mercoledì 2 settembre 2020



1972

 


 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, I Capolavori della “Commedia umana”. I. Papà Goriot - Il colonnello Chabert - Un tenebroso affare - Facino Cane - Sarrasine. Introduzione di Pietro Paolo Trompeo, Roma, Gherardo Casini Editore, 1972 («I Grandi Maestri», 3), pp. 480.

 

  Cfr. 1950 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, I Capolavori della “Commedia Umana”. III. Storia della grandezza e della decadenza di Cesare Birotteau - I Parenti poveri: Il cugino Pons - Il rovescio della storia contemporanea - Il curato di Tours, Roma, Gherardo Casini Editore, 1972 («I Grandi Maestri», 10), pp. 718.

 

  Cfr. 1952 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Il giglio nella valle. Traduzione di Giampaolo Tolomei, Milano, Club degli Editori, 1972 («Caleidoscopio», 64), pp. X-351.

 

  Cfr. 1951.

 

 

  Honoré de Balzac, Orsola Mirouët. Traduzione e commento a cura di Renata Pacces Bertelé, Milano, Edizioni Scolastiche Mondadori, 1972 («Narrativa Moderna», 41), pp. 302.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Renata Pacces Bertelé, Introduzione, pp. 5-10. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Vita di Honoré de Balzac, pp. 11-14;

  Orsola Mirouët, pp. 15-299.

 

  Il testo è suddiviso in ventun capitoli titolati secondo il modello dell’edizione originale (Souverain, 1842). Non è riportata la dedica a Sophie Surville.

  Il fatto che questa versione italiana di Ursule Mirouët fosse verosimilmente destinata ad un pubblico scolastico non giustifica tuttavia la frequenza di tagli e di omissioni riguardanti, fin dall’inizio del romanzo, molte parti del testo.



  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Versione integrale dal francese di Leonardo Zardi, Vicenza, Edizioni Paoline, 1972 («Il Focolare», 58), pp. 291.

 

  Struttura dell’opera:

 

  E. S., Presentazione, pp. 5-9. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Papà Goriot, pp. 11-289.

 

  Il romanzo è suddiviso in quattro capitoli secondo il modello della seconda edizione Werdet (maggio 1835). La traduzione, nel complesso corretta, si fonda sul testo dell’edizione definitiva del romanzo (Furne, 1843).

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. A cura di Giorgina Vivanti. Sesta ristampa della prima edizione, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1972 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni», 47), pp. 325.

 

  Cfr. 1934 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Sete dell’oro. I grandi avari: Gobseck, Facino Cane, M. Cornelio. Versione integrale dal francese di Giovanni Ziella, Vicenza, Edizioni Paoline, 1972 («Il focolare», 60), pp. 232.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Giovanni Ziella, Presentazione, pp. 5-9.

  Gobseck, pp. 11-105;

  Facino Cane, pp. 107-131;

  Mastro Cornelio, pp. 133-232.

 

 

  Honoré de Balzac, Le sollazzevoli storie. Traduzione di Aurelio Valesi, Milano, Club degli Editori, 1972 («I classici dell’amore»), 2 voll., pp. XX-456.

 

  Cfr. 1970.

 

 

  Honoré de Balzac, Una tenebrosa vicenda. Traduzione di Gabriella Alzati Milano, Club degli Editori, 1972 («Il laccio nero», 5), pp. 242.

 

  Cfr. 1955.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac, Honoré de, in Grande Enciclopedia. Volume III. Attr-Ber, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1972, pp. 231-232; 1 ill.


  Romanziere francese (Tours 1799-Parigi 1850). Tra i maggiori autori di tutti i tempi; per quanto letterato, con qualche cognizione di diritto per studi cominciati nel 1816, si diede ad ardite e infruttuose imprese commerciali e industriali: l’editoria, l’arte tipografica e perfino la fusione dei caratteri di stampa; in Sardegna cercò, per riattivarle, le miniere d’argento degli antichi e commerciò in legname di Polonia. Profuse somme enormi arredando le sue dimore con mobili d’antiquariato. Nella sua volontà di organizzare la professione di scrittore, fondò a Parigi la “Société des gens de lettres”, che esiste tuttora. Di modeste condizioni, in gioventù lavorò dapprima da un avvocato e poi da un notaio. Poté poi seguire la strada letteraria bramata come motivo di gloria. I primi lavori narrativi (a parte un fallito Cromwell in versi, 1819) furono imitazioni di poco conto da romanzi inglesi. Con pseudonimi vari firmò L’hérédité (sic) de Birague, Le vicaire des Ardennes, Argow le Pirate e altri libri, editorialmente riesumati ai tempi nostri con riproduzioni fotostatiche da amatore. Tali romanzi riecheggiano motivi romantici; nel senso più generico, alla Scott, ma anche con tendenze alla narrativa d’orrore e d’avventura. La vita di B. è tipica per i tentativi febbrili di raggiungere la ricchezza e il successo in modo rapido e decisivo: una frenetica attività di scrittore rimediò in parte a gravi disagi finanziari. Se qualche volta la fortuna arrise a un ormai leggendario lavoro, il lusso, i viaggi e le relazioni amorose dissiparono quanto era stato conquistato con abnegazione. Comunque sia, un’esperienza di vita vissuta sta alla base della straordinaria creazione romanzesca della Comédie humaine, punto d’arrivo d’una produzione dapprima priva di schemi. Con duemila personaggi il mondo artistico di B. (che voleva «far concorrenza allo Stato Civile» dando alle proprie creature una vita altrettanto reale di quella concessa da Dio agli uomini) fu popolato di motivi che avevano avuto origine dalla complessa esistenza delle passioni umane. Tra i documenti significativi della sua vita è la conoscenza di Madame de Bernis (sic), la «Dilecta» che amò e protesse (e anche aiutò finanziariamente in alcune imprese) il più giovane B.: essa morì nel 1836, quando già lo scrittore aveva conosciuto la contessa polacca Hanska, l’«Étrangère», che nel 1832 gli aveva scritto un’anonima lettera di ammirazione per i primi grandi romanzi che gli avevano dato il successo. B. si legò poi per tutta la vita alla bella polacca (che, divenuta vedova, infine sposerà) e non seppe mai, né la contessa glielo rivelò, che quell’amore era nato per un gioco da salotto. Nel 1836 B. fece un viaggio in Italia e fondò la rivista Chronique de Paris. Un altro periodico, la Revue parisienne, è oggi citato per un suo ampio saggio elogiativo (1840), sulla Chartreuse de Parme di Stendhal. La vita del romanziere è tutta trasfusa nella sua opera di creatore. Egli brama rendere nella sua pienezza la vita a lui contemporanea, in particolare dalla rivoluzione di luglio alla metà del secolo, tanto da far esclamare a Flaubert: «Nessuno potrà scrivere la storia del regno di Luigi Filippo senza consultare B.». Dapprima liberale e sansimoniano, si trasformò in legittimista con rivendicazioni e recriminazioni indubbiamente reazionarie. Ma la sua visione d’una società in trasformazione fu tanto acuta da comprendere e giudicare i segreti momenti d’una lunga crisi che altri autori (p. es. Stendhal), analizzarono nella trasformazione delle classi, soprattutto a opera del napoleonismo e del suo influsso sulla vita moderna. L’amore della vita si palesa nella pittura dei caratteri (spesso eccezionali, anzi abnormi, come fu detto, sia nel male, sia nel bene) e agisce nel groviglio delle situazioni, dove elementi realistici e motivi esoterici si mescolano, talora, con la tendenza al grandioso e all’assurdo. Alla fine del 1841 ebbe l’idea di fissare un legame fra i suoi differenti romanzi in modo da stendere un quadro completo della società contemporanea nei suoi molteplici aspetti. A Roma, a palazzo Farnese, dalla voce del dantista Michelangelo Caetani (cui dedicherà nel 1846 La cousine Bette con gratitudine) sentì il valore della Divina Commedia dell’Alighieri nel suo passaggio dall’inferno al purgatorio e al paradiso. Con la viva e appassionata materia del suo mondo romanzesco B. diede, nella Comédie humaine, la prova della sua maturità di artista e, insieme, una testimonianza di uomo moderno. Egli intendeva intraprendere la «storia di tutta la società» e aggiungeva scrivendo a Hippolyte Castille nel 1846: «Ho sovente espresso il mio piano in questa sola frase: una generazione è un dramma di quattro o cinquemila personaggi di rilievo. Questo dramma è il mio libro». L’opera di B. rivaleggia con quella di Dante per la varietà dei caratteri e la complessità delle situazioni unicamente “terrene”: dalla banca al bagno penale, dagli affari senza scrupoli al successo di società. Le tendenze letterarie, manifestate anche in opere teatrali, fra cui Mercadet, le faiseur (Mercadet, l’affarista) e i Contes drolatiques (Sollazzevoli storie) dall’impasto linguistico cinquecentesco, si manifestano appieno nella visione del romanzo ciclico. Nelle varie suddivisioni spiccano alcuni capolavori: Gobseck (1830) in Scènes de la vie privée; Eugénie Grandet (1833) in Scènes de la vie de province; Le père Goriot (1834; Papà Goriot), Les illusions perdues (sic) (1837-39), La cousine Bette (1846; La cugina Betta), Le cousin Pons (1847) in Scènes de la vie parisienne; Une ténébreuse affaire (1841) in Scènes de la vie politique; Les Chouans (1829) in Scènes de la vie militaire; Le médecin de campagne (1833) in Scènes de la vie de campagne; La peau de chagrin (1831; La pelle di zigrino), La recherche de l’absolu (1834; La ricerca dell’assoluto) in Études philosophiques; La physiologie du mariage (1830; La fisiologia del matrimonio) in Études analytiques. La maggioranza dei romanzieri e dei critici valutano in B. il tentativo di comprendere in una narrazione tutti gli atteggiamenti in fieri della società, anche quelli inconsciamente rivoluzionari. Se pur si insiste sui difetti d’immaginazione soggettiva, si elogiano l’osservatore della vita e lo storico delle trasformazioni sociali che hanno fatto di B. certamente uno dei massimi scrittori del realismo, unicamente comparabile a Dostoevskij, col quale a giusta ragione condivide il titolo di “grande creatore di anime”; varrà qui ricordare, a questo proposito, sia pur con un solo accenno, che il dostoevskijano Raskolnikov ha nelle vene il sangue del balzachiano Rastignac.

 

 

  Il Colonnello Chabert, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno, XLIX, n. 46, 12-18 novembre 1972, p. 85.

 

  Vent’anni dopo la battaglia di Eylen (sic), durante la quale si credeva fosse morto l’ex colonnello napoleonico Chabert, questi ritorna a Parigi deciso a rivendicare il suo posto nella società a fianco della moglie che, per merito suo, ha conquistato nobiltà e ricchezza. La donna, convinta della morte del marito, si è nel frattempo risposata con un alto esponente del regime legittimista. Questa prepara così un intrigo giudiziario capace di far condannare Chabert come un qualsiasi mistificatore. L’ex colonnello, disgustato dal comportamento irriconoscente della moglie e dalla corruzione della società in cui si è trovato a vivere, preferisce farsi rinchiudere in un carcere, fingendo di essere un pazzo mitomane. Il racconto delle sventure individuali viene integrato, da Honoré de Balzac, con un’acuta analisi della società.

 

 

  Sceneggiato da Balzac e un profilo di Brecht, «Corriere della Sera», Milano, Anno 97, N. 255, 16 novembre 1972, p. 12.

 

  Sul Nazionale, [...] va in onda uno sceneggiato di produzione tedesca, Il colonnello Chabert, tratto dal racconto omonimo di Balzac. Il protagonista è diventato celebre con la battaglia di Eylen (sic), per aver determinato la vittoria di Napoleone sui russi. Venti anni dopo, mentre tutti lo credono morto in guerra, Chabert torna a Parigi deciso a riprendere il suo posto in società e la vita di prima a fianco della moglie che, per merito suo, ha raggiunto fama e ricchezza. Ma la donna, convinta lei pure della morte del marito, si è nel frattempo risposata con un alto esponente del nuovo regime legittimista. Prepara così un intrigo giudiziario per far condannare l’ex-colonnello come un volgare mistificatore. Chabert, disgustato dal cinismo della moglie e dalla società corrotta che lo circonda, non trova la forza di lottare contro un destino tanto ingiusto e doloroso e preferisce farsi rinchiudere in prigione fingendosi pazzo.

 

 

  Oggi vedremo. Il colonnello Chabert, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XLIX, N. 314, 16 novembre 1972, p. 7.

 

  Va in onda questa sera uno sceneggiato televisivo francese tratto da un racconto di Honoré De Balzac. Protagonista del telefilm è il colonnello Chabert, un ufficiale napoleonico che tutti ritengono sia rimasto ucciso durante la battaglia di Eylen (sic). Costui, però, torna a Parigi dopo vent’anni, deciso a rivendicare il proprio posto nella società, a fianco della moglie, la quale, per merito suo, ha conquistato nobiltà e ricchezza.

 

 

  Il giglio nella valle, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno, XLIX, n. 52, 24-30 dicembre 1972, p. 44.

 

  Prima di due puntate, tratte dall’omonimo romanzo di Honoré de Balzac. Il giovane Félix de Vandenesse, cadetto di una nobile famiglia di Tours, si reca a Parigi ad una festa in onore di re Luigi XVIII di Borbone, tornato dopo la sconfitta di Napoleone. Timidissimo e inesperto, Felix si trova a disagio. Al suo fianco è una donna molto bella. Colpo di fulmine. Vincendo la sua emozione, il giovane bacia appassionatamente le spalle scoperte della signora, la quale sorpresa e indignata, si allontana dalla festa. Félix ha un ricordo indimenticabile della donna. Soffre a tal punto che si ammala. Viene mandato in campagna, ospite nella villa di un amico di famiglia, il signor de Chessel, nella valle dell’Indre. E’ qui che il ragazzo ritrova, vicina di casa, la bella signora di cui si era così follemente innamorato. E’ una nobildonna, madame de Morstauf, sposata a un uomo anziano, nevrastenico, e madre di due bambini di salute fragile. La signora accetta di ricevere Félix a patto che non si faccia più parola di quanto è accaduto al ballo. Ben presto, tra i due, nascono legami profondi, affinità psicologiche e sentimentali che per Felix si trasformano in un amore ancora più appassionato. La signora, però, fedele a principi di purezza e di lealtà, nei riguardi del marito, si sente di offrire al giovane soltanto un’amicizia profonda e fraterna. Alla fine dell’estate Félix si reca a Parigi e, su consiglio di Henriette, entra nella vita politica attiva. Rende preziosi servizi a Napoleone, al momento del suo breve ritorno. Ma anche quando Napoleone viene sconfitto nuovamente, si trova ad occupare un posto importante a corte. Ormai uomo, Félix torna a trovare i suoi amici di una volta. Si ammala il marito di Henriette de Morstauf e, con l’occasione, Félix trascorre due mesi di intimità dolce e pericolosa con la donna. Guarito il conte de Morstauf, il giovane riparte. L’addio fra i due innamorati è doloroso e carico di tristi presagi.

 

 

  Balzac prima parte, «Corriere della Sera», Milano, Anno 97, N. 290, 28 dicembre 1972, p. 14.

 

  Delphine Seyrig, l’attrice francese interprete del film di Alain Resnais L’anno scorso a Marienbad, è la protagonista questa sera sul Nazionale, della prima parte di Il giglio della (sic) valle uno sceneggiato in due puntate tratto dall’omonimo romanzo di Honoré de Balzac. La regia è di Marcel Cravenne. Pubblicato nel 1836 e ambientato al tempo della restaurazione, il romanzo fornisce un quadro della provincia francese dell’epoca. Il protagonista maschile è il giovane Félix de Vandenesse, che al suo ingresso nell’alta società s’innamora della contessa di Mortsauf, la quale ha dieci anni più di lui. Colta e sensibile, la contessa vive solamente per i figli, delusa da un marito che la trascura e da un matrimonio fallito A poco a poco si stabilisce tra i due un legame puro e appassionato destinato tuttavia a restare platonico. La donna infatti resterà fedele fino alla morte alle profonde convinzioni morali che le impongono di rinunciare a Félix. Le scene in esterni sono state girate nella valle dell’Indre, un affluente della Loira, negli stessi luoghi dove si svolge la vicenda del romanzo.

 

 

  Oggi vedremo. Il giglio nella valle, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XLIX, N. 354, 28 dicembre 1972, p. 9.

 

  Va in onda questa sera la prima parte di uno sceneggiato televisivo tratto dall’omonimo romanzo di Honoré De Balzac. Il giglio nella valle narra di Félix De Vandenesse, cadetto di una nobile famiglia di Tours, il quale si reca a Parigi in occasione di un ricevimento in onore di re Luigi XVIII di Borbone, tornato dopo la sconfitta di Napoleone. A corte, il giovane si sente impacciato, ma non si trattiene dal corteggiare un’affascinante signora, che, però, lo respinge, allontanandosi poi, indignata, dalla festa. Félix serba un intenso ricordo della donna, che incontrerà di nuovo poco dopo, durante un breve soggiorno in campagna, nella valle dell’Indre. Testardo, il ragazzo tenta nuovi approcci ...

 

 

  Sherwood Anderson, Storia di me e dei miei racconti, Torino, Giulio Einaudi editore, 1972.

 

 

  Roland Barthes, S/Z. Traduzione di Lidia Lonzi, Torino Giulio Einaudi editore, 1972 («La ricerca critica. Letteratura», 16), pp. 251.

 

 

  Roland Barthes, «Vouloir nous brûle ...», in Saggi critici. Traduzione di Lidia Lonzi, Torino, Giulio Einaudi editore, 1966 («Piccola Biblioteca Einaudi», 174), pp. 44-48.

 

 

  Piero Bigongiari, Balzac e l’avventura dell’essere, in La Poesia come funzione simbolica del linguaggio, Miano, Rizzoli Editore 1972 («Saggi Rizzoli»), pp. 83-87.

 

  Cfr. 1969.

 

 

  Carlo Bo, Buona sera, Flaubert, «Corriere della Sera», Milano, Anno 97, N. 258, 19 novembre 1972, p. 13.

 

  Fra i personaggi di Balzac (e questo [F. Moreau], nonostante il parere di chi ha voluto vedere nell’«Éducation» il più balzacchiano dei romanzi flaubertiani ma l’allusione toccava altre sponde) viveva il segno di Napoleone e quegli eroi — bene o male — inseguivano un sogno di gloria e di successo che in nessun modo Flaubert avrebbe voluto riscattare per i suoi «vinti». Ma non solo tale legge vale per i libri di Balzac. Sarebbe consentito sostenere che è stata attiva per tutta una letteratura, precisamente quella di derivazione romantica.

 

 

  Giuseppe Bocconetti, I cento volti di Vidocq, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno, XLIX, n. 8, 20-26 febbraio 1972, pp. 82-84.

 

  Ritorna Vidocq. L’astuto, diabolico, spregiudicato personaggio che la penna di Honoré de Balzac ha consegnato alla storia della letteratura universale. E questa volta nei panni di Claude Brasseur, figlio di quel grandissimo attore della «Comédie Française» che fu Pierre Brasseur. [...].

  La fonte dell’ispirazione, tuttavia, è sempre la stessa: Balzac.

  Chi è Vidocq? Il personaggio de La Comédie Humaine (sic) che Balzac amò di più, certamente. A Vidocq, più che ad ogni altro, andarono le sue simpatie, la sua comprensione, la sua indulgenza. E che cos’è La Comédie Humaine? Più che un romanzo, nel senso che lo intendiamo noi, è la somma di tanti romanzi legati l’uno all’altro dalla presenza di personaggi fissi e ricorrenti. «Il romanzo dei romanzi», un grandioso, suggestivo affresco della vita, i sentimenti, gli ideali e le passioni della Francia che va dal Primo Impero napoleonico alla Restaurazione e a Luigi Filippo. Novantuno romanzi, dunque, che sarebbero stati di più se Honoré de Balzac avesse potuto portarne a compimento altri, cinquanta forse, com’era nelle sue intenzioni. Eugène-François Vidocq, preso a prestito dalla realtà, nasce, dunque, in uno di questi romanzi: Papà Goriot. Si chiamava Vautrin, in un primo momento (?; sic). Legato da sincera amicizia a un giovane studente, di nome Rastignac, povero ma ambizioso, architetta un progetto per aiutarlo ad entrare nel mondo fastoso ed elegante, frivolo e gaudente, della Parigi aristocratica. Vautrin, che conosce la vita in tutti i suoi risvolti, si offre, infatti, di uccidere, nel corso di un duello «provocato», il fratello di Vittorina Taillefer, diseredata dal padre, in favore appunto del fratello. Sposando Vittorina, Rastignac avrebbe potuto realizzare tutti i suoi sogni.

 

Come Papillon.

 

  Il giovanotto rifiuta la proposta, anche se poi Vautrin la porta lo stesso a compimento. Scoperto, viene arrestato e rinchiuso in una tetra galera, da dove riuscirà, poi, ad evadere. Ben presto Rastignac si rende conto di quanta verità ci fosse nelle parole del suo «protettore» quando gli diceva che nella vita bisogna essere o pecore o lupi. Lo ritroviamo, infatti, in altri romanzi de La Comédie Humaine (Illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane, La casa di Nucingen, I segreti della principessa Cadignan) ormai ricco, influente, ministro e persino conte di Parigi. Evidentemente aveva messo a profitto la spregiudicatezza, come dire filosofica, del suo amico Vautrin. Ma Vautrin non è Vautrin. E nemmeno Jacques Colin (sic), come si chiamò dopo. E lo stesso Colin è sì un forzato, evaso da un bagno penale e con un passato tenebroso alle spalle, ma non è Colin. Il suo vero nome è Eugène-François Vidocq, venuto da chissà dove, con lo stesso passato e presente di Vautrin, la stessa esistenza tumultuosa di canaglia irriducibile e imprendibile. Pare che Vidocq sia realmente esistito, come pare che sia vera la sua storia, arricchita prima da Balzac e più tardi da Victor Hugo. Papillon del nostro tempo, insomma. E come Papillon non fu molto creduto. Disegnandone il personaggio, con forza e realismo, Balzac dette credibilità alle sue inattendibili vicende.

 

 

  Edmond Brua, Une hypothèse sur Balzac et Vico, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», II, 1972, pp. 72 77.

 

  La présente note n’est que l’aperçu très limité d’une copieuse étude sur un aspect particulier de Falthurne, le premier roman de jeunesse de Balzac (1820) […]. L’action du roman débute à Naples, au XIIème siècle. Falthurne est une jeune Grecque de taille colossale, manifestement un être androgyne (comme le sera la seconde Falthurne de 1824, première ébauche de Séraphîta) qui possède une beauté merveilleuse et des pouvoirs occultes hérités des anciens prêtres d’Isis et d’Apollon, des savants indous et des mages chaldéens. Accusée de crimes imaginaires, livrée au «catapan» de Naples pour être mise à mort, elle s’évade par des moyens surnaturels et nous n’avons idée de la suite de ses aventures que par un plan assez confus. P.-G. Castex a vu avec raison dans ce roman un message personnel du jeune Balzac. Le futur auteur de Louis Lambert et de Séraphîta était déjà hanté par les idées de génie, de connaissance, de volonté et de puissance. Et accessoirement par le thème de l’hermaphrodite.

  L’auteur supposé du récit est un abbé Savonati, philosophe et savant du XVIème siècle, qui l’a écrit dans un italien parfois obscur, tournant même au «galimatias» ou «galiSavonati», et qui a mêlé la poésie à la prose avec un lyrisme tel que «rien ne lui est comparable ni dans le Tasse ni dans l’Arioste». Ces commentaires entre guillemets sont du traducteur fictif, M. Matricante, instituteur à Claye-en-Brie, qui tient le manuscrit de son neveu, ex-soldat des armées napoléoniennes d’Italie. Les commentaires de Matricante, tantôt naïfs, tantôt plaisants, voire bouffons (ils rappellent un procédé de Walter Scott), tendent essentiellement il mettre en relief la personnalité «hors-série» de l’abbé Savonati. C’est un dithyrambe continuel: «grand génie»; écrivain dont il est souvent «impossible de rendre» les «passages sublimes», dont «on ne saurait trop admirer l’érudition»; «qui a dû lire tous les ouvrages écrits sur la médecine»; dont les oeuvres «sortent sous tous les rapports de la classe ordinaire de tous les ouvrages possibles»; «grand philosophe» qui «possède au suprême degré» l’art «de savoir apercevoir les causes des événements, et surtout d’en tirer des leçons admirables», etc., etc., en somme «un des plus brillants génies de l’Italie ». Il a toutefois «une singulière manière de narrer», mais elle est inséparable de son «originalité».

  Sur le plan des relations sociales, nous apprenons que l’abbé fréquente «la haute société et les dames de qualité» de Savone, sa ville natale, et qu’il «a un faible pour les cardinaux».

  D’autre part, c’est un «homme sans doute célèbre en son pays», mais dont le neveu de l’instituteur «n’a jamais entendu parler dans ses campagnes». Enfin, l’ex-soldat et Matricante ont découvert un manuscrit qui contient la vie de Savonati écrite par lui-même.

  Au physique, «l’abbé Savonati était laid, petit et mal portant, souffrant». Matricante ajoute: «Mais quelle âme!».

  L’importance et le relief donnés à ce portrait font naturellement penser à l’existence d’un modèle pris non pas dans la réalité contemporaine, mais dans l’histoire de la littérature. S’il fallait réduire à l’essentiel la «définition» de l’abbé Savonati, ne serait-ce pas: «génial philosophe italien, de nature maladive, d’une puissante originalité, mais difficile à comprendre, en conséquence méconnu, et même inconnu hors de sa patrie»? Dans le cours des siècles, Jean-Baptiste Vico est le seul qui réponde exactement à cette définition. Il est superflu de souligner pour les vichiens toutes les ressemblances qui viennent d’apparaître entre l’abbé Savonati et le philosophe de Naples. Je préciserai seulement quelques points:

  Vico n’était pas abbé, mais il a passé pour l’être […] et il a failli être théatin. Il a cultivé l’amitié de quelques dames de la haute société napolitaine et recherché la protection de cardinaux comme le futur Clément XII et le Cardinal Acquaviva, qualifié de «sfolgorantissimo lume» dans la dédicace de la 3ème édition de la Scienza nuova. Dans la seconde partie de Falthurne, qui devient en fait la première, à la suite des récentes recherches de René Guise, un Cardinal Huberdully est appelé avec une insistance pompeuse «la lumière de l’Eglise». Enfin, selon le commun témoignage des contemporains, Vico était petit et laid. Quant à son état maladif et souffrant pendant toute sa vie, c’est un fait douloureux bien connu. Par rapport aux termes de Matricante, ces précisions sont d’une grande importance.

  L’étude comparative du texte de Balzac et de l’oeuvre de Vico permet toute une série d’autres rapprochements, cette fois dans le domaine des idées et des formes. Mais les plus frappants se trouvent peut-être dans les Notes philosophiques et surtout dans la Dissertation sur l’homme, écrits balzaciens (sauf les titres) qui sont à peu près de la même époque et constituent en partie une glose métaphysique du roman (plus exactement, celui-ci en serait l’«illustration»). De tels rapprochements sont si nombreux et exigent une analyse si serrée, qu’il est impossible de les exposer tous, même sommairement, dans le cadre de cette Note. […].

 

 

  U. Bz., La cronaca degli spettacoli televisivi [...]. Dignitosa riduzione del “Colonnello Chabert” di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 106, Numero 255, 17 Novembre 1972, p. 9.

 

  Racconto lungo o romanzo breve. Il colonnello Chabert, scritto nel 1832, è considerato uno dei «pezzi» migliori di Balzac giovane. La storia è quella, nota, di un ufficiale napoleonico che dato per disperso in guerra torna dopo molti anni e dopo molte sventure a Parigi povero e irriconoscibile. Tutto è cambiato, la moglie si è risposata con un nobile legittimista e lo respinge malamente. Chabert, disgustato e amareggiato, non se la sente di lottare e scompare un’altra volta, affondando nella miseria e nella follia. Dietro la trama a forti tinte c’è Balzac: ossia c’è uno studio di caratteri di una forza penetrante e soprattutto c’è un ritratto acuto e spietato d’una società borghese, reazionaria e corrotta dove non può esserci posto per un ingenuo idealista.

  Abbiamo osservato ripetutamente che tutta l’enorme massa della narrativa dell’Ottocento è un’autentica pacchia per la tv che la saccheggia a piene mani tirando fuori, come da una miniera inesauribile, soggetti per telefilm. E diciamo tv in generale, non solo la nostra. Stavolta chi ha fatto un boccone di Balzac è stata la televisione tedesca.

  Meglio, Il colonnello Chabert, andarselo a leggere. Comunque c’è da dire che la riduzione di marca germanica non era spregevole: esteriore, senza dubbio, e mirante a facili effetti, ma realizzata con discreto mestiere dal regista Ludwig Cremer e interpretata con decoro. Si capisce che lo spessore psicologico e sociale del racconto risultava alquanto diminuito, ma questo lo si sapeva in partenza.



  Luigi Capuana, «I Malavoglia», in Mario Pomilio (a cura di), Da Verga a D’Annunzio, Bologna, Cappelli, 1972, pp. 82-89.

 

  Cfr. 1881.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac nell’ottobre 1836, «Contributi del Seminario di Filologia moderna. Serie francese», Volume settimo, Milano, Editrice Vita e Pensiero, 1972, Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Serie terza, Scienze filologiche e letteratura, 20, pp. 147-344.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac lecteur des «Promenades dans Rome», in AA.VV., Stendhal et Balzac. Actes du Vile Congrès international stendhalien (Tours, 26-29 septembre 1969). Textes réunis et présentés par Victor Del Litto, Aran, Éditions du Grand Chêne, 1972, pp. 53-64 ; 64-66.

 

  […]. Il est d’ailleurs assez naturel que Balzac ait entendu parler des Promenades dans Rome au moment de leur mise en vente, et même auparavant, dans les mois qui ont précédé leur parution, soit par Latouche, soit par Stendhal lui-même. […].

  Quelles que soient les circonstances qui ont amené Balzac à la connaissance des Promenades dans Rome, toujours est-il que l’auteur de la Comédie Humaine a fait, entre l’année 1830 et l’année 1842, plusieurs emprunts à cet ouvrage de Stendhal.

  La liste de ces emprunts n’est pas toujours facile à établir, car certaines résonances balzaciennes paraissant remonter aux Promenades dans Rome peuvent également appartenir à Rome, Naples et Florence, et même à De l’Amour; et il est souvent malaisé de déterminer si telle remarque sur l’amour-passion ou sur le «naturel» des Italiens, si telle anecdote italienne, si tel rapprochement entre les beaux-arts de la péninsule et la psychologie de ses habitants (si différente de celle des Français) qu’on retrouve dans la Comédie Humaine sont tirés d’un de ces trois ouvrages où Stendhal — à quelque nuance près — énonce les mêmes idées sur les caractères moraux des deux pays. Mais avec les précautions et les réserves auxquelles tout honnête chercheur doit soumettre son enquête de sources, cette liste est fixée maintenant, grosso modo, d’une façon satisfaisante ; et il suffit de l’examiner dans son ensemble pour se rendre compte qu’elle est de nature, par ses dimensions et son insistance, à ne plus révoquer en doute une influence réelle et durable des Promenades dans Rome sur Balzac. […].

  A part certaines analogies entre deux ou trois passages de la Physiologie du mariage et des Promenades dans Rome qu’on ne saurait mettre sur le compte des emprunts, vu la marge chronologique trop étroite entre la parution du pseudo-traité balzacien (décembre 1829) et celle du livre de voyage stendhalien (septembre 1829) 7, les premières résonances des Promenades dans Rome chez Balzac semblent dater de la fin de 1830. Elles ont retenti d’abord (conjointement, il est vrai, avec d’autres souvenirs d’une origine très différente) dans Sarrasine.

  Ce récit, publié dans la Revue de Paris de novembre 1830, dénonce en effet, dans le choix de quelques touches de «couleur locale», une documentation que Balzac n’a pu tirer seulement de Latouche ou de Casanova (sources principales de ce conte), mais qu’il a dû emprunter à un observateur d’une toute autre taille. Le nom du prince Agostino Chigi, banquier et mécène du XVIe siècle, de sa famille et de ses descendants: celui de Cicognara: la mention de la villa Ludovisi à Frascati ou des promenades dans les «vigne» autour de Rome et, surtout, certaines «gravures romaines» chères à Stendhal (les spectacles bruyants au théâtre de l’Argentina), ou tel détail de moeurs (les réactions psychologiques des abbés romains ; quelques traits d’énergie des cardinaux) ont tout l’air d’arriver à Balzac par l’intermédiaire des Promenades.

  A la fin de cette même année 1830, un autre petit détail folklorique qu’on lit dans le fragment La mort de ma tante paraît retrouver son origine dans une expression stendhalienne. Le décor géographique de l’épisode (inspiré d’une planche du Voyage pittoresque et description des Royaumes de Naples et de Sicile de l’abbé de Saint-Non) est placé à Naples au milieu de pittoresques personnages, prêtres, médecins, pécheurs, matelots et lazzaroni napolitains. Or, ces personnages «mobiles comme des nuages» (autre trait stendhalien!), criant, gesticulant et menaçant, émaillent leurs disputes de gros mots. Et Balzac, qui paraît être fort au courant de ces habitudes méridionales, s’efforce de nous donner l’idée d’une foule en proie à une agitation qui, en définitive, est moins réelle que verbale. Rien d’extraordinaire dans cette attitude napolitaine sur laquelle tous les écrivains français contemporains sont unanimes. Mais il est assez curieux de remarquer que l’injure la plus chargée de force (et qui aura en effet le pouvoir d’obtenir le silence de la foule emportée) est justement une de celles que Stendhal cite et souligne (nous verrons tout à l’heure si à tort ou à raison) comme étant courante chez les Italiens.

  Le matelot napolitain qui, présent à l’enterrement de la tante, prend la défense du voyageur français injustement accusé, crie de toute sa voix à ses compatriotes: «Stivalissimi (triples niais) ...». Déjà Stendhal, de son côté, avait annoté à propos des discussions trop animées des érudits italiens: «Extrême impolitesse des savants italiens dans les discussions qu’ils ont entre eux : ils s’appellent sol, infame, et même botte (stivale)».

  Il pourrait s’agir, à première vue, d’une rencontre tout à fait fortuite relevant simplement d’une réalité linguistique propre à l’imagination, fertile en injures, des Italiens. Mais comme cette insulte, d’après mes connaissances […], n’est rapportée que par les dictionnaires et dans de très rares exemples tirés d’écrivains florentins du XVIe et du XVIIe siècle, et qu’elle n’est jamais entrée dans le langage courant du peuple, napolitain ou non, et n’est attestée par aucune source littéraire contemporaine, où Balzac aurait pu l’emprunter, il y a tout lieu à croire qu’elle a sa source chez Stendhal.

  De même, un rapprochement assez étroit s’établit entre une considération de Vandenesse, à la fin d’un épisode bien connu de la Femme de trente ans (je parle ici non du roman de ce titre, mais d’un fragment antérieur, qui a pour sous-titre A trente ans et qui a paru dans la Revue de Paris d’avril 1832) et un passage des Promenades dans Rome.

  Vandenesse, à la veille de partir pour line mission diplomatique à Laybach qui l’amènera ensuite en Italie, se rend un soir à un grand bal à Paris. Là, admirant «l’éclat et les riantes figures de cette fête parisienne», il s’abandonne au charme d’une rêverie d’où naissent des réflexions morales sur l’amour-intrigue, l’amour-caprice ou l’amour-vanité — sèches distractions de la société française — en opposition à l’amour-passion, «abandonné à une idée comme à un remords», attaché tout entier à la volupté, dépourvu de toute arrière-pensée d’ambition sociale ou de parti pris intellectuel. Tandis que le premier lui paraît propre des femmes «les plus élégantes, les plus riches, les plus titrées «de Paris» qui dansent ou qui causent devant lui, il s’attend à retrouver le second, au-delà des Alpes, chez les femmes italiennes pour lesquelles l’énergie et la passion ne sont pas des mots vides de sens.

  La couleur stendhalienne de ce passage (trop long à citer ici) a été déjà mise en lumière plusieurs fois, et il est inutile de revenir sur les nombreuses correspondances qu’elle présente avec Rome, Naples et Florence, De l’amour et même — par le truchement du comte d’Altamira — avec le Rouge et le Noir. Il est toutefois intéressant de souligner ici les dernières phrases de ce passage. Voilà ce que Vandenesse se dit à lui-même en concluant ses réflexions:

 

  Au moins en Italie, tout y est tranché, les femmes y sont encore des animaux malfaisants ... des syrènes dangereuses ... sans raison, sans logique autre que celle de leurs appétits, et dont il faut se défier comme des tigres ...

 

  Or, seul parmi les ouvrages cités, Promenades dans Rome place à la fin d’une page consacrée à plusieurs considérations analogues sur l’amour des Espagnoles, des Italiennes et des Françaises, une comparaison utilisant les mêmes éléments. Ils ne sont pas rares, certes, mais ils me semblent acquérir un relief particulier dans un contexte qui, sous tant d’autres rapports, annonce celui de Balzac:

 

  Le caractère de tigre peint aussi bien la volupté romaine si l’on veut y joindre des moments de folie absolue.

 

  Il n’est pas moins intéressant de rapprocher un autre passage sur la différente conception de l’amour en deçà et au-delà des Alpes qu’on lit dans la Femme abandonnée (septembre 1832) non seulement de maintes réflexions de Rome, Naples et Florence, mais, aussi, d’une remarque des Promenades dans Rome.

  A la réaction, à vrai dire quelque peu cynique, de la ravissante Italienne qui, chez Balzac, s’étonne, en lisant les romans français, qu’ils «passent tant de temps à arranger ce qui doit être l’affaire d’une matinée», correspond exactement l’attitude «immorale» et naturelle de l’Italienne de Stendhal, trop éprise de l’amour vrai pour apprécier l’amour raconté, qui ne s’intéresse pas aux romans (ou est prête à les jeter au feu «si son amant le lui demande d’une certaine manière») et qui manifeste son souverain mépris pour les femmes françaises «qui ont plus de coquetterie que d’amour et, après mille façons, finissent par arriver au même point». Toutes ces citations appartiennent à Rome, Naples et Florence et sont, il me semble, assez éloquentes. Mais les Promenades dans Rome ont aussi leur petit faisceau de réflexions proclamant la valeur existentielle et absolue de l’amour chez les femmes italiennes. Il est donc possible qu’un autre épisode de ce dernier ouvrage, soulignant également l’indifférence des Italiennes pour tout ce qui n’est pas en fonction directe de l’amour (et leur impatience pour tout retard inutile à l’heureux accomplissement de la passion) ait contribué à enrichir de quelque touche de couleur la peinture de l’âme féminine italienne que Balzac commence à explorer plus attentivement à partir, justement, de 1832.

  Je pense, en particulier à l’étonnement des dames romaines qui, dans les Promenades, en observant le maintien sévère des Espagnols dansant pour le seul plaisir de danser, et non pour autre chose, se demandent pourquoi «se donner tant de peine pour rien ...».

  L’année suivante, en écrivant ces curieux Fragments d’un roman publié sous l’Empire par un auteur inconnu (qui, dix ans plus tard, deviendront Olympia ou les vengeances romaines et seront insérés dans la Muse du Département), Balzac mélange dans un pastiche étrange, et peut-être voulu, des éléments provenant des plus diverses sources livresques. Mais si les données «noires» d’origine anglaise, si les aventures compliquées et invraisemblables du roman de l’Empire, si les souvenirs du conte fantastique de provenance allemande dominent, il n’est pas entièrement à exclure qu’au moins un point de repère historique cherché dans un nom de famille (Torlonia, duc de Bracciano) soit extrait encore une fois des Promenades dans Rome.

  Une variante qui paraît pour la première fois dans l’édition de 1835 de Papa Gobseck semble renvoyer, elle aussi, à un texte stendhalien dont l’identité est néanmoins plus difficile à établir, l’image balzacienne étant commune à Rome, Naples et Florence et aux Promenades dans Rome. Il s’agit d’une comparaison entre la beauté de Mme de Restaud et une certaine forme de grâce féminine rendue immortelle par l’école lombarde de Léonard de Vinci. […].

  Aucun tableau de Léonard de Vinci représentant Hérodiade n’est connu, et le beau portrait de Salomé du Louvre (auquel Stendhal et Balzac font très probablement allusion) appartient à Bernardino Luini, disciple lombard du grand peintre toscan. La fausse attribution à Léonard, bien que largement acceptée au XIXe siècle, constitue donc déjà un fait assez intéressant pour supposer un rapport entre les trois passages cités. Mais, en plus de celui-ci, d’autres éléments, à mon avis, invitent davantage à voir, chez Balzac, une reprise livresque du texte stendhalien plus qu’une rencontre indépendante, basée sur une observation directe et personnelle. D’abord, ce renvoi à Léonard est le premier, ayant quelque précision et quelque sensibilité artistique, que l’on rencontre à cette date dans l’oeuvre de Balzac. Tous les autres renvois à Léonard (très peu nombreux, du reste, par rapport à d’autres peintres italiens) apparaissent, en outre, après 1837 (à une époque où Balzac a pu, à Milan, se rendre plus exactement compte de l’activité artistique et scientifique du peintre) Enfin, l’auteur de la Comédie Humaine est assez étranger au procédé littéraire qui consiste à rapprocher les traits ou les gestes de ses personnages des chefs-d’oeuvre de la peinture, procédé qui est au contraire typiquement stendhalien.

  S’il est difficile de choisir, pour le passage cité de Papa Gobseck, entre les deux textes de Beyle et que la seule conclusion à tirer est que Balzac applique à un de ses personnages féminins un modèle figuratif qui revient souvent sous la plume de Stendhal, aucun doute ne parait possible pour un épisode, que nous allons citer, d’Albert Savarus.

  Les composants italiens de ce roman sont aussi nombreux que suggestifs, et il faudra un jour s’appliquer à les dénombrer et à les illustrer d’une façon plus exhaustive que l’on ne l’a fait jusqu’à présent. Pour l’instant attachons-nous à citer seulement l’anecdote italienne suivante dont le protagoniste, un jeune prince sicilien, est le frère de cet Emilio Gandolphini, mari de la belle Francesca Colonna […].

 

  Le frère cadet d’Emilio fut trahi par celle qu’il aimait pour un charmant jeune homme. Il s’est passé son épée au travers du coeur […].

 

  La même anecdote avait été racontée à deux reprises dans les Promenades dans Rome par Stendhal qui l’attribuait tantôt au colonel Romanelli, tantôt au marquis Targini. […].

  A la lumière des rapprochements que nous avons faits jusqu’à présent, l’emprunt qui suit — presque un plagiat — s’insère mieux dans la permanence d’un intérêt stendhalien et «romain» de Balzac qu’il ne faut pas négliger et dont, peut-être, on n’a pas encore entièrement exploré l’étendue.

  Voilà ce nouveau souvenir des Promenades dans Rome qu’on peut découvrir dans une page du Secret des Ruggieri (fin 1836). Balzac introduit l’étrange irruption nocturne du roi Charles IX chez les frères Ruggieri par un long excursus sur l’Italie du XVIe siècle, patrie et berceau de la toxicologie, et sur les secrets dont les deux frères seraient censés être les possesseurs en matière de préparation de poisons subtils. Et il ajoute:

 

  A Florence, cet art horrible était à un si haut point, qu’une femme partageant une pêche avec un duc, en se servant d’une lame d’or dont un côté seulement était empoisonné, mangeait la moitié saine et donnait la mort avec l’autre.

 

  Il est inutile d’aller chercher dans un livre d’histoire des moeurs italiennes au XVIe siècle ou dans un des nombreux traités Des Vénéfices, le renseignement (d’ailleurs assez problématique) sur une spécialisation si raffinée ès poisons. Il suffit d’ouvrir les Promenades dans Rome aux pages où un pharmacien romain (personnage historique, du reste), Agostino Manni, est mis en cause pour expliquer aux vovageurs français quelques-uns des procédés d’empoisonnement et d’assassinat en usage dans l’Italie de jadis:

 

  Il [Agostino Manni] croit que dans les beaux temps de l’empoisonnement, vers 1650, il a été possible de couper une pêche en deux moitiés avec un couteau d’or empoisonné seulement d’un côté. On partageait cette pêche avec la femme dont on était jaloux; on pouvait manger sans danger la moitié qui avait été touchée par la partie saine du couteau; l’autre moitié donnait la mort.

 

  Un décalage historique de moins d’un siècle, les rôles du jaloux renversés n’arrivent pas à transformer cette petite chronique italienne qui trahit chez Balzac un cachet typiquement stendhalien.

  S’il a paru de quelque utilité de réouvrir le dossier Balzac-Stendhal au chapitre des Promenades dans Rome, c’est parce que cet ouvrage — je le disais tout à l’heure — n’a été cité par Balzac, d’une façon explicite, qu’une seule fois; et qu’il pourrait, par conséquent, être considéré comme un livre passé presque inaperçu à son attention de lecteur.

  Or, la dizaine d’emprunts faits par Balzac à cet ouvrage stendhalien (et la liste n’est peut-être pas close) semble montrer au contraire — et assez éloquemment du moins pour les deux derniers exemples cités — qu’il a le droit d’être compté parmi les lectures qui n’ont pas manqué d’exercer leur influence «italienne» sur la Comédie Humaine, au même titre que d’autres oeuvres d’Henry Beyle.

