrà per Gide, sente nell’inconscio che la famiglia è un impaccio. Il sentimento dell’inconscio in questo caso vale solo per Balzac, poiché egli dirà più tardi, e poi sosterrà sempre, che solo l’unità della famiglia sta alla base di una vita sociale alta e perfetta. A vent’anni, tuttavia, Balzac vuole rimanere solo; rifiuta di fare il notaio come i suoi studi e il padre gli indicherebbero. La madre gli trova una mansarda a Parigi. Gli concedono un appannaggio insufficiente e il giovane Balzac ci dirà, proprio ne La Pelle di Zigrino, come si può vivere con pochi soldi, lesinando sul pane, sul carbone, sul bucato. In due anni, Balzac dovrà dimostrare di essere uno scrittore, palesare il suo talento. La prova fallisce. Il manoscritto del suo Cromwell, letto alla presenza di tutti i familiari, nel maggio del 1820, delude. Il giudizio di un critico è negativo. Balzac rientra in famiglia nel 1821; non si sente finito. Pensa alla necessità di scrivere, scrivere, scrivere per farsi la mano. E più tardi lo dirà: «Il faut écrire, écrire tous les jours, pour conquérir l'indépendance qu’on me refuse! Essayer de devenir libre à coups de romans ...». Si professa già sacerdote del metodo. Non vi è conquista senza costanza, poiché la lotta è sterile se non è sorretta dal metodo. Così, non sdegna di scrivere romanzi popolari. Ha bisogno di imparare ad esprimersi con sicurezza. Non deve restare insoddisfatto della sua arte. La parola esprimerà fedelmente i suoi sentimenti. La parola è un ferro del mestiere. Deve impadronirsene, deve foggiare la frase, conoscere la lingua. Ci sarà anche della presunzione in lui. Arriverà a dire che solo Victor Hugo, Gautier e lui conoscono la lingua. Purtroppo, il suo stile sarà sovente infelice e solo troverà ali e maestà nei Contes Drôlatiques e nelle Scènes Populaires [?; sic]. Il lavoro cui si sottopone è tale da spaventare i più forti. Balzac ama scrivere di notte e dormire di giorno. La verità è che sovente scrive di notte e di giorno, dormendo solo poche ore. Seduto ad uno scrittoio coperto di panno verde, alla luce di un candelabro a sette braccia, bevendo e masticando caffè per sentirsi lucido, chiuso in una tonaca fratesca, colui che con Dostoievskij sarà chiamato il più grande creatore d’anime del XIX secolo, (Dostoievskij tradurrà Balzac e il suo Raskòlnikov avrà nelle vene il sangue di Rastignac), conquista ora per ora, rigo per rigo, un’arte che sarà eterna come le passioni dei suoi personaggi.

  Sempre insoddisfatto di quanto scrive, perpetuamente alla ricerca della frase migliore, del miglior mezzo espressivo del suo pensiero, Balzac corregge e ricorregge ogni pagina delle sue opere. Prima di licenziare definitivamente un racconto e persino quando si propone di non ritoccare più, è ossessionato dal dubbio. Forse poteva fare meglio, forse qualcosa poteva essere detto con chiarezza maggiore, forse si poteva modificare, ampliare, sopprimere. Egli ha bisogno di tempestare di correzioni sette, otto, nove, dieci bozze; per dieci volte consecutive le sue pagine vanno e vengono dalla tipografia, costellate di aggiunte. Sovente Balzac rifà i suoi romanzi. Della pagina composta, che egli rimanda al tipografo, ben poco rimane. Cancella e aggiunge. I personaggi continuano a vivere nella sua mente, a parlare, ad agire, perché i personaggi sono idee e le idee vivono in un loro mondo: si evolvono. Balzac non pensa mai di poterle chiudere in schemi, in mondi compiuti. Egli non viola quei mondi correggendo sempre: rifinisce. Non crede che un’opera possa nascere senza lunga meditazione. Bisogna elaborare. Non crede all’arte di getto. Amico di Gautier, si stupisce di vedergli mandare in tipografia manoscritti vergini, quasi immuni dalla più piccola correzione. Le sue numerosissime bozze sono martoriare. E proprio a Gautier cita Victor Hugo, che lavora con fervore accanito su ogni pagina prima di licenziarla. Unica differenza tra lui e Hugo: il poeta di Les Orientales non corregge sulle bozze, ma sul testo originale. Hugo è preso da rispetto sacro davanti ai fogli stampati. Portare lo scompiglio in quell’ordine gli sembra sacrilegio. Balzac invece vede nell’ordine tutto ciò che non ha saputo o che ha dimenticato di dire. Ricomincia a scrivere, come se la bozza non fosse altro, per lui, che il canovaccio dell’opera. I tipografi sono disperati. Nessun operaio vuol fare più di un’ora di Balzac al giorno, gli editori impazziscono. Balzac non ha tempo per ascoltare nessuno. L’opera d’arte dev’essere curata e allevata. Sulle pagine candide si butta soltanto il germe. Occorre nutrirlo perché cresca. Rimprovera Stendhal perché non lima o corregge i suoi lavori: Stendhal dice di non aver pretese stilistiche; egli ha preso a prestito il linguaggio del Codice Civile. Balzac si indigna. Ammira Stendhal, ma lo vorrebbe più rispettoso della lingua e gli suggerisce di prendere esempio da Chateaubriand e da de Maistre: Stendhal si indispettisce; non ama Chateaubriand e tanto meno de Maistre. In genere, detesta i moderni e preferisce leggere gli autori anteriori al ‘700. Per ben pensare, poi, si è scelto Helvétius. Ormai seccato, ribatte che Balzac certamente riscrive le sue opere, dapprima in maniera intelligente, poi per infiorarle di cose inutili.

  C’è del vero nell’accusa di Stendhal. Lo stile di Balzac ha sempre trovato giudici sfavorevoli Ma se la sua prosa non è fatta di pagine purissime, mai vi manca il vigore del genio. Balzac ha voluto essere semplice e sovente usa invece vocaboli arcaici, preziosi. Tuttavia, generalmente parlando, egli è semplice, anche quando indulge a giuochi di parole dallo spirito non sempre felice. Gli si rimprovera poi di non commuoversi di fronte alla natura, di avere lo spirito di un commesso viaggiatore. C’è della cattiveria in questo. Balzac si è proposto di studiare l’uomo. La natura per lui non è che ambiente. Anche l’ambiente in Balzac ha una grande importanza. Egli è certo che l’uomo sceglie ciò che lo circonda secondo il proprio carattere e che ciò che lo circonda ha un influsso su di esso. Per questo egli descrive minutamente luoghi e case dove le sue creature vivono. Leggendo Balzac, noi incominciamo a conoscere i personaggi dagli oggetti che essi prediligono o che, in ogni modo, si sono scelti. La natura, è vero, non ha trovato una vasta eco nel suo spirito. Egli la contempla, ne è soggiogato, forse il suo animo freme, ma questo fremito non ci commuove. Nella Fedra di Racine, come nota il De Sanctis, il nostro animo vibra intensamente solo quando appare Fedra; ed egualmente per Balzac noi sentiamo la profondità della sua arte solo allorché ci troviamo dinanzi al personaggio ed ai suoi sentimenti. L’accostamento ad un classico non è casuale. Anche il Balzac realista è un classico. La sua classicità sta nel fatto che egli non ama i personaggi complicati. Le sue creature hanno un’unica passione e in essa e di essa si consumano: come nei classici. La passione, tormento della loro esistenza, è sempre fatale Per essere classico compiutamente, Balzac avrebbe dovuto conquistare la serenità estetica; ma questo non avviene, avverte il Croce, e qui è il limite dell’arte balzachiana, che tuttavia resta vera e grande arte.

 

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  Nel 1842, l’editore Furne pubblicò la prima edizione delle opere complete di Balzac sotto il titolo di Comédie Humaine. Lo scopo dell’Autore era ambizioso: far concorrenza allo Stato Civile. Di tanto si sentiva capace. La vita dei suoi personaggi doveva essere tanto reale quanto quella concessa da Dio agli uomini.

  Chi fu a suggerire a Balzac il titolo di Comédie Humaine? Forse l’inglese Henry Reeve, al quale Balzac espose il suo piano nel 1835; più probabilmente fu Auguste de Belloy, lettore così entusiastico di Dante, da convincere lo stesso Balzac a chiamare Comédie Humaine la sua opera in contrapposizione alla Divina Commedia. Da molto tempo Balzac aveva pensato alla sua fatica come a un ciclo organico; perciò, fece precedere il primo volume pubblicato dal Furne da un’introduzione in cui chiaramente spiegava le sue idee.

  Il piano stabilito da Balzac era immenso. Non riuscì a portarlo a termine; tuttavia, la sua opera può considerarsi egualmente compiuta. Divisa in tre parti, — la prima delle quali comprende: Scènes de la Vie Privée - Scènes de la Vie de Province - Scènes de la Vie Parisienne - Scènes de la Vie Politique - Scènes de la Vie Militaire e Scenes de la Vie de Campagne; la seconda: Études Philosophiques (di cui fanno parte i due romanzi pubblicati nella presente edizione); la terza: Études Analitiques (sic), — in essa ritroviamo tutti i movimenti della vita politica e sociale dal 1789 al 1848.

  Taine osservò che Balzac discuteva del mondo sociale come del mondo zoologico. Balzac, secondo Taine, faceva insomma la storia naturale dell’umanità. In altri termini, la gloria di un Buffon in un’opera dedicata all’uomo. Proprio dello scienziato Balzac voleva avere la serietà e la precisione dell’indagine. In ciò sbagliava, come vedremo più oltre. Egli stesso, nella sua famosa Introduzione, suffraga la tesi di Taine. Ha fatto sue le teorie di Geoffroy de Saint-Hilaire e dell’influsso che l’ambiente esercita sugli uomini. Ha letto Swedenborg e Saint-Martin, valendosi della biblioteca materna, dove le opere di tali autori godevano di grande privilegio. Il mesmerismo non è per lui un mistero, ma un credo.

  «La Società non fa forse dell’uomo, — secondo l’ambiente in cui la sua azione si dispiega, — tanti uomini diversi quanto sono diverse le varietà in zoologia? Le differenze fra un soldato, un operaio, un amministratore, un avvocato, un ozioso, uno scienziato, un uomo di Stato, un commerciante, un marinaio, un poeta, un povero, un prete, sono, benché più difficili da cogliere, altrettanto notevoli di quelle che distinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, lo squalo, la foca, la pecora, ecc. Sono dunque esistite, esisteranno dunque in ogni tempo Specie sociali come vi sono Specie zoologiche. Se Buffon ha fatto un’opera magnifica cercando di rappresentare in un libro l’insieme della zoologia, non vi era forse da fare un’opera dello stesso genere per la Società?».

  Quanto vi sia di discutibile in così fatto principio non è qui il caso di approfondire. Conviene limitarsi a considerare che Balzac voleva inalzare il romanzo a valore filosofico e, dobbiamo aggiungere, non solo filosofico, ma scientifico.

  Egli crede di aver trovato il suo maestro in Walter Scott, che tanto influsso ha avuto sulla letteratura di quel periodo, non solo francese ma europea Balzac ha stabilito di essere lo storiografo della Società francese del suo tempo. Vi è riuscito; a volte a danno dell’artista, ma sempre mantenendo fede al proprio impegno. Le parole di Flaubert che aprono queste pagine ne sono la testimonianza più valida e viva sempre, oggi come allora.

  C’è da chiedersi s’egli sia stato un osservatore obiettivo della realtà. Non ha voluto esserlo. Bisogna dire che, per Balzac, realtà e fantasia erano tutt’uno. La sua fantasia operava sulla realtà come una forma sulla creta. E, cosa ancor più strana, non la falsava, non la cangiava. Dovremmo dire, anzi, ch’egli operava sulla realtà per renderla più compatta, più intelligibile. «Ah! voi credete alla realtà! — disse un giorno a Vidocq. — ... Siamo noi che la facciamo, la realtà!». Baudelaire aveva visto bene quando scrisse: «Molte volte mi sono meravigliato che la grande gloria di Balzac fosse di passare per un osservatore; mi era sempre parso che il suo principale merito fosse quello di essere un visionnaire passionné».

  Balzac vede dunque di là dal personaggio. Il germe, l’embrione gli dirà l’uomo di domani, gli farà descrivere tipi e caratteri che si completeranno e che assumeranno vita piena dopo il suo tempo. E in ciò egli è coerente. Storiografo di una Società, ha l’intuizione storica della generazione che il suo tempo foggia e di cui egli non farà in tempo a vederne la germinazione piena, che sarà tuttavia la conferma delle sue analisi quasi profetiche.

  I personaggi di Balzac sono pieni del desiderio di vita. E’ la passione prima che li agita. Tutti hanno ambizioni, dalle quali si scateneranno le lotte degli animi. In questo desiderio di vivere, il denaro assume naturalmente un’importanza enorme. L’«arricchitevi», del ministro di Luigi Filippo, — di Guizot, — ha trovato un eco così profonda in tutta la Francia, che non poteva lasciare indifferente Balzac. La passione dei suoi personaggi è la sua stessa passione. Denaro e ambizioni tornano a giustificare, o a far comprendere, tutti gli atti dei suoi personaggi. Balzac li ha presi dal vero, e qui sta il suo realismo.

  A volte egli si travestiva da operaio per vivere in mezzo agli operai e cogliere i loro dialoghi, capire i loro problemi, intendere i loro animi. Il suo taccuino serviva tanto per le conversazioni della Récamier, quanto per i dialoghi che si svolgevano ai mercati delle Halles. Detesta gli scrittori che vogliono caratterizzare i loro protagonisti con frasi stereotipate. «Questa è povertà di talento!» esclama. Ecco perché l’autore della Comédie Humaine è un osservatore minuzioso della vita di Parigi e della provincia. Ogni suo viaggio, in patria come all’estero, è sorgente di notazioni preziose.

  Balzac ha l’abitudine di visitare i luoghi in cui ambienterà la vita dei suoi personaggi. La fantasia deve appoggiarsi sulla realtà. Come Stendhal, egli non può creare se non pensando a qualcosa di reale. La fantasia si sposerà poi col reale in maniera indissolubile. Questa sua virtù non sarà però compresa dai contemporanei, nemmeno da Sainte-Beuve. Lo rimprovereranno persino di essere un denigratore della classe dirigente. «In me, — egli scrive all’inizio di Facino Cane — l’osservazione era diventata intuizione, essa penetrava l’anima senza trascurare il corpo; o, piuttosto, essa afferrava così bene i particolari esteriori da andare subito oltre: essa mi dava la facoltà di vivere la vita dell’individuo sulla quale si esercitava, permettendomi di sostituirmi a lui ...». Egli non può dunque fare a meno di sostituirsi al ricco borghese, con tutta la sua avidità di guadagno e, come lui, pensare quali altri guadagni trarre dalla vita. Non può fare a meno di sostituirsi all’operaio, con tutta la sua sete di giustizia e le sue debolezze. Nulla si salva da questo metodo di indagine, di intuizione e di comprensione. L’individuo non si libera mai delle sue meschinità e delle sue ambizioni. Gli stessi tribunali non sono visti come istituti, ma come nucleo umano dove i componenti, i giudici, seguono innanzi tutto la loro ambizione dominante: la carriera E ancora: «Dimmi che cosa hai e ti dirò come la pensi», scrive ne I contadini. Non si pensi, tuttavia, ad un Balzac strenuo difensore dei diritti del popolo. Balzac è un assolutista. La democrazia non può portare che all’anarchia, questo è il suo pensiero. Il popolo deve sempre restare sotto tutela. Perché «[se] il dispotismo fa illegalmente delle grandi cose, la libertà non si dà nemmeno la pena di farne legalmente delle piccolissime» (Pelle di Zigrino). Ripete l’identico concetto anche nell’Introduzione alla Comédie Humaine, affermando che «L’elezione, estesa a tutto ci dà il governo retto dalle masse, il solo che non sia affatto responsabile e in cui la tirannia è senza limiti, perché si chiama la legge». Non è tempo per Balzac di pensare all’evoluzione del popolo. Le grandi idee non hanno ancora toccato la povera gente. Essa non ha bisogno che di vivere, per il momento, e occorre che la giustizia venga dall’alto, giacché il popolo non può pensare a darsela da solo. Così crede Balzac. Ma in lui, più che sfiducia nel popolo, c’è sfiducia nell’uomo. Sostiene che l’uomo non nasce né buono né cattivo, ma con istinti e inclinazioni. Per la verità, Balzac pensa generalmente che l’uomo è un briccone o uno stolto. Si oppone a Rousseau, che vorrebbe l’uomo originariamente buono e successivamente corrotto dalla Società, e proclama che la Società, lungi dal corrompere, perfeziona e rende migliore l’uomo. Com’è dunque possibile che l’uomo, reso migliore dalla Società, sia invece portato al male? La risposta di Balzac è questa: l’interesse sviluppa le sue tendenze cattive. Siamo tornati, o restati, all’ambizione e all’avidità. Ma si può parlare dell’una e dell’altra là dove vi è povertà e bisogno? Torna a galla, quindi, il vero pensiero di Balzac: l’uomo è quasi sempre cattivo e fa tutto il male che le sue forze gli consentono come il bambino: crudele nell’inconscio, insensibile alla sofferenza morale che provoca, fino a che Società e Religione non gli insegnalo l’amore verso il prossimo. Abbiamo quindi l’influsso positivo della Società. Ma Balzac, che professa di non credere all’uomo originariamente buono o cattivo, pecca sovente d’incoerenza. Così in filosofia come in arte. Romantico e realista nello stesso tempo, e a volte nella stessa opera, è russoniano e antirussoniano in uno stesso libro. Per Rousseau, la Società corrompe l’uomo, per Balzac lo migliora. Il concetto non è poi tanto contrastante quanto appare a prima vista. L’influsso della Società è determinante: mutate la Società, muterete l’uomo Ma non è forse l’uomo che dovrà mutare la Società? Resta il fatto che l’uomo si salva o si danna nella Società. Ecco allora Balzac chiedere alle sue creature: «Qui connaissez-vous?» Sono i rapporti col mondo che guidano l’uomo verso il successo, verso la sua vera incarnazione. Così come il denaro determina il modo di pensare, i rapporti determinano le probabilità di successo. Per Balzac, tutto ha un significato, nulla è lasciato al caso. Persino i nomi delle persone devono avere un misterioso influsso sulla loro indole. Anche Sterne ne era convinto. Dare un nome ad un personaggio è un vero tormento per lo scrittore. Teme sempre di non aver fatto intendere al lettore il giuoco della causa e dell’effetto. Per questo, gli inizi dei suoi romanzi sono di una lungaggine fastidiosa. L’autore si sente in obbligo di prendere il lettore per mano e di dirgli tutto. Non lascia niente alla sua fantasia. Per la stessa ragione, Balzac interrompe sistematicamente la narrazione per fare delle digressioni di carattere filosofico. Si sente in dovere di dirvi che le delusioni sorgono dal contrasto fra la realtà e il sogno, dall’impossibilità di conciliare l’ideale con la povera verità dell’esistenza. Ed è spietato nelle sue analisi. Quando un uomo è buttato tra le braccia della passione, il suo universo si restringerà fatalmente fino a chiudersi in essa. L’intuizione psicologica balzachiana raggiunge qui le vette di una grandezza artistica incomparabile. Basterà un esempio. Grandet dice a suo nipote: «[Tuo padre] è morto ...». Il giovane non ode altro, piange la morte del padre, ma Grandet non ha ancora detto tutto il suo pensiero: «... questo non è niente ... — aggiunge, — ti ha rovinato e tu non hai un soldo». E’ l’eterno tema del denaro, che ritorna; ma con quale forza, con quale misura, con che grido rivelatore di passione! Per Grandet, la cui unica ragione di vita è il denaro, per Grandet che, aspettando la morte, si fa portare i suoi scudi d’oro e li sparpaglia sulla tavola, quasi avesse di fronte la luce del sole per bearsene un’ultima volta, la morte di un padre non è nulla. Fosse morto lasciando una sostanza, egli avrebbe gioito per l’erede; morto nello squallore, egli vede soltanto in ciò la tragedia di quella sventura. In Grandet, come in altri personaggi balzachiani, come nello stesso Baldassare Claës de La Ricerca dell’Assoluto, la passione si è già cangiata in follia. L’umanità dei personaggi ne soffre; sorretta fino ad un certo punto, perde infine di vigore. Il personaggio muore quando la sua passione lo ha ormai portato a vivere in un mondo a noi ignoto, comunque sia non più riconoscibile da un essere raziocinante. La teoria della passione unica ha costretto Balzac a darci soltanto caratteri generali.

