sabato 4 aprile 2020



1950

Il Centenario della Morte.[1]

 

 


Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Lettres à l’Étrangère di Honoré de Balzac, a cura di Agostino Severino, Firenze, Edizioni Le Lingue Estere, (settembre) 1950 («Le più belle pagine d’amore», 1), pp. 78; 2 ill.

 

  Si tratta di un corpus di trenta lettere inviate da Balzac a M.me Hanska tra il 9 settembre 1833 [nella prima lettera l’anno è erroneamente trascritto in 1933 (sic)] e il 16 dicembre 1844. La corrispondenza balzachiana è preceduta da una Nota bibliografica (pp. 5-6, che qui trascriviamo) e da una Introduzione (pp. 7-18; cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici) redatte da Agostino Severino, a cui si deve la compilazione dell’apparato di Note ai testi presente alle pp. 73-78. Le due illustrazioni inserite nel volume sono: Balzac à 37 ans. Peinture de Louis Boulanger e La Comtesse Eveline Hanska par Daffinger.

 

Nota bibliografica.

 

  Gli originali delle lettere di Balzac alla contessa Rzeivuski-Hanski, posseduti dal diligente biografo del grande scrittore, visconte Charles de Spoelberch de Lovenjoul, videro la luce nella Revue de Paris a spizzico tra il 1894 e il 1898, e servirono al Lovenjoul per un racconto della vicenda d’amore, pubblicato da Calmann-Lévy col titolo di Études balzaciennes; Un roman d’amour (1896). Ora essi sono conservati, insieme con molti altri documenti balzacchiani, nella biblioteca di Chantilly. L’unica edizione integrale in volume è in continuazione di quella definitiva delle Oeuvres iniziata nel 1869 presso Calmann-Lévy; consta di due tomi, pubblicati il primo nel 1899, il secondo nel 1906 (di pagg. 575 e 475, rispettivamente; posteriori alla pregevole Histoire des oeuvres d’Honoré de Balzac del Lovenjoul, la cui terza ediz. è del 1888). — Di queste lettere, di cui si ebbe una nuova edizione nel 1925 presso lo stesso editore, si occuparono alcuni critici, e segnatamente P. De Garlache (Un roman vécu: Balzac et l’étrangère in «Revue generale», 1925, 113); v. anche «Revue des deux Mondes», 1919, 6, e 1922. Sull’avventura, e sulla vita amorosa di Balzac, sono da consultare: L. J. Arrigon, Les années romantiques de B. (Paris, 1927); B. Benjamin, La vie prodigieuse d’H. de B. (Paris, 1925); E. Biré, H. de B. (Paris, 1897); W. H. Helm, Aspects of B. (London, 1905); v. B. (sic) Bouteron, B. et M.me de Berny («Revue des Deux Mondes», 1921, 7). Le pubblicazioni sulla Hanska e sulla sua condotta dopo la morte del marito sono diecine; se ne veda l’elenco nella Bibliographie di Talvart et Page (sic). La donna fu difesa da Marcel Bouteron, il grande studioso del Balzac e editore dei Cahiers balzaciens (Apologie pour Mme Hanska, «Revue des Deux Mondes», 15 déc. 1924, p. 811-29).

  Chi voglia andare di là da queste orientazioni veda Les femmes dans la vie de B. cit. a pag. 8, n. Qualche altra lettera è nell’Intermédiaire des Chercheurs et des Curieux, i cui indici si consultano sempre con profitto su questioni balzacchiane. Inoltre, si vedano alcune opere che non sono citate nella bibliografia poderosa pubblicata u cura di W. H. Royce col titolo di A. Balzac bibliography (Chicago-Paris, 1930), e segnatamente: Mauriac Claude, Aimer B. (Paris, 1945). Curtiers P. R. (sic), Balzac (Paris, 1933). Una bibliografia generale, e fuori dell’argomento qui trattato, deve ricercarsi nei volumi di storia della letteratura; sufficienti quella data dal Pellegrini e quella che il Neri appose al suo articolo nella Enciclopedia Italiana (vol. VI).

  Delle lettere che fan parte di questa scelta, alcune sono riportate per intero, da altre è stato espunto tutto ciò che il B. vi scriveva sulle vicende economiche e sul corso dei lavori letterari. E se così si è fatto, chiaro è il motivo: lasciare alla corrispondenza quel carattere di lettere di amore, che qui soltanto importa.

  Le parti e le parole che nel testo son racchiuse nelle parentesi quadre son dovute al primo editore. Le note in fine del volume sono alcune storiche o biografiche, per aiutare nel lettore l’intelligenza del testo (e quelle seguite da [L] son dovute al Lovenjoul), altre linguistiche, soltanto quando era necessario sottolineare o spiegare costrutti propri dello stile del Balzac e meno noti presso altri scrittori, oppure vocaboli antiquati o inusitati.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Gli Allegri racconti raccolti dalle badie di Turrena e messi in luce dal signor di Balzac pel divertimento dei pantagruelisti e non per altri. Per la prima volta tradotti da Aldo Fortuna, Milano, Alberto Corticelli (Tipografia E. Barigazzi), (aprile) 1950 («I grandi scrittori di ogni paese»), pp. 482.

 

 Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 560.

 

 Cfr. 1921.

 

 

  Onorato de Balzac, I Capolavori della “Commedia Umana”. I. Papà Goriot - Il Colonnello Chabert - Un tenebroso affare - Facino Cane - Sarrasine. Introduzione di Pietro P. Trompeo. [Traduzioni di Renato Mucci, Oete Blatto e Maria Ortiz], Roma, Gherardo Casini Editore, (Luglio) 1950 («I Grandi Maestri», 3), pp. XI-481.


  Struttura dell’opera:

 

  Pietro P. Trompeo, Chiose a Balzac, pp. V-XI; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Papà Goriot (Traduzione di Renato Mucci), pp. 3-208;

  Scene della vita privata. Il Colonnello Chabert (Traduzione di Oete Blatto), pp. 211-266;

  Un tenebroso affare (Traduzione di Maria Ortiz), pp. 269-434;

  Facino Cane (Traduzione di Maria Ortiz), pp. 437-447;

  Sarrasine (Traduzione di Maria Ortiz), pp. 451-477.

  Honoré de Balzac, pp. 479-480.

 

  Trascriviamo integralmente la nota finale su Honoré de Balzac:

 

  Honoré Balzac, o De Balzac come firmò dopo il 1830, nacque a Tours il 20 maggio 1799, e morì a Parigi il 18 agosto 1850. Studiò prima nel collegio degli Oratoriani a Vendôme, ed iniziò nel 1816 gli studi di giurisprudenza fino a che potè dedicarsi alla letteratura scrivendo una tragedia su Cromwell che fu un fallimento. Si volse quindi al romanzo popolare a forti tinte, e nello stesso tempo tentò una impresa editoriale, la gestione di una tipografia e di una fonderia di caratteri che furono altrettanti insuccessi, caricandolo di debiti che egli dovette trascinarsi peri tutta la vita.

  Il suo primo romanzo degno di menzione è Les Chouans apparso nel 1829, e ad esso seguono una serie di opere di grande importanza, fra cui i capolavori Le père Goriot, Le médecin de campagne, Eugénie Grandet, Le colonel Chabert, attraverso i quali egli già vagheggia il disegno di un grande ciclo che descriva tutte le classi, tutte le condizioni, tutti gli aspetti della società del suo tempo.

  Nel 1830, egli pubblica un gruppo di sei racconti sotto il titolo di Scènes de la vie privée, e manifesta il proposito di collegare fra loro tutti i personaggi dei suoi romanzi, in modo da formare «una società completa», e sceglie il titolo Études de moeurs au XIXe siècle, che escono fra il 1834 e il 1837, ripartiti in Scènes de la vie privée, Scènes de la vie de province, Scènes de la vie parisienne, a cui s’accompagna una serie di Contes et romans philosophiques, detti in seguito Etudes philosophiques. Nei 1841, Auguste de Belloy di ritorno dall’Italia, gli offre lo spunto da cui trae il titolo La Comédie humaine, quasi a parallelo dell’opera di Dante.

  Balzac tentò anche il teatro, ma con scarsa fortuna. Il suo primo dramma, e il più importante, Le faiseur ou Mercadet, fu rappresentato dopo la sua morte.

  Dal 1830 in poi la vita dell'uomo si confonde quasi interamente con la sua esistenza di artista. Pensò vagamente alla vita politica, aspirò senza successo all’Accademia, visse immerso nel lavoro, e coltivando poche amicizie di artisti come Hugo, la Sand, Gautier. Fu il primo a riconoscere l’ingegno di Stendhal quando questi pubblicò la Chartreuse de Parme, mentre non fu amico del Sainte-Beuve da cui lo dividevano profonde differenze di carattere.

  Fra le molte donne che egli amò, la signora de Berny fu il suo più tenero e sincero affetto. Nel 1832 aveva iniziato una corrispondenza epistolare con la «Straniera» che gli aveva scritto da Odessa, e che gli si rivelò poi come una gran dama polacca, la contessa Hanska; s’incontrò con lei l’anno seguente in Svizzera, la ritrovò nel 1835 a Vienna, e quindi in varie città d’Europa. Rimasta vedova, Balzac pensò a sposarla, ma il progetto incontrò opposizione nella famiglia di lei. Balzac raggiunse la Hanska in Ucraina nel 1847, vi tornò malatissimo nel 1849, e il 14 marzo 1850 ebbe luogo il matrimonio cui seguì un doloroso viaggio fino a Parigi, dove pochi mesi dopo Balzac moriva ancor giovane, fiaccato dalla fatica di un immane lavoro.

 

Opere di Balzac.

 

  La Comédie humaine comprende le seguenti opere: Les Chouans, e la Physiologie du mariage (1829); El Verdugo, Étude de femme, La paix du ménage, La Maison du chat-qui-pelote, Le bal de Sceaux, La vendetta, Gobseck, Une double famille, Adieu, L’élixir de longue vie, Sarrasine, Une passion dans le désert, Un épisode sous la Terreur (l830); La (sic) Réquisitionnaire, Les proscrits, Le chef d’oeuvre inconnu, L’auberge rouge, La peau de chagrin, Jésus-Christ en Flandre, Maître Cornélius (1831); La Bourse, Madame Firmiani, Le message, Le colonel Chabert, Le curé de Tours, La femme abandonnée, Louis Lambert, La Grenadière, Les Marana (1832); Le médecin de campagne, Eugénie Grandet, L’illustre Gaudissart (1833); La recherche de l’absolu, La femme de trente ans, Le père Goriot (1834); Un drame au bord de la mer, Melmoth réconcilié, Le contrat de mariage, Séraphita (1835); La Messe de l’athée, l’interdiction, Le lys dans la vallée, Facino Cane, L’enfant maudit, La vieille fille (1836); Les employés, Gambara, Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau ( 1837); Le cabinet des antiques, La Maison Nucingen, Une fille d’Eve (1838); Le curé du village, Les secrets de la Princesse de Cadignan, Massimilla Doni (1839); Pierrette, Z. Marcas, Pierre Grassou, Un prince de la Bohème (1840); Une ténébreuse affaire, Ursule Mirouet, La fausse maîtresse, Mémoires de deux jeunes mariées (1841); Un début dans la vie, Albert Savarus, La Rabouilleuse, Autre étude de femme (1842); Honorine, La Muse de département, Sur Catherine de Médicis (1843); Modeste Mignon, Gaudissart II, Béatrix, Les Paysans (1844); Un homme d’affaire (1845); Les comédiens sans le savoir, La cousine Bette, Petites misères de la vie conjugale (1846); Le cousin Pons, L’envers de l’Histoire contemporaine, Le député d’Arcis. Sotto il titolo Splendeurs et misères des courtisanes, si raccolgono Esther heureuse, A’ combien l’amour revient aux vieillards, Où mènent les mauvais chemins, La dernière incarnation de Vautrin. Illusions perdues comprende Les deux poètes, Un grand homme de province à Paris, Ève et David; Histoire des treize comprende Ferragus chef des Dévorants, La Duchesse de Langeais, La fille aux jeux d’or.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., pp. 559-560.

 

  Le traduzioni dei romanzi e dei racconti balzachiani qui raccolti possono considerarsi, nel complesso, fedeli e corrette.

 

 

  Onorato de Balzac, I Capolavori della “Commedia Umana”. II. La donna di trent’anni - Eugenia Grandet – Il medico di campagna - I segreti della principessa di Cadignan. Traduzioni di Gianna Tornabuoni, Renato Mucci e Maria Ortiz, Roma, Gherardo Casini Editore, (Settembre) 1950 («I Grandi Maestri», 4), pp. 527.

 

  Struttura dell’opera:

 

  La donna di trent’anni (Traduzione di Gianna Tornabuoni), pp. 3-145;

  Eugenia Grandet (Traduzione di Renato Mucci), pp. 149-295;

  Il medico di campagna (Traduzione di Maria Ortiz), pp. 299-477;

  I segreti della principessa di Cadignan (Traduzione di Maria Ortiz), pp. 481-525.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 560.

 

  Le traduzioni dei romanzi e dei racconti balzachiani qui raccolti possono considerarsi, nel complesso, fedeli e corrette.

 

 

  Honoré de Balzac, Il Colonnello Bridau (Un ménage de garçon) di Honoré de Balzac. Traduzione e introduzione di Maffio Maffii, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1950 («Biblioteca Moderna Mondadori», CXXX-CXXXII), pp. 337.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 561.

 

  Cfr. 1932 e 1933.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet di Honoré de Balzac, a cura di Remo Cantoni. Traduzione di Marise Ferro, Milano, Universale economica (Torino, Stabilimento tipografico F.lli Pozzo per conto della «Cooperativa Libro Popolare»), (giugno) 1950 («Serie letteratura», n. 53, Volume XXIV), pp. 198.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Remo Cantoni, Prefazione, pp. 7-12; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Eugenia Grandet, pp. 13-198.

 

  La traduzione fornita da Marise Ferro del capolavoro balzachiano può ritenersi, nel complesso, corretta.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Rizzoli Editore, (maggio) 1950 («Biblioteca Universale Rizzoli», 148-150), pp. 270.

 

  Struttura dell’opera:

 

  [Gabriella Alzati?], Nota, pp. 5-6; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Papà Goriot, pp. 7-270.

 

  La versione italiana che Gabriella Alzati fornisce di Le Père Goriot è da giudicarsi fedele e corretta.



 

Estratti.

 

 

  [Balzac], Due ritratti parigini, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XXVII, 20 agosto 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 561.

 

 

  Onorato Balzac, Il giovane critico biondo di Onorato Balzac (traduzione di Bruno Biral), «Il Progresso d’Italia. Quotidiano indipendente del mattino», Bologna, Anno V, N. 74, 15 Marzo 1950, p. 3.

 

  Estratto da: Monographie de la presse parisienne.

 

 

  [Balzac], La Modista (Traduzione di Mario Picchi), «La Fiera letteraria Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno V, Numero 34, 3 settembre 1950, pp. 3-4; 1 ill.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 561.

 

  I brani di Balzac, che pubblichiamo qui per la prima volta in Italia, fanno parte dell’edizione che Bernard Grasset va ordinando, nella sua serie dei Cahiers verts[2], basandosi sulla collezione inedita del secolo scorso appartenente al visconte di Lovenjoul. Il frammento che ha per titolo: La modiste risale al 1830.

 

 

  Honoré de Balzac, Un profilo. Un uomo infelice, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XXVII, N. 153, 29 giugno 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 561.

 

  Honoré de Balzac, nato nel 1799 e morto nel 1850, è quest’anno commemorato in tutta la Francia. Balzac, autore di circa un centinaio di volumi, creatore della celebre «Comédie humaine» che raccoglie ben 17 (sic!) romanzi, e oggi consacrato il fondatore della grande scuola realistica francese, lo scrittore che con più grande forza e con più vasta visione descrisse la vita e i costumi della borghesia dei suoi tempi. I suoi personaggi sono vivi oggi come al tempo in cui l’autore li immaginò e li realizzò.

 

 

  H. de Balzac, Appunti inediti di H. de Balzac. Valentino e Valentina (Traduzione di Mario Picchi), «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno V, Numero 34, 3 settembre 1950, p. 5.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 561.

 

  Il frammento inedito intitolato: Valentine et Valentin risale agli anni 1841-1842.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Onorato di Balzac. Il titano prodigo di se stesso, «Il Giardino di Esculapio», Milano, Anno XIX, N. 3-4, 1950, pp. 69-95; 14 ill.

 

  Se si pensasse alla mole dell’opera che Onorato di Balzac profuse al mondo senza conoscere le date della sua vita, lo si crederebbe arrivato a un’estrema e valida vecchiezza; e non visse invece che cinquantun anni. Ma ogni anno ebbe dall’intensità del lavoro una maggior durata e certamente, quando si volesse di quell’attività di scrittore far il conto in ore, si troverebbe tal somma di tempo da star a paragone con la longevità, per esempio, di un Victor Hugo e forse superarla.

  Fu un titano che attese senza posa alla sua gloria e alla sua morte, giustamente convinto d’aver ereditato dai genitori una grande energia vitale ma illuso di poterne lungamente abusare.

  Egli era in ciò — e non in ciò soltanto — il figlio di suo padre, di quel Bernardo Francesco che s’era messo in mente di dover durare centenario e voleva insegnare anche ad altri l’arte di vivere a lungo.

  Ne aveva anche ereditato la vanità delle apparenze sociali. Il padre, nato da un contadino che nell’atto di nascita ha il nome di Balssa, aveva ritenuto suonasse meglio Balzac e a un certo momento insinuò, prima soltanto nei rapporti con nuovi conoscenti, poi regolarmente, tra nome e cognome la particella nobiliare «de» e si firmò Bernardo Francesco de Balzac. Il figlio ritenne la particella e diede o si diede a intendere di discendere da un’antica e nobile famiglia dei Balzac e che suo padre avesse trovato in autorevoli documenti la legittimità di quella discendenza.

  La debolezza del nobile lignaggio influì probabilmente anche sulle sue opinioni politiche, poiché, nato dopo la grande rivoluzione, il 20 maggio 1799. avendone vissute altre due, nel ‘30 e nel ‘48, rimase un incrollabile conservatore, sostenitore del trono e dell’altare come si addiceva al rampollo d’una stirpe secolare, anche se accettava, come del resto quasi tutta la nobiltà, Napoleone e l’Impero, per lo splendore e la potenza della Francia in quel periodo per la grandezza di Napoleone, col quale sentiva una certa parentela d’ambizione e di genio, e anche per il carattere antidemocratico dell’Impero.

  Il padre non si occupò caldamente di politica. Servì decentemente tutti i regimi e predilesse problemi più generali e più serenamente filantropici di quelli delle forme di governo. Nondimeno, nel 1809 pubblicò un opuscolo per proporre l’erezione d’un monumento nazionale a Napoleone; opuscolo nel quale si è voluto vedere la prima idea dell’Arco di trionfo ai Campi Elisi. Caduto l’imperatore, non potendo pensare a onori per il grosso Luigi XVIII, diede alla luce nel 1816 un «Opuscolo sulla statua equestre che i francesi devono far erigere a perpetua memoria di Enrico IV». Era il legittimismo rivolto a un passato glorioso.

  Si considerava un discepolo del Rousseau, di cui anche suo figlio fu ammiratore. Precorse i fautori dell’eugenetica, deplorando che si combinassero matrimonii con tanta leggerezza, senza esame dello stato fisico di coloro che si assumevano la responsabilità di mettere al mondo altri uomini, eredi forse delle loro malattie e quindi infelici e pericolosi. D’altra parte riteneva che la maternità dovesse essere protetta senza riguardo esclusivo alla legittimità e a tal proposito pubblicò nel 1808 una «Memoria sullo scandaloso disordine cagionato dalle ragazze ingannate e abbandonate nell’assoluta miseria, e sui mezzi di render utile una parte della popolazione perduta per lo Stato e assai funesta all’ordine sociale». L’anno innanzi ne aveva pubblicata un’altra «Sui mezzi di prevenire i furti e gli assassinii».

  Egli dava in luce volentieri scritti che riteneva utili all’umanità, con una tendenza che può far sorridere in lui ma che diventa una torrenziale magnificenza nella letteratura del figlio, la quale offre tra l’altro — come anche ogni superficiale conoscitore sa — numerose pagine sui problemi sociali, economici morali, con idee riformatrici. Onorato di Balzac era tanto convinto del valore sociale della sua «Commedia umana» che chiamava le sue narrazioni non romanzi ma «studi».

  E lo stesso interesse che nei romanzi egli manifesta per la medicina ricorda in grande, suo padre, autore nel 1810 d’una «Storia della rabbia e mezzo di preservarne, come un tempo, gli uomini»; opera che considerava di così speciale serietà da avvertire nel frontespizio: «Questa edizione è per il solo Governo; non sarà inviata ad alcun autore di giornale o di foglio periodico». Egli vi parla de’ rimedi, se la piglia coi cani, che considera anche veicoli di peste, al punto da desiderarne il totale sterminio e vi accenna a una tassa su questo pericoloso animale di cui sembra che la prima idea, accettata poi universalmente, fosse proprio sua.

  Per la salute e l’assicurazione della longevità il suo programma era certo, se non peregrino, assennato: esercizi fisici, specialmente lunghe passeggiate a piedi e moderazione in tutto, specialmente nel tributo a Venere: opinione quest’ultima accettata dal figlio, il quale affermava che il letterato ha bisogno di fare buon conto della castità, ma non pensava che ad abbreviare la vita un mezzo vale l’altro. Il padre si vantava di non essere mai ricorso a medici e una volta che fu gravemente malato volle curarsi da sé e prese le medicine che gli parvero convenienti, correndo rischio di rimetterci la pelle. A ogni modo visse ottantatrè anni e morì quando Onorato era già trentenne, per una disgrazia.

  Il figlio, diverso in questo, apprezzò i buoni medici e ne ebbe uno che fu anche suo amico, il dottor Nacquart, al quale ricorreva per prestiti almeno quanto per consigli. Esclamava; — Ottant’anni ! Il fiore dell’età! —, facendo progetti che andavano lontano.

  La madre di Balzac, Laura Sallambier, figlia d’un direttore d’ospedali parigini, era trentatrè anni più giovane del marito, a cui andò sposa quando lei ne aveva diciotto e lui cinquantuno: graziosa donna, il cui ritratto dà l’impressione d’una leggiadra donnina del Settecento. Sebbene, secondo qualche biografo, «un po’ galante», non pare si concedesse tutta la libertà supponibile con tanta differenza d’età. Si occupò con assiduo zelo de’ suoi quattro figli (un quinto morì in tenera età) e, se mostrò di prediligere, dei due maschi, l’altro, Enrico Francesco, fu probabilmente perché, donna pratica, diffidava delle esuberanze del primogenito, sopra tutto quando, messolo a studiar legge e a far pratica prima con un avvocato e poi con un notaio, dovè constatare che Onorato non si sarebbe occupato mai d’altro che di letteratura.

  Cosa curiosa, la signora Balzac, brava madre di famiglia e attaccata al vivere positivo, amava le letture spirituali di carattere eccezionale e il figlio, divoratore di libri sin da fanciullo, trovò per ciò in casa le prime opere che dovevano, tra l’altro, farne un fervente ammiratore del famoso visionario svedese del Settecento Emanuele Swedenborg, ricordato poi in più d’un romanzo, specialmente nel fantastico racconto intitolato «Seraphita» (sic) e in «Louis Lambert», che contiene molto di autobiografico.

  Si può per ciò dire che in pochi uomini l’eredità tanto paterna quanto materna sia così riconoscibile come in questo grande scrittore, col suo carattere in cui lo spirito conservatore ferve d’idee riformatrici, la fantasia errante fin nelle sfere del soprannaturale si accoppia con un grande interessamento per la vita degli affari (la sua «Commedia umana» è il vasto quadro d’una società che ha il massimo motore nel danaro), un acuto senso della realtà tale da farlo ritenere il precursore della scuola realistica, con una forte credenza e una viva ammirazione per i grandi sentimenti di eroica purezza.

 

Balzac tipografo e affarista.

 

  Che i genitori non fossero pienamente contenti di lui si capisce pensando alla generale diffidenza dei padri e delle madri per la vocazione artistica dei figliuoli, causa del resto frequente delle più amare delusioni.

  Il ragazzo voleva vivere scrivendo e pareva più invasato che serio quando parlava, prima d’aver dato alcuna prova considerevole del suo talento, d’un avvenire sicuro in cui si prospettava agli ascoltanti ammirato dagli uomini e amato dalle donne. Una prova fatta esaminare da persona di buon giudizio, una tragedia «Cromwell», parve anzi affatto scoraggiante — per gli altri.

  Egli si ostinò e ottenne dal padre un assegno annuo di millecinquecento franchi per un esperimento di due anni. Ritirato in una specie di soffitta, si mise a lavorare con quella intensità di cui doveva poi seguitar a dare prodigioso esempio sino alla fine della vita; ma il risultato non poteva essere rapido e, passati due anni, gli convenne tornare in famiglia.

  Il proposito però non mutava e non cedeva. Scrivere, scrivere, diventar glorioso e ricco ed essere amato.

  Da prima aveva pensato soltanto al bello. «Laura, Laura, — diceva in un lettera alla sorella — i miei due soli e immensi desiderii, essere celebre ed essere amato, saranno mai soddisfatti?». E a vent’anni, dalla sua soffitta: «Il fuoco ha preso nel mio quartiere alla testa d’un giovinetto. I pompieri vi sono da un mese e mezzo: impossibile spegnerlo. Egli s’è infiammato di passione per una graziosa donna che non conosce. Si chiama la Gloria». Poi, provati i morsi della povertà, sentita l’umiliazione delle strettezze economiche, vi aggiunse la Ricchezza.

  Vedeva che dalla letteratura avrebbe tardato a trarre i guadagni di cui sentiva il bisogno per il suo gusto di vita suntuosa e pensava a ingegnarsi con alti mezzi. Verrà un giorno, durante il suo viaggio in Italia, in cui a Genova far conoscenza con un certo Pezzi dal quale apprenderà la possibilità d’un grosso affare in Sardegna sfruttando le scorie delle miniere d’argento, si recherà poi addirittura nell’isola senza più la compagnia dell’informatore e se ne tornerà mani vuote, perché l’altro avrà già avuta da solo la concessione dello sfruttamento. E un’altra volta s’ingolferà nella rovinosa speculazione di comprare dirigere un giornale, «La Chronique de Paris». Era destino che gli affari non gli riuscissero. L’argento di Sardegna fu un lieve episodio e lo stesso giornale un episodio grave ma meno tormentoso, in paragone, del tentativo giovanile di far l’editore e il tipografo.

  Cominciò con associarsi a un libraio per la pubblicazione in un sol volume prima delle opere di La Fontaine poi di Molière e l’impresa non ebbe fortuna. Allora pensò a rilevare una tipografia e ottenne dal padre il capitale di quei millecinquecento franchi che antecedentemente aveva ricevuti: un capitale che il padre aveva ben destinato a lui. E la somma fu ingoiata dalla cattiva speculazione, a cui aveva aggiunta, con pari insuccesso, quella di fonditore. Sembra che escogitasse anche un nuovo sistema di stereotipia.

  La licenza d’esercizio come tipografo gli fu concessa in seguito a rapporto del prefetto di polizia, in cui è detto ch’egli ha fatto studi di diritto ed è anche letterato, non ha appreso l’arte né lavorato materialmente, «ma si sa nello stesso tempo ch’egli conosce bene il meccanismo di quest’arte. Del resto si comunica che la condotta del signor Balzac è regolare e ch’egli confessa buoni principii».

  Povero grande scrittore, che pubblica ogni sorta di opere e opuscoli senza valore letterario per mandare innanzi l’azienda; che concede ai clienti sconti inverosimili, probabilmente per tirar danaro nella cassa quasi vuota, e finisce col dover abbandonare l’impresa carico di debiti, dopo aver danneggiato sé e gli altri.

  Oggi diverte vedere i titoli di alcune delle pubblicazioni uscite col suo nome di stampatore. La prima fu di certe «Pillole anticatarrose di lunga vita o Grani di vita, del farmacista Cure», con indicazione delle farmacie di Francia dove si trovavano e un’Istruzione sull’uso. E altri richiami di prodotti farmaceutici più o meno serii seguirono: «Il Tesoro dei polmoni del dottor Portal, preparato da Cure farmacista a Parigi», il «Trattato delle malattie dei lattanti», con un atlante d’anatomia patologica, «I rimedii di donnicciole (de bonnes femmes) o mezzi per prevenire, curare e guarire tutte le malattie, redatti e messi in ordine alfabetico secondo il manoscritto originale di Madama Michel ex-infermiera»; la «Mistura brasiliana di Lepère, farmacista a Parigi», con traduzione in italiano, inglese, spagnolo e tedesco.

  D’altro genere, almeno più divertente, furono le pubblicazioni sulle varie arti umoristiche, come l’arte di mettere la cravatta, ch’era allora in verità più complicata di quella d’oggi, «L’arte di pagare i debiti e soddisfare i creditori senza sborsare un soldo» (e quanto sarebbe piaciuto a Balzac possederla!), «L’arte di non far mai colazione in casa e di pranzare sempre da altri, insegnata in otto lezioni indicanti le diverse ricette per farsi invitare tutti i giorni, tutto l’anno, tutta la vita, del fu cavaliere di Mangenville, con ritratto» ...

  Ma insomma ci rimise suo padre, rimasero in dubbio di perdere i creditori non ancora soddisfatti e ci rimise la sua parte anche la signora De Berny, un cui figlio poi riprese l’azienda e la condusse avanti prosperamente.

 

Donne ed amori.

 

  La signora di Berny fu l’amica, la protettrice, l’amante del giovine Balzac, che aveva ventidue anni meno di lei.

  Laura Hinner, figlia d’un arpista tedesco di Maria Antonietta, aveva sposato a sedici anni il venticinquenne Gabriele di Berny d’una famiglia originariamente piemontese di Vigone presso Torino, il quale divenne consigliere di Corte reale e visse in così poco accordo con la moglie che questa finì col separarsene. Ella era una donna abbastanza colta, sentimentale e si considerò incompresa: disposizione adatta a cercare altrove la comprensione e il resto.

  Quando, nel 1823, strinse relazione con Onorato, ardente giovine di ventiquattr’anni, ella poteva rammaricarsi di contarne quarantasei, avendo messi al mondo non si sa se con la collaborazione esclusiva del marito, ben nove figli, quanti ne generò Laura di Noves, presunto oggetto dei sospiri di Francesco Petrarca.

  Il tempo delle distrazioni galanti era passato, ma la vivacità, l’ingegno sfolgorante, la freschezza fisica e sentimentale che distinguevano questo corteggiatore ebbero per lei un fascino irresistibile. Cominciò col considerarsi l’amica, la consigliera, ma cedette presto alla foga di colui che poteva essere suo figlio e che del resto trovava in lei l’attenzione d’una bella donna, sebbene piccoletta, ben conservata.

  A Balzac, del resto, piacevano le donne mature, che celebrò anche ne’ suoi scritti. In quella parte della «Storia dei Tredici» intitolata «La duchessa di Langeais» egli dice: «Non v'è che l'ultimo amore d’una donna che soddisfaccia il primo d’un uomo». Era il caso di loro due. In una lettera alla «Straniera», la sua futura moglie, scriveva: «Quanto a me, io detesto profondamente le giovinette e tengo più conto della bellezza sviluppata che di quelle che si svilupperanno». Opinione lusinghiera per l’amica lontana, che aveva passati i trenta.

  «Una donna di trent’anni — dice nel romanzo intitolato appunto «La donna di trent’anni» — ha irresistibili attrazioni per un giovane. Una fanciulla ha troppe illusioni, troppe inesperienze, e il sesso è troppo complice del suo amore perché un giovine possa esserne lusingato. Una donna invece conosce tutta l’estensione dei sacrifici da fare». Il ragionamento continua in modo da nobilitare il così detto «sacrificio».

  La predilezione di Balzac per la trentenne era così nota che Arnaldo Fusinato nelle sue sestine su «La donna romantica» così motteggiava: Scrisse Balzac che a quell’etàLa donna piace, più che in gioventù,Perché a trent’anni ha già studiato e saOgni secreta dell’amor virtù E si sa ben che se Balzac l’ha scrittoConvien far di cappello e tirar dritto.

  Ma lui, il veneto poeta, è d’altra opinione: Trovo che meglio si confà a’ miei dentiUn bocconcin fra i diciassette e i venti.

  La signora di Berny e la signora Hanska furono i due grandi amori del romanziere, l’una chiamata la Dilecta, l’altra la Praedilecta, l’una amata cordialmente, anche quando le relazioni sessuali fra un uomo ancor giovane e una donna che aveva passato la cinquantina erano già cessate, l’altra desiderata per lunghi anni; l’una dal 1823 al 1836, anno della morte di lei, cinquantanovenne, l’altra dal 1832, anno della prima conoscenza, al 1850.

  Da queste due lunghe relazioni, con una donna invecchiante e con una quasi sempre lontana, non mancarono naturalmente distrazioni più o meno vivaci. D’altre amanti dello scrittore, che non doverono essere pochissime, dato l’entusiasmo che i suoi romanzi suscitarono nelle donne, alcuni nomi ed episodi sono noti: la non più giovane duchessa d’Abrantès, vedova del maresciallo napoleonico Junot, che nel declinare della fortuna economica scrisse molto, sopra tutto sulle vicende e sulle persone del suo tempo; la trentenne signora Valette, vedova di non austeri costumi, che gli fece piacevole compagnia in un soggiorno bretone; la signora Carolina Marbouty, letterata, trentenne, che, piantato il marito in provincia, si fece condurre da lui a Torino travestita da uomo, mentre la signora di Berny, la Dilecta, stava per morire; la dolce Maria Dufresnoy, a cui dedicò uno de’ suoi migliori romanzi, «Eugenia Grandet», «la povera, semplice, deliziosa borghese — egli scrisse , la più deliziosa creatura che sia caduta come un fiore dal cielo, la quale viene da me di nascosto, non esige né corrispondenze né premure e dice: — Amami, amico mio, io t’amerò tutta la vita».

  Della marchesa poi duchessa di Castries non riuscì a trionfare. La dama dai capelli d’oro, che aveva fatto parlare di sé per la relazione col giovane conte di Metternich troncata dalla morte dell’amante, mandò una lettera anonima all’autore della «Fisiologia del matrimonio» criticandone lo spirito. Parecchie di queste relazioni cominciarono con lettere anonime, e del resto lettere di ammiratrici sono comuni nelle biografie amorose degli scrittori e degli artisti. Balzac rispose difendendosi. Ella si fece conoscere e lo invitò. La lettera d’invito gli pervenne lo stesso giorno della prima lettera della signora Hanska. Si affrettò a recarsi da lei e se ne innamorò, ma la marchesa amò non lui sì bene il piacere di tenerlo aggiogato, se lo trasse dietro a Aix in Savoia e a Ginevra e qui infine lo congedò, forse malcontenta di una più audace insistenza dell’innamorato, il quale ne soffrì moltissimo.

  Un anno prima di morire scriveva a sua sorella, parlando del suo mal di cuore: «Queste orribili soffocazioni mi sono cagionate da contrarietà, da sentimenti troppo forti. Ho bisogno che nella mia vita tutto sia color di rosa. Le atrocità della dama che sai sono state l’origine del male; poi i disastri del 1848 ...». I disastri del ‘48 erano la rivoluzione democratica, la proclamazione della repubblica, odiosa al monarchico conservatore, che s’innamorava delle donne specialmente se appartenevano all’aristocrazia e avevano titoli di marchese, di contesse, di duchesse. La signora Hanska si seccava del vanto che il suo illustre amatore menava di sposare una dama discendente da parentela regale c cercava, come altri e altre, invano, di frenarne l’enorme vanità, anche se ne lusingavano gli atteggiamenti «legittimisti».

  Un’altra donna della quale ritengono alcuni ch’egli non ottenesse i favori, nonostante una certa intimità, sarebbe quella Olimpia Pélissier che divenne la seconda moglie di Rossini. Ma qui il caso è dubbio. La bella Olimpia non era da mettere nel candido corteo di sant’Orsola. E se poi Balzac ne disse male, ciò non significa necessariamente che parlasse da corteggiatore respinto. Di più d’una donna che non gli aveva lasciato nulla da desiderare egli poi disse male, specialmente scrivendo alla sua gelosa polacca. Questo è uno dei lati non belli del carattere di Balzac.

  Con la Pélissier egli aveva tenuto a metà un palco in teatro. Ne frequentava il salotto familiarmente. Si cita un passo delle Memorie del dottor Ménière nel quale è detto che il romanziere avrebbe volentieri sposato la brillante signora, la quale alla bellezza univa il possesso di venticinquemila franchi di rendita (gran somma allora). E in verità più d’una volta l’uomo sempre assillato dal bisogno, sempre carico di debiti e perseguitato da creditori, ebbe speranza di sposare una donna ricca; né certo è trascurabile, fra i motivi che lo resero così costante verso la Hanska, quello delle buone condizioni economiche della Praedilecta.

  Il dottor Ménière riteneva che del supposto rifiuto di Olimpia, la quale poi fu felice di andar a nozze con un uomo ancor più celebre, e per giunta benestante, Balzac serbasse una profonda amarezza. È opinione ch’egli la raffigurasse in Fedora, la donna senza cuore del romanzo fantastico «La pelle di zigrino». Quanto a ciò che valeva moralmente la seconda moglie del glorioso musicista, ecco che cosa Balzac ne scriveva alla «Straniera» nel 1833: «Due anni or sono Eugenio Sue litiga con una cattiva cortigiana, celebre per la sua bellezza. (Ella è il modello della Giuditta di Vernet). Io m’abbasso a rappaciarli e mi si attribuisce la donna ... Quanto a Rossini ... egli mi fa pranzare con la sua amante, che è precisamente la bella «Giuditta», l’antica amante di Orazio Vernet e di Sue ...».

  La più lunga infrazione alla fedeltà ch’egli fingeva di serbare all’Eva lontana fu la relazione, durata un buon quinquennio, dal 1835 al 1840, con la contessa Guidoboni-Visconti, naturalmente trentenne, conosciuta all’ambasciata d’Austria.

  Era una inglese di procace bellezza, figlia d’una madre volontariamente annegatasi per la paura di morire, sorella d’un fratello che, rapita la figlia d’un gran signore, era poi finito in istato di costante ubriachezza, di altri due fratelli suicidi e di due sorelle, una bigotta sin quasi alla demenza e l’altra dedita agli amori e alle bevande spiritose che la finirono.

  Lei, la seducente Sarah, meno squilibrata, si contentava d’indulgere ad amorosi capricci, non trattenuta dai riguardi per un marito bonario, il conte Emilio Guidoboni-Visconti, milanese, che univa in sé il patriziato dei Guidoboni di Tortona e l’aristocrazia dei Visconti di Milano e che chiudeva un occhio, o era estremamente miope, sulla condotta della moglie, preso dal dilettantismo musicale che lo spingeva a sonare qua e là nelle orchestre e da una più grottesca mania : quella di lavare, asciugare, riempire boccette da farmacia e incollarvi etichette.

  Dopo una resistenza non scoraggiante ella divenne l’amante dello scrittore famoso, poi forse autore d’un Guidoboni-Visconti nato nel maggio del 1836, dopo un altro fratello la cui paternità era attribuita a un principe polacco rinomato per il suo cinico dongiovannismo.

  Per un certo periodo di tempo il terzetto visse persino nella stessa casa e la contessa aiutò più d’una volta coi danari del marito l’amante a cavarsi d’impaccio coi creditori e con gli uscieri, fino al punto che un usuraio intentò un processo al conte perché nella casa comune ma in appartamenti diversi alla minaccia d’un sequestro i mobili suntuosi dell’appartamento che lo scrittore mobiliava ogni tanto con lusso erano trasportati in quello dei coniugi e l’usciere trovava nel proprio domicilio del debitore poca roba di nessun valore.

  Balzac spendeva pazzamente e faceva debiti come respirava, costretto talora alla latitanza per sfuggire alla prigione dei debitori, tenendo più d’un appartamento e una stanza in un albergo fuori mano, con nomi finti, uno dei quali fu «dottor Giambattista Mège, medico». E quando aveva bisogno di danaro non si faceva scrupolo di ricorrere alle donne, amiche o amanti. Era questo un altro lato non bello del suo carattere di quasi pazzesco dissipatore e di egoista.

  Egli in fondo non sentiva che se stesso e l’opera gigantesca a cui si riteneva destinato e a cui tutto doveva essere subordinato. Un amico gli ricordava quasi inorridito le confessioni di quel suo egoismo: «Io non sono più né fratello né figlio né amico; sono un cervello ... Bisogna che le altre esistenze concorrano alla mia».

 

Balzac in Italia.

 

  Questo formidabile lavoratore viveva realmente in uno stato di perpetua esaltazione. Era spesso di buon umore, si faceva amare nei salotti per il suo spirito gaio, per le sue grasse risate, per l’abbondante e varia conversazione ricca di osservazioni originali e di paradossi (il pittore Delacroix, che lo aveva in uggia, lo chiamava un chiacchierone), faceva tollerare la sua disinvoltura, che riusciva sgradevole ai raffinati, la sua candida impertinenza di credere tutto lecito a un uomo glorioso, la sua vanità ingenuamente millantatrice. Di tutti i personaggi mille o duemila — da lui creati, egli, il creatore, fu il personaggio più straordinario, perché s’era creata anche un’atmosfera nella quale viveva quasi in istato di sogno e d’ebrietà, immaginario gran signore, una forza del destino lanciata verso supreme grandezze, interprete d’un mondo e insieme conquistatore, da poter far incidere in buona fede sotto una statuetta di Napoleone le parole: «Ciò ch’egli fece con la spada farò io con la penna».

