martedì 3 novembre 2020




1984

 

 


 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, L’albergo rosso. A cura di Daria Pozzi, Roma, Theoria, 1984 («Riflessi», 4), pp. 81.

 

 

  Honoré de Balzac, L’albergo rosso. La grande Bretèche. Traduzioni di Bruno Schacherl e Clara Sereni, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 107.

 

 

  Honoré de Balzac, I capolavori. A cura di Enzo Caramaschi, Milano, Mursia, 1984 («I grandi scrittori di ogni paese. Serie francese»), pp. XXXVIII-801.

 

  Cfr. 1969 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, La casa del gatto che gioca (sic?) e altri racconti, a cura di Francesco Fiorentino, Napoli, Guida Editori, (febbraio) 1984 («Archivio del romanzo», 11), pp. 211.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Francesco Fiorentino, Prefazione. La bottega e il castello, pp. 5-15. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  La casa del gatto che gioca, pp. 17-73;

  Gobseck, pp. 75-144;

  Il ballo di Sceaux, pp. 145-210.

 

 

  Honoré de Balzac,Il colonnello Chabert. Traduzione di Michele Lessona, Torino, UTET, 1984, pp. 83.

 

  Per la traduzione, cfr. 1946 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Giorgio Brunacci. Nuova edizione, Milano, Garzanti Editore, (novembre) 1984 («I grandi libri», 25), pp. LXI-175; 1 ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, pp. V-LXI. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Eugénie Grandet, pp. 1-174.

 

 

  Honoré de Balzac, Gambara. Racconto musicale. Prefazione di Geno Pampaloni. Traduzione di Maria Cristina Marinelli, Firenze, Passigli editore, (ottobre) 1984 («Le Lettere», 17), pp. 117.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Geno Pampaloni, Prefazione, pp. 5-16. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Gambara, pp. 17-115.

 

 

  Honoré de Balzac, Louis Lambert, tradotto e curato da Paolo Pinto, Roma, Lucarini, 1984 («I grani»), pp. 140-XXXVIII.

 

 

  Honoré de Balzac, Memorie di due giovani spose. A cura di Paola Decina Lombardi Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1984 («I capolavori della narrativa moderna»), pp. 238.

 

  Cfr. 1982.

 

 

  Honoré de Balzac, Père Goriot. Traduzione di Mara Fabietti e Emma Defacqz, Milano, Garzanti, 1984 («I grandi libri Garzanti», 90), pp. XIX-261.

 

  Cfr. 1969; 1983.

 

 

  Honoré de Balzac, Primo studio di donna, in AA.VV., Racconti d’amore dell’Ottocento, a cura di Guido Davico Bonino, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1984 («Oscar classici», 48-49), Vol. I, pp. 109-118.

 

 

  Honoré de Balzac, La ricerca dell’assoluto. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzione di Andrea Zanzotto, Milano, Garzanti Editore, 1984 («I grandi libri», 569), pp. XXIII-190.

 

  Cfr. 1975; 1979.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Giovanna Aleo, Balzac e il “roman par lettres”: «Mémoires de deux jeunes mariées», «Le Forme e la Storia. Rivista quadrimestrale di studi storici e letterari», Catania, Anni V-VIII, numero unico, 1984-1987, pp. 146-160.


  La Correspondance di Balzac, in particolare le Lettres à Madame Hanska, con la ricchezza e la varietà delle argomentazioni, costituisce senzaltro un suggestivo e privilegiato punto di riferimento per ravvisare le progressioni del lessico romanesque balzacchiano, al fine di reperirne ed identificarne i termini di metalinguaggio, in particolare quello concernente la struttura del discorso epistolare che, nel caso della corrispondenza reale con “l’étrangère” – non strettamente centrata sulla cosa letteraria – si sviluppa secondo molteplici livelli di interesse e di intezioni (sic).

  Costituite da un numero variabile di motivi appartenenti a differenti registri discorsivi, le Lettres à Madame Hanska si presentano infatti piuttosto frammentarie nel loro sviluppo contiguo, ma, ad una lettura più attenta, appare evidente che esse sono regolate da una struttura che, usando la terminologia barthesiana, si potrebbe definire “de type stemmatique”.

  La fitta corrispondenza, testimonianza della difficile e tormentata relazione tra Balzac e “la belle polonaise”, è stata non a torto definita “un roman d’amour”, definizione, questa, che acquista il suo senso nella lettura globale delle lettere, in quella istanza finale che proietta sull’itinerario percorso dalle parole il suo sguardo totalizzante.

  Pur riconoscendo le differenze formali ed emozionali tra il romanzo epistolare, e la corrispondenza reale, lo stesso discorso potrebbe tuttavia applicarsi ai Mémoires de deux jeunes mariées, opera tra le meno note e tra le più ingiustamente trascurate dell’autore della Comédie Humaine, unico esempio balzacchiano di roman par lettres, se si esclude il tentativo incompiuto di Sténie ou les erreurs philosophiques e Le lys dans la vallée (1835) che è piuttosto un racconto in prima persona sotto forma di lettera.

  “Tardifs surgeons d’un genre déjà désuet” – al loro apparire infatti il genere poteva ormai considerarsi tramontato e d’altronde anche i romanzi epistolari che lo avevano preceduto nello stesso secolo, si erano già allontanati dagli schemi tradizionali per orientarsi verso il Journal intime –, i Mémoires possono annoverarsi tra i pochi esempi in cui si registri la corrispondenza tra due donne (in questo caso tra due ex compagne di collegio) e non tra due amanti che vivono una comune avventura sentimentale. Per questa peculiarità Jean Rousset ha definito l’opera: “... une cantate à deux voix [...] un dialogue de vies à la fois mêlées et contrastées”, in cui ognuna delle corrispondenti ha un suo destino, una sua esistenza autonoma, una sua filosofia.

  La scelta della forma epistolare da parte di uno scrittore di consolidata fama come Balzac, il quale aveva più volte espresso non poche riserve per i racconti del genere ed aveva persino accusato Rousseau di cadere nel “sermon philosophique en lettres”, è senz’altro dettata da un’esigenza di scrittura ben precisa. Il genere epistolare, infatti, offrendo all’autore il vantaggio di una insospettata trascrizione di variazioni emotive del soggetto nel rapporto con gli altri, di turbamenti dei sensi, di confessioni autobiografiche o pseudo-autobiografiche, era il più confacente all’indagine che egli si proponeva di condurre nei Mémoires in cui intendeva configurare, attraverso, appunto, la dialettica della lettera, le conflittualità di schemi di vita esemplificate in due tipi di matrimonio: quello ragionato, solido, costruttivo di Renée de Maucombe e quello passionale, fantasioso, anticonformista di Louise de Chaulieu.

  “Le débat sur le mariage”, “... le terrible fait qui change la fille en femme et l’amant en mari”, tema portante del romanzo, fu uno degli argomenti privilegiati da Balzac nella sua corrispondenza con George Sand e Madame Hanska. Discepolo di Bonald, Balzac riconosceva nella famiglia l’istituzione capitale della società ma emarginava l’aspetto sessuale della coppia, ravvisando una incompatibilità assoluta tra il matrimonio e l’amore, tra le istituzioni e i costumi [...]. Concetti, questi, che, insieme ad altri, sia pur contraddittori tra di loro, quali l’immutabilità di tutto ciò che esiste, siano essi uomini, cose o istituzioni e la pratica contestatrice di ogni cosa, avvenimento, carattere o punto di vista, vengono veicolati nei Mémoires. In tal senso il romanzo si inserisce in quel grande “catalogue” concepito dall’autore, come parte integrante “... di una architettura omogenea per intensità e ampiezza, eterogenea nella molteplicità dell’articolazione”, per cui si può dire che esso costituisce una delle molteplici pietre di quella “Cathédrale” che Balzac si proponeva di edificare componendo la mole di romanzi che avrebbe riunito sotto il titolo complessivo di Comédie Humaine.

  Nella breve prefazione alla prima edizione dei Mémoires de deux jeunes mariées del 1842, successivamente soppressa, appare evidente come Balzac, riprendendo un genere della tradizione ereditata dal XVIII secolo, sia lucidamente cosciente di riproporre modelli narrativi non in sintonia con le attese di un pubblico nuovo, per cui si sente obbligato a riformularli in funzione delle mutate esigenze [...].

  Ed ancora, pur presentandosi – in accordo con i procedimenti consueti agli scrittori di romans par lettres – come un semplice metteur en oeuvre, un editore, un raccoglitore di lettere venute in suo possesso, Balzac ha intenzionalmente articolato e accentuato le fondamenta di una problematica contrastiva che, in ultima analisi, toccando i termini delle strutture narrative, delle tematiche e, non ultime, la definizione e costruzione dei personaggi, si inseriva nel discorso da lui programmato sulle funzioni del romanesque.

  Su questo piano [...], l’autore segnala infatti già sin da quel momento una certa discontinuità funzionale che mette in questione la struttura sequenziale nella sua stessa operazione. Inoltre [...], egli evidenzia il ritmo spezzato delle lettere, la variabilità che governa la duplice temporalità del racconto a livellò narrativo e fittizio. Balzac riconosce, in regime referenziale, l’eterogeneità delle modalità temporali di narrazione, considerate a volte sotto l’angolatura della perfetta simultaneità tra il tempo dell’avvenimento e quello del racconto, a volte sotto quello della riflessione e della distanziazione facente intervenire una periodizzazione variabile: da un lato il parossismo dell’istante felice, reso dalla duplice metafora del jet e della fiamme, dall’altro il resoconto freddo che riassume in maniera limitata ai fatti il flusso del quotidiano [...].

  Eleggendo uno spazio-tempo di finzione che corrisponde alle esigenze della tematica e alla struttura psicologica dei personaggi, l’autore articola nei Mémoires lettere scritte d’un seul jet, talvolta precedute dalla data di composizione, lettere scritte in parecchi giorni, lettere infine che fanno il sommario di settimane, di mesi e persino di qualche anno.

  Nei limiti imposti dalla finzione letteraria, Balzac sembra dunque preconizzare la riduzione dell’eterogeneità temporale e il rigore di una durata se non unica, almeno unificata e riconosce che il genere romanesque, lungi dall’essere libero e aperto, obbedisce necessariamente ad un insieme di codici, di convenzioni, di regole che definiscono il suo protocollo di lettura, la sua vraisemblance [...]

  Balzac intende soprattutto salvaguardare l’equilibrio della composizione del romanzo epistolare, fondato sulla strutturazione sintagmatica e la selezione delle funzioni, così come sul controllo accuratamente dominato del paradigma indiziale, differenziandosi in questo dalla lettera empirica, la quale, presentandosi invece molto spesso sotto forma di una massa anarchica, disparata, sproporzionata, si singolarizza in particolare per una dilatazione delle unità indiziali che turba l’ordine stesso del paradigma.

  Balzac, con il linguaggio della lettera, vuole inoltre supplire all’assenza di contatto e di contesto, da una parte, facendo di questi significanti vuoti che sono il je e il tu dei personaggi significati forniti di funzioni e di qualità proprie, dall’altra, provvedendo di «in contenuto il luogo e il momento della enunciazione.

  Eliminando infine, grazie all’uso della prima persona e del presente, ogni distanza tra il sentimento e la sua manifestazione, l’autore intende raggiungere, per la trasparenza immediata dell’emittente, una drammatizzazione più convincente della storia, pur lasciando la narrazione sempre aperta e mobile il punto di vista. Elementi, questi, specificamente attivi nella forma epistolare in cui una lettera può costituire in se stessa un piccolo romanzo datato e racchiuso negli stretti limiti della micronarrazione.

  Le 57 lettere che compongono i Mémoires de deux jeunes mariées abbracciano un arco di diciotto anni e toccano il periodo più importante della vita di una donna: dai diciassette ai trentacinque anni. L’orchestrazione drammatica in due parti, sapientemente concertata dall’autore, crea una struttura omogenea all’interno di ognuna di esse e le interruzioni, le fratture corrispondono ai grandi momenti dell’azione. [...].

  La corrispondenza tra le due giovani donne non costituisce soltanto l’artificio atto a dare vita a due narrazioni parallele, alternate, bensì anche un luogo linguisticamente deputato allo scambio, al confronto, alle verifiche reciproche, in cui il je dell’épistolier utilizza appunto la scrittura epistolare come riflesso istantaneo e docile della sua dimensione esistenziale ed emozionale, in opposizione e/o in armonia con la rifrazione dei segni emozionali dell’altro [...].

  La struttura a due livelli, accumulando segni referenziali differenti, a volte discordanti, attraverso il libero racconto della vie privée delle due protagoniste, le quali mettono a nudo passioni nascoste, falsità, ambiguità, tutti quei mutamenti dell’animo che formano, secondo Balzac, l’envers du décor, consente di costruire e de-costruire continuamente, a volte persino di lettera in lettera, i personaggi di Louise e di Renée [...]. I due itinerari umani, quelli di Louise e di Renée. “... qui ne se révèlent à autrui que par pans, par éclairs parfois”, si compongono come tessere di un mosaico-procedimento abbastanza consueto nel genere epistolare – “par coups de projectures intermittents”.

  Così le lettere di Louise de Chaulieu [...] forniscono di volta in volta, nella mutevolezza dei sentimenti espressi, gli elementi necessari che definiscono il personaggio dell’emittente e, di riflesso, aiutano a costruire il personaggio di Renée.

  Nella stessa misura le lettere dell’altra emittente, non soltanto forniscono ulteriori elementi utili per definire, con il medesimo raccordo contrastivo del mutamento del punto di vista, il personaggio di Louise, ma parallelamente costruiscono il personaggio di Renée de Maucombe. ragazza della nuova aristocrazia della Monarchia di Luglio, animata da una sorta di mistica laica del dévouement, la quale ha adottato le virtù positive, le ambizioni, il macchiavellismo arrivista che sono espressione della nuova classe emergente [...].

  A differenza del tipico racconto balzacchiano con narratore onnisciente, nei Mémoires, il racconto a struttura “orizzontale’’ si focalizza ora su Renée ora su Louise. Il principio generativo di questo modulo narrativo è la “localizzazione interna”: il personaggio infatti non viene mai descritto e neppure designato dall’esterno, né tantomeno i suoi pensieri e le sue percezioni vengono analizzati oggettivamente dal narratore. Balzac dissimula con tale artificio la sua voce, tutto ciò che può costituire una sua intrusione e gioca nel rifrangere il suo punto di vista veicolato dalle voci narranti antagoniste, intanto che queste, miroir l’una dell’altra, intessono le trame della loro storia che si succedono o piuttosto si incastrano come en abyme. L’oggetto-lettera, medium strutturale del sistema epistolare, senza aggiungere qualcosa alla vraisemblance ha senz’altro permesso all’autore di autenticare il discorso delle emittenti, raggiungendo maggiore credibilità.

  La base di una semantica delle lettere bisogna dunque ricercarla di volta in volta nelle percezioni formulate più o meno palesemente dalle corrispettive corrispondenti.

  Le “storie parallele” di Louise e di Renée hanno come punto di origine e d’incidenza le esperienze che queste hanno accumulato negli otto anni trascorsi insieme in convento. Ambedue hanno ricevuto un’educazione religiosa in cui le costrizioni, hanno, per opposizione, generato illusioni che, dilatate con le fantasticherie prodotte dalle letture, hanno contribuito a costruire un’immagine “eroica” dell’amore. […]. Lo scambio epistolare tra le due amiche costituisce in tal senso il romanzo del sogno nel suo dialogo col positivo della vita, dialogo conflittuale nel quale si configura la dicotomia amore/ambizione, individualismo in rivolta/accettazione lucida della quotidianità.

  A Louise che fa dell’amore “la grande affaire” della sua vita [...], che per due volte fa un matrimonio d’amore (coronamento di un sentimento libero e disinibito, il primo, passionale e possessivo, il secondo) ambedue conclusi con una morte prematura, fa da contrappunto Renée che sceglie invece un matrimonio “ragionato” con un anziano benestante [...].

  Due registri per esprimere il medesimo sentimento, per valutare uno stato sociale, il matrimonio: l’esaltazione dell’“amour-passion” incondizionato ed esclusivo di una “folle courtisane”, di un “enfant gâté”, che non conosce limiti né pregiudizi sociali, da una parte – eco del Balzac travolto dalla passione per Madame Hanska, del discepolo di Swedemborg (sic) che aspira all’assoluto, che crede nei poteri medianici dall’altra, l’esaltazione dell’amore ragionato di un “docteur en corset”, di una donna “excessivement ambitieuse”, che lucidamente sceglie un’esistenza piatta, ubbidiente ai doveri di sposa e madre, incline ad un ostentato didatticismo che rimanda al Balzac discepolo di Rousseau e di Bonald.

  Le tragedie esaltanti di Louise, le vittorie amare e ineguali di Renée, rappresentano la misura della dimensione essenziale dei due personaggi che cercano con uguale angoscia di vivere la loro vita, nell’“assoluto” l’uno, nel dévouement l’altro. [...].

  La struttura epistolare, inoltre, con il gioco della contiguità e della articolazione, in assenza di una sequenza narrativa prestabilita, produce effetti di senso molto vari, molto più efficaci ed eloquenti anche se suggeriti entre les lignes.

  Come nelle Lettres à Madame Hanska, la fruizione del testo è qui connessa al problema della scrittura. L’ambiguità del signifiant e del signifié, ma soprattutto la diversa modulazione del sous-entendu che colma la distanza del dit e del non-dit, ne codifica appunto la comprensione. Sui diversi livelli di lettura, sull’esito del segno, è conseguenziale una de-costruzione del personaggio definito per una ricostruzione del personaggio non definito, inteso e proposto da una significazione apparentemente occulta ma costantemente presente.

  Ed è allora possibile rileggere i Mémoires non solamente in funzione della tematica ostentatamente espressa: l’esaltazione delle “leggi sociali” della nuova borghesia contro le leggi naturali nel privilegiare le “réalités du ménage” alle “illusions de l’amour”, (riflesso delle idee conservatrici di matrice bonaldiana), ma anche su diagrammi di tonalità opposte che chiarificherebbero, in ultima analisi, l’ambigua frase di Balzac in risposta ad una lettera di George Sand: “J’aimerais mieux être tué par Louise que de vivre longtemps avec Renée”.

 

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet ... cit., pp. V-LXI.

 

  pp. LIV-LV.

«Eugenie Grandet».

  Inizialmente concepito come novella per l’«Europe littéraire», è una «scena della vita di provincia». Lavorandovi tra l’estate e l’autunno del 1833, Balzac dilata progressivamente lo spazio della narrazione; il soggetto lo convince, e nello stesso tempo si sente sostenuto da una conoscenza personale della vita di provincia, già evocata in numerosi racconti. Ciò che appare sull’«Europe littéraire» non è più una novella nel genere del Curé de Tours, ma il primo capitolo di un romanzo che sarà pubblicato nel dicembre dello stesso anno, in un volume che inaugura una serie di Etudes de moeurs au XIXe siècle (Studi di costumi del XIX secolo); un vantaggioso contratto firmato nel mese di ottobre con l’editore Béchet stabilisce che la serie comprenderà dodici volumi suddivisi in Scènes de la vie privée (Scene della vita privata), Scènes de la vie de province (Scene della vita di provincia) e Scènes de la vie parisienne (Scene della vita parigina). Alla firma di questo contratto, con cui Balzac si impegna a dare vita a un sistema narrativo che componga un mosaico della vita sociale contemporanea, non è estranea la composizione di Eugénie Grandet; e alla composizione di Eugénie Grandet non sono estranee le vicende sentimentali di Balzac. «La storia è vera», annuncia Balzac alla sorella Laure, sorpreso di trovarsi tanto a proprio agio nella restituzione del clima malinconico della vita di provincia, che ha segnalo profondamente la sua adolescenza; il fatto è che ora sente di avere  occhi per vedere «tutta intera la storia della Francia» nei più banali dettagli, per riconoscerne i drammi di «ordinaria famiglia» senza doversi costringere a complicati sforzi d’immaginazione. La realtà è molto più drammatica dei melodrammi «neri».

  L’intreccio di Eugénie Grandet è sostanzialmente privo di colpi di scena «romanzeschi». Due protagonisti: Félix Grandet, un ex commerciante di botti che ha saputo arricchirsi attraverso spregiudicate speculazioni e che incrementa l’ingente patrimonio con l’usura e una politica familiare di esasperata avarizia, e sua figlia Eugénie, fanciulla sottomessa, di animo nobile e sensibile, estranea all’ossessiva avidità del padre. L’arrivo da Parigi del cugino Charles (suo padre, fratello di Félix Grandet, si è suicidato per debiti) turba l’equilibrio familiare; sensibile alla sfortuna di Charles, Eugénie se ne innamora e, per aiutarlo a rifarsi una fortuna, gli fa dono del proprio «tesoro», le monete d’oro che nel corso degli anni, nelle grandi occasioni, il padre le ha affidato religiosamente. Charles parte alla volta dell’India, e per Eugénie, convinta che il cugino ricambi il suo amore, inizia l’interminabile attesa del suo ritorno, e un lungo periodo di reclusione nella propria stanza non appena il terribile Félix Grandet viene a sapere che la figlia non ha più il suo «oro» («“Non hai più il tuo oro!” gridò Grandet rizzandosi sulle gambe come un cavallo che senta sparare il cannone a dieci passi di distanza»). Il padre si riconcilia con Eugénie alla morte della moglie; teme infatti che la figlia possa pretendere la sua parte di eredità. Eugénie, fedele al proprio sogno d’amore, continua ad aspettare il ritorno di Charles. Ormai ottantenne, Grandet muore, lasciando a Eugénie il patrimonio; spirando nel tentativo di impadronirsi del crocifisso dorato che il prete gli avvicina alle labbra, il vecchio avido impartisce l’ultimo ordine alla figlia: «Abbi cura di tutto! Me ne renderai conto laggiù», dimostrando con quest’ultima parola che il cristianesimo deve essere la religione degli avari. Ormai Eugénie è libera di realizzare il sogno d’amore a cui è sempre rimasta fedele. Ma l’amato Charles, che torna a Parigi trasformato da una vita d’avventuriero che lo ha reso avido e spietato, in tutto simile allo zio, congeda la trepidante Eugénie con una lettera in cui le annuncia il suo matrimonio con una nobildonna. Rassegnata. Eugénie acconsente a sposare un anziano pretendente (ma a condizione che sia un «matrimonio bianco»), che la lascia vedova a trentasei anni. Vivrà in solitudine, impiegando il patrimonio in opere di beneficenza. I due protagonisti del romanzo sono entrambi prigionieri di una passione: Grandet, dell’avarizia; Eugénie, di un sogno d’amore. Sono due «tipi»; in loro si concentrano le caratteristiche dell’avaro e della malinconica fanciulla di buona famiglia. Ma soprattutto sono due «tipi» straordinariamente moderni: Grandet non è una maschera ispirata all’Arpagone di Molière; la sua avarizia non ha connotazioni esclusivamente morali, è invece un dato sociale. L’esasperata avidità di Grandet è la passione di uno speculatore di genio, un figlio della borghesia in ascesa che ha compreso che il denaro è una merce; Grandet non tesaurizza, ma investe. In questo è un personaggio «tipico» della società capitalistica francese. Anche Eugénie è immediatamente familiare ai lettori di Balzaci la passività, le esauste malinconie, sono un segno inconfondibile della condizione di tante giovani donne recluse nelle famiglie borghesi. Ma Eugenie è portatrice di un’alternativa alla logica disperante di Grandet, ed è nella coesistenza di due diverse concezioni del mondo che si consuma, scandito da un tempo che scorre lento e immutabile, il dramma quotidiano di Eugénie Grandet.

 

 

  Margherita Botto, Funzione delle ‘digressioni’ in “Ferragus” di Balzac, «Il Confronto letterario», Pavia, Anno I, n. 2, novembre 1984, pp. 337-355.

 

  Malgrado la sua innegabile importanza nell’economia della Comédie Humaine, non foss’altro per la collocazione privilegiata che l’autore gli ha destinato in apertura delle Scènes de la vie parisienne, il primo episodio dell’Histoire des Treize occupa un posto fra i più modesti nell’imponente repertorio bibliografico della critica balzachiana [...]. In generale, si osserva una sorta di disagio ad affrontare l’analisi effettiva del racconto, a entrare nel merito del testo, disagio imputabile soprattutto alla difficoltà di reperirvi un’omogeneità tematica, un’unità profonda: donde l’insistenza, implicita o dichiarata, sulla distinzione fra ‘histoire’ e ‘digressioni’, fra un tessuto diegetico riconducibile appunto al ‘roman d’intrigue’, al ‘fantastique’, al romanzo nero, e una serie di divagazioni, pittoresche o ‘sociologiche’, che continuamente interrompono lo svolgimento della vicenda e che, nella quasi totalità dei casi, si sviluppano intorno al tema dello spazio urbano e dei suoi personaggi più tipici. [...].

  Appare tuttavia semplicistico risolvere l’analisi di Ferragus in un repertorio di rimandi, documenti, testimonianze, scindendo sostanzialmente ‘diégèse’ e segmenti descrittivi, anche se in questo caso la distinzione fra i diversi livelli del ‘récit’ appare particolarmente agevole, e assai spesso addirittura legittimata dal loro appartenere a diversi momenti di scrittura. [...].

  Nel caso di Ferragus, i rimaneggiamenti più importanti, anche sotto il profilo quantitativo, riguardano il passaggio dal manoscritto all’edizione preoriginale, con l’inserzione — talvolta letterale — di interi passi tratti da scritti precedenti e l’ampliamento cospicuo (anche parecchie linee di stampa) dei segmenti descrittivi. Del resto, tutto fa pensare che sia stata proprio la scansione temporale dei fascicoli della «Revue de Paris» a determinare l’impianto del racconto e la sua ripartizione in tre momenti narrativi ben distinguibili in base alla priorità accordata a certi personaggi e a certi temi.

  Se si considerano infatti i tempi di redazione, il testo di Ferragus si articola intorno a tre periodi di scrittura, corrispondenti alle tre ‘livraisons’ della «Revue de Paris. Le ‘puntate’ del racconto corrispondono alle tappe fondamentali dell’enigma e ai momenti di un’articolazione spaziale dell’ ‘histoire’ che, incentrata sull’opposizione esterno-interno, si chiude ciclicamente su se stessa.

  La prima parte (capp. I e II) si costruisce sul tema dello spazio esterno o sociale (la città, i ‘salons’) e sul personaggio di Auguste de Maulincour, che è al contempo protagonista dell’ ‘intrigue’ come investigatore e «spia» e protagonista della prima analessi che traccia la storia della sua educazione. [...]. In questa prima parte, Jules Desmarets è una semplice comparsa: egli non agisce, ma è presente nell’ ‘histoire’ solo in veste di marito di Clémence, mentre nell’economia generale del ‘récit’ è protagonista della seconda analessi, dedicata alla preistoria del suo matrimonio.

  La seconda parte (cap. III) privilegia invece gli «interni», come spazio in cui trova il suo fondamento l’amore minacciato dei due sposi; al contempo, il personaggio di Jules si sostituisce a quello di Auguste nel proseguire la ricerca che condurrà alla soluzione del mistero. L’interferenza fra la sfera del mondo esterno e quella del ‘ménage’ Desmarets, rappresentata dall’irruzione di Ida nella loro casa e dalla visita di Jules a madame Gruget, precipita l’ ‘histoire’ verso la sua conclusione.

  Nella terza parte, il IV capitolo e la Conclusion presentano rispettivamente la soluzione dell’enigma (l’incontro fra Clémence e suo padre che Jules spia non visto) e la conclusione del ‘récit’, che ripropone il tema iniziale della città dalla quale sono progressivamente spariti tutti i personaggi dell’ ‘histoire’ per lasciar campeggiare la solitaria figura di Ferragus, perduta fra le mille immagini anonime di Parigi.

  Ferragus è dunque un racconto con due conclusioni, come l’autore stesso ha voluto sottolineare [...].

  In tale prospettiva, non solo le cosiddette digressioni debbono trovare una loro giustificazione rispetto a una struttura che, sebbene realizzata ‘après coup’, si presenta come rigorosamente articolata, ma appare riduttiva anche l’interpretazione suggerita da P. Barbéris che, in una sua prefazione a La Fille aux yeux d’or, fa appello alla nozione di «texte disparate» [...].

  Il procedimento narrativo su cui si fonda la struttura di Ferragus sembra essere più complesso del passaggio dal generale al particolare, dal panorama al dettaglio [...]. Che il ‘récit’ risulti anche composto da segmenti descrittivi provenienti da altre opere è infatti una constatazione di ordine diacronico, che non può e non deve essere assunta come unica chiave di lettura del testo compiuto. Tuttavia, non è sufficiente attribuire a tali segmenti una patente di ‘letterarietà’ per spiegarne la funzione all’interno del racconto, e la nozione di «texte disparate» continua a riportare in primo piano quella prospettiva diacronica che impedisce di analizzare il testo quale esso si presenta al lettore — e quale Balzac l’ha voluto dopo tante revisioni e correzioni. [...].

  Il termine digressione, che è stato accolto senza alcuna riflessione critica, ricorre in effetti sotto la penna di Balzac ma, contro le intenzioni dell’autore stesso, ha finito per assumere una connotazione dichiaratamente peggiorativa: parlare di digressioni significa infatti ammettere che si tratta di deviazioni dall’argomento principale del discorso e avallare con ciò una lettura di Ferragus come testo frammentario, in cui la digressione si oppone al corpo del ‘récit’ quale sintesi di ‘diégèse’ e descrizioni funzionali ad essa. [...].

  In Ferragus, ciò che sembra giustificare il ricorso al termine digressione è invece l’apparente assenza di una «focalizzazione», di un orientamento della descrizione in funzione del personaggio, Sarà dunque opportuno abbandonare l’opposizione descrizione-digressione e adottare una terminologia più neutra, e più neutrale, esente da qualsiasi sospetto di connotazione peggiorativa, accettando piuttosto la nozione di «pause descriptive» che G. Genette elabora opponendo esplicitamente il modello proustiano al procedimento narrativo tipico di Balzac [...].

  In Balzac, [...] la pausa descrittiva si definirebbe soprattutto, oltre che per la sua extra-temporalità, per il fatto che destinatore e destinatario dell’enunciato sono il narratore e il lettore stessi, senza alcuna mediazione operata dal personaggio. È infatti proprio lo statuto «non mediato» dei segmenti descrittivi inseriti da Balzac in Ferragus che ha indotto a definirli digressioni, vale a dire elementi eccentrici rispetto a un asse diegetico fortemente focalizzato, di volta in volta, su un personaggio. D’altro canto, a differenza di molti altri romanzi balzachiani, per i quali infatti la critica non ha mai parlato di digressioni, in Ferragus la sua stessa natura di ‘racconto a enigma’ impone al récit un taglio prospettico assolutamente univoco (nella prima parte, la focalizzazione su Auguste; nella seconda, su Jules), consentendo così di isolare agevolmente — al di là della loro origine ‘spuria’ in senso diacronico — i segmenti in cui viene a mancare l’ottica privilegiata di un personaggio dell’ ‘intrigue’.

  Tale assenza è tuttavia solo apparente e l’analisi della «cornice» del racconto ci permetterà di individuare una figura che assicura l’integrazione delle pause descrittive all’ ‘histoire’ [...]. Questa figura ‘carrefour’, che riassume i caratteri del narratore e del lettore ideali e si capovolge in personaggio nel momento in cui l’ ‘histoire’ prende avvio, è quella del ‘flâneur’. Nel «début vagabond» del racconto, il ‘flâneur’ si pone come funzione narrativa bifronte: da un lato immerso nel ‘décor’ urbano di cui è osservatore imparziale e passivo, dall’altro estraneo alla ripartizione topologica della città, ciò che gli permette di farsi narratore dei suoi drammi. Infine, come garante e portavoce di una serie di ‘topoi’ culturali, consente al racconto di costruirsi sul passaggio dal ‘topos’ all’individuazione (di un ambiente, di un personaggio) attraverso l’infrazione di un preciso codice che, in quanto tale, fa appello alla cultura del lettore per creare una situazione prevedibile e riconoscibile e al contempo ne ribalta le attese fondando il meccanismo dell’enigma.

  Attraverso l’analisi di questa figura sarà dunque possibile non solo comprendere in base a quale procedimento narrativo sia costruito Ferragus, integrando le ‘digressioni’ al ‘récit’ ma anche vedere nella giusta luce la sua natura di opera di transizione dalla precedente produzione balzachiana sia analitica che romanzesca ai grandi romanzi successivi al 1834: caratteristica che, ancora una volta, tanti critici hanno sottolineato, attribuendo tuttavia a tale definizione una connotazione peggiorativa più o meno esplicita. [...].

  Il sistema balzachiano della scrittura. Che è dunque innanzi tutto riscrittura di altri segni in segni linguistici, implica perciò che scrittore e lettore siano a loro volta partecipi del ‘décor’ urbano. Non a caso molti testi di questo periodo rappresentano in modo implicito o esplicito la figura del narratore stesso, e Ferragus costituisce un’opera di transizione proprio in quanto segna il passaggio da una struttura più tradizionale, ove è un ‘io narrante’ a introdurre l’ ‘histoire’, all’impianto dei romanzi successivi al 1834, che si rifrangono in una pluralità di voci e localizzazioni diverse. [...].

  Pur facendo parte della città, il ‘flâneur’ è dunque il solo personaggio urbano che possa impunemente infrangere le leggi di questo sistema planetario, è il solo che abbia pieno diritto di accesso a tutte le sphères e che sia in grado di osservare nella sua totalità l’immane corpo di Parigi, organizzato in base a leggi, fisiologiche in questo caso, altrettanto ferree di quelle celesti. Tale diritto dipende innanzi tutto da una sorta di fondamentale passività: egli raccoglie le immagini che gli altri personaggi urbani — in quanto pezzi del meccanismo, organi del mostro — non potrebbero percepire; individua i drammi segreti che la sintomatologia della «physionomie», la semiologia della «toilette», la topografia urbana stessa rivelano, proprio perché non è mosso da alcun interesse particolare. [...].

 

 

  Italo Calvino, La cité-roman chez Balzac, in Machines à écrire. Essais, Paris, Éditions du Seuil, 1984 («Pierres vives»), pp. 147-153.

 

 

  Italo Calvino, E De Musset creò il fumetto, «la Repubblica», Roma, 9 febbraio 1984.

 

 

  Thomas E. Carbonneau, Diritto e giustizia nell’opera di Honoré de Balzac, «Rivista del diritto commerciale», Milano-Padova, Fascicolo 9-12, 1984, pp. 373-408.


  Il presente saggio viene pubblicato per gentile concessione della Loyola Law Review ove esso è apparso nel vol. 27 (1981) pp. 1-33 con il titolo «Balzacian Legality: A Proposal for Naturai Law Juridical Standards of Legitimacy». La traduzione è di Vincenzo Zeno-Zencovich. Le citazioni dai romanzi César Birotteau e Illusioni Perdues sono tratte dall’edizione italiana pubblicata da Garzanti e tradotta da Argia Michelotti (sic). Le citazioni del romanzo L’interdiction sono state invece tradotte dall’originale francese. Sono state omesse alcune note superflue per il lettore italiano. Le citazioni balzachiane sono tratte dall’edizione della Comédie curata da P. G. Castex et alii pubblicata nel 1977. [N. d. R.].

 

  Fin dalla sua pubblicazione nel secolo scorso La Comédie Humaine, la monumentale opera letteraria di Honoré de Balzac ha conquistato la fantasia e l’ammirazione di innumerevoli studiosi e profani nel mondo intero. Sia ciò condivisibile o meno sotto il profilo critico, il testo balzachiano ha suscitato soprattutto l’interesse di coloro i quali hanno un’inclinazione verso il «romanzo documentario», cioè di quei lettori i quali giudicano il valore di un romanzo in base alla sua aderenza ad una realtà esterna esistente.

  Ancorché la qualifica di Balzac come scrittore di romanzi storici e sociologici costituisca un giudizio tutt’altro che pacifico e conclusivo sulla sua opera, tuttavia non si può non osservare come egli stesso abbia favorito il formarsi di tale opinione quando nella prefazione all’edizione del 1842 della Comédie descrisse il suo compito letterario come uno di osservazione oggettiva e passiva: «La Francia era lo storico, io soltanto lo scrivano». Comunque si voglia risolvere l’apparente conflitto fra il realismo di Balzac e l’altrettanto evidente contenuto morale dei suoi romanzi, è innegabile che egli incorporò, indisturbato, nella Comédie vasti segmenti della realtà sociale francese del XIX secolo.

  L’aderenza delle trame e dei caratteri balzachiani ai loro modelli esteriori è stato ben documentato (sic) in una serie di settori, comprendenti la sociologia, gli affari, la finanza. Tuttavia l’accuratezza delle osservazioni sociali di Balzac si estende anche al suo modo di trattare i problemi giuridici.

  La personale esperienza e la profonda conoscenza del diritto da parte di Balzac è quantomeno singolare, almeno per gli annali della letturatura (sic) francese. Egli fu uno dei pochi scrittori francesi laureati in legge e che aveva svolto pratica in uno studio legale. Anche quando la reputazione di Balzac come romanziere era ancora agli inizi, i suoi contemporanei già rimarcavano l’impronta che gli studi e la pratica giuridica avevano lasciato nella sua fantasia e nella sua visione letteraria. Alcuni anni più tardi, Théophile Gauthier (sic), il celebre poeta francese del secolo scorso, osservò che la frequentazione di Balzac con il diritto gli aveva consentito di conoscere i soggetti del mondo giuridico e di scrivere più tardi, in un modo che stupiva chi esercitava la professione, quel che definiremmo il contenuto giudiziario della Comédie.

  La sostanza di molti romanzi balzachiani conferma tale affermazione. Il romanzo, non particolarmente rinomato ma significativo, César Birotteau pubblicato nel 1837, costituisce un buon esempio in quanto illustra non solo la conoscenza che Balzac aveva delle questioni tecnico-giuridiche, ma anche la sua abilità nell’inserirle in un contesto letterario. Il romanzo narra la storia del successo commerciale e del crollo finanziario di un piccolo commerciante giunto nella capitale da una isolata regione della Francia nella speranza di farvi fortuna. Ancorché il commerciante, principale protagonista del racconto e il cui nome dà il titolo al romanzo, non sia particolarmente dotato intellettualmente, egli impersonifica l’etica dell’onestà: il suo successo è dovuto in parte al caso, ma si fonda soprattutto sul duro lavoro e la devozione ad una vita integerrima. La sua rovina finanziaria si deve agli intrighi di du Tillet, un suo ex impiegato, il quale subdolamente interferisce nei meccanismi giuridici per provocare il fallimento di Birotteau. César alla fine riesce a riabilitarsi, ma con tale dispendio di energie fisiche che gli costa la vita.

