domenica 4 aprile 2021




2014

 

 

 

 

Audiolibri.

 

 

  Honoré de Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro legge Elena Spelta, Feltre, Centro Internazionale del Libro Parlato, 2014, 1 compact disc MP3 (4 ore, 45 min.)

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Consigli amari a un aspirante scrittore, in AA.VV., Troppe puttane! Troppo canottaggio! Da Balzac a Proust, consigli ai giovani scrittori dai maestri della letteratura francese, traduzione e cura di Filippo D’Angelo, Roma, Minimum fax, 2014 («Filigrane», 57), pp. 25-35.

 

  Da: Illusions perdues.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Saggio introduttivo di Stefan Zweig. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2014 («Classici moderni»), pp. 266.

 

  Cfr. 2007.

 

 

  Honoré de Balzac, Facino Cane, “principe di Varese” di Balzac, in Fernando Cova, Gente di Varese, Terzo Quaderno, 2014, pp. 67-76.

 

  Cfr. 2008.

 

 

  Honoré de Balzac, Teoria del camminare. Traduzione di Carla Quercia, Roma, Ellint, (aprile) 2014 («Lampi»), pp. 89.

 

 

  Honoré de Balzac, Un principe della Bohème. Traduzione di Silvia Lumaca. Note a cura di Cecilia Mutti, Piacenza, Nuova Editrice Berti, (gennaio) 2014, pp. 81.


  Struttura dell’opera:

 

  Un principe della Bohème, pp. 11-76;

  Honoré de Balzac, pp. 79-81.

 

  Un Prince de la Bohème, scena della vita parigina sovente ai margini dell’interesse della critica e dell’editoria, è pubblicato, in edizione pre-originale, nella «Revue parisienne» (agosto 1840) con il titolo di Les Fantaisies de Claudine. Le successive edizioni, quella originale e quella definitiva, vedranno la luce rispettivamente nel 1844 (édition de Potter) e nel 1846 (Furne, t. IV de La Comédie humaine).

  Questa nuova traduzione italiana del racconto di Balzac, curata nell’apparato delle note al testo da Cecilia Mutti, rende giusto merito al valore aneddotico e storico del testo per le frequenti allusioni, spesso ironiche e caricaturali, alla realtà del proprio tempo (il Port-Royal di Sainte-Beuve, Gautier) e per la rappresentazione di quel microcosmo di giovani energiche intelligenze parigine, avventurieri di talento ma senza alcuna disponibilità economica, che Balzac chiama «la bohème», all’interno del quale emerge il ritratto di La Palférine, superficiale e cinico dandy che si pone ai margini di un mondo borghese e conformista profondamente disprezzato e rifiutato.

 

 

  Honoré de Balzac, Un tenebroso affare. Traduzione e postfazione di Felice Bonalumi, Vedano al Lambro (MB), Paginauno. 2014 («Narrativa»), pp. 254.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Un tenebroso affare, pp. 5-246;

  Felice Bonalumi, Postfazione, pp. 249-254.

 

  Nel piano generale della Comédie humaine (edizione Furne del 1846), il romanzo balzachiano è compreso all’interno delle Scènes de la vie politique, cronologicamente preceduto da Un Épisode sous la Terreur (1830), contemporaneo di Z. Marcas (1841) e seguito da Le Député d’Arcis (1847). Basato su un episodio di cronaca realmente accaduto (il rapimento del conte Dominique Clément de Ris da parte di agenti del ministro della Polizia napoleonica, Fouché), Une Ténébreuse Affaire contiene in sé le categorie e le tematiche fondanti del Noir. Questo romanzo, dal finale tutt’altro che consolatorio, ci permette, scrive Bonalumi, «una profonda riflessione, sulla società, vista da Balzac senza falsi moralismi» (p. 251): si tratta di una visione della storia nella quale, in primo piano, si collocano gli uomini che agiscono con le loro idee e i loro comportamenti. In quest’ottica, il crimine passa in secondo piano sia dal punto di vista ideologico sia sotto la prospettiva narratologica in quanto il vero personaggio del romanzo è, appunto, la Storia vista in tutte le sue sfaccettature umane e sociali.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

 

  La morte di Balzac una pagina censurata, «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 30 Luglio 2014.

 

  Le piccolezze, le miserie d’animo, le malattie, le perversioni sono spesso l’altro volto, il volto umano, di grandi personaggi della storia dell’arte, della letteratura, della musica. Vere o false che siano, le storie delle pagine nere della vita dei grandi hanno un indubitabile fascino, attraggono e spaventano, svelando momenti di vita che fanno discutere ma anche riflettere. Tutti elementi questi che troviamo in La morte di Balzac, il libro che la casa editrice Skyra porta alla luce dopo un lungo oblio, o meglio una lunga censura. Il piccolo racconto di Octave Mirbeau ha fatto talmente scandalo alla sua prima pubblicazione nel 1907 da essere mandato al macero al momento di andare in stampa. Del resto all’autore non mancava la verve dissacrante, essendo colui che era stato pronto persino a farsi carico delle spese processuali per vedere Emile Zola in tribunale per il suo j’accuse in difesa di Alfred Dreyfus, e in tutta la vita fu strenuo oppositore del perbenismo, come dimostra anche il suo libro più famoso, il Diario di una cameriera dove la protagonista, Celestina, racconta le miserie di una ricca famiglia.

  Il libro su Balzac, pubblicato in edizione limitata e anonimo nel 1918 con il titolo La Mort de Balzac, fu riscoperto solo nel 1989 e non era mai stato tradotto fino ad oggi quando arriva in libreria per i tipi di questo piccolo, ma sempre sorprendente editore. Non è difficile capire i motivi dell’ostilità da parte del pensiero comune nei confronti di queste pagine che raccontano con sgarbato realismo i poco edificanti sentimenti di un monumento della letteratura francese come Honoré de Balzac, l’enciclopedico autore della Comédie humaine. Si tratta soprattutto degli ultimi giorni, anzi quasi ore, che lo scrittore passò tra atroci sofferenze e in assoluta solitudine prima di morire il 18 agosto del 1850. Al suo fianco, o meglio sotto lo stesso tetto, c’era la moglie, quella Madame Hanska che lo aveva amato senza conoscerlo, solo leggendo i suoi libri quando era ancora al fianco di un altro uomo, in Polonia.

  Balzac, sognando soprattutto la sua fortuna economica, l’aveva a lungo corteggiata per via epistolare e alfine sposata, ma il matrimonio aveva rivelato la ricchezza assai contenuta della donna e certo non tale da risolvere gli enormi problemi economici dello scrittore abituato a vivere assolutamente al di sopra delle sue possibilità. Con il matrimonio in sostanza era finito tutto e per questo Madame Hanska si era presto consolata tra le braccia di un artista di scarso talento – e ancora più scarsa avvenenza, tale Jean Gigoux – che è poi il confidente principale dell’autore del libro e che lui scrive in diretta, la sera stessa: “Non l’ho abbellito, non l’ho esagerato, né smussato”. Ma del resto la follia della realtà va oltre anche la penna di Balzac.



  Vita e morte di un genio: Mirbeau racconta Balzac, «Giornale di Brescia», Brescia, 1 agosto 2014.

 

  Dentro la vita e la morte di Honoré de Balzac: genio e sregolatezza, grande arte e passioni ribollenti, desideri tumultuosi e progetti infiniti. Ad accendere i riflettori sugli ultimi anni di vita e sulla morte del celebre autore dei romanzi della «Comédie humaine», con particolare attenzione al matrimonio con la nobildonna polacca Madame Hanska, è Octave Mirbeau con il volumetto La morte di Balzac. Mirbeau (1848-1917) [...] intendeva inserire questo testo in un suo romanzo uscito nel 1907, ma fu poi costretto a censurarlo per l’opposizione della figlia della Hanska. Lo scritto rimase inedito fino al 1989 ed è ora presentato in edizione italiana dall’editore Skira [...].

  Grande ammiratore di Balzac, Mirbeau racconta dell’instancabile vitalismo dello scrittore, delle sue passioni, delle sue fallimentari iniziative economiche; poi si sofferma sul tormentato rapporto con la Hanska concluso con il matrimonio solo qualche mese prima di morire a 51 anni. Ed è la narrazione della morte a rendere il testo controverso: Mirbeau afferma di riportare la testimonianza dell’amante dell’Hanska, che sarebbe stato con lei in casa mentre il grande scrittore in un’altra stanza moriva in solitudine. Un racconto che sconfina nella finzione letteraria, ma che si legge con grande partecipazione.

 

 

  La scandalosa storia di Balzac, «il Mattino di Padova», Padova, 7 agosto 2014.

 

  Le piccolezze, le miserie d’animo, le malattie, le perversioni sono spesso l'altro volto di grandi personaggi della storia dell'arte, della letteratura, della musica. Le storie delle pagine nere della vita dei grandi hanno un indubitabile fascino. È così anche per “La morte di Balzac” di Octave Mirbeau (Skyra, pp 66, euro 9). Il piccolo racconto ha fatto talmente scandalo alla sua prima pubblicazione nel 1907 da essere mandato al macero al momento di andare in stampa. Pubblicato in edizione limitata e anonimo nel 1918 con il titolo “La Mort di Balzac”, fu riscoperto solo nel 1989 e non era mai stato tradotto fino a oggi.

 

 

  Daniela Baroncini, “Androgine”, “flappers” e “garçonnes”, in Artifici del piacere. Moda e seduzione femminile nella letteratura contemporanea, Roma, Carocci, 2014 («Lingue e letterature Carocci»/185), pp. 207-225.

 

  pp. 208-210. D’altra parte, al tema dell’androginia femminile sono dedicati diversi romanzi che reinterpretano il mito dell’unità originaria e della bipolarità sessuale, affermando al tempo stesso l’estetica dell’ambiguità, a partire da Sarrasine (1830) di Balzac, costruito sui poli opposti femminile e maschile. A Roma il giovane Sarrasine si innamora di Zambinella, cantante d’opera, che in realtà è un castrato dalle sembianze femminili. Il vecchio dall’aspetto spettrale che si aggira tra gli ospiti della festa da ballo parigina è proprio Zambinella, che colpisce per le caratteristiche femminili e inquietanti del suo abbigliamento: «Lo sconosciuto portava un panciotto bianco, ricamato doro, secondo la moda di un tempo, e la sua biancheria era lun candore smagliante. [...] Il cranio cadaverico era nascosto sotto ma parrucca bionda i cui innumerevoli riccioli tradivano una pretensiosità straordinaria. Del resto, la civetteria femminile di quel personaggio fantasmagorico era alquanto energicamente annunciata dalle buccole d’oro che gli pendevano dalle orecchie, dagli anelli le cui mirabili gemme brillavano alle dita ossificate, e da una catena di orologio che scintillava come i castoni di una collana al collo di una donna».

  L’androgino viene del tutto spiritualizzato in Séraphîta (1834), dove Balzac crea una figura soprannaturale, si direbbe angelica, simbolo della perfezione umana: «La luce che sgorgava dal suo sguardo d’oro gareggiava in chiarezza con i raggi del sole, tanto che egli dava l’impressione non di assorbirla, ma di emanarla. Il suo corpo, minuto e sottile come quello di una donna, rivelava una di quelle nature in apparenza fragili, ma dotate di una resistenza pari al desiderio e che all’occorrenza diviene forza. [...] I suoi capelli, arricciati dalla mano di una fata, e come percorsi da un soffio, accrescevano l’illusione prodotta dal suo aspetto etereo. Nessun tipo conosciuto avrebbe potuto dare un’immagine a quel viso, che a Minna pareva maestosamente virile, ma che agli occhi di un uomo avrebbe oscurato con la sua grazia femminea le più belle teste dipinte da Raffaello».

  Il fascino ultraterreno di Séraphîtüs-Séraphîta è ancipite e si manifesta ora in forma maschile, ora in parvenze femminili, sino al congiungimento delle due nature sottolineato dalla descrizione degli abiti: «Si sfilò il mantello foderato di pelliccia, vi si avvolse e si addormentò. Il vecchio servitore restò per alcuni istanti in piedi a contemplare con amore l’essere singolare [...] che chiunque, persino uno scienziato, avrebbe avuto difficoltà a definire maschio o femmina. A vederlo così sdraiato, avvolto nel suo vestito abituale, che somigliava tanto a una vestaglia da donna quanto a un cappotto da uomo, era impossibile non attribuire a una fanciulla i piedi minuti che Séraphîtüs lasciava pendere, quasi per mostrare la delicatezza con cui la natura li aveva disegnati; ma la sua fronte e il profilo della testa sembravano l’emblema della forza umana giunta al suo più alto grado». In particolare Séraphîta appare come una sirena ammaliatrice distesa con civetteria sul divano, con un richiamo alla pelliccia, feticcio indispensabile della donna fatale: «La bianca fanciulla era distesa sulla pelle d’orso, con la testa appoggiata alla mano, il viso calmo, gli occhi lucenti», a inaugurare un’iconografia diffusa nella pittura decadente e simbolista, ad esempio in Alma-Tadema.

  L’ambiguità dei ruoli si ripropone poi in Balzac con La ragazza dagli occhi d’oro (1835), romanzo celebre tra gli scrittori decadenti di fine secolo per l’intreccio torbido e per il tema dell’amore saffico della malvagia Margherita per Paquita. la quale seduce donne e uomini con la sua meravigliosa bellezza e soprattutto con la sua ambiguità [...].

 

 

  Alice Béja, Marc-Olivier Padis, Ritorno a Balzac. Combattere le diseguaglianze con la trasparenza. Conversazione con Thomas Piketty (traduzione di Marco Zerbino), «MicroMega», Roma, 4/2014, pp. 87-101.

 

  p. 94. Nel XIX secolo, non essendoci inflazione, i punti di riferimento erano scolpiti nel marino. Ciascun lettore comprendeva immediatamente l’entità delle cifre menzionate da Balzac o da Austen. Tanto la grande inflazione del XX secolo quanto la crescita economica hanno invece in seguito fatto venir meno qualsiasi punto di riferimento. Le cifre invecchiano rapidamente e oggi facciamo fatica anche solo a stabilire una relazione fra un salario degli anni Novanta e un determinalo tenore di vita o potere dacquisto.

 

 

  Alfonso Berardinelli, A passeggio con Balzac, per imparare a guardarsi intorno con meraviglia, «Avvenire-Agorà», Milano, 13 Giugno 2014, p. 12.

 

  Una teoria del camminare? A chi poteva venire in mente un argomento simile, se non a Balzac? Niente di ciò che è umano, di ciò che esprime l’umano poteva sfuggire a Balzac. Con Michelet, Tocqueville, Burckhardt, Marx, Tolstoj, Dostoevskij, l’autore della Commedia Umana è uno dei titani del secolo romantico votati allo studio della totalità sociale. Proprio Teoria del camminare (Elliot edizioni) è il titolo di un saggio che Honoré de Balzac ha dedicato a una delle più naturali attività umane, anzi presupposto necessario di ogni attività umana, secondo lui colpevolmente sfuggita all’attenzione degli scienziati. La critica ha ormai acquisito che il realismo di Balzac è «visionario», forse trascurando che il saper vedere è un’attività creativa e che ci vuole immaginazione per osservare la realtà in dettaglio e per interpretarla. Il grande romanziere se ne mostra perfettamente consapevole. Il primo passo di ogni scienza deve essere paradossale c provocatorio, una «scoperta dell’ombrello» con cui si decide di meravigliarsi di ciò che sembra ovvio. Scendere in strada e guardarsi intorno. Notare che gli esseri umani camminano e che ognuno lo fa a modo suo. Come la voce rivela la vita mentale, la camminata rivela un carattere, un destino fisico, una volontà di essere nel mondo, una posizione sociale, un sogno di sé. Questo saggio balzacchiano ha una vivace vena comica. Pratica la riflessione come bizzarria, parodia della serietà, caricatura della scienza, requisitoria beffarda contro gli studiosi e le loro madornali distrazioni. Ma come? L’uomo cammina e noi non abbiamo ancora studiato come cammina? Ai tempi di Balzac le strade di Parigi erano un luogo ideale per osservare la folla dei passanti. Chi vuole capire meglio il contesto di questo acrobatico saggio può dare un’occhiata al terzo volume dei Meridiani Balzac, uscito alcuni mesi fa a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini e corredato da note che valgono un trattato sulla vita sociale francese nell’Ottocento. A costo di scoprire che oggi da vedere c’è sempre meno, facciamo come nell’Ottocento: guardiamoci intorno!

 

 

  Mariolina Bertini, Schede – Letterature. Honoré de Balzac, “Un principe della bohème”, ed. orig. 1840, trad. dal francese di Silvia Lumaca, pp. 81, € 9, Nuova Editrice Berti, Piacenza, 2014, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXXI, N. 4, Aprile 2014, p. 45.

 

  Quando ci si inoltra nelle zone meno frequentate della Commedia umana, Balzac riserva sempre qualche sorpresa. Il “grande storico”, così definito da Baudelaire e tanto ammirato da Engels, non concentra sempre la sua attenzione sui rivolgimenti epocali della società, sui segreti dei grandi patrimoni e sui retroscena del potere. Condivide invece con i suoi contemporanei il gusto per le physiologie, trattatelli pervasi di sulfurea ironia che descrivono, con simulato distacco scientifico, le figure più caratteristiche della Parigi del tempo: la Signora comme il faut, la ballerina dell’Opéra, il droghiere arricchito, il giornalista compiacente. A questa letteratura, legata al rapido avvicendarsi delle mode, è apparentato Un principe della bohème, che offre al lettore un duplice ritratto: da un lato la physiologie del dandy che non ha altro scopo nella vita se non sfidare, con inaudita impertinenza, il conformismo della borghesia in ascesa; dall’altro la physiologie di una bellezza di facili costumi, la ballerina Tullia, che quando è travolta da una passione violenta ed esclusiva, sa trasformare la propria frivolezza in implacabile determinazione. La bohème cui si riferisce Balzac in questo racconto del 1840 (ora pubblicato con le note di Cecilia Mutti), è quel mondo di artisti e sartine che Murger renderà popolare nel 1851; è l’ambiente dei giovani di talento, ma poveri, che il regime di Luigi Filippo, liberale a parole, censitario e gerontocratico nei fatti, esclude dalla politica e dalla cultura ufficiale. “Nella bohème – scrive Balzac – ci sono diplomatici capaci di sovvertire i progetti della Russia, se solo si sentissero appoggiati dalla Francia (...). Ogni genere di capacità, d’intelligenza vi è rappresentato: è un microcosmo. Se l’imperatore russo acquistasse la bohème per una ventina di milioni e poi la deportasse a Odessa, in un anno Odessa diventerebbe Parigi”.

  S’intuisce, dietro quest’affermazione, il risentimento del romanziere indebitato che ha visto fallire i propri tentativi di carriera politica, in un mondo in cui trionfa la mediocrità. Tuttavia il “principe della bohème”, La Palférine, cui è intitolato questo racconto, non è un autoritratto. Discendente impoverito di un’antica famiglia dell’aristocrazia italiana, arrivata in Francia nel Cinquecento, incarna l’aggressiva inutilità del dandy, fiero del proprio statuto marginale in una società che disprezza.

 

 

  Mariolina Bertini, “Vous êtes libre”. Une citation de Madame Hanska, «Parole rubate/Purloined letters, Rivista internazionale di studi sulla citazione online», Parma, Fascicolo n. 9, Giugno 2014, pp. 123-133.

 

  Dans la première – et très incomplète – édition de la Correspondance de Honoré de Balzac, parue en 1876 et accueillie à l’époque avec beaucoup d’émotion, ne figuraient que trente-cinq des lettres que le romancier avait adressées à Ève (ou Éveline) Hanska. Une note de l’éditeur – tout à fait mensongère et imposée par la destinataire – attribuait à un incendie la destruction du reste de la correspondance entre Balzac et l’aristocrate polonaise; celle-ci était entrée en contact avec le romancier en 1832 et, veuve depuis 1841, l’avait épousé en secondes noces le 14 mars 1850. Devenue madame de Balzac, celle que les salons de Vienne et de Saint-Pétersbourg avaient connue comme la belle et fort cultivée Mme Hanska était bien décidée à ne pas livrer au grand public la véritable histoire de sa liaison avec l’écrivain, alors que le comte Hanski était encore en vie, ainsi que les vicissitudes qui l’avaient amenée à un mariage tardif avec un Balzac désormais gravement malade. Ce ne fut donc qu’après la mort d’Ève de Balzac, survenue le 10 avril 1882, que le grand bibliographe et collectionneur Spoelberch de Lovenjoul put transcrire et classer les lettres: plus de quatre cents que Balzac avait envoyées à la comtesse de 1832 à 1848. Lovenjoul, en compensation de son patient travail de déchiffrement, se fit remettre par l’éditeur les autographes: une montagne de fins feuillets, couverts recto-verso d’une écriture serrée. Lorsqu’il fut enfin en mesure de publier une partie de ces matériaux, dans la “Revue de Paris” en 1894-1895, il choisit un titre évocateur où figurait le pseudonyme sous lequel Ève Hanska avait signé ses premières lettres à l’auteur qu’elle admirait tant: Lettres à l’Étrangère. En plus, quelque temps avant la parution dans la “Revue de Paris”, Lovenjoul en présenta le contenu dans une série d’articles au “Figaro”, sous le titre Un roman d’amour: comment Honoré de Balzac connut Madame Hanska. Les futurs lecteurs de cette importante correspondance inédite étaient donc avertis: un véritable “roman” les attendait, un chapitre supplémentaire de ces “Mille et une nuits de l’Occident” que Balzac avait promises à madame Hanska et que sa mort prématurée l’avait obligé à laisser inachevées.

  Selon Lovenjoul, c’était bien un “roman d’amour” que cette rencontre de Balzac avec une lectrice lui écrivant de Russie qu’elle avait suivi pas à pas, de loin, “son âme lumineuse”; et c’était aussi un “roman d’amour” que rédigeait Balzac sur plus de mille feuillets en papier vélin, adressés à sa bien-aimée et que celle-ci avait conservés. Des générations entières de chercheurs se sont penchées sur la fiabilité de ces pages. Personne n’a toutefois pu mettre en doute leur richesse foisonnante, la variété des thèmes et des registres. Les biographes y ont puisé à l’infini et ont transcrit, l’un après l’autre, les mêmes citations. Comment reconstruire le “roman” de la vie de l’écrivain sans passer par le ‘roman épistolaire’ que constituent ses lettres à madame Hanska? La correspondance de Balzac avec sa muse inspiratrice est un monument tout aussi massif que La Comédie humaine inachevée; comme elle, elle est incontournable pour tous ceux qui veulent se familiariser avec la pensée de ce romancier, une pensée où les paradoxes, les antinomies abondent, où les fantasmes sont récurrents et les intuitions anticipatrices géniales.

  Il manque à cette correspondance, qui devient une sorte de journal à partir de 1843, la voix de l’interlocutrice de Balzac. À la suite d’un vol et d’une tentative de chantage mise en œuvre par la gouvernante (et ex-maîtresse) de l’écrivain, madame Hanska exigea de son futur époux qu’il détruisît toutes les lettres qu’il avait reçues d’elle. Le romancier fit le compte rendu de cet autodafé, le 3 septembre 1847, dans une page déchirante […].

  Trois lettres seulement ont échappé à cette destruction. Deux proviennent du début de la correspondance et ont été recopiées par une main inconnue. La troisième est un billet au ton badin que Mme Hanska, qui en août 1845 se trouve à Cologne avec sa fille Anna, écrit à Balzac, qui vient de les quitter pour rentrer à Paris. Balzac évoque avant tout les “naïves et délicieuses tendresses” des centaines de pages englouties par le feu. Pourtant, l’expression d’une jalousie justifiée et les marques d’impatience face à des dépenses excessives et à des investissements téméraires ne devaient pas manquer. Nous pouvons souvent deviner le contenu des missives d’Eveline à partir des réponses de son correspondant. Ce qui s’est perdu avec les feuillets brûlés en septembre 1847, c’est le ton particulier des récits, des reproches, des confidences, bref la physionomie précise de l’épistolière. Nous pouvons certes en avoir une idée grâce à d’autres documents : ses lettres à plusieurs correspondants ainsi que son journal de 1843-1844 ont été publiés. Mais sa voix demeure absente de l’intense dialogue que Balzac a entretenu avec elle et ce n’est que grâce à de petits indices, à des traces fugaces, que l’on peut espérer en retrouver le son.

  Je voudrais maintenant m’arrêter sur l’une de ces traces, à partir d’une phrase de Mme Hanska que Balzac rapporte et dont certaines implications sont passées jusqu’ici inaperçues.

  Le 5 janvier 1842, Balzac reçoit de Mme Hanska une lettre bordée de noir. Elle lui apprend, d’une façon quelque peu laconique – un côté entier est resté en blanc – la mort du comte Hanski, survenue le 10 novembre. Elle se dit prostrée et en très mauvaises conditions physiques; elle demande aussi à être rassurée au sujet de son propre courrier, dont elle craint manifestement qu’il puisse être divulgué. Cette “bienheureuse lettre” – c’est Balzac qui la définit ainsi, en se servant d’une expression qui, comme l’a remarqué André Maurois, n’a pas dû sembler de très bon goût à sa correspondante – est suivie par quarante-sept jours d’un inquiétant silence. Le romancier, d’abord euphorique puis perplexe, écrit plusieurs fois à sa bien-aimée; l’anxiété augmente et le paralyse, il en arrive à se demander si Ève n’est pas gravement malade, voire morte. La réalité est beaucoup moins tragique, mais désespérante pour lui. Face aux multiples difficultés, d’ordre légal et administratif, causées par la mort de son mari et aux inquiétudes quant au patrimoine de sa fille Anna, âgée de quatorze ans, Mme Hanska a décidé de se consacrer entièrement à son rôle de mère et de rompre la promesse d’amour qui la liait à Balzac depuis 1833. C’est ce qu’elle lui écrit dans une lettre bouleversante qui parvient à l’écrivain le 21 février et qui le laisse profondément “abattu”. À des raisons familiales, elle en ajoute d’autres de caractère plus intime: les infidélités de Balzac, les omissions dans ses lettres qui, plus d’une fois, ont donné une image mensongère de sa vie quotidienne et de ses voyages. Ces accusations sont renforcées par un témoignage objectif: la lettre d’Ève est “enveloppée” dans une autre missive, que lui adresse sa cousine Rosalie Rzewuska – Éveline l’appelle “tante Rosalie”. Rosalie est depuis toujours hostile à Balzac – qui d’ailleurs donnera son nom à l’ennemie perfide du héros d’Albert Savarus. Par le passé, elle a pris un malin plaisir à signaler à madame Hanska les aventures galantes de l’écrivain et elle tient maintenant à la mettre en garde contre l’auteur de tant de pages immorales, mais surtout contre Paris, qui est un lieu de perdition, chargé de souvenirs funestes. C’est en effet à Paris que la mère de Rosalie a été guillotinée, le 30 juin 1794, et qu’elle-même a connu l’horreur de la prison. En voilà assez pour qu’elle exhorte sa cousine à se tenir loin de cette ville.

  Tout ce que nous savons de la lettre d’Ève Hanska et de celle de tante Rosalie qui l’accompagne, nous l’avons appris de la réponse de Balzac et des lettres postérieures où l’écrivain tente de répliquer aux accusations qui lui sont adressées. Sur le moment, sa réponse désolée est celle d’un homme anéanti par un coup auquel il ne s’attendait pas:

 

  “Je reçois à l’instant votre seconde lettre, et je suis encore sous le coup de l’abattement qu’elle a produit en moi, surtout enveloppée de celle de votre terrible tante qui a sous-entendu tant de choses dans son mot : Paris. Oh! Comme vous avez eu bientôt fait le procès à la plus tendre, la plus constante et la plus vivace affection qui fût jamais, sans l’entendre, sans vous expliquer les petites choses dont vous vous êtes choquée, sans vous rappeler le peu d’explications qu’il m’a été permis de vous donner dans le temps! Avec quelle glaciale tranquillité vous lui dites: – Vous êtes libre”.

 

  “Vous êtes libre”: cette phrase figure bien, telle quelle, dans le texte de Mme Hanska; témoin le fait que Balzac la cite à nouveau le 25 février, en la soulignant.16 Dans la lettre qui lui a “déchiré le cœur”, ces mots l’ont blessé plus que tout. Trois mots seulement, mais qui détruisent l’un des fantasmes les plus chers de l’écrivain  son désir d’être un “moujik” aux pieds de sa bien-aimée, plié sous un joug féodal et soumis à chacune de ses volontés. Cette amusante métaphore revient trop souvent, depuis janvier 1834, dans les lettres du romancier pour n’être qu’une simple boutade. Il s’agit plutôt d’un rêve, et d’un rêve si important dans l’imaginaire balzacien qu’il figurera dans la dédicace du manuscrit du Père Goriot:

 

  “A Mme E. de H.

  Tout ce que font les mougicks

  Appartient à leurs maîtres,

  De Balzac”.

 

  Il n’y a rien de plus désagréable pour le “mougick de Pavoufka” – telle est l’orthographe fantaisiste de l’écrivain pour moujik et pour Pawlowka – que cette liberté non désirée que sa dame lui redonne avec une froideur hautaine. Balzac comprend parfaitement que les trois mots qui l’ont tant blessé synthétisent le caractère irrévocable du congé que sa bienaimée entend prendre de lui. Il en aurait sans doute encore mieux saisi le côté tout à fait intentionnel s’il s’était aperçu qu’il s’agissait d’une citation littéraire. Bouleversé par le “désastre” qui s’abat sur ses espoirs les plus chers, il ne semble pas s’en rendre compte. En revanche, pour nous qui lisons ces lignes avec beaucoup plus de détachement, la citation est évidente et pleine de significations. “Vous êtes libre” est la formule choisie par Corinne prenant congé de lord Nelvil, dans le septième chapitre du livre XVII du roman de Mme de Staël. Ève Hanska l’adopte pour écarter son bien-aimé d’un geste impérieux; elle revêt, l’espace d’un instant, la robe ‘à la grecque’ d’une héroïne qui, aux yeux d’innombrables lectrices, a incarné une noblesse d’âme méconnue, une fidélité récompensée par la trahison, une sensibilité immolée sur l’autel de l’égoïsme masculin. […].

  Par un geste que René Girard définirait “mimétique”, madame Hanska s’approprie la formule de congé de Corinne ; elle emprunte ses mots pour blesser Balzac au cœur, lui qui l’a souvent trompée et qui, à deux reprises, a préféré voyager en Italie plutôt que la rejoindre dans sa lointaine Russie. La phrase de Corinne, précédée par un long silence qui en amplifie la portée, conserve toute son efficacité chez Ève, et fait mouche en causant une souffrance atroce à son destinataire, qui répond: “Vous ne savez pas tout ce que votre lettre a tué en moi de jeunesse, en m’arrachant cette foi, cet arbre autour duquel j’avais passé le bras”. Balzac a toutefois un gros avantage sur lord Nelvil, rigide, dépourvu d’imagination, quasiment aphasique et que les mots de Corinne mettent hors de combat pour toujours. En tant que romancier, il maîtrise mieux que quiconque l’art de faire de la réalité un récit le plus captivant et le plus persuasif possible. Et c’est bien en déployant toute sa virtuosité qu’il parviendra à reconquérir son “étrangère” réticente, en l’espace de quelques semaines. Au printemps 1842, Balzac, affinant jusqu’à la perfection une stratégie épistolaire qui a fait ses preuves, parvient à métamorphoser les matériaux de sa propre vie. La chronique des difficultés d’un écrivain dans l’arène parisienne devient, dans ses lettres, le roman du génie solitaire qui combat contre le monde entier, avec, comme seul réconfort, sa “rose mystique”, son amour partagé qui peut surmonter tous les obstacles. Madame Hanska se laisse encore une fois attirer dans ce roman, qui est tissé de la même toile que La Comédie humaine; elle en est fascinée et renonce à toute velléité de fuite. Balzac lui ouvre un monde imaginaire beaucoup plus séduisant que les décors de mélodrame où évoluait la fiancée malheureuse de lord Nelvil, dans une pose toujours théâtrale. Ève s’est identifiée, l’espace d’un instant, à l’héroïne hautaine de Mme de Staël. Mais Corinne ne peut soutenir la comparaison avec le rôle d’inspiratrice moderne que Balzac propose à Éveline; il la fait entrer dans sa propre création, qui est elle aussi moderne au plus haut point. L’ombre prestigieuse de Corinne ne peut alors que disparaître à jamais de l’horizon de madame Hanska, comme s’il s’agissait d’un tableau Empire pompeux, que l’on relègue au grenier pour faire place à un chef-d’œuvre de Delacroix, à la splendeur sombre et au désordre calculé.



  Giuseppe Brescia, Inferno parigino e svista ermetica in Honoré de Balzac, ‘Andrialive.it’, 30 agosto 2014.

 

  Su: Ferragus e La Fille aux yeux d’or.



  Franco Cardini, Vigilia di Quarantotto, in L’appetito dell’imperatore. Storie e sapori segreti della Storia, Milano, Mondadori, 2014 («Omnibus»), pp. 183-193.

 

  Avvolto nell’ampio mantello, l’uomo in nero camminava circospetto, muovendosi a piccoli, rapidi passi. Il vento che si era alzato ormai da una mezz’ora e che fischiava nelle vie deserte della notte faceva presagire una prossima tempesta; a terra, foglie morte portate da chissaddove danzavano in mulinello; e il vecchio, arrancando con l’aiuto del suo bastone, sentiva il freddo penetrargli le ossa.

  Intorno a lui una Parigi buia e silenziosa, in un quartiere che non gli era familiare, anche se spesso l’aveva percorso di giorno: alte e strette case annerite dal fumo, piccole piazze sorvegliate da magri alberi ormai spogli, di quando in quando una chiesa ostilmente serrata; agli angoli, mucchi informi di sporcizia; lontano latrare di cani. Il vecchio allungava il passo, quasi correva ormai, salvo di tanto in tanto fermarsi come a fiutar l’aria e a cercare una direzione che sembrava di continuo ritrovare per poi smarrirla di nuovo.

  Giunse, finalmente, in rue Fortunée; trovò la vecchia grande casa che cercava al numero 22, e batté ripetutamente, disperatamente, al portone coperto di fresco da una pesante, opaca vernice verde al piombo. Osò anche gridare: ma la strada deserta e oscura gli restituì il suono della sua voce ed egli ne ebbe paura. Continuò comunque a battere, sempre temendo di veder affacciare dalle finestre qualche inquilino assonnato e inviperito; e, peggio, con la paura che i suoi colpi richiamassero la ronda dei gendarmi. Non accadde nulla.

  Perdute ormai le speranze, si apprestava ad accasciarsi accanto alla porta per attendervi l’alba quando un rumore sordo di passi accompagnato da insistenti, secchi colpi di tosse lo ricondusse alla vita. Un filo di luce proveniente dall’interno filtrò da sotto il portone, e una voce contrariata, cavernosa per il sonno, chiese:

  «Chi è là? Vi sembra questa l’ora di ...».

  «Antoine, per carità, aprimi subito; facciamole più tardi, le domande, tutte quelle che vuoi!».

  Un silenzio interdetto rispose a questa concitata invocazione; poi un cigolare di chiavistello, e tra i due battenti si disegnò una sottile lama di luce. Istintivamente, l’uomo in nero inserì il piede sinistro nello spazio aperto, a impedire, da parte dell’altro, qualche ripensamento. Il chiarore d’una lanterna sollevata all’altezza del suo naso lo investì, e per un attimo non vide più nulla. Ma quanto udì, bastò a rassicurarlo: «Voi qui, monsignor Berthaud? Ma come, perché?».

  «Una bella improvvisata, vero, caro vecchio Antoine? Senti, sono intirizzito dal freddo e stare qui in strada in piena notte, ti dirò, mi fa anche un po’ paura. Il padrone è in casa?».

  «E dove vuole che sia, monsignore mio? In piedi dalla mezzanotte, come sempre. Ormai la casa è quasi sistemata, libri e mobili sono a posto: e lui ha ricominciato a lavorare in quel suo modo insensato». Così dicendo Antoine aveva aperto il portone quel tanto che bastava a far passare l’abate Berthaud, quindi l’aveva richiuso con cura e ora, tenendo ben alta la lanterna, scortava il religioso attraverso un androne gelido, su per ripide, anche se spaziose, scale.

  «Lavora, mi dici; come sempre. Quindi avrà con sé una bella scorta di caffè caldo, se non è cambiato».

  «Mio Dio, certo che ce l’ha; cambiato no, non direi; peggiorato, questo sì. In salute, in soldi, in carattere. Se lei sapesse!»

  «Eh, via Antoine, quanto a salute, soldi e buon carattere, ha sempre avuto ben poco di tutto. Quindi non può essere peggiorato granché. Ma ormai ha il successo, la gloria, una bella casa: non sono queste le cose che voleva? Dicono perfino che sia sul punto di sposare quella baronessa polacca, come si chiama ...».

  Antoine si strinse nelle spalle. Intanto, dopo le scale, avevano percorso una breve fuga di piccole stanze per giungere in un ambiente ampio e completamente immerso nel buio. Il servitore, accese un paio di lampade disposte su piccoli tavoli, trasse da una scansia una bottiglia di cognac e un bicchiere che posò vicino a una grande poltrona invitando l’abate a sedersi. «Avverto subito il signore» mormorò tornando di colpo formale nel tono, quasi diffidente; e scomparve nel buio.

  Rimasto solo, l’abate attese che i colpi di tosse e lo scalpiccio di Antoine si fossero del tutto allontanati, poi si alzò, sollevò una delle due lampade e iniziò un giro circospetto per la stanza. La cosa lo mise presto di buon umore: «Libri e mobili a posto, eh?» sogghignava. «Hanno una curiosa idea, il buon Antoine e quel pazzo furioso del suo padrone, circa le cose a posto!».

  Effettivamente, la sala aveva l’aspetto di un fondaco di rigattiere. I cinque o sei piccoli tavoli che vi erano sparsi senz’ordine alcuno, coperti tutti di pesanti tessuti a colori vivaci ma irrimediabilmente impolverati, erano ingombri di suppellettili buttate a caso: piatti, bicchieri, posate, calamai, armi bianche, perfino un samovar di rame, una bussola, un binocolo militare e un paio di pistole. Alle pareti erano appoggiati in malo modo quadri e tappeti arrotolati. Il pavimento era ingombro di casse in parte ancora sigillate e di pile disordinate di carte e di libri. Solo un tavolinetto in disparte, quello sul quale stava la seconda delle lampade accese da Antoine, aveva l’aria, se non proprio di essere in ordine, quantomeno di servire a un lavoro già avviato: su di esso erano accatastati fogli di appunti e libri in parte aperti o comunque disposti in modo da poter essere utilizzati per rapide consultazioni. L’abate fu preso da un violento desiderio di curiosare fra quelle carte. Ma, sul momento, lo strascicar di piedi del servitore di ritorno lo distolse.

  «Signor abate, vi prego di scusarmi. Lui scende subito; dice che ha in testa un’idea e la vuole buttar giù prima di abbandonare lo scrittoio. Sapete, la bronchite non gli dà tregua; allora lavora in camera da letto, ben imbacuccato. Per questo bisogna che accenda il caminetto anche qui, in modo da stiepidire un po’ l’ambiente. Scusate se non l’ho fatto prima». Un orologio lontano, forse quello di una chiesa, suonò le quattro.

  Antoine si affaccendò a lungo attorno al caminetto, riempiendo la stanza di fumo acre e masticando imprecazioni sommesse; alla fine fu costretto ad aprire le finestre, a costo di far penetrare nella casa il freddo della notte, per liberare la stanza dalle dense volute che si sprigionavano da legna che, a quanto sembrava, non era stata conservata in luogo adeguatamente asciutto. Alla fine una timida lingua di fuoco si sprigionò da una fascina di legname minuto un po’ meno umido e, presto, la stanza fu piena del riverbero allegro delle fiamme. “Fa freddo esattamente come prima” pensò l'abate, “ma almeno l’effetto è un altro”. Il vecchio servitore riempì di nuovo di cognac il bicchiere dell'ospite – il quale, stremato dalla passeggiata notturna per la città, aveva mandato giù il liquore d'un fiato senza neppure gustarne il sapore – e si ritirò di nuovo.

  Passarono altri lunghi minuti. Berthaud si alzò di nuovo dalla poltrona e, ora che cognac e caminetto lo avevano rinfrancato, decise di cacciare sul serio il naso tra gli appunti di quel tavolo. V’erano bozze di stampa corrette, anzi tormentate, in quel modo ossessivo ch’era da quasi vent’anni il terrore dei tipografi parigini; fogli stazzonati pieni di schizzi a penna e di frasi incomprensibili, vergate con fretta e quasi con rabbia; ma anche schemi che sembravano proporre movimenti di truppe su un campo di battaglia e che poi, a un esame più attento, si rivelarono semplici studi su vari modi di disporre ospiti e vivande attorno e sopra una tavola da pranzo. Liste di cibi e di bevande e appunti su ricette di cucina completavano il quadro. Non meravigliato né scandalizzato, comunque – insomma, questo sì – un po’ sorpreso, l’abate passò all’esame dei volumi da consultazione ammucchiati sul tavolo oppure posati sul pavimento ai piedi di esso.

  Fu sulle prime sorpreso dall’eterogeneità di quei libri: antichi (taluno anzi dall’aria preziosa) e moderni; talvolta grandi come messali, talaltra minuscoli; alcuni rilegati in cuoio o in pergamena e dal taglio accuratamente dorato, altri invece modesti, anzi addirittura popolari, da colportage. V’era un incunabolo prezioso del De re coquinaria di Apicio, insieme con l’originale latino di quel De honesta voluptate dell’umanista italiano Platina che i francesi amavano chiamare Maître Platine; e ancora gli scritti del Cervio, del Messisbugo, e l’edizione veneziana – opera dello stampatore Alessandro Vecchi, nel 1610 – dell’Arte del cucinare di Bartolomeo Scappi. Naturalmente, non mancavano le glorie gastronomiche del grand siècle: dal Cuoco francese di François de la Varenne, scudiero del Re Sole, sino al filosofico Fisiologia del gusto o meditazioni di gastronomia trascendente di Anthelme Brillat-Savarin. Ma soprattutto troneggiavano aperti sul tavolo, trionfanti, quasi sensuali, Il pasticciere pittoresco e gli altri volumi splendidamente illustrati del grande Antonin Carême, il cuoco che costruiva le sue architetture dolciarie ispirandosi al Palladio e i servigi del quale erano stati lungamente contesi tra il principe di Talleyrand e lo zar Alessandro I.

  «E scommetto che la lettura di codesti titoli vi avrà fatto venir fame!» risuonò una voce dietro le spalle dell’abate, facendolo sobbalzare. Dietro di lui un uomo enorme, i capelli e la barba scarmigliati, avvolto in una grande vestaglia bianca, sorrideva cordiale; tra le sue braccia faceva felice le fusa un grosso gatto soriano.

  «Honoré, amico mio!» esclamò l'abate; poi si corresse e, quasi ricomponendosi, aggiunse; «O dovrei piuttosto chiamarvi signor de Balzac, adesso che siete una delle grandi glorie della Francia e dell'Europa!».

  Un velo di tristezza sembrò offuscare lo sguardo del Maestro, cerchiato da grandi occhiaie bluastre: uno sguardo da uomo stanco, forse infelice. Lo scrittore prese amichevolmente sottobraccio il sacerdote, lo condusse verso l’ampia poltrona presso il caminetto, si avvicinò uno sgabello e si sedette a sua volta. Dall’ombra emerse il vecchio Antoine che recava, su un vassoio, caffettiera fumante, tazze e una ciotola di biscotti normanni al burro.

  «Oh!» esclamò Berthaud quasi con gratitudine. «I buoni biscotti dell’abbazia di Lonlay! Non che, intendiamoci, il burro normanno si possa paragonare al mio burro bretone! E tuttavia ...».

  «C’è parecchio che non si può paragonare alle vostre eccellenti cose bretoni, o vandeane, o angioine, insomma al bocage, mio caro abate!» scandì lentamente Balzac, fissandolo negli occhi con un misto di gratitudine e di complicità. «E il rivedervi stanotte mi fa ripensare alle nostre passeggiate e alle nostre conversazioni di vent’anni fa, quando preparavo il mio libro sugli scioani e voi mi narravate le gesta della gente di Vandea. È da voi, mio buon padre, che ho imparato che cosa sia la libertà: non quel fantasma sanguinario di cui blateravano i giacobini, ma quella vera, francese e cristiana!».

  «Vecchi tempi, caro Honoré. Ormai tutto sembra cambiato. Del resto siete cambiato anche voi, in questa specie di vostra reggia parigina ...».

  «Non dite altro. Vent’anni sono molti, caro abate; e questa reggia, che d’altronde è alquanto rovinata e restaurarla mi sta costando un occhio della testa, la darei volentieri indietro in cambio della mia squallida mansarda nel quartiere della Bastiglia o della mia cara casa di Passy, dove ho vissuto fino all’anno passato. Forse ho scelto il momento più critico, per venire a Parigi, se è vero quel che si dice in giro. Ma parliamo di voi, della vostra improvvisata. Perché qui dopo tanto tempo, e senza preavviso, e di notte?».

  «Una storia lunga, Honoré. Sappiate intanto che non ho affatto la coscienza a posto, nell'importunarvi stanotte. Anzi. Dicono che la polizia dell'usurpatore, di quell'Orléans, abbia occhi e orecchie dappertutto: e stando a quel che si racconta in giro di voi e delle vostre simpatie politiche, non mi meraviglierei se qualche sbirro stesse acquattato giorno e notte in rue Fortunée. Se è così, e se sono stato visto, ora siete nei guai anche voi».

  Balzac sorrise e posò amichevolmente la mano sul ginocchio del vecchio: «Non temete, in questo caso saprei come cavarmela. Alla corte di quell’imbecille, pari in disonestà solo al suo sciagurato padre, ho buoni amici: e non credo che, dopo questo duro e terribile 1847, il re dei bottegai avrebbe voglia di finire sui giornali per aver alzato le sue manacce su Honoré de Balzac. Ma ditemi di voi: dopo aver terminato il vostro biscotto, naturalmente ...», e ammiccò alla mano dell’abate, rimasta a mezz’aria con un dolcetto morsicato a metà tra le dita.

  «Oddio, signor Honoré, come debbo sembrarvi sciocco e ingordo! Un vecchio prete goloso, Dio benedetto! Ma, sapete, il vostro caffè e i vostri biscotti, e già prima il vostro cognac, sono stati una manna per me! Sono così confuso, impaurito, e non metto niente sotto quel che rimane dei miei denti da almeno un giorno ...».

  «Che cosa?» sobbalzò l’altro. «Non mangiate da un giorno? Santo cielo, e perché non l’avete detto subito? Fra l’altro, vi dirò che il caffè ormai mi dà spesso nausea; e, siccome la bronchite m’impedisce di dormire disteso a letto, a volte mi assopisco in poltrona, leggendo. Poi, quando mi sveglio di notte, quasi sempre di soprassalto, mi accorgo di avere una fame da lupi. I medici dicono che mangiare di notte fa male e che io sono comunque troppo grasso, ma che importa! Vieni» disse con tono allegro, rivolto al soriano, «andiamo tutti in cucina. Si sta più comodi, c’è più caldo e troveremo qualcosa per noi e per te!».

  Ancora scale, ancora altre fughe di stanze, e alla fine si aprì all’abate Berthaud la vista di un grande ambiente rustico dove, tra madie e fornelli, troneggiavano una tavola di quercia e una lucente collezione di stoviglie di rame che decorava un'intera parete. Balzac scomparve un attimo e tornò poco dopo con una bottiglia panciuta di vetro scuro ben fresca e due lunghi bicchieri. «La notte» disse «non è mai adatta ai vini robusti. Non comunque a un’ora così tarda.» Stappò fragorosamente la bottiglia, dalla quale uscì una spuma brillante. «Vino di Champagne!» annunziò trionfale. «Non ne ho mai bevuto» rispose l’abate con modestia, «i miei parrocchiani più facoltosi dicono che somiglia al nostro sidro, ma che è molto più caro». Balzac rise di gusto, riempì i bicchieri e vuotò subito golosamente il suo; lo riempì di nuovo e, stavolta centellinandolo con giudizio, si avviò verso una grossa madia nella quale rovistò a lungo, borbottando qualcosa. Ne riemerse pochi minuti dopo, le braccia piene d’ingredienti. «Mangeremo benissimo!» annunziò soddisfatto.

  «Statemi bene a sentire, signor de Balzac» protestò l’abate, «io sono abituato a rosicchiare un po’ di formaggio e qualche mela; è inutile disturbare il povero Antoine e metterlo ai fornelli a quest’ora per me!».

  «Antoine? E chi mai sarebbe matto al punto da affidarsi a lui per una cosa seria come il far da cucina? Il povero rimbambito è sì e no capace di bollire una coppia d’uova. No, signor abate, lasciate fare a me», e così dicendo accendeva i fornelli e riponeva in una casseruola di terracotta un paio di piccioni già sventrati e puliti, preparati evidentemente per l’indomani, dopo averli fiammeggiati e cosparsi di grasso sciolto. «Piuttosto, sapreste fare delle barchette di pasta?», e gli additava l’occorrente.

  La preparazione delle barchette di pasta ben spalmate di mousse di fegato d'oca richiese del tempo; intanto, i piccioni cuocevano dolcemente e i due amici, vuotata la prima bottiglia, stavano passando alla seconda.

  «Vedo che i vostri studi di gastronomia vi hanno fatto divenire un cuoco, per così dire, alla grande» osservò Berthaud.

  «Dite questo per i piccioni? No, sapete; il fatto è che scrivendo la mia Comédie humaine mi sono accorto di quanto importante sia il cibo per l’uomo, e di come la storia non si capisca se non ci si rende conto di che cosa e come gli uomini del passato mangiavano.» L’abate contemplava pensieroso le bollicine di champagne salire dal fondo del bicchiere. «Ma voi» riprese Balzac «avete un segreto che vi tormenta. Perché questa visita proprio a me, nel cuore della notte, dopo un giorno di digiuno?».

  «Sono a Parigi da qualche giorno, sapete. Avrei dovuto vedere alcuni miei confratelli, e anche della brava gente bretone e vandeana. Le cose non possono più andare avanti così, bisognerà bene prima o poi fare i conti con Luigi Filippo e la sua banda di mercanti ...».

  «Tornerà il gufo a stridere nel bocage?» chiese Balzac con un lampo negli occhi, alludendo al vecchio grido di guerra dei partigiani realisti.

  «Questo no, non lo credo possibile né lo vorrei; e tuttavia penso che si dovrebbe fare qualcosa, prima che questo re-borghese lasci il suo posto a gente di risma ancora peggiore della sua, o ci regali un altro Ottantanove.» Il tempo passava mentre i due conversavano; Balzac – che insisteva perché tutto fosse fatto secondo le regole – aveva intanto apparecchiato con un certo garbo e, cotti i piccioni, li aveva decorati con uva e tartufo e glassati con gelatina. Al centro della tovaglia bianca, facevano un’ottima figura.

  «Attacchiamoli» suggerì lo scrittore, «per il dessert, non c’è da preoccuparsi. Ho delle madeleines rimaste da ieri sera». Ai piedi del tavolo, il gatto si godeva felice i ricchi avanzi.

  Cominciava ormai ad albeggiare: un mattino del tardo autunno del 1847, nebbioso e piovoso. Quella notte, la polizia orléanista aveva fatto una grossa retata di socialisti verso la porta di Saint-Denis e sorpreso un bel po’ di legittimisti in riunione in una piccola dimora aristocratica del Marais. Un altro gruppo realista, che avrebbe dovuto riunirsi a tarda sera presso il portale della chiesa di Saint-Merri – quello sul cui fastigio la gente diceva che fosse effigiato il Baphomet dei Templari (ma si trattava di un diavoletto scolpito solo qualche anno prima da un innocuo tagliapietre) –, si era disperso in tempo grazie a una “soffiata”. L’abate Berthaud, che apparteneva a quel gruppo, aveva vagato impaurito e senza meta prima che gli venisse l’idea di recarsi a un indirizzo che tutti conoscevano a Parigi. Quello dell’uomo al quale, vent’anni prima, aveva insegnato i segreti della guerra scioana.

 

  Nota

 

  Naturalmente quest’episodio della vita di Balzac, con i relativi personaggi (a parte lo scrittore), è di fantasia. Il contesto storico è invece nel complesso affidabile, rue Fortunée è attualmente rue Balzac, nell’VIII arrondissement: ma la casa che lo scrittore acquistò nel 1846, fortemente danneggiata, pagandola 32.000 franchi, non esiste più. Fu fatta demolire nel 1890 dalla baronessa Adélaide de Rotschild per ampliare il giardino della sua dimora.

  Alcuni testimoni, come il New Oxford American Dictionary, riferiscono che le madeleines vennero chiamate così in onore di Madeleine Paulmier, pasticcerà del XIX secolo; altri identificano invece questa eponima Madeleine con la cuoca che nel XVIII secolo aveva lavorato per Stanislaw Leszczynski, re di Polonia e suocero di Luigi XV di Francia. Fatto è che questi ottimi dolcetti da inzuppo dalla particolare forma a conchiglia, tipici della Francia e in particolare della Lorena, hanno acquistato grande notorietà grazie a Marcel Proust, il quale racconta, in un celebre passo della Recherche, di come il protagonista venga pervaso dall’ondata di ricordi legati alla sua infanzia gustando “une pétite madeleine”.

  Dedico queste pagine a Umberto Eco: scrivendole ho ripercorso la “sua” Parigi, quella del Pendolo di Foucault e del Cimitero di Praga.

 

  Seguono le ricette di: Piccioni glassati all’uva e Madeleines.


 

  Marco Carminati, Luini, il Raffaello di Lombardia, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, n. 102, 13 Aprile 2014, p. 39.

 

  Analogamente, l’Europa romantica si innamorò del pittore: letterati come Stendhal, Balzac e Ruskin scrissero parole alate su di lui, definendolo il «Raffaello di Lombardia».

 

 

  Angelo Antonio Cervati, Persone, credenze, ‘valori’ della borghesia nell’opera di Balzac, «Diritto pubblico», Bologna, Anno 20, n. 3, 2014, pp. 723-760.

 

  Sommario: 1. Prospettive storiche e giuridiche nella Comédie humaine. – 2. Artisti e tecnici del diritto di fronte al mutare delle esperienze umane. – 3. Professionisti del diritto, regole giuridiche e valutazione dei fatti. – 4. Contadini e lotte di classe, insorgenze e comunità di villaggio. – 5. ‘Valori’ borghesi e mutamenti della cultura sociale nel corso dell’Ottocento. – 6. Scrittura delle costituzioni, psicologia collettiva e egemonie sociali.

 

  [...]. La lettura di Balzac ha il merito di contribuire a restituire alla riflessione sui grandi temi della storia umana quella libertà di valutazione che le spetta e che di solito è limitata da non pochi tentativi di irrigidirne i percorsi, richiamandola all’obbedienza dogmatica, politica, normativa. È appena il caso di ricordare che lo scrittore francese è stato ripetutamente accusato di oscurantismo controrivoluzionario, legittimismo monarchico e, come se non bastasse, di orientamenti antidemocratici, clericali e irrazionalistici; si può anche aggiungere, non certo a discolpa di chi continua a lanciare pesanti accuse contro Balzac, che non si tratta di un autore che si lasci etichettare facilmente, e che i vari tentativi di classificarne il pensiero, lo stile, le conclusioni, provano solo l’inutilità dell’impresa di semplificare e banalizzare un pensiero sicuramente complesso e poliedrico. Qualificare Balzac come scrittore rivoluzionario, romantico, naturalista, anarchico, progressista, moralista, precursore di movimenti che si affermeranno più tardi, come il simbolismo, l’estetismo o la psicoanalisi, ovvero insistere nell’affermare che si tratti né più né meno che di un autentico conservatore, spaventato dell’avanzare del progresso sociale, è impresa vana di fronte al pensiero di uno degli autori più anticonformisti e originali che si possano leggere.

  Balzac muove lungo un cammino che lo porta a evidenti rotture con le opinioni della storiografia ufficiale e con il pensiero politico maggioritario, anzitutto per la sua libertà di pensare fuori da schemi e, in secondo luogo, per la scelta del romanzo come strumento di studio dei percorsi storici, economici e psicologici dell’umanità. Nella ricerca della forma più libera per esprimere le proprie considerazioni, Balzac non si cura di appartenere a un movimento, corporazione, apparato di potere politico o economico, allo stesso modo di come non si cura di fare ‘carriera’ in una delle possibili strade che gli si aprono al compimento dei suoi studi. Non si tratta di approfittare dell’occasione offerta dalla lettura di questo scrittore per consigliare a chi studia il diritto di leggere il maggior numero di romanzi possibile, persino a nocumento di più tecniche ricerche dottrinali o giurisprudenziali e neppure di proporre ai professionisti del diritto di scrivere anch’essi romanzi sulle proprie esperienze della vita, quanto di invitarli a perseguire una più ampia visione del mondo rispetto a quella suggerita dalle rispettive specializzazioni.

  Balzac sembra nutrire delle speranze sulle capacità innovative del genere umano, molte in quelle dei giovani e delle donne, forse persino nel progresso, guardando alle aspettative della gente, senza preoccuparsi di classificarle per epoche, né di proporre soluzioni in grado di guidare gli sviluppi futuri dell’umanità. Egli può essere considerato un atipico liberale, non nel senso che il termine ha assunto nel nostro tempo, perché non crede affatto nel valore assoluto della concorrenza e anzi cerca di opporsi alla prevalenza degli interessi del capitale finanziario rispetto ad ogni altra prospettiva dell’umanità, ma nel senso di un pensatore che impegna tutte le proprie forze contro il formalismo e il dottrinarismo. Egli crede, occorre ripeterlo, nella libertà di pensiero, senza essere per questo un relativista, perché è convinto che uno scrittore non possa accettare di alterare lo stato dei fatti per favorire i ceti dominanti, ma deve andare a fondo dei vari problemi affrontati prendendo posizione in politica e in morale, come dichiara nell’Avant-propos della sua Opera, citando Bonald, secondo cui «un écrivain doit avoir en morale et en politique des opinions arrêtées».

  Chi scrive è convinto che le narrazioni e le valutazioni sulla storia, l’economia e il diritto, presenti nell’Opera di Balzac, anche quelle più ardite, possano portare il lettore a dubitare di molte conclusioni della pedagogia ufficiale fino ad indurlo a respingere i luoghi comuni della storiografia prevalente. Balzac è uno degli scrittori più sciolto da ogni osservanza dottrinale, che inaugura uno stile espositivo che egli qualifica ‘sistematico’, solo per sottolineare che le connessioni tra i fatti narrati e la loro valutazione non possono essere considerati come il risultato di un’astratta speculazione scientifica, ma sono piuttosto il risultato di una costante attenzione ai fatti narrati e al mutare delle connessioni tra psicologia collettiva e individuale e dinamiche storico sociali. [...].

 

 

  Giuseppe Cetorelli, Balzac e “Ferragus”, «Il Quorum. Innovazione cultura & stili di vita», 21 novembre 2014. [on-line].

 

  Leggere Balzac equivale a viaggiare nella Parigi postrivoluzionaria sino alla Restaurazione, nulla sfugge allo sguardo attento di uno dei maestri della penna, le sfaccettature della vita si traducono in letteratura sublime.

 

  [...]. Una figura essenziale della Storia dei Tredici è il flâneur: l’uomo che pensa, studia e degusta Parigi, ne conosce ogni particolare segreto e ogni delitto: la spia, il poliziotto, e il giocatore dell’immensa scacchiera. Quando il flâneur percorre Parigi, scopre che è un corpo umano, con soffitte piene di geni, i primi piani come stomachi felici, e le botteghe come veri piedi. Questo corpo è enorme e mostruoso: gli uomini sono maschere, gli eventi sono fantastici e l’insieme è un inferno dove tutto fuma, tutto brucia, tutto brilla, tutto fiammeggia, si evapora, si botteghe come veri piedi. Questo corpo è enorme e mostruoso: gli uomini sono maschere, gli eventi sono fantastici e l'insieme è un inferno dove tutto fuma, tutto brucia, tutto brilla, tutto fiammeggia, si evapora, si spegne, si riaccende, riscintilla e si consuma.

  Parigi è un eccesso, un’esorbitanza, una incessante mobilità, un’eterna chiacchiera, un cibo smisurato, un vulcano che getta fuoco e fiamme dal suo cratere. Parigi è oro e piacere. Alla fine, è così esorbitante da divenire vuota. [...].

 

 

  Pietro Citati, La vita secondo Balzac. Una lozione per capelli e il denaro della Francia, «Corriere della Sera», Milano, 18 Ottobre 2014, pp. 48-49.

 

  Storia dell’olio di Birotteau, il commerciante che ipotecava il futuro.

 

  Nel 1836, Honoré de Balzac aveva trentasette anni. Quando lo vide, Alphonse de Lamartine disse che «era grosso, spesso, quadrato, alla base e alle spalle; il collo, il petto, il corpo, le cosce, le membra possenti; la vastità di Mirabeau, ma nessuna pesantezza. Aveva un’anima così grande che essa portava tutto quanto leggermente, gaiamente, come un involucro agile. Le sue braccia corte gesticolavano con facilità; parlava come parla un oratore. Le sue mani grasse e larghe si esprimevano agitando tutto il suo pensiero». Un’amica della moglie, Sophie Koslowska, scriveva nello stesso tempo a suo padre: «Non può essere chiamato un bell’uomo, perché è piccolo, grasso, rotondo, tarchiato: ha delle spalle larghe, quadrate, una grossa testa, un naso come della gomma elastica, una bocca bellissima ma quasi senza denti.

  Ma c’è nei suoi occhi bruni, un fuoco, un’espressione così forte, che, senza volerlo, siete obbligato a dire che ci sono pochi uomini così belli. Ha una volontà e un coraggio di ferro. Congiunge alla grandezza e alla nobiltà l’innocenza del bambino. È pieno di illusioni e di buona fede».

  Appariva nei salotti di Parigi come un fulmine, parlando, folgorando, dominando: viaggiava volentieri, in Austria e in Italia, quando la tensione della scrittura gli impediva di chiudersi in casa; ma il suo vero luogo era lo studio, dove concepiva e scriveva i suoi romanzi. Lavorava moltissimo, come «una macchina a vapore»: ventiquattro ore di seguito, e poi un sonno di cinque ore: andava a letto alle sei di sera e si svegliava a mezzanotte: combatteva con la carta e i pensieri come un soldato sul campo di battaglia: restava tutta la notte sotto la luce di un paralume, davanti alla carta bianca, a volte senza trovare una parola, sentendo il rumore del fuoco e quello delle carrozze; ed era fiero di non macchiare mai d’inchiostro le maniche della sua vestaglia bianca.

  Spesso era malato. Dolori al fegato, infiammazioni agli occhi e alla gola, sofferenza di stomaco, rivoluzioni sanguigne e nervose, infiammazioni alle viscere. Qualche volta, perdeva il senso della verticalità, persino a letto, e capiva come Pascal fosse giunto a scorgere un abisso ai suoi lati. Un giorno, ebbe un colpo di sangue, sentì brusii nella testa, e cadde a terra mentre camminava nel parco. Non sappiamo se oltrepassasse le proprie forze, lavorando troppo; o se la malattia abitasse e covasse dentro il suo corpo fragile. Conosceva un solo, vero rimedio: il sonno: scendeva dentro gli abissi di sé stesso e della natura: dormiva per sedici o ventiquattro ore di seguito; e quel sonno profondissimo e tenebroso gli permetteva di rialzarsi e di tornare al tavolino per ore e ore, al fondo delle quali intravedeva un altro sonno sterminato.

 

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  Aveva un senso ricchissimo dell’unità di tutte le cose: era il suo istinto primordiale. Nel Lys dans la Vallée, che finì di scrivere nei primi mesi del 1836, parlava dell’unione del sole e delle acque, dei fiori e delle anime, degli animali e dei vegetali, che si scioglievano in un’ondulazione luminosa. Nella Grandeur et décadence de César Birotteau, pubblicato nel dicembre 1837, tutto è denaro: la vitalità, la forza, l’energia, le sensazioni, i pensieri di una persona che nasce, cresce e muore, sono denaro che si diffonde nel mondo; quel denaro che, come dice un suo personaggio, non conosce nessuno: «Non ha orecchi, il denaro; non ha cuore, il denaro».

  Nella Grandeur et décadence de Cesar Birotteau, il denaro ha un aspetto particolare: non la pura speculazione, che sarà riservata alla Maison Nucingen, ma il commercio. Come la Comédie humaine ci racconta, i commercianti dell’epoca di Luigi Filippo affondano le loro radici nella società della fine del diciottesimo secolo: hanno scalzato l’aristocrazia: sono onnipotenti: sono il cuore e il motore della vita; e solo gli artisti li scherniscono. Balzac non nasconde la loro avidità: il loro fisico desiderio di denaro, anzi di oro, che cola tra le loro mani come un fluido vitale. Ma questa avidità viene trasformata. Nel caso di César Birotteau, essa è una virtù: la probità del commerciante; e assume, specie verso la fine del romanzo, l’aspetto di una vera e propria religione, che ha i suoi santi e i suoi martiri.

  Quella di César Birotteau è un’ossessione: ci sono gesti, parole, che egli ripete sino alla fine del libro, come se fosse preda di una vera e propria mania. Solo che bisogna intendere mania nel senso in cui lo intendevano i greci: follia creativa, ispirazione, vocazione, genio. Egli inventa, fa progetti e poi li attua: ognuna delle sue scoperte ha l’ardire e la novità con cui l’alchimista scopre il lapis philosophorum o Newton le leggi dell’universo; non importa che ciascuna di esse abbia qualcosa di grottesco, perché in Balzac l’ispirazione (o il sacro) e il grottesco fanno uno. Birotteau ha già inventato la Double à pâte des sultans e l’Eau carminative: ora sta inventando un’essenza per impedire la calvizie e far crescere i capelli: l’Huile comagène o l’Huile céphalique o l’Huile césarienne, che porta il suo nome, come la Gioconda porta il nome di Leonardo da Vinci. Ogni invenzione di Birotteau è infinitamente complessa, come è complessa ogni invenzione psicologica e narrativa di Balzac. Se la Comédie humaine riposa su un’intuizione scientifica della Natura, anche l’Huile comagène o l’Huile céphalique affondano le loro radici nella scienza del capello. César Birotteau studia la loro composizione; e si rivolge a uno dei più grandi sapienti di Francia, Vauquelin che ha scritto un saggio per l’Accademia delle scienze: «I capelli sono formati — egli scrive — da una quantità molto grande di muco, da una piccola quantità di olio bianco, molto olio nero¬verdastro, ferro, qualche atomo di ossido di manganese, fosfato di calcio, una piccola quantità di carbonato di calcio, silicio e molto zolfo. Le differenti proporzioni di queste materie danno i differenti colori dei capelli».

  Questa è la prima fase dell’invenzione: Birotteau estrae dalle nocciole l’olio — l’olio quasi miracoloso — che impedisce la caduta dei capelli e li fa crescere folti. Quando possiede l’Huile comagène, lo rinchiude in flaconi appositamente studiati: li espone nelle vetrine dei negozi e li affida a dei geniali commessi viaggiatori, uno dei quali è «l’illustre» Gaudissart. Qui comincia il regno della pubblicità, di cui Balzac esalta e schernisce i primi trionfi: gli affissi, gli annunci nelle vetrine e nei piccoli giornali; pubblicità che egli si rifiuta di chiamare «ciarlataneria». Gaudissart ha il dono del generale napoleonico, la potenza del magnetismo commerciale, l’occhio delicato e gioioso, il viso espressivo, la memoria infaticabile, lo sguardo abilissimo nel cogliere i gusti di ciascuno.

  César Birotteau ha un limite, che è lo stesso limite di Balzac vive nel futuro, ipoteca il futuro. Mentre non ha ancora fabbricato l’Huile comagène, immagina già di aver conquistato Parigi e la Francia, tutti i francesi e forse gli europei, con la sua essenza nutritiva e corroborante. Il linguaggio lo tradisce: quello che egli usa ogni giorno e nella pubblicità, non è semplice e concreto, ma pomposo, pretenzioso, pieno di espressioni tecniche e retoriche, di pesanti allusioni culturali, come quando ricorda Boileau e la querelle tra «antichi» e «moderni». Esso cede alla pesante autoesaltazione, che César Birotteau fa di sé stesso e delle sue imprese.

  Nella Comédie Humaine le persone e le cose del mondo conoscono un doppio movimento: la crescita, fino all’apogeo, e la caduta; lo slancio, il trionfo e la catastrofe.

  Ciò accade alle persone, alle città, alle nazioni, alle idee, alle istituzioni e ai commerci. Accade anche a Cesar Birotteau, che crolla nel momento stesso in cui raggiunge l’apogeo. Dà un ballo costosissimo nella sua casa restaurata, dove, contro le sue abitudini e i consigli della moglie, invita troppe persone. E poi, uscendo dalla sua vocazione, si abbandona alla speculazione fondiaria, acquistando un terreno fabbricativo alla Madeleine. Più oltre sta soltanto il gioco in borsa, dove Birotteau non si perde: il luogo di Nucingen, il Napoleone della finanza. Giunge la catastrofe: il Fallimento, che assume in Balzac un’aura tragica, come il fato greco o la passione cristiana.

  Così César Birotteau diventa una reincarnazione di Cristo. «Figlio mio gli dice un sacerdote, i vostri sentimenti di rassegnazione alla volontà divina mi sono conosciuti da lungo tempo, ma si tratta di applicarli: abbiate sempre gli occhi sulla croce, non cessate di guardarla pensando alle umiliazioni di cui fu abbeverato il Salvatore degli uomini, quanto la sua passione fu crudele; così voi potrete sopportare le mortificazioni che Dio vi manda».

  Birotteau sale sulla croce del Fallimento. Ma, come Cristo risorge il terzo giorno, egli viene riabilitato per ordine del re, in cui crede, e risorge, mentre muore per un aneurisma. «“Ecco la morte del giusto” dice il sacerdote con una voce grave, mostrando César con uno di quei gesti divini che Rembrandt immagina nel suo quadro su Cristo che richiama Lazzaro alla vita».

 

 

  Fernando Cova, Facino Cane, “principe di Varese” di Balzac, in «Gente di Varese», Varese, Terzo Quaderno, 2014, pp. 65-76; ill.

 

  Cfr. 2008.

 

 

  Paola D’Amico, L’alba del genio? Anche a mezzogiorno, «Corriere della Sera-La Lettura», Milano, 19 Gennaio 2014, p. 9.

 

  L’alba di Balzac, primo della lista, iniziava addirittura all’una. Poche ore di sonno, certo meno delle 7 prescritte dalla medicina come «tempo necessario perché si plasmi nel sonno l’esperienza». D’altronde Balzac pensava che ogni individuo abbia «una riserva limitata di energia, vivendo intensamente l’uomo brucia la sua vita, che l’arte è natura concentrata e una notte d’amore è un libro letto in meno».

 

 

  Luca Danti, Il melodramma tra centro e periferia. Scene di provinciali all’opera nella narrativa dell’Ottocento e del Novecento, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari – Digital Publishing, 2014.

 

  pp. 23-33. La caduta di un grand’uomo è sempre in relazione all’altezza a cui è pervenuto»: così un ambizioso riuscito parla di un ambizioso fallito. Sono alcune delle parole che Eugène de Rastignac rivolge a Ève in Illusions perdues di Balzac. L’aquilotto che sta precipitando è Lucien de Rubempré, il fratello di Ève, un letterato, figlio di farmacista, che parte da Angoulême – patria dello stesso Rastignac – alla volta di Parigi per trovare fortuna e successo.

  La città di Lucien è immobile: in questo modo si allude sia al passato di Angoulême, che era stata una fortezza militare inerpicata fra le rocce, sia alla vita che vi si conduce, una vita priva di sbocchi. La staticità è data anche dalla chiusura della classe aristocratica che vive nella città alta, separata dal sobborgo dell’Houmeau: le famiglie nobili si sposano solo fra loro. In un regime di assoluta endogamia la mobilità sociale e le possibilità di distinguersi per chi sta in basso – l’Houmeau è ovviamente in pianura – sono pari a zero. [...].

  In una cornice di questo tipo, dove sembra inevitabile l’involgarimento anche dell’indole più sublime, è piuttosto naturale che ci sia qualcuno che cerca di reagire, che non accetta supinamente gli ingranaggi di un meccanismo stabilito dal destino e pertanto inesorabile [...]. La reazione passa attraverso la possibilità di evadere garantita dall’arte, in particolare dalla letteratura e dalla musica. Lucien e David leggono Chénier, Schiller, Goethe, Lord Byron, Scott e in questo modo sfuggono alle gabbie della tipografia. Corrispettivo aristocratico dei due poveri stampatori è la signora de Bargeton: educata fin da piccola ad amare la lettura e la musica, prediligeva Lord Byron e Rousseau, s’incantava ad ascoltare il suono dell’organo e soprattutto aspirava a vivere a Parigi al fianco di uomini importanti. La relazione tra Lucien e Anaïs ad Angoulême è impregnata di riferimenti alla letteratura di tutti i tempi – dalla lirica cortese allo Stilnovo a Petrarca –; in particolare, però, Lucien sogna di ottenere la donna che ama battendo in una tenzone poetica i nomi maggiori della lirica romantica (Hugo, Lamartine, Scott, Byron).

  Immancabilmente attorno alla signora de Bargeton si viene a costituire un circolo, formato anche da sedicenti artisti, come Adrien de Bartas, uno che è fissato con l’opera, un monomane, un dilettante pieno di sé, che esegue per gli ospiti di Anaïs Il matrimonio segreto così come Il barbiere di Siviglia. Benché si dedichi all’arte, de Bartas non può che tediare la signora de Bargeton, non tanto perché massacra indistintamente sia Cimarosa che Rossini, ma soprattutto a causa della sua vanagloria, del suo vacuo esibizionismo. I componenti della corte di Anaïs mancano di sostanza, sono, agli occhi di lei, come fantasmi, fra i quali ella si aggira senza riuscire ad appagare il suo desiderio di talento e di evasione.

  La stravagante signora de Bargeton subisce il fascino di Sixte du Châtelet e quello di Lucien de Rubempré: mentre il primo, da scaltro funzionario, punta sul fatto di aver brillato sotto Napoleone e di conoscere i più prestigiosi ambienti parigini, il secondo ha dalla sua la giovane età, la straordinaria bellezza, l’entusiasmo e la ferma convinzione di diventare un grande scrittore grazie a un suo romanzo storico e a una raccolta di liriche.

  Con la benedizione della madre, della sorella Ève e del modesto e fedele amico David, Lucien decide di seguire la signora de Bargeton a Parigi, dove l’ubiquo du Châtelet farà a entrambi da mieloso anfitrione. Siamo nel 1821. Differentemente da quanto accade in Le rouge et le noir dove Julien vede poco o niente della grande città, Lucien si avventura in mezzo all’eterogenea umanità che si muove nella zona fra il Palais-Royale (sic), la Borsa, il Boulevard du Temple e le Tuileries, e soggiorna nel Quartiere latino in mezzo a studenti e artisti.

  Il capitolo che inaugura la seconda parte del romanzo racconta l’arrivo di Lucien nella metropoli che è sancito da una serata all’Opéra, secondo du Châtelet uno di «quei divertimenti che più allietano i provinciali». Lucien viene catapultato in maniera immediata in un palchetto a teatro: egli non ha gradatamente scalato la piramide sociale, egli non può trionfare come Julien aveva fatto su Mathilde. [...].

  Lo slancio di Rupembré, desideroso di assoggettare Parigi – «ecco il mondo che devo domare» –, stride comicamente con la sua condizione di eroe senza cavalcatura, di cavaliere appiedato. Nel quinto atto dell’opera, le figlie di Danao, macchiatesi di uxoricidio, giungono agl’inferi, e in maniera simmetrica anche Lucien precipita nell’abisso. Dopo essere stato umiliato dal bel mondo il poeta si ritrova in un suo inferno tutto terreno, ai piedi di quella piramide sociale che la sua innata indole superba aveva pensato di dominare. Visto che in seguito Lucien riuscirà a tornare alla luce, non è azzardato definirlo come il protagonista di una sorta di catabasi mondana.

  Si è detto che non viene concesso molto spazio all’opera vera e propria; bisogna tenere presente che all’inizio dell’Ottocento era piuttosto comune recarsi a teatro, magari allettati dalla presenza di quel certo cantante, per poi fare tutt’altro e disinteressarsi dello spettacolo. La rappresentazione diventerà centrale soltanto a partire dalla messa a punto del repertorio, che sia in Italia che in Francia si avrà soltanto alla fine dell’Ottocento. Nel secondo capitolo del racconto lungo Massimilla Doni è proprio Balzac che descrive efficacemente cosa accadeva nei palchetti dei teatri italiani, in questo non molto dissimili da quelli francesi. [...].

  L’intera sequenza della serata all’Opéra in Illusions perdues è occupata dall’ostentazione del lusso e della ricchezza, dalla passerella degli illustri spettatori, dall’esibizione del bon ton e dalla messa in ridicolo delle stonature dei provinciali – l’inadeguatezza degli abiti, il giovane poeta che si mette a indicare le persone che arrivano nei palchi e così via. Lucien e Anaïs sono scandagliati con meticolosità autoptica dalle signore dei palchetti; i due provinciali diventano un’attrazione, i selvaggi trasportati nel mondo civilizzato, le bestie esotiche da contemplare con stupore e superiorità. In questi atteggiamenti, c’è paradossalmente qualcosa di meschino e lo mette bene in evidenza Fiorentino che, trattando dei meccanismi di controllo sociale nelle enclaves parigine, parla così del provincialismo degli habitués del teatro d’opera: «il narratore può trattarli come un pubblico anonimo, come un coro che guarda e commenta i comportamenti dei mutevoli protagonisti della festa mondana che si sta consumando». [...].

  Benché alla fine la crescita di Lucien coincida con una piuttosto generica e consunta presa di coscienza che la vita nella sua interezza è una messa in scena – Vautrin parla di «quel gran teatro chiamato mondo» (p. 733) –, è chiaro che la parentesi nella capitale è caratterizzata da una sistematica teatralizzazione. Si può concludere che la struttura di questa prima andata di Lucien a Parigi altro non è che una mise en abyme, un particolare che rispecchia una condizione più ampia, cioè la concezione balzachiana dello spazio parigino come palcoscenico che ospita una recita continua.

  In definitiva si riscontra una continuità – nel segno della finzione – tra melodramma/teatro e mondo; dunque, viene rovesciato il rapporto che si è avuto modo di mettere in evidenza nei romanzi di Stendhal, in quanto la musica perde qui la sua capacità di provocare quelle fratture dalle quali occasionalmente riusciva a emergere il represso mondo interiore.

 

 

  Piero Dorfles, Honoré de Balzac. Papà Goriot, in I Cento libri che rendono più ricca la nostra vita, Milano, Garzanti, 2014 («Saggi»), pp. 96-97.

 

  «La pelle di zigrino», Ibid., pp. 194-196.

 

  I cento libri che P. Dorflesgiornalista, critico letterario e curatore della fortunata trasmissione televisiva Per un pugno di libri raccoglie in questo volume sono ordinati e commentati secondo raggruppamenti tematici. Papà Goriot e La Pelle di zigrino sono gli unici romanzi della Comédie humaine che rientrano in questo elenco: soprattutto per quel che riguarda Le Père Goriot, l’A. non si spinge oltre la descrizione degli eventi principali che formano la trama del romanzo; nel breve capitolo dedicato a La Peau de chagrin – dove l’A. identifica erroneamente lo “zigrino” nell’immagine del serpentello presente nel frontespizio dell’opera – Dorfles insiste sul valore allegorico del testo, sul suo carattere di «deviazione fantastica che non rinuncia a essere anche uno strumento di dura critica sociale» (p. 196).

 

 

  Francesca Dosi, L’incontro inatteso. Percorsi balzachiani nel cinema di Jacques Rivette, «Arabeschi. Rivista internazionale di studi su letteratura e visualità», Università di Catania, n. 3, gennaio-giugno 2014, pp. 97-109.

 

  Nell’alternanza di corrispondenze sottili (vaghe allusioni, richiami criptati) e di connessioni manifeste (citazioni puntuali, espliciti rimandi), si tracciano sul corpus filmico di Jacques Rivette traiettorie d’ibridazione referenziale di origine balzachiana, che disegnano, sulla lunga durata, un percorso singolare di assimilazione e reinvenzione cinematografiche del fatto letterario. Il regista realizza, a intervalli regolari di circa vent’anni, tre opere diversamente ispirate alla Comédie Humaine: Out 1, Noli me tangere (1971), film sperimentale ancorato ai postulati dell’estetica seriale che rivisita in modo del tutto inatteso il feuilleton à énigme di Balzac; La belle noiseuse (1991), liberamente tratto da Le Chef-d’oeuvre inconnu; Ne touchez pas la hache (2006), adattamento in costume di La duchesse de Langeais apparentemente rappresentativo di una fedeltà ritrovata verso il romanziere. Le corrispondenze letterarie rivendicate dal regista in questi tre casi specifici trovano eco in ricorrenze enigmatiche che ne percorrono l’intera produzione, rientrando in un arsenale di segni plastici, visivi e sonori di derivazione balzachiana che, se esprimono da un lato la tendenza alla contaminazione di apporti che caratterizza lo stile di Rivette, dall’altro indicano una costante rimeditazione costante dell’opera del romanziere. Una sorta d’impregnazione letteraria diffusa, riconducibile al concetto d’innutrition, presiede al processo combinatorio rivettiano. Il cannibalismo fecondo del regista produce una rilettura personale e innovativa di Balzac, sostenuta dal rispetto che gli viene dalla conoscenza profonda e dall’adesione alla sua opera, smentendo spontaneamente l’idea di trasposizione cinematografica come filiazione lineare dell’opera filmica dalla matrice letteraria.

  Rivette non ‘adatta’ Balzac ma ne fa, simultaneamente, un modello di composizione, un oggetto di curiosità intellettuale che sfiora l’idolatria amorosa e una fonte inesauribile d’ispirazione che gli permette di interrogarsi sui modi del processo creativo. L’origine di questo approccio è da ricercarsi in un fenomeno collettivo: in Francia, alla fine degli anni Cinquanta, mentre gli esponenti del Nouveau Roman condannano l’opera balzachiana in quanto archetipo di una forma tradizionale legata allo psicologismo descrittivo, alla verosimiglianza narrativa e al primato del personaggio, i redattori dei Cahiers du cinéma, futuri registi della Nouvelle Vague, si affrancano da tale lettura riduttiva e votano al romanziere un culto appassionato, considerandone la conoscenza come tappa essenziale di ogni discorso artistico. Moltiplicano citazioni allusioni e omaggi alla sua opera nei loro film d’esordio, ma solo nel caso di Rivette la fascinazione esercitata da Balzac si trasforma in impulso concreto alla scrittura filmica. Grazie all’azione di proselitismo compiuta incessantemente da Eric Rohmer, il regista scopre tardivamente Une ténébreuse affaire, romanzo enigmatico che gli fornisce una chiave di lettura inedita della Comédie Humaine, del tutto svincolata dall’idea di un piatto realismo imitativo. Rivette giunge in tal modo a trascrivere nell’opera fiume Out 1, Noli me tangere non un racconto specifico, ma la mitologia balzachiana della Nouvelle Vague i cui esponenti, legati tra loro da rapporti d’amicizia e di complicità intellettuale, da luoghi d’incontro e da momenti rituali, si riconoscono ironicamente nei tredici filibustieri in guanti gialli descritti da Balzac in Histoire des Treize. [...].

  L’assioma costantemente ribadito dal regista secondo cui il cinema è complotto e ciascun film altro non è che un documentario sulle proprie riprese, acquista senso e vigore nel confronto con il romanzo balzachiano. Destinato a rendere sullo schermo l’essenza fuggevole di un’esperienza condivisa e a inscrivere nell’opera il suo processo di gestazione, il corpus filmico di Rivette invita l’esegeta a rimontare all’istante imponderabile che genera l’atto creativo e a seguirne il percorso. Gli offre in tal modo una lettura inattesa della Comédie Humaine non come ‘cattedrale letteraria’ ma mosaico incompiuto, il cui valore risiede essenzialmente nella traccia – e nel tracciato – della sua composizione.

  In tal senso si può ricondurre il legame tra i corpi estetici Rivette e Balzac alla nozione di omologia, a un legame evolutivo comune che poggia sulla somiglianza tra modalità di invenzione, di fabbricazione e di coordinamento tra due universi fittizi di natura composita e tentacolare, di due ‘opere-mondo’ dall’arborescenza complessa, caratterizzate dalla proliferazione e dall’assemblaggio dei frammenti sparsi attraverso effetti di eco e di specularità, di simmetria e di progressione parallela. Tale corrispondenza contribuisce a rivelare nella Comédie Humaine una struttura reticolare che fa appello alla cooperazione del lettore ermeneuta e anticipa quel che la modernità designerà come ipertesto, una forma in movimento costante entro cui è possibile liberamente circolare.

 

 

  Filippo Ferrari, ‘La morte di Balzac’, la fine di un grande scrittore, «Panorama», Milano, 18 agosto 2014.

 

  Nel 1907, quando Octave Mirabeau (sic) tentò di dare alle stampe La morte di Balzac, in cui ricostruiva gli ultimi giorni di vita dello scrittore, la censura riuscì a impedire la pubblicazione del romanzo, reo di esporre al pubblico ludibrio le magagne di una delle glorie nazionali di Francia. In seguito a questi eventi il manoscritto cadde nell’oblio per quasi cento anni, per poi essere pubblicato in patria soltanto nel 1989. Di questo libro è da poco uscita la prima edizione italiana, a cura della casa editrice Skira.

  Il romanzo racconta con uno stile ruvido e aspro l’agonia del grande Honoré de Balzac, consumato dalla peritonite e destinato a spegnersi in completa miseria e solitudine, abbandonalo perfino dalla moglie. Mirabeau traccia dunque il ritratto di un uomo sconfitto: col passar degli anni lo scrittore aveva infatti dissipato tutte le sue sostanze a causa di uno stile di vita ben al di sopra delle proprie possibilità, e di conseguenza aveva deciso di sposare la rampolla di una nobile famiglia polacca, nota nel racconto come Madame Hanska, al solo scopo di risanare le sue finanze.

  Ma il patrimonio della donna si rivelò insufficiente a far fronte alla catastrofica situazione economica dello scrittore. Il matrimonio entrò ben presto in crisi e Madame Hanska finì con l’abbandonare il marito per un artista dilettante, tale Jean Gigoux. Ironia della sorte, sarà proprio lui il testimone oculare che offrirà a Mirabeau il materiale per la stesura del suo libro, in un coup de théâtre che forse nemmeno il genio della Comédie humaine avrebbe mai saputo inventare.

 

 

  Diego Gabutti, Da Balzac a WikiLeaks: è la stampa, bellezza!, «Sette», Milano, 3 gennaio 2014, p. 92.

 

  Viaggiatore di commercio e ciurmatore, l’Illustre Gaudissart compare nella Commedia umana prima nella parte d’un cospiratore bonapartista, poi in quella d’un parassita del conte (e ministro) Pnpinot, che briga affinché gli venga affidato in concessione un teatro parigino. Per un po’, tra un’impresa e l’altra, Gaudissart gira la provincia vendendo abbonamenti a un giornale: «Ebbene! se lo spettacolo palingenetico delle successive trasformazioni del Globo spiritualizzato vi tocca, vi trasporta, vi commuove: ebbene! mio caro signore, il giornale Il Globo, gran bel nome che ne esprime chiaramente la missione, Il Globo è il cicerone che ogni benedetta mattina vi spiegherà le nuove condizioni entro cui si realizzerà, in poco tempo, la trasformazione politica e morale del mondo».

  Non solo perché vende abbonamenti ai giornali, ma anche a causa di tutte le sue incarnazioni precedenti e future, il conspirateur da operetta napoleonica e il protégé dei potenti, Gaudissart è l’allegoria del giornalismo. Sia del giornalismo della sua epoca, il giornalismo di cui Balzac avrebbe cantato le gesta in Illusioni perdute, sia del giornalismo contemporaneo, schierato col potere, oppure contro. Gaudissart, che secondo Benjamin è il gladiatore che diventa commis voyageur, è anzi l’allegoria della stampa attraverso tutte le sue trasformazioni, dalle gazzette secentesche al tigì, dal giornale di partito al sobrio e rigoroso foglio d’informazione, da Google News ai blog e WikiLeaks. «Che atleta! che arena! e che armi!» scrive Balzac di Gaudissart. «Lui, il mondo e la sua parlantina!».

 

 

  Diego Gabutti, Balzac era come l’informazione di oggi che prende le distanze dalla fiction ma che non è fiction. Anzi, è fiction all’ennesima potenza, «ItaliaOggi», Milano, 5 Luglio 2014, p. 9.

 

  Honoré de Balzac, romanziere naturale se mai ce n’è stato uno, era un uomo delicato e odiava, anche più del risparmio e d’una vita sotto le righe, le scarpe troppo strette del narratore puro. Balzac si riteneva piuttosto un filosofo e anzi uno «scienziato sociale». Anche per questo, forse, diventò lo scrittore preferito degli altri «scienziati sociali» del suo tempo, a cominciare da Karl Marx, che, a sua volta, era, prima di tutto, un narratore puro, il Dumas del capitalismo, l’Eugène Sue delle guerre civili (ma guai a dirglielo).

  «Balzac non era affatto un uomo di lettere. Per quanto sia bella la sua opera» (scrive Octave Mirbeau nel suo memoir (sic) del 1907, La morte di Balzac, che esce adesso in edizione Skira, pp. 80, 9,00 euro) la sua opera «è ciò che di meno ci interessa di lui». A differenza dei «feuilletonistes», che si guadagnavano da vivere raccontando storie, ordendo trame e muovendo personaggi come pedine su una scacchiera da Mille e una notte, Balzac era il sovrintendente generale di tutte le storie, anzi della storia stessa, che ribattezzò pomposamente Commedia umana.

  Questa sua opera in divenire sarebbe stata l’aggiornamento e la trasfigurazione del poema dantesco. Come Dante, Balzac avrebbe reso conto d’ogni cosa e assegnato a ciascuno una parte in commedia: donne di trent’anni, fanciulle in fiore, aristocratici e bottegai, preti, rivoluzionari, attrici, padri e madri, vandeani usi a baciar le pile, innamorati delusi e innamorati soddisfatti, finanzieri, piazzisti, bancarottieri, artisti maledetti, medici, giornalisti in stato di grazia, membri di società segrete, politici, occultisti e magistrati. Gli altri scrivevano romanzi. A lui toccava la grande sintesi della realtà attraverso l’ordinamento, la fotografia, la pittura dal vero, l’inventario, la catalogazione.

  Autore, in giovinezza, di romanzi puri, variamente modellati sulle storie di Walter Scott o degli autori gotici, all’epoca molto in voga, fin dall’inizio, il giovane Balzac inseguiva, insieme al disegno d’ogni singola storia, un disegno ulteriore e più vasto, il disegno generale che avrebbe unito tutte le sue storie in un solo grande affresco: un immane «antiromanzo» in anticipo sui tempi. Come uno dei suoi personaggi ricorrenti, Rastignac, che alla fine di Papà Goriot contempla Parigi nella notte esclamando: «E ora, a noi due», anche Balzac cercava un posto al sole nella storia del mondo, o almeno del suo riflesso: la letteratura.

  Era un autore di romanzi, uno storico delle anime del suo tempo, ma era, a sua volta, un personaggio di romanzo, come appunto si sforza di dimostrare col suo libretto il giornalista Octave Mirbeau (un gazzettiere che amava le tinte forti, ma anche il giornalista liberale che pagò di tasca sua, ai tempi dell’affaire Dreyfus, le spese processuali d’Emile Zola). Mirbeau racconta la morte di Balzac in chiave splatter; la sua carcassa che va in decomposizione mentre lui è ancora in vita, la madre e la sorella che disertano il suo capezzale, la moglie polacca che, mentre lui tira le cuoia, è a letto, qualche stanza più in là, col suo amante, un pittore giovane e bello. Non sappiamo se sia andata proprio come la racconta Mirbeau. Forse sì, forse no. Ma non è materia storica, di cui discutere e dubitare. È materia di romanzo, e precisamente d’un romanzo di Balzac, di quelli più cupi e smisurati, quindi è inoppugnabile come il volo d’Astolfo e dell’ippogrifo sulla luna, come il suicidio di Madame Bovary, come le avventure di Pinocchio.

  Balzac suscitò, a fianco del mondo reale, un mondo ulteriore, parallelo al primo; ordinato, come quello era caotico; svelato, come quello era indecifrabile, del quale le sue cronache scandivano il ritmo e dirigevano la danza dei personaggi, delle avventure, degli amori. Questo disegno ambizioso e smodato era insieme un romanzo sul romanzo e il romanzo vero. Un romanzo smagato, di quelli che oggi si direbbero postmoderni, pieni di citazioni, riflessioni, rimandi mentre l’autore s’affaccia da ogni frase, come il dio biblico dagli squarci nel cielo. Intorno al disegno generale, truci e solenni, cinici e sentimentali, improbabili e più veri del vero, avanzavano i ranghi serrati dei disegni particolari, le narrazioni vere e proprie, i racconti, le storie dei tredici, delle cambiali, le fisiologie del matrimonio, i tenebrosi affari, le miserie e gli splendori.

  Qui Balzac tornava ad unirsi ai feuilletonistes, al proletariato della letteratura. Filosofo della «seconda natura», la società, non meno tumultuosa e ingovernabile della prima, Balzac diffidava dei propri istinti romanzeschi. Tuttavia la sua opera non era altro che letteratura, quasi sempre buona, ma anche cattiva o così così. Un po’ come oggi l’informazione diffida e prende le distanze dalla fiction, ma non è che fiction, e per di più alla potenza estrema. Non c’è da stupirsi che alla fine, come racconta (o inventa) Mirbeau, sia diventato fiction anche lui.

 

 

  Fabio Gambaro, Il triste autunno dello scrittore, «la Repubblica», Roma, 31 agosto 2014, p. 48.

 

  Libro impietoso sul disincanto e la solitudine, La morte di Balzac ha atteso più di un secolo prima di essere tradotto in italiano. Lo scrittore e giornalista francese Octave Mirbeau scrisse questo piccola testimonianza nel 1907, ma di fronte alle reazioni scandalizzate rinunciò alla pubblicazione. Nel 1918 ne circolò un’edizione semi clandestina, ma fu solo nel 1989 che il testo venne ufficialmente pubblicato in Francia. Se lo scritto di Mirbeau è stato circondato da tante precauzioni è perché racconta senza veli e fuori da ogni agiografia le ultime drammatiche ore dell’autore della Commedia umana: si spense la notte tra il 17 e il 18 agosto del 1850 tra mille sofferenze e in completa solitudine, mentre la Madame Hanska, con cui era sposato da pochissimo, si trovava in un’altra stanza della loro casa in compagnia del pittore Jean Gigoux.

  La morte di Balzac mostra il celebre romanziere francese malato, isolato da tutti e coperto di debiti. E soprattutto profondamente deluso da quella donna che all’inizio lo aveva tanto affascinato: del grande amore restavano solo «odio e risentimento», nonché una profonda solitudine.

 

 

  Wlodek Goldkorn, Scrittori senza Furore, «la Repubblica», Roma, 28 dicembre 2014.

 

  Fuor di dubbio: l’anno che sta finendo è stato l’anno di Thomas Piketty, l’autore del Capitale nel XXI secolo. Pochi contestano ormai la sua tesi per cui le disuguaglianze sociali sono in crescita anziché diminuire. Per costruire la sua teoria l’economista francese ha frequentato non solo le statistiche, ma anche la narrativa. E in base a queste letture dice che la situazione oggi assomiglia a quella descritta nei romanzi di Honoré de Balzac e Jane Austen: società dove aumenta il divario tra chi possiede il capitale e chi invece vive del proprio lavoro. [...].

  Invenzione futuristica, si dirà e non descrizione di realtà, come ne era capace un Balzac, appunto. Ma ne siamo sicuri? C’è un bellissimo testo di Henry James (Tre lezioni su Balzac) in cui lo scrittore americano spiega come l’autore francese si inventasse tutto. E proprio grazie alla sua immaginazione riusciva a raccontare la realtà meglio di ogni presunto realista.

 

 

  Elisa Gregori, «Une pluie d’or». “Liquidità” dei personaggi balzachiani, in AA.VV., Letteratura e denaro. ideologie metafore rappresentazioni, atti del XLI Convegno Interuniversitario (Bressanone, 11-14 luglio 2013) a cura di Alvaro Barbieri e Elisa Gregori, Padova, Esedra editrice, 2014 («Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano»), pp. 383-392.

 

  Il denaro è un tema non esclusivamente letterario che costituisce uno tra i criteri fondamentali non soltanto per comprendere le più svariate sfumature legate alla vita dello scrittore, ma soprattutto per cogliere alcune delle dinamiche centrali del sistema-Comédie humaine. Il movimento interno dei personaggi nei luoghi narrativi dell’opera in perpetuo divenire può essere considerato, secondo Gregori, come analogo al fluire del denaro. L’A. intravede uno stretto legame tra la mobilità o la fluidità di alcune figure balzachiane e le dinamiche che stanno alla base delle leggi economiche di una determinata società in continuo mutamento. La circolazione dei personaggi romanzeschi, le loro trasformazioni e le loro metamorfosi non costituirebbero altro che l’applicazione, da parte di Balzac, delle «leggi che regolano il mercato» (p. 392): regolato dai mutamenti propri delle leggi economiche, il personaggio balzachiano si delinea e si trasfigura, all’interno della Comédie humaine, seguendo i criteri che determinano la fluidità del denaro in tutte le sue forme.

 

 

  Luigi La Rosa, Musée Balzac, 47 rue Raynouard — métro Passy, in Solo a Parigi e non altrove. Una guida sentimentale, Pollena Trocchia (NA), Ad est dell’equatore, 2014 («Extras», 23), pp. 138-141.

 

 

  Annamaria Laserra, De l’être, du paraître et de l’avoir. L’argent dans l’expérience dandie, in Collectif, La littérature au prisme de l’économie. Argent et roman en France au XIXe siècle, sous la direction de Francesco Spandri, Paris, Classiques Garnier, 2014 («Rencontres», «Etudes dix-neuvièmistes»), pp. 277-291.

 

  […]. Balzac, lui, montre comment l’évolution du dandy est liée à son ascension économique et sociale. Ainsi, fait-il de ses Rastignac, Lucien de Rubempré, Victurnien d’Esgrignon, Raphaël de Valentin, des personnages à la recherche d’un enrichissement qui les amènera à ne reculer devant rien quand il s’agira de vendre leur âme par arrivisme, cynisme ou exploitation d’autrui.

  C’est que, vus par Balzac sous l’angle du culte de l’énergie, les dandies de la Comédie humaine sont les « lions » dont l’auteur célèbre la hardiesse et la gaillardise […].

  Les dandies auraient-ils donc évolué dans la direction indiquée par Balzac ? Pourrait-on, par là, les individualiser ? Pas du tout. Dans ce tableau où se dessinent des physionomies si multiples d’un même type humain, rien n’est éloigné des personnages de Balzac que le dandy dont fait état Baudelaire dans Le Peintre de la vie moderne, et qui appartient à une catégorie répondant essentiellement au besoin «trop rare aujourd’hui, de combattre et détruire la trivialité». Il est si oppose à ceux de Balzac qu’à sy tenir, on en arrive à se convaincre que les personnages ainsi nommés dans La Comédie humaine n’ont de «dandy» que le nom. […].

  Voilà donc que, appartenant à des espèces différentes, nombre de dandies de la littérature du XIXe siècle semblent poser la question de savoir qui sont ceux qui peuvent vraiment se flatter de l’être. En effet, ceux de Chateaubriand, de Balzac et de Baudelaire finissent par se croiser et s’accorder exclusivement sur un désir commun d’élégance, de raffinement, d’originalité: c’est-à-dire qu’ils ne se rencontrent que sur le lieu commun réducteur admis par la majorité des définitions du dandysme. En effet, leur différence tient au fait que là où Balzac crée des personnalités volontairement construites dans des buts d’ascension sociale, Baudelaire se réfère à une rare et inimitable essence du dandysme au-delà de toute finalité, ou utilitarisme. […].

 

 

  Luigi Mascheroni, La (scandalosa) biografia di Octave Mirbeau. Vuoi conoscere vita e opere di Balzac? Leggi come morì ..., «il Giornale», Milano, Anno XLI, Numero 179, 30 luglio 2014, p. 28; 1 ill.

 

  Iperattivo, poco dotato, geniale, oberato da debiti. Agonizzante, sua moglie era a letto con l’amante.

 

  Alcune cose, anche molto importanti, della vita si capiscono dalla fine. È da come si spezza un amore, ad esempio, che s’afferra la verità di quel sentimento. E forse anche la letteratura segue la stessa legge. La morte di un gigante delle Lettere può illuminare la sua vita e la sua opera, il suo carattere e il suo genio. È quanto accade – ci sembra – leggendo La morte di Balzac (Skira, pagg. 66, euro 9; a cura di Eileen Romano) di Octave Mirbeau (1848-1917). Poche pagine che in origine costituivano tre capitoletti di un romanzo “sperimentale”, pubblicato da Mirbeau nel 1907 e intitolato La 628-E8, che era la targa dell’automobile sulla quale il protagonista viaggia per l’Europa. Era una digressione sulle ultime ore di vita di Balzac, con molti flashback, che però non piacque alla figlia di primo letto di Madame Hanska, la vedova del grande romanziere, la quale minacciò di citare il biografo per diffamazione se non avesse ritirato le pagine incriminate. Mirbeau dovette quindi chiedere al proprio editore di scopertinare i volumi già pronti e eliminare i quinterni censurati ... Il punto è che Mirbeau, nel suo racconto, si basa sulle confidenze (pettegolezzi? verità? mezze verità?) di un pittorucolo, tale Jean Gigoux (1806-94), «intimamente coinvolto nella vita di Madame Hanska, tanto quanto lo era stato Balzac». Per dirla in breve: mentre Balzac era in agonia, al piano di sotto, la moglie era a letto con Gigoux, di sopra. Insomma, uno scandalo. Comunque, nel 1918, morto Mirbeau, apparve una misteriosa plaquette “amatoriale” del volumetto. Nel 1989 la prima edizione francese. E oggi la prima traduzione italiana. Da leggere. E leggendo si scopre che:  

  BRUTTINO ... Balzac era tozzo, tracagnotto, panciuto, bruttissimo (ma anche Gigoux lo era). Madame Hanska, la prima volta che lo vide, se ne vergognò e voleva scappare, nonostante l’avesse amato furiosamente attraverso le sue lettere. Poi però lo sposò. Facendo il più grosso errore della propria vita, e di quella di Balzac.

 ... MA FASCINOSO. Come tutti coloro che scrivono molto, Balzac parlava poco. E quelle poche volte, incantava. Divertiva gli amici, stupiva i dotti, incantava le donne. Come d’Annunzio e come tanti altri uomini che hanno sostituito il fascino fisico con quello intellettuale. Artisti ai quali le donne, come le idee, non sanno resistere.

  SOTTO-DOTATO. Balzac era sessualmente poco dotato. Scrive Mirbeau: «Conosco su di lui un particolare intimo e un po’ ridicolo: la natura lo avrebbe armato parsimoniosamente all’amore». Aggiungendo: «È ancora più bello il fatto che non avendo così poco di che soddisfare le donne, gli sia stata data, più di chiunque altro, la virtù rara e delicata di esaltarle».

  QUATTRO (ROMANZI) ALIA VOLTA. In stato di creazione permanente, bulimico, iperattivo, Balzac portava avanti contemporaneamente quattro libri, opere teatrali, polemiche sui giornali e «imprese d’ogni tipo, amori d’ogni genere, processi, viaggi, costruzioni, debiti, cianfrusaglie, relazioni sociali, una sterminata corrispondenza, una lunga malattia».

  PAGINE E CAFFÈ. A proposito della leggendaria velocità con cui scriveva i suoi libri: mentre stava lavorando al romanzo Modeste Mignon (scritto nel 1844), una sera, all’uscita dall’Opéra, annunciò allegramente a un’amica: «Ancora settanta fogli della mia scrittura ... domani sarà finito». È noto l’abuso di caffè da parte di Balzac.

  VITA BREVE, FAMA LUNGA. Nonostante la mole di lavoro compiuta, o forse proprio per questo, Balzac – spirito infaticabile, corpo oberato – morì a 51 anni.

  CONTRADDIZIONI? Sovversivo, dissolutore, immorale, Balzac era monarchico e cattolico.

  DEBITI & LIBRI. Perennemente in pessime condizioni finanziarie, causa progetti imprenditoriali disastrosi e fallimenti clamorosi, Balzac – come d’Annunzio, e tanti altri scrittori – aveva sempre debiti «per cui si ammazzava di lavoro nel tentativo di sanarli e per cui, in ultima analisi, è morto».

  RIFIUTI. È noto che l’Accademia rifiutò la Sua candidatura sostenuta da Victor Hugo. E la Société des Gens de Lettres rifiutò la sua statua realizzata da Auguste Rodin.

  AMORE & ODIO. Balzac conobbe Madame Hanska, sua futura moglie, tramite una lettera entusiasta che lei aveva mandato al suo editore francese nel 1832. Si scrissero centinaia di lettere (quasi tutte bruciate), ma dal 1833, data del loro primo incontro, fino al 1848, data dell’ultimo viaggio di Balzac in Russia, si videro solo quattro volte. In 15 anni. Si sposarono nel maggio 1850 (lui la credeva ricchissima, ma non lo era), si stabilirono nella casa di lui al numero 18 dell’avenue Fortunée a Parigi, e dal giorno successivo vissero in camere separate, odiandosi.

  MORTE & SESSO. Madame Hanska tradì presto il marito col pittore Jean Gigoux, che si offrì di farle un ritratto. Il 18 agosto 1850, giorno della morte di Balzac, rimasero in camera insieme dalla mattina alla sera. Lei uscì solo quando l’infermiera le disse attraverso la porta che l’agonia del marito era finita.

  LA FINZIONE È REALTÀ.  Sul letto di morte, Balzac – lucidissimo – invocava l’aiuto del medico Horace Bianchon, uno dei 2300 personaggi della sua Comédie humaine. «Il suo orgoglio di creatore non era venuto meno davanti alla morte».

  POLVERE SIAMO ... Balzac morì solo come un cane (l’infermiera e il domestico erano in cucina, i medici se ne erano andati da un pezzo, della moglie s’è detto) per una peritonite complicatasi in gangrena. Negli ultimi giorni si era gonfiato in modo spaventoso, e buona parte del corpo era quasi decomposta. «C’era un terribile puzzo di cadavere in tutta la casa». Quando vennero a fare il calco del volto, dovettero rinunciare. Il naso si era completamente disciolto nel lenzuolo.

 

 

  Aldo Mazzacane, Diritto e romanzo nel secolo della borghesia. “Le Colonel Chabert” di Honoré de Balzac / Law and novel in the bourgeoisie century. “Le Colonel Chabert” by Honoré de Balzac, in AA.VV., Le pouvoir exécutif en France (Révolution/Vème République) The Executive Power in France (Revolution/Fifth Republic), «Giornale di Storia costituzionale», Macerata, n. 28, II semestre 2014, pp. 187-213; ill.

 

  […]. Nelle sue creazioni artistiche le fonti più ricorrenti di ispirazione convergono nella denuncia delle radici materiali e sociali che determinano i destini di uomini e donne e ne accendono o ne sottomettono le passioni: una linea inaugurata dai grandi scrittori dell’illuminismo francese, che Balzac reinventa scoprendo nel modo col quale l’ordinamento giuridico impregna la vita di tutti i giorni un elemento rivelatore della effettiva sostanza dei rapporti sociali. Le Colonel Chabert può essere scelto come esempio rappresentativo di questo aspetto centrale della sua narrativa, così come delle reciproche interferenze che corrono tra diritto e letteratura. [...].

 

 

  Octave Mirbeau, La Morte di Balzac. La Mort de Balzac a cura di/édité par Davide Vago, Mergozzo, Sedizioni, 2014, pp. 140.

 

 

  Id., La morte di Balzac. Traduzione di Eileen Romano, Ginevra-Milano, Skira editore, 2014 («Storie Skira»), pp. 69.

 

  Segnaliamo queste due edizioni italiane del saggio di O. Mirbeau sulla morte di Balzac pubblicate tra il marzo e il giugno 2014: nella prima di queste pubblicazioni, curata da Davide Vago, la traduzione del testo di Mirbeau è seguito dalla sua versione originale; in versione bilingue, è altresì pubblicata la Postfazione dello stesso curatore: Un’automobile, un libro e uno scandalo (pp. 117-125); Une voiture, un livre et un scandale (pp. 129-139). Ne La morte di Balzac delle edizioni Skira, è presente una breve nota di Eileen Romano (Nota del traduttore, pp. 65-66), in cui è tracciato un sintetico profilo del romanziere.

  Nel novembre del 1907, Mirbeau pubblica, con il titolo di La 628-E8, un diario di viaggio in automobile attraverso la Francia ed altri paesi europei. Ogni luogo di questo itinerario è un’occasione per comporre brevi monografie o lunghe dissertazioni letterarie, sociali o politiche. La lettura delle Lettres à l’Étrangère di Balzac e, soprattutto, i dettagli sulla personalità dello scrittore, sul suo matrimonio e sui momenti precedenti la sua morte forniti dalle conversazioni con Barbey d’Aurevilly e Jean Gigoux (il presunto amante di Madame Hanska) costituiscono le fonti d’ispirazione di questo denso capitolo che fu, in un secondo tempo, soppresso per volontà stessa dell’autore in seguito alle rimostranze della contessa Anna Miniszech, l’unica figlia di Mme Hanska.

 

 

  Eleazar Moiseevič Meletinskij, Dal romanticismo al realismo (XIX secolo), in Poetica storica della novella, Edizione italiana a cura di Massimo Bonafin, Macerata, Eum, 2014, pp. 287-347.

 

  p. 298. Anche il grande Honoré de Balzac non ha apportato alcun cambiamento alla struttura della novella. Questa non solo non gli consentiva di spiegare l’ampia tela sociale, ma la sua dimensione ristretta non gli permetteva di inserire tutti quei dettagli e quelle descrizioni della quotidianità e dei caratteri a lui tanto cari.

  A Balzac appartengono Les Contes drolatiques (Gli allegri racconti) che sono, com’è noto, stilizzazioni al modo dell’esprit gaulois, al modo dei fabliaux, di Boccaccio, di de Verville e soprattutto di Rabelais. Questi racconti per tipo d’ironia anticipano Anatole France. Inoltre, diverse opere relativamente prime di Balzac, che rientrano nel ciclo de La Comédie humaine (La commedia umana), hanno una dimensione non molto grande e possono pertanto considerarsi o novelle lunghe o petit romans. Tali sono, ad esempio, Albert Savarus, Gobseck, Ferragus, La Fille aux yeux d’or (La ragazza dagli occhi d’oro), Facino Cane, La Femme abandonnée (La donna abbandonata), Honorine (Onorina), La Duchesse de Langeais (La duchessa di Langeais), Melmoth réconcilié (Melmoth riconciliato), Séraphîta (Serafita), Louis Lambert. In via di principio tutte queste opere si trovano, per così dire, sulla strada verso il romanzo, ma esse di base (e questo è molto significativo) sono più vicine al romanticismo di altre opere appartenenti a La commedia umana. In esse ci sono non pochi motivi fantastici (ad esempio la vendita dell’anima in Melmoth riconciliato o la creatura demoniaca bisessuale in Serafita), forti passioni (ad esempio in La donna abbandonata, Onorina, La ragazza dagli occhi d’oro), personaggi prodigiosi (in Gobseck, Louis Lambert) e altre particolarità letterarie nel punto di svolta dal romanticismo al realismo.

 

 

  Lorenzo Mondo, Elisabetta Rasy. Il passato è cocente nella casa del Girasole, «La Stampa ttL», Torino, Anno XXXVIII, Numero 1911, 17 maggio 2014, p. III.

 

  Quanto alle fin parossistiche pulsioni amorose della protagonista, è lei stessa a prenderne con blanda ironia le distanze. Quando definisce irritante La duchessa di Langeais, il romanzo di Balzac che sta leggendo: «Lui ama lei quando lei non lo ama, poi lui smette di amarla e lei io vuole, poi lei non lo ama più di nuovo e va in un lontano convento e lui la rivuole».

 

 

  Giorgio Montefoschi, Balzac nel pozzo senza fondo dei desideri, «Corriere della Sera», Milano, 5 aprile 2014, p. 37; 1 ill.

 

  Perché, anche quando ci realizziamo, un senso di colpa minaccia la nostra felicità.

 

  Una mattina d’ottobre del 1830, a Parigi, un giovanotto entra in una delle case da gioco del Palais Royal». È l’incipit de La pelle di zigrino, il romanzo che, per vendite e recensioni, segnò una svolta nella carriera di Balzac, e oggi viene riproposto al centro del terzo e ultimo Meridiano dedicato dalla Mondadori alla Comédie humaine.

  Di sera, nelle case da gioco, col clamore e le passioni non trattenute, aleggia una poesia volgare. Al mattino, i luoghi sono spettrali. A quell’ora, nelle stanze sudicie col parquet sconnesso, si incontrano i volti pallidi di chi non ha dormito tutta la notte, gli sguardi fissi in fondo ai quali si intuisce la disperazione che atterrisce. Raphaël ha solo una moneta in tasca. La getta sul noir. Esce il rouge. Il giovane prende il cappello, esce, e va verso le Tuileries e la Senna. Parigi è triste. Il giovane vorrebbe suicidarsi nelle acque scure della Senna che osserva dal Pont Royal. Una bella donna che è appena scesa da una carrozza mostrando una gamba tornita, risponde al suo sguardo con indifferenza. Raphaël oltrepassa il ponte e, in Quai Voltaire, entra nella bottega di un antiquario. Qui, una quantità debordante di oggetti provenienti dalle epoche più remote e dalle parti più diverse del mondo (mobili, quadri, soprammobili, lampadari, specchi, vasi di porfido, paccottiglie fra le quali spiccano tele di Poussin e Lorrain, Murillo e Velàzquez) inducono nella sua mente uno stato di confusione che rasenta il sonnambulismo. Quale profondità ha il passato — pensa, salendo al primo piano. Ma ecco che, a distoglierlo dalle sue incerte meditazioni, appare un vecchiettino rinsecchito in una vestaglia di velluto. È l’antiquario. Ha un aspetto misterioso e mefistofelico — scrive Balzac. È il demonio, in realtà. I due si scrutano. E il vecchio, dopo aver mostrato al giovane nientemeno che un quadro di Raffaello, lo conduce davanti a quello che considera il suo tesoro: una pelle di zigrino (un onagro, una specie di asino) appesa alla parete. Sulla grana nera e lustra è incisa una iscrizione che recita: «Se mi possiedi possederai tutto. Ma la tua vita apparterrà a me. È volontà di Dio. Desidera e i tuoi desideri saranno esauditi. Ma regolali sulla tua vita. Essa è qui. A ogni tuo desiderio decrescerò come i tuoi giorni. Mi vuoi? Prendi. Dio ti esaudirà. Così sia».

  È un momento fatale. Il vecchio tentatore dice: «Si può fermare il corso della vita? Infatti — aggiunge — nessuno ha mai voluto firmare il patto».

  Raphaël è inebetito. Fino a pochi minuti prima voleva suicidarsi. Ora ha una improvvisa voglia di vivere: per esempio, di un baccanale con giovani spregiudicati, vini, femmine ardenti. Si prende la pelle — mentre il vecchio gli ricorda che, da adesso in poi, il cerchio dei suoi giorni, rappresentato da quella pelle, si restringerà a ogni suo minimo desiderio — e si riaffaccia sul Quai Voltaire.

  Fatti quattro passi, incontra un amico, Emile: un giornalista cinico e mondano che si sta per l’appunto recando a un banchetto. L’anfitrione è un uomo ricchissimo, tale Taillefer, il quale, avendo capito che il vero potere è ormai nella stampa, ha appena fondato un giornale il cui progetto sarà quello (certamente avveduto) di fare una opposizione che soddisfi i malcontenti e non nuoccia al governo. È una buona occasione di lavoro e di divertimento. Dunque, Raphaël segue l’amico e i due entrano nel palazzo di Taillefer in cui sono riuniti gli «intellettuali» più in vista di Parigi. Lo sfarzo è da favola: pareti rivestite di seta e oro, candele ovunque, argenti, cristalli.

  Inizia la cena. Vengono serviti i vini di Bordeaux e di Borgogna, poi quelli del Rodano e il Roussillon che dà alla testa. Così, rapidamente, attorno alla tavola imbandita, il clamore si fa altissimo come in un crescendo rossiniano; i discorsi incespicanti pervia delle lingue impastate, spaziano dalla politica all’economia, dalla giustizia al destino; le battute diventano audaci; negli specchi compaiono volti sempre più arrossati, espressioni ilari e funebri al contempo. Poi, dopo il dessert — mentre i convitati con sempre maggior fatica cercano di afferrare un pensiero che li rassicuri sulle rispettive esistenze — come in un banchetto trimalcionico che si rispetti fanno la comparsa le donne: vere odalische, seminude, adorne di gioielli e piume. E, subito, figure allacciate si confondono con le sculture di marmo che adornano l’appartamento; i divani diventano triclini per scomposte carezze.

  A questo punto, i lettori si aspettano la fine dell’orgia che dovrà ricondurre i partecipanti alla assai meno spensierata realtà quotidiana. Invece, con un atto di imperio narrativo, Balzac ferma la scena e lascia che Raphaël racconti all’amico i diciassette anni che hanno preceduto la giornata incominciata nella sala da gioco e terminata nel banchetto notturno. È un racconto lungo, tuttavia necessario all’economia del romanzo, dal quale apprendiamo che Raphaël, figlio unico di una madre morta, di nobile famiglia ma economicamente in rovina, e di un padre severissimo, ha avuto un’infanzia e una prima giovinezza totalmente prive di luce. Il dovere, la quasi povertà. Niente altro. Eppure, il ragazzo ha sempre avuto una immaginazione fervida, soprattutto per quanto riguarda le donne, ma ha dovuto reprimerla. Finché, dopo la morte del padre, per riscattarsi e cercare la gloria, si è rinchiuso per tre anni in una soffitta (come Balzac in rue Lesdiguières) dedicandosi solo allo studio, accudito da una tenera ragazzetta: Pauline, che in segreto lo ama, e da sua madre. Poi, nel 1829, incontra un amico: Rastignac, che cambia radicalmente la sua esistenza presentandogli la «donna che va di moda» in quel momento a Parigi: Fedora. Costei è una ricca e giovane avventuriera che ha sposato e abbandonato un conte russo. Ecco come la descrive Balzac: «Le labbra fresche e rosse spiccavano nel biancore intenso del volto. Il bruno della capigliatura metteva in risalto il colore dorato degli occhi, venati come una pietra preziosa di Firenze. Il busto era adorno delle grazie più attraenti». Fedora è bellezza, voluttà, morbidezza. La sua, tuttavia, è una morbidezza solo apparente. Lei, in realtà, non ama gli uomini: li lusinga, li seduce, ma non si lascia conquistare da nessuno. Raphaël cade nella trappola e diventa presto la sua vittima. La segue ovunque: ai Bouffons, nei ricevimenti, nelle cene. È tutto inutile. Ogni profferta d’amore è rifiutata, e lui diventa pazzo. Una notte, addirittura, per spiare almeno il corpo che non può possedere, si nasconde nella sua stanza da letto mentre si sveste ed è abbagliato dal suo seno verginale, dal candore della sua pelle. Intanto, la povera Pauline vigila e soffre; i soldi guadagnati insieme a Rastignac con una fortunosa vincita alla roulette si assottigliano; e viene il giorno in cui Raphaël non ha altro che una moneta in tasca, entra nella sala da gioco del Palais Royal e accetta il patto iscritto nella pelle di zigrino.

  Il racconto è finito. È l’alba. Le carnagioni olivastre delle donne, splendenti alla luce dalle candele, adesso fanno orrore; i capelli pendono scomposti; le labbra secche degli uomini hanno le tracce dell’ubriachezza. Si procede alla colazione. Quand’ecco il colpo di scena. Entra un notaio che ha cercato tutto il giorno precedente Raphaël e, nel silenzio sbalordito dei presenti, gli comunica che un lontano zio lo ha lasciato erede di una colossale fortuna. Raphaël ha un brivido. Poco fa, di fronte all’amico incredulo, aveva steso la pelle di zigrino su un tovagliolo e ne aveva segnato con una matita i contorni. Lo fa di nuovo e vede che la pelle si è ristretta. È la morte.

  Siamo al finale. Raphaël è ricco, vive in un palazzo lussuoso, ma si impedisce ogni minimo desiderio. Ha lo sguardo doloroso della disperazione. Poi, una sera, all’Opera, incontra Pauline. Anche lei ha ereditato ed è diventata una donna bellissima. Scoppia, fra i due, un amore profondo: l’amore vero. Raphaël non vuole più credere al talismano e lo getta in un pozzo del giardino.

  La gioia dei due amanti è indescrivibile. Senonché, un giorno, il giardiniere ripesca nel pozzo uno «strano oggetto»: è la pelle di zigrino, che si è enormemente rimpicciolita. Raphaël impallidisce. «Sei il mio boia!» grida, guardandola. Pauline non capisce. Lui la allontana e, in un pietoso pellegrinaggio fra gli «scienziati» parigini, prova invano ad aggiustare la pelle. C’è, quindi, un’ultima notte d’amore e un illusorio risveglio, molle, radioso, fra le lenzuola gualcite, gli indumenti abbandonati la sera prima, le calze sfilate, quale avrebbe potuto dipingerlo solo Fragonard. Ma una tosse secca, tenibile, scuote il petto di Raphaël. Accorrono i medici che impongono al malato di cambiare aria. Raphaël fugge dalla persona che desidera e va in Savoia. Le sue condizioni, nonostante un soggiorno in un luogo ameno presso un’umile famiglia di pastori, peggiorano ogni giorno. Il talismano si riduce sempre di più, fino a diventare delle dimensioni di una fogliolina di pervinca. Raphaël torna a Parigi. Riappare Pauline e lo culla con immenso amore (ma noi sappiamo, perché Raphaël glielo ha detto: «Ci sono abissi che l’amore non può valicare, per quanto forti siano le sue ali»). Fra le braccia di Pauline, Raphaël chiude gli occhi.

  Si chiude, così, il romanzo del patto faustiano. Tuttavia, noi capiamo — lo abbiamo intuito dapprima confusamente, leggendolo, poi con sempre meno incertezza — che il capolavoro di Balzac non è solo il romanzo del patto col demonio al quale cediamo, in cambio del potere e della gloria, i nostri giorni. Pelle di zigrino, nella sua più nascosta verità, è il romanzo che descrive il senso della colpa. Quel senso oscuro e misterioso che ognuno di noi — senza aver fatto alcun patto col diavolo — sente dentro di sé quando realizza un desiderio (anche il più innocente) e s’accorge, all’improvviso, che la sua felicità trema.

 

 

  Giuseppe Panella, Il denaro è più freddo della morte: Balzac, il denaro, il Sublime, «Fermenti. Periodico a carattere culturale, informativo, d’attualità e costume», anno XLIII, n. 242, 2014, pp. 117-134.

 

  In questo studio, G. Panella pone al centro delle sue riflessioni il tema del sublime quale esso si manifesta nell’opera di Balzac in quanto metafora storica e come prospettiva estetico-psicologica. Il punto di partenza privilegiato scelto dall’A. è, anzitutto, quello di focalizzare, attraverso l’esame di alcuni personaggi-chiave della Comédie humaine, il nesso esistente tra «denaro, amore e morte come forma rappresentativa del Sublime» (p. 120). L’A. considera, come esempi, testi quali L’Auberge rouge, Gobseck e, nella seconda parte dello studio, Sarrasine e Le Chef-d’oeuvre inconnu. Attraverso l’analisi di questi ultimi due racconti, Panella, operando frequenti rimandi ai contributi critici di R. Barthes, di M. Serres e di C. Savettieri, evidenza come la ricerca del sublime, in Balzac, si collochi all’interno di una dimensione estetica che presuppone un legame comune e una corrispondenza tra tutte le arti con l’individuazione di nuove prospettive critiche nella rappresentazione e nella ricezione dell’elemento artistico.

 

 

  Dario Pappalardo, Gli ultimi giorni del triste Honoré, «la domenica di Repubblica», Roma, N. 491, 3 agosto 2014, p. 42.

 

  Realtà, finzione, gossip letterario. O forse tutte queste cose insieme. Fatto sta che il racconto di Octave Mirbeau (1848-1917) La morte di Balzac, censurato all’uscita in Francia (1907), si legge quasi come un capitolo apocrifo della Comédie humaine. Perché è dedicato proprio allo scrittore di Papà Goriot e ai suoi ultimi, tristissimi giorni. L’autore di questo resoconto sostiene di avere avuto informazioni di prima mano sulla “vera” fine del maestro francese dal mediocre pittore Jean Gigoux.

  Che era lì, a Parigi, al numero 18 della rue Fortunée, mentre Balzac moriva, il 18 agosto 1850. L'epilogo della vita del genio della letteratura è quello di un uomo solo, divorato dalla malattia, dai creditori e da un matrimonio sbagliato con Madame Hanska, la vedova di un aristocratico russo che non portava la dote sperata. Il Balzac di Mirbeau [...] assomiglia a un personaggio di Balzac: la sua fine si compie mentre nella stanza vicino si consuma un tradimento. Per fortuna sarà Victor Hugo a rendere giustizia all’uomo. Al funerale dirà semplicemente: «Era un genio».

 

 

  Chiara Pasetti, Filosofia del camminare. Quei passi rispecchiano l’anima, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, n. 183, 6 Luglio 2014, p. 37; 1 ill.

 

  Per Balzac i pensieri più segreti, le emozioni più nascoste si rivelano osservando il modo di muoversi delle persone.

 

  «Non si può pensare e scrivere se non seduti», affermava Flaubert. Nietzsche prenderà spunto da questa affermazione per criticare aspramente il padre di Emma Bovary, che definisce “nichilista”, per il mancato (a suo avviso) riconoscimento del legame fra corpo-movimento e pensiero-scrittura: “Restare seduti è esattamente il peccato contro lo spirito santo. Solo i pensieri nati camminando hanno valore”, scriverà nel Crepuscolo degli idoli.

  Questa diatriba sarebbe piaciuta molto a Honoré de Balzac, che prima di loro non solo aveva riflettuto sull’argomento del movimento umano, ma ne aveva addirittura composto un piccolo saggio psico-sociologico in cui, vestendo i panni dell’antropologo, si interroga sul significato profondo e, secondo lui, mai sondato, del camminare. La sua Théorie de la démarche, ora pubblicata dalle edizioni Elliot col titolo Teoria del camminare, comparve per la prima volta in cinque puntate, fra l’agosto e il settembre del 1833, sulle pagine de “L’Europe Littéraire”, non casualmente nello stesso momento in cui Balzac stava lavorando a una delle sue opere d’elezione, la storia intellettuale di Louis Lambert, romanzo mistico, filosofico e profondamente rivelatore del pensiero più nascosto dell’autore, in cui il suo realismo visionario tocca le vette più alte, e che egli riprenderà ancora nel 1836 e nel 1842. Forse per distrarsi dagli incubi e dalle visioni del geniale e infelice Lambert, che farà sprofondare al termine della sua avventura nelle tenebre della follia (e nella Teoria del camminare, a un certo punto, scrive che egli si trova esattamente “nel punto in cui la scienza collima con la follia”, e che soltanto un uomo sufficientemente audace, che senza timore sfiora “la follia e la scienza”, poteva elaborare teorie sulle andature umane), forse per liberarsi dagli spiriti evocati da Swedenborg, genio (maligno) ispiratore del romanzo, Balzac passeggiava ... e come tutti i grandi maestri dell’Ottocento francese, di cui lui fu il primo, osservava, per poi trarre dalle sue osservazioni materia di studio e di scrittura. Abituato a non vedere nella gente altro che “dei libri da scrivere”, egli, aspettando una carrozza, guardava “spensierato” le varie scene che gli passavano davanti agli occhi, quando vide un uomo che cadde a terra e per mantenere l’equilibrio si appoggiò a un muro.

  Questo pretesto apparentemente banale, che lo induce anche a riflettere sul riso che genera sempre “un uomo che cade”, accende in Balzac quella che definisce una sua “scoperta immortale”, un “tesoro” in cui si è imbattuto e che prima di lui nessuno aveva visto, ossia la sua teoria del camminare. Preso dall’esaltazione febbrile che consegue ogni grande scoperta, tra l’ironico e l’enfatico dichiara che questa è davvero la sua scienza, e che per quanto si tratti in fondo dell’arte di “alzare e abbassare il piede”, essa richiede un tono “epico”, poiché “la dignità delle cose è inversamente proporzionale alla loro utilità”: “non è davvero incredibile il fatto che, da quando l’uomo ha iniziato a camminare, nessuno si sia chiesto perché cammina, come lo fa, se potrebbe forse farlo meglio, cosa avviene mentre passeggia, se non esiste un modo per impostare, modificare e studiare la sua andatura? Domande che sono alla base di tutti i sistemi filosofici, psicologici e politici di cui il mondo si sia occupato”.

  Domande alle quali lui decide di dare risposta, partendo dall’assioma per cui “la camminata è la fisionomia del corpo”. Secondo questa formula i pensieri più segreti, le emozioni più nascoste, si rivelano all'occhio esperto di chi sa osservare il modo di camminare; non si tratta solo di rintracciare le leggi che presiedono a una bella andatura o i difetti delle andature sgraziate, ma di elaborare una semiotica del movimento che sappia differenziare l’andatura dei “tipi umani” a seconda delle classi sociali, dei mestieri, delle abitudini.

  La camminata è dunque articolazione espressiva, e attraverso i segni esteriori nasconde qualcosa che si cela nell’anima del marcheur. Questo breve saggio, a tratti ironico a tratti serissimo, è ancora una volta rivelatore del grande talento di Balzac, e gli fornisce anche l'occasione per sottolineare le caratteristiche del genio, del grande scopritore, di colui che, segretario della sua epoca, come Omero, Aristotele, Shakespeare, Tacito, e altri che egli cita, inventa e tramanda. Deve essere, insieme, un grande osservatore e un grande scrittore, deve possedere non solo la “vista morale”, ma anche “un’eminente perfezione dei sensi e una memoria quasi divina”, deve sapere guardare, come diceva Flaubert, “fin nei pori delle cose”, e poi deve sapersi esprimere, deve sapere raccontare ciò che ha visto. E se qualche volta incontra momenti di sconforto, di noia o di scarsa ispirazione ... può sempre camminare, per poi tornare, da seduto, a “vedere l'abisso e penetrare nei suoi segreti”.

 

 

  Susi Pietri, La Forme des formes. Lectures de la représentation de l’argent dans “La Comédie humaine”, in Collectif, La littérature au prisme de l’économie … cit., pp. 71-94.

 

  […]. La Comédie humaine prend la figure et les proportions, parfois menaçantes, d’un paradigme inégalable de la représentation littéraire de l’argent, pour les écrivains (de Fédor Dostoïevski à Italo Svevo, d’Oscar Wilde à Boris Pasternak) qui se sont évertués à explorer leur rapport avec le modèle romanesque balzacien. Mais, dans ces relectures souvent foudroyantes de la thématique financière, la réflexion sur Balzac s’unit étroitement à la recherche autoréflexive, à la perspective anticipatrice d’un nouvel espace esthétique en fonction d’un travail actuel, en cours oeuvre. Lire l’«économique» balzacien, c’est alors penser le roman dans son ouverture sur tout ce qu’il pourrait produire et construire justement par l’innovation formelle et l’invention esthétique, questionnant moins la puissance mimétique de La Comédie humaine que sa capacité de croiser ou d’embrayer l’une dans l’autre l'investigation critique et la configuration narrative. Le «système de romans» de Balzac, écrit James, est une Architecture monétaire incommensurable qui pourtant coïncide avec une immense Architecture de formes : on essayera donc de parcourir quelques itinéraires essentiels de ces réflexions d’écrivains (suivant, en particulier, les lectures magistrales d’Henry James et Hugo von Hofmannsthal), où l’oeuvre balzacienne, par l’inscription de l’argent, est confrontée d’une manière exemplaire à la question décisive de l’«exercice de sa forme» et de son intelligibilité. […].

  L’argent est un protagoniste prodigieusement multiforme de La Comédie humaine dans les stratégies interprétatives des écrivains qu’on vient d’examiner. La nouvelle visibilité, chez Balzac, des réalités économiques et financières s’accomplit dans l’élaboration d’une vision complexe et contradictoire de l’espace contemporain, mais, en retour, elle invite à l’interrogation problématique, de plus en plus exigeante, du statut du roman lui-même. L’inscription de l’argent permet en effet de questionner, en même temps, «l’identité en mouvement» du roman, l’ouverture de son espace d’investigation, ses enjeux théoriques et formels. C’est justement la finalité euristique et novatrice de la forme romanesque qui est en question dans ces lectures, avec son pouvoir exemplaire de devancer aussi bien les «mondes» que les «mondes possibles». En ce sens La Comédie humaine, tout en essayant de produire l’intelligibilité «du rôle exorbitant de l’argent dans la complexité inextricable de notre civilisation moderne», s’engagé à construire des principes narratifs conçus comme «lois», bien plus que du réel, de la production du réel. Loin de se borner à «représenter» l’économique, le roman balzacien aurait la force de créer les représentations «génératives» de «cette première grande auréole de la modernité» qu’il annonce.

 

 

  Thomas Piketty, La natura della ricchezza, in Il Capitale nel XXI secolo. Traduzione di Sergio Arecco, Milano, Saggi Bompiani, 2014, pp. 175-179.

 

  Quando, all’inizio del XIX secolo, Balzac o Jane Austen scrivono i loro romanzi, la natura dei patrimoni è, di per sé, relativamente chiara a tutti. Il patrimonio sembra essere lì, a disposizione per produrre rendite, vale a dire redditi sicuri e costanti per chi li detiene, e per questa ragione hanno normalmente la forma di proprietà terriere e di titoli del debito pubblico. Papà Goriot possiede titoli di Stato, la piccola proprietà dei Rastignac è costituita da terreni agricoli. [...]. Nel romanzo classico del XIX secolo, il patrimonio è onnipresente, e, a prescindere dalla sua entità e dal suo detentore, assume perlopiù due forme: terreni o titoli di Stato.

  Viste dal XXI secolo, queste forme di patrimonio possono apparire arcaiche, ed è forte la tentazione di attribuirle a un lontano passato, considerato morto e sepolto, privo di rapporti con le realtà economiche e sociali del nostro tempo, in cui il capitale dovrebbe essere per sua natura ben più “dinamico”. Di fatto, i personaggi dei romanzi del XIX secolo appaiono spesso come gli archetipi del rentier, benestante che vive di rendita, figura bandita dalla nostra modernità democratica e meritocratica. Eppure, esiste un obiettivo più naturale del chiedere a un capitale di produrre un reddito sicuro e costante? Non è questo, in sostanza, lo scopo di un mercato del capitale a suo modo “perfetto”, nel senso degli economisti? Il pensare che lo studio dei patrimoni del XIX secolo sia privo di insegnamenti per il mondo d’oggi costituisce in realtà, dal nostro punto di vista, un grave errore.

  Se infatti guardiamo le cose un po’ più da vicino, le differenze tra il mondo del XIX secolo e quello del XXI sono meno evidenti di quanto possa sembrare. Innanzitutto, le due forme di patrimonio – terreni e titoli del debito pubblico – pongono problemi assai diversi, e non dovrebbero essere semplicemente giustapposte come, per comodità di racconto, fanno gli scrittori del XIX secolo. Il titolo del debito pubblico, in sostanza, rappresenta soltanto il credito che una parte del paese (coloro che percepiscono gli interessi) vanta sull’altra (quelli che pagano le tasse): per cui sarebbe bene escluderlo dal patrimonio nazionale e includerlo unicamente nel patrimonio privato. [...].

  Dopo un inizio come operaio pastaio, papà Goriot ha fatto fortuna come mercante di grani e fabbricante di pasta. Durante le guerre rivoluzionarie e napoleoniche ha saputo scovare meglio di chiunque altro le farine migliori, perfezionare le tecniche di produzione della pasta, organizzare le reti di distribuzione e i punti vendita, in modo da destinare il prodotto corretto e adeguato nel posto giusto al momento giusto. Solo dopo aver fatto fortuna come imprenditore, e aver venduto le sue quote negli affari, come farebbe un fondatore di start-up del XXI secolo che esercita le proprie stock-option e intasca il guadagno ottenuto, è nelle condizioni di reimpiegare tatto il ricavato in investimenti più sicuri, all’occorrenza in titoli pubblici a scadenza illimitata, e grazie a questo capitale potrà permettersi di far sposare le figlie a esponenti della migliore società parigina dell’epoca. Sul letto di morte, nel 1821, abbandonato da Delphine e Anastasie, papà Goriot continua a sognare favolosi investimenti nel mercato dei cereali a Odessa.

  César Birotteau, altro eroe balzachiano, ha fatto invece fortuna come profumiere. È un geniale inventore di prodotti di bellezza – la Doublé Pâté des sultanes, l’Eau carminative ecc. –, che secondo Balzac fanno furore nella Francia di fine Impero e durante la Restaurazione. Ma tutto ciò non gli basta: al momento di ritirarsi, vuole triplicare il proprio capitale con un’audace operazione di speculazione immobiliare nel quartiere della Madeleine, in pieno sviluppo nella Parigi degli anni venti e trenta dell’Ottocento. César respinge i saggi consigli della moglie, la quale vorrebbe investire i guadagni della profumeria in buoni terreni nei pressi di Chignon e in titoli pubblici. E così César finirà rovinato. [...].

 

  Il discorso di Vautrin, Ibid., pp. 364-368.

 

  Pubblicato, nel 1835, Papà Goriot è uno dei romanzi più celebri di Balzac. Si tratta sicuramente dell’espressione letteraria più riuscita della struttura delle disuguaglianze nella società del XIX secolo, e del ruolo centrale svolto dall’eredità e dal patrimonio.

  La trama di Papà Goriot è limpida. Ex operaio pastaio, papà Goriot ha fatto fortuna come commerciante di grani e di pasta durante il periodo rivoluzionario e napoleonico. Vedovo, ha sacrificato tutto per far sì che le due figlie, Delphine e Anastasie, sposassero due tra i migliori partiti della società parigina degli anni dieci e venti dell’Ottocento. Ha tenuto per sé solo quanto gli occorre per il vitto e l’alloggio in una sordida pensione dove incontra Eugène de Rastignac, ventunenne di nobile origine ma spiantato, venuto dalla provincia per studiare diritto a Parigi. Ambizioso, avvilito dalla sua condizione di povertà, Eugène tenta, grazie a una lontana cugina, di accedere ai salotti esclusivi frequentati dall’aristocrazia, dalla grande borghesia e dell’alta finanza della Restaurazione. Ben presto si innamora di Delphine, trascurata dal marito, il barone di Nucingen, un banchiere che ha approfittato della dote della moglie per impiegare il denaro in numerose speculazioni. Rastignac finirà per perdere presto ogni illusione, scoprendo il cinismo di una società completamente corrotta dal denaro. E scopre con sgomento come papà Goriot sia stato abbandonato dalle figlie, che si vergognano di lui e non lo vedono da quando hanno fatto fortuna, concentrate esclusivamente sul loro successo mondano. Alla fine, il vecchio muore in miseria e in solitudine. Solo Rastignac assiste al suo funerale. Ma, appena uscito dal cimitero di Père-Lachaise, affascinato dalla vista della bella vita di Parigi che gli si offre sullo sfondo, lungo le live della Senna, decide di lanciarsi alla conquista della capitale: “E ora, a noi due!”. La sua educazione sentimentale e sociale è conclusa: d’ora in poi diventerà anche lui un arrivista feroce e spietato.

  Il momento più inquietante del romanzo, quello in cui le alternative sociali e morali che Rastignac si trova di fronte si manifestano con maggiore chiarezza e ferocia, è senza dubbio il discorso che gli rivolge Vautrin verso la metà del romanzo. Anch’egli residente nella lurida pensione Vauquer, Vautrin è un personaggio sinistro, mistificatore e carismatico, che dissimula molto bene il suo oscuro passato di galeotto, esattamente come l’Edmond Dantès del Conte di Montecristo o il Jean Valjean dei Miserabili. Ma, contrariamente a questi due personaggi, tutto sommato positivi, Vautrin è profondamente malvagio e cinico. Cerca di coinvolgere Rastignac in un delitto per mettere le mani su un’eredità. E, per convincerlo, gli fa un discorso estremamente preciso e scioccante sui diversi destini e le diverse strade che si aprono a un giovane come lui nella società francese dell’epoca.

  In sostanza, Vautrin spiega a Rastignac che il successo sociale ottenuto con lo studio, il merito e il lavoro è un’illusione. E gli traccia un quadro circostanziato delle varie, possibili carriere nel caso in cui proseguisse gli studi, per esempio nel campo del diritto o della medicina, due settori dove primeggia in linea di massima una logica legata alla competenza professionale, e non alle ricchezze ricevute in eredità. In particolare, Vautrin indica con grande precisione a Rastignac i livelli di reddito ai quali può sperare di accedere in ciascuna delle due professioni. La sua conclusione è senza appello: anche se fosse tra i giovani laureati in diritto più meritevoli di Parigi, anche intraprendendo una carriera forense brillantissima e folgorante, cosa che comunque richiederebbe dei compromessi, Eugène dovrà in ogni caso accontentarsi di redditi mediocri, e rinunciare a godere di un’autentica agiatezza [...].

  Al confronto, la strategia di ascesa sociale che Vautrin propone a Rastignac è molto più efficace. Sposando la signorina Victorine, una ragazza riservata che vive alla pensione e che ha occhi solo per il bell’Eugène, il giovane metterà immediatamente le mani su un patrimonio di un milione di franchi. Il che gli permetterà di godere per vent’anni di una rendita di 50.000 franchi (circa il 5% del capitale) e di raggiungere all’istante, senza alcuna fatica, un livello di agiatezza dieci volte più alto di quello che gli frutterebbe molti anni dopo un compenso da procuratore del re (un guadagno elevato quanto quello maturato da pochissimi e ricchissimi avvocati parigini solamente a cinquant’anni, dopo almeno trent’anni di fatiche e di intrallazzi).

  La conclusione è scontata: Rastignac deve senz’altro sposare la giovane Victorine e trascurare il fatto che non sia né molto graziosa né molto seducente. Eugène ascolta con avidità, fino al colpo di grazia finale: perché la ragazza, illegittima, venga finalmente riconosciuta dal ricco genitore e diventi legittima erede di quel milione di franchi di cui parla Vautrin, è prima di tutto indispensabile assassinarne il fratello delitto di cui l’ex galeotto è pronto a farsi carico, facendosi naturalmente pagare una commissione. Un po’ troppo per Rastignac, il quale è certo sensibile agli argomenti di Vautrin sui meriti dell’eredità rispetto a quelli dello studio, ma non al punto da commettere un omicidio.

 

  Il dilemma di Rastignac, Ibid., pp. 626-631.

 

  La società patrimoniale classica: il mondo di Balzac e di Jane Austen, Ibid., pp. 633-645.

 

  Nella maggioranza dei romanzi di Balzac e di Jane Austen, il quadro al tempo stesso finanziario, sociale e psicologico e tracciato fin dalle prime pagine, dopodiché esso viene richiamato di tanto in tanto, in modo che il lettore non dimentichi ciò che distingue i personaggi, ovvero tutti quei connotati patrimoniali che ne condizionano le esistenze, le rivalità, le Strategie e le speranze. In Papà Goriot lo stato di decadimento del vecchio viene immediatamente espresso dal fatto che abbia dovuto via via accontentarsi della camera più sudicia e del cibo più misero della pensione Vauquer, per riuscire a ridurre la spesa annua a 500 franchi (più o meno il reddito medio annuo dell’epoca: per Balzac, la miseria assoluta). Il vecchio ha sacrificato tutto per le figlie, ciascuna delle quali ha ricevuto una dote di 500.000 franchi, ossia una rendita annua di 25.000 franchi, circa cinquanta volte il reddito medio: è questo, in tutti i romanzi di Balzac, il paradigma della fortuna, l’espressione della vera ricchezza e della vita elegante. Insomma, la dicotomia tra i due estremi della società balza subito agli occhi. Tuttavia Balzac non dimentica che tra la miseria assoluta e la vera agiatezza esiste tutta una serie di stadi intermedi, più o meno accettabili. La piccola proprietà di Rastignac, con sede nell’Angoulême, procura a fatica 3000 franchi l’anno (sei volte il reddito medio): per Balzac è l’esempio tipico della piccola nobiltà di provincia, squattrinata, che può giusto fruttare 12.000 franchi l’anno per permettere a Eugène di andare a studiare Giurisprudenza nella capitale. Nel discorso di Vautrin, la retribuzione annua di 5000 franchi (dieci volte il reddito medio) di cui potrebbe usufruire il giovane Rastignac occupando l’incarico di procuratore del re, con chissà quali sforzi e rischi, è l’esempio stesso della mediocrità, che dimostra meglio di qualunque altro discorso che lo studio non porta da nessuna parte. Balzac ci dipinge una società in cui l’obiettivo minimo è godere di un reddito venti o trenta volte superiore al reddito medio dell’epoca, o anche cinquanta volte, come permette di fare la dote di Delphine e Anastasie, o meglio ancora cento volte, come permetterebbe di fare il milione di franchi della signorina Victorine, grazie ai 50.000 franchi di rendita annua che assicurerebbe.

  In César Birotteau, anche l’audace profumiere punta a raggiungere il milione di franchi di patrimonio, in modo da riservarne la metà per sé e la moglie e destinarne l’altra metà alla dote della figlia – i 500.000 franchi ritenuti indispensabili per maritarla come si deve e consentire al futuro genero di venire in possesso senza fatica dello studio del notaio Roguin. La moglie vorrebbe riportare César con i piedi per terra, convincerlo che potrebbero benissimo riservare per se stessi la pensione – con 2000 franchi di rendita – e sposare la figlia con la restante rendita di 8000 franchi, ma César non intende sentire ragioni: non vuole finire come il socio Pillerault, che si ritira dagli affari con appena 5000 franchi di rendita. Per vivere bene, ci vuole almeno una rendita equivalente a venti-trenta volte il reddito medio: con una rendita di sole cinque-dieci volte il reddito medio si riesce appena a sopravvivere.

 

 

  Valeria Ramacciotti, Servo e padrone in “La Recherche de l’absolu”, «Studi Francesi. Rivista quadrimestrale», Torino, 173, Anno LVIII, Fascicolo II, maggio-agosto 2014, pp. 284-293.

 

  In La Recherche de l’absolu, il grande romanzo pubblicato da Balzac nel settembre 1834 presso Béchet, il rapporto servo-padrone è essenziale, non solo perché tale rapporto serve a mettere in risalto la grandezza intellettuale dello scienziato, ma anche perché è necessario a sorreggere il complesso intreccio di sentimenti familiari e rapporti sociali che si dipanano attorno alla trama principale della narrazione. La coppia servo-padrone, ben collaudata da secoli nei vari generi letterari, trova in questo romanzo del primo Ottocento francese una sua fisionomia umanissima, che va sempre meglio definendosi insieme alla vicenda dei protagonisti principali; alla fine il valletto troverà a sua volta un’identità di primo piano, accanto al maître, dal quale è ormai impossibile scinderlo: è questo percorso creativo che intendiamo seguire, attraverso le pagine del romanzo.

  Il personaggio di Balthazar Claës, protagonista del romanzo, come altri usciti dalla fantasia dell’autore, non ha delle fonti precise, ma incarna, come altri protagonisti famosi, la passione balzachiana per l’opera perfetta, per il raggiungimento di un assoluto. Ne sono esempi in campi diversi altri romanzi celebri di Balzac, con protagonisti ossessionati dall’assoluto in vari ambiti dell’attività intellettuale: l’opera d’arte perfetta in Le Chef d’œuvre inconnu, la carta senza difetti in Les (sic) Illusions perdues, la musica sublime in Gambara. Questa volta l’assoluto deve essere raggiunto attraverso la ricerca scientifica, cioè lo studio della chimica che potrebbe consentire alla fine, dopo esperimenti fallimentari o parziali riuscite, di trovare il principio primo e unificatore del tutto, della materia, della creazione, nella visione romantica di una conquista definitiva e totale. [...].

 

 

  Giuliana Rotondi (a cura di), Il pranzo è servito, «Focus Storia», Milano, 95, setembre 2014, pp. 40-43; ill.

 

  p. 41. Il rozzo. Honoré de Balzac.

 

  “Non sono una persona profonda, ma molto ampia”, osservò lo scrittore Honoré de Balzac (1799-1859 [sic]), un metro e mezzo di grasso su due gambine esili. I suoi appetiti, d’altronde, erano memorabili: sembra che in una cena avesse divorato una dozzina di cotolette di montone, un’anatra con le rape, una sogliola, due pernici e oltre 100 ostriche. Il tutto coronato da pere e da un assortimento di dolcetti, frutta e liquori.

  A tavola. Le sue maniere erano disgustose: mangiava con il coltello e mentre masticava sputava pezzi di cibo. A 60 (sic) anni il suo cuore non resse più. Le ultime parole sembra siano state: “Mandate a chiamare Bianchon, mi salverà”. Era un grido rivolto al suo alter ego, il medico della Commedia umana, suo capolavoro letterario.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, L’immaginario. Balzac, il Vate e Frank Underwood. Le passioni dei signori dell’anello, «Corriere della Sera», Milano, 29 Novembre 2014, p. 55.

 

  «Appena mi metto al lavoro, mi infilo il talismano, terrò al dito quest’anello per tutte le ore di lavoro. Lo metto al primo dito della mano sinistra, con cui tengo la carta, in modo che il tuo pensiero mi stringa, sei lì con me e adesso invece di cercare le parole nell’aria, le chiedo a questo delizioso gioiello», si crogiolava Balzac.

 

 

  Giandomenico Schiavi e Armando Torno, La Casa del Manzoni. Una memoria da salvare per Milano e l’Expo, «Corriere della Sera», Milano, 11 Febbraio 2014, p. 21.

 

  Qui vennero a trovarlo, per ricordare qualche nome celebre tra i tanti possibili, Carlo Porta che ciaccolava con lui in dialetto, Verdi che lo venerava, Balzac ossessionato dai diritti d’autore (voleva discuterne con lui che ne fu vittima), Rosmini, D’Azeglio ovvero suo genero perché ne sposò la figlia.

 

 

  Paolo Tortonese, La main visible. Balzac, l’intérêt et l’amour propre, in Collectif, La littérature au prisme de l’économie … cit., pp. 151-165.

 

  Une notion joue un grand rôle dans le monde romanesque de Balzac, ainsi que de beaucoup d’autres grands romanciers du XIXe siècle: l’intérêt. Mot aux multiples significations, puisqu’il peut désigner à la fois la curiosité ou l’attirance à l’égard de quelqu’un, le mobile qui détermine une action et le « revenu produit par un capital prêté ou placé». Glissant du domaine psychologique à celui juridique et financier, l’intérêt est un pilier fondamental de tonte théorie économique, peut-être de l’existence même de l’économie comme discipline. Il est en même temps l’un des concepts principaux dont se sert le roman pour justifier l’action des personnages, et nous savons qu’un roman est en grande partie un système de motivations, c’est à dire un mélange d’actions et de réflexions sur le mobile de ces mêmes actions. Il n’y a pas de roman sans la mise en place plus ou moins explicite d’une interrogation sur ce qui fait agir les personnages, sur leurs motivations.

  Je voudrais m’interroger sur les rapports entre l’intérêt et l’amour-propre, en tant que types de motivation de l’action du personnage. Comparé à intérêt, et distingué de lui, l’amour-propre constitue une possibilité différente de motiver le comportement, en faisant appel à une notion théologique, religieuse, morale, qui est d’emblée distincte de la sphère économique. On peut avancer d’abord, et assez sommairement, que l’intérêt est une motivation économique et l’amour-propre une motivation morale et théologique. Il apparaît aussi immédiatement qu’ils ne se sont pas formés, comme concepts, à la même époque, ou du moins que leurs heures de gloire ne coïncident pas dans l’histoire de la pensée européenne. Mais cela n’exclut pas la possibilité de considérer l’intérêt et l’amour propre comme deux réalités imbriquées l’une dans l’autre, soit qu’on les conçoive l’un comme l’origine de l’autre, soit qu’on les estime comme identiques sur le plan moral. […].

 

 

  Emanuele Trevi, La Commedia umana di Balzac è un triangolo d’amore, «Corriere della Sera-La Lettura», Milano, N. 140, 27 luglio 2014, p. 11.

 

  Sarebbe davvero interessante il libro di un erudito che ci raccontasse la lunga e avventurosa storia della maldicenza intesa come forma d’arte. I francesi, come si sa, in questa storia farebbero la parte dei leoni, non foss’altro perché Saint-Simon si potrebbe definire l’Omero della diffamazione, del pettegolezzo rivelatore, del ritratto impietoso.

  Un degnissimo erede del velenoso duca si rivela Octave Mirbeau in quel testo rimasto a lungo semi-clandestino e conosciuto con il titolo La morte di Balzac. Si tratta, in realtà, di tre capitoli di un romanzo più ampio, un esperimento modernista intitolato La 628-E8 (è il numero di targa della macchina dell’autore), pubblicato nel 1907. Ma la figlia di primo letto di Madame Hanska, la moglie di Balzac, minacciò di ricorrere alle vie legali se le scabrose vicende raccontate dalla madre avessero visto la luce. L’editore fu costretto a squinternare i volumi del romanzo già pronti per le librerie, eliminando il sensazionale gossip raccontato da Mirbeau, che rimase nell’ombra, a parte pochissimi iniziati, fino al 1989.

  Per cogliere le intenzioni e il metodo di Mirbeau, basta percorrere poche righe iniziali, fino a imbattersi in questa notizia inedita su Balzac lasciata cadere con perfida naturalezza: «Conosco su di lui un particolare intimo e un po’ ridicolo: la natura lo avrebbe armato parsimoniosamente all’amore». Raramente la critica letteraria, immagino, ha trattato le dimensioni degli autori presi in esame. Ma da chi lo conosce, Mirbeau, questo così imbarazzante particolare della vita del genio? È proprio questa domanda che l’autore vuole che i suoi lettori si pongano. Perché Mirbeau vuole condurci per mano in un territorio ambiguo dove la menzogna e la verità possono convivere anziché escludersi a vicenda. È il regno della chiacchiera, della confidenza a notte tarda, della testimonianza fuori tempo massimo che scompiglia le carte degli aneddoti più risaputi. Il pettegolezzo e la confessione piccante (che non è altro che un pettegolezzo su se stessi) affascinano Mirbeau per la loro capacità di resistenza. Forniscono l’illusione che la nobile ombra del passato sia ancora tra noi, così viva e presente che possiamo dire di lui che ce l’aveva piccolo. È una specie di estasi, di ricerca del tempo perduto che al posto della madeleine utilizza l’infamia. Riflettere sulle date può essere illuminante.

  Quando Balzac morì, il 18 agosto 1850, Mirbeau aveva due anni. Mezzo secolo dopo, l’autore della Commedia umana è uno dei simboli più universali della supremazia spirituale francese: il titano, il demiurgo, colui che ha visto tutto e di tutto reso conto. Ma erano pur sempre vive delle persone che, per vari motivi, lo avevano osservato da vicino. Ed è grazie a questa circostanza che Mirbeau, con un’abilità degna del Truman Capote di Preghiere esaudite, è in grado di fornire ai suoi lettori, adeguatamente preparati, il pezzo forte del suo libello. Finissimo intenditore d’arte e amico di artisti, Mirbeau conosce Jean Gigoux, collezionista e mediocre pittore di soggetti storici, morto nel 1894 a ottantotto anni. Poco prima di arrivare alla fine di una lunga vita, nel corso di una conversazione notturna, quella veneranda reliquia di un’epoca ormai remota decide di vuotare il sacco. Sa tutto sul giorno della morte di Balzac, e non vuole andarsene senza aver confidato quei ricordi a qualcuno. Non è affatto uno sciocco, e sa benissimo che Mirbeau non resisterà alla tentazione di scriverne: ma lui, a quel punto, se ne sarà già andato. Il racconto di Gigoux ci riporta indietro fino a quel terribile giorno dell’estate del 1850, l’ultimo di Balzac, arrivato allo stremo delle forze a causa della malattia circolatoria («ingrossamento del cuore» si chiamava a quei tempi) che gli procura delle tremende sofferenze.

  Da poche settimane, lo scrittore si è sistemato nella casa di rue Fortunée preparata in vista del ritorno a Parigi con la sua nuova moglie, Madame Hanska, l’aristocratica russa dalla quale si aspettava amore e sicurezza finanziaria, senza ottenere né l’uno né l’altra. A parte qualche visita premurosa di Victor Hugo, il medico e qualche persona di servizio, la grande casa, mai finita di pagare, è deserta. Gigoux sa tutto per un semplicissimo motivo: ha seguito ora per ora l’agonia di Balzac nel letto della moglie. Amore e morte? Più che altro, Gigoux sembra avere acconsentito per dovere di amante agli inopportuni desideri di Madama Hanska. Lui vorrebbe solo andarsene, desidera fumare un sigaro, non ne può più di quella donna che ha invano cercato di convincere a visitare per l’ultima volta il marito. Almeno per le forme. La situazione meriterebbe il talento di un grande regista in cerca di effetti talmente grotteschi da apparire surreali: da una parte ci sono i due amanti nudi nel letto, che ascoltano le notizie gridate dietro la porta dall’infermiera scandalizzata; all’altro capo della casa il Genio è preda degli orribili sintomi terminali della malattia. Sembra il canovaccio di una delle tante commedie piccanti che si rappresentavano sui boulevard: e forse questo involucro è l’unico nel quale, per noi moderni, è ancora possibile riconoscere l’odore metafisico della tragedia.

  Ho iniziato con le lodi della maldicenza, ma il testo di Mirbeau rappresenta anche un esempio ammirevole di passaggio dalla maldicenza alla dissacrazione. Ci sarà sempre qualcuno pronto a scandalizzarsi per un tale atteggiamento di lesa maestà. Ma quando è solo il monumento a parlare in nome del grand’uomo, quell’uomo non è forse morto per sempre? Siano dunque rese lodi agli amanti indiscreti come Gigoux, e agli scrittori come Mirbeau che li stanno a sentire esercitando, quando arriva l’occasione, la difficile virtù dell’infamia.

 

 

  Leonardo Varasano, L’esemplare naturalezza degli animali, «Giornale dell’Umbria», Perugia, 31 agosto 2014.

 

  Su: Teoria del camminare.

 

 

  Alessandro Zuccari, Quartiere latino. Fuori dalla fossa, «Avvenire», Milano, Anno XLVII, N° 34, 20 aprile 2014, p. 1.

 

  Lo hanno creduto morto e gettato in una fossa comune. Ma lui, il soldato che Napoleone ammirava, si fa strada tra i cadaveri che lo sommergono, combatte contro il loro peso, riconquista la luce del sole. È in salvo, ma un’altra battaglia lo aspetta, niente affatto grandiosa. Le cause legali, le carte bollate. Riavere i propri beni, almeno in parte, se davvero non può più riavere la moglie, che intanto si è risposata e finge di non riconoscerlo, spaventata com’è all’idea di guardare in faccia uno che è sfuggito alla morte. Il redivivo prima si illude, poi capisce che un altro inganno è stato ordito contro di lui, e allora sceglie di ritirarsi da tutto e da tutti, perfino da sé. Non risponde se lo chiamano con il suo vecchio nome, scuote la testa, si rinchiude in qualcosa che potrebbe essere follia o, forse, una forma segreta di santità. Il colonnello Chabert è una novella che sembra sfuggire di mano a Balzac, che pure ne controlla l’intreccio con l’abituale maestria. L’argomento è una risurrezione, però manca qualcosa. L’uomo evaso dagli inferi avrebbe bisogno di qualcuno che lo accolga, di un altro che gli dica: «sei tu, sei tornato». Una parola d’amore, questo lo riporterebbe per sempre alla vita. Ed è l’amore, inaspettato e nuovo, che fa del Risorto la primizia di ogni speranza.

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Sarrasine. Una storia d’amore, regìa di Valeriano Gialli, con Lorena Senestro e Valentina Virando, 2014.

 


 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  La Comédie. Società italiana amici di Honoré de Balzac, I Convegno. H. de Balzac la civiltà e la letteratura italiana a cura di Angelo Fàvaro, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 13 febbraio 2014.

 

 

  Rino Caputo, Commedia e Comédie, in La Comédie. Società italiana amici di Honoré de Balzac, I Convegno. H. de Balzac la civiltà e la letteratura italiana ... cit.

 

 

  Donata Carelli, Balzac, milieu et lumière. Dalla pagina allo schermo, Ivi.

 

 

  Oliviero Diliberto, Osservazioni di un lettore appassionato di Balzac, Ivi.

 

 

  Rosa Giulio, Il ‘caso’ Balzac come chiave ermeneutica nel dibattito critico su Manzoni e Leopardi, Ivi.

 

 

  Maurizio Iacono, Frenhofer e Cézanne. “Il capolavoro sconosciuto” di Balzac e lo smarrimento dello spettatore, in Seminario d’Interpretazione Testuale. Sesto ciclo di lezioni, Pisa, Palazzo Ricci, 20 ottobre 2014.

 

 

  Dominique Jullien, Vautrin génie balzacien, in AA.VV., Variations françaises sur les «Mille et Une Nuits»: quelles versions pour quels effets? Colloque international, Université de Bologne, 18 septembre 2014.

 

 

  Gleya Maâtallah, Balzac et les «Milles et une nuits de l’Occident», Ivi.

 

 

  Aldo Mazzacane, Accoppiamenti giudiziosi. “Il colonnello Chabert”, Università degli studi di Napoli ‘Federico II’, Dipartimento Studi Umanistici, Aula Magna Piovani, 22 maggio 2014.

 

 

  Laura Melosi, Balzac al Gabinetto Vieusseux, in La Comédie. Società italiana amici di Honoré de Balzac, I Convegno. H. de Balzac la civiltà e la letteratura italiana ... cit..

 

 

  Fabio Pierangeli, Nota a margine: Balzac nella biblioteca di Guido Morselli, Ivi.

 

 

  Giorgio Riolo, Il romanzo di formazione del borghese moderno. Honoré de Balzac, “Papà Goriot”, Milano, Libera Università Popolare, 24 aprile 2014.

 

 

  Carlo Santoli, H. de Balzac e gli Amici nelle Edizioni Sinestesie: un volume miscellaneo, in La Comédie. Società italiana amici di Honoré de Balzac, I Convegno. H. de Balzac la civiltà e la letteratura italiana ... cit..

 

 

  Marcello Teodonio, “Le langage humain fut donné à l’homme pour déguiser sa pensée”. Echi e presenze di Balzac in Giuseppe Gioachino Belli, Ivi.

 

 

  Rosita Tordi, Il decennio iniziale della «Revue des Deux Mondes» (1829-1839). La collaborazione di Sainte-Beuve e di Balzac, in AA.VV., Riviste e creatività letteraria dal Seicento al tardo Ottocento. Congresso internazionale della SICL, Università degli studi di Messina, 4 giugno 2014.

 

 

  Rosa Romano Toscani, Donne reali e donne fantastiche nella vita e nell’opera di Honoré de Balzac, in La Comédie. Società italiana amici di Honoré de Balzac, I Convegno. H. de Balzac la civiltà e la letteratura italiana ... cit.

 

 

  Francesca Vennarucci, “Il mondo di Eugénie”. Per una rilettura di “Eugénie Grandet”, Ivi.

 

 

 

 

Eventi.

 

 

  Lettura ad alta voce: “Viaggio da Parigi a Giava” di Honoré de Balzac (Ibis Edizioni), Pisa, “Pisa Book Festival”, 8 novembre 2014.

 

 

  Libro del giorno. “La pelle di zigrino” di Honoré de Balzac, edizione Garzanti, traduzione di Cosimo Ortesta. In conduzione: Paolo Terni, Radio 3, 23 febbraio 2014.

 

 

  Paolo Di Paolo, Tavola rotonda. “Papà Goriot”, in AA.VV., XI Convegno Nazionale sulla Letteratura. Nei boschi narrativi: personaggi in cerca di ..., Reggio Calabria, Auditorium “San Vincenzo de’ Paoli”, 10 aprile 2014.

 

 

  Matteo Mirandola, La pittura e la recitazione: il flusso creativo della coscienza, con recitazione di testi inediti ispirati da Honoré de Balzac e Yves Klein, Gargnano, Sala Civica ‘Castellani’, 14 dicembre 2014.



Marco Stupazzoni

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