  Si poteva discuterlo, si poteva anche dubitare della solidità e durata della sua fama, ma la fama c’era, ce grande, e il genio raggiava dalla fronte e dagli occhi, nonostante quella sua figura di borghese tarchiato e panciuto; e la pubblica curiosità, francese ed europea, era intensa e tutte le porte si aprivano in accoglienze lusinghiere. I commenti potevano poi essere diversi.

  Così avvenne pe’ suoi viaggi in Italia, di cui visitò le principali città, preferendo tuttavia Milano.

  Con quella sua fisima d’essere destro uomo d’affari, soltanto per averne descritti tanti nelle sue opere, si assunse l’incarico di districare in Italia una matassa ereditaria del Guidoboni-Visconti. Probabilmente la contessa sua amante ve lo incoraggiava per favorirne una partecipazione diretta o indiretta nei profitti. Per ciò si recò una prima volta, nel 1836, a Torino, traendosi dietro a guisa di paggio la Marbouty (ignara di quella compagnia o non gelosa la bella Sarah), e una seconda volta a Milano, ma da solo.

  C’è un volume del Gigli[3] che racconta minutamente questa parte della vita d’Onorato di Balzac, prima a Milano, poi a Venezia e più tardi altrove, specialmente a Roma. Basti qui ricordare qualche episodio della vita milanese.

  Sceso alla Bella Venezia, l’albergo di piazza San Federe (sic)già caro a Stendhal e che fu per gran parte dell’Ottocento frequentato dai visitatori illustri di Milano, dopo un po’ si trasferì in un palazzo del Corso di Porta Orientale, oggi Corso Venezia, ospite del principe Porcìa, la cui sorella, contessa Sanseverino, gli aveva dato a Parigi lettere di presentazione, e vi conobbe i teneri e, sembra, per un pezzo casti amori di quel gentiluomo con la contessa Bolognini, separata dal marito, che abitava in via Cappuccini; uniti dalle anime e dai confinanti giardini. Per una novella intitolata «Le fantasie di Gina», ritrovata autografa e inedita una trentina d’anni fa, in cui la protagonista ama il suo adoratore ma non gli si dà e inventa ogni pretesto per tenerlo avvinto ma discreto, finché va a Torino a farsi fare un’operazione e, tornata con una sola mammella come le amazzoni della mitologia, lascia scoprire l’arcano della resistenza e accontenta l’amatore, egli avrebbe preso lo spunto — con in più molta immaginazione — dalla platonicità dei due amanti milanesi.

  Gl’inviti non gli mancavano né nelle case patrizie né nei palchi della Scala, il gran ritrovo della vita elegante milanese. La migliore amica divenne la giovanissima contessa Maffei, del cui salotto già rinomato fu assiduo. La sera, quando era stanco, vi si addormentava in una poltrona accanto al fuoco. Quando era in vena, teneva circolo e incantava gli ascoltatori col suo spirito, co’ suoi quadri di vita parigina, con le sue opinioni su ogni ramo dello scibile: per esempio sul magnetismo e ipnotismo, una delle fissazioni d’un uomo che amava occuparsi dei misteri d’un mondo ignoto o mal noto, naturale o soprannaturale.

  Il suo romanzo «La pelle di zigrino» è fondato, come si sa, sulla trovata d’uno strano mercante d’oggetti d’arte e d’antichità che dona a un giovane disperato, avviato al suicidio, un pezzo di pelle di zigrino il cui possesso assicura il soddisfacimento di qualsiasi brama, ma a ogni brama soddisfatta si ristringe, fino ad annientarsi e a causare così la morte del possessore, il quale diventa in tal modo una specie di re Mida e non può amare se non sacrificando la vita. E un altro romanzo «La ricerca dell’assoluto», è il dramma d’un uomo che mette la sua famiglia sull’orlo della rovina per giungere con esperimenti chimici a scoprire l’unità della materia.

  A proposito di magnetismo, il medico poeta Giovanni Raiberti racconta in un suo scritto d’aver assistito in casa Porcìa a uno di questi discorsi di Balzac, il quale, vedendolo sorridere d’incredulità, fece un primo esperimento su un cameriere e non riuscì ad addormentarlo. Disse allora che occorreva un soggetto più debole, magari rachitico, e il medico si accordò con una specie di nano, gobbo dalle due parti, e glielo condusse; ma in tre faticose sedute l’ipnotizzatore se lo vide davanti sempre sveglio; solo nella terza accennò un momento ad abbassare le palpebre, ma per la comodità dello star a sedere che cominciava a conciliargli il sonno. Balzac ci rimase male e Raiberti se ne divertì, non pensando che cinquant’anni dopo l’ipnotismo sarebbe divenuto un capitolo della scienza. Il romanziere andava più avanti del medico; il quale scrisse anche un sonetto contro l’esagerazione delle feste e dei complimenti ond’era, secondo lui, affogato l’ospite illustre. La scienza nelle sue novità e nelle sue ipotesi attraeva la fervida utente dello scrittore, che era stato nell’adolescenza e in gioventù ed era ancora un gran lettore. Lavater e Gall, per esempio, lo interessarono grandemente e il Cantù riferisce che, recatosi a visitare il Manzoni, di cui forse non aveva letto il romanzo già famosissimo in Italia, gli parlò fra l’altro di cranioscopia.

  Intanto andava in giro per Milano e dintorni a veder opere d'arte, non di rado in compagnia della «piccola Maffei», e quella viva reciproca simpatia finì con ingelosire, fra una traduzione del tedesco e una dall’inglese, il marito di lei, Andrea Maffei, che scrisse una lettera alla moglie per dolersi di quella intimità e pregarla di non ricevere il francese se non quando c’erano anche altri nel salotto.

  Uguali ricevimenti a Venezia, dove si recò da Milano, uguale curiosità, uguali articoli nei giornali sul famoso «signor di Balzac», in cui poi le riserve o le critiche si accodano alle lodi. Insomma, un avvenimento. Ma l’acre Tommaseo, sempre pronto a inveire cristianamente contro chi non gli garbava, quel Tommaseo che s’era piaciuto di dar del gobbo a Giacomo Leopardi, scriveva da Parigi al Cantù: «Che il Balzac sia accarezzato costà mi duole più che d’una invasione di barbari ...», nientemeno! Aggiungeva che il romanziere era tenuto anche a Parigi «per cosa ridicola e bassa». E, scagliava vituperò alla «crassa galanteria milanese» e ai «quattro nobilucci scoglionati», accordandosi, senza volerlo, con «La Voce della Verità», il famoso giornale cattolico e antiliberale molto aspro contro uno scrittore difensore del trono e dell’altare.

  Ma il critico più violento fu Antonio Lissoni. che pubblicò in Milano una violenta «Difesa dellonore dell’armi italiane oltraggiato dal signor di Balzac nelle sue Scene della vita parigina e Confutazione di molti errori della storia militare della guerra di Spagna fatta dagl’italiani». Nella novella «Le Marana» dove una donna d’origine italiana, divenuta grande cortigiana, fa allevare con scrupolosa moralità in Ispagna, a Tarragona, la figlia Juana, che invece si lascia sedurre da un Montefiore nobile milanese, è descritta la presa di Tarragona dall’esercito francese per opera principalmente d’un reggimento formato quasi tutti d’italiani «mauvais sujets» ivi raccolti come oggi nella Legione straniera, onde il reggimento — secondo Balzac — «si fece una grande reputazione di valore sulla scena militare e la più detestabile di tutte nella vita privata». In quell’assalto fu ucciso – seguita la narrazione —, il loro celebre capitano Bianchi il quale durante la campagna aveva scommesso di mangiare il cuore d’una sentinella spagnola e lo mangiò».

  Il Lissoni, che aveva fatto la guerra di Spagna e aveva preso parte all’espugnazione di Tarragona, vide in quella novella, come in altre opere dello scrittore il vilipendio degl’italiani. Ho qui sotto gli occhi il raro opuscolo nel quale egli nega la cattiva reputazione di quei soldati italiani, ricorda che il capitano Bianchi era in realtà il valoroso e non antropofago sergente Bianchini, giudica falsa e oltraggiosa l’intenzione del capitano Montefiore, bello d’aspetto ma poco coraggioso, e osserva che anche nella novella inserita in «Altro studio di donna» si fa torto agl’italiani.

  In verità in questa novella il colonnello italiano, che uccide un colonnello francese in franco duello, è presentato come valorosissimo, benché d’una tremendi irascibilità, e ha soltanto il torto di disporre della moglie, messinese, d’un capitano piemontese ch’egli ha salvato da morte e per il quale appunto ha ucciso il crudele colonnello francese; l’ufficiale, oltraggiato dal sentire il suo salvatore chiamare a sé la moglie in presenza di tutti, si vendica bruciando lui e lei nella casa dove si trovano. Ma lì Lissoni se la piglia col Balzac, con la Francia, con la letteratura d’oltralpe ed esagera.

  Il Balzac amò l’Italia, e nelle sue opere mescolò italiani antipatici e simpatici ai simpatici e antipatici francesi. Non li trattò certo, ne’ suoi momenti di severità, peggio dei parigini. Prima di venire in Italia aveva maledetto, descrivendo un paesaggio dei dintorni di Parigi, i «poveri ricchi che, disgustati della nostra bella Francia, vanno a comprare a prezzo d’oro il diritto di disprezzare la loro patria visitando di galoppo o esaminando attraverso un occhialetto i luoghi di quell’Italia divenuta tanto volgare»; ma quando vi fu ne fece altro giudizio. Non pochi suoi romanzi e novelle hanno personaggi italiani trattati persino con ammirazione e sono dedicati ad amici e amiche e conoscenti italiani.

  A Genova è accolto cordialmente dal marchese Di Negro, ch’egli dice «fratello ospitaliero di tutti gli uomini d’ingegno che viaggiano», ed entra in relazione col marchese Damaso Pareto, altro francese «travestito da genovese». Per fortuna il seno delle donne genovesi non è una contraffazione della Francia.

  Onorina Pedrotti – dice nel romanzo omonimo – è una di quelle belle genovesi che sono le più magnifiche creature dell’Italia quando son belle. Per la tomba di Giuliano Michelangelo prese i suoi modelli a Genova, donde quella ampiezza, quella curiosa disposizione del seno nelle figure del Giorno e della Notte che tanti critici trovano esagerate ma che sono speciali delle donne liguri. A Genova la bellezza non esiste più ora che sotto il «mezzero», come a Venezia non si ritrova che sotto i «fazzioli». Fenomeno che si osserva presso tutte le nazioni rovinate». (Balzac pecca non di rado nel passare dal particolare al generale).

  A Roma s’interessa ai commenti danteschi (che tutti gli studiosi di Dante oggi conoscono) del principe di Teano don Michelangelo Caetani, o Cajetani com’egli scrive nella dedica a lui dei due romanzi «I parenti poveri» - fra i più forti della sua Commedia – in cui dice che da quei commenti egli ha veramente appresa la grandezza di Dante, «il cui poema è il solo che i moderni possano opporre a quello d’Omero», In quella dedica Balzac gli si professa riconoscente e ama congiungere il nome di lui a quello dei Porcìa, dei Sanseverino, dei Pareto, dei Di Negro, dei Belgioioso (ma della Belgioioso aveva scritto nelle sue lettere un giudizio ostile, pur avendole dedicato «Gaudissart II», un semplice articolo sull’arte di vendere; nomi, dice, che rappresentano nella «Commedia umana» l’intima e continua alleanza dell’Italia e della Francia», già consacrata dal Bandello «in quella magnifica raccolta di novelle da cui sono usciti parecchi drammi di Shakespeare, talvolta anche parti intere e testualmente».

 

I Medici della «Commedia umana.

 

  Ma particolarmente notevoli, in quella moltitudine di personaggi fra i quali gli stranieri non mancano per completare la visione più ancora d’un’epoca che d’un paese, sono alcuni dei molti medici che vi s’incontrano.

  Il romanziere fa circolare buon numero de’ suoi personaggi da un romanzo all’altro. La ricca serie è simile a una serie di sale in cui molti invitati si rincontrano più volte in varii casi e atteggiamenti, come nel ballo che è uno degli interessanti capitoli di «Cesare Birotteau», un altro de’ suoi maggiori romanzi. E il più circolante di questi invitati è senza dubbio il medico Orazio Bianchon che si ritrova un po’ da per tutto, con tratti i quali, raccolti, costituiscono una interessante biografia, dalla giovinezza povera e insieme studiosa e gaudente alla maturità illuminata dalla fama e onorata d’una cattedra.

  È un liberale, severo pei vizi dell’alta società, che però frequenta, e fedele amico di Rastignac, brillante ma cinico arrivista, per aver con lui vissuto gli anni difficili della giovinezza. Come in molti suoi colleghi della realtà – i migliori — la generosità non esclude il pessimismo. Nell’«Interdizione» — poderosa novella egli dice: «Quando ho voluto dare una stretta di mano alla virtù, l’ho trovata che tremava in una soffitta, perseguitata dalle calunnie ... tenuta per una pazza, una stramba o una bestia». Dice anche paradossalmente – «In qualità di medico so che la bontà dello stomaco esclude la bontà del cuore». E Rastignac l’impudente esclama: – Povero Bianchon! Egli non sarà mai altro che un galantuomo! —.

  Orazio Bianchon è un medico di molto acume e di molto sapere, che cura corpi e penetra nelle anime, che assiste ai drammi e alle commedie della vita, osservatore a volta a volta lepido e commosso e sa anche raccontare i drammatici o comici casi di cui è stato testimone. — «Credimi — dice a Rastignac – i medici sono in grado di giudicare gli uomini e le cose; i più abili fra noi confessano l’anima confessando il corpo».

  Balzac lo presenta materialista, ma lo ha caro anche perché rispecchia la sua inclinazione per le novità scientifiche. Per esempio, il dottor Bianchon afferma: «Ho accertato parecchi fatti relativi all’illimitato dominio che un uomo può acquistare su un altro. Io sono in contrasto con l’opinione di miei colleghi, interamente convinto del potere della volontà considerato come forza motrice. Ho visto, esclusi i compari e i ciarlatani, gli effetti di questa “possessione”.

  Gli atti promessi dal magnetizzato al magnetizzatore durante il sonno sono stati scrupolosamente compiuti nello stato di veglia. La volontà dell’uno era divenuta la volontà dell’altro», anche se l’imposizione aveva carattere criminale. Così certo parlava Balzac nel salotto del principe Porcìa a Milano quando il medico Raiberti si faceva beffe di lui col nano gobbo.

  Orazio Bianchon è il medico per eccellenza della «Commedia umana», degno di quel grande chirurgo Desplein, che vi figura come suo maestro e primeggia nella bellissima novella «La messa dell’ateo», apparsa tradotta or sono molti anni nelle pagine di questa rivista. A proposito di lui e della chirurgia Balzac dice inesattamente: «La gloria dei chirurghi rassomiglia a quella degli attori, che esistono soltanto da vivi e il cui talento non è più apprezzabile appena sono scomparsi». Egli dimentica l’insegnamento che rimane insieme col nome.

  Desplein «possedeva uno sguardo divino: penetrava il malato e la sua malattia con una intuizione acquisita e naturale che gli permetteva di comprendere le diagnosi proprie dell’individuo e determinare il momento preciso, l’ora, il minuto in cui bisognava operare» ... Ma l’uomo, «avvezzo sin dalla giovinezza ad anatomizzare l’essere per eccellenza, prima, durante e dopo la vita, a frugarlo in tutti i suoi organi senza trovarvi quell’anima unica, così necessaria alle teorie religiose», era ateo. E tuttavia il suo allievo Bianchon scopre per caso ch’egli va a sentire messa nella chiesa di San Sulpizio apprende da lui che, rispettando il desiderio di un povero portatore d’acqua a cui ha dovuto la possibilità di mantenersi agli studi, il quale « aveva la fede del carbonaio, amava la Vergine come se fosse sua moglie» e credeva nel benefizio delle messe per le anime dei morti, l’ateo riconoscente ha dato alla chiesa la somma necessaria per far dire quattro messe l’anno e va regolarmente a sentirle.

  Balzac tempera così l’ateismo, che avversa e che gli dispiace specialmente nei medici. Quindi nel «Curato del villaggio» fa convertire il giovane dottor Rouband, conquistato dall’eroismo cristiano della signora Graslin e dalla; bontà del curato Bonnet, uno dei parecchi preti esemplari immaginati ed esaltati dal romanziere che la gesuitica «Voce della Verità» dipingeva coi più foschi colori. E in «Orsola Mirouèt» (sic) il dottor Minoret, già amico degli enciclopedisti e di Robespierre e medico consulente dell’imperatore Napoleone, ritiratosi poi in provincia, dopo aver perduto moglie e figli, con Orsola, figlia d’un cognato, ch’egli adora, è prima convertito al magnetismo dal collega parigino Bouvard, col quale s’era rotto appunto per contrasto su quell’argomento, e che lo conduce alla presenza d’un misterioso personaggio, guaritore per fede, e d’una donna «medium» dalla quale apprende particolari straordinarii della sua casa lontana e dei sentimenti della sua pupilla, e poi al cattolicismo dalla tenerezza filiale e dalla religiosità della fanciulla.

  In questo romanzo, dove Balzac fa la più ampia e calda apologia del mesmerismo, è narrata anche la tragica fine dei parenti Minoret, ostilissimi all’orfanella per passione dell’eredità pericolante: lui travolto dalla propria carrozza, la madre impazzita dal dolore e portata a Passy nella casa d’alienati del dottor Blanche, padre di quel dottor Bianche che nella stessa casa ospitò e assisté Maupassant dopo la perdita della ragione.

  Medico di provincia tutt’altro che simpatico è invece nel romanzo «Una casa di scapolo» lavaro e duro dottor Rouget, sospettato daver amareggiata la vita della bella moglie, morta giovine, e innamoratosi in vecchiaia d’una bellissima ragazza di campagna detta «la rabouilleuse» perché occupata a cercar gamberi nei rivi e nei fossi; la quale diventa la serva padrona, poi, morto il dottore, si fa sposare dal figlio e lo obbliga a sopportarne la tresca con un giovane sfruttatore.

  Uno strano medico, introdotto a curare una strana malattia, è l’ebreo polacco Mosè Halpersohn, uomo freddo, che si fa pagar bene, ma che è considerato possessore d’una scienza in parte misteriosa. «S’ignora in Europa dice Balzac con la sua solita sicurezza affermativa che i popoli slavi posseggono molti segreti; hanno una collezione di rimedi sovrani, frutto delle loro relazioni coi cinesi, i persiani, i cosacchi, i turchi e i tartari. Certe contadine, che passano per fattucchiere, guariscono radicalmente la rabbia in Polonia con succhi d’erbe». (Superfluità di Pasteur!). Halpersohn poi «possiede una borsa di seta che immerge nell'acqua per colorarla leggermente e certe febbri cedono a quell’acqua bevuta dal malato».

  È chiamato a curare la figlia del barone di Boulac, abbandonata dagli altri medici, giacente da anni in un letto dove ha crisi spaventose che la fanno abbaiare come un cane e tra una crisi e l’altra ha a volte ancora l’uso delle mani ma non dei piedi; la più grave delle numerose malattie descritte nella Commedia umana, alcune delle quali non hanno, secondo il romanziere, trovato ancora un nome nella medicina. Halpersohn il nome lo conosce: si chiama la «plique», malattia polacca. E riesce quasi miracolosamente a guarire l’inferma, figlia d’una polacca.

  Impotenti invece sono i quattro medici chiamati a curare Raffaele de Valentin, il protagonista di «La pelle di zigrino». Come s’è detto, il giovane è in balia d’un fantastico pezzetto di pelle donatogli da uno strano mercante, un terribile talismano che consente al possessore la soddisfazione di qualsiasi suo desiderio, ma a ogni soddisfazione la pelle si ristringe e a mano a mano che si ristringe il possessore si avvicina alla morte. Infatti egli muore nell’atto di abbracciare la donna amata.

  C’è da domandarsi se Balzac volesse soltanto dar libero corso alla sua immaginazione in una favola drammatica o credesse alla possibilità d’un siffatto portento, che ha tutta l’aria piuttosto d’un simbolo. Bisogna, a ogni modo, tener presente che, prima della diffusione dei racconti del Poe in Francia, egli diede saggi anche di una non dissimile letteratura tragica e fantastica, come nelle novelle «La Grande Bretèche», in cui un marito convinto che la moglie ha nascosto l’amante in un gabinetto ne fa murare la porta, impedendo la liberazione – che ricorda «Il barile d’amontillado» dello scrittore americano —, e «L’elisire di lunga vita», in cui un padre sul punto di morte confida al figlio la boccetta d’un liquore che ravviva ciò che tocca e il figlio non ravviva che un occhio ed egli stesso, morendo, è ravvivato soltanto assai parzialmente.

  D’altra parte si può ricordare che Balzac, quando fece lo sproposito di comprare la «Chronique de Paris», era convinto di arricchirsi perché si trovava in possesso del «Beduck», pietra incastonata in un anello con incisa in caratteri arabi la parola «beduek». Era il regalo fattogli a Vienna da un orientalista e Balzac affermava di averne esperimentato il magico potere. Bizzarro carattere, probabilmente egli la dava a intendere agli altri e anche, prima di tutto, a se stesso.

  Il consulto dei quattro dottori sullo strano male di cui soffre il possessore della pelle di zigrino è un po’ la satira delle discordanti teorie mediche. «Tre di quei dottori portavano con sè tutta la filosofia medica, rappresentando la battaglia che si danno fra loro la Spiritualità, l’Analisi e non so che Eclettismo beffardo. Il quarto era Orazio Bianchon, uomo pieno d’avvenire e di scienza, il più ragguardevole forse dei medici nuovi, saggio e modesto rappresentante della gioventù studiosa ...». La dotta conversazione dei tre è d’una gravita che riesce comica e la conclusione si riduce a modesti suggerimenti terapeutici già messi in uso dal quarto, Bianchon, che è il medico curante, e al consiglio di recarsi alle acque di Aix in Savoia. Lì i frequentatori lo prendono in uggia, lo fuggono, vogliono bandirla. Ed ecco l’amena macchietta del medico di stazione termale che deve badare prima di tutto alla prosperità dello stabilimento e quindi alla soddisfazione della clientela. Egli tiene a Raffaele un bel discorso per convincerlo che vivrà gli anni di Matusalemme a patto di evitare l’aria troppo ossigenata, che accelera ne’ suoi deboli polmoni la combustione; quindi gli consiglia di andarsene nella «brumosa Inghilterra».

  Lunga lista si farebbe dei seguaci d’Esculapio sparsi in tutti i romanzi e in tutte le novelle della vastissima opera. Basti qui chiudere la rapida rassegna col ricordo del dottor Benassis, protagonista del romanzo intitolato appunto «Il medico di campagna», un vero poema di bontà, di saggezza, d’intelligenza dedicato alla celebrazione del medico, del modesto medico di villaggio che considera veramente la professione come una missione. In una valle della Francia dove è un angolo senza sole in cui vegetano e muoiono i cretini, il dottor Benassis, che vi si è rifugiato dopo una tragedia finita con la morte dell’amante male abbandonata e del figlio, intraprende, lottando contro la superstizione e la testardaggine degli abitanti, il trasporto dei cretini in altro luogo e il risanamento della zona che diventa fertile e prospera. Suo compagno nell’opera generosa il curato. Il medico e il prete vi appaiono veramente i sostegni d’una vita sociale sana, laboriosa e decente.

  E questo era lo scrittore che certi critici italiani d’allora dicevano immorale.

 

Il titano abbattuto.

 

  Ma allora si era esigenti, a ragione e più spesso a torto. Nella prima lettera che la signora Hanska scrisse anonima, o fece scrivere dall’istitutrice della figlia ella esprimeva bensì l’ammirazione per il grande romanziere, ma insieme gli rimproverava di essersi lasciato andare nel romanzo «La pelle di zigrino» a descrivere una specie d’orgia, un banchetto d’intellettuali con intervento di cortigiane in voga, durante il quale, specialmente dopo le copiose libazioni, i convitati esprimono opinioni che potevano ben apparire scandalose, ma che erano le loro e non dell’autore.

  Da quella fine di febbraio del 1832 in cui egli ebbe la prima lettera della «Straniera» cominciò una corrispondenza amichevole che divenne ben presto amore, più ardente, si capisce, nell’uomo meridionale (la famiglia di Balzac era d’origine provenzale, sebbene egli fosse nato a Tours) che in quella donna polacca, in quella contessa Evelina Rzewuska, maritata col signor de Hanski, la quale era stata presa, per così dire, piuttosto alla testa che al cuore.

  Nata verso la fine del 1801, la Praedilecta era andata sposa diciannovenne a quel ricchissimo signore maturo d’anni e di salute non gagliarda, che se la portò nella sua villa di Vierzchownia a vivere una vita solitaria e noiosa, nonostante la nascita di ben sette figli, dei quali sei morirono nell’infanzia e una sola sopravvisse alla madre.

  Conforto delle donne elle si annoiano la lettura; lettura preferita della signora Hanska le opere di Balzac; donde la corrispondenza e la relazione. Questa era già amore l’anno seguente, quando egli poté incontrarla in Svizzera a Neuchâtel. Scrisse poi alla sorella celebrando la bellezza della «ventisettenne», che in realtà aveva quasi trentadue anni, dicendola così imprudente da gettargli le braccia al collo in presenza d’altri. «Quanto al marito, in cinque giorni non ci ha mai lasciati un secondo. Non importa ... l’abbiamo mandato a occuparsi della colazione; ma eravamo in vista e allora, all’ombra d’una grande quercia, è stato scambiato il primo furtivo bacio dell’amore. Poi, giacché il marito s’avvia verso la sessantina, io ho giurato d’aspettare ed ella di riservarmi la sua mano, il suo cuore».

  Tutto calcolato. Il povero signor de Hanski, divenuto, da marito classico, buon amico dell’amico di sua moglie, cadde più tardi inalato di paralisi progressiva e morì nel 1841, Ma dovettero passare quasi altri nove anni prima che la vedova, ch’egli era andato più d’una volta a visitare nella villa di Vierzchownia («grande come il Louvre» scriveva il magnificatore, ma non aveva che una trentina di stanze), si decidesse a mantenere la promessa.

  Volle prima maritare la figlia, poi bisognò ottenere il permesso dello Zar, necessario per le nozze con persona straniera, che fu in principio rifiutato e poi concesso quando ella cedette tutti i suoi beni alla figlia e non ritenne che una rendita d’usufrutto. Si sospettava, forse non del tutto a torto, che nell’amore del romanziere avesse un tantino di posto anche la ricchezza della fidanzata. E finalmente il 14 marzo 1850 il matrimonio ebbe luogo.

  Egli aveva cinquantun anni, ella quarantotto. Ella non godeva d’una gran buona salute (morì quattro anni soltanto dopo il marito [sic]). A nozze avvenute lo sposo scriveva a sua sorella: «Disgraziatamente ella è afflitta, son già parecchi anni, da un male dei più dolorosi, una gotta artritica ... I piedi e le mani si gonfiano al punto da non permetterle di muovere le dita e camminare ...». Ed egli era un uomo finito.

  Nei lunghi mesi che si fermò presso la fidanzata il rigido clima settentrionale aggravò la malattia di cuore che lo faceva soffrire già da parecchi anni e di cui attribuiva le origini e il peggioramento — come abbiamo visto — a patemi amorosi e politici (la duchessa di Castries e la rivoluzione del ‘48) ma che doveva sopra tutto all’eccesso di lavoro.

  Fu detto da qualche biografo che Balzac morì vittima delle sue cinquantamila tazze di caffè. A Fontenelle, che raggiunse i novantanove anni, qualcuno raccomandò di smettere l’uso del caffè: — Il caffè è un lento veleno —. — Che sia lento me ne accordo rispose il filosofo secolare. In verità ogni costituzione fisica ha un vario potere di resistenza. Balzac d’altra parte non prendeva il semplice caffè che generalmente si usa, ma dei terribili estratti, che dovevano contenere forti dosi di caffeina, per tenersi sveglio e di cervello alacre nelle lunghe ore di lavoro.

  Il lavoro lo abbatté. Egli andava avanti a scrivere fin diciotto ore al giorno. Spesso si metteva a letto alle sei di sera per alzarsi a mezzanotte, riprendere fino a mezzogiorno il compito immane e poi passare quattro ore a correggere le bozze: uno sforzo, un disordine che anche nei più robusti la natura punisce. Se si pensa alla mole della sue opere (sic), di cui romanzi e novelle sono la maggior parte, ma non tutta; se si pensa alla molta altra letteratura anonima della sua giovinezza; e se si pensa inoltre che ogni scritto era riveduto, rimaneggiato — il «Papà Goriot», uno de’ suoi capolavori, fu rifatto diciassette volte — si rabbrividisce a una impressione di gigantesco sacrifizio. Egli fu lo schiavo del bisogno che lo attanagliava coi perpetui debiti cagionati da una smoderata passione del lusso e delle speculazioni affaristiche, ma anche lo schiavo del suo cervello vulcanico sempre in eruzione creativa.

  Le raccomandazioni e gli ammonimenti del suo vecchio amico, il dottor Nacquart, non ci poterono nulla. In Russia dove star ancora in letto dopo le nozze e giunse a Parigi alla fine di maggio con la sposa semidisfatto dal lungo viaggio. Arrivò di sera alla palazzina che aveva comprata, restaurata e suntuosamente mobiliata per la sua Eva e dovè chiamare un fabbro per farsi aprire: il servo non veniva alla porta perché era impazzito.

  Ricaduta. Agonia. Nell’agonia il creatore invocava, come fosse reale e viva, una delle sue creature, il medico Orazio Bianchon: — Chiamate Bianchon ... chiamate Bianchon ... Bianchon mi salverà ...

  Morì il 18 agosto 1850, entrato già da un pezzo nella immortalità.

  Dopo un secolo la sua fama non è impallidita, sebbene i suoi romanzi non siano ricercati come una volta, specialmente dalle signore avvezze alla più spiccia letteratura amena dei nostri tempi. Gli «studi» di questo «dottore in medicina sociale» richiedono un’attenzione e si potrebbe quasi dire una resistenza che non è di molti. Le sue lunghe descrizioni, le sue riflessioni e digressioni, quella sua arte di penetrare lentamente, cominciando dal paese, dalla via, dalla casa nello spirito e nella condotta dei personaggi, possono stancare. La sua prosa non è elegante, sebbene qua e là ricca di colore. Flaubert, che ne riconosceva la grandezza, dal punto di vista dello stile quasi non lo considerava uno scrittore. I suoi personaggi principali sono a volte, nella loro verità, «più grandi che natura». Diventano, da tipi, prototipi.

  E un mondo vive ancora e s’illumina intorno al suo nome. Maupassant ha detto di lui: «È un inventore prodigioso ben più che un osservatore: solamente divinava sempre giusto».



 Asterischi. Commemorazione di Balzac, «Giornale di Trieste», Trieste, Anno IV, N. 975, 24 maggio 1950, p. 2.

 

 La Società artistico-letteraria ha organizzato per domani alle 19, nella sala dell’ENAL in via San Nicolò 5, un convegno dedicato alla letteratura francese. Ecco il programma: 1) «Balzac, dottore in medicina sociale», conversazione commemorativa nel centenario della morte tenuta dal prof. Guido Gioseffi; [...].

 

 

  Corriere milanese, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 146, 21 giugno 1950, p. 2.

 

  Agli Amici della Francia, in corso Vittorio Emanuele 31, questa sera, alle 21,15, Samuel de Sacy parlerà sul tema: «Balzac et le mythe de l’aventurier».

 

 

  In memoria di Balzac, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 143, 17-18 giugno 1950, p. 1; 1 ill.

 

  In memoria di Honoré de Balzac, questa vecchia diligenza dei tempi del grande romanziere effettuerà un servizio di due settimane per le vie di Parigi, dal Café des Deux Magots, in Saint-Germain-des-Prés, fino alla piazza della Bastiglia e alla Maddalena.

 

 

  Balzac e la duchessa, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 217, 22-23 giugno 1950, p. 1; 1 ill.

 

  La folla circonda la vettura che trasporta a Saint-Germain-des-Prés il signor Suarnet e la signora Alice Cocea che, con indosso i costumi del tempo, incarnano Honoré de Balzac e la duchessa di Langleais (sic). La gentile rievocazione del grande scrittore, di cui ricorre quest’anno il centenario, è stata organizzata dai commercianti del Boulevard Saint-Germain.

 

 

  Pettegolezzi di un secolo fa. Insuccesso di Balzac come ospite milanese, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 159, 6-7 luglio 1950, p. 2.

 

  Quando, nel lontano febbraio 1837, Onorato di Balzac capitò a Milano, la Gazzetta Privilegiata ne dava l’annuncio ufficiale nella rubrica degli «ospiti illustri», e Defendente Sacchi, pochi giorni dopo, in una Notizia letteraria, scriveva testualmente: «La nostra città accoglie da due giorni fra le sue mura il signor Balzac, lo scrittore francese che in pochi anni fece il maggior numero di opere che descrivono in ogni maniera la vita dell’uomo e la società; quello che è anche più popolare fra noi, perché i suoi scritti corrono nelle mani di tutti, in originale e tradotti».

  Se è vero che una certa notorietà Balzac godesse già anche da noi, se è vero che egli fu ricevuto nei più eleganti e colti salotti, festeggiato ed esaltato, se è vero che s’arrivò sui giornali di mode a proporre «una moda alla Balzac», è forse più vero ancora che la parte intellettualmente più sana e più seria della società del tempo finì per averlo in uggia. Anzi vi fu chi lo giudicò un «vanesio fanfarone», chi biasimò l’eccessiva sua parzialità per i suoi compatrioti, la continua esaltazione apologetica di sè stesso, le sue manie, il bastone dalla vistosa impugnatura, i panciotti sgargianti, la veste da camera bianca a foggia di tonaca da frate ...

  E, quanto all’eleganza, poi, bisogna rifarsi ai vapori di certe damine del tempo, vere preziose ridicole, perché è noto il giudizio che dello scrittore francese, o meglio del suo aspetto fisico, diede Chateaubriand quando lo vide per la prima volta: «aspetto da panettiere, modi da ciabattino, corpo da bottaio, camminata da venditore ambulante, abiti da bettoliere ...». Ce n’è per tutti i gusti, tranne quello di farne un figurino d’eleganza! Ma, a parte l’eccentricità dello scrittore, quello che maggiormente finì per disgustare gli intelligenti e, si può dire, tutta l'aristocrazia milanese, fu la sua boria di pretta marca parigina. La quale rifulse in modo veramente disgustoso allorché Balzac volle, non richiesto, esprimere un parere sui Promessi Sposi, romanzo del quale egli aveva letto soltanto quattro o cinque pagine. Il giudizio provocò tanti commenti e così violente satire, persino in versi, che la popolarità e la simpatia verso lo scrittore francese declinarono ancor più rapidamente di quanto fossero nate per la deplorevole piaggeria di una parte del mondo cosiddetto intellettuale del tempo.

  Balzac andò a far visita al Manzoni e i particolari dell’incontro fra i due romanzieri fecero per molto tempo le spese delle conversazioni nei salotti milanesi, suscitando i più disparati commenti. Chi per poco conosca l’indole tanto opposta dei due può ben figurarsi cosa poteva uscire da un tal colloquio.

  La conversazione fra Onorato di Balzac e Manzoni si era specialmente aggirata intorno ad argomenti che a quel tempo si chiamavano volentieri filosofici, e che per primo lo stesso Balzac aveva toccato, e cioè sul «sistema empirico», che allora dominava in Francia, a cui si contrapponeva la scuola spiritualistica tedesca, e naturalmente lo scrittore francese aveva esposto le ragioni della propria preferenza per la prima. Alessandro Manzoni non era stato un contraddittore eloquente: evidentemente egli si sentiva troppo lontano da uno scrittore tanto diverso da lui; lasciò che l’altro parlasse, e così, quando Balzac ebbe dato pieno sfogo ai suoi sentimenti, il discorso andò morendo. Probabilmente, il Manzoni ritenne che una discussione in argomento lo avrebbe condotto molto lontano, e non avrebbe scosso l’altro da opinioni troppo aprioristicamente radicate per poter essere rimosse. Egli fu preso da uno di quei momenti di egoistica pigrizia mentale, in cui lasciamo discorrere gli altri, sempre più convinti nell’intimo delle nostre buone ragioni: lasciò che l’impetuoso torrente dell’altro precipitasse, senza scatenare il suo.

  Balzac deve aver tratto dalla conversazione un’idea del tutto errata; nella sua fatuità, non comprese il severo e alto ingegno del suo competitore, la presunzione smodata di sè gli vietò quella serenità coscienziosa che pure in un uomo del suo ingegno doveva essere un obbligo. E fu così che arrivando più tardi a Venezia, invitato a pranzo dalla contessa Mocenigo Soranzo, parlerà del grande romanziere italiano con tanta supponenza, da provocare il noto e giusto risentimento dei veneziani, le pungenti satire del poeta Nalin che gli darà l'appellativo di «lasagna», le rampogne del Fusinato e le proteste dei giornalisti, espresse in una acerba critica di Tullio Dandolo, sulla Gazzetta di Venezia.

  Per contraccolpo, le ire si scatenarono ancor più furibonde a Milano, tanto che il Balzac, accortosi tardi dell’errore e della propria grossolanità, scriveva alla contessa Maffei, pregandola di trasmettere al «collega lombardo» le sue scuse. A poco giovarono, non presso il Manzoni, che aveva ragione di infischiarsi del gradasso francese, ma presso la società in cui aveva sperato di lasciar di sé simpatico ricordo. Di lui fu detto infatti: «Come scrittore incanta, in politica è biasimevole, in società è un gran farfallone».

 

 

  Centenario di un genio. Balzac nel salotto della contessa Maffei, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 195, 18-19 agosto 1950, p. 2.

 

  Cento anni fa, il 18 agosto, moriva a Parigi Onorato di Balzac, il più vulcanico e il più vorticoso dei romanzieri francesi del secolo XIX, quello che fu definito un Bonaparte letterato senza deposizione e senza Waterloo. I contatti che ebbe con Milano questo grande scrittore rimasero memorabili: tutta la società intellettuale del tempo, quando egli capitò qui, fu di lui incantata anche senza conoscerne profondamente le opere, ma così, per posa, per vezzo, per quella forma di estetismo un po’ servile che fin da allora si aveva per lo straniero, moda non puranco abbandonata a tutt’oggi. Prima che arrivasse era aspettato con ansia, con ambizione, oseremmo dire con orgoglio, quasi che fosse una degnazione per lo scrittore visitarci. E il soggiorno milanese lasciò strascichi clamorosi per certe note intemperanze di giudizio attribuitegli a proposito dei letterati italiani in genere e del Manzoni in ispecie.

  Scendendo a Milano, il 13 (sic) febbraio 1837 — aveva allora 38 anni — Balzac si presentò subito alla contessa Maffei, la dama del celebre salotto immortalato dal Barbiera, la quale gli spalancò le braccia dicendo: «j’adore le genie!». Fisicamente c’era poco da adorare: la contessa Fanny Sanseverino Porcìa aveva già da Parigi prevenuto la Maffei: «Se lo immaginate grande, snello, pallido, scarno, con una fisionomia che è già un’ispirazione, disilludetevi: è piccolo, grasso, paffuto, rotondo, rubicondo, con due occhi negri e scintillanti, focoso nel dialogo com’è la sua penna». Agli uffici di polizia, nel registro degli stranieri, egli si qualificò «possidente». Vanteria inutile perché se parecchi fra i colti conoscevano i suoi romanzi, molti di più erano quelli che sapevano come la sua vita fosse una tribolazione continua, in eterna lotta coi creditori, immerso fino alla gola nei debiti per speculazioni che immaginava redditizie e nelle quali s’ingolfava audace, ignaro, mal pratico.

  Editore, stampatore, fonditore di caratteri, proprietario di giornali, tutto tentò, i più disparati mestieri, gli impieghi più impensati. Egli stesso si dipinse nel Mercadet. A Milano si sapeva tutto questo, e si esagerò nel giudizio dell’uomo. Un giornale teatrale, La Fama, arrivò a stampare che Balzac era venuto a Milano evaso dalle carceri di Parigi, ove era prigioniero per debiti. Non era vero, ma erano veri i debiti nè egli si peritò di accenderne anche a Milano persino con le sue ammiratrici, una delle quali fu la duchessa Litta-Bolognini, che si lamentava con la Maffei per le continue richieste di danaro dello scrittore. Ma a Milano, durante il soggiorno di Balzac, non si parlava che di lui, tutti volevano vederlo o pretendevano di averlo visto e di avergli parlato. Erano oggetto di curiosità, di interessamento, di ammirazione i suoi panciotti sgargianti, il suo bastone da passeggio che aveva un’impugnatura formata da una palla tempestata di pietre preziose — si affermava — che gli serviva probabilmente da tabacchiera e nella quale era il ritratto «di una bellissima donna».

  Aveva sì una conversazione brillante, ascoltava però più volentieri che discorrere, e poi ogni qual tratto si addormentava, nonostante bevesse caffè, non a tazze ma, a caffettiere, o si immergeva in pensieri profondi, dai quali si distoglieva di scatto, con una fragorosa risata, per conto suo. Bizzarro era: rimase celebre persino la sua veste da camera, una lunga tunica da certosino, con cordone e cappuccio. In tale abito claustrale lo ritrasse a Milano, in una statuetta di scagliola, lo scultore Alessandro Puttinati, e tutte le dame volevano averla. La Maffei, allora da poco sposata col conte Andrea Maffei, letterato di autentico valore, fu effettivamente presa dal fascino di Balzac al punto di suscitare una segreta e penosa gelosia nel marito, che un giorno le indirizzò una affannata e affettuosa lettera, più da padre che da marito, con la quale la scongiurava di allentare le sue premure per lo scrittore francese, perché non ne fosse tocca la reputazione di lei. Non mancò ai suoi doveri di moglie la Maffei, ma indubbiamente, quando Balzac rivalicò le Alpi, il buon Maffei dovette tirare un respiro di sollievo ... Non fu certo per questa fiammata senza scottature che, in seguito, il Maffei si separò dalla intelligentissima moglie: fu una incompatibilità indefinibile che restò indefinita, e sulla quale lo stesso Maffei, rimasto amico anche separato, scherzava. Poiché egli era un uomo alto di statura, e lei era una donnina graziosa e minuta, a chi gli chiedeva come mai lui così grande e grosso avesse sposato una donna così piccina, rispondeva: «Perché quando si prende moglie occorre prenderne il meno possibile ...».

