venerdì 11 settembre 2020



1974

 

 

 


Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Da «Le colonel Chabert», in Giacomo Prampolini, Letteratura universale. Antologia di testi. III con 20 tavole a colori fuori testo, Torino, U.T.E.T., 1974, pp. 149-152.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Onorina. L’interdizione. Versione integrale dal francese di Marco Mastrocicco, Vicenza, Edizioni Paoline, 1974 («La Quercia», 3), pp. 254.


  Struttura dell’opera:

 

  Introduzione, pp. 5-14. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Il colonnello Chabert, pp. 15-82;

  Onorina, pp. 83-171;

  L’interdizione, pp. 173-252.

 

  Il testo de Il colonnello Chabert presenta una suddivisione in tre capitoli secondo il modello dell’edizione originale del romanzo pubblicato, con il titolo di: La Comtesse à deux maris nel tomo XII delle Études de moeurs nel 1835. La suddivisione in capitoli sarà soppressa da Balzac nella terza edizione (Furne, 1844).

  Anche la struttura di Onorina contiene una suddivisione in capitoli (quaranta) secondo il modello dell’edizione originale pubblicata da de Potter nel 1844, e non su quello della seconda edizione Furne del 1845 dove tutti i capitoli saranno soppressi.

  Stesso discorso vale per L’interdizione che presenta una suddivisione in sei capitoli secondo il modello dell’edizione originale Werdet (1836) e, successivamente, dell’edizione Charpentier; tale suddivisione sarà eliminata nell’edizione Furne del 1844.

  La traduzione di questi tre testi balzachiani non ci pare sempre fedele né sempre rigorosamente aderente al modello francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Papa Goriot. Traduzione di Luigi Martin, Milano, Fabbri Editori, 1974 («I grandi della letteratura», 32), pp. 303.

 

  Cfr. 1968; 1973.

 

 

  Honoré de Balzac, Père Goriot. Traduzione di Maria Fabietti e Emma Defacqz, Milano, Garzanti Editore, (novembre) 1974 («I Garzanti. I Grandi Libri», 90), pp. XIX-262; 1 ill.: Honoré de Balzac alle Tuileries in un disegno (1839) di Cassal.


  Struttura dell’opera:

 

  Honoré de Balzac: la vita; profilo storico-critico dell’autore e dell’opera; guid bibliografica, pp. VII-XIX. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Père Goriot, pp. 1-262.

. 

  Per la traduzione, pubblicata su licenza della U. Mursia & C, cfr. 1969; 1973.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Anna Premoli e Francesco Niederberger, Milano, Garzanti, 1974 («I grandi libri», 57) pp. XX-549.

 

  Per la traduzione, cfr. 1968.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Honoré de Balzac: la vita; profilo storico-critico dell’autore e dell’opera; guida bibliografica, in Honoré de Balzac, Père Goriot ... cit., pp. VII-XIX.

 

  pp. XIII-XVI. Il 1834 nella storia della letteratura è una data decisiva per la pubblicazione di Père Goriot ed è anche l’anno in cui maturò nella mente di Balzac l’idea di un vasto disegno letterario che doveva in seguito dar luogo alla Comédie humaine. È indubbio che la simultaneità delle due idee, quella che produsse il romanzo e quella che doveva portare all’opera complessiva, ha inciso profondamente sulla elaborazione di Goriot che è stato il terreno di sperimentazione della tecnica balzachiana. In modo rapido e conciso per esigenze di spazio, vediamo di indicare al lettore quanto siano presenti, più o meno apparentemente, quasi tutti i temi della Comédie humaine.

  Anzitutto la società nei suoi aspetti più contrastanti: la miserabile Pension Vauquer, dove vivono i personaggi principali. Goriot, Rastignac, Vautrin, alla quale si contrappone il salone elegante e mondano di Mme di Beauséant. Tra questi opposti ambienti si muove il giovane provinciale Rastignac, spinto da uno dei più imperiosi sentimenti della Comédie, la volontà di potenza, volontà che si ritrova in Vautrin, il forzato evaso, e che procede dallo stesso desiderio di vincere e dominare. A questi contrasti violenti, a questi desideri smisurati si accompagna la passione distruttrice, perché unica e divorante, di Goriot per le sue figlie, che lo spinge a rovinarsi materialmente, fisicamente e moralmente.

  Eppure, malgrado l’importanza di questa «passione» nella tematica e nella struttura del romanzo, va confutata l’idea che Goriot sia solo il dramma della paternità, vittima innocente e martire. Sin dalla prima pubblicazione si è tessuto intorno al romanzo il «mito» di Goriot, che ancora oggi influenza profondamente l’approccio del lettore di Balzac. Il titolo stesso, ponendo l’accento su uno solo dei numerosi aspetti dell’opera, la paternità, e su un unico personaggio. ha certamente contribuito in gran parte a costruire un’interpretazione ancora predominante e, purtroppo, assai restrittiva. Tale pregiudizio oscura quanto c’è in Goriot di essenzialmente dinamico. E soprattutto impedisce di cogliere una delle caratteristiche più generative del romanzo, cioè la sua «apertura».

  In effetti, al contrario per esempio di Eugénie Grandet, che si svolge quasi interamente all’interno di un’unica casa, ed è un romanzo chiuso, le Père Goriot si colloca all’interno della Comédie humaine, come luogo di intense comunicazioni, come incrocio di destini che superano largamente le frontiere formali del libro. Il romanzo non si chiude infatti su una vera e propria «conclusione» o risoluzione drammatica dei conflitti espressi; un solo filo narrativo, tra tutti quelli intrecciati dall’autore, viene troncato dalla morte, ma questa «fine» convenzionale diventa ben presto lo stimolo a un ulteriore «inizio», la premessa di un altro romanzo, la cui tematica si svolge lungo l’intero arco della Comédie humaine. Romanzo privo di reali frontiere, Goriot manca inoltre di una figura centrale, dell’«eroe privilegiato», linfa del tessuto narrativo.

  I personaggi non sono gerarchizzati secondo la convenzionale logica dell’intreccio principale da cui dipendono gli «intrecci secondari», ma vengono inseriti in una struttura che talvolta li confronta, talvolta li studia nelle loro divergenze, talvolta anche li abbandona a un destino sconosciuto. Da questa «autonomia» relativa e reciproca dei personaggi nascono il dinamismo di Goriot e la sua modernità. Il romanzo non è condizionato da un personaggio unico, ma da una pluralità di punti focali; i personaggi, altrettanti centri vitali dell’intrigo, delineati senza alcun manicheismo, non appartengono alla sfera delimitata del bene o del male, ma si muovono in zone in cui bene e male sono irrimediabilmente confusi. Non c’è più l’universo limpido e pre-rivoluzionario della Nouvelle Héloïse, né quello geometrico degli eroi trasparenti.

  Goriot, cosiddetto «Cristo della paternità», è anche una figura dalle ricche implicazioni a chiaroscuro, con un passato macchiato da compromessi finanziari, politici e morali. Rastignac rimane un essere altamente ambiguo, combattuto tra una crescente ambizione e il suo attaccamento ai valori dell’aristocrazia terriera da cui proviene, valori ideali, ma ormai decaduti. Vautrin, che getta un’ombra sinistra su tutto il romanzo, è una parodia satanica dell’«honnête homme» del secolo dei lumi, moralizzatore senza principi, filosofo senza distacco, testimone parziale e avvocato del male.

  La città di Parigi, tessuto connettivo di tutta la trama, quasi essere vivente, è anch’essa percorsa da contrastanti zone di luce e d’ombra, quali i giuochi di potere occulto o palese che la travolgono.

  Decaduto, dunque, in un mondo di restaurazione e di compromessi, l’eroe singolo che genera il romanzo, ormai antiquato il personaggio univoco, e incominciato, in letteratura, il regno dell’ambiguità. I fili della narrazione non seguono più una impeccabile via retta, ma corrono paralleli, intrecciati, oppure si perdono attraverso porte aperte e non rinchiuse. Questo groviglio costituisce il nuovo romanzo: non più un susseguirsi di descrizione e drammatizzazione, non più letteratura ancorata a una visione rassicurante della realtà, ma invece testimone e portavoce di un mondo dai valori incerti, dispersi e decentrati.

  Ecco perché non compare nel libro un punto di vista privilegiato, una «coscienza», un testimone che osserva, pensa e giudica; tutte queste funzioni implicherebbero infatti un inevitabile riferimento a una regola morale, ormai sparita. Perché il 1789 non ha portato soltanto dei cambiamenti politici e di costume; la rivoluzione, degenerala nell’impero, nella restaurazione e infine nella monarchia borghese (Balzac scrive dopo la presa di potere di Luigi Filippo, il re borghese) ha come estrema conclusione la frantumazione dei modelli ideali, siano essi religiosi o pagani, intellettuali o morali. E Le Père Goriot testimonia questa scomparsa, il fallimento del «filosofo» del secolo precedente, di colui che non agisce, ma pensa e riflette, per rispecchiare invece una società dove è stata abolita la frontiera tra coscienza e prassi. Pensare non è più esercizio puro della mente, pensare significa desiderare e attuare i propri desideri. Lo sviluppo della coscienza di Rastignac passa solo ed esclusivamente attraverso i fatti e l’azione, così come quella di Vautrin. La nuova regola è quella del «fare». Ardore epico, illusione idealistica, sono diventati anacronistici. Intelletto e sentimenti non sono più staccati dall’esperienza reale. Anche l’amore soggiace alle nuove regole sino a non essere più possibile distinguerlo dall’intrigo o dall’interesse. Delphine, figlia di Goriot, si dà a Rastignac quando le viene assicurato l’invito a un ballo dell’aristocrazia; Rastignac corteggia Delphine perché il successo è condizionato da un idillio con una donna in vista; Goriot compera le briciole d’affetto che gli concedono le sue figlie; Vautrin lusinga Rastignac con sontuose immagini di fortuna, e questa catena di vero e proprio «scambio» corre senza sosta per tutto il romanzo. Il sentimento è ridotto a semplice «mezzo» e così la ragione, emblema del secolo precedente. Nel romanzo si delineano i fondamenti stessi del mondo moderno e in particolare quello che diventerà la potente leva delle società occidentali: il denaro.

  E così Le Père Goriot segna la rottura irreversibile tra un mondo compiuto anche se in disfacimento, quale poteva essere quello del ‘700, e un altro che si stava creando, in modo ancora anarchico e soprattutto empirico, per iniziare, con intensi movimenti sociali, sia verticali sia orizzontali, la grande corsa al capitalismo.



  Introduzione, in Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Onorina. L’interdizione ... cit., pp. 5-14.

 

  Honoré de Balzac nacque a Tours nel maggio 1799 da una famiglia originariamente contadina, ma divenuta borghese già da una generazione. Egli ebbe un’infanzia infelice: gli mancò l'affetto della madre, che fece educare il figlio lontano da lei sino all’età di quattordici anni. Poi lo prese in casa «ma gli rese la vita così dura», sono parole dello scrittore, «che a diciotto anni, nel 1817, lasciai la casa paterna e mi stabilii in una soffitta, conducendovi la vita che ho descritto nella Peau de chagrin (La pelle di zigrino)». Il giovane inizia gli studi a Tours ma, trasferitasi la famiglia a Parigi, li continua là, alla facoltà di legge, di cui però interrompe i corsi prima di laurearsi. Dopo un breve periodo di apprendistato in studi notarili della capitale, abbandona la pratica del notariato per dedicarsi completamente all’attività letteraria. Gli inizi faticosi e singolarmente mediocri non sono coronati da alcun successo e fanno perdere al loro autore ogni illusione. Ma, persistendo nella decisione presa — e questa manifestazione di una volontà ferma e caparbia sarà il segno costante nel quale si iscriverà tutta la vita etica dello scrittore — Balzac non si lascia scoraggiare; consapevole della propria impreparazione culturale e insofferente della lunga fatica necessaria per scrivere il capolavoro accarezzato nei suoi sogni di gloria, decide di ripiegare temporaneamente verso forme narrative più facili e di successo più sicuro. Entrato in rapporti con un gruppo di scrittori e di giornalisti parigini, inizia a scrivere, da solo o in collaborazione con taluno di essi, una serie di romanzi che, senza alcuna pretesa artistica, si propongono solo di sollecitare il gusto di un pubblico comune di lettori attraverso la narrazione di peripezie complicate e di sentimenti assurdi: qualcosa di equivalente a quel tipo di bassa letteratura che cinquant’anni dopo sarà chiamata «di appendice». La pubblicazione di tale genere di opere si presenta più agevole e consente al giovane Balzac una certa indipendenza economica, oltre a una utile introduzione nel mondo editoriale e giornalistico della capitale.

  A leggere quei romanzi pubblicati, sotto pseudonomi (sic) vari, tra il 1822 e il 1825, nessuno potrebbe immaginare che l’autore di essi sia quello stesso scrittore destinato a diventare uno dei più grandi narratori francesi di tutti i secoli.

  La disordinata, segreta produzione degli anni giovanili consentirà allo scrittore una conoscenza del mestiere, una agevolezza tecnica da cui saprà trarre notevoli vantaggi, e sul terreno accidentato e pietroso delle opere di giovinezza sorgerà più tardi, miracolosamente, la Comédie humaine.

  Intanto l’attività letteraria giovanile subisce, con il 1825, una interruzione. Sensibile alla gloria poetica, ma anche alla conquista della ricchezza, Balzac cerca di far fortuna come editore, stampatore e fonditore di caratteri, impresa rovinosa dalla quale esce con un colossale fallimento che gli peserà tutta la vita (un debito di sessantamila franchi, circa venti milioni di oggi!).

  La disastrosa liquidazione degli affari ricondurrà Balzac all’attività letteraria — del resto mai abbandonata completamente — che ora non si presenta più come uno svago dell’immaginazione, l’ozio di un dilettante che non ha preoccupazioni finanziarie, ma come l’unico mezzo di guadagno, l’ultima possibilità di sopravvivenza. D’ora in poi, l’intensissima produzione dello scrittore sarà condizionata dalla necessità di pagarsi i debiti e di far fronte a una situazione economica in progressivo peggioramento. Dopo alcuni mesi di assestamento e di ricerche, egli pensa a un argomento storico, di storia recentissima: la rivolta della Bretagna legittimista contro le truppe della Repubblica, all’alba del secolo. Nasce così, nel 1829, Les Chouans (Gli Sciuani) il primo, vero capolavoro di Balzac, che sarà incorporato nella Comédie humaine. Nel 1830 la pubblicazione delle Scènes de la vie privée (Scene della vita privata), raccolta di sei novelle, unitamente a un’intensa attività giornalistica, lanciano lo scrittore nella vita mondana e letteraria francese, dandogli una meritata celebrità. Nel 1831, La peau de chagrin, di carattere autobiografico, ottiene grande successo. Da questo momento lo scrittore fa precedere il proprio cognome dalla particella nobiliare de, che userà poi sistematicamente sui frontespizi dei libri, negli atti e nella corrispondenza non ufficiali. È questo il secondo anno fecondo per Balzac. Vedono la luce altri Romans et contes philosophiques (Romanzi e racconti filosofici). Lo scrittore è un poco inebriato della gloria e incomincia l’epoca del suo dandysmo: carrozza e cavalli, domestici in livrea, palco all’Opéra e un appartamento lussuosamente arredato che gli costa moltissimo.

  Con la celebrità arriva anche la ricchezza desiderata: i diritti d’autore sensibilmente alti per l’epoca, e che l’autore saprà far moltiplicare grazie a un meccanismo commerciale in cui si rivela singolarmente abile, presso direttori di riviste ed editori, senza disprezzare nemmeno vistosi lanci reclamistici. Ma tale ricchezza, oggi come in seguito, sarà divorata non solamente dal pagamento dei debiti contratti nel 1828, ma ancor più dalle tentazioni di una esistenza fastosa, dal piacere irresponsabile e quasi fanciullesco di eleganza e di lusso, nonché dalla più caotica gestione dei propri affari. Spinto sulla china di continue spese e di nuovi debiti, stretto da un inestricabile groviglio di cambiali, lo scrittore è costretto a intensificare la propria produzione narrativa, unica sua fonte di guadagno per le sue elementari necessità pratiche della vita.

  È difficile trovare un’immagine appropriata per dar un’idea del ritmo di vita di Balzac, che ha del prodigioso, quasi del mostruoso. Nell’atto stesso in cui è capace di tener testa alla caotica situazione economica in cui si trova immerso, di viaggiare da un capo all’altro d’Europa, di intrecciare i più complicati legami sentimentali, di ideare i più strani e assurdi programmi di arricchimento, egli è costantemente presente all’adempimento della sua missione letteraria e alla quotidiana attuazione della sua vocazione di scrittore, che si identifica, in ultima analisi, con la sua intera esistenza.

  Vestito della sua famosa tunica di cachemire bianco e con la immancabile caffettiera di porcellana accanto, Balzac si sottopone a un ritmo di lavoro che si prolunga dalle otto alle dodici e anche sedici ore di tavolino per la costruzione di un colossale edificio letterario di cui egli è, al tempo stesso, artefice e prigioniero. Novantuno romanzi, trenta Contes drolatiques (racconti piacevoli), cinque drammi e commedie, alcune centinaia di articoli diversi costituiscono il risultato veramente ciclopico del ventennio 1830-1850 di smisurato lavoro con cui Balzac si proponeva, quanto a vastità di disegno, di «compiere con la penna ciò che Napoleone aveva compiuto con la spada» e, quanto a numero di personaggi creati (circa duemilacinquecento) di «fare concorrenza allo stato civile». Ambedue le immagini appartengono allo scrittore stesso consapevole, dunque, delle dimensioni dell’affresco che andava via via scoprendo davanti agli occhi stupefatti dei contemporanei.

  Sin dal 1834, Balzac aveva cominciato a suddividere la sua produzione, che si accresceva con ritmo vertiginoso, in tre grandi parti: Studi di costume, Studi filosofici e Studi analitici, ciascuna delle quali comprendeva diverse sezioni, in modo da stabilire quasi una serie di riquadri che egli andava a mano a mano riempiendo. Il titolo generale del ciclo doveva essere dapprima quello di Studi sociali, mentre quello definitivo di Comédie humaine compare solo nel 1841. L’opera, secondo un catalogo compiuto da Balzac nel 1845, doveva contenere centotrentasette romanzi e racconti più o meno lunghi. Alla sua morte ne aveva scritti novantuno in una ventina di anni di lavoro; progettava di portare a compimento la sua opera nel giro di pochi anni ancora. Logorato nella salute, che comincia a sentire il peso degli sforzi disumani durati per tanti anni, in aspra lotta con una situazione economica che peggiora e che diventa tanto più insopportabile quanto più lo scrittore avanza negli anni, preoccupato anche della sua vicenda di amore con la contessa Hànska, che si trascina e non accenna a risolversi, nei suoi ultimi romanzi si sentono alcune stanchezze di ispirazione anche se, in ognuno di essi, vi sono pagine di altissima potenza evocativa, situazioni narrative inventate con una magistrale genialità e con quella naturalezza che è anche testimonianza di una impeccabile sicurezza di mestiere.

  Nel 1845 raggiunge la contessa Hànska a Dresda, la conduce in Italia, poi nel Belgio e in Olanda. L’anno dopo la signora Hànska dà alla luce un figlio di Balzac, nato morto. È un colpo terribile per lo scrittore, dal quale non si riavrà più. Nel 1846 ha comperato una casa che arreda con grandi spese per ricevere la futura moglie, e si rovina con gli antiquari. Nel 1850 incontra a Berdecev (sic) la Hànska e la sposa; nel mese di maggio partono per Parigi, facendo il viaggio a piccole tappe perché la salute dello scrittore esige molte precauzioni. Arrivati alla nuova casa il 21 maggio, nessuno risponde alle scampanellate: il guardiano, incaricato di riceverli, era impazzito e, prostrato, stava nascosto in un angolo della casa illuminata. Balzac vide nell’avvenimento un funesto presagio. Costretto a mettersi a letto, non si alzò più. Siamo nel 1850: in luglio le sofferenze di cuore divennero atroci, ai primi di agosto cominciarono le crisi di soffocamento e il 18 dello stesso mese entrò in agonia. Quel giorno stesso era venuto a trovarlo Victor Hugo, che dirà ai funerali lo splendido elogio funebre del grande scrittore.

  Balzac è stato il pittore vigoroso e fedele di un periodo e di una parte della società francese: ci ha dipinto la borghesia che, da buon legittimista, egli detestava, quella borghesia parigina e provinciale laboriosa, intrigante, servile ed egoista, che voleva il denaro e il potere, che cercava di arrivare al possesso di grandi patrimoni con il commercio e con l’industria e i cui figli, dopo una sola generazione, erano già attraverso i titoli e gli uffici, dirozzati e gentili. Si resta sorpresi dalla potenza creatrice di Balzac: tutti quei suoi romanzi che non sono caduti nell’oblio e che ancora leggiamo, quei personaggi che troviamo e ritroviamo in ogni periodo della loro carriera quando si passa da un’opera all’altra, quelle famiglie che si suddividono in tanti rami e delle quali seguiamo o l’elevarsi a gradini più alti o la decadenza, tutto ciò forma un mondo che dà la sensazione della vita. Nella grandezza dell’insieme scompaiono tutti i difetti e, quando si scorrono le pagine della Comédie humaine, dobbiamo compiere uno sforzo per distinguere i personaggi fittizi da quelli storici, con i quali sono mescolati. Per questa coesione e per la potenza di illusione che ne risulta, l’opera di Balzac è unica.

  L’uomo di affari che era in Balzac ha reso un incalcolabile servigio al Balzac romanziere. La maggior parte dei letterati non sa trattare che di amore e, per caratterizzare i suoi personaggi non sa valersi che di avventure amorose. Balzac, invece, fa andare i suoi personaggi tra la gente, ciascuno secondo la sua professione, ci racconta particolareggiatamente, senza stancarsi, tutti gli atti professionali per i quali un individuo rivela il suo temperamento e fa la sua fortuna o la sua rovina. Egli è impareggiabile anche nell’accordare i suoi personaggi nell’ambiente in cui vivono. Si può dire che quello che c’è di più profondo nella sua psicologia si trova nelle descrizioni degli interni, quando ci presenta l’appartamento di un curato o di una vecchia zitella oppure le tappezzerie sgargianti o scolorite di un salone, ed è questo modo, particolarmente suo, di analizzare le abitudini morali della gente, che ha dato un’impronta agli aspetti dei luoghi: una scrupolosità straordinaria nel descrivere i particolari della verosomiglianza esteriore. Senza inventare nulla di nuovo, fedele alle forme tradizionali del romanzo e della novella, attento egli stesso ai temi dell’amore e della infelicità umana, dà luogo a una forma letteraria che rifiuta di far ricorso a luoghi comuni ed è animata invece da un’analisi spietata, senza retorica e senza infingimenti, del cuore umano in personaggi che non sono di eccezione, nulla hanno di eroico e vivono entro i quadri abituali della vita nobile, borghese e popolare di ogni giorno.

  Nella sua immensa attività, Balzac ha profuso tutto se stesso. La sua opera gigantesca che permane così viva mentre il mondo da essa evocato è da tempo rientrato nell’ombra del passato, è stata pagata con molte sofferenze e, sorta da un’esistenza magnifica e dolorosa, non ha mai cessato di affascinare i lettori.

  Nell’impossibilità di elencare, sia pure in parte, l'enorme mole delle opere dello scrittore, accenneremo qui ai tre romanzi brevi che presentiamo: Le colonel Chabert, Onorine (sic), L’interdiction, che hanno un tratto in comune: sono tre drammi coniugali.

  La più atroce delle storie in essi narrata è quella del colonnello Chabert. Il protagonista è uno di quei semplici eroi dell’avventura napoleonica, che il valore e la grandezza d’animo hanno portato agli onori e alla gloria. Creduto morto nella battaglia di Eylau, dove egli aveva procurato la vittoria con una celebre carica di cavalleria, dopo pietose vicende e una lunga segregazione in manicomio, ritorna a Parigi, povero, irriconoscibile e malato. Nessuno vuole credere che egli sia il colonnello Chabert. Sua moglie, la donna tanto amata, che egli aveva preso in una casa equivoca e alla quale aveva dato un nome onorato, si è risposata. Presunta vedova ed erede della fortuna di Chabert, è andata a nozze con un conte della Restaurazione, mentre lui, il colonnello, ridotto all’estrema miseria, è ritenuto pazzo da tutti coloro cui si rivolge per aiuto. Si presenta un giorno a Derville, un giovane avvocato, il quale crede alle parole del vecchio, lo soccorre e gli promette di sostenere la sua causa. Siccome la moglie (che ha perfettamente riconosciuto il marito) teme lo scandalo, l’avvocato riesce a persuaderla a venire a una transazione: Chabert riavrà da lei una parte del suo patrimonio e intenterà una duplice azione giudiziaria per ottenere l’annullamento dell’atto di decesso e del matrimonio. Ma questo piano non conviene alla signora la quale, speculando sull’amore che il colonnello nutre ancora per lei e sulla sua nobiltà d’animo, sta per ottenere che egli continui a farsi passare per morto e scompaia per non distruggere la sua felicità, allietata anche dalla nascita di due figli. Ma questa contessa, fiera del suo titolo e della sua reputazione, Chabert l’ha ora crudelmente ferita perché nello stato di eccitazione in cui era venuto a trovarsi durante un colloquio ha rivelato, davanti a un testimonio, in quale genere di casa l’avesse presa. Da questo momento il dramma diventa non più un dramma di interesse, ma di vendetta. Con l’abilità di cui è dotata e speculando sui sentimenti del vecchio soldato, la donna cerca di farlo acconsentire ad abbandonare tutti i diritti legali che egli ha in mano, riservandosi, se non ci riesce, di farlo internare come pazzo. Questo è peggio di una interdizione. Quando Chabert ha la rivelazione di una simile viltà, se ne va senza più chiedere nulla, forse per pietà verso i figli della contessa, ma non senza aver fatto capire alla sfacciata e vile donna tutto il suo disprezzo, di fronte al quale essa, poiché nessun testimonio è presente, dimostra la sua assoluta indifferenza. Il colonnello si ritira nell’ombra, in attesa della morte, in un ospizio di vecchi dove, parecchi anni dopo, il giovane avvocato Derville lo rivedrà, miserevole fantoccio, completamente rimbecillito. Così colui che, nato in un brefotrofio, era riuscito con il lavoro e la nobiltà d’animo a diventare colonnello dell’Impero, conte, grande ufficiale della Legion d’onore, non sarà più che un perseguito dalla giustizia, prima, e poi ridotto a finire nel modo più miserevole una vita di eroe.

  In questo ammirevole racconto, considerato un capolavoro, Balzac, accanto alla figura del protagonista circonfusa di purissima luce, a quella meschina e vile della moglie senza pietà e senza coscienza, ha tracciato una bella figura di avvocato, giovane e generoso, che sa esercitare nobilmente la sua professione; e poiché Balzac non può rappresentare alcun luogo senza farlo vivere dinanzi agli occhi del lettore, anima, con tratti esalti e felicissimi, l’interno dello studio di Derville, dove scherzano e lavorano i giovani apprendisti.

  Qualche tratto della mentalità e della storia del colonnello Chabert potrebbe additare in lui un precursore dei personaggi pirandelliani, ma in realtà questi non è che un rappresentante del dramma della personalità di uno di quei vinti a cui si rivolge con sincera commozione il pessimismo di Balzac: anime troppo semplici e pure nella loro modestia per trionfare nelle lotte della vita.

  Onorina, la giovanissima protagonista del secondo racconto, appassionatamente amata dal marito, lo lascia per seguire un uomo immeritevole, che le dà un figlio e l’abbandona nel momento più delicato per una donna, il momento in cui sta per diventare madre e in cui ha più bisogno di avere accanto un braccio protettore cui appoggiarsi. Il bimbo muore. Onorina, che ha lasciato il marito con dignità e disinteresse, allorché si ritrova sola, chiede unicamente alle sue forze i mezzi per vivere in una solitudine onesta e laboriosa. Ma il marito, il conte Octave, un eminente magistrato, che ha giudicato se stesso e ha assolto e perdonato la moglie, non ha cessato di amarla e con amorosi accorgimenti è riuscito a creare attorno a lei un piccolo mondo che consente alla giovane l’illusione di vivere soltanto del proprio lavoro. Sinora Octave è rimasto nell’ombra, ma ora vuole riaccostarsi a Onorina e si confida con il suo giovane segretario Maurice, al quale è legato da profonda amicizia, e lo incarica di recarsi da Onorina, di guadagnarne la stima e, convincendola dell'amore sempre profondo del marito, di indurla a tornare con lui. Senonché Maurice nello svolgere la sua missione, è vinto dal fascino della giovane donna e rimane colpito dal concetto che essa ha dell’amore: se amerò un altro essa dico, questo non potrà mai essere il conte Octave. tuttavia non ha il coraggio di respingere l’appello di quell’uomo devoto e generoso, e obbedisce ai consigli di Maurice; ritorna dal marito vinta, sì, dalla sua grandezza d’animo, ma non dall'amore che egli nutre sempre per lei. Cede forse a uno slancio di pietà, forse alle leggi e alle convenienze della società, senza tuttavia mutare i suoi sentimenti. Ha un figlio, ma non riesce ad abituarsi alla vita di lusso che le è offerta: un cuore insoddisfatto, ricordi vivi e cocenti, una dirittura e una fedeltà di sentimenti fanno della sua vita un olocausto, e la riducono in uno stato di languore che la porta lentamente alla morte.

  Dramma semplice e toccante, raccontato minuziosamente da Balzac, che ha voluto creare una figura di donna che rivendica la sua libertà affettiva e segue una sua etica dell’amore, pagando con la vita la sua ribellione. Entrambi i protagonisti sono vittime. Una fatalità li ha legati senza che sia avvenuta la fusione dei loro cuori. Il loro errore, secondo l’autore, è di aver fondato un matrimonio sulla passione.

  Tra le donne dei tre racconti presentati in questo volume, madame d’Espard, la protagonista di L’interdizione è, senza dubbio, la più cinica e più odiosa, quella alla quale non possiamo concedere un minimo di simpatia e di comprensione. Donna ambiziosissima, amante del lusso, fiera del suo salotto frequentato ed elegante, viene a sapere che il marito intende restituire una notevole parte del suo patrimonio ai discendenti di coloro che ne erano stati ingiustamente spogliati da un suo avo. Incapace, nella sua arida freddezza, di comprendere la nobiltà del sentimento che spinge il marito a tale gesto, la marchesa non intende unirsi a lui in questa doverosa azione e, nel timore di dovere sottostare a qualche sacrificio, rifiuta qualsiasi accordo e lascia che il marito e i figli se ne vadano e la lascino padrona di continuare la sua vita inutile e vuota. E presenta una domanda di interdizione del marito, come malato di mente, incapace di amministrare i suoi beni che sperpera senza motivo e senza misura, inetto nell’educare i figli ai quali, per la sua stupida, insensata prodigalità, fa mancare anche il necessario. Da un vecchio amico, ignaro della vera situazione dei fatti, fa raccomandare la sua causa al giudice designato a occuparsene. È questi Jean-Julies (sic) Popinot, uomo di grande esperienza, di nobilissimo carattere e di immensa bontà. Conoscitore profondo dell’animo umano, nutre qualche sospetto sulle vere cause che hanno spinto la marchesa a chiedere l’interdizione del marito e conduce, per conto suo, una piccola inchiesta e, proprio seguendo la storia di queste ricerche, veniamo a conoscenza di tutta la vicenda e dei personaggi che la vivono. Nella breve e suggestiva narrazione, lo scrittore spiega quel suo gusto per i complicati intrighi giudiziari che potrebbero farlo considerare tra gli inventori del moderno romanzo poliziesco, ma questo raffinato e cerebrale diletto è soverchiato dalla passione dello studio dei costumi e, più ancora, da quello di creatore di caratteri. La descrizione minuta e particolareggiata dell’ambiente in cui si muovono i personaggi ce li presenta vivi davanti agli occhi. Ci sentiamo disgustati dal freddo cinismo della marchesa, ammirati dalla nobiltà d’animo del marito, disposto a tutto pur di assolvere al compito che si è prefisso per lasciare ai figli un nome non offuscato da una macchia disonorante e, soprattutto ci affascina la figura di Popinot, il vero protagonista del racconto. Il lettore, che verrà a conoscerlo profondamente seguendo le pagine di Balzac, proverà un sentimento di commozione al pensiero che possano esistere creature di una bontà così inesauribile, capaci di abnegazione, sempre pronte, a costo di qualsiasi sacrificio personale, a tendere una mano soccorrevole a chi chiede aiuto!

  Queste tre figure, ciascuna inquadrata nel suo ambiente, sono veramente indimenticabili e i loro incontri danno luogo a scene di alta commedia, tali da far considerare questo breve scritto tra le più affascinanti letture balzacchiane!



  Luciano Anselmi, Balzac in Italia, «il Resto del Carlino», Bologna, 17 settembre 1974, p. 3.

 

  Honoré de Balzac giunse a Milano il 19 febbraio del 1837. Aveva 38 anni e aveva già pubblicato alcuni capolavori (Eugénie Grandet, Le père Goriot). Il giornalista Defendente Sacchi, direttore del periodico lombardo «La gazzetta privilegiata», dava subito il benvenuto all’illustre ospite annunziando ch’egli veniva in Italia allo scopo di raccogliere materiale per narrare le campagne napoleoniche nella nostra penisola. (Non sarà così; il romanziere di Tours non ambienterà nessuno dei numerosi romanzi che seguirono nella capitale lombarda; troveremo, invece, Venezia nel delizioso Massimilla Doni. Ho tolto queste notizie da un libriccino prezioso e ormai antico: «L’Italia nella Commedia Umana», edito a Città di Castello nel 1927, e firmato da Maria Pisani). In realtà il motivo vero di questa visita non è conosciuto; le ipotesi sono molte, non esclusa quella di una provvisoria fuga da Parigi per la caccia spietata che gli davano i creditori.