  Questo il suo limite. Ma si può parlare di limiti in un artista che ha fatto vivere nel nostro cuore e nella nostra fantasia una folla di creature? si può parlare di limiti in un artista che ha fatto nascere, risorgere un periodo storico dinanzi ai nostri occhi? si può parlare di limiti in un artista che ha portato la rivoluzione in arte, obbligando tutti gli scrittori che verranno dopo di lui a chinarsi sul mondo, sull’umanità che vive ai loro piedi per trovare in essa la luce dell’esistenza? Daudet, Zola, lo stesso Maupassant (benché abbia avuto Flaubert come padre putativo), i Goncourt sono i suoi diretti discendenti. Balzac è stato maestro a tutti. Non ha insegnato a Flaubert e nemmeno a Stendhal, ma la sua arte ha avuto un significato anche nella loro opera.

  Balzac si lamentava di non essere giudicato imparzialmente dai suoi contemporanei. Egli era disposto «a subire il fuoco della critica» ma non ad essere giudicato in maniera falsa, non ad essere considerato immorale. E’ vero, semmai, proprio il contrario. Balzac è un moralista. Egli ha descritto il male, ci ha fatto conoscere esseri abietti, amorali, speculatori, affamatori e sfruttatori di ogni genere. Ci ha dipinto i dissipatori, gli incoscienti distruttori della famiglia, ma ogni animo retto non può che essere nemico del vizio e del male. Chi simpatizza col male, chi si schiera dalla parte del reprobo ne è il compagno, il complice, la reincarnazione. Pochi come Balzac hanno avuto il coraggio di descrivere il male e la corruzione del suo tempo. L’arrivismo dei suoi personaggi è diventato la formula di vita sotto Napoleone III, ma non fu Balzac a predicarlo Egli ne vide il germe e profetizzò che si sarebbe sviluppato. La sua opera è ricca anche di figure nobilissime, non bisogna dimenticarlo: sarebbe ingiusto. L’amore filiale, l’amore coniugale, il sentimento dell'amicizia, il sentimento dell’onore si palesano fino all’ultimo anelito di vita nei buoni, così come la passione e il male nei dissipatori e nei malvagi.

  Balzac, in Francia, non ebbe dapprima dalla sua che gli umili e il pubblico femminile. Quest’ultimo gli era particolarmente affezionato, lo idolatrava. Ricevette migliaia di lettere. Le donne, e non solo le grisettes, ma le signore della borghesia e le dame di più alto ceto, volevano vedere in lui un consolatore. Non per nulla egli aveva scritto La femme de trente ans. I critici gli rimproveravano appunto di aver suscitato i più facili entusiasmi in un pubblico poco sensibile e molto sensitivo. In Austria, a Italia, in Polonia, in Russia, in Germania la sua fama invece era già alta. Dappertutto veniva ricevuto con calde manifestazioni di simpatia e di ammirazione. A Venezia e a Mosca, quando Balzac è ancora vivo, si rappresenta il suo mondo nella realtà. Nei salotti di cultura si giuoca a recitare Balzac. Si distribuiscono le parti di Rastignac, di Vautrin, di Rubempré. Solo i grandi artisti hanno suscitato tanto interesse, solo dei personaggi veri hanno potuto essere presi a prestito per recitare la parte delle passioni. Nessun altro in Francia, dopo Balzac. avrà tanto influsso sui suoi simili. E prima di lui si possono solo citare Montaigne, Voltaire e Rousseau. Il tempo, tuttavia, finirà col dire ragione a Balzac anche in patria. Già nella seconda metà del XIX secolo, nessuno ricorda più che qualche spirito acido aveva definito La Comédie Humaine una raccolta di storie erotiche. La frase era infelice e assurda. Nondimeno, aveva trovato terreno per allignare, come tutte le cose maliziose che pretendono di avere dello spirito e costituire un giudizio fermo. Balzac è infine considerato nella sua giusta luce: realista, pittore di quadri di costume a sfondo sociologico. Nessuno si distaccherà più da questo giudizio. E, forse, il più grande trionfo di Balzac è quello di aver ottenuto dai maggiori scrittori e critici socialisti il riconoscimento che nella sua opera vi sono fermenti di rinnovamento e di progresso sociale. Per un monarchico assolutista, sostenitore di una religione tirannica che freni gli istinti brutali dell’uomo, la vittoria non è piccola. Ma ciò che più conta è che il riconoscimento gli è dovuto, perché Balzac fustigò i costumi con la speranza che la sua opera fosse di giovamento all’umanità. Le sue idee più retrive sono tramontate, sradicate dagli stessi eventi storico-sociali, ma la sua arte, che insegnò ad avvicinarsi all’uomo e ad ascoltarlo con cuore sgombro di pregiudizi, ha fatto fiorire la speranza di un mondo sempre migliore, in cui la Società sia l’educatrice disinteressata e onesta delle virtù umane.

 

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  I due romanzi che qui presentiamo: La Pelle di Zigrino e La Ricerca dell’Assoluto, fanno parte di Études Philosophiques. Il primo, La Pelle di Zigrino, — alcuni frammenti del quale apparvero, firmati Henri B..., ne La Caricature, ne La Revue des Deux Mondes e ne La Revue de Paris, — fu pubblicato nel 1831 come «romanzo filosofico» da Charles Gosselin e Urbain Canel. Per la prima volta, lo scrittore firmò una sua opera col nome di famiglia preceduto dal de nobiliare. Fino ad allora, Balzac aveva firmato con pseudonimi o non aveva firmato affatto. Il successo fu immediato. Nel medesimo anno, l’opera venne ristampata altre due volte, aumentata di dodici racconti, sotto il titolo di Romanzi e racconti filosofici. Una terza edizione apparve nel 1833, mentre la quarta edizione fu pubblicata nel 1835 da Werdet e abbiamo così i tomi da 1 a 4 di Études Philosophiques [6]. Ci fu chi trovò pretenziosa la definizione di «romanzo filosofico», ma Balzac non volle saperne di chiamare «fantastico» il suo racconto, come alcuni suggerivano. Egli poteva difendersi dalla critica, affermando che vi è sempre della filosofia in opere di pensiero e che ogni uomo fa della filosofia quando pensa ai valori dell’esistenza e di ciò che la trascende, ma lasciò che altri scoprissero il senso allegorico della sua opera. Del resto, tanto e tale fu il successo di pubblico, che il 4 novembre del 1832, al teatro «La Gaieté», veniva data una parodia del romanzo col titolo «La Pelle di Zigrino, Stravaganza romantica», un vaudeville in tre atti di Simonnin e Théodore Nezel. La parodia non rimase l’unica. Altre ne seguirono a distanza di tempo. Era una nuova conferma dell’interesse provocato.

  La Pelle di Zigrino è la storia di Raphaël de Valentin e di un talismano che gli consente di soddisfare ogni desiderio. E’ il dono che il protagonista ha ricevuto da un vecchio antiquario, quando già stava per tradurre in atto un desiderio suicida. Da quel momento, Raphaël è preso dalla febbre dell’esistenza. Vuole la ricchezza, l’amore, il successo, ma quando è certo che la Pelle veramente si restringe ad ogni suo desiderio, è ossessionato dall’idea della morte e si rivolge alla scienza perché studi la possibilità di stendere nuovamente la Pelle. Tutto è vano. Per un istante solo, Raphaël crede di essersi liberato dall’incantesimo: ciò avviene quando desidera l’amore di Paolina e si avvede che la Pelle non muta dimensioni. Il desiderio era già appagato, Paolina lo amava anche senza che egli lo volesse: la Pelle non poteva dunque contrarsi. Paolina gli offre tutto il suo amore e la sua dedizione. L’esistenza di Raphaël è già al limite, proprio come quella del bimbo che un giorno ricevere da una fata un gomitolo di filo e che, nella sua ansia di godere, svolse prestamente, troppo prestamente. Era il filo della vita e la corsa del bimbo era stata una corsa alla morte, null’altro. Così per Raphaël. Per lui la pelle di zigrino è il talismano del volere e potere, per Balzac è il mezzo per condurci in tutte le sfere sociali di cui vorrà darci i principi filosofici. Lo studio di costumi è qui tracciato con tutta l’arte del grande scrittore. Balzac ha iniziato il suo ciclo di biografo storico sociale. Scostumatezza, lussuria, ricchezze sfrontatamente dissipate mentre intorno ai personaggi del romanzo formicola la miseria, ecco quanto il romanzo descrive nella sua forma satirica. La sentenza scritta sul talismano verrà tradotta in linguaggio chiaro, filosofico, dall’autore. Egli ricerca e svela le cause della disorganizzazione sociale. Il «poema», come Balzac vuol chiamarlo, irritandosi allorché lo chiamano romanzo, è riuscito.

  La sua perenne fortuna ne è la migliore testimonianza. L’ansia di vivere, che tanta parte ha nel pensiero balzachiano, appare in tutta la sua virulenza. Raphaël, il vecchio antiquario, Fedora, Aquilina hanno sete di vita. Non rinunciano a niente pur di godere ogni attimo. Nemmeno il pensiero della morte, dell’abbandono, della miseria li ferma. Potere e volere riuniti sono la formula dell’egoismo. Il pensiero uccide l’uomo perché è creatore di voluttà e ansioso di conoscere piaceri sempre nuovi. Potrebbe essere una salvezza la formula epicurea «volere e sapere», ma non è la filosofia di Balzac che deve trattenere il lettore, bensì la sua pittura di costumi, le sue notazioni psicologiche e le sue arditezze realistiche che sconcerteranno l’universo artistico del suo tempo. Raphaël attraversa tutta Parigi in marsina, saltellando sulla punta delle scarpine di vernice per non inzaccherarsi. Deve vivere come un vagheggino, ma non ha denaro per pagarsi la carrozza. Raphaël ha in animo di uscire con Fedora. «Fedora è venuta in carrozza o a piedi? Pioverà? farà bello? ... Sarà senza denaro e vorrà dare cento soldi ad un piccolo savoiardo perché avrà dei cenci leggiadri» (p. 158). Raphaël soffre mille pene. Dispone soltanto di pochi soldi. Siederà vicino all’amata col pensiero fisso a quanto dovrà dare al cocchiere. Nessuno aveva mai osato tanto in arte fino a quel momento. Nessuno aveva mai mischiato il sacro col profano, l’amore per una bella donna e il costo di una corsa in vettura. Le gocce di sudore sulla fronte dei protagonisti, i tremori dell’anima dei classici e dei romantici avevano origine soltanto dagli spasimi spirituali. Balzac è maestro in queste notazioni e la sua Pelle di Zigrino farà scuola.

  Dopo altre edizioni, infine, La Pelle di Zigrino, nel 1845 viene inclusa nel tomo I di Études Philosophiques, de La Comédie Humaine. Balzac dedica il romanzo al signor Savary, membro dell’Accademia delle Scienze e come epigrafe mette il mulinello che appare nel Tristram Shandy di Sterne, quando il caporale Trim, discutendo di matrimonio con lo zio Tobia, fa mulinare il bastone per indicare i vantaggi del celibato. Questo segno fu però modificato dallo stesso Balzac e gli editori lo fraintesero. A poco a poco il mulinello si imparentò sempre più strettamente con un serpente e, finalmente, nel 1855, l’editore Houssiaux pensò bene di aggiungervi coda, scaglie e lingua biforcuta. Del simbolo del mulinello non rimaneva più nulla e la citazione dallo Sterne perdeva ogni valore.

  A La Pelle di Zigrino la presente edizione unisce La Ricerca dell’Assoluto, pubblicata per la prima volta nel 1834 nella terza edizione delle Scènes de la Vie Privée (tomo III, Études de Moeurs). Ristampata nel 1839 col titolo di Baldassare Claës o la Ricerca dell’Assoluto, da Charpentier, l’opera entrò a far parte del tomo I di Études Philosophiques de La Comédie Humaine nel 1845.

  Baldassare Claës è dominato da una passione che diventerà in lui quasi follia. Vuole scomporre l’azoto. Balzac crede che il problema non resterà a lungo insolubile alla chimica moderna. Claës è visto soltanto in funzione di quest’idea. L’autore applica con convinzione il principio di Lavater: «Tutto in noi ha una causa interna». Il destino delle sue creature è già dipinto in ognuna di esse. Lo hanno detto Lavater e Gall. Balzac vi arde e avrà modo di ripeterlo spesso nelle sue opere. Il viso di ogni uomo rispecchia la sua indole, il suo carattere, le sue attitudini. L’ambiente agisce sulla fisionomia e la modifica. Nascono le Specie umane. Balzac crede alla frenologia; i suoi sacerdoti sono infallibili. Egli non è uno scienziato, ma avrebbe amato esserlo. Si illude di esserlo, cercando le differenze che distinguono gli uomini, creando gli uomini con passioni e desideri diversi. Ma egli non ha dubbi, mentre lo scienziato ne è pieno. Gall studia i significati delle protuberanze del cranio: Balzac fa sue le parole dello studioso. Così, il personaggio chiave del romanzo ci è descritto minuziosamente. Per Baldassare Claës occorrono quattro pagine de La Ricerca dell’Assoluto per presentarcelo. Naso, bocca, occhi, fronte, capelli, tutto ci viene detto.

  La passione di Claës è fatale, come tutte le passioni dei personaggi balzachiani. Claës muore con la fiducia di aver compreso all’ultimo istante il segreto tanto perseguito. La sua ultima parola è Eureka, ma il segreto muore con lui. Balzac è maestro nell’arte di raccontare. L’atmosfera creata attorno alla vita e alla passione dei suoi personaggi è strana e avvincente. Già il lettore sente che l’assoluto non potrà mai essere scoperto, eppure egli è incatenato al racconto. Le figure sono vive, l’uomo vi appare in tutta la sua grandezza e miseria. L’idea è dominatrice e la passione affascinante.

  Queste due opere, che vengono qui presentate in una traduzione fedelissima, dove sono state rispettate, — almeno questo è stato l’intendimento, — le bellezze, gli arcaismi, le preziosità e le debolezze stilistiche, sono tra le più indicative dell’arte di Balzac: l’una per la sua pittura di costumi, l’altra per la conturbante (nostro malgrado) e personalissima atmosfera balzachiana. L’ambiente e l’uomo ricevono la consacrazione della sua arte e nessuno, dopo di lui, saprà trovare tali accenti di semplicità e di potenza nell’illuminare le passioni che da sempre travagliano lo spirito dell’uomo.

 

 

  Giovanni Macchia, L’Andromaca di Balzac, «Il Mondo. Settimanale di politica e letteratura», Roma, Anno X, N. 42, 21 ottobre 1958, p. 9; successivamente, con qualche variante formale, in: Il mito di Parigi. Saggi e motivi francesi, Torino, Giulio Einaudi editore, 1965 («Saggi», 355), pp. 138-143.

 

  Un libraio antiquario parigino m’invia un suo catalogo con la riproduzione di un ritratto a matita di Madame Hanska, la famosa Etrangère di Balzac. Non più giovane, sui cinquant’anni, con le rughe coperte dalla pinguedine che la crudele maturità, quando vuole, regala alle sue vittime, i capelli raccolti e stretti sulle orecchie, è questa l’immagine della donna negli anni in cui divenne la vedova Balzac. Nulla di gentile e di esotico, come nella miniatura di Daffinger che la dipinse molto tempo prima (1835): e nessun segno di patimento e di sofferenza. Una brava tranquilla Signora che ha dinanzi a sé ancora molta vita (Madame Hanska morì ultra ottantenne).

  Ma a volerne sapere di più su quel ritratto e sul suo modello, l’aria di onestà vedovile che vi spira, apparirà tutta di circostanza. Perché l’autore del disegno è Jean Gigoux, detto Pou-gris a causa della sua bruttezza (“un grotesque” lo definisce Champfleury), il quale ritraeva in quella donna la propria amante. E il libraio non ha esitato a condire la sua offerta con tutti i pimenti del caso, anche i più scandalosi. Ha riportato per intero la pagina in cui Octave Mirbeau nel 1907 rendeva di pubblica ragione le confidenze che l’amico Gigoux gli avrebbe fatte su sé e su Madame Hanska, nel momento dell’agonia di Balzac. Eccola:

  «[Le 18 août 1850]. A 10 1/2 du soir, exactement, on frappa deux coups violents à la porte de la chambre: “Madame, Madame ... venez, Monsieur passe”. Puis encore deux coups si rudement portés que je crus que la serrure avait cédé, et que la garde entrait dans la chambre.

  Nous nous étions dressés sur le lit ... Vivement, elle avait glissé une jambe hors des draps, comme pour se lever.

  “Attendez”, fis-je, en la retenant par les poignets ... Mais la voix s’était tue. Il n’y avait plus personne derrière la porte ... Au bout de dix minutes qui nous parurent des heures et des heures et des siècles, la garde revint ... “Madame, Madame ... Monsieur a passé, Monsieur est mort” ... Au cri de “Monsieur est mort”, elle s’était levée, d’un bond, et s’était mise à courir dans la chambre, pieds nus, sans savoir ce qu’elle faisait ... Elle allait d’un fauteuil à l’autre ... culbutait une chaise, se cognait à une table ... Et les glaces multipliaient son image affolée, de seconde en seconde plus nue ... Je l’obligeai à mettre ses bas, à revêtir un peignoir blanc très sale ... Elle sanglotait, se lamentait...” Non ... non, je ne veux pas ... je ne peux pas y aller ... je ne veux pas le voir ... Emmène-moi en Russie .... tout de suite ... emmène-moi, dis?” Et sur des nouveaux coups frappés à la porte ... elle se précipita ...