  Con la Maffei, Balzac visitò Brera, volle andare a Saronno a rimirarvi i delicati affreschi di quel Raffaello della Lombardia che è il Luini. Era entusiasta del Duomo di Milano, ma anche delle donne milanesi, davanti alle quali diventava un lirico esplodente. Convertitosi al magnetismo (che allora era in voga col clamoroso Meismer (sic) e che è poi l’attuale radiazione delle mani di cui molti si credono in possesso), si vantava di aver magnetizzato, non le donne, ma un lustrascarpe del corso di Porta Orientale (l’attuale corso Venezia).

  Morì a 51 anni dopo una produzione di romanzi copiosissima, nei quali l’anima umana non è mai stata più acutamente e profondamente studiata.

 

 

  Taccuino del mondo, «L’Umbria. Quotidiano del mattino», Perugia, Anno II, N. 203, 1 Settembre 1950, p. III.

 

  Anche i giornali di Mosca hanno pubblicato di questi giorni articoli in onore di Balzac ricorrendo il centenario della morte. Tutti sono naturalmente concordi nell’affermare che Balzac ha alzato la voce contro lo intollerabile dominio borghese. Il «Trud» scrive: «L’influenza corruttrice dell’oro e della criminale morale borghese smascherata da Balzac è oggi documentata dalla prepotenza americana che impone un imperialismo al popolo francese».

  E le «Isvestia», organo del Governo: «Il sistema capitalistico, energicamente denunciato da Balzac, sarà sconvolto in tutto il mondo come voleva il grande scrittore». Ma se Balzac, dicono a Parigi, non ha avuto altra aspirazione nella vita che quella di diventare un capitalista!

 

 

  Letteratura sul lastrico. Nobiltà e tradizione della bancarella del libro, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 212, 7-8 settembre 1950, p. 2.

 

  I compratori di libri sono In maggior numero che voi non pensiate, e i libri s’adoperano a più usi che voi non pensiate. Consolatevi. Questa filosofia di circa duecento anni fa vale ancora, soprattutto per quanto riguarda gli scarsi beni di fortuna dei letterati in genere. Ne seppe qualcosa anche Balzac quando confessava alla futura moglie, la contessa Hanska, d’aver venduto un suo romanzo ad un ex-cappellaio il quale, pubblicandolo col proprio nome e dedicandolo a Luigi Filippo, poteva ottenere una ... onorificenza che costituiva la maggior aspirazione della sua vita ...

 

 

  Libri, «La Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXIII, Numero 260, 19 Settembre 1950, p. 3.

 

  Onorato De Balzac, I capolavori della Commedia Umana: I. Papà Goriot, Il colonnello Chabert. Un tenebroso affare. Facino Cane. Sarrasine. con Introduzione di P. P. Trompeo (pp. XII-484. rileg. L. 1800) - Casa Ed. Casini. Roma 1050. — Balzac è il fondatore del romanzo moderno, e rimane tuttora il più potente creatore di figure ed il più efficace descrittore di ambienti della letteratura narrativa di tutti i tempi. Ma l’opera di Balzac è di una mole tale, ed in tanti parti è divenuta talmente caduca, che la sua conoscenza appare ormai ardua per il lettore moderno. Questa scelta della «Commedia Umana» condotta con precisi criteri estetici e critici, intende offrire al lettore d’oggi il fiore immortale della complessa opera balzacchiana, e quanto di essa è veramente immortale. Una guida affascinante e perfetta allo studio di Balzac è la recentissima biografia di Stefan Zweig. Balzac, pubblicata dall’editore Mondadori nei quaderni della «Medusa» con una introduzione di Lavinia Mazzucchetti (pp. 395. L. 300 —.).

 

 

  La caffettiera di Balzac, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 278, 23-24 novembre 1950, p. 4; 1 ill.

 

  La celebre caffettiera di Balzac che, insieme con altri numerosi cimeli, è stata presentata all’esposizione organizzata nella Biblioteca nazionale di Parigi in occasione del 100° anniversario della morte del grande scrittore.

 

 

  Corriere Milanese, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 296, 14-15 dicembre 1950, p. 2.

 

  Alla Famiglia Meneghina, in via Meravigli 7, per iniziativa della Lega Italia-Francia, domani sera, venerdì, alle 21,15, Bruno Revel parlerà sul tema: «Balzac dopo cento anni».

 

 

  Marco Agnello, Il centenario della morte di Balzac. Non è ancora chiarito il mistero della camera azzurra, «Giornale dell’Emilia», Bologna, 10 giugno 1950, p. 3.

 

  Tra i tanti misteri della vita di Balzac, vi è anche quello della sua morte, che un recente biografo ha definito «il mistero della camera azzurra». La camera azzurra era quella nella quale Balzac morì il 18 agosto 1850 qualche mese dopo il suo ritorno dal viaggio in Polonia dove aveva sposato la «straniera», la contessa Hanska.

 

I rapporti con la straniera.

 

  Questi ultimi due anni, il 1849 e il 1850, sono stati una insuperata risorsa per i biografi e per i critici di Balzac. L’anno scorso la Francia ha celebrato i centocinquanta anni della nascita dell’autore della «Commedia Umana», e quest’anno essa ne celebra il centenario della morte. Numerosi volumi sono usciti su Balzac, di critica, di bibliografia, biografici, di curiosità, eccetera. Anche molti inediti hanno visto la luce, specialmente il seguito della corrispondenza con la «straniera», per il periodo riguardante, appunto, il viaggio in Polonia, il matrimonio e il ritorno a Parigi.

  I biografi e i cacciatori di curiosità e di aneddoti hanno rovistato in tutti i cassetti, in tutti gli armadi, in tutti gli angoli polverosi pur di cogliere un aspetto nuovo o inedito di Balzac. Così l’uomo è stato messo impudicamente a nudo, e la sua vita intima, quella che ogni individuo ama tener segreta, è stata frugata e esplorata con crudele curiosità.

  Naturalmente, i rapporti tra Balzac e la «straniera» hanno attirato in modo speciale l’interesse dei biografi. La vita amorosa e la vita coniugale di un grande scrittore rappresentano miniere preziosissime, e pressoché inestinguibili di pettegolezzi e di piccoli scandali quotidiani.

  Balzac aveva dovuto attendere venti anni per realizzare il suo sogno d’amore. La contessa Hanska era sempre riuscita a tenere in rispetto il suo ardente corteggiatore e spasimante. Finchè il matrimonio, celebrato quando Balzac era vicino alla cinquantina, mise fine a questa tortura. Ma lo scrittore fu felice nella sua nuova esistenza? La condotta di madame Hanska prima e dopo il matrimonio è stata, da certi biografi d’oggi e da alcuni contemporanei di Balzac, severamente criticata. Donna estremamente enigmatica, la chiave del suo carattere ardente si troverebbe, secondo alcuni, nella esaltazione e nel disordine della sensibilità slava. E, si aggiunge, solo un compatriota, un polacco, potrebbe scrivere di lei una biografia che sia anche una interpretazione psicologica.

  In attesa, però, di questa riabilitazione morale e psicologica della contessa Hanska, negli ultimi anni signora Balzac, ella continua a non avere una buona stampa in Francia.

 

“Mi umilia. Non andrò”.

 

  Per esempio, in occasione del doppio anniversario balzacchiano, è stato rispolverato dalle biblioteche un volumetto di Octave Mirbeau, nel quale questo scrittore dubbioso rivelò l’atroce retroscena della morte di Balzac. Nel libro di Octave Mirbeau intitolato La 628-E8, vi era un capitolo dedicato alla morte di Balzac. La figlia di madame Hanska, che viveva ancora nel 1907, quando l’edizione del libro uscì, protestò violentemente asserendo che la narrazione era falsa e calunniosa nei riguardi di sua madre. Mirbeau decise di sopprimere il capitolo incriminato nella seconda edizione del suo libro. E così fu.

  Un giorno, nel suo studio, il pittore Jean Gigoux raccontò a Octave Mirbeau la morte di Balzac nella terribile giornata del 18 agosto 1850. Quel che ha scritto Victor Hugo, nelle Cose Viste, a proposito della morte dell’autore della Commedia Umana, non è esatto, secondo Jean Gigoux, al dire del quale Balzac è morto solo, abbandonato da tutti, come un cane. Il giorno della sua morte nessuno dei suoi amici venne avvertito.

  Balzac era tornato dal viaggio in Polonia ammalato di arterio-sclerosi, procuratagli, secondo alcuni, dal suo lavoro folle e dall’abuso di caffè, da un male specifico, secondo altri. I dispiaceri avevano fatto progredire il male, e Balzac era terribile a vedersi. Le frequenti iniezioni non servivano a nulla, e i medici lo consideravano ormai spacciato. Il 18 agosto solo il dottor Nacquart era al suo capezzale. Gli domandò più volte se voleva vedere qualcuno, ma Balzac rispose sempre di no, e non parlò mai della moglie, come se non esistesse per lui.

  La moglie, in quel momento, vestita con un pigiama rosso scarlatto, si trovava nell’altra stanza insieme al suo amante, il pittore Jean Gigoux, autore appunto del racconto. Gigoux cercò inutilmente di convincere la donna ad entrare nella stanza dove Balzac stava morendo: «E’ così duro verso di me, rispose la donna. Non fa nemmeno attenzione alla mia presenza. Mi umilia. No, non andrò».

  Gigoux le disse allora che la gente avrebbe malignato sulla sua condotta, e che gli amici di Balzac non avvertiti sarebbero stati assai duri verso di lei. Madame Hanska sembrava più annoiata che addolorata. Ella temeva soprattutto Victor Hugo. L’infermiera che si trovava al capezzale di Balzac recava di tanto in tanto le notizie sui progressi dell’agonia. Balzac aveva perduto la conoscenza, e il suo corpo puzzava terribilmente. «Non ho mai sentito una cosa simile», diceva la infermiera che pensava di scoraggiare la moglie dall’entrare nella stanza, dove il moribondo rantolava solo solo.

 

“Il signore, è morto”.

 

  Alle dieci e mezza di notte l’infermiera bussò alla camera da letto della signora Balzac. «Signora, disse, il signore sta per morire». La moglie non discese dal letto. E poco più tardi, l’infermiera tornò, bussò nuovamente per dire: «Il signore è morto».

  «Lasciatemi confessare una cosa inaudita, disse a questo punto il pittore, una cosa inesplicabile. Non è per scusarmi o per difendermi. Vi assicuro che quel «Monsieur est mort» non evocò in me, in un primo momento, nulla di preciso e nulla di formidabile. Non vi associai l’idea di Balzac. Nono vivi erigermi immediatamente la colossale figura di Balzac, gli occhi chiusi, la bocca chiusa, raffreddata per sempre. No, ero talmente fuori di me, fuori da ogni conoscenza e da ogni verità, ero annegato in tali tenebre morali che quella notizia gridata dietro una porta e che l'indomani si sarebbe diffusa in tutto il mondo non mi fece una impressione maggiore che se avessi appreso che un uomo qualunque, uno sconosciuto, era morto. Io non mi dissi «Balzac è morto», ma piuttosto mi domandavo: «Chi dunque è morto? Meglio, non mi chiesi assolutamente nulla. Per un eccezionale fenomeno di amnesia avevo dimenticato veramente che mi trovavo, nel momento stesso in cui egli moriva, nella casa, nel letto insieme alla moglie di Balzac».

  Questo terribile racconto è vero, oppure è frutto di una mostruosa fantasia? Ecco il problema che si è posto e che si pone agli studiosi e ai biografi di Balzac. Nel 1907, quando apparve la prima edizione del libro di Mirbeau, si svolse, sulla stampa francese, una violenta polemica.

 

Gigoux non c’entrava?

 

  Il pittore Gigoux nel 1850 non conosceva ancora, secondo certuni, madame Hanska. A quel tempo egli era invece l’amante di una certa signora Gudin, la moglie di un altro pittore, vicini di casa di Balzac. Egli fece conoscenza della vedova Balzac nel 1852, entrando assai presto nella sua vita sentimentale. I biografi, dunque pensano che il pittore, uomo assai fantasioso, abbia inventato in gran parte i particolari narrati molti anni più tardi a Mirbeau, allo scultore Rodin, e ad altre persone ancora.

  Sembra che questo Gigoux fosse, ai suoi tempi, un bel giovane e che avesse avuto un successo folle con le donne. E nella vecchiaia sfogava la sua delusione di non essere diventato un grande pittore raccontando scene di alcova e episodi intimi. Mirbeau. dal canto suo, avrebbe colorito il racconto del pittore per ottenere le crudeli e fredde pagine sulla «Morte di Balzac».

  Questa, ripetiamo, la interpretazione benevola dei biografi e degli studiosi balzacchiani. Essa non lava la memoria della signora Hanska da tutte le colpe, ma la assolve dall’accusa di aver lasciato morire suo marito solo come un cane. Tuttavia, il «mistero della camera azzurra» rimane intero, perché se le cose non sono accadute proprio come Gigoux raccontò e Mirbeau trascrisse, è certo che gli ultimi mesi dello scrittore con la moglie non furono nè lieti nè felici.



  Ettore Allodoli, Il Napoleone del popolo, «Giornale di Trieste», Trieste, Anno IV, N. 1041, 9 agosto 1950, p. 3.


  L’epopea napoleonica che Onorato Balzac visse nella sua adolescenza fa da sfondo alle molteplici rappresentazioni della società di cui si compone la sua opera.

 

  Tale è la vastità e la grandezza della «Commedia umana» di Balzac che, in questo anno dedicato al centenario della morte di lui, è possibile ricordarlo solo in qualcuno dei suoi motivi più vitali.

  L’epopea napoleonica da lui vissuta nella sua adolescenza e rivissuta nella sua vita di gigantesco narratore è sfondo a tante delle sue pitture sociali, borghesi, politiche, militari onde si compone l’opera sua. Il genio malefico o benefico che possa esser stato il fatale Còrso s’imponeva alle ambizioni smisurate dello scrittore di Tours. Come Napoleone — egli diceva — era vissuto del sangue dell’Europa, così lui, Balzac, voleva vivere portando dentro il suo cervello tutta una società, tutto un costume che era, spiccatamente, profondamente francese ma che doveva consegnarsi all’avvenire come un mondo totalmente europeo.

  Talvolta, l’esagerazione romantica e contingente ci fa apparire certi motivi balzacchiani come attualmente sorpassati e artisticamente passivi, ma quanti altri motivi non hanno perso della loro estetica necessità; tra questi il mito napoleonico ispira certe figurazioni spontanee e popolari che avranno sempre la loro presa sul più largo pubblico di lettori. Uno dei migliori romanzi di Balzac è «Il medico di campagna» scritto nel settembre del 1833 in una febbrile composizione di tre giorni e tre notti; esso narra la storia di un medico il quale, deluso dalla vita e da avverse fortune che l’hanno rovinato, lascia Parigi e si ritira in un angolo solitario del Delfinato per consacrarsi ad opere di bene in favore degli umili, dei poveri e dei malati. In uno dei capitoli di questo romanzo accade che il dottore con due reduci delle guerre napoleoniche, un ufficiale che era stato a Wagram e un soldato pontiere che si era trovato al disastro della Beresina, assistono in un fienile, una sera, ai racconti che il postino del villaggio fa ai paesani raccolti intorno a lui. Questo postino, Goguelat, rifà a modo suo la epopea napoleonica in una maniera fresca, popolare, ingenua quale può essere, per intenderci, quella di un personaggio di Pascarella. La riunione non è tenuta senza un qualche sospetto perché poteva essere pericoloso il passare per bonapartisti. Quando comincia a parlare, Goguelat alza la testa con una certa fierezza «per mettersi all’altezza della gigantesca storia che stava per dire».

  «Amici miei, dovete sapere che Napoleone è nato in Corsica, in un’isola riscaldata dal sole d’Italia, dove tutto bolle come una fornace e dove si ammazzano gli uni con gli altri, di padre in figlio, per un nonnulla: è un'idea che essi hanno. Dovete anche sapere che sua madre, la più bella donna del secolo, lo voleva consacrare a Dio, per farlo sfuggire ai pericoli della vita, perché aveva sognato che il mondo andava a rovesciarsi; e aveva fatto questo sogno proprio il giorno del parto, E non poteva essere che protetto da Dio un uomo il quale passò attraverso le palle, alle scariche di mitraglia per tanti anni; e i colpi avevano rispetto per lui. Lo vedo ancora nella battaglia di Eylau che sale su ana collina, prende il cannocchiale, osserva e dice: «ça va bien». E discese. Subito dopo uno di quel cosi che hanno il pennacchio di maresciallo e che si son fatti ricchi su di lui volle fare il bravo e prendere il posto dell’imperatore. Addio pennacchio: venne subito spazzato via! Ma lui era proprio l’«enfant» di Dio. Ed è stato sempre Capo. Non aveva più di ventiquattr’anni, ed era già un vecchio generale, dopo la presa di Tolone, dove cominciò a far vedere agli altri, che non se ne intendevano, come si manovrano i cannoni. Poi, malandato e magro come era, ce lo trovammo Generale in Capo all’Armata d’Italia che mancava di pane, di munizioni, di scarpe, di vestiti: una povera Armata nuda come un verme, E ci disse: amici miei, mettetevi nella zucca che di qui a quindici giorni sarete vincitori, vestiti di nuovo, avrete cappotti, belle scarpe e tante altre cose, ma, ragazzi miei, bisogna andare a prenderle a Milano. E si marciò. Eravamo trentamila, pezzenti e straccioni, contro ottantamila bravacci austriaci, così bene equipaggiati che li vedo ancora. Ma Napoleone, il quale era in quel tempo soltanto Bonaparte, ci mette un non so che in corpo che si marcia notte e giorno, e te li sbaragliamo tutti a Montenotte, a Rivoli, ad Arcole, a Millesimo».

  Il buon postino si eccita via via nella rievocazione delle vittorie napoleoniche. E continua.

  «Avrebbe un uomo potuto far questo? Dio l’aiutava, è sicuro. Le sentinelle lo vedevano andare e venire, e lui non dormiva nè mangiava; e noi soldati lo avevamo adottato per padre. Poi ci dettero da masticare l’Egitto, e lo inghiottimmo anche questo come avevamo fatto dell’Italia. «En avant!» E così traversammo il mare, sebbene gli inglesi avessero tutti i loro vascelli. Quando ci imbarcammo, lui ci disse: «Essi non ci vedranno, e sappiate da qui in avanti che il vostro Generale ha una stella nel cielo che lo guida e ci protegge». Devo dirvi anche che nell’andata prendemmo Malta come un arancio per placare la sua sete di vittoria ...».

  Goguelat ricorda ancora il seguito di quegli avvenimenti, e lo sbarco in Francia per il colpo di Stato. «Arrivato a Parigi, tutti si mettono ai suoi piedi; ma lui convoca il Governo, e dice a quegli avvocati: «siete una massa di canaglie, che vi infischiate del mondo e vi ingrassate a spese della Francia». Essi vorrebbero protestare, ma ecco cosa fa: li chiude nella loro caserma di parole (il Parlamento), li fa saltare dalle finestre e li mette al suo servizio; e così stanno muti come pesci ... Poi diventa Console, e per ringraziamento al buon Dio che l’aveva aiutato, fa riaprire le Chiese, ristabilisce la religione, e le campane suonano per Dio e per lui. E fa tutti contenti: i preti, che vieta siano maltrattati; i borghesi, che possono liberamente fare il commercio; i nobili, ai quali garantisce la vita. Insomma eran tutti contenti e la Francia si dava a lui come una bella ragazza a un lanciere. E quando fu fatto imperatore ci fu una festa che uguale non se n’è mai vista sotto la volta dei cieli. Il Papa e i Cardinali, vestiti d’oro e di rosso, passarono le Alpi appositamente per consacrarlo davanti all’esercito e al popolo che batteva le mani. Poi si fece Re d’Italia, e poi cominciò veramente il trionfo del soldato. Chiunque sapeva scrivere diventava ufficiale; ed ecco la croce della Legion d’onore,

fornita di rendite, anche per i semplici soldati. E poi in due o tre anni costruisce in tutta l’Europa ponti, palazzi, vascelli, porti, e spende milioni su milioni, e ne aveva tanti, che avrebbe potuto pavimentare la Francia con pezzi da cento soldi, se gliene fosse venuto il capriccio. E, diventato così potente che tutta l’Europa attendeva il suo permesso per fare i suoi bisogni, un giorno ci disse: «ragazzi miei, io ho quattro fratelli e tre sorelle; ed è giusto che i parenti del vostro Imperatore stendano la mano? No! bisogna conquistare un regno per ciascuno di loro». Bene! rispose l’Armata: andremo a pescare dei regni con la punta delle nostre baionette. E se ce l’avesse detto, saremmo andati a conquistare la luna. Che tempi! I colonnelli diventavano Generali, i Generali Marescialli, i Marescialli Re: e, grassi come maiali, poi l’hanno tradito».

  Il buon postino enumera nel suo ingenuo entusiasmo le altre battaglie, e a modo suo tocca i principali avvenimenti della storia napoleonica. «Sua moglie, l’Imperatrice Giuseppina, era una buona donna, ma non gli poteva dare figlioli. Perciò fu obbligato a lasciarla, quantunque l’amasse molto. E sposò un’austriaca, che dicevano essere la discendente dei Cesari. E questo Cesare fu un uomo antico di cui si parla dappertutto, non solamente da noi. Ci furono altre feste famose, per questo matrimonio, e lui fece grazia al popolo di dieci anni di tasse, che però si son pagate lo stesso, perché gli impiegati delle Gabelle non hanno tenuto conto del suo ordine. Ma successe anche che l’Imperatore di Russia s’ebbe a male che lui non avesse sposato una russa, e si mise d’accordo con gli Inglesi — i nostri nemici — ai quali s’era sempre impedito, a Napoleone, di andare a dire due paroline fin nella loro bottega». E l’ottimo postino, che ormai ha preso l’abbrivio, racconta la campagna di Russia, e il passaggio della Beresina a cui aveva partecipato anche lui.

  Poi descrive l’invasione della Francia, e la meravigliosa difesa dell’imperatore. E dice che l’Europa si mosse di nuovo tutta contro di lui, soprattutto arrabbiata perché aveva voluto anche vincere i russi, «spingendoli dentro i loro limiti, perché non ci mangiassero, com’è l’abitudine di quelli del Nord che sono ghiotti del Sud». Allora tutti lo tradirono, lo misero in un’isola da cui egli fuggì e tornò in Francia. Ed ecco Waterloo, ed ecco, per tradimento, il suo arresto, e gli inglesi lo inchiodano in un’isola deserta sul grande mare, in una roccia alta diecimila piedi al di sopra del mondo. Ed è obbligato a restar là, fino a che Dio gli renderà il suo potere per la felicita della Francia. «E vanno dicendo che è morto. Morto? Si vede bene che non lo conoscono, e ripetono questa panzana per tener fermo il popolo».

  Nel buio fienile dove il reduce portalettere racconta questa storia si diffondono brividi di commozione, e anche l’ufficiale che assiste, senza pensare ai pericoli cui poteva andare incontro, si unisce al grido «Vive l’Empereur». Paga da bere in onore del «Piccolo caporale», ma avverte che putroppo (sic) Napoleone è morto davvero; la sua memoria giammai. Goguelat rimane incredulo, e a bassa voce dice che quell’Ufficiale è ancora in servizio ed è costretto a dire che l’Imperatore è morto. Il dottore e il Comandante escono dal fienile e si allontanano sotto il lume della luna. Concludono che, con racconti simili, in cui vive l’anima popolare, la Francia avrà sempre dentro di sè le 14 Armate della Repubblica e potrà sempre sostenere con l’Europa la sua conversazione a colpi di cannone.

  In questa «Vita di Napoleone» narrata da un vecchio «grognard», Balzac ha fissato la leggenda napoleonica come si era formata nell’immaginazione popolare; ed è utile che questo episodio staccato del «Medico di campagna» sia stato ora ripubblicato in edizione popolare della Casa Carlo Signorelli.

  Goguelat, simpatico fanfarone romantico, vecchio soldato del 1833, tu somigli come due gocce d’acqua al popolano di Pascarella quando racconta con le sue ilari ingenuità e confusioni la Scoperta dell’America o gli eroismi di Villa Glori.


 

  [Gabriella Alzati?], Nota, in Honoré de Balzac, Papà Goriot ... cit., pp. 5-6.

 

  Honoré de Balzac, il padre del romanzo realistico, nacque a Tours il 20 maggio 1799. Fu dapprima avvocato, poi aiuto di notaio e finalmente socio di un editore: ma in nessuna di queste attività, che pure dovevano fornirgli spunti e ritratti per la sua opera letteraria, si ritrovò, in nessuna raggiunse il minimo successo: le imprese editoriali, per contro, non gli procurarono che disinganni e debiti, per pagare i quali — oltre che per dare sfogo a un’irresistibile vocazione, a un'irrefrenabile piena creativa — cominciò, a partire dal 1829, a scrivere.

  Né riuscì la letteratura a dargli calma e riposo: temperamento a cui la natura stessa negava ogni specie di tranquillità, e ossessionato, inoltre, dal bisogno di denaro richiesto dalle sue molte altre imprese sbagliate o disgraziate nonché da un irreprimibile gusto per lo spreco, egli continuò a scrivere, in un’ansia senza pause e senza precedenti, quindici ore al giorno, «terminando le sue opere come in un’ebrezza della fantasia alimentata da innumerevoli caffè. Lo stampatore veniva a ritirare le pagine manoscritte l’una dopo l’altra, ed egli correggeva le bozze, apportandovi interminabili aggiunte col medesimo ardore, esasperando i tipografi. Era fiero della sua eccezionale potenza di creazione e di lavoro: si considerava il “Napoleone della letteratura”», e finì per ammazzarsi letteralmente di fatica. Aveva, infatti, da poco sposato la contessa Hanska, sua vecchia amica, quando il 18 agosto 1850, a Parigi, cadde fulminato da un attacco apoplettico.

  Cinquantun unni di vita: ventuno di ininterrotta febbre letteraria, durante i quali pubblicò duemila pagine all’anno, novantasei romanzi che, suddivisi in differenti serie, chiamò complessivamente Commedia umana. Ecco i principali titoli: “Scene della vita privata”: Gobseck (1830), La donna di trent’anni (1831-42), Il colonnello Chabert (1832): “Scene della vita di provincia”: Eugenia Grandet (1833), Il giglio nella vallata (1835), Orsola Mirouet (1841), Una casa di scapolo (1842); “Scene della vita parigina”: Papà Goriot (sic) (1834), Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau (1837), La cugina Bette (1846), Il cugino Pons (1847); “Scene della vita politica”: Un affare tenebroso (1841); “Scene della vita militare”: Gli “chouans” (1829); “Scene della vita di campagna”: Il medico di campagna (1833), Il parroco di villaggio (1839-46), I contadini (1844). E oltre alla Commedia umana scrisse studi filosofici, alcune commedie, una serie di racconti rabelaisiani, eccetera.

  In Papà Goriot (nell’originale: Le Père Goriot), che, come già Eugenia Grandet, è uno dei massimi romanzi balzacchiani, sono scolpiti non pochi dei tanti personaggi assurti poi a simbolo del carattere che li anima: figure diventate popolari e proverbiali, ormai, nelle quali s’è in seguito come fissata e cristallizzata la medesima ragion di vita che in ciascuna di esse s’incarna.

  Su tutte rifulge, però, quella del vecchio Goriot, il commerciante a riposo che l’amore paterno, fanatico, esclusivo, illimitato, fa una specie di Re Lear della Parigi 1820; che ogni cosa sacrifica al benessere delle figliuole; che a qualunque decadenza — miseria e bassezza — si riduce felice, pur di saper soddisfatto un loro capriccio; che, non potendo ammettere, in cuor suo, come esse possano mai aver torto, identifica il bene nel loro stesso piacere, e lì lo persegue; che anche sul letto di morte scusa il loro egoismo, e la povertà e la solitudine a cui esse l’hanno abbandonato, e muore benedicendole ...

  Sì, un povero essere, un padre cieco e debole come ce ne son tanti, nella vita e nella letteratura: ma la sua stessa passione, a tal punto esasperata, così implacabile e compiuta e totale e senza incrinature, ne ingigantisce la statura, lo rende inconfondibile ed eterno. Non è solo un «personaggio», ma una «maschera» nuova che il Balzac ha sfoggiato.

 

 

  Luciano Anceschi, Balzac sans crainte, «Europe. Revue Mensuelle», 28e Année, N.os 55-56, Juillet-Août 1950, pp. 145-149.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 556. Il testo, rivisto e ampliato, in lingua italiana di questo studio di Luciano Anceschi è ora presente, con il titolo: Emozioni di Balzac, in L’esercizio della lettura. Introduzione di Guido Guglielmi. A cura di Liliana Rampello, Parma, Pratiche Editrice, 1995, pp. 63-73.


  Il y a dans l’oeuvre de Balzac une extraordinaire attention portée à mille aspects particuliers de la réalité humaine de son époque Balzac a eu la vaste ambition de décrire des hommes et des milieux sous un nombre infini d’aspects et rayonnant dans toutes les directions.

  A-t-il voulu donner des proportions épiques à une oeuvre de moraliste ? Balzac appartient certainement à cette catégorie rare et puissante d’écrivains qui réunissent à présenter avec une richesse intense d’émotions la vérité de leur époque — quel que soit l’ordre dans lequel parfois cette vérité se présente. C’est pourquoi relire aujourd’hui Balzac après tant d’expériences, et à une époque à ce point différente dans ses assises mêmes est une aventure très attirante, plus spécialement pour ceux qui «ne vivent pas personnellement», intimement l’histoire de la France. C’est en somme la découverte d’une ville oubliée.

  Dans un certain sens nous pouvons déjà nous sentir un peu de cette postérité à qui Balzac rêvait de laisser quelque chose de ce que malheureusement les civilisations anciennes et modernes n’avaient avant lui jamais laissé: une oeuvre qui porte en soi la «géographie historique» nécessaire à la reconstitution minutieuse et totale de la société, un témoignage vivant sur les coutumes. Ceci implique un échange continu et fructueux entre l’oeuvre de littérateur et la réflexion du moraliste. Ceci entraîne un incroyable fourmillement de types et de passions, de sentiments et de mouvements rassemblés dans une vue dominante, et si l’on peut dire, presque hégémonique du siècle.

  Il convient de ne pas perdre de vue Balzac critique et essayiste; mais il est certain que l’authenticité de Balzac réside en ceci: lorsqu’il peint un trait de moeurs, il est aussi tout imagination — et lorsqu’il s’abandonne au hasard de l’imagination, il est peintre de moeurs. En conséquence, s’il est vrai qu’il soit entièrement engagé dans son «présent», et nous laisse de la France de son époque, de la région de Paris et de Paris même une image très vaste et également minutieuse, avec cette joie puissante qui remplit toutes ses peintures (lui pour qui, comme le disait Baudelaire, dans son Paris, même les portiers ont je ne sais quel génie) il touche en même temps à quelque chose d’autre qui nous intéresse directement, quelque chose qui est peut-être inséparable de la nature même de l’homme.

  Souvent l’oeuvre de Balzac ne supporte pas une lecture lente et minutieuse, qui se plaît aux textes difficiles, offrant de la résistance. Bien qu’il ait une idée suffisamment claire et définie de sa situation dans le siècle littéraire, il n’est certainement pas à placer parmi les écrivains qui portent toujours en eux la connaissance souveraine du critique. Si nous tenons compte de ses préoccupations en matière de style, dans lesquelles se glisse je ne sais quelle angoisse, comment pensons-nous que Balzac se serait comporté à l’égard du fameux dilemme «ingénu» de Valéry? Il est fort probable qu’il eût été comme fasciné par l’idée d’un écrivain disposé à écrire quelque chose de faible, «en toute conscience et dans une entière lucidité», mais peut-être en contradiction avec son génie, aurait été entraîné à enfanter à la faveur d’une transe un chef-d’oeuvre» grandiloquent et presque terrible — à être comme le monstre d’une société.

  D’autre part, il y a lieu de penser que Balzac joue d’une façon irrévérencieuse, un peu forcée avec les figures les plus haut placées, comme s’il s’agissait d’illustres marionnettes. Un fameux essayiste espagnol a écrit: «Dante est très grand; Dostoïewski est énorme; Balzac (comme Shakespeare) est sur la crête qui séparé l’énorme du très grand. J’irai plus loin: Shakespeare se place en deçà de la crête, sur le versant de Dante; Balzac sur celui de Dostoïewski et point n’est besoin de préciser que ceux qui se placent en deçà sont les artistes». Étrange aventure pour un écrivain français! Et cependant, pour employer des formules analogues «ce qui en Shakespeare est création est chez Balzac parturition».

  Eh bien, avec cet enfant qui est le sien, et qui, comme nous le savons, fait concurrence à l’état civil, avec cet enfantement illimité et imaginaire, quel but s'est donc proposé Balzac? J’entends : quel est le sens général qu’il a lui-même entendu donner à son propre système poétique? Si Balzac s’était posé à propos du roman, cette question que Baudelaire dit s’être posée au début de son activité poétique, peut-être aurait-il dû répondre de façon assez semblable à celle de Baudelaire.

  Chateaubriand et Stendhal, Hugo et George Sand, Mérimée, le «roman populaire» remplissaient la scène, et le roman était abandonné aux poètes dédaigneux, aux critiques insatisfaits et inquiets. Il est très probable que Balzac ne se posa jamais une question aussi nette; il est très probable qu’en bon romantique de la génération ingénue, il trouva bien vite sa voie, comme par intuition, je dirais presque (si le terme n’était dangereux) par un instinct sollicité de toutes parts: l’idée première de la Comédie Humaine fut d'abord chez moi comme un rêve.

  Cependant, dans l’Avants-Propos (sic) de 1842, où nous trouvons des philosophies extravagantes, des perspectives politiques et religieuses sommaires, des traits autobiographiques, se font jour, finalement le désir et la volonté de construire une oeuvre liée à la vie. En fait, de nombreuses conditions ont facilité la naissance d’une fiction à ce point liée à la réalité morale de l’homme.

  Dans un pays où les rapports entre la littérature et la société ont toujours été étroits et où le goût de la peinture de moeurs, de la réflexion sèche et directe sur l’homme est liée à l’essence de l’art, Balzac était réellement prédestiné. Son destin mûrit alors que la France, après la Révolution étale toute la richesse, la variété, la puissance de ses couches sociales. Balzac sans reprendre souffle, court au travers de cinq régimes. Il unit l’idéologie romantique à l’utopie fertile du «roman historique» et les anciennes couches nationales de «l’histoire des moeurs».

  Il est vrai: Balzac était un visionnaire qui étreignait toute la réalité par la force de la volonté et du talent. Cependant chaque visionnaire a sa méthode personnelle pour provoquer la vision, pour la saisir et la traduire.

  Il suffit à Balzac d’un mot, d’un signe pour mettre en mouvement le flux puissant de son imagination ... D’autre part, l’enseignement de Buffon n’exclut pas en lui la leçon de Swedenborg.

  Mais prenons garde à une autre déclaration révélatrice: Comment rendre intéressant le drame à trois ou quatre mille personnages que présente une Société? Comment plaire à la fois au poète, au philosophe, et aux masses qui veulent la poésie et la philosophie sous de saisissantes images? C’est là une question d’un certain poids, je pense, et non pas seulement pour Balzac et son époque. Cependant, en bon tireur, le romancier a touché les deux cibles: il a été ce qu’on nomme «un romancier populaire» — et en même temps, même si Sainte-Beuve et Delacroix ne l’ont pas aimé, des hommes tels que Gautier ou Baudelaire, de diverses façons lui ont témoigné leur admiration.

  Quel fut le secret de cette réussite? Balzac ambitionnait d’être le secrétaire de la société française contemporaine, de faire la nouvelle histoire d’un Paris glorieux en un siècle si extraordinairement riche en visages bons ou mauvais autour du signe hégémonique de l’intérêt. Il voulait être l’«instituteur des hommes» au travers d'une comédie tout humaine. Il ne s’est pas borné à une peinture imaginative, il ne s’est pas arrêté à ce seul jeu des passions qui plaît tant à certains lecteurs. Cependant, dans son esprit, les limites de la littérature, de la sociologie, de la morale, de l’éducation ne sont pas toujours clairement précisées; elles se mêlent dans une confusion tout à fait romantique. D’autre part, il faut excuser les faiblesses de son écriture, ses ficelles de métier — Balzac était toujours à court de temps. Il est vrai que (comme le dit un poète italien) si «au XVIIIe siècle, le style, confiné aux frivolités de salon se borne aux étincelles déliées d’une éducation consommée et d’une conversation spirituelle, à l’époque de Balzac, le style se cherche».

  Qu’on pense à ce propos aux tons différents avec lesquels est prononcé le mot «amour» dans Marivaux et dans Balzac.

 

***

 

  Essayons d’étudier maintenant les méthodes de Balzac, pour voir s’ils peuvent encore, d’une façon ou d’une autre, nous servir. On sait que Balzac tendait de temps à autre à vivre instinctivement dans la peau de son personnage à s’identifier avec lui, en étudiant tous les aspects de sa vie: son milieu social, sa vie professionnelle et de classe, son langage, ses expressions typiques, sa terminologie technique très appropriée. Balzac vécut très intimement avec ses personnages et notamment avec son plus important personnage: Paris. Pour traduire cette vie, il lui suffisait d’une enseigne commerciale, ou encore, comme dit Gautier, des discours de deux jeunes mariés surpris dans une rue. Il suffit d’ouvrir un volume des Œuvres Diverses, si passionnantes pour le balzacien, pour voir de quelle façon il recueille les éléments de son inspiration (dans son cas il s’agit réellement d’inspiration, et, au sens propre, de fureur) durant son travail mineur de journaliste; et comment il prépare de longue date ses études de milieux comme avec ce Code des gens honnêtes, auquel il a pour le moins collaboré; comment il s’adonnait à des divertissements en marge, tel ce Petit dictionnaire critique et anecdotique des Enseignes de Paris, dont Balzac fut peut-être l’auteur, et en tout cas l’imprimeur, ou, enfin comment il s’exerçait à des essais d’écriture rapide, légère, d’un brillant facile, par exemple dans ses Lettres sur Paris ... En tout cet ensemble de chroniques se mêle à la grosse machinerie de l’oeuvre générale qui avance avec une force presque naturelle, automatique, et se transforme ainsi en un fleuve multiple aux reflets changeants ...

  Que de thèmes ouverts au balzacien! Balzac et la société littéraire de son temps, ses amitiés et sa participation au Club des Haschichins ses rapports avec Baudelaire, dont M. Ferran nous informe de façon si précise, avec Gautier, avec tous les autres de cette extraordinaire génération. Il y a aussi le Balzac des carnets, et des mémoires, notamment du Journal de Delacroix! Peut-être Delacroix n’aimait-il pas le bruyant Balzac, sa conversation parfois irritante, ses créations d’incroyables fantasmagories; il est certain que la première rencontre chez Nodier fut froide et le jugement de Delacroix se réaffirmera par la suite en une déclaration de faillite: «Je persiste à trouver son genre faux, d’abord et faux ensuite ses caractères», et le rapprochant du peintre Monier, en dépit de l’opinion de Gautier, il critique son système de décrire «par le dehors» (22 juillet 1860) ... Enfin, il conviendrait de suivre dans tous les replis de sa vie extraordinaire et bien modeste, l’homme Balzac — cet homme qu’un poète a qualifié comme le plus singulier et le plus romantique, le plus héroïque et le plus poétique de tous les personnages que ce même Balzac a extrait de son propre sein. Toute précipitation dans l’étude d’un auteur, est dangereuse. C’est aussi un manque de respect coupable, pour le louable travail de l’homme, pour sa conscience de créateur.

  En vérité, il faudrait suivre toutes les courbes, les sens interdits, les passages difficiles du mouvement intérieur. Mais il faut conclure. Je laisserai à d’autres les interprétations «sociologiques» de Balzac, où s’égare la vérité de l’art, ou cette façon d’oublier dans les auteurs, le fait essentiel qu’ils sont d’abord des écrivains, qui est souvent le fait des existentialistes. Il me plaît que la lecture ne soit pas troublée; qu’elle s’occupe des lettres par amour des lettres; et que l’on vive dans l’auteur étudié, dans Balzac écrivain, comme Balzac lui-même vivait dans ses personnages. C’est ainsi que je rêve d’une saison tout entière consacrée à Balzac, une époque entièrement donnée et ouverte à son oeuvre.

 

***

 

  «Revenons à la réalité; parlons d’Eugénie Grandet», disait Balzac; et si ce n’est pas là peut-être un bon principe d’esthétique, c’est certainement une lueur révélatrice du sentiment de la réalité chez un homme aussi divers. Génie énorme, terrifiant et ingénu, la réalité était pour lui, justement cette marque qu’il imprimait avec vigueur et sans repos à ses figures, à ses symboles. Il y a particulièrement réussi dans Les Paysans et par-dessus tout dans la Cousine Bette. Là, la machinerie du roman est bien cachée; et la joie de conter se fait plus libre, dans une prodigieuse et folle invention. On trouve toujours, chez Balzac, une impatience qui traduit une certaine avance de la fantaisie sur l’écriture.