  Sia come sia, il successo mondano non gli mancò. Salotti e duchesse se lo contesero a Milano come a Venezia e come a Genova. Ma è nella capitale lombarda, ospite della contessa Soranzo, che capitò una scena incresciosa. Balzac ebbe un battibecco piuttosto concitato con un letterato lombardo a proposito (starei per dire a sproposito) di Manzoni, di D’Azeglio e di Grossi. Cito sempre dal libriccino della Pisani: «... eccoti il nostro oracolo dir di Manzoni che il tessuto del suo romanzo è fiacco e che, debitore del buon successo alle attrattive dello stile, non regge alle prove di una traduzione. Eccoti un tal panciuto, che sorridendo all’illustre straniero per aggraziarsi anco a dispetto di natura, ecco ti dico, questo tale esclamare: — Peccato che Grossi nel Marco Visconti e D’Azeglio nell’Ettore Fieramosca, abbiano imitato Manzoni».

  L’interlocutore non stette zitto e notò che, imitatori o no, il Grossi e il D’Azeglio avevano pur scritto romanzi piacevoli e robusti; quanto al Manzoni, egli disse, la sua opera lasciava di sé tale impressione da rendere il lettore soddisfatto di sé medesimo e del libro; cosa che non si poteva dire, aggiunse, di romanzieri stranieri anche celebrati. L’allusione era macroscopica, e la gentile padrona di casa tentò di deviare il discorso mettendosi a tessere le lodi di Chateaubriand che definì, precipitosamente, il Manzoni della Francia. Dalla padella nella brace. Balzac si inviperì e cominciò a lanciare frizzi poco benevoli all’indirizzo dell’autore di Memorie dell’Oltretomba. La serata finì male: con mezzi sorrisi, musi lunghi e anche vaghe minacce.

  Balzac non amava il nostro paese; le sue visite furono brevissime: pochi giorni a Milano, una settimana a Venezia, tre giorni a Genova; poi Livorno e Firenze. A Genova, fra l’altro, fu tenuto in quarantena in un «orribile lazzaretto» poiché, udite!, nell’anno di grazia 1837 (sic) era scoppiata una epidemia di colera! Alla fine di aprile, comunque, il suo pellegrinaggio italiano, così diverso da quello di Stendhal, era finito.

  Scrive Maria Pisani: «Poco dopo tornava in Francia, lasciando dietro di sé odii e simpatie egualmente fervidi, come suole accadere agli uomini che superano di gran lunga la statura comune».

  Infatti, da lì a poco, un ufficiale di cavalleria con scoperte ambizioni letterarie, pubblicò un opuscolo dal titolo chilometrico ma assai chiaro: «Difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiate dal Sig. Di Balzac nelle sue scene della vita parigina e confutazione di molti errori della storia militare delle guerre di Spagna fatte dagli italiani».

  Non conosciamo questo libretto, credo che sarebbe difficile rintracciarlo anche nella biblioteca più fornita; ma la affettuosa biografa dello scrittore francese ritiene che nella novella «Les Marana» ci fossero allusioni oltraggiose al buon nome dell’Italia, dato che un personaggio della novella, un ricattatore ignobile, era di cittadinanza italiana. Insomma, il cattivo sangue fra Balzac e l’Italia era ormai sancito. Tanto più che in un romanzo famoso, Il cugino Pons, il protagonista, venendo in Italia, non resta colpito dalle bellezze paesaggistiche e monumentali, ma dall’avvenenza delle donne; e ancora: dalla facilità con la quale riesce ad intessere facili avventure con dame della aristocrazia e della buona borghesia. L’amore, secondo Balzac, ed insieme all’amore il clima dolce, caratterizzano il nostro popolo. Niente altro. Ma è proprio vero?

  Anche un grande scrittore si contraddice: non si contano i romanzi di Balzac dedicati a personaggi del nostro paese. Si passa dalla semplice, ma significativa, dedica a Gioacchino Rossini (Le contrat de mariage), a quelle ben più impegnative per la Contessa Maffei (La fausse Maîtresse) e per la Contessa (o principessa) di Belgioioso (Gaudissart); fino a giungere alla lunga e sdolcinata dedica a Sua Altezza il Principe Alfonso Serafino di Porcia, dedica che apre un capolavoro assoluto: Splendeur (sic) et Misères des Courtisanes. Se poi andiamo a leggerci tutti i romanzi dello scrittore francese (impresa titanica, quasi eroica) ci accorgiamo che le antiche dispute sulla grandezza di Manzoni e sul carattere degli italiani erano in gran parte pretestuose.

  Una riprova viene dalla Cousine Bette, dove una portinaia è così bella, incede così elegantemente che viene paragonata a una regina. (La portinaia è italiana, anzi lombarda, naturalmente). E la Pisani annota: «Queste parole non ridestano nel lettore l’immagine della madre di Cecilia e di quella sua bellezza molle ad un tempo e maestosa che brilla nel sangue lombardo? E l’espressione famosa: «Il cielo di Lombardia, così bello quando è bello ...», non suggerì forse a Balzac la definizione della Belles Gênoises, les plus magnifiques créatures de l’Italie quand elles sont belles? (Dal romanzo Honorine).

  Per concludere: Balzac non fu né un cieco estimatore né un giudice iniquo del nostro paese. Ma solo uno scrittore francese che ci ha guardati e giudicati secondo il proprio angolo visuale. Che avesse visto giusto o no, questo è un altro discorso.

 

 

  Alberto Arbasino, Balzac a piazza Navona, «Il Mondo», Roma, 25 luglio 1974.

 

 

  Jean Bancal, Paysages et destins balzaciens de Amédée Ponceau, «Francia. Periodico di cultura francese», Napoli, Anno XIII, n. 11, giugno-settembre 1974, pp. 108-110.

 

Visages terriens et paysages d’âme.

 

  Entre les paysages et les visages — non point ceux qu’un appareil photographique saisit — mais ceux que la graphie du coeur, de l’esprit, de la mémoire, de l’espoir et du désespoir conjugués perçoivent, il y a une correspondance, une homologie que des êtres, experts en écologie sentimentale et en affinités structurales, décèlent, éclairent et font ressentir.

  Tel est, entre autre, un trait du multiple génie de Balzac.

  Et c’est ce que dévoile, avec l’art d'un portraitiste-paysagiste, Amédée Ponceau dans son ouvrage Paysages et Destins balzaciens.

  En peintre de l’âme spirituelle, en philosophe de la psyché charnelle, il nous montre dans son livre, quels desseins, et dessins s’unissent dans la trame de la Comédie Humaine.

  Cette oeuvre est la résultante d’une extraordinaire enquête et d’un étonnant itinéraire.

  Amédée Ponceau connaissait par cœur l’immense somme de la Comédie Humaine. Il l’a relue «topographiquement». Et il est à penser, en parcourant son livre, qu’il a dû reporter sur la carte les lieux et les itinéraires d’élection des romans balzaciens, et le nom des personnages qui en sont en quelque sorte les guides et les présentateurs.

  Puis il a parcouru, carte à la main et guide au coeur, ces provinces bénies par Balzac. Il a retrouvé les villes, les maisons, les éclairages, les couleurs et les routes.

  Il nous a alors restitué dans ce livre sans équivalent, une géographie balzacienne: — géographie humaine avec ces personnages et leurs visages – géographie physique avec ces paysages et leurs contours – géographie psychique, avec la carte des sentiments et des passions, géographie picturale, avec la palette des teintes, des sons et des parfums.

  Et voici que, devant nous, surgit un film inouï: la Comédie Humaine dans son théâtre naturel, avec ses provinces de coeur, de terre, de grandeur, et de dérision.

  Ce Balzac peintre, «ce Balzac au chevalet»: c’est sans doute lui, le metteur en scène sublime; mais le réalisateur qui nous fait «montre» de ce chef-d’oeuvre: c’est Amédée Ponceau, nous rendant ainsi la psycho-genèse d’une oeuvre.

  Décrire cette fresque serait vain. Il faut la lire de ses yeux, ou plutôt par les yeux d’Amédée Ponceau. […].

  Il faut particulièrement remercier ce philosophe, paysagiste et portraitiste, de nous montrer «comme il y a dans Balzac», au-delà «d’une longue trame de secrets et d'intrigues ..., une traînée de bonheur» et « la possibilité pour notre âme de produre (sic) de la transparence et de la joie, même au sein des pires ténèbres».

  Paysages du coeur et visages d’âmes, portrait de terre et chemin d’esprit — Paysages et Destins balzaciens sont sans cesse à relire comme un viatique de vie et un cordial de joie.

 

 

  Roland Barthes, Maschile, femminile, neutro. Traduzione di Enrico Chierico e Enrico Paradisi, «Nuovi Argomenti. Rivista bimestrale», Roma, Numero triplo 40-41-42, luglio-dicembre 1974, pp. 19-37.

 

  Sarrasine è una breve novella che Balzac ha inserito nelle sue Scènes de la Vie Parisienne. [...].

  La prima domanda d’indentità (sic) è riferita al vecchio enigmatico della soirée Lanty: si tratta di conoscerne il nome proprio (Chi è?), cioè il suo stato sociale, familiare, storico, il suo posto nella società, i suoi legami con la famiglia Lanty, la sua origine. La seconda domanda (Che cosa?) dà alla novella la sua caratterizzazione. È ancora il vecchio, e ancor di più la Zambinella che la rappresentano: di che natura sono? La domanda, a dire il vero, non riguarda una scelta di nomi, ma la possibilità stessa del nominare: ciò che è suggerito a titolo interrogativo è piuttosto la categoria dell’innominabile, della cosa, nel senso fantastico del termine. La suspense d’essere, qui, non è ignoranza, ma enigma: il vecchio turba come una cosa di cui non possiamo trovare il nome (dà freddo, non lo si può toccare), e Sarrasine muore nel momento in cui può dare alla Zambinella il suo vero nome: di tutte le cose, essa è la più terribile, è il niente («Io non ti ucciderò, perché tu non sei niente»). Questa suspense di specie non esaurisce tuttavia l’interesse della novella: anche se si indovinasse fin dall’inizio ciò che sono il vecchio e la Zambinella (come avviene in molte letture), resta da sapere — dramma e non più enigma — «come il tutto va a finire». La suspense d’essere produce in qualche modo una suspense di fare. Tutta la seconda parte della novella si costruisce sull’«attrito» tra il dramma (la storia), che non è di ordine ermeneutica, e il discorso che è una decifrazione il cui tragitto si sovrappone alle angosce puramente passionali di Sarrasine. Infine la quarta suspense è essa stessa accennata; poiché la struttura della novella è un flash-back (con la sua storia nella storia), uno degli esiti dello sciogliemento (sic) è dato fin dall’inizio. Se per ragioni contingenti, si sa fin da principio non solamente chi sono la Zambinella e il vecchio, ma anche che Sarrasine deve morire, rimangono da riunire i pezzi del rebus di cui si ha la parola finale e da colmare il tragitto della decifrazione; o più esattamente rimane da riversare sull’eroe l’ignoranza che ci è necessaria per una buona lettura, per assistere allo spettacolo della sua ignoranza e per controllare il modo in cui la verità che noi conosciamo si insinua in lui. Schema di cui Brecht farà la molla stessa del suo teatro, facendo vedere allo spettatore la vicenda di un accecamento: questo accecamento non è mai dissipato, perché in Brecht la funzione critica è riservata al pubblico, non al personaggio che non è mai un «eroe». Ma tutto sommato, non è nemmeno sicuro che Sarrasine, scoprendo la vera natura di Zambinella, conosca con ciò la propria verità.

  Non si può concepire la decifrazione (multipla) che fonda la novella di Balzac come un’operazione unilaterale: il testo non è affatto cifrato dall’autore, poi decifrato dal lettore. I segni che si offrono alla decifrazione sono nello stesso istante i segni della cifratura: il lettore cifra e decifra nello stesso tempo: considera la notazione come cifra oscura e come cifra chiara. Questa ambiguità è data dal fatto che in Sarrasine il lettore non è mai direttamente il decifrante: la novella comporta sue decifrazioni interne. Ve ne sono due: l’una ha per scena il prologo, per oggetto il vecchio enigmatico, per soggetto (guidato anche lui dalla parola del narratore) madame de Rochefide; l’altra ha per scena l’aneddoto riportato, per oggetto la Zambinella, per soggetto lo scultore Sarrasine. L’unità delle due decifrazioni si raggiunge solo al livello del loro oggetto: rispetto alla sostanza, perché nei due casi è un corpo che è decifrato, rispetto allo stato civile, perché si tratta della stessa persona, rispetto alla struttura perché le due cifre, dapprima separate, convergono nell’epilogo dove i loro oggetti coincidono («Ma questo o questa Zambinella? — Non potrebbe essere, madame, che il prozio di Marianina»). Di più, questo oggetto comune non si offre nello stesso modo alla lettura: nel caso del vecchio, il problema posto al decifrante è di rimettere insieme una identità frammentata, di suscitare un nome unitario che non esiste ancora, poiché nello strano vecchio, né la persona né il corpo possono essere nominati. Zambinella invece è provvista di un’identità chiara, ricomposta, nominata (è una cantante). Contrariamente al primo problema si tratta ora di mettere alla prova l’identità, di smascherare un corpo, di sostituire un nome (il castrato) a un altro (la donna), una sostanza (il niente) a un'altra (la femminilità piena, perfetta).

  Così le astuzie della decifrazione non sono le stesse nelle due serie. Nella prima, di un’assenza di nome bisogna fare un nome; analogamente a un’analisi componenziale che si facesse a ritroso, la cifratura consiste allora nel disseminare lungo il prologo un certo numero di «semi», la cui addizione — ritardata — deve formare il significato vecchio castrato. La « creatura » sarà dunque provvista 1 – di vecchiaia, 2 – di femminilità, 3 – di comportamento infantile, 4 – di ricchezza (i castrati celebri ammassarono fortune favolose), 5 - di senso musicale (il vecchio si commuove nostalgicamente al gorgheggio eseguito dalla nipote), 6 — di un ultimo tratto difficile a definire, poiché si tratta proprio del «niente» che fa il castrato: Balzac ricorre al tema del manichino (creatura rilucente di cerone, agghindata con una parrucca bionda e ricciuta), cioè della cosa inanimata (a cui fa allusione il freddo scostante sprigionato dall’enigmatico personaggio). Tutti questi «segni» vengono scaglionati lungo il tessuto narrativo c non vengono riuniti sotto il nome della Zambinella che all’ultimo minuto. Questa Zambinella, lei, non può essere composta di «semi», o almeno, se gliene appartengono, non sono mai che quelli della femminilità: Sarrasine legge Zambinella come una donna, e niente nell’aneddoto smentisce mai «semanticamente» la sua femminilità; in lei la castrazione si scopre con la confidenza, non per decifrazione.

  Quello che in effetti Sarrasine respinge, con furore e terrore, nella Zambinella, è un’idea non una realtà; il castrato non diviene oggetto di decifrazione che quando è invecchiato, passato dall’ordine dell’illusione a quello della cosa. Il senso appare così come la verità tardiva dell’illusione, ma l’illusione stessa è fuori del senso, non lascia trasparire nessuna lacuna che permetta un’interpretazione oggettiva. Secondo l’istanza della descrizione, che è sovrana, la «realtà», è che la Zambinella è una donna; lillusione, è il niente che ella confessa: incrociarsi di posizioni di cui Balzac ha rispettato con maestria la sottile inversione, essendo ogni suggestione della «verità» (il castrato), immediatamente contraddetta dall’evidenza della «realtà» (la donna): «Se io non fossi una donna? domandò timidamente la Zambinella con voce argentina e dolce». Le due decifrazioni riposano certamente su una denominazione; ma nel caso del vecchio, il nome a cui deve essere ricondotto è in qualche modo lessicale: è il nome della cosa in sé: si tratta di risalire dai semi al significato. Nel caso della Zambinella, il nome non ha valore di definizione se non quando è proferito («Se io dicessi una parola, voi mi respingereste con orrore»): è e resta un significante, la cui materialità (e non la referenza) sarà la causa della disgrazia di Sarrasine: egli non osa del resto pronunciarlo («Ah, tu sei una donna, gridò l’artista di delirio; perché anche un ... Egli non terminò la frase»).

  Nella letteratura occidentale, di tipo realista, il simbolico (si intende con ciò in modo generale ogni discorso sostitutivo) è razionalizzato sotto giustificazioni psicologiche e storiche che formano lo strato verosimile della storia: infatti il «verosimile», ciò che pretende di sfuggire al simbolico, deriva da un modello entimematico (sillogistico) c non metaforico. Sarrasine non sfugge a questa regola: implica tre tipi di «verosimile»: narrativo, psicologico e storico.

  Il verosimile narrativo deriva qui da un modello conosciutissimo, quello della storia riportata, o della storia nella storia: il narratore è nella storia (poiché corteggia madame de Rochefide) e al di fuori di essa (dal momento che la riferisce). La storia riportata riceve una verosimiglianza accresciuta dal fatto che essa sopprime — o sembra sopprimere — l’artificio di un contatto puramente culturale tra un «autore» e un «lettore», entità messe troppo in rilievo dall’istituto letterario. Sembra in effetti che l’assertivo impersonale (che si trova a un tempo nel modo indicativo e nel romanzo alla terza persona) non proceda, qui e là, senza impaccio. Certe lingue, si sa, comportano un modello speciale, destinato a fissare il carattere contingente del processo verbale (è il testimoniale), e il romanzo, lo vediamo, molto spesso è tentato da questi racconti di racconti, che in qualche maniera ricorrono a un modo testimoniale. Essi hanno il vantaggio di differire di un grado l’artificio della narrazione anonima, stampata, recuperando così il ricordo, un po’ nostalgico, sembra, di una letteratura orale: la storia imita la storia, la scrittura la parola, più «vera» di essa, come se la bocca fosse un organo più naturale della mano.

  Sarrasine comporta anche un verosimile psicologico. Questo verosimile è costituito da uno stereotipo romantico: la lotta dell’artista —visto come individuo irriducibile — passione assoluta, sofferenza solitaria — contro la società, data come censura, chiusura e incomprensione. Poiché il verosimile si ostina a rendere conto di tutto, questo cliché permette di spiegare l’avventura di Sarrasine: lo scultore è un artista preso dal sogno e dalla passione, una specie di selvaggio disadattato, un uomo fuori dalla realtà che non vede nient’altro che i propri fantasmi e non sa che in Italia i ruoli femminili sono ricoperti dai castrati. La Zambinella, lei, sembra condividere sul momento la passione di Sarrasine (gli concede un bacio): non fa che consentire per viltà a soddisfare la piccola beffarda compagnia dei commedianti, che vogliono ridere del francese facendolo cadere in un’avventura ridicola. La novella così può passare per un’allegoria della solitudine romantica del creatore.

  C’è infine in Sarrasine un verosimile storico. I castrati bisogna ricordarlo — hanno avuto in Europa un posto considerevole nei secoli XVII e XVIII; questo posto non era senza qualche risonanza mitica: un castrato di Napoli, Farinelli (morto nel 1782 a 87 anni), stabilitosi in Spagna, guarì col suo canto la malinconia di Filippo V che non lo lasciò più partire. I due ultimi castrati sono morti l’uno nel 1846, l’altro nel 1861. Zambinella è quasi loro contemporaneo: la scena (del prologo) è situata intorno al 1830; Zambinella allora ha all’incirca 90 anni. Testimone invecchiato di una società tramontata, egli diviene l’allegoria della frattura radicale che ha separato la vecchia società dalla nuova: è in questo senso che Sarrasine è una scena della vita parigina: la storia del castrato spiega l’origine inesplicabile della fortuna del banchiere parigino, origine a suo modo favolosa, come conviene a un’epoca in cui la fortuna è senza regole e senza eredità. E d’altronde è qui che il simbolo riprende i suoi diritti e che il verosimile si articola in metafora: il verosimile dice che nella società finanziaria della restaurazione, l’oro sorto dalla speculazione, dai cambiamenti abusivi di proprietà, non ha per così dire origine. La metafora dice che a questo nulla sociale corrisponde il vuoto con cui si definisce il castrato: situare l’origine di una fortuna nel niente del castrato è da una parte abbozzare un processo sociologico perfettamente verosimile (le date ne fanno fede) e d’altra parte è affermare la mitica labilità dell’oro, l’inflazione miracolosa dello zero (tema che si ritrova nel Mercadet di Balzac, l’affarista che fa oro con niente).

  Non vogliamo dire che il verosimile occupa nel racconto un ruolo superficiale e illusorio. Vogliamo dire che il simbolo è l’ineluttabile e che anche nel più sociologico dei nostri romanzieri, il disegno esplicativo si riempie di spazi metaforici. Bisogna dunque volgersi verso il simbolico di Sarrasine. Il suo centro apparente è il sesso, il vestiario, materia amata dai romanzieri, non ne conosce che due: il maschile e il femminile. Balzac ha tuttavia continuamente bisogno di un terzo sesso, o di un’assenza di sesso; non gli resta allora che definire la castratura, sia come un miscuglio simultaneo di maschile e femminile (è il costume del vecchio), sia come la successione dei due (Zambinella si veste da donna, poi da uomo). Questa distribuzione degli abiti traduce bene la difficoltà che il romanziere prova nell’inserire simbolicamente il castrato nella struttura istituzionale dei sessi, che è ineluttabilmente binaria. Infatti se ci si attiene a questa struttura, dal momento che l’assenza di contrassegno vi caratterizza il femminile, di che cosa potrebbe essere costituito il neutro? In realtà, e la linguistica lo attesta, il neutro non può essere preso direttamente in una struttura sessuale. Nelle lingue indo-europee, l’opposizione del maschile e del femminile è meno importante di quella dell’animato e dell’inanimato, le è comunque susseguente:

 

Animato (Maschile/Femminile) / Inanimato (Neutro).

 

  L’opposizione maggiore dell’animato e del neutro è contrassegnata morfologicamente nella struttura stessa del nome; quella del maschile e del femminile non appare che a un livello sussidiario dell’attributo (dell’aggettivo). Sarrasine si attiene molto esattamente alle indicazioni della linguistica, per la quale il femminile non è che un sostituto dell’animato, per la buona ragione che il tema maschile, per così dire, non vi compare (salvo che al livello del vestito): Zambinella non è un ragazzo travestito, è l’inanimato travestito da animato; l’equivoco non è quello dell’invertito, ma quello della cosa; tutta la novella non conosce che un paradigma che non è direttamente quello del sesso, ma quello della vita. Sarrasine non mette in scena una trasgressione di sessi (come Séraphitus-Séraphita), ma, per così dire, una trasgressione di oggetti, analoga a quella che praticano la maggior parte delle lingue quando creano delle metafore; è in effetti la categoria duale dell’animato/inanimato che è comunemente sottomessa alle trasgressioni metaforiche, nient’affatto quella del maschile/femminile. La vita o la morte? Tale è qui il luogo della metafora.

  Ce ne assicureremo ricordando che tutta la novella è collocata sotto il segno di un’antitesi iniziale che stabilisce subito il suo livello simbolico. Quest’antitesi è posta dal narratore la cui funzione è in un certo modo a un tempo retorica c aneddotica: padrone del discorso e della storia, della storia come discorso, egli è il solo ad avere in mano i due versanti della figura, a occupare la frontiera dei due quadri. Come il poeta, egli possiede il paradigma integrale; il suo corpo stesso testimonia a un tempo della divisione e della relazione: a metà nascosto da una tenda nel vano di una finestra, ha una gamba attanagliata dal freddo che viene da fuori e l’altra dal calore del salone. L’antitesi è difatti quella del giardino morto sotto la neve e della festa all’interno, brillante, grondante di vita; da un lato il freddo, la magrezza scheletrica degli alberi, il grigio biancastro delle nuvole notturne; dall’altro, le luci, il calore, la danza, le belle donne, associate alle immagini vegetali della vita piena, dura, impetuosa, soave e fresca insieme. Quest’antitesi alimenta tutto il prologo, dove il contrasto fra il castrato-morte e la donna-vita è affermato senza tregua; questo prologo non è nemmeno fatto per rappresentarne solo l’aspetto paradossale; esso culmina quando la bella madame de Rochefide per una curiosa aberrazione non può impedirsi di toccare il vecchio, provocando così una specie di conflagrazione paradigmatica, una esplosione di sostanze antipatiche. Queste sostanze, in buona fisica poetica, sono fondamentalmente il freddo (l’appannato, l’immobile, l’ossificato, il bluastro, il glauco) e il caldo (il brillante, il vaporoso, il profumato): Zambinella invecchiato è il freddo assoluto; Zambinella giovane è la mistificazione di un freddo profondo nascosto sotto un rivestimento caldo e fresco. Secondo un’allegoria costante (se accettiamo che, da noi, la poesia non viene che dal nord), l’opposizione del freddo e del caldo non è altro che l’opposizione tra la creatività e la sterilità (senza che si possa decidere quale «viene prima»).

  L’arte, che è anche il soggetto di Sarrasine (questa novella comporta molte «entrate») vi produce due allegorie: quella del quadro di Adone (nel prologo), quella della statua (nella storia). Formalmente, l’arte consiste in un’operazione di riunificazione; davanti alla sua arte il mondo reale di Sarrasine è diviso, è partecipe di una colpevolezza maggiore, quella che è legata al composito. Sarrasine stesso è composito: «ora entusiasta ora passivo» (è ciò che il romanticismo, almeno quello di Balzac e di Michelet, chiama il «bizzarro»); in Filippo, il pronipote del castrato, nonostante la sua grande bellezza, si scopre la mescolanza di elementi contrari (il gracile, il delicato della figura e le sopracciglia vigorose, il sentimento virile); la madre e la sorella, l’una scintillante, l’altra dolce, devono essere in due per completare un’immagine della donna totale. Prima di conoscere Zambinella, quando Sarrasine cercava un modello per le sue sculture, non trovava che dettagli perfetti in corpi diversi: qui le rotondità di una gamba ben fatta, là i contorni del seno, il collo di una giovinetta, le mani di quella donna, i ginocchi levigati di quel ragazzo. Di fronte a questa dispersione, l’arte è quel potere che ricompone l’inconcepibile giuntura (come dice Machiavelli facendo il ritratto di Lorenzo de’ Medici): solo l’arte può riunire il corpo frammentato dal fantasma (e in questo senso l’arte è un controfantasma). Zambinella è per Sarrasine un oggetto d’arte — l’oggetto stesso dell’arte — perché il suo corpo riunisce perfezioni che esistono, certo qui e là nel reale, ma separate; la sua femminilità è legata alla sua perfezione, ma la sua perfezione alla sua unità. Ciò che di Zambinella colpisce Sarrasine, la prima volta che la vede, è la verità dell’unità: l’artista diviso, digrignante (come ce lo fa conoscere la sua biografia), si trova tutto a un tratto, parola sorprendente, lubrificato.

  I rapporti che uniscono Zambinella all’opera d’arte sono contraddittori o almeno conviene analizzarli senza tener conto della successione degli episodi, perché niente dice che la fine della storia sia la sua verità. In una prima fase, o momento prosaico, questo rapporto è abbastanza semplice: Sarrasine trova per caso in Zambinella il modello finalmente perfetto della statua totale che egli ha sempre sognato; prende febbrilmente appunti, schizzi, abbozzi disegnandola in tutte le pose e confondendo già, così, l’immagine e l’oggetto, poiché i suoi disegni sono altrettanti fantasmi in cui egli fa della donna ciò che vuole «saggiando per così dire l’avvenire con lei» (espressione profonda che denota chiaramente il futuro in cui si radunano tutti i fantasmi).

  In una seconda fase, o momento patetico, il modello carnale è decifrato e quando sotto la donna appare il castrato (il niente), l’arte crolla, la creazione diviene impossibile, il creatore si ritrova lui stesso metonimicamente castrato («Mi hai fatto cadere in basso fino a te»): Sarrasine lancia il martello contro la statua (senza colpirla) e muore. Questo momento è quello dell’arte realista, poiché la riuscita dell’opera vi è interamente assoggettata alla natura fisica, materiale del modello: quando il referente ne scopre l’alterazione, il segno stesso sprofonda. Secondo questa concezione, per produrre un’opera perfetta bisogna che il modello, tiranno dell’artista, sia conosciuto integralmente fin nella sua intimità; non è l’apparenza, è la «realtà» (organica) del modello che garantisce l’opera. Biograficamente (ma forse non simbolicamente) Sarrasine è un artista realista, perché se l’opera non è conforme al segreto del modello, essa è una menzogna, la statua non è buona se non quando riproduce ciò che si può vedere della donna; in altri termini, l’opera d’arte deve avere un rovescio, le pieghe dell’argilla nascondono una donna che dobbiamo poter svestire.

  Tuttavia, in una terza fase, le cui tracce sono nell’aneddoto senza costituirne con ciò l’argomento, l’opera d’arte e la Zambinella coincidono in maniera esaustiva: l’una non deve esaurirsi dopo l’altra e non c’è alcun rischio che la corporeità della seconda tradisca mai l’idealità della prima, nella misura in cui entrambe, allo stesso titolo, sono imitazioni della donna. È proprio perché la Zambinella è una falsa donna, o più esattamente una donna imitata, che ella ha pienamente vocazione di opera d’arte («Era più di una donna, era un capolavoro!»). Ne deriva paradossalmente questo; quello che Sarrasine ama in Zambinella, è precisamente il castrato, condizione aneddotica della donna imitata. La sua illusione è in qualche modo diretta dalla sua natura d’artista («Credi di poter ingannare l’occhio di un artista?» dice a Zambinella che cerca di ricondurlo alla realtà); egli viene a riconoscere in qualche modo, a sua insaputa, l’accordo giusto (se non vero) che unisce la perfezione della Zambinella alla mancanza che la costituisce («Questa voce ... sarebbe stata un controsenso se fosse uscita da un altro corpo che non fosse il tuo»). Tutta la novella mostra così ciò che si potrebbe chiamare la dialettica di Pigmalione (tema espressamente citato dallo scultore), che consiste per l’artista nell’amare l’illusione stessa, non il suo contenuto, e nel definire la sua creazione meno per la pienezza della sua referenza che per la deviazione del suo riflesso. Imitare infatti è infine differire, è allontanare all’infinito la referenza, è ricondurre senza sosta il «fondo» dell’opera alla sua superficie: le opere non hanno rovescio ed è in questo che la Zambinella a suo modo era un’opera perfetta; non c’era, sotto il «biancore scintillante del merletto che le nascondeva il petto» niente di meno o niente di più di ciò che si poteva trovare sotto la vernice dell’Adone dipinto da Vien. Si potrebbe dire che la statua, che ha uno spessore da investigare, trascina lo scultore nella passione della decifrazione e nella verità del referente, mentre il quadro (fatto da un altro, non bisogna dimenticarlo), essendo immediato, senza profondità, senza rovescio e senza cuore, trattiene l’artista nella verità dell’illusione. Pittore, Sarrasine non avrebbe provato a voltare la tela e non avrebbe rischiato di scoprirvi con orrore il niente che vi è sotto. L’Adone, dipinto da Vien dalla statua salvata dal martello distruttore di Sarrasine, senza che il pittore abbia mai visto il modello, ne è come la versione redenta: essa mostra nostalgicamente all’artista la visione felice di un’arte di cui non bisogna mai cercare il rovescio. Sarrasine muore per aver creduto che l’arte è realista.

  Ci dicono che in indo-europeo il carattere maschile o femminile di un sostantivo non si riconosceva in se stesso, ma solamente per la forma maschile o femminile del suo aggettivo: dal punto di vista della morfologia linguistica, il sesso non è mai che un attributo. Allo stesso modo, di fronte alla domanda stessa di cui morirà (Zambinella è una donna o no?), Sarrasine non dà — e non trova — che prove attributive: il femminile della Zambinella, di cui si persuade continuamente, non è per lui che predicativo. Queste prove sono di tre specie. Le prime procedono da una disposizione di cui il fisico non è che la mediazione: la bellezza è la prova decisiva della donna: ciò che è bello non può essere che femminile («È troppo bello per essere un uomo», dice madame de Rochefide davanti all’Adone di Vien). Bella di una bellezza superlativa, la Zambinella non può essere che la quintessenza di una donna (la bellezza del giovane Filippo è avvertita solo per il fatto che partecipa della fragilità graziosa della cantante). La seconda specie di prove, più importante perché interviene nel momento più drammatico della domanda, più decisiva perché mantiene Sarrasine nella sua convinzione a dispetto della confessione stessa di Zambinella, è la prova psicologica. Zambinella non può essere che una donna, perché possiede a un grado assoluto l’essenza caratteriale della donna, la debolezza; più Sarrasine s’inoltra nell’avventura e più di conseguenza i rischi della decifrazione si accrescono, più la debolezza di Zambinella assume importanza agli occhi di Sarrasine: è la difesa del suo accecamento. La debolezza dapprima non è che sconvolgente, è una grazia propria della Zambinella; poi diviene essenziale, contribuendo a definire in una volta sola il genere e la specie, le donne e la Zambinella («Era la donna dalle paure improvvise»). Sarrasine è alla ricerca dì tutte le debolezze di Zambinella perché esse gli dimostrano la donna, essendo questa la specificità del genere («Osereste proprio pretendere che non siete una donna?» dice lo scultore a Zambinella che s’è spaventato di una serpe). Più la convinzione di Sarrasine diventa difficile e più la crisi incombente, più la debolezza di Zambinella diventa enfatica; è dunque logico — benché l’effetto sia paradossale — che facendosi strada la verità, Sarrasine tenti, con un ultimo sforzo, di salvare la donna dal castrato, caricandola di una debolezza così atroce che ella non possa almeno dividerla con lui: è la viltà: quando Zambinella crolla sotto la violenza dello scultore, quest’ultimo grida: «Ah, sei una donna ..., perché anche un ... non terminò la frase»: questo vuol dire che per Sarrasine anche un castrato non può essere così vigliacco. A questo punto la debolezza della Zambinella non è più solamente negativa; infatti secondo il verosimile essa serve a dimostrare la donna, ma secondo il discorso si riferisce propriamente al castrato, come quell’anche, che nello stesso tempo differisce e fonda ogni imitazione. Così Sarrasine può confessare senza contraddizione che è precisamente quella debolezza eccessiva che egli ama in Zambinella («Spiegatemi perché la vostra estrema debolezza, che in ogni altra donna sarebbe orribile ... in voi mi piace, mi affascina?»): paradossalmente, questa lo premunisce contro le astuzie dell’inversione che può sempre mettere un po’ d’uomo nella donna («Sento che detesterei una donna forte, una Saffo coraggiosa, piena di energia, di passione»). C’è infine una terza prova della femminilità di Zambinella, altrettanto attributiva delle due precedenti: è la passione stessa di Sarrasine: ciò che è designato dall’uomo come oggetto non può essere che donna. La passione di Sarrasine è a doppio effetto: in base all’argomento è paradossale, poiché si rivolge a un ragazzo, sia pure un castrato; ma al contrario, secondo il discorso, dispersa in una serie di segni di violenza, di gioia, di protezione e in atti di trasporto amoroso (divorare con gli occhi, progettare un rapimento ecc...), non cessa di dimostrare la donna. Così, la prova, per Sarrasine, è di carattere retorico: il ragionamento che lo conduce non è altro che l’argomentum degli antichi retori, cioè un sillogismo approssimativo, o entimema, fondato su una premessa semplicemente verosimile: la Donna è bella, debole e amabile, dice Sarrasine; ora Zambinella è bella, debole e amabile, dunque Zambinella è una donna, e più in lei queste qualità sono pure, più lei realizza la quintessenza della Donna.

  Tuttavia, risospinto alla superficie del discorso, il problema della prova è tutto un altro. L’indice di femminilità — o la sua maschera — non può più essere che grammaticale e tutta la novella si scontra allora con le regole della lingua: perché parlando del sopranista, bisogna decidere quale pronome si userà: maschile? femminile? neutro (se esiste)?

  Certo, se Sarrasine raccontasse lui stesso la sua storia via via che la vive, (cioè senza conoscerne in anticipo la fine), non dovrebbe designare ogni volta la Zambinella che per mezzo del contrassegno esplicito del femminile. Il narratore ha tuttavia altri obblighi: deve rispettare la regola della suspense (e di conseguenza ricorre al femminile dell’illusione: ella s’avanzò, ella sorrise, ella ha paura, ecc...), tuttavia per così dire, non deve mentire che al minimo, dal momento che è richiesto dal verosimile del discorso che il narratore, che è colui che sa tutto come un dio, non possa cadere nella falsificazione completa dei suoi enunciati: tutt’al più può mentire tramite preterizione. Il narratore è in tal modo di fronte a una sillessi generalizzata, perché deve decidere in ogni momento se egli concorderà le sue parole secondo il senso o la grammatica. Il narratore balzacchiano ne esce seguendo il più vicino possibile la «coscienza» del suo eroe: Zambinella è femminilizzata fin tanto che Sarrasine la crede donna, ella diventa egli quando il musico è smascherato. Questo passaggio è l’oggetto di notazioni sottili: così l’italianismo che permette di femminilizzare esplicitamente i nomi propri (la Zambinella) sparisce con l’illusione della donna: si parla allora semplicemente di Zambinella («Tuttavia, Zambinella essendosi rimesso a cantare ...»).

  Le cose si complicano per la ragione che non è possibile, in un testo, distinguere fino alla fine in modo esaustivo, il personaggio, il narratore e l’autore. C’è un livello di ogni scrittura in cui non si può decidere chi parla. «Era la donna, con le sue paure improvvise, i suoi capricci senza ragione, i suoi turbamenti istintivi, le sue audacie senza motivo, le sue vanterie e la sua deliziosa finezza di sentimento», è scritto a un certo punto. Chi dice questo? Sarrasine, il narratore, Balzac, la saggezza universale, la psicologia romantica? Questa domanda sarà sempre senza risposta: come l’Adone di Vien, la scrittura è senza rovescio ed è invano che si pretende di voltarla per vedere «ciò che vi è dietro». Segni di esteriorità sono dunque inevitabilmente disseminati qui e là, non per rispetto alla verità nascosta, ma per risolvere la natura in qualche modo germinativa del tessuto narrativo, e più precisamente le regole della suspense, che vogliono che il lettore stia sempre all’erta sui segni stessi della cifra. Dapprima in Sarrasine si trova il ricorso a certi sostituti del neutro. A dire il vero, il neutro è impossibile nella nostra lingua; per quanto possibile grammaticalmente, non di meno sarebbe pericoloso discorsivamente, perché, o smaschererebbe troppo presto il castrato (né uomo, né donna: abbiamo visto che nella nostra mitologia il neutro è sentito come una desessualizzazione e non come una disanimazione), o denoterebbe la volontà di non scegliere tra i due sessi, sarebbe già troppo il solo parlarne. Il narratore non può dunque indiziare il castrato che in maniera discreta, attraverso ciò che potremmo chiamare il neutro femminile (una così affascinante creatura, una istituzione femminile). Vi sono poi notazioni maschili molto rapide, subito riassorbite dal discorso, che non di meno imprimono ma sorta di oscillazione all’alternativa dei sessi («Posso essere un unico devoto per voi, dice la Zambinella»), come se, non potendo ricorrere a un neutro morfologico (per le regole della lingua), si pervenisse a farlo intravedere attraverso l’oscillazione dei due contrari.

  È un momento in cui l’acrobazia delle notazioni raggiunge il suo limite estremo (momento che noi saremmo tentati di prendere in po’ solennemente per la verità della letteratura): quando la notazione diviene puramente grafica. Se dal punto di vista del verosimile ogni enunciazione di egli ed ella, quando l’immaginiamo astrattamente parlata, può ancora passare per un discorso indiretto (è così che parlerebbe Sarrasine, sembra allora sottolineare il narratore), questa finzione, in certi punti, sembra crollare, allorché si deve scrivere: «Vi sono sembrata jolie», dice Zambinella; il narratore qui deve mentire con il castrato. In quanto è la forma più artificiale della lingua, la concordanza del participio passato comporta una regola impietosa, e blocca tutte le possibilità di preterizione; il narratore può far ruotare con una certa libertà coscienze e parole, ma lo scrittore è rimandato alle rubriche obbligatorie della lingua scritta; egli non può più affidarsi che a una verità sistematica, irriducibile a ogni altra, che è quella non dell’autore, ma della scrittura.

 

 

  Arrigo Benedetti, I discorsi dei giovani, «Corriere della Sera», Milano, Anno 99, 22 marzo 1974, p. 3.

 

  Balzac è stato il grande poeta epico d’una società in cui gruppi tenebrosi predeterminavano le azioni altrui o intervenivano per avviarle a certi fini. Nella «Comédie humaine» c’è l’epopea del sospetto, oltreché dell’intrigo politico. Non penso solo a Ferragus e ai tredici accoliti che, anzi, intervengono per raddrizzare i torti fatti ai deboli; ma alle trame politiche intessute genericamente in alto, nella Francia egoista, dopo gli slanci della rivoluzione e delle guerre napoleoniche. Ai tempi di Luigi XVIII, di Carlo X e di Luigi Filippo, gli uomini di potere erano però animati da un’alacrità ereditata dai regicidi, dai giacobini e dagli eserciti che avevano dilatato i confini della repubblica, sino a farli diventare quelli di un impero. La grande borghesia francese, allargatasi coi nuovi ricchi beneficati dalla vendita dei beni nazionali, dopo avere avuto tutto il potere politico, vuole il superfluo che legittima la ricchezza. e, come garanzia, di stabilità si conferisce predicati nobiliari, mimando con goffaggine l’«ancien régime».

 

 

  Philippe Berthier, Les «Diaboliques» de Balzac et la déception du texte, «Studi Francesi», 54, Torino, Anno XVIII, fascicolo III, settembre-dicembre 1974, pp. 429-442.

 

  […]. Qui dit Barbey dit, forcément, Balzac. On n’en finirait pas de dresser le catalogue de tout ce que Balzac a fourni à Barbey en thèmes, images, situations, etc. Les sourciers ont du pain sur la planche, avec tout ce que leur travail comporte d’éclairant et d’inessentiel. Car, au-delà des emprunts de détail, c’est d’une imprégnation, d’une innutrition qu’il s’agit; Balzac est un milieu romanesque dans lequel Barbey n’a jamais cessé de respirer. Il est partout et nulle part, comme une humeur vitale qui circule dans un organisme qu’elle irrigue. Et sans être, bien entendu, exclusif d’autres commerces et métabolismes tout aussi essentiels (ainsi Byron).

  S’agissant des Diaboliques, c’est Remy de Gourmont qui, en un aphorisme souvent repris, a indiqué, vaguement encore, une piste à suivre d’une singulière fécondité […]. Dans son édition de la Pléiade et, plus tard, dans des études précises, J. Petit a montré que la technique des Diaboliques, en particulier par le recours systématique au «cadre» métadiégétique d’un récit-gigogne, prenait sa référence dans une structure typiquement balzacienne, spécialement mise en oeuvre dans la contribution de Balzac au recueil collectif et anonyme des Contes bruns. Jusqu’à présent, on s’est surtout préoccupé, à partir de cette découverte, d’interpréter Barbey à la lumière de Balzac. C’est le contraire que nous voudrions tenter ici. Si — comme il paraît hors de doute — le modèle balzacien informe le texte aurevillien, n’est-il pas également possible de mettre en valeur certains éléments du texte balzacien (et pas seulement ce qui lui revient dans les Contes bruns) en le confrontant avec Les Diaboliques?

  Mais d’abord, qui sont les Diaboliques? Six femmes, a priori difficiles à réunir sous une invocation commune. La question de leur parenté pose celle de leur essence, qui entraîne à son tour celle du catholicisme de Barbey. […].

  Le propos est limité et modeste. Il ne prétend définir aucune vision d’ensemble, aucune relecture globale de Balzac. Il ne cherche pas à recenser les nombreuses interférences entre Balzac et Barbey. Il voudrait seulement, sur l’horizon des Diaboliques, étudier le cas de quelques femmes elles aussi «diaboliques» en ceci, qu’elles ont toutes, dans leur vie, un secret qui introduit en elles un décrochement, au fond de chacune une déhiscence existentielle: celle-ci instaure l’espace même (entre-deux, entre-multiples) où sourd le sens — la pluralité des sens possibles – enfin démasqué. Espace du vacillement et de la stupeur devant l’abîme soudain entr’ouvert sous la familiarité de l’habitude. Et la parole qui croyait épuiser des significations immobiles se heurte à un quid proliférant qu’il lui est même impossible de nommer ou d’isoler. […].

  […] les Diaboliques balzaciennes nous proposent un écrit fondamentalement décevant, ou mieux un écrit de la déception (de la non-saisie), soit qu’elles nous placent devant l’impossibilité de superposer deux visages pourtant évidents d’un seul et même être, soit qu’elles nous abandonnent, démunis, au bord de quelque chose sur quoi elles nous laissent le soin de mettre un nom, après nous avoir persuadés que ce qui échappe est précisément l’essentiel. Il ne s’agit pas que de ménager artistement un mystère à éclaircir. Ce qui donnerait le «sens» manque. L’écrit apparaît alors comme bizarrement décalé. Il est au-dessus, à côté, en avant ou en arrière du sens, jamais au centre, ni en échange réciproque, direct et fluide avec lui. C’cst qu’il existe un lien de substance entre la vérité, le silence et la faute. L’écrit ne peut que colliger des éléments plus ou moins proches du foyer interdit d’où rayonne le vide/plein de la signification absolue; il n’y pénètre pas. En tant que forme, il existe, et même rien n’existe que lui; mais tout n’existe pas par lui. Il n’intègre pas ses déchirures. Il est donc voué à des variations autour de la chose tue, qu’elle s’ouvre d’un seul coup à la frontière du texte, ou qu’elle le troue à l’intérieur même de son épaisseur illusoire. Le texte n’apparaît pas comme un palimpseste, car il n’est pas question de retrouver, sous la couche actuelle, un état plus ancien de l’écrit, ni même un écrit autre. Le texte se définit par son état lacunaire, par l’inversion des valeurs qui fait que les temps véritablements (sic) forts sont précisément dans ce qui est laissé en blanc, que c’est au moment où le récit se met entre parenthèses et s’éclipse qu’il existe le plus. Paradoxe d’un certain prix, s’agissant d’un écrivain volontiers accuse d’hypertrophie de l’explicite, et dont on répète à satiété que son ambition fut de tout voir, de tout savoir, de tout dire et de tout déplier, oubliant que, même pour lui, le demiurge d’une écriture totalitaire, «nous mourrons tous inconnus» [Ferragus]. Inconnus — c’est-à-dire hors texte.



  Loredana Bolzan, Structures formelles et structures sémantiques dans «La Fille aux yeux d’or» de H. de Balzac. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1974.



  Carlo Bordoni, Introduzione alla sociologia della letteratura, Pisa, Pacini Editore, 1974 («Studi e ricerche di sociologia dell’arte e della letteratura»).

 

  pp. 45-46. Se dunque il valore di un’opera, che comprende inevitabilmente l’elemento della partiticità, non è dovuto — rigidamente — all’autore o alle sue concezioni ideologiche, politiche e sociologiche, ma alla sua capacità di rappresentare adeguatamente la realtà nelle sue tendenze di sviluppo e di cogliere la profonda dialettica di fenomeno ed essenza, ne deriva per il Lukács, allo stesso modo di Engels, che le idee politiche dell’artista, qualsiasi indirizzo esse abbiano, non influenzano minimamente quella stessa opera. Lo scrittore può essere politicamente reazionario (è il caso di Balzac, tratto sempre da Engels), ma non per questo pessimo artista: se capace di una rappresentazione dialettica ed essenziale della realtà, la sua opera si dimostrerà progressista e ampiamente prospettica, superando e contestando le stesse concezioni reazionarie dell’autore: «Ci sono casi in cui una concezione del mondo politicamente e socialmente reazionaria non può impedire la nascita di grandi capolavori realistici, e altri in cui proprio la posizione politica avanzata di uno scrittore borghese assume forme che ostacolano il suo realismo artistico. Si tratta insomma di vedere se l’elaborazione della realtà che si concentra nella concezione del mondo dello scrittore gli apre la via a una considerazione spregiudicata della realtà, o se frappone tra la realtà e lo scrittore una barriera che impedisce il suo pieno abbandono alle ricchezze della vita sociale».

  Proprio a proposito di Balzac, Lukács scrive: «Il fatto che Balzac, come Engels giustamente mise in rilievo, abbia descritto “con passione e senza veli” (proprio i nemici di questa società, gli eroi repubblicani del convento di Saint-Merry, è la prova più schiacciante del germe fecondo nascosto in questa sua fede nella possibilità dello sviluppo dell’umanità, ad onta del pessimismo del suo mondo artistico e di tutte le inevitabili illusioni proprie della condizione storica in cui si trovava. Siffatte illusioni, però, anche se per motivi erronei, esigono la continuazione della grande lotta per la libertà del genere umano. In Balzac la ricerca della verità, ricerca disperata, ansiosa di penetrare fino alle radici, è un tragico ma significativo gradino dell’umanesimo. Nella luce crepuscolare di quell’epoca di transizione, in cui il sole dell’umanesimo rivoluzionario della borghesia era già tramontato ed il chiarore del nascente nuovo umanesimo democratico e proletario non era ancora visibile, questa forma della critica del capitalismo era la via più sicura per conservare la grande eredità borghese¬umanistica e salvarla nella sua parte migliore per l’avvenire dell’umanità».

 

  pp. 128-129. Nel raffronto tra Stendhal c Balzac, Lukács ha pagine ricche di intuizione, ma tende a fare di quest’ultimo un campione del realismo critico. Balzac diventa così una sorta di paradigma ideale dello scrittore realista allo stato puro, un modello astratto che serve come esemplificazione dell’estetica lukácsiana.

  Anche in Inghilterra, dopo il 1848, la fisionomia del romanzo come genere letterario cambia radicalmente: la società borghese non attraversa più uno stadio di formazione, ma sta consolidando il proprio potere, e le gravi crisi postquarantottesche conducono ad una forma di romanzo sociale. I valori ideologici della borghesia sono ancora vivi, ma un romanzo storico, sul modello di quello creato da Walter Scott, che cioè metta in evidenza la stessa necessità storica dell'avvento del capitalismo, non ha più ragion d’essere. Viene dunque avvertita l’esigenza di una trattazione artistica più immediata dei problemi della società contemporanea che, per le sue caratteristiche di critica e di chiara opposizione al sistema capitalistico, prende appunto il nome di «romanzo sociale».

  La presa di coscienza dei problemi del proletariato e del sottoproletariato urbano conseguenti alla Rivoluzione industriale, è in realtà dovuta ai fatti del 1848, che ne hanno posto in modo irrefutabile l’evidenza politica, anche a quanti, prima di allora, non si rendevano conto dei profondi cambiamenti in atto nella società inglese. Una forma di romanzo sociale, quindi, sarebbe incomprensibile nella prima metà del XIX secolo: ne consegue che, almeno in Inghilterra, il romanzo sociale è la naturale continuazione di quello storico, in cui questo si sviluppa e si risolve. Charles Dickens, che del romanzo sociale inglese ci ha dato gli esempi più interessanti, rappresenta — assieme a Balzac e Stendhal per la Francia — le crisi di consolidamento della società borghese, illustrandone le complesse leggi che ne determinano la sua formazione e i molteplici passaggi che, dal vecchio tipo di società in disgregazione, conducono alla nuova che si sta assestando.



  Felice Cameroni, Interventi critici sulla letteratura francese per cura, introduzione e note di Glauco Viazzi, Napoli, Guida Editori, 1974 («Il Sagittario», n. 23).

 

  La maggior parte dei riferimenti a Balzac, senza tuttavia che sia pubblicato alcun intervento specifico sullo scrittore, riportati in questa raccolta antologica, sono contenuti in articoli che hanno avuto il loro primo luogo di pubblicazione soprattutto nei periodici: «L’Arte drammatica» e «Il Sole», tra il 1874 e il 1899.

 

 

  Vito Carofiglio, Balzac e la dialettica del romanzo, Bari, De Donato editore, 1974 («Temi e problemi»), pp. 196.


  Struttura dell’opera.

 

  Premessa, pp. 7-9;

  Nodi e contraddizioni: Balzac come problema critico, pp. 13-40;

  Come rifondare un romanzo: le varianti ideologiche degli «Chouans», pp. 41-72;

  Rivoluzione industriale, commercio e parola, pp. 73-107;

  La donna come valore economico: il matrimonio, la prostituzione, pp. 109-176;

  Nota bibliografica, p. 177;

  Appendice. Vallès, «Le Cri du Peuple» e la scrittura in rivolta, pp. 179-196.

 

  Trascriviamo alcuni passaggi tratti dal primo capitolo (pp. 13-40):

 

  Alcuni anni fa un critico anglosassone [R. Bolster] poneva un titolo, che era un impegnativo frontone, a uno specialistico articolo: Was Balzac a Revolutionary? Lungi, secondo i dettami della più tradizionale critica letteraria anglosassone, dal porsi problemi teorici, lo studioso concludeva stranamente, anche se con tutta legittimità, dopo la sua analisi ‘empirica’: «One suspects that Balzac would not have condemned a priori the palace revolution of December 2nd, 1851», che è quanto dire: possiamo sospettare che Balzac non avrebbe a priori condannato la rivoluzione di palazzo (colpo di stato) del 2 di cembre 1851. Una freddura, dal momento che era la risposta all’interrogativo del titolo, ma impotente dinanzi ai problemi complessi e reali che nell’interrogativo risiedevano non in quanto posti per la prima volta, ovviamente, dal critico dublinese ma in quanto concretati, dopo lunga storia soprattutto in campo di teoria marxista della letteratura, in una formula felice per quanto retorica: Balzac fu un rivoluzionario? Quell’articolo ebbe il merito specifico di suscitare l’interesse di una delle massime autorità accademiche francesi, Jean Pommier, che al chiarimento della questione dette due anni dopo un contributo da par suo, da erudito balzacchiano insigne, a sua volta suscitando due anni dopo un ulteriore contributo, sulla stessa rivista specializzata, da parte di un perspicace studioso, David Bellos [cfr. Du nouveau sur Balzac «écrivain révolutionnaire», «Études balzaciennes», 1969, pp. 281-291], le cui conclusioni non è giusto che la critica italiana, attenta alle questioni balzacchiane, si lasci sfuggire o non utilizzi debitamente.

  Si debba o non si debba a Hugo l’uso originale dell’attributo «révolutionnaire» per indicare Balzac romanziere, certo è che al più grande poeta francese dell’ottocento appartiene questa frase criticamente rivoluzionaria e di sicura posterità [...].

  Parecchi potevano essere i fattori storici e culturali che concorrevano infatti nella mente dell’oratore funebre a determinare quella formula tuttavia di indubbio stile hugoliano [...]. In particolare, secondo lo stesso Bellos, si deve a Paul Meurice, allievo e imitatore di Hugo, sia l’idea che la formula usata nel necrologio del maestro. [...]. Se Hugo aveva, per l’occasione, usato i punti di vista della sinistra socialista e fourierista contemporanea nel definire Balzac scrittore ‘rivoluzionario’ malgrado le sue idee reazionarie, nonostante la sua professione del contrario cioè — e quindi a sua insaputa, lo volesse o no, vi consentisse o no, — ciò accadeva — pur con riguardo all’eccezionalità del genio hugoliano — in una situazione politica e culturale che, tra contraddizioni e ambiguità, ne favoriva l’ ‘ipotesi’. L’appropriazione politica dell’opera di Balzac da parte della sinistra, secondo l’espressione del Bellos (che nasconde, occorre dirlo, sotto l’indubbia utilità del suo contributo, una malcelata intolleranza a tale processo: destino di Balzac e delle ‘contraddizioni’ anche dei suoi critici!), l’appropriazione da sinistra di Balzac avviene già in vita di Balzac e sullo stesso patrio suolo non senza responsabilità soggettive del romanziere. E’ un dato molto importante per capire i successivi sviluppi della sua ‘fortuna’ critica a sinistra. Ma è altresì un dato da non isolare dall’opera critica di Balzac, la quale può offrire ancora oggi alcuni elementi di persuasione che il problema ha una sua legittimità teorica e critica specifica. E’ notissimo l’ ‘Avant-propos’ che nel 1842 Balzac premise alla Comédie humaine, ma di esso si è fatto generalmente un uso meccanico con l’insistenza, pur giustificatissima, sulle due «Vérités éternelles» alla luce delle quali lo scrittore affermava di scrivere: «la Religion, la Monarchie», sia per mostrarne la coerenza con l’esecuzione del progetto politico-religioso sia per mostrarne la contraddittorietà con essa. Nella piena maturità della sua arte e del suo pensiero politico e sociale Balzac teorizzava la necessità, per lo scrittore di dignità superiore a quella dell’uomo di stato, di produrre letteratura di tendenza, di avere moralmente e politicamente «des opinions arrêtées», come veniva suggerito dal Bonald, campione fra i più significativi del pensiero reazionario francese e perciò maestro riverito di Balzac. Con una punta di coquetterie legittimistica lo scrittore sosteneva che in ciò si era riconosciuto da gran tempo, «de bonne heure», e che ciò costituiva la legge sia dello scrittore monarchico che di quello democratico: i lettori, cioè gli uomini, non hanno bisogno di maestri di dubbio: quanto più netta la tendenza, tanto più onesto il servizio dello scrittore. Ne derivava una recisa denuncia contro letture e utilizzazioni illecite della sua opera, tutta sistemata inequivocabilmente sui due pilastri della dottrina legittimistica per l’appunto [...].

  Non si trattava precisamente di ‘presentimento’ del futuro critico che sarebbe toccato alla sua opera, ma di una puntualizzazione sul suo significato complessivo, intenzionale, che il romanziere non solo in quell’occasione richiamava ma anche e con particolare passione politica e morale nelle varie ‘Préfaces’ dei romanzi. Non è un mistero che Balzac non abbia goduto di incondizionata simpatia e comprensione negli ambienti legittimisti, soprattutto negli anni Trenta durante i quali ha luogo la svolta a destra del fallito liberale e praticamente si sperimenta e ostenta il suo neo-legittimismo. [...].

  A questa posizione ideologica ambigua poteva corrispondere sia la diffidenza dei legittimisti sia il riconoscimento dei democratici, come avvenne. Sicché gli uni avevano da rimproverare a Balzac più di un vizio, illecitamente attribuito a dispregio dell’obiettività delle rappresentazioni narrative; gli altri, dal canto loro, potevano giungere a formulazioni fondate sui se (col valore, minimo o nullo, che hanno nella storia): se Balzac avesse conosciuto prima la Dottrina del Gran Maestro dei Falansteri, sarebbe stato dei nostri. Come accadeva di dire ai fourieristi. E in fondo, questi non esprimevano che i primi tentativi di ‘problematizzare’ l’opera di Balzac in senso dialettico, non per una violenza ideologica esercitata del tutto illecitamente su di essa, bensì previo riconoscimento che, nonostante Bonald e Maistre, erano ben altre le categorie e caratteristiche che si potevano rilevare nella Comédie humaine, oggettivamente contraddittorie col disegno restauratore e reazionario che la ispirava, senza che però venisse meno il nodo centrale antiborghese dell’opera.

  Profondo convincimento dettava allo scrittore una delle frasi meglio memorabili e ripetute perciò: «La monarchie et la république sont les deux seules formes de gouvernement qui n’étouffent pas les beaux sentiments»: appartiene certo a un personaggio, e ciò non dovrebbe autorizzare l’estrapolazione per far dire direttamente a Balzac la frase. Ma non la pronuncia un personaggio qualunque la frase, la pronuncia la principessa di Cadignan durante un colloquio con D’Arthez, privilegiato e permanente portavoce delle idee balzacchiane, in tal senso personaggio autobiografico quant’altri mai di Balzac, personaggio che quella frase condivide e conferma. Ma se ciò non bastasse, occorrerebbe precisare che nessun sospetto è lecito sulla proprietà dell’estrapolazione dal momento che all’incirca nello stesso periodo (1839-1840) Balzac riformula quella importante affermazione sotto la propria diretta responsabilità di scrittore. E il risultato sarà una paradossale conversione nientemeno che di Stendhal all’ideale legittimistico! Balzac può ben (far) dire che la monarchia e la repubblica sono le due sole forme di governo che non soffocano i bei sentimenti e che autorizzano specificamente il sentimento eroico della vita, ma egli non è politicamente così spassionato da mettere sullo stesso piano monarchia e repubblica (democrazia), fino a prova contraria inconciliabili ed esclusiva l’una dell’altra. Diversamente, egli non ricorrerebbe ingegnosamente al trucco di accreditare uno Stendhal monarchico: in ciò rivelandosi, più che saggezza in Balzac, l’imbarazzo provocato dal romanziere della Chartreuse de Parme al sistema politico-concettuale e letterario dell’esecutore della Comédie humaine. [...].

  Conoscitore e osservatore della realtà politica e sociale contemporanea, francese e italiana, con formazione illuministica e pertanto progressista, Stendhal riceveva elogi dal legittimista Balzac per le sue doti di scrittore realista; ma gli elogi critici si dovevano ideologicamente pagare, per così dire; ecco dunque: un intelligente scrittore realista deve essere monarchico!

  Prima di prendersi questa sorta di rivincita psico-ideologica, apodittica, Balzac aveva dovuto riconoscere, a proposito del personaggio della Chartreuse Ferrante Palla, repubblicano radicale, di esserne soggiogato [...].

  E l’elogiava tanto più in quanto gli richiamava alla mente la figura di Michel Chrestien che egli aveva creato nei Secrets de la Princesse de Cadignan, ma senza il vigore straordinario del personaggio stendhaliano: il repubblicano radicale innamorato della duchessa Sanseverina a fronte di Michel Chrestien, repubblicano morto in rue du Cloître Saint-Merry durante l’insurrezione parigina del giugno 1832, e innamorato della duchessa di Maufrigneuse (principessa di Cadignan). [...].

  Balzac attribuisce a Stendhal il merito oggettivo di raccontare con efficacia e bellezza il contrasto drammatico fra la passione di Ferrante Palla e l’atteggiamento della Sanseverina, più di quanto egli non abbia fatto, pure per ragioni oggettive, della passione di Michel Chrestien per la Maufrigneuse. A uno scrittore acuto ed esperto come Stendhal non poteva sfuggire il serio, drammatico, «controsenso» implicito nella passione di un repubblicano radicale «per una gran dama»: e Stendhal è riuscito non solo a fare simpatica e credibile tale contraddizione, ma a renderla anche avvincente, soggiogante, malgrado le opinioni politiche del lettore, anche se di avverse opinioni politiche. [...]. Balzac pensa presumibilmente al lettore monarchico ideale, appartenente al mondo aristocratico che nell’accostamento del repubblicano rivoluzionario Palla alla duchessa Sanseverina, come in quello di Michel Chrestien alla duchessa di Maufrigneuse, tratteggiato l’uno come l’altro con maestria e simpatia, poteva vedere un attentato alla sublimità della razza, indegnità, deroga ai principi di casta da parte della nobildonna, e indirettamente condannare l’artista che il soggetto narrativo aveva concepito ed eseguito. Balzac fa giustizia di tali possibili pregiudizi e pone la questione sul piano della correttezza estetica: qualunque sia la vostra opinione politica e religiosa, non potete non ammirare questo contrasto, che trova peraltro sue ragioni storiche c geografiche per farsi accettare al lettore.

  Non a caso infatti Balzac parlava di «contresens», che non aveva motivazione estetica bensì sociologica e ideologica; perché, anzi, sul piano estetico, la relazione narrativa fra il repubblicano e l’aristocratica era fra le più vive e feconde, ed era perfino presa come una sorta di modello storicamente fondato, soggetto drammatico fra i più allettanti per i lettori francesi ormai assorbiti e livellati dal dominio borghese dell’economia e degli ideali, e privati degli acuti contrasti che l’ ‘ancien régime’ come il regime repubblicano assicurava anche per la gloria e gli alti destini della letteratura. [...].

  Balzac scriveva, sempre nel fecondo anno critico 1840, per precisare il senso della sua opera sul piano della moralità e utilità pubblica, che è profondamente immorale un’opera nella quale si attacchino le basi della società per partito preso, «où l’on justifierait le mal, où l’on saperait la propriété, la religion, la justice», sia giustificato il male, scalzata la proprietà, ecc. Questo non si poteva certo dire della sua opera così tenacemente centrata nel combattere il male (borghesia, capitalismo), nell’indicare l’esigenza di salvare la proprietà (purché grande, il latifondo), di assicurare la permanenza della religione (cattolica), la vittoria della giustizia (prenapoleonica). Nel romanzo probità e improbità, come nella realtà circostante (borghese), insieme, gemellate: Birotteau da una parte, Nucingen dall’altra. Dovere dello scrittore, onesto, che si ponga il problema della moralità dell’opera letteraria, è quello di rispettare, «rispecchiare», il mondo qual è: il che, si dirà successivamente, distingue lo scrittore realista, aristocratico o democratico che sia. [...].

  Il romanziere fa il suo dovere mettendo la sua penna al servizio della verità (letteraria), che, diceva, si consegue scegliendo fatti e caratteri, elevandoli a un punto di vista da cui «chacun les croie vrais en les apercevant, car chacun a son vrai particulier, et chacun doit reconnaître la teinte du sien dans la couleur générale du type présente par le romancier» [Lettres sur la Littérature]. Per arrivare a risultati estetici di questa natura, che implicano considerazioni sociologiche sulla risposta del pubblico e di diversi tipi di pubblico, Balzac postula una specie di verifica sotto forma di immedesimazione del particolare utente nel suo correlativo romanzesco, costituito di dettagli ‘veri’ anche se il personaggio o l’insieme è pura invenzione. Dare la parola al popolo implica nell’autore la conoscenza delle istanze popolari e del processo per cui queste passano nella prassi, divenendo moti negativi: furti, omicidi, rivolte. Un’ombra di giustificazione, per così dire cristiana, impone a Balzac di commiserare i poveri di spirito e di sostanze, ma nell’insieme il vivace dinamismo narrativo è segnato da connotazioni e intenzioni negative che afferiscono alla struttura ideologica del romanzo.

  Se il popolo balzacchiano parla e vive solo nel mondo rurale, ciò si deve al terreno socio-economico su cui si gioca la sorte dell’aristocrazia dinanzi alla nuova classe egemone. Ed è un popolo contadino che, al di là delle atrocità descritte e sussurrate, vive nella sua pienezza vitale, con la sua genuina mentalità e idealità, con le sue trame, col suo linguaggio, sicché alla rappresentazione ne derivano vivezza e ilarità [...].

  Incessantemente dissolta e ricomposta, minacciata e minacciosa, la società qual è in tutti i suoi elementi. Non dunque una visione bloccata, chiusa, metafisica, della società, ma una visione aperta, storica, pertanto dialettica: la ‘rivoluzione’ balzacchiana non contraddice l’anima delle Verità santissime, fa tutt’uno con esse; è la realtà che è dialettica, e il compito morale, mutuato al reazionario Bonald, è per lo scrittore, monarchico o democratico che sia, la rappresentazione dell’uomo «ni complètement bon, ni complètement vicieux, en lutte avec les lois dans ses intérêts, en lutte avec les moeurs dans ses sentiments, logique ou grand par hasard» e cioè dunque la rappresentazione della società nel suo reale dinamismo di conflitti di classe e individuali. [...].

  L’opera di Balzac appare ancora oggi una delle opere più rappresentative della realtà, dei bisogni, delle paure (anche distintamente di classe) della prima metà del secolo scorso, nella quale l’industrializzazione borghese significa la fine dell’egemonia feudale e il sorgere di nuovi moti e istanze sociali delle «classi inferiori». Ma quanto della sua opera non appare invecchiato, superato, inaccettabile, oggi? Il capitalismo concorrenziale di fronte all’imperialismo delle multinazionali, le analisi psicologiche di fronte alla psicanalisi freudiana, la stessa lenta macchina narrativa (salvo eccezioni) di fronte alle richieste della immaginazione cinematografica odierna, senza parlare dello specifico bagaglio ideologico che fa perfino sorridere o irrita. Eppure Balzac è uno scrittore fra i più letti e ammirati ancora oggi, tanto nei paesi capitalisti quanto — e forse più — nei paesi socialisti In quanto monumentale documento sui conflitti dell’epoca borghese particolare fase della sua storia, l’opera balzacchiana soddisfa esigenza conoscitiva non astratta nei tipi più diversi di pubblico; è ovviamente la sua scrittura narrativa motore-veicolo che condiziona il consenso immaginario del lettore al di là delle proprie convinzioni ideologiche. Il che non autorizza nessuno a presentare Balzac come modello narrativo insuperabile e, per gli scrittori, da imitare. Il che semmai autorizza e impegna a guardare (con realismo) rapporti, non meccanici, che un’opera intrattiene con la sua epoca, che la scrittura intrattiene con la sua epoca nei modi più diversi e specifici. [...].

  Fare di Balzac una specie di idolo realistico sia pure ottocentesco può implicare mistificazioni ed errori sia sul piano strettamente teorico-estetico sia su quello socio-politico. Balzac rappresenta uno dei possibili realismi dell’Ottocento e la sua opera narrativa è strettamente condizionata alle condizioni generali di produzione letteraria del tempo e alle particolari esigenze di un pubblico di lettori daammaestrare’ e di un pubblico con cui parlare come in codice (legittimistico): proporlo senza inquadramento storico-sociologico presenta certamene rischi che possono derivare proprio dal fatto che la realtà rappresentata non è del tutto diversa da quella che oggi caratterizza l’epoca borghese, mentre la distanza dal mondo rappresentato (per esempio) da Lesage nel Settecento noi la sentiamo come avvolta ormai in contorni mitici, storicamente ben definita se vogliamo e letterariamente suggestiva, Balzac è nel contempo sorpassato e attuale: questo dilemma che non ancora si scioglie è pervicacemente insito nel suo particolare realismo alle cui radici c’è, opposta alla sfiducia negli ideali borghesi, la fiducia in un «idéal organisateur» che paradossalmente egli identifica in quello monarchico-cattolico o in quello repubblicano-stoico.

 

 

  Raffaele de Cesare, Una traduzione pre-originale delle “Fantaisies de la Gina” di Balzac, «Saggi e ricerche di letteratura francese», Vol. XIII, nuova serie, Roma, Bulzoni Editore, 1974, pp. 161-193.

 

  Fra tutti i racconti di Balzac, pochi hanno suscitato – e continuano a suscitare – tanti interrogativi quanti quello che porta il titolo di Les Fantaisies de la Gina. Misteriosa la genesi di esso ed ignota la data della sua redazione; assoluto (e del tutto inconsueto) il silenzio di Balzac intorno a questa novella, che pur non appartiene al numero di quelle, abbozzate ed interrotte, dimenticate dal narratore nei cassetti della sua scrivania, ma che, condotta laboriosamente a termine, rivela maestrìa di scrittura, ed ha certo dovuto occupare per tempo non breve l’autore e costringerlo a lavoro assiduo di lima; singolare la costatazione che la novella – allo stato attuale delle più attente indagini bibliografiche – non risulti essere mai stata pubblicata da Balzac, ed incredibile il fatto che essa – edita o no – sia rimasta sconosciuta agli studiosi fino a cinquant’anni fa; enigmatici, inoltre, la dedica ed il dono del manoscritto delle Fantaisies de la Gina ad una persona – quale mademoiselle Sophie Grévedon – i cui rapporti con Balzac ci sono, per qualsiasi altra via, completamente sconosciuti, e la cui presenza nella vita del romanziere – così consapevole del valore dei propri manoscritti ed oculato nel farne dono – non sembra aver avuto alcuna rilevanza né intellettuale né sentimentale. Infine, estremamente strano, ed unico nella storia delle opere di Balzac, l’episodio editoriale accaduto in Italia alle Fantaisies de la Gina, del quale intendiamo occuparci, ora appunto, in questa breve nota.

  Riassumiamo intanto, per cominciare, lo stato attuale della questione critico-bibliografica di questa novella. Il manoscritto autografo di essa, assolutamente sconosciuto, come ora s’è detto, a tutti gli studiosi del romanziere francese, comparve d’improvviso fra gli oggetti appartenenti a tale madame Piriou – messi in vendita in seguito alla morte della proprietaria ad un’asta dell’hôtel Drouot – il 5 aprile 1922, e fu acquistato, prima, dal libraio parigino Auguste Blaizot e, successivamente, dal bibliofilo Georges-Emmanuel Lang, che provvide ad una prima pubblicazione del racconto nel «Figaro» dell’ottobre dello stesso anno.

  Fu in questa occasione che l’opera fu attentamente studiata da quell’eccellente erudito ed incomparabile balzacchiano che era Marcel Bouteron, il quale ritrascrisse il non facile autografo e ne preparò, nel 1923, per i «Cahiers balzaciens» una edizione ed un commento precisi, ivi formulando tutte le ipotesi che le sue vastissime conoscenze di specialista ed il suo rigoroso abito storico gli permettevano di avanzare su questo testo inedito e misterioso.

  Di fronte all’inattesa scoperta, egli rivelò anzitutto che mai Balzac aveva fatto cenno, né nella corrispondenza né altrove, a tale racconto; e che le allusioni ad una Gina («drame en 5 actes») che si leggono nelle lettere alla contessa Hanska del 17 settembre 1838 e del 12 febbraio 1839, e che saranno riprese ancora da Th. Gautier in un suo articolo nella «Presse» dell’11 marzo 1839, nulla hanno a che vedere né per argomento né per condotta tematica col racconto in questione.

  Analizzando con acume e con dottrina le componenti italiane del testo, Bouteron suppose giustamente che Balzac non avrebbe potuto inventare le Fantaisies de la Gina prima del suo viaggio milanese del 1837 o di quello del 1838. E, fissato tale termine a quo, indicò come termine ad quem il 1849. L’ex-dono autografo del manoscritto – Donné à Mademoiselle Sophie Grévedon par son très humble serviteur De Balzac – gli permise infatti di rilevare che la destinataria dell’omaggio (nata nel 1818, morta, forse, nel 1890), andata sposa all’impresario teatrale Eugène Meynadier nel settembre del 1849, non avrebbe potuto ricevere, con l’appellativo di «mademoiselle» scritto nella dedica, il dono di Balzac dopo tale data.

  I due limiti estremi entro cui si iscrive sicuramente l’epoca di redazione di questa novella rimanevano comunque molto distanti. Sulla base di altri elementi interni ed esterni al testo, fu possibile tuttavia a Bouteron di proporre date più ravvicinate. Sottolineato il fatto che, nel decennio 1838-1847, Balzac è come «hanté» dal nome italiano di Gina (o di Ginetta), Bouteron ricordava che, particolarmente negli anni intorno al 1842 ed al 1843, Italia ed Italiani (questi secondi nella duplice qualità di personaggi e di destinatari di romanzi balzacchiani) fanno numerose apparizioni e ripetuti ritorni nella Comédie Humaine. Infine, in un passo di una lettera indirizzata a Balzac dal barone Denois, console di Francia a Milano, il 27 gennaio 1842, egli scopriva un rapporto testuale e narrativo, per lo meno curioso, con la frase conclusiva delle Fantaisies de la Gina. Dalla riunione di tutti questi elementi, Bouteron arrivava così a suggerire l’ipotesi conclusiva che il racconto potesse essere stato scritto dopo – ma non molto dopo – la fine gennaio 1842: più probabilmente nel marzo di quell’anno. [...].

  La traduzione italiana è di autore anonimo e porta il titolo seguente:

 

I capricci della Gina

novella milanese inedita

di Onorato di Balzac

Ora per la prima volta

tradotta dal francese e pubblicata.

 

  Essa è apparsa in una «strenna» milanese, Il Ricordo d’Amicizia. Dono pel Capodanno e per il giorno onomastico del 1849, pubblicata, a Milano appunto, dall’editore Carlo Canadelli, negli ultimi mesi del 1848.

  Da vari anni (esattamente dal 1834), il Ricordo d’Amicizia, stampato prima dal Crespi e poi dal Canadelli, aveva iniziato le sue pubblicazioni periodiche, distinguendosi subito, nel folto numero delle strenne, degli almanacchi e dei keepsakes lombardi per varietà e scelta di contenuto e per caratteristiche di lussuosa presentazione tipografica ed editoriale. [...].

  Col Capodanno del 1849, il Ricordo d’Amicizia era giunto al suo sedicesimo numero. Ed è appunto in tale volumetto della collezione, quale primo articolo di esso, che, da p. 12 a p. 41 prende posto la traduzione del racconto di Balzac.

  Abbiamo già detto che il traduttore risulta anonimo; aggiungiamo ora che nessuna avvertenza, premessa, nota iniziale spiegano le ragioni o le circostanze di questa pubblicazione.

  A stare a questi primi dati, abbastanza deludenti, non sono pertanto possibili che due soli accertamenti. Il primo è che, effettivamente, il racconto balzacchiano era inedito in Francia fino al 1848. Viene con ciò definitivamente scartata la possibilità che il racconto sia stato inserito da Balzac in un giornale o in una rivista e che solo per un errore della ricerca sia sfuggito ai censimenti bibliografici finora fatti. Il secondo accertamento è che il terminus ad quem della redazione (1849) va sicuramente arretrato di almeno un anno (nel 1848 il manoscritto originale o una copia di esso era già nelle mani dell’ignoto giornalista milanese).

  Premesso ciò, non rimane quindi che esaminare da vicino il testo della traduzione per vedere se sia possibile desumere da esso qualche elemento interessante le questioni principali poste dalla novella francese.

  Anzitutto il problema che si prospetta in maniera particolare è il seguente: il traduttore italiano aveva in mano il manoscritto originale (o una copia fedele di esso) oppure un’altra redazione del racconto? In altre parole (e nel caso di Balzac si sa quanto tale fatto sia possibile), il manoscritto conosciuto è l’unico redatto dal narratore, oppure esistono più versioni del testo francese?

  Diciamo subito che non è agevole rispondere con sicurezza a questa domanda. Già si sa, in linea generale, cosa sia, per tutta la prima metà dell’Ottocento, l’esercizio del tradurre, e come esso vada considerato non come un rigoroso lavoro di translitterazione (più o meno geniale, più o meno poetico), fedele al senso e alla parola dell’originale, ma come un libero scavo in una terra di nessuno dove il non-rispetto al testo è atteggiamento normale. Che il fenomeno sia dovuto a fretta, ad ignoranza o ad incompetenza di traduttori-artigiani; che sia determinato (fatto frequentissimo nell’Italia pre-unificata) da considerazioni di convenienza morale o religiosa, da veti di censura politica o da qualsiasi altra ragione storica, è un dato da studiare di volta in volta. Ma è certo che imbattersi in un traduttore che non sia anche (secondo il vecchio detto) traditore dell’originale, è avvenimento estremamente raro.

  In queste circostanze è dunque difficile, lungo l’esame della versione di un testo straniero imperfettamente conosciuto, distinguere fra variante e variante, elencando da un lato quelle che si possono con certezza far risalire direttamente all'autore e relegando, dall’altro, quelle che vanno invece imputate al traduttore.

  Anche la nostra traduzione, come si vedrà, abbonda in lezioni diverse rispetto al testo del manoscritto francese che noi conosciamo: varianti d’ogni genere, ora costituite da frasi aggiunte, omesse, modificate, ora, anche, da frasi che sono tradotte in un ordine narrativo diverso.

  Esamineremo più avanti, particolareggiatamente, tutte queste differenze. E il lettore giudicherà della fondatezza delle nostre osservazioni. Ma intanto riteniamo di poter rispondere alla prima domanda che ci siamo posti dicendo che ci sembra molto probabile che il traduttore italiano avesse sott’occhio il testo del solo manoscritto oggi conosciuto (o, beninteso, di una sua copia fedele).

  La nostra supposizione è basata su di un particolare, di per se stesso minuscolo, ma abbastanza indicativo.

  Verso la fine del racconto, allorché il personaggio che parla in prima persona è rappresentato come ormai al corrente di quale drammatica natura siano le «fantaisies» della Gina, il manoscritto dice testualmente così:

  La marquise apprit bientôt à Gina que je savais tout et je fus introduit auprès d’elle. Il était écrit que vous seriez dans mes secrets, et je n’ai pas besoin de vous prier de les ensevelir dans le plus profond silence. J’assistai ...

  Nel punto del testo in cui comincia il discorso della Gina, Bouteron fra le note esplicative della sua edizione avverte giustamente che «dans sa hâte, Balzac a sauté ... trois mots indispensables au sens», ed integra nel testo l’inciso mancante, pubblicando correttamente:

  - Il était écrit <, me dit-elle,> que vous seriez ...

  Se la frase incidentale è indispensabile in francese essa lo è altrettanto in italiano per la comprensione del passo. Ora, anche nella traduzione manca; ed è chiaro che il traduttore non doveva averla trovata nel manoscritto da cui traduceva se, trasferendo in questo caso – e per nostra fortuna parola per parola – l’inizio del discorso della Gina in italiano, ha omesso anch’egli le tre parole che spiegano il passaggio dalla narrazione al dialogo:

  Avendo la dama di Torino informato ben tosto la Gina ch’io sapeva ogni cosa, venni introdotto da lei. Era già destinato che voi doveste essere a parte dei miei segreti, e non occorre che vi preghi di seppellirli nel vostro seno come in una tomba. Mi toccò di assistere ...

  C’è poi un altro argomento che, apparentemente contrario alla nostra supposizione, viene ad un esame più attento, non solo a non contrastarla, ma, quasi, a rafforzarla.

  La traduzione italiana, come si è visto, ha per titolo I Capricci della Gina. Prima, e macroscopica, variante rispetto al titolo originale del manoscritto, Les Fantaisies de la Gina. Ma, sulla base di ciò, dovremo necessariamente supporre un originale diverso da quello conosciuto, il cui titolo fosse appunto Les Caprices de la Gina, oppure lo stesso manoscritto francese può darci la chiave dell’enigma?

  Come è noto, nel manoscritto il racconto è suddiviso in due parti o, per essere più precisi, in una prima parte e nella sua continuazione. Ora, mentre la prima parte è intitolata Les Fantaisies de la Gina, la continuazione ha, per titolo, Suite des caprices de la Gina. Nulla di straordinario che, nella scelta fra i due titoli, il traduttore italiano abbia adottato il secondo che è forse anche il più congeniale col racconto.

  Queste due prove non sono certo di gran peso; ma, diversamente, ci sembrano costituire indizi ugualmente preziosi. E se ad essi aggiungiamo la considerazione che, fra tutte le varianti registrate nella traduzione, nessuna migliora il dettato originale, nessuna ha quel sigillo di intelligenza narrativa, di invenzione artistica da denunciare la «griffe» balzacchiana, ma tutte, al contrario, banalizzano il testo, non sembrerà arrischiato sottolineare dunque che noi non crediamo all’esistenza di due redazioni diverse delle Fantaisies de la Gina, ma all’esistenza di una sola e che questa unica è quella testimoniataci dal manoscritto conosciuto.

  Un altro problema concernente direttamente Balzac che la presenza di questa traduzione «milanese» potrebbe contribuire a risolvere è il seguente: come il manoscritto del racconto (o una sua copia fedele) è pervenuto nelle mani dell’ignoto traduttore italiano? E da chi gli è stato trasmesso ad una data che, grosso modo, potremmo situare nel corso del 1848?

  Allo stato attuale delle nostre conoscenze, tale domanda rimane purtroppo senza riposta ed essa è posta qui solo, per così dire, per debito di coscienza. È indubbio che bisogna cercare la chiave di questa comunicazione in Sophie Grévedon. Ma è stata essa a Milano, prima della fine del 1848? Di una presenza in Italia di colui che, nel settembre 1849, sarà suo marito, e cioè l’impresario teatrale Eugène Meynadier, organizzatore di fortunate «tournées» all’estero fra il 1849 e il 1872, ci parla Bouteron in una nota della sua edizione. Ma né di Sophie Grévedon né di Eugène Meynadier abbiamo trovato traccia nelle cronache teatrali milanesi prima del 1849.

  Sempre in un campo interessante direttamente Balzac vale ancora domandarci: l’autore fu messo ufficialmente al corrente della pubblicazione della traduzione di una sua opera «inedita»? Ne ebbe sentore indirettamente? E come reagì davanti ad un tale abuso di fiducia e ad un tale atto di contraffazione editoriale?

  Nel 1848 vivevano ancora, a Milano, Alfonso-Serafino Porcìa, Giangiacomo ed Eugenia Bolognini, quegli amici italiani da cui lo scrittore avrebbe preso spunto per la sua novella e per la cui troppo grande somiglianza con i personaggi delle Fantaisies, egli avrebbe – secondo l’ipotesi di Bouteron – rinunziato alla pubblicazione. L’inserzione della traduzione delle Fantaisies nel Ricordo d’Amicizia costituiva in tal modo una duplice lesione materiale e morale per lo scrittore non solo frodato nei suoi diritti economici, ma offeso nella sua reputazione di uomo indiscreto ed indelicato.

  Noi crediamo comunque che Balzac dovette completamente ignorare questo cattivo scherzo giocatogli (con la connivenza di Sophie Grévedon?) dal giornalista italiano.

  Il Ricordo d’Amicizia per il 1849 fu pubblicato, come già si è detto, verso la fine del 1848. Ammesso anche che un esemplare di esso giungesse a Parigi o che qualche amico milanese informasse il narratore, questi non poté aver notizia della traduzione che nel gennaio o nel febbraio 1849.

  Ora, fin dal 20 settembre 1848, Balzac aveva abbandonato Parigi e lasciato dietro di sé le paventate incognite della rivoluzione, per il porto di felicità, sempre più agognato, di Wierzchownia. Ed in quell’angolo remoto dell’Ucraina, lo scrittore, tagliato fuori da ogni informazione letteraria italiana, non riceve che le rare notizie che gli pervengono dalla Francia, le quali riguardano quasi esclusivamente questioni di carattere familiare, economico o problemi editoriali rimasti in sospeso alla sua partenza. Né più informato di novità letterarie sarà al suo ritorno a Parigi, dove, come è noto, Balzac rientrerà solo verso la fine di maggio del 1850 per morirvi, di una lenta agonia, poco meno di tre mesi dopo.

  Fin qui, abbiamo cercato di porre in luce, dall’esame dei Capricci delta Gina, tutto ciò che poteva interessare la redazione del testo francese e di estrarre quegli elementi storico-biografici riguardanti Balzac.

  Ma ci sembra ora opportuno – prima di concludere questa nota – esporre qualche osservazione sulle caratteristiche proprie della traduzione italiana e sul valore letterario dell’anonimo autore di essa.

  Premettiamo, anzitutto, che i Capricci della Gina non sono fra le peggiori traduzioni pubblicate, fra il 1830 e il 1850, in Italia delle opere di Balzac. Non è molto, è vero, nella generale mediocrità di queste versioni; è comunque già qualcosa. E bisogna riconoscere che il nostro traduttore arriva a non maltrattare troppo il testo di Balzac, e, – senza naturalmente convincere i lettori della propria efficacia di scrittore – a mantenere evidenti certi caratteri di vivacità e di naturalezza della narrazione originale. Bisogna anche riconoscere che, pur indulgendo di tanto in tanto (come è comunque nello stile di non pochi narratori italiani di questi decenni) a quel tipo di linguaggio della tradizione letteraria, che ravvisa il decoro del dettato in un lessico ricercalo, in espressioni appartenenti talvolta ancora al «buon secolo» della nostra lingua, in costruzioni ed in inversioni desuete, in obbedienza del modello offerto dai generi letterari più nobili, il nostro traduttore riesce, nonostante ciò, a non essere costantemente vittima di tali fastidiosi vezzi stilistici.

  Sottolineata questa scorrevolezza del discorso narrativo, diremo anche che il traduttore dimostra una buona conoscenza del francese: i suoi errori di traduzione o i suoi malintesi si circoscrivono infatti a due o tre luoghi della novella. Molto più numerose sono invece le libertà che il traduttore si prende col suo testo. E qui bisognerà intenderci subito perché, queste libertà, sono di diverso genere e, in gran parte almeno, si giustificano in un preciso e premeditato proposito del traduttore.

  Distinguiamo dunque, per prime, quelle libertà di cui confesseremo di non comprendere la ragione se non nel diverso concetto che il traduttore si fa della progressione narrativa, della precisazione di alcuni particolari o della eliminazione di altri, della opportunità di sottolineare gesti, movimenti dei personaggi, momenti del racconto, ecc. ecc.

  Fra le libertà che sono caratterizzate da un diverso modo di concepire lo svolgimento dei fatti narrati, citiamo la più importante che concerne le differenti astuzie a cui la Gina ricorre per sfuggire alle richieste pressanti di Gregorio. La diplomazia della protagonista, nel testo francese, faceva appello ai seguenti motivi:

  Gregorio, enhardi par tant de Services, osait la [Gina] saisir et la presser sur son coeur, et alors la Gina lui disait d’une voix émue qu’elle était trop délicate pour supporter de telles privautés. Cette stupide excuse engendrait mille disputes et reproches qui la mettaient en larmes, et ce faible amant attendri la laissait au fond de sa bergère sans s’expliquer la faiblesse d’une femme si forte. Quand le mobilier eut fourni sa quotepart de raisons, elle fit avancer la garde impériale des femmes, la santé. Mais plus elle se disait mal, mieux elle allait, et le pauvre Gregorio était lui sur les dents, rompu, brisé, fourbu comme un cheval de chirurgien de village.

  Nella traduzione italiana i motivi addotti sono disposti in un ordine diverso:

  Quando gli attrezzi del telaio e degli altri lavori ebbero somministrato la loro parte dei pretesti, la Gina fece venire innanzi la guardia imperiale delle donne, vo’ dire la salute. Ma Gregorio fatto animoso da tanta sua servitù, la prendeva ad un tratto e se la stringeva al cuore; e la Gina diceva esser troppo gracile per soffrire di tali strette e il respingeva, intanto che Gregorio, avendo queste scuse per vane, prorompeva contro di lei in amari rimproveri che la facevano piangere a lacrime dirotte, e poi scagliavasi di nuovo fra le sue braccia, dicendogli amar meglio morire che dargli a dubitare dell’amor suo, per guisa che Gregorio intenerito la lasciava ricadere libera nella sua poltrona senza poter conoscere questo nuovo genere di capricci, perché più ella diceva di sentirsi male, e più fiorivano sul suo volto le rose della salute. Il povero Gregorio era tenuto sul dente, rotto scannato, sciancato come il cavallo di un medico da villaggio.

  Fra i casi di libera traduzione che si manifestano attraverso aggiunte fatte al testo balzacchiano, citiamo i seguenti esempi. Così diceva il testo nel passo in cui viene descritta la decisione della Gina di scegliersi un amante:

  Gina fut encouragée dans ses idées par la vue d’un jeune homme de Milan ...

  Il traduttore aggiunge una seconda motivazione:

  La Gina fu assai meno incoraggiata in questo proponimento dalla conoscenza che fece d’un giovane milanese che dal detto d’un’amica sua (che nel linguaggio femminile vale nemica), la marchesa Nina, la quale aveva dichiarato che alla Gina era proibito d’aver un amante.

  Allorché le frequenti visite di Gregorio insinuano negli ambienti aristocratici di Milano la convinzione dell’esistenza di un legame sentimentale fra questi e la Gina, Balzac aveva annotato che tali pettegolezzi erano stati «glorieux» per Gregorio,

  ... la Gina donnant lieu pour la première fois à de tels propos.

  Non senza ridondanza, il traduttore accresce il sentimento d’orgoglio di Gregorio:

  ... essendo questa la prima volta che la dà luogo a somiglianti discorsi ed essendo egli il primo a sfiorare questa vergine riputazione.

  Nell’episodio in cui il personaggio che parla in prima persona, confidente di Gregorio, entra in scena raccontando alla Gina un inesistente incidente accaduto all’amante, le reazioni della Gina erano così descritte:

  La Gina se retourna royalement vers moi, je m’inclinai ...

  Il traduttore rincara la dose con una discutibile sottolineatura:

  La Gina si volse alteramente verso di me, e mi gittò uno sguardo fulminante che gridava più di Ajace ferito; e io mi inchinai ...

  Quando le cose vanno di male in peggio per Gregorio, l’amico decide di intervenire più vigorosamente nell’assedio di quella fortezza di virtù che è la Gina. Ed ecco le parole che Balzac metteva in bocca a Georges:

  - Mon ami, lui dis-je, je t’ai promis mon concours, je ne t’abandonnerai pas, même au milieu de cette forêt vierge où nous voilà égarés.

  Più diffusamente, il traduttore fa pronunziare al confidente un più lungo e pedantesco discorso inframezzato di rinvii letterari:

  - O amico mio, gli dissi, vedendolo un giorno alla disperazione, t’ho promesso d’aiutarti e non ti abbandonerò anche in mezzo agli intrichi di questo bosco senza via che, forse, applicando l’allegoria al proposito nostro, non esiste in Italia fuor che nel poema di messer Ludovico.

  Infine, il carattere vanesio del marito della Gina, troppo sicuro di se stesso e della fedeltà della moglie, si manifestava, nell’originale, in una sola affermazione essenziale:

  Ah! Ah! Je puis aller à Paris et la [Ginal laisser à Milano avec son gingino que voilà, dit-il en me montrant Gregorio, dont les yeux devenaient grands comme des soucoupes.

  Il traduttore preferisce allungare la frase in un discorso più complesso:

  Ah! Ah! Ebbene potrei anche essere un tiranno con lei, farmi odiare, far l’orso, posso anche andare a Parigi e lasciarla a Milano col suo vagheggino che è quello là (mi disse additandomi Gregorio che faceva certi occhioni grandi come sottocoppe) e tornarmene col mio cappello in testa, illeso come prima.

  Altre volte, le libertà che il traduttore si prende col suo testo si attuano in eliminazioni di frasi o parti di frasi, giudicate forse inutili o pericolose. È il caso di questa definizione delle qualità della Gina, definizione considerata probabilmente troppo disinvolta verso la religione:

  Aussi, depuis ce moment, parle-t-on beaucoup de sa [della Gina] beauté, de son esprit et de sa vertu, les trois conditions théologales de la femme.

  Altre volte, infine, il traduttore si scosta dal testo innovando o trasformandone i dati. Talora questa innovazione ha dell’inverosimile, come quando il giornalista italiano muta l’immagine di cui Balzac s’era servito per raffigurare il povero Gregorio vittima delle astuzie della Gina:

  ... il était comme ce pauvre insecte qu’un enfant malicieux tait grimper d’un doigt sur l’autre pour lui faire croire qu’il monte ...

  ... egli era un di que’ passerotti di nido che i fanciulli fanno saltare d’un dito all’altro, come se volasse, e pur si trova sempre al medesimo luogo ...

  Talora l’innovazione è semplicemente sgraziata, come quando il traduttore appesantisce l’immagine del testo con un rinvio mitologico che, se ha il vantaggio di essere meno «pericoloso» del riferimento biblico, toglie comunque ogni contrasto grottesco alla sciocca gravità del marito della Gina:

  ... la fatuité de ce mari, il appelait les rayons de Moïse sur sa tête, tant il était insolent dans sa confiance ...

  ... la sciocchezza di questo marito, che provocavasi l’armatura di Atteone sulla fronte, tanto egli era insolente nella sua fiducia ...

  E veniamo ora alle libertà di traduzione che, come già si è premesso, sembrano ubbidire ad un premeditato disegno dell’anonimo giornalista lombardo e di cui, in ogni caso, è più facile rendersi ragione.

  Anzitutto, scrupolo principale del traduttore appare quello di eliminare dal tessuto narrativo tutto ciò che possa essere (o possa aver l’aria di essere) una descrizione precisa: sia che riguardi il quadro storico-geografico dell’azione, sia che riguardi nomi, titoli, qualità dei protagonisti. Insomma, ogni particolare descrittivo del testo che possa contribuire a localizzare più precisamente la vicenda o ad individuare una possibile «chiave» dei personaggi viene accuratamente omesso.

  La Gina che, per Balzac, «est une Gênoise», diventa molto più genericamente per il traduttore «nativa di una città italiana fra l’Alpi ed il Faro». Ella abita sì a Milano, come vuole il testo francese ma – aggiunge il traduttore – solo perché «a qualunque eroe o eroina di storia, di romanzo o di novella bisogna pur dare una dimora». E poiché, secondo l’autore, la Gina potrebbe forse anche essere riconosciuta a qualche particolare della peripezìa (e Balzac avverte ironicamente il lettore che, in questo caso, non andrebbe avanti nel racconto), il traduttore s’affretta ad identificarla nel ritratto, ideale e «romantico», di una giovane donna, litografato in una pagina del Ricordo d’Amicizia; e, come se non bastasse, a dichiararla morta da ormai molti anni ... [...].

  La Gina, che appartiene ad una antica e nobilissima famiglia genovese e che (conformemente alle abitudini di cultura del patriziato italiano) non possiede molta istruzione, perde sia le sue qualità araldiche sia le sue caratteristiche intellettuali negative. [...].

  Ciò che accade alla Gina capita pure a suo marito ... Questi che nel testo balzacchiano abitava «entre porta Orientale et porta Romana», nella traduzione abita «fra porta Orientale e porta Vercellina, fra porta Ticinese e porta Comasina» (il che è a dire l’intera cerchia di Milano!). Nella novella francese, inoltre, egli era socialmente situato «entre chambellan et garde-noble, entre comte et marquis» e il suo nome, «entre o et i», occupava due vocali, nella traduzione, egli diventa, molto più genericamente, «fra l’eccellenza e il don, fra il conte e il marchese» e il suo nome, che è «fra l’a e la z», trascorre per tutte le incognite dell’alfabeto!

  A sua volta, Gregorio, «marquis» per Balzac, è più vagamente «nobile di condizione» per il traduttore; e la sua nazionalità di «milanais» viene taciuta ogni volta che è possibile.

  Questa preoccupazione di eliminare fatti reali (o presunti tali) invade tutto il racconto; il personaggio che parla in prima persona perde il suo nome proprio di Georges, mentre i suoi rapporti di amicizia con Gregorio vengono attenuati; la «marquise de Bora» diventa la «dama di Torino», la «marquise Nina» si trasforma in «marchesa Giulia».

  Accanto a questa che abbiamo ora indicata, un’altra serie di varianti sembra provocata nel traduttore da una intenzione di carattere morale e che tende ora a eliminare certe sfumature giudicate di un realismo reprensibile, ora a sublimare l’amore di Gregorio e della Gina. [...].

  Infine, è rappresentativa del tentativo del traduttore di togliere alla conclusione balzacchiana ogni indicazione sulla piena soddisfazione amorosa che ormai appaga Gina e Gregorio, la variante seguente. Trasparentemente, Balzac ci aveva fatto capire che, finiti i «capricci», la Gina s’era interamente abbandonata alla passione di Gregorio:

  ... son [di Gregorio] amour devint quelque chose de si profond et de si exalté que je suis sûr qu’elle sera aimée jusqu’à son dernier soupir.

  Il traduttore porta l’adempimento di questa passione nelle sfere celesti – e rarefatte – di un puro affetto platonico: amori di creature angeliche in attesa della riunione in Paradiso:

  ... l’amor suo per lei divenne puro e sublime come quel che abbiamo per gli enti immortali, il quale non aspetta il suo guiderdone altro che in cielo, e durerà, ne son certo, sino all’ultimo suo anelito.

  Tralasciando altre varianti riconducibili ad altre chiare ragioni ma di minor rilievo, concludiamo citando la sola che, sotto la prospettiva di una maggior aderenza alla realtà, ha un valore positivo. Si tratta di quella attinente al conto dell’oste dell’«Isola Bella» (trattoria realmente esistente allora a Milano) che Balzac aveva riportato nella sua novella. Il traduttore milanese, che dobbiamo supporre uomo di mondo ed uomo concreto, s’accorge delle diverse inesattezze corse sotto la penna di uno scrittore straniero, poco pratico degli usi e dei costumi degli italiani di condizione (che in Lombardia non mangiano i «macaroni» né, soprattutto, se li fanno servire dopo gli arrosti!). Inoltre, al corrente dei prezzi locali più di Balzac, egli trova un poco fantastici quelli del novelliere francese e li modifica liberamente. E, infine, poiché conformemente al testo egli riporta il menu del pranzo, ritiene più naturale colorire dialettalmente il nome delle singole portate, quali potevano essere annotate dall’incerta ortografia dell’oste. [...].

  Concludiamo brevemente questa nota. L’inatteso ritrovamento di una traduzione pre-originale delle Fantaisies de la Gina non ha risolto i molti enigmi che ancora accompagnano questa misteriosa e bella novella di Balzac. Esso non rimane tuttavia un fatto di carattere puramente bibliografico. La pubblicazione dei Capricci della Gina ci ha permesso infatti da un lato di anticipare, almeno di un anno (dal 1849 al 1848) il sicuro termine ad quem della sua redazione. D’altro lato, pur senza fornirci purtroppo alcuna precisazione sulla destinataria del manoscritto, ci consente anche di supporre che la pubblicità data ad esso in Italia, e proprio a Milano (nella città, cioè, dove forse mai Balzac avrebbe voluto che le Fantaisies de la Gina fossero conosciute!) possa essere legata ad una indiscreta trasmissione del manoscritto ad opera di Sophie Grévedon o di colui che diventerà suo marito.

 

 

  Massimo Colesanti, Balzac e la moltiplicazione della vita, in Giovanni Macchia, Luigi de Nardis, Massimo Colesanti, La letteratura francese. Tomo III. Dall’Illuminismo al Romanticismo, Firenze-Milano, Sansoni-Accademia, 1974 («Le letterature del mondo», 5), pp. 591-601.


  Le ragioni sostanziali del contrasto fra Stendhal e Balzac, ed anche della loro reciproca e direi dialettica ammirazione (più franca e dichiarata in Balzac che non in Stendhal), sono state molto bene delineate da Lukács. Opposizione non tanto fra «stili», ma fra diverse concezioni del mondo. Stendhal rimane fermo nella sua ideologia antispiritualistica, nella negazione di ogni forza occulta e misteriosa. Nella congerie ricchissima di indirizzi e di correnti che s'intrecciano e si compongono nell’epoca romantica, egli tira abbastanza diritto per la sua strada, sordo a molti richiami, fidando nelle «lumières» che ha alle spalle e nel miraggio di un avvenire migliore, e dando fatidici appuntamenti ai posteri, come si è detto, per tempi di nuovi equilibri di civiltà, senza più ipocrisia e conformismo. Balzac invece sembra fermarsi ad ogni svolta, ad ogni scoperta: la sua curiosità è insaziabile, vorace, più prepotentemente voluttuosa e dinamica. Alla dimensione ideo-fisiologica egli aggiunge e combina in multiformi congegni e sistemi una profondità mistica ed una penetrazione semiologica della natura e della società che propaga direi all’infinito le sue possibilità di studio e di rappresentazione, in una ricerca angosciosa di unità e di armonia fra il mondo delle cose e quello dello spirito. La paleontologia, la fisiognomonia, ma anche il mesmerismo, la telepatia, l’alchimia: Cabanis e Bichat, Gall e Lavater, accanto a Swedenborg, a Saint-Martin, ed anche a Cagliostro ed al conte de Saint-Germain. Ma soprattutto, mentre Stendhal, repubblicano, liberale (con le riserve che si sono fatte), e rigorosamente ateo, senza alcun benefìcio d’inventario, non ha in campo politico¬religioso maestri diversi dai suoi «philosophes», Balzac pone la sua opera sotto l’egida dei principi immutabili del Cattolicesimo e del Legittimismo, si ispira a Bonald ed a Maistre. Di qui la valutazione negativa e reazionaria che egli dà finalmente del suo tempo, e della democrazia assembleare di Luglio, ma perciò stesso più accanitamente perspicace e pessimistica di quella sommaria e idealizzata che ne dà Stendhal, altrettanto negativa.

  Ma questa opposizione radicale, che non esclude, ripetiamo, alcune notevoli affinità (l’esaltazione della passione, dell’energia, la «contemporaneità», ed anche l’«italianismo», di cui Stendhal è un po’ il maestro di Balzac, come ha ben dimostrato Raffaele de Cesare), appare più precisa e verificabile nell’opera dei due romanzieri, nella loro idea di romanzo, e nel rapporto fra autore e romanzo, fra autore e personaggi, che essi intendono in modo diverso; ed è forse il punto in Lukács meno sviluppato. Per Stendhal il romanzo non è che un felice incidente nella sua divagante carriera di scrittore, un saggio riuscito, ed a lungo cercato, di eudemonistica autoconoscenza, un momento di sintesi lirica. Balzac si è anch’egli prodigato nella sua opera, ma disperdendosi in una grande varietà di avvenimenti e di personaggi, in una costruzione vasta e armonica dove ogni romanzo è un episodio, ed ogni particolare si organizza in una visione unitaria, stabilisce raccordi e corrispondenze; e che si propone non come lo specchio della realtà — e di una realtà necessariamente frammentaria — ma come un quadro completo, e l’interpretazione storico-sociale d’un’intera generazione.

  Nei suoi romanzi e nei suoi eroi, disposti tutti sulla stessa linea, in un altorilievo quasi corneliano di opposizione al mondo che li circonda, Stendhal ha usalo criteri riduttivi, sintetici, selettivi, come del resto nei «détails», che egli ama non meno di Balzac, ma che sceglie, mentre Balzac sovrabbonda. Stendhal esalta la vita, Balzac la moltiplica. E l’uno ha dovuto convertirsi al romanzo, per scriverne appena cinque, e pubblicarne tre; l’altro trova subito nel romanzo non una seconda, ma la sua natura più autentica, ne accumula decine su decine in uno sforzo sovrumano, concentrato in meno di vent’anni, ne include oltre novanta nella Comédie humaine, e ne progetta un’altra sessantina, senza aggiungere qui i Contes drolatiques, e i romanzi giovanili, espressamente sconfessati nel 1842, ma ripubblicati in edizione completa nel 1836-40, con lo pseudonimo di Horace de Saint-Aubin.

  La critica moderna ha rivalutato, quasi sempre nella giusta misura, questa produzione di un Balzac poco più che ventenne 1. In quei romanzi, scritti quasi tutti in collaborazione, e che sfruttano abilmente, e con una sottile vena di parodia, gli autori alla moda, dalla Radcliffe a Pigault-Lebrun — autori di cui Balzac parlerà sempre con un certo rispetto — egli non ha soltanto appreso il mestiere, si è fatto le ossa, i nervi, il sangue del romanziere: ha trovato se stesso. Lasciamo stare quanto ci sia di vero nella sua dichiarazione a Champfleury: di avere scritto quei romanzi come esercizi, uno per la descrizione, un altro per la tecnica del dialogo, un altro ancora per imparare a disporre e a raggruppare i personaggi, e così via. Certo in quelle avventure mirabolanti e irreali egli più che imparare scopre in sé il senso dell’intrigo, dell’imprevisto, del colpo di scena che cambia il corso delle cose. Romanzi d’appendice: ma quante volte non si ha la stessa impressione leggendo i romanzi raccolti nella Comédie humaine, dalla Peau de Chagrin alla Dernière incarnation de Vautrin, almeno sul piano narrativo e descrittivo? Più indicativi sono alcuni elementi che costituiranno il «sistema» di Balzac, e che già emergono nella farragine di questi casi mostruosi, dai truci colori presi a prestito da a letteratura in voga. Questi eroi immaginari — brutte copie di quelli di Byron, di Nodier, di Maturin — sono già rozze espressioni di una eccezionale energia, creature assetate di amore e di assoluto, e che si trasformano nella loro passione dominante (come per esempio il pirata Argow nel Vicaire des Ardennes e in Annette et le Criminel). E nelle peripezie del Centenaire, ripreso in buona parte dal Melmoth the Wanderer, s’impongono già i temi del potere sovrumano, più o meno esplicitamente dovuto ad un patto satanico, ed anche, indirettamente, quello della longevità e del logoramento dell’energia, una delle ossessioni di Balzac, temi che riappariranno, filtrati in chiave «illuminata», nel Melmoth réconcilié e in altri romanzi. Non è del resto un caso che Balzac giovanissimo abbia meditato di scrivere, come il Louis Lambert del suo romanzo omonimo, un Traité de la volonté (e più tardi un Essai sur les forces humaines).

  Manca indubbiamente a tutte queste opere la dimensione prevalente e più vistosa della Comédie humaine: la realtà, l’organizzazione delle vicende in quadro storico e topografico preciso e contemporaneo. Di fronte allo spessore sociale, ed alla profondità psicologica di un Vautrin, di un Gobseck, di un Rastignac, di un Philippe Bridau, o di Madame de Mortsauf, i personaggi di questi primi romanzi sembrano pallidi schizzi in un «atelier» abbandonato, o mostruosi manichini agitati da movimenti incongrui e confusionali. L’artista che li si è formato ha trasportato altrove attrezzi e progetti. Ma non ha cambiato genere. Anzitutto ha iniziato a vivere il suo romanzo, si è scontrato con difficoltà materiali, ha saggiato il mondo degli affari, del denaro, dei fallimenti; ha fatto l’editore e lo stampatore il David Séchard delle Illusions perdues. Esperienze rovinose e preziose. Ma è sempre più deciso a «être célèbre» e a «être aimé»; e l’uno e l’altro attraverso il romanzo, che diviene per lui strumento e oggetto di ricerca e di espressione. Al romanzo egli torna dopo appena due o tre anni di silenzio, rinnovato in quella che potremmo chiamare la sua prima conversione alla realtà, e che egli deve a due scoperte, almeno. Da una parte che la realtà è molto più poetica, cioè creativa, di quanto non sia l’immaginazione: le hasard est le plus grand romancier du monde, e da romanziere immaginoso si fa storico del costume, lascia le plaghe indefinite dell’irreale per immergersi nei segreti della vita privata, nel meraviglioso a portata di mano, nelle strade, nei salotti, nei teatri, nelle banche, nei negozi di tessuti e di profumi, negli «hôtels» sontuosi del faubourg Saint-Germain, o ancora nei recessi solitari e nelle parrocchie di campagna, nella «routine» silenziosa e nelle beghe aspre e tenaci della provincia. Ed è attento a conservare nella sua interezza minuziosa questa realtà immaginifica, soprattutto quando

  le vrai a pris la peine de devenir romanesque.

  D’altra parte egli scopre che la realtà non basta osservarla, constatarla: occorre penetrarla, intuirla, inventarla. Il «poeta», che sia realmente filosofo, cioè moralista (storico del costume), deve possedere una specie di potere magico, una «seconde vue» che gli consenta di indovinare la realtà in tutte le situazioni possibili. [...].

  Balzac si sente dotato di questo potere, che conferisce a sua volta a molti personaggi (da Louis Lambert a Gobseck, a Vautrin): esso interpreta, collega, traduce i segni della Natura e della Società su un registro universale e unitario di simboli e di analogie. Rappresentazione esatta e al tempo stesso superamento della mera realtà apparente. Dopo dieci anni di prove e di esperimenti falliti, è su questa strada dal doppio binario che Balzac s’incammina intorno al ‘30. È celebre la pagina con cui si apre Facino Cane (1836), uno di quei racconti brevi, scritti quasi tutti in prima persona, e che spesso hanno un valore emblematico di rivelazione esoterica (e su cui oggi la critica più volentieri si ferma). Balzac vi rievoca la sua giovinezza in rue Lesdiguières, gli studi, la biblioteca, una vita «monastique» di lavoro e di meditazione, a cui una sola passione può sottrarlo: l’analisi dei costumi di quel quartiere, gli abitanti, i caratteri, le occupazioni, un vagabondaggio in cui esercitare la sua osservazione già divenuta «intuitive», penetrare nell’anima senza trascurare il corpo (ed ecco già una indicazione molto importante), vivere la vita dei passanti, sostituirsi ad essi, scavare nelle fisionomie, negli abiti, i segreti delle loro esistenze [...].

  Ma questa operazione di «dépassement» non avviene in modo costante. Balzac, specialmente all’inizio, alterna romanzi e novelle che non sembrano discostarsi da una riproduzione realistica di avvenimenti e di aspetti, ad altri romanzi e racconti in cui concentra una visione più penetrante e «fantastique». Di qui la varietà che può parere dispersiva di tutta la prima fase della sua opera, dal 1829 al 1835 circa, quando egli non ha ancora in mente o non ancora appalesa l’edificio grandioso della Comédie humaine. Le Scènes de la vie privée del 1830, i Romans et Contes philosophiques dell’anno successivo, le altre novelle pubblicate nelle riviste contemporaneamente a trattatelli «fisiologici» (sui guanti, sulla toletta, sulla gastronomia, sui «mots à la mode» ecc.) offrono non solo un idea della prodigiosa fecondità e capacità di lavoro di Balzac, ma anche esempi di testi in apparenza lontani e disparati: La Vendetta, una novella di costumi corsi studiati in una vicenda dell’ultimo periodo dell’Impero, a Parigi, può sembrare una «cronaca» di Stendhal, o di un Mérimée un po’ meno sobrio, mentre in un «conte fantastique» come L’Élixir de longue vie spunti goethiani, byroniani e moliereschi sono originalmente ripresi e fusi in una tipica atmosfera satanica.

  Il contrasto può essere ancora più evidente fra un romanzo storico come Les Chouans, dall’impianto scottiano, come si è detto, e La Peau de Chagrin, romanzo simbolico, centrato sul tema della durata della vita in ragione inversa della realizzazione dei desideri, e quindi del consumo dell’energia vitale, e legato agli effetti misteriosi di un talismano di pelle di zigrino. C’è in altri termini il doppio intento, non ancora o non sempre coordinato, di descrivere la realtà, e di ricercarne ragioni e significati, di studiare la società visivamente e visionariamente. Una ricerca fenomenologica ed epistemologica, che continua prevalentemente per un verso nelle Scènes de la vie parisienne e nelle Scènes de la vie de province, che costituiscono insieme le Études de moeurs au XIXe siècle, e dall’altro in opere dichiaratamente mistiche, nelle Études philosophiques. La differenza fra Louis Lambert, studio mistico, e Eugénie Grandet, grande romanzo di costumi e di caratteri, pubblicati nello stesso anno 1833, sta anche nelle due figure centrali, quella del giovane filosofo dotato di sensibilità ed intelligenza eccezionali, che cerca con la sua possente «faculté de voir» l’intima essenza delle cose e delle cause, e riesce a «se dégager de son corps», e quella del vecchio avaro, fisso nella sua monomania, dal crescendo vertiginoso, cinico ed esclusivo; su due piani diversi, essi rappresentano la forza della volontà concentrata in un’idea, in una passione, quell’apoteosi dell’energia che Balzac tesse in tutta la sua opera; l’uno che si aliena dal mondo nella sua ricerca di verità e di amore — come Balthasar Claës, il protagonista della Recherche de l’Absolu (1834), che sacrifica tutte le sue sostanze nelle sue ricerche scientifiche —, l’altro radicato nel suo miraggio sempre più dilatato di potenza terrena, con tutte le sue facoltà condensate ed applicate nella realtà concreta del denaro, e che pure finisce, come tutti gli autentici avari, a non amare il potere e il denaro che per se stessi (come dirà anche Gobseck, l’usuraio visionario della novella omonima) [...].

  Ma queste due opere, prese qui ad emblemi antitetici del duplice processo creativo di Balzac, divergono sostanzialmente per i movimenti che descrivono, in direzione opposta, di disincarnazione e d’incarnazione (e usiamo due termini cari a Balzac, e che significativamente la critica moderna ha fatto propri), evidenti anche nella loro struttura letteraria, studio-poema la prima, vero romanzo più circostanziato la seconda; e l’una termina con un «échec», con un sogno d’infinito interiorizzato fino alla follia — ed è anche un esempio dell’azione corrosiva del pensiero, a cui Balzac credeva —, l’altra con una suprema e gratuita affermazione di volontà e di tenacia terrene, specie nella morte del vecchio Grandet (con cui forse il romanzo avrebbe dovuto finire), densa di tinte un po’ caricaturali.

  Ma Louis Lambert, anche per la sua tessitura autobiografica, è opera assai ricca di temi, dall’angelismo di ispirazione swedenborghiana, alla solitudine dell’intellettuale, osteggiato dalla società, all’importanza del sogno, manifestazione di una doppia vita nell’uomo. Il problema centrale e più angoscioso è il rapporto fra materia e pensiero, materia e spirito, considerati come due aspetti di un unico fenomeno [...].

  Un problema di unità, di armonia. E Louis Lambert è il primo tentativo di un sistema provvisorio, condensato anche in formule frammentarie ed esoteriche, alla fine del libro: le suggestioni più varie, come si è detto, si combinano in una specie di breviario mistico-fisiologico. Importante soprattutto la teoria della «Spécialité», privilegio di pochi eletti predestinati, che possono «vedere» le cose del mondo materiale e quelle del mondo spirituale, i fatti nelle loro radici e nei loro sviluppi, il passato, il presente, l’avvenire [...].

  Un tentativo che è però una specie di sintesi «a priori», su basi idealistiche, con affermazioni categoriche, dogmatiche, apocalittiche, e nel senso di quella «disincarnazione» a cui si è accennato, di un ritorno alla prima fonte divina. [...].

  Su questa stessa linea di disincarnazione e di ricerca di unità in Dio — e quindi anteriore al peccato — segna un nuovo «échec» ancora più tragico Séraphîta (1835), con il suo mito dell’androgino che prima di tornare nella sua sfera angelica, deve cedere al dolore per aver suscitato un amore ambivalente, in Minna e in Wilfrid, cioè in una donna e in un uomo, che restano vincolati alla loro condizione umana. È, se si vuole, il cammino della speranza, proiettato in un futuro di redenzione dai limiti del Tempo, della Morte, della fragilità umana, della Storia. Ma fuori di questo mito a lungo coltivato — in una specie di poema in prosa, Falthurne, del 1816, ripreso nel 1823-24, si ha il primo abbozzo di Séraphîta —, e in cui Balzac si isola e si raccoglie, e che traduce ansie e nostalgie di purezza e di liberazione da ogni miseria umana, la realtà preme e costringe nel quotidiano, invischia nell’aggrovigliata rete dei rapporti con gli altri uomini, piega agli istinti anche più grossolani. È significativo che i licenziosi Contes drolatiques, «pastiches» in lingua rabelaisiana, siano all’altro estremo ma contemporanei di Louis Lambert e di Séraphîta. L’uomo vive nel Tempo, nelle condizioni di una Società, di una nazione, di una città, di un quartiere, di una strada, di una classe sociale. L’unità deve ritrovarsi nell’ambito di questa condizione, nella somma totale e univoca di osservazioni e intuizioni, operando una sintesi «a posteriori», che includa l’esperienza della realtà sensibile senza escludere interventi eccezionali e imponderabili, elementi divini o satanici a cui Balzac crede, e che la stessa esperienza comporta. È per Balzac una seconda «conversione» alla realtà, che avviene direi a partire dal 1835, quella che Albert Béguin ha definito «conversion à la vie — s’il est possible de penser qu’un homme qui portait en lui la vie elle-même eût besoin de la découvrir». Ma ad una realtà totale, ad una vita completa, estesa, moltiplicata, ripetuta, prolungata in tutte le direzioni [...].

  Una moltiplicazione che segue linee diacroniche, sincroniche, ma anche nello stesso spessore dell’individuo, in profondità. Ecco perché il protagonista della Comédie humaine non poteva essere che il pubblico, come ha detto Macchia, con estrema acutezza, «il vasto pubblico, contemporaneo e borghese, nella sua varietà, complessità, totalità, e non lo spaccato di una società, aristocratica o popolare, come nel Settecento in Crébillon fils, in Laclos, in Restif de la Bretonne».

  Non direi che almeno nel contesto dell’opera realizzata, cioè della Comédie humaine, occorra distinguere fra un universo fantastico e un universo quotidiano, quello dei brevi «contes» e quello dei più ampi romanzi di costumi, e pensare che ad un certo momento Balzac abbandoni i primi, dove gli elementi surreali prevalgono apertamente, per continuare nei secondi a dissimulare quegli stessi elementi sotto l’apparenza del corso normale delle cose (ed è la tesi di Béguin). Non è un’opera di dissimulazione, o di intrusione, bensì di unificazione, in una struttura che poggia sul piano della realtà. Ed è la realtà ad inglobare la visione, mentre la visione, se trascende la realtà, non se ne libera, e si definisce soltanto rispetto alla realtà, non viceversa. Potremmo dire con Balzac che è «le rêve d’un homme éveillé». Se la Comédie humaine, come ha detto ancora Béguin, è una commedia «qui se joue sous le regard de Dieu», e presuppone un Paradiso e un Inferno, è anche, al tempo stesso, la storia di un’epoca, che presuppone dimensioni o categorie terrene. È una leggenda, ma una «légende du siècle», la storia del cuore umano sul registro eterno, universale, e quella di una generazione, sul registro contingente e transitorio.

  L’immaginario e il reale, l’interno e l’esterno, si compenetrano, si combinano, si scambiano le parti. Balzac, secondo la sua stessa formula, non ha inventato che la realtà del suo tempo, in cui anche i «faits étonnants» possono trovare posto, come i sogni profetici, le visioni, le allucinazioni, il magnetismo animale e la trasmissione del pensiero, fra una banale vicenda di successioni, di testamenti, di amori impediti, di costumi provinciali (in Ursule Mirouët). Vautrin è un genio diabolico, con le sue macchinazioni perfette, la sua «seconde vue», i suoi amori torbidi e la sua rivolta, la sua potenza demiurgica d’incarnarsi, di trasferirsi in altri uomini («Je suis l’auteur, tu seras le drame», è la sua frase famosa a Lucien de Rubempré); e Vautrin è anche e soprattutto Balzac, con il suo istinto creativo: «Crea uomini in carne ed ossa», avvertiva già Curtius «e impone loro la legge della sua fantasia. Così ottiene di moltiplicarsi, accrescendosi smisuratamente». Ma tutti i suoi congegni impeccabili funzionano in una sintonia della volontà e del caso, cioè della sua immaginazione e della realtà sociale in cui vive, in cui si muove con destrezza, dalla stantia pensione Vauquer, nel Père Goriot, al mondo più vasto e intricato, brillante e tragico, di Splendeurs et Misères des Courtisanes, dove proprio un incontro casuale fra Esther e il barone Nucingen, una cortigiana e un banchiere, mette in movimento la sua fantasia e la sua abilità infernali. E non meraviglia che a sostegno delle varie incarnazioni di Vautrin ci siano alcuni tratti delle avventure reali dell’ex-forzato Vidocq. Ma pensiamo anche ad un tipico «conte fantastique», a Melmoth réconcilié, dove l’intervento del surreale, patente e dichiarato, si inquadra in una situazione storico-sociale parigina, mediante la sottesa equazione simbolica: Parigi = Inferno, e con sfumature comiche e satiriche non sempre ben dosate (il potere diabolico convertito in un titolo di borsa, e che va sempre più screditandosi, fino a perdersi in un «exploit» di dodici giorni di orgia e di amore).

  Fra l’interpretazione tradizionale, sostenuta specialmente dai naturalisti, di un Balzac realista e documentario, e quella più moderna — ma già avanzata da Philarète Chasles, da Gautier e da Baudelaire — di un Balzac visionario, è forse su una linea mediana, ma sublime, che tenga conto dell’uno e dell’altro aspetto insieme drammaticamente compenetrati, come lo spirito e la carne, che può indicarsi la vera originalità dell’opera balzacchiana.

 

  1. Honoré Balzac nasce a Tours nel 1799. Studia a Tours e a Vendôme, poi a Parigi, dove la famiglia si trasferisce nel 1814. Nel 1819 si laurea in legge, dopo avere fatto pratica di avvocato e di notaio, ma si dedica alla letteratura, scrivendo all’inizio romanzi in collaborazione (1821-25) con Etienne Arago e Auguste Lepoitevin (che appaiono anonimi o con pseudonimi). Tenta poi varie imprese di affari — editoria, fonderia ecc. — che si risolvono in altrettanti disastri. Dal 1830 collabora a riviste e giornali, diviene legittimista intransigente, conduce vita sontuosa, si firma «Honoré de Balzac» e pretende di discendere dai Balzac d’Entragues, ha numerose relazioni femminili: dal 1822 è l’amante di Laure de Berny, che rimarrà sempre, fino alla morte di lei (1836), la sua «dilecta», poi della duchessa d’Abrantès (1825), di Olympe Pélissier (1831 circa), che sarà la seconda moglie di Rossini; e ancora di Maria du Fresnay, della contessa Guidoboni Visconti, di Caroline Marbouty. Ama senza successo la marchesa de Castries. Nel 1832 entra in relazione epistolare con la contessa polacca Eveline Hanska. Nel 1836 dà vita ad una rivista, La Chronique de Paris, ma anche questa impresa non ha fortuna. Nello stesso anno viene per la prima volta in Italia; vi torna l’anno seguente, visita Milano (dove conosce Manzoni), Venezia, Firenze, Genova; e poi ancora nel 1838 (progetta di sfruttare delle miniere d’argento in Sardegna). Nel 1839 è nominato presidente della Société des Gens de Lettres. Fra lussi e sperperi, è continuamente oppresso da debiti, e perseguitato dai creditori. È anche costretto a nascondersi. Ma lavora sempre con un ritmo vertiginoso: nuovi romanzi, riedizioni, una nuova rivista, La Revue Parisienne (1840), che fallisce anech’essa dopo pochi numeri. Non hanno maggiore successo le sue «pièces» di teatro (Vautrin, 1840; Les Ressources de Quinola, 1842; Paméla Giraud, 1843: solo La Marâtre, nel 1848, sarà accolta con un certo favore). Dal 1842 al 1848 escono i diciassette volumi della Comédie humaine, mentre egli è quasi sempre in viaggio per incontrare o accompagnare Mme Hanska, che finalmente sposa nel marzo del 1850. Tornato a Parigi, muore nell’agosto dello stesso anno.

 

  La «Comédie humaine»: personaggi e interpreti, Ibid., pp. 601-610.

 

  Ma perché questo mondo forgiato da una visione sempre più unitaria e cosciente potesse tenersi in un’opera d’arte, occorreva che il processo di unificazione ottico-morale, potremmo dire, si sommasse ad un processo di unificazione tecnica; che i vari romanzi-episodi si componessero in una struttura armonica, e che all’immenso «réseau» di segni e di rapporti coefficienti, scoperti e ritessuti da Balzac, corrispondesse una rete altrettanto fitta di rapporti fra romanzo e romanzo, fra vicenda e vicenda, fra personaggio e personaggio. La Comédie humaine, alla cui architettura Balzac arrivò piuttosto tardi, e «a posteriori», quando la maggior parte dei romanzi e dei «contes» erano stati scritti e stampati, assunse per gradi le sue dimensioni e la sua articolazione, con la sua grande suddivisione in studi di costumi, in studi filosofici, in studi analitici, e con gli studi di costume a loro volta ripartiti in «scènes», della vita privata, della vita di provincia, della vita parigina, della vita politica, della vita militare, della vita di campagna. Il progetto si fece sempre più ambizioso, le forze vennero meno, e l’opera rimase incompiuta (ma ci chiediamo: la Comédie humaine poteva davvero avere un suo compimento, una chiusura, una fine?). La tappa fondamentale di questa edificazione titanica rimane la scoperta del «ritorno dei personaggi». Può far sorridere l'episodio di Balzac che arriva tutto euforico a casa della sorella, il giorno in cui ebbe quell’illuminazione, e annuncia solennemente: «Saluez-moi, car je suis tout bonnement en train de devenir un génie». Ma il procedimento è realmente geniale, e forse anche al di là delle stesse intenzioni dell’autore, che lo applicò sistematicamente a partire dal Père Goriot (1834). La «storia dei costumi» di una generazione non si scrive se non misurandone l’estensione nella unità e varietà della natura umana, dei «tipi» e delle reazioni individuali, ma anche in una certa durata, cioè estensione temporale di un certo ambiente, preso a misura del tutto, e che ha i suoi personaggi ricorrenti.

  La Société française allait être l’historien, je ne devais être que le secrétaire, dice Balzac nell’«avant-propos» della Comédie humaine, del 1842; il segretario che conosce tutti i fili sotterranei che collegano un fatto all’altro, le leggi che regolano non solo il corso delle cose, ma quello dei sentimenti, delle manie, dell’ambizione e dell’amore, che mettono in movimento una catena di interessi, e dispongono dei destini di gruppi d’individui (e l’interdipendenza delle sorti degli uomini è uno dei grandi temi sociali della Comédie humaine).

  Questo mondo di vivi, che si rincorre, si ritrova e si scontra nelle pagine dei vari romanzi, dà l’idea di una grande «troupe» di attori, a cui tocchi una volta o più volte per ciascuno una parte di primo piano nella grande commedia che rappresentano, e che poi, in altre scene, e in altri «quadri», riappaiano conservando il loro carattere, e trasformandosi nel tempo, come interpreti di se stessi.

  Nous mourrons tous inconnus, c’est le mot des femmes et celui des auteurs, disse Balzac nella introduzione di Ferragus (1833): e si avverte in questa frase l’angoscia di non riuscire a dire tutto quello che si ha dentro, che cosa si pensa di sé, degli altri, del mondo. E Balzac aveva molta fretta, come chi ha sempre molto da fare. Ma egli ha perlomeno dotato tutti i suoi personaggi principali di una scheda anagrafica quasi completa, psicologica e fisiognomica, osservandoli in tempi diversi, in situazioni diverse. E Fernand Lotte, che ha preparato un dizionario dei personaggi «fictifs» della Comédie humaine, ha fatto non solo un’opera utilissima, ma anche una specie di romanzo dei romanzi, con l’illusione ottica che i personaggi immaginari siano quelli reali, e quelli reali degli intrusi.

  I «ritorni» hanno le loro forzature: spesso si tratta di riapparizioni brevissime, di comparse, di evidenti «traits-d’union», ed hanno anche punti deboli, incongruenze. Il giudice Popinot, per esempio, muore due volte, ed è inverosimile che un medico come Bianchon si trovi sempre pronto a correre al capezzale di centinaia di malati e moribondi, anche se la sua presenza, in epoche e in circostanze diverse, è un coefficiente di unità del mondo balzacchiano. Ma imprecisioni e inverosimiglianze non incidono sulla coesione di questa società immaginaria e realistica, col suo andirivieni di facce nuove e di persone note, di giovani provinciali in cerca di avvenire a Parigi, e vecchie conoscenze in agguato. E proprio questa coesione, questo aspetto di vita vissuta, nella durata, dentro e fuori di noi, consente a Balzac di temperare e di sfumare nell’insieme la forte tipizzazione (che arriva talvolta alla caricatura) e l’autonomia individuale dei suoi personaggi. Delphine de Nucingen e Anastasie de Restaud, le due figlie ingrate e frivole di papà Goriot, si ridimensionano, e si completano negli altri romanzi in cui riappaiono (Illusions perdues, La Maison Nucingen, Gobseck ecc.).

  È nota la teoria di Balzac, che applica all’uomo e alla Società l’unità di composizione riscontrata da Geoffroy Saint- Hilaire nella zoologia: un unico animale all’inizio, poi differenziato secondo gli ambienti in cui si sviluppa. E Balzac deduce: ci sono specie sociali come specie zoologiche [...].

  Ma Balzac non si ferma a queste corrispondenze fra mestiere e comportamento, fra abitudini e fisionomia, fra volto e manie in fondo al cuore, ed anche fra facce umane e musi animaleschi — tanto per non perdere il collegamento umanità-animalità (Z. Marcas ha il volto di un leone, Gobseck e Claës quello di un cavallo, ecc.). Più significativa è la corrispondenza fra nomi e fisionomie, gli uni e gli altri sottomessi alla stessa legge di armonia. Qui il realismo balzacchiano si impregna di occultismo, di cabala, si affida al potere magico della parola, che corrisponde alla realtà perché la crea, vi si incarna; è l’«Et Verbum caro factum est». Thibaudet aveva ragione anche per questo quando definiva la Comédie humaine una «imitation de Dieu le père». È evidente che in molti casi la vicenda si applica al nome del protagonista, o di un personaggio anche minore, e svolge, spiega la potenza occulta, la sorte del nome, anche se i nomi Balzac non sempre li inventava — ricorda la sorella Laure de Surville —, ma li cercava nelle sue passeggiate, e poi li «vedeva», li interpretava [...].

  Altre volte quasi lo declina, gioca sull’etimologia, vera o presunta, cerca affinità con altre parole (Gaudissart per esempio dà «gaudisserie» e «gaudissarde», ed è apparentato a «gaudriole»); o ancora il nome è per lui talmente significativo e significante, ed appropriato al personaggio, da risparmiargli di farne il lungo ritratto di prammatica (è il caso della baronessa di Listomère, nel Curé de Tours). Infine il nome che ha valore di segno non meno per le sue caratteristiche foniche e allusive che per quelle grafiche [cfr. Z. Marcas]. [...].

  Comprendiamo come, su questa filigrana, Roland Barthes abbia scritto un libro, con molte osservazioni acute, altre meno convincenti e gratuite, contrapponendo e accostando anche, fra l’altro, la S iniziale di Sarrasine alla Z della Zambinella e di Z. Marcas (S/Z).

  Ma Balzac, già in Louis Lambert aveva scritto pagine appassionate — e che oggi potrebbero rileggersi in chiave strutturalistica — sulle avventure delle parole, sulla loro potenza e origine divina (Bonald insegnando), sulla loro «fisionomia», che rianima nella nostra mente le creature, gli oggetti a cui serve da involucro. Magia della parola; e si pensa alla «sorcellerie évocatoire» di Gautier e di Baudelaire. Ed è però assai significativo che Balzac, facendo un esempio, scegliesse la parola «vrai» [...].

  Quanto più ci si inoltra nella lettura della Comédie humaine — che va letta certamente tutta, come un’opera unica, anche senza seguire un ordine qualsiasi —, e ci si familiarizza con nomi, persone, luoghi, antefatti, ascendenze, si ha veramente l’impressione di addentrarsi in una società di cui a poco a poco si riconoscano, per ogni suo membro, non solo vita, morte e miracoli, ma soprattutto i «dessous des cartes», intrighi, ricatti, raggiri, mistificazioni, o sacrifici, rinunce. E si delinea sempre più nettamente quel personaggio affascinante che è lui, Balzac, con i suoi gusti, le sue scelte, sensibilissimo ai «crimes secrets» che non cadono sotto i rigori di nessuna legge, ma perciò più mostruosi di quelli commessi apertamente, come d’altra parte a quegli atti di abnegazione totale, alle umiliazioni, alle sofferenze silenziose, nascoste, avvolte dal mistero in una specie di nobiltà austera. Quelle del père Goriot, «christ de la paternité», o quelle di Mme Desmarets, vittima al contrario dell’amor filiale, costretta a vedere di nascosto suo padre Ferragus (e sotto molti aspetti Ferragus è l’inverso del Père Goriot), o la crisi patente, la disfatta ufficiale, ma anch’essa intima, interiorizzata, di César Birotteau, martire della probità commerciale. E pensiamo al largo spazio che hanno nella Comédie humaine gli amori tormentati delle cortigiane — su cui ha scritto pagine acutissime Béguin —, che quando amano veramente pongono la loro passione molto più in alto delle altre donne, in una sfera di catarsi e di sublimazione tragica, che le redima e le compensi dell’amore vischioso e mercificato del marciapiede o della «garçonnière».

  Tutto ciò che è segreto, celato sotto il corso normale della vita, le privazioni, i sogni, le gioie dell’inventore (Séchard, Claës), o del collezionista (Le cousin Pons), dell’artista (Frenhofer nello Chef-d’oeuvre inconnu, Gambara nella novella omonima), o anche del ladro, della spia — cioè del ladro rimasto onesto —, «car tout n’est pas vicieux dans le vice»; tutto ciò che fermenta e si sprigiona negli abissi più oscuri dell’anima e si svolge in energia e in ricerca di assoluto, attira Balzac in modo irresistibile, magico; lì l’intuizione, la creazione, il giudizio, s’identificano in profondità, sono arte, storia, critica; lì l’analisi della società, come «quadro» che accoglie, fomenta, deforma o distrugge queste passioni diviene più veridica e spietata. I congegni complessi, di coesistenza, di scontro, di equilibrio, che mettono in moto i tre o quattromila personaggi che contano nel corso di una generazione, e in una nazione come la Francia nei primi decenni del secolo XIX, sono smontati, denunciati. Il potere, l’eros, ma condizionati dal flusso del denaro, dalle rendite accumulate o dilapidate. Sembra che nei romanzi di Balzac non si parli d’altro: interessi, percentuali, sconti, investimenti, pegni, successioni, sequestri, la Borsa, le banche, gli strozzini, le cambiali ecc. Una febbre, una epidemia di denaro, da cui tutti, volenti o nolenti, risultano contagiati. E il denaro, nei mille rivoli in cui si raccoglie, e si disperde, è con il pubblico, e direi contro il pubblico, il protagonista della Comédie humaine. Non è un caso che una delle colonne vertebrali del mondo balzacchiano sia un usuraio, Gobseck, da cui dipendono le sorti di molte famiglie nobili e borghesi, e perfino, attraverso la sua eredità lasciata alla nipote Esther, la riabilitazione postuma di Lucien de Rubempré e l’ultima incarnazione di Vautrin. E Gobseck è lucido, freddo, stupendo, nella sua diagnosi:

  Mon regard est comme celui de Dieu, je vois dans les coeurs. Rien ne m’est caché. […].

  È questo il mondo che Balzac conosceva, e di cui faceva, nella sua vita disordinata e dispendiosa, continua esperienza. La Comédie humaine è stata scritto certamente perché Balzac assolvesse al suo debito verso se stesso, verso la sua potenza creativa; ma anche perché l’assillo del denaro e dei creditori non gli dava requie. Ed anche di questo porta testimonianza, nel suo disprezzo-amore del denaro, nella sua passione-avversione per Parigi, [...], una città con la sua anima, la sua poesia di bizzarri e larghi contrasti, ma dalla fisionomia cadaverica e infernale (e si leggano fra l’altro le pagine introduttive di due scene della Histoire des Treize, Ferragus e La Fille aux Yeux d’Or). Ed ecco un’altra ragione della sua protesta contro una società che costringe nel bisogno l’uomo di lettere, contro la democrazia assembleare, che egli accusa — e qui d’accordo con Stendhal — di disprezzare le arti e di schiacciare la libertà dello spirito. Sono famosi i suoi processi per tutelare i diritti d’autore, ed il suo accanimento contro i giornalisti, che gli furono quasi tutti ostili, venduti o sinceri che fossero. È il mondo della Parigi borghese di Luigi Filippo, in mezzo a cui egli visse mentre scriveva la sua opera. Non ci meraviglia che gli operai siano assenti, o abbiano solo qualche ruolo molto secondario, di comparse, nella Comédie humaine, e che i contadini vi siano così poco rappresentati, e piuttosto maltrattati (Les Paysans, romanzo del resto incompiuto). Nella sua chiaroveggenza, e nella sua denuncia della miseria di certi quartieri di Parigi (Facino Cane, La cousine Bette), egli giudica sempre da borghese (e che aspira alla nobiltà). Di qui alcune contraddizioni della sua opera e del suo atteggiamento. Teme per esempio la rivolta del popolo, degli operai, ma esalta la rivolta dell’individuo; è per l’ordine costituito, per il trono e per l’altare, per un governo forte, autoritario (le sue idee politiche sono espresse con efficacia e chiarezza nella introduzione di Catherine de Médicis); ma si è quasi sempre interessato di chi viola le leggi, di chi trama nell’ombra, di chi si pone fuori della società per combatterla o sfruttarla. Non crediamo che si possa qui parlare soltanto di smascheramento dell’ipocrisia borghese del suo tempo. È su un piano più universale la parte fatta alla stirpe di Caino, alla poesia vertiginosa del male, grande e bella nel suo genere, come

  la plante vénéneuse aux riches couleurs qui fascine les enfants dans le bois

  (e si veda tutta l’ultima lettera di Lucien a Vautrin). Perciò Balzac crede al progresso dell’individuo, e non al perfezionamento delle Società. E lo ha detto con molta decisione. La sua opera ha intenzionalmente un doppio messaggio: di sfiducia nell’azione collettiva, di fiducia nella volontà dell’uomo. E degli individui, dei singoli uomini alle prese con la Società e con il caso egli ha voluto anatomizzare il cuore, cercando in quel mistero di

  arracher des mots au silence et des idées à la nuit.


 

  Luigi Derla, Il «Libro ascetico» di Balzac: introduzione a «L’Envers de l’histoire contemporaine», «Studi Francesi», 53, Torino, Anno XVIII, fascicolo II, maggio-agosto 1974, pp. 224-239.

 

  [...]. L’Envers de l’histoire contemporaine [...] non è certamente fra le opere di Balzac più note e più studiate. È l’ultimo romanzo che egli portò a termine e, sia suggestione nostra o presagio dell’autore, troppi elementi vi accennano a una volontà di «conclusione» perché il lettore non sia tentato di ricercare proprio in questi una prima chiave interpretativa del non facile testo. Ché il romanzo è fra i più problematici — anzi ambiguo, non già di quella generica ambiguità che si vuole propria d’ogni scrittura letteraria, ma perché al termine di ogni inseguimento del senso, lungo le grandi piste tematiche che lo attraversano in più direzioni (aperte ad altrettante ipotesi di lettura) ci ritroviamo presi dal sospetto di una messa in mora o, perché no?, di una sorta di «mistificazione» del significato, forse involontaria, certamente geniale, comunque complice della strategia immaginativa e degli escamotages ideologici del Grande Sistema balzacchiano. Forse anche per questo L’Envers ci sembra un punto di riferimento essenziale sia per una storia della narrativa di Balzac, sia per quella del suo pensiero (religioso e sociale): è l’ultima verifica del suo «misticismo», ma anche, più di quanto non sembri a prima vista, un messaggio, se non politico, rivolto al mondo della politica. E mentre sembra tentare un discorso narrativo nuovo per sobrietà d’invenzione, di metodo compositivo e di scrittura, assecondando antiche e recenti spirazioni (nonché reiterati inviti di Mme Hanska) a misurarsi nel romanzo «cattolico» — ma aveva appena scritto il Curé de village! —, L’Envers risulta innervato nella Comédie humaine ben più profondamente di quanto non dicano le immancabili citazioni contestuali. Anche questi numerosi legami, non estrinseci ma sostanziali, con «cette longue histoire des moeurs», concorrono alla complessità del romanzo. Una complessità da scoprire e da intendere nel suo ambiguo significato.

  1. La storia esteriore del romanzo [...] parrebbe, e così non è, la prima causa di questa complessità e ambiguità del testo. [...]. Difetto d’«ispirazione» o souffrances de l’inventeur? All’inizio (1841) Balzac non sembra disporre che di un’idea alquanto vaga, praticamente di un titolo: Les Frères de la Consolation — dietro il quale, che cosa c’è? Il romanzo della carità cattolica nell’inferno parigino? Ma L’Envers non è semplicemente una variante metropolitana del Médecin de campagne e del Curé, come suggerisce invece lo stesso Balzac parlando, in una lettera a H. Castille, di questa difficile gestazione [...].

  2. L’Envers si affaccia essenzialmente a tre prospettive strettamente complementari — a cui rispondono tre piani di scrittura, tre modi di organizzazione tematica e altrettante opzioni fondamentali di lettura: apologetico-religiosa, romanzesca e storico-politica. Da quest’ultima, che se ci limitiamo a un inventario dei riferimenti espliciti sembra interessare soltanto le zone periferiche del romanzo [...], vorremmo, dunque, cominciare ad interrogare L’Envers, e non importa se l’indagine sembrerà rinviarne ulteriormente la lettura diretta. Non indugeremo sui riferimenti alla storia parlamentare della monarchia orleanista reperibili nelle pagine dedicate alle infelici esperienze politiche di Godefroid [...]: questi richiami, indubbiamente polemici nei confronti del regime, hanno un rilievo ben definito, ma in sostanza limitato nell’economia del racconto.

  Il testo spia si legge, invece, all’inizio della seconda parte (L’Initié), là dove il mentore di Godefroid, Alain, si congeda da lui per intraprendere la sua nuova missione [...].

  È questo l’unico cenno nel romanzo alla diffusione del comunismo fra gli operai; altre due allusioni alle idee comuniste del dottor Halpersohn restano contestualmente ingiustificate, sebbene, confluendo in una somma di connotazioni negative del personaggio [...], confermino la valenza negativa del termine. Ora, nell’edizione preoriginale dell’Initié (agosto 1848) Balzac commentava questo passo con una nota in cui teneva a sottolineare che, l’opera essendo del 1840 [...], questa seconda parte, scritta in Russia nel 1847 (e terminata entro il gennaio 1848), «les circonstances ne sont pour rien dans cette phrase prophétique»; e concludeva rivendicando la connessione di questo passo col testo pubblicato nel 1845. Nel commento citato il grande scrittore non si limita dunque ad esprimere indirettamente il suo giudizio sulla rivoluzione, ma suggerisce l’ultima chiave interpretativa [...] del suo romanzo. [...].

  Il tramonto della nobiltà feudale, degli eredi dell’«antica razza», oggetto frequente di elegia e di satira, significa bensì l’ascesa di una borghesia avara e incolta (come quella descritta nei Paysans), ma alle cui spalle preme una nuova orda senza nome. Questo, del piccolo clerc Butscha di Modeste Mignon (1844), non è soltanto un paradosso, ma un sinistro presagio: «Dans six mois le peuple, mademoiselle, qui se compose d’une infinité de Butscha méchants, peut souffler sur toutes ces grandeurs» (cap. 61). Ma Balzac si rende conto che all’origine del problema è la miseria delle classi popolari, la cui rappresentazione perde così in risalto pittoresco per guadagnare in consapevolezza umana e politica del problema. Certo, verso il 1840 la filantropia borghese era ormai in piena crisi, sia dal punto di vista ideologico, sia da quello delle realizzazioni pratiche (in sostanza si era rivelata antieconomica). E Balzac, che non aveva mai nutrito in essa eccessiva fiducia [...], ma era convinto che la miseria crescente delle masse costituiva quantomeno un problema vitale di conservazione dell’ordine stabilito, studiava nuove soluzioni. La gloria del dottor Bénassis e dell’abbé Bonnet era stata quella di avere tradotto due popolazioni dallo stato di barbarie alla civiltà e in entrambi i romanzi, più che l’ambiguo umanitarismo di origine massonica professato dalla borghesia illuminata, ritroviamo un’ideologia affine per molti aspetti a quella di filantropi cattolici legittimisti quali il barone de Morogues o il Villeneuve-Bargemont — anche se, quanto a indicazioni programmatiche, non siamo torse lontani da un tentativo di sintesi delle due tendenze. [...]. Nel 1831 Casinmr Périer aveva dichiarato alla Camera: «Il faut que les ouvriers sachent bien qu’il n’y a pas de remèdes pour eux que la patience et la résignation». Per questi cattolici si trattava appunto di dare un contenuto a quella rassegnazione che nell’universo di Périer restava una «virtù» negativa, assicurata unicamente dalla forza di repressione dello stato borghese. E in questa linea, nel 1833, nasceva per iniziativa di Federico Ozanam la Società di san Vincenzo de’ Paoli, l’ (sic) héros chrétien evocato anche nell’Envers per la sua partecipazione alle miserie del popolo. [...].  (p. 79). Ebbene, proprio questa rinuncia a cercare una soluzione politica del problema [mediante la pratica comune della carità] ci sembra avvicinare l’ideologia dell’Envers (non diciamo L’Envers come romanzo) allo spirito della Società ozanamiana, senza peraltro che le motivazioni populistiche di questa riescano a conservare la loro preminenza in quella.

  3. Tale, dunque, la situazione oggettiva a cui L’Envers fa riferimento implicito ed esplicito e alla quale pretende di contrapporre un progetto alternativo (il «rovescio» appunto) di rigenerazione sociale mediata dalla carità cattolica. [...]. Ci si perdoni l’ovvietà del rilievo, ma anche questo è prima di tutto un romanzo, pur se, come vuole lo statuto del genere narrativo moderno, la coscienza realistica vi concorre, non meno del progetto letterario, all’istituzione della scrittura e del senso. E come romanzo appunto lo segnala all’attenzione Balzac nella prefazione di Splendeurs et misères des courtisanes là dove, pur insistendo sull’intenzione apologetica dell’Envers [...] ne sottolinea altresì il rapporto di simmetria e di opposizione con L’Histoire des Treize [...]. Quando si tratta di definire il luogo dell’Envers nella geografia del sistema, Balzac ricorre cioè alla categoria essenzialmente romanzesca dell’associazione segreta, recuperandola dai Treize e sussumendovi il nuovo romanzo. L’opposizione ideologica fra le due opere è reduplicata da una perfetta simmetria tipologica. Ma — ed entriamo così nel cuore dell’ambiguità — il romanzesco si situa istituzionalmente sul versante opposto a quello dell’«envers»: è, insieme con la politica (con cui nella Comédie intrattiene stretti e compromettenti rapporti) una categoria dell’«endroit».

  Ora, le due categorie che fondano il romanzesco nell’Envers sono quelle — strettamente complementari — del Mistero e della Curiosità. Mistero dell’ancien Paris nelle pagine iniziali, della dimora di rue Chanoinesse, di Mme de La Chanterie e dell’attività che essa svolge [...]; mistero di M. Bernard (alias Bourlac), di Vanda, nonché della malattia di questa. E, per Godefroid, curiosità di penetrare tutti codesti misteri nel suo viaggio iniziatico: che il viaggio è un’avventura, il paese è misterioso; ogni tappa è un enigma. Così la curiosità istituisce Godefroid come il mistero istituisce Mme de La Chanterie. Tematicamente il rapporto fra i due personaggi si lascia dunque configurare come la dialettica di curiosità e mistero (analogamente il rapporto Godeiroid-Vanda). Ma se il mistero è il luogo di tutte le ambiguità, di tutti gli scambi fra l’«envers» e l’«endroit» — non meno ambiguo è a sua volta il regime della curiosità, che risulta nello stesso tempo l’ostacolo e l’incentivo principale alla conversione. […].

  Pochi testi denunciano con altrettale chiarezza (e ingenuità) la collusione di spirito apostolico e di volontà di potenza sottesa al romanzo della carità.

  Ma la curiosità che oggettivamente è uno degli elementi induttori del romanzesco (e dunque, ripeto, un elemento che «fonda» il romanzesco in quanto tale), dal punto di vista moralistico-apologetico è il segno dell’imperfezione di Godefroid, del suo residuo spirito mondano. Così il movimento profondo di questa sorta di Bildungsroman [...], tende paradossalmente verso l’abolizione del romanzo stesso, che termina quando la curiosità è vinta (o perché appagata?), e Godefroid, quasi di lui convertito e integrato alla potenza dell’Ordine non resti più nulla, dilegua.

  Perché ciò che conta è il processo, anzi il «romanzo», della conversione. Alla quale, secondo il progetto ideologico del libro, conferiscono particolare significato i capitoli iniziali dedicati alla storia di Godefroid. [...].

  Così, nell’Envers, i «valori» son tutti dalla parte della nobiltà: disperando che l’ordine, le istituzioni possano essere difese (contro i «barbari») dalla borghesia, Balzac si rifugia all’ombra della classe di cui non ignora le contraddizioni e l’intimo processo di decadimento. Ma non è «decadente» proprio questo aristocraticismo ideologico, che trova il suo correlativo romanzesco in quello di Mme de La Chanterie? [...].

  Ma soltanto sull’asse delle grandi mediazioni simboliche è possibile cogliere appieno il complesso — e ambiguo — significato della carità nell’Envers. Chiara è certamente l’intenzione di istituire una giustapposizione di piani, fra l’ordine mondano (della Politica e della Finanza) e l’ordine della Carità, che si articola in una serie di opposizioni binarie del tipo: Politica-Religione; Stato-Chiesa; Cospirazione-Associazione; Giurisprudenza-Amore; Giustizia- Perdono; Polizia-Apostolato; Borghesia-Nobiltà, etc. Senonché i due mondi, dell’«envers» e dell’«endroit», non sono veramente separati — se non, ripeto, a livello intenzionale o di contrapposizione ideologica; per quanto è della struttura figurale e narrativa, le categorie dell’uno si «prestano» all’altro e ancora una volta la mediazione è affidata alla logica romanzesca. [...]. Così i due mondi antagonistici sono riconciliati nell’immaginario. E se il Balzac ideologo non aveva trovato — come vedremo — che una nozione negativa della carità, quella «positiva» è trovata dal Balzac romanziere: la carità come romanzo e come soddisfazione vicaria di anime offese, rassegnate e nondimeno possedute da un’insaziabile quanto inconfessata volontà di potenza: tale è il senso del romanzo della Carità. L’ambiguità dell’Envers si specifica come dialettica degli opposti sul piano delle determinazioni ideologiche come su quello della strategia simbolica.

  Ma le ambiguità e le contraddizioni dell’Envers sono anzi tutto quelle di una cultura che aveva smarrito precisamente il senso della carità cristiana (tanto che nel romanzo essa viene regolarmente definita come «cattolica»). Lo spirito borghese — in tutta l’ampiezza delle sue determinazioni culturali non manca del resto d’improntare di sé pur quelle istituzioni (per es. la Società di san Vincenzo) a cui Balzac può essersi in parte ispirato; ma non di questo si tratta ora, quanto del suo tentativo di operare una svolta ideologica all’interno del proprio sistema, e più generalmente del sistema culturale in cui si muove, proponendo un’alternativa mistico-religiosa allo spirito dell’epoca. Se il risultato è nondimeno contraddittorio, la spiegazione non va domandata a quella totale privazione di senso mistico che gli attribuisce, per es., il Wurmser, quanto al complesso delle sue motivazioni ideologico-culturali, che dànno un carattere sostanzialmente eclettico e dilettantistico a ogni suo tentativo del genere. Il «vero» misticismo di Balzac resta insomma quello — non meno ambiguo, ma di un’ambiguità per così dire «istituzionale» — di Louis Lambert o di Séraphita, la cui fenomenologia rientra in quella più ampia dell’estetismo del grande scrittore. Ma è in gran parte questo equivoco angelismo pseudo-swedenborghiano che Balzac si riduce a tentar di «convertire» in un misticismo della carità cattolico-paolina, senza che riesca a cancellarne l’impronta originaria romantico-decadente. Mentre sul «rovescio» di questo tentativo si inscrive la sua pretesa di risolvere il cattolicesimo politico (il solo che, per sua stessa testimonianza, gli tosse dato d’intendere) in un cattolicismo mistico. [...].

  Ad accentuare ulteriormente l’ambiguità dell’Envers concorre [...] il feticcio del Capitale che s’inserisce nel progetto di fondazione d’una mistica dei rapporti sociali quasi, si direbbe, a colmare un vuoto d’ispirazione autenticamente «religiosa». Ambigua, in altre parole, risulta questa duplicità di piani, e la concorrenza che si stabilisce fra i due princìpi inconciliabili di mediazione: il denaro e la carità. Nella migliore delle ipotesi Balzac cade nell’equivoco del cattolicesimo liberal-cattolico, che tenta di articolare i due termini fra loro. Il denaro, sappiamo, è il mediatore universale dei rapporti umani nel mondo capitalistico e, per ciò stesso, il principio universale di alienazione di tali rapporti (che diventano rapporti finanziari): la dimostrazione balzacchiana di questo teorema si situa di diritto fra quelle di Hegel e di Marx. Ma anche la carità («paolina» o no) pretende al ruolo di mediatrice fra gli uomini, e proprio questo suo ruolo il romanzo non riesce a rappresentare, quantomeno al di fuori della comunità esoterica di rue Chanoinesse, o senza la complicità dell’altro principio. Ma poteva Balzac rinunciare a questa complicità? poteva la sua epoca formarsi una diversa nozione della carità? Col suo tipico procedimento macroscopico, Balzac ne fa addirittura un’impresa che — profitto a parte riproduce il modello dell’istituto di credito in regime capitalistico. E così si illude di riempire il concetto, altrimenti vuoto, della carità. L’«envers» del nucingenismo è il «buon uso» della pecunia: ma non si esce tanto facilmente dal cerchio tracciato dalla maledizione biblica. Eppure è in gran parte il prestigio romanzesco del denaro che conferisce a questa impresa di carità il suo fascino epico: che significa infatti «romanzo della carità» se non composizione e risoluzione di questa con e nelle due grandi istanze mitologiche dell’universo balzacchiano: il Denaro e l’Avventura?

  E forse non è tutto. Forse al di là delle motivazioni apologetiche, il romanzo iniziatico possiede un significato più «universale»: di allegoria della condizione del borghese moderno itinerante nel mondo alla ricerca di miti e di riti nuovi che lo risarciscano dei perduti «misteri». Certo, L’Envers voleva essere la cronaca edificante di un ritorno alla fede tradizionale — ma noi abbiamo visto come il contenuto della conversione conti meno del suo processo, e questo processo, che si presenta come la versione romanzesca del viaggio iniziatico — e come tale determina la struttura del romanzo — è il vero oggetto del racconto. Onde a quel livello di autodeterminazione del testo, che sfugge alle previsioni dell’autore, questo e non altro voleva essere L’Envers. L’incantesimo da esorcizzare, il vero male del secolo, è il culto di Mammona — e la logica dell’iniziazione vuole che la guarigione sia mediata dall’identificazione mimetica col principio stesso del male. I «misteri» dell’hôtel de La Quinterie, con l’odissea di Godefroid, la sua discesa negli ipogei di Parigi, saranno allora metafore privilegiate delle istituzioni iniziatiche di cui manca il mondo moderno. E sappiamo che tutto questo non poteva essere realizzato se non per immagini: se non dal trionfo del principio romanzesco su quello apologetico.

  Nel corso di una lettura che, [...] è ben lontana dal pretendere di avere esaurito la ricca problematica del testo, l’ipotesi di un’ispirazione articolata fra i luoghi dell’apologetica, della politica e del romanzo ci ha così condotti ad accertare l’ideologizzazione della religione e, a un livello più profondo di elaborazione formale, la “letteraturizzazione”, di questa stessa istanza, propiziata dalle grandi ipostasi romanzesche del Sistema: il Denaro, il Potere, l’Avventura, il Mistero, la Polizia, la Donna ecc. Ma se da un lato questa scoperta ci ha restituito il «romanzo» come verità profonda dell’Envers, dall’altro ci ha lasciato scorgere attraverso la mediazione romanzesca il «rovescio» — storico anch’esso — di un importante insieme ideologico-pratico reso attuale dal selvaggio sviluppo della società capitalistica in Francia. E L’Envers, qui sta la sua complessità, vi affonda le proprie radici non meno che nelle misteriose lontananze dell’Immaginario. In quanto portatore di un’utopia semiclandestina di salvezza o di «giustificazione» dell’«endroit», lucrata dalle virtù dell’«envers», il romanzo ha forse mancato il suo obiettivo: l’aura sacrificale di ascendenza maistriana mal dissimula ben più vigorosi propositi di imperialismo spirituale. Anzi, l’«envers» si è rivelato, in quanto metafora della falsa coscienza sociale, non meno compromesso che il suo opposto nelle aporie della «storia contemporanea»: a riprova che il gioco dell’«envers» si svolge tuttavia sul versante dell’«endroit». Eppure soltanto qui Balzac poteva afferrarlo per dedurne questa straordinaria robinsonata d’anime naufragate sulle rive della civiltà moderna, e ivi illusoriamente intente a ricostruire, coi relitti del vecchio mondo, un simulacro di agape fraterna.

 

 

  Serge J. Ejzenstein, Lezioni di regia. A cura di Paolo Godetti. Traduzione di Luigi Longo, Torino, Giulio Einaudi editore, 1974 («Piccola Biblioteca Einaudi», 203), pp. 218.


  È presente una nota relativa alla regìa del Père Goriot.

 

 

  Jean O. Fischer, Realismo e concezione del mondo in Balzac: un problema di metodo, «Problemi», Trieste, Anno V, n. 41, 1974, pp. 228-241.

 

  Sono note le parole famose di Engels nella lettera alla Harkness:

  «Il realismo di cui parlo può apparire anche a dispetto delle opinioni dell’autore. [...] Senza dubbio, Balzac era, dal punto di vista politico, legittimista; [...] ma, ciò malgrado, la sua satira non è mai più audace, la sua ironia più amara, che quando fa agire gli uomini c le donne ai quali andavano le sue più profonde simpatie — l’aristocrazia. E i soli uomini di cui parla, sempre, con sincera ammirazione sono i suoi più violenti avversari politici, gli eroi repubblicani del Cloître Saint-Merri — uomini che, in quell’epoca (1830-1836), erano veramente i rappresentanti delle masse popolari. Che Balzac sia stato costretto ad agire contro le sue proprie simpatie di classe e i suoi pregiudizi politici, che abbia visto l’inevitabile decadenza dei suoi beneamati aristocratici, che li abbia rappresentati come uomini che non meritavano una sorte migliore; e che abbia visto gli uomini veri dell’avvenire soltanto là dove, allora, potevano trovarsi, — considero questo come uno dei più grandi trionfi del realismo, e una delle più grandi qualità del vecchio Balzac».

  Su queste parole frequentemente citate si è costruita una teoria della «contraddizione tra la concezione del mondo di un autore e il suo metodo artistico» (benché Engels non parli affatto della «concezione del mondo», ma soltanto delle simpatie politiche di Balzac).

  Il «caso Balzac» rappresenta veramente una prova dell’indipendenza dell’arte di fronte alla concezione del mondo? Parecchi critici si sono serviti delle parole di Engels per confutare l’importanza di una concezione del mondo nel lavoro dell’artista; ma, per mancanza di un esame storico e critico, le hanno irrigidite arbitrariamente, senza capirle. Guardate dunque Balzac, si diceva: si può essere decisamente reazionari e scrivere opere di una portata rivoluzionaria! Metodo antistorico e abbastanza poco serio, che consisteva nel basare intere teorie su una citazione, nel giocare con le parole senza conoscere il contesto storico, nel voler trasporre meccanicamente ciò che si considera l’«atteggiamento balzachiano» della prima metà del XIX secolo in altre epoche.

 

  1. Il Cenacolo di d’Arthez e la portata politica dei suoi principi.

 

  Limitiamoci innanzitutto a un’analisi concreta: quella del Cenacolo di d’Arthez nelle Illusions perdues e del suo ruolo nel dilemma vissuto da Lucien Rubempré.

  A Parigi, Lucien impara che non è affatto il talento che fa la gloria di uno scrittore, ma l’editore che lo lancia, e che «tutto in questi due mondi (tanto quello letterario quanto quello politico) è corruzione, ogni uomo vi è o corruttore o corrotto» (Illusions perdues, III, p. 469 [Seuil, “l’Intégrale”]); la prostituzione è ancora maggiore al teatro, dove le attrici e i loro amanti devono accettare il concubinato del «cuore» e del «cervello»; posto dinanzi alla scelta «Piuttosto morire» o «Piuttosto vivere» in un simile mondo, Lucien, trascinato dal suo carattere di una vanità infantile, opta per la vergogna che assicura il lusso. Il Cenacolo di d’Arthez rappresenta, nel dramma interiore di Lucien, il polo opposto. La caratteristica essenziale del Cenacolo è di non avere e di non desiderare di avere niente in comune con la venalità generale.

  La citazione di Engels si riferisce direttamente a uno dei membri del Cenacolo, Michel Chrestien, repubblicano entusiasta, più tardi caduto combattendo vicino al Cloître Saint-Merri, ucciso dalla «pallottola di qualche negoziante» (ivi, p. 460). È un «repubblicano di un’alta portata», un «uomo politico della forza di Saint-Just e di Danton, ma semplice e dolce come una fanciulla, pieno di illusioni e d’amore, dotato di una voce melodiosa che avrebbe avvinto Mozart, Weber e Rossini, e che canta certe canzoni di Béranger fino a inebriare il cuore di poesia, d’amore o di speranza, [...] povero come Lucien, come Daniel, come tutti i suoi amici» (ivi, p. 459). Michel Chrestien è, con d’Arthez, il personaggio più importante del Cenacolo; entra più volte in scena, sempre come nemico di ogni mercanteggiamento, e per opporsi alla debolezza di Lucien pronto a lasciarsi corrompere. Non esita a dirgli la verità con una spietata durezza ma è lo stesso uomo die esclama al momento dell’agonia di Louis Lambert: «Io, darei la mia! [la mia testa]. — E che ne sarebbe della federazione europea? — disse d’Arthez. — Ah! è vero, — riprese Michel Chrestien, — prima di essere un uomo si appartiene all’umanità» (ivi, p. 458). Più volte, Michel Chrestien cerca di mettere Lucien in guardia contro la sua propria ipocrisia. Quando finalmente Lucien, avendo consumato il suo tradimento con l’articolo contro il libro di d’Arthez, si trova faccia a faccia con Michel, questi, in piena strada, gli sputa in viso e, nel duello che ne consegue, lo ferisce gravemente: «È morto? — chiese Michel. — No, — disse il chirurgo, — se la caverà. — Pazienza, — rispose Michel» (ivi, p. 453).

  Onesto, implacabile e tuttavia sensibile, questo è l’eroe repubblicano del quale il monarchico Balzac «parla, sempre, con sincera ammirazione». Questa statua balzachiana dell’onore è là innanzitutto per mettere in risalto la debolezza di Lucien, ma il suo creatore lo ammira come un «grande uomo di Stato, che avrebbe forse cambiato la faccia del mondo». Tuttavia d’Arthez, il capo indiscusso del Cenacolo, è realista (come Balzac, del quale è noto che è spesso il portavoce); la diversità delle loro opinioni politiche non impedisce ai membri del Cenacolo di unirsi contro l’egoismo e la venalità generale del mondo borghese. Nel senso stretto della parola «politico», si era a quell’epoca legittimisti, liberali, bonapartisti o repubblicani. E tuttavia d’Arthez e Chrestien non solo sono amici, ma si intendono anche sui problemi fondamentali, e il loro atteggiamento di fronte alla società contemporanea è lo stesso. Non è questo manifestare un atteggiamento «politico», in un senso più profondo e più moderno della parola, che non aveva ancora diritto di ammissione al tempo della borghesia onnipossente? Se il Cenacolo ha le simpatie dell’autore, è per reazione contro la prostituzione del pensiero e dell’arte, contro quell’assenza di principi e quella «filosofia» relativistica che Blondet, indicando a Lucien come siano possibili parecchie critiche contrastanti su uno stesso libro, esprime in questi termini: «Amico mio, in letteratura, ogni idea ha il suo rovescio e il suo diritto; nessuno può assumersi la responsabilità di affermare qual è il rovescio. Tutto è bilaterale nel campo del pensiero» (ivi, p. 512).

  La filosofia del Cenacolo è la più contraria possibile a questo relativismo borghese, a questo spirito di einerseit e anderseit denunciato da Marx. I suoi membri sono caratteri solidi, che sanno sopportare la miseria, e anzi la ricercano per un dovere di coscienza. La loro parola d’ordine è, come dice Bianchon, «soffrire! soffrire coraggiosamente e affidarsi al Lavoro» (ivi, p. 463). Per non essere infettati dall’atmosfera della loro epoca, evitano, per principio, il contatto con la società che trovano marcia. Tendono ad un certo «puritanesimo», coltivano la rassegnazione e l’ascetismo che Lucien ripudia; c’è in loro un certo misticismo quando parlano di Louis Lambert, che è stato il loro capo. Ma non hanno altra scelta: data la tragica scissione dell’uomo nel sistema capitalistico, il lavoro esclude il piacere. Ora ciò a cui il Cenacolo tiene prima di tutto, è la propria libertà. Lungi dall’ammettere il relativismo, vuol essere, chiaramente e senza equivoci, pro o contro:

  «— È infatti la contraddizione che dà la vita in letteratura, — disse Claude Vignon.

  — Come nella natura, in cui essa risulta da due princìpi che si combattono, esclamò Fulgence. Il trionfo dell’uno sull’altro è la morte.

  — Come in politica, aggiunse Michel Chrestien» (Illusions perdues, III, pp. 518 sg.).

  Ma che significa questa opposizione? Balzac ha un bell’essere «monarchico», egli si rifiuta di distinguere, dal punto di vista morale, i giornalisti liberali dai monarchici. Fanno parte della stessa banda. «I lupi non si mangiano tra loro». Allora? E perché il suo attaccamento alla monarchia è utopistico, che Balzac, paradossalmente, si trova a desiderare, d’accordo con i democratici del Cenacolo, una rivoluzione che spazzerebbe via questo mondo dominante. Giacché l’atteggiamento di principio dei membri del Cenacolo può solo condurre, nelle sue conseguenze, ad una rivoluzione. Non siamo noi a dirlo. È Balzac. Quando Chrestien, Bridau e Ridal, invitati da Lucien all’orgia dei giornalisti, se ne vanno disgustati, i convitati si burlano di loro (per odio o per timore?). Ridono di queste persone che «si preoccupano del senso generale dell’umanità», che «cercano di sapere se questa gira su se stessa [...] o se è in progresso», che infine «trovano un nonsenso al triangolo biblico, ed è apparso loro non so che profeta che si è pronunciato per la spirale». Lucien, volendo difendere i suoi vecchi amici, esclama: «Degli uomini riuniti possono inventare delle sciocchezze più pericolose». E Vernou gli risponde: «Tu prendi quelle teorie per delle parole oziose, [...] ma viene un momento in cui esse si trasformano in fucilate o in ghigliottina» (ivi, p. 519). Questi borghesi si inquietano nel vedere uomini preoccupati del «senso generale dell’umanità», che «raccolgono grandi uomini caduti, come Vico, Saint-Simon, Fourier» (ivi, p. 519). Grandi uomini caduti che, come per caso, sono i precursori di idee più tardi rivoluzionarie ... Balzac ha visto benissimo — è la sua intuizione filosofico-politica più profonda — che una simile riflessione sui destini dell’umanità e della società contemporanea può condurre solo ad una rivoluzione. Il romanziere ammira non soltanto i veri rivoluzionari come Michel Chrestien, ma intimamente accorda loro la sua simpatia.

 

  2. La condanna del mondo borghese.

 

  Da questo solo esempio si intravede la complicazione dei rapporti tra il contenuto «formale» e il contenuto «reale» delle posizioni «politiche» del romanziere di fronte alla sua epoca. Generalizziamo, soffermandoci sui problemi metodologici.

  L’analisi de La comédie humaine ci dimostra che l’osservazione e la rappresentazione della società borghese e dei rapporti che essa ha instaurati nascono in Balzac dal rifiuto della «morale di denaro» e del relativismo dei giornalisti d’Illusions perdues; questo rifiuto dei cinici rapporti pecuniari penetrati in tutta la vita pubblica e anche privata non cessa di esercitare un ruolo fondamentale nella genesi dell’opera, nella formazione dei caratteri, in tutta la struttura ideologica ed artistica della Comédie humaine. In questo mondo degli arrivisti trionfanti e delle loro vittime rassegnate, le lezioni di Vautrin non fanno che riassumere quello che decine di destini ci hanno mostrato in maniera concreta; non occorre tanto tempo per verificare la definizione di Vautrin della proprietà come risultato di un «crimine ben fatto»: vedete Nucingen, Taillefer, du Tillet ... E Balzac non mostra soltanto i rapaci dell’epoca, ma anche la vita animale dei borghesi onesti, come i Guillaume e i Lebas in La maison du Chat-qui-pelote, o anche quella dei Birotteau, sottomessa a strette regole, alla morale religiosa, al solo scopo di collezionare soldi e scudi — criterio che arriva fino a decidere dell’amore, e che non lascia nel loro cervello che la novità indegna, nessun posto per l’idea, l’arte o la poesia (se non sia l’arte alla Pierre Grassou). Tutte le sfumature dello spirito borghese sono ugualmente messe alla gogna.

  I personaggi di Balzac non sono, di solito, né buoni, né cattivi, per natura, né bianchi, né neri metafisicamente. Sono i rapporti sociali a formare il loro carattere e a orientare i loro talenti. L’analisi del personaggio del «faiseur» Mercadet, per esempio, dimostra che si è avuto torto a chiedersi se rappresentasse il punto di vista dell’autore o, al contrario, incarnasse il male. Né l’uno né l’altro. Si tratta di un uomo competente che, proprio perché ha «il senso della famiglia», deve usare il suo talento, in seno alla sua società, seguendone le regole. È l’incarnazione dello spirito borghese non per natura, ma per formazione, l’incarnazione di quel gioco astratto della Borsa che dà il successo a colui che vince, senza tener conto di un’altra morale. Vautrin, la cui carriera e i cui discorsi smascherano questa società dove il solo criterio è quello della potenza, indica il metodo: «Volete dominare il mondo, non è vero?, bisogna cominciare con l’obbedire al mondo e studiarlo bene». Quando Balzac mette a nudo tutta la società contemporanea, dalle sue vette aristocratiche alla gente modesta avida di guadagno, non descrive manie o perversità individuali, ma una forza sociale che le domina e le forma tutte. È proprio qui, in questa «terza dimensione» del giudizio critico immanente al quadro dato, che risiede l’arte del realismo critico (a differenza del naturalismo puramente descrittivo nella sua pseudo-oggettività). Ecco ciò che una critica tradizionale poteva difficilmente capire — per essa Balzac era o un visionario mistico (la cui seconda vista non è sottomessa al mondo reale — si sarebbe effettivamente d’accordo per una «seconda vista» che organizzasse la realtà su un livello artistico più elevato, nei suoi rapporti tipici —, ma soltanto al mito personale dell’autore), o un pittore di ciò che esiste e deve esistere sempre, apologista di coloro che «sanno vivere». Ora proprio su questa rappresentazione e questa condanna delle relazioni borghesi recentemente instaurate si fondano la grandezza e l’immortalità di Balzac.

  Ma che poteva opporre a questo mondo onnipossente che aveva appena trionfato in nome degli ideali di libertà?

 

  3. Balzac e la politica del suo tempo.

 

  È noto che, al tempo della Restaurazione, Balzac era ostile a questo regime e condivideva le speranze comuni nel campo «liberale». Les Chouans del 1829 non sono diretti contro la Rivoluzione come radice del male imperante; al contrario, la Repubblica e i repubblicani vi hanno le simpatie dell’autore. Si deve, per questo, fissare una data alla «conversione» al legittimismo di Balzac, che sarebbe stato fino allora un «giornalista di sinistra»? Si sa ora come regolarsi con gli articoli della «Caricature». Ma è vero che l’attaccamento balzachiano alla monarchia riveste aspetti specifici originali, di cui ampi lavori hanno abbondantemente dato il regesto: analisi dell’atteggiamento indipendente e critico di Balzac di fronte al «suo» partito monarchico, dei suoi capi e della sua ideologia; pubblicazione di documenti sui dissensi coi monarchici, per esempio al momento dell’interruzione, da parte di questi ultimi, della pubblicazione della Duchesse de Langeais a causa di un capitolo che criticava l’aristocrazia; studi sul poco successo dei saggi e delle opere di Balzac presso la critica monarchica e i rappresentanti del cattolicesimo ufficiale. Certo, indipendenza nei confronti dei monarchici non significa adozione dei princìpi borghesi; la maniera di Balzac di elevarsi al di sopra dei due punti di vista, lungi dall’essere puramente psicologica, deriva dalla sua maniera di reagire alle contraddizioni storiche della sua epoca. Nel suo Essai sur la situation du parti royaliste, Balzac prende per esempio quale punto di partenza una distinzione eminentemente democratica basata sull’analisi dei bisogni sociali [...].

  Tuttavia il Balzac che ci porta, attraverso il Cenacolo, la sua approvazione teorica a una rivoluzione che spazzerebbe via venalità e amoralismo, non sa come una simile rivoluzione potrebbe e dovrebbe essere condotta. Coloro che la preparano, per il fatto stesso della loro onestà e della loro logica, possono, lo abbiamo visto, essere di opinioni politiche molto diverse. La protesta antiborghese di Balzac è indifferente alle nozioni di «sinistra» o di «destra». E se egli stesso pende illusoriamente dalla parte delle forze del passato (realismo e cattolicesimo) esigendo un governo forte che freni le passioni, è perché gli sembra che i rapporti imperanti non hanno potuto instaurarsi che per la grave ignoranza storica di princìpi sperimentati da secoli. Balzac viveva in pieno XIX secolo, in seno alla società capitalistica già imperante. Nato nel 1799, non ha vissuto — a differenza di un Béranger o di uno Stendhal — la Rivoluzione, e non vi si sente legato da nessuna relazione personale concreta. Niente lo aiuta a cogliere la contraddizione fondamentale tra il «rosso» e il «nero», tra l’eroismo della Rivoluzione e il presente molto poco eroico che ne è derivato. Giudica la Rivoluzione borghese secondo i risultati visibili: nulla di strano a questo punto nel fatto che la rifiuti e sia incline ad accettare tutte le calunnie dei nemici del 1789. Balzac considera e giudica nello stesso modo le nozioni di «democrazia», di «uguaglianza», di «progresso storico», che conosce solo attraverso gli eccessi verbali della borghesia; il suffragio universale è solo un allargamento quantitativo dell’arbitrarietà egoista esaltata dal liberalismo. Ma se, a causa del loro contenuto in quegli anni, Balzac tende a rifiutare queste nozioni, il suo rifiuto teorico è spesso contraddetto dal contenuto oggettivamente democratico non soltanto dei suoi saggi e scritti teorici ma della maggioranza delle sue opere. Soltanto non concepisce ancora che, contro la pseudodemocrazia borghese allora celebrata, si possa lottare non partendo da posizioni antidemocratiche, ma da quelle di una vera democrazia, che contro l’«uguaglianza», che si appoggia sulla morale di denaro e sulla disuguaglianza di fatto, si possa esigere una uguaglianza reale, che contro la onnipotenza borghese si possa esigere la realizzazione effettiva degli ideali delusi. Il genio balzachiano non fa ancora che presentire la possibilità di una forza intrinsecamente antiborghese senza discernerla. Ha intuito come tutta la società fosse retta da influenze borghesi, ma non ha potuto ancora distinguervi precisamente forze d’avvenire. Le masse popolari sottomesse alla borghesia gli appaiono spesso confuse con essa in un’opposizione comune ai suoi vaghi ideali. Molto istruttiva da questo punto di vista è la differenziazione delle classi vista da Balzac in Les paysans, opera profonda e violentemente antiborghese, la sola della letteratura francese della prima metà dell’Ottocento in cui siano svelate la lotta delle classi e la penetrazione nelle campagne dei rapporti capitalistici.

 

  4. Les «paysans». L'aristocrazia sognata e quella reale.

 

  Che le simpatie del narratore (il giornalista Blondet) siano quelle dell’autore o meno, è evidente che il racconto adotta, grosso modo, il punto di vista del generale conte di Montcornet. Il fondo del conflitto non sta nel problema di sapere se questo grande proprietario terriero sia o non sia, dal punto di vista sociale, migliore degli sfruttatori locali, ma nel fatto che rifiuta di sottomettersi ai rapporti capitalistici. «E la guerra degli scudi, disse Sibilet [al generale], e questa vi sembrerà più difficile dell’altra. Si uccidono gli uomini, non si uccidono gli interessi. Vi batterete con il vostro nemico sul campo di battaglia dove combattono tutti i proprietari, il realizzo! Produrre non è niente, bisogna vendere, e per vendere, bisogna essere in buoni rapporti con tutti» (Les paysans, VI, p. 50). Ora Montcornet ha commesso l’«imprevidenza», mosso da ragioni d’onore senza significato nel mondo degli affari, di rompere con il furfante più dotato del paese, con un maestro in ricatti e inganni, che, fin dalla Rivoluzione, ha saputo approfittare della situazione per diventare una delle colonne della regione: Gaubertin.

  Così gli stessi rapporti che regolano la società parigina dei Nucingen e dei du Tillet, la società provinciale dei Grandet, gli ambienti giornalistici e teatrali di Illusions perdues, dominano anche la campagna. Gli interessi comuni dello sfruttamento o del mercato, e l’aiuto reciproco messo al servizio dell’arricchimento e del carrierismo, uniscono tutti i grandi borghesi, quali che siano la loro origine e l’origine della loro proprietà. E Montcornet rifiuta di sottomettersi a simili rapporti, dei quali nega anche l’esistenza. Vuole risolvere tutto da soldato, d’accordo con le sue idee, senza sotterfugi né concessioni disoneste e umilianti; quest’uomo di un altro mondo si permette il lusso dell’onore. È quindi necessario che finalmente sia circondato e sgozzato dalla logica borghese, distrutto da «questa lega terribile che monopolizzava tutti i servizi pubblici e privati, che succhiava il paese, che s’attaccava al potere come una remora sotto una nave» (ivi, p. 60). Montcornet si è messo «fuori legge», poiché la legge è ciò che è utile e vantaggioso per l’élite borghese, e che, con mille mezzi, dal ricatto all’usura passando per la demagogia, le sottomette il mondo.

  È nel personaggio di Rigou che Balzac ha magistralmente smontato il ruolo dell’usuraio capitalista, questa sanguisuga della campagna, uomo dissoluto e avido, che «ha in pugno» tutto il villaggio perché tutti sono suoi debitori e preferiscono essere suoi schiavi per evitare così di pagare gli interessi dei loro debiti. Nelle mani dei Rigou e dei Gaubertin, questi padroni di una «mediocrazia» che distrugge tutto ciò che si oppone al suo arricchimento, i piccoli contadini sono solo un giocattolo. E, nello stesso tempo, questi Gaubertin e questi Rigou fingono di essere i loro protettori e cercano di guadagnarsi la loro stima e la loro simpatia, fingendo apposta sentimenti democratici, frasi liberali e dichiarazioni di patriottismo locale.

  Ripugnando a questi metodi e a tutto quello che vi si riferisce, Balzac finisce con il non distinguere tra gli istigatori e le loro vittime, e conserva una diffidenza verso le masse popolari, che dipinge con lo stesso disgusto dei borghesi. Non c’è dubbio che i rapporti capitalistici hanno veramente invaso tutta la campagna, i piccoli proprietari come Tonsard che cercano di arrivare là dove, attualmente, si trovano i loro sfruttatori; e Balzac ha saputo mostrarlo in modo penetrante — rifiutando il cliché sdolcinato della vita di campagna considerata antitesi della «città depravata».

  Ecco perché i Montcornet e la loro gente, l’unica che il romanzo mostra indipendente, devono apparire come più degni di simpatia dei poveri contadini trascinati nell’economia e nella psicologia dell’atmosfera capitalistica. Il romanzo non si pone il problema (che sorge forzatamente davanti al lettore d’oggi) di sapere perché duemila ettari di bosco, tre cortili e parchi sterminati debbano servire ad una sola famiglia, perché occorra essere crudeli verso i poveri vietando di spigolare, perseguendo i bracconieri, prendendo misure per conservare intatta la proprietà. Balzac non rappresenta ogni sfruttamento come un male, ma soltanto i rapporti capitalistici nella loro crudeltà.

  Balzac si rende ben conto che la lotta delle classi va più lontano. Nel personaggio del vecchio Fourchon, che lancia minacce su minacce in faccia ai proprietari, si cristallizza la lotta, contro il ricco, del povero per il quale è uguale spendere la vita in sudore «per un signore o per l’imposta»: «La maledizione dei poveri, monsignore, cresce! e diventa più grande delle più grandi delle vostre querce, e la quercia fornisce la forca ... Nessuno qui vi dice la verità, eccola, la verità» (Les paysans, VI, p. 35). E, più avanti, Balzac commenta: «L’audacia con la quale il Comunismo, questa logica vivente e agente della Democrazia, attacca la Società nell’ordine morale, annuncia che fin da oggi il Sansone popolare, diventato prudente, scalza le colonne sociali nel sotterraneo invece di scuoterle nella sala del banchetto» (ivi, p. 43). Ma questo è commento, non accettazione. Balzac, ostile ai contadini perché troppo legati ai borghesi e presi dal loro spirito cupido, ha d’altronde, ed è significativo, presentato il vecchio Fourchon come un personaggio antipatico.

  Così, per uscire dalla melma borghese, Balzac ha sognato un realismo e un cattolicesimo illusori, molto lontani dal movimento politico degli aristocratici del suo tempo. Dominato da un’ingenua ammirazione di plebeo per quel mondo aristocratico così lontano, è incline a creare nel suo seno dei personaggi che corrisponderebbero ai suoi ideali e non sarebbero sottomessi ai rapporti imperanti, dei personaggi del passato — ma di un passato contrario alla verità storica — condannati a perire per lasciare il posto ai rapaci vittoriosi (esempio: Le cabinet des antiques). Questa illusione non è rimasta senza conseguenze nell’opera; il romanziere ha trovato rimedio contro il mondo borghese e la sua morale solo nella creazione di un suo mondo, quello del Médecin de campagne: mondo-modello immaginario, artificialmente tagliato fuori, nel suo isolamento montanaro, dal resto del paese, e amministrato dalla saggia autocrazia di un uomo generoso. Ma Balzac non ha potuto né osato confrontare i suoi ideali utopistici con l’interazione dei caratteri reali e col groviglio dei loro interessi in questa opera, insieme di monografie teoriche piuttosto che vero romanzo. Fatto sta che quando Balzac descrive la reale società aristocratica del suo tempo, mostra, sia con la satira sia con la critica indignata, che essa non può incarnare né i suoi ideali, né qualunque altra: appena dei personaggi dotati delle qualità e degli ideali teorici cari all’autore, si trovano in mezzo ad un conflitto reale, Balzac mostra la loro decrepitezza o la loro decadenza, in nome della logica di una società in cui gli aristocratici non hanno altra possibilità di vivere e di riuscire che quella di imborghesirsi.

 

  5. La contraddizione balzachiana.

 

  L’analisi del contesto storico dimostra la vanità, nel caso di Balzac, di una conclusione teorica sulla contraddizione tra un’opera «rivoluzionaria» e idee «reazionarie». La Weltanschauung di un autore non si limita mai alla somma delle citazioni delle sue opinioni teoriche e ideologiche, né alla sua adesione ad un sistema formulato; si manifesta soprattutto nel suo modo di affrontare, da artista, la vita concreta del suo tempo, di sceglierne i fenomeni che considera decisivi, e di renderli tipici. La «concezione» che un autore ha del «mondo» implica l’esistenza di un sistema di percezione e di rappresentazione. Infine, anche sul piano teorico, la «concezione del mondo» non può essere limitata alle «opinioni politiche» nel senso stretto della parola; proprio Engels, al quale vorrebbero appellarsi tutte queste speculazioni verbali, parlava delle «opinioni» dell’autore, non della sua Weltanschauung. E non si può dire che la «concezione del mondo» balzachiana sia stata reazionaria; soltanto, l’epoca in cui egli viveva, e specialmente gli anni successivi al 1830, assumevano socialmente l’aspetto di «impasse» tragica. Dinanzi al trionfo borghese (Luigi Filippo compreso), l’idea che il popolo, vincitore delle Tre Gloriose, potesse governare la sua vittoria, non veniva nemmeno ai repubblicani più avanzati. Il problema del realismo e del cattolicesimo non è evidentemente fondamentale nella rappresentazione balzachiana del mondo. Bastava ci fosse stata in Balzac la nostalgia dei privilegi, e tutto sarebbe finito con una posa alla Chateaubriand. Il carattere esclusivo di uno sguardo veramente aristocratico sulla realtà post-rivoluzionaria vista attraverso la gerarchia e i privilegi aboliti, non avrebbe mai reso possibile quella rappresentazione omogenea di tutta la società che caratterizza e fonda l’arte balzachiana. Il realismo e il cattolicesimo sono false uscite in seno alla rappresentazione critica del mondo borghese. L’impasse del realismo e del cattolicesimo non contraddice dunque la posizione oggettivamente democratica di Balzac. Al contrario, essa ne deriva. La negazione profetica del mondo borghese, in un’epoca in cui nessuna soluzione reale esisteva né si profilava, resta la base del discorso balzachiano, «reazionario», essendo solo i suoi prolungamenti «politici», gli unici caduchi. Lo studioso sovietico V. R. Grib aveva, fin dal 1936, analizzato molto bene come Balzac, così come Hegel, Saint-Simon o Goethe, si situasse al di sopra delle contraddizioni tra capitalismo e feudalesimo, e comprendesse già la necessità di superare gli antagonismi della società capitalistica con qualche altra «terza» via, realmente introvabile in un’epoca in cui il futuro proletariato non poteva servire d’appoggio agli ideali. Il realismo di Balzac è esattamente un’utopia. Il suo conservatorismo politico non è niente, di fronte alla sua coscienza della necessità di una nuova sintesi, di una nuova soluzione storica. Alla sua epoca Balzac è stato «salvato» dalle lacerazioni che conoscerà per esempio un Flaubert, posto di fronte alle contraddizioni ben diverse nate dal 1848. Si tratta di analizzare storicamente la «contraddizione» propriamente balzachiana. A condizione di non limitare il concetto di Weltanschauung all’ambito strettamente politico, questa ci conduce alle fonti stesse della creazione balzachiana di fronte al mondo che il romanziere rappresentava e giudicava nello stesso tempo, e alle sue contraddizioni.

 

 

  Alfonso Gatto, Tre questioni letterarie. Preamboli, in Napoli N. N., Firenze, Vallecchi, 1974 («TV Tascabili Vallecchi», 54), pp. 161-166.


  Perché i grandi scrittori del secolo scorso tenevano a mettersi in vista lontani dalla povera gente a cui presto avrebbero aperto le pagine del racconto, e perpetrare il proprio godimento a contrasto della sofferenza e dei drammi che, dopo il preambolo, s’accingevano a narrare?

  La domanda non vuole essere una domanda letteraria che potrebbe solo aver risposta caso per caso dalla opportunità o dalla non opportunità dei modi con cui l’autore s’inserisce personalmente nell’opera sua. La domanda, che è una domanda di costume morale e politico, parte dalla considerazione che oggi, nel nostro particolare momento storico, uno scrittore non oserebbe godersi così apertamente la sua persona e il suo angolo di benessere in vista dei poveri personaggi che s’appresta a cogliere nel racconto.

  Se si decidesse a ingaggiare il suo preambolo o il suo commento, egli eccederebbe in senso opposto, sconfinerebbe nella tesi, curando di non lasciarsi vedere: laddove cura dei nostri ottocentisti fu proprio quella di fissare sin nei particolari, di scorcio o per intero, la piena visibilità della propria figura. E non che avessero in animo di sfidare l’ambiente: tutt’altro. Il loro abbandono è per lo meno alla pari col nostro ritegno. Ci vincono per libertà e per naturalezza nel racconto vero e proprio, sicché, alla fine, Nedda di Verga e Cambremer di Balzac sono confortati da una solidarietà maggiore e socialmente più tesa di quella che noi contemporanei non riusciamo a fare insorgere dal nostro scrupolo storico e dal nostro virtuale egalitarismo.

  Non è dubbio. I freni inibitori che oggi tengono in scacco lo spettacolo delle nostre gioie e delle nostre più intime effusioni, ove non rompano nella licenza di lasciar correre tutto, portano ogni narratore, ancor prima dei legittimi rigori dell’arte, a una sorta di riserbo personale e di simulazione storica. E scrittori parlano di terra e di contadini in sé, come se fossero contadini essi stessi o alla pari di loro senza esserlo: o narrano di fabbriche e di operai, occupati a parlare di un lavoro che non sanno, e così via.

  Verga, invece, parlando di contadini e di pescatori, era chiaramente dalla sua parte di borghese e di padrone: non celava il suo occhio e la poltrona, comoda, da cui guardava. Balzac, nello scrivere dei poveri bretoni del Croisic e de «l’uomo del voto», partiva addirittura da un inno alla sua gioia di vivere e al suo privilegio d’esser felice. La loro parte è chiara: e la realtà del racconto nasce in modo singolare dalla continua sorpresa del conoscersi che gli autori e i personaggi si ricambiano al limite ultimo della comprensione, ma sempre a distanza, in un presente e in un valore di contemporaneità obiettiva. Verga non è nemmeno sfiorato dal dubbio che costringe noi contemporanei a cercare le radici del male, a trovare rimedi nell’ideologia, o a dissimulare il piacere e l’imprevisto del racconto nell’impegno e nel tentativo della storia. [...].

  E Balzac in Un dramma sul mare con piglio ancora più libero: «Di questi nonnulla più tardi il ricordo fa poesia, quando accanto al fuoco ripensiamo l’ora in cui quel nulla ci ha commossi, il luogo dove ciò avvenne, e quel misterioso miraggio che sovente trasfigura le cose intorno a noi nei momenti in cui la vita è leggera e il cuore è colmo».

  Verga insiste sino all’ultimo nella sua «voluttuosa pigrizia» e rischia, per amor di ineffabile, di rimettersi al vago delle sue sensazioni più egoiste e solitarie: così Balzac entra nel pieno della sua estemporanea vitalità e se ne rende, come egli stesso scrive, «radioso» e «leggero». Ma l’uno e l’altro compongono nella più alta pietà umana due storie tristissime e magre, la cui eco, a ogni rilettura, sembra che si propaghi per le navate di un mondo vuoto. Cambremer che giudica il figlio ladro e bugiardo, lo condanna e lo giustizia davanti alla madre: Nedda che resta sola e schernita in compagnia della morte che le porta via la mamma, Janu e la creatura ancora attaccata al seno. Vien fatto di dire le stesse parole che Balzac scrisse, dopo il largo empito iniziale, per il pescatore del Croisic: «Tanta forza in tanta debolezza ci colmò di stupore; di fronte a una generosità così semplice ci sentimmo piccini»: o di leggere anche noi con Verga nella poetica dignità del volto di Nedda: «E scoteva sempre il capo dopo aver taciuto, senza guardare nessuno, con occhi aridi, asciutti che tradivano tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagrime non sapevano esprimere».

  Nei dialoghi che corrono tra Nedda, le compagne di lavoro e la castalda — dialoghi che potrebbero esser detti, con termine affatto moderno, di classe – Verga non si esime dal rifarsi a «quel sentimento istintivo di giustizia che c’è nelle masse, anche quando questa giustizia danneggia gli individui». Balzac arriva a far dire a Paola: «Mi sembra che dovrei vergognarmi di sentirmi così felice di fronte a tanta miseria».

  Per timore d’essere reazionari, noi finiamo col reagire veramente alla giustizia d’ogni personaggio che sia e voglia essere libero al di là dei suoi interessi. A dare aiuto e direttive a una nostra Nedda, noi finiremmo col perderla in una solidarietà astratta, togliendole da ultimo senza compenso anche la singolarità del suo destino.

  Per timore d’essere ipocriti, non ripeteremmo le parole che Balzac fa dire a Paola: ma, a inibirci dal riconoscere la vergogna che pur continuiamo a provare, a meno di non identificarci realmente col povero sino a coprirlo col nostro corpo, noi siamo ipocriti due volte.

  Non c’è via di scampo. Se i preamboli di Verga, di Balzac e di altri possono urtarci con la loro finzione, è perché da scrittori sappiamo d’essere attaccati miseramente a noi stessi e di non uscirne mai: siamo cioè narratori che vivono sulla crisi dell’esperienza e che attendono una destinazione, a loro insaputa, dai fatti. Da soggetti di storia ci siamo ridotti, per alienazione, a oggetti di storia. E il nostro automatismo vive di presentimenti e di rimorsi, in una sorta di aurora lirica che da sé volge rapidamente al tramonto senza far giorno. [...].

 

 

  Eugenio Montale, Variazioni, «Corriere della Sera», Miano, Anno 99, 15 agosto 1974, p. 3.

 

  Si è rimproverato a Sainte-Beuve di aver dissuaso Baudelaire dal presentare la sua candidatura all’Accademia. [...]. Più gravi i torti di chi liquida Stendhal con due parole di disprezzo; di chi non comprende Nerval e Balzac; di chi dovendo scrivere due parole su Baudelaire sotto processo rifiuta di firmarle e vieta che gli vengano attribuite.

  Ma al lettore comune noi vorremmo consigliare il mirabile saggio su Balzac. E’ forse la prima volta che due geni così lontani si incontrano come eguali nella loro abissale diversità. Un filo li unisce, esile ma fortissimo: lo snobismo. I sedici anni di fidanzamento con la contessa Hanska sono uno dei capolavori di Balzac. Resta inteso che per lui si può parlare di goffaggine, di arrivismo sociale (mai raggiunto) e di prosa da feuilleton. Ma tutto ciò poteva importare ben poco al quasi onniveggente Marcel.

 

 

  Graziella Pagliano Ungari, Il mestiere del politico in Balzac, in L’immaginario del partito nel romanzo francese tra Ottocento e Novecento, Napoli, Liguori editore, 1974 («Collana di testi e studi», 16), pp. 22-37.

 

  I critici che si sono proposti di osservare gli uomini politici nella Comédie hanno concluso che essi sono i personaggi dai contorni più fluidi e che Balzac raramente vi si cimenta e quando li ritrae non dà certo prova della sua leggendaria bravura.

  Mancanza di esperienza? Eppure fu sul punto di candidarsi alla Camera nel 1831 e nelle Lettres sur Paris prese posizione sul censo, a suo avviso da abolire per gli eligibili e da accrescere per gli elettori. Mancanza di interesse? Eppure progettò una sezione della Comédie intitolata Scènes de la vie politique, secondo il piano del 1845 di ben otto romanzi. Di essi solo tre però, furono terminati e secondo alcuni solo uno può dirsi veramente politico. Da notare che dalla Comédie è assente tutto un altro affresco egualmente politico per i tempi, quello della massoneria e carboneria, nonostante che il padre di Honoré fosse massone.

  Probabilmente in alcune contraddizioni fra l’idea che Balzac volle elaborare della politica (potere forte, suffragio limitato, legittimismo appoggiato all’altare) e l’insopprimibile adesione a esigenze reali (che vedremo tra breve), potrà trovarsi la spiegazione della relativa debolezza di questa area del suo affresco, della sua incapacità a far scaturire in figure vive c affascinanti come sono solitamente le sue, nel Bene e nel Male, quelle degli uomini politici. Ma questo è problema che riguarda la creatività balzacchiana. A noi basti suggerire che quella che manca, nel senso che determina una carenza e piega i personaggi in un certo modo, è l’idea di partito, mentre contemporaneamente ne affiorano alcuni elementi: insieme a quell’assenza affiora anche uno spessore politico che la determina e la rileva.

  Il racconto Z. Marcas (del 1840) costituisce già un buon esempio di tale condizione narrativa. Considerato l’unico romanzo politico di tale sezione presenta in realtà un personaggio e una vicenda estremamente sbiaditi: l’ingratitudine e l’ambizione meschina che condannano Marcas all’impotenza operativa, alla povertà e alla morte in una squallida soffitta non sono nemmeno messi in scena dall’autore ma ricordati dal narratore che lo conobbe e ne ebbe da lui il racconto. Doppio ‘sentito dire’, procedimento indiretto, che sfoca e allontana la materia. Il dramma politico e umano scivola via in una sorta di patetico ritratto. La carriera politica di Marcas, dunque solo enunciata, ha però delle caratteristiche precise. Quella del mestiere («Marcas apprit tout ce qu’un véritable homme d’Etat doit savoir»), e insieme quella della missione ideale di difesa degli interessi del paese, che il protagonista vive nobilmente fino ad esserne consumato nel fisico […].

  Il colore autentico di questo sentimento ignora però la genesi della volontà politica, ignora le mediazioni collettive nonché il concetto di rappresentanza. La missione di Marcas e le sue superiori qualità politiche sono fondate su un misterioso segno del destino; l’inizio del racconto, infatti, precisa che nelle lettere del suo nome si iscrive un destino superiore, misterioso e occulto come tutto ciò che afferisce alla cabala.

  Altro esempio della solitudine ideologica e pratica nella quale Balzac vorrebbe collocare l’uomo politico ideale, si legge nella lettera che Henriette de Monfort (sic) nel Lys dans la Vallée scrive a Félix:

  «Dans le monde politique, tout change d’aspect, les règles qui régissent votre personne fléchissent devant les grands intérêts. […]. Plus tard vous comparaitrez devant les siècles et vous savez assez l’histoire pour avoir apprécié les sentiments et les actes qui engendrent la vraie grandeur ».

  Richiamarsi solo al giudizio dei posteri è condizione, lontanissima da quella politica moderna; incarnare la legge vivente è la forma del più squisito assolutismo. Eppure, accanto alle figure di politicanti meschini e ambiziosi che di scorcio compaiono nella Comédie, vengono connotati positivamente solo e costantemente coloro che danno voce a l’opzione repubblicana e liberale, istituzionalmente avversa ad ogni governo assoluto. Tale costanza di rappresentazione ha però le sue ombre. Le figure oneste e coraggiose di repubblicani o vivono per così dire fra un romanzo e l’altro o non ottengono comunque dall’autore una immagine completa di vita. L’abilità nel voltar gabbana, questa avidità enorme e inesausta, caratterizzano Théodose de la Peyrade [...].

  È Teodosio ad organizzare in Les Petits bourgeois (Scènes de la vie parisienne, iniziato verso il 1843 e non terminato), l’elezione di un inetto al Consiglio comunale, vagheggiando di portarlo un giorno fino alla deputazione, solo perché aspira alla mano della sua ricca figlia. Ma brigando per questa elezione incontra qualcuno che gli tien testa per motivi del tutto disinteressati, ed anzi, contro i propri interessi ed affetti. Si tratta di Phéllion, un repubblicano, che si esprime assai alteramente [...].

  Occorre aggiungere che questa fierezza venata di retorica («La vertu, monsieur, c’est cela!») rimane sterile, perché verrà abilmente raggirata. Risulta perdente, insomma, sul piano della azione effettuale, resta una bella dichiarazione ideale.

  Non sappiamo se Phéllion avrebbe avuto un altro ruolo nel seguito del romanzo rimasto incompiuto. Conosciamo invece l’arco intero della vita di un’altra figura di repubblicano, anch’essa di alti sentimenti, ed è un arco breve, che muore alle barricate del Cloître Saint-Merry, evocate poi da Hugo e da Flaubert. Michel Chrestien appare un «eroe positivo» ma sempre come personaggio episodico e sullo sfondo. Dapprima nelle «Illusions perdues» difende con la spada, contro Lucien de Rubempré, l’onore e la fama di un amico scrittore; poi nella «Rabouilleuse» la sua testa sarà presa a modello per un grande quadro di ispirazione repubblicana; ma solo nei Secrets de la Princesse, de. Cadignan ci è narrata la sua intera storia. Innamorato della principessa, la segue timidamente da lontano; sulle barricate del ’30, dove il principe di Cadignan è preso di mira, devia la canna del fucile, poi muore su quelle del ’32, dopo aver inviato una lettera alla donna del cuore. L’atto di deviare il fucile è da un lato segno di prevaricazione della politica da parte di sentimenti privati; dall’altro (e probabilmente questa è l’interpretazione di Balzac) segno di animo nobile, che rifiuta di prevalersi di favorevoli circostanze per liberarsi di un ostacolo (il marito). Comunque sono sentimenti privati, per quanto nobili, che intralciano il corso dell’azione politica. Le idee di Chrestien sono repubblicane, ma l’autore ha avuto cura di separarle dalla immediata contingenza di parte e dar loro un rilievo più alto, al quale non è estranea la lunga tradizione del pensiero settecentesco sfavorevole ai partiti politici [...].

  Ma anche in questo testo come in Z. Marcas, non vediamo vivere e agire il personaggio: egli ci viene «raccontato» da terzi. Le figure veramente positive sembra che non riescano a vivere nel romanzo, questa forma di quête in un universo degradato.

  Altra figura di repubblicano positivamente connotato è quella che appare nel Député d’Arcis (scritto fra il 1842 e il 1843) si sa, opera incompiuta continuata da Rabou; pone dunque vari problemi all’analisi, giacché personaggi presentati positivamente avrebbero potuto nel seguito rivelare lati negativi o essere sconfitti nei loro progetti. Fra i testi della sezione «politica» è il più ricco di elementi politici, imperniato com’è sulla elezione di un deputato intorno all’anno 1839, quando cioè, l’eleggibilità era ancora legata al censo ed il suffragio assai ristretto. La scena si apre su una riunione preelettorale, convocata in casa di Simon Giguet che pone la sua candidatura per l'opposizione liberale. Tradizionalmente Arcis ha sempre eletto un deputato «liberale» nella persona di Francois Keller, che per motivi di età cederebbe adesso il posto al figlio, ben introdotto a corte. Se le motivazioni esplicite della candidatura Simon sono di tipo politico (liberarsi dal «feudo» Keller), di fatto egli aspira alla nomina per ottenere la mano di una ricca ereditiera e raggiungere quel successo economico e sociale che è il leit-motiv della Comédie humaine. Le sue dichiarazioni [...] avranno dunque un suono di retorica e falsa propaganda, ma è egualmente significativo che egli debba parlare così per conquistare voti: è un principio di candidatura democratica che viene qui esplicitamente affermato. Così il discorso di Pigoult tende ad introdurre procedure di tipo parlamentare (nomina di una presidenza e di scrutatori) anche in quella piccola riunione di quaranta grandi elettori; egli insiste inoltre sulla necessità di sostituire nella scelta elettorale la città alla famiglia, il paese al singolo. Anche il suo discorso suona falso in quanto, sempre per interessi economici privati, egli si è schierato per il gruppo Gondreville-Keller. Ma qui interessa il meccanismo di rappresentanza che egli delinea: per difendere il suo candidato vanta precisamente ciò che gli viene rimproverato, e cioè i suoi buoni rapporti con la Corte: in tal modo egli, ben più autorevolmente di un giovane sconosciuto come Giguet, potrà ottenere per Arcis favori e concessioni. È il principio dell’investitura degli interessi regionali sulla persona influente presso il potere centrale, al di là di ogni coloritura ideologica.

  Sull’orizzonte elettorale, nel seguito scritto da Rabou, si profilano altri due candidati. Il primo, padre della ricca ereditiera, possiede notoriamente scarse capacità intellettuali e politiche (si veda la sua incapacità a presiedere la riunione elettorale) ma è ben noto agli elettori in quanto già sindaco del luogo. Sarà spinto a candidarsi da un maturo avventuriero, rovinato dai debiti di giuoco, aspirante a sua volta alla dote della figlia e inviato ad Arcis dal governo, per contrapporre un candidato fedele a quello di opposizione. Interessi privati e gioco politico appaiono qui strettamente intrecciati nel senso più deteriore. L’altro candidato è la generosa figura di repubblicano, un giovane scultore che solo da poco ha conosciuto il suo vero padre, nobile e ricco. Dandogli il proprio nome, questi lo incita a dedicarsi alla carriera politica, affinché serva suoi non ben chiari disegni. D’altra parte, questa scelta politica coincide con interessi già vivi nello scultore e la decisione paterna gli offre solo il mezzo (il censo) per attuarla. Ma di quale tipo è il credo politico dello scultore Dorlange? [...].

  Il progetto di Dorlange si fonda su una concezione dell’uomo politico ideale come forte individualità, con grandi qualità intellettuali e morali; concezione tutta individualistica, oltre che ingenua, dalla quale in ogni caso esula una volta di più come in Z. Marcas, qualsiasi tipo di mediazione di gruppo o di elaborazione collettiva. Il legame di partito assume anzi qui un segno negativo (ma non dimentichiamo che si tratta del partito elettoralistico di vecchio tipo) [...].

  È qui già ben presente una polemica tipica della pubblicistica moderna sui partiti, accusati di coartare la libera espressione individuale del deputato. In questo passo la contrapposizione avviene fra miseria dei partiti-idee sane e giuste, e il mandato di rappresentanza degli elettori non è affatto evocato. Altrove, nel medesimo romanzo, si accusa il «sistema attuale» di produrre una Camera e dei ministri che somigliano alle marionette mosse dal proprietario dello spettacolo per la gioia dei passanti sempre a bocca aperta.

  Possiamo notare l’attacco al Parlamento: «la plupart du temps je parlerai par la fenêtre, hors de la sphère étouffée et rétrécie de la vie parlamentaire (sic), par-dessus la tête de ses passions mesquines et de ses petits intérêts». Non manca peraltro una nota che diverrà ben più acuta e quasi ossessiva in autori di fine secolo: il disprezzo del gran numero, della folla, dell’assemblea [...].

  La concezione del potere politico appare qui, come in Balzac — lo si vedrà anche in altri romanzi —, di tipo fondamentalmente individualistico (capacità). Quando Dorlange parla di «enjamber les clotures de leur petit pare de réserve et s’y carrer comme leur égal», da un lato combatte pregiudizi nobiliari, dall’altro progetta persino un lavoro in équipe anche se solo in due […].

  L’invettiva balzacchiana colpisce i meschini intrighi dei politicanti per ambizione (la cui vivace e concreta azione ha di gran lunga la meglio, nei romanzi, sulle teoriche enunciazioni circa l’uomo pubblico ideale) contrapponendo loro la vita del cuore e degli affetti.

  Così nel Lys dans la vallée (1836, Scènes de la vie de campagne) l’antinomia si incarna nella persona di Félix, che, divenuto segretario del re, resta lontano dalla sua contessa tradendola con l’intraprendente Arabella, finché Henriette non ne morrà di dolore. Questo abbandono, che avviene insensibilmente e suo malgrado, è piuttosto una diversa disposizione del suo cuore che non una vera decisione. Di fronte alla casta riserva di Henriette, Félix comincia a pensare di attendere in piacevole compagnia di Arabella la morte del conte ed aggiunge: «cattivi pensieri», «peut être leur principe se trouvait-il aux Tuileries, sous le lambris du cabinet royal. Qui, pouvait résister à l’esprit déflorateur de Louis XVIII (...)?» Dove il re non è solo un individuo, è l’incarnazione stessa di un tipo di potere politico.

  In Albert Savarus (1842, Scènes de la vie privée), il protagonista ambisce alla deputazione perché come uomo politico potrà raggiungere la sfera sociale della sua amata, una gran dama italiana. L’ascesa nella società è stata già tentata invano mediante gli affari; la politica dunque è solo uno strumento per realizzare un grande amore e il progetto fallirà ad opera di una fanciulla anch’essa innamorata di Albert. Ma una latente opposizione politica-affetti è pur presente nel romanzo, se la decisione di Albert di correre a Parigi per spiegare l’equivoco sopravvenuto fra lui e la sua donna è causa della vittoria del suo avversario, e se il suo ritiro in convento, quando la dama rifiuta ogni spiegazione, è motivato anche da una grande usura e stanchezza, cui il progetto politico non è estraneo. Per ora, quella opposizione rimane però appena accennata e, come in Le lys dans la vallée, si consuma tutta nell’animo del protagonista. Concentrazione di energia, grandi qualità intellettuali e specifiche competenze fanno anche di Albert un uomo pubblico in potenza. Interessanti, in questo romanzo, le previsioni sugli elettori a lui favorevoli e contrari, secondo gli strati sociali (borghesi-juste milieu; nobili-legittimisti), il calcolo dei voti acquisiti al Prefetto, lo spostamento di quelli fedeli all’Abate, la quota minima dei Repubblicani. Assistiamo anche ad una tipica manovra, cioè il voto falsato nelle riunioni preelettorali per ingannare l’avversario sulla propria forza. Manovre e calcoli che troveremo anche nel Lucien Leuwen di Stendhal e che costituiscono una dimensione politica autentica, al di là di episodi di trasformismo o di vendita di voti per interesse privato, proprio in quanto il testo fa riferimento nello scontro elettorale a «parti» che sono insieme politiche e sociali. È assente la concezione del partito moderno organizzato: il meccanismo elettorale basato sui comitati di notabili locali, si inceppa ed esclude l’uomo di merito mediante intrighi la cui molla non è nella politica (si tratta della gelosia di una fanciulla innamorata), ma che delle opposizioni politiche si servono. È una dimensione politica relativa al sistema sociale e politico della monarchia di luglio (l’azione si svolge nel 1834), che il «realismo» di Balzac ha icasticamente presente. L’aspetto negativo del meccanismo non è cioè, assolutizzato, come invece avverrà nei romanzi di fine secolo.

  L’opposizione politica-sentimenti è esplicita e fortissima in Pierrette (1840, Scènes de la vie de province). Essa si incarna però in due gruppi diversi di personaggi, e il contrasto è così violento da provocare la malattia e la morte, per mancanza di cure, della giovane Pierrette. Come Marcas muore per le fatiche, le delusioni, l’inanità degli sforzi da lui rivolti alla conquista di un potere, che avrebbe adoperato per il bene della Francia, così Pierrette soccombe a causa dell’egoismo di gente che cerca il successo e la ricchezza mediante la carriera politica: non è dunque una vittima della «res publica», ma di intrighi meschini. Basti pensare, per convincersene, alla figura dell’avvocato Vinet che difenderà i colpevoli, colpevole egli stesso [...].

  Se nelle varie sezioni della Comédie intravediamo volgari ambizioni di potere; nobili figure di repubblicani; l’autoritratto politico di Balzac, secondo Lukács, nel D’Arthez delle Illusions perdues; Palais Bourbon nei Comédiens sans le savoir; o la propaganda politica a mezzo stampa (Une fille d’Eve), ecc. ecc., nelle Scènes de la vie politique accanto al Marcas e al Député d’Arcis troviamo altri tre romanzi-racconti che apparentemente non hanno molto di politico. Eppure proprio qui, a ben guardare, sono iscritti alcuni problemi che di fatto prefigurano una dimensione politica più moderna.

  Un épisode sous la terreur (1830, previsto come prefazione alle Mémoires de Sanson) non mette in scena uomini politici, bensì un prete e due suore che si nascondono in Parigi verso il 1793 per sfuggire alla ghigliottina, ed uno sconosciuto che li aiuta chiedendo in cambio di assistere alla celebrazione della messa. Costui è il boia, regicida. Il testo pone in tal modo il problema della scissione fra sentimenti privati c ragion di Stato; la questione che sarà di fondo nelle organizzazioni politiche future, del ‘soldato’ che esegue un ordine. Temi qui collocati in una dimensione che non prevede nel singolo la partecipazione alle decisioni e, appunto per questo, origina il dramma della disciplina.

  L’envers de l’histoire contemporaine (del 1843-45) non mette del pari in scena dei «politici» ma alcune nobili persone che, a seguito di delusioni e sofferenze private, si sono votate ad una grande opera di carità nel nome della religione cristiana. Da un lato, dunque prevale un impegno religioso esplicato sul piano sociale e con pieno e austero sacrificio delle gioie mondane. Ai fini del nostro tema, è però rilevante la raffigurazione di un ideale che regge una effettiva azione nella società, perseguito mediante una organizzazione di gruppo. Nel testo questo gruppo ha un certo carattere di élite sebbene il «reclutamento» nobiliare sia poi negato dalla estrema semplicità di vita e dal rifiuto degli onori che caratterizza gli affiliati, mediatori fra i poveri da un lato e dall’altro i ricchi donatori che ancora vivono nel mondo. Sembra delinearsi comunque un principio di milizia e di organizzazione dell’agire collettivo, con carattere nettamente positivo.

  Une ténébreuse affaire (1830) ritrae una passione politica sincera, irretita e soffocata in una trama di inganni e risentimenti privati. La passione politica è qui nettamente partigiana, non genericamente votata a una astratta Francia: tutta rivolta contro l’Impero di Napoleone I, nasce nei cuori di fedeli difensori dell’ancien régime che, generosi e sfortunati, prendono parte ad una cospirazione. Imprigionamento e condanna non conseguono ad una sconfitta politica, bensì ad un complotto dovuto all’oscuro rancore di un confidente segreto della polizia, che si ritiene personalmente offeso. Per questa macchinazione un devoto servitore dei conti di Cinq-Cygne salirà sul patibolo; gli odii che l’episodio genera continueranno sotto Luigi XVIII e poi Carlo X, come Balzac narra nel Député d’Arcis, contribuendo a configurare la geografia politica di una provincia francese. Troviamo dunque devozione ad una causa politica, e fino alla morte; azione politica in stretto legame con le proprie idee e prescindendo dal rango sociale o dalla nascita. Inoltre, e questo è rilevante ai fini dell’analisi, qui il testo è tutto azione, con figure magistralmente vive. Questa parte politica non funziona però al suo interno come un partito in senso moderno, ma come un gruppo d’azione e di cospirazione: forse perciò l’inganno di un solo prevale sul coraggio di molti.

  Nella Comédie humaine manca il partito politico moderno: troviamo però un repubblicano sulle barricate, pur se visto molto di scorcio; troviamo «parti» politiche, generose e sfortunate; progetti, dettati però dall’ambizione; talenti politici inutilizzati. Il concetto dell’organizzazione c’è, ma è riservato a una élite illuminata. Se, come sostengono molti teorici del partito moderno, uno dei suoi elementi costitutivi è il suffragio universale, non solo al tempo di Balzac esso era ancora assai ristretto, ma lo scrittore era ad esso veementemente avverso. Nel Médecin de campagne (1833), Benassis; che pure ha dedicato la sua vita ad alleviare le sofferenze dei poveri, con pieno e largo successo, dice:

  «Qui vote, discute. Les pouvoirs discutés n’existent pas. Imaginez-vous une société sans pouvoir? (...) le principe de l’Election est un des plus funestes à l’existence des gouvernements modernes».

  e continua spiegando che le masse sono degli eterni minorenni bisognosi di tutela. Il diritto elettorale può essere esercitato solo da chi possiede fortuna potere o intelligenza. D’altronde, secondo Benassis, tale principio è fonte di grandi mali in quanto se la borghesia riuscisse in tal modo ad abbattere i privilegi sociali contro i quali essa lotta, creerebbe per sé una più vasta e insieme meschina specie di privilegi [...].

  Questa inammissibilità del suffragio universale è collegata ad una visione elitaria del dibattito politico, alla sua collocazione entro una ristretta sfera di ottimati. Di qui anche la scarsa controllabilità dell’operato dell’uomo politico; in ambito di finzione letteraria questo isolamento, cioè l’assenza di responsabilità verso il corpo rappresentato, si traduce in corrompibilità, ambizione, debolezza. L’uomo politico di Balzac non deve dar conto del proprio operato ai suoi simili; così concepita la sfera politica vede anche gli uomini eccezionali travolti da meschini interessi.

  La conclusione ultima è la sconfitta della politica, non una sua denigrazione. Emerge, cioè, una critica sociale e storica di particolari comportamenti, corretti ma inefficaci ovvero vincenti e insieme spietati e biasimevoli.

 

 

  Fernando Polenghi, Balzac e l’amore romantico, «Famiglia cristiana», Milano, Anno XLIV, 15 settembre 1974.

 

  H. de Balzac - Il colonnello Chabert. Onorina. L’Interdizione - Ed. Paoline, pagine 252, L. 2.000.

 

  Le maggiori tendenze letterarie del XIX secolo sono presenti nell’opera di Honoré de Balzac (1799-1850). Nei suoi romanzi spiccano, infatti, vigorosi anticipi del naturalismo del secondo Ottocento, evidenti nell’impegno di una vasta e acuta rappresentazione della società francese contemporanea, colta globalmente in ogni suo aspetto.

  Lo ricollegano, invece, al Romanticismo imperante altri elementi essenziali, come il gusto del sublime, lo sgomento di fronte alle profondità insondabili dello spirito, la convinzione che i migliori siano fatalmente destinati al fallimento e all’incomprensione, in un mondo dominato dall’ipocrisia e dalla mediocrità.

  Pur nella loro brevità, i tre romanzi qui riuniti non sono certo tra le cose minori dello scrittore, tanto è penetrante e felice, in tutti, l’analisi dell’ambiente e del personaggio: anzi collocheremmo Onorina tra i grandi scritti dell'Ottocento europeo, per il sentimento tragico ed esclusivo dell’amore che ispira il racconto, facendone un testo esemplare, di singolare interesse psicologico, sull’amore romantico.

  Piace ancora osservare come, nonostante l’apparente spregiudicatezza, Balzac conservi un sentimento retto e genuino del fatto religioso. Significativa, a questo proposito, la battuta di un personaggio di Onorina: «Un bigotto mi spaventa, ma non conosco nessuno più allegro di un uomo veramente pio».



 Nora Franca Poliaghi, L’Accademia degli Intrigati, «Il Piccolo», Trieste, Anno 93, N. 8560 nuova serie, 1 novembre 1974, p. 3.

 

 Gli italiani avevano partecipato alle guerre napoleoniche condividendo più che gli onori e i vantaggi delle vittorie cui avevano cooperato, le funeste conseguenze delle sconfitte, delle quali non avevano alcuna responsabilità. Poi avevano tentato di agire per proprio conto con gli esiti disgraziatissimi che tutti sanno.

 «L’antico ufficiale di Cavalleria» Antonio Lissoni protestava, in un suo opuscoletto apparso in Milano, contro il signor de Balzac per il ritratto che si era permesso di fare del soldato italiano, combattente in terra di Spagna, nel racconto intitolato «La Marana».

 Dominato dalla fantasia fortemente coloristica, piuttosto che da rigore storico, Balzac manipola la realtà come una salsa piccante, nella dose che meglio gli aggrada e serve. Così ritenne di poter proclamare il reggimento degli italiani, composto dai peggiori elementi di ogni ceto incluso l’aristocratico a simiglianza dei battaglioni coloniali, «si acquistò una grande reputazione di valore sulla scena militare e la peggiore — la più detestabile — nella vita privata»; né mancò di attribuire tutti gli orrori di quella guerra alla ferocia degli stessi italiani.

 Allora il Lissoni, dopo essersi rammaricato che il Balzac fosse stato «festeggiato dovunque, e come non fu mai nessun vero grande italiano» scriveva: «... Sono italiano, io mi sono di quella nazione privilegiata che ... non ha accolto, come la Francia nel solo Parigi, tutto il meglio del sapere, ma quante città vanta l‘Italia ...». [...].

 

 

  Amédée Ponceau, Paysages et destins balzaciens, «Francia. Periodico di cultura francese», Napoli, Anno XIII, n. 10, aprile-giugno 1974, pp. 11-25.

 

  Come è segnalato nella nota 1, p. 11: «Ces extraits inédits que publia la Revue d’Esthétique sont tirés du livre Paysages et destins balzaciens d’Amédée Ponceau […]».

 

 

  Andrea Rigoni, Aspetti del cattolicesimo balzachiano, «L'Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, 12 maggio 1974, p. 5.

 

  Balzac, come Lope de Vega, è un «monstruo de la naturaleza», tanta è la mole delle opere che, in così breve spazio di vita, riesce ad accumulare; capolavori, opere minori, lavori, da «Sisifo della penna», tratti dalla necessità, specie nei tempi più travagliati, di accumulare un po’ di quell’«argent» che non lo lascerà mai respirare per tutta la sua esistenza non impedendogli comunque di diventare il più grande scrittore di romanzi del prodigo Ottocento.

  I contemporanei, in tanta profusione di pagine, ne rimasero come sbalorditi e raramente con apprezzamento equo sui valori autentici di quella immensa produzione. I critici — e quali critici, in quell’epoca, Sainte-Beuve, Taine, Brunetière, ecc. — in buona o in mala fede, non seppero andare più in là di un giudizio approssimativo in cui, quasi, il gigante Balzac poteva loro apparire uno scrittore di facile vena, con qualche punto di vantaggio, su Dumas e Sue.

  Immaginarsi poi, in un’opera che, di primo acchito, poteva ritenersi tutta disposta a un perfino pedantesco realismo e, con tanto parlare di denaro, di affari e di imbrogli, a una specie di materialismo, distinguere quanto di spiritualità, di aspirazione a una certa spiritualità, poteva in essa essere contenuto. Lo storico della letteratura francese più accreditato, il Lanson, non ne fa cenno, e la scarsità delle pagine che dedica all'opera può anche giustificarlo.

  Non così l’altro storico e critico, di epoca recente, con la sua grande sensibilità di esegeta illuminato e penetrazione di acume moderno, il Thibaudet; egli giunge perfino a vedere in Balzac, in un certo senso, un mistico; Balzac, dice, è il solo dei grandi scrittori in cui il romanzo sia ispirato da una concezione del mondo, non derivata dalla tradizione filosofica, ma dalla tradizione mistica. Due generazioni di critici, rileva, lo hanno giudicato la grossa testa della «letteratura brutale». Ma in Balzac invece «l’enorme poids de la matière est là pour équilibrer une quantité eguale (sic) d’esprit». E citando alcune delle sue principali opere nota come esse formino «une spirale qui va de la terre au ciel», e sottolinea poi come il «cattolicesimo di Balzac» sia l’opposto di quello di Chateaubriand, non un cristianesimo medio, vagheggiato dallo scrittore brettone e da «prêtres éclairés», ma da un cristianesimo più intenso, quasi un focolare ardente, e, il sistema completo e più efficace di «répression des tendances dépravées de l’homme».

  E qui cita le parole stesse di Balzac: «En me voyant amasser tant de faits et les peindre, on a imaginé, bien à tort, que je appartenais l’école sensualiste et matérialiste, deux faces du même fait, le panthéisme. Mais peut-être pouvait-on, devait-on s’y tromper».

 

***

 

  In una «raccolta di studi in onore di Bernard Guyon», Littérature et Société, apparsa recentemente presso l'editore Desclée de Brouwer, questi principi balzacchiani vengono, da alcuni insigni scrittori, posti in particolare evidenza. Guyon, fin dalle prime opere, dalla sua stessa tesi di dottorato, tratta dei rapporti che la letteratura intrattiene con la società, e Balzac in ciò gli è di notevole aiuto. Figura infatti come studioso e interprete di gran classe dell’autore de «La Comédie Humaine». Unitamente a Péguy, che fu il suo vero maestro, non ha mai cessato di esplorare, come vien detto nella prefazione, «le massif balzacien». In questo ambito, i suoi saggi, sul pensiero politico sociale, sulla creazione letteraria, sull’interpretazione del realismo balzacchiano, fra l’altro anche come prefazioni e in quelle de la «Pléiade», fanno particolare spicco.

  René Quinsat dell’Université de Provence, precisa che Balzac non si svia nella ricerca dell’assoluto, quando parla di religione: se è attirato del «Verbo dei mistici», è per incarnarlo, per dargli una forma, e gli elementi poetici che gli mancano. L’intima convinzione che anima e sostiene lo scrittore, per esempio, nel «Curé de village», nell’immaginare cioè una vicenda per illustrare verità fondamentali, è di rendere sensibili al cuore le realtà vive della religione cattolica, il suo senso divino, espresso in immagini e parole «aux yeux des Petits et des Pauvres». Non si tratta affatto per Balzac di evadere dal suo secolo, rileva il Quinsant (sic), ma istruirne il processo, meno per condannarlo che per ammaestrarlo. Non una storia «edificante»; vuole colpire il male del suo tempo nelle sue radici profonde e «produire le baume» che solo può guarirne l’anima. Nella versione del 1838, il suo protagonista vuol provare, con il suo esempio, come «la religion catholique, prise dans ses oeuvres humaines est la seule vraie, la seule bonne et belle puissance civilisatrice», anzi che una versione della filantropia di moda. In quest’opera, il male non è posto nell’impresa scientifica e tecnica, ma nel regno del danaro, nel prevalere degli interessi particolari, nell’individualismo che divora la società moderna. Il suo curé Bonnet «non è soltanto un santo» è pure «un savant» e per lui «agir est la fin ... les prières doivent être des travaux ...».

 

* * *

  Non si può non essere colpiti — scrive Arlette Michel nel capitolo «Un aspect du catholicisme balzacien» — dall’importanza del tema letterario della confessione nei romanzi di Balzac. Certo, tal tema è abbastanza trattato fra i contemporanei del grande romanziere: ma in lui si distingue per ricchezza e per profondità. Dal 1823 al 1841 un insieme coerente di riflessioni, lo trattengono, da una parte sul sentimento del peccato, dall’altra sui poteri della confessione: attraverso la mediazione del sacerdote, si traggono da essa consolazione data per le anime, espiazione di crimini, possibilità di rassegnazione. Arlette Michel sottolinea che soltanto una cultura profondamente assimilita (sic) da uno spirito autenticamente religioso, anzi da un senso esatto del cattolicesimo, l’originalità della posizione balzacchiana, su questo argomento, poteva essere raggiunto.

  Le letture più formative e stimolatrici, Balzac le trae da Rousseau, dapprima — le «Confessions» rimangono comunque un testo equivoco — da Chateaubriand in modo particolare, dei capitoli della de Staël sull’originalità della spiritualità cattolica e specie sulla reversibilità dei meriti, da Ballanche che punta sulla rigenerazione individuale per un rinnovamento della vita sociale, e da De Maistre infine che vede nella storia le vicissitudini dell’espiazione universale imposta da Dio a causa di una ribellione che è all’origine della creazione.

  La confessione è sempre in Balzac — sottolinea la scrittrice — il segno di una conversione al cattolicesimo, o di una pratica autentica di questa religione; e la gravità con cui il romanziere la esamina attesta «che aveva del cattolicesimo un sentimento profondo e sicuro». Nell’accento sulle sofferenze dell’anima, tormentata dal suo peccato e «dal silenzio di Dio» qui è la nota originale fra, a suo dire, Byron e Bernanos. La sua risposta all’angoscia byroniana, è appunto che si può superare il sentimento grave della perdizione nella speranza d’una rigenerazione. Ma non vi è riconciliazione con Dio senza corrispondenza con la società, e, specie se si tratta di un crimine contro l’ordine sociale, nella accettazione della giustizia umana. E’ il tema dostoevskiano di «Delitto e castigo», la cui sconvolgente efficacia è bene al di sopra, non occorre dirlo, del momento balzacchiano sulla confessione di Argow.

  Il tema della mediazione dei giusti, che sta ai vertici della spiritualità del XIX secolo, trova in Balzac un approfondimento, e pur non tutti i personaggi vi acconsentono. Non sempre infatti «l’angoscia byroniana» d’una vita di colpa, poste in luce le «souffrances inconnues» dell’anima carica del suo peccato, immobile nel silenzio di Dio, si dissolve nella salvezza che passa attraverso una rottura della solitudine. «La coscienza individuale non si riconcilia con Dio, se non in questa prova suprema, nell’accettazione dell’orrore del mondo».

  Soltanto uno sguardo superficiale sulla personalità di Balzac (anche se magari si tratti di una bellissima, per tanti aspetti, biografia, come quella dello Sweig (sic)) può far ritenere semplice dilettantismo questo interesse balzacchiano per i problemi religiosi. Il suo incessante studio, la sua intuizione e chiaroveggenza (e ben a ragione Taine qui dice che con Shakespeare e Saint-Simon nella «Comédie» si trova «le plus grand magasin de documents que nous ayons sur la nature humaine») lo stimolano a ciò. Non solo un documento umano, aggiunge Thibaudet, ma un giudizio a fondo, come quello dantesco, sulle passioni materiali, l’epurazione morale, la «spécialité» spirituale.



  Erminia Saporiti, «Les Employés» de H. de Balzac. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1974.

 

 

  Mario Soldati, Lo smeraldo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1974.

 

  p. 316. E mi ricordai di Eugénie Grandet, un altro film che avevo diretto: della scena, presa di peso da Balzac, quando il vecchio Grandet, al quale la figlia confessa di non avere più l’oro che lui le aveva regalato, scoppia a ridere: “Come? Tu non ha più il tuo oro?”. Ma la mia era una risata doppia, doppiamente tragica, dissi a me stesso continuando a ridere convulsamente: sarebbe bello che succedesse a me come al vecchio Grandet. E in quel momento, dunque, se ridevo come il père Grandet, non sognavo più di essere Tellarini! Sognavo, di nuovo ma questa volta con misteriosa precisione, di essere io, proprio io, l’antico regista cinematografico!

 

 

  Albert Thibaudet, Balzac, in Storia della letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni [1936]. Traduzione di J. Graziani, Milano, Il Saggiatore-Garzanti, 1974 («Saggi»), Vol. I, pp. 233-254.

 

 

  Pietro Barbaro Vaccaro, Il mondo di Balzac, «Culture française. Quindicinale didattico linguistico-letterario», Bari, n. 21, 1974, pp. 338-342.

 

 

  Gian Franco Venè, Manzoni: analisi della borghesia, in Capitale e letteratura, Milano, Garzanti, 1974, pp. 74-100.

  pp. 90-91. La ricerca della virtù come qualità naturale (dedizione agli altri, anziché obbedienza alle leggi stabilite dalla classe al potere) è una costante del grande realismo borghese e si accompagna dovunque alle fasi critiche dello sviluppo capitalistico. L’esito di tale ricerca è tanto più drammatico, e pessimista, quanto più il capitalismo è avanzato: ne sono esempi emblematici Balzac, Thomas Mann e, soprattutto, a livello assolutamente contemporaneo, Luigi Pirandello. Via via che il capitalismo progredisce è sempre più difficile individuare la «virtù» che consente all’individuo di esprimersi nella sua totalità e di ottenere che gli altri lo riconoscano nella sua essenza qualitativa. [...].

  pp. 97-99. I critici più aspri del Manzoni furono gli scrittori della corrente «democratica». Essi colsero il pessimismo con cui si concludeva il romanzo e accusarono le discordanze tra questo e l’ideale rivoluzionario del risorgimento borghese. Ma la loro critica non era meno borghese di quanto non lo fosse il consenso dei moderati: era una critica diretta contro la sostanziale sfiducia nella soluzione borghese quale traspariva dai Promessi Sposi: contro la visione obiettiva della realtà cui Manzoni approdava. Non a caso l’opposizione letteraria dei «democratici» si risolse in una battaglia contro il realismo, tutto a favore di ideali astratti.

  Ed è di estremo interesse ricordare, ci sembra, che un uguale trattamento fu riserbato proprio dai «democratici» alla grande «commedia umana» di Balzac.

  Balzac, strenuo difensore dei principi borghesi dal punto di vista ideologico, nel realismo della sua opera non può non dichiararne le contraddizioni fondamentali. Ai proponimenti di redenzione universale, sbandierati dalla borghesia, corrisponde una realtà gretta, egoista, criminale, deformata dal peso degli interessi privati che tutto investono: sentimenti, morale, amore, vita civile. Nella rappresentazione delle contraddizioni della borghesia capitalista egli va tanto più in là del Manzoni, quanto lo sviluppo industriale è più avanzato in Francia che in Italia. Nel dispendio di forze che Balzac si impone per spingere all’estremo i contrasti dei caratteri è implicita la reazione, da un lato, alla pianificazione della società, allo svilimento del lavoro, all’annullamento dell’individuo tipico della società industriale, e dall’altro lato contro l’illusione di un progresso automatico ed universale da conquistarsi grazie allo sviluppo dei mezzi di produzione.

  «Le Illusioni perdute di Balzac», scrive Lukács «non sono soltanto quelle delle energie nate dalla Rivoluzione e distrutte dalla Restaurazione. In senso più ampio sono quelle dei borghesi che inesorabilmente procedono alla capitalizzazione e allo sfruttamento capitalistico di tutti gli elementi umani: dall’arte al sentimento nazionale, dalla letteratura alla gloria. Tutto è ridotto o riducibile a merce, tutto acquista un suo valore economico, e tutto viene prodotto in scala industriale». Ma la cultura italiana non ammette una interpretazione così profonda della borghesia capitalistica. Lo sviluppo industriale pone innanzi a sé gli ideali nazionali, e questi ideali sono proclamati in modo da avvolgere, teoricamente, tutti gli uomini di tutte le classi inducendoli a battersi per la nazione, cioè per l’intero popolo: né lo sviluppo industriale, contrariamente a quanto accade nella Francia balzacchiana, è così avanzato da far cadere le illusioni. Perciò gli scrittori italiani ravvisano nella denuncia dell’egoismo borghese uno svilimento dell’ideale rivoluzionario: la descrizione della vita privata, delle violenze subite dall’individuo per colpa della società borghese appaiono loro come volgarità e menzogne.

  Giuseppe Mazzini aggredisce la Commedia Umana di Balzac accusandola di diffondere tra i giovani un’arte scettica che smarrisce «ogni speranza, ogni fede, ogni fantasia». E il Tommaseo, di rincalzo: «Balzac, cosa ridicola e bassa, scrivente manierato senza la potenza di quei che si creano una maniera, pittore minuzioso della parte materiale di certe cose, ignorante del resto, sterile sì di fantasia sì d’affetto». Non è ipocrisia: è la illusione, ben lontana dall’essere perduta, che prevale sulla realtà È la corrispondenza, sul piano della critica letteraria, delle generose raccomandazioni rivolte agli industriali affinché non inseguano l’esempio inglese e francese fino a disseminare nella società le larve viventi degli operai e delle loro famiglie.

  È la stessa illusione contro la quale, infine, si batteva Giacomo Leopardi irridendo le magnifiche sorti e progressive del secolo nuovo. E per Giacomo Leopardi, non a caso, Mazzini e Tommaseo ebbero parole altrettanto ingenerose e sciocche che per Balzac.

 

 

Marco Stupazzoni

Nessun commento:

Posta un commento