  Je me recouchai ... Allongé sur la couverture, les jambes nues, le poitrail à l’air, les bras remontés et ramenés sous la nuque, sans songer à rien ... je considérais longuement mes orteils auxquels j’imprimais des mouvements désordonnés et des gestes de marionnettes

  Le lendemain, elle s’était reprise … oh! tout à fait … Elle fut très digne, très noble, très douloureuse, très littéraire ... Epatante, mon cher ... Andromaque elle-même ...».

  E’ autentica questa pagina? Fu facile ai difensori di Madame Hanska smontarla pezzo per pezzo. Nel 1907 Madame Hanska era già morta, Gigoux anche. La figlia della contessa polacca, Anna Mnizech (donna invero dalla mente assai confusa e praticante d’occultismo che condusse alla follia il povero marito), si precipitò a dichiarare che era stata lei a presentare il pittore a sua madre, ma dopo la morte di Balzac. E poi la sera dell’agonia era in casa il cognato, Surville. Gli eredi ebbero causa vinta, e la pagina fu soppressa dal libro di Mirbeau (così che oggi è difficile ritrovarla anche nelle biografie più imparziali del romanziere).

  Ma altre circostanze non potevano essere cancellate. Nessuno poté smentire che alcuni mesi dopo la morte di suo marito, Eveline de Balzac era divenuta l’amante di un giovane scrittore spiantato, Champfleury, che non temé di profanare con quella “liaison” la memoria del maestro e che, per il temperamento troppo esigente della contessa, uscì da quella avventura “complètement imbécile”. Fu intorno a quello stesso spazio di tempo che Madame Hanska cominciò a vivere con Gigoux, in una relazione che durò molti anni. Infine, quando Victor Hugo, in una sera di luna velata di nubi, il 18 agosto 1850, bussò alla porta di casa Balzac, rue Fortunée, ed entrò nel salone dove già si respirava “une odeur de cadavre”, si sentì raggiungere da una donna sconosciuta che tra i singhiozzi gli disse: «Il se meurt. Madame est rentrée chez elle» ... Balzac morì due ore dopo. Madame Hanska non gli era vicino.

  A noi che guardiamo le cose da tanto lontano e non abbiamo a nostra disposizione che carta stampata, la pagina di Mirbeau, vera o inventata che sia, sembra l’atroce epilogo, in stile naturalista, di un romanzo sbagliato. E’ schiettamente naturalista la collocazione delle figure in un ambiente scomposto e lascivo (ricorda evidentemente una scena del Bel-Ami di Maupassant, ma è un Maupassant corrotto da uno pseudo-zolismo). Sono naturalisti il tempo e gli atti delle figure (“je considérais longuement mes orteils ...”). Ma il romanzo lo avevano già scritto Balzac e Madame Hanska. Mirbeau ne ha tirato, vere o false, le più disastrose conseguenze.

  Le Lettres à l’Etrangère, cioè le lettere che, durante 17 anni, tolti scarsi intervalli, Balzac indirizzò alla misteriosa straniera lontana, sono il romanzo più ardente, ma anche il più sconclusionato che egli abbia mai scritto. Non è, di regola, l’adorabile sconclusionatezza cui si affida in immagini di verità la grande e ingenua passione. Sì, c’è anche quella. Ma quando sta per divenire puro delirio, le reti d’amore s’imbrogliano vorticosamente in problemi e progetti d’ordine finanziario: e il lettore resta interdetto. Balzac diventa un personaggio di Balzac. Parla di testamenti, usufrutti, contratti di matrimonio; sogna castelli con 21.000 ettari di terreno. Scrivendo a Madame Hanska della signora di Berny (Balzac giovane ne era stato devotamente innamorato), non ha scrupoli di confessare, per esaltarne la figura, che la Berny quoiqu’en puissance de mari aveva trovato il modo di prestargli fino a 45.000 franchi, di cui aveva restituito gli ultimi seimila nel 1836 (anno della morte della signora) con gli interessi al cinque per cento, “bien entendu”: e immaginiamo l’effetto che una tale dichiarazione di correttezza finanziaria doveva fare sulla ricchissima, e non ancora vedova, contessa polacca. Alla notizia della morte del conte Hanski, gli sembra di aver toccato il cielo col dito: piomba nello stato di ebetudine che solo può dare la piena felicità ricca di promesse: l’insonne Balzac comincia a dormire quattordici ore al giorno. Un tale grado di felicità traspare, contro ogni sforzo, nella lettera di cordoglio alla vedova. Dalla messe di progetti che si riprometteva di realizzare da questo matrimonio (speculazioni finanziarie e sfruttamento delle grandi pianure dell’Ucraina), risulta evidente che egli perdeva sempre più quota, perché non aveva più i piedi sulla terra. E quando, dopo un’attesa di ancora nove anni, sta quasi per realizzare il suo sogno matrimoniale, lancia la frase fatidica in una lettera alla madre: «Si je ne suis pas grand par la Comédie humaine, je le serai par cette réussite ... si elle vient». Balzac non s’accorgeva di usare il linguaggio di Valmont nelle Liaisons dangereuses.

  Come reagì Madame Hanska a tale scatenarsi di forsennato ingenuo idealismo e di praticissime ambizioni? Vide l’innamorato costretto per sopravvivere a inventarsi una più attraente biografia o soltanto il grande artista plebeo — come è stato detto — “en transfert de classe”?

  Ella scrisse la prima volta a Balzac (dalla Polonia, firmandosi l’Etrangère) come avrebbe scritto a George Sand, se fosse stata un uomo: lettere grondanti di frasi retoriche sull’innalzamento della donna alla sua giusta dignità (evidentemente compiaciuta, lei “femme de trente ans”, per l’interesse dimostrato dallo scrittore per le donne di quell’età), e ornate da qualche misteriosa promessa. Non conosciamo tutte le lettere che scrisse al suo corrispondente in un carteggio iniziato in modo così romantico: ma, a considerare le pene dell’attesa sofferte da Balzac prima di giungere al “contrat de mariage”, lui che di matrimoni e di ragionamenti sul matrimonio aveva disseminato tutta la sua carriera, questo romanzo epistolare a due personaggi, dove avviene poco o nulla, ci fa l’effetto di un viaggio continuamente interrotto e che non conduce mai a destinazione: un sogno angoscioso, una tortura con la speranza. Insomma un lungo romanzo a cui si dà una fine accomodante e posticcia, per non tediare il lettore: il matrimonio.

  E’ sicuro, per confessione della protagonista, che Madame Hanska sposò Balzac quando sapeva che gli rimanevano pochi mesi di vita. E non allietò quel così breve e malinconico ménage, chè contrasti e disaccordi inasprirono subito la vita dei due coniugi. Ma cinque mesi dopo la scomparsa del marito, in una supplica al conte Orloff, scritta sotto il timore che i propri beni, di cui si era spogliata, in favore della figlia conservandosi l’usufrutto, venissero confiscati, si chiedeva (con l’evidente scopo di commuovere il destinatario) come aveva potuto sopportare una disgrazia tanto grande, come aveva potuto risvegliarsi senza suo marito, sola e abbandonata in una terra straniera. Concludeva che al momento in cui il conte avrebbe ricevuto la sua lettera, sarebbe già stata in un mondo migliore. Lei sopportò benissimo la sua disgrazia, non volò che molto tardi in un mondo migliore, e, come si vede, recitò alla perfezione la sua parte d’Andromaca (almeno fino ad un certo periodo). “Andromaque elle-même”; proprio come dice Mirbeau.

  Padroni gli apologisti di vederla sotto luci migliori: l’apparenza misteriosa e un po’ mendace del personaggio lo consente. Secondo Laura Balzac, Madame Hanska era un geroglifico. A quel geroglifico Mirbeau, romanziere ad effetto, dette, attraverso una tecnica documentaria, una interpretazione troppo violenta. Noi quella pagina la rifiutiamo. Ma non per difendere Madame Hanska, verso cui non nutriamo nessuna simpatia. E’ per allontanare dagli ultimi momenti della vita di Balzac quell’immagine di una turpe, disgustosa tetraggine. Così com’è sembra un’ultima insidia, tesagli dalla sorte per un amore sbagliato, di cui aveva già pagato in vita tutte le conseguenze.

 

 

  Pierre Mille, Non vollero il suo “Balzac” perché era un mostruoso abbozzo, «La Provincia», Cremona, Anno dodicesimo, N. 228, 25 Settembre 1958, p. 3.

 

  [...]. Il caso «Balzac» è un esempio significativo.

  La Société des gens de Lettres gli aveva ordinato una statua di Balzac e Rodin che nell’autore della «Comédie Humanie (sic)» trovava un genio della sua statura creò un capolavoro sorprendente. Ma gli intrighi di un oscuro «letterato» che lo odiava a morte, portarono il comitato della società a rifiutare l’opera col pretesto che era un «mostruoso abbozzo». Rodin si battè, a lungo per fare accettare la sua statua, risultato di un lungo lavoro; il dramma si trascinò per anni finché lo scultore, sconfortato, si riprese il suo «Balzac» relegandolo in un angolo dello Studio. Quindici anni dopo la sua morte la statua venne rispolverata ed innalzata in un luogo pubblico, ma la inaugurazione all’incrocio Vavin fu disturbata dai nemici di Rodin che, lunghi dal disarmare, minacciarono di rompere quell’«obbrobrio» a colpi di martello.

 

 

  Alfredo Niceforo, Il gergo dei criminali e altri speciali o bassi linguaggi nell’arte narrativa, e in ispecie della “Commedia umana” di Honoré de Balzac, «Atti della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti. Accademia di Scienze Morali e Politiche», Napoli, Stabilimento Tipografico G. Genovese, Volume LXVII (1957), 1958, pp. 68-119.

 

  [...].

Il gergo dei criminali nella “Commedia Umana”.

 

  1. — Premessa.

 

  a) Del gergo dei criminali Balzac volle con qualche compiacenza servirsi. «L’argot — egli scrive — est la langue des filous (ladri), des grecs (bari), des voleurs et des assassins; c’est la langue que la littérature a, dans ces derniers temps, employé avec tant de succès» (La dernière incarnation de Vautrin, p. 35, 1847). Balzac alludeva senza dubbio ai Mystères de Paris, di Eugène Sue, che si erano pubblicati nel 1842-43, mentre il romanzo balzacchiano, or ora citato, si pubblicò in prima edizione nel 1847; ma anche prima Balzac aveva già adoperato — come vedremo subito — il gergo dei criminali.

  b) È da notare che Balzac adoperando spesso la parola argot la riferisce sia all’argot vero e proprio dei malfattori, sia a tale altro linguaggio speciale dei mestieri, delle professioni, degli ambienti di vario genere, non distinguendo, come invece è da farsi, argot nel vero senso della parola, e cioè linguaggio nato intenzionalmente segreto quale difesa e protezione del gruppo, do altri linguaggi speciali che non hanno tale caratteristica; egli dice persino che anche «le grand monde a son argot, mais cet argot s’appelle style» (La dernière ecc., p. 103 [Édition du Centenaire]). Dei quali linguaggi speciali — si noti ancor questo — fa pur uso Balzac, e anche ciò vedremo più in là, ma per il momento ci si fermi al vero e proprio gergo dei criminali.

  c) È anche da notare che egli — Balzac — trovava come il linguaggio argotico e segreto usato in quell’oscuro mondo sia pittoresco: «Diciamo pure (La dernière incarnation, ecc., p. 36) anche a costo di meravigliare più d’uno, che non vi è lingua più energica e più colorita di quella che viene parlata dalla folla che si agita nei sotterranei, nelle sentine, nel troisième-dessous della Società ... ogni parola di siffatto linguaggio è un’immagine brutale, ingegnosa o terribile: un paio di pantaloni è une montante; in tale gergo, non si dorme, ma on pionce». E così Balzac continua entusiasmandosi dei caratteri propri al più basso argot. Balzac, dunque, si entusiasma: «Tutto è selvaggio e accigliato (farouche) in siffatto idioma... e qual poesia! Ad ogni creazione della civiltà e della tecnica esso crea, da parte sua, nuove e segrete parole, o speciali: quando si inventano i biglietti di Banca, i detenuti nelle prigioni chiamano quei biglietti: fafiots ... Non sentite voi forse in quelle sillabe il fruscio della carta di quei biglietti?» (La dernière incarnation, ecc., p. 36-37). [...].

 

  2. — Il gergo dei criminali nella «Commedia umana», già nelle pagine del 1834 (Le père Goriot).

 

  a) Diciamo piuttosto che Balzac non ha tratto del tutto l’idea di far parlare in gergo i suoi malfattori dai Mystères de Paris di Eugène Sue (1842-’43) per quanto moltissime parole del gergo in questione figurino nella penultima parte di Splendeurs et misères des courtisanes (che apparve nel 1846) e nella Dernière incarnation, ecc. (che apparve, come dicemmo, nel 1847), poiché qualche parola di gergo dei malfattori già era apparsa nel celebre Le père Goriot, che fu pubblicato nel 1834 e però alquanto prima che i Mystères de Paris, venissero alla luce. Nell’or citato romanzo, infatti (Le père Goriot, p. 206), Balzac si serve effettivamente di due parole: Sorbonne e tronche per indicare la testa; si tratta effettivamente di due parole di gergo in uso tra i delinquenti, per quanto la prima (Sorbonne) sia anche oggi in uso nel basso popolo e nel linguaggio familiare e scherzoso, ma l’autore della Commedia si spinge a dar sue spiegazioni in proposito: «Sorbonne e tronche sono energiche espressioni del linguaggio dei ladri che, per primi, hanno sentito la necessità di considerare la testa umana sotto due aspetti e cioè come Sorbonne che è la testa dell’uomo che pensa, e tronche che è parola di disprezzo destinata a esprimere quanta poca cosa diventi la testa quando essa è tagliata». In verità (faremo osservare) siffatta distinzione è di pura fantasia; se è vero che la testa che pensa viene per analogia indicata come la Sorbonne, massimo Istituto di cultura, non è men vero che la parola tronche non proviene affatto dall’immagine di una testa tagliata (dall’acciaio della ghigliottina) ma probabilmente tale parola è il risultato di una deformazione meccanica della parola tête (testa) eseguita per mezzo di quel suffisso onche che è uno dei tanti suffissi stereotipati che la bassa delinquenza e il basso popolo adoperano per storpiare volutamente le parole del linguaggio comune. Ma Balzac, proprio come fa Victor Hugo [...], vuole a tutti i costi vedere nel gergo la creazione pittoresca.

  b) D’altronde, il nostro grande Autore aveva preso a prestito quella interpretazione (tronche, testa tagliata e cioè tranchée) da Vidocq che aveva già pubblicato il suo libro di Mémoires (1828-1829). Si noti che Balzac aveva voluto conoscere personalmente Vidocq, antico forzalo e di poi fondatore e capo della prima brigata mobile li polizia, proprio come aveva voluto conoscere di persona Sanson, il celebre boia di Parigi. L’uno e l’altro personaggio gli erano stati presentati da Monsieur Appert, Ispettore generale delle prigioni, come ricorda André Le Breton nella sua monografia pubblicata nella «Revue de Paris», nel febbraio 1905, trattando degli a originali della Commedia umana». Del resto, il nome di Vidocq ricorre qualche volta nelle narrazioni di Balzac; nei Les comédiens sans le savoir, ad esempio (1845), uno dei personaggi dice: «Quando si arresta un uomo, Vidocq esclamava all’uomo che egli arrestava (à sa pratique): Tu es servi!» E un po’ più in là, lo stesso fa notare che esistono in Francia cinque polizie, c cioè, la polizia giudiziaria di cui fu capo Vidocq, la contropolizia, la polizia politica, la polizia degli affari esteri e quella del Sovrano (p. 260, 261). Nello stesso romanzo (Les comédiens ecc. ...) figurano molte parole di gergo poliziesco, anche in uso tra i delinquenti: pincer un homme, per arrestare un uomo e anche: serrer un homme, sempre per arrestare, e ancora: nous l’avons couché, ancora e sempre per arrestare un individuo (p. 260).

  c) Tornando ora al Père Goriot che, come dicemmo, fu scritto prima che Eugène Sue pubblicasse i suoi Mystères de Paris, ricorderemo che in esso si trovano le parole di gergo dei delinquenti (pp. 206 e 219): raisiné (per indicare il sangue) e trimar (da trimer, affaticarsi, lavorare, per indicare un luogo ove si lavora); se la prima parola che si riferisce specialmente al sangue sparso da mano omicida, figura ancor oggi nell’oscuro parlare dei malfattori, il verbo trimer da cui il balzacchiano trimar, è parola del linguaggio popolare e indica: lavorare tenacemente, sobbarcandosi a dura fatica; del resto, in siffatto linguaggio popolare, e anche nel gergo criminale, la parola trimarder significa camminare a piedi lungo le grandi strade maestre, come fanno i vagabondi; la parola trimardeur indica, appunto, il vagabondo, e la parola trimard sta a significare la grande strada di campagna ... su cui il vagabondo strascina la propria fatica. Ancora nel Père Goriot ove l’ex-forzato Collin, sotto il falso nome di Vautrin alberga e discute, qualche parola del più basso gergo criminale sfugge dalla bocca dell’antico abitante le prigioni. «Mi temono troppo, egli dice, pour me flouer, moi!» (p. 220). Il verbo flouer, nel gergo dei criminali significa (e ancor oggi) imbrogliare, giocar qualcuno, e pur: rubare al giuoco o in altro modo. A tal proposito, l’autore della Commedia, esprime ancora una volta la sua, diremo così, ammirazione per il fosco linguaggio dei malviventi: «il bagno penale, egli scrive, con i suoi costumi e il suo linguaggio, con i suoi bruschi passaggi dallo scherzo all’orrore, con la sua épouvantable grandeur, la sua familiarità, la sua bassezza, era di colpo rappresentato nell’esclamazione di Vautrin, uomo che più non era un uomo ma il tipo di tutta una schiatta degenerata» (Le père Goriot, p. 220). Senonchè, larghissima copia di parole gergali di delinquenti e delle carceri appare soprattutto nella penultima e nell’ultima parte di Splendeurs et misères ecc., intitolate rispettivamente Où mènent les mauvais chemins (1046) e La dernière incarnation de Vautrin (1847). È il caso di fermarsi alquanto su quelle pagine.

 

  3. — Il gergo dei criminali nella «Commedia umana» (nelle ultime due parti di Splendeurs et misères des courtisanes), 1846, 1847.

