venerdì 9 aprile 2021


2017

 

 

 

 

Adattamenti.

 

 

  Honoré de Balzac, Louise e Renée: da “Mémoires de deux jeunes mariées” di Honoré de Balzac. Regia di Sonia Bergamasco. Drammaturgia: Stefano Massini, Milano, Edizioni Piccolo Teatro di Milano, 2017, pp. 35; ill.

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Il talento e la gotta saltano due generazioni, «il Giornale. Controcultura», Milano, Anno XLIV, numero 102, 30 aprile 2017, pp. 23-24.

 

  Da: Albert Savarus.

 

 

  Honoré de Balzac, Trattato degli eccitanti moderni. [Traduzione di Luca Lamberti], in AA.VV., A tavola. Storie di cibi e vini. A cura di Andrea Mattacheo, Torino, Einaudi, 2017 («et Biblioteca»), pp. 257-268.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Albert Savarus. A cura di Pierluigi Pellini. Traduzione di Francesco Monciatti, Palermo, Sellerio editore, (aprile) 2017 («La memoria», 1063), pp. 231.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Albert Savarus, pp. 6-169;

  Note, pp. 171-197;

  Pierluigi Pellini, «... quel sentimento chiamato “desiderio”», pp. 198-225;

  Id., Nota, pp. 227-22228.

 

  Pubblicato prima in appendice ne «Le Siècle» (29 maggio-11 giugno) e immediatamente inserito nel primo volume de La Comédie humaine di Furne il 25 giugno 1842, Albert Savarus vede per la prima volta (e finalmente) la luce in volume tradotto con rigore da Francesco Monciatti, in questa bella edizione curata da Perluigi Pellini per la collana “La memoria” dell’editore Sellerio.

  Si tratta, come abbiamo riferito, della prima traduzione italiana pubblicata in volume, ma non della prima versione del romanzo in senso assoluto apparsa in Italia: una nostra recente ‘trouvaille’ ha permesso, infatti, di individuare, tra le pagine del quotidiano: «Il Giornale di Padova», quella che, verosimilmente, può considerarsi come la prima traduzione del romanzo balzachiano nel nostro idioma. Pubblicata a puntate dal 17 maggio al 20 giugno 1881, essa ha come titolo: Gloria Mundi, e, lontana dal potersi ritenere esemplare per aderenza e fedeltà al modello francese, si deve a Ugolino Ugolini.

  Il 1842 è un anno determinante nella vita di Balzac per quanto concerne, soprattutto, il coinvolgimento sentimentale del romanziere con Mme Hanska e il suo tentativo di ricucire un legame ormai prossimo al logoramento. In questa strategia di riconquista, osserva Pellini nella sua ottima postfazione al romanzo («… quel sentimento chiamato “desiderio”», pp. 201-225), «si inserisce – tassello fondamentale quanto ambiguo – la scrittura di Albert Savarus» (p. 204). Il libro, infatti, non sarà, come scrive Balzac alla Straniera, una lezione per l’uomo, ma essenzialmente una lezione per Mme Hanska. L’azione di Albert Savarus si svolge in provincia, a Besançon (luogo di stendhaliana memoria), in un contesto ristretto e opprimente, ben lontano dal dinamismo proprio degli scenari parigini. Il testo, nel quale risulta evidente l’allusività autobiografica, rivela, al di là delle finalità contingenti (la riconciliazione con Mme Hanska), una «inopinata complessità metaletteraria» (p. 210), motivo non ultimo della sua ricchezza e del suo fascino. In Albert Savarus, Balzac afferma il valore in sé del desiderio (indipendentemente dal risultato) postulando, allo stesso tempo, «la sua coincidenza con l’immaginazione romanzesca» (p. 217). Questa mistica del desiderio trova, nel romanzo, il suo punto focale non tanto o non solo nei personaggi maschili, ma soprattutto in una figura femminile, quella di Rosalie: il suo peso diegetico nell’economia della narrazione la eleva a vero e unico personaggio romanzesco proprio perché il «motore della trama è la violenza umanissima e incommensurabile, in tutti i sensi incontrollabile, del suo desiderio» (p. 222). A questo genio del male, Balzac riconosce simbolicamente «un accesso privilegiato a quelle sorgenti dell’energia e del desiderio che più di ogni altra cosa determinano […] la grandezza degli umani destini» (p. 225).

 

 

  Honoré de Balzac, [Il Contratto di matrimonio], en langue russe, Bologna, Massimiliano Piretti Editore, 2017, pp. 140.

 

 

  Honoré de Balzac, Il curato di Tours. [Traduzione di] Barbara Gambaccini, Massa, Edizioni Clandestine, 2017, pp. 88.

 

 

  Honoré de Balzac, L’elisir di lunga vita (1830). [Traduzione di A. Vittorini], in AA.VV., Sulle orme di Don Giovanni, a cura di Guido Davico Bonino, Torino, Nino Aragno Editore, 2017 («Biblioteca Aragno»), pp. 183-206.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di A.G.H. Spiers. Traduzione di Grazia Deledda, Molinella (Bo), Gingko Edizioni, 2017 («Fiction», 72), pp. X-188.

 

  Nella nota introduttiva, che Spiers compilò come introduzione ad una traduzione in lingua inglese del romanzo edita a Boston nel 1914 (D. C. Heaths & Co Publishers), è tracciato, a grandi linee, il percorso formativo, personale e letterario, dello scrittore francese: l’influenza della scuola inglese dell’horror (Radcliffe, Lewis, Maturin) unitamente a quelle di Walter Scott e di Fenimore Cooper hanno rappresentato i modelli letterari a cui Balzac ha pienamente attinto per poi rifondare l’estetica romanzesca secondo paradigmi e modalità del tutto personali e, in un certo senso, rivoluzionari. Per nulla in grado, nonostante il vivissimo interesse, di comprendere l’universo delle scienze e del sovrannaturale, per cui Balzac, scrive Spiers, «tende a esagerare una mezza verità fino che essa non diventa un’assurdità» (p. V), l’autore di Eugénie Grandet si è rivelato scrittore unico e insuperato soprattutto nella descrizione psicologica dei personaggi ai quali Balzac, rivolgendosi ai più grandi dolori dell’esistenza umana, fornisce un aspetto distintivo scegliendone con cura il nome, l’ambiente che li circonda.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Centauria, 2017 («I classici del romanzo»), pp. LXI-174.

 

  Per la traduzione, cfr. 1973; per l’introduzione, cfr. 1984.

 

 

  Honoré de Balzac, Honorine. Traduzione dal francese di Luciano Montanari, Marano Principato, The Writer, 2017 («Universal Book»), pp. 143.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Centauria, 2017 («I classici del romanzo»), pp. LXIV-649.

 

  Per la traduzione, cfr. 1973.

 

 

  Honoré de Balzac, Gli impiegati. Introduzione, prefazione e note di Bruno Nacci. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Garzanti, 2017 («I grandi libri»), pp. XXXIII-251.

 

  Cfr. 1996 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Louis Lambert. Traduzione di Paola Dècina Lombardi, Roma, L’Orma editore, (maggio) 2017 («Kreuzville Aleph»), pp. 159.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Paola Dècina Lombardi, Introduzione. “Louis Lambert”, un romanzo di esperienza, pp. 7-22;

  Bibliografia, pp. 23-28;

  Louis Lambert, pp. 29-157.

 

  Romanzo di un’esperienza interiore, Louis Lambert fa parte, insieme a Les Proscrits e a Séraphîta, della trilogia filosofica del Livre Mystique, pubblicata nel 1835. Prendendo a modello il misticismo di Swedenborg, che lo scrittore oppone al cattolicesimo, come nuovo codice di una religione fondata sul Cristianesimo puro delle origini, Balzac, scrive Paola Dècina Lombardi nel saggio introduttivo che precede l’opera, mostra evidente il suo interesse per «una religiosità e una spiritualità autentiche capaci […] di stemperare la tendenza materialistica nella Francia del primo Ottocento» (p. 18). Il concetto stesso di natura angelica, quale esito superiore di una elevazione dell’uomo verso le dimensioni dello spirito e della bellezza, si intreccia strettamente, in Balzac, al tema del demone della conoscenza il cui rischio è «la consunzione precoce, o l’alienazione dalla realtà e quindi la follia» (p. 19).

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Centauria, 2017 («I classici del romanzo», 52), pp. LXIV-245 e Milano, Garzanti, 2017.

 

  Cfr. 1974 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Pene d’amore di una gatta inglese, in AA.VV., Pene d’amore di una gatta inglese e altri racconti felini. Traduzione di Massimo De Pascale, Roma, Elliot-Lit edizioni, (gennaio) 2017 («Raggi»), pp. 7-26.

 

 

  Honoré de Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Attilio Bertolucci, Milano, Garzanti, 2017 («I grandi libri»), pp. LX-67.

 

  Per la traduzione, cfr. 1946.

 

 

  Honoré de Balzac, La ricerca dell’assoluto. Traduzione di Paolo Carbonini, Milano, Edizioni Quintoelemento, 2017 («Collana Arco Giallo», n. 1), pp. 313.

 

 

  Honoré de Balzac, La ricerca dell’assoluto. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzione di Andrea Zanzotto Milano, Garzanti, 2017 («I grandi libri»), pp. XXIII-190.

 

  Per la traduzione, cfr. 1975.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Traduzione di Marise Ferro. Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini, Milano, Mondadori, (febbraio) 2017 («Oscar classici», 83), pp. XXXVI-579.

 

  Per la traduzione, cfr. 1964.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. V-XXXVI;

  Splendori e miserie delle cortigiane, pp. 1-578.

 

  L’eterogeneità e la polifonia dei temi, dei personaggi, degli ambienti e dei linguaggi che percorrono e nutrono gli spazi e i ritmi narrativi di uno tra i romanzi più popolari, ma meno considerati dalla critica, almeno fino alla metà del Novecento, della Comédie humaine: Splendeurs et misères des courtisanes, trovano la loro realizzazione concreta e in divenire attraverso, soprattutto, il personaggio ambiguamente titanico di Vautrin. La figura proteiforme dell’ex-forzato Jacques Collin, che già nel Père Goriot sembrava primeggiare per intensità drammatica e complessità psicologica e morale sugli altri attori del romanzo, diventerà, in Splendeurs et misères, uno dei grandi miti della letteratura del XIX secolo, capace, allo stesso tempo, di trasmettere al lettore «l’impressione fortemente unitaria di una narrazione di vasto respiro» (p. VI dell’Introduzione al romanzo di Mariolina Bongiovanni Bertini). Le quattro parti che formano l’opera furono pubblicate tra il 1838 e il 1847 con titoli e suddivisioni differenti. Nella citata Introduzione di Bongiovanni Bertini al romanzo di Balzac (pp. V-XXXVI) – tradotto esemplarmente da Marise Ferro – la curatrice, nel ricostruire con minuzia la genesi, alquanto tormentata, del testo, sottolinea il carattere antifeuilletonesco (‘alla Sue’) di Splendeurs et misères dove, all’intensità, tutt’altro che melodrammatica, dell’azione narrativa, che vede sempre al centro, come protagonista assoluto, Vautrin, si intreccia uno studio approfondito, quasi didattico, del mondo giudiziario, da un lato, e della complessità, contraddittoria e paradossale, della realtà sociale, dall’altro. Nel romanzo, la «plasticità polimorfa» (p. XXIX), cinica, spietata e, allo stesso tempo, ironica di Vautrin contribuisce in modo decisivo alla polifonia del testo. L’ambiguità dell’eroe determina, in altri termini, la forza trasfiguratrice della scrittura: si tratta, in fondo, della stessa ambiguità «che è prerogativa irrinunciabile della forma romanzo, modellata da vicino sulle tensioni sotterranee, i meccanismi contraddittori e le labirintiche complicazioni del reale» (p. XXX).

 

 

  Honoré de Balzac, Un tenebroso affare. Traduzione di Maria Ortiz. Con un saggio introduttivo di Pietro Paolo Trompeo, Milano, Rusconi libri, («Grande Biblioteca Rusconi»); Rimini, Theoria; Forlì, Foschi Editore, (maggio) 2017, pp. XVI-191.

 

  Cfr. 1964.

 

  Struttura delle opere:

 

  Pietro Paolo Trompeo, Saggio introduttivo. Chiose a Balzac, pp. V-XI;

  La Commedia Umana, pp. XIII-XVI;

  Un tenebroso affare, pp. 1-190.

 

  Bizzarra quanto discutibile operazione editoriale quella che vede protagonista questa edizione italiana di Une ténébreuse affaire: sono pubblicati, infatti, pressoché in contemporanea, tre volumi distinti del romanzo di Balzac, che presentano la stessa traduzione curata da Maria Ortiz, lo stesso saggio introduttivo di Pietro Paolo Trompeo: Chiose a Balzac (pp. V-XI), risalente agli anni Cinquanta del secolo scorso, e lo stesso numero di pagine.

  A giudizio del Trompeo, anche in Une ténébreuse affaire, «i punti in cui rifulge meglio l’arte di Balzac sono una descrizione ambientale e un ritratto» (p. VII): in Balzac, «l’ambientalista, il ritrattista e lo storico si lasciano addietro di gran lunga il narratore-inventore: quanto questi è maldestro o arruffone, tanto quelli sono vigorosi, intelligenti e profondi» (Ibid.).

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac al femminile di Sonia Bergamasco, «La Sicilia», Catania, 16 marzo 2017.

 

  Balzac al femminile al Piccolo Teatro Grassi di Milano, dove dal 21 marzo Sonia Bergamasco dirige Federica Fracassi e Isabella Ragonese in Louise e Renée, che Stefano Massini ha liberamente tratto dalle Memorie di due giovani spose (1842), unico romanzo epistolare dell’autore de La commedia umana. Le due giovani spose del titolo sono Louise, nobile parigina, e Renée, figlia di piccoli possidenti provenzali, cresciute insieme in un convento. Il loro scambio epistolare comincia quando Louise rientra a Parigi, pronta ad assalire la vita e piena di aspettative sull’amore. La sua ricerca appassionata la porterà all’autodistruzione, svelata lettera dopo lettera, mentre Renée, sposata a un uomo più anziano, diventerà una matriarca dolce e ferma. “Frammenti di un discorso sull’amore – osserva Sonia Bergamasco – Louise e Renée sono due giovani donne legate da un’amicizia profonda che affonda le radici nell’infanzia, trascorsa insieme in convento.

 

 

  Libri. Giuseppe Ferrandino, “Onorato”, Bompiani, 208 pp., 17 euro, «Il Foglio», Milano, Anno XXII, Numero 205, 31 agosto 2017, p. 3.

 

  Giunto alla fatidica tappa dei cinquant’anni, Onorato de B*** decide di scrivere le sue memorie e raccontare la sua rocambolesca vita. Nei primi capitoli, in cui vengono narrate le complesse quanto assurde vicende familiari e i difficili e poco amorevoli rapporti di Onorato con i genitori, il linguaggio è affettato e stucchevole, fortemente ricercato, come a ricalcare i tentativi del giovane de B*** di dimostrare al mondo che in lui c’è la grandezza e la tensione a eternarsi tra gli uomini quale uno degli scrittori più importanti di tutti i secoli, nonostante gli sberleffi e la mancanza di fiducia della famiglia e dei conoscenti. Ma nelle pagine successive la lingua si fa più sciolta, acquisisce consapevolezza, di pari passo con l’ingresso nel mondo letterario di Onorato e con le prime esperienze di vita, che costituiranno per lui la chiave di volta per scandagliare il cuore umano.

  Giuseppe Ferrandino costruisce sapientemente la vita di Honoré de Balzac senza ricorrere all’aneddotica, bensì destreggiandosi in una narrazione a tratti umoristica che ben si confà con la personalità dello scrittore, uomo pantagruelico, in tutti i sensi, e dedito ai piaceri della vita. Infatti il romanzo si concentra poco sugli aspetti meramente letterari (tant’è che verranno citate con il proprio titolo una o due delle opere della sterminata produzione di Balzac), dando maggiore rilievo alla biografia dello scrittore francese, che è stata fondamentale per la sua scrittura, prima fonte di ispirazione. Ne emerge un ritratto spesso buffo, perché profondamente veritiero, in quanto nel racconto delle debolezze di uno dei capisaldi della letteratura mondiale anche lo scrittore geniale viene riportato ad altezza umana, fallibile, e si assiste alle ricadute di Onorato nei suoi vizi, dall’intrattenere plurime e contemporanee relazioni con donne allo sperperare denaro prestatogli da ammiratori e amici, diventati tutti automaticamente eterni creditori, con tenerezza, quasi come se si seguissero le avventure di un bambino a cui si è molto affezionati e gli si perdona tutto. Nell’affastellarsi di spaccati di vita quotidiana e non, emerge però la voglia bruciante di Balzac di affermarsi, di sprigionare ciò che in lui richiede di aver forma e riconoscimento, di dar compimento al destino che si porta dentro, da sempre cosciente di poter rientrare nell’Olimpo della letteratura. Una vocazione, la sua, che lo rimette puntualmente in piedi anche quando la vita gli sbatte in faccia le sue porte. Onorato infatti riesce sempre a cavarsela, anche in situazioni al limite, perché è cosciente del suo compito sulla terra, “non conoscendo affatto la statura di Dio”, come direbbe De André. Egli non nega la sua unicità, il suo orgoglio e la sua presunzione perché si paragona ai grandi uomini del passato e sa che in futuro verrà ricordato. Bellissime le pagine in cui Onorato ragiona sul suo rapporto con la letteratura, ciò che lo tiene a galla e che ha dato scopo a un’esistenza che altrimenti si sarebbe persa nel pessimismo di una famiglia poco presente e nella carnalità di un carattere propenso a succhiare l’attimo fino a consumarsi.

  Tra salotti parigini frequentati da penne e menti sopraffine come Victor Hugo e Alexandre Dumas, anche loro tratteggiati nella loro umanità e non per il loro lascito, e viaggi in Italia, Austria, Ucraina, è interessante intravedere la vita dell’Europa dell’epoca della Restaurazione. Onorato è un romanzo che si fa leggere piacevolmente e che ha il grande merito di suscitare, per riflesso, trasporto e avvicinamente (sic) alla grande letteratura francese dell’Ottocento.

 

 

  “Incontro” tra Antonio Moresco e Honoré de Balzac, ‘il Libraio.it’, 18 settembre 2017.

 

  “(…) Balzac è stato, come pochi altri, una grande nave scuola per gli scrittori. Nella sua sconfinata, infantile e commovente libertà ha aperto un’infinità di strade, che molti scrittori dopo di lui hanno potuto percorrere in modo altrettanto originale e libero. Anche Dickens è stato una grande nave scuola, e in qualche caso (Dostoevskij) i suoi grandi allievi sono stati gli stessi di Balzac…”.

  “(…) l’opera di Balzac è in perenne tensione e in metamorfosi incessante, in Balzac sulla pienezza prevale la metamorfosi, cioè quella forza intima che gli antichi credevano possibile, presente e agente dentro la vita e addirittura nel cuore stesso della vita e alla quale i moderni invece non credono più. Perché in Balzac anche la pienezza viene messa in sofferenza, non può bastare a se stessa, si squarcia continuamente. Tutto ciò – se la metamorfosi esista o meno, se sia possibile o meno – non ha solo rilevanza a livello di pensiero e di invenzione del mondo ma anche a livello narrativo e artistico. Perché, se questa forza non è più possibile e non è più attingibile e presente, se non può più fare irruzione nella vita e anche nelle opere letterarie, se c’è solo la linearità edificante, progressiva o regressiva, del presunto progresso umano o, al suo contrario speculare, del regresso e del nulla, allora anche la forma del romanzo – questa grande invenzione espansiva, perigliosa e libera di immaginazione e pensiero che ha avuto un grande momento di esplosione irradiante nell’Ottocento e alla quale Balzac ha dato un impulso formidabile – perde la sua potenza di figurazione, prefigurazione, precognizione e pensiero, diventa un inventario del nulla, della vita privata della sua potenza interna e lobotomizzata. Ciò non riguarda solo le forme narrative ma anche la loro potenzialità, la loro vettorialità, la loro portata e il loro campo di forze …”.

  “(…) A me pare che la forza della critica stia nella sua capacità di fare ponte, di rovesciare le zolle, di arare il terreno per renderlo di nuovo fertile, di svolgere la nobile funzione del lombrico. Invece raramente succede questo, tanto più in questa epoca. Le concatenazioni culturalistiche e concettuali che hanno preso il sopravvento soprattutto nel Novecento e, in particolare, nella seconda metà del Novecento, il procedere della cultura attraverso la proliferazione delle separazioni, delle astrazioni e delle antinomie e l’allontanamento e il raffreddamento dei corpi vissuto come unico movimento ancora possibile – mentre ne può esistere anche un altro che tende invece alla concentrazione e alla fusione – rendono spesso la critica di questa epoca sempre più inerte, quando non dannosa, terminale e mortuaria nella sua ormai totale autorappresentazione e identificazione con l’aggressore. Questo non solo oggi, purtroppo, perché è lungo l’elenco dei critici del passato, anche dei più celebrati, che non hanno capito niente degli scrittori che avevano sotto il naso, i quali sono stati invece compresi, amati e salvati da altri scrittori e artisti …”.

 

 

  La «Correspondance» di Balzac al traguardo del terzo volume, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, n. 327, 3 Dicembre 2017, p. 27.

 

  Nella “Bibliothèque de la Pleiade” di Gallimard si conclude, con l’uscita del terzo volume (pagg. 1424, € 59), la pubblicazione della «Correspondance» di Balzac. Vi si trovano le lettere del celebre scrittore e dei suoi interlocutori dal 1842 al 1850. Si leggono le missive che il grande Honoré ha spedito o ricevuto da George Sand o Hector Berlioz, da Théophile Gautier o Victor Hugo, ma anche le relazioni epistolari che ebbe con altri personaggi francesi o stranieri. Un universo che riflette “La Comédie Humaine”, in cui non mancano i salotti, gli amori appassionati, i problemi spiccioli creati da mancanza di denaro.

 

 

  AA.VV. [Luca Pietromarchi, Alessandra Ginzburg, Agnese Silvestri, Fabio Vasarri, Francesco Spandri, Susi Pietri], Il rosso e l’oro. “La Fille aux yeux d’or” di Balzac. Cinque lezioni a cura di Luca Pietromarchi e Agnese Silvestri, Roma, Biblink editore, 2017 («Didascalie»), pp. 118.

 

  La raccolta in volume di queste cinque lezioni su La Fille aux yeux d’or di Balzac segue di alcuni anni un altro importante insieme di studî critici dedicati al Chef-d’oeuvre inconnu (2015) e pubblicati a cura del Centro di Studi italo-francesi di Roma Tre.

 

 

  Daniele Abbiati, «Albert Savarus». Balzac e le ambizioni perdute nel caos calmo della provincia, «il Giornale. Controcultura», Milano, Anno XLIV, numero 102, 30 aprile 2017, p. 24.

 

  Balzac non era uno scrittore banale, di quelli che spesso e volentieri scrivono per togliersi i sassolini dalle scarpe, per regolare vigliaccamente i conti in un duello impari, dove è uno solo dei contendenti a tenere ... la penna dalla parte del manico. Lui, al contrario, scriveva per metterseli, i sassolini nelle scarpe.

  C’è una sottile vena masochistica nel suo parlare di sé parlando degli altri, nel veleno dell’autoreferenzialità diluito nel mare magnum della Commedia umana. Scrivendo, Balzac i conti li fa soltanto con se stesso. E sono conti esistenziali che, esattamente come quelli economici, non tornano mai. Lessenza borghese di Balzac consiste nellinsoddisfazione: allappello gli manca sempre un tot di franchi, un tot di successo mondano, un tot di prestigio, un tot di potere. Ad aggravare la situazione del buon Honoré c’era poi il legame slegato, sfilacciato dalla lontananza, dalla gelosia e soprattutto dalla differenza di rango, con la contessa Hanska, che per lui rimase sempre e comunque «la Straniera». Anche nei cinque mesi, i suoi ultimi, di un matrimonio ormai fuori tempo e fuori luogo.

  Fra i molti romanzi-autoritratto di Balzac ce n’è uno fino a pochi giorni fa mai tradotto in italiano: una falla opportunamente tappata dalla casa editrice Sellerio che ha mandato in libreria Albert Savarus (pagg. 228, euro 13, traduzione di Francesco Monciatti). Comparso nel 1842 prima in feuilleton su Le Siècle e subito dopo in volume, venne inserito dall’autore nella Commedia umana tra le Scene della vita privata. La chiave della narrazione è tutta in una parola: ambizione. È l’ambizione, sentimento quant’altri mai borghese e balzachiano, a muovere tutti i personaggi in una Besançon retriva e invidiosa, chiusa in casa a coltivare il proprio meschino particulare.

  Quando nel sonnacchioso capoluogo della Franca Contea giunge da Parigi un brillante, seppur asociale, avvocato trentenne, tutti drizzano le antenne: chi è, che cosa vuole da noi? «Il nome de Savaron è celebre. I Savaron de Savarus sono una delle più vecchie, più nobili e più ricche famiglie del Belgio», dice quella smorfiosetta di Rosalie de Watteville, «molto ferrata nella scienza araldica», chiosa ironicamente Balzac. La vicenda, appena iniziata, è già ben apparecchiata. Mammà spinge la sua bambina capricciosa fra le braccia del tontolone di turno, Amédée de Soulas, ma la piccola s’incapriccia del nuovo venuto: ambisce a un amore romantico, non a una sistemazione qualsiasi. Tuttavia Albert la ignora: a renderlo tenebroso è un altro amore in fase calante, per non dire pressoché tramontato. E allora, ovviamente per ambizione, si butta sul lavoro. Dapprima toglie le castagne dal fuoco al clero locale, che è sempre un bel biglietto da visita, per un legale desideroso di farsi una sostanziosa e danarosa clientela. Poi, nutrendo anche ambizioni di giornalista-letterato, mette in piedi una rivista. Su cui pubblica il racconto auto-biografico che Balzac, abile burattinaio, incastona nella trama del romanzo, lì incontriamo la fiamma dell’aspirante principe del foro la quale, purtroppo per lui, è un’italiana di nobili natali, una specie di madame Hanska, ma più passionale. Piano piano, Honoré tesse la tela dai toni gotici che lo “trasforma” nel sofferente Albert, attribuendo al suo personaggio il peso dell’ennesima ambizione, quella, insidiosissima, della carriera politica.

  Ma tutti, proprio tutti, dal curato al sindaco, dalla genitrice dittatrice all’ignara “concorrente” lontana, dovranno vedersela con la vera mattatrice della storia, la satanella Rosalie. Baudelaire scrisse, scherzando sui colpi di scena a volte troppo cervellotici del romanziere, che nei libri di Balzac «perfino le portinaie sono geniali». E questa ragazzina viziata, in tal senso rivela un talento sulfureo. Non diremo come riuscirà ad averla (quasi) vinta. Quanto al destino di Albert, invece, il masochismo di Balzac diventa sadismo, e punisce l’ambizioso ben oltre le sue colpe. Perché somigliano troppo alle sue.

 

 

  Giovanna Angeli, Les trois âges du «Chef-d’œuvre inconnu», in Collectif, L’Atelier des idées: pour Michel Delon, sous la direction de Jacques Berchtold et Pierre Frantz, Paris, PUPS, 2017 («Lettres françaises»), pp. 67-76.

 

 

  Marco Archetti, Manuale Balzac: una sana infanzia infelice, «Il Foglio», Milano, 23 maggio 2017.

 

  “Mia madre è la causa di tutti i mali della mia vita. Un mostro e una mostruosità. Mi odiò prima ancora che io nascessi.” Sapeva essere lapidario, il chimico Honoré Balssa, lui che chimico non era, ma notaio, e che raccontò l’umanità come fosse una tavola degli elementi. Creatore di uno smisurato universo letterario, creò anche il proprio cognome e a trent’anni lo impreziosì con la sillaba “de”, il cui vezzo – che chiamava diritto – difese a testa alta contro chiunque lo mettesse in discussione, con un’ostinazione così torva da far supporre che su quel diesis aristocratico gravasse più di un compito. “Il mio predicato nobiliare, verificato in base a documenti ufficiali, non ha minor validità di quello di un Montaigne o di un Montesquieu”. Così, da un giorno all’altro, lo scrittore che non temeva rivali ma forse, un poco, l’anagrafe comparativa, fu per tutti Honoré de Balzac e tale è ancora oggi per noi, che lo conosciamo autore non solo nobile, ma immortale.

  Lo racconta vivacemente, Stefen Zweig, nella biografia a lui dedicata (Castelvecchi, 2013): madre fedifraga, piagnucolosa e petulante, padre smargiasso e festaiolo reinventatosi borghese, il temerario Honoré fu un titano per forza di volontà, una fenice a dispetto di ogni evidenza, un ineguagliabile artefice. Ma, soprattutto, fu un bambino infelice; ossia, per dirla in termini di quadro generale, un bambino fortunato. Appena nato, i genitori lo cacciarono di casa consegnandolo per quattro anni alla moglie di un gendarme, poi lo affidarono a estranei col diritto di visita ai fratelli una volta alla settimana, infine, compiuti i sette anni, lo confinarono a Vendôme presso gli Oratoriani – cronaca di umiliazioni, aule studio simili a “ripostigli puzzolenti per ottanta corpi pigiati”, palettate di cuoio sulle mani epperò, a salvarlo, un’inestinguibile fame di lettura. “Leggendo il racconto della battaglia di Austerlitz,” scrive in Louis Lambert, delineando i contorni raggianti di una sinestesia rivelatrice, “ne ho veduti tutti gli incidenti: le salve dei cannoni, lo scalpitar dei cavalli, l’odore della polvere. Spettacolo terrificante quanto una pagina dell’Apocalisse.” Rientrato a casa e obbligato a impiegarsi come notaio, rifiuta la carriera e annuncia il suo progetto: diventare il più ricco e glorioso scrittore vivente. Trema sua madre (e in lei ogni plot che la piccola borghesia benpensante cui apparteneva le consentiva di immaginare per il giovane), vacilla suo padre che pur non è tipo da disdegnare le più ilari spacconate, e ne scaturisce un allontanamento coatto a Parigi col misero reddito di 4 franchi al giorno e due anni di tempo per dimostrare qualcosa – in giro si dirà che l’imbarazzante fannullone è in viaggio presso parenti.

  Balzac si chiude invece in una maleodorante spelonca in rue Lesdiguières, campa di pane e latte, si cala nei propri abissi, ne emerge con una mediocrissima tragedia in versi, non si dà per vinto né tuttavia vince, scrive per la fabbrica editoriale Horace St-Aubin dieci romanzacci in un anno per mantenersi, si innamora di madame de Berny – pingue madre di nove figli che lo corrisponde, lo guida e ne fa un conoscitore –, si inventa un’attività editoriale e tipografica, fallisce, affonda tra i flutti angosciosi di un debito da 100.000 franchi, si fa coraggio, si reinventa, affronta il mostro, lo sconfigge e ne fa canto immortale. “In tutte le epoche della mia esistenza il mio coraggio è stato superiore alla mia sfortuna.” Come non eleggere un tale gigante a proprio indiscusso riferimento? Lo si potrebbe chiamare “manuale Balzac”, questo fenomenale canone di educazione sentimentale ed esistenziale, perché altro che curriculum, altro che piagnistei o antipiagnistei di maniera: contano di più un’infanzia infelice e una volontà indomabile. È questa la miscela grazie alla quale lo scrittore francese ha cambiato la storia non solo della letteratura, se perfino Engels disse che imparò di più leggendo la Commedia umana che tomi e tomi di bigi economisti.

 

 

  Anna Bandettini, Louise e Renée e il fragile labirinto della femminilità, «la Repubblica. Robinson», Roma, Numero 20, 16 Aprile 2017, p. 35.