  Nella cosmologia balzachiana, la ascesa e la caduta di César Birotteau ha una molteplicità di significati tematici, che variano dall’analisi dei costumi dei diversi gruppi economici e sociali della Francia dell’epoca, allo studio delle silenziose e insidiose regole che governano il mondo degli affari e della politica, per finire con una valutazione sulle implicazioni della lotta fra bene e male per la società e l’esistenza degli uomini.

  La morte di César simboleggia la crocifissione della bontà da parte del male e lascia il lettore con la preoccupante sensazione che la sordida natura della società tende a riservare i benefici agli immorali, che i tradizionali valori etici sono defunti e praticati solo da emarginati sociali e che qualsiasi tentativo di redenzione o di salvezza spirituale deve essere praticato al di fuori del contesto sociale.

  Nello scrivere questo romanzo Balzac — come è stato notato da Gauthier — fece uso del diritto in modo estremamente preciso ed esatto. Quando si leggono le norme del Code de Commerce e la storia della L. 22 settembre 1807, non v’è dubbio che Balzac conosceva e si affidava molto sulla sostanza di tali disposizioni per costruire l’episodio della bancarotta in César Birotteau. La sua descrizione non solo contiene una profonda analisi delle tre principali fasi della procedura fallimentare ma dimostra anche che la sostanza delle regole giuridiche si presta assai bene all’infido disegno di du Tillet. In effetti si può dire che il romanzo costituisce una critica abile e perspicace della legge, come se fosse un saggio giuridico in forma romanzata sull’iniquità delle disposizioni fallimentari in vigore.

  Ad esempio appare subito evidente dal racconto e dai commenti che le disposizioni di legge sono del tutto inoperanti nella realtà sociale e del processo, che il legislatore non solo non aveva equamente bilanciato i reciproci diritti dei debitori e dei creditori, ma era incapace anche di impedire l’attività fraudolenta delle parti nella procedura. Quel che forse è più interessante in questa intersezione fra schemi giuridici e commercili (sic) è l’analogia che Balzac compie fra la procedura fallimentare ed il teatro.

  Secondo Balzac il processo è simile alla rappresentazione di una pièce che offre all’attento osservatore della realtà sociale un duplice dramma. Da una parte c’è la rappresentazione come è vista dal pubblico — in una parola, la visione di una realtà fittizia; dall’altra c’è l’azione dietro le quinte — la realtà della pièce allo stato puro e immodificato. L’intento di Balzac nello scrivere sui fenomeni sociali e giuridici è di smascherarne l’apparenza ufficiale per mostrarli nella loro vera luce. Nel descrivere le contraddizioni inerenti al tentativo legislativo di riformare le pratiche commerciali e le ingiustizie che ne derivano, Balzac tenta non solo di indicare le incongruenze della legge, ma anche, e ancor più importante, di fornire nella persona di César Birotteau un esempio di condotta più vicina agli ideali di giustizia. L’obiettivo di Balzac trascende il mero intento di cercare di impressionare il lettore con l’accuratezza e la precisione delle sue conoscenze giuridiche; piuttosto egli cerca di sostenere la tesi che le leggi le quali non riflettono la innata capacità umana di una effettiva condotta etica non sono — in realtà e per nulla — delle leggi, ma soltanto una ulteriore serie di regole vuote e prive di valore che attendono di essere manipolare in un gioco di interminabile connivenza e degradazione umana.

  Attraverso l’esempio di César Birotteau, Balzac esprime la sua convinzione, profondamente radicata, che le leggi non dovrebbero costituire una fonte di ridicolo, un bersaglio o uno strumento per gente d’inganno.

  Invece, le leggi e le istituzioni giuridiche, per il benessere di tutti e per la felicità dell’individuo dovrebbero essere considerate con la stessa deferenza e rispetto che César Birotteau aveva mostrato loro: al prezzo della sua salute e, alla fine, della sua stessa vita Birotteau aveva rispettato la legge fino in fondo. In un certo senso il commento di T. Gauthier sulla stupefacente qualità delle conoscenze giuridiche di Balzac era profetico. Sul volgere del secolo avvocati e professori francesi esternavano il loro stupore per l’accuratezza delle trame e dei personaggi giuridici di Balzac. Quel che Gauthier però non previde fu il loro disappunto per quel che Balzac aveva detto sul valore della legge come istituzione sociale nel segmento analitico del suo saggio giuridico romanzato.

  Quando divenne chiaro che la tesi di un Balzac passivo osservatore della realtà sociale avrebbe ammantato di un particolare valore morale la sua descrizione realisticamente romanzata del diritto e conferito ad essa natura di valutazione critica dello stato della giustizia, lo stupore e l’entusiasmo si placarono e si trasformarono in una denigrazione aspra e difensiva della soggettività del romanziere, della sua ingiustificata intrusione nel campo privilegiato della realtà giuridica.

  Così Joseph Blondel in un discorso davanti alla Corte d’appello di Douai nel 1887, pur tributando a Balzac una «genuina originalità» per la sua «profonda conoscenza del diritto civile, per questo incessante intervento della procedura in un così gran numero di opere», tuttavia criticava lo scrittore per la sua audacia nell’aggiungere il commento indebitamente negativo e semplicistico dell’uomo di lettere alla descrizione dell’«esatto compito della legge»:

«Ma talvolta il romanziere va oltre (la descrizione). Non contento di applicare la legge, la commenta, la critica. (...) Accetta la saggezza ricevuta, si riferisce solo al Code Civil, non crede nella necessità, nell’efficacia della riforma».

  Su un piano più dogmatico, altri commentatori insorsero contro la filosofia del diritto che emergeva dalla Comédie. Ad esempio nel 1906, Fernand Roux in un lavoro su Balzac, sviluppò un elaborato attacco della sua concezione critica del diritto, cercando di dimostrare che le tendenze letterarie e idealistiche dell’autore rendevano il suo approccio al diritto e al pensiero giuridico privo di qualsiasi «fondamento razionale o filosofico».

  Questi primi studi — si ritiene — riflettono una totale incomprensione del contesto letterario nel quale si colloca il commento giuridico di Balzac. Ponendo le osservazioni dello scrittore in una luce ingiustamente negativa, apportano un notevole danno al valore intellettuale che le opere balzachiane possono dare agli operatori del diritto.

  Rigettare una critica della legge e del sistema giudiziario sol perché proviene da un homme de lettres, il quale avrebbe dovuto limitarsi ad una meccanica attività cronachistica, significa rifiutare il valore di una analisi intellettuale e confligge con il senso comune.

  Inoltre getta dubbi ingiustificati sulla validità di un’analisi interdisciplinare della natura e della sostanza del diritto. Roux, ad esempio, asserisce che la visione Balzachiana del diritto è caratterizzata da «dottrine che implicano una falsa visione del mondo» e aggiunge che «se il male è un fattore sociale, anche il bene lo è, sullo stesso piano (...). Questa verità sfuggiva in parte a Balzac (...), i personaggi virtuosi (...) rimangono eccezioni inspiegate all’interno del lavoro, fiori dolci e malaticci, cresciuti fra piante robuste e malsane».

  Tali osservazioni sembrano indicare una incomprensione per la dialettica balzachiana fra bene e male ed il significato tematico dei personaggi «angelici». Per Balzac «l’ordine sociale» veniva conseguito non «al prezzo di una giustizia imperfetta», ma piuttosto attraverso una forma di giustizia inaccettabile da una prospettiva morale e umanistica. Balzac creò un mondo romanzesco nel quale «gli uomini passavano il loro tempo a deformare le disposizioni dei Codici» per enfatizzare il suo punto di vista secondo cui le leggi, nella loro pratica attuazione, sono estranee ai più rudimentali principi di giustizia, e per fornire esempi di alternative ideali alla realtà sulla quale lavorava la sua fantasia e che essa trasponeva.

  Studiosi francesi più vicini a noi nel tempo — fra di essi i proff. Madeleine Saint-Germès e Adrien Peytel — scrivendo dell’argomento hanno avuto invece il merito di analizzare il contenuto giuridico della Comédie da una prospettiva storica e descrittiva più distaccata. Il loro lavoro cataloga la presenza e stabilisce in modo decisivo l’accuratezza, la precisione e la verosimiglianza degli elementi giuridici nei romanzi di Balzac. Il libro di Peytel su Balzac è l’opera più autorevole in materia. Egli descrive così l’esperienza di Balzac: «Il romanziere successivamente sarebbe dipeso costantemente dal giurista; quest’ultimo fornì alla fantasia del primo solide basi su cui fondare le trame narrative e consentire loro di svilupparsi secondo le regole giuridiche. Sarebbe difficile negare che il senso giuridico di Balzac contribuì largamente nel fornire alle sue opere un valido supporto, giacché la sua precisione giuridica e la sua innegabile competenza consentirono di ordire le trame più complesse con la maestria abile ed agile di uno sperimentato uomo d’affari».

  Questi studi in effetti costituirono il primo passo verso il restringimento del divario e la riconciliazione fra gli aspetti letterari e quelli giuridici del romanzo balzachiano. Peytel, infatti, nel documentare la precisione di Balzac in tema di diritto insiste, sia pure, forse, con troppo entusiasmo e troppo poche spiegazioni, sul realismo letterario dell’Autore.

  I lavori contemporanei che trattano i rapporti fra Balzac e il Diritto sono tutti opera di studiosi della lettratura (sic) i quali hanno focalizzato la loro attenzione su specifici temi della Comédie o dei singoli romanzi. Come per il passato, essi sono stati scritti in francese e da autori francesi. Ultimamente notevole interesse ha generato l’atteggiamento di Balzac nei confronti delle donne, così come risulta dalla descrizione del loro status giuridico. Ad esempio, Marie Henriette Faillie, nel tentativo di stabilire se Balzac potesse considerarsi un fautore del femminismo, ha esaminato «le reazioni delle eroine di Balzac nei confronti del Code Civil e dello stato di quasi incapacità nel quale giuridicamente si trovavano».

  Arlette Michel ha anche analizzato il tema della donna e il diritto in Balzac, ma solo relativamente alla Phisiologie (sic) du Mariage e a Scènes de la vie privée del 1830. Infine, Pierre Antoine Perrod ha studiato il ruolo e l’interpretazione che Balzac dà al maggiorascato e alla successione immobiliare.

  L’intento del presente saggio è duplice: in primo luogo il tentativo di un contributo in lingua inglese alla continua ricerca interdisciplinare, iniziata in Francia, su argomenti e romanzi che non sono stati oggetto di studi precedenti. In secondo luogo vuole contribuire ad un settore di crescente interesse per i giuristi americani — lo studio dei rapporti tra diritto e letteratura — fornendo un esempio delle riflessioni fornite da un romanziere di educazione ed esperienza giuridica su problemi che da sempre costituiscono una inquietante sfida a colori i quali insegnano o praticano il diritto: i rapporti fra diritto e giustizia e fra morale e etica individuale e sociale.

  L’ambito della ricerca si incentra soprattutto su uno dei principali romanzi balzachiani Les illusions perdues (sic) e la struttura tematica della sua terza e ultima parte. Ad avviso dell’autore questo romanzo contiene molti dei più importanti principi del pensiero giuridico balzachiano e tali aspetti sono evidenziati più chiaramente attraverso l’analisi e la comprensione della propensione di Balzac per l’idealismo (in contrasto con il suo realismo storico). Tale propensione la si può ravvisare nella personalità e nel ruolo di alcuni personaggi «angelici» del romanzo.


  Il romanzo e la sua trama.

 

  Illusions perdues, narra, come il titolo suggerisce, del confronto fra la purezza degli ideali e la corrosiva immoralità della società, un motivo che ricorre frequentemente nella trama dei romanzi balzachiani. Lucien, un giovane che aspira alla fama di poeta e alla notorietà sociale, dopo esser giunto alla conclusione che l’ambiente provinciale della sua città natale, Angoulême, non è in grado di suscitare quell’atmosfera necessaria a promuovere tali ambizioni, decide finalmente di trasferirsi a Parigi. Benché egli sia capace di inventarsi sogni di gloria e di ricchezza, la debolezza del suo carattere gli impedisce di concretizzarli nella realtà. Le sue vicende sentimentali ed il suo crescente indebitamento creano le premesse per la sventura che inevitabilmente colpisce Ève e David Séchard, sua sorella e suo cognato, i quali, rimasti ad Angoulême per mantenere la famiglia, gestiscono la stamperia che David ha acquistato dal padre ridotto in miseria.

  David e Ève sono i personaggi «angelici» della storia e, nonostante gli ostacoli contro i quali devono lottare (a causa del comportamento irresponsabile di Lucien e l’ingordigia del padre di David), essi perseverano nel tentativo di costruirsi una vita onesta e dignitosa.

  In realtà, è David il vero poeta-creatore dell’opera: egli persegue indefesso la ricerca su una sua idea che farà diminuire sensibilmente i costi di fabbricazione della carta e rivoluzionerà l’industria tipografica.

  Durante il suo soggiorno parigino Lucien contrae debiti, spendendo il nome del cognato, con un socio dei concorrenti di David, i fratelli Cointet, i quali non solo vogliono espandere la loro attività per rispondere alla domanda di un mercato sempre più industrializzato, ma vedono la futura invenzione di David come indispensabile per i loro disegni. È a questo punto che il diritto comincia a sostenere un ruolo nella lotta fra bene e male.

  Nella terza parte del romanzo, Balzac descrive le tribolazioni finanziarie e giuridiche di David che risultano dalla sconsiderata condotta di Lucien a Parigi e dal desiderio dei Cointet di mettere le mani sulle sue idee e invenzioni. Lo sviluppo della trama è inserito in un quadro deterministico che il narratore prepara e mette in modo con attenzione e nei quali agli eventi sociali si accompagnano interpretazioni morali. Nell’universo balzachiano i buoni ed i virtuosi sono sempre in svantaggio e, di fatto, sono condannati alla sconfitta, almeno sotto il profilo materiale. La bontà di David lo induce ad accettare senza protestare l’irresponsabilità di Lucien e la sua personalità moralmente integra lo rende particolarmente vulnerabile all’insidiosa strategia posta in essere dai Cointet. Infatti, la completa dedizione di David al suo lavoro d’inventore, la sua rettitudine di carattere gli impediscono persino di sospettare che i Cointet stiano preparandogli una attenta trappola. Boniface Cointet, un maestro dell’intrigo commerciale, ha in mano tutte le carte: la sua conoscenza della natura umana e la sua astuzia gli consentono di predisporre un piano fondato sulle scappatoie e i cavilli del diritto commerciale.

  Ma, ancor più importante, il suo schema prevede la collaborazione di Petit-Claud un avvocato del luogo il cui sconfinato desiderio di successo è rafforzato da una mancanza di etica professionale.


  La descrizione dell’avvocato Petit-Claud.

 

  Nel racconto del primo incontro tra Boniface Cointet e l’avv. Petit-Claud, Balzac tenta di descrivere le caratteristiche essenziali della personalità di un giovane legale, ponendo in rapporto le sue origini sociali e geografiche, i suoi aspetti fisici e i valori cui aderisce. La somiglianza fra le radici e le condizioni sociali di Petit-Claud e David non è dissimile a quella che Balzac disegna fra du Tillet e César in César Birotteau. Come in quell’opera, la differenza fra i due personaggi emerge solo quando diventa chiaro che tipo di condotta morale essi decidono di adottare in quanto membri della società: in altre parole, se decidono di — o più precisamente, se sono destinati a — svolgere il ruolo degli emarginati oppure dei partecipanti fortunati nel gioco immorale della società.

  Nonostante la sua mancanza di esperienza professionale e le sue modeste, se non praticamente inesistenti, risorse finanziarie, la brama di successo aveva spinto Petit-Claud, «figlio d’un sarto dell’Houmeau» a rilevare lo studio dove esercitava la pratica. Era sua intenzione pagare i debiti contratti sposando una ricca ereditiera. L’aspetto fisico di Petit-Claud era altrettanto attraente della sua poco nobile visione del matrimonio: «un avvocatuccio magrolino, segnato dal vaiolo, con la capigliatura rada e già stempiato abbondantemente».

  A somiglianza di alcuni avvocati in Dickens, la sua fisionomia manifestava una personalità introversa sprovvista di qualsiasi senso di benevolenza: un uomo scaltro con una mente sveglia ma malevola.

  Il suo furtivo «occhio di pica», il suo portamento inflessibile e il suo atteggiamento fastidioso erano gli indizi della sua proclività alla disonestà e alla simulazione.

  «Pietro Petit-Claud sembrava avesse una parte di fiele nel sangue. Il suo volto presentava uno di quei coloriti sporchi e incerti che denotano malattie familiari, le vigilie della miseria e quasi sempre cattivi sentimenti (...). Un modo di dire può distinguere questo giovanotto in due parole: aveva il pelo sullo stomaco. La voce fessa andava d’accordo con l’espressione acida della faccia, che sembrava butterata dal vaiolo, e con il colore indeciso dei suoi occhi da pica». Nonostante questi difetti Petit-Claud nutriva una piena fiducia in sé e nelle sue capacità — ed a ragione. Durante il suo praticantato con l’avv. Olivet aveva mostrato un appetito insaziabile e una disponibilità inesauribile per il lavoro. Come racconta egli stesso a Boniface Cointet: «nei giorni feriali ero sempre occupato allo studio o al Palazzo di Giustizia, e la domenica o le altre feste lavoravo per completare la mia preparazione».

  Ma la sua dote principale non era tuttavia il suo zelo, quanto piuttosto il suo irriducibile individualismo; per arrivare al vertice della professione egli faceva affidamento solo su se stesso: «ho solo me stesso su cui contare».

  Benché Balzac non rappresenti Petit-Claud come una macchietta, attribuendogli invece, nonostante le sue origini di provincia, «una certa superiorità» egli riteneva — da commentatore morale dell’opera — che anche le qualità personali di Petit-Claud dovessero temersi: «Petit-Claud contava ancora di più su se stesso, perché egli non mancava di una certa superiorità, rara in provincia, ma la cui radice era nell’astio». Le capacità di Petit-Claud gli promettevano una carriera prestigiosa ma all’interno di un sistema sociale nel quale le forze più importanti erano rappresentate dalla rapacità e dall’egoismo; il suo talento sarebbe stato usato contro gli interessi dell’umanità, come strumenti esclusivi del «desiderio spasmodico di riuscire».

  Nel suo primo incontro, Boniface Cointet non ebbe difficoltà nel comprendere che Petit-Claud era l’uomo che ci voleva, né dovette esercitare molta pressione per convincerlo ad unirsi alle sue fila. Per sondare la sensibilità etica e morale del giovane legale Boniface gli chiese innanzitutto di avvicinare David Séchard in un modo che rasentava la violazione delle regole di comportamento forensi nei confronti dei clienti e la ricerca di clientela. La richiesta di Cointet non provocò indebite proteste di Petit-Claud, in quanto era formalmente lecita.

«Allora potete andare da Davide ad annunciargli la vostra nomina e ad offrirgli i vostri servizi» disse il grande Cointet. «E’ impossibile» rispose il giovane avvocato. «Non ha mai avuto processi, non ha avvocati, quindi è possibile» rispose Cointet che scrutava da dietro gli occhiali il piccolo avvocato».

  In cambio della complicità di Petit-Claud, Cointet gli promise di combinare il suo matrimonio con M.lle Françoise de la Haye «unica ereditiera dei Cardanet e dei Sénonches», un’unione coniugale che avrebbe fornito a Petit-Claud non solo i soldi per pagare l’avv. Olivet, ma anche di aggiungere «alla vostra clientela una gran parte dell’aristocrazia di Angoulême ... un avvenire magnifico».

  Assetato di successo e sedotto dalla promessa, Petit-Claud rispose senza esitazioni alla profferta di Cointet: «Che dovrei fare?». Boniface gli comunicò che voleva da lui un comportamento contrario alla correttezza professionale: mentre avrebbe dovuto assicurare David Séchard che lo avrebbe difeso nella causa che gli sarebbe stata intentata dai fratelli Cointet e dal loro socio parigino, Métivier, Petit-Claud nel contempo e di fatto si sarebbe mosso per peggiorare le condizioni finanziarie del suo cliente e rafforzare la posizione dei suoi avversari, aumentando le spese per la difesa attraverso un uso distorto delle regole procedurali.

  «Che cosa dovete fare, amico mio? ma gli affari di Davide Séchard. Quel povero diavolo deve pagarci mille scudi di cambiali; non le pagherà, voi lo difenderete contro le nostre azioni giudiziarie in modo da fare aumentare enormemente le spese ... Non vi preoccupate, andate avanti, moltiplicate gli incidenti. Doublon, il mio huissier che sarà incaricato di citarlo in giudizio, sotto la direzione di Cachan, non ci andrà con la mano leggera ... A buon intenditor, poche parole. E allora, giovanotto?».

  Senza battere ciglio e senza un attimo di esitazione morale Petit-Claud acconsentì a violare i suoi doveri professionali. Piuttosto che trastullarsi con le implicazioni etiche della sua complicità, cercò di scoprire l’intera portata del piano di Cointet e di trovare i suoi eventuali difetti. Nonché per dissuadere il suo «vero cliente» dal fargli il doppio gioco. Petit-Claud chiarì che in tale evenienza avrebbe replicato con tutta la forza della legge.

  «— «Volete dunque rovinare Séchard?» chiese Petit-Claud. «Neanche per idea; ma bisogna che rimanga in prigione per qualche tempo». «E a che scopo? ...» «Mi credete così sciocco da dirvelo? Se avete tanta intelligenza per indovinarlo, l’avete anche per stare zitto». «Papà Séchard è ricco,» disse Petit-Claud entrando già nell’ordine di idee di Bonifacio, e vedendo in ciò una possibilità d’insuccesso. «Finché vivrà, non darà un soldo al figlio e per ora l’ex tipografo non ha nessuna voglia di farsi stampare la partecipazione di morte ...» «Intesi!» disse Petit-Claud decidendosi all’istante. «Non vi chiedo garanzie. Io sono avvocato; se venissi giocato, ce la vedremmo fra di noi». «Questo birbante farà strada» pensò Cointet salutando Petit- Claud».

  Seguendo il racconto di questo incontro è innegabile che la concezione dell’avvocato come collaboratore del Tribunale, una parte nell’amministrazione della giustizia e l’indefettibile difensore dei diritti e degli interessi dei propri clienti non dispiega alcun effetto nella realtà del romanzo. La tradizionale concezione dell’avvocato è negata categoricamente dagli affari e dagli accordi dei personaggi; il suo valore di fondo negato dal modello di vita, la rapace ricerca di potere e benessere materiale, della società individualistica. Dalla descrizione delle sue origini e dal resoconto dell’incontro è chiaro che nemmeno i più elementari principi di correttezza personale e professionale hanno una qualche influenza sulla scelta di Petit-Claud per il suo lavoro e sul suo modo di esercitarlo. Per lui il diritto era, prima di ogni altra cosa, un mezzo per perseguire i propri fini: quando ve n’era bisogno per assecondare i propri interessi non si curava nemmeno delle più elementari regole giuridiche.

  La descrizione che Balzac fa dell’abietto sacrificio della vocazione e missione forense al dio del successo personale e senza scrupoli, è tuttavia solo una premessa all’analisi balzachiana del diritto e al ruolo dell’avvocato in questa società romanzesca svilita dalla cupidigia.

 

  L’avvocato di provincia.

 

  Sempre, nell’opera balzachiana, gli avvenimenti che accadono e i personaggi che vivono in provincia sono di grado e importanza inferiore rispetto a quelli parigini. Secondo Balzac il racconto più interessante della ricerca umana della felicità e la sua lotta contro la sfortuna è quello che si fonda sull’osservazione della realtà sociale parigina. Nelle Illusioni perdues Balzac insiste, tipicamente, sul fatto che un avvocato di Parigi non si sarebbe mai messo in combutta con Boniface Cointet, con ciò significando che la complicità di Petit-Claud è il prodotto non solo delle sue origini familiari e delle sue ambizioni, ma anche del modo con il quale la professione veniva esercitata in provincia.

  In primo luogo l’avvocato parigino, il quale Balzac ritiene abbia le doti di un vero diplomatico, assume solo gli incarichi della massima importanza. Inoltre i suoi emolumenti sono costituiti da onorari il cui ammontare dipende dalla «condotta più o meno abile di un affare». Infine l’avvocato di Parigi è uno specialista il quale accetta solo le cause che sono una sfida alla sua abilità e preparazione processuale: «L’avvocato di Parigi perora di rado, al massimo parla qualche volta in Tribunale nei giudizi per direttissima». D’altra parte il suo collega di provincia, lontano dal centro dei grandi interessi della società, si occupa di problemi ed esigenze giuridiche di minore importanza, le bagatelles dell’uomo mediocre. I casi che tratta riguardano questioni di scarsa importanza la cui soluzione è così banale che la sua abilità professionale non ha alcuna incidenza sull’esito della causa. Di conseguenza è pagato in base al numero di prestazioni che compie per il suo cliente. La sua attività è assai meno onorevole: invece di recitare il ruolo di un grande statista, l’avvocato di provincia svolse il ruolo accessorio di un impiegato statale di poca importanza.

  «In provincia (...) gli avvocati si dedicano a quella che negli studi di Parigi viene chiamata la ‘frittura’, cioè una quantità di piccoli atti che sovraccaricano le comparse di spese e fanno consumare carta bollata. Sono queste bagatelle che interessano l’avvocato di provincia, il quale mira alle spese là dove l’avvocato di Parigi non si preoccupa che dell’onorario».

  Ed anche se, nonostante tutto, l’avvocato di provincia dovesse conservare una qualche distinzione professionale, a dispetto dell’infimo livello dell’attività che è costretto a sbrigare, la necessità di discutere le proprie cause in Tribunale, ne farebbero un mediocre avvocato. Rivestendo il suo giudizio con le forme di una affermazione storica, Balzac dichiara:

  «Nel 1832, nella maggior parte dei dipartimenti (...) gli avvocati erano anche patrocinatori e discutevano di persona le loro cause. Da questa doppia vita deriva un doppio lavoro, che dà all’avvocato di provincia i vizi mentali del patrocinatore, senza però sollevarlo dai pesanti obblighi dell’avvocato. L’avvocato di provincia diventa così fanfarone e perde quella lucidità di giudizio necessaria nella condotta degli affari. In questo processo di sdoppiamento, un uomo di qualità superiori scopre sovente in se stesso due uomini mediocri».

  A queste frecciate satiriche indirizzate agli avvocati di provincia dei suoi tempi, Balzac aggiunge un ironico tocco finale quando riassume la loro sfortunata posizione professionale:

«Un avvocato di provincia ha pertanto molte ragioni per essere un uomo mediocre: sposa passioni meschine, si occupa di affari meschini, vive sfruttando il capitolo delle spese, abusa del codice di procedura, e patrocina! In una parola, ha parecchi lati negativi. Perciò quando fra gli avvocati di provincia si trova un uomo notevole, vuol dire che è di prima qualità!».

  Da avvocato di provincia Maître Pierre Petit-Claud è partecipe delle imperfezioni professionali e della meschinità che Balzac addebita ai suoi colleghi. Per preparare il proprio attacco a David Séchard, Boniface Cointet non solo fa leva sull’ambizione di Petit-Claud, ma cerca anche di approfittare della sua tendenza provinciale ad aumentare le spese attraverso l’abuso delle procedure giudiziali. La collaborazione di Petit-Claud in questo sordido affare è quindi il risultato combinato della sua personalità e delle qualità di avvocato di provincia. Per quanto voglia condannare la disponibilità di Petit-Claud a tramare con Boniface Cointet, il lettore, una volta preso atto del determinismo che ispira il realismo romanzesco, non potrà trovare, oggettivamente gli elementi sufficienti su cui fondare una responsabilità dolosa di Petit-Claud. L’inevitabilità delle sue origini e della sua educazione sembrano non consentirgli di scegliere il proprio destino e, di conseguenza, impediscono di stabilire un chiaro nesso di causalità tra l’evento dannoso e la volontarietà nell’intraprendere quella condotta illecita. Inoltre, la sostanza del suo piano segreto alla cui riuscita ha acconsentito riflette le tacite leggi che governano il successo sociale e che appaiono essere le sole regole di condotta funzionali al realismo romanzesco del testo. Di fatto, accantonando ogni considerazione morale, Petit-Claud dimostra di possedere una visione chiara e superiore della natura dell’esistenza sociale, garantendosi così un benessere materiale ed una elevata posizione sociale e professionale.

  Il disegno letterario balzachiano appare trascendere questo puro e semplice riconoscimento del diffuso potere del male su un mondo romanzesco che dovrebbe riflettere quanto effettivamente avviene nella società reale. A gran sollievo del lettore preoccupato per le implicazioni morali dell’attività umana, al ritratto della corruzione, Balzac accompagna e propone antagonisticamente un codice di principi e di valori umani.

  Nonostante l’ingegno e la perspicacia dei personaggi amorali, il narratore cerca di difendere la tesi secondo cui l’attività umana che non abbia come punto di riferimento dei valori superiori è priva di ogni ragion d’essere. Benché Balzac spieghi le degenerazioni della società, descritte in termini di mutamento delle forze storiche, egli critica l’uso che gli uomini fanno delle istituzioni da essi ereditate e attribuisce loro la colpa, in quanto individui, di aver scelto volontariamente di integrarsi in una struttura corrotta dalla quale avrebbe invece potuto, sempre, affermare la propria indipendenza.

  L’intento di Balzac è di affermare la possibilità di una esistenza sociale più umana — non una che abbia la vitalità di Parigi (perché, dopotutto, Parigi è solo l’ideale della tassonomia narrativa) — ma piuttosto un modo di vita che si avvicini ai valori essenziali della dignità umana, così come personificati dalle figure «angeliche» che rappresentano l’ideale di umanità concepito dal narratore. Soggiacendo alla forza del determinismo storico e sociale, l’individuo abusa della libertà di cui dispone e si rende responsabile di un atto di viltà che offende la sua dignità e viola le sacre tradizioni dell’umanità. Invece di subire la schiavitù egli dovrebbe usare le proprie capacità per modellare le forze storiche e sociali inerti perché riflettano le fondamentali e più nobili qualità della natura umana. Questa visione idealistica, che implicitamente sottende ogni sfaccettatura del testo, diventa più evidente quando Balzac abbozza la sua concezione del diritto attraverso una descrizione della tecnica del diritto processuale.

 

  Il diritto e la contesa giudiziaria.

 

  Quando inizia la descrizione e l’analisi dell’azione legale intrapresa contro David Séchard, Balzac si sforza di indicare la contraddizione fra l’applicazione della legge e l’affermazione teorica delle sue finalità. Come nel romanzo César Birotteau, Balzac tenta di smascherare la ingannevole apparenza delle cose, per fornire al lettore una visione da dietro le quinte del diritto e delle procedure giudiziarie.

  Secondo Balzac, nonostante la legge costituisca lo strumento sociale che disciplina i rapporti quotidiani fra gli uomini, le sue regole ed i suoi fini sono conosciuti solo ad una piccola minoranza di persone interessate.

  «Novanta lettori su cento saranno divertiti dalle spiegazioni che seguono, come lo sarebbero da una interessante novità. Rimarrà così dimostrata ancora una volta la verità di questo assioma: Nulla è meno conosciuto di ciò che tutti dovrebbero conoscere, la legge».

  Questa ignoranza della legge non è il risultato di una intrinseca deficienza intellettuale degli uomini. Piuttosto, è il portato dell’intrico delle disposizioni normative e della paralizzante complessità delle procedure giudiziarie. Nonostante le garanzie e le protezioni teoriche che le formalità giuridiche possono offrire all’individuo, la loro sostanza può essere compresa solo da coloro i quali sono stati iniziati ai suoi meandri, da coloro, cioè, che approvano le leggi e le amministrano e da coloro a cui si riferiscono le disposizioni processuali. Ciò ha poco a che vedere con l’idea che la gente generalmente si fa della giustizia. Così, è lo stesso sistema giuridico a sollecitare il proprio sovvertimento attraverso una manipolazione truffaldina ed elitaria delle sue formalità. La legge cessa di indirizzarsi verso un superiore ideale di giustizia e diventa lo strumento per una esaltazione egocentrica di pochi privilegiati.

  Per sostenere questa tesi, Balzac porta l’esempio delle procedure bancarie relative ai protesti cambiari, il compte de retour, che per disposizione di legge, consente all’istituto di credito di iniziare le procedure esecutive nei confronti del debitore inadempiente. Balzac lo descrive come «il funzionamento di uno degli ingranaggi bancari»: consiste in «un procedimento perfettamente legale mediante il quale, in dieci minuti, in banca, si guadagnano ventotto franchi di interessi su un capitale di mille franchi».

  In altre parole, invece di stabilire e promuovere rapporti leciti nel mondo commerciale, le norme sul compte de retour dichiarano leciti (cioè conformi al dettato della legge) rapporti che sono di fatti iniqui, ingiusti e disonesti. Balzac, che forse si era occupato di queste questioni durante il suo praticantato, condanna il vantaggio che tale procedura conferisce alla banca nei confronti del debitore, e la possibilità che le offre di arricchirsi senza fornire alcun vero servizio. Il compte de retour è una «ingegnosa piacevolezza che un certo articolo del Codice di Commercio autorizza e la cui spiegazione vi dimostrerà quante atrocità si nascondano sotto questa parola terribile: ‘Legalità’. In contrasto con lo scrittore la cui opera riflette una realtà ridotta all’essenziale, il legislatore costruisce solo un «racconto fantastico (...) pieno di terribili finzioni».

  Il confronto fra il lavoro creativo dell’autore letterario e quello del legislatore, gettano nuova luce sulla concezione balzachiana del diritto e, più indirettamente, sulla distanza che separa i valori cui tiene tanto, dall’imbroglio sociale che descrive nei suoi romanzi. Per fregiarsi del titolo di artistico un’opera letteraria deve contenere una visione veritiera della natura e dell’attività umana. Mentre modella una immagine romanzesca della realtà e vi trasfonde la sua personale interpretazione, lo scrittore deve rimanere fedele al carattere essenziale della realtà alla quale si ispira ma che si trova fuori dei confini della sua opera. La ricostruzione plausibile della realtà, tuttavia, è solo uno stadio preliminare nel lavoro di un romanziere. Egli deve giungere all’elaborazione di una «iper-realtà» più autentica del modello originale, che codifica nella cornice della narrazione romanzata la percezione degli elementi fondamentali comuni che sono intrinseci nell’esperienza umana, nonostante le disuguaglianze e incongruenze insite in quest’ultima.

  In altre parole, lo scrittore parte da dati grezzi e disordinati, li plasma in un tessuto romanzato e poi, con un improvviso spostamento delle percezioni retoriche ed estetiche mette a nudo la verità essenziale che era nascosta dietro l’eterogenea apparenza della realtà.

  Balzac sostiene, invece, che le fatiche creative del legislatore pervengono ad un risultato completamente diverso. Mentre la sua fantasia opera sulla medesima realtà, il legislatore la considera da una prospettiva sterile, badando solo alle apparenze e interpretando le sue molteplici caratteristiche in modo tale da snaturarle piuttosto che migliorarle. Il suo sforzo si conclude con la costruzione di una realtà artificiale, una autentica finzione, una vera e propria impostura, priva di qualsiasi somiglianza ad un ideale di giustizia. Nell’approvare le leggi, il legislatore crea un sistema giuridico privo di qualsiasi principio di giustizia, e che diventa la cornice nella quale si annidano e si tutelano ignobili intrighi sociali. E poiché sono privi di qualsiasi fondamento e giustizia, le leggi distruggono la loro principale, se non unica, giustificazione; esse esistono ed operano per mantenere e salvaguardare un ordine sociale fondamentalmente ingiusto.

  Nonostante la sua intima consapevolezza di quel che ritiene sia l’effettivo ruolo della legge nella società, Balzac, attraverso la percezione delle antinomie fra l’intento dello scrittore e il disegno del legislatore, mostra fino a che punto egli si dissocia dalla depravazione sociale descritta nei suoi romanzi. Egli disvela gli abusi protetti dalla pomposa prosa delle leggi solo per denunciarle con maggiore vigore e battersi per una migliore e più accettabile regolamentazione della condotta umana. La dicotomia fra i fondamenti teorici del diritto come l’istituzione sociale e gli usi che gli uomini ne fanno, è particolarmente evidente nel suo esame del diritto processuale francese nel caso Séchard.

 

  La battaglia.

 

  «Come tutte le cose umane, la procedura francese ha dei difetti; nondimeno, al par di un’arma a due tagli, serve altrettanto bene alla difesa e all’attacco. Inoltre, ha questo di simpatico: che se due avvocati si intendono (...) un processo finisce per rassomigliare alla guerra (...). Due generali possono mandare avanti all’infinito la guerra senza arrivare a nulla di decisivo e risparmiando le loro truppe».

  L’osservazione di Balzac mostra come il diritto processuale francese, in quanto istituzione legale, ha il non disprezzabile merito di essere imparziale e obiettivo, purché, naturalmente, gli avvocati coinvolti si adeguino ai principi teorici che ispirano le sue disposizioni e abbiano a mente l’interesse dei loro assistiti: le regole processuali offrono alle parti un uguale numero di mezzi per difendere le rispettive posizioni. Poiché essi dirigono l’«artiglieria giudiziaria» e nonostante i loro confliggenti obblighi, gli avvocati possono anche prolungare l’avanzamento di una causa facendo un numero di richieste, o per evitare al loro cliente una inutile perdita e per non prendere una posizione iniziale troppo affrettata oppure ricorrendo altre circostanze per «mandare a rotoli gli affari (dei clienti)». Pertanto, l’uso scorretto delle regole processuali non revoca in dubbio il loro fondamento teorico, ma piuttosto le qualità morali o la sensibilità professionale degli operatori che le utilizzano. Una applicazione del diritto secondo principi etici dipende pertanto dalla serietà con la quale gli avvocati si assumono la responsabilità di coadiutori nel procedimento giudiziale.