 

  a) Nella celebre prigione detta della Conciergerie, con assai dettagli descritta da Balzac nella penultima parte di Splendeurs et misères ecc. (dal titolo Où mènent les mauvais chemins, 1846) come anche in quella che fa seguito dal titolo: La dernière incarnation ecc., si muovono carcerieri, carcerati e delinquenti di ogni genere, dando così occasione al realismo e al verismo di Balzac di adoperare e di fare adoperare ai suoi presonaggi (sic) le più oscure parole del gergo delle prigioni e dei delinquenti. Sfilano dinanzi a noi, per il «gergo» carcerario, le parole: panier à salade (p. 289) (carrozzone ove vengono trasportati i carcerati), violon (p. 293) (camera di sicurezza), pistole (p. 305), souricière (p. 302-303) (speciali ripartizioni del carcere), ecc. (Splendeurs et misères, ecc. Où mènent, ecc.), senza dimenticare i chevaux de retour (e cioè i recidivi che tornano in carcere (p. 325), le curieux (il giudice istruttore) (p. 329). E sempre là, nel carcere della Conciergerie, ma nella Dernière incarnation, ecc., parlano tra loro i più andari e inveterati delinquenti, quali La Pouraille, Biffin, Fil-de-soie, Trompe-la-Mort (foschi soprannomi di vecchi recidivi e cioè chevaux de retour). Balzac, spiega al lettore la necessità in cui egli si trova di esporre quel gergo «dont l’affreuse poésie est indispensahle dans cette partie du récit».

  b) Quante volte, ripetiamo, del resto, il Nostro dà sfogo alla sua gioviale ammirazione per il gergo dei criminali! Dopo aver detto — come già indicammo — che non esiste linguaggio più energico, più colorito, ecc. del gergo dei malfattori, afferma che esso sa rapire all’arte drammatica espressioni più vive e sorprendenti, e poi aggiunge che quel linguaggio è «una serie di immagini brutali, ingegnose, terribili» tanto che, ad esempio, quando esso dice pioncer per: dormire, quel verbo «esprime a meraviglia il sonno che è proprio a quella bestia feroce, perseguitata, stanca, che è il ladro, ecc. ecc., sonno orribile, simigliante a quello dell’animale selvaggio che dorme e che russa ... ecc. ecc.». Quante cose, dunque, l’entusiasta narratore e osservatore «realista» vede, o crede vedere, nella «realtà» da lui descritta! E continua su tal tono, notando, ancora ad esempio, che in quel linguaggio «le sillabe che cominciano o che finiscono le parole, sono aspre e sorprendenti». Non basta: il gergo dei malfattori segue da presso — fa sempre notare Balzac — il mutare della civiltà e si arricchisce continuamente di nuove espressioni che corrispondono alte novità della civiltà stessa; d’altronde, quel gergo può vantarsi della più lontana antichità e contiene — assicura Balzac parole latine e parole di Rabelais o parole che, come fouillousse che significa tasca «appartengono alla lingua del quattordicesimo e del quindicesimo secolo»; anche la parola gergale affe che significa la vita «è della più alta antichità». In verità, par concluda Balzac, «tutti coloro che si occupano di linguistica debbono ammirare la creazione di così spaventevoli vocaboli». Tutto ciò a pagina 36 e seguenti de La dernière incarnation, ecc. ...

  c) Continuiamo la rassegna delle parole gergali usate da delinquenti delle carceri o rammentate da Balzac in tale occasione, quali figurano nelle pagine balzacchiane del 1847. A tale proposito Balzac ricorda che per siffatto linguaggio la donna, soprattutto una donna di malaffare, è una largue (p, 36); svaligiare una stanza diventa rincer une cambriole (p. 36) (la parola cambriole per stanza è oggi entrata nella lingua comune: cambrioler per svaligiare una stanza e combrioleur, svaligiatore); mangiare diventa, jouer des dominos (p. 36); vestirsi è se peausser (peausser significa anche alloggiare, coricarsi) (p. 36); la paglia è pittorescamente, la plume de Beauce (la Beaucc è una zona francese fertile di grano) (p. 36), sicché ... dormir sulla paglia è dormir sulle piume (sempre in gergo, e anche nel linguaggio popolare la parola plumard significa letto e se plumarder mettersi a letto). Suona mezzanotte? Douze plombes crossent (la parola gergale plombe significa ora) (p. 36), Balzac si lascia qui andare ancora una volta alla sua ammirazione, spesso ingenua, per il gergo dei criminali; quella frase, douze plombes ecc., egli dice, non dà forse i brividi? D’altra parte, auber (che si scrive anche aubert) significa denaro (p. 37); anche la parola gironde per donna attraente, disinvolta, bella, è indicata da Balzac come parola gergale, ma oggi è di uso popolare e familiare, dicendosi anche girond come aggettivo indicante oggetto grazioso, ben fatto (p. 37); è citata anche la parola fouillousse per tasca (deformazione dal verbo fouiller, per: scavare al fine di frugare, cercare?) (p. 37); e pur la parola affe (da scriversi anche aff) per indicare la vita (p. 37) ma tale parola significa anche anima, ed altre cose ancora nel linguaggio familiare (avoir ses affaires). Inoltre, le patate diventano oranges à cochons (p. 37); fafiots garatés (dal nome di Garat e cioè del cassiere della Banca che li firmava) significa biglietti di Banca (si distingue, del resto — come fa notare Balzac — il fafiot maschio che è il biglietto da mille franchi dal fafiot femmina che è quello da cinquecento franchi (p. 37); il Nostro non si lascia sfuggire l’occasione di ammirare: in quella parola fafiot «non sentite voi il fruscio della serica carta del biglietto di Banca?». Ancora: la spia è un cuisinier (ma si noti che nel gergo dei criminali, e anche popolare, il verbo cuisiner significa interrogare in modo stringente un accusato da parte del giudice (p. .45) e che per conseguenza il sostantivo gergale cuisinier potrebbe benissimo indicare il giudice istruttore) (p. 45). Un gendarme è un marchand de lacets (non allaccia egli con cordicelle i polsi dell’arrestato?). Del resto, la parola lacets, nel gergo dei delinquenti, significa poucettes e cioè quelle corde o catenelle con cui si allacciano i pollici degli arrestati (p. 45), ma quando scorta il suo prigioniero il gendarme è une hirondelle de la Grève (la piazza di Grève è la piazza parigina ove si eseguivano le condanne a morte) (p. 46), e quando lo conduce al taglio della testa un hussard de la guillotine (p. 46). Nel linguaggio di quei personaggi balzacchiani del carcere si trova anche terrer per ghigliottinare tale parola significa anche uccidere) (p. 50); morfiller significa maniere (non si dimentichino le parole di gergo morfiante che significa piatto ove si mangia e morfe che significa pasto) (p. 51); le largues chignent des yeux per: le donne lanciano occhiate (dove ha preso Balzac il verbo chigner? Che si tratti semplicemente del normale cligner?) (p. 51); poisser des philippes per: rubare monete d’oro (si ricordi che nel gergo criminale poisser significa rubare e poisse significa ladro; ma si badi che poisser significa anche prendere una rivincita e che poisse indica anche la pubblica sicurezza, tanto che être poissé significa essere preso e arrestato) (p. 51); abouler du carle per: dar del denaro (abouler anche nel linguaggio popolare significa: portare, dare, mentre carme che si dice anche carle significa denaro, tanto che — sempre in gergo — carmer significa pagare; ancora in gergo, aboule ton pèse significa dammi il tuo denaro ... La parola pèse gergale si trova pur nella frase être au pèse con il significato di essere ricco) (p. 51); ne faire pas du ragoût sur son dab per: non destare sospetti sul tuo padrone (si noti che ragoût significa anche paura, rimorso) (p. 51); la raille est là, laisse-la couper dans le pont per: la polizia è là, lascia che ella s’inganni c cada nel tranello (in gergo il semplice verbo couper e anzi y couper significa lasciarsi imbrogliare, credere con facilità) (p. 51); jouler la misloque per recitare una commedia, una finzione (in gergo, misloque significa anche teatro, il sostantivo misloquier significa attore) (p. 51); un fanandel en fine pegrène è: un camerata — di prigione o delinquente — giunto all’estremo (pegrène significa, infatti, miseria, disgrazia) (p. 51); allumez vos clairs et remouchez per: guardate e osservate (si rammenti che in gergo la parola clair significa occhio come pure la parola clignot) (p. 52); engantez-moi en sanglier per: trattatemi, prendetemi, come se fossi un prete (p. 52); t’as donc tafe de nozigues? per: non ti fidi dunque di me? (avoir taf significa aver paura e anche taffer, con il medesimo senso, mentre tuffeur significa pauroso e anche pigro; pure taffetas ha il significato di paura, di brivido; in quanto a nozigues si tratta della parola normale nous seguita dal suffisso deformatore zigues; il gergo dice anche nouzailles e anche nozières per indicare noi, deformando il nous con speciali suffissi; inoltre, le parole gergali mezigues, mezigo, mezière significano io, dalla parola normale moi deformata con uno dei suffissi propri al gergo quando vuol deformare (p. 52); [...].

 

  4. — Altre deformazioni linguistiche di speciale fattura, per nascondere il pensiero, sempre tra i criminali della «Commedia umana».

 

  Specialissimo modo di parlare, anch’esso intenzionalmente segreto per mascherare il discorso, sempre nella Conciergerie, esposto da Balzac, si ha quando Jacques Collin, detto Trompe-la-Mort, travestito da Carlos Herrera, riesce a parlare con il nipote in un gergo speciale che consisteva nel dare terminazioni in ar, oppure in or e anche in al, oppure in i, a ciascuna parola: «de facon à défigurer les mots, soit francais soit d’argot, en les agrandissant». Insomma, si tratta — per così dire — di un crittogramma parlato; il che Balzac esprime con l’efficacissima frase, a proposito del dialogo suddetto: «C’était le chiffre diplomatique appliqué au langage» (La dernière incarnation, p. 80). La frase e l’immagine, tanto esatte, dovevano ben piacere al Nostro se altra volta erano state già da lui usate, e precisamente in quella parte di Splendeurs et misères (Où mènent les mauvais chemins, 1846) in cui, con riferimento, ancora, a tal modo di parlare, ripete: «C’est l’argot de l’argot, le chiffre appliqué à l’idée» (p. 327).

  Naturalmente, i malfattori, come sopra descritti, ricorrono anche, quando possono, a parole e a intere frasi in lingua straniera per trasmettersi il proprio pensiero senza che estranee orecchie possano cogliere il senso delle parole; Trompe-la-Mort, ad esempio, per parlare al corso Teodoro Calvi, gli parla in italiano, ma l’italiano di Balzac è scritto in questo modo: «io sono Gabba-Morte! Parla nostro italiano. Vengo ti salvar» (La dernière incarnation, p. 74). Non è un gergo ... ma poco ci manca! Anche quando Vautrin, in veste di forzato, parla — in prigione — con Asie, adopera per non farsi comprendere un, come scrive Balzac, «patois de convention mêlé d’italien et du provençal corrompu»; per esempio, Asie dice: Ahé! ... pécairé fermati. Souni là. Vedrem! (Penultima parte di Splendeurs et misères ecc., pag. 298-99). […].

 

VIII

 

Tornando a Balzac. Linguaggio popolare, ultrapopolare e anche familiare.

 

  La narrativa e la letteratura prebalzacchiane si sarebbero ben guardate dal far parlare le figure e le figurine messe in scena, con il triviale linguaggio del basso popolo. Aristofane e Plauto che avevano fatto parlare in triviale modo i loro triviali personaggi — e così Petronio faceva parlare i bassi servi o liberti nel suo Satyricon — erano assai lontani, per quanto non certo dimenticati, ma non si pensava proprio a quei modelli. Balzac, quindi, è — su questo punto — un innovatore. Ecco qualche esempio.

  La portiera della misera casa di Rue Notre Dame des Champs non apre bocca senza servirsi delle più popolari espressioni del marciapiede: il s’extermine, essa dice (per: si logora, si affatica); tratta di jobard il giovane che ingenuamente, secondo lei, vuol portare soccorso ad un misero (jobard nel linguaggio più che familiare significa ingenuo, mentre jobarder id. id. indica: ingannare qualcuno, scherzando); una sua esclamazione: bernique! equivale — scusi il signor lettore — al nostro triviale: marameo! (L’envers de l’histoire, ecc., p. 218). A pagina 74 dei Paysans, il nostro Balzac fa chiamare singe, cioè scimmia, il proprietario da uno dei suoi villani dipendenti, e si crede in obbligo di spiegare che «nell’argot degli operai la parola singe significa padrone», ma oggi non vi è parigino che non conosca il significato di tale parola e non adoperi quell’indicazione con lo speciale senso di cui sopra. Ecco, d’altra parte, la giovane mondana — venuta su dal basso popolo — Aquilina, adoperare la parola di volgarissimo linguaggio popolare caboche (per: testa), e ancora: boule (ancora per: testa) (Melmoth réconcilié, p. 285). Come già ricordammo, la deformazione delle parole del linguaggio corrente per mezzo di suffissi (tra i quali il suffisso oche, oppure boche, o con altri mezzi) è uno dei metodi con cui il basso linguaggio popolare parigino deforma volutamente le parole, per cui il suffisso boche aggiunto alla radice ca (capo), che è quella della parola cap (testa), (arme de pied en cap) trasforma e sfigura quest’ultima, appunto come vuole il basso popolo, il quale abbassa anche di un grado o due le cose di cui parla, sì da fare della testa una boule, o sfera (15). La parola boule, per testa, è ancora adoperata da Balzac facendola pronunciare a persona del basso popolo ne Le médecin de campagne, p. 197. Nel quale romanzo si fa anche pronunciare la parola péquin, per borghese e cioè non militare, leggermente dispregiativa (p. 198). Ma tanto boule quanto péquin sono parole oggi comunemente adoperate nel linguaggio familiare e popolare. In Splendeurs et misères des courtisanes (p. 199) Balzac fa adoperare a Esther — altra cortigiana — le parole di linguaggio familiare o popolare come: blaguer, chouette! (quest’ultima parola è una deformazione della parola: chic, elegante). Nel medesimo romanzo uno dei principali personaggi che, del resto, altri non era se non un ex forzato, dice: cracher son argent (sputare il proprio denaro) per: pagare; bégueulisme, parola di linguaggio familiare e popolare (una donna bégeule, sempre nel linguaggio familiare, è donna prudente e molto riservata) per indicare lo stato di riserva in cui qualcuno si trova rispetto ad altri (p. 168). Nella novella: Pierre Grassou si trova la parola, di puro linguaggio popolare: piocher, che letteralmente significa zappare ma che, nel linguaggio popolare ha, come nel romanzo citato, il significato di lavorare intensamente (p. 302). [...].

 

IX

 

  Scrupolosa riproduce di strafalcioni e storpiature nel linguaggio popolare dei personaggi balzacchiani.

 

  D’altro canto — altro particolare gustosamente realistico — i risibili strafalcioni e le storpiature di cui il basso popolo infiora, inconsapevolmente o no, il suo discorso, fanno pur mostra di sé in qualche parlare di vecchie portinaie e simili: una loquace portiera per dire che il tale dei tali, per quanto decorato della Legion d’onore, mai porta all’occhiello il nastrino rosso della sua decorazione, dice: il ne porte jamais son décor (e cioè: décor invece di décoration) (L’envers de l’histoire, ecc., p. 181). Madame Cardinal, pescivendola, parla con gravità di una pension élémentaire ... invece di pensione alimentare (Les petits bourgeois, I. p. 309), essa dice: à l’hasard, invece di au hasard, e ne dice ben altre ancora (Les petits bourgeois, I, p. 123). È la stessa che pronunzia volgari e popolari frasi di questo genere: On peut donc s’esbigner (questo pittoresco verbo, nel basso linguaggio popolare, significa andarsene, sgaiattolare o, come si dice nel linguaggio familiare: se sauver); o anche (e qui torna lo strafalcione): C’est une dégoûtation ... per dire: ça me dégoûte! (Les petits bourgeois, I, p. 272, 307). Altro strafalcione quando dice: c’est-t-honteux, facendo cioè la liaison tra c’est e honteux (Les petits bourgeois, I, p. 256). Quando la grassa e volgare Sylvie parla — tra gli strani abitanti della pensione Vauquer — non mancano le parole sgrammaticate, accuratamente riprodotte da Balzac. Essa dirà: on a voulu m’englauder ... e ciò, al fine di cavarle di bocca qualcosa che ella non voleva dire (Le père Goriot, p. 43). La parola englauder è probabilmente una storpiatura, da parte della grossolana Sylvie, della parola engluer che significa invischiare: come con vischio si prendono gli uccelli, così hanno voluto invischiare la grossa donna per farla parlare. Analogamente, sempre essa dice: c’te farce (per dire: che bello scherzo!), espressione assai volgare per dire: «ah!, già, mi volete far ridere!», oppure: «volete proprio ridere!». Anche Cristoforo, servitore, dirà: «Que qui fait quell’uomo?» (invece di: Que fait-il?) (Le père Goriot, p. 43). Ancora Sylvie, la serva, dirà: «nune part» (per dire: in nessun luogo) (Le père Goriot, p. 200).

  Ma strafalcioni di linguaggio sono pur speciali agli arricchiti venuti su dal basso; Balzac non dimentica ciò. Per Madame Saudry, che troneggia nel suo grottesco salotto di provincia, la serra del giardino diventa la resserre (Les paysans, p. 310). Più gravi e più frequenti gli strafalcioni, accuratamente riportati e descritti da Balzac, che la volgare Madame Crémière si fa uscir di bocca; vuole essa dire: lapsus linguae e dirà capsulinguette; vuole essa dire: c’est une affaire à vous (ciò vi riguarda) e dirà c’est un fer à vous (Ursule Mirouet, p. 68). [...].

 

X

 

Intercalari o tic verbali, pronunce straniere o dialettali, scherzi linguistici.

 

  a) Vogliamo pur far cenno del fatto che Balzac, nel far parlare i suoi personaggi, tanto vuole riprodurre la fotografia e la «fonografia» (possiamo dire così?) di essi, «che non dimentica di riprodurre, quando ne sia il caso, gli intercalari che questo e quello dei suoi personaggi hanno abitudine di frammischiare, con tediosa monotonia, al loro dire. Come si sa, l’intercalare è una specie di tic verbale assai comune, spesso incorreggibile anche se su di esso si attira l’attenzione di chi ne fa uso; di solito, anzi (ciò sia detto di sfuggita), anche colui che avverte caritatevolmente chi ha un tic di tal genere, non fa che urtare la suscettibilità della persona stessa, nè ottiene guarigione ... e non si accorge di essere, a sua volta, detentore e più che utente di un suo proprio tic verbale o intercalare. Balzac, dunque, mostra qualche suo personaggio discorrere con intercalari, come fa quel notaio Regnault (un po’ ridicolo con la sua faccia oblunga) che usa a ogni istante l’intercalare: petit moment! (vale a dire: un momentino!) (La grande Bretèche, p. 180).

  b) Aggiungiamo ancora che lo scrupolo realista, da parte di Balzac, di infiorare la conversazione dei suoi personaggi con parole — a quando a quando — o con caratteristiche verbali proprie al gruppo cui l’individuo appartiene, o in armonia con la psicologia di lui, si spinge sino a rendere tipograficamente la pronunzia tedesca di qualche suo tedesco o alsaziano personaggio, nella mal pronunziata parola francese. Balzac, ad esempio, fa parlare il musicista Schmucke con pronunzia tedesca: Montemiselle (per mademoiselle), le chas honte manche là grôttenne ... ecc. (les chats ont mangé la crotte) (Une fille d’Eve, p. 231, e anche 326). Medesimo sistema quando, in Splendeurs et misères des courltisanes, si tratta di far parlare l’odioso banchiere Nucingen; la grafia con cui ogni sua parola è resa nel romanzo ripete, o tenta ripetere, la goffa pronunzia (p. 74 e segg. e molte altre pagine). Anche per la signora inglese che, in un negozio di mode, vuol comprare un bel cachemire, Balzac trascrive le parole di lei — nel dialogo con il commesso — in modo da riprodurre la goffa pronuncia inglese; l’interrogazione, ad esempio: Avez-vous d’autres? diventa: Havai vod’hóte? E la frase: Non je n’aime pas, diventa: No, je n’ame pouinte. E così di seguito (Gaudissard (sic), II, p. 243). [...].

  c) Le pronunzie dialettali sono pur rese, di tanto in tanto, come accade quando papà Goriot pronunzia ormoire, invece di armoire (p. 21). O quando il provenzale Gazonar dialoga con gli amici. Un discorso di lui, che tiene quasi un’intera pagina, è tutto scritto con una ortografia che riproduce le caratteristiche della pronunzia provenzale. Per esempio: Mone proxès (per: mon procès), queleque chozze (per: quelque chose) [...].

d) E ancora. Come mai Balzac, preso da tanto senso di realismo e che con tanto realismo fa parlare i suoi personaggi, poteva dimenticare quello speciale modo di parlare — scherzoso — che alcuni giovani dell'epoca sua avevano messo di moda e che andava sotto l’indicazione di: parlare in rama? Consisteva, tale modo, nell’aggiungere il suffisso rama ad ogni parola, o nel sostituire quelle due sillabe alla finale della parola; par che l’uso venisse — come dice lo stesso Balzac — dal grande successo che in quell’epoca avevano certe esposizioni dette diorama in cui facevano mostra di sé paesaggi di ordine vario, visti in rilievo.

  Si tratta, come dice lo stesso Balzac, di far dello spirito, ma uno spirito nel quale la stupidaggine (la bêtise) entra come elemento principale. Parler en rama, dunque. I pensionanti della casa Vauquer si dilettano, di tanto in tanto, di tale linguaggio. Diranno santérama, per dire: santé (salute); froidorama, per dire: froid (freddo); monsieur Goriorama, per dire: monsieur Goriot; cornurama, per dire: cornue (alambicco) (Le père Goriot, p. 56-59). In quel romanzo anche le parole Rastignacorama, per dire: Rastignac (p. 111), e patriarchalorama, per dire: patriarcal (p. 167). Si badi: lo stesso Balzac, tanto gioviale, vivace e inesauribile nella conversazione con colleghi ed amici, in salotto e fuori salotto (come narrano i suoi biografi), si divertiva egli stesso a parlare in rama, proprio come aveva fatto fare ai pensionanti della sua pensione Vauquer; così narra Théophile Gautier nella sua opera su Balzac (a p. 96, edizione del 1880).

 

XI

 

  Speciali modi di parlare nei vari gruppi sociali (professionali o altri). Cortigiane, militari, uomini di legge, ecc.

 

  Qua e là Balzac non dimentica di colorire il linguaggio — sia pur con semplici tocchi — di personaggi appartenenti a tale o tale altro gruppo sociale, in ispecie professionale, con le parole speciali che in ciascuno di tali gruppi vengono adoperate.

  Di tali speciali modi di parlare — gerghi o pseudogerghi che siano — adoperati da Balzac, sempre per star vicino al vero e direttamente dare impressione di esso, è pur da dirsi; ma basterà qualche semplice esempio, tanto più che di tali gerghi o pseudogerghi l’autore della Commedia si serve sobriamente e non con tanta larghezza come or ora abbiamo visto per il basso linguaggio popolare, familiare o scherzoso.

  a) Dice Balzac, in una pagina de La fausse maîtresse (p. 86), che le donne di vita leggera si servono di speciali espressioni nel loro parlare. La bella Malaga, poniamo, faisait parfois sa tête quando passeggiava in carrozza al Bois de Boulogne; e Balzac aggiunge, riferendosi a quel faire la tête (che significa pavoneggiarsi): admirable expression du dictionnaire des filles en voiture. Della quale espressione (faire sa tête, che Balzac scrive in corsivo) lo stesso Balzac si serve anche in Splendeurs et misères des courtisanes (p. 206), sempre per indicare l’elegante donna perduta che si pavoneggia; se ne serve, anzi, di quella frase, due volte nella stessa pagina tacendola ancora seguire dall’osservazione: admirable expression du vucabulaire des filles. [...].

  b) L’autore della Commedia, che ha voluto nella sua monumentale opera mostrare e descrivere ogni varietà di stratificazioni sociali, non dimentica — penetrando nel mondo della vita militare — qualche parola speciale a siffatto mondo. La celebre parola: poilu (per indicare soldato forte e coraggioso) parola che fu poi ognor ripetuta durante la grande guerra mondiale del 1914-18, e che ancor oggi si ripete, fu adoperata proprio da Balzac nel suo Le médecin de campagne (p. 101) che fu scritto nei 1833 ... parola, dunque, che si mantenne viva attraverso i secoli; Balzac si riferisce all’uso che i soldati di Napoleone facevano di tale parola. D’altra parte, nella novella: Un prince de la Bohème (p. 187) si legge che la parola blague è parola soldatesca e si aggiunge: «parola che speriamo sarà rifiutata dalla lingua ma che ben fa comprendere lo spirito della bohème». In verità, la parola è rimasta nella lingua corrente (esagerazione, vanteria, menzogna) e, senza modello di eleganza, può venir pronunziata in conversazione, per quanto di uso familiare. Altrove, qualche parola di «gergo» militare è ricordata, come: les egyptiens, per indicare i soldati che erano tornati dalla spedizione napoleonica in Egitto (Le colonel Chabert, p. 132). [...].

  c) E il linguaggio speciale degli uomini di legge o, meglio, dei notai, cancellieri, uscieri, ecc.? Ne fa allusione Balzac definendolo stile da tribunale (style de palais, e cioè da palazzo di giustizia). Infatti, in tale linguaggio, il legale che si trova a sbrigare le sue pratiche al palazzo di giustizia, è detto: trovarsi egli a faire le palais (Le colonel Chabert, p. 98 e 99). In proposito, Balzac si serve anche della parola broutille, adoperata negli studi di notaio, per indicare il fastello di carte legali, parola — sia detto tra parentesi — che non si trova, tuttavia, in nessun dizionario di gergo vero e proprio o di linguaggio popolare. Strano a dirsi, Balzac indica come argot del palazzo di giustizia le parole: affaires véreuses (che starebbero a dire: affari loschi), ma tale indicazione è oggi più che comune nel linguaggio corrente per indicare qualsiasi affare losco. [...].

  d) Il linguaggio speciale dei pittori di Montmartre ha le sue parole nella novella: Pierre Grassou (p. 508), là dove si dice, per indicare belle pitture e, anzi, pitture molto chic, che esse sono koxnoffs e anche chocnosoff. Si tratta, probabilmente, di una di quelle scherzose alterazioni e deformazioni, con suffisso, cui di solito ricorrono gli speciali «gerghi», specie del basso popolo; deformazioni, in questo caso, della parola chic. Il pittore della novella adopera anche la parola chouette, per indicare che la pittura è bella, ma tale parola è assai in uso anche fuori degli studi di pittura nel linguaggio familiare. [...]. Inoltre, ecco i giovani rapins (giovani allievi in uno studio di pittura) essere chiamati in quell’ambiente di artisti: mistigris, parola che in linguaggio familiare significa gatto e che nel gioco di carte indica il fante di fiori (Un ménage de garçon, p. 92).

  e) I suonatori d’orchestra non hanno forse, anche essi, speciali parole di «gergo»? Nella fantasiosa novella Facino Cane, quando si parla delle stonature della misera orchestrina dei ciechi mendicanti, quelle stonature vengono chiamate tumards, che è parola del «gergo» di quei musicanti (p. 64). Si noti che la parola canard (anitra) nel linguaggio familiare ha il significato di menzogna, notizia falsa e anche: giornale (con significato dispregiativo), e pur di cavallo, tanto è vero che la parola: canasson significa cavallo vecchio e sbilenco. Il verbo canarder, poi, nel linguaggio triviale e grossolano, significa crivellare con colpi di fucile o di revolver.

  f) La Borsa ha anche il suo gergo? Sicuro; vi sono parole, scrive Balzac, che sono proprie all’argot della Borsa (Splendeurs et misères, ecc., p. 154) e ricorda la parola exécuté per indicare i vinti nella battaglia economica e finanziaria; il tutto a proposito di un oscuro affresco che Balzac fa dell’ambiente finanziario e degli strani modi con cui si conquistano rapidamente le ricchezze: il caso, una scoperta, il risultato di un furto legale, o la maniera con cui i bassi commercianti rispondono alla perfidia dell’alto commercio ricorrendo ai più odiosi attentati (verso il pubblico) commessi per mezzo dell’adulterazione delle materie prime (p. 174, 175). [...].

  g) Anche in collegio si ha, come Balzac fa dire a uno dei suoi personaggi (Louis Lambert, p. 17), un langage collegiale e dà come esempio l’espressione être faisants per indicare due giovani essere amici e compagni ed anche essere copins, aggiungendo che si tratta di un idiotismo (être faisants) difficile à traduire, esprimente una divisione fraterna tra due collegiali dei beni e dei mali, ecc. ... Si tratta davvero, di quella «coppia di amici» che hanno interesse, com’è naturale, di trasmettersi talvolta vicendevolmente il pensiero senza che i presenti comprendano [...].

  h) E i giornalisti? Non hanno forse anche essi, come scrive Balzac, uno speciale argot (in verità, diremmo noi, un linguaggio speciale, professionale, piuttosto che vero e proprio gergo di difesa e di offesa) che impiegano nei loro uffici di redazione? Les illusione perdues (sic) ne danno qualche esempio, come a dire: canard (notizia falsa); farsi jobarder da qualcuno (farsi ingannare da qualcuno; job è parola del basso linguaggio più o meno popolare che significa; uomo ingenuo). Quando il giovane Luciano, arrivato dalla provincia a Parigi in pieno mondo giornalistico, si fa alle sue prime armi, sente pronunziare in quel mondo la parola: canard, se ne meraviglia e domanda spiegazione. «Noi chiamiamo canard — gli dice il giornalista, suo interlocutore — un fatto che ha tutta l’apparenza della verità ma che noi inventiamo pour relever les faits-Paris, quand ils sont pâles». [...]

  i) Qualche cenno è pur dato per lo speciale linguaggio dei tipografi. David Séchard, in tipografia, era un pressier e cioè uno di quegli operai che i tipografi nel loro argot (sic) chiamano ours (le mouvement de va-et-vient, qui ressemble assez à celui d’un ours en cage, par lesquels les pressiers se portent de l’encrier à la presse et de la presse à l’encrier) (Illusions perdues, I, p. 2). D’altra parte, gli ours chiamano sempre, in tale argot, i compositori singes e cioè scimmie à cause du continuel exercice que font ces messieurs pour attraper les lettres dans les cent-cinquante-deux petites cases où elles sont contenues» (I, p. 2). [...].

 

XIII

 

Discutibili (o no) etimologie balzacchiane.

 

  Vorremmo pur dire, infine (a proposito dell’interesse che Balzac portava alle espressioni gergali, proprie ai criminali o no) delle spiegazioni, delle interpretazioni e delle etimologie che egli stesso presentava nella Commedia in occasione di questa o quella parola di gergo adoperata dai suoi personaggi o da lui stesso.

  Di qualche spiegazione, interpretazione, ed etimologia, abbiamo già fatto cenno (per le parole: fafiots, Sorbonne, tronche) ma eccone altre, da accettarsi, con qualche beneficio di inventario. L’indicazione gergale: panier à salade, per indicare il carrozzone in cui vengono trasportati i carcerati, «proviene dal fatto che in origine siffatto carrozzone era a sbarre e in esso i prigionieri venivano necessariamente scossi come l’insalata» (rinchiusa in quella specie di gabbia o scolapasta in coi è messa e scossa per asciugarla prima di condirla) (Splendeurs et misères, nella parte dal titolo: «Où mènent les mauvais chemins», p. 289). Il violon, parola di linguaggio popolare, e anche dei delinquenti, che indica la stanza di sicurezza, è chiamato così, sempre secondo Balzac, «perché vi si fa della musica gridando e piangendo» (Id.id, p. 293). E la pistole (particolare stanza della prigione)? «Il nome viene, senza dubbio, dal fatto che i prigionieri pagavano una volta una pistola (antica moneta di valore variabile) per settimana, per rimanere in quella stanza (Id. id., p. 305). Per indicare il taglio della testa per mezzo della ghigliottina, l’assassino dirà: faucher ... «Costoro studiano l’angolo descritto dalla lama d’acciaio e trovano il verbo falciare per dipingerne l’azione» (La dernière incarnation, ecc., p. 37).

  Anche altrove le buone intenzioni etimologiche dell’autore della Commedia si fanno sentire, e a proposito di parole speciali o gergali non proprio dei delinquenti. Nella prima pagina della novella: Un homme d’affaires, dopo aver detto che la parola lorette «è parola decente inventata per indicare la condizione di una giovane, o la giovane stessa, che difficilmente potrebbe indicarsi in altro modo senza offendere il pudore ... parola che il dizionario dell’Accademia non ha iscritto», parola, invero, che indica giovane mondana, o quasi, Balzac corre alla spiegazione: «La parola lorette è creata nel 1840, senza dubbio a motivo dell’agglomerarsi che facevano siffatte giovani rondinelle intorno alla chiesa dedicata a Notre-Dame de Lorette». Proprio vero?

  Come che sia, il nostro Autore è assai più grande — anzi, immortale — nelle scene che Egli dipinge e per la vita che Egli dà ai suoi personaggi ... che per l’interpretazione che Egli suggerisce delle parole di argot, per quanto di siffatte parole Egli — tra i primi — abbia fatto largo e pittoresco uso nelle sue pagine realiste!

 

 

  Leo Pestelli, Balzac critico, «La Nuova Stampa», Torino, Anno XIX, N. 212, 6 Settembre 1958, p. 3.

 

  «Balzac critico» può sembrare un’eresia; tanto è noto che se qualcosa mancò a quel grande, fu il senso critico spinto al rigore, l’Aristarco interno che contrassegna gli scrittori eterni. E già il succo del famoso «Lundi» del Sainte-Beuve, scandaloso ai balzacchiani, era che a lui mancasse l’oratio pudica; che tante sue belle doti non fossero strette dall’ultima. Neppure per ossequio esterno si può ricondurre Balzac alla critica, chi rammenti quel passo della Cousine Bette sulla decadenza dello scultore Venceslao, dove l’eterna polemica dell’artista col critico si tinge di scherno («Il passa critique comm tous les impuissants qui mentent à leur (sic) débuts»), e di contro all’Arte, che è esecuzione, tuffo, «concubinaggio con le Muse» (qui soprattutto il Sainte-Beuve si accartocciava), sta la Critica come estetismo chiacchiera e salotto.

  E nondimeno, perché la vita vissuta è piena di contraddizioni, la disposizione critica che a Balzac non veniva dalle stelle, gli entrava per altri versi: curiosità e febbre del mondo, e l’appassionato proposito, avvertibile nell’intera opera, di dire la sua su tutto quanto gli capitava sotto. Perciò cercava organi, bocche da fuoco; e appunto qui, nell’avventura giornalistica, spunta un Balzac critico; anzi, forzando balzacchianamente un po’ le tinte, un martire della critica, avendo per amore di essa fondato periodici, firmato cambiali, e fin rischiato la prigione. Si sa infatti che le sue riviste, il Feuilleton des Journaux politiques (1830), la Chronique de Paris (1836) e la Revue Parisienne (1840), morirono tutte entro pochi mesi, colpite da balzacchite acuta. E che non bastò a salvare la seconda, quella splendida redazione: Planche, Karr, Nodier, Sandeau, il giovane Gautier, e ai disegni, Daumier. Castigato dalle intemperanze con cui aveva guastato il Feuilleton, Balzac si era qui riservata appena la politica estera; e circa il valore delle sue «note», si va dalle esaltazioni del Lumet e del Jacob, alle canzonature di Alphonse Karr, che diceva la politica del Balzac essere veramente étrangère, cioè estranea, a tutti i governi di questo mondo. Sui resti di quei disastri editoriali Mario Bonfantini ha compilato una gustosa scelta — Honoré de Balzac, Scritti critici («Universale» Feltrinelli) — che corredata di una bella prefazione, non solo ci immette nella biografia di Balzac, nel suo napoleonismo letterario, ma offre una vista nuova su quel vulcanico ingegno. Nessuno però s’aspetti un’altra qualità di lava. Recensore saggista problemista ideologo e quant’altre cose volle essere al servizio di un supergiornalismo enciclopedico e riformatore, questo Balzac episodico è tanto connesso coll’altro e maggiore, che la sutura sfugge: come nei romanzi egli fa talvolta del giornalismo, così qui egli fa spesso del romanzo. Più seriamente il Bonfantini: «Queste pagine ci portano nell’intimo e nel vivo del pensiero e delle passioni del creatore della Commedia Umana»; sono la sorgente o lo scarico di quante idee, ideacce o «pallini» egli addusse nei romanzi.

  Che cosa non tratta questo incontinente articolista? Giure finanze letteratura sociologia morale storia politica scienze. E il problema del suicidio e quello del Credito fondiario. Ma si occupi d’un libercolo o di rifare il mondo, nello stelloncino come nel saggio disteso, Balzac è qui presente, scrittore e uomo, nel piglio, nelle tirate, nell’oltranza, nel genio maresciallesco della boutade. E quanto al critico o recensore, i tratti fini, le vibrazioni esatte, le intuizioni sicure, sono poi molte di più che gli stessi balzacchiani non si aspettino. Qui si conosce che anche senza metodo si può sentire e giudicare bene, e supplire alla pacatezza dei secondi pensieri con l’acume dei primi. Dopo aver ammirato il garbo con cui presenta da sé, nel Feuilleton, la sua Fisiologia del matrimonio o il fiuto profetico con cui annunzia l’acerba Sand (Indiana); la spiritosa ma clemente stroncatura di Hernani dell’Hugo, e per contro l’elogio, ma con intelligentissime riserve, del poeta di Les Rayons et les Ombres; gustate queste e altre destrezze di critica prima, bisogna poi venire al grande e riposato saggio sulla Chartreuse de Parme di Stendhal, che fu anche un’opera buona.

  Quel romanzo era uscito da dieci mesi e pochi se n’erano accorti. Balzac lo prende, lo espone, se lo adatta, l’opprime di astrazioni e analogie; ma intanto comunica, come poi nessuno farà meglio, la fragranza del capolavoro. E se ad alcune cose si resta lì: la Chartreuse è il Principe moderno che scriverebbe il Machiavelli se fosse bandito dall’Italia del sec. XIX; il Conte Mosca è Metternich; Palla Ferrante, un Silvio Pellico repubblicano-radicale, e così via: ad altre che sembrarono storture, come la sopravvalutazione della parte politica e sociale del romanzo, i più recenti stendhaliani han reso giustizia. Critica «simpatica» se mai ce ne fu; fraterna, da scrittore senza invidia, a scrittore, sull’intesa del mestiere; di quella che gli Autori sempre vorrebbero avere. L’anticapolavoro di questo Balzac critico è invece il saggio su Port Royal del Sainte-Beuve; tutto di bile, e perciò tutto sbagliato; ma perché il torto aguzza l’ingegno, giornalistico e divertente come nessun altro pezzo. «In un’epoca come questa ... in cui si cerca di imitare l’attività vigorosa impressa al suo secolo da Napoleone, S. B. ha avuto la pietrificante idea di restaurare il genere noioso ...» «Leggendo S. B. presto la noia cade su voi, come alle volte vedete cadere una pioggia fine, che finisce col giungervi alle ossa». E non è che qualche colpo non arrivi: la «natura letteraria», la «frase molle» di lui ... Perché soprattutto allo stile Balzac s’attacca; anzi, come tutti gli stroncatori fanno, alla lingua. «S. B. è colpito da una mania antigrammaticale ... Persiste a rendere declinabili tutti i participi presenti dei verbi. Per lui i verbi diventano aggettivi, e i sostantivi passano allo stato di verbi. L’aggettivo si fa participio e viceversa. Egli dice “parte moralizzante, lavori ricomincianti, periodo terminante, macchina invecchiante, pace ricominciante”. E c’è una “fine d’inverno fruttuoso e maturante”. L’inverno maturante! L’inverno fruttuoso nel senso di avente dei frutti!». E questo di un Balzac non solamente critico ma grammarien — e proprio addosso al Sainte-Beuve! — è il più frizzante sapore di questa raccolta, che si può ben dire nuova, essendo ormai introvabile quella che fornì in Francia Louis Lumet (Honoré de Balzac Critique littéraire) nel 1912.

 

 

  M.[ario] P.[icchi?], Alain e Balzac nelle riviste francesi, «Il Popolo», Roma, Anno XV, N. 202, 22 luglio 1958, p. 5.

 

  [...]. Una nuova edizione del capolavoro balzachiano.

 

  Per prossima una nuova edizione del capolavoro balzachiano Splendori e miserie delle cortigiane, Samuel S. De Sacy ha scritto un finissimo saggio introduttivo, che il Mercure de France pubblica nel fascicolo di giugno. Finissimo, arricciolato, e di piacevole lettura, il saggio s’intitola «Trompe-la-Mort», ossia è centrato sulla figura di Vautrin, al quale appunto è dato questo soprannome: Vautrin, una delle più gigantesche figure uscite dalla mente del grande romanziere, che compare, oltre che in questo, in altri romanzi (Papà Goriot, Illusioni perdute, L’ultima incarnazione di Vautrin), «coprendo con la sua ombra imperiosa la parte maggiore del periodo creativo di Balzac».

  «Una volta si pretendeva che le descrizioni balzachiane fossero lunghe. Pensate un po’ di tagliarle, e si sfascia tutto. E d’altronde avrete la sorpresa di scoprirvi incapace di delimitare le descrizioni, poiché esse si confondono sempre con le spiegazioni. Il romanziere diviene saggista; geografo, storico, economista, sociologo, senza per questo cessare di essere romanziere. Oggi, ai nostri occhi, una simile mescolanza apparirebbe scandalosa; la nostra delicatezza non tollera più la confusione dei generi. Il fatto è che non possediamo più la fede. Gli stessi romanzieri non hanno più fede. Per essi, i loro stessi romanzi non sono altro che finzioni. Per Balzac, i romanzi di Balzac eran miti; mezzi in certo modo mitici di coincidere con la verità. Non si trattava di applicare con scrupolosa sottigliezza le regole di qualche Arte poetica non codificata eppure imperativa; si trattava di dar corpo al mito, ad ogni costo. Tutte le tecniche erano buone e non si combattevano fra loro, ma concorrevano ... La descrizione balzachiana traduce la resistenza del mondo esterno, la sua coesione, la sua necessità e tutto l’ordine delle cause; le azioni dei personaggi non hanno significato che proporzionatamente al suo rigore».

 

 

  S.[ergio] Rocchietta, Curiosità e attualità. Medici e malattie nella vita e nell’opera di Honoré de Balzac (1799-1850), «Minerva Medica. Gazzetta bisettimanale per il medico pratico», Torino, Vol. XLIX, N. 19, 7 Marzo 1958, pp. 420-425.

 

  Personaggi medici dei romanzi di Balzac. — Gli studiosi di Balzac, assai numerosi e fervidi specialmente in Francia, si sono più volte soffermati a considerare e ad analizzare i personaggi medici che compaiono nella vasta opera del grande romanziere. [...].

  I personaggi della «Comédie Humaine» sono circa duemila; alcuni di essi sono medici ed occupano sovente una parte importante nella trama del racconto. Essi appartengono a diverse categorie e si possono inquadrare in diversi tipi: i medici di campagna, di provincia e quelli di città, gli idealisti ed i materialisti, i Maestri ed i modesti medici pratici, gli onesti e gli astuti, gli scettici ed i credenti, i medici militari, i chirurghi, ecc.

  Tra i vari personaggi medici della «Comédie Humaine» il più famoso è Horace Bianchon. Si è molto discusso intorno al modello che ispirò Balzac nel tratteggiare questa figura. Si confrontò il curriculum del personaggio Horace Bianchon (quale appare da diversi romanzi: Le père Goriot, La messa de l’athée, La muse du département, L’interdiction, Etude de femme, Autre étude de femme, La Grande Bretèche) con quanto si conosce su alcuni medici frequentati o conosciuti da Balzac.

  L’opinione più accettabile è che sia stato il famoso cardiologo e neurologo J. B. Bouillaud (1796-1881) l’originale del personaggio di Horace Bianchon. Bouillaud e Balzac si erano conosciuti in gioventù; si racconta che negli ultimi anni della sua vita Bouillaud così si confidasse col Dott. A. Lutaud: Lisez-vous Balzac? J’ai connu ce romancier et nous avons fréquenté la même pension, quand j’étais étudiant; il a souvent parlé de moi dans ses livres, mais il se trompe quand il dit que j’étais l’élève préféré de Dupuytren; mon maître, à cette époque, cétait Broussais.

  Il Dott. A. A. Thierry (8) sostiene invece la tesi, difficilmente accettabile, che come modello del personaggio di Horace Bianchon si debba indicare il Dott. Gilbert Breschet, medico del padre di Balzac. Confrontando l’età, la carriera professionale ed altri particolari biografici di Bouillaud e di Breschet si è portati a ritenere inammissibile l’ipotesi che quest’ultimo sia servito di modello a Balzac per tratteggiare la figura di Horace Bianchon.

  I personaggi medici di La peau de chagrin hanno dei nomi che li rendono assai facilmente riconoscibili: Caméristus è Récamier, Mangredie è Magendie e Brisset indica Broussais. In questo famoso romanzo (che vide la luce nel 1831) si trovano le note parole che rivelano come Balzac fosse ben a conoscenza delle qualità particolari dei suddetti tre clinici, allora in grande voga a Parigi: Caméristus sent, Brisset examine, Mangredie doute. L’homme n’a-t-il pas une âme, un corps et une raison? L’une, de ces trois causes premières agit en nous d’une manière plus ou moins forte et il y aura toujours de l’homme dans la science humaine. Broussais era un «organicista», Récamier un «vitalista» e Magendie uno scettico.

  Un altro personaggio medico si incontra in quasi tutti i romanzi di Balzac: Desplein, che non è altri che il famoso chirurgo Dupuytren. Il ritratto psicologico che ne fa Balzac corrisponde fedelmente al modello.

  Personaggio pure notissimo è il Dott. Bénassis, eroe leggendario del romanzo Le médecin de campagne, scritto nel 1832-1833. La storia di quest’opera è stata raccontata nei minimi particolari dal più insigne degli studiosi balzachiani, Marcel Bouteron. Come modelli di questo personaggio sono stati fatti i nomi del Dott. A. Rome, medico condotto di Vareppe, villaggio del Delfinato vicino alla Grande Chartreuse e del Dott. Bossion de l’Isle-Adam che curò Balzac adolescente e morì nel 1821.

  Altri medici appaiono nell’opera di Balzac e rappresentano i diversi tipi dell’epoca. In Ursule Mirouet troviamo il Dott. Minoret, deciso avversario del mesmerismo.

  Il Dott. Rouget, tipo piuttosto losco, compare in La Rabouilleuse ed il Dott. Martener, medico di provincia, coscienzioso e colto appare in Pierrette, in lotta col suo collega Dott. Néraud, persona di dubbia moralità.

  Il Dott. Halperskehm, ricco medico ebreo, è un importante personaggio di L’envers de l’histoire contemporaine. Si racconta che a modello di questo avventuriero del gran mondo, Balzac abbia preso il Dott. Koreff (1783-1851), ben noto nei salotti politici e letterari di Parigi al tempo della Restaurazione.

  Come figura tipica di medico di un rione popolare parigino troviamo il Dott. Poulain nel famoso Le Cousin Pons, ironicamente tratteggiato: A Paris, dans chaque quartier, il existe un médecin dont le nom et la demeure ne sont connus que de la classe inférieure, des petits bourgeois, des portiers, et qu’on nomme conséquemment le médecin da quartier; le médecin ... est, en médecine, le domestique pour tout faire.

  In Louis Lambert, come nel Père Goriot ed in Illusions Perdues, un personaggio medico viene indicato col vero nome di un sanitario dell’època: il Dott. Meyreaux (1790- 1832). [...].

  La figura del Dott. J. B. Nacquart. — Tra i tanti medici che Balzac conobbe e frequentò, il Dott. Jean-Baptiste Nacquart fu l’amico fedele ed il confidente più intimo dello scrittore, oltre che il medico curante, premuroso e devoto. E’ significativa la dedica che Balzac appose al suo importante romanzo Le Lys dans la Vallée: A M. J. B. Nacquart, Membre de l’Académie Royale de Médecine. Cher Docteur, voici l’une des pierres travaillées dans la seconde assise d’un édifice littéraire lentement et laborieusement construit : j’y veux inscrire votre nom, autant pour remercier le savant qui me sauva jadis, que pour célébrer l’ami de tous les jours.

  Nacquart fu anche il consulente di Balzac per le descrizioni di malattie e di carattere medico in genere che egli desiderava inserire nei suoi romanzi. La pubblicazione dell’epistolario tra Balzac ed il Dott. Nacquart [cfr. Bouteron M.: «Correspondance inédite de Honoré de Balzac avec le Docteur Nacquart (1823-1850)», «Les Cahiers balzaciens», n. 8, 1928, ed. Lapina] rivela la generosità e gli aiuti finanziari che il medico diede al romanziere, sempre e corto di denaro ed alle prese con difficoltà economiche. [...].

  Malati e malattie nell’opera letteraria di Balzac. — Le malattie dei personaggi della Comédie Humaine hanno ispirato una interessante e ben documentata tesi di laurea del Dott. Morilleau [Essai sur les maladies des personnages de Balzac, 1935].

  Come sua abitudine, il grande romanziere francese si documentava diligentemente prima di scrivere; le sue descrizioni di forme morbose organiche o di malattie mentali rappresentano le nozioni mediche del tempo, anche se la fantasia dello scrittore ne coloriva un po’ i contorni. Appare felice l’espressione del Dott. Bonnet-Roy: «au regard du médecin la pathologie de Balzac apparaît comme une pathologie romancée».

  Tra i romanzi in cui più abbondano le osservazioni cliniche sono da citare i seguenti:

  La Recherche de l’Absolu (protagonista e un inventore pazzo).

  Louis Lambert (questo personaggio è uno schizofrenico tipico).

  Le Lys dans la Vallée (il personaggio di Mortsauf è un paranoico).

  Médecin de Campagne (il ritratto psicologico de La Fosseuse ci rappresenta questo strano personaggio femminile come una iperemotiva costituzionale, instabile, abulica; il piccolo Jacques è un tubercolotico tipico. Vi è pure una precisa descrizione del cretinismo).

  La Peau de Chagrin (Raphaël de Polentin (sic) è un tubercolotico).

  Mémoires de deux jeunes mariés (sic) (anche in questo romanzo vi è una descrizione della tbc polmonare noi diversi stadi).

  Le Cousin Pons (è descritta l’evoluzione di una litiasi biliare infetta).

  Ursule Mirouet (contiene una precisa descrizione dell’insufficienza ghiandolare).

  Le Père Goriot (classica è la descrizione dell’agonia del protagonista, colpito da apoplessia).

  L’envers de l’histoire contemporaine. L’initié. (Vi è la descrizione di un caso di isterismo. Piuttosto imprecisa e l’osservazione di un caso di pitiriasi del cuoio capelluto, allora chiamata «plique polonaise»).

  La Cousine Bette (contiene una descrizione di una malattia di origine tropicale, misteriosa; forse trattasi del pian).

  Pur non essendo certamente degli esempi di virtù, i personaggi di Balzac non vengono quasi mai a trovarsi in situazioni scabrose che si prestino a descrizioni che sfiorino la pornografia. Un caso di amore lesbico viene drammaticamente rappresentato nella scena finale di La fille aux yeux d’or, in cui Paquita Valdès è assassinata da Margarita Porrabéril in una crisi di gelosia feroce.

  In linea generale si può affermare che nell’opera letteraria di Balzac le malattie sono dei fattori che possono a volta essere causa od effetto delle vicende drammatiche; in tutte le forme morbose descritte appare sempre l’influenza della psiche sul fisico. Essendo naturalmente dotato di grande potere di osservazione psicologica, Balzac descrisse con maggiore minuzia lo stato d’animo dei personaggi malati che non le loro condizioni patologiche.

  Balzac stampatore di libri di medicina e di prospetti pubblicitari farmaceutici. — Dopo aver rinunziato all’attività editoriale iniziata nell’aprile 1825, Balzac intraprese un lavoro di tipografo stampatore, disponendo di sette torchi. Ottenne la patente di stampatore nel 1826 e continuò tale attività sino al 1828 quando cedette la tipografia al socio H. Barbier. Pochi mesi prima aveva pure liquidato la sua fonderia di caratteri tipografici.

  E’ curioso notare tra i suoi lavori tipografici, principalmente dedicati alla stampa di libelli politici e di canzoni, alcuni prospetti pubblicitari per specialità farmaceutiche:

  Pilules antiglaireuses de longue vie ou grains de vie. Cure, pharmacien, à Paris, rue St. Antoine, n. 77.

  Mixture brésilienne de Lepère, pharmacien, à Paris, place Monbert, n. 27.

  Le trésor des poumons du docteur Portal, présenté par Cure.

  Balzac stampò pure l’Annuaire de la Société de Médecine de Paris, séant à l’Hôtel de la Préfecture du Département, 1828. Questo lavoro tipografico gli era stato commissionato dal Dott. Nacquart (di cui abbiamo parlato più sopra), nella sua qualità di Segretario generale della Società di Medicina. Altre pubblicazioni di interesse medico vennero stampate da Balzac:

  Les contagionistes réfutés par eux-mêmes, par Eug. Sulpicy, docteur, médecin de la Faculté de Paris, 1827.

  Traité des maladies des enfants nouveau-nés et à la mamelle, fondé sur des nouvelles observations cliniques et d’anatomie pathologique, faites à l’Hôpital des Enfants-Trouvés de Paris, dans le service de M. Baron; par C. Billard, ancien interne de cet hôpital, docteur en médecine de la Faculté de Paris, 1828.

  Balzac stampò ancora 8 pagine di testo di accompagnamento alle 10 tavole a colori dell’Atlas d’anatomie pathologique pour servir à l’histoire des maladies des enfans, che fa seguito al Trattato precedente.

  Malattie e morte di Balzac. — In una recentissima pubblicazione [cfr. P. Métadier, De quoi est mort Balzac?, «Mercure de France», janvier 1958] è stato ripreso in considerazione il problema della vita fisiologica e patologica di Balzac, con la rievocazione delle disgrazie, della vita contraria ai principi igienici e delle malattie che colpirono il romanziere e lo portarono a morte all’età di 51 anno.

  Nel 1832 una brutta caduta da cavallo lo fece rimanere privo di conoscenza per venti minuti ed un’altra volta urtò un predellino della diligenza, che gli intaccò la tibia, al momento di partire da Thiers. Continuò ugualmente il suo viaggio, disteso su delle coperte; fu medicato a Lione e poi curato a Aix, ma la ferita stento a cicatrizzare e si temette un’osteite della tibia.

  Nel 1835 incominciò a soffrire di disturbi gastro-intestinali; l’anno seguente si lamentò di cefalalgia, vertigine e perdita del senso della verticalità. Ebbe anche un’emoftoe. Nel 1837 ebbe a lamentarsi di dolori alla schiena e nello stesso anno gli venne diagnosticata «une inflammation constante de l’arachnoïde ou réseau des nerfs qui servent d’enveloppe au cerveau». Questi disturbi continuarono per parecchi anni.

  Le prescrizioni del suo medico curante, il Dott. J. B. Nacquart, per alleviare le crisi dolorose consistevano in dieta molto rigorosa con esclusione del caffè (è noto che Balzac fu sempre un forte bevitore di caffè), oppio, bagni prolungati, revulsivi locali (sanguisughe, «mosche volanti», ecc.); gli veniva pure consigliato il riposo assoluto, tanto più necessario in quanto Balzac si sottoponeva ad orari di lavoro massacranti, ad un vero surmenage intellettuale.

  Nel 1844 una bronchite ed un ittero vennero ad aggravare lo stato di salute già precario e l’anno seguente comparvero disturbi visivi tali che si temette una paralisi del nervo ottico.

  Nel 1846 Balzac soffrì di colite, trattata con cataplasmi sull’addome, acqua gommosa ed acqua di riso e clisteri di decotto di malva.

  Nella primavera del 1847 i dispiaceri per la partenza di Madame Hanska ed il timore di esserne separato per sempre apportarono una «violenta infiammazione di testa e tempesta di dolori» e nell’agosto dello stesso anno «étranges douleurs au coeur, à la pointe».

  Nell’aprile 1848 «grande douleur à travers la tête, l’oeil droit s’est entrepris». Nell’estate si aggravò lo stato di ipertrofia cardiaca, che da tempo Nacquart aveva diagnosticato.

  Alla fine dell’anno Balzac raggiunse Madame Hanska a Wierzschovnia, in Ucraina, e venne deciso il loro matrimonio. Durante i due anni del soggiorno russo, il romanziere fu in cura dai due dottori Knothe, padre e figlio, che fecero diagnosi di «ipertrofia semplice» e di «febbre cefalalgica intermittente». Leggermente migliorato per la gioia dell’avvenuto matrimonio, celebrato nella chiesa di Berditchef il 14 marzo 1850, Balzac fu ben presto ripreso dai suoi disturbi e intraprese il lungo viaggio di ritorno verso la Francia in condizioni assai gravi.

  Il 20 maggio, dopo un viaggio durato oltre un mese, Balzac e sua moglie giunsero a Parigi. Appena arrivato, chiamò il Dott. Nacquart che, assai impressionato delle cattive condizioni del suo illustre paziente, fece venire a consulto i Dottori Louis, Roux e Fouquier. Lo stato generale si andò sempre più aggravando. Comparve edema alle gambe e idropisia. Per colmo di sventura, il 5 agosto, Balzac, urtando contro un mobile, si produsse un’ulcerazione alla gamba sinistra. Si sviluppò una gangrena e nella notte del 18 agosto 1850 cessò di vivere. L’agonia del romanziere è stata particolareggiatamente raccontata da Victor Hugo, nelle Choses Vues.