 

 

  Elsa dè Giorgi, Proiezioni del romanzo stendhaliano e balzachiano sullo spettacolo moderno, in AA.W., Stendhal et Balzac ... cit., pp. 85-90.

 

  Come già negli studi precedentemente comunicati esporrò oggi alcune mie considerazioni sui rapporti che il teatro stabilisce col grande romanzo realista francese del quale Balzac e Stendhal, sono certo autori protagonisti.

  Balzac osservava che tutta la fantasia di un letterato non conducesse al risultato drammatico di una notizia di cronaca.

  Chi potrà superare in efficacia questo titolo essenziale? diceva: Ieri alle 11 la giovane sarta tal dei tali si è gettata nella Senna.

  La drammaticità dialettica della realtà è infatti la dinamica stessa della narrativa di Balzac.

  L’apparente divario del metodo stendhaliano che insegue l’azione col fiato sospeso è costituito nel romanzo balzacchiano da una [attenzione visiva meticolosa] — dalla quale sembra egli per primo non possa distaccarsi — dell’aspetto delle cose, siano esse oggetti, uomini, ambienti. Unica precedenza classica paragonabile resta quella della pittura fiamminga. Di essa ha la trasfigurata allucinazione derivata appunto dalla tensione di indagine psicologica attraverso il particolare visivo, suscitatore a sua volta di altre immagini decisive alla rivelazione dell’oggetto o personaggio proposto.

  E’ meritevole come in un’epoca tanto lontana dal cinema, Balzac riveli un simile genio per la evocazione figurativa da comporla e scomporla macrocospicizzando il particolare con la tecnica narrativa che sarà propria del cinema.

  Vorrei accennare qui al drammatico racconto L’elisir di lunga vita visto come potevano vederlo Groz o Fellini : bisogna credere alle parole di Baudelaire: «La scienza va troppo lenta per i poeti». Vediamo come il personaggio che in Stendhal è visto nella realtà della azione, da Balzac è consegnato per dati fisici dei quali le azioni sembrano conseguenze naturali.

  Vorrei prendere in esame un romanzo di Balzac per proporre le mie considerazioni: Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau.

  Il mondo borghese vi è scandagliato nelle pieghe più riposte, nelle rughe precoci di una borghesia non soltanto parigina.

 Il personaggio dell’avaro Molineau, il piccolo proprietario di case, presentato prima di porlo in scena con l’ingenuo Birotteau, in una descrizione di realismo molieresco. Nessun particolare della sua sordida psicologia è trascurato, inclusa la solitudine volontaria, la tirannia esercitata attraverso la conoscenza delle leggi di locazione, i piccoli animali invisibili ma presenti nei piatti con gli avanzi posti a testimoniare non la generosità verso gli animali, ma la loro utilizzazione alla avarizia affinchè nemmeno una lisca di pesce vada sprecata.

  Un mondo di miseria riempito di manie ossessive e di sospetto per tutelare la piccola proprietà.

  Come invece il carattere del commerciante appare più avventuroso.

  Quando infatti Birotteau esce dalla casa di Molineau, Balzac lo conduce verso i quartieri del mercato, alla Halle, e il personaggio che pone letteralmente in scena è la esuberante mercantessa di noccioline, la signora Madou la cui didascalia è stavolta più breve e serrata di quella di Molineaux («senza scrittoio, nè cassa, nè registri, perché non sapendo nè leggere nè scrivere, ella rispondeva a pugni a una lettera considerandola un insulto») tutta affidata al dialogo in una vivacità e un rilievo popolaresco di stampo moderno fino all’attualità del neorealismo italiano. Battute come: «Ai miei clienti parlo come mi gira. Se non son contenti vadano a farsi fottere altrove», il saluto col quale accoglie Birotteau, potrebbe essere pronunciato alla Magnani diretta da Rossellini e oggi alla Loren e quante hanno seguito la linea del personaggio Magnani meglio inquadrato. Il contrasto dei due linguaggi Birotteau Madou à udivito (sic), come visivo è il contrasto dell’ambiente sordido del borghese, con l’aria aperta, libera e disordinata del mercato.

  Scena e personaggi sono realistici e immediati perché presentati con la tecnica di una rappresentazione scenica. E qui appare concreto il superiore realismo di Balzac che è quello da lui entusiasticamente lodato di Stendhal. Il loro avvicinamento sostanziale sta in questa affinità: la facoltà di evidenziare dal magma letterario il personaggio e porlo in una azione di cui, la precisazione storica e di costume, sottolinea ogni peculiare motivo.

  Certo rilevante teatro moderno giunto alle sintesi emblematiche di Ionesco e Brecth altro non è se non una troppo sbrigativa deduzione di premesse storico sociali, dai Rinoceronti di Ionesco ai pezzenti e ai padroni di Brecth, alia pigrizia senile e alla golosità del suo Galileo.

[...].

  In Balzac l’osservazione delle caratteristiche peculiari a ogni oggetto o personaggio non hanno la preoccupazione stilistica di Flaubert, il quale, come è noto raccomandava non solo di notare ogni particolarità di un oggetto dall’altro, ma di trovare le parole particolari per esprimere la unicità di tali particolari.

  In Balzac la descrizione che vale a differenziare e rendere ogni oggetto unico e inconfondibile è atteggiamento naturale, un suo rapporto diretto con la realtà da trasmettere e della quale sentiva il valore inteso nella differenziazione e individualità degli oggetti fisici e psicologici che la componevano. Quello che in Flaubert sarà sottile e patita ricerca stilistica, in Balzac, come in Stendhal con diversa forma, e, forse, anche diversi intenti, si stimolava da un senso oggettivamente scenico della realtà stessa, dei suoi contrasti, i suoi opposti, le contraddizioni, le prevaricazioni di un oggetto sull’altro, como (sic) è proprio della invadenza oggettiva e spesso simultanea che caratterizza lo spettacolo.

  Non si tratta mai di un affresco nel romanzo di Balzac, ma di dramma nella successione dei suoi oggetti fisici caratterizzati da una visione psicologica molieresca.

  Si pensi alla descrizione tutta scenica degli ambienti, per restare al solo Birotteau, dove si muove la borghesia con le sue manie, le sue miserie, i suoi volontari imprigionamenti dettati dal bisogno di sicurezza, di ordine, e in sostanza di danaro. [...].

  Nessuna meraviglia quindi se il romanzo, che sopraggiunge al teatro con l’intento di una più vasta e individuale comunicazione, ha in Stendhal e Balzac i creatori di uno stile moderno che riconsegna incorrotta non solo la carica, ma la tecnica drammatica nella sua più alta e rinnovata sostanza, che è quella della tragedia borghese seguita alla sua epopea rivoluzionaria. [...].

  In Balzac, il romanticismo è vissuto nella trabocchevole idea, quasi personificata della limitazione di ideali, del destino di distruzione cui la borghesia è condannata eleggendosi a classe di potere.

  Nessun idealismo autentico può sostenerla, ma solo lo schermo quasi ridicolo di virtù prudenti e un perbenismo che non solleverà il popolo nè lo evolverà. [...].

  Ecco che la descrizione dei personaggi e degli oggetti balzacchiani, la fisicità con la quale egli ce li sottopone, conducono a esercitare il senso ottico prima della attenzione di lettura necessaria a evocarli.

  E’ una operazione nuova nella letteratura, spettacolare nel senso letterale, etimologico della parola. E’ del poeta drammatico, infatti avere una primigenia idea fisica dei suoi personaggi che stimolerà e sosterrà la fantasia necessaria a comporne la psicologia. Contemporanea sorge la necessità dell’ambiente, la sua scenografia atta a collocare storicamente e individualmente il personaggio, stabilire la sua relazione con gli altri in quelle azioni che struttureranno il dramma balzacchiano.

  Di proposito usiamo la parola dramma e non quella di romanzo.

  E’ il termine preferito da Balzac e da lui usato nel suo celebre entusiastico scritto sulla Chartreuse, quando più e più volte definisce i valori di Stendhal quelli di un «poeta drammatico» e parla del romanzo che lo ha entusiasmato, sottolineando come lo stile di Stendhal, accogliendo l’elemento drammatico non lasciandosene mai distogliere nel corso della narrazione, si avvicina al suo. [...].

  In sostanza quello che premeva a Stendhal, premeva a Balzac: ed era amore della logica rappresentativa, rifiuto del divagare propriamente letterario del romanzo, necessità di essenzializzare il racconto a una evidenza drammatica. [...].

  E c’è da chiedersi se, nelle critiche di Balzac a Stendhal, non vi fosse un po’ di invidia per il raggiungimento di uno stile drammatico così libero e ampio, raggiunto anche e forse proprio per una illuminata scelta che era nel contempo, rifiuto della forma letteraria convenzionalmente intesa dai romantici che Balzac si ostinava a rispettare nella sua grandiosa compiaciuta coscienza reazionaria.

  In realtà egli come Stendhal rivoluzionava il linguaggio letterario del suo tempo dando al romanzo la dialettica esplicita ed essenziale del dramma e anticipando, con la lezione morale e rigorosa del superiore realismo, quegli elementi poetici che avrebbero determinato ai nostri giorni i metodi e gli strumenti del moderno spettacolo tanto teatrale quanto cinematografico. Considerando che il cinema ha assunto gli elementi drammatici in una forma narrativa vicina più al romanzo che non al teatro.



  Giacinto Feletto, La paysannerie sous la Restauration. Un document: «Les Paysans» de Balzac. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1972.

 

 

  Lionello Fiumi, Balzac rivisitato, «Il Piccolo», Trieste, Anno 91, N. 7813 nuova serie, 29 Aprile 1972, p. 3.

 

  Nel cuor della notte del 21 maggio 1850, a Parigi, davanti al numero 14 della Rue Fortunée (oggi rue Balzac), si fermava una carrozza che pareva arrivare da un lungo viaggio. Dalle ampie vetrate delle finestre, traspariva un’illuminazione a giorno, che inondava di chiaro una profusione di fiori, sparsi tra mobilia di lusso e ninnoli preziosi. Come ci fosse un’attesa di ospiti di riguardo. Ma nessuno era lì ad attendere. E i due che scesero dalla carrozza per entrare nella casa, ch’era evidentemente la loro, sonarono ripetutamente invano. Si dovette chiamare, in piena notte, un fabbro per aprire la porta. Dentro, il domestico, divenuto pazzo furioso, si era addirittura barricato. Strana accoglienza per due sposi novelli! Ché i due misteriosi visitatori notturni erano davvero sposi novelli: e di quale calibro! Lui, Balzac nientemeno, Honoré de Balzac il gigante del romanzo francese dell’Ottocento, che tornava a morire in patria, dopo essere riuscito, dopo una logorante attesa di diciassett’anni, a sposare in Polonia, proprio nelle terre di lei, «vaste come un dipartimento francese», la contessa Hanska, la bella vedova Eva Hanska, nientemeno che una discendente della polacca regina di Francia, Maria Leczinska ...

  Quando egli, portatosi a Wierzchownia aveva finalmente strappato alla restìa il tanto agognato matrimonio, e le nozze s’erano celebrate il 14 marzo 1850 il romanziere crivellato di debiti aveva scritto a sua madre, incaricandola di riempire di fiori per il giorno dell’arrivo la dimora preparata per la sposa; e di ... sparire il giorno stesso perché non sarebbe stato dignitoso ch’ella accogliesse la nuora nella casa pagata ... da lei. Di qui, l’inverosimile e assurdo sbarco notturno. Ma in quel palazzo che il prodigo aveva arredato come una reggia per l’amata, non era venuto ad arenarsi che un moribondo! Il suo medico di fiducia, chiamato il giorno dopo, volle un consulto: il paziente era perduto. Gli amici del romanziere erano costernati. Solo Eva de Balzac, la tardiva sposa, che lo curava premurosamente, dava l’impressione di essere ottimista. Ma il 18 agosto, lo scrittore riceve l’estrema unzione. Viene a trovarlo Victor Hugo. Il morituro è già in istato d’incoscienza. E alle undici e mezzo di sera, si spegne.

  Il 21 agosto, il corteo funebre, «seguito da tutto ciò che pensa e ammira», con Hugo, Dumas, Sainte-Beuve e il ministro dell’Interno che reggevano i cordoni, traversa la capitale e, al cimitero del Père Lachaise, sull’orlo della tomba — nel punto dove Rastignac aveva lanciato la sua famosa sfida a Parigi e al destino — Victor Hugo, che per poco non era stato schiacciato per un brusco indietreggiamento del carrozzone funebre, pronunciava una stupenda orazione nella quale rendeva a Balzac la giustizia che la posterità doveva confermargli. L’aristocratica straniera, Eva Hanska, che aveva tanto riluttato ad unirsi allo scrittore sregolato, carico di debiti ma anche di genio e di amore, e non gli era stata sposa che per cinque mesi, la discendente della regina poteva avere la sensazione di essere stata amata da un re delle lettere mondiali.

  Così narra la fine dell’uomo prodigioso Madeleine Berry nel suo recente libro sul «Balzac» (Les Editions Universitaires, Parigi, marzo 1972) ch’è l’ultimo uscito sull’autore della «Commedia Umana». Si sa che, su di lui, esiste addirittura una biblioteca, che va dalle opere di Abraham e di Alain, a quelle di Bellesort e di André Billy, di Brunetière, Bouteron, Faguet e cento altri, fino allo scultoreo Prometeo o la vita di Balzac di André Maurois. Nessuno che parli di Balzac può sottacere la biografia ch’è, essa stessa, un romanzo: appassionato, drammatico, doloroso; e Madeleine Berry, come ne abbiamo dato prova, non si sottrae a questo compito, pur facendo della vita di lui una sintesi anche se si valga delle scoperte biografiche più aggiornate. Per questo, il suo Balzac è ricco di messe a punto e di aneddoti vivi.

  Madeleine Berrv traccia un quadro analitico di tutti i romanzi scritti da Balzac e ordinati secondo il piano della «Commedia Umana»: un breve riassunto della trama di ciascuno, principali personaggi, date degli avvenimenti principali, della stesura e della pubblicazione. Sicché, attraverso un’ottantina di riassunti, abbiamo un panorama completo dell’immenso mondo balzacchiano e della sua sterminata popolazione di personaggi, da Rastignac a Vautrin. da Papà Goriot al Cugino Ponsida (sic) Lucien de Rubempré, a Cesane Birotteau, a Delfina baronessa di Nucingen, a Madame de Mortsauf, il sublime «giglio nella valle», che muore disperata di essere rimasta virtuosa. Creature, queste, e decine e decine d’altre, tipiche, inconfondibili, immortali non per nulla da contrapporre, sul piano umano, ai personaggi della Commedia Divina di Dante.

  Uno studio sui caratteri generali dell’opera porta Madeleine Berry ad osservare il modo di creazione del Balzac, che trasforma e mescola gli elementi, fino ad arrivare, per giustapposizione, a tipi del tutto diversi da quelli osservati o intuiti. I suoi aristocratici, le sue civette, le sue giovinette, i suoi bottegai, i suoi banchieri ne escono veri; è da notare che vi sono pochi contadini, pochi operai, il proletariato non l’interessa. Il tempo corre veloce nel suo racconto, sono i costumi di tre epoche della storia di Francia: la fine dell’Impero, la Restaurazione, la Monarchia di Luglio.

  Quanto ai temi del Balzac, che Madeleine Berry analizza acutamente, non è soltanto l’amoroso, esso va interpretato in tutte le sue forme, è il vizio, è la bassezza, è l’avarizia. Vautrin che rifiuta Dio e si sostituisce a lui per creare, Vautrin annunzia per i suoi «sotterranei» i personaggi di Dostoiewski. Non soltanto, dice Madeleine Berry, Vautrin è un forzato invertito, non soltanto egli scalza la società con sadismo, ma per le sue creature, per i suoi complici, per i suoi criminali egli gode onori e felicità. E per il Balzac, il danaro è l’anima della società dal 1789 all’Impero e dopo il 1830; anima nefasta, che conduce a qualunque immoralità e mediocrità. Pilastro della società, il danaro, l’argent, è una delle molle essenziali del dramma balzacchiano. In quell’epoca. il capitalismo non era ancora entrato nelle società anonime, ma il Balzac, con il suo genio premonitore, aveva già veduto nel danaro, tanto un agente di corruzione quanto un fattore di felicità.



  Lionello Fiumi, L’ultimo «Balzac», «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXXXV, 3 maggio 1972, p. 3.


  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Lionello Fiumi, Il più recente Balzac, «La Nuova Sardegna», Sassari, Anno 82, Numero 108, 11 Maggio 1972, p. 3.

 

  Cfr. le due schede precedenti.

 

 

  Gérard Genette, Verosimiglianza e motivazione, in Figure II. La parola letteraria. Traduzione di Franco Madonia, Torino, Giulio Einaudi editore, 1972 («La ricerca critica. Letteratura», 14), pp. 43-69.

 

 

  René Guise, Balzac Honoré de, in AA.VV., Dizionario critico della letteratura francese diretto da Franco Simone. Volume primo A-LA, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1972, pp. 61-67; 2 tavv. [Manoscritto autografo di Le Père Goriot; Manoscritto autografo di La Femme supérieure].

 

  Romanziere e drammaturgo, oggi è universalmente riconosciuto come uno dei grandi maestri della letteratura mondiale. Le sue opere sono lette e studiate in tutto il mondo ed esercitano un fascino sui lettori indipendentemente dalle varie ideologie da essi professate e dalle più disparate concezioni in materia di letteratura. Il segreto di un interesse talmente universale consiste, senza dubbio, nel fatto che B. sfugge a qualunque tentativo di chi volesse applicargli un’etichetta. Nonostante i molteplici contributi a lui dedicati — oggi essi raggiungono l’ordine dei 7000 titoli, in una bibliografia in continuo incremento — nessuno è mai riuscito a sintetizzare B. in una formula. La sua produzione, come la sua personalità, resistono alle definizioni che hanno la pretesa di essere definitive. Pertanto, un tentativo di presentare un panorama storico della critica inerente a B., non significa, come avviene invece per la maggior parte degli autori, dimostrare come si fa luce, progressivamente, una valutazione sempre più esatta dell’importanza e del significato dell’opera. Da un diorama simile, invece, risulta che il progredire della conoscenza di B. rivela, sempre più chiaramente, che la sua opera, così come ci offre un mondo, non è meno complessa e contraddittoria, non meno ricca e appassionante del mondo stesso. Non avremo mai finito di riconoscere in essa la nostra stessa umanità. Questo, appunto, vorremmo qui dimostrare, rifacendo la storia dell’autore, della sua opera e della sua fortuna dagli esordi ai nostri giorni.

  Gli esordi letterari di H. de B. furono un fallimento. La composizione di una tragedia in cinque atti e in versi, Cromwell (1819-20), si risolse in un penoso insuccesso. Per vivere, e per continuare a scrivere, il giovane dovette prestare un’oscura collaborazione alla composizione di romanzetti per biblioteche popolari. Non è dato sapere con precisione a quanti romanzi egli abbia collaborato in tal modo fra il 1822 e il 1826, e in qual misura vi abbia contribuito. Gli eruditi conoscono soltanto otto romanzi, ristampati da B. nel 1836 sotto lo pseudonimo di Horace de Saint-Aubin. Per guadagnare denaro sufficiente ad assicurarsi l’indipendenza economica ed assecondare la sua autentica vocazione letteraria componendo saggi filosofici e tragedie, B. abbandonò temporaneamente la letteratura e si lanciò nelle speculazioni commerciali. La sua tipografia, in due anni (1826-28), fallì ed egli si ritrovò, oberato dai debiti, condannato o a dare un definitivo addio alle ambizioni letterarie, o a ripiegare nuovamente su quelle attività di nessuna soddisfazione che servono a sbarcare il lunario. Preferì continuare a scrivere. La sua prima opera fu un romanzo storico alla maniera di Walter Scott, Les Chouans, uscito nel 1829. Quasi nessuno se ne accorse. La Physiologie du mariage, che appartiene a tutt’altro genere, fu pubblicata lo stesso anno e riscosse un successo scandalistico, fra l’atteggiamento ostile dei critici qualificati. Un terzo libro, le Scènes de la vie privée (1830), di tono ancora diverso, fu incompreso. Al massimo, i lettori vi riconobbero un ingegno promettente. Il giovane scrittore allora preferì collaborare alla stampa periodica. Su «La Mode», «Le Cabinet de lecture», «La Silhouette», «La Caricature», «La Revue de Paris» e, in un secondo tempo, «L’Artiste», «La Revue des Deux Mondes», «L’Europe littéraire», «L’Écho de la jeune France», ecc., pubblicò tutta una serie di testi, novelle, racconti, romanzi, frammenti di novelle o romanzi, articoli, cronache, recensioni critiche, passando da un registro all’altro: studi di costume, ricordi di vita militare, racconti d’ispirazione fantastica o d’indirizzo filosofico, novelle licenziose, abbozzi storici ... La qualità di questa produzione gli valse una certa notorietà, ma la critica ufficiale rimase disorientata per la grande disparità di tono. Però, quando uscì in libreria La Peau de Chagrin, cui seguì la prima serie dei Contes philosophiques (1831), l’autore s’impose alla generale attenzione. Un primo articolo importante di Émile Deschamps, sulla «Revue des Deux Mondes» (ottobre 1831), prende atto che i contemporanei hanno ormai riconosciuto il talento di B. Ma definire questo talento non è facile. La pubblicazione consecutiva, nel 1832, di nuove Scènes de la vie privée e nuovi Contes philosophiques, quella di Louis Lambert e del Médecin de campagne, nel 1833; le Scènes de la vie de province (comprendenti Eugénie Grandet), le Scènes de la vie parisienne (comprendenti l’Histoire des Treize) e le Scènes de la vie privée (comprendenti La Recherche de l’Absolu), nel 1834; e, finalmente, Le Père Goriot (1835), sanzionano la gloria di B., ormai quotato fra i primi romanzieri della sua generazione.

  Il pubblico ama B., le riviste se lo contendono, ma i critici sollevano aspre riserve. Non sapendo come classificarlo o definirlo, si trincerano in un atteggiamento ostile. Stanchi di riscoprire, spesso, i medesimi testi in opere nuove, o di rileggere in volume qualche passo già letto nei periodici, i critici non si rendono conto che, da un’edizione all’altra, un’opera viene a correggersi e quasi a plasmarsi e perciò accusano l’autore di ciarlataneria, di spirito commerciale, oppure ricorrono al solito, facile cavallo di battaglia: l’accusa di immoralità. Tuttavia, dopo Le Père Goriot, i critici devono ricredersi. Leggiamo, sul «Constitutionnel», nel 1835: «La critique n’est revenue à M. de B. que longtemps après les Salons. [...] On persistait à lui contester un rang vraiment littéraire. [Mais maintenant], si l’on rit encore de M. de B., ce n’est plus de ses livres». Effettivamente, si crede di aver trovato come definire B.: egli sarebbe il pittore scrupoloso della vita d’ogni giorno e il fine psicologo che sa capire l’animo femminile: in poche parole, B. è l’autore di Eugénie Grandet e il romanziere specializzato nella donna di trent’anni (non ha forse intitolato così un suo romanzo?). Ma la critica del tempo avrebbe dovuto possedere maggior simpatia per l’autore, e seguire con maggiore attenzione lo sviluppo e l’organizzazione progressiva della sua produzione. È un fatto, invece, che B. non riuscì a conquistare popolarità presso i contemporanei. Il suo atteggiamento verso Charles Rabou e Philarète Chasles, quando uscì una raccolta collettiva e anonima di racconti, i Contes Bruns, aveva sviato le recensioni nel 1832. La pubblicazione dei Contes drolatiques nel 1833 — raccolta rimasta incompiuta, ma che prevedeva cento racconti —, procurò a B. i fulmini della critica moralizzante, incapace di distinguere la licenziosità rabelaisiana dall’oscenità plateale. I rapporti fra B. e le riviste — le quali, fra parentesi, non hanno tutti i torti se trovano a ridire sulla sua collaborazione — non gli rendono un buon servizio: vi sono opere che l’autore, in piena pubblicazione, interrompe, per pubblicarne magari la conclusione su un’altra rivista; oppure — ed questo il principale difetto dello scrittore — B. consegna il materiale con ritardi veramente eccessivi, che non rispettano le consuetudini e le esigenze tipografiche. Non dimentichiamo, poi, le stranezze, spesso esilaranti, del giovane borghese, che frequenta i salotti e si atteggia ad elegantone, ma non ha certo la figura e lo stile dell’uomo di mondo.

  B. non tarda a divenire lo zimbello dei giornali di provincia. Insomma, alla fine del 1835 egli si è imposto all’ammirazione senza, peraltro, aver conquistato le simpatie della critica. Negli anni successivi, per un complesso di fatti, sarà oggetto di inimicizia e, se non di odio, di ostilità sistematica da parte di molti altri letterati; le sue pubblicazioni costituiranno altrettante armi in mano ai suoi avversari. Anzitutto, si registra la rottura definitiva, in seguito ad una causa vinta da B. a proposito del Lys dans la Vallée, con Buloz, direttore della «Revue de Paris» e della «Revue des Deux Mondes», poi, dal 1841, anche impresario del Théâtre Français. Con le due riviste da lui dirette, Buloz faceva la pioggia e il bel tempo a Parigi e B., ad ogni occasione, era criticato senza pietà. Si racconta che, quando un giornalista aspirava a entrare, come redattore, in una delle due riviste dirette da Buloz, gli si chiedeva, quasi come biglietto d’ingresso, un articolo feroce contro B., altrimenti l’aspirante era messo alla porta. Stando così le cose, B., per difendersi e rendersi indipendente, fondò una rivista sua, la «Chronique de Paris», ma fu costretto a cedere, oberato da nuovi debiti cumulatisi con gli altri. Sotto la stretta del bisogno, avviò trattative per la ristampa di alcuni romanzi giovanili, pubblicati come Oeuvres complètes del «bachelier Horace de Saint-Aubin». L’editore fece una pubblicità così trasparente, che tutti capirono chi era il vero autore, e B. si guadagnò un elogio equivoco: «le plus fécond de nos romanciers».

  Gli avversari ebbero buon gioco a stroncare queste opere e denigrare l’autore. Nel 1836, inoltre, B. pubblicava un romanzo su «La Presse», un quotidiano a buon mercato appena lanciato da Émile de Girardin: si tratta de La Vieille Fille, primo romanzo a puntate uscito sul nuovo foglio. Tutti coloro che vedono di cattivo occhio l’iniziativa — il cui successo è noto — di Girardin, se la prendono col romanzo e lo giudicano osceno ed immorale. B. si procura la trista fama di capofila della letteratura «industrielle», ostentatamente ignorata dalla critica per vari anni. Sia nelle prefazioni, sia in un articolo della «Chronique de Paris» (30 ottobre 1836), B. ama sollevare le Questions de la propriété littéraire et de la contrefaçon e perciò i malevoli lo giudicano uno scrittore venale quant’altri mai. Nel 1839, con Un grand homme de province à Paris (nel quadro delle Illusions perdues), che dipinge a forti tinte il malcostume giornalistico, B. si compromette ancora più seriamente. La sua posizione difficile è aggravata dal fatto che le sue nuove opere, pubblicate a scaglioni, sotto vari titoli e, spesso, su periodici diversi e in ordine diverso da quello in cui siamo abituati a leggerle, non sono in condizione di essere valutate come meritano. Una serie di tentativi teatrali sfortunati (L’École des Ménages, clamorosamente rifiutata nel 1839; Vautrin, colpito da veto dopo una sola rappresentazione nel 1840; Les Ressources de Quinola, 1842; Paméla Giraud, 1843); un nuovo tentativo in campo giornalistico («La Revue Parisienne», 1840); la presa di posizione a favore del notaio Peytel condannato per omicidio (1839): tutte queste iniziative di B. fanno il gioco dei suoi avversari. Tutti in coro deplorano: ah, che peccato che l’autore di Eugénie Grandet sia caduto così in basso!

  In un clima simile, la pubblicazione della Comédie humaine, intrapresa nel 1842, da principio fu interpretata come la riutilizzazione di opere già note. Ci vorranno quasi quattro anni perché venga apprezzato l’intero ciclo nel suo valore e nella sua grandiosità. E bisognerà anche che B. trionfi col romanzo a puntate (La Cousine Bette, pubblicata sul «Constitutionnel»), perché le azioni di B. risalgano alla quotazione raggiunta nel 1835. «Il y a une immense réaction en ma faveur. J’ai vaincu», egli potrà scrivere a Madame Hanska il 18 ottobre 1846. Effettivamente, i giornali moltiplicano le ristampe delle sue opere, e si verifica anche una gara tra i pirati dell’editoria: segno incontestabile che B. è popolare. Ma la critica non sa stare al passo. Certo, ammette l’importanza di B., ma, pur rimanendo colpita dalla potenza di un’opera, di cui prevede il futuro successo, non è in grado di comprenderla. Rari sono, a quell’epoca, gli scrittori che rivelano acume e limpidezza di giudizio, come Gobineau, Baudelaire, Th. Gautier, Champfleury e che capiscono la grandezza di B. (su questo punto, bisognerebbe riservare un posto a parte a Victor Hugo, commosso e sincero ammiratore del grande confratello, il che è tutto dire se sappiamo quante animosità, di regola, covavano nel petto del Vate di Francia, nei confronti degli altri letterati grandi e meno grandi). Quanto ai critici di professione, ossia i recensori, questi lodano la produzione balzacchiana nel complesso, ma in termini sempre generici e, appena scendono nei particolari, trovano il pelo nell’uovo: sollevano cavilli sullo stile, sollevano eccezioni sulla moralità. Insomma, si subisce il fascino di quella prosa, ma si trova sempre qualcosa che ostacola un’adesione totale. L’impressione complessiva si può riassumere in questa formula di Sainte-Beuve, riferita dai Goncourt (Journal, 11 marzo 1863): «C’est un homme de génie, si vous voulez, mais c’est un monstre». B., che non ebbe mai la consacrazione dell’Académie Française (nonostante le autorevoli e insistenti iniziative di Victor Hugo, il quale nelle votazioni andava polemicamente contro corrente a suo favore), poco tempo prima della morte poteva confidare ad Arsene Houssaye: «Je suis abreuvé d’amertume; mes contemporains ne m’ont pas compris».

  La morte cambia tante cose. A. Rolland, su «Diogène», notava il 24 agosto 1856: «L’heure boiteuse du repentir est enfin venue pour les contemporains de B. Lorsqu’ils ont tous été bien certains qu’il était mort, tous ses ennemis de la veille [...] se sont mis à entonner l’hosanna de celui qu’ils avaient pendant vingt ans poursuivi de leurs injures». Si assiste, in realtà, a una fortuna di B. in continuo aumento. Le edizioni complete si moltiplicano, dal 1853 alla cosiddetta edizione definitiva curata, nel 1870, dall’impresa di Michel Lévy. Sui teatri trionfa Mercadet (ossia Le Faiseur, 1851), che l’autore non era mai riuscito, in vita, a far rappresentare. Si allestiscono rappresentazioni della Marâtre, di Paméla Giraud (1859), Les Ressources de Quinola (1863), Vautrin (1869). Mercadet entra nel repertorio della Comédie Française nel 1868. Si pubblicano le opere incompiute, del cui compimento s’incarica Charles Rabou lasciandone l’esclusiva paternità a Balzac. Ma rimane un’infatuazione cieca. Fra la lussureggiante letteratura critica intorno a B. e la sua opera, che si registra allora, si può dire che solo i volumi di testimonianze abbiano conservato una certa importanza: citiamo, ad es., il Desnoireterres (1851), il Gozlan (1856), Laure Surville, sorella del romanziere (1858), il Werdet, che fu suo editore, Théophile Gautier, che gli fu amico (1859) ... Tali testimonianze configurano un ritratto leggendario dell’autore, che verrà perfezionato dal Taine (1866) grazie a più accurata elaborazione. Tutto fa credere che la critica, dinanzi ad una produzione talmente enorme, non possa rimaner fredda, ma sia costretta all’ammirazione per la vastità e per la ricchezza, pur rimanendo sconcertata dal lato strano dell’opera. Al momento di venire alle conclusioni, la critica non trova, a quanto pare, altra spiegazione che la prepotente personalità dello scrittore. Dinanzi a un’opera i cui aspetti filosofici, storici, realisti, drammatici, psicologici, morali, politici, poetici, sconcertano per la loro coesistenza, spesso antagonistica, ci si trae d’impaccio erigendo la statua di un uomo che è forza della Natura e potenza della mente, affarista avido di danaro e inguaribile sognatore, parigino dalle curiosità enciclopediche e, nello stesso tempo, buon figlio della Turenna dal temperamento sanguigno. Le stranezze dell’opera vengono spiegate con quelle dell’autore. E, nell’impossibilità di esprimere una valutazione globale, ci si sofferma sui particolari per esprimere una critica negativa; oppure, facendo leva su questo o quell’aspetto particolare dell’opera, si tenta di dare all’autore una tessera politica. Non c’è niente di più sintomatico del disagio in cui si trovano i censori di B., che l’analisi di questa grande corrente critica. Per quanto Hugo, e molti altri al suo seguito, abbiano salutato in B. un rivoluzionario, altri critici di Sinistra non riconoscono come uno dei loro quest’uomo che parla con tanta convinzione del trono e dell’altare. Mentre Théodore de Banville e Barbey d’Aurevilly ravvisano in B. un «catholique et absoluliste», altri critici di Destra, come un Menche de Loisne o un Eugène Poitou, associandosi alle riserve sollevate a più riprese, fra il 1836 e il 1846, dal Nettement, si serbano diffidenti verso un cattolico e un monarchico come lui, dato che l’opera è poco morale e molto socialistoide. Sicché B., pur essendo oggetto di tanto interesse, rimane frainteso. Per mettere B. nella giusta luce ci sarebbe voluta l’intuizione di un Baudelaire, ma sfortunatamente il grande poeta, che aveva apprezzato e capito B. meglio di chiunque altro, non gli ha dedicato alcun saggio critico. Il ventennio del Secondo Impero non ha fatto compiere progressi apprezzabili all’esegesi balzacchiana. Nel 1851 la Comédie humaine era definita «oeuvre immense et étrange» (V. Hugo) oppure «tohu-bohu original» («La Gazette de France»). Ancora nel 1866, Taine la giudica «fleur maladive, étrange et magnifique» (Nouveaux essais).

  Non è facile fissare periodi precisi nella fortuna critica di Balzac. Per comodità espositive, distingueremo comunque una nuova fase negli studi, coincidente a un dipresso col periodo 1871-1907, dall’avvento della Terza Repubblica alla morte di Spoelberch de Lovenjoul. Difatti, qui preme sottolineare soprattutto la paziente attività di questo bibliografo belga. Egli collezionò, con gelosa cura, tutti i documenti che poté raccogliere sulla biografia e l’opera di Balzac. Già la pubblicazione della Correspondance (2 voll. nel 1876), ancorché incompleta e infedele, aveva fatto compiere un progresso considerevole alla conoscenza del romanziere. Le Lettres à l’Étrangère (ossia a Madame Hanska, che lo scrittore sposò poco prima della morte), furono a poco a poco di pubblico dominio: dal 1894 in poi uscirono a spizzico su periodici e, in seguito, furono raccolte in più volumi. Le lettere della corrispondenza ordinaria dal 1833 al 1842 furono pubblicate nel 1899, quelle del periodo 1842-43 nel 1906. Finalmente, nel 1907, il visconte di Lovenjoul pubblicò la École des Ménages. Anche i contributi del Lovenjoul sono assai notevoli. L’Histoire des Oeuvres de B. (1879) è tuttora un fruttuoso strumento di consultazione. Si aggiunga Un dernier chapitre de l’histoire des oeuvres (1880), seguito da Un roman d’amour (1896) e da La Genèse d’un roman de B.: «Les Paysans» (1901), che apre nuove prospettive agli studi balzacchiani. Il visconte di Lovenjoul lasciò in eredità la sua collezione privata all’Institut de France e, così, inaugurò un periodo nuovo e fecondo per gli studi balzacchiani. Altri contributi diedero incremento alla conoscenza dell’autore e dell’opera. Sarebbe un errore sottovalutare le numerose monografie inerenti a settori particolari: si tratta di contributi per lo più superati oggi, ma che valsero a fissare le basi per un inventario del mondo balzacchiano. Citiamo, a titolo d’esempio, e anche perché una scelta s’impone: il B. et sa méthode de travail. Études d’après ses manuscrits, di Champfleury (1879); Le Symbolisme dans la vie de B., di Émile Baumann (1896); La médecine et les médecins dans l’oeuvre d'H. de B., del dott. Caujole (1900); Le monde judiciaire de B., di Henry Bréal (1903), ecc. Segnaliamo, poi, gli sforzi compiuti per orientare il lettore, come la Préface à «La Comédie humaine» contenant un ordre de lecture di Alphonse Boulé (1873), e specialmente il Répertoire de «la Comédie humaine» di Coerfbeer (sic) e Christophe (1887).

  A questa data, B. è conosciuto meglio, innegabilmente! Ma possiamo anche dire che è capito meglio? Su questo permangono dei dubbi. Si discute incessantemente sulle idee di B. e sul significato politico dell’opera. Nel 1883 «Le Siècle» classifica B. tra i fautori della democrazia. La «Revue socialiste» pubblica, nel 1892, un B. socialiste. Ma Edmond Biré, il cui B. esce nel 1897, riserva quattro capitoli a B. royaliste. G. Malet («Gazette de France», 9 e 11 marzo 1899), Charles Maurras («Gazette de France», 19, 23 e 24 agosto 1900), Paul Bourget (La politique de B., 1902), insistono su quel tema. Dall’altra sponda, replicano J. Mélia («Revue socialiste», 1899) e Rémy de Gourmont («Mercure de France», 1899). Solo uno studio minuzioso di tutte queste testimonianze, e di altre inerenti allo stesso problema, consentirebbe di stabilire in che misura tale dibattito fa progredire, in quel particolare momento storico, la conoscenza e l’intelligenza del messaggio balzacchiano.

  Sul piano letterario, in compenso, notiamo un progresso più concreto. Sulle orme di Taine, il quale spiegava gli aspetti contraddittori dell’opera con le eccentricità dell’autore, si tiene distinto il B. romantico dal B. realista. Viene classificato romantico tutto ciò che svia (la filosofia di Lambert, il misticismo di Séraphita e via dicendo) e che non piace (i personaggi fuori dalla norma, lo stile e ciò che vien denominato cattivo gusto: «fautes de goût»). Rientrano, invece, nel realismo, la pittura minuziosa della realtà e il dono di far vivere i personaggi e gli ambienti. Quindi, si esalta o si denigra B. a seconda dell’atteggiamento favorevole o contrario al realismo in letteratura. Per quest’ultimo atteggiamento, è sintomatico il posto assegnato a B. da Émile Faguet nelle Études littéraires sur le XIXe siècle. Secondo questo critico, «le réalisme devait revenir». Tale ricorso storico si sarebbe potuto produrre grazie a un nuovo Racine o un nuovo La Bruyère e, invece, la letteratura francese non ebbe che una specie di «Lesage, très mêlé de bizarreries romanesques, sans esprit du reste et de peu de style». Ma che importa? B., pur coi suoi difetti, riapriva una strada, onde, secondo le conclusioni del Faguet, «il occupe une place dans ce volume». In altre parole, B. è superato (e il concetto appare nel titolo di un articolo pubblicato da Barrès nel 1894) e il suo posto, nella storia letteraria, è tra i pionieri del naturalismo! Zola e i suoi discepoli, su questo punto, sono perfettamente d’accordo. Ma per i fautori del realismo, B. non è un autore superato: egli è un maestro eterno, la cui opera non può tramontare: «B. est debout; il grandit chaque jour davantage», dice Zola, al quale sfugge, però, come B. abbia preso un abbaglio sul suo stesso genio, al punto di ammirare Walter Scott. Insomma, per Faguet come per Zola, B. è anzitutto un realista. Tutto ciò che non rientra in questa formula, nella sua opera, costituisce scoria. Così ridotto e schematizzato, B. avrebbe indubbiamente partecipato al tramonto del Naturalismo. Ma, per fortuna, nuovi progressi nella conoscenza della sua opera lo salvarono da simile etichetta.

  Tali progressi furono dovuti principalmente all’erudizione e ai contributi scientifici degli studiosi che ebbero a loro disposizione il capitale inesauribile dei documenti del lascito Spoelberch de Lovenjoul. Nel lungo periodo 1910-50 numerosi contributi, talora addirittura eccessivi per acribia nei minuti particolari, proiettano nuove luci su Balzac.

  Anzitutto, bisogna ricordare le pubblicazioni di inediti. Ai primi due volumi delle Lettres à l'Étrangère, se ne aggiungono altri due (1933 e 1950). I «Cahiers balzaciens» (1923-28), pure dovuti all’iniziativa di Marcel Bouteron, conservatore della biblioteca Lovenjoul e, in certo modo, pontefice del culto balzacchiano, rivelarono molti inediti nel campo della corrispondenza. J. Crépet, nel 1910, pubblica i taccuini balzacchiani intitolati Pensées, Sujets, Fragments; W. Scott Hastings rivela nel 1925 un Cromwell; D. Z. Milatchitch (1930) pubblica il Théâtre inédit; B. Guyon (1933), il Catéchisme social; A. Prioult (1936), Sténie ou les erreurs philosophiques; M. Bardèche (1940), La Physiologie du mariage préoriginale; Ph. Bertault (1942), il Traité de la prière; P. G. Castex (1950), Falthurne. Dal 1932 in avanti le edizioni Garnier hanno pubblicato numerose edizioni critiche, dovute per lo più a M. Allem, che conservano ancora qualche utilità. Ma non bisogna dimenticare la monumentale edizione delle Oeuvres di B., di cui M. Bouteron e H. Longnon hanno allestito il testo e le note (40 voll. dal 1912 al 1940, editi da Conard).

  La conoscenza della biografia balzacchiana ha ricevuto impulso anche da numerosi importanti contributi. Citiamo quelli di Hanotaux e Vicaire (1921), quelli di L. J. Arrigon (1924-27) e il paziente studio di R. Bouvier ed E. Maynial su Les Comptes dramatiques de B. (1938). Tutti questi contributi hanno reso possibile una sintesi come quella di André Billy: la Vie de B. (1944, 2 voll.).

  La bibliografia balzacchiana è talmente vasta, che si è resa necessaria una guida: ad essa ha provveduto l’americano Royce (1929-30).

  In séguito a così fondamentali ricerche è stato finalmente possibile tentare di risolvere le apparenti contraddizioni della personalità balzacchiana, cercando di cogliere il significalo e l’unità del suo pensiero e della sua opera, mediante un’indagine rivolta alla sollecitazione creativa. La via fu aperta da Pierre Abraham, il quale indagò sulla creazione intellettuale in B. (Recherches sur la création intellectuelle. Créatures chez B., 1931). Due notevoli dissertazioni, poi, avrebbero lumeggiato la genesi dell’arte in B.: quella di A. Prioult — B. avant la «Comédie humaine» (1819-1829), Contribution à l’étude de la genèse de son oeuvre (1936) —, e quella di M. Bardèche: B. romancier. La formation de l’art du roman chez B. jusqu’à la publication du «Père Goriot» (1940). Altre due tesi fondamentali hanno illuminato il problema del pensiero balzacchiano: quella dell’abate Philippe Bertault: B. et la religion (1942), e quella di Bernard Guyon: La pensée politique et sociale de B. (1947). Numerosi contributi in sede comparatista consentono, inoltre, la sintesi della questione delle Orientations étrangères chez H. de B., tentata nel 1927 da Fernand Baldensperger. Citiamo, altresì, il B. visionnaire di Albert Béguin (1946). Tutti questi contributi, ed altri che per brevità tralasciamo, attestano la prodigiosa fortuna perenne di un’opera che, ormai, non si cerca più di ridurre a una formula esclusiva, esaminandone un lato solo, ma si cerca di illuminare di luce diffusa.

  Quando, nel 1950, ricorse il centenario della morte di B., esso fu solennizzato in tutto il mondo con tanto fervore, che si ebbe la riprova della sempre crescente fortuna dell’autore della Comédie humaine. In pari tempo, si ebbe l’impressione che la situazione critica fosse matura per una vasta sintesi, per procedere alla quale già era predisposto il materiale. Marcel Bouteron manifestò questa istanza. Effettivamente, ci si rendeva conto che, nonostante la mole e i molteplici indirizzi dei contributi esistenti, molto rimaneva ancora da fare. Il «Courrier balzacien» (1948-50), continuato dalle «Études balzaciennes» (1951-60), continuate a loro volta dall’«Année balzacienne» (1960 ...), hanno determinato un ulteriore incentivo alle indagini su Balzac. Sarebbe troppo lungo passare in rassegna tutti questi studi e perfino tentare di classificarne gli orientamenti principali. La storiografia letteraria, benché oggi sia oggetto di contestazioni, continua a dimostrarsi utile in virtù di contributi essenziali. La stessa biografia di B. non ha ancora rivelato tutti i suoi segreti. I notevoli contributi di Raffaele de Cesare, che ricostruiscono mese per mese la biografia del romanziere in un anno saliente come il 1836, ne sono la prova eloquente. La magistrale biografia di André Maurois, Prométhée ou la vie de B. (1965), ultimo saggio sintetico finora uscito in questo campo, su alcuni punti appare già superato. Le indagini sulla genesi dell’opera balzacchiana continuano ad essere molto fruttuose e numerose note o articoli hanno creato il presupposto per alcuni studi specifici su opere di particolare importanza: ricordiamo quello di S. Bérard su Illusions perdues (1961), quello di A. Lorant sui Parents pauvres (1967), quello di A. M. Meininger su Les Employés (1968), quello di M. Fargeaud su La Recherche de l’Absolu (1968). Tutta quest’attività degli eruditi si concreta, ad uso del lettore, in una fioritura di edizioni critiche. P. G. Castex, M. Regard, P. Citron, M. Le Yaouanc, J. H. Donnard, P. Laubriet, Max Milner, J. Pommier, A. Adam, R. Picard ed altri hanno fatto luce su opere essenziali. Parallelamente, vengono prese in considerazione opere trascurate o sottovalutate. L’attività di P. Barbéris sui Romans de jeunesse, gli studi di R. Chollet sui Contes drolatiques, quelli di R. Guise sul teatro balzacchiano, dimostrano che opere finora considerate marginali fanno parte integrante del mondo balzacchiano. Per converso, l’erudizione sottopone a severo esame la paternità balzacchiana già attribuita a testi anonimi usciti sui periodici dell’Ottocento e, a volte, raccolti troppo affrettatamente nelle Oeuvres diverses. Queste rigorose indagini hanno reso possibile una nuova edizione, allestita dal Groupe d’Études balzaciennes e pubblicata sotto il coordinamento di J. A. Ducourneau. Si tratta delle Oeuvres complètes illustrées de B.: opera di base, ormai, per qualsiasi lettura o studio di Balzac. Essa comprende, inoltre, la prima edizione integrale delle Lettres à Madame Hanska, in 4 voll., a cura di Roger Pierrot (al quale sono dovuti, del resto, anche i 5 voll. della Correspondance ordinaria, editi da Garnier). Questa edizione prevede una nuova Histoire des oeuvres de B., opera collettiva a cui attendono trentadue specialisti, che intende sintetizzare tutto ciò che è dato sapere in questo campo.

  In conclusione, si può dire che, ai giorni nostri, una vera sintesi in merito a B. è possibile esclusivamente nel campo della storiografia letteraria. Invece, sul piano dell’interpretazione dell’opera, del suo significato politico, religioso, sociale, filosofico, del suo valore psicologico, storico, letterario, estetico, contributi fondamentali hanno palesato la sorprendente polivalenza del mondo balzacchiano. Ricordiamo gli studi specifici di M. Le Yaouanc (Nosographie de l’Humanité balzacienne, 1959), di P. Laubriet (L’intelligence de l’Art chez B., e Un catéchisme esthétique: «Le Chef-d’oeuvre inconnu» de B., entrambi pubblicati nel 1961), di J. H. Donnard (Les réalités économiques et sociales dans la «Comédie humaine», 1961). A nostro avviso, sarà improbabile che si riesca, un giorno, a chiudere B. e la sua produzione in una formula. L’atteggiamento dei lettori di fronte al cosmo balzacchiano, con ogni probabilità, sarà sempre mutevole, come il loro atteggiamento di fronte alla vita stessa. Qualche studioso ha compiuto tentativi di sintesi, è vero, e sono tutti notevoli, ma possono essere differenti, e ugualmente convincenti, come La Comédie inhumaine di A. Wurmser, o Une Lecture de B. di M. Bardèche, o B.’s «Comédie humaine» di Herbert J. Hunt, o La pensée de B. dans la «Comédie humaine» di Per Nykrog. La critica balzacchiana può aiutare il lettore a conoscere B., ma non può sostituirsi al lettore per interpretare lo scrittore. Questa certezza, salvo errore, costituisce la prova più lampante che l’autore intorno al quale si esplica l’attività critica appartiene alla categoria dei grandi maestri. Nessun indirizzo critico lo potrà mai assoggettare ai suoi schemi.

 

  Segue una essenziale e curata Bibliografia (pp. 66-67).

 

 

  Martin Kanes, The mythic structure of “La peau de chagrin”, «Studi Francesi», 46, Anno XIV, fascicolo 1, gennaio-aprile 1972, pp. 46-59.

 

 

  Vittorio Lugli, Balzac poliziesco, in La cortigiana innamorata e altri saggi, Torino, Giulio Einaudi editore, 1972 («Saggi», 493), pp. 77-81.

 

  Cfr. 1964.

 

  Nota a un romanzo di Balzac. “Le médecin de campagne”, pp. 160-164.

 

  Cfr. 1963.

 

 

  Giannina Marchi, Studio su “Le Cousin Pons” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Sandra Menzella, Pisa, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e filosofia, 1972, pp. 58.

 

 

  Gino Nogara, Honoré de Balzac a Venezia. Conversazione di Gino Nogara, Secondo programma, 9 agosto 1972.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Renata Pacces Bertelé, Introduzione, in Honoré de Balzac, Ursule Mirouët ... cit., pp. 5-10.

 

  I romanzi di Honoré de Balzac, pur appartenendo storicamente al periodo romantico, rappresentano il passaggio dal Romanticismo al Realismo.

  Ispirati agli ideali romantici allorché descrivono la bontà e la purezza dei sentimenti, si attengono invece al più spietato realismo nel ritrarre sanguigni personaggi, mossi da sfrenate passioni, e l’ambiente in cui tali personaggi vivono e si agitano.

  Anche Orsola Mirouët, pubblicato nel 1841, presenta codesta ambivalenza: la mite, dolcissima Orsola sembra quasi un angelo in lotta con il male, incarnato dal suo avversario, il mastro di posta Minoret-Levrault.

  La vicenda è imperniata sulla conquista di un’eredità e sul contrasto fra l’amore disinteressato e l’ossessionante avidità di denaro.

  Il dottor Minoret, giunto ormai alla vecchiaia dopo una vita spesa al servizio della medicina e della scienza, si trova improvvisamente sulle braccia una neonata, orfana, figlia di un suo nipote naturale. L’irrompere della bimba nella tranquilla esistenza del medico la sconvolge e la rinnova: conquistato dalla grazia indifesa di quell’esserino, Minoret sente nascere in sé un amore infinito; per Orsola — tale è il nome della bambina — egli sa trovare la delicatezza di una madre unita alla tenerezza di un nonno, ed anzi, per dedicarsi completamente all’educazione della figlioccia, decide di lasciare Parigi e di trasferirsi a Nemours, sua città natale. Là vivono, uniti fra loro da complicati vincoli matrimoniali, tutti i suoi parenti, che non si sono allontanati dalla provincia, di cui hanno conservato la mentalità gretta e meschina, pur avendo, taluni, accumulato un notevole patrimonio.

  L’arrivo del dottor Minoret, accompagnato dalla piccola Orsola, suscita violente reazioni nella turba dei nipoti e dei cugini: al piacere di poter sorvegliare da vicino il possessore di una cospicua ricchezza, che essi considerano già loro, s’unisce la paura di un’usurpazione dei loro diritti da parte della giovane intrusa. Ma il medico li rassicura, garantendo che nulla di quanto spetterebbe loro per diritto ereditario verrà loro sottratto a favore di chicchessia.

  E così la vita di Minoret scorre serena, allietata dalla presenza di pochi amici — il Curato, il Giudice di pace ed un anziano ex ufficiale –, anime elette che, ciascuna a suo modo, contribuiscono all’educazione di Orsola, aiutando lo sbocciare della bontà e dell’intelligenza della bimba prima, della giovinetta poi.

  L’unica nube che offusca la luminosa esistenza della fanciulla, profondamente religiosa, è l’ateismo del padrino, ed ella senza sosta invoca da Dio la grazia della sua conversione.

  Un giorno il dottor Minoret riceve una lettera da un suo amico e collega, uomo di scienza anch’egli, che l’invita a recarsi a Parigi per assistere agli straordinari esperimenti di magnetismo di un famoso veggente, sicuro che, di fronte a tali prodigi, crolleranno le teorie materialistiche di Minoret. Il medico accetta la sfida, ma sente vacillare le sue ferme convinzioni di ateo allorché il veggente minuziosamente descrive la giornata di Orsola, rivelandogli il dolce sentimento che alberga nel cuore della fanciulla per il loro vicino di casa, il giovane Saverio di Portenduère. Sconvolto, il medico corre a Nemours, controlla l’esattezza di ogni parola del veggente ed è costretto ad arrendersi: l’uomo non è soltanto materia, esiste in lui lo spirito e, se esiste lo spirito, esiste Dio. Fra le lacrime di gioia di Orsola e del curato, il santo abate Chaperon, Minoret dichiara la sua nuova fede.

  Intanto Saverio di Portenduère, ch’era andato a Parigi per cercare una sistemazione degna del suo rango, sommerso dai debiti, è stato incarcerato. Per asciugare le lacrime disperate di Orsola, il dottore decide di aiutare Saverio, sebbene a malincuore, perché il testardo orgoglio della signora di Portenduère, rimasta ancorata ai vecchi e superati pregiudizi della nobiltà provinciale, gli fa presagire un doloroso avvenire per la sua pupilla. Infatti, l’anziana signora nega il consenso al matrimonio di suo figlio con Orsola: fiera fino all’assurdo della sua nobiltà, non può accettare che un Portenduère sposi una semplice ragazza borghese, per quanto dotata di bellezza, di ricchezza, di elevati sentimenti. Ma i due giovani continueranno ad amarsi, nonostante l’opposizione della marchesa.

  Ormai il dottor Minoret incomincia a declinare; giunge infine la malattia e, con essa, la morte; allorché si sente prossimo alla fine, il medico indica ad Orsola il luogo dove sono conservati i titoli al portatore che dovranno assicurarle un avvenire di benessere: la fanciulla, che, straziata dal dolore di perdere colui il quale è stato per lei tutto — padre, madre, amico —, si trattiene singhiozzando presso il letto del padrino, viene preceduta dal mastro di posta Minoret-Levrault, uno dei parenti i quali, da quando Minoret è malato, si aggirano per la sua casa come avvoltoi in attesa: egli sente, origliando alla porta, le istruzioni date ad Orsola dal dottore, si precipita nel luogo indicato e si impadronisce delle cartelle.

  Orsola è ormai povera e sola, ma affronta la situazione con grande dignità e con molta forza d’animo, confortata dall’amore di Saverio. Senonché Minoret—Levrault, dopo averla derubata di ogni suo avere calpestando le ultime volontà di un moribondo, inizia una vera e propria persecuzione contro la fanciulla: non ne sopporta più la presenza, che gli ricorda continuamente il suo delitto, e vuole, con le angherie, con le calunnie, con le false lusinghe, costringerla a lasciare Nemours. Quando Orsola sta per soccombere, il dottor Minoret, apparendole in sogno, le svela l’odioso furto commesso dal mastro di posta; con l’aiuto dell’abate Chaperon e del giudice di pace, la verità viene ristabilita e, dopo una serie di drammatici colpi di scena, la vicenda si conclude con la totale vittoria del bene sul male: coloro che hanno saputo conservare intatte la loro bontà e la loro generosità anche nelle avversità, godranno infine di una vita serena, felice.

 

* * *

  I due nodi principali del romanzo - la conversione del dottor Minoret e la restituzione ad Orsola dei suoi beni — vengono sciolti per l’intervento di forze soprannaturali.

  In Orsola Mirouët Balzac espone le teorie a lui più care, quelle sul magnetismo, che aveva acquisito fin dalla prima giovinezza, leggendo le opere di Swedenborg, di Saint-Martin, di Mesmer trovate nella biblioteca della madre. Egli credeva fermamente in una seconda vista, cioè nella possibilità, da parte di alcune persone, di “vedere” attraverso il tempo e lo spazio. Mesmer e i suoi seguaci, che erano in rapporto con Saint-Martin, avevano reso popolare la chiaroveggenza dei sonnambuli, scorgendo in queste manifestazioni la conferma di antichissime tradizioni occulte, ricollegandola, inoltre, coi fenomeni elettromagnetici e con tutte le forme moderne di occultismo. Balzac vide in Mesmer un genio grandissimo che aveva “riscoperto la scienza nascosta nei misteri di Iside e di Delfi”; né, per lui, esisteva contrasto tra il magnetismo e la religione, ché anzi, essendo quello un fenomeno soprannaturale, diventava la prova lampante dell’esistenza dello spirito: attraverso il magnetismo si poteva giungere a Dio e alla più genuina fede cattolica.

  Orsola Mirouët fa parte di quella vasta opera letteraria che comprende più di cento romanzi riuniti sotto il titolo complessivo “La Commedia Umana”, nella quale Balzac vuole esaminare, sviscerare la società del tempo in ogni suo aspetto (è sintomatico che il primo titolo globale vagheggiato dall’autore per la sua opera fosse “Studi Sociali”).

  L’idea base - suggerita al Balzac dallo studio delle teorie del naturalista francese Saint-Hilaire – è questa: come esistono le varie specie animali, così esistono le specie sociali; le differenze intercorrenti fra un operaio, un commerciante, un poeta sono simili a quelle che distinguono un leone da un pescecane o da una pecora. Ma la società umana è infinitamente più complessa di quella animale poiché le varie specie si mescolano per matrimonio, si scambiano le funzioni, evolvono rapidamente grazie all’intelligenza e allo sviluppo della civiltà.

  Ecco dunque Balzac mettersi all’opera con ardore e creare migliaia di personaggi alcuni dei quali talmente vivi, talmente realistici che diventa difficile distinguere le figure inventate da quelle storiche mescolate ad esse. Il culmine della sua arte lo raggiunge nella caratterizzazione della borghesia e del popolo. Con rara potenza immaginativa costruisce un personaggio dandogli vita intensa con una descrizione netta, precisa, quasi fotografica, e mettendo al centro della sua esistenza una violenta passione che sarà la causa determinante di ogni suo atto: mai è stata rappresentata con tanto vigore come in Balzac la distruzione che può creare intorno a sé un individuo in preda ad un incoercibile sentimento.

  Balzac è straordinario anche nel caratterizzare i suoi personaggi attraverso l’ambiente in cui vivono (l’esame delle cose). Le sue doti d’introspezione psicologica, il suo minuzioso spirito di osservazione si rivelano nelle descrizioni degli ambienti, in cui si rispecchia il gusto dell’epoca, ma soprattutto si rispecchiano le abitudini morali delle persone che li abitano: esemplare, a questo proposito, il preciso elenco degli arredi della stanza di Orsola Mirouët.

  In Orsola Mirouët puntualmente si ritrovano tutte le caratteristiche dell’arte balzacchiana. Tanto vive sono le parole del romanzo che pare anche a noi di passeggiare nel giardino odoroso di fiori di pisello del dottor Minoret, di attraversare le stanze della sua casa arredata con gusto c con delicati colori, adatti alla sensibilità di chi vi abita, oppure di mangiare nella capace sala da pranzo del mastro di posta, in quella sala che riproduce la volgarità d’animo del padrone di casa. Per non parlare della severità dell’abitazione della signora di Portenduère o della povertà della stanza dell’abate Chaperon: ovunque Balzac, col suo tocco magistrale, riesce a costruire ambienti reali nei quali si riflettono, come in uno specchio, le qualità morali dei loro abitatori.

  L’arte balzacchiana raggiunge il suo culmine nella creazione di alcuni personaggi che balzano con violenza fuori dalle pagine del romanzo e fanno di Orsola Mirouët uno squarcio di vita, della vita chiusa, sospettosa, pettegola, tipica delle città di provincia, che lo scrittore aveva conosciuto durante la sua giovinezza.

  I vari Massin, Massin-Cremière, Cremière-Cremière non sono figure scialbe destinate ad essere dimenticate dopo aver letto l’ultima riga del romanzo: ognuno di loro ha una sua fisionomia inconfondibile, che ne fa una creatura di sangue e di carne. Ma su tutti dominano Minoret-Levrault e sua moglie Zelia.

  L’abate Chaperon, il dottor Minoret, Orsola sono talmente perfetti da parere quasi irreali: essi sembrano addirittura i simboli delle virtù più alte, la bontà, la saggezza, la purezza. Orsola è la fanciulla ideale: il suo altruismo, la sua abnegazione, la sua dirittura sono senza limiti; essa ci appare bella e perfetta nello spirito e nel corpo quasi come una madonna del Beato Angelico, un modello da guardare con ammirazione, irraggiungibile.

  Minoret-Levrault, invece, è un personaggio irruente, vivo, vero, tanto vivo e vero che sembra di sentirgli scorrere il sangue nelle vene. È, come tutti gli uomini, un impasto di bene e di male, ma la sua passione per il denaro e per la potenza che il denaro rappresenta riesce a soffocare in lui i buoni istinti. Eccolo qui, il migliore Balzac, quello che grandeggia nella descrizione della volgarità e del vizio, della malvagità e della violenza morale. La dolcissima Orsola sarà disarmata di fronte al suo implacabile nemico, che soltanto un intervento soprannaturale potrà piegare.

  Orsola Mirouët è una pittura fedele del suo tempo, ma, poiché i sentimenti più profondamente radicati nell’uomo non sono mutati nel volgere di un secolo, sarà agevole al lettore cogliere gli ammaestramenti contenuti nel romanzo: la bontà di Orsola lo commuoverà e lo conquisterà mentre non potrà non provare sgomento osservando la progressiva devastazione operata dal male nell’animo di Minoret-Levrault.

  La sensibilità di un giovane reagirà di fronte a taluni atteggiamenti che gli sembreranno incomprensibili o irragionevoli; la sorpresa e forse l’indignazione che susciteranno in lui l’ostinazione con cui la signora di Portenduère difende sorpassati ideali, nati da sorpassati privilegi, o l’astuta ambizione con cui Zelia pianifica l’avvenire del figlio, lo indurranno a considerare e a valutare i positivi mutamenti avvenuti nei rapporti fra gli uomini e la libertà morale e sociale conquistata con l’evolversi della civiltà.

 

 

  Carlo Parmentola, Dietro la «Manon» l’ombra di Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XLIX, N. 106, 18 aprile 1972, p. 7.

 

  Per Puccini quel mondo è già ridotto a mero contorno di drammi individuali, ed è un mondo sconfitto anche materialmente. In Manon aleggia, invece, soltanto la miseria morale, e in più di un momento non è difficile percepire, dietro le quinte, l’ombra di Balzac.

 

 

  Gian Giorgio Pasqualotto, Balzac contro la realtà, «Angelus Novus. Quaderni quadrimestrali di critica», Firenze, Numero 22, Ottobre 1972, pp. 1-55.

 

  1. Allo scoppio della civiltà borghese metropolitana e industrializzata le nostalgie arcadiche di un Wordsworth e le considerazioni nel contempo trionfalistiche e critiche di un Balzac possono essere considerate come atteggiamenti esemplari che inaugurano la tormentata parabola della crisi dell’intellettuale al sorgere della potenza della borghesia capitalistica. [...].

  [...] per Balzac, [...] si tratta di descrivere compiutamente gli aspetti di una vita improvvisamente accelerata e disseccata, non per farne un’effettiva apologia, ma per coglierne più a fondo le contraddizioni, per «esorcizzarne» le mostruosità. In tal senso tutta la Comédie humaine va vista non come puro affresco realistico, ma come una colossale caricatura del mondo borghese ormai forte delle vittorie conseguite e certo della propria potenza economica; e, come nelle caricature vere e proprie, all’effettualità del tragico si reagisce con le deformazioni del grottesco.

  Un simile atteggiamento di critica indiretta e quasi nascosta della nuova città e delle nuove condizioni di vita che essa detta, assume una precisa fisionomia e un proprio significato culturale in L’envers de l’histoire contemporaine, dove non esiste più una strategia «per aggiramento» ma, contro i nuovi miti della vita e della cultura borghese, si impone la scelta di un attacco diretto e frontale. Tale attacco evidentemente si specifica non tanto in una proposta di lotta effettiva alle strutture che reggono i meccanismi di sviluppo di una nuova realtà sociale, quanto in un’individuazione di condizioni di vita tali da esigere un loro superamento: ma il superamento non può avvenire entro le coordinate che reggono la grande «commedia umana»; esso deve spingersi al di là di ogni determinazione mondana, deve farsi negazione totale, distacco assoluto, deve attuarsi in un secondo mondo, in una seconda vita, nell’envers.

  Balzac riscopre qui la dimensione mitologica dove il potere, per essere autentico, deve essere occulto: la giungla sociale che si dispone a cerchi concentrici deve giungere a un nodo centrale che tanto più regge quanto più è nascosto.

  La società segreta diviene allora strumento del superamento e il luogo dell’envers: il fatto che lo stesso Balzac fondi una propria società segreta («Le Cheval Rouge») non rimane assolutamente una semplice curiosità biografica, ma assume il valore di un indice preziosissimo per la chiarificazione di tutta la «prospettiva seconda» della geografia culturale balzachiana.

  In effetti non a caso la forma della società segreta entra da protagonista proprio in due opere «storiche» della Comédie, in Scènes de la vie parisienne e in L’envers de l’histoire contemporaine: in entrambi la confraternita viene a rivestire una funzione radicalmente alternativa nei confronti dei canoni etici che gridano la morale borghese della metropoli, in entrambi essa diventa il fatto in cui si attua quell’«envers si varié qui compose une seconde vie à la plus part (sic) des hommes», di cui parla Séraphîta.

  «Les Treize» e «Les Frères de la Consolation» pertanto, non vanno intese affatto come due figure qualsiasi del vastissimo repertorio letterario di Balzac, ma esigono di essere colte come due momenti fondamentali di quella prospettiva mitologica che mette in luce un atteggiamento critico del romanziere francese assolutamente non reperibile mediante l’uso tradizionale di un’ottica «realistica» o semplicemente «caricaturale».

  La società segreta perde le colorazioni filantropiche e utopiche che le aveva dato la settecentesca massoneria speculativa e assume invece un ruolo che, pur non comportando un intervento diretto e un’azione politica all’interno delle strutture sociali, dichiara il perentorio rifiuto di collaborare all’edificazione di un’umanità disumana e di vivere una vita desacralizzata.

  Quando nella prefazione a Splendeurs et misères des courtisanes Balzac si propone di scrivere «un ouvrage où se verra l’action de la vertu, de la religion et de la bienfaisance au coeur de cette corruption des capitales», fornisce una chiara giustificazione di una prassi esoterica che si contrapponga all’appiattimento dei comportamenti a cui condanna il ménage metropolitano. Perché la virtù possa mostrare la potenza e l’efficacia della propria azione all’interno delle «capitali corrotte», è necessario che sia di pochi «cospiratori» è necessario che diventi avventura; quando ci si rende conto che non si può avere una reale influenza sulle cose e sul mondo senza complottare, quando si capisce che il potere vuole il segreto e che solo nell’«envers de l’histoire» esso può essere gestito, allora diventa del tutto evidente che alla «cospirazione» permanente del Male si deve opporre un’altra cospirazione.

  «La charité dans Paris doit être aussi savante que le vice», afferma Alain nell’Initié, come a dire che essa non può essere efficace nella routine ma solo nel «diverso», nell’avventura. E la grande città permette la virtù solo come avventura: nel «grand chancre fumeaux (sic)» che è Parigi si può vivere solo l’envers della storia, si può seguire solo la via mistica in opposizione alla via dell’azione, del potere, della politica. La storia va vissuta a rovescio, la politica va fatta al contrario: la verità di entrambi va ricercata nel loro envers, nella scienza di Boehme e di Swedenborg, «la seule qui puisse admettre un esprit supérieur». [...].

  Per Balzac, [...] i nuovi fenomeni della folla e della metropoli non provocano una ripulsa univoca e un distacco totale, senza residui, dalla realtà che li accoglie: non solo egli è perfettamente consapevole di quella trasformazione fondamentale che muta, nei primi decenni del secolo, la massa in pubblico, ma quegli stessi fenomeni comportano in lui una presa di posizione assai articolata e mediata, più contradditoria, e forse più ambigua, di quella assunta dai romantici in generale [...].

  Il concetto stesso di realismo si dà in modo complesso: innanzitutto il «dire secondo realtà» di Balzac non sembra significare assolutamente una rappresentazione naturalistica pura e semplice, neutra e immediata, ma appare piuttosto come descrizione carica di intenzionalità rivolte a sorreggere o ad attraversare alcuni aspetti, tendenze e caratteri a discapito di altri. In questo senso si possono spiegare le oscillazioni, talvolta macroscopiche, che connotano l’atteggiamento dell’autore di fronte a certe realtà da lui stesso evocate: è il caso della questione, che qui interessa, della scelta di una via mistica in alternativa a una via politica per dare direzione e soluzione alla dinamica della storia.

  Di fronte all’etica utilitaristica e alla smania di potenza della nuova classe postrivoluzionaria, le simpatie di Balzac vanno tutte a quelle tre situazioni — la monarchia, la chiesa cattolica e la famiglia — che rappresentavano i cardini gerarchici di una struttura ormai in declino; nostalgie legittimiste e sentimenti conservatori indicano, come nelle considerazioni svolte negli (sic) Etudes des moeurs au XIX siècle, quanto egli sia ancora radicato nell’humus culturale e politico dell’ancien régime anche quando la sua descrizione del mondo borghese assume i toni di un’apologia. È questa l’ambiguità profonda che Engels ha messo bene in luce in una lettera all’amica miss Harness, scrivendo che «certo Balzac fu un legittimista politicamente; la sua grande opera è una continua elegia della buona società; tutte le sue simpatie sono per la classe condannata a tramontare. Ma nonostante ciò, la sua satira non è mai così pungente, la sua ironia non è mai così amara come quando fa entrare in azione proprio gli uomini e le donne e con cui più profondamente simpatizza, e cioè i nobili».

  Ma c’è di più: proprio quell’istituzione tradizionale, il cattolicesimo romano, che aveva sostenuto l’Europa prerivoluzionaria e preilluminista e che sosteneva ora l’ideologia della Restaurazione viene definita «religion politique» in contropposizione (sic) a una «religion mystique» affatto diversa, per cui la scissione intima provocata dall’alternativa politica tra mondo aristocratico e mondo borghese si traduce, a un livello più profondo, etico e religioso, nella scissione tra cattolicesimo e misticismo.

  «Politiquement — scrive Balzac in una famosa lettera a madame Hanska – je suis de la religion catholique ... Devant Dieu je suis de la religion de saint Jean, de l’église mystique, la seule qui ait conservé la vraie dosctrine(sic)»: la prima rappresenta il volto esteriore, l’aspetto mondano della religione, costituisce, nella sua funzione di «plus grand élément d’ordre social», un colossale apparato storico rivolto alla «répression des tendances dépravées de l’homme»; la seconda è invece la facies abscondita, quella più recondita e più autentica, è la verità e la coscienza stessa della religione politica.

  Si vive da cattolici, ma si sente da mistici; si parla della borghesia, ma si pensa all’aristocrazia: nel templum della coscienza si custodisce la nostalgia per il passato e la fuga dal mondo. Allora davanti allo spettacolo di una Parigi inebriante e sconvolgente, carica di luci e di frastuoni, di segreti e di vizi, di fronte alla sua folla informe e immensa, si può guardare e descrivere con la lucidità fornita dalla consapevolezza dell’irreversibilità della storia, ma soprattutto con la certezza che la verità sta nel suo envers.

  A questo punto è necessaro (sic) osservare che la scelta da parte di Balzac di una via non storica, di una soluzione non politica di fronte alla realtà del suo tempo, non può essere compresa a fondo se non viene vista proprio nel contesto generato da quella storia e da quella politica che si vogliono superare: pertanto il ricorso alla forma della società segreta, la fuga mistica che la esige e la giustifica, l’atteggiamento «tangenziale» nei confronti di un mondo organizzato secondo schemi completamente nuovi, sono tutti elementi che vanno colti e meditati alla luce di tali schemi che sostengono il terreno da cui quella «fuga» nasce e si muove.

  La prima fase dell’itinerario mistico di Balzac si snoda all’interno dell’arco di tempo che va dal 1830 al 1848, in un periodo, quindi, all’aperto da quella monarchia di luglio che — rivoluzionaria rispetto alle forze che avevano detenuto il potere durante la Restaurazione, ma necessariamente conservatrice nei confronti del proletariato — non poteva non generare una crisi destinata a creare una radicale sfiducia nei riguardi della razionalità della storia e un diffuso scetticismo nei confronti della prassi politica.

  La monarchia di luglio segna però anche una grande vittoria della borghesia e inaugura la stagione della sua potenza più gloriosa [...]. Sono gli anni in cui il denaro domina la vita pubblica, crea un organismo spietato, si fa nuovo Leviathan; questo mondo, la cui parola d’ordine è l’«enrichissez-vous» è lo stesso delle cifre, delle cambiali, dei bilanci, degli affari eccezionali e dei fallimenti disastrosi che sono al centro dei romanzi balzachiani.

  La borghesia, fedele al principio napoleonico de «la carrière ouverte aux talents», vive e diffonde un’etica del successo personale, dell’egoismo e della sopraffazione che nessun Cathéchisme des industriels riesce a frenare e che nessun Julien Sorel riesce a sconfiggere: è la stessa morale del vecchio Grandet, è l’ambiente di cui è complice e vittima «papà» Goriot.

  Nel quadro delle trasformazioni che l’ascesa della borghesia impone, non può non cambiare anche il pubblico dei lettori: impossibile il ritorno a settecentesche «aristocrazie dello spirito» e ineffettuabile il recupero della nobiltà come classe di lettori, l’unico pubblico «agibile» diventa quello borghese. E, necessariamente, borghese diventa anche lo scrittore e il soggetto: se è vero infatti che «scegliendo il lettore, lo scrittore decide del suo soggetto», allora l’unica letteratura che realmente possa contare dopo la rivoluzione di luglio è la letteratura borghese che realizza il suo ciclo di produzione, circolazione e consumo con scrittori, soggetti e lettori eminentemente borghesi.

  Questa compiutezza e questa assolutezza che caratterizzano la letteratura della nuova classe e del nuovo ordine portano con sé un elemento decisivo per il destino e per l’opera dello scrittore: esso non può più svolgere la funzione di accogliere, interpretare e amplificare i gusti, le tendenze, le aspirazioni di un pubblico già dato, formato e definito. Lo scrittore deve ora porre nuovi temi, stabilire nuove categorie e nuovi valori per soddisfare le esigenze ancora informi e incerte di una classe che sembra esaurire qualsiasi pubblico.

  Questa particolare condizione sembrerebbe dargli una libertà assoluta, una gamma di possibilità illimitate, tali di permettergli di forgiare a suo piacimento il gusto letterario e le idee politiche e sociali della classe egemone: in realtà egli, nell’illusione di essere incondizionato, è condannato a servire proprio quella classe che crede di avere in pugno, è condannato a eseguire gli ordini di quella borghesia che non sa ancora bene ciò che vuole, ma sa benissimo ciò che non vuole. In tal modo lo scrittore diventa l'artefice e la vittima di una cultura che lo stipendia ma lo uccide; per esistere deve esistere solo come scrittore borghese. Così il ciclo è concluso: per un pubblico borghese, che tende a porsi come il pubblico per eccellenza e per esclusione, non vi può essere che un unico tipo di scrittore borghese, e un unico soggetto, se stesso come classe.

  E sullo sfondo di questa crisi che sorgerà e crescerà la teoria de «l’art pour l’art», ed è durante questa crisi che nasce il giornalismo come industria della letteratura: a questo riguardo la data di fondamentale importanza è il 1836, anno di fondazione de «La Presse» da parte di Emile de Girardin e del «Siècle» da parte di Dutacq, con i quali si inizia la pubblicazione periodica programmata dei feuilletons destinati, come il melodramma e il vaudeville, a un pubblico sempre meno differenziato e sempre più integrato. [...].

  Di fronte alla marea montante della potenza economica e politica della borghesia, all’invadenza delle sue pretese ideologiche, all’immoralismo dei suoi modelli di vita e alla mostruosità delle sue metropoli gonfie di folla anonima, la risposta di Balzac, che sembra accogliere a piene mani il sorgere ed il crescere di questo nuovo mondo nato sulle rovine dell’ancien régime, è tesa in realtà verso un sogno nostalgico dei tramontati ideali aristocratici, è sorretta da una volontà segreta di creare delle élites etiche e artistiche che possano costituire un’alternativa alla logica borghese dell’interesse e all’industrializzazione della letteratura che ne è un coerente prodotto.

  Queste vie seconde che si snodano dietro il quadro di un’apparente celebrazione dell’universo borghese non sono reperibili, solamente in opere come Les proscrits, Louis Lambert e Séraphîta che costituiscono Le livre mystique e che svelano in modo netto i motivi che determinano una scelta né politica né storica, ma si possono rintracciare anche in opere meno direttamente coinvolte nel «gioco mitologico» della risposta balzachiana, come per esempio Le curé de Tours, dove la descrizione delle sottili rivalità che dividono aristocrazia e borghesia si accompagna alla certezza che la potenza della congregazione, rappresentata qui dall’abate Troubert, sia un reale anche se nascosto strumento di potere e che costituisca l’aspetto fondamentale del costume politico e religioso proprio degli anni precedenti la rivoluzione di luglio.

  Ma è con la seconda fase dell’itinerario mistico di Balzac che diventa maggiormente evidente la coscienza dell’impossibilità di intervenire in maniera efficace nel corpo immenso e contraddittorio della storia: è infatti col 1848 che l’utopia balzachiana si radicalizza e si fa protagonista delle sue ultime opere. [...].

  Questi mutamenti rapidi e carichi di conseguenze che si produssero all’interno dello sviluppo culturale durante l’epoca aurea della civiltà borghese trascinano Balzac in una realtà che egli non può più comprendere: mentre la rivoluzione borghese è diventata monarchia borghese, mentre i primi sintomi di una rivoluzione proletaria ne indicano il superamento e ne minano l’assestamento, Balzac, rifiutando ogni contaminazione con una storia che marcia ormai troppo in fretta e travolge la stabilità di ogni tradizione, ritorna a ripercorrere le strade tortuose e nascoste dell’intérieur e dell’envers, si rifugia nelle zone inaccessibili dei propri silenzi e delle proprie contemplazioni.

  Si badi: questo «ritorno» non è regressione semplice, nostalgia volgare o irrazionalismo di un sopr[a]vvissuto laudator temporis acti. Questa dimensione seconda di un Balzac «metafisico» non va assolutamente disgiunta da quella più «apparente» della sua ricognizione «realista», va vista, anzi in un rapporto dialettico che ne svela completamente il significato ideologico generale: è infatti questa radicale avventura nell’envers, questo perentorio porsi «al di fuori» della storia e del mondo, questa negatività assoluta, insomma. che permette, anzi, è la critica reale, decisiva, del Sistema che si vuole trascendere. Dopo aver fatto scienza del Sistema, dopo averne percorso «realisticamente» tutte le pieghe, Balzac lo giudica tracciandone le coordinate al negativo, lo condanna mostrandone l’immagine capovolta: il disegno astrale di ciò che non è, diventa la mappa del suo dover essere irrealizzato e si dà, quindi, come sentenza.

  Il culto delle virtù antiche che «Les Frères de la Consolation» ripropongono, la ricerca di una scienza e di un’arte assolute, il tentativo di porre addirittura il Soggetto stesso come Sistema, non sono che i fondamentali segni d’orientamento di questa costellazione rovesciata che, nonostante tenti disperatamente di porsi fuori del sistema come Alternativa assoluta, ne è invece costantemente implicata; ogni «tratto» della fuga nell’envers è traccia di un giudizio sul reale già setacciato. Anche le punte più alte di questa avventura metafisica, anche gli iperurani di Lambert e Séraphîta, anche la recherche de l’Absolu, anche la filosofia della Specialità, non sono che gli «oggetti perduti» (o mai trovati) del Sistema reale, della Zivilisation borghese: sono proposte di accrescimento e di miglioramento. La «rivoluzione» balzachiana che propone un Sistema alternativo si risolve in riforma del Sistema dato. Dopo che la scienza del Sistema è stata la base per la sua critica, questa diventa il fondamento della sua riforma. È qui la colossale portata ideologica del Balzac metafisico, ed è questo il senso globale che intendiamo tener sempre presente nelle analisi di questo itinerario sconosciuto.

  Riprendendo dunque il discorso: nell’orizzonte esclusivo e lontano che aveva accolto l’intero ciclo de Le livre mystique si inserisce anche L’initié, cominciato proprio durante le giornate delle barricate, seguito a distanza di pochi mesi da Le cousin Pons: in esso la logica dell’envers viene a dominare ogni momento e ogni azione della vita che i suoi protagonisti, «Les Frères de la Consolation», conducono con severo rigore monastico. Madame de la Chanterie e i suoi adepti, al contrario degli aderenti alla setta de «Les Treize» tutti rivolti alla ricerca di rarità edonistiche e di raffinatezze sibaritiche, abbandonano sdegnosamente i piaceri del mondo e si danno completamente all’attività consolatoria, alle opere pie, alla beneficenza, all’esercizio integrale della virtù: conducono una vita forte di un rigore quasi claustrale e ricca di un fervore religioso, «modeste et sans exigence», regolata sul sorgere e il tramontare del sole, sulla partecipazione alla messa quotidiana, sull’applicazione della Carità, sulla meditazione dell’Imitatio Christi.

  Lo scopo principale della confraternita è evidentemente filantropico, ma è da notare che in particolare esso è filo-aristocratico: «je vais vous donner quatre mille francs nécessaires pour sauver cette noble famille des horreurs de l’indigence» dice Madame de la Chanterie al neofita Godefroid. Mentre Parigi è sconvolta da una ventata rivoluzionaria che sembra spazzar via i pilastri dell’egemonia borghese, che a sua volta aveva già travolto le fradice basi della Restaurazione aristocratica, Balzac scrive pagine in cui la nostalgia per una nobiltà ancora potente si associa al rifuto (sic) di guardare e di capire gli avvenimenti che sconvolgono le strade e le piazze di Parigi e d’Europa.

  È ancor più interessante notare che, se gli scopi delle due confraternite che sono al centro de L’envers de l’histoire contemporaine sono diametralmente opposti, tuttavia esse, in quanto associazioni ristrette e semiclandestine, indicano allo stesso titolo la forma della scelta culturale e politica operata da Balzac: che una provveda alle consolazioni della carità e l’altra invece ricerchi nuovi arabeschi del piacere non contraddice minimamente al fatto che la confraternita, la società segreta, la setta privata sia vista — in quanto tale — come l’unica soluzione, l’unica risposta alle trasformazioni globali che connotano l’histoire contemporaine; anzi questa sostanziale univocità formale che regge le due associazioni è profondamente rivelatrice, in quanto dimostra come in realtà non interessi tanto lo scopo che esse vogliono raggiungere quanto l’obbiettivo che attraverso di esse si vuole cogliere. Se a Balzac fosse importato il raggiungimento della perfezione morale o quello della perfezione edonistica avrebbe certamente insistito su «Les Frères de la Consolation» o su «Les Treize», ma di fatto l’idea che sembra stargli più a cuore è che una medesima motivazione deve determinare la scelta di una o dell’altra, quella cioè che trova fondamento nella consapevolezza che la verità si trova nell’envers, di cui ogni setta può essere la testimonianza. In tal modo la confraternità diventa il modello e lo strumento di un rifiuto e di una rinuncia.

  Lo stesso rifiuto e la stessa rinuncia si ritrovano in Le cousin Pons, anche se qui la fuga dalla realtà si configura in una prospettiva che riscopre i toni ambigui di Splendeurs et misères des courtisanes, di Eugénie Grandet, di Illusions perdues ecc.: la descrizione accurata dell’ambiente parigino in cui l’azione si svolge potrebbe far pensare a un ritorno alle suggestioni e agli entusiasmi che la vita metropolitana ha fornito a Balzac lungo gran parte della Comédie humaine, ma qui si tratta piuttosto di un’osservazione distaccata che analizza i vari aspetti della vita con l’interesse attento e obiettivo dell’entomologo.

  Non esiste qui né la proposta concreta per vivere «alla rovescia» la storia e la politica come accadeva ne L’envers, né l’apparente apologia dell’ordine borghese: gli uomini e le azioni si muovono e si sviluppano seguendo delle leggi che vengono osservate dal di fuori e accettate come ineluttabili. In tal modo il male che trionfa sull’ingenuità dei due amici Pons e Schmucke non viene inteso in senso metafisico ma viene assunto come manifestazione di un meccanismo naturale: poiché tuttavia esso schiaccia chi si affida al gioco pericoloso dei conflitti mondani, l’unica possibilità di salvezza risiede ancora una volta nella rinuncia all’intervento politico, nel rifiuto di un engagement, nella ricerca di pace e serenità all’interno di un’esistenza fatta di sensazioni e di contemplazioni, dove il Bene divenga sinonimo di inattività o addirittura di passività.

  Le forme in cui le scelte balzachiane si manifestano rendono del tutto esplicito il meccanismo che regge le motivazioni profonde di un atteggiamento contraddittorio e spesso ambiguo. Come già Engels faceva notare, la vocazione aristocratica di Balzac si cela dietro una critica pungente della società dell’ancien régime e dietro l’apparente celebrazione dell’universo borghese; nella direzione di questa fondamentale osservazione è però possibile vedere come in realtà tradizione aristocratica e rivoluzione borghese non siano affatto gli unici termini di un unico constrasto (sic), ma costituiscano piuttosto gli elementi di una lacerazione assai più vasta che interessa tutto il territorio culturale di Balzac. Già si è detto della scissione interna alla sua prospettiva religiosa tra cattolicesimo e misticismo che trova nella frattura tra religione politica e religione mistica un termine di omologia se non addirittura di identificazione; già si è accennato alla nostalgia per la signorile tranquillità della Parigi prerivoluzionaria che è continuamente sottesa alle descrizioni di una Parigi tutta presa dalla frenesia della vita borghese; ma ora è ormai possibile scoprire un’altra incrinatura nella risposta che Balzac fornisce alla realtà che lo circonda.

  Se infatti, per soddisfare un pubblico metropolitano che va perdendo il senso dell’«unicità» dell'opera letteraria, e in generale dell’opera d’arte, per acquistare invece una capacità sempre maggiore di consumare prodotti artistici, egli è costretto a scrivere le proprie pagine per le colonne dei giornali ed è obbligato a contattare volta per volta il prezzo del suo ingegno, di mantenere la propria integrità di scrittore e di salvaguardare la propria autonomia morale scegliendo per soggetti di alcune sue opere le preoccupazioni mistiche di un Lambert o l’occulto potere delle società segrete: sperando di sottrarre parte della propria produzione alla furia consumistica dell'industria letteraria di cui è costretto ad accettare le leggi, si rifugia nell’intérieur e nell’envers.

  Anche se l’andamento stilistico di queste opere risulta essere perfettamente in linea con i canoni del suo «realismo» tanto da poterne consentire di diritto la pubblicazione come feuilleton, tuttavia la scelta degli argomenti rivela inequivocabilmente il tentativo di superare l’etica borghese del faiseur e di correggere nel contempo la propria condizione di scribacchino stipendiato: scrivere romanzi e racconti «mistici» significa — dal punto di vista dell’opera — capovolgere la logica dei Grandet, ma significa anche — dal punto di vista dell’autore — ricercare un antidoto all’epidemia di una cultura industrializzata.

  Il meccanismo che regola le oscillazioni balzachiane si rende pertanto completamente visibile: la descrizione attenta e minuziosa della vita borghese dominata dall’etica dell’affare è costantemente controbilanciata dai riferimenti a una vita aristocratica sorretta dall’etica dell’onore [...].

  Aristocrazia prerivoluzionaria, Parigi preindustriale, «religion mystique», narrativa «mitologica», sono «les illusions perdues» che sostengono l’universo culturale di Balzac, sono i poli negativi delle sue oscillazioni, i punti d’arrivo della sua fuga nell’envers, sono gli indici di una condizione contradditoria dove la spinta al rifiuto dell’effettualità della storia è proporzionale alla forza con cui questa impone le proprie trasformazioni.

  2. Questa bipolarità di un Balzac «cronachista» che piaceva senz’altro ai lettori di Sue e un Balzac visionario che entusiasmerà Baudelaire, sembra irrisolta (o risolta semplicisticamente) anche dalla definizione di «realismo atmosferico» proposta da Auerbach.

  Del resto il problema scatenato tra i critici da questa ambivalenza non è quello che ci interessa: il nodo gordiano da districare è stabilire i confini di un Balzac «mistico» in rapporto al terreno di quel reale storico contemporaneo alla Comédie in essa riflesso e rifuso. Cogliere questi rapporti significa allora vedere tutto l’orizzonte mistico di Balzac come risposta diretta alla Storia. Non porsi dunque nell’avventura di misurare le coordinate del Balzac visionario in quanto tale, ma definire che cosa e quanto esse significhino nel giudizio che lo stesso Balzac intende dare della storia. [...].

  Nel Louis Lambert tutto concorre a costruire una dimensione della Visione organizzando le sfumature indefinite dello «spirito» e le sfrangiate vegetazioni del sogno: non c’è concessione al vaniloquio senza argini o al raptus senza misure, c’è «soltanto» descrizione accurata e precisa delle zone del profondo, c’è scienza degli abissi. L’organicità che ne risulta è duplice: della concezione e della descrizione.

  Non solo la filosofia del Louis Lambert è organicismo energetico, ma la sua trascrizione letteraria è sistema di definizioni, è dottrina del metapsichico, è trattato del Diverso. Le «sanzioni» di questo trattato si concatenano con precisione cartesiana, dopo essersi definite con chiarezza scientifica: qui è il culmine del «realismo» di Balzac che porta in laboratorio l’Irreale, che misura gli anfratti dell’Invisibile, che osserva in vitro i movimenti dell’Ignoto.

  La «storia» di Lambert diventa allora il grande teorema di una cosmologia occulta. Il modo con cui egli si applica alla lettura, anzi, vive la lettura, ci introduce in questo mondo ultramondano nella misura in cui alla parola viene attribuito un potere evocatore che si radica nelle ramificazioni sotterranee che essa possiede: Louis che, leggendo il racconto della battaglia di Austerlitz, la rivive come una pagina dell’Apocalisse mette a nudo la rete di fili che legano la parola allo spirito. Da un lato, infatti, emerge la straordinaria potenza del soggetto che riesce a polarizzare ogni sua energia sulla scrittura in modo da trarne non tanto un concetto astratto, ma una serie di sensazioni reali; dall’altro, affiorano le forze dell’oggetto-parola che consentono la dinamica dell’evocazione: la concentrazione dell’energia maieutica di Louis si esercita su un materiale ricco e generoso, sulla parola che nasconde figli sconosciuti che attendono di vedere, la luce.

  Solo l’uomo eccezionale, solo l’essere diverso, tuttavia può liberarli dalle tenebre: le infinite regioni sommerse della parola si danno solo a chi vede e vive nel profondo. [...].

  Narrare la vita di Louis Lambert diventa a questo punto pretesto per esporne la filosofia: la teoria di Swedenborg sulla duplicità angelica dell’uomo, le tesi sul sogno come spiritualizzazione della Materia, la dottrina dell’essere azionale e dell’essere reazionale, tutto il discorso sulle «simpatie e antipatie» (tipico della problematica della magia che da sempre ha cercato un sistema di connessioni tra fisico e metafisico), il riferimento diretto alla telepatia come esperienza primaria e, infine, la proposta di Volontà e Pensiero come forze vive, sono temi che si dispongono coerentemente in modo da costituire il quadro generale di una cosmologia filosofica che si potrebbe definire organicismo energetico. Le forze che popolano le regioni del metapsichico e del metafisico instaurano una corrispondenza continua, una circolazione inesauribile, tra Veggente e natura nascosta, tra il genio visionario e le costellazioni dell’envers. [...].

  Il connotato fondamentale di questo sistema di relazioni è senza dubbio l’organicità: non solo le forze che agiscono tra Veggente e Natura instaurano corrispondenze nella Totalità, ma lo sforzo di unificazione, di concentrazione, di organizzazione accentrata giunge a tentare un’operazione di sincretismo religioso universale. [...].

  Si viene a chiarire allora lo schema fondamentale della dinamica organicista del Louis Lambert e, in generale, di tutta l’opera balzachiana: tra l’uomo e la natura, ovvero tra il Veggente e la natura nascosta si instaura un rapporto bipolare, di condizionamento reciproco, per cui o le forze che circondano il singolo si addensano e si polarizzano su di esso con un movimento centripeto, oppure le energie racchiuse nell’individuo si espandono, con movimento centrifugo, nello spazio che lo circonda, nel milieu che lo avvolge.

  Spesso i due movimenti sono complementari come nel caso, appunto, di Louis Lambert o di altri «Veggenti» come Claës, protagonista de La recherche de l’Absolu, o come — nell’ambito di vicende pienamente «realiste» — Grandet e Hulot, dove si assiste a un massimo di concentrazione delle forze spirituali a cui segue un improvviso e travolgente irradiamento: la pazzia di Lambert che sconvolge il mondo attorno a lui, arriva a essere Tokeiade, visione assoluta, concentrazione massima delle forze del pensiero e della volontà, realizzazione dell’essere «azionale» puro che è riuscito a spezzare l’involucro delle apparenze e dell’essere fisico, corporeo, «reazionale». [...]

  Questa meccanica delle forze cosmiche e ambientali che si concentrano e si espandono è un destino che non colpisce il solo Louis Lambert, ma travolge molti altri personaggi della Comédie, esemplari di creature divine, di esseri sovrannaturali, come, per esempio, Balthazar Claës. Improvvisamente, nella sua vita di agiato e felice borghese, si scatena il virus della «scienza», la malattia della ricerca della pietra filosofale che per sedici anni lo condurrà via via alla miseria, alla solitudine, all’esilio, fino a consumarlo del tutto nel fisico e nella mente.

  Come la pazzia di Lambert è concentrazione di energie vitali verso una visione assoluta, così la malattia mortale di Claës è polarizzazione di ogni attività e di ogni capacità intellettuale verso una ricerca impossibile; come la tensione spirituale di Lambert verso la Verità irradia e sconvolge ciò che lo circonda, così la mania magico-scientifica di Claës trasforma completamente il mondo di persone e di cose che lo attornia: caricati di forze soprannaturali e sotterranee, questi due geni veggenti scaricano la loro potenza invisibile nel paesaggio umano e naturale che li accoglie.

  Le ventidue tesi che concludono il Louis Lambert rappresentano il breve sistema dell’organicismo energetico e del misticismo «atmosferico» che sono base alla «filosofia» balzachiana: non è qui il caso di enuclearne tutte le implicazioni, né di scoprire per intero la rete di rimandi culturali, filosofici, scientifici ecc., che queste tesi possono contenere o suggerire. È sufficiente mostrare invece i contatti più significativi che essa ha usato fino a farne la propria matrice «scientifica».

  Innanzitutto è da osservare come la prima delle ventidue tesi contenga già in germe l’intera gamma delle articolazioni che si snodano lungo le altre: «In questo modo tutto e il prodotto di una sostanza eterea ...». Qui si dà dunque la forma universale generatrice del reale, da cui discende ogni essere, la Volontà (tesi II e III) e il Pensiero stesso (tesi IV): ma più che per deduzione necessaria — come poteva essere per Spinoza — la molteplicità delle cose e delle funzioni dello spirito sembra derivare dalla Sostanza per una sona di alchimia universale, per una trasmutazione continua, per un dinamismo generatore immanente alla Sostanza stessa, la quale appare quindi come un unico, immenso e infinito corpo dotato di perenni movimenti interni, di un Fluido ininterrotto che sempre circolando genera oggetti e creature, intelligenze e volontà, azioni e pensieri.

  Ma è con le tesi XV e XVI che s’inarca la parabola di quel misticismo intellettualistico e «aristocratico» che prende il nome di specialismo: «con l’Astrazione ha iniziò la Società [...]. Dall’astrazione nascono le leggi, le arti, gli interessi, le idee sociali. Essa è la gloria e il flagello del mondo: come gloria, ha creato la società; come flagello, esonera l’uomo dall’entrare nella specialità, che è una delle vie dell’Infinito». «La Specialità consiste nel vedere le cose del mondo materiale così bene come quelle del mondo spirituale nelle loro ramificazioni originali e conseguenziali. I più bei geni umani sono quelli che sono partiti dalle tenebre dell’Astrazione per giungere alle luci della Specialità».

  Lo specialismo si va configurando come uno stadio superiore della vita umana, come uno stato di grazia riservato a pochi privilegiati che godono in esclusiva dell’esperienza inaccessibile di una Visione soprannaturale: dalla materia bruta e informe all’uomo istintivo e sensitivo, da questo all’uomo eccezionale, al genio all’uomo specialista che anticipa e annuncia, profeta e messia, l’era dell’Assoluto, dove l’«et verbum caro factum est» diverrà «et caro verbum facta est» (tesi XXI). Sarà questo il regno della Parola, della parola di Dio, dove la Materia diventa Spirito, dove il factus diventa flatus: si sarà allora al termine di un «itinerarium mentis in Deum».

  A questo punto si deve azzardare una precisazione: la filosofia mistica delle ventidue tesi di Louis Lambert appartiene interamente a Balzac. [...].

  Se è vero che «l’autentico romanziere crea i propri personaggi con le infinite direzioni della sua vita possibile, [mentre] il romanziere fittizio li crea con la linea unica della propria vita reale», si comprende perché è legittimo affermare che Balzac traccia nel Lambert la linea di una sua vita possibile; quella più possibile di tutte, quella di una seconda natura condannata agli abissi, quella di un io sotterraneo che aspira all’Assoluto ma è ricacciato nelle tenebre delle tensioni senza sbocco dalle raffiche dell’effettuale che non ammette nessuno «Specialismo»: «Malgrado le difficoltà dell’impresa, ho creduto dover cercare di dipingere la giovinezza di Lambert, quella vita nascosta cui son debitore delle sole buone ore e dei soli ricordi graditi della mia infanzia».

  Una concessione così «soggettiva» di Balzac all’interno dell’universo oggettivo della Comédie è falla che si spalanca sugli spazi reconditi dell’intérieur, è sonda che misura la profondità del Non-detto che si presenta come Detto-per-altro.

  Ma questa discesa agli Inferi ha le sue tappe: se la prima fase della storia intellettuale di Lambert-Balzac si snoda ancora nell’ambito dell’eccezionale possibile, nel cerchio della «diversità» che racchiude «il Poeta-e-Pitagora», la seconda fase è tracciata invece nell’al di là dove più non ci si possiede, nel centro della Pazzia che è Visione assoluta, nelle costellazioni dell’Utopia.

  Balzac segue Lambert finché questo è la sua ombra possibile, finché entrambi sono nel Collegio a parlare, a pensare, ad agire insieme come due «eccezioni», finché condividono le passioni e gli entusiasmi, le intuizioni e le fantasie; ma poi Lambert fa il grande salto, diventa «Specialista», esce anche dal largo cerchio dell’eccezionale possibile e scatta per la tangente dell’eccezionale impossibile, della visione oltremondana, della conoscenza inconoscibile, dell’esperienza metafisica riservata a pochi tra i pochi. [...].

  Se Lambert collegiale era Balzac dell’umanità eccezionale ma possibile, «diversa» ma reale, ora invece il Lambert pazzo, il Lambert Specialista, è la meta desiderata ma non raggiunta, è il traguardo intravisto ma non tagliato: la distanza è data da Pauline di Villenoix, unica interprete e depositaria delle luminose ricchezze della Pazzia-Visione di Louis. È lei l’artefice letterario che rappresenta la lontananza della realtà di Balzac-uomo dall’utopia di Balzac-Specialista. Ma è una lontananza che lo stesso Balzac accetta volentieri: è la condizione del suo sogno segreto. [...].

  Molti dei temi affrontati nel Louis Lambert tornano, talvolta approfonditi, spesso esasperati, in Séraphîta. Riappare la tensione verso un misticismo puro, autentico, totale; ma l’aspirazione all’orizzonte metafisico diventa problematica, il possibile raggiungimento di una patria soprannaturale si pone come quesito continuo, come soluzione contradditoria [...].

  Il senso ideologico della parabola metafisica di Balzac è dunque chiaro: egli denuncia la realtà che gli sta di fronte perché ha espulso ogni «nobiltà» dello Spirito e, per farle recuperare questo terreno «sacro», per spingerla a riappropriarsene, glielo contrappone dilatato, assolutizzato, glielo mostra in tutta la sua magnificenza, in tutto il suo splendore.

  Regressione, rifiuto della storia, fuga dal mondo non hanno quindi un puro significato mistico: rappresentano i momenti essenziali di una critica funzionale al Sistema reale dato, costituiscono il negativo strutturalmente integrato nel Sistema, condizione necessaria del suo sviluppo organico. [...].

  Sia nel Lambert che in Séraphîta non è assolutamente rintracciabile un modello specifico di religione storicamente individuabile, non è data alcuna proposta di seguire una particolare spiegazione teologica; anzi, ci si rifà costantemente a una sorta di religione naturale, universale ed eterna [...].

  Tuttavia questa «forma» universale che penetra e alimenta la radice di ogni religione positiva assume, nei due studi filosofici di Balzac, due diverse specificazioni: se infatti nel Lambert significa soprattutto costellazione di elementi misteriosofici comuni alle diverse religioni, in Séraphîta invece si pone come fondamento di un misticismo universale. Lambert tenta la costruzione scientifica di un sistema che unifichi a priori i contributi metafisici di tutte le religioni. Séraphîta invece segue l’impulso alla comunione mistica con Dio, denuncia come sofismi le dimostrazioni teologiche, rifiuta il Dubbio come aberrazione e invoca la fede come sola forza che porta al Divino. Lambert si muove ancora nell’ambito degli intenti conoscitivi della magia e degli schematismi sintetici della filosofia, Séraphîta invece rinuncia all’impotenza di questi strumenti dell’intelletto e si appella alla fede: per l’uno si ha un amor Dei intellectualis, per l’altra si ha l’excessus mentis. Quello ricerca, questa si abbandona; non a caso allora il Lambert termina con un «sistema», mentre Séraphîta si conclude con la Preghiera. [...].

  Questo rifiuto globale della storia risulta, ancora una volta, connotato non tanto da una negazione semplice, quanto da una negazione dialettica in virtù della quale l’avventura metafisica è segno di una critica radicale della realtà che si vuole trascendere; tuttavia essa non si pone come negativo assoluto, ma come negativo strutturalmente funzionale allo sviluppo del Sistema. La proposta di una Sostanza alternativa, in quanto indice della totalità dei «difetti» reali che si intende superare, si pone come correlativo globale, come terapia generale del Sistema reale dato, come Setzung complessiva della Storia: ed è questo il fondamentale senso ideologico che Balzac, malgré lui, immette nel suo Rifiuto metafisico.

  Questo rifiuto metafisico, pur ponendosi in modi diversi nelle due opere considerate, si regge di fatto su una «logica» comune: se per il Lambert si deve parlare di un itinerario speculativo che culmina con l’esperienza conoscitiva dello Specialismo, mentre per Séraphîta si deve parlare di un’avventura ascetica che sbocca nella Veggenza mistica, tuttavia le coordinate di fondo che connotano entrambe le prospettive sono quelle tipiche di un’esperienza riservata ai pochi privilegiati capaci di scavarsi uno spazio metafisico dove vivere una vita rarefatta di pure visioni, di irripetibili contemplazioni di rari e preziosi momenti teoretici e mistici. [...]. Non solo: essi si pongono come l’anti-Parigi, come proposta alternativa alla convulsa metropoli assalita dal macchinismo industriale, come modello di un ambiente riparato della massificazione dei comportamenti, dall’onnipotenza del denaro, dal carrierismo borghese, dalle grandi inutilità accademiche, dagli intrighi della politica, dall’officina annerita dove si forgia il Progresso. [...].

  Approdare nell’iperuranio delle esperienze metafisiche è cancellare le geometrie dei rituali borghesi, è uscire dal tempio di questa liturgia, uscire, cioè, da Parigi: il rapporto di odio-amore che lega Balzac — e legherà Baudelaire — a questa metropoli comporta un atteggiamento ambivalente di critica e di apologia, di nostalgie e di entusiasmi, che è ben racchiuso nella definizione «Paris est le plus délicieux des monstres». Ma la prospettiva dell’envers che abbiamo scelto come oggetto di esplorazione impone che si illumini solo il lato «negativo» di tale ambivalenza: solo il Balzac critico della società borghese può fornire i motivi e i movimenti della fuga negli spazi dell’ineffettuale metastorico. [...].

  Il denaro, «forza galvano-chimica della società», mostro onnivoro e divinità consacrata dalla «civiltà» borghese, vede scritta la sua vita nelle pagine di tutta la Comédie humaine: ma è solo nel Lambert che viene giudicato. Prima veniva descritto e accettato come «destino», ora invece viene rifiutato come realtà che si deve trascendere: nel Lambert, come in Séraphîta, non si dà più scienza della società né si dà solo scienza dell’occulto, si formula invece un giudizio di valore su una realtà che non è più quella aristocratica dell’ancien régime regolata dalle «auratiche» leggi dell’onore, ma è quella borghese della monarchia di luglio regolata dalle leggi sconsacrate del denaro. [...].

  Ma la requisitoria contro una società che ha dimenticato e tradito i Valori del passato prerivoluzionario, continua anche contro tutta la catena di «tragiche» conseguenze che il culto della divinità Denaro comporta: l’espandersi di una burocrazia sempre più corrotta, l’istituzionalizzazione del «Concorso» come strumento di carriera, la diffusione del giornalismo come prostituzione della letteratura, l’indebolimento dello Stato e l’inefficienza del potere politico, non sono che gli aspetti più importanti ed evidenti di una realtà borghese che per Balzac va negata con la fuga. [...].

  Il pensiero politico e sociale di Balzac offre aspetti perfettamente omogenei a questo atteggiamento globale di «risposte» metastoriche.

  Non è qui il caso di definire esattamente ed esaurientemente le coordinate di tale pensiero: si tenta semplicemente di enucleare quelle che possono chiarire la dimensione «seconda» della Weltanschauung balzachiana, quelle che polarizzano verso la prospettiva mitologica della Comédie, quelle insomma che stanno dalla parte del Lambert. Ma è superfluo osservare — ancora una volta — che questa dimensione «diversa» che è stata scelta non è affatto una delle tante possibili che attraversano l’opera e il pensiero di Balzac: essa rappresenta la base teorica, il supporto filosofico globale della sua concezione del mondo e ne diventa la fondamentale ratio intelligendi.

  Se la filosofia di Lambert è la filosofia di Balzac, la posizione politica di quest’ultimo è già tutta in questa filosofia: cercare le tesi politiche balzachiane nell’immenso mare delle dichiarazioni programmatiche, delle osservazioni critiche, degli atteggiamenti contraddittori contenuti nella Comédie humaine può essere un utile lavoro di analisi statistica, ma poco, anzi nulla, direbbe dell’atteggiamento politico generale di Balzac. [...].

  Se la filosofia di Lambert è la sua filosofia, e se questa comporta il rifiuto della storia e quindi anche della politica, l’atteggiamento politico di Balzac non va ricercato nelle scelte politiche storicamente determinate che egli ha fatto o ha tentato di fare, ma va visto in una non-scelta preliminare che pone quelle in secondo piano. Non interessa quindi se Balzac è stato di fatto realista o leggittimista (sic), assolutista o populista, perché è l’orizzonte del «fatto» che viene rifiutato: l’eclettismo filosofico, religioso, politico e sociale di Balzac lo lasciamo dunque agli analisti; ciò che più conta è l’unità che fa di quell’eclettismo un colossale organicismo. [...].

  La metafisica mistica di Balzac ha anch’essa la «potenza del negativo» che muove proprio quel Sistema che sembra voler negare in modo assoluto e irreversibile.

  All’interno di quest’ottica le fasi del «ciclo» balzachiano risultano del tutto esplicite: dopo aver cercato di fare l’analisi più completa del reale in modo da organizzare tutte le sue varie articolazioni in un Sistema oggettivo, Balzac applica gli stessi strumenti «da laboratorio» all’analisi di una realtà «diversa», facendo in tal modo scienza del metafisico; ma questa «scienza realistica dell’irreale» acquista significato nella libertà astratta del Soggetto assoluto che si pone come Sistema alternativo: la recherche de l’Absolu (artistico, scientifico, religioso) è privilegio di esperienze eccezionali (Frenhofer, Claës, Séraphîta) che si configurano come universi conchiusi, esaustivi, assoluti, appunto, i quali intendono contrapporsi con forza al mondo reale.

  È qui che si può scoprire tutto il peso ideologico di una simile proposta alternativa: il Soggetto come sistema che si oppone al Sistema reale dato, alla Storia, al Mondo, agisce di fatto da termine dialettico negativo, cioè come critica strutturalmente funzionale, dello stesso Sistema reale dato che presume di superare definitivamente con un rifiuto netto, con una fuga irreversibile, con un «volo» senza ritorni. Allora i due «sistemi» vanno colti assieme in un reciproco rapporto dialettico: la scienza del primo, cioè l’analisi del Reale, offre tutto il materiale negativo [...] che il secondo, cioè il Soggetto che vive esperienze assolute, rifiuta e supera. [...].

  Balzac politico non è dunque quello che aderisce o simpatizza per i vari progetti politici del suo tempo, né tantomeno è quello che la sua dimensione metafisica potrebbe far classificare come reazionario nostalgico: la sua dimensione politica si scopre nella colossale valenza ideologica della sua Utopia che, nel momento stesso in cui intende essere alternativa assoluta, funziona invece da «negativo implicato», cioè da fattore dinamico di Riforma globale.

  Nessuna «nostalgia», nessuna regressione, dunque, nell’opposizione metafisica di Balzac alla «crudeltà» della Zivilisation borghese-capitalistica: nemmeno quando tale opposizione potrebbe far maggiormente pensare a un’effettiva volontà di fuggire quella «crudeltà», come, per esempio, nel caso dell’attacco spietato che egli lancia contro le degradazioni della metropoli parigina, luogo deputato alla massificazione e alla mercificazione delle cose e degli uomini, tempio consacrato al culto del denaro e del successo, mercato colossale delle idee e delle carriere, dove muore per sempre il genio e l’eroe, dove sparisce definitivamente ogni «diverso».

  Anche in questo caso l’attacco non ha semplicemente il valore di una polemica contro le realtà imposte dal «progresso»: esso mostra, necessariamente, la sua funzione positiva all’interno di un sistema che ci si illude di trascendere; proprio il suo voler andare oltre l’histoire contemporaine spinge questa a riequilibrarsi a un livello più alto, a «sistemarsi» a una fase più avanzata del suo sviluppo, a organizzare, cioè, il suo futuro. L’Utopia contro la Storia diventa Funzione della Storia. Dal cerchio non si esce: il reale della storia o lo si accetta o lo si nega, ma anche la negazione più assoluta, come quella di Balzac, è realtà storica. [...].

  Il suo organicismo energetico comporta necessariamente l’idea di uno stato forte e unitario, retto da una classe privilegiata che permetta però agli elementi più dotati delle classi subalterne di partecipare al potere: è evidente che in questa prospettiva di massima i fondamenti politici della borghesia capitalistica, la democrazia e il parlamentarismo, diventano dannosi fattori di disgregamento, di frammentazione, di debolezza.

  Z. Marcas e Le curé du village mettono bene a fuoco le coordinate che reggono la prassi politica della democrazia borghese: l’individualismo e la mediocrazia sono rispettivamente i fattori di dispersione del potere e di appiattimento delle qualità politiche. La terapia non può che essere uno Stato accentrato retto dai migliori di un (sic) classe unita e forte [...].

  Contro la Zivilisation borghese-capitalistica, dove la religione è ormai solo quella del denaro, dove l’etica è solo quella dell’egoismo individualistico, dove la famiglia si disgrega come entità «morale» e dove la proprietà si frantuma, si può combattere sul piano dello scontro politico, della lotta concreta, sul piano insomma della storia reale: ma la si può battere anche con la negazione assoluta con il rifiuto della storia stessa, con la fuga oltre la realtà effettuale, nell’illusione di porsi e contro il sistema stesso, e di creare un anti-sistema tutto teorico come antidoto e come spazio metafisico in cui vivere l’Assoluto. Così il «Trattato» del Lambert diventa manifesto anarchico contro il sistema reale. [...].

  Balzac ha fornito, soggettivamente, dei progetti empirici, dei consigli pratici, per tentare di risolvere le crisi che l’histoire contemporaine gli pone di fronte, ma quel che più conta è proprio la volontà di abbandonare il piano di queste soluzioni storicamente determinate per superare la Storia stessa, la quale si dà, oggettivamente, come indice del bisogno che l’ideologia borghese ha di ricomporsi in una sintesi più universale, di stabilirsi in un sistema più assoluto, dove si attui la conciliazione tra Tradizione e Progresso, dove, cioè l’Utopia non si scontri con la realtà ma ne sia il generale fattore di sviluppo.

  Il fondamento ideologico del riformismo empirico di Balzac sta proprio nel significato riformistico generale che ha la sua negazione metafisica dell’Empirico come totalità.

  Se dunque il distacco tra il Balzac «realista» e il Balzac «mistico» è, a un livello ideologico generale, più apparente che reale, è da notare peraltro che lo stesso avviene a un livello più specifico, qualora, cioè, si consideri l’effettiva posizione di Balzac definibile in base al quadro storico-politico che gli era da sfondo. Anche a questo livello, infatti, tra l’organizzatore del sistema e il negatore del sistema, tra il «tecnico» della politica e il mistico oltre la politica, esiste meno una profonda frattura che una coerente continuità: innanzitutto, il suo «riformismo» non è affatto quello del liberalismo né tantomeno quello del socialismo utopista, ma rimane pur sempre un tentativo di conservare in vita l’aristocrazia come classe egemone, per cui esso diventa «anticipazione» della soluzione radicale della scelta mistica come scelta «aristocratica». [...].

  Ma c’è di più: il Balzac empirico e quello metafisico si legano anche per altra via, nella misura in cui la dimensione «seconda» della scelta è già tutta implicata nella molteplicità delle soluzioni riformistiche fornite. Scegliere una ristrutturazione aristocratica di un sistema borghese e rievocare un’economia di grande proprietà terriera nell’epoca del capitalismo finanziario e industriale sono operazioni che presuppongono l’assunzione a priori di criteri e di valori del tutto metastorici: il riformismo aristocratico di Balzac è già tutto determinato da una preliminare scelta dell’utopia. La dimensione metafisica balzachiana è dunque presupposto logico e conclusione cronologica di uno stesso processo: la storia «interna» della sua teoria politica comincia e finisce nello stesso punto. [...].

  Nella lotta tra Pensiero e Mondo, la risposta di Balzac non è ricomposizione delle parti dopo la battaglia: è rifiuto della battaglia. La sua sintesi è ancora soltanto spazio iperuranico ritagliato per porsi al riparo dalla realtà e dal terrore che la vista delle sue viscere ha provocato: la Comédie humaine espone una scienza del Mondo, ma contiene i modi per superarlo. E’ colossale geometria di superfice che naconde (sic) sotterranei della salvezza.

  Di fronte all’Oggetto che si pone come Sistema, di fronte al mondo che si configura come organismo integrato, il «discorso» di Balzac non è affatto registrazione del Dato, né tantomeno tentativo di mediarlo con la Ragione: vuol essere invece capovolgimento totale, renversement completo [...]. Di fatto, però, questa opposizione radicale all’universo del Dato si converte dialetticamente in formidabile spinta verso la sua riorganizzazione sintetica a un livello più alto: nessun negativo può porsi fuori del Sistema e, dentro, diventa principio e garanzia del suo sviluppo integrato.

  Di fronte ai fenomeni che connotano l’ascesa e lo sviluppo della Zivilisation borghese-capitalistica Balzac ne capisce come pochi la necessità storica, ma rifiuta di accettarli come «veri», riflette sulle possibilità di organizzarli con un processo di razionalizzazione, e sceglie infine di superarli con la fuga nell’envers: è così che la costruzione del rifugio metafisico viene accelerata in proporzione alla forza con cui avanza il fronte dell’integrazione.

  Gli intellettuali di Balzac diventano in tal modo degli assediati la cui volontà di sopravvivenza misura la forza delle minacce di morte, la cui volontà di assolutezza indica la pressione ormai incontenibile degli elementi disgregatori: quanto più l’industria culturale avanza e circonda le zone dell’Intérieur, tanto più essi ricercano in queste i sentieri della salvezza. Solo nell’Intérieur si spalancano gli spazi dell’envers e solo l’Intérieur può porsi come Soggetto assoluto, come Sistema che risolve ogni contraddizione entro di sé.

  Balzac non è ancora ideologo dell’integrazione «oggettiva»: è teorico della sua negazione, teorico, cioè, di un’integrazione tutta del e nel Soggetto che si pone contro e al di là di ogni mediazione col Mondo. Questo è il senso reale del Balzac metafisico come «politico»: i tentativi di porsi come organizzatore, come razionalizzatore, come esperto riformatore, insomma come politico «empirico», nascondono in realtà una tensione continua verso il superamento delle costellazioni del Dato e del Fatto verso la trascendenza assoluta, dove Natura e Storia si diano soltanto nella sintesi astratta del Pensiero, nella totalità della Visione, nell’iperuranio della «Specialità». La Politica di Balzac è la negazione delle politiche: è l’anarchia aristocratica della sua metafisica. [...].



  E. S., Presentazione, in Honoré de Balzac, Papà Goriot ... cit., pp. 5-9.

 

  «Papà Goriot» è universalmente considerato il capolavoro ili Honoré de Balzac; e se è vero che ogni capolavoro nasce a immagine e somiglianza del suo autore, possiamo supporre che ogni lettore, per quanto ignaro di letteratura, possa ritrarre da questo libro una sufficiente conoscenza di uno fra i più grandi e discussi romanzieri del primo Ottocento. Ma è altrettanto vero l’inverso: quanto meglio conosceremo l’autore, tanto maggiore sarà la comprensione della sua opera. Per questo ci sembra opportuno premettere alcune notizie biografiche sul Balzac.

  Quando la «Revue de Paris» del dicembre 1834 pubblicò in due puntate la prima redazione di «Père Goriot», Balzac aveva trentacinque anni di vita e tredici di attività letteraria; ma il suo vero nome circolava solo da cinque, ed era più noto nel mondo degli avventurieri che in quello dei letterati. Da soli cinque anni infatti il Balzac si era tolta la maschera degli pseudonimi ed era entrato nei salotti parigini, preceduto dalla fama di stravagante collezionista: aveva già collezionato oggetti rari, speculazioni avventate, fallimenti economici e avventure galanti; era insomma diventato un personaggio della cronaca «bohémienne», uno di quei parigini d’acquisto che piovevano nella capitale dalla provincia, in cerca di gloria e di fortuna.

  Nato a Tours nel 1799 da una famiglia di villani rifatti (suo padre era un contadino arricchitosi durante la Rivoluzione e sposatosi a cinquant’anni; sua madre una gracile diciottenne), il giovane Balzac fu sin dall’infanzia abbandonato alla sua sorte: collocato in collegio all’età di cinque anni, ne uscì diciassettenne per iscriversi alla facoltà di Diritto a Parigi. Per sua confessione, trascorse un’infanzia tristissima: sempre in mano di estranei, assetato di affetto, poté appena conoscere le due sorelle e il fratello Henri, tutti minori di lui, nelle brevissime visite concessegli dai famigliari una volta all’anno.

  È comprensibile che, appena conseguito il baccelierato all’età di vent’anni, egli decidesse di cercare l’indipendenza, andando ad abitare in una stanzaccia d’affitto e dedicandosi alla sola professione cui si sentiva inclinato: la narrativa.

  Il successo poteva allora essere conseguito per due vie: quella del lavoro intellettuale indefesso e quella delle amicizie influenti. Balzac le percorse ambedue, con una foga d’arrivista che gli veniva da un’ambizione sconfinata.

  Tozzo e sgradevole d’aspetto, eccentrico fino alla volgarità, ma dotato di un fascino aggressivo, egli diede la scalata al mondo dell’aristocrazia, forgiandosi dapprima un nome gentilizio e attribuendosi una nobiltà che soltanto la sua inventiva poteva far risalire a Enrico IV (1565-1610), come egli presumette di dimostrare. Entrò poi nelle grazie di Laura de Berny, una matura contessa, madre di sette figli, la cui patetica infatuazione fu da lui sfruttata senza rossore, con un debito di centomila franchi. Questa infelice matrona fu la prima di una serie di amanti, che il giovane Balzac illuse, tradì, riconquistò, secondo le convenienze della borsa, della carriera o della passione: la duchessa d’Abrantès, Zulma Carraud, la marchesa de Castries, la duchessa Guidoboni-Visconti, la baronessa Marbouty, e infine la contessa Rzewuska (moglie del banchiere Hanski), che in extremis lo sposò.

  Con il denaro e gli equipaggiamenti loro, Balzac percorse da turista tutta l’Europa: visitò, oltre la Francia, l’Italia, l’Olanda, la Germania, la Polonia, l’Austria, la Russia. Durante un viaggio a Venezia, di passaggio per Milano, s’incontrò col Manzoni. Era l’anno 1837, e per lo scrittore lombardo quell’incontro fu un brutto ritorno alle memorie parigine della sua gioventù sfrenata, reso ancor più amaro da una coincidenza: l’indimenticabile Enrichetta, di cui il Manzoni portava ancora il lutto (era morta quattro anni prima), era stata da lui conosciuta colà esattamente trent’anni prima. Ma poi, quale contrasto fra l’immagine di Enrichetta, che col suo candore verginale aveva ricondotto lo sposo alla fede della sua infanzia, e le umiliate vittime di questo «viveur», incarnazione di una amoralità diffusa e avvilente! Non fa meraviglia che ambedue gli scrittori relegassero questo incontro fra i loro ricordi sgradevoli.

  Ovviamente il Balzac non trascorse la sua esistenza solo viaggiando, se è vero che le sue più fortunate opere sono il frutto di un lavoro dal ritmo spesso ossessivo: si dice che nei giorni di lena egli scrivesse per quattordici ore di seguito, dalla mezzanotte al pomeriggio successivo, sostenuto da imponenti cuccume di caffè. Guadagnava somme ingenti, che andavano spese in capricci di gioco e di arredamento, mentre i debiti restavano abitualmente insoluti, o si moltiplicavano in seguito a pazze speculazioni (è noto il suo tentativo di ripristinare lo sfruttamento delle antiche miniere in Sardegna). Comunque, il risultato delle sue corvées furono gli oltre cinquanta romanzi e la mole di altri lavori (opere teatrali, racconti, articoli vari), che lo resero uno dei più fecondi e rappresentativi autori del suo tempo, e dai quali egli si ripromise l’alloro, sempre rifiutato, dell’Accademia di Francia. Unico premio alla sua ambizione fu il titolo di cavaliere della Legion d’Onore.

  Con la salute consunta dalla malattia e dalla vita sregolata, Balzac morì a Parigi il 18 agosto 1850. Solo cinque mesi prima, all’età di cinquant’anni compiuti, aveva sposato Eva Rzewuska, la più assidua delle sue amanti, rimasta nel frattempo vedova e ricchissima.

 

* * *

  Questa la figura di Balzac uomo. Come artista, fu oggetto di valutazioni disparatissime. Demitizzato «post mortem» dal Saint-Beuve (sic), fu invece idolatrato dal Taine, dal Baudelaire e dai critici marxisti. Gli scapigliati (i «cappelloni» di allora) lo salutarono come il patriarca della narrativa moderna, il creatore del romanzo sociale; Marx ed Engels lo riverirono come il profeta della morte del capitalismo, senza tuttavia accorgersi che le simpatie del Balzac andavano proprio a quel mondo reazionario e putrescente che essi combattevano, e che egli di fatto disprezzava da gaudente plebeo.

  In realtà la sua opera, per usare una espressione del Taine, costituisce un «grande magazzino della natura umana», nel senso che gli aspetti più intimi dell’umanità furono da lui analizzati e messi a nudo con impietosa crudezza. Il suo stile analitico, lucidissimo nel linguaggio e nelle immagini, può paragonarsi all’obbiettivo di un cineoperatore puntato in volto alla sua vittima e capace di frugarlo spietatamente in ogni ruga.

  È significativo che il principale ciclo narrativo del Balzac si intitoli «Commedia umana» e gli sia stato ispirato, per sua dichiarazione, «da un confronto tra l’Umanità e l’Animalità». Effettivamente il passo fra queste due categorie dev’essere assai breve secondo lo scrittore, se dobbiamo credere alla definizione che un suo personaggio dà dell’essere umano: «L’uomo — afferma lo studente Bianchon — è una macchina animata dalla coscienza cerebrale, da cui provengono i sentimenti del piacere e del dolore». In altri termini, l’uomo di Balzac è una macchina-pupazzo, una marionetta in balia di un giocoliere che si chiama Amore.

  È importante non equivocare su questo padrone, che muove la creatura umana con i fili delle sue passioni. Non è l’Amore che l’evangelista Giovanni identifica con Dio, bensì quell’essere laido che in «Papà Goriot» appare sotto le sembianze di una statua pagana, come emblema di una sordida pensione parigina.

  Esattamente in questa pensione si svolge l’atto dell’amara «commedia» che ha per protagonista il personaggio del titolo. Egli potrebbe essere affrettatamente definito il «Re Lear» della Parigi borghese, uscita dalla Rivoluzione e dall’Impero. Ma non ha né l’energia né la dignità del personaggio tragico inglese: è un povero vecchio senza princìpi e senza fede in altri valori che non siano quelli del denaro e dell’ambizione paterna: veder felici le sue figlie, non importa come, né a quale prezzo. Ironicamente, la sua sorte può riassumersi nel grido disperato della sua agonia: «Ho espiato duramente il peccato di amarle troppo ... Esse si sono crudelmente vendicate del mio affetto, torturandomi come carnefici». E insomma la storia di una progressiva abdicazione ai diritti e alla dignità paterna, che si conclude con un «elegante parricidio». Succo amaro della vicenda, la iscrizione lapidaria sulla tomba del vecchio derelitto: «qui giace il signor Goriot, padre della contessa di Restaud e della baronessa di Nucingen, sepolto a spese di due studenti».

  I due studenti sono Eugenio di Rastignac e Bianchon, due personaggi autobiografici, nel senso che in essi l’autore ha trasfuso le proprie esperienze gogliardiche (sic) e i propri sentimenti. Nel primo soprattutto vediamo descritta la scalata al successo che fu del giovane Balzac, e compendiata la sua morale borghese, fondamentalmente ipocrita.

  Presentato come «anima bella», Eugenio si erge a giudice della società in mezzo alla quale vive, ma dimentica di togliersi dall’occhio la trave che gli impedisce di vedere la pagliuzza in quello altrui; infierisce infatti contro le due figlie snaturate di Goriot, ma dimentica che anch’egli ha contribuito a renderle tali, amoreggiando con loro, e infine crede di giustificare la propria perversione, presentandola come un atto di protesta contro il mondo corrotto. Come dire: Ah! voi fate così? Ebbene, a vostro dispetto farò altrettanto anch’io! «E come primo atto di sfida alla società, andò a pranzo dalla signora di Nucingen»: ciò dopo il ritorno dal funerale, con l’animo fremente di indignazione per la durezza del cuore filiale, e il braccio teatralmente proteso contro la città di Parigi ...

  Da quale pulpito, la predica moralizzatrice di Balzac!



  Lucia Sbuelz, Côté réaliste et côté visionnaire-mystique en Balzac. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1972.

 

 

  Enzo Siciliano, Visconti ama l’intrigo, «La Stampa», Torino, Anno 106, Numero 136, 13 Giugno 1972 p. 3.

 

  «Adoro l’intrigo, l’inseguirsi dei fatti, e a questa mia passione la narrativa più recente dà poca soddisfazione. Ma non è bellissimo scrutare una persona che incontri per caso e inventargli un destino? No, questo non si fa più: si scrivono libri tediosi in cui, al massimo, l’autore racconta propri fatti personali. [...]. Ed io torno a leggere Balzac, che oggi mi piace più di quanto mi piacesse da ragazzo, al tempo in cui con i mici fratelli riducevamo una tragedia di Shakespeare a tre quarti d’ora di testo e la recitavamo in casa».

 

 

  Vincenzo Sinisgalli, Balzac a Milano. Conversazione di Vincenzo Sinisgalli, Terzo programma, 21 gennaio 1972.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Mario Stefanile, Il Balzac di Zweig, in 60 studi di varia letteratura, Napoli, Guida, 1972 («Esperienze»), pp. 180-183.

 

 

  Elisa Tallone, Per una rilettura di H. de Balzac, «Famiglia cristiana», Torino, Anno XLII, N. 39, 24 settembre 1972, p. 96.

 

  Honoré de Balzac - Papà Goriot - Edizioni Paoline, pagine 289, L. 700

 

  L’opera di Honoré de Balzac (1799-1850), e in particolare questo indimenticabile Papà Goriot, sono ancor oggi di vivo interesse per il lettore. Da un punto di vista storico-culturale, vi si avverte il passaggio dal mondo romantico a quello realistico-borghese, con vigorose anticipazioni del naturalismo e verismo letterario del secondo Ottocento. Dal punto di vista morale, l’autore oscilla tra una lucida rappresentazione del vizio e delle sue tragiche conseguenze, ed una giustificazione del vizio stesso in sede economico-sociale, quasi a dimostrare che in mezzo a tanta miseria, a tanta corruzione, l’individuo non può conservarsi incontaminato. Da qui l’ambiguità morale (così diversa dalla fermezza cristiana del contemporaneo Manzoni), di tante situazioni e giudizi che rispecchiano in parte la vicenda umana dello stesso Balzac ed esigono nel lettore una coscienza vigile.

  Papà Goriot, commerciante a riposo, è la vittima volontaria delle due figlie, di cui ha sempre stimolato e soddisfatto la vanità, in una costante opera di diseducazione, favorendone il matrimonio con personaggi del gran mondo e godendo nel sacrificare per loro il suo patrimonio, e, da ultimo, la sua vita.

  Ma quali risorse di delicatezza e fantasia, quale abissale capacità di soffrire in quest’uomo arso da un cieco e deformante affetto paterno! E quale singolare coesistenza di bene e di male anche nel suo giovane amico. Eugenio di Rastignac, nella bella Clara di Beauséant, e persino nel lampeggiante Vautrin, campione di una titanica ribellione alla società del tempo. Notevole è, infine, l’integrarsi vicendevole dei personaggi e dello sfondo, che è, di volta in volta, lo squallido e magistrale interno della pensione Vauquer, degno teatro a un’umanità mortificata, e l’immensa, spietata macchina sociale della Parigi della Restaurazione.

  Un grande affresco di uomini e di vicende storiche che la penna di Balzac disegna con eccezionale maestria.

 

 

  Vice, Controcanale, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XLIX, N. 355, 29 dicembre 1972, p. 7.

 

  Senza differenze. La prima puntata di Il Giglio della (sic) valle che la ORTF (la televisione francese) ha tratto dal romanzo omonimo di Balzac merita, ci sembra, almeno una considerazione. Ed è che, data una certa situazione politico-culturale e dunque produttiva, il prodotto finale non cambia anche se muta la sua collocazione geografica. Vogliamo dire che questo romanzo sceneggiato prodotto in Francia oppure del tutto simile — nella meccanica narrativa come negli intenti di «divulgazione» - a quelli che vengono prodotti dalla televisione italiana su ispirazione di opere italiane o straniere. E questa considerazione non è certo un complimento. C’è infatti, ben oltre la diversità degli originali letterari che ispirano queste riduzioni, una strumentalizzazione culturale che travolge, con intenti simili, sia il testo letterario sia lo strumento televisivo. La meccanica produttiva è la stessa: si pretende di ridurre alla portata di un presunto «pubblico medio», un classico (sia pure minore, in questo caso) della letteratura; e si adoperano schemi narrativi che stanno a mezza via fra l’imitazione di scipiti modelli cinematografici e l’ossessione di una impossibile fedeltà al testo letterario. L’obiettivo è quello di tramandare, nella forma più stanca e meno impegnativa, proposte culturali che non hanno più alcuna vitalità: se non nella misura in cui rispecchiano falsi valori imposti e tramandati dalle classi dominanti. Balzac, o Dostoievski, o Manzoni, divengono a questo punto semplici pretesti narrativi: piegati ad una macchina produttiva che, in Francia come in Italia, risponde grossomodo agli stessi interessi di parte e soffoca in egual modo ogni eventuale partecipazione creativa. Siamo insomma nel clima culturale della produzione in serie e le diversità tra un teleromanzo e l’altro sono ormai riscontrabili soltanto nei dettagli. Si potrà dire allora, parlando di questo prodotto francese, che Delphine Seyrig recita ad uno standard professionale forse superiore a quello medio italiano; che di tanto in tanto traspare una certa cura nella ricerca della scenografia: che Cravenne, il regista francese, non è da meno di altri manipolatori letterari italiani. Ma restiamo alla diversità di dettaglio. E il discorso è comunque assai lontano sia da una analisi su un autentico modo d’uso della televisione, sia da una discussione sulla «divulgazione letteraria». Dominante resta, invece, il puro e semplice impegno produttivo che cerca di mascherare la sua pochezza nella standardizzazione di lusso di un prodotto che deve essere buono per «tutti i pubblici», ed ha dunque l’unico obiettivo di ricercare un «mercato» di vendita quanto più vasto sia possibile, secondo lo schema generale di tutta la produzione dell’industria culturale.

 

 

 

Adattamenti televisivi.

 

 

  Il colonnello Chabert, dal racconto di Honoré de Balzac. Personaggi ed interpreti principali: Il colonnello Chabert: Kurt Ehrhardt; La contessa Ferraud: Rosei Schaefer; Il conte Ferraud: Herbert Fleischmann; L’avvocato Derville: Ernst Stankovski; L’avvocato Grottat: Friedrich Joloff. Regia di Ludwig Cremer, Programma nazionale, 16 novembre 1972.

 

 

  Il giglio nella valle, dal romanzo di Honoré de Balzac. Sceneggiatura di Armand Lanoux. Personaggi ed interpreti principali: Madame de Morstauf: Delphine Seyrig; Félix de Vandenesse: Richard Leduc; Monsieur de Morstauf: Georges Marchal; Lady Arabelle Dudley: Alexandra Stewart. Regia di Marcel Cravenne, Programma nazionale, 28 dicembre 1972, prima puntata; la seconda ed ultima puntata sarà trasmessa il 4 gennaio 1973.



Marco Stupazzoni

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