  Nella macchinazione di Boniface Cointet, Petit-Claud e l’avv. Cachan, difensore della controparte, dovevano ingaggiare una costosa contesa il cui fine era quello di porre David Séchard nella condizione di non poter «fare onore ai (suoi) impegni».

  «I beni di Séchard figlio, che rappresentavano una somma di circa quattromila franchi, erano stati presi a pretesto da Cachan e Petit-Claud per tirare fuori settemila franchi di spese, senza contare il seguito della faccenda, i cui fiori promettevano frutti molto belli».

  Dal punto di vista della mera abilità tecnico giuridica, le istanze proposte ai giudici da Petit-Claud costituivano un lavoro notevole, quasi ammirevole. Come osserva lo stesso Balzac «senza dubbio i legulei (...) accorderanno la loro stima e ammirazione a Petit-Claud». Quando tuttavia si valuti tale opera in termini di motivazione sottostante e secondo i criteri accolti da «persone di cuore» essa può essere vista nella sua vera luce di abuso delle regole processuali e della fiducia del cliente. Cosicché la moglie di David, Eva prorompe in un grido di disperazione: «Mio Dio (...) ma il rimedio non è peggiore del male?». In effetti, le prestazioni che Petit-Claud fornisce al suo cliente costano a David quasi il doppio della iniziale condanna inflittagli, senza peraltro liberarlo dall’obbligazione per il debito principale. Tutte le istanze, le controdeduzioni, gli appelli sono solo un mezzo per guadagnare tempo, a spese del cliente e senza sua piena cognizione di causa. Una tale sfacciata amministrazione della giustizia suscita l’ira del narratore il quale comunica con forza al lettore la sua indignazione per una ingiustizia così manifesta, ed il suo disgusto per il fatto che tali frodi potessero essere perpetrate in nome del diritto:

  «È necessario che il legislatore, ammesso che il legislatore abbia tempo di leggere, sappia fino a che punto possono arrivare gli abusi della procedura. Non sarebbe opportuno buttar giù una leggina, che in certi casi vietasse agli avvocati di superare ‘in spese’ la somma che è oggetto della causa? Non è un po’ ridicolo sottoporre una proprietà di un metro quadrato delle stesse formalità imposte per una tenuta di un milione di metri quadrati? Da questa esposizione molto asciutta (...) si comprenderà il valore di queste parole: ‘la forma, la giustizia, le spese!’».

 

  Gli effetti delle procedure giudiziarie: David e Eve «rovinati ma tranquilli».

 

  La descrizione di Petit-Claud e l’illustrazione del diritto processuale francese fatte da Balzac sono solo i prolegomeni necessari per comprendere le principali parti dell’episodio giudiziario nel romanzo. Per finire di distruggere il suo cliente, Petit-Claud lo mette in contrasto con il padre, così privandolo di qualsiasi sostegno finanziario e lasciandogli nessun’altra strada che quella di diventare un fuggiasco, un «detenuto volontario» ricercato e, finalmente, a seguito di ancora un’altra serie di abili mosse del suo avvocato, arrestato e incarcerato.

  L’incessante aggressione e la ferita morale della prigione finalmente schiacciano la resistenza di David e producono l’atteso ed inevitabile beneficio per i suoi avversari: egli acconsente a firmare un accordo con i fratelli Cointet. Esso rappresenta il completamento del loro rapace disegno di mettere le mani sull’invezione (sic) di David. E inoltre testimonia del fatto che le leggi — sia quelle ufficialmente promulgate, che quelle prodotte dalla società — pongono il successo all’esclusiva portata di coloro i quali adottano il principio machiavellico dell’irrilevanza della moralità nella valutazione della condotta sociale dell’uomo.

 

  Le leggi e i costumi.

 

  Descrivendo i vari stadi del piano posto in atto contro David Séchard, Balzac riprende numerose idee già delineate in César Birotteau: e soprattutto quella che la struttura del sistema giuridico e la sostanza delle leggi attribuiscono maggiore importanza alla tutela degli interessi dei creditori, piuttosto che dei diritti dei debitori: «La forza della legge appartiene in definitiva al creditore». La frode processuale realizzata dagli avversari di David Séchard, tuttavia, fornisce l’occasione per una serie di nuove osservazioni sull’ordinamento giuridico e sui suoi criteri ispiratori. Ad esempio, Petit-Claud avverte David dell’imminenza del suo arresto per debiti:

  «Addio mio caro Davide, siete avvertito, l’esecuzione della sentenza non può essere sospesa dall’appello; ai vostri creditori non rimane che questa strada, e sicuramente la prenderanno. Perciò, mettetevi al sicuro!».

  Questa coercizione fisica da esercitarsi nei confronti del debitore recalcitrante quando tutti gli altri strumenti legali sono falliti, non solo è destinata all’inefficacia (giacché la sua principale giustificazione appare essere di natura retributiva, poiché una volta privato della libertà il debitore certamente non può porre rimedio alla sua insolvenza) ma è anche — sottolinea Balzac — una misura estrema e non necessaria, che viola un principio fondamentale di umanità. Nonostante l’apparente imprecisione e confusione nei dettagli delle pagine che descrivono l’arresto dei debitori nelle provincie, la valutazione critica delle implicazioni teoriche di tale procedura all’interno dell’ordinamento, compiuta da Balzac costituisce una solida base per sostenere la necessità di una riforma giudiziaria. Affidando ai creditori un potere incontrollato in una situazione in cui spesso all’asprezza si aggiunge il malanimo, la legge che consente la carcerazione dei debitori diventa uno strumento di «passioni cieche o di vendette». Come tale essa minaccia di sovvertire l’imparzialità e il necessario distacco del sistema giudiziario. A causa della sua «inutile crudeltà», i costumi delle provincie, di fatto, ne impediscono l’effettiva applicazione:

  «Nelle grandi città esistono molti miserabili, molti depravati senza fede né legge, disposti a fare da spie; ma nelle piccole città tutti si conoscono troppo per mettersi al soldo di un ufficiale giudiziario. Chiunque, nella classe più bassa, si prestasse a questo genere di degradazione, sarebbe costretto a lasciare la città».

  L’interazione che Balzac stabilisce fra l’applicazione delle leggi e i costumi della comunità costituisce solo uno schema di una possibile teoria generale del diritto. Le sue osservazioni nondimeno sembrano modificare la portata delle conclusioni circa la natura delle leggi e del loro ruolo all’interno dell’ordinamento giuridico. Affermando che il costume di un popolo «spesso muta le leggi al punto da renderle inefficaci» indubbiamente Balzac apre la strada, nel suo pessimismo, alla possibilità di eliminare i difetti di leggi ingiuste e inique all’interno dell’ordine giuridico stabilito. Benché questo processo di depurazione avvenga solo dopo l’introduzione delle leggi e non ne mette in questione formalmente l’originaria ingiustizia, questa affermazione della primazia e del salutare effetto dei costumi sulla legge rivela che le distorsioni morali che sembrano permeare il mondo balzachiano, non hanno completamente cancellato un senso profondo di giustizia nei cittadini in generale. L’effetto pratico di questa riaffermazione della giustizia sostanziale è quello di equilibrare le posizioni del creditore e del debitore.

  «Così, l’arresto d’un debitore non essendo, come a Parigi o come nei grandi centri urbani, privilegio delle guardie di commercio, diventa un procedimento estremamente difficile, una lotta d’astuzia fra debitore e ufficiale giudiziario, le cui invenzioni hanno fornito qualche volta spunti divertenti alle cronache dei giornali».

 

  Le carceri.

 

  Sfruttando l’inconsapevole collaborazione di Lucien, il cognato di David che è ritornato da Parigi senza aver imparato a frenare la sua irresponsabilità e utilizzando gli infedeli servigi di Cérizet, un ex dipendente di David, Petit-Claud riesce a individuare dove egli si trova ed a farlo arrestare e incarcerare, continuando sempre a nascondergli i veri scopi della sua «assistenza». Per raccogliere i frutti della sua condotta immorale, Petit-Claud ora deve solo persuadere David ad accordarsi con i fratelli Cointet. Secondo Balzac, la realizzazione di quest’ultimo compito è assai facilitata dalle disumane condizioni esistenti nelle carceri all’epoca.

  La descrizione dell’ambiente carcerario fatta da Balzac costituisce di per sé ampia prova del fatto che la prigione in cui David è rinchiuso dopo il suo arresto esiste per punire i criminali, non per offrire la possibilità di una loro riabilitazione. La società certamente non era interessata alla dignità o ai diritti umani dei singoli detenuti; si riteneva già generosa nel fornire loro quanto bastava per sopravvivere. L’indifferenza e il disprezzo erano evidenti soprattutto considerando che la prigione di Angoulême conservava nel diciannovesimo secolo gran parte delle sue strutture e caratteristiche medievali.

  «La prigione di Angoulême risale al Medioevo, e non ha subito più cambiamenti di quanti ne abbia avuti la Cattedrale. Chiamata ancora Casa di Giustizia, è attigua al vecchio Tribunale. La porta è quella classica, bullonata, solida in apparenza, vetusta, bassa (...) Lungo il lato della facciata c’è, al pianterreno, un corridoio sul quale si aprono diverse celle, le cui finestre, alte e munite di griglie, prendono luce dal cortile».

  Il modo in cui la prigione era amministrata attesta la disumanizzante condizione sociale in cui i detenuti cadevano per aver violato la legge. Il carceriere, che appariva essere l’unica persona responsabile del benessere dei prigionieri, aveva su di loro un potere straordinario. Egli approfittava della loro miseria ed impossibilità di difendersi per infliggere le proprie sanzioni e chiedere di esere (sic) pagato per i suoi piccoli gesti di bontà.

  «Una volta immatricolato con l’annotazione della somma stabilita dalla legge, e dovuta dal prigioniero per il nutrimento di un mese Davide si trovò davanti un omaccione il cui potere, agli occhi dei detenuti, è più grande di quello del re: il carceriere! In provincia non esistono carcerieri magri. In primo luogo, il posto è una sinecura: poi, il carceriere è come un albergatore che non abbia da pagare la pigione; egli si nutre molto bene nutrendo molto male i prigionieri, che tratta, come l’albergatore d’altronde, secondo i mezzi di cui dispongono. Conosceva Davide di nome, soprattutto a motivo del padre, e pensò di fargli un certo credito alloggiandolo convenientemente per una notte, sebbene Davide non avesse un soldo».

  Tra «gli orrori della prigione e la brutalità delle sue usanze», lo squallore delle celle era il costante monito delle loro trasgressioni e della distanza che i loro atti avevano frapposto fra se stessi e l’elementare diritto alla dignità umana.

  «I muri della cella erano di pietra e molto umidi. Le finestre, altissime, avevano sbarre di ferro. Il piancito di pietra era di un freddo glaciale. Si udiva il passo cadenzato della sentinella di fazione che passeggiava su e giù per il corridoio. Questo rumore monotono, come quello della risacca, suggerisce ad ogni istante un pensiero: ‘Sei sorvegliato! Non sei più libero!’ (...) Davide vide un orrendo giaciglio (...) era proibito dare dei lumi ai prigionieri (..) Davide (...) si addormentò (...) su quella specie di letto da campo coperto da un orribile pagliericcio di panno scuro e grossolano (...) c’era una sola rozza sedia di legno (...) ignobile tinozza posta in un angolo».

  Oltre ad attaccare le deplorevoli condizioni delle prigioni, Balzac inveisce contro il fatto che David, presunto debitore insolvente, è trattato come un criminale. Secondo Balzac, la detenzione di David all’ombra di «un criminale era appena uscito dopo aver scontato la sua pena» e tra i «muri che i predecessori di Davide avevano ricoperto di nomi e di scritte» era del tutto ingiustificata; così il salutare effetto dei costumi sulle leggi aveva almeno un inconveniente:

  «Per le ragioni esposte più sopra, la detenzione per debiti è un evento giudiziario così raro in provincia che, nella maggior parte delle città francesi, non esistono prigioni per debitori. Perciò quando si verifica il caso, il reo viene rinchiuso nella stessa prigione in cui sono incarcerati i sospetti, gli imputati, gli accusati e i condannati».

  Trasformando l’incarcerazione per debiti in un «procedimento estremamente difficile» i costumi locali impedivano ogni distinzione fra criminali incalliti e debitori, il cui illecito, con ogni probabilità, dipendeva da imprevisti finanziari, sfortuna, difficoltà personali. Inoltre, più di una volta, Balzac sottolinea l’effetto psicologico della detenzione, apparentemente al fine di evidenziarne quel che forse è l’unica sua funzione redimente:

  «La prigione sprona enormemente agli esami di coscienza»; «la prigione più oscura consente a volte illuminazioni folgoranti». Ma aggiunge, la seguente precisazione: «tutti questi particolari, questo insieme di cose, agiscono straordinariamente sul morale delle persone oneste».

  Si evidenzia così il peso della separazione dalla società sopportato dalle persone dotate di senso morale, ma nel contempo si rileva la fondamentale contraddizione e perversione del tessuto sociale. Da un lato la funzione della prigione è quella di punire quanti hanno violato la legge; dall’altra essa è in grado di conseguire risultati morali solo nei confronti delle persone per bene e di buona coscienza. L’imposizione di sanzioni retributive al fine di correggere atteggiamenti e comportamenti è destinata, pertanto, al fallimento ed anzi ad essere controproducente. Per conseguire il loro effetto le sanzioni possono essere applicate solo nei confronti di «persone oneste» che non hanno bisogno di tali spinte per condurre una vita esemplare. Di fronte a tali contraddizioni e iniquità non c’è da stupirsi che il romanziere riservi la sua lode ai personaggi «angelici» i quali, nonostante la loro apparente incongruenza quali modelli di un comportamento umano e la loro incapacità di operare e avere successo nella società romanzesca, sono i simboli di una umanità preferita e più autentica.

 

  L’accordo.

 

  Contrito e scoraggiato dalla vergogna della prigione, David è pronto a subire l’ultimo supplizio che i suoi avversari gli hanno preparato. A questo punto del racconto, il suo unico desiderio è di essere lasciato in pace e di ottenere una tregua definitiva dal pantano della controversia. Acconsente quindi di mettersi in società con i fratelli Cointet, sperando che ciò ponga fine alle sue tribulazioni finanziarie e giudiziarie. «Ève riferì al marito le proposte che Petit-Claud si vantava di aver strappato a Cointet e che furono subito accettate da Davide con visibile piacere». Obbligare David a mettersi in società con loro, avrebbe però costituito, da solo, una mezza vittoria per i fratelli Cointet; per soddisfare la loro rapacità essi dovevano stipulare l’accordo in modo tale da consentire di ottenere, nel futuro prossimo, i pieni diritti sull’invenzione di David. Per arrivare a tale obiettivo si affidarono alla mistica e mistificante natura della prosa giuridica.

  Oltre al raggiro posto in essere da Petit-Claud, la dedizione di David per la ricerca intellettuale lo ponevano in svantaggio nelle trattative.

  «Davide aspettava un po’ inquieto, il colloquio con i Cointet: ciò che lo preoccupava non era il dover discutere di interessi, e nemmeno l’atto da stipulare, bensì l’opinione che i cartai si sarebbero fatta del suo lavoro. L’amor proprio e l’ansia dell’inventore sul punto di raggiungere lo scopo facevano impallidire ogni altro sentimento».

  Ma al contrario di quanto David si aspettava i fratelli Cointet non volevano accertare le qualità della sua opera d’ingegno; erano già molto consapevoli del suo valore commerciale e la loro strategia era quella di sollevare problemi pratici per sminuirne la portata e quindi ottenere i diritti al prezzo più basso possibile. Questi abili negoziatori mascherarono con successo la reale portata del loro progettato investimento, insistendo sui rischi potenziali dell’impresa e sfidando David ed il suo sedicente difensore a trovare un modo per comporre gli apparentemente contrastanti interessi delle parti.

  «Le trattative si incepparono subito a causa di una difficoltà preliminare: come si poteva fare un contratto di società senza conoscere la scoperta di Davide? D’altra parte, una volta resa nota la sua scoperta, Davide si sarebbe trovato alla mercè dei Cointet».

  Sollevando questioni di tale natura, Boniface Cointet conseguì il suo obiettivo: fece inserire nell’accordo una clausola che stabiliva la perdita, da parte di David, di tutti i suoi diritti sull’invenzione nel caso di non riuscita dell’impresa comune. Riuscì inoltre a farsi intestare il brevetto.

  «Un articolo dell’atto privava completamente Davide Séchard dei suoi diritti nel caso in cui egli non adempisse le promesse specificate nello strumento accuratamente redatto dal grande Cointet e approvato da Davide (...).

  (...) Il grande Cointet pretese il diritto di intestare a suo nome il brevetto d’invenzione. Riuscì a dimostrare che, siccome gli utili di Davide erano perfettamente definiti nello strumento, il brevetto poteva essere intestato indifferentemente a uno qualsiasi dei soci (...)

(...) L’Avvoltoio trionfò dunque su tutta la linea».

  Una volta che gli esperimenti di David erano progrediti a sufficienza per i fini della commercializzazione, ed una volta che Boniface aveva quello che gli abbisognava per fare degli immensi profitti, i fratelli Cointet, sulla base dei diritti che si erano riservati nell’accordo, decisero di fare causa al loro socio-inventore, richiedendo che le divergenze fra loro fossero risolte da un collegio arbitrale. Nella loro azione, i Cointet sostenevano che David non aveva tenuto fede agli impegni promessi.

  «I fratelli Cointet chiedevano la restituzione dei seimila franchi e la proprietà del brevetto nonché le future quote del suo sfruttamento, a titolo di indennità per le spese esorbitanti da loro sostenute senza alcun risultato».

  Tale iniziativa non si fondava su doglianze reali, ma era solo un’altra mossa tattica per esercitare ancora più pressione su David al fine di fargli rinunciare prematuramente e a vile prezzo all’accordo. Petit-Claud, nominato nel frattempo, per ironia del racconto, «difensore delle vedove e tutore degli orfani» informò i suoi ex clienti, questa volta con un candore che in passato avrebbe risparmiato loro non pochi problemi, che l’ordinamento giuridico non offriva loro alcun rimedio accettabile. La legge non poteva smascherare e punire le vere intenzioni dei Cointet:

  «I Cointet vi hanno procurato molti dispiaceri, e voglio mettere fine alle loro pretese. Sentite, oggi sono magistrato, e vi devo dire la verità. Ebbene, i Cointet vi stanno giocando; ma voi siete nelle loro mani. Potreste vincere la causa che vi intentano, accettando la guerra. Volete impegnarvi in una lite che può durare anche più di dieci anni? Le perizie e gli arbitrati non finiranno più, e voi sarete in balia dei pareri legali i più contraddittori (...) Date retta a me, una cattiva transazione è meglio di un buon processo».

  Preferendo qualsiasi cosa alla ragnatela di una causa, David e Ève accettarono la «cattiva transazione» che Petit-Claud si offrì di ottenere per loro. Con i soldi che ne avrebbero ricavato avrebbero potuto vivere agiatamente. «Con cinquemila franchi, realizzerete altri cinquecento franchi di rendita e, nella vostra bella piccola proprietà, vivrete felici!». E così grazie alla sottile manipolazione alla quale le leggi si prestavano, David e Ève Séchard erano «rovinati ma tranquilli», mentre Boniface Cointet era ben avviato sulla strada che lo avrebbe fatto diventare una importante figura dell’industrializzazione dell’economia francese: un imprenditore facoltoso e famoso che aveva rubato e commercializzato l’invenzione di qualcun altro.

 

  Conclusione: la proposta Balzachiana di un umanesimo giuridico.

 

  Come in César Birotteau il destino di David ed Ève Séchard rappresenta l’indiscusso trionfo dell’insidiosa trama sociale del romanzo balzachiano.

  Benché non ridotti al fallimento, la legge offriva ai Séchard solo una «cattiva transazione» e questo dopo un lungo, costoso e drammatico incubo giudiziario; la procedura aveva giocato un ruolo chiave nella loro caduta e emarginazione dalla società. Mentre l’inventore e sua moglie si aggrappavano inutilmente — e forse scioccamente — alla loro fiducia nel valore dei rapporti umani, i loro avversari senza scrupoli, con l’aiuto del sistema giudiziario salivano impuniti la scala del successo e della notorietà sociale.

  In ultima analisi, la sostanza e la conclusione delle Illusions Perdues confortano l’impressione di molti critici secondo cui «leggere un romanzo di Balzac in questa società era trovare la vita che si aveva intorno a sé ogni giorno». Inoltre è altrettanto evidente che la trasposizione romanzesca che Balzac compie della realtà sociale dei suoi tempi costituisce una dichiarazione della potenziale ed effettiva corruttibilità della natura umana; una asserzione fondata su un saldo e infallibile senso del reale. Nel cosmo balzachiano, le istituzioni sociali, come la legge, sono usate dagli uomini in un modo così degenerato che esse possono solo incoraggiare e compendiare quel che c’è di più malvagio nell’uomo. Chiaramente, dunque, all’interno dei confini di tale società, la bontà è improduttiva e le leggi sono destinate a promuovere e salvaguardare uno stato degradato di esistenza.

  Tuttavia, come si è suggerito precedentemente, il pessimismo generato e provocato dal realismo della narrativa non dà sufficientemente conto del respiro della visione letteraria di Balzac e della sua concezione del diritto. Più che corroborare il senso di nichilismo morale, il commento umanistico dell’onnisciente scrittore e l’esempio dei suoi personaggi «angelici», dissolvono e forse eliminano l’impressione di un vuoto morale. Nei confronti del diritto, Balzac sembra sostenere che, nonostante l’esito dei romanzi, esiste un modello ideale di Giustizia ed esso può essere accertato dall’uomo e trasposto, imperfettamente ma non inaccettabilmente, nelle operazioni quotidiane della vita sociale. In effetti egli sembra indicare ulteriormente che la procedura giudiziaria può rivendicare una propria legittimazione solo nella misura in cui essa sostanzialmente si adegui a quel modello ideale. Mentre, a causa della sua natura tecnica, la legge può essere manipolata per tendere complessi agguati contro vittime ignare, e diventare trampolino per un illecito avanzamento sociale, la legge può anche, se gli uomini lo vogliono, riflettere l’innata capacità umana di tenere una condotta moralmente positiva. Balzac sembra, di fatto, sostenere che questa è la vera ragion d’essere della legge.

  Benché non richieda che il sistema giuridico elimini interamente l’infedeltà e la malafede, Balzac vuole che esso svolga una funzione autenticamente creatrice all’interno della società: non solo stabilendo una forma di ordine fra le sregolate passioni umane, ma anche, a somiglianza del rapporto fra lo scrittore e la sua opera, infondendo un senso di equità, verità e umanità nei rapporti umani; in una parola, trapiantare nell’agire sociale i principi immutabili che sono ancorati ed emergono dalla intima natura morale dell’uomo.

  La proposta di Balzac per un giusnaturalismo umanistico è forse esplicitata nel modo più chiaro nel suo breve romanzo L’interdiction. Anche se la conclusione della vicenda conforta nuovamente la tesi che la società è dominata dalla corruzione, i ritratti del giudice Popinot e del marchese d’Espard riflettono la concezione balzachiana di un ideale giuridico a portata dell’uomo. In questo senso, la materia de L’interdiction serve da opportuna conclusione alle riflessioni giuridiche svolte in César Birotteau e nelle Illusion (sic) Perdues. Ne L’interdiction l’attenzione è centrata sulle fasi preliminari all’accertamento della capacità di agire di uno dei protagonisti. Il marchese d’Espard, un nobiluomo di lignaggio celebre e risalente, è fatto oggetto di una azione intentata dalla moglie separata, nella quale essa sostiene che lo stato mentale del marito è talmente alterato che non è più in grado di esercitare la potestà sui due figli minori e di provvedere alla gestione delle sue proprietà. Per provare la sua domanda, la marchesa sostiene, tra l’altro, che suo marito ha sviluppato, apparentemente senza alcuna ragione, una preoccupazione ossessiva per il benessere di una tale signora Jeanrenaud e di suo figlio, spendendo somme enormi per soddisfare le loro fantasie, con totale disinteresse per il benessere dei suoi due figli, obbligandoli, di fatto, a vivere in modo non confacente al loro status di nobili e al loro futuro ruolo nella società. Ricevuta la domanda, il Presidente del Tribunale assegna la causa ad un giudice, Jean Jules Popinot, il quale ha l’incarico di svolgere l’istruttoria e riferire al collegio.

  Come è consueto nei romanzi balzachiani che trattano questioni giuridiche, la posizione ufficiale dei personaggi costituisce solo un’apparenza. Pertanto l’attesa ne L’interdiction s’incentra su due questioni: se il giudice Popinot sarà in grado di resistere agli sforzi della marchesa d’Espard di coinvolgerlo in quel che risulterà essere un intento fraudolento; e se il giudice sarà in grado di scoprire le reali motivazioni della sua azione ed indicarla, nella sua relazione, quale il movente determinante.

  Secondo copione, la Marchesa è un’intrigante consumata: attraverso la mediazione del suo spasimante, induce il nipote del giudice a invitare lo zio alla sua dimora per discutere del caso. Benché Popinot inizialmente si rifiuti, citando un articolo del codice che fa divieto ai giudici di essere intrattenuti nelle case delle parti, ad una seconda riflessione, egli decide di accettare l’invito, ma al solo fine di far progredire la sua indagine. Ed infatti, anziché essere sedotto dall’importanza e influenza della Marchesa, l’anziano giudice la trasforma in vittima involontaria delle sue domande sottili e perspicati (sic): «la sensibilità della Marchesa e la sua abitudine di giudicare gli uomini le fecero capire che Popinot non sarebbe stato influenzato da alcuna forma di rispetto. Aveva fatto conto su un magistrato ambizioso e incontrava invece un uomo di coscienza».

  Avendo accertato che la reale motivazione che spinge la Marchesa nella sua azione di interdizione è lungi dall’essere chiara, il giudice se ne va prima che il tè sia servito, per poter interrogare le altre parti interessate.

  Non è una sorpresa che gli sforzi della Marchesa di scalfire la integrità del giudice Popinot rimangano senza esito; come suo nipote aveva avvertito lo spasimante della Marchesa, Popinot era «un giudice come la morte è morte». Balzac, in effetti, ritrae Popinot come l’esempio di persona interamente dedita alla verità e alla giustizia. Nella cosmologia Balzachiana il giudice, come César Birotteau, e David e Ève Séchard, è un personaggio «angelico»; anche se sarà pure lui soggetto all’emarginazione a causa della sua integrità morale, a differenza di questi, egli possiede grandi doti di perspicacia, una capacità intuitiva delle attività umane che Balzac conferisce a quei personaggi che gli sono particolarmente cari e ai quali risparmia almeno la sventura di essere vittime inconsapevoli di macchinazioni e intrighi.

  «Un solo tratto raccomandava questo volto al fisionomista. Quest’uomo aveva una bocca sulle cui labbra alitava una bontà divina. Erano delle belle grandi labbra rosse (...) nelle quali la natura aveva espresso dei buoni sentimenti; delle labbra che parlavano al cuore e annunciavano l’intelligenza, la chiarezza, la dote di una seconda vista, uno spirito angelico in quest’uomo (...). La sua vita corrispondeva alla sua fisionomia, essa era piena di segrete fatiche e nascondeva la virtù d’un santo».

  Benché il suo rifiuto di essere coinvolto nei maneggi politici della magistratura aveva ostacolato la sua ascesa all’alta posizione che avrebbe meritato la qualità del suo lavoro e della sua intelligenza, il giudice Popinot ispirava in tutte le decisioni da lui prese una indefettibile lealtà verso la verità ed un senso di giustizia alieno dai compromessi. Nel decidere i casi sottopostigli, analizzava i fatti sotto il profilo sia dell’equità che dei principi giuridici. Per Balzac la devozione di Popinot verso il giudizio di equità era uno dei segni della sua grande distinzione come magistrato. «L’equità risulta dai fatti, il diritto è l’applicazione dei principi ai fatti. Un uomo può aver ragione secondo l’equità, e torto secondo il diritto, senza che se ne possa fare colpa al giudice. Tra la coscienza ed il fatto vi è un abisso di ragioni determinanti che sono sconosciute al giudice e che rendono un fatto lecito o illecito. Un giudice non è Dio, il suo dovere è quello di adattare i fatti ai principi, di giudicare infinite fattispecie adoperando una determinata misura. Se il giudice avesse il potere di leggere nella coscienza e dipanare le motivazioni al fine di pronunciare delle sentenze giuste, ogni giudice sarebbe un grande uomo. La Francia ha bisogno all’incirca di seimila giudici; nessuna generazione ha seimila giudici a sua disposizione; a maggior ragione non li può avere la magistratura».

  In altre parole, Popinot sapeva essere sia un «giudice inflessibile» che «un uomo caritatevole»; egli sapeva discernere la verità in una causa senza dover ricorrere alle solite finzioni giudiziarie. Inoltre, all’insaputa dei suoi colleghi, il giudice Popinot, quando non esercitava le sue funzioni, era impegnato in iniziative private volte ad eliminare il crimine alle radici; come lo descrive Balzac, «il giudice costituiva l’aspetto sociale della sua personalità; un altro uomo più grande e meno conosciuto era dentro di lui»; questo «apostolato segreto» consisteva nell’assicurare assistenza materiale e tutta una serie di servizi di consulenza e collocamento ai poveri del suo quartiere. Descrivendo Popinot come il «San Vincenzo di Paola» del suo quartiere, Balzac aggiunge: «badava a tutto; preveniva il crimine, dava da lavorare agli operai disoccupati, sistemava gli inabili, dispensava i suoi soccorsi con discernimento in tutte le questioni difficili, diventava il consigliere delle vedove, il protettore dei bambini senza famiglia, l’accomandatario dei piccoli commercianti».

  Benché la Marchesa avesse rivestito la sua azione con gli abiti di una convincente domanda giudiziaria, il giudice avvertiva, nel leggere l’atto e con l’esperienza della sua visita, che di fatto le sue pretese potevano rappresentare — e quasi sicuramente rappresentavano — una deliberata falsificazione della verità. E così, nel suo colloquio con il Marchese d’Espard, il giudice scoprì che, nonostante il suo comportamento piuttosto bizzarro nei confronti dei Jeanrenaud, il Marchese in realtà si stava adoperando per liberare la storia e il nome della sua famiglia da un atto di disonestà — fino allora rimasto ignoto — e di ciò sua moglie era pienamente a conoscenza. Verso la fine del XVII secolo, a seguito della revoca dell’editto di Nantes, la famiglia del Marchese aveva acquisito una grande fortuna terriera prendendo parte agli intrighi reali per spogliare gli Ugonotti delle loro proprietà, in questo caso i Jeanrenaud. Nello scoprire il fatto, e non volendo lasciare ai suoi figli un nome infangato, il Marchese si decise di trovare gli sfortunati discendenti dei Jeanrenaud e fare ammenda per la cattiva azione dei suoi antenati. In confronto col giudice Popinot, il Marchese, altro personaggio «angelico», vedeva il problema della giustizia in questo caso, non in termini di formalità giuridiche, che lo liberavano di qualsiasi obbligo di restituzione, bensì, piuttosto, in termini di una legge superiore e più vincolante: un senso di giustizia che governava la sua coscienza di uomo.

  «Ai miei occhi i diritti di Jeanrenaud erano chiari: perché si possa parlare di prescrizione è necessario poter agire contro i detentori. A quale autorità si sarebbero mai rivolti i rifugiati? Il loro tribunale era qua, disse il marchese, indicando il proprio cuore».

  Avendo trovato i Jeanrenaud, i quali, a quel punto, erano ridotti alla miseria, il Marchese aveva raggiunto un accordo con loro, disponendo un equo indennizzo e un piano ragionevole di pagamento.

  La Marchesa d’Espard, tuttavia, si opponeva con veemenza a qualsiasi progetto di modificare il suo stile di vita per risarcire i Jeanrenaud, preferendo piuttosto separarsi da suo marito e affidargli la responsabilità dei suoi due figli minori.

  Avendo accertato che la condotta del Marchese non era il frutto dei vaneggiamenti di una mente malata, bensì piuttosto rifletteva i più nobili sentimenti dell’animo umano, il Giudice Popinot chiuse l’istruttoria, pronto a riferire al collegio.

  La mattina del giorno fissato, tuttavia, il Presidente chiese di incontrarsi con Popinot nel suo ufficio, informandolo che il Guardasigilli aveva richiesto che egli non continuasse a seguire il caso. La Marchesa aveva fatto sapere alle competenti autorità che il giudice aveva preso il tè con lei durante l’inchiesta, e il mero accenno ad un tale evento immediatamente aveva sollevato sospetti di condotta impropria. Nonostante le proteste di Popinot — il quale faceva osservare, ad esempio, di aver lasciato la dimora della Marchesa prima che il tè fosse servito — il Presidente lo rassicurò che non si trattava di una questione disciplinare, bensì di un prudente provvedimento per ragioni di opportunità. Inoltre promise a Popinot che l’adesione alla richiesta gli avrebbe portato la Légion d’Honneur.

  «Sono profondamente convinto che vi siete comportato in questa causa con assoluta indipendenza (...) ma è sufficiente che ne abbia parlato il Guardasigilli, che si diffondano voci sul vostro conto (...). Ogni conflitto con l’opinione pubblica è sempre pericoloso (...). Insomma, vi chiedo di astenervi come un favore personale; in ricambio, avrete la Légion d’Honneur che da tanto tempo vi è dovuta; me ne assumo l’impegno».

  Messo di fronte al fatto compiuto, Popinot non aveva altra scelta che astenersi nella causa, rimpiazzato da un giudice di fresca promozione, Camusot, le cui ambizioni di successo lo rendevano particolarmente vulnerabile ai bisogni e ai desideri di parti influenti.

  Nonostante la similitudine fra le conclusioni dei romanzi, il definitivo scacco della giustizia, L’interdiction, a differenza sia di César Birotteau che di Illusions Perdues, va oltre la descrizione e l’invettiva del narratore contro l’abuso della giustizia da parte degli uomini. Dei tre romanzi, esso è l’unico a contenere esempi espliciti non solo dell’ideale balzachiano di diritto naturale, ma anche delle forme di amministrazione della giustizia moralmente accettabili e realizzabili nella società.

  L’obbligo di restituzione che il Marchese d’Espard si auto-impone e la irreprensibile condotta ufficiale di Popinot indicano che nell’ottica balzachiana la legge è uno strumento neutrale; il suo valore come istituzione sociale è determinato dall’uso che gli uomini ne fanno. Come Petit-Claud e Camusot gli uomini possono utilizzare il diritto come espediente per il loro avanzamento sociale; oppure seguendo gli esempi di Popinot e del Marchese d’Espard possono sminuirne l’importanza tecnica e far risaltare la sua vitalità come strumento di giustizia sociale e individuale. La visione balzachiana del diritto, quindi, è strettamente legata ai principi del diritto naturale: le disposizioni giuridiche inventate dagli uomini non possono svolgere alcuna funzione legittimante nella società se coloro i quali approvano ed applicano le leggi non le identificano con un superiore senso morale, se non instillano nel sistema giuridico e nelle sue strutture giudiziarie una coscienza etica. Per Balzac la più grande delle follie consiste nel seguire i costumi immorali della società, perché ciò condurrà alla distruzione della più preziosa dote dell’uomo: la sua umanità.

 

 

  Vito Carofiglio, Spettacolo e culto della morte in epoca romantica: il realismo di Balzac (e l’ideologia di Foscolo), in AA.VV., Sul Romanticismo. Lineamenti. Critica, a cura di Giuseppe Recchia, Milano, Shakespeare & Company, 1984, pp. 106-122.

 

  1. [...]. Nel più noto e più importante dei suoi libri dedicati allo scrittore francese, Balzac et le mal du siècle, Pierre Barberis si è particolarmente soffermato sulla «crise de 1830 et l’école du désenchantement» e sulle «Mésaventures de la Révolution». Non è infatti né la fine «romantica» di Raphaël (nella Peau de Chagrin) né quella conseguente alla perdita delle «illusions» di Lucien (dalle Illusions perdues a Splendeurs et misères des courtisanes), che mi interessa rievocare, per una eventuale nuova analisi, in questo discorso, di esempi pertinenti. Mi interessa, invece, mettere in luce la relazione fra lo spettacolo e il culto della morte in un’epoca di crisi, di cui Balzac si fa interprete, delineando o riesumando modelli di vita, di comportamento, e valori, in funzione fortemente ideologica. Sono note le caratteristiche del suo realismo, complesso e ricco più di quanto si creda o si sia credulo sulla base di criteri attinti alla critica dell’economia politica e alla sociologia interna al discorso letterario ma controllata su fatti ed effetti esterni. Ritengo che sia possibile dar conto della costruzione realistica del romanzo balzacchiano, accostandosi a temi apparentemente minori e secondari, che solo a un’analisi testuale e strutturale rivelano la loro pregnanza tutta primaria sia nella costruzione stessa del romanzo sia nella visione ideologica dello scrittore. La morte come spettacolo e come culto ne è uno, che occorre affrontare con avvedutezza. [...].

  2. V’è [...] un modello più intimo, familiare, di spettacolo e cerimonia della morte: quello che esige ed istituisce il lutto domestico, che sembrerebbe non modificarsi nei secoli e che, invece, è modificato dai modi di produzione e dalle caratteristiche locali-regionali nel tempo. Tale modello si presenta, in forme diverse e molteplici, nella Comédie humaine di Balzac, che, oltre a fare opera di romanzo, raccoglie frammenti, strati ed episodi di vita che, con Engels e poi Lukács, potremmo dire «tipici» (ma la parola e il concetto, li aveva usati già lo stesso Balzac nell’«Avant-propos» del 1842 alla Comédie).

  V’è, infine, come forma indotta dal precedente, in età di capitalizzazione di tutto, e di mercificazione anche del dolore umano – cioè, voglio dire, in società borghese –, il modello dello sfruttamento dell’evento naturale e dello spettacolo funebre a fini abietti, che non afferiscono al puro mantenimento del culto dell’estinto. E anche questo è specchiato, in modi drammatici e polemici, nella divina Comédie humaine: si pensi alla fine di Pons, che, nell’opera a lui dedicata, è fatto oggetto di depredazione da parte dei falchi della moderna società. Morte esemplare, rapaci sulle spoglie, e funerale deserto — ma pompa magna ugualmente. Tragica rappresentazione di una morte a Parigi verso il declino della Monarchia di luglio. Epitome di un mondo «pourri» e apparentemente «comme il faut». Il pessimismo balzacchiano degli ultimi anni non può essere meglio segnalato che dal crescendo della narrazione del Cousin Pons, dramma certamente della gola, ma molto più di questo: simbolizzazione di un conflitto mortale fra «les deux pigeons» (come doveva chiamarsi inizialmente il romanzo, con l’eco della tenera favola di La Fontaine), i due musicisti amici, e i falchi della trama borghese, occulta e avviluppante fino all’epilogo.

  3. Si può facilmente ritenere che nel vastissimo universo narrativo della Comédie humaine, costruito secondo una concezione di antropologia e biologia sociale, la morte sia fenomeno inerente alle diverse specie rappresentate. «Pour Balzac la mort est un souci littéraire», avverte Jacques Borel in uno studio su Médecine et Psychiatrie balzaciennes; « la mort apporte à Balzac son potentiel d’émotivité». Il punto di vista del critico francese è quello della «science dans le roman»; un punto di vista antropologico lo avrebbe condotto certamente a evocare il tema in un’opera come Le Médecin de campagne (1833), dove esso è naturalmente connesso con quello duplice salute/malattia, e organicamente trattato, dunque. [...].

  4. Al tema della morte si accede, nel romanzo, come per gradi iniziatici, dall’umile al sublime, dal fisico-patologico al morale-simbolico. I due protagonisti del processo della conoscenza corrispondono ai due protagonisti del primo livello narrativo: Benassi (sic), il medico di campagna, e Genestas, l’ex capitano dell’esercito napoleonico. Dei due il primo è «duca» dell’altro, compagno e maestro occasionale di questo, nella località di montagna indistinta dove il secondo si è recato, risalendo a cavallo le valli che lo portano dalla pianura (geograficamente denotata, questa, nella Finzione romanzesca: la zona di Grenoble) verso un villaggio situato in alto (nei pressi della Grande Chartreuse). Lo svelamento dello scopo del viaggio equestre del comandante sarà rinviato molto avanti nel romanzo, e invece, secondariamente rispetto a quello scopo, saranno svelati la vita, i costumi, le opinioni, i programmi sociali della contrada, subito dopo l’incontro fra i due, e durante la marcia del medico, in attività di servizio come medico e come sindaco. [...] Genestas subisce una sorta di «rito di passaggio», che nel contempo gli fa conoscere la realtà in cui si situa il suo interlocutore, e che costui ha contribuito a rimodellare. Nella lenta e progressiva modificazione interiore del comandante (che appare, infatti, intellettualmente inerme rispetto alla complessa macchina ideologica messa in campo dal dottore) occorrono i discorsi che descrivono cerimonie funebri e le illustrano nei loro significati, anche contrastivi.

  Così, il rito di passaggio di primo grado si svolge attraverso la presa di coscienza di cerimonie rituali relative alla morte, che sono per l’appunto specifici riti di passaggio di secondo grado narrativo: il rito piccolo nel rito grande, questo contenente, «inglobante», dell’altro, degli altri, che sono tre, visti in serie successiva, nella stessa giornata. [...].

  6. Il romanzo si chiude con la morte di Benassis, avvenuta a pochi mesi dall’incontro col capitano (la storia del romanzo — salvo i tempi della narrazione di secondo grado — si situa fra la primavera e l’autunno del 1829). La notizia della morte del medico giunge immediatamente a Genestas, che riprende il suo cavallo e riappare nel villaggio di montagna, questa volta per salutare da morto il personaggio ormai divenuto caro. Lassù egli ha modo di provare i sentimenti di ammirazione dei contadini per la memoria del medico-riformatore: la loro stima li porta ad assimilare Benassis a Napoleone, a un angelo, a un santo. È la sua ipotesi mitica. L’ex comandante chiede di visitare la tomba dell’amico. Gli si comunica che si trova nel cimitero, fuori del borgo. Vi è portato dal curato in persona, che viene quindi a rinnovare la funzione di guida occorrente al militare per muoversi nella realtà topografica, come già il medico nella prima visita aveva fatto, del cantone di montagna:

 

  Voilà le cimetière, lui dit le curé. Trois mois avant d’y venir, lui, le premier, il fut frappé des inconvénients qui résultent du voisinage des cimetières autour des églises; et, pour fair (sic) exécuter la loi qui en ordonne la translation à une certaine distance des habitations, il a donné lui-même ce terrain à la Commune.

 

  In questo discorso riportato si coglie innanzitutto l’importanza simbolica del dono della terra fatto dal sindaco-dottore: la creazione del nuovo cimitero non implica altra occupazione di terra che quella donata dal capo alla comunità. Si intende che il discorso non detto può implicare, al contrario, l’enunciazione dell’ostilità di altri all’alienazione territoriale o alla semplice vendita del terreno per uno scopo discutibile o avversato nella comunità contadina.

  Ma v’è anche una importanza referenziale di tipo storico: l’iscrizione della realtà cimiteriale in uno spazio autonomo fuori le mura si fonda su due ragioni, quella igienica e quella giuridica. Dalla loro congiunzione deriva la forza della decisione e del gesto compiuto (anche contro, malgrado, la volontà o le opinioni o i sentimenti o le abitudini degli abitanti: e sarebbe altro segno della coazione riformistica del buon Benassis); ma è certamente sull’obbligo giuridico (che implicava la ragione igienica) che il tutore della legge, qual è il sindaco localmente, gioca la sua partita finale. Orbene, storicamente, la legge che ordinava di sistemare i cimiteri a una certa distanza dalle abitazioni non è che l’editto del 23 aprile dell’Anno XII (cioè del 12 giugno 1804), firmato da Napoleone a Saint-Cloud. Si attendeva, dunque, nella finzione romanzesca, il prepotente slancio riformistico di Benassis per dare esecuzione, venticinque anni dopo la sua emanazione, al decreto napoleonico. È noto che l’attuazione di quel decreto comportava anche una partecipazione ideologica, poiché vi ineriva un sentire giacobino: in effetti, Napoleone aveva dato una sanzione ufficiale alla pratica dell’«enterrement républicain», com’era stata chiamata la sepoltura lontana dalle abitazioni e dalle chiese, e, almeno tendenzialmente, nell’ispirazione, egualitaria, laica. [...].

  Nell’interpretazione ideologica del romanzo non è affatto secondario che la guida al cimitero fuori le mura sia il curato, il quale parla con semplicità e serenità della decisione di Benassis: egli mostra così di condividerla. In un romanzo costruito, con molta (e talvolta anche fastidiosa) evidenza, come particolare edificazione di principi cattolici, si tratta di una funzione importante, nell’epilogo, svolgendosi il compimento del viaggio di tipo iniziatico del comandante per segni funebri. Il curato non specifica di quale legge si tratti. La cosa era irrilevante? Egli si limita a un’allusione generica, che può apparire sufficiente al suo interlocutore e, forse (o forza del non detto!), particolarmente trasparente ad un uomo che è stato agente dell’universo napoleonico. Eppure, il riferimento all’editto non doveva apparire ridondante per il lettore comune dell’epoca in cui il romanzo apparve né tanto meno lo sarebbe oggi in Francia. Poca cosa e ordinaria amministrazione di un ordine cimiteriale ammesso anche dal senso comune. Se Balzac, però, avesse fatto dire dal suo curato che l’emanazione dell’editto risaliva al 1804, Genestas avrebbe associato, nel 1829, l’anno evocato al momento di pienezza imperiale del suo idolo, e ne sarebbe scaturita la possibilità (almeno a livello immaginario) di un altro tipo di discorso nell’epilogo, e il lettore degli anni Trenta — epoca in cui il legittimismo balzacchiano si definisce anche politicamente — avrebbe ricevuto un’informazione su Napoleone legislatore, che non era opportuno passare attraverso il romanzo. Si potrebbe considerare quella allusione ellittica all’editto napoleonico come discorso autocensurato dal curato-Balzac.

  Discorso opaco, dunque.

  Eppure, discorso trasparente per chi abbia nella mente gli echi dei versi foscoliani, le ragioni che ispirano il carme dedicato ai Sepolcri:

 

  Sol chi non lascia eredità d’affetti [...]

  Fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti

  Contende.

  [...].


  La poesia cimiteriale del Foscolo […] stabilisce coordinate su cui la reazione polemica alla decisione napoleonica, la malinconia foscoliana, il suo pensiero etico, si fondano in sublime compostezza. L’angoscioso lamentarsi che il corpo del «vecchio» Parini non abbia urna, «non pietra, non parola», esemplifica lo scandalo dell’evento giuridico: la rottura della continuità, della familiarità anche quotidiana, fra i vivi e i morti; l’infrazione, insomma, del rito di passaggio continuamente rinnovato. Quell’evento, inoltre, nella sua ispirazione egualitaria giacobina, poiché tende a livellare e uniformare i segni tombali, induce la disaffezione dal culto degli uomini illustri, esempi da richiamare alla memoria dei cittadini. Il carme di Foscolo, dunque, con i suoi timori, con i suoi lamenti e compianti, col suo energico sentimento civile, obbliga a precisi riferimenti storico-giuridici nella cultura italiana.

  Orbene, se mettiamo in relazione i versi di Foscolo con l’epilogo del Médecin de campagne, apparirà che la serena funzione di guida svolta dal curato del paese rivela ben altra disposizione ideologica nella struttura del romanzo, da Benassis al suo curato (non certo «réfractaire» alle idee del sindaco-dottore): essa dà per risolte le inquietudini cattoliche o etico-civili per il trasferimento dei cimiteri. È salva, infatti, sia la ragione della familiarità fra vivi e morti (i contadini testimoniano la loro cura amorosa per la tomba di Benassis) sia quella della monumentalità significante e ultra-significante: la tomba del medico è innalzata in forma di piramide; un epitaffio «ammonisce» e contiene un’istanza oratoria finale (stereotipica). [...].

  Continuità e contiguità fra Benassis e Genestas mescoleranno fisico e simbolico: il culto del Grande e l’aspirazione a entrarvi nel suo universo. Nell’uno e nell’altra si compirebbe sia l’iniziazione del comandante sia la sua vita dedicata a Napoleone, e alla sua memoria. [...].

  È un tocco finale nella regia della strutturazione simbolica dell’apologo narrativo: il processo di assimilazione di Benassis a Napoleone, di Genestas a Benassis, non potrebbe essere più paradigmatico della volontà di significare la continuità fra i vivi e i morti. [...].

 

 

  Claudio Casoli, “Louis Lambert” di Balzac, «Città Nuova», Roma, 10 ottobre 1984.

 

  Perché ripubblicare un libro scritto oltre centocinquant’anni fa? Del giornalista Paolo Pinto che l’ha tradotto e lo ripresenta alle stampe, è detto sulla sovracoperta: «Dopo aver pubblicato oltre mille articoli e aver sperimentato l’effimero del giornalismo, ad onta di una passione viscerale e di un impegno irriducibile, ha affidato le sue speranze di “salvezza” a quell’assoluto che è la letteratura». La letteratura infatti può superare il tempo e divenire, in certo modo, un assoluto, quando è testimonianza dello spirito, delle vicende e delle angustie di un’epoca.

  In questo senso un libro del passato può essere ancora attuale se contribuisce alla lenta umanizzazione dell’uomo. Scrive Paolo Pinto: «Il realismo di Balzac consiste nello svelare la realtà dell’uomo, che è cosa diversa, e più grande, della realtà della storia (...). Quanto alla società io non condivido affatto la credenza in un progresso indefinito; credo nel progresso dell’uomo su se stesso», e cita a sostegno Borges: «Se leggiamo un libro antico è come se leggessimo tutto il tempo che è trascorso dal giorno in cui è stato scritto fino a noi».

  Tra il romanzo, in parte autobiografico, di Balzac “Louis Lambert” (Edit. Lucarini) presentato con ottimo commento da Paolo Pinto, e il nostro tempo c’è continuazione e anche contemporaneità. Due epoche che si somigliano. Louis Lambert, il protagonista, vive, soffre, impazzisce e muore da eroe romantico in un ambiente sociale degradato come il nostro. Quella, dopo il congresso di Vienna del 1815 che fece la restaurazione monarchica, era epoca di disperazione per i giovani intellettuali che avevano visto l’uragano della rivoluzione francese tramutarsi in tirannide e l’edificazione dell’impero napoleonico rovinato, lasciando scarse speranze di libertà sociali, ed erano costretti a vivere sotto principi rimessi sui troni vacillanti invisi ai nuovi sudditi. Giovani intellettuali come Foscolo, Pellico e lo stesso Manzoni e molti altri, sentitisi esuli, si rifugiavano nell’assoluto della letteratura, cioè nella letteratura delle memorie, dell’amore e della morte. Un assoluto vissuto spesso in maniera tragica. Iacopo Ortis e il giovane Werther muoiono suicidi per amore, altri, gli eroi civili, per sconfitte o tradimenti. La nostra è un’epoca simile, caratterizzata da un dopoguerra che non finisce più, in cui i giovani intellettuali che hanno valutato l’inferno del secondo conflitto, l’inanità e lo sfacelo d’ogni ideologia che n’è seguita, si rifugiano in una solitudine angosciosa, dove non alitano speranze e, se muoiono, muoiono per carenza di verità vere, di vera libertà sul terreno degradante del consumismo. Si salvano solo quelli che si ancorano alla fede.

  Louis Lambert è un giovane d’intelligenza superiore, povero, malaticcio, solitario, introspettivo, deriso in collegio dove la convivenza per lui era anche lotta sfibrante. «L’Antico e il Nuovo Testamento erano finiti nelle sue mani quando aveva cinque anni; e quei libri, che ogni altro libro contengono, avevano segnato il suo destino (...) la sua anima di fanciullo fu abbagliata dalla religiosità sublime che mani divine hanno versato in quei libri (...). “Louis Lambert” è per l’appunto la biografia di un cervello, la storia di una vita ideale tutta vissuta e sofferta interiormente, il conflitto tormentoso e l’impossibile conciliazione tra l’essere che ha intravisto l’assoluto e il mondo che è immerso nel contingente».

  La sua vita è tutta una fuga, incalzato dalla paura: «La paura della vita —nota Pinto — è strettamente legata alla paura della volgarità». Louis Lambert si ritira, si estranea, si fa esule indifeso, si interiorizza in desolato sradicamento cosmico, «“in un mondo che è sicuramente il nostro”, di cui avverte i limiti angusti quando scopre le straordinarie facoltà dell’essere interiore (...) giunge infine, forse per la sua disgrazia, ad afferrare delle leggi inaccessibili alla maggior parte degli uomini».

  Chi si avventura nei deserti dello spirito lo fa perché è incline alla follia e vi perderà la visione della realtà? Pinto risponde citando un brano del “Diario di uno scrittore” di Dostoevskij: la realtà fotografica «non esiste affatto, e non è mai esistita da nessuna parte, perché l’essenza delle cose è inaccessibile all’uomo, ed egli concepisce la natura secondo come essa si riflette sulla sua idea, passando attraverso i suoi sentimenti».

  Lambert è uno spaesato, un esule, non vede le cose come appaiono, ma ricerca la radice del loro mistero. Ma — dice Pinto — «solo colui che sa andare oltre il contingente, oltre l’apparenza, è un vero artista». Il punto debole di tali nature, il punto di naufragio nella cotidianità, è l’esperienza amorosa: «Per lui, l’amore puro, l’amore come lo si sogna nella fanciullezza, era l’incontro di due nature angeliche. Così nulla eguagliava l’ardore col quale desiderava incontrare un angelo-donna». In questo incontro Lambert era certo di risolvere la dialettica umano-divino che tormenta l'uomo: «La mia preoccupazione era ed è: determinare i rapporti reali che possano esistere tra l’uomo e Dio. Non è questa una necessità dell’epoca? Senza alte certezze non è possibile mettere un freno a questa società che lo spirito critico e la libera discussione ha scatenato e che oggi grida: “Conduceteci su una via dove possiamo camminare senza incontrare abissi”».

  Un libro antico che ricapitola il tempo trascorso fino a noi e ci fa riflettere sull’identità dello stesso problema di sempre, l’erosione del pensiero sulla psiche fragile dell’uomo di oggi. Pinto cita l’opinione di Balzac: «Tra tutti gli agenti di distruzione, il pensiero è quello più violento: è il vero angelo sterminatore dell’umanità. (...) Sapete cosa intendo per pensiero? Le passioni, i vizi, le occupazioni molto intense, i dolori, i piaceri sono dei veri e propri tormenti di pensiero. Mettete insieme, in un dato momento, molte idee violente e un uomo ne verrà ucciso, esattamente come gli venisse inferta una pugnalata».

  Lambert credette d’aver incontrato l’angelo: «S’innamora follemente di una donna, Pauline. (...) Egli passa così dall'idealismo puro al sensualismo più acuto. Louis e Pauline decidono di sposarsi, ma alla vigilia del matrimonio egli impazzisce (...) una malinconia cupa, che sprofonda lentamente verso il silenzio e la morte». La sua estraneità al mondo, Louis l’aveva confidata ad uno zio prete: «Io vedo che nessun uomo ama ciò che io amo, s’interessa di ciò che mi interessa, si stupisce di ciò che mi stupisce». Un libro vecchio e nuovo, sempre attuale.

 

 

  Giulio Cattaneo, Honoré de Balzac: “L’albergo rosso”. Delitto a colazione, «la Repubblica», Roma, 11 agosto 1984; 1 ill.

 

  Di Honoré Balzac le Edizioni Theoria hanno pubblicato L’Albergo rosso, «prima edizione italiana», a cura di Daria Pozzi, (pagg. 81, lire 5000), ma, a distanza di un mese, gli Editori Riuniti hanno proposto lo stesso racconto, tradotto da Bruno Schacherl, e La Grande Bretèche, nella versione di Clara Sereni (pagg. 107, lire 5000). Nel volumetto Theoria è una brevissima presentazione, nell’altro soltanto poche righe sul retro della copertina che mi hanno fatto tornare in mente la ritrosia allo scrivere del buon letterato Schacherl, il suo “horror calami”, come diceva lui stesso ridacchiando, da giovane.

  L’Albergo rosso è del 1831 e appartiene quindi al periodo in cui Balzac, dopo la giovinezza fra miseria in soffitta e imprese editoriali sballate, si dà a una vita lussuosa, eccentrica e galante, firmandosi “Honoré de Balzac”, vantando origini nobiliari e professandosi monarchico legittimista come un moschettiere di Dumas. Ma soprattutto, negli anni Trenta, è l’avvio del grande narratore che, dopo un decennio di prove e riprove, da un Cromwell in versi ai romanzi popolari in collaborazione con Le Poitevin, scopre la doppia natura del romanzo fra la realtà riprodotta con minuziosa esattezza e il mistero che la pervade in un balenare di segni magici, simbolici, cabalistici, alchemici. L’Albergo rosso che, quando si ordinerà il grande disegno della Comédie humaine, avrebbe trovato posto fra gli (sic) Études philosophiques, ha inizio con la scena di una festa data da un banchiere di Parigi in onore di un amico tedesco, “capo di non so quale importantissima ditta di Norimberga”, al momento in cui il dessert è stato ormai demolito, fra le rovine delle pesche all’acquavite e delle confetture di ciliege. L’amico “era un grosso e tranquillo tedesco, uomo di gusto ed erudito, gran fumatore di pipa soprattutto, con una bella, larga faccia norimberghese, dalla fronte quadrata, ampiamente stempiata, e decorata da pochi, radi capelli biondi”. “Era un tipico rappresentante di quella pura e nobile Germania, così ricca di nobili caratteri, e i cui costumi pacifici non si sono smentiti neppure dopo sette invasioni”. Siamo nel 1831 e l’antagonismo tra Germania e Francia è di là da venire: in un clima di fratellanza fra i popoli, il giovane Balzac prova simpatia per i tedeschi, la stessa che esprimerà in Le Cousin Pons di sedici anni dopo.

  La storia tedesca che l’ospite racconta su richiesta di una giovane pallida e bionda, lettrice di Hoffmann e di Walter Scott, per mettere “addosso una bella paura ai commensali”, è uno di quei “crimes secrets” prediletti da Balzac che “non cadono sotto i rigori di nessuna legge, ma sono perciò più mostruosi di quelli commessi apertamente”, come osserva Massimo Colesanti. Il racconto è condotto su tre piani: una introduzione nell’età di Luigi Filippo, una storia 1799 ambientata in una cittadina tedesca occupata dai francesi, sulla riva sinistra del Reno, che avrebbe potuto tentare la fantasia di Heinrich von Kleist, e l’esame di un caso di coscienza in un sinedrio di uomini probi, convocato “per proiettare qualche lume su quel problema di altissima morale e filosofia” e concluso fra battute semiserie e anche farsesche. Il delitto narrato dal buon tedesco rivela l’assassino, per il suo improvviso turbamento, agli occhi del protagonista, tormentato poi, a sua volta, dal caso di coscienza di amare la figlia di quel sinistro personaggio che ha fondato su un crimine di trent’anni prima la propria fortuna finanziaria.

  Balzac è riconoscibilissimo fino dalle prime reazioni di chi racconta, a cominciare dall’elenco delle “piccole felicità gastronomiche di cui Brillat-Savarin, d’altronde autore così completo, non ha tenuto conto nel suo libro” e a vedere lo stravolgimento di un commensale alla rievocazione della vecchia storia: “Ha bevuto troppo? E’ stato rovinato dal calo dei titoli di Stato? Pensa ai modi di far rimanere a bocca asciutta i suoi creditori?” Il denaro è sempre il movente principale di ogni fatto, come lo è dell’omicidio a scopo di rapina architettato da un giovane chirurgo francese e perpetrato a sua insaputa, mentre dorme, dall’amico e collega che sparisce col malloppo. Colpevole di un progetto studiato alla perfezione fino a sospettare di aver commesso l’assassinio in stato di sonnambulismo, il giovane Prosper Magnan è condannato alla fucilazione e il vero responsabile, arricchito con l’oro e i diamanti del delitto e del furto, sarà perseguitato dai rimorsi e da una terribile malattia di nervi fino alla morte.

  Altro crimine segreto è all’origine della Grande Bretèche, il secondo racconto pubblicato dagli Editori Riuniti: un marito vendicativo, un gentiluomo spagnolo murato vivo in uno stanzino, il testamento di una moglie infedele che vieta a chiunque l’ingresso nella “vecchia casa scura”, la Grande Bretèche, “per cinquant’anni intieri a far data dalla sua morte”, per custodire una storia sepolta di tradimento, spergiuro e feroce punizione. La vicenda è ricostruita attraverso le meticolose, professionali informazioni di un notaio, il chiacchiericcio di una locandiera e la diffusa testimonianza della cameriera Rosalie. Il racconto si apre su un luogo desolato, una casa antica in sfacelo, con “l’indistruttibile natura” che “riassorbe lentamente entro il suo grembo” le opere dell’uomo, come osserva Giovanni Macchia descrivendo l’amore della decomposizione e della rovina alle origini del romanticismo francese. Il fattaccio è messo insieme, pezzo per pezzo, con l’abilità di catturare l’interesse del lettore come per “un romanzo alla Radcliffe”, con l’attenzione caratteristica dell’autore agli ambienti, agli oggetti, fino al fatale crocifisso di ebano incrostato di argento, che fanno inestricabilmente parte della storia inserita da Balzac “in uno dei romanzi-centone con cui completò la sterminata costruzione della Commedia umana”.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac e i temi italiani di “Facino Cane”, in AA.VV., Mélanges à la mémoire de Franco Simone. France et Italie dans la culture européenne. XIXe et XXe siècles, Genève, Slatkine, 1984, Volume III, pp. 313-325.

 

  Benché, da tempo, fatto oggetto di analisi da parte di numerosi studiosi, Facino Cane rimane ancor oggi uno fra i racconti di Balzac di cui non è facile ricostruire la genesi e le fasi di composizione e di cui vari temi richiedono tuttora una più soddisfacente messa a punto.

  Scritto, secondo Balzac, in una sola notte (ma è bene diffidare di una precisazione a cui il romanziere è, in genere, facilmente propenso), esso non sembra essere stato redatto ad una data molto precedente quella del 17 marzo 1836 (giorno della pubblicazione nella «Chronique de Paris») e, alla stessa maniera di altri racconti pubblicati in quel giornale, sembra essere nato sotto il segno di una rapida improvvisazione. Per lo meno, nessun accenno al progetto di scrivere una novella di questo titolo o su questo soggetto si ritrova nella corrispondenza balzacchiana dei mesi o degli anni precedenti né in quel prezioso repertorio di spunti narrativi che è il cosiddetto Album di Pensées, sujets, fragments. E su Facino Cane Balzac non ritornerà nemmeno dopo il marzo 1836, nell’epistolario o altrove (se non per il particolare già citato della redazione di getto) con riferimenti nuovi concernenti le circostanze della composizione di queste pagine o le intenzioni in esse racchiuse.

  A rendere ancora più malagevole una inchiesta sulla storia esterna ed interna dell’opera contribuisce poi la scomparsa del manoscritto di cui ignoriamo sia il numero delle varianti rispetto all’edizione preoriginale della «Chronique de Paris» sia l’incidenza di esse sugli elementi più significativi della narrazione e sul suo tessuto stilistico.

  Privi di solidi punti di appoggio per ciò che concerne la redazione della novella, siamo poco più favoriti per quanto riguarda le sue componenti tematiche, le ragioni per le quali esse prendono forma e si aggregano fra loro, l’unità strutturale alla quale convergono. A questo proposito, la critica balzacchiana ha già opportunamente rilevato la coesistenza, in Facino Cane, di temi autobiografici, legati ai ricordi di giovinezza dell’autore (i «difficili inizi» per intenderci con una parola sola); di temi, per così dire filosofici, connessi alla visione intuizionistica che Balzac attribuisce all’uomo di genio (il motivo della «seconde vue»); di temi di storia, di avventura, di psicologia dei sentimenti, di monomania e (forse) di follia: questi ultimi inseriti per una gran parte in un contesto ambientale e morale (Venezia alla fine del Settecento) noto a Balzac solo tramite letture o informazioni e suggestioni indirette.

  Operata tale distinzione preliminare (che riconosce giustamente al racconto una duplice ripartizione: una prima parte, parigina, autobiografica e «filosofica»; una seconda parte, veneziana ed avventurosa), la critica si è anche soffermata con interesse sulla prima serie dei temi ora indicati (quelli autobiografici e quelli ideologici del personaggio che dice je) e che sono, senza ombra di dubbio, i più tipicamente ed insistentemente balzacchiani.

  In tal modo, essa ha già notato, ed ampiamente documentato che, nelle pagine «parigine» che introducono il racconto delle fantastiche avventure di Facino Cane, Balzac si identifica col personaggio che parla in prima persona e svolge il tema, già personalmente conosciuto e sofferto, dei difficili inizi di una contrastata vocazione intellettuale. Così, esplorando nella memoria, il narratore scopre e mette in rilievo episodi reali e particolari psicologici che gli sono propri: il soggiorno nella rue de Lesdiguières (1819-1820); le condizioni di povertà; il ritmo quasi monastico di vita, le lunghe sedute di studio alla biblioteca dell’Arsenal e, persino, i premurosi servizi di quella domestica, la «mère Comin» (soprannominata «Iris la messagère» nelle lettere giovanili alla famiglia), nella quale è possibile riconoscere un ritratto, modificato nel ricordo, dell’umile ed affezionata «mère Vaillant».

  Parallelamente a questo filone tematico, la critica ha altresì indagato sul motivo del dono miracoloso della «seconde vue» che Balzac attribuisce al personaggio che dice je: — ed ha sottolineato il fatto che tale qualità è una caratteristica privilegiata dell’antropologia balzacchiana e ritorna come un motivo dominante ogni volta che, alla ribalta della scena narrativa della Comédie Humaine, si affaccia la figura di un uomo superiore.

  In altri termini, questa capacità quasi magica di osservazione che intuisce la realtà nascosta dall’involucro corporeo e che «vit de la vie de l’individu sur laquelle elle s’exerce» è una dote che Balzac proclama essergli personale e alla quale sa di dovere la propria singolare potenza di penetrazione. Né ciò avviene solo in lui e per lui. Ma tale intuizione che «devine le réel par l’ivresse des facultés morales» diventa, per così dire, paradigmatica del genio. Ed è così accordata generosamente dallo scrittore non solo (ed ovviamente) a quelle creature misteriose che appartengono contemporaneamente al mondo angelico ed a quello umano (come Séraphîtus-Séraphîta), ma a quegli esseri superiori che più si avvicinano alla «verginità» dello stato di natura (come i poeti e gli artisti); ed anche a taluni personaggi della Comédie Humaine che Balzac sente spiritualmente e sentimentalmente più vicini a se stesso: Victor Morillon dell’Avertissement del Gars, Etienne d’Hérouville dell’Enfant maudit, Louis Lambert della Notice biographique [...], Desplein della Messe de l’Athée, il giudice Popinot ed il medico Bianchon dell’Interdiction. Nel corso di questi stessi mesi in cui cade la redazione di Facino Cane, nelle correzioni che sta apportando al testo del Lys dans la vallée, Balzac dota di tale meravigliosa facoltà anche una donna d’eccezione: la dolce e sensibile Henriette de Mortsauf.

  Ma — come abbiamo già accennato — i temi autobiografici e «ideologici» (comunque miticizzati i primi; comunque applicati i secondi) non caratterizzano che la prima parte della novella: quella che pur essendo, certo, la più importante per intensità di rappresentazione e per rilievo poetico, non è, in rapporto alla struttura di Facino Cane, che introduttiva agli avvenimenti narrati. Non appena dalla cornice si penetra nel vivo del racconto, scena, avventure, atmosfera ed intonazione si trasformano infatti profondamente. Fonti ed ispirazione di tutt’altra natura, che ben poco hanno a che vedere con le reminiscenze autobiografiche, con la facoltà della lungimiranza, con la rievocazione di una scena al tempo stesso tipica della «vie parisienne» e della «vie privée», si sostituiscono alle prime. Ed al loro posto intervengono e dominano, immersi in un paesaggio italiano, temi avventurosi e fantastici, descrizioni della «pianta-uomo» transalpina, con una attenzione particolare rivolta alla esplorazione di quel mondo psicologico che è considerato (a torto o a ragione) proprio del «tipo» italiano: una natura feroce ed irriflessiva trascinata all’amore-passione, ossessionata dalla gelosia. Come se non bastasse, il ventaglio di queste caratteristiche si allarga alla predisposizione alla monomanìa e ad una attrazione verso la ricchezza, resa più morbosa dal fatto che essa è intesa nella sua forma più concreta, palpabile nel suo peso, visibile nello sfavillìo dei suoi riflessi, in una parola, più «carnale»: oro e gioielli.

  Ora, in questa seconda serie di temi — come si è anche già detto rapidamente — la critica balzacchiana si è dimostrata, da un lato, meno interessata ad individuare le occasioni letterarie, le circostanze personali, le suggestioni psicologiche che hanno guidato e spronato la fantasia del romanziere, dall’altro lato, più incerta nell’approdare a conclusioni complessive. Incertezze, queste ultime, del tutto comprensibili e che non vanno affatto sottovalutate, giacché le difficoltà che si oppongono ad una convincente interpretazione di Facino Cane non sono poche. Esse non risiedono, infatti, solo nella natura di una invenzione di una storia d’amore, di prigionìa, di tesori nascosti e ritrovati, di evasione, di infedeltà, di tradimenti, di vagabondaggi e di miseria, di rabdomanzìa dell’oro e (forse) di pura follìa (invenzione tipicamente balzacchiana e comune alla maniera di tanti racconti della Comédie Humaine) ma, soprattutto, nel tentativo di trasferire questa storia — e di ambientarla convenientemente — in una Italia di fantasia che Balzac non aveva sottoposta ancora al vaglio della sua osservazione diretta: in una Italia che doveva pertanto essere ricostruita «de toutes pièces» sugli sparsi tasselli provenienti dalle più diverse direzioni.

 

* * *

  Esposte queste considerazioni preliminari, non ci sembra dunque inutile accingerci a formulare qualche suggerimento e ad avanzare qualche ipotesi sui temi italiani di Facino Cane al fine di chiarire meglio, se possibile, la provenienza e le caratteristiche di essi.

  Procederemo secondo un ordine che, «grosso modo» coincide con quello dello svolgimento narrativo impresso dall’autore alla sua invenzione e che, se peccherà per una certa schematicità, avrà almeno il vantaggio, speriamo, della chiarezza.

  E cominceremo da quella campitura storica (tenue quanto si voglia) che Balzac ha voluto dare alla sua novella, attribuendo al suo vecchio e miserabile «joueur de clarinette» un nome storico ed una ascendenza principesca: quella cioè di Facino Cane, condottiere piemontese, vissuto fra il 1358 o 1359 e il 1412, famoso per crudeltà e rapine, di volta in volta al soldo dei principali signori dell’Italia del Nord.

  Noi ignoriamo se a tale artificio genealogico abbiano contribuito le conversazioni di Balzac con il conte Emilio Guidoboni-Visconti, le confidenze o i ricordi familiari di questo amico italiano che pur doveva conoscere — legate com’erano alla sua famiglia, imparentata con i Visconti — la storia del Ducato di Milano e le alterne vicende, fra la seconda metà del XIV° e la prima metà del XV° secolo, dei Signori di Milano, cui il nome del capitano di ventura Facino Cane è strettamente connesso.

  Indipendentemente da queste informazioni o parallelamente ad esse, è comunque certo che Balzac si è documentato sulla Notice dedicata a Facino Cane, redatta da Simonde de Sismondi e pubblicata nel quattordicesimo volume della Biographie Universelle del Michaud. Già si sa quanto spesso questo repertorio enciclopedico abbia costituito il punto di partenza (e, talora, anche, il punto di arrivo ...) della erudizione balzacchiana. E da tale miniera, ricca e facilmente accessibile, Balzac ha estratto, anche questa volta, ciò che gli serviva. Ha potuto apprendere, cioè, che il condottiere di Casale era vissuto fra la seconda metà del XIV° secolo e il primo decennio del successivo, apparteneva a famiglia nobile, si chiamava Bonifacio (di cui Facino è appunto il diminutivo), era stato assoldato dai Visconti — diventandone quindi emulo ed avversario —, era signore di un principato indipendente (di cui appunto il borgo di Varese faceva parte), ereditato poi, alla sua morte, insieme alla banda di sua proprietà, dagli amici-nemici, protettori-rivali Visconti, Signori di Milano: tutti particolari, come è noto, consegnati al testo della novella.

  Sempre, forse, dal Michaud e dal suo famoso repertorio biografico, Balzac ha potuto trarre anche quei nomi storici veneziani di Vendramin, Sagredo, Memmo che egli ha incastonati nel suo racconto nella funzione di amici o nemici e nella qualità di parenti del protagonista. Di ognuno di questi nomi, Michaud fornisce, infatti, una notice personale, e se Balzac non li ha desunti dai Mémoires di Casanova (che pur li nomina a più riprese) o non li ha letti in una qualsiasi storia di Venezia (che non poteva tacerli in quanto appartenenti a famiglie dogali fra le più antiche ed illustri del patriziato veneto) un ulteriore debito dello scrittore francese alla Biographie Universelle ci sembra ragionevolmente ipotizzabile.

  Dai pochi dati storici di Facino Cane passiamo ora ai più numerosi elementi geografici e veniamo, cioè, a Venezia e alla descrizione di questa città dove, come è noto, la maggior parte degli avvenimenti del racconto si svolge. Qui è certamente più difficile individuare le fonti a cui Balzac si è rifatto nella rievocazione di un luogo geografico a lui ancora sconosciuto per contatto diretto. La ragione sta nel fatto che è pressocché impossibile allestire un catalogo completo delle eventuali letture «veneziane» di Balzac utilizzate in Facino Cane stante il complesso, veramente imponente, di opere storiche o fantastiche su Venezia che potettero essere cadute sotto l’occhio del romanziere. Si possono, certo, indicare in questa vastissima letteratura la tragedia di Otway, i Mémoires di Casanova, i racconti fantastici di Hoffmann, i poemi di lord Byron, i romanzi di Ann Radcliffe, di madame de Staël, di Nodier, i poemetti di Musset fino ai più recenti — e minori — racconti di Laure d’Abrantès e di Alphonse Royer: tutte opere che, per altra via, sappiamo non ignote a Balzac. Ma come fare, poi, a precisare meglio tali riferimenti in un più serrato controllo testuale? E, in ultima analisi, vale veramente la pena di interrogare tanti testi per un risultato — diciamolo subito — estremamente generico e deludente?

  La realtà, a nostro parere, è che, per la descrizione di Venezia, Balzac non ha fatto ricorso, in Facino Cane, ad una documentazione attenta e sagace, e si è limitato ad affidare a questa parte del suo testo il risultato di alcune impressioni fra le più vaghe e le più convenzionali. In altre parole, Venezia, quale appare nelle rapide indicazioni topografiche che le sono dedicate nel racconto è una città ricostruita di maniera, sfuggente alla presa (altrove così incisiva nei rilievi del paesaggio!) dello scrittore. Il quale utilizza per essa quell’aggettivazione indeterminata ed incerta, adatta a tutto, tipica di chi parla di fatti solo approssimativamente conosciuti: «Je me promenais dans cette ville si chère à ses habitants, j’allais du Rialto au Grand Canal (sic), du Quai des Esclavons au Lido, je revenais à sa cathédrale, si originalement sublime (si originale et sublime nell’edizione preoriginale del 1836), je regardais les fenêtres de la Casa Doro (sic) dont chacune a des ornements différents, je contemplais ces vieux palais si riches de marbre». Affliggenti banalità che Balzac eviterà di ripetere in Massimilla Doni, per esempio, allorché il suo incontro diretto con Venezia gli avrà fatto cogliere il carattere, meraviglioso ed inestensibile, della città lagunare.

  La descrizione di Venezia coinvolge, naturalmente, quella del Veneziano (o dell’Italiano in generale). Occupiamoci quindi ora del tipo transalpino, dei suoi caratteri fisici e morali, delle sue reazioni psicologiche, insomma di tutto ciò che lumeggia, a torto o a ragione, il ritratto raffigurante chi vive al di qua delle Alpi e che Balzac applica, ritualmente, al suo personaggio.

