mercoledì 7 aprile 2021



2016

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Fisiologia del matrimonio. Meditazioni di filosofia eclettica sulla felicità e l’infelicità coniugale. Traduzione dal francese di Emilio Faccioli, Roma, Elliot-Lit edizioni, (gennaio) 2016 («Raggi»); (novembre) 2016 («Manubri»), pp. 319.

 

  Cfr. 2015.

 

 

  Honoré de Balzac, I giornalisti. Prefazione di Edoardo Castagna. Traduzione e cura di Alfredo Rovatti. Con due scritti di Gérard de Nerval e Marcel Schwob, Milano, Edizioni Medusa, (gennaio) 2016 («Le porpore», 96), pp. 135; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Edoardo Castagna, Prefazione, pp. 5-8;

  Alfredo Rovatti, Nota editoriale, p. 9;

  Gérard de Nerval, La vera storia del “canard”. Traduzione di Laura Madella, pp. 11-17;

  I giornalisti. Monografia della stampa parigina, pp. 19-117;

  Marcel Schwob, L’isola dei Diurnali. Traduzione di Laura Madella, pp. 119-134.

 

  Pubblicato, in prima edizione, nel 1843, la Monographie de la presse parisienne di Balzac ha da sempre suscitato un meravigliato interesse nella critica contemporanea per la «smagliante attualità del testo – scrive Alfredo Rovatti nella sua Nota editoriale a p. 9 – nel descrivere alcuni tipi giornalistici che si possono anche oggi ritrovare nel mondo dell’informazione». Lo scritto balzachiano è preceduto da un testo satirico e altrettanto corrosivo di G. de Nerval: La vera storia del «canard» pubblicato nel 1845, ed è seguito da uno scritto di M. Schwob: L’isola dei Diurnali edito nel 1903. Secondo Edoardo Castagna, è nella descrizione del contrasto tra la figura del pubblicista e quella del critico che l’opera di Balzac assume i caratteri di una rappresentazione del mondo dell’informazione applicabile ad ogni epoca e ad ogni Paese. Le figure descritte dal romanziere francese «ricorrono identiche nel nostro panorama contemporaneo» (p. 5): si tratta, osserva Castagna, di un mondo che da tempo «si avvita, da una parte, nella commistione tra la critica e la propaganda; e, dall’altra, sconta l’amplificazione dei difetti della categoria giornalistica, lucidamente e impietosamente snocciolati da Balzac, dovuta alla Rete» (p. 6)

 

 

  Honoré de Balzac, Gobseck. Traduzione e note di Maurizio Ferrara, Bagno a Ripoli, Passigli Editori, (novembre) 2016 («Le Occasioni. Piccola Biblioteca Passigli»), pp. 111.

 

  Il primo frammento di quella che diventerà una delle più penetranti e incisive «scènes de la vie parisienne» è apparso, con il titolo di L’Usurier, ne «La Mode» del marzo 1830. Un mese più tardi, vede la luce, nelle Scènes de la vie privée, la prima edizione del racconto balzachiano pubblicato dagli editori Mame-Delaunay et Vallée con il titolo di: Les Dangers de l’inconduite. La presente traduzione italiana dell’opera di Balzac, curata anche nell’apparato delle note al testo da Maurizio Ferrara, si fonda sul modello dell’edizione originale (1830) e non su quello dell’edizione definitiva Furne del 1842. Viene mantenuta, infatti, la suddivisione del testo in tre capitoli preceduti da un Prologo («I pericoli della cattiva condotta»): questa ripartizione in capitoli sarà abolita da Balzac nell’edizione definitiva del 1842, mentre di rilevanza minore risultano essere le varianti testuali di questa ultima versione rispetto al testo dell’edizione originale.

 

 

  Honoré de Balzac, La Grande Bretèche. Traduzione di Luca Lamberti, in AA.VV., Insospettabili. Racconti gialli. A cura di Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, Torino, Einaudi, 2016 («Super ET»), pp. 3-24.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Francesco Fiorentino. Traduzione e note di Anna D’Elia, Milano, BUR, 2016 («Grandi classici»), pp. XXXIII-310.

 

  Cfr. 1995 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Se fossi ricco! Traduzione di Laura Frausin Guarino, Milano, Edizioni Henry Beyle, (gennaio) 2016 («Quaderni di prosa e di invenzione», 49), pp. 19.

 

  Pubblicato in due parti ne «La Caricature» del 23 dicembre 1830, l’articolo Si j’étais riche!!! Pone alcuni problemi circa l’attribuzione della paternità integrale di questa fantaisie a Balzac. La traduzione italiana di questo breve testo giornalistico è curata da Laura Frausin Guarino, la quale, probabilmente per distrazione, omette di riportare le righe conclusive dello scritto. Come osserva Roland Chollet nella presentazione di questo scritto balzachiano (cfr. Œuvres diverses II, Paris, Gallimard, 1996, «Bibliothèque de la Pléiade», p. 1632), Si j’étais riche!!! – firmato: Le Comte Alex. de B… – è probabilmente un’improvvisazione giornalistica scritta a quattro mani, in cui il contrasto stilistico tra il preludio e la seconda parte dello scritto appare piuttosto evidente.

 

 

  Honoré de Balzac, Il confronto tra Balzac e Stendhal a proposito del romanzo, in Stendhal, La certosa di Parma. Traduzione di Maurizio Cucchi; in appendice. A cura di Mariella Di Maio, Milano, Mondadori, 2016 («Oscar classici» 1).

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Vance Adair, Papà Goriot, in AA.VV., 1001 libri da leggere nella vita. I grandi capolavori della letteratura mondiale. A cura di Peter Boxall, Valsamoggia (Bologna), Atlante, 2016, p. 107.

 

  Papà Goriot è la storia di un ricco uomo d’affari che lascia una fortuna alle figlie ingrate. Nella squallida pensione in cui vive per poter continuare a dar loro quel poco che gli resta, l’uomo fa amicizia con il giovane ambizioso Rastignac, che sfrutta il rapporto per soddisfare le sue ambizioni sociali. La scalata sociale delle figlie è disseminata di intrighi, tradimenti e persino omicidi, e varie canaglie fanno in modo che il racconto sia animato da sensazionali svolte impreviste. In sostanza, però, è l'amore non corrisposto di Goriot per le figlie a rappresentare la tragedia centrale intorno a cui Balzac racconta il più ampio malessere sociale.

  Parte del ciclo della Commedia umana, Papà Goriot traspone Re Lear di Shakespeare nella Parigi dell’Ottocento. In netto contrasto con la devozione altruistica di Goriot per la famiglia, il romanzo analizza da più punti di vista come non siano più i legami filiali o gli ideali della comunità a sostenere l'edificio sociale, bensì una pseudoaristocrazia corrotta fondata sull’individualismo aggressivo e sull’avidità.

  Anche se alcuni potranno spazientirsi dinanzi alla trama eccessivamente tortuosa, l’attenzione per i dettagli e il talento nel riprodurre il realismo psicologico di Balzac suscitano continua ammirazione. La varietà delle sue doti artistiche lo colloca stabilmente nella tradizione del diciannovesimo secolo, ma la tecnica narrativa e l’attenzione per i personaggi fanno di lui una figura fondamentale della letteratura moderna.



  Claudio Asciuti (a cura di), Guida alla letteratura esoterica. Testi di Claudio Asciuti, Glauco Berrettoni, Adalberto Cersosimo, Oskar Felix Drago, Giacomo Giustolisi, Franco Piccinini, Bologna, Odoya, 2016 («Odoya Library», 229):

 

  Swedenborg secondo Balzac, pp. 254-259;

 

  Honoré de Balzac, pp. 264-265;

 

  1809: dall’Alchimia, alla chimica. La ricerca dell’Assoluto, pp. 351-354;

 

  L’Androgine swedenhorghiano: Séraphîta di Honoré de Balzac, pp. 375-380.

 

 

  All’interno di questa guida antologico-critica dedicata alla letteratura esoterica e curata da Claudio Asciuti, sono presenti, in luoghi diversi della raccolta, tre brevi capitoli dedicati a Balzac (ai quali si deve aggiungere una sommaria e approssimativa nota biografica sullo scrittore francese: Honoré de Balzac, pp. 264-265) e ad alcuni romanzi della Comédie humaine di matrice esoterica nei quali risulta evidente il legame con le dottrine swedenborghiane. Nel primo di questi capitoli (Swedenborg secondo Balzac), Asciuti concentra la sua attenzione su La Peau de chagrin e su Louis Lambert. L’A. considera, in particolare, La Peau de chagrin come un testo ricco di implicazioni simboliche che rimandano all’esoterismo e ritiene che Balzac, muovendosi «a cavallo delle spiegazioni possibili in chiave psicopatologica, e in quelle più propriamente misteriosofiche» (p. 258), dissemini tutto il romanzo di segni e di citazioni che spostano l’asse dell’opera dall’assunto naturalista a quello più propriamente magico-esoterico.

  La ricerca di una nuova dimensione espressiva degli aspetti esoterici del pensiero attraverso le forme della narrazione è rilevabile, secondo l’A., nella Recherche de l’Absolu (1809: dall’Alchimia alla chimica. “La ricerca dell’assoluto”). Storia di un’ossessione, quella del protagonista del romanzo, Balthazar Claës, La Recherche de l’Absolu si configura anche come un breve viaggio nell’alchimia attraverso il quale «la magia dello scrittore […] si confonderebbe con quella del chimico» (p. 354).

  L’influenza della teosofia di Swedenborg sulla poetica e sulla filosofia di Balzac si manifesta in maniera esemplare nella trattazione del tema dell’androginia in Séraphîta (L’Androgine swedenborghiano: “Séraphîta” di Honoré de Balzac). I temi psicologici e teologici che stanno alla base del testo balzachiano sono analizzati in maniera alquanto marginale e superficiale dall’A., il quale, a conclusione della sua disamina del romanzo, osserva, a proposito della figura dell’androgino, che «la complessa relazione con il genere femminile, che fu motivo di infiniti problemi all’uomo Balzac, trascende nel Balzac scrittore in questa dissoluzione dei sessi che ci riporta all’Androgine primario di impronta platonica» (p. 380).

 

 

  Silvia Baroni, “La Vieille Fille” di Balzac: feuilleton ou pas? ‘Querelle’ sulle origini della letteratura seriale francese, «Between. Rivista dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura», Volume VI, n. 11, Maggio 2016. (on-line).

 

  Il 1836 è una data capitale per la storia del romanzo e del giornalismo francesi: tra il 23 ottobre e il 4 novembre viene pubblicata su La Presse di Émile de Girardin La Vieille fille di Honoré de Balzac. Con un progetto ben preciso: la rivoluzione della stampa grazie alla creazione di un nuovo genere letterario, il roman-feuilleton. L’obiettivo è quello di attrarre un numero maggiore di lettori per poter ridurre della metà il prezzo dell’abbonamento. Il debutto del feuilleton però non ha avuto subito il successo che Girardin immaginava quando, qualche mese prima, aveva annunciato l’imminente comparsa di un testo inedito del famoso autore della Peau de Chagrin sul suo nuovo giornale. Malgrado le forti critiche provenienti dai quotidiani rivali e dagli stessi lettori della Presse, Girardin e Balzac avevano indubbiamente dato inizio a un fenomeno inarrestabile, e La Vieille fille di Balzac viene considerata tutt’ora come il primo roman-feuilleton della letteratura francese.

  In realtà, la possibilità di attribuire a Balzac la fondazione del genere è oggi ben lontana dall’essere una verità universalmente riconosciuta. Proprio in Francia, negli ultimi vent’anni sono stati scritti una serie di studi critici sulla stampa del XIX secolo che hanno fatto nascere numerose contestazioni intorno al primato balzachiano. Scopo di questo articolo è capire perché proprio a distanza di quasi due secoli ci sia un ripensamento sul ruolo della Vieille Fille come testo fondatore del roman-feuilleton, analizzare le osservazioni mosse e vedere se in questo dibattito sulle sue origini sia ancora possibile assegnare il primato a Balzac.

  Così Balzac, che indubbiamente ha pubblicato per primo un suo romanzo inedito en tranches continues su un quotidiano di matrice politica, non aveva alcun predecessore a cui appellarsi. La sua consapevolezza di star creando qualcosa di nuovo è chiaramente visibile nella volontà di fare un grande esordio, nel suo sforzo di costruire un complesso «mythe politique et herméneutique moderne». E se La Vieille fille non riuscirà a imporsi come il campione del roman-feuilleton, si può dire che ne costituisca l’“anti-modello” formale e tematico, una lezione di cui tutti i successivi tentativi, compresi quelli dello stesso Balzac, terranno conto. Il potere del lettore, visibile sin da questi esordi, decretò che le caratteristiche assunte dalla Vieille fille non erano adatte al suo gusto, e Balzac cambiò subito i soggetti dei successivi testi da fornire al Siècle e al Constitutionnel. Una conclusione alla querelle può quindi essere trovata soltanto a patto di considerare il roman-feuilleton non come un rigido schema esclusivo ma, al contrario, come un processo sempre in crescita, necessariamente nato da un grado zero, da un contesto dove la prima pietra miliare poteva essere un esempio perfetto, da copiare, o un modello al negativo, che avrebbe comunque insegnato a quanti si sarebbero cimentati nella nuova forma che cosa migliorare. In questa prospettiva, La Vieille fille di Balzac può essere considerato il primo roman-feuilleton della letteratura francese.

 

 

  Silvia Baroni, La comédie de la description. “Capricci” balzachiani, «PoliFemo. Nuova serie di ‘lingua e letteratura’», Milano, n°11-12, 2016.


 

  Brigitte Battel, Tradurre “Une Passion dans le désert” d’Honoré de Balzac. Il valore semantico di una interiezione, in AA.VV., Letteratura Traduzione e Lingua. Atti del Convegno Internazionale, Il Cairo, Helwan University (7-8 dicembre 2015), a cura di Wafaa Abdel Raouf El Beih, Osiris Bookshop, 2016, pp. 84-106.

 

  B. Battel opera un confronto linguistico e strutturale tra le prime traduzioni anonime della novella di Balzac: Une Passion dans le désert e alcune edizioni successive evidenziando le manipolazioni del testo originale che hanno determinato una modifica nella ricezione del senso globale dell’opera.

 

 

  Mario Baudino, Balzac grillino ante litteram contro i giornalisti “nientologi”, «La Stampa», Torino, Anno 150, 14 febbraio 2016, pp. 24-25.

 

  I giornali erano in pieno boom, nuove figure intellettuali dominavano la scena durante la monarchia di Luigi Filippo, ed erano strani personaggi come il «nientologo» o lo scrittore «monobiblico». Così almeno li vide Balzac, che dette alle stampe, correva il 1843, un pamphlet feroce e scintillante, I giornalisti. Monografia della stampa parigina, tradotto da Medusa con saggi di Gérard de Nerval e Marcel Schwob.

  A distanza di circa due secoli conserva non poca attualità. E al di là del tono un tantino populista (Balzac spara su tutti con foga grillina) propone una galleria di tipi umani – e professionali – praticamente immortali. C’è il «direttore-caporedattore-proprietario-gerente», severo, noioso, solenne e attento al portafogli, quasi sempre sfortunato ma a volte di grande successo; ci sono i «tenori», rigorosamente pro o antigovernativi, che scrivono gli articoli di apertura (ma allora non li firmavano) con testarda retorica, o per dare sempre contro o per essere sempre a favore dell’amministrazione, talché alla lunga «si vive su un certo numero di frasi».

  C’è l’immancabile politico protettore, considerato che «più un uomo politico è una nullità, più è pronto per diventare il Dalai Lama di un giornale». Ci sono, numerosi come formiche, i «camarillisti», giovani e cinici, sempre pronti a consigliare beffardamente e blandire questo e quel politicante. E non manca, tocco patetico, lo sventurato «fabbricatore di articoli di fondo» – che all’epoca erano interventi colti di varia umanità, l’unico con una competenza vera. A lui vanno le simpatie dello scrittore, anche perché «questo redattore guadagna poco», visto che «nessun foglio è abbastanza ricco per retribuire il talento coscienzioso e gli studi seri».

  Il protagonista assoluto non è tuttavia una persona: è il canard, entità quasi metafisica. Mentre i tenori si esibiscono nel do di petto, gli estensori delle note politiche ripetono e si ripetono, i politici pasticciano e il vasto mondo dei giornali celebra il suo teatrino, ecco che arriva periodicamente «la notizia di un fatto straordinario, mostruoso, incredibile e vero, possibile e falso, che serviva da richiamo per le «anitre», nei giornali ha preso il nome di canard, e con ragione, dato che non si fa senza penne e si mette in tutte le salse». La prosa è un po’ ingarbugliata, ma il senso è evidente.

  Il canard (la «bufala») è visto come il carburante di tutta l’industria dell’informazione. Arriva da lontano «dai dipartimenti», o nel periodo in cui scrive Balzac soprattutto dalla Russia; come notizia non è controllabile e comunque non viene controllata, scatena gli entusiasmi e infiamma gli animi. Per Balzac non c’è tenore senza canard, non c’è politico, non c’è giornale. Esagerato? Negli anni della Monarchia di Luglio non del tutto, basti pensare che più o meno nello stesso periodo Dumas scriveva Il conte di Montecristo, e l’avventura del romanzo culmina proprio durante il corrotto regno di Luigi Filippo.

  Attuale? Lo scrittore, che nel costruire la sua Commedia umana aveva un’idea zoologica della società, con l’ambizione di raccontare in modo scientifico le «specie sociali», qui sembra calcare deliberatamente la mano, passando dalla zoologia allo zoo. Coglie i caratteri più vistosamente emblematici, maschere di una commedia dell’arte, ben prima del Maupassant di Bel ami – o di Henry James, altro critico amarissimo. Balzac è unilaterale e spietato, ma i tic e i vizi anche gravi che mette a fuoco non sono certo scomparsi, nella carta stampata e (soprattutto) nella televisione. Non resta che immaginare le sue possibili reazioni a un talk-show.

 

 

  Alfonso Berardinelli, Discorso sul romanzo moderno. Da Cervantes al Novecento, Roma, Carocci editore, 2016 («Sfere», 113).

 

  p. 72. In Balzac e in Dickens non compaiono individui di questo genere. Né l’uno né l’altro sono come Stendhal romanzieri occasionali, ma professionali e totali. In loro la rappresentazione globale della società in tutte le sue determinazioni ambientali soffoca il razionalismo vitalistico, analitico e tragico che c’era in Stendhal. Ormai in questi due veri e propri “mostri” della produttività narrativa, l’ambiente occupa quasi tutto lo spazio: ai personaggi non resta che essere conformi o bizzarri e marginali. I romanzi di Balzac e di Dickens letteralmente “brulicano” di personaggi perché è l’ambiente a produrli naturalmente. Per Balzac la società è onnipervasiva, invincibile e meravigliosamente misteriosa come la natura. A essa non ci si sottrae. Dallo stesso Marx e poi da critici marxisti del calibro di Lukács l’opera di Balzac è stata canonizzata come esempio supremo di critica della società borghese da parte di un’artista borghese. Per ragioni diverse era apprezzato e venerato anche da Baudelaire. E nella seconda metà del Novecento un sociologo vicino al marxismo come Charles Wright Mills dichiarò che Balzac, di cui aveva letto quasi tutto, era stato uno dei suoi fondamentali maestri.

  Nonostante la sua “visionarietà” e il suo modo di procedere spesso disordinato, Balzac è stato visto come una sorta di scienziato letterario della società borghese nel momento della sua crescita ed espansione. Il vero personaggio e protagonista della narrativa di Balzac è l’organismo sociale di cui i singoli individui sono cellule per lo più inconsapevoli. [...].

  pp. 76-77. Supremo e onesto conoscitore della società (secondo Lukács) o portentoso visionario (secondo Curtius), Balzac è il cuore del realismo sociale europeo. Per quella sua caratteristica mescolanza di grandiose tipizzazioni romantiche, angelico-demoniache (Eugénie Grandet e Vautrin, d’Arthez e Rastignac) e di volontà conoscitiva enciclopedica della società contemporanea, Balzac è il titano e il martire di un progetto realistico senza limiti. La sua è una lotta con la realtà per dominarla rappresentarla. In questa lotta la sola arma letteraria adeguata può sere il romanzo, o meglio il ciclo “dantesco” della Comédie humaine cui ogni singolo romanzo è una ramificazione particolare. Dunque Balzac grande realista. Ma forse mai come nel suo caso risulta evidente che la realtà per il romanziere è insieme una scoperta e un’invenzione e che una conoscenza analiticamente obiettiva richiede l’utopia di una visione globale e organica di “tutti” i fenomeni nella loro connessione necessaria e significativa.

 

 

  Alfonso Berardinelli, Consigli di lettura agli omosessuali che vogliono sposarsi a tutti i costi, «Il Foglio», Milano, 16 Febbraio 2016.

 

  Tempi felici, no, volevo dire tempi infelici quelli nei quali il matrimonio era un tema interessante perché non se ne trovava uno che riuscisse bene, visto che pretendeva di realizzare l’armonia fra due esseri viventi così remoti fra loro e così reciprocamente misteriosi come un uomo e una donna ... Il matrimonio, allora, era un fenomeno scontato e insondabile intorno al quale non si finiva più di filosofare e collezionare aneddoti e massime. La mia generazione, quella molto volgarmente definita “sessantottesca”, era arrivata a concludere che sposarsi era un errore, il matrimonio una truffa e anche la convivenza si rivelava un rischiosissimo gioco d’azzardo che prometteva disastri. Molti di noi, nonostante queste premesse, si sposarono. E che cosa scoprirono? Scoprirono l’ombrello e l’acqua calda, cioè quella ripugnante banalità o eterna verità secondo cui “il matrimonio è la tomba dell’amore”. Fu certo avvilente per una generazione così sicura di aver capito a vent’anni tutto della vita e della società, trovarsi fra le mani il più ridicolo, impresentabile e ammuffito dei luoghi comuni. Tanta psicanalisi e tanto marxismo per constatare che nonni e antenati avevano ragione: amore e matrimonio sono nemici. O meglio, come disse Honoré de Balzac, la risposta alla domanda “perché è così raro che un matrimonio sia felice?”, la sola risposta, è la seguente: “perché questo fenomeno morale ha bisogno, per realizzarsi, di persone geniali, e le persone geniali si incontrano di rado”.

  Oltre a considerare le molte “difficoltà fisiche che due sposi devono superare per riuscire a essere felici”, aggiunge Balzac, bisognerebbe infatti “elencare tutti gli spaventosi obblighi morali che nascono dalla differenza dei caratteri”. E’ vero che dal punto di vista scientifico-sperimentale e conoscitivo è proprio “la differenza dei caratteri” a produrre quella straordinaria tragicommedia che è il matrimonio. Senza il matrimonio tra maschi e femmine non sarebbero stati creati diversi capolavori, tra cui, come tutti sappiamo “Madame Bovary”, “Anna Karenina”, “Casa di bambola” nonché, nel Novecento, “Nemici: una storia d’amore” di Singer e “Scene da un matrimonio” di Bergman. Io in questi giorni mi sono buttato su questo libro di Balzac che non avevo mai letto “Fisiologia del matrimonio” (elliot, 318 pp., 17,50 euro) uno studio comico-precettistico pubblicato nel 1830 e che all’epoca fu un successo.

  Balzac è intemperante e mostruosamente digressivo. Non risparmia le parole, le sperpera. E’ un entertainer nato, e il suo libro, a metterlo ih scena oggi, potrebbe riempire un’annata di trasmissioni televisive. Contiene, oltre a molta casistica divertente ma antiquata, un bel cumulo di considerazioni inossidabili. Ce n’è una a cui di solito non si pensa, secondo cui una moglie e un marito non si sposano soltanto in due, ma senza rendersene conto contraggono matrimonio con gli amici e con le amiche del coniuge. Secondo Balzac, per un marito i pericoli maggiori vengono dalle amiche della moglie, quelle con cui lei parla e si confessa e dalle quali riceve giudizi e consigli. Chi vi difenderà dalle amiche di vostra moglie? Sono loro a costruire l’immagine, l’idea che lei si fa del proprio successo o più spesso del proprio fallimento matrimoniale. Non riuscirete mai, voi mariti o voi mogli, a correggere l’idea del vostro matrimonio che nella testa di vostra moglie o di vostro marito hanno infilato la sua migliore amica o il suo migliore amico: i quali naturalmente, benché facciano del male, parlano sempre, secondo loro, “a fin di bene”.

  Giudicando ineluttabile già nell’Ottocento la necessità di procedere in ogni cosa con metodo scientifico e pratico, esibendo statistiche e confezionando manuali su ogni attività, dall’arte di conservare gli alimenti a come tagliare la carne, preparare la calce o annodarsi la cravatta, Balzac decise, per vendere il libro, di fare lo stesso con il matrimonio. Fra un calcolo numerico e un aneddoto, lo scrittore accumula elenchi, aforismi e massime. Per esempio: l’adulterio è certo una terapia contro quel malanno che è il matrimonio, ma c’è da chiedersi se non produca più infelicità del matrimonio. E perché “ci sono uomini di magnifico aspetto e di intelletto superiore che le mogli tradiscono con amanti bruttissimi e stupidi?”. Una pagina intera è dedicata a elencare pregi fisici e morali delle dorme, ma fra questi spicca l’osservazione che “essere amata è lo scopo di tutte le azioni di una donna e eccitare il desiderio quello di tutti i suoi gesti”. A volte Balzac clamorosamente sbaglia, ma certo i tempi cambiano le cose. Se allora la menopausa per una donna era “la brutale intimazione della natura a porre fine alle passioni”, oggi sembra vero il contrario: le donne dopo i cinquanta sono più disposte e appassionate che mai.

  Il presupposto che l’autore propone è che “tutte le donne tradiscono i mariti”. Non bisogna però farsi idee sbagliate: “L’adulterio non si impadronisce del cuore di una donna sposata con la velocità di un colpo di pistola”, poiché in lei “c’è sempre una lotta la cui durata” è proporzionale al pudore. Quindi ci vuole pazienza.

  Fra gli uomini più predestinati a essere traditi ci sono quelli che per ragioni di lavoro e a orari fissi restano più a lungo fuori di casa: magistrati, funzionari, deputati, militari, scienziati e (sic!) “studiosi di greco e di latino che vivono respirando la polvere delle biblioteche” (ce ne sono ancora?).

  Leggere questo Balzac mi ricorda i discorsi che alla fine degli anni Cinquanta o poco dopo noi adolescenti ignari sentivamo fare ai nostri fratelli maggiori che andavano verso la trentina. Roba ridicola, da vergognarsi. Quasi sempre raccontavano fandonie. Ma almeno allora ci si rifletteva e ragionava all’infinito. Finiva un’epoca durata millenni, trascorsa all’insegna dell’“Arte di amare”. Più tardi quest’arte sembrò diventata monopolio degli omosessuali, particolarmente riflessivi e nemici assoluti di quella cosa borghese che si chiamava matrimonio. Oggi sono loro, o meglio è la categoria che vogliono rappresentare, a volere a tutti i costi il matrimonio, con un candore da neofiti, con un entusiasmo da conventi. La famosa “natura umana”, che qualcuno ha creduto romanticamente indomabile e selvatica, non è una minaccia per la borghesia: è lei che ha creato la borghesia. La borghesia è eterna, prima o poi tutti i ribelli ci finiscono dentro, matrimonio e adulterio compresi.

 

 

  Andrea Bressa, Come sborsare i debiti senza pagare nulla? Lo spiega Balzac, «Panorama», Milano, 13 Gennaio 2016.

 

  Su: Balzac, L’arte di onorare i debiti [...], 2015.



  Raffaele Campanella, Dante e Balzac: due ‘commedie’ a confronto, «Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri», Pisa-Roma, Anno XIII, 2016, pp. 125-132.

 

  Abstract. A prima vista tutto sembra contrapporre Dante a Balzac: il titolo dei rispettivi capolavori, lo stile, la forma di scrittura, le fonti, il tempo in cui vissero ed operarono. Ad un esame più attento, tuttavia, emergono importanti punti di contatto fra i due grandi scrittori: l’alto concetto che essi avevano della propria opera e della loro missione; l’aspirazione “universalistica” di entrambi; l’afflato filosofico-religioso dei due capolavori, presente in tutta la Commedia dantesca, soprattutto nel Paradiso, ed in Balzac negli (sic) Études Philosophiques. In ogni caso va sottolineata la profonda ammirazione che Balzac nutriva per Dante come si rileva da molti passaggi della sua opera, in particolare nel racconto Les Proscrits, inserito nella trilogia del Livre Mystique.

 

 

  Carlotta Castellani, Il mito dell’artista e dell’opera in “Le chef-d’œuvre inconnu” di Balzac. Tesi di Dottorato. Tutore: prof. Patrizio Collini; coordinatore: prof.ssa Lucia Borghese, Università degli studi di Firenze, Dottorato di ricerca in Miti fondatori dell’Europa nelle arti e nella letteratura, ciclo XXVII, Dipartimento di lingue, letterature e studi interculturali, 2016.

 

 

  Teresa Ciabatti, Modello Balzac: il racconto della società, «Corriere della Sera. La Lettura», Milano, 24 aprile 2016, p. 35.

 

  Maria [de Filippi] non applica un’idea preconcetta di vecchiaia. Honoré de Balzac racconta Papà Goriot, l’anziano padre che rinuncia a ogni cosa per l’ascesa sociale delle figlie, in una società borghese dominata dal danaro. Così Maria: racconta gli anziani di oggi, in una società televisiva e mediatica.

 

 

  Pietro Citati, Balzac e il rosso, in Sogni antichi e moderni, Milano, Mondadori, 2016 («Saggi»), pp. 248-253.

 

  Cfr. 2015.

 

  Vista con gli occhi del flâneur, Parigi, così come la descrive Balzac nella trilogia dell’Histoire des Treize e, in modo particolare, in Ferragus e ne La Fille aux yeux d’or – giudicati da Citati come veri e proprî capolavori narrativi –, si presenta sotto il segno della contraddizione. Gli intensi e bizzarri contrasti di luce e di ombra, di colori e di sensazioni fanno della capitale francese un corpo «enorme e mostruoso» (p. 249), pervaso, non soltanto dagli splendori dell’oro e del piacere, ma anche dalle miserie e dai misteri più reconditi degli uomini e degli ambienti. Anche l’intreccio romanzesco riflette l’effetto complessivo di questi dettagli frequentemente in opposizione tra loro: «abbiamo sempre l’impressione, scrive Citati, che tutto si sciolga nell’aria e nell’inconsistenza; salvo che, esattamente al contrario, il romanzesco produce l’enorme gravezza della visione infuocata» (p. 250). È il caso di Ferragus, in cui «le passioni straripano e devastano i cuori» (Ibid.) o de La Fille aux yeux d’or, «pura esplosione di genio» narrativo dove il rosso della passione e del desiderio erotico estremo conosce la sua ultima trasfigurazione nel colore di una furiosa violenza omicida senza limiti e senza freno.

 

 

  Carolina ColombiValentina DragoniMaria Lucia Ferlisi e Giulia La Face, Le donne della “Comedie Humaine” di Balzac, ‘www.culturaalfemminile.com’, 4 Luglio 2016.

 

 

  Nanni Delbecchi, Gli “Amici” di Maria, più circo che Balzac, «Il Fatto Quotidiano», Roma, 26 Aprile 2016, p. 24.

 

  Quel pozzo senza fondo di scoop che è la Lettura del Corriere della Sera [cfr. supra l’articolo di Teresa Ciabatti] ce ne regala due in un colpo solo: i programmi di Maria De Filippi sono la nuova Comédie humaine. Come Balzac e Maupassant, Maria si limita a portare alla ribalta i tipi presenti dalla realtà sociale. Primo scoop: dunque anche Balzac e Maupassant non hanno inventato niente.



  Giulia Del Grande, 1837, Balzac nel salotto milanese della contessa Clara Maffei: aneddoti, curiosità e pensieri inediti, Altriitaliani.net, 21 dicembre 2016. [on-line].

 

 

  Andrea Del Lungo, Du Balzac arrangé par d’Aurevilly: sur le recueil des “Maximes et Pensées” de Balzac édité en 1856, in Collectif, Barbey d’Aurevilly: perspectives critiques, Paris, Classiques Garnier 2016 («Colloque de Cérisy – Littérature», n° 2), pp. 231-247.

 

  Andrea Del Lungo concentra la sua attenzione intorno al dibattito critico circa l’attribuzione dei due volumi postumi di massime scelte di Balzac: Les Femmes e Maximes et pensées, pubblicati senza indicazione del curatore e solitamente ritenuti opera di Barbey.

 

 

  Andrea Del Lungo, Éloge du visible (sur «S/Z»), «Carnets. Revue électronique d’études françaises», 6, 2016, p. 29.

 

 

  Francesca Dosi, Jacques Rivette ou la “vocation” balzacienne du cinéma, «Le Courrier balzacien», Paris, Nouvelle série, N° 36, Avril 2016, pp. 28-41.


  Une trame que l’on ne cesse de tisser, une symphonie stéréophonique où les sons, combinés, se répondent en écho, une mosaïque dont on ne se lasserait pas de recombiner les tesselles. Ces images pourraient évoquer autant l’architecture de La Comédie Humaine que le corpus cinématographique de Jacques Rivette, décédé vendredi 29 janvier, à l’âge de 87 ans, laissant derrière lui une série d’oeuvres expérimentales, erratiques et protéiformes qui gardent les traces d’une profonde «innutrition» balzacienne, c’est-à-dire d’une assimilation qui serait à l’origine d’une reprise féconde et non d’un fade mimétisme produisant des copies, des contrefaçons. La réinvention artistique, dans cette perspective, tient d’une sorte d’imprégnation, qui permettrait la fantaisie créatrice. […].



  Francesca Dosi, Entretien avec le scénariste Pascal Boniter, Ibid., pp. 42-54.

 

 

  Alain Elkann, Valerio Magrelli. “Manzoni? Un grande meglio di Balzac”, «La Stampa», Torino, Anno 150, 15 maggio 2016, p. 26.

 

  «Considero Manzoni un immenso prosatore, ben superiore a un qualsiasi Balzac, ma le sue prove poetiche mi fanno pensare alla musica di Nietzche».

 

 

  Paolo Fabbri, Rossini in mano a Balzac: un caso di ri-creazione, in AA.VV., Alle più care immagini. Atti delle due giornate di studi rossiniani in memoria di Arrigo Quattrocchi. Università di Roma “La Sapienza”, 27-28 maggio 2011. A cura di Daniela Macchione. Direzione scientifica di Philip Gossett, Borghetto Lodigiano, Fotlito73graphic, 2016, pp. 211-223.

 

  [...] Per Balzac, il caso di maggior densità rossiniana è ovviamente il racconto Massimilla Doni, accoppiato a Gambara per temi (entrambi nouvelles musicales) e genesi. La loro nascita si colloca nel 1837 e procede reciprocamente intrecciata: dapprincipio Balzac lavora al secondo, poi (dopo il viaggio in Italia: 17 febbraio-3 maggio) lo accantona temporaneamente per scrivere di getto il primo, e infine porta a compimento anche l’altro (pubblicato a puntate tra il 23 luglio e il 20 agosto 1837 sulla parigina «Revue et gazette musicale de Paris» di Schlesinger, che gliel’aveva ordinata fin dall’ottobre 1836). A quel punto, Massimilla Doni sarà rivisto con più calma, e dato alle stampe solo due anni dopo (ma per «La France musicale» di Souverain, 25 agosto 1839). Già l’anno seguente i due racconti venivano ristampati, stavolta in coppia, sotto il titolo comune di Le livre des douleurs. Come l’autore scriveva a Madame Hanska il 24 maggio 1837,3 essi dovevano infatti considerarsi un’accoppiata di studi filosofici in cui la musica si presentava nella sua duplice veste: composizione (Gambara) ed esecuzione (Massimilla Doni). E in quanto tali, confluirono nel volume XV dell’edizione Furne di La comédie humaine (1846), tra le Études philosophiques. Per sottolinearne anche esteriormente il gemellaggio, nelle ultime righe di Gambara fa una fugace apparizione una coppia di nobili indicati come Massimilla e suo marito principe di Varese, cioè i protagonisti dell’altro.

  Nella nascita di questi suoi lavori, Balzac attribuì un ruolo maieutico decisivo a Georges (sic) Sand. Scrivendo a Schlesinger a fine maggio 1837 (una lettera poi resa pubblica sul numero dell’11 giugno della «Revue et gazette musicale»), Balzac ricordava una serata dalla scrittrice in cui si era parlato di musica. Pur non essendo un competente, lui aveva esposto ai presenti le sue opinioni sul Mosè in Egitto di Rossini, tornato d’attualità a Parigi in quanto riallestito al Théâtre Italien a fine 1832, e poi dal novembre 1834. Fu verosimilmente quest’ultima ripresa (con Rubini, Tamburini, Lablache e la Finck-Lohr), che Balzac vide, che costituì l’occasione per le sue esternazioni nel salotto della Sand. [...]. Da un lato, le riflessioni su Mosè vennero inserite in una serata a teatro in cui l’opera di Rossini veniva reinventata e riletta dal punto di vista della protagonista di Massimilla Doni; dall’altro, l’idea rossiniana (l’ouverture di Guillaume Tell) e berlioziana (Symphonie fantastique) di una composizione strumentale evocatrice di un racconto diede a Balzac lo spunto per ideare una composizione immaginaria, fondata sulla categoria della narratività, che finisce per anticipare singolarmente generi musicali che appariranno solo un decennio dopo. [...].

  Rispetto a quanto – su tali racconti – altri già hanno rilevato, essi presentano aspetti che non mi paiono sufficientemente messi a fuoco. Ad esempio, le tematiche patriottiche. Sia Gambara sia Marcosini sono profughi politici e la Doni manifesta più volte espliciti sentimenti anti-austriaci e liberali che si proiettano nella sua lettura del Mosè di Rossini in quanto opera corale che porta in scena la liberazione di un popolo. [...]. Collocati nel 1820 e nel 1831, i due racconti riflettono però – naturalmente – le sensazioni di un autore reduce dall’Italia, e che comunque scriveva a Parigi nel 1837. La capitale francese ospitava infatti numerosi fuorusciti italiani di spicco, esuli forzati a causa chi dei moti del ʼ31, chi delle repressioni antimazziniane del 1833 in Piemonte oppure della fallita spedizione in Savoia del 1834. [...].

  L’attenzione a materie e protagonisti musicali derivò a Balzac da Hoffmann [...]. E in effetti – con le sue visioni artistiche estreme, lo strumento-monstre di sua invenzione, le sue esecuzioni deliranti – Gambara soprattutto è tratteggiato secondo modi che ricordano da vicino le invenzioni delle novelle “fantastiche” di Hoffmann.

  Ma le dettagliate analisi teatral-musicali di Robert le diable in Gambara e di Mosè in Egitto in Massimilla Doni sono senz’altro debitrici di recenti abitudini alla recensione minuziosa, motivata e competente che la pubblicistica specializzata stava diffondendo. [...]. Anzi, lungi dall’essere una troppo estesa digressione (indigesta ai critici letterari), l’analisi dettagliata di Mosè in Egitto che Massimilla fa a voce bassa a beneficio di un suo ospite in palco durante l’esecuzione alla Fenice costituisce uno sviluppo nodale, la progressiva preparazione della peripezia risolutiva. Rappresenta infatti il tour de force dell’intelletto della virginea Doni sulla corporeità sensibile ma ignara di razionalità della Tinti che sta eseguendo la parte della primadonna: insomma, il modo con cui l’algida bellezza dell’amata di Emilio ha ragione della rivale, dando lucidità “di testa” alle seduzioni sensoriali del canto. Non per nulla, sarà subito dopo, e spacciandosi per la Tinti – complice l’oscurità dell’alcova –, che verrà finalmente posseduta dal suo dissociato amatore.

  Nelle pagine di questi suoi lavori Balzac riflette eloquentemente idee e cognizioni assodate, dandoci la misura di quanto certi dibattiti avessero potuto sedimentarsi anche presso un pubblico ben più largo degli specialisti. Non stupiscono ad esempio i passi sul rapporto Melodia-Armonia. […].

  Specie in Gambara, Balzac coglie alle origini lo scarto – spesso esiziale – tra intenzione e realizzazione, volontà ed esito, poetica e prodotto, che sempre più sarà destinato a insidiare le vicende dell’arte moderna. E lo coglie in quanto gli è chiara la divaricazione tra un’arte di consumo e d’intrattenimento, e una ricerca artistica che punta invece sull’espressione e sulla sperimentazione di nuove soluzioni compositive. Da una parte sta tutta quella produzione di contraddanze, romanze da salotto, perfino la musica italiana presa polemicamente nel suo insieme (col suo attuale campione Rossini), dall’altro i tedeschi e la triade Mozart, Haydn e soprattutto Beethoven, «les productions sublimes» del quale sono contrapposte alla «inertie de pensées» e «lâcheté de style» degli italiani, Rossini in primis. [...].

  Tenuto conto del culto beethoveniano e dell’accondiscendenza con cui Balzac in Gambara tratta la musica italiana e il suo campione Rossini, giudicato un buon esempio di Trivialmusik, paiono strani l’attenzione e lo spazio dedicato in Massimilla Doni al Mosè in Egitto: quasi un’incoerenza, o addirittura una sorta di palinodia. In realtà, quest’opera è considerata da Balzac – per bocca della duchessa Doni – una sorta di unicum nella produzione del Pesarese, e sarà eloquente rileggere anche solo alcuni passaggi di tale analisi, svolta nel palco della Fenice durante la rappresentazione, a beneficio di un suo ospite (un medico francese). [...].

  Accogliendo l’idea tutta moderna che la musica – nel suo più alto grado di artisticità e di ricerca – sia un linguaggio superiore capace di una propria peculiarissima efficacia comunicativa, Balzac è particolarmente attento a raccogliere e riorganizzare le idee sulle procedure analogiche attraverso le quali il linguaggio dei suoni può entrare in parallelo con quello delle idee. La scena del ritorno della luce nell’Introduzione del Mosè in Egitto è esemplare. [...].

  Insomma, Balzac da un lato raccoglie idee comuni: moneta corrente, ma anche spesso densa d’implicazioni romantiche, o perfino radicata nei dibattiti del tardo Settecento. Ma dall’altro – visionariamente – immagina e anticipa con creatività prospettive che i professionisti della vita musicale reale svilupperanno solo in pieno Ottocento. Senza essere musicista, lo scrittore saprà cogliere ben in anticipo linee direttrici fondamentali della futura Musica dell’Avvenire, dando prova di una concretezza ideale che la lente deformante dell’immaginifico Hoffmann non aveva mai posseduto.

 

 

  Fabio Finotti, Manzoni corregge Balzac: è il potere la vera molla, «La Stampa», Torino, Anno 150, N. 138, 19 maggio 2016, p. 22; ill.

 

  Ogni epoca ha la sua gerarchia di valori. L’economia sembra dominare la nostra in ambito sia internazionale sia nazionale. Troppo spesso l’Europa è solo la sua moneta, e gli obiettivi di bilancio fissati dalla Commissione ne dirigono le politiche. Per noi italiani soprattutto l’economia è una tirannica divinità. Il debito pubblico incombe, mentre la corruzione subordina il bene pubblico all’arricchimento privato.

  Aveva dunque ragione Balzac? Dobbiamo concordare con lui, e ammettere che tutto oggi si risolve nella «magica parola» delle Illusioni perdute, il denaro? Quel denaro per il quale lo stesso Balzac consuma la sua vita?

  Mentre il nostro Manzoni scrive, riscrive e lima i Promessi sposi, con aristocratica pazienza e nevrotica insoddisfazione, Balzac sforna a getto continuo opere che dovrebbero salvarlo dai debiti. Tra il 1840 e il 1843 Manzoni pubblica la raffinata edizione definitiva del suo unico romanzo, del quale ha sceneggiato anche le illustrazioni: negli stessi anni Balzac definisce il piano della sua Commedia umana, progettando più di cento romanzi. Morirà a 51 anni nel 1850, dopo averne pubblicato «solo» una novantina. Il libro diventa una merce che parla di merci, come mai è accaduto in passato.

 

  Il padre di fra Cristoforo.

 

  Ma davvero il denaro ormai governa non solo il mondo ma la penna di chi lo rappresenta e l’occhio dei suoi lettori?

  Il poeta Valerio Magrelli ci suggerisce che forse le cose non stanno proprio così. Intervistato da Alain Elkann sulla Stampa del 15 maggio [cfr. supra], Magrelli afferma di considerare Manzoni «un immenso prosatore, ben superiore a un qualsiasi Balzac». Un giudizio piuttosto sprezzante per il romanziere transalpino, soprattutto se si considera che a pronunciarlo è proprio uno studioso di letteratura francese.

  Ci sono diverse ragioni per dichiararsi d’accordo, alcune forse diverse da quelle che Magrelli ha in mente. È vero, ogni tanto a leggere Balzac sembra di trovarsi di fronte al primo Verga, faticosamente mondano, cinico e prolisso. Ma non è solo questione di stile. Il fatto è che Manzoni sa andare oltre il denaro, e cercare quella molla più profonda, potente e nascosta negli uomini che è il potere: il potere fine a se stesso. Manzoni sa arrivare là dove l’economia, da padrona, torna a essere serva, e la moneta non è più un fine, ma un simbolo.

  Uno dei personaggi più celebri dei Promessi sposi è fra Cristoforo, figlio di un mercante che diviene ricco, e a quel punto cerca solo di far dimenticare come ha costruito la sua fortuna. Quello che lo ossessiona non è più la cassaforte, ma l’onore, la rispettabilità, il dominio di una società che si inchina a lui come fa coi nobili: per autorevolezza, non per ricchezza. Invece di guadagnare, spende. Invece di lavorare, invita. Invece di educare il figlio a fare affari, gli dà un’educazione da signore. E il futuro fra Cristoforo uccide un uomo per fedeltà a quell’educazione e alle «abitudini signorili» nelle quali il padre lo ha allevato.

 

  L’Innominato e don Rodrigo.

 

  Un altro personaggio centrale nel romanzo manzoniano è l’Innominato. Il signore di un dominio fatto di crudeltà e violenza, abbarbicato in quel castello da aquila sanguinaria dove Lucia viene portata dai bravi che l’hanno rapita. Ebbene, anche le gesta dell’Innominato non sono certo compiute per brama di ricchezza, ma solo perché la sua «forza» venga conosciuta e rispettata.

  E infine, lo stesso don Rodrigo, di sicuro non cerca di possedere la povera Lucia per i suoi soldi, né per amore o per desiderio erotico, ma per una scommessa col cugino Attilio, e dunque per non perdere la faccia e dimostrare invece il suo assoluto dominio sul piccolo mondo presieduto dal suo palazzotto.

 

  L’ossessione di Gertrude.

 

  Il potere è la vera vertigine che a ogni passo si apre nel romanzo manzoniano. Tutto sembra perfetto all’esterno. Le bende delle badesse sono tirate impeccabilmente, i curati conoscono il diritto canonico, le leggi sono severissime, e se non bastano si riscrivono, ancora più implacabili. Eppure la smania per il potere corre all’interno, divora come un tarlo l’animo dei personaggi, le strutture dello Stato, la sostanza della fede, e si manifesta per sintomi. Una ciocca di capelli che esce dalla cuffia della suora, un aggrottarsi improvviso, inspiegabile di ciglia, i bravi che corrono per le strade indisturbati invece di essere in prigione: le apparenze di ordine e di giustizia si dissolvono, e diventano maschera di una potenza che cerca non la ricchezza ma il dominio dell’uomo sull’uomo. Anche le donne, come Gertrude, partecipano a questa ossessione. Gertrude, la monaca di Monza, rinuncia a se stessa pur di essere onorata e riverita come uno badessa.

  Ecco quel che Balzac non dice e Manzoni invece sembra suggerirci a ogni pagina. Davvero quando avremo preso con le mani nel sacco tutti quelli che chiedono mazzette, e sgominato gli evasori fiscali, vivremo in un mondo felice? La vera corruzione sta solo in chi ricerca l’arricchimento, o non piuttosto (soprattutto) in chi usa il potere per accrescerlo?

 

  L’incontro a Milano.

 

P.S. Manzoni e Balzac si incontrano a Milano il 1° marzo 1837. Manzoni conosce perfettamente il francese e legge il collega in originale. Balzac invece ha letto i Promessi sposi nella mediocre traduzione francese senza ricavarne una grande impressione. Parla sempre lui, racconta Manzoni all’amico Ruggero Bonghi. Cesare Cantù, presente al colloquio, è più drastico e sostiene che Balzac «parla come un mulino a vento». In particolare si appassiona al tema, tutto monetario, dei diritti d’autore. Il collega italiano invece sta zitto. La pragmatica ci insegna che anche il silenzio è un atto linguistico: l’ironia manzoniana è proprio nelle assenze, nei vuoti, nelle omissioni. Apre spazi che l’economia non ha argomenti per colmare, se non con il suono ripetitivo della chiacchiera.

 

 

  Alberto Gabriele, A “Corporama of Historical Facts”: Balzac and the Pre-cinematographic imagination, «Modern Language Notes», Volume 131, Number 4, September 2016, pp. 1061-1079.

 

 

  Cesare Garboli, «Balzac» di Ernst-Robert Curtius, in La Gioia della partita. Scritti 1950-1977. A cura di Laura Desideri e Domenico Scarpa, Milano, Adelphi Edizioni, 2016 («Saggi. Nuova serie», 77), pp. 98-99.

 

  [...]. Gli amori di Curtius, le sue vere frequentazioni restano i classici, le personalità grandeggianti su un orizzonte di secoli. Il saggio su Balzac risale al 1923. Non fu una lettura, ma un incontro, una scoperta entusiasmante. Curtius usciva allora da interessi prevalentemente francesi (la trattazione lascia intravedere le tracce di un originario corso di lezioni). Con modi insieme analitici e descrittivi, tra l’esposizione e la conversazione elegante, perfino salottiera, il critico insegue il «genio» di Balzac, riconducendolo alle sue autentiche origini mistiche e visionarie, magiche e demoniache, fissandolo nel suo folgorante passaggio (la famosa estate del 1833) dallo stato fluido e vitale alla romanzesca totalità della sua struttura.

  «Non basta essere un uomo, bisogna essere un sistema» aveva detto Balzac. Fascinazione e energia, titanismo e veggenza, questi i nuovi parametri di un’interpretazione ormai diventata proverbiale. Una seconda volta dopo le intuizioni di Baudelaire («tutti, in Balzac, perfino gli uscieri, possiedono del genio»), l’autore della Comédie humaine era sottratto al naturalismo, riguadagnato a un’area faustiana. A torto la monografia di Curtius è stata giudicata un «monumento» della storiografia letteraria del secolo XX. Niente è più lontano dalla posa, dalla staticità dei monumenti di questa ricognizione balzacchiana. Dotto e interlocutorio, il Balzac è stato scritto da Curtius con un inchiostro caldissimo.

 

 

  Michela Lo Feudo, “Balzac à la charge”: écriture journalistique et théorie de la caricature en marge de la “Comédie humaine”, «Between. Rivista dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura», Cagliari, vol. VI, n. 12, Novembre 2016. (on-line).

 

 […]. Il s’agit, pour nous, de creuser les interactions entre production balzacienne et histoire de la presse satirique française, histoire de la caricature et, de manière plus générale, histoire du rire et du comique modernes. En particulier, notre propos est d’analyser les articles publiés par Balzac dans la Silhouette et la Caricature afin de comprendre si, d’un côté, la participation de l’auteur à de tels projets éditoriaux inédits et expérimentaux, fondés sur l’interaction texte-image comique, donne lieu à une production innovante chez l’auteur; de l’autre, il s’agit d’interroger le rôle joué par Balzac dans le cadre d’une définition de la caricature et du rapport entre celleci et la littérature, au XIXe siècle. On essayera donc de retracer l’itinéraire de l’écrivain au fil des deux périodiques pris en examen. Les articles seront mis en rapport avec les programmes des journaux, et avec d’autres textes balzacien (sic) de la même période. Un détour préliminaire sur les objectifs et l’esthétique du premier journal auquel Balzac collabore – la Silhouette – nous aidera à mieux y situer la contribution de l’auteur.

 

 

  Patrizia Magli, Il volto raccontato. Ritratto e autoritratto in letteratura, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2016 («minima»).

 

  pp. 47-49. Ma è soprattutto nell’opera di Balzac che, sostiene Fernand Baldensperger, possiamo trovare il più grande affresco di maschere umane della letteratura di tutti i tempi. L’aspetto fisico dei suoi personaggi si presenta a ogni istante della loro vita come un vero e proprio linguaggio visivo. Il corpo e, in particolare, il volto, nell’opera di questo scrittore, è una rete di relazioni complesse che si articola su più livelli di significazione. Ogni lineamento, una volta descritto nei suoi formanti plastici, diventa un vero e proprio attore, dotato di un suo programma narrativo, di un “fare”, ma soprattutto di un “far sapere”: annuncia, indica, denota, tradisce, esprime, promette, fa credere, testimonia, in una parola, sostiene Tahsin Yücel nella sua analisi su La Comédie humaine, racconta l’essere profondo cui appartiene, la sua storia intima, il suo destino. I personaggi, per Balzac, sono oggetto di studio scientifico, fanno parte della “zoologia umana”. Per questo scrittore le leggi della fisiognomica sono esatte non soltanto nella loro applicazione ai caratteri delle persone, ma anche riguardo alla fatalità dell’esistenza. “Ci sono delle fisionomie profetiche”, dichiara il celebre aforisma di Balzac.

  La fisionomia nelle sue opere, infatti, riflette il destino dei personaggi. Reclama di essere decifrata non solo da un lettore accorto, ma anche dagli attori interni al testo. Non saper leggere una fisionomia, non saper giudicare gli esseri umani per il loro aspetto, equivale, per i personaggi balzacchiani, a vivere in un paese straniero di cui non si comprende la lingua. Non a caso tutte le sciagure di Rose Cormon, in La signorina Cormon, sono causate dal suo scarso interesse fisiognomico; Rose non sa leggere nel naso magistrale e superlativo del cavaliere de Valois, il quale, nonostante l’età avanzata, non rinuncia a correre dietro alle sartine e a essere da queste assai apprezzato. Ma anche la signorina Cormon, a sua volta, con la faccia che ha, è una vecchia fanciulla un po’ sciocca, e dunque il lettore è avvertito, grazie alla propria competenza fisiognomica, che costei sarà fatalmente ingannata.

  Essendo scrittura dell’anima, il volto segue il personaggio, modificandosi come le trasformazioni del viso di Véronique Graslin (Il curato del villaggio) che rispecchiano i drammi da lei subiti. I mutamenti del viso di questo personaggio, descritti a più riprese nello svolgimento sintagmatico del testo, traducono le trasformazioni della vita. La sua storia corrisponde a quella della sua fisionomia, facendo del rapporto tra corpo e anima il tema segreto di questo romanzo.

  Per Balzac la fisionomia è un vero e proprio linguaggio, composto non solo da semplici termini, ma anche dalla loro relazione. Una fronte bassa o occhi privi di calore possono avere una loro significazione se considerati indipendentemente dagli altri tratti della fisionomia, ma il senso finale cambia se entrano in correlazione con questi: il senso è funzione dell’insieme di cui fanno parte, così come non ci sono parole dotate di senso senza il contesto linguistico in cui si presentano. Chi dice lingua dice sistema e i segni fisiognomia in Balzac costituiscono un vero e proprio sistema dotato di articolazioni e di leggi proprie.

 

 

  Giuseppe Marcenaro, Gaspar-Félix Tournachon “Nadar”, in Daguerréotype. Ritratti di europei, Torino, Nino Aragno Editore, 2016 («Biblioteca Aragno»), pp. 111-121.

 

  pp. 111-112. Balzac era terrorizzato dall’obiettivo dalla macchina fotografica. Un occhio implacabilmente indagatore. In posa, estatico, in attesa dell’attimo che gli “mangiasse l’anima”, sudava freddo. Impossibile immaginare se fosse sincero o recitasse. La duplicazione di sé con un sistema meccanico lo induceva a sospettare dell’inconsueto accrocchio. Così doveva apparirgli la camera: un istrumento di declinazione negromantica. Il monumentale Honoré de Balzac, elefante terrorizzato dal topolino, non era tuttavia il solo a temere la riproduzione di se medesimo tramite l’incomprensibilità del procedimento fotografico. Eppure ... Un conto era posare per un pittore. Altro esporsi alla macchina fotografica. Un attimo e via. Cosa diavolo succedeva in quella frazione di tempo? Balzac non era però il solo a paventare l’invadenza della tecnica duplicatoria di sé.

  “La fotografia è intanto il rifugio di tutti i pittori mancati mal dotati o troppo pigri per completare i loro studi ... Se permetteremo alla fotografia di sostituire l’arte, fra breve l’avrà soppiantata grazie all’alleanza naturale che troverà nella stoltezza della folla. Bisogna dunque che essa si limiti al suo vero dovere, che è quello di essere la serva delle scienze e delle arti ... La Stampa e la stenografia non hanno sostituito la letteratura ... Se riproducendoli salverà dall’oblio le rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo, la fotografia sarà ringraziata e lodata. Ma se le sarà permesso di sconfinare nel regno dell’impalpabile e dell’immaginario, in tutto quello che vale solo per ciò che l’uomo vi mette della sua anima, allora guai a noi!”. [...].

 

 

  Maria Célia Martirani, Il dilemma del mandarino,in Lucida follia. Saggi di letteratura dal boom ispanico ad Alessandro Baricco. Premessa di Claudio Magris, Firenze, Franco Cesati Editore, 2016, («Strumenti di Letteratura Italiana», 57), pp. 51-62.

 

  Prendendo spunto da una recente edizione brasiliana de La Comédie humaine curata con grande devozione dal critico ungherese Paulo Rónai, l’A. ripercorre, in questo saggio, alcune tra le tematiche più rilevanti che attraversano l’universo romanzesco dello scrittore francese. Specchio di un’epoca sotto il profilo della storia dei costumi, dell’evoluzione della vita privata e collettiva, dei poteri, delle idee e delle passioni, La Comédie humaine – nella quale i romanzi e i racconti che la compongono «non cominciano mai, né finiscono» (p. 53) – illustra la genialità di un romanziere che, molto prima di Freud, ha saputo «osservare l’essere umano in tutte le sue manifestazioni» (p. 61) e in molte di quelle contraddizioni e di quegli antagonismi ideologici tra individuo e realtà che caratterizzeranno i protagonisti dei romanzi contemporanei. Nel Père Goriot, il giovane Rastignac, appena giunto dalla provincia a Parigi, la «città-fiamma», non cederà alle proposte criminali di Vautrin, ma risolverà autonomamente il suo «dilemma del mandarino», la sua crisi di coscienza trasformandosi, da idealista ingenuo, ad arrivista senza scrupoli.



  Drew Mill, Eugénie Grandet, in AA.VV., 1001 libri da leggere nella vita ... cit., p. 106.

 

  Come Walter Scott, anche Balzac scrisse in parte per riscattarsi dai debiti e dalle relative sofferenze: l’accumulo di capitale e la conseguente corruzione morale scorrono in Eugénie Grandet. che in seguito divenne parte del più vasto gruppo di romanzi detti Commedia umana. A metà tra la ferma critica morale dell’avidità e l’angustia delle esperienze di provincia, il romanzo fonde personaggi ben delineati con un’osservazione sociologica dei cambiamenti più profondi della società francese. La rappresentazione realistica del dispotico e avaro padre di Eugénie ritrae il meccanismo dell’avarizia non solo come un “peccato” individuale, ma anche come una riflessione sul nichilismo laico del calcolo finanziario tipico del capitalismo ottocentesco.

  La trama ha una sua semplicità classica e una circolarità causale, e racconta una tragedia borghese che il narratore considera più crudele di qualsiasi disgrazia. La mania del padre di Eugénie per il profitto limita l’esperienza della figlia e alla fine distrugge a famiglia. Il romanzo svela tutti i danni arrecati a Eugénie, malgrado lei rivendichi una certa dignità morale con gesti di diligente generosità. Con una comprensione dei cicli temporali che preannuncia Proust, Balzac mette in scena sia la cornice critica delle azioni individuali sia l’alternarsi dei cambi generazionali. La comicità che riesce a strappare ai giudizi del narratore più o meno onnisciente mitiga lo spoglio realismo sociale. Perfetta introduzione a uno dei massimi romanzieri realisti.


 

  Marilisa Moccia, Balzac peint les Français : satira sociale e costruzione degli idealtipi ne “Les Français peints par eux-mêmes”, in AA.VV., Chi ride ultimo. Parodia satira umorismi. A cura di E. Abignente, F. Cattani, F. de Cristofaro, G. Maffei, U. M. Olivieri, «Between. Rivista dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura», Cagliari, Volume 6, N. 12, Novembre 2016. (on-line)

 

  [...]. Les Français si inseriscono nella vague dei manuali di decodifica per imparare a leggere i segni, le spie, e assegnare a ciascuna di esse il proprio significato corrispondente.

  Frenologia, fisiognomica, fisiologia si uniscono nell’occhio dello scrittore, che qui è descrittore del sociale, per trasportare sul piano dell’esperienza quotidiana le pratiche semiologiche proprie della medicina a uso del pubblico che ne fa una sorta di scienza della mondanità.

  Allo sguardo medico si aggiunge poi l‘altro grande punto di riferimento dei Français, su cui si fonda la prima gittata satirica, e cioè la necessità di classificare, secondo un’inchiesta che è allo stesso tempo scientifica e sociale. La botanica e le scienze naturali hanno fornito a Curmer e all’Opera in generale la prosa in cui esprimersi e le griglie di posizionamento delle specie e delle classi umane. I Modelli narrativi offerti dalle scienze naturali e dalla medicina spiegano la necessità cruciale di associare la descrizione all’immagine che instaura così un proprio dominio in quanto modello di scientificità ed esempio dei segni distintivi. Per questo motivo il tipo è un idealtipo. Il riferimento esplicito è rintracciabile nell’Avant-Propos di Balzac che non è abusivo citare in questa sede. Cuvier, Buffon, Geoffrey Saint-Hilaire, Charles Bonnet: l’uomo moderno altro non è se non un animale che si è adattato in un nuovo habitat costituito dalla società moderna e la sua narrazione altro non è che una zoologia.

  I dettagli non sono delle caratteristiche soggettive ma sono dei singolari universalizzabili. È questo il motivo per cui non appare nessun nome. Non esiste il droghiere nominato ma esistono i dettagli che fanno di quella specie di uomo un droghiere. Conferirgli un nome vorrebbe dire dargli l’anima, ecco la caustica intuizione di Balzac e dei suoi colleghi: il mestiere è l’individuo e le caratteristiche fanno il mestiere. Così, svuotato di ogni scintilla “divina” quell’uomo del Settecento, che aveva attraversato la Rivoluzione affermando la propria soggettività, che si era liberato dall’oppressione dell’appartenenza di ceto, dall’appartenenza a una classe, per elevarsi come citoyen è finito coi suoi ideali nella corbeille di Courmer, in quel grande calderone della mediocrità che è la borghesia. Tutto questo Balzac ci suggerisce e non, io sospetto, senza una punta di compiacimento.

 

 

  Giuseppe Montesano, Honoré de Balzac. 1799-1850, in Lettori selvaggi. Dai misteriosi artisti della Preistoria a Saffo a Beethoven a Borges la vita vera è altrove, Firenze, Giunti, 2016, pp. 755-759.

 

  L’azione di Balzac sulle forme, sulle strutture e sui paradigmi del romanzo ottocentesco è stata devastante. L’autore di quell’interminato e interminabile romanzo che è La Comédie humaine ha letteralmente aperto le porte alla rappresentazione delle meraviglie e degli orrori del Moderno attraverso la sublimazione visionaria di quel babelico crogiuolo di esseri, cose e ambienti che fu Parigi nel XIX secolo. In questo «miscuglio adultero di tutto» (p. 756), nel quale agiscono le più diverse forme del corpo e dell’anima, è il denaro che esalta e allo stesso tempo svilisce l’esistenza degli individui, che scatena le passioni più sfrenate e i desideri più segreti e che li ricompone in un sistema nuovo, in perpetuo movimento, «secondo la legge della trasformazione delle merci in immondizia e dell’immondizia in merci» (ibid.).

  Balzac, scrive Montesano, non ha mai cercato di mimare la vita, ma «ha costruito una vita parallela a quella reale, una vita che brilla e brulica nella febbre poetica di una verità allucinatoria» (p. 757). Attraverso l’invenzione (Balzac «non pensava: inventava», p. 759), lo sguardo fantasmagorico e visionario dello scrittore ha illuminato gli spazi, gli esseri e le cose più irriducibilmente anti-letterari e anti-poetici e li ha sublimati in poesia. È questo il segreto di Balzac; è questa la modernità della sua scrittura geroglifica: è la visione, una visione che «poteva avvenire solo nella notte, la notte in cui Balzac scriveva e in cui ogni realtà è affondata nel buio che la cela, e c’è solo il foglio con le parole, le parole che si sovrappongono ad altre parole e nascono da altre parole, le parole che si affollano con furia e con fatica, e sotto il loro geroglifico cancellano le parvenze del mondo: lasciando al suo posto la Comédie humaine» (p. 759).



  Maria Venera Musarra, “Eugénie Grandet” di Balzac e le sue traduzioni italiane. Tesi di laurea. Relatore: prof. Antonino Velez, Palermo, Università degli Studi, Scuola delle Scienze umane e del patrimonio culturale, 2016.

 

 

  Veronica Nunez Del Castillo, Lo spazio nella “Comédie humaine” tra città e provincia: un percorso fra tre esempi. Tesi di laurea. Relatore prof.ssa Cristina Trinchero, Università degli studi di Torino, 2016.

 

 

  Patrizia Oppici, Le syndrome de Balzac, «L’Année balzacienne», 2015, Troisième série, 16, Paris, Presses Universitaires de France, janvier 2016, pp. 267-290.

 

  Patrizia Oppici propone un interessante contributo sullo stato attuale della ricezione di Balzac in alcuni scrittori italiani contemporanei e individua i segnali, positivi ed incoraggianti, di una «réconsidération de La Comédie humaine» (p. 271) in due esempi di «réécriture balzacienne explicite»: i recenti romanzi di Elisabetta Rasy (L’altra amante, 1990) e di Francesca Sanvitale (L’inizio è in autunno, 2008). In entrambe le opere, sono riscontrabili modalità diverse nel reimpiego del testo balzachiano: questi due romanzi «partagent le choix d’œuvres moins connues de La Comédie humaine [La Fausse Maîtresse (E. Rasy); Adieu, Un épisode sous la Terreur e Une passion dans le désert (F. Sanvitale)] et la fascination pour le caractère énigmatique et inépuisable d’une création romanesque qui offre encore des leçons valables pour le roman d’aujourd’hui» (p. 290).

 

 

  Pina Paone, Scomporre la folla: la caricatura letteraria dalle “Physiologies” francesi alle Fisiologie collodiane, «Between», Cagliari, vol. VI, n. 12, Novembre 2016. (on-line).

 

  [...]. Bisogna però operare delle necessarie distinzioni rispetto all’uso della parola “physiologie” per i titoli delle diverse tipologie di libri o articoli di giornale che si succedono nel corso degli anni. La parola, presa in prestito dal vocabolario medico-scientifico, viene utilizzata per la prima volta con uno scopo non scientifico in due opere: la Phisiologie (sic) du goût di Anthelme Brillat-Savarin (1825), e la Physiologie du mariage di Balzac (1829). Nella prima, l’oggetto di analisi (il gusto, appunto) è nuovo e il tono vagamente umoristico; la seconda, che eredita dall’opera di Brillat-Savarin la struttura e la nomenclatura delle diverse parti e sottoparti (Méditations), analizza parodicamente il ‘funzionamento’ del matrimonio. Si tratta di un genere ibrido, a metà tra l’étude de moeurs e il code: è insieme un’analisi, uno studio, una satira dei costumi, un manuale per l’uso. In breve, si tratta di una tecnica di sopravvivenza all’istituzione matrimoniale rivolta ai mariti, e indica le vie per sfuggire alla suprema piaga di finire ‘minotaurizzati’ dalla machiavellica donna. Si può dire che la Physiologie du mariage segni uno spartiacque nella storia del genere: è proprio quest’opera infatti ad inaugurare più decisamente il filone umoristico delle physiologies, nonostante poi queste, nella loro forma definitiva, svilupperanno una struttura e un metodo molto diversificati rispetto al modello balzachiano. Forse per questo negli accenni alle physiologies che si trovano sparsi nei saggi italiani si fa riferimento quasi esclusivamente a quest’opera di Balzac, dimenticando tutto il successivo sviluppo del genere.

  Tuttavia, a quest’altezza, le physiologies conservano ancora – nonostante il tono parodico tra descrittivo e prescrittivo e l’oggetto di studio straniante – la valenza originaria di opere di studio, con un metodo vero e proprio, provviste quindi sia di una parte teorica sia di una parte ‘applicativa, richiamandosi in questo modo alla tradizione della fisiologia scientifica. Non a caso l’operetta di Balzac, prima testimonianza di un’acuta capacità di osservazione applicata alla vita sociale, sarà inserita nel vasto progetto della Comédie humaine, in particolare tra gli (sic) Études analytiques (insieme alle Petites misères de la vie conjugale e alla Pathologie de la vie sociale, [...] ed è quindi da ricondurre al possesso di una visione organica e unitaria del mondo da parte dell’autore. Si tratta infatti di un’opera lunga, che tende all’esaustività anche nella presentazione della casistica e privilegia un procedere argomentativo e dimostrativo (spesso si fa ricorso agli assiomi) che, a partire dall’analisi della microsociologia matrimoniale, cerca di risalire alle cause del fenomeno, non dimenticando l’evoluzione storica dello stesso.

  In un secondo momento, le physiologies si diffondono sui petits journaux degli anni ’30 [...]. Queste physiologies giornalistiche prendono a modello l’opera di Balzac, oltre che nella frequente ripresa dei motivi, nel tono satirico-caricaturale tra prescrittivo e descrittivo, nell’impostazione da étude de moeurs applicato (sic) alla vita privata del popolo parigino, nella parodia del lessico scientifico. Qui però l’etichetta titologica ‘physiologie’ viene adoperata più nettamente per categorizzare la società moderna, in termini di uomini, oggetti, abitudini. Emerge in tale fase una grande varietà nella struttura di questi brevi pezzi umoristici, accomunati comunque dalla volontà tipizzante: alla struttura che diventerà poi quella preferita (breve pezzo che parodizza il genere della classificazione naturalistica ibridandolo con la caricatura letteraria e che prevede: definizione del tipo, descrizione tendente al caricaturale, casistica della sua apparizione nella selva sociale, ‘habitat’, ‘specie compagne e affini’, ‘sottospecie’, gestualità e frasario tipico, scansione della giornatatipo), si alternano dialoghi umoristici, dialoghi drammatici con didascalie, brevi pezzi narrativi con sviluppo comico. Lo stesso Balzac, sempre al suo modo analitico, partecipa a questa moda delle physiologies giornalistiche. [...].

  La serie delle physiologies può essere considerata nei termini di collezione, di costruzione di modelli che ripetono lo stesso schema, in senso però additivo e non organico: la singola physiologie non acquista cioè senso perché messa in relazione rispetto a un tutto, ma si risolve nelle sue cento pagine, e nella rapidità e leggerezza con cui viene letta e consumata. Diversissimo quindi il senso di quest’operazione rispetto a quello delle prime physiologies e soprattutto rispetto a quelle balzachiane [...]: non solo quelle che Balzac scrive sui giornali – sempre prevalentemente analitiche – ma anche le sue physiologies-libretti. A parte l’unico caso della Physiologie du rentier, sia la Physiologie de l’employé sia la Monographie de la presse parisienne, nonostante superficialmente sembrano uniformarsi alle caratteristiche del genere, se ne distaccano più profondamente per la tendenza ad un’analisi sistematica, per la volontà di rifare la storia della categoria analizzata e risalire alle cause della sua evoluzione o devoluzione.

  Nonostante il diverso senso dell’operazione, vogliamo aggiungere però che non devono essere dimenticate le analogie tra le physiologies del 1840-1842 e quelle balzachiane, soprattutto se si guarda ai modi e ai toni, oltre che alla struttura (soprattutto per la Physiologie de l’employé, che si amalgama perfettamente alle altre physiologies di quegli anni).

  Si tenga presente, inoltre, che le riedizioni dell’ottobre del 1838 e del dicembre 1840 della Physiologie du mariage presso Charpentier sembrano aver incoraggiato il fiorire delle physiologies, delle quali molte tra l’altro sono dedicate al matrimonio o alla vita coniugale, con riferimenti espliciti, talvolta, all’opera di Balzac. La Physiologie du mariage semina in fondo il germe per lo sviluppo delle successive physiologies, che, accantonato l’andamento analitico e il metodo di studio, non dimenticheranno il tono umoristico e digressivo, tutta la fenomenologia eroicomica collegata al matrimonio, il riferimento parodico alla fisiologia scientifica, alla storia naturale e alla classificazione zoologica, la tendenza caricaturale. [...].

 

 

  Susi Pietri, L’art du paradoxe: Oscar Wilde relit Balzac, «L’Année balzacienne», 2015, Troisième série, 16, Paris, Presses Universitaires de France, janvier 2016, pp. 67-83.

 

  Susi Pietri studia le «références wildiennes» alla Comédie humaine e giudica che Wilde, attraverso la «pratique téméraire du masquage» (p. 75) e l’arte del paradosso, «active l’absurde et l’excentrique, inscrivant la lecture de Balzac dans l’exhibition ensorcelante de son talent de virtuose du langage» (p. 68). Si tratta, per Wilde, non solo di re-inventare Balzac sotto nuove forme, ma di rilanciare all’infinito «tous les “Balzac” ironiques ou excentriques» (p. 82) in una sorta di «paroxysme de la permutabilité des opposés» (p. 83).

 

 

  Ornella Poggi, La dicotomia “donna angelo-femme fatale” in “Béatrix” e “Le Lys dans la vallée” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Barbara Sommovigo, Università degli studi di Pisa, Corso di laurea magistrale in Lingue e letterature moderne euroamericane, Anno accademico 2015-2016.

 

 

  Rosa Romano Toscani, Femmes réelles et femmes rêvées: entre psychanalyse et littérature, «Le Courrier balzacien», Paris, Nouvelle série, n. 38, octobre 2016, pp. 5-15.

 

  Rosa Romano Toscani considera l’universo dei personaggi femminili presenti nella Comédie humaine considerati in quanto proiezioni metaforiche di figure reali trasfigurate dall’immaginazione (e dalla sensibilità) dello scrittore. «La plus grande métaphore de Balzac – scrive l’A. – est donc la femme» (p. 7), vale a dire «toutes les femmes» (p. 13) verso le quali Balzac non riuscì mai a superare una condizione psicologica di incompiutezza, ossessionato, come egli era, da un desiderio frenetico che lo accompagnerà per tutto il corso della sua tormentata esistenza: quello della gloria.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Zola, Balzac, Rimbaud: il nido precario e creativo della “bohème”, «Corriere della Sera», Milano, 30 Aprile 2016, p. 37.

 

  In una soffitta aveva debuttato Balzac. I muri slabbrati erano decorati da grappoli di bucato e il cielo sembrava esitare al momento d’aderire alle tegole sconnesse dei tetti spioventi. Eppure, malgrado i frequenti periodi di sconforto, quello fu un periodo felice nella sua tumultuosa esistenza.

 

 

  Il servo di Balzac [Rosa Romano Toscani?], L’altra fine del Capolavoro sconosciuto, Milano, Edizioni Medusa, 2016 («Gli Apocrifi», 1), pp. 61.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Prologo, pp. 5-27;

  Il sogno di Porbus, pp. 29-61.

 

  pp. 59-61. Niente, sulla tela Porbus ora vedeva soltanto il riflesso della propria immagine, una smorfia cupa, simile a quella di certe maschere greche che annunciavano sventura. Si voltò allora a guardare i quadri che aveva dipinto e che molti elogiavano come esempi virtuosi di fedeltà alla natura, e si sentì osservato da mille sguardi inquisitori. Un brivido gelido gli corse lungo il corpo e si rese conto di quanta pochezza di vita c’era nelle figure che aveva dipinto fino a quel momento, nonostante gli avessero guadagnato l’ammirazione di quelli che venivano a fargli visita nello studio.

  Depresso, in preda alla collera e alla disperazione, sentendosi come un amante tradito, impugnò la spada e cominciò a sventagliarla menando fendenti nel vuoto e sulle tele come se stesse combattendo mille fantasmi; in pieno raptus travolse il misterioso quadretto che aveva trovato nello studio di Frenhofer e tutti i soprammobili che aveva posto sulla cassettiera; anche la lampada a olio, che cadde per terra e appiccò immediatamente un fuoco infernale.

  L’indomani Poussin, inquieto e preoccupato per come si erano lasciati la sera prima venendo via dalla casa di Frenhofer, si recò di buonora all’atelier di Porbus, ma mentre si avvicinava al luogo vide alzarsi all’orizzonte una colonna di fumo nero. Affrettò il passo e all'improvviso gli apparve davanti il disastro: la casa dell’amico era ormai un cumulo di macerie annerite, la gente intorno raccontava con raccapriccio ed enfasi gli ultimi istanti di vita del pittore, ridotto a una torcia che si contorceva fra le fiamme alte che avvolgevano l’edificio.

  Ora, di Porbus non restava nulla, né tele né disegni, come se non fosse mai esistito, tutto era bruciato per sempre, e con lui moriva anche il suo segreto. Guardando le rovine annerite, Poussin si domandò se non fosse solo un brutto sogno quello che stava vivendo. E fu in quel momento che gli divenne chiaro, trasparente come l’aria cristallina di certe albe primaverili, che la pittura ha il grande potere di costruire attorno a noi infiniti mondi che s’intersecano e mischiano le loro immagini con la nostra realtà come in una stanza degli specchi. E ritrovare l’uscita dal labirinto è impresa che non va immune da pericoli, anche quelli che possono attentare alla salute mentale di un uomo.

  Tempo dopo, a Parigi, uno stimato pittore fiammingo ricevette dal re il privilegio di essere ammesso alla sua cerchia. Si diceva che la sua fama derivasse tutta, o quasi, da un quadretto che ritraeva una donna bellissima, così ben dipinto che qualcuno giurava di aver visto quella dea parlare col pittore. Ma di leggende vere o inventate, si sa, è piena la storia dell’arte.

  Quando, di lì a qualche anno, si diffuse la voce che un certo Porbus, “peintre du roi”, era morto a Parigi, a Poussin, che lavorava al Palais du Luxembourg, la notizia non diede alcun fremito, aveva da tempo dimenticato il nome del suo amico e quello di Frenhofer.

 

 

  Agnese Silvestri, Quand le rêve asiatique de l’amour rencontre le rêve autocratique: le creuset de “La Fille aux yeux d’or”, «Romantisme», Paris, 172, 2016, pp. 106-117.

 

  Agnese Silvestri studia la dimensione ideologica del testo balzachiano nel quale la tematica erotica si relaziona, intorno all’immagine dell’Oriente, con la tematica politica.



  Céline Surprenant, Illusioni perdute, in AA.VV., 1001 libri da leggere nella vita ... cit., p. 114.

 

  Simile a Le mille e una notte, Illusioni perdute è una delle opere centrali dei diciassette volumi della Commedia umana di Balzac (1842-1846). Questa serie di studi sulla vita dell’epoca, ambientata in Francia nel periodo della Restaurazione, intendeva mostrare come i fattori sociali, economici e politici riescano a influenzare i destini individuali e collettivi.

  In qualità di annotatore della sua epoca, Balzac era interessato a “tutta la società” ma in particolare ai tumulti legati al denaro. I suoi romanzi indirizzano la nostra attenzione sui numerosi contrasti insiti nei diversi ambiti culturali: tra monarchici e liberali nella vita politica, tra aristocrazia e borghesia, tra accaparratori e scialacquatori, tra virtuosi e depravati, tra Parigi e le province. Immerse in un immaginario teatrale, le tre parti di Illusioni perdute raccontano la storia del poeta di provincia Lucien de Rubempré, che langue ad Angoulême insieme al suo alter ego David Séchard alimentando le proprie ambizioni. Iniziato finalmente al mondo letterario, giornalistico e politico parigino, ne sperimenta le conseguenti delusioni.

  Marcel Proust lodò il modo in cui lo stile di Balzac tende “a spiegare” le belle “ingenuità e trivialità” da cui è caratterizzato. Alcuni critici, invece, pur celebrando le doti di osservatore dell’autore, ne screditano “lo stile goffo e inelegante”. Come scoprirà il lettore, dall’inizio alla fine Illusioni perdute offre l’opportunità di condividere ampiamente l’ammirazione di Proust per il collega.

 

 

  Michael Tilby, Narrative Improvisations: Balzac’s “Facino Cane”, «Studi Francesi», Torino, 179, Torino, Anno LX, Fascicolo II maggio-agosto 2016, pp. 202-215.

 

  In Facino Cane, Balzac conduce una riflessione persistente sulla narrazione e sullo status della composizione come scrittura.

  The ambiguous nature of the representation is the inevitable consequence of the plurality and interpretative open-endedness engendered by a ludic art of improvisation in the service of a composition that is, in essence, a reflection on its own creational process.

  Once Cane has told his story, it is of no consequence that the narrator does not hear the words of the prayers he recites. There is nothing left for him to do but to return to the Quinze-Vingts and die. The narrator’s promise that he will accompany him to Venice, where Cane’s far-fetched ambition is of rediscovering the abandoned treasure and making the anonymous narrator his heir, is seemingly nothing more than an attempt to provide solace, in other words an exemplary non-story.

 

 

  Rosita Tordi, Il primo decennio della «Revue des Deux Mondes». La collaborazione di Balzac e di Sainte-Beuve, «Studi Comparatistici», Moncalieri, Anno VII, Fascicolo I, Gennaio-Giugno 2014 (ma finito di stampare nell’ottobre 2016), pp. 111-121.

 

  Fondata a Parigi nel 1829, la «Revue des Deux Mondes» ebbe tra i suoi primi collaboratori due personalità letterarie, Balzac e Sainte-Beuve, i cui destini spesso si intrecciarono con toni e ragioni anche di forte scontro polemico nel corso della loro esistenza. Oltre al saggio De la littérature industrielle del 1° settembre 1839, si ricordano soprattutto le aspre requisitorie di Sainte-Beuve contro i romanzi di Balzac, a partire dallo studio su La Recherche de l’absolu (15 novembre 1836), prima testimonianza della sostanziale inadeguatezza del critico a cogliere il senso profondo e la singolarità della poetica romanzesca balzachiana. Nel corso del biennio della sua collaborazione alla rivista (1831-1832), la cui direzione era stata assunta da François Buloz, con il quale lo scrittore ebbe, nel 1836, un acceso contenzioso a proposito della pubblicazione di Le Lys dans la vallée nella «Revue étrangère», Balzac intraprende con decisione il suo percorso letterario pubblicando L’Enfant maudit, Le Rendez-vous, Le Message e, soprattutto, La Peau de chagrin. Di non secondaria importanza è altresì la pubblicazione, nel dicembre 1830, del racconto Le Petit Souper nel quale Balzac già palesa la sua «straordinaria abilità nell’intrecciare il passato più torbido della storia di Francia all’attualità» (p. 117). Tutt’altro che trascurabile è, allo stesso tempo, il rilievo assunto nei testi pubblicati nella «Revue» dal tema della città che contribuirà a fondare e a consolidare quella mitologia della civiltà urbana così efficacemente celebrata da Italo Calvino a proposito di Ferragus. Un particolare interesse assume il confronto tra le diverse modalità narrative presenti nella Peau de chagrin (maggio 1831) e nel Chef-d’oeuvre inconnu (apparso in «L’Artiste» nel luglio-agosto dello stesso anno): si tratta di due opere, osserva l’A. in conclusione, che mettono a punto ed articolano la singolare coniugazione delle istanze della fantasia e della realtà che caratterizzerà in forme e in modi così potenti l’intera Comédie humaine.

 

 

  Armando Torno, «I giornalisti» da pamphlet di Honoré de Balzac, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, 11 marzo 2016.

 

  Honoré de Balzac scrisse nel 1843 un pamphlet dal titolo «I giornalisti», pieno di lazzi, frizzi e di giudizi irriverenti. La categoria in questione ne uscì snudata e con le ossa rotte; il grande scrittore, comunque, se la prese anche con tutti coloro che fanno parte dell’area e dei giornali hanno assolutamente bisogno: politici, arrampicatori sociali, professori (qualche anno più tardi Schopenhauer li chiamerà «bestiame accademico»), affaristi eccetera. In un certo senso, Balzac parlò male anche di se stesso.

  Il sommo scrittore utilizza assiomi, oppure cataloga in modo fantasioso l’umanità; altre volte ridacchia enunciando quelle regole che tutti conoscono, ma che nessuno desidera evidenziare. Cominciamo con un suo assioma: «Meno idee si hanno, più ci si eleva»; poi aggiunge il seguente commento: «Questa è la legge in virtù della quale questi ballons filosofico-letterari arrivano necessariamente a un punto qualunque dell’orizzonte politico» (p. 57). Già, la politica. Con codesta materia ci si diverte veramente. Scrive Balzac nel suo libello: «Un uomo politico è un uomo che è entrato in affari, o sta per entrarci, oppure ne è uscito e vuole rientrarci». Non gli basta. Subito dopo: «Quest’uomo è talvolta un mito; non esiste, non ha due idee: se diventasse vicecapo, sarebbe incapace di amministrare la nettezza urbana» (p. 46).

  Deliziose le pagine dedicate alla critica, o meglio a quella disciplina che ancora oggi è nota con tale nome. «Esiste in ogni critico – asserisce Balzac – un autore impotente» (p. 65); quindi prosegue con l’assioma: «La critica oggi serve soltanto a una cosa: a far vivere la critica» (p. 67). L’affondo colpisce chi, di questa categoria, ha incarichi universitari: allora, come oggi, amministra i giudizi sui giornali. Lo paragona a una persona che ha visto tutto «e non si dà più la pena di guardare il nostro presente»; questo è il suo profilo: «ama la gioventù, profetizza successi, sbaglia sempre» (p. 69).

  Il pamphlet di Balzac «I giornalisti» è stato tradotto e curato da Alfredo Rovatti con una prefazione di Edoardo Castagna per le Edizioni Medusa (pp. 140, euro 15) e per la prima volta vede la luce insieme a due testi satirici di Gérard de Nerval e Marcel Schwob. Vale la pena rileggere queste pagine mentre i giornali e la Rete parlano di crisi del quotidiano e del settimanale, della carta, dell’informazione e di tutto quello che tratta codesto libro. Il quale potrebbe partecipare al dibattito con le parole di un assioma di Balzac, uomo dai sentimenti non particolarmente liberali: «Si ucciderà la stampa come si uccide un popolo: donandogli la libertà».



  Alberto Volpi, Le “Illusioni perdute”. Il disincanto triangolare, ‘Doppiozero’, 11 agosto 2016. [on-line].

 

  Ci sono grandi libri che non si leggono per snobismo, per puntiglio o anche per distrazione; quest’ultimo caso favorito dall’iperproduzione di un autore. Per esempio, letto con voracità nella tarda adolescenza e poi abbandonato perché inesauribile, Balzac, per sazietà, per passare oltre; dimenticato in seguito a favore d’altri autori ritenuti al momento più contemporanei. Oggi ne recupero le Illusioni perdute.

  Madame Louise de Bargeton è una donna in vista di Angoulême: nobile, ancor giovane e molto più colta dei suoi pari. Lucien Chardon de Rubempré è il suo protetto; ragazzo di umile condizione (ma con un titolo da parte di madre che insegue per tutta la vita), bellissimo e poeta. Sembrano fatti apposta per suscitare sussurri e invidie nell’angusta cerchia della buona società di provincia. Alla fine de I due poeti, prima parte del romanzo, la coppia parte nascostamente insieme verso il sogno chiamato Parigi; qui li dovrebbe aspettare una vita elegante, una carriera letteraria per lui e una mondana per entrambi, dentro alla nube luminosa d’un amore finalmente espresso in pieno. Ecco come appare la capitale al giovane avventizio:

 

  A Parigi quello che balza subito agli occhi è il lusso dei negozi, l’altezza delle case, il gran via vai delle carrozze e l’eterno contrasto tra lo sfarzo più sfrenato e la più nera miseria. Colpito da quella folla alla quale era del tutto estraneo, il giovane sognatore si sentì come privato di un’immensa parte di se stesso.

 

  Segnaliamo tre cose che ci servono per continuare il discorso. Parigi significa subito la molteplicità turbinosa e stordente; viene colta con lo sguardo; comporta una perdita di sé. La molteplicità, nuova per il provinciale abituato alla monotonia e alla ristrettezza, è ciò che permette il confronto, la valutazione e la scelta. La vista si dà quale strumento tagliente, via via sempre più rapido e profondo, per effettuare raffronti e prendere decisioni che saranno improntate soprattutto all’estetica e all’utile (“Gli occhi giudicano in fretta e meccanicamente prima che il cuore abbia avuto il tempo di rettificare il giudizio”). La perdita di sé, immediatamente avvertita da Lucien in mezzo al ribollire dei boulevards, si può considerare una sensazione di scomparsa, un effetto di anonimia e di estraneità di chi, appena arrivato, si considera all’improvviso come un signor nessuno.

  Questi tre micidiali elementi si combineranno presto nella prima occasione mondana a cui partecipa la coppia. Una rappresentazione teatrale, nella quale più che lo spettacolo si rappresenta la buona società, e dove i due si troveranno come pesci fuor d’acqua nella scintillante molteplicità dei parigini in mostra. Attraverso la vista acutizzata, che deve cogliere dettagli e sfumature tutti come messaggi vitali e tirannici, si stabilisce il triangolo della disillusione. Inizialmente a fare da specchio di rimbalzo è l’intera folla di donne e damerini raffinati, mentre chi osserva non prova, a differenza del primo contatto con la città, il senso della perdita di sé, ma lo scarica sull’altro membro della coppia. Ciò avviene in contemporanea con la creazione di un doppio triangolo che parte da Louise verso Lucien, e viceversa, condividendo lo stesso vertice sociale:

  Davanti a lui l’orizzonte si faceva più ampio e la società assumeva proporzioni nuove. In mezzo a tante eleganti parigine vestite all’ultima moda, si accorse che l’abito di madame de Bargeton, per quanto pretenzioso, era decisamente antiquato: la stoffa, il taglio e i colori erano ormai fuori moda. L’acconciatura che ad Angoulême l’aveva tanto affascinato ora gli sembrava orrenda in confronto alle raffinate creazioni che sfoggiavano le altre donne. “Continuerà a conciarsi così?” si chiese, senza sapere che Louise aveva impiegato tutta la giornata per prepararsi a una trasformazione radicale. […].

  Intanto però anche Louise si permetteva strane riflessioni sul suo amante. Nonostante la sua straordinaria bellezza, il povero poeta non aveva stile. La sua redingote corta di maniche, i guanti spelacchiati confezionati in provincia, e il panciotto striminzito lo facevano sembrare ridicolo vicino agli altri giovanotti della balconata, e madame de Bargeton lo trovava pietoso.

  Parigi, chiarisce benissimo Balzac, si rivela la vera responsabile di questo silenzioso massacro. La coscienza si spalanca e pure l’involucro umano – vestiario e aspetto fisico – sotto la fredda dissezione oculare. I sentimenti fioriti nell’umbratile spazio provinciale appaiono miseri a più intensa luce e vengono lasciati inaridire, ciò che conta adesso è il superficiale rimando della società liquida dove tutto risplende e scorre via. Se il desiderio lacanianamente è sempre il desiderio dell’altro, anche la disillusione è sempre la disillusione dell’altro. Ciascuno dei due si sente confrontato a proprio danno e per dispetto più spietato confronta, cosicché il mutuo incantamento si dissolve. La favola che ciascuno aveva poco tempo prima fantasticato sul compagno o sulla compagna viene bruscamente interrotta perché in primo luogo non s’avverte più la fiducia dell’effusione altrui su di sé. I due amanti smettono di narrarsi il presente e il futuro perché cessano di essere anche ascoltatori dell’altro; il patto che sospende l’incredulità proiettando la coppia nel proprio mito salta con secca detonazione. Basta una serata per rendere compiuta nei fatti la separazione, anche se per discrezione, ipocrisia, tatto o tattica essa verrà rimandata.

  René Girard, in Menzogna romantica e verità romanzesca, ci aveva mostrato l’importanza di un altrui fuoco esterno, ritenuto prestigioso, per infiammare di passione verso un oggetto d’amore fin lì trascurato. Nella disillusione sembra bastare per il disinnesco una folla generica su cui Lucien e Louise operano autonomamente il confronto. La definizione della rottura avviene però, anche in questo caso, certificata da una fonte autorevole. Ecco dunque, a una seconda serata all’Opéra, un più esplicito confronto dove giganteggia la centralità dello sguardo, ormai addestrato all’implacabilità, signore della scepsi che detta la linea della divisione:

 

  Louise invece era rimasta la stessa. Vicino a una donna alla moda come la marchesa d’Espard, una specie di madame de Bargeton della capitale, la cugina aveva tutto da perdere. La brillante parigina faceva emergere così bene tutti i difetti di quella provinciale, che Lucien, confrontandola con quella gran dama e con tutto il bel mondo che popolava quella magnifica sala, vide finalmente dietro la povera Anaïs de Nègrepelisse la donna reale, la donna che tutti i parigini vedevano: una spilungona rinsecchita con la pelle chiazzata dalla couperose, avvizzita più che rossa, ossuta, boriosa, petulante e manierata, con un accento provinciale, e soprattutto decisamente malvestita. […] Lucien si vergognava di aver amato quell’osso di seppia, e giurò a se stesso che avrebbe approfittato del primo accesso di virtù di Louise per lasciarla.

 

  Ancor più trasparente il moto triangolare con vertice attivo Louise e con sguardo magistrale la medesima madame d’Espard, sua protettrice; il giudizio passato diviene motivo di vergogna e va rettificato in fretta secondo più prestigiosi canoni:

 

  “Si sente che venite da Angoulême”, gli rispose la marchesa in tono piuttosto ironico e senza staccare gli occhi dal binocolo.

 

  Lucien non afferrò. Era troppo occupato ad osservare i palchi intuendo i giudizi malevoli che circolavano su madame de Bargeton e la curiosità di cui era oggetto. Louise era invece terribilmente mortificata vedendo che la marchesa non sembrava molto colpita dalla bellezza di Lucien. “Allora non è così bello come credevo!” si diceva la nobildonna. E di lì a trovarlo meno intelligente non c’era che un passo. Calò il sipario.

  A questo punto la rappresentazione teatrale ha fatto il suo gioco e il sipario si può chiudere sullo spettacolo e soprattutto sulla relazione degli appassionati amanti d’una settimana prima. Resta solo da capire se questa lezione sarebbe stata utile apprendere per noi, con tale chiarezza preventiva, molto prima che adesso, o se viceversa certi libri vanno assunti a stomaco foderato. D’altro canto, a testimonianza che neanche i capolavori stanno soli in sé, se non avessi letto Girard, forse quei passi li avrei lasciati passare senza la dovuta attenzione. Se ne conclude che proprio l’accidentalità dei sentieri di lettura lungo il tempo, le esperienze, lo studio, fanno di un individuo quell’individuo.

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Il Faccendiere di Honoré de Balzac, Compagnia Teatrale “Teatro della Pergola” di Firenze, ottobre 2016.

 

 

  Louise et Renée di Stefano Massini da Honoré de Balzac, regia di Sonia Bergamasco, foto di Lorenzo Ceva Valla, Stagione 2016-2017.

 

 

 

 

Convegni, Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  AA.VV., Balzac penseur? Colloque international sous la direction de Francesco Spandri, Roma, Centro di Studi italo-francesi, Dipartimento di Scienze Politiche, 12-13 mai 2016.

 

 

  AA.VV.. «La Fille aux yeux d’or» di Honoré de Balzac. Seminario di studi a cura di Luca Pietromarchi e Agnese Silvestri, Università degli Studi Roma Tre, Centro di studi italo-francesi, 7 novembre 2016.

 

 

  Anne-Marie Baron, La Démarche de la pensée, ou la métaphore vive, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Silvia Baroni, Illustrare “gli uomini, le donne e le cose”. Immagini nella “Commedia umana»”. Lezione all’interno del corso di Letterature comparate di Donata Meneghelli, Università di Bologna, Dipartimento di Filologia classica e Italianistica, 28 novembre 2016.

 

 

  Vincent Bierce, Penser la foi religieuse. Une réponse balzacienne, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Éric Bordas, Balzac théoricien?, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Christèle Couleau, Lire, c’est ‘penser’ peut-être à deux? De la fiction à la réflexion – stratégies d’écriture et modélisation de la lecture, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Andrea Del Lungo, Balzac penseur de la contradiction, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Aude Déruelle, Balzac penseur de l’histoire?, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Jacques-David Ebguy, «Faire penser son lecteur». À quoi reconnaît-on le philosophique balzacien?, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Alessandra Ginzburg, A ciascuno la sua chimera, in AA.VV., «La Fille aux yeux d’or» di Honoré de Balzac. Seminario di studi ... cit.

 

 

  Pierre Glaudes, Rêves de terreur. Balzac, penseur politique dans «Les Deux Rêves», in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Takayuki Kamada, La pensée du livre chez Balzac: spiritualité et matérialité, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Roland Le Huenen, Balzac et la question du génie, in in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Boris Lyon-Caen, Balzac philosophe? Petite histoire d’une consécration théorique, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Chantal Massol, La pensée et la métaphore du corps social, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Patrizia Oppici, «Un sang irréparablement versé». Relire «La Bourse» à la lumière de l’«Essai sur le don» de Marcel Mauss, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Francesca Pagani, L’imaginaire des fluides chez Balzac, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Susi Pietri, L’«obligation de donner». Anthropologie du don et de l’échange dans «La Comédie humaine», in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Susi Pietri, Construire/reconstruire «La Comédie humaine». Le paradigme architectural et la configuration de l’oeuvre, in AA.VV., L’architecture du texte. L’architecture dans le texte. Colloque international organisé par la Società Universitaria per gli Studi di Lingua e Letteratura Francese e il Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli studi di Macerata, 22 settembre 2016.

 

 

  Susi Pietri, «Filles aux yeux d’or». Riscritture balzachiane, in AA.VV., «La Fille aux yeux d’or» di Honoré de Balzac. Seminario di studi ... cit.

 

 

  Massimo Romano, Balzac, un visionario travestito da realista, Torino, Sala Conferenze dell’Archivio di Stato, 18 febbraio 2016.

 

 

  Henri Scepi, Penser la peinture. «Le Chef-d’œuvre inconnu», in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Agnese Silvestri, Suggestioni orientali: la dimensione ideologica della « Fille aux yeux d’or», in AA.VV., «La Fille aux yeux d’or» di Honoré de Balzac. Seminario di studi ... cit.

 

 

  Francesco Spandri, Balzac et le “non-sens de la terre”, in AA.VV., La Terre. Colloque annuel de la Nineteenth-Century French Studies, Brown University, ottobre 2016.

 

 

  Francesco Spandri, Les ressources de l’abstraction, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Francesco Spandri, Réflexions sur le symbolisme des « yeux d’or», in AA.VV., «La Fille aux yeux d’or» di Honoré de Balzac. Seminario di studi ... cit.

 

 

  Paolo Tortonese, Balzac et la querelle des analogues, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.

 

 

  Fabio Vasarri, Sventure e prosperità dell’eros, in AA.VV., «La Fille aux yeux d’or» di Honoré de Balzac. Seminario di studi ... cit.

 

 

  Laélia Véron, Penser l’esprit avec Balzac, in AA.VV., Balzac penseur? Colloque international … cit.





Eventi.



  Gruppo di lettura "Topografia letteraria" con Balzac, Novara, Circolo dei lettori, 26 gennaio 2016, 17.30-18.30.



Marco Stupazzoni

Nessun commento:

Posta un commento