  Balzac a connu l’Italie. Il y est venu à diverses reprises, il a vécu en différentes villes, y a connu les hommes de lettres du temps et a eu une rencontre un peu embarrassée avec Manzoni ; il y fut fêté, aimé, discuté; des salons d’accès difficiles s’ouvrirent pour lui et il leur consacra par la suite, quelques récits — chaque fois que l’Italie apparaît dans ses récits il en évoque le paysage et les moeurs avec véracité. Mais Balzac doit à l’Italie quelque chose qui le touche d’encore plus près: il lui doit le grand mythe de Dante. Je sais qu’autour de ce thème complexe Balzac et Dante, travaille actuellement un distingué universitaire italien, Vittorio Lugli; mais le rapprochement difficile, et pourtant nécessaire des deux noms suggère une réflexion générale. Guido Piovene a signalé la renaissance du culte de Balzac en France, aujourd’hui. Ne convient-il pas de rapprocher le sens de cette renaissance à celui de l’intérêt très marqué que portent les plus grands poètes anglo-saxons à la poésie et à l’antique amour de Dante? Un sentiment de quelque chose de changé dans l’ordre de ce goût général des lettres qui agit aussi sur la génération de l’oeuvre littéraire: Disons pour conclure qu’aucune peur de l’impureté n est nécessaire dans une oeuvre vivante et pleine, telle que l’attend le lecteur. Un besoin cependant de renouvellement se fait jour, ainsi qu’une volonté de rompre certaines formes fermées (parfaites, gratuites) et de mettre dans l’art la vérité de l’homme et de la vie.

  Et nous devons cela à Balzac.

 

 

  Luigi de Anna, Nel primo centenario di Honoré de Balzac, «Ausonia. Lettere e arti nel mondo», Siena, Anno Quinto, NN. 43-44, Aprile-Maggio 1950, pp. 9-15.

 

  Honoré de Balzac, brillante e fecondo romanziere realista, il più grande creatore di esseri viventi che sia mai esistito, domina, incontestabilmente, tutta la prima metà del sec. XIX. Alcune parti della sua vita intima e certi aspetti equivoci del suo carattere esuberante sono ancora troppo oscuri, nonostante i molti lavori critici di tanti eminenti studiosi. Sono stati, è vero, messi in circolazione tanti aneddoti fantastici, e desideri infiammanti e raffinatezze sensuali sul suo conto, ma il monumento ciclopico, che egli ha saputo erigere, non è stato degnamente apprezzato, come era logico pretendere e la sua storia precisa e definitiva non è perciò ancora scritta e chi sa se lo sarà mai.

  Nato a Tours il 20 maggio 1799, fu messo, all’età di sette anni, al famoso collegio di Vendôme, diretto dai padri dell’oratorio. Egli studiò molto e lesse libri di ogni genere con una specie di frenesia ritmica, che niente poteva saziare. Poi segui i corsi del liceo e, dopo il trasferimento di suo padre a Parigi, si iscrisse alla facoltà di Diritto e frequentò la Sorbona con entusiasmo straordinario. A 21 anni entro, come giovane di studio da un avvocato e poi da un notaio, ma non vi volle rimanere, con grande stupore di suo padre, poiché egli ambiva di diventare un letterato, un giornalista, un romanziere, un drammaturgo e, forse, un poeta. Lunghe e interminabili discussioni ci furono in casa sua, dopo una tale inaspettata dichiarazione, ma egli finì col persuadere i suoi genitori, i quali acconsentirono a prendere in affitto per lui una modesta camera ammobiliata, vicino alla biblioteca dell’Arsenale, affidandolo alle cure di una vecchia domestica. Ma la gioia di essere finalmente libero e indipendente e di poter lavorare secondo la sua vocazione e il suo intimo istinto, lo infiammarono di un ardore sorprendente, facendogli dimenticare tutte le amarezze del duro e logorante lavoro e tutte le angosce dell’incerto domani nell’ebrezza più assillante della sua imminente produzione letteraria. E scriveva: «tre soldi di pane, due soldi di latte, tre soldi di salumeria m’impedivano di morir di fame e tenevano il mio spirito in uno stato di lucidità singolare. Il mio alloggio mi costava tre soldi al giorno e consumavo tre soldi di olio per notte». E, nonostante gli sforzi immensi di lavoro tenace, duro e intrepido, si accorse che i suoi articoli e soprattutto i suoi schizzi di romanzo, che intraprendeva con frenetica voluttà, non gli permettevano di assicurare, anche modestamente, la sua esistenza; e allora, per consiglio di M.me de Berny, della quale si sa, attraverso la sua Correspondance, ch’ella aveva occupato nella vita intima di Balzac un gran posto e che era diventata sua amante appassionata, entrò in società con alcuni tipografi, ma fece cattivi affari, che finirono coll’indebitarlo sempre più e accasciarono, per un pezzo, la sua esistenza depressa. Il danaro, le cifre che non tornavano, i debiti che aumentavano vertiginosamente erano una incessante fantasmagoria, di cui non poteva fare a meno, di cui ne godeva anche e se ne serviva per sovreccitare la sua fervida immaginazione intellettualmente affaticata. E s’immerse, con acre voluttà, nei lavori letterari e pubblicò, sotto pseudonimi diversi, dal 1822 al 1825, alcuni assurdi romanzi di avventure che, più tardi, abolì dalle sue opere complete. Poi, trovando decisamente la fortuna troppo lenta ad arridergli, ritentò delle speculazioni di libreria, si fece successivamente editore, stampatore, fonditore di caratteri, creò addirittura un’impresa per cercare, nelle antiche miniere di Sardegna, l’oro (sic) che i Romani vi avevano lasciato, ma tutto fu inutile e s’ingolfò sempre più nei debiti e nella rovina più paurosa.

  Nel 1829 pubblicò il primo volume della sua ammirabile Comédie humaine, che lo pose, ad un tratto, alla testa dei più grandi romanzieri del sec. XIX e che porta, nella Prefazione, questa dichiarazione inconfondibile: «j’écris à la lueur de deux vérités éternelles: la Religion et la Monarchie». E, da allora, Balzac non cessò più di produrre, segregandosi dal mondo per mesi interi e lavorando come un forsennato, anche quindici ore al giorno, al lume della candela, dando al sonno solo alcuni istanti febbrili, e sostenendosi a forza di caffè, vivendo così con i personaggi reali dei suoi romanzi. Talvolta però pranzava, verso le sei, con alcuni intimi amici, ma allora egli non beveva che acqua, mangiava poca carne, ma della frutta in quantità pantagruelica, specialmente pere e pesche. Dopo pranzo, andavano tutti insieme abitualmente sulla terrazza a prendere il caffè, il suo caffè, divenuto proverbiale. Che colore! che aroma aveva questo caffè! Egli lo faceva da sé e si componeva di grani di Bourbon, Martinique e Moka ed era veramente squisito. Anche il suo , giallo come l’oro veneziano, dopo averlo tanto decantato, lo faceva gustare solo ai suoi amici affezionati. Poi, diceva loro addio e andava a letto per cercar di dormire qualche ora e potersi alzare a mezzanotte e rimettersi, con maggior ardore, al lavoro fino alla mattina seguente.

  Dal 1830 al 1848 egli compose 97 opere formanti 10.616 pagine di edizione compatta e la Comédie humaine era, come si era proposto, finita appena di un terzo, ed egli era giunto ad identificarsi così perfettamente nella pelle dei suoi personaggi, che gli sembravano più reali dei veri eroi del mondo vivente. Ordinariamente Balzac prendeva molte note. Dovunque andasse, nelle strade e nei salotti, nei teatri e nelle trattorie, nelle botteghe e nei negozi, nei palazzi e nei castelli, sui pubblici passeggi o nei sobborghi, il suo taccuino e il suo lapis erano a portata di mano e vi annotava e raccoglieva tutto ciò che gli pareva utile e indispensabile. Tutti i suoi manoscritti erano sovraccarichi di cancellature, di freghi, di raschiature di ogni genere; egli correggeva da sé le bozze di stampa e ne migliorava il testo, sia con numerosi cambiamenti, sia con aggiunte frequenti. Per un lavoro di questa ampiezza occorreva avere un corpo ammirabilmente resistente a ogni specie di fatica e Balzac aveva, secondo Sainte-Beuve «le corps d’un athlète et le feu d’un artiste épris de la gloire» [cfr. Causeries du Lundi]. Perseguitato dalle guardie del commercio e specialmente dai capi della guardia nazionale detentori di un mandato di arresto per omissione di servizio, dovette giocare di astuzia per non essere arrestato, allontanandosi da casa in ora insolita, rifugiandosi presso qualche amico fidato, travestendosi e attraversando solo le vie poco frequentate. Ma una mattina, mentre si credeva al sicuro, fu riconosciuto, preso e messo in prigione. Quando ne usci, cominciò a mangiare molto e talvolta eccessivamente e a mostrare il formidabile appetito di un eroe di Rabelais e a dare troppo da bere a tutti quelli che erano soliti di pranzare con lui. Un giorno mangio cento ostriche, dodici costolette, un anatrotto, un paio di pernici, una sogliola, oltre a un abbondante antipasto e poi una dozzina di pere e di mele e bevve parecchi vini e liquori. Egli non fumava affatto e non ammetteva né la sigaretta, né il sigaro e né la pipa; tollerava appena che gli altri fumassero in sua presenza e spesso lanciava violenti diatribe contro l’uso del tabacco, uno degli «excitants modernes».

  La preoccupazione che ossessionò più visibilmente Balzac per tutta la vita fu quella di pervenire rapidamente alla gloria, agli onori e alla fortuna. Ma come arrivarvi solo, invidiato, sperduto nella moltitudine? Gli mancava assolutamente la fantasia dell’immediata improvvisazione e macerava le sue opere nel cervello stravolto durante anni interi, e poi, ad un tratto, le buttava giù alla rinfusa, con una tensione prodigiosa, ne accumulava i piani, rileggeva i manoscritti, cambiava, cancellava, rifaceva, sopprimeva. La fortuna ch’egli cercò durante tutta la sua esistenza gli giunse, almeno in parte, quasi alla vigilia della sua morte. Ma la gloria, alla quale aspirava e della quale si sentiva degno? L’Accademia francese aveva respinta la sua candidatura ed era stato questo scacco immeritato il crollo totale della sua ambizione. Nel 1839 Balzac pose, per la prima volta, la sua candidatura all’Accad. francese. Aveva 39 anni e aveva già pubblicato più di 20 volumi, alcuni dei quali rimasti celebri. Non essendo stato eletto, si ripresentò nel 1841, sicuro, questa volta, di trionfare cd ottenne soltanto due voti. Sei anni dopo, nel 1847, ci fu una nuova elezione ed egli riportò ancora due voti, quello di V. Hugo e quello di M. Pongerville. Nel 1849 dovevano essere rimpiazzati alla Accademia Chateaubriand e Vatout e non ebbe, neppure questa volta, miglior successo di prima. E dopo una tale ripetuta e ingiusta disfatta, mise il cuore in pace e non si ripresento più, nonostante il suggerimento dei suoi ammiratori: era un’ambizione che il destino frustrava e gli rapiva inauditamente.

  Ma l’avventura di Balzac e della marchesa de Castries è uno dei più commoventi episodi della vita del gran romanziere. Si conobbero incidentalmente per corrispondenza e infine la marchesa invitò Balzac a casa sua e divennero pazzamente innamorati fin dal primo momento. Ella aveva 35 anni ed era la più ipocrita e libidinosa delle civette, la donna più immorale e più pericolosa per un uomo esasperato dall’immaginazione come Balzac, il quale, stomacato dai suoi ignobili tradimenti, finì per piantarla e allontanarsi da lei per sempre col cuore martoriato. E, per placare il suo dolore e l’amarezza che ne risentiva, si rimise al lavoro con maggior lena e perseveranza di giorno e di notte e qualche tempo dopo egli stesso confessava argutamente: «cette liaison a été l’un des plus grands chagrins de ma vie». Nel 1833 conobbe la signora polacca Hanska. Aveva un giorno trovato presso l’editore Gosselin una strana lettera a lui indirizzata e firmata l’Etrangère, proveniente da Odessa. Egli rispose gentilmente e una corrispondenza animata si intavolò subito fra la misteriosa straniera e lui. Infine, dopo circa due anni, egli riuscì a vedere a Neuchâtel questa bella signora, che gli piacque molto. Ella era la moglie di un vecchio russo, maggiore di lei di 25 anni, e che viveva, per dieci mesi all’anno, in Ucràina, al castello di Wierzchownia. Da questa unione erano nati cinque figli, di cui una sola viveva, la piccola Anna. Balzac non volle più pensare alle altre donne fatali che lo circuivano, se lo contendevano e lo ossessionavano. E cercò di rimanere fedele a. questa, l’amò con passione e ne fu subito corrisposto. E continuarono per molti anni a scriversi delle lettere infiammate (raccolte nelle Lettres à l’ètrangère), a struggersi nella morbosa libidine del possesso e a vedersi, ogni tanto, nelle varie parti d’Europa. Nel novembre 1841 il marito della signora morì di paralisi e tutti e due, felici e liberi, lei molto ricca e lui già pieno di gloria, credettero bene di unirsi definitivamente in matrimonio, e solo dopo infinite difficoltà di ogni genere riuscirono a realizzare il loro sogno e a sposarsi il 14 marzo 1850 nella chiesa parrocchiale Sainte-Barbe di Berditcheff. La signora ebbe subito una ricaduta di mal di cuore di cui soffriva e i due sposi, con grande disappunto di Balzac, dovettero interrompere i loro preparativi di partenza e finalmente, dopo tante peripezie, giunsero a Parigi alla fine di maggio. Essi si diressero direttamente verso la Rue Fortunée, ove Balzac aveva fatto degnamente ed elegantemente allestire la sua abitazione, della quale diceva: «je ne suis que le gardien de ces merveilles». Ma questa unione, frutto di tanti sogni e di tante speranze, si era infranta in poco tempo. Balzac si ammalò gravemente dopo poco e non potè più né leggere né scrivere con la medesima intensità di prima. Soffriva molto di stordimenti e non si reggeva più in piedi. Il medico, chiamato di urgenza, lo visitò accuratamente, ma non volle pronunziarsi e giudicò prudente di chiamare altri tre colleghi a consulto. Ma ormai egli era spacciato. Entrò subito in agonia con grande tormento di quanti lo assistevano e non lo si sentì quasi più parlare. E sua moglie, che Balzac aveva così vivamente desiderata e ardentemente amata, non era neppure apparsa al capezzale del marito per raccoglierne l’ultimo respiro. Anzi O. Mirbeau ha dato nel Temps del 6 novembre 1907 una versione spaventosa e scandalosa della morte di Balzac, mostrando sua moglie «brouillée à mort avec son mari et le trompant sous le toit même de sa maison pendant que le malheureux râlait dans la chambre voisine». Si affermava anche che ella aveva fatto vendere o aveva sparpagliato e distrutto le carte più intime di suo marito, i suoi documenti, le sue opere inedite per ignominia o per rancore. Ma cosa c’è di vero in tutto ciò? Nessuno è riuscito a saper niente di positivo e, probabilmente, non si saprà mai nulla.

  Balzac, dopo una straziante agonia morì, fulminato da un colpo, il 18 agosto 1850, all’età di 51 anni. Fu però in tempo a ricevere l’estrema unzione. I funerali furono semplici e imponenti: i cordoni della coltre mortuaria di terza classe erano tenuti da Baroche, ministro dell’Interno, da V. Hugo, A. Dumas e Sainte Beuve. Un corteo immenso seguiva il feretro. V. Hugo pronunzio un meraviglioso discorso funebre, che commosse tutti quelli che assistevano, fino alle lacrime.

  H. de Balzac era un uomo orgoglioso e vanitoso. Egli aveva detto un giorno clamorosamente: «Non ci sono a Parigi che tre uomini che sappiano scrivere: Hugo, Gautier e io». Egli era mosso da una volontà indomabile di riuscire ad ogni costo, ma era un uomo piuttosto disordinato e incostante, e passò una gran parte della sua vita infernale a cercare invano un adattamento più confacente alle sue ideologie. Visse perpetuamente nel bisogno più assillante, nonostante i suoi guadagni non indifferenti; scialacquava spesso e troppo in tante futilità e non si preoccupava affatto dell’indomani, per cui non fu mai in grado di raggiungere la condizione più che agiata che agognava. Fece costruire il padiglione «des Jardies», vicino a Sèvres (egli aveva voluto esserne l’architetto e, quando fu finito di costruire, si accorse che una scala da mugnaio sostituiva quella di pietra o di marmo, che non c’era affatto), si circondò di ninnoli da ornamento di tutte le dimensioni, di quadri, di disegni, di oggetti d’arte, di mobili antichi, molti dei quali aveva, però, indicati solo in descrizioni sommarie, tracciate col carbone sui muri, ecc. Questa abitazione non fu mai terminata. Egli continuava a lavorare con coraggio smisurato e logorante: era un’orgia di lavoro intellettuale, che gli toglieva la serenità e la calma.

  Le opere di H. De Balzac si compongono essenzialmente dei suoi romanzi, la cui riunione forma la Comédie humaine, monumento titanico, che l’umanità non perderà mai più di vista, tutto un mondo fittizio, che dà la sensazione del mondo reale.

  La Comédie humaine comprende: I°) Scènes de la vie privée; 2°) Scènes de la vie de province; 3°) Scènes de la vie parisienne; 4°) Scènes de la vie politique; 5°) Scènes de la vie militaire; 6°) Scènes de la vie de campagne; e poi: Etudes philosophiques; Etudes analytiques. Balzac scrisse anche cento Contes drôlatiques; alcuni drammi, fra i quali, Vautrin, che fu interdetto per causa d’immoralità; la Marâtre; Mercadet ou le Faiseur e una commedia, Les Ressources de Quinola; e, infine, ha lasciato l’interessantissima Correspondance.

  I personiaggi (sic) che, in generale, Balzac mette sulla scena di questa «histoire naturelle de l’humanité», come egli dice, e che sono tutti vivi e vari, appartengono a tutte le classi della società. Infatti egli è l’evocatore più fecondo e più profondo, il più straordinario creatore di anime e di tipi che sia mai apparso; nessuno si è più di lui distinto a individuare i suoi personaggi così bene affastellati, con una pittura minuziosa e perfetta dell’ambiente in cui vivono, delle loro abitudini, delle loro attitudini. Nessuno, dopo Shakespeare e Molière, ha saputo creare e plasmare dei tipi così immortali come H. De Balzac. Egli ha dipinto l’avarizia in Grandet, l’arrivismo in Rastignac, l’affarista in Mercadet, l’invidia e la gelosia in Cousine Bette, l’ambizione dell’intelligenza in Les souffrances d’un inventeur, il vecchio degradato e abietto in Hulot, la cortigiana in Esther, il commerciante geniale ma vanitoso in Birotteau, il banchiere in Nucingen, il finanziere in Gobsek (sic) in Fraisier, il dovere in Bianchon, il collezionista maniaco in Cousin Pons, la donna eroica in Mme de Mortsauf, la tirannia di una invenzione in Balthazar Cloës (sic), il giornalista in L. de Rubempré, la ragazza di teatro in Coralie, l’amore paterno spinto fino all’avvilimento in Père Goriot, la devozione in le Médecin de campagne, ccc. : ovunque, un istinto irresistibile, nobile o basso, virtuoso o perverso. I suoi personaggi vogliono, per la maggior parte, soddisfare la passione sfrenata che li domina e che è l’incentivo predominante della loro vita morale; la loro esistenza è una corsa spietata al denaro, all’affarismo, alla concupiscenza, al lusso, al godimento più sfrenato, per cui essi rimangono lontani da ogni idea nobile, da ogni sentimento generoso, da ogni proposito retto e leale. I buoni sono rari e quelli che preferisce e affastella con sadica voluttà sono, come egli stesso ha detto, «les êtres vulgaires qu’il idéalise dans leur laideur ou leur bêtise». Questo visionario allucinato ha dipinto dunque l’amore appassionato, la libidine, lo spasmo, la tenerezza, il sacrificio, l’odio, l’orgoglio, l’adulterio, l’intrigo, l’ipocrisia, l'ingratitudine, la ribellione, il delitto, i ricatti, gli affari loschi, i vergognosi retroscena politici, giustificandoli, spiegandoli, esaltandoli con quel morboso disordine di pensiero, di azione e di costume, che era la caratteristica della società francese dopo l’Impero. Egli ha composto e idealizzato i suoi numerosi personaggi, osservando e vagliando tutte le sfumature più impensate della vita e, con gli elementi reali da lui posseduti, li ha foggiati con la sua incessante meditazione e ne ha fatto i simboli viventi delle sue concezioni anche le più astratte. Per tal modo Raphaël de Valentin nella Peau de chagrin è l’inquietudine morale del secolo, che non può saziare i propri appetiti di godimento; Modeste Mignon è la rivincita dell’immaginazione sulla verità; Philippe Brideu (sic) ladro, spia, assassino, parricida, muore ricco in combattimento; il sotto capo Rabourdin negli Employés medita la riforma dell’amministrazione e dell’imposta; il dottor Renassis (sic) nel Médecin de campagne è l’idealismo filantropico; Félicité des Touches in Béatrix è la menzogna della gloria; l’avaro Grandet non può dire una parola, fare un gesto, mangiare, andare a letto, parlare con sua moglie, sua figlia, i suoi parenti, i suoi domestici, senza mostrare quello che è e muore dopo avere ammassato tanto oro, ecc., ecc. Per il primo egli ha osato dipingere e far toccare con mano i costumi della sua epoca con tutte le loro trivialità, con tutte le loro miserie, rompendola per sempre con le inverosimiglianze sentimentali e avventurose.

  Il suo stile, che è uno strumento più potente che delicato, manca spesso di grazia, di arte, di sobrietà e di finezza; ha qualche cosa d’ineguale, di penoso, di brutale, di ridicolo, di sconcertante, di eccessivo; è uno stile di lavoro e di movimento; ma quando l’azione procede, si anima e si libera da tutte le pastoie e le intelaiature, allora lo stile si accentua, si fortifica e si precisa ed è di una penetrazione eccezionale; il romanziere, identificandosi con i suoi eroi, si commuove egli stesso di tutto ciò che loro capita, dei loro dolori e delle loro gioie, e il suo stile si trasforma e diventa tutta verità ed egli dà allora un’immagine veramente esatta e completa della vita umana. Egli non teme di fare appello a tutti i vocabolari esistenti, anche a quelli tecnici di scienza, a una fraseologia pomposa e banale, alle espressioni professionali meno conosciute, al dialetto popolare dei vicoli e delle prigioni. Ed è soltanto col rinunziare metodicamente alle qualità classiche dello stile ch’egli giunge a dare quasi sempre quella espressione di vita fremente e insaziabile.

  E intanto, al di sopra di tanti guazzabugli stilistici escogitati e divulgati, l’opera letteraria di H. de Balzac, che fu una lotta accanita e perpetua contro le cattive e funeste influenze, è sopravvissuta. Essa mostra perfettamente come il romanticismo, per gusto dell’eccezione, è stato indotto ad osservare la realtà e, preferibilmente, la realtà brutale; egli ha così, con le sue impotenze e la sua potenza, operato nel romanzo la netta separazione del romanticismo e del realismo.

  Il romanzo francese è dominato, ancora oggi, alla metà del XX secolo, dal genio indiscusso di Balzac. I bei talenti abbondano intorno a lui e dopo di lui, ma nessuna delle loro opere ha mai raggiunto l’altezza e la genialità della Comédie humaine, la quale è servita di modello a molte opere posteriori ed ha orientato la curiosità di certi spiriti verso lo studio di ciò che la realtà ha di laido e di grossolano, ed annunzia la letteratura brutale.

  Ecco Honoré de Balzac, questo «Lucifer de la Littérature», come lo chiama A. France, il quale vive ancora, sempre, almeno in ispirito.

 

 

  Franco Arese, Per il centenario di Onorato Balzac (Due testimonianze inedite sul suo soggiorno a Milano e Venezia nel 1837), «Il Risorgimento», Milano, Anno II, N. 2, Settembre 1950, pp. 156-158.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 557.

 

  Il viaggio che Onorato Balzac fece nel Lombardo Veneto nel febbraio e marzo del 1837, non solo ebbe una vasta eco nei giornali dell’epoca ma pure nelle corrispondenze dei contemporanei ai quali non poteva sfuggire la risonanza che il giungere in Italia del poeta aveva sollevato.

  Ci è prezioso pretesto il centenario della sua morte che si celebra appunto in questi giorni (18 agosto), per pubblicare due testimonianze inedite alquanto interessanti per i particolari nuovi che esse ti apportano e che sono compendio all’anedottico studio di Henry Prior sul suo viaggio in Italia[4], rimasto ancora oggi lavoro fondamentale per una conoscenza di quell’interessante intermezzo della vita del poeta.

 

***

 

  Da una lettera del barone Achille Zanoli, lo storiografo delle milizie italiane del periodo napoleonico, al conte Francesco Arese, allora esule in America, in data 4 marzo 1837, togliamo questo brano, che, oltre a darci la sensazione di quanta e quale accoglienza mondana e non mondana ebbe l’illustre ospite a Milano, ci fa anche sentire e quasi oserei dire gustare il ben noto incidente che Giovanni Raiberti in un verso satirico così definì: «nanca i lader el lassen sta quiett».

  Ecco il testo: «Qui vi è il letterato Balzac al quale si prodigano per così dire gli onori del Campidoglio, gli si danno pranzi a bizzeffe. Archinti, Visconti Tonino, e chi so io. Egli fu fermato ieri l’altro nella contrada della Sala da un giovanotto che con l’aria di abbracciare un vecchio amico gli portò via l’orologio, ma l’aggresso maneggiò bene la sua canna e l’aggressore gli impose tregua mostrandogli uno stile, indi fuggì ma inseguito dalla gente venne poi arrestato, e l’orologio ricuperato.

  Qui i biricchini hanno un modo di dire, cioè “giù Balzag” e deriva dall’esservi un fiacherista che si chiama Balzaghi rinomato per aver sempre dei cattivissimi cavalli per cui deve sempre frustarli spietatamente per farli muovere e quando lo vedono gridano “giù Balzag”. Ciò che dicono pure per proverbio quando voglio indicare di battere qualcheduno. In questa occasione al momento dell’arresto del ladro fecero queste esclamazioni, e Balzac credendo che ripetessero il suo nome era tutto contento esclamando «guardate come sono già conosciuto da tutti a Milano» ...

  Invero Balzac non si pavoneggiava invano, anche se le grida dei monelli milanesi erano state mal comprese: la sua popolarità a Milano fu tale da far dimenticare perfino l’apparizione di una stupenda aurora boreale che proprio in quei giorni era sorta quasi a preannunciarlo. Il viaggio in Italia di Onorato Balzac aveva come scopo primo una ragione economica: la sistemazione dell’eredità della contessa Giovanna Patellani deceduta a Milano il 19 luglio 1836. Essa aveva avuto dalle prime nozze con il conte Pietro Guidoboni due figli: il conte Emilio Guidoboni Visconti e Massimilla sposata nel 1817 al barone Francesco Galvagna. Dal secondo matrimonio con il francese Pietro Antonio Costantin un figlio, Lorenzo.

  Balzac, intimo del conte Emilio Guidoboni e ancor più della bella moglie inglese, fu incaricato di essere intermediario nella non facile sistemazione che l’eccessiva preferenza per il figlio di secondo letto aveva causato. A Milano, Balzac, dopo lunghe trattative condotte con abilità, firmava il 12 marzo la transazione finale con il Constantin e quindi partiva alla volta di Venezia per ottenere la ratifica dall’altro erede, l’ancora minorenne Emilio e da suo padre barone Francesco Galvagna. Questi, dopo esser stato sotto il regno d’Italia prefetto dei dipartimenti dell’Alto Po e dell’Adriatico era diventato alto funzionario del Lombardo Veneto e dal 1820 Presidente del Magistrato camerale delle provincie Venete.

  Circa i rapporti tra il Galvagna e il Balzac e le impressioni riportate da quest’ultimo troviamo testimonianza in due brani di lettere che il Galvagna scriveva all’amico milanese Paolo de’ Capitani di Vimercate.

  Il 10 marzo 1837 egli scriveva da Venezia:

  «Non avrei mai immaginato di aver a trattare affari con Balzac: eppure nella ventura settimana egli viene ad offrirmi una transazione per cui dovrei prendere qualche cosa per l’Emilio sull’eredità dell’Ava: la cosa è veramente singolare. Conosco qualche opera di questo rinomato scrittore, ma la moralità ed i costumi che traspirano dagli scritti di lui, non sono di natura da farmi bramare la personale conoscenza: eppure viene con due lettere d’indirizzo per me. Lo vedremo e mediteremo sulla venalità della mente umana ora che mi dite che professa l’assolutismo: forse che da Venezia pensa di recarsi a Costantinopoli ...».

  Non traspare certo da questa lettera l’entusiasmo di trattare i propri affari familiari con un poeta i cui principii morali e politici sembravano tanto criticabili alla ben pensante autorità veneziana. È quindi con stupore e interesse che scopriamo nella successiva missiva del 23 marzo 1837 come Balzac non solo in poco tempo abbia saputo conquistare la simpatia del prevenuto barone ma anche se ne sia fatto un difensore contro le critiche e le polemiche sorte in quella Venezia ove egli trovò certo una accoglienza ben diversa da quella milanese.

  «Ho terminato ogni vertenza col Constantin ratificando la convenzione recatami dal Signor di Balzac, qual procuratore di mio cognato Guidoboni. Ricevo una miseria, ma che così ne si è tutto ritrovato perché già io amo la pace e non voglio liti e molto meno con parenti. La condotta con me del Balzac fu franca, e leale, e la sua società mi piacque, ritenete però bene che allontanai ogni soggetto di discorsi politici, perché di questi non voglio sapere che quanto recano le nostre gazzette: la conversazione sua nel dì che fu da me a pranzo in piccola cotteria s’aggirò tutta sulle sue opere, sul fine che si è con questo prefisso, e sopra vari aneddoti dei tempi dell’impero relativi in gran parte alle nuove contesse e duchesse, il che ci fece ridere siccome raccontati con molta grazia, e fluidità di lingua francese, perché d’italiano non ne ha contezza che per leggere.

  Per ciò che riguarda le sue massime politiche, abbenchè come vi dissi io non abbia permesso che se ne parlasse, pure dal tutto insieme delle parole gettate qua e là parmi che una di queste nostre Eccellenze, a cui fu raccomandato da costì, il Balzac, lo abbia nella risposta ben definito: rispose egli ch’aveva trovato questo signore, uomo veramente di spirito, e da considerarsi un frutto raro ed esotico come l’ananas che ha tutti i sapori essendo egli bonapartista per entusiasmo di gloria, filippista perché ritiene Filippo il solo capace a regolare, se è possibile la Francia, legittimista per sentimento, repubblicano perché ritiene che la repubblica è inevitabile.

  Siccome il detto Balzac rimase nell’alta società e non fece la corte ai nostri piccoli letterati così questi gli fecero la guerra facendo credere che sparlasse di Venezia, ma io devo dire che lo trovai invece molto colpito delle bellezze di questa città. So che un articolo vuol farsi inserire da Tullio Dandolo in codesta gazzetta, perché dicesi che abbia avuto con lui qualche alterco sul giudizio dei Promessi sposi di Manzoni e ciò nell’occasione di un pranzo dato dalla Signora Co. Soranzo Londonio: ma voi sapete cosa sono i letterati, e come facilmente si prendono per i capelli, e come poco importa che si battano finché lasciano la spada nella guajna ...».

  Interessante la spiegazione che il Galvagna ci dà dello scontro tra Balzac e i letterati locali e come egli, testimone, non abbia sopravalutato l’alterco avvenuto in casa Soranzo. L’articolo di Tullio Dandolo apparso il 1° aprile 1837 nella Gazzetta Privilegiata di Venezia, fu considerato esagerato e pedante per la violenza con la quale egli attaccava lo scrittore francese. Fu del resto uno scontro tra gli assertori del romanzo storico, e il padre del romanzo realista di osservazione sociale. Al Dandolo che così profetizzava il destino delle opere dello scrittore francese: «le sue scene, i suoi romanzi dimenticati dalle generazioni future saranno pe’ soli eruditi un’espressione curiosa della corruzzione (sic) parigina; lo storico indagatore non vi attingerà i suoi materiali che con diffidenza, dubiterà della rassomiglianza dei quadri, e non ne trarrà a vergogna de’ padri i documenti giustificativi de’ suoi racconti», rispondono oggi, a un secolo di distanza dalla morte, i perenni valori della Comédie Humaine.

 

 

  Riccardo Bacchelli, Balzac (1), «Il Ponte. Rivista mensile di politica e letteratura», Firenze, Anno VI, n. 7, Luglio 1950, pp. 772-778.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., pp. 552-553.

 

  Signore e Signori,

  che strani inganni perpetrano nella memoria i tanti sconvolgimenti a cui è andata soggetta la nostra vita in questo secolo!

  Quando ebbi l’onore di essere invitato a commemorare in questo Congresso il centenario della morte di Balzac, il primo ricordo, il primo nocciolo della riflessione, fu di aver letto Balzac avanti il 1914, il fatale ‘14. E a volte, quando vengon fatte simili riflessioni cronologiche, ci coglie un dubbio di aver sognato, ma non si sa più quando. Fu sogno quel che vivemmo e conoscemmo noi prima di quella data, o è stato tutto un sogno dopo?

  Mi sorpresi pertanto a pensare: — È mai possibile che soltanto un secolo sia passato da che è morto Balzac? È mai possibile che tanto tempo sia già passato da quando io lessi Balzac?

  E riportandomi a quei giorni, mi sembra che essi sian usciti dal tempo sensibile, e che appartengano al tempo revoluto, passato alla storia, mentre d’altronde la memoria li risuscita così vivi e presenti, che mi sorprendo pure a pensare: — È mai possibile che già un secolo sia passato da che è morto Balzac; e che di questi cento anni io ne abbia vissuti più che la metà, e che quando lo lessi non fossero molti più che cinquanta dalla morte di lui?

  Questo significa, intanto, che la lettura de la Comédie Humaine è di quelle che si imprimono nella memoria col colore e col tono dei giorni e delle ore in cui furono fatte, coi sensi e coi sentimenti ch’esse producevano mentre le facemmo; letture che rimangono legate alla memoria della stagione, dei luoghi, del libro con le sue pagine e i suoi caratteri impressi.

  Vi prego d’indulgere alla vivacità di tale ricordo, se essa mi sforza a raccontarlo. E spero che non vi apparirà, poi, del tutto inutile, mentre, d’altro canto, il gran romanziere è tanto abbondante e minuzioso in fatto di coloriti e di particolari, da incoraggiare, se non da giustificare, se a Voi non dispiaccia, una breve licenza narrativa e descrittiva. Era l’estate del 1913, stagione di gran sole, quando, partito un giorno sul far dell’alba da Bologna, percorrevo in automobile la Toscana, e a mezzogiorno, nell’ora avvampante, dopo molti incagli, arrivavo a Pescia in Valdinievole, con la fame in corpo dei venti anni e colla sete di tutte quelle ore di caldo e di fatica e di stizza attorno al motore ed ai pneumatici.

  Abbiate pazienza, Signore e Signori, se a me pare che, parlando di un autore tanto saporito e caloroso in fatto di pietanze e di bevande, parlando di un così autorevole maestro, com’è Balzac, in fatto di gusti gastronomici ed enologici, così come in ogni varietà di appetiti e passioni sensuali; abbiate pazienza se a me pare che non si sconvenga se vi confido che a Pescia, quel giorno, nell’ombra e nella frescura di un’osteria aulente di sana cucina e di buona cantina, mi trovai davanti a una vivanda casalinga, in cui eccelle la cucina toscana, e ad un eccellente fiasco di vino.

  Questi particolari dell’avventura ci mettono in clima balzacchiano, secondo la tanto corposa maniera descrittiva di Balzac. Perciò insisto e preciso che si trattava di un pollo fritto, sgrillettante d’olio bollente, e, come lo chiamano, dorato. Quanto al vino, s’intende era di quel robusto e sostanzioso Chianti, asciutto al palato e stuzzicante la lingua, vino aristocratico e contadinesco, rustico e gentile, secco e profumato, molto invitante, che soddisfa e non sazia, inebria e non pesa.

  Perciò nell’osteria ove vi ho condotti, un bicchiere chiama l’altro, e, prima dell'ultimo, parecchi sono i penultimi, e torna l’allegria e il vigore, mentre se ne va del tutto il giudizio, di cui non eravamo troppo forniti, io e il mio compagno di viaggio. Per di più, rimessici in via, la maliziosa sorte ecco rianima di allegri spiriti anche il motore. Ci mettemmo con bella foga a inseguire e sorpassare quante automobili raggiungevamo, finché, nel gran polverone che a quei tempi copriva le strade, andammo a investire il veicolo di un innocente automobilista sobrio, che ci veniva incontro in mezzo alla nuvola di polvere.

  All’ospedale, lo dico subito, andai io solo, sicché ho la soddisfazione, per grazia di Dio e della fortuna, di non avere sulla coscienza né feriti né morti. Ci andai, come meritavo, io solo e parecchio fracassato, in modo che ebbi agio e tempo di leggere le opere complete di Balzac, e di leggerlo come va letto, tutto e di seguito.

  Ecco dunque la fortunosa combinazione di circostanze, da cui nacque l’occasione di studiare il romanziere che tra tutti eccelle ed eccede per facoltà combinatoria di fantasia inventiva, il principe fra gli inventori di intrighi e casi straordinari. E s’intende che non pretendo che per leggerlo da capo a fondo occorra una combinazione di casi infine così catastrofica; ma certo, tempo e libertà ce ne vogliono più di quelli che si hanno disponibili ordinariamente.

  Per di più, il grande Honoré è un tale eroe della penna e un tale straviziatore in fatto di scrittura, che domanda, a leggerlo, un certo eroismo di lettore e non poco di ciò che, in un momento di arguto pessimismo, il delicato ingegno di un sobrio scrittore e goloso lettore, Valéry Larbaud. chiamò un vizio impunito, la lettura.

  Fatto sta che mi pare ancora di avere sul leggio del mio letto d’ospedale e sotto gli occhi le fitte colonne e le migliaia di pagine della edizione — in pochi e massicci e vasti volumi delle opere complete — nella quale lessi la Comédie Humaine durante quella vacanza.

  Non so fino a che punto sia esperienza soltanto mia personale ciò che sto per dire. Lo dò per quel che vale. Della lettura di Balzac è vivissimo il ricordo esterno; ed è altrettanto vivo il ricordo interno delle impressioni da essa prodotte. Nell’insieme, invece, cotesta memoria mi appare come in una luce di eclissi solare e di aurora boreale. Sono mille sensazioni in una, una impressione in mille, sicché vorrei dire che del più fecondo inventore di casi e di personaggi e di particolari che la storia del romanzo registri, rimane nella memoria un’immagine innumerevole, gremita eppure quasi astratta, cangiante e sempre uguale, che tutta l’opera comprende e in certo modo annulla, con tutta l’immensa varietà di essa.

  Ecco che l’immagine dominante, l’eroe dell’avventura, il personaggio sto per dire unico di quella folla e popolazione, tale, come dissero, da far concorrenza all’anagrafe, ecco che tale eroe è il grande, lo straordinario, il madornale, il senza pari Honoré.

  E mentre il ricordo puntualizza cento e cento di quei mille e mille casi e luoghi e incontri e visi e nomi e parole, se la riflessione vuole raccogliere un giudizio, una formola riassuntiva, deve uscire dall’opera d’arte concreta, per fissarsi, quasi fuori di essa, nell'immagine, più fantasiosa che rigorosa, dell’autore dell’opera.

  L’osservazione riesce tanto più paradossale, quanto più l’opera vuol essere, e in certo senso sicuramente è, realistica al massimo grado come procedimento tecnico rappresentativo. Paradossale osservazione riesce poi anche, perché, se richiamo ricordi di quante altre opere narrative ho lette, non escluse, per il troppo poco che ne conosco, le orientali ed asiatiche, mi sembra proprio di dover dire che quel carattere di memoria eclissata, è proprio ed unico della memoria rimastami dell’opera di Balzac.

  Cercando la ragione del paradosso, mi pare da trovare nel fatto che leggere Balzac significa ed esige che ci s’immerga e ci si sommerga, finché dura l’impresa, corpo e anima e a corpo perduto ed a occhi chiusi, con totale rinuncia della mente critica, in quell’innumerevole repertorio di tanti eventi e di tante storie diverse ed uguali. Significa abbandonarsi a quell’unità, anzi monotonia di tono, fra tanta varietà di colori cangianti e sgargianti; abbandonarsi all’accattivante e capziosa violenza, all’esasperata ed esasperante evidenza, alla seduzione irresistibile finché dura, che la rappresentazione balzacchiana esercita sui cinque sensi e sulle papille gustative e sulla pelle, efficacissima, com’è, a tramutare in senso e passione le immagini e le figure della fantasia e della lingua. E c’è, nell’opera di Balzac una continua dilettazione e voluttà e servitù dell’espressione e della fantasia di per sé prese, che sollecitano, appassionano, ed insomma seducono.

  È lo stile di Balzac, opulento e fatturato, potente e misturato, prodigioso e artifiziato, che bisogna prendere com’è, tutto fuori d’ogni regola e misura: o subirlo, o rifiutarcisi.

  Così, per trasportarci in una similitudine, Baudelarie (sic), nei Paradisi Artificiali descrive Balzac che rifiuta la droga stupefacente perché non avrebbe potuto agire sul suo cervello, che reggeva ai più maschi vini di Borgogna senza un annebbiamento. Direi che quel prode cervello era in un permanente stato d’ebbrezza fantasiante tale, che nessun’altra avrebbe potuto entrarci.

  Opulenza di stile da eloquenza asiatica, dice la perfida malizia e l’ottimo gusto di Sainte-Beuve, notandone i valori profusi, frolli e voluttuari. Il gusto elettissimo e classico, così come l’umore, dell’autore di Volupté, che di voluttà s’intendeva fino a gustarla màcera e contrita, erano fatti per penetrare codesto stile e per respingerlo. Infatti non tanto direi che Sainte-Beuve ignori, quanto che respinge la grandezza propria di Balzac.