  Anche qui è difficile dire qualcosa di certo sulla documentazione utilizzata dal narratore e sulle fonti alle quali si è particolarmente ispirato. Ciò che salta all’occhio in maniera abbastanza evidente è comunque il fatto che Balzac ora ritorna su propri procedimenti già usati per analoghe occasioni in precedenti racconti, ora ricorre a quei «clichés» caratteristici di mode letterarie già singolarmente diffuse in Francia, siano esse tipicamente francesi, siano invece pervenute in Francia, col romanzo «nero», dall’Inghilterra o, con i «Phantasiestücke», dalla Germania.

  Si veda il ritratto di Facino Cane quale viene presentato dallo scrittore al primo incontro del personaggio che dice je col vecchio patrizio veneziano decaduto. Si tratta di una vera e propria «composizione» costruita sui più vari elementi letterari. Il fatto che Facino Cane sia un italiano esule dalla sua patria porta, da un lato, Balzac — quasi automaticamente — a instaurare un rapporto di somiglianza fra questi e «le masque en plâtre» di quel Dante che una antica tradizione (già raccolta dallo stesso romanziere) faceva esule in Francia; e lo induce così a riprendere qualche notazione fisico-morale dal testo dei Proscrits. Questo stesso fatto, d’altro lato, spinge l’autore a ritrovare nella figura del personaggio l’impronta di tutte quelle passioni violente che, a seconda delle circostanze, possono fare di un uomo un avventuriero o un eroe, o le due cose assieme. Il viso di Facino Cane è livido, ombreggiato come è «par des sourcils grisonnants qui projetaient leur ombre sur des cavités profondes où l’on tremblait de voir reparaître la lumière de la pensée, comme on craint de voir à la bouche d’une caverne quelques brigands armés de torches et de poignards». Tutto il corredo delle immagini «italiane», ereditate dal romanzo terrificante inglese e dal racconto fantastico di Hoffmann, è visibilmente riutilizzato. E perché, accanto ai luoghi comuni di un chiaroscuralismo orrido e misterioso, non manchino neppure quelli di un’altra tradizione letteraria (più tipicamente francese e «rinascimentale») della ferocia italiana, brutale e animalesca, l’episodio in cui Facino Cane, scoperto dal marito di Bianca, si getta sull’avversario, si conclude secondo uno schema altrettanto convenzionale: «J’étais sans armes, il me manqua, je sautais sur lui, je l’étranglai de mes deux mains en lui tordant le cou comme un poulet».

  Ma c’è un’altra componente «italiana» che è forse ancora da rilevare su questo argomento e che sembra collegarsi al magistero di Stendhal e alla sua influenza: l’uno e l’altra già agenti da tempo, come noi sappiamo per altre vie, sull’italianismo di Balzac. Non vorremmo andar oltre il segno nel chiamare in causa Henri Beyle per la caratterizzazione di un personaggio i cui lineamenti predominanti appartengono alla tradizione del racconto fantastico. Ma negli occhi di Facino Cane, che «revivent par la pensée» e dai quali «il s’en échappait comme une lueur brillante, produite par un désir unique, incessant, énergiquement inscrit ...», non riconosciamo solo il tratto distintivo di quella ossessione di tanti personaggi balzacchiani sprofondati nella lucida follìa di una manìa dominante, ma anche un tocco di pennello, un avverbio-chiave, che ci riportano immediatamente a Stendhal. Ed al ricordo di affinità stendhaliane siamo ancora ricondotti da quel «quelque chose de grand et de despotique», da quella «grandeur si réelle qu’elle triomphait encore de son abjection» che si rivelano subito al narratore allorché questi vede per la prima volta, al ballo popolare della rue de Charenton, il vecchio, enigmatico Italiano. Infine, potrebbe forse costituire un’altra reminiscenza stendhaliana quella confessione di donchisciottismo amoroso che Facino Cane, ripercorrendo la sua giovinezza, fa al personaggio che dice je: «J’ai aimé comme l’on n’aime plus, jusqu’à me mettre dans un coffre et risquer d’être poignardé sans avoir reçu autre chose que la promesse d’un baiser». Non vorremmo ingannarci, ma il suono di questa prodezza galante richiama singolarmente quello che si sprigiona dall’avventura — spagnolesca sì, ma facilmente estensibile all’Italia — di don Fernando della Cueva ne Le Coffre et le Revenant.

  Quanto al carattere e allo svolgimento delle avventure di Facino Cane, anche qui l’apporto delle fonti letterarie ci sembra abbastanza complesso. C’è, innanzitutto, l’influenza hoffmanniana sulla quale sono già state fatte da più di un critico interessanti e penetranti osservazioni e sulla quale non è quindi il caso di ritornare. C’è, poi, Casanova che — la coincidenza è stata già indicata, molti anni fa, da E. Maynial — può aver dato l’avvìo alla fantasia di Balzac soprattutto in quella parte dei Mémoires dedicata all’evasione dell’avventuriero veneziano dai Piombi. Non è da escludere infatti che, proprio da queste pagine dell’opera casanoviana (posseduta nella biblioteca di via Cassini fin dal febbraio 1830), Balzac abbia tratto qualche suggerimento per l’episodio della fuga di Facino Cane dalle prigioni di Venezia e, fors’anche, per l’episodio successivo che porta il principe di Varese a Parigi, in un ambiente di dissipazione mandane, nella intimità di cortigiane d’alto rango e, persino, nel circolo di favorite reali.

  Abbiamo già accennato, ricordando in una pagina precedente l’affinità fra il ritratto di Facino Cane e la maschera di Dante, al recupero da parte di Balzac di sue antiche espressioni narrative: veri e propri «motifs reparaissants». A questo proposito (anche se l’argomento esce dai confini dell’italianismo del racconto, assegnati alla presente ricerca) bisognerà ricordare che il narratore ha riutilizzato anche altre situazioni di suoi precedenti romanzi. Una eco della Comtesse à deux maris (primo titolo del Colonel Chabert) è riscontrabile, per esempio, nell’episodio in cui la sconosciuta «à laquelle Facino Cane comptait lier son sort», ricoperta d’oro da lui, lo abbandona e, «après l’avoir tenu dix ans à Bîcetre comme fou», lo fa rinchiudere nell’ospizio dei Quatre-Vingts. Ed ancor più insistenti sono i ritorni sul tema ossessivo dell’oro che eccita, tormenta, sconvolge tanta parte dell’umanità balzacchiana: ma essi sono talmente appariscenti che sembra inutile soffermarcisi ancora sopra.

  Più interessante e rilevare l’analogia della conclusione di Facino Cane con quella dell’Interdiction che precede di poche settimane il nostro racconto. Come un semplice «coryza» di Popinot impedisce a questi di iniziare l’indomani l’interrogatorio del marchese e, col ritardo di un giorno, permette agli intrighi di madame d’Espard la sostituzione del giudice, così il «catarrhe» di Facino Cane aggiorna indefinitivamente la riscoperta dell’oro custodito nel palazzo ducale di Venezia. Nuovo esempio di quelle piccole cause che determinano grandi effetti di cui Balzac si serve così frequentemente nel gioco delle sue invenzioni narrative. Solo nel 1836 il procedimento riappare ben tre volte, sin pure in un contesto diverso e con sfumature singolari: prima (come nell’Interdiction) in una prospettiva seria e drammatica; ora (come qui) in una atmosfera di enigmatica ironia; più tardi (come nella subitanea decisione matrimoniale della Vieille Fille) in una situazione fra il comico e l’amaramente grottesco.

 

* * *

  Non è nelle intenzioni di questa nota soffermarci sulle considerazioni inerenti al valore artistico di Facino Cane. Ma non ci sembra opportuno concludere le pagine presenti senza cercar di trarre dalle osservazioni sui temi italiani fin qui fatte qualche riflessione relativa alla unità narrativa e alla tensione poetica del racconto: unità e tensione che, a nostro parere, possono anche in un certo modo riconnettersi alla questione particolare affrontata nelle pagine precedenti.

  Come è noto, i giudizi estetici espressi da oltre mezzo secolo su Facino Cane sono ben lontani dal potersi definire concordi. Da un lato, ci sono stati critici che hanno voluto proclamare la nostra novella un vero e proprio capolavoro; che gli hanno attribuito una posizione centrale nella intera Comédie Humaine e che hanno, infine, ravvisato in essa profondità di concezione intellettuale e ricchezza di alta fantasia («Tout est mythe et figure dans Facino Cane» ha detto, riprendendo una espressione già adottata per la Peau de chagrin dallo stesso Balzac, un recente editore dell’opera [A. Lorant]). D’altro lato, vi sono stati critici che hanno parlato di questa novella come di un «honnête conte romantique pareil à ceux qu’écrivirent beaucoup d’écrivains de second ordre entre 1830 et 1840» [M. Bardèche].

  Fra valutazioni così divergenti, la nostra posizione vorrebbe essere più sfumata e riconoscere, nell’operetta balzacchiana, ora sicurezza e padronanza d’invenzione, ora superficialità e maldestrezze di composizione narrativa, insomma un gioco simultaneo di luci e di ombre tale da rendere dubbio sia un giudizio interamente positivo, sia una sentenza sbrigativamente negativa.

  Già, come bisogna ammettere subito, l’impianto della novella non è dei più solidi e l’unità narrativa delle più monolitiche. Il coesistere in Facino Cane di due componenti diverse (quella autobiografica ed ideologica della parte introduttiva; quella avventurosa, fantastica ed esotica della seconda parte) determina una frattura tematica che, a ben guardare, incide sull’unità architettonica dell’opera, anche se le proporzioni ridotte di questo racconto rendono meno stridente la presenza dello iato.

  Di queste due parti, non v’è dubbio che la prima — così da presso ispirata a sofferte reminiscenze giovanili, così vicina alle più radicate convinzioni della poetica balzacchiana e, per di più, calata in quell’ambiente parigino così consonante con le affinità spirituali del romanziere — è quella che rivela profondità di evocazione, intensità narrativa, essenzialità ed originalità di dettato: una tenuta artistica, insomma, di grande classe.

  La seconda parte è indubbiamente più superficiale, più convenzionale, più debole nel piglio unitario del suo svolgimento, priva di uno stabile equilibrio, contrassegnata come è da eccessi, da approssimazioni o, addirittura, da veri e propri luoghi comuni.

  A questo punto vien fatto di domandarsi se la minor riuscita della storia di Facino Cane, rispetto a quella del personaggio che dice je, non sia dovuta appunto alle considerazioni che abbiamo esposte nelle pagine precedenti sulla provenienza e sulla utilizzazione dei temi italiani.

  Costretto a documentarsi in questo campo su di una serie di ragguagli indiretti, impossibilitato a mediare le diverse, e talora opposte, informazioni ed a stringerle col sicuro cemento di una propria verifica personale, Balzac non è riuscito ad imprimere al racconto quella unità che solo la sua meravigliosa facoltà di osservazione diretta e la conseguente capacità di scelta avrebbero potuto imprimergli. In altre parole, la fusione non è riuscita perché non poteva — costitutivamente — riuscire. Il materiale si è amalgamato in maniera imperfetta; ed il nuovo metallo, nel mostrare qua e là l’affiorare delle scorie, la presenza di crepe, ha assunto quella superfice scabrosa e ha conservato quelle opacità che tolgono lucentezza all’insieme e ne attenuano gli sfavillanti riflessi.



  Raffaele de Cesare, Recensioni. Roland Chollet, “Balzac journaliste. Le tournant de 1830”, Paris, Klincksieck, 1983, «Aevum», Milano, Anno 58, n. 3, settembre-dicembre 1984, p. 615.


 

  Cécile Dauphin, La «vieille fille». Storia di uno stereotipo: la zitella. Traduzione di Elsa Sormani, «Memoria. Rivista di storia delle donne», Roma-Torino, Rosenberg & Sellier, numero 10, 1984, pp. 41-57.

 

  pp. 50-52. Già dal 1821 un romanzo di Sophie Panier si intitola La zitella: ma è con Balzac che, per la prima volta, essa assurge al rango di protagonista.

  Fino ad allora aveva occupato in letteratura ruoli secondari, mentre il discorso scientifico l’aveva relegata in appendice o in parentesi. In effetti La comédie humaine è infarcita di zitelle, qualche dozzina almeno sui circa cinquemila personaggi balzachiani che sono stati inventariati. In genere i loro ritratti sono contenuti in poche righe, una o due pagine al più; e per piccoli tocchi successivi viene innegabilmente a fissarsi lo stereotipo della zitella prigioniera del ruolo ben preciso che le viene richiesto dalla società borghese, di un comportamento fisico e morale predeterminato. Le persiane vengono aperte con «un gesto da pipistrello»; la intravvediamo; poi essa si ritira, come «una tartaruga che nasconde la testa dopo essersi affacciata dalla sua corazza». Pipistrello, tartaruga: ecco la zitella grottesca, ridicola, fissata in una caricatura impietosa (Balzac, 1840 [Pierrette]). Bisognerebbe ritagliare tutte queste descrizioni per analizzarne il vocabolario e tracciare il ritratto tipo: ma è lo stesso Balzac a darcene la chiave con la descrizione di Sophie Gamard nel Curé de Tours (1889 [sic]). In una specie di radioscopia magistrale egli rivela i presupposti che implicano la sua visione della zitella, e su tal soggetto dà una versione personale e geniale della concezione naturalista che prevaleva a quel tempo. Poiché la lotta per l’esistenza colpisce in modi diversi le varie specie, le zitelle incarnano le vittime necessarie alla «selezione naturale» [...].

  Tutti gli attributi del personaggio sono conseguenza diretta di questo rifiuto quasi naturale. La vittima interiorizza, rispecchia inconsciamente nel suo fisico questo duro biasimo sociale, poiché «la vita abituale crea l’anima, e l’anima crea la fisionomia». E, precisa Balzac, in questo contesto di «selezione naturale» il fatto che la vittima sia una donna è circostanza aggravante. Riecheggiando i discorsi sulla natura femminile, egli ritiene che «restando nubile, una creatura di sesso femminile altro non è che un nonsenso: egoista e fredda, suscita orrore». Nessuno le perdonerà «d’aver smentito la dedizione femminile, rifiutandosi alle passioni che rendono il suo sesso così commovente: rinunciare ai suoi dolori equivale ad abdicarne la poesia e non meritar più le dolci consolazioni alle quali una madre ha sempre l’incontestabile diritto ...».

  Il viso e il carattere dipendono da questa teoria. «Naturalmente (...) gli effetti della loro triste vita si riproducono nei loro lineamenti». La penna di Balzac fa il resto! Il ritratto di Sophie Gamard mira indubbiamente alla generalizzazione: essa è «la figura tipica del genere zitella». Se si prende nota di tutti i particolari del suo fisico, dell’abbigliamento e del comportamento, si può constatare come si ripetano all’infinito nell’opera di Balzac e, in seguito, in molti altri romanzieri. Si potrebbe fare un glossario degli attributi della zitella partendo da questo ritratto: labbra sottili, denti troppo lunghi, occhi grigi e spenti, vestito di merino (come la cugina Bette), gelosa, acida, melanconica, con qualche caratteristica virile in sovrappiù: peli sul mento, fronte ossuta. Altrove si troverà la peluria sul labbro.

  Anche il «luogo» è quello di una specie a parte: il salotto giallo, la stracceria assurda, i mobili consunti, «quella sorta di ciarpame di cui si circondano tutte le zitelle».

  La moltiplicazione di questi tocchi rapidi, a gran colpi di pennello più o meno calcati, contribuisce indubbiamente a fissare l’immagine. Al limite, questi ritratti si potrebbero spostare da un romanzo all’altro. Ma quando la zitella diventa l’eroina del romanzo, il modello s’innesta su un progetto più complesso, in cui si fondono diversi temi cari a Balzac. Così ne La vieille fille (1837) la rappresentazione del personaggio sfiora temi come l’illusione d’amore in una società ove prevalgono i rapporti di denaro e i pregiudizi di classe, le ipocrisie e le bassezze della borghesia trionfante, il tragico destino dell’innocenza in un mondo di sotterfugi. Presentata come vittima delle circostanze (deficit demografico degli uomini dopo la guerra, abbassamento dell’età matrimoniale per sfuggire al servizio militare, concorrenza con le vedove che si risposano), M.lle Cormon appartiene a buon diritto alla specie zitella: respinta, brutta, sterile. Tutto in lei «lascia intravvedere la zitella»: pulizia maniacale, giornata vuota, malesseri dovuti ai «movimenti del sangue in primavera», maternità frustrata, semplicioneria, gaffes, lapsus ... Benché abbia in mano carte sicure (patrimonio, doti di cuore, virtù nascoste e temperamento solido) la sua inattitudine ad amare, vale a dire il peccato della «divina ignoranza delle vergini», la condanna a morire nubile, anche oltre il matrimonio.

  Più che un semplice ritratto di zitella, che presenta nella sua franchezza e socievolezza aspetti nonostante tutto simpatici, questo romanzo esprime un tema caro a Balzac: mostrare come la società borghese ha pervertito l’amore che, solo, può restituire alla donna tutta la sua «femminilità».

  La vieille fille non è che la prima tavola di un dittico: Le Cabinet des antiques (1839), che è la seconda, esprime la stessa intenzione dell’autore. M.lle d’Esgrignon (forse per la sua origine aristocratica?) non è descritta come una tipica zitella. Al contrario, tutto il suo fisico (capelli biondi, eleganza di razza, forme squisite ...) le conferisce una dignità di portamento «che si attribuisce solo alle regine e alle dee». Le si attribuiscono anche generosità, clemenza, indulgenza. Balzac si spiega sulla lezione che vuol dare: «M.lle d’Esgrignon è una delle figure più istruttive di questa storia: essa vi insegnerà che, senza l’intelligenza, le virtù più pure possono diventare nocive». In altri termini, solo l’istinto materno dà intelligenza alle donne e guida il loro compito di educatrici. «Per quanto una nubile sia serena e previdente, le mancherà sempre il non so che della maternità (...). La maternità fittizia di una nubile comporta, d’altronde, un’adorazione troppo cieca perché ella possa rimproverare un bel ragazzo». Così la dedizione al nipote di M.lle d’Esgrignon, eroina del dovere familiare, fino al sacrificio di se stessa — «una santa», precisa Balzac — diventa nociva. M.lle d’Esgrignon appartiene a quella stirpe di donne, zie o cugine, che hanno sostituito o assistito le madri nell’educazione dei figli, ma la cui innegabile utilità sociale non riesce a superare la censura delle rappresentazioni.

  Andando sempre più in là nella descrizione dei costumi borghesi e del microcosmo familiare, Balzac attribuisce al personaggio della zitella una funzione determinante. È La cousine Bette (1847) a riunire tutti gli attributi. Accanto alle circostanze di selezione sociale, al fisico particolarmente caricaturale e al carattere pieno di eccentricità che arriva alla mostruosità psicologica, riappaiono i motivi ricorrenti dei ritratti tipo: vittima delle grandi mutazioni storiche, «immolata» dalla famiglia, Bette accumula tutti gli handicaps, mancanza di educazione, povertà e bruttezza. Il ritratto fisico connota l’aridità, la sterilità, la cattiveria e suscita dovizia di metafore, tutte nel registro dell’animalità (scimmia vestita da donna, vecchia capra stupida o affamata, leonessa, ragno, formica, occhi di tigre). «Magra, bruna, capelli di un nero grasso, sopracciglia spesse che si uniscono a ciuffo, braccia lunghe e forti, piedi grossolani, qualche verruca sul volto lungo e scimmiesco: ecco un conciso ritratto di questa vergine».

  Tuttavia quest’essere vuoto e inutile esercita una funzione fondamentale nel groviglio di vipere balzachiano: è la potenza occulta, il confessionale della famiglia, «l’angelo della famiglia» che intriga, regna, spinge il cinismo fino a godere per interposta persona. La zitella diventa un ingranaggio essenziale nella rappresentazione del vizio intrapresa da Balzac: è l’elemento distruttore per eccellenza. [...].

 

 

  Flaminia Escobar, La «casa del gatto» opera giovanile di Balzac, «L’Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, 20 maggio 1984, p. 3.

 

  Singolare destino quello di Honoré de Balzac. Considerato unanimemente uno dei massimi scrittori dell’Ottocento, non solo francese, è stato spesso incompreso, frainteso, dimenticato. I romanzi di cui si compone la Commedia Umana, vasto affresco dove convivono il «vero» e il «meraviglioso», ebbero fin dalla prima pubblicazione largo successo di pubblico; d’altra parte non c’è scrittore dopo Balzac che in qualche modo non si sia ispirato alla sua opera — si vedano i due esempi estremi e opposti di Zola e di Proust, ciascuno dei quali, al pari di Balzac, volle comporre un «ciclo», l’uno seguendo le vicende di una famiglia e annotandone realisticamente gli eventi, l’altro ricercando il filo sottorraneo (sic) del proprio io, in bilico tra memoria e sogno. Ciò nonostante la critica fu spesso ostile a Balzac. Il più grande critico dell'Ottocento, Sainte-Beuve, notò nella sua opera delle impurità e denunciò l’incapacità dell’autore a governare la propria creazione. Non è un caso, certo, che Balzac non riuscì mai a far parte di quel gruppo di eletti che fu, ed è, l’Académie Française.

  Nel nostro secolo, naturalmente, nessuno osa mettere in discussione la grandezza di Balzac, ma i fraintendimenti e le dimenticanze sono all’ordine del giorno. Ci riferiamo in particolare a quelle interpretazioni cattive (e settarie) che vedono in Balzac un riformatore della società, uno scrittore «rivoluzionario» o, all’opposto, un conservatore ottuso; e ci riferiamo altresì alle dimenticanze della nostra editoria che, tutta presa a sfornare romanzacci inutili, non è stata in grado di offrirci a tutt’oggi un’edizione critica e completa dell’opera di Balzac.

  Ma fortunatamente l’interesse per Balzac sembra ridestarsi. Lo scorso anno la casa editrice Garzanti, che già aveva nel catalogo dei «Grandi libri» otto titoli di Balzac, ha pubblicato tre piccoli capolavori quasi sconosciuti, Addio, Il figlio maledetto, El Verdugo. Recentemente la Guida editori, nella collana «Archivio del romanzo», ha pubblicato La casa del gatto che gioca (sic) e altri racconti. Mentre la Lucarini sta per pubblicare un romanzo del tutto sconosciuto ma importantissimo di Balzac, Louis Lambert. Un’attività intensa, che potrebbe preludere ad un ripensamento dell’opera di Balzac, troppo frettolosamente definita come realista.

  Limitiamoci, in questa sede, all’ultimo volume pubblicato. La casa del gatto che gioca. Questo romanzo breve, ma seducente, ha il compito di aprire la Commedia Umana, secondo l’ordine delle materie voluto dallo stesso Balzac. Fu composto nel 1829 (sic) ed appartiene dunque a quel gruppo di opere che la critica balzachiana definisce «giovanili». E’ tuttavia un’opera perfettamente compiuta nella struttura e nello stile, e anticipa temi e problemi che l’autore svilupperà nei romanzi più famosi. Protagonista della vicenda è Augustine, dolce e fragile fanciulla, figlia di un ricco mercante di stoffe, di nome Guillaume. La famiglia, che si compone anche di una madame Guillaume, «priva di fascino quanto di belle maniere», e di una Virginie, sorella maggiore di Augustine, vive in una vecchia casa, dove campeggia una grande insegna con un gatto che gioca alla palla. Un giovane pittore, Théodore de Sommervieux, dal brillante e focoso ingegno, ricco c nobile, ha visto casualmente Augustine e se ne innamorato. L’amore dei giovani vince le prevenzioni dei coniugi Guillaume e di tutto il loro ambiente verso un’unione così male assortita, lei piccolo-borghese figlia di un mercante, lui rampollo di una consolidala aristocrazia. I due si sposano, ma dopo i primi mesi di felicità, Augustine avverte le delusioni della vita coniugale. Inserita all’improvviso in un ambiente fastoso e mondano, raffinato e corrotto, essa vi si perde. Mentre Théodore riprende la sua vecchia vita e finisce per trascurare e per tradire la giovane moglie. Alla fine Augustine, provata dal dolore, cede alla malattia e muore.

  Qual è il senso del romanzo? Cosa ci vuol dire Balzac? Perché la dolce Augustine muore? Forse Augustine è vittima della sua stessa passione, cioè della capacità di amare. O forse Augustine è una vittima della propria educazione e delle differenze incolmabili che esistono nella società fra uomini appartenenti ad ambienti diversi. Così Augustine muore quando viene trasportata in un ambiente sociale troppo diverso dal suo, come «i fiori umidi e modesti che si schiudono nelle valli sono destinati a morire, se vengono trasportati troppo vicino al cielo, nelle regioni dove si formano le tempeste, dove il sole è più forte e più caldo».

 

 

  Francesco Fiorentino, Prefazione. La bottega e il castello, in Honoré de Balzac, La casa del gatto che gioca a palla e altri racconti ... cit., pp. 5-15.

 

... quel celebre fallimento Lecoq,

la battaglia di Marengo di papi Guillaume.

Balzac, La Maison du chat-qui-pelote.

 

  Prima ancora d’ogni considerazione estetica, basterebbe a stabilire la reputazione di questo racconto la semplice constatazione che ad esso è stato affidato il compito di aprire la Comédie Humaine. Fu pubblicato per la prima volta il 13 aprile del 1830, insieme ad altri cinque racconti, sotto il titolo di Scene della vita privata. Ma in quell’occasione nè inaugura la raccolta, nè possiede l’attuale titolo: si chiama, con un ossimoro di inconfondibile stile balzachiano, Gloire et Malheur. Bisogna attendere l’edizione Furne del 1842, la prima della Comédie Humaine, perché abbia finalmente l’attuale titolo e il primo posto tra le Scene della vita privata che a loro volta costituiscono i primi quattro volumi della gigantesca opera.

  Qualche osservazione a parte meritano le vicende dell’inizio del racconto. Nella biblioteca Spoelberch di Lovenjoul a Chantilly sono conservate, sul verso dei fogli da 3 a 8 del manoscritto, tre versioni precedenti quella definitiva di Gloire et Malheur. Cosa questa non proprio usuale per Balzac, il quale in seguito distruggerà gli abbozzi e le varianti degli inizi delle sue opere (in genere la scrittura di queste parti si presenta nei manoscritti più tardi abbastanza regolare e senza molte cancellature).

  Nella prima versione non compare la descrizione dell’edificio. Il racconto si apre con le argomentazioni del narratore il quale sostiene che il regime della Carta — erede di quello rivoluzionario — ha abolito quasi tutte le differenze apparenti tra le classi, sostituendo all’austera borghesia delle professioni una borghesia affarista e dilapidatrice. Solo dopo queste premesse storico-ideologiche viene introdotta la storia vera e propria, come un esempio dei pericoli delle contemporanee mésaillances. Nella seconda versione (e nella terza che ne costituisce solo una breve ripresa) compare invece la descrizione della bottega: come ekphrasis però, senza che cioè venga descritto il giovane pittore che la guarda. Il passaggio tra le due prime versioni segnala uno scatto capitale della forma narrativa balzachiana: una descrizione può prendere il posto di una argomentazione, essendo argomentazione e descrizione divenute equipollenti quanto a esplicitezza significativa. Mentre una descrizione avrà in più dalla sua la irresistibile forza della realtà — forza tanto maggiore quanto più gratuito ne sarà il dettaglio — come prova la minuzia della versione definitiva. E la sostituzione a favore della descrizione perpetrata nel 1829 verrà completata nel 1842, quando al titolo astratto e discorsivo di Gloire et Malheur si sostituirà quello concreto, constatativo e deittico di La Maison du chat-qui-pelote.

  Sul perché proprio questo racconto apra la Comédie è stata spesso avanzata una spiegazione affascinante che trova il movente nella storia privata della famiglia Balzac. La misera sorte della giovane sorella del romanziere, andata sposa allo scapestrato Montzaigle, nobile e (cattivo) scrittore, viene indicata come il modello latente del matrimonio sfortunato di Augustine. Come il personaggio, la borghese Laurence, trascurata dall’aristocratico marito, cerca inutilmente comprensione presso i parenti; sempre come lei, muore giovanissima, a ventitré anni nel 1825. Durante l’agonia della sorella, lo scrittore era stato assorbito dalla passione, a metà sensuale e metà snobistica, per la duchessa d’Abrantès. E molti caratteri della duchessa, una delle dominatrici della vita mondana al tempo della Restaurazione, sono stati ritrovati nel personaggio della duchessa di Carigliano. Proprio quest’ultima identificazione mostra, a mio avviso, quanto sia ambigua la posizione dell’autore rispetto ai protagonisti del suo racconto: diviso tra le ragioni di Augustine ingiustamente infelice, e le ragioni di chi l’ha resa tale; tra la fedeltà a valori borghesi familiari e la loro condanna in nome dei diritti assoluti dell’artista. Questa contraddizione affettiva dell’autore potrebbe infatti spiegare perché, da narratore, tratti la vicenda in maniera tale che non risulti nessun vero colpevole della tragica fine. Il difetto di colpevolezza nel racconto occulterebbe la verità della vicenda reale, evidentemente ancora indicibile per il giovane scrittore a quella data: la vera responsabile dello scacco di Laurence era stata la madre che, lungi dall’opporsi al suo matrimonio, l’aveva fomentato spinta da insaziabile snobismo.

  Una simile spiegazione della genesi del racconto ha una certa forza persuasiva, almeno per chi non crede che le fonti debbano per forza essere scritte. D’altro canto però, essa non rende conto della lettera del testo e tanto meno di tutti i molteplici sensi che vi coesistono e che non possono sicuramente riassumersi nel significato scabroso di un segreto di famiglia. Appare dunque del tutto condividibile la posizione di chi ha valutato i meriti e i limiti del racconto balzachiano secondo un criterio di aderenza di questo alla vicenda reale e privata da cui trae spunto.

  Per consenso generale della critica, se non del pubblico dei lettori presso cui non ha forse finora avuto la fama che merita, La Maison du chat-qui-pelote regge benissimo la responsabilità di aprire la Comédie Humaine. E non tanto perché ne rappresenti una sinossi attendibile dal punto di vista tematico (manca completamente, ad esempio, un tema essenziale della narrativa balzachiana, come quello dell’ambizione sociale maschile); e neppure perché possa, almeno in scala, rappresentare la complessità formale dei grandi romanzi più tardi (proprio in quanto a questa complessità non è aliena la loro dimensione). Esso in effetti mi sembra inscenare alcuni motivi dell’opera intera; che tuttavia sicuramente appartengono al numero di quelli che bene la contraddistinguono dal punto di vista letterario e ideologico. E proprio l’inizio ne offre naturalmente la più vistosa concentrazione.

  Nell’incipit, che pure ha una singolare cadenza da favola, la Maison du chat-qui-pelote viene situata nella Realtà, attraverso la precisazione delle sue coordinate geografiche urbane; e insieme viene valutata la sua importanza agli occhi degli storici che, grazie a reperti di tal fatto, ricostruiscono la vecchia Parigi. D’altra parte al momento in cui inizia il racconto, la bottega non esiste più: rievocandola, il romanziere stesso non fa quindi opera diversa da quella di uno storico. Siamo, fin qui, in piena poetica scottiana. Coerentemente nelle frasi immediatamente successive, per un attimo, la descrizione sembra assumere accenti sinistri: i muri appaiono incisi da geroglifici, emettono cioè segni dalla significazione smarrita. Ma il narratore subito suggerisce una interpretazione «realista» delle crepe della facciata — insufficienza statica dell’edificio — che fuga ogni ipotesi perturbante: il lettore sappia subito che La Casa del gatto che gioca non riserva segreti di tal genere. Vero castello di una dinastia borghese, per quanto vecchia e sgangherata sia la sua facciata, il trascorrere del tempo non l’ha resa una rovina, come rovine, spesso sinistre, erano invece le chiese e i castelli che avevano popolato la letteratura degli ultimi trent’anni. Il nuovo romanzo si mostra emancipato dagli scenari messi in voga dal romanzo nero e dal romanzo storico, quei castelli dove erano ambientate le truculente storie dello stesso Balzac al tempo in cui si firmava anagrammando il suo nome in Lord R’Hoone. Ma ancor più, questo inizio della Comédie Humaine costituisce una sorta di risposta di fatto al libro maestro della generazione precedente, al Génie du Christianisme, peraltro, più avanti nel racconto, ricordato con una certa ironia. Il vecchio edificio borghese funzionante si contrappone con pari dignità alle rovine illustri della civiltà aristrocratica (sic) sul piano stesso del loro prestigio: la durata.

  Uno dei moventi ideologici reazionari del Romanzo Storico viene così capovolto all’inizio dell’opera fondatrice del realismo moderno: viene legittimata la nuova classe dominante resuscitando la sua storia passata del tutto oscurata da quella fulgida delle famiglie aristocratiche. Se infatti il tempo come criterio di fondazione del potere sembrava risolutamente soppiantato dai recenti, precipitosi cambiamenti istituzionali, restava pur sempre criterio di distinzione principale anche nell’immaginario borghese: se non è più il fondamento di un protocollo statale, diviene almeno il fondamento di un altrettanto inesorabile protocollo snobistico. A differenza da quanto avviene nel romanzo storico però, il borghese del XVI secolo viene spostato nella Parigi dell’Impero: in una sorta di quasi attualità in cui la sua miracolosa presenza sfugge del tutto alla categoria del Tipico. Anzi, se da una parte rievocandone il passato legittima il presente della sua classe, dall’altra denunzia anche lo scollamento irreparabile tra l’austerità passata e la dissipazione presente: quello stesso abitualmente riscontrato nelle genealogie aristocratiche.

  La durata della Maison du chat-qui-pelote è però ben diversa da quella di una istituzione aristocratica. È costituita da un trascorso di giorni feriali. All’alba dell’ultimo di essi, il primo della storia raccontata, i rituali di apertura del negozio vengono scrutati da un giovane aristocratico, il cui abbigliamento è inconfondibilmente quello della festa. La contraddizione, elevata a simbolo, per cui l’alba può essere al tempo stesso il segno della fine della notte e dell’inizio del giorno non assume in questo caso nessuno dei significati morali e didattici che in genere l’accompagnano: sta piuttosto ad indicare come perfino le coincidenze spazio-temporali possano rivelarsi nulla più che un miraggio là dove si misurino incalcolabili distanze di classe.

  La durata borghese è costituita da nessi diversi da quelli genealogici. La ditta cambia di nome ad ogni generazione, trasmettendosi da maestro a primo apprendista, e non, come un feudo, di padre in figlio. E questo principio di trasmissione è inscritto sulla facciata stessa del negozio, vicino all’insegna, come su un blasone: Guillaume, successeur du sieur Chevrel. La smisurata autorità di Guillaume sui suoi apprendisti non è quella della paternità naturale, pure assomigliandovi: è dettata piuttosto da un principio gerarchico che trova la sua cauzione in un principio di funzionalità. Mentre nei rapporti di paternità naturale con la figlia è destinato al fallimento, Guillaume è ben altrimenti efficace in quest’altro ordine di relazioni, al punto da riuscire a formare un erede, Lebas, del tutto degno di lui. Questo tema della doppia paternità, naturale e morale, solo accennato qui, è di quelli che non lasceranno più il giovane scrittore trentenne. Nell’Universo della Comédie Humaine le due paternità si presenteranno spesso in contrapposizione senza che però mai giochi nessun pregiudizio a favore della purezza della stirpe: ai degni padri naturali e però inetti, Restaud e Goriot, si contrapporranno vittoriosamente l’usuraio asessuato Gobseck e il bandito omosessuale Vautrin.

  La durata borghese nel mezzo del luogo moderno delle metamorfosi deve essere tutelata. Separata dall’esterno a mezzo di spessi vetri verdi e di prosaiche tende a quadri bleu, di sbarre di ferro e di pesanti battenti, coloro che vi abitano «gettavano assai di rado uno sguardo oltre la cinta della proprietà paterna»: e di converso, il perpetuo movimento delle mode, dei costumi, delle reputazioni della vita cittadina si infrange contro le mura di questa “Piccola Tebaide di rue Saint Denis”. Le sue mura rappresentano il confine sicuro tra il dentro e il fuori, che si oppongono come Stati dalle leggi di pari autorità e alternative.

  L’inviolabilità del privato, che nella Casa del gatto che gioca ha una particolare funzione tutelare, è comunque il presupposto fondamentale di tutte le Scene della vita privata. Nella prefazione alla prima edizione della Raccolta, l’autore stesso si vantava di avere presentato «il quadro veritiero dei costumi che le famiglie oggi seppelliscono nell’ombra e che l’osservatore ha talvolta difficoltà a indovinare». E nell’Introduzione, scritta per mano di Félix Davin, agli Studi di costume nel XIX secolo (1835) ricorrono significativamente le parole penetrare, segreto, nascosto.

  Il privato occupa la vita dell’uomo ottocentesco in maniera incalcolabilmente maggiore di quanto prima fosse mai accaduto. I suoi valori sono là deposti nella indissolubile forma di ricchezze accumulate e di affetti esclusivi: la riuscita di un individuo consiste nel successo in quest’ambito. Ma il privato delle Scene non è quello del romanzo inglese di inizio secolo, di Miss Edgeworth, di Mistress Opie o di Jane Austin: un confortevole salotto di campagna dove genialmente si amministra l’arte squisita di combinare matrimoni, con la coscienza di essere al riparo dalla storia (che è sentita una questione di uomini, militari e politici). Il privato balzachiano non solo presuppone la storia (simile in ciò al privato dei personaggi di Stendhal), ma è la storia medesima, allo stesso titolo delle campagne d’Italia o del ritorno sul trono del Borbone. I personaggi vi si muovono come sotto la luce intensa della storia pubblica, animati dai medesimi moventi e assoggettati alle stesse leggi: una astuzia in salotto o in commercio, l’inventario d’una impresa, un buon affare matrimoniale e patrimoniale appartengono alla medesima specie del (sic) successi di Talleyrand e di Napoleone. E proprio da codesta sproporzionata assimilazione derivano sia l’iperbolicità dello stile balzachiano (uso dell’antonomasia e del superlativo relativo, abuso della locuzione «come tutti i ...»), sia l’eccesso di romanzesco dei personaggi della Comédie Humaine.