 

  Gli ardori, i sogni, gli slanci, le tristezze, l’amore e la fragilità delle donne, insomma il labirinto della femminilità permea questa bellissima storia di amicizia tra due bambine nata in un collegio-convento, alimentata e cresciuta negli anni attraverso una fitta corrispondenza di lettere, anche quando, adulte, sono andate ognuna per la propria strada. È un’avventura interiore quella rappresentata in Louise e Renée prodotto dal Piccolo Teatro che segna il debutto alla regia dell’attrice Sonia Bergamasco. Il testo di Stefano Massini ha adattato Memorie di due giovani spose unico romanzo epistolare di Balzac, mantenendo giustamente l’andamento del carteggio e lo stile della scrittura con tutto il valore solipsistico dei pensieri scritti. E le lettere che le due amiche si sono scambiate per un’intera vita, diventano lo spazio immerso nel bianco e nero (la scena è di Marco Rossi), oscuro lo sfondo, bianchi i paraventi che muovendosi creano angoli e prospettive diverse [...]: è il teatro dei sentimenti dove le due figurine candide, sottili, verginee di Louise e Renée, entrambe i capelli rossi e lunghi, riannodano con ardore emozioni, sogni, preoccupazioni, gioie della vita quotidiana, rivivono quella scrittura solitaria che per generazioni di donne è stata lo spazio della libertà, la “stanza tutta per sé” dove vivere se stesse: Louise la sua idea di libertà, Renée la consapevolezza che i sogni non sono la vita; Louise lanciata a cento all’ora nella ricerca dell'amore assoluto, Renée più tenace nel rassegnarsi. [...].

 

 

  Renato Barilli, Ferrandino: molto “onorato” di parlarci di Balzac, «L’Immaginazione», Lecce, Manni, 300, luglio-agosto 2017, p. 31.

 

  [...]. Ora siamo a questo Onorato, che poi sarebbe il grande Honoré de Balzac, ma non si trascuri, subito in entrata, il carattere particolare risultante dal chiamare il famoso romanziere col nome italianizzato. In definitiva, è come se Pericle il nero, con la sua scarsa cultura da autodidatta, tra un intervallo e l’altro del suo compito di sodomizzare i recalcitranti, avesse trovato in qualche scaffale una pubblicazione su Honoré, ma procedendo subito a italianizzarne il nome per renderselo più familiare, e per entrare direttamente nei suoi panni, quasi che anche in quel caso volesse procedere per sodomia. Insomma, non si creda di essere chiamati a una biografia colta, condotta come si deve, con tutti i dati a posto, e neppure a un saggio interpretativo. Il protagonista che ci parla, e che in questo caso, diversamente da quanto capita al dirimpettaio Mari, non è da confondere con Ferrandino stesso, si compiace di una sua scarsa cultura e brutalità istintiva, e dunque “sogna” di rivivere le esperienze del narratore-principe, ma lasciando ai margini i capolavori, tenendosi ben distante da un profilo di carattere letterario. È un “Onorato” preso e vissuto alla propria altezza, quello che ci viene presentato, dove beninteso pullulano in primo luogo le cure meschine che sappiamo bene aver assediato per tutta la vita il Balzac “vero”, di cui questo parassita eredita tutti i lati più umani, come per esempio la vanteria, la iattanza. Lo troviamo sempre pronto a magnificare le soluzioni pratiche che sta per adottare, nell’acquisto di una testata giornalistica, odi una tipografia, o di azioni in borsa, che sappiamo proprio essere stati i passi falsi dell’autore in carne ed ossa. E c’è anche, enorme, la vanteria dell’“amante latino”, sempre pronto, anche su questo versante, a magnificare le conquiste, le relazioni intrattenute con l’altro sesso, salvo poi a manifestare anche una natura quasi infantile, di adolescente bisognoso di protezione, pronto quindi ad accucciarsi nel grembo accogliente delle donne della sua vita, come la Hinnon, la Hanska, assieme a tante altre avventure di cui forse perfino i biografi ufficiali hanno perso il conto. E c’è tutta la serie infinita di incontri e scontri con genitori, fratelli, parenti, il tutto in una trama continua di conti, con l’esultanza di quando questi sono in attivo e la delusione quando invece tendono al basso o addirittura alla bancarotta. Siamo insomma all’estremo opposto rispetto alle precauzioni di metodo che si consigliano a chiunque intraprenda lo studio critico di un grande autore, che sono di mettere nell’ombra la vita per concentrare tutta l’attenzione sull’opera. Qui avviene il contrario, in fondo troviamo qualche traccia dei capolavori stesi da “Onorato”, ma menzionati quasi en passant, senza che ad essi sia data più importanza rispetto ad altre imprese, di amori temporanei o di investimenti pubblici destinati al fallimento. A dominare in primo piano c’è una enorme operazione di fagocitazione, di parassitismo culturale, qualcuno si è impadronito di “Onorato”, si è calato nei suoi panni, adattandosi come un guanto alle mille pieghe del suo vissuto. Ma proprio per questa via la narrazione non resta succube dell’autore o dell’opera cui si ispira, conquistando invece una sua propria autonomia. Forse, data proprio la libertà acquisita, Ferrandino avrebbe potuto scostarsi ancor di più da ogni riferimento all’originale, fornirci una più ampia ricostruzione di fatti e circostanze. Così, ammettiamolo, talvolta il progetto si morde un po’ la coda.

 

 

  Amedeo Benedetti, “Splendori e miserie delle cortigiane” di Honoré de Balzac, in Saper leggere (e forse saper scrivere), Genova, Erga edizioni, 2017, pp. 141-186.

 

  Questo denso capitolo dedicato allo studio del romanzo balzachiano costituisce uno dei tasselli più rilevanti di questa raccolto di cinque saggi compresi nel volume e dedicati ad altrettanti romanzi del XIX secolo (Guerra e Pace, I Miserabili, I Malavoglia, I Fratelli Karamazov). Di ciascun romanzo, l’A. fornisce una duplice analisi relative sia alla trama e sia all’elemento stilistico dove vengono descritti e commentati gli stilemi ricorrenti attraverso la citazione, più o meno ampia, dei brani in cui sono individuati gli elementi specifici trattati.

  Pur presentando alcuni difetti, osserva l’A. nelle sue considerazioni conclusive, Splendeurs e misères des courtisanes è un’opera grandiosa e «brulicante di vita» (p. 186): il lettore è, nel corso del romanzo, continuamente trascinato dalla forza irresistibile della narrazione attraverso le immagini, i paragoni e le metafore grazie a cui Balzac infonde, ad uno dei suoi più celebrati capolavori, una continua, misteriosa e prodigiosa impressione di realtà.

 

 

  Alfonso Berardinelli, Balzac e il matrimonio, in Non è una questione politica, Trieste-Roma, Italo Svevo, 2017 («Piccola biblioteca di letteratura», 7), pp. 50-55.

 

  Fenomeno morale alquanto complesso e contraddittorio, il matrimonio, secondo quanto Balzac stabilisce in quello «studio comico-precettistico» (p. 52) pubblicato nel 1830 che è la Physiologie du mariage, ammette, come condizione preliminare per potersi realizzare nella felicità, l’incontro e l’unione di due persone dotate di genialità. Con metodo scientifico e pratico, Balzac esibisce statistiche, massime e aforismi sulla sostanziale natura tragicomica di questa istituzione borghese a cui nemmeno l’adulterio può fornire soluzioni terapeutiche efficaci. Nella Physiologie balzachiana, scrive Berardinelli, Balzac è «intemperante e mostruosamente aggressivo. Non risparmia le parole, le sperpera. È davvero un entertainer nato, e il suo libro, a metterlo in scena oggi, potrebbe riempire un’annata di trasmissioni televisive» (p. 52).



  Mariolina Bertini, Lettera a Honoré de Balzac, ‘Letteratitudine’, 3 a cura di Massimo Maugeri, 2017, pp. 218-222.


  Torino, il 9 gennaio 2016.

 

  Caro Signor de Balzac, attraverso l’ombra fitta di ben due secoli, il coraggio di scriverLe mi viene dal fatto che mi rivolgo a Lei da Torino. So che Torino è legata per Lei ai ricordi incantevoli dell’agosto 1836: i salotti di piazza San Carlo, le dame, gli abati eruditi e i giovani aristocratici in adorazione davanti alla Sua celebrità europea, le serre dell’avvocato Colla, a Rivoli, traboccanti di fiori rari ... Mi aggrappo al filo di quelle memorie per salire fino a Lei e comparirLe di fronte sullo sfondo del Palazzo Reale o dei portici di Piazza Castello, immutati dai tempi in cui, per un mese, Le furono cari e familiari. Venga, sediamo in quel caffè semibuio all’inizio di via Po; appoggi su quella sedia vuota il suo famoso bastone dall’impugnatura tempestata di turchesi e chiacchieriamo un poco. C’è qualche cosa che vorrei raccontarLe, e che non dovrebbe farLe dispiacere.

  Una delle ragioni che tanto Le fecero apprezzare Torino, nell’estate del ’36, fu che qui non arrivavano gli echi delle maldicenze e delle stroncature di cui erano pieni in quei mesi i giornali parigini. Il potente direttore della “Revue des Deux Mondes”, Buloz, era in lite con Lei, una lite finita addirittura in tribunale; e non c’era giornale che, sobillato proprio da Buloz, non si dilungasse quotidianamente sulle abitudini fastose dell’indebitato Balzac, sulle sue ridicole pretese di eleganza, sulla sua abilità nello scroccare anticipi agli editori per poi sparire nel nulla al momento di consegnare il romanzo o la novella promessi. A quegli attacchi personali, quasi sempre anonimi, si aggiungevano le stroncature dell’opera, che a volte recavano firme autorevoli, come quella di Sainte-­Beuve. Era, dicevano, unopera immorale, dal linguaggio oscuro e artificioso. Inoltre si componeva di romanzi che invece di concludersi come Dio comanda, si aprivano su nuove narrazioni: gli stessi personaggi ricomparivano a età diverse, a stadi diversi della loro carriera lasciando i lettori sconcertati e perplessi. Pochi romanzieri furono, nel corso della loro vita, maltrattati quanto Lei, Monsieur de Balzac. E all’ostilità della stampa si aggiunse, almeno agli inizi degli anni quaranta, la disaffezione del pubblico: ai Suoi capolavori venivano preferiti i feuilletons più facili e movimentati di Dumas o quelli a fosche tinte di Eugène Sue. Verso la fine del decennio, la situazione si ribaltò e il successo dei Parenti poveri parve aprire per Lei una nuova, splendida stagione di incontrastati successi; ma il cuore era stanco e la morte, ormai, terribilmente vicina. E’ di quel che accadde dopo la Sua morte che vorrei parlarLe ora; del gran colpo di scena a Suo favore che aveva in serbo quella seconda metà del XIX° secolo che Lei vide soltanto dalle alture del cimitero del Père Lachaise, le stesse da cui contempla Parigi nel finale di Papà Goriot il più celebre dei Suoi eroi, il giovane Rastignac.

  Quando comincia a girare il vento, mentre Lei dorme sotto il busto in ghisa che, con parecchio ritardo, la Sua vedova ha collocato sulla Sua tomba? Nel 1858, direi. E’ allora che appaiono, simultaneamente, due studi che fanno giustizia di tante leggende e di tanti luoghi comuni: la biografia di Théophile Gautier, che racconta un Balzac conosciuto da vicino, generoso e dai gusti artistici raffinati, e il saggio di Hippolyte Taine, critico trentenne, che vede nell’opera balzachiana un repertorio di “documenti umani” comparabile soltanto al teatro di Shakespeare. Quanti lo riprenderanno, questo parallelo tra Lei e Shakespeare, nei decenni successivi! Barbey d’Aurevilly, Émile Zola, Léon Daudet ... E altri paragoni si moltiplicano, non meno prestigiosi. “Balzac – scrive Barbey dAurevilly nel 1864 con lunità molteplice e la prodigiosa ornamentazione della sua Commedia umana mi fa leffetto di un architetto che, come Michelangelo, sia nel contempo anche pittore e scultore. Nel 1880, reclamando un monumento che La ricordi alla città di Parigi, Zola La definisce “il genio del romanzo moderno”, e aggiunge: “Oggi Balzac è grandissimo, il più grande. Ascoltate la risonanza del suo nome e considerate con quale forza la sua opera si è impadronita di tutti noi. (...) Sì, il nostro Shakespeare francese non è Victor Hugo, i cui personaggi sono di pura immaginazione, tutti conformi a uno stesso modello; è Balzac, che ha creato un mondo.” Il monumento calorosamente auspicato da Zola, sarà Rodin a crearlo, e sarà una statua di una modernità così disturbante da venir rifiutata nel 1898 dalla Società dei letterati che l’aveva commissionata: omaggio di un grande rivoluzionario della scultura all’autore che aveva rivoluzionato il romanzo trasformandolo in una forma totalmente nuova.

  Il XIX secolo si chiude dunque con il Suo trionfo, monsieur de Balzac. E tra i doni che Le vengono riconosciuti, c’è quello della profezia: in molti trovano che la società francese si è evoluta nella direzione indicata da Lei, che i Suoi personaggi sono più veri cinquant’anni dopo la Sua morte che al momento del loro concepimento. Lo dice ad esempio, nel 1899, l’autorevole Ferdinand Brunetière: “La Commedia umana è una galleria di tipi profetici. Balzac ha tracciato i lineamenti di tutta un’umanità che avrebbe raggiunto il suo compiuto sviluppo soltanto dopo di lui”. In quanti, su questo, sono d’accordo con lui! Barrès, Zola (di nuovo!), Jules Vallès ... E nella figura di un Suo artista fallito, Frenhofer del Capolavoro sconosciuto, si specchieranno Cézanne e Picasso.

  Non è cosa da poco segnare con la propria impronta un secolo intero, monsieur de Balzac. Eppure vedo una domanda inespressa nei Suoi occhi scuri e penetranti, ai quali è difficile sfuggire. Lei vorrebbe sapere una cosa che esita a chiedermi: che ne è stato della Sua gloria, della Sua fortuna, della Sua esemplarità nel secolo che è venuto dopo, nel Ventesimo secolo, e in questo scorcio del Ventunesimo in cui stiamo ora vivendo?

  Ecco, diciamo che a questo proposito devo darLe due notizie, una buona e una cattiva. Vuole prima quella cattiva, vero? Quella cattiva è che il romanzo come “genere universale”, il romanzo quale lo intendeva Lei, in cui confluivano il teatro, la pittura, la Storia, non è sopravvissuto alle certezze della scienza e della filosofia del suo tempo; rinato in forma di frammento o di enigma, non può guardare alla verisimiglianza della Commedia umana come a un modello ancora ricco di insegnamenti. Henry James e i suoi contemporanei si consideravano Suoi discendenti, La definivano “il padre di noi tutti”; i romanzieri di oggi, quale che sia la direzione della loro ricerca, non si sentono affatto suoi nipotini, e se qualcuno – convinto che Lei sia comunque presente nel loro albero genealogico – regalasse loro il Suo ritratto, non esiterebbero a relegarlo in soffitta, insieme al Larousse del XIX° secolo e al cappello da alpino del bisnonno.

  Le dicevo, però, che c’è anche una notizia buona: nel corso degli ultimi trent’anni, quel che la Sua opera ha perso in esemplarità, lo ha riguadagnato su un altro terreno. Non più costretti a riconoscere nella Commedia umana il prototipo del Perfetto Romanzo Realista, critici e lettori ne hanno esplorato e rivalutato gli aspetti meno conosciuti: lo humour, l’ironia, la tecnica del mosaico narrativo, il gusto della digressione e del fantastico. E mentre rovistavano tra le Sue pagine, caro monsieur de Balzac, alla ricerca di qualche cosa che anticipasse il gusto tardonovecentesco per l’assurdo, per l’autoriflessione o per la mise en abîme, chissà quante volte si sono accorti di una cosa evidente: cioè che quel che era destinato a durare nel tempo non era necessariamente l’artificio più moderno o la tecnica più d’avanguardia, ma la capacità di cogliere e di fissare la verità. Che cosa di più vero, monsieur de Balzac, del ritratto del rienologue, del “nullologo” o volgarizzatore , che troviamo nella Sua Monografia della stampa parigina?

  “La Francia ha il più profondo rispetto per tutto quel che è noioso. Per questo il volgarizzatore si fa una posizione rapidamente: è promosso uomo serio in prima battuta, grazie alla noia che sprigiona. Questa scuola è numerosa. Il volgarizzatore diluisce l’idea di un’idea in una bacinella di luoghi comuni e propina meccanicamente questa spaventosa mistura filosofico-letteraria per pagine e pagine. La pagina sembra piena, sembra che contenga delle idee; ma quando una persona colta ci mette il naso, sente lodore delle cantine vuote. E profondo, e non c’è niente: lintelligenza vi si spegne come una candela in una cantina senz’aria. Il nullologo è il dio della borghesia attuale: è alla sua altezza, pulito, netto, liscio. E’ un rubinetto d’acqua calda che fa gluglu e farà gluglu in saecula saeculorum, senza fermarsi mai. “Vede, monsieur de Balzac, noi non condividiamo più la Sua concezione del romanzo, il Suo amore per i personaggi a tutto tondo, la Sua passione per i dettagli descrittivi né la Sua fiducia nella fisiognomica e nelle scienze occulte. Ma quando ci imbattiamo nel ritratto del rienologue, in Lei riconosciamo un contemporaneo e un maestro. E nelle pagine della Commedia umana non cerchiamo la perfezione del defunto genere romanzesco, ma una decifrazione del vero che possiamo condividere, e che non ci delude mai perché, anche in questi tempi che poco somigliano al 1830, davvero non possiamo non dirci balzachiani.


 
  Mariolina Bertini, Lucidità assoluta e trance, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXXIV, N. 12 Dicembre 2017, p. 25.

 

  Antonio Moresco e Susi Pietri, Il Fronteggiatore. Balzac e l’insurrezione del romanzo, pp. 187, € 13, Bompiani, Milano 2017.

 

  Tra i romanzieri francesi di oggi più presenti nelle nostre librerie, nessuno è un grande appassionato di Balzac. Annie Ernaux è troppo impegnata a catturare il presente e il passato prossimo per posare lo sguardo così indietro nel tempo. Modiano percorre, instancabile, una Parigi che non è la città balzachiana dai mille romanzi, ma il labirinto della sua memoria personale. Carrère lo ha confidato candidamente in Propizio è avere ove recarsi: ha amato Balzac nell’adolescenza, ma ora non riesce proprio più a leggerlo, lo annoia. Il suo Ottocento è quello, più “empatico”, più affettuoso, di Victor Hugo e di Dickens.

  È una sorpresa, dunque, scoprire che c’è invece un romanziere italiano che vede in Balzac una figura tutelare e ispiratrice, “uno dei massimi esempi di scrittore capace nello stesso tempo di lucidità assoluta e di trance, dello scrittore che sfonda gli artificiali confini tra narrazione, poesia e pensiero e che sfonda e allarga anche i confini del romanzo”. Nel Fronteggiatore, Antonio Moresco dialoga su Balzac con quella che è oggi la più autorevole studiosa – a livello mondiale – della fortuna europea dell’autore della Commedia umana, Susi Pietri. Ne risulta un’appassionante narrazione a due voci che non mette in scena soltanto il Balzac in cui si riconosce Moresco, il suo “macellaio shakespeariano con gli occhi ardenti”, ma anche il Balzac di Oscar Wilde e di Henry James, di Conrad e di Stevenson, di Zweig e di Hofmannsthal, di Bernanos e di Elias Canetti, di Dostoevskij e di Yeats.

  È impressionante il numero dei grandi creatori che Susi Pietri convoca in queste pagine, a testimoniare del loro debito nei confronti di Balzac. E quel che è ancora più stupefacente, è che ognuno di loro sembra trovare in Balzac suggestioni differenti. Hofmannsthal, ad esempio, esalta la struttura “fluida” della Commedia umana, che è per lui un universo il cui centro può essere ovunque; Henry James, al contrario, ne magnifica “la pienezza e la complessa coesione”. Secondo imprevedibili affinità elettive, gli eredi di Balzac privilegiano versanti diversi della sua creazione, la cui debordante ricchezza non si lascia imprigionare nelle formule semplificatrici delle storie letterarie. Su una sola certezza convergono i lettori-scrittori censiti da Susi Pietri: quello stesso Balzac che a metà del Novecento è stato considerato da molti il prototipo di una tradizione morta e superata, è invece il grande rivoluzionario di una forma in trasformazione – la forma romanzesca – alla quale comunica un dinamismo senza precedenti, una volontà profonda di estensione e di metamorfosi. E, ci dice Antonio Moresco, un “fronteggiatore”: non si protegge dall’impatto della realtà con lo scudo della tradizione culturale e del suo prestigio, ma la affronta senza schermi. Appartiene alla schiera degli scrittori “non pacificati”, come Kafka e Proust, per Moresco prossimi, affini, fraterni. “Sono scrittori – scrive – che non hanno costruito intorno a sé una prigione teorica e ideologica che li ingabbia ma che, al tempo stesso, anche li protegge dal caos della vita e del mondo; non sono scrittori che ti portano in un vicolo cieco, ma che tengono aperto drammaticamente il gioco, il gioco grande”.

  Una delle pagine più suggestive del Fronteggiatore è la lettura che Moresco ci offre di un celebre dagherrotipo di Balzac: quello in cui il romanziere, quarantatreenne, con la camicia aperta, si tiene una mano sul cuore, in un gesto a un tempo stesso enigmatico e eloquente, “come per un giuramento infantile”. Moresco racconta di aver tenuto nel suo studio per molti anni quell’immagine, accanto a un primo piano del volto di Kafka. “Potrebbero sembrare due scrittori opposti, – osserva – ma non lo sono. Sono tutti e due, ciascuno a suo modo, dei fronteggiatori, sono due uomini e due scrittori che, con la loro fragilità o le loro ingenue e commoventi farse, hanno affrontato il drago”.

  Rivive poi, da narratore visionario, il momento in cui Balzac ha posato per il dagherrotipo, nello studio di un fotografo in redingote, tra vapori di mercurio e fondali di cartapesta, e si congeda, con questa evocazione, dal creatore della Commedia umana: “Ci sarà stata, appena fuori da questo antro moderno e magico, una strada di Parigi, ci sarà stata l’intera e pullulante città di Parigi (...), ci sarà stata l’Europa, e appena più in là il mondo intero, il nostro pianeta (...) e tutt’intorno il cosmo, la nostra galassia in mezzo a miliardi di altre galassie, con tutta la loro luce e il loro buio (...), mentre per questi irripetibili minuti un uomo ingenuo e ardente, venuto chissà da dove, da quale materia cosmica ancora in fusione, stava fronteggiando con la sua infantile fierezza tutto il buio e tutto il male del mondo”.

 

 

  Peter Brooks, Balzac: l’invenzione dell’Ottocento, in Lo sguardo realista. Traduzione di Federico Casari, Firenze, Carocci editore, 2017 («Frecce»), pp. 31-51.

 

  Città irreale: Parigi e Londra in Balzac, Zola e Gissing, pp. 147-166.

 

  Comprendere le strutture profonde e le contraddizioni della società del proprio tempo significa penetrare nei suoi labirinti, andare oltre le apparenze, leggere e decifrare i segni, anche più minuscoli, della sua presunta interezza organica dietro cui, come il retroscena di un palcoscenico, si nasconde una disorganizzazione semiotica fluida ed instabile a livello politico, sociale, economico, spirituale e morale. Da questo punto di vista, Balzac, scrive Peter Brooks in questo illuminante studio, focalizzato quasi interamente sull’analisi di Illusions perdues (a cui segue, alle pp. 147-166, un altro saggio dedicato alla rappresentazione di Parigi nella Comédie humaine: Città irreale: Parigi e Londra in Balzac, Zola e Gissing), ha inventato il XIX secolo «dando forma ai suoi agglomerati urbani, alle sue nascenti dinamiche capitalistiche, al culto sfrenato per la personalità individuale» (p. 32).

  Al suo arrivo a Parigi, Lucien de Rubempré scopre in maniera traumatica il mondo delle necessità superflue e come il valore delle cose e delle persone sia strettamente legato alla pregnanza rappresentativa dei loro segni esteriori e alle leggi del mercato. Tutto è bifronte nel campo del pensiero (e non solo): tutto è inserito all’interno di un sistema di circolazione «dominato dal cash nexus» (p. 37), nel quale anche la rappresentazione stessa del pensiero (dalla letteratura al giornalismo) è mercificata e messa in vendita al miglior offerente. In Illusions perdues, il segno giornalistico, come quello del denaro, non detiene una relazione stabile con il proprio referente: «il giornalista deve intendere i segni linguistici dei quali si serve dal punto di vista del lettore: solo questo conta» (p. 44). Balzac ritrae una realtà il cui «progetto centrale è l’autorappresentazione» (Ibid.) e in cui l’indefinito sistema di circolazione dei segni sembra determinarne progressivamente il collasso. Balzac è pienamente consapevole di essere, lui stesso, vittima di questa «catastrofe semiotica»: infatti, egli sa, forse più di ogni altro, che lo scrittore non può e non potrà mai «sfuggire alla storia materiale del proprio tempo» (p. 50).

 

 

  Oddone Camerana, Memorie romanzesche. Il colonnello Chabert, in Non mi lasciare. Breve saggio nell’universo della memoria, Torino, Lindau, 2017 («Piccola biblioteca»), pp. 49-50.

 

  Quello raccontato da Balzac è il caso di una completa rinuncia alla propria identità e alla propria memoria per il disgusto del mondo. Vittima di questa situazione è il colonnello Chabert, dato per morto da quasi dieci anni, dopo aver contribuito alla vittoria di Napoleone nella battaglia di Eylau con una celebre carica di cavalleria.

  Ritrovatosi in una fossa piena di cadaveri, con un’orribile ferita al cranio, era stato recuperato e curato da alcuni contadini e, infine ristabilito, era tornato in Francia. Nessuno però aveva voluto riconoscerlo, compresa la moglie che, da presunta vedova, aveva ereditato la fortuna del marito e si era risposata con il conte Ferrand, nobile della Restaurazione. Con l’aiuto di un abile legale, Chabert avrebbe potuto entrare in possesso di un vitalizio, sennonché al momento di compiere i passi necessari per ottenerlo, invece di accettare le condizioni della transazione, che gli imponevano di assumere l’identità di un altro disperso, Chabert rinuncia alla sua identità e diventa un vagabondo, senza tetto e senza nome, perduto nell’anonimato di un ospizio.

 

 

  Riccardo Campi, Il Fango e l’oro. Parigi da Voltaire a Breton, Firenze, Carocci editore, 2017 («Lingue e letterature Carocci», 232).

 

  “Bienvenue à Paris”, pp.7-20.

 

  pp. 11-13. Sarà Balzac che, nel quadro del suo inaudito progetto di «fare concorrenza all’anagrafe», farà dell’indagine di questo «mistero» uno dei fini principali della creazione romanzesca. E allora la ricerca della «note spéciale» di un quartiere diventerà non solo letterariamente pertinente, ma necessaria per la caratterizzazione di ciascuna delle «due o tremila figure principali di un’epoca», che costituirebbero, secondo Balzac, «la somma dei tipi che ogni generazione presenta» e che la Comédie humaine avrebbe dovuto comportare. La descrizione dello spazio – urbano, suburbano, provinciale o campagnolo che sia, a seconda dell’argomento dei diversi romanzi – diventa così un aspetto essenziale per determinare il senso della narrazione tanto nel suo insieme che nei suoi dettagli; e cogliere il «cachet personnel» che contraddistingue un quartiere non è un mero esercizio stilistico per compiacere il gusto di «raffinati e artisti», bensì un’esigenza che deriva necessariamente dalle premesse della poetica balzachiana del romanzo. [...]. Per questo, nei romanzi di Balzac verrà fatto posto, necessariamente, anche allo sperduto faubourg Saint-Marceau: sarà lì che Hyacinthe Chabert troverà ospitalità nella bicocca di un povero nourrisseur di nome Louis Vergniaud, «vieux maréchal des logis de la garde impériale», il solo che nel sopravvissuto della battaglia di Eylau rispetti il conte dell’Impero, che la moglie non vuole nemmeno riconoscere. E per sottolineare il contrasto tra la sorte toccata al conte Chabert e quella della sua presunta vedova, che nel frattempo si è risposata con il consigliere di Stato Ferraud, assume una capitale rilevanza la minuziosa descrizione della «dégoûtante rusticité» della rue du Petit-Banquier, dove abita Vergniaud, e nella quale il cocchiere dell’avvocato Derville si rifiuta perfino d’inoltrarsi perché, non essendo lastricata, il fango della carreggiata è scavato da «solchi un po’ troppo profondi per le ruote di un calesse». Il carattere del quartiere, in questo caso, produce un contrasto stridente con il carattere del fiero veterano degli eserciti imperiali, permettendo di misurare quanto il destino sia stato spietato con lui (e, quindi, quanto lo sia la sua legittima sposa). È significativo notare che, nella prima versione del testo, pubblicata in rivista nel 1831, Balzac aveva immaginato la rustica bicocca di Vergniaud in una stradina, sempre nel quartiere Saint-Marceau, ma nelle vicinanze del Jardin des Plantes: trovando che quest’angolo del sobborgo avesse assunto ormai un carattere troppo urbano, Balzac, nel 1835, ritiene più conforme all’«atmosfera» del racconto allontanare ulteriormente l’abitazione del nourrisseur verso i limiti estremi della città, al fine di conservare la descrizione dell’aspetto semi-agreste del quartiere e, al contempo, garantirne la verosimiglianza. Questa minima rettifica basta a dare l’idea di come, per Balzac, luoghi, personaggi, situazioni siano ormai variabili strettamente interdipendenti nella costruzione dell’intreccio narrativo.

  In un altro celeberrimo romanzo di poco posteriore al Colonel Chabert, le «segrete disgrazie di papà Goriot» si consumano in rue Neuve- Sainte-Geneviève, che segna il confine «tra il quartiere latino e il faubourg Saint-Marceau» [...]. Rue Neuve-Sainte-Geneviève, come pure la rue du Petit-Banquier, sono esattamente quelle stradine strette, lunghissime e maleodoranti di cui, mezzo secolo prima, Rousseau e Louvet parlavano con tanta reticenza e ripugnanza: Balzac, invece, le eleva a décor per le avventure dei propri personaggi – «La via Neuve-Sainte-Geneviève è come una cornice di bronzo, l’unica che si addica a questo racconto». E forse, bisogna ammettere, Balzac si è tenuto, per una volta, al di sotto del vero, perché questo sobborgo ai confini della città, con le sue strade solitarie e le sue case fatiscenti, è ben più di una «cornice»: esso, infatti, concorre in maniera determinante alla produzione dell’effetto complessivo del racconto, come un fattore narrativo dotato di una funzione e di un senso propri. Esso, anzi, s’inserisce in una dialettica articolata e attentamente calibrata tra personaggi, situazioni e azioni: i luoghi egli spazi, in Balzac, non sono mai inerti scenografie, ma clementi dotati di un significato, e, come ali, contribuiscono al senso dell’insieme, per cui, a proposito della funzione dei luoghi urbani che tanta importanza hanno in tanti suoi romanzi non necessariamente di ambiente parigino, beninteso), si è potuto legittimamente coniare un neologismo e parlare di toposémie.

 

  Una città di fango e oro, pp. 21-59.

