sabato 25 aprile 2020



1952



 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione e note di Francesco Picco. Seconda edizione, Torino, S. Lattes & C. - Editori, 1952 («Scrittori Stranieri Moderni»), pp. 202; 1 ill. [Balzac par David d’Angers (1843)].

 

  Cfr. 1945.




Estratti.


 

  Honoré de Balzac, Le maître de poste de Nemours, in Carlo Pellegrini, Bruno Migliorini, Antologia francese ad uso delle Scuole medie superiori. Sesta edizione aumentata, Firenze, Le Monnier, 1952, pp. 114-117.

 

  Da Ursule Mirouët.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Onorato de Balzac, I Capolavori della «Commedia umana». III. Storia della grandezza e della decadenza di Cesare Birotteau. I parenti poveri: Il cugino Pons. Il rovescio della storia contemporanea. Il curato di Tours. Traduzioni di Maria Ortiz e Renato Mucci, Roma, Gherardo Casini Editore, 1952 («I Grandi Maestri», 10), pp. 718.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit, p. 565.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Betta di Honoré de Balzac. Edizione integrale. Traduzione di M.[aria] A.[dalgisa] Denti e E.[milio] Villa, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (dicembre) 1952 («Biblioteca Moderna Mondadori», CCCXIX-CCCXX), pp. 390.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit, p. 565.

 

  Anche se, in diversi punti, abbastanza libera, questa traduzione italiana di La Cousine Bette può ritenersi, nel complesso, accettabile.

 

 

  Honoré Balzac, Il cugino Pons. Romanzo di Honoré Balzac. Traduzione dal francese di Arrigo Benedetti, Milano, Longanesi & C., (marzo) 1952 («Piccola biblioteca», volume 62-65), pp. 358.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit, p. 565.

 

  Il testo è suddiviso in trentuno capitoli secondo il modello della versione preoriginale del romanzo pubblicata nel «Constitutionnel» dal marzo al maggio 1847. Tale suddivisone sarà soppressa da Balzac nell’edizione dell’ottobre 1847 (Le Musée littéraire del Siècle).

  Questa versione italiana che Arrigo Benedetti offre de Le Cousin Pons ci pare piuttosto disinvolta e non sempre aderente al modello francese; si consideri l’estratto che qui trascriviamo, desunto dall’incipit del romanzo:

 

  p. 483. [cfr. Balzac, Le Cousin Pons, a cura di André Lorant, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1977, t. VII].

 

  En apercevant de loin ce vieillard, les personnes qui sont là tous les jours assises sur des chaises, livrées au plaisir d’analyser les passants, laissaient toutes poindre dans leurs physionomies ce sourire particulier aux gens de Paris, et qui dit tant de choses ironiques, moqueuses ou compatissantes, mais qui, pour animer le visage du Parisien, blasé sur tous les spectacles possibles, exigent de hautes curiosités vivantes. Un mot fera comprendre et la valeur archéologique de ce bonhomme et la raison du sourire qui se répétait comme un écho dans tous les yeux. On demandait à Hyacinthe, un acteur célèbre par ses saillies, où il faisait faire les chapeaux à la vue desquels la salle pouffe de rire: «Je ne les fais point faire, je les garde», répondit-il. Eh bien! il se rencontre dans le million d'acteurs qui composent la grande troupe de Paris, des Hyacinthes sans le savoir qui gardent sur eux tous les ridicules d'un temps, et qui vous apparaissent comme la personnification de toute une époque pour vous arracher une bouffée de gaieté quand vous vous promenez en dévorant quelque chagrin amer causé par la trahison d'un ex-ami. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 5. Appena da lontano scorgevano il vecchio, le persone che ogni giorno siedono fuori delle loro porte, occupate a guardare i passanti, si mettevano a ridere; con quel sorriso parigino che è ironico, sarcastico e insieme pietoso, e che appare sulle labbra di simili persone, annoiate di tutto, soltanto davanti a qualche spettacolo d’eccezione. Spiegheremo brevemente il valore archeologico del personaggio e la causa del riso ch’egli muoveva di bocca in bocca. Quella volta che si domandò a Giacinto, attore famoso per la sporcizia, dove si tagliasse i capelli, che solo a guardarli facevano scoppiare dal ridere, Giacinto rispose: «Non li faccio tagliare, li conservo». E in mezzo a milioni d’attori che formano la grande compagnia drammatica di Parigi, s’incontrano continuamente dei Giacinti, che, senza saperlo, conservano le ridicolezze del passato, così da diventare come la maschera d’un’epoca. Incontrando siffatte persone, perfino chi passeggia rodendosi il cuore per il tradimento di qualche amico non può fare a meno di ridere.

 

 

  Honoré de Balzac, El Verdugo. Racconto di Honoré de Balzac. Traduzione di Luigi De Anna. Illustrazione di Vinicio Berti, «Scena illustrata», Roma, Anno 67, N. 3, Marzo 1952, pp. 20-21.

 

  Traduzione, nel complesso, corretta del racconto filosofico balzachiano.

 

 

  Honoré de Balzac, Introduzione alla «Comédie humaine», in Théophile Gautier, Vita di Balzac. Traduzione e aggiunte di Antonio Crimi, Milano, Rizzoli Editore, (giugno) 1952 («Biblioteca Universale Rizzoli», 430-431), pp. 101-117.

 

  La traduzione dell’Avant-propos del 1842 è seguita dal Piano della «Comédie humaine» [Prospectus] redatto da Balzac nel 1845 (pp. 119-124).



 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 


  Mario Muner. — Balzac. (Collezione «Gli uomini e la civiltà»). Brescia, La Scuola, 1950, in-16°, pp. 207, «La Civiltà Cattolica», Roma, Anno 103, Vol. I, Quaderno 2437, 5 gennaio 1952, pp. 210-211.

 

  Le citazioni seguenti potranno dare un’idea del carattere sistematico di questo studio sul Balzac. «Abbiamo cercato ed esaminato, scrive l’A., il più vero Balzac, quello delle opere maggiori ... Eugénie Grandet, Le médicin (sic) de campagne, Le père Goriot, Le cousin Pons» ...; Dimostriamo che lo speciale stile di Balzac è indissolubilmente legato con la visione del mondo, ch’egli ebbe, e con la reazione, ch’egli le oppose  ...»; «Balzac rappresenta veramente (attraverso la raffigurazione, ch’egli ci ha dato, del travaglio francese dibattentesi fra i richiami della civiltà e della religione da un lato e le suggestioni della dissoluzione gallica dall’altra) uno sforzo non tanto di registrazione quanto di reazione e di condanna».

  Le tesi dell’A. sono molto generali, perché potessero racchiudere nella loro cornice uno sguardo interessante, simpatico e drammatico della potente figura del Balzac. Gli stessi limiti impostigli dalla collezione, che è formata di «profili» e di «sintesi», alla quale il libro appartiene, gli hanno indubbiamente impedito uno studio più particolareggiato.



  Da Carlo Alberto a Umberto II, «La Sicilia. Quotidiano liberale», Catania, Anno VIII, N. 66, 16 marzo 1952, p. 3.

 

  Il successo riscosso dai primi due volumi dei «Capolavori della Commedia umana» di Balzac, non mancherà certamente al terzo volume che si presenta ancora più nutrito e importante. Esso contiene infatti tre fra i più significativi romanzi di Balzac, e uno dei suoi racconti più belli.

  «Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau» è il classico romanzo della piccola borghesia parigina che, nel turbinoso rigoglio finanziario del primo Ottocento, ambì a salire e a mischiarsi al mondo dell’alta banca e dei grandi affari, portandovi quella naturale ingenuità che la dispose a fare la parte della vittima.

  Nel «Cugino Pons» Balzac di segna una delle sue figure indimenticabili, su caratteristico motivo della sopraffazione degli spiriti più raffinati e sensibili da parte delle forze brutalmente aride degli inferiori.

  Grandi bellezze ed un alto spirito di comprensione e di carità umana è soffuso «Il rovescio della storia contemporanea», che Illumina di una splendente nuova luce il torbido mondo degli eroi balzacchiani.

  Una perfetta creazione di Balzac è il racconto «Il curato di Tours» che completa il volume. Mai come qui, Balzac ha raggiunto una così alta finezza di analisi al romanzesco intreccio e alla finezza della sua pittura.

 

 

  I lampioni di Balzac, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VIII, N. 244, 15-16 ottobre 1952, p. 3; 1 ill.

 

  In questa stradetta, rue Berton del XVI mandamento di Parigi, è nato Balzac (sic). Per mantenere l’aspetto tradizionale la Prefettura sta studiando un tipo di illuminazione in armonia col pittoresco ambiente.

 

 

  J. F. de Almeida Prado, Un personaggio inedito di Balzac, «Letterature moderne», Milano, Malfasi Editore, Anno III, N. 6, Novembre-Dicembre 1952, pp. 684-689.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit, p. 565. 

 

  Cade opportuno ricordare — quale piccola partecipazione alle commemorazioni promosse dal primo centenario di Balzac — un personaggio inedito e interessantissimo, appartenente a quel particolare mondo narrativo in cui l’eccezionale scrittore si compiacque fissare le aberrazioni dell’uomo e della società; come l’innamoramento del soldato e della leonessa nel deserto, o l’inconfessabile gelosia della Fille aux yeux d’or, o la diabolica depravazione dell’Elisir di lunga vita, o i torbidi segreti di salotto che ricorrono nelle Scene della vita di Parigi.

  Il racconto intitolato Sarrasine su cui ci soffermeremo s’inquadra nella festa offerta al Tout Paris della Restaurazione da una coppia alquanto misteriosa, ma che possiede la chiave di tutte le case e di tutte le porte, il danaro. Siamo in pieno inverno, al colmo della stagione mondana, nel riscaldatissimo palazzo dell’Avenue Gabriel, di fronte a ospiti estasiati per la profusione delle luci, dei fiori, degli oggetti d’arte, per l’abbondanza del buffet e la perfezione del servizio. Il fior fiore della nobiltà, delle arti e delle scienze viene ricevuto dai conti di Lanty, con i loro due figlioli, ottimi partiti su cui si appuntano le aspirazioni di quanti abbiano un figlio o una figlia da sistemare. Di quando in quando uno dei presenti domanda quale sia stata l’origine di tanta ricchezza. In quell’epoca, poteva essere il frutto della tratta dei negri di qualche emulo dello Xaxà di Ajudà, o di speculazioni come quella del piccolo francese Tourlon, già commissario degli eserciti napoleonici in Italia, e ora sulla via di trasformarsi nel fastoso principe Torlonia. Favoriti dalla Rivoluzione e dalle interminabili guerre che a essa seguirono, gli Ouvrard, i Rothschild e i Talleyrand rivaleggiavano in una gara di voraci appetiti e di strepitosi successi, di cui si fa eco la Commedia umana, menzionandoli sotto pseudonimi e a volte anche con il loro vero nome. I Lanty sarebbero pertanto di questi privilegiati della profonda trasformazione sociale verificatasi in Europa al principio del secolo XIX.

  Nel corso della festa, Marianina, la figlia degli anfitrioni, affascina i presenti per la sua grazia e la sua bellezza, specie quando si mette a cantare pezzi d’opera. Sembra offuscare la stessa Sontag e la Malibran, grazie allo sconosciuto maestro di cui dispone e che le ha insegnato i più sottili segreti del bel canto. Occorre tener presente che la vicenda si svolge sotto gli ultimi Borboni in un periodo cioè non lontano da quello che aveva visto il massimo splendore dei castrati, che avevano portato alla perfezione la difficilissima arte Risuonavano ancora nei teatri, nei templi, nelle reggie i gorgheggi di Farinelli e di altri divi, avidamente disputati da tutti i regnanti d’Europa. Non v’era infatti corte, per piccola che fosse, che rinunciasse a mantenere qualcuno, e quando i Braganza, per esempio, dovettero lasciare Lisbona sotto la pressione di Junot, si portarono appresso i sopranisti come se costituissero uno dei loro più preziosi tesori.

  Al trasferirsi in Brasile di quella corte europea sono dedicate alcune osservazioni di una francese, che si trovava allora per caso a Rio de Janeiro; e non resistiamo alla tentazione di riprodurle, sia perché sfuggirono a Franz Haboeck, sia per l’interesse che possono offrire a proposito della voce dei sopranisti. Madame de Freycinet descrive lo spettacolo di cui fu testimone in una chiesa illuminata da migliaia di candele e di torce e rivestita di drappi dorati per ricevere la famiglia reale, le dame «parées et decolletées comme pour un bal», mentre suonavano le campane e davanti alla chiesa si sparavano mortaretti. La viaggiatrice era sul punto di uscire, dopo le preghiere, quando udì un concerto di voci che sembravano scendere dal paradiso. «Elles avaient quelque chose de singulier et même de céleste que je ne pouvais démêler. Ces voix trop douces, trop mélodieuses pour appartenir à des hommes, avaient cependant une force male et une viguer (sic) qu’on ne pourrait trouver dans celle d’un (sic) femme. J’étais enthousiasmée. Je me croyais transportée dans le ciel au milieu des anges ... si le chant n’avait fait place à de nouvelles prières. Alors je songeais à demander l’explication de ces voix. La réponse retraça dans mon esprit une cruauté que je n’avais pu concevoir jusqu’à ce jour».

  La ragione principale della presenza dei castrati nella corte portoghese va ricercata negli scandali provocati dalla cantante Zamperini sotto José I, negli ambienti bragantini. Fu allora che un ordine superiore impose agli impresari, in quel mondo beato e circospetto, di sostituire per quanto possibile le prime donne con sopranisti scelti tra i più giovani e gracili, in modo da facilitare l’illusione scenica. Lo stesso accadde in Roma e in altre capitali d’Europa, e solo molto tempo dopo, nel tempo di Rossini, i cartelli tornarono ad avere al primo piano cantanti di sesso femminile, principalmente contralti, la cui voce più si assomigliava a quella dei castrati. È significativa la reminiscenza di don Bartolo nel Barbiere di Siviglia:

 

«... la musica ai miei tempi era altra cosa,

quando cantava Caffariello quell’aria portentosa».

 

  Le consuetudini, dettate da intenzioni moralizzatrici, suggerirono a Balzac il racconto Sarrasine, che invero non ha niente di molto ortodosso. Esso comincia nella festa dei Lanty, quando il narratore, che stava flirtando con un’amabile parigina, vede apparire nei saloni un vecchietto, parente dei padroni di casa, attratto dal canto delizioso di Marianina: personaggio che di rado appariva in pubblico e su cui correvano le più strane voci. Alcuni dicevano che era il celebre Balsamo, ovvero Cagliostro, implicato nel processo della collana della regina, rifugiatosi e incarcerato a Lisbona, c che ora era tornato in Francia a fabbricare oro per i nipoti. Altri affermavano che si trattava del multisecolare conte di Saint-Germain, riconosciuto dal bailo di Ferette, o avanzavano altre supposizioni della stessa specie, che trovavano incentivo nella viva contrarietà che i Lanty manifestavano in presenza del parente.

  L’oggetto di tanti commenti presentava di fatto un aspetto assai stravagante: il corpo, magrissimo, sembrava del tutto scarnificato ma, pur così, eccessivo per i fusi esilissimi che lo sostenevano. Su quelle ossa fluttuava un abito di antica foggia, abbagliante per le gioie preziosissime di cui era cosparso a profusione e a casaccio. Eran del pari di grandissimo pregio i merletti dei polsini e del sottogola, che contornava un volto incredibilmente incartapecorito e scandalosamente truccato, sotto i ridicoli ricciolini biondi della parrucca. Ne risultava una figura tanto paurosa, che la compagna del narratore sentì il bisogno di allungare una mano per accertarsi se era di fatto reale. Il gesto irriflessivo provocò da parte del vecchio un gracchiare di rana, che si trasformò in tosse convulsa con grande agitazione dei Lanty, genitori e figlioli.

  Imbarazzati per le conseguenze di quella imprudenza, la signora sventata e il suo compagno si rifugiano in un’altra sala, in cui domina come principale ornamento il ritratto di un Adone nudo, esibendo le forme perfette su una pelle di leone. Il quadro parve ancora più impressionante quando di fronte a esso passò il vecchio accompagnato ai suoi appartamenti dalla mano affettuosa di Marianina. Il narratore approfitta dell’accaduto per continuare il giorno seguente la sua storia in casa della compagna. L’origine della fortuna dei Lanty — stando al suo racconto — risaliva al tempo in cui un giovane francese, figlio del giudice Sarrasine, aveva abbandonato gli studi di giurisprudenza per dedicarsi alla scultura. Dopo aver fatto un po’ di pratica a Parigi, egli aveva deciso di recarsi a Roma, che era allora la Mecca degli artisti. In principio tutto andò bene, e il giovane s’entusiasmava ogni giorno più per quanto gli era dato di vedere e di ascoltare. Tra i sette colli si respirava un’atmosfera voluttuosa, nonostante le costrizioni esercitate dal Sacro Collegio, divenuto severo in materia di buoni costumi a causa della lotta contro la Riforma. La Roma dei Borgia era sparita per divenire la sede di pontefici austeri, ma rimaneva pur sempre la sensualità classica impressa dallo spirito che aveva presieduto alla creazione dei capolavori dell’arte greco-romana e alle forme e ai colori del Rinascimento.

  Accadde dunque che una notte il giovane Sarrasine s’imbatté in una folla che, all’ingresso del Teatro Argentina, acclamava i nomi di Jomelli e di Zambinella. Si avvicinò per curiosità e, contagiato dall’entusiasmo degli appassionati per l’opera, decise di assistere allo spettacolo. Non avrebbe certo immaginato le conseguenze di quel divertimento apparentemente innocente. La grazia, il talento, la bellezza, la limpidezza della voce e le altre doti eccezionali elevano la Zambinella a vette olimpiche, almeno agli occhi del ragazzo, che se ne innamora perdutamente. Torna ogni notte per vederla e sentirla, e finisce per suscitare prima la curiosità e poi la malizia della gente di teatro.

  Una notte è avvicinato da una mezzana che gli fissa un appuntamento con una persona misteriosa. Sarrasine immagina subito chi possa essere e obbedisce alle istruzioni della messaggera. Tutto coperto da un mantello, come gli era stato raccomandato, aspetta nel Corso la carrozza che deve portarlo alla presenza della bella. Prima che egli lasci il teatro, però, una persona gli si avvicina e lo avverte in poche parole del pericolo cui va incontro. La Zambinella è protetta del cardinale Ciccognara (sic), mecenate del bel canto e uomo capace di liberarsi di qualsiasi importuno in modo poco cristiano. Il giovane allucinato non porge ascolto a nessun consiglio, ansioso com’è di trovarsi con la pseudo cantante, che da vicino gli appare ancor più desiderabile che sulla ribalta. Nei giorni successivi è preso da un impeto creatore che lo porta a fare una magnifica immagine di Zambinella, che più tardi servirà di modello per il quadro della casa dei Lanty.

  La vicenda termina in modo tragico, quando giunge il momento in cui non è più possibile dissimulare la verità. Sarrasine, accecato dalla collera, tenta di distruggere la statua e di uccidere Zambinella, ma non glielo permette il pugnale dei sicari, che per ordine del cardinale non abbandonano mai il sopranista. Muore così l’artista, mentre il cantante riprende gli indumenti maschili (il Ciccognara viene probabilmente allontanato da Roma dal Sacro Collegio) e inizia la carriera che doveva portarlo a fama mondiale.

  Esaminato così nelle sue linee generali, il racconto si rivela chiaramente fondato sulla vita del soprano Caffarelli, che fu una delle maggiori celebrità della scena lirica. Un breve esame di elementi circonstanziali relativi al grande scrittore, e un rapido raffronto tra gli episodi reali ricordati dal biografo Fétis e quelli del Sarrasine, non lasciano il menomo dubbio a questo riguardo. Anzitutto, Balzac conosceva assai bene il teatro operistico italiano, sia per esserne assiduo frequentatore, sia attraverso la ricca tradizione orale che poteva raccogliere dai suoi numerosi amici della nobiltà italiana, i Belgioioso e altri. In quello stesso periodo Jules Janin pubblicava un romanzo di grande successo proprio sul Caffarelli, illustrando la permanenza del sopranista nella corte di Luigi XV. Innumerevoli persone a Parigi ricordavano inoltre le feste e le rappresentazioni che si erano avute durante l’Impero a Saint-Cloud e nelle Tuileries, con la partecipazione di divi e di dive del canto, e potevano attestare l’interesse del pubblico per i sopranisti. Uno dei principali divertimenti dell’alta società era costituito, infine, dalle vecchie opere di Jomelli e di Gluck, e dalle novità di Grétry o di Paer. Quest’aspetto dominante, di uno dei maggiori settori dell’attività umana, non poteva mancare di attrarre l’attenzione di Balzac, acuto analizzatore dei fenomeni sociali dell’Europa sotto il Bonaparte e i Borboni.

  Si comprende così come Gaetano Majorano, nato vicino a Bari, nel Regno di Napoli, ai primi del secolo XVIII, figuri nella Grande Armée balzachiana, secondo l’espressione di Thibaudet, vicino agli usurai, gli avari, gli statisti, i malandrini, i poliziotti e le duchesse. Il vecchietto della casa dei Lanty sarebbe pertanto il ragazzo poverissimo, appassionato per la musica nonostante i castighi che riceveva dal padre per questa sua irresistibile passione. Cantava tutte le volte che poteva nel coro delle chiese, e appunto qui fu sentito dall’illustre Caffaro che, entusiasmato per le doti e la bellezza del ragazzo, riuscì a convincere il padre a portare senza indugio il figliolo dall’abile Norcia, chirurgo della Santa Sede. Gaetano aveva già dodici anni, limite massimo per entrare nella gloriosa schiera dei castrati; l’operazione si faceva generalmente tra i sette e i dieci anni, e questa volta, sebbene praticata in ritardo, ebbe ottimo risultato. Il giovane imparò a cantare, ad accompagnarsi al pianoforte e anche a comporre, in Napoli, considerata nella penisola la metropoli dell’opera, ove si recò in compagnia del musicista in memoria del quale prese il nome di Caffarelli.

  Lunga e difficile era la carriera del bel canto, in un periodo in cui sovrabbondavano esimi cantanti. Compiuti i primi studi, Gaetano fece ancora sei anni di perfezionamento sotto il Porpora, allora il maggior tecnico in materia, successivamente professore delle tre divinità del secolo XVIII: Farinelli, Caffarelli e Porporino. Debuttò infine Gaetano a Roma, dove la sua bellezza e la sua gioventù gli permisero non solo di rappresentare parti femminili, ma di recitare anche nella vita la parte di prima donna indossando fuori palco abiti femminili, con enorme soddisfazione del pubblico romano (al punto che Gaetano fu ricevuto con fischi ed improperi quando volle presentarsi in abiti maschili). Irritato, Caffarelli si recò in altre città d’Italia, inducendosi a tornare a Roma solo in seguito agli insistenti richiami degli ammiratori. In questa seconda fase si presentò sulla scena in parti eroiche, con elmo corazza e spada, commovendo i cuori sensibili al punto di suscitare, per assurdo che possa sembrare, la gelosia di mariti sospettosissimi, e ne sarebbe forse stato vittima, se non fosse stato protetto notte e giorno da guardie del corpo.

  Consacrato ormai in Italia, Caffarelli percorse le principali capitali europee di trionfo in trionfo. Il Metastasio allude in una lettera da Vienna al capriccioso Caffariello, che alcuni portavano alle stelle per le sue eccentricità, e altri consideravano insopportabile, incapace di compensare con l’arte il fastidio provocato dai suoi capricci. Entrambe le cose concorsero ad accrescere la fama di Caffarelli e a renderne economicamente più redditizia la carriera trionfale. A Venezia, nell’inverno del 1740, ricevette l’enorme somma di 700 zecchini, equivalente a 9.000 franchi oro secondo il calcolo fatto nel secolo XIX dal Fétis: la somma più elevata pagata fino ad allora a un cantante per una serata. A Lisbona, insieme con Guizziello, incassò somme mai viste in una breve stagione, durante la quale pretese 72.000 franchi per fare il protagonista dell’opera Demofoonte del maestro Perez. Tra il 1760 e il 1770 accumulò una fortuna principesca, tanto da comprare il ducato di San Donato in Calabria, ottenere la conferma del titolo dalla Santa Sede, e far costruire un magnifico palazzo, sul cui portone volle fosse scritto: «Edificai questa casa come Anfione edificò Tebe». Nel 1783 morì a Napoli, ottantenne, lasciando a un nipote il titolo e 14.000 ducati di rendita annua. Lasciò anche un duraturo ricordo dei suoi trionfi negli appassionati del bel canto; tanto che con ragione il critico Gerber potè affermare: «Glanz, Kuenheit, Anmut und Ausdruck werden seinem Gesang besonders Nachgeruehmt».

  Riepilogando ora i punti di somiglianza tra Caffarelli e Zambinella, abbiamo in entrambi i casi il debutto in parti femminili nello stesso teatro romano e un successo legato ad eccentricità: «Ce fut pour la première fois qu’il exerça cette tyrannie capricieuse» commenta Balzac a proposito del parente dei Lanty «che in seguito lo rese non meno celebre che il suo talento e la sua immensa fortuna». Entrambi si trovano coinvolti in avventure pericolose, provocate da gelosie, e che per poco non ne causano la morte. Entrambi si trovano in difficoltà con dei cardinali, sebbene le difficoltà del Caffarelli siano diverse da quelle inventate da Balzac sotto l’influsso delle idee del secolo XIX. L’assassinio di Sarrasine, creato dall’immaginazione dell’autore, si limitò infatti a quanto segue: il sopranista improvvisamente non volle presentarsi, come aveva promesso, a una festa del cardinale Albani, allegando di non aver vestiti o altra scusa futile. Irritato, l’Eminenza ordinò che fosse trascinato a forza e costretto a cantare in camicia, mentre gli invitati facevano finta di non avvedersi di niente. Fu dato quindi al cantante nell’anticamera un lauto compenso per il concerto, sorpresa senza dubbio gradevole; e subito dopo una bastonatura, evento meno lieto. Nel resto i punti di contatto continuano con la longevità di entrambi, l’acquisto del titolo nobiliare, la generosità di entrambi con i parenti, e molti altri elementi che possiamo fare a meno di elencare, in quanto di fatto non v’è altro cantante, all’infuori di Caffarelli, la cui esistenza possa aver fornito un modello per il personaggio di Zambinella.

  Balzac dava ai suoi piccoli racconti un’importanza assai maggiore di quanto generalmente non riconoscano i critici e i biografi. I racconti legati al mondo della musica, come Massimila (sic) Doni e Sarrasine, trattano dei divertimenti principi di una società agonizzante, sul punto di ceder luogo a un’altra, come oggi accade alla nostra. Di qui l’interesse particolare di tali racconti, specie quando assistiamo a un curioso ritorno al passato, alla vita di corte e alla mentalità del cortigiano nell’avvento di un’immensa burocrazia pubblica, che si viene moltiplicando intorno a sovrani onnipotenti, come quelli che in altri tempi elargivano milioni ai Farinelli e ai Caffarelli.

 

 

  Giuseppe Andretta, La vetrina del libraio, «Il Foglietto. Giornale della Daunia», Foggia, Anno XXXVIII (nuova serie), N. 23, 12 giugno 1952, p. 3.

 

  Gherardo Casini ha portato a compimento, da gran signore dell’editoria qual’egli è, il suo tributo per le onoranze a Balzac pensato in occasione del primo centenario della morte del romanziere. Con un recente terzo volume si è completala così, nella collana dei «Grandi Maestri», la scelta dei «Capolavori della Commedia umana», che comprende, in tutti e tre i volumi, tredici tra i più significativi romanzi e racconti balzachiani.

  Nell’ambiziosa trama di quella sua opera narrativa volta ad affrire (sic) un quadro completo delle passioni, dei sentimenti e degli ideali dell’umanità vista nella sua epoca, non è facile individuare oggettivamente la pennellata o la figura di risalto, che dia per sé sola l’impronta del genio, vale a dire il libro che possa riconoscersi concordemente da tutti il capolavoro dello scrittore; la sua impronta ha traccia possente stemperata in più piani, le sue creazioni non sono classificabili in una graduazione fissa di merito, per cui è quanto mai icastico quanto detto a proposito dall’Oriani: «Balzac si dibatte trent’anni per scrivere un capolavoro senza riuscirvi e invece di alzare un monumento fonda una città». Da questa città, adunque, l’editore Casini ha saputo ritrarre, con mano felice, quanto di maggiore rilievo, sì da dare nella sua scelta una visione quanto mai completa, nelle sue linee essenziali e vitali, dell’opera balzachiana.



  Mario Apollonio, Fondazioni della cultura italiana moderna. Storia letteraria dell’Ottocento di Mario Apollonio. Vol. II – Mediazione dell’intelligenza, Firenze, G. C. Sansoni, Editore, 1952.

 

Capitolo I.

Sinossi della cultura romantica. 3. – Romanzo.

 

  p. 19. [...] i romanzieri della Francia fra la Restaurazione e la Terza Repubblica sono eredi d’altro spirito, guerriero e militaresco, degli eserciti di Napoleone che conoscevano solo una direzione: davanti; o ditelo con voce di comando «en avant»; e da quell’estremità non si tornava indietro che vittoriosi, al dì là dell’umano, o disfatti: anzi diversi: storia del colonnello Chabert. [...].

  p. 20. Balzac lui pure fa storia: storia di costume, s’intende; e visitando in giro sempre lo stesso spazio, moltiplica l’avventura nelle diversità delle rispondenze di innumerevoli allo stesso costume. La sua scoperta di narratore è immensa: ché fin qui, persino in Manzoni, che però aveva oltrepassato il limite lungo la strada della Grazia e della Provvidenza, il costume è considerato un dato immutabile: la fantasia vi ritorna come a riposo, con la sicurezza di ritrovare un tetto sempre e un terreno stabile: di contro all’epopea romanzesca dei grandi personaggi, l’idillio familiare e paesano; il tale, per dirla all’inglese, di contro al romance; la novella, per dirla all’italiana, di contro al poema; ma con Balzac la vita sociale ha perduto ogni stabilità, il costume è un mare anche più grande di quelli dove s’avventura Robinson Crosuè nei suoi ultimi viaggi, e malfido, ondeggiante, s’apre di tanto in tanto ad inghiottire qualche disgraziato, ha le sue bonacce e le sue tempeste, avvocati e notai fanno il punto dei trapassi di ricchezza, tentano farci sapere dove siamo del viaggio.

 

 

  Luigi Bartolini, Ritratti di donne. Viaggiatrice svagata, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VIII, N. 236, 6-7 ottobre 1952, p. 3.

 

  Allora il dialogo, volse intorno alla vita matrimoniale. Io osservavo «che non è bene sposarsi troppo presto perché se ci si sposa a sedici anni può darsi che si giunga alla trentina un poco stanchi»; «Come diceva Balzac» soggiunsi, notando che lei mi guardava con un lampo di malizia.

  «E cosa dice Balzac? tornò a domandarmi. «Dice — risposi — ma non dovrei dirlo giacché temo che ciò possa generare in lei un senso di contrarietà. che dopo due anni, o giù di lì, ogni marito è stanco di sua moglie, come ogni moglie stanca di suo marito». «Oh questo poi no!» mi sarei aspettato che ella avesse risposto. Invece ella tacque; anzi sembrò fare fra i suoi pensieri come la chiocciola; che, toccata appena con la punta d’un dito, ritira le sue corna. S’era accorta d’aver detto troppo e di lasciare intendere — al sagace ascoltatore — la sua verità. Verità che io supposi essere quella d’una giovanissima signora delusa del matrimonio.

 

 

  Attilio Bartolozzi, Balzac e Manzoni, in Ombre e luci su Montaigne – Hugo – Sand – Balzac – Baudelaire – Flaubert – Maupassant – Verlaine – Rimbaud, Ancona, Casa Editrice “Draga”, 1952, pp. 51-58.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit, p. 563.

 

  Nel 1837 il Manzoni aveva cinquantadue anni: Balzac appena trentotto. Il primo, il 23 gennaio, era andato sposo a Teresa Borri, già vedova del conte Decio Stampa; il secondo pensava ad un viaggio in Italia sia per liberarsi dagli uscieri che lo assillavano e lo assediavano, sia per un clamoroso fallimento editoriale.

  Aveva anche una missione delicata da svolgere; gli interessi della famiglia Visconti. Di questa questione ne dava notizia alla sorella Laura e alla Signora Garraud (sic) con una certa vanagloria perché, se non fosse stato per lui, — egli scrive — il conte avrebbe perduto i pochi beni rimasti in Italia.

  E’ strano — tuttavia — che un uomo come Balzac sia riuscito ad essere un ottimo amministratore e un sagace legale per gli altri quando tutte le sue imprese non sono state mai coronate da successo, anzi ne è risultato un fallimento completo.

  Preceduto da una lettera della contessa Sanseverino alla contessa Maffei, il cui salotto a Milano raccoglieva i migliori letterati del luogo, e dalla fama dei suoi scritti, Balzac giunse nella capitale lombarda il 19 febbraio del 1837.

  Prese alloggio all’albergo della Bella Venezia in Piazza S. Fedele.

  La sua prima visita alla contessa Maffei fu salutata dalle languide parole della sua ospite che l’accolse con un: «J’adore le génie».

  Attillato, vestito all’ultima moda, con quel faccione di luna piena, la famosa, se non famosissima, canna alla mano e quella mania di grandezza giganteggiante in lui, Balzac dovette sentire, finalmente, quella gloria cui tanto aveva aspirato e, da vero superuomo, con quel suo parlare sciolto e ricco di una esperienza che lo aveva reso conoscitore profondo degli uomini e del mondo, spadroneggiò tra gli amici della contessa e persino sul povero marito Andrea — uomo di nobili natali e di fine gusto dell’arte —; il quale ebbe subito sentore dessere di fronte ad un rapitore di cuori.

  Il 22, a distanza di tre giorni dal suo arrivo, i giornali parlarono della visita del celebre scrittore francese e qualche giornale sperò in belle ispirazioni dettate al Balzac dal magnifico cielo milanese.

  Era un periodo in cui gli stranieri avevano in poco conto i nostri letterati e molti — d’oltre frontiera — avevano già dato giudizi poco lusinghieri sugli italiani.

  Non aveva Lamartine nel «Dernier chant du Pélerinage d’Harold» detto che andava via dall’Italia per cercare altrove


«Des hommes et non pas de la poussière humaine»?


  C’era stato anche un duello ma, spesso, questi giudizi erano avventati, temerari in quanto chi li dava, non aveva nemmeno letto le opere che criticava con tanta leggerezza.

  Avvenne anche per Balzac qualcosa di simile e, se non si trattò di un vero e proprio duello, gli furono lanciate tante critiche e si trovarono tanti difetti nei suoi scritti e più sulla sua persona, che il grande Honoré dovette sentirsi abbastanza menomato nella sua grandezza.

  Corse voce per gli ambienti letterari che Balzac non riconosceva al Manzoni la sua gloria e inoltre non vedeva nei «Promessi Sposi» il capolavoro; ciò bastò ad incendiare gli animi dei lombardi e dei veneziani.

  Nel salotto dell’ormai fedelissima contessa Maffei, aveva conosciuto d’Azeglio, Tommaso Grossi, il pittore Hayez, lo scultore Puttinati ma, dal marchese Felice di Santotommaso, già conosciuto a Torino e ritornato a Milano, de Balzac volle essere presentato al Manzoni.

  Forse Balzac volle vedere da vicino questo uomo che, da tutti in Italia, era ammirato incondizionatamente e parlargli, cercare, se mai, di abbatterlo con la sua eloquenza, con il suo fiume di parole.

  La conoscenza desiderata ebbe luogo in casa Manzoni.

  Che dissero? Quale fu l’impressione dei due?

  Una pagina del Cantù ce ne dà — in sintesi il colloquio.

  Noi cercheremo di andare indietro nel tempo e di ricostruire i momenti più salienti riferendoci alla conoscenza delle due diverse nature e più, delle loro diverse aspirazioni.

  Brutto, panciuto e basso, con baffi e pizzetto, Balzac fu introdotto dal Manzoni.

  Si trovarono di fronte!

  Manzoni alto e con viso bonario lo ricevette con cordialità e la conversazione cadde su Parigi, sull’attività letteraria.

  Con quel suo fluido linguaggio, irrobustito da una lunga esperienza letteraria e con quella folla di personaggi carichi di difetti e parchi di virtù, Balzac dovette investire addirittura il povero Manzoni che, neanche a farla apposta, in quel periodo era affetto da una leggera balbuzie.

  Immaginate piuttosto quale supplizio dovette essere per l’autore dei «Promessi Sposi», che balzava al solo garrire d’una rondine, che aveva ripugnanza d’andare in pubblico, trovarsi di fronte quella montagna che avrebbe volentieri rovinato tutti pur di essere al di sopra della vetta più alta e dire: «Sono più forte, più grande».

  I nervi furono messi a dura prova ma riuscì a resistere ed essere mite e parco di parole.

  Dovette soltanto essere d’accordo con il Balzac quando questi gli disse che, nel vederlo, gli era parso vedere Chateaubriand.

  Quelle due fisionomie veramente avevano diversi punti di contatto.

  Poi, Balzac, parlò dei suoi lavori letterari e si scivolò sulla letteratura italiana e francese.

  Cosa disse della prima?

  Dimostrò se non tutta, almeno in parte, la sua completa ignoranza per il capolavoro manzoniano; probabilmente mai letto e si difese con i soliti raggiri di cui era padrone.

  Prima di accommiatarsi, Balzac, chiese un autografo. Era già destinato a Madama Hanska.

  Quell’autografo non giunse mai nelle mani della futura moglie.

  Da Firenze scrisse all’amica di averlo bruciato per accendere il fuoco, inavvertitamente.

  Anche questa potrebbe essere una ragione per conoscere in quanto poco conto l’autore della Commedia umana, tenesse il Nostro.

  Da codesta visita, il giudizio del Balzac uscì negativo se si pensi alla poca loquacità e socievolezza dell’autore dei «Promessi Sposi».

  Poi, quella moderata produzione letteraria, quel curare di continuo la forma, quella costante preoccupazione del vocabolo toscano, quella cristiana accettazione della sofferenza che fa miti e rassegnati i personaggi manzoniani, quella presenza costante di Dio in ogni pagina, quel Dio che assiste tutta l’umanità per condurla sul sentiero della redenzione; tutto ciò non poteva piacere al Balzac, spirito combattivo, che porta sulla grande ribalta del teatro reale che è il mondo, l’uomo con i suoi pochi pregi e i tanti difetti.

  Egli descrive l’umile ed il ricco, il garzone ed il potente e quei suoi duemila personaggi raccontano le loro vicende così come se si confessassero tra loro e si muovono dalla campagna alla città, dal tribunale ai bassi fondi e lì i personaggi si susseguono con una sempre crescente verità.

  «Il romanzo — scrisse George Sand — è stato per Balzac il quadro ed il pretesto di un esame quasi universale delle idee, dei sentimenti, delle abitudini, delle arti, dei mestieri, dei costumi, della legislazione, dei luoghi, infine di tutto ciò che ha costituito la vita dei suoi contemporanei». Lo stile del Balzac è vivo ed immediato ed egli non si preoccupa di quelle raffinatezze che, invece, furono cura costante del Manzoni.

  I suoi personaggi parlano la lingua di tutti i giorni.

  Se al Balzac riconosciamo il grande merito d’essere stato il grande romanziere per l’immenso patrimonio della sua produzione, riconosciamo anche che il Manzoni è grande quanto lui sia per il suo sforzo di dare un impulso toscanamente italiano alla nostra lingua, sia per aver creato personaggi che mai più si partiranno dalla mente e che, siano essi grandi o piccoli, buoni o cattivi, esprimono una nota di umanità eterna che li rende attuali in ogni tempo oltre il periodo storico in cui la fantasia dell’artista li ha fatti vivere.

 

 

  Vincenzo Bassoli, Il diavolo innamorato non si addice a Balzac, «Avvenire d’Italia», 14 agosto 1952.

 

  A tutti coloro che, come noi, debbono, non senza fatica, seguire per quanto possibile quello che si pubblica nel nostro Paese, capita spesso di poter fare strani accostamenti, accostamenti che un lettore normale non riuscirebbe nemmeno a concepire. Ci è accaduto, infatti, di leggere, uno di seguito all’altro, due libri, felicemente editi da Rizzoli di Milano per la collana economica B. U. R. in ottime traduzioni, diversissimi sebbene riflettano due epoche confinanti come l’ultimo settecento ed il primo ottocento francesi. Si tratta, e forse molti l’avranno già compreso, di «Il Diavolo innamorato» di Jacques Cazotte e della «Vita di Balzac» di Théophile Gautier. [...]. Eppure un abisso divide Cazotte da Gautier e Balzac. Cazotte è scettico, giudica il mondo da mistico e fonda la sua opera «Il Diavolo innamorato» su una trovata originale ma sempre profondamente radicata nelle credenze del secolo; Gautier invece arriverà, attraverso il concetto dell’indipendenza dell’arte, addirittura all’estetismo parnassiano, mentre Balzac osserva la realtà, dal vero ritrae i suoi personaggi trasformandoli poi attraverso la sua fantasia in un’altra realtà, in un mondo suo particolare (Baudelaire diceva che i suoi personaggi sono «doués de l’ardeur vitale dont il était animé lui même») che i critici poi hanno chiamato e chiamano balzachiano. [...].

  Lasciando da parte Gautier. che qui non è che il biografo di Balzac, biografo fedele e informato giacché amico del creatore de «La comédie humaine» (il libro è corredato da un indice dei personaggi balzachiani, dalla Introduzione a la comédie humaine e dal piano dell’opera, nonché da ottime note e da un utile indice dei nomi), e occupandoci di Balzac non si può non notare che soltanto cinquant’anni dopo già i gusti sono mutati e sopratutto è mutato il costume. Balzac, cattolico, monarchico, conservatore, in un certo senso casto, è lui pure un visionario, ma un visionario che non cammina sullo stretto confine che separa la realtà dal mondo fantastico delle scienze occulte, bensì che crea folle di personaggi, circa duemila, in cui buoni e cattivi sono distribuiti in modo giusto e tale da rappresentare tutta una società.

  Cazotte ama il gioco personale, la trovata: Balzac invece l’osservazione e per quel che riguarda le donne, mentre Cazotte dubita della loro virtù o per lo meno la ritiene tanto pericolosa quanto il peccato, Balzac vi crede invece e ci presenta una folla di donne buone e virtuose che non conoscono i raggiri, che non si «servono» del loro pudore in «modo impudico» come il Diavolo del mistico settecentesco. Al pessimismo irridente di una società e di un costume che stanno per morire, dopo poco più di mezzo secolo si è già sostituito un ottimismo temperato che scorge nella grande commedia umana dei valori, eterni che resistono e sui quali la vita del mondo deve fare perno. E tutto questo sta a dimostrare che l’artista, quando è tale, non è mai un isolato, ma il frutto migliore, per lo meno dal punto di vista della capacità di esprimersi, di una determinata epoca cioè di un costume e di un pensiero facilmente individuabili nel gran mare della storia umana.

 

 

  Emanuele Battistelli, L’uso del caffè e il suo abuso, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno VI, Numero 35, 9 Febbraio 1952, p. 3.

 

  Alla vigilia della sua morte, per mal di cuore, il Balzac confessava disperatamente che la sua fine prematura era imputabile a 60 mila tazze di caffè. Evidentemente, il grande scrittore francese non si nascondeva la intossicazione d’accumulo, per caffeina, di cui la paralisi cardiaca doveva essere la conseguenza ultima e tragica.

 

 

  Mario Bonfantini, Dal primo romanticismo al realismo. Anno accademico 1950-51, Milano, La Goliardica-Edizioni Universitarie (Tip. Cislaghi), 1952.



  Vittorio E.[manuele] Bravetta, La malinconica adolescenza di Honoré de Balzac. Rimpianse per tutta la vita la perdita della sua prima opera, «Giornale di Trieste», Trieste, Anno VI, N. 1757, 3 settembre 1952, p. 3.

 

  Era intitolata «Traité de la volonté» e gli fu confiscata da un istitutore.

  Nella prima parte di «Louis Lambert» con uno sdoppiamento di personalità non inconsueto nella tecnica narrativa l’autore de La Comédie humaine si dipinge e si descrive oggettivandosi in un suo immaginario condiscepolo. A volte gli cede la parola, a volte impresta i propri sentimenti al personaggio che tanto gli somiglia.

  Attraverso le confessioni contenute in quel romanzo (larvata autobiografia dell’adolescenza) penetriamo abbastanza facilmente nel mondo giovanile di Balzac collegiale. «Sarebbe curioso — osserva in proposito Théophile Gautier — stabilire un confronto tra certe pagine di Louis Lambert e la novella intitolata William Wilson nella quale Edgard Poe, con i prestigiosi e fantasiosi ingrandimenti «ottici» che son cari all’infanzia, descrive il vecchio edificio elisabettiano dove venne educato il protagonista del suo racconto, un ragazzo non meno strano di Louis Lambert». Lasciamo da parte i confronti e torniamo a Balzac nascosto nei panni del suo Louis. Dopo il tirocinio della scuola elementare fatta a Tours, i suoi genitori lo chiusero in collegio a Vendôme; il collegio, situato nel cuore della città, godeva la fama abusiva di essere uno dei migliori istituti educativi del tempo. Era, invece, una specie di casa correzionale dove vigevano regole conventuali applicate senza alcun criterio a deboli fanciulli in formazione. Al tempo di Balzac-Lambert le pene corporali e la frusta erano all’ordine del giorno.

  Il fanciullo, che doveva diventare il più grande romanziere della Francia e forse del mondo, soffrì atrocemente in quel carcere: trascurava i doveri scolastici, ma con la tacita complicità di un distratto insegnante di matematica, assorto nella soluzione di chissà quali astrusi problemi, e che, nello stesso tempo, fungeva anche da bibliotecario, poteva asportare dagli annosi scaffali tutti i libri che lo attiravano. Il fanciullo si faceva, deliberatamente, mettere in cella per isolarsi e leggere a suo agio, di nascosto. La cella diventava così un’oasi, se non profumata, certo solitaria, e non disturbata dagli schiamazzi incomposti di una ragazzaglia, con la quale Lambert non se la faceva.

 

  Una efficace descrizione.

 

  E qui lo scrittore apre, nelle confessioni, una parentesi descrittiva, ambientale, tutt’altro che gradevole, comunque efficacissima: le camerate puzzavano, pareti e pavimenti coperti di lerciume, igiene sconosciuta, aria di rinchiuso, lezzo di ventiquattro corpi mal lavati, mescolato al tanfo delle attigue latrine.

  «Codesta specie di umo collegiale commisto alla sporcizia delle nostre scarpe costantemente impolverate o infangate contribuiva a formare un letamaio insopportabile».

  Assuefatto alla vita campestre, all’aria aperta, il piccolo Honoré-Louis soffriva fisicamente e moralmente, e si rifugiava in cella non appena poteva. I suoi maestri lo giudicavano un inetto. Lo scrittore non ce lo tace, anzi ci regala una pagina di psicologia didattica che, per certi lati, è ancor oggi valida e valevole.

  «I maestri mi disprezzavano; i compagni ai quali nascondevo i miei studi di contrabbando per timore delle loro beffe, mi disprezzavano non meno dei maestri. Codesta doppia disistima, ingiusta da parte dei Padri (Oratoriani) era, condizionatamente, giustificabile da parte dei condiscepoli. Non sapevo giocare a palla, non correvo, non partecipavo alle loro ricreazioni, ai loro svaghi; mi appartavo, melanconicamente solo, sotto qualche albero del cortile».

  Talvolta Balzac nel rievocare la triste adolescenza, si presenta sotto il duplice pseudonimo di «Pitagora» e «Il Poeta». «Pitagora» è quella metà di se stesso che egli ci rivela e scopre nel personaggio di Louis Lambert; «Il Poeta» esprime la sua più intima e delicata sensibilità d’artista ancora inquieto e non totalmente conscio e consapevole della grande missione a cui era vocato.

  Lavorava di nascosto come un topolino nel suo buco, lavorava, nientemeno, ad un’opera intitolata «Traité de la volonté», un trattato di cui parlerà con insistenza ne La Comédie humaine. Balzac rimpianse per tutta la vita di aver perduto quella sua prima opera e raccontò, con una commozione non attenuata dal passar degli anni, come avvenne il sequestro del per lui tanto prezioso manoscritto. Lo aveva rinchiuso in un cofanetto. Compagni gelosi e invidiosi, che lo spiavano, tentarono un giorno di impadronirsene. Honoré-Louis difese accanitamente il suo tesoro. Richiamato dal rumore della colluttazione, il prefetto Haugoult accorse e confiscò il cofano. Lo aprì, e scoperto lo scartafaccio, esclamò sprezzante: «Ecco qui le sciocchezze che ti facevano trascurare i tuoi doveri di scolaro!».

 

  Catastrofe irreparabile.

 

  Grosse lacrime rigavano le guance del «reprobo», grosse lacrime sgorgate dal suo giovane, ingenuo cuore sia per l’offesa inflitta alla sua misconosciuta superiorità intellettuale e morale, sia per il tradimento vergognoso che gli avevano fatto i compagni bestialmente ignoranti. Balzac rimpianse la catastrofe irreparabile sino al punto che in «Peau de chagrin» e gli mette in bocca a Raphaël le seguenti parole: «Tu sola, o Paolina, hai ammirato la mia Teoria della Volontà, codesta lunga opera per comporre la quale avevo appreso le lingue orientali, l’anatomia, la fisiologia; alla quale avevo consacrato la maggior parte del mio tempo; opera che, se non m’inganno, completerà i lavori di Mesmer, Lavater, Gall, Bichat, aprendo una nuova strada alla scienza umana». E la chiama «lavoro da baco da seta», sconosciuto al mondo, sol compensato dalla coscienza. della fatica che gli è costato. «Dall’età della ragione sino a quando ho finito di comporre la Teoria della Volontà, ho letto senza tregua, senza sosta, senza risparmio, letto, scritto, pensato. Amante della pigrizia orientale, ho sempre lavorato senza concedermi un istante di riposo; mi sono rifiutato di godere le gioie della vita di Parigi: buongustaio, mi sono mantenuto sobrio; desideroso di viaggiare, mi sono inchiodato sopra una sedia con una penna in mano; propenso alla conversazione, ho ascoltato in silenzio le lezioni popolari impartite da docenti universitari alla Biblioteca e al Museo. Ho dormito sul paglione come un benedettino. La donna era la mia sola chimera, una chimera che accarezzavo e mi sfuggiva continuamente».

  L’angosciosa, amara, eroica confessione corrisponde a realtà. Una volta, già famoso, egli invito a colazione Gautier, salito rapidamente in fama con Mademoiselle de Maupin, per invitarlo a collaborare ad un ebdomadario, La Chronique de Paris da lui diretto. Per l’occasione s’era fatto imprestare le posate d’argento dal suo editore. La colazione fu squisita, non mancò il tradizionale pasticcio di fegato grasso, però Balzac fece notare sorridendo all’ospite che una volta tanto, in onore di un collega, poteva derogare alla sua abituale frugalità. A quel tempo il romanziere, già illustre benchè non avesse ancora composta la Commedia umana, abitava in capo al Lus[s]emburgo, in una straducola, via Cassini, chiamata. così forse per il richiamo suggerito dal vicino Osservatorio Astronomico. Sul muro di cinta del giardino, che occupava quasi tutto un lato della via, Gautier lesse codesta bizzarra scritta: «L’Absolu, marchand de briques». «Il nome fatidico — commenta il papà del Capitan Fracassa, ha probabilmente ispirato a Balzac l’idea di Balthasar Claës alla ricerca del suo sogno impossibile.

  Dal «Traité de la. Volonté» a «La Comédie humaine» quale lungo cammino, che portentosa ascesa! Eppure la nostalgia di quel primo libro perduto pungeva, di frequente, il cuore del grand’uomo. Che fine avrà fatto il manoscritto? Probabilmente (l’ipotesi è di Gautier) il terribile e inconscio «père» Haugoult lo avrà venduto come carta straccia ad un droghiere di Vendôme. Pensate il primo documento autografo di un genio trasformato in cartocci per zucchero, riso, caffè.

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. Bernard Guyon, “La Création littéraire chez Balzac. La genèse du «Médecin de campagne», Paris, Armand Colin, 1951, pag. 260, frs. 600, «Paideia Rivista letteraria di informazione bibliografica», Arona, Anno VII, N. 2-3, Marzo-Giugno 1952, pp. 182-187.


  Nell’ampia letteratura balzacchiana degli ultimi anni, questo volume del G. rappresenta certamente uno dei migliori e più seri contributi. Fin dalle prime pagine ci si accorge con piacere di non trovarsi di fronte ad un lavoro occasionale ed affrettato, come altri recentemente pubblicati, ma di fronte ad un’indagine iniziata e portata avanti da lungo tempo, in un paziente processo critico. Già dal 1933, del resto, con l’edizione del saggio sul Gouvernement moderne, gli interessi del G. erano rivolti a questo momento dell’attività balzacchiana; e, da allora, gran parte delle sue ricerche, sempre orientate verso il Balzac degli anni 1820-1834, ha culminato, da un lato, nella monumentale tesi sulla Pensée politique et sociale de Balzac (1947), dall’altro, nel bel saggio su Balzac et le mystère de la création littéraire (1950), Da strade diverse, ma tutte percorrenti una stessa zona d’indagine, questo recentissimo volume su La création littéraire chez Balzac. La genèse du «Médecin de campagne», si è venuto così perfezionando da vent’anni circa in una esemplare continuità di meditazioni e di ricerche.

  Sull’argomento trattato ora dal G. — la genesi del Médecin de campagne — la ricca letteratura già esistente lasciava supporre (anche, credo, ai balzacchiani più esperti) che ben poco ci fosse ancora da sistemare e assai meno da scoprire. L’edizione critica del Médecin curata dall’Allem, la pubblicazione dei carteggi del Balzac con la Famiglia, con M.me Carraud, con M.me de Castries, con l’Etrangère (particolarmente folti fra il 1832 e il 1833), i lavori del Bouteron, il saggio del Gillot — per citare solo i documenti e gli studi più pertinenti a questo soggetto — costituivano un complesso di fonti e di risultati critici di cui ben poche opere del Balzac sono dotate, e tale da far considerare la maggior parte dei problemi relativi alla formazione e alla composizione del romanzo, chiusi. Già si conoscevano le vicende esterne di un’opera data per finita nel settembre del 1832 e non ultimata, in realtà, che l’anno dopo; le fonti autobiografiche e letterarie di essa; tutti gli elementi che il Balzac poté aver utilizzato nella delineazione di Bénassis o di Génestas e nella ambientazione paesistica: le trasformazioni subite da una parte del romanzo in seguito al mutare di alcuni dati sentimentali. E già erano state analizzate attentamente le intenzioni religiose, politiche, sociali che il Balzac aveva voluto qui realizzare. Recentemente un critico italiano [Mario Muner] aveva studiato il Médecin facendone perno — sia pure, talora, sulla base di astratte generalizzazioni — del pensiero religioso balzacchiano. E alla struttura e al messaggio evangelico di Bénassis aveva dedicato pagine agili ed intelligentissime il Bardèche. Infine, anche in sede di valutazione estetica, i temi del nostro romanzo erano stati acutamente esaminati, staccati dalla loro funzione programmatica e còlti nella loro resa poetica; e, giustamente, tale resa era stata identificata ora nel soffio epico della leggenda napoleonica (Le Napoléon du peuple), ora nella rievocazione autobiografica, venata di sconforto e di disincanto, della Confession di Bénassis. Tutto un intenso fervore di studi s’incentrava insomma nel Médecin e permetteva al lettore di considerarsi su di un «Festboden» non più suscettibile a cambiamenti e di cui le nuove acquisizioni critiche non sarebbero andate oltre la precisazione di qualche particolare.

  L’aver ripreso, dal fondo, l’esame dei problemi attinenti al Médecin de campagne utilizzando tutte le fonti documentarie e l’aver sopratutto ricorso ai manoscritti, ai frammenti e alle bozze di stampa dell’opera, hanno consentito invece al G. la possibilità di aggiungere nuovi ed interessanti contributi alla formazione di questo romanzo e di operare una sistemazione complessiva, assai più convincente, di tutte le questioni che ad esso si riattaccano.

  In merito a tali nuove acquisizioni, importante è, anzitutto, l’esame che il G. ha dedicato alle anticipazioni del tema della campagna ravvisabili nella produzione balzacchiana dal 1830 in poi. Attraverso la rassegna di una serie di spunti di «vie campagnarde et paysanne» (Les deux amis, i tre aneddoti de La conversation entre onze heures et minuit, una perduta Scène de village, un progetto di Scènes de village) tutti databili fra la fine del 1830 e l’estate del 1832, il G. è riuscito a ricostruire attentamente l’affiorare di questo tema, che è tema-cardine del Médecin, negli anni immediatamente anteriori alla nascita della nostra opera. Degno di rilievo è anche l’esame della attività letteraria del Balzac nel corso del 1832, dei molteplici progetti allora vagheggiati e non realizzati e, sopratutto, di quel tentativo più a lungo perseguito de La Bataille. Dai risultati narrativi di quest’anno non meno che dalle mancate realizzazioni, il G. trae un ritratto del Balzac che ci dà con acutezza la misura dei suoi contrastanti stati d’animo alla soglia del nostro romanzo. D’altro canto, — come ha bene scorto il G. — è nel travaglio apparentemente inutile di questi tentativi di un’opera maggiore e nello sconforto di talune illusioni già perdute che si forma l’«humus» più adatta alla nascita del Médecin. Successiva all’indagine sui vasti progetti letterari del Balzac e su ciò che di essi andrà a sfociare nella tematica del Médecin, il G. affianca poi una ricerca non meno attenta e sagace sull’altro registro delle ambizioni del Balzac, quello politico, anch’esso destinato all’insuccesso, ma anch’esso di grande per la storia del nostro romanzo. A tale aspetto biografico dello scrittore, il G. dedica infatti un capitolo che, penetrando nella intimità della personalità balzacchiana, mostra quanto le preoccupazioni elettorali allora vive nella mente del Balzac, le sue pubblicazioni politiche e i suoi progetti letterario-sociali anticipassero (e per strade che lo scrittore stesso era lungi dal prevedere) la formazione del Médecin.

  A completare il ritratto del Balzac nel 1832, l’inchiesta del G. sui rapporti fra M.me de Castries e lo scrittore assume essa pure, per la prima volta, un pieno risalto. Il critico non solo riassume e risistema, infatti, in un panorama unitario, tutti gli elementi già noti, dall’inizio della relazione al soggiorno ad Aix, ma inserisce i dati sentimentali del romanziere nel processo della sua fantasia creatrice. Cerca cioè di cogliere i motivi e gli episodi di quella sovreccitazione sensuale che accompagna nel Balzac la conoscenza con M.me de Castries e che, come informa certe pagine della Femme abandonnée (cfr. a pagg. 62-63 i suggestivi ravvicinamenti fra M.me de Castries e M.me de Beauséant) apre la via nei suoi successivi sviluppi ad uno dei temi più dolorosi del Médecin.

  Rievocata l’atmosfera spirituale del Balzac attraverso gli avvenimenti via via messi in luce e sottolineata l’importanza della visita alla Grande Chartreuse e del soggiorno ad Aix, l’indagine del G. giunge così a quei famosi «trois jours et trois nuits» della fine settembre 1832 che segnano, per così dire, l’atto di nascita del Médecin. Dell’opera, finora studiata nella sua preistoria, sono ora analizzati i singoli elementi componenti, e di ognuno di essi son ricostruiti con solida documentazione la formazione e gli sviluppi. Rinviamo alle pagine che rilevano il riecheggiare di ricordi roussoviani in taluni motivi del Médecin; alle pagine in cui è discussa l’influenza del Vicar of Wakefield (ammessa del resto dallo stesso Balzac); e a quelle che ripropongono in discussione i possibili originali di Bénassis (M. de Villers, Bossion, Rome, Oberlin) e di Génestas (Periollas). E rileviamo sopratutto la ricerca, più difficile e più sottile, sulle fonti autobiografiche, in particolar modo sentimentali, che penetrano nel tessuto narrativo del Médecin, atteggiano i personaggi, creano situazioni o colorano di un tono febbrile e appassionato la narrazione. Molti particolari — si è detto — erano già noti intorno ai rapporti fra la biografia sentimentale del Balzac e il Médecin de campagne, ma nessuno è riuscito, come il G., a penetrare più addentro nel meccanismo di tali rapporti e a prospettare l’amore e l’abbandono di M.me de Castries non solo come occasioni aneddotiche, ma come elementi vivi della ispirazione balzacchiana.

  La parte più importante delle ricerche del G. è ancor meglio rappresentata, tuttavia, dal capitolo seguente che — in un campo finora inesplorato — accompagna il Médecin nei suoi lunghi mesi di silenzio. Come è noto, il romanzo, dato per finito dal Balzac il 23 settembre 1832 (lettere alla Madre e all’editore Mame) fu inviato in tipografia solo verso la fine di dicembre. La stampa, per i continui ritardi del Balzac prima e, quindi, per il processo intentato dal Mame, andò avanti fino al luglio del 1833 e non fu che nel settembre dello stesso anno che l’opera comparve in libreria. Una zona d’ombra di quasi un anno veniva dunque a porsi fra la iniziale stesura del romanzo e la sua pubblicazione, e a rendere più «difficile ogni ipotesi contribuivano le contrastanti formali affermazioni del Balzac e del Mame. Per l’uno l’opera sarebbe stata già pronta nell’ottobre del 1832; per l’altro, ancora nel novembre, il Médecin de campagne non sarebbe stato che un informe abbozzo di capitoli. Che cosa aveva dunque scritto il Balzac in quei famosi «trois jours et trois nuits» di settembre? Come far rientrare nella stesura preoriginale del Médecin il primo stato della Confession, avvertibilmente legato all’abbandono di M.me de Castries e quindi posteriore di alcune settimane almeno alla data del 23 settembre? Come giustificare i continui rifiuti del Balzac a consegnare prima del dicembre (e anche allora incompletamente) il manoscritto all’editore? Come conciliare infine le iniziali proporzioni del Médecin («le petit in-18 de deux cents pages») con quelle assunte in realtà alla pubblicazione (due, volumi in-8)? A tutti questi problemi il G. ha saputo dare una risposta quasi sempre sicura e appoggiata su di una convincente documentazione. Attraverso l’esame del manoscritto e dei frammenti dell’opera, il G. è riuscito anzitutto ad affermare l’esistenza di una prima stesura del Médecin, anteriormente al 15 ottobre 1832 «constituant un roman achevé aux trois quarts et comportant au moins 77 folios» in cui, con ogni probabilità, si fondevano la parte del romanzo scritta dal Balzac in settembre e quella, relativa alla Confession inédite, dettata dopo il 10 ottobre, sotto l’impressione cocente della rottura. E, ancora, seguendo sui manoscritti e sulle bozze di stampa l’accrescersi dell’opera, il G. ha potuto giustificare i continui rinvii opposti dal Balzac all’editore nella consegna del manoscritto e cogliere i motivi del lungo ritardo nella pubblicazione. Il Médecin de campagne esisteva per tre quarti fin dall’ottobre del 1832, e fors’anche era stato ultimato nel dicembre; ma troppe parti del romanzo non rispondevano più alle nuove esigenze spirituali dell’autore e troppe pagine non collimavano stilisticamente con ciò che precedeva o seguiva perché il Balzac, scontento ancora della propria opera, si decidesse a consegnarla definitivamente alla stampa.

  Ma l’indagine del G. non si limita a spiegare e a giustificare la storia esterna del Médecin, fra il settembre 1832 e il luglio 1833. Con risultati ancora maggiori essa lumeggia lo sviluppo interno dell’opera ampliata nel disegno generale, trasformata in parte, limata in ogni sua pagina, ed e della natura di queste varianti che il critico si occupa più particolarmente. Della vera e propria rifusione subita dal Médecin nel lavoro di correzione, il G. fissa così gli elementi principali: lo sviluppo dei temi economico-politici o etico-sociali tendenti a fare di quello che doveva essere inizialmente un manualetto di propaganda elettorale un grande trattato politico e sociale con ambizioni, per così dire, europee; l’ampliamento della leggendaria evocazione napoleonica che si perfeziona in una narrazione più movimentata, più immediata e con più nette preoccupazioni epiche; la preponderanza della tonalità religiosa che sempre più cerca di dare all’opera un diffuso colore di sublimità morale. Condizionata in parte da questi nuovi sviluppi (e non solo, come finora si pensava, da taluni avvenimenti biografici del 1833) la rievocazione della giovinezza di Bénassis non poteva più fondarsi sugli elementi che caratterizzavano lo stato primitivo della Confession, ma doveva ricorrere ad altri più consoni alla nuova fisionomia del romanzo. E il Balzac — come osserva acutamente il G. — « devait de toute évidence, en dehors de toute autre préoccupation, uniquement pour des raisons d’ordre esthétique, transformer radicalement la confession du héros en plaçant à l’origine de sa “vocation” non plus seulement une déception d’amour, de sensualité et de vanité, mais les idées religieuses de repentir et d’expiation» (pagg. 210-211).

  Il succinto riassunto del volume del G., fin qui delineato, indica già da solo la complessità della presente ricerca e potrebbe chiudersi qui. Ma v’è un altro aspetto del libro che va al di là di precisazioni esegetiche particolari, e che è molto importante segnalare. Vogliamo parlare della discrezione, della cautela con cui è condotta la ricerca delle fonti, del buon gusto che presiede a tale ricerca e della intelligente e meditata disposizione dei fatti studiati. E intendiamo anche accennare al convincimento del G. (convincimento informatore di tutto il volume) che l’ispirazione balzacchiana, nel suo intimo meccanismo misteriosa ed inattingibile, non è esclusivamente determinata da questo o da quell’elemento, da un particolare incontro piuttosto che da una particolare lettura, ma è mossa da un complesso di occasioni e si realizza secondo un processo interiore che attinge dovunque, e trasforma, tutti i materiali utilizzati. Si pensi alle pagg. 71-72 in cui il G., discutendo la rappresentazione del paesaggio alpestre del Médecin, reagisce alle affermazioni di quanti (e son la maggior parte) hanno voluto esclusivamente identificarlo nel paesaggio di Aix o della Grande-Chartreuse; a pagg. 98-99 allorché il G. nega che il personaggio di Génestas possa essere un semplice «portrait» di Périollas e non invece una sintesi viva dei diversi caratteri attribuiti dal Balzac alla figura dell’ufficiale imperiale; o a pag. 115 in cui il medesimo problema (e in una forma ancor più complessa) dell’identificazione di Bénassis, vien proposto e risolto non attraverso il ricordo di questo o di quel filantropo, ma attraverso la ricostruzione di più personaggi contemporaneamente presenti alla fantasia dello scrittore.

  E si pensi infine all’accento particolare che il G. ha voluto porre sulla biografia balzacchiana (come componente importantissima della ricostruzione genetica) la quale ha in sé la funzione di dare al mosaico più disparato delle occasioni, vita, calore, lineamenti intensamente umani. È noto il credito ancor oggi riscosso da certe troppo facili e troppo assolute ricerche di fonti — ultime propaggini della formula del realismo balzacchiano — che presumono di risolvere da sole l’intero processo creativo dello scrittore. Il lettore ricorderà con noi alcune pagine dell’Allem nell’introduzione del Médecin e, fuori del nostro romanzo, tutte quelle identificazioni che molti critici hanno voluto stabilire fra una determinata realtà storica e Eugénie Grandet, La Recherche de l’absolu e Le Lys dans la Vallée. Orbene solo che si confrontino quelle pagine e quelle identificazioni con queste osservazioni, sarà facile notare quanto i modi di ricerca qui seguiti dal G. non che i più convincenti, siano i più validi (e forse gli unici) a introdurci nel mistero della creazione letteraria. Ci basti rinviare ad un brano della conclusione (pag. 226) in cui il critico, riassumendo in termini teoretici il proprio lavoro, definisce acutamente la validità e i limiti insuperabili d’ogni ricerca genetica: e solo nell’approssimarsi ai segreti della creazione poetica attraverso l’esame di tutte le ispirazioni che possono averla determinata, e non nel risolverli pienamente per mezzo di alcuni dati esterni, giustifica una qualsiasi indagine del genere.

  Per finire, un ultimo aspetto del lavoro del G. merita ancora di essere ricordato: ed è quello che pone in evidenza l’impegno di lavoro del Balzac, la sua intima vocazione artistica, la sua incontentabilità di scrittore. Reagendo anche qui ad una formula tuttora diffusa sullo stile cattivo e affrettato del Balzac, la ricerca del G. documenta in tutto il suo corso il costante, ossessivo desiderio di perfezione stilistica che animava il Nostro, lo inchiodava per intere giornate sulla pagina, lo obbligava a continui rimaneggiamenti. Al ritratto di un Balzac scrittore affrettato perché interessato, si sostituisce quello di un «horrible travailleur», fratello maggiore di un Flaubert o di un Proust, servitore appassionato e fedele alla sua vocazione. E su questo ritratto (non inedito, ma ancor poco studiato), che emerge in tutta un’ampia parte del volume, il G. indugia in alcune pagine conclusive che non solo mettono in luce il particolare momento del Médecin, ma contribuiscano a cogliere aspetti di tutta l’opera poetica dello scrittore. Pagine anche queste ottime: le migliori, anzi, a chiudere un lavoro come il presente, che è a sua volta, in un piano minore, esemplare documento di studi pazienti e di una bella fedeltà ad una vocazione critica.

 

 

  Raffaele de Cesare, Da “Falthurne” a “Un caractère de femme”, «Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche», Milano, Vita e Pensiero, Anno XXVI, N. 6, Novembre-Dicembre 1952, pp. 518-570.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit, pp. 564-565.

 

  1) Falthurne-Savonati (1820) - 2) Dialogue avec d’Holbach (1821) - 3) Une heure de ma vie (1821-1822) - 4) Falthurne-Séraphîta (1823-1824) - 5) La fille de la reine (1827-1828) - 6) La modiste (1830) - 7) Littérature contemporaine et mythologie (1833) - 8) La Frélore (1836-1839) - 9) Vautrin (1839) - 10) Valentine et Valentin (1841-1842)? 11) La gloire des sots (1845-1846) - 12) Mademoiselle du Vissard (1847) - 13) La femme auteur (1847) - 14) Un caractère de femme (1847 1848) - 15) Lettres à l’Etrangère (1846-1848).

 

  pp. 518-520. In occasione delle recenti celebrazioni per il centocinquantenario della nascita e il centenario della morte del Balzac, hanno visto la luce vari inediti dello scrittore, quasi tutti conservati nel fondo Spoelberch de Lovenjoul alla Biblioteca di Chantilly, che per varie circostanze erano rimasti finora mal conosciuti o ignoti del tutto al pubblico della «Comédie Humaine».

  Non si tratta, naturalmente, di scritti di primo piano tali da restituire allo scrittore nuovi, inattesi capolavori: quanto, fra le opere più importanti del Balzac, era rimasto inedito alla sua morte (e non era, fin da allora, che un complesso di racconti o di abbozzi di significato secondario) fu di volta in volta pubblicato nel corso di questi cento anni, dallo Spoelberch de Lovenjoul e, quindi, dal Vicaire, dal Bouteron, dal Guyon, dal Prioult, dal Bardèche e dal Bertault. Grazie al lavoro assiduo di questa instancabile schiera di ricercatori non vi è quasi stata opera balzacchiana di rilievo, rimasta manoscritta, che non sia stata convenientemente pubblicata ed inserita così nell’interessante «corpus» degli inediti.

  Rimanevano comunque (e forse rimangono ancora) vari frammenti manoscritti; taluni perché, pur studiati e parzialmente pubblicati, erano stati finora considerati inferiori alla fama dello scrittore e non meritevoli di una pubblicazione integrale; altri perché, appena classificati nella grande quantità delle carte balzacchiane, erano sfuggiti ad un esame attento che ne avesse scoperto una loro qualunque importanza. È merito pertanto della coincidenza delle due celebrazioni centenarie e di una rinnovata attenzione per l’autore della «Comédie Humaine» se gran parte di questo preciso lavoro d’archivio è stata oggi compiuta permettendo così l’edizione di un nuovo gruppo di abbozzi e frammenti.

  Complessivamente, come si è già accennato, questi recenti inediti non mutano la fisionomia artistica – nelle sue linee generali già fissata – dello scrittore e non offrono nemmeno pagine di grande valore narrativo tali da poter meglio precisare il messaggio poetico del Balzac e i termini della sua grandezza di romanziere. In tale sede essi sono quindi ben lontani dall’illustrare nuovi aspetti d’arte o dal costituire quella scoperta che era del resto, in linea generale, impossibile attendersi. A chi conosce la tecnica del Balzac è noto infatti quanto difficilmente un frammento, un abbozzo, l’inizio di un racconto incompiuto e lasciato quindi da parte, giungano a rappresentare quella compiuta espressione poetica che, di massima, nel nostro scrittore procedeva solo da un lunghissimo, minuto, travagliato lavoro di lima.

  Ma anche nei suoi limiti artistici sovente angusti il recente gruppo di inediti porta un contributo in ogni caso pieno di interesse e meritevole d’essere segnalato e studiato. Se le pagine che ora si aggiungono non giovano molto a prospettare il magistero narrativo del Balzac, esse recano numerose testimonianze nuove nel campo della cultura, del pensiero e, anche, della tecnica dello scrittore. Alla delineazione di quella storia interna della «Comédie Humaine» che resta ancora in parte da farsi, esse apportano nuovi elementi, chiariscono molte zone tuttora rimaste in ombra, rivelano sviluppi tematici non sempre noti nella loro complessa articolazione, mettono in evidenza, infine, il valore di certe preoccupazioni o di certe letture nell’ispirazione del romanziere. Giovi anche qui richiamarsi alla tecnica del Balzac e ricordare il complicato meccanismo della sua fantasia creatrice. Nella selva dei suoi progetti, dei suoi schemi, dei suoi frammenti, nulla andava disperso. E se di un racconto immaginato e in parte redatto il disegno generale, dopo tentativi più o meno lunghi, veniva abbandonato, temi, personaggi, avvenimenti, particolari venivano ripresi e utilizzati per altre opere già in cantiere o prossime ad esservi poste. Consapevolmente o no (e forse più consapevolmente che no) tutto «se tenait» nell’immaginazione del Balzac; le pagine scritte s’erano ormai, per così dire, impresse nella sua fantasia e quelle parti di vita o di ambiente la evocate s’erano ormai sedimentate in lui in modo tale da non potere più sfuggire al suo mondo narrativo vastissimo ma pur sempre legato a certi schemi. E sia che venissero testualmente riportate nei successivi racconti, sia che, per un moto di germinazione interna, servissero di spunto o di occasione, esse riappaiono infatti riassorbite nella struttura di successivi racconti, modificate in misura più o meno notevole, ma pur sempre riconoscibili nei loro essenziali lineamenti.

  Ai fini dunque della conoscenza della genesi dell’opera balzacchiana ciascuno di questi frammenti inediti – in cui il Balzac attingeva con tanta maggior larghezza quanto più sapeva che essi non avrebbero mai visto la luce – porta un contributo in varia misura importante. Qui il lettore troverà ora le premesse di un carattere, ora l’iniziale evocazione di una situazione ambientale, ora l’attenzione ad un tema, ora l’individuazione di un soggetto o di un espediente drammatico che saranno destinati a svilupparsi largamente in seguito e a riempire di sé un intero romanzo. E in tale ricco «garde-robe» di soggetti – per usare un’espressione cara al Balzac – scorgerà rapporti, sviluppi, passaggi fra questo e quel romanzo della «Comédie humaine»: una larga parte della trama, insomma, su cui tesseva la fantasia dello scrittore. Per il carattere storico-culturale che si è ora accennato, valga quindi dedicare una breve rassegna agli scritti balzacchiani ora riesumati, valutarli nel loro vario significato e inserirli, come meglio sarà possibile, nei lineamenti già noti dell’attività del nostro scrittore.

 

 

  Antonietta Drago, Il matrimonio di Balzac, «Grazia», Milano, Anno XXV, N. 593, 5 luglio 1952, pp. 12-13; 5 ill.

 

  Nato sotto forma epistolare, l’amore del romanziere francese per la bella contessa Eva Hanska fiammeggiò per diciassette anni prima di concludersi davanti all’altare: ma l’esuberante cuore del celebre scrittore era ormai troppo stanco per poter godere a lungo di quella faticosa felicità.

 

  Il viaggio da Parigi a Neuchâtel non è molto lungo, vale a dire che anche in quel lontano 1833, sotto Luigi Filippo, esso poteva apparire lungo o breve a seconda di quanto si contava trovare al termine di esso. Perciò le quaranta ore di diligenza, se pure massacrami per Honoré de Balzac, divennero uno scherzo, tanto la sua gioia prorompente, la sua comunicativa rallegravano il tempo a lui e agli altri viaggiatori.

  Teneva in mano una vecchia guida e con fare dottorale si divertiva a leggerne ad alta voce le frasi pedantesche o puramente vuote di senso. Per momenti ammutoliva, chiudeva gli occhi e pensava: a chi mai volava incontro il più fecondo romanziere francese dell’800, stavamo per dire il più forsennato?

  Con animo trepido ed esultante andava incontro all’ignoto nelle eleganti vesti di una ignota, una ignota però con la quale già da tempo intratteneva corrispondenza da autore ad ammiratrice, poi da amicò ad amica, infine da innamorato a innamorata. Aveva cominciato lei, la contessa polacca, a scrivergli forse per rompere la nota dalla sua magnifica residenza di Wierzchownia, nei pressi di Kiew, quando però il cuore di lui era ancora impegnato altrove. Avventure di un giorno, splendide quanto effimere, vecchi amori che gli anni lentamente trasformavano in un sentimento più dolce di profonda tenerezza, come quello di Laura de Berny, la fedele, la “Diletta”; o passioni deliranti per impeto del sangue come quella per la duchessa de Castries dai capelli rossi, civetta e crudele; o amicizie oneste e riposanti come quella di Zulma Carraud, alla quale poteva tutto confidare.

 

Il mistero lontano.

 

  Intanto, con il suo lontano mistero, la leggera scrittura stesa su fogli stemmati, le buste profumate col suggello dorato, la nobile polacca aveva scavato il suo solco, si era insinuata e a un tratto era rimasta signora. Non l’aveva mai vista e ora ella gli aveva annunciato che si sarebbe recata per qualche tempo a Neuchâtel, un invito ch’egli non desiderava farsi ripetere due volte: ricca, aristocratica, intelligente, altamente spirituale e senza dubbio bellissima, era la donna ideale alla quale già dedicava il complesso delle sue opere future, che sarebbero comparse sotto il titolo della «Commedia umana».

  A Neuchâtel corse al suo albergo, chiese di lei, gli dissero che la contessa era uscita. No, non l’avrebbe aspettata in quelle poltrone di velluto rosso in mezzo ad assurde palme verdi: si sarebbe visto se non era capace di ritrovarla al fiuto pure in mezzo alla folla: «Eva, Eva, dove sei?».

  Seduta su di una panchina all’ombra di un tiglio dei giardini pubblici, una signora stava assorta nella lettura di un libro. Una bimbetta ai suoi piedi giocava coi sassolini della ghiaia. Per la sorpresa, vedendosi quasi aggredire, il libro le scivolò di mano. Egli lo raccolse e nessun dubbio era più consentito, si trattava appunto del suo ultimo romanzo: «Eva, Eva, sei proprio tu!». E come avrebbe fatto uno dei suoi protagonisti, togliendosi il cappello le s’inginocchiò davanti, la mano premuta sul cuore, mentre lei con voce strangolata non sapeva ripetere altro che: «Honoré! Honoré de Balzac!».

  Finalmente poteva contemplarla a sazietà: di forme piuttosto piene, la signora Hanska aveva occhi e capelli neri, così neri da dare più risalto ancora alla carnagione lattea, la bocca minuta e rossa, piccoli i piedi e piccole le mani come a una nobile dama si conviene, la fronte vasta e pensosa. Subito ripreso il dominio di sé stessa, a sua volta ella ora scrutava senza pietà attraverso l’occhialetto il piccolo uomo grasso e atticciato prosternato ai suoi piedi, la nera e untuosa zazzera da artista, il naso a patatina, lo sguardo infine, lo sguardo di quegli occhi appassionati che tutto redimeva con la sua fiamma.

  Indi vennero inevitabili le presentazioni: della piccola Anna intanto, così graziosa, unica superstite delle cinque figlie già avute da Eva; indi del marito che, alto e dignitoso, veniva avanti sul viale, correttamente abbottonato nella redingote verde bottiglia, un signore che non capiva niente di letteratura e solo si interessava di cacce, di fagiani, di raccolto e del fieno. E che pertanto non vietava a sua moglie di intrattenere lunghe corrispondenze, e ora conversazioni, con questo strano tipo di francese, così poco seducente, per fortuna.

  «Mi accorgo di non aver ancora amato fino ad oggi» mentiva costui in buona fede. «Sei tu che mi insegni l’amore. Sei una donna divina! Oh, Eva, mia adorata!». E ancora, sempre più infervorandosi: «Eccomi completato infine! Non ho più niente da darti, poiché tutto, e da sempre, ti ho donato!».

Meno loquace, meno emotiva, lei rispondeva cose brevi e profonde: «La donna che si presenterà in cielo dicendo: “Ho saputo rendere felice quell’anima, sarà sicura di entrarvi. Amare è la virtù delle donne».

  L’ardente duetto, rimasto nelle sfere di un’altissima spiritualità, per il semplice morivo che Honoré si vergognava di invitare Eva nel suo misero alloggio, terminò pochi giorni dopo. Il lavoro e la mancanza di danaro lo richiamavano a Parigi, ma col piede sul predellino della diligenza, le sussurrava sulle labbra: «Arrivederci, mia sposa!».

  In quel momento la contessa Hanska avrebbe affrontato anche lo scandalo pur di seguirlo, raggiungerlo, essere completamente sua. Strano a dirsi, toccava proprio a Balzac frenarne lo slancio generoso: «Angelo mio», le scriveva, «niente pazzie! Non abbandonare il palo al quale sei legata, povera capretta. Il tuo amante accorrerà al tuo grido». Fra non molto, si vedrà, le cose si sarebbero svolte all’incontrario.

  La vita lo aveva ripreso nell’ingranaggio spietato, egli lavorava giorno e notte senza mai fermarsi, a lume di candela, tenendosi accanto una immensa caffettiera dalla quale attingeva resistenza e vigore, per abbattere a colpi di piccone, che si ripercuotevano nel suo capo e nel cuore, il formidabile piano di una quarantina di opere, talune di più volumi, al termine della quale avrebbe ottenuto danaro e gloria.

  Quando seppe che Eva si trovava nuovamente in Svizzera, decise di abbagliarla, andò dal sarto a ordinarsi nuove redingotes dai bottoni di oro cesellato, e fornito di camicie di seta, di vistose cravatte, corse a Ginevra dove questa volta scese alla pensione Mirabaud, che era fra le più care ed eleganti. Eva lo accolse osservandolo con aria da inquisitrice di dietro l’occhialetto. E mentre già egli la invitava all’amore: «Vorrei sapere» disse, arrestandone lo slancio, «quante donne hai amate nello stesso tempo di me».

 

Gelosia femminile.

 

  «Che dite mai, contessa?», la dura inchiesta li riconduceva fatalmente al voi. «È una cosa abominevole, e certo avete ascoltato chissà quali calunnie sparse sul mio conto. Questo è il rovescio della celebrità ...».

  Ma senza lasciarsi impressionare, testarda nella sua idea, Eva insisteva: «Chi è allora questa contessa de Castries?».

  «È una donna che odio! Credetti di amarla e non l’amavo, invece: essa ha suscitato soltanto sentimenti cattivi in me!».

  «E, ditemi, come sta la contessa de Berny?».

  «Essa muore, Eva, essa muore, e morendo ci benedice! E una santa e bisogna mettersi in ginocchio per pronunciare il suo nome. Amica mia, essa non vi conosce, ma già vi ama! Mettetevi in testa che ormai madame de Berny è mia madre».

  Stava di fatto che già la “Diletta” sfiorava i sessant’anni ed era ammalatissima.

  «Che altro posso dirti», si arrese infine la gelosa, «che posso dirti se non che ti amo con tutta l’anima, con tutto il cuore ...».

  «E con tutto il corpo, non è vero, mia cara?».

  Così alla pensione Mirabaud avvenne la consacrazione di un amore già durato a lungo per iscritto. Eva, approfittando della libertà che le assicuravano i pranzi e le gite di alpinisti cui era frequentemente invitato il conte Hanska (sic), correva a trascorrere le ore della sua giornata con Honoré il quale, fuori di sé dalla felicità, le strappava per ricordo e nettapenne un pezzo della veste di panno grigio, esigeva da lei giuramenti e promesse: per esempio che alla morte del marito – il quale doveva pur morire prima o poi – si sarebbero sposati:

  «Mia cara, mia adorata, io ti amo come si amava nel Medioevo!».

  Innamorata sia pure ma non cieca, durante un’intima cenetta servita in camera, lei gli rispondeva: «Anche io ti adoro, perché sei buono e grande ... Ma, amore mio, se vuoi farmi un piacere, evita di portare il coltello alla bocca».

  Sorpreso, ammutoliva, ma poi se la prendeva allegramente: «Te ne dispiace tanto, amica mia?».

  «Penso che le tue donne, madame Carraud e madame de Berny, avrebbero dovuto dirtelo prima di me».

  Questi colpi di spillo dati a freddo lo lasciavano perplesso. Un solo istante. Poi si scrollava come un barbone bagnato, per abbandonarsi alla gioia del momento, alla gioia di quei quindici giorni di una felice vacanza così ben riempiti. A Parigi, lo sapeva, lo aspettava l’inferno.

 

Interviene la zia.

 

  Furono infatti anni d’inferno durante i quali, tutto frapponendosi fra loro, gli amanti non poterono scambiare le loro effusioni che attraverso le lettere. La morte della contessa de Berny lo colpì nel più profondo del cuore. Questa donna sublime – ch’egli aveva amata fin dai venti anni, quando, madre di sette figli, ella ne aveva quarantatré, e lo aveva accompagnato nel suo faticoso cammino aiutandolo con l’amore, con la fede, col suo danaro, lo aveva abbandonato volando a Dio, quando ancora tanto bisogno Honoré avrebbe avuto del suo conforto.

  Poi nel marzo del 1840 morì il signor Hanska e ricevendone la notizia Balzac, che vedeva così rimosso ogni ostacolo alla sua unione con Eva, rimase così combattuto fra la gioia prorompente e più onesti sentimenti, da rimanersene chiuso in camera ventiquattro ore senza permettere ad alcuno di rivolgergli parola. Avrebbe ora tenuto fede alle sue promesse, Eva?

  Eva diventava strana e quanto mai evasiva: doveva pensare prima a maritare Anna, avrebbe dovuto vendere il palazzo di Wierzchownia e le vaste tenute, cose di non poco momento e bisognava sentire il parere dello Zar. Queste le ragioni, chiamiamole così, ufficiali. Nell’intimo, poi, alla seduzione di una vita brillante a Parigi, sposa di un celebre romanziere, si contrapponeva il presentimento di quello che poteva significare per lei, abbandonare un ambiente fastosamente aristocratico per diventare la semplice signora de Balzac, entrare a far parte di una piccola famiglia borghese.

  Per lui invece, sposare Eva, la signora di Wierczhownia dall’esotica favella, dalle immense ricchezze, voleva dire il colmo di tutte le ambizioni ... L’agiatezza, finalmente il riscatto dai creditori, la possibilità di aprire un salotto, la via dischiusa per l’Accademia.

  La vecchia zia Rosalia pensava intanto a proteggere Eva da una simile follia: «Tu non hai il diritto di sacrificare l’avvenire di tua figlia. Tu non puoi sposare un uomo male educato, anzi per niente educato, il quale proviene da una famiglia insignificante a paragone della tua. Può darsi benissimo, come tu dici, ch’egli abbia del genio, ma si tratta di un semplice fenomeno naturale ...».

  Molti anni durò questa schermaglia di volere da una parte e eludere dall’altra, attraverso incontri per le città d’Europa, a Pietroburgo, a Dresda, a Cannstadt, a Carlsruhe, a Baden, in Belgio, in Olanda, in Italia dove le loro gioie “furono degne del cielo e della natura”. Nel 1846 la vittoria parve volgersi dalla parte di Balzac, quando Eva gli annunciò che aspettava un bambino e un matrimonio per lo meno segreto s’imponeva d’urgenza. Ma il bambino che poi sarebbe stata una bambina morì prima di nascere e il progetto di nozze si perse ancora nel tempo.

 

Triste presagio.

 

  Sempre sorretto dalla fede e dalla speranza, “un fenomeno di speranza”, diceva Balzac, egli era riuscito ad acquistare una casa a due piani nella rue Fortunée, il cui nome suonava di buon augurio, l’aveva ammobiliata e arricchita facendone una specie di museo, con tappeti orientali, quadri antichi, porcellane di Sassonia e di Sèvres, grandi vasi cinesi, stanza da bagno in marmo nero e giallo, poltrone e divani di damasco palio, mobili incrostati di ottone e tartaruga.

  Questo fasto, non era niente a confronto del palazzo di Wierzchownia, da cui Eva non accennava a volersi dipartire. Egli se n’era potuto rendere conto durante due lunghi soggiorni fatti laggiù, durante i quali si era gravemente ammalato: «Venti tremendi dell’Asia» malediceva rabbiosamente, confinato in una poltrona davanti al camino, avvolto in vestaglie e scialli di lana «venti tremendi dell’Asia, veleno certo per un europeo».

  Ma non tanto dava da pensare il freddo quanto il suo cuore che non reggeva più. E solo quando comprese di dovergli questa consolazione prima della morte, Eva gli disse un giorno: «Vuoi che ci sposiamo il mese prossimo, amico mio?».

  Finalmente! Ma quel povero cuore esultava troppo disordinatamente ormai. Andarono a sposarsi il 15 marzo 1850, diciassette anni dopo il loro primo incontro a Neuchâtel, nella cappella di un convento di Carmelitani, a cinquanta chilometri da Wierzchownia. Ma Honoré stava tanto male che per mettersi in viaggio dovettero attendere il mese di maggio. Al loro arrivo nella rue Fortunée videro attraverso i vetri delle finestre le camere illuminate, ma nessuno venne ad aprire. Dovettero chiamare un fabbro ferraio per forzare la serratura e dentro trovarono il domestico François che da un angolo della cucina li guardava con sguardo inebetito: era diventato pazzo. Reggendosi allo stipite della porta, Honoré terrificato mormorava a sé stesso: «Atroce presagio! ... Non uscirò vivo da questa casa!».

  Non s’ingannava. A tre mesi di distanza si concludevano con la morte, il lungo amore e la breve quanto dubbia felicità coniugale di Honoré de Balzac. E per una fatalità egli si spense il 18 agosto proprio, una notte che la contessa Hanska si era allontanata nervosa, delusa e stanca delle lunghe veglie per andare a buttarsi singhiozzando sul bel letto Luigi XVI ch’egli aveva scelto per lei con tanto amore.

  Ma lui della sua assenza non si rese conto, già vaneggiava con gli angeli e coi fantasmi dei suoi personaggi, con l’invisibile presenza di Laura di Berny, che in quell’ora suprema gli era ancora vicina e gli faceva coraggio.

 

 

  Giacomo Falco, Due scrittori, «La Voce repubblicana», 3 gennaio 1952, p. 3.

 

  «Dante e Balzac» si intitola (Ediz. Scientifiche Italiane, Napoli, 1952) l’ultima raccolta di studi di Vittorio Lugli: dal titolo del primo saggio, che tratta con la consueta dottrina ed acume il problema della «fortuna» di Dante in Francia, e si addentra poi nel parallelo che gli sta a cuore di illustrare.

  Nei suoi romanzi, che formano immensa epopea suo tempo, anche; il Balzac diede vita ad una «commedia»: la «Comédie humaine». Sempre il Balzac, senza proporsi visibili parodie, guardò «con ammirazione tranquilla, senza sgomento, senza contrita umiltà», all’opera del. nostro poeta.

  E il Lugli; conclude: «Questa nuova commedia è tutta romantica, orgogliosamente legata alla terra, all’umano, anche se tenta di esaltare l’uomo fin con speranze, i sogni ultraterreni. Però giustamente l’autore l’ha chiamata umana. Ha indicato la distanza tra l’opera sua e quella dantesca, e così anche ne ha rilevato i rapporti».

 

 

  Marise Ferro, I salotti letterari di Parigi romantica, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno VI, Numero 272, 17 Novembre 1952, p. 3.

 

  Anche la duchessa d’Abrantès, vedova del generale Junot, il compagno coraggioso delle prime campagne di Napoleone, morto pazzo, aveva un salotto letterario Celebre durante l’Impero per il suo fasto, la duchessa Laura ch’era, da parte materna imparentata coi re di Grecia, durante la Restaurazione era povera e vecchia, ma sempre brillante. Il marito aveva lasciato un milione di franchi di debiti ed ella, coraggiosa, si era preso l'impegno di pagarli scrivendo. Balzac le dava consigli ed ella, pare, lo affliggeva col suo amore.

 

 

  Luciano Folgore, La finestra sul cortile, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno VI, Numero 189, 11 Agosto 1952, p. 3.

 

  Io cominciavo a leggere Balzac e trovavo che il grande romanziere aveva torto quando diceva «Il matrimonio deve combattere incessantemente un mostro che divora tutto: l’abitudine». I due aristocratici coniugi vivevano insieme da circa venticinque anni e nessun mostro era riuscito a divorare la loro concordia, la loro inseparabilità. Per ciò rispondevo, con impeto, a Balzac.

 

Non è ver che il matrimonio

sia quel solito tran tran alla stregua d’un demonio:

il fastidio quotidian.

E’ lo stato coniugale uno stato superior

dove impera, vige, vale

sol la legge dell’amor.

 

 

  Renzo Frattarolo, Dediche, «Il Gargano. Organo della rinascita garganica», Rodi Garganico, Anno III, N. 4, 15 aprile 1952, p. 3.

 

  Il Balzac dedica “Splendori e miserie delle cortigiane” al Principe Serafino di Porcia, di cui fu ospite a Milano, per chiedergli scusa d'aver pensato queste pagine parigine davanti al Duomo.

 

 

  Théophile Gautier, Vita di Balzac. Traduzione e aggiunte di Antonio Crimi, Milano, Rizzoli Editore, (giugno) 1952 («Biblioteca Universale Rizzoli», 430-431), pp. 158.

 

  Struttura dell’opera:

 

  A.[ntonio] C.[rimi], Nota, pp. 5-8;

 

  [...]. Il saggio su Balzac è del 1858, e comparve sulla rivista dal Gautier stesso diretta, «L’Artiste». Altri saggi del genere erano usciti prima, su musicisti, artisti, poeti contemporanei (celebri quelli su Wagner, 1857; Gavarni, 1855-56; su Baudelaire – come prefazione ai «Fiori del male», 1857 – e sulla clamorosa rappresentazione dell’«Ernani» vittorughiano al Théâtre Français).

  Otto anni erano trascorsi da quando il maestro ed amico aveva fatto l’ultima passeggiata alla collina del «Père-Lachaise». In quella occasione, per la prima volta era stata lanciata la parola «genio» per bocca di Victor Hugo all’indirizzo di Balzac; ma dopo di allora il silenzio era calato sulla memoria dell’uomo, mentre nel 1855 era apparsa la nuova edizione Houssiaux di tutte le sue opere.

  Quell’anno 1858 vedeva uscire un modesto libretto della signora Laure Surville nata Balzac (la sorella preferita del romanziere), «Balzac, vita e opere, dalle sue lettere»: tale il pretesto o l’occasione che dovette richiamare alla mente del Gautier la figura del grande scrittore e i bei tempi della propria giovinezza. E dello stesso anno è il saggio critico di Hippolyte Taine. Gautier volle tenere il suo profilo nei limiti di una biografia; ma esso risultò, poi, una felice sintesi dell’uomo e dell’opera.

  Ancor oggi, questa biografia, nelle sue centocinquanta paginette, è tra le più pregevoli; illuminato e appassionato atto di omaggio all’arte e alla memoria del grande romanziere francese. Né il fatto che in essa si riscontrino non poche date sbagliate, o alcune altre inesattezze (qui, del resto, via via rilevate e rettificate), modifica il giudizio. Oltre a tutto, essa ha il merito di avere ispirato un altro capolavoro, allo scultore Rodin, il quale, esaltato dalla lettura di queste pagine, fece scaturire dalla pietra il «suo» Balzac, con l’aspetto allucinante che ricorda la definizione di Lamartine: «Era l’immagine di un elemento». [...].

 

  Cronologia della vita e delle opere di Honoré de Balzac, pp. 9-19;

  Vita di Balzac, pp. 21-100;

  Introduzione di Balzac alla «Comédie humaine», pp. 101-117 [cfr. supra];

  Piano della «Comédie humaine», pp. 119-124;

  Bibliografia, pp. 125-129;

  Repertorio dei personaggi balzachiani citati nella presente opera, pp. 131-148.

 

  Riproduciamo alcuni estratti del testo del Gautier che ci sembrano particolarmente significativi:

 

  p. 39.

 

  Per quanto possa sembrare strano dirlo in pieno secolo decimonono, Balzac fu un veggente. La sua abilità di osservatore, la perspicacia di fisiologo, il suo genio di scrittore non sono sufficienti a spiegare l’infinita varietà dei due o tremila tipi che recitano una parte più o meno importante nella Comédie humaine. Egli non li copiava, li viveva idealmente, vestiva i loro abiti, contraeva le loro abitudini, si circondava del loro mondo, s’immedesimava in loro per tutto il tempo necessario. Da questo derivano i personaggi costanti, coerenti, che non si smentiscono né dimenticano mai se stessi, dotati d’una esistenza intima e profonda e che, per servirci d'una delle sue espressioni, fanno concorrenza allo stato civile. Un vero sangue purpureo circola nelle loro vene invece dell’inchiostro che gli autori comuni infondono alle loro creature.

  Questa facoltà peraltro Balzac la possedeva solo per il presente. Egli poteva trasferire il proprio pensiero in un marchese, in un finanziere, in un borghese, in un uomo del popolo, in una donna dell’alta società, in una cortigiana; ma le ombre del passato non obbedivano al suo appello: egli non seppe mai, come Goethe, evocare dal fondo dell’antichità la bella Elena e farle abitare il maniero gotico di Faust. Salvo due o tre eccezioni, tutta l’opera sua è moderna; egli si era assimilato i viventi, non faceva rivivere i morti.

 

  pp. 45-47.

 

  Questo immane cervello, questo fisiologo così perspicace, questo osservatore così profondo, questo spirito così intuitivo, non possedeva il dono della letteratura: in lui un abisso si apriva tra il pensiero e la forma. Quest’abisso soprattutto nei primi tempi, egli disperò di superarlo. Vi gettava, senza riuscire a colmarlo, volumi su volumi, veglie su veglie, saggi su saggi; tutta una biblioteca di libri poi ripudiati vi passò. Una volontà meno tenace si sarebbe scoraggiata mille volte, ma per fortuna Balzac aveva un’incrollabile fiducia nel proprio genio misconosciuto da tutti. Egli voleva essere un grand’uomo e lo fu grazie a un incessante emissione di quel fluido più possente dell’elettricità e di cui fa analisi così sottili in Louis Lambert.

  Al contrario degli scrittori della scuola romantica, i quali tutti si distinsero per arditezza e facilità d’esecuzione straordinarie, producendo i loro frutti quasi contemporaneamente ai fiori, in uno sbocciare per così dire involontario, Balzac, pari agli altri come genio, non trovava il proprio mezzo di espressione oppure lo trovava solo attraverso pene infinite. Hugo diceva in una delle sue prefazioni, con la fierezza castigliana che gli era propria: «Io non conosco l’arte di inserire un abbellimento al posto di un difetto, e mi correggo in un’opera successiva». Balzac invece zebrava di cancellature perfino la decima bozza di stampa, e quando mi vedeva rimandare alla Chronique de Paris le bozze d’un articolo, scritto di getto sull’angolo d’un tavolo, con le sole correzioni tipografiche, egli non riusciva a credere, sebbene d’altra parte ne fosse contento, che io vi avessi posto tutto il mio talento».

 

  pp. 50-53.

 

  Fino allora il romanzo s’era limitato alla pittura di un’unica passione, l’amore, ma l’amore in una sfera ideale al difuori delle necessità e delle miserie della vita. I personaggi di questi racconti del tutto psicologici non mangiavano, né bevevano, né avevano casa, né avevano conti col sarto. Essi si muovevano in un ambiente astratto come quello della tragedia. Se volevano viaggiare, mettevano, senza prendere passaporti, poche manciate di diamanti in fondo alla tasca, e pagavano con questa moneta i postiglioni, i quali non esitavano a far crepare i loro cavalli ad ogni cambio di posta; castelli d’una architettura vaga li accoglieva al termine delle loro corse, e col loro sangue scrivevano alle loro belle interminabili epistole datate “dalla torre di Nord”. Le eroine, non meno evanescenti, somigliavano ad acquetinte di Angelica Kaufmann: gran cappello di paglia, capelli dai riccioli quasi disfatti all’inglese, lunga veste di mussolina bianca stretta alla vita da una sciarpa azzurra.

  Col suo profondo istintivo senso della realtà, Balzac comprese che la vita moderna ch’egli voleva ritrarre era dominata da un grande fattore – il denaro – e nella Peau de chagrin ebbe il coraggio di presentare un amante preoccupato non solamente di sapere se ha toccato il cuore di colei che ama, ma anche se avrà abbastanza quattrini per pagare la carrozza in cui la riaccompagna. Simile audacia è forse una delle più grandi che si siano osate in letteratura, e da sola basterebbe ad immortalare Balzac. Lo stupore provocato fu profondo, e i puri s’indignarono di questa infrazione alle leggi del romanzo, ma tutti i giovani che, andando al ricevimento serale di qualche dama con guanti bianchi ripuliti con la gomma, avevano attraversato Parigi come danzatori, sulle punte dei loro scarpini paventando una goccia di fango più d’un colpo di pistola, compresero, per averle provate, le angosce di Valentin e s’interessarono vivamente a quel cappello che egli non può rinnovare e conserva con cure così minuziose. [...].

  Balzac eccelle d’altra parte nella pittura della gioventù povera quale essa è quasi sempre, quando si cimenta nelle prime lotte della vita, in preda alle tentazioni dei piaceri e del lusso, e sopporta profonde miserie col sostegno di grandi speranze. [...].

  Al tempo in cui apparvero i primi romanzi firmati del Balzac, non esisteva, almeno nel grado attuale, la preoccupazione o per meglio dire la febbre dell’oro ; la California non era stata scoperta; esistevano appena poche leghe di strada ferrata di cui non si supponeva affatto il grande avvenire e che si considerava come una specie di sdrucciolo destinato a succedere alle montagne russe cadute in disuso; il pubblico ignorava per così dire quelli che oggi si chiamano gli affari, e solo i banchieri giocavano in Borsa. Il movimento di capitali, l’affluire dell’oro, i calcoli, le cifre, l’importanza data al denaro in opere considerate ancora semplici finzioni romanzesche e non serie pitture della vita, stupivano stranamente gli abbonati dei gabinetti di lettura, e la critica faceva il conto delle somme spese o messe in rischio dall’autore. [...].

  Questi elementi nuovi introdotti nel romanzo non piacquero subito da principio; le analisi filosofiche, le pitture minuziose dei caratteri, le descrizioni di una meticolosità che sembra presagire l’avvenire, erano considerate lungaggini fastidiose, e molto spesso venivano sorvolate per seguire la favola. Più tardi si riconobbe che lo scopo dell’autore non era quello di tessere trame più o meno ben intrecciate, ma di ritrarre la società nel suo complesso dal vertice alla base, con le sue persone e i suoi beni, e si ammirò l’immensa varietà dei suoi caratteri. Alexandre Dumas non diceva di Shakespeare che era «l’uomo che ha più creato dopo Iddio»?; la frase sarebbe più esatta se riferita a Balzac; mai infatti tante creature vive scaturirono da cervello umano.

  Dopo questo periodo (1836), Balzac aveva concepito il piano della Comédie. humaine e possedeva la piena coscienza del proprio genio; abilmente collegando le opere già apparse ai suoi concetti fondamentali, le collocò in categorie tracciate con intento filosofico. Alcune novelle di pura fantasia non vi si adattano troppo bene, nonostante gli addentellati aggiunti in un secondo tempo; ma questi sono particolari che si perdono nell’immensità dell’insieme, come in un edificio grandioso ornamenti di uno stile diverso.

 

  pp. 78-81.

 

  Non era ancora stata ben capita la grande idea dell’autore della Comédie humaine: ritrarre la società moderna e fare su Parigi e sulla nostra epoca quel libro che nessuna civiltà antica ci ha sfortunatamente lasciato. L’edizione complessiva della Comédie humaine, raccogliendo tutte le sue opere sparse, ha messo in evidenza l’intento filosofico dello scrittore. A datare da quel tempo, Balzac crebbe considerevolmente nella stima universale, e si cessò infine di considerarlo “il più fecondo del nostri romanzieri”, definizione stereotipata che l’irritava come quell’altra di: “l’autore di Eugénie Grandet”.

  Sono state fatte numerose critiche su Balzac e s’è parlato di lui in tante maniere, ma non s’è insistito abbastanza sopra un punto a mio avviso assai caratteristico: questo punto è la modernità assoluta del suo genio. Balzac non deve nulla all’antichità; per lui non ci sono né greci né romani, ed egli non ha bisogno di gridare di esserne liberato. Non si incontra nell’opera del suo ingegno alcuna traccia d’Omero, di Virgilio, d’Orazio, neppure del De viris illustribus; nessuno mai è stato meno classico di lui.

  Balzac, come Gavarni, ha visto i suoi contemporanei; e nell’arte, la massima difficoltà consiste nel ritrarre quel che si ha dinanzi agli occhi; si può vivere la propria epoca senza accorgersene, e questo hanno fatto molti intelletti superiori.

  Essere del proprio tempo: nulla pare più semplice eppur nulla è più arduo! Non portare lenti né azzurre né verdi, pensare col proprio cervello, servirsi della lingua attuale, non imbastire centoni con le frasi degli scrittori precedenti! Balzac possedette un tal raro merito. I secoli hanno la loro prospettiva e il loro sfondo; a distanza le grandi masse si staccano, le linee si definiscono, i particolari mutevoli scompaiono: con l’aiuto dei ricordi classici, dei nomi armonici dell'antichità, l’ultimo dei rètori farà una tragedia, un poema, uno studio storico. Ma trovarsi nella folla, gomito a gomito, e coglierne gli aspetti, intenderne le correnti, discernere le individualità, disegnare le fisionomie di tante creature diverse, mostrare i motivi del loro operare: tutto questo richiede un genio particolare, e questo genio l’autore della Comédie humaine l’ebbe in così alto grado che nessuno l’ha eguagliato né probabilmente l’eguaglierà mai.

  Tale profonda comprensione delle cose moderne, bisogna dirlo, rendeva Balzac poco sensibile alla bellezza plastica. Leggeva con occhio negligente le bianche strofe di marmo dove l’arte greca cantò la perfezione della forma umana. Nel Museo delle antichità, egli rimirava la Venere di Milo senza grande rapimento; ma la parigina ferma davanti all’immortale statua e ammantata nel lungo casimiro che cadeva senza pieghe dalla nuca ai piedi, coperta da un cappello con veletta di Chantilly, munita di stretti guanti Jouvin, mentre spinge a far capolino sotto l’orlo dell’abito a balze la punta verniciata dello stivaletto guarnito, gli faceva brillare gli occhi di piacere. Egli analizzava quel portamento civettuolo, ammirava a lungo quella grazia sapiente, osservando come lei che la dea era di corporatura piuttosto pesante, e che non farebbe bella figura accanto a signore come la Beauséant, la Lislomère o la d’Espard. La bellezza ideale, con le sue linee serene e pure, era troppo semplice, fredda e uniforme, per questo genio complesso, esuberante e vario. – Dice, non so dove: «Bisogna essere Raffaello per fare molte Vergini». – Il carattere gli piaceva più dello stile, e preferiva la fisionomia alla bellezza. Nei suoi ritratti femminili, non tralascia mai di mettere un segno, una piega, una grinza, una macchia rosea, un angolo afflosciato e stanco, una vena troppo visibile, qualche particolare indicante le sofferenze della vita, che un poeta tracciando la stessa immagine avrebbe certamente soppresso, a torto senza dubbio.

  Io non ho per nulla l’intenzione di criticare in questo Balzac. Tale difetto è la sua principale qualità. Egli non accolse nulla dalle mitologie e dalle tradizioni del passato, e non conobbe, fortunatamente per noi, l’ideale fatto coi versi dei poeti, coi marmi della Grecia e di Roma, coi quadri del Rinascimento, ideale che si interpone fra gli occhi degli artisti e la realtà. Egli amò la donna dei nostri giorni così com’è, non già una pallida statua; l’amò nelle sue virtù, nei suoi vizi, nei suoi capricci, nei suoi scialli, abiti, cappelli, e la seguì lungo la strada della vita, oltre il termine in cui l’amore l’abbandona. Ne prolungò la giovinezza di parecchie stagioni, le cambiò in primavera l’estate di San Martino e ne indorò il tramonto coi più splendidi raggi. Si è tanto classici in Francia, che non ci si è accorti da duemila anni in qua, che le rose nel nostro clima non fioriscono in aprile come nelle descrizioni dei poeti antichi, ma in giugno; e che le nostre donne cominciano a essere belle all’età in cui quelle della Grecia, più precoci, cessavano di esserlo. Queste figure incantevoli ha immaginate o ritratte; la signora Firmiani, la duchessa de Maufrigneuse, la principessa de Cadignan, la signora de Mortsauf, lady Dudley, la duchessa de Langeais, la signora Jules, Modeste Mignon, Diane de Chaulieu, senza contare le borghesi, le sartine, e le signore dalle camelie del suo mondo.

  E quanto amava e conosceva la Parigi moderna, di cui a quell’epoca gli amatori del colore locale e del pittoresco apprezzavano così poco la bellezza! Egli la percorreva in ogni senso di notte e di giorno; non c’era viuzza appartata, passaggio malsano, strada angusta, melmosa e buia, che non diventasse sotto la sua penna un’acquaforte degna di Rembrandt, piena di tenebre formicolanti e misteriose in cui brilla una tremolante stella di luce. Ricchezze e miserie, gioie e dolori, infamie e glorie, gentilezze e brutture, tutto egli sapeva della sua prediletta città, che era per lui un mostro enorme, ibrido, formidabile, un polipo dai centomila tentacoli, che egli sentiva e guardava vivere, e che formava ai suoi occhi come un’immensa individualità. Vedete in proposito le mirabili pagine poste all’inizio della Fille aux yeux d’or, nelle quali Balzac, usurpando l’arte del musicista, ha voluto, come in una sinfonia a grande orchestra, far cantare insieme tutte le voci, tutti i singhiozzi, tutte le grida, tutti i rumori e gli stridori di Parigi al lavoro!

  Da questa modernità sulla quale insisto deliberatamente derivava, senza che egli lo sospettasse, la difficoltà di lavoro che Balzac provava nell’adempiere la sua opera: la lingua francese, purificata dai classici del diciassettesimo secolo, quando la si vuole adoperare conformemente alle sue possibilità, è idonea solo ad esprimere concetti generali e a dipingere figure convenzionali in un ambiente indefinibile. Per esprimere la molteplicità di particolari, di caratteri, di tipi, di architetture, di arredamenti, Balzac fu costretto a formarsi una lingua speciale, composta di tutte le tecnologie, di tutti i gerghi della scienza, dell’officina, del palcoscenico, perfino dell’anfiteatro. Ogni parola che esprimesse qualche cosa di nuovo era ben accolla, e la frase, per farle posto, apriva un inciso, una parentesi, e indulgeva alla prolissità. Il che ha fatto dire ai critici superficiali che Balzac non sapeva scrivere. Egli aveva, benché non lo credesse, uno stile, e un bellissimo stile: lo stile necessario, fatale e matematico del suo pensiero!

 

  pp. 83-85. Balzac dunque ha creato più di quanto non abbia visto. Le sue rare doti di analista, di fisiologo, di anatomista, hanno in lui solamente aiutato il poeta, allo stesso modo che un preparatore assiste il professore in cattedra porgendogli le sostanze di cui ha bisogno per le sue dimostrazioni.