  Non mancano i dati sulle diverse manifestazioni patologiche della vita di Balzac, ma la maggior parte delle notizie proviene dalla sua stessa penna e quindi vi si trovano maggiori pregi narrativi che non precisione scientifica.

  Pur essendo dotato di eccezionale resistenza al lavoro, molti dei disturbi di cui soffrì quasi continuamente (dolori di testa, sovente accompagnati da febbre, stato di obnubilazione e disturbi della memoria) fanno pensare ad un surmenage intellettuale. Balzac era anche iperteso e predisposto alla sclerosi, forse era anche diabetico e sifilitico. I disturbi enteritici di cui soffrì per tutta la vita sono forse da correlarsi agli eccessi di piaceri della tavola cui talvolta si abbandonava e forse ad una particolare predisposizione. Si avanzò pure l’ipotesi di insufficienza aortica o di morbo di Hodgkin. Nel rapporto steso dal Dott. Nacquart vi sono delle imprecisioni, per cui non è possibile ricavarne un netto inquadramento clinico.

  Bonnet-Roy [...] così conclude il capitolo sulla malattia e la morte di Balzac: «En un mot, Balzac est mort asystolique. L’insuffisance cardiaque terminale a été celle d’un artérioscléreux, cardio-rénal, hypertendu, surmené par un labeur écrasant et victime d’une hygiène néfaste».

  Con questi rapidi cenni, che sfiorano appena l’immensa mole dell’argomento della presente nota, si è voluto semplicemente porre in evidenza l’intima compenetrazione tra letteratura e medicina nell’opera di un genio universale quale fu Honoré de Balzac.

 

 

  F. D. S., Eugenia Grandet. Romanzo di Balzac, «Radiocorriere-TV», Torino, Anno XXXV, N. 23, 8-14 Giugno 1958, p. 43.

 

  Il pubblico, che mira sempre all’essenziale, ama sovente condensare in una sola battuta il significato di un'opera, drammatica o letteraria che sia. «Essere o non essere» è tutto Amleto, così come Don Rodrigo è compiutamente espresso nelle parole dei suoi bravi: «Questo matrimonio non sha da fare». Analogamente, quando si ricorda «Eugénie Grandet», la mente corre subito alla frase pronunciata in punto di morte dal terribile papà Grandet. indotto ormai a confidare l’immenso patrimonio nelle mani di sua figlia: «Mi renderai conto di tutto, laggiù!».

  V’è in questa battuta, non soltanto uno dei più potenti caratteri della storia letteraria moderna, ma anche il complesso rapporto che lega due tipici frutti — padre e figlia — di quella provincia francese che tanta ricchezza d’ispirazione ha significato per il romanzo dell’Ottocento. Ed è una battuta che rievoca realmente un mondo, che dà colore e significato ad una vicenda in apparenza ovvia, addirittura scontata, non fossero i modi per i quali giunge alla sua conclusione.

  La bellissima, delicata Eugenia, al centro di una bramosa contesa fra le grandi famiglie di Saumur, non può non innamorarsi pazzamente del cugino Carlo, paladino del lusso, dell’ozio, e della capitale, Parigi. Il dono che gli fa, del suo peculio personale, comporta quasi fatalmente la fuga di Carlo, e la dura segregazione disposta dal tirannico papà Grandet. E, alla morte di questi, quando Eugenia rimane unica proprietaria del patrimonio, nonostante che il suo cuore sia sempre rivolto al dissoluto Carlo, s’intuisce che ella non potrà non essere la sposa di uno dei vecchi pretendenti di Saumur, e conseguentemente intristire in una grigia solitudine, alla quale il denaro non può recare nessuna luce.

  Quale morale si potrebbe dedurre dall’amara vicenda? Ovviamente nessuna. Quella descritta in Eugenia Grandet, capolavoro indiscusso dell’Ottocento, è semplicemente la vita; la vita che, per Honoré de Balzac, era la grande insostituibile maestra, i cui insegnamenti a nessuno è lecito rifiutare.

 

 

  Luciano Scotti, Abita qui il signor Balzac?, «Gazzetta per i lavoratori», Roma, Anno XII, 30 (?) novembre 1958, p. 3.

 

 

  Adriano Seroni, Balzac critico, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XXXV Nuova Serie, N. 162, 12 giugno 1958, p. 3.

 

  Nella biografia di Balzac spicca, accanto alla tempra di formidabile lavoratore propria del romanziere della Commedia umana, un’attività di letterato e giornalista militante che, pur svolgendosi attraverso fasi difficili e talora tormentose, lascia tuttavia una traccia importante non solo a comprender meglio lo scrittore Balzac, ma anche a rendersi meglio conto dei fermenti rinnovatori che agivano nel grande movimento del naturalismo e realismo francese. Il lavoro di Balzac critico si svolse, a più riprese, sia su giornali e riviste già note e diffuse, come il celebre giornale umoristico La caricature, sia su fogli periodici che Balzac stesso fondò, animò, diresse: dal Feuilleton des journaux politiques, redatto assieme a uno dei più noti giornalisti dell’epoca, Emile de Giradin, alla Chronique de Paris, che Balzac acquistò a mezzo di cambiali e diresse dal 3 gennaio 1836 fino a luglio del ‘37, quando la situazione finanziaria della gazzetta si fece insostenibile e lo scrittore rischiò addirittura il carcere per le scadenze delle cambiali non pagate: alla Revue Parisienne, infine, che Balzac fondò nel 1840 e che fu la più fortunata delle pubblicazioni periodiche balzacchiane.

  La storia del Balzac critico e giornalista è particolarmente illuminante per la comprensione della non facile personalità del grande romanziere e vale soprattutto a mettere a fuoco la fondamentale contraddizione tipica di Balzac fra un suo inguaribile conservatorismo e l’apertura sociale dell’artista. Balzac infatti, nei suoi fogli periodici, non si limitò ad occuparsi di letteratura o di problemi più o meno «tecnici»: affrontò, e spesso con penna felicissima specialmente nel genere satirico, le questioni del costume e della vita religiosa, spingendosi fino ad una vera e propria saggistica politica, specialmente rivolta alla politica estera sotto il regime di Luigi Filippo.

  I documenti di questo vario e diverso attivismo balzacchiano furono raccolti in volume soltanto nel 1912; ma dopo un primo breve periodo di successo, furono per lo più trascurati, ad eccezione di qualche scritto fondamentale. Oggi compaiono in veste italiana, in un bel volumetto della «Universale economica» di Feltrinelli, a cura di Mario Bonfantini, col titolo Scritti critici di Honoré de Balzac; disposti in ordine cronologico, fatta eccezione per il fondamentale saggio su Stendhal, che apre il volume. Il curatore vi ha premesso una chiara prefazione informativa e interpretativa.

  Dalla lettura del citato libretto, si può ormai agevolmente affermare che mentre il complesso degli scritti critici balzacchiani appare generalmente importante, come dicevamo, per uno studio più approfondito del carattere e della personalità dello scrittore, d’altra parte lo attributo di «fondamentale» va ascritto solo ad alcuni saggi di carattere più propriamente letterario, sia che si tratti di pagine di valore positivo, come il celebre saggio su Stendhal, o gli articoli su Victor Hugo, sia che ci troviamo dinanzi a vere e proprie dimostrazioni di eccessiva e personalistica polemica. come nella lunga recensione al Port-Royal di Sainte-Beuve. Ché è proprio da scritti di questo genere che noi possiamo ricavare con precisione la chiara impostazione che Balzac ebbe dei problemi di fondo della letteratura del realismo europeo.

  Non sarà dunque fuori di luogo ritrovare oggi, in piena e vivace fase di dibattito sul realismo nella letteratura, la distinzione balzacchiana sulla nuova produzione letteraria del suo secolo; la distinzione cioè fra una «letteratura delle immagini» (lirismo, epopea, ecc.) una «letteratura delle idee» (prodotta da «temperamenti attivi che amano la rapidità, il movimento, la concisione. gli urti, l’azione, il dramma, che fuggono la discussione. che gustano poco le fantasticherie, e ai quali piacciono i risultati»), e un «eclettismo letterario», che «richiede una rappresentazione del mondo com’è: le immagini e le idee, l’idea nell’immagine o l’immagine nell’idea, l’azione e il sogno». E si capisce subito che Balzac, pur mettendo in guardia il lettore contro una interpretazione schematica di questi tre «distinti», opta per la «letteratura delle idee», sotto la quale egli colloca. come esempio d’eccezionale chiarezza, la Certosa di Parma di Stendhal. E’ vero, verissimo che questa preferenza non è assoluta, né tale può essere se la poesia di un Hugo, ammiratissima da Balzac, rientra nella prima delle tre distinzioni; — non può tuttavia sfuggirci, il fatto che quando Balzac viene a trattare più particolarmente della seconda distinzione, afferma in maniera perentoria: «La letteratura delle idee, piena di fatti, concisa, è nel genio della Francia. La Professione di fede del vicario savoiardo, Candido, ecc. sono più nello spirito francese che le opere della letteratura delle immagini» (Rousseau, dunque, e Voltaire, e Le Sage).

  Può parere che la nostra asserzione sia in contrasto col fatto che, venendo a parlare di sé, Balzac si collochi sotto la terza distinzione, quella dell’eclettismo letterario. Ma, alla fine, a noi posteri le cose appaiono un po’ diverse: ché se si tratta della introduzione dell’elemento drammatico e della immagine nella letteratura, la cosa vale anche per Stendhal: ma nella sostanza a noi l’opera letteraria di Balzac sembra la legittima discendente proprio della «letteratura delle idee»: la tradizione illuministica è la più atta a comprendere Balzac. Del resto, il naturale e quasi istintivo timore che Balzac aveva sempre dimostrato verso la freddezza e l’intellettualismo svanisce di fronte alla lettura del capolavoro di Stendhal: perché, se da un lato si osserva, con una osservazione eccezionalmente acuta, che la Certosa è il romanzo che Machiavelli scriverebbe se vivesse bandito dall'Italia nel XIX secolo (o, con altre parole, che Stendhal ha scritto il Principe moderno), dall’altro Balzac insiste con forza sul sentimento del «sublime» che appare in primo piano nel romanzo stendhaliano.

  Sul filo di queste osservazioni, anche la celebre stroncatura di Sainte-Beuve assume un valore ben diverso da un puro e semplice fatto personale fra Balzac e il suo costante e implacabile avversario: alla fine, il Port-Royal di Sainte-Beuve è il contrario esatto del libro di Stendhal, e ciò si nota in maniera tutta particolare quando Balzac osserva che il Sainte-Beuve avrebbe potuto, o dovuto, sviluppare storicamente il drammatico insito nei fatti da lui impresi a narrare.

  Ma indubbiamente, il pregio maggiore del libretto balzacchiano consiste nella attualità dei problemi che vi si pongono quanto a un tipo di «letteratura» che, tenendo di conto delle conquiste dell’illuminismo, si leghi però vivacemente ai «fatti» e non trascuri il «sublime».

  Il drammatico nella realtà, la storia resa drammatica non solo dal racconto dei fatti, ma soprattutto dai contrasti ideali, la realtà analizzata con la lucidità di un Machiavelli moderno, ma sempre ricreata con l’effetto del sublime; il «simbolismo» dichiarato fallito in partenza. Ecco gli elementi di una discussione che, completata dalla risposta di Stendhal a Balzac e ripresa ai tempi nostri dal Lukacs, può ancora essere utile proseguire.



  Mario Stefanile, Matilde Serao o il romanzo di Napoli, in Labirinto napoletano. Studi e saggi letterari su scrittori di ieri e di oggi, Napoli, E. S. I., 1958, pp. 25-44.

 

  pp. 28-31. Noi, per nostro conto, dei mille aneddoti che ci vennero raccontati o che leggemmo sulla Serao non ne ricordiamo volentieri che due soli che ci sembrano una folgorazione critica più che una testimonianza indiscreta.

  Qualcuno, dunque, dopo di aver visitato Matilde Serao e dopo averla sentita parlare, come ella amava fare, annotò in qualche posto: «Io non ho conosciuto Balzac, ma vedendo ridere Matilde Serao ho immaginato che Balzac dovesse ridere come lei». E se paragoniamo questa sua risata, enorme, piena, splendida, veramente la sola risata capace di fiorire sulle labbra di chi andava inventando una «Commedia napoletana» alla frase da lei detta poi a Carlo Nazzaro, durante un colloquio: «Peccato che io porti la gonna!» avremo subito due chiavi per penetrare criticamente nel dominio di questa letteratura narrativa che oggi ancora e indubbiamente domani e sempre resterà come una delle più alte testimonianze d’arte che Napoli abbia saputo esprimere.

  Proprio dunque come al narratore Balzac: preso dal gioco continuo dell’invenzione oggettiva accadeva di ridere a gola piena nella felicità assoluta della fantasia che si faceva concreta, così Matilde Serao, ricca di una linfa altrettanto viva, di fermenti altrettanto potenti, costretti soltanto dall’esser lei donna a non poter attingere, come pure avrebbe voluto, altre, più complesse e amare e difficili occasioni.

  Ella forse, rammaricandosi d’essere impacciata dalla sua condizione di donna, non valutava appieno il vantaggio che proprio da questo le era venuto: vantaggio di ima fantasia più mobile, più leggera, più nervosa, più pronta ad accogliere le suggestioni e i suggerimenti della piccola e talvolta scialba o addirittura inconsistente realtà sociale che intorno le pullulava.

  Dall’esser lei donna, una donna, straniera solo per caso di nascita, perché poi era ben napoletana non fosse che per educazione sentimentale; dall’esser donna, Matilde Serao poteva ritrovarsi subito a disporre di una particolare intuizione, di quella fluidità sociale di cui parleremo più avanti e che ci sembra essere il modo capitale della sua arte narrativa.

  Ma, parlando con Carlo Nazzaro, ella non dimenticava certo di parlare con un giornalista, con un compagno vincolato e anzi esaltato come lei dalle occasioni di un mestiere che si nutre di rischi e di avventure: e civettava, quindi, col suo rammarico, prontissima poi a riderne, con la sua meravigliosa risata che l’assomigliava così a Balzac nella pienezza più splendida della sua maturità.

  Era, dunque, la sua una risata profonda, d’artista che non vuol giudicare nulla o nessuno ma vuol soltanto rappresentare i fatti segreti e palesi della società contemporanea senza intervenire direttamente, cioè autobiograficamente, ma facendo da spettatore.

  Ed è nell’empito di codesta felicità fantastica, in questa balzacchiana «concorrenza sleale allo Stato civile» di una Napoli che era uguale a Parigi nell’universalità e nell’eternità dei suoi caratteri che noi possiamo ritrovare le linee fondamentali del ritratto autentico di Matilde Serao e insieme di Napoli. [...].

  Abbiamo detto che la Serao rifiuta subito — fin dalle prime prove, dai primi bozzetti o articoli di giornale — la vanità dell’autobiografia, ben sapendo come le costanti del suo talento letterario fossero determinanti di un mondo oggettivo sempre al di là e al di fuori dei suoi interessi personali. La grande letteratura dell’Ottocento europeo punta, si sa, piuttosto sulla realtà oggettiva o sul documento o sulla testimonianza sociale: e soltanto la grandissima poesia — quella di Leopardi o di Baudelaire, per esempio — abolisce questo dato per farsi slancio lirico assoluto, sciolto da ogni riferimento casuale. Ma da Balzac a Tolstoi, da Manzoni a Verga, da Maupassant a Zola il racconto abbandona ogni smarginatura saggistica, si distacca dal grande equivoco volterriano, vuol dare dell’uomo impegnato nella società uno specchio piano che non deformi il gioco delle reazioni individuali ma che possa invece, ingrandendole sul piano universale, farle diventare esempi di una realtà viva e concreta.

  La letteratura realistica e veristica nasce così, da questa profonda esigenza logica, umana in quanto appartiene non soltanto all’homo sapiens bensì all’homo oeconomicus. Da Cesare Birotteau di Balzac a Stefano Lantier di Zola c’è questo filo che talvolta si fa misterioso e sotterraneo e talaltra affiora fino alla superficie delle pagine: ed è il filo che, nel labirinto della problematica umana, porta a una delle innumerevoli verità dell’arte. Essere cioè l’uomo condizionato dal suo ambiente e l’ambiente essere condizionato dalla presenza umana: sì che dalla rete dei rapporti, dall’intreccio dei fatti, dal gioco multammo e multiforme delle azioni la verità umana, ove è artisticamente sentita e artisticamente espressa, può rappresentare la chiave dell’universo terreno.

  Lasciamo andare come la letteratura realistica e veristica abbia raggiunto codesta verità ultima e non facciamo certo la storia volgare dei capolavori in cui resta definita questa poetica del Secolo XIX: ma, vediamo piuttosto come Matilde Serao, proprio per la sua naturale condizione psicologica, proprio per la naturale inclinazione del suo talento narrativo, fosse disposta a trasferire interamente nelle sue pagine la realtà sociale di Napoli, l’ambiente particolare intorno alla fine del secolo che condizionava e contrappuntava gesti, parole, pensieri e sentimenti dei napoletani. [...].

  p. 34. Per fortuna, in lei spiccava il volo la grande scrittrice: quella cioè capace di scrivere la piccola «commedia napoletana» a gara con la commedia umana di Honoré de Balzac, a gara con la cronaca dei Rougon-Macquart di Emile Zola, a gara soprattutto con il Maupassant più libero e felice che del piccolo mondo impressionisticamente elaborato di Parigi dava il ritratto definitivo.

  Come Parigi dunque passava in Balzac o in Zola, Napoli passò in Matilde Serao e nessuno prima di lei, nessuno finora dopo di lei ha dato di Napoli questo ritratto pullulante e vivo, terribile e meschino, gaio ed esulcerato, vivace e grigio, nessuno più di lei ha dato conto e ragione poetica di una grande città in agonia, nello sfasciume sociale che accomuna definitivamente tutti i suoi personaggi, maggiori e minori, liberi o prigionieri, felici o infelici. [...].

  p. 35. Realismo sì, ma realismo sovente liberato dal gioco zoliano, dalla tesi, dal programma schematico e realismo invece spinto da un senso lirico pieno, quello proprio che fa scoprire alla Serao ogni personaggio come una nuova verità psicologica nel cerchio dell’ambiente napoletano. E tutta la folta galleria di ritratti — anche lei dunque come Balzac a far sleale concorrenza allo Stato civile in una traboccante voluttà di discorso — questa galleria di ritratti sorprendenti o banali in fondo è anch’essa una cronaca, una cronaca a rovescio dove l’autobiografismo è abolito per orgoglio, per sprezzo della facile confessione in chiave di diario.

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, Balzac paolotto, in L’azzurro di Chartres e altri capricci, Caltanissetta-Roma, Sciascia editore, 1958 («Aretusa», 5), pp. 175-181.

 

  [...]. Un narratore pieno d’ingegno e di fantasia, Carlo Bernari, ha voluto dare un’interpretazione a dir così «avveniristica» d’uno dei più singolari romanzi di Balzac, Il rovescio della storia contemporanea. Bernari ha quasi ragione quando vede in Balzac un rivoluzionario «malgré lui». Nel tradizionalismo cattolico di Balzac, e in quel che han detto il suo cattolicismo sociale, si avverte un senso messianico di palingenesi, le cui lontane origini (sembra un paradosso) non è difficile ritrovare nell’opera del grande reazionario Joseph de Maistre, uno dei pensatori prediletti di Balzac, come più tardi di Veuillot e di Baudelaire. Quel senso messianico, trasmesso da Joseph de Maistre a Lamennais ancora tradizionalista, questi a sua volta lo trasmise alla scuola cattolica liberale ch’egli aveva fondato e che poi, dopo la defezione del fondatore, agì per proprio conto durante la monarchia di Luigi Filippo e la seconda Repubblica.

  Ma Bernari ha torto quando crede di vedere nel Rovescio della storia contemporanea un libro nato dalla paura che gli avvenimenti politici e sociali (la grande scossa europea del Quarantotto, l’insurrezione proletaria a Parigi nel giugno di quell’anno) dovevan suscitare in un tradizionalista difensore del trono e dell’altare qual era o si professava un poco paradossalmente Balzac. Anche più torto ha Bernari nel definire «codino» Balzac. Codini si potran chiamare Monaldo Leopardi e Solaro della Margarita, non già uomini come Joseph de Maistre, Balzac, Veuillot, il cui temperamento esclude ogni sospetto di meschinità e di grettezza. È vero che anche dei codini prese indirettamente la difesa il Tommaseo, che codino non era né per idee né per temperamento, ma che ce l’aveva, come s’è visto, col radicalismo anticlericale e massonico: «E perché portare il codino era segno di tenacità soverchia negli usi vecchi. Codino valeva Uomo in politica nemico d’ogni novità; e se ne fa il barbaro Codinismo ... Ma certe novità, essendo stravecchie e putride, qualche abominatore de’ codini è più codino di loro».

  La verità è che Il rovescio della storia contemporanea, anche se condotto a termine nell’estate del 1848 (cioè dopo l’insurrezione del giugno) fu ideato e in gran parte composto e dato alle stampe tra il 1842 e il 1846. Balzac volle con quel libro darci il romanzo della carità cristiana portata nel campo sociale sotto forma di larga e disinteressata assistenza alle classi più bisognose e alle miserie più nascoste. La molla della società contemporanea, secondo Balzac, è l’egoismo borghese con la sua rapace ambizione e la sua sete di godimento inesausta: la così detta beneficenza o filantropia non è altro che una comoda maschera di cui quell’egoismo si giova (nella migliore ipotesi) per apparire men brutto ai suoi stessi occhi. Ma la carità agisce per proprio conto e si propaga coi suoi propri mezzi, ignorata dall’egoismo borghese.

  C’è a Parigi, nella Parigi della Restaurazione e di Luigi Filippo, una specie di catacomba, una società segreta i cui membri si sono consacrati all’assistenza materiale e morale dei poveri e degli afflitti. Sono i «Fratelli della consolazione». Col suo gusto del mistero, Balzac aveva immaginato parecchi anni prima un’altra società segreta, composta di avventurieri senza scrupoli che si aiutano a vicenda con qualunque mezzo, non escluso il delitto. Nella Parigi ottocentesca è anche questa una catacomba, e Balzac ci dà dei saggi del misterioso agire della setta nei tre episodi per sé stanti della Storia dei Tredici. I Fratelli della consolazione sono soltanto quattro: un marchese già militare, un vecchio magistrato, un modesto borghese, un prete; e fanno capo a una vecchia signora, che è la loro ispiratrice e la loro guida. È tutta gente la cui vita è stata spezzata o abbeverata di dolore durante la Rivoluzione e l’Impero.

  Ma a un certo momento è ammesso nella catacomba, e a poco a poco iniziato ai misteri della carità, un giovane risalito dagli abissi della disperazione, che finisce col diventare il quinto membro del sodalizio. La scoperta ch’egli fa della catacomba parigina, tra le vecchie case annidate da secoli all’ombra di Notre-Dame, nelle silenziose e segrete viuzze dai nomi suggestivi (rue Chanoinesse ...), è tra le cose più belle che abbia scritto Balzac, il Balzac poeta di Parigi e precursore in questo di Baudelaire. In quell’ombra, in quel poetico mistero vive la creatura angelica che è l’anima del gruppo, dotata anche lei d’un nome in armonia con l’ambiente (Madame de la Chanterie).

  Bernari è stato soprattutto colpito da un passo del romanzo in cui al nuovo iniziato vengon rivelate alcune attività dell’associazione. Uno degli antichi adepti, com’egli stesso dichiara al giovane, dovrà prender posto nel centro d’un vulcano: entrerà come impiegato in una grande fabbrica, «i cui operai sono tutti infetti di dottrine comuniste, e che sognano la distruzione sociale, l’uccisione dei padroni, senza sapere che sarebbe la morte dell’industria, del commercio, delle fabbriche». Ci rimarrà forse un anno a tenervi la cassa e i registri, e così penetrerà in cento o centoventi famiglie di povera gente traviata senza dubbio dalla miseria prima che dai cattivi libri. «Quali che siano la sua credenza e le sue opinioni, — continua l’antico adepto — un infelice è prima di tutto un infelice; e noi non dobbiamo fargli rivolger la faccia verso la nostra santa madre Chiesa, se non dopo averlo salvato dalla disperazione e dalla fame». E nelle conversioni l’esempio e la dolcezza gioveranno più che altri mezzi, perché ogni costrizione è cattiva e si deve contar soprattutto sull’aiuto di Dio.

  Bernari ha pensato sùbito a quel che è accaduto ultimamente in Francia e con un brillante paradosso ha intitolato il suo articolo Balzac inventore dei preti operai.[7] Io invece, quando parecchi anni fa lessi il romanzo, pensai sùbito, e proprio in quel punto, alla Società di San Vincenzo de’ Paoli, fondata nel 1833 da Anton Federico Ozanam con la collaborazione di sette amici; e poi ho visto con piacere che nella grande tesi di dottorato di Philippe Bertault, Balzac et la religion, si dimostra con buoni argomenti che la Società di San Vincenzo de’ Paoli fu effettivamente uno dei modelli da cui Balzac esemplò i suoi Fratelli della consolazione. Il santo della carità è del resto nominato in tutte lettere già nei primi colloqui tra l’antico adepto e il giovane catecumeno: «Come, figliolo mio? Non ci si può sentir commossi da una profonda pietà allo spettacolo delle miserie che Parigi racchiude tra le sue mura? San Vincenzo de’ Paoli non ebbe bisogno dello stimolo del rimorso o della vanità ferita per dedicarsi ai fanciulli abbandonati».

  Fu per il disegno generale della Commedia umana le cui fila s’intrecciano da un romanzo all’altro, ovvero per un’affermazione legittimista, che Balzac fece risalire ai primi anni della Restaurazione, tra persone devote al trono e all’altare, la prima origine del suo sodalizio? Comunque sia, la Società di San Vincenzo de’ Paoli nacque e si organizzò in tutt’altro clima. [...].

 

  Perle e zaffiri, pp. 183-184.

 

  Cfr. 1956.

 

 

  Mario Vani, Dimore parigine di Balzac, «Scena illustrata», Firenze, Anno LXXIII, N. 12, Dicembre 1958, p. 21; 1 ill.

 

  Alla disianza di oltre un secolo dalla morte, non tutte le dimore parigine, dove Honoré de Balzac visse, ed oprò, carico di debiti e di gloria, sono oggi rintracciabili. Alcune sono del tutto scomparse. Altre, rimodernate lungo gli anni, non ne serbano che una pallida traccia.

  Come Via Lesdiguières, per esempio. In questa via, nella soffitta dello stabile contrassegnato dal numero nove, Balzac incominciò la sua carriera di scrittore, nel 1820, avendo da poco superato i vent’anni. Poiché non ha voluto fare il notaio; dalla famiglia gli sono concessi due anni di tempo per decidersi e, intanto, da Villeparisis, se ne viene a Parigi col magro assegno di centoventi franchi. Ma il giovane non si spaventa. Per nutrirsi, gli sono sufficienti tre soldi di pane, due di latte e tre di salame. La soffitta di Via Lesdiguières, poi, con le sue finestre spalancate sul cortile, è quanto di più squallido si possa vedere. Le sue pareti sono di un giallo sporco, il tetto vi è inclinato e le tegole, sconnesse, lasciano intravvedere il cielo. «Vissi in quel sepolcro aereo — racconterà più tardi Balzac — per quasi tre anni, lavorando notte e giorno, senza riposo ...». A che cosa lavori, è risaputo. Sta scrivendo quell’orribile Cromwell, per il quale lo ammoniranno di fare «qualsiasi cosa, tranne letteratura».

  La Via Lesdiguières, ancor oggi, si snoda da Rue Saint-Antoine e Boulevard Henri IV che, ai tempi di Balzac, si chiamava Rue de la Cerisaie. Ma i luoghi, per nostra fortuna, sono quegli stessi menzionati dal Poeta: come l’Arsenale, nella cui Biblioteca, fondata dal marchese d’Argensons, Balzac amava trascorrere intere ore in ricerche; e così è del Boulevard Beaumarchais, dove talvolta andava a passeggiare; e ancora c’è il Père-Lachaise, ch’era il suo svago preferito.

  Trascorrono gli anni. E sino al 1830, per quante ricerche si siano fatte, non si ha alcuna notizia delle altre dimore balzacchiane, quel ch’è certo, è che nel 1830 — stabilitosi a Rue Cassini, in fondo al Lussemburgo e nei pressi dell’Osservatorio — l’aquilotto ha già messo le ali. È l'epoca delle Scènes de la vie privée, della Maison du chat qui pelote, quando già sono apparsi, e con successo di critica e di pubblico, Dernier Chouan e Physiologie du mariage. La mansarde di Via Lesdiguières non è che un lontano ricordo, ormai; e Balzac, che si è fatto assiduo frequentatore dei salotti della contessa Merlin, di Sophie Gay e di Madame Récamier, ha ora tilbury e cavalli che sostano al portone; e va a vestirsi da Buisson e riempie l’appartamento con armadi costruiti da Boulle. Se percorriamo la Rue Cassini — ch’è adiacente al Faubourg Saint Jacques — invano cercheremo, oggi, la fastosa dimora del romanziere, demolita da tempo e sostituita, in quella medesima area, da un’altra più comune.

  Nel 1835, troviamo Balzac a Chaillot in Rue des Batailles 13, dove, per sfuggire ai creditori, ha affittato un appartamento sotto il nome di «Veuve Durand» e dalle cui finestre si gode una vista meravigliosa: la Senna, la Scuola Militare, il Campo di Marte e la Cupola degli Invalidi. Il soggiorno in Rue des Batailles, anche se i debiti sono in continuo aumento, segna un periodo di fervore, nel quale, a Le (sic) peau de chagrin, a La femme de trente ans e ad Eugénie Grandet — per citare le opere più cospicue — seguono, fra le altre, Le père Goriot, Le lys dans la vallée e La fille aux jeux (sic) d’or. Lo scrittore, vero galeotto della penna, è capace di lavorare sedici ore difilate e, poiché sa che Parigi non perdona al genio coperto di cenci, anche a Rue des Batailles egli si circonda di lusso; ed indossa il famoso abito blu dai bottoni d’oro e se ne va in giro con un bastone dal pomo di turchesi e con tanto di occhialetto. La Rue des Batailles, oggi, non c’è più. Al suo posto, si snoda la magnifica Avenue Jéna che, dall’Etoile, raggiunge i giardini del Trocadero e il Palazzo di Chaillot.

  A Passy è la penultima abitazione parigina; e in questo quartiere, intorno al 1840, Balzac, per sé e la madre, affittò uno stabile al numero 47 di Bue Basse, attualmente Rue Raynouard. La casa esiste ancora e vi si conservano vari cimelii ma, essendo tuttora in via di sistemazione, mi è stato possibile di vedere soltanto poche cose: un armadio, una piccola scrivania, alcuni grossi lumi in ottone e un busto del romanziere nel giardino sottostante, fiancheggiato da due leoni accovacciati e in stile egizio. Dietro la casa, è poi l’ingresso secondario per il quale Balzac se la svignava al sopraggiungere dei creditori.

  Nei pressi dell’Etoile, sul marciapiede di sinistra per chi scende lungo gli Champs Elysées, è la via dell’’ultima dimora del romanziere, portante ora lo stesso suo nome, e che ha sostituito la Rue Fortunée, nella cui casa segnata dal numero 14, ed oggi scomparsa Balzac morì. Prima del trapasso, aveva detto «Seppellitemi al Père-Lachaise. Io penso come Napoleone, che solo a Parigi si possa dormire bene l’ultimo sonno».

  Il Père-Lachaise ... Vi era stato, tante volte nei lontani anni della giovinezza. E lì c’eran poi Molière, La Fontaine, Massena, Cherubini. L’anno avanti c’era anche andato Federico Chopin, come più tardi sarebbero venuti a fargli compagnia, Alphonse Daudet ed Oscar Wilde.

  Per chi, varcato il Père-Lachaise, si avvii lungo il viale principale, lasciandosi alla sinistra le tombe di Rossini e di Alfred De Musset è solo in alto, quasi scavata nel cielo, che gli verrà fatto di raggiungere — alla Traversale des Marroniers — la tomba di Balzac, cui sovrasta, dominante la sottostante Avenue Gambetta, un busto del Poeta. In basso, nel breve recinto di ferro, è una croce con un libro il bronzo. Due simboli eterni: il Cielo e la Terra, Dio e la Comédie Humaine.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Apostrophe. Commedia musicale in un atto (dai «Contes drolatiques» di Honoré de Balzac). Testo e musica di Jean Françaix, Terzo programma, 13 novembre 1958.

 

 

  La camera viola di Honoré de Balzac. Traduzione e adattamento di Roberto Cortese. Compagnia di prosa di Firenze della Radiotelevisione italiana. Regia di Amerigo Gomez, Secondo Programma, 10 dicembre 1958.

 

 

  Eugenia Grandet. Romanzo di Honoré de Balzac. Adattamento di Ada Supino. Allestimento di Vittorio Brignole 13 giugno-25 giugno 1958, quattro puntate.

 

 

  I professionisti dell’entusiasmo. Programma a cura di Dario Puccini e Mario Carbonoli. Piccola cronistoria della claque narrata da Honoré de Balzac, Hector Berlioz, Gérard de Nerval, Théophile Gautier e da alcuni famosi «creatori di successo». Compagnia di prosa di Roma della Radiotelevisione italiana. Regia di Guglielmo Morandi, Terzo programma, 26 ottobre 1958.

 

 

  Un’oscura vicenda di Honoré de Balzac. Traduzione e adattamento radiofonico di Antonio Mori. Compagnia di prosa di Firenze della Radiotelevisione italiana. Regia di Umberto Benedetto, Secondo programma, 5-19 febbraio 1958, cinque puntate).

 

 

  Honoré de Balzac, La recluta. Traduzione di Paolo Russo, Lettura, Terzo programma, 7 marzo e 14 ottobre 1958.

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Mercadet l’affarista. Traduzione di Carlo Terron. Regia di Virginio Puecher. Scene di Luciano Damiani. Costumi di Ezio Frigerio. Musiche di Fiorenzo Carpi. Interpreti principali: Armando Alzelmo, Tino Buazzelli, Raoul Consonni, Ottavio Fanfani, Gabriella Giacobbe, Aldo Giuffrè, Giulia Lazzaroni, Andrea Matteuzzi, Gastone Moschin, Maria Zanoli, Stagione 1958-1959.



[1] Cfr. 1954.

[2] Pubblicati da Balzac su vari periodici, come si specificherà più avanti, questi scritti furono raccolti nel volume, oggi rarissimo: Honoré de Balzac Critique littéraire, a cura di Louis Lumet, Paris, 1912; in 8°, pp. 296. [N. d. A.].

[3] Cfr. G. Lukács, La polemica fra Balzac e Stendhal, in Saggi sul realismo, Torino, 1950. Ci permettiamo, per tutta la questione, e per l’influenza su Balzac di Stendhal (che si può considerare sotto un certo riguardo come suo “maestro”) di rinviare alla nostra Prefazione al vol. Armance, Lamiel e racconti di Stendhal, Torino, 1957. In essa il lettore potrà facilmente trovare, oltre alle nostre personali opinioni, le indispensabili informazioni bibliografiche. [N. d. A.].

[4] Si vedano qui in particolare le ultime pagine della recensione al Corso di Storia degli Stati Europei. Ivi Balzac sostiene che il Cattolicesimo (che era per lui il Cristianesimo veramente organizzato e eminentemente fattore di Storia) deve essere considerato “au moins comme un pas fait par l’humanité dans sa carrière progressive, un échélon conduisant comme les religions qui l’ont précédé, et qui ont fini comme lui, vers cet avenir où l'homme jette toujours un regard d’espérance” (testo del Lumet, p. 69). Il Cattolicesimo sarebbe dunque finito, sia pure, s’intende, solo nel senso di dottrina capace di abbracciare gli ulteriori sviluppi della scienza nel pensiero umano? Tale affermazione può sorprendere in Balzac, e vieti fatto di riferirla a questo suo primo periodo, nel quale (come mostrano a nelle le ultime righe del brano qui citato,) egli era tuttora penetrato dalle grandiose quanto vaghe aspirazioni e speranze rinnovatrici dell’idealismo romantico. Ma in verità il conoscitore di Balzac dovrà ricordare tutti gli elementi che ci inclinano a credere che il suo famoso assolutismo religioso e monarchico fosse per lui piuttosto una “mitologia” moralistico-politica, la semplice sottostruttura pei suoi romanzi. Mentre la sua vera Fede era di natura assai meno dogmatica e più mistica: come sappiamo dai suoi entusiasmi non mai smentiti per Swedenborg, e da quello strano racconto, o meglio poema in prosa, che egli intitolò Séraphita. E questo passo ce ne dà una prova di più. [N. d. A.].

[5] Appunto basandosi su questo principio il Cuvier, come è noto, procedé alle sue famose ricostruzioni; ricostruì il dinosauro da pochi elementi fossili del suo scheletro, tutto intero, quale doveva essere e sostenendo che non poteva esser stato diverso. È da notare che mentre il Cuvier (1773-1838) verso la fine della sua vita si allontanò dalla rigidezza delle sue prime concezioni sulla “unità di composizione organica’’ delle specie animali, il Saint-Hilaire invece (1771-1844), che è stimato creatore dell’embriologia, vi rimase assai più fedele. Il che gli valse anche la maggior fedeltà del Balzac. [N. d. A.].

[6] L'iscrizione in arabo del talismano, — e non in sanscrito, come invece scrive Balzac, (vedi pagg. 56 e 57), — apparirà soltanto nelle edizioni posteriori al 1835; il testo fu vergato dall'orientalista Hammer-Purgstall, amico dello scrittore. [N. d. A.].

[7] Cfr. Carlo Bernari, Inventore dei preti operai, «Milano-sera», Milano, Anno X, 12 maggio 1954, p. 3.



Marco Stupazzoni

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