  Gli è che non bisogna leggerlo avvedutamente e con spirito critico. Direi anzi che il giudizio, rispetto all’opera balzacchiana, si determina nel rimandare o postergare esame e riflessione, fino a che il giudizio stesso appare superfluo. O meglio, un giudizio si determina fino dalla prima pagina; poi, è di quelli che noi facciamo sulle persone piene delle più disparate qualità, ma tutte dominate da una prepotente e trascinante vitalità, da un umore corposo e sanguigno, che le mette al di qua e al di là del bene e del male, del vero e del falso. E sarebbe ingiusto giudicarle come se fossero e pretendendo che possano essere savie e in possesso di sé medesime Perché in quel suo perenne stato di fantasiante frenesia in quella estrema tensione di ogni parola che dice e di ogni fatto e persona che inventa, è la forza e la vocazione, la grandezza e il destino di Balzac. Ciò ben colse l’infallibile intuito di Baudelaire dicendo che rimproverare a Balzac l’esagerazione, è disconoscere e rimproverargli la sua grandezza. Sicché l’operazione della memoria, che durante la lettura si abbandona ai mille stimoli e si lascia abitare dalle mille invenzioni della fantasia balzacchiana, per poi ricordare veramente un personaggio solo, lui Balzac; questa operazione della memoria mi pare il più adeguato ed esauriente giudizio, che rende tutti gli altri superflui.

  Il più realistico dei realistici, il più veristico dei veristi, in quanto artista è il più romanzesco dei romanzieri. Egli tratta l’arte del romanzo, che consiste nel ridurre tutto alla misura del reale e del vero, sempre ed in tutto secondo la dismisura dell’eroico e del sublime, in tutto e sempre o infernale o paradisiaco, in tutto e sempre straordinario. E non raffigura le sue favole, anzi propriamente non le inventa, neppure: le vive, ossia le subisce, le patisce o le gode. Di ciò il suo stile, più che la testimonianza e l’istrumento poetico, è l’espressione appassionata e sensibile. E se nessun romanzo è tanto inverosimile ed incredibile quanto i romanzi di Balzac, è pur vero che nessuno nell’inventario ci ha creduto quanto ci credette lui, che questa sua fede trasmette in noi tanto che nessun lettore, finché legge, crede ad un romanzo quanto ci crede il lettore di Balzac. È una forza di immaginare e di rappresentare parente di quella dei sogni, allucinata ed allucinante.

  Fare processi al suo gusto o al suo contenuto, è tanto ingiusto come farli alle sue illusioni di mistico o fisiologistico filosofante, di politico d’ogni scuola, di storico e di moralista, di uomo enciclopedico. È da dire piuttosto che queste illusioni, anch’esse, compongono non poco di quell’attrattiva simpatica, per la quale il lettore concede a Balzac il proprio consenso più vivo e fiducioso, proprio quando più glielo nega a lume di criterio e di ragione e di gusto. Non può dire di aver letto Balzac chi non è stato per un’ora o per un anno balzacchiano, balzacchiano perduto.

  Egli fa, sì, come ho già ricordato, concorrenza allo stato civile, purché si sia ben d’accordo che è il censimento di una popolazione di fantasmi. Ed è anche vero che lo storico non deve credere di conoscere la Francia della Rivoluzione e dell’Impero e della Restaurazione e di Luigi Filippo, anzi l’Europa dell’Ottocento, se non ha preso conoscenza dell’opera di Balzac, ma non in quanto rappresenti essa quelle epoche, bensì in quanto ne è un elemento di vita, e dell’umore, del costume, della fantasia, dei vizi dell’epoca.

  Anche sull’impero di Balzac non tramonta il sole, ma perché è un impero chimerico; e il piglio di conquistatore, di legislatore, di mago, col quale egli domina e spazia e penetra e fruga in cotesto suo impero, mi fa venire in mente quel pensiero di Pascal: che Giulio Cesare era troppo maturo per darsi al progetto di conquistare il mondo, buono per affascinare quell’affascinante giovane di Alessandro Magno. Sottilizzando, si potrebbe aggiungere che il macedone fu pure un’energia tanto quanto barbarica, esaltata dalla cultura ellenica, che con lui trapassa nella sontuosa decadenza ellenistica, se non mi si volesse imporre un altro paragone. Come l’Alessandro Magno della leggenda medioevale, pervenuto ai confini della terra, langue nel desiderio di conquistare la luna, così mi par di vedere il senza pari Balzac, nel suo impero di sogni, consumare la conquista, consumarsi in sogno e chimera.

  La sua abbondanza e la sua minuzia, per tornare all’artista, entrambe prodigiose, hanno l’evidenza ossessiva e la logica implacabile di quella sbalorditiva mescolanza di lucidità immaginativa e di febbre cerebrale, d’esattezza precisissima e di megalomania fantastica, di vigore scrittorico e di grafomania, di virtù e di virtuosismo, che forma l’impasto e la singolarità del suo genio letterario, il quale esercita su di noi un influsso simile a quello d’una cometa dei favolosi cieli dell’astrologia, e dentro di noi spande la luce fittizia e irresistibile come è quella d’una aurora boreale.

  Mi avvedo, Signore e Signori, che di metafore sto facendo scialo, ma è l’influsso della cometa balzacchiana. Che se egli non fosse l’inimitabile, sarebbe pericoloso uomo, in quanto dimostra che uno può violare e contrariare ogni regola e misura e criterio e ragione, e riuscire, non già malgrado, ma proprio in questo, un genio e un eroe letterario: d’imperio, trionfalmente, sit pro ratione voluntas, premesso il suo talento.

  Pertanto è giusto ricordare pure, che la vocazione e il destino di Balzac si palesano anche nelle miserie e nell’affanno delle sue giornate angosciate e delle notti formidabili e laboriose, coi creditori, coll’usciere, col fattorino di tipografia alla porta. Si palesano nella strana e indubitabile logica delle sue follie e dei suoi molteplici fallimenti, e di quel progetto di una conquista del mondo, che infine, trasferendosi in chimera e in bozze di stampa, gli è pure riuscito.

  Riconducendoci a giudizio critico e tecnico, è un fatto che in lui romanziere c’è una virtù che tiene dell’onnipotente e dell’infallibile, perché non c’è tratto e figura e nota che rimanga intenzionale e velleitaria, non riuscita od approssimativa. La sua forza di creazione, prendendola per sé ed in sé, è assoluta, non si lascia ridurre a nessun criterio di paragone, fuori che con se stessa; ma ogni altro criterio la turba e distrugge. Per applicare a lui una di quelle espressioni sue, in cui sa condensare tutta una saturazione di fatti e passioni, come per esempio in un semplice titolo; poniamo: La donna di trent’anni — ecco che quella sua virtù è la sua Grandezza e Miseria.

  Miseria, in senso filosofico, è ben quella di un uomo a cui sia dato di raggiungere la propria grandezza, di compiere l’opera propria, soltanto in quanto sia costretto a consumarvi dentro, e dentro i limiti di essa, ogni coscienza critica e ogni giudizio razionale.

  Ma nell’averla intitolata Commedia, ossia rappresentazione di una finzione, involontariamente e senza saperlo Balzac stesso avvia a una definizione critica dell’opera sua. Proprio come una scena, da guardare con partecipazione rapita ma limitata, intensa ma fuggevole, la Comédie Humaine è opera prodigiosa. Ed io la vedo come un palcoscenico affollato di innumerevoli personaggi e maschere, inerti finché non si accendono i lumi, ed esse dicono le parole insufflate. Ciò che accende i lumi, ciò che prima ancora insuffla una animazione segreta e irresistibile, una universale impazienza di vivere e di parlare in quelle maschere e personaggi, è la voce di Balzac suggeritore; e mi pare di sentirla simile alla voce di Vautrin quando rientra a notte nella famosa pensione: — C’est moi, maman. È una voce notturna e sotterranea, dal suo immaginario buco di suggeritore vigorosamente asmatica, con potente inflessione sardonica, che muove, anima, incalza, agita la scena, finché cala il sipario, ed è bene che noi spettatori andiamo a casa senza salire sul palco a vedere la tristezza dei lumi spenti e delle macchine e degli inganni teatrali, e delle maschere e dei costumi appesi ai chiodi.

  Ma dunque dall’immensa opera immaginativa del prodigioso del trascendentale romanziere, mancherebbe la lieve, l’alata, la semplice poesia, sola che rende imperiture le opere dell’arte?

  La poesia nell’opera di Balzac, io la sento quando ed in quanto in essa e da essa parla un’altra voce, che è pure di Balzac. È quella che descrivendo incarna, e tutt’insieme giudica e giustifica e condanna e compiange l’irremisibile, la fatalità delle passioni e del sopruso.

  Non la sento questa voce, e non credo che si senta, quando Balzac mira ad esprimere più o meno cinici concetti morali e più o meno trascendentali sentimenti mistici. La colgo in un accento involontario e costante di partecipazione profonda fino alla pietà, che anima e vivifica tutta la spietata macchina figurativa ed esemplare: pietà di quella sostanza tragica che è delle passioni e della vita nostra, che è delle nostre ingiustizie e giustizie, dei nostri errori e delle verità nostre, del nostro umano destino legato alla terra. Il senso della fatale empietà dell’esistenza e delle necessità umane terrestri, in ogni ordine di cose, è forte e tragico in Balzac, ed egli lo traduce in una profonda ed intima pietà per le vittime e per i loro oppressori, per le vittime e per chi le fa vittime, e per chi è vittima di se stesso, come tutti siamo. In questo accento dell’animo, sento la poesia di Balzac, presente, appunto come accento profondo, in tutta la Comédie, espressa in voce chiara e cantante da più di una figura. Ad ognuno è possibile eleggersi e prediligere, questa o quella fra tali figure annunciatrici di pietà nell’opera di Balzac. Per conto mio, i due angeli poetici, sono le due indimenticabili donne dei Mémoires de deux jeunes mariées: Louise e Renée.

 

  (1) Commemorazione tenuta il 14 giugno u. s. a Firenze nel Salone dei Cinquecento, sotto gli auspici dell’UNESCO, in occasione del centenario della morte dello scrittore.

 

 

  Luigi Bàccolo, Ai margini di un centenario. Il teatro di Balzac, «Teatro. Rassegna quindicinale degli spettacoli», Roma, Anno secondo, N. 6, 15 marzo 1950, pp. 16-18; 4 ill.

 

  Théophile Gautier, nel suo profilo di Balzac scritto nel [185]8, otto anni dopo la morte del romanziere, rievoca in una pagina memorabile una serata di quei memorabili tempi. Balzac che legge a un piccolo gruppo di amici il Mercadet nella sua stesura originale «ben altrimenti ampia, complicata e folta che quella adattata per il teatro del Gymnase da Adolphe d’Ennery». Balzac era un grande lettore: « sans indiquer ni les actes, ni les scènes, ni les noms, affectait une voix particulière et parfaitement reconnaissable à chacque (sic) personnage; les organes dont il dotait les différentes espèces des créanciers étaient d'un comique désopilant; il y en avait de rauques, de mielleux de précipités; de trainards, de menaçants, de plaintifs. Cela glapissait, cela miaulait, cela grondait, cela grommelait, cela hurlait sur tous les tons possibles et impossibles. La Dette chantait d’abord un solo que soutenait bientôt un choeur immense. Il sortait des créanciers de partout, de derrière le poêle, de dessous le lit, des tiroirs de commode, le tuyau de la ch[e]minée en vomissant; il en filtrait par le trou de la serrure, d’autres escaladaiente (sic) la fenêtre comme des amants; ceux-ci jaillissaient du fond d’un malle pareils aux diables des joujoux à surprises, ceux-là passaient à travers les murs comme à travers une trappe anglaise er c’était une cohue, un tapage, une invasion, une vraie marée montante. Mercadet avait beau les secouer, il en revenait toujours d’autres à l’assaut, et jusqu’à l’horizon on devinait un sombre fourmillement de créaciers en marche, arrivant comme des légions de termites pour dévorer leur proie. Nous ne savons si la pièce était meilleure ainsi, mais jamais représentation ne nous produisit un tel effet». Uno che legge così, sarebbe stato un grande scrittore di teatro, se non avesse dovuto essere un grande romanziere: e gli insuccessi di Balzac a teatro non si possono spiegare se non considerando che veramente gli mancò il tempo di scaltrirsi, come scrittore di teatro, o meglio di condurre alla ultima perfezione quel processo di scaltrimento che lo aveva portato dal Vautrin del 1840 al Mercadet, rappresentato postumo; e che comprende varie tappe Les ressources de Quinola (1842), Paméla Giraud (1843) e La Marâtre (1848),

  Cinque commedie di cui una almeno, l’ultima, è un capolavoro; e una lo sfiora, Paméla. Eppure il teatro di Balzac oggi è pressoché dimenticato nelle storie letterarie: il Lanson non ne fa quasi cenno; il Brunetière compie uno studio sul romanziere per molti aspetti esemplare, e non parla quasi dei suoi lavori drammatici. Peggio, quando li sfiora; la superficialità con la quale liquida i cosiddetti «insuccessi», «l’indifferenza al soggetto» del romanziere, che in certo senso ne fa la grandezza, è nefasta — dice Brunetière — al drammaturgo. Gautier, naturalmente più aneddotico, racconta che Balzac buttava giù i suoi lavori di teatro, lui così testardamente meticoloso nel correggere i romanzi, tanto che non solo non rivedeva otto o dieci volte le sue commedie, ma talora neppure le scriveva una volta. Una notte — racconta Théo – Balzac convoca per le prime ore del mattino i suoi amici più intimi: Ourliac, Lessailly, Laurent-Jan e Théo. Domani, annuncia, leggerò un grande dramma in cinque atti: ma il dramma non è scritto. Egli ha bisogno di denaro. Allora affida a ciascuno dei quattro l’incarico di scrivere nelle ventiquattr’ore un atto: il quinto lo scriverà lui. Spiega l'argomento e li congeda. Il dramma che sarebbe così dovuto nascere era il Vautrin.

  Anche non dubitando della veridicità dell’aneddoto, è chiaro che si tratta di una delle solite smargiassate così care a Balzac e che facevano parte del suo gusto paradossale di considerare il lavoro letterario come un mezzo per pagare le cambiali in scadenza, e che fan parte, in un certo senso, della sua arte stessa. Ma non serve, anzi è nocivo a una seria considerazione critica, quando ci si accinga a esaminare il suo teatro senza lasciarsi impressionare dall’aneddotica contemporanea e dalla mole e dalla grandezza della sua opera di romanziere. Invece, quello che colpisce anche a una prima lettura è, come dicevo, il progressivo scaltrirsi della tecnica dalla prima all’ultima commedia: è vedere come Balzac abbia saputo liberarsi gradualmente dalla influenza della narrativa per comprendere sempre meglio le diverse esigenze della rappresentazione; tanto da diventare, alla fine, un maestro della forma drammatica. Veramente, e senza esagerazione di giudizio, non so quale opera della Comédie Humaine sia artisticamente e tecnicamente più matura e perfetta del Mercadet. Sarebbe però ingiusto che la perfezione assoluta di un’opera ci facesse dimenticare quella, relativa, di altre; specialmente quando le altre siano, come sono, più che semplici tentativi o esperimenti scenici.

  La prima, il Vautrin, rappresentata la prima volta al Teatro della Porte-Saint-Martin il 14 marzo 1840, è decisamente un’opera fallita: e non si stenterebbe a credere vera la leggenda di Gautier, di una collaborazione a cinque: bizzarra collaborazione sotto forma di un atto a testa. Comunque, è certo che Balzac comincia da un piano assai basso la sua attività di commediografo trasportando, e qui è forse il vizio di origine, uno dei suoi peggiori romanzi sulla scena. Se il romanzo era cattivo, nessuna meraviglia che il dramma ne sia uscito fuori pessimo. In questa congestionata selva di intrighi, di figli perduti e ritrovati, di mascheramenti e di colpi di scena, il personaggio di Vautrin, che ancora non mancava di una certa sinistra grandezza nell’opera narrativa, qui non viene affatto fuori; e il lavoro è fallito prima ancora della stesura, voglio dire nel concepimento, che è caotico e sfocato, e si sforza inutilmente di dare dignità letteraria a un drammaccio popolare.

  Ma già con Les ressources de Quinola (Théatre-Français, 19 marzo 1842) il tono è un altro. Siamo ancora lontani dal capolavoro: magari anche dalla semplice «pièce bien faite». Ma lo scrittore di teatro c’è. Balzac ha cominciato a capire che, per un vecchio romanziere come lui, trasportare la narrativa sul teatro è pericoloso; bisogna inventare, immaginare, stendere teatralmente: altro stile, altro taglio, altra messa a fuoco dei personaggi; i quali non più sottointendono un loro passato, ma lo creano qui sul palcoscenico, divengono qui, davanti allo spettatore, quello che devono essere e sono. Non conta che dicano assai più di quello che sarebbe essenziale, e siano subito troppo tutto quello che non devono essere; la tecnica oramai c’è e Balzac non se la lascerà più scappare. Del resto, Quinola deve essere considerato niente altro che un saggio, una esercitazione di stile teatrale: già così scaltro, qua e là, che talvolta rasenta la bravura. Il debole è ancora nelle scene patetiche; e di questo Balzac non riuscirà mai a guarire. Sappiamo già, d’altra parte, anche dalla Comédie Humaine, che quando lui abbandona quel suo modo grosso e tutto d’un pezzo di considerare gli uomini come lottatori e conquistatori di denaro o di gloria o di amore, il suo tono diventa melodrammatico e, peggio, insopportabilmente ridicolo. Sono le scene patetiche che guastano, quando compaiono, per fortuna di rado, tutta la sua opera. Resta però che qui, nel Quinola, Balzac è già scrittore di teatro.

  Qualche cosa di più è Paméla Giraud (Théâtre de la Gaîté, 26 settembre 1843): è già una bella commedia. Questa cara fanciulla del popolo che sacrifica la cosa che le è più preziosa della vita, la sua buona fama, alla salvezza del giovane aristocratico coinvolto in una congiura politica, per fornirgli un alibi, e l’ingratitudine con cui è pagata dai parenti di lui, e l’appoggio che le è offerto dall’avvocato che ha escogitato il falso alibi, questo chiuso dramma del debole generoso tra le tante volpi che se ne giocano l’innocenza, è ben vicino al teatro di noi moderni. Di una semplicità oserei dire goldoniana (e goldoniana è anche la esemplare onestà artistica del procedimento) questa commedia borghese contrappone tre classi sociali: gli aristocratici De Verby, per cui il sacrificio della virtù di una popolana è ben piccola cosa, gli egoisti avidi borghesi Rousseau, i nobili e semplici popolani Giraud. Ma è indizio della ormai raggiunta maturità teatrale di Balzac, che l’opera non scada mai in aperta polemica, e i personali siano tutti vivi, dalla felicissima goldoniana Paméla a tutte le figure e i figuri che le vivono attorno. E’ Goldoni filtrato attraverso la Comédie Humaine: una cosa indegna di essere dimenticata.

  Dice Gautier che La Marâtre (Théâtre Historique, 25 maggio 1843) sfiora il capolavoro, e il giudizio, uscito dalla penna di uno che di Balzac fu grande amico, ma del suo teatro prima del Mercadet non più che tepido estimatore mi sembra esatto, pur che si intenda che il capolavoro fu sfiorato nel concepimento del dramma: ma nei cinque lunghissimi atti che lo compongono è un allontanarsi costante dall'idea generale, fin che si arriva al brutto finale, del peggiore Vautrin. Il debole di Balzac (non solo nel teatro) è quasi sempre qui: grandioso nel concepire, è troppo spesso, se non si sorvegli e domini scrupolosamente e continuamente, grossolano e sgraziato nella realizzazione. E’ un genio fatto per sbozzare: la fatica lunga della stesura lo porta spesso al romanzo d’appendice, o al drammone popolare. Passa da Goldoni o Molière a Scribe con estrema facilità, e il curioso è che evidentemente non se ne accorge. Sono i lati negativi degli scrittori «forza della natura»: neanche Victor Hugo o Dickens ne erano immuni. Questa Marâtre ha proprio tutti gli ingredienti del drammone o drammaccio: cinque atti interminabili (anche quelli del Mercadet sono assai lunghi, ma, teatralmente e letterariamente essenziali, come sembrano brevi e agili! non c’era davvero bisogno del brillante mestiere di d’Ennery per renderli teatrali: anzi), avvelenamenti, morti sul palcoscenico; melodramma a ogni scena, caricature convenzionali, passioni e personaggi esagerati e quindi senza eco; dappertutto cattivo gusto. Eppure il dramma c’era: la lotta tra la figlia e la madre (la femme de trente ans) per il possesso dell’amore di Ferdinando; e non manca qualche scena degna dell’impostazione. Ma in genere difettano la sfumatura, la finezza dell’artista o anche solo dell’uomo del mestiere; ed ecco allora che l’intreccio si complica, e saltano fuori veleni e mascheramenti e colpi di scena, non altro in fondo che un impotente sforzo di drammatizzare dall’esterno quello che, dentro, è statico e inespressivo.

  Il capolavoro venne dunque inaspettato, e Balzac non ebbe più la gioia di vederlo trionfare sui teatri parigini come mai nessuna delle sue commedie. E’ un peccato, se non altro perché, vivo, non avrebbe certo permesso i tagli onde lo snellì (ma un’opera di Balzac deve essere «snella»?) «ce maître charpentier qui avait nom Adolphe d’Ennery». Non erano necessari: tutt’al più appare indovinato il titolo Mercadet al posto di Le faiseur originale. Ma questo poema epico-drammatico del Debitore in lotta col Creditore era perfetto così com’era stato buttato giù: grosso, violento, eccessivo e sanguigno, con una venatura di barbarico e una di grottesco, non era cosa da lisciarsi per mano di un raffinato «maître charpentier». «Cela glapissait, cela miaulait, cela grondait, cela grommelait, cela hurlait ...». Provate a lisciare i peli irti, o a sfumare i capelli a una diavoleria simile!

  Questa volta Balzac ha creato, col suo personaggio, il suo stile e il suo linguaggio teatrale: il linguaggio del bonhomme Brandet (sic) o del barone Hulot diventato, con il suo tono e il suo accento nuovo, battuto da teatro. «Aujourd’hui le crédit est toute la richesse des gouvernements; mes fournisseurs méconnaîtraient les lois de leur pays, ils seraient inconstitutionnels et radicaux, s’ils ne me laissaient pas tranquille! Ne me rompez donc pas la tête pour des gens en insurrection contre le principe virai de tous le Etats ... bien ordonnés. Mais montrez-vous ce que vous êtes: un vrai cordon bleu!» « Enfin, qu’y a-t-il de déshonorant à devoir? Est-il un Seul état en Europe qui n’ait ses dettes? Quel est l’homme qui ne meurt pas insolvable envers son père? Il lui doit la vie, et ne peut pas la lui rendre. La terre fait constamment faillite au soleil! La vie est un emprunt perpétuel! Et n’emprunte pas qui veut! Ne suis pas supérieur à mes créanciers? J’ai leur argent, ils attendent le mien; je ne leur domande (sic) rien, et ils m’importunent!».

  Balzac che scrive il Mercadet un anno, e impalma la contessa Hanska tre mesi prima di morire, dopo un ventennio di ambizioni teatrali deluse, e un trentennio di amore per corrispondenza con la bella contessa polacca — mi sembrano questi i due volti egualmente splendidi e dolorosi di un medesimo destino.

 

 

  G. Ballestrieri, Nel centenario della morte. Balzac esordì con un clamoroso insuccesso, «La Nuova Sardegna: settimanale», Sassari, Anno 60, N. 196, 23 agosto 1950, p. 3.

 

  Quando il grande scrittore francese rappresentò in un circolo d’amici un dramma su Cromwell, qualcuno lo consigliò d’abbandonare per sempre la letteratura.

 

  Onorato Balzac nacque il 16 maggio 1799 a Tours e non nel giugno, come scrive nell’interessante volume «I tre maestri» il tedesco Stefano Zweig, nel giorno di S. Onorato (G. Gigli: Balzac in Italia), e neppure il 20 maggio, come afferma il Brunetière nel suo denso, completo volume critico su Honoré de Bauzac (sic). Morì il 19 o il 20 agosto 1850.

  Si compie quindi in questa seconda quindicina di agosto il centenario della morte di questo «grande» del romanzo moderno.

  A distanza di un secolo la bibliografia intorno all’uomo e allo scrittore morto a 51 anni appena, lasciando tra. romanzi e novelle ben 87 pubblicazioni, si è adeguata al posto preminente cui il nostro è assurto non solo nella letteratura del XIX secolo, ma nella storia generale della letteratura francese. Su Balzac hanno scritto tra gli altri Sainte-Beuxe (sic), Teofilo Gautier, Taine, Ferdinando Brunetière, Dionigi Scano[5], Stefano Zueig (sic), G. Gigli, Charles de Lovenjoul, Zola, Gabriel Hanotrix (sic). Balzac esordì dopo i primi sei anni di studio nel collegio di Vendôme. A Parigi si addottorò poi in diritto e fece anche mesi diciotto di pratica presso un avvocato e altrettanto presso un notaio, maître Passez (sic) il secondo et maître Guyonnet Merville il primo, che venne riprodotto sotto il nome di «Derville», in diverse pagine della «Comédie humaine». Dopo tre anni- di «apprentissage» legale, lasciò da parte le Pandette con il dramma «Cromwell», per il quale si preparò divorando i quattro autori tragici francesi: Crebillon, Voltaire, Corneille, Racine. E, dopo un anno di ostinata, fervida composizione volle provare il suo dramma in un ristretto circolo di amici e familiari. Uno dei giudici, «Andrieux. professore al politecnico e al Collegio di Francia» stroncò senz’altro le speranze dell’autore, sentenziando, «dovere il giovine autore far conto della letteratura come di cosa che fu».

  Il neo drammaturgo non si sgomentò e anzi che persistere nel calcare le scene teatrali, si volse al romanzo con «L’heriter de Birague» (sic) (1822). Da quest’ora comincia, come una missione lievitata da sogni di ambizione e di ricchezza, la vita febbrile, laboriosa, tenace e presso che solitaria dell’autore di «Eugénie Grandet», di «Père Goriot», «Le Médecin de campagne», «e Lys dans la Vallé», e di altri capolavori. Balzac si differenzia dai suoi noti contemporanei, dal vecchio Dumas ormai declinante, mar pur sempre festevole e giocondo e ottimista, e dal giovane Victor Hugo, la cui esistenza, per quanto laboriosa, era chiusa in un quadro di lavoro metodico e di agiatezza economica.

  Balzac con tutti i suoi sogni e i suoi desideri, giovanili e borghesi non aveva i mezzi adeguati a soddisfarli e, a corpo perduto, si dedicò al lavoro in una lotta accanita svoltasi, con rari intervalli di sereno. Per circa trent’anni tra creditori impazienti e debiti crescenti si battè fiducioso nelle sole sue forze nell’assiduo quotidiano impegno di meditazione e di creazione.

 

Ispirazione nata dal bisogno.

 

  Lo spettacolo, scrive un suo illustre critico, della fertilità delle risorse balzachiane era superiore, ai suoi personali imbarazzi e niente di più meraviglioso vedere i suoi capolavori generarsi dai suoi bisogni, dalle sue ristrettezze, a volte tragiche, dalle tendenze alla prodigalità e al lusso. E pertanto la tua fecondità di scrittore non solo non s’inaridiva, ma quasi per antitesi cresceva con l’accanimento dei suoi creditori, con le necessità del suo stato e la ricerca dei suoi libri ben pagati. Sopravviene in questo clima arroventato l’episodio del 1828, quando il Nostro vuol tentare la fortuna e da scrittore si trasforma in editore, libraio, fonditore di caratteri ... con un epilogo così disastroso da essere stato egli costretto ad obbligarsi per migliaia di franchi verso i suoi finanziatori, non avendo in saccoccia neanche il sufficiente per versare il più piccolo acconto Ma, novello Anteo, balzò dal disastro più forte che mai riprendendo la sua inflessibile, tenace e magica penna senza più abbandonarla fino alla morte.

  In terreno fecondo caddero per davvero queste vicissitudini, poi che l’humus fertilizzante del complesso balzachiano, e differenza dei suoi contemporanei, da la Sand a Victor Hugo a Zola che vissero borghesemente senza conoscere che la forma libraria, si nutrì di queste personali vicende, di queste dolorose esperienze e traversie di vita per forgiare, dal vero, i suoi capolavori.

  La forza, l'originalità, la grandezza del nostro romanziere è tutta qui, idealizzata e fotografata sullo sfondo delle multiformi correnti della sua vita.

 

***

 

  Cosa fosse il romanzo prima di Balzac nella fertile terra di Francia e di Europa, dice bene Ferdinando Brunetière: «Allorché il giovane Onorato De Balzac nel 1819, appena terminati i suoi studi, inizia coraggiosamente in una soffitta della strada Lesdiguières il suo tirocinio della vita letteraria senza altra vocazione più precisa e più imperiosa che quella di farsi un nome per mezzo della sua penna e una fortuna per mezzo del suo nome, due forme di romanzo dividevano il favore del pubblico: il romanzo «personale» e il romanzo «storico».

  Dal Gil Blas de «Le Sage» al romanzo picaresco spagnuolo, le avventure descritte in questo genere, per quanto sia la loro singolarità, non c’interessano che una prima volta e poi le dimenticheremo facilmente. Tali avventure non lasciano traccia in noi e nessuna concordanza mostrano con le lezioni dell’esperienza.

  Il sottogenere «personale» delle «Memorie» e dell’epistolario danno al romanzo personale «qualque choses (sic) de cet air vécu. Così dicasi della «Nouvelle Eloisa» (sic) e delle «Confessioni» di Rousseau. Il romanzo personale da Werther a René (1774-1802), da Delfina a Corinna (1807-1810), da Indiana a Valentina (1881-32) et sous l’influence du romantisme le roman personnel va devenir l’apothéose du Moi».

  Mentre nel Balzac, forza centrifuga del suo genio di scrittore, è l’obiettività e la verità non viste sotto l’angolo visuale di una tesi, di una scuola, di un egotismo mal orpellato da rugiadoso lirismo o da intricati problemi di psicologia.

  Madame de Staël e Chateaubriand hanno attutito l’aridità del romanzo «personale» introducendovi «les sens de l’exotisme, et celui de l’histoire».

  L’evoluzione letteraria si sviluppa e si definisce per merito di uno scozzese, sospinta da un improvviso, gravissimo dissesto economico personale. Non è che prima di Walter Scott ci sia stata rarità di romanzo storico.

  «Mais, riprende il critico citato, romanciers ou romancières leur dessin n’avait été que vulgariser ou de romancer le donnée (sic) de l’histoire quand encore l’histoire ne leur avait pas servi di (sic) un facile prétexte à s’épargner le labeur de l’invention. Insomma il ne s’agit pas de rien de moins que de l’introduction dans le roman du plain (sic) sens de la réalité».

 

La natura e l’arte.

 

  Questo tipo rappresenta una evoluzione di capitale importanza non solo per i suoi meriti intrinseci quanto per l’afflato propiziatore che segna l’avvento del romanzo naturale, del romanzo obiettivo. I vent’anni di vita e di successo di W. Scott formano il netto periodo di nascita di un organismo nuovo e robusto il romanzo-moderno caratterizzato dalla meravigliosa, pensosa ed amara opera che va sotto il nome di «Comédie humaine».

  Eppure Balzac non fu eletto all’Accademia di Francia, come per due volte fu respinta la candidatura di E. Zola; Jules Sandeau e Octave Feuillet furono accademici francesi, vivente Balzac!

  A traverso tutte le sue ardenti vigilie e le estenuanti veglie che dalla mezzanotte in poi per circa 30 anni fittissimi, di dodici ore meditative che alternava con le bianche cartelle numerose da riempire, l’eterno femmineo interviene nella dura giornata di Balzac con i due bei nomi di madame de Berny e della contessa Hanska, due nomi non solo diversi, ma diverse per le condizioni sociali, per l’età, per lo spirito. L’una francese, madre di nove figli, aveva 45 anni quando divenne, l’amica di Balzac che ne contava allora ventitré. La de Berny esercitò una influenza moderatrice e di previdenza e di conforto nelle ore più difficili del suo Onorato, del quale fu, nel senso più gentile della parola, una vera educatrice. La contessa Hanska era un’intellettuale polacca e il nome di signorina era Evelina Rzewuska. Sposato il russo conte Hanska (sic), ricchissimo proprietario di estese tenute nell’ubertoso circondario di Kiev, divenne una suddita russa.

  Il primo incontro con Balzac avvenne in Svizzera e galeotto fu il volume pubblicato nel 1833 «Le Médecin de campagne» che ispirò alla ventinovenne contessa Evelina Hanska una lettera di ammirazione all’autore. La coltissima signora, conoscitrice di molte, lingue, si interessava al movimento culturale, europeo con un senso di mistico idealismo.

  Nacque così una gentile amicizia letteraria che, presto trasformatasi in emozione amorosa da parte di Balzac, divenne nel 1843 scambievole sentito amore.

 

Aspetti dell’opera.

 

  Questo avrebbe dovuto consacrarsi col matrimonio – il conte Hanska (sic) era morto nel 1841 – ma il fatto che sposando uno straniero la vedova, per legge, veniva privata della più gran parte della ricchezza ereditata, che si devolveva ai figli, lasciò alquanto perplessa la contessa.

  Finalmente i voti più ardenti di Balzac si esaudirono e conclusero nel matrimonio, che fu celebrato il maggio 1850, nella chiesa di Sainte Barbe di Berdit (sic), dall’abate Crarottshi (?, sic). Ciò avveniva prima che il cuore di Balzac schiantato da tante ansie e dal lavoro cessasse di battere.

  Stefan Zweig, analizzando in trenta fittissime pagine di stampa «La Comédie humaine», rileva una nota saliente del romanzo balzachiano, quella del denaro, molla tutta moderna dell’attività umana, che nessuna pianificazione potrà svellere varietà di un’energia così povera (?).

  Lo scrittore tedesco chiude così il suo studio su Balzac: «La sua opera è immensa. I suoi ottanta volumi racchiudono un’epoca, un mondo, una generazione. Mai prima fu coscientemente tentata cosa tanto prodigiosa, mai la temerarietà di un’energia così potente fu meglio premiata».

  E poi: «E’ un genio colui che sa sempre tradurre in azione i suoi pensieri. Ma il genio veramente grande non spiega continuamente questa attività, poichè somiglierebbe troppo a Dio».

  Invano dal suo letto di agonia a Parigi, dopo il viaggio di nozze, chiedeva al medico che l’assisteva, qualche mese di vita per scrivere il suo «Testamento al pubblico». Capì che gliene restavano appena pochissime ore e la luce possente dei suoi grandi occhi a poco a poco scomparve. Il giorno dopo, il 20 agosto 1850, esalò l’ultimo respiro. Oramai l’opinione della gran maggioranza di tutti gli studiosi è pacifica sul valore estetico. della commedia umana del Balzac, sulla sua portata sociale, e sulla moralità e l’influenza dei suoi capolavori.

  Victor Hugo chiamato a parlare sulla tomba di Balzac, il 2 agosto 1850, dopo essersi salvato a stento dalla folla immensa e commossa che sempre più urgeva intorno all’oratore, fra l’altro disse:

  «Il nome di Balzac rifulgerà tra quelli che onorano l’epoca nostra, poichè egli stato uno dei primi tra i grandi, uno dei più alti fra i migliori. Tutti i suoi libri non formano che un libro solo; libro vivo, luminoso, profondo in cui si vede muoversi tutta la civiltà contemporanea, libro meraviglioso che il poeta ha intitolato «Commedia» e che egli avrebbe potuto intitolare «storia», che prende tutte le forme e tutti gli stili, che sorpassa Tacito e va fino a Svetonio, che attraversa Beaumarchais, e giunge a Rabelais. Libro che è osservazione ed immaginazione, che prodiga il vero, l’intimo, il borghese, il triviale, il materiale e che a tratti, a traverso a tutte le realtà, bruscamente squarciate, lascia intravedere una idealità tragica e oscura».

  Infine l’autore dei «Miserabili» esclamava: «dopo tutta una vita di lotte e di stenti abbandona gli odi e le contese per entrare nell’ora istessa, nella gloria e nel sepolcro».

 

 

  Albert Béguin, Balzac, Honoré de, in AA.VV., Dizionario letterario Bompiani degli Autori di tutti i tempi e di tutte le letterature. Volume primo A-F, Milano, Valentino Bompiani Editore, 1950, pp. 160-166; 22 ill.

 

  N. a Tours il 20 maggio 1799, m. a Parigi il 18 agosto 1850. La sua famiglia era oriunda del Tarn, e il vero nome ora Balasa (sic): la madre, nata Sallambier, apparteneva a una famiglia della borghesia parigina. Il padre, Bernard-François Balzac, ancor molto giovane era venuto a piedi dalla sua provincia meridionale; diventato segretario di un procuratore, e più tardi segretario al consiglio del re, morì nel 1829. Honoré fu un figlio senza mamma, e ne sofferse alquanto. Laure Sallambier sempre gli preferì un fratello la cui nascita era dubbia, fece educare Honoré lontano da lei e, sino alla morte del figlio, rimasta sua creditrice, si dimostrò di un’asprezza singolare. Dal 1807 al 1813, interno al Collegio oratoriano di Vendôme, B. non fece ritorno a casa neppure una volta. Egli à rievocato questi anni di collegio in Luigi Lambert. A partire dal 1814, proseguì gli studi in una pensione a Parigi, poi alla facoltà di diritto. Fa pratica presso un legale; poi, chiamato dalla sua vocazione letteraria, si installa, a vent’anni, in una soffitta e scrive, tra l’altro, un pietoso Cromwell in versi. Nel 1820 conosce una donna che avrà influenza decisiva sulla sua formazione: Laure de Berny, più anziana di lui di ventidue anni e che gli fu madre, amante, e la più generosa delle amiche, sino alla morte, nel 1836. Egli l’aveva soprannominata «la Dilecta». B. fu scrittore precoce e tardivo nello stesso tempo. La prima opera ornata del suo nome, Gli Sciuani apparve solo nel 1829, seguita tosto dalla che era stata composta e parzialmente stampata molti anni prima. Nel 1825 aveva tentato di far fortuna, con varie imprese: l’editoria, la creazione di una tipografia e poi di una fonderia di caratteri. Ma furono imprese disastrose, nelle quali B. compromise le risorse della propria famiglia e quelle della «Dilecta». Sino alla fine dei suoi giorni, doveva trascinare seco il peso degli enormi debiti contratti in queste avventure commendali. Gli Sciuani aprono il periodo di circa vent’anni, nel corso del quale B. compose, rimaneggiò di continuo, e pubblicò a un dipresso ottantacinque romanzi, fra lunghi e brevi. Questa prodigiosa produzione letteraria, che sembrerebbe oltrepassare le forze di un uomo solo, non gli impedì di condurre una vita mondana molto attiva, di fare lunghi viaggi, di avere avventure amorose, di tentare la sorte, senza successo, nella politica e di mettere in piedi altre stravaganti combinazioni finanziarie. All’inizio del 1830, B. pubblica le Scènes de la vie privée, raccolta di sei novelle, La vendetta, Gobseck, Il ballo di Sceaux, La casa del gatto che giuoca alla pelota, Una doppia famiglia, La pace domestica, che costituiscono come la prima cellula della Commedia umana e che, da un giorno all’altro, fanno di lui un romanziere celebre. La Pelle di zigrino, nel 1831, conferma la sua celebrità e, pur componendo le opere più difficili che entreranno più tardi nelle Études philosophiques, Balzac è un poco inebbriato dalla sua gloria. È l’epoca del suo dandysmo: carrozza e cavalli, domestici in livrea, palco all’Opéra. La mania dell’arredamento che gli costerà così cara, si palesa nel suo appartamento di via Cassini, che fa sontuosamente ammobiliare. Egli lavora di notte, vestito con la sua celebre tonaca bianca di cachemire, la caffettiera di porcellana sempre a portata di mano. Comincia le Sollazzevoli storie, nelle quali si diletta a scrivere nella lingua del sec. XVI. E finora liberale tinto di sansimonismo, egli si lega al partito legittimista e diviene difensore del trono e dell’altare. Da poco tempo si è innamorato della marchesa de Castries, che si burla di lui, se lo porta dietro sino a Aix-les-Bains e a Ginevra nel 1832, poi lo lascia bruscamente. Se ne vendicherà scrivendo La duchesse de Langeais (1833). Della stessa epoca sono, fra gli altri, Il curato di Tours, Il colonnello Chabert, Ferragus, La fille aux yeux d’or, Il medico di campagna, Eugenia Grandet. Alla fine del 1832, B. à ricevuto una lettera anonima, che gli esprime l’ammirazione infinita di una donna. Egli perverrà a scoprire la identità di colei che doveva chiamare: «La straniera»: la contessa polacca Evelina Hanska, con la quale à inizio una lunga corrispondenza e che diverrà sua moglie nel 1848. La incontra una prima volta col marito a Neuchâtel, nel 1833, poi, sola, a Ginevra nel 1834, finisce, in quel tempo, Séraphita e Papà Goriot. Nel maggio 1835, è a Vienna vicino alla Hanska e, nel 1836, compie un viaggio in Italia. Pubblica Il Giglio della (sic) valle e fonda una rivista, la Chronique de Paris, che gli costerà caro. Durante un nuovo viaggio in Italia, si incontra col Manzoni. Al principio del 1838, eccolo in Sardegna, alla ricerca delle miniere d’argento dell’antichità, che egli pensa di poter sfruttare. Appaiono Cesare Birotteau, la Zitella, l’inizio di Illusioni perdute, la prima parte di Splendori e miserie delle cortigiane, un poco più tardi Beatrice e Il curato del villaggio. Un dramma, Vautrin, cade al teatro della porta Saint-Martin. Qualche tempo prima, egli à tentato, a Bourg-en-Bresse, di salvare la testa di un condannato a morte, l’assassino Peytel. Fonda una rivista, la Revue parisienne, redatta da lui solo, e che non giungerà oltre il terzo numero: vi pubblica l’elogio della Certosa di Parma. Alla fine del 1841, imbastisce la vasta trama della Commedia umana e firma un contratto con quattro editori associati per sostenere l’impresa. Ne redige il programma, in capo al primo volume. I romanzi più importanti di questo periodo sono Orsola Mirouet, Casa da scapolo, Alberto Savarus, Onorina, Modesta Mignon. «La straniera» è rimasta vedova alla fine del 1841, ma soltanto due anni dopo B. può recarsi a Pietroburgo. Ormai egli à una sola idea fissa: sposare la signora Hanska. E raddoppia il lavoro per assicurarle una esistenza degna di lei, pur ricorrendo in più d’una occasione alla fortuna dell’amica lontana. Nel 1845 la raggiunge a Dresda, la conduce in Italia, poi a Parigi, in Olanda, nel Belgio. L’anno dopo la signora Hanska partorisce a Dresda un figlio nato morto; per B. è un colpo terribile del quale non si riavrà più. Nel 1846 à comprato una casa, che ammobilia con grandi spese, per ricevervi la signora Hanska, e si rovina con gli antiquari. La Cugina Betta e il Cugino Pons sono finiti e pubblicati nel 1846-1847. Sono le ultime grandi opere: esaurito, malato, sente illanguidire le sue facoltà creative. Nel 1850 parte per Kiev, dove si incontra con la Hanska, sua figlia, il genero. Il 14 marzo, a Berdicev, sposa l’amica; nel maggio vengono insieme, a Parigi, a piccole tappe, perché la salute del romanziere esige delle precauzioni. Arrivati il 21 maggio, nessuno risponde alle scampanellate. Il guardiano incaricato di riceverli era impazzito e si nascondeva, prostrato, in un angolo della casa illuminata. B. vide nell’avvenimento un funesto presagio. Costretto a mettersi a letto, non si alzò più. In luglio le sue sofferenze diventarono atroci; ai primi d’agosto cominciarono i soffocamenti; il 18 entrò in agonia. Quel giorno è venuto a vederlo Victor Hugo, che à poi narrato questa ultima visita nelle Cose viste: e sarà Hugo, ai funerali, che dirà il magnifico elogio funebre. Nella sua immensa attività, B. à profuso tutto se stesso. Quest’opera gigantesca, che permane così viva, mentre il mondo da essa evocato è da tempo rientrato nell’ombra del passato, è stata pagata con molte sofferenze: sorta da un’esistenza magnifica e dolorosa, non à mai cessato di affascinare i lettori.