  A differenza da quella ufficiale, la storia privata, sia pure solo quella delle persone importanti, è difficilmente conoscibile: da quando in Francia la corte ha smesso di identificare e unificare i rappresentanti della classe dominante, ricchezza e potenza sono disseminate per la città dietro la facciata di botteghe e di palazzi anonimi. Il privato può divenire di pubblico dominio solo nel momento in cui incappa in un affare giudiziario o in una catastrofe finanziaria: e infatti nelle Scene solo i personaggi dell’avvocato Delville (sic) e dell’usuraio Gobseck detengono il ruolo di narratore. Altrimenti è compito del romanziere illustrarlo con l’acribia insieme dello storico e del paranoico: cioè di chi costruisce la realtà a partire da una esclusione.

  «La diversità di fortuna e di stato si eclissa e si confonde nel matrimonio, non contribuisce per nulla alla felicità; resta invece quella di carattere e di umore, ed è grazie ad essa che si è felici o infelici»: è quanto sostiene il generoso Milord Edouard, nella Nouvelle Héloïse (II, 2), a sostegno dell’esclusiva importanza nel matrimonio delle affinità spirituali. E tal fatta ideologia matrimoniale, in verità non senza contraddizioni nel romanzo rousseauiano, ispirerà occultamente tanta letteratura di mésalliances felici.

  Il tema, soprattutto nella variante ascendente femminile, è un acquisto tutto sommato recente nella storia del romanzo (nella narrativa barocca in genere ci si sposa tra pari); la letteratura inglese ne vanta la primogenitura con la tremenda Pamela di Richardson, e certamente la più vasta tipologia. Esso per lo più organizza una delle innumerevoli forme triangolari di relazione tra i personaggi di un romanzo: tra i due amanti si frappone un vertice divaricante rappresentato da un genitore (o comunque da un parente) che fa valere contro l’amore le ragioni sociali. In tal caso la simpatia del lettore sposa quasi automaticamente il partito dei giovani: come ben sanno gli abili costruttori di intrecci di romanzi rosa. E molto più raro che la differenza di classe tra gli innamorati si scontri con difficoltà diverse da quelle costituite dal pregiudizio. In uno dei racconti inseriti tra i resoconti delle Nuits de Paris, Les Gradations, Restif descrive una singolare mésalliance nella quale i problemi principali sono costituiti dalla diversità di educazione: il quindicenne Dorange si fa assumere sotto mentite spoglie di apprendista dai genitori della cinquenne Adélaide per poterle impartire una educazione adeguata e poi sposarla. Ma il fine di Restif non è quello di rappresentare le differenze sociali nel matrimonio (si pensi infatti all’inverosimile matrimonio nobile della Paysanne pervertie); bensì di dimostrare l’assunto che l’educazione delle donne dovrebbe essere a carico dei mariti e non dei genitori. Ben altrimenti crudele è il racconto di Balzac. Augustine muore infelice non perché contrastata dai suoi genitori e neppure da quelli nobili del suo innamorato: perché le differenze di educazione, dovute alla nascita, non si possono più recuperare. La differenza di classe diviene una malattia dell’amore.

  Che la lucidità del racconto balzachiano sia ispirata da un atteggiamento ideologicamente conservatore è evidente. Meno evidente è forse fino a che punto esso sia contraddittorio. Oggetto della condanna non è infatti la mésalliance in quanto turbamento dell’ordine sociale, ma solo in quanto portatore inevitabile di un disordine consumato già da tempo ormai nella cellula stessa della vita sociale, la famiglia. Si contrappongono nel testo due concezioni antagoniste della famiglia: da una parte quella coniugale per cui il matrimonio è un contratto tra due persone che coinvolge in quanto tale solo i contraenti; dall’altra quella patriarcale che considera invece la famiglia come entità naturale e rivendica l’autorità del pater familias sulla volontà dei giovani. Tale conflitto, che sul piano giuridico le leggi napoleoniche avevano contribuito a risolvere a favore della più moderna delle due concezioni, nelle Scene della vita privata appare ancora drammaticamente irrisolto. Se infatti, come abbiamo visto, non viene riconosciuto alcun primato alla paternità naturale, non per questo viene esaltata la libertà di scelta dei figli. Anzi, nella Casa del gatto che gioca (e ancor più in Vendetta) [sic] la figlia paga con la morte il fio della sua decisione autonoma e sbagliata; senza che però dal riconoscimento e dalla punizione dell’errore risulti accresciuto il prestigio dell’autorità paterna che si era opposta. Guillaume non è che la metonimia semovente della sua Bottega, e una volta sottratto alle sue attività è destinato a svuotarsi d’energia regredendo, lui il dominatore del fallimento Lecoq, a personaggio comico o patetico: comico nel dialogo molieresco con Lebas, quando, dopo molti fraintendimenti, si piega alla scelta amorosa del suo apprendista; patetico nella desolazione sfaccendata del ritiro borghese quando il dolore della figlia si trasforma inevitabilmente ai suoi occhi in una occasione di intrattenimento.

  Al confronto di una figura paterna fallimentare e però grande, il giovane marito di Augustine risulta un personaggio un po’ sbiadito (al pari, del resto, dei jeunes premiers di tutti gli altri racconti delle Scene). La sua bellezza e la sua nobiltà sono i caratteri salienti di uno stereotipo abusato di principe azzurro; il suo unico tratto originale è costituito dall’essere un pittore. Questa qualità giustifica i capricci del suo cuore che rappresentano il motore dell’intreccio; e soprattutto consente di introdurre all’interno della vicenda quel quadro che, avendo il medesimo titolo e soggetto del racconto, si presenta come una sorta di doppio del racconto stesso. Come è stato notato, la vicenda d’amore inizia dinanzi al ritratto di Virginia sullo sfondo della Maison du chat-qui-pelote (come inizia il racconto) e finisce con la sua distruzione. Evidentemente nel testo balzachiano non è possibile scorgere alcuna implicazione estetizzante che consenta di attribuire al quadro una funzione sostitutiva della realtà, come poi avverrà nel caso del più celebre ritratto della letteratura ottocentesca, quello di Dorian Gray. Il suo ruolo discende ancora dalla concezione romantica della intercambiabilità, nel bene e nel male, tra sensualità e pittura. La stessa intercambiabilità che per lo più nella sua variante negativa (ma nel presente testo positivamente) fonda — a partire dalla biografia del pittore ad opera di Quatremère de Quincy — il coevo mito di Raffaello e la Fornarina.

  Tra figure maschili a diverso titolo fallimentari, Augustine è la vera protagonista del racconto, come del resto si addiceva a un genere di narrativa destinata alle fanciulle. Eroina tragica al pari dei più famosi eroi balzachiani, paga per contraddizioni che la trascendono: come la commistione impossibile tra le classi, la crisi della famiglia, il conflitto tra l’artista e il borghese. E degli eroi balzachiani essa condivide anche la peculiare capacità di padroneggiare il proprio destino. La delicata Augustine, che impone al padre la propria volontà, che prova testardamente a riconquistare il marito e che alla fine compie una disperata incursione in casa della sua rivale, nasconde la stessa energia nel perseguire i propri fini e la stessa temerarietà di un ufficiale napoleonico. E noti a caso il primo titolo del racconto riecheggia di accenti militari, Gloria e disgrazia. La versione balzachiana del conflitto romantico tra individuo e realtà prevede inscindibili gloria e disgrazia; come se i molteplici destini privati altro non fossero che la ripetizione in scala ridotta di un unico grande destino, quello di Napoleone.

 

 

  Velia Iacovino, «Louis Lambert» interpretato alla luce del tempo trascorso dal 1832. Balzac: un realista o un visionario?, «Avanti!», Roma, Anno 88, n. 235, 5 ottobre 1984, p. 9; 1 ill.

 

  «La traduzione di un testo è sempre arbitraria, poiché le parole sono per loro natura indefinite, sfuggenti, ambigue». Così scrive Paolo Pinto nell’introduzione a Louis Lambert di Honoré de Balzac – un romanzo da lui curato e presentato in versione italiana per l’editore Lucarini – nella volontà di giustificare gli inevitabili «tradimenti» che in sé necessariamente comporta ogni operazione di «riscrittura» da una lingua a un’altra. E nella volontà di teorizzare, sulla scia di Borges, la «non-compiutezza» dell’opera letteraria, considerata un organismo che si accresce vivendo, al di là del suo autore, una sua vita specifica, in rapporto dialettico con la sua storia, la storia del mondo, la coscienza del lettore.

  Lo studioso ci propone, quindi, un Louis Lambert «contemporaneo», da interpretare alla (sic) specchio del tempo che è trascorso dal giorno in cui è stato scritto fino a noi, ma «difficile», complesso e incredibilmente moderno.

  Il testo si incentra, infatti, tutto sul tema della «follia», intesa non come manifestazione patologica, malattia mentale, ma come l’abisso profondo, la soglia dell’estasi, la prima tappa dell’itinerario etico e teoretico di una natura estremamente sensibile, portata ad affrontare l’esistenza all’insegna del rifiuto di qualsivoglia esperienza fenomenica.

  Balzac pubblicò questo suo romanzo nel 1823 (sic), in pieno clima romantico dunque, senza essere chiaramente consapevole delle tematiche suggestive, che era riuscito a porre, anticipatrici, come mette in risalto Paolo Pinto, dei cardini fondamentali del simbolismo, quali, in primo luogo, il senso di indefinitezza, di confusione tra il mondo fantastico e il mondo reale, tra i «dati dei diversi sensi» e il motivo della volgarità della vita quotidiana, che implica come possibile e unica alternativa la fuga dalla realtà. «Nel deserto sarei solo con me stesso – scrive il personaggio balzachiano in una lettera alla zio – solo, senza distrazioni; qui invece l’uomo è assillato da una folla di bisogni che lo rimpiccioliscono» (p.79). E Louis impazzisce significativamente alla vigilia del matrimonio, che diventa così metafora del compromesso con i sensi, dello scontro doloroso con la fallacia ridicola della realtà contingente.

  Amore, morte. I due poli di un equilibrio instabile che si rompe in un silenzio che è fragilità catatonica, malinconica cupa, spezzata di tanto in tanto da frasi folgoranti, apparentemente incomprensibili, da frammenti che, come dice Pauline, la donna che lo ama e lo assiste fino alla fine, «potranno intendere quelle persone, abbastanza rare, che si compiacciono di immergersi in questa sorta di voragini intellettuali» (p. 134).

  Louis Lambert è l’eroe romantico, il «genio», il titano, ma con delle connotazioni assolutamente particolari. Nella sua disperata tensione metafisica, viene ucciso dalla «più distruttiva» delle passioni umane: il pensiero, «il vero angelo sterminatore dell'umanità», come dice Balzac. Non è Jacopo Ortis, ma non è nemmeno il figlio del naturalismo. E’ il «poeta» di Baudelaire, simile all’albatros, «al principe dei nembi che pratica la tempesta e se la ride dell’arciere», ma al quale le ali di gigante impediscono di camminare sulla terra.

  Non la noia, l’ennui, è però l’approdo finale, ma la contemplazione dell’assoluto, dell’essere in sé, della luce che è oltre il «velo di maya» che a pochi è dato squarciare. Quella contemplazione che consiste «nel vedere le cose del mondo materiale, come quelle del mondo spirituale, nelle loro ramificazioni originali e consequenziali» (p.131). Un romanzo «fantastico» che ci restituisce un’immagine insolita e nuova del grande scrittore francese che rende inevitabile e attuale l’interrogativo che Paolo Pinto si pone: Balzac deve essere considerato un grande realista o un grande visionario?

  Del realismo, certo, gettò le fondamenta, inaugurando nuove forme e strutture del racconto, ma è pur vero che non si limitò mai a «fotografare» e a «documentare» la vita, cercando di assumere continuamente il «reale», trasformandolo, soggettivamente.

  Fu, insomma, più un visionario. Un «visionario», come dice Baudelaire, «colmo di passione». Un visionario che dotò «tutti i suoi personaggi dell’ardore vitale da cui egli stesso era animato» e le sue «finzioni dell’intensa colorazione dei sogni».

 

 

  Ludovico Incisa, Alberto Trivulzio, Processo a Cristina: il testimone Balzac, in Cristina Belgioioso. La principessa romantica, Milano, Rusconi editore, 1984 («Le vite»), pp. 208-213.

 

  I detrattori di Cristina sono delle mezze figure, dei parassiti dell’intelligenza e della letteratura. Nei giudizi dei più illustri personaggi dell’epoca Cristina grandeggia. È anche il caso di Balzac, che pur non è mai intenzionalmente indulgente nei suoi riguardi. Verso la principessa il romanziere della Commedia umana nutre uno strano atteggiamento di odio-amore e forse non ha torto la Brombert ad arruolarlo tra gli innamorati delusi di Cristina. Nelle lettere alla sua futura moglie, la contessa Hanska, Balzac cerca di sminuire Cristina persino esteticamente: «Avete sentito la gente parlare della Belgioioso e di Mignet; la principessa è una donna molto differente dalle altre donne, non molto attraente, ventinove anni, pallida, capelli neri, bianca come il gesso, magra e con tendenze di vampiressa». Balzac sottolinea la sua indifferenza al fascino della vampiressa: «Ha la buona sorte di non piacermi, sebbene sia intelligente, ma s’impegna troppo ad effetto». Con uno sbaglio cronologico, non si sa bene se volontario o meno, Balzac aggiunge di averla conosciuta cinque anni prima, cioè nel 1833, dal pittore Gérard, appena arrivata dalla Svizzera (in realtà Cristina era arrivata a Parigi nel 1831). Comunque, secondo Balzac, Cristina tiene un salotto «dove si fa dello spirito», lui ci è stato due volte il sabato, una volta per pranzare, ma questo «sarà tutto».

  Non era stato e non sarà tutto perché, lungi dal deprezzare la bellezza di Cristina, Balzac non aveva trovato di meglio nel descrivere alla sorella l’avvenenza della Hanska che definirla «un capolavoro di bellezza che posso soltanto paragonare alla principessa Bellejoyeuse». Un paragone certamente offensivo per Cristina perché Eveline Hanska era donna pletorica, oltre a tutto sfiancata da sette gravidanze; ma un paragone valido nelle intenzioni di Balzac, snob inguaribile che cercava le amanti nella aristocrazia internazionale e notoriamente con un gusto amoroso proclive alle tardone. L’impressione lasciata da Cristina su Balzac può essere rispecchiata dalla supposizione della Brombert che lo scrittore si sia ispirato a lei nel creare il personaggio di Fedora, «la donna senza cuore» della Pelle di zigrino. Fedora è straniera, d’aspetto più italiano che slavo, contessa, ricca, fredda, affascinante, ed è soprattutto una donna di moda nella società, è, «se vi piace, la società». L’attribuzione a Cristina del modello di Fedora suscita qualche dubbio (Balzac mantenne sempre stretto riserbo sulla sua ispiratrice limitandosi a registrare le autocandidature di varie signore: ben settantadue a poco più di un anno dall’uscita del romanzo), come lo suscita un secondo personaggio di Balzac, Modeste Mignon, che presenta qualche tratto di rassomiglianza fisica e psicologica con Cristina. Se Fedora ha le folte sopracciglia, il bianco candore, il sorriso da statua di marmo di Cristina, Modeste Mignon usufruisce di una dedica, apparentemente rivelatrice, «alla figlia di una nazione schiava, angelo nell’amore, demone nella fantasia, fanciulla nella fede, venerabile nell’esperienza, uomo nella mente, donna nel cuore, gigante nella speranza, madre nel dolore, e poeta nei vostri sogni». Leggendo questa dedica enfatica Sainte-Beuve non esita a identificare la Belgioioso nella destinataria e a deplorare che abbia autorizzato siffatte effusioni d’omaggio. Ma Modeste Mignon non ha di Cristina che l’ovale raffaellesco, l’anticonformismo, il gusto delle avventure eroiche. Balzac peraltro chiarirà ogni dubbio modificando la dedica: non più «ad una straniera», ma «ad una polacca», la Hanska naturalmente.

  Ma il personaggio balzachiano più somigliante a Cristina è Massimilla Doni, protagonista dell’omonimo romanzo, pubblicato nel 1837, dopo un viaggio in Italia in cui lo scrittore aveva utilizzato ampiamente le lettere d’introduzione della principessa. Anche Massimilla viene direttamente da una tela di Raffaello, si trascina il ricordo di un matrimonio breve e sfortunato con un marito debosciato, è duchessa e patriota ed è bella e maestosa, «di quella maestà che la tradizione mitologica attribuisce a Giunone, la sola dea a cui la mitologia non concede un amante». In effetti Massimilla si mantiene pura anche se per forza, dopo aver rinunciato ad un marito vizioso e pervertito ed essersi innamorata di un uomo che, abbagliato dalla sua bellezza fisica e morale, è affetto da «quella nobile malattia che colpisce soltanto i troppo giovani e i troppo vecchi», un elegante eufemismo che significa impotenza. In verità Balzac carica le tinte perché Emilio Belgioioso non era così depravato e Mignet così neutro (anche se Balzac riprende probabilmente qualche maligna congettura sulla sua non prorompente virilità).

  In Massimilla Doni, Balzac trasfigura Cristina esaltandone la meravigliosa bellezza. Ma quando egli afferma che Massimilla «prendeva piacere dal desiderio senza immaginare il suo culmine», è inevitabile ricordare che egli stesso aveva descritto Cristina come una meravigliosa convitata del festino dell’amore, aggiungendo però che si dileguava al momento di mettersi a tavola.

  Con un caratteristico doppio gioco Balzac sublimava Cristina nei suoi personaggi e la svalutava nella sua corrispondenza con la contessa polacca. Certamente egli ne riconosce la dignità regale anzi imperiale («essa è molto imperatrice»), ma attenua tale giudizio con cattiverie ed insinuazioni: Cristina non pensa al passato e non concede né permette qualsiasi diritto mentre dà o presta se stessa, è «una cortigiana» ma «orribilmente intellettualoide». Le allusioni ad una Cristina quasi brutta («eccessivamente magra», «un’arpia», «terribilmente brutta l’altra sera»), saccente («pensa di saper tutto e riceve uno sciame di critici che non scrivono più»), divoratrice di uomini e tutt’altro che casta contraddicono la frigidità di Cristina come personaggio, ma sono insistenti. Balzac scrive di Cristina alla Hanska che «ha preso Liszt dalla d’Agoult, Lord Normanby da sua moglie, Migret da Madame Aubernon e Musset da George Sand».

  Probabilmente è più vera la finta Cristina dei romanzi che la Cristina reale delle lettere. Del resto, nonostante l’ostilità che ostenta contro Cristina nel dialogo epistolare con la Hanska, Balzac continua a frequentare la casa di Cristina e a chiederle favori La principessa a sua volta tratterà con condiscendenza questo snob impenitente che riuscirà a diventare l’amico di un paio di duchesse francesi (la de Castries e l’Abrantès) nonché di una contessa anglo-italiana (Sara Guidoboni Visconti) e a sposare in extremis una contessa polacca. Cristina leggerà con ammirazione i libri di questo genio piccolo, grasso, baffuto, dall’aria sudaticcia. Lo tratterà con affettuosa familiarità fino al punto di concludere un suo biglietto: «Fate il bravo ragazzo e non mi respingete», e da tenergli sempre aperta la porta di casa. Con gli amici comuni Balzac ostenterà affetto e devozione. Durante il soggiorno di Cristina in Italia, Liszt, a descrivere la nostalgia per Cristina di Heine che è un suo ammiratore incondizionato, colloca a poca distanza Balzac: «Le stesse domande, lo stesso rimpianto, solo appena più temperato». Ed è proprio lo stesso Balzac che condanna Cristina come «non più degna di rispetto» per la sua «aperta» relazione con il musicista ungherese.

  Fra l’altro la principessa farà da tramite fra Balzac e il direttore del quotidiano fourierista «La Démocratie pacifique» per concretare una collaborazione dello scrittore, benché notoriamente di destra, monarchico e clericale, alla parte letteraria inviando un racconto dalle dimensioni di mezzo volume. Il progetto non andrà in porto perché l’autore della Commedia umana fa questione di soldi e Considérant si riserva di controllare la conformità del testo alla linea ideologica del suo giornale.

  Balzac, se non riconobbe mai in Cristina l’originale dei suoi personaggi, non esitò tuttavia a ravvisare nella principessa il modello della protagonista della Certosa di Parma, ossia di Gina Pietranera, la Sanseverina, la bella zia di Fabrizio del Dongo.

  In un saggio pubblicato nel settembre 1840 Balzac comincia ad esaltare la Sanseverina che è, secondo lui, un mucchio di cose: Diana con la voluttà di Venere, con la soavità delle vergini di Raffaello, con la passione italiana; ma non basta: anche Madame de Montespan, la grande amante di Luigi XIV, Caterina de’ Medici, regina di Francia, Caterina II, la zarina di Russia. Quindi Balzac si dichiara certo che Beyle-Stendhal si sia ispirato a qualche donna in vista nel dipingere la Sanseverina. Ma dove sta l’originale? «A Milano, a Roma, a Napoli, a Firenze? Non lo so. Benché io sia intimamente persuaso che esistono delle donne come la Sanseverina, ma in piccolo numero, e che le conosco; credo altresì che l’autore ha forse ingrandito il modello e l’ha completamente idealizzato». Ma nonostante queste alterazioni, «nonostante questo lavoro che allontana ogni rassomiglianza», «si può trovare nella principessa Belgioioso qualche tratto della Sanseverina? Non è milanese? Non ha subito la buona e la cattiva sorte? Non è fine e piena di spirito?».

  Stendhal, allora console di Francia a Civitavecchia, risponderà un mese dopo smentendo la supposizione di Balzac ed affermando di non aver mai visto la signora Belgioioso (ciò non significa che non ne abbia mai sentito parlare). Ma questo non toglie validità all’intenzione ammirativa dello scrittore verso la principessa.

  Tre anni dopo Balzac presterà la Certosa alla principessa, il che dimostra la continuità dei loro rapporti. Cristina non rileva alcuna rassomiglianza con se stessa e con altre, confessa di avere letto l’opera con piacere e aggiunge un giudizio molto acuto anche se pessimista su italiane e italiani nel contestare l’esattezza di certi ritratti: «Non vi sono italiane così attive come la duchessa, né italiani così immobili come il conte. Il movimento e il riposo si succedono da noi a intervalli più brevi. Ci si stanca dell’uno, ci si annoia dell’altro, non si persiste in nulla». Nel 1846 Balzac confermerà la sua devozione per la principessa dedicandole Gaudissart II, una puntata della Commedia umana. Cristina a sua volta disegnerà con maestria un bel ritratto di Balzac e ricorderà le settantacinque ricette da lui suggerite per distarsi di una moglie.

  In fondo non si può escludere che lo scrittore sia stato innamorato della bella italiana Certamente, a differenza di Musset, Balzac, definito dal danese Andersen «una palla con le spalle quadrate», non scoprì mai il gioco, consapevole delle sue scarse attrattive fisiche. Egli era pessimista sulle donne, pronte secondo lui «a vedere in un uomo di talento solo i suoi difetti e in uno sciocco soltanto le sue qualità». Comunque con Balzac siamo già in un’altra sfera: non solo non può essere ascritto alla lista dei detrattori di Cristina, ma la sua deposizione più valida, quella letteraria, l’assolve e l’esalta.

 

 

  Anne-Marie Jaton, Entre le réalisme et la voyance: Lavater et la littérature française. Tesi di laurea, Pisa, Università degli studi, Facoltà di Lettere e filosofia, Istituto di Lingua e letteratura francese, 1984.

 

 

  Maria Giulia Longhi, Cenni di biografia, in L’educazione esemplare. Zulma Carraud un’amica di Balzac scrive per l’infanzia, Fasano, Schena editore, 1984 («Biblioteca della ricerca. Cultura straniera», 5), pp. 17-29.


  Sono ricostruiti i rapporti tra Balzac e Zulma Carraud alla luce delle lettere che formano la loro Correspondance.

 

 

  Peter Lubbok, Balzac, Dickens, Stevenson: variazioni di metodo, in Il mestiere della narrativa. Traduzione di Enrico Chierici, Firenze, Sansoni editore, 1984 («Nuovi saggi»), pp. 145-155.

 

  Dal momento che il romanziere si comporta sempre così, e lo fa anche abbastanza volentieri, può sembrare che non sia neccessario (sic) insistere sul problema. Non abbiamo visto molto spesso un romanziere spingere la sua autonegazione al di là di limiti ragionevoli, rifiutare, senza una buona ragione, il procedimento semplice in favore di quello difficile. Ma per essere sicuri di rompere una solida regola nel punto giusto, e non prima — per avvantaggiarsi della negligenza quando il rigore non ricompensa più, e solo allora — è altrettanto utile usare entrambi i procedimenti, dal facile al difficile e viceversa. La più grande difficoltà nella narrativa è la regola drammatica assoluta, non mitigata; raggiuntala dall’altra parte, dopo aver iniziato dalla sintesi pittorica e proceduto da essa al dramma, ci troviamo di fronte agli stessi stadi all’inverso. È giunta l’ora, penso, di apprezzare di più le libertà che Balzac si prese nei confronti delle risorse del romanziere. Il suo è un caso che dovrebbe essere preso in considerazione in modo indiretto. Se, all’inizio del processo critico, ci si immerge direttamente nell’opera di Balzac, è difficile trovare la giusta via attraverso l’abbondanza di qualità e difetti presenti nei suoi libri; e ce n’è tanta, e tutta così consistente e vistosa. A prima vista sembra che le sue qualità e i suoi difetti siano in egual modo grandi e evidenti. La divorante passione per la vita, il grottesco romance, la verità e la falsità, tutto ciò copre l’intero spazio della Commedia, e nessuno potrebbe sbagliare nel riconoscere la piena forza di ogni qualità e di ogni difetto. Balzac è tremendo, il suo gusto abominevole — che altro c’è da dire di lui? Tutto ciò è stato detto così spesso, in vari modi, che non c’è alcun bisogno di dirlo di nuovo per la millesima volta.

  Mi pare che Balzac presenti proprio questo aspetto allorché un critico cerca di fronteggiarlo immediatamente; la sua ovvietà sembra nasconda qualche cosa d’altro. Ma se uno passa oltre, seguendo la pista dell’arte del romanziere in qualche altra direzione, e quindi ritorna a lui con conclusioni certe e definite, il suo aspetto è assolutamente straordinario. I suoi difetti sono forse ovvi come prima, riguardo a ciò non c’è niente di nuovo da scoprire. La sua grandezza, ad ogni modo, acquista un aspetto diverso; non è più la superficie piana e aperta di prima. Ha profondità e recessi che non erano finora apparsi, che allettano la critica, che promettono numerose illustrazioni delle idee che nel frattempo sono state accumulate. Uno dopo l’altro, i più rari, oscuri effetti della narrativa vengono, in Balzac, tutti ritrovati dietro la facciata appariscente. Illustra ogni cosa, e l’unica difficoltà è sapere da dove cominciare.

  Per esempio l’effetto del quadro generalizzato, che sorregge il gioco dell’azione, è uno di quelli che Balzac preferisce in modo particolare. Lo usa costantemente, lo adegua ai suoi propositi con grande maestria. Diventa più di un supporto, diventa una specie di forza propulsiva applicata inizialmente all’azione. Il suo valore è visto al meglio in libri come Il curato del villaggio, Papà Goriot, La ricerca dell’Assoluto, Eugénie Grandet — in quest’ultima forse più di tutti. In verità, ogni volta che il soggetto richiede di essere inquadrato con sicurezza nell’ambiente circostante, ogni volta che lo sfondo è una condizione principale per la storia, Balzac non ha alcuna fretta di fare precipitare l’azione; può sempre aspettare, mentre si prende comodamente il tempo di cui ha bisogno per ammassare la forza che ora deve guidare il dramma nella sua strada. Nessuno come Balzac, in molti libri, nel complesso in quelli migliori, mette una simile attenzione nella disposizione della scena; chiaramente considera questi quadri preparatori importanti quasi quanto gli avvenimenti che devono racchiudere.

  E così, in Papà Goriot, tutta la straordinaria vita della Maison Vanquer (sic) è deliberatamente accumulata fino al punto necessario, quando viene lasciata libera, per condurre in avanti la storia con grande slancio. Quando la storia stessa si estende, la Maison Vanquer è un’impressione interamente creata, preparata fino all’ultimo particolare per il dramma che deve sopraggiungere. Ogni cosa che può accadere avrà l’intero beneficio della sua disposizione, senza fare niente di più; tutta la fetida realtà della casa e dei suoi inquilini è immediatamente messa nell’azione. Quando il racconto di Goriot diventa significativo è già di più del racconto di un certo vecchio e delle sue sventure. Goriot, immediatamente, è uno dei pensionati di Maman Vanquer, e il solo fatto è sufficiente, per ora, per differenziarlo, per farlo risaltare tra gli altri vecchi miserabili. Qualsiasi cosa faccia si porta con sé l’esperienza giornaliera della casa sporca, dei pranzi rumorosi, della maleodorante compagnia, con in testa Maman Vanquer, dura, irosa, e seccante — la signora Todgers l’avrebbe conosciuta con simpatia, si sarebbero capite bene tra di loro. Nello struggimento che Goriot prova verso le figlie sono stati concentrati i suoni, le vedute e gli odori della orribile casa: approfondiscono e rafforzano in lungo e in largo la sua povera storia. La cura con cui Balzac crea la scena è, per questo, veramente appropriata; non è semplicemente un modo di preparare il palcoscenico per il dramma, è una riserva di carattere e energia per quando il dramma deve cominciare.

  Anche i suoi quadri delle città di campagna, Saumur, Limoges, Angoulême, hanno lo stesso tipo di parte da giocare nelle Scènes de la vie de province. Quando Balzac prende in mano la descrizio[ne] di una città, di una casa, di un’officina si può sempre sospettare, all’inizio, che si abbandoni interamente a questo semplice, disinteressato desiderio per i fatti. Ci sono momenti in cui sembra che la sua inesauribile conoscenza dei fatti lo stia portando dove vuole, fino all’unico proposito conscio di mettere sul foglio tutto ciò che conosce. È posseduto dalla brama della descrizione fine a se stessa, un desiderio insaziabile di mettere ogni dettaglio al suo posto, fosse necessario o no. Così sembra, e così è, senza dubbio, in qualche caso; non c’è niente di più stancante in Balzac che il suo godimento, il suo grande piacere, la sua gioia, quando, all’apparenza, è riuscito a dimenticare completamente di essere un romanziere. Naturalmente prova un giusto orgoglio per Grandet, per Goriot o per Lucien; ma si potrebbe pensare che il suo cuore non sale mai così in alto come quando vede la possibilità di intavolare un discorso sulla moneta, o sul commercio, o sull’arte italiana. E tuttavia il risultato è sempre lo stesso; quando ha finito la lunga ricerca negli ambienti delle persone che devono essere evocate, ha creato una scena in cui l’azione si muoverà rapidamente come vuole, senza perdere niente dell’enfasi che le spetta. Ha illustrato in breve il modo in cui un’impressione pittorica, portata al giusto culmine, renderà più veloce il lavoro del dramma — diventerà un agente effettivo nel libro, invece di rimanere la mera decorativa introduzione che sembra essere.

  Per questo succede che Balzac era capace di infilare in un libro di piccole dimensioni — non ne scrisse mai uno lungo — un simile effetto di folle e avvenimenti, soprattutto un simile effetto del tempo. Nessuno sa condensare, come ha fatto Balzac con successo, una esperienza così grande in due o trecento pagine. Non penso che questo sia dovuto, anche in minima parte, al laborioso intreccio che riconduce i suoi libri in un singolo schema; piuttosto crederei che, in generale, un libro di Balzac soffra, più di quanto guadagni, dal periodico ritorno dei vecchi nomi già usati da qualche altra parte. È un trucco divertente, ma qual è esattamente il suo oggetto? Non parlo del «seguito» normale, dove le fortune di qualcuno sono seguite a un altro stadio, e dove la seconda parte è semplicemente la continuazione in linea diretta della prima. Ma cosa dire della famosa idea di fare sovrapporre e incrociare un libro con l’altro e agganciarsi col resto, attraverso l’espediente di fare sì che l’eroe di una storia appaia più o meno oscuramente in una dozzina di altre? La teoria, suppongo, è che i personaggi sullo sfondo e agli angoli dell’azione, se sono Rastignac, Camusot e Nucingen, trattengono la vita che hanno preso altrove, e quindi accrescono la vita della storia in cui riappaiono. Noi, per il momento, siamo occupati con qualcun altro, e scopriamo tra le sue conoscenze un numero di persone che già conosciamo; questo fatto, è sottinteso, aggiungerà peso e autorità alla storia dell’uomo in primo piano — che, molto probabilmente, è egli stesso un uomo che abbiamo già incontrato casualmente in un altro libro. Dovrebbe rendere, deve rendere, la sua situazione particolarmente reale e intellegibile, dal momento che lo troviamo circondato da amici che ci sono famigliari; e questa è la ragione artistica della sorprendente ingenuità con cui Balzac li tiene tutti in gioco.

  La sua ingenuità, penso, sembra meno artistica e più meccanica di quanto non lo sembrasse un tempo. Dimentico quanto pochi sono gli errori e le contraddizioni di cui Balzac, nel mescolare e rimescolare i personaggi, si è dimostrato colpevole; ma quando la sua accuratezza è stata provata rimane ancora il problema del rapporto con l’arte. Quando prendo in considerazione se la densità della vita in così tante delle sue opere brevi deve realmente qualcosa alla continua migrazione di uomini e donne da un libro all’altro, tratto la questione solo da un singolo punto di vista. Supponiamo che per il momento Balzac stia evocando la figura e le fortune di Lucien de Rubempré, e che una donna che appare incidentalmente nella storia risulti essere la ben nota Delphine, figlia di Goriot. Noi, per caso, conosciamo molto del passato di Delphine; ma in questo momento, nella storia di Lucien, il suo passato è completamente irrilevante. Appartiene a un’altra avventura, in cui aveva un peso notevole, un’avventura che si è svolta prima che si fosse mai sentito parlare di Lucien. Per quel che riguarda la sua storia, e la realtà di cui essa può essere fornita, ciò dipende solo dalla nostra conoscenza del suo mondo, della sua esperienza; e se i vecchi affari di Delphine non sono più parte di essa, la nostra precedente conoscenza di lei non può esserci di alcun aiuto con Lucien. Ciò, piuttosto, indebolisce la forza dell’effetto; pone una relazione che non ha niente a che vedere con lui, una relazione fra Delphine e il lettore, che non ha fatto altro che ostacolare la nostra visione del mondo come lo vede Lucien. Dai personaggi nei livelli più remoti dell’azione (è la posizione di Delphine in questa storia) non ci si attende niente di più del loro contributo al fine dell’azione principale. Questo è tutto ciò che può venire usato nel libro; qualsiasi cosa in più che essi possono apportare sarà inutile, non contribuirà a niente, e può perfino diventare di peso. Gli innumerevoli personaggi della Commedia, che trasportano la lunga serie di vecchi rimandi da un libro all’altro, possono, nel complesso, dare alla Commedia l’aspetto unitario che Balzac desiderava; questo è un altro punto. Ma in ogni singola storia, queste persone nel momento in cui le incontriamo incidentalmente, devono, per il presente, disfarsi della loro vita irrilevante; se non riescono a farlo, disturbano l’unità della storia e ne confondono la verità.

  Il potere incontrastato di Balzac di collocare una figura nel suo ambiente non può essere quindi spiegato con la capacità di ricomporre insieme in una grande trama i pezzi separati; il disegno della Commedia umana, così largamente artificiale, calato sopra a forza, mentre il suo scopo si allargava, non produce, nei suoi libri più belli, alcun miglioramento. La pienezza d’esperienza che vi è resa è esattamente la stessa — è più espressiva, se vogliamo — quando sono presi fuori dal loro contesto; tutto deve essere attribuito alla loro arte. Ritorno, quindi, al modo in cui Balzac ha maneggiato la sua vasta riserva di fatti, quando li ha esposti per raccontare una storia, e li ha fatti contare nell’azione che ha portato in primo piano. Raramente, penso, li considera come materiale da camuffare, da rendere implicito nel dramma stesso. È abbastanza soddisfatto di offrire la sua impressione del panorama generale della storia, una esposizione senza fretta che ci porta finalmente al punto dell’azione. Allora l’azione si mette in moto con una riserva di energia che in vari modi le è di aiuto. La più importante di queste, a mio avviso, verrà trattata nel prossimo capitolo; ma nel frattempo posso sceglierne un’altra, una che si trova spesso nell’opera di Balzac e di cui aveva molto spesso bisogno. Non erano le sue migliori opere che lo richiedevano; ma l’effetto che intendo sottolineare è interessante in se stesso e, dove appare, richiama l’interesse di un critico. Mostra come un romanziere, nel tentativo generale di sollevare la forza del suo quadro con mezzi drammatici, qualche volta ribalterà deliberatamente, il processo per evitare che la forza del dramma degeneri in violenza. Se la narrativa tende sempre all’apparenza della verità, ci sono volte in cui, per essa, il metodo drammatico è troppo, indaga e rivela troppo. Lascia che la storia vada da sé, ma forse la storia può in seguito dire troppe cose per essere ragionevolmente credibile. Deve essere trattenuta, qualificata, smorzata, perché possa produrre il suo migliore effetto. In breve, dove l’azione ha buone probabilità di sembrare violenta, sovraccarica, romantica, deve essere mitigata, deve essere resa meno rischiosa e più reale, ricorrendo all’arte del pittore.

