domenica 13 settembre 2020



1975

 

 


 

Estratti.

 


  Honoré de Balzac, Tappezzato di Damasco. “Un début dans la vie”, 1902 (sic), in AA.VV., Il Salotto cattivo. Splendori e miserie dell’arredamento borghese, a cura di Rita Cirio e Pietro Favari, «Almanacco Bompiani 1976», Milano, novembre 1975, p. 185.


 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Club degli Editori, 1975 («Caleidoscopio», 80), pp. 345.

 

  Per la traduzione, cfr. 1950 (Rizzoli) e 1973 (Club degli Editori).

 

 

  Honoré de Balzac, La ricerca dell’assoluto. Introduzione e appendice bibliografica di Ferdinando Camon. Traduzione di Andrea Zanzotto, Milano, Garzanti Editore, 1975 («I grandi libri», 128), pp. XXIII-184.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Ferdinando Camon, Introduzione, pp. VII-XXI. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Guida bibliografica, pp. XXI-XXIII;

  La ricerca dell’assoluto, pp. 1-182.

 

  Trascriviamo la prima pagina della bella traduzione che Andrea Zanzotto fornisce del romanzo filosofico balzachiano:

 

  A Douai in rue de Paris c’è una casa nella quale l’aspetto, la distribuzione dell’interno e i particolari hanno conservato, più che in ogni altro edificio, il carattere delle vecchie costruzioni fiamminghe, così ingenuamente rispondenti ai costumi patriarcali di quel bel paese; ma prima di descriverla occorre forse ribadire, nell’interesse degli scrittori, la necessità di quelle premesse didascaliche contro cui protestano certe persone ignoranti e voraci che vorrebbero emozioni senza accettarne i princìpi generatori, il fiore senza il seme, il bambino senza la gestazione. L’Arte dovrebbe essere allora più forte della Natura?

  I fatti della vita umana, pubblica o privata, sono così intimamente legati all’architettura, che la maggior parte degli osservatori possono ricostruire le nazioni o gli individui in tutta la realtà delle loro abitudini dai resti dei monumenti pubblici o dall’esame delle loro reliquie domestiche. L’archeologia sta alla struttura sociale come l’anatomia comparata sta alla natura organica. Un mosaico rivela un’intera società, come uno scheletro d’ittiosauro presuppone un’intera creazione. Da una parte e dall’altra tutto si deduce, tutto si concatena. La causa fa pensare a un effetto, come ogni effetto permette di risalire a una causa, e lo scienziato fa rivivere perfino le minuzie delle età passate. Da questo deriva senza dubbio lo straordinario interesse che suscita una descrizione architettonica quando la fantasia dello scrittore non ne alteri gli elementi; ognuno può infatti con rigorose deduzioni ricollegarla al passato, e per l’uomo il passato assomiglia straordinariamente al futuro: raccontargli quel che è stato non equivale forse, quasi sempre, a dirgli quel che sarà?


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Gaston Bachelard, «Séraphîta», in Il diritto di sognare. Traduzione di Marina Bianchi, Bari, Edizioni Dedalo, 1975 («La scienza nuova», 27), pp. 111-117.

 

  Paul Valéry, nell’introduzione all’edizione francese del libro di Martin Lamm su Swedenborg, scriveva: «Il bel nome di Swedenborg suona strano alle mie orecchie. Risveglia in me tutto un groviglio di idee confuse intorno alla fantastica immagine di un personaggio singolare, creato dalla letteratura più che non definito dalla storia. Confesso che, pochi giorni or sono, sapevo di lui non più di quanto mi ricordavo dalle letture di un tempo ormai lontanissimo: Séraphîtüs-Séraphita di Balzac e un capitolo di Gérard de Nerval erano finora state le mie uniche fonti, cui tuttavia non mi abbeveravo da una trentina di anni». Che uno spirito della lucidità di Valéry abbia potuto conservare quale dono indimenticabile d’una lettura giovanile il ricordo di Séraphita legato al grande nome di Swedenborg, basta di per sé porre in tutta chiarezza il problema di questo singolare racconto che è Séraphîta.

  Se volessimo rifarci al primo accenno di Balzac su Séraphîta senza dubbio non troveremmo nulla che indichi un’ispirazione swedenborghiana. L’idea gli era venuta, così Balzac scrive a Madame Hanska, il 17 novembre del 1833, a casa dello scultore Bra, mentre ammirava il gruppo: Marie tenant le Christ enfant et adoré par les anges, e il progetto Balzac lo descrive così: «Séraphîta rappresenta le due nature in un unico essere, come Fragoletta, ma con questa differenza, che immagino tale creatura come un angelo giunto alla sua ultima trasformazione e in atto di spezzare l’involucro e involarsi in cielo. Essa è amata da un uomo e da una donna, ai quali dice, mentre sta per prendere il volo, che entrambi hanno amato l'amore che li univa ravvisandolo in lui, angelo purissimo». Inizialmente l’opera è dunque progettata come lo studio di un’androginia. Si tratta di un modo sottile e fantastico di esprimere l’intero amore, l’amore nella totale reciprocità dei due amanti. Balzac scriverà di questo amore portando all'indice della mano sinistra l’anello datogli da Madame Hanska. Così egli scrive all’amata (lettera di gennaio del 1834, loc. cit. [Calmann-Lévy], p. 110): «Se tu sapessi quante superstizioni mi dai. Non appena inizio il lavoro mi metto al dito l’amuleto, questo anello che porto durante le ore di lavoro. Lo infilo al primo dito della mano sinistra che tiene la pagina, ed è così che il pensiero di te mi tiene avvinto. Sei qui, con me. Adesso, invece di cercare in aria le parole e le idee, le chiedo a questo anello delizioso: vi ho trovato tutto Séraphîta». La lettera prosegue con una professione di fede d'un amore unico, eterno, celeste. L’androgina creatura Séraphîtus-Séraphita è l’incarnarsi stesso del genio amoroso, sintesi dell’amore femminile e maschile.

  Senonché, l’opera che era stata inizialmente progettata come una lettera d’amore scritta da Balzac, amante entusiasta, in tre settimane, coll’andare del tempo assume una ben diversa portata. Séraphîtus-Séraphita non si limiterà a rappresentare la duplice personalizzazione della dialettica animus-anima, dialettica divenuta familiare ai lettori della psicoan[a]lisi moderna; di fatto, la creatura di Balzac porta ben presto il segno d’una più grande sintesi, la sintesi dell’essere terrestre e dell'essere immortale. Sicché il tema centrale di Séraphîta si trasforma ben presto in un destino di trascendenza dell’essere umano.

  Ed ecco intervenire fantasie più antiche, sogni della giovinezza, meditazioni filosofiche d’una adolescenza solitaria, e le letture della grande solitudine: Séraphîta è ormai distaccata dalla passione occasionale, è una creatura che diventa swedenborghiana. E anzi, qui troviamo forse un bell’esempio di compensazione volto a guarire da tutte le sventure che contrassegnano l’amore mondano per una donna in carne e ossa. Un bell’esempio di fuga nell’ideale. Ma a voler cercare tutte le prove di vita compensata nel grande narratore, si oltrepasserebbero i limiti posti alla prefazione d’un’opera specifica. Dobbiamo invece situarci al centro della meditazione che caratterizza Séraphîta, centro di meditazione che Balzac ha descritto come quello che mette a repentaglio l’umana ragione. Il problema di fondo è lo swedenborghismo di Balzac.

  Questa la questione da chiarire: come si situa la swedenborghiana Séraphîta nel quadro dei personaggi balzachiani? E essa una creatura della scienza, tratta da Balzac nel corso delle sue travolgenti letture, oppure è un essere formatosi nell’alveo di personali meditazioni che condensano sogni vitali? L’opera è stata classificata fra gli (sic) Etudes Philosophiques (sic) di Balzac. Ma di quale filosofia si tratta? Sistema o esperienza?

  Per rispondere a tali domande vorremmo mostrare che lo swedenborghismo di Balzac è un’esperienza psichica positiva e che il lettore potrà beneficiare di tale esperienza se accetterà, quale induzione dinamica, le linee delle immagini balzachiane.

  Per leggere Swedenborg stesso, e cioè leggerlo con sincero interesse e poi continuare la lettura iniziata, è necessario, innanzi a ogni lettura, essere potenzialmente uno swedenborghiano. In tal caso poco importa che dell’immensa opera dell’illuminato del Nord si legga un libro, e se ne leggano due o venti. Poche pagine possono bastare per intendere le innate luci swedenborghiane, per dare forza agli impulsi diretti e nativi che proiettano l’essere umano in una verticalità senza ripiegamenti. Balzac porta impresso in sé, quasi un engramme dell’ascensione immaginaria, il dinamismo swedenborghiano. Giovanissimo, egli indubbiamente conobbe i libri del grande svedese. Lo comprovano le confidenze riunite in Louis Lambert. L’edizione francese del libro di Swedenborg: Du Dernier Jugement et de la Babylone détruite è del 1787. Nel 1829, quattro anni prima che Balzac iniziasse Séraphîta, appariva una traduzione d'uno dei testi fondamentali dello swedenborghismo: Du Ciel et des ses merveilles et de l’Enfer d’après ce qui y a été entendu et vu. In quest’ultima opera si troverà tutto ciò che occorre per fornire un’esatta documentazione di tutte le immagini contenute in Séraphîta. Ma, a nostro parere, dobbiamo fare proprio il contrario. Dobbiamo cioè restituire alle immagini la loro preminenza, il loro primario dinamismo. Una volta che questo dinamismo sia stato compreso, apparirà chiaro che le visioni di Swedenborg hanno «solidificato» gli esseri del cielo. A questo riguardo scopriamo che Balzac si rivela qui un bergsoniano ante litteram. Egli vuole vivere la dinamica dell'ascensione nella sua continuità, non gli basta rappresentare degli stati d’animo. Un lettore attento e sensibile dovrà dunque saper cogliere tutte le immagini nella loro virtù iniziale, nella tentazione al movimento ascensionale, quasi un costante invito a un futuro divenire aereo.

  È chiaro che sarà necessario tollerare, nel bel mezzo del racconto, un fardello di discussioni filosofiche, e cioè scientifiche, fra un sostenitore delle dottrine di Newton e un partigiano delle dottrine di Swedenborg. Balzac non poteva astenersi dal fare apparire sullo sfondo un mostro di erudizione. Nel romanzo c’è dunque un personaggio che ha letto «tutto Swedenborg». È il pastore Becker, ateo e miscredente. Legge le opere dell’illuminato fumando la sua pipa e bevendo birra, mentre Minna, sua figlia, orla degli asciugamani al chiarore della lampada che brucia olio di pesce. Il pastore legge Swedenborg come lo farebbe un precursore dello psichiatra Gilbert Ballet, compiacendosi perché ha tra le mani un «bel caso», con il sorriso di un intenditore di idee fisse.

  Ma laddove il racconto si fa dotto, svanisce l’interesse squisitamente dinamico. Ancora una volta Séraphîta va letto nel senso di un’esperienza dinamica. Ed ecco messo in luce tutto il volontarismo di Balzac, espresso non più nelle aspre lotte sociali, o in un conflitto di passioni incarnate nei personaggi, ma nel cuore stesso della sostanza dell’essere, che non soltanto deve perseverare nella sua essenza, ma deve trovare il suo divenire di creatura sovrumana. Per essere veramente spirito, la creatura umana deve farsi volontà tesa verso il proprio destino, volontà di giovinezza, di rigenerazione. Balzac non ha certo mancato di meditare le pagine di Swedenborg sulla rigenerazione. Sono la speranza vera della sua volontà. Per certi versi Séraphîta è la rigenerazione mediante il divino, esatto parallelo della rigenerazione satanica descritta da Balzac in Le Centenaire.

  Simile meditazione sul rigenerarsi dell’uomo mediante la volontà, non ha nulla in comune con una meditazione orientale sull’essere. Invano si cercherebbero qui i buoni impulsi dei paesi dalle rigogliose vegetazioni, secondo un conformismo del lento germogliare. Per vivere l’ascensione swedenborghiana è necessario il metallico inverno, il freddo che rende i monti più alti, più rigidi e lucenti in un paese dove, come dice Balzac, vi sono picchi «il cui nome mette freddo». Ma appunto perciò queste cime sono, per l’uomo eroico, altrettanti incitamenti a volere. Séraphîtüs, che sostiene la terrestre Minna, entra in scena come una saetta sfrecciarne al di sopra dei crepacci del ghiacciaio. Tutto il racconto è «condizionato» (intendendo il termine nel senso che gli dà la psicologia moderna) da una lotta contro l’abisso nella dialettica delle immagini di caduta e di peccato. Una fisica della moralità conferisce un corpo ai precetti morali. Ed ecco la più fisica delle ascensioni divenire un preludio all’assunzione estrema.

  Tutto in tal modo si anima in «corrispondenze» di ciclo e terra. Il tema delle corrispondenze che doveva sostenere un ruolo così grande nella poesia baudelairiana, è un elemento fondamentale della cosmologia balzachiana. Ma, mentre in Baudelaire si tratta sempre di corrispondenze sensibili, corrispondenze che sono, in certo senso, orizzontali, e nelle quali i diversi significati scambievolmente si rafforzano, in Balzac le «corrispondenze» sono verticali, sono, in breve, swedenborghiane. Il loro è un principio che essenzialmente appartiene al regno celeste. «Il regno dei cieli, afferma Balzac citando Swedenborg, è il regno delle cause. L’azione si genera in cielo e da qui nel mondo, per gradi, trascorrendo nell’infinitamente piccolo della terra; poiché gli effetti terrestri sono legati alle loro cause celesti, ne deriva che in tutto vi è corrispondenza e significanza. L’uomo è il tramite fra il naturale e lo spirituale». È compito del filosofo cogliere lo «spirito profetico delle corrispondenze». È questo un «soffio» che, dopo avere tormentato l’uomo interiore, lo fortifica nella sua attitudine alla verticalità: «L’uomo soltanto, dice Balzac, possiede il sentimento della verticalità, posto in un organo speciale». E su questo asse di verticalità completamente dinamizzato che si debbono intendere tutte le corrispondenze che proliferano nel testo di Balzac. Sono immagini che preparano il pensiero. Riviverle come Balzac le ha vissute, significa cogliere il frutto di una straordinaria lezione dell’immaginazione pensante.

  Giacché non accetta il fondamentale criterio delle immagini dinamiche della verticalità, la tradizionale critica letteraria misconosce alcuni valori essenziali. Taine, ad esempio, della esperienza tutta positiva delle immagini verticali non sembra averne il menomo sospetto. Dopo avere citato una pagina di Séraphîta dove, appunto, le immagini verticalizzanti appaiono chiarissime, Taine aggiunge: «Non è così che si scoprono le leggi in psicologia». Dobbiamo concludere che Taine esclude dalla psicologia lo studio delle leggi dell’immaginazione? In Séraphîta Taine non vede che una sorta di «fantasmagoria lucida e risplendente». Tuttavia, alcune pagine più avanti, egli ammette che «la fine di Séraphîta è simile a un canto di Dante». Sta di fatto che quando Balzac, in un altro volume dei suoi Etudes Philosophiques, Les Proscrits, fa comparire Dante sulla scena, non si richiamerà all’opera dantesca più di quanto abbia realmente fatto Swedenborg nello scrivere Séraphîta. Di nuovo Balzac ritroverà la sua personale esistenza, l’esperienza che fu di Dante e di Swedenborg, spingendo il lettore sensibile a cercare in sé la traccia profonda di tale esperienza. È dunque una grande ingiustizia ritrarre Balzac come gravato da «un eccesso di teorie che introducono nel romanzo una politica, una psicologia, una metafisica e tutti i figli legittimi o illegittimi della filosofia» (loc. cit. p. 93). E continua Taine: «molti si stancano e rifiutano Séraphîta e Louis Lambert come sogni chimerici, noiosi da leggere».

  No, non sono lezioni di psicologia tainiana che si debbono ricavare da una meditazione su Séraphîta. E il lettore appena appena familiare con i temi della panpsicologia moderna, colui che sa come un lirismo specificamente psichico possa trascinare l’uomo nelle alte sfere del sogno e del pensiero, non rifiuterà Séraphîta; lo leggerà con la costante impressione che Balzac, così occupato nel mondo di quaggiù, tanto dolorosamente coinvolto nei complessi sociali del suo tempo, sapeva però d’istinto che i destini degli uomini sono solidali con l’atto trascendente. E troverà sorprendenti le improvvise luci che si sprigionano da questo breve racconto, dal momento in cui se ne accetta la unione fra moralità e poesia.

  Per riassumere, notiamo che laddove il lirismo mette in moto i destini morali e religiosi, appare una dinamica che non si limita più alle bellezze dell’espressione, e che coinvolge tutta l’anima. Il lettore che sa trarre vantaggio dalle minuziose esperienze dinamiche accumulate nell’assunzione di Séraphîtüs-Séraphîta, comprende il significato del lirismo psichico, il lirismo che alla psiche dà il movimento stesso della verticalità.

 

 

  Maria Luisa Belleli, Presenza di Balzac [1964], in Il sole nero dei poeti. Saggi sulla letteratura francese dell’Otto-Novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia editore, 1975 («Aretusa», 32), pp. 363-369.

 

  Scaltrissima Nathalie Sarraute ... Confrontiamo l’atteggiamento che assume nel prendere posizione in favore di una rivoluzionaria tecnica del romanzo con quello adottato da Robbe-Grillet nel medesimo intento.

  I due rappresentanti del nouveau roman si trovano perfettamente d’accordo sulla necessità di un profondo rinnovamento della narrativa rispetto ai vecchi schemi, ma, lo scrittore biliosamente se la prende col lettore, non ancora preparato, egli dice, non ancora maturo, mentre la scrittrice (ma non vogliamo cedere alla tentazione di riservare all’animo femminile certi guizzi di malizia) quello stesso lettore sottilmente a sé lo associa, lo fa suo complice, cosicché egli esce in certo modo dall’anonimato, acquista anzi lineamenti distintissimi (nei due sensi che si possono dare alla parola) e riceve un titolo d’onore a cui è presumibile che non vorrà più rinunciare. [...].

  Balzac, sempre Balzac. Anche i nuovissimi sperimentatori sono costretti a fare i conti con questa ingombrante presenza. Immaginiamo di chiamare proprio la Sarraute e Robbe-Grillet ad una tavola rotonda sull’argomento. Associamo ad essi Michel Butor, che in favore della Sarraute si è prodigato per l’attribuzione dell’importante premio internazionale di Salisburgo (1964). E non dimentichiamo Claude-Edmonde Magny, la quale, nel suo noto saggio sulla letteratura francese moderna, ha avuto occasione di citare ben cinquanta volte Balzac, mentre ha nominato trentasette volte Stendhal e appena sedici Flaubert.

  La parola a Nathalie:

  Depuis le temps heureux d‘Eugénie Grandet où, parvenu au faîte de sa puissance, il trônait entre le lecteur et le romancier, [...] il [il personaggio] n’a cessé de perdre successivement tous ses attributs et prérogatives [...] [È finita l’epoca in cui, per generale accettazione] l’avance était le père Grandet, elle en constituait toute la substance, elle l’emplissait jusqu’aux bords et elle recevait de lui, à son tour, sa forme et sa vigueur ...[1]

  A dire il vero il bonhomme Grandet non è così tipicamente astratto come qui lo si ritrae e come era piuttosto l’Harpagon, da cui in parte discende. È ingegnoso bottaio, accorto vignaiolo, malizioso calcolatore, ed ogni scena in cui compare aggiunge particolari alla sua concretezza. Ma ascoltiamo l’intervento di Butor. Nonostante i doveri di solidarietà che lo legano all’autrice dei Fruits d’or, ha l’aria di voler rispondere polemicamente:

  On oppose d’une façon simplette le roman dit «balzacien» au roman moderne, c’est-à-dire à toutes les oeuvres importantes du XXe siècle; [...] parfois certains esprits assez ouverts, assez avancés […] nous déclarent vouloir secouer la tyrannie de Balzac, vouloir faire de l’anti-Balzac, en s’opposant à une notion de Balzac ridiculement insuffisante ...[2]

  Butor dunque non disdegna di riallacciarsi alla tradizione. A giudicare dalle sue opere di narrativa, si direbbe però che egli deva molto di più a Proust che a Balzac, poiché in esse il tempo ha la massima importanza: un tempo che tuttavia non si accumula a valanga come quello di Proust, ma si ripresenta a noi spaccato in successive e sempre più dense sezioni. Coerente alla sua aspirazione verso una totalità ricostituita, Butor affronta la costruzione di Balzac nel suo insieme, come un edificio di vastissime proporzioni. E anche ora s’è lanciato in un discorso un po’ lungo e complicato.

  Il fatto, egli dice, che, nello scrittore dell’Ottocento, una storia diventi il punto d’incontro di numerose altre storie crea «una sfera con molte porte». Anzi, le sfere sono due, perché v’è il complesso rapporto fra personaggi reali e fittizi. Anzi, sono tre, perché gli studi filosofici formano una terza sfera all’interno degli studi sociali ... Che il lettore si tranquillizzi: una quarta sfera non c’è. L’immagine, confessa l’autore che la tien cara più del necessario, diventa insufficiente quando si venga a parlare degli studi analitici di Balzac, rimasti allo stadio embrionale. Eccoci intanto alla conclusione: una conclusione che, sebbene preparata dal precedente tributo di ammirazione, risulta imprevista e, per i colleghi del nouveau roman, addirittura sconvolgente:

  Il est peu du (sic) lecture [ci si riferisce alla Comédie humaine] qui introduise mieux le lecteur aux problèmes du roman contemporain.

  La Sarraute dà allora il via ad una nuova requisitoria (non dimentichiamo che è avvocatessa) e trasportata, sia pur nel suo modo calmo, da un furor di distruzione, estende le accuse a Joyce e a Proust, bollando il loro «psicologismo» con l’epiteto di «mummificato».

  È la volta di Claude-Edmonde Magny. Prende le cose da lontano, sembra che divaghi; ma ogni suo di scorso finisce con quel gran nome: Balzac. Elogia la «tecnica obiettiva» di Gide, e conclude: «Elle était d’ailleurs déjà celle de Balzac ...»[3]. Esalta certe segrete qualità architettoniche nell’opera di Proust, e osserva:

  L’architecture cachée de l’édifice balzacien se laisse moins facilement encore déceler partie à cause de l’apparence morcelée de l’ensemble, partie aussi parce que personne, en vertu d’un préjugé séculaire, ne suppose tant d’art chez son auteur.

  La frecciata giunge al segno. Robbe-Grillet prorompe:

  Le roman de personnages appartient bel et bien au passé, il caractérise une époque: celle qui marque l’apogée de l’individu [...] Le destin du monde a cessé, pour nous, de s’identifier à l’ascension ou à la chute de quelques hommes, de quelques familles [...] Avoir un nom, c’était très important sans doute au temps de la bourgeoisie balzacienne ...

  Qui è chiamato in causa più particolarmente quel Balzac storico della borghesia di Luigi Filippo a cui il Lukács ha dato il così pertinente titolo di «osservatore incorruttibile». Preparatissima anche su questo punto, la Magny risponde esaltando colui che è stato nello stesso tempo dentro la storia e al di sopra di essa:

  Si Marx a salué en l’auteur de la Comédie humaine l’écrivain qui avait su le mieux décrire, avant même qu’elles n’existassent pleinement, l’essence du capitalisme et l’organisation économique moderne, cela tient à la profondeur intemporelle des vues de Balzac pour tout ce qui concerne l’argent ...

  Queste parole sottolineano una verità essenziale: senza uno slittamento fuori di una troppo precisa corrispondenza col proprio tempo, non si raggiunge l’universalità. Balzac ebbe la coraggiosa ambizione di far rientrare nella sua opera tutta la vita. Tutta significa anche il superamento e la negazione della stessa rappresentazione realistica della vita. «Peut-être — si legge in Louis Lambert — les mots matérialisme et spiritualisme expriment les deux côtés d’un seul et même fait». E basta un racconto a rivelarci che il solido e corposo costruttore ha tremato di fronte ai limiti entro cui ogni raffigurazione si chiude e ha provato perfino la tentazione dell’informale: un frammento perduto in un «brouillard sans forme» costituisce il quadro di maggior impegno che abbia dipinto il grande pittore protagonista di Un chef-d’oeuvre inconnu. Balzac risponde in molti modi secondo come lo si interroga. Sulla Comédie Humaine, Michel Butor conclude perentorio:

  [...] elle est [...] pour nous une mine prodigieuse d’enseignement.

 

 

  Philippe Berthier, Structure et signification d’un espace provincial chez Stendhal et Balzac: la ville, «Studi Francesi», 57, Torino, Anno XIX, fascicolo III, settembre-dicembre 1975, pp. 428-438.

 

  Ce titre, par son fixisme, a de quoi égarer. […] nous prendrons «espace» dans un sens large, puisqu’une structure spatiale est inévitablement sociale aussi, et politique; par «espace», nous embrasserons donc la forme extérieure et son contenu de vécu idéologique. […].

  La structure de la ville de province, analysée par Stendhal et Balzac, n’a rien à voir avec celle du jeu de l’oie. […]. Chacun, dès sa naissance, est placé au sein d’un espace propre dont normalement il ne pourra pas sortir. La verticalité de l’ensemble ne suppose pas une possibilité quelconque de promotion, un tropisme ascensionnel qui permettrait de s’élever jusqu’au pinacle en gravissant successivement tous les échelons intermédiaires; pas question non plus d’un filtrage qui, par des épurations successives d’une même matière, d’abord grossière et mêlée, l’affinerait peu à peu jusqu’à un état d’absolue perfection. Les êtres qui gravitent dans chacun des compartiments n’ont rien de commun, et par conséquent ne peuvent évoluer au sein d’un mème organisme admettant toutes les métamorphoses. Ce sont des substances étrangères de toute éternité encastrées les unes dans les autres. C’est dire qu’une des caractéristiques les plus fortes de la structure spatiale de la ville de province est son étanchéité. […].

  Ajoutons, pour ne pas trahir la perspective, que l’analyse stendhalienne et balzacienne de la structure provinciale ne prend son sens exact que par rapport à l’analyse de la structure parisienne. Il y a quelque chose d’artificiel à séparer les deux volets d’un seul diptyque. La raideur, le durcissement, la solidification des barrières provinciales ne font que mieux ressortir la souplesse, la fluidité, les infinies capacités de rencontre d’un espace parisien insondablement fertile. Mais si, à la limite, tout est à chaque instant possible dans un Paris sans rivages, à Nancy, à Angoulême, à Verrières, il Guérande, Stendhal et Balzac nous décrivent, dans l’organisme rétréci et arthritique de la province, la crispation d’un espace bloqué, la contraction d’un système sans ouverture. Malgré l’exception de quelques brillantes percées romanesques, fondamentalement, la ville de province n’est pas un espace de la liberté.

 

 

  Felix Boehm, Osservazioni sulla vita amorosa di Balzac, in Johannes Cremerius, Nevrosi e genialità: biografie psicoanalitiche. Traduzione di Uta e Mario Devena, Torino, Boringhieri editore, 1975 («Saggi»), pp. 67-75.

 

  Nel 1828, Balzac scrisse alla duchessa di Abrantès: “Ho il carattere più singolare che conosca. Mi studio come potrei studiare un altro. In cinque piedi e due pollici sommo le incoerenze, tutte le contraddizioni possibili, e chi mi giudica vanitoso, dissipatore, puntiglioso, frivolo, di pensiero instabile, fatuo, trascurato, pigro, disattento, irriflessivo, assolutamente incostante, pettegolo, indelicato, maleducato, scortese, brontolone, lunatico; costui avrà visto giusto come coloro che mi definiscono parsimonioso, modesto, coraggioso, ostinato, energico ... laborioso, perseverante, laconico, delicato, cortese, sempre lieto ... Nulla mi meraviglia più di me stesso”. Nel romanzo La peau de chagrin [La pelle di zigrino], nel descrivere le proprie sofferenze, fa dire a Raphaël: “Sebbene amante effeminato della pigrizia orientale, innamorato dei miei sogni, sensuale, ho sempre lavorato, negandomi di gustare i piaceri della vita parigina. Goloso, sono stato sobrio; amante delle passeggiate e dei viaggi per mare, desideroso di visitare molti paesi, capace di divertirmi ancora a far rimbalzare i ciottoli sull’acqua come un bambino, sono rimasto sempre seduto, con una penna in mano ... ho dormito sul mio giaciglio solitario come un monaco benedettino, e tuttavia la donna era la mia sola chimera ... in breve la mia vita è stata una crudele contraddizione, una perpetua menzogna”.

  Tra le maggiori contraddizioni, apparentemente inconciliabili, della vita e del carattere di Balzac, vorrei seguire più da vicino quelle della vita amorosa.

  È intento a una vita monacale e, preferibilmente, quando lavora indossa un saio da monaco benedettino; ma le sue fantasie corrono per altre vie; nella novella Le succube (dai Contes drôlatiques), ad esempio, descrive tra l’altro un sogno fallico del grande penitenziere: qui, l’intero mondo vivente e inanimato vive un delirio amoroso.

  Dal ventesimo anno alla morte visse nella massima dipendenza psichica, e in parte anche materiale, da due donne di ceto sociale superiore, ciecamente adorate, signore del gran mondo da lui agognato: la signora von Berny e la signora von Hanska. Della prima, scrive: “Ella sa quanta energia e nobiltà mi conferisce l’abitudine di dedicare ogni cosa a un idolo. Il mio dio è in terra. Ad ogni ora mi sottometto al suo giudizio”. Le lettere alla signora von Hanska, dalla prima all’ultima, sono nello stesso tono di adorazione fanatica, da innamorato cieco (quanto ella ne fosse degna, è questione insoluta). Da quando l’ha conosciuta, lavora e vive solo per lei; mentalmente, è in ginocchio davanti a lei. D’altro canto, sogna creature senilmente devote: “Ai grandi uomini – dice Raphaël in La peau de chagrin — si addicono donne orientali, che non abbiano altri pensieri se non i bisogni dell’uomo”. “Ma – dichiara Hanns Heiss, il biografo di Balzac – egli è troppo energico, troppo egoista, e prima ancora troppo volubile, tutto sommato poligamo, per lasciarsi legare, per farsi interamente possedere. Per quanto amasse sinceramente la signora Hanska, il suo amore non gli impedisce di correre a un tempo in cerca di altre avventure, di corteggiare a destra e a manca, di indirizzare lettere ardenti a recapiti diversi da quello di lei e, quante volte se ne offre l’occasione, di rompere la fedeltà solennemente giurata”. Come nella sua vita, così nel suo erotismo si combattono due opposte tendenze.

  Questo contrasto Balzac lo descrive in Le lys dans la vallée [Il giglio della (sic) valle], in una lettera dell’eroe Félix (con il quale apertamente s’identifica in gran parte) alla contessa Natalie de Manerville: da un lato avrebbe dato senza indugio la vita per l’angelica signora von Mortsauf (Henriette), adorata e irraggiungibile, per lui divenuta ragione di vita, d’altro canto si lasciava tentare dalla sensuale e raffinata Lady Dudley (Arabelle) e poteva darsi ugualmente a lei con tanta passione e in rapporti esclusivamente sessuali.

  Analogamente, e in maniera ancor più dettagliata, Balzac descrive il contrasto delle due tendenze della sua vita amorosa in La cousine Bette [La cugina Betta], nella figura del barone Hulot: il barone Hector Hulot, con una brillante posizione sociale, benemerito dello Stato, nelle grazie dei suoi superiori, è marito di una donna bellissima, tranquilla, angelica, pia e buona, la madre di suo figlio e di sua figlia. “Adelina infatti era una delle bellezze più complete, sfolgoranti. Non sono seminate troppo generosamente nel giardino dell’umanità. Ma la natura sembra averle allevate con una cura del tutto particolare, concedendo loro i suoi doni preziosi: distinzione, grazia, bontà, finezza, eleganza e una carnagione eccezionale ... Hanno singolari analogie nella struttura del corpo, nell’armonia delle linee e nel carattere della loro bellezza. Si potrebbe credere che nell’oceano delle generazioni che si susseguono esista una corrente afrodisiaca dalla quale sboccia di continuo una nuova Venere, che fa arrossire il cielo. Adeline Fischer era una delle più belle di questa stirpe divina ... In lei vi era la malìa della tentazione e pertanto somigliava molto a quelle donne nate regine, che per la loro bellezza sono destinate a regnare ... Un taglio classico del profilo, la figura regolare e armoniosa, una modestia agreste e una certa verecondia involontaria si univano in lei in un’espressione di nobiltà”.

  Il barone Hector Hulot, tuttavia, conduce una vita inquieta; le sue serate trascorrono quasi di continuo in compagnia dell’amata del momento. La moglie, che apprende da estranei delle sue relazioni, con l’impiego di tutte le forze riesce in casa e in società a dare l’apparenza di un matrimonio felice. Colma di bontà e perdono per le scappatelle del marito, si ritrova sempre nuovamente lieta, quando egli torna da lei per qualche tempo; in sé stessa scopre ogni colpa, consolazione nella Chiesa che sola, a suo modo di vedere, può rendere felice. Egli trascorre in casa sempre minor tempo e trascura la vita familiare; perviene a dissipare l’intero suo patrimonio nelle relazioni extraconiugali e contrae debiti disonorevoli; impone alla stessa famiglia i più gravi disagi. La moglie non gli muove rimprovero di sorta, si limita al massimo nelle spese, gli perdona sempre di nuovo. Se gravemente deluso dalle esperienze con altre donne, Hulot ritorna per breve tempo contrito e demoralizzato, ella riprende a sperare nel suo ritorno e lo riceve ancora lieta e a braccia aperte. Egli si commuove dinanzi alla bontà di Adeline, si accusa, giura di emendarsi. Ma questi pentimenti hanno sempre breve durata; ben presto cede al richiamo di nuove avventure. Passiamole brevemente in rassegna.

  Paga somme enormi per un’attricetta che deve la notorietà alla sua protezione, ma non indugia a inclinare verso un cavaliere più ricco, dopo che con Hulot ha imparato tutte le arti della cortigiana. Le succede una cantante che, fatta educare da un amico del barone, abbandona senza indugio il suo protettore per condurre una vita brillante al fianco di Hulot; anche se più tardi, quando le possibilità economiche di lui diminuiscono, ella propende per un amico più ricco. Le due giovani erano prostitute prive di scrupoli, che fondavano le loro relazioni esclusivamente sui vantaggi economici.

  La signora Marneffe, moglie di un segretario di cancelleria, un sottoposto di Hulot, lo tiene avvinto per tre anni con la sua iniziale, pudica castità e a un tempo raffinata libidine. Lo dissangua. Egli, che la invita addirittura al matrimonio di sua figlia, vive in balìa di lei, fin quando un bel giorno viene a sapere che da tempo lo tradiva con l’amico, al quale lui in passato aveva portato via l’amante. Con l’amico, ella ha abbindolato anche il genero di Hulot; sono in tre dunque, a godersi con lei ogni sorta di piaceri amorosi. Hulot, psichicamente e finanziariamente distrutto, trascorre in casa il suo tempo, nella cerchia familiare. L’estremo bisogno in cui versano, induce Adeline a tentare di vendersi per salvare la famiglia; ma pudicizia e assoluta incapacità di civettare portano al fallimento del suo tentativo.

  Non scorre troppo tempo, tuttavia, prima che il barone scompaia per dimorare, ormai segretamente, a Parigi; all’età di settantadue anni stringe una relazione con una ragazza sedicenne; vive con lei sostentato dalla prima amante, l’attrice. Alla ragazza, due anni dopo, succede una quindicenne con la quale prende a convivere: con lavori da scrivano riesce miseramente a provvedere a questo libero matrimonio. Ottantenne, fisicamente distratto, è ritrovato dalla moglie. Ritorna in famiglia. Curato e protetto, vive tranquillamente con i suoi; famiglia e società lo ritengono definitivamente guarito dalle avventure galanti. Nella convivenza, sua moglie rivive; ma ancora una volta sarà dolorosamente delusa: viene a sapere dei suoi approcci con la sguattera appena assunta, una ragazza di paese, sensuale e robusta, perfino dal cameriere considerata troppo volgare. La debole salute della baronessa non supera quest’ultima, dolorosa prova. Alla sua morte, Hulot sposa la sguattera e va a vivere con lei in provincia.

  Balzac, intanto, non si limita a descrivere questo misterioso comportamento di Hulot, ma egli stesso ne dà una spiegazione in La cousine Bette, là dove scrive: “Molte mogli, ligie ai loro mariti e ai loro doveri coniugali, a questo punto, si sorprenderanno, poiché uomini tutto sommato buoni si gettano via con donne che hanno la scaltrezza della Marneffe. Poiché non rimangono con le loro mogli, specialmente quando assomigliano, per bontà e bellezza, ad Adeline. Non possono offrire, queste donne, tutto quello cui aspirano anima e sensi di uomini passionali? L’amore, questo pervertimento di ogni debole ragione, questo mezzo favoloso di cuori ardenti, e d’altro canto la venale passione animale degli uomini comuni rappresentano gli opposti di un medesimo fenomeno. L’uomo sensuale – e l’uomo perfetto è pur sempre dotato di sensi – non è soddisfatto da uno solo dei mille piaceri tra quei due opposti dell’amore. La donna invece che sappia soddisfare gli appetiti così diversi degli uomini, è tanto rara, quanto è raro tra gli uomini, in campo spirituale, il grande generale, il grande artista, il poeta geniale e il grande inventore. L’uomo superiore come il mediocre, Hulot come Crevel, sentono in modo uguale tanto il bisogno di un ideale che appartenga solo a loro, quanto quello del semplice piacere fisico. Tutti sono alla ricerca di una, ahimè così rara, doppia natura femminile, della santa e della prostituta”.

  Dello stesso tema si occupa Freud nello studio Sulla più comune degradazione della vita amorosa, dove dà una spiegazione dell’attività erotica di uomini che caratterizza nel modo seguente: “Nei casi qui considerati non si sono fuse due correnti, dal cui incontro soltanto risulta assicurato un comportamento amoroso del tutto normale, due correnti che possiamo distinguere tra loro come la corrente di tenerezza e quella sensuale. (...) Appena è adempiuta la condizione, ossia l’oggetto è stato degradato, la sessualità può manifestarsi liberamente, sviluppando prestazioni sessuali notevoli e un alto grado di piacere”. In questo lavoro, Freud dà un’esauriente descrizione psicoanalitica di come si sviluppa la frequente incompatibilità delle due correnti nella vita amorosa del maschio: quella di tenerezza e la sensuale; un’incompatibilità che culmina nel fatto che il maschio, il quale da bambino ha rivolto intero il suo amore alla madre, ha dovuto rimuovere nell’inconscio il lato sensuale di esso in vista della barriera contro l’incesto, così che in relazione all’oggeto (sic) d’amore proibito dell’infanzia, la madre, solo i moti teneri risultano ancora capaci di pervenire alla coscienza. La corrente sensuale e alla ricerca esclusiva di oggetti che non le ricordino la persona incestuosa proibita: “Quando si è colpiti da una persona in un modo che potrebbe portare a un alto apprezzamento psichico, quell’impressione non sfocia in un eccitamento della sensualità, ma in una tenerezza inefficace sul piano erotico. La vita amorosa di tali individui rimane scissa in due direzioni, quelle che l’arte ha personificate come amor sacro e amor profano (o animale). Dove amano non provano desiderio, e dove lo provano non possono amare. Ricercano oggetti che non hanno bisogno di amare, per tener lontana la loro sensualità dagli oggetti amati”.

  Scopriamo dunque in Balzac e in Freud quasi una medesima opinione; Balzac tuttavia, nel suo tentativo di spiegazione, individua la causa del conflitto d’amore dell’uomo nella difficoltà di trovare la donna completa dal punto di vista della vita pulsionale maschile; Freud, invece, nella scissione della vita pulsionale nello stesso uomo. L’uno come l’altro sottolinea la presenza di due direzioni pulsionali estreme. In altro luogo, però, anche Balzac mette in rilievo la incompatibilità di queste direzioni estreme nei confronti di una sola donna. Così si esprime in Une Fille d’Eve [Una figlia d’Eva]: “Molti uomini che desiderano sposarsi, preferiscono in moglie una ragazza educata in convento e rimpinzita di pia devozione, piuttosto che una ragazza cresciuta con le dottrine profane. Una via di mezzo non esiste. Un uomo può sposare una ragazza molto esperta, che ha letto gli annunci dei giornali e ne ha tratto le sue deduzioni, che ha ballato con mille giovani valzer e galoppi, ha frequentato ogni teatro, ha divorato romanzi, alla quale un maestro di danza ha reso agili le ginocchia con la pressione delle sue, che non domanda di religione, che si è formata una sua morale; oppure quest’uomo può sposare una giovane ragazza inesperta, pura”. Questa scissione della vita amorosa è solo descritta da Balzac; Freud invece ne ricerca anche la causa e la individua nella sorte dei primi rapporti amorosi del figlio verso la madre.

  Le relazioni di Balzac con sua madre risultano evidenti nella lettura di Le lys dans la vallée: sebbene Félix (Balzac), nella lettera alla contessa Mannerville (sic), lamenti ripetutamente e con amarezza la freddezza di sentimenti della madre, la grettezza di lei nei suoi confronti; sebbene descriva dettagliatamente come il suo originario amore si sia trasformato in avversione e odio, avvertiamo ugualmente che Félix non ha mai smesso di desiderare l’amore della madre. Quanto grande sia stato l’odio di Balzac per la madre, nato dal desiderio d’amore deluso, ci è possibile comprenderlo se ci rifacciamo al suo tentativo di descrivere le proprie relazioni con la madre in quelle che la Cousine Bette, antipatica, tiranna e gretta manteneva con l’artista Steinbock. Provare come la rimozione del desiderio d’amore materno abbia originato il fenomeno descritto della scissione in due correnti della vita amorosa di Balzac, andrebbe molto al di là delle intenzioni di questi accenni.

  Vorrei solo brevemente osservare: Balzac s’identifica con Félix a segno che riferisce a proposito di Le lys dans la vallée: “Forse m’inganno, ma ho l’impressione che ciò farà scorrere moltissime lacrime; nello scrivere, a me stesso vengono le lacrime”. Félix, intanto, secondo la descrizione di Balzac, nella sua giovinezza fu in larghissima misura costretto a reprimere l’amore verso la madre; e Félix, come ho già detto, dimostra in modo evidente da giovane la scissione descritta della vita amorosa nei suoi rapporti verso due donne fondamentalmente diverse, Henriette e Arabelle: amava d’amore ardente tutt’e due, ma non riusciva a donare interamente il suo sentimento a nessuna; tradiva mentalmente l’una con l’altra; cercava i pregi dell’assente in quella presente e tormentava quest’ultima con la descrizione delle qualità dell’altra.

  Qui Balzac, dal proprio sviluppo, ha intuitivamente derivato le conseguenze sostenute da Freud della rimozione dell’amore del figlio per la madre, la scissione dell’amore del maschio in amor sacro e amor profano.

 

 

  Loredana Bolzan, Strutture formali e organizzazione semantica di “La Fille aux yeux d’or” di Balzac, «Annali della Facoltà di Lingue e letterature straniere di Cà Foscari», Venezia, Anno XIV, 1-2, 1975, pp. 27-44.

 

  1.«Or» e «Plaisir»: progressione e circolarità.

 

  Nella delineazione strutturale complessiva della Comédie humaine, la Fille aux yeux d’or rappresenta l’episodio conclusivo di una trilogia, L’Histoire des Treize: un ciclo fondato su «cette religion de plaisir et d’égoïsme», convergenza di passione e di potenza, che si traduce in questa novella in una splendida sintesi.

  La funzione d’incarnare narrativamente questa duplice tensione è affidata in modo particolare alla Fille aux yeux d’or, Paquita Valdès, generatrice di un «plaisir» ambiguamente polimorfo e, proprio per la sua intensità, indissolubilmente legato alla morte [...].

  Dalla tensione reciproca di queste due forze prevale, al livello delle forme narrative istituzionalizzate, la spinta alla sistematizzazione, alla repressione del «désir» nell’ortodossia della struttura, salvo ritrovare — è il caso di questa novella — una «struttura del désir» che, se da un lato rivela la molteplicità e il rigore «logico» delle interazioni sistematiche, incrocia talvolta delle zone del testo irriducibili alla griglia strutturale: è il caso della protagonista stessa, dalla cui «ambiguità» e «étrangeté» la novella trae la sua bellezza e originalità.

  Questa rigida legislazione ideologica e formale che Balzac impone alla sua materia, sfata definitivamente il mito dell’assunzione banalmente fotografica della realtà, che diventa invece, ad opera del narratore realista, «un immenso réseau di segni e di rapporti coefficienti, scoperti e ritessuti»[4].

  La moltiplicazione dei segni, nell’ambizione totalizzante del progetto balzachiano, avviene essenzialmente attraverso un uso nuovo e particolarmente intensivo della descrizione, che assume la funzione di «penetrazione semiologica della natura e della società» e nello stesso tempo contiene su un piano, per così dire, spaziale, l’«intrigue», l’«événement», ossia la funzione narrativa vera e propria [...].

  In questo senso, nella Fille aux yeux d’or, la parte iniziale descrittiva non solo è materialmente scindibile dalla parte narrativa ed egemonizza in proporzione un notevole spazio del testo, ma sovverte decisamente la gerarchia dei rapporti che vuole di regola la descrizione subordinata e sminuita rispetto all’espansione «événementielle»; proprio grazie alla sua indipendenza, infatti, essa concorre a fondare la struttura nettamente bipartita di questa novella nelle due forme, appunto, della narrazione e della descrizione.

  L’esordio descrittivo è qui adibito a rappresentare, nella molteplicità dei suoi aspetti, un luogo emblematico dell’opera balzachiana: Parigi, identificata, come già in altre parti della Comédie, con l’inferno [...] dantesco [...].

  Questa genesi va specificata nel senso che il postulato di un binomio di sostanze generatrici del testo determina una partizione analoga del testo stesso in due zone d’influenza: l’«or» monopolizzando la parte descrittiva che rappresenta il suo processo di produzione e di riproduzione, e il «plaisir» facendo convergere su di sé le istanze della narrazione. La gerarchia infernale è conforme alla gerarchia sociale che vede il proletariato, «le monde qui n’a rien», alla base della sua organizzazione; l’abisso che lo separa dalle due sostanze comporta un’azione ossessiva d’intervento sulla totalità del reale per trasformarlo in «or» e «plaisir» [...].

  La transizione tra parte descrittiva e parte narrativa e parallelamente la conversione della novella attorno al «plaisir» secondo nodo irradiante del testo, avviene grazie alla presenza dell’aristocrazia, classe esclusa dalla segregazione infernale, ma destinataria privilegiata dell’«or» e protagonista dell’«intrigue». Il senso del passaggio è dato dalla finalizzazione dell’oro: infatti il piacere dell’aristocrazia s’instaura su una ricchezza precedentemente elaborata dalle altre classi; un piacere non più e filmerò come quello del proletariato, ma che disegna un ciclo evolutivo analogo a quello dell’oro.

  Il nucleo «événementiel» che si sviluppa nella seconda parte comporta l’avventura amorosa della Fille aux yeux d’or con Henri de Marsay, a cui soggiace, latente ma a tratti affiorante, un’altra storia amorosa: il legame di Paquita con la Marchesa di San-Réal, sorella sconosciuta di Henri.

  L’intreccio procede anch’esso secondo lo schema quadripartito della divisione dell’inferno e delle tappe del cammino dell’oro: tutta l’avventura amorosa è infatti racchiusa nei quattro incontri successivi che uniscono i due amanti.

  In base al rapporto, già postulato, tra descrizione e narrazione, si specifica anche la relazione tra i due lessemi «or» e «plaisir», il cui sviluppo narrativo determina la formazione di due cicli evolutivi indipendenti, ridotto il primo, espanso il secondo, che potrebbero essere definiti rispettivamente «ciclo dell’oro» e «ciclo del piacere». Tale successione, che rispecchia la temporalità del testo, risulta dalla proiezione, sul piano sintagmatico, della relazione tra «or» e «plaisir», sulla cui interdipendenza si fonda la novella stessa.

  La griglia strutturale che in tal modo si evidenzia costituisce un’esemplificazione del modello omologico [...].

  Le relazioni omologiche si esplicitano, nei due cicli, in un’atmosfera dominata dalla stessa dimensione di segretezza e di segregazione dal mondo «solare», la quale appare come la condizione specifica sia per la produzione dell’oro sia per l’instaurarsi del piacere. [...].

  Le relazioni tra i due lessemi «or» e «plaisir» possono essere esaminate anche ad un altro livello, e precisamente attraverso il «codice» sociologico, già utilizzato nell’analisi della cornice preliminare dell’«intrigue». Come nella descrizione, dove il quadro sociologico s’intersecava con una pratica letteraria esplicita, a questo livello dell’indagine, la pretesa rigorosità dell’analisi sociologica risulta definitivamente compromessa dall’invadenza letteraria nella quale dominano l’interferenza, l’ambiguità, la metafora.

  Il «codice» sociologico è utilizzabile nella misura in cui i protagonisti della vicenda sono anch’essi i rappresentanti di una classe sociale: l’aristocrazia. Il primo dato di questa analisi è, storicamente, l’avvenuta convergenza e contaminazione fra l’aristocrazia e la borghesia: al di sotto della loro origine nobile i due fratelli rivelano infatti la loro adesione all’ideologia borghese. Se, per entrambi, Paquita è la fonte di un piacere immenso, l’appello della «jouissance» è tuttavia continuamente insidiato dalla tensione verso l’«or». Henri subordina infatti l’accettazione del piacere che Paquita gli promette appagante e sicuro solo lontano da Parigi, alla realizzazione dei suoi affari [...].

  La costante strutturale del testo, che può essere riconosciuta nella bipartizione o nel suo contrario, il binomio, può essere riutilizzata al livello generale della novella, più precisamente nel rapporto che si crea fra i due «luoghi» adibiti alla produzione delle due sostanze: «or» e «plaisir»: LA VILLE DE PARIS e LA FILLE AUX YEUX D’OR, contraddistinti, graficamente, allo stesso modo.

  Se Parigi, nel «ciclo dell’oro», costituisce la matrice agglutinante delle varie fasi di produzione dell’oro, Paquita diventa, nella parte narrativa, la sede privilegiata di un piacere che s’irradia da lei in modo specifico. «Or» e «plaisir», scanditi in modo ossessivo nella parte descrittiva, designano da un lato la frenesia dell’accumulo e dall’altro l’intermittenza di un piacere che per i proletari si avvale continuamente della mediazione diretta dell’oro. [...].

  Anche il piacere è rappresentato sotto la forma circolare nel «ciclo dell’oro»; è nel «ciclo del piacere», tuttavia, che, pur nella sua compiutezza formale, si registra il «manque» più vistoso. Infatti, alle immagini circolari che raffigurano la compattezza e l’unità dell’oro, si accompagna una figura circolare privata di una meta, che si evidenzia per la sua anormalità: è il «boudoir» di Paquita a forma di conchiglia che è il luogo sovrano del piacere ma anche la scena del delitto. Il luogo, privato di una meta, partecipa anch’esso della mutilazione della sfera d’origine, che è Paquita, nelle due parti che la compongono: la Marchesa di San-Réal e Henri de Marsay.

 

  2. Il «doppio»: natura e funzione.

 

  La nozione di unità bipartita, assunta precedentemente come modello della struttura formale della novella, è suscettibile di un ulteriore approfondimento che investa, questa volta, le modalità di organizzazione semantica del testo.

  Se al livello formale il testo instaurava, a partire dalla coppia di lessemi «or» e «plaisir», una struttura rigorosamente divisa nelle due parti della descrizione e della narrazione, al livello semantico lo stesso modello si specifica come «statuto dell’ambiguità», ovvero come natura e funzione bivalente dei tre protagonisti. Tuttavia la similarità fra Paquita, Henri de Marsay e la Marchesa, riferita all’ordine dell’ambiguità sessuale, si articola, all’interno del triangolo amoroso, secondo modalità diverse che fondano, in virtù delle relazioni che intrattengono, una struttura simbolica del «doppio».

  Nel primo e più generale processo di differenziazione, la coppia Henri-Marquise si distingue per una somiglianza sorprendente che si inscrive in una valorizzazione reciproca della loro funzione all’interno di questa struttura, mentre Paquita viene isolata in una posizione di assolutezza in quanto, per definirsi simbolicamente, non ha bisogno di richiamarsi ad alcun termine relazionale.

  Le combinazioni messe in atto dai tre poli del triangolo amoroso all’interno della struttura semantica istituiscono un ordine simbolico che privilegia, in Paquita, il momento dell’unità e in ciascuno dei due fratelli quello della scissione: momento, quest’ultimo che è però sentito come transitorio e mira a superarsi nella sintesi della riunificazione finale. [...].

 

 

  Bertolt Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte. Nota introduttiva di Cesare Cases. Traduzione di Bianca Zagari, Torino, Giulio Einaudi editore, 1975 («Reprints», 28).

 

  Cfr. 1973.

 

 

  Ferdinando Camon, Introduzione, in Honoré de Balzac, La ricerca dell’assoluto ... cit., pp. VII-XXI.

 

  pp. XVIII-XXI. Tra le opere di Balzac, La ricerca dell’assoluto è sempre parsa mirabile per la sua compattezza e linearità. Più che lineare, lo direi un romanzo statico. Nel senso che le forze in campo non cambiano mai, dall’inizio alla fine: comincia con una lotta già aperta, finisce con la lotta non conclusa. Le forze sono sostanzialmente due: la famiglia e la scienza. Il romanzo è la storia del loro scontro, e delle vittime e sofferenze che lo scontro semina: il trionfo della scienza esige la disintegrazione della famiglia, e il primo personaggio a rendersene conto è anche quello che dev’essere sacrificato per primo, la moglie. La scienza è incarnata dalla figura del chimico Balthazar Claës, nobile fiammingo di Douai, discendente della potente famiglia spagnola di Molina, discepolo di Lavoisier, sposato con la nobile Josephine de Temninck, discendente dal duca di Casa-Réal, grande di Spagna: è un felice marito e un felice padre in una felice società, che la ricchezza scherma e protegge dagli affanni e dalle minacce dell’avventura napoleonica in pieno corso e più tardi in completo fallimento. Balthazar ha a disposizione le teorie lasciategli da un ricercatore polacco, ufficiale di Napoleone, ospite per breve tempo in casa sua. Le teorie dicono: impossibile che la natura organica, a cui appartengono le creature animali e vegetali, sia costituita di quattro corpi semplici (tre gas e un solido: azoto, idrogeno, ossigeno e carbonio) e la natura inorganica, assai meno perfetta, così poco variata, priva di movimento e di sensibilità, di cinquantatré corpi semplici; la verità dev'essere un’altra: questi cinquantatré corpi hanno un principio comune, modificato da una potenza oggi estinta, che però il genio può far rivivere. Quel principio unico, costitutivo dell’universo, è l’Assoluto. Balthazar vuole trovare l’Assoluto, e lo insegue senza fine, acquistando continuamente macchinari, strumenti di fisica, materiali preziosi, reattivi, alambicchi, pile di Volta, libri, e indebitandosi senza limite. Vuol arrivare a «fare i metalli, fare i diamanti, ricreare la Natura». Nota bene: i diamanti. Se «ricreare la Natura» dà allo scienziato il ruolo e un potere diversi e non privi di ambiguità: ne fanno un dominatore non dell’universo ma della borghesia, il realizzatore dei sogni borghesi di ricchezza per la ricchezza, ricchezza intesa come possesso di beni preziosi, denaro, foreste, quadri.

  Di fronte alla famiglia che reclama continuamente i propri diritti alla felicità e la soddisfazione dei propri bisogni (casa, beni, rendite, ricevimenti, vita agiata), la scienza non porta valori antitetici (l’umanità, la verità, la parità, la salute), porta gli stessi identici valori, ma raggiunti per un’altra strada: la fortuna, il benessere conquistati di colpo, per genialità, non con la garanzia dell’accumulo e del risparmio, ma anzi passando attraverso lo sperpero e la dissipazione. Il contrasto tra moglie e marito, rappresentanti l’una della famiglia e l’altro della scienza, nasce da qui. È un contrasto “mortale”: vivere per la famiglia e vivere per la scienza (per l’arte, per la gloria) sono tali che ognuno dei due, per realizzarsi, deve eliminare l’altro. Si può vivere per la scienza solo “uccidendo” la famiglia, fisicamente. Si può vivere per la famiglia solo rinunciando alla scienza. Lo svolgimento del romanzo è una catena di vittorie e sconfitte di una parte e dell’altra, e il lettore si domanda continuamente di chi è la vittoria finale che si sta preparando, di lui o di lei. Joséphine scopre subito, all’inizio del romanzo, di dover scegliere tra essere moglie o essere madre. La morale della famiglia la obbliga a essere solamente madre. L’entrata della scienza nella famiglia scompone la coppia coniugale, spinge lui dalla parte della scienza lei dalla parte dei figli. Le vittorie di lui o di lei si preannunciano sempre come definitive, ma non lo sono mai. La prima vittoria “definitiva” appartiene allo scienziato, ed è la morte della moglie: in realtà da quella morte comincia la sua debolezza, perché la famiglia innalza subito contro di lui una sostituta della madre, cioè la figlia, a riprendere la battaglia con un’arma in più, l’accusa di aver ucciso la persona più amata da tutti, anche da colui che l’ha fatta morire. Nella catena di scontri mortali lo scienziato trova davanti a sé sempre un rappresentante della famiglia che è disposto a lasciarsi uccidere, perché lo scienziato, inteso come capo-famiglia, prosegua nel suo scopo, ma non è disposto a lasciar uccidere la famiglia: la madre vuol salvare i figli, la figlia vuol salvare i fratelli. Per far questo la madre “ordina” alla figlia, nella lettera-testamento, di lasciare che il padre si perda in prigione dove lo condurranno i suoi debiti. E la figlia mette il padre di fronte all’aut aut: o esce dalla casa rispettando le convenienze della famiglia, o è la famiglia che se ne va, abbandonandolo. Anche Balthazar deve scegliere: o scienziato senza famiglia, o padre senza scienza. Nella casa, sede della famiglia, non c’è posto per la ricerca. Il padre non vuol salvare nessuno, neanche se stesso: lascia morire la moglie, è insensibile alla miseria in cui getta quelli che ha generato, ma è insensibile anche alla propria miseria, alla fame, all’indigenza, al disprezzo. Lo scopo della famiglia è nella famiglia, lo scopo dello scienziato è al di sopra dello scienziato, in qualcosa che lo supera e lo schiaccia. Si potrebbe sentire qui uno slancio di misticismo, se quella ossessione che invade e domina il protagonista non avesse il colore inconfondibile dei soldi, franchi, ducati, scudi. La moglie, «così nobile, così generosa e timida, avrebbe fatto echeggiare continuamente alle orecchie di quell’uomo così grande la parola denaro, e il suono del denaro gli avrebbe mostrato le piaghe della miseria e fatto sentire le grida del bisogno, mentre lui avrebbe udito la voce melodiosa della Fama». Ma lui ribatte alla morale borghese di lei senza uscire neanche di un millimetro dalla stessa morale: «Domani, angelo mio, la nostra ricchezza sarà forse senza limiti». Non è dunque uno scontro di morali: lo scienziato ama la famiglia, piange e soffre per essa; e la moglie ama la scienza, la studia per restare accanto al marito, alla pari. Non è uno scontro di teorie, ma di vita. Perché uno vinca, bisogna che l’altro cambi vita o muoia. La famiglia non concepisce grandezza se non al servizio della famiglia, ogni altra grandezza è impossibile o colpevole.

  Se è uno scontro a chi muore prima, allora la famiglia, in quanto istituzione, ha vita più lunga dello scienziato, perché alla madre può far subentrare i figli, uno alla volta. Così quella lettera segreta, che la madre lascia alla figlia come testamento, con l’incarico di proseguire la lotta e abbandonare il padre alla sua sorte, quella lettera cui sono allegate le indicazioni per entrare in possesso di 170mila franchi nascosti, ha qui la stessa funzione che nel teatro di Shakespeare ha il fantasma: è la reincarnazione dell’eroe, che vuole continuare la battaglia anche dopo morto. La lotta dello scienziato ha un termine, la lotta della famiglia è interminabile. La grandezza dello scienziato non sta nel vincere, sta nel non arrendersi.

  Quando il romanzo si conclude, lo scienziato, steso sul letto di morte, ha intorno a sé la famiglia al completo, che lo circonda come un esercito vincitore. Lo scienziato non sa se la lotta che sta finendo abbia mai avuto un risultato: a un certo punto è apparso un diamante accanto alla macchina che lui aveva lasciato in funzione quando era andato via di casa per sette anni, ma non si sa se il diamante sia stato prodotto dalla macchina, e quali condizioni di temperatura si siano verificate in quell’ambiente nei sette anni. Se è un risultato, non è scientifico ma casuale. Il grido dello scienziato morente, «Eureka!», non esprime un trionfo, ma un presentimento: lo stesso presentimento con cui si apriva questo romanzo, e con cui si conclude il Faust. Lo scienziato non si è mai mosso da quella certezza, è un personaggio immobile, più che statico lo definirei estatico. Il movimento, l’azione viene dalla famiglia, con le peregrinazioni, le astuzie, le relazioni, gli amori, i matrimoni, i figli, gli affari che essa mette in campo per aggirare l’ostacolo del padre e andare oltre. Costruito dunque su due figure opposte, una sempre immobile e l’altra sempre in movimento, il libro è insieme poema e romanzo. Il poema è della scienza, ma il romanzo è tutto della famiglia.



  Cesare Cantù, Manzoni, Lamartine, Balzac, in Giancarlo Vigorelli, Manzoni pro e contro. Ottocento, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1975, pp. 618-621.

 

  Da C. Cantù, Alessandro Manzoni. Reminiscenze, Milano, Treves, cfr. 1882.



  Raffaele de Cesare, Balzac e Manzoni. Cronaca di un incontro, Lecce, Milella, 1975 («Francesistica. Studi. Manuali. Testi: Studi», 2), pp. 154; successivamente in: Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l’Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1993, pp. 189-290.

 

  Mercoledì 1° marzo 1837, Balzac era a Milano da una decina di giorni. Partito, come è noto, da Parigi il 14 febbraio e giunto in Lombardia il 19, egli era sceso, nella centralissima piazzetta di San Fedele, alla «Bella Venezia» che, fra quella quarantina di locande e di alberghi esistenti allora a Milano, era uno dei più noti, eleganti, raccomandato ai viaggiatori di distinzione dalle guide del tempo, e segnalato non solo per la bellezza delle camere e la bontà del trattamento, ma anche per la modicità della spesa.

  Benché incapace di parlare l’italiano e benché ignaro dei costumi e delle consuetudini di Lombardia, lo scrittore non era tuttavia alla sua prima esperienza di viaggiatore transalpino; né doveva provare difficoltà ad ambientarsi immediatamente in quel mondo milanese col quale, ora, veniva in contatto per la prima volta. Un precedente viaggio, fatto nell’estate 1836 a Torino, già lo aveva per così dire, immerso nella realtà della vita quotidiana italiana. E durante quel soggiorno in Piemonte, prolungatosi per una quindicina di giorni, una fitta serie di incontri con alcuni fra gli esponenti più vivaci e più colti del patriziato e della borghesia subalpini, già gli aveva consentito di rendersi conto di tutte quelle tradizioni, abitudini, modi di esistenza che (anche in una Italia ben più «francesizzata» di oggi, e in una Torino città allora linguisticamente e culturalmente quasi francese) costituivano i caratteri tipici di un mondo cisalpino così particolare e così diverso da quello di Parigi.

  Una cordiale amicizia, nata appunto nell’agosto 1836 in Piemonte, già univa Balzac al giurista, storico ed economista Federico Sclopis di Salerano e all’erudito, letterato e brillante uomo di mondo, Felice Carron de Saint-Thomas; legami di simpatia s’erano già formati col marchese Ludovico Sauli d’Igliano, col marchese Victor Seyssel d’Aix, con il conte e la contessa Della Chiesa di Benevello, con la marchesa di Barolo, ed una coppia di lombardi di passaggio allora a Torino, Faustino e Fanny Sanseverino Vi- mercati; rapporti intellettuali o relazioni d’affari si erano anche intrecciati con Carlo Boucheron, professore di letteratura greca e latina all’Università di Torino, con l’abate Costanzo Gazzera, segretario perpetuo dell’Accademia delle Scienze, con Pier Alessandro Paravia, professore di eloquenza italiana nello stesso Ateneo torinese, e con Luigi Colla, già uomo politico in vista durante la dominazione francese ed ora uno degli avvocati più illustri del foro subalpino.

  Alla maggior sicurezza psicologica che veniva a Balzac dalla esperienza del precedente viaggio e all’aiuto di questi contatti personali si aggiungeva ora, inoltre, l’appoggio delle numerose lettere di presentazione di cui lo scrittore francese, nello scendere per la seconda volta in Italia, aveva avuto cura di premunirsi a Parigi.

  Grazie alla conoscenza dei Sanseverino Vimercati (che Balzac aveva avuto l’opportunità di rivedere nuovamente a Parigi nell’autunno-inverno 1836), egli aveva ottenuto, dal conte Faustino, una lettera per il conte Gaetano Melzi, il noto bibliografo ed erudito milanese; dalla contessa Fanny una calda presentazione per Clara ed Andrea Maffei, un’altra per il conte Giuseppe Archinto e, molto probabilmente (anche se non ce ne è rimasta traccia), una terza lettera per il fratello, il principe Alfonso Porcía che diventerà difatti, ben presto, amico ed affettuoso sodale del romanziere durante il soggiorno milanese. E, come è molto probabile che la principessa Belgioioso abbia fatto accompagnare l’amico parigino in partenza per l’Italia da commendatizie per i suoi parenti Trivulzio e Litta, così è quasi sicuro che l’ambasciatore austriaco in Francia, Antonio Apponyi (marito di una Nogarola e che già l’anno prima aveva raccomandato Balzac all’ambasciatore di Sardegna) abbia scritto per lui, anche questa volta, alle più alte autorità militari e politiche austriache del Lombardo Veneto, da parte delle quali non mancheranno, infatti, attestazioni di cortesia verso l’ospite francese una volta giunto a Milano.

  Infine, per la natura stessa degli affari che conducevano Balzac in Lombardia [...], questi era, da Parigi, presentato ad altri Milanesi: il conte Giuseppe Sormani-Andreani, un proprietario ed amministratore di vasti fondi rurali, il barone Francesco Galvagna, ex-prefetto napoleonico, l’avvocato Mozzoni-Frosconi, ecc. ecc.

  Ma, soprattutto, Balzac portava con sé altre e più importanti credenziali, tali da aprirgli le porte più chiuse dei saloni del patriziato e dei circoli più in vista della cultura lombarda. La sua celebrità letteraria, diffusasi per tutta Europa, era penetrata, più forse che altrove, in Italia, dove, fin dai primi romanzi e racconti del 1830, aveva cominciato a conoscere un ampio ed intenso successo e a godere di una fama che, alla fine del 1836, poteva ormai dirsi solida e generale. [...].

  Nessun accenno al romanziere francese (allo stato attuale delle nostre conoscenze, almeno) è reperibile nella corrispondenza manzoniana, nel corpo delle postille o di altri marginalia, né in qualsiasi altro luogo delle sue opere. Di nessun romanzo balzacchiano appartenente alla biblioteca personale di Manzoni esiste traccia sia a Milano sia a Brusuglio; di nessuna confidenza relativa a possibili letture balzacchiane, fatta da Manzoni a qualche amico prima del 1837, ci è stata serbata memoria.

  Nonostante tutto ciò, noi non giudichiamo credibile che il futuro autore della Comédie Humaine fosse uno sconosciuto per lo scrittore lombardo. Anzitutto non è immaginabile che la notizia dell’arrivo e del soggiorno del romanziere francese non sia pervenuta alle orecchie di Manzoni. [...]. Manzoni, come è noto, conduceva vita ritiratissima; non frequentava quei salotti le cui porte s’erano aperte con tanta cordialità a Balzac [...] ed apprendeva le notizie quotidiane dalla «Gazzetta di Milano» e le voci e gli echi delle novità milanesi non mancavano dall’essergli riferite dai pochi fedeli che la sera vengano a fare conversazione in casa sua.

  Tutto ciò nei tempi recentissimi. Ché, per quanto riguarda tempi più lontani, è ancor meno pensabile ad una ignoranza del nome di Balzac da parte di Manzoni. Il quale, frequentatore assiduo come pochi altri della letteratura francese (anche se, è vero, abbastanza riluttante verso quella romanzesca contemporanea) e lettore attento dei giornali d’oltr’Alpe, non poteva non aver sentito parlare della presenza (abbastanza ingombrante) di Balzac sulla scena letteraria parigina, da almeno quattro o cinque anni. Infine – considerazione tutta domestica e che abbiamo lasciato per ultima, ma (come il parere di Perpetua ...) non priva della sua importanza – lo scrittore lombardo ha accanto a sé, da poco meno di due mesi (2 gennaio 1837), una donna – Teresa Stampa Borri, la sua seconda moglie – che è una appassionata lettrice di romanzi francesi e, in particolare, di Balzac.

  [...] è certo che gran parte dei documenti che ce le testimoniano è posteriore al presente periodo. Ma altri sono anteriori; e sembra certo che, fin da prima del 1837, Teresa avesse letto le Scènes de la vie privée almeno. Ne parlò ad Alessandro? E all’accesso delle opere di Balzac nella cultura francese di Manzoni contribuì l’ammirazione (sia pure temperata di diffidenza moralistica) di una lettrice italiana, «femme de trente ans»? L’ipotesi è più che suggestiva e non va lasciata cadere ... [...].

  Con tutta la necessaria prudenza, noi crediamo di poter affermare che i due interlocutori non potevano essere sconosciuti l’uno all’altro; ma che nessuno dei due aveva dell’opera altrui una conoscenza diretta, ampia ed approfondita. L’uno, paralizzato da difficoltà linguistiche, era, del resto, poco curioso della letteratura contemporanea italiana in genere; l’altro, pur dotato di una preparazione culturale e di una attenzione agli orizzonti stranieri minutamente più aperte e più scaltrite, nutriva in realtà sospetti e riserve di principio verso i caratteri, gli aspetti, i propositi e gli argomenti del «nouveau roman» francese.

  All’incontro fra Balzac e Manzoni, il 1° marzo 1837, parteciperanno anche [...] altri due interlocutori di cui ci siano noti i nomi: il figliastro del padrone di casa e Cesare Cantù.

  Sul giovane conte Stefano Stampa non abbiamo per ora ragioni di indugiare giacché le osservazioni più rilevanti che andranno fatte su di lui appartengono ad un momento posteriore all’incontro. Per quanto, invece, riguarda Cesare Cantù, storico e pubblicista già abbastanza noto in questo periodo, sarà indispensabile porsi la stessa domanda che abbiamo sollevata a proposito di due protagonisti della «conversazione» del 1° marzo. E cioè: di quale ampiezza era esattamente l’informazione su Balzac che Cantù possedeva in questo periodo?

  Premettiamo che per l’abbondantissimo poligrafo lombardo, la ricerca offre difficoltà opposte a quelle precedentemente compiute. In altre parole, è molto malagevole muoversi con sufficiente sicurezza attraverso la sua folta produzione pubblicistica, dal 1828 al 1837, della quale non esiste un inventario completo e sulla quale non è stata finora condotta alcuna sistematica esplorazione concernente la cultura francese.

  Il censimento cui ora ci accingiamo risulterà dunque, senza alcun dubbio, incompleto. Ma, per quanto approssimativa, la ricerca presenterà comunque qualche elemento utile ai nostri fini.

  Cesare Cantù, spirito pieno di curiosità per le letterature straniere, gran lettore di opere francesi ed attento a tutto ciò che avvenisse al di là delle Alpi (quale sia stata, in definitiva, la profondità di tali interessi o la rigorosa verifica di tali conoscenze rappresenta un altro problema che non è qui il caso di prospettare) è, certo, dei quattro interlocutori di Balzac, la sera del 1° marzo, colui che appare il più informato dell’attività dello scrittore francese.

  Fin dal 1831 egli sembra aver letto nell’edizione originale (o in quella immediatamente successiva) la Peau de chagrin. Egli è infatti in grado di cogliere il grottesco controsenso in cui è incorso, appunto in quell’anno, un giornalista lombardo, il quale, recensendo l’opera balzacchiana, ne traduceva il titolo con Pelle di rammarico. E, molti anni più tardi, nel Romanzo autobiografico ne farà argomento di una divertita e divertente digressione. Nel 1833, in un Discorso su Byron, egli cita, purtroppo senza precisare i titoli, le opere narrative di Balzac, di Hugo, di Janin, e fin di Petrus Borel, che, a causa degli argomenti trattati, egli però giudica «veri reati contro la morale e l’umanità». [...]. Ma, più tardi, lo scrittore lombardo sarà per fortuna più preciso nella indicazione delle sue letture balzacchiane. Pubblicando, alla fine del 1836, in una strenna milanese (il Non ti scordar di me per il Capodanno del 1837) un suo racconto d’inquadratura popolaresca e di intonazione «terrificante», La Veglia di stalla, egli vi prepone un passo del Médecin de campagne, relativo alla famosa «viellée dans une grange». [...].

  Qualche tempo dopo (e pochi giorni prima della riunione in casa Manzoni), inserendo un paragrafo della sua lunga trattazione Sulla letteratura tedesca nel «Ricoglitore italiano e straniero» del febbraio 1837, Cantù aveva tratto occasione dalle vicende di un racconto di J. P. Richter [...] per proporre un ravvicinamento con una delle Scènes de la vie privée: quel Gloire et Malheur che diventerà più tardi la Maison du chat-qui-pelote. [...].

  Ad intrattenere [...] Cesare Cantù in una disposizione di spirito alimentata da riserve morali e sospettosa nei riguardi dell’opera balzacchiana contribuiva anche (e contribuirà in seguito più notevolmente ancora) l’asprezza, fertile di malignità, del temperamento critico di un suo illustre corrispondente, allora parigino. Alludiamo a Niccolò Tommaseo, il quale non nutriva alcuna simpatia per Balzac di cui detestava la personalità umana e di cui giudicava l’opera con inappellabile severità sotto la duplice prospettiva etico-civile e artistica. [...].

  Guidato dalle proprie, ingombranti, pregiudiziali di un moralismo spesso angusto, e rafforzato in esse dai suggerimenti che gli vengono, dalla Francia stessa, da un consigliere così autorevole come è il Tommaseo, Cesare Cantù, pur largamente informato dell’opera di Balzac, porta dunque su di essa una valutazione ostile, animosa e sfocata. Nessuna meraviglia, pertanto, se la prima relazione dell’incontro con Manzoni fatta da Cantù [...] denunzierà fra le pieghe della memoria una costante sottolineatura polemica.

  Inquadrate le circostanze «locali» che hanno preceduto il colloquio, illustrati (per quanto è stato possibile) i rapporti che legavano fra loro i protagonisti di esso, veniamo ora alla cronaca vera e propria di questo incontro quale si svolse il 1° marzo 1837.

  La prima e principale fonte della nostra ricostruzione è quella del Cantù, il quale, per sua stessa dichiarazione, annotò la sera medesima del 1° marzo (ma la sua dichiarazione appare infida; e certo una parte della narrazione appartiene almeno ai giorni successivi) le impressioni della conversazione in casa Manzoni.

  Esiste, alla Biblioteca Ambrosiana, un quadernetto di 16 fogli di appunti, autografo del Cantù, sulla copertina del quale si legge:

  Sono note che facevo dopo conversato con Manzoni. Parte ho stampate nelle Reminiscenze, di molte mi son servito in lavori miei. Era usurpazione? [...].

  Fra questa disordinata congerie di appunti, ai ff. 12v.-13r., Cantù scrive:

 

  Ho visto stasera 1° marzo 1836 (sic!) M. de Balzac da Manzoni. Brutta figura: parla come un mulino a vento. Si lamenta senza fine della contraffazione libraria, ed è persuaso che fra le potenze si farà una convenzione per impedirla. Parlò con gran lode dei personaggi di romanzo che sono personificaz<ioni> di idee come il Figaro che pur non fu inteso, e che è derivaz<ione> del Panurgo di Rabelais. Egli, Filarete Chasles e Nodier dice esser i soli in Francia che intendano perfettamente Rabelais a furia di studiarlo. Che esso volle dimostrare la nullità delle istituz<ioni> umane e che tutto va a finire nella bottiglia. Alle maniere esagerate e spirituali d’allora oppose la materialità. Gli antichi scrittori francesi studiavano moltissimo l’idea; i moderni troppo l’immagine. Egli, Sainte-Beuve e altri si proposero ricondurre all’idea: Sainte-Beuve scrisse Volupté e fallì; egli il Louis Lambert, il Médecin de campagne e fallì; non è nel gusto presente.

  L’ho poi incontrato altre volte. E parla della sua lingua come gli italiani grammatici. Dice ch’era assai più bella al tempo di Rabelais; che pochi la sanno: Nodier gli criticò il malinconiqueux, ed esso gli mostrò che v’era negli antichi, come v’era il drolatique ch’egli ridestò. Saint-Pierre introdusse la parola bienfaisance, Chateaubriand, compatissance. Parla come d’un granché di un’opera costatagli due anni di lavoro: la Physiologie du mariage. Parla assai male de’ Ginevrini, calcolatori, speculatori. Poco fu contento de’ Torinesi. Mostrasi pago de’ Milanesi, disinvolti senza pretensioni. Trova miserabili le carrozze e i cavalli nostri; compassionevoli i caffè. Dice che qui si parla con maggior sintassi che non in Francia. Conobbe solo d’Italiani a Parigi un vecchio, storico; è Camillo Ugoni; gli par impossibile come il Governo abbia potuto dargli disturbo.

  Ben poco gli pare della Récamier: troppo studiata, preparava il sorriso. Per far scrivere i vari manifesti della traduz<ione> del Fieramosca speser i librai più di 3000 frs; più di quel che l’autore guadagnasse qui.

 

  Circa mezzo secolo dopo gli avvenimenti narrati, nel giugno del 1881, il vecchio Cantù, sopravvissuto ai due grandi interlocutori di quella serata, riprendeva l’episodio, sviluppando questi appunti e pubblicandoli in uno degli articoli su Manzoni (il IX. Ancora amici e conoscenti) inseriti nella «Rassegna Nazionale». L’anno successivo, 1882, nel ripubblicare la serie di tali articoli in volume, il critico riprendeva di nuovo le pagine balzacchiane e, con qualche variante formale, qualche breve aggiunta e qualche spostamento nella narrazione, le introduceva nel capitolo X del secondo volume delle sue Reminiscenze su Alessandro Manzoni. Questa seconda redazione a stampa del 1882 [...] è fondamentalmente d’accordo con i ricordi di quella manoscritta del 1837. Essa è tuttavia notevolmente più ampia, si arricchisce di vari particolari nuovi e, soprattutto, si distingue dalla redazione manoscritta per assumere dimensioni, caratteri e tono più letterari. Cantù annotatore e cronista cede il passo al critico moralista e al giudice con responsabilità di sentenze, per imbastire – quanto discutibilmente non è il caso di dire ora – un discorso severo sull’intera opera balzacchiana[5]. [...].

  In un clima polemico di sottile (e talora anche puntigliosa) controversia, Stefano Stampa passa al vaglio di una confutazione minuziosa il testo delle Reminiscenze del Cantù; ed anche sulle pagine concernenti Balzac ha qualcosa da dire e da correggere[6].

  Ora vorremmo aggiungere, a completare il restauro del quadro storico, che del colloquio del 1° marzo abbiamo gli echi nei ricordi di due assenti alla conversazione stessa, ma assenti, come si dice, fededegni, che si documentavano su fonti di prima mano e la cui testimonianza è in varia misura, preziosa.

  La più importante di queste due testimonianze è quella che possiamo leggere nel Diario di Ruggero Bonghi sotto la data del 25 ottobre 1852. Il Bonghi era allora sul Lago Maggiore, si incontrava con Manzoni nella villa Stampa di Lesa e discuteva con lui per lunghe ore della giornata. Le menzioni del suo Diario hanno dunque come fonte una diretta informazione manzoniana.

  Il Balzac scriveva giù come in abbozzo il suo romanzo; poi lo dava così allo stampatore, che glielo stampava in lettere assai grosse e a righi molto larghi. Su questa specie di stamponi rifaceva il suo scritto.

 

  Andò a far visita al Manzoni e gli disse parecchie cose insulse. Gli voleva dare di sé un gran concetto; parlò sempre lui. Disse che tre uomini in Francia avevano capito Rabelais, lui, Chasles e non so chi altro.

 

  La seconda testimonianza è meno rilevante non solo perché non attinge direttamente ad una confidenza manzoniana (desunta come è dall’indiscrezione di un altro interlocutore nel colloquio) ma anche, e soprattutto, perché, andata perduta o dispersa nella sua formulazione testuale, ci è pervenuta incompleta e di terza mano. [...] esso appartiene ad un pittore ed incisore veneto, Bartolomeo Soster [...] il quale, all’epoca degli avvenimenti qui narrati, s’era trasferito, da una decina d’anni, da Venezia a Milano [...]. Alcuni anni dopo il 1837, nel 1844, egli pubblicherà a Milano un opuscolo, Dei pregiudizj e delle false idee degli artisti [...].

  Contemporaneamente interessato a due diversi campi di studio, assiduo frequentatore non solo degli ambienti artistici, ma anche dei circoli letterari milanesi e ricevuto nei salotti dell’aristocrazia lombarda dove contava amicizie, egli si trovava così in una eccellente posizione per seguire gli avvenimenti più importanti della cronaca culturale cittadina. Difatti, egli non solo seppe dell’esistenza dell’incontro fra Balzac e Manzoni, ma ebbe anche l’opportunità di essere informato, da uno degli intervenuti, degli argomenti che erano stati discussi in quel colloquio. E, a sua volta, consapevole dell’importanza dell’episodio, informò in una lettera un familiare o un amico di ciò ch’egli era riuscito a sapere. [...].

  Bruno Brunelli, il primo ed unico studioso che abbia dedicato alcune pagine all’argomento, si è limitato a dirci che la fonte da cui ha tratto le sue notizie è «uno dei volumi manoscritti che formano il copioso copialettere» del Soster dal 1822 al 1844[7].

  Valutato, come meglio si è potuto, il livello di veridicità delle singole relazioni, ed indicati gli elementi comuni ad esse, vediamo ora, sulla scorta di ciò che è emerso, di procedere ad una ricostruzione sintetica di questo colloquio, di rievocarne non solo i temi ma, soprattutto, il tono e, in una parola, l’atmosfera.

  Sottolineiamo, anzitutto, quel caleidoscopico, scintillante, vivacissimo gioco d’artificio verbale che, tipico della conversazione di Balzac (secondo la testimonianza di tutti i contemporanei), imprime da parte del romanziere francese un carattere dominante a questo incontro.

  Mutevolissimo, volubile, imprevedibile, una volta lanciato nella conversazione, Balzac si scatena, parla di tutto e di tutti: passa da un argomento all’altro, da una osservazione generale ad un giudizio particolare (e talora in modo così rapido, staccato, deciso, da apparire tagliente o presuntuoso ad un interlocutore poco familiare con lui) e, soprattutto, parla di se stesso e se stesso pone – con un indisturbato egotismo che gli sappiamo connaturale – al centro dell’ambiente in cui si trova.

  I suoi problemi personali, biografici o letterari che siano, diventano così i problemi di tutti i presenti ed i problemi principali – per non dire unici – dell’intero colloquio, che si tratti delle sue lamentele sulla contraffazione belga di cui è vittima, o della sua soddisfazione per i vantaggiosi contratti che è riuscito ad imporre agli editori; che si tratti delle sue letture di Gargantua e di Pantagruel e dei suoi studi sulla lingua di Rabelais, che farebbero di lui uno dei pochissimi competenti dei modelli stilistici dell’umanesimo francese (il riferimento ai Contes Drolatiques è trasparente); che si tratti del suo debito letterario verso Walter Scott (ma contemporaneamente del suo superamento di quella concezione del romanzo storico che, in mani più esperte, si è fatto «contemporaneo» e si è arricchito di un contenuto di «studi di costume» e di «scene della vita privata»); che si tratti della tecnica, paziente e difficile, del suo lavoro inventivo, dei suoi attuali progetti narrativi, della storia degli immeritati insuccessi incontrati da quelle opere dal narratore stesso giudicate socialmente, moralmente, filosoficamente più coraggiose; che si tratti, infine delle sue concezioni estetiche sulla «littérature des idées» e sulla «littérature des images», tutto ciò diventa problema comune, generale, degno di massima attenzione per l’universo mondo. Ed è Balzac, padrone e schiavo dei suoi fantasmi, che tiene così in mano durante tutto il colloquio – ma, in ultima analisi, non sarebbe meglio definirlo un soliloquio? – lo scettro ora scintillante di gemme, ora forse di paccottiglia e d’oro di princisbecco, della conversazione.

  Non che lo scrittore francese non si sia ricordato, di tanto in tanto, di avere di fronte un altro «uomo del mestiere», un romanziere ed un poeta che doveva avere le sue stesse preoccupazioni, le sue stesse ansie, e i suoi stessi problemi di natura creativa e d’ordine letterario. E, certo, egli ha parlato anche di ... Manzoni. Ed ha rilevato la somiglianza fisica del suo interlocutore con Chateaubriand o ha fatto accenno ai Promessi Sposi e, sapendo il Manzoni cattolico, ha ritenuto di compiacerlo alludendo anche ad una sua personale non-indifferenza a temi religiosi e recando ad esempio il messaggio etico-sociale del Médecin de campagne.

  Ma con quanta poca grazia e con quanta involontaria mancanza di tatto! Se avesse saputo quali sospettose riserve e quali perplessità si mescolavano al rispetto di Manzoni per l’opera «ad effetto» del prestigioso Visconte, non avrebbe forse sottolineato una rassomiglianza fisica che non poteva entusiasmare l’interlocutore; e se avesse immaginato la profondità del cattolicesimo manzoniano non si sarebbe lanciato in quella definizione del Médecin de campagne come di opera appartenente al «genre religieux», facendo di un problema per Manzoni esistenziale una questione di tecnica letteraria. E se si è messo a parlare dei Promessi Sposi, cosa poteva dire d’importante all’autore, lui che sul romanzo aveva una così scarsa documentazione diretta?

  Di fronte a Balzac «torrentizio», Manzoni «laghista». In contrasto con l’eloquenza vivacissima e rumorosa del francese dai cento romanzi, il silenzio dell’italiano autore dell’unico romanzo. Silenzio – si è detto – che nasce di lontano, dal congenito impaccio di Manzoni, dal suo naturale riserbo, combattuto e talora impenetrabile, e che si rafforza, da vicino, nella posizione di imbarazzo di un padrone di casa, gran signore, esitante ad interrompere un ospite, e nella riflessione (e qui mi sembra che l’informatore del Soster avesse perfettamente ragione) che, a prender la parola, ci sarebbe da obbiettare e da polemizzare su tutto. Onde tanto vale, a questo punto, rinunziare ad interloquire per smentire, correggere, precisare ...

  Cosa poteva dire, infatti, Manzoni se non dichiarare di trovarsi nella posizione esattamente opposta a quella così solidamente occupata dal suo interlocutore; di non aver nulla in comune con lui – nei termini almeno in cui il discorso era stato impostato e condotto; non in assoluto, dove le affinità potevano invece essere maggiori –; di vivere in un mondo di quiete abitudini quotidiane, di meditazioni, di pensieri ultraterreni, di dubbi e di preghiere, assolutamente estraneo a quello abitato da Balzac?

  Anche psicologicamente, i continenti così diversi dei due protagonisti non potevano trovare frontiere comuni. E così, mentre l’uno manifesta la sua estroversa espansività, la sua esuberanza vitale, l’altro denuncia le sue incertezze, le sue prudenze, i suoi timori a svelarsi. Alla vivacità dell’uno si contrappone la riflessività dell’altro; all’ansia del successo, al pensiero costante del denaro, ad una visione disinvolta (anche se solo apparentemente tale) del mondo, caratteristiche dello scrittore francese, si oppongono la rinunzia, la signorile indifferenza a questioni economiche, la rassegnazione ed una visione tutta provvidenziale della vita, componenti tipiche dello scrittore italiano. Anche di fronte agli aspetti comici o grotteschi della realtà (alla cui presenza nell’esistenza quotidiana dell’umanità ambedue sono così sensibili), il loro accordo non è, per così dire, che iniziale, mentre le loro reazioni sono, in definitiva, polari. All’ampia, scrosciante risata del signor di Balzac autore dei Contes Drolatiques fanno opposizione il sorriso sottile e quasi ermetico, l’umorismo impercettibilmente accennato di Manzoni.

  E nelle quiete, tristi stanze di via Morone, partito l’ospite, cessata l’eco della sua rumorosa, inintermittente conversazione, nel silenzio rifattosi per incanto, sembra riudire la voce pacata (ma ancora attraversata da una vibrazione di fastidio) di Manzoni affermante che «per avere un successo nel genere religioso non bisogna tentarlo come una speculazione qualunque, ma esserne profondamente persuasi».

  Due uomini di un temperamento così diverso, con esperienze e consuetudini di vita così lontane, con una formazione spirituale così opposta; due creatori di un linguaggio narrativo così estraneo l’uno all’altro, potevano forse comprendersi e stimarsi nell’esercizio di un lungo sodalizio, ma non potevano evidentemente riconoscersi e simpatizzare nel corso di un unico colloquio di poche ore.

  Il loro, in realtà, fu un dialogo fra sordi, un «a solo», troppo parlato da una parte, troppo taciuto dall’altra, che non poteva sfociare in alcuna vera comunicazione né dell’intelligenza né dei sentimenti. Balzac non seppe individuare uno solo dei tesori della smagata saggezza ond’era ricco il suo interlocutore né imparò nulla dall’incontro con lui; Manzoni rimase insensibile a tutti quegli insegnamenti narrativi di cui il francese recava alle generazioni future il rivoluzionario messaggio, né s’avvide di alcuno dei drammatici problemi esistenziali che si combattevano nell’animo dell’altro. [...].

  Giunti al termine di questa nostra cronaca, poche parole di conclusione saranno necessarie a mettere in evidenza un fatto che è emerso, via via, nel corso delle pagine precedenti, ma che merita tuttavia di essere ancora sottolineato qui, in fine.

  L’importanza storica dell’incontro fra Balzac e Manzoni – lo abbiamo detto all’inizio della nostra ricerca e continuiamo qui a riaffermarlo – è un fatto indubitabile. Non è di tutti i giorni l’incontro di due dei più grandi romanzieri europei del loro secolo: incontro che non è stato solo di circostanza, ma che ha avuto un suo carattere, per così dire professionale, ed a cui hanno fatto corona altri personaggi del mestiere, minori o minimi che siano, ma pur sempre di qualche rilievo nella storia della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento.

  Eppure, il risalto letterario, culturale, umano di tale colloquio sembra non solo esser sfuggito ai protagonisti, ma, quasi, essersi determinato contro la loro volontà.

  Da qualunque parte ci siamo rivolti, le reazioni che ci sono pervenute sono state sempre le medesime: avversione, irritazione o, nel migliore dei casi, il silenzio. Protagonisti o comparse, interlocutori diretti o personaggi minori, comunque legati all’incontro del 1° marzo 1837, tutti sembrano essersi scambiati la promessa o di ricordare quest’episodio con un senso di fastidio e di noia, o di volerlo dimenticare.

  Tali risultati così deludenti non annullano, ripetiamo, l’utilità e l’interesse della rievocazione storica che abbiamo cercato di ricostruire qui con la maggiore attenzione, e che si giustifica ovviamente in se stessa. Ma è pure doveroso – e doloroso – costatare che, per tutti, da Manzoni a Balzac; da Cesare Cantù e da Stefano Stampa a Ruggero Bonghi; da Felice Carron de Saint-Thomas a Fanny Sanseverino, l’incontro del 1° marzo 1837 fu veramente una occasione mancata.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac nel novembre 1836, «Contributi del Seminario di Filologia moderna, serie francese», Volume VIII, Milano, Vita e Pensiero, 1975, pp. 29-195.

 

 

  Rosario Contarino, Oriani e Balzac, «Siculorum Gymnasium», Catania, Anno XXVIII, n. 2, luglio-dicembre 1975, pp. 433-469.

 

  Nel corso di tutta la varia produzione di Oriani l’opera di Balzac viene costantemente associata a quella dei più grandi artisti di ogni tempo ed innalzata a paradigma dell’arte stessa dell’età moderna. Tuttavia, a parte le vistose derivazioni, fittissime nei romanzi giovanili, l’ammirazione (o più propriamente la venerazione) di Oriani verso il romanziere francese si traduce raramente in un giudizio circostanziato, ed egli si mostra incapace, anche nella stagione di massima appropriazione, di specificare criticamente la qualità di questo incontrastato magistero di umanità e di letteratura. Le uniche argomentate testimonianze sulla natura di questo rapporto si collocano singolarmente in un’epoca in cui il realismo del francese non può essere più esclusivo modello letterario e corrispondono ad una stagione caratterizzata oltre tutto da un progressivo affievolirsi dell’interesse di Oriani verso i problemi artistici. Il primo di questi interventi, infatti, (La città in Oro, Incenso, Mirra) risale al periodo di composizione del secondo ciclo di romanzi, che [...] aveva assorbito e già oltrepassato la lezione del naturalismo; l’altro (Gallia victa) viene concepito come articolo d’occasione al tempo della collaborazione al «Giornale d’Italia» (1909) (e inserito poi nella raccolta di scritti della maturità, Fuochi di bivacco) addirittura dopo la conclusione dell’attività narrativa, a qualche mese appena dalla morte. Ma neppure in questi interventi Oriani cerca di definire esplicitamente il significato che l’opera di Balzac può avere assunto per la sua carriera di intellettuale. Numerose spie dell’intenzione di inglobare la narrativa precedente in una progettazione di opere sorrette da un disegno ideale e unitario rendevano tuttavia scoperta la sua ambizione di creare anche in Italia il «romanzo sociale», rispondente alla pretesa di posare a «homme à idées di tipo francese», che si preoccupa di commentare a ogni passo la materia narrativa senza mai abbandonarla a se stessa. [...].

  Invano egli aveva però cercato di dare unità di toni e omogeneità di intendimenti alla sua produzione, discorde nei temi e nell’etica professata, indecisa tra romanticismo byroniano (ma anche melodrammatico) e tranche de vie. Lo stesso desiderio di saldare tutto il suo vasto sforzo narrativo in un organismo unitario appare implicito e poco verificabile, essendo i risultati raggiunti non suscettibili di una lettura secondo un piano di organizzazione e di impianto complementare nelle sue parti. Nondimeno la varietà e l’ampiezza stessa della materia narrativa, pronta a ritrarre egualmente i riti di iniziazione mondana e la beffa del contado, il dramma dell’artista incompreso e le passioni segrete e divoranti possono far pensare a delle embrionali scènes de vie di una Comédie humaine italiana mai scritta. Forse Oriani aveva accarezzato il progetto della grande sintesi balzachiana, della cui composizione nel panorama della nuova letteratura italiana si sentiva acutamente (e non solo da parte sua) la necessità; ma è solo possibile percepire delle vaghe intenzioni e riconoscere degli ancor più incerti risultati. È tuttavia da non sottovalutare, per capire le intenzioni programmatiche da cui Oriani muoveva, la virulenza con cui viene generalmente attaccata la linea politico-ideologica della letteratura italiana dell’Ottocento e la qualità delle motivazioni negative. Deplorando la «mediocrità» di questa letteratura e la sua totale incapacità di cogliere le novità della società moderna e i processi politico-ideali dell’Italia contemporanea Oriani assume dei toni così severi proprio per la frequentazione di esperienze letterarie dissimili da quelle italiane e per l’inevitabile confronto che egli istituisce. [...].

  È proprio la sterminata vastità dell’ordito sociale, l’esuberanza dell’immaginazione sposata ad una capacità demiurgica di disseppellire gli aspetti reconditi della vita che avvince Oriani e gli fa decretare questa supremazia di Balzac. Ormai la sua opera, nel confronto con i nuovi orientamenti estetici, acquista un altro valore, assumendo la configurazione paradigmatica dell’opera d’arte che sfugge alle angustie delle classificazioni di comodo e si pone al di sopra delle partigianerie momentanee. Il nuovo giudizio non è più isolabile dalla posizione politica dell’autore, dai suoi convincimenti etici, dalla sua polemica contro la democrazia e il socialismo. Certamente Balzac non può essere più empiricamente modello letterario, essendo troppo lontano il mondo da lui espresso e rappresentato. Il travisamento della sua opera, le soluzioni mediocri derivatane denunciano inesorabilmente la decadenza dell’arte dell’ultimo scorcio del secolo decimonono, «antipopolare» nelle sue manifestazioni, ad esclusione della musica. La progressiva degenerazione e degradazione del genere romanzo è testimoniata senza equivoci dalla fama raggiunta dall'opera di Zola (di cui in verità non sono disconosciuti i meriti letterari), valutata in una sede che però non è più squisitamente letteraria, ma politico-culturale, con tutte le riserve di natura ideologica di uno strenuo avversario del positivismo e del socialismo [...].

  L’attribuzione più qualificante dell’opera di Balzac e il segno più visibile della sua grandezza consistono inoltre nella sua superiorità rispetto agli oggetti e agli uomini rappresentati, nella sua estraneità a conventicole determinate, nel suo vivere e creare al di sopra delle parti: «Appartenendo a tutti, non era d’alcuno: non poteva avere un partito, fondare una scuola, formarsi una clientela, diventare un personaggio nel pubblico una moda nel costume, un modello alla mediocrità. La grandezza lo condannava all’isolamento, la superiorità ad uno di quegli imperi, che soltanto i secoli possono costituire» [Gallia victa]. [...].

  Il tramonto di una civiltà, della sua cultura, del suo stile di vita non porta però Oriani ad evadere nella rêverie di un passato mitico o a tentare di ricostruirlo, perfettamente identico, proiettandolo nel futuro. A differenza di Balzac — che tuttavia, nonostante le professioni monarchiche e legittimiste a partire dal ‘31, idoleggia in tutta la sua opera il cesarismo e il populismo napoleonico — Oriani ha sempre accettato il verdetto della storia che escludeva l’aristocrazia di sangue dall’esercizio del potere. La mancanza di una tradizione monarchica unitaria, ma soprattutto il «dogma della sovranità popolare» «proclamato dalla rivoluzione francese» spiegano l'assenza dell’aristocrazia al vertice della rivoluzione nazionale. [...].

  «Une aristocratie», aveva proclamato Balzac, «est en quelque sorte la pensée d’une société, comme la bourgeoisie et les prolétaires en sont l’organisme et l’action» [La Duchesse de Langeais]; ed anche Oriani sentiva l’aristocrazia come la classe pesante di una società, rappresentativa non delle sue esigenze soltanto, ma di quelle della collettività. Tuttavia nemmeno il faubourg Saint Germain nella ipotesi balzachiana era stato pari al nuovo compito storico così felicemente riuscito all’«aristocratie anglaise» di conservare le sue prerogative secolari, promuovendo un ricambio interno di uomini che non ne alterava la fisionomia. Essa era stata così capace di privare «la bourgeoisie de ses hommes d’actions et de talent dont l’ambition minait le pouvoir en leur ouvrant ses rangs». Il faubourg Saint Germain aveva preferito invece restare aggrappato alle sue antiche attribuzioni, non accettando homines novi, ma anzi continuando a «les combattre, et sans armes; car il n’avait plus qu’en tradition ce qu’il possédait jadis en réalité». Aprirsi verso le classi emergenti per frenarne il moto ascensionale costituiva ad un tempo l’astuzia balzachiana in funzione antidemocratica, ma anche il riconoscimento dell’irreversibilità del processo verificatosi. Il reclutamento di nuovi strati — o meglio di nuovi individui, perché in Balzac è ancora ferma l’illusione che l’aristocrazia debba assumere funzione magnetica verso le personalità emergenti —- è perciò un obbligo morale oltre che una necessità [...]. L’interpretazione non restrittiva del ruolo dell’aristocrazia scaturiva in Balzac dal mito napoleonico, crocevia di inclinazioni populiste e di garanzie autoritaristiche [...] adattato alla sua visione gerarchica della società che delegava al faubourg Saint Germain ruoli di rappresentanza della vita nazionale. La resistenza di queste idee balzachiane è misurabile in Oriani proprio nella loro durata al di là del sovrapporsi di molteplici suggestioni ideologiche (da Hegel, a Ferrari, a Renan) stratificatesi nel corso del tempo; essa si può tangibilmente cogliere anche nella vitalità di certa mitologia (quella napoleonica, ad esempio, ancora così viva nella novella A poppa di Oro, Incenso, Mirra), tanto estranea alla più diffusa agiografia di fatti d’armi della tradizione ottocentesca italiana da lasciar scoperta la sua matrice francese. [...]. Assai prima che uno sviluppo tecnologico di vasta portata sommovesse energicamente anche in Italia i tradizionali strumenti di comunicazione di pensiero, Oriani aveva colto nel suo mai interrotto rapporto con la letteratura francese (e in particolare con la narrativa di Balzac) la prefigurazione della futura emarginazione dell’intellettuale sotto la pressione irresistibile della cultura emessa dai nuovi canali di comunicazione. Per questo tutto il suo itinerario d’artista e di pensatore diventa una ricerca di nuovi valori e di moralistici salti qualitativi; ma essendo incapace di analizzare i problemi al di fuori delle ripercussioni personali, finisce con il ripetere periodicamente in tutte le sue opere il dramma derivatogli dalla incomprensione del pubblico, la cui avversione o indifferenza valuta come incompetenza, impedendosi così di pensare a delle soluzioni o a delle risposte di classe. [...].

  Anche Balzac, osteggiato dalle «médiocrités jalouses» dei «grands médecins politiques qui ont étudié les plaies de la France» [Le Curé de village], aveva sentito irrimediabilmente modificato il criterio di organizzazione della cultura e di diffusione del sapere e aveva collocato questo fenomeno tra i sintomi allarmanti dello sfacelo sociale. Pagine indimenticabili egli ha scritto nei suoi romanzi maggiori sulla sottomissione dell’intellettuale alla tirannia dei mass-media, sulle sue frustrazioni per la reificazione del suo lavoro, elevando in fondo il suo individualismo romantico a rivalsa contro il mutato rapporto artista-società. La figura del giornalista, dell’homme de presse, presentato sempre in pose di squallido trafficante di idee [...] è nell’universo di Balzac antitetica a quella del romanziere-pensatore, ed è colta precocemente (fin dalla Peau de chagrin) nella sua malefica azione di corruzione ideologica e nella sua sterminata potenza [...].

  E Balzac aveva sentito il bisogno di opporre alle corrosive tendenze ideologiche contemporanee, dispregiatrici di ogni impegno sociale, il baluardo di una dottrina millenaria capace di costituire l’asse portante dell’organizzazione umana e di vincere le inclinazioni distruggitrici e centrifughe [...].

  Anche per Oriani prima che un’esigenza individuale (da certa critica condensata nei soliti esercizi devoti e confessionali) il problema religioso è un fatto collettivo che ha una sua scontata efficacia sociale [...]. E come nelle riflessioni del Curé de village il cattolicesimo libera dal dubbio e dalla disperazione, impedendo la sterile riflessione, veicolo di ribellione dottrinaria e di malessere sociale: «nel cattolicesimo solo il problema dell’autorità è risolto così da dare la calma alle anime ansanti nel dubbio. Nelle moltitudini l’antichità della religione è profondo motivo di fede» [La rivolta ideale]. [...].

  Le misteriose necessità che garantivano le ragioni dell’esistenza del potere monarchico auspicato da Balzac e le non meno inspiegabili sovranità competenti alle rinnovate élites del pensiero e della politica profetate da Oriani si incontravano facilmente nel rifiuto degli organismi elettivi che avevano dato vita nell’Europa liberale al sistema parlamentare. La negazione del suffragio elettorale, puntello dei nuovi governi sempre vacillanti e fondati sulla fragile base di un consenso elargito senza competenza, è un altro elemento di convergenza, ovviamente condiviso con tutto il pensiero conservatore dell’Ottocento. Ma l’affinità è assai marcata; ed identico appare l’uso strumentale da entrambi praticato nella difesa di una nobiltà non decisa da nessuna legge, ma assegnata graziosamente dalla natura. [...]. Un’unità più oscura e ristretta, agente formidabile di coesione sociale si impone intermedia tra il potere occulto e imprevedibile delle masse, che annullano qualsiasi distinzione e quello meramente individuale delle grandi superiorità: la famiglia («le véritable élément social»). Questa struttura portante dell’economia e della civiltà borghese appare in tutto il secolo come l’unico elemento rassicurante in un mondo in trasformazione e in rapida decomposizione. Non a caso una scienza come l’antropologia, che in quegli anni si diffondeva e precisava il suo campo di interesse, pur nei suoi vari indirizzi e con diversità di intendimenti, rivolgeva eminentemente la sua attenzione ai sistemi più elementari di aggregazione umana, analizzando anche attraverso le società primitive il problema della famiglia, nodo ed ancora della società borghese. Anche Oriani nel farraginoso trattato Matrimonio (in cui agisce, sia pure in un certo senso antiteticamente, ma con significativa coincidenza di interessi, lo esempio del balzachiano Physiologie du Mariage) individuava, a rettifica dei suoi scandalistici atteggiamenti precedenti, proprio nella nascita e nel successivo perfezionarsi di questa istituzione l’origine della civiltà. Il sistema di repressione degli impulsi anarchicheggianti coincide con l’avvento di forze socialmente costruttive creatrici del progresso umano [...]. Quello che a Balzac [...] appariva un programma d’ordine e di restaurazione, da Oriani è contrabbandato per proposta di rinnovamento che si può attuare con una ritrovata tensione spirituale. In verità egli tende alla stessa ricomposizione di equilibri e di subordinazioni tentata da Balzac, come, forse non equivocamente, confermano il timbro e le ascendenze della sua prosa. Anche la forma imperativa, infatti, l’accesa mobilitazione della fantasia nel far balenare i nuovi orizzonti, nonché il fraseggiare ridondante mai pago di una semplice enunciazione, tradiscono questa matrice balzachiana che offriva l'allettamento di fughe in avanti verso traguardi imprecisati. Parallelismi ed antitesi non erano estranei infatti al gusto di Balzac, in conformità a una tendenza declamatoria di stampo romantico che si avverte soprattutto nei momenti di più accesa disputa o in quelli che presuppongono precorrimenti dell’avvenire. Con eloquenza traboccante di enfasi, M. Bénassis presentiva il futuro assetto della società, tracciando una scala di stati d'animo e di valori morali, piuttosto che un concreto quadro di situazioni politiche; e forniva un esempio di vaticinio letterario, che pur nella presenza prevalente dell’elemento etico-sociale, appariva non troppo dissimile da analoghe predicazioni italiane idealistico-risorgimentali [...].

  Se naturalmente il filone giobertiano-mazziniano fornì validi argomenti a queste insorgenti velleità, la figura di Balzac rimase in sottofondo come un esempio che non si poteva, più imitare, ma che aveva in un certo senso anticipato le sorti e individuato le possibili forme di impegno dell’intellettuale contemporaneo.

  Il rifugio nella cittadella ottocentesca della cultura, in cui l’arte nel suo tramonto ha trovato grazie al suo ultimo fedele un momento di estremo fulgore, cela il tentativo segreto di fermare il suo dinamico sviluppo. E come predicando una società che sembrava dovesse essere tutta diversa, Oriani mirava invece a riprodurre quella esistente con non poche tentazioni di regressione verso valori propri della civiltà preindustriale (né ipotizzava alcuna modifica dei rapporti tra gli uomini), così, disegnando il nuovo ruolo dell’intellettuale, gli riconsegnava i compiti e le attribuzioni dello scrittore romantico [...].

 

 

  Carlo Cordié, Balzac, «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», Firenze, Vol. XXVIII, fasc. 4, dicembre 1975, p. 316.

 

 

  Francesco Fiorentino, Le figure di stornamento in un racconto di Balzac, «Strumenti critici. Rivista quadrimestrale di cultura e critica letteraria», Torino, Einaudi, Anno IX, n. 26, febbraio 1975, pp. 31-49.

 

  L’analisi di un racconto di Balzac, Gobseck, che mi prefiggo in questo articolo, è impossibile da avviare senza riferirsi, almeno sommariamente, a una problematica di metodo e teoria letteraria: quella che nasce dal recente sviluppo degli studi di neoretorica e di narratologia. [...].

  Guardiamo al recente contributo di G. Genette, Discours du récit, contenuto nel volume Figures III. Esso propone, in forma sistematica, chiara e, secondo me, costantemente persuasiva, una terminologia adatta a coprire una totalità di fenomeni della letteratura narrativa che possiamo chiamare genericamente formali. [...]. Costanti formali identificate a un tale livello di astrazione da potere essere comuni a testi diversissimi, postulano la individuazione del senso particolare che assumono in un testo soltanto, e che sarebbe però ben più difficile da ritagliare se non vi avessimo reperito in partenza proprio quelle costanti formali e non altre.

  Ecco perché in questo articolo mi servirò largamente della terminologia sistematica di Genette, applicandola al Gobseck, in cui mi sono sembrati particolarmente vistosi fenomeni di forma narrativa appartenenti sia a quello che Genette chiama il registro del «tempo», sia soprattutto a quello che Genette chiama il registro della «voce». Ma il fatto c che questi fenomeni formali mi sono sembrati interessanti da interpretare nella misura stessa in cui sono vistosi da constatare; la loro presenza ritaglia il senso dell’opera, e per ciò stesso si risolve in un supplemento indispensabile di senso. [...].

  Ho già accennato all'importanza, in Gobseck, dei fenomeni relativi al registro della «voce». Non solo la «voce» narrativa non è sempre la medesima, ma si ha una alternanza di ben tre «voci» che creano tre livelli di narrazione:

  1) un livello iniziale, in cui la «voce» è quella del narratore medesimo; vi si narra una «scena» situata nel salotto Grandlieu; lo chiamerò, con Genette, livello «extradiegetico»;

  2) un racconto nel racconto, in cui la «voce» è quella dell’avvocato Derville; vi si narra la vicenda del patrimonio della famiglia di Restaud; lo chiamerò livello «intradiegetico» di primo grado;

  3) un racconto nel racconto, in cui la «voce» è quella di Gobseck; oltre a narrarvisi l’antefatto della vicenda dei Restaud, vi si dà luogo a quella che chiamerò con Genette una «pausa» della narrazione, ossia alle riflessioni dell’usuraio sulla onnipotenza del danaro: lo chiamerò livello «intradiegetico» di secondo grado.

  Se passo ora a confrontare questi tre livelli dal punto di vista del «tempo», distinguerò, sempre con Genette, aspetti di «ordine» e aspetti di «durata». Dal punto di vista dell’«ordine», dobbiamo osservare che il livello 1) si contrappone insieme al 2) e al 3) secondo una opposizione tra presente e passato [...].

  Dal punto di vista della «durata», osserviamo che la vera e propria narrazione viene quasi tutta sviluppata al livello 2), e ha sia il suo punto di partenza che il suo punto di arrivo al livello 1), mentre è quasi del tutto ferma – ho già parlato di «pausa» – al livello 3).

  A quest’ultimo livello, il discorso del vecchio usuraio compensa la sua relativa povertà narrativa con il fatto importantissimo di essere in larga misura un discorso ideologico: l’unico discorso ideologico che il testo contenga. È qui che si afferma nel modo più volutamente esplicito una apologia del danaro, da mettere senz’altro sul conto di quelle rivelazioni o demistificazioni implacabili della nuova realtà sociale capitalistica, a cui si deve l’ammirazione di Marx ed Engels e l’ininterrotto interesse della critica marxista per l’opera di Balzac. L’apologia del danaro ha nelle parole di Gobseck un tratto che potremmo definire quello della assolutezza, e che fa del vecchio ebreo un monoteista rigoroso non in quanto ebreo ma perché capitalista: il danaro è l’unico fine valido delle azioni umane; tutto il resto, a cominciare dai sentimenti, è falso. Mi limito a citare una sola frase centrale del suo discorso: «Si vous aviez vécu autant que moi vous sauriez qu’il n’est qu’une seule chose matérielle dont la valeur soit assez certaine pour qu’un homme s’en occupe. Cette chose ..., c’est L’OR».

  Tanta franchezza nel presentare questa come una verità, cessa di essere possibile se si ripassa dal livello 3) al livello 2): anzi il passaggio di livello narrativo al termine del discorso di Gobseck, sembra obbligare immediatamente a mettere in dubbio quella onnipotenza dell’oro da lui proclamata. «Tout doit-il donc se résoudre par l’argent?» (Pl. II, p. 637), racconta di essersi chiesto Derville dopo essere rimasto solo e turbato da quanto ha ascoltato. L’ulteriore passaggio che riporta la narrazione al livello 1): «Voulez-vous un verre d’eau sucrée? dit la vicomtesse en interrompant Derville» (Pl. II, p. 637), serve soprattutto a introdurre una notizia che sembrerebbe contraddire la verità appena affermata da Gobseck: l’avvocato che narra ha finito con lo sposare la sartina Fanny Malvaut, si è cioè sposato per amore e non per interesse. Schematizziamo provvisoriamente il rapporto, distribuito sui tre livelli narrativi, tra l’apologia del danaro di Gobsek (sic), la sua messa in forse da parte dell’avvocato, e la smentita di essa che il comportamento dell’avvocato esemplifica:

  livello 3): si afferma qualcosa (+)

  livello 2): si mette in dubbio la stessa cosa (?)

  livello 1): si afferma il contrario (—) [...].

  Cominciamo a intravedere che alla gerarchia puramente formale dei tre piani narrativi corrisponde, in qualche modo, anche una gerarchia morale dei contenuti che si ricavano da ciascuno dei tre racconti, e quindi una gerarchia del grado di accettabilità che per ciascuno di essi s’intende proporre al lettore. I protagonisti del racconto di livello 2) mancano della rispettabilità dei padroni di casa che figurano al livello 1); ma è soltanto il titolare della «voce» di livello 3), Gobseck, che, oltre a rappresentare col suo comportamento valori che dovrebbero essere inaccettabili, vanta questi presunti disvalori per l’appunto come valori. [...].

  Gobseck è probabilmente il primo finanziere e il primo usuraio che nella letteratura francese (si pensi ad Arpagone, a Turcaret) sia stato descritto con connotazioni niente affatto ridicole, e non certo esclusivamente sinistre. Anzi gli viene riconosciuto il potere della conoscenza, strettamente legato al potere conferito dall’oro, ma presentato in forma iperbolicamente grandiosa [...]; e le sue azioni rispettano comunque, come vedremo, una logica severa che non è priva di una sua equità c probità. Tutti questi tratti positivi riuniti nella grandezza geniale, tutta balzacchiana, del personaggio, rischiano di conferire una qualche autorità alle proposizioni da lui enunciate sulla società e sul mondo. Proprio per questo però si può dire che non solo i singoli tratti negativi, ma l’intera concezione del personaggio, sono funzionalizzati a distanziare, singolarizzare e screditare le verità che solo a uno come lui possono essere attribuite come opinioni; ciò permette di prendere le distanze da lui e da queste opinioni non solo ad altri personaggi, ma anche all’autore e ai lettori. Gobseck viene alienato, sottratto alle possibilità di identificazione emotiva del lettore, attraverso un insieme di caratteristiche che l’arte di Balzac confonde indissolubilmente con la passione maniaca di lui per l’oro, e che potrei riassumere nei termini di de-sessualizzazione o addirittura de-vitalizzazione.

  Nello stesso tempo occorre osservare che la presentazione del personaggio comporta costantemente, dal punto di vista stilistico-retorico, una frequenza di ricorso alla comparazione e alla metafora che non si realizza per nessun altro personaggio o elemento del testo: come se la funzione di ponte fra il noto e l’ignoto spesso svolta dalla comparazione e dalla metafora, si rendesse qui necessaria per raffigurare un personaggio profondamente altro, estraneo, virtualmente inconoscibile [...].

  In conclusione, si può dire che il personaggio rappresenta in forma simbolica, anche se tutt’altro che astratta e anzi straordinariamente viva, una repressione esercitata sul sesso e una deviazione di energie dal piacere che vengono così a contare fra i presupposti dell’accumulazione capitalistica. In questo senso siamo più che mai di fronte al Balzac capace di riflettere in potenti sintesi narrative grandi processi storico-economici. Ma la riflessione non è semplice rispecchiamento; da essa sono inseparabili connotazioni di cui ho già indicato il valore tendenziosamente estraniante: Gobseck non deve solo impressionare e imporsi, ma anche restare lontano e al limite ripugnare. E che si tratti della grandezza o della mostruosità del personaggio, sempre pare possibile farlo presente solo attraverso il tramite fantastico della comparazione e della metafora che, proprio mediando l’ignoto attraverso il noto, non possono non sottolinearne la natura di ignoto. [...].

  La gioventù di Gobseck, vagamente e quasi miticamente situata sullo sfondo cronologico dei tempi del precapitalismo e di un colonialismo ancora propriamente piratesco, è stata priva di padre. Nella sua famiglia, addirittura, le donne non si sono mai sposate e tutti portano lo stesso cognome [...]. Scapolo, privo di figli fisici, neutro in apparenza rispetto ai sessi, Gobseck beneficia nondimeno di un singolare appellativo, tale da richiedere da parte del narratore Derville (come nel caso dell’aggettivo lunaire) una precisazione metalinguistica, ossia la qualificazione di una figura retorica: egli è «cet homme qui s’était fait or et que, par antiphrase ou par raillerie, ses victimes, qu’il nommait ses clients, appelaient papa Gobseck» (Pl. II, p. 627). Esiste allora, nel mondo capitalistico, una paternità che passa attraverso il danaro, alternativa a quella che passa attraverso il sangue, magari — come dovremo sospettare — più forte? [...]. Di fatto, per ottenere in prestito il danaro indispensabile al suo esordio professionale, Derville dovrà presentare come garanzia il certificato di nascita che attesti la sua giovinezza (Pl. II, p. 640), e papà Gobseck dal canto suo gli si rivolgerà poi due volte con l’appellativo: «Mon fils».

  Ben più importante per la principale vicenda narrativa è il ruolo di padre, dovremmo dire di padre finanziario, che Gobseck viene a svolgere nei confronti del giovane Ernest di cui preserva il patrimonio: anche in questo caso il vecchio usuraio subentra al padre naturale che sarebbe impotente da solo a difendere la fortuna del figlio. È merito di Gobseck e di Derville se il giovane conte si rivelerà alla fine «degno» di sposare la ricca e nobile Camille de Grandlieu; e l’opportunità o l’inopportunità di questo matrimonio, soppesate all’inizio e alla fine del testo con passaggio da un no apparente a un sì definitivo, costituiscono la principale questione narrativa. L’usuraio e l’avvocato, che sono essi stessi come abbiamo visto un po’ padre e figlio fra loro, si pongono entrambi come efficaci tutori economici di Ernest, mentre il conte padre resta esautorato da questo importantissimo ruolo. Tuttavia egli è pur sempre partecipe di questa genealogia patrimoniale del figlio, nella misura in cui la sua abdicazione dal ruolo di padre patrimoniale, in favore di Gobseck, è spontanea. Così, secondo una legge che è stata osservata in quasi tutti i romanzi della Comédie humaine, l’integrità o la crescita del capitale restano garantite contro quella frantumazione in tre, o addirittura quella dilapidazione, che lo minaccerebbero in questo caso se esso fosse caduto nelle mani della madre. Per meglio realizzare la simulata cessione del patrimonio a Gobseck, il conte padre decide addirittura a un certo punto, per consiglio dell’avaro stesso, di simulare una serie di grandi dilapidazioni (Pl. II, p. 653). Se la dilapidazione si contrappone necessariamente a quella accumulazione di cui Gobseck è simbolo, è lecito dire che anche l’altro polo di questa opposizione è stato simboleggiato da Balzac nel nostro testo, e sempre in forma mirabilmente viva: ben più che dal conte o dalla sua stessa colpevole e imprudente moglie, dal personaggio dell’amante di lei, Maxime de Trailles.

  Come tutte le opposizioni, anche questa tra Maxime e Gobseck non potrebbe essere significativa com’è se non poggiasse su un minimo di somiglianza, se le decisive varianti non fossero messe in rilievo da una qualche costante. [...].

  In ogni caso l’efficacia sessuale della persona di Maxime si contrappone alla esangue astinenza di Gobseck come il lusso e lo spreco della sua vita dissoluta si contrappongono alla austerità conventuale di quella dell’avaro. Da parte di quei rappresentanti di un mondo presunto sano che sono i Grandlieu, è necessario che siano prese le distanze anche da questo secondo personaggio in quanto socialmente riprovevole; a questo serve il passaggio di «voce» narrativa per cui il conte di Born, interrompendo Derville, prende a suo carico la descrizione del giovane libertino come di un mostro brillante ed ambiguo (Pl. II, pp. 642-43), esattamente come un altro passaggio di voce che si ha quando è la viscontessa a interrompere Derville per giustificare in parte le colpe della contessa di Restaud scaricando la responsabilità su Maxime (Pl. II, p. 647). Ancora una volta al livello di narrazione 1) risultano tutelati i valori della moralità, del sentimento ecc. Solo che Maxime è socialmente meno lontano e inconcepibile di Gobseck per i Grandlieu; e forse per questo basta al narratore, per qualificarne la singolarità riprovevole, mobilitare ripetutamente le più schematiche risorse del paradosso e dell’ossimoro, anziché quelle più imprevedibili e più suggestive della comparazione e della metafora. [...].

  Mi sembra di poter concludere che i vistosi fenomeni formali della triplicazione di «voce» e di livelli narrativi in Gobseck, come quello minore della prolessi anticipatrice delle informazioni che collegano i diversi livelli, abbiano una funzione inscindibile dalla sostanza narrativa e ideologica del testo. E infatti tale funzione è perfettamente parallela a quella che assolvono gli elementi più importanti della sostanza narrativa — il personaggio di Gobseck, quello di Maxime, la vicenda patrimoniale e matrimoniale ecc.; da entrambe sono mediati gli elementi più importanti della sostanza ideologica — la proclamazione e la dimostrazione dell’onnipotenza del capitale. Considerando quei fenomeni formali nel loro rapporto con questo compromettente contenuto, potremmo parlare di figure di stornamento: esse dovrebbero stornare l’attenzione di chi riveste la funzione di lettore verso quei valori ideologici di copertura, verso quel conformismo sociale e morale che hanno pure una indubbia presenza nel testo ma di cui è appunto problematica la convivenza con le verità più audaci. Il «trionfo del realismo» in Balzac, se lo estendiamo come si suole dal senso più limitato che la formula famosa ha nel testo di Engels al fenomeno globale dell’affiorare nella Comédie humaine di verità demistificatrici, deve essere inteso necessariamente come un loro affiorare malgrado le verità conformistiche di copertura, frutto delle opinioni ostentate da Honoré de Balzac come individuo. Mi piacerebbe aver contribuito a dimostrare che a questo momento del malgrado corrisponde una precisa articolazione di forme e contenuti narrativi, suscettibile di analisi strettamente letteraria (come probabilmente accade almeno in qualche altro testo di Balzac, e si può suggerire l’ipotesi che figure di stornamento analoghe siano ad esempio gli spostamenti di «voce» ne La Maison Nucingen, gli sfasamenti di informazione narrativa in Sarrasine). Le figure di stornamento in questione potrebbero venire ricondotte a quella logica della «negazione freudiana» che è stata messa a profitto come strumento di analisi letteraria in due saggi recenti di Francesco Orlando[8]. Certo, rispetto alla «negazione freudiana» in senso stretto, quale è stata rintracciata da Orlando nella dialettica di repressione e represso in un testo come la Phèdre di Racine, ci troveremmo nel caso del Gobseck di fronte a una situazione in cui i contenuti non conformi all’ordine costituito, – qui verità sociali demistificatrici, e non desiderio erotico individuale, — emergono assai più apertamente e liberamente. Secondo la tipologia proposta da Orlando, saremmo passati da un caso di «ritorno del represso» letterario «conscio ma non accettato» a uno «accettato ma non propugnato». Balzac può ben spostare su un personaggio come Gobseck quella apologia dell’oro che è di fatto una denuncia; può ben trasferire a un livello narrativo che non è quello primo e ufficiale una vicenda in cui gli interessi finanziari pervertono i rapporti familiari fino all’assedio intorno a un’agonia [...] e al maltrattamento d’un cadavere [...]: la distanza che così prende da simili affermazioni e da simili comportamenti non impedisce che essi debbano apparire caratteristici della nuova realtà sociale, necessari, mostruosamente normali. Nello stesso tempo egli resta lontano dalla possibilità di tradurre questa denuncia in una qualsiasi alternativa ideologica anticapitalistica e antiborghese; non ha nulla da propugnare contro il mondo in cui a suo modo grandeggia Gobseck, può solo accettare di metterne a nudo tutte le contraddizioni e tutte le atrocità. La trasparenza del velo che le figure di stornamento creano intorno a questi scandalosi contenuti serve quasi soltanto, al di là della parentela superficiale del Gobseck col genere del roman pour jeunes filles, a farli sprigionare più liberamente. L’intima contraddittorietà dell’atteggiamento che verso la sua classe ebbe Balzac (per il quale, come dice uno dei suoi critici più recenti [Pierre Barbéris], «la bourgeoisie était à la fois élan et retenue, révolution et réaction, promesse de plus de vie et blocage de la vie»), si esprime soprattutto nelle contraddizioni aperte da quella pluralità di piani che, a partire dal livello dei fenomeni formali, ho cercato di interpretare.

 

 

  Natalia Ginzburg, Omero, il Vangelo, Cechov e Balzac non fanno per i giovani, «Corriere della Sera», Milano, Anno 100, N. 288, 11 dicembre 1975, pp. 1-2.

 

  Einaudi ha pubblicato ora una collana per i giovani, anzi una «biblioteca per i giovani», così l’ha chiamata; è bella; è bellissima, ho pensato quando l’ho vista; e sul primo momento non sentivo che ammirazione. Sono cinquanta titoli, cinquanta nomi scelti in tutto il mondo e nei secoli; e dopo questi nomi la collana e chiusa, non se ne riparla più. Una idea ambiziosa. Ne sono usciti giù dieci volumi; sono belli a vedersi, e costano anche poco; e non c’è dubbio che i libri lui li sa fare; sono piacevoli dà maneggiare, da sfogliare, da sparpagliare sul tavolo tutti insieme. [...].

  Non ci sono né Balzac, né Un cuore semplice di Flaubert. Non c’è Cristo si è fermato ad Eboli.

  Infine, non c’è Cechov. [...].

  Così, riflettendo un poco, questa collana mi è sembrata deficitaria; e mi è sembrato che ne venisse fuori una visione del mondo misera, deformata e riduttiva. [...].

 

 

  Pier Massimo Prosio, Balzac a Torino, in AA.VV., Civiltà, del Piemonte. Studi in onore di Renzo Gandolfo per il suo settantacinquesimo compleanno, a cura di Gian Renzo P. Clivio e Riccardo Massano, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1975, Tomo I, pp. 301-312.

 

  Al numero 99 di Piazza Castello, quasi all’angolo con Via Roma, tra l’elegante bar e i negozi lussuosi, c’è, un po’ appartata in una sua ottocentesca dignità, la Pensione Europa. Nel secolo scorso la pensione (allora l’insegna era quella più altisonante di Hotel Europa) figurava tra le più eleganti della città, frequentata da ospiti di riguardo (vi passarono — tanto per fare due nomi emblematici — Garibaldi e Dumas père). Tra questi, anzi in primis, anche Honoré de Balzac, che qui prese alloggio quando soggiornò a Torino dal 31 luglio al 12 agosto del 1836. Non solo per la notorietà e la bella posizione (pranzando sulla veranda della camera in compagnia di Mme Marbouty egli poteva abbracciare con lo sguardo una delle più belle vedute della vecchia Torino) Balzac scelse l’Hotel Europa; ma, se dobbiamo credere alle sue parole, anche per un motivo sentimentale: perché in quello stesso albergo si era fermata anni prima una persona carissima allo scrittore, Mme Hanska.

  Il «balzachiano» che cerchi altri edifici come tappe del passaggio dello scrittore francese a Torino e nei dintorni, deve spingersi un po’ fuori di città, fino a Rivalta. Qui, nel cortile del vecchio castello, troverà una lapide (posta il 1° maggio 1965 dall’«Associazione universitaria italo-francese») che rammenta come il 10 agosto 1836 Balzac vi scrisse, in omaggio alla proprietaria contessa Polissena di Benevello, Le cheval de Saint Martin, un breve racconto in francese antico poi inserito nei Contes drolatiques.

  Il giorno 10 di quell’agosto torinese, infatti, Balzac, insieme con l’inseparabile «Marcel», in una allegra compagnia di cui facevano parte, tra gli altri, il marchese Felice Carrone di San Tommaso, famoso oltre che per la nobiltà del suo casato per le avventure galanti, e il colto e amabile abate Gazzera (personaggi tutti di cui si parlerà in seguito), fece una scampagnata fino al vicino paese di Rivalta, dove era ad attenderlo per onorarlo la contessa Polissena di Benevello, moglie del proprietario del castello.

  Qui sorgeva assai anticamente una rude fortezza, che divenne la residenza di coloro che furono per secoli i signori di Rivalta, gli Orsini di Orbassano, una branca della celebre famiglia romana. L’ultimo Orsini proprietario del castello fu il conte Gioachino che lo vendette nel 1823 al conte Cesare di Benevello, il quale lo fece ammodernare e restaurare. La contessa poteva perciò ricevervi degnamente ospiti, anche illustri. Chi procurò l’invito a Balzac fu sicuramente il marchese di San Tommaso, il quale, cugino della contessa di Benevello, ne era diventato probabilmente l’amante.

  Questa visita al castello di Rivalta è da ricordare, tra l’altro, perché è stata occasione, come si è già accennato, al Cheval de Saint Martin, l’unico scritto (a parte le poche lettere, naturalmente) composto dall’autore della Comédie humaine durante il suo soggiorno subalpino. L’argomento del racconto è con tutta evidenza collegato al castello di Rivalta. Nel cortile, infatti, è posto un tondo in terracotta con un San Martino raffigurato secondo i tratti dell’agiografia; e mi pare probabile che l’operetta venisse in mente a Balzac osservando il bassorilievo, o che la contessa stessa, illustrandogliene il significato e il collegamento con la storia del castello, gli proponesse o gli suggerisse comunque l’idea di prenderne lo spunto per un racconto.

  Meno di due settimane si fermò il grande romanziere nella capitale subalpina. Ma quali settimane, di una intensità davvero «balzachiana»! Se solo si pensa alle persone incontrate, conosciute, e con le quali si legò d’amicizia, agli impegni mondani, e al tempo che pur dedicò ad espletare il mandato per cui «ufficialmente» era venuto in Italia, si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad uno di quei carnets di capi di stato in visita ufficiale che non registrano in una giornata mezz’ora di requie.

  Sarà per questo accavallarsi di impegni mondani e «professionali» tanto fitti da non permettergli di vedere e conoscere appieno la città, sarà per una spirituale estraneità, certo è che Torino, con i suoi dintorni (Balzac fu a Rivalta, a Superga, probabilmente a Rivoli), restò, tra le grandi città italiane visitate, quella che gli rimase meno impressa, ed essa non appare, se non in modo insignificante ed anodino, nelle sue opere. Io penso che la città piemontese, con la simmetrica regolarità delle sue vie e delle sue piazze, con quella fisionomia di città tra nordica e mediterranea, inconfondibile ma che richiede forse per essere scoperta e gustata una disposizione d’animo riposata e un po’ contemplativa, è quanto di meno balzachiano si possa immaginare; e non stupisce che a quel temperamento estroverso e imprevisto, a quell’amante dell’Italia rinascimentale, Torino abbia detto poco.

  Il conte Sclopis, uno dei più influenti amici torinesi di Balzac, in una lettera allo scrittore nell’ottobre del 1836, in cui gli attestava di attenderlo ancora in Piemonte, aggiungeva che la regione che aveva visto, il Piemonte appunto, doveva considerarsi non solo come una parte assai limitata dell’Italia, ma in un certo senso anche troppo diversa per potere essere presa a campione del resto della Penisola [...].

  Fu proprio lo Sclopis il primo, a Torino, ad essere informato dell’arrivo in città del grande scrittore, e quindi il primo a riceverlo, grazie ad una lettera di raccomandazione che il barone Nasi, dell’ambasciata sarda a Parigi, gli aveva scritto avvisandolo della venuta di Balzac e del motivo del suo viaggio. Che l’arrivo poi del francese — vogliamo dire, dello scrittore — a Torino non fosse notizia di dominio pubblico, ce lo prova la «Gazzetta Piemontese» del 2 agosto la quale, sotto la voce Stranieri giunti in Torino li 30 e 31 luglio, porta, tra gli altri, il nome: «De Balzac, possidente di Toen» (evidentemente refuso di lettura o di trascrizione per Tour [sic]). Tale indicazione burocratica indica chiaramente come il redattore del giornale non si accorse che quelle generalità designavano il famoso autore; i nomi degli stranieri arrivati in città, nomi che giungevano alla redazione dalla Polizia, furono come ogni giorno trascritti senza riconoscere tra di essi l’identità del noto romanziere.

  Bastarono pochi giorni però perché tutta la Torino che contava sul piano culturale, politico e mondano sapesse che Balzac era giunto in città (sarebbe stato impossibile, per più ragioni, che la notizia non si propagasse rapidamente nella tranquilla capitale di Carlo Alberto). Sul «Messaggere» del 6 agosto («Giornale di scienze, lettere, arti, commercio, moda e teatri» stampato a Torino), il Brofferio, che si firmava K., ne dava ai torinesi colti la notizia ufficiale [...].

  Non era quello di Balzac un viaggio di piacere, o di istruzione per conoscere l’Italia: veniva nel nostro Paese per difendere una causa di un certo Guidoboni-Visconti, suo vicino di palco agli Italiens, il quale avendo degli interessi al di qua delle Alpi, non aveva trovato di meglio che affidarne la cura e la difesa al romanziere, dandogli facoltà, in caso di mancato accomodamento, di ricorrere alle vie legali. Ora, Balzac non solo non sapeva nulla di diritto, ma era anche un pessimo amministratore, e non conosceva affatto la lingua italiana; ma a convincere il buon Guidoboni-Visconti fu certamente la di lui moglie, che era unita, a Balzac, come si dice, da un «affettuoso legame», la quale riuscì, mossa non si sa bene da quali ragioni, ad affidargli la procura dell’affare.

  Comunque, il Balzac prese assai sul serio questo suo mandato: durante il breve soggiorno a Torino fece addirittura un viaggio a Tortona, dove si trovavano alcune proprietà dei Guidoboni-Visconti, per curare più direttamente la questione. Appena arrivato a Torino, si rivolse, probabilmente dietro consiglio dello stesso Sclopis, a uno degli avvocati più famosi, Luigi Colla, tanto famoso che lo scrittore francese poteva, una volta ritornato a Parigi, indirizzargli le lettere così: Monsieur Colla - avocat - Turin - Royaume de Sardaigne.

  La sollecitudine di Balzac nel seguire le vicende del processo relativo alla causa Guidoboni-Visconti, traspare dalle lettere che scambiò con il Colla e con gli altri amici torinesi. Domande di chiarimenti, sollecitazioni, informazioni, pervenivano all’avvocato da parte di Balzac, o di chi per lui. E, in una lettera dell’ottobre del 1836, il Colla spiega allo scrittore in linguaggio strettamente giuridico lo stato della questione, aggiungendo che, anche se come uomo di lettere, troverà i termini un po’ astrusi, sarà bene che si adatti e gli risponda presto, visto che ci tiene tanto alla rispettabile famiglia dei cui interessi si è presa la cura. Si direbbe che l’avvocato sia un po’ seccato delle continue insistenze di questo francese ignaro delle lungaggini della giustizia nell’Italia del 1836!

  Anche dopo il suo ritorno a Parigi, la corrispondenza con l’avvocato torinese continuò per alcuni anni sempre sull’argomento del processo Guidoboni-Visconti, che procedeva con una lentezza tale da fare irritare Balzac, il quale alla fine sbottò dicendo: «... nous nous demandons si les Italiens ne savent faire vite qu’une seule chose».

  Ma l’avvocato Colla, che nel 1836, ormai anziano, aveva lo studio insieme al figlio Arnoldo, era noto, più che per la sua professione, per un’altra attività, alla quale si dedicava con tutta l’anima: era un appassionato, competentissimo botanico. Non un dilettante, ma un vero studioso, autore di importanti pubblicazioni.

  Inoltre aveva a Rivoli, sulla sinistra dello stradone per la vai di Susa venendo da Torino, una villa ove coltivava, in serre e giardini, piante rare, esotiche, preziose, sì da farne un piccolo, ma nello stesso tempo assai ricco, museo vivente di storia naturale, che descrisse e scientificamente catalogò in una sua opera, l’Hortus Ripulensis. [...].

  È probabile che Balzac vedesse questo famoso giardino, data la vicinanza di Rivoli e i frequenti contatti con il Colla, e anche se non c’è una precisa testimonianza in questo senso, direi che l’accenno che lo scrittore fa, in una lettera all’avvocato, alle sue «belles serres», sembra essere ricordo di una sua visita personale.

  Il Colla è, salvo errore, l’unica delle conoscenze torinesi di Balzac che appaia nominata, anche se solo incidentalmente, nella Comédie Humaine (Modeste Mignon). Ma, come è stato notato dal De Cesare [Balzac nell’agosto 1836], un evidente ricordo dell’avvocato torinese si ha in un personaggio del romanzo Le cabinet des antiques, il giudice Blondet, l’uomo di legge che, fuori del tribunale, dimenticava i codici per dedicarsi alla sua grande passione, la botanica: «... il ne connaissait que le Droit et la Botanique ...».

  Ho accennato all’impossibilità per i torinesi di non accorgersi della presenza di Balzac: non solo per la fama che aleggiava intorno alla persona, fama che prima o poi doveva rivelarlo, ma soprattutto per le circostanze in cui egli giunse a Torino, circostanze, per così dire, un po’ romanzesche (ma, a onore del vero, adatte, più che a un romanzo dello stesso Balzac, a uno di Dumas père).

  Balzac arrivò in compagnia di una donna, Madame Marbouty. Questa signora, scrittrice assai mediocre, ci ha lasciato alcune interessanti testimonianze del suo soggiorno torinese trascorso in compagnia di Balzac: una lettera alla madre scritta il 2 agosto del 1836 e, molti anni più tardi, un Récit de voyage, il quale però, sia per il lungo tempo trascorso, sia per il carattere vanitoso ed egocentrico dell’autrice, è pochissimo attendibile.

  Balzac conosceva da tempo a Parigi Mme Marbouty, e colse l’occasione del viaggio in Italia per chiederle di accompagnarlo. La Marbouty si lasciò convincere senza molte difficoltà; ma, per evitare i pettegolezzi a Parigi e a Torino («vedi giudicio uman come spesso erra!»), convennero che la donna avrebbe accompagnato lo scrittore travestita da uomo e facendosi passare per il suo segretario (probabilmente l’idea fu di Balzac, che riteneva a non fare conoscere alle sue liaisons parigine questa nuova avventura). Così, grazie alla brillante trovata, Balzac si presentò a Torino accompagnato da «Marcel», suo giovane segretario.

  Naturalmente, la cosa suscitò immediatamente la curiosità generale, e, passati alcuni giorni, l’argomento principale delle conversazioni nei salotti torinesi era non tanto e non solo Balzac, ma la sua misteriosa amica in vesti maschili. Tanto più che il romanziere non prese alcun accorgimento perché «Marcel» se ne stesse appartato e non desse nell’occhio. Il giorno dopo il suo arrivo va a teatro in compagnia di «Marcel», al Carignano; il 2 agosto si reca al ricevimento offerto in suo onore dal marchese Sclopis nella «vigna» di Valsalice, dove sono invitati per festeggiarlo non pochi tra gli esponenti più significativi della vita culturale, oltre che mondana, di Torino: e «Marcel», alla fine della serata, va a prenderlo in carrozza. Sarebbe stato difficile per chiunque far passare una avvenente signora per un ragazzo, figuriamoci trattandosi di una persona come Balzac verso cui già si affisava l’attenzione curiosa della città.

  Ora, Balzac dovette accorgersi ben presto che i torinesi, anche se forse non smaliziati come i parigini, proprio tonti non erano; cercò quindi, per salvare la faccia, di fare marcia indietro, e di giustificare questa singolare situazione. Perché, oltre alla immaginabile curiosità che il fatto in sé doveva provocare in salotti un po’ pettegoli, l’interesse diventò più vivo quando ci si cominciò a domandare chi fosse la misteriosa signora: e fu fatto con sempre maggior insistenza il nome di George Sand. La scrittrice era nota per la sua stravaganza di personaggio d’eccezione, si sapeva che era amica di Balzac, e allora perché non poteva trattarsi di lei? Certo, l’argomento era sulla bocca di tutti. Lo Sclopis, il San Tommaso, il Brignole Sale, la Contessa di Sanseverino, nelle lettere che scrissero al Balzac o che tra di loro si scambiarono, ne parlano con avida curiosità.

  In quanto al maggior responsabile di questo pasticcio, lo stesso Balzac, dopo aver dovuto ammettere il vero sesso del suo compagno di viaggio, inventa una romanzesca storia di una donna virtuosa, intelligente, costretta a vivere in un ambiente chiuso e retrivo (del tutto diversa sembra invece che fosse la personalità intellettuale e morale della Marboury [sic]) che ha voluto rompere per una volta la sua grigia esistenza facendo un viaggio sino a Torino, e, in soprappiù, si è voluta divertire con il bizzarro travestimento.

  In merito alle voci che circolavano sull’identità di «Marcel», lo scrittore dice che «non è colei che si crede» (lettera allo Sclopis del 18 luglio), senza essere più esplicito, e, si direbbe, quasi con il desiderio di non troncare completamente tali dicerie. Conferma tale supposizione una lettera che il Boucheron, dotto letterato torinese, scrisse allo Sclopis dopo la gita a Rivalta [...].

  Solo quando ritornerà a Parigi, Balzac negherà espressamente che «Marcel» fosse George Sand, chiudendo così con una «interpretazione» autentica, il curioso episodio (lettera al Carrone di San Tommaso del 6 novembre 1836).

  A introdurre il romanziere nella società della capitale subalpina fu il conte Federico Sclopis di Salerano, al quale non per nulla Balzac era stato indirizzato dal marchese Brignole e dal barone Nasi. Infatti, uomo più adatto per presentare e far conoscere lo scrittore francese in città, difficilmente poteva essere trovato. Non solo per le amicizie e le relazioni che gli venivano dalla sua qualità di giurista, di uomo politico, oltreché di discendente di una nobile e ricca casata; ma proprio per quel penchant — di cui parla il Nasi nella sua missiva – a frequentare e a farsi amico di uomini di lettere, che doveva essere poi una tradizione di famiglia, visto che casa Sclopis, sotto la direzione della madre di Federico, Gabriella, fu per lunghi anni luogo di incontro e di ritrovo di letterati e scienziati torinesi. Il conte Federico stesso (al quale, come all’altro amico caro di Torino, l’abate Gazzera, Balzac mandò in dono dei suoi libri, Le médecin de campagne (due volumi) e Le livre mistyque (sic), con dediche affettuose e riconoscenti), era uomo di vasta erudizione storica e giuridica, autore di numerose pubblicazioni, che aveva dato la miglior prova di sé nella famosa Storia dell’antica legislazione in Piemonte.

  Non è certo il caso qui di insistere sulla figura di Federico Sclopis, che fu un personaggio assai importante nella vita torinese della prima metà del secolo scorso, come studioso e come uomo pubblico: ma basti questo cenno per rendersi conto come grazie a lui Balzac abbia in quei pochi giorni potuto incontrare e conoscere buona parte dell’élite intellettuale della città.

  E, insieme allo Sclopis, bisogna ricordare per quest’opera di «introduzione» nella società subalpina, anche il marchese Felice Carrone di San Tommaso; come lo Sclopis fu il tramite tra Balzac e la cultura torinese, così il San Tommaso, giovane (nel 1836 aveva ventisei anni), intelligente, di ricca e nobile famiglia, e assiduo frequentatore di salotti, fece conoscere lo scrittore francese alla Torino nobile e mondana.

  E ancora, per completare il terzetto di torinesi che furono in quei giorni più vicini a Balzac, ricorderò l’abate Costanzo Gazzera: testimonianza di questa amicizia sono i due tomi del Livre mistyque che il francese gli inviò in omaggio (anch’essi si trovano oggi all’Accademia delle Scienze di Torino). Costanzo Gazzera conobbe lo scrittore francese al ricevimento che lo Sclopis aveva organizzato in Val Salice; ma, a differenza degli altri eruditi incontrati quel giorno (Paravia, Boucheron), che non risulta abbiano avuti ulteriori contatti con Balzac, l’abate si legò con lui di reciproca simpatia. Anch’egli fece parte della lieta comitiva che andò a Rivalta, e, pur se non si hanno lettere del romanziere al Gazzera, numerosi sono i riferimenti all’abate nella corrispondenza di Balzac con i suoi amici torinesi. In una lettera al San Tommaso il francese chiede che l’Abate Gazzera (che era un eruditissimo bibliografo autore di disparate pubblicazioni: lasciò quando morì la sua splendida biblioteca all’Accademia delle Scienze di cui fu per molti anni membro e segretario) gli procuri e mandi un opuscolo sul processo e la morte di Beatrice Cenci («J’en ai le plus excessif besoin», dice nella lettera) opuscolo che doveva forse servirgli per un libro che però non fu mai scritto: in cambio promette all’abate un manoscritto, o, se preferisce, qualche autografo degli uomini importanti di Francia.

  Il contatto con la società torinese avvenne presto per Balzac, perché appena due giorni dopo il suo arrivo, il 2 agosto, il conte Sclopis indice in suo onore un ricevimento nella «vigna» che aveva sulla collina, in Val Salice (più precisamente la «vigna» dello Sclopis sorgeva lungo l’attuale Strada del Morozzo, probabilmente dove, dopo una cancellata che porta il numero 4, c’è oggi un ampio frutteto con alcune ville moderne) al quale sono invitati, tra gli altri, un insigne latinista, Carlo Boucheron, e Alessandro Paravia, professore di eloquenza italiana all’Università.

  Lo Sclopis, invitandoli, aveva accennato all’ospite di riguardo, che costituiva un po’ l’attrattiva della serata. Infatti, scrivendo alla sorella, dice il Paravia: «C’è qui il famoso Balzac, uno dei primi scrittori della Francia; non so se stasera lo vedrò». E il Boucheron nella replica all’invito dello Sclopis: «Je ne connais point les écrits de votre parisien que je ne lirai peut-être jamais. Mais les entretiens d’un esprit cultivé sont toujours pleins d’intérêt. Vous nous donnerez l’impulsion, e (sic) moi, je la suivrai ...».

  A parte la nota indifferente del Paravia e quella un po’ distaccata, per non dire sostenuta, del Boucheron, non ho trovato altre testimonianze tra i letterati torinesi (escluse le notizie apparse sui giornali) della presenza di Balzac in città. Nella sonnacchiosa Torino carlalbertina, così poco sensibile, così restia ad accogliere le novità che fermentavano e fiorivano nell’Europa romantica, in particolare nella vicina Francia, la visita del grande romanziere ebbe, dal punto di vista culturale, scarsa risonanza.

  «Il sig. De Balzac è partito da Torino nel 12 del corrente alla volta di Parigi». Con questo laconico annuncio il «Messaggere» del 20 agosto 1836, che quindici giorni prima ne aveva reso noto l’arrivo, comunicò la partenza del grande scrittore da Torino (insieme a «Marcel», naturalmente).

  Ma Balzac da Torino non si diresse a Parigi, bensì verso la Svizzera. Ritornato nella capitale francese, in una lettera allo Sclopis del settembre non potrà fare a meno di paragonare con rimpianto la sua vita attuale tutta dedita ad un massacrante lavoro, e i giorni di vacanza trascorsi: «Ce contraste de ma vie studieuse et de 26 jours de dissipation que je me suis donnés me fait un singulier effet, il y a des heures où je crois avoir rêvé. Je me demande si Turin existe, puis en pensant à votre gracieux accueil, je m’aperçois que ce n’est pas un songe».

 

 

  Nino Romeo, Le donne e i borghesi di Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno LII, N. 96, 10 aprile 1975, p. 8.

 

  Percorsi da una rara tensione ideologica i saggi di Vito Carofiglio apportano un serio contributo al dibattito sul realismo del creatore della «Comédie humaine».

 

  La grande costruzione romanzesca di Balzac mal sopporta un’attenzione solo ed esclusivamente circoscritta attorno ai temi, sicuri, di una sua ormai definita, pur se legittima, classicità. Il creatore della Comédie Humaine, per le sue qualità di «veggente», ossia nella veste di attento scopritore di ciò che può esserci dietro la «superficie», ha lasciato uno spaccato di società sulla quale ogni discussione, riteniamo, non potrà essere mai superflua. Diremmo di più. Al di là delle più o meno brillanti causeries che critici e scrittori hanno profuso nel tempo, resta pur sempre un dibattito critico che, negli ultimi anni, specialmente per alcuni notevoli contributi di studiosi marxisti, ha segnato una ripresa di grande interesse degli studi balzacchiani. Basterebbe ricordare, fra gli specialisti, studiosi come André Wurmser (autore di La Comédie inhumaine) e Pierre Barbéris (la cui monografia Le Monde, de Balzac ha avuto il «Prix de la Critique»).

  Ora questa recentissima raccolta di saggi sull’opera balzacchiana di Vito Carofiglio, oltre a collocarsi con autorevolezza in questo filone di studi, arricchisce il dibattito in corso e vi apporta una rara tensione ideologica, altrove introvabile, specie nelle rinsecchite aiole di certa critica accademica, soddisfatta tenutaria di idealistiche «certezze».

  Il volume raccoglie quattro saggi, uniti da un unico interesse di fondo e che è rivolto, pur nella varietà dei temi studiati, a quel nodo di problemi relativi al periodo storico della Restaurazione e di Luigi Filippo. Precisamente, il Carofiglio esamina: il «caso Balzac» o, per meglio dire, la sua nozione di realismo e le questioni estetiche che vi sono implicite; ovvero, con pertinenti riferimenti filologici e storici, le «varianti» del romanzo Les Chouans; e, ancora, le relazioni fra Rivoluzione industriale, commercio e potere della parola; conclude questa serie di saggi un denso studio sulla donna come valore economico.

  Il Carofiglio, innanzitutto, ha inteso sottrarre Balzac a quelle sue contraddizioni che gli furano rimproverate da vivo. «Attribuire a Balzac — egli scrive — le contraddizioni che presenta la sua opera è ingenuo e sbagliato, anche quando permette di capire la ricchezza e complessità delle sue rappresentazioni secondariamente».

  Una decina di anni fa, uno studioso marxista, Rocco Musolino, in un saggio giustamente importante, dove egli individuava fra l’altro taluni residui romantici nella critica di Lukacs, aveva magistralmente corretto l’asserzione di Engels sul realismo balzacchiano (che può manifestarsi anche a dispetto delle idee dell’autore ») obiettando che «i rilievi engelsiani su Balzac non denotano, propriamente, una pura e semplice contraddizione delle vedute ideologiche dello scrittore»; ma, piuttosto sono conseguenza di «un atteggiamento intellettuale complesso, che risulta, anzi, legato a radicate e intransigenti convinzioni reazionarie» (Cfr. Marxismo ed estetica in Italia, Editori Riuniti)[9].

  Insomma, è proprio il suo profondo sentimento di un ideale monarchico-assolutistico che, da un lato, fu rimpiangere a Balzac la «trascorsa magnificenza aristocratica» (ivi), ma, conseguentemente, per contrasto, gli consente pure di ammirare «gli eroi repubblicani del Cloître Saint Méry», i legittimi rappresentanti, cioè, della nuova classe in ascesa — anche se, è chiaro, il «sentimento» rimane pur sempre legato alla vieille politesse. Ed è questa sua fedeltà delusa di legittimista che gli consente una satira così efficace della nobiltà vista nei suoi concreti rapporti economici, quindi politicamente connotati.

  Piuttosto contraddittoria appare nell’opera balzacchiana, secondo il Carofiglio, la rappresentazione della borghesia. Il pensiero di Balzac, egli osserva, risulta perciò «oscillante fra l’ideale neofeudale di Proprietà e l’ideale di accentramento e coordinamento dei diversi interessi capitalistici nelle mani dello Stato».

  Rispetto a tre scrittori contemporanei, «democratici», come Sue, Hugo, e la Sand, Balzac offre un’articolazione di fatti e di quadri dell’epoca più ricca e completa. Ma, si capisce, adoperava altri strumenti conoscitivi. E quali fossero questi strumenti lo si può desumere da una puntuale analisi delle «varianti» degli Chouans che il Carofiglio effettua sulla scorta delle varie «lezioni» critiche esistenti.

  Ma lo «studio» che meglio caratterizza questa complessa ricerca critica è quello che tratta della donna come valore economico nell’opera balzacchiana, che dà corpo all’analisi dei temi più significativi del «mondo» della Comédie. E qui si può notare che è stata ben recepita, senza schematismi, sia la lezione engelsiana dell’Origine della famiglia, come pure le precise indicazioni marxiane contenute nel Manifesto. Nella lettura critica di alcune significative opere di Balzac. il Carofiglio prende in esame la funzione della donna nelle sfere del matrimonio e della prostituzione, quale essa era nella società francese della prima metà del diciannovesimo secolo.

  Secondo l’autore, e giustamente, «la rivoluzione industriale e quelle borghesi, in Francia come altrove, hanno fatto apparire in tutta la sua retorica falsità il ruolo assicurato dall’immaginazione artistica alla donna sia nella protostoria del capitalismo che nella fase della sua espansione ed egemonia». E proprio Balzac si impegnò a individuare, nei modi della sua rappresentazione artistica, le possibili relazioni fra Amore e Denaro — prima fra tutte il matrimonio come «contratto» — in una fase di forte esplosione economica favorita dalla ben nota esortazione («arricchitevi») di Luigi Filippo.

  In Appendice a questa raccolta di saggi, troviamo una analisi stilistica degli articoli apparsi su Le Cri du Peuple di Jules Vallès.

 

 

  Franco Scaglia, La prosa alla radio. Una commedia in trenta minuti. “Mercadet l’affarista”, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno LII, n. 51, 14-20 dicembre 1975, p. 98.

 

  I primi lavori teatrali di Honoré de Balzac ottennero scarso successo. Nel 1842 fa rappresentare all’Odeon la commedia Les Ressources de Quinola con commenti molto sfavorevoli da parte di pubblico e critica. L’anno dopo viene dato al Gaité Pamela Giraud, storia di una fanciulla che salva il suo seduttore testimoniando in suo favore in un processo politico: il lavoro meglio costruito dei precedenti non ebbe però miglior sorte. Il primo vero successo sulla scena Balzac lo ottiene con La Marâtre. E’ il lavoro in cui Balzac si discosta dai moduli tradizionali e che partendo dalla descrizione di una famiglia in apparenza onesta e serena rivela uno di quei quadri di aspra verità che l’autore ha saputo così magistralmente dipingere nei suoi romanzi scavando nel vivo dei personaggi, dipingendo intime brutture con violenza estrema. Probabilmente a La Marâtre Balzac si riferiva nella sua conversazione con Hetzel del 30 maggio 1847 riportata da Got: «Nella casa di Orgon la vita diverrà impossibile dopo la cacciata di Tartufe poiché l’ipocrisia è il vero legame sociale. Ho cercato di dimostrarlo in una suite. Ah che forza la scena! E che sintesi a colpi di pugno!».

  Successo scenico maggiore ebbe Mercadet, originariamente scritto da Balzac in cinque atti con il titolo Le Faiseur e rappresentato postumo al Gymnase il 24 agosto 1851 in una riduzione in tre atti fattane da Dennery. La commedia che pone in scena il mondo losco e variopinto degli affaristi nonostante qualche difetto di costruzione, si può considerare un capolavoro del teatro realistico, solidamente appoggiata com’è al carattere fortemente rilevato del protagonista. Essa ha avuto notevole fortuna in Francia fino ai nostri giorni (si ricorda l’interpretazione di Dullin) e anche all'estero.



  Paola Strazzabosco, Balzac conteur fantastique. Tesi di laurea (vecchio ordinamento), Università degli studi di Padova, 1975.


 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  La cugina Betta di Honoré de Balzac. Traduzione e adattamento radiofonico di Renato Mainardi. Regia di Giacomo Colli. Personaggi e interpreti: Ettore Hulot: Franco Volpi; Il principe di Wissembourg: Alfredo Bianchini; Il maresciallo Hulot d’Ervy: Nino Pavese; Un usciere: Mario Cassigoli; Adelina: Lucia Catullo; Betta: Isabella Del Bianco; Valeria Marneffe: Gabriella Andreini; Josepha: Grazia Radicchi. Realizzazione effettuata negli Studi di Firenze della RAI, Programma nazionale, 22 settembre-10 ottobre 1975.

 

 

  Una commedia in trenta minuti. “Mercadet l’affarista” di Honoré de Balzac. Traduzione di Carlo Terron. Riduzione radiofonica di Belisario Randone. Con Mario Scaccia. Regia di Carlo Di Stefano, Programma nazionale, 19 dicembre 1975.



[1] N. Sarraute, [L’ère du supçon], p. 71 e p. 77. [N. d. A.].

[2] M. Butor, Balzac et la réalité, in Répertoire I, Parigi, Les Éditions de Minuit, 1960, p. 79. [N. d. A.].

[3] C.-E. Magny, Histoire du Roman français depuis 1918, Parigi, Éd. Du Seuil, 1950, p. 264. [N. d. A.].

[4] Cfr. M. Colesanti, Balzac e la moltiplicazione della vita [...], 1974, p. 591. [N. d. A.].

[5] Cfr. la nostra rassegna relativa all’anno 1882: Cesare Cantù, Amici e conoscenti, in Alessandro Manzoni. Reminiscenze di Cesare Cantù. Volume Secondo, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1882, pp. 94-96. [cap. X].

[6] Cfr. la nostra rassegna relativa all’anno 1885: S.[tefano] S.[tampa], Lettera VIII. – I Promessi Sposi, in Alessandro Manzoni. La sua famiglia. I suoi amici. Appunti e memorie di S. S. Col ritratto del Manzoni disegnato dal vero dall’Autore, Milano, Ulrico Hoepli Editore-Librajo, 1885.

[7] Cfr. la nostra rassegna relativa all’anno 1932 e quella relativa all’anno 1938: Bruno Brunelli, La visita di Balzac al Manzoni, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXVII, N. 52, 25 Dicembre 1932, p. 2; Milano ottocentesca nei ricordi di un artista veneto, «Ateneo Veneto. Rivista di scienze, lettere ed arti», Venezia, Anno CXXIX, Vol. 123, N. 1, Gennaio 1938, pp. 13-18.

 

[8] F. Orlando, Lettura freudiana della «Phèdre», Einaudi, Torino, 1971; Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino, 1973.

[9] 1971.



Marco Stupazzoni

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