  Forse qui è il momento di definire la verità come l’ha compresa Balzac; in quest’epoca di realismo, è bene intenderci su questo punto. Il vero dell’arte non è quello della natura; ogni oggetto reso per mezzo dell’arte contiene necessariamente una parte convenzionale: riducetela piccola quanto volete, essa c’è sempre, non foss’altro la prospettiva in pittura, la lingua in letteratura. Balzac accentua, ingrandisce, gonfia, sfronda, amplia, ombreggia, rischiara, allontana o ravvicina gli uomini o le cose, secondo l’effetto che vuol ottenere. È un vero, indubbiamente, ma con gli ampliamenti e le soppressioni dell’arte. Egli appresta fondi scuri e spalmati di bitume ai volti luminosi, colloca sfondi chiari dietro volti bruni. Come Rembrandt, applica convenientemente la goccia di luce sulla fronte o sul naso del personaggio; talvolta, nella descrizione ottiene effetti fantastici e bizzarri, collocando senza dir nulla un microscopio sotto l’occhio del lettore: i particolari si rivelano allora con una nitidezza sovrannaturale, una minuziosità esagerata, ingrandimenti incomprensibili e tremendi; i tessuti, le squame, i pori, le villosità, le pustolette, le fibre, i filamenti capillari prendono importanza enorme, e d’un volto insignificante ad occhio nudo fanno una specie di mascherone chimerico, divertente come le maschere scolpite sotto la cornice del Pont-Neuf e vermicolate dal tempo. I caratteri sono così sviluppati a oltranza, come si conviene ai tipi: se il harone Hulot è un libertino, personifica inoltre la lussuria: è un uomo e un vizio, un individuo e un’astrazione: egli assomma in sé tutti gli elementi sparsi del carattere. Dove uno scrittore di minore ingegno avrebbe fatto un ritratto, Balzac ha fatto una figura. Gli uomini non hanno tanti muscoli quanti Michelangelo ne scolpisce per dare il senso della forza. Balzac è ricco di queste esagerazioni utili, di pennellate scure che alimentano e rafforzano i contorni: immagina copiando, alla maniera dei maestri, e imprime il suo tocco ad ogni cosa. Poiché non una critica letteraria ma uno studio biografico io sto qui facendo, non spingerò più oltre queste osservazioni, che mi basta accennare. Balzac, che la scuola realista sembra voglia rivendicare a sé come maestro, non ha con essa alcun legame di princìpi. [...].

  Mai Balzac raggiunse, strinse più da vicino la bellezza ideale come in questo libro [Séraphîta]: l’ascensione sul monte ha qualcosa di etereo, soprannaturale, luminoso che vi solleva da terra. I soli due colori adoperati sono il blu cielo e il bianco neve, con pochi toni madreperlacei per le ombre. Non conosco nulla di più inebriante di quel principio. Il panorama della Norvegia, frastagliata dai suoi fiordi e vista da tale altezza, abbaglia e dà le vertigini.

  Anche il Louis Lambert risente della lettura di Swedenborg; ma Balzac che aveva preso a prestito le ali di aquila dai mistici per volare nell’infinito, non tardò a ridiscendere sulla terra dove noi stiamo, benché i suoi polmoni robusti potessero respirare indefinitamente l’aria rarefatta, fatale ai deboli: egli abbandonò il soprannaturale dopo questo slancio e rientrò nella vita reale. Forse, il suo grande genio si sarebbe allontanato troppo presto dalla nostra vista se avesse continuato a innalzarsi verso le imperscrutabili immensità della metafisica, e dobbiamo considerare una fortuna che egli si sia limitato a Louis Lambert e a Séraphita-Séraphitus, che rappresentano a sufficienza nella Comédie humaine l’elemento soprannaturale e aprono una porta assai ampia sul mondo invisibile.

 

  pp. 99-100.

 

  La posterità per Balzac è cominciata; ogni giorno egli sembra più grande. Quand’egli si trovava in mezzo ai suoi contemporanei, lo si giudicava male, non lo si vedeva che frammentariamente sotto aspetti a volte sfavorevoli: ora l’edificio da lui costruito s’innalza di mano in mano che ce ne allontaniamo, come la cattedrale d’una città cui le case vicine nascondano e che all’orizzonte si staglia immensa al disopra dei tetti appiattiti. Il monumento non è compiuto, ma così com’è sbigottisce per la sua vastità, e le generazioni si chiederanno sorprese chi sia il titano che ha sollevato da solo quei blocchi formidabili e ha drizzato così alta questa Babele dove rumoreggia tutta una società.

  Sebbene morto, Balzac ha nondimeno ancora detrattori; si offende la sua memoria con la volgare accusa d’immoralità, ultima ingiuria della mediocrità impotente e gelosa, o peggio della vera stoltezza. L’autore della Comédie humaine non solo non è immorale, ma è addirittura un severo moralista. Monarchico e cattolico, difende l’autorità, esalta la religione, predica il dovere, corregge la passione, e non ammette la felicità che nel matrimonio e nella famiglia.

  «L’uomo», egli dice, «non è né buono né cattivo; nasce con istinti e inclinazioni; la società, lungi dal corromperlo, come ha sostenuto Rousseau, lo perfeziona, lo rende migliore; ma l’interesse sviluppa anche le sue tendenze cattive. Il cristianesimo, e soprattutto il cattolicesimo, essendo, come ho detto nel Médecin de campagne, un sistema completo di repressione delle tendenze perverse dell’uomo, è il più grande elemento dell'ordine sociale».

  E con un’ingenuità che si addice a un grand’uomo, prevedendo l’accusa d’immoralità che gli rivolgeranno gli spiriti malevoli, enumera le figure irreprensibilmente virtuose che si trovano nella Comédie humaine: Pierrette Lorrain, Ursule Mirouët, Constance Birotteau, la Fosseuse, Eugénie Grandet, Marguerite Claës, Pauline de Villenoix, la signora Jules, la signora de la Chanterie, Ève Chardon, la signorina d’Esgrignon, la signora Firmiani, Agathe Rouget, Renée de Maucombe, senza contare fra gli uomini Joseph Le Bas, Genestas, Benassis, il curato Bonnet, il medico Minoret, Pillerault, David Séchard, i due Birotteau, il curato Chaperon, il giudice Popinot, Bourgeat, i Sauviat, i Tascheron, eccetera.

  Figure di bricconi non ne mancano, è vero, nella Comédie humaine. Ma Parigi è forse popolata esclusivamente d’angeli?

 

 

  Cesare Giardini, Più impressionante oggi che un secolo fa un libro di viaggi in Russia. Amano la loro situazione di schiavi e non sono in grado di concepirne altra, «La Provincia. Quotidiano indipendente d’informazione», Cremona, Anno VI, N. 194, 15 Agosto 1952, p. 3.

 

  Quando, nel 1843, nella speranza di realizzare il suo lungo sogno di sistemazione coniugale a fianco della contessa Hanska, Balzac si recò a Pietroburgo, trovò la buona società della capitale russa molto emozionata per la apparizione, avvenuta da poco a Parigi, di un libro scritto da un francese che aveva visitata la Russia quattro anni prima e che veniva unanimamente definito un libello. La principessa Razumovska scrisse infatti alla contessa Hanska: «Ho appreso ieri dall’imperatore l’arrivo dello scrittore che secondo me ha meglio di qualunque altro compreso e dipinto il cuore della donna. Non è, per fortuna, un viaggiatore curioso che viene per descrivere il paese in forma di libello, ma il pittore della donna ideale che viene a ritemprare il suo genio al contatto della realtà».

  Il libello in questione era un libro assai serio — il più acuto e intelligente che fosse stato mai scritto su un impero che costituiva ancora un enigma per l’Europa — e ne era autore il marchese Astolfo de Custine che, recatosi in Russia nel 1839 «per cercarci motivi contro il regime rappresentativo», ne era tornato «partigiano delle costituzioni». Durante la permanenza di Balzac a Pietroburgo, corse voce che lo zar avesse offerta al grande scrittore una grossa somma per indurlo a scrivere una confutazione del libro del de Custine, e ciò basta per farci capire sino a che punto l’opera in questione, intitolata La Russie en 1839, di cui si fecero varie ristampe nel giro di pochi anni avesse irritati gli ambienti ufficiali russi. [...].

  Egli considerava il regime assolutistico russo come il più adatto alla prosperità di un grande paese, e per quanto riguarda Nicola I, avrebbe certamente sottoscritto la definizione che dell’autocrate doveva dare Balzac qualche anno dopo in una lettera alla contessa Hanska: “le seul souverain dans la acception du terme, c’est-à-dire maître et gouvernat (sic) par lui-même”. Due mesi d’esperienza russa furono sufficienti per mutare radicalmente le sue opinioni: nell’ultima delle lettere che compongono il suo libro, egli rivolge questo consiglio all’ipotetico destinatario (ed è questa, tutto sommato, la morale dell’opera): «Quando vostro figlio sarà malcontento della Francia, ditegli di andare in Russia. E’ un viaggio utile per qualunque straniero; chiunque avrà visto bene questo paese, si troverà contento di vivere in qualsiasi altro luogo. E’ sempre bene sapere che esiste una società nella quale nessuna felicità è possibile, giacché, per legge di natura, l’uomo non può essere felice senza la libertà».

 

 

  Dott. Mariano Giurlanda, Vade Mecum del Dovere (Raccolta di massime e sentenze patriottiche e morali), Roma, Presso l’autore: Dott. Mariano Giurlanda, s. d. [1952].

 

L’Uomo nella vita e nella società. La bontà.

 

  p. 50. La carità si forma nel Cielo quel tesoro che la avarizia forma sulla terra. Balzac.

 

 

  Luigi Huetter, Balzac e l’apologia dei Gesuiti, «L’Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, N. 101, 28-29 Aprile 1952, p. 3.

 

  Sorprenderò, nelle vetrine delle librarie cattoliche, un volume di chi scrisse quei tanti della Comédie humaine, non è caso che capiti ogni giorno. Eppure si verificò allorché, recati in veste italiana da Giovanni Morsani, uscirono I gesuiti dell’autor francese.

  Onorato Balzac buttò giù l’Histoire impartiale des jésuites nell’aprile del 1824, contando appena ventisei anni. Scarsa dunque «aetatem habebat». E tuttavia già nel 1822, con i successivi pseudonimi di Horace de Saint Aubin, di Villergré (sic) e di Lord R’hoone, gli era caduta dalla penna mezza dozzina di romanzi: Les deux Hector, La (sic) centenaire, Charles Pointel, L’hértier de Berangère (sic), Le tartare ou le retour de l’exilé, Clotilde da Lusignan. L’anno dopo era la volta di La dernère fée, di Marie et Christine, di L’anonyme.[1] Nel ‘24 rifuso usciva Annette et l’assassin (sic); in tutto, nel periodo 1822-26, e sotto finti nomi, riuscì a pubblicare una quarantina di volumi. Il primo libro firmato, Le dernier Chouan, risale al ’29. Se a questo già pesante battaglio cartaceo al aggiungano due «pièces de théâtre», i Contes drolatiques ed i novantuno, salvo errore, romanzi che costituiscono la Comédie — colpiti anch’essi dai quattro decreti della Congregazione dell’Indice (16 settembre 1841, 28 gennaio e 5 aprile 1842, 20 giugno 1864) riguardanti «Honoré de Balzac: Omnes fabulae amatoriae» — ci si stupisce della mole di lavoro compiuto nel corso d’una vita che di pochi mesi superò il mezzo secolo.

  L’opuscolo sui gesuiti, accolto altresì nell’edizione definitiva delle opere, ebbe al suo apparire poca diffusione. Una ristampa a parte con ritratto del preposito federale P. Bechx no fece moltissimi anni dopo a Parigi il Calmann-Lévy, in occasione dei famigerati decreti di proscrizione del 1880, ad uso di chi volesse conoscer l’opinione «d’un écrivain aussi éminent» su quello che fu attraverso i secoli «la puissante Compagnie de Jésus». L’editore magnificava la vivace operetta balzachiana proclamandola un lavoro letterario di primissimo ordine ed insieme un interessante documento di storia politica ottocentesca. Noi tralasceremo la prima affermazione per occuparci brevemente della seconda.

  Riassumiamo in poche parole gli intenti dello scritto, esposti da Balzac «in limine libri». La narrazione, egli dice, non rivolge a nessun partito od opinione particolare, bensì a quanti han retto giudizio e sensi di giustizia naturale. Ciò che l’autore chiede ai suoi giudici è di rinunciare a prevenzioni ostili o favorevoli, di formarsi una opinione propria senza adottarne di fatte, d’ascoltar la propria coscienza disprezzando il pregiudizio, di ricordare che gli elementi di questa storia provengono da scritti che spirito d’intolleranza e di partito scagliarono contro i gesuiti. Se dal complesso dei fatti riferiti dai nemici della Compagnia s’intesse una storia tutta a vantaggio di lei, egli avrà assolto il proprio compito. Presenterò pertanto tali fatti nella loro semplicità; sua eloquenza sarà la buona fede e, basandosi sempre su prove evidenti, il suo lavoro farà udire alle anime virtuose il grido dell’innocenza e la voce della ragione.

  Già il semplice fatto che un Balzac — non gesuita, nemmeno «in abito corto», ma superiore d’altronde di almeno cento cubiti ad un Crétineau-Joly — sentisse lo stimolo impellente di levarsi a difender con la parola scritta l’intrepida milizia di sant’Ignazio, è un indice parecchio significativo. Il momento, poi, scelto per farla (si trattava nientemeno del mantenerla a meno in Francia, di dove fu bandita cinque anni appresso), circonda d’un alone di luce molto simpatica tale difesa.

  Dovremmo anzi definirla senz’altro una apologia vera e propria — poiché ne riveste tutt’i caratteri — esuberante da quanto lo era il temperamento pletorico dell’inesauribile romanzatore di Tours. Io questo breve peccato «iuventutis suae» egli rassomiglia sotto vari spetti un ferrato paladino il quale faccia generosamente usbergo del proprio corpo e delle proprie armi a qualche canuto sire presso ad essere sbalzato di sella e che, saldo in arcione sopra il leardo, egli piombi nel folto della mischia menando a tondo la ben temprata spada.

  La quale, simile al brando d’un eroe di messer Lodovico, «non riguarda nè al servo nè al signore, — nè al giusto ha più pietà che al peccatore». Se v’è, infatti, da scagionare gl’ignaziani da viete accuse o da calunnie tanto atroci quanto insostenibili, egli non esita a trovar altre spalle su cui scaricarne il greve pondo, ad affermare che altri enti oppure altri individui han fatto di più e di peggio di quanto veniva attribuito ai figli del Lojola. Ed è qui che si avverte il difetto capitale del suo «pamphlet»,

  Prendiamo ad esempio la dottrina, e il fatto dell’uccisione dei re. Narrando il delitto di Jacques Clément, egli fa risaltare che l’ordine cui questi appartenne era il più temuto ed influente della Spagna, e che i suoi membri eran nemici dei gesuiti ed agenti in Francia di Filippo II. Il Papa (è sempre Balzac che parla) approvò quell’uccisione: soli fra tutti gli Ordini religiosi, i gesuiti serbarono un profondo silenzio. E’ da allora che data l’avversione di Sisto V per essi. L'Ordine più ardito nel sostenere il regicidio era quello che dichiarò Filippo II reo verso l’Inquisizione a non gli risparmiò il supplizio se non quando il sovrano consentì a versare per espiazione alcune gocce del proprio sangue ...

  Sono, si capisce, asserzioni che vanno accolte col massimo beneficio d’inventario: certune, poi, si riducono in panzana da raccattar con le molle. Né faccia maraviglia se altre difese poggiano su mere ragioni di convenienza. Ci si potrebbe attendere dallo scrittore turonense la documentazione severa e apodittica, putacaso, di un Dühr?

  Se il tirannicidio fosse lecito, vorremmo praticarlo contro quello spietato tiranno dello spazio il quale ci tira per le maniche dal saio. E sì che il signor di Balzac affastella, in un centinaio e poco più di facciate materia da cento volumi. Delinea istituzioni e progressi della Compagnia; l’accompagna in Francia, tra lotte diuturne con parlamenti, università e giansenisti; discorro del P. Lavallette, del Paraguay e d’altro ancora; riporta il lungo breve clementino di soppressione Dominus ac Redemptor (che però chiama spesso o volentieri «bolla») non che la piana costituzione restauratrice Sollicitudo omnium ecclesiarum (dove ricade nell’identico errore). Quindi rintuzza i contemporanei avversari della Compagnia, tutt’intesi a sbandirla dal regno gallico, chiudendo con infiammate apostrofi e ardenti perorazioni.

  Quale saggio del suo argomentare si vegga, per esempio, com’egli trovi conferma della squisita carità ignaziana persino in quello famose «riduzioni» paraguaiane a cagion delle quali la Compagnia soffrì inaudite calunnie:«S’è mai data al mondo prova più bella che la religione cristiana, se osservata fedelmente, conduce uno Stato alla felicità? Chi non ha trasalito di compiaciuta gioia alle incantevoli descrizioni di quest’Eden? E chi può dimenticare le scene commoventi e ormai leggendarie dell’ordine, dell’unione, della regolarità che in esso regnavano? Giammai uomo s’è maggiormente conciliato l’amore d’altri uomini? Quale spettacolo emozionante, quello offerto da sacerdoti che traversano le vergini foreste d’un mondo novello per riunire i nomadi, civilizzarli, far loro assaporare le gioie celesti della religione e della preghiera!

  «Li vediamo, in mezzo a selve primordiali, lottar con le belve feroci, vincere ogni ostacolo sotto l’egida della croce. Un arcano ideale sorride a questi Padri che lasciano ai rami brandelli delle proprie vesti, si dissetano in ruscelli ignoti, mangiano radici e frutti selvatici, e predicano, con gesti e canni compresi dal cuore, una dottrina la quale favella soltanto d’amore e di concordia. Gl’ingenui, soavi quadri che riproducono tali predicazioni nel deserto, le nascenti capanne, tutt’una società in cuna, si stampano nella memoria come ricordi d’infanzia serbami una freschezza divina, e nei missionari fan venerare insieme gli apostoli e i legislatori. E perché questi grandi uomini ignorati, questi Padri buoni e semplici scalavano montagne, guadavano fiumi, pativano fame e fatica? Forse per un pugno d’oro o per sete di potere? Sarebbe stata cosa assai strana che per acquistare beni tanto labili si procurassero pene assai più numerose delle scarse sodisfazioni che ne potevano cogliere ... La felicità degli uomini e il vantaggio di coloro cui essi facevano gustare i frutti della civiltà, ecco il fine al quale tendevano i loro sforzi».

  Il signor di Balzac concludeva: «I gesuiti han tramandato ai popoli un bell’esempio di grandezza virtuosa, hanno inserito un consolante episodio d’umanità nella storia del Nuovo Mondo». Parole che valgono il centuplo dei frizzi, dei sarcasmi e di altre spiritose invenzioni affastellate contro «los Padres» nel suo Candide dal signor di Voltaire.

  A quanto dunque si può arguire dal poco che se n’è detto, il libro del paffuto Onorato non va preso tutto quanto per vangelo. Di ciò che la sua penna innegabilmente brillante v’ha profuso, buona parte manca di esattezza e d’equanimità. L’edizione italiana non doveva perciò presentarsi sprovvista di note che additassero le frequenti storture e mettessero in guardia contro i passi falsi.

  In cospetto di questa fatica del non richiesto difensore — colmo raso delle migliori intenzioni ma incapace di mandarle ad effetto senza snocciolare ogni tanto spropositi d’ogni calibro — debbono per primi aver sorriso con l’abituale loro finezza i buoni padri gesuiti. Ben altro senso di misura, e di gusto dimostrarono i loro sodali de Ravignan e Boero avverso il Theiner, come il Pellico e il Curci contro il Gioberti. (Senza dire che il filogesuitismo balzachiano fu un fuoco di paglia. Così, in Béatrix e in Modeste Mignon, che risalgono rispettivamente al ’38 e al ’44, s’incontrano frasi («tutte le passioni hanno il proprio gesuitismo», «disse gesuiticamente il colonnello») le quali non sarebbero sfuggite alla penna dello scrittore di quattordici o di vent’anni prima.

  Ma Balzac ero uso a spararle grosse. Nella prefazione della Comédie arrivò al punto di dire ch’egli scriveva «al lume di due verità eterne: la Religione e la Monarchia». E come questo fosse poco vero, almeno nei riguardi della prima, non ha bisogno d’esser dimostrato.



 Pier Carlo Landucci, Il Mistero dell’anima umana, Assisi, Edizioni Pro Civitate Christiana, 1952.

 

 Citiamo dalla terza edizione pubblicata nel 1959.

 

 p. 190. Onorato de Balzac (1799-1850), il vertiginoso scrittore dei 97 romanzi della «Commedia umana», ritenuto il fondatore del romanzo realista, mentre deforma la realtà presentando quasi sempre il solo aspetto basso ed egoista del cuore umano, cinicamente descritto senza luce elevatrice alcuna, il narratore, serrato nel più soffocante pessimismo (che non riesce a dischiudersi efficacemente e pienamente nemmeno nell’ultimo volume1 che tentava di portare un po’ di luce nel torbido mondo dei suoi 5000 personaggi), pretendeva però di scrivere a servizio dei più luminosi ideali religioso, sociali e politici dei suoi tempi: «Io scrivo alla luce di due verità eterne: la religione e la monarchia»2.

 

 1 Il rovescio della storia contemporanea (1846). Anche in Eugenia Grandet (1833), la nobile e dolce protagonista pessimisticamente viene fatta abbandonare da tutti e lasciata solitaria.

 2 Prefazione generale alla Commedia umana.

 

 

  Vittorio Lugli, Dante e Balzac, in Dante e Balzac (con altri italiani e francesi), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1952 («Collana di saggi diretta da Giovanni Macchia», XI), pp. 11-37.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit, pp. 563-564.

 

  p. 11. Nel suo Journal d’un poète Alfred de Vigny annota, il 1842: «Une des choses curieuses de notre époque, c’est l’orgueil des prétentions littéraires démesurées. L’un appelle son livre: La Divine Épopée; l’autre, La Comédie Humaine» (1). Così lontane l’una dall’altra le due opere — la squallida epopea cristiana di Alexandre Soumet e la superba creazione romanzesca la quale appunto in quell’anno, insieme col titolo, aveva la sua linea, la sua figura — possono tuttavia ricordarsi unite a significare il colmo della fortuna di Dante in Francia. Qui, nell’età romantica, il Poeta nostro ebbe la sua non lunga stagione, e Balzac sembra suggellarla tributando alla Divina Commedia il più alto omaggio con quel titolo che l’opera nuova porta degnamente, non oppressa dall’arduo ricordo. [...].

  pp. 23-37. Anche Balzac ha notato la mancanza del grande poema, la «glorieuse épopée» sempre attesa in Francia, e certo la pensava costretta dalla melodiosa misura, «entre les mains d’un de nos poètes» (12). La vasta opera che egli veniva componendo non poteva dunque interamente riempire tale difetto e tale desiderio. Ma nasceva anch’essa da quell’ansia, da quell’ambizione romantica di tentare i nuovi, arditi voli, di uscire dai sentieri obbligati e sicuri, di adeguare la poesia, la letteratura, alla libera, illimitata vita dello spirito. E Balzac ha recato a compimento l’opera sua, mentre De Vigny lasciava appenna (sic) accennato il suo Satan sauvé, e Lamartine gli episodi che stanno fra la Chute d’un Ange e Jocelyn. Le lacune che sono nella Comédie Humaine, i libri indicati solo col titolo, le danno un senso di esistenza più fervida, che pare si continui, si espanda oltre le linee finite, entro lo schema sicuro. Una robusta unità lega le parti diverse, lontane: unità — l’ha osservato Marcel Proust (13) — vitale e non logica, non preordinata, fittizia, più reale per essersi rivelata lungo il cammino, apparsa in un momento di entusiasmo come una illuminazione.

  Lo scrittore tende subito alla costruzione ampia, saldamente organica, senza tuttavia sapere quale aspetto assumerà l’opera che egli vagamente sogna una ed unica. Non ha un modello, un maestro cui riferirsi. Pensa con ammirata passione allo Scott, ma per fare diverso e meglio, dando uno scopo alla osservazione ed alla pittura, attraverso un’idea, un sistema: «Il ne suffit pas d’être un homme, il faut être un système ... il s’agit donc d’être, dans un autre ordre d’idée, Walter Scott plus un architecte». Appena uscito dalla produzione confusa, affrettata, forzata quasi, della prima giovinezza, avendo rinvenuta la sua via con Les Chouans (1829), non dà più semplici racconti, storie diverse, pel facile diletto dei lettori, ma pitture continuate: Scènes de la vie privée, poi Scènes de la vie de province, Scènes de la vie parisienne.

  Ha cercato entro l’esistenza della Capitale, dai recessi più oscuri ed equivoci (Histoire des Treize) salendo a rivelare i drammi secreti, insospettati della composta borghesia, le tragedie del denaro, la passione usuraia di Gobseck; in provincia ha incontrato il candido Curé de Tours, Eugenia Grandet e il suo terribile padre, mille casi patetici dell’umile quotidiana realtà. Anche ha detto il solo rimedio all’ineffabile disordine dell’età presente, in quella specie di «vangelo in azione» che vuol essere Le médecin de campagne. Poi è andato ben oltre la sensibile realtà, ha indagato il mistero nascosto sotto le comuni apparenze: mirabili casi di telepatia (Le Réquisitionnaire), patti quasi diabolici, faustiani (La peau de chagrin), la legge di natura quasi sospesa nell’Élixir de longue vie, artisti che cercano l’impossibile perfezione nel Chef-d’oeuvre inconnu, l’alchimista che vuole strappare il suo segreto alla natura nella Recherche de l’absolu. Dalla tragedia senza nome del Père Goriot, entro l’amara bolgia parigina, l’autore salirà fino a tentare il mistero angelico, in Séraphîta. Insieme con questi racconti, anzi «studi filosofici», ha dato l’analisi della «Physiologie du mariage».

  Così, fra il ‘34 e il ‘35. già si mostrava l’immensa cerchia del mondo balzacchiano, quando già nel Goriot ne aveva indicato l’unità nel modo più manifesto, coi personaggi che tornano da un libro all’altro: l’idea che lo scrittore aveva trionfalmente annunciato nel ‘33 alla sorella («Je serai un homme de génie»). Ora può affermare la novità dell’opera, mentre riunisce tutte le «Scene» nelle Études des moeurs au XIXe siècle (1834-37) integrate dalle Études philosophiques, cui dovranno seguire, a conchiusione, le Études analytiques, che solo più tardi si aggiungeranno.

  E la doppia introduzione, per le due prime raccolte, scritta da Félix Davin (14), evidente portavoce dell’autore, presenta già fissato — otto anni prima della Comédie Humaine — il disegno dell’opera singolare. Anzi tutto la rappresentazione della società «nei suoi effetti»: le Études des moeurs, distinte in sei parti, le tre prime riguardanti l’individuo (le Scene della vita privata, provinciale e parigina), la quarta e la quinta (Scene della vita politica e militare) che hanno per oggetto la società, le masse, e infine una sesta a conclusione, le calme pitture della vita di campagna. Poi gli Studi filosofici volti a constatare «le cause»; da ultimo gli Analitici approfondiranno «i principi».

  La rappresentazione forma la maggior parte dell’opera; è la vasta base su cui posa il lavoro più ristretto, condensato, degli studi filosofici (anche più brevi saranno gli analitici). La sproporzione è solo apparente: le tre parti sono in uno stesso modo necessarie, e la prima — imponente — non avrebbe la sua ragione profonda, nuova, senza le altre due. Così legate, che l’autore non sente bisogno di un titolo che le raccolga, o non lo sente dapprima. Storico («un historien qui restera» lo dice Félix Davin; «l’historien des moeurs du XIXe siècle» egli si definisce, mentre chiama l’opera «cette grande histoire de l’homme et de la société»), col triplice nome ha indicato il suo intento, l’oggetto triplice ed uno della vasta ricerca. Nessun accenno ad un titolo complessivo; pure Félix Davin ricorda quello che un poète ingénieux dava per conto suo all’opera: Les mille et une nuits de l’Occident. E Balzac — cioè il suo portavoce — non rifiuta, non condanna la suggestiva denominazione, ma osserva come i suoi non siano solamente racconti, tanti brani diversi in sè poetici e veri, poiché tutti si uniscono a produrre una totale visione della vita: «speculum mundi». Queste nuove, occidentali Mille e una notte (anche Proust pensava ai Racconti arabi per caratterizzare il suo libro) hanno un senso che manca al libro di Sheherazade.

  Un altro nome pare suggerisse, nel febbraio del ‘35, l’inglese Henry Reeve, cui Balzac, «grande ma ateo», aveva esposto il piano del suo gran lavoro: La Diabolica Commedia. Quasi parodiando la Divina Commedia di Dante, poiché questa moderna Commedia è «tutta diabolica» (15), pensa l’Inglese. Anche il Reeve, pure ammirando, è di quelli che nelle «Scene» di Balzac vede solo il lato demoniaco, la depravazione, la infinita miseria di una trista, perduta umanità. E già il Davin rispondeva, come ha poi fatto tante volte il romanziere, ricordando il gran numero di personaggi virtuosi, creature elette che pur s’incontrano nelle «Scene» e negli «Studi»: che se le umane passioni urgono, si addensano nell’opera come le fantastiche figure di uomini ed animali all’esterno della gran cattedrale, all’interno, rischiarate da luci divine, raggiano le pure bellezze dell’altare. E ciò meglio apparirà quando sia compiuta la costruzione. Sorta da tutte le miserie terrene, fatta «li esse, l’opera tende al cielo. Come una cattedrale (16), e mai avrebbe potuto chiamarsi diabolica. Balzac non avrebbe mai pensato di parodiare Dante, foss’anche solo nel titolo.

  Un maestro sommo, cui egli ha sempre guardato con ammirazione tranquilla, senza sgomento, senza contrita umiltà — l’attitudine del resto che egli mostra davanti ai più grandi. I ricordi, le citazioni dal Poema, in Balzac, sono spesso le più comuni, del tutto ovvie nell’età romantica e dantesca. Il «Lasciate ogni speranza ...» già si trova, il 1822, nella Clotilde de Lusignan, e in Wann-Chlore (1825) il «Quali colombe ...» (17). Così tornano Paolo e Francesca, e Beatrice. «Certes, elle aimait comme Laure de Noves aimait Pétrarque, et non comme Francesca da Rimini aimait Paolo» (18) è detto nel Lys dans la vallée; in Béatrix il nome dantesco della protagonista, c un verso del Paradiso. «O senza brama sicura ricchezza!». Ancora Beatrice alla fine di Une fille d’ Ève. Altri accenni alla Commedia, affatto generici, nella Femme de trente ans, e nella Fausse maîtresse («L’amant de Clémentine était comme au fond d’un de ces abîmes décrits par Alighieri»), e forse anche altrove ... Più interessante, e risale al ’34 a La Vie et les Aventures d'une idée (19) — che doveva entrare a far parte delle Études philosophiques — l’osservazione: «En Europe, les idées glapissent, rient, folâtrent, comme tout ce qui est terrestre; mais, en Orient, elles sont voluptueuses, célestes, élevées, symboliques. Dante seul a soudé ces deux natures d’idées. Son poème est un pont hardi jeté entre l’Asie et l’Europe ...», dove qualcuno (20) ha visto quasi un presagio, tutto istintivo, della teoria di Miguel Asin Palacios circa l’influenza mussulmana sulla Divina Commedia.

  Altrove Balzac sembra sentirsi addirittura vicino a Dante; come un’affinità egli scorge tra la sua materia e quella del poema sacro, e il ricordo cessa di essere un luogo comune, un facile espediente di scrittore. Così nelle Illusions perdues, ove il giornalismo è detto «un enfer ... que l’on ne peut traverser et d’où l’on ne peut sortir pur que protégé, comme Dante, par le divin laurier de Virgile». Con la virtù amplificatrice e trasfiguratrice del romanziere, le miserie del giornalismo — ove tante anime si perdono e tante intelligenze — acquistano una intensità tragica, anzi epica, per cui il moderno Francese è tratto a pensare all’antico Fiorentino.

  Le Illusions perdues sono del ’37-’39', già prima, una breve opera del ’34-’35 era anche più vicina allo spirito dell’Alighieri, con una più chiara ambizione dantesca — la Fille aux yeux d’or, racconto lucido e torbido, materia equivoca trattata con mano sicura, e avvolta dai colori di una fantasia delicata e rutilante. Una vasta introduzione prepara alla rapida storia, una «elevazione» in senso vigniano, intorno alla città di Parigi. Non si pensa al Paris del Poeta, o alla Cuve di Auguste Barbier, perché la nostra mente va piuttosto avanti, corre a Baudelaire. Nella passione ansiosa del narratore è già la Metropoli cantata, esaltata, maledetta nelle Fleurs du mal, la Città dove i piccoli uomini vanno senza mai posa, dal mattino alla sera, sospinti da due implacati demoni con la loro assidua sferza: il Guadagno e il Piacere. Lavorare, lottare per avere l’oro, e con questo il Piacere. Baudelaire aveva ben ragione di amare il grande amico, potente allucinato, visionano, prima di lui attento a questo mondo ancora quasi nuovo, ignoto alla poesia. E Balzac non solo precorre Baudelaire: lo annuncia. Il poeta che saprà cantare l’immane tragedia della Capitale sarà un nuovo Dante, pittore del nuovo Inferno, terribile non meno dell’altro. «Nous voici donc amenés au troisième cercle de cet enfer, qui, peut-être un jour, aura son Dante». E il grande nome non stona in quelle pagine che recano un senso di tragico, religioso orrore (21).

  No, Balzac non poteva pensare la sua opera come una parodia della Commedia. Fuori degli abissi infernali, non aveva anche seguito Dante nell'ultimo volo? Quasi contemporanea alla Fille aux yeux d’or è Séraphîta, composta fra il 33 e il ’35. Qui il maestro è veramente il mistico Swedenborg, per il quale anzi sembra abbassato, vinto il poema sacro: «Le poème de Dante Alighieri fait à peine l’effet d'un point, à qui veut se plonger dans les innombrables versets à l’aide desquels Swedenborg a rendu palpables les mondes célestes, comme Beethoven a bâti ses palais d’harmonie avec des milliers de notes ...». Eppure dantesca è l’immaginazione, l’assunzione dell’essere ambiguo ad angelo, tra fiumi di luci e voci, canti ineffabili. Dalle bolge della vita peccaminosa, dal tristo, fondo ove brulicano le passioni, i vizi, lo scrittore ascende alle bianche solitudini dei fiordi norvegesi, ove si compie il miracolo di Séraphîta. C’è anche qui l’essere umano, anzi sono due, Minna e Wilfrid, miracolosamente ammessi alla visione dell’ultimo capitolo (22) — L’Assomption — per tornare poi ai lacci della carne e della morte, dai quali erano stati come disciolti in un rapido sonno sublime. Dopo aver compreso gl’indicibili legami per cui i mondi materiali si univano agli spirituali, dopo aver visto il nuovo angelo in mezzo alle celesti legioni, le cui ali erano come l’immensa chioma delle foreste agitata dalle brezze. E Séraphîta par quasi messa sotto il patronato di Dante, che l’autore ricorda fra Omero e il Messo di Dio mostratosi ai discepoli sulla via di Emmaus: «Les trois mondes, le Naturel, le Spirituel et le Divin, avec toutes leurs sphères, se découvraient à un pauvre proscrit florentin: il marchait accompagné des Heureux et des Souffrants, de ceux qui priaient et de ceux qui criaient, des anges et des damnés».

  Se il desiderio di compiacere Madame Hanska gli ha fa scrivere lo strano poema angelico, bisogna riconoscere che Balzac negli ultimi capitoli ha dimostrato la forza necessaria al volo. E questo più stretto incontro con Dante, per nulla premeditato, senza alcun pensiero di assurda emulazione, deve averlo condotto a riguardare con sicurezza più confidente la Divina Commedia e il suo autore. Séraphîta usciva, la fine del ‘35, con altri due «studi filosofici», Les Proscrits e Louis Lambert, anteriori di qualche anno, raccolti ora in un solo volume, le Livre mystique: posti allinizio Les Proscrits, rievocanti la figura del Poeta fiorentino, sembrano accennare alla storia angelica, alla fine del «libro mistico».

  Insieme coi versi, gli episodi celebratissimi, le figurazioni paurose o raggianti delle tre cantiche, anche la persona dell’Esule era troppo cara ai romantici perché meravigli incontrarla nella Comédie Humaine. Poco rileva, nel Cousin Pons, Dante avvicinato a Pitagora e ad Aristofane, a proposito di Rabelais, «il più grande spirito moderno», che li riassume. Più ci aveva arrestato, in Facino Cane, del ‘36, il vecchio suonatore cieco nella povera osteria: tragica apparizione, volto intenso, patetico, e il romanziere subito lo immaginava italiano, quale era infatti il disgraziato, simile a «le masque en plâtre de Dante, éclairé par la lueur rouge du quinquet, et surmonté d’une forêt de cheveux d’un blanc argenté». Quasi «le plâtre blanc et mat de ce masque puissant» del Barbier (23), una figura ormai presente a tutte le immaginazioni, e Balzac la riprende per gravarla di una amara tragedia. Tutto l’umano dolore, unito alla vecchiaia miserabile e veneranda. Così cinque anni prima, nei Proscrits. appariva l’Esule, «vecchio, ... la pelle bruna ... cotta e abbronzata dal fuoco dell’inferno». Un Alighieri del tutto arbitrario, in pagine che valgono solo a colorire la Parigi del primo Trecento, con la Scuola ove splende la luce del gran Sigieri. L’anacronismo (il 1308 Dante avrebbe potuto essere a Parigi, ma non ascoltarvi Sigieri, morto venticinque anni prima) non rende meno suggestivo l’incontro, nel vico degli strami, del maestro e del poeta — il poeta che al maestro promette un verso nel suo libro, ad eternare la sua riconoscenza (24). Quasi all’inizio della grande impresa, della nuova Commedia, il racconto – ov’è anche quel meno consueto ricordo della terza cantica — sembra un cenno di ammirata devozione all’Autore cui un giorno Balzac legherà la sua opera.

  Quando pensa all’arduo titolo, nel 1841, la compagine — ancora nel ‘35 un poco fluida — è ben più salda: il titolo è come il sigillo all’unità ormai tutta sicura, evidente. Sia la lontana suggestione dell’inglese Reeve, che ora gli torna modificata, corretta, o — come sempre si è detto — quella recente del giovane amico Auguste de Belloy ritornante dall’Italia pieno di fervidissima ammirazione per il poema dantesco, il nome viene, s’impone, quando l’opera è maturata, certa, viva non solamente nella fantasia, nella volontà dello scrittore. Titolo ambizioso, ma assoluto, definitivo. L’altro cui pensava nel ‘37 — Études sociales — non poteva soddisfarlo: diceva infatti la materia dei suoi volumi, le preoccupazioni, gl’intenti del pensatore, non la coscienza dell’artista, del poeta che aveva dato la nuova, interminata rappresentazione. Adesso, mentre rifoggia, ricompone tutta l’opera in un assetto nelle sue grandi linee immutabile, tale coscienza è più che mai sicura, tranquilla. Perché ha tanto dato di quel che aveva promesso sei anni prima, non dubita di compiere quel che ancora gli resta. Ecco le Scene della vita politica, militare e di campagna, che mancavano allora; agli Studi filosofici seguono adesso quelli analitici. Alle Scene provinciali si è aggiunto Le lys dans la vallée, per l’autore «l’une des pierres qui domineront dans la frise d’un édifice littéraire lentement et laborieusement construit», e Les illusions perdues (sic); Splendeurs et misères des courtisanes arricchiscono le Scene parigine. Nuovi capolavori sono venuti, brevi (Les secrets de la princesse de Cadignan) o diffusi (Une ténébreuse affaire): tutta eretta l’amplissima costruzione, prossima al compimento, anche se molti vuoti restano da riempire. L’autore la illustra in un tono quasi ovvio, pacato, nell’Avant-propos del luglio 1842, affatto lontano dall’enfasi esaltatrice delle Introduzioni firmate, sette anni prima, da Félix Davin. Allora Balzac proclamava, con la voce di un altro, la sua ardente volontà, la fede risoluta nelle sue forze; adesso semplicemente dichiara la vittoria, la meta quasi raggiunta.

  Storico nuovo, storico dei costumi, ricercatore della diversa, quotidiana vita, degli avvenimenti minuti, nascosti, non curati dalla storia illustre. L’infinita varietà dei fatti è legata dal concetto dell’unità, dalla legge — fisiologica e sociologica — da cui è retta l’umana esistenza. Fin l’energia del pensiero, la vita delle idee indaga l’autore della Comédie Hamaine, i misteriosi fenomeni nervosi, cerebrali, indicati dalla scienza più ardita e recente, mentre non esita a cercare le più tristi miserie umane, le vergogne, le colpe. Quindi, vivo e rilevato, l’inventario di tutti i vizi, insieme con quello delle virtù. Ma la rappresentazione non basta allo scrittore, al vero scrittore, che deve «decidere», pronunciarsi circa i fatti, denunciarne le cause, contro i mali indicare i rimedi, dedotti da principi certi. La passione, che è insieme sentimento e pensiero, come è l’anima della vita individuale e sociale, ne è anche l’elemento distruttore, quando non sia moderata, frenata. A ciò occorre un compiuto sistema di repressione, che è fornito dal cattolicesimo e dalla monarchia. L’idea più alta sostiene, informa la più vasta pittura e la giustifica: per le miserie, le tristizie, gli orrori di tante scene, di tanti vizi, come per gli esempi di tante patetiche virtù, a tutti dovrebbe venire il monito, a tutti mostrarsi la sola via di salvezza, l’ordine cattolico (25).

  Fissati i principî, nessun limite è posto all’ardimento, alla cruda verità della rappresentazione. La quale reca già l’insegnamento che dichiareranno gli Studi filosofici e gli analitici; ma anche vale di per sé, infinita e diversa («Telle est l’assise pleine de figures, pleine de comédies et de tragédies ...»), fatica immane che a ricordarla il Francese pare si sovvenga del Poeta italiano, della sua non lieve «impresa»: «Ce n’était pas une petite tâche que de peindre les deux ou trois mille figures saillantes d’une époque ...». Fatica, opera di artista anzi tutto, che non s’immaginerebbe senza la poetica facoltà dell’intuizione, e che l’autore si compiace di vedere adorna di altri sensi, aggiunti e riposti. Infatti le Scènes de la vie privée figureranno come la fanciullezza, l’adolescenza e i loro errori ancora ingenui, quasi puri; l’età delle passioni, dei calcoli, degli interessi e delle ambizioni è nelle Scènes de la vie de province; nelle Scene parigine i gusti, i vizi, le sfrenatezze, gli estremi nel bene e nel male propri alle capitali. Come la discesa per tre gradi, sino al fondo di un baratro. (Le altre Scene, quasi a parte, raccolte in pochi volumi, sono appena una breve appendice alla rappresentazione).

  Tre grandi sezioni — gli Studi di costume, gli Studi filosofici, gli analitici — e la prima divisa in tre gruppi di Scene: ha voluto l’autore rilevare questa struttura ternaria, ha colto con gioia questo incontro con l’armoniosa mole dantesca e il numero che la regge? L’unità della Commedia umana non è simmetrica, esterna proporzione; Balzac ignora pur troppo il freno dell’arte, nè poteva immaginare uno schema rigido per costringervi dentro la materia infiammata ... E forse per questo gli è piaciuto insistere sulla legge, il numero che pure governa la sua composizione. Con tutta l’orgogliosa coscienza di sé e dell’opera, non manca di sentire la gravità del richiamarsi a Dante, e pure affronta il tremendo ricordo. La sua non è una «commedia» come quella del favolista, dai «cento atti diversi»; anche De Vigny, nel 1844, dirà proprio «comédie humaine» (26) per significare la quotidiana vicenda dei mortali sotto l’indifferente cielo; Balzac pone senz’altro la sua commedia umana di fronte a quella divina ... Tutto l’Avant-propos sembra volto a spiegare l’ardimento, dalle prime parole: «En donnant à une oeuvre entreprise depuis bientôt treize ans le titre de la Comédie humaine», alle ultime: «L’immensité d’un plan qui embrasse à la fois l’histoire et la critique de la société, l’analyse de ses maux et la discussion de ses principes, m’autorise, je crois, à donner à mon ouvrage le titre sous lequel il paraît aujourd’hui: la Comédie humaine. Est-ce ambitieux? n’est-ce que juste?».

  Giusta ambizione, pensa l’autore e pensiamo anche noi. Balzac non aveva del poema dantesco una conoscenza più intima di quella dei suoi amici poeti ed artisti; certo non s’era indugiato sui volumi degli esegeti, neppure i recenti francesi, che pare ignori assolutamente e ingiustamente nella dedica di La Cousine Bette al principe Michelangelo Caetani (1846). Prima del giorno in cui ebbe la fortuna di udire, al Palazzo Farnese, la parola del principe romano dimostrante la struttura ideale, il pensiero che sostiene la poetica creazione dantesca, la Divina Commedia era per lui «une immense énigme». Cioè, era l’ardente passione dell’Inferno, la trepida attesa nel secondo regno, e le luci mirabili, i rapimenti, le beatitudini del Paradiso. Era la possente concezione dei tre mondi, ove tutto l’umano si accoglie, proiettato nell’eterno, nel divino. Rappresentazione totale e supremo giudizio: Dante, scultore e pittore sovrano, era insieme il castigatore tremendo in nome della più alta legge. Ma nessun giudice degli umani traviamenti s’era chinato con tanta passione di uomo e di poeta sulle passioni, sui vizi così flagellati. L’opera più vasta ed ardua, tale da adeguare tutto l’umano e il divino, il cielo e la terra, ad ogni istante era sicuramente dominata dall’autore, piena del suo spirito, calda della sua presenza, tutta lirica. Certo l’ha sentito il nuovo autore, anch’egli tutto calato nell’opera, nel suo mondo più vero di quello reale, mescolato ai suoi eroi, perduto nelle loro vicende, in questo terrestre umano inferno, come l’Alighieri nell’altro.

  Una straordinaria umana energia era nel lontano Poeta, che alle terrene energie disfrenantisi nel male voleva porre il saldissimo freno della legge divina. Sentiva Balzac, nel Trecentista, una ricchezza e complessità che giustificava e autorizzava la sua opera, la nuova Commedia, diversa ed ambigua, sì che lo scolaro di De Maistre e De Bonald già a Victor Hugo era apparso «de la forte race des écrivains révolutionnaires»? (27) Certo la medievale fede confessata dal cristiano Dante è troppo lontana dal cattolicesimo voluto, programmatico dell’Ottocentista. E la pietà che vince l’Alighieri al racconto di Francesca, l’ammirazione che lo arresta davanti a Farinata, ad Ulisse due volte condannato, nulla ha da vedere con la esaltazione dei fuori legge, dei ribelli, delle volontà superbe e smisurate, che riempie la Commedia ottocentesca. L'inferno ove ribollono le passioni della Cousine Bette e di tanti altri racconti non è vinto dalla lontana visione di Séraphîta. Ma quell’inferno ha una potenza d’orrore che ben può dirsi dantesco (28). Questa nuova Commedia è tutta romantica, orgogliosamente legata alla terra, all’umano (29), anche se tenta di esaltare l’uomo fin con le speranze, i sogni ultraterreni. Però giustamente l’autore l’ha chiamata umana. Ha indicato la distanza tra l’opera sua e quella dantesca, e così anche ne ha rilevato i rapporti. E alla grandezza sovrana del poema italiano, nell’età fervidissima e ambiziosa, nel primo Ottocento francese, ha fatto il più sincero, il migliore omaggio.

 

  Note.

 

  (1) Journal d’un poète (Oeuvres Complètes, «Bibliothèque de la Pléiade», 1938, tome II, p. 1186).

  (12) Séraphîta (1835): dedica a Mme Hanska.

  (13) La Prisonnière, Gallimard, I, p. 219.

  (14) Si legge in Ch. de Lovenjoul, Histoire des oeuvres de H. de Balzac, Calmann-Lévy, 1879, pp. 46-64, 194-207.

  (15) Scrive il Reeve a E. H. Handley, il 2 febbraio 1855: «I was introduced to Mr. Balzac by Prevost about a week ago ... If Balzac wants a title for this great labour, wich, he says, will reach to at least forty large octavos, I shall beg to suggest the parody of Dante’s «Divina Commedia» — for this modern «Commedia» is tutta diabolica. «La diabolique Comédie du Sieur de Balzac». Memoirs of the Life and Correspondance of Henry Reeve, by John Knox Laughton, London, Longmans, 1898 (2 vol.), t, 39-40. (v. F. B., Une suggestion anglaise pour le titre de la «Comédie Humaine» de B., in «Revue de littérature comparée», 1921, pp. 638-9).

  (16) La somiglianza della Comédie Humaine con una cattedrale, sopra tutto il successivo ampliarsi dalle prime Scènes de la vie privée come della cattedrale da un piccolo battistero carolingio, è mostrato da M. Bouteron nella Histoire de l’oeuvre, che va innanzi alla Comédie Humaine, ediz. della «Pléiade»: vol. I, pp. XIV-XV (1935).

  (17) Al 1816 pare debbano attribuirsi i primi abbozzi di Falthurne, con reminiscenze dantesche, più evidenti nel frammento aggiunto l’anno 1823, per cui meglio l’opera appare un primo accenno al racconto mistico di Séraphîta. Solo ora è uscita Falthurne. Roman inédit. Texte établi par Pierre-Georges Chastex (sic), J. Corti, 1951.

  (18) I celebri versi danteschi sono anche tradotti da Balzac in un componimento poetico, Un lendemain, pubblicato nel giornale «La Caricature» del 10 febbraio 1831: «Un jour que nous lisions l’amoureuse aventure — De Lancelot ...». Si veda F. Baldensperger, Orientations étrangères chez H. de B., Librairie ancienne H. Champion, 1927, p. 166.

  (19) Solo l’inizio, col titolo Aventures administratives d’une idée heureuse, usciva nel giornale «Les Causeries du monde» (1834): tutto lo scritto, incompiuto, e ora compreso nel X volume, pp. 1157-75, della Comédie Humaine, ediz. cit. della «Pléiade».

  (20) Baldensperger, op. cit., pp. 14 e 165.

  (21) Anche Hofmannsthal (citato da Curtius, Balzac, versione francese, Grasset, 1933, p. 412) sente Dante nellinizio della Fille aux yeux d’or. E Maurice Bardèche (Balzac romancier, Plon, 1947, p. 334): «Le mouvement ascensionnel de la Divine Comédie appliqué au rythme de la vie à Paris, fournissait à Balzac une image semblable, une ascension analogue: la Divine Comédie transposée dans une vision saint-simonienne lui suggérait le poème d’une comédie de la misère humaine, il allait dire quelques années plus tard, d’une comédie humaine».

  (22) «La fin de Séraphîta ressemble à un chant de Dante». Taine, Nouveaux essais de critique et d’histoire, Hachette, p. 92.

  (23) «Dante», in Iambes (1831).

  (24) « — Gloire au maître! disait l’étranger. — Qu’est une gloire passagère? répondait Sigier. — Je voudrais éterniser ma reconnaissance, répliqua le vieillard. — Eh! bien, une ligne de vous? reprit le docteur, ce sera me donner l’immortalité humaine ...» Les Proscrits (La Comédie Humaine, texte révisé et annoté par M. Bouteron et H. Longnon: Études philosophiques, V, p. 27 — Conard éd., 1927).

  (25) «... il pense la Comédie Humaine, comme a été pensée la Divine Comédie, catholiquement». A. Thibaudet, Hist. de la littér. franç. de 1789 à nos jours, Stock, 1936, pp. 231-2.

  (26) La maison du berger, III, 62.

  (27) Funérailles de Balzac, 20 août 1850, in Actes et Paroles: Avant l’exil.

  (28) «La vérité de son réalisme entretient dans une horreur dantesque et dans l’effroi les témoins, qui se sentent humiliés pour l’espèce humaine». Ph. Bertaut, Balzac. L’homme et l’oeuvre, Boivin, 1947, p. 183.

  (29) Ecco il pensiero di F. Mauriac: « ... l’œuvre de Balzac nous apparaît antichrétienne par essence. Elle oppose un refus déjà nietzschéen à l’interrogation du Christ: - Que sert à l’homme de gagner l’univers s’il perd son âme? – » Mes grands hommes, Monaco, Éditions du Rocher», 1949, p. 163.

 

 

  Félicien Marceau, Balzac: due bellimbusti e una donna alla moda (Trad. di Fiorenza Verona), «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno VI, N. 36, 7 Settembre 1952, p. 4; 2 ill.

 

  Come è noto, spesso, Balzac ha fatto ritornare qualcuno dei suoi personaggi in più romanzi successivi. Questo metodo che dà ai suoi libri una specie di terza dimensione, presenta un leggero inconveniente che, talvolta, da ciò la vita e il carattere di questi personaggi possono apparire un poco imbrogliati.

  Ne presentiamo qui tre che tornano in tutta l’opera di Balzac con particolare frequenza. Li abbiamo scelti in una delle categorie favorite dall’autore della Comédie Humaine: i bellimbusti. I bellimbusti, sono quei giovani brillanti, eleganti, ambiziosi, che preferiscono riuscire attraverso l’intrigo piuttosto che grazie al lavoro, che si servono tanto dei loro eleganti gilet come della loro intelligenza, delle donne come dei ministri. Il bellimbusto di Balzac ha il corrispondente femminile: la donna alla moda.

  Di tutti i bellimbusti di Balzac, il più conosciuto è indubbiamente Rastignac. Tuttavia non è né il più completo, né il più simpatico, questi due appellativi tornano senza discussione, credo, a proposito di Henry de Jarsay (sic) e a Félix de Vandenesse.

 

Eugène de Rastignac.

 

  Incontriamo Rastignac per la prima volta (sic) ne Le père Goriot. Siamo nel 1819. Rastignac è studente. Segue i corsi della Facoltà di Diritto. Vive in una pensione familiare, E’ povero ma coraggioso. Quando va a d un ballo, lavora tutto il resto della notte per rifarsi del perduto. I suoi genitori appartengono alla piccola nobiltà del Mezzogiorno. Hanno tremila franchi di rendita e cinque gigli. Cioè il povero Eugenio non può mai permettersi di prendere una carrozza. Si dirà: che bisogno ha della carrozza se è studente? E’ vero. Ma Rastignac è ambizioso. Vuole conoscere gente. Si vergogna dei suoi stivali infangati. In breve, è maturo per incontrarsi con il demonio.

  E il demonio, naturalmente, si presenta, E’ Vautrin, prigioniero evaso, personaggio losco e inquietante, equivoco. Offre a Rastignac il suo appoggio. Questo appoggio, qualche anno più tardi, ne Les Illusions perdues (sic), Lucien de Rubempré lo accetterà. Rastignac, invece indietreggia, E’ per rettitudine o per scrupolo? Se ne può dubitare. Tutto, nel contesto, sembra indicare che, se Rastignac respinge l’alleanza dell’ex-forzato, è piuttosto per prudenza. C’è in tutto quello che fa, qualcosa di scaltro, di riservato, di ragionato. Indubbiamente ha presentito in Vautrin il fuorilegge la cui amicizia rischia di procurargli delle noie. Alla fine rifiuta la sua complicità nell’assassinio che gli propone Vautrin ma, nello stesso tempo, scrive alle sorelle per estorcere le loro economie. Ecco l’uomo: incapace di un crimine, perfettamente capace di un piccolo gesto odioso.

  Ma, grazie a Vautrin ecco stabilita la tentazione. Rastignac, a sua volta, lancia il grido di guerra di quasi tutti i bellimbusti Balzachiani: un’amante ricca! Incontra Delphine de Nucingen, moglie del famoso banchiere. Ella gli arreda un appartamento. Ecco Rastignac installato nel ruolo di amante di una donna ricca. Naturalmente, abbandona gli studi. Deve accompagnare Delphine al Bosco o all’Opera, deve sopportare i suoi capricci, le sue emicranie, i suoi umori. La ama? Forse. Ma lo si indovina anche divorato dalla cupidigia. In Etude de Femme, lo si vede tentato da Madame de Listomère. Ne Les secrets de la Princesse de Cadignan, apprendiamo che egli ha una breve relazione con questa Principessa. Lo si vede qualche volta anche nella media società ma egli è prudente, sostenuto.

  Dopo qualche anno comincia a spazientirsi. Ne l’Interdiction, sogna di lasciare M.me de Nucingen per M.me d’Espard. Ne La Peau de Chagrin, sogna di sposare una Alsaziana alla quale attribuiscono cinquantamila franchi di rendita. Ci rinuncia quando viene a sapere che i 50.000 franchi non sono, in realtà, che diciotto e che in cambio l’Alsaziana ha sei dita ai piedi. «Non posso vivere con una donna che ha sei dita. Si saprebbe, ed io diventerei ridicolo». Una delle leggi del mondo di Balzac è che tutto si sa. Ognuno conosce le rendite del vicino, i suoi debiti, i suoi bisogni ed anche, come si vede, il numero delle dita dei piedi.

  Bisogna aggiungere che il Rastignac che ci appare nella Peau de Chagrin presenta alcuni tratti che sconcertano. La la Peau de Chagrin, nell’opera di Balzac, appariva come un romanzo quasi simbolico e Rastignac non più se stesso ma in certo modo il simbolo di tutti i giovani della Comédie Humaine.

  Comunque, Delphine de Nucingen ha senza dubbio sentito il pericolo. Pensa infine di fare la fortuna del suo amante e convince il marito ad associarlo nella fruttuosa operazione di cui si vedrà l meccanismo ne La maison Nucingen. Rastignac è ricco, improvvisamente, Henry d Marsay vuole interessarsi a lui e lo accoglie nella famosa cricca politica i cui disegni e la tecnica sono esposti nel Contrat de Mariage.

  E’ questa cricca che s’impadronirà del potere nel 1830. Rastignac diviene sottosegretario di Stato. Sposa la figlia della sua amante, ricompensa-tipo dell’amante fedele. «Voi siete felice, gli dice qualcuno ne Le Député d’Arcis. Avete finito per sposare l’unica ereditiera dei milioni di Nucingen e l’avete ben guadagnato ... venti anni di lavori forzati». Rastignac accetta il compimento senza vacillare. Ecco chi finisce di rovinarlo. Diviene ministro e fatto conte, dà la dote alle sorelle e il fratello è nominato vescovo.

 

Henry de Marsay.

 

  Rastignac ha ancora qualche scrupolo. De Marsay non ne ha alcuno. Ecco il «bellimbusto» in tutta la forza del termine. Il fulvo. Uno scellerato, ha detto di lui l’onesto signor Taine. Ma uno scellerato che salva le apparenze.

  Nato verso il 1792, Henry de Marsay è il figlio naturale di Lord Dudley, famoso uomo di Stato inglese, e di una giovane donna che, incinta, trova un vecchio signore De Marsay disposto a sposarla. E’ allevato da una vecchia signorina e da un singolare prete che «lo conduce assai poco in Chiesa ... più spesso dalle cortigiane».

  A venti anni ha centomila franchi di rendita. E’ bello, «di una bellezza da fanciulla, bellezza molle, effeminata ma corretta da uno sguardo fisso, calmo, fulvo e rigido come quello di una tigre» (Illusions perdues). Ma una prima relazione con una certa Charlotte della quale non abbiamo altri dettagli (Autre étude de Femme), una seconda con Delphine de Nucingen (prima di Rastignac), un’altra con Coralie, un’altra con M.me de Manfrigneuse (sic), un’altra con Paquita Valdes (La Fille aux yeux d’or).

  Ora qualcuna di queste donne non ha serbato di lui un buon ricordo. Coralie non parla di lui senza un brivido. Cattivo segno. Un semplice libertino non lascia così tristi rimpianti. Marsay è cattivo, proprio di fondo cattivo. Ama far soffrire. Si compiace nel male «come le donne turche nel loro bagno», dice Balzac.

  Si ha un bel dire, non c’è cattiveria senza meschinità. Malgrado il prestigio della sua scelleratezza, Marsay rivela qualche volta della meschinità. Con le donne è cattivo; con gli uomini è invidioso. Invidioso di che? Di tutto, è il più ricco. Ma gli invidiosi non hanno bisogno di ragioni. Tutto li insospettisce. E vedremo così Marsay, ne Les (sic) Illusions perdues, fare tutto il possibile per rovinare Lucien de Rubempré; lo vedremo ne Le Cabinet des Antiques, cooperare alla disfatta di Vienturnien (sic) d’Esgrignon; lo vedremo ne Le Contrat de Mariage, cercare di fare uccidere Vandenesse i duello. In cambio nello stesso Contrat de Mariage, si mostrerà amico fedele per Manerville. Forse è uno di quegli uomini che hanno bisogno di un confidente.

  Come molti corrotti Marsay è un corruttore. Insegna il male e gode nel vederlo estendersi attorno a lui. Per questo, proviene da Satana. Fa pensare al Valmont delle Liaisons dangereuses, al Gaudet d’Arras del Paysan perverti, a Henry Wotton del Portrait de Dorian Gray o anche al Ménalque delle Nourritures Terrestres.

  Visto dall’esterno, non c’è che un fatto che trascorre due ore al giorno a far toletta. Sotto questa apparenza futile, quanti scabrosi misteri! Dal 1815, Marsay fa parte di quella Società dei Tredici alla quale Balzac ha consacrato tre romanzi e che è diretta da Ferragus, forzato evaso. Partecipa ad una serie di colpi di mano (vedere Ferragus, La Duchesse de Langeais, La fille aux yeux d’or). Nessuno scrupolo, l’ho detto in principio. Finì anche per divenire l’amante di Arobelle (sic) Dudley, moglie di suo padre.

  Tutto questo non è ancora che trastullo. A partire dal 1827, Marsay comincia a mirare più lontano. Anzitutto si sposa. Sua made gli ha trovato miss Dinah Stevens «una deliziosa vecchia zitella inglese con duecentoquarantamila franchi di rendita». Ecco come il felice fidanzato la descrive: «il naso rosso, due occhi da capra morta ... mangia, cammina, beve, potrebbe fare dei figli ...». Il meno che si possa dire è che queste frasi non tradiscono un amore grandissimo. Si può supporre che Morsay (sic) la ingannerà spesso ma devo confessare che non dispongo su questo di alcun testo preciso. Credo piuttosto che, per Marsay, le donne abbiano cessato di contare. «Viene un’età, egli scrive, in cui l’amante più bella che possa servire un uomo è la sua nazione». Marsay si getta a testa bassa nell’intrigo politico. Ne Le contrat de Mariage espone le sue ambizioni. Si tratta di raggruppare un certo numero di uomini disposti a tutto per arrivare al potere. Il metodo da lui scelto è di agire dall’interno, riunendo gli uomini già in carica. E’ la rivoluzione dall’alto. Nessuna ideologia là dentro. Il gruppo cammina dietro l’uomo dai dodici giuramenti: Talleyrand. Non dimentichiamo che, se Marsay deve alcuni dei suoi modi a Mornay, Talleyrand è suo nonno dalla sinistra.

  E’, scrive Balzac, «il solo grande uomo di Stato che abbia determinato la Rivoluzione di luglio». Nel 1833, Marsay muore, soppresso dal solo avversario che non abbia potuto ingannare: Dio.

  A proposito di Marsay, c’è un’osservazione che è impossibile non fare. Tutto in lui, la nascita, il fisico, la carriera fanno pensare al famoso duca di Morny, figlio adulterino della Regina Ortensia, legittimato da un certo Demorny e divenuto uno dei più potenti personaggi del Secondo Impero. Il personaggio del romanzo sembra ricalcato sul personaggio storico. E Balzac, d’altronde, ha conosciuto Morny. Ma è qui che la cosa si complica. Balzac ha conosciuto un Morny di cui nulla poteva farne prevedere la carriera. Il Duca di Morny entra nella Storia un anno dopo la morte di Balzac. Ora Marsay appariva già ne Le bal de Sceaux, opera del 1830 e da Le contrat de Mariage (del 1835) tutta la sua carriera politica è già abbozzata. Rileggiamo d’altra parte quella famosa lettera del Contrat nella quale Marsay spiega la sua tecnica del colpo di Stato. Se questa tecnica fu applicata, fu non nl 1830 ma il 2 dicembre 1851, quando Napoleone Bonaparte e il suo fratellastro Morny si sono impossessati di un potere di cui, in effetti, occupavano già le entrate. Ecco un bell’esempio del dono di seconda vista del romanziere.

 

La marchesa d’Espard.

 

  Di tutte le donne alla moda di Balzac, ecco la più completa incarnazione del tipo, con l’egoismo, la durezza, l’aridità, le corazze che il ruolo implica.

  Nata nel 1795, figlia del Principe di Blamont-Chauvry, Jeanne-Clémentine-Athémais ha sposato l’uomo meno adatto a lei. M.me d’Espard non è che vanità, interesse, intrigo. E’ caduta su quello fra gli uomini per il quale l’imbroglio è la cosa più sconosciuta; su un uomo che non contento di essere onesto secondo la legge, vuole esserlo maggiormente e restituire una fortuna secondo lui male acquistata dai suoi avi (vedere L’Interdiction).

  Si può supporre che tra questi due esseri così dissimili, non ci sia mai stata maggiore intimità che quella necessaria per la nascita di due figli. Sposati nel 1812, i D’Espard si separano nel 1815. «La donna alla moda, scrive Balzac, non è più una donna; ella non è né madre, né sposa, né amante».

  Né sposa: M.me D’Espard è divisa da suo marito. Né madre: manda i suoi due figli a vivere con il padre. Né amante: questo è più delicato. M.me D’Espard non avrebbe alcuna relazione? Si fa fatica a crederlo. E pure, bisogna ben dirlo, non abbiamo indicazioni su questo. C’è, qua e là, qualche allusione (ne Les Employés, in Une Fille d’Eve) che sembrano insinuare che Chardin des Loupleaulx (sic) e Félix de Vandenesse abbiano ottenuto i suoi favori ma questi forse non sono che pettegolezzi.

  D’altra parte, è strano che, divisa dal marito e cercando di farlo interdire, abbia trovato un alleato nel cognato, il cavaliere d’Espard. Dove è la chiave di questo carattere scaltro e dissimulato? Forse semplicemente in questa confessione che, un giorno, molto tempo più tardi, le sfugge: «Sareste forse come me, mia cara, non avreste mai incontrato l’amore cercando di amare?» (Les secrets de la Princesse de Cadignan). In ogni caso, è discreta. Parla volentieri con un tono baciapile, ipocrito (sic). «Delle belle tirate sulla carità, la religione».

  Donna alla moda, è evidentemente elegante. Non molto carina però. Gli occhi chiari ma freddi, il naso a becco d’aquila, la testa piccola, le labbra sottili. Ne L’Interdiction ha trent’anni, che sono ora quarantacinque. Si mantiene grazie ad un regime: bagni freddi e materassi di crine. Il perspicace Bianchon le scopre però qualche punto nero sul naso.

  A dire il vero, è soprattutto nell’intrigo che M.me d’Espard deve trovare i suoi piaceri, il suo salotto è uno dei più influenti di Parigi. Per tradizione appartiene al mondo legittimista ma la presenza in casa sua di liberali, come Marsay e Ronquerolles, prova che gioca su due tavoli. E’ in contatto, del resto, con Talleyrand, cervello di questa segreta cospirazione che finirà per travolgere il ramo maggiore dei Borboni. Malgrado la sua influenza, non riuscirà però a fare interdire il marito. Urta in questo con il rancore tenace di Lucien de Rubempré al quale ha contrastato gli amori con M.me de Bargeton (vedere Les Illusions perdues). Così, quando Rubempré è in cattiva situazione, si pensa che lei si preoccupi di peggiorare ancora le condizioni. La ghigliottina le sembrava una vendetta appena sufficiente. «M.me d’Espard vorrebbe vedere cadere la testa di quel povero giovane, dice M.me Camusot. Ho avto freddo nella schiena sentendo parlare un odio di giovane donna». Il suicidio di Rubempré avendole tagliato l’erba sotto i piedi, non le lascia che vendicarsi dei suoi protettori, Grandville e Serizy. «Tuti questi saranno infelici», profetizza. Di fatto, così la saranno ma non vedo la secca mano della marchesa nelle loro disgrazie. Forse ha saputo ritirarla in tempo.

  Dopo la rivoluzione del 1830, M.me D’Espard sarà una delle prime a riaprire il suo salotto. Sarà perfetta con la sua amica, la Principessa di Cadignan, che è rovinata. Ma questa cortesia non proviene da una sorgente chiarissima. «Avevano tutte e due l’una per l’altra dei segreti importanti e non erano indubbiamente né di un uomo, né di qualche piacere da fare». Quando M.me d’Espard vede la sua amica trovare un po’ di felicità vicino l’onesto Daniel d’Arthes (sic), si affretta ad invitare l’innamorato ad un pranzo in cui tutti gli invitati sono incaricati di dire tutto il male possibile della Principessa. Questa manovra però fallisce. M.me d’Espard non riesce quando tocca l’amore. Invecchia d’altronde, diventa una donna di opere e, ne La cousine Bette, la ritroviamo membro di un comitato.

 

 

  Félicien Marceau, De Vandenesse, il terzo bellimbusto balzachiano. L’educazione sentimentale (Trad. di Fiorenza Verona), «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno VI, N. 38, 21 Settembre 1952, p. 2; 1 ill.

 

  Anzitutto, attenzione, non bisogna confondere Felix (sic) de Vandenesse con suo fratello Carlo. Carlo de Vandenesse, è il diplomatico non molto simpatico che rappresenta una parte piuttosto importante ne La Femme de Trente Ans. Felix, invece, ci apparirà più tardi ne Le Lys dans la Vallée, ne Une fille d’Eve e accessoriamente in qualche altro romanzo della Comédie Humaine.

  Delle vecchie fotografie ci mostrano talvolta, segnato con una croce, un futuro grande uomo tra i suoi compagni di collegio.

  Così ci appariva Felix de Vandenesse tra gli altri «bellimbusti» di Balzac. Sembra che una croce, una luce, lo additi alla nostra attenzione, non so quale aria, quale espressione del suo viso, una grazia particolare. Anche nell’Opera o nei salotti del Sobborgo Saint Germain, si ha l’impressione, vedendolo, di un frutto che ha ancora la sua peluria. A cosa è dovuto? Alla fragilità del suo aspetto? A quell’aria riservata che lo fa chiamare dal Re: Signorina de Vandenesse? O più semplicemente al fatto che, di tutti i bellimbusti di Balzac, è il solo di cui facciamo la conoscenza quando è ancora un bambino? Propendo per quest’ultima ragione. Un Rastignac, un Marsay, un Rubempré, ci sono mostrati direttamente come uomini. Felix, invece, lo vediamo successivamente fanciullo e adolescente. E’ per noi come un amico d’infanzia.

  C’è ancora un’altra cosa: di tutti i brillanti giovani, Felix è il solo di cui possiamo veramente seguire l’educazione sentimentale. Ne Les illusions perdues (sic) e ne Le père Goriot, Rubempré e Rastignac fanno sotto i nostri occhi il tirocinio alla vita. Ma lo fanno in fretta. La frenesia dei loro appetiti li fa vivere ad una temperatura di serra calda. Rubempré cade quasi subito nelle braccia di una attrice. Quanto a Rastignac, in fondo, è piuttosto al capezzale di Padre Goriot che ai piedi di una donna che comincia a imparare le leggi crudeli della vita. Con Felix, al contrario, con Le Lys dans la Vallée, abbiamo già una Educazione Sentimentale come la concepirà più tardi Flaubert nel romanzo che porta questo titolo, cioè una educazione del cuore parallela ad una rivelazione dei sensi. L’eroe di Flaubert passa da Madame Arnoux alla Marescialla. Felix passa da Madame de Mortsauf ad Arebelle (sic) Dudley. Procede lentamente. Chi dice: educazione, dice: lentezza, pazienza, cammino. Si tratta dello sbocciare di un cuore. E’ una cosa che vuole essere descritta con pazienza.

  Lo vedremo dapprima fanciullo. debole, gracile, perseguitato dal fratello e dalle sorelle, punito per i loro misfatti, rimproverato da sua madre, abbandonato in un collegio. A vent’anni non gli è mai successo di uscire solo. Il sogno, la lettura, ecco tutte le sue evasioni. «Mi gettavo, scrive, nella biblioteca di mio padre: ... nelle misteriose profondità della preghiera». Così resta fanciullo. «Voi siete un uomo-fanciullo», gli dirà più tardi Madame de Mortsauf. «La mia prolungata pubertà», dice lui stesso. Fisicamente d’altronde è rimasto piccolo e fragile.

  Nato nel 1794, Felix Vandenesse, ha vent’anni quando, per la prima volta, lo si manda ad un ballo, a Tours. Là, preso da una di quelle brusche frenesie da adolescente timido, bacia sulla spalla una donna che passava vicino a lui. Sbigottita, la donna fugge ma qualche giorno più tardi, andando in visita in un castello dei dintorni, Felix ha improvvisamente il presentimento che la ritroverà. Ci si potrebbe domandare se Felix non si sarebbe comunque innamorato della castellana, anche se questa non avesse avuto nulla in comune con la dama del ballo. La sete di amore produce di questi fenomeni. Semplice ipotesi d’altronde, poiché, si tratta proprio della stessa donna. E’ la contessa de Mortsauf, una giovane che vive in disparte nel suo castello di Clochegourde, tra un marito nevrastenico e due figli di poca salute.

  Nasce l’amore, o piuttosto nasce un sentimento senza gesti e senza voce, un sentimento che nulla viene a disturbare, nè i rumori di Parigi, nè le preoccupazioni di una professione o dell’ambizione. né la diffidenza di un marito, e nemmeno il desiderio con le sue grosse scarpe e i suoi passi troppo rapidi. Il profondo rispetto di Madame de Mortsauf le impedisce di tradire il marito — e, a dire il vero, nè lei nè Felix hanno mai l’aria di pensarci. Non resta che il senti-mento. Isolato da tutto ciò che generalmente lo circonda. Solo come una statua nel mezzo di una radura. La più piccola frase da allora ha le sue risonanze, il minimo movimento. Madame de Mortsauf e Felix non hanno sete che di tenerezza. Non ne hanno mai avuta, le loro mamme erano due donne dal carattere duro e bisbetico. E immobili, congelati nella loro estasi, vedono salire in loro lentamente, sentimenti, dolcezze, slanci che altri conobbero prima ma che, essi, non hanno mai conosciuto e che, proprio perché vengono a loro tardi, appaiono loro con tutte le ricchezze, gli schieramenti più segreti e i sapori più fugaci. A vent’anni passati, scoprono infine la giovinezza. Tutte queste deliziose strade, è per la prima volta che le percorrono. E’ veramente l’Educazione Sentimentale. Sono ancora due fanciulli che si meravigliano di tutto ciò che vedono. «L’amore, scrive Balzac, ha, come la vita, uno (sic) pubertà durante la quale basta a se stesso». Madame de Mortsauf si sbaglia e carezza Felix come carezzerebbe uno dei suoi figli, con lo stesso candore. Carezza leggera che passa come un sogno. Ecco ancora cosa contribuisce a dare a Felix questa grazia particolare. Tra tutti quei giovani di Balzac tanto ragionatori e calcolatori, è il solo a non ragionare, a non calcolare: egli sogna.

  Sogna fino al giorno in cui la vita lo raggiunge. C’è, ne Le Lys, un passaggio straordinario, simile ad un suono di tromba, simile all’arrivo di un principe nel Castello della bella addormentata.

  Felix è richiamato a Parigi. L’ambizione era stanca di sonnecchiare. Si rialza, lega la sua cintura, parla forte. Felix, se ne va e Madame de Mortsauf gli scrive una lettera, una lettera che scoppia come un fulmine a ciel sereno, una lettera in cui la tenerezza bruscamente fa posto ai consigli accorti di una donna che conosce il mondo, le sue astuzie e i suoi trabocchetti, di una donna che si rivela tanto ambiziosa quanto un Rastignac e che semplicemente riversa sul giovane Felix delle ambizioni venute troppo tardi per il marito e troppo presto per i figli. Si rende conto che così comincia ad allontanare da sé quel Felix al quale tiene tanto? Forse. Comunque lo fa. In un’opera come quella di Balzac, in cui l’ambizione occupa tanto posto, un simile olocausto non è molto sorprendente.

  Felix è dunque nominato segretario di Luigi XVIII. Vive nell’intimità di questo Re, la cui aridità comincia a scolorire su di lui. Chi, scrive Balzac, poteva resistere allo spirito distruttore di Luigi XVIII? Felix è sempre fedele a Madame de Mortsauf ma forse, nei salotti ch’egli frequenta, comincia a portare questa fedeltà come una rosetta alla bottoniera. Tutti ne parlano. Ce ne è abbastanza per invitare al giuoco la bella Lady Dudley. Senza interruzione, si attacca a lui, lo conquista, diviene la sua amante. L’educazione sentimentale continua, l’amore da un lato, il desiderio dall’altro, così nettamente separati per quanto è possibile. Naturalmente, Madame de Mortsauf lo viene a sapere. Nel mondo di Balzac, tutto si sa Quando rivede Felix, lo accoglie freddamente. I vapori del sogno si dissolvono. L’amore mostra i denti. Nulle frasi scambiate fra madame de Mortsauf e Felix, c’è ora qualcosa di aspro, di violento. Madame de Mortsauf si ammala. Davanti alla morte, conosce quella brusca disillusione che conoscerà cento anni più tardi, ne La Porte Etroite, l’Alissa di André Gide. Quest’amore che le si offriva. perché lo ha rifiutato? Perché questo sacrificio? Però, a differenza di Alissa, Madame de Mortsauf si riprende. La fede trionfa. Ma morta Madame de Mortsauf e, soddisfatta, Arebelle Dudley rompe con Felix. L’Educazione Sentimentale è terminata. Felix impara una delle leggi essenziali: tutto nel mondo ha le sue conseguenze. Si crede di sognare: vengono la morte, l’odio, i disastri. Felix credeva di non aver fatto altro che amare, ma questo, amore è bastato per uccidere una donna. «Voi mi avete fatto più male che tutti gli altri insieme», gli ha detto Madame de Mortsauf prima di morire. Ora chi scopre l’odio abbandona definitivamente la giovinezza. Come Rastignac al capezzale di padre Goriot, Felix al capezzale di Madame de Mortsauf subisce la stretta della vita. Il cuore si spezza o diviene di bronzo. Quello di Felix diviene di bronzo. Ecco un «bellimbusto», come gli altri, come i Marsay, i Rastignac, i Rubempré.

  Per qualche anno e in diversi romanzi, non vedremo Felix che da lontano, tra la gente o all’Opera.

  E’ scrive Balzac, ne Les (sic) Illusions Perdues, «un giovane uomo, dolce, spirituale, modesto, che riuscirebbe per delle qualità completamente opposte a quelle di cui si gloriava de Marsay». La frase basterebbe a spiegare l’odio vigile di cui Felix è circondato da questo Marsay che è un poco il capo della fila dei giovani ambiziosi della Comédie Humaine. Aggiungete l’influenza di Arebelle Dudwley (sic), di cui Marsay è figliastro. «Grazie alle sue cure, scrive Felix, ho un nemico mortale in de Marsay». Ci sono anche ragioni politiche. Felix è legittimista, Marsay propende per i liberali. Nel 1827, ne Le contrat de Mariage, vedremo ancora Marsav fare tutti gli sforzi possibili per determinare un duello tra Felix e Manerville.

  «Tu tirerai per primo, scrive a Manerville. e me lo abbatterai come un piccione». A quell’epoca. Felix faceva la corte alla donna di Manerville. Nathalie, ed è a lei che scrive l’immensa lettera del Lys dans la Vallée. Ecco una bella finezza. Egli vuole sedurre questa Nathalie, e tutto quello che trova è di raccontarle minutamente, e con quale emozione, i suoi primi amori. Sarà ancora ingenuo? Sembra avere previsto il pericolo perché, alla fine della lettera, scrive: «questa lettera che corruccerebbe una donna volgare sarà per voi, ne sono sicuro, un nuovo motivo per amarmi». Questa precauzione oratoria non è sufficiente. Nathalie è d’altronde una donna volgare, si offende e manda a spasso questo incauto corteggiatore. Si potrebbe comprenderla. Quello che si comprende meno, è il rancore che ella gli serba. Molti anni più tardi, ne Une fille d’Eve, la vedremo ancora allearsi a Lady Dudley per cercare di rovinare la felicità coniugale di Felix. E’ anche curioso, questo odio che Felix solleva al suo passaggio. L’odio di Marsay, di Lady Dudley, di Nathalie. I cattivi non possono dunque sopportare la bontà? E’ per loro a questo punto un’offesa? O Felix non è così buono come sembra?

  Nel 1828, Felix de Vandenesse. sposa una delle figlie del Procuratore Generale Grandville. Si conosce l’aneddoto che racconta Taine: Balzac, un giorno, incontra un suo amico; «Sapete, gli dice, chi sposa Felix de Vandenesse? Una signorina Grandville. E’ un eccellente matrimonio; le Grandville sono ricche». In realtà è soprattutto un buon matrimonio per i Grandville. «La più grande delle mie figlie non è forse la contessa de Vandenesse?» dice Grandville con orgoglio ne Une double famille. Comunque ecco una nuova Educazione Sentimentale che comincia: quella della moglie Si insegna volentieri quello che si è appreso. Da allievo, Felix diventa professore. E’ per questo che egli ha scelto una giovinetta come Maria Antonietta de Grandville, molto pia, molto ignorante, e mai staccatasi dalle gonne materne. Felix la tratta come un padre piuttosto che come un marito. Tanta dolcezza e tanta sollecitudine finiscono per annoiare la giovane donna: cerca una evasione e quello che rischiara il suo gesto, è che va a cercare questa evasione nelle braccia di Raoul Nathan che è assolutamente il contrario di Felix.

  Vandenesse è un gentiluomo biondo, pulito, nato in Touraine, uscito da quello che c’è di più francese in Francia? Nathan è un giornalista, abbastanza geniale ma sudicio, nero di capelli e bruno di pelle, venuto da non si sa dove. Felix non perde il suo sangue freddo. Pulitamente. gentilmente, riconduce sua moglie sul retto cammino. E continua a comportarsi come un Mentore indulgente agli errori del suo allievo. La nuova Educazione Sentimentale termina. E’ il soggetto di Une fille d’Eve.

 

 

  Gian Mirola, Sempre in lotta con i creditori il celebre romanziere Honoré de Balzac. Guadagnava in modo enorme ma era splendido come un nababbo, «Il Popolo del Lunedì», Roma, Anno IX, 22 settembre 1952, p. 5.

 

  Fra gli scrittori del suo tempo soltanto Eugenio Sue lo batteva in fatto d’introiti per diritti d’autore, ma quello non aveva un cocchio con auriga ammantato d’azzurro e nemmeno un nano in livrea.

 

  Qualcuno aveva bussato alla porta.

  Aprì un domestico in livrea color avana, con le iniziali in oro H. B. sormontate dallo scudo d’Entraigues.

  — Desiderava? ...

  — Monsieur Honoré De Balzac. — E senza attendere risposta il corpulento proprietario del «Mortaio d’argento» s'incamminò sicuro verso l’interno.

  Il domestico volle trattenerlo, ma con una mossa brusca, il droghiere — poiché si trattava proprio di un droghiere — spalancò una porta che si apriva nel corridoio, attraverso un vestibolo finemente addobbato, bussò ad una seconda porta.

  — Avanti! — rispose dall’interno una voce piuttosto aspra.

  A testa alta l’uomo entrò nello studio dello scrittore.

  — Sono il proprietario del «Mortaio d’argento» venuto per riscuotere quel conto che voi sapete, signor De Balzac. E questa è la fattura.

  Balzac non là guardò neppure. Sorrise.

  – Bene —. Ma non si mosse. — Aprite, per favore, quello scrigno.

  Lusingato dall’idea di poter avere finalmente i soldi che gli spettavano per una copiosa fornitura di caffè, zucchero, candele, ecc., il droghiere aprì lo scrigno indicatogli.

  — Lettere, soltanto lettere! — esclamò, disapprovando con una smorfia.

  — Aprite il cassetto in alto.

  — E’ vuoto.

  — Quello a destra.

  — Ma è vuoto anche questo.

  — Allora quello a sinistra.

  — Non c’è nulla.

  — Premete un bottone della cassaforte che vi sta davanti.

  – Ecco fatto. Questa è piena di carte ... — constatò deluso il droghiere.

  — Lo so. Sono tutte le fatture dei miei creditori. Metteteci anche la vostra e lasciatemi in pace.

  E’ un aneddoto dei tanti che si riferiscono allo scrittore più scialacquone e indebitato del secolo scorso: Onorato Balso (sic), o De Balzac, come egli preferiva farsi chiamare.

  «Il denaro degli stupidi — aveva detto Blondet — -è per diritto divino il patrimonio della gente di spirito». E in questo caso lo spiritoso non era certo il droghiere del «Mortaio d'argento» o i molti altri che come lui braccavano lungo le strade di Parigi il moroso autore della «Commedie (sic) humaine». Il quale — sia pur detto in suo onore — non avrebbe esitato, per far quattrini, a vender lacci da scarpe o a commerciare in qualsiasi articolo più o meno lecito.

  Purtroppo il geniale autore di «Mercadet, l’affarista» non era tagliato per gli affari. Cento ne ideò, senza azzeccarne uno. Era versato unicamente nell’arte di far debiti. E questi in proporzioni tali da rivelare addirittura una inclinazione del tutto particolare!

  A venticinque anni si mise in testa che il vender libri avrebbe dovuto essere più redditizio che scriverli. Improvvisatosi editore, si dette a. ristampare le opere di La Fontaine. Debiti, cambiali, protesti: la stessa musica in «do maggiore» e conseguente assedio dei creditori inferociti.

  Tornò a scrivere romanzi lavorando incessantemente anche diciotto ore al giorno e concedendosi solo, per il riposo, qualche intervallo durante i pasti. In venticinque anni di attività ottanta opere diverse, fra romanzi, racconti, saggi e commedie, eruppero dal cervello in tumulto di quest’uomo che potrebbe estere definito «il forzato della penna». Esse sono una documentazione evidente del tuo continuo stato di esaltazione psichica. Produsse ininterrottamente, accanitamente due, tre, cinque e persino sette volumi all’anno, incassando somme enormi per i diritti d’autore, e spendendo regolarmente il doppio con profusione da nababbo.

  Fra gli scrittori del tuo tempo c’era soltanto Eugenio Sue che lo batteva in fatto di guadagni con i suoi quindicimila franchi settimanali.

  Ma Sue non aveva un cocchio per conto proprio, con auriga vestito in palandrana azzurra. e neppure un nano in livrea color tabacco, incaricato di recapitare la corrispondenza come il nobile ... De Balzac. Egli veniva ammesso nei salotti di Rotschild e della contessa d’Appony e di questi si sforzava a superarne il lusso nei mobili a negli addobbi. I suoi vestiti, le sue cravatte, le sue camicie davano il tono alla moda di Francia. Boisson (sic), il celebre mago delle forbici, aveva incarico di studiare sempre nuovi e più costosi modelli per lo scrittore ormai celebre. Le più eminenti donne francesi, inglesi, italiane e russe si atteggiavano ad eroine dei suoi romanzi.

  E’ l’apogeo della gloria. A «La physiologie du mariage», pubblicato nei 1829, erano seguiti «Peau de chagrin» e il grande ciclo de «La comédie humaine» con quell’«Eugénie Grandet», che fu salutata in Francia e altrove come la sua opera più significativa.

  I diritti d’autore fioccavano copiosi e Balzac, con lo stesso ritmo incessante, faceva debiti, spremendo la pingue e generosa borsa dell’editore Werdet, prelevando viveri e liquori alla drogheria del «Mortaio d’argento», ordinando i vestiti più costosi, affittando un palco agli «Italien (sic)», ricevendo nella propria casa il fior fiore della aristocrazia parigina.

  Quando Werdet strinse cordoni della borsa e si rifiutò nella maniera più categorica di pagare acconti per il futuro in proporzione doppia alle somme fissate dal contratto, Balzac, assediato e braccato dai creditori, pensò all’ennesima speculazione ... errata.

  Aveva conosciuto, durante un viaggio in Italia, un commerciante genovese, certo Giuseppe Pezzi, che gli aveva parlato della Sardegna come di una misteriosa isola ricchissima di metalli preziosi.

  — ... «Argent», sì ... Potendo sfruttare le miniere, delle quali parla anche Tacito, ce ne sarebbe per arricchire. Arricchire, capite?».

  Altroché, se capiva! Non stava più nella pelle al pensiero della ricchezza. Consultò Tacito e constatò che il Pezzi aveva ragione. La località fra Sassari ed Alghero, si chiama appunto «Argentara».

  Come al solito il fanciullone inesperto si entusiasmò. Preparò i bagagli e, un po’ per sfuggire ai creditori, un po’ per quel terribile pensiero che gli frugava il cervello, torturandolo, si imbarcò per recarsi a tentar fortuna nella grande isola mediterranea. La Sardegna avrebbe dovuto rinsanguare le sue finanze esauste.

  Trovò infatti le miniere. Esse davano appena il dieci per cento di piombo e questo una percentuale minima di argento. Balzac dovette però tornarsene con le così dette pive nel sacco, in quanto il Pezzi lo aveva preceduto, ottenendo anche l’autorizzazione dal Governo piemontese per lo sfruttamento. Balzac, in una lettera alla sorella, parla addirittura di una grande sventura e di milioni sfumati. Tornò a Parigi più indebitato e sfiduciato che mai.

  Nel 1847 fece un viaggio in Ucraina per conoscere di persona (sic) una nobile polacca che si era innamorata di lui attraverso la lettura dei suoi libri.

  Eva Hanska era entrata nella vita di Balzac il 28 febbraio 1832 con la sua prima lettera di ammiratrice e vi rimase fino alla morte. Nel 1849 lo scrittore tornò nuovamente presso di lei ed il 14 marzo dell’anno seguente la sposò. Cinquantuno anni di lotte e delusioni per cinque mesi di felicità: una felicità che ebbe nome Eva Hanska, la sua più bella avventura, che non scrisse mai. Cinque mesi dopo, infatti, nell’agosto del 1850 la parabola umana di Onorato Balzac si concluse per un colpo apopletico. L’ultimo debito, quello al quale non seppe sfuggire.

  In uno scaffale della sua biblioteca, accanto ad una delle sue opere più fortunate «Contes Brolatiques (sic)», lasciò un volume rilegato dal titolo «Contes Melanconiques» (sic) con la copiosa nota dei, debiti contratti e non saldati.

  C’era anche la fattura del «Mortaio d’argento».

 

 

  Eugenio Montale, Georges Simenon a Milano. L’uomo che ha scritto centoquarantotto romanzi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 77, N. 86, 9 aprile 1952, p. 3.

 

  Balzac diceva che qualsiasi persona incontrata per la strada è degna di romanzo, purché sia spinta agli estremi e messa nella condizione di «dover fare qualche cosa».

 

 

  Glauco Natoli, Lettere di Balzac, «Il Nuovo Corriere», Firenze, 12 Gennaio 1952, p. 3.


  La bibliografia balzachiana già copiosa si è arricchita ancora — e di opere molto notevoli — in occasione del centenario della morte di Balzac. La parte più importante di queste pubblicazioni è costituita dalla riedizione di scritti poco noti dell’autore della Comédie humaine, o dalla novità di inediti dovuti alle pazienti esplorazioni di archivi e di collezioni private, che hanno portato a più duna scoperta. Gli inediti principali sono costituiti, da lettere di Balzac, che vengono a completare o a correggere quelle già note e raccolte sia nel volume XXIV delle opere complete (Calmann Lévy 1876), sia in volumi speciali, come quelli delle Lettres à l’étrangere o delle Lettres à Madame Zulma, o di corrispondenze varie. Si aggiunge ora a questi il grosso e bel volume di Lettres à sa famille (1), edito a cura d Walter Scott Hastings, noto studioso di Balzac, al quale si deve già, fra l’altro, l’edizione de Cromwell, prima fatica del tempo in cui il futuro autore del Père Goriot, simile in questo a Stendhal, pensava di raggiungere la gloria attraverso i fasti teatrali Queste lettere che lo Scott Hastings ha raggruppate erano per la maggior parte note, perché avevano già trovato posto nel volume or ora citato delle opere complete, o in altre pubblicazioni; ma il loro nuovo editore, ben lungi dal riprodurle senz’altro, ne ha scrupolosamente verificati gli autografi di Chantilly, dai quali provengono anche le lettere inedite che la nuova raccolta contiene. Il volume ci offre inoltre un complemento prezioso: tutta una serie di lettere della madre di Balzac a suo figlio, che oltre che completare quelle dello stesso Balzac, ci danno una immagine quasi insospettata di colei che Walter Scott Hastings chiama una «Cassandre tracassière, prédisant les pires calamités» ...

  Queste lettere di Balzac vanno dal 1809 al 1850: dall’epoca in cui Balzac, in collegio a Vendôme. faceva i suoi primissimi studi, all’epoca di poco precedente la sua morte: esse permettono dunque di seguire Balzac attraverso quasi tutte le fasi della sua vita e tutte le tappe della sua carriera di scrittore. Diciamo quasi tutte, giacché, disgraziatamente, dalla prima lettera (che è poi davvero la prima che ci resti di sua mano) del maggio 1809, alla seconda, dell’agosto 1819, corrono dieci anni sui quali questa corrispondenza tace completamente, se si toglie un biglietto del 1816, inviato dalla madre al figlio, e di tono tutt’altro che tenero. Per contro, le lettere del 1819 sono particolarmente interessanti: sono quelle del Balzac ventenne che tenta la prima evasione dal cercle de famille, per darsi interamente alla sua vocazione. Balzac si confida con la sorella Laura (per quanti aspetti queste lettere non ricordano quelle di Stendhal alla sorella Pauline?) e questo suo «bavardage du coeur» ci permette di renderci conto di tante sue fissazioni giovanili, frutto degli anni di collegio, durante i quali, come testimonia uno dei suoi maestri, egli si è comportato «de manière à mériter des éloges soit pour son travail, soit pour son honnéteté» ... In questo tempo, il ventenne Balzac non sogna che di classicismo e di tragedia tradizionale; la sua ambizione è quella di vincer l’oblio: «Je ne dois pas travailler pour le goût actuel, mais comme ont fait les Racine, les Boileau, pour la postérité». I duemila versi che occorrono per fare una tragedia lo occuperanno per mesi e mesi, nella composizione di quel Cromwell, per il quale ha tracciato in prosa un piano completo, ispirandosi a Bossuet nel ritratto del suo eroe. Ma giova osservare come, fin da questi suoi inizi laboriosi e febbrili, egli abbia lucidamente presentito le sofferenze alle quali andava incontro e come, ben lungi dal disarmare, egli si sia gettato per la strada prescelta con l’ausilio di una volontà inflessibile. L’orrore della mediocrità gli darà sovrumane energie ed è agli esempi maggiori che chiederà soccorso: «Je dévore nos quatre auteurs tragiques: Crébillon me rassure, Voltaire m’épouvante, Corneille me transporte, Racine me fait quitter la plume ...». Ma «si j’ai du génie, je me vois d’avance, errant, persécuté, sans asyle, martyr de Dame Vérité, mais Mademoiselle la Gloire me récompensera. Ce sera un mouchoir de poche qui essuyera bien mes pleurs». Il piano del Cromwell — la tragedia che egli destinava ad essere il breviario dei re e dei popoli — da lui comunicato alla sorella contiene notazioni saporose, che sono già una sorta di parodia della tragedia classica e mostrano come Balzac, pur irretito per i suoi studi nella tradizione (più d’una volta egli celebra la superiorità dei soggetti classici su quelli moderni), ne sentisse poi chiaramente i limiti, e quanto c’era in essi di irrimediabilmente perento.

  Ma l’importanza di questa corrispondenza oltre che in quanto abbiamo ora ricordato, risiede in quella caratterizzazione di personaggi, in quella determinazione di situazioni e di ambienti, che saranno più tardi le note dominanti e più eminentemente balzachiane della Comédie humaine. Il giova ne Balzac riconosce di buon’ora il suo genio, e nelle lettere a Laure, con visibile compiacimento lo esercita: di queste sue precoci notazioni si può dire che esse contengono già più di un germe di quelle che saranno le grandi ricostruzioni di ambienti parigini o provinciali, dove si muoveranno personaggi intravisti in una realtà, di cui si trovano qui i tangibili segni. A ragione Walter Scott Hastings suggerisce di volta in volta, nelle sue note intelligenti e precise, raccostamenti che permettono di risalire ai modelli primi di personaggi divenuti ormai celebri: così, ad esempio, nella lettera del giugno 1821, da Ville-Parisis, è facilmente riconoscibile l’idea prima di Grandet, ed anche, nelle linee principali, lo schema stesso del romanzo che si intitola a Eugénie Grandet. In questa stessa lettera, Balzac fa prova di una verve ancora tutta freschezza e ironia parodistica, scevra di quei sarcasmi di cui si andrà appesantendo il suo umore, sotto i colpi delle contrarietà; il suo racconto caricaturale del matrimonio di La Martine (sic), o i consigli in cui rifà a suo modo una celebre frase di Beaumarchais («... ignores-tu que le chagrin ne prouve rien, n’avance à rien et ne sert à rien?»), sono altrettanti indizi del suo personale colore, i cui toni vivaci si esprimono soprattutto in quel suo giocar col vocabolario, a forza di suffissi diminutivi o di improprietà riecheggianti pittorescamente il linguaggio parlato. Qui, il suo brio è spontaneo e il suo stile non sa ancora di pastiche, nè di sorvegliato esercizio: ne fanno fede l’ortografia difettosa e gli accenti di una confidenza senza riserve.

  Ma in quell’anno 1821 Balzac era tornato in famiglia, dopo il primo infelice tentativo d’indipendenza a Parigi, e già si annunziavano i disincanti e le durezze, che dovevano accompagnarlo durante tutta la sua non lunga esistenza. Quello che sarà il suo costante chagrin, ha le sue origini nei suoi vent’anni sacrificati: «Tu sauras que depuis dix grands mois je suis sans amour et sans maîtresse, et cependant je puis dire comme le Corrège: et moi aussi, je suis peintre», scrive a Laure ironizzando ancora; ma ben presto si passa ai toni cupi : «Quels chagrins puis-je avoir? Hélas c’est une longue litanie que l’on ne peut pas entamer un jour de fête ... Plût aux dieux que je ne fusse jamais né! ...»; ma dal fondo della propria, desolata, solitudine egli osserva la commedia su cui si fonda socialmente l’amore (gliene dà occasione il matrimonio della sorella Laurence) e se ricorderà precisamente, quando scriverà più tardi la sua Physiologie du Mariage. Nella sua provvisoria prigione familiare, in cui lo costrinse la mancanza di mezzi, il suo desiderio disperato — être célèbre et être aimé — non riposa che su ma speranza: le immense risorse ch’egli sente nel suo genio ancora latente, e che sole gli permetteranno — oh illusione! — la suprema evasione: «Enfin il faut s’indépendantiser, et je n’ai que cet ignoble moyen-là: salir du papier et faire gémir la presse». Quale grido di trionfo, per contro, allorché la prima opera letterari» — quella Héritière de Birague composta insieme al suo amico Le Poitevin — sarà venduta huit cents francs e quali orizzonti si schiuderanno illusori ...

  Ma non seguiremo passo a passo con l’ausilio di questa corrispondenza, la biografia di Balzac, nè la storia della sua anima, che pur così intimamente vi si lega; per molti aspetti, queste lettere ci ripetono la costante mortificazione del genio alle prese con una realtà crudele, quando non addirittura ignobile: per questo verso, da Balzac a Baudelaire, il tema della miseria ha trovato tutta una gamma di variazioni ... Balzac, almeno, si è più solidamente illuso e la sua tempra stessa, se non ha retto oltre sotto il peso dell’inumana fatica, lo ha almeno preservato da quella tragica déchéance che è stata per altri il prezzo della gloria. A illustrazione di Balzac, questo lavoro di Walter Scott Hastings non poteva essere più amorevolmente e più opportunamente condotto: noi gli segnaleremo solo da queste colonne, per la sua bibliografia, che un gruppo di lettere all’Etrangère, relative al 1848, hanno già visto, nell’estate del 1950, la luce nella Revue de Paris: e, inoltre, che in questa sua edizione delle Lettres à sa Famille, la lettera numero 9 ci sembra debba essere datata del 2 e non del 9 giugno 1821. Per il resto, non sapremmo lodarlo abbastanza di averci fornito finalmente il testo più sicuro di queste lettere che sono, a ben guardare, la completa autobiografia di Balzac.

 

  (1) Honoré de Balzac., Lettres à sa famille (1809 1850), publiées avec une Introduction et des Notes de Walter Scott Hastings, Paris, Albin Michel, 1950.

 

 

  Alfredo Niceforo, La Fisonomia nell’arte e nella scienza. Descrizione - Interpretazione - Statistica, Firenze, Sansoni Edizioni Scientifiche, 1952.

 

Introduzione.

 

  p. 5. Rivolto lo sguardo alla letteratura realista di maggiore rilievo, a noi sembrò non esservi dubbio che in quella produzione dovessimo scegliere a soggetto di esame quella Commedia umana di Honoré de Balzac che segna il cominciamento vero e proprio (a parte i precursori) della narrazione realista. Ricordiamo insino da ora che il prescegliere nel mondo delle creazioni romantico-realiste la Commedia umana viene di necessità pur dal fatto che in quelle pagine realiste la descrizione del fisico dei personaggi — volto, gesti, voce, passo, ecc. — è fatta con tanta minuzia quale mai in pagine di altro creatore di personaggi e di tipi possa trovarsi. E in più, tale descrizione è condotta mercè una tecnica così rigorosa che sembra, con i suoi precetti, esser tenuta idealmente presente da Balzac ogni qual volta si tratta di descrivere un personaggio.

 

Parte prima. Vari modi di descrivere una fisonomia.

Capitolo primo.

Le descrizioni dell’arte narrativa ...

4. – Un precursore del moderno realismo descrittivo?

 

  p. 19. Come ognun sa, caratteristica della narrazione realista o verista che dir si voglia non è soltanto la minuta e anche cruda descrizione dei caratteri fisici di un personaggio fatta dal narratore, ma pur anco quella — spesso ignorata dai romantici — del vestire in ogni suo minimo particolare, anche volgare e volgarissimo. Fu maestro in ciò l’autore della Commedia umana, tanto che qualcuno ebbe a dire di lui che prima di Balzac i vestiti dei personaggi non esistevano nel romanzo, se ne togli ciò che largamente si vedeva nelle narrazioni di Walter Scott, il quale (del resto) di necessità doveva descrivere l’abbigliamento in quanto faceva svolgere le sue scene in secoli di gran lunga lontani da quello in cui scriveva: i personaggi e gli eroi di cui narrava le avventure doveva egli, infatti, ben mostrare pittorescamente abbigliati come voleva l’epoca in cui l’azione si svolgeva.

 

10. – Il volto di Dante.

 

  p. 39. Tra le descrizioni — più o meno fantastiche — del volto di Dante composte da narratori, impressionantissima è quella che Balzac mette a noi sotto gli occhi nella sua medievale novella: Les proscrits (pag. 144 dell’edizione non illustrata del centenario), in cui si parla di un viso che sembra un uragano ma la cui fronte si innalza ardita come una cupola di marmo ...

 

12. – Continuando: la «Commedia umana».

 

  pp. 47-49. Ma la descrizione del volto di un personaggio (e anche delle principali caratteristiche fisiche della persona) quale troviamo nei documenti vari della letteratura — romanzo, novella, poesia — risulta con massima evidenza, tanto in altorilievo quanto per distesa e minuzia, nella Commedia umana di Honoré de Balzac. Appunto per ciò abbiamo scelto le pagine balzacchiane per illustrare, di mano in mano che parleremo separatamente delle varie parti del volto (e della persona), il modo con cui l’arte narrativa scrisse veri e propri capitoli di una fisiognomonia, intesa in senso largo, studiarne cioè non solo i lineamenti del volto, ma pur gli atteggiamenti, i gesti e i sintomatici caratteri della persona Inutile, per conseguenza, dare ora esempi — come invece abbiamo fatto or ora per altri Autori — della Commedia umana, dal momento che ritroveremo documentazione a tale proposito in ogni capitolo della presente opera: ciascuno di tali capitoli, infatti, come già dicemmo, tratta delle singole parti del volto (e della persona) mostrando successivamente in qual modo esse siano state descritte dalla fisiognomonia di Lavater, dall’antropologia generale e criminale, dai canoni della bellezza, dalla morfologia costituzionale, dall’arte descrittiva balzacchiana c dal segnalamento scientifico giudiziario. Ecco perché qui non diremo parola, ma è pur da aggiungersi che vi sono altre ragioni per le quali non riteniamo opportuno qui insistere. Gli è perché all’opera balzacchiana, vista soprattutto come espressione di un realismo descrittivo da considerarsi costituente la creazione del realismo narrativo, abbiamo consacrato un intero volume, non ancora pubblicato e a cui probabilmente il lettore potrà riferirsi.

  Nel quale volume si dice, innanzi tutto, per quali caratteristiche la Commedia umana possa considerarsi di narrazione realistica; si mostra come Balzac passò dal romanticismo e dalle più che inverosimili fantasticherie — da romanzo di appendice, ricalcanti le ombre e i fuochi del così detto «romanzo nero» di origine inglese — della sua prima gioventù, al romanzo realista; si fa anche vedere come il realismo della narrazione balzacchiana (non escluso il più maturo e completo) conservi pur sempre tracce della giovanile ispirazione e simpatia balzacchiana per il fantastico e il meraviglioso; sicché — per questa e per altre ragioni ancora — il realismo del Nostro è, in ultima analisi, un realismo sui generis. Inoltre, larga parte è consacrata a documentare come la visione balzacchiana della psicologia umana e della vita sociale costituisca una visione profondamente pessimista (da indicarsi: pessimismo psicologico e pessimismo sociologico), visione che forse corrisponde a una visione esatta della realtà e quindi realistica. E infine, larga parte ancora è consacrata al come e al perché tanto insistesse Balzac nella descrizione di una fisonomia (e della persona, dell’abbigliamento, dell’abitazione, dell’ambiente materiale in cui vivono i suoi personaggi) mostrandosi le derivazioni balzacchiane dall’opera di Lavater e anche di Gall, la sua credenza nelle «corrispondenze» tra il volto e l’anima, il suo vedere la formazione di una fisonomia sotto la pressione di due concorrenti forze quali il congenito carattere o eredità, da un lato, e l’ambiente dall’altro. Particolare sviluppo, poi, è dato al minuzioso esame della tecnica seguita da Balzac nel descrivere una fisonomia, dopo aver mostrato da quali fonti provenisse la profonda capacità del descrivere (il dono dell’osservazione, la capacità di sostituirsi a una persona nei movimenti e quindi nel sentire, l’ispirazione dalla cronaca, l’intuizione), tecnica che ricorre spesso al confronto con la fisonomia di personaggi storici, con quella di figure ritratte in dipinti celebri, con le linee e gli atteggiamenti (come già faceva il Della Porta) di questo o quell’animale. Il tutto è esposto senza dimenticare una possibile distinzione tra realismo, verismo, naturalismo, dell’arte narrativa[2].

 

Capitolo secondo.

... e quelle della scienza.

1. – La fisiognomica, le sue descrizioni, i suoi dettami.

 

  pp. 52-53. A questo riguardo, l’antica e la meno antica fisiognomonia non sono da considerarsi del tutto come un insieme di carboni spenti e non insisteremo, poiché della terminologia usata da Lavater nelle sue descrizioni dovremo volta a volta parlare nel condurre ragionata rassegna delle diverse parti del volto, anche dal momento che il più grande «descrittore» di fisonomie, nel romanzo realista — Balzac — che abbiamo scelto per esporne e studiarne la tecnica descrittiva, si ispirò in gran parte all'opera di Lavater, come vedremo.

 

Capitolo quarto.

Una strana anatomia descrittiva: la caricatura.

4. – Caricature: qualche personaggio della «Commedia umana».

 

  pp. 94-95. Sarebbe pur il caso di far scorrere sotto gli occhi del lettore le caricature — del volto e dei personaggi — che incidono i loro tratti nelle pagine della Commedia umana, rivelanti una tecnica che ben si riavvicina a quella di cui più sopra abbiamo dato il meccanismo. Ma poiché, come già dicemmo, all’opera balzacchiana, in ispecie alle caratteristiche del realismo di essa, è consacrato un intero scritto (da pubblicarsi altrove e nel quale, appunto, un capitolo tratta delle caricature nella Commedia umana) e poiché nei capitoli che seguono il presente, l’esame di ogni parte del volto e della persona fa pur rassegna del modo di descrivere in proposito da parte della Commedia stessa, qui soltanto a titolo di ricordo diremo alcunché brevissimamente.

  Figure in caricatura e tratti del volto, anche, in caricatura, non abbondano nella Commedia umana ... per quanto figure di tal genere non siano infrequenti nella commedia della vita reale e vengano ben viste e gustate dall’occhio di chi sa ben guardare; ma il romanziere più realista non riproduce tale quale essa si presenta — nelle sue caratteristiche di quantità e di qualità — la vita che lo circonda e che è di modello alle sue pitture: tanta parte di queste gli vengono dal cuore e non da fuori. Il romanziere realista, cioè, non è un semplice fotografo; è un artista, mai dimentico dell’arte sua.

  Ecco qualche volto. Il signor Blondet ha un naso a forma di succhiello (en vrille, nel Le cabinet des antiques, pag. 152); il profilo del notaio Ragon somiglia a uno schiaccianoci (casse-noisette, in César Birotteau, pag. 292); la degna sposa del notaio Lupin ha l’aspetto di una pipa (Les paysans, pag. 318); il notaio Regnault ha una faccia così scolorita da somigliare a un bicchiere di acqua sporca (La grande Bretèche, pag. 173). Confronti, con oggetti materiali, più o meno spregevoli, dunque. Ma anche confronti con animali non certo graziosi e benigni. Il bruttissimo La Baudraye sembra un coleottero mentre il suo ceffo è tra quello del falco e quello della faina (La Muse du département, pag. 368); il colonnello Franchessini ha una forma di naso che fa rassomigliare il suo volto a quello di un uccello da preda (Le député d’Arcis, pag. 298). Del resto, la capra, la volpe, il lupo e persino la vipera sono messi a tributo nei paragoni che Balzac fa tra questo o quel tratto del volto dei suoi personaggi (condannevoli, questi, il più delle volte) e l'animale. Abbassamenti, anche, sino al mondo dei vegetali: papà Vernelle ha una faccia da melone e un corpo da zucca allungata e gambe che sembrano due rape bislunghe (Pierre Grassou, pag. 300), il gaio Gaudissart ha un ventre che, visto di profilo, sembra una pera (L’illustre Gaudissart, pag. 328).

  Il pessimismo balzacchiano — di cui abbiamo fatto cenno poco sopra e di cui largamente parliamo altrove — dà agli onesti e ai dabbenuomini della sua Commedia ben povera faccia ... che spesso diventa una caricatura; così accade per il cugino Pons, galantuomo per eccellenza, la cui faccia è schiacciata come una zucca, senza dire che l’insieme del suo volto richiama quello che i cinesi inventarono per le loro maschere, quasi disossato, gelatinoso e flaccido (Le cousin Pons, prime pagine).

  Insomma, ad ogni arma ricorre la caricatura quando ha da denigrare — sia per intimo senso di malvagità, di invidia, di rancore, sia per ubbidire obiettivamente a ciò che le detta la realtà — umani personaggi nel loro volto e nella loro sagoma.

 

Parte seconda. Il volto.

Capitolo primo.

La fronte.

4. – La fronte dei personaggi della «Commedia umana».

 

  pp. 111-115. Nomenclatura ricca e ricchissima, assai spesso obiettiva, con l'intesa — si avverta – che alle diverse forme e caratteristiche della fronte, pittorescamente descritte, corrispondono speciali note del carattere, vale a dire della «mente» e del «cuore», nomenclatura, si aggiunga, ogni tanto frammista a impressioni romantiche, si trova a ogni passo della Commedia umana di Honoré de Balzac.

  Senza dubbio, i termini da potersi considerare come obiettivi, adoperati dal nostro romanziere realista per descrivere (tanto obiettivi che si ritroveranno essi pressoché identici nel rigoroso «ritratto parlato» dei nostri dì) sono abbastanza numerosi, ma il romanziere pittore, scultore e poeta romantico (nonostante il suo realismo), adopera anche – sempre per la fronte — terminologia puramente di impressione, come sùbito si vedrà. La terminologia obiettiva, insomma, viene incastrata quasi sempre nel coloritissimo smalto di una fraseologia vibrante di subiettività, a volte calda di poesia e di romanticismo.

Aggiriamoci, soffermandoci a quando a quando, tra la folla dei personaggi della Commedia ... e guardiamo la loro fronte.

 

a) Ampia fronte, luce dell’intelligenza.

 

  La notevole ampiezza della fronte (altezza, larghezza), insieme al notevole volume della testa, più volte si trova nei personaggi balzacchiani della Commedia umana, a compagnia della genialità e dell’eccezionalità, così come, del resto, la tradizione suggeriva, la fisiognomonia insegnava e come, forse, l’antropometria moderna sembra pur confermare con una di quelle « leggi » statistiche, o di gruppo, o collettive, che sono così vere in generale, ma che possono essere tanto false in questo o quel caso particolare.

  Un esempio tipico si trova in quella descrizione della fronte dantesca (di cui già avemmo occasione di parlare) che Balzac vede slanciata in alto con ardire (avec une sorte de hardiesse) come cupola marmorea. In tale descrizione non si fa uso, davvero, di un dizionario tecnico di fisiognomonia ma si adopera una aggettivazione sentimentale e poetica; tuttavia, si ha chiara impressione delle ampie dimensioni di quel cranio, oltre che precisa idea della misteriosa legge che vede sulla fronte riposare il genio. È la fronte di Dante.

  Altro ambiente e altro secolo: Calvino, poggiato al braccio dell’infermiera che lo aiuta a muovere il passo, appare. «Ha testa prodigiosa e imperiale». La fronte di lui si apre «ampia e della più bella forma». Testa di grandi dimensioni, «quadrata, quasi rientrante tra le larghe spalle» (Catherine de Médicis, p. 207). La terminologia e abbastanza obiettiva, ma Balzac nel guardare una fronte crede potervi vedere (proprio come quel Lavater di cui tanto spesso egli parla) altra cosa oltre che linee anatomiche. Per la fronte di Calvino «serena e potente», Balzac dice leggersi su di essa «tracce di rimpianto».

  Accanto al Maestro Calvino, Balzac mostra in azione Théodore de Bèze, agitatore e riformatore, la cui fronte è «notevole per ampiezza, quell’ampiezza che è carattere proprio agli scrittori e ai poeti». Bèze, infatti, oltre ad essere il vivace riformatore calvinista, ognor pronto alla propaganda e all’azione, non era stato pur l’autore dei latini Poemata juvenilia e, più tardi, maestro di lettere greche, rettore dell’Accademia di Ginevra, traduttore dei Salmi di Davide, del Nuovo Testamento e anche storico delle Chiese riformate di Francia?

  Ecco ora, dopo le fonti storiche, una fronte immaginaria ... ma immaginaria sino a un certo punto poiché essa riproduce quella che lo stesso Balzac mirava guardandosi nello specchio: la fronte di Louis Lambert, nel romanzo dello stesso nome. La fronte di Louis Lambert, il fanciullo prodigio, sotto la cui trasparente maschera è facile ritrovare il volto di Balzac adolescente, ha «dimensioni straordinarie»; la testa, del resto, era di notevole grandezza (d’une grosseur remarquable). Inoltre, curva purissima delle due arcate orbitarie, il che da bellezza a quella fronte e quasi un senso profetico (p. 21). «Fronte profetica» scrive Balzac, aggiungendo così colori della sua tavolozza di pittore alla precisione anatomica e al lessico di Lavater ... Dietro quella fronte profetica un tumulto di pensieri, l’ardore bruciante della creazione intellettuale ... tanto bruciante da condurre quell’anima (quasi farfalla che va alla fiamma) verso la pazzia e in quell’abisso distruggerla. Balzac con ciò confidava al racconto che andava tessendo il tormentoso dubbio (altrove espresso da lui stesso) che l’intenso travaglio del cervello lo avrebbe condotto a perdere il senno? E si sbarazzò forse egli medesimo (senza sapere di ricorrere per tal modo a una psicoterapia di sé stesso) dell’idea che poteva ossessionarlo, consegnandola e minutamente descrivendola nelle ultime pagine di quel suo romanzo autobiografico? In esse, infatti, il giovane filosofo — Louis Lambert — è rappresentato nelle tenebre della stanza solitaria e della sua follia, assistito dalla affettuosa cura della fedele fidanzata che mai lo abbandonerà. Si tiene immobile e silenzioso per lunghe ore, senza luce negli occhi, sussurrando a quando a quando parole che lasciano credere che egli stia contemplando angeli nel cielo: Les anges sont blancs! (p. 117).

  Altre fronti geniali di uomini si disegnano nella Commedia. Il buon abate Chaperon, parroco di Nemour, soprannominato — niente di meno — il Fénelon del luogo, aveva «fronte vasta, presentante ben in rilievo le arcate sopracciliari, formanti come due volte»; una vastità di fronte, davvero, degna di quegli che scrisse Les aventures de Télémaque (Ursule Mirouet, p. 43). Un altro personaggio — geniale e stravagante — Marcas, ha «grande testa e robusta, che sembrava rinchiudere tutti i tesori necessari per sodisfare la più alta ambizione ... Era come carica di pensieri e piegante, quasi vinta, sotto il peso di un grave dolore morale» (Z. Marcas, p. 315). Altra fronte: Joseph Bridau. geniale pittore, aveva (da bimbo) straordinario volume della testa e larga distesa della fronte sì che si temeva che fosse idrocefalo (Un ménage de garçon, p. 23). Tanto è convinto Balzac della connessione tra volume della testa e intelligenza, che quando trova — o descrive — uomo rozzo, incolto e dal pensiero ristretto che pur si trovi ad avere testa voluminosa, fa in qualche sorta sue meraviglie ed accenna a possibili eccezioni alla nota regola. Brutale, quel Minoret-Levrault dalla grossa testa, ma qui Balzac fa osservare che quel selvaggio e stupido individuo «con le enormi dimensioni del suo capo attestava che la scienza di Gall (da cui si impara che grossa testa è compagna di alta intelligenza) non aveva abbastanza insistito sulle eccezioni a tale legge» (Ursule Mirouet, p. 5).

  E tra le donne possono trovarsi fronti geniali? Balzac non fa la questione, oggi più volte ripetuta, se possono darsi donne di genio, ma più volte mette sulla fronte di alcune sue donne quel segno. Larga, potente, sognatrice, è la fronte di Honorine: «una fronte da poeta» (Honorine, p. 50). La duchessa Cattaneo, donna intelligente, capace di sostenere dialoghi di serio contenuto, di politica e di filosofia ha larga fronte (front volumineux) (Massimilla Doni, p. 191). E la fronte di Mademoiselle Camille Maupin, personaggio nel quale Balzac rappresenta George Sand, come rivela il fuoco del genio! È una fronte «piena, larga, rigonfia alle tempie, illuminata da quelle sue ondulazioni ove la luce si arresta» (Béatrix, p. 21). Altrove, infine, descrivendo fronti di donne in occasione di un lussuoso e aristocratico trattenimento danzante nei saloni di lady Dudley, si dice di alcune di quelle fronti essere «sublimi e maestose» e altre «dolcemente rigonfie, come se il pensiero vi abbondasse» (Une fille d’Eve, p. 266).

 

b) Stretta fronte e bassa, «parva mens».

 

  Per i nostri scrutatori del volto, cui tanto Balzac — come qui e altrove mostriamo — si ispirò, fronte stretta, angusta, bassa, si accompagna con parva mens. Fronte stretta, mente stretta. Lavater aveva già detto un qualché di simile, sulle tracce dei suoi illustri e non illustri predecessori; anche Carus, al principio del secolo, nel dividere idealmente il cervello in 3 porzioni: l’anteriore, la parte media e la parte posteriore, sentenziava trovarsi connessa la parte anteriore con l’intelligenza e con lo sviluppo della fronte, laddove lo sviluppo della parte media e dei parietali doveva trovarsi in rapporto con Io sviluppo dei sentimenti; lo sviluppo della parte occipitale, invece, contrassegnava forza di volontà ... Il tutto, riprodotto più volte, sino a sazietà nei trattati e trattatelli dell’epoca. Si parlava ancora, e non poco, di quel largo studio di John Cross: An attempt to establish physiognomy upon scientific principles (Glasgow, 1817), in cui, tra l’altro, si osservava che là dove la mascella è più larga della fronte, la sorgente del pensiero è più ristretta; viceversa, il contrario accade quando la mascella è più stretta della fronte. Ecco perché, nel romanzo balzacchiano, l’abate Fontanon, che dovunque intriga con angusta ristrettezza di pensiero e di cuore, è provvisto — per sua disgrazia e per disgrazia altrui — di «fronte stretta, indicante spirito angusto, fronte che si alza su faccia dai tratti comuni, alcuni dei quali stanno a testimoniare l’egoismo dell’individuo, ecc. ecc.» (Une double famille, p. 301). Mademoiselle Cormon ha fronte piccola «il che annunzia scarsezza di idee» ... ce front annonçait trop peu d’idées (La vieille fille, p. 44). Brutto significato ha la fronte bassa. Quella povera madame Jeanrenaud, da non confrontarsi davvero con una Venere, che appare ne L’interdiction per ricevere inaspettata eredità, ha fronte bassa come conviensi a donna comune e grossolana, quale Balzac la presenta (p. 261). Fronte piccola e bassa è la fronte del mulatto che figura nella Fille aux yeux d’or, una fronte piccola e bassa che per di più «ha un qualche che suona minaccia» (p. 3119. Del resto, in quell’uomo, un aspetto che faceva pensare al boia di Luigi XV. E ancora, quante brutte cose si leggevano in quella fisonomia! Vale a dire: «la vendetta, il lampo del sospetto, la rapidità dell’azione, la forza del sangue africano e l’impulsività del bimbo» (p. 311). Qualità tutte, o in parte, da ritenersi in rapporto con una angusta fronte contrassegnante un tipo umano gerarchicamente inferiore o sottoevoluto? Infine, graziosa è la fronte della giovane Angélique, ma stretta e, sul volto — composto di varie bellezze — «una specie di rigidità silenziosa» (Une double famille, p. 312). Tanto basti per far comprendere il destino di tutta una vita «chiusa nell’angustia di una severa e più che glaciale educazione di assoluto bigottismo»; quella creatura, pur avvenente e glacialmente virtuosa, ma— dalla fronte stretta, renderà infelice lo sposo e insensibilmente e fatalmente da sé lo allontanerà.

 

5. – Continuando con le fronti della «Commedia umana».

 

  pp. 117-127. Fronti delle più varie fogge vede e descrive Balzac, cariche – più o meno – di sentimenti ben diversi da fronte a fronte: sfuggente, piatta, liscia, ma stretta, prominente, ecc. ecc... Qualche richiamo in proposito.

 

a) Fronte sfuggente, fronte piatta, fronte liscia.

 

  Una fronte sfuggente non ha mai avuto buona reputazione, forse per il ricordo che essa fa di fronte di animale (per quanto questo sia in tante cose superiore all’uomo!). Il magro, secco, sfilato e lungo notaio Regnault, che non è un’aquila per intelligenza o per altra qualità del carattere, e che è un po’ una caricatura per uno stereotipato suo intercalare, ha testolina piccola e appuntita; ha pure — e ciò non poteva non essere — fronte sfuggente (La Grande Bretèche, p. 173). Il presidente du Ronceret, politicante per interesse, saturo d’invidia, di carattere acido e scontroso, secco e sottile, ha fronte sfuggente ... oltre che labbra serrate e voce spenta (Le cabinet des antiques, p. 148).

  Anche la fronte piatta non gode buona fama. Avrebbe essa significato di ostinazione (quasi che, secondo le idee istintive analogiche, le opinioni e i suggerimenti altrui vadano inutilmente a cozzare contro quel muro); scrivendo di alcune fronti di donna che presentano tale carattere (front plat) il nostro romanziere nota: «fronti piatte, come se una resistente ostinazione vi risiedesse, mai vinta» (Une fille d’Eve, p. 266).

  Persino la fronte liscia (altro aggettivo che ritroviamo nelle descrizioni in questione; parrebbe indicare — secondo il criterio analogico già accennato — mancanza di pensiero? La fronte di Florine, giovane e bella artista della scena e dell’amore, è «liscia come di donna che getta da sé lontano ogni cura e ogni pensiero e che, pur facile a cedere, si impunta o si ostina e a nessuna ragione dà ascolto; fronte che si sarebbe detta essere stata foggiata da un solo colpo di scalpello» (Une fille d’Eve, p. 272).

 

b) Altre fronti: prominente, bombé, imperiosa.

 

  Fronte arrotondata e prominente (front arrondi et proéminent) è indicazione adoperata dalla nomenclatura balzacchiana. Ha essa un profondo e segreto significato? Per Balzac, a quanto pare, la prominenza della fronte deve portar seco largo bagaglio di idee compresse e represse nell’alto della fronte da cui par non riescano ad espandersi; si tratta, probabilmente, di uno di quei giudizi che noi diamo sulle cose, guidati non tanto da una logica più o meno aristotelica, quanto dalla logica ... magica che si basa incoscientemente sulla analogia e sulla associazione (in questo caso, sull’analogia tra il concetto di idee che si accalcano nel cervello, dietro la fronte, c la prominenza di questa sorto tale pressione). Sentite, infatti, che cosa vede Balzac nella fronte della contessa di Mortsauf, immaginaria creatura in cui Balzac ritrae viso e passione di una donna che egli aveva ben conosciuto e amato: arrondi, proéminent, comme celui de la Joconde (Le lys dans la vallée, p. 82). E però «appariva rigonfia di idee che non si erano potute esprimere, di sentimenti repressi ... come fiori annegatisi nel fondo di un’acqua amarissima».

  Ecco ancora una fronte prominente e convessa insieme: Ida Gruget, vivace grisette parigina — guancia color di rosa, colorito candido, delicati lineamenti, occhio brillante, capelli inanellati — ha una fronte convessa assai prominente (Ferragus, p. 72). Sotto quella fronte, così fortemente convessa, un agitarsi di quelle passioni che condurranno poi la povera grisette a darsi la morte?

  Di solito, nei ritratti della Commedia, front bombé è accompagnato da altri aggettivi: «front bombé, alta e imperiosa» è la fronte di Zélice Minoret-Levrault; di quella donna si dice che «moglie di un mastro di posta — una vittima, quest’ultimo, di tanta moglie — obbligata dalle cure della casa e dell’azienda ad avere volontà per due, ne aveva sempre per tre» (Ursule Mirouet, p. 59). Donna che finisce l’esistenza sua come ospite in una casa di alienati: ancora una volta, colpa di quella fronte imperiosa?

 

c) Strane fronti. Genio e pazzia.

 

  Un’altra fronte su cui, secondo Balzac, è scritto il destino dell’uomo è la fronte dell’augusto vegliardo, maestro insuperato di pittura, vivente nell’irreale mondo dei propri fantasmi, Frenhofer, pittore fiammingo, gran signore del disegno, del colore, delle luci e delle ombre. Laggettivazione balzacchiana dice così: «una fronte convessa (bombé) prominente, che cade sporgendo sull’alto naso ... arcate sopracciliari fortemente disegnate» (Le chef-d’ oeuvre inconnu, p. 313). Fronte travagliata, dunque, e non solo per fatiche e sofferenze iscritte nelle sue rughe da una vita di tormento, ma anche e soprattutto per la congenita natura della immutabile rigidità delle ossa. Fronte travagliata, in cui brucia un pensiero che, dopo aver portato l’uomo alla gloria, fatalmente lo trasporta lontano dalla vita sì da farlo precipitare in quel perpetuo sogno — tanto profondo per il sognatore da non più distinguersi dalla realtà — che è la follia. Frenhofer lavorava da tempo e in segreto a una grande tela: una donna mirabile che si muoveva nell’aria come fosse viva, che vi si staccava dal fondo di colori e che parlava, una donna con la quale egli piange, ride, conversa, facendola partecipare alle gioie e ai dolori dei suoi pensieri (p. 335). Un dì gli amici e discepoli, tra cui il grande pittore fiammingo Pourbus (sic) e Nicola Poussin allora giovanissimo, ottengono da lui che tanta opera possa venire da loro ammirata e da lui stesso sono condotti dinanzi all’incanto del quadro. Ohimè! Sulla tela, una iridescente confusione di colori variegata da una moltitudine di bizzarre e scontorte linee ... un ammasso di rottami, quasi di spezzate e polverizzate opere d’arte! Ma il pittore vedeva, entusiasta, in tanto disordine di colori ciò che là non esisteva e accorgendosi della stupita meraviglia dei discepoli: «Che mai guardate, meravigliati, quasi cercaste alcunché? Siete dinanzi a donna viva, e non a un quadro!».

  Qualche psicologo della psicologia profonda potrebbe, al riguardo di sì curiosa scena, far notare che: l’artista è un visionario creantesi un mondo fittizio entro il quale cerca vivere, ma un mondo che egli ben sa essere e rimanere fittizio, mentre l’alienato è anch’egli un creatore del mondo irreale in cui vive, con la convinzione, però, che si tratti di vera realtà, sicché l’artista è un creatore che non riesce nella propria finzione o pazzia, mentre l’alienato è un artista a cui riesce in modo perfetto la propria opera d’arte. Frenhofer, artista guidato dalla follia, a poco a poco conquistato da essa, è un artista che riesce nella sua follia.

  In medesime condizioni, o ancor peggio, quel Balthazar Claës che tutta la vita spende nel correre dietro a un inafferabile (sic) raggio di luna (la fabbricazione del diamante) e che, da quel sogno preso, più non vede la vita che gli sta intorno. Sulla sua fronte un’orribile sofferenza aveva inciso una piega tra le due sopracciglia, quella piega che si incide in seguito alla frequente manifestazione dei sentimenti più profondi; fronte larga «piena di quelle protuberanze in cui Gall ha collocato il mondo della poesia» (La recherche de l’absolu, p. 18). Della poesia — voleva dire Balzac — e dei fantasmi. E subito dopo aver disegnato cotali tratti, il romanziere torna con lo spirito a Lavater suggerendo che costui «avrebbe certamente voluto studiare quella testa (di Balthazar) in cui si leggevano la pazienza, la lealtà, il senso del giusto e dell’onesto, una testa in cui tutto era largo e grande, in cui la passione si affacciava come se fosse calma, appunto perché grande» (p. 20). Genio e pazzia, se non ci sbagliamo, si presentano, ancora una volta tra loro avvinti, al pensiero balzacchiano.

  Se il pittore Frenhofer, al cui genio tutti si inchinano, termina tra le visioni più fantastiche la sua vita e Balthazar insegue sulle ali della sua follia le più iridescenti chimere, anche Louis Lambert (nel romanzo dello stesso nome), genio possente, precipita, come poco sopra vedemmo, nel disfacimento più completo del pensiero e dei sensi: egli vede il tumulto delle sue grandi idee fiammeggiare e ardere per dissolversi nella grigia cenere della follia ... Si avverta che le tre composizioni furono scritte da Balzac, si può dire, una dopo l’altra a breve distanza: 1831, 1832, 1834. Aveva egli in mente — oltre che il risultato delle sue osservazioni e delle sue introspezioni — l’adagio del De tranquillitate animi di Seneca: Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae? (XV, 16). O cercava egli, senza averne piena coscienza, di sfuggire alla demenza (da cui si temeva minacciato) descrivendola con compiacenza e — per così dire — scaricandola in quelle descrizioni?

  Si avverta anche che a proposito di Balthazar Claës, tutto dimentico delle cose della vita, l’Autore si chiede se il genio non sia «un perpetuo eccesso, che divora il tempo, il denaro, il corpo, e che conduce all'ospedale più rapidamente ancora di ciò che possano fare le passioni malvage» (p. 20). Che importa, se tante sofferenze vengono poi compensate da una sopravvivenza ideale, nella memoria degli uomini dopo che gli occhi si sono spenti alla luce? «Il genio — scrive Balzac nella dedica de La recherche de l’absolu a Madame Josephine Delannoy, nata Doumerg — ha il sublime privilegio di portare, con la vita delle sue opere, sempre viventi, il proprio cuore di là dall’esistenza materiale».

 

d) Altre fronti ancora: con protuberanza, a gobba, angolari, a punta, ben modellate; particolarità realistiche.

 

  Indicazione specialmente adoperata per la fronte di uomini agitati dal pensiero e anche da uomini ricchi di pensiero e di azione insieme, è: fronte ricca di protuberanze; esse ombreggiano, come già vedemmo, la fronte di Balthazar Claës e si disegnano pur su quella del dottor Benassis. È costui l’angelo dei poveri, misericordioso e soccorritore, venuto tra i miseri di uno sperduto contado quale medico condotto a seppellire gli affanni della sua vita. «Fronte leggermente arcuata, ma piena di protuberanze, tutte più o meno significative» (Le médecin de campagne, p. 23). In più, testa di ampie dimensioni; ma di quelle teste che proverbialmente son dette: teste quadrate» (materialmente e psicologicamente). In qualche tratto di tale pittura si è voluto riconoscere l’autoritratto dello stesso Balzac. Qui l’influenza di Gall parrebbe chiara, quel Gall di cui tanto si parlava ancora ai tempi di Balzac, a proposito delle famose protuberanze e bozze.

  Protuberanze significative e rughe trasverse insieme, contrassegnano la fronte dell’avarissimo, acerrimo e dispotico, Félix Grandet, accanto al quale la misera Eugenia, sua figlia, e la moglie si consumano di dolore ... (Eugénie Grandet, p. 7). Le significative bozze di cui si parla, sono tali — per Balzac — in quanto costituiscono le protuberanze corrispondenti a quelle facoltà che Gall chiamava «senso della proprietà» (comprendente l’istinto del furto)? E che Spurzheim chiamava «desiderio di possedere, istinto di acquisizione»? E che Mackensie designava con la parola «acquisività»? Par non vi sia dubbio, inquantoché in altre pagine lo stesso Balzac parla di significative bozze sulla fronte di ingordi e avari (come più in là avremo occasione di vedere), proprio riferendosi al fondatore della frenologia.

  Un aggettivo che il nostro romanziere-pittore adopera nelle sue descrizioni per la fronte è l’aggettivo busqué che, nel francese corrente, significa ricurvo, convesso, ma che, nella terminologia del recente ritratto parlato, si adopera esclusivamente per indicare una spicciale forma di convessità del dorso del naso visto di profilo; forma che in italiano si suol tradurre con l’indicazione: profilo gibboso o a gobba; e cioè, il profilo del dorso, dopo essersi presentato per breve tratto rettilineo, quasi si spezza e discende a picco. Balzac con la sopra detta indicazione voleva parlare semplicemente di fronte ricurva nel suo profilo, o di fronte a forma angolare, il cui profilo quasi al sommo del suo tratto si spezza per scendere poi quasi a piombo sulla radice del naso? Fronte di tal genere (front busqué) aveva Amélie Camusot de Marville, l’astuta moglie di quel giudice Camusot che tanta bella e buona carriera fa grazie, appunto, alle astuzie e ai maneggi di tale moglie (Le cousin Pons, p. 404). Non si dice con ciò che tale bagaglio di abili raggiri femminili (tutto nascosto dietro quella fronte, angolare o ricurva che fosse) sia diretto prodotto di tale forma, ma ciò si potrebbe lecitamente supporre, date le misteriose e non sempre legittime connessioni che Balzac vedeva tra fronte e carattere.

  Nella terminologia del dizionario balzacchiano per la fronte, troviamo anche la fronte a punta (front pointu) che, a dire il vero, non si rinviene nelle nomenclature anatomiche, artistiche o nel ritratto parlato, ma che forse al nostro dipintore ben serviva — si tratti di una fronte appuntita in alto o appuntita verso la sua metà o a profilo di carena che si avanza — quando i suoi colori tratteggiavano figure piuttosto sbilenche e risibili. Fronte puntuta, segnata da rugosità rossastre, sovrasta una faccia che sembra una smorfia; tale il duca Cattaneo (Massimilla Doni, p. 202), una rovina fisica in causa degli stravizi. Una specie di marionetta.

  Esiste per Balzac anche una fronte «ben modellata» come ne esistono «mal modellate»; l'indicazione si riferisce senza dubbio all’aspetto generale, più o meno armonico, nelle sue linee e nella superficie, dell’intera fronte, vista soprattutto di prospetto, ma è indicazione piuttosto subiettiva che mal potrebbe figurare in una rigorosa e obiettiva nomenclatura. Di una bella modellatura della fronte parla Balzac nel dire della fronte della gentilissima orfanella Ursule Mirouet, fronte in piena armonia con due occhi dolci e fieri al tempo stesso (Ursule Mirouet, p. 67). Si tratta di una fronte senza imperfezioni, perché «ben modellata» è l’anima di quell’orfanella? ... Siamo sempre in tema di analogie, di origine più o meno prelogica. Anche fronte «ben modellata» aveva la giovane, brillante e seducente Clémentine Laginska; ma il nostro Autore fa inoltre notare che «quella fronte è pur volontaria» e che su quella fronte ben modellata «si disegnavano rotondità caratteristiche, proprie alla parigina volontaria che ride di tutto, che ha pensiero intelligente, colto e inacessibile (sic) a seduzioni volgari» (La fausse maîtresse, p. 59). Quante cose vedeva Balzac, forse dimentico del suo credo realista, ma troppo fiducioso in Lavater e in Gall, oltre che di continuo sedotto dai suoi sogni di artista, in una fronte di donna e in ispecie nella modellatura!

  Tuttavia, il realismo di Balzac si fa sempre sentire. Descrivendo questa o quella fronte con termini obiettivi e attraverso le finzioni dell’arte, qualche particolare realista non viene dimenticato, come a dire le sottili venature, la colorazione, le lentiggini, e persino le piccole pustole.

  Sulla bella fronte di Gabriella Beauvouloir — una bellezza dolce e celeste — correvano sottili fili azzurri che la screziavano leggermente (L’enfant maudit, p. 83). Particolare di schietto naturalismo si ha nel descrivere la fronte di Rosalie de Watteville, giovane ma acidissima e capace di ogni intrigo sino alla lettera anonima e alla calunnia più nefanda: «qualche lentiggine (tâches de rousseur) nuoceva allo splendore di quella fronte, d’altronde ben disegnata, ma sovrastante un viso piatto e insignificante» (Albert Savarus, p. 208). Jean-Jacques Rouget, stupido e brutto, ha «una fronte disseminata di pustolette che sembrano piccole ulcere, quasi orribile corona, indice attribuito a sangue malato» (Un ménage de garçon, p. 156).

 

e) Fronti di fantasia?

 

  Le descrizioni balzacchiane della fronte, come già accennammo, mescolano arditamente l’aggettivo realista e obiettivo al tocco sentimentale e romantico, ecco perché tra i personaggi della Commedia appaiono quelli che hanno fronte «religiosa», o di angelo decaduto, o di fermo carattere, o con i segni della sfortuna, ecc. ecc. Quale la fronte della malinconica marchesa Julie d’Aiglemont – una malata — che, accompagnata dalla sua malinconia, passa attraverso drammatiche avventure? Su quella fronte (una bella fronte) una «religiosità dominante che doveva di continuo cacciarne in fuga i peccaminosi pensieri involontari, quei pensieri che dalla nostra imperfetta natura vengono ognor suggeriti» (La femme de trente ans, p. 73). Fronte bella e per di più «religiosa»! Ardita intuizione balzacchiana, come si vede da tale frase, che non solo vede la «religiosità» in una fronte, ma che anche sembra preannunciare le moderne affermazioni dell’Io profondo. Affermazioni descriventi le oscure lotte che nel sottosuolo psichico dell’Io si compiono allorché la spinta egoistica cerca spezzare la barriera che ad essa oppone la Censura morale? O semplicemente un riflesso di quelle diffuse e tanto vere dottrine simboliche sull’eterno combattere tra l’Angelo custode e il Maligno, nel cuore degli uomini? O, ancor più semplicemente, frutto della costante osservazione che, guardando intorno a sé, Balzac faceva dei personaggi affollanti la vita quotidiana, tra i quali, senza dubbio, se molti se ne trovano che par si compiacciano nel servire il Maligno, mentre altri se ne incontrano che paiono davvero destinati a formare l’angelica farfalla, frequenti son coloro che menano l’esistenza nel travaglio di una continua lotta tra le istanze del male e gli avvertimenti del bene?

  D’altra parte, quale mai può essere la fronte di un angelo decaduto? Eppure, tale è la fronte di Madame de Beauséant, una fronte «da angelo decaduto che è orgoglioso dei suoi peccati, ne chiede perdono» (La femme abandonnée, pagina 269).

  Quante cose, dunque, vedeva Balzac nelle linee e nei segni di una fronte! Troppe, senza dubbio. Sulla fronte della giovane Marguerite Claës si legge «una risoluzione (fermeté) di carattere, pur nascosta sotto il velo di una apparente calma e di una apparente dolcezza» (La recherche de l’absolu, p. 89).

  Ancora, quante cose — troppe cose! — si leggono sulla fronte del conte di Mortsauf! Piatta, troppo larga per il resto del viso che finiva a punta, solcata da righe orizzontali par marches inégales; testimoniava vita in contatto piuttosto con l'aria libera della campagna che non con le fatiche della mente, il peso di una dura sfortuna e non gli sforzi compiuti per fare ad essa contrasto e dominarla (Le lys dans la vallée, p. 40).

  E infine, che cosa è mai una fronte la quale «annunzia semplicità di vita»? Eppure, tale è la fronte del buon Cesar Birotteau (nel romanzo dello stesso nome, p. 229). Indicazione di tal genere non si trova davvero in precedenti pagine dell’antica fisiognomonia; ma Balzac ... aveva doppia vista.

 

f) La fronte degli Enciclopedisti ... e degli atei.

 

  Ecco, invece, una nuova indicazione precisa: «fronte alta, leggermente fuggente al sommo» adoperata per il dottor Minoret, ma il romanziere subito aggiunge che tale fronte è quella di un Enciclopedista del XVIII secolo; a tali Enciclopedisti Balzac largisce frettolosamente l’obbrobriosa qualifica di materialisti (Ursule Mirouet, p. 61). Aggettivi di tal genere sono sempre a disposizione nostra per discreditare coloro che hanno il torto di non pensarla come noi. E quel dottor Minoret — continua Balzac — davvero, aveva un profilo che ricordava da presso il profilo da medaglie di Federico il Grande (lo scettico), di Helvétius (il filosofo incredulo), del protestante Boissy d’Anglas (deputato del Terzo Stato, eroico presidente della Convenzione nelle giornate del tumulto) «profilo severo e quasi puritano, colorazione fredda, espressione di un senso quasi matematico». Medesimi caratteri, assicura Balzac, nei ritratti degli Enciclopedisti, degli oratori della Gironda c simili, gente tutta che si proclamava deista, ma che in verità — accusa sempre Balzac — altro non era se non atea perché le déiste est un athée sous bénéfice d’inventaire. Giustissimo, poiché si è sempre atei per coloro dei quali non si accoglie la credenza religiosa.

  Sarebbe forse da addossare il sopra denunciato «ateismo» a quel ripiegare che l’alto della fronte di Minoret fa su sé stessa attestando in tal modo la continua riflessione e la rendeva al continuo esercizio della fredda ragione? Infatti, ricordi il signor lettore che per quel Lavater che bene era conosciuto e ammirato da Balzac, tale disegno di fronte indicava riflessione fredda e profonda: «se, nonostante il suo abbassarsi perpendicolarmente (si legge negli scritti della Scuola fisiognomonica di Zurigo) la fronte si inarca leggermente al sommo, ciò sta a pronosticare riflessione fredda e profonda» ... come già dicemmo poco sopra.

 

g) Ancora altre indicazioni descrittive balzacchiane tra l’obiettività e la fantasia.

 

  Fronti pure, fronti da artista e misteriose, fronti graziose, belle, implacabili, minacciose e persino fronti militanti, ecc. ecc... Eccone alcune.

  Lo sventurato e nobile Etienne d’Hérouville — figlio maledetto e infelice — ha una «fronte pura» (L’enfant maudit, p. 48). Anche il grave volto del generale d’Aiglemont è sovrastato da una fronte «larga e pura» (La femme de trente ans, p. 168). E che dire di una fronte da artista, di una fronte geniale, di una fronte bellissima, di una fronte misteriosa? Wenceslas Steinbock, infatti, pittore e scultore di talento, ha una «fronte d’artista»; Raphaël de Valentin ha una fronte graziosa che, al tempo stesso, «esprime la genialità» (La peau de chagrin, p. 303); Maxime de Trailles ha fronte «bellissima» in accordo, del resto, con la sua intelligenza (Le député d’Arcis, p. 106) ...; l’eroico e dimenticato colonnello Chabert ha «una fronte che all’intero volto conferisce un qualche di misterioso» (Le colonel Chabert, p. 108).

  E che dire di una fronte implacabile, minacciosa, di una fronte militante, di una fronte vigorosa, di una fronte selvaggia? La duchessa d’Argaiolo, ammirata nel grande suo ritratto (siamo nello studio di Albert Savarus), ha «fierezza nella fronte implacabile; si direbbe un vero Arcangelo Michele, angelo della giustizia» (Savarus, p. 306). Ancora una fronte implacabile, ma di ben diverso carattere dalla precedente (forse perché di maschio e di guerriero e non di donna come la precedente?) è la fronte del terribile condottiero conte d’Hérouville — siamo nel 1591 – fronte «implacabile come la guerra che in quell’epoca tra loro si facevano la Chiesa e il Calvinismo ... rimaneva minacciosa pur durante il sonno» (L’enfant maudit, p. 6). II vecchio magistrato che nascondeva sé stesso e la sua miseria sotto il nome di Bernard aveva «fronte alta e di aspetto minaccioso». In quella fronte si spiegava il pensiero che pur appariva dagli occhi (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 187). Si parla persino di una fronte «militante», altro aggettivo non davvero realista e obiettivo, ma squisitamente fantastico; si tratta della fronte del battagliero calvinista Chaudieu: uomo ardente, dai capelli bruni, magro per le lunghe veglie, dal colorito giallastro, dal parlare eloquente, dagli occhi bruni e fiammeggianti, dal mento corto e rialzato (Catherine de Médicis, p. 60).

  La fronte può anche essere «vigorosa» secondo la terminologia balzacchiana. Il marchese Armand de Montriveau, soldato valoroso, esploratore attraverso l’Africa nera, ha — appunto in connessione con tutto ciò? — «una fronte vigorosa» una maschera che ricordava quella del maresciallo Kléber (La duchesse de Langeais, p. 172-173). Vi sono anche, per Balzac, fronti fiere e fronti selvagge. Quella di Ginevra di Piombo è fronte «di marmo su cui si dipingeva fierezza» ... ma quella donna è figlia di Corsica (La vendetta, p. 187); fiera e la fronte di Madame Firmiani, seducente personaggio nel romanzo dello stesso nome. Fronte selvaggia è quella del contrabbandiere Butifer: «una fronte su cui alita selvaggia intelligenza, aperta su maschia figura bruciata dal sole» (Le médecin de campagne, p. 157). La fronte dell’ex forzato Farrabesche, ora profondamente pentito, è «superba» (Le curé de village, p. 196). Non esiste anche una fronte rude e proba? Il pescatore Cambremer, rude uomo del mare, di assai duro e inflessibile carattere, ha «una fronte rude di aspra probità» (Un drame au bord de la mer, p. 164).

  Si danno ancora indicazioni diverse — oltre le predette — di squisito senso romantico e ignorate, certamente, dal dizionario di una morfologia obiettiva: la bella principessa di Cadignan ha fronte «sognatrice» e «sublime» (Les sécrets (sic) de la princesse de Cadignan, p. 99); d’altro canto la fronte di Claude Vignon ha come caratteristica, oltre l’immensità, l’altezza e la larghezza, « l’essere oscurata da nuvole» (Béatrix, p. 137); la fronte dell’integro giudice Bongrand, uomo abituato a scendere in fondo ai cuori e per di più di nobile animo, è una fronte «sagace» (un front sagace) (Ursule Mirouet, p. 48). Esiste anche una fronte «salda» e dal disegno altero (un front ferme et d’un dessin fier) quale è la fronte della bellissima Esther (Splendeurs et misères des courtisanes, p. 40).

  Il romanziere realista e romantico al tempo stesso vede ben anco fronti di marmo e fronti che somigliano alla superficie di un lago, tutte con significato morale che è connesso a siffatte indicazioni. Quella Gabriella Beauvouloir, bellezza celeste di cui abbiamo visto la fronte per le sottili venature che la screziano, ha appunto in grazia di ciò «un tono di marmo duro e prezioso» (L’enfant maudit, p. 83). La fronte di Emilie de Fontaine, giovane e altera aristocratica, fronte di alabastro, è «in tutto simile alla limpida superficie di un lago, che volta a volta si increspa al soffio della brezza per poi riprendere il suo sereno allorché si fa calma l’aria» (Le bal de Sceaux, p. 92). Segno del carattere di quella creatura.

 

h) Esiste anche una «fronte biblica»?

 

  Si hanno fronti femminili di innocenza biblica: Pauline de Villenoix, dolce creatura che mai abbandona l’amato (un morto ancora materialmente vivo della sua pazzia) ha «una fronte splendente di innocenza biblica». E invero (si noti questa nuova analogia somatico-psichica) quella dolce creatura aveva un volto «i cui tratti offrivano con la più grande purezza i caratteri della bellezza femminile biblica, dalle linee ovali e virginee; tratti in cui è un non so che di ideale e in cui sembrano spirare le delizie dell’oriente, l’azzurro inalterabile di quel lontano cielo, lo splendore di quelle terre e le favolose ricchezze di laggiù» (Louis Lambert, p. 87). Aveva forse in mente Balzac, nello scrivere quanto sopra, la Rebecca della Genesi, fanciulla di molto bello aspetto, puella decora nimis, virgoque pulcherrima (Genesi, XXIV, 16)? O aveva in mente la bella Rachele, decora facie et venusto aspectu (id., XXIX, 17)? O Esther anch’essa pulcra nimis, decora facie (Esther, II, 7)? Vi è da dubitarne. Molto meno dovette avere innanzi allo spirito le bellezze della Sposa del Cantico dei Cantici, dagli occhi di colomba (oculi columbarum) e dalle guance di melograno ... sicut fragmen mali punici, ita genae tuae (IV, 1-3) tanto più che non potrebbe in tal caso parlarsi di «biblica innocenza», come quella invece che splendeva sulla fronte di Pauline. Piuttosto è da pensare alle bellezze del volto e dell’animo che Walter Scott (che fu tra i maestri di Balzac) aveva profilato nella Rebecca del suo Ivanhoe [...].

  In conclusione, più di una dozzina di aggettivi dalle tinte romantiche e romanzesche, per descrivere una fronte, aggettivi che, accanto alla dozzina e più di aggettivi precisi e obiettivi, formano una vasta collezione di indicazioni e denominazioni adoperate, per la sola fronte, dalla pittoresca, inesauribile e, stiamo per dire, tumultuosa e torrenziale aggettivazione del nostro poeta, romanziere e dipintore!

 

 

6. – Ancora le fronti della «Commedia mana»: le arcate sopraccigliari.

 

  p. 128. Le arcate sopracciliari — che, facendo parte dell’osso frontale, figurano nella fronte — nel loro grado di sporgenza sono pur notate dal nostro pittore e descrittore di volti umani. Esse hanno per lui, a torto o a ragione, il significato di tenacia e anche di intelligenza. Il nobilissimo marchese d’Espard, tutto dedito, nell’abbandono in cui la moglie lo ha lasciato, all’educazione dei figli e a comporre una grande opera da paziente erudito, anima fiera e scrupolosa, ha alta fronte, segnata in basso da forti arcate orbitarie, «indicanti un assai retto spirito, capace di perseveranza, e indicanti anche grande lealtà, per quanto imprimessero un non so che di strano alla di lui fisonomia» (L’interdiction, p. 270). Anche il buon abate Chaperon, dalla vasta fronte, soprannominato il Fénelon del luogo, ha — come già abbiamo visto — ben in rilievo arcate sopracciliari, formanti come due volte (Ursule Mirouet, p. 43).

  Per la scuola di Lavater, che Balzac ben conosceva, la presenza di forti arcate sopracciliari nell’osso frontale attesta «singolare attitudine ai lavori dello spirito, rimarchevole sagacità nella preparazione e nella esecuzione di grandi imprese». Forse, grazie alle idee più o meno incoscienti di «magia analogica» da cui i vecchi fisiognomonisti si lasciavano spesso condurre, la robustezza del rilievo in quella parte della fronte ove il pensiero e la volontà fanno corrugare le ciglia, dovevano accordarsi con robustezza di pensiero e di volontà, e di ciò essere sintomo ... Meno romanzeschi, gli antropologi che vennero di poi, studiando nell’osso frontale i rilievi sopraorbitali, dettero ad essi significato ben diverso da quelli ora accennati; ne faremo parola tra breve a suo luogo.

 

Capitolo secondo.

Le rughe della fronte e del volto.

3 – Le rughe della fronte nei personaggi della «Commedia umana»; descrizione e significato.

 

  pp. 143-148. Nelle sue descrizioni della fronte, così minuziose, così ricche e anche romantiche, come già vedemmo, non poteva davvero Balzac dimenticare le rughe. Se ne potrebbero fare tre categorie: quelle naturalmente che imprime l’andar degli anni e che a poco a poco vengono a sgretolare e sfaldare, per così dire, l’umano volto, come si corrode la pietra più tenace alla pioggia e al vento; quelle, invece, che vengono incise dai pensieri, dalle mortificazioni e dagli affanni, di cui mai è avara la vita anche assai prima della vecchiaia e che in particolar modo battono sulle anime sensibili, e quelle, infine, che le scienze o le pseudoscienze, tanto care a Balzac, vedono come presentanti particolare significato nei riguardi dell’animo, della condotta, del destino dell’uomo sulla cui fronte — e sul cui volto — esse si iscrivono.

  Inutile ripetere che nelle pitture o, meglio, nelle incisioni balzacchiane, anche quando le rughe, o linee, o pieghe, vengono descritte a una a una, si mescola nella descrizione il realismo al romanticismo, l’obiettività — a volte fredda e precisa — a ciò che è fantastico ... con l’aggiunta, come dicemmo, di qualche residuo dell’antica metoposcopia.

  Prendiamo, tra le varie pitture, più di un esempio.

 

a) Le rughe della passione, del corruccio, dell’inquisizione, della persecuzione, ecc...

 

  Il giovane pittore Teodoro di Sommervieux, assetato di un avvenire di gloria, natura appassionata, ha fronte solcata da rughe prodotte dalla facilità con cui quella si corruga ad ogni contrarietà; quando avvampa la passione, quelle pieghe così fortemente si imprimono da suscitare spavento. Ma, discesa la calma, su quella fronte cornava ad alitare una grazia luminosa. Quella fronte in continuo corruccio o in continua esaltazione — come indicavano le sue pieghe — esprime un temperamento che porterà sventura alla sposa del pittore, poco capace — quest’ultima — di comprendere gli artistici slanci di lui. «La fronte non è forse ciò che vi è di più profetico nel volto dell'uomo?» (La Maison du Chat-qui-pelote, p. 22). Ancora rughe di passione su fronte giovanile: la straniera che appare quasi nelle prime scene degli Chouans — Madame Gua Saint-Cyr — giovane e bella, tenera e sensibile all’amore, ha sulla fronte alcune leggerissime rughe che, tuttavia, «lungi dall’annunziare età matura, tradivano presenza di giovanili passioni» (Les Chouans, p. 104).

  Ed ecco altre rughe del genere: si presentano «finissime, come se tracciate dal filo di un rasoio» intorno agli occhi, e anche alle tempie, di Maxime de Trailles, finissime tanto da non essere avvertite a una certa distanza (Le député d’Arcis, p. 106); gli è che in quell’anima «bruciava un fuoco quasi ascoso, una lava di passioni mal soffocate» ... Inoltre — particolare di sommo interesse — «una sottigliezza da inquisitore e una profonda conoscenza delle cose della vita si svelavano in quella fronte larga e solcata da rughe, nella sinuosità delle rughe e pieghe circolari che si disegnavano sulle tempie, come pur apparivano dalle guance incavate e senza colore e nel rigore implacabile dell’occhio color verde» (La peau de chagrin, p. 28). Sia detto di sfuggita che l'occhio di color verde — come si vedrà a suo tempo — ha speciale e non simpatico significato per il nostro romanziere. Perché poi l’inquisitore di mestiere debba portare in fronte, come rughe, il segno del suo inquisire, il Nostro non dice, ma è facile comprendere. Infatti, colui che inquisisce, or cercando con ragionamenti e pseudoragionamenti chiarire l’enigma di un mistero da risolvere, ora interrogando l’individuo che dietro quel mistero si difende, ha da inarcare le ciglia e corrugare la fronte; nel primo caso ciò accade per l’atto stesso del pensare e del cercar ciò che a primo passo non si trova, nel secondo caso — durante l’interrogatorio — per via di un corruccio falsificato, atto a portar turbamento nell’interrogato.

  Aggrottando fronte e sopracciglia, invero, quanti «dittatori» o tiranni — anche minuscoli — credono incutere spavento (e di fatto ciò accade quando si abbia a fare con pavidi e servi) a chi li ascolta! Diceva già di uno di essi Cicerone: populum rugis supercilioque decepit ... ingannò il popolo con le rughe e il cipiglio.

  Par vi siano, puranco, le rughe — sulla fronte — annuncianti il più freddo e feroce calcolo. Una tal fronte, coperta da significative rughe, è quella dello scontorto e sbilenco conte di Saint-Vallier, feroce persecutore della propria giovane moglie — ai beati tempi di re Luigi XI — una fronte coperta da quelle rughe che contrassegnano «gli uomini abituati ad avere nessuna credenza o fede, a tutto pesare e soppesare, e che simili agli avari che saggiano sulle oscillanti bilance le monete d’oro, cercano valutare il senso esatto e l’esatto valore di ogni umana azione» (Maître Cornélius, p. 250). Una fronte, davvero che parlerebbe ancor più di tutte le fronti studiate e descritte da Lavater e seguaci! Balzac diventa, una volta ancora, più Lavater dello stesso naturalista di Zurigo.

  Esistono pure rughe rivelatrici di un passato dongiovannesco, a quanto sembra, per Balzac. Sulle tempia del vecchio gentiluomo de Valois, si imprime la caratteristica ruga a zampa d’oca, mentre sulla fronte si segnano pieghe trasversali ed eleganti rughe tanto apprezzate al tempio di Citera (sic [segnatura dell’A.]). Altrettante stigmate — insiste Balzac — del piacere (La vieille fille, p. 3).

  Rughe che parlano e che svelano (secondo Balzac) tutta un’anima sono quelle che si cicatrizzano — per così dire — sulla fronte, sulle tempie e sul viso tutto del vecchio e misterioso antiquario che a Raphaël de Valentin fa dono della magica e diabolica pelle di zigrino, simbolo della vita e dei suoi desideri e simbolo, al tempo stesso, della morte (La peau de chagrin, p. 28).

 

b) Le rughe del dolore, del lavoro, della fatica ... e dell’età.

 

  Ecco, d’altra parte, le rughe del dolore, quelle del lavoro e della fatica.

  L’austero Granville, che tanto aveva sofferto e che tanto continuava a soffrire, ha fronte su cui facilmente appaiono pieghe, e in quelle pieghe, anzi, la giovane Caroline Crochard vede «le tracce di lunghe sofferenze morali» (Une double famille, p. 277). La fronte di Véronique — una donna che per lunghi anni si era martirizzata per espiare giovanile peccato — diventa, alla fine di tanti martirii, «di color giallastro, solcata da lunghe rughe, ammassate come nuvole le une sulle altre e rivelanti la costanza di un pensiero fisso tra le disordinate tempeste dell’interno dell’animo» (Le curé de village, p. 328).

  Le rughe, invece, del vecchio Guillaume, ricco e laborioso mercante, rughe orizzontali (Balzac le dice «numerose come le pieghe dell’abito di quel mercante») sono lasciate dalle inquietudini di una vita quotidianamente laboriosa (La Maison du Chat-qui-pelote, p. 25) iniziata dall’umile grado di semplice commesso e svoltasi poi progressivamente sino ad alti gradi di ricchezza. Tra le sopracciglia del giovane Ernest de la Brière, «lo studio e il lavoro avevano già impresso il loro solco perpendicolare in mezzo alla fronte» (Modeste Mignon, p. 179).

  E le rughe prodotte dall’età? Preoccupanti, moleste, insidiose, rivelatrici ... furono viste e descritte dal Nostro. I medici legali già avevano descritto il processo di formazione di esse, il loro subdolo e lento apparire, il loro moltiplicarsi; descrizione di tutto ciò essi facevano nell’elencare e classificare i così detti «segni rivelatori dell’età», di quella implacabile età che — come disse il Poeta — sulcat cutem rugis. Si cercò, cioè, di determinare l’età di una persona in base all’ordine di apparizione delle rughe: a trenta anni già si mostrano le rughe perioculari, poco dopo appaiono le pieghe della fronte, poi quelle che scendono lungo le guance, verso la connessura delle labbra, e infine si segnano le numerose rughe che solcano per ogni dove il volto e che anche marcano la parte anteriore del collo. Occhio e tempia, dunque, fronte, guance, collo; così già si diceva nei testi dell’epoca. E Balzac fa dire al suo immaginario, enciclopedico e infallibile dottore Bianchon — in colloquio col famigerato Rastignac — che «quando si vuol conoscere l’età di una donna si debbono guardare le sue tempie, poiché là ogni anno che passa lascia le sue stigmate; allorché le tempie sono ammollite, rigate, appassite in certo tal quale modo ... quella donna ha oltrepassato la trentina» (L’interdiction, p. 123). In verità, Balzac aggiunge (farina del suo sacco) altro segno dell'età: la punta del naso (né più né meno) ove l’età, a quanto sembra, collocherebbe impercettibili e crudeli punti neri. E così sia!

 

c) Le rughe del pensatore ... e della fronte di Balzac.

 

  Possiamo un momento attardarci per dire delle rughe sulla fronte del pensatore così come le vede Balzac (e come, del resto, già le aveva vedute l'arte di Lavater e dei suoi predecessori) ... tanto più che, descrivendo quelle rughe, Balzac si guarda nello specchio e descrive sé stesso. Nella fronte del pensatore appare una speciale linea, o piega, o ruga? Quale nomenclatura per essa?

  Balzac ben risponde descrivendo ... la propria fronte (insieme al proprio viso) senza, naturalmente, confidare al lettore che si tratta del proprio ritratto, mascherato sotto la figura dell’irrequieto avvocato Savarus, in cerca di gloria: «fronte magnifica, separata al centro da quel possente solco (perpendicolare) che gli sconfinati sogni di avvenire, i sublimi pensieri, le profonde meditazioni, incidono sulla fronte dei grandi» (Savarus, p. 214). Senonché, chi guarda — nelle stampe o nelle riproduzioni a colori o in marmo — il viso del nostro romanziere, non trova sempre il nobile segno in questione, ma fortemente quel solco si offre nel ritratto eseguito da Bertall nel 1847; anche la medaglia in onore di Balzac foggiata dall’illustre David d’Angers nel 1842 mostra una chiara fossetta tra le due sopracciglia risalente lungo la metà della fronte, come pure fanno il busto balzacchiano dovuto allo stesso d’Angers nel 1844 e il disegno del volto di lui eseguito dal notissimo Nadar e il pastello di Gérard Seguin. Se in tutta l'iconografia balzacchiana la ruga, o piega, o fossetta che sia, non si trova sempre riprodotta meticolosamente, ciò e da attribuirsi non tanto alla giovane età in cui si trovava Balzac al momento di alcuna di quelle pose, quanto alle più o meno legittime trasformazioni del vero che l’artista, per abbellire il suo modello o nasconderne qualche sia pur leggera nota difettosa, si permette di compiere nel disegnare, nel dipingere, nello scolpire. D’altronde, è ben risaputo che la ruga frontale, perpendicolare, detta del «pensiero», appare (sia pure in forma leggerissima), quando deve apparire, persino poco dopo la giovine età di venti anni.

  Non parliamo, neppure per ischerzo, degli studi di Rodin per preparare e foggiare la statua di Balzac, né della statua eseguita dallo stesso Rodin — che sollevò tante polemiche — in cui l’incavazione centrale e le rughe (e più che rughe) torturano l’agitata fronte. Qui tutta la fronte ... e tutto il volto del Nostro figurano come colossale e agitata tempesta[3].

  Abbandoniamo, intanto e per un istante, le rughe della fronte, per far cenno — sempre a proposito della Commedia umana — delle rughe del volto.

 

d) Anche le rughe del volto.

 

  Balzac si sofferma con speciale compiacenza a numerare e a far vedere le rughe che s’imprimono sul volto quando si tratta di maligni e perversi. La vecchia zitella, anima inacidita, Sylvie Rogron, rabbiosa come un cane da guardia, e persecutrice della fragile e candida Pierrette, ha le tempie, le orecchie, la nuca, aride e secche, solcate «da rughe aspre di un tono rossastro, repulsivo per l’occhio» (Pierrette, p. 6). Rughe aride e secche, di sgradevole E quasi repugnante impressione ... come il carattere. Ancora una volta, dunque, il volto è l’anima.

  Ricorrendo ai più audaci confronti si descrivono le rughe del volto disseccato del misterioso e fantasmagorico vegliardo di casa Lanty: «pelle sottile e giallastra, un’infinità di rughe circolari come quei cerchi che si disegnano a fior d’acqua quando un bimbo in quell’acqua abbia gettato un sasso, o raggiate come vetro spezzato da un colpo, striature così accosto le une alle altre quali le linee del foglio di un libro» (Sarrasine, p. 98).

  Non è detto, d’altra parte, che volto e fronte, quali tempeste di rughe, siano sempre per il Nostro un sintomo di animo oscuro e perverso poiché di tanta poesia si colora talvolta il naturalismo balzacchiano da farci vedere persino, nelle rughe di un volto, una quasi sovrannaturale bellezza; invero, il clemente e quasi angelico abate Chaperon, nonostante le sue guance smunte e la sua bocca invecchiata, ha «rughe del volto che sembra vi sorridano con dolcezza» (Ursule Mirouet, p.45).

  Da dove proviene a Balzac la scienza per gli innumerevoli raffronti e le innumerevoli interpetrazioni sopra indicate, a proposito di rughe della fronte e di quelle del volto? Dalla diretta osservazione e da sue particolari intuizioni? Dalle letture con amore condotte sul testo di Lavater? Dalla fantastica intuizione poetica e romantica che mai lo abbandonò, anche in piena effervescenza realista? Come che sia, è da notare la sottilissima minuzia della descrizione e della terminologia, descrizione che sembra si trasformi in un vero decalco — a cui nessuna minutissima piega può sfuggire — del volto martorizzato. Invero, rughe del dolore, del lavoro e della fatica, dell’età, del pensiero e persino della malvagità ... cicatrici dell’anima! Quelle rughe che cancellano sul volto ogni traccia di bellezza c che facevano dire al poeta, nella raccolta Les fleurs du mal (XLV):

 

Ange plein de beauté, connaissez-vous les rides?

 

Capitolo terzo.

Il colore dell’occhio.

3. – Il colore degli occhi nei personaggi della «Commedia umana».

 

  pp. 157-165. Dei 2000 e più personaggi della Commedia, 400 sono descritti assai minutamente riguardo alla loro fisonomia, senza contare i personaggi figuranti nel teatro e nelle opere di gioventù, come insegna P. Abraham nella sua opera Créatures (Paris, 1931, p. 124). E tra quei personaggi, secondo le statistiche dello stesso, per 228 si dà il colore dell’iride, mentre per moltissimi altri, senza offrire tale indicazione, si danno altre notazioni, sempre per l’occhio. E se si desidera di più, si sappia che, sempre secondo le statistiche di Abraham, quei 228 personaggi per i quali si dà il colore dell’occhio, appartengono in ragione del 59% alla popolazione maschile e in ragione del 41% a quella femminile. Continuando a contare in tal modo, la predetta paziente e pazientissima statistica dell’accurato e preciso studioso balzacchiano giunge a certificare l’enunciato di nove colori adoperati da Balzac per l’occhio delle sue creature: occhi bleus, gris, verts, jaunes, orangés, (sic) rouges, fauves, bruns, noirs.

  Per nostro conto, faremo subito notare che quasi tutti gli aggettivi in questione sono seguiti, nei singoli casi, da specificazioni che: 1) precisano il grado di chiarezza o di oscurità del colore; 2) fanno il confronto con il colore di oggetti; 3) o con quello proprio agli occhi di tale o tale altro animale; 4) oltre di ciò, Balzac, a differenza di quel che si era fatto prima di lui, nel descrivere il colore di un occhio, non sempre si limita a parlare di un colore unico, ma indica la presenza di due colori diversi nella stessa iride, come ad esempio macchie o strie di un dato colore su un dato fondo di colore diverso; 5) ogni colore, semplice o duplice che sia, seguito o non seguito da aggettivi, ha per Balzac — occorre ripeterlo — un significato psicologico, rivelatore dell’animo.

  Facciamoci, dunque, alla nostra rassegna, direttamente compiuta — da chi scrive — sulle pagine balzacchiane.

 

a) Le varie sorta di occhi: grigi, azzurri, gialli, arancio. Occhi verdi.

 

  Ecco qualche esempio a cominciare dall’uso dei colori semplici.

  L’occhio della dolce Ursule è grigio, «dolce e fiero» al tempo stesso (Ursule Mirouet, p. 67); quello di Gabrielle Beauvouloir è di colore «grigio-perla», un grigio perla che «brillava, ma senza essere troppo vivo, poiché il candore velava la vivacità della passione» (L’enfant maudit, p. 83). Gli occhi della bella e perversa Tullia sono di un «grigio scintillante» (Un prince de la Bohème, p. 204). Quelli della vecchia megera Fontaine, cartomante, sono «grigi di una immobilità che stanca e affatica». Del resto, tutta quella vecchia «è una natura morta» (Les comédiens sans le savoir, p. 297). Occhio, invece, di «un azzurro chiaro e ricco» è l’occhio dell’eterno ricercatore dei misteri della materia, Balthazar Claës, e per di più Balzac assicura che in quell’azzurro chiaro e ricco si legge «la brusca vivacità che fu notata contrassegnare l’occhio dei grandi ricercatori delle cause occulte» (La recherche de l’absolu, p. 19). La notazione: «occhio di un azzurro tenero» è per l’occhio di Zélie Minoret-Levrault, piccoletta e bionda, ma quel tenero azzurro veniva quasi annullato, in ciò che poteva avere di dolce, da uno «sguardo rigido» (Ursule Mirouet, p. 59). L’indicazione: «azzurro pallido» è adoperata per l’occhio di Angélique de Granville (Une double famille, p. 12). È pure azzurro l'occhio di Rémonencq, ma di un «azzurro freddo in cui si legge un senso di concentrata avidità e di astuzia sardonica» (Le cousin Pons, p. 129). Sappia il signor lettore che Balzac fa di quel figuro un ladro e un avvelenatore. Ecco perché quell’occhio è di un azzurro freddo! Continuando troveremo che di un «azzurro torbido» è l’occhio dell’omicida e grassatore Theodor Calvi (La dernière incarnation de Vautrin, p. 75) ... Forse perché «torbida» è l’anima di quell’uomo? Ben altro significato ha l’azzurro di altro tono; l’occhio azzurro del signor d’Hauteserre è di un bleu de faïence (di maiolica) e sta però a indicare, con tale mancanza di espressione e di vita «una estrema semplicità» ... per non dire altro (Une ténébreuse affaire, p. 62).

  Dunque, l’azzurro dell’occhio, per Balzac, è volta a volta chiaro e ricco, tenero, pallido, freddo, torbido, di maiolica ... il tutto, ben inteso, in correlazione con la mente e col cuore.

  Passiamo agli occhi che Balzac indica come gialli. L’intrigante uomo d’affari Goupil ha «pupilla cerchiata di giallo» e quell’occhio, si noti, ha pur espressione lascive et lâche, come l’espressione dell’occhio di una capra (Ursule Mirouet, p. 17). Anche Madame Postel, donna comune dalla faccia tonda, ha un occhio quasi giallo (Illusions perdues, II, p. 141). Occhi di un «giallo chiaro» ha Luigi XI, descritto da Balzac nel suo Maître Cornélius (p. 291), un occhio in cui «scintille di collera e di coraggio sembravano nascondersi pronte a fiammeggiare al minimo urto» ... L’irrequieto contrabbandiere Butifer, a sua volta, ha occhi di color «giallo chiaro, scintillanti come quelli dell’aquila» (Le médecin de campagne, pag. 157). Il color giallo, insomma, intorno alla pupilla si accompagna a carattere che, in un modo o nell’altro, esce dalla normalità sia per cupidigia, sia per irrequietezza. Che dire poi di quell’occhio che ha un giallo simile all’oro e che ricorda quello della tigre? La bellissima Paquita, giovane maliarda, ha «occhi gialli come quelli della tigre, di un giallo d'oro che brilla, dell’oro che vive, dell’oro che pensa, dell’oro che ama, dell’oro che vi invita, che vi seduce, che vi attira» (La fille aux yeux d’or, p. 298). L’avarissimo Godain ha occhi gialli (Les paysans, p. 264).

  Dell’occhio color arancione dice più volte Balzac, né par che quel colore si accompagni con troppo nobili qualità. Di tal colore è l’occhio del perfido e ipocrita abate Troubert (Le curé de Tours, p. 233). Medesima tinta per l’occhio di Foedora, una delle più belle e ricche donne di Parigi, senza cuore e crudele (La peau de chagrin, p. 121).

  In quanto agli occhi verdi, si hanno per Balzac ora di semplice color verde, era «verdi come il mare», ora di un «verde pallido», spesso — non si dimentichi — in compagnia di sintomatici aggettivi. L'occhio verde, «piccolo e implacabile», dell’antiquario della Peau de chagrin, illumina l’interno di quell’uomo «come la lampada accesa nell’oscura e fantastica bottega di quell'antiquario ne illumina gli angoli» (p. 29). Occhio verde, piccolo «quasi un buco prodotto da sottile succhiello scintillante», è l’occhio del laborioso e ricco mercante Guillaume sul cui volto — si noti — sono impressi i segni della pazienza e di una astuta cupidigia (La Maison du Chat-qui-pelote, p. 25). Occhi verdi come il mare ha l’insorpassabile pittore Frenhofer, che sapeva con lo sguardo così squisitamente sentire forme e colori (Le chef-d’oeuvre inconnu, p. 313). II verde pallido, infine, colora l’iride del pittore Joseph Bridau (Un ménage de garçon, p. 154).

 

b) Occhi neri ... Ma esiste l’occhio nero? L’occhio azzurro-nero.

 

  Esiste l’occhio — come si dice — nero? Dovunque si legge e dovunque si ripete, in verità: occhio nero, e anche: nerissimo. Ma in realtà occhio veramente nero non esiste. L’occhio più scuro — e vogliamo dire: l’iride — è di color marrone cupo, un marrone che solo all'ingrosso può scambiarsi con il nero. Ciò nonostante, Madame de Dey — santa e sfortunata madre — nella drammatica novella Le réquisitionnaire, ha «occhi neri e grandi» nei quali si leggono tante profonde cose (p. 121). Anche neri — ma poteva essere diversamente? — sono gli occhi del mulatto Christemio, a proposito dei quali vengono innanzi tutti gli ingredienti che la fantasia del romanziere sa mescolare alle sue descrizioni quando parla degli occhi dei suoi personaggi: confronto con l’animale, posizione nell’incavo orbitario, aspetto delle palpebre (La fille aux yeux d’or, p. 311).

  La piccola Péchina ha «occhi neri nei quali avreste detto passasse un raggio di sole» (Les paysans, p. 235).

  D’altra parte, non si dimentichi che l’iride di un azzurro cupo può sembrare nera. Gli occhi di Lucien de Rubempré, scrive Balzac, «erano neri, tanto erano azzurri» (Les illusions perdues (sic), I, p. 27). È il caso di rammentare che in una celebre novella di Lamartine, l’occhio della graziosa eroina è pur descritto come nero-azzurro; gli occhi di Graziella, cioè, erano «di quell’indeciso colore che è tra il nero intenso e l’azzurro marino che ne addolcisce la luce con l’umidità dello sguardo e che unisce in eguali proporzioni, negli occhi di donna, la tenerezza dell’anima con l’energia della passione» (capitolo I). Tornando a Balzac, ecco Carlo IX, figlio di Caterina dei Medici, esser descritto con «occhi azzurro-neri che, stretti da grosse e grasse palpebre, acquistavano quell’acuminata finezza d’acciaio che l’immaginazione della gente esige nello sguardo dei re, e il cui colore favorisce la dissimulazione» (Catherine de Médicis, p. 127).

  Ma che cosa è il nero azzurro e l’azzurro nero? Tale indicazione — si badi — fu adoperata oltre che per il colore degli occhi, per quello ancora dei capelli. Che cosa dicono in proposito gli antichi cesti greci ove, appunto, par si trovino aggettivi di tal genere per indicare un azzurro così cupo da sembrar nero? [...].

 

c) Altri colori. E anche il bicromatismo.

 

  Accanto ai colori che chiameremo ben definiti perché, a parte il grigio e il nero, corrispondono a quelle indicazioni che comunemente si adoperano per indicare le tinte dello spettro solare, Balzac adopera colori o indicazioni meno definite delle precedenti, come occhio bruno, occhio fulvo e persino occhio glauco e madreperlaceo. L’occhio, ad esempio, di quel cadavere ambulante che tanto stimola la curiosità degli invitati alle feste di casa Lanty è «senza calore, glauco, e non poteva raffrontarsi che a madreperla che avesse perduto il suo splendore» (Sarrasine, p. 97). Ma, senza insistere su esempi di tal genere, indichiamo piuttosto come il nostro romanziere realista faccia anche cenno di individui che hanno un occhio di colore diverso da quello dell'altro; a Balzac, infatti, non è sfuggito il farro, piuttosto raro, del «bicromatismo» oculare e vuol mostrarlo in qualcuno dei suoi personaggi. Anomalia di tal genere si trova negli occhi del giudice Popinot che ha «une tête éclairée par des yeux vairons» (L’interdiction, p. 211). Il giudice Popinot è modello di virtù, ma occhi anomali come i suoi ha pure qualche illustre briccone della Commedia. Gli occhi del fortunato lestofante (fortunato come tutti i lestofanti della Commedia umana ... e della commedia della vita) Ferdinand du Tillet sono, infatti, di colore diverso l’uno dall’altro e sono «foderati come da una foglia l’argento» (sic); hanno sguardo fuggente che diventa terribile quando l’intrigante lo posa spietatamente sulla sua vittima (César Birotteau, p. 225).

 

d) Colori doppi o tripli e loro disegno: striscie raggiate e macchie.

 

  Un occhio — un’iride — può presentare colore non uniforme; anzi, ciò spesso accade. Si notano allora sull’iride, o striature raggiate di colore diverso dal fondo dell’iride stessa, o piccole macchie (come sopra); soltanto il ritratto parlato dei nostri dì metterà chiaramente in evidenza, per il segnalamento, tale sovrapposizione di colori. Balzac, tuttavia, ha visto la cosa e ne fa cenno nei suoi coloriti disegni. Diamo qualche esempio.

  Due colori tra loro frammisti hanno gli occhi della sedicenne, candida e pura Marguerite Claës: «occhi grigi, mescolati di tinte verdi» (La recherche de l’absolu, p. 89). Anche più colori si vedono nell’occhio della malinconica Victorine Taillefer: «occhio di un grigio mescolato a tinte nere (colorazione di pura fantasia, ma indicante ancora una volta che descrivendo l’iride di un occhio non è da ricorrere a una sola tinta) in cui è dolcezza e rassegnazione» (Le père Goriot, p. 16). Il grigio e il bleu figurano simultaneamente nell’occhio del signor La Braudaye di cui si narrano le avventure ne La Muse du département.

  Non basta al nostro pittore mostrare la presenza di due colori nella stessa iride: ha egli da dire, talvolta, con quale disegno — a raggi, a punti, a macchie — uno dei due colori si sovrappone o si frammischia all’altro. L’avaraccio e rustico Godain ha grossa faccia e rotonda come il pugno, forata da due occhi gialli zebrati da raggi verdi punteggiati di bruno. In quei colori, in quell’occhio, Balzac intravede tutta un’anima: «in essi si leggevano insaziabile sete di conquista, ricchezza ad ogni costo, e viva concupiscenza» (Les paysans, p. 264). Di colore aranciato — come già vedemmo — sono gli occhi di Foedora ma «solcati da strutture come marmo fiorentino» (La peau de cbagrin, p. 121). Altro disegno ancora: «occhio grigio, tigrato a fili verdastri che si muovono dalla pupilla, e punteggiato da macchiette brune» è l’occhio di Pierre Gralin (sic) (nel Curé du village), lavoratore tenace, carattere dispotico. Altro colore doppio è nell’occhio di Massimilla Doni: «pupilla di un verde variegato — da far pensare a una pelle di tigre — da fili d’oro che si diramavano dal centro dell’occhio tutto intorno come le scheggiature di un vetro» (Massimilla Doni, p. 191). Tale è la precisa e quasi geometrica pittura; ma poi torna a farsi sentire l’artista col dire che quelle stria- ture a raggi danno allo sguardo «un dolce scintillare come di stella». Un colore punteggiato da altro colore (nel Le lys dans la vallée) è dato per l’occhio di M.me Mortsaufs (sic): un occhio verdastro, punteggiato da macchiette brune. Anche Pierrette soave e ingenua bimba — ha negli occhi un qualche di simile: iride «di color tabac d’Espagne (marrone chiaro) disseminato di punteggiature nere e brillanti di riflessi d’oro tutto intorno a una pupilla profonda e viva» (Pierrette, p. 11). Le incavate guance del vecchio e spietato usuraio Taboureau sono «come sforacchiate da due piccoli occhi grigi picchiettati di nero». (Le médecin de campagne, p. 75).

 

e) Qualche confronto tra il romanzo e la realtà.

 

  Anni or sono volemmo confrontare la distribuzione dei personaggi balzacchiani secondo il colore dei loro occhi con la distribuzione effettiva che la popolazione francese presenta a tale riguardo. A tal fine ci servimmo, da un lato, delle cifre ottenute da Pierre Abraham sui personaggi balzacchiani e, dall’altro, ci servimmo della classificazione dei francesi ottenuta dagli uffici di identificazione giudiziaria, grazie al sistema Bertillon, elaborata da Leon Mac-Auliffe. Risultato di quel nostro raffronto fu il seguente.

  Ordinando le due serie di osservazioni — quella del romanzo e quella della realtà — in modo che tanto nell’una come nell’altra le colorazioni si seguano dalle più chiare alle più scure, si trova che, mentre la colorazione più frequente nella popolazione effettiva è la castagna (che occupa il posto centrale della serie che va dalle colorazioni più chiare o impigmentate, alle colorazioni più scure, marrone scuro) tale distribuzione non si presenta affatto nel gruppo degli uomini né in quello delle donne della Commedia umana. Anzi, si potrebbe dire che la distribuzione dei personaggi balzacchiani secondo il colore degli occhi si presenta come se la effettiva fosse completamente capovolta, inquantoché le colorazioni più frequenti nei personaggi di Balzac, invece di cadere al centro della serie come si ha nella popolazione effettiva, si presentano alle due estremità della serie stessa, e cioè sui colori chiarissimi e sui colori scurissimi, tanto per gli uomini come per le donne. In altri termini, mentre la popolazione effettiva ha in massima occhio castagno, la popolazione balzacchiana ha in massima o occhio assolutamente chiaro (azzurro impigmentato) o assolutamente scuro (nero).

  Aggiungi: per gli uomini di Balzac, dei due colori estremi (azzurro e nero) che, ripetiamo, sono i più frequenti, l’azzurro si presenta più volte del nero; per le donne, invece, quei due colori estremi si dànno in ugual quantità (azzurro e nero).

  Perché mai tanta preferenza per le colorazioni estreme, preferenza che porta a tanto distacco — da parte di un naturalista e realista come Balzac — dal mondo della realtà?

  Probabilmente perché il nostro romanziere, sia ispirandosi a qualche suggestione trovata nei testi del suo Lavater, sia per proprio più o meno incosciente sentimento, credeva in generale che gli individui — uomini e donne che fossero — di eccezione dovessero pur avere colori eccezionali, e quindi estremi, dell’occhio, specchio e voce dell’anima, e quindi nettamente azzurri o nettamente oscuri e neri; da cui, grande frequenza di occhi di tal genere in una serie di drammi i cui personaggi di eccezione sono tanto numerosi.

 

f) Analogie?

 

  È da notare come Balzac annettesse a un dato carattere del volto o della persona significato di sintomo della psicologia e della condotta; le quali connessioni erano a lui suggerite, sia dalla precedente tradizione fisiognomonica, sia da istintiva visione dei legami che dovrebbero tra loro avvincere categorie analogiche. Il colore dell’occhio — come già dicemmo — non sfugge, per lui, alla regola: colore, tono e tempra dell’occhio starebbero a dire — per via analogica – del colore, del tono e della tempra del carattere. Abbiamo già visto, negli esempi poco sopra dati a proposito degli occhi azzurri e degli occhi gialli, qualche riflesso di siffatte tendenze analogiche; ma ecco ancora qualche documento.

  L’occhio azzurro, se di azzurro dolce, chiaro, pallido, tenero, di cielo (qualificativi che ricorrono nella pittura balzacchiana) non può che indicare le dolcezze del cielo. Tale l’occhio dell’ingenuo musicista Schmucke (le bleu de l’innocente animait ses yeux, si legge in Une fille d’Eve); il giovane proscritto Godfroid (sic), che vive accanto a Dante nella Parigi medioevale, ha occhi azzurri «pieni di vita e limpidi, che sembrano riflettere il cielo» (come si legge nei Les proscrits). Gentile e onesta creatura la povera Jenny, semplice nel vestire, tutta dedita al lavoro, ha «occhi azzurri, puri come il cristallo». Quell’onestà, quella grazia, quella purezza saranno un giorno ricompensate (il che di rado avviene nelle avventure della Commedia umana) ché la giovane operaia diventerà un giorno l'affettuosa sposa dell’avvocato Derville (come si narra nel romanzo Gobseck). Ma qualora l’azzurro dell’occhio sia duro e freddo come l’acciaio, quell’occhio diventa sintomo di freddezza e durezza, di aspro e crudo carattere; il poco raccomandabile Philippe Bridau che ha nell’azzurro del suo occhio una tinta d’acciaio (la teinte de l’acier) è uomo senza cuore e senza scrupoli (Un ménage de garçon). L’intrigante, quel Moreau (di Un début dans la vie) che sa giungere ad alta e ricca posizione, è con occhi azzurri. E alquanto avventuriero quel Fritz Brunner, nel Le Cousin Pons, che ha grandi occhi azzurri, affaticati «con una luce di scintille diaboliche».

  L’occhio nero e nerissimo, d’altra parte — estremità opposta, nella scala dei colori dell’occhio, all’azzurro chiaro — è intimamente legato, per connessione analogica, alla passione ... e al dramma. La comune credenza, i romanzi, le novelle — e forse anco la realtà — che ci dicono più irrequiete e vive le passioni sotto i cieli bruciati dal sole, e quindi tra popolazioni che assolutamente ignorano l’esistenza di occhi azzurri — hanno imposto l’idea associativa tra, diremo così, fenomeni vulcanici dell’animo e la profonda oscurità dell’occhio. Tanto frequenti i personaggi di passione, di dramma e di tragedia, sulla scena balzacchiana, che pur frequenti dovevano essere tra essi coloro il cui occhio ricordasse il cupo mistero della notte ... più frequenti, davvero, di quelli che realmente si presentavano nella grande massa della popolazione francese di cui Balzac narrava le più fortunose vicende.

  Si dica la medesima cosa per il colore giallo dell’occhio, assai frequente tra i personaggi della Commedia. È il giallo stesso dell’oro e quindi della cupidigia — come già accennammo — oltre che il colore che si accende nell’occhio delle belve. L’usuraio Gobseck ha occhio di tal colore, come pur giallo è l’occhio dell’avaro e sospettoso Cornélius (nei due romanzi dal medesimo nome) e così pure (nel Le curé de village) quello del giovane Tacheron che ruba e sparge sangue per passione d'amore o quello del feroce d’Hérouville (ne L’enfant maudit); «occhi chiari e gialli» aveva l’ex forzato Vautrin. Ancora del giallo, e per di più associato a durezza dello sguardo, nell’occhio del signor Mortsauf: «occhi chiari, gialli e duri, luminosi ma senza calore» (Le lys dans la vallée). Anche l’ambizioso — e tanto capace di intrigo — giudice Camusot, un po’ fantoccio nelle mani dell’abilissima moglie, ha color giallo nell’occhio: «occhi piccoli, giallo chiari, pleins de celle défiance qui passe pour de la ruse».

  D’altra parte, non è forse puro caso il fatto che Balzac usi nella sua pittura, come dicemmo, due colori sovrapposti o mescolati nello stesso occhio: ciascuno di quei colori conserva il valore simbolico — rivelatore del carattere — che l’autore pare gli voglia attribuire. L’avventuroso e piuttosto avventuriero Du Tillet (di cui già vedemmo il bicromatismo oculare) che comincia la sua brillante carriera con un furto nel cassetto del principale (allora ci si accontentava di poco!), ha occhio grigio e giallo ... di quel giallo oro di cui sopra, mentre il colore grigio, come il freddo azzurro, corrisponderebbe all’azione e al freddo calcolo.

  Tutto ciò non toglie che lo stesso personaggio, riapparendo in un romanzo successivo a quello in cui per la prima volta egli agisce ... cambi qualche volta colore di occhi. Proprio così. L’agente Corentin, tanto negli Chouans quanto negli altri romanzi della Commedia, ha occhio verde, ma nel secondo episodio di Splendeurs et misères des courtisanes, par, invece, abbia occhi azzurri, di quell’azzurro che è proprio — secondo Balzac — a natura fredda e terribile. Il giovane Lucien de Rubempré, bellissimo, suggestionabilissimo, e in cerca di un mondano successo che lo porterà invece al suicidio, ha occhio nero — di un nero azzurro o, se si vuole, di un azzurro nero — nelle Illusioni perdues, ma un occhio bleu limpide quando, tempo dopo, si narrano le sue amorose e tragiche avventure in Splendeurs et misères des courtisanes. Gli è che, nel primo tempo egli è semplicemente il poeta appassionato, mentre nel secondo si dà, quale complice del forzato Vautrin, al più tenebroso intrigo.

 

Capitolo quarto.

L’occhio e la sua espressione.

4. – I personaggi della «Commedia umana».

 

  pp. 189-194. Dell'occhio, Balzac dà non soltanto il segnalamento, diremo così, colorimetrico — come abbiamo già visto — ma anche, in termini più o meno romantici, l’espressione, e particolarmente quella che si manifesta con lo sguardo. Numerose categorie di sguardi, ben diverse le une dalle altre, come subito si vedrà: ognuna di esse, ben si intende, indicante uno stato d’animo o un carattere e un temperamento, e ognuna di esse, ancora, da suddividersi in sottocategorie. Vi è, infatti, per Balzac, lo sguardo che diremo «cattivo» proprio ai malvagi, e quello tenero e buono, come pur vi è lo sguardo aperto e persino quello «religioso»; vi è lo sguardo splendente, quello penetrante e quello pungente, quello violento e persino quello del genio ... e molti altri ancora, di cui diremo. Ecco qualche esemplare.

 

a) Natura dello sguardo: feroce, calcolatore, rigido, calmo e dominatore.

 

  Uno sguardo «feroce» accende l’occhio del conte di Hérouville nella fosca novella L’enfant maudit (p. 7); in quell’occhio «fiammeggiava la ferocia luminosi di un lupo in agguato nella boscaglia». Sguardo del freddo e infallibile calcolatore (sguardo che Balzac attribuisce a Talleyrand) è proprio all’audace e tenebroso macchinatore di intrighi Ferragus: «calmo e senza espressione, opaco (terne) e senza calore, specie di velo impenetrabile sotto cui una forte anima nasconde forti emozioni oltre che i più geometrici calcoli sugli uomini, sulle cose e sugli avvenimenti» (Histoire des treize, p. 35). Poco raccomandabile, d’altra parte, sarebbe lo «sguardo rigido» che Balzac trova negli occhi di Zélie Minoret-Levrault: l’occhio di lei è sì di un azzurro tenero «ma quel tenero azzurro veniva quasi annullato in ciò che poteva avere di dolce, da uno sguardo rigido, in pieno accordo con le labbra sottili di una bocca fortemente serrata» (Ursule Mirouet, p. 59). Labbra strette serrate — non si dimentichi — sono indicazione, tanto per la fisiognomonia quanto per Balzac, come vedremo, di aspro carattere e maligno. Altra singolare espressione dell’occhio — vale a dire dello sguardo — è l’espressione «calma e divoratrice» che Balzac descrive nell’occhio e nello sguardo dell’avidissimo egoista Félix Grandet; quell’espressione «che il popolo attribuisce all’occhio del basilisco, animale leggendario, di cui si dice, infatti, che lo sguardo suo uccide chi ne è tocco», animale che più volte ricorre — a titolo di confronto — nella Commedia umana (Eugénie Grandet, p. 7). Lo sguardo di Marie de Granville, quando si posa sull’amato Raoul, è «violento e fisso; è uno sguardo grazie al quale la ferma volontà si sprigiona con violenza dall’occhio come dal sole sgorgano a onde i fiotti i luce; è una volontà che vi penetra, così come dicono i magnetizzatori, quando su di voi esso colpisce» (Une fille d’Eve, p. 322).

  Continuando, ecco lo sguardo di Florine, «in una pupilla accesa di viva luce avere la durezza dell’animale feroce e rivelare la fredda malizia della cortigiana» (Une fille d’Eve, p. 272). Lo sguardo, invece, del marito della contessa di Mortsauf ha ben diverso carattere: ha pur la sua luce, ma fredda; esso «chiaro, giallo e duro, cadeva su voi come un raggio di sole da un cielo d’inverno, luminoso ma spoglio da ogni calore; occhio inquieto, privo di pensiero, diffidente senza motivo» (Le lys dans la vallée, p. 7). E non si dà anche sguardo vitreo? Tra i personaggi balzacchiani ve ne è uno che, essere corroso e cadente, ha «occhi che sembrano di vetro»; si tratta del marito, più che indulgente, della bella Massimilla (Massimilla Doni, p. 201).

  D’altra parte, sguardo aperto e franco, svelatore del carattere, e lo sguardo del coraggioso e leale Michaud: «l’occhio di lui, vivo e penetrante, non mercanteggiava nascondendola o travisandola, l’espressione del pensiero; quell’uomo guardava sempre in faccia» (Les paysans, p. 107). Sguardo particolarmente «penetrante» è caratteristico agli uomini che (come afferma Balzac) sanno abilmente scrutare e che penetrano nell’animo altrui, sia per iscoprire e comprendere, sia per colpire e portare ferita profonda. Tale lo sguardo di Cornélius, «sguardo lucido, penetrante, pieno di forza, sguardo degli uomini abituati al silenzio e ai quali il continuo sforzo di concentrazione delle interne energie è divenuto seconda natura» (Maître Cornélius, p. 272). Il dottore Halpersohn — un sapientissimo che aveva trascinato la sua scienza attraverso il mondo intero e che guariva tutti i mali — ha sguardo «curioso e pungente» (piquant) (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 245). Anche lo sguardo del perfido e ipocrita abate Troubert è penetrante, ma per malvagità. Quell’occhio «dallo sguardo volta a volta chiaro e penetrante» si nasconde sotto palpebre ognora abbassate. È l’occhio di una spia (Le curé de Tours, p. 213).

 

b) Sguardo ... religioso; sguardo del genio.

 

  E che dire di una espressione «religiosa» dell’occhio e dello sguardo? Madame de Dey, sventurata madre che di nascosto attende, durante l’epoca del Terrore, il ritorno del figlio emigrato, ancor bella e di delicata bellezza, ha occhi neri e grandi «pieni di affettuosità, con una espressione calma e religiosa che sembrava annunciasse più non trovarsi in lei ragione di vivere» (Le réquisitionnaire, p. 121). Infatti, l’animo di quella donna era lontanissimo; era là ove viveva il lontano figlio proscritto.

  Infine, ecco lo sguardo di chi si immerge nel mondo infinito del pensiero e in quel mondo si perde, o regna sovrano. È lo sguardo del genio; è lo sguardo di Dante, descritto da Balzac nella novella Les proscrits (p. 144). Balzac (che tanto ammirava il Poeta da reputarsi felice il giorno in cui, dopo avere per anni cercato invano un titolo impressionante da mettere in fronte all’insieme, ben coordinato, dei suoi romanzi, trovò quello — per suggerimento di un amico che tornava dall’Italia — di Commedia umana, quasi per richiamare la Commedia divina del Fiorentino) non volle dimenticare, certo, nel dipingere con la dovizia delle più strane tinte, il volto e lo sguardo di Dante. Dopo aver detto dell’occhio, profondamente incastrato sotto le grandi arcate frontali e cerchiato di nero, un occhio da nibbio, aggiunge: «occhio magico, dispotico, penetrante, che vi afferra l'animo col suo sguardo grave e carico di pensiero, uno sguardo splendente e lucido come di serpente, uno sguardo che vi rendeva stupefatti e vi schiacciava per la sensazione che esso vi dava di un’immensa sventura ... uno sguardo di piombo e di fuoco, fisso e mobile al tempo stesso, severo e calmo». Ancora una volta è da esclamare: quante cose Balzac vedeva in una linea o in una espressione del volto! E dell’occhio! Ma si trattava dell’occhio e dello sguardo di Dante. Senza correre tanto in alto, pensiero e genialità — sino alla più stravagante originalità — si trovano pur nell’occhio e nello sguardo del ricercatore dell’assoluto Balthazar Claës; il romanziere assicura che su quel volto e in quegli occhi «respirava il profondo senso che sorregge e sospinge la vita dei grandi uomini ... e si illuminava l’interno fuoco di una vasta intelligenza» (La recherche de l’absolu, p. 19).

 

c) La mobilità e la lucentezza dello sguardo.

 

  Altro elemento dell’espressione dell’occhio — oltre quello, fondamentale, della natura dello sguardo — è, come già fu indicato con qualche cenno discorrendo della natura dello sguardo, il movimento o mobilità di esso. Non sfuggì al Nostro. Ascoltate come Balzac descrive l’occhio e lo sguardo delle due giovani sorelle, le due Marie de Granville: «il dolce e vago muoversi della pupilla che sembrava ondeggiare sul bianco fluido dell’occhio, bene offriva una espressione di ingenua non curanza, di non premeditato stupore» (Une fille d’Eve, p. 236). E Florine, la bella cortigiana? In assai sapiente modo quella donna «sapeva girare l’occhio ora in alto, ora da un lato come per osservare con attenzione o per meditare, ora fissava gettando raggi di splendore, senza muovere il capo e lasciandolo in piena immobilità» (Une fille d’Eve, p. 272). Particolare mobilità dell’occhio, anzi, degli occhi, è in quelli dell’intendente Sibilet — un intendente truffatore — che «si sfuggivano l’un l’altro»; due occhi di color verde cangiante che con quel fuggirsi l’un l’altro «nascondevano in tal modo il segreto pensiero» (Les paysans, p. 94). Notate quel colore cangiante e cioè di tono fuggevole e vario, quasi infido ... come lo spirito che sta dietro quegli occhi. Interpetrazione analogica?

  Dello splendore dell’occhio nei vari suoi gradi — sino a un brillare di fiamma — da spesso immagine Balzac ben lasciando comprendere che in quel grado di splendore è l’espressione dell’intensità di vita e di energia. O di potenza fascinatrice .... Lumen oculi, lumen animae? Gli occhi di Honorine sono «splendenti e facenti splendere il volto» (Honorine, p. 50). Esprimono tenerezza e giocondità al tempo stesso. Gli occhi della dolce Eugénie Grandet hanno «una chiarezza magica in cui scintillano freschi pensieri d’amore puro ed ingenuo» (Eugénie Grandet, p. 92). E l’occhio di Esther? Balzac ne fa descrizione minutissima per più di una pagina, ricca delle più audaci e fantastiche tinte. Non poteva mancare il fulgore: il nero azzurro dell’iride è «di un fulgore che viene addolcito dall’indicibile tenerezza dello sguardo, sguardo da cui proviene un fascino carico di dolcissimo tepore, capace di intenerire e di liquefare le più aspre volontà sotto l’azione di quella fiamma» (Splendeurs et misères des courtisanes, p. 38-40).

 

d) Infinità di cose in uno sguardo e in un occhio!

 

  Quante volte nell’occhio (e nella espressione di esso: sguardo, mobilità, ecc.) delle sue creature, l’immaginoso Autore della Commedia umana vede una infinità di cose — tutto il mondo dello spirito che sta dietro quell’occhio e in quello sguardo — che nessun altro avrebbe mai sospettato. Lo sguardo di Vanda, in cui era tutta la vita di quella sofferente, stesa sul suo letto di dolore, «non era uno sguardo; era una fiamma, e più che una fiamma un fiammeggiare divino, un irraggiarsi comunicativo di vita e di pensiero, e di un pensiero che si faceva visibile» (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 239). Si senta anche quante cose rivela l’occhio di Madame Camusot, ambiziosa e astuta moglie di quel giudice che farà carriera grazie a quell’ambizione e a quell’astuzia. Occhio vivo e intelligente «con espressione, tuttavia, mal celata di uno sfrenato desiderio di arrivare a ogni costo e con espressione, anche, di mal celata invidia verso chi si trovava più in alto di lei: quegli occhi erano accesi come due fuochi in quel viso e gli davano vita» (Le cabinet des antiques, p. 167). Nello sguardo della dolce, malinconica e timida Madame Vinet, sguardo «lento e tenero, si imprimevano le tracce di meditazioni profonde e di quei penetranti pensieri che anime di donne, abituate a soffrire, assuefatte al dolore, seppelliscono in assoluto silenzio» (Pierrette, p. 84). Gli occhi della contessa di Mortsauf, di solito pallidi e spenti, si accendono — quando essa, con tenerezza, parla dei figli suoi — «di una sottile luce che sembrava venir fuori come fiammata dalle sorgenti stesse della sua vita e che dovevano consumarla» (Le lys dans la vallée, p. 32).

 

e) Ancora speciali espressioni: l’occhio del cieco; l’occhio del morto.

 

  Gli occhi di Facino Cane — nella fantasiosa novella che porta quel nome per titolo sono gli occhi di un tragico e misterioso cieco che avevano visto, nella lontana gioventù, immense ricchezze; occhi che ora, ridotto il cieco in povertà, ancor sognano quelle perdute opulenze. Sono «occhi morti, ma vivificati dal pensiero; ne sfuggiva come una luce bruciante, prodotta da un intenso e incessante desiderio che pur si vedeva energicamente iscritto sulla fronte solcata da rughe come un antico muro pieno di screpolature» (Facino Cane, p. 64).

  Quando, poi, Balzac dal naturalismo — di continuo venato dalla lirica romantica — passa alla pura fantasia, i romanzeschi colori adoperati per far brillare l’occhio e lo sguardo dei suoi personaggi diventano ancor più vivi e tengono l’intero quadro. Vedere che cosa diventa l’occhio di un cadavere quando il magico filtro di lunga vita viene iniettato nell’occhio stesso: «l’occhio guardò e si accese pieno di vita, un occhio di bimbo in una testa di morto; vi tremava la luce come nel bel mezzo di un leggero fluido, protetta da belle e lunghe ciglia nere, scintillante come quelle disperse luci che il viaggiatore scorge lontane e sperdute in deserta campagna quando d’inverno cade la sera» (L’elixir de longue vie, p. 229). Chi vuol saperne più a lungo, vada a leggere la fantasiosa novella e vedrà che il vivo occhio di quel cadavere dardeggerà fulmini e morte sullo snaturato figlio che, per inghiottire la doviziosa eredita, sospende l’opera di resurrezione; da quell’occhio, uno sguardo «che sembrava lanciarsi sul figlio parricida, pensare, accusare, condannare, minacciare, giudicare, parlare; uno sguardo che gridava e mordeva, vibrante di tutte le passioni».

  Riassumendo e volendo starsene paghi essenzialmente alla rassegna or fatta, si troverà che la terminologia balzacchiana per lo sguardo dice di esso (parecchi termini si riferiscono allo sguardo di una stessa persona): feroce, calmo, senza espressione, opaco, senza calore, calcolatore, rigido, divoratore, violento, duro, freddo, vitreo, tranquillo, sereno, di ingenua noncuranza e di non premeditato stupore, aperto, leale, religioso, penetrante, pungente, chiaro, magico, dispotico, splendente, lucido, grave, carico di pensiero, di piombo, di fuoco, fisso, mobile, severo, di un divino fiammeggiare, vivo, intelligente, acceso, lento, tenero, or spento, or lucido, morto, affascinante, di chiarezza magica, terribile, straordinario, che pensa, che accusa, che condanna, che morde ecc.

  Qualche studioso — artista o fisiologo — ebbe a dire che l’arte narrativa è impotente nei riguardi della descrizione dell’occhio e che soltanto l’arte figurativa, per mezzo della tavolozza, poteva giungere a tal fine. Questa, infatti, dà ogni possibile espressione, dalla dolcezza alla crudeltà, all’occhio delle sue Madonne, dei suoi pargoli, delle sue Meduse ... il che — si afferma — nessun poeta o novellatore sa rendere nella musica o nella prosa dei suoi scrini. Proprio vero?

 

8. – Posizione, forma e grandezza dell’occhio (la fisiognomia, Balzac, l’antropologia, ecc.).

 

  pp. 201-202. L’espressione dell’occhio è data, oltre che dallo sguardo, pur anco, come già dicemmo, dalla posizione, dalla forma, dalla grandezza, dal globo, dalle palpebre, dalle ciglia e dalle sopracciglia. Artisti e novellieri, morfologi e «lettori» della fisonomia, trattarono con maggiore o minore insistenza tali categorie per descrivere e anche per interpetrare. Ecco dunque, in proposito, qualche rassegna. [...].

  La Commedia umana nel dipingere il volto dei suoi personaggi non dimentica le sopra dette categorie, e altre analoghe. Nei riguardi, appunto, della posizione, forma e grandezza dell’occhio — e quindi del globo oculare — ecco l’occhio a fior di testa dell’abate Fontanon (antipatico e guastamestieri), occhio la cui espressione faceva pensare allo sguardo di un tartaro (Une double famille, p. 301). Occhio infossato invece l’occhio di Dante, profondamente incavato sotto il grande arco delle sopracciglia, ma così profondamente disposto tra le larghe palpebre sottolineate da un grande cerchio nero, da sembrare in rilievo (Les proscrits, già citato). Ecco Julie de Chatillonest, così graziosa nel suo incedere che più d’uno si volta a guardarla allor che essa passa per via, accanto al padre; ha occhi tagliati a mandorla, neri, «che sembrano navigare in un fluido purissimo», sovrastati da sopracciglia ben arcuate, e frangiati da lunghe ciglia (La femme de trente ans, p. 3). In cui si vede come né «il fluido» del globo, né le ciglia e le sopracciglia siano posti in dimenticanza, accanto alla forma.

 

9. – Il globo dell’occhio nelle sue tinte (Balzac).

 

  pp. 203-204. Il bianco del globo oculare, lasciato più o meno scoperto dal grado di apertura dell’occhio e dalla lunghezza della fenditura palpebrale, contribuisce all’espressione dell’occhio stesso. Anche qui la fisiognomonia e l’arte narrativa non mancarono di far qualche cenno. Si insiste sul colore del globo, bianco di solito, ma di vari toni dall’azzurro al giallastro, ed anche rosso, contribuendo così tale colore (per contrasto col colore dell’iride) all’espressione. Su tal punto, non pochi particolari si danno nelle descrizioni balzacchiane. Il bianco, ad esempio, del globo oculare di qual tono di bianco si presenta? Di un bianco madreperlaceo nell’occhio bruno e animato del dottore Benassis (couleur nacrée), di un bianco che fa ancor più risaltare il bruno dell’iride (Le médecin de campagne, p. 23). Questo contrasto tra il colore dell’iride e il bianco del globo oculare è pure ricordato per l’occhio di Frenhofer, insorpassabile pittore, il cui occhio così squisitamente sapeva vedere forme e colori e penetrare in essi. «Occhi verdi come il mare che, per il contrasto col bianco madreperlaceo del globo su cui quel verde sembrava muoversi, gettavano sguardi magnetici così nell’entusiasmo come nella collera» (Le chef-d’oeuvre inconnu, p. 313). Il biancastro colore del globo oculare del colonnello Chabert è così descritto: quegli occhi «sembravano coperti da una macchia trasparente, come se si trattasse di una madreperla sporca il cui riflesso bluastro si fa vivo alla luce delle accese candele» (Le colonel Chabert, p. 108). Più volte vede Balzac nei suoi personaggi questa specie di velo sul globo oculare; una specie di velatura (glacis) si stende sull'occhio di Maxime de Trailles, fatto vecchio, ma pur sempre agile, destro e bell’uomo. Ma ancor da quel velo «uno sguardo che, sebbene non più nel vigore di un dì, pur sempre metteva spavento, perché in esso si sentiva ancora il calore di una fiamma segreta, una corrente di passioni sopite, come di lava non ancor spenta» (Le député d’Arcis, p. 107). Descrivendo a lungo il vivacissimo ed espressivo occhio di Mademoiselle des Touches (in quel personaggio è rappresentata George Sand), il bianco globo oculare è così mostrato: «né bluastro, né disseminato di sottili venature rosse, né bianco assoluto; ha una consistenza che sembra di materia cornea ed è di tono caldo mentre la pupilla è cerchiata di colore arancione come se si trattasse di bronzo cerchiato d'oro, e di un oro che ha la vita, di un bronzo che ha un’anima» (Béatrix, p. 91).

 

10. – Palpebre e sottopalpebre (la fisiognomia, Balzac, l’antropologia, ecc.).

 

  pp. 204-206. Non sembra che Balzac abbia profittato di tali curiosi insegnamenti e abbia voluto farne applicazione alle sue creature, come invece aveva fatto per tante altre indicazioni fornire dai testi della fisiognomonia, ma sta di fatto che a proposito delle palpebre le descrizioni balzacchiane sono minute e insistenti oltre che ricche di audaci e personali interpetrazioni. Si ricordino le palpebre di Honorine: «palpebre di seta ... tutta una profonda seduzione si sprigionava da esse tanto era il sentimento, la maestà, e persino il terrore e il disprezzo con cui quelle palpebre volta a volta si alzavano e si abbassavano, velo dell’anima» (Honorine, p. 50). Parlando di Foedora — la folgorante cortigiana della Peau de chagrin — non si giunge a dire che «sulle sue palpebre era scritto l’amore?» (p. 121).

  In particolare Balzac descrive, delle palpebre, la consistenza, le venature, il colore, la loro simiglianza a membrane, il giuoco stesso di esse, per non dire altro. Così, le palpebre di Fiorine, «tenere e molli, lasciano trasparire una rete di rosei filamenti» (Une fille d’Eve, p. 272). Le palpebre di Mademoiselle de Touches sono «brune, disseminate di leggiere venature rosse conferenti al tempo stesso grazia e forza, qualità che difficilmente si trovano riunite in una donna» (Béatrix, p. 92). Quelle di Louise de Chaulieu sono «color madreperla» variegate da sfumature (Mémoires de deux jeunes mariées, p. 19). Si ricordi, tra parentesi, come — prima ancora di Balzac — i canoni della bellezza e dell’arte avessero dettato che «fanno grande aiuto alla bellezza dell’occhio palpebre bianche e vergheggiate con certe venuzze vermigliette, che a fatica si veggano» (Firenzuola, Discorso II).

  Continuando a restare tra i personaggi balzacchiani, di quale singolare aspetto debbono essere quelle palpebre, quasi simili a membrane, che Balzac vede in alcune delle sue creature! Il creolo Christemio ha palpebre «che ricoprono i suoi occhi come una membrana azzurrastra, priva di ciglia» (La fille aux yeux d’or, p. 311). E anche il misterioso, sagace e avaro dottor Halpersohn ha sopra i suoi occhi da pappagallo «membrane grigiastre e arricciate» (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 245). E come strane dovevano essere le palpebre di quel fondo di galera soprannominato Fil-de-soie che Balzac descrive nella sua La dernière incarnation de Vautrin, (p. 46)! I piccoli occhi di quel delinquente «erano coperti, proprio come accade agli occhi degli uccelli da preda, da palpebre grige, opache (mates) e dure». Persino il giuoco delle palpebre è così indicato: gli occhi azzurri di Mademoiselle de Watteville «si facevano belli grazie al giuoco delle palpebre che abbassandosi suscitavano ombre sulle guance di lei» (Savarus, p. 208).

  Anche la curva che cerchia l’occhio sotto la palpebra inferiore ha più volte attirato l’attenzione di chi osserva e descrive. Già aveva essa fatto dire alcunché ai nostri saggi consiglieri dell'arte, della bellezza, e lo stesso Balzac non può fare a meno di tratteggiarne, di tanto in tanto, forma e colore. I Discorsi sulle bellezze delle donne avevano parlato di quel cerchio. «Quella fossa che circonda l’occhio non vuol essere molto affonda, né troppo larga, né di color diverso dalle guance» e si continua consigliando alle donne che si danno sul volto liscio e belletto di ben stare accorte perché «quella parte è mal atta a ricevere il color del liscio o a ritenerlo ... facendo una divisa che mostra male» (Discorso II). In quanto a Balzac, il ritratto che egli fa di Mademoiselle de Touches (che poi è — come dicemmo — George Sand) «mostra l’arcuato solco che si disegna sorto l'occhio» e il pittore aggiunge che quell’arco «è immune da ogni avvizzimento o rughe» (Béatrix, p. 9).

 

11. – Ciglia e sopracciglia (la fisiognomia, i canoni, Balzac, l’antropologia, ecc...).

 

  pp. 207-208. Veniamo ora alle ciglia e alle sopracciglia secondo la visione e la terminologia della Commedia umana. Balzac, nel descrivere le ciglia, sembra si diletti in tale descrizione e trae ispirate conseguenze. La contessa de Vandières ha ciglia lunghe che quasi velano l’occhio dando espressione, sentimento e dolcezza al volto; le sopracciglia sono «nere e folte» (Adieu, p. 80). Lunghe ciglia, e ricurve, ha la bellissima spagnola Clara Lébanès e pupilla (diciamo meglio: iride) più nera dell’ala di un corvo, il che non poteva non accompagnarsi a nerissimi capelli e snello personale (El Verdugo, p. 146). Ciglia lunghe e ricurve ha la seducentissima Coralie, sotto una palpebra che «par bruciata dal nero scintillante dell’occhio» (Illusione perdues, I, p. 313). Mademoiselle de Touches — che tanto spesso riappare nelle pagine balzacchiane — ha «ciglia corte, ma abbondanti e nere» (Béatrix, p. 92), mentre «ciglia di seta» sono quelle che velano l’occhio azzurrino di Louise de Chaulieu (Mémoires de deux jeunes mariées, p. 19). In quanto alle sopracciglia, ecco i connotati balzacchiani. Foedora — capricciosa, volubile e meravigliosa per bellezza, priva di cuore — ha sugli occhi due folte sopracciglia che sembrava si riunissero (La peau de chagrin, p. 121). Parlando del giovane Ernest de La Brière, si fa notare che «sopracciglia folte e riavvicinate sono segno di gelosia» (Modeste Mignon, p. 179). Sopracciglia folte indicherebbero anche, nelle descrizioni balzacchiane, forza di carattere, e sopracciglia di tal genere sovrastavano l’occhio, pur senza espressione, del gentiluomo di Hauteserre, gentiluomo semplice e sottomesso, come indicano tanti segni della sua fisonomia, ma Balzac spiega che accanto a quella sottomissione, la forza e la tenacia denunciate dalle sopracciglia pur si erano mostrare nella persistenza e costanza con cui quel nobile signore si era ostinato nel mantenere la propria fede religiosa e monarchica in tempo di persecuzione (Une ténébreuse affaire, p. 62). Più volte Balzac, nel descrivere le sopracciglia — quando si tratta di ben disegnate sopracciglia — ricorre a un’immagine die gli è cara: sembrano esse — egli dice — come tracciate da un sortile pennello cinese; tale le sopracciglia di Lucien de Rubempré (Illusions perdues, I, p. 27). Le sottili pitture cinesi tornano ancora dinanzi agli occhi di Balzac quando egli dice delle sopracciglia della bella Florine: «Nere e sottili, si sarebbero dette disegnate da pittore cinese» (Une fille d’Eve, p. 272). Ancora: Angélique Bontemps ha sopracciglia «così correttamente disegnate come quelle — ammirevoli — delle belle figurine di Cina» (Une double famille, p. 312).

 

Capitolo quinto.

Il naso, «ornamento del volto».

6. – I personaggi della «Commedia umana».

 

  pp. 219-224. Il «realismo» della Commedia umana come descrive, in proposito? E come interpetra? Balzac si compiace quasi sempre a dar disegno e colore alla parte del volto di cui stiamo discorrendo, e ciò è tanto più da notare in quanto i naturalisti e realisti che lo precedettero — e anche quelli che lo seguirono nel far descrizione, sia pur minuziosa assai, del volto dei loro eroi e delle loro eroine, quasi mai misero tale forma in rilievo. Egli, invece, su quella parte del volto si sofferma, or con termini rigorosamente obiettivi, or estratti dal fantasioso e sconfinato suo tesoro di immagini ... e spesso indicando (con quanto ardire!) il significato psicologico che egli attribuisce a questa o a quella forma o particolarità. Vede egli, e fa vedere, nasi rialzati, concavi, rientranti, convessi, quadrati e appiattiti, deviati, di linea greca, segnati dai più realistici particolari ... e spesso da quelle forme ritrae induzioni di ordine psicologico, spirituale.

 

a) Naso rialzato, concavo e rientrato, socratico, scheletrico ... e spirituale, ecc.

 

  Si cominci col naso che ha profilo rialzato, o profilo concavo, o che sia rientrato e rincagnato, per servirci della terminologia balzacchiana. Il buon dottor Benassis — l’amico e benefattore dei poveri — ha «naso rialzato (retroussé), spiritualmente tagliato in due sulla punta» (Le médecin de campagne, p. 23). Probabilmente si tratta di naso dalla base fortemente rialzata e anche di profilo leggermente concavo, naso la cui estremità presenta un solco perpendicolare, particolarità — quest’ultima — che si trova indicata dal moderno ritratto parlato con la designazione: bout bilobé (estremità bilobata; nel dizionario segnaletico inglese bi-lobed; in quello tedesco gespalten). Ma che cosa significa quell’avverbio: spirituellement, riferito a tale bipartizione? Forse perché tale particolarità imprime alla fisonomia una certa quale aria furbesca e satirica?

  Naso concavo, e per di più largo e schiacciato — naso socratico — è il naso del pittore fiammingo Frenhofer, impressionante personaggio del mondo balzacchiano. Il naso socratico non poteva mancare nella nomenclatura del Nostro, nomenclatura che tanto spesso ricorre a confronto col volto di personaggi storici; aveva già figurato nella terminologia della Scuola di Lavater. Il nostro Frenhofer ha precisamente naso di tal genere: «piccolo, schiacciato e rialzato in punta ricordante quello di Socrate e pur quello di Rabelais» (Le chef-d’oeuvre inconnu, p. 313). In verità, il naso di quest’ultimo (cioè di Rabelais), pur essendo leggermente rialzato e leggermente schiacciato, non può proprio dirsi essere socratico. In qualche testo della Scuola di Lavater si ricorda che Socrate e Gall avevano nasi di tal genere e si pretendeva insegnare che ciò è segno quasi certo di carattere pieno di passione— mentre altrove, negli stessi testi, si legge che il naso socratico, pur essendo assai bruno naso, può trovarsi in persone di modesto e dolce carattere.

  Vi è anche un naso rientrato (nez rentré). È il naso della vecchia strega, Madame Fontaine. Che cosa significa, esattamente, nez rentré? Quella strega ha faccia tanto disseccata dalla vecchiaia da figurare la Morte, e per conseguenza, quel nez rentré significa probabilmente naso fortemente concavo e rincagnato, quasi come il forame nasale di un teschio (Les comédiens sans le savoir, p. 297). Non è raro il caso infatti, in cui, nelle sue descrizioni morfologiche del viso, gli elementi di paragone siano presi da Balzac, oltre che ai personaggi storici, a quell’altro immortale ed eterno personaggio che è lo scheletro.

 

b) Naso ricurvo e aquilino ... e quindi intelligente, prepotente, ecc.

 

  Vengono ora, dopo i nasi rialzati, concavi e rientrati, quelli di forma opposta, ricurvi, ossia convessi. La moglie di Balthazar Claës ha un naso ricurvo come becco d’aquila e inoltre «troppo arcuato verso la metà del profilo»; quel convesso naso, un po’ deforme, fa «leggere in esso una indescrivibile sottigliezza di spirito» (La recherche de l’absolu, p. 15). Il barone du Guénic ha naso bossué au milieu (gibboso), naso che ha un’espressione di rudezza e indica «tutta l’energia di quel carattere e tutta la forza di resistenza di quell’anima brettone» (Béatrix, p. 23). La bella e avventurosa Béatrix sotto una fronte «magnifica e audace ha naso aquilino, stretto alle narici, pieno di intelligenza (plein de finesse), ma impertinente» (Béatrix, p. 124).

  «Naso sottile (mince), leggermente ricurvo alla sua estremità» ha il contrabbandiere Butifer un audace insofferente di freno ma di cuor generoso — un naso che, in questo, faceva pensare al becco dell’aquila (Le médecin de campagne, p. 157). Il confronto con gli animali, oltre che con i personaggi storici, ricorre spesso nelle descrizioni del volto delle figure balzacchiane.

 

c) Naso quadrato, appiattito, sinuoso ... e quindi tormentato.

 

  Altra forma di naso. David Séchard, forte, tenace e generosa figura delle Illusions perdues, ha «naso quadrato, tagliato da una piattaforma tormentata». Anche questa «piattaforma» che schiaccia, per così dire, l’estremità del naso, avrà il suo preciso nome nel ritratto parlato, nome che coincide con quello dato dallo stesso Balzac: méplat du bout. Si distingue anche un appiattimento del dorso (si veda la riproduzione di tale particolarità — piattaforma dell’estremità del naso — nella IX e nella XX fotografia della figura 149 della nostra citata Enquête judiciaire). Balzac — dipintore romanziere — aggiunge l’aggettivo: tormentato (piattaforma ... tormentata) servendosi di un aggettivo di romanzesca fattura, ma pur efficace, indicante il movimento e le sinuosità o irregolarità di quella sorta di breve piattaforma. Notiamo pure che, secondo Balzac, da quella forma di naso or ora descritta (insieme però a labbra spesse, ricche di pieghe e insieme a mento a fossetta, e insieme a certo sguardo, proprio come ciò si dava per David Séchard) appariva «il continuo fuoco di un’unica passione, la sagacità del pensatore, l’ardente malinconia di uno spirito capace di abbracciare i più estremi lati di un orizzonte, e al tempo stesso profondamente analitico» (Illusioni perdues, I, p. 26). Tutto ciò, semplicemente o quasi, dalla forma del naso! L’interpetrazione è più che rischiosa — per non dire altro — ma la terminologia morfologica è degna di attenzione. La sopra detta particolarità del naso (quadrato e con piattaforma) è ancora una volta descritta da Balzac quando si tratteggia la figura di Calvino — altro uomo di eccezione — pur aggiungendosi ima variante: la sinuosità del dorso. «Il viso di lui era come diviso in due da un naso quadrato (nez carré) notevole per una flessuosità che si disegnava per tutta la sua lunghezza e che si trasformava, all’estremità, in schiacciature significative (méplats significatifs) ...». Ne viene, sempre secondo Balzac, una espressione di forza, di potenza, di singolarità «in armonia con la forza prodigiosa che si esprimeva da quella resta imperiale» (Catherine de Médicis, p. 207). Lavater e discepoli avevano sentenziato che quando la spina del naso (profilo del dorso) è larga e appiattita, sia essa dritta o sinuosa, ciò attesta «presenza di qualità (intellettuali e sentimentali) di ordine superiore». Persino nei riassuntivi trattatelli estratti o copiati dai vecchi testi fisiognomomici si assicura che «punta quadra (appiattita) indica concezioni originali, utopie allarmanti» mentre dorso di naso «a canna larga annunzia facoltà superiori». Balzac si era ispirato alle pagine, da lui conosciute, di Lavater o alla figura stessa di Calvino? Eccovi un altro naso quadrato ma di significato ben diverso dai precedenti, date le altre caratteristiche del volto con le quali occorre metterlo in relazione (almeno secondo gli insegnamenti e le fantasticherie dei fisiognomonici): è il naso del buono, ineffabile e troppo ingenuo papà Goriot, un papà tanto buono e così pieno di spirito di sacrifizio da potersi dire che Balzac abbia con lui creato non un personaggio della vita di tutti i giorni, ma un monomane, vero spettro da asilo di alienati. Naso lungo e quadrato, che si accompagna con faccia rotonda, occhio lacrimoso, fronte bassa (Le père Goriot, p. 22).

 

d) Naso spezzato alla radice, alla don Chisciotte, deviato, di profilo greco ... Particolari veristi.

 

  Esiste pur anco un naso che è «come spezzato alla radice e grosso in punta». È il naso di Cesar Birotteau, naso che dà – secondo Balzac – aria ed espressione propria a quegli ingenui che sono pronti a tutto inghiottire e cioè ai gobe-mouches (César Birotteau, p. 229). Del resto, quel povero Birotteau non ave una fronte – sempre secondo Balzac – che annunziava semplicità di vita.

  Diremo anche di un «naso alla don Chisciotte» quale il naso del buon cugino Pons, che esprime «una congenita disposizione a quella devozione per le grandi cose e i grandi ideali che poi degenera nella facilita a farsi trarre in inganno» (Le cousin Pons, p. 8).

  Per nulla trascurata dal moderno ritratto parlato è la deviazione (a destra o a sinistra) della estremità del naso. Non poteva mancare nel panorama fisiognomonico della Commedia umana un volto segnato da tale particolarità: il marchese d’Espard, fiera figura di gentiluomo di antica razza, magro e biondo, ha un naso aquilino «storto in punta, da sinistra a destra ... leggera deviazione (secondo Balzac) che non era su quel volto senza qualche grazia» (L’interdiction, p. 270). Sia pure, ma deviazione del naso — e asimmetria del volto — piuttosto che segnalamento di «qualche grazia» costituirebbe indice (secondo i dettami della antropologia criminale e della psichiatria) di anomalie nervose e mentali. E allora?

  La Commedia umana fa più di una volta cenno del naso di profilo greco, come disegnato da Fidia. È il naso della bella contessa di Mortsauf (Le lys dans la vallée, p. 32). Il naso della giovane e bella Modeste Mignon è pur greco «dal profilo nettamente disegnato, dalle narici color di rosa» (Modeste Mignon, p. 231 Anche il naso della giovane Hélène d’Aiglemont — una giovane bellezza imponente, dalla voluttuosa morbidezza delle labbra e dal perfetto ovale del viso — e «naso greco i cui contorni si disegnano con squisita perfezione» (La femme de trente ans, p. 169). I sacri testi di Lavater e compagni, accennando al naso il cui dorso scende perpendicolarmente — profilo greco o un qualché di analogo dànno a tale particolarità il seguente significato: «anima che sa agire e soffrire con una tranquilla serenità sposata a fermezza». Senza dubbio, la divina calma che si diffonde sul viso delle statue greche presentanti tale profilo (da cui, appunto, trae origine quella calma) deve avere ispirato, per analogia, i fisiognomonici. Torneremo sul tema quando verremo a dire del profilo in generale, profilo che comprende, oltre a quello del naso (dorso e base), ancor quello della fronte e di tutta la linea che va dal punto sotto-nasale alla fine del mento.

  Il realismo balzacchiano non dimentica di prender nota delle meno pregevoli caratteristiche di ciò che esso descrive, né si spaventa della ripugnanza che qualche tocco descrittivo può suscitare. Papà Rogron ha un naso «venoso» nel mezzo di una faccia che sembrava una vigna abbattuta dalla grandine (Pierrette, p. 17). Il notaio Roguin ha un naso da cui emana fetido odore; quel notaio, cioè, è un punez, infermità che influisce sulla vita coniugale del notaio, ma a cui certamente non sono da attribuirsi le malversazioni e sottrazioni che egli commette, portando alla rovina i suoi clienti (Un ménage de garçon, p. 38). E che dire di quel du Bousquier, quarantenne uomo d’affari, dal naso appiattito «folto di peli alle narici» sì che queste somigliano a narici animalesche? (La vieille fille, p. 17).

 

7. – Continuazione: caricature.

 

  pp. 224-226. Vogliamo tornare a Balzac e alle sue descrizioni? Non sembra che egli sfuggisse alla facile tentazione di trasformare l’«ornamento» del volto di taluno dei suoi personaggi in oggetto di riso, quando ne era il caso, e per ciò fare non ebbe che a cercare — quasi a occhi chiusi — nell’interminabile dizionario delle sue immagini e dei suoi aggettivi. Si compiacerà, ad esempio, parlarvi di un naso «a forma di obelisco» indicazione che non è davvero nella nomenclatura del «ritratto parlato» o in quella di Lavater: la denominazione è adoperata per il naso del trafficante Elie Magus, vecchiaccio un po’ strozzino, spacciatore di quadri posticci gabellati come quadri di grandi artisti (Le cousin Pons, p. 158). Un naso, per Balzac, diventa anche — oltre che un obelisco — un asso di fiori, un succhiello. Naso simile a un asso di fiori, orribilmente sporgente, è il naso dell’orribile marito della deliziosa Massimilla Doni, un naso — è da aggiungersi — che copriva con qualche pudore l’orrenda escavazione della bocca, ecc. ecc. (Massimilla Doni, p. 201).

  La giovane cameriera Europe — una schiava del forzato Collin — ladra e altre cose ancora, è dotata di un nez en vrille (un naso a succhiello) e per di più di un «musetto da donnola» (minois de belette). Il paragone con gli animali torna spontaneo nel dizionario balzacchiano, e se la donnola (piccolo animale selvaggio dal muso puntuto, spietata divoratrice di ingenui piccioni) è piccola, anche quell’Europe (piccola, irrequieta nei gesti, vivace, stordita, svelta) è un essere perverso, corrotto e pronto a ogni vizio (Splendeurs et misères, ecc., p. 60). Non vi fidate — par si dica — degli individui che hanno il naso a succhiello e il muso da donnola!

 

12. – Le narici (forma, colore, movimento) secondo le descrizioni dell’antropologia, dell’estetica, della «Commedia umana» e del «ritratto parlato».

 

  pp. 239-241. Se i romanzieri naturalisti e realisti, nel descrivere il fisico dei personaggi e specialmente il volto, quasi mai ebbero la bizzarra idea di intrattenersi a discorrere di quella parte del naso che è formata dalle narici, come — invece diversamente e con quanta insistenza descrive e dipinge l’autore della Commedia umana! Il nostro creatore di uomini vivi e appassionati, infatti, delle narici rende la grandezza, la forma, il colore, il movimento ... non dimenticando le ardite interpetrazioni psicologiche e la toccata romantica. Vediamo, al solito, qualche esemplare.

  Balthazar Claës, geniale monomane alla ricerca perpetua dell’infinito e dell’assoluto, inguaribile ricercatore di ciò che non esiste, ha «narici larghe e aperte» e ciò, fisiologicamente, «grazie a una involontaria tensione dei muscoli olfattivi» (La recherche de l’absolu, p. 19), come spiega Balzac, ma è più che probabile che l’immagine sia stata data al romanziere, oltre che da qualche reminiscenza della fisiognomonia, dall’idea del bracco che nell’oscura forra annusando, cerca dovunque e trova ... quando pur v’è qualcosa da trovare. Si ascolti, infatti, come si pronunziava Lavater per il caso contrario, e cioè per le narici di piccola apertura: «fisse sono segno certo di spirito timido, incapace di avventurarsi nella più facile impresa». Continuando, diremo che aggettivi di natura piuttosto obiettiva non mancano per la descrizione delle narici della bellissima Esther: «un naso fine, sottile, dalle narici ovali (abbiamo ricordato l’indicazione «narici ovali» dovuta a Broca), ben collocate, rialzate ai margini» (Splendeurs, ecc., p. 40). La Commedia parla anche di narici oblique. Si tratta del naso di Mademoiselle des Touches «sottile e dritto, tagliato da narici oblique, appassionatamente dilatate, quanto basti per mostrare la lamina rosata del loro delicato interno» (Béatrix, p. 73).

  Ancora per la forma delle narici nelle pitture di Balzac. Che cosa significa, morfologicamente, un nez pincé, come scrive Balzac quando vi mostra la faccia dal contorno triangolare, e il mento puntuto, della nobile dama d’Hauteserre? (Une ténébreuse affaire, p. 64). Si riferisce quell’aggettivo alle narici? Con quali parole si può rendere in italiano tale indicazione? Nel francese corrente si dice: lèvres pincées per bocca dalle labbra sottili e strette, chiuse, improntate a una certa aria di freddezza, e si dice anche air pincé per indicare il contegno freddo, con un fondo di rancore, di colui che presenta tale aspetto; un nez pincé, invece, piuttosto che significare in primo piano tale freddezza, o rancore, o anche disprezzo, vuol essenzialmente dire: naso stretto e serrato alle narici ... il che non esclude che il viso possa assumere il riserbato e quasi ostile aspetto di cui sopra. In altri termini, si tratta del fatto che il naso, là dove si aprono le narici, è stretto come se due dita lo avessero serrato e pizzicato. L’aggettivo pincé, si noti, per il naso si trova anche nella nomenclatura francese dell’odierno ritratto parlato giudiziario e si riferisce nettamente alle narici: narines pincées per indicare che «le ali del naso sono molto vicine al sottosetto e non grosse». Tale precisa indicazione del ritratto parlato (narines pincées) nei manuali del ritratto parlato che riportano gli equivalenti della terminologia originale francese in varie lingue, dànno per l’italiano: narici sottili (ma occorrerebbe notare che esse sono molto riavvicinate al sottosetto), per il tedesco: zusammengedräckt (quasi fossero insieme compresse), per l’inglese: pinched. Che il nostro minuzioso descrittore abbia voluto intendere naso con aria imbronciata, fredda, riservata, o naso stretto alle narici, non è cosa da potersi decidere, ma dato il carattere della gentildonna non è da credersi si tratti di naso che assume smorfia di disprezzo. Il che, dopo tutto, non ha importanza, ma mostra come sia spesso non facile rendere in altra lingua l’espressione originale della terminologia. Invero e esplicitamente Balzac dice: nez pincé aux narines quando descrive il volto della seducente Béatrix (nel romanzo dello stesso nome, p. 124).

  Narici larghe e aperte, ovali c allungate, oblique, ben collocate, rialzate, strette e quasi attaccate al setto nasale, sono espressioni che indicano la forma; ma non si dimentica il colore. La giovane Gabrielle Beauvouloir, che la drammatica novella mostra fresca, vezzosa e incantatrice, tra i fiori dei suoi prati di Normandia, ha «narici che appaiono di un velluto rosato» mentre la dritta linea, del dorso, visto di profilo «appariva fredda come una lama di acciaio» (L’enfant maudit, p. 83). Anche per Modeste Mignon, Balzac adopera l’indicazione: «narici color di rosa» (Modeste Mignon, p. 23). E per la bella Marie de Verneuil, non si dice forse della «trasparenza rosea delle narici»? (Les Chouans, p. 136).

  E il movimento? Per la graziosa Caroline Crochard, modesta lavoratrice in oscura e bassa stanzetta, descrivendone il volto, la piccola bocca e il naso leggermente rialzato, si dice delle narici: «quasi agitate da una continua gaiezza» (Une double famille, p. 276). Lavater e discepoli avevano già parlato «di una grande mobilità delle ali del naso» e assicuravano essere ciò indizio di una sensibilità che può degenerare in vivace sensualità; psichiatri e psicologi dei nostri dì non sarebbero forse alieni dal ricollegare tale carattere alla stretta connessione, più volte illustrata da studiosi di ordine vario, tra lo sviluppo del senso olfattivo e l’erotismo ... ma non occorre spingersi a sì lontane plaghe e sì incerte, né chiedersi se le disavventure finali della povera Carolina — narrate da un Balzac che aveva letto Lavater — siano proprio dovute alla vibrante mobilità di quelle narici! Si dica in proposito che pur le narici — vellutate e rosee — della graziosa Gabriella di cui sopra, apparivano dotate come di un palpito, ma «a tal movimento si opponeva la castità di una fronte sognatrice, a volte assai sorridente, e ognora serenamente augusta» (L’enfant maudit, p. 83).

 

Capitolo sesto.

3. – I personaggi della «Commedia umana».

 

  pp. 244-246. Balzac, descrivendo la bocca e il sorridere dei suoi personaggi, ha saputo guardare, e ricorre non invano alla ricchezza del suo dizionario. Per la bocca indica, tra l’altro, la forma e i movimenti e a lungo si ferma a dir delle labbra mostrandone il colore, l’increspatura, la sporgenza e via di seguito ... e aggiungeremo che anche il sorriso, come vedremo, trova la sua doviziosa coorte di aggettivi, il tutto — né poteva essere diversamente — con interpetrazioni psicologiche.

  L’angolo della bocca, ad esempio, e cioè il termine della linea di divisione delle labbra, si piega e si abbassa naturalmente o di frequente? Disprezzo e insensibilità (come già aveva insegnato il Maestro di Zurigo). Ora, ciò avviene proprio per la bocca di quel Maxime de Trailles che è passato attraverso tante passioni e tante avventure; «tale obliquità sta a indicare la menzogna, poiché il vizio torce le labbra» (Le député d’Arcis, p. 107). Le interpetrazioni balzacchiane sono sempre audaci! Analogamente, per altro personaggio — l’avventuroso marchese de Montriveau — un osservatore avrebbe potuto notare sull’angolo di quella bocca un leggero rialzamento abituale che indicava tendenza all’ironia (Histoire des treize, p. 173).

  Grosse labbra danno segni di buon carattere, a quanto asserisce Balzac allora che descrive il buon curato della parrocchia di Saint-Lange, aggiungendo che tale contrassegno è pur dato dal naso leggermente concavo e da un mento che quasi sparisce tra doppie pieghe delle rughe. Tali i connotati del su detto curato (La femme de trente ans, p. 102). Descrivendo Mademoiselle Cormon si dice delle sue labbra grosse e rosse «indice di una grande bontà» (La vielle fille, p. 44). È anche da intendersi come labbro non certo sottile, il labbro tumido: nella bocca della bella Ginevra Piombo, Balzac vede dipinta «quella bontà che è data agli esseri forti dalla coscienza della propria forza» per quanto «l’angolo di quella bocca si disegnasse mollemente e le labbra fossero un po’ tumide» (La vendetta, p. 187).

  Quale testimonianza, opposta alla precedente, starebbero a produrre labbra sottili e serrate! Zélie Minoret-Levrault, piccoletta e bionda, dallo sguardo rigido, ha — in accordo con quello sguardo — labbra sottili e bocca fortemente serrata (Ursule Mirouet, p. 59). È donna maligna, cattiva, acrimoniosa e diabolica. Labbra sottilissime e scolorite, tanto che «occorre che l’occhio di chi guarda faccia uno sforzo per indovinare la linea tracciata dalla bocca su quel volto», presenta il diabolico antiquario della Peau de chagrin, secco e magro, dalle braccia disseccate e dalle gote pallide e cave (p. 28). È poi forse vero che labbra sottili a righe verticali sono indizio di sottigliezza sorprendente dello spirito? Maître Cornélius (p. 273), grande argentiere del Re, aveva cotali labbra, ed è certo invidiabile fortuna per un argentiere di Stato possederne di tal genere.

  In quanto alle pieghe o solchi delle labbra, ecco le «buone labbra rosse, sinuose a mille pieghe, nelle quali la natura ha espresso i bei sentimenti» del giudice Popinot (L’interdiction, p. 212). Ed ecco ancora le labbra «larghe e solcate da molte pieghe, improntate a bontà di natura congenita ed esprimenti urbanità»: è la bocca della affezionata sposa di Balthazar Claës (La recherche de l’absolu, p. 15). Labbra che non offrano sinuosità alcuna non piacciono a Balzac per la interpetrazione psicologica che ad esse può darsi: labbra di tal genere presentava il massiccio volto dell’avaro e crudele Grandet (in sul principio stesso del romanzo: Eugénie Grandet).

  Labbro inferiore sporgente, per quanto secondo Lavater più che essere segno di affettuosità sia semplicemente segno di bonomia, è dato da Balzac alla sua bellissima e diabolica Foedora. Costei ha «labbra fresche e color di rosa ben nette su un incarnato di viva bianchezza, con questa particolarità: labbro inferiore, un po’ grosso, producente leggerissima ombra» (La peau de chagrin, p. 121-122). A meno che quel labbro inferiore sporgente con la sua sdegnosità — altra rispettabile tradizione fisiognomonica — non stia a dare segno di imperio. Non era di acerbo carattere imperioso quella Foedora che divenne moglie (sia pure morganatica) di non so qual potente principe russo? Anche coloro che impiastrano il proprio volto ad atto di imperio e di sdegnosa superiorità assumono quell’aria sporgendo quasi a guisa di smorfia il labbro inferiore. Non sempre riescono, tuttavia, a fare impressione.

  Quando può, il nostro pittore si volge ai tratti del volto di celebri personaggi e a quelli confronta con qualche audacia bocca e labbra dei suoi. Per tal modo, ad esempio, la bocca del solenne e tragico magistrato Boulac-Bernard ha una espressione «eloquente e seria al tempo stesso» in cui si fonde lo spirito di Cervantes e quello di Montesquieu (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 187).

  D’altra parte, il crudo realismo di Balzac non doveva rifuggire dal presentare ai lettori tale o tale altra particolarità — descrivendo la bocca — che altri avrebbe ben lasciato nell’ombra. Il malefico Cérizet, piccolo, magro, ossuto, ha «una bocca sdentata, minacciosa, con saliva spumosa e rarefatta a livello delle labbra sottili e scolorite» (Les petits bourgeois, I, p. 93). Nulla manca, come si vede. Altra particolarità è messa, non senza sgradevole sorpresa del lettore, in evidenza quando, a proposito dell’eccellente Bongrand, giudice di pace, onest’uomo quanto mai, si dice che «dalla sua bocca, tagliata come quella dei gran parlatori, sprizzavano bollicine bianche di saliva che rendevano piovosa la conversazione di lui, sì che i maligni — gobbi e non gobbi — che gli stavano intorno, dicevano ammiccando: piovono sentenze dal tribunale» (Ursule Mirouet, p. 48).

  Insomma, tutto vede Balzac nella forma, nelle righe o pieghe, nella sporgenza, nel taglio e nell’angolo delle labbra e della bocca! La bocca di Graslin (per dare semplici esempi di una bocca sulla quale le più varie espressioni della mente e dell’animo vengono ad esprimersi) «annunziava un segreto senso di bontà, un’anima eccellente, ma sepolta dal peso delle cure e degli affari e forse soffocata, sebbene pronta a risorgere al dolce richiamo di un affettuoso amore» (Le curé de village, p. 34). Le labbra pallide di Dumay, tenace, coscienzioso e indomabile brettone, non stanno forse a indicare «una continua convulsione dello spirito, senza cessa tenuto in freno dalla natia energia»? (Modeste Mignon, p. 18). E si potrebbe continuare.

  Fa parte, in un certo senso, dell’esame e della descrizione della bocca, quello spazio che va dal margine del labbro superiore alla base del naso e che i morfologi chiamano intervallo naso-labiale. Quando tale distanza è grande si tratta, per Balzac, di spirito di sottomissione e di lealtà. Infatti, tipo di lealtà e fedeltà alle istituzioni e alla sua nobile casta è il vecchio gentiluomo d’Hauteserre, che presenta per l’appunto il carattere in questione: «tra il naso e la bocca si stendeva largo spazio in contrasto con le fondamentali leggi del disegno, da cui un aspetto sottomesso, ben in accordo con il carattere dell’individuo» (Une ténébreuse affaire, p. 62). Altra volta la minuzia descrittiva del nostro romanziere non disdegna mettere in evidenza quella incavatura perpendicolare che da sotto il naso scende sino all’orlo superiore del labbro di sopra: seducentissima quella Marie de Verneuil dalle linee pure e brillanti del contorno del viso, dalle rosee narici trasparenti: «una sottile doccia o incavo le scende dalla fine del naso al labbro superiore» (Les Chouans, p. 136).

 

7. – Il sorriso.

 

  pp. 251-252. Come mai Balzac avrebbe dimenticato il sorriso nel dipingere i suoi personaggi? Descrive sorrisi delle più varie specie, da quelli in cui traspare tutta una vita, a quelli il cui fondo è la tristezza sotto una superficie di convenienza e di socievolezza, a quelli in cui è tutto un enigma, a quelli ancora del malvagio e che il lettore farà bene a conoscere. Ecco qualche esempio.

  Il buon papà Bongrand, magistrato a Nemours, è mostrato col volto marcato dalle tenaci impressioni che lasciano le tristizie della vita e dalle impronte segnate dal pensiero di chi è abituato a interrogare e a ricercare; ma di tanto in tanto uno speciale sorridere illuminava quel volto, un sorriso che ben è di coloro che «volta a volta debbono credere a tutto o credere a nulla, abituati a tutto vedere e a tutto udire senza meraviglia, a penetrare in quei profondi abissi del cuore che gli interessi vi sanno aprire» (Ursule Mirouet, p. 47). Assai cose — come sempre! — vede Balzac in un volto, e ora in un sorriso ... Quanto significato, anche, nel sorridere di Madame Villemsen (sic)! Un sorriso di convenienza, «improntato a dolce tristezza, errante su labbra pallide ... ma improvvisamente animato dalla vita e dalla delizia dell’amore materno quando i bimbi di lei portano sulla madre il loro sguardo») (La Grenadière, p. 238). Enigmatico, invece, o indefinibile, è il sorriso della nobile fiorentina Massimilla Doni; quel sorriso ha il segreto narra Balzac — di quello della Monna Lisa di Leonardo (Massimilla Doni, p. 197). Di questo sorriso di Monna Lisa vedrà il lettore qualche interpetrazione più in là, nel capitolo del presente volume consacrato a: Due volti in uno. Infine, ecco il sorriso del malvagio o, per meglio dire, uno dei tanti sorrisi che i malvagi hanno a loro disposizione, sorrisi che il più delle volte si riducono a smorfie ... quasi smorfie di un contratto viso di cadavere. Il canonico Troubert è un duro ipocrita matricolato, con maschera — sul volto — impenetrabile, capace di molto malfare: palpebre ognora abbassate, sguardo volta a volta acuto e penetrante, capelli rossi, fisonomia grave, parola rara e rarissima e bocca mai sorridente ... Se per avventura un tentativo di sorriso appariva, si perdeva esso nelle pieghe del volto ... (Le curé de Tours, p. 233).

 

Capitolo settimo.

Denti, dentatura, mento.

1. – Denti e dentatura per la fisiognomia, i canoni dell’arte, ecc.

 

  pp. 259-260. Il romanziere realista — Balzac — che di continuo mostra dei suoi personaggi forme ed espressioni della bocca e delle labbra, non poteva non dire dei denti — visti tra quelle labbra e segnanti spesso marca caratteristica su un volto — e ne dirà, pur senza usare terminologia così ricca come quella che particolari ricerche, prima e dopo di lui, mettevano e metteranno in opera. Non dimentichiamo la reverenza — o l’amore — che l’autore della Commedia umana nutriva per l’opera di Lavater, e di quella reverenza troveremo traccia ancora una volta nel descrivere che egli fa la bellezza e la bruttezza dei denti dei suoi personaggi. Bella dentatura è quella dello scapestrato e avventuroso Max Gilet, anche dal bel volto; aveva egli «bocca ben modellata, dal grazioso sorriso e col sorriso apparivano i denti, belli come quelli di bella donna amante» (Un ménage de garçon, p. 137). La moglie di Sauviat, una specie di contadina forte e robusta, ha denti «bianchi, alti e larghi come mandorle» (Le curé de village, p. 5). Brutta dentatura, invece, quella dello strozzino Samanon, brutto ceffo «dalla fronte gialla e minacciosa, dalle guance incavate, dalla mandibola prominente e con un uscir fuori dalla bocca di certi denti che sembravano quelli di un cavallo che sbadigli ... Da tutti quei tratti, un senso di ferocia» (Illusions perdues, II, p. 82). Anche il povero Michu — fanatico, devoto e cieco difensore dei diritti del suo padrone — non ha davvero bella dentatura: i suoi denti «sono male impiantati» (Une ténébreuse affaire, pp. 3-4). Infine, denti incrociati o accavallati che dir si voglia, non sono ben visti da Balzac; e anche sfavorevolmente venivano giudicati dai cultori della fisiognomonia. L’assassino Tescheron (sic), nel romanzo: Le curé de village ed il malvagio Tonsard, nel romanzo: Les paysans, hanno denti di tal fatta.

 

4. – Mentum ... conquista umana.

 

  pp. 269-270. Passiamo alle indicazioni di cui si serve Balzac grazie al suo ricco dizionario e soprattutto al suo penetrante modo di guardare; esse sono, come sempre, numerose. Alcune, in maggior copia, obiettive mentre altre sono semplicemente temprate dal sentimentale romanticismo di lui. Eccone qualche esemplare per la prima categoria. Mento corto, in avanti, a punta, doppio, con fossetta ... Oppure — seconda categoria — mento levigato come da mano di scultore, mento minaccioso, mento bianco come il latte. Assai spesso l’indicare per i suoi personaggi questa o quella forma di mento porta il nostro romanziere a mettere in evidenza il significato psicologico e caratterologico che egli crede di attribuire a quella forma. Lavater e la sua Scuola proiettano ancora una volta la loro luce — la loro ombra — sulla tela ove Balzac muove il suo pennello. L’ostinato Balthazar Claës non ha forse mento corto, che bruscamente si protende in avanti? Segno di dura volontà? (La recherche ecc., p. 19). Il buon dottore Benassis, beneficatore dei poveri con indomabile costanza e suscitatore di vita in un paese che sembrava morto, aveva mento sporgente bruscamente in avanti; ma era sovrastato, quel mento, da una bocca con labbra grosse e rosse, indizio di bontà. Dal che il discepolo di Lavater poteva dedurre che la bontà di quell’uomo benefico non doveva essere priva di energia. E così era di fatto (Le médecin de campagne, p. 23). Se mento in avanti è per Balzac carattere di ostinazione o di forte volontà, quando invece tale protendersi non sia troppo accentuato, par si abbia — secondo il nostro romanziere — carattere di nobiltà. Mento corto e leggermente in avanti, ma senza sgarbata accentuazione, è il mento di Lucien de Rubempré. «Può leggersi in esso un’incomparabile nobiltà» (Illusions perdues, I, p. 27).

  Altra significativa forma di mento: mento «a punta e minaccioso». Ne è proprietario il vecchio Magus, un lestofante avido e ingannatore, sapientissimo nell’accumulare ricchezze. Il nostro imperterrito lettore di fisonomie par lasci intendere che quel carattere del mento denunzi, per l’appunto, l’ostinata avidità dell’individuo. Anche dicendo che le mani di quel vecchio sono «ossute e scarnite», il nostro narratore par voglia dare impressione della mano predatrice (Le cousin Pons, p. 158). Il gobbo testardo e geloso, «un orco mancato», che mai si stacca dalla sua daga (secolo di Luigi XI) di cui si prospetta l’immagine in Maître Cornélius, ha «mento puntuto e in avanti», presentando in tal modo — insieme a due labbra sardoniche — «i caratteristici segni di una malizia di spirito, unita a sagacità freddamente crudele, capace di tutto indovinate, perché capace di tutto supporre» (p. 250). Doppio mento molto in rilievo – alquanto diverso, dunque, da quel mento in leggera soggiogaia di cui abbiamo più sopra detto — non è davvero significato di bellezza per Balzac: l’esagerato doppio mento dell’abate Fontanon (un abate ombreggiato da Balzac con non piacevoli tinte) insieme alle guance di lui larghe e cadenti «sta a testimonianza di un materiale benessere egoista» (Une double famille, p. 301).

  Invece, piuttosto romantica e subiettiva è la descrizione del mento della bella Esther di cui già con tanta ricchezza di nomenclatura obiettiva e subiettiva insieme e con tanta musicalità verbale e di colori, Balzac aveva descritto i capelli, abbondanti e lunghissimi, la fronte, l’occhio, il naso e le narici, la bocca rossa e fresca come una rosa, la pelle, le unghie, le mani, il piede; si tratta di un mento «modellato come se un amoroso scultore ne avesse levigato il contorno, bianco come il latte» (Splendeurs et mtsères ecc., p. 40). D’altra parte, ecco il mento a fossetta. Di cotale mento («Di un mento a fossetta e piccolo, nell’ovale perfetto del viso») è dotata Angelica, che diventerà poi la contessa di Granville (Une double famille, p. 312). Quanto si è detto e quanto si è divagato su segno di tal genere! Per l’antica tradizione, ricca di favole, si voleva che quella impronta fosse la traccia del dito che Amore, nel plasmare i suoi modelli, lascia nel mento del modello da lui creato per sollevargli il volto e dilettarsi in quella vista, a composizione finita.

 

Capitolo ottavo.

L’ovale e il profilo del volto; il collo.

1. – Descrizioni geometriche del contorno del volto.

 

  pp. 273-274. Descrizione ispirata a geometria, come sopra, non infrequentemente appare nelle narrazioni d’arte; se ne trova pur traccia nelle pitture balzacchiane, ora espresse con ardite tinte romantiche, ora con vere e proprie indicazioni geometriche e tali da precorrere il ritratto parlato di oggidì, da un lato, e da presentare — dall’altro lato — qualche riflesso dell’antico modo di guardare, di vedere e di descrivere proprio a Lavater. Qualche esempio. Cominciamo col contorno del viso «così puro nella sua linea da sembrare luminoso»; è indicazione che difficilmente potrebbe essere adattata in un segnalamento obiettivo e realista, ma è adoperata da Balzac, realista e poeta al tempo stesso, con qualche efficacia per dare immagine al viso calmo, tranquillo e improntato a celeste grandezza dell’abate Chaperon (Ursule Mirouet, p. 43). Per contro, indicazioni quasi geometriche non mancano, come si fa per tratteggiare il contorno del viso del giovane Ernest de la Brière: «la logica del disegno avrebbe voluto che l’ovale di quella faccia fosse un po’ più allungato e maggiore distanza vi fosse tra il mento che terminava improvvisamente e la fronte troppo diminuita dal modo con cui al suo sommo si faceva l’impianto dei capelli» (Modeste Mignon, p. 179). Ecco un’altra descrizione geometrica in cui, tuttavia, anche tra le misure e le proporzioni traspare la tinta sentimentale e romantica; si tratta del viso di Emmanuel de Solis, modesto, tenace e affettuoso giovane che dovrà poi sposare la soave Marguerite: «volto regolare che si fa notare per la grande precisione dei suoi contorni, per la felice disposizione delle sue linee» e da ciò, o oltre ciò, «una calma profonda — in quel viso — data dalla pace del cuore ... Tutto in quel volto è di armoniche proporzioni» (La recherche de l’absolu, p. 106). Più definita è la geometria in altro contorno del volto visto di prospetto: quello della nobile gentildonna Madame de Hauteserre, che è presque triangulaire (Une ténébreuse affaire, p. 64).

 

5. – Continuazione: la «Commedia umana»; la caricatura; il profilo greco.

 

  pp. 284-286. Colui che con tanta minuzia disegnava e coloriva il volto dei suoi personaggi doveva necessariamente mostrarne pure il profilo, ma soprattutto si metteva egli in tali descrizioni quando si trattava di profili che si appressavano a caricature o ripetevano le linee della bellezza; i due estremi, dunque. Madame Camusot ha un profilo che non ricorda davvero uno di quelli — di pura bellezza o di impressionante originalità — che i pittori dianzi ricordati consegnarono nelle loro tele; quella donna è «piccola, grassoccia, fresca, bionda, dal profilo della fronte nettamente arcuato, bocca rientrante, mento in avanti ..., tratti che la giovane età rendevano sopportabili, ma che ben presto dovevano imprimere aspetto di vecchiaia su quel volto» (Le cabinet des antiques, p. 167). Anche la giovane Clotilde de Grandlieu, figura piuttosto arida e inconcludente, ha un profilo arcuato la cui linea è «come un primo quarto di luna, dominato da una fronte prominente» (Splendeurs et misères, ecc. p. 89). È il profilo quasi semilunare, incavato, di cui farà preciso cenno il ritratto parlato. Balzac parla anche di un profilo da chiamarsi sinuoso, il quale comincia — alla fronte — con una linea convessa, continua come tale (con il dorso del naso) ma poi si fa concavo per il rientrare della bocca e lo sporger del mento; profilo di tal genere non piace, né fisicamente né psicologicamente a Balzac, il quale ne fa dono al vecchio, avaro e sospettoso Taboureau: «fronte convessa, bocca serrata, mento rialzato e tendente a riavvicinarsi al naso ironicamente ricurvo» (Le médecin de campagne, p. 75).

  Dal profilo, in luogo di manifesti segni di bruttezza fisica e morale come sopra, si possono trarre indicazioni di alte e severe qualità psichiche, sempre secondo Balzac, come accade per quel vecchio e grave dottor Minoret il cui profilo «si presta a essere inciso in medaglione, profilo severo e quasi puritano, dal colorito freddo ed esprimente come una ragione matematica» (Ursule Mirouet, pagina 61).

  Un bel profilo è particolarmente fatto per sedurre; la donna che ciò sa e che di tal profilo è dotata, ama porsi — nota maliziosamente Balzac — col capo in modo che di quel profilo ben si veda la linea. Quando a teatro, scrive l’Autore della Commedia umana, la parigina — sotto la luce dei riflessi e delle luminarie — vuol far mostra di sé, cerca essa di mettere in evidenza il suo profilo, se è bello, in modo da produrre magici effetti; in tal modo atteggiando il capo, «il profilo chiama la luce sulla guancia, fa disegno del naso con linea netta, illumina il roseo della narice, taglia la fronte quasi a spigolo vivo, lancia con lo sguardo una favilla di fuoco che par si diriga verso l’infinito e batte con chiaro tratto di luce la bianca rotondità del mento» (Autre étude de femme, p. 149).

  b) Accenniamo soltanto — e di passaggio — che il profilo di un volto è di particolare importanza non soltanto per il suo valore estetico e psicologico (e anche segnaletico, come vedremo più in là) ma anche per le sottili e maligne ispirazioni che esso può dare alla caricatura. Del che già qualche apparizione è nelle descrizioni, sopra rammentate, fatte da Balzac. È evidentissima cosa che se in un profilo trovate fronte sporgente, e animalescamente fuggente, o naso fortemente rialzato, o altissimo mento e sporto innanzi, ognuno di quegli elementi porge spontaneamente materia alla matita o al pennello che voglia esercitare calunnia a proposito di quel profilo. Questo, più assai del volto visto di prospetto, si presta a calunnie di tal genere; e diciamo «calunnie» tanto per farci comprendere, ma non perché si tratti di vera e propria calunnia dal momento che calunnia è un dir che non ha fondamento di vero alcuno, mentre la caricatura poggia su un qualché di realmente esistente, ma esagerando, trasformando, abbassando di grado. Qualche parola in proposito fu già qui detta parlandosi, appunto, della tecnica della caricatura nel capitolo quarto della prima parte della presente opera. Viene alla mente, su tal punto, la curiosa esperienza di Lavater per la quale, dopo avere tracciato a disegno il profilo di parecchi volti, si taglia ognuno di quei profili, orizzontalmente, in diverse parti (fronte, naso, bocca, mento) e poi si compongono con quei frammenti altrettanti profili, formati ciascuno dal riavvicinamento di elementi appartenenti a persone diverse. Ne scaturiscono profili di tale deformità ridicola e grottesca, quale non si ottiene davvero quando eseguendo operazione anatomica del medesimo genere si sovrappongono frammenti tagliati orizzontalmente su disegni di facce viste di prospetto. Insomma, il profilo più assai di un volto che sia visto di prospetto suggerisce, consiglia e guida la caricatura.

  c) Non può davvero parlarsi di descrizioni e di interpetrazioni di un profilo senza pensare al «profilo greco», di secolare tradizione estetica e senza dire alcunché di esso. Siamo al polo opposto della caricatura, sopra indicata. Bellissimo, nella comune opinione del volgo e anche sotto la penna di Balzac (torniamo, per il momento, a lui), è il profilo greco o il naso greco; più volte ne ritroviamo la linea in personaggi femminili e anche maschili (tutti di belle fattezze, e incantevoli) della Commedia umana. La giovane Césarine Birotteau, ad esempio, tanto graziosa oltre che bella e di candido carattere, ha un profilo greco (César Birotteau, p. 319). Medesimo profilo greco ha Lucien de Rubempré: «un front et un nez grecs»; quel viso, invero, aveva la distinzione di linee dell’antica bellezza (Illusions perdues, I, p. 27). Ma quella pura fronte greca diventa vittima della enorme, gibbosa e infernale fronte dell’ex forzato Vautrin.

 

8. – Il collo.

 

  pp. 295-296. Venendo ora a Balzac si veda come egli, per quanto ammiratore e quasi discepolo (se così può dirsi) di Lavater, non si spinga tanto oltre quanto la vecchia e meno vecchia fisiognomonia nell’interpetrare le linee del collo. Tuttavia, ancor qui il nostro Autore, nel seguire il suo metodo descrittivo, non tralascia di far qualche allusione a possibili indicazioni, di ordine materiale e spirituale, che la linea del collo a lui suggerisce. Per esempio, dalla perfezione del collo crede poter dedurre quella dell’intero corpo. Le proporzioni del corpo della bella contessa de Vandières debbono essere armoniose e perfette: essa aveva, infatti, «un collo la cui perfezione lasciava divinare quella del corpo» (Adieu!, (sic) p. 80). Medesimamente, in forza di alcune sue particolari vedute sulla connessione tra collo, carattere e intelligenza, Balzac riterrà che tutti i grandi uomini di cui egli ha potuto contemplare il ritratto hanno collo corto. E aggiunge una spiegazione, diremo così, fisiologica: «la Natura, forse, ha voluto che in quei grandi il cuore sia più vicino al cervello» (Louis Lambert, p. 67). Come dimenticare che Balzac era di collo grosso e corto? Certamente egli ciò sapeva quando scriveva come sopra, né aveva bisogno di guardarsi nello specchio per compiere tale accertamento.

  Quale era il volto di Balzac? Quale la costituzione morfologica di lui? Si troverà risposta in altro nostro lavoro, ancora inedito. Per ora ripeteremo soltanto, a proposito dell’associazione fatta da Balzac tra la genialità e il collo grosso e corto, che tale veduta può benissimo provenire (non prevista da Lavater) da una ... auto-ammirazione di Balzac il quale si compiace di dare al genio le proprie particolarità fisiche. Oppure potrebbe la sopra detta associazione avere origini da una pagina di Rabelais, del grande Rabelais di cui Balzac era ammiratore fervente e a cui per tanti aspetti egli rassomiglia, anche nei riguardi della costituzione fisica. L’Autore di Gargantua aveva detto che negli uomini bassi e tarchiati la collera è frequente perché il cuore è più vicino (domandiamo scusa al lettore) agli escrementi. Si tratta, nelle interpetrazioni di Balzac e in quelle di Rabelais, di punti cardinali diversi, ma in fondo il concetto è analogo: distanza tra il cervello e le altre parti del corpo secondo che il collo sia più o meno lungo.

 

Capitolo nono.

L’orecchio.

3. – I personaggi della «Commedia umana».

 

  pp. 300-303. Il nostro Balzac, per certo, nel disegnare e colorire i suoi personaggi non si ferma — con la sua matita, i suoi colori e i suoi romantici aggettivi — sull’orecchio come invece insiste quando si tratta di altre parti del volto, ma è pur da dirsi che l’orecchio delle sue creature è disegnato e colorito assai più volte di quel che, per lo innanzi e anche dopo di lui, sia mai stato fatto da ogni altro narratore.

  In primo luogo, orecchio piccolo e piccolissimo. È uno dei tanti segni che la bellezza si compiace donare a una graziosa testa. L’orecchio di Gabrielle Beauvouloir è piccolo e svelto, e ferma l’attenzione di chi guarda; ma gli è anche che da quell’orecchio, circonfuso da ciuffi di capelli, pendeva una graziosa goccia di rubino che «si staccava con forza viva sul bianco latteo del collo» (L’enfant maudit, p. 83). L’ingenua e soave Pierrette ha linee gracili e delicate del volto, e orecchio pur fine e delicato; quel fine orecchio sottile «poteva considerarsi come un piccolo capolavoro dovuto a scalpello di artista; l’avreste detto di vero marmo» (Pierrette, p. 11). Ancora un orecchio in cui è impressa la bellezza, ma descritto con immagini e pennellate ben diverse — tanto è ricca la forza di espressione del nostro artista — dalle precedenti, è l’orecchio della dolce Paolina: «un orecchio grazioso (une oreille mignonne) tra boccoli di capelli che gli scendono intorno ... un orecchio dunque disegnato in un fondo di finissimi merletti» e tale — quell’orecchio tra i capelli a ricci — che « un artista sarebbe per esso diventato folle per amore ... e per contro quell’orecchio avrebbe restituita la ragione a qualche folle» (La peau de chagrin, p. 256). Juana (nei Marana, p. 10) ha neri e brillanti capelli, accarezzanti orecchie fresche e trasparenti.

  Dopo le belle e graziose orecchie, le grandi e brutte. Ancor qui gli esemplari della umana specie differiscono tra loro come — tra loro le foglie degli alberi! Il mastro di posta Minoret-Levrault ha brutta e bruttissima faccia e un grosso testone in cui non è alcuna luce di intelligenza («la scienza di Gall – fa qui notare Balzac – deve pur tener conto delle eccezioni»); quel testone è fiancheggiato da «larghe orecchie, quasi cicatrizzate sull’orlo esterno come dall’erosione prodotta dallo scorrere di un sangue troppo abbondante che pareva quasi volesse schizzar fuori» (Ursule Mirouet, p. 5). Anche le orecchie di papà Graslin «spesse, hanno larga orlatura corrosa dall’acidità del sangue» (Le curé de village, p. 33). Chi pone mai attenzione, quando si guarda un orecchio, sia pure non alla sfuggita, al modo con cui si presenta l’orlo, o margine, o bordo, dell’orecchio e al suo colorito? Il ritratto parlato, come vedremo, vi insegnerà a guardare quell’orlo, a distinguerlo nella sua parte anteriore, superiore, posteriore, e a indicarne le diverse modalità, ma nessuno farà altrettanto. Di solito, guardando, si è colpiti semplicemente dalla grandezza o piccolezza dell’orecchio, o dall’eccezionale suo ripiegarsi in avanti. Non si è colpiti da altro, e altro non si guarda. Ma Balzac, con la sua sensibilità fotografica, è impressionato perfino da quell’orlo o margine. Balzac, anzi, a proposito di questo margine dell’orecchio non trascura di notare come e quando esso, in tale o tale altra occasione, arrossisca: l’emozione violenta fa arrossire l’orlo delle orecchie, come accade allora che la celebre danzatrice Tullia fortemente si commuove (Un prince de la Bohème, p. 205). Altre volte sul margine od orlo dell’orecchio torna Balzac. Orecchio con bordo esterno piatto o nullo è pur visto quando si descrive la brutta faccia dell’avido signor Crémière, con «orecchie grandi e prive di orlo» (Ursule Mirouet, p. 19). E ciò si nota ancora allorché si descrive l’esoso volto dell’ancor più esoso Rigou; dopo aver gratificato costui di un naso lungo e schiacciato, di occhi grigiastri e cerchiati di nero, di collo da uccellaccio di rapina, ne mostra l’orecchio «largo, alto, e privo dell’orlo esterno», carattere — si aggiunge — indicante crudeltà, ma ben s’intenda crudeltà morale piuttosto che fisica, se pur non indicante follia (Les paysans, p. 289). Qui Balzac, travolto dalla sua passione di seguace della vecchia fisiognomonia, senza dubbio esagera: quanti mai, crudeli nell’animo e capaci di ogni bassezza, siamo costretti a vedere e trattare, senza che possiamo noi scorgere nelle loro orecchie la mancanza dell’orlo esterno! In verità, il problema non si pone così, ma in altro modo e precisamente come segue. Non si tratta di sapere (per giudicare se tutti gli uomini crudeli hanno il margine dell’orecchio completamente appiattito, o se tutti coloro che hanno il margine completamente appiattito sono crudeli; no, occorre chiederci se tra i crudeli il numero di coloro che hanno il margine estremamente appiattito è superiore a quello che si trova tra i non crudeli. Tutti i confronti, in tema di segni caratteristici di degenerazione o altri analoghi, tra individui del gruppo A e individui del gruppo B, debbono farsi come ora si è detto. Sul tema avemmo a dire più volte altrove e in queste stesse pagine.

  Continuando la rassegna balzacchiana troviamo le orecchie che piegano in avanti. Sono pur brutte e bruttissime non solo, ma verranno anche denunciate, in ispecie dopo Balzac, come segno di non felice costituzione mentale. Orecchie di tal genere ha il vecchio e sregolato — un essere cadente — principe Cattaneo: un orecchio «che faceva rassomigliare a un cane quell’uomo» (Massimilla Doni, p. 202). Sta bene, ma laddove per i nostri moderni le grandi orecchie sporgenti e spioventi in avanti (orecchie ad ansa) hanno significato univoco e peggiorativo, pare che per Balzac, invece, esse possano avere significato, per così dire, ambivalente: infatti, esse segnano talvolta nella Commedia umana il contorno del viso dell’uomo di mite carattere, probo e mansueto; orecchie grandissime e ripiegantisi sono quelle di quell'angelico Popinot — angelo di cuore, ma non di aspetto — di cui si descrivono anche i grandi piedi, le grosse ginocchia e le larghe mani (L’interdiction, p. 212). Infine, eccovi — niente di meno — le orecchie mobili: Michu, indimenticabile personaggio di Une ténébreuse affaire, ha «orecchie che sembrano possedere una certa mobilità come accade per gli animali selvaggi sempre in guardia» (p. 4). Evidentemente! Quel Michu, infatti, è il fedele cane da guardia, ostinato nella fedeltà sino alla morte, del suo nobile signore che è da ogni parte insidiato da traditori e da potentissimi nemici invisibili.

  Insomma, soltanto a guardare gli esempi sopra offerti, troviamo nel ricco dizionario di Balzac, per le orecchie, le indicazioni: larghe, alte e senza orlatura; piccole e svelte; fini e sottili; graziose; fresche e trasparenti; larghe e corrose al margine; grandissime e ripiegate; spesse e con orlatura corrosa ... per non dire delle indicazioni che ravvicinano bellezza e modellatura dell’orecchio all’opera di artefice greco!

 

Capitolo decimo.

La capigliatura.

3. – I personaggi della «Commedia umana».

 

  pp. 318-321. Il nostro fantasioso, e pur realista, creatore di personaggi non trascura nella sua Commedia umana — di segnalare tutte le possibili categorie di notazioni, fosse pur con un tocco, della capigliatura (compreso l’acconciamento di essa) quando egli presenta le sue figure e figurine. Si ascolti.

  Ecco, per cominciare, i capelli d’oro. «Di un oro pallido» sono i capelli della contessa Angélique de Granville, spartiti armonicamente sulla fronte e ricadenti poi intorno alle gote «come l’ombra di un fogliame su un cespuglio fiorito» (Une double famille, p. 312). Qui, in brevi tocchi, vi sono colore, pettinatura, poesia. Altra volta, oltre di ciò, vi è l’indicazione della natura dei capelli: come di seta (soyeux). Infatti, capelli di un blond égal, scendenti come ruscello d’oro, dai colori caldi ... capelli di seta, sono quelli della giovane e bella Gabriella Beauvouloir (L’enfant maudit, p. 83). Capelli «di un oro pallido» ornano il capo della romantica e sognante Modeste Mignon. I capelli della bellissima Tullia sono biondi e formano intorno all’ovale del volto «due grappoli da cui emana una grazia piena di tristezza» (Un prince de la Bohème, p. 204). Anche Mademoiselle de Watteville è bionda, ma di un biondo insignificante, come — del resto — tutta la sua persona magra, sottile, piatta, pallida (Savarus, p. 208). La giovane Ursule Mirouet è pur bionda, ma non insignificante davvero: i suoi capelli «fini e biondi si ammassavano in grosse trecce che attiravano lo sguardo in grazia dei loro mille nodi brillanti» (Ursule Mirouet, p. 66). Talvolta, dal colore ... e dall’impertinenza della capigliatura, il Nostro trae giudizio sul carattere della persona: la pettinatura della giovane e biondissima Luisa de Chaulieu,. a onde di oro pallido e a ricci impertinenti, insegna che non si tratta «di una bionda insipida e svenevole, ma di una bionda meridionale di temperamento, piena di sangue, di una bionda che sa colpire in luogo di farsi colpire» (Mémoires de deux jeunes mariées, p. 19). La bellissima Clémentine Laginska è bionda, ma con nerissime ciglia (si sa che tale contrasto, piuttosto raro nella realtà, è assai amato dai poeti e in specie quando il contrasto si ha tra capelli biondi e occhio nero, sovrastato da nero sopracciglio), bionda sottile, dai capelli ravviati all'inglese, sì da farla simigliare a una figurina di album (La fausse maîtresse, p. 59).

  Ed ecco la volta dei capelli neri. Capelli neri e nerissimi abbondano nella leggiadra schiera delle donne balzacchiane; o bionde e biondissime infatti, o nere di crine e nerissime: i due estremi. La seducente Malaga — cantante di non severi costumi — ha capelli neri, serrati da una benda azzurra i cui fiocchi ricadono sul dorso (La fausse maîtresse, p. 81). I capelli della giovane Juana «con i loro riflessi neri, rialzati sul capo e ricadenti a incorniciare il volto, brillano intorno alle fresche e trasparenti orecchie» (Les Marana, p. 10). Ma la bella Juana è una spagnola di origine italiana ... e come tale ha pur da essere necessariamente bruna. Del colore, della natura e della pettinatura si dice in poche parole, per i capelli neri di Massimilla Doni, nobilissima, ricca e vivace gentildonna fiorentina: «neri capelli a treccia e lucidi» (Massimilla Doni, p. 191)- Evidentemente Balzac, che pure conosceva l’Italia e gli Italiani e che tanto amava confrontare le sue creazioni femminili, quando ne era il caso, alle fresche immagini uscite dai colori di Raffaello, nel ritrarre la sua Massimilla aveva dimenticato il biondo o il biondo rosso del tipo fiorentino per rammentarsi piuttosto del tradizionale colore scuro e nero dell'occhio e dei capelli del non meno tradizionale tipo italiano ... e delle fresche pitture di Raffaello! La bella Dama, misteriosa, che appare in uno dei primi capitoli del romanzo Les Chouans, ha capelli neri abbondantissimi, separati sulla fronte in due bandeaux, sì da far risaltare la bella giovinezza di un volto pieno di intelligenza (p. 104). Capelli biondi, dunque, e capelli neri; due estremi in ogni modo descritti. Ma talvolta il colore dei capelli è indicato e specificato come se si trattasse di due diversi colori fra loro frammisti e si accenna al modo di disporsi di essi intorno al volto e sul collo. «Capelli di color castano, mescolati a tinte d’oro» facevano, su un collo bianco, «come una nuvola», inquadrando il delicato viso della giovanissima contessa di Hérouville: un viso come quello che sapeva dipingere Carlo Dolci (L’Enfant maudit, p. 9).

  Ripetiamo, intanto, che capigliatura e modo di acconciare i capelli concorrono a far comprendere o mettere in evidenza le caratteristiche spirituali della persona. Ancora un esempio a tale proposito è dato da quel giovane de L’enfant maudit che, dalla delicata pelle (trasparente e come di seta), dagli occhi azzurri di ineffabile dolcezza, ha «capelli castani, fini e lisci»; quei capelli si dividono sulla fronte in due bande, una a dritta e una a manca, inanellandosi alla loro estremità» (p. 48). Quel giovane è di delicata tempra, triste e malinconico, dallo sguardo che sembra continua preghiera, semplice e modesto, dalla guancia pallida e incavata, dalla fronte già solcata da qualche ruga ... È un debole e un malaticcio; non doveva, perciò, avere capelli fini e lisci?

  Quando Balzac guarda e descrive la capigliatura, non ne vede soltanto il colore, la natura e la pettinatura, ma porta talvolta lo sguardo al modo di attacco sulla fronte e sulla nuca. La bella Carolina, curva sul suo lavoro di operaia, aveva ricevuto in dono da Amore una foresta di capelli di color castano che le inquadravano il viso, splendenti sul biancore della pelle e quasi a grappoli. L’attacco di quei capelli sulla fronte si faceva con grazia sovrana, e tanta grazia presentava pure la nuca (Une double famille, p. 276). Fiera e sdegnosa l’espressione del volto di Modeste Mignon; l’impianto dei suoi capelli, sporgente a punta nel mezzo della fronte, in alto, faceva continuazione del leggerissimo solco che già i pensieri avevano tracciato sulla fronte stessa, tra le sopracciglia (Modeste Mignon, p. 63).

  Non solo il colore dei capelli e l’impianto di essi, ma la forma e la acconciatura di essi vengono trattate da Balzac con dovizia di termini. Troviamo, ad esempio, capelli: bouclés, frisés, ondulés, en vagues, en rouleaux, abondants, rares, en touffes, en grappes, en bandeaux, tressés, lisses, plats, bien ou mal peignés, crépus, touffus, en brosse, ecc. e anche: fins, durs, épais, soyeux, floconneux, longs, luisants, brillants, vigoureux, ecc. … La terminologia descrittiva del Nostro è veramente inesauribile!

  E la pettinatura? Essa, come già vedemmo, descritta da Balzac soprattutto quando orna un bel capo di donna bella, non è trascurata per gli uomini, specie quando se ne debba trarre motivo di caricatura allora che ne è il caso. Pochi capelli grigi ornavano il cranio quasi calvo del ricco mercante Guillaume; erano così regolarmente disposti e appiattiti su quel cranio giallastro da farlo «apparire come un campo arato, traversato da regolari solchi» (La Maison du Chat-qui-pelote, p. 25).

  Persino l’autopittura di barba e capelli viene ricordata talvolta da Balzac, sempre per gli uomini. L’antiquario della Peau de chagrin, quando riappare a Valentin, cui cedette il magico talismano, ha «capigliatura, sopracciglia e barbetta, dipinte di nero, ma poiché quel nero era stato applicato su peli già bianchi, ne veniva fuori una tinta violacea e falsa il cui aspetto urtava secondo i riflessi più o meno vivi e obliqui della luce» (p. 213). Era spietato, il nostro romanziere realista, quando si trovava di fronte a facce impiastrate; e di quegli impiastri vedeva e descriveva crudamente ogni particolare! Medesime osservazioni per i baffi, a punta rivolti in alto, dell’avventuroso — e un po’ avventuriero — colonnello Franchessini. Quei baffi erano mantenuti neri per mezzo di un cosmetico ungherese, ma «in quel nero, l’artificio si lasciava intravedere per i toni crudi e per una uniformità di tinta troppo uguale per non essere inverosimile ... da cui, nella fisonomia di quell’uomo, una espressione di singolare rigidità, alla quale i tratti del volto, diventati angolosi, non facevano per certo un desiderabile correttivo» (Le député d’Arcis, p. 298). Con tale descrizione Balzac ben fotografa la faccia dell’uomo che si tinge barba o capelli, così caratteristica per una durezza e una uniformità della tinta nera che rendono ancor più duri i lineamenti del viso, senza che di ciò — ben inteso — l’autopittore si accorga, mentre la cosa, per contro, a nessuno sfugge. Qualche ironico contemplatore della vita diceva che i gobbi si dividono in due categorie: quelli che ammettono e confessano di essere gobbi e quelli che ciò negano nonostante l’evidenza; ma il medesimo non potrebbe davvero dirsi di coloro che ricorrono alle autopitture di cui sopra, perché tra costoro non esiste la categoria di coloro che ammettono e confessano, ma sol quella che nega. Come si vede, l’autopittura del vecchio Franchessini non era di così buona qualità come quella – orientale – di cui si serviva Maxime de Trailles, importate personaggio della Commedia. Il grande mondano Maxime de Trailles, pieno di capricci, intelligenza e ... debiti, ha fronte inquadrata da capelli nerissimi, a proposito dei quali il nostro grande realista si abbandona a una dilettevole digressione sul modo con cui i Persiani si tingono ammirevolmente in nero la barba, un nero speciale che è capace di non rendere duri i tratti del volto ... e che Maxime de Trailles conosceva e adoperava. Sarà vero? (Le député d’Arcis, p. 106).

 

4. – Continuazione: una statistica del colore dei capelli.

 

  pp. 321-323. Intratteniamoci alquanto sul colore dei capelli e sulle tinte, a volte fosforescenti, con cui Balzac lumeggia le sue descrizioni. Dobbiamo a tal proposito ricordare al lettore come il pazientissimo studioso di documenti balzacchiani Pierre Abraham abbia consacrato un intero studio, diremo così, estetico-statistico al modo con cui Balzac descrive le capigliature dei suoi personaggi; ne vengono fuori 400 descrizioni di capigliature, alcune delle quali riguardano soltanto la disposizione dei capelli o qualifiche non di colore, ma per 200 e più è data indicazione del colore. La nomenclatura «colorimetrica» è abbondante poiché di tali capelli si dice — oltre i grigi e i bianchi, calamità dovuta al declinare dell’umana esistenza – essere blonds, châtains, noirs, roux, facendo quasi sempre seguire ciascuna di tali indicazioni da un qualificativo che meglio la specifichi moltiplicandosi per tal modo il numero di espressioni descrittive che compongono tale terminologia: per il colore biondo, ad esempio, si trova tra i personaggi balzacchiani il biondo albino, quello tendente al bianco (tirant sur le blanc), quello scipito (fade), quello cenere quello rosso (blond-roux) ecc. Altri aggettivi che servono a dare, per così dire, il tocco finale di pennello al colore biondo sono: doré, cendré, ardent, fauve, pâle, sombre, argenté, ecc. Si adoperano pure due colori insieme, come a dire châtain-blond, brun-noir, ecc.

  Orbene, con quale frequenza si danno tali colori per i personaggi della Commedia umana? Si lascino da parte i capelli grigi e i bianchi; si troverà, secondo le statistiche del citato Autore, che su 108 uomini le massime frequenze cadono sui capelli biondi (con 30 personaggi) e sui capelli neri con numero ancor più grande (47 personaggi). I capelli di colore intermedio tra tali due estremi si accontentano di basse e bassissime cifre. Emerge che la popolazione della Commedia umana, maschile, è singolarmente segnata da tinte estreme e diremo, anzi, eccezionali. In quanto alle tinte rosse queste si presentano in 11 personaggi, maschili, e tale cifra è pur essa relativamente alta, più alta di ogni altra cifra riferentesi ai colori intermedi. E per la popolazione femminile? Si tratta di 94 donne per le quali — come per gli uomini — appaiono essere in grande maggioranza le tinte estreme; ma questa volta il colore più frequente dei capelli è il biondo anziché il nero. Specificando, si hanno 41 donne bionde di contro a 29 dalla nera capigliatura; i colori intermedi scendono a bassissime cifre. Le teste femminili dai capelli rossi (rossi e biondo-rossi) si contano sei volte. Se ne conclude ancora che la preferenza balzacchiana è per i colori estremi, ma per il nero negli uomini e per il biondo nelle donne.

  È da chiedersi se tale diversa frequenza di colore nelle capigliature sia propria soltanto agli attori che recitano sulla scena della Commedia (un Universo vero e vivente, secondo Balzac) oppure corrisponda alla effettiva diversità di colore quale è offerta dalla popolazione reale che vive e si muove sulla scena del mondo ove Balzac guardava, pensava e scriveva. L’egregio critico di cui stiamo esponendo i pazienti conteggi, risponde negativamente, accertando cioè che il distribuirsi della popolazione francese secondo il colore dei capelli è affatto diverso da quello or ora esposto per la folla dei personaggi balzacchiani. Nella popolazione vivente e reale, infatti, le alte cifre per nulla sono date dai colori estremi (capello biondo e biondissimo o capello nero e nerissimo) ma dalle tinte intermedie. Tornando a classificare in grandi e sintetici gruppi i personaggi dell’una e dell’altra popolazione — la fittizia e la vera — si giunge a questo gioco di cifre: per i personaggi di Balzac, pigmentazione scarsa (colori chiari e chiarissimi dei capelli), 28% per gli uomini e 44% per le donne; pigmentazione intermedia, 9% per gli uomini e 14% per le donne; pigmentazione intensa (capelli scuri e scurissimi), 53% per gli uomini e 36% per le donne. Nella popolazione maschile francese, invece, le pigmentazioni chiare toccano appena la cifra di 11%, quelle scure e scurissime si tengono al 28%, mentre le pigmentazioni intermedie salgono a 57% formando così la forte maggioranza. A tutto ciò si aggiungano i capelli rossi, che figurerebbero un po’ più frequenti nelle figure balzacchiane in confronto con quelle della vita reale. Insomma, e per dirla in brevi parole, chi volesse ricavare dalle su dette cifre una traduzione geometrica ricorrendo a immagine grafica, troverebbe per i personaggi di Balzac una rappresentazione geometrica che dà immagine capovolta rispetto a quella che viene offerta dalla popolazione reale.

  Ancora una volta, dunque, il realismo del prodigioso creatore di figure umane è in contraddizione ... con la Natura e con la realtà. E ciò, evidentemente (diciamo noi), per il semplice fatto che il più realista degli artisti non può vedere e sentire se non attraverso il magico ed eccezionale tessuto del proprio temperamento. Del che discorreremo quando dovremo trattare il tema: se e perché Balzac può ritenersi realista (e anche naturalista) e di qual speciale sorta sia quel realismo (e quel naturalismo). Per il momento, basti pensare che romanzesca fantasia di quel realista sui generis, dovendo creare tipi eccezionali da far recitare nelle sue drammatiche e a volte drammaticissime scene, sente pur la necessità di dar tratti fisici eccezionali — colore biondissimo o colore nerissimo della capigliatura, e anche colore chiarissimo o colore intensamente scuro dell’occhio — alle sue creature: colori eccezionali, bene inteso, rispetto a quelli propri alla popolazione reale ed effettiva del teatro vero in cui Balzac viveva.

 

Capitolo undecimo.

Il colorito.

4. – I personaggi della «Commedia umana».

 

  pp. 335-342. Balzac, in verità, non segue il suo Lavater così da vicino da voler a ogni costo riconnettere lo stato della pelle e le caratteristiche del colorito delle sue figure e figurine al carattere, ma piuttosto pur mostrando talvolta ricordarsi di tale connessione — si compiace in una minuziosa descrizione più o meno obiettiva. Non dimentichiamo che Balzac è un realista ... romantico.

  Innanzi tutto, egli mette in rilievo la tinta della carnagione o colorito. Lo scrigno di aggettivi di cui è opulento possessore Balzac fornisce larga gamma di toni. Quando, ad esempio, si tratta di bella pelle e bianca, troviamo il bianco opaco, il bianco lucido, il bianco di velluto, il bianco dorato, il bianco avorio, il bianco di porcellana, il bianco delle gote infantili, il bianco delle margherite, quello del giglio e del gelsomino, ecc. ecc. Troviamo anche il bianco clorotico, il bianco con riflessi di bistro, il candore lucente e trasparente dell’ambra, dell’alabastro, della madreperla.

  Abbondano i confronti — per mettere in rilievo alcune caratteristiche dello stato della pelle bianca, candida e lucente, e del colorito — con il candore, la trasparenza, lo scintillìo di nobili materie: con l’ambra, come abbiamo detto, con l’alabastro, con la porcellana e anche con la madreperla, con l’oro, con la seta ... e persino con il fosforo.

  D’altra parte, sempre nel guardare e nel descrivere, come che sia, le diverse tinte e i diversi toni di candore, la minuzia descrittiva si spinge quasi sempre a dire delle sottili venature azzurre e dei riflessi d’oro o di rose che quel candore possono qua e là lumeggiare.

  L’osservatore realista, infine, sente particolarmente di esser tale quando si tratti di vedere e di «fotografare» brutta e anche orribile carnagione, di sporco colore e chiazzata di macchie ... Una «fotografia» a colori! In tale descrivere, ogni particolarità di carattere davvero non romantico è messa in evidenza, come lentiggini, pelle incollata sulle ossa, pelle marmorizzata, ecc.

  Diremo anche come, nel far vedere la carnagione di un volto, assai volte si compiaccia il creatore di tante figure e figurine nel notare la peluria che — come quella della vellutata buccia di una pesca — orna (come egli dice) una bella gota femminile.

  Vediamo dunque tale o tale altra di siffatte figurine.

  a) Candore di pelle e di carnagione, con ogni artificio descritto, per cominciare. Il viso di Agathe Bridau è «d’inalterato candore, senza alcuna punteggiatura rossastra» (Un ménage de garçon, p. 8). Lady Dudley ha «una carnagione da far scomparire il giglio» (Le lys dans la vallée, p. 243). La bianca pelle delle spalle di Stéphanie è come la margherita dei prati (Adieu, p. 80). Altro bianco volto è quello della povera e dolce Victorine Taillefer, ma di una bianchezza da clorotica: «povero arbusto dalle foglie ingiallite, da poco piantato in terreno avverso» (Le père Goriot, p. 15). Bianchezza di bionda ha il volto di Maria Stuarda sedicenne, fresco volto, di puro disegno (Catherine de Médicis, p. 128). Il bel Lucien de Rubempré ha «volto di vellutata bianchezza come di pelle femminile» (Illusioni perdues, I, p. 27). Il volto di Tullia, di un ovale perfetto, è «di un pallore divino» (Un prince de la Bohème, p. 204). Ogni sorta di candore è da Balzac notato e descritto. Grande ricevimento e ballo nei saloni del palazzo di Lady Dudley: sotto la luce abbagliante di cento doppieri splendevano «le bianche spalle delle dame, queste di un bianco ambrato, quelle di un bianco che sembrava risultato di lucida tinta, quelle ancora che parevano satinate, altre poi di un bianco opaco e grasso come se Rubens ne avesse preparato l’impasto ... In una parola, erano là tutte le sfumature di bianco che mai si possano sognare» (Une fille d’Eve, p. 265).

  b) Ancora l’ambra e poi l’avorio e poi l’oro. La carnagione della bellissima contessa d’Argaiolo è di «un pallore d'ambra» (Savarus, p. 237). L’avvenente e avventurosa Coralie, fascinatrice di uomini, ha nel suo bel viso «un tono di avorio biondo» e «di un tono dorato è la carnagione delle sue spalle» (Illusions perdues, I, p. 313). Il candore dorato o aureo della pelle, o bianco dal tono d’oro, è aggettivazione per cui Balzac nutre speciale affetto; siffatta lucente tonalità egli vede persino nella fronte e nelle tempie del bel Luciano (Illusions perdues, I, p. 27).

  Vi è pur, come accennammo senza ancor dare esempi, il bianco dai riflessi di bistro, quello di porcellana e quello di madreperla, senza dimenticare quello del fosforo, sempre nelle tinte di una carnagione. Ecco, in concreto, qualche volto.

  La giovane Juana — tesoro nascosto a ogni sguardo — ha «volto bianco con leggere tinte di bistro che mettevano nell’espressione di quel volto una specie di serafica calma, una ardente fierezza, una sorta di luce infusa sotto quel diafano colorito» (Les Marana, p. 10). Il poeta naturalista, in una semplice tonalità di bianco del volto — un bianco dal tono bistrato — pretende leggere tutta un’anima! Quando la giovane Maddalena, uscita da una lunga adolescenza malaticcia, ricupera a poco a poco la salute «i colori delle rose del Bengala (paragone caro a Balzac) rinascono sulle guance ove ancora si scorgeva il bistro» (Le lys dans la vallée, p. 220). Un nostro poeta aveva detto:

 

Torna a fiorir la rosa

che pur dianzi languia,

e molle si riposa

sovra i gigli di pria.

 

  d) In quanto al nitido bianco di porcellana, non pochi volti — soavi — in tal modo si profilano, o dolcemente illanguiditi dal tempo, dal dolore e dalla malattia. La giovane contessa di Vandières ha nel volto «quella bianchezza di porcellana che tanto si ammira nella trasparente carnagione dei bimbi» (Adieu, p. 108); la piccola Maddalena malaticcia — figlia della contessa di Mortsauf — «ha pelle del volto così bianca come porcellana rischiarata da una luce per trasparenza» (Le lys dans la vallée, p. 37). La duchessa di Langeais, una volta si bella e sul cui viso «un bianco opaco contrastava con le rose del Bengala» vede oggi il suo volto, sotto l’acido corrosivo del dolore, «prendere il tono caldo di una coppa di porcellana entro la quale sia accesa debole fiamma» (La duchesse de Langeais, p. 145). Porcellana rischiarata da interna luce ... e rose del Bengala, ancora una volta!

  e) Altro paragone assai caro al nostro romanziere allora che descrive bella carnagione, si riferisce al biancore della madreperla. Intorno agli occhi e alle tempie di Modeste Mignon, si diffonde una bianca tinta di madreperla filettata di azzurro (Modeste Mignon, p. 22). La bella Ortense Hulot ha carnagione di uno splendore che rammenta la madreperla, nella Cousine Bette.

  f) E la fosforescenza ? Appare in quella minuziosa descrizione che è fatta per S. Séraphitus, la cui pelle riluceva come se nei nervi fosse un fluido fosforico che brillasse sotto l’epidermide (Séraphita, p. 191).

  g) Ed ecco la lucentezza e la carezza della seta. La pelle e le braccia della bella Flora — detta la rabouilleuse — come sono descritte? «Braccia splendenti (éclatants) ... una polpa come seta» (une pulpe satinée) (Un ménage de garçon, p. 164). E la bellissima Beatrice? La candida pelle del suo volto «è tanto sottile quanto la pellicola satinata dell’uovo» (Béatrix, p. 168). È come di seta la pelle splendente delle spalle della contessa de Mortsauf ... spalle in cui il fantasioso narratore, dimentico ancora una volta del suo realismo, dice: «pudiche e come avessero un’anima» (Le lys dans la vallée, p. 18). Sulle spalle di un «bianco lucidissimo» della cortigiana Florine, la luce scivolava come avrebbe fatto su un manto di seta moirée (Une fille d’Eve, p. 272). Più poeta ancora, nelle sue descrizioni in cui pelle e colorito si trasformano in seta cangiante e svelano — a quanto pare — i segreti dell’anima, è Balzac quando descrive il bel volto di Modeste Mignon. «Pelle come seta; sembrava sottile carta satinata, stesa sulle carni che rabbrividivano al freddo, ma parea sbocciassero sotto il sole di uno sguardo, rendendo la mano che tocca quelle carni gelosa de l’occhio» (Modeste Mignon, p. 22).

  h) Talvolta il colorito della pelle è confrontato a tante cose insieme; si ascolti questa descrizione del colorito nella quale, in poche righe, accanto alla madreperla vi sono lucentezza, marmi preziosi e fiori ... tanto è sovrabbondante la Musa di Balzac nel suo cantare. Eugénie Marie e Angélique-Marie figlie del conte di Grandville, hanno medesimo colorito della pelle: pelle «di quel bianco madreperlaceo che annunzia ricchezza e purezza di sangue, variegato — come diaspro — da tinte vivamente risaltanti su di un tessuto denso e ricco come quello di petalo di gelsomino e, come questo, fino, liscio e tanto tenero e morbido al tatto» (Une fille d’Eve, p. 236). Non abbiamo già visto paragonarsi da Balzac la carnagione delle sue creature al candore del giglio e della margherita? Per la pelle del volto di Esther: «sottile come carta della Cina, di un caldo color d’ambra soffuso da sfumature di rosse vene, lucente senza siccità, dolce senza essere umida» (Splendeurs et misères ecc., p. 38). Altre volte ancora Balzac vede nelle screziate colorazioni della pelle di un viso ciò che occhio umano, davvero, mai potrebbe scorgervi: la maschia faccia dell’ex militare Michaud, uomo leale e pronto al sacrifizio, ha un colorito «armonioso, dalle tinte color ocra e color rosso, indice del coraggio fisico» (Les paysans, p. 107). Dove mai il nostro grande abbia imparato che i sopra detti colori del volto sono indice di coraggio fisico, non si potrebbe ben dire ... a meno che non si alluda a indice di tempera-mento sanguigno, presupponibilmente correlato con forza, energia e simili.

  i) È infine da notare, come già di sfuggita vedemmo, che nel descrivere la bianca pelle del volto delle sue belle donne e damigelle, il nostro realista mette in evidenza le venature o le tinte azzurrine o rosee che quasi si intrecciano sotto quel candore e insiste sovente su quella pittura. Parlando del volto di Beatrice: «sotto il candore di quella pelle ... scintillava la vita con un sangue azzurrino» (Béatrix, p. 168). Per Honorine: «sotto il bianco soave di quel viso, il sangue si mostrava scorrere in sottilissimi fili azzurrini, un sangue che alla minima emozione si diffondeva sotto quel bianco tessuto come vapore in nembi color di rosa» (Honorine, p. 50). Presentando la seducentissima Marie de Verneuil si dirà dei bei colori di cui si illumina la carnagione «quando un tenero raggio di sole batte su quella fronte; vengono allora in luce le sfumature del colorito, a guisa di madreperla sotto gli occhi e intorno alle labbra, rosate sulle gote, opache verso le tempie e sul collo» (Les Chouans, p. 136). Per la pelle di Césarine Birotteau, «piena e resistente come stoffa», si dice che le «rosse venature, palpitanti nella chiarezza della carnagione, hanno quelle sfumature che tanto innamorano i pittori» (César Birotteau, p. 253). La pelle della bella e sventurata contessa Stéphanie de Vandières, bianca e «brillante come le margherite dei prati», di un candore meraviglioso, è «senza alcuna sfumatura, sia pur leggera, di rosso; piccole vene azzurre soltanto spiccavano su quel bianco incarnato» (Adieu, p. 80). Sul volto bianchissimo di Laurence de Cinq-Cygne, «le minime striature azzurre delle vene apparivano sotto la trama sottile e serrata dell’epidermide» (Une ténébreuse affaire, p. 50). Pelle trasparente e lucida quale seta come quella di un bimbo, lasciava trasparire le più leggere diramazioni delle vene azzurre; l’indicazione è per il volto del giovane Etienne de Hérouville (L’enfant maudit, p. 48).

  l) Sotto la pelle del volto dei suoi personaggi il nostro pittore non solo sa vedere striature e venature, ma pur tinte varie come accade per quella biondissima Flora Brasier che ha sì pelle abbronzata, ma «sotto di essa a quando a quando chiazze bianche» (Un ménage de garçon, p. 143).

  m) Ma proprio tutte candide, belle, soavi, hanno da essere — nel volto — le carnagioni dei personaggi della Commedia? E la realtà ... la triste realtà? Si ha un bel trasformare il vero attraverso il proprio temperamento sentimentale e romantico, ma esso — il vero — ha pur sempre da trasparire, anche con le più prosaiche sue tinte. E però, guardate altri volti della Commedia, i quali più dei precedenti si avvicinano a quelli della vera e propria commedia, o farsa, o tragedia, umana. Siffatte bruttezze si fanno soprattutto vedere con le più svariate macchie o i più eccezionali colori che si segnano in un volto. Il brutto viso del mastro di posta Minoret-Levrault, uomo mal tagliato e brutale, ha «toni violacei sotto uno strato di color bruno» (Ursule Mirouet, p. 5). Il colore della pelle del cassiere Castanier — un già vecchio soldato che si farà poi tentare dal Demonio — è indicato come di un «rosso mattone» (rouge de brique) (Melmoth réconcilié, p. 257). Ecco poi l’arida carnagione dello strozzino Samanon, assiso nel suo stambugio di rivenditore, uomo di loschi affari: le ossa parevano volessero forare la pelle — un cuoio conciato a fondo — ove si disseminavano placche verdi e gialle in gran numero (Illusioni perdues, II, p. 82). Il truce Bridau ha «una faccia color rame, chiazzata di macchie verdastre» (Un ménage de garçon, p. 256). Ecco un’altra mistura di colori alquanto diversa dalle precedenti: il brutto e sdentato principe Cattaneo ha un colore di pelle che sembra risulti dall’iniezione nel sangue di parecchi e svariatissimi metalli, dietro ricetta più o meno ippocratica, con forte tendenza al nero (Massimilla Doni, p. 202). Vengono anche incontro a noi personaggi storici con il loro volto ... macchiettato o cadaverico. Macchie gialle qua e là sulla pelle del volto di Calvino, volto rossastro sul fondo e infiammato (Catherine de Médicis, p. 207). Colorito terreo (terreux) del volto, un volto disseminato qua e là da piccole granulazioni nere e bluastre ... è il volto del cittadino Marat (Id., p. 338); invece, pallido da cadavere, o quasi (blême) è il colorito dell’altro cittadino, Robespierre (Id., p. 338 e 322); analogamente, il ministro protestante Chaudieu, altro zelante e intransigente calvinista, ha «colorito giallo» (Id., p. 60).

  n) Minor quantità di colori si ha, ma sempre in vicinanza alla realtà, quando il realismo del nostro romanziere (siamo ancora accanto alle carnagioni non belle) fa notare la presenza di lentiggini che punteggiano un volto e insiste sulla giallastra tensione della pelle che si incolla alle ossa della fronte e del viso.

  Il giovane Félix Phellion ha «le tempie piene di lentiggini» (Les petits bourgeois, I, p. 55). La grossa Madame Cremière, più che stretta nelle sue vesti, dai capelli di un biondo che desta sospetti, «ha un volto crivellato di macchie lentigginose» (Ursule Mirouet, p. 19). Anche la giovane Mademoiselle Rosalie de Watteville, sottile, fragile, incolore, insignificante, ha sulla fronte quelle giallastre punteggiature (Savarus, p. 208). D'altra parte, una pelle del viso «che si incolla sulle ossa come se qualche fuoco segreto fosse là sotto a dissecarla di continuo» si incontra in Balthazar Claës, notte e dì preso dall’irrealizzabile sogno delle sue ricerche chimiche (La recherche de l’absolu, p. 19). E pur si incontra in altri strani personaggi della Commedia. Vi è pure una carnagione dalla tinta molle e fredda come quella della vecchia nobilissima baronessa de la Chanterie, veneranda figura che sembrava appartenesse al secolo precedente e, anzi, al mondo lontano dei trapassati (Madame de la Chanterie, p. 18). Anche per quella Béatrix, dal volto pur bello, si dà — a un certo punto del racconto — indicazione di strano colorito: «mutevole da giorno a giorno; oggi color del percallo, domani grigio e quasi punteggiato, sotto la pelle, di macchioline come se il sangue vi avesse portato, durante la notte, minuto pulviscolo» (Béatrix, p. 124). Quella Béatrix, ripetiamo, che altre volte è a noi presentata con carnagione di seta venata d’azzurro. Il realismo del nostro autore non indietreggia nemmeno di fronte alla indicazione; «carnagione o pelle filacciosa». Christophe Lecamus, entusiasta apostolo del calvinismo, ha «volto pallido, di quel colorito acre e caldo che è proprio di alcuni biondi ... Più nervoso che sanguigno, Christophe offriva allo sguardo una carnagione che si sarebbe detta filacciosa (filandreuse), secca e dura» (Catherine de Médicis, p. 59-60).

  o) Difficilmente troverete che tale o tale altro novelliere naturalista, nell’adoperare i suoi pastelli per mostrarvi viso e sorriso — o smorfie — dei suoi personaggi, abbia cura di mettere in risalto la presenza, specie su un bel volto femminile, di quella fine peluria al sommo delle gote che talvolta sembra brillare come fine velluto della pelle di un frutto. Ma Balzac non è tra costoro: anzi, con speciale insistenza e affezione si sofferma su tale particolare che può sembrare ad alcuni di discutibile valore estetico, ma che per il nostro vivace ed esuberante creatore di figure umane par acquisti una non so quale seduzione. Leggera e quasi serica peluria, come quella della rosea buccia di una pesca, brilla lungo la guancia della seducentissima Paquita, «una candida peluria che appare come una linea luminosa e che, battuta dalla luce del sole, prende principio dall’orecchio e si va perdendo nel collo» (La fille aux yeux d’or, p. 299). Medesimamente, «una impercettibile peluria (duvet) ornava i contorni del volto della bellissima Foedora (La peau de chagrin, p. 121). Il romanziere pittore insiste su tale particolare, quando a lui sembra esserne il caso. Tullia, danzatrice celeberrima dell’Opera, ha un viso di perfetto contorno ovale e sulle gote «quella leggerissima peluria che è il fiore del frutto e che di quel volto addolcisce il molle contorno così fine e delicato». Donnina più che leggera, prima e dopo il matrimonio, e che di leggerezza in leggerezza trapassando finisce, come tutti gli «onesti» del mondo balzacchiano, nel miglior modo possibile, e anche con un titolo di contessa (Un prince de la Bohème, p. 204). Le belle gote di Armand d’Esgrignon «sono coperte da una finissima peluria dai riflessi d’argento» (Le cabinet des antiques, p. 27). Una peluria come di seta finissima, che adombra la guancia giovanile (un duvet soyeux), decora le guance del bellissimo Lucien de Rubempré (viso perfetto, profilo greco), una peluria i cui biondi riflessi ben si trovano in armonia con l’oro dei biondi capelli di quel giovane (Illusions perdues, I, p. 27).

 

Capitolo duodecimo.

Due volti in uno.

7. – I personaggi della «Commedia umana».

 

  pp. 363-365. Abbiamo detto della asimmetria, più o meno evidente, tra l’una e l’altra parte del corpo e in particolare abbiamo indicato come tale asimmetria esista — e come debba essere studiata — nel volto umano accennando puranco alla asimmetria di espressione (del volto «destro» e del volto «sinistro»). Ora, appunto su tale asimmetria di espressione ebbe talvolta a fermarsi, nel descrivere i suoi personaggi, quel Balzac che abbiamo preso a tipo per vedere come l’arte narrativa realista abbia descritto e interpetrato la fisonomia delie sue creature. Ecco, dunque, qualche volto.

  Balzac non conosceva, né poteva conoscere, dati i tempi, le notazioni che più tardi l’antropologia generale e criminale doveva fornire a proposito della asimmetria, né par abbia avuto nozione o intuizione del metodo che ricorre a nascondere una parte del volto per lasciar più libere le osservazioni e le interpetrazioni da farsi sull’altra, per quanto Lavater avesse già mostrato l'importanza che assume l’esame separato delle varie parti del viso, in ispecie del profilo. Ma dalle descrizioni che Balzac crea dei suoi personaggi ben appare come egli abbia colto il non infrequente fatto della diversità di espressione tra le due parti dello stesso volto: un volto, due facce. Tuttavia, il nostro Autore si ferma il più delle volte a opporre la parte superiore del volto alla inferiore per indicarne le due diverse e spesso opposte espressioni, piuttosto che opporre la parte destra alla sinistra o viceversa. In altri termini, in quella ideale decomposizione del piano di un volto di cui abbiamo parlato, egli segue il metodo della decomposizione orizzontale invece della verticale. Qualche esempio.

  Il pazzesco musicista Gambara aveva bensì la parte superiore del volto richiamante impressione di dolore e di vecchiaia con la sua fronte scoperta, solcata da rughe, le tempie incavate, gli occhi incassati sotto l’orbita, ma «la parte inferiore del viso esprimeva il vero aspetto della giovinezza grazie alla tranquillità delle linee e alla dolcezza di contorni» (Gambara, p. 130). Due volti (l’alto e il basso) par abbia anche il conte Octave de Bauvan, tanto illustre per il suo sapere, per la sua luminosa carriera di magistrato e tanto infelice nella sua vita familiare per non essere compreso dalla sposa profondamente amata. Due ben diverse formazioni ed espressioni del viso, considerato nell’alto e nel basso: una fronte «troppo ampia, forse, che metteva spavento come se fosse quella di un pazzo ... mentre la parte inferiore del volto finiva bruscamente con un mento di piccole dimensioni, la cui punta si trovava vicinissima al labbro inferiore» (Honorine, p. 16). Ed ecco ancora un doppio volto, con doppia espressione (sempre separando l’alto dal basso), femminile: il volto di Ginevra Piombo. «Gli occhi di lei, dalle nere ciglia, esprimono passione, ma gli angoli della bocca si disegnano con dolcezza e sulle labbra si dipinge la bontà, quella bontà che è data agli esseri forti dalla coscienza della propria forza» (La vendetta, p. 187). Singolare è il volto di Cornélius, doviziosissimo, irrequieto e diffidente argentiere di re Luigi XI. Mentre la parte superiore del volto, con la sua fronte alta, arcuata (bombé) e tutta pieghe (plissé) sembrava riflettere belle e grandi qualità di intelletto e di carattere e una nobiltà d’animo il cui slancio, tuttavia, aveva dovuto essere frenato e messo in moderazione dall’esperienza e che il crudo e perenne insegnamento della vita respingeva e soffocava nel più fondo e nel più segreto dell’anima, la parte inferiore del volto, invece, presentava non so qual simiglianza con un muso volpino (Maître Cornélius, p. 272). Ancora esempio di tale efficacissimo modo di guardare sta nella pittura balzacchiana del volto di Luigi XI, monarca terribile, del quale la Storia — anche attraverso le solite falsità, imposture e rifacimenti in cui essa è maestra — ci mostra la stupefacente mescolanza di preghiere, di crudeltà, di delitti e di cupidigia. Per certo, la parte superiore di quella maschera offriva una fronte «da grande uomo, solcata da rughe e carica dei più gravi pensieri, ma sulle guance e sulle labbra un non so che di volgare e comune» (p. 291). Due volti, ancora, in un volto! Del buon giudice Popinot si descrive minutamente un volto in cui vediamo i caratteri della fronte opporsi a quelli della parte inferiore del viso stesso, fronte priva di ondulazioni, piatta, non bella, male illuminata da due occhi quasi spenti ... ma «una bocca sulla quale alitava una divina bontà dalle buone labbra tumide e rosse» (L’interdiction, p. 212).

  In ogni modo, qualche accenno a una scomposizione del volto in senso verticale — destra e sinistra — non manca. Il cavaliere de Valois, vecchio gentiluomo, ha caratteristica faccia poiché sembrava essa come nettamente separata in due sezioni, una di destra e l’altra di sinistra; due facce, quindi, che sembravano l’una non conoscere l’altra; una di esse, la sinistra, diventava rubiconda durante il travaglio della digestione. Il nostro Balzac si affretta a notare che, secondo alcuni esperti di scienze mediche, questa incandescenza della metà sinistra del volto sta a denotare una incandescenza ... erotica. Il che verrà confermato dalle galanti avventure del cavaliere (La vieille fille, p. 2).

  Lo strozzino Samanon, rivendugliolo di roba e robaccia varia, uomo losco, dalle ossa a fior di pelle, mostra la diversità del volto destro da quello sinistro per il fatto che in quel volto «un occhio è immobile e di ghiaccio, mentre l’altro e vivo e pieno di luccicore». Quell’avidissimo uomo, nota Balzac, si doveva servire dell’occhio impassibile e morto per fare i suoi conti e dell’altro per mettere in vendita le sue robacce. Il sorprendente contrasto di quei due occhi «diffonde sui tratti del volto un certo senso di ferocia» (Illusions perdues, II, p. 82).

 

11. – Ancora le due facce.

 

  pp. 374-375. A tale proposito — faccia esterna, faccia interna — quel nostro narratore grandissimo che prendiamo a guida per le descrizioni del realismo del volto ... e dei due volti, ha una scena che conviene ricordare. In un singolarissimo dialogo tra due suoi personaggi, ogni battuta, diremo così, esterna è accompagnata da una battuta, diremo così, interna; durante la conversazione, l’una e l’altra battuta si esprimono contemporaneamente, ma la prima — esterna — parla ad alta voce, mentre la seconda — interna — sussurra pianamente e ascosamente dicendo cose che sono il contrario di quelle enunciate ad alta voce. La voce esterna è la voce di una maschera posta sul volto dei conversanti; la voce interna, che sottolinea in silenzio sillaba per sillaba ciò che dice la voce parlata, è invece la voce vera del vero volto ed anzi dell’anima.

  I due che dialogano, in altri termini, dicono una cosa (la maschera parla) e ne pensano un’altra (l’anima pensa). Sono di fronte, dialogando tra loro a proposito di un’eredità da attribuirsi o no a una data persona, l’intrigante Troubert, vera statua dell’insidia e della perfidia e Madame de Listomer (sic), nobile gentildonna che l’altro cerca trarre nei lacci dell’inganno; il dialogo è una schermaglia: la gentildonna sa del veleno che si nasconde dietro il sorriso del suo ipocrita interlocutore, e questi sa che la sua interlocutrice vuol salvare, per pietà e spirito di giustizia, la vittima, e cioè l’ingenuo abate Birotteau cui dovrebbe di diritto spettare la successione, ma la Dama non vuol comparire quale salvatrice. Nella pagina balzacchiana in cui si riporta il dialogo, ogni battuta — da parte di uno dei due dialoganti — è seguita tra parentesi da ciò che il dialogante pensa e che è proprio il contrario di ciò che egli dice. «La povera M.lle Gamard sta per morire» dice l’abate. E tra parentesi subito si legge: «A me, in verità, ciò nulla importa». E la baronessa: «Cerchiamo di conciliare il giudizio degli uomini con quello di Dio». E subito dopo, in parentesi: «In questo caso Iddio dovrebbe essere la tua stessa persona ... e cioè si personificherebbe con te stesso». (Le curé de Tours, p. 288). E si continua di questo passo, con doppie battute — una ad alta voce, l’altra nel segreto dell’anima — per un’intera pagina e più. Diciamo: per una intera pagina e più; ma chi volesse leggere la storia universale delle universali conversazioni, e la potesse leggere nello stesso modo — in trasparenza — con cui si legge il summenzionato dialogo, troverebbe non una soltanto o cento di cotali pagine interlineate ma miriadi, per quanto non tutti i conversanti appartenenti all’umano genere siano capaci di far parlare la propria maschera in modo che la voce di essa nasconda del tutto quella dell’interno.

 

Congedo.

E gli altri «segni» della personalità?

 

  pp. 379-381. Anche l’atteggiamento e il portamento dovranno fare obietto del nostro esame, sempre condotto attraverso le esplorazioni — dalla fisiognomonia alle varie scienze — sopra indicate. L’atteggiamento, invero, è una specie di gesto cristallizzato ed ha quindi significato proprio ai gesti; il portamento è pur una forma di atteggiamento — con tutto quel che ne segue — ma, mentre l’atteggiamento è forma, per così dire, statica, il portamento è un atteggiamento ... che si muove. L’uno e l’altro sono, senza alcun dubbio, espressioni della personalità. Ecco perché l’arte narrativa, realista e naturalista, di quel Balzac che abbiamo preso a modello per l'esemplificazione delle descrizioni artistiche e realistiche della persona, dà ad ognuno dei suoi personaggi o, quanto meno, ai più importanti di essi, atteggiamenti, portamenti, gesti, ben diversi da personaggio a personaggio. E con ciò il narratore non vuol mostrare soltanto la forma, ma pur lo spirito.

 

 

  Giuseppe Patanè, Balzac regista, «La Sicilia. Quotidiano liberale», Catania, Anno VIII, N. 70, 21 marzo 1952, p. 3.

 

  Cfr. 1951.

 

 

  Cesare Pavese, Dal diario di Pavese, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XXIX (Nuova serie), N.228, 30 agosto 1952, pag. 3 e in Il mestiere di vivere (Diario 1935-1950), Torino, Giulio Einaudi Editore, 1952, p. 56.

 

  15 ottobre 1936.


  Balzac ha scoperto la grande città come covata di mistero e il senso che ha sempre sveglio è la curiosità. E’ la sua Musa. Non è mai nè comico nè tragico, è curioso. S’inoltra in un intrico di cose sempre con l’aria di chi fiuta e promette un mistero e va smontando tutta la macchina a pezzo a pezzo con un gusto acre e vivace e trionfale. Guardare come si accosta ai nuovi personaggi: li squadra da tutte le parti come rarità, li descrive, scolpisce, definisce, commenta, ne fa trasparire tutta la singolarità e assicura meraviglie. Le sue sentenze, osservazioni, tirate, motti non sono verità psicologiche, ma sospetti e trucchi da giudice istruttore, pugni sul mistero che perdio si deve chiarire. Per questo, quando la ricerca, la caccia al mistero si placa e — all’inizio del libro e nel corso (mai alla fine, perché ormai col mistero tutto è svelato) — Balzac disserta del suo complesso misterioso con un entusiasmo sociologico, psicologico e lirico, egli è ammirevole. Vedere l’inizio di Ferragus o l’inizio della seconda parte di Splendeurs et misères des courtisanes. E’ sublime. E’ Baudelaire che si annuncia.

 

 

  L.[iano] P.[etroni], Echi del centenario di Balzac, «Rivista di letterature moderne», Firenze, Anno III, n. 3, 1952, p. 320.


  Fra le molte pubblicazioni apparse su Balzac in questi ultimi anni, ci sembra utile segnalare una recente raccolta delle opinioni espresse su lui dalle personalità più diverse, siano essi scrittori di valore ormai riconosciuto o specialisti, dediti allo studio di B. da parecchi anni.

  Questo volume (Balzac, Le livre du centenaire; Paris, Flammarion, 1952, a cura di vari autori) vuol essere «le dernier acte d’une commémoration nationale» (p. 5), che, celebrando a breve distanza le ricorrenze della nascita e della morte di B., durò per molti mesi del 1949 e del 1950, e permise «de définir ce que Balzac représente pour notre temps, de recenser tout ce qui peut éclairer ou approfondir notre vue sur son oeuvre» (p. 5), come scrive Jacques Duron nell’introduzione. Per evitare la dispersione delle conferenze tenute durante tali celebrazioni, Mme Claude Ducourtial ne ha raccolte qui alcune.

  Il libro è diviso in otto parti, intitolate rispettivamente: Messages; Clartés sur l’homme; Le Coeur; Les Grands Thèmes; Aspects de la Comédie Humaine; La Création Balzacienne; Balzac et l’Etranger; Conclusion.

  Dopo un «message» di Marcel Bouteron, che certo non poteva mancare in questo volume, Colette ci offre dei brevi ricordi a proposito di B., mentre Georges Lecomte ne celebra il centenario della morte; Gustave Charlier illustra ciò che le letterature straniere devono a B., Pierre Descaves lo ricorda come secondo presidente della Société des Gens de Lettres e Maurice Levaillant ne esalta l’importanza, rifacendosi a Hugo e Baudelaire, André Chamson tende a scoprire le vocazioni umane di B., Samuel de Sacy studia i tipi di avventurieri assai comuni nella sua opera, Denis Saurat invece vuol soprattutto vedere in essa la formulazione di un principio utile alla rigenerazione della società.

  Madame Dussane narra l’«educazione sentimentale» di B., mentre il Descaves ci ricorda questa volta l’amore per Mme Hanska.

  Nelle pagine seguenti vengono messi in luce i temi fondamentali dell’opera di B.: la religione, da Philippe Bertault; il mistero, da Henri Evans; il fantastico, da Pierre-Georges Castex; la politica, da Bernard Guyon. Uno scritto di Christian Murciaux sui paradossi e le contraddizioni di B. aveva iniziato questa quarta parte; essa si chiude con alcune pagine di Pierre-Olivier Lapie, destinate a mostrare (certo, a chi le ha scritte, non si può negare una competenza specifica) che B. «ne s’est pas attaqué à l’homme politique aux prises avec la politique» (p. 134).

  Charles Samaran ci documenta sulla Parigi della Comédie Humaine, che Raymond Massant, Jean Pommier, Fernand Lotte, Robert Rey, Mme L. Maurice-Amour, esaminano successivamente per dirci in qual modo B. considerasse la storia di Francia, l’Università, la medicina, gli artisti, la musica.

  Infine la sesta parte è quella che cerca di cogliere l’essenza artistica di B., con le pagine di Jean Pommier, Albert Béguin, Léon Gédéon, Georges Jamati, Mario Roques. Sono queste, per chi voglia esaminare B. al di là di ricerche particolari o puramente occasionali, le pagine più interessanti.

  La fortuna di B. fuori della Francia viene abbracciata in uno sguardo d’insieme da Fernand Baldensperger (e a questo proposito si rivedano anche le pagine dello Charlier); subito dopo A. Carey Taylor, Charles Dédéyan, Raymond Lebègue, insistono sull’importanza delle influenze inglesi, presenti in vari romanzi.

  Le pagine di André Maurois sulla «saggezza» di B. formano la conclusione di questo volume, che si raccomanda anche per le sue numerose illustrazioni.

 

 

  Guido Piovene, L’antiquario che ha paura di vendere i propri tesori, «Corriere della Sera», Milano, Anno 77, N. 90, 13 aprile 1952, p. 3.

 

  Ad Avignone, intorno al Castello dei Papi, ricordano irresistibilmente gli astrologhi, gli alchimisti, i prestatori di danaro, i maîtres Cornélius di Balzac.

 

 

  Raffaello Ramat, Proust Balzac, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Milano, Anno LVI – Nuova serie, Numero 82, 4 aprile 1952, p. 3.

 

  Su: Titta Del Valle, Marcel Proust e il vestito della principessa di Cadignan,1951.

 

  [...].

  La Del Valle pone al centro della sua indagine il rapporto Proust­ Balzac; ma, fedele più alla vita della fantasia artistica, ricca di variazioni e legami e segreti ritrovamenti e illuminazioni, che non a schemi di logiche deduzioni e di sillogismi filologici mortificanti la ricchezza di quella vita, il suo discorso si svolge per richiami a temi connessi al centrale, per suggestioni di analogie, per confluenze di temi, secondo una logica non formale ma dettata dall’argomento, cioè dalla qualità della fantasia del Proust, dal suo modo di lievitare le esperienze, e di inanellarle, per non strozzare o mutilare quella vita, anzi, pur nel limite dell’indagine, mantenerne la sferica unità.

  A Balzac s’annodano Ruskin Flaubert, De Goncourt, Roberto di Montesquiou, Charlus, Oriana di Guermantes, Diana di Cadignan, Albertine ... Selva di simboli; poiché Proust appunto rappresenta «un punto d'incrocio fra il simbolismo che crea a suggerisce metaforicamente rapporti, e il naturalismo che osserva, decompone e spiega analiticamente i fenomeni».

  Proust si affratella con Balzac proprio «in questo perenne reciproco rifluire delle due vite, la fantastica e la reale»; ma più nella ispirazione, che Proust — osserva acutamente la Del Valle — ebbe dalle opere di Onorato, «di ritrovare il tempo perduto nella extra­temporaneità della creazione». Concetto non solo balzachiano o proustiano, ma romantico, moderno; come quello che affida all’arte la liberazione dalla tirannia del tempo e della morte, l’affermazione del potere umano di vincere il finito e il transeunte.

  Altra affinità fra Proust e Balzac, «la stretta, continua e veramente straordinaria convivenza ... dell’osservatore spietato e dell’amante appassionato sempre, anche nelle negazioni del suo disincanto». Coabitazione di poeta e critico (ed è anche quello un segno della modernità del Proust, poiché è indizio dei nostri tempi proprio la scoperta e la giustificazione teoretica di questa eterna compresenza, e la consapevolezza che di essa hanno tanto l’artista quanto il critico).

  Ed ecco, alla luce di queste intuizioni, illuminato il problema del rapporto fra vita e poesia, non solo in Balzac e Proust, ma nell’artista in generale: problema ch’è oggi al centro delle esperienze estetiche, e al quale può giovare la testimonianza di uno scrittore impegnato come Proust. La Del Valle ne trova la risoluzione nell’amore: Balzac e Proust, se pur si rinchiudono nelle loro mura, «non vivono mai isolati, perché si liberano armoniosamente, se pur con sforzo doloroso, di tutte le creature e i sentimenti accumulati dalla loro esperienza che nel senso più largo della parola è stata un’esperienza d’amore».

  Liberazione — dunque — dall’amore, dall’esperienza? Comunione con gli altri ritrovata nell’atto di liberarsi dall'amore che ad essi legò l’uomo? Una comunione estetica opposta ad una comunione umana? Interrogativi centrali della problematica estetica del nostro tempo, e ai quali la Del Valle non dà risposta, sollecitata nella ricerca labirintica della fantasia proustiana. Cui fu stimolo certo la tendenza della preziosa letteratura contemporanee a cogliere e inventare trapassi dal mondo delle apparenze a quello segreto dell’interiorità. [...].

 

 

  Giovanni Titta Rosa, Onorato Balzac in casa Manzoni, «Giornale dell’Emilia. Quotidiano indipendente della Valle padana», Bologna, Anno VIII, 9 aprile 1952, p. 3.

 

  Cfr. 1943; 1946; 1948.

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, Galli e Franchi, in La pantofola di vetro. Note di varia letteratura, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1952 («Collana di saggi diretta da Giovanni Macchia», IX), pp. 75-79.

 

  Cfr. 1950.

 

  Balzac e Talleyrand, pp. 93-98;

 

  Cfr. 1950.

 

  Chiose a Balzac, pp. 85-92;

 

  Cfr. 1950.

 

  Balzac e la terra dei morti, pp. 99-102.

 

  Cfr. 1949.

 

  Segnalati da P. Russo, Primo inventario ... cit, p. 564.

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, Bilancio di Paul Bourget, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VIII, N. 207, 2 Settembre 1952, p. 3.

 

  Il romanziere Bourget si era scelto due maestri: Stendhal e Balzac. Del primo avrebbe voluto emulare l’arte nutrita d’ideologia, la psicologia che smonta pezzo per pezzo il meccanismo delle passioni come in un laboratorio scientifico; del secondo, l’occhio clinico che coglie la passione dominante e la segue nelle sue fasi. Ma più che a quel che effettivamente furono, Bourget mirava a quel che Stendhal e Balzac vollero essere. Ed è così che nei suoi romanzi la psicologia rimane astratta, mentre in Stendhal fa tutt’uno con la poesia: a confronto con Julien Sorel, il povero Robert Greslou, protagonista del Disciple, non è che un manichino. Quanto a Balzac, non è certo nel descrivere lo sviluppo delle passioni ch’egli si rivela artista, ma nei ritratti che ci dà dei suoi personaggi, le cui qualità morali son còlte nell’aspetto fisico, e nelle descrizioni ambientali che sono lo sfondo di quei ritratti: ce n’è uno solo in Bourget che possa resistere al paragone? Gli stessi squilibri di Stendhal e di Balzac, narratori ineguali ognuno a suo modo, testimoniano a loro favore: con tutte le loro pretese, sono due ingenui, due eterni fanciulli, e bisogna prenderli come sono. Ma Stendhal ha una sua musica intima che rapisce il lettore senza che questi si renda conto di come il rapimento è avvenuto, e per quella musica gli si perdonano i troppo lunghi o troppo raziocinanti recitativi; come a Balzac, per la bellezza dei suoi ritratti, si perdona la quasi totale incapacità di creare una trama accettabile e fare agire i suoi personaggi, il falso pathos di tante scene, la scrittura troppo spesso di dubbio o addirittura pessimo gusto Bourget invece non ha falle nelle sue trame di romanziere: procede liscio, unito: la sua scrittura è impeccabile dal punto di vista di quello che è il gusto medio d’una società colta e bene educata: ma gli manca ciò che nel miglior senso si chiama stile, cioè l’impronta d’una personalità veramente originale. Una volta imparato il mestiere, Bourget si diede con metodico impegno alla sua opera di narratore. I suoi romanzi uscivano a regolari intervalli, attesi da una clientela che poteva contare su la puntualità del proprio fornitore.

 

 

  Annibale Vignocchi, L’amore, la donna, l’uomo e il matrimonio nel pensiero dei più grandi autori antichi e moderni, Parma, Tip. La Bodoniana, 1952.

 

  Numerosi riferimenti ad opere balzachiane.

 

 

  Villalta, I conti in tasca a Balzac, «La Provincia. Quotidiano indipendente d’informazione», Cremona, Anno VI, N. 15, 17 Gennaio 1952, p. 3.

 

  In considerazione di quel che fu il rapporto della moneta con il valore degli oggetti, e cioè la sua capacità di acquisto, dobbiamo rimpiangere il felice tempo che ha preceduto le due guerre?

  Indubbiamente in quei due periodi si ebbero prezzi bassi ma prezzi anche inferiori si erano verificati in precedenza senza che il tenor di vita ne possa risultare, nel confronto, migliore. Aveva sì la moneta un grande potere di acquisto ma scarseggiava. I guadagni erano scarsi e rari. Facciamo i conti nelle tasche di un letterato, il Balzac.

  Nel 1819, abbandonata la provincia nella quale aveva tratto i natali, installatosi a Parigi, egli così fissa il bilancio di un anno:

 

  Alloggio Fr. 54,75

  Vitto 146,00

  Riscaldamento 36,50

  Illuminazione 54,75

  Lavatura e stiratura 36,50

  Imprevisti e diversi 35,50

  Totale Fr. 365.—

 

  Balzac contava dunque di vivere con un franco al giorno. Vi era altri che poteva farlo. Egli no, poiché già in lui agivano quei fermenti che, nonostante la fertilità immensa di scrittore e il successo delle sue opere, lo portarono a vivere in un inferno di debiti ed a morire in una situazione di quasi miseria, ed operavano anche quelle dosi di cinismo che agli esordi della carriera letteraria, già lo avevano indotto a scrivere i due opuscoli: «Sull’arte di pagare i debiti e soddisfare i creditori senza sborsare un soldo» e «Sull’arte dello strozzo esercitata in ogni maniera cognita o semplicemente suggerita».

  Eppure egli nutriva di sé, del suo genio negli affari e delle sue capacità di amministratore avveduto, il concetto espresso in una lettera a colei che doveva essere sua moglie: «Vi siete fatta di me il concetto di uno spendaccione e sono invece il più economo essere della terra. Solo che vi sono calcoli che gli imbecilli chiamano fasto. Esempio: comprai nel 1833 per 500 franchi tappeti che sono ancora nuovi e bellissimi. Si è gridato allo spreco, ma essi coprono sette ambienti e se in dieci anni avessi dovuto farne ripulire i pavimenti anche soltanto a cinque franchi al mese, avrei speso 600 franchi senza che nulla me ne sarebbe rimasto».

  La lettera è del 1842. Nel 1849, allorché Balzac compilava l’ultimo suo bilancio ad un anno appena dalla morte, egli è all’asciutto completo e la signora Hanska. la russa che doveva ancor sposare per amore certo, ma anche per la disponibilità degli 878.413 franchi in cui alla fin dei conti si riassunse il di lei patrimonio, deve prestargli quanto gli occorre a far fronte alla rata in scadenza del suo pagamento delle azioni Nord. Nel bilancio la casa che i due avrebbero dovuto abitare e che Balzac si era dato la pena di adornare con la sua mania di collezionista, figura per 131.100 franchi, la biblioteca per 5.492, i mobili per 9.788, l’argenteria per 20.886,50, ma si tratta di valutazioni piuttosto ottimistiche. Balzac non è ormai più in grado di lavorare e finirà con condurre a picco anche la fortuna della moglie, ma nel 1847, al culmine del successo, quando già da sei anni ha in corso di pubblicazione quella «Commedia umana» di cui senza temere di peccar di troppo orgoglio scrive che «letterariamente parlando è più vasta di quel che architettonicamente risulti la Cattedrale di Bourges», il giornale La Presse non gli pagherà più di 3000 franchi «L’ultima incarnazione di Vautrin» che peraltro egli ha venduto contemporaneamente a L’Epoque per 5000. Veron per Il Costituzionale acquisterà i diritti di riproduzione di «Eugenia Grandet», «Il giglio della (sic) valle» e «Papà Goriot» per 15.600, il giornale di nuova pubblicazione L’Unione Monarchica gli anticiperà 10.000 franchi su un totale di 15.000 per «Il deputato d’Arcis», e l’editore Petron (sic; lege: Piéton) gli corrisponderà appena 6000 per «Il cugino Pons» già preceduto dalla «Cugina Betta».

  Questi gli introiti di uno dei più grandi romanzieri di ogni epoca. In calce ad un contratto stipulato con Bohain che gli chiede l’esclusività per la rivista che sta per veder la luce dal titolo L’Europa letteraria, si trova di mano di Balzac la seguente annotazione: «Dodici colonne e cioè tre fogli di composizione e cioè 70.728 lettere mi vengono pagate 1.500 franchi. Quaranta pagine della «Revue de Paris» contenevano 75.600 lettere e costituivano 37 pagine che mi erano pagate 500».

  Col procedere del tempo miglioravano le sorti di quella che si chiamò «la cosa letteraria». Emulo del suo predecessore, Guy de Maupassant poté sognare come punto di arrivo della sua carriera il milione e pensò di poterlo raggiungere scrivendo ogni giorno per un congruo numero di armi una novella al prezzo di mille franchi.



  Eralda Vismara, La Posizione di Balzac di fronte alla fatalità nella Comédie humaine. Tesi di laurea. Relatore: prof. Roberto Perroud, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1952.

 

 

  Sandro Volta, Aragosta, Champagne e letteratura. I dodici romanzi migliori dell’Ottocento francese, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VIII, N. 268, 12 Novembre 1952, p. 3.

 

  Più della metà dei libri scelti ieri dovranno infatti essere esclusi il 24 corrente, e ciò spiega il sacrificio che verrà fatto di tante opere che possono esser considerate fra le migliori della narrativa moderna e che, in alcuni casi, rasentano addirittura il capolavoro. Basti dire che fra i bocciati ci sarà persino un romanzo di Balzac: due sono infatti i suoi libri scelti nel primo scrutinio. «Le Père Goriot» e «La Cousine Bette», e dei due uno dovrà esser tirato indietro per lasciar passare soltanto l’altro nel secondo appello. Ma quanti altri capolavori di Balzac non meriterebbero di essere entrati nella scelta? E quanti di Stendhal o di Flaubert? La tirannia del numero dodici impedisce di poterli accogliere tutti.



[1] Nella maggior dei casi, si tratta di opere di assai dubbia paternità balzachiana.

[2] Dovremo in ogni capitolo della presente opera, ricordando le descrizioni fisiognomoniche dei personaggi di Balzac, riferirci con precise citazioni alle opere di Lui. Diciamo insino da ora che le citazioni in questione lungo tutto il corso del presente lavoro si riferiscono quasi tutte alla edizione detta del Centenario (della nascita) in 16°, editore Calmann-Lévy, che porta in cima al frontespizio l’indicazione: Edition du centenaire. Poiché il più delle volte la narrazione, in quell’edizione, non è divisa in capitoli (il che invece si faceva, anche con soverchia larghezza, nei romanzi giovanili), citiamo sempre la pagina. Tuttavia, per alcuni romanzi abbiamo citato la grande edizione illustrata del 1853-1855, editore Alexandre Houssaux (sic) (La maison Nucingen, Les secrets de la princesse de Cadignan, Les employés, Facino Cane, Sarrasine, César Birotteau, L’illustre Gaudissart, La Muse du département, La vieille fille, Le lys dans la vallée, La cousine Bette, Le cousin Pons) o quella del 1901, 1902, 1903, grande, illustrata, editore Paul Ollendorff (L’envers de l’histoire contemporaine — con la sua parte: Madame de la Chanterie, — Les paysans, Les petits bourgeois, i due volumi di articoli e saggi vari dal titolo: Oeuvres diverses e anche: Béatrix, Modeste Mignon, Z. Marcas, Le curé du village). Le cabinet des antiques è dell’edizione romanica; La femme de 30 ans e La femme abandonnée, dell’edizione Calmann-Lévy (s. d.). Pierrette e Le curé de Tours, anche dell’edizione Calmann-Lévy, 1882; Un ménage de garçon è dell’edizione 1878. [N. d. A.].

[3] L’iconografia di Balzac si trova in belle riproduzioni nell’Appendice al volume di Pierre Abraham: Balzac, Paris, 1929. [N. d. A.].



Marco Stupazzoni

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