  Balzac, non si può negare, ha avuto frequenti occasioni per cercare attorno a sé qualsiasi mezzo possibile per giustificare e così dare senso a una storia incredibile. La sua passione per la verità era spesso in conflitto con il desiderio per le cose fantastiche, e il modo in cui queste due cose vengono mescolate è, oserei dire, il principale interesse di alcuni dei suoi libri. Vediamolo, per esempio, in Splendore e miseria (sic) delle cortigiane, mentre con una mano cerca di scrivere un romanzo della vita parigina, con l’altra vuole creare un romance di mistero, e, in più, cerca di fare piena giustizia a entrambe. Trompe-la-Mort, il Napoleone del crimine, e Ester, la cortigiana ispirata, rappresentano il romance, e Balzac si appresta a inserire lo stravagante racconto in una trattazione di vita reale. Se può incastrare fermamente il racconto in uno sfondo di verità, la sua falsità può essere mascherata, e l’intero libro può persino passare come una scena della commedia umana; può essere accettato come una parte di realtà, allo stesso livello, diciamo, di Eugénie Grandet e Les Parentes Pauvres. Questo è evidentemente il suo scopo, e se solo il romance fosse un po’ meno vistoso, o la sua verità non così vera, non avrebbe nessuna difficoltà a raggiungerlo; l’azione verrebbe mitigata e tenuta al suo posto dalla messa in scena pittorica. Il guaio è che l’idea che Balzac ha di un crimine ben fatto è tanto tumultuosa quanto la sua presa sui fatti è sobria, cosicché una tensione insostenibile viene proiettata sul metodo che cerca di conciliare le due tendenze. Facendo ciò che farà, il romance rimane palesemente falso nel contrasto con la realtà; c’è una separazione netta fra i meravigliosi quadri della città nelle Illusioni perdute e il dramma teatrale del vecchio condannato che esse introducono. Tuttavia il suo metodo era giusto, sebbene fosse scorretto da parte di Balzac farsi prendere completamente da tali espedienti quando, nel complesso, avrebbe potuto rifiutare la falsità. Nell’opera di un altro uomo, dove non c’è mai questa netta distinzione tra il vero e il falso, dove entrambi sono sommersi in qualcosa di diverso da tutti e due — nell’opera di Dickens — il metodo cui mi riferisco è seguito con molto più successo; c là, in ognuno degli ultimi libri di Dickens, troviamo l’esempio più chiaro. [...].

 

  “Eugénie Grandet”: il senso del tempo; “La ricerca dell’assoluto”: “climax” e economia narrativa, Ibid. pp. 157-167.

 

  Il metodo che Balzac usa per trovare e per esprimere il tono e la sensazione tipica della vita, della vita dietro la storia, è sempre interessante. Sembra che lo cerchi particolarmente, non nella natura degli uomini e delle donne, le cui azioni costituiscono la storia, almeno non è da lì che inizia, ma nelle loro strade, nelle loro case e nelle loro camere. Non può pensare ai suoi personaggi senza le case in cui abitano; per Balzac immaginare un essere umano è immaginare una provincia, una città, un angolo della città, un edificio alla svolta di una strada, certe camere ammobiliate, e finalmente l’uomo o la donna che ci vive. Non può accontentarsi del fatto che il tenore dell’esistenza di questa creatura è afferrato interamente anche senza una conoscenza minuziosa delle cose e degli oggetti che lo circondano. La sua convinzione su questo punto è così forte da dare uno speciale sapore alle molte pagine in cui descrive il modo con cui ci si avvicina alla porta d’ingresso, come l’ingresso conduce alle scale, come sono disposte le sedie nel salotto nella casa che deve essere la scena del dramma. Queste descrizioni sono chiare e sistematiche; vengono offerte come un preliminare essenziale della storia, una faccenda di cui bisogna ovviamente trattare una volta per tutte, prima che la storia possa procedere. Ed egli comunica la sua certezza al lettore, impone la sua fede nel bisogno di precisione e concretezza; Balzac è così sicuro che ogni dettaglio deve essere conosciuto, perfino le suppellettili sulle mensole e i piattini e i recipienti sulla credenza, che il lettore non può nemmeno cominciare a mettere ciò in discussione. Ogni cosa viene fatta apparire tanto importante quanto sembra all’autore.

  Il suo metodo è ben visibile in Eugénie Grandet. La descrizione della grande casa dell’avaro a Saumur, vecchia c vuota, è semplice e stringata come un inventario; non viene fatto nessun tentativo per fare balenare l’impressione del luogo con indicazioni e informazioni. Balzac avanza e lo attraversa con caparbia metodicità, finché l’informazione che ci è necessaria è completa, e lì la abbandona. Sembra che in un metodo simile non ci sia alcuna finezza; ci si potrebbe aspettare che un uso dei fatti più leggero e più cauto, con più suggerimenti e meno affermazioni, facesse un effetto più profondo. E in verità il metodo sicuro di Balzac non è uno di quelli che darebbe un buon risultato in molte mani; produrrebbe invece il tipo di descrizione su cui l’occhio scorre senza focalizzare niente, l’introduzione coscienziosa che non ci dice niente. Ma Balzac fa in modo che essa ci dica tutto; e la semplice spiegazione è che egli, più di chiunque altro, conosce tutto. Il luogo esiste realmente nel suo pensiero; per lui non si tratta della semplice sensazione di un posto, con angoli nebulosi e recessi incerti, che viene definito quando li tocca e li sonda con le sue frasi. Uno scrittore diverso, un impressionista, che è consapevole dell’effetto di una scena piuttosto che della scena stessa, segue inevitabilmente un’altra strada; se cercasse di seguire il metodo di Balzac dovrebbe trovare la strada a tentativi, aggiungendo un fatto all’altro, e la descrizione consisterebbe in quella meccanica somma di dettagli che non crea nessuna immagine. Balzac è così completamente posseduto dalla sua immagine che può riprodurla centimetro per centimetro, fatto per fatto, senza perderne l’effetto complessivo; può cominciare da un lato della scena, da una strada di vecchie case, dal giardino di ingresso di una vecchia casa, e lasciare dietro di sé un’impressione perfettamente ferma e eloquente. Quando la descrizione è finita e l’ultimo dettaglio è a posto, la casa dei Grandet è sicuramente costruita per poter recepire le esigenze della storia, e possiede tutto il senso che Balzac esigeva da essa.

  Sul momento sembra che esiga molto. Ho detto che il suo dramma ha sempre il beneficio di una riserva di forza, accumulata per esso in anticipo nel quadro generale; e sebbene in questo quadro siano incluse le fortune e i caratteri dei personaggi, dei Grandet e dei loro vicini, una larga parte di essa è la scena materiale, i muri che devono assistere all’avvenimento che sta per accadere. La figura di Grandet, il vecchio avaro, è in realtà richiamata e descritta abbondantemente, in tutte le condizioni del suo passato; ma anche la casa, dentro e fuori, è costretta a collaborare, viene completamente usata nella storia. E una presenza e un’influenza che conta per tutto il tempo — e conta particolarmente in un aspetto che è essenziale all’effetto del libro, un aspetto che, quando c’è, a mala pena potremmo procurarci in un altro modo. Di questo parlerò fra un momento; ma si deve notare subito come la Maison Grandet, analogamente alla Maison Vanquer (sic), aiuti il libro allo scopo. Essa incarna tutto il passato del vecchio proprietario, e quando inizia la storia, lo incatena visibilmente all’azione. Il riassunto elaborato della vita precedente di Grandet, il resoconto scrupoloso ed esatto della costruzione della sua prosperità, è portato a compimento nell’immagine della «casa fredda, tetra e silenziosa alla fine della parte alta della città», da dove il dramma a sua volta si allarga di nuovo. Il modo in cui avviene che Balzac abbia in mente proprio la scena giusta, una casa che esprime perfettamente la sua donnée e tutte le sue implicazioni — questo naturalmente è il segreto di Balzac: il metodo non sarebbe niente senza la qualità della sua immaginazione. L’uso che fa della scena è un’altra cosa e lì è possibile riconoscere quanto dell’effetto generale, il senso del fondamento morale e sociale della storia, viene reso dalla disposizione inanimata. Deve raffigurare un personaggio e un tenore di vita, e in gran parte lo ottiene descrivendo una casa.

  Al di là del vecchio Grandet e del tipo di esistenza imposto alla sua famiglia, il dramma richiede ben poca preparazione. Eugénie, la figlia dell’avaro, con sua madre, devono essere chiaramente in primo piano; ma pochi tocchi portano queste due donne a vivere nella loro oscura dimora. Sono semplici, pazienti e devote; Eugénie e sua madre sono facilmente comprensibili fra il dominio del vecchio e la monotonia della routine provinciale. I due pretendenti locali alla fortuna della ragazza, e i loro sostenitori da entrambe le parti — i Cruchotins e i Grassinistes — sono figure sussidiarie; sono raffigurati in modo sufficiente quando appaiono in gruppo, in occasione di una serata coi Grandet. La fedele domestica, la scaltra e brava Nanon, è rapidamente abbozzata. Quello, quindi, è il quadro che Balzac prepara per l’azione che inizia con l’arrivo di Charles, il cugino giovane e sconosciuto di Eugénie. Ad eccezione di Charles, tutto il materiale del dramma è contenuto nella prima impressione della famiglia e della piccola città di campagna; la storia di Eugénie è implicita in essa; e il suo romance, dal momento in cui inizia, eredita la realtà e la continuità dell’esperienza. Charles stesso ha un peso così leggero che nel suo caso non c’è affatto bisogno di una introduzione; un solo sguardo è sufficiente a mostrare il fascino della sua eterea eleganza. La sua unica funzione nella storia è di creare il lungo sogno della vita di Eugénie; e per questo non ha bisogno di altro che di apparire completamente diverso dai Cruchotins e dai Grassinistes. Perciò essi ed Eugénie provvedono, tra loro, all’effetto prima che egli appaia, gli uni col loro gretto provincialismo, lei con la sua ignoranza sensitiva. L’intera scena, al limite dell’azione, è piena di echi assopiti che vengono svegliati dal primo movimento. La ragazza nella posizione in cui si trova, la situazione conosciuta com’è, costituiscono tutte, spontaneamente, il racconto; sono richiesti solo i semplici fatti, il loro effetto è già nell’aria.

  E di conseguenza la storia scivola via dall’inizio senza esitazione. In un certo senso è una storia molto esile; in essa non c’è quasi niente ad eccezione dei veloci ed improvvisi flussi emotivi di Eugénie, a cui segue il suo paziente riordinare i ricordi; e questa semplicità può forse sembrare che diminuisca l’abilità della preparazione di Balzac. Dove c’è così poco da rendere in termini di eventi o di scontri di carattere, dove i personaggi sono così semplici e trasparenti e quasi niente succede loro, non dovrebbe essere difficile fare una scena espressiva per il dramma e i suoi pochi fatti. Tutto ciò che accade nel filone principale della storia è che Eugénie si innamora di suo cugino, lo saluta quando va a costruire la sua fortuna nelle Indie, lo aspetta fiduciosa per vari anni, e quando ritorna scopre la sua infedeltà. La morte di sua madre, e in seguito quella di suo padre, sono praticamente gli unici avvenimenti che avvengono nel lungo intervallo dell’assenza di Charles. Semplice, invero, ma è proprio il tipo di storia che è più difficoltoso maneggiare. Il materiale è limitato, e tuttavia copre un buon numero di anni; e in qualche modo la narrazione deve rendere la lunghezza del tempo senza l’aiuto di cose positive e concrete per riempirlo. Tutto il nocciolo della storia va perso se mentre Eugénie sta aspettando, non si riesce a fare sentire il lento scorrere del tempo, ma c’è una cosa nella sua vita che ci consente di dare un resoconto del tempo che passa, di collegare l’intervallo, di illustrare la sua ampiezza? Balzac deve costruire una lunga impressione di vacuità; Eugénie Grandet ha un soggetto decisamente difficile.

  In un caso simile penso che il primo istinto di quasi tutti i narratori sarebbe quello di allungare la narrazione della sua solitudine, elaborando il quadro del suo stato d’animo, prolungando il ricordo dell’attesa paziente e della speranza tradita. Se niente le accade dall’esterno, o così poco, il tempo deve essere riempito con il lungo dramma della sua esperienza interiore; il centro della storia dovrebbe allora essere posto nella sua coscienza, in cui sarebbe riflessa la graduale caduta dell’emozione dall’entusiasmante novità all’abitudine quotidiana, e da qui di nuovo al freddo della disillusione. È facile immaginare il tipo di forma che il libro verrebbe a prendere. Per assicurare pieno valore alla monotona sofferenza di Eugénie, si dovrebbe rendere la storia interamente dal suo punto di vista; tutti i fatti esterni della sua esistenza si dovrebbero vedere attraverso i suoi occhi, creando così materiale per il suo pensiero. Dovremmo vivere con Eugénie, completamente; dovremmo condividere la sua attesa, giorno e notte, estate e inverno, mentre siede nella casa silenziosa e ascolta il rumore della vita nella strada, mentre il sole splende per gli altri e non per lei, mentre la luce si affievolisce, il vento ulula, la neve cade e attutisce i rumori della città indaffarata — Eugénie continuerebbe a stare seduta alla finestra, noi continueremmo a seguire il flusso delle sue meditazioni rassegnate e pazienti; finché alla fine l’autore non ritiene che cinque anni, dieci anni, quanti possono essere, sono stati sufficientemente mostrati nel loro tetro decorso, e che è giunto il momento di fare tornare Charles dalle Indie. Un romanziere potrebbe facilmente pensare che è così, e così dovrebbe essere. In che altro modo potrebbe venire resa la giusta sensazione del tempo, quando ci sono così poche possibilità di tarla vedere in termini drammatici?

  Ma il modo di trattare la storia di Balzac è del tutto inaspettato. La stende in un modo che non vale niente, ma che è un buon esempio della libertà di movimento che il suo grande genio pittorico gli consente. Con la scena e l’impostazione generale così perfettamente rese, la storia se la cava da sola in tutti i sensi, con il minimo di problemi da parte di Balzac. La sua preoccupazione reale finisce quando l’azione comincia; non è neanche turbato da questa difficoltà di rappresentare il senso del tempo. Il piano di Eugénie Grandet, così com’è il libro, sembra essere stato fatto senza alcuna preoccupazione dell’esigenza principale e specifica della storia; là, dove un altro autore userebbe ogni possibile artificio per sottolineare l’effetto degli anni che si succedono, Balzac è libero di raccontare la storia direttamente come vuole. Per Eugénie la grande e sola avventura della sua vita era contenuta nei pochi giorni o settimane della prima visita di Charles; non le è mai più accaduto niente da potersi paragonare con quell’eccitazione. E Balzac ha reso nel libro quest’episodio importante come lo è stato nella vita di Eugénie; si sofferma su di esso e lo elabora senza preoccuparsi del fatto che nel libro — nell’effetto complessivo che deve produrre — l’episodio è solo l’inizio della storia di Eugénie, solo il preludio dei suoi anni di attesa.

  Tuttavia ne estende il resoconto così largamente, che si trova ad avere già scritto due terzi del libro al momento in cui il giovane viene finalmente fatto partire per le Indie. Ciò significa che la durata della storia — e in essa la durata è il fatto principale — non viene quasi considerata dopo l’inizio dell’azione. Degli anni che passano lentamente non c’è quasi nessun quadro; c’è poco di più di una cronaca concisa di pochi e distanziati avvenimenti. Balzac non si sforza di sedere con Eugénie nel crepuscolo, mentre cambiano le stagioni; non si sforza di soffermarsi ad osservarla con simpatia standole accanto, ed esplorare teneramente i suoi sentimenti. È realmente capace di iniziare un paragrafo con l’annuncio casuale: «Così passarono cinque anni», come se appartenesse a quella specie di narratori che immaginano che il tempo può essere espresso con la sola affermazione della sua lunghezza. Tuttavia il tempo nel suo libro c’è, è indubbio — tempo che scorre lentamente e indugia finché la ragazza ha perso la sua giovinezza ed è caduta nel triste solco da cui evidentemente non sarà più rimossa. Balzac può trattare la storia nel modo sintetico che vuole, può registrare la semplice esperienza di Eugénie dall’esterno, e al tempo stesso fare in modo che lo svanire della sua giovane speranza appaia graduale e protratto come è necessario; e tutto perché ha preparato in anticipo, con il quadro della vita dei Grandet, un’impressione completa e durevole.

  Il suo quadro preliminare includeva la rappresentazione del tempo, ne assicurava il senso così completamente, che ora non c’è alcuna necessità di tornarvi sopra di nuovo. La routine di casa Grandet è troppo chiaramente conosciuta per essere dimenticata; l’immagine della figlia e della madre, che conducono la loro vita sequestrate all’ombra dell’ossessione del loro vecchio tiranno, è una sensazione che continua fino alla fine della loro storia. Accumulano giorni tristi e riempiono l’anno con, a mala pena, qualche interruzione nella sua monotonia; l’anno seguente e l’anno dopo sono ancora uguali, eccetto l’avarizia del vecchio Grandet che aumenta di pari passo alla sua ricchezza; il presente è come il passato, il futuro prolungherà il presente. In tale scena la paziente accettazione di Eugénie, ormai non più giovane, diventa un fatto visibile, immediatamente presagito e accettato, senza bisogno di insistervi ulteriormente; è latente nella scena fin dall’inizio, perfino al tempo del piccolo romance della sua giovinezza. È inutile insistere sulle ombre della sua lunga delusione, dal momento che la sua capacità di resistenza e la sua fedeltà sono completamente create nel libro prima che vengano messe alla prova. «Passarono cinque anni» dice Balzac: ma prima che lo dica già li vediamo aprirsi e chiudersi sulla ragazza, piombare sulla sua solitudine, consumare la sua freschezza, ma non la muta rassegnazione in cui siede e attende. La durata ininterrotta, la monotonia, il silenzio che un altro scrittore avrebbe dovuto in qualche modo affrontare dopo avere disposto il breve episodio della visita di Charles, Balzac le ha già tutte in mano, può terminare il suo libro senza troppi indugi. Il ponderato accostamento all’azione, attraverso il quadro della casa e dei suoi inquilini, ha ottenuto il suo scopo; gli ha dato l’effetto che l’azione maggiormente richiede e che meno potrebbe acquisire da sola, l’effetto del tempo.

  E non c’è alcun dubbio che la storia guadagna immensamente dall’essere trattata col modo di Balzac, piuttosto che come la vita di una ragazza delusa, studiata dall’interno. In tale caso potrebbe sembrare che il soggetto del libro si esaurisse facilmente per il fatto che Eugénie non ha un carattere capace di conferire molto interesse alla storia, se si suppone che essa avrebbe dovuto essere vista attraverso i suoi occhi. Eugénie è buona, sincera e devota, ma non ha la poesia, la risonanza interiore, che potrebbe fare delle sue semplici emozioni un dramma vivo. Balzac era sempre troppo prosaico per la creazione della virtù; i suoi personaggi innocenti — a meno che possano essere grotteschi e innocenti al tempo stesso, come Pons o Goriot — vivono in un mondo che non merita la fatica di indagarlo. L’interesse di Eugénie verrebbe inesorabilmente diminuito, non aumentato, da una partecipazione più intima al suo romance; è molto meglio osservarla dall’esterno, come fa il più delle volte Balzac, e notare gli avvenimenti che le succedono, sempre che l’immagine del tempo che scorre possa essere forgiata e preservata. In quanto a ciò, Balzac non ha alcuna ragione di essere preoccupato; è certo che può fare ciò che vuole col soggetto di una storia, maneggiarlo in modo giusto e costringerlo a fornire la sua impronta, così come è certo che non riuscirà a capire la sensibilità di una buona ragazza.

  Non posso immaginare che l’importanza del quadro del romanziere, come preparazione per il dramma, potrebbe essere provata in modo più impressionante di quanto è provata in questo libro, in cui così tanto ci si attende da essa. Eugénie Grandet è tipico di una naturale tendenza di ogni scrittore accorto, vale a dire dell’istinto di alleggerire il climax della storia sovraccaricandolo il meno possibile quando viene raggiunto. Il climax dovrebbe completare, aggiungere il tocco che fa il libro completo e organico; questo e questo solo è il suo compito. Dovrebbe essere libero di fare ciò che deve senza alcuna inutile distrazione, e niente di quanto poteva venire trattato e svolto in uno stadio precedente lo deve distrarre. Il climax in Grandet non è un punto drammatico, non è un singolo episodio; risiede nella sensazione di freddo che molto gradualmente e lentamente scende sulla speranza di Eugénie. Balzac prudentemente si trattiene dal fare dipendere il libro da qualcosa di così banale come un’improvvisa scoperta della mancanza di fedeltà del giovane. Il peggiore tipo di delusione non si manifesta in questo modo, come un colpo improvviso; si insinua nella vita e si espande impercettibilmente. L’atto finale di infedeltà di Charles è solo l’appendice di un dramma praticamente completo anche senza di esso. Ci troviamo quindi di fronte a un climax che è essenzialmente pittorico, un’impressione di mutamento e di decadenza che richiede soprattutto una grande quantità di tempo; e Balzac ci conduce dentro di esso così abilmente che, quando si giunge al punto, tutto ciò che viene richiesto è un breve riassunto di alcuni semplici fatti. In altre parole, salva il climax dal peso di una deliberata prolissità, che a prima vista sembrerebbe costretto a subire; non gli lascia niente da compiere se non il tocco necessario, il movimento che dichiara e completa l’intenzione del libro.

  Nella Ricerca dell’Assoluto si ritrova all’opera la stessa capacità su un materiale apparentemente perfino ancora più scabroso. Il soggetto di quel racconto perfetto è naturalmente la crescita di un’idea determinata, e Balzac si trovava di fronte il compito di mostrare il lento aggravarsi della rovina di un uomo attraverso una serie di rovesci, che non differivano tra di loro in nessun modo, se non per la loro crescente violenza. Claës, il giovane cittadino di Donai, eccellente e facoltoso, pilastro dell’antica grandezza civica delle Fiandre, è trascinato continuamente nei suoi esperimenti disastrosi al più pieno fallimento (ne è persuaso egli stesso) di ognuno di essi; ogni volta le sue ricerche sono sul punto di fargli raggiungere l’ ‘assoluto’, la pietra filosofale, ed ogni volta la prospettiva è sempre più brillante; successo, ricchezza tale da recuperare mille volte le sue perdite sempre più grosse, vengono ancora assicurati da un altro tentativo, i soldi per farlo devono essere trovati. E così viene dimenticato ogni altro interesse nella vita, il suo orgoglio e la sua reputazione vengono sacrificati, la splendida casa viene spogliata gradualmente dei suoi tesori, la famiglia trascinata in povertà; ed egli stesso muore avvilito, folle, con il successo — sicuramente, sicuramente il successo, questa volta — ora a portata di mano. Questo è tutto, e il libro deve basarsi per tutto il tempo su un tale movimento, diretto e sostenuto, reiterando un effetto con crescente intensità — sempre al culmine della speranza più alta e della delusione più acuta, sempre pronto ad innalzarlo e acutizzarlo ulteriormente. Non può esserci alcuno sviluppo attraverso il variare dei fatti; è la stessa suspense e lo stesso shock che si ripetono, costantemente più disastrosi della volta precedente.

  Anche qui Balzac accumula nel quadro introduttivo la riserva di effetto di cui ha bisogno. Riconosce l’ampia risorsa della dignità, dell’opulenza, dell’importanza della tradizione ereditata da famiglie come quella di Claës — ricchi mercanti di stimata dinastia, governatori di ricche città, mecenati di nobili arti. Ecco la casa di Claës, con la pregevole architettura, i ritratti, i mobili scuri e la scintillante argenteria, i giardini con preziosi tulipani — l’immaginazione di Balzac è riversata nella scena, è esattamente il tipo di occasione che accoglie con piacere. Conosce il luogo a memoria; la descrizione è fatta con il suo stile più metodico. Inesorabilmente tutto viene alla luce, un quadro holbeiniano con ogni dettaglio debitamente ordinato, l’espressione di buone maniere, di gusto raffinato e di una solida posizione. Da un tale mondo, creato nel modo in cui egli è capace, può trarre senza esitazione il materiale per le ripetute esigenze della storia; la distruzione continua causata dall’infatuazione dell’uomo viene rappresentata, passo dopo passo, mentre la scena visibile è denudata e distrutta. Il suo spirito viene logorato e la sua lucidità crolla, e i successivi colpi che cadono su di lui, invece di perdere forza (per lo spettatore) a causa del loro ripetersi, sono rinnovati e rinvigoriti dalla veduta dell’ampia devastazione che lo circonda, mentre le cose preziose sono gettate nella spesa divorante delle ricerche. Il loro venire meno è il segno esteriore della sua resa personale all’idea, ed ogni volta che viene ributtato nella delusione, la rovina della scena in cui era collocato all’inizio del libro è più evidente di prima. Si espande, attraverso i suoi quadri e i suoi tesori, alla sua famiglia, e ancora ulteriormente nelle sue relazioni con l’ambiente rispettabile che lo circonda. La sua posizione è scossa, la sua situazione in quel meraviglioso mondo holbeiniano è insidiata; viene lentamente distrutta mentre aumenta la sua pazzia. E avendo costruito e arredato quel mondo in modo così ricco e saldo, Balzac può soffermarsi sulla sua rovina quanto è necessario per l’effetto crescente della storia. Ha creato così tanto che c’è una quantità enorme da distruggere; e solo alla fine, con il grido di trionfo dell’uomo moribondo, la rovina è completa.

  Così il climax della storia, come in Grandet, si trova subito nel quadro descrittivo. È inutile, suppongo, insistere sul valore estetico di economia narrativa di questo genere. Ognuno sente la forza maggiore del climax che, quando giunge il momento, prende la giusta posizione senza alcuno sforzo, in confronto a quella in cui una tensione e uno sforzo esagerato sono percepibili. Il procedimento di scrittura di un romanzo sembra essere quello di un continuo prevenire e anticipare; molto più importante della pagina presente è quella che deve venire, ancora in distanza, a favore della quale questa sta segretamente lavorando. Lo scrittore crea un argomento e al tempo stesso lo mette da parte, crea un effetto e lo trattiene, finché la pagina per cui è stato progettato se ne appropria e lo usa nel modo giusto. Deve essere un piacere per lo scrittore, è certamente un grande piacere per il critico, quando l’effetto è portato a segno in modo limpido. In realtà si tratta dello stesso piacere; il romanziere crea l’effetto, ma il critico lo ricrea nell’atto di percepirlo, ed è legittimamente soddisfatto dalla sensazione di averlo percepito con buona abilità artistica. Naturalmente ciò viene perduto se l’effetto è manovrato senza la necessaria abilità e in maniera inopportuna; l’arte della preparazione non è arte se si smaschera all’inizio e richiama l’attenzione sul suo proposito. Per definizione è irriconoscibile finché non raggiunge la fine; si vede che è stata creata l’arte di rendere un’impressione, ma sul momento sfugge all’indagine. La varietà particolare che ho considerato è una di quelle in cui Balzac è grande maestro: e forse la sua maestria apparirà ancora più chiaramente se si osserva un libro in cui il suo esempio non è seguito sotto questo aspetto. È un libro più bello, per tutto questo, della maggior parte dei libri di Balzac.

 

 

  Giovanni Macchia, Quella sera in via Morone. L’incontro a Milano tra Manzoni e Balzac, in Saggi italiani, Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1984 («Passaggi», 7), pp. 217-233.

 

  Cfr. 1976.

 

 

  Emilio Mattioli, La nozione di romanzo nell’estetica di Balzac, in AA.VV., Discorsi sul romanzo, a cura di Paolo Bagni, Firenze, Alinea, 1984.

 

  Cfr. 1982; 1983.

 

 

  Francesco Mei, La riscoperta di «Louis Lambert», capolavoro dimenticato. Balzac e il disagio dello spirito moderno, «Il Popolo», Roma, Anno XLI, n. 260, 8 novembre 1984, pp. 8-9; 2 ill.

 

  «Louis Lambert» è la biografia di un cervello, la storia di una vita ideale tutta vissuta e sofferta interiormente, il conflitto tormentoso e l’impossibile conciliazione tra l’essere che ha intravisto l’assoluto e il mondo che è immerso nel contingente. Un romanzo meritevole di essere letto e studiato non solo per le tematiche anticipatrici e suggestive, che vi sono svolte, ma anche perché esso getta luce sull’intera opera e sulla vita del grande narratore francese.

 

  Balzac passa come uno dei grandi maestri del realismo nell’ambito del romanzo moderno, e indubbiamente lo è. Ma troppo spesso questa definizione è stata intesa, specie dalla critica marxista, in senso troppo limitativo ed angusto, interpretando l’opera di Balzac alla luce dei movimenti letterari legati alla filosofia positivista, come il naturalismo e il verismo, che ne hanno rappresentato solo una prosecuzione unilaterale, in quanto hanno fatto della narrativa una riproduzione fotograficamente fedele e scientificamente documentata e socialmente impregnata di certi aspetti della realtà.

  Ma Balzac non è Zola, e nemmeno Flaubert: la sua componente realistica si inserisce e si inquadra in un genuino afflato romantico, e anche quando si propone di abbracciare tutta la società francese della sua epoca nel panorama composito della Commedia umana, non mira già, come vorrebbe il Lukàcs sulla scia di Engels di Marx, a denunciare il sistema borghese in favore del proletariato, bensì tende a rappresentare la natura umana non solo in tutta la varietà esterna dei ceti e delle condizioni di vita, legata alle sue differenziazioni storiche e sociali, ma anche nelle sue aspirazioni più profonde e universali. Se pure c’è in Balzac una critica indiretta della società borghese, questa critica viene mossa, prima ancora che sulla base di rinvedicazioni (sic) populiste, in nome di un’autentica istanza spirituale che finisce per mettere nel dovuto risalto il prezzo esorbitante che la cultura moderna, d’ispirazione materialista positivista e tendenzialmente atea, ha pagato sul piano delle più alte idealità estetiche e religiose agli idoli della ricchezza e del successo materiale.

  In questo senso acquista particolare rilievo nell’opera narrativa di Balzac il settore dedicato agli «Studi filosofici», dove — a differenza degli «Studi di costume», in cui lo scrittore esamina il mondo esterno dell’azione e delle passioni materiali — viene indagata la vita tutta interiore dell’arte e del pensiero. Infatti Balzac contrappone qui, al regno esteriore dell’attività umana, rivolto alla lotta per la conquista del denaro e della posiziona sociale e alla soddisfazione degli istinti elementari, il mondo delle pure idealità dello spirito, che comprende la sete della conoscenza, l’amore del bello e l’anelito dell’anima verso l’invisibile.

  In questa prospettiva Louis Lambert, il romanzo giovanile di Balzac di cui adesso viene offerta una attenta traduzione italiana a cura di Paolo Pinto per le edizioni Lucarini (Balzac - Louis Lambert, Roma, 1984) costituisce un momento singolare, diremmo quasi culminante, di tutta l’opera narrativa di Balzac. Questo romanzo illumina il senso più profondo della Commedia umana, in quanto offre un esempio di esistenza speculare ed opposta rispetto a quelle modellate sui princìpi dominanti del secolo, che Balzac ritrae nei suoi romanzi più noti, basati sugli «Studi di costume». Giustamente osserva Paolo Pinto, a cui va il merito della riscoperta di questo capolavoro dimenticato, che il Louis Lambert può essere considerato come «una vera e propria chiave di lettura dell’intera Commedia umana; ed aggiunge: «Louis Lambert è la biografia di un cervello, la storia di una vita ideale tutta vissuta e sofferta interiormente, il conflitto tormentoso e l’impossibile conciliazione tra l’essere che ha intravisto l’assoluto e il mondo che è immerso nel contingente ...».

  Il giudizio del Levaillant, secondo cui «Gli studi filosofici» di Balzac appaiono oggi come il basamento e il substrato necessario di tutta la sua opera, si applica soprattutto al Louis Lambert, questo insolito profilo di un’evoluzione intellettuale, che prescinde dai valori grettamente pratici e utilitari di una società mercificata, e che per il suo stretto rapporto con l’esperienza mistica si configura in un certo senso come un’evoluzione dello spirito analoga a quella degli asceti e dei santi.

  La tensione verso l’assoluto, che percorre tutta l’opera di Balzac, sembra infatti raggiungere in questo singolare romanzo il tono accorato della confessione autobiografica, con una identificazione così scoperta dell’autore con il protagonista da far pensare che Louis Lambert sia Balzac stesso. Se è vero infatti che Balzac presta a tutti i suoi personaggi qualcosa di sé, rivivendone le passioni con la sua capacità visionaria di identificazione, in questo caso egli fa qualcosa di più: ci fornisce il modello ideale di valori in base al quale le passioni stesse dei suoi personaggi vengono giudicate. Osserva il Lukàcs che Balzac ci offre un grandioso affresco della società francese nell’età della Restaurazione e soprattutto di Luigi Filippo dal 1830 in poi, quando, distrutti gli ideali dell’Ancien Régime, traditi quelli della Rivoluzione, passati gli entusiasmi dell’era napoleonica, la nuova borghesia di speculatori si lancia alla conquista del denaro e del potere. Ma l’attivismo senza freni e senza scrupoli, rivolto esclusivamente al benessere esterno, che domina incontrastato la scena mondana del suo tempo non riscuote le simpatie di Balzac, per cui i valori supremi dell’uomo restano la ricerca della conoscenza e la creazione artistica, che insieme alla perfezione morale, più lo avvicinano all’essenza divina. In Louis Lambert Balzac traccia quindi il ritratto dell’intellettuale, dell’artista, del genio incompreso in un’epoca dominata in modo esclusivo e intollerante dall’avidità di possesso e dal perseguimento del piacere, accarezzando quasi il ritorno a un ideale di vita monastico come modello di perfezione umana. E qui il Balzac legittimista va forse meglio inquadrato nel Balzac romantico e visionario, seguace delle idee di Swedenborg e di Saint-Martin.

  Nella sua introduzione Pinto afferma che Louis Lambert è un «romanzo certo non esente da vizi e imperfezioni, e tuttavia meritevole di essere letto e studiato, non solo per le tematiche anticipatrici e suggestive che vi sono svolte, ma anche perché esso getta luce sull’intera opera e sulla vita del grande narratore francese».

  Non possiamo fare a meno di condividere in pieno questo giudizio. Possiamo solo aggiungere che se Louis Lambert come romanzo non presenta il filo coerente di un intreccio, e in certi casi può sembrare persino sconnesso e disuguale, ciò è dovuto forse al fatto che altro è narrare le vicende tangibili di una vita proiettata nel mondo esterno dei fatti e delle passioni materiali, altro è seguire l’itinerario misterioso della vita interiore, tracciare la mappa di eventi che si svolgono nel segreto dello spirito. Il compito che Balzac si propone nel caso di Louis Lambert è tanto più arduo, e poco redditizio, quanto più la figura che egli presenta come oggetto di osservazione, si distacca dalla media comune degli uomini, ma al tempo stesso non rientra nel novero di quei «protagonisti» che attirano l’ammirazione della massa. L’eroe schivo e solitario, tutto assorto nella meditazione e nell’ascesi, di cui Balzac abbozza il ritratto, è in un certo senso un emarginato dalla società, anche se non può dirsi un ribelle; è un pensatore e un poeta, a cui è precluso non solo il mondo dell’azione, ma anche quello degli affetti Ma i limiti di Louis Lambert sul piano della resa narrativa e romanzesca di più facile effetto non sono che il risvolto della sua insolita profondità e originalità di visione. Lambert anticipa infatti, proprio in quanto incarnazione dell’intellettuale, del mistico, dell’uomo privo di senso pratico e di posizione mondana, i protagonisti del grande romanzo moderno, l’idiota di Dostoevskij, Stephen Hero di Joyce, l’uomo senza qualità, di Musil. Lambert esprime un disagio profondo, un’aporia insanabile, un vizio d’origine di tutta la civiltà nata dall’illuminismo: il gretto rifiuto della componente estetica, mistica, contemplativa della vita, operato in nome di un angusto pragmatismo, che ne privilegia solo gli aspetti prettamente utilitari.

  Balzac narra in Louis Lambert l’esistenza di un ragazzo, dotato di eccezionale talento, che fin dalla più tenera età si immerge negli studi più severi, assetato di conoscenza e capace di intuizioni geniali in ogni ramo dello scibile. Nonostante l’appoggio di Madame de Staël, che lo fa entrare nel Collegio di Vendôme, Lambert, proprio a causa della sua intelligenza superiore, non viene compreso dai compagni e dai maestri e trova il suo unico conforto nella confidenza di un amico, che condivide le sue appassionate esplorazioni in tutti i campi dello spirito. Trasferitosi a Parigi per terminare gli studi, Lambert lascia disgustato la città, i cui falsi valori basati sull’arrivismo senza scrupoli mal si accordano con la sua disinteressata ricerca della verità e della saggezza e si rifugia in campagna presso uno zio sacerdote, per proseguire la sua vita di pura contemplazione rivolta a elaborare un nuovo sistema filosofico per definire i rapporti tra l’uomo e Dio. A un certo punto però Lambert si innamora di una donna, la nobile e ricca Pauline, che sembra per un momento aprire la dimensione concreta della gioia di vivere al suo spirito immerso nelle astrazioni metafisiche. Ma l’esperienza d’amore, anziché configurarsi in un arricchimento della sua personalità, agisce come un fatto traumatico e dirompente nella sua vita conducendolo dal delirio dei sensi alla follia e alla morte.

  Il tragico epilogo della vicenda di Lambert esemplifica per Balzac la difficoltà di conciliare la pura vita intellettuale e la ricerca d’assoluto con qualsiasi realizzazione materiale e contingente, compresa quella legittima del matrimonio.

  Più che la biografia di un amico, la storia di Lambert è probabilmente la proiezione dell’esperienza stessa di Balzac, attraverso l’immagine, del suo alter ego più idealizzato, riflettendo gli angosciosi conflitti che lacerano la sua esistenza, divisa tra le più alte idealità dello spirito e il compromesso inevitabile con le esigenze della società.

  Fa onore alla integrità di Balzac come pensatore e come artista che, tracciando il profilo di quel suo «doppio» ideale che è Louis Lambert, abbia evitato qualsiasi tentativo di darne una versione «romanzata», per conferire un timbro di maggiore autenticità all’esperienza che descrive. Il libro acquista in forza di documento, purezza di denuncia e altezza di visione ciò che perde sul piano della mera suspence e della drammaticità dei fatti. Se certi passaggi del libro — specie quelli relativi al sistema di pensiero elaborato da Lambert e le sue lettere d’amore — accusano una certa pesantezza, in compenso altri brani, come la storia dell’appassionata amicizia intellettuale tra Lambert e il suo compagno di studi, e lo stesso splendido squarcio finale in cui il protagonista appare come una figura spettrale al fianco della donna amata, mentre ormai vaneggiarne precipita per sempre negli abissi di un’altra dimensione che può essere la pazzia ma che è forse la vera saggezza, sono degni della penna di un grande romanziere. Un grande romanziere che in questo caso si rivela, insospettatamente, grande anche come pensatore, scienziato e mistico. Lungi dall’essere superata, la visione di Balzac, che mette in questione tutto l’orientamento ultra razionalistico e ultra utilitario del mondo moderno, postulando il ritorno a una concezione della vita fondata sui valori permanenti dello spinto, è oggi più attuale che mai, e suona come un monito grave e solitario in quella che è stata definita «l’epoca della volgarità e del dolore».

 

 

  Giovanni Pacchiano, Sì che puoi leggere, ti costa così poco. “L’albergo rosso”, «L’Europeo», Milano, 25 agosto 1984, pp. 79-80.

 

  L’albergo rosso, Editori Riuniti, lire 5000.

 

  Non fu solo Edgar Allan Poe, nel primo Ottocento, a scrivere racconti del mistero. Quelli di Balzac sono meno noti, meno numerosi, ma non meno affascinanti. L’albergo rosso narra una fosca vicenda di delitto e di interesse, in un albergo in riva al Reno, all’epoca dell’invasione dei francesi (1799). A distanza di trent’anni, in un salotto della ricca borghesia parigina, l’assassino, divenuto rispettabilissimo imprenditore, sentirà raccontare da un estraneo la storia del crimine e rivivrà l’orrore di una testa mozzata, che lo ha perseguitato per tutta la vita, sino al suicidio. L’altro racconto compreso in questo volume, La Grande Bretèche, è l’allucinante ricordo di un’avventura di adulterio e di morte, imperniata sul tema, divenuto poi classico, dell’uomo murato vivo, in una casa di campagna abbandonata e in rovina. Da non leggere se siete in città tutti soli e soffrite di incubi.

 

 

  Geno Pampaloni, Prefazione, in Honoré de Balzac, Gambara ... cit., pp. 7-16.

 

  «L’eau est un corps brulé» (sic): con questa battuta misteriosa, che può apparire un paradossale incrocio tra scientismo ed assurdo, il vecchio musicista Gambara si asciuga le lacrime di commozione che gli erano sgorgate alla vista della moneta d’oro donatagli dalla bella Massimilla, e chiude il romanzo a lui intitolato.

  Se cerchiamo di penetrare nel significato ultimo di quella frase conclusiva, simbolicamente risolutiva della vicenda, possiamo trovare, al di là della spiegazione letterale («le mie lacrime sono l'espressione finale della mia vita bruciata, finita»), uno dei temi centrali della filosofia (Gambara fa parte, come è noto, delle Études philosophiques) di Balzac.

  Nel suo saggio ancora fondamentale, Ernst Robert Curtius insiste molto sul «totalismo» di Balzac, totalismo che, secondo una geniale correzione di Goethe, è il vero nome dell’«eclettismo» con cui gli scrittori francesi tendevano a conciliare, nelle loro concezioni filosofiche, l’elemento ideale con l’elemento empirico. Il critico arriva a definire «cosmocentrica» l’arte balzachiana, al di là delle apparenze antropo o socio-centriche. Egli cita ciò che disse Balzac a Lamartine: «Il tema divino è l’unità». E cita anche una pagina molto ispirata (nel racconto Un prince de la Bohème), ove si riconosce come una delle virtù supreme dell’amore che «esso abbraccia simultaneamente la creatura e la creazione».

  Sulla traccia di tali giudizi del Curtius possiamo allora formulare, per spiegarci la battuta finale del nostro romanzo, la seguente ipotesi: che il genio romantico balzachiano abbia voluto suggellare nella idea o nel simbolo di una combustione cosmico-esistenziale («Tutta la vita implica una combustione», aveva affermato il vecchio Balthazar Claës nella Recherche de l’Absolu, e sembra difficile limitarne il senso a semplice scientismo) il conflitto perenne e inesauribile tra scienza, arte e amore, catena senza fine a livello umano. A me sembra del resto che proprio nell’ardore di quella simbiosi fatale e impossibile ci sia dato di cogliere il senso e il tema centrale della trilogia che comprende in sequela, secondo le ultime indicazioni dell’autore, Le chef-d’oeuvre inconnu (dedicato al mondo della pittura), Gambara (composizione musicale), Massimilla Doni (esecuzione musicale).

  Detto per inciso. A uno studioso della finezza di Ferdinando Neri i due romanzi musicali apparivano ispirati a un «clima italiano di maniera», «semplice variazione su motivi che stavano divenendo tradizionali, così da rendere incerta e spesso minacciata anche la mano sicura di un Balzac». Il giudizio severo ma non spropositato. In effetti, dei tre romanzi, il più incisivo e originale, per ritmo, sicurezza figurativa ed efficacia romanzesca, oltre che per l’intuizione critica che fa presagire l’Impressionismo, rimane, e a mio giudizio di gran lunga, Il capolavoro sconosciuto. Ma per rendersi conto di certe frettolosità e diseguaglianze che possiamo riscontrare nel nostro Gambara (e che peraltro non inficiano il nostro interesse per l’energia espressiva con cui Balzac delinea il suo personaggio e lo raffigura nell’atto di affrontare il tema della creazione artistica entro la drammatica ed esaltante catena conflittuale scienza-arte-amore cui ho accennato) è indispensabile ripercorrere brevemente l’itinerario, irto di difficoltà, della sua ideazione e stesura.

  Le difficoltà che Balzac si trovò di fronte furono sia di ordine esterno che di ordine interno al processo creativo. Cominciamo dalle prime.

  Il 1836 fu per lo scrittore un anno molto duro, quasi «una seconda Beresina come il 1828» (l’anno del fallimento della tipografia di cui era proprietario, e degli spaventosi debiti che lo perseguiteranno per tutta la vita). Alla fine di settembre si trasferì, per sfuggire ai creditori, in una mansarda di rue des Batailles, dalle cui finestre vedeva i tetti del quartiere che sarà lo scenario di Gambara. Lavorava diciotto ore al giorno, contemporaneamente a tre libri, dedicando a ciascuno sei ore. Nell’ottobre egli vende alla «Revue et gazette musicale de Paris» un romanzo che si impegna a consegnare al più presto: venti colonne per un compenso di mille franchi. La rivista annunciò come imminente la pubblicazione di «Gambara, nouvelle musicale»; ma nella mente dello scrittore il progetto doveva essere ancora piuttosto confuso, se nel ripetere l’annuncio la «Revue», il primo gennaio del 1837, dava come titolo: Gambara, ou la voix humaine, che allude a un protagonista cantante, e non ad un compositore. Non c’è da stupirsi se lo scrittore neanche in questa occasione riuscì a mantenere la parola. Cominciò a consegnare il testo verso la fine di gennaio; ma nella notte tra il 6 e il 7 di febbraio un provvidenziale incendio in tipografia distrusse quei primi capitoli. Balzac ebbe buon giuoco, a questo punto, nel chiedere una congrua dilazione. Intanto, la minaccia di un’azione giudiziaria per insolvenza, promossa dai creditori, lo indusse a sparire dalla circolazione: in febbraio partì per l’Italia, su invito dei Guidoboni Visconti, e vi rimase due mesi e mezzo. Ma prima di partire aveva affidato al segretario, marchese de Belloy (al quale deve anche il nome del protagonista: «Vous avez créé Gambara, je ne l’ai qu’habillé». si legge nella dedicatoria), il compito di portare a termine il romanzo secondo le sue indicazioni. Abituato ai «tempi stretti», lo incaricò di consegnarlo alla «Revue» nel termine di dieci giorni. Tornato a Parigi, naturalmente il lavoro di de Belloy lo lasciò insoddisfatto; ma prima di rimetterci le mani, ecco che un nuovo soggetto gli si fa urgente: in meno di due settimane porta a termine Massimilla Doni. Alla «Revue» premeva tuttavia prima di tutto il romanzo più volte annunciato; e finalmente nel luglio del 1837 Gambara comincia a vedere la luce, dopo la lunga e travagliata gestazione che potrebbe rubricarsi, secondo la terminologia oggi corrente, come romanzo di un romanzo.

  Il secondo tipo di difficoltà incontrate da Balzac nella stesura di Gambara ci porta nel vivo del dibattito sulla musica che negli anni Venti e Trenta del secolo scorso animò a Parigi e in tutta Europa il mondo intellettuale. Balzac aveva un fortissimo scrupolo di documentazione, e si mise d’impegno a studiare la musica come aveva studiato la chimica per scrivere La ricerca dell’assoluto. In una lunga lettera, scintillante di humour e di autoironia, che scrisse a Maurice Schlesinger, l’editore della «Revue», nel maggio del 1837, quando cioè, sappiamo, di ritorno dal viaggio in Italia ha sul telaio i due romanzi d’argomento musicale, egli professa la sua incompetenza; un libro di musica gli appare come un libro di stregoneria, l’orchestra nel caveau lo spaventa come un’idra dai cento archi, cita Rabelais là dove dice che la musica più bella è il tintinnìo dei bicchieri, si proclama democraticamente un irriducibile fautore della libertà degli occhi e degli orecchi nella repubblica delle arti, vale a dire del godimento spontaneo, non problematico, delle opere d’arte, letterarie, pittoriche e musicali, e si dichiara infine con maliziosa umiltà, alle prese con questioni così astruse come quelle poste dal linguaggio della musica, un honnête vendeur de phrases. Non sono abbastanza competente per valutare la presunta incompetenza musicale di Balzac, del quale possiamo dire peraltro che possedeva, come pochi altri artisti di tutti i tempi, un’intelligenza «totale» della vita, sì che nulla, neppure «la tecnologia musicale», gli era estraneo.

  Sappiamo che rilesse la Kreisleriana di Hoffmann, e che diede incarico al segretario di cercare spunti e figure nei racconti hoffmanniani di argomento musicale; che chiese all’editore la partitura di Robert le Diable di Meyerbeer, nonché la cronaca della «prima» di quell’opera, con l’articolo critico più elogiativo e quello più negativo. E questo fa parte dello scrupolo di cui si è detto.

  Il punto tuttavia che qui ci interessa è un altro: scrivendo di arte musicale, egli si trovò di fronte, per dirla con il linguaggio attuale, a una scelta di campo, nella contesa, che qualcuno ha paragonato a una guerra civile, tra i fautori della melodia e quelli dell’armonia, tra i fautori della musica italiana e quelli della musica tedesca, tra gli entusiasti di Rossini e gli entusiasti di Meyerbeer. Ma in quella scelta di campo egli non era libero; se la sua simpatia, al pari di Stendhal, andava a Rossini (con molto interesse per Beethoven), Schlesinger, l’editore (e creditore), era un fanatico di Meyerbeer, di cui proprio nel 1836 aveva trionfato a Parigi Gli Ugonotti, dopo Roberto il diavolo di cinque anni prima. Balzac tentò una sorta di doppio giuoco: prese a tema la musica di Rossini in Massimilla Doni, quella di Meyerbeer in Gambara. Ma, come si è visto, Schlesinger pretese e ottenne la precedenza per quest’ultimo.

  In conclusione, se non è del tutto da condividere il giudizio secondo il quale Gambara sarebbe «un caso di diplomazia letteraria», appare certo che il racconto fu scritto in una situazione di vita assai complicata, e tale da giustificare il risultato artistico non del tutto persuasivo e compiuto.

  Non è diplomazia letteraria la coesistenza tra melodia e armonia che Balzac teorizza (e che del resto appare oggi cosa ovvia): il panarmonicon ideato a Gambara, lo strumento dalle cento voci, che riassume in sé un’intera orchestra e persino una suggestione di voce umana, supera la specificità che Hoffmann attribuiva al pianoforte (armonia) e al violino (melodia). I fiori della melodia, aveva scritto Balzac in Massimilla, nella musica moderna posano sull’armonia come su un ricco terreno. E altrove, in Modeste Mignon, paragonerà la melodia al sentimento; essa fiorisce spontanea, indipendentemente dall’armonia, acquisizione culturale fatalmente successiva, come la botanica «viene dopo i fiori».

  Né tanto meno è diplomazia letteraria la figura di Gambara, personaggio creato con analitica potenza da quel grande cacciatore di sogni che era, secondo Baudelaire, il narratore Balzac. Lasciamo a chi se ne intende più di noi giudicare le appassionate «recensioni» che il musicista impetuosamente improvvisa sulla musica del suo tempo; la filologia musicale nella quale il romanziere si muove con focosa maestria non ci sembra peraltro l’essenziale; e può darsi che, come sembrava a Ferdinando Neri, egli qui riecheggi qualche luogo comune. Ma Gambara non è un luogo comune; è un personaggio rilevato e originale, di stampo hoffmanniano ma con qualche tratto (è stato ben suggerito) che richiama, per il suo ardore creativo, persino Beethoven. È un personaggio bizzarro e al tempo stesso disperatamente serio, confitto (o scolpito), nella materia stessa della sua diversità, della sua malattia-verità. Un attimo prima, sempre, che il lettore indulga a vederlo come una caricatura, una macchia di colore nel sottobosco dei genialoidi o maniacali che vigoreggia nella grande Parigi, siamo richiamati di forza a una realtà umana incoercibile, perentoria ed autentica. Le figure di contorno sono meno persuasive, e la stessa Marianna, che pure entra nel racconto con un suo delicato fascino di mistero, a poco a poco perde di smalto, e non sentiamo nel suo sentimento la fresca ingenuità di Gillette o le romantiche volute sensual-spirituali di Massimilla (per riferirci agli altri racconti della nostra trilogia). Ma non appena entra in scena Gambara, la tensione artistica risale al livello tipicamente balzachiano. Non è tanto la sua teoria fisicistica sulla musica che ci impressiona, quanto l’ardore con cui egli riconduce anche quelle teorie nella finale e suprema esaltazione dell’arte: «ce qui étend la science, étend l’art»; questa è la sua filosofia, nella quale il valore, e direi il traguardo esistenziale è appunto l’arte, che lascia alla scienza un compito fondamentale ma ausiliario. L’invenzione felice del romanziere rovescia in Gambara la tradizionale alleanza tra ispirazione ed ebbrezza; il vino, anziché da eccitante, funziona in lui da sedativo, lo riconduce al buon senso e alla mediocrità; è nel suo stato normale, di sobrietà, che si scatena la fantasia, e la fuga verso ideali impossibili. Press’a poco lo stesso accadeva al pittore Frenhofer, il protagonista del Capolavoro sconosciuto, il quale, allorché, invasato dalla pura bellezza di Gillette, crede di poter portare finalmente a compimento il suo capolavoro, di fatto lo cancella, lo distrugge.

  Lo scacco è dunque il destino che accomuna i due artisti visionari, il pittore e il musicista. Ma è uno scacco, ci dice il romanziere, che vale la pena di subire, se, prima che esso cada come una mannaia sulla vita dei suoi protagonisti, ha consentito ad essi di aprirsi uno squarcio verso l’infinito e l’assoluto. Nella cronaca, l’irrealismo è sconfitto e punito; ma nella realtà delle anime, e della poesia, esso lascia un memorabile segno.

  Proprio il confronto con il suo fratello gemello Frenhofer consente di concludere tornando al punto dal quale eravamo partiti. I due artisti falliti sono entrambi eroi della «totalità», e il loro genio è lo specchio ove si riflette l’incandescente passione di Balzac per ritrovare nell’arte il senso ultimo e onnicomprensivo della vita; se è vero, come ha scritto un critico, Francis Claudon, con giudizio perfettamente calzante che faccio mio, che per Balzac «l’arte è il luogo ove l’infinito delle passioni umane comunica con l’infinito del mistero del mondo».

 

 

  Geno Pampaloni, L’idra dai cento archi, «il Giornale», Milano, 28 novembre 1984.

 

  Cfr., in parte, la scheda precedente.

 

 

  Sergio Pastore, I grandi convertiti della storia (da S. Ambrogio a Bettino Craxi), Napoli, Società editrice napoletana, 1984.

 

 

  Alessandra Pecchioli Temperani, Il “Faubourg Saint-Germain”: filiazione di un mito, «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», Firenze, Vol. XXXVII, fascicolo 3, luglio-settembre 1984, pp. 235-260.


  [...]. Nel caso che per il momento ci interessa, quello del nobile Faubourg, si dovrà tener conto del mito letterario nella cui leggenda aurea la creazione proustiana si innesta: il Petit Château balzacchiano e, al di là o tramite questo, la Versailles degli amatissimi Mémoires del duca di Saint-Simon. […].

 

* * *

  Del Balzac Proust apprezzava, per confessione diretta dell’epistolario e, indirettamente, per bocca di Charlus, «tout l’un ou tout l’autre, les petites miniatures comme le Curé de Tours et la Femme abandonnée, ou les grandes fresques comme la serie des Illusions perdues»; sottolinea lo sforzo unitario del vasto romanzo incompiuto, come egli definisce la commedia del Balzac, lodando il ritorno dei personaggi in tardiva polemica con il Sainte-Beuve ed anticipa così la critica tematica contemporanea. Ma quando si sdoppia da critico in creatore, da geniale lettore di se stesso qual era, Proust sceglie il Balzac più proustiano: il cerchio infernale e sotterraneo dell’inversione — intuendo in Carlos Herrera alias Vautrin, poi Collin, la patetica poesia hugoliana della «tristesse d’Olympio de la pédérastie» — e, al polo opposto, la visione della società organizzata in sfere, come ama chiamarle secondo una sua concezione metafisica il Balzac, o in caste, secondo una visione indù, al nostro più congeniale, con al vertice il ristretto cerchio della nobiltà che le corona entrambe.

  Testimonianza privilegiata della scelta proustiana è il pastiche balzacchiano del 1908. [...]. Significativamente, nella parodia balzacchiana che apre la raccolta, si sceglie come ambiente il salotto della marchesa d’Espard, al cui «rout» — ma Balzac scrive indifferentemente «raout» — si affollano i personaggi del bel mondo parigino nei cui commenti la notizia del processo Lemoine affiora come eco rifratta. Nel concentrato di eleganza e ricchezza, nobiltà e potere politico, vertici amministrativi ed artistici, vi è come una prefigurazione del mondo Guermantes sebbene il Faubourg non venga esplicitamente chiamato in causa se non con notazione marginale, e quasi in parentesi, attraverso il decorativo maggiordomo-cocchiere Paddy, che accoglie i visitatori «avec l’immobilité spéciale à la domesticité du Faubourg Saint-Germain»; ma che il nobile Faubourg proustiano abbia riferimento letterario preciso in Balzac ce lo conferma un indizio, disseminato ancora una volta in parentesi nel folto intrico del romanzo e lasciato lì, come visibile traccia, per chi voglia seguire la pista indicata dall’annotazione, apparentemente gratuita, di Saint-Loup nei riguardi di una comparsa non meglio identificata se non come seduttore maldestro di Charlus giovane – altra traccia balzacchiana — e caratterizzata quale «un des hommes les plus en vue dans le faubourg Saint-Germain, comme eût dit Balzac».

  Come avrebbe detto Balzac; che cosa, precisamente, Balzac aveva detto e quanto passa nella visione proustiana? Al di là di rispondenze puntuali, agisce in Proust il modello primario del luogo privilegiato di incontro fra le componenti sociali al vertice. [...]. E nel risalire a quel modello, Proust non commetteva errori di prospettiva; del Faubourg Saint-Germain, Balzac era stato, storicamente, il creatore letterario un po’ nel senso che intende O. Wilde quando afferma che l’Ottocento è una creazione di Balzac; a lui va fatta risalire la paternità di un vero mito che ritornava, come cavallo di ritorno, al traduttore di Ruskin, dall’Inghilterra.

  Il luogo faceva la sua prima apparizione nel Bal de Sceaux ou le duc et pair, novella del 1829-30, entrata poi, con qualche modifica e priva del sottotitolo esplicativo, nelle Scènes de la vie privée. Non possiamo far a meno di notare come nell’aprile del 1829 uscissero i primi tre tomi dell’edizione integrale dei Mémoires, completata in ventuno entro l’anno successivo, fatto che al Balzac, molto attento agli avvenimenti del tempo, non poteva certo sfuggire, anche perché il processo intentato dall’erede per il possesso del manoscritto, sequestrato per quasi cento anni al Ministero degli Esteri, aveva suscitato un certo rumore. Infatti è dell’aprile 1830 la prima menzione di Saint-Simon sotto la penna del Balzac e, purtroppo, anche la penultima, cosicché le ricerche in questo settore sono state piuttosto scarse. [...].

  Comunque sia con Le Bal de Sceaux la futura commedia umana possiede una corte, quella di Luigi XVIII, che per essere il re della Carta Costituzionale non è meno accentratore nei rapporti con gli stretti collaboratori, tanto che i favori piovono inopinatamente sul cortigiano che sappia farsi notare con battuta appropriata, fatta scivolare all’orecchio del Re nel momento opportuno: le «petites causes» cui era attentissimo il memorialista. [...].

  Il quartiere appare già come emblema massimo delle aspirazioni sociali ma non vive di vita propria; [...] il Faubourg non assume il rilievo di coprotagonista come avverrà tre anni dopo per La Duchesse de Langeais, seconda parte della Histoire des Treize con cui, non a caso, si inaugura il mito di Parigi nella narrativa balzacchiana. Solo a questo momento il Faubourg acquista di per sé dignità di creatura letteraria e vive in osmosi col carattere della protagonista con la consapevolezza e la coscienza poi altamente rivendicate dal Balzac per il tramite di Davin: «oeuvre toute aristocratique, qui ne peut être comprise qu’au faubourg Saint-Germain dont M. de Balzac a été, dont il sera le seul peintre».

  Ne touchez pas à la Hache, come si titolava originariamente La Duchessa de Langeais, è iniziata nel ’33 e ultimata nel ’34 [...]. La novella inizia in medias res con avvincente tecnica poliziesca, di cui il romanziere era stato, dopo Hoffmann, maestro: il parlatorio delle carmelitane scalze nel convento di clausura su di un’isola non troppo distante dalla costa andalusa; al di qua della grata, il generale napoleonico Montriveau, al di là Suor Teresa a colloquio speciale col conterraneo, sotto la stretta sorveglianza della madre superiora; la suora parla di sentimenti sublimi, da destini eterni; il militare le ricorda un amore passato e l’invita alla fuga [...]. L’oggetto, che proprio grazie alla tecnica balzacchiana entra in letteratura con prorompente rilievo simbolico-funzionale, interrompe, alla lettera, la scena; la cortina del parlatorio cala improvvisa, come una ghigliottina, a separare le due scene: quella dell’isola e il flash-back parigino. Ha inizio qui l’ampio excursus relativo al Faubourg, inserito con doppia motivazione, funzionale al racconto e di vero trattatello socio-politico da parte del legittimista convinto ma senza troppe illusioni; esso serve da introduzione al romanzo parigino volto ad illustrare la situazione retrospettiva, capace di chiarire la posizione dei due personaggi in campo — ma Balzac, come prima Saint-Simon, dice in scena: sotto le spoglie di Suor Teresa si nasconde il fiore più raro dell’aristocrazia parigina, il prodotto più raffinato e al contempo perverso, nel senso etimologico di pervertito, del Faubourg Saint-Germain, la cui descrizione inizia con tono perentorio [...].

  La definizione è condotta in negativo: non un quartiere, non una setta, non un’istituzione, ma, quasi in dimostrazione a contrario, si suggerisce, con procedimento metonimico, l’appartenenza a ciascuna delle realtà negate: non un quartiere nettamente delimitato, tuttavia una realtà topografica; non una setta, eppure un ambiente altamente selettivo e selezionato; non un’istituzione e pur tuttavia la facciata rappresentativa della nazione. [...].

  La tradizione faubourg Saint-Germain, giustapposizione qualificativa che ne accentua, come si può notare, l’aspetto di modello astratto, riprende da circa mezzo secolo la funzione precedentemente assolta dalla Corte; e di questa è un surrogato, dopo l’interruzione storica dovuta alla Rivoluzione, a cui fa da contraccolpo l’altra «révolution aristocratique commencée le jour où la monarchie quitta Versailles». A seguito di questa seconda «rivoluzione» nasce il Petit Château, la società del Faubourg, non esattamente coincidente col governo del paese, anche se il potere sarà per il Balzac «plus ou moins faubourg Saint-Germain», almeno in Francia. [...]. Inutile dire che sarà proprio l’aspetto di casta ad interessare particolarmente Proust il quale, del modello nobiliare balzacchiano, accentua il tratto di classe rappresentativa ma non più dirigente, come nell’annotazione più pessimista del trattatello balzacchiano, laddove si prende in esame l’etichetta, istituzione di seconda necessità, che ha preso il sopravvento sul potere reale: il lato protocollare della società, il simbolo in luogo della cosa, che era stato territorio privilegiato del memorialista secentesco, «greffier» dei duchi e pari sul baratro del cui «néant» il mondo proustiano si innesta. [...].

 

 

  Paolo Pinto, «Louis Lambert» di Balzac. Il conflitto tra il mondo e l’assoluto, «Il Popolo», Roma, Anno XLI, n. 140, 14 giugno 1984, pp. 8-9.

 

  Dallo studio critico presente nella traduzione italiana di Louis Lambert pubblicata dall’editore Lucarini di Roma.

 

  Questo romanzo giovanile e misconosciuto del grande narratore francese è meritevole d'essere letto e studiato non solo per le tematiche anticipatrici e suggestive che vi sono svolte, ma anche perché esso getta luce sull’opera e sulla vita dell’autore. Una narrazione intrisa di fantastico che evidenzia temi e problemi che saranno propri dei simbolisti.

 

  Ci sono biografie facili da scrivere: quelle per esempio degli uomini la cui vita brulica di avvenimenti e di avventure: in tal caso non dovremmo far altro che registrare e classificare fatti e rispettive date: — ma nel caso nostro non v’è nulla di quella varietà materiale che riduce il compito di uno scrittore a quello di un compilatore Null’altro che un’immensità spirituale! La biografia di un uomo le cui più drammatiche avventure si svolgono silenziosamente sotto la cupola del suo cervello è una fatica letteraria di tutt’altro ordine ... Chi mai potrebbe concepire una biografia del sole? E’ una storia che, da quando l’astro ha dato segni di vita, abbonda di monotonia, di luce e di grandezza». Questa osservazione che Baudelaire svolge con riferimento a Gautier, ci è parsa come la sintesi migliore, anche se involontaria, del Louis Lambert, romanzo giovanile e misconosciuto di Honoré de Balzac, romanzo certo non esente da vizi e da imperfezioni, e tuttavia meritevole di essere letto e studiato, non solo per le tematiche anticipatrici e suggestive che vi sono svolte, ma anche perché esso getta luce sull’intera opera e sulla vita del grande narratore francese.

  Louis Lambert è per l’appunto la biografia di un cervello, la storia di una vita ideale tutta vissuta e sofferta interiormente, il conflitto tormentoso e l’impossibile conciliazione tra l’essere che ha intravisto l’assoluto e il mondo che è immerso nel contingente. Nel romanzo viene narrata la vicenda di un ragazzo, Louis Lambert, che fin dalla più tenera età dimostra straordinarie doti di intelligenza. Scoperto da madame de Staël, viene avviato agli studi nel collegio di Vendôme, dove fa la sua conoscenza con Balzac, di due anni più giovane. Tra i due, affini per carattere, per temperamento e per vocazione, si stabilisce immediatamente un rapporto di intensa e fraterna amicizia. Lambert sembra smentire le belle speranze suscitale dal lusinghiero giudizio di madame de Staël. Incapace di partecipare ai giochi degli altri ragazzi, egli viene considerato una specie di idiota. I soli conforti sono la capacità di comprensione che gli dimostra il suo unico amico, le letture intense e appassionate che gli svelano l’esistenza di un mondo-altro puro e incontaminato. Si rinchiude perciò nel mondo delle idee, sperimenta e potenzia le facoltà del suo essere interiore, acquista una seconda vista di cui si serve per esplorare l’invisibile. Tutto questo diviene ben presto un vero e proprio sistema volto a definire i rapporti reali esistenti tra l’uomo e Dio, il mondo fisico e quello metafisico. I due ragazzi si separano, ciascuno proseguirà da solo per la propria strada. Lambert lo ritroviamo a Parigi dove porta a compimento gli studi. Ma la vita della grande città, dominata dai falsi valori e dall’onnipotenza del denaro, dove tutto sembra scoraggiare «il volo diritto di uno spirito che tende all’avvenire», dove «la forza è sempre l’unica legge e il successo la sola saggezza», acuiscono la sua inettitudine a vivere. Torna allora al suo paese. Ma qui la sua vita subisce imprevedibilmente e improvvisamente una svolta. Si innamora follemente di una donna. Pauline de Villenoix, che restituisce linfa vitale e gioia di vivere al suo cuore smarrito e dolente. I suoi sensi che fino a quel momento si erano schiusi soltanto alla comprensione dell’invisibile, cominciano a percepire i piaceri fisici. Egli passa così dall’idealismo puro al sensualismo più acuto. Louis e Pauline decidono di sposarsi, ma alla vigilia del matrimonio egli impazzisce. Dapprima cade in uno stato di catalessi, poi in una malinconia cupa, da cui sprofonda lentamente verso il silenzio e la morte. Perché una fine tanto tragica? Nel romanzo è avanzata una ipotesi: «forse egli ha visto nei piaceri del matrimonio un ostacolo alla perfezione del suo essere interiore e al suo volo attraverso le regioni dello spirito». In altri termini qualsiasi esperienza reale, anche la più positiva e gratificante, è inadeguata a soddisfare il bisogno di assoluto che è nell’uomo. E, al tempo stesso, nessuna vita vissuta esaurisce il reale che è nell’uomo, un reale complesso di cui fanno parte i sogni, i desideri, le paure, le volizioni, i turbamenti dell’anima e i dubbi della mente. E, infine, un’altra conseguenza: che soltanto l’individuo «è la misura di tutte le cose».

  Louis Lambert fu pubblicato nel 1832 in pieno clima romantico. Solo più tardi si parlerà, con riferimento anche all’opera di Balzac, a torto o a ragione, di realismo, e quindi di naturalismo, e infine di simbolismo Ma indubbiamente questo romanzo anticipa temi e problemi che saranno acutamente avvertiti e suggestivamente svolti dai simbolisti. Scrive Poe: «So che l’indefinitezza è un elemento della vera musica poetica — intendo della vera espressione musicale ... un’indefinitezza suggestiva, di effetto vago e perciò spirituale». E commenta Edmund Wilson: «L’effetto di indefinitezza cui allude Poe nasce non soltanto dalla confusione tra mondo fantastico e mondo reale, ma anche da un’ulteriore confusione tra i dati dei diversi sensi». Ma ancor più insistente nella poetica simbolista è il tema della volgarità della vita presente e della fuga dalla realtà come unica via praticabile. «Eliot sente in ogni momento che la vita umana d’oggi è ignobile, sordida, addomesticata E così pure Henry James per il quale «la paura della vita è strettamente legata alla paura della volgarità». Concezione che sarà portata alle estreme conseguenze da Proust, la cui Ricerca può essere considerata come l’applicazione più coerente e sistematica dei principi del simbolismo alla narrativa. «Le immagini mutevoli del poeta simbolista, con le loro associazioni multiple, sono qui personaggi, situazioni, luoghi, momenti vividi, emozioni ossessive, modelli ricorrenti di comportamento ... Siamo nel mondo vago del sonno: il narratore chiuso nel buio della sua stanza, ha perduto ogni senso della realtà esterna ...» Altrove, come in Villiers de l’Isle-Adam. la fuga nel sogno non sembra una difesa sufficiente contro la volgarità della vita. Il conte Axel di Auersburg in Axel, una sorta di poema drammatico in prosa, vive in volontario esilio dal mondo, chiuso nel suo castello. Sara, una donna bella e innamorata della vita, viene a tentarlo, a pregarlo di realizzare i propri sogni. Ma Axel. dopo aver sognato per una notte la felicità dell’amore, sa di non poter vivere più nulla. «Consentire, dopo questo, a vivere, non sarebbe che un sacrificio contro noi stessi. Vivere? I nostri servi lo faranno in vece nostra ...». Da Lambert ad Axel c’è una linea di continuità Anche Lambert, dopo aver cullato le sue tenui e tenere illusioni sugli angeli, scopre attraverso una seconda vista, ignota ai più, che il nostro mondo oltre che volgare è ingannevole. Il mondo è il luogo nel quale gli uomini vegetano, per questo Lambert respira anzi tempo l’aria dei cieli. Il poeta dunque «si fa veggente» e arriva all’ignoto. «Perché ha coltivato la sua anima già ricca, più di chiunque! Arriva all’ignoto e quando, reso folle, finirebbe per perdere l’intelligenza di ciò che ha visto, pure ha visto».

  Louis Lambert è dunque un romanzo anticipatore. Ma questo non basta a definirlo. Che tipo di romanzo è? Che posto occupa all’interno della vasta opera balzachiana? Può aiutarci a meglio comprenderne l’ispirazione, la direzione e il senso? Temeremo di rispondere a questi interrogativi.

  Louis Lambert può essere considerato un romanzo fantastico. Si ha il fantastico — osserva Todorov — quando «in un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo ... si verifica un avvenimento che non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare». «Il protagonista — precisa Reimann — sente continuamente e distintamente la contraddizione tra i due mondi, quello del reale e quello del fantastico e lui stesso è stupito davanti alle cose straordinarie che lo circondano». «Tutto il fantastico — afferma infine Caillois — è rottura dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile in seno all’inalterabile legalità quotidiana». Caratteri che, con più o meno evidenza, ricorrono tutti nel Louis Lambert. Lambert vive e opera «in un mondo che è sicuramente il nostro», ma di cui avverte i limiti angusti quando scopre le straordinarie facoltà dell’essere interiore. Dinanzi a quell’abisso che gli si spalanca egli non si ritrae, ma procede spedito verso la conoscenza del mistero che è nell’uomo e dell’infinito che lo sovrasta: e giunge infine, forse per sua disgrazia, ad afferrare delle leggi inaccessibili alla maggior parte degli uomini.

 

 

  Marcel Proust, Scritti mondani e letterari. Edizione italiana condotta sul testo critico francese stabilito da Pierre Clarac e Yves Sandre, a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino, Giulio Einaudi editore, 1984 («I Millenni»), pp. 63-101; 502-504; 547-549.



  Rita Puliatti, Le théâtre de H. de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alan Freer, Università degli Studi di Pisa, 1984.

 

 

  Rainer Maria Rilke, Lettera a Clara Westhoff del 9 ottobre 1907, in Lettere su Cézanne, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Electa, 1984, pp. 49-50.

 

  A Parigi [Cézanne] era ormai conosciuto, e lo fu sempre di più. Ma nei confronti di simili progressi, che non era lui a fare (ma che altri facevano e come ...) nutriva soltanto diffidenza; troppo presente era ancora nella sua memoria l’immagine equivoca del suo destino e delle sue aspirazioni che Zola (compagno suo fin dalla gioventù e suo conterraneo) aveva delineato di lui in L’Oeuvre. Da quel momento fu chiuso ad ogni forma di letteratura: «travailler sans le souci de personne et devenir fort» gridò un giorno ad un suo visitatore. Ma poi si alzò, nel bel mezzo del pranzo, quando questi raccontò di Frenhofer – il pittore che Balzac, con un’incredibile previsione degli sviluppi futuri, ha inventato nel suo racconto Le chef-d’oeuvre inconnu (di cui ti ho parlato una volta), e che fa naufragare di fronte ad un compito impossibile, perché scopre che in verità non ci sono linee di contorno, ma soltanto passaggi oscillanti –, sentendo questo il vecchio si alza da tavola, benché Madame Brémond certamente non vedesse di buon occhio tali sregolatezze, e, senza voce per l’eccitazione, punta il dito, ripetutamente, con chiarezza su se stesso e mostra sé, sé, sé, per quanto di doloroso poteva esserci in questo. Non era stato Zola a capire di che si trattava; Balzac aveva presentito che dipingendo poteva accadere d’imbattersi in qualcosa di gigantesco di cui nessuno era in grado di venire a capo.

 

 

  [Charles Augustin de] Sainte-Beuve, Su Balzac, in I miei veleni. Introduzione di Jacqueline Risset. Traduzione di Carla Ghirardi, Parma, Pratiche editrice, 1984 («Archivi», 7), pp. 69-70.

 

  Dopo avere letto il mio articolo sulla «Revue des Deux Mondes», Balzac disse: «Mi vendicherò crudelmente di Sainte-Beuve. Rifarò Volupté». E ha fatto Le lys dans la vallée.

  Si potrebbe ammettere che, in effetti, si è vendicato, solo se certe opere potessero essere insozzate da certe vicinanze. – Balzac è un medico (vagamente subornatore), specialista in malattie sottocutanee, in malattie linfatiche, di quelle che si tengono segrete, una via di mezzo tra Alibert e Cuvillier – C’è in lui qualcosa del dottore che si prende delle libertà con le sue pazienti, che si intrufola nelle alcove, ... qualcosa del manicure e del capo ameno. Molte donne, anche oneste, ci sono cascate. In altri tempi, lo avrebbero forse citato in giudizio per stregoneria. È un mercante di oggetti da toeletta che vende, compra ... e procaccia.

  Decisamente, Balzac è il Pigault-Lebrun delle duchesse.

  Enrico IV ha conquistato il suo regno una città dopo l’altra. M. de Balzac ha conquistato il suo pubblico morboso malattia per malattia (oggi le donne di trent’anni, domani quelle di cinquanta, posdomani le clorotiche, in Claës le deformi). Della salute, non c’è mai nemmeno l’ombra.

  Ampère dice di Balzac: «Che strano! dopo aver letto quelle cose (certe descrizioni sconcie, ignobili, triviali), mi pare sempre di dovermi lavare le mani, o di dover spazzolare gli abiti che indosso».

  Il più fecondo dei nostri romanzieri, Balzac, ha avuto bisogno di un mucchio di letame più alto di questa casa per far nascere qualche fiore malato e raro. Ed ora che non ci sono più fiori, e non ne spunteranno altri, il letamaio cresce, cresce continuamente.

  Decisamente, la fama di Balzac si estende come un cancro: bisogna chiamare Ricord.

  Anche nei romanzi migliori, Balzac ha sempre mantenuto un poco della bassezza e, per così dire, della crapula degli esordi.

  Ogni critico ha la sua selvaggina preferita, quella su cui finisce più spesso e che ama di più fare a pezzi ... Per me è Balzac.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Vautrin. Interpreti: Franco Volpi, Ferruccio Amendola, Anna Miserocchi, Radiouno, 29 maggio 1984.

 

 

 

Adattamenti televisivi.

 

 

  Invito al teatro. Honoré de Balzac, «Il colonnello Chabert», Videouno, 17-18 gennaio 1984.



Marco Stupazzoni

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