 

  pp. 36-39. Più di un secolo e mezzo dopo la pubblicazione del romanzo di Furetière, Balzac saprà, nei propri romanzi, trovare la maniera di conferire al fango delle strade parigine un valore propriamente drammatico e narrativo, oltre che un evidente funzione descrittiva. Basti pensare alle amare riflessioni di Raphaël de Valentin, perdutamente innamorato dell’enigmatica contessa Foedora in quanto privo di ogni risorsa economica (anzi, ridotto alla miseria), mentre, dopo la prima serata trascorsa nel lusso del palazzo della dama nel faubourg Saint-Honoré, attraversa Parigi in una notte gelida per rientrare a casa propria, una squallida mansarda nel quartiere latino, dove, in monacale solitudine, egli attende ai propri futuri capolavori poetici e ai propri studi filosofici. Più che un semplice coup de foudre da romanzo, il primo incontro tra i due sembra essere per Raphaël una rivelazione in cui è in gioco il suo stesso destino; senza mezzi termini, questi esclama (tra sé e sé, si suppone): «O Foedora o la morte!». [...]. Sono angosce che possono ricordare quelle patite dall’illustre uomo di lettere di cui parlava il giovane marchese del Roman bourgeois. Poche righe più avanti, compare infatti anche l’eterno incubo di ogni pedone parigino il fango [...].

  Fango, pioggia, pantaloni inzaccherati, strade impossibili da attraversare e, soprammercato, la mancanza dei pochi spiccioli necessari per pagare i servizi di un lustrascarpe, diventano fattori determinami nella storia dell’amour fou di Raphaël [...]. Essi servono a sottolineare la distanza che separa il mondo di Raphaël, fatto di cose banali e quotidiane, da quello della gran dama, e come questa distanza possa costituire un ostacolo insuperabile, molto concreto, e misconosciuto [...]. Tale contrasto tra i due mondi è funzionale allo sviluppo del dramma, e l’alimenta – e Balzac lo sa bene, anzi ce lo dice esplicitamente, esprimendosi per bocca di Raphaël [...]. Tocchiamo, qui, con tutta evidenza, il cuore dell’invenzione drammatica che dà impulso, energia e vita a tanti romanzi e racconti della Comédie humaine.

  Balzac riprenderà e varierà lo stesso tema in un episodio del Père Goriot, nel quale un Rastignac studente da poco giunto a Parigi dalla provincia e i cui mezzi finanziari non sono adeguati alle ambizioni, dimostra di non avere ancora acquisito la sicurezza di sé e la disinvoltura che tanto incanteranno Raphaël de Valentin. In occasione della prima visita a madame de Restaud, figlia di Goriot e cognata del banchiere Nucingen, Eugène, vestito «molto elegantemente», deve scendere dalle remote alture della Montagne Sainte-Geneviève e attraversare l’intera Parigi per raggiungere la rue du Helder (sul lato nord del boulevard des Italiens), dove risiede la gran dama. Il giovane provinciale in ristrettezze conosce allora le medesime angosce che, anni dopo, conoscerà Raphaël [...]. E proprio per la sua banalità di piccolo inconveniente meschino che esso diventa un segno carico di significato: le scarpe e i pantaloni infangati di Eugène tradiscono la sua impossibilità di pagarsi un fiacre, e tanto più di permettersi di possedere un équipage — e, nel mondo di Balzac, dove notoriamente anche le portinaie hanno genio, tutti sanno decifrare questo tipo di segni [...]. Questo senso di frustrazione e d’inferiorità che prova Eugène lo dipinge interamente e, in certa misura, contribuirà a determinare il corso stesso del suo (brillante) destino. Quando, poco più tardi, negli appartamenti di madame de Restaud, Eugène fa la conoscenza di Maxime de Trailles, lion dei più insolenti e spocchiosi, il suo immediato, quasi istintivo sentimento di «odio violento per il giovane» nasce dal tacito confronto tra sé e l’impeccabile eleganza del dandy, con i suoi capelli biondi arricciati e la redingote attillata – e il dettaglio umiliante delle scarpe infangate riemerge allora in tutta la sua forza [...].

 

  Giardini pieni di romanzi sconosciuti, pp. 61-77.

 

  pp. 69-71. Potrà essere, forse, un’illusione ottica, prodotta da un’intensiva frequentazione dei testi di Balzac, ma quest’immagine del moralista che si aggira per i viali laterali del Luxembourg, fantasticando e osservando con partecipazione lo spettacolo delle «miserie» che vi si celano, si associa irresistibilmente a quella del narratore che, nelle prime righe della novella balzachiana intitolata Facino Cane, evoca i giorni della propria giovinezza, studiosa e povera, quando come unica distrazione e sola passione («seule passion») aveva quella di scendere in strada, la notte, e seguire degli sconosciuti incontrati a caso – per esempio, un operaio e sua moglie che, «tra le undici e mezzanotte», uscivano dal teatro dell’Ambigu-Comique, sul boulevard Saint-Martin, e rientravano a casa chiacchierando: «mi divertivo a seguirli dal boulevard du Pont-au-Choux fino al boulevard Beaumarchais. Quelle brave persone conversavano dapprima dello spettacolo cui avevano assistito; poi, un po’ alla volta, arrivavano a parlare delle loro faccende» [...].

  Questa distrazione è, in realtà, un «dono» prezioso, che Balzac aveva già battezzato «seconda vista» («seconde vue») nella Prefazione datata 1831 della Peau de chagrin. In questo testo, Balzac ne parlava come di un «fenomeno morale, inesplicabile, inaudito» che possiedono «i poeti o gli scrittori veramente filosofi» e che «permette loro di presagire [deviner] la verità in tutte le situazioni possibili; o, meglio ancora, [esso consiste in] non so bene quale potere [puissance] che li trasporta là, dove essi devono, dove vogliono trovarsi» — anche nelle «scarpe sfondate» di una coppia di operai. Superfluo dire che, per Balzac, non si tratta di una semplice forma di fantasia o immaginazione particolarmente sviluppata; per lui, è un vero e proprio «potere» intuitivo che fa degli scrittori e poeti che ne sono dotati dei «visionari», e grazie al quale «essi inventano il vero, per analogia, o vedono l’oggetto da descrivere, sia che l’oggetto si presenti a loro, sia che loro vadano verso l’oggetto». La «seconda vista» diventa, così, una facoltà che permette d’«inventare il vero» in virtù di una singolare capacità di osservare e di decifrare le tracce di cui l’esistenza quotidiana è disseminata, ricostruendo a partire da esse, «per analogia», una realtà nascosta e sconosciuta ai più.

  Si potrà scorgere nel misterioso «dono» della «seconda vista» il retaggio di un gusto romantico per il meraviglioso che spesso affiora nell’opera di Balzac, e che sarebbe insensato negare. Ma si potrebbe altresì pensare che l’“invenzione del vero” che essa rende possibile consista, per Balzac, nel saper conferire un senso a tracce, particolari, banali minuzie quotidiane, cui solitamente l’abitudine impedisce di prestare attenzione e che solo «occhi armati duna seconda vista» («yeux armés dune seconde vue») riescono a percepire: la posta in gioco, allora, non è il “meraviglioso” — quale lo vagheggeranno i surrealisti –, bensì una realtà che le apparenze occultano; e questa, malgrado l’attrazione di Balzac per le fantasticherie di Swedenborg, non sarà una realtà spirituale, misteriosofica. Ciò ch’egli afferma di essere in grado di poter intuire grazie alla propria «seconda vista» sono i meccanismi nascosti della realtà sociale della Francia della Restaurazione e della Monarchia di Luglio. La «seconda vista», se utilizzata da colui che intendeva essere il «segretario» della Società, è uno strumento di conoscenza. [...].

  A dire il vero, come Vauvenargues, neppure Balzac ebbe il coraggio di «scendere troppo in basso» nelle proprie ricerche: notoriamente, nell’affresco della Comédie humaine il quarto stato non troverà posto. Come Vauvenargues, anche Balzac si ritrarrà dinanzi alla miseria dei sobborghi popolari, e allo spettacolo dei bas-fonds. Ma quello che conta sottolineare, qui, è che il «dono» della «seconda vista» permette a Balzac di trasformare, almeno potenzialmente, qualunque quartiere, strada, angolo, sobborgo di Parigi in una riserva inesauribile di «aventures perdues», di «drames oubliés», di « admirables scènes», in breve, di fare di Parigi la «città dai centomila romanzi» («ville aux cent mille romans»). Come nel faubourg Saint-Marceau di cui Mercier descriveva gli abitanti, Balzac vede nei miserevoli abitanti del faubourg Saint-Antoine non una massa indistinta, ma vi presagisce degli individui, ciascuno con il proprio destino particolare di «eroi, inventori, scienziati pratici, furfanti, scellerati». A differenza di Mercier e di Vauvenargues, egli però disporrebbe di un «potere» («puissance») che gli permette di sbarazzarsi delle proprie abitudini e dei propri abiti, per «devenir un autre que soi par l’ivresse des facultés morales» – in altre parole, per farsi romanziere. [...].

 

  Capitale del caso, ovvero le sorprese di Parigi, pp. 79-92.

 

  pp. 86-88. Il destino dei personaggi balzachiani non è più preso tra il caso e la provvidenza, come era ancora per quelli del romanzo di Prévost, bensì tra il caso e un determinismo di ordine storico, ovvero, appunto, sociale (il quale per Balzac non è che una «sub-provvidenza», «une sous-providence»).

 Malgrado ogni dichiarazione di Balzac circa la propria fedeltà ai «due principi gemelli» della religione cattolica e della Monarchia, i suoi romanzi non sono certo scritti «alla luce» di queste due «verità eterne»: in essi, c’è ormai ben poco spazio per un intervento provvidenziale – e anche l’ordine sociale, che l’idea di Monarchia evoca, è presente (quando è presente) soltanto come ricordo nostalgico di un passato che la storia ha spazzato via. Si potrebbe dire – e invero è una banalità – che tutti i personaggi balzachiani si trovano nella situazione che dibattevano, e in cui si dibattevano, Jacques e il suo padrone. Ma il nuovo scrittore borghese che Balzac è (ed è consapevole di essere) sottrae al dilemma pretendendo di fare del caso una risorsa, un’opportunità per i propri personaggi [...].

  E Parigi è il luogo (ben reale) in cui «il numero di relazioni [scilicet sociali] aumenta le possibilità di successo in ogni ambito, e anche il caso sta dalla parte dei grandi battaglioni», e «a Parigi, il caso esiste solo per le persone estremamente mondane [les gens extrêmement répandus]» » E alla fine di Illusions perdues, nel corso del lungo colloquio tra Lucien e Vautrin, travestito da «canonico onorario del capitolo di Toledo», questi raccomanda al giovane in procinto di partire per Parigi: «Siate cacciatore, state in agguato, celatevi nella società parigina, attendete una preda e un caso». Quando dunque Balzac definiva Parigi come la «capitale du hasard» stava esprimendo con precisione il nesso che, ai suoi occhi, lega l’immensità della metropoli e le innumerevoli occasioni offerte dal caso a chi sa attenderle, stando sempre in agguato e pronto a lanciarsi sulla preda.

  Questa immagine di Parigi può essere presa a integrazione dell’altra che s’incontra nelle pagine iniziali di Ferragus, dove Parigi appare come «la ville aux cent mille romans». In tal modo, carattere “romanzesco” della città” e caso si troverebbero strettamente collegati: sarebbero, quindi, due facce della stessa medaglia. È per questo che nei romanzi di Balzac, in maniera ben più sostanziale di quanto non avvenisse in quello di Prévost, Parigi occupa un ruolo attivo, determinante nella narrazione: in essi, le alternative che il caso «appresta» sono, in primo luogo, occasioni narrative. E, anzi, in una metropoli come Parigi, le risorse romanzesche del caso sono talmente ricche, varie e imprevedibili, che compito del romanziere sarà non tanto di «studiare» il caso per attingervi soluzioni, quanto piuttosto di attenuarne, edulcorarne e renderne accettabili (ossia verosimili) le stravaganze e stranezze; «La natura sociale, soprattutto a Parigi, comporta casi [hasards], intrecci di possibilità [conjectures] talmente capricciose, che l’immaginazione degli inventori si trova a ogni momento oltrepassata. L’audacia del vero si eleva a combinazioni proibite all’arte, tanto sono inverosimili o poco decenti, a meno che lo scrittore non le edulcori, non le poti, non le castri». D’altronde, questa «audacia del vero» è altresì il suo «privilegio» Si potrebbero interpretare queste parole di Balzac come una prudente precauzione per giustificare preventivamente quelle “bizzarre” coincidenze molto “romanzesche” (da intendere, qui, in senso derogatorio) alle quali egli non sembra certo disposto a rinunciare nei propri romanzi.

 

  L’immagine della città in frantumi: un «rutilante caos caleidoscopico», pp. 93-105.

 

  pp. 93-95. Le “storie” narrate nelle scènes de la vie parisienne danno forma ed espressione narrativa a quel «romanesque réel» della città che le apparenze quotidiane occultano, e che il caso concorre a svelare, come accade all’inizio di Ferragus. Tuttavia, grazie al sapiente discorso che, da un testo all’altro, Balzac sviluppa sulla metropoli, sulla «fisionomia» delle sue strade, dei suoi quartieri e dei “tipi” che li abitano, l’immagine di Parigi che emerge, nel suo insieme, dalla Comédie humaine costituisce un quadro coerente e organico, che fornisce ai singoli racconti e romanzi una struttura extradiegetica e un criterio d’intelligibilità. Tutto, anche le coincidenze meno verosimili, può trovare una spiegazione e un senso (eventualmente, segreto) alla luce del grande discorso balzachiano su Parigi.

  Innumerevoli sono, invero, i luoghi testuali in cui Balzac definisce Parigi un «mostro» o, alternativamente, come una città «mostruosa», facendo di essa un essere deforme, incoerente, un’anomalia. Ma ciò non gl’impedisce di dirigere sulla città uno sguardo che sembra invece capace di abbracciarne ogni dettaglio e in grado di ricondurre sempre ogni aspetto della realtà urbana alla totalità di una visione unitaria, organica della metropoli. [...]. Le infinite possibilità offerte dalla «capitale del caso» sono il prodotto di questo incessante “brulichio”, che tutto rimescola e nitro rende possibile — anche una «creazione» rara come la principessa di Cadignan. Da quello più basso, dove si muove un proletariato che Balzac non descrive quasi mai, ma di cui sente la minacciosa presenza, agli ultimi, in cui si muovono, «tra saloni dorati e ariosi e residenze con giardino», i ricchi, tra cui, ovviamente, la principessa, tutti i «cerchi» sociali che compongono Parigi sono generati dalla «mostruosa Parigi» o, se si vuole, tutti concorrono a tenere in vita il «mostro»: la visione organicistica di Parigi, secondo Balzac, è infatti un sistema chiuso, in cui cause ed effetti tendono a fondersi e confondersi. D’altronde, la città stessa sembra essere un sistema che si conserva autoriproducendosi.

  Tutto ciò assicura alla rappresentazione balzachiana di Parigi la sua sostanziale coerenza e, al contempo, contribuisce alla sua apparentemente inesauribile varietà. In ciò, bisogna cercare le ragioni del carattere sempre vagamente euforico che hanno nell’opera di Balzac la descrizioni (sic) di Parigi, anche quando pretendono di dipingerla come «mostruosa», miserabile o spietata. Ciò permette, inoltre, di misurare la distanza che separa la rappresentazione della metropoli quale la si trova nell’opera di Balzac che sarà, una generazione più tardi, l’immagine che emerge dall’Educazione sentimentale di Flaubert. [...].

 

 

  Claudia Cannella, L’amicizia epistolare di due sposine, «Corriere della Sera», Milano, 21 Marzo 2017, p. 18.

 

  Una prima volta e un ritorno a casa. Prima regia (non su se stessa) per Sonia Bergamasco e ritorno al Piccolo Teatro, che produce lo spettacolo, alla cui Scuola si era diplomata con Giorgio Strehler. A tenerla a battesimo Balzac, mediato dalla drammaturgia di Stefano Massini, che trasforma «Mémoires de deux jeunes mariées» in «Louise e René e», in scena al Teatro Grassi da questa sera. Protagoniste Federica Fracassi e Isabella Ragonese [...].

  Unico romanzo epistolare, scritto da Balzac nel 1842, è la storia, racconta la Bergamasco, «di due giovani donne legate da un’amicizia profonda che affonda le radici nell’infanzia, trascorsa insieme in un convento/collegio. Il loro ritorno a casa corrisponde all’inizio di un dialogo epistolare che prolungherà negli anni la ricerca di un alfabeto comune dell’amore». [...]. Renée (Fracassi) vive in campagna, ingabbiata in un matrimonio d’interesse e con un progetto esistenziale fondato su famiglia e figli. La trasgressiva Louise (Ragonese) sta a Parigi, dove frequenta i salotti e vive di passioni totalizzanti e distruttive. Diversissime fra loro, sono forse due facce della stessa donna, che si rispecchiano una nell’altra. «Sono brillanti — continua Sonia — non lamentose né inclini al vittimismo, fedeli al loro progetto di vita e di felicità. Sono in costante ascolto una dell’altra e parlano, attraverso le lettere, d’amore, matrimonio, disillusione, maternità e soprattutto amicizia. E le parole sui sentimenti non bastano mai, ma il linguaggio che usano non è lirico, bensì concretamente femminile». Tutto è incentrato sull’ascolto e sull’attesa di quelle lettere che sono sempre in ritardo rispetto al presente della vita che si sta vivendo.

  «È uno spettacolo sulla grandezza e sui limiti della parola — aggiunge Massini —. Queste due donne usano un linguaggio fortemente intriso di emotività. Però al tempo stesso è una parola “anaffettiva”, messa su un supporto di carta che poi farà da tramite raggiungendo l’altra persona, senza rapporto diretto. È come se quella parola, soprattutto quando è polemica, non tenesse conto delle conseguenze che scatena. [...]».



  Maria Caruso, “La Maison du Chat-qui-pelote” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Daniela Tononi, Palermo, Università degli Studi, Scuola delle Scienze umane e del patrimonio culturale, 2017.

 

 

  Andrea Caterini, Balzac sull’orlo di una geniale crisi di nervi, «il Giornale», Milano, Anno XLIV, Numero 143, 18 giugno 2017, p. 26.

 

  Ossessionato dal denaro, bramoso di ottenere il successo e la notorietà, se non con la scrittura, almeno nell’alta società, cinico e volgare fino all’insopportabile, Honoré de Balzac fu forse lo scrittore più controverso della prima metà del secolo XIX. Ma questo suo carattere ripugnante non è dissimile da quello degli infiniti personaggi che compongono la monumentale opera di una vita, la «Commedia umana». «Non c’era distinzione tra la vita reale e la vita dei suoi romanzi», scrisse di lui Proust, che un altro teatro umano (la mondanità) ritrarrà oltre mezzo secolo dopo. La storia di Balzac è quella di un’età colta nei suoi aspetti essenziali: la società francese post-rivoluzionaria, in particolare quella parigina – cinica, meschina. Il suo carattere però nascondeva un trauma che chiedeva di essere riscattato. Lo capiamo leggendo Louis Lambert, al quale lavorò dieci anni, fino a inserirlo, nel 1846, nel capitolo della «Commedia umana» che porta il titolo di Studi filosofici.

  Louis è il ragazzo geniale e inadatto a ogni comunità che a soli quattordici anni, chiuso in un collegio dove ha un solo interlocutore, che però lo abbandonerà due anni dopo ma che poi racconterà la sua storia (il romanzo che stiamo leggendo), costruisce una teoria metafisica (che abbraccia ogni ramo del sapere) della «vita interiore», una vita separata da quella esteriore e che ci connette col tutto – visibile e invisibile, materia e spirito, terra e cielo. Ma quello che importa è scoprire quanto quel trauma di cui Balzac mai si liberò, l’infelicità di non vedere compreso il suo talento neppure da sua madre, e di essere stato costretto, per sopravvivere, a scrivere sotto pseudonimo mediocri feuilleton (sic), qui esplode in un’opera abbacinante, nella quale tutta la sua sensibilità e la sua intelligenza vengono sprigionate. Ma cosa succede quando un uomo come Lambert (ormai uscito dal collegio), che ha riposto sulla sua visionarietà tutte le sue risorse e aspirazioni, si scontra con la società e i suoi meccanismi? «In una grotta nel deserto non avrei paura di me, invece qui ho paura. Nel deserto starei con me stesso senza distrazioni, qui una folla di bisogni mi avvilisce senza tregua». Il rischio è la follia. Ora capiamo meglio quale sofferenza e disagio nascondesse il carattere di Balzac, anzi di Lambert – ma non fa differenza, sono la stessa persona.

 

 

  Maurizio Cecchetti, Colore. Disputa alla francese, «Avvenire. Agorà», Milano, Anno L, n° 91, 18 Aprile 2017, p. 22.

 

  Come accade soltanto nelle pagine di letteratura più riuscite, Il capolavoro sconosciuto di Balzac ha un’apparente semplicità, ma nasconde invece una complessità di riferimenti che fanno capire l’ampiezza di conoscenze storiche e letterarie del grande romanziere anche in ambito artistico. Nella vicenda di Frenhofer, un vecchio pittore che sta realizzando da anni il suo capolavoro segreto ritraendo la donna amata, ciò che ci interessa ora è la scelta degli interlocutori del pittore. Frenhofer riceve la visita di due colleghi: un habitué del suo studio, il pittore Pourbus (sic), il quale arriva accompagnato da un giovane il cui nome diventerà un mito nazionale, il “Raffaello francese”, Nicolas Poussin. Di fronte all’estasi di Frenhofer, che sollevando il velo dal quadro, vuole mostrare ai due amici la sua “belle noiseuse’’, Pourbus e Poussin restano spiazzati. La tela è una informe stratificazione di colori, quasi una crosta, ma in un angolo fa vedere un brano di pittura assoluta, un piede, quello della donna che Frenhofer dice di aver raffigurato, la cui verità sfida la carne viva. I due se ne vanno mentre Frenhofer offeso dalla loro “cecità” quasi li caccia, e qui bisogna chiedersi: come mai Balzac ha fatto di Poussin uno dei protagonisti di questo racconto che è un’allegoria del rapporto fra arte e vita?

  È lecito pensare che Balzac abbia rifuso nel suo racconto un dibattito che occupò i teorici della pittura dal 1673 in poi e che ancora si riscontra nelle idee di Baudelaire e raggiunge poi definitiva sublimazione nell’impressionismo. [...].

 

 

  Gennaro Carillo, Morte a credito. Honoré de Balzac, «Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau», in AA.VV., Il borghese fa il mondo. Quindici accoppiamenti giudiziosi, a cura di Francesco de Cristofaro e Marco Viscardi. Note introduttive di Emanuele Canzaniello. Fotografie di Cesare Accetta, Monica Biancardi, Ludovico Brancaccio, Flavio Gregori, Roma, Donzelli editore, 2017 («Saggi. Arti e lettere»), pp. 303-313.

 

  La storia di César Birotteau è la storia di una grandezza e di una decadenza, di una «morte a credito» che Balzac descrive passo dopo passo con spietato sarcasmo ponendosi contro la logica capitalistico-affaristica del suo tempo. Balzac, osserva l’A., ci dipinge il «poema di una classe, delle sue variazioni e scissioni interne» (p. 309): in César Birotteau, lo scrittore «abbraccia in una visione d’insieme più borghesie» (p. 310): quella dei Rogon, antichi commercianti, e quella di du Tillet, incarnazione della pura speculazione, agente rivoluzionario di una nuova forma di arrivismo capitalista che soffocherà, fino ad annientarlo, il mediocre profumiere proprio perché Birotteau, da essere medio e ridicolo qual è, accetterà, senza averne alcuna consapevolezza, di partecipare a «un gioco di cui ignora le regole» (p. 312).



  Mariella Colin, Scrittori francesi nel salotto Maffei, in AA.VV., L’Ottocento di Clara Maffei. A cura di Cristina Cappelletti. Presentazione di Remo Morzeni Pellegrini. Introduzione di Matilde Dillon Wanke, Milano, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, 2017, pp. 17-28.

 

 

  Franco Cordelli, Sono io Balzac, il vero Balzac, «Corriere della Sera. La Lettura», Milano, N. 290, 18 giugno 2017, pp. 18-19.

 

  «Albert Savarus», tradotto per la prima volta in italiano, è l’esempio più clamoroso di un mutamento nell’interpretazione dell’opera del padre della «Comédie Humaine» e di Zola. Poco a poco un’abitudine che risale addirittura a Edmondo De Amicis e a Benedetto Croce, quella di pensare i due grandi romanzieri come campioni del realismo-naturalismo, si sta sgretolando.

 

  Prima di parlare di Albert Savarus è giusto osservare come stia cambiando la nostra idea di Balzac e di Zola. Lo si deve allo straordinario impegno di Pierluigi Pellini, ai suoi Meridiani dedicati a Zola, al suo lavoro per Sellerio su Balzac. Poco a poco un’abitudine remota, che risale addirittura a Edmondo De Amicis e a Benedetto Croce, quella di pensare i due grandi romanzieri come campioni del realismo-naturalismo, si sta infine sgretolando. Davvero e compiutamente realistici-naturalisti non lo sono né Balzac — il cui campo di esperienza si apre fino all’esoterismo e al misticismo (per semplificare) — né Zola, la cui maniacalità di studio e di analisi gli chiude l’occhio come fosse uno scienziato che filtra attraverso il microscopio.

  D’altra parte (ma è un’osservazione a margine) in un precedente articolo dedicato proprio a Il denaro di Zola, osservavo come nella nostra percezione letteraria sia oggi decisiva l’influenza della Normale di Pisa, dei normalisti. Sempre volendo semplificare, come non accorgersi che la lezione di Federico (sic) Orlando è solo un ricordo ed è ormai dominante una tendenza all’interpretazione di tipo contenutistico se non sociologico? Viene voglia di dire, non per nulla stiamo parlando di Balzac e di Zola, sebbene rinnovati! Del mutamento, Albert Savarus di Balzac, finora mai tradotto in italiano, è un esempio clamoroso. Più per la seconda ragione che per la prima. La prima è fin troppo vistosa per non essere almeno in parte casuale. Mi riferisco al romanzo contenuto nel romanzo (o al racconto contenuto in quello che forse è più un racconto lungo che un romanzo) e alle lettere che la protagonista Rosalie legge di nascosto, lettere che hanno una forma anche diaristica, con tanto di date (nel racconto troviamo dunque un’altra forma letteraria digressiva). La seconda ragione è nella natura autobiografica della narrazione. Essa è ben camuffata, come è ragionevole immaginare. Ma è più vicina alla realtà della vita dell’autore di quanto non fosse, per citarne un altro romanzo, anch’esso nella traduzione di Paola Dècina Lombardi appena pubblicato da L’Orma, Louis Lambert, che di Balzac mette a nudo in modo diretto l’anima, la sua vocazione autodistruttiva, l’impossibilità della sua lotta con le strutture repressive del mondo in cui visse.

  Tutto ciò lo svela nelle sue strabilianti duecentouno note Pellini, così capillari da superare il mero livello denotativo. Esse sono già commento e interpretazione. Inducono (o invitano) a leggere Albert Savarus due volte: prima per capire, poi per ammirare.

  Il romanzo si apre nel modo classico di Balzac, descrizione di ambiente e di personaggio o personaggi. Siamo a Besançon, una città di provincia la più lontana da qualunque volontà o possibilità di Progresso (la P è maiuscola). Vi dimora la famiglia Watterville. Il barone è «asciutto, magro come un chiodo e senza spirito»; la moglie di una «magrezza divenuta proverbiale», quasi che «il barone si fosse consumato contro questa roccia». La figlia Rosalie, vera protagonista della vicenda, «non sapeva assolutamente niente», repressa com’era dal bigottismo della madre e dalla non appartenenza del padre — che pure l’amava fino a farsene, al momento opportuno, schiavo. Di fronte a questa famiglia benestante ma non ricchissima si presenta il vanitoso e pretenzioso Amédée de Soulas, «l’uomo più bello di Besançon» («un parrucchiere veniva a pettinarlo sempre alla stessa ora» ecc.). Naturalmente de Soulas vuole sposare la giovane Rosalie ed è sempre lì, in casa Watterville. Ma a Besançon arriva niente meno che da Parigi un avvocato, Albert Savaron de Savarus. Chi è costui? e perché ha lasciato Parigi per rintanarsi in un citta (sic) di provincia come Besançon? Mistero.

  Ecco, questa parola quasi mi costringe a pensare al romanzo con categorie interpretative di un grande del passato, Ernst R. Curtius. Il suo Balzac risale al 1923 e offre, anch’esso, una lettura tutt’altro che realistica. Il libro si divide in quattordici capitoli, il primo dei quali si intitola proprio «Mistero». Ma altrettanto cruciali sono «Energia» e «Passione», dove energia sta per Desiderio e passione non è che l’antefatto di «Amore» (il titolo di un altro capitolo) o di «Potere», il cui antefatto in Albert Savarus viene denominato «Ambizione» nel titolo stesso del racconto nel racconto: «Ambizione per amore». Ne è dominato Rodolphe, un ventenne che in vacanza in Svizzera ha la ventura di imbattersi nella diciannovenne Fanny Lovelace, un nome che subito evoca il romanzo gotico-romantico per antonomasia di Samuel Richardson, Clarissa. Ma Lovelace non è che un nome di copertura, la ragazza è un’italiana proscritta, si chiama Francesca — e poi si saprà Francesca Colonna, sposata a un Gandolphini, un uomo di settantasette anni, al quale, avendolo dovuto sposare, ha comunque prestato giuramento di fedeltà. Tutto ciò deve essere prima o poi detto, poiché il «desiderio» di lei in Rodolphe è improvviso e incontenibile: avrebbe voluto sposarla all’istante. Francesca lo ricambia ma il marito sa che «al di fuori del mio cuore, che mi appartiene, e che posso donare, non permetterei a nessuno di prendermi neanche la mano, ed ecco perché ve l’ho appena rifiutata. Voglio essere amata, attesa con fedeltà, nobiltà, ardore, ma tutto ciò che posso offrire è un’infinita tenerezza, la cui manifestazione non oltrepasserà mai il recinto del cuore, non andrà mai oltre il lecito». Rodolphe risponde (ed è serio e sincero, come a suo modo lo fu Balzac nei confronti della polacca baronessa Hanska, che avrebbe sposato, infine vedova, nel 1850 pochi mesi prima di morire e dopo anni e anni di un’attesa che si risolse in promessa mantenuta a dispetto della lontananza e del non essersi incontrati che una volta o due), Rodolphe, dicevo, risponde che Francesca la riceverà «dalle mani del Tempo» — mentre lei, italiana e dunque più generosa di qualunque donna francese chiederà che l’amato coltivi la sua ambizione e diventi ciò che deve diventare «più per il benessere dell’umanità che per meritare me».

  Ma il vero romanzo di Balzac comincia qui, quando finisce il racconto di Albert che volle nominarsi Rodolphe: quando cioè finisce l’ambizione per amore e comincia la storia dell’amore che prima d’essere amore è Passione. È la storia di Rosalie: lei fino a quel momento incontaminata da sentimento o pensiero «per la prima volta in vita sua, incontrava quello straordinario, quel meraviglioso che sorride a tutte le giovani immaginazioni». Lo guardava, Albert: lo guardava da lontano. Chi mai era quell’uomo solitario e misterioso? Era arrivato, aveva vinto una causa del Capitolo contro la Municipalità, vale a dire del vecchio potere ecclesiastico contro il nuovo potere scaturito dalla rivoluzione del luglio 1830. Non riceveva che tra le sei e le otto del mattino. Passava la notte a studiare. Perorava, per la fama improvvisa che s’era fatta, «due o tre cause a settimana» (era insomma Balzac, osserviamo noi, travestito da avvocato).