 

  A complemento dell’ampio apparato iconografico, sono riportate alcune citazioni tratte dalla Correspondance balzachiana:

 

  «Io non ò mai avuto madre; oggi il nemico si è dichiarato. Non t’ò mai rivelato questa piaga: era troppo orribile, e bisogna vedere per credere». (Da una lettera del 1846 a Mme Hanska).

 

  «Ò detto che morirei di malinconia il giorno in cui mi rendessi conto che le mie speranze sono impossibili a realizzarsi. Benché non abbia ancora fatto nulla, già sento che quel giorno s’avvicina. Sarò la vittima della mia stessa immaginazione. Per questo, Laura, vi scongiuro di non attaccarvi più a me, per questo vi supplico di rompere ogni legame» (Da una lettera del 1822 a Mme de Berny).

 

  «Io albergo in me tutte le incoerenze, tutti i contrasti possibili, e quelli che mi credono vano, prodigo, testardo, leggero, senza costanza nelle idee, fatuo, negligente, pigro, senza riflessione, senza alcuna volontà, senza garbo, ruvido, mutevole d’umore avrebbero altrettanta ragione di quelli che potrebbero dire che io sono economo, modesto, coraggioso, tenace, energico, lavoratore, costante, taciturno, pieno di finezza, garbato sempre gaio» (Da una lettera alla Duchessa d’Abrantès).

 

  «Vado a letto alle sei o alle sette della sera, come le galline; mi sveglio al mattino presto e lavoro fino alle otto; alle otto dormo ancora per circa un’ora e mezzo, poi prendo qualcosa di poco sostanziale con una tazza di caffè, esco in carrozza fino alle quattro; faccio un bagno e dopo aver cenato, mi corico» (Da una lettera a Zulma Carraud).

 

  «Ò avuto in sorte una grande capacità d’osservazione, perché, involontariamente, ò provato quasi tutte le professioni. Inoltre, quando mi recavo nell’alta società, soffrivo tutto quanto si può soffrire, e non vi sono che le anime misconosciute e i poveri che sanno osservare, proprio perché ogni cosa li offende, e perché l’osservazione nasce dalla sofferenza» (Da una lettera alla Contessa Maffei).

 

  «Penso alle rare perfezioni di colei che alla sua nascita fu ben giustamente chiamata Eva, perché essa è unica sulla terra; non ci sono due angeli simili. Non v’è donna che abbia riunito in sé maggior gentilezza, maggior spirito, maggior amore, maggior genio nelle carezze. Oh!, come sono lontani i ricordi di Mme Berny. Il vero amore, l’amore di una donna dotata di tanta voluttà, non può temer nulla». (Da una lettera a Mme Hanska).

 

 

  Luigi Foscolo Benedetto, La Parma di Stendhal, Firenze, Sansoni, 1950.

 

 

  Georges Blin, Sur une rencontre de Stendhal avec Honoré de Balzac: “Lucien Leuwen” et “La Femme abandonnée”, in AA.VV., Omaggio a Stendhal, «Aurea Parma. Rivista di lettere arte e storia», Parma, Annata XXXIV, Fasc. II, Luglio-Dicembre 1950, pp. 110-123.

 

  Ci limitiamo, in questa sede, a trascrivere integralmente il testo di questo studio escludendo l’apparato delle note.

 

  Il est devenu banal de faire observer que Lucien Leuwen est «le roman balzacien de Stendhal». C’est ce que montre l’étude intrinsèque du livre, et qui ne peut surprendre, étant donné que Stendhal, sur qui en général il semble que quelque «influence» de Balzac se soit exercée «à partir de 1832», a particulièrement fréquenté la récente production de son grand rival dans les mois qui avoisinent la composition de Lucien Leuwen. Comme il l’apprend à Mareste, dans une lettre datée du 13 juillet 1834, il avait «apporté», vraisemblablement rapporté de Paris à Rome et Civitavecchia, «4 vol. in-18 de Balzac», qu’il s’était même laissé emprunter par plusieurs «lisards» de sa compagnie. Dans une marginale du 14 mars 1835, on le voit, confrontant Les Bois de Prémol avec Le Médecin de Campagne, s’applaudir de ce que dans sa propre narration chaque phrase racontât plus que chez Balzac, et dès lors contribuât mieux à l’amusement. Ce Médecin de Campagne, nous savons, par une autre note, que le 11 mars il avait achevé de le lire, et avec d’autant plus de passion curieuse — on peut sans risque le supposer — que la scène en était dauphinoise, — avec agacement, en tout cas, de ce que le parti «prêtre» s’y trouvât «flatté». Son admiration ne devait rien offrir que de mitigé, et on n’est pas surpris que dans son testament du 17 février 1835 il eût déjà nommément exclu Balzac de la liste de ceux qu’il jugeait aptes à réviser éventuellement son manuscrit. Balzac restait, en tout cas, si présent à son esprit que, dans le cours de l’ouvrage même, lorsque le Comte de Vaize charge Lucien de remettre un volume à certaine dame, c’est tout naturellement un roman de Balzac que choisit, pour le compte du ministre, l’auteur. Celui-ci ne pouvait, d’autre part, ne point s’aviser que, en baptisant son intrigante «Madame Grandet» il avait usurpé un nom déjà «pris par M. Balzac». Mais il y a plus, et de lui-même il nous a engagés, par une note jusqu’ici, semble-t-il, mal lue ou trop peu remarquée, à esquisser un rapprochement dont on ne saurait discuter le bien-fondé, mais seulement le point jusqu’où il doit être poussé.

  Il s’agit d’une marginale figurant dans le manuscrit de Lucien Leuwen, dont le texte est ainsi reproduit dans l’édition du Divan des Mélanges Intimes: «Description de la société noble à Nancy, 1, p. 80. La société de province est une cérémonie. Cette partie corrigée, reliée. Vie de province de M. Balzac. Le commencement de la ... abandonnée. 6 avril [1835]». Dans son édition de 1926 procurée chez Champion, Henry Debraye avait déjà réservé la place de la lacune en signalant qu’il fallait compter devant «abandonnée» «un mot illisible». Dans son excellente édition du Rocher, M. Henri Martineau devait, plus récemment, nous proposer l’ingénieuse conjecture: «[cour] abandonnée». Qu’on se rappelle, cependant, que Stendhal, quand il cite un titre, ni ne souligne d’ordinaire, ni n’utilise la majuscule ou les guillemets: on pourra, alors, aussitôt se convaincre que dans cette note il ne se réfère pas à autre chose qu’à la célèbre Femme abandonnée de Balzac. M. V. del Litto a bien voulu, après nouveau contrôle, nous confirmer que dans le manuscrit la lecture femme n’est point douteuse.

  Le rappel des dates fournissait, d’ailleurs, une présomption à elle seule presque suffisante. La Femme abandonnée avait été donnée d’abord en septembre 1832 dans la Revue de Paris. Mais c’est par la publication en librairie que Stendhal dut en prendre connaissance, puisque c’est à la série: «Vie de province » qu’il se réfère ici. La nouvelle qui devait, en 1842, trouver place au second tome des Scènes de la Vie privée de la Comédie Humaine, avait, en effet, paru à Paris en 1833 — mais portant le millésime de 1834 — dans le deuxième tome des Scènes de la vie de Province lequel constituait le sixième volume des Etudes de Moeurs, dans l’édition fournie chez Mme Charles-Béchet.

  On dira que, de prime abord, même réduit à sa première partie, Lucien Leuwen semble n’offrir que peu de parenté avec ce récit. Le héros de Stendhal est d’extraction bourgeoise — fils d’un Rotschild ou d’un Pillet-Will, alors que l’amoureux de la Femme abandonnée, Gaston de Nueil, est «bon gentilhomme», et non seulement peu enclin à décider en libéral des mérites, mais même en général incurieux de la chose publique. C’est d’autre part en maître de son loisir et pour parachever une convalescence qu’il vient tâter de «l’existence pâle de la province», alors que si Lucien va s’enterrer pour de longs mois à Nancy-Montvallier, c’est par obligation de carrière, pour rejoindre, sous-lieutenant, le 27e régiment de lanciers. De caractère même et d’aptitudes, ils semblent au même degré disparates: Gaston possède tout l’entregent, l’esprit d’à-propos et le génie d’improvisation, dans la conduite, dont Lucien est précisément démuni. C’est à des initiatives hardies, à celle, par exemple, de retourner auprès de l’héroïne après qu’elle l’a congédié, à celle, aussi, de la suivre à Genève contre son aveu, que le baron de Nueil doit un succès dont Lucien, peu porté à délibérer des actes aussi énergiques, restera, du moins pour toute la part rédigée, frustré. Il est clair, d’autre part, que Mme de Chasteller, irréprochable veuve nantie d’un vieux père, qui reçoit tout ce que Nancy compte de plus noble et dont les jeunes gens se disputent l’espoir de gagner la main, ne fait guère figure de «femme abandonnée» : se présente à nous en tout autre posture, au point de vue social, que la vicomtesse de Beauséant, chez Balzac, qui s’est réfugiée aux champs pour avoir été quittée par son amant après avoir commis l’éclat de rompre avec son complaisant d’époux. On ajoutera que l’intrigue s’emmanche dans les deux romans de façon assez différente. Gaston pénètre sans coup férir dans les milieux aristocratiques de la Normandie et s’y endort d’ennui jusqu’au moment où il s’avise d’être reçu chez l’inconnue qui s’est fait un rempart de son délaissement. Lucien, en revanche, aperçoit dès son arrivée celle qu’il aimera, l’oublie, s’ennuie, s’introduit — et cela seulement au chapitre X — dans les cercles légitimistes où il cherche à pénétrer non pour les intérêts de l’amour, mais par piqué et pour meubler le «vide affreux» de sa vie, y revoit enfin et presque par hasard — après une seconde chute de cheval qui fournit à l’intrigue un deuxième départ — la jeune veuve à laquelle il a beau jeu, alors, de faire entendre qu’il ne s’est fait admettre, grâce au docteur Du Poirier, dans le monde que pour la retrouver. Si, ainsi, les données qui, dans les deux histoires, tendent à amorcer le roman d’amour, n’offrent de symétrie qu’imparfaite, que dire, à plus forte raison, de la divergence qui s’élargit à mesure que progresse l’action? A partir, même, du moment où Mme de Beauséant fuit à Genève et cède à Gaston, la nouvelle de Balzac prise dans un mouvement de liquidation toujours accéléré n’offre plus aucun trait commun avec le récit de Stendhal.

  Il est de fait, pourtant, que, lorsque l’on reprend pour attentive comparaison, dans chacune des deux fictions, la première partie, on se trouve en disposition de justifier sans difficulté l’impression de parenté qu’avait persuadée la première et innocente lecture. Les deux héros sont l’un et l'autre des Parisiens qui, débarquant dans la plus léthargique société de province, s’y enfoncent et voient leur vie s’y «atrophier» au point que, sans le douloureux réveil que procure l’amour, ils s’y fussent irrémédiablement gâtés et rouillés. Ils indiquent tous deux le même âge, au plus juste: vingt-trois ans. Comme ils représentent l’un et l’autre de beaux partis, les mères en charge de filles à marier ne se privent pas de leur faire à tous deux les yeux doux. Leur atout-maître dans la conquête d’une aimée — qui, dans les deux cas, les précède par l’âge et par l’expérience — c’est leur expression franche, leur spontanéité, leur vierge naturel, bref, leur «adresse sans adresse, fille du hasard et de la passion», qui atteint son objet là où précisément la ruse et la tactique eussent fait banqueroute. Passe-t-on de ces deux soupirants à leur vis-à-vis féminin, on constate que les deux figures se correspondent, ici encore, trait pour trait. Au physique, également blondes, les deux héroïnes offrent dans le regard la même expression tour à tour de mélancolie et d’impertinente ironie. C’est là l’enseigne de leur caractère qui les fait, dans chaque récit, réputer chacune «triste et singulière», «bizarre, sauvage» et pleine de hauteur. C’est que, somme toute, leur situation dans le monde n’offre pas tant d’écart qu’il pouvait d’abord le sembler. Sans doute Mme de Chasteller ne s’est-elle pas tue mettre au ban de la société. Mais si elle n’a pas affiché, ni même réellement eu d’amant — comme Mme de Beauséant a fait avec M. d’Ajuda-Pinto — la voix publique ne lui en a pas moins prêté une liaison, ou du moins une aventure, avec un lieutenant-colonel de hussards : M. Thomas de Busant de Sicile. La «calomnie» qui, de ce fait, l’atteint, comme la médisance la «femme abandonnée», offre, même, un tel degré de consistance que Lucien s’y prend, et non seulement la soupçonne dans son honneur, mais se laisse sans difficulté mystifier par la mise en scène, montée par Du Poirier, de l’accouchement clandestin. Elle a, du reste, non moins que Mme de Beauséant, mené naguère grand train à Paris, où elle possédait, au coeur du faubourg noble, un brillant hôtel: de la sorte Nancy, dont les gens ne lui pardonnent pas de ne pas partager leurs mesquines réjouissances, voire la désavouent pour l’air léger qu’elle a rapporté de la Capitale, lui est séjour d’exil et de mélancolie, où elle n’attend plus que, dans l’ennui, la mort. Ainsi en butte à la méfiance, elle se tient dédaigneusement à l’écart, comme la «femme abandonnée»; on ne la voit «jamais dans le monde», et «elle met beaucoup de lenteur à rendre les visites». Ce qui attache Lucien à elle, comme Gaston à Mme de Beauséant, c’est précisément la distance qu’il aperçoit entre elle et tout ce qui l’entoure; c’est aussi le fait que, toute à la religion de sa «dignité vraie», elle a fait profession de décourager tout hommage de passion qui la viserait, «mettant entre elle et l’amour les plus hautes barrières». Ce sont là, dans la dernière phrase, des formules prises de Balzac — ne s’y est-on pas trompé? — et, en fait, il serait facile de transporter sur l’héroïne de Stendhal toutes les affirmations qui, dans La Femme abandonnée, concernent les scrupules et le raidissement défensif de Mme de Beauséant, qui elle aussi se voit réduite à ne «prendre sa force» que «sur elle-même». «Si je ne restais pas fidèle à ma position, je mériterais tout le blâme qui m’accable et perdrais ma propre estime», ce n’est point Mme de Chasteller qui en assure le sous-lieutenant, mais Mme de Beauséant qui le notifie au baron de Nueil. Telles sont donc les similitudes qui s’établissent d’une oeuvre à l’autre pour la personne des protagonistes, qu’on ne s’étonne pas de voir, de part et d’autre, le début du roman d’amour jalonné par des réactions, voire des épisodes analogues. Comme Lucien, Gaston rode, sentimental, alentour le logis de la femme aimée, avec de longues haltes de «contemplation devant les persiennes fermées», doit surmonter bien des obstacles pour s’introduire dans l’intimité de l’idole, et y redoute à chaque instant «les terribles dédains du silence», ou de se voir signifier son congé, mendie enfin comme suprême grâce qu’on lui accorde la faveur de rares visites. Ici, l’on va se récrier que Stendhal n’avait pas besoin pour évoquer le martyrologe de l’amoureux craintif et toujours en passe d’être éconduit, de puiser son information dans un livre, le contrepoint des malentendus qui compliquent le douloureux commerce de Lucien et de Bathilde reproduisant, de l’aveu privé de l’intéressé, le roman tout en porte-à-faux que Dominique avait vécu, comme soupirant de Métilde, entre 1818 et 1820 à Milan. Rien n’est plus certain, en effet, et si la position sociale et l’attitude de Mme de Chasteller offrent tant de similitude avec celle de la «femme abandonnée», c'est sans doute, et tout simplement parce que Mathilde Viscontini, qui vivait séparée de Jean Dembowski et qui passait pour avoir été la maîtresse d’Ugo Foscolo, se trouvait, lorsque Beyle la poursuivit, à peu près dans la situation de Mme de Beauséant, du moins pour le début de la nouvelle en cause. Il est à tout le moins remarquable que rien dans l’affabulation balzacienne ne vint, pour Stendhal lisant la première partie de cette «scène de la vie de province», contrarier l’application qu’il ne pouvait pas ne pas en faire au cas de son ancienne, morte et toujours vivante, dilecta lombarde.

  Mais à quoi bon risquer le parallèle hors des voies où Stendhal l’a lui-même engagé? Quand, dans la marginale dont nous faisons état, il se réfère à la narration de Balzac, c’est exclusivement la «société de province», telle qu’elle est, de part et d’autre, silhouettée, qu’il a en vue. Le seul rapport que, spontanément, il nous ait, à part soi, suggère d’établir, celui, donc, que notre motivation se doit, désormais, de privilégier, c’est celui qui, concernant la «description de la société noble», tend à instituer en concurrence la première partie de Lucien Leuwen et le «commencement de la Femme abandonnée». Sans doute, ici encore, le protocole de précaution oblige-t-il à souligner certains articles de désaccord. Il y a loin de la Basse-Normandie, des «grasses campagnes du Bessin» et du Bayeux choisis par Balzac au Nancv-Montvallier, tout grenoblois et, en tout cas, plus urbain, de Lucien Leuwen. D’autre part, le tableau prend un sens un peu différent du fait que dix ou douze ans séparent les faits qui sont prétextés dans les deux fictions: Balzac, qui situe les premières pages de son récit vers 1822, garde les yeux rivés, rétrospectivement, sur les milieux mondains de la Restauration: Stendhal qui, en revanche, date son conte de 1832-1834, s’en prend à des figures, d’autant anachroniques que, entre-temps, le pouvoir est passe au juste-milieu: il ne s’agit plus seulement chez lui de nobles qui végètent, mais de fantômes qui, encore mal remis des Journées de Juillet, tremblent devant les émeutes ouvrières; «ils haïssent, ils ont peur, leur malheur vient de là», constatent invariablement Leuwen et son biographe. La couleur, dans les deux tableaux, est donc autre, on le voit bien. Du reste, Stendhal qui avait déjà et sans aide évoqué les extrêmistes de droite dans le Courrier Anglais, Armance et le Rouge, qui, ici-même, tirait partie de «clefs» – dont, en outre, l’information, entretenue par la pointilleuse lecture des journaux, venait tout juste d’être rafraîchie ou renouvelée par les confidenc.es de Du Poirier lui-même, — nous voulons dire de Rubichon —, Stendhal, donc, n’avait pas besoin de Balzac pour se faire une image exacte des moeurs et de l’état des esprits dans l’aristocratie do province. On ajoutera que dans les deux récits la «description» s’organise d’une toute différente façon. Balzac, déjà fidèle à sa technique de la mise en place préalable du cadre, commence par dresser, avec une sécheresse autant qu’on voudra ironique, mais dans un esprit à la fois systématique et documentaire, un tableau récapitulatif de quatre pages qu’il pose en une fois et une fois pour toutes, puis, ayant de la sorte installé le décor, il fait avancer le héros: «Quand Gaston de Nueil apparut dans ce petit monde ...». Les différentes données de son étude sociale, Stendhal les répartit, au contraire, sur toute l’étendue de sa première partie; il ne les distribue qu’au fur et à mesure des besoins, et toujours en action: véhiculées par la discussion, ou, du moins, portées par le dialogue. Il est clair enfin — pour conclure le décompte des différences — que la peinture de Stendhal, même ainsi morcelée, dépasse en ampleur celle de Balzac. Cela tient, assurément, au fait que ce dernier ne disposé que de peu de champ dans le cadre d’une nouvelle, mais aussi à ce que dans Lucien Leuwen la politique, au lieu d’être confinée dans le préambule, ne cesse pas de recroiser le roman d’amour. Cela provient encore de ce que la curiosité de Stendhal déborde les milieux ultras où Balzac enferme Gaston. Sans doute, concernant ces élites caricaturales, Stendhal néglige-t-il, sinon les deux derniers, au moins le second des trois échelons que Balzac a distingués dans son classement des espèces aristocratiques, mais l’horizon de Stendhal n’en paraît pas moins, au total, considérablement plus large, ce qui, du reste, était obligé, l’opinion, et même le pouvoir réel s’étant, depuis 1822, déplacés et éparpillés. C’est donc en extension, et non pas seulement au niveau du détail et des attendus, que la peinture de Stendhal s’offre à nous comme plus complète: à la carte, dressée par régions, mais en mouvement, de la «société noble», Stendhal a surimprimé l’étonnant portrait du docteur Du Poirier; il a voulu rendre compte de l’inconfortable situation des fonctionnaires et de l’armée, qui restent coincés entre les deux oppositions: légitimiste et républicaine; à la dernière il a fait la part belle, et il a même représenté le soulèvement des ouvriers mutuellistes et confédérés; il a, enfin, étudié l’esprit et usages du clan militaire. Il n'y a guère que la bourgeoisie qu’il pouvait légitimement se faire grief d’avoir tenue hors d’inventaire; mais, outre qu’il ne l’avait pas absolument négligée, ne lui avait-il pas accordé une première place par là qu’il avait choisi pour protagoniste un bourgeois?

  Que la «description» amenée par l’histoire de Lucien Leuwen doive être réputée plus riche et plus largement représentative que celle proposée par Balzac, cela ne suffit point, pourtant, à affaiblir la surprenante concordante, pour les milieux dépeints en concurrence, que le roman de Stendhal, offre avec le relevé qui préface La Femme abandonnée. L'écart des lieux est annulé d’office par la remarque préliminaire de Balzac que «à quelques usages près, toutes les petites villes se ressemblent», et tout autant l’écart chronologique par là que l’«Henriquinquisme» de province dont Stendhal a collectionné les travers, se définit par son effort, comme le dit Balzac des «vieilles filles de qualité», pour résoudre «le problème de l’immobilisation de la créature humaine»: rien d’étonnant que le décor humain devant lequel évoluent tant Gaston que Lucien Leuwen reproduise la même maquette puisqu’il s’agit du «personnel immuable que les observateurs retrouvent dans les nombreuses capitales de ces anciens Etats qui formaient la France d’autrefois». Ce principe posé, l’on pourrait s’amuser à établir d’un récit romanesque à l’autre la table détaillée des correspondances. Comme, néanmoins, l’entreprise n’offre pas plus de risque que d’instruction, il ne vaut pas la peine de la pousser ici trait pour trait; qu’il nous suffise, pour étayer la proposition du parallèle parfait, de signaler quelques-unes des plus caractéristique rencontres.

  Qu’elle soit normande ou grenobloise-lorraine, comme cette «société noble» fournit à l’état pur des types reproduits à plusieurs exemplaires et se classe elle-même par rangs, il était tentant pour un nouveau-venu d’en dresser l’herbier pittoresque, et le catalogue. Le héros de Balzac se livre à cet exercice : « Gaston de Nueil commença par s’amuser de ces personnages; il en dessina, pour ainsi dire, les figures sur son album ...». De même, chez Stendhal, le jeune officier: «Afin de n’oublier aucune de ses nouvelles connaissances et surtout pour ne pas les confondre entre elles [...], Lucien prit le parti de faire une liste de ses amis de fraîche date. Il la divisa d'après les rangs, comme celles que les journaux anglais donnent au public, pour les bals d’Almack». Le train de vie désuet et l’antique appareil que Balzac attribue aux premières maisons de Bayeux et des environs, ce sont presque sans variante ceux que Lucien observe chez les Commercy, les Serpierre et les Puylaurens: il n’est pas jusqu’à l’immanquable a cordon rouge» arbore par un ancien lieutenant du Roi qui ne se retrouve en bonne place chez les deux romanciers. Dans la famille régnante du lieu, la femme, pose Balzac «a le ton tranchant, parle haut, a eu des adorateurs, mais fait régulièrement ses pâques»; n’est-ce pas le cas, chez Stendhal, de Mme de Puylaurens qui, restée fort légère d’humeur, mais n’admettant pas de représentations, se fait un devoir d’aller «à l’église deux ou trois fois le jour»?. Balzac compte dans la compagnie la politique figure de «Monseigneur l’évêque, ancien vicaire-général» et roturier, voire, à de moindres réunions, au moins celle de «l’un des vicaires-généraux du diocèse». Dans Lucien Leuwen cet emploi revient à M. Bey, grand-vicaire de Mgr. l’évêque de Nancy, que l’on méprise un peu de ce qu’il n’est pas «né», mais dont on n’exécute pas moins toutes les consignes. Des familles qui dans le secteur revendiquent une prépondérance «royale», Balzac note non sans humour que la noblesse dont elles se targuent est incontestable, mais «inconnue à cinquante lieues plus loin», et Lucien, à Du Poirier, qui lui remontre que, fils de bourgeois, il ne peut, à Nancy, prétendre à s’allier trop haut: «Mais, mon cher docteur — rétorque le jeune officier — votre noblesse de province est inconnue à trente lieues du pays qu’elle habite». Redescend-on de ce premier rang vers les «astres secondaires», on trouve chez Balzac au-dessous de l’aristocratie moderne et riche la collection des «gentilshommes qui jouissent de dix à douze mille livres de rente», ont servi dans l’armée, et généralement dans la cavalerie, vont «à cheval par les chemins» et vouent au whist et au calcul des dots tout le temps que leur laisse l’exploitation de leurs terres: car, quoique, à leurs heures, ils discourent avec avantage «de la charte et des libéraux», ils sont, en fait, «plus occupés d’une coupe de bois ou de leur cidre que de la monarchie». Comment ici ne pas évoquer, dans Lucien Leuwen, la série dont le comte Ludwig Roller offre l’échantillon le plus pittoresque: ancien lieutenant de cuirassiers, démissionaire (sic) après 1830, sans fortune (avec ses deux frères, «ils ont un cheval entre eux trois»), il se voit destine à chasser l’héritière, exercice qui sollicite au même point, bien qu’il soit plus riche, son inséparable acolyte, le marquis de Sanréal, solide gentleman-farmer pour qui le problème de la récolte et de la vente des avoines prime tout autre, même politique.

  On voit donc bien que, à chaque générale affirmation de Balzac correspond au moins, comme s’il s’agissait d’une illustration, une particulière figure dans le roman de Stendhal, et l’accord n’est pas moins frappant dans les deux ouvrages pour tout ce qui concerne les normes et les formes de la vie pratique. Dans ces salons où chacun récite à son vis-à-vis l’article qu’il a épelé le jour même dans la Quotidienne, il est clair pour Balzac non moins que pour l’auteur de Lucien Leuwen, que ce qui ruine et «pétrifie» l’entendement aussi bien que le coeur, c’est la carence d’imprévu, «le mouvement uniforme de cette vie circulaire», le «vide» qui «gagne» et «annule» même l’esprit le plus ardent. Ainsi dans la condamnation que le réactionnaire Balzac a portée contre les fossiles du royalisme provincial il n’est pas une seule formule que le libéral biographe de Lucien Leuwen ne doit avoir contresignée, voire spontanément appareillée à son propre langage. «La somme d’intelligence amassée dans toutes ces têtes se compose d’une certaine quantité d’idées anciennes — lit-on dans La Femme abandonnée — auxquelles se mêlent quelques pensées nouvelles qui se brassent en commun tous les soirs. Semblables à l’eau d’une petite anse, les phrases qui représentent ces idées ont leur flux et reflux quotidien, leur remous perpétuel, exactement pareil: qui en entend aujourd’hui le vide retentissement l’entendra demain, dans un an, toujours ...». C’est bien là «l’éternelle répétition» qui serre le coeur de Lucien quand il lui faut hanter des êtres susceptibles de reprendre «soixante ou quatre-vingts fois» la même plaisanterie ou d’assourdir leur auditeur «trois quarts d’heure avec la même phrase». Ainsi, que La Femme abandonnée ait fourni à Stendhal une source ou seulement une confirmation — ce qu’il ne nous est guère possible de trancher — il valait, semble-t-il, la peine de signaler que l’auteur de Lucien Leuwen avait trouvé l’une de ses plus décisives rencontres avec Balzac dans la proposition, si hardiment formulée dans la note d’où a dérivé la totalité de notre rapprochement, que: «La société de province est une cérémonie».

 

 

  Carlo Bo, Balzac vivo, «Omnibus. Settimanale di attualità politica e letteraria», Milano, Anno V, Nuova serie, 2 Aprile 1950, p. 17.

 

 

  Carlo Bo, Ai margini di un centenario. Il «cattivo» Balzac inviso al monsignore, «Milano-sera», Milano, Anno VI, 19-20 aprile 1950, p. 3; 1 ill.

 

  Il ’49 ed il ’50, come si sa, sono due anni dedicati alla memoria di Balzac: l’anno passato i suoi fedeli hanno festeggiato il centocinquantesimo della nascita, quest’anno ci si prepara a commemorare il primo centenario della morte. In Francia si sono già avuti grossi festeggiamenti, soprattutto si stanno preparando diverse edizioni delle opere complete: una, per esempio, è già cominciata ad apparire sotto le cure di Béguin, un’altra con interessi puramente critici la prepara Maurice Bardèche, a cui si deve uno dei migliori-libri d’interpretazione. La Svizzera, l’Inghilterra, l’Italia nell’ambito delle loro abitudini si sono in qualche modo prenotate per partecipare a questi festeggiamenti con conferenze, con pubblicazioni, ecc., con qualche cosa insomma che testimoni un debito riconosciuto da tutti verso uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. In questa compagnia era giusto che cl fosse anche il Canada che ha con la Francia una rete fittissima di rapporti spirituali e intellettuali. Era giusto e così infatti sembrò al presidente degli scrittori canadesi che aveva pensato di partecipare alla commemorazione con due conferenze e con una esposizione delle opere balzacchiane. Senonchè quel presidente si era dimenticato di fare i conti col Comitato diocesano dell’Azione Cattolica di Montréal che si è opposto apertamente a qualsiasi torma di memoria e di omaggio per uno scrittore considerato «cattivo». Ecco la lettera del direttore diocesano: monsignor Albert Valois: «Signor presidente, il Comitato diocesano di Azione cattolica è a conoscenza che la Società degli scrittori canadesi, d’accordo con l’ufficio culturale dell’Ambasciata francese, si propone di celebrare il centesimo anniversario della morte di Balzac con un’esposizione delle sue opere. Lei non ignora che le opere di questo scrittore sono all’indice e noi consideriamo come una sfida all’opinione pubblica di Montréal la manifestazione che state organizzando. Ci sono tanti scrittori onesti di cui non è stato commemorato il centenario. Non comprendiamo perché teniate tanto ad onorare Balzac. La prego di credere che, se persistete nel progetto, saremo costretti a protestare pubblicamente nei giornali contro tale iniziativa ...».

  Il presidente. degli scrittori canadesi, che fra l’altro è un buon cattolico, rimase sorpreso della lettera e della protesta e si permise di rispondere, facendo osservare che, se si era deciso di commemorare Balzac, ciò era stato fatto perché Balzac è il padre del romanzo moderno e precisò: «Certo le opere dello scrittore sono all’Indice. Il presidente, i suoi colleghi del consiglio e i membri della società degli scrittori non lo ignorano. E’ sotto la definizione generale omnes fabulae amatoriae che l’opera del celebre scrittore, riconosciuto ai suoi tempi come un difensore dell’ordine stabilito, è stata una volta condannata. L’opinione corrente, oggi, anche fra i teologi e i moralisti cattolici, è che certe ragioni che hanno ispirato un secolo fa certe condanne non esistono più ... Le opere di Balzac sono all’Indice ... Ciò non ha impedito che tre anni fa due suoi romanzi, Le curé de village e Le médecin de campagne siano uscite a Montréal nella collezione Humanitas sotto gli auspici della Facoltà di lettere dell’Università di Montréal e con un’introduzione del canonico Sideleau ...».

  Le ragioni del presidente erano ottime ma non sono state sufficienti a piegare l’ostinazione del Comitato diocesano che per il momento è riuscito a vincere la partita.

  In particolare poi il Comitato diocesano nella sua lettera del 28 febbraio diceva: «Certamente non tutto è cattivo in Balzac, ma la separazione fra il bene e il male non c’è ed è questo che lo rende pericoloso. Capita troppo spesso che Balzac si contraddica ed è per questo che non bisogna fidarsi troppo delle sue dichiarazioni di ortodossia e di cattolicesimo. E’, dunque, condannabile non tanto per la sua immoralità quanto per la tendenza generale dell’opera». Come si 'vede, i termini della questione sono qui spostati, dato che il presidente degli scrittori canadesi si era limitato a parlare di manifestazioni «puramente letterarie» ed è proprio sul rifiuto del Comitato diocesano che Jean Bruchesi si è soffermato, giustamente: «L’atteggiamento preso dal Comitato diocesano d’Azione cattolica apparirà non solo agli occhi dei membri della nostra società ma anche agli occhi di quelli che hanno la più piccola luce di cultura intellettuale estremamente carico di conseguenze in un tempo in cui la libertà legittima è incrinata o soppressa in tanti paesi. D’altra parte — ciò che è più grave — quanti lo giudicheranno una prova di debolezza?».

  La cosa, come si vede, è nello stesso tempo ingenua e grottesca: a prima vista può sembrare strano che ai nostri giorni l’esposizione dei libri di Balzac possa impressionare un pubblico, per quanto si voglia onesto e legato a un’obbedienza assoluta: purtroppo, il nostro mondo offre ben altri spettacoli, gli uomini sono abituati a linguaggi assai più crudi e impietosi che nessun libro di Balzac è in grado di suggerire. Come dobbiamo giudicare un atteggiamento simile? Come una prova di ipocrisia; come un eccesso di conformismo o di pruderie o piuttosto come una testimonianza di grande ingenuità? Nonostante tutto e per non accettare una suggestione polemica, direi che forse la vera interpretazione è quella legata all’ingenuità. Pensiamo che quelle autorità ecclesiastiche del Canadà siano troppo staccate e separate dalla realtà, che l’avere creato uno scandalo a proposito dell’esposizione Balzac ci riporti in un clima e in un tempo troppo diversi, troppo lontani dalla nostra possibilità di giudizio. La cosa non è passata inosservata In Francia e lo stesso Mauriac che, come i nostri lettori sanno, è uno dei più fervidi difensori della fede cattolica ha confessato: «Preferisco non intervenire in una discussione in cui sarei, nello stesso tempo giudice a parte. D’altronde sin dall’adolescenza ho frequentato troppo Port-Royal; sono stato compromesso nella lotta di Racine con i suoi antichi maestri per non entrare nelle ragioni del comitato diocesano di Montréal. Ma non posso non pensare che in questo momento, la gioventù cattolica, che dovrà sostenere lo scontro più pericoloso della storia, deve essere in grado di conoscere e di affrontare la vita così com’è. Se non possono neppure sopportarne il riflesso nelle grandi opero del genio umano, come si comporteranno nelle zone più buie di questo mondo delittuoso? Chi ha mai letto Balzac con delle segrete intenzioni erotiche? E bisogna estendere ai laici quei regolamenti che valgono per i sacerdoti? Per me quelli che Baudelaire chiama i Fari, sono i testimoni di Dio in questo mondo. Balzac, meglio e più di Delly, è il servitore dello Spirito».

  Dove bisogna cogliere nelle amare parole del romanziere francese una grande verità: cioè, nelle opere assolute della letteratura non servono le misure e i metri che usiamo per i rapporti quotidiani, nell’ambito della nostra vita. Se un’opera è toccata dal segno dell’arte, se è stata riscattata da un senso profondo di verità supera naturalmente le nostre intenzioni e le nostre preoccupazioni. Lasciamo puro da parte il caso Balzac (ricordiamo però che solo ventun opere dello scrittore rientrano nella condanna), osserviamo solo il lato universale della questione per ripeterci che ogni volta che un libro ha raggiunto il piano della verità, ogni volta che risponda a un profondo giuoco di umanità, questo libro appartiene alla nostra storia esemplare e quindi la parte del bene supera quella del male, la parte del bene resta la somma inevitabile d’ogni approssimazione. Ora chi ha letto Balzac non può non ammettere il debito enorme che abbiamo verso di lui. Peccato che quei censori ingenui non se ne siano ricordati a tempo, prima di sollevare cioè una questione inutile: grottesca se pensiamo al colore dei nostri giorni.

 

 

  Carlo Bo, Non piace Balzac ai censori canadesi, «Il Nuovo Corriere», Firenze, Anno VI, 10 Agosto 1950, p. 3; «L’Ora del popolo», Palermo, Anno 51, N. 181, 18 Agosto 1950, p. 2.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 558.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Gustavo Boccia, Centenario di Balzac, «Rivista critica di problemi etico-sociali e letterari», Napoli, Anno I, N. 3, 1950, pp. 182-191.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 552.

 

 

  Mario Bonfantini, Balzac 1950, in Ottocento francese, Torino, De Silva Editore, 1950 («Maestri e compagni (Biblioteca di studi critici e morali)», 16), pp. 63-90.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 551.

 

  Saggisti e giornalisti di Francia non si sono risparmiati, com’era naturale, in occasione della annata, anzi della duplice annata balzacchiana: basti ricordare (utili anche per una prima indicazione delle differenze fra la cultura tradizionalista intesa a una certa obiettività e la critica nuova, «impegnata») i due numeri speciali delle «Nouvelles Littéraires» e della «Gazette des Lettres», nel 1949; nonché l’apposito «Courrier balzacien», con gli studi vecchi e nuovi del Bouteron, e i contributi delle svariate riviste da «La Table ronde» alla «Revue de Paris». Ma le opere più meditate non hanno aspettato il ’49-’50 anche se si sono andate infittendo in questi ultimi anni, evidente segno di un interesse profondo e crescente: libri e libretti di Alain, di Albert Béguin, del Bardèche, di Claude Mauriac, la diligente onestamente prosaica Vita del Billy, e la ristampa delle divertenti vecchie memorie del Gozlan ... 1

  Fra questi proprio l’Aimer Balzac di Mauriac il giovane ci ha fissato maggiormente l’attenzione: non propriamente più serio degli altri (il Béguin e il Bardèche, per non parlare del sempre brillante Alain, si raccomandano per ben altre doti), quanto rivelatore, nella sua calorosa irruenza, di uno stato d’animo abbastanza diffuso. Claude Mauriac, letterato cattolico, già autore di una Introduction à une mystique de l’Enfer (cioè uno studio sull’opera di Jouhandeau), e di un Cocteau ou la vérité du mensonge, messosi in luce nel giornalismo della Resistenza e patrocinato dal più famoso omonimo François, adorna il suo libretto d’una prefazione dovuta appunto a lui, e lo dedica «À Monsieur Marcel Bouteron», il gran maestro dei balzacchiani d’oggi, il quale (l’autore si guarda bene dal nasconderlo) gli ha diligentemente esaminato e debitamente «approvato» il manoscritto. Ma ben altro e maggiore patrono ha in verità questo saggio; ha alle spalle una serie di antenati, il più cospicuo dei quali è, con tutta evidenza, l’Honoré de Balzac di Ferdinand Brunetière 2. Non importa cercare qui fino a che punto si tratti o meno di puntuali derivazioni. Ma le coincidenze tra il vecchio accademico positivista convertito al cattolicesimo (la prima delle grandi conversioni letterarie dell’età nostra, secondo il Thibaudet) e il giovane cattolico letterato d’avanguardia e gollista, il solenne e sistematico promotore della evoluzione dei generi letterari» e il recentissimo rappresentante di una generazione largamente votata alla distruzione dei «generi», sono davvero impressionanti.

  La stessa confusione continua (cui d’altronde, bisogna riconoscerlo, Balzac potentemente invita) fra l’Arte e la Vita, fra il valore poetico e l’importanza del «documento»; e quel continuo gioco per cui si pretende fard restare abbagliati dall’opera gigantesca di Balzac «creatore» in base al gran numero di verità che essa contiene, salvo a giustificarla con la Poesia quando qualcuna di tali verità si rivela troppo luminosamente infirmabile. E così la ripetutissima constatazione (con un tono di fresca scoperta, assai meno scusabile è vero, in Claude Mauriac) del carattere «napoleonico» di Balzac scrittore, poeta della libera volontà di conquista, dell’ambizione, dell’energia, e perciò stesso instauratore del «romanzo sociale»: con una disinvolta trascuratezza, non diciamo degli inglesi del ‘700, ma di Stendhal, verso il quale pure Balzac si riconobbe creditore (Brunetière veramente lo nominava, per rifiutarlo, accusandone la «fatuité»). E il battere e ribattere sul principio (diventato anch’esso un luogo comune) che l’opera di Balzac va giudicata «nell’insieme»: perché anche il più apparentemente debole personaggio, indicato appena con poche linee, acquista subito la terza dimensione, complessità e ricchezza, quando si tenga presente che egli, nel tale o nel tal altro racconto, ha compiuto o compirà le tali azioni.

  La stessa compiaciuta constatazione dell’ideologia religiosa-conservatrice di Balzac, il quale com’è noto pretendeva di scrivere «à la lueur de deux vérités éternelles: la Religion, la Monarchie»3. Con la affermazione che l’arte sua ne resta tuttavia indipendente ... Che vien subito contraddetta dal Brunetière a poche pagine di distanza4 e dal Mauriac un po’ dappertutto, restando però strettamente legata al riconoscimento dell’oscillazione continua di Balzac fra un pessimismo radicale e indubitato, per cui il mondo degli uomini sempre è stato e sarà una specie di giungla, e certi impeti di rivolta: fra un austero vagheggiamento virtuistico della politica quale dovrebbe essere, anzi non essere (cioè in pratica il paternalismo conservatore De Maistre-De Bonald, rivelato soprattutto nel Médecin de campagne) e quella chiara compiacenza per i birbanti, per «ces beaux rapaces, à l’âge où les griffes poussent ... dont Balzac adore l’implacabilité et la grâce», già maliziosamente notata dal Sainte-Beuve 5.

  E, finalmente, quello stesso traboccare di ammirazione per cui da Balzac sarebbe derivato tutto: il romanzo francese, inglese, russo, sia sulla linea Tolstoi che su quella Dostojewski, con una nuova critica, una nuova filosofia; e specialmente, un nuovo modo di vedere la Storia 6.

  Proprio riguardo alla storia converrà cercare di veder chiaro, tra le ambagi care al Mauriac giovane (e non a lui solo dei francesi contemporanei) e le incertezze della vecchia critica. Ha valore storico la Comédie humaine, in quanto materiale per la storia di un’epoca, cioè raccolta di documenti, o storia già bell’e fatta, interpretazione di un’epoca? e dobbiamo considerarla storia in minore, «segreta» (la «petite histoire» alla Lenôtre), o storia in grande, che va alle ragioni profonde dei fatti anche e soprattutto in quanto segreta? Tutto insieme, rispondono in vari modi gli zelatori. E intendono dire che nella Comédie seguendo le imprese dei singoli eroi, grandi o piccoli, si verrebbe ad avere un’idea del modo con cui si preparano gli eventi e si è fatta la storia, nell’epoca da Balzac illustrata e, per analogia, del come si fece in passato e si farà in futuro. Ma in realtà i personaggi di Balzac e i vari gruppi sociali, ex-ufficiali napoleonici, nobili di vecchio stampo, commercianti, gli stessi speculatori e finanzieri, anche quando non si limitano a far pesare come forza d’inerzia certe tradizionali qualità mutuate secolarmente dal mestiere (esempio tipico i contadini) non appaiono quasi mai come veri protagonisti: non fanno propriamente la storia: la subiscono, vi si adattano o la sfruttano. Un Rastignac, un Du (sic) Marsay, lo stesso Vautrin, si inseriscono semplicemente nella grande corrente degli eventi, sfruttandoli per far fortuna o per far la fortuna o la disgrazia di altri individui; ma non si vede quale novità apporteranno nel corpo sociale quando abbiano raggiunto il potere, se non caso mai un piccolo incremento di quella corruzione di cui si sono valsi per salire. E gli stessi intrighi più sorprendenti de l’Histoire des Treize, Une ténébreuse affaire, L’envers de l’histoire contemporaine, quegli intrighi coi quali il Balzac si compiaceva di ricercare i lati più «inverosimili» della «realtà», appaiono a uno spettatore obiettivo semplicemente come concessi dal tale o tal’altro momento storico, sottili e impressionanti espedienti con cui la malizia umana si vale delle possibilità offerte dalla particolare struttura di una società, di un regime, per meglio sfogar le sue brame. Sicché la Comédie humaine non sarebbe da questo punto di vista altro che una «comédie de moeurs», col risultato di continuare la serie dei vari monsieur Jourdain, Harpagon, Tartuffe, o Turcaret (si pensi al Mercadet, l’unica opera di teatro vitale che scrisse Balzac). Cosa non indifferente dal punto di vista poetico, ma poco rilevante come storia sociale, sulla quale porta semplici testimonianze riflesse, gettando al massimo su qualche minuto ingranaggio uno sprazzo di luce, sempre limitato e parziale, anche se si moltiplicano i punti di vista.

  Ma ciò, come non basta a certi ammiratori, non contentava pienamente lo stesso Balzac. Il quale spesso suole indurci a credere che dalla riuscita o dal fallimento di tali singoli intrighi, dal capriccio di chi li conduce, dipendano la vita o la morte di tutta una classe dominante, un regime; e che l’essere a conoscenza di certi «misteri», il poter far scattare certe molle segrete, permetta senz’altro di volgere in una direzione piuttosto che nell’altra le grandi correnti della storia.

  Concezione troppo evidentemente puerile, anche se largamente diffusa. E che risalta in tutta la sua involontaria comicità, per esempio in una parlata di uno dei personaggi-chiave della Recherche di Proust: la parlata del barone di Charlus (il quale, notate bene, sapeva tutto Balzac a memoria) quando vuol sedurre il giovine Marcel mettendo in certo modo ai suoi piedi tutti i tesori della terra, fornendogli certe nozioni che potranno certo esser per lui «il punto di partenza di vantaggi inestimabili». Brano il quale non è altro che un meraviglioso pastiche, mirabilmente fedele nella lettera e ancor più nello spirito a questo lato dell’opera balzacchiana:

«... J’ai souvent pensé, Monsieur, qu’il y avait en moi, du fait non de mes faibles dons, mais de circonstances que vous apprendrez peut-être un jour, un trésor d’expérience, une sorte de dossier secret et inestimable, que je n’ai pas cru devoir utiliser personnellement, mais qui serait sans prix pour un jeune homme à qui je livrerais en quelques mois ce que j’ai mis plus de trente ans à acquérir et que je suis peut-être seul à posséder. Je ne parle pas des jouissances intellectuelles que vous auriez à apprendre certains secrets qu’un Michelet de nos jours aurait donné des années de sa vie pour connaître et grâce auxquels certains événements prendraient à ses yeux un aspect entièrement différent. Et je ne parle pas seulement des événements accomplis, mais de l’enchaînement de circonstances (c’était une des expressions favorites de M. de Charlus et souvent quand il la prononçait il conjoignait ses deux mains comme quand on veut prier, mais les doigts raides et comme pour faire comprendre par ce complexus ces circonstances qu’il ne spécifiait pas et leur enchaînement). Je vous donnerais une explication inconnue non seulement du passé, mais de l’avenir ...».

  Tale concezione tipicamente romanzesca, così argutamente messa in rilievo da questa geniale parodia, ci spinge a dar ragione al Bardèche quando parla di un modo di vedere «melo-drammatico», la cui forza di suggestione sta tutta nell’effetto. Salvo che egli l’attribuisce alla pratica giovanile del Balzac del romanzo nero e del romanzo storico in senso deteriore, prima di volgersi, a modo suo, alla verità. Mentre è da collegare secondo noi piuttosto a tutta la maniera di osservare e sfruttare le proprie osservazioni, di concepire e costruire ciascuna opera 7.

  Naturalmente anche il valore di documento, in quanto per Balzac la notazione particolare già vale come premessa all’interpretazione, verrebbe così a sfumare; e fu notato che assumono ai nostri occhi importanza documentaria molto maggiore gli scritti di contemporanei assai meno geniali di lui, appunto perché registratori più fedeli delle ideologie, delle opinioni e dell’atmosfera dei tempi loro, come George Sand.

  La verità però è meno semplice. Balzac, se pure interpretò troppo spesso i suoi «dati» alla luce di un tradizionalismo politico di origine tutta sentimentale (Madame de Berny) e sulla scorta di una trasposizione estremamente sommaria nel campo sociale delle idee del Geoffroy de Saint-Hilaire, colse (vorremmo dire fiutò) con l’impeto caratteristico alcune diagnosi che venivano allora suggerite da molte parti, e trasformandole in idee-forza per animarne con travolgente energia il suo mondo, conferì loro un’evidenza che può anche essere storicamente istruttiva. Prima di tutte, come è ben noto, l’idea dell’«argent», del famelico slancio con cui dopo le guerre napoleoniche, libero ormai dagli scrupoli e dai freni consuetudinari del vecchio regime, il secolo nuovo, guidato dalla borghesia, si lanciava alla conquista della ricchezza e del potere. E, a ciò legato, il formarsi di una psicologia «di massa» (quello che poi si dirà «socialismo», come nota il Brunetière), cui si oppone con tanta maggior violenza lo scatenarsi dell’individualismo più feroce dei nuovi «condottieri»: gli avventurieri del giornalismo, della politica salottiera o poliziesca e della finanza. Osserva ancora il Brunetière come Balzac non ci parli dell’industria, cioè della «questione sociale» nel senso nuovo, di cui pure egli aveva già sotto gli occhi manifestazioni imponenti; e assai poco dei grandi «avvocati», e dei «professori» che incominciavano a contar tanto nella vita pubblica 8. E ha ragione, ma non è questo che conta. Il fatto è che queste forze di fondo il Balzac romanziere le vede poi facilissimamente dominate, sviate o compresse o sviluppate a piacere, secondo l’arbitrio, anzi il capriccio di pochi uomini; i quali obbediscono ancor più che all’avidità alla voluttà del potere, ma (e qui è l’assurdo) quando sono arrivati a tale altezza, non sono più legati da quelle stesse forze che essi maneggiano e che li hanno portati in alto. Così i trenta usurai che in Gobseck ci son presentati come gli assoluti padroni di Parigi. Così, per contro, nel Médecin de campagne e altrove, quei benefattori, quelle castellane, cuori voltisi al bene perché feriti dal mondo, che con una semplice ingegnosa beneficenza annullano senz’altro tutti i contrasti sociali, isolando e trasformando intere provincie in un piccolo paradiso terrestre. Dove scorgiamo Balzac non più inventore di miti, ma vittima di alcune delle utopie più pericolose che ci abbia lasciato in eredità l’Ottocento.

  Se ne accorge — et pour cause, date le recenti esperienze — Claude Mauriac, quando opportunamente ricorda la polemica avuta dal Balzac col Sainte-Beuve riguardo alla revoca dell’Editto di Nantes e alla Saint-Barthélemy, e nota un «aspect fasciste» nel suo autore prediletto 9. C’era dunque in Balzac (se ci è consentito il paragone) lo stesso semplicismo per cui il Machiavelli arrivò a pensare e lasciar capire che ad es. un duca Valentino, con un po’ più di fortuna e un po’ più di assassinii, sarebbe potuto diventare arbitro perpetuo del Papato e padrone assoluto d’Italia, a dispetto degli interessi e delle forze ormai scatenate di tutta Europa, cioè di tutto il mondo civile di allora. Onde si capisce benissimo come l’autore della Comédie humaine ammirasse specialmente come un grande modello di «roman à idées» la Chartreuse, in grazia di tutta la politica da operetta della corte di Parma, che aveva per altro nelle intenzioni e nell’opera di Stendhal una funzione non precisamente dottrinaria 10.

  Ma soprattutto, da questo complesso di rozzi miti, si intendono le cause più o meno conscie di certe ammirazioni; c’è effettivamente una linea, per cui l’ideologia del Balzac frettoloso seguace dei De Maistre e dei De Bonald, già rivendicato ai suoi tempi (come ci ricorda François Mauriac) dai conservatori, dai Fitz-James, Castries, Abrantès, rinasce, se pur con ben altra quadratura e dottrina, nel Taine della seconda metà della sua vita: 11 donde, in una mistura sempre più arbitrariamente e variamente dosata di pessimistico materialismo, spiritualismo tradizionalista e cattolicesimo esteriore, si arriva a Barrès e a Maurras, e via via a Massis, e ai loro più recenti continuatori.

  Ma sarebbe puerile farne responsabile Balzac. A parte che si tratta molto spesso, più che di derivazioni, d’incontri, se non addirittura del calcolo volontario di chi ha voluto riconoscersi in lui per sfruttare a suo profitto la notevole potenza d’urto dell’opera sua, Balzac in casi come quello citato parlava oseremmo dire per ignoranza: per la tipica sua forma mentale di narratore la quale, dati certi principî, gli impediva di controllarne meditatamente la consistenza storica e le conseguenze. Era, in tali casi, un Balzac uomo vittima del romanziere, come saranno poi tanti suoi lettori; ma, presi nel complesso, infinitamente più ricchi, sia il romanziere che l’uomo, di autoironia, di fermenti diversi, di libertà spirituale, che non si potrebbe credere seguendo con arbitrario rigore le illazioni di certi temi o motivi che egli fantasticamente sviluppava o meccanicamente parafrasava, nelle pause meno felici della creazione.

  Già fu posta la domanda quanto possa importare tutto ciò alla nostra valutazione, o meglio quanto abbia influito sulla qualità e grandezza dell’opera. Nel caso particolare di Balzac crediamo di sì, in bene come in male. Ma alla questione dei rapporti tra veridicità storica e verità poetica è naturalmente legata l’altra, del «realismo» o addirittura del «naturalismo» balzacchiano.

  Qui la tradizione critica francese ci ha lasciato uno schema (consacrato debitamente dal Lanson) nel quale sono confluiti vari elementi, dalla pratica e teoria dei Goncourt alla polemica antiromantica del Flaubert e persino a quella degli Champfleury e dei Duranty, ma che si è consolidato in vari modi e in tappe successive principalmente ad opera del Taine (la cui Littérature anglaise con la sua famosa Prefazione veniva citata con reverenza ancora mezzo secolo dopo dal Brunetière), e dello Zola, e dello stesso Brunetière 12. Schema particolarmente fondato sulla letteratura narrativa, sul romanzo, anche se non trascurava del tutto le vicende della poesia, almeno di quella ufficialmente riconosciuta (Parnassianesimo e realismo o psicologismo più o meno parnassiani, che il Simbolismo e lo stesso Baudelaire furono a lungo stimati, si sa, res parvi momenti se non peggio), secondo il quale dal romanticismo dei primi decenni del secolo, attraverso al ripudio del «personalismo» più o meno controllato, e ad una maggior «cultura» (incredibile l’ignoranza dei poeti romantici, confidava Leconte de Lisle al giovane Brunetière!) e alla benefica influenza della filosofia positivista, si sarebbe arrivati al naturalismo, o a un realismo naturalistico: come ad una letteratura fondata sul «vero», «qui se propose pour principal objet l’imitation fidèle ou la représentation de la vie» 13. Ed è pur noto come in seguito e al contempo, specialmente in Italia, tale visione sia stata modificata e arricchita: Romanticismo - Realismo - Naturalismo: conferendo, sembra con ragione, maggiore importanza come canone d’interpretazione critica e valutazione storica, al termine medio, il realismo, di cui il naturalismo – precocemente chiuso nella pericolosa dottrina zoliana – non sarebbe che una derivazione, una sottospecie.

  Tuttavia quando si viene ai singoli scrittori, specie se ai grandi, tali sistemazioni, soprattutto la prima ma anche la seconda, risultano sempre più facilmente infirmabili: sia per quanto riguarda la posizione di Flaubert, sia per quella di Balzac, a proposito del quale sembra ben difficile adottare oggi il titoletto del paragrafo 3 (Sesta Parte, Libro II, cap. V) del manuale del Lanson: «Passage du romantisme au réalisme: Balzac» 14.

  Realismo naturalistico quello del Balzac, nel quale i residui romantici starebbero come zavorra? A parte gli appunti della superficiale ma sensata ironia di un Faguet, nonché di quella più mordente di Rémy de Gourmont, la parte migliore della nostra critica vi si oppone, basandosi fra l’altro proprio sulle testimonianze dei contemporanei di Balzac e dei suoi immediati successori.

  Un «visionario», Balzac, secondo Baudelaire: «visionnaire et visionnaire passionné»; che dotava i suoi personaggi «de l'ardeur vitale dont il était animé lui-même». Onde «toutes ses fictions sont aussi profondément colorées que les rêves», e tutte le anime dei suoi personaggi «sont des armes chargées de volonté jusqu’à la gueule». Anzi addirittura un invasato, secondo il noto schizzo del Gautier, «ce gros homme aux yeux de flamme, aux narines mobiles, aux joues martelées de tons violents, tout illuminé de génie, qui passait emporté par son rêve comme par un tourbillon» 15. E non sarebbe certo mai quello lo stato d’animo più adatto per una pacata e sicura osservazione.

  Ma d’altra parte gli uomini oggi pressoché dimenticati del periodico «Le Réalisme», sorti pochi anni dopo la sua morte, un Duranty, uno Champfleury, che rifiutarono a un bel momento Flaubert, troppo odiosamente pessimista e troppo «poetico» a un tempo, si mettevano senz’altro sotto il patronato di Balzac, e ne applicavano, a modo loro, le idee; come facevano, se pur con maggiore indipendenza, i Goncourt, per i quali, al dir di Flaubert, «la letteratura francese non esisteva prima di Balzac» 16. E anche a noi oggi, in sede storica, una corrente narrativa realistica francese non appar pensabile senza Balzac, né senza Flaubert e, in certa misura, senza Stendhal (nonostante l’interpretazione particolare che dell’opera di Stendhal abbiamo creduto di proporre noi stessi in questo libro). Mostrandosi così ai nostri occhi il realismo intrecciato alle radici con lo stesso primo romanticismo; come ben vide il Baudelaire e non vollero vedere, per naturale polemica d’una generazione contro quella che la precede, i grandi maestri del realismo, in pittura come in letteratura. Più difficile si prospetta la cosa col naturalismo, stando alle diffidenze anzi resistenze di Flaubert di fronte alla nuova letteratura narrativa che pretendeva di assumerlo a caposcuola, e alle esitazioni del Sainte-Beuve davanti ai pericoli d’una rigorosa dottrina che portava l’identificazione semplicistica di arte e scienza. Ma anche qui, come è indiscutibile la discendenza (se pure con violente limitazioni che diventavano innovazioni) di Taine da Sainte-Beuve, così non possiamo disconoscere del tutto la portata degli argomenti del Taine, che cercava antenati in Stendhal e Balzac, né ignorare il senso della curiosa formula del Brunetière, per cui Sainte-Beuve e Balzac rappresentavano quasi un ponte che varcando il «positivismo» congiungeva romanticismo e naturalismo 17. Il Brunetière, come è ben noto, si fondava soprattutto sulle teorie e intenzioni dello stesso Balzac, nella famosa pagina dell’«Avant-propos» della Comédie, e nella non meno eloquente lettera alla Hanska 18.

  Una prova di più, diciamo noi, che è ormai maturo il tempo per riconoscere nel realismo, e nel coevo parnassianesimo, e puranco nel naturalismo, altrettanti momenti distinti, magari in vivace opposizione ma non mai così sostanzialmente diversi come fu creduto al lor tempo, di quello stesso gran movimento spirituale cominciato in Europa oltre un secolo e mezzo fa, e di cui stiamo assistendo all’esaurimento, che si chiama Romanticismo 19.

  In quanto al problema particolare di Balzac, anche se il suo programma storico-scientifico gli servì di stimolo e all’ambizione e alla fantasia, dobbiamo certo stimare una fortuna che egli se ne sia spesso dimenticato in quanto scrittore, né si potrebbe seriamente sostenere che si trovino nell’opera sua (più che in quella di Sainte-Beuve) le basi di una qualunque «sociologia» 20. Ma resta, a testimoniare di un suo particolare realismo, l’evidenza dei testi: quelle descrizioni famose, per minuzia e precisione, di interni, facciate di case e insegne, strade e intere città, di gruppi e ambienti sociali: quei luoghi che a distanza magari di decenni dopo la prima lettura sono rimasti in noi come frutto d’una esperienza immediata, quei paesi e quelle persone che noi ci troviamo a conoscere come se avessimo vissuto in loro e in mezzo a loro. Tutta illusione, o anche verità? E che specie di «verità»?

  Non una verità storica vera e propria, e neppure una verità cronistica in senso stretto, che escluderebbe l’arte, e che è d’altronde continuamente violata dagli interventi diretti di Balzac, dalle sue esagerazioni e dai suoi ingrandimenti (i quali però maggiormente si notano e figurano più arbitrari soltanto dove meno lo sorregge l’ispirazione).

  Che d’altra parte, secondo l’idea che fu del Bourget e di tanti altri, alla lettura di Balzac si impari il mondo «com’è», non è giudizio che regga. Un mondo dove tutto è agitato da una diabolica energia, dove si incontrano dannati e maniaci o sante ad ogni pié sospinto; dove ogni qualità e passione, in ogni essere, appare spinta alle estreme conseguenze e sostenuta con rigorosa impossibile coerenza. Sostiene Alain, tra le molte altre cose, d’aver imparato più in Balzac che nei filosofi. Ma se queste parole hanno un senso, non può essere se non con un sottinteso riferimento alla qualità che si dice propria soprattutto dei grandi scrittori dell’arte classica: di additarci e farci capire per intuizione certe eterne e sempre nuove verità sulla natura umana, spesso con efficacia ben maggiore che non gli analisti di professione, i filosofi. Lo stesso Brunetière (p. 158) nel vagheggiare quel suo naturalismo affatto personale cui abbiamo accennato, diceva che un qualche cosa di simile già si era verificato, a opera di Molière e di Racine, verso il 1660. E il Benedetto osserva come l’abitudine contratta nella prima gioventù di «fare più grande del vero, a costruire dei tipi di proporzioni irreali e di portata simbolica», fosse «una lezione conciliabile con quella che gli veniva dalla tradizione letteraria francese, orientata fondamentalmente verso la tipificazione psicologica» 21. Onde la stessa unilateralità eccedente e prepotente dei personaggi di Balzac, ciascuno dei quali si trova ad incarnare con esclusività da maniaco una passione — l’avarizia, la lussuria, l’avidità del potere, l’arrivismo, l’invidia, l’amor paterno — non solo costituisce, in caso di riuscita, la manifestazione propria del suo «lirismo», ma può offrire all’osservatore il destro di conferme o «scoperte», guardando così come attraverso a una lente di molti ingrandimenti.

  Ben noto e più volte felicemente descritto è il modo onde il Balzac per costruire questi suoi personaggi e farli viventi, si valse dei particolari: un cumulo paziente di note descrittive, di tocchi minuti insistenti, per cui le persone poi al loro solo apparire si trovano arricchite d’un tratto di tutte le suggestioni create così dalla descrizione: si svela una specie di simbiosi fra le persone e le cose, l’ambiente nel quale vivono. Che è, possiamo dire, la sola vera grande «scoperta» di Balzac, della quale il senso di interdipendenza di tutte le azioni e reazioni degli uomini in questa vita non è se non l’aspetto più vulgato. E così si può intendere come, lavorando forse in parte inconsciamente per questo suo vero scopo, Balzac dovesse parzialmente raggiungere anche l’altro: di dare una rappresentazione, tutta trasfigurata (e non solo per virtù di poesia ma anche in senso pratico, per le stravaganze delle sue concezioni mondane) della società contemporanea, degli studi, dei salotti, delle botteghe, degli ateliers artigiani, e addirittura delle strade e delle case, delle città e campagne della Francia del tempo suo; una raffigurazione che a questa connaturata sfalsatura unisce paradossalmente la precisione cronistica di un inventario.

  Troppo naturale che egli fosse servito in ciò da grandi qualità di «osservatore». Ma bisogna tener presente che vi erano in Balzac due tipi abbastanza distinti di osservazione. Quella (per sfruttare a modo nostro un’altra suggestione del Brunetière) alla Comte : 22 dell’ideologo che coglie qualche tratto a volo della realtà esterna e precipitosamente vi costruisce su una teoria, o lo classifica in un casellario precostruito: onde il vizio d’origine delle varie «sociologie» che si incominciarono a fabbricare in quel tempo, e che avevano il loro corrispettivo, su un piano di facile letteratura, in quelle fisiologie da cui il Balzac sull’orlo della maturità prese le mosse. E l’altra osservazione, più umile, più sinceramente appassionata, che Balzac conduceva (ci piace ricordare fra le altre l’affettuosa testimonianza del Gozlan) con una specie di divertita passione tra il maniaco e il perdigiorno: scrutando una volta ad esempio tutte le insegne della città, abbandonato passivamente alle improvvise illuminazioni che gli sorgevan dentro; come quando ideò tutto l’inizio della Maison du chat qui pelote, o trovò e adottò di punto in bianco, per uno dei suoi eroi minori che gli stavan più a cuore, il nome di Z. Marcas.

  E qui, in questo senso più limitato e puntuale, ci sembra soprattutto da vedere il Balzac «visionario»: quello per cui Baudelaire aveva già dal ‘48 trovata la formula che adattò poi al Flaubert, del realismo come «une nouvelle méthode de composition». Non senza ricordare che di questo «visionnaire» dal Baudelaire ereditato si tende oggi a fare un singolare abuso; mentre lo giudichiamo appropriato solo nel senso appunto baudeleriano, di una visione fantastica che non esclude l’osservazione minutamente realistica e neppure le teorie che saranno poi adottate dai naturalisti 23.

  Né ci sembra che il pericolo di Balzac fosse nell’abbandonarsi troppo a quelle descrizioni. Se qualche volta esse ci possono sembrare mancate, il difetto è del personaggio che vien dopo, il quale non è riuscito a legare, non appar vivo: non già perché sia mancata la debita ambientazione, ma perché il Balzac nel caratterizzarlo ha obbedito a uno dei suoi schemi intellettualistici, o lo ha scelto addirittura in base a un suo criterio di comodità, per mostrarci sotto un altro aspetto qualche persona già nota, creandogli nuove relazioni, amici o nemici, o per aggiungere qualche nuovo abitante al mondo della sua Comédie, cedendo a quella passione di completezza che gli ha fatto pur disegnare un numero non indifferente di personaggi artificiali, semplici marionette di cui egli regge troppo visibilmente i fili. Ma quasi sempre anche in questi casi la prima parte del miracolo si era già effettuata. Ed è questo il «metodo» che ci spiega la meravigliosa riuscita di Pierrette, con quella città tutta di ruscelli all’alba come apertura, o del Curé de Tours, con la descrizione della canonica e dell’alloggio così ferocemente disputato; le prestigiose figurazioni della facciata della casa di Claës nella Recherche de l’absolu, o della casa in cui è Grandet, la quale è a sua volta nella città di Saumur.

  E gli schemi stessi d’altronde, quelle nozioni generali, quelle verità profonde che egli credeva di detenere sulla società dei tempi suoi e di tutti i tempi, se erano il suo maggior pericolo, non erano per questo inutili: non servivano soltanto da stimolo, ma anche da punto d’appoggio. Senza la sua semplicistica idea della santità della famiglia, non avremmo l’atrocemente sublime parlata di papà Goriot, tutta la mostruosa e straziante figura di questo «Christ de la paternité». Senza la sua fissazione di vedere il mondo borghese tutto incentrato in una spietata lotta di interessi che si fa sempre fatalmente più feroce fra i membri di una stessa famiglia, non avremmo una creazione come il lungo racconto che si intitola dal colonnello Chabert. Non avremmo il Balzac più vivo, più veramente poetico, patetico e alto: il Balzac che da questo odioso mondo schiavo del desiderio di potenza e dell’oro in cui tutte le tradizionali virtù si distruggono, è stato affascinato, sì da cantarne le grandezze e le miserie con quel suo febbrile e repugnato entusiasmo: un po’ alla maniera di Carlo Marx che in una pagina famosa del suo Manifesto, esaltava, appunto in quegli anni, il travolgente scatenarsi d’energia e le meravigliose imprese di quella borghesia della quale si accingeva a promuovere la distruzione.

  Un mondo di tragica e seducente bellezza, di inebbrianti grandezze, il cui movimento è riservato ai dannati. Un inferno distribuito in numerosi gironi il cui epicentro è Parigi. E si capisce, malgrado qualche fuggevole tratto di ironica insofferenza, la fraterna simpatia di Baudelaire. Ma nella Parigi di Baudelaire il bene e il male, continuamente mischiati, si affrontano e conducono la lor lotta quotidiana nel foro interiore del poeta protagonista, come dei personaggi in cui egli si sdoppia; anche se il male troppo spesso vince («J’ai vu parfois au fond d’un théâtre banal ...») mentre il mondo di Balzac è per lo più crudamente diviso in carnefici o vittime, animali da preda o predati, e gli stessi buoni, se vogliono sopravvivere ne accettano la dura legge, passano dalla parte dei forti. È un mondo che conosce le secche lagrime del rimpianto ma ignora il rimorso. Il Balzac conservatore e utopista arrivò a vagheggiare talvolta come unico rimedio a questa società senza speranza una specie di socialismo autoritario e paternalistico. Ma il Balzac poeta e «mistico», non tanto per idee e programma, quanto per una tendenza profonda connaturata ai modi della sua ispirazione e al suo metodo di creazione,24 si compiacque di immaginare sullo sfondo di questo mondo perverso, vittime dei malvagi o dei folli o esangui trionfatrici delle passioni, celestiali fanciulle straziate, pallidissime figure di sante, secondo il modello romantico medievaleggiante. Delle quali ultime la più bella, l’unica forse pienamente riuscita è come si sa Eugenia Grandet, che egli stesso dichiarò aver raffigurata con l’ingenuo fervore e gli incantati colori da miniatura di un antico pittore sacro.

  Figure commoventi ma impotenti, senza nessuna vera efficacia sulla vita d’intorno, se non a patto di chiudersi in un piccolo mondo artificiale di castellane, di trarre con sé i loro ammiratori e beneficati nell’atmosfera rarefatta della loro campana di vetro. Che se appena tanto fanno da seguire nel mondo di fuori col pensiero e col cuore un essere amato augurandogli buona fortuna, subito ne appaiono anch’esse contaminate. Come apprendiamo dalla lettera con cui Madame de Mortsauf accompagna la dipartita di Félix de Vandenesse: affettuosissimi e soavi consigli coi quali si suggerisce in sostanza al giovane, se vuol riuscire nella società in cui va a vivere, di sacrificare tutto alle sue convenzioni crudeli; e la perfetta riuscita dell’eroe dimostrerà chiaramente l’intima perversione di quei precetti.

  Facile, si capisce, trovar rapporti tra una siffatta concezione del mondo, di crude giustapposizioni o subito rovinosi compromessi, di molte scurissime tinte e poche luci fredde e distanti, e l’arte di un Bernanos, di uno Jouhandeau, di François Mauriac; dietro cui c’è una tradizione, che attraverso Léon Bloy, e Huysmans e D’Aurevilly, si può ricollegare a Balzac: nella quale si può compromettere anche il Du Bos, che Mauriac il giovane annovera volentieri fra i suoi maestri, ma soprattutto gli attuali minuziosi e disperati realisti cattolici di scuola anglo-francese, alla Graham Greene. Cattolici diabolisti: evocatori di un mondo tutto illuminato dal «sole di Satana», irremediabilmente preda del male, che pure, in virtù di chissà quale mistero e senza che nessun avvenimento venga a darcene mai la prova, è invece completamente e in ogni momento promesso alla Grazia. E il rapporto Balzac-Dostojewski, che aveva tutt’altro sapore nei vecchi critici, diventa qui gravido di allusioni.

  Anche François Mauriac, nella prefazione già ricordata, sembra sul punto di convalidare con la sua autorità l’arrischiatissima tesi per cui l’autore dei libri più tenebrosi della Comédie avrebbe avuto il «pressentiment» di questo «fleuve souterrain, de ce courant de grâce qui parcourt invisiblement le monde». Ma, più lucido o criticamente più onesto, si affretta a dichiarare che tale corrente non percorre, in ogni caso, il mondo delle finzioni balzacchiane:

  «Considérée sous cet angle, l’oeuvre de Balzac nous apparaît antichrétienne par essence. Elle oppose un refus déjà nietzschéen à l’interrogation du Christ: “Que sert à l’homme de gagner l’univers s’il perd son âme?” L’humanité balzacienne née sous le signe de Bonaparte, proteste qu’il n’y a rien à faire au monde que de gagner l’univers. Dans son ensemble et en dehors de quelques admirables figures, elle ne croit pas qu’elle ait une âme. Un monde sans âme, c’est celui des Marsay, des Trailles; et Eugène de Rastignac lui-même pour devenir l’un d’eux, doit d’abord renoncer à la sienne».

  Il che però non ci autorizza affatto (conclude) ad attribuire lo stesso difetto all’autore. E a dire il vero il tentativo di Mauriac il giovane, basato appunto su un’analisi della lettera di Madame de Mortsauf, di mostrarci a un certo momento un Balzac inconscio degli orrori che va scrivendo, e oscuramente connivente, non riesce affatto convincente: non ci sembra riesca a intaccare l’impressione fortissima di lucida e piena consapevolezza, pronta alle distinzioni morali fin troppo taglienti e sommarie, che ci s’impone dal complesso dell’opera, come da quanto sappiamo dell’uomo.

  E anche il bel passo di François Mauriac qui riportato, se ha il gran merito di tagliar corto a tutte le pretese di scorgere nel mondo balzacchiano un senso immanente della Divinità, distinguendolo così da quello del Dostojewski,25 ci sembra troppo unilaterale, nel raffronto con Nietzsche, nel non tener conto delle chiare intenzioni del creatore della Comédie, che non sono restate tutte lettera morta. La Divinità non è propriamente assente dalla concezione del mondo di Balzac, bensì trascendente; caso mai un po’ troppo trascendente. E non possiamo negar fede alla vivace difesa della moralità dell’opera sua che fece pubblicamente lo scrittore, e fu così eloquentemente ripresa dal Baudelaire.26 Una moralità non certo rilevabile passo passo in tutte le singole raffigurazioni; ma piuttosto da ricavare «après coup», quasi come la morale delle antiche favole. I personaggi di Balzac sono improntati a un’energia di conquista che si potrà anche chiamare nitciana. Ma mentre il richiamo a un Julien Sorel come ascendente di Zarathustra può essere giustificato, in questa rinuncia all’anima cristiana per favorire entusiasticamente le pure forze istintive, nessuno dei conquistatori di Balzac trova mai la gioia. I malvagi, i forti, i trionfatori di questo suo mondo, potranno essere ammirati e invidiati, ma non sono mai felici (il suo Vautrin, è vero, sogghigna soddisfatto, ma non è un uomo, è una specie di mostruoso simbolico fantoccio). Felici, nelle loro febbrili ansietà, sono soltanto i giovani sognatori di vittorie, nei fervidi anni del collegio, nelle eroiche stagioni delle soffitte, prima che la battaglia li corrompa e il mondo li ingoi. Come felice è stato, a dispetto di tutto, Balzac, nella prepotente ingenua gioia di vivere e di operare, nel quasi donchisciottesco impegno di riuscire a eguagliare i trionfi perversi del mondo, a diventare uno dei potenti della terra, col mezzo più puro e incontaminato che ci potesse essere, con la sola forza dell’arte sua. E appunto questo ingenuo, adolescente amor di grandezza, fa sì che il mondo da lui creato, disperato e sconfortante per l’intelletto, non sia mai però sostanzialmente odioso, ci induca persino ad amarlo, per quella sorta di allegra e fattiva energia che il suo creatore gli ha comunicato.

  La formula dei suoi giganteschi personaggi, già l’abbiamo veduto, è semplice; e il punto di partenza non ha in sé nulla di particolarmente peccaminoso: è la sorgente stessa, come degli errori di giudizio e della pesante retorica di Balzac, anche della sua maggior poesia. Narra nel suo libro il Gozlan (e la cosa fu già a quei tempi riferita, travisata e sfruttata da molti) come nell’ardua casa di campagna delle Jardies, sui muri freschi di calce e sui pavimenti Balzac si divertisse a notare col carboncino le indicazioni dei lussuosissimi mobili d’arte, preziosi mosaici e rare suppellettili che l’avrebbero dovuta adornare; onde lo stesso Gozlan amico scrisse un giorno su una parete: «Ici un tableau de Raphaël, hors de prix, comme on n’en a jamais vu»; e la bella aperta risata di Balzac quando lesse. Non era in fondo quello lo scopo cui sempre mirava il Balzac, attraverso tanti minuziosi studi sul vero e tante pretese scientifiche? Azioni paesaggi e passioni tangibili e vere, come vero e tangibile può essere un capolavoro di Raffaello; ma «hors de prix», di valore e qualità inestimabili, più grandi d’ogni pensabile misura, «come non se n’è mai visti».

 

  Note.

 

  1 Alain (Émile Chartier), Avec Balzac, Paris, N. R. F., 1937 (e già prima En lisant Balzac, del '35); A. Béguin, Balzac visionnaire, ibid., Skira, 1948; M. Bardèche, Balzac romancier, ibid., Plon, 1940; C. Mauriac, Aimer Balzac, ibid., La table ronde, 1945; A. Billy, Vie de Balzac, ibid., Flammarion, 1947 (2 voll. in-8°, di pp. 330 e 328); L. Gozlan, Balzac en pantoufles, ibid., Delmas, 1949 (dopo essere uscito a puntate in riviste dal 1856 in poi, pubblicato in volume nel 1865). Cui si può aggiungere: R. Fernandez, Balzac, Paris, Plon, 1944; J. Bertaut, Le «Père Goriot» de Balzac, ibid., S.F.E.L.T., 1947. E lo studio di M. Nadeau, Balzac et ses personnages vaincus par le Temps, in «Critique» del 1947, nn. 15-16, in verità assai curioso.

  2 Paris, 1906 (Citerò, per comodità, dall’edizioncina Nelson che ho sottomano).

  3 Son parole dell’Avant-propos di Balzac alla Comédie humaine. Claude Mauriac osserva bensì (op. cit., 170) che «c’est d’une royauté inattendue, d’un culte surprenant qu’il parle le plus souvent». Ma si dimentica di continuo lui stesso della sua giudiziosa osservazione, specie per quanto riguarda la religione.

  4 Cfr. op. cit., pp. 168, 176 e sgg.

  5 La frase citata è di François Mauriac, nella ricordata, e assai notevole, Préface.

  6 «... On y verra surtout de quelle manière nouvelle de traiter l’histoire, Balzac a été l’initiateur en son temps». Brunetière, op. cit., p. 112. In questa parte, naturalmente, egli è più documentato e al tempo stesso più candidamente scoperto del giovane Mauriac: dimentica (dopo d’aver tanto giustamente parlato del romanzo storico di Walter Scott) che lo storicismo, anche quello dei costumi e del colore locale era in certo modo in tutto il romanticismo d’allora, e Balzac non aveva, si può dire, nemmen cominciato a scrivere che già si pubblicavano opere come le Lettres sur l’Histoire de France del Thierry, la Histoire des ducs de Bourgogne del Barante e l’Histoire de la Révolution d’Angleterre del Guizot coi suoi penetranti e pittoreschi ritratti psicologici; per non parlare del primo Thiers che seguì ben presto, con il Mignet, già così acutamente «sociale»; e a non tener conto degli studi e delle idee del Manzoni e degli altri romantici milanesi, abbastanza noti in quegli anni a Parigi, per merito specialmente del Fauriel, del «Globe» e dello Stendhal. Quello Stendhal di cui, al momento di iniziare la sua maggior produzione, Balzac aveva potuto leggere non solo le raffinate analisi di Armance sui «salons» della aristocrazia parigina (da lui debitamente citate) ma anche quelle meravigliose pagine, di storia come «histoire des moeurs», che aprono la «Chronique de l’an 1830», cioè Le Rouge et le Noir! E in quanto a Taine, la cui critica «intera» egli fa derivare da Balzac, «quanto o più che non dalle logomachie hegeliane» (op. cit., p. 263-4), Brunetière non si vuol ricordare che Taine trasse le stesse conclusioni   dal saggio suo su Balzac anche da quello su Stendhal, su Saint-Simon, e da altri, perché stava prendendo, allora, «son bien» ovunque gli paresse di trovarlo; né sarebbe fuori luogo da parte nostra anche un riferimento a quella filosofia del Comte che lo stesso Brunetière ha additato, come curiosamente rispondente a certe idee balzacchiane. — D’altronde questo parallelo vuol essere di orientamenti spirituali (meglio ancora sentimentali). Né dobbiamo dimenticare quella certa probità onde il Brunetière si astiene dichiaratamente dal far paragoni di grandezza: istituisce tutt’al più un raffronto non privo di chiaroveggenza con l’Hugo, un altro col Sainte-Beuve. Mentre Claude Mauriac riferisce con compiacenza la sentenza di Alain secondo cui «Le Lys vaut L’Iliade ou Hamlet», e in tutto il capitolo dove cerca finalmente un giudizio di carattere estetico sull’opera di Balzac, si abbandona a curiose affermazioni: senza dimenticare il Curtius (un altro dei suoi maestri che sembra gli siano stati «mauvais maîtres»), secondo il quale Balzac non sarebbe mai stato compreso se non dai poeti; e senza tralasciare di tirare in ballo a un certo momento (p. 15o) il «dramma greco». È vero che il Taine a proposito di una novella di Maupassant uscì, per iscritto, nella famosa esclamazione, «C’est de l’Eschyle!». Ma il Brunetière almeno si accontenta di riferire senza commenti l’altra opinione tainiana che il finale di Séraphita sia «bello come un canto di Dante»; e in genere in tutte le pagine che parlano della composizione e dello stile, fa mostra di un chiaro senso dei limiti, buona sensibilità e acume, anche se i suoi principî lo portano a considerare il fenomeno stile un po’ scolasticamente, come staccato dal resto.

  7 Pur essendo pacifico che la rispondenza con la realtà storica ben poco abbia a che fare col valore artistico di un romanzo, resta il fatto che certe opere narrative si trovano a coincidere o meno con quella che noi possiamo stimare, se pure con una certa approssimazione, «verità storica». E da questo lato, può sembrar sorprendente che non si riesca a capire la distanza che separa le saltuarie sentenze e le digressioni fantastiche o oratorie di Balzac, dalle precise analisi di tante pagine di Stendhal (salvo della Chartreuse), o dal quadro perfetto della società francese nella gran crisi del ’48-’51 che ci offrì Flaubert nella Éducation.

  8 Op. cit., p. 245.

  9 Cl. Mauriac, op. cit., p. 181.

  10 II lunghissimo articolo di Balzac, Étude sur M. Beyle (Frédéric Stendhal), apparve sulla «Revue parisienne» nel 1840.

  11 Da ricordare in proposito la bellissima lettera di Flaubert (a Edma des Genettes, del 9 luglio 1878), di cui parliamo anche più avanti, dove è con pronta efficacia smontata la tesi della seconda parte dell’opera famosa del Taine, Les Origines de la France contemporaine: L’Anarchie.

  12 Zola, Le Roman expérimental, 1880; Les Romanciers naturalistes, 1881; Brunetière, Le Roman naturaliste, 1883 ... fino a questo Balzac del ’906. E non è da dimenticare che il saggio sul Balzac del Taine uscì primamente sul «Journal des Débats» nel 1858.

  13 Brunetière, op. cit., p. 127.

  14 È da avvertire che il Brunetière (non tanto dissimile in ciò, come posizione. se non come giudizi particolari, dal nostro De Sanctis vecchio, scorgeva nel naturalismo la vera arte, o almeno il più vero destino della moderna letteratura. Ma non certo tutto il naturalismo storicamente realizzato in quegli anni, e codificato dallo Zola (nel quale egli non vedeva altro che un forsennato romantico mal travestito da «scienziato»), bensì il naturalismo autentico, un ideale che lui stesso si costruiva basandosi appunto su Balzac. E in quanto a Flaubert, staccatosi dai primi entusiasmi, egli vedeva in lui un romantico-parnassiano, arrivato a innegabili altezze d’arte, ma non certo, malgrado le sue pretese, al «vero» (che era già, grosso modo, anche l’idea del malevolo Duranty, cfr. qui avanti la nota 18).

  15 Ch. Baudelaire, studio su Théophile Gautier, pubbl. ne «L’Artiste» del marzo 1859, e l’anno stesso in volumetto (citiamo dall’ed. della Pléiade, II, p. 473): Th. Gautier, Honoré de Balzac, Paris, 1859.

  16 Lettera del 14 dic. 1876 (Correspondance, ed. Conard, VII, p. 369) dove veramente parla solo di Edmond, essendo morto Jules, nel ’70. Vedasi anche nel già citato Poesia nel tempo di Ferdinando Neri (Torino, De Silva, 1948) il capitolo su «I due Goncourt»: «Ma se ci riportiamo a quel tempo per riconoscervi la posizione dei singoli scrittori, la prima cosa che si osserva è che Balzac non era ancora considerato come un realista: egli appariva piuttosto, forse per un intuito più acuto delle sue vere qualità, romanzesco, fantastico, possentemente visionario. Dopo la sua morte, col secondo Impero, s’inizia la campagna realista: detta così, questa volta, e proclamata con un suo manifesto, prima dai pittori, con Courbet, e poi dai letterati, con Champfleury, Duranty, Feydeau ...». — Il «manifesto» di Gustave Courbet apparve nel 1855, come prefazione al catalogo della mostra che egli fece quando fu rifiutato all’Exposition Universelle. «Le Réalisme», sorto nel luglio 1856 per propagare le cosidette teorie di Champfleury, e redatto da Edmond Duranty e da Jules Assézat, chiuse la sua vita l’anno seguente; in esso il Duranty attaccò Flaubert in occasione del processo a Madame Bovary. Da notare che lo Champfleury, che già nel 1848 dedicava a Balzac uno dei suoi volumi di Contes, aveva pubblicato poi nel ‘51 un entusiastico articolo: «Monsieur de Balzac père de la critique future». Cfr. E. Bouvier, La bataille réaliste. Champfleury et le passage du romantisme au naturalisme, Paris, 1913.

  17 Brunetière, op. cit., p. 268: «Et dirai-je maintenant qu’entre le romantisme et le positivisme, ou au-dessus d’eux, Sainte-Beuve et Balzac, frères ennemis réconciliés dans le naturalisme, représenteront peut-être le meilleur de l’héritage intellectuel que nous aura légué le XIXe siècle? C’est une manière nouvelle de concevoir l’homme et la vie, libérée de tout a priori, dégagée de toute métaphysique, ou plutôt c’est une méthode, une méthode complexe et subtile, comme les phénomènes eux-mêmes qu’elle se propose d’étudier: une méthode concrète et positive, une méthode laborieuse et patiente, la méthode, en deux mots, dont le Port-Royal de l'un, la Comédie humaine de l’autre, sont deux monuments destinés à durer aussi longtemps que la langue française, ou plus longtemps peut-être! et une méthode enfin dont il y a lieu de croire que les applications, de jour en jour plus pénétrantes, nous feront donc entrer de jour en jour plus avant, comme l’espérait bien Balzac, dans la connaissance de l’homme et des lois des sociétés».

  La posizione del Brunetière, oggi in sostanza pacifica pel rapporto Positivismo-Naturalismo (v. anche, in questo libro, il saggio sul Taine) oltre che a scartare dal centro del movimento letterario del secolo il Flaubert confinandolo nell’estetismo, tendeva, come è chiaro, a fare del naturalismo sano il vero rappresentante di tutto il XIX secolo. Concetto che fu ereditato da Pierre Martino, di cui si posson vedere le opere: Le roman réaliste sous le second Empire, Paris, Hachette, 1913, e Le naturalisme français (1870-1895), Colin, 1923, pregevoli per la precisione e chiarezza dei riferimenti, anche se l’autore vi mostra le conseguenze d’una concezione della portata del movimento romantico straordinariamente limitata: («Or, le romantisne ... n’a été qu’une doctrine littéraire comme dix autres ...»); e portato, ora, alle estreme conseguenze da Ch. Beuchat, Histoire du Naturalisme français, Paris, Corréâ, 1949, 2 voll.

  18 «L’animal est un principe qui prend sa forme extérieure, ou, pour parler plus exactement, les différences de sa forme, dans les milieux où il est appelé à se développer. Les espèces zoologiques résultent de ces différences ...» «Il a donc existé, il existera donc de tout temps des espèces sociales comme il y a des espèces zoologiques». Così, passim, nell’Avant-propos, coi richiami al Cuvier, al Buffon, c soprattutto al Geoffroy de Saint-Hilaire (pel quale vedasi il recente studio di S. De Sacy, Balzac, Geoffroy de Saint-Hilaire, et l’unité de composition, nel «Mercure de France» del 1948 (nn. 1018-19, pp. 292 e 469).

  «Les Études de moeurs représenteront tous les effets sociaux, sans que ni une situation de la vie, ni une physionomie, ni un caractère d’homme ou de femme, ni une profession, ni une manière de vivre, ni une zone sociale, ni un pays français, ni quoi que ce soit de l’enfance, de la vieillesse, de l’âge mûr, de la politique, de la justice, de la guerre ait été oublié. Cela posé, l’histoire du cœur humain tracée fil à fil, l’histoire sociale faite dans toutes ses parties, voilà la base. Ce ne seront pas des faits imaginaires; ce sera ce qui se passe partout. Alors, la seconde assise est les Études philosophiques, car après les effets viendront les causes ... Ainsi, dans les Études de moeurs, sont les individualités typisées, dans les Études philosophiques sont les types individualisés ... Puis, après les effets et les causes, viennent les Études analystiques (sic) ...» ecc.

  19 La cosa è d’altronde pressoché pacifica, in sede di filosofia, storia della cultura, e ideologie politiche. Il Realismo (nel significato ottocentesco) che non è, a guardar bene, se non un’applicazione all’esperienza di vita contemporanea dello storicismo romantico; il Parnassianesimo, dalle esperienze stilistiche non di rado già simbolistiche, e col suo classicismo tutto «color locale» e archeologia, così diverso da quello tradizionale; il Naturalismo, legato al mito della Scienza, cronologicamente intrecciato al simbolismo, permeato quand’è genuino di sentimento pessimistico volentieri crepuscolare, e ricco sempre di modi impressionistici: correnti diverse, rami talvolta largamente divergenti e poi confluenti di nuovo, di varia profondità e portata, qualcuno insabbiato e altro disperso in lussureggianti paludi, del corso d’uno stesso fiume. Anche nel campo letterario questa idea di un significato estensivo del nome Romanticismo è tutt’altro che nuova: ricordiamo il De Lollis, nei saggi su Baudelaire e Flaubert, ambedue del 1921 (ora in Scrittori francesi dell’Ottocento, Torino, Einaudi 1938); più esplicito ancora, benché partecipe delle diffidenze verso un movimento di origine «straniera», Louis Reynaud, nel suo acuto volume, Le Romantisme: Ses origines Anglo-germaniques (Paris, Colin, 1926); e anche René Dumesnil che nel suo L’époque réaliste et naturaliste (Paris, Tallandier, 1946) mostra in più luoghi le confessate parentele col primo romanticismo. È vero che il compianto Van Tieghem, meritorio indagatore recentissimo dei fenomeni psicologici e letterari dell’età romantica e preromantica, nel suo ultimo Romantisme dans la littérature européenne (Paris, Albin Michel, 1948) si ferma al 1860; ma si tratta evidentemente più di una limitazione di comodo, data l’enorme materia, costretta nel suo volume, che di un termine teorico: in base alle premesse da lui stesso confermate, non si riuscirebbe a veder la ragione per escludere dal movimento romantico il Simbolismo, quindi il Decadentismo, ecc.

  20 Da un altro punto di vista partono, naturalmente, i pur utili e ponderosi studi di B. Guyon, La pensée politique et sociale de Balzac, Paris, Colin, 1947 (in-8°, p. 829); e G. Atkinson, Les idées de Balzac d’après la Comédie humaine, Genève et Lille, Droz-Giard, 1949 (5 tometti di oltre 500 pagine complessive; Psicologia, Passioni, Fisiologia, Costumi, Storia, Teorie metafisiche e filosofiche, Scienze naturali, Infanzia ed Educazione; dei quali non ci risulta uscito l’ultimo).

  21 L. F. Benedetto, Scrittori di Francia, Milano, Principato, 1940, p. 126.

  22 Brunetière, op. cit., p. 188: «tous les deux, Comte et Balzac, Balzac et Comte, c’est un peu de la même manière qu’ils ont vu l’observation».

  23 Ch. Baudelaire, L’Art Romantique, articolo su Madame Bovary. Del Baudelaire, citando il passo già da noi richiamato (cfr. qui nota 15), che comincia appunto: « J’ai mainte fois été étonné que la grande gloire de Balzac fût de passer pour un observateur ...» non sempre si ricorda l’altro passo, dell’articolo su Les Contes de Champfleury pubbl. su «Le Corsaire-Satan» nel 1848: «Balzac est en effet un romancier et un savant, un inventeur et un observateur; un naturaliste qui connaît également la loi de génération des idées et des êtres visibles ...». È vero che si era allora in un momento in cui le qualità «scientifiche» dell’opera di Balzac trovavan meno riconoscimenti, mentre è da pensare che undici anni più tardi, nel ‘59, Baudelaire abbia voluto reagire contro l’ormai prevalente eccesso in tal senso, ricordando le qualità di «visionario» del grande romanziere; ma i due punti di vista sussistono. La soluzione è secondo noi da vedere nel seguito del primo brano citato (che vien solitamente trascurato) dove, dopo d’aver battuto sul «visionnaire, et visionnaire passionné», il nostro Baudelaire prosegue: «Son goût prodigieux du détail, qui tient à une ambition immodérée de tout voir, de tout deviner, de tout faire deviner, l’obligeait d’ailleurs à marquer avec plus de force les lignes principales, pour sauver la perspective de l’ensemble. Il me fait quelquefois penser à ces aquafortistes qui ne sont jamais contents de la morsure et qui transforment en ravines les écorchures principales de la planche. De cette étonnante disposition naturelle sont résultées des merveilles. Mais cette disposition se définit généralement: les défauts de Balzac. Pour mieux parler, c’est justement là ses qualités».

  24 II più vero misticismo di Balzac è per noi questo. Meno importante, e cioè meno genuino, frutto di fantasticherie a base pseudo-scientifica quasi meccanicamente sollecitate, ci sembra invece il misticismo tutto scoperto, programmatico, di derivazione svedenborghiana, che si manifestò specialmente in Séraphita.

  25 I debiti di Dostojewski, come di ogni altro scrittore russo, verso la letteratura francese sono sempre difficilmente precisabili, per la loro stessa vastità. Nel caso dell’opera di Balzac, certo egli dovè esserne sedotto e invogliato, come da un primo grande esempio di romanzo-epos, di grande affresco moralistico-sociale. Ma in quanto a romanzesca e drammatica visione del mondo, anche nei bassifondi della società, chi ci dice che non abbian potuto valere di più le suggestioni da Hugo, e magari dal Sue o da Frédéric Soulié? E, per tenerci ai risultati, nulla di più lontano di quelle sue anime torbide e tormentate, che non riescono a saper quasi mai il valore morale degli atti loro né dei pensieri dai personaggi balzacchiani: così lucidi, pronti in ogni caso ad ascoltare sentenze inoppugnabili su se stessi e sugli atti loro, e spesso anche troppo tutti d’un pezzo.

  26 Op. cit., articolo: «Les drames et les romans honnêtes».



  Giannetto Bongiovanni, Nel centenario della morte. Il “Possidente” Onorato di Balzac, «Gazzetta di Mantova», Mantova, Anno XLIV, N. 68, 10 Marzo 1950, p. 3.

 

  Il 19 febbraio 1837, Onorato di Balzac giungeva a Milano inosservato e prendeva alloggio alla «Bella Venezia», in Piazza San Fedele, albergo demolito una ventina d’anni fa, che fu caro a Stendhal. Per due giorni nessuno ne seppe nulla, poi la «Gazzetta Privilegiata» di Milano, il 21, nella lista dei forestieri giunti a Milano fece il suo nome; figura come «Possidente» (possidente diciamolo subito di molti debiti, chè egli era sceso proprio in Italia per sfuggire alla consueta caccia dei creditori).

  Era elegante, portava cravatta bianca, guanti neri, quella famosa mazza col pomo d’oro scolpito che costava quattrocento franchi, e aveva nel suo bagaglio una altrettanto famosa veste da camera. Una catena d’oro prendeva dai taschini del panciotto con ciondoli, aveva calzoni attillati: vestiva, insomma come uno dei suoi eroi, come Carlo Grandet ad esempio, dai panciotti irreprensibili. Tutte cose, che, oscuro e povero tanto da fare i conti con la stiratrice, aveva sognato, fin da giovane ed aveva acquistato, con la fantasia, pei suoi personaggi dando loro belle vesti belle scarpe, carrozze, gioielli, appartamenti, titoli, nobiltà, rendite, prima di riuscire ad averle lui. Lui che passò la sua vita agitata a scriver romanzi seduto al tavolo dieci ore al giorno, anzi inchiodato al tavolo, mentre avrebbe voluto viaggiare; preso dal desiderio delle cose esterne, dall’ebrezza delle cose costatandone poi l’insufficienza. Era basso tarchiatello, grassoccio, perciò ci voleva un cappello ben studiato per far colpo, la mazza e una cravatta dotta, da capolavoro. Povero Onorato! che aveva conosciuto il regime del cugino Pons, di spese «nettamente determinate» dove un vetro rotto e uno strappo ai pantaloni importavano inasprimenti e torture per un mese, o come Raffaello da Valentieri (sic) della Pelle di Zigrino che doveva far tutto con venti soldi giusti al giorno, diciotto per le spese fisse e due per l’imprevisto.

  Ma ora le cose andavano meglio. Guadagnava molto anche se aveva molti debiti.

  La sua opera d’arte si era nutrita di due privazioni diverse: la privazione di chi è ancora escluso, e la privazione di chi dispera di essere ammesso mai più. Privazione di tutto. Voleva essere nobile bello ricco amato. Non era ricco, non era bello, la sua relazione con Eva Hanska aveva appena superato la fase epistolare. Era celebre, aveva già scritto Pelle di Zigrino, Eugenia Grandet, Il Prete di Tours ma non conosceva la società, la «grande società» che molto dal di fuori, i salotti non lo accoglievano e quelli che lo accoglievano, non lo ricevevano come aveva sognato.

  (Ricordate nel libro di Proust madama di Villeparisis che schernisce il Balzac perché ha «preteso descrivere una società della quale non era ricevuto?»). Ma insomma era celebre anche se pieno di debiti, e sperava nella vita e sperava nellamore e sperava chissà, di esser fatto Pari di Francia, la dignità che egli aveva elargito a molti suoi personaggi dopo aver concesso loro una rendita.

  E a Milano ...

  A Milano l’indomani. Defendente Sacchi sempre alla caccia del pezzo di effetto esce in «una notizia letteraria piena di schietta cordialità, con un benvenuto all’ospite. entusiastico. Ciò gli aprirà i salotti e i circoli. Così vien ricevuto nel famoso salotto della contessa Maffei che gli dirà una frase, la quale, farà il giro di Milano: «J’adore le génie».

  Il giorno dopo esce un profilo scritto da Antonio Sacchi direttore del Corriere delle Dame. C’è l’elogio dello scrittore, ma c’è anche l’elogio della veste da camera e della celebre mazza. Il pezzo si intitola: «Del signore di Balzac ha proposito di mode». (Che direbbero Rastignac e Di Rubempré?).

  Ad ogni modo diventa la moda. Il Puttinati fa una statuina di Balzac in veste dà camera. Ignazio Cantù scrive per lui, una serie di articoli critici-bibliografici. Le famiglie patrizie, gli Attendolo i Vimercati, i Bolognini dapprima, i Trivulzio, i Belgioioso, i Porro Lambertenghi, i Sormani gli aprono i salotti. Tutta Milano parla della sua stranezza, dei suoi motti di spirito. Andrea Maffei è geloso delle premure che sua moglie, la Chiarina dedica al «genio» col quale si fa vedere a Brera e dovunque. Maffei è geloso, pur riconoscendo il genio di quel brutto uomo pieno di anelli coi capelli a toupè. La gelosia gli giuocherà un brutto tiro. Dal tribunale scrive alla moglie una lettera piena di accorati rimproveri, che i posteri leggeranno sulla Nuova antologia nel 1916. Come Beyle anche Onorato frequenta la Scala, meraviglie delle meraviglie, ospite nel palco del Sanseverino. del quale è diventato amico intimo e della Fanny Sanseverino, sorella di Alfonso, ciambellano di Francesco I. E tra un atto e l’altro, entra in tutti i palchi dove sfolgorano le bellezze dell’ottocento milanese. Il suo romanzo sognato a Parigi d’essere accolto in società con tutti gli onori, lo vide a Milano, adulato e corteggiato, corteggiatore a sua volta.

  Ma ahimè la grata parentesi non dura molto. Poco tempo prima che arrivasse a Milano, si notò sul cielo lombardo l’apparizione di una cometa: egli dirà mezzo scherzando e mezzo compiaciuto: «annunciava il mio arrivo». Ebbene la sua fortuna milanese dura con quella meteora. Fugace. Comincia Niccolò Tommaseo con una lettera a Cantù a dare stura alla diffidenza. Una corrispondenza da Milano sul Journal de Francfort, non è molto riverente per l’illustre ospite. L’incontro di Balzac con Alessandro Manzoni, noto famoso episodio, peggiora le cose. Cesare Cantù è presente al colloquio e nota il grosso ventre e la sua eccentricità. «E’ pieno di sè stesso e pieno di debiti». La «Voce della Verità» lancia contro di lui strali maligni e lo accusa anche di irreligiosità, accusa che, del resto, è inconsistente. Anche il Corriere delle Dame, passa dall’incenso dei primi giorni alle frecciate anonime.

  Balzac se ne va, ripara a Venezia, prende alloggio al «Danieli» nell’appartamento che, tre anni prima, aveva visto la coppia Giorgio Sand de Musset.

  A Venezia altra disavventura. In casa Soranzo parla con poco riguardo di Alessandro Manzoni, proprio in presenza d’un manzo-filo, il conte Dandolo, il quale sulla Gazzetta di Venezia, letta anche a Milano, lo riprende severamente. Figurarsi, a Milano, che scandalo!

  Tornerà a Milano ma prima scriverà una lettera di scuse al Manzoni lettera che termina con una considerazione molto amara per la Francia.

  «Cara Italia! Per una parola tutta una città come Milano vi difende. Se voi mi aveste giudicato severamente a Parigi, anche il mio amico più intimo vi avrebbe dato ragione».

  Per questo amava l’Italia. Egli poi scoperse la grazia delle donne lombarde. Quella mesta aria nativa delle lombarde e «per la quale lo straniero passeggiando la domenica a Milano, crede che le figlie della portinaia siano altrettanto regine».

 

 

  A. C., Balzac sfondava le poltrone nel salotto della contessa Maffei, «L’Umbria. Quotidiano del mattino», Perugia, Anno II, N. 258, 4 Novembre 1950, p. III.

 

  Quando il 19 febbraio Honoré de Balzac giunse a Milano, chi la diceva cotta e chi cruda sugli scopi di quella visita. Sulla «Gazzetta privilegiata» di Milano, Defendente Sacchi, nel porgere il benvenuto al celebre scrittore, che allora contava 38 anni, asseriva che egli viaggiava in Italia «onde scrivere le campagne francesi nella Penisola» e aggiungeva che «il genio di Balzac avrà dal nostro cielo le sue più belle ispirazioni». Senonché in quei giorni pioveva maledettamente. Altri dicevano che fosse sceso fra noi in cerca di avventure amorose. Lo stesso Balzac, invece, andava ripetendo, con la pretesa di essere creduto, che era giunto fra noi per fare un ... incarico amministrativo conferitogli dal conte Emanuele Visconti che desiderava che Balzac lo assistesse nel divìa di una certa eredità. Finora di una certa eredità. Figuriamoci se poteva esser vero che Balzac, pessimo amministratore del proprio denaro e indebitato fino agli occhi, venisse officiato a riordinare gli affari altrui.

  Racconta Raffaello Barbieri (sic) che un giovane buontempone milanese si divertiva, nel ridotto della Scala, ad additare un ufficiale dei granatieri in borghese, dicendo che era Balzac; ma l’autentico romanziere comparve qualche giorno dopo alla Scala e fu un accorrere di curiosi e di ammiratori.

  Balzac era pingue e pesante e sfondava le poltrone del salotto della contessa Maffei. Quella cara piccola donna era molto ammirata dallo scrittore, ma nemmeno in virtù della grazia di lei il famoso romanziere perdonava a Milano le manchevolezze che egli, abituato a Parigi, attribuiva alla nostra città. E non voleva essere contraddetto, sia quando diceva male di Milano, sia quando estendeva le sue aspre critiche all’Italia tutta.

  Anche a Venezia Balzac, ospite della contessa Soranzo, ebbe l’ardire di dir male dell’Italia e degli Italiani, ma toccò il culmine della temerarietà dicendo corna dei «Promessi Sposi», nonché dei romanzi di D’Azeglio e del Grossi che pare non avesse nemmeno letti; tanto che il conte Tullio Dandolo, presente a quel turpiloquio, lo ribeccò; Balzac replicò con maggiore violenza e chissà come la cosa sarebbe andata a finire se la buona contessa Soranzo non fosse accorse ad offrire ai contendenti il suo famoso aromatico caffè ...

  Bisogna dire però che Balzac o aveva la doppia faccia o, come è più probabile, si ricredette nei suoi giudizi sul Manzoni, perché quando il francese si recò a far visita a Don Lisander, lo colmò di complimenti e gli disse che vedeva in lui un nuovo Chateaubriand.

  Balzac era assetato di vedere le cose artistiche di Milano; accompagnato dalla Maffei, visitò Brera, ammirò gli affreschi del Luini, nel Santuario di Saronno.

  Ma per non sentirsi offesi dalle critiche che lo scrittore si divertiva a volte a lanciare contro l’Italia e per convincersi che talvolta un grande artista, per amore di stravaganza, ama dire ciò che non sente e gode un po’ sadicamente di crearsi intorno un alone di antipatia, basterebbe rileggere qualche passo di una lettera che lo stesso Barbiera pubblicò, rivolta nel novembre di quello stesso anno 1838 dallo scrittore, tornato a Parigi, alla «cara» Maffei per la quale aveva sempre nutrito una sincera e pura ammirazione fin dal giorno in cui le aveva scritto sull’album: «À vingttrois (sic) ans tout est avenir». In tale lettera Balzac ringrazia commosso la contessa ricordando il «bien aimé salon» (e pur mostra una presunzione tutta parigina consigliando la Maffei, che soffriva di certi disturbi, a recarsi a Parigi a consultare [quelqu’un de nos grands hommes] come se a Milano non ve ne fossero); ma più innanzi, dopo aver chiesto scherzosamente se c’erano ancora molti italiani adirati contro di lui, fa capire che l’accusa era immeritata poiché egli stava componendo un’opera di soggetto italiano dal titolo «Massimilla Doni». «D’altronde – egli proseguiva – mi sembrano molto impertinenti coloro che mentre mi considerano un uomo profondo pretendono di conoscermi in cinque minuti».

  E che si ricordasse nostalgicamente degli amici italiani è provato dal fatto che egli regalava alla contessa Maffei quale omaggio le bozze di stampa dei suoi «Martyres ignorès (sic)»; ed alla stessa dedicava il racconto «La fausse Maîtresse» che rientra nelle «Scènes de la vie privée». Allo scrittore Puttinati e alla contessa Sanseverino Parcia (sic), amici del salotto Maffei, dedicava rispettivamente la «Vengeance» e «Les employés».

 

 

  Arrigo Cajumi, Pensieri di un libertino, Torino, Giulio Einaudi editore, 1950 («Saggi», 134).

 

  Rispetto alla prima edizione pubblicata nel 1947 dall’editore Longanesi, siamo di fronte all’edizione integrale di questa stimolante raccolta di scritti critici del Cajumi che, per la parte riguardante Balzac, si completa di questi riferimenti:

 

Levate di scudi (1936).

 

  In fondo, tutti gli ottocentisti che si salvano, sono della razza buona del secolo precedente: Courier, Mérimée, Sainte-Beuve. Non aggiungo Stendhal, perché il suo gran difetto, ai miei occhi, è di essere «misto» come uomo e scrittore: la vena romantica copiosamente affiora, in lui, e la controprova è data dalla ammirazione per lui di un altro romantico refoulé, Taine. Sainte-Beuve, per cui il romanticismo fu una «malattia», e che col passar degli anni e la maturità dell’ingegno vieppiù ne rifuggiva, non inghiottì mai interamente Stendhal. Né, tanto peggio, Balzac. (E si noti che le sue predilezioni erano per la corrente Diderot-Rousseau, piuttosto che per la stupenda aridità di Voltaire). [...].

  Lucio d’Ambra [...] c’infestò sino al dopoguerra di Pompadourettes o di puttanelle consimili, e si svegliò un mattino, sul settimanale di un ricattatore, con un diario letterario (donde uscirono le sue memorie in tre tomi di oltre 1000 pagine complessive), dal quale traspariva un’autoesaltazione balzachiana. Messosi nella pelle di Balzac per giustificare il pisciare a getto continuo, Lucio d’Ambra si scoprì difensore della famiglia prolifica, dell’onestà delle mogli, di tutta la morale più ortodossamente ricompensata.

 

La salamandra (1942).

 

  Il Ferragus di Balzac, nel rango dei romans policiers, è in testa davvero. Sarà l’abitudine, o la bella edizione, ho sorvolato più facilmente sui couplets descrittivi, sulle alzate d’ingegno e di stile pompose o ridicole, e ho trovato del buon Sue, o Ponson du Terrail.

 

La tarantola (1944).

 

  L’antica e inveterata abitudine di leggere bene, comparando, accostando un testo all’altro, una nuova testimonianza a quella appena esaminata, uno spunto a un pensiero, è feconda. Passare da un capitolo di Renan a una voce del dizionario di Bayle, da Tallemant a Saint-Simon è un metodo di lavoro che dà la padronanza e la familiarità di una letteratura. Le Etudes philosophiques di Balzac, per un lato, cioè la romanticheria ottocentesca di Massimilla Doni, Gambara, ecc. rimandano all’Italia della Sand; per un verso, al Hofmann (L’auberge rouge); e lo zibaldone storico-politico Sur Catherine de Médicis mi ha sospinto a riprendere un tomo delle Guerres de religion di Michelet. Il Calvino di quest’ultimo, sebbene colorito, è ben lungi dal ritratto sfacciato del romanziere. Balzac manipola la storia con una familiarità che solo la sua mancanza di cultura e di gusto gli consentiva: gli episodi di Mary Stuart sono cronaca da portinaia. Badate che Michelet, scrivendo quattordici anni dopo (1856), tocca parecchi spunti su cui il romanziere s’era sfogato, ma sebbene a noi egli stesso sembri eccessivo, si comporta con una leggerezza di penna ignota al suo predecessore. Il gran torto dello storico è di aver preso per oro colato il movimento protestante (quantunque, con un involontario colpo di bisturi, lo riduca a zero, quando mostra Coligny spinto alla morte dagl’intrighi e dalla composizione del suo proprio partito, nonché dall’insuperabile avversione della maggioranza dei francesi al rigorismo di costumi degli ugonotti), come se il libero pensiero fosse stato fondato da dei fanatici religiosi anziché da degli empi libertini. Balzac, al contrario, trova Caterina de’ Medici una gran donna, e il suo martire calvinista fa figura di rinnegato appena gli riesce di agguantar la fortuna. La mediocrità mentale dell’autore della Comédie humaine, il suo spirito reazionario e legittimista, la grossolanità con cui egli si accosta a uomini di scienza e di lettere (pari a quella che permette a Michelet di pigliar sottogamba Ronsard), spiegano gli odi sainte-beuviani. Che il grande critico dovesse sentirsi accapponare la pelle a leggere certe pagine di Balzac, e certi giudizi di Michelet (vedasi per es. nei Nouveaux Lundis, la noterella sulla delfina Marie-Josèphe de Saxe) è così evidente a chi conosce il suo gusto e la sua passione letteraria, che basta a confondere gli ignoranti che lo vituperano. Per costoro, Balzac è davvero un pensatore, e solo lo stravagantissimo universitario Brunetière poteva osare di contrapporre la Comédie humaine a Port-Royal, l’anfora greca e il calderone di ferro. La finezza d’impasto di un saggio sainte-beuviano nulla ha di comune con le avventurose prospettive balzachiane, con quel maneggiar la storia alla Walter Scott. Per contrasto, si veda con quanta misura Augustin Thierry nella Conquête de l’Angleterre o nei Récits mérovingiens consideri gli uomini e le loro passioni. Gli stridori sono altrettanto e forse più acuti nei racconti sette-ottocenteschi: Les Marana, Adieu, Le réquisitionnaire, El Verdugo, dove l’inverosimiglianza dei particolari e la grossolanità del tono, rivelano in pieno la letteratura d’appendice. Né Maître Cornelius (sic), apologia spaccata di Luigi XI, L’élixir de longue vie o L’enfant maudit, si possono prender sul serio. Quanto ai personaggi e agli ambienti italiani di Gambara e Massimilla Doni, pretesto a riscodellarci nozioni musicali appena assorbite, lascio ai competenti di musica il divertimento di scoprire le fonti, e la genialità di Balzac. Un accurato filtraggio degli elementi stendhaliani di quei due racconti potrà esser trastullo dell’amico Trompeo. Un’operazione consimile per la Sans, non ho il coraggio di intraprendere. Può darsi che il «fondo» di qualche carattere, lo spunto di un episodio, siano veri, ma il travestimento che degli uni e degli altri fanno questi feuilletonistes romantici, li rende inverosimili e leziosi.

 

 

  Cam., Stampe nuove. Tutto Balzac in una biografia di Zweig, «Il Gazzettino», Venezia, 4 Ottobre 1950, p. 3.

 

  Contemporaneamente esce in elegante veste italiana la serie dei capolavori del grande autore francese.

 

  In complesso, malgrado una qualità particolare di passatempo, che era quella di ritornare «alle mie origini di lettore o pressappoco, non potrei dire d’aver tratto grande profitto da quest’annata balzacchiana. Ma adesso mi devo ricredere, e col maggior piacere. Adesso ho qui due volumi che, nella bibliografia di Balzac, contano per davvero, e non di traforo come certe placide stanche elaborazioni. E ne aspetto un terzo. Il numero è perfetto: e mi par giusto discorrerne un poco.

  Mondadori, «Quaderni della Medusa, 33» pubblica «Balzac», il grosso tomo di Stefan Zweig, balzacchiano fervente, col sottotitolo: «Il romanzo della sua vita». Lavinia Mazzucchetti, traduttrice impeccabile, in quattro paginette d’introduzione ci dà la storia di questo libro; e un brano di lettera inedita davvero commovenete (sic). Il già anziano e famoso scrittore scriveva alla sua traduttrice. nel 1939: «Come forse Le è noto, nessuno in fondo ho ancora avuto il coraggio di affrontare Balzac, o io, da trent’anni, ho sempre tenuto dietro a tutto quello che è stato scritto su di lui, nella speranza segreta che un altro mi sollevasse da questo lavoro. Ma ora lo debbo proprio fare io».

  Purtroppo l’opera dello Zweig non doveva venir terminata dall’autore. Ma con leggerezza e discrezione, Richard Friedenlhal completò i capitoli finali: ed ecco qui un libro che tutti i fedeli di Balzac leggeranno con gioia. Evidentissima la predilezione dello Zweig per il suo autore. Ma evidentissima anche insieme all’informazione minuziosa e pressochè impareggiabile, una seria e impegnata volontà di biografo, attento all’essenziale, ma non dimentico delle piccole cose importanti.

  Il libro è tutto leggibile. E se potrà venir considerato una specie di «manuale del balzacchiano”, ha prima di tutto il grandissimo merito d’essere scritto da un appassionato: a un tempo, dilettoso e istruttivo; dico, non per il principiante. ma per il balzacchiano ferrato, che quasi dispera di poter trovare del nuovo, in fatto di valutazioni e punti di vista sul suo autore. Con negli occhi il vigoroso ritratto del romanziere dipinto da Louis Boulanger che è al Museo di Tours, qui riprodotto, il lettore godrà in modo speciale i capitoli d’inizio; e quel «Libro Quarto» che pare addirittura il romanzo del romanziere.

  Con una svelta e sugosa prefazione di Pietro Paolo Trompeo, l’editore Casini di Roma ci dà invece un «Omnibus» molto attraente. Il volume è uscito nella collana «Maestri», dove già ci son copiose scelte dallo Stevenson e dallo Strindberg, e dove presto saranno pubblicati un Lermontov e i racconti del Tolstoi. Si tratta di un primo volume, il quale comprende, ben tradotti da Renato Mucci, da Oete Blatto e da Maria Ortiz, «Papà Goriot», «Il Colonnello Chabert», «Un tenebroso affare», «Facino Cane», e «Sarrasine»: ossia due grossi romanzi, un racconto lungo e due novelle che presentano, per quanto è possibile, varii volti del Balzac. Il volume secondo, annunciato come imminente, ci darà: «La donna di trent’anni», «Eugenia Grandet», «I segreti della Principessa di Cadignan». Avremo così, fatti italiani, quelli che l’editore chiama «I capolavori della Commedia umana»; e sarà certo un bel gruppo di opere: senza dubbio, tra le più vitali del grande romanziere.

  Venissero a domandarmi di fare una scelta di romanzi del Balzac, da presentare al pubblico d’oggi, credo mi troverei imbarazzato; e non certo per difetto di materiale. «Orsola Mirouet» non è, probabilmente, un capolavoro: ma di rado la provincia ebbe in Balzac un interprete tanto sagace e commosso; e forse non spesso le donne un esaltatore tanto cospicuamente persuaso. «La cugina Betta», con tutto il mondo parigino mosso e quasi direi amato con superbo disordine; con la indimenticabile figura di banchiere, mi ha tra i suoi devoti più affezionati. E come tralascerei (ma devo limitarmi persino in questa scelta ipotetica) «Il giglio della (sic) valle»: che non gode le mie personali simpatie, eppure è una delle vette dell’arte balzacchiana, co» tutti i suoi pesi morti, se volete, ma con un afflato lirico forse non più raggiunto dallo scrittore? Come non includerei «Cesare Birotteau»? Ma basta, con questi elenchi (forse, finirei col ricopiare quello delle opere complete); tanto, nel Balzac, ciascun racconto ha almeno per una figura o un ambiente, un fascino che scordiamo troppo spesso, ma che, se il ricordo li illumina, ci fanno voglia e ridestano nostalgie, che soltanto una rilettura agiata soddisfa.

 

***

 

  Io non so bene che cosa rappresenti il Balzac per le nuove generazioni. Certo, se il centenario di Maupassant ha fatto perder parecchie penne all’ali del novelliere, trattato persino troppo sottogamba dai lettori d’oggi, e dai critici, il centenario del Balzac, con rare messe a punto, mi pare non abbia leso gran che la sua mole, fatta per durare. Non so se i giovani d’oggi leggano Balzac per trovarci il ritratto della società del suo tempo (ossia per ragioni non del tutto estrinseche, tutt’altro; ma, insomma, un pochino inficiate di contenutismo); o per scoprirci, con vette assai alte, le inevitabili crepe; è pur questo un piacere della gioventù. So che, dovessi far leggere a un ignaro un solo libro del Balzac, non esiterei (dopo molte riletture) a offrirgli «Il cugino Pons». Qui, forse, non è facile trovare, la facoltà balzacchiana di ricreare un tempo. Ma a me pare qui si trovino alcune delle figure più indimenticabili di una immensa galleria; e che il tedesco Schmucke e il cugino Pons tengano onorevolmente il loro posto nel non foltissimo gruppo di personaggi di romanzo destinati all’immortalità.

  Quando, proprio ragazzi, si leggeva Balzac, si cercava, sopra ogni cosa, quel suo gusto visionario e quel suo veder grande; si cercavano, tra le figure delle sue narrazioni, le più massicce o le più patetiche. Tra le prime, ottimo rappresentante Papà Goriot (ma forse si potrebbe trovar di meglio: Vautrin, Bisettean (sic), Nucingen, Marneffe ...).

  Tra le seconde, vive d’una loro segreta poesia, umili ed esaltanti, i due poveri amici del romanzo che dicevo. Pensare alle sollecitudini del tedesco per l’amico presso alla morte; all’agonia di Pons; alla sua preziosa collezione, fatta con tanto amore e che tutti quei parenti, frotta odiosa, contaminano valutandola in contanti. E a quel finale, tra i più indovinati e sobri di tutta l’opera di Balzac; quasi incredibile, in così sanguigno creatore; a quelle cinque pagine seguite da un punto esclamativo: «Excusez les fautes du copiste!».

 

 

  Achille Campanile, “De Minis” in Pretura. Vendeva in strada antenati nobili, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, 8-9 novembre 1950, p. 2.

 

  — Chi vuole un antenato nobile a buon prezzo? Un Crociato d’occasione? Un principe nella sua prosapia? Avanti, signori. Prezzi modici, merce resistente ai secoli.

  Possibile?

  Che avi blasonati si potessero comperare lo sapevamo fin dai tempi del supervalutato e festeggiatissimo Balzac. Ma che addirittura si vendano all’angolo di una strada come fossero caldarroste, è un po’ forte.

 

 

  Remo Cantoni, Prefazione, in H. de Balzac, Eugenia Grandet… cit., pp. 7-12.

 

  I raffinati cultori dell’arte pura, coloro che distinguono l’aristocratica civiltà delle lettere dalla prosaica e umile civiltà degli uomini, contrapponendo le sfere, dell’arte e della vita fino al punto di considerare la prima come un ideale sopramondo in cui bruciano trasfigurate e deterse tutte le impurità e le scorie della troppo impura realtà, sono, per solito, inclini a negar la qualifica di grande arte a Balzac e al «realismo» in genere. Essi trovano Balzac scrittore imperfetto e disordinato, tumultuoso e caotico, e gli preferiscono scrittori meno vitali, ricchi e energici, ma più controllati e nitidi nello stile. Con gli occhiali di una critica che scevera arte e non arte come l’oro e la sabbia, ravvisando l’arte in una piccola e nitidissima preziosa polvere che un ideale setaccio isola dal fango e dalla terra, si rischia sempre di buttar via — come suona un detto inglese — con l’acqua sporca della vasca anche il bambino che ci guazza dentro vivo e vitale. Nel caso di Balzac si rischia di salvare ben poco della sua monumentale opera, così intrecciata alla realtà sociale della prima metà del secolo scorso, così brulicante di personaggi che sono il riflesso di un particolare e realissimo ambiente, così parallela agli sviluppi economici e psicologici del capitalismo e della borghesia.

  Balzac, nella Prefazione a La Comédie humaine, non aveva lasciