sabato 21 novembre 2020



1987

 

 

 

 

Estratti in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Extraits notés et commentés par Giovanni Bianco, Roma, Società editrice Dante Alighieri, 1987, pp. XV-234.

 

  Cfr. 1936 e successive ristampe.




Estratti.

 

 

  [Honoré de Balzac], Una commedia umana parola di Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno 64°, n. 7, 9 gennaio 1987, p. 21.

 

  Fra il serio e il faceto ecco alcune massime di Honoré de Balzac, tratte dal «Trattato della vita elegante» pubblicato sulla rivista «La mode» nel 1830.


  La vita elegante è lo sviluppo della grazia e del gusto in tutto ciò che ci è peculiare e ci circonda.

  Un uomo diventa ricco, egli nasce elegante.

  Sebbene l’eleganza sla meno un’arte che un intuito, essa deriva in ugual modo da un istinto e da un’abitudine.

  Restano fuori dalla vita elegante i venditori al minuto, gli uomini d’affari, i professori dl materie umanistiche.

  L’essere che non viene spesso a Parigi non sarà mai completamente elegante.

  L’uomo sgarbato è il lebbroso del mondo fashionable.

  L’effetto essenziale dell’eleganza consiste nel mantenere nascosti i mezzi.

  Tutto ciò che rivela un’economia è inelegante, l’economia assomiglia all’olio che dà scorrevolezza e leggerezza alle ruote di una macchina non bisogna nè vederlo né sentirlo.

  La cura è il sine qua non dell’eleganza.

  Bisogna che ogni cosa appaia com’è.

  La profusione degli ornamenti nuoce all’effetto.

  In ogni cosa la molteplicità dei colori sarà considerata di cattivo gusto.

  L’incuria della toletta è un suicidio morale.

  Il bruto si copre, il ricco e lo sciocco si parano, l'uomo elegante si veste.

  Uno strappo è una disgrazia, una macchia è un vizio.

  La vita elegante è, in un’ampia accezione del termine, l’arte di animare il riposo.

  L’uomo abituato al lavoro non può comprendere la vita elegante.

  Essendo l’abito il più energico di tutti i simboli, la Rivoluzione fu anche una questione di moda, una disputa fra la seta e il panno.

 

 

  Honoré de Balzac, Che fatica sposarsi, «Il Piccolo», Trieste, 28 maggio 1987, p. 6.

 

  Vademecum un po’ maschilista per aspiranti mariti. [da Fisiologia del matrimonio].

 

 

  Honoré de Balzac, “Diventerà un monumento”. Traduzione di Giancarlo Menichelli, «Il Mattino», Napoli, Anno XCVI, N. 44, 14 Febbraio 1987, p. 15.

 

  Centocinquantotto anni fa la storia di «Fragoletta» piacque a Honoré de Balzac. Il grande letterato francese recensì l’opera narrativa di Henri de Latouche sul «Mercure de France» [dicembre 1829] e concluse l’articolo con una significativa profezia ...

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Addio. Introduzione e traduzione di Alfredo Di Laura, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 1987 («il colibrì», 3), pp. 95.

 

  Trascriviamo il testo delle Note alla traduzione che segue l’Introduzione di A. Di Laura al racconto balzachiano (p. 31).

 

  La lingua di Balzac è ricca di interiezioni, esclamazioni, vezzeggiativi, ampollosità retoriche, specialmente nei dialoghi dei personaggi. Abbiamo cercato di eliminare queste caratteristiche, troppo francesi, che hanno il solo risultato di rendere ridicolo il discorso italiano.

  Alcune battute gergali o popolari, messe in bocca a soldati, dovevano piacere molto al non purista Balzac; intraducibili alla lettera, sono state sostituite da espressioni equivalenti italiane, anche se si è perduta un po’ della freschezza originale.

  I titoli nobiliari, se non preceduti dal nome proprio, non dovrebbero essere anticipati dal «de». Ma in Italia, nell’uso corrente e giornalistico, noi diciamo «de Gaulle» e non già «Gaulle» (come sarebbe più corretto). Abbiamo preferito la forma più scorretta, ma più accettabile per il suono italiano.

  Alcune battute più tipicamente legate al lessico della prima metà del XIX secolo (esempio: l’Art. 304 del Codice Penale) le abbiamo lasciate integre e sono generalmente comprensibili nell’insieme della frase.

 

 

  Honoré de Balzac, I Capolavori della “Commedia umana”, Roma-La Spezia, Gherardo Casini Editore-Casa del libro Fratelli Melita editori, 1987 («I Grandi Maestri»), 6 voll. [Papà Goriot; Il colonnello Chabert; Un tenebroso affare; Facino Cane; Sarrasine; La donna di trent’anni; Il medico di campagna; I segreti della principessa di Cadignan; César Birotteau; La cugina Bette; Il cugino Pons; Il rovescio della storia contemporanea; Il curato di Tours; L’illustre Gaudissart; Il gabinetto delle antichità; I contadini; Introduzione di Balzac; Al gatto che gioca a pelota; Il ballo di Sceaux; Memorie di due giovani spose; La borsa; Modeste Mignon; Le Marana; Séraphita; Louis Lambert; Ferragus; La duchessa di Langeais; La fanciulla dagli occhi d’oro].

 

  Cfr. 1950; 1952; 1958; 1959 1960.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Introduzione di Enea Balmas. Traduzione di Renato Mucci, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1987 («Tesori della narrativa universale»), pp. 169.

 

  Cfr. 1983.

 

 

  Honoré de Balzac, Fisiologia del matrimonio, a cura di Emilio Faccioli, Torino, Giulio Einaudi editore, 1987 («Gli Struzzi», 317), pp. XX-304.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Garzanti Editore, 1987 («I grandi libri», 36), 2 voll., pp. LXIII-653.

 

  Cfr. 1966; 1983.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli. introduzione, cronologia e bibliografia di Giovanni Bogliolo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1987 («Oscar classici», 69), pp. 304.

 

  Cfr. 1985.

 

 

  Honoré de Balzac, Père Goriot. Traduzione di Mara Fabietti e Emma Defacqz. Introduzione di Ferdinando Camon, Milano, Garzanti Editore, 1987 («I grandi libri», 90), pp. XXIII-261.

 

  Per la traduzione, cfr. 1969; 1983; 1984.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Parigi: riapre la casa di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 121, Numero 95, 23 Aprile 1987, p. 3.

 

  La casa di Honoré de Balzac, proprietà del Comune di Parigi dal 1949, viene riaperta al pubblico dopo una riorganizzazione delle sale e una diversa disposizione del materiale in esse contenuto. Quella che lo stesso scrittore francese aveva chiamato la «capanna di Passy» e in cui aveva fatto compiere «lavori per mille franchi» offre oggi la sorpresa di una casa di campagna non lontana dal centro di Parigi (47, rue Raunouard (sic), XVI arrondissement). Al suo interno sono in mostra manoscritti autografi, come la prefazione del Parroco del villaggio in cui per la prima volta Balzac evoca il progetto, della sua monumentale Commedia, umana, lettere e contratti di edizione firmati dallo scrittore. Al piano terra, un affresco lungo dieci metri illustra la genealogia dei circa duemila personaggi della Commedia umana.

 

 

  Quei serial di carta, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno 64°, n. 148, 24 giugno 1987, p. 23.

 

  Balzac, Dumas, Sue, Zola, Verne, ma anche tanti nomi oggi dimenticati: ecco i padri del «feuilleton». 150 anni d’appendice in mostra a Parigi.

 

 

  Luciana Alocco Bianco, La materia e il pensiero. Nota sull’ “Illustre Gaudissart”, Trieste, Libreria Goliardica, 1987 («Università degli studi di Trieste. Facoltà di Economia e Commercio. Istituto di Lingue straniere moderne»), pp. 29.


  Utile e ideale, arte e reale, «materia e pensiero»: le coppie antitetiche — l’ultima delle quali è tratta dall’Illustre Gaudissart di Balzac — sono funzionali alla caratterizzazione di due mondi: quello degli affari e quello dell’arte nel primo periodo della Monarchia di luglio. Il Balzac dell’Illustre Gaudissart è il testimone che privilegiamo — pur consapevole dell’arbitrarietà e delle limitazioni di qualsiasi scelta — per fare apparire gli aspetti contraddittori di questa epoca in cui l’economico invade e aggredisce il campo letterario. Il conseguente incontro o scontro al quale lo scrittore, nolente o volente, è costretto, crea dilemmi sulla funzione, sul significato, sull’indipendenza o meno dell’arte, e l’artista tenta di sciogliere i nodi, arte sociale o arte per arte, e di affrontare il problema del suo ruolo: artista solitario o solidale? [...].

  Figura emblematica della società della Monarchia di luglio, Gaudissart lascia la «materia per il pensiero». La speculazione non risparmia il campo intellettuale, le idee possono essere vendute come una qualsiasi altra merce e attraverso l’«Illustre» Balzac riesce a tracciare ironicamente il quadro della situazione. Per sottolineare la nascita di Gaudissart a questo nuovo tipo di commercio Balzac ricorre all’immagine del neonato con il relativo vocabolario di «fasce», «svezzamento» [...].

  Balzac gioca con le parole per creare e fissare i molteplici atteggiamenti del personaggio. Le espressioni originali, i neologismi gli servono per sottolineare l’innato spirito commerciale del suo eroe [...].

  La parola è un elemento essenziale, un supporto indispensabile per la diffusione della civiltà, e rappresenta, attraverso la pubblicità, una forte carica propellente per il commercio soprattutto in questa epoca di «rivoluzione industriale» [...]. È infatti attraverso la parola che Gaudissart si fa il procacciatore di capitali, termine-chiave quest’ultimo del racconto [...].

  Da questi termini del linguaggio economico che spaziano dal campo assicurativo a quello commerciale isoliamo i vocaboli ad alta frequenza: «affaire», «assurance», «banquier», «capital», «exploitation». Ma il vocabolo-cardine in assoluto è, come abbiamo già detto, «capitale» che ritorna per ben 19 volte. Accanto ai gruppi unitari «assurances sur (la vie et) les capitaux», «Assurances de capitaux» emerge l’espressione «capitale/i intellettuale/i» alla quale va abbinata quella dello «sfruttamento intellettuale», «fabbrica intellettuale», che denota come dall’inizio alla fine del racconto Balzac affronti la problematica «materia» e «pensiero», economia e arte, artista e reale. La ripetizione di capitale/i intellettuale/i ricorre per ben 8 volte ed è concentrata nel dialogo Gaudissart-Margaritis, dialogo di sordi, «histoire de malentendu» [...].

  L’utopistico avvenire del genio tracciato [...] da Gaudissart rivela in effetti un’insistente idea di Balzac comune del resto ai suoi contemporanei: l’Artista-sovrano ma che deve combattere contro l’incomprensione della società [...].

  Balzac e alieno dalle battaglie estetiche, egli preferisce quelle reali come dimostra la Lettre adressée aux écrivains français du XIXe siècle. Anche se è radicata in lui l’immagine romantica dell’artista-prete-profeta-re-Cristo egli resta un primario testimone della società in cui vive, una società messa in movimento e cambiata dal denaro. Balzac non condanna, ma intuisce che è l’epoca in cui l’«exploitation matérielle» è saldamente legata alla«exploitation intellectuelle», l’epoca in cui l’«homo novus» — nella fattispecie Gaudissart, commesso viaggiatore, — è colui che sa cogliere il mutamento e vivere in base ad esso. Se l’ideale è indissolubilmente legato all’utile, è sterile e vano continuare a separare le due categorie. È doveroso invece promuovere azioni perché l’artista possa godere di quel benessere che la crescita economica ha portato in tutti i campi, e perché possa riguadagnare quel posto privilegiato che da sempre ha avuto, anche in seno a società primitive, ma che l’attuale «civilisation», questa «gueuse dorée», dominata dalla mentalità utilitaristica gli rifiuta, senza capire che assicurargli un avvenire sereno, esente da problemi finanziari, è un investimento certo [...].

  L’immagine pregnante del potente convitato e del festino che Balzac adopera nell’Illustre Gaudissart e in questo articolo della «Silhouette» del 22 aprile 1830 riflette la sua volontà di partecipazione e non di emarginazione, ma soprattutto il suo proprio «appetito» «de vie et de puissance».

 

 

  Bruno Bellotto, Ricerca dell’assoluto, La (La recherche de l’absolu). Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), in AA.VV., Dizionario dei Capolavori, Torino, U.T.E.T., 1987, Vol. III, p. 1437.

 

  [...]. Come nel precedente — Pelle di zigrino, Balzac ha voluto rappresentare qui la «tragica fatalità di un personaggio che «brucia» se stesso in una frenesia, sia pur geniale, di godimento o di potenza.

  In una ricca casa di Douai, la cui «fisiologia» è descritta in un’ampia ouverture, vive Balthazar Claës con la moglie, Joséphine, la primogenita, Marguerite, e altri tre figli, Félicie, Gabriel e Jean. Dopo quindici anni di vita agiata e felice con Josephine (brutta e storpia, ma animata da una bellezza più profonda che le viene dal suo amore corrisposto), Balthazar, che aveva studiato in gioventù con Lavoisier, è sollecitato a riprendere le sue ricerche, fra chimica e alchimia, da un colloquio con un esule polacco che lo convince dell’esistenza dell’Assoluto. Balthazar si chiude, con il fedele domestico Lemulquinier, nella solitudine dei suoi pensieri ed esperimenti in una soffitta della casa trasformata in laboratorio, dilapidando rapidamente la fortuna sua e della moglie. Pur continuando ad amare la famiglia (unita nell’incondizionata accettazione delle sofferenze e dei sacrifici imposti dalle ricerche del genio), egli si dedica interamente alla ricerca dell’Assoluto: alla scoperta del misterioso principio comune ai corpi semplici (azoto, idrogeno, ossigeno e carbonio — che egli spera di trasformare in diamante) della Prima Materia. Analizzando, decomponendo e bruciando i corpi semplici, egli dissolve e brucia, parallelamente e involontariamente, l’esistenza della moglie, dolorosamente gelosa della Scienza eppure disposta ad assecondare il marito, fino al punto di studiare quella chimica che lo ha sottratto al suo amore. Joséphine muore dopo aver affidato a Marguerite il ruolo di figlia-madre di Balthazar: il compito di resistere con severità e amore alla geniale follia del padre, al fine di preservare parte del patrimonio familiare per i fratelli. Marguerite, dopo aver resistito alle interessate lusinghe di suo cugino, il notaio Pierquin, s’innamora segretamente di Emmanuel, angelica figura che la conforta e l’aiuta con devozione e amore assoluti. Balthazar sembra rinunciare, per qualche tempo, alle sue ricerche, ma quando vi «ricade», spinto da un insopprimibile desiderio di conoscenza e di potenza, si trova a fronteggiare una ben più ferma, anche se sofferta, opposizione della nuova «madre». Marguerite lo costringe ad allontanarsi da Douai e ad accettare la gestione della riscossione delle imposte in Bretagna. Nel frattempo, opportunamente consigliata da Emmanuel e per assolvere il compito affidatole dalla madre, Marguerite ricostruisce il patrimonio familiare. In occasione del matrimonio suo con Emmanuel, di Félicie con Pierquin, e di Gabriel, ella accoglie festosamente il padre, di ritorno dall’esilio in Bretagna (dove aveva, in qualche modo, proseguito i suoi esperimenti). Durante il lungo viaggio in Spagna di Marguerite e Emmanuel, la passione mai sopita di Balthazar si risveglia un’ultima volta: ormai vecchio e logorato dal proprio «furore», egli tenta ancora la ricerca della pietra filosofale, consumando il patrimonio riacquisito dalla figlia. Oggetto dello scherno dei ragazzi di Douai, egli crolla definitivamente: immobilizzato da una paralisi, morirà, assistito da Marguerite, esclamando «Eureka!». Questo lungo racconto ha, per molti versi, l’aspetto di una tragedia moderna: all’amore della — e per la — famiglia, agli imperativi sociali di preservazione e aumento del patrimonio, al dettagliato elenco dei beni venduti e acquisiti di volta in volta, fa da contrappeso lo sforzo titanico del genio, il suo tentativo «assoluto» di ricerca, la sua lenta autocondanna a morte. Decomposizione-analisi dei corpi «semplici» e «umani», da un lato; impossibile unità della materia e possibile, ma a sua volta «sublime», unità del corpo familiare, dall’altro: l’alchimia è qui la scienza lacerante e la metafora — il sogno — di una mitizzata unità familiar-sociale intorno alla spoglia del genio-pharmakos. [...].

 

  Séraphita. Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), Ibid., pp. 1541.

 

  [...]. La storia è introdotta da una sorta di rêverie balzacchiana sulla carta geografica della Norvegia, strettamente intrecciata con una solida documentazione sulla morfologia del paese. Nell’inverno tra il 1799 e il 1800, a Jarvis, piccolo villaggio norvegese sulle rive dello Stromfiord e addossato alle «piramidi bianche» dell’inaccessibile Falberg, vivono il pastore Becker con la figlia Minna, il giovane Wilfrid, dal passato oscuro e tormentato, e un essere, Séraphitus-Séraphita, nato da un discepolo di Swedenborg.

  In un luminoso mattino, due creature (due «frecce») scalano, quasi volando, le pareti del Falberg. Sono Minna e Séraphitus. La giovane, guidata dalla forza inesplicabile dell’essere, gli dichiara il suo amore. Séraphitus, dal cui corpo «marmoreo» si sprigionano una «forza» e un «riposo» superiori e inesplicabili per Minna, le consiglia di rivolgere il suo sentimento verso Wilfrid. La virile superiorità di Séraphitus si trasforma, agli occhi del pastore Becker, nella grazia di Séraphita. L’essere misterioso riceve, nel castello svedese di Javis dove vive con il vecchio — e «iniziato» — servitore David, la visita di Wilfrid che «le» offre insistentemente il suo amore, nato dalla «pura e celeste» apparizione di Séraphita in chiesa e alimentato dalla sua «scienza mostruosa» e dall’abisso di senso che la sua Parola incomprensibile dischiude. Ma, per Séraphita, Wilfrid e Minna sono già confusi in un unico essere, mentre per sé egli/ella vede soltanto il sofferto cammino verso il Cielo. Spetta al pastore Becker la spiegazione dei fondamenti della duplice natura dell’essere. Alla presenza di Minna e di Wilfrid, egli si dilunga in un’ampia e approfondita esposizione-discussione delle teorie di Swedenborg (per tutta la parte centrale del romanzo che, da qui in poi, assumerà sempre più i toni della dissertazione mistico-filosofica). Gli angeli sono dapprima uomini, ma uomini nati per essere angeli: nel loro divenire angeli (e tutto il testo è focalizzato intorno a tale processo), essi percepiscono le segrete corrispondenze fra naturale, spirituale e, infine, divino, fra visibile e invisibile, fra caducità terrena (ancora subita nei tentennamenti) ed eternità del Cielo. A nulla servono le offerte di imperi conquistati da parte di Wilfrid, né le dolci e ingenue richieste di Minna: Séraphita, nella sua ascesi, completa l’iniziazione dei due fidanzati, rivelando loro corrispondenze universali e additando «il cammino che conduce al Cielo». Minna e Wilfrid assistono all’indicibile morte-trasfigurazione di Séraphita in Serafino; avendo intravisto gli Alti Misteri, essi si dispongono, come un solo essere, a percorrere, mano nella mano, il cammino verso Dio. [...].

 

 

  Sergio Blazina, Curato di Tours, Il (Le curé de Tours). Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), in AA.VV., Dizionario dei Capolavori ... cit., Vol. I, p. 398.

 

  [...]. È l’autunno del 1826. L’abate Birotteau è un sessantenne tranquillo, tormentato dalla gotta ma soddisfatto della propria condizione. Egli ha raggiunto infatti, dopo lunga attesa, i due traguardi più desiderati: è da dodici anni vicario della cattedrale di Tours e da due pensionante nella confortevole casa di M.lle Gamard, un’anziana bigotta. In questo alloggio è vissuto a lungo, arredandolo con cura, il più caro amico di Birotteau, l’abate Chapeloud. Un’invincibile concupiscenza ha portato Birotteau ad augurarsi intimamente la morte di Chapeloud per subentrargli nella casa e questo desiderio si è compiuto, perfezionato dall’eredità della biblioteca e dei mobili che egli ha ricevuto dal defunto. Birotteau è un egoista ingenuo, privo di tatto e di intelligenza sociale: si attira l’ostilità della suscettibile padrona di casa, offendendola involontariamente nelle sue ambizioni salottiere; inoltre, non si accorge di avere accanto un terribile nemico nell’altro pensionante, l’abate Troubert. Questi è un ambizioso che Chapeloud ha sempre tenuto a distanza, costringendolo a mascherare l’odio col rispetto. La Gamard e Troubert ordiscono una trama ai danni di Birotteau: facendogli pesare un’ostilità ormai scoperta, lo spingono a soggiornare per qualche tempo in campagna e contestano quindi, per mezzo dell’avvocato Caron, la sua condizione di affittuario. Intanto Troubert è divenuto vicario generale e da lui dipende la nomina a canonico di Birotteau. Quest’ultimo si vede costretto a rinunciare per iscritto all’alloggio, che viene occupato da Troubert. Una clausola del contratto d’affitto lo priva anche della biblioteca e dei mobili ereditati. Birotteau, beffato, trova accoglienza presso la vecchia baronessa di Listomère, che lo compiange. La congiura di cui è vittima divide in due partiti d’opinione la città. Nonostante i numerosi pareri contrari, il nipote della baronessa spinge Birotteau ad internare una causa legale, che assume presto un carattere politico, in cui le parti dell’abate sono prese dai liberali e dagli anticlericali di Tours. I Listomère, dopo aver avviato il processo, si tirano indietro per opportunismo: cessano di ospitare Birotteau e si riavvicinano con accorte manovre diplomatiche a Troubert. Muoiono M.lle Gamard e la baronessa Listomère, che lascia a Birotteau un’eredità. Ma Troubert, nominato vescovo, riesce a scatenare contro Birotteau un’altra causa per contestare il testamento, servendosi del giovane barone, a cui fa ottenere la carica di capitano di vascello. Birotteau — prima nominato parroco di un sobborgo di Tours e poi vittima di una sospensione disciplinare — muore, distrutto dalla malattia e dall’infelicità, mentre Troubert contempla la propria vendetta sull’antico protetto di Chapeloud. Nel finale, il romanziere riflette sulla decadenza politica della Chiesa, che ha costretto le intelligenze solitarie e ambiziose come quella dell’abate Troubert a riversare le proprie terribili energie in campi d’azione più limitati.

  Il curato di Tours comparve quando Balzac stava raggiungendo la grande celebrità. L’inserimento nelle Scene della vita di provincia — raccolta di grande successo — contribuì alla diffusione del romanzo. Esso, pur non raggiungendo il prestigio di altre opere balzachiane, è stato considerato dalla critica come una delle prove narrative più convincenti e raffinate nella produzione dello scrittore. [...].

 

 

  Mario Bonfantini, Eugénie Grandet, in AA.VV., Dizionario dei Capolavori ... cit., Vol. I, p. 573.

 

  [...] Il romanzo comincia con una efficacissima «presentazione» della città di Saumur, dove il terribile papà Grandet, ex bottaio, ha raggiunto con una serie di felici speculazioni la ricchezza, e l’aumenta con una eroica e atroce avarizia. Nella sua casa dove egli è despota, fra la fedele serva e la debole madre, sua figlia, Eugénie, essere di luminosa bellezza e d’animo nobile e delicato, viene istruita dal padre nei suoi principi, ma li dimentica tutti quando arriva in casa Charles Grandet, il figlio di un fratello del vecchio Grandet suicidatosi in seguito a un fallimento, che viene a cercare aiuto per recarsi alle Indie a fare la sua fortuna. Eugénie se ne innamora profondamente, e supplisce all’avarizia del padre dandogli, quando egli parte giurando di tornare ricco per sposarla, tutto il suo piccolo tesoro affidatole dal padre. Costui, quando scopre il fatto, fa alla figlia una scena terribile, la condanna a un’autentica prigionia, e acconsente a perdonarla solo quando la madre è in punto di morte, anche per ragioni di interesse. Viene quindi a morte lui stesso (episodio celebre, vero brano da antologia), raccomandando alla figlia di tener da conto sempre l’oro, e terminando con la terribile battuta: «Tu mi renderai conto di tutto laggiù». Il cugino ritorna, nuovamente ricco, divenuto ormai simile allo zio; non pensa più alla pallida signorina di provincia di cui ignora l’immensa ricchezza e si lascia persuadere a un mediocre matrimonio mondano d’interesse. Eugénie, sempre fedele al suo amore, paga i debiti del padre di Charles che egli non vuol più riconoscere, poi acconsente a sposare uno dei suoi vecchi pretendenti di Saumur, col patto che sarà un «matrimonio bianco». Vedova a trentasei anni, finisce la sua vita nella solitudine, riversando in beneficenza quanto più può dei suoi tesori. [...].

 

  Grandezza e decadenza di César Birotteau (Grandeur et Décadence de César Birotteau). Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), Ibid., Vol. II, p. 738.

 

  [...]. Nel grande affresco della Commedia umana gli oltre novanta romanzi sono spesso collegati fra loro: in questo caso la figura di César Birotteau rimanda al precedente romanzo — Il curato di Tours, che ha come protagonista Francois Birotteau, fratello di César. È la vicenda di un mercante profumiere, vicesindaco del secondo circondario di Parigi, candidato cavaliere della Legion d’Onore, ricco e stimato. Senonché per un verso egli vuole adeguare il regime di vita della famiglia alle mutate esigenze sociali, e si impegna in grandi spese, cominciando dal restauro della sua casa; mentre d’altra parte il suo notaio Roguin gli propone una grande speculazione fondiaria. Ideatore di questa è il giovane Du Tillet, che non ignora i pericoli del contratto, ma per motivi privati vuol rovinare il grande profumiere. Tardando la realizzazione degli utili, César Birotteau si trova alle strette, e quando il notaio Roguin fugge con tutti i fondi che aveva in deposito, Birotteau si trova alla bancarotta e alla miseria. Accetta un piccolo impiego che amici fedeli gli procurano, ma la sua idea fissa sarà la riabilitazione giudiziaria, cui egli arriverà sul finir della vita, specie per merito del suo ex commesso, fidanzato della figlia, il buono e generoso Popinot.

  Il libro è il classico romanzo della piccola borghesia parigina che, nel turbinoso rigoglio finanziario del primo ’800, ambisce a salire e si mischia al mondo dell’alta banca e dei grandi affari, non senza portarvi spesso una naturale ingenuità che la predispone a far la parte di vittima: sono i vecchi, semplici e onesti costumi dei negozianti d’un tempo alle prese con la spregiudicata mentalità dei moderni grandi avventurieri della finanza. [...].

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Colonnello Chabert, Il (Le Colonel Chabert). Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), in AA.VV., Dizionario dei Capolavori ... cit., Vol. I, p. 323.

 

  [...]. La vicenda, ambientata in un primo momento nel 1816, nella versione definitiva si svolge nel 1817. Nello studio dell’avvocato parigino Derville sì presenta un uomo di aspetto miserabile che afferma di essere il colonnello Chabert, «quello che è morto a Eylau». La sua storia, per quanto inverosimile, è vera. Giunto al grado di colonnello nell’esercito napoleonico grazie al suo valore, nonostante le sue origini di trovatello allevato dalla pubblica carità, Chabert è stato lasciato per morto sul campo di battaglia di Eylau, nel 1807, con il cranio spaccato da un colpo di sciabola. Raccolto e curato da una contadina, ha recuperato la memoria sei mesi dopo la sua tragica avventura, ma non è riuscito a convincere nessuno della sua vera identità. Le sue lettere alla moglie sono rimaste senza risposta; per anni la sua vita è stata un doloroso vagabondaggio tra ospedali e prigioni. Infine, giunto a Parigi, è venuto a sapere che la moglie, che a suo tempo aveva raccolto in una casa di tolleranza, grazie alle sue ricchezze si è risposata con il conte Ferraud, consigliere di Stato; dal matrimonio sono nati due figli. Il ritorno di Chabert potrebbe provocare l’annullamento del secondo matrimonio della moglie; questa eventualità non sarebbe del tutto sgradita al conte Ferraud, che vede nelle origini oscure della donna un possibile ostacolo alla propria carriera politica. Derville, che ha intuito tutto questo, si reca dalla presunta vedova di Chabert e, giocando sulla sua paura di essere abbandonata dal secondo marito, la induce ad una transazione con il colonnello. In un primo momento la donna accetta ma, al momento di firmare il documento che dovrebbe assicurare a Chabert un vitalizio, ritiene troppo alta la somma richiesta e si tira indietro. Accortasi che lo sventurato Chabert è ancora sensibile al suo fascino, tenta di commuoverlo, gli fa profferte di affetto filiale, lo conduce con sé in campagna e gli mostra i suoi figli. Il colonnello sta per cadere nel tranello e per firmare una rinuncia definitiva alla propria identità quando alcune frasi della moglie, udite per caso, gliene svelano la perfidia. Rinuncerà ugualmente a far valere i propri diritti, ma solo per disgusto nei confronti della donna e della società, e finirà i suoi giorni anonimamente in un ospizio.

 

  Cugina Betta, La. Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), Ibid., p. 394.

 

  [...]. L’azione comincia nel luglio del 1838 e si conclude nell’ottobre del 1846. Al centro della vicenda è la famiglia del barone Hector Hulot, portata sull’orlo della rovina da un lato dalla smodata passione del barone per le donne, dall’altra dagli intrighi di una cugina povera, Lisbeth Fischer, chiamata in famiglia Betta. Il romanzo si apre con una scena quasi grottesca: il profumiere Crevel, consuocero di Hulot e suo compagno di bagordi, per vendicarsi del fatto che il barone gli ha portato via un’amante, tenta di sedurne la moglie, l’angelica Adeline. Respinto con indignazione, rivela per rivalsa alla donna che Hulot sta dilapidando il patrimonio della famiglia. Adeline, desolata, teme che la figlia Hortense, ormai ventenne, non riesca a trovar marito perché quasi priva di dote; ignora però il vero pericolo che minaccia tutta la sua famiglia. Tale pericolo è l’odio profondo, celato ipocritamente da anni, che nutre per lei e per i suoi la cugina Betta. Cresciuta in un villaggio dei Vosgi, Betta si è vista preferire sin dall’infanzia la bella e dolce Adeline; quando Adeline, sposatasi con un brillante funzionario dell’impero, l’ha chiamata accanto a sé a Parigi, la sua invidia non ha più avuto limiti. Energica e volitiva, Betta è divenuta nella capitale un’abile ricamatrice; vive sola, orgogliosa della propria indipendenza, in un appartamentino della squallida rue du Doyenné. Ha un unico affetto, segreto e violento, per un povero scultore polacco che ha salvato dal suicidio e che vive in una mansarda della sua stessa casa. Quando questo scultore, Wenceslas Steinbock, si innamora della giovane cugina di lei, Hortense, e la sposa, il rancore di Betta nei confronti degli Hulot si esaspera ulteriormente; strumento della sua vendetta diventa una sua bella vicina di casa, Valérie Marneffe, che seduce il barone Hulot e divora quanto rimane del suo patrimonio. Valérie, sorta di cortigiana piccolo-borghese di consumata abilità, che ha come complice uno spregevolissimo marito, subalterno di Hulot al ministero della guerra, diventa simultaneamente l’amante di Hulot, dello scultore Wenceslas, che per lei si separa dalla moglie, e di Crevel che, essendo vedovo, si ripromette di sposarla alla morte di Marneffe, minato da malattie innominabili. Per amore di Valérie, Hulot cade sempre più in basso: induce uno zio della moglie a speculare sulle forniture militari in Algeria e quando il poveretto, scoperto, si uccide in prigione non reggendo alla vergogna, abbandona la famiglia e finisce per vivere perduto nei sobborghi più miserabili, soddisfacendo i suoi vizi con ragazzine «comprate» per pochi soldi. La vendetta di Betta sembra compiuta; ma una punizione terribile si abbatte su Valérie. Madame de Saint-Estève, emissaria di una sorta di sotterranea polizia segreta, che protegge dietro compenso l’onore e gli interessi minacciati delle grandi famiglie, si mette al servizio di Victorin, il figlio di Hulot; manovrando contro Valérie Marneffe un amante deluso, il feroce brasiliano Montez de Montejanos, ella ottiene che costui la uccida trasmettendole una rara malattia tropicale. Muore contagiato anche Crevel, che nel frattempo ha sposato Valérie; Hulot, ritrovato dalla moglie, viene ricondotto in seno alla famiglia e sembra pronto a ravvedersi. Betta muore di tisi e di rabbia vedendo l’odiata Adeline quasi felice, e il patrimonio della famiglia ricostituito grazie all’eredità di Crevel e agli sforzi dell’onesto Victorin; tuttavia, dopo la sua morte, Hulot verrà scoperto dalla moglie mentre amoreggia con una sguattera promettendole di farla diventare baronessa non appena la morte l’avrà liberato della moglie. Adeline muore di dolore e Hulot si degrada definitivamente realizzando il proprio disegno.

 

  Cugino Pons, Il. Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), Ibid., pp. 394-395.

 

  Il romanzo si apre nel 1844; il protagonista, Sylvain Pons, è un vecchio musicista che non ha mantenuto le promesse della brillante giovinezza e dirige l’orchestra in un modesto teatrino. Timido e bruttissimo, non ha mai conosciuto l’amore; le sue frustrazioni trovano qualche compenso nelle sole passioni che la vita gli abbia permesso di coltivare, la ghiottoneria e il collezionismo. Per appagare la prima frequenta, da parassita mal tollerato, i pranzi dei suoi parenti ricchi, i Camusot de Marville; essi ignorano che egli ha accumulato, in anni di pazienti ricerche presso antiquari e rigattieri, una collezione di quadri e oggetti d’immenso valore, e lo sopportano di malagrazia. All’atteggiamento ostile dei parenti ricchi si contrappone la devozione disinteressata del solo vero amico di Pons, il musicista Schmucke, ingenuo, povero e buono. Per rientrare in grazia presso i Camusot de Marville, Pons cerca di combinare un ricco matrimonio per la loro figlia; il suo tentativo fallisce, ed egli si ammala gravemente per il dolore. Durante le trattative per il matrimonio, però, i parenti ricchi di Pons cominciano a rendersi conto dell’enorme valore commerciale che hanno gli oggetti e i dipinti accumulati dal musicista; la collezione del vecchio scapolo diventa a questo punto la vera protagonista del romanzo. Intorno ad essa comincia un grottesco balletto di intrighi, di bramosie e di sorde rivalità: i Camusot aspirano ad ereditarla, la portinaia di Pons, la signora Cibot, in combutta con un antiquario, vuole venderne all’insaputa del proprietario i pezzi migliori, un medico e un avvocato estremamente disonesti favoriscono i disegni dei Camusot, sperando di ottenere appoggi e compensi. Pons, ormai vicino alla morte, cosciente delle oscure manovre che funestano la sua agonia, redige un testamento in cui lascia tutto al cadido (sic) Schmucke; dopo la sua morte, però, i Camusot, ricchi e potenti, riusciranno a perseguitare Schmucke con cavilli legali e pressioni d’ogni genere e si impadroniranno di tutto, mentre il poveretto, sopraffatto da tanta malvagità, morirà di dolore. [...].

 

  Illusioni perdute (Illusions perdues). Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), Ibid., Vol. II, p. 775.

 

  [...] La scena della prima parte è Angoulême, ai tempi della Restaurazione. Due giovani provinciali trovano conforto nell’amicizia che li unisce: sono David Séchard, figlio di uno stampatore avarissimo, e Lucien Chardon, figlio di un farmacista. David sogna di rivoluzionare, con una scoperta cui lavora da tempo, i procedimenti per la fabbricazione industriale della carta; Lucien, invece, bello e di aspetto delicato, aspira alla gloria letteraria. David sposa la dolcissima ma povera Ève Chardon, sorella di Lucien; il suo desiderio di poter far vivere un giorno Ève e Lucien nell’agiatezza lo spinge a trascurare la stamperia, che il padre gli ha venduto a condizioni durissime, e a perseguire strenuamente i suoi sogni di inventore. Lucien, desideroso di nobilitarsi, assume il cognome della madre, de Rubempré, e muove alla conquista dell’aristocratica Mme de Bargeton, nel cui salotto si riunisce il fior fiore della buona società di Angoulême. Anaïs de Bargeton, pretenziosa dama di provincia, non è insensibile al fascino e ai versi del suo giovane ammiratore; dopo un piccolo scandalo, che costringe ad un duello l’anziano marito di lei, Lucien e la sua musa partono insieme per Parigi.

  Inizia qui la seconda parte, Un grand’uomo di provincia a Parigi dedicata alle delusioni che la capitale infligge a Lucien. Incoraggiata da un maturo ammiratore, Sixte de Châtelet, Anaïs entra nella cerchia aristocratica di Mme d’Espard e rinnega Lucien, che a confronto dei dandies parigini le appare goffo e fuori moda. Lucien, mentre tenta invano di far pubblicare un romanzo storico e una raccolta di versi, trova conforto nel «cenacolo» di Daniel d’Arthez, cerchia di intellettuali accomunati da un grande rigore morale e da una dignitosa povertà; ma la sua indole debole non resiste alle seduzioni dell’ambiente corrotto del giornalismo, in cui finisce per trovare facili ed effimeri successi. Divenuto l’amante di un’attrice, Coralie, vive una vita dispendiosa, al di sopra dei suoi mezzi, e passa per ambizione dal partito liberale al partito legittimista. A questo punto, però, si trova circondato da Persone che lo avversano, come traditore o come pericoloso concorrente; con una beffa atroce Sixte de Châtelet e Madame de Bargeton gli fanno credere ch’egli sta per ottenere dal re il diritto di adottare il cognome aristocratico della madre, de Rubempré, e godono malignamente della sua delusione. Coralie, fischiata in teatro dai nemici di Lucien, si ammala e muore; Lucien toma, carico di amarezza, ad Angoulême.

  Si apre qui l’ultima parte del romanzo, Le sofferenze dell’inventore; David, già in gravi difficoltà economiche, viene arrestato e processato perché Lucien ha peggiorato la sua situazione falsificandone la firma su alcune cambiali. Lucien, disperato, fugge, deciso ad uccidersi; ma viene salvato da un singolare avventuriero, lo spagnolo Carlos Herrera — in realtà l’ex forzato Vautrin — che si presenta a lui come abate e diplomatico e gli offre un patto di alleanza che dovrebbe farlo tornare come trionfatore nel mondo parigino che l’ha umiliato e respinto. Nel frattempo David Séchard è riuscito a venire a patti con i suoi creditori; vivrà con Ève in una tranquilla agiatezza, ma i favolosi guadagni ricavabili dalla sua invenzione andranno ad altri, agli speculatori che l’hanno raggirato. [...].

 

  Papà Goriot (Le père Goriot). Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), Ibid., p. 1183.

 

  La vicenda si svolge a Parigi, tra il novembre 1819 e il febbraio 1820.

  Nella squallida pensione di Madame Vauquer, nei pressi del Panthéon, vivono persone di diversa provenienza, accomunate da una dignitosa miseria: tra gli altri, c’è Eugène de Rastignac, studente, che ha lasciato in provincia una famiglia aristocratica, ma priva di mezzi; Victorine Taillefer, figlia di un ricco banchiere che, credendola frutto di una relazione adulterina, rifiuta di accoglierla presso di sé; Vautrin, un uomo sulla quarantina, energico e misterioso; ed infine il settantenne papà Goriot, un ex-pastaio. Tre anni prima, Goriot era giunto alla pensione con un ricco corredo, che aveva indotto Madame Vauquer a coltivare su di lui progetti matrimoniali: con il tempo, però, si è ridono a vivere sempre più modestamente ed è diventato, per la sua apparente ottusità, lo zimbello degli altri pensionanti. Il segreto della sua esistenza viene scoperto per caso da Rastignac che, grazie alla protezione di Madame de Beauséant, sua cugina, riesce a penetrare nell’alta società parigina. Goriot, vedovo, si è dissanguato per permettere una vita lussuosa alle sue due figlie, Delphine e Anastasie. Anastasie ha sposato un aristocratico, M. de Restaud, Delphine un banchiere, Nucingen: i due generi si vergognano delle modeste origini del suocero e gli impediscono di frequentare le figlie. Rastignac si innamora di Delphine, la meno dura ed egoista delle due. Goriot, che ha trovato in lui per la prima volta amicizia e comprensione, tenta di favorirne la felicità: con le sue ultime risorse prepara per lui e per Delphine un lussuoso appartamento. Egli si installerà nei pressi e veglierà affettuosamente su di loro. Il misterioso Vautrin però, che nutre per Rastignac un attaccamento ambiguo, ha altri progetti su di lui: dopo aver tentato di legarlo a sé con un prestito, cerca di indurlo a sposare Victorine Taillefer. Egli farà uccidere in un duello provocato ad arte l’unico fratello della fanciulla: il banchiere, rimasto solo al mondo, la richiamerà presso di sé e Victorine diventerà ricchissima. Il piano di Vautrin viene realizzato ma Rastignac, dopo una dura lotta con la propria coscienza, rifiuta di approfittarne. Nel frattempo la polizia irrompe alla pensione ed arresta Vautrin, che è in realtà un forzato evaso, Jacques Collin, soprannominato Trompe-la-mort. Mentre Goriot si prepara a lasciare per sempre la pensione Vauquer, sua figlia Anastasie lo riduce alla disperazione con una nuova, esorbitante richiesta di denaro; un’ultima, violenta scenata tra le due sorelle causerà al vecchio pastaio l’attacco di apoplessia che lo porterà alla morte. Lo spettacolo della sua lunghissima agonia, cui le figlie si sottraggono con vari pretesti, e del suo squallido funerale, faranno di Rastignac un uomo: dalle alture del cimitero del Père Lachaise, egli lancerà la sua sfida alla società parigina, di cui ha compreso la vera natura: «A noi due, ora!».

  La fortuna di Papà Goriot fu immensa sin dallinizio: esso procurò a Balzac un guadagno di 10.000 franchi in tre mesi, ed ebbe un gran numero di edizioni. È giustamente considerato uno dei massimi capolavori balzacchiani; la sua importanza è accresciuta dal fatto che si tratta del primo romanzo in cui Balzac applica la tecnica del «ritorno dei personaggi», facendo riapparire figure già descritte o nominate in opere precedenti. [...].

 

  Pelle di zigrino, La (La peau de chagrin). Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), Ibid., p. 1206.

 

  [...] La storia comincia nell’ottobre del 1830 a Parigi. All’inizio della prima parte (intitolata Il talismano, Le talisman), vediamo il giovane Raphaël de Valentin perdere in una bisca le sue ultime monete d’oro e dirigersi verso la Senna, deciso ad uccidersi. Come ultimo capriccio si concede di entrare in una bizzarra bottega di antiquario di proprietà di un vecchio dall’aria mefistofelica; il vecchio gli regala un talismano — la pelle di zigrino che dà il titolo all’opera — che ha il potere di realizzare tutti i desideri del suo possessore. Ad ogni desiderio, però, la pelle si restringe, e con essa diminuisce il tempo che al possessore resta da vivere. Per mettere alla prova le virtù del talismano, Raphaël esprime il desiderio di partecipare a un’orgia; ed effettivamente incontra un gruppo di amici che lo trascina in casa del banchiere Taillefer dove si svolge un grandioso banchetto, rallegrato da alcune tra le più belle cortigiane di Parigi. Nel corso del banchetto Raphael racconta al giornalista Émile la sua vita passata; questo racconto costituisce la seconda parte del romanzo, La donna senza cuore (La femme sans coeur). Figlio unico, orfano di madre, Raphaël è stato educato dal padre con estrema severità; alla morte di questi, nel 1826, si è trovato completamente rovinato. Per tre anni ha vissuto, povero e dedito allo studio, in una mansarda del quartiere Latino, confortato dall’amore timido e pudico della giovanissima Pauline, figlia della sua affittacamere. Nel dicembre del ’29 un amico mondano, Eugène de Rastignac, l’ha presentato ad una contessa russa, Foedora, di cui egli si è follemente innamorato; per amore di questa donna, una gelida civetta, ha dissipato il poco che gli restava. Nel maggio del 1830 Rastignac ha vinto per lui al gioco una grossa somma di denaro, ma in sei mesi egli l’ha esaurita, quasi cercando di autodistruggersi nei piaceri. Dopo questa lunga narrazione restrospettiva (sic), Raphaël esprime il desiderio di possedere immense ricchezze: l’annuncio di un’eredità insperata gli conferma la misteriosa efficacia del suo talismano. Ma le dimensioni della pelle diminuiscono: Raphaël, terrorizzato, decide di vivere quasi recluso, rinunciando ad esprimere qualsiasi desiderio per ritardare l’approssimarsi della morte. Inizia qui la terza parte del romanzo, L’agonia (L’agonie). Né l’amore di Pauline che, divenuta ricchissima, vive con lui, né gli sforzi di medici e scienziati possono mutare il destino di Raphaël; un duello, durante il quale egli è costretto a desiderare intensamente la vittoria, riduce la pelle ad un minuscolo frammento. In un ultimo spasimo di desiderio, Raphaël morirà mordendo il seno di Pauline; la sua parabola allude al destino dell’uomo che non può fare a meno di consumare la propria forza vitale.

 

 

  Pierre Brunel et Alii, Balzac (1799-1850), in Storia della letteratura francese. Edizione italiana a cura di Giovanni Bogliolo. XIX e XX secolo, Rapallo, Cideb, 1987, pp. 83-93.

 

 

  Vito Carofiglio, «Un amour» de Balzac: «La Duchesse de Langeais», in AA.VV., La Duchesse de Langeais. Centro Studi Sorelle Clarke. Seminari Pasquali di Bagni di Lucca, n. 2, Pisa, Pacini editore, 1987, pp. 5-14.

 

  [...]. Ma che tipo di pertinenza si vuole istituire fra l’allusione all’opera di Proust e l’opera di Balzac?

  Ebbene, non sarà quella dei riscontri concreti, e precisamente testuali, fra Un Amour de Swann e La Duchesse de Langeais, che si corrispondono solo per certi versi (anzi versanti): non critica dei «paralleli» (impossibili soprattutto quando risultano divergenti), ma critica delle omologie possibili, che facciano capire, alla fin fine, l’ampiezza, il permanere e l’evoluzione di modelli letterari, al di fuori di confini storici e di mode ideologiche. Dire: Proust e Balzac, sia qui, nello specifico, significare un approccio problematico, ma non impertinente.

  Vorrei poter costituire un teorema, impossibile forse, che chiamerei allora piuttosto postulato: geneticamente, La Duchesse de Langeais si spiega con Un amour de Swann. Il conto cronologico griderebbe allo scandalo, ovviamente! In realtà, non sarebbe il cronologico nel conto di una lettura di tipo ermeneutico, bensì la ricerca del migliore punto di osservazione e comprensione delle funzioni narrative che fanno la specificità del fascino di un racconto lungo come quello di Balzac rispetto anche al fascino del romanzo (o parte di romanzo) di Proust. A me pare, infatti, che l’opera successiva faccia lievitare e aprire diversi sensi della precedente: in particolare, la conoscenza dell’amore e la conoscenza di sé attraverso l’amore, in un rapporto che implica il rovescio di situazioni fra personaggi e fra ambienti abbastanza omogenei.

  Non rincorrerò, dunque, per mia interna coerenza, il filo delle argomentazioni puntuali: ne coglierò solo alcune. Sia libera, intanto, la lettura interna della Duchesse de Langeais, secondo alcuni assi-guida. Operativamente, potremmo mettere in luce la macrostruttura della Duchesse de Langeais, come costituita da cinque parti o insieme di sequenze o scene narrative:

  1. Quadro storico-geografico: l’apertura sull’isola

  2. Convento: colloquio fra la suora e il generale

  3. Digressioni e retroazioni: il faubourg Saint-Germain

  4. La mondanità, la «coquetterie», l’amore

  5. Convento: la scalata e la morte.

  L’incipit del romanzo pone immediatamente il tema del convento: nello specifico, il tema del convento è realizzato dalla precisazione che si tratta di un convento di Carmelitane scalze, secondo la rigorosa disciplina istituita da Santa Teresa. Il rigore è segnalato anche dall’esterno: l’asprezza del luogo nell’isola.

  Farebbe contrasto con questa prima condizione la serenità interna del convento: ne è espressione la musica d’organo, il canto.

  È noto che Balzac aveva una particolare predilezione per i conventi, che egli considerava come un pilastro fondamentale della Chiesa cattolica per la sua funzione religiosa, morale, storica. Negli stessi anni egli celebrava lodi del convento in diversi romanzi e saggi: una vera apologia della vita claustrale si trova nel Curé de de village e nella recensione a un romanzo di Adèle Daminois, Le Cloître au XIX siècle. Ovviamente, si tratta, per lo stesso Balzac, di una istituzione ad uso esclusivo del sesso femminile: all’opposto, per gli uomini il discorso è un altro. [...].

  Un uomo come Benassis. infatti, reagirà alla delusione d’amore, non rinchiudendosi in un convento, ma dedicandosi alla riforma di un paese di montagna, nel Médecin de campagne. Véronique, donna borghese, nel Curé de village, assimilandosi a Benassis, si sottrarrà, eccezionalmente, alla soluzione del convento, pur prospettata, per darsi anche lei ad opere riformatrici. Per la duchessa di Langeais una soluzione in termini di impegno civile per espiazione e riscatto è socialmente impossibile, poiché essa appartiene all’alta aristocrazia francese, che [...] è destinata a quella scelta.

  La quale, se appare catastrofica perché opera una violenta rottura, va colta in diversi preannunci d’autore fin dall’inizio dell’opera, sicché alla fine è accettata come razionalmente possibile e moralmente necessaria per la donna.

  Tuttavia, il tema del chiostro è sviluppato secondo forze contraddittorie in questo romanzo: alla decisione di ricorrere al «cloître» per disperazione d’amore si oppone successivamente la decisione di togliere a tale scelta il suo carattere di irreversibilità. L’assalto dei «treize» al convento, oltre che essere operazione profanatrice, significa il tentativo di compimento di un destino «mondano» per le sole vie possibili. Il sacrilegio, [...] è un’azione anti-mistica votata al fallimento: la realtà è la morte spirituale e poi fisica al mondo. La duchessa è la negazione dell’amore che non sia mistico o, mondanamente, «coquet». La scalata al convento mette solo a contatto con la morte, con la morte dell’amata — e il feticismo necrofilo dell’amante non soddisfa in nulla il suo «désir» se non, ancora una volta, tragicamente, con le apparenze, i fantasmi dell’amore. La voluttà è ancora una volta differita oppure occultamente deliberata. Il possesso si realizza attraverso la violenza del rapimento della donna, prima nel faubourg Saint-Germain, da viva, poi nel convento e nella buca, da morta: possesso infecondo, carico di rabbia, orgoglio, coraggio e bravura, nell’uno e nell’altro caso. La casta duchessa, «prude» e «coquette», è decisamente inviolabile, perché il suo universo è spezzato in due parti: si penetra o nell’una o nell’altra, ora nell’una ora nell’altra. La fumosità o l’incompiuto distingue tale universo. Forse da ciò l’importanza della musica in quest’opera.

  La musica e l’emozione musicale introducono al convento. Musica e canto guidano Montriveau verso la duchessa: sono le condizioni spirituali più che materiali che sostengono il riconoscimento e la scoperta, quindi il contatto attraverso il colloquio; e sono ancora musica e canto a sciogliere il dramma finale. Fra i due momenti, che sono gli apici simbolici dell’emozione complessa, ve n’è un altro, in cui sembra risolversi la tensione fisica e psicologica fra i due amanti nella sfera mondana [...].

  Per il marchese e la duchessa quest’aria ha la stessa funzione che per Swann e Odette ha «la petite phrase de Vinteuil», come «l’air national de leur amour». Nella circostanza del convento, infatti, quell’aria di romanza assume anche colori nazionali, cioè francesi d’origine — e diventa l’indiscutibile armonia del congiungimento sublimato fra i due, in terra lontana [...].

  Nel suo discorso il narratore assume il punto di vista e d’ascolto di Montriveau, e sono attribuite quindi al personaggio le sensazioni e le assimilazioni riferite: il problema della soggettività del discorso qui non è indifferente, perché, potremmo dire, l’autore soggettivizza proustianamente il contatto con l’amata e con l’aura che la circonda. [...].

  Qui son messi di fronte due codici sociali ormai imperativamente separati: quello dell’aristocrazia c quello della chiesa: ma il primo appare piegato al secondo. [...].

  Illusione e narcisismo sono le componenti della fede religiosa, mondana amorosa della duchessa, ed è su questa linea che forse possiamo sentire accenti «proustiani» ancora, ma, da un punto di vista filosofico, inconseguenti in Balzac [...].

 

 

  Vito Carofiglio, Gertrude et Véronique. Les fictions de la réalité et celles de l'écriture pour Manzoni et Balzac, «Il Confronto letterario», Bergamo, Anno IV, n. 7, maggio 1987, pp. 33-46.

 

  Comparer n’est pas forcément mettre en lumière des équivalences ou des relations dévoilées, mais c’est bien plutôt créer un tissu discursif sur des homologies ou des différences pertinentes. C’est pourquoi des limites épistémologiques et méthodologiques — aussi bien que critiques, par conséquent — s’imposent à une analyse qui voudrait opérer dans le domaine, qui est exactement le nôtre ici, du roman historique, dont deux réalisateurs, Manzoni et Balzac, appartiennent à deux cultures nationales différentes, mais voisines à plus d’un titre. Cela permet peut-être de trancher sur l’arbitraire que peut comporter tout choix critique, et qui paraît encore plus encombrant dans le cas d’un choix comparatiste. Sont données comme connues ici certaines conditions pratiques et idéales communes aux deux écrivains: l’appartenance à la même époque, l’admiration pour le roman historique de Walter Scott, le propos d’écrire une œuvre à l’intention des principes et de la foi catholiques.

  Mais il y a autre chose. Balzac a rendu visite à Manzoni le 1er mars 1837, à Milan. Les deux romanciers étaient déjà célèbres, et leurs noms avaient passé les frontières nationales respectives: Manzoni, dont I Promessi Sposi avaient déjà eu deux traductions en France, Balzac, dont les œuvres avaient trouvé un large intérêt en Italie La rencontre des deux écrivains fut un désastre. Elle a été racontée et analysée: son importance parait avoir été surtout dans le piquant de l’épisode, avec ses suites fâcheuses.

  Nous n’irons pas glaner encore dans les commentaires qui s’y rapportent, nous serons peut-être un peu plus discret — ou le plus indiscret possibile (sic), comme on verra.

  Il n’est pas inutile de rappeler que Manzoni, se souvenant du colloque avec Balzac, n’a pas été tendre avec son hôte de passage et confrère en art du roman. Balzac, lui, n’ayant pas cru convenable de parler des Promessi Sposi au cours de l’entretien et de la soirée chez Manzoni, aurait affiché un certain dédain pour l’œuvre de Manzoni quelques jours après, à Venise, comme l’a raconté Tullio Dandolo dans une lettre: «eccoti il nostro oracolo dir di Manzoni che il tessuto del suo romanzo è fiacco, e che debitore del buon successo alle attrattive dello stile, non regge alla prova di una traduzione!». Or, malgré ces données, la critique n’a pas abandonné l’idée de chercher des traces de Manzoni chez Balzac, dans son chantier et dans son oeuvre achevée. Raffaele De Cesare a précisé, sur ce point, que «tutti gli sforzi della critica tesi a reperire ispirazioni, reminiscenze, calchi manzoniani nelle situazioni o nei personaggi dell’opera balzacchiana dal 1837 in poi, si sono tutti rivelati illusori». La question serait-elle donc fermée, en ce sens?

  Il n’est pas tout à fait négligeable que, la même année de la rencontre avec Manzoni, Balzac commence à écrire le Curé de Village, œuvre qui n’a pas réveillé l’attention des critiques qui se sont occupés de l’ ‘affaire Manzoni-Balzac’. Une lecture non superficielle peut réserver au contraire des surprises intéressantes. Suivons notre ligne. […].

  Nous pourrions nous demander quels sont les modes de représentation de ces deux visions dans I Promessi Sposi e Le Curé de Village. Il est évident que les formes de la sensibilité aux appels de la transcendance dans les deux écrivains catholiques sont soumises aux conditions historiques et politiques de leur formation et de leur militantisme.

  Manzoni pratique, en effet, un «catholicisme libéral» (selon la formule de De Sanctis), à la suite d’une conversion qui l’a conduit du rationalisme philosophique ‘ éclairé ’ à la foi; il professe un libéralisme populaire consacré à l’idée de l’unité de l’Italie, dont les témoignages en vers sont les drames du Conte di Carmagnola et d’Adelchi; il conjugue sentiment de révolte contre les injustices sociales des arrogants et des puissants et sentiment de ‘pietas’; il a le regard du chrétien se penchant sur les douleurs et les souffrances des humbles, des pauvres, des déshérités, des victimes de l’ordre social et politique. Dans une situation historique particulière, l’Italie fragmentée en de petits états généralement despotiques alliant catholicisme et monarchie (trône et autel), la religion catholique assume pour Manzoni valeur de principe transcendant et équilibrateur (ou réformateur).

  Le matériel dont se sert Manzoni dans la fiction de son roman est une chronique de la première moitié du XVIIe siècle, ayant comme cadre la domination espagnole à Milan (analogue, dans la forme apologique, de la domination autrichienne à Milan, dans l’histoire de la première moitié du XIXe siècle).

  Balzac, quant à lui, pratique un catholicisme ‘restaurateur’, bonaldien et maistrien, à la suite d’une évolution idéologique qui l’aurait mené (comme l’a montré particulièrement P. Barbéris) d’un libéralisme jacobin à un légitimisme dont la présomption transcendante contrarie l’histoire sociale et politique des cinquante dernières années de la France bourgeoise; et là où catholicisme et monarchisme n’arrivent pas à se légitimer auprès de la conscience publique et des croyants mêmes, voilà des axiomes de morale abstraite, qui finissent par s’imposer au narrateur et à ses lecteurs.

  Le matériel narratif de Balzac, selon ses propos mêmes, est puisé généralement à l’histoire de son époque, avec toutes ses grandeurs et ses misères, et met en lumière les dessus et les dessous (les envers) de l’histoire contemporaine.

  Il est évident que la religion catholique est le confluent dynamique de la conscience historique et de la foi des deux écrivains dans l’ensemble de leur univers romanesque. C’est un axe qui traverse structurellement la pensée même du roman. Or c’est autour de cet axe qu’il ne faut pas cesser de travailler, car l’idéologique touche et conditionne l’imaginaire du roman.

  Nous ne comprendrions pas, en effet, dans ses justes proportions narratives, la dialectique de la violence et du sacrifice, sur laquelle opère, discrète, la Providence, pour les deux écrivains. Et c’est de là que dépendent les thèmes politiques et sociaux, c’est dans cette direction que s’orientent ces thèmes, de façon occulte (marques de l’imaginaire) ou manifeste (propos explicites). Toutefois, des différences de traitement (et nous dirions même d’épaisseur idéologique) apparaissent de l’un à l’autre écrivain: il suffit de considérer, par exemple, le thème ou la catégorie des ‘humbles’ (des umili, pour Manzoni), de l’humilité.

  Manzoni fait des ‘humbles’ une catégorie sociale et morale où les valeurs religieuses s’instaurent dès la naissance: ils sont les porteurs privilégiés de l’enseignement de l’Evangile. […].

  Balzac fait simplement des ‘humbles’ une catégorie à éclairer et à tenir sous tutelle, sous une protection spirituelle et politique continue (par l’Eglise catholique et la Monarchie). C’est pourquoi il n’y a pratiquement pas de pauvres typiques et idéalisés dans l’univers romanesque de l’écrivain français, il y a surtout des personnages qui dérivent des classes laborieuses ou qui s’en approchent pour assistance morale ou physique. Balzac n’aime pas les pauvres: ils lui apparaissent violents, grossiers et criminels en puissance, ou tout simplement débiles. La performance des Paysans, dans les «Scènes de la vie de campagne», est significative: les habitants de la campagne sont les personnes dans lesquelles se réalise le pessimisme antipopulaire le plus outrancier de Balzac, jusqu’à devenir système de pensée sociale.

  Or le catholicisme ‘libéral’ de Manzoni (qui fait justement penser à Lamennais) se heurte au catholicisme ‘réactionnaire’ de Balzac (qui fait plutôt penser à Bonald et à Maistre, beaucoup plus, à vrai dire, qu’au philosophe suisse Charles Bonnet). Il en résulte que le roman de Manzoni, bien que marqué par une forte inspiration catholique, n’est pas une œuvre édifiante (malgré les digressions d’auteur en ce sens), tandis que le roman de Balzac, Le Curé de Village (avec Le Médicin (sic) de Campagne) montre souvent une fastidieuse délectation narrative, qui arrive jusqu’à la propagande (d’auteur ou de personnage), dans l’exposé des propos religieux.

  Que sont les paysans lombards de Manzoni, par rapport aux paysans limousins de Balzac? Des ‘humbles’ magnifiques, par rapport à des sauvages et des criminels à apprivoiser. Les humbles des Promessi Sposi sont les victimes des comportements arrogants de la noblesse, des lois incompréhensibles et contradictoires, des mentalités féodales des seigneurs du pouvoir, à la ville comme à la campagne.

  Les humbles du Curé de Village n’existent que comme négativité symbolique et sociale, qui motive la présence et la fonction pastorale (et politique) de l’abbé Bonnet et de l’abbé Dutheil.

  Là, un peuple soumis aux vouloirs et désirs et mépris des seigneurs de l’aristocratie, et que nous connaissons directement.

  Ici, un peuple insoumis, que seule la parole religieuse a la chance de reconduire au bercail, et que nous ne connaissons qu’à travers la présentation qui en est faite par d’autres, par les idées que d’autres s’en font. […].

  Il a été remarqué que dans Le Curé de Village (comme dans Les Paysans), et plus nettement que dans Le Médecin de Campagne, il est possible de discerner une véritable «hantise, pour l’avenir, d’une poussée prolétarienne à tendances communistes» ce qui se traduit en effet dans une représentation de la vie et des modes de pensée populaire tout à fait négative et subordonnée à cette hantise et au projet politique qui la motive et la dépasse.

  Rien de tel chez Manzoni, dont le roman catholique ne cesse d’intéresser les critiques marxistes italiens, sensibles à sa structure idéologique (politique et religieuse) aussi bien que littéraire.

  En vue d’une représentativité spécifique de notre discours, nous voudrions opérer un choix convenable d’arguments. Il nous semble que le thème de la prise de voile forcée vaut le thème du mariage forcé, pour la femme, dans des sociétés fortement hiérarchisées et patriarcales, à la jonction entre féodalité et bourgeoisie.

  Le cas de Véronique dans le Curé de Village nous semble exemplaire, en ce sens, et c’est de ce personnage, moins connu peut-être que la Gertrude manzonienne, que nous voudrions partir. […].

  Véronique est la victime d’une volonté sociale complexe et organisée (la Religion, la Loi, la Famille). Elle s’y résigne pour éviter le pire. Elle se soumet à l’Ordre pour se sauver. Et c’est la prison du mariage, la camisole de force appliquée à ses sentiments. La prison du couvent est sans doute pire, quand elle n’a pas également été choisie par la personne enfermée, mais intérieurement une prison vaut l’autre, et celle du couvent pour Gertrude, dans les Promessi Sposi, est, aussi bien que l’autre, le creuset du malheur, de la souffrance et du crime.

  Dans le mariage forcé ce qui est sacrifié, c’est la liberté d’être et de vouloir, la liberté d’aimer. D’où la dialectique du mariage forcé et de la tentation de l’amour volé (interdit ou criminel), sur le fondement d’un état moral qui éprouve «la plus violente difficulté d’être, selon l’expression de Fontenelle», comme il est dit dans le mème roman.

  Une souffrance frappe Véronique dans la profondeur de ses désirs, mais cela est considéré comme faisant partie de son être-au-monde et de sa foi catholique. Un mystère entoure sa beauté ambigüe, ambivalente. Une énigme fait son charme de femme, le charme d’une beauté compromise par la petite vérole. […].

  Nous faisons l’hypothèse que la transfiguration du visage de Véronique dans le Curé de Village est la réplique imaginaire, avec quelques déplacements opportuns, de la mythologie de la Sainte Face, pour les catholiques; mythologie qui recoupe parfaitement la croyance balzacienne à l’animation et à la transformation occultiste et spirituelle de la matière par l’esprit, l’animus, l’anima, l’amor. […].

  La transfiguration de cette femme est peut-être inconsciemment sentie comme un análogon de la transfiguration, aussi bien mystérieuse, de Jésus-Christ sous les yeux des apôtres Pierre, Jacques et Jean.

  Notre interprétation du nom de Véronique dans la narration balzacienne, par rapport à son possible archétype de la légende chrétienne, pourrait encore s’appuyer sur la lecture du nom de famille du mari: Véronique ... Graslin?)

  Nous trouverions, après tout, un jeu d’auteur dévoilé et la remise synthétique de l’interprétation complexe du personnage à la perception d’un cryptogramme paronymique. […].

  Or Graslin, Graal-in, et Gros-lin, ne sont pas faits pour être distants entre eux dans une imagination créatrice comme celle de Balzac. Après quoi, nous serions peut-être autorisé à interpréter les diverses modalités de manifestation du discours romanesque comme faisant partie d’un réseau, d’un système de signification autour du personnage articulé à deux niveaux: le niveau du dit et le niveau du caché. […].

  Revenons à Manzoni. […].

  On pourra remarquer que le nom fictif de Gertrude semble répéter, sans que Manzoni le sache, le sens et le halo du nom adopté par le personnage historique au couvent, Virginia.

  L’origine et la signification de Virginia sont transparentes; mais la signification de ce nom historique paraît se retrouver dans la perception intuitive de Gertrude: un nom d’origine allemande, mais dont le sens poétique au moins pourrait être vierge de la lance. […]. Le sens de son nom s’accomplirait dans son destin et il y aurait donc une hyperdétermination de la personne par son nom. Or, rien de cela, il y a un renversement.

  Ce personnage qui affecte la représentation de la foi et de la vocation religieuse la plus pure, est le démenti de l’état physique et moral lié à sa condition. […].

  Gertrude et Véronique sont des personnages qui se ressemblent: elles symbolisent l’incarnation historique de l’idée de la passion dans la femme-objet, la femme victime des institutions sociales, religieuses et politiques, la femme dont la condition (la ‘nature’) serait de subir deux types de domination opposés: celle de la Société, dans ses différentes articulations et représentations mentales et institutionnelles; et celle de la Nature, avec ses exigences plus ou moins légitimes.

  Mais alors que Gertrude reste énigmatique et sombre (dure comme une ‘lance’), Véronique rompt ses secrets et se transforme en réformatrice sociale: l’intention édifiante de Balzac s’accomplit sur une vue historiquement possible et moderne tandis que l’idée catholique de Manzoni, pour des raisons historiques contraires, respecte l’évolution du personnage au cloître. […].

  Malgré leurs différences, I Promessi Sposi et Le Curé de Village (avec son complément Le Médecin de Campagne) représentent la dynamique complexe de la chute et de l’ascension morale et religieuse de quelques personnages-clé, à travers un cycle d’«épreuves». On peut dire précisément que ces romans répondent à la catégorie de «roman d’épreuves» dont a parlé Bakhtine dans son livre Esthétique et roman. Il s’agit d’un genre de roman qui organise son matériel autour de l’idée chrétienne du martyre (souffrance et mort), de la tentation (séduction et péché); idée qui, provenant déjà de la littérature médiévale puis baroque, finit par réapparaître dans le roman du XIXe siècle, avec des rajouts importants: l’«épreuve de la vocation, de la génialité, de l’élection», celle du «réformateur moral ou de l’immoraliste», et, encore plus spécifiquement, celle de la «femme émancipée». Il est évident que l’histoire de l’esthétique du roman se ressent de l’histoire des mentalités sociales avec leurs contradictions. Or Manzoni et Balzac sont, à plus d’un titre, témoins et porteurs des visions historiques aussi bien que métahistoriques de leur époque, et leurs romans racontent les énigmes et les formes variées dans lesquelles se réalise la Grande Illusion.

 

 

  Raffaele de Cesare, La prima fortuna di Balzac in Italia (1830-1850). II. (1837- 1838), «Aevum», Milano, Anno LXI, fascicolo III, settembre-dicembre 1987, pp. 611-756.

 

 

  Silvia Consonno, Il linguaggio meta fonologico nell’opera narrativa giovanile di Honoré de Balzac (L'Héritière de Birague, Jean-Louis, Clotilde de Lusignan). Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1987.



  Daniela Dalla Valle, Medico di campagna, Il (Le médecin de campagne). Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), in AA.VV., Dizionario dei Capolavori ... cit., Vol. II, p. 974.

 

  Articolato in cinque capitoli, il romanzo — praticamente privo di azione — ruota attorno a due protagonisti: Genestas, ex ufficiale di Napoleone, e Benassis, medico e sindaco di un villaggio savoiardo. Il primo, guidato dalla fama del secondo, lo va a cercare per pregarlo di curare il proprio figlio adottivo ammalato; ma gli si presenta in incognito fingendosi lui stesso ammalato, e in tale veste è accolto dal medico in casa sua. L’ambientazione nel piccolo villaggio della Savoia, le lunghe conversazioni fra i due uomini, le visite che insieme fanno ai contadini, offrono a Balzac l’occasione di presentare una ricca galleria di ritratti e schizzi, e soprattutto di esporre le sue idee sull’agricoltura e sulle classi rurali, il cui progresso appare possibile soltanto attraverso l’opera di redenzione e di sacrificio di un «missionario» come Benassis. Al capitolo quarto s’inserisce il racconto retrospettivo della vita di Benassis, dei suoi amori, delle sue speranze e delusioni, fino alla decisione di ritirarsi fra le montagne savoiarde, ed è a seguito di questa confessione che Genestas rivela finalmente al medico (nel capitolo quinto) la sua vera identità e lo scopo della sua visita, e fa a sua volta il racconto retrospettivo di una parte della sua vita, precisamente di quanto gli occorse durante la campagna di Russia, a cui si ricollega la nascita del bambino ammalato, figlio di una donna da lui amata e sposata in punto di morte. Queste due digressioni rappresentano le sole parti propriamente «romanzesche» del Medico di campagna che si conclude poi rapidamente con l’affidamento del bambino alle cure di Benassis, la sua guarigione e la morte del medico. [...].

 

 

  Tullio Dandolo, Une conversation avec Balzac, [article] traduit par Henri Prior, «Le Courrier balzacien», Paris, Nouvelle Série, N. 27, 2e trimestre 1987, pp. 18-24.

 

  Cfr. 1855.



  Guido Davico Bonino, Un maestro americano in 17 storie «minime», «illustratofiat», Torino, Anno XXXV, N. 6, giugno 1987, p. 33.

 

  [...]. Più circoscritte domande, ma con risposte d’impeccabile ironia, si pone Honoré de Balzac in quel gioiello di saggismo che è La fisiologia del matrimonio (lo pubblica finalmente Einaudi, a cura di Emilio Faccioli). Scandaloso libro di un quasi esordiente, la Fisiologia affronta il matrimonio come «prodotto delle istituzioni» e come tale soggetto alle ambiguità e alle contraddizioni del tessuto sociale che lo «tutela». Non è un caso che questa sia l’ottica con cui i moderni sociologi ripensano scientificamente la dialettica della coppia: ecco perché queste «meditazioni di filosofia eclettica sulla felicità e infelicità coniugale» sono di una lampante attualità. [...].

 

 

  Alfredo Di Laura, [Introduzione], in Honoré de Balzac, Addio ... cit., pp. 9-30.

 

«Vedere è sapere»

(Balzac)

 

  Un sedentario, con mentalità da bottegaio, che non ha mai fatto un giorno di servizio militare, si mette a raccontare la disfatta della Grande Armata francese sulla Beresina: e scrive come un cronista che abbia partecipato al tragico evento storico. Ne esce una delle più belle pagine mai scritte sull’epopea napoleonica.

  Nasce il primo dubbio: «Dove ha preso queste notizie il giovane Balzac, accanito cacciatore soprattutto di denaro, di benessere e di successo?». Una risposta ci può venire dalla sorella Laure, che così descrive il metodo di lettura di Honoré: «Il suo occhio abbracciava sette o otto linee insieme e il suo spirito ne comprendeva il senso con una velocità simile a quella dello sguardo. Spesso gli era sufficiente una parola, nella frase, per fargli cogliere il senso globale. Possedeva tutte le memorie: dei luoghi, dei nomi, delle parole, delle cose, delle figure».

  Laure forse esagera un po’; comunque ci aiuta a scoprire uno dei segreti di produzione di uno dei più prolifici scrittori del mondo: un’enorme capacità di assimilazione di dati, che incasella in una scaffalatura enciclopedica, da consultare poi a proprio agio al momento della stesura della Commedia umana; ossia i 91 romanzi o racconti, pubblicati fra il 1830 e il 1847; una mole di scrittura terrificante, dovuta ad un uomo che confessava alla sorella: «Una cosa soltanto m’inquieta: la voglia di elevarmi; tutti i miei guai provengono dal poco talento che mi riconosco».

  Poco talento, senza dubbio, negli affari. Come editore e stampatore è un disastro; non ha né classe né stile; attinge alla cassa come se fosse senza tondo. La sua vera carriera è quella del debitore, che fa ogni tanto speculazioni spericolate: col risultato di indebitarsi sempre di più.

  Perseguitato dai creditori, cambierà spesso alloggio. Per questo Parigi è disseminata di targhe commemorative che ricordano le brevi permanenze di Balzac in appartamenti, scelti accuratamente per la loro «doppia uscita».

  Il suo è l’occhio-memoria del prigioniero: incatenato per 14-16 ore al giorno alla scrivania, lavora pazzescamente, soprattutto di notte, sostenendosi a caffè.

  A trenta anni, questo arrivista di Tours è un personaggio tozzo, tratti e portamento un po' volgari, con un fondamentale snobismo di modi e di carattere. Alle spalle, una famiglia di arrampicatori sociali. Un padre, fuggito dalla miseria contadina del Sud, con una «fortunata» carriera di burocrate (fatta soprattutto di intrighi e di malversazioni) e la ricchezza del parvenu. Una madre arida, odiosa, ricca, provinciale e, per giunta, moglie infedele.

  Honoré non si distingue per precocità di genio: è un modestissimo studente e un incolore assistente di studio d’avvocatura. Assetato di successo, si stabilisce a Parigi e, col beneplacito (e la pensione) della famiglia, si dà alla letteratura. Come poeta è un disastro. Scrive infami feuilletons – sei o otto – firmando con pseudonimi: una volta è Horace de Saint-Aubin; altre volte anagramma il suo nome, diventando Lord R’hoone (da notare l’ambizione di nobiltà svelata da quel «Lord» e altri piccoli bovarismi provinciali, come il falso «de» che appare, ad un tratto, davanti al plebeo «Balzac»). Poi, senza complessi, abbandona la letteratura per dedicarsi al «facile» successo come editore e stampatore.

  A 29 anni potrebbe essere definito, senza mezzi termini, un fallito. Ma è proprio dalle ceneri di questo piccolo provinciale presuntuoso, con l’istinto del predone, che nasce lo scrittore de L’ultimo Chouan, de La pelle di zigrino, di Addio, di Casa Nucingen, di Papà Goriot, di Eugenia Grandet, de Il cugino Pons, ecc.: ossia del grande affresco de La Commedia Umana.

 

***

 

  Un aspirante scrittore dovrebbe essere indirizzato verso studi giuridici. Non a caso Stendhal consigliava la lettura del Codice Civile per la formazione dello stile: vi si trova una lingua senza svolazzi, senza aggettivi, senza metafore, senza connotazione. La necessità di descrivere oggettivamente una situazione o un’istituzione, scarnisce la lingua, riducendola veramente all’essenziale.

  Balzac – anche prima di conoscere Stendhal – aveva ricavato dagli studi giuridici una specie di conoscenza panoramica di tutto ciò che accade o può accadere nella società e aveva individuato, fra le linee portanti del Codice, la tutela dei diritti, ossia i valori collegati alla capacità giuridica. Con un atteggiamento da spaccone egli dichiara, nel 1833, di non aver molto più da imparare: ritiene di aver osservato e studiato tutti i fenomeni sociali.

  Presunzione a parte, Balzac divora un universo cartaceo e crede, con ciò, di aver analizzato, scientificamente, la realtà del suo tempo. In verità, quel che veramente conosce è l’ideologia del borghese suo contemporaneo. Il vero demone ispiratore di Balzac è il denaro: in questo egli è veramente figlio del suo secolo e della sua classe.

  Ne I contadini (forse proprio ripensando alla scalata sociale del padre) scrive: «I borghesi rimpiazzavano i signori». Era aperta, cioè, la corsa alla ricchezza e ogni mezzo, lecito o illecito, era benvenuto, usato, abusato. La stessa autorevole «Revue des Deux Mondes», nel dicembre 1842, così tracciava il panorama storico della Francia inizio del secolo:

  «Il pubblico non si occupa che di speculazioni e affari. Adesso non ha interesse per la politica; ne diffida, teme di essere disturbato. Si sono verificati, in tal modo, tre infatuazioni successive: sotto l’Impero, i bollettini della Grande Armata. Sotto la Restaurazione, la Carta Costituzionale, la Libertà; tutto il resto sembrava secondario. Oggi è la ricchezza».

  Un commento marxista di André Wurmser:

  «Mentre il Romanticismo fa uso smodato della passione, del Medio Evo e del chiaro di luna, il Capitalismo pianta, in piazza grande, un albero della Cuccagna e ognuno s’arrampica. L’ambizione si generalizza, diviene un dovere sociale».

  E così conclude la sua analisi economico-sociale della Francia della prima metà dell’Ottocento:

  «Il quadro di questa società, spaventosamente scossa da ambizioni rampanti e da passioni deliranti, è La Commedia Umana».

  Ci voleva però il genio di Balzac per trasformare un Codice Civile in un mirabile «Codice di disumanità».

 

***

 

  Non c’è dunque neppure un pizzico di «chiar di luna» per il trentenne Balzac? A ben guardare, c’è; ma bisogna trovarlo fra le quinte del suo grande teatro, mentre, sul proscenio, prende in giro i «trovatori gotici», s’indigna per l’«Hernani» e, per modello, sembra avere esclusivamente il XIX secolo – per antonomasia il secolo della scienza positiva – rifiutando il Classicismo del Mito e della Storia.

  Balzac sembra accorgersi della tenerezza sentimentale, dell’abbandono allo spleen, della resa a condizioni psicologicamente disumane, soltanto perché questi sentimenti «deboli» albergano in alcuni dei suoi personaggi, nella schiera dolorosa dei «vinti». Per essere vero figlio del suo secolo, Balzac cerca di analizzare la realtà come uno scienziato, con tutto il suo corredo di cinismo. Eppure la superiorità dell’intellettuale, sicuro di sé, nasconde, a volte, conflitti e debolezze interiori: tristi esperienze del passato, che l’uomo maturo tenta, più o meno vanamente, di dimenticare o di rifiutare a livello conscio.

  C’è una pagina accorata di Adieu, quando Philippe, il protagonista, ammette, con il suo scoraggiamento, che l’alienazione mentale della sua amante è inguaribile. Balzac rifiuta razionalmente questa resa e sferza atrocemente Philippe con le parole messe in bocca al medico, zio di Stéphanie:

  «Volevate una follia da teatro dell’Opera? La vostra amorevole dedizione è condizionata dunque da tanti pregiudizi?».

  È la risposta che darebbe uno scienziato, che non ammette debolezze sentimentali. Ma che cosa cela questo rigore? Una disciplina per un successo a tutti i costi? Oppure un tentativo di soffocare un istante di tenerezza, che è anche la confessione di un bisogno di tenerezza?

  Balzac ha avuto un’infanzia grigia, squallida, senza amore (dagli otto ai quattordici anni è vissuto in collegio, senza mai andare in vacanza in famiglia e ha ricevuto soltanto tre visite della madre). C’è di che restarne segnati: è per questo che ne La Commedia non ci sono bambini? E che i personaggi sembrano non aver avuto infanzia?

  Rifiuta i paradisi della droga. Eppure ha fatto parte del «Club des Haschichins». Dal 1843 al 1845, ogni settimana, all’Hôtel de Lauzun, presso Baudelaire, si riunivano i membri del club, ossia: Victor Hugo, Alfred de Musset, Alexis Felix-Arvers, Théophile Gautier ... e Honoré de Balzac. Soltanto salotto letterario ... Ma alcuni (in particolare Baudelaire) non facevano mistero di consumare hashish. Stravaganza e romanzo nero; Poe e Hoffmann ... Quanto romanticismo era ancora rimasto attaccato alle suole del «realista» e scientifico Balzac? O era, anche questo, arrivismo, tanto per essere fra i grandi?

  Il disprezzo per quanto rientra nell’inconscio, per ogni potenza metafisica, esteriore all’uomo, spiega la sua professione di irreligiosità. Di fatto, fra i suoi personaggi, vi sono meravigliose figure di preti, buoni o cattivi.

  Se andiamo a toccare le vicende sentimentali di Balzac, si rimane un po’ meravigliati per situazioni un po’ strane e per motivi taciuti, che potrebbero farlo oggetto di uno studio psicanalitico. A 21 anni si lega con Laure de Berny — la sua Dilecta — più anziana di lui di 22 anni. Restano uniti fino alla morte di lei nel 1836. Laure sarà per lui un’amante, una madre, una finanziatrice. Questo aiuta a capire il sostanziale infantilismo psicologico e sentimentale dell’uomo Honoré, la sua sventatezza negli affari, la sua paura, inconscia, del «femminile». E ci si domanda: sono dovute al caso le varie spaventose Cugine Bette o le tristi Eugenie Grandet o le intriganti Caterine de’ Medici o le infami figliole di Goriot?

  Lo snobismo dello scalatore sociale lo farà sdrucciolare malamente nei salotti aristocratici: il secondo amore, infatti, lo vede zimbello della cinica e perversa marchesa de Castries.

  Ma è l’epistolario con la contessa Hanska – la «sconosciuta» – (iniziato nel 1832 e concluso con un matrimonio di carità nel 1850, tre mesi prima della morte di Honoré) che ci dà il senso di questo immenso bisogno d’affetto e di comprensione — non sesso, visto che predicava una specie di castità artistica – che albergava nell’animo sensitivo e fragile di questo colosso che si piccava di scientificità.

  «Io sono molto virile», scriverà alla contessa questo seguace delle teorie fisiologiste. A tutta prima sembra che per lui non vi siano né tabù, né pregiudizi. Eppure i due romanzi che trattano di anomalie sessuali, Sarrasine e La ragazza dagli occhi d’oro, nascono sotto il segno del crimine. E non si tratta certo di moralismo. Il tabù è all’interno, nella psiche di uno scrittore torrenziale, che, forse, aveva voluto vedere troppo il fuori, per non guardarsi dentro.

  E c’è un dire e un non dire; creare, da un lato, immagini di spietata verità psicologica, lasciando però ai personaggi, nei loro dialoghi, la responsabilità di tacere altre verità, in una specie di sotterfugio ammiccante. In Adieu, per es., lo zio racconta della nipote, impazzita, al seguito di un esercito in ritirata, «zimbello di un branco di miserabili». Lo zio-Balzac censura se stesso, non scende in dettagli. Lascia intendere situazioni agghiaccianti, ma si rifugia subito in un laconico: «mi hanno detto».

  Nel silenzio della notte, con caffettiere a portata di mano, Balzac bada bene a non essere mai trascinato «dentro» la storia, nemmeno con un commento sfuggito alla penna. La mancanza di un io narrante gli permette di non lasciarsi coinvolgere; i fatti sono «visti» con la freddezza, il cinismo di un occhio asettico. Ma la castrazione, l’autocensura fanno capolino nella riluttanza del personaggio narrante a liberare altre immagini; l’erotismo di Balzac resta sempre chiuso a chiave; la sua parola rifiuta la vibrazione interna, l’accostamento sensuale, l’imprecazione, il grido.

  Qual è allora la vera sincerità di Balzac? Dov’è che il suo occhio sa penetrare con forza sconvolgente? La maggior parte dei critici è d’accordo nell’affermare che Balzac ha visto e descritto, con estrema sincerità, soltanto la classe borghese del suo tempo.

  Un piccolo provinciale, un arrampicatore figlio di un parvenu, che ama tanto il successo e il potere da abbandonare la vita letteraria per diventare un affarista, accumula, in pochi anni, un’esperienza quasi traumatizzante all’interno del mondo borghese.

  Non riesce ad uscire dal suo infantilismo: in una specie di roulette esasperante e ricorrente, Balzac non finirà mai di tentare il colpo del grande affare: molti dei suoi viaggi saranno non per cultura ma per affari, come, ad esempio, lo sfruttamento di miniere d’argento già esaurite o sogni da Eldorado di canalizzazioni pubbliche. Ma i suoi occhi sanno vedere, con una spietatezza veramente moderna, come la febbre del denaro uccida pian piano le anime e corrompa la società. Per questo possiamo dire che il vero personaggio, il deus che lega l’uno all’altro i racconti de La Commedia Umana è il denaro. «Sola potenza del tempo»; «Solo Dio moderno nel quale io abbia fede»; «Il Dio Cento-Soldi, il culto dell’interesse personale»; «Il culto del Dio Dollaro»; «Baciare il piede forcuto del Vitello d’oro», sono frasi scelte, quasi a caso, nella Commedia. Tutto deve restare sottomesso al denaro, oppure viene distrutto: le persone, i principi, i diritti, l’arte, il merito, l’onore, la dignità, la libertà individuale. Ma – come sarà per il Dostoevskij de Il giocatore o il Baudelaire de I paradisi artificiali – Balzac illustra mirabilmente una cancrena, della quale conosce tutti i pericoli, sa che corrode corpo e animo, ma gli appartiene, quasi come uno stato ricorrente ed esaltante della sua condizione umana. La febbre del denaro perseguiterà Balzac per tutta la vita. Il delirante regime di lavoro, cui si sottopone per vent’anni, è lo scotto che paga per questa passione e per le leggerezze e gli errori finanziari che continua indefessamente a commettere. Balzac sostanzialmente è un giocatore che paga i suoi debiti costruendo, romanzescamente, un’immensa casa da giuoco: la Francia borghese della prima metà dell’Ottocento.

 

***

 

  Fino a trent’anni Balzac non ha genio che per attività sbagliate. Ha esordito mediocremente con la poesia e il teatro. Ha scritto sette-otto romanzi sotto pseudonimi: non sono che fogliettoni mercenari. Ha tentato gli affari e si è coperto di debiti pesantissimi. Passa da un appartamento all’altro per sfuggire ai suoi creditori. Non è stato accolto in nessun salotto letterario; è sgraziato, volgare, presuntuoso. Ha una cultura disordinata e studi modesti.

  Quando decide di riprendere la penna, non ha di prodigioso che la memoria ... e la capacità di lavoro; una combinazione che porta finalmente alla luce uno dei più grandi narratori del mondo. Ma, anche quando è giunto al successo, non sa cambiare stile di vita. I caricaturisti dell’epoca ridicolizzano Balzac per il suo strano costume da lavoro: una specie di saio bianco, lungo fino a terra, fermato alla vita da un cordiglio fratesco, e pianelle turche, a punte sollevate. Quest’uomo, dalla faccia rotonda di un allevatore di maiali della Garonna, lavora fino a sedici ore al giorno per pagare i suoi debiti senza fine e la sua mania di successo. La preoccupazione quotidiana sembra però essere rimasta incollata alla penna. Non riesce infatti a nascondere il suo prosaico attaccamento al denaro; considera il suo lavoro di scrittore come una qualsiasi altra professione ... con il vantaggio di non aver bisogno di capitali: soltanto notti di lavoro e buona salute.

  Balzac è uno speculatore senza scrupoli: si serve spesso di teste di legno per liquidare, a 10, crediti che valgono 100. In alcuni casi appare come un autentico mascalzone e un furfante: «intransigente sui principi di ordine e di metodo ... soprattutto quando si tratta degli altri».

  Continua ad essere intrigante anche nel successo: arriva ad avere addirittura sette editori pur di ottenere un aumento degli introiti. Alla sconosciuta contessa polacca scriverà: «Non penso che a lavorare sulla piazza pubblica della letteratura. Mi sono fissato il compito di guadagnare 40 mila franchi in sei settimane». Una mole di lavoro che ricorda l’impegno di Carlo Goldoni per le sue 16 commedie nuove. Ma per il veneziano, alla fine, non c’era una pila di quattrini; c’era soltanto una conferma del suo amore per il teatro e per il suo pubblico.

 

***

 

  Chi tentasse di ignorare, nella biografia di Balzac, il suo amore per il denaro, leverebbe non soltanto la ragione dell’ideologia che sorregge tutta l’impalcatura romanzesca, ma perderebbe anche la spiegazione del suo moralismo.

  Forse è soltanto quando vediamo l’uomo Balzac infangato dalle sue stesse bassezze speculative, che possiamo andare a trovare l’anti-Balzac: un autore che guarda il mondo con occhi d’amore e di dolore; quello che alcuni critici, per mancanza di giustificazioni razionali, chiamano il Balzac «ancora romantico».

  Ed è questo l’autore di Adieu.

 

  «A quel tempo, nella grande bottega

romantica

ciascuno, maestro o allievo, aveva

la sua poesia».

(Alfred de Musset)

 

  Balzac, non è stato tutto romantico forse perché non ha frequentato i salotti giusti; e questo, nella Francia letteraria, è un grosso errore.

  Non è stato mai invitato, per esempio, alle «riunioni dell’Arsenale». Dal 1824 al 1844, ogni sera, il grande Bibliotecario, Charles Nodier, riceveva giovani letterati desiderosi di farsi conoscere. Un ambiente un po’ esclusivo, ove difficilmente poteva essere accolto il provinciale Balzac che, a detta di Champfleury, «era uno spirito comune, volgare, che si associava a spiriti ancora più volgari del suo».

  Al culmine del successo e proprio perché non gli riescono bene le tradizionali «visite di calore» nei salotti e negli hôtels particuliers, non viene accolto nell’Accademia di Francia. Nel gennaio 1849 i membri dell’Accademia preferiscono, a lui, Paul Noailles (ma anche un altro celebre provinciale, Stendhal, è rimasto fuori della Coupole).

  D’altronde egli sembra far di tutto per risultare ambiguo. Il Balzac arrivato al successo va contro il Balzac che ha scritto (e continua a scrivere) un immenso affresco per mettere in luce i mali sommersi o emergenti della società capitalista e della classe borghese. Vale come esempio la stessa struttura della Commedia Umana: Balzac non ha pensato che molto tardi – e dietro suggerimento di un amico – a configurare unitariamente le 91 narrazioni del ciclo (iniziate a pubblicare nel ʼ30, termineranno intorno al ’47). A posteriori è anche la suddivisione in tre parti: a) studi di costume; h) studi filosofici; c) studi analitici. Ma è nella Prefazione al ciclo, scritta intorno al ’42, che Balzac sente la necessità di smentirsi – rispetto alla visione del mondo che scorre nelle sue opere e alla sua aperta professione di ateismo – dichiarandosi difensore della Religione e della Monarchia.

  Questo, monarchico da cerimonia, questo clericale ateo e materialista comprende, nel suo rigore analitico, che il sistema borghese deve necessariamente stritolare i più deboli. Egli è costretto, come Goya, a disegnare i ritratti repellenti dei «vincitori»; ma il suo cuore e la sua penna sono per i «vinti». E così lo troviamo dalla parte di Chabert (trovatello diventato colonnello sotto la rivoluzione) contro Ferraud (aristocratico favorito dalla Restaurazione); dalla parte del povero curato Birotteau, contro il futuro vescovo Troubert; fra la stampa pulita o sporca, sceglie i giovani repubblicani Chrestien e Giraud; così come sarà dalla parte dell’abbandonato Goriot, come sarà contro il cinismo ripugnante della Cugina Betta ... Non è soltanto moralismo: è scelta, sentimentale e politica.

  Moralista lo è invece, senza mezzi termini, in poche righe di Adieu: quando Philippe, il protagonista, per avere una collaborazione eroica, tenta invano di offrire gioielli ad un gruppo di sbandati, abbrutiti dalla fame e dal gelo. Il personaggio rischia di apparire un imbecille; ma gli si perdona tutto, a ragione della sua passione e della sua giovanile speranza. Questo episodio resta comunque isolato, uno dei pochi accenni al tema balzacchiano del dispotismo del denaro. Tra la disfatta della Beresina e le rovine del convento de L’Ile-Adam il motivo è ignorato, oppure non entra come coprotagonista nel dramma. Per esempio: si comprende — fra le righe — che la pazza è stata completamente abbandonata dai parenti, interessati soltanto a spartirsi le sue sostanze. Lo zio medico, l’unico che si cura di lei (con un amore ambiguo che si svelerà oltre il puro interesse scientifico), sembra vivere di niente; lo stesso ambiente in cui vivono (un convento di frati, quasi completamente in rovina) sembra metaforizzare una doppia situazione critica: una miseria, per niente onorevole, e una dissoluzione psicologica. Un particolare curioso: la contessa Stéphanie, sotto la spinta della follia, distrugge oggetti preziosi, come tende di seta o porcellane di valore; lascia invece intatti gli arredamenti e le suppellettili di poco prezzo. Lo zio ha un unico momento di vanagloria, o di rabbia: ed è quando afferma di seguire un metodo di cura permesso soltanto ai ricchi.

  Che all’inizio di Adieu i due personaggi maschili appaiano più che benestanti sembra irrilevante, anzi naturale, forse perché entrambi – malgrado guerre, prigionie e cambiamenti di regime — non hanno dovuto sporcarsi le mani per diventare ricchi.

  Il popolo invece è come un muro di sassi che fa da fondale all’immane tragedia della Beresina, vera o ricostruita. Se ne stacca, a tutto tondo, fino a diventare corifeo e poi nunzio, il granatiere Fleuriot: un erculeo popolano, capace di uccidere per fame, ma anche di assistere una povera pazza con una dedizione infinita e di essere, comunque, colui che ricorda e comunica ad altri la verità della storia. E si tratta di una storia sporca e povera. Quella che non viene raccontata dagli storici di regime; perché livella ricchi e poveri, demolisce le gerarchie, lascia relitti di corpi e di menti, continua a colpire, con testardaggine, quanti sembrano sfuggiti, casualmente, alla dissoluzione di massa. La morte, come grande usuraia, ha fretta coi deboli e coi poveri.

 

***

 

  La struttura narrativa di Adieu rivela la maturità di Balzac e la sua capacità di orchestrare drammaticamente gli eventi.

  I tre perni sui quali si articola il racconto sono: a) la vicenda della Beresina; b) la pazzia della giovane; c) il tentativo di shock per farla rinsavire. Premessa e conclusione sono rilevanti psicologicamente, ma al di fuori dello schema di drammatizzazione.

  Lo svolgimento della storia è come un giuoco d’azzardo un po’ magico: si distribuiscono le carte, se ne scopre una. La sorte vuole un incontro fra due amanti, separati sette anni prima, nel 1812, dalla Beresina. Ma l’incontro, anziché essere festoso e liberatorio, è «come se non fosse avvenuto», perché la donna è completamente folle e non riconosce l’antico amore. Con grande tocco da narratore, Balzac provoca una crisi di astinenza nel lettore. Si presuppone infatti che, a questo punto, sia nato un bisogno di informazione o una disposizione quasi passiva ad ascoltare una storia del passato. Il lettore è incline ad accettare anche un intreccio da fogliettone, pur di essere liberato dalla sottile angoscia di non sapere i legami che ci sono stati fra due giovani personaggi e le traversie che hanno dovuto affrontare, prima o dopo la separazione.

  Il racconto del testimone oculare può essere onesto, ma condizionato ideologicamente, come quello di Enea; oppure palesemente falso, ma furbo (i morti non parlano, ma gli dei sono sempre potenti!) come quello di Odisseo. Balzac, uscendo dalle quinte del narratore anonimo – forse per coprire possibili omissioni – afferma: «Nel riassumere il racconto sono state taciute le numerose digressioni del narratore e del Consigliere». Onesto come Enea, furbo come Odisseo, Balzac sa che l’estrema attenzione alle fonti e la correttezza delle testimonianze potrebbero inaridire, appesantire o addirittura rendere impossibile la sola cosa importante: ossia la narrazione fluida e piena di sorprendenti osservazioni, che fanno il pregio di Adieu.

  Lo schema del racconto della Beresina è modellato a quinte di rifrazione: lo zio della donna, medico, racconta fatti ai quali non ha partecipato e che gli sono stati narrati da altre persone. Balzac taglia corto sulle possibilità di risalire alle fonti cronachistiche del dottore; e con abile flash-back cinematografico, piazza la sua macchina da presa alle calcagna del giovane maggiore Philippe de Sucy e non lo molla più ... o quasi ... fino alla separazione dei due amanti. In seguito si capisce che avrà avuto un notevole peso la testimonianza del granatiere Fleuriot; infine il flash back si stempera nel presente dello zio narratore.

  Il lettore non riesce a rendersi conto di questi grossolani errori di sintassi narrativa, perché il genio di Balzac, in questo momento, splende al di sopra di qualsiasi regola. Sono gli stessi francesi ad ammetterlo: nessuno scrittore è riuscito a ridare, con tanta vivezza e insieme con tanta commozione, il dramma della Grande Armata nella ritirata di Russia.

  Per inciso: è abbastanza facile trovare qualche sbaglio in Balzac; un po’ per la velocità della scrittura o della correzione; un po’ perché – con cosciente cialtroneria – immetteva, nei nuovi, brani di vecchi romanzi; e infine un po’ per svista, come, per esempio, in Adieu, il fatto di chiamare «compagni di scuola» due persone che in ultra parte dichiara con una differenza d’età di dodici anni.

 

***

 

  La totale perdita della memoria e dell’identità da parte della giovane Stéphanie potrebbe, ancor oggi, essere oggetto di studi approfonditi da parte di psichiatri o di psicanalisti. Balzac dichiarava apertamente di usare metodi scientifici; e, di fatto, nell’ambito delle conoscenze del suo tempo, poteva dirsi all’avanguardia. Il metodo di cura dello zio medico, privo di fantasia e conscio quasi dell’impossibilità di un ritorno alla normalità, consiste in un’amorevole assiduità nel soddisfare i bisogni primitivi della nipote, lasciandole il massimo della libertà, nella sua vita selvatica e innocente, e stimolando soltanto piccole regole di comportamento, che sembrano però riflessi condizionati. Lo zio, in fondo, non prova nemmeno ad uscire da questa rotta, perché intrinsecamente trova edenico e felice questo annullamento della razionalità (sembra un tardo seguace di tendenze utopistiche che avevano trovato radici nella filosofia dell’epoca dei lumi). Forse giuoca con la bambola. Soltanto alla fine, con un appassionato bacio sulla bocca della morta, svelerà un amore sensuale, castrato e tenuto nascosto da un’ambigua moralità professionale.

  Il giovane amante s’introduce in questo Eden fuori del tempo e – con piglio dichiaratamente non scientifico – crede di vincere il male con la sola forza della sua passione. Lo scacco è bruciante e la foresta sembra ritornare ai silenzi selvatici precedenti. Ma Philippe non è disposto a cedere tanto facilmente. Applica infatti una terapia d’urto, basandosi sulle possibilità, positivamente sconvolgenti, di uno shock.

  La ricostruzione della disfatta della Beresina in terreno francese, con abiti, carriaggi, armamenti acquistati come residuati bellici, con comparse di contadini vestiti come gli sbandati della Grande Armata, fa pensare ad un set cinematografico ove si stiano provando scene di un film storico. Ma il «come se» della finzione, specialmente se accompagnato dalla violenza del sonoro bellico, riaggancia la memoria spenta della donna al momento tragico della separazione: quando l’«Adieu» volle dire veramente l’impossibilità di continuare nella lotta contro la violenza inumana della guerra.

  La scienza vince; la scienza uccide. Al successo segue immediatamente la catastrofe. E l’ultimo «Adieu» è quello definitivo, quello che precede il silenzio inalterabile della morte.

 

***

 

  Questa conclusione melanconica della storia può giustificare il carattere romantico che è stato attribuito all’opera dalla critica ottocentesca. Ma Balzac sta già marciando da solo verso la sua immane commedia della realtà. Potremmo dire che è romantico soltanto nel senso dato al termine da Stendhal: «Saper vedere la società in cui vive col linguaggio del suo tempo».

  Balzac, è cosciente, fino alla millanteria, del suo impegno; nella Prefazione alla Comédie Humaine finirà col dire:

  «Io realizzerò, sulla Francia del XIX secolo, quel libro che tutti rimpiangiamo che Roma, Atene, Tiro, Menfi, la Persia, l’India non ci abbiano disgraziatamente lasciato sulle loro civiltà».

  Peccato fosse proprio il periodo del trionfo della borghesia!

 

«Io non credo alle cose, ma

al rapporto fra le cose».

(G. Braque, citato da Jakobson)

 

  Nello schema della Commedia Umana Balzac ha posto Adieu fra gli studi filosofici, accanto, per esempio, all’apologo di Pelle di zigrino. Gli serviva quasi un’oasi, dove poter collocare quel tanto di fantastico che prendeva il sopravvento sull’osservazione strettamente razionale o realistica.

  Adieu, spogliato di quel po’ di fogliettonesco e di sentimentale che è rimasto attaccato alla penna del giovane bancarottiere di Tours, potrebbe essere collocato fra i racconti nei quali è maggiormente in luce l’argomento scientifico; nel nostro caso la malattia mentale, causata da un trauma bellico, e i vari tentativi di rianimazione dell’intelletto. Questa potrebbe essere una delle griglie interpretative da accompagnare alla lettura. Ma i testi sono troppo spesso ottenebrati o svisati dalla ricerca di significati, più o meno reconditi.

  L’accostamento ad un testo, non più come ad un mistero da interpretare, ma come ad un’opera che si crea, zampilla viva nel momento stesso della nostra lettura, dovrebbe spingerci a ritrovare metodi totalmente più semplici, meno annebbiati per il nostro compito di lettori.

  Roland Barthes ci ha suggerito un nuovo gusto del leggere, passo passo, accettando una «limitazione» strutturale. Prendiamo, ad esempio, S/Z, un saggio delizioso di didattica lesseologica, che porta il lettore, da un livello di sudditanza parassitaria, ad uno stato di cooperazione (che Barthes chiama: «Scrivere la mia lettura»). È un modo per penetrare a fondo nel testo.

  La figura retorica dell’Antitesi è ricorrente in Adieu. Già all’inizio i due protagonisti maschili sono due irrimediabili «diversi». Balzac ama l’accostamento dei contrari. Mette insieme, nel giardino quasi fatato, due donne dementi; ma l’avvicinamento rende stridenti le loro diversità: per natura, per cultura, per origini; basterebbe il modo di portare gli abiti per distinguere la nobildonna dalla contadina.

  Altra antitesi: una coppia di amanti che non può comunicare per la perdita della memoria in uno dei due. Ogni parola, ogni movimento, ogni ricordo dell’individuo sano non fanno che approfondire l’abisso del buio mentale dell’altro, aumentando la separazione; oppure la semplice unione di termini contrastanti, come «vecchio zerbinotto».

  L’eccesso di aggettivazione non comporta un aumento di connotazione. Balzac spesso non sa frenare la sua penna, in una ricerca d’effetto eccessiva. Sottolineare, per esempio con un «orribile» l’abbraccio che precede la separazione di due amanti, è un’offesa al buon gusto. Purtroppo Balzac cade spesso nell’enfasi e nel lezioso, proprio quando tocca temi dichiaratamente «poetici».

  In Adieu i doppi sensi delle connotazioni sono stemperati nell’uso comune dei termini: per esempio: «tromba umana»; «catena invisibile di un comune destino»; «la sua anima spezzata»; «strapparlo da quello spettacolo»; «le infaticabili granate»; «un oceano di teste»; ecc.

  Balzac limita le parafrasi, le metafore e si tiene a distanza dai simbolismi; esempio: «come tanti rosari di perle» (p. 48) non serve che a rafforzare l’immagine pittorica; «con la leggerezza di una cerva» (p. 48) ruba all’ambiente selvatico un termine di paragone molto calzante; un po’ più striminzita l’idea delle cannonate «come folgori durante una tempesta» (p. 54). Le figure retoriche sono spesso chiarissime, come ad esempio: «Eredi di ricchezze inaspettate» (p. 52) che suona quasi ironico, riferito agli sbandati e alle loro misere conquiste.

  Forse sarebbe veramente il caso di seguire l’operazione del «passo a passo» fatta da Roland Barthes nella lettura – in chiave strutturale – del Sarrasine di Balzac. Forse dovremmo abituare già gli studenti di liceo ad affrontare un testo, espungendone le connotazioni e osservandole da un punto di vista analitico, topologico, semiologico, dinamico, storico, funzionale, strutturale, ideologico. Abituarli soprattutto al rallentamento barthesiano, che stravolge i concetti di lettura colta, tesa esclusivamente alla ricerca del significato, e della lettura povera, affascinata dalla vivacità della trama.

  L’arbitrarietà della scelta della lessìe (come unità di lettura formate da brevi frammenti contigui) rompe già lo schema classico: proposizione-periodo. Si potrebbero poi usare i cinque codici che sono in grado di determinare – grosso modo – tutti i significati di un testo.

  Facciamo un esempio di lettura passo a passo, scegliendo un punto particolarmente drammatico della storia della Beresina. Il giovane Philippe, assalito dagli sbandati che gli uccidono la cavalla per mangiarla, si siede davanti al fuoco del bivacco provvisorio, a fianco di Stéphanie.

  «De Sucy prese la mano della giovane contessa, come per darle testimonianza d’affetto e per esprimerle il dolore che provava nel vederla ridotta a così basso livello di miseria».

  C’è un’antitesi sostanziale fra il gesto – che sa di tenerezza e di amore – e la drammaticità dell’ambiente circostante. Balzac stesso è costretto, per non cadere nel ridicolo, a dare due motivazioni ad un gesto galante. L’uso del gesto fa rientrare la scena nel codice dei comportamenti: nell’impossibilità di esprimersi a parole, de Sucy adopera un metalinguaggio.

  Codice ermeneutico: a comprendere il valore di questo gesto sono sia il lettore (Balzac, che spiega quali siano i sentimenti contrastanti che il giovane vuole comunicare) sia la contessa; ma non sappiamo se lei riuscirà a comprendere tante sottigliezze, in un momento di estremo disagio fisico e psicologico; delle sue reazioni precedenti sappiamo soltanto che ha lanciato un grido prima che il granatiere sparasse ferendo la cavalla — un avviso che forse ha salvato de Sucy – che è rimasta immobile accanto al fuoco e, quando il giovane si siede al suo fianco ...

  «Lei lo guardò, silenziosamente, senza un sorriso».

  In ogni caso Balzac, prudentemente, inserisce un «come per»: e perciò potremmo dire che il prendere la mano acquista un valore connotativo che va oltre il semplice gesto d’affetto o di conforto e si simbolizza non soltanto come linguaggio muto d’innamorati, ma anche come possibile medium di comunicazione di sentimenti contrastanti e di forte rilievo critico rispetto alla condizione reale esistente in quel momento.

  C’è infine anche un riferimento a codici culturali; con «così basso livello di miseria» si fa riferimento a tutta una graduatoria della povertà e della desolazione, vista dalla posizione di due nobili che non hanno mai conosciuto, prima d’allora, che cosa sia l’abiezione e lo strazio della fame e della fatica (da notare che fino alla Beresina la contessa ha viaggiato in carrozza, ben coperta, e che il giovane indossa una pesante pelliccia e ha potuto fino ad allora andare a cavallo).

 

***

 

  Fin qui l’esempio di lettura «passo a passo» di un testo. Roland Barthes per seguire, con questo metodo, il Sarrasine dello stesso Balzac, tenne un seminario della durata biennale agli studenti dell’École Pratique des Hautes Études, a Parigi. Ci sarà qualche lettore disposto ad analizzare, per due anni, Adieu? Forse no! Possiamo però invitare ad amare sempre più la lettura come fatto creativo. Leggere superficialmente è totalmente inutile.



  Anna Eccellente, La sorcellerie de la parole dans le roman “Louis Lambert” de Balzac. Tesi di laurea, Università degli studi di Padova, 1987.

 

 

  Lucette Finas, La Duchesse de Langeais: un dénouement à décrochements ou du bon usage de la corde, in AA.VV., La Duchesse de Langeais ... cit., pp. 35-49.

 

  Est-il excessif de prétendre que l'essentiel de ce roman et, peut-être, l’une de ses plus profondes raisons, consiste dans son dénouement? Non seulement l’action y tend comme il est d’usage, mais elle le propose dès son ouverture, décor brossé, protagonistes face à face. Nous distinguerons, pour les commodités de l’analyse, un dénouement inaugural de dix-huit pages (pp. 905-923) et un dénouement terminal de six pages (pp. 1031-1037) [tome V, Bibl. de la Pléaide], soit le tiers du précédent. Dénouement suspendu au début, dénouement résolu à la fin.

  Le récit proprement dit, celui des amours du général de Montriveau et de la duchesse de Langeais, se présente comme une longue et puissante parenthèse entre ces deux phases du dénouement, un retour en arrière de plus de cent pages qui s’ouvre sur une exposition du faubourg Saint-Germain […].

  Les deux articulations par quoi les deux dénouements se nouent au récit font saillir le mot aventure pour désigner les amours du général et de la duchesse. Tout se passe comme si l’aventure (l’expédition aventureuse) du dénouement transformait après coup en aventure (en passion risquée, certes, mais passagère, en passade le drame des deux amants.

  Au terme du dénouement inaugural, à son point de suspens, nous lisons: «Voici maintenant l’aventure qui avait déterminé la situation respective où se trouvaient alors les deux personnages de cette scène». Et au début du dénouement terminal, à son point de reprise, après la narration rétrospective, ceci: «Les sentiments qui animèrent les deux amants quand ils se retrouvèrent à la grille des Carmélites et en présence d’une Mère supérieure doivent être maintenant compris dans toute leur étendue, et leur violence, réveillée de part et d’autre, expliquera sans doute le dénouement de cette aventure». Notons au passage ce surcroît de symétrie: dans la première articulation, «l’aventure» se présente en début de phrase, et dans la seconde «cette aventure» se présente en fin de phrase (a le dernier mot!). D’une transition à l’autre, la narration a eu lieu. Et le mot de «sentiments», dans la seconde, vient animer ce que le mot de «situation» impliquait dans la première de trop abstrait, voire de stratégique, après le cri «sublime» poussé par la religieuse. Une relation causale telle que celle-ci: «l’aventure qui déterminé la situation respective», découvre la distance prise par le metteur en scène, tout occupé à disposer ses rôles.

  Le dénouement est déjà, à tous égards, avancé (le général de Montriveau a retrouvé le couvent espagnol où s’est cloîtrée la duchesse de Langeais devenue soeur Thérèse, il l’a entendue jouer de l’orgue et chanter, il a obtenu en tant que «libérateur du trône catholique et de la sainte religion» la faveur exceptionnelle de lui parler à la grille du couvent) lorsque, se dégageant en quelque sorte lui-même à l’issue de la narration qui le bloquait, il rebondit, se précipite, s’achève.

  Composition serrée plus qu’il ne paraît. Que de nœuds dans ce roman, que de cordes tendues!

  Le dénouement terminal est non seulement la suite, mais aussi la répétition du dénouement inaugural. […].

 

 

  Francesco Fiorentino, L’amore minaccioso. Passione e inibizione nella «Duchesse de Langeais», in AA.VV., La Duchesse de Langeais ... cit., pp. 25-24.

 

  Nella storia d’amore tra la duchessa e Montriveau si fronteggiano due strategie amorose. O meglio una che per consapevolezza ed efficacia appare in prima istanza come tale e l’altra no. [...].

  Per descrivere la corte goffa e veemente, che Montriveau fa alla nobildonna, il narratore ricorre continuamente al lessico militare. Così all’inizio della relazione, l’inesperto giovane è tentato di dichiarare il proprio amore «comme s’il s’agissait du premier coup de canon sur un champ de bataille». Si rende però ben presto conto di quanto sia «ridicole de tirer son amour à brûle-pourpoint sur une femme supérieure». Ottenere poi delle concessioni equivale ad «avoir conquis encore un peu plus de terrain». Ma rispetto agli sfaccendati aristocratici delle Liaisons Dangereuses, [...] il generale bonapartista si mostra un seduttore inconcludente. [...].

  La metafora militare sembra dunque dettata dalle competenze professionali – purtroppo per lui non esportabili – del generale: tuttavia essa assume un valore più esteso prestandosi a descrivere anche i comportamenti erotici della duchessa. E se quella del generale è la metafora dell’assalto, alla duchessa è riservata quella dell’assedio [...].

  La metafora della guerra, abbastanza lessicalizzata nelle applicazioni al dominio erotico, non viene soltanto valorizzata grazie alla sua pertinenza rispetto alla professione di uno dei due amanti. Come una sorta di antifrasi. Ancor più viene valorizzata dal fatto che i modelli erotici dei due amanti si fronteggiano in una totale incomunicabilità, come in una guerra. E questa incomunicabilità erotica presenta un’origine storico-sociale, come sottolinea un anziano parente della duchessa scandalizzato dalle sue follie: «Il n’y avait qu’un homme de Bonaparte capable d’exiger d’une femme comme il faut de semblables inconvenances». Questa incomunicabilità deve essere davvero radicale se il generale riesce ad ottenere ciò che non vuole (le follie della duchessa) e non quello che vuole e che lei desidera dargli (il suo amore).

  Il codice amoroso della duchessa, che per la sua necessaria dimensione sociale chiameremo amor mondano, si contraddistingue per una grave inibizione al contatto corporeo e per una totale padronanza dei codici comunicativi. Ella riesce sempre ad offrire al mondo l’immagine confacente ai suoi desideri dei propri rapporti con Montriveau. Il selezionatissimo milieu a cui appartiene rappresenta il vero destinatario del suo comportamento. Sia che vi si conformino, sia che le violino scandalosamente, le sue azioni in ogni caso assumeranno un senso solo rispetto alle regole di quest’ambiente. Il generale, al contrario, è destinato sempre all’incomprensione, sia attiva che passiva. Non viene capito [...]; né tanto meno capisce: suppone che la duchessa intenda compromettersi per lui mentre è destinato ad essere esibito come una nuova preda del suo fascino.

  Il perfetto dominio della comunicazione da parte della duchessa non si esercita solo nei confronti dell’esterno del rapporto: verso la società mondana. All’interno della coppia si esplica nell’esercizio di una deliberata ambiguità nella quale irretire Montriveau [...].

  La duchessa risiede nella lettera dei suoi linguaggi: non ama ed è piena di pregiudizi: ma la possibilità d’un rapporto con il generale nei sottintesi che contraddicono. La frustrazione erotica per il generale viene doppiata da una frustrazione conoscitiva. [...].

  La comprensione della duchessa da parte di Montriveau non migliora neppure dopo l’intervento chiarificatore dell’amico. Il suo accecamento procura dei veri e propri atti mancati: arriva in ritardo nelle due occasioni decisive. All’ultimo appuntamento parigino con la donna che decide in conseguenza di partire per sempre, nell’isola per rapirla, trovando solamente un cadavere.

  L’altro aspetto dell’amor mondano della duchessa è, come avevamo detto, la inibizione al rapporto corporeo. E qui si concentra la contraddizione maggiore con il desiderio del generale. Questa negazione del corpo da parte della duchessa è dettata da una inibizione irremovibile che si manifesta addirittura come incomprensione dei desideri del generale, anche quando, nel momento più tragico della storia, intende compiacerli. [...].

  Proviamo a trarre qualche conclusione da questa breve analisi.

  La passione erotica viene presentata nel romanzo, sia nella forma fobica della duchessa sia in quella «calorosa» del generale, come distruttrice dell’oggetto verso cui si indirizza. Essa tende a spezzare, torcere, squarciare, torturare il corpo della donna. E la valorizzazione stessa, nella descrizione, del corpo della duchessa come parti — le mani, i capelli, la fronte, il collo ... — sembra doppiare questa tendenza sadica e aggressiva che potremmo sintetizzare nella formula lacaniana del corpo fatto a pezzi. È un simile desiderio a generare nel testo due ordini metaforici. Il primo è quello della guerra [...]. Il secondo è quello bestiale. Il soggetto assimilato, dalla voce narrante e dalla duchessa, ad animali pericolosi, quali il toro, il cavallo furioso, il leone. È più volte definito un selvaggio. Ciò che viene sentito come animalità dell’istinto abolisce il carattere umano e a maggior ragione il rispetto della socialità. Impone all’oggetto del suo desiderio la regressione a uno stato primitivo, pre-semiologico, nel quale, attraverso la minaccia dello spezzettamento del corpo, l’identità stessa, che è innanzitutto integrità corporea, viene messa in discussione.

  Il ricorso a ciò che ho definito l’amor mondano viene quindi ad essere una sorta di difesa da questo attentato, effettivamente portato dal generale e comunque già fantasticato dalla duchessa, all’identità, di cui l’unità del corpo rappresenta il presupposto. L’identità viene ribadita nel momento in cui si colloca in un sistema di segni.

  Due osservazioni a proposito di queste conclusioni.

  Il desiderio del generale viene valorizzato positivamente dalla narrazione, si propone identificazione emotiva con esso; al contrario, l’amor mondano viene condannato. Tanto quest’ultimo appare futile, crudele, scandaloso; quanto l’altro autentico, profondo, generoso. Esso sembra auspicare una sorta di ideale erotico: un amore matrimoniale senza matrimonio. In questa analisi ho provato a mostrare come anche il sentimento amoroso di Montriveau, apparentemente da idillio borghese, si riveli quanto mai pericoloso. Egli attenta al corpo della donna e continuamente la minaccia. È sempre lui a profferire quel Ne touchez pas à la hache che costituiva il primo titolo del racconto e fu poi abolito forse proprio perché l’aggressività vi traspariva troppo evidente.

  Non ne va tanto ne La Duchesse de Langeais della psicologia contrapposta di due personaggi, quanto piuttosto di un’indagine sui meccanismi della passione amorosa, come testimonia l’eccesso di romanzesco cui fa riscontro la frequente inverosimiglianza psicologica della storia.

  Ultima osservazione. L’origine biografica della novella fu denunziata da Balzac medesimo e riconosciuta dagli interessati. Essa affiora più volte alla superficie del testo, anche solo come negazione (nel caso precedentemente considerato della capigliatura). Specialmente significativi per questa analisi appaiono i riferimenti, metaforici e ipotetici a un cavallo furioso in balia del quale si troverebbe una donna. Si sa infatti che Mme de Castries, a seguito di un incidente di cavallo, rimase semi-paralizzata.

  Alla luce delle vicende biografiche del suo autore, il racconto sembra dunque configurarsi come un grande appagamento di desiderio di rivincita, come la compensazione di una frustrazione erotica. E nel suo attacco alla aristocrazia dei Faubourg Saint-Germain anche come compensazione di una frustrazione politico-snobistica. Il generale napoleonico che comanda un esercito della Restaurazione in Spagna; una nobildonna capace di gesti estremi per amore: il racconto condensa due dei maggiori ideali balzachiani. Quello dell’integrazione dei più capaci all’aristocrazia e quello dell’amore che sconfigge i pregiudizi di casta.

  Il racconto intende suggerire che la responsabilità della sconfitta di questi ideali debba essere attribuita rispettivamente a una classe incapace di comprendere i tempi, accogliendo le nuove forze sociali; e a una nobildonna incapace d’amare. Di fatto il racconto dice, come «ritorno del represso», che questi ideali risultano irrealizzabili anche perché il desiderio erotico può avere in sé una carica distruttiva da cui occorre difendersi. E parallelamente perché quelle nuove forze sociali che avrebbero dovuto essere integrate, solo tre anni prima, nel 1830, avevano fatto l’ennesima rivoluzione con cui avevano definitivamente spodestato chi avrebbe dovuto integrarle.

 

 

  Dario Gibelli, Da «Mlle de Scudéry» di Hoffman a «Maître Cornélius» di Balzac: un modello e le sue trasformazioni (I), «Il Confronto letterario», Pavia, Anno IV, n. 8, novembre 1987, pp. 269-287.

 

 

  Marie-Louise Lentengre, Les scandales de la duchesse, in AA.VV., La Duchesse de Langeais ... cit., pp. 51-62.

 

  La plus grande critique, écrivait Barthes autrefois, «est celle qui ingère la plus grande partie possible de son objet», et cela dans une perspective qui faisait de la critique un métalangage assumé comme discours «structuralement cohérent». Ce principe a pu le céder, depuis, à des approches qui ont regardé comme suspect l’esprit de système et remis en jeu l’improbable du texte, il n’en est pas moins reste, à l’horizon de toute lecture critique, comme tentation de l’intelligible, désir de possession de la littérature, par sa soumission à l’ordre d’un discours autre qui la comprend. Or, ce n’est pas le moindre paradoxe du romanesque balzacien que de paraître si puissamment fondé sur une vision systématique, dont les interprétations ‘structurantes’ s’avèrent, en définitive, incapables de rendre compte, se heurtant sans cesse aux failles, aux vides et aux excès d’un texte où s’inscrirait plutôt une énigmatique figure du morcellement et de la décomposition. Pour lire un tel texte, il faut alors ‘défaire’ l’objet, multiplier les interrogations et orchestrer autour de lui le concert des voix, sans prétendre lui fixer un contour net et définitif. […].

  Apparemment, la structure générale du roman est simple et rigoureuse, en même temps qu'originale, avec ses quatre chapitres disposés comme les rimes embrassées d’un quatrain, c’est-à-dire à la fois convergeant ver, le centre et renvoyant aux extrêmes. Grâce à une prolepse déjà remarquée par Proust, le dénouement est partagé en deux, et comme redoublé, de manière à encadrer les deux chapitres centraux qui racontent, symétriquement, la ‘séduction’ de Montriveau par la duchesse, puis celle de la duchesse par Montriveau. Le point de convergence est occupé par la scène ‘sado-masochiste’ où s’articule le renversement du rapport bourreau-victime, lorsque Montriveau signifie à la duchesse, par la menace de la marque d’infamie, qu’il a inverti les rôles. Les extrêmes marquent l’inaccessibilité du corps féminin qui clôt anaphoriquement chaque chapitre et, si l’on replace l’issue du premier dans l’ordre chronologique des événements, on s’aperçoit qu’il s’agit d’un parcours hyperbolique allant du ‘refus de soi’, à la ‘disparition’, au ‘couvent’ et à la ‘mort’, pour culminer rigoureusement, selon une telle logique, dans l’anéantissement final du corps de la duchesse: jetée à la mer, privée de cette dernière trace de son être qu’est le tombeau, elle n’est plus effectivement qu’un «poème», celui-là même que nous venons de lire et qui porte son nom. Par une nouvelle convergence, ce parcours renvoie à la scène centrale qui dit elle aussi, et d’une manière plus paradoxale et plus absolue, cette inaccessibilité, puisque même à la merci de son amant, le corps de la duchesse n’est pas, ne peut pas être possédé. Cette interdiction qui le frappe répond à celle qu’énonçait le titre primitif: Ne touchez pas la hache, et que l’on retrouve sous des formules différentes dans le texte, où l’objet même, plusieurs fois nommé ou figuré, accompagne de son symbolisme évident et presque allégorique le personnage de la duchesse. […].

  Dans cette perspective, le personnage de la duchesse échappe à sa définition initiale de ‘type’ pour accéder, comme résurgence d’un archétype littéraire, à une dimension mythique qui la place sous le signe de la fatalité. La psychologie de la coquette porte la marque d’une ‘fausseté’ beaucoup trop évidente pour désigner la vérité du personnage […], elle trahit plutôt un mensonge du narrateur qui déguise le destin sous les oripeaux de la psychologie, lors même qu’il sature le récit des signes qui le manifestent: la hache, la décapitation, le couvent ou le désert, dont la traversée, fondée elle aussi sur la frustration répétée du désir, préfigure l’épreuve amoureuse ainsi que sa double issue. […].

  Tout ceci projette sur le texte de la Duchesse l’ombre de la parodie, entendue comme multivalence des codes, se contestant les uns les autres mais coexistant, hors vérité, dans le jeu de la fiction. Ainsi le mythe de l’amour-obstacle triomphe, puisque la duchesse meurt (et, ironie de Balzac, grâce à Dieu), mais en même temps il échoue, car si Montriveau meurt à l’amour, c’est pour ne pas mourir de l’amour, ce dont le préserve le pacte qui le lie aux Treize […]. On entre alors, par le biais de ces ombres entrevues derrière Montriveau et agissant pour lui, dans une autre histoire, régie par un autre code narratif — l’aventure, l’action — qui semble nier brutalement tous les autres et s’affirmer enfin comme valeur. […].

  Et c’est tout à coup l’une des dimensions les plus fascinantes de la Comédie humaine qui pénètre dans le roman, sous le romanesque naïf de l’équipée finale. Aristocratie fantasmatique où se projette sous sa forme la plus absolue la volonté de puissance de Balzac, les Treize inscrivent en abyme dans le roman la liberté du geste esthétique, son caractère magique, ‘puéril’ et scandaleux.

 

 

  Sergio Mancini, Il mondo e i personaggi delle “Illusions perdues”. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Mario Iazzolino, Università della Calabria, Facoltà di Lettere, anno accademico 1986-1987.

 

 

  Giancarlo Mazzacurati, Ombre e nasi: da Tristram Shandy a Vitangelo Mostarda. 1. Gli eredi del pendolo, in Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Società editrice Il Mulino, 1987, pp. 269-287.

 

 

  Toe Mercurio, Dal visibile all’invisibile: la follia nell’arte. Balzac, Goncourt, Zola. Tesi di laurea, Università degli studi di Bari, 1987.

 

 

  Franco Moretti, The Bildungsroman in European culture, London, Verso, 1987.

 

 

  Franco Moretti, Homo palpitans. Come il romanzo ha plasmato le personalità urbana, in Segni e stili del moderno, Torino, Giulio Einaudi editore, 1987 («Saggi», 697), pp. 138-163.

 

  Cfr. 1981.

 

 

  Graziella Pagliano, Planimetrie letterarie e ideologiche, in AA.VV., Ideologie e produzione di senso, a cura di F. Crespi, Milano, Angeli, 1987, pp. 103-112.

 

 

  Letizia Paolozzi, In principio fu «Z», «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno 64°, n. 184, 5 agosto 1987, p. 19.

 

  Su Vassili Vassilikos.

 

  «Quando ero giovane, Gide Dopo Camus, Kafka, Jonesco. Sempre, di sottofondo, i russi e Sartre, Gramsci. Negli ultimi dieci anni Balzac, esclusivamente Balzac. Non posso scrivere

senza leggerlo» Balzac, padre nostro ha parlato e scritto per tutti noi.

 

 

  [Antonio] Piazza, Le nom de Balzac est sur les lèvres de tous, «Le Courrier balzacien», Nouvelle Série, N. 27, 2° trimestre 1987, pp. 24-25.

 

  Cfr. A. Piazza, Appendice. Il signor di Balzac, «Gazzetta privilegiata di Milano», Milano, n. 54, 23 febbraio 1837, pp. 213-214. La trascrizione integrale dell’articolo del Piazza è presente in R. de Cesare, La prima fortuna di Balzac … cit., vol. I, pp. 310-312.

 

 

  Edoardo Poggi, Balzac. Le follie della coppia, «Il Piccolo», Trieste, 28 maggio 1987, p. 6.

 

  Considerata la popolarità di cui godono manuali, manualetti, trattati di bon ton e di «do/it/yourself» di vario genere, dovrebbe ottenere un buon successo. Anche se questa «Fisiologia del matrimonio» di Honoré de Balzac che l’Einaudi si appresta a mandare in libreria a cura di Emilio Faccioli (pagg. 304, lire 16.000) è un volume di genere un po’ particolare, un libello tra il serio e il faceto, pensato a uso e consumo degli uomini.

  Balzac vi lavorò tra il 1826 e il 1829, quando era poco più di un esordiente. L’idea di mettere alla berlina usi e costumi dell’istituzione matrimoniale ebbe successo. Il libro gli procurò infatti una discreta popolarità nella capitale francese. L’intento provocatorio era evidente sin dalla nota che apre il saggio, là dove si precisa che l’argomento avrebbe fatto di certo indignare le signore, poiché era stato concepito solo per i mariti. E’ dunque un Balzac maschilista quello che scrive «Fisiologia del matrimonio»? Certamente, ma il suo maschilismo è interamente godibile, troppo caricato per essere autentico, troppo geniale per risultare irritante.

  Il volume occupa poi un posto importante all’interno della sua evoluzione intellettuale, come precisa Faccioli nella sua nota introduttiva. «Narratore “in nuce” — sottolinea — Balzac già si presenta con l’attitudine che gli è caratteristica di osservatore che sa cogliere ogni particolare della realtà fisica».

  Di questo libro, in cui in ciascuna pagina Balzac preme e incombe sul lettore con il ricatto del suo spirito accattivante e con una straordinaria facoltà di passare liberamente dal sillogismo al pettegolezzo, anticipiamo alcuni passi per gentile concessione dell’Einaudi. [Che fatica sposarsi, cfr. supra].

 

 

  Marina Raccanello, Balzac, Les Chouans, la Chouannerie. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Bernard Gallina, Università degli studi di Udine, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1987.

 

 

  Franco Rella, Angeli e Androgini. Su “Séraphîta” di Balzac, in Limina. Il pensiero e le cose, Milano, Feltrinelli editore, 1987 («Campi del sapere»), pp. 65-99.

 

  Cfr. 1986.

 

 

  Franco Rella, L’andatura di Balzac, «Il Belpaese», Milano, Camunia editrice, n. 5, 1987, pp. 31-42.

 

  Si tratta della riproduzione della nota scritta da F. Rella in appendice al volume: Balzac, Teoria dell’andatura, Venezia CLUVA, 1986.

 

 

  Franca Romé, Moglie? Che paura!, «Stampa Sera», Anno 119, Numero 179, Torino, 6 luglio 1987, p. 11.

 

  Leggendo la sua lettera, cara amica, mi è venuto in mente un bellissimo romanzo-epistolario di Honoré de Balzac, «Memorie di due giovani spose». Pubblicato nella prima metà dell’Ottocento, è lo scambio di lettere tra Renée e Luoise (sic), due compagne di studi in convento che, a diciassette anni, entrano nel mondo e affrontano i loro destini di donne, in maniera opposta. Renée è un po’ come la sua amica, saggia, razionale, tesa verso la maternità come fonte di ogni dolcezza, Luise (sic) è un po’ come lei, passionale, idealista, ardente, insofferente di ogni mezza misura nell’amore. Le consiglio di leggersi questo romanzo perché dipinge due figure femminili che, al di là degli abiti, sono eccezionalmente moderne, simili a noi. Anche loro sono in cerca della propria identità, della propria indipendenza, aspirano a salvare l’ideale conciliando con la realtà della vita quotidiana. Anche loro faticano nel loro destino di donne. Come finisce il romanzo non lo racconto ...

 

 

  Ivana Rosi, «L’âme de la religieuse vola vers lui sur les ailes de ses notes»: lettura della prima scena della «Duchesse de Langeais», in AA.VV., La Duchesse de Langeais ... cit., pp. 25-34.

 

  La Duchesse de Langeais, elemento centrale del trittico Histoire des Treize, presenta evidentemente tutta una serie di legami con le altre due storie (Ferragus, La Fille aux yeux d’or), ma al tempo stesso se ne distingue nettamente su di un punto essenziale: la relazione amorosa tra la duchessa e Montriveau, nelle sue diverse fasi, si pone sotto il segno della negazione. Lo scambio, apparentemente non ha luogo tra i due amanti. In particolare, se nel primo atto del dramma (in senso cronologico) la coquette, nel suo narcisismo, seduce e si nega, nell’ultimo, su un piano diverso, la carmelitana ripropone un’analoga duplicità.

  E tuttavia c’è un episodio in cui ha luogo uno speciale scambio amoroso, sotto una forma al tempo stesso disincarnata e superlativamente sensuale: la scena della chiesa. Il lettore, alla fine del racconto, comprende, retrospettivamente, che il miracoloso riconoscimento tra i due amanti perdutisi è, in questo senso, il «lieto fine» anticipato della storia. [...].

  Nel contesto sacro, la frivola coquette parigina appare dunque nobilitata, arricchita di una sostanza superiore, elevata ad m diverso registro, ma assolutamente fedele alle proprie caratteristiche originarie. Ne è una ulteriore riprova la scena del parloir, che presenta delle precise corrispondenze con la situazione dei due amanti nel boudoir parigino: di fronte a Montriveau che reclama i propri diritti senza indietreggiare neppure di fronte alla violazione della legge divina (come nel salotto concepiva gioiosamente l’idea del delitto, per disfarsi del marito di Antoinette) la carmelitana dispiega da un lato tutte le terribili seduzioni di un corpo ardente distrutto dall’ascesi, di una toilette austera e mortificante, di colpi di teatro che fanno fremere il grande Montriveau, dall’altro si nega appellandosi ai doveri ben più impegnativi e solenni del suo nuovo stato civile.

  In realtà la carmelitana per ben due volte pare derogare alla fedeltà al divino: quando mente gesuiticamente alla madre superiora (versione monacale della madre/duègne di Paquita), per poter continuare il colloquio con l’amante, e nella frase finale del dialogo («cet homme est mon amant»), che condensa in maniera fortemente drammatica i due termini dell’ossimoro: essa è infatti una teatrale, aristocratica (nel senso che implica totale disprezzo del pericolo), dichiarazione d’amore: la prima, anch’essa, scambiata tra gli amanti [...]. Questa volta tale gesto implica delle conseguenze ben più gravi e definitive, il sacrificio supremo dell’amore umano. Il volto inanimato di Antoinette si presterà tuttavia compiacentemente a risplendere per il suo amante, nell’ultimo succedaneo del boudoir, la cabina della nave, perpetuando così, anche nella morte, l’amore ossimorico della coquette.

 

 

  Paola de Sanctis Ricciardone, Balzac o dell’equiparazione del Lotto alla droga, in Il Tipografo Celeste. Il gioco del lotto tra letteratura e demologia nell’Italia dell'Ottocento e oltre. Prefazione di Vittorio Lanternari, Bari, Edizioni Dedalo, 1987 («Nuova Biblioteca Dedalo/ 66. Serie “Nuovi Saggi”»), pp. 30-31.

 

  [...] Ad esprimere però compiutamente l’equazione Lotto/droga è H. de Balzac, come fece ben notare Benedetto Croce parlando di un’altra scrittrice favorevole all’equazione, Matilde Serao. Balzac infatti, ricorda Croce [La letteratura della Nuova Italia; Conversazioni critiche], ne La Rabouilleuse, un romanzo de La Comédie Humaine del 1841, a proposito dell’abitudine di M.me Descoing di giocare al Lotto sempre un certo terno scrive:

  Cette passion, si universellement condamnée, n’a jamais été étudiée. Personne n’y a vu l’opium de la misère. La loterie, la plus puissante fée du monde, ne développait-elle pas des espérances magiques? Le coup de roulette qui faisait voir aux joueurs des masses d’or et de jouissances ne durait que ce que dure un éclair: tandis que la loterie donnait cinq jours d’existence a ce magnifique éclair. Quelle est aujourd’hui la puissance sociale qui peut, pour quarante sous, vous rendre heureux pendant cinq jours et vous livrer idéalement tous les bonheurs de la civilization (sic)?.

  Il Lotto è dunque per Balzac una droga, ma è anche una fede, una sorta di religione, al contrario della roulette, buona evidentemente per i «ricchi», che dissipa in un attimo le immagini dei godimenti che evoca; una fede potentissima dunque perché prolunga nel tempo, con pochissimo investimento, le speranze «magiche» appunto di benessere, di felicità, di ricchezza.

  È incredibile come le pagine di Croce sul Lotto, la Serao e Balzac siano state oggetto di riflessione parallela, da parte di due importanti intellettuali italiani, Gramsci e De Martino. Per ciascuno di loro queste pagine sono state spunto di disgressioni sui loro massimi punti di riferimento filosofico, i loro padri spirituali insomma: Marx e lo stesso Croce.

 

  La religione, il Lotto e l’oppio dei popoli: disgressioni su un dépistage gramsciano, pp. 31-35.

 

  Gramsci, che d’altro canto dedica al Lotto diverse pagine dei Quaderni, viene subito colpito dalla suggestiva somiglianza della definizione del Lotto di Balzac con quella famosissima di religione che Marx espresse nella Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Marx avrebbe dunque tratto ispirazione dal passo de La Rabouilleuse per comporre la storica frase: «Essa [la religione] è l’oppio dei popoli», nonché i concetti espressi nei suoi dintorni6. L’ipotesi di Gramsci è tutt'altro che peregrina; tanto più se riflettiamo sul fatto che in Balzac l’equiparazione del Lotto ad una forma di fede («la plus puissante du monde») è chiaramente esplicitata. E, come tutte le fedi, libera quelle speranze «magiche» di riscatto dalla miseria, di conquista di benessere («les bonheurs de la civilisation»). Siamo molto vicini dunque a quella «protesta contro la miseria reale», a quel «sospiro della creatura oppressa», a quel «cuore di un mondo spietato», a quella «illusoria felicità» che è la religione per Marx.

  La suggestione gramsciana, comunque, è suffragata da non poche prove. Innanzitutto le date: la Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, pubblicata a Parigi nel 1844, è probabilmente scritta nel 1843, ovvero a circa un anno dalla pubblicazione de La Rabouilleuse. Inoltre, come ricorda lo stesso Gramsci, è nota l’ammirazione di Marx ed Engels per Balzac, un’ammirazione su cui diversi studiosi, anche italiani, si sono soffermati.

  Dunque, se non ci fosse stato il Lotto e le illustri riflessioni che ha saputo suscitare, la Storia, la Filosofia, il Senso Comune, i Musei dell’Ateismo sarebbero stati orbati della ormai lapidaria frase marxiana? No, perché l’amorevole indagine (indiziaria, s’intende) di Gramsci non si ferma qui: anzi comincia a battere i sottili itinerari della circolazione di idee nel flusso costante del rapporto tra filosofia e senso comune; da ciò emerge che le responsabilità del concetto marxiano passano attraverso Balzac, ma non sono di Balzac. [...].

 

  Balzac e Casanova: congetture sul più italiano dei giochi francesi, Ibid., pp. 40-43.

 

  Viene fatto di chiedersi come mai Balzac, lucido e nostalgico narratore delle vicende degli strati medio-alti della società francese, abbia saputo dare una definizione così «italiana» così «napoletana» del Lotto, tanto da sembrare quasi fatta su misura per i «volghi nostrani»: o almeno per quei «volghi» che ci vengono restituiti da una buona parte di letteratura, demologica e non, dell’Ottocento italiano. Vi è da dire che comunque Balzac tratta l’argomento con un distacco, un’ironia ed una assenza di preoccupazioni moralistiche di cui sono privi tanto la Serao quanto la maggior parte degli intellettuali italiani che hanno pensato al gioco del Lotto come ad una sorta di droga.

  Non emerge infatti dal brano de La Rabouilleuse citato da Croce la piena assoluzione che Balzac dà al gioco: nel prosieguo si comprende che la passione di M.me Descoings è sostanzialmente innocente; almeno in paragone ad altre passioni [...].

  Al massimo può essere una di quelle «follie dello spirito», e gli artisti, i «grandi talenti» non possono non comprendere e rispettare, come tutte le «passioni vere» di cui sanno trovare le ragioni o «nel cuore o nella mente».

  È indubbio tuttavia che il Lotto in Francia aveva una connotazione tutta italiana: innanzitutto la stessa parola loterie deriva dall’italiano lotto. [...].

Sia come sia, ed ansie sciovinistiche a parte, l’«italomania» nella diffusione del Lotto in Francia deve pur esserci stata in qualche modo. Anzi, a sentire Giacomo Casanova, fu proprio lui, assieme ai due fratelli Calsabigi ad elaborare il progetto ufficiale della «Loterie d’État» nel 1758. [...].

  Ecco dunque configurata una caratterizzazione del gioco del Lotto sul versante delle motivazioni di Stato, come «ultima tassa possibile», (la borbonica «tassa sulla speranza»), cui il cittadino volentieri si sottopone addirittura con entusiasmo. Ma oltre a questa caratterizzazione diremo «napoletana» del gioco sul piano istituzionale, a Balzac non doveva essere estranea la passione popolare del Lotto in Italia. Questo se noi pensiamo alla gran voga dei libri di viaggio in Italia ed in particolare a Napoli che attraversò gli intellettuali romantici europei a partire dalla seconda metà del Settecento sino a tutto l’Ottocento. Comunque sia, tanto si attaglia la definizione balzachiana ai nostri volghi letterariamente pensati che ancora quarant’anni dopo La Rabouilleuse, Matilde Serao ne Il Ventre di Napoli, dichiara il Lotto essere «l’acquavite di Napoli».

 

 

  Franco Simone, Dieci giorni torinesi di Balzac, in Anni di giornalismo, Genève, Éditions Slatkine, 1987 («Centre d’études franco-italiennes-Centro di studi franco¬italiani. Bibliothèque Franco Simone», 15), pp. 33-35.

 

  Cfr. 1964.

 

 

  La vocazione di Balzac, Ibid., pp. 67-69.

 

  Cfr. 1965.

 

 

  Alla luce di nuove testimonianze: la morte di Balzac, Ibid., pp. 143-146.

 

  Cfr. 1966.

 

 

  L’attesa nuova edizione delle “Lettres à Madame Hanska” di Balzac, Ibid., pp. 231-233.

 

  Cfr. 1968.

 

 

  Ornella Spada, Il pensiero politico-sociale di Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alan Freer, Pisa, Università degli Studi, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1987, pp. XVIII-131.

 

 

  Simonetta Treves, Il Giglio della (sic) valle (Le lys dans la vallée). Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), in AA.VV., Dizionario dei Capolavori ... cit., Vol. II, p. 701.

 

  [...]. Félix de Vandenesse confessa alla contessa Natalie de Manerville, sua amante, la storia dei suoi precedenti amori. Sono due vicende che si intrecciano e che hanno come centro Blanche-Henriette de Lenoncourt, contessa di Mortsauf, e lady Arabella Dudley. Dei due amori, l’uno è puramente passeggero, l’altro invece condiziona profondamente il protagonista. Dopo un’infanzia trascorsa nella più grande solitudine, tra un precettore e l’altro, in lugubri collegi e privo del benché minimo affetto, Félix sente nascere il bisogno di accostarsi a un grande sentimento quale l’amore. In occasione di una lunga passeggiata nella vallata dell’Indre, nelle vicinanze di Tours, dove egli ha una proprietà, Frapesle, scopre l’esistenza di un altro possedimento, quello di Clochegourde. Sulla via del ritorno, in compagnia di Monsieur de Chessel, assiste al passaggio del re, Luigi XVIII, che è stato appena incoronato. Tra coloro che lo stanno applaudendo c’è una donna: per il suo aspetto verginale, pare un giglio. Félix, colpito dalla sua straordinaria bellezza, inizia a baciarle le spalle, come impazzito. La donna, sconvolta, fugge. Da allora, Félix la ricerca affannosamente. Il fedele amico Chessel gli rivela che la casa di Clochegourde è di quella donna, il cui nome è Blanche de Mortsauf. Blanche, o Henriette, l’altro nome con cui le piace farsi chiamare, è sposata al conte di Mortsauf e ha due figli: Jacques e Madeleine. Anche Henriette ha avuto un’infanzia piena di problemi; priva di affetti familiari, ha solo goduto del bene profondo datole da una zia. Tra Félix e la donna sboccia un amore profondo, senza che però mai i loro rapporti vadano al di là di semplici baciamano. Troppo è forte in lei l’idea del dovere e del peccato; sopporta atroci sofferenze senza mai lamentarsene. I figli sono cagionevoli di salute e il marito è soggetto a sbalzi di umore perché ipocondriaco. Le sue doti di madre e di moglie sono così forti che ella non si permette alcun attimo di abbandono; l’intensità del suo amore sarà scoperta da Félix solo dopo la morte dell’amata. Apparentemente Félix è per lei solo un altro figlio, cui promette di dare Madeleine in sposa. Ma lui deve appagare anche la passione; spesso Henriette lo comanda in modo oscuro, apparendo fredda e scostante. A Parigi, dove è diventato membro del consiglio di Stato, Félix conosce la marchesa Arabella Dudley. Inebriato dalla passione, ben presto si accorge che l’inglese è un’egoista. Henriette, venutane a conoscenza, è molto gelosa anche se non lo dà a vedere; si dedica ancor più alla conduzione delle sue terre, di molto aumentate da quando è entrata in possesso di una cospicua dote, fornitale dal padre, diventato pari di Francia. La crisi che segue nell’animo di Félix è profonda: si rende conto dell’unicità del suo primo amore, e non può che ritornare da Henriette, la quale, stroncata dalle sofferenze e dal tradimento di Félix, è gravemente ammalata. Muore dopo indicibili sofferenze, rimpianta da tutti coloro che l’hanno amata. A conclusione della narrazione, Natalie de Manerville risponde a Félix in modo molto eloquente: non vuole essere la sostituta di nessun'altra e gli annuncia la rottura della relazione.

  L’accoglienza riservata all’opera fu molto ineguale: la «Revue de Paris», ancora dolente per il processo perso, attaccò l’autore; la «Presse», per bocca di Madame de Savignac, ne fece gli elogi; Lanson nella sua Histoire de la littérature la ritenne molto debole. Venne poi del tutto rivalutata dal giudizio di Auguste Taine. [...].

 

 

  Giorgio Triani, Una guida alla vita coniugale, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno 64°, n. 207, 2 settembre 1987, p. 14.

 

  Honoré de Balzac, «Fisiologia del matrimonio», Einaudi, pag 304, lire 16.000.

 

  Honoré de Balzac stando al ritratto che di lui fece un suo contemporaneo non doveva essere un campione di bellezza «Più corto che piccolo grasso e ripieno la testa Infossata sulle spalle la schiena precocemente curva le braccia ridicolmente brevi» Il suo ritratto morale non era meno entusiasmante se è vero che all’età di 29 anni era riuscito a indebitarsi per 100 mila franchi coinvolgendo amante genitori e amici vari, e che non c’era situazione in cui egli non si distinguesse per vanita ed esibizionismo Nondimeno Balzac diede prova, oltre che di eccezionale talento letterario, di incredibili capacità di lavoro. Avvolto nel suo saio di chachemere (sic) e con in mano una caffettiera di maiolica dalla quale attingeva senza sosta e senza misura, egli scriveva come un forsennato La «Commedia umana». «Illusioni perdute», «Padre Goriot», «Mercadet l’affarista» sono forse i titoli più conosciuti al grande pubblico.

  «Fisiologia del matrimonio» apparve nel 1829 riprendendo nel titolo e nello schema compositivo il celebre libro del gastronomo filosofo Brillat-Savarin «Fisiologia del gusto» che era stato pubblicato qualche anno prima nel 1825. «Ma è chiaro che l’adozione del modello fornito da Brillat-Savarin – scrive il prefatore Emilio Faccioli – non ha per Balzac che una finalità promozionale. È poi altrettanto evidente che i modelli assunti sono da ricercare altrove soprattutto negli autori che egli cita di frequente per dichiarata congenialità di spirito come Rabelais, Voltaire, Diderot D’Alembert, Rousseau e più di tutti Lorenzo Sterne il quale gli suggerisce con seduzione costante i modi di una scrittura estrosa agilmente equilibrata fra la prosa saggistica e il racconto». «Fisiologia del matrimonio» è un libro che s’offre al lettore d’oggi oltreché nel suo valore di testimonianza storica in tutta la sua bellezza di scrittura divertita e divertente.

 

 

  Bernardo Valli, E Haussmann prese il piccone, «la Repubblica», Roma, 3 maggio 1987, pp. 22-23.

 

   Il 22 agosto 1850, accompagnando il feretro di Balzac al cimitero del Père-Lachaise, Victor Hugo, Alexandre Dumas, Sainte-Beuve e il ministro Barroche avevano sotto gli occhi la stessa città alla quale uno degli eroi della Comédie Humaine, Rastignac, lancia la sua sfida, da quello stesso luogo, facendo errare lo sguardo sul consunto, tarlato, sfilacciato tappeto urbano. Nel secondo decennio del secolo, quando il ventenne Balzac, discendente di antenati proletari di nome Balssa, aveva abbandonato l’appena avviata carriera di avvocato o di notaio per rinchiudersi in una puzzolente mansarda, al numero 9 di rue Lesdiguières, e diventare scrittore, Parigi era ancora cinta dalle sue vecchie mura. La densità della popolazione era soffocante. Le sopraelevazioni si erano moltiplicate, le costruzioni indisciplinate ingombravano le strade. C’era una sola fontana in tutto il Faubourg Saint-Antoine. Le condizioni igieniche erano disastrose. Non potendo comperare l’acqua dai distributori, che passavano di casa in casa, il giovane squattrinato Balzac ne andava a cercare ogni mattina alla fontana di Place Saint-Michel. Trent’anni dopo, alla sua morte, la situazione era quasi la stessa. Il panorama urbano si trasformava più lentamente della struttura sociale. La grande borghesia e l’aristocrazia non sopportavano più di vivere in una promiscuità infernale, tra i rumori, la puzza, la circolazione, la mancanza di spazi verdi. Le prime lottizzazioni, come a Londra, abbozzavano una separazione di classe: i poveri a sud, i ricchi a nord. Non era ancora la suddivisione est-ovest, sopravvissuta fino ai nostri giorni.

 

 

  Italo Vanni, Ma allo scrittore realista fanno male troppi sogni a occhi aperti, «il Resto del Carlino», Bologna, 31 gennaio 1987.

 

  Non conosco nella letteratura universale un romanziere che meriti l’attributo di eccessivo, come Honoré de Balzac. Intendo, alla lettera, un narratore che ecceda le misure per tradizione realisticamente contenute del racconto, come fa Balzac. Il quale, anche quando non si abbandona agli eccessi così poco realistici della sua particolare visionarietà, trabocca di un’energia mitica e trasfiguratrice del tutto impropria alla sua fama di romanziere di costume e di ambiente. Senza trarre da ciò le conclusioni critiche che a suo tempo formulò Curtius, mi limiterò a dare un avvertimento al lettore: leggere Balzac è come avanzare sull’orlo di una voragine. Il solido terreno del romanzo ottocentesco apre in Balzac delle crepe sismiche, attraverso le quali si scorge, nel doppio senso prospettico, la luce sulfurea di profondità infernali e le trasparenze di altissimi cieli.

  In quest’ultima ottica ascensionale si collocano le opere del Balzac cosiddetto mistico: il «Louis Lambert», «I gigli (sic) nella valle» e un romanzo molto eccentrico che porta il bel nome femminile di «Séraphîta» (Reverdito editore, lire 18000). Il lettore comune, della cui sorte mi sento partecipe, affronterà senza guida un libro siffatto, fidando nel Balzac «realistico» che è solito praticare? Il rischio di una lettura sprovveduta, in questo caso, è considerevole. La dismisura di Balzac, quel dato che direi iperfigurativo, è in ogni dove della sua opera e ne determina l’eccesso. Ma qui, nel settore mistico o esoterico o teosofico o gnostico dell’opera balzachiana, siamo del tutto allo scoperto e un criterio di lettura è indispensabile. Ce lo fornisce con dotta abbondanza Franco Rella, il curatore di questa edizione di «Séraphîta». Il lettore sappia che questo Balzac stravede, vede oltre, intravede: insomma, tutto fa tranne che limitarsi a vedere e a descrivere. E’ nell’orbita fumosa di Swedenborg. nella scia luminescente dei pensatori dell’assoluto, in una tradizione che va dai cabalisti orientali, a Platone, a Saint Martin. Balzac aspirava a qualche verità suprema che risolvesse i contrasti tra la materia e l’ideale; per di più, come s’è detto, il suo genio saliva con moto spontaneo alla visione. Direi che solo così l’eccedenza del temperamento, in lui, trovava uno sfogo e una destinazione liberatoria. Resta da chiedersi se in queste forme Balzac esprimeva il meglio di sé e nello stile più adeguato. Non ne sarei certo, proprio non ne sarei certo.

  «Séraphîta» è un romanzo impedito di farsi romanzesco. La narrazione trapassa nella predicazione profetica e abbandona il lettore. Il tema centrale, quello dell’androgino (di moda, oggi, anche in pittura), per cui Séraphîta è al tempo stesso Séraphîtus. uomo e donna e come tale amato/a da Minna e da Wilfrid, è aggirato nella sua imbarazzante natura di enigma sessuale e infine sublimato.

  «Séraphîta» à un caso di androginia soltanto nell’impostazione narrativa: subito diventa il fenomeno mistico di una creatura angelica destinata a ritrovare la sua integrità armonica nei Cieli, ai quali fa allegoricamente ritorno nell’ascensione che chiude il libro. Balzac consegna il tema inaudito dell’androgino alla sapienza divina. Swedenborg gli dà una mano a compilare pagine o pagine di farneticazione trascendentale, dove affonda ogni residua attenzione del lettore. Può darsi che questo sia il Balzac dei sublimi approdi, ma dopo aver perso per via la preziosa zavorra che riempiva le bisacce del suo realismo e lo teneva ancorato al romanzo. Questo Balzac che prende il volo non vale l’altro che resta a terra. L’esplosione del divino è un’aberrazione artistica. Anche a Dante, nelle eteree sfere, viene meno il fiato.

  Aspettiamo ancora di sapere come se la sarebbe cavata Séraphîta-Séraphîtus se a liberare l’essere inesplicato e il suo autore dall’imbarazzo non fossero scesi gli angeli (anche loro creatura «miste») dall’alto di cieli provvidenziali.

 

 

  Italo Vanni, Quelle corna stile Impero, «il Resto del Carlino», Bologna, 24 novembre 1987, p. 10.

 

  Ripubblicato «Fisiologia del matrimonio», celebre saggio di Honoré de Balzac sulla vita di coppia. Un’inchiesta sui mille modi con ci la Francia ottocentesca giustificava il tradimento maschile.

 

  Balzac, l’Alberoni del XIX secolo? Grande onore per Alberoni e un po’ meno, forse, per Balzac, se leggendo la «Fisiologia del matrimonio» di quest’ultimo (pubblicata da Einaudi), mi è venuto in mente, trattandosi di sociologia facile in entrambi i casi, il nome del nostro più divulgato sociologo. Ma Balzac aveva delle scuse. La scienza dei costumi, in quel 1829 in cui il giovane scrittore non ancora grande romanziere diede alle stampe il suo studio sulla coppia coniugata, era appena nascente E prendeva il nome molto fortunato e approssimativo di «fisiologia», da un’opera famosa di Brillat-Savarin sul «gusto» alimentare. Fisiologia, come dire esame ravvicinato ed empirico della vita sensitiva e materiale chirurgia e anatomia del corpo sociale con intenti che oggi diremmo fenomenologici. Cronaca, inchiesta e ritratto d’ambiente, la «fisiologia» permetteva a chiunque di farsi scienziato dei costumi, da un giorno all’altro, in attesa di meglio. Balzac era in attesa del romanzo. Aveva pubblicato in quello stesso 1829 «Le dernier des Chouans (sic)»; ma «La pelle di zigrino», primo della grande serie della «Comédie humaine», sarà del 1831 (e del ʼ35 «Papa Goriot», il capolavoro). In quel frattempo Balzac, che pratica tutte le attività letterarie per sbarcare il lunario, compone bravamente la sua «Fisiologia». L’intento prevalente è quello di farsi notare. Tutto ciò di cui il giovane autore dispone: improntitudine, improvvisazione, esperienza mondana, nozioni eterogenee, talento di osservatore e narratore, frenesia di successo, pruriti d’alcova ... ecc., oltre a un genio speciale dell’amalgama degli ingredienti suddetti, è messo in opera per stupire, anzi lasciare a bocca aperta il lettore medio.

  Lo stupore ci fu, nella forma della riprovazione scandalizzata. Il libro parve di un’indecente immoralità e non si andò oltre questa deplorazione sostenuta. Balzac aveva voluto strafare. L’abuso delle risorse, nelle pagine troppo colme, toglie spazio al lettore, lo esclude. Questo, io credo, ancor più dello scandalo, raffreddò l’ammirazione dei contemporanei per un libro straordinariamente ricco, traboccante di trovate, di soluzioni, di stili (nella magistrale traduzione di Emilio Faccioli, curatore dell’opera). L’esuberanza della scrittura è tale che anche il lettore di oggi si apre la strada a fatica in queste pagine incontinenti. A differenza dei nostri attuali studiosi dei costume — per proseguire nello scherzoso paragone—, Balzac non lavora su quattro idee ma su cento. Egli si profonde nella scrittura e questo è già un segno che la teoria non gli basta. Dietro la sua saggistica urge una folla di personaggi. Il romanziere aspetta impazientemente il suo turno.

  Il tema della «Fisiologia» è il matrimonio e nel matrimonio il rapporto d’alcova. E’ la fisiologia del letto coniugale. Come conservarsi fedele la moglie, tra quelle coltri infuocate? Come evitare al marito le corna? E’ l’ossessione impudica di Balzac e di tutta la società di cui egli analizza, da quel solo punte di vista, il comportamento. Una società di cui la Rivoluzione ha rivendicato gli istinti e che la Restaurazione ha provveduto a castigare. Tra sfrenatezza e ipocrisia, Balzac studia il modo di salvaguardare il diritto alla licenza maschile e l’esonero dalle esecrate appendici frontali.

  Sul suo piano di lavoro manovra statistiche da lui stesso apprestate, schemi, raggruppamenti, classifiche. Ne risulta che le mogli fedeli, nella capitale di Francia, difettano paurosamente e quelle poche sono sul punto di cedere all’orda assatanata degli scapoli. Il marito metterà in opera una serie di accorgimenti, di cui gli è fornito l'elenco. Ma l’astuzia femminile, allevata fin dagli anni del collegio, stimolata dal regime repressivo imposto alle donne, acuita dalla curiosità e da altro di più fisiologico, travolge le difese maschili.

  E’ il vecchio gioco boccaccesco della moglie truffaldina e del marito beffato, col corredo di aneddoti piccanti che la materia richiede. Balzac, per lo più giulivo e ciarliero da una tappa all’altra della sua scorribanda, si concede il piacere supplementare di raccontare delle storie, di abbozzare dei caratteri. Quindi cambia stile e passa alla teoria ragionata per poi rientrare nella celia invereconda, da cui risale all’aforisma per scivolare nella cronaca. E’ serio e conseguente, ma subito dopo sceglie l’incoerenza plateale e l’incorreggibile cinismo. Si fa trasportare dal soffio del liberalismo spregiudicato, per un attimo dopo inneggiare al reazionarismo più nero. Compiange le donne mentre ne ribadisce la schiavitù. E’ geniale e un po’ stupido, ilare e torvo.

  Soprattutto, sperpera le sue risorse, consuma il suo tempo, sbaglia strada. Perde l’occasione di scrivere il romanzo che smania di scrivere.

 

 

  Mihai Zamfir, L’ombra di Balzac, in Mircea Eliade e l’Italia, a cura di Marin Mincu e Roberto Scagno, Milano, Jaca Book, 1987.

 

 

 

Adattamenti televisivi.

 

 

  Cartellone teatrale. Vittorio Caprioli in Mercadet: il faccendiere. Libero adattamento in due tempi di Silvano Ambrogi e Vittorio Caprioli. Da Honoré de Balzac. Con Angelo Tosto, Corallina Viviani, Clara Bindi, RaiTre, 9 gennaio 1987.



Marco Stupazzoni

 

 

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