  Ma come arrivare a Balzac, cioè ad Albert Savarus? È a questo punto che quella fanciulla, Rosalie, che non sapeva niente, si trasforma — come in una fiaba: non già in una fata ma in una strega, o in una specie di strega. Parla, seduce e corrompe. Compie un’azione che verrà poi giudicata tra le più infami. Si fa passare da Jérôme e Mariette, i camerieri, le lettere che Albert va scrivendo: egli all’amico Leopold racconta com’è la sua vita, la sua giornata. Alla duchessa d’Argaiolo in Soderini (questi i veri nomi di Francesca, ripresi dal giorno dell’amnistia e dal ritorno in Italia) racconta com’è il suo amore, quali sono le sue speranze, quale il suo desiderio — perfino che il marito scompaia il prima possibile dalla scena del mondo. Sono sentimenti estremi, puro romanticismo — ma anche, lo abbiamo intravisto, pura realtà — la realtà di Balzac.

  Di fronte a tanto come reagisce Rosalie se non con pari rigore? Rosalie organizza un piano che in realtà scaturisce da sé, dalle circostanze che di volta in volta si presentano. Prima convince il padre ad assumere Savarus come avvocato per una contesa su una proprietà terriera. Poi scrive una lettera anonima per impedire l’elezione di Albert alla camera dei deputati. Alla notizia della morte del duca d’Argaiolo (notizia proveniente da due lettere di Francesca ad Albert) Rosalie risponde con tre lettere alla stessa Francesca. Dopo strenui esercizi è arrivata a imitare la grafia di Albert alla perfezione e scrive che i suoi sentimenti sono cambiati. A questo punto il piano è giunto all’episodio conclusivo. Albert di colpo sparisce dalla scena pubblica, si saprà che si è ritirato nella Grande-Chartreuse, si è ritirato da tutto: Francesca, sentendosi tradita, si è già risposata. È una specie di vendetta — là dove la vera vendetta era (è) quella di Rosalie: attuata nel momento in cui credeva che i suoi piani di conquista di Albert fossero in via di compimento arriverà ad avvicinare a un ballo dell’Opéra Francesca Soderini e a consegnarle le lettere di Albert, insomma a svelarle tutta la verità.

  Nei quattordici capitoli di Curtius la parola Vendetta non è diventata un titolo. Ma potrebbe essere nascosta nel capitolo «Religione». Potrebbe corrispondere più ancora che a una pura esigenza romanzesca (di conclusione d’un romanzo) a una visione, tutta balzachiana, di un fondamentale equilibrio cosmico. Ecco perché anche Rosalie avrà la sua punizione, anche su di lei si abbatterà la vendetta: esplode la caldaia di un battello a vapore su cui stava viaggiando, perde il braccio e la gamba sinistra, «il viso presenta orribili cicatrici che hanno cancellato del tutto la sua bellezza». Chi è il vendicatore? Ce n’è forse uno, una mente — romanzesca, di quelle nelle quali certi esiti sono pura sovrabbondanza, o astratta, indecidibile, certo non romanzesca — o non è che un caso, uno dei tanti della vita.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, Introduzione. “Louis Lambert”, un romanzo di esperienza, in Honoré de Balzac, Louis Lambert ... cit., pp. 7-22.

 

  Cfr. supra.



  Andrea Del Lungo, L’impossible “Bataille” de Balzac ou le Waterloo de l’écriture, in Collectif, La chose de Waterloo. Une bataille en littérature, textes réunis et présentés par Damien Zenone, The Nederlands, Brill-Rodopi, 2017, pp. 76-86.



  Andrea Del Lungo, ‘Trompe-la-mort’, ou la question de l’indentité, «Le Courrier balzacien», Paris, Nouvelle Série, N° 41, Juillet 2017, pp. 23-27.



  Brigitte Diaz, La Lettre romantique: une poétique du paradoxe, «Romanticismi – La rivista del C.R.I.E.R.», Università di Verona, Vol. 2, 2017, pp. 61-80.

 

  […]. La prévention des auteurs du siècle romantique à l’égard de la lettre s’est aussi manifestée dans leurs oeuvres fictionnelles. Ils ont ignoré de façon assez unanime le genre du roman épistolaire. De façon générale, ils se sont peu intéressés à cette forme littéraire jugée trop prisonnière de conventions littéraires surannées. Balzac, qui signe en 1840 ce qu’on a pu considérer comme un des derniers avatars du roman par lettres – les Mémoires de deux jeunes mariées – constate dans sa préface la désaffection d’un genre « assez inusité depuis bientôt quarante ans », tandis que Victor Hugo compare « les productions épistolaires à ces laborieuses conversations de sourds-muets, qui s’écrivent réciproquement ce qu’ils ont à se dire, de sorte que leur colère ou leur joie est tenue d’avoir sans cesse la plume à la main et l’écritoire en poche». En dépit de ces critiques, ils n’ont pas manqué d’exploiter les effets narratifs et psychologiques de la lettre insérée dans le roman, même si ce fut parfois pour en faire la satire. On trouverait dans les romans de Balzac et de Stendhal les éléments d’une poétique critique de la lettre où se mêlent fascination et suspicion à l’égard de la communication épistolaire. Dans ses fictions, Balzac montre volontiers la lettre comme un palimpseste de signes flous, porteurs d’intentions et de significations ambiguës. Les lettres de Louis Lambert, à l’indéchiffrable calligraphie, en sont la figure emblématique : il y a de l’illisible dans la lettre. Parce qu’elle exacerbe les malentendus, et qu’elle accentue les faux-semblants et autres illusions dont se tissent les rapports humains – et surtout, les rapports amoureux – la lettre, dans la fiction balzacienne, est toujours mise à l’épreuve et même mise en crise de la communication. Infiniment fragile, sujette à tous les dévoiements et propices à tous les égarements – ceux de la poste comme ceux du coeur –, elle accentue l’opacité de toute communication. Elle est, pour reprendre une formule de Proust, une «illusion qui nous frappe», mais qui, pour autant, et c’est là son mystère, n’est pas dénuée d’effets de vérité. On touche là à un des paradoxes majeurs de la poétique romantique de la lettre: la communication épistolaire est perçue tout à la fois comme une forme de communication équivoque, susceptible de toutes les impostures, mais aussi comme le vecteur propice à l’émergence d’une parole vraie. Pour que cette vérité advienne cependant ce sont les pratiques et les codes qui doivent être amendés, ce à quoi se sont employés les épistoliers de l’âge romantique. […].

  La poétique romantique de la lettre, toute de paradoxes, fait d’elle un objet complexe, hybride, équivoque, et la rend finalement assez étrangère à la simplicité et la candeur que les épistoliers romantiques avaient rêvées en elle. Cette sinuosité de l’écriture épistolaire se signale plus nettement encore dans ce qui apparaît, culturellement, comme le parangon même de la lettre romantique: la lettre d’amour. Nous n’avons pas voulu à dessein réduire l’épistolarité romantique à cette sorte de lettre mais c’est sur elle que nous voudrions clore ce bref survol, ou plutôt sur l’image que la littérature romantique en a donnée. Plus que tout autre, la lettre d’amour se rêvait transparente, sincère, authentique, spontanée, et la littérature romantique nous la montre tortueuse, séductrice, fallacieuse. On la pensait libre de tout modèle littéraire mais ils foisonnent en elle de façon plus ou moins innocente. Certains amoureux fictifs empruntent leur rhétorique la plus passionnée à des modèles prêts à l’usage: c’est ainsi que Julien Sorel et Lucien de Rubempré font de la lettre d’amour un outil stratégique de réussite sociale. On la pensait passionnée, voué au culte de l’être aimé, elle est narcissique, intéressée, calculatrice comme celles d’un autre héros balzacien, de Marsay, qui adresse à ses maîtresses en puissance des missives passionnées tout en se gaussant de celles qui se prendront à ses pièges épistolaires: «Et elles croient cela pourtant, ces pauvres créatures! ». Balzac, mieux que quiconque, a dévoilé tous les leurres et les malentendus de la lettre d’amour. De l’illusion qu’on se donne à celle qu’on veut donner par la lettre, la palette est large, et le romancier en a peint toutes les nuances, moins choqué d’ailleurs que fasciné par les travestissements énonciatifs que la lettre favorise, comme l’atteste la formule enthousiaste de la Physiologie du mariage : « La correspondance est un Protée ». Protée, parce que mouvante d’un bout à l’autre de la chaîne: les stratégies de séduction ou de dissimulation adoptées par le destinateur portant leurs effets, forcément imprévisibles, sur le destinataire. De cette confusion épistolaire, Balzac a radioscopé tous les effets, montrant que la réception, la lecture et le décryptage de la lettre d’amour sont au moins aussi problématiques que sa production. Sans doute parce que la réalité qui isole chaque correspondant dans des univers géographiques et temporels différents, dans des tropismes décalés, fait de toute correspondance un coup de poker où l’on perd plus souvent qu’on ne gagne. Modeste Mignon – héroïne éponyme d’un roman tout entier consacré aux malentendus et aux égarements de la lettre, – fait très vite l’expérience de ces équivoques épistolaires en recevant la première lettre, cruellement décevante, du poète Canalis à qui elle avait adressé ses flatteries amoureuses […].

  Cependant, malgré ses déceptions et ses illusions, la lettre, dans la littérature romantique, garde tous ses prestiges. Troublante, énigmatique, la parole qu’elle véhicule reste toujours suspendue dans un indécidable poétique, comme le montre admirablement Balzac dans cette fiction épistolaire qu’est Modeste Mignon. Dans la lettre d’amour, à la manière des romantiques, les paradoxes semblent devoir se résoudre en oxymores: les contraires finalement coexistent dans un frottement explosif qui peut, malgré tous les détours qu’elle y suit, produire une certaine vérité.


 

  Pasquale Di Palmo, Gioco a incastri e autobiografia con il feuilleton, «il Manifesto. Alias domenica», Roma, Anno VII, N° 19, 14 maggio 2017, p. 7.

 

  Scrivere su Balzac è come trovarsi di fronte a un’immensa cattedrale e doverne interpretare le diverse peculiarità di ordine stilistico e architettonico. Ora sfugge la conformazione di un pinnacolo ora il giugno sinistro di un gargoyle. Impresa degna di Sisifo qualora si consideri che la Commedia umana doveva originariamente comporsi di 137 romanzi, progetto che si arenò a quota 91. Gli sforzi prodigati per assolvere un simile, spropositato compito (la Recherche proustiana, al riguardo, può essere considerata una specie di bignamino), porteranno l’autore a togliere il disturbo a poto più di cinquant’anni, dopo una vita spesa all’insegna dello spreco (di talento e risorse).

 In tale ambito si deve considerare che Balzac aveva contratto, sin dalla prima giovinezza, debiti che non sarebbe mai riuscito a onorare (in barba al suo nome, Honoré), e che la scrittura rappresentava la sua unica fonte di reddito. libri su libri, composti freneticamente con il proposito di coniugare difficili situazioni contingenti a un progetto che in sé accorpa qualcosa di disumano, di «pantagruelico» (il riferimento al personaggio rabelaisiano non è casuale: si considerino al riguardo gli splendidi Contes drolatiques) con la raffigurazione di oltre 2000 personaggi. Situazione complicata dal fatto che l’ambizione di Balzac era smisurata: la sua stessa esistenza sembra improntata unicamente all’obiettivo di un’impossibile scalata sociale, Leitmotiv, questo, della sua opera.

  La prospettiva di un cambiamento si manifestò quando il futuro autore del Père Goriot ricevette una lettera da Odessa, scritta nell’ottobre 1831, da un’ammiratrice che si firmava L’Étrangère, appellativo adoperato dalla contessa polacca Evelina Rzewuska, maritata con un uomo molto più anziano di lei, Venceslas Hanski. La storia è nota: Balzac allaccerà una tumultuosa relazione con Madame Hanska e si adopererà in ogni modo per convolare a giuste (o ingiuste) nozze, soprattutto dopo la scomparsa dell’attempato consorte. Riuscirà nell’intento solo qualche mese prima di morire, ormai distrutto dagli sforzi, con esiti patetici che non sfigurerebbero in un suo plot narrativo.

 

  Scritto di getto in poche settimane.

 

  Questo intreccio di carattere autobiografico è ventilato nella trama di Albert Savarus (Sellerio «La memoria», pp. 240, € 13,00), tradotto per la prima volta in italiano da Francesco Monciatti e curato da Pierluigi Pellini sulla base del testo della Pléiade gallimardiana che riproduce il «Furne corretto». Il romanzo, originariamente uscito in feuilleton nel 1842 (qualche settimana prima di Les Mystères de Paris di Eugène Sue) e l’anno successivo edito in volume con il titolo Rosalie, fu scritto di getto nell’arco di qualche settimana. Doveva, secondo gli intendimenti dell'autore, confluire nel progetto articolato delle «Scene della vita privata» che forma il primo dei sei gruppi degli «Studi di costume», parte iniziale della Commedia umana (le altre due sono gli «Studi filosofici» e gli «Studi analitici»). Il romanzo, dallo spiccato orientamento psicologico, ebbe una discreta fortuna quando uscì ma cadde presto nel dimenticatoio, oscurato da quelli che vengono unanimemente considerati i capolavori di Balzac.

  Nella postfazione Pellini ricostruisce le vicissitudini legate alla stesura del testo, mettendo in relazione la sua genesi alla liaison dangereuse con Madame Hanska, il cui «progettato matrimonio era da quasi dieci anni, e continuava ad essere (sia pure, forse, con qualche titubanza), uno dei cardini di una strategia esistenziale in cui l’ambizione letteraria non appare mai disgiunta da un’incrollabile volontà di ottenere a ogni costo un riconoscimento mondano e il benessere economico». Non è un caso che l’epilogo con la nobildonna polacca, sfociato appunto nel sacramento del matrimonio che, ipso facto, rimpiazza quello dell’estrema unzione, sia pronosticato in un passo di Albert Savarus: «Raggiungere lo scopo e spirare, come il corridore dell’antichità! Vedere il successo e la morte arrivare insieme alla soglia della porta! Ottenere la donna amata nel momento in cui l’amore si estingue! Non aver più la facoltà di godere quando si è conquistato il diritto alla felicità!».

  Nel clima asfittico e bigotto di una città di provincia come Besançon, in cui sono ambientati alcuni fatidici passaggi di Jean (sic) Sorel nel Rosso e il Nero di Stendhal, prendono vita le macchinazioni di Rosalie, il personaggio più riuscito del romanzo, che si innamora perdutamente di Albert Savarus. Questo giovane e brillante avvocato, sorta di alter ego idealizzato del romanziere, vorrebbe regolarizzare, a sua volta, il proprio rapporto con una nobile italiana sposata a un anziano. La stessa teodicea che incombe su Rosalie, punita per i suoi intrighi in maniera così rocambolesca nell’explicit del romanzo (durante un viaggio sulla Loira esplode la caldaia del battello a vapore sfigurandola e facendole perdere un braccio e una gamba) risente di certi feuilleton dalla morale «spicciola» in voga in quegli anni. Nella sua pervicacia, nella sua ostinazione, Rosalie rappresenta il tentativo di opporsi, seppur in maniera crudele, al disegno innervato in un tessuto sociale che antepone il rigore delle apparenze al desiderio.

  In tal senso va letto anche il racconto L’ambizioso per amore, scritto nella finzione romanzesca da Albert Savarus e ambientato nel 1823, in piena Restaurazione, sullo sfondo del paesaggio idillico dei laghi svizzeri. Si tratta di un intarsio, di una vera e propria mise en abyme atta a corroborare le tesi dell’autore (Pellini parla di un testo che «sarà precisamente una “lezione” per Madame Hanska») che si carica «non solo di un’ipertrofica intertestualità romantico-stendhaliana, ma anche di un insistita allusività autobiografica», come suggerisce ancora il curatore. Sembra un gioco di scatole cinesi: nel racconto è adombrata la vicenda metaforica di Albert Savarus e Francesca che, a sua volta, riecheggia quella autentica tra Balzac e Madame Hanska. Si ha così un rispecchiamento di motivi (e variazioni) sentimentali declinato con ambiguità all’ennesima potenza: Rodolphe e Francesca Colonna (racconto) rappresentano Albert Savarus e Francesca Soderini (romanzo) che a loro volta configurano Balzac e Madame Hanska. La dinamica delle variabili diventa pressoché infinita, soprattutto se caratterizzata dall’emblematicità dei patronimici.

 

  Numerose incongruenze.

 

  All’interno della narrazione sono presenti numerose incongruenze che caratterizzano la maniera di scrivere dell’autore di Tours che, a causa della fretta sottesa alle varie scadenze editoriali, non sottoponeva i testi a una revisione accurata. Un esempio? A pag. 16 leggiamo: «God save the King, l’inno nazionale dell’Inghilterra, è una musica composta da Lulli per i cori di Esther o di Athalie». Passiamo alla nota del curatore: «Come spesso capita, l’erudizione esibita da Balzac nella Commedia umana è frettolosamente imprecisa, se non farlocca. La musica dell’inno nazionale inglese è un arrangiamento, eseguito nel 1745 da Charles Burney, di un’antica melodia il cui autore è sconosciuto; e i cori delle due tragedie di Racine sono posteriori alla morte di Jean-Baptiste Lully (1632-1687). Esther è del 1689, di due anni più tarda Athalie. Le relative musiche di scena sono state composte da Jean-Baptiste Moreau (1656-1733)».

  Pur nella sua «marginalità» rispetto ad altre opere più conosciute, Albert Savarus si configura come un romanzo estremamente balzachiano, dove il «creatore del moderno realismo» ricordato da Auerbach si rapporta al visionario appassionato» di cui parla Baudelaire. L’avversione manifestata in vita da Sainte-Beuve (in realtà corrisposta dall’autore delle Illusioni perdute) costituisce una sorta di viatico a quello che si potrebbe considerare un autobiografismo ante litteram che sembra precorrere le intermittences du coeur di proustiana memoria. In fondo l’aveva ben capito Roland Barthes: «Balzac è il romanzo fatto uomo».

 

 

  Paolo Di Paolo, Amare come un padre. “Il padre Goriot” di Honoré de Balzac, in Vite che sono la tua. Il bello dei romanzi in 27 storie, Bari-Roma, Editori Laterza, 2017 («i Robinson/Letture»), pp. 111-117.

 

  Attraverso la figura del Père Goriot e grazie al racconto del suo tragico destino, Balzac mostra di possedere una «sovrumana confidenza con l’umano» (p. 112), con una umanità impressionante per varietà tipologica, per ambiguità psicologica, di carattere e di comportamento. Nel torbido oceano parigino, dove i vizi e le virtù faticano molto spesso a distinguersi, lo scrittore fissa e lascia agire i propri personaggi: egli «li infilza come insetti, […] li osserva non da giudice, ma da entomologo, meravigliato e disgustato allo stesso tempo» (p. 114). Nella figura di Goriot, Balzac ha descritto e raccontato un padre che concentra in sé tutti i padri: nel momento del delirio che precede l’agonia, Goriot non rimane che l’ombra di se stesso, il ricordo di ciò che era. Balzac, però, «non lo lascia svanire nella pagina: resta come un monumento all’imperfezione umana, baciato da un po’ di luce in fondo a un corridoio scuro» (p. 115).

 

 

  Paolo Di Paolo, L’arte di far parlare il Genio, «La Stampa tuttoLibri», Torino, Anno XLII, numero 2046, 22 aprile 2017, p. VII.

 

  «Ero un mediocrissimo giovinastro che si ubriacava della propria magniloquenza senza aver un bel nulla da riferire». Potrebbe trattarsi dell’insolita autocritica di uno scrittore contemporaneo, magari in un post su Facebook. E invece a parlare è un uomo del diciannovesimo secolo che si chiama Honoré de Balzac. Giuseppe Ferrandino ha costruito (o dedotto) una voce trascinante, energica, impudica: fa parlare direttamente il genio. E Balzac si confessa, si sfoga, non nasconde l’ombra della vergogna, del fallimento («Ero un asino, questo solo sapevo dirmi»), non occulta l’ambizione, la ricerca spasmodica del provinciale che vuole conquistare il bel mondo. Entra nei salotti, si fa amare e ama, si indebita, continua a comprare l’inutile, a godere, si vota completamente «all’entusiasmo di ridere e al piacere di essere vivi». Balzac raccontato come un personaggio di Balzac: bulimico e titanico, sempre compromesso con splendori e miserie dell’esistere. «Dei miei libri ne avrei salvati una dozzina, il resto erano coscienziosi ma inutili», ammette – e questo, comunque, non toglie nulla. Averli scritti, scrivere è – nel caso di Balzac – un segno di vitalità: come il desiderio erotico, come l’appetito più vorace. Il talento, sì: da una fonte sconosciuta. «Il potere mirabilissimo di giocare con la mia mente, le mie cognizioni e le mie capacità letterarie imbastendo dalla fanghiglia un lapislazzuli, dal buio una scintilla, dalla noia un frizzo, dal vuoto una sostanza». Onorato di Ferrandino entra di diritto nel piccolo novero di romanzi riusciti sugli scrittori (penso a Henry James raccontato da Tóibín in The master): il contatto, o l’attrito, fra due inquietudini distanti nel tempo; l’arco voltaico che le tiene unite.

 

 

  Massimo Donà, Il pozzo infinito del niente. Da Lewis Carroll a Honoré de Balzac, in Di un’ingannevole bellezza. Le “cose” dell’arte, Milano, I Grandi Tascabili Bompiani, 2017, pp. 87-124.

 

  Come nell’universo disincantato e ‘alla rovescia’ dell’Alice di Lewis Carroll, la ricerca che Frenhofer compie nel Chef-d’oeuvre inconnu di Balzac per dare forma a quella unità originaria dell’arte che, oltrepassando i confini illusori del reale, si liberi dalla volontà di trovare un proprio stile ed una propria tecnica particolari, è votata al fallimento in quanto destinata a risolversi nella semplice negazione «del distinguersi dei distinti» (p. 105). Nell’opera d’arte, Frenhofer ricerca l’anima, vale a dire la sola dimensione in grado di svelare la bellezza realizzando la sua perfetta unità: ma questo presuppone il superamento degli inganni del sensibile, ossia della forma «molteplice e diveniente che caratterizza le sue intrascendibili, ma insieme infinite, possibilità espressive» (p. 111). Per raggiungere quel fine, cioè superare le forme ingannevoli del reale, Frenhofer, al termine del suo estenuante percorso di ricerca, non sperimenta altro che il nulla assoluto, ossia la fine dell’arte. In altri termini, Frenhofer «non avrebbe potuto dir nulla di “diverso” dal mondo di cui pur avesse voluto sancire la più radicale “negazione”» (Ibid.).

 

 

  Giuseppe Ferrandino, Onorato, Milano, Romanzo Bompiani, 2017 («Narratori italiani»), pp. 196.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Prologo.

  1. Un infante particolare.

  2. Gli esordi.

  3. Un’avventura nel mondo della letteratura alimentare.

  4. Il poema.

  5. Una nuova vita.

  6. Un nuovo amore.

  7. Un cattivo affare.

  8. Il romanziere B***.

  9. La marchesa.

  10. La contessa.

  11. L’inglese.

  12. 1834.

  13. 1835.

  14. L’imprevisto.

  15. Gli anni di fuoco.

  16. Gli anni dell’amore.

  17. San Pietroburgo.

  18. Un momento di debolezza.

  19. La lunga vacanza.

  20. Il lungo inverno.

  21. Roma.

  22. L’inverno dello sfacelo.

  23. Ucraina finalmente.

  Epilogo.

 

Prologo, pp. 5-9.

 

  Io Onorato de B ***, giunto al mio cinquantunesimo anno di età, poiché per la prima volta in vita mia mi sento un po’ stanco, affronto questo memoriale il cui fine è per ora ignoto anche a me stesso, e che dalle altre mie opere si differenzierà, non solo per l’alta severa rupe da cui l’impassibile e smaliziata guida della mia non più giovanile età mi consente di guatare l’altrui e la mia personale vicenda, ma per una sincerità che il tumultuoso vulcano della mia anima di altri tempi aveva in parte obbligatoriamente celato sotto la lava ribollente, inarrestabile, accecante, spaventosa anche a me stesso e dinanzi a cui le labbra delle genti soltanto potevano socchiudersi senza emettere suono alcuno, della mia passione.

  Io scaverò dentro i miei fatti e nelle mie reazioni. Dagli strati geologici della mia formazione recupererò conchiglie e fossili e dopo averli ben puliti col soffio della quiete e con il pennello della verità li esporrò nel museo di queste pagine, non già per farmi bello, ché ciò che ho già compiuto mi consente di accampare più di un diritto sui miei titoli estetici, ma per trarne dei retroscena analitici, delle osservazioni generali, che alle orecchie di più d’uno suoneranno utili.

  Ma un momento, un momento. Già dal fondo avverto la prima sardonica obiezione. Costui pontifica di sincerità, mi sembra di captare, costui si sbilancia nei territori della saggezza contemplativa, costui pare pretenda dare dei punti persino a Montaigne, costui, insomma, ne promette un mare e una sporta, e tanto per cominciare evita di darci il suo cognome!

  Mea culpa. Lo ammetto. Quei tre asterischi hanno ben poco di aristocratico e parecchio di volgare. Ma la sincerità del cuore è tale, diceva un grand’uomo, solo quando essa riesce a non offendere l’onestà della coscienza. E il rispetto che debbo alle mie precedenti opere, la considerazione che debbo ai miei pubblicatori, l’affetto che debbo ai miei familiari e in generale il puro e semplice buon senso pretendono e meritano questa omissione. D’altronde conta poco. Coloro, ai quali questo affresco della mia coscienza è destinato, non esiteranno un attimo nel riconoscermi.

  La scelta dei miei abiti, le manifestazioni più spicciole della mia anima, le interlocuzioni dei miei sogni, e le bagatelle in generale che costituiscono la struttura sociale di un uomo, io le ho sempre affrontate con occhio moderno. Ma la modernità è un concetto relativo. E ciò che nell’inizio di questo secolo sfolgorante, in cui il cammino umano ha percorso i passi strepitosi che duemila anni di storia non avrebbero mai immaginato, in questi anni in cui le regioni rolandiche dei filosofi e gli occhi ipofisari degli artisti hanno visto quasi la realizzazione dell’utopia ... il nostro modo di vedere e di sentire, il nostro modo di porci e di prendere è stato talmente bombardato dai cannoni della logica che non ci è stato più facile comprendere ciò che ci piaceva davvero e ciò che no.

  Non accampo pretesti. Io ho vissuto il mio tempo con il cuore del conquistatore. E se anche il conquistatore ha bisogno di cibarsi, di bere e impomatarsi i favoriti come qualunque dei suoi conquistati, non significa nulla, se non che Napoleone e Alessandro erano uomini come gli altri. Ma ciò non evita che gli altri uomini non fossero come loro.

  Il tempo di cui mi ricordo più volentieri in questa tornata di stagione è la primavera. Forse perché il mio oblio è della primavera, di quando mi sono svegliato e ho trovato un capello di mia madre sul cuscino del mio boudoir, come chiamavo una seggiola della mia cameretta. Mia madre aveva i capelli biondi e, benché io li amassi, anche ne avevo fastidio. Mi sembravano talvolta una intromissione non richiesta nella placidità delle mie contemplazioni infantili.

  Ma cosa contempla un infante? Cosa immagina mentre aspetta il seno della sua nutrice? Si accorge egli ad esempio che costei non è sua madre? O meglio, per accorgersene se ne accorge, ma ha davvero poi tanta capacità di discernimento per decidere perché quella non è sua madre?

  Ahimè, domande queste destinate a restar senza risposta. È dell’innocenza dell’infanzia, la sua impenetrabilità. La cosa che voglio arguire qui è che i cani campano di rimasugli e ossi e gli infanti di latte e giocattoli. I cani abbaiano, gli infanti frignano. Più in là nella distinzione non riesco ad andare. L’infanzia è bella soprattutto perché non la capiamo.

  D’altro canto già a dieci anni io avevo due denti davanti che mi mancavano. Perché citarli? Perché i sovvertimenti tellurici che radono al suolo le nazioni nascono da piccole grinze di roccia che sono venute meno nel centro della Terra. Dopo di ciò non vengono che i ricostruttori.

  Allora cosa intendo? Che parlare dei miei primi anni mi annoia, così come parlare di quelli subito successivi. Ne ho già preso sufficienti spunti per varie delle mie opere e ora penso che sia sufficiente.

  Non saprei in altre parole cosa dire di interessante e sincero sui miei genitori e tutta la mia famiglia. Qualunque segreto ci sia stato dietro, la mia vita è cominciata quando l’ho deciso io.

  E io l’ho decisa all’età di vent’anni, quando salutati i miei, abbracciate le mie sorelle, dato uno schiaffotto magniloquente al mio fratello di secondo letto, presi armi e bagagli e me ne venni a Parigi. Ecco, è da lì che tutto cominciò.

  Più precisamente cominciò allorché, dopo un viaggio in imperiale (sul tetto della diligenza, tra i bagagli), giunto alla porta di Parigi che era notte, presi una carrozza a noleggio e pur avendo i soldi contati mi feci condurre alla collina di Montmartre.

  Di certo, per il postiglione dovette essere strano vedere questo giovanotto dallo sguardo febbrile, che scese in un agile salto e gli disse:

  “Aspettate. Torno tra mezz’ora”.

  “Certo, monsignore. Ma la tariffa procede”.

  “Non ve ne curate”, risposi maestosamente.

  E abbordai il viottolo buio quasi di corsa ma ben attento a dove mettessi i piedi. Sapevo infatti che da quelle parti ci dormivano non solo gli ubriaconi, ma talvolta anche i tagliagola. Comunque non incontrai anima viva, o se ne incontrai dal buio nessuno si fece innanzi, e infine giunsi in cima.

  Ecco, cosa dire di quel momento? Del momento in cui ebbi innanzi ciò che avevo sempre sognato? Del momento in cui tutti i miei più fragili, inespressi, lievi segreti divennero carne viva ed io smisi i panni del sognatore per indossare quelli del dominatore?

  Non potrei dire nulla, se non che Parigi si stendeva dinanzi ai miei piedi come la dama che nei lunghi anni di prigionia al collegio avevo lentamente, faticosamente, pezzo dopo pezzo, piede dopo naso, cuore dopo anima, messa insieme. E se mai avessi avuto qualche dubbio sull’innaturale, sovrumano fuoco che mi divorava i visceri, in quel momento esso apparve per ciò che era: il buco aperto nella coscienza che da sempre dall’uomo superiore distingue il genio.

  Io in quel momento seppi, matematicamente seppi, che ciò che avevo sempre congetturato era vero. Che io pur essendo nato da lombi di donna come tutti, pur avendo piagnucolato: sporcato i miei panni, pur avendo imprecato e sudato, pur vendo temuto e goduto, io non ero come gli altri. E lì per lì questa differenza mi sembrò il segno della conquista. Ahimè, come mi ingannavo, fanciullo ero e presuntuosissimo, ignaro di ogni cosa pretendevo di sapere tutto; se pure in me covava qualcosa di sublime non era tempo ancora perché apparisse alla luce, se mai poi è apparso, ma come negare l’entusiasmo che mi accecava all’idea di quella strabiliante indipendenza? Come nascondere la felicità del giovane di belle speranze che vede davanti la città di Parigi? Come celare la delicatezza dei miei pensieri mentre mi rimproveravo per la maniera facilona con cui avevo speso i quattrini per quell’inutile carrozza, dato che ben avrei potuto arrivarci a piedi, lassù, ma ero stato conquistato dall’idea di darmi un sacco di arie con chicchessia, in particolare quel cocchiere, e cominciare da lui a mostrare quale uomo straordinario circolasse da adesso senza vincoli per la città? Cosa obiettare con buon senso alla smania del ventenne di essere illustre e di ottemperare al bisogno umano di azioni enormi? Ero Onorato de B***, prima o poi tale nome avrebbe fatto tremare i potenti, nel timore che una mia frase qualunque potesse mettere a nudo le loro colpe; Onorato de B***, o meglio a quel tempo ero ancora Onorato B***, ma conta poco! Onorato B***, Onorato de B***, ero uno sciocco e un buon a nulla, questa è la verità!

 

 

  Giuseppe Ferrandino, La commedia umana di “Onorato” è una danza macabra e gioiosa, «La Stampa tuttoLibri», Torino, Anno XLII, numero 2046, 22 aprile 2017, p. VII.

 

  Ho scritto un libro su un certo Onorato perché ero molto intrigato da certi fatti della vita di un grand’uomo. Purtroppo mi è difficile spiegare qui dei dettagli forse importanti. Il punto è che «Onorato» è solo un nome di battesimo. E mai nel romanzo riporto il cognome del personaggio. Ma è altresì chiaro che quella che racconto è la biografia di Balzac. Ho fatto lunghi studi a Parigi, alla biblioteca Mitterrand, per parecchi mesi, prima di scrivere questo lavoro. Il materiale su Balzac ovviamente è quasi senza fine. Sono stato anche in un centro studi sul nostro romanziere. Ho cercato documenti che fornissero le psicologie di tutti quelli che ebbero a che fare con lui e di cui racconto nel libro. Di uno, del sarto di Balzac, ho purtroppo trovato solo la firma e ho dovuto basarmi su quella, figuratevi un po’, per cavarne fuori una psicologia. Non so il risultato quale è stato. Ma riguardo al sarto mi sono basato ovviamente soprattutto su quello che Balzac medesimo riporta ...!

  Ho letto tutti i libri del padre di Balzac, ovviamente. E credo al riguardo di aver fatto una scoperta interessante che spiego nel libro. Le scoperte forse rispetto alle passate biografie di Balzac sono più d’una. Almeno a me tali paiono. Perché dunque non uso il nome di Balzac per intero, pur essendomi basato integralmente o quasi sulla di lui vita? Perché non mi ci sono basato del tutto, per cominciare; la lettera dello scrittore russo Puskin la invento io di sana pianta, e anche il dialogo con il sarto non è storicamente ineccepibile. Ma sono solo due punti a fronte di una pedissequa, direi, presa in considerazione dei veri fatti.

  Avevo qui a casa dagli anni della giovinezza l’intero epistolario di Balzac che riuscii a fotocopiare in America, all’università di Chicago, e il desiderio di fare una biografia di questo autore, il massimo romanziere di tutti i tempi, a mio parere, è forse antichissimo, in me. Non saprei però confessare quando è nato. Di certo inseguire un tale eroe nelle biblioteche francesi è stato affascinante, un’esperienza che da sola valeva la fatica.

  Cosa mi aspetto dal libro? In verità intorno al libro medesimo c’è un mistero, per me un mistero grande, che non posso rivelare qui, perché si tratta di faccenda delicata, come si dice, e che potrò rivelare solo in seguito. E quando lo rivelerò, il tal mistero, potrò se me lo si chiederà spiegare cose ulteriori su questa mia passione per una biografia balzacchiana, sia pure con un titolo fuorviante o incompleto come Onorato. Qui posso però anticipare che si tratta di un discorso riguardante il campo dell’«esperienza». In altre parole che esperienze ci racconta il nostro «Onorato»? Sono esperienze di vita gioiosa, funambolica, bizzarra, macabra e anche negativissima, in più di un punto. Onorato non è un personaggio limpido. Fa cose sgradevoli e niente affatto signorili. Perché le fa, perché insiste a farle e perché arriva a tal punto di follia da morirne cerco di spiegarlo nel libro. Ma resta il fatto che egli è un uomo profondamente buono, profondamente religioso, in relazione alla sacralità della bellezza della vita, profondamente allegro, e profondamente scherzoso. Anche questo fa parte dell’esperienza che egli ci ammannisce. E anche questo è piccola parte del discorso sull’esperienza che proverò a disvelare in altra sede e più in là.

  Mi rendo conto di essere forse un po’ criptico, ma non so come altrimenti cavarmela. Dico solo, per essere più chiaro, che il discorso su Balzac non finisce qua! Ecco tutto. Di più non posso dire perché la faccenda riguarda ben altri cinque romanzi. Non sono romanzi su Onorato. Onorato non c’entra niente. Ma sono romanzi sull’esperienza. E sui diversi tipi di esperienza. Spero di riuscire a pubblicarli tutti e finalmente a far comprendere cosa avevo in mente.

  L’esperienza balzacchiana è mistica, oserei dire, perché Onorato non smette mai di credere nell’aldilà delle cose, che si vestono, sotto i suoi occhi meravigliosi e formidabili, di quella limpidezza arcana, avventurosa, rinascimentale e totale che egli tutta la vita cercò di donare alla sua propria esistenza. In questo senso mi pare che non la vita di Balzac diventi importante per me ma l’esperienza di Onorato come uomo, e come uomo straordinario, straordinariamente vivo, sereno, pago e munifico di grandezza. Concludo con la speranza e l’augurio per me e per chi volesse leggermi che l’opera non sia solo un romanzo o una biografia ma una biografia romanzata che va oltre il particolare per procedere verso una generale acquisizione di simpatiche note rivelatrici di tanti comici rebus, o almeno di uno o due, nientedimeno, caspita ...!, pensa tu, della nostra vita.

 

 

  Francesco Fiorentino, “La Femme abandonnée” o “La donna che visse due vite” (sempre lo stesso trauma), in AA.VV., Libri e lettori (tra autori e personaggi). Studi in onore di Mariolina Bertini. A cura di Laura Dolfi, Maria Candida Ghidini, Alba Pessini, Elena Pessini, Parma, Nuova Editrice Berti, 2017, pp. 159-164.

 

  Intimamente legato alle sfere del privato e della provincia, La Femme abandonnée – racconto apparso in volume nel dicembre 1833 – costituisce, all’interno dell’universo letterario balzachiano, una testimonianza esemplare di quella nuova forma di romanzesco espressa da Balzac nella quale l’esaltazione della passione sentimentale è resa in forma più incisiva attraverso la sua opposizione allo sfondo grigio e pietrificato dell’atmosfera (provinciale) in cui essa è racchiusa. Le complessità psicologiche e sociali intorno alle quali si cristallizza il tormentato percorso di innamoramento di Gaston de Neuil per l’irraggiungibile Mme de Beauséant consentono a Francesco Fiorentino di focalizzare la sua attenzione sull’analisi del destino della protagonista a cui viene riservato, nell’intera Comédie humaine, e per due volte, il medesimo destino tragico destino: quello di essere abbandonata e di vivere nella più assoluta solitudine per essersi concessa ad una passione asociale, extraconiugale. Questo motivo della seconda volta, osserva l’A., «mostra come il carattere del personaggio comanda il suo destino […] come se nulla il personaggio potesse apprendere dall’esperienza. […]. Il rapporto tra la soggettività e il reale nella concezione balzachiana risulta romanticamente sbilanciato a favore delle prerogative del soggetto» (p. 164).



  Edgardo Franzosini, Il mangiatore di carta, Palermo, Sellerio editore, 2017 («La memoria», 1079), pp. 130.

 

  Cfr. 1989.

 

 

  Francesco Gambino, Per un significato semiserio della nozione di debito. Le dieci lezioni del Barone Émile de l’Empésé, «Contratto e Impresa», Volume 33, N. 2, 2017, pp. 701-711.

 

  Sommario: 1. L’arte di onorare i propri debiti e di soddisfare i propri creditori senza sborsare un soldo. – 2. Il debito come colpa. – 3. Il debito come afflizione – 4. Debito e patrimonio. – 5. Il dovere come probabilità`. – 6. Possibilità` e rischio nell’azione del debitore.

 

 

  Alessandra Ginzburg, A ciascuno la sua chimera?, in AA.VV., Il rosso e l’oro. “La Fille aux yeux d’or” di Balzac ... cit., pp. 17-34.

 

  Alessandra Ginzburg si interroga sul valore del concetto di assoluto (o di infinito) nell’opera di Balzac in relazione al rilievo assunto, ne La Fille aux yeux d’or, dal corpo femminile inteso come «via di accesso all’infinito» (p. 18). Attraverso il corpo perfetto di Paquita, H. de Marsay, il protagonista maschile del romanzo, tenta inutilmente di accedere all’infinito perché non è in grado di trascendere i limiti del proprio cieco narcisismo.

 

 

  Antonio Gnoli, Ferrandino, ritratto di Riccardo Mannelli, «la Repubblica. Robinson», Roma, 2 Aprile 2017, pp. 36-37.

 

  Hai ripreso a scrivere?

  «Sì, quello che ho pubblicato nasce da una vecchia idea: Balzac».

  “Onorato”, effettivamente è la storia del grande scrittore francese. Che bisogno avevi di nasconderti dietro di lui?

  «Non mi sono nascosto. Mi piacciono i suoi romanzi. Papà Goriot è la storia più bella che abbia mai letto. Ha dentro tutto: psicologia, senso del brivido, rivolta sociale, personaggi titanici».

  Ti identifichi con Balzac?

«Sarebbe patetico. Di lui mi piace il contrasto tra una vita caotica – è morto relativamente giovane e pieno di debiti – e la sua creatività prorompente. Una vita sbagliata salvata dalla grande arte».

  Salvata?

  «Oddio, non è alla redenzione che penso. Chissenefrega se ti redimi. No, l’idea è nel contrasto tra la vita imperfetta e la perfezione dei suoi romanzi. Nell’imperfezione c’è la sua vocazione a perdersi, a smarrirsi. Ma il bello è che non piagnucola, non squittisce, non protesta. C’è una grandezza anche nel farsi male». [...].

  Intendi qualcosa che irrompe nella vita e che non controlli?

  «Più o meno. Ma con Balzac non c’è stato nessun transfert. Mi affascinava la gratuità della sua vita. Era capace di spendere un patrimonio in guanti. Ma la sua forza è contagiosa. Di solito lo leggo quando sento venir meno le mie energie».

  Come Balzac, hai riempito una montagna di fogli.

  «È il solo punto di contatto. Il resto è fascinazione per un uomo molto diverso da me».

  Che cosa c’è dentro a questi trentamila fogli in larga parte inediti?

  «C’è di tutto. Molte sono sceneggiature di fumetti». [...].

 

 

  Pierluigi Grossi, Honoré de Balzac, Isabella, Olimpia e la leggenda del trabocchetto. Intrighi al castello di Bracciano, «Gente di Bracciano», Bracciano, Numero 17, Dicembre 2017, p. 10.

 

  Molti si chiederanno quali possano essere i riferimenti che legano lo scrittore francese Honoré de Balzac a Bracciano. La risposta è: perché, molto probabilmente, si può far risalire a lui, però a sua insaputa e non per sua volontà, la leggenda della cattiva fama della dubbia moralità di Isabella dei Medici, prima duchessa di Bracciano e moglie di Paolo Giordano Orsini.

  La letteratura e la tradizione orale dipingono Isabella come una grande dama e donna di notevole cultura, ma divoratrice di uomini, al punto che è ancora viva la leggenda che gli occasionali amanti venivano soppressi e gettati in un trabocchetto costruito nel castello. Ma c’è qualcosa che non quadra in tutto questo. Isabella appare troppo legata alla sua Firenze ed all’ambiente che circonda il granduca Cosimo suo padre per cui preferisce rimanere a vivere nella sua famiglia di origine. Disdegna pure di seguire il marito a Roma, men che meno a Bracciano, dove, addirittura, c’è chi afferma non abbia mai soggiornato, o forse solo per qualche giorno, in occasione della venuta a Roma del padre Cosimo, nel 1569. Quindi gli amanti di una notte gettati nel trabocchetto del castello sono una pura invenzione. La tramandata dissolutezza di Isabella trae origine dal racconto/tragedia di F. D. Guerrazzi “Isabella Orsini, duchessa di Bracciano” pubblicato a Firenze nel 1844, dove vengono attribuiti alla nobildonna illeciti comportanti amorosi fuori dal matrimonio, da lei stessa riconosciuti e motivati, sempre nel romanzo, in una lettera indirizzata, a sua discolpa alla cugina Caterina, regina di Francia, dove vengono precisate le cause delle tentazioni [...].

  Una decina d’anni prima del Guerrazzi, intorno al 1833, Balzac scrisse un romanzo “Olympia ou le Vengeances Romaines” dove si raccontavano episodi riferiti ad una duchessa di Bracciano, di nome Olympia. Non è un romanzo completo perché l’autore adotta come stile una finzione letteraria che narra del recupero di alcuni vecchi frammenti di uno scritto, senza quindi poter disporre di una trama completa degli avvenimenti. Si tratta, quindi, solo di alcuni episodi che, seppure non completi, animano il castello di Bracciano e faranno poi sorgere la leggenda del trabocchetto abbinandola impropriamente ad Isabella in quanto fu lei la prima duchessa. In sintesi, la trama del romanzo di Balzac è questa.

  Una duchessa di Bracciano, di nome Olimpia, vive nel castello ospitando un giovane amante francese di nome Adolphe. La tresca viene a conoscenza del marito, citato solo con il titolo di duca ma senza l’attribuzione di un nome, che decide di vendicarsi tentandone l’avvelenamento. Olimpia, però, è più furba di lui e riesce a scampare ai suoi intenti precedendolo nel renderlo innocuo, anzi facendolo suo prigioniero e rinchiudendolo in una gabbia di ferro che viene collocata nei sotterranei del castello. Olimpia non è soddisfatta dall’averlo fatto imprigionare ma vuole inveire su di lui mettendolo alla berlina e attua una forma plateale. Fa costruire un meccanismo che consente di sollevare la gabbia che, attraverso un passaggio realizzato appositamente, può essere sollevata dai sotterranei e portata fino alla sua stanza da letto. La gabbia, pertanto, viene trasportata nella sua camera per far assistere il duca agli amplessi di Olimpia con l’amante, terminati i quali la gabbia viene ricondotta nei sotterranei.

  Però non tutte le ciambelle vengono con il buco per cui, nonostante le precauzioni prese, alcuni briganti, con a capo un certo Rinaldo, penetrati nei sotterranei del castello, scoprono la gabbia con il suo prigioniero dentro. Vuoi per passata conoscenza, vuoi per convenienza del momento, il duca riesce a convincere Rinaldo a farsi liberare o, meglio, a farsi segare i ferri della gabbia in modo che i tagli non siano visibili onde dare l’apparenza di stare ancora rinchiuso. E così si consuma la vendetta: quando la gabbia viene fatta risalire per far assistere il duca alla ormai rituale visione, questi si libera dai ferri ed irrompe nella stanza compiendo la sua giustizia, anche se non viene descritta nel manoscritto. Nel romanzo di Balzac ci sono tutti gli ingredienti per far nascere la leggenda degli amanti e del trabocchetto, ma senza alcun riferimento ad Isabella dei Medici. Anzi, inquadrando gli avvenimenti narrati nel tempo in cui furono descritti, ad ispirare Balzac nella creazione del personaggio della duchessa Olimpia, potrebbe essere stata un’altra nobile famiglia. Non dimentichiamoci che nel momento in cui scrive, circa 1833, duca di Bracciano è Giovanni Torlonia che, guarda caso, è il padre di una certa Olimpia, figlia avuta fuori del matrimonio nel 1785, pochi anni prima che si sposasse con Annamaria Schultheiss, che si accreditava sempre come duchessa di Bracciano.

  Altri elementi avvalorano l’ipotesi che il racconto di Balzac sia temporalmente collocato nel primo 1800, quindi circa 250 anni dopo le vicende legate ad Isabella dei Medici. Come prima osservazione non viene fatto il nome del duca, riservatezza che lascia supporre un personaggio coevo, poi la presenza significativa e lo spadroneggiare dei briganti, presenti ed attivi nel 1700/1800 piuttosto che nel 1500.

  Certo, anche Balzac potrebbe aver lavorato molto di immaginazione, sempre preso dal suo ardore nel descrivere le sofferenze delle mogli in difficoltà con i mariti e la disgregazione delle coppie, e i suoi personaggi potrebbero essere del tutto inventati, avulsi da ogni riferimento reale, frutto solo della sua fantasia.

  Ma, sugli epigoni di un’onda letteraria romantica molto propensa a rappresentare i drammi del passato, i posteri identificheranno i suoi protagonisti in altri personaggi e trasferiranno su altri soggetti gli scenari descritti da Balzac. A farne le spese sarà l’innocente Isabella che verrà associata ingiustamente ad una cattiva fama.

 

 

  Carlo Lauro, La Balzac “renaissance”: rivalutazione senza clamori di un grande giacimento. Ammassi di ricchezze non godute, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXXIV, N. 10, Ottobre 2017, p. 7.

 

  È il 1842 l’anno fatale in cui Balzac convoglia, complice l’editore Furne, la sua fluviale produzione in un’unica mirabolante struttura, la Comédie Humaine (a detta dell’autore, “le Mille e una notte d’Occidente”). Progetto nato tardivamente, concepito in progress (Balzac prevedeva l’integrazione di decine d’altri romanzi) e rimasto incompiuto. Ma all’interno del quale i tanti luoghi e personaggi, i rimandi storici e sociali recuperavano un’insperata circolarità, tanto più efficace perché non pianificata. La compiaciuta grandeur della neo-struttura (un’utopia della “totalità”) indusse l’autore a un qualche principio ordinatore: tre grandi categorie di Études (di costume, filosofiche, analitiche) che a loro volta contengono le serie di Scènes (romanzi della vita privata, della vita di provincia, della vita parigina, della vita politica, della vita militare, etc.).

  In Italia, come per altri lasciti ponderosi (i Mémoires di Saint-Simon, i Rougon-Macquart di Zola) non si è mai data una traduzione sistematica della Comédie Humaine. Negli anni cinquanta, sei grossi volumi della Casini poterono far sperare in un illusorio completamento; ai nostri giorni i tre “Meridiani”, curati magistralmente da Mariolina Bertini, hanno portato un sentore di Pléiade. Ma al contempo, impressionano gli oltre 50 titoli in ordine sparso lanciati da editori grandi e minori nell’ultimo decennio: riproposte, certo, di capolavori conclamati (Eugénie Grandet, Père Goriot, Illusioni perdute, etc.) ma anche occasioni insperate che illustrano non meno bene le mostruose potenzialità della Comédie. Quasi una Balzac renaissance ma senza rintocchi, clamori o anniversari: semplicemente la rivalutazione di un giacimento (“voilà l’oeuvre, voilà le gouffre, voilà la matière”) mai abbastanza esplorato.

  Tra le uscite di quest’anno si vorrebbe dare la palma alla prima traduzione italiana mai apparsa (!), ma qui magnifica, di Albert Savarus (ed. orig. 1842, a cura di Pierluigi Pellini, trad. dal francese di Francesco Monciatti, pp. 228, € 13, Sellerio, Palermo 2017). Sellerio e Pellini proseguono un percorso avviato con due perfetti esempi della “vie de province”: Il parroco di Tours (2006) e La signorina Cormon (2015). Pur ascritto da Balzac tra le Scènes de la vie privée, anche Albert Savarus respira molto la provincia, visto che la vicenda si snoda soprattutto in una Besançon asfittica (“la città più immobile della Francia”). Non per questo temperature narrative di borghi e cittadine sono meno forti, si tratti di affari, ascese sociali, passioni o politica: ciò che nella metropoli (ossia Parigi) appare disperso, tentacolare, affollato, mondano, nella provincia e umbratile, concentrato, ostinato, talvolta feroce. Albert Savarus è un giovane e promettente avvocato che nel 1834 si è temporaneamente stabilito a Besançon e ha due ambizioni: ottenere un seggio di deputato e sposare l’amata Francesca Soderini, una principessa italiana, non appena il decrepito consorte dovesse passare a miglior vita. Nel frattempo su un periodico, la Revue de l’Est ha pubblicato una romantica novella, L’ambizioso per amore – occupa circa un quarto del romanzo – le cui vicende dei protagonisti, Rodolphe e Francesca, sembrano per più aspetti una trasposizione della propria. Il promettente destino di Savarus s’incrina nel momento in cui si invaghisce ciecamente di lui (tanto più dopo aver letto la novella) una giovanissima ragazza aristocratica, sua vicina di casa, Rosalie de Watteville. Attraverso tacite e gelose macchinazioni, Rosalie riuscirà sia a far fallire l’elezione di Savarus (onde scongiurarne il trasferimento a Parigi), sia a distruggere il rapporto tra Albert e Francesca: il tutto grazie ad abili intercettazioni delle missive tra Besançon e Belgirate e certosine falsificazioni della grafia di Albert affinché a Francesca pervengano presunte confessioni di infedeltà. Respinto con un secco “siete libero”, Albert rinuncerà al mondo ed entrerà nella Chartreuse di Grenoble, ma fine ben peggiore toccherà alla cospiratrice. Al cui mélange di passione frustrata e adolescenziale determinazione si deve comunque la figura più sconcertante del plot: un’acerba e lucida simulatrice che, pur defilata, è il motore immobile degli eventi. Decisiva, appunto, anche nella fervorosa franche politica delle elezioni: gioco di camarille, segretezze, alleanze, appoggi promessi e poi mancati descritto, va da sé, con mano maestra da Balzac.

  Ma la massima sorpresa di questo romanzo, complesso ed eterogeneo, resta l’originale incastro della lunga novella (forse un unicum nella Comédie Humaine), inquietante mise en abyme di destini paralleli nella cornice idilliaca di un lago svizzero, il Lemano. Caratterizzano Albert Savarus anche alcuni elementi cifrati, quali gli allusivi omaggi a Stendhal, morto in quel 1842: Pellini, nella sua bella, indiziaria postfazione e nelle note ricorda certa onomastica e toponomastica legate al Rouge e alla Chartreuse (Besançon, Belgirate, Gina; nonché accenni alla Scala e Rossini o a topoi come quello sulla maggior passionalità del temperamento italiano rispetto al francese). La gran chiave segreta, se non la genesi, dell’opera va però individuata nel rapporto di Balzac con l’ereditiera Madame Hanska: su esso è ad hoc costruito quello tra Albert e la Soderini (il giovane ambizioso, l’amante aristocratica, l’attesa del trapasso del consorte vegliardo). Questa angolazione metaletteraria, “postuma”, estendendo a una terza coppia le transitività della mise en abyme regala al lettore una lieve vertigine. Il micidiale “siete libero” – lo ricorda Pellini – era in una lettera della Hanska a Balzac in seguito a missive che la ragguagliavano della di lui infedeltà. Riportarlo testuale nel Savarus, in un contesto di innocenza, era un chiaro monito a Madame di diffidare delle “calunnie”. I vari sottintesi strumentali alla piena riconquista dell’ereditiera non sono una delle seduzioni minori in tanta complessità.

  Decisamente è più nota e “lineare” la trama di Louis Lambert, appena ripubblicato (ed. orig. 1846, a cura di Paola Dècina Lombardi, pp. 157, € 15, L’Orma, Roma 2017). È indubbio l’amore di Balzac per quest’opera singolare: dieci anni di gestazione (1822-32), sette edizioni tra il 1832 e il 1842, una versione definitiva solo nel 1846. È il ritratto di un adolescente geniale, portato alla speculazione filosofica, protetto da Mme de Staël ma costretto a languire insieme al coetaneo Honoré Balzac nel collegio degli oratoriani di Vendôme dove è incompreso e deriso: persino un suo precoce Trattato della volontà (di cui molto si disserta) sarà impietosamente sequestrato e svenduto.

  Probabilmente il personaggio Lambert (“grazia infantile e potenza sovrumana”) non è che uno sdoppiamento di Balzac stesso ai tempi della maggior infatuazione per il misticismo di Swedenborg e di ostinate riflessioni su certo scientismo (Mesmer, Lavater), sul conflitto tra spiritualismo e materialismo, nonché su quel demone della conoscenza e dell’onniscienza che conduce all’alienazione mentale: tragico punto d’arrivo, infatti, per lo sventurato Lambert (predecessore dell’esoterica follia di quel Balthazar Claës che ricercava l’assoluto).

  La curatrice Dècina Lombardi ci ricorda l’entusiasmo di Flaubert per il filosofico apologo, uno dei “testi sacri” del simbolismo secondo Yeats; mentre il carattere dissertativo che involve la struttura romanzesca spiacerà a seri balzachiani quali Henry James e Ramon Fernandez.

  Ma Louis Lambert produce soprattutto il miracolo di un Balzac rievocatore, sia pure con licenze creative, del proprio passato. Da qui la Bildung del collegio con la fredda vita da caserma e l’aridità scolastica; e di seguito l’isolamento, le letture clandestine, le conversazioni alte dei due inseparabili “soci”, sino allo straziante congedo: “mai amanti separandosi versarono più lacrime di quante ne piangemmo noi (un filo di infatuazione come nel passo in cui Honoré decanta la nudità scultorea del compagno). Tanto più spettrale sarà, nella penombra di una stanza, il ritrovamento tardivo di un Lambert in catalessi e non più recuperabile al mondo (ove spicca l’angelico cammeo di Pauline de Villenoix, la moglie): un colpo d’ala in questo Balzac spoglio di intrighi.

 S i rientra nel più sfrenato vortice parigino di fortune e tracolli con Gobseck (ed. orig.1830, trad. dal francese e note di Maurizio Ferrara, pp. 109, € 8,50, Passigli, Firenze 2016). Gobseck appartiene al Balzac conciso ma fulminante di quella zona franca tra roman e conte (Le chef-doeuvre inconnu, Le secret (sic) de la princesse de Cadignan, La fille aux yeux dor, etc.). Gobseck l’usuraio: una di quelle figure talmente debordanti – come Vautrin, père Grandet – da avvalorare l’idea del Balzac “veggente” (e non realista) già avanzata da Chasles e Gautier e rimbalzata sino a Baudelaire per la formulazione definitiva (“visionnaire passionné”).

  Compassato e caustico, venale restando onesto, senz’altro filosofo, conoscitore di tutte le molle dell’umano (“il Potere e il Piacere non riassumono tutto il vostro ordine sociale”?), dotato di uno sguardo “come quello di Dio”, Gobseck non è peggiore dei suoi altolocati clienti e questuanti (il bel gesto nei confronti del conte di Restaud lo rivelerà anzi gentleman).

  A differenza dei casi di Savarus e Lambert, Balzac non si sarebbe mai identificato in Gobseck: ma a Gobseck presta, come a nessun altro, tutta la propria finezza nell’analisi della stratificata società parigina, la voce del personaggio è tutt’una con la voce d’autore; entrambi consapevoli burattinai di quel mondo e poi entrambi accumulatori sino alla morte. Gobseck (stando al sontuoso e apocalittico finale del romanzo) spira, tra ammassi di ricchezze non godute, mentre in una stanza attigua marciscono tonnellate di derrate alimentari che non aveva voluto svendere; e morirà Balzac tra i troppi arredi lussuosi (boiseries, sculture, quadri, ninnoli) ormai vani, messi faticosamente insieme in vista di un matrimonio nobilitante. I romanzi della Comédie però volavano già alti nel mondo.

 

 

  Boris Lyon-Caen, Balzac e la lotta di posizione, in AA.VV., I personaggi minori. Funzioni e metamorfosi di una tipologia del romanzo moderno a cura di Stefania Sbarra, Pisa, Pacini Editore, 2017, “I Libri dell’Associazione Sigismondo Malatesta. Studi di letteratura comparata (seconda serie), 24, pp. 85-98.

 

  Nella Comédie humaine e, in particolare, nel corpus relativamente circoscritto di romanzi su cui l’A. concentra la sua attenzione, le strategie del matrimonio «(dis)organizzano il sistema dei personaggi e scatenano una guerra di posizione senza pari – rendendo udibile e visibile, in modo esemplare, il bisogno o la necessità di nuove configurazioni» (p. 90). Dal punto di vista tematico-narrativo e storico, le figure secondarie analizzate, lontane dal riflettere strutture e ruoli sociali gerarchicamente fissi, incarnano l’aspirazione degli esseri socialmente minori ad una «promozione attanziale» (p. 89) e contribuiscono a determinare, nel loro divenire, le dinamiche informi delle strutture sociali. In questo senso, osserva l’A., il personaggio minore balzachiano è «questo operatore, questo motore a combustione del legame sociale incessantemente tessuto e allentato dal romanzo o nel romanzo» (p. 95).

 

 

  Vittorio Macioce, Napoleone l’imperatore del romanzo, «il Giornale. Controcultura», Milano, Anno XLIV, 23 luglio 2017, pp. 23-24.

 

  p. 24. Napoleone è Balzac che si appunta le frasi del grande uomo sul libro di ricette, quello che resta sempre poggiato sul suo comodino.

 

 

  Giuseppina Manin, «Opera ispirata da Balzac contro l’avidità dei potenti», «Corriere della Sera», Milano, 12 Marzo 2017, p. 37.

 

  Chiamatelo Trompe-la-Mort. Colui che «gabba la morte», che inganna il mondo con la sua vitalità conturbante, il suo cinismo feroce, la sua vocazione a aiutare i giovani ambiziosi. Meglio se belli e appetibili. Nessuno sa chi sia, ma tutti ne subiscono il fascino ambiguo, costruito su tante vite. Maestro di trasformismo, lo ritroviamo truffatore e assassino, forzato, banchiere di criminali, gesuita, capo della polizia di Parigi ... Per qualcuno è Vautrin, per altri Jacques Collin, oppure l’abate Herrera, o William Barker. Mille identità sotto quel nome d’arte, Trompe-la-Mort, che racchiude il mistero del più grande personaggio di Balzac, e che è anche il titolo della nuova opera di Luca Francesconi, da domani all’Opera Garnier di Parigi, sul podio Susanna Màlkki, regista Guy Cassiers.

  «Seduttore, corruttore, manipolatore, Vautrin è il nostro lato oscuro. Mi ossessiona da oltre vent’anni» svela Francesconi, autore anche del libretto, che così prosegue la sua esplorazione nella letteratura francese. [...].

  E seguendo la visione di Balzac, «Il mondo è tutto un teatro», Cassiere ha ideato una regìa che da un lato rende omaggio all’Opéra Garnier e dall’altro al cinema.

  Scene digitali, tapis roulant, fasce di proiezioni verticali per andare su e giù nel tempo ... «Se la vita è teatro, Trompe-la-mort è il suo primo attore. È l’affascinante motore immobile della trama, il visionario che attraversa come una colonna vertebrale tre romanzi Papà Goriot, Illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane. Balzac ne è stregato e fa di lui l’eroe della sua opera, lo specchio nero di una società avida e volgare dove conta solo il denaro». La società della Restaurazione, dei nuovi ricchi, dei furbi. «La Rivoluzione è archiviata, tante teste tagliate per niente. Comprese quelle del re e di Dio. E tutto per far spazio a un’altra monarchia, a un mondo nichilista senza valori che tanto somiglia al nostro. Dove il potere è nelle mani dei padri e i figli sono pronti a vendere anima e corpo per rosicchiarne un po’».

  Come Lucien, il pupillo dai riccioli d’oro di Vautrin. Il Fantomas del male se ne innamora pazzamente. «Da lui vuole la prova d’amore, in cambio lo inizierà al delitto». Costringerà la donna che Lucien ama a prostituirei, lei si impiccherà, lui la seguirà nella morte. Da vero vampiro, Vautrin succhia la vita della sua creatura, si nutre della sua giovinezza. [...].

 

 

  Michele Mari, Vendesi anima al diavolo, «la Repubblica», Roma, 17 gennaio 2017, p. 41.

 

  Ma naturalmente la tipologia può essere estesa in avanti, e arrivare a fare i conti, oltre che con il Doctor Faustus di Marlowe, il Faust di Goethe e il Doktor Faustus di Mann, con Gli elisir del diavolo di Hoffmann, o La pelle di Zigrino di Balzac, o Il ritratto di Dorian Gray di Wilde. E anche qui si scoprirà che sempre più spesso non c’è bisogno del diavolo, questo poliedrico «eroe dai mille volti» (secondo la definizione di Joseph Campbell), e non ce n’è bisogno per il semplice fatto che il diavolo è il nostro stesso (struggente, spasmodico) desiderio: Dorian vuole rimanere giovane e bello, e ipso facto trasferisce la propria mortalità nel dipinto; analogamente Raphaël de Valentin, che venuto casualmente in possesso di un potentissimo talismano ne approfitta per tradurre in realtà ogni desiderio lecito e illecito: peccato per lui che a ogni esaudimento la pelle di zigrino che costituisce il talismano rimpicciolisca un pochino, e peccato, soprattutto, che la misura della pelle corrisponda a quella della sua vita ... Con questa splendida metafora, Balzac ci dice quanto il piacere, letteralmente, bruci la vita, e quanto le ragioni dell’intensità siano diametralmente opposte a quelle dell’estensione, secondo una spietata alternativa ben presente a Leopardi.

 

 

  Leonardo Martinelli, I giardini segreti di Parigi, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, n. 7, 8 Gennaio 2017, p. 39; 1 ill.

 

  Si svegliava a mezzanotte e iniziava a lavorare: bevendo litri di caffè, trasformando anche venti volte ogni maledetta pagina. In questa casa umile Honoré de Balzac visse fra il 1840 e il ʼ47: anni prolifici, in cui corresse e limò la Comédie humaine, un insieme di 137 opere, riflesso puntuale ed emotivo della sua Parigi, popolata da papà Goriot, icona della paternità, o da giovani provinciali ambiziosi, come Eugène de Rastignac. Amori ciechi e sfrontate cialtronerie. Le ore trascorrevano e Balzac scriveva, scriveva, con quel corpaccione libero in una tunica da monaco (quanti caricaturisti dell’epoca lo ritrassero così), ma il cashmere in più, d’inverno, vezzo da dandy squattrinato. Di colpo, poi, arrivava il giorno.

  E la luce illuminava il piccolo giardino, che si intravede dalla stanzetta, dove restano il tavolo di legno e la poltrona, testimoni di quelle battaglie notturne con le parole. Sì, di un ritrattista accanito della vita urbana, a Parigi rimane solo questa dimora, diventata museo: una casetta dal sapore bucolico e il suo fazzoletto di terra, dove ancora oggi crescono siepi di bosso, rose selvatiche, una vigna, un lillà, ma non le viole, che lui coglieva garbato per poi inviarle, chiuse in lettere d’amore, alla nobildonna polacca Evelina Hanska, che si annoiava terribilmente (con il marito) nella sua remota tenuta in Ucraina. Siamo in fondo al 16° arrondissement, attualmente il quartiere della Muette, di un’alta borghesia ammuffita. Ma che a quei tempi commedia vegetale era ancora Passy, un villaggio di campagna subito fuori Parigi, con orti, vigne e mulini a vento, dove Balzac si era rifugiato per nascondersi dai creditori. [...].

 

 

  Francesco Mattana, La Bergamasco torna in scena al Piccolo, «il Giornale», Milano, Anno XLIV, Numero 67, 21 marzo 2017, p. 35.

 

  [...]. Louise e Renée, adattamento del pressoché sconosciuto Memorie di due giovani spose di Balzac. Stefano Massini ha ripescato il tesoro nascosto, traducendolo nella scrittura scenica e affidandone la regia alla popolare attrice. La quale esprime gratitudine per «l’immersione nel lavoro del romanziere francese, di cui ammiro la capacità d’immedesimazione nell’animo femminile, rinvenibile a tali livelli solo in Tolstoj e pochi altri». Isabella Ragonese e Federica Fracassi daranno vita sul palco al dialogo in forma epistolare tra Louise de Chaulieu e Renée de Maucombe, ex compagne di collegio impegnate a confidarsi a distanza le rispettive scelte in fatto di amore. Due spose ottocentesche che hanno da insegnare alle ragazze di oggi «il coraggio di non abbandonare mai il proprio progetto, la fierezza nel non lasciarsi travolgere malgrado l’amore puro e assoluto sia complicato da raggiungere».

 

 

  Gianluigi Mattietti, Parigi: un’Opéra tra Francesconi e Balzac, «Amadeus», Anno XXIX, Numero 328, 1 marzo 2017, p. 39.

 

  Trompe-la-mort è il titolo della nuova opera commissionata dall’Opéra di Parigi a Luca Francesconi. Ed è il nome di una delle figure chiave dalla Comédie humaine di Balzac: personaggio dalle molteplici identità, Jacques Collin, alias Vautrin in Père Goriot, alias Carlos Herrera in Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane. Simbolo negativo della società borghese, ex forzato che diventa banchiere del bagno penale, ribelle dotato di un’eccezionale energia, virtuoso di ogni sotterfugio, un «Machiavelli dei furfanti» che decide di conquistare il bel mondo parigino e che alla fine diventa capo della polizia. Affascinato dal cinismo lucido di questo personaggio [...], e dalla spietata analisi sociale ed economica contenuta nei romanzi di Balzac, Francesconi ha costruito il libretto dell’opera usando solo stralci di questi romanzi. L’opera si apre con l'incontro tra Collin, nei panni dell’abate Carlos Herrera, e Lucien de Rubempré, giovane provinciale alla ricerca d’amore e gloria, che Herrera salva dal suicidio. In un memorabile dialogo a bordo della carrozza che li porta a Parigi, Herrera gli fa una vera lezione di cinismo, e stringe con lui un patto faustiano («Io sono l’autore, tu sarai il dramma»), usando la bellezza del giovane per conquistare Parigi. Questo viaggio in carrozza diventa uno dei quattro livelli sui quali si muove tutta l’opera: un dialogo che compare in continuazione come un flashback. Poi ci sono i due livelli della vita sociale: quello delle apparenze, ambientata nei lussuosi salotti; e quello delle macchinazioni nascoste. Infine c’è livello del sottosuolo, la materia incandescente, che muove il mondo, immaginata nei sotterranei del teatro stesso. [...].

 

 

  Aldo Mazzacane, Diritto e romanzo nel secolo della borghesia. “Le Colonel Chabert” di Honoré de Balzac, in AA.VV., Borghesia disambientata, «StatusQuaestionis. Rivista di studi letterari, linguistici e interdisciplinari», Rivista telematica scientifica della Sapienza Università di Roma, N. 12, 2017, pp. 8-44.

 

  [...]. Nelle sue creazioni artistiche le fonti più ricorrenti di ispirazione convergono nella denuncia delle radici materiali e sociali che determinano i destini di uomini e donne e ne accendono o ne sottomettono le passioni: una linea inaugurata dai grandi scrittori dell’illuminismo francese, che Balzac reinventa scoprendo nel modo col quale l’ordinamento giuridico impregna la vita di tutti i giorni un elemento rivelatore della effettiva sostanza dei rapporti sociali. Le Colonel Chabert può essere scelto come esempio rappresentativo di questo aspetto centrale della sua narrativa, così come delle reciproche interferenze che corrono tra diritto e letteratura. [...].

  Balzac infatti non affronta i temi giuridici in astratto, né gli istituti relativi sono oggetto di denunce dirette e altisonanti. Sono indagati osservandone gli effetti sull’agire quotidiano dei singoli nei loro rapporti reciproci. Non per caso, l’attenzione è rivolta alle norme così come vengono utilizzate nella realtà, alle concrete pratiche di chi le maneggia e se ne avvale per i propri fini. Balzac non è giurista, è romanziere, ed è «romanziere del diritto» in quanto scopre in esso la trama autentica di tragedie negate, o avvolte nell’indifferenza, destinate ad esser vissute dai protagonisti in una solitudine cupa cui le condanna l’universale egoismo. E la solitudine cupa, iscritta fin dalle origini nelle circostanze della sua nascita, è l’inevitabile conclusione della parabola esistenziale del colonnello Chabert.

 

 

  Laura Melosi, Letteratura e civiltà, un paradigma della ricerca al Centro Romantico (con un caso di studio: Balzac), in AA.VV., Maurizio Bossi. Curiosità, conoscenza, impegno civile. Atti della giornata di studio (Firenze, 21 aprile 2017), Firenze, Leo S. Olschki, 2017, pp. 25-37.

 

  Per meglio delineare e valutare l’impatto dei testi letterarî in un determinato contesto storico, geografico e civile, risulta indispensabile riflettere non soltanto sulle caratteristiche del sistema di produzione e sulle modalità di circolazione dei testi nell’ambito di uno specifico mercato editoriale, ma, contemporaneamente, soffermarsi a valutare le «modalità con cui la lettura popolare li metabolizza» (p. 30).

  Da questo punto di vista, la ricomposizione del quadro (locale e fiorentino, in particolare) relativo alla presenza ed alla ricezione delle opere di Balzac, possedute e catalogate dal Gabinetto Scientifico e Letterario G. P. Vieusseux di Firenze, attraverso il prestito librario a domicilio consente a Laura Melosi di gettare nuova luce sulla fortuna (concreta) dei romanzi balzachiani nell’Ottocento, al di là della loro ricezione critica, fino almeno al 1863. Attraverso un’indagine dettagliata e rigorosa dei “Libri del prestito”, e con un controllo attento dell’andamento dei prestiti, l’A. ci informa che «i titoli di Balzac nel periodo considerato ammontano complessivamente a 39, comprese le traduzioni» (p. 35). Di questi 39 titoli, 19 sono prime edizioni francesi (ma l’A. inserisce in questo elenco anche alcune ‘contrefaçons belges’), a cui si aggiungono l’edizione delle Oeuvres complètes (Furne, 1842-1845), quella pubblicata circa un decennio dopo da Houssiaux, alcune traduzioni inglesi, sei traduzioni italiane edite tra il 1834 e il 1846 e altre edizioni di romanzi, soprattutto belghe.

  Particolarmente favorevole è risultato il successo, presso il pubblico dei lettori, de La Physiologie du mariage (Ollivier, 1832), opera che si colloca senza ombra di dubbio al primo posto di questa classifica di gradimento; molto richieste sono risultate opere quali: Le dernier chouan ou la Bretagne en 1800 (Canel, 1829), La Peau de chagrin (Gosselin, 1831), i Contes drolatiques (Bruxelles, Hauman, 1833), le Scènes de la vie privée, de la vie de province e de la vie parisienne (Furne). Scarso interesse sembrano aver ottenuto, al contrario, le Scènes de la vie militaire e de la vie de campagne, le Études philosophiques e L’Interdiction.

 

 

  Antonio Moresco, Susi Pietri, Il Fronteggiatore. Balzac e l’insurrezione del romanzo, Milano, Bompiani, 2017, pp. 187; ill.

 

Prefazione, pp. 5-12.

 

  Questo libro è nato così:

  Un giorno mi ha telefonato Susi Pietri, chiedendomi se volevo fare una conversazione su Balzac. Questa conversazione sarebbe stata pubblicata in Francia, insieme a interventi di altri scrittori europei, all’interno di un volume interamente dedicato a questo autore.

  “Io ho proposto te,” mi ha detto a un certo punto la mia interlocutrice, per tagliare la testa al toro, “perché, se deve esserci anche uno scrittore italiano, questo scrittore non puoi che essere tu.”

  Susi Pietri è una profonda e appassionata conoscitrice dell’opera di Balzac e — dopo avere fatto un dottorato di ricerca in Francia, all’Università di Paris VIII — insegna attualmente Lingua e letteratura francese all’Università di Macerata.

  Alla fine della telefonata le ho detto di sì, anche se in quei mesi ero travolto da molte altre cose, perché ho anch’io un antico e particolare amore per questo scrittore, che è stato canonizzato ma nello stesso tempo eretto a progenitore e custode del cosiddetto “realismo”, mentre è uno sconfinatore, come è apparso subito chiaro ai suoi primi e più illuminati lettori, come Baudelaire e poi Proust, che deve molto all’opera di Balzac.

  Abbiamo iniziato questa conversazione, proseguita per mesi e mesi e per larghe campate nei brevi intervalli in cui potevamo gettarci di nuovo dentro, che ha assunto via via l’andamento di “produzione di pensiero mediante il discorso, per dirla con Kleist, e che mi pare abbia la passione, la visione e lo slancio di un manifesto, ma senza la pretesa concettuale moderna del superamento obbligato e dello sradicamento.

  Ci siamo accorti subito che il nostro dialogo si stava prendendo uno spazio molto più grande di quello a disposizione. Ma siamo andati avanti lo stesso, fino a portarlo alla dimensione attuale.

  Così, alla fine, è stata estrapolata una piccola parte di questo dialogo per la pubblicazione collettiva, mentre la sua versione completa ha assunto la forma di un piccolo libro.

  Attraverso questa conversazione mi si sono precisate meglio molte delle idee che avevo su questo scrittore e su ciò che me lo ha fatto e me lo fa ancora amare e molte altre cose le ho apprese da Susi Pietri e dalle sue conoscenze. In generale mi pare che siamo riusciti ad avvicinare Balzac al di fuori delle semplificazioni critiche e specialistiche che lo hanno spesso imprigionato e normalizzato in un’unica dimensione di descrittore e critico della società del suo tempo, mosso come persona dalle stesse smodate ambizioni economiche e di status sociale che lo accomunano a molti dei suoi personaggi, mentre tutto questo esiste, sì, e ha grande forza e pregnanza nella sua opera e nella sua vita, ma è posto dentro una camera di scoppio infinitamente più grande.

  Che cosa mi viene da pensare adesso, rileggendo questo nostro dialogo prima della pubblicazione? Che urgenze ha fatto rivivere dentro di me?

  A me pare che il contesto in cui stiamo vivendo, in apparenza così onnicomprensivo, sia in realtà espulsivo per uno scrittore che intenda tenere alto il senso della propria presenza nel mondo e non intenda assoggettarsi alle logiche, anche culturali, che lo governano. Viviamo in una situazione di salto d’epoca e addirittura di specie, in un mondo umano che appare cieco e perduto, in un Paese perduto, all’interno di una condizione non proporzionale ma che pure ci viene detto bisognerebbe accettare, per mortuaria eleganza o per calcolo. Sarebbe anzi proprio questa cinica postura di disilluso e cimiteriale bon ton il blasone di scrittori, letterati e uomini di cultura di questi anni, la loro piastrina di riconoscimento.

  Che possibilità ci fanno invece rivivere alcune delle affinità elettive che emergono da questa conversazione? Che tra persone che ardono è possibile una qualche estrema fratellanza. Che a volte succede che la loro solitudine possa fare popolo. E che questa disperata e irradiante possibilità è nel cuore stesso e nel sogno della letteratura e nessuno la può estirpare.

  Perciò mi colpiscono e mi emozionano in modo particolare i momenti di radicale riconoscimento che sono avvenuti tra gli scrittori che si sono trovati a condividere lo stesso breve segmento di tempo, il loro fare costellazione e fare fiamma: Balzac-Stendhal, Hugo-Balzac, Baudelaire-Balzac, Dostoevskij-Balzac, Dostoevskij-Dickens, Hugo-Dostoevskij ... Ma anche, in tempi più recenti, i momenti di riconoscimento tra persone sconosciute e che sono stati resi possibili dalla lettura di libri venduti magari in poche copie ma che sono finiti nelle mani giuste e hanno messo in tellurico contatto scrittori e pensatori come Nietzsche, Strindberg, Kafka ... e portato riconoscimento, parola oggi immiserita al solo significato di fama, successo, esposizione mediatica martellante, ricchezza, ma che può voler dire anche e soprattutto l’evento raro e assoluto di un incontro elettivo nell’infinito buio che ci circonda.

  Perché non ci sono solo, come pure ci sono sempre state, le miserie personali, la lotta darwiniana per la presunta sopravvivenza, le meschinità, l’invidia, la paura e la cosiddetta “angoscia dell’influenza” – che ora è anche teorizzata e considerata unicamente nel suo aspetto negativo di sudditanza e non in quello potenziale, dinamico e propulsivo – come è sempre avvenuto anche tra i più grandi scrittori del passato. Non c’è solo il bisogno di emergere a tutti i costi dal branco dei propri simili, enfatizzato negli scrittori asserviti di questa epoca dalle grandi macchine editoriali e mediatiche e dalla ricchezza monetaria che può generare l’esercizio della scrittura. Non c’è solo questo sguardo terminale sul mondo che attraversa e annichilisce ogni cosa. Non c’è solo questa chiusura di orizzonti e questa resa, questo preconcetto che tutto sia già stato detto e che anche la cosiddetta letteratura non abbia più niente da dire, per cui possa ormai avere di fronte a sé solo un destino di autoreferenzialità e autotestimonianza (a differenza di quanto, ad esempio, sta succedendo nella ricerca scientifica e nelle sue narrazioni) oppure di riciclo industriale di stereotipi ben collaudati per compiacere al ribasso il pubblico dei lettori.

  Ma c’è anche un’altra, estrema possibilità, e c’è persino nel nostro Paese, in cui i gruppi che si sono attestati sul terreno della cultura e della letteratura sembrano voler fare solo il controllo del territorio per tenere chiuso il gioco. C’è anche la possibilità del salto di piani, dell’adorazione e dell’invenzione, come è sempre potuto avvenire tra scrittori, poeti, musicisti, pittori, all’interno del tempo in cui si sono trovati a vivere o, quando questo non era possibile, attraverso il tempo e lo spazio della loro vita e della loro morte, e della vita e della morte del mondo.

  Ecco, anche questa conversazione avvenuta per caso, strappata per qualche misteriosa contingenza a mille altre cose, mi sembra un piccolo gesto irradiante di adorazione, apertura di spazi e invenzione.



Cormac Newark, Opera in the Novel from Balzac to Proust, «Drammaturgia musicale e altri studi», Palermo, Fascicolo 5, primavera 2017, pp. 120-123.



Massimo Onofri, Balzac. E il romanzo fu, «Avvenire. Agorà», Milano, 27 Ottobre 2017, p. 23; 1 ill.

È bene dirlo subito e in modo assai chiaro: questo che ci restituisce la conversazione tra Antonio Moresco e Susi Pietri, pubblicato da Bompiani e intitolato Il fronteggiatore. Balzac e l’insurrezione del romanzo (pagine 192, euro 13,00), qualsiasi cosa se ne vorrà pensare, si rivela come un libro assolutamente da non perdere. Non solo per l’ovvia ragione che accampa un discorso sul “caso” Balzac e sul suo ruolo nella storia del romanzo e che diventa, in corso d’opera, anche – diciamo così – un autoritratto a quattro mani d’uno scrittore non diversamente immane e assai discusso come, appunto, resta Antonio Moresco. È da non perdere per il fatto che si risolve in una strenua e vibrante difesa d’una idea di letteratura massimalista e senza compromessi, irriducibilmente alternativa a quella merceologicamente dominante, pacificata e ludica, facilmente inscrivibile entro un prevedibile orizzonte d’attesa. In tutto questo – vorrei che risultasse con pari chiarezza – Susi Pietri, che insegna lingua e letteratura francese, si rivela come una partner congeniale, direi la migliore possibile: non soltanto per una conoscenza di primissima mano della ricezione di Balzac, che può vantare una fitta schiera di lettori eccezionali, non di rado ammirati allievi (cito a caso: James, Stevenson, Conrad, Crane, Gautier, Baudelaire, Tolstoj, Rilke, Dreiser, Bourget, Wilde, Yeats, Bernanos, Simenon, Brecht, Pasternak, Carver, Butor, sino a Pasolini ...), ma anche per una simpatetica e non banale frequentazione dell’opera dello stesso Moresco.

Ma andiamo con ordine e cominciamo dal titolo: ove s’accampano due termini dai quali conviene partire: “fronteggiatore” e “insurrezione”. Due termini che vogliono definire l’eccezionale esperienza di Balzac ma che, di fatto, vanno a caratterizzare anche la stessa vicenda di Moresco. Lo scrittore sta parlando di Balzac e Kafka: «Sono tutti e due, ciascuno a suo modo, dei fronteggiatori, sono due uomini e due scrittori che, con le loro fragilità o le loro ingenue e commoventi farse, hanno affrontato il drago». Che cosa è il «drago«? Indubitabilmente «tutto il buio e tutto il male del mondo»: se è vero che a Balzac – ma anche a Kafka, o a Melville, o a Dostoevskij – non è una «potenza senza contraddizioni e senza brecce» a renderlo grande, ma «il suo cozzo con il mondo, la sua fertile ferita e il suo trauma». In tal senso ad animarlo è un «sentimento insurrezionale», da non intendere – guai a farlo – in un significato «riduttivamente politico sociale», ma «verticale e di più vasta portata», in vista di un’opera per così dire inaudita, capace d’un effetto di sfondamento, di decostruzione d’ogni codice, in una direzione che è, insieme, letteraria e antropologica, la quale opera non può non provocare, nel tempo in cui insorge, reazioni violente e tentativi «di disinnesco», anche quando «viene apparentemente accolta e addirittura monumentalizzata nell’astratto Pantheon della letteratura».

Impossibile non avvertirlo: c’è, in Moresco, una fede nell’esorbitanza dell’opera – dico l’opera che oltrepassa la forma, che identifica il pensiero con la visione e la visione con la realtà, che non distingue la vita dalla scrittura, che diventa essa stessa memoria, prefigurazione e performance – la quale rivela una sorta di disposizione escatologica, se non messianica, nei modi d’un candore non tanto diverso da quella «infantile fierezza» che lo stesso Moresco attribuisce a Balzac, e che lo rende uno scrittore assolutamente unico nel panorama forse non solo italiano. Insurrezione come possibilità di resurrezione, insomma: «Però gli scrittori e i poeti che portano qualcosa di così profondo e tellurico non vengono presi sul serio, (…) perché se lo fossero stati, questo avrebbe creato un terremoto e un rivolgimento inimmaginabile non solo nelle singole vite ma nell’intera vita umana associata e nell’intero pianeta, non solo nell’organizzazione della società, degli stati e delle nazioni ma anche nelle zone più profonde delle strutture mentali e di conoscenza e giudizio, nei sentimenti e nella visione e invenzione della vita e del mondo». Il proteiforme Balzac, insomma: il «macellaio shakespeariano dagli occhi ardenti», sempre «in preda al caos», ma, «nello stesso tempo una forza del caos». Il Balzac canonico di Papà Goriot, Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane («con le loro pagine ultimative e atroci per verità e dolore sul denaro, sui sentimenti e sul mondo»). Il Balzac “eccentrico” di Fisiologia del matrimonio, del Trattato degli eccitanti moderni, della Teoria dell’andatura. Il Balzac filosofico di Il cugino Pons, Il capolavoro sconosciuto e La ricerca dell’assoluto. Il Balzac che sa passare dalla furiosa crudeltà di Eugénie Grandet e di Storia dei tredici all’«indimenticabile e straziante storia d’amore» di Il giglio nella valle. Il Balzac insolentemente ossimorico e misterioso di Béatrix, testo «mistico ed estremo nella prima parte e pieno di veleni illuministici nella seconda, come di un Voltaire suicidato». Il Balzac che riscrive sempre e amplia la Commedia umana, ritorna ai suoi personaggi e li reinventa. Il Balzac prodigiosamente metamorfico e, per dirla con parola cara al nostro, continuamente esordico: «Uno dei massimi esempi di scrittore capace nello stesso tempo di lucidità assoluta e di abbandono totale e di trance, dello scrittore che sfonda gli artificiali confini tra narrazione, poesia e pensiero».

Balzac: tutto ciò che Moresco si ostina a chiamare «romanzo». Ma che resta a siderale distanza da quel circoscritto genere letterario che, nella pacificata arcadia della narrativa italiana di oggi, continua a essere praticato ed etichettato come tale.

 

 

  Aldo Padovano, Honoré de Balzac vittima a Genova di un odioso raggiro, in Alla scoperta dei segreti perduti di Genova. Curiosità, misteri e aneddoti di una città che non smette mai di stupire, Roma, Newton Compton editori, 2017 («Quest’Italia», 142), pp. 13-38.

 

  I segreti, o presunti tali, di cui si parla nel titolo di questo volume e che, nel primo capitolo, riguardano le fatali illusioni perdute maturate da Balzac durante il suo soggiorno a Genova nell’aprile del 1837 (ci riferiamo ai fallimentari progetti di sfruttamento delle miniere argentifere sarde) sono ampiamente noti. L’A. ricostruisce in questo saggio il quadro dei luoghi e degli incontri che hanno visto come protagonista lo scrittore francese nel corso della sua permanenza nel capoluogo ligure, e che troveranno la loro trasfigurazione letteraria in un romanzo, in particolare: Honorine, scritto e pubblicato nel 1843. In quest’opera, vengono rappresentati, come «deux français déguisés en Gênois», i marchesi Giancarlo Di Negro, il quale, nonostante la cordialità con cui accolse il romanziere, non esitò a farne un pungente ritratto nelle sue satire epigrammatiche, e Damaso Pareto. L’ultima parte del capitolo è dedicata alla rievocazione della cosiddetta ‘avventura sarda’ di Balzac e del suo fatale incontro con il commerciante genovese Giuseppe Pezzi, con il quale lo scrittore si accordò in un primo momento per concretizzare l’idea fissa di sfruttamento minerario in Sardegna per poi rendersi conto, ovviamente troppo tardi, di essere stato irrimediabilmente e tragicamente beffato.

 

 

  Chiara Pasetti, «Louis Lambert». Folle e geniale alter ego di Balzac, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, n. 334, 10 Dicembre 2017, p. 27.

 

  Uno dei testi più affascinanti de La Comédie humaine di Honoré de Balzac (1799-1850), e tuttavia decisamente meno conosciuto rispetto agli altri, Louis Lambert, viene riproposto da L’orma editore nell’elegante traduzione di Paola Dècina Lombardi, che firma anche la raffinata prefazione.

  Come si legge nell’introduzione, l’opera venne «accarezzata a lungo» da Balzac; pubblicata una prima volta nel 1832 dopo una gestazione che, stando alle date indicate dall’autore stesso, durò circa dieci anni, subirà in seguito modifiche profonde a partire dal titolo. Nel 1836 uscirà all’interno del Libro mistico e verrà poi inclusa negli Studi filosofici, confluendo nel 1846 nell’edizione Furne de La Comédie humaine. L’idea era quella di farne un «culmine di perfezione», il risultato, sublime, è quello di un testo difficilmente classificabile nel genere del romanzo; ha ragione la curatrice che, citando Blanchot, lo definisce uno «straordinario breve roman d’expérience», nel senso «non sperimentale ma di esperienza interiore». Esperienza di pensiero, certamente, e di come raccontare il pensiero stesso; il fulcro infatti è la vita psichica del protagonista, che ha non pochi tratti, sia fisici che, soprattutto, psicologici in comune con il suo autore. La trama, raccontata dall’amico e compagno di studi di Lambert, è particolarmente scarna, poiché tutto si gioca sui suoi pensieri, dall’infanzia e prima giovinezza vissuta sotto l’ala protettiva e ammirata di Madame de Staël all’amicizia con il narratore, fino all’incontro con la donna-angelo amatissima cui seguirà il tragico epilogo. Attraverso un artificio Louis Lambert è inoltre il solo romanzo di Balzac a concludersi con una serie di enunciati filosofici che rappresentano ciò che (ci) resta del vorticoso turbinio della mente del protagonista. Il rapporto fra genio e follia (che inevitabilmente rimanda, tra i tanti, al fondamentale testo di Jaspers) non è certo, oggi, così misterioso come ai tempi di Balzac. Ed è noto che nel XIX secolo, epoca di passaggio della medicina da uno stato empirico alla dinamica di una visione scientifica, tutte le scienze, e in particolare la biologia, l’anatomia, la chimica e la fisica, hanno fortemente influenzato la letteratura. Il legame tra malattia e creatività diventa uno dei temi cardine dell’Ottocento francese e dalla metà del secolo le nevrosi, i fenomeni isterici e i disturbi senso-percettivi e del pensiero più strettamente legati all’alienazione mentale (illusioni, false reminescenze e soprattutto le allucinazioni, indagate a lungo a partire dagli studi di Pinel e Esquirol) sono al centro di un vivo dibattito che coinvolgerà scienziati, filosofi e, appunto, letterati. Ma Balzac, che aveva ben presente tutto questo, e dona al suo Louis Lambert la capacità di comprendere e attraversare materialismo e spiritualismo, occultismo e fisiologia, si ispira prima di tutto al pensiero di Swedenborg, punto di riferimento assoluto del suo infelice personaggio. «Balzac, con la sua grande mente divorata dal legittimo orgoglio enciclopedico, ha cercato di fondere in un sistema unitario e definitivo diverse idee riprese da Swedenborg, Mesmer, Geoffroy Saint-Hilaire», scrisse con il suo consueto acume Baudelaire. La «storia intellettuale» di Lambert, in effetti, è da intendersi nel duplice senso di storia di un pensiero singolare e di un cervello, di un intelletto, del tutto fuori dal comune. Tanto fuori dal comune da venire stritolato dalla propria genialità, sprofondando alla fine nell’alienazione mentale, in una sorta di estasi catalettica cronica che, al di là del caso clinico, pone al lettore la preoccupazione che in fondo più ossessionava l’autore: come legare analisi e sintesi, scienza e poesia, unità e diversità. Lambert, che Gérard Gengembre paragona a un «genio maledetto» alla stregua di Manfred e Faust, con i quali condivide la sete d’assoluto che divora, nel suo caso, anima e corpo, oscilla in questa, ignota, regione di confine tra follia e suprema capacità di vedere e sentire. Il romanzo, fra i tanti, piacque moltissimo a Flaubert, il quale confessò di esserne rimasto «folgorato» e ne riassunse così il senso profondo a Louise Colet: «È la storia di un uomo che diventa folle a forza di pensare a cose intangibili». E sempre Flaubert nel plan de La Spirale, non casualmente composto nello stesso periodo in cui lesse Louis Lambert, affermava che «la felicità consiste nell’essere Folle (o ciò che così viene chiamato), cioè nel vedere il Vero, l’insieme del tempo, l’assoluto». Lambert, che attraverso lo studio di Swedenborg riesce, alla fine, a stabilire una sintesi tra Pensiero e Volontà, sembra davvero aver trovato, in una linea tra l’esoterico e il mistico cara a Balzac, la capacità di infrangere le frontiere tra genio e follia, ma non per questo è felice. Poiché il dramma è che ci è riuscito in un modo «tutto interiore», inaccessibile e oscuro al resto del mondo, che sconfina nel delirio. Neppure le gioie dell’amore sono in grado di salvare quest’anima sola, in cui «la follia è il dubbio della ragione, o è forse la ragione stessa», come scriveva Flaubert in quegli stessi anni nelle sue Memorie di un folle. L’eroe di Balzac è quindi un pazzo o, come lo aveva definito Madame de Staël, «un vero veggente»? Dal momento che egli lascia di sé non «fatti», che «non sono nulla, non esistono», ma «solo le Idee», è tra queste, riportate alla fine del testo dal narratore che è riuscito a salvarne almeno alcune «dall’oblio», che possiamo, forse, trovare la risposta: «Tra la sfera dello Specialismo e quella dell’Astrazione, come tra questa e quella dell’Istinto, ci sono esseri in cui i diversi attributi dei due regni si confondono e producono delle misture: gli uomini di genio».

 

 

  Pierluigi Pellini, «... quel sentimento chiamato “desiderio”», in Honoré de Balzac, Albert Savarus ... cit., pp. 198-225;

 

  Cfr. supra.



  Paolo Petroni, Albert Savarus un capitolo inedito della «Comédie», Brescia, «Bresciaoggi»; Verona, «L’Arena», 6 agosto 2017.

 

  Esisteva ancora un capitolo della grande «Comédie humaine» di Honoré de Balzac, «Albert Savarus», che non era stato mai inspiegabilmente tradotto in italiano e ora rimedia a questa lacuna Pierluigi Pellini che lo cura per l’editore Sellerio che lo ha fatto tradurre con finezza a Francesco Monciatti (pp. 230, 13 euro).

  Il romanzo, che a suo tempo ebbe un ottimo successo, fu poi messo da parte dalla critica che ne sottolineava «il romanticismo e la fretta compositiva», mentre oggi ci appare di sicuro rilievo con quella capacità di ritrarre un'epoca e un ambiente, ma assieme di dargli valori e sottigliezze umane universali, tanto quegli anni di metà ’800 a Besançon, dove il romanzo si svolge, hanno molti rimandi con la situazione contemporanea. Un racconto dalla prosa piccola e grandiosa assieme, balzachiana nel puntare sugli interessi materiali, la lotta sociale, con uno stile appena nostalgico e forse un poco datato, ma che oggi fa parte del fascino della lettura.

  Il protagonista è un avvocato pare bravissimo, Albert Savaron de Savarus, arrivato però a vivere in provincia da Parigi non si sa perché, ma comunque ammirato e coccolato dalla borghesia locale, a cominciare dalla famiglia del benestante e bigotto barone Watterville, la cui figlia Rosalie lo colpisce, ammalia e seduce, pur essendo lei destinata al bellimbusto e dandy locale Amédée de Soulas.

  Il gioco di quest’amore Albert lo racconta in un racconto che è quasi cosa a sé, a parte echi e consonanze, dalla narrazione principale o di cornice, in cui si narra dell’amore di Rodolphe per una misteriosa Francesca che si rivelerà una nobildonna sposata ad anziano signore: i due si amano ma lei non vuole tradire il marito e gli offre solo grande tenerezza e lui accetta rispondendo che saprà aspettare per riceverla «dalle mani del tempo».

  In questa vicenda, ben articolata e intensa, si riverbera tutta la storia personale di Balzac con madame Hanska, anzi il racconto e scritto certamente pensando a lei tanto che «non c’è frase che non abbia un significato speciale», come scrivono i commentatori, per questa baronessa polacca che un giorno diverrà sua moglie, ma quando lui è ormai vecchio e malato.

  Inizia allora la parte coinvolgente del romanzo di Balzac con Rosalie che, davanti a tale rivelazione, comincerà a vendicarsi di quest’amore di Albert per un’altra, intriga, scrive false lettere, lo diffama, sino a una doppia, tripla sorpresa finale che riguarderà il destino personale di ognuno. Un romanzo allora che nella storia di Albert/Rodolphe e Francesca è decisamente, profondamente e in modo vibrante autobiografico, quindi grande costruzione di vendette, sensi di colpa, accidenti, giudizi e scelte personali in un paesino bigotto e attento al censo, ma che la passione sconvolge più d’ogni altra cosa.

 

 

  Aurelio Picca, Onorato de Balzac c’est moi, «Corriere della Sera. La Lettura», Milano, N. 282, 23 Aprile 2017, pp. 20-21.

 

  Non è una biografia romanzata ma un «memoriale» parodistico, quello che l’autore mette insieme ispirato dal grande romanziere ottocentesco: una discesa nel cuore di una vocazione onnivora ad abbracciare con le parole un’intera società.

 

  Onorato è il titolo del romanzo di Giuseppe Ferrandino (Bompiani) e sta per Honoré de Balzac. Anzi, si tratta di un «memoriale» scritto in prima persona parodistica nella quale l’autore di Pericle il Nero si tinge dall’inizio all’ultima pagina: de B***. Con lingua ironica, circolare, ammiccante, frizzante, condita di aneddoti e ilare bulimia (il tutto assunto con disinvoltura dallo scrittore delle Illusioni perdute) Ferrandino ci propone, come in un racconto da «teatro da camera» o operetta da «teatro dell’arte», il gigante della letteratura francese del XIX secolo.

  Ferrandino incolla, con dichiarata disinvoltura, gli esordi incerti del francese per arrivare alla mastodontica progetta-zione e realizzazione della Commedia umana. In principio fu: «Ero un asino, questo solo sapevo dirmi, sentivo dentro di me un fuoco di limpida energia ma ciò che producevo era una carbonella fumosa di sciocchezze senza valore né costrutto. Mi chiedevo cosa mai mi mancasse, se non fosse lo stile, la capacità a costruire storie o cos’altro».

 Attenzione, Onorato non è affatto una biografia romanzata, piuttosto un tratto molto esiguo (poniamo l’intestino cieco) della vita e delle opere dello scrittore francese proprio delle Viscere: cioè il motore del secolo che sappiamo.

  Attraverso la stessa civetteria dei dialoghi viene fuori il Balzac compulsivo, colui che, stretto dalla morsa dei debiti contratti con la madre, con il medico personale, con le amate tutte più grandi di lui, con gli amici («I miei debiti erano raddoppiati, triplicati, chi può dirlo? Ormai, a questo punto, nessuno! Siamo fuscelli nel vento, nati per soffrire e accumulare tratte inevase!»), continua a comperare tappeti per una casa già invasa di tappeti che possono essere introdotti adagiandone uno sull’altro. Con nonchalance Ferrandino trascrive, «tutto-stile», la follia di Onorato che compra stamperie, giornali, altre imprese, fino a progettare di acquistare in Sardegna una miniera abbandonata d’argento sfruttata dai romani ... È comico Onorato quando sbarca a Milano. Deve incontrare Manzoni ma non sa che questi ha scritto I promessi sposi inventando dopo Dante la lingua italiana che si interromperà solo con il boom della televisione.

  Honoré de Balzac, ovvero la pancia della Francia, come rintuzza Ferrandino, era lo scrittore che lavorava 12 ore al giorno nella pretesa di raccontare dettagli, squarci, realtà, psicologie, politica, donne e usi e costumi: «A me tutto piaceva, tutto è sempre piaciuto, nulla mi intimoriva se non i miei stessi trastulli mentali di non valere un accidente; ma grazie al cielo tali pensieri erano rari come la pioggia di luglio e per il resto non potevo impedirmi, sguardi sardonici o meno, di sbellicarmi sulle battute di spirito che certamente in tali ambienti non si lesinavano ... Scrivevo per chiunque e su qualunque cosa, tutto mi divertiva, avvertivo il potere mirabilissimo di giocare con la mia mente, le mie cognizioni e le mie capacità letterarie imbastendo dalla fanghiglia un lapislazzuli, dal buio una scintilla, dalla noia un frizzo, dal vuoto una sostanza». Questo scrive Giuseppe Ferrandino mascherato da Balzac. E di Balzac Baudelaire dice: «Tutti i personaggi di Balzac sono dotati dell’ardore vitale da cui era animato lui stesso. Tutte le sue finzioni sono colorate altrettanto profondamente dei sogni».

  Del resto Honoré de Balzac del suo secolo si prende il cibo prelibato, o ha la fortuna di trovare ingredienti sani come il grande cuoco e pasticcere Vatel. Egli ascolta il sibilo della Ghigliottina, osserva da sé o attraverso i padri, gli smottamenti della Rivoluzione (mi viene da accostarlo a Danton pure per la bulimia politica), vede l’ascesa e il declino di Napoleone. la Restaurazione. La spinta sovvertitrice della borghesia ne I tre giorni gloriosi. E poi nel 1839 la nascita della Seconda Repubblica. Ecco, uno scrittore dotato di quel talento come non poteva anche oscillare tra Rivoluzione e Reazione; come poteva non essere la spaventosa motilità viscerale della Francia? Ferrandino ci ricorda che Onorato conobbe perfino Vidocq: il criminale assassino poi reclutato dalla polizia.

  Balzac (Ferrandino nel suo «memoriale» lo allude, lo insinua con garbo) ha preso il meglio della Francia nel mondo. Si è infilato nella sua pancia: grassottello, dandy forzato, sdentato, borioso e umile. Correttore fino alla ventesima bozza. Ogni correzione era un altro romanzo che si sovrapponeva o dilatava il precedente. Ecco, Balzac è lo scrittore della pancia che può ingurgitare, tracimare e sgravare la Commedia umana. Egli non vide la sconfitta di Sedan. In fondo: la fine della sua Nazione.

  Il breve autoritratto di Honoré che l’astuto Ferrandino, il saltimbanchescamente surrealista Ferrandino si acconcia su di sé, ha il grande pregio di allargare (di fard riflettere e rimandare senza sommare), il corpo della letteratura francese dell’Ottocento che, dalle spropositate viscere di Balzac, si estende ad altre grandi porzioni. Marcel Proust, infatti, sarà non il bulimico di un corpo pazzamente eccitato ma il compilatore di ciò che dentro la realtà (e in noi) è invisibile e dunque moltiplicatore di ogni oggetto, ricordo, parola. Mentre Maupassant avrà dalla sua il sesso e la morte. Guy, pressoché opposto a Onorato, è un Toro che sente e si incita di ogni cosa. Nasce nel 1950, quando Balzac muore. All’infaticabile dilapidatore sarebbe piaciuta la novella dello Chalutier, quando al minore dei fratelli restò la mano incagliata nella rete colma di pesci fino a quando il maggiore non decise di tagliarla per non recidere la rete e perdere il frutto di una dura fatica. Infine la mano amputata messa nel sale. Poi, tornati a casa, costruirono mia piccola bara e in processione la portarono al camposanto ... Questa è un’altra storia. Una di quelle che avrebbe rubato Honoré de Balzac con il permesso di Giuseppe Ferrandino.

 

 

  Susi Pietri, Miroirs concentriques. Teoria del romanzo e poetica dei piani dell’essere in Balzac, Milano-Udine, Mimesis, 2017 («Eterotopie»), pp. 316.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Introduzione.

  I. Laghi, specchi e diamanti. Forme della veggenza e figure della narrazione;

  II. La mano di Maria egiziaca. Principi, cause, effetti;

  III. Cosmologie visionarie. La scala dell’essere di Sigieri;

  IV. Microscopie del tutto. Etienne d’Hérouville e l’anima del mondo;

  V. Sfere, angeli, doppi. Unità e duplicità dell’androginia;

  VI. La mano dello scultore. Séraphîta e la divina sostanza;

  VII. Forme e fantasmagorie del vivente. L’unità di composizione di Saint-Lieu;

  VIII. Concentrazione e “dépense”. Raphaël de Valentin e il movimento infinito del “désir”;

  IX. La mano della moglie infedele. L’aura dei corpi e la corrente vitale;

  X. Mistiche del materialismo. Il Trattato della volontà di Louis Lambert;

  XI. Le idee della sostanza. L’ultimo Lambert e l’energetica;

  XII. Chimiche trascendenti. La materia originaria di Balthasar Claës;

  XIII. L’esoterismo dei fluidi. “Les Martyrs ignorés” e il piano delle forze occulte;

  XIV. Alchimie della materia. Ruggeri, l’atomo primitivo e il principio vitale;

  XV. La mano di Madame Cibot. “Quête” e “enquête” della “Comédie humaine”;

  Bibliografia.

 

Introduzione, pp. 9-17.

 

  “Au commencement, c’était la philosophie”: ossia, un giovane “Balzac avant Balzac” che, negli anni 1818-1823, scrive un Discours sur l’immortalile de l’âme, abbozza un Traité de la prière e un Essai sur le genie poétique, legge e annota Descartes, Malebranche, d’Holbach, inizia una traduzione dell’Etica di Spinoza, ben prima di lanciarsi nelle tormentate sperimentazioni narrative dei Romans de jeunesse. Tanto che una lunghissima tradizione critica consolidata ormai da tempo ha potuto riconoscere in Balzac la felice coesistenza del penseur e dell’écrivain, o, all’opposto, la riconversione in “romanziere” di un “filosofo fallito” – così come, analogamente, si è ravvisata nella Comédie humaine la traduzione in romanzi di un sistema di pensiero a vocazione unitaria e sintetica, oppure la sua dissoluzione e dispersione nella finzione narrativa, “pour le plus grand bénéfice de la littérature”.

  La conversione al romanzo, in realtà, non segna affatto l’abbandono delle ambizioni di ordine filosofico e scientifico. Balzac non rinuncerà mai a concepirsi e a presentarsi come “penseur”, “théoricien en puissance”, “écrivain-philosophe”, “intellectuel engagé” nei dibattiti e nelle battaglie di idee del suo tempo, rifiutando di lasciarsi imprigionare nel solo ruolo di “romancier”, per lui decisamente troppo stretto. Né cesserà di riversare nelle opere della Comédie humaine (e nei testi raccolti nelle Oeuvres diverses) una miriade di riferimenti a diversi autori, modelli epistemici, ambiti disciplinari, in “una nebulosa di discorsi” che possono assumere la forma di citazioni, riflessioni, ambigue liste di filosofi, uomini di scienza, mistici sia reali che immaginari, racconti e resoconti di esperimenti scientifici, discussioni, brevi trattati (come il “Précis sur le magnétisme” in Ursule Mirouët), divagazioni, formule spesso oscure e frammentarie. È un’inscription de la pensée onnivora e bulimica come l’apertura rappresentativa e totalizzante dell’opera-mondo balzachiana. Comprende oltre ai filosofi delle Lumières e alle originali riletture di Spinoza, Diderot, Rousseau, le speculazioni dei mistici e teosofi (da Emanuel Swedenborg a Louis-Claude de Saint-Martin), la biologia e le scienze della natura, la fisiognomica di Lavater, la frenologia di Gall, le ricerche di medici, fisiologi e teorici della medicina (da Cabanis a François Broussais, Philippe Brunel, Etienne Esquirol), il magnetismo animale di Mesmer (e il mesmerismo nelle sue derivazioni materialistiche, spiritualiste o apertamente occultistiche), il neoplatonismo e la filosofia rinascimentale della natura, la chimica sperimentale, l’alchimia, la Cabala, le correnti più variegate del pensiero esoterico: una “biblioteca” quasi incontornabile, che un’imponente mole di studi e ricognizioni critiche ha analizzato ricercandone fonti, raccordi interni, intrecci con la genesi delle opere, fino a delineare diverse, discordanti ricostruzioni di un “Système unitaire” balzachiano.

  Dopo una fase di parziale eclissi critica, la dimensione teorica e speculativa della Comédie humaine è tornata in primo piano, nel corso degli anni Duemila, in tutta la sua intatta carica problematica. Lo testimoniano in primo luogo i contributi collettivi degli studiosi balzachiani ad alcuni importanti convegni, Penser avec Balzac (2000), Un matérialisme balzacien? (2008), Balzac: mystique. religion et philosophie (2012), Balzac penseur? (2016), che hanno risolutamente riaperto i lavori, rilanciando gli interrogativi sugli enjeux teorici delle multiformi riconfigurazioni balzachiane dei saperi, l’esplorazione della complessità di un’écriture du philosophique imbricata in una poetica e in una pratica romanzesca – e, non ultima, l’indagine su uno specifico spazio di pensiero, “au point de rencontre d’une vision du monde, d’un imaginaire et d’un principe de représentation”, aperto entro un universo narrativo che si concepisce come un laboratorio prodigiosamente attivo di riflessione critica.

  Il campo forse più controverso del philosophique balzacien è la riflessione sui plans du vrai o plans de l’être, che si elabora dagli scritti giovanili fino alle ultime opere della Comédie humaine: la teoria di una “realtà profonda” e “seconda”, oltre la sfera immediata del visibile, o di una natura a più piani entro una complessa struttura scalare delluniverso ordinato in una sorta di “grande catena dell’essere”. Vero e proprio “sistema nervoso”, secondo Ernst Robert Curtius, dell’arte “cosmocentrica” di Balzac, il corpo di teorie dei plans esposto nei textes préfaciels, nelle Études philosophiques e nel «seguirsi complessivo delle opere si è rivelato a sua volta, nel tempo, decisamente indigesto e imbarazzante per la critica – nella misura in cui il suo presunto monismo unitario, sistematico, monologico (insieme alla poetica della veggenza che gli è correlata, aureolata dal prestigio del “romantisme artiste des années 1830”) sembrerebbe essere drasticamente smentito dalla concreta ed effettiva realizzazione letteraria della Comédie humaine. Il mio lavoro intende rimettere in questione precisamente questo supposto “scollamento”, che farebbe dell’opera balzachiana e del suo pensiero una reciproca confutazione. Ripercorrendo forme e componenti della poetica della voyance (cap. 1) e la costellazione delle principali figure riflessive sui piani dell’essere (capitoli II-XIV), fino alla loro riconfigurazione nel progetto e nelle strategie di ordinamento e composizione della Comédie humaine (cap. XV), si tenterà di ricomprenderne snodi e sviluppi teorici in una prospettiva globale, secondo alcune preliminari, essenziali linee di ricerca.

  La “Prose narrative balzacienne” è un modo del pensiero. “Enfin, n’a-t-il pas fallu tout savoir du monde, des arts et des Sciences pour avoir entrepris de configurer la société avec ses principes organiques et dissolvants, ses puissances et ses misères, ses différences morales et ses infamies. Ce n’était rien que tout savoir, il fallait exécuter. [...] Un romancier, un poète, [...] pour être complet, doit être le centre intelligent de toute chose, il doit résumer en lui les lumineuses synthèses de toutes les connaissances humaines”. La prosa narrativa balzachiana esalta il carattere noetico dell’arte, investendola di un’inedita responsabilità conoscitiva. Se Balzac riconosce all’opera una dimensione autonoma di esperienza e di valore, non intende per questo irrigidire né, all’opposto, genericamente rimuovere “i confini tra esperienza estetica, attività pratica, esperienza quotidiana, funzione conoscitiva.” Assegna invece all’arte narrativa sia un’apertura veritativa più radicale e profonda di quella consentita dalla conoscenza ordinaria, sia una via d’accesso al sapere che resta preclusa alle forme puramente concettuali di comprensione: ne fa una condizione essenziale del conoscere, una forma privilegiata di “appréhension”, “réflexion” e “interrogation critique”, un potenziamento e una summa di tutte le facoltà cognitive e spirituali. Il romanzo balzachiano dunque “pensa” e “si pensa” come modo elettivo del pensiero: rivendicando, cioè, un potere di conoscenza che gli è specifico, un “fare opera” di carattere insieme euristico e immaginale che fa conoscere diversamente “sur le mode narratif”, dà forma e figura a nuovi saperi, mette in gioco un’esperienza altra – così del mondo come dell’universo narrativo.

  La “Philosophie de Balzac ” è un campo di saperi plurali. “Ce serait une erreur de croire que la grande querelle qui, dans ces derniers temps, s’est émue entre Cuvier et Geoffroy Saint-Hilaire, reposait sur une innovation scientifique. L’unité de composition occupait déjà sous d’autres termes les plus grands esprits des deux siècles précédents. En relisant les oeuvres si extraordinaires des écrivains mystiques qui se sont occupés des Sciences dans leurs relations avec l’infini, tels que Swedenborg, Saint-Martin, etc., et les écrits des plus beaux génies en histoire naturelle, tels que Leibniz, Buffon, Charles Bonnet, etc., on trouve dans les monades de Leibniz, dans les molécules organiques de Buffon, dans la force végétatrice de Needham, dans l’emboîtement des parties similaires de Charles Bonnet, assez hardi pour écrire en 1760: L’animal végète comme la plante; on trouve, dis-je, les rudiments de la belle loi du soi pour soi sur laquelle repose l’unité de composition”. Il raggio d’azione dei savoirs balzaciens, come si diceva, è vastissimo. Per di più, alla loro ampiezza di campo si aggiunge l’estensione semantica e la polisemia di “nozioni” trasversali, concepite e reinterpretate da Balzac à la croisée di scienza, filosofia, mistica, estetica, ideologia, etica, politica ... Il pensiero che prende forma nella prosa balzachiana, perciò, “transgresse les cercles de connaissance des savoirs”. È “une pensée du mixte et de l’hybride”, che contamina e rimescola le cartografie ammissibili della concettualizzazione, poeticizzando lessici e saperi di ordine scientifico o riversando nella quête mistica formule e argomentazioni proprie delle scienze positive. Non solo interroga, di preferenza, la porosità dei confini tra ambiti disciplinari apparentemente incompatibili, ma tende a produrre “entre le connu et l’inconnaissable un continuum, qui passe par l’estompage des frontières épistémiques”, sottoponendo così tutti i suoi riferimenti a un regime di costante instabilità e precarietà. In questo senso, il pensiero all’opera nella forma narrativa balzachiana diviene esemplarmente “un opérateur de transferts constants entre les savoirs et l’imaginaire, dans les deux sens à la fois”. Colui che progetta di scrivere “l’histoire oubliée par tant d’historiens, celle des moeurs”, e, insieme, uno smisurato Liber mundi che forza la tensione rappresentativa del romanzo fino ai suoi limiti estremi, si forgia, come scriveva Henry James nel lontano 1902, le conoscenze e le convinzioni “che rappresentano la sua generale condizione operativa, i termini costituiti del suo esperimento e, in misura minore, la sua consolazione, il suo sostegno e per giunta il suo svago. Esse abbracciano tutte le cose del mondo [...]: religione, morale, politica, economia, fisica, estetica, lettere, arte, scienza, sociologia, ogni questione di fede e ogni branca di ricerca. In tal modo esse rappresentano il suo corredo di idee, quelle idee di cui non sarà mai un bene, per un uomo che aspiri a costruire uno Stato, essere privo. “Savant" e legislatore assoluto del suo mondo narrativo, Balzac non esita così a prodursi nelle commistioni di pensiero più spericolate e avventurose, procedendo attraverso la sperimentazione incessante di nuove ibridazioni, l’indagine di rappresentazioni dal valore insieme ipotetico e euristico, l’invenzione di percorsi e strumenti intellettuali “senza precedenti” fino a creare un vero e proprio “fantastique philosophique” e un inedito “romanesque des idées”. Una gigantesca enciclopedia immaginaria di forme e modi eterogenei della conoscenza segna così una radicale “nouveauté textuelle, qui prouve la capacité généreuse d’accueil de la prose narrative, laquelle peut prendre en charge toutes les formes de discours, et surtout recueillir tous les discours du savoir. Désormais, la philosophie se fait dans le roman, comme l’histoire est faite par le roman”.

  La “Vocation théorique” di Balzac è l’autoriflessività dell’opera. “Le jour où [Balzac] a quitté l’envers de sa tapisserie pour voir le dessin de son fil et cc que produisaient ses couleurs, il s’est aperçu que, malgré lui peut-être, il développait le texte qu’il avait dans l’âme, qu’il déduisait les preuves de sa science cachée, qu’il faisait une oeuvre analytique dont il portait la synthèse en lui-même, qu’il exprimait le drame et la poésie de son monde avant d’en mettre au jour les formules physiologiques”. Tra l’“envers” e l’“endroit” della “tapisserie” narrativa, si disegna una curvatura critica, un movimento circolare dall’opera alla poetica che la intenziona e viceversa. Di qui l’ipercomplessità dell’istanza autoriflessiva balzachiana, alle prese con i piani dell’essere. Si esplicita nei testi teorici, nelle prefazioni, nei saggi critici, negli articoli giornalistici di Balzac, accompagnando la sua produzione romanzesca, anticipando o ridefinendone il corso irregolare, le svolte, i ripensamenti, gli indirizzi e gli orizzonti plurali. Ma prende forma anche e soprattutto in figure elettive della specularità. La Comédie humaine pullula di personaggi immaginari che assumono lo statuto di “philosophes”, “mystiques”, “savants”, “artistes”, “voyants”, “médecins”, “sorciers”, “maîtres de vérité”, “penseurs” incaricati a vario titolo di svolgere una funzione ermeneutica nell’universo balzachiano, a cominciare dai suoi celebri “cercatori d’assoluto”: da Balthasar Claës a Louis Lambert, visionari eroi della passione per la conoscenza, impegnati in vertiginose speculazioni metafisiche, in ricerche ossessive e allucinate nei più disparati campi del sapere o in creazioni di eversive opere immaginarie. Nell’insieme di queste figure, si riflette il rapporto tra l’opera e l’autore, tematizzando l’avventura del processo creativo e conoscitivo in un testo romanzesco che tende a reduplicare, tanto sulla scala dei personaggi che degli assi tematici e delle strategie narrative, il suo stesso soggetto, con un costante ritorno dell’opera su se stessa. Ma, allo stesso tempo, in questo ritorno riflessivo l’opera apre all’istanza teorica un nuovo spazio di gioco e di problematizzazione, entro il quale “la pensée se démultiplie, corrompt ses fixaxions, désystématise ses démarches, et se soumet à une sorte de critique généralisée”.

  Il “Système balzacien” è una sistematica del conflitto e della molteplicità. “[L’artiste] conçoit tout, il éprouve tout. Le vulgaire nomme fausseté de jugement cette faculté puissante de voir les deux côtés de la médaille humaine”. “Un homme, non un écrivain, car il y a bien des hommes dans un écrivain, un auteur donc, doit ressembler à Janus: voir en avant et en arrière, se faire rapporteur, découvrir toutes les faces d’une idée, passer alternativement dans l’âme d’Alceste et dans celle de Philinte. [Balzac] était forcé d’aller en tous les sens avant d’avoir tracé ses premiers contours, de prendre tous les styles pour peindre une société si multiple ...”. Durante la stagione della critica impegnata nella ricostruzione del “pensiero filosofico” di Balzac, si è accentuata invariabilmente l’aspirazione a una norma fondativa e unificante al cuore tanto del cosiddetto “système balzacien” che della poetica del romanzo. Ma il dispiegarsi del “pensiero” di Balzac non costituisce un corpo dottrinale veritativo e unitario sovrapposto al romanzesco. Né, d’altra parte, la rappresentazione dei piani dell’essere nella Comédie humaine potrebbe rispondere a un parallelismo diretto e semplicistico tra la presunta “filosofia” di Balzac e una sorta di compendio delle varie tesi di Louis Lambert, Sigieri di Brabante, Étienne d’Hérouville, Séraphîta, Cosimo Ruggieri, Balthasar Claës, Raphaël de Valentin, il medico dei Martyrs ignorés e le altre figure della riflessività balzachiana. Si dovrebbe parlare, semmai, di “poetiche al plurale” dei plans du vrai. Tutte le figure speculative e gli chercheurs d’absolu balzachiani sono i soggetti di un diverso, autonomo campo di elaborazione teorica sui piani dell’essere, modulato attraverso una molteplicità di formulazioni spesso fortemente differenziate. In luogo di fissarsi in un sistema coerente o di irrigidirsi in un paradigma univoco, i plans du vrai procedono semmai, da un testo all’altro della Comédie e delle Oeuvres diverses, a sovraccaricarsi di determinazioni distinte. Compongono, nel corso del tempo, una costellazione di pensiero complessa e problematica, contraddistinta dalla coesistenza di modelli esplicativi antagonistici e di più linee di tensione interne, non unificabili in una sintesi e in una compatibilità di tipo strettamente logico o dialettico. Il loro “insieme” si individua dunque come una formazione di compromesso, un precario equilibrio nella tensione di punti di vista divergenti: per antonomasia, il narratore balzachiano “abita la contraddizione”, come tutti i suoi personaggi. La sperimentazione di una vasta gamma di formazioni intermedie, punti di intersezione, combinazioni eterogenee volte ad esplorare le possibilità di senso insite nelle diverse polarità, coesiste perciò funzionalmente con la ricerca dei luoghi di massimo contrasto. In altri termini, il presunto “système balzacien” è identificato in realtà dalla fluttuazione permanente nella molteplicità e dall’unità conflittuale di motivi dissonanti.

  La “Pensée de Balzac” è la forma del romanzo balzachiano. “Qu’est-ce que le talent du conteur, sinon tout le talent? renferme en lui la déduction logique dans sa rigueur, le drame avec sa mobilité, l’essence même du génie lyrique avec son extase intérieure. Le narrateur est tout. Il est historien; il a son théâtre; sa dialectique profonde qui meut ses personnages; sa palette de peintre et sa loupe d’observateur. Non seulement il peut réunir les talents spéciaux que je viens d’indiquer, mais, pour exceller dans son art, il le doit”. Le figure della riflessione si inscrivono e si decentrano in un contesto di plurivocità narrativa e di pluralità dei generi letterari inglobati dal romanzo nella stessa apertura progettuale della sua forma – una “costruzione aperta” che, per contenere e dispiegare tutti i possibili che intende mobilitare, “s’expose à sa propre infinitude”, facendone “son pouvoir d’invention”. Nello spazio complessivo delle opere di Balzac, si assiste perciò al progressivo delinearsi di un complesso intreccio di diverse istanze teoriche attraverso l’orchestrazione di più “voci”: l’autore dei textes préfaciels che si pronuncia variamente su diverse ipotesi di ricerca sui piani dell’essere; i narratori dei singoli romanzi della Comédie humaine, con orientamenti e attitudini ambivalenti verso gli attori e le figure “filosofiche” delle loro storie; l’interpolazione di più personaggi che filtrano il discorso dei protagonisti; gli chercheurs d’absolu stessi, a loro volta irretiti nel procedere ambiguo e spesso irrisolto del loro stesso pensiero. Gli “enjeux épistémiques” di questa rete di voci risolutamente polifonica sono, contemporanemente, “enjeux romanesques”. La poetica dei piani dell’essere affiora quindi dalle intrusioni d’autore così come dalla composizione di più cornici e livelli narrativi, dalla commistione di diversi registri stilistici non meno che dalla sovrapposizione di punti di vista e orizzonti prospettici distinti, dal moltiplicarsi dei narratori e dei personaggi preposti alla mediazione delle proposte teoriche delle figure riflessive, nonché dalla messa a distanza dei loro stessi discorsi – attraverso storie o discorsi riportati, testimonianze, inserzioni di lettere e frammenti, confutazioni di personaggi antagonisti, revisioni “critiche” della voce narrante ... Il dialogo fra le posizioni teoriche è cioè inseparabile “d’une autre forme de logique démonstrative, celle d’une «pensée» propre de la fiction”, “d’une pensée spéculative qui se déploie avant tout au sein du romanesque”. Di un “romanesque”, si deve tuttavia aggiungere, specificamente balzachiano: concepito ed espresso in una federazione (“La Comédie humaine”) di opere disparate, attraversate da una molteplicità di istanze enunciative eterogenee, decentrate in una sconcertante pluralità di rappresentazioni del mondo che si sovrappongono, si giustappongono, si elidono. Facendo corpo con questo problematico, globale tessuto narrativo, figure e forme della riflessività, radicalmente messe in questione dall’inscrizione nel fictionnel, compongono allo stesso tempo l’orizzonte instabile del racconto e il contrappunto di movimenti molteplici e contrari del “discorso filosofico”. Ovvero, l’organizzazione del mondo narrativo e la rappresentazione dei suoi modelli di intelligibilità si coappartengono nell’opera balzachiana, con l’imbricazione costante “de son pouvoir d’investigation et de configuration croisées, embrayées les unes sur les autres”: l’écriture du philosophique, nella Comédie humaine, è insieme l’equivalente formale e lo strumento di indagine del pensiero che ne consente la messa in forma narrativa.

  La “Poétique balzacienne” è una costruzione processuale e globale. “Aussi est-ce un phénomène curieux et digne d’observation que l’enfante- ment des Œuvres de M. de Balzac, ainsi que les développements inattendus qui les ont fécondées et les larges superpositions dont elles se sont accrues. L’histoire de la littérature offre assurément peu d’exemples de cette élaboration progressive d’une idée ...” Le figure riflessive assumono un ulteriore spazio di decantazione e di profondità nel carattere transitorio e in fieri del loro reciproco dispiegarsi. In effetti, la formazione del “pensiero” balzachiano si prolunga per decenni tra ripensamenti, trasverberazioni, moti ondivaghi attraverso i quali si intrecciano la costruzione della Comédie humaine e l’elaborazione della poetica dei plans du vrai. È la complessità, processuale e progettuale a un tempo, che presiede alla composizione globale delle Oeuvres complètes di Balzac, concepite come un’unica “oeuvre concentrique” rispetto alla quale i singoli romanzi e racconti non rappresenterebbero che capitoli e “frammenti". Il loro interminabile processo genetico procede attraverso vaste campagne di scrittura e riscrittura, con l’intrecciarsi e l’accavallarsi delle varie fasi di stesura delle singole opere, le redazioni multiple, in più versioni, di ogni unità testuale, il moltiplicarsi delle riedizioni a stampa in cui i testi già pubblicati fungono da “avant-textes” per nuove opere, i rimaneggiamenti retroattivi, le revisioni parallele di più segmenti narrativi, i cestiti e i sistematici rinvii da un’opera all’altra, le riverberazioni reciproche tra le strategie compositive dei diversi comparti e sottoinsiemi della “cattedrale” romanzesca” – in un costante dialogo interno al sistema che fa di ogni romanzo l’eco, l’anticipazione, la variante o l’opposto correlato di un altro romanzo e dell’insieme stesso». Il cantiere della scrittura coincide con quello del suo “pensiero”, investendo “l’oeuvre «dans son entier», la disposition de ses parties, sa structure et son organisation globale, ses tactiques de composition, ses stratégies de classement, ses processus de mise en ordre du tout et des morceaux, – sa pression et leurs résistances –, ce par quoi elle atteint une stabilité (toujours provisoire), l’imposition d’un ordre intratextuel et d’une ordonnance rhétorique et idéologique qui rendent intelligibles tous les matériaux, y compris les restes en attente d’intégration: La Comédie humaine est une «macro-oeuvre» unifiée par un questionnement critique autant que par le désir de l’écrivain”. Un’épistemologie en devenir e un’éternelle genèse testuale si allacciano, così, in un gigantesco, reciproco movimento nell’incompiuto eretto a sistema.

  È in questo doppio laboratorio che si gioca una partita decisiva per le sorti dell'intrapresa narrativa balzachiana, allorché la riflessione sui plans du vrai si intreccia inestricabilmente con la poetica dei plans della Comédie. Già dal 1834 Balzac pensa infatti la composizione d’insieme della Comédie humaine negli stessi termini saggiati esplorando le configurazioni possibili dei paradigmi dei piani dell’essere. Nelle loro figure riflessive quindi si individuano in pari tempo, come si vedrà, il questionnement critique della forma-romanzo, il tessuto teorico delle opere balzachiane, e la rappresentazione dei principi formali che organizzano la “Grande opera” che le include.

 

 

  Susi Pietri, “Riens”. I paradigmi della moda nell’opera di Balzac, in AA.VV., Mode e modi di vita. Figure, generi, paradigmi, a cura di Luciana Gentilli, Patrizia Oppici, Susi Pietri, Macerata, Eum, 2017 («Experimetra, 1»), pp. 181-203.

 

  Nell’imponente e variegata produzione romanzesca e saggistica balzachiana, che comprende non soltanto i testi narrativi (romanzi e racconti) riuniti sotto il titolo di La Comédie humaine, ma anche il ricco corpus di saggi, articoli e frammenti ricomposti e inclusi nelle cosiddette Oeuvres diverses, i paradigmi della moda costituiscono una vera e propria esperienza di senso, le quali, pur affidandosi nella loro manifestazione a dei «riens» apparentemente marginali e insignificanti, generano un processo di conoscenza e di interpretazione della società e dell’individuo nelle loro più intime e oscure sfumature e nei loro più imprevisti significati.

  La moda, in Balzac, osserva Susi Pietri in questo studio, è anzitutto «promessa e ricerca di individuazione» (p. 186) che si sottrae ai valori condivisi della moltitudine e che, nella sua valenza estetica di pura autonomia autoreferenziale, trova nella figura del dandy la propria esemplare incarnazione. In Balzac, la moda consente alla vita di intersecarsi costantemente con l’arte rivelando una apertura conoscitiva più profonda che non esclude affatto, ma che, al contrario, valorizza il pensiero e la scienza. Attraverso l’interrogazione e la descrizione dei più infimi e dei più intimi dettagli, la moda consente allo scrittore di «elaborare dei nuovi principi di visione e di individuazione delle identità emergenti» (p. 191), dando così forma ad una rappresentazione del reale (umano e sociale) dove il frammento si collega all’unità del tutto, e in cui le particolarità indiziarie degli effetti si rapportano indissolubilmente al sistema epistemologico delle cause. In altri termini, conclude Susi Pietri, attraverso «questa reiterata, inesausta attività semiotica ante litteram della vestignomie, il romanzo balzachiano si fa lo spazio dell’ingrandimento di ciò che sembrerebbe infinitamente piccolo, del radicale rovesciamento di prospettiva secondo il quale sono ormai l’infimo e il labile a detenere il senso del generale – in cui l’esplorazione di nuove forme della scrittura romanzesca si allea alla conquista ermeneutica del “segni” della modernità» (p. 203).

 

 

  Susi Pietri, Frontiere dell’opera. Rodin, Rilke, Balzac, in AA.VV., Libri e lettori. Studi in onore di Mariolina Bertini, Parma, Nuova Editrice Berti, 2017, pp. 267-278.

 

  Nel suo lungo saggio dedicato a Auguste Rodin, Rainer Maria Rilke riserva a Balzac un ruolo privilegiato. L’incontro tra Rilke e Rodin è stato decisivo per la nuova interpretazione rilkiana della Comédie humaine. Rilke interroga la storia delle diverse trasformazioni del Balzac di Rodin attraverso le quali si delinea la progressiva «coabitazione di Rodin con le opere del Balzac» (p. 271): in questo dialogo lucido e visionario con Rodin e con Balzac, Rilke, scrive Susi Pietri, «racconta e rilegge – e allo stesso tempo interpreta, corregge, riscrive – un altro racconto e un’altra “lettura”, quella che ha condotto Rodin a compiere la sua statua. Da Honoré de Balzac al Balzac, si inanella dunque una complessa storia di identificazione da cui traspare in filigrana una seconda storia, la proiezione di un “Maestro” (Rodin) nel “Maestro” (Balzac) – la stessa ricerca di sé attraverso l’“altro” che Rainer Maria Rilke sta sperimentando a sua volta nel dialogo con l’opera rodiniana, quasi a replicarne le istanze più segrete in un vertiginoso incontro di prospettive concentriche» (p. 270).

 

 

  Susi Pietri, «Filles aux yeux d’or»: Henry James riscrive Balzac, in AA.VV., Il rosso e l’oro. “La Fille aux yeux d’or” di Balzac ... cit., pp. 91-118.

 

  Susi Pietri focalizza la sua attenzione sull’«interminabile dialogo a distanza» (p. 92) tra Henry James e Balzac soffermandosi, in particolare, su The Bostonians, in cui, oltre alla rimodulazione dello stesso intreccio narrativo di La Fille aux yeux d’or, emergono profonde e sorprendenti consonanze che innestano «nell’esercizio di una raffinata scrittura la sperimentazione di un’inedita rilettura critica e creativa del testo balzachiano» (p. 92).

 

 

  Luca Pietromarchi, Introduzione, in AA.VV., Il rosso e l’oro. “La Fille aux yeux d’or” di Balzac ... cit., pp. 9-15.

 

  La Fille aux yeux d’or (1835), l’ultimo racconto della trilogia dell’Histoire des Treize nelle Scènes de la vie parisienne, si colloca al centro della Comédie humaine per quanto concerne l’illustrazione di quei principî di natura socio-economica e psicologica che costituiscono i motori fondamentali dell’azione individuale nella società: l’oro e il piacere, il denaro e la passione. La Fille aux yeux d’or occupa, quindi, una posizione strategica, non solo nell’opera balzachiana, ma «nella storia della rappresentazione romanzesca delle dinamiche produttive proprie allo sviluppo del primo capitalismo e della sua “natura sociale”» (p. 10). Queste cinque letture rappresentano un momento di riflessione particolarmente riuscito sul testo di Balzac e, allo stesso tempo, «sulla definizione di capolavoro letterario, sulla sua ricchezza, la sua ambivalenza e la sua infinita capacità di lasciarsi interrogare» (p. 14).

 

 

  Domenico Pinto, Ah Balzac! non inferiore a Mazzarino, «il Manifesto. Alias domenica», Roma, Anno VII, N° 17, 30 Aprile 2017, p. 6.

 

  Si potrebbe prendere l’agudeza di Baudelaire, secondo cui nella Comédie humaine «perfino le portinaie sono geniali», e aggiungervi che talora, raramente, anche gli scrittori lo sono. Balzac, diavolo d’uomo, è l’incarnazione dell’Ottocento: lo troviamo nell’avvocato che soggioga le aule dei tribunali, nello stampatore che sa ciascun piombo della sua tipografia, nel falso prete che governa gli slanci delle vite altrui. La sua conoscenza del tempo, non dissimile dall’avventuriero che forzi l’ordine costituito, è spaventosa. Sul piano della macchinazione non è meno di Mazzarino o Metternich, tanto che sarebbe stato il terrore delle cancellerie europee. Il romanzo di Albert Savarus – conquista della società e insieme rarefazione stilnovista – è una frastornante casa degli specchi dove a ogni giro è riflesso il viso del suo autore: l’amore infelice di Albert per una Duchessa d’Argaiolo cela al suo interno, come una figura nel tappeto, la passione di Balzac per Madame Hanska. Eccolo, quindi, ancora una volta impegnato in una «battaglia con gli uomini e le cose, in cui ho riversato le forze e le energie senza un attimo di tregua». Voilà l’homme.

 

 

  Alessandro Piperno, Chi ben comincia ... Grandi incipit e altri inizi, «Corriere della Sera. La Lettura», Milano, N. 301, 3 Settembre 2017, pp. 46-47.

 

  p. 47. Ribadisco, non è sempre stato così. Un tempo c’erano meno libri, meno lettori, e sia gli uni che gli altri avevano pazienza e tempo da perdere. Non sorprende allora che romanzieri del calibro di Balzac o Stendhal non prestassero grande cura alle prime pagine. All’inizio di Illusioni perdute, tanto per fare un esempio, Balzac ci infligge una lunga tirata sulle stamperie di Angoulême, più dettagliata di un manuale tecnico.

 

 

  Magda Poli, Louise e Renée. Due monologhi per le passioni di Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 13 Aprile 2017, p. 48.

 

  Sul palcoscenico pareti di velatino si muovo (sic) al fluire dei moti dell’anima delle due protagoniste di bianco vestite Louise e Renée, spettacolo che Stefano Massini, rispettando l’evolversi del racconto, ha tratto dal romanzo epistolare Mémoires de deux jeunes Mariées di Balzac. Una riduzione che non riesce a superare l’esercizio di stile. [...].

  Due monologhi che si intersecano, Louise volitiva, interpretata con distratta lievità da Isabella Aragonese, accetta solo la passione assoluta, Renée, che Federica Fracassi molto ben rende ragionante e materna, un matrimonio di convenienza nell’assonnata provincia e con esso la ricerca di una quieta, ragionevole felicità.

  Fallimenti. Ma nello spazio emotivo creato dalla regia nulla sembra rapprendersi in una definizione e tutto è un pulsare di gioie e di dolori, di sogni di libertà e di incubi d’accettazione e di vere solitudini.

 

 

  Maurizio Porro, Care amiche vi scrivo: la chat di Balzac, «Corriere della Sera. La Lettura», Milano, N. 272, 12 Febbraio 2017, p. 40.

 

  Frammenti di un discorso amoroso diviso in due. Quello di Louise e Renée, amiche di collegio e di convento, le cui 137 lettere formano l’unico meraviglioso romanzo epistolare di Balzac, Memorie di due giovani spose, scritto a puntate tra 1841 e 1842 e che Sonia Bergamasco si appresta a dirigere al Piccolo Teatro di Milano dal 21 marzo nella riduzione di Stefano Massini con Federica Fracassi e Isabella Ragonese. Un gioiello della Commedia umana, ex introvabile Oscar Mondadori: perché qualcuno non lo ristampa? [...].

  Armande Louise de Chalieu è la sfacciata, la ribelle, la non allineata che non accetta armistizi con l’ordine sentimentale costituito, sposa un esule spagnolo, poi un poeta spiantato: scrive all’amica che l’amore di cui parla lei, così rassicurante, deve essersi nascosto perché lei non lo trova. Tutto il contrario di Renée de Maucombe, che si adagia nella vita borghese con un uomo di Provenza non giovane, non bello e non povero, diventa contessa dell’Estorade (ci sono i privilegi di classe nella società della Restaurazione di Luigi Filippo), adora i figli e cerca per iscritto di anestetizzare gli slanci e le passioni dell’amica che in compenso le scrive che trova ogni mattina un mazzo di fiori con dentro un sonetto fresco del suo innamorato.

  Ognuna mima il teatrino del proprio vissuto: fortuna che le poste (carrozze, corrieri, valletti) funzionavano. Ma è un rapporto virtuale (è questo lato chat che ha attratto Massini), le amiche dialogano a distanza: personificano ragione e sentimento, per dirla alla Jane Austen. Chi vince? Balzac scrisse a George Sand, cui il romanzo è dedicato: «Cara, preferirei essere ucciso da Louise che vivere a lungo con Renée». Lo scrittore, analizzando la psiche femminile e il destino della donna che gli stava a cuore non solo come madre e moglie, si era attratto critiche di femminista, irritando il solito Sainte-Beuve.

  La neo regista Bergamasco è guardinga, non si sbilancia, anche se si intuisce che il suo cuore batte con Renée, soprattutto col grande scrittore e le sue eroine nobili e zitelle come la signorina Cormon: «Balzac, rubando a sorelle e amiche, è riuscito a entrare nell’universo femminile meglio di una donna. Ne vengono fuori due facce che possono congiungersi: la via passionale col desiderio infantile d’assoluto e la necessità di venire a patti col quotidiano». In fondo nessuna delle due si realizza, nessuna è felice. [...].

  «Ci sono in giro più Renée che Louise perché la vita mostra più rinunce che unioni e si respira in giro aria di conservatorismo anche sentimentale, di ragioneria degli affetti e alla fine Renée fatica di meno, però si annoia. La cosa certa è che fra le lettere non si trovano risposte, ma domande molto contemporanee». [...].

  Stefano Massini, il riduttore, certo ha dovuto sfoltire assai, ha modificato il finale (Louise scompare, non muore) ma soprattutto è rimasto scioccato dalla modernità del rapporto: «Il loro rapporto dialogico, pur redatto con la penna d’oca, è esattamente lo stesso di quello di due donne di oggi sui social. La spietatezza di questo materiale umano in cui la felicità è ancora nei ruoli sociali di madre e moglie, è impressionante. Louise e Renée sono due donne che si dicono cose anche violente sicure che poi, come nelle chat, le frasi verranno rimosse». [,..].

  Di sicuro è un libro laboratorio e Balzac è stato letto molto a fondo da Proust: e anche queste sono due fanciulle in fiore, due Albertine che scelgono strade diverse. «Nessuna delle due donne — osserva Bergamasco — realizza il patto che avevano stipulato da bambine. L’amore non si realizza ma non ci sono rivendicazioni, lamenti: è come una grande indagine. Sulla scena bianca esploriamo con la nostra sensibilità l’alfabeto comune, il vaso comunicante del soggetto balzachiano che racconta lo spegnersi del desiderio nella vita di tutti i giorni, il match tra reale e ideale: la parola amore come arma, richiamo, rivendicazione, nella bella scrittura e nel puzzle delle lettere».

 

 

  James Salter, L’arte di narrare, in L’Arte di narrare. Traduzione di Katia Bagnoli, Milano, Ugo Guanda Editore, 2017 («Piccola biblioteca Guanda»), pp. 7-40.



Massimiliano Sardina, Le dolorose compagne. Octave Mirbeau in difesa di Rodin, «Amedit. Amici del Mediterraneo. Trimestrale di Costume e Società, Letteratura, Arte, Scienza, Antropologia, Cinema, Musica», Roma-Vicenza, Vol. 9, N° 33, Dicembre 2017, pp. 34-35.

 

  p. 35. Rodin forgia un Balzac ammantato e sfuggente, con lo sguardo assorto, impenetrabile, proiettato altrove, summa dei personaggi della Comédie humaine. La materia vibrante sembra sfumare nell’essenzialità chiaroscurale del disegno; nessuna concessione al dettaglio, a parlare è l’insieme unitamente a quell’energia che percepiamo trattenuta sotto il largo e informe mantello.

 

 

  Massimo Scotti, La critica più eterea: Balzac, Proust, Chesterton nei cupi tempi di aNobii, in AA.VV., Libri e lettori. Studi in onore di Mariolina Bertini, Parma, Nuova Editrice Berti, 2017, pp. 421-436.

 

  Massimo Scotti considera, attraverso l’analisi dei commenti dedicati alle opere di Balzac, di Proust e di Chesterton e raccolti nel Social network ‘aNobii’, le modalità adulatorie e dissacranti attraverso cui vengono trattati i vecchi e i nuovi autori classici. È strano, osserva l’A., che «in tempi di ansia collettiva per la valutazione, la critica stenti a riproporsi come un modello di discernimento: l’antica (e sana) abitudine della stroncatura è ormai perduta o solo saltuariamente, faticosamente ritrovata, con il pessimo risultato di lasciare agli anobiiani il ruolo dei giudici» (p. 436). 

 

 

  Agnese Silvestri, Suggestioni orientali: la dimensione ideologica della “Fille aux yeux d’or”, in AA.VV., Il rosso e l’oro. “La Fille aux yeux d’or” di Balzac ... cit., pp. 35-57.

 

  Agnese Silvestri ritiene che la disumanizzazione sociale, esplicitata attraverso il progressivo inaridirsi dei rapporti umani, così presente nei romanzi dell’Histoire des Treize, esprima un legame molto stretto con la visione di Balzac della organizzazione sociale contemporanea simboleggiata da Parigi. In particolare, ne La Fille aux yeux d’or, l’articolazione tra gli aspetti sociologici, erotici e ideologici, finisce per «intersecare il tema più propriamente politico, quello dell’aspirazione a un potere autocratico tinto di terrore» (p. 37) e a sfumature orientaleggianti.

 

 

  Francesco Spandri, Riflessioni sul simbolismo degli «occhi d’oro», in AA.VV., Il rosso e l’oro. “La Fille aux yeux d’or” di Balzac ... cit., pp. 79-90.

 

  Francesco Spandri esamina l’intrecciarsi del motivo dello sguardo con il tema dell’oro in tre testi balzachiani: Gobseck, Eugénie Grandet e La Fille aux yeux d’or. L’A. mette in relazione tra loro tre personaggi (l’usuraio Gobseck, il père Grandet e Paquita), capaci di esprimere questa correlazione tra l’invisibile e il visibile, vale a dire l’ibridazione dei fenomeni della visione e del pensiero con «la dimensione monetaria, pecuniaria, con la sfera materiale» (p. 80).

 

 

  Camilla Tagliabue, Louise e Renée: l’eterno dilemma di Balzac, «Il Fatto Quotidiano», Roma, Anno 9, n° 108, 20 Aprile 2017, p. 19.

 

  Il matrimonio d’amore ha fallito?, si chiedeva qualche anno fa Pascal Bruckner. Pare di sì, insinuava Balzac 175 anni fa nel suo unico romanzo epistolare, Memorie di due giovani spose, edito nel 1842 e opera della sterminata Commedia umana.

  Riscritto per la scena da Stefano Massini, il testo, col titolo di Louise e Renée, è in replica al Teatro Grassi di Milano fino al 30 aprile, prodotto dal Piccolo, diretto da Sonia Bergamasco e interpretato da Isabella Ragonese e Federica Fracassi.

  La trama è sbriciolata in schegge e “frammenti di un discorso sull’amore”, estrapolati dalle lettere che le due giovani donne, un tempo compagne di collegio, si scrivono negli anni: dopo quasi due lustri di studio dalle suore. Renée passa “da un convento a un altro”, venendo data in sposa al figlio sciancato di un barone di campagna. Louise, come lei priva di dote, è destinata invece ai voti, ma, dopo la partenza dell’amica più amata, decide di ribellarsi, scappare e tornare a Parigi dalla famiglia, dove prenderà lezioni private e si darà alla vita di mondo.

  Per Renée, una volta approdata su quell’“isola deserta” che è il matrimonio, l’esistenza diverrà noiosa e routinaria: “Sono finiti i romanzi” per lei, a differenza di Louise (e idealmente della Bovary, che è del 1856, 14 anni dopo), la quale, da suora mancata, si trasforma in virago affamata, sempre a caccia di uomini da intortare e schiavizzare, salvo poi soccombere lei stessa, per prima, alla fregola amorosa. Nel mondo senza fede delle due protagoniste – la Francia gloriosa di inizio Ottocento, – un mondo che non crede più né ai preti né ai poeti (e perciò la poesia è impossibile), il conflitto è banalmente laico, tra città e campagna, aristocrazia e borghesia, contratto matrimoniale e passione viscerale, ragione e sentimento.

  E il conflitto è ovviamente anche tra le due, che forse due non sono ma un’unica donna un tantino schizofrenica: Louise e Renée si scambiano, dice Massini, “parole anaffettive, che trasudano lacrime e sudore, però, al tempo stesso, sono messe su un supporto di carta, senza rapporto diretto. E come se quella parola, soprattutto quando è polemica, non tenesse conto delle conseguenze che scatena ... Avendo a che fare con un interlocutore virtuale, cartaceo, non si pone il problema dell’affetto (e potremmo dire anche dell’effetto) che crea su chi ne fruisce. E lo stesso utilizzato nelle comunicazioni via chat”. [...].

  Proprio da questo pudore, dalla bellezza del pudore, si capisce che la pièce non parla tanto di amore – quel “furto” che ha la stessa “incoscienza e inconsistenza” dell’infanzia –, ma di amicizia, ovvero della capacità di “sorridere dei mostri altrui ... come se fosse un patto eterno”. Così, mentre l’egoista Louise resta imprigionata nel suo claustrofobico sogno d’amore, Renée scopre nuove “sfumature”, nuove gioie del sentimento, diventando madre di due figli.

  “Preferirei essere ucciso da Louise che vivere a lungo con Renée”, scrisse Balzac in una lettera all’amica e collega George Sand, a cui l’opera è dedicata. Eppure, alla fine dei tormentati giri del cuore, delle seduzioni di Louise e delle cure di Renée, sarà la prima ad ammettere lo sconforto e ad arrendersi alla noia, alla noia che lei stessa procura al giovane uomo sposato per amore.

  Mentre lo zoppo marito di Renée si dimostra affettuoso e protettivo nei confronti della moglie e dei figli, l’amato consorte di Louise esce di casa al mattino presto e corre a cavallo fino a Parigi, per incontrare chissà chi, per fuggire da chissà cosa, proprio lui che si è sposato per amore e in nome dell’amore commetterebbe qualsiasi altra sciocchezza.

 

 

  Bernardo Valli, Che prodigio cantare Balzac, «L’Espresso», Roma, Anno LXIII, N. 16, 16 aprile 2017, p. 110.

 

  Balzac in musica non lo si poteva mancare. E ne valeva la pena. Ci si è fatti in quattro per avere una poltrona all’Opéra Garnier che era esaurita ad ogni rappresentazione, il compositore l’ha preferita alla nuova Opéra de la Bastille, troppo lontana nel tempo e nello stile dalla Parigi di Balzac, sebbene nemmeno la sala Garnier esistesse quando lo scrittore era in vita. Per lui, per Luca Francesconi, l’atmosfera, persino l’ancor più recente affresco di Chagall sul soffitto, meravigliosamente stonato con l’involucro dorato ottocentesco, è più adeguata ad accogliere Vautrin, l’inafferrabile personaggio della “Commedia Umana” e adesso personaggio centrale di un’opera lirica del Duemila. La sua.

  Il titolo è uno dei soprannomi: “Gabba-la-morte” (“Trompe-la-mort”). Vautrin è come un’anguilla, meglio una morena che se ti addenta devi decapitarla per liberartene: si insinua in tre romanzi di Balzac: “Le Père Goriot”, “Illusions perdues” e in particolare “Splendeurs et misères des courtisanes”. Luca Francesconi non ha esitato a sceglierlo quando Stéphane Lissner, padrone della lirica a Parigi, gli ha chiesto quale soggetto letterario preferisse per comporre una grande opera contemporanea. Autore a 56 anni di otto opere, l’italiano non ha esitato. Ha risposto al francese (che è stato il sovrintendente della Scala prima di arrivare a Parigi) che sceglieva Balzac e più precisamente il personaggio Vautrin.

  Vautrin il ladro, il criminale, l’ex forzato, truffatore, manipolatore, omosessuale ambiguo, oltre che falso canonico onorario della cattedrale di Toledo, alias Carlos Herrera. E futuro capo della polizia. All’anagrafe Jacques Collin. Immerso nelle milleseicento pagine della Commedia Umana da anni, Luca Francesconi vede in Vautrin un personaggio affascinante con la straordinaria capacità di ipnotizzare. Seduce Lucien de Rubempré sul punto di suicidarsi; prima ci aveva tentato invano con Rastignac. A Lucien offre un sigaro, lo lusinga, gli impartisce una lezione di storia e gli fa la morale. E un secolo e mezzo dopo un musicista italiano compone un’opera in cui è riassunta la sua storia e scrive anche il libretto nella lingua del suo inventore Balzac. [...].

  Il libretto intreccia importanti spezzoni della Commedia umana. Il compositore vi ha lavorato per otto mesi. Dai tre romanzi in cui si insinua Vautrin ha estratto una sintesi in cui rispetta, per i conoscitori, lo spirito di Balzac, ma che forse lascia a tratti smarrito il pubblico che non ha letto neppure Wikipedia. Per evitare che molti si smarriscano il geniale regista belga, Guy Cassiers, fa il vuoto sulla scena. All’inizio dello spettacolo ricorre a uno schermo gigante sul quale appare Carlos Herrera, alias Jacques Collin, alias Trompe-la-Mort, alias Vautrin che si brucia la faccia con dei prodotti chimici per non farsi riconoscere. Ne fa così subito il ritratto. In qualche immagine illustra il forte carattere del mostruoso personaggio. [...].

 

 

  Fabio Vasarri, La prosperità di Afrodite Pandemia, in AA.VV., Il rosso e l’oro. “La Fille aux yeux d’or” di Balzac ... cit., pp. 59-77.

 

  Fabio Vasarri mostra come l’eros multiforme de La Fille aux yeux d’or sia, nella sua connotazione carnale, realistica e perversa, la negazione della idealità androginica e romanticamente platonica incarnata da Séraphîta. La dimensione erotica della Fille aux yeux d’or, permeata da una certa indifferenziazione sessuale (la doppiezza sessuale di de Marsay) si lega alla dimensione socio-culturale ed economica del testo: gli eccessi e le trasgressioni sul piano erotico, distruttivi sul piano morale, risultano essere altrettanto nocivi e dispendiosi sul piano finanziario.

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Louise e Renée: da “Mémoires de deux jeunes mariées” di Honoré de Balzac. Regia di Sonia Bergamasco; drammaturgia di Stefano Massini. Interpreti: Isabella Aragonese, Federica Fracassi, Stagione 2017.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Honoré de Balzac. Per il ciclo: “OttoNoveCento – Lezioni di letteratura”, Firenze, Gabinetto Scientifico Letterario “G. P. Vieusseux” – Palazzo Strozzi, Sala Ferri, 28 novembre 2017.

 

  In particolare, su Eugénie Grandet.

 

 

  Giuseppe Ferrandino, La commedia umana. Vita e opere di Honoré de Balzac, Milano, ‘Tempo di libri’, 23 aprile 2017.

 

 

  Francesco Fiorentino, Riflessione d’autore e primato del racconto in Balzac, in AA.VV., Raccontare e conoscere. Paradigmi del sapere nelle forme narrative. Seminario internazionale organizzato dall’Associazione Sigismondo Malatesta, Università degli Studi di Pisa, 23 febbraio 2017.

 

 

  Maria Giulia Longhi e Daniela Mauri, Intorno a Balzac, Milano, Chiostro Nina Vinchi, 22 marzo 2017.

 

 

  Giuseppe Montesano, Honoré De Balzac, Napoli, Healthy Book Area, 19 dicembre 2017.

 

 

  Antonio Moresco e Susi Petri discuteranno il libro Il fiancheggiatore. Balzac e l’insurrezione del romanzo con Andrea Del Lungo. Coordina Franco D’Intino, Roma, Università della Sapienza, Facoltà di Lettere e Filosofia, 18 e 19 Dicembre, 2017.

 

 

  Susi Pietri, Architetture mondo: i cicli di opere, in AA.VV. Architetture. Forma e narrazione tra architettura e letteratura. Convegno internazionale, Università degli studi di Bologna, Scuola di Ingegneria e Architettura, 4 maggio 2017.

 

 

  Susi Pietri, Un livre de chevet ‘riscritto più volte’. “Le Chef-d’oeuvre inconnu” di Honoré de Balzac e «The Madonna of the Future» di Henry James, in AA.VV., Livres de chevet de Montaigne à Mitterrand. Convegno internazionale di studi, Università degli Studi di Milano, Seminari Balmas. Letteratura e Immaginario, Lingua e Testo, Gargnano, Palazzo Feltrinelli, 15 giugno 2017.

 

 

  Agnese Silvestri, L’utopie à l’épreuve de la faute: «Le Curé de village» de Balzac, in AA.VV., L’utopie sociale dans la littérature française du XIXe siècle. Colloque international, Università degli Studi di Salerno, Biblioteca di studi letterari e linguistici, 6 dicembre 2017.

 

 

 

 

Eventi.

 

 

  Luca Francesconi, Trompe-la-mort. Libretto e musica di Luca Francesconi. Direzione musicale: Susanna Mälkki, Regìa Guy Cassiers Thomas. Interpreti: Johannes Mayer (Carlos Herrera/Trompe-la-mort/Jacques Collin) – Julie Fuchs (Esther) – Cyrille Dubois (Lucien de Rubempré) – Jean-Philippe Lafont (Le Baron de Nucingen) – Ildikó Komlósi (Asie) – Philippe Talbot (Eugène de Rastignac) – Béatrice Uria-Monzon (La Comtesse de Sérizy) – Chiara Skerath (Clotilde de Grandlieu) – Laurent Naouri (Le Marquis de Granville) – François Piolino, Rodolphe Briand, Laurent Alvaro (Les Espions) –, Paris, Palais Garnier, 16 marzo-10 aprile 2017.

 

 

  Maurizio Porro, Conversazione con Sonia Bergamasco, Milano, Chiostro Nina Vinchi, 27 marzo 2017.



  «Louise e Renée: il teatro dei sentimenti». Conversazione con Federica Fracassi e Isabella Ragonese, Milano, Chiostro Nina Vinchi, 5 aprile 2017.



  Giorgio Verola (a cura di), “Il Capolavoro sconosciuto” di Balzac. Intervengono: Prof. Ermes De Mauro; lettura affidata alla voce di Chiara Flumian, Mesagne, Associazione Giuseppe Di Vittorio, 6 maggio 2017.

 

 

  Passaggi illustri in Alghero tra il XIX e il XX secolo, Alghero, “Lo Quarter”, 11 agosto- 17 settembre 2017.

 

 

  Arriva Fra’ Cristoforo ... Diretto da Claude Autant-Lara; sceneggiatura di Jean Aurenche, Pierre Bost, Claude Autant-Lara; fotografia di André Bac; musiche di René Cloërec, Milano, Sinister, 2017 («Noir d’essai», 104), 2 DVD-Video (ca. 185 min. compless.).

 

  Una commedia nera ispirata ad un racconto di Balzac [L’Auberge rouge]: la versione cinematografica italiana e la versione integrale francese con 15 minuti aggiuntivi.


 

Marco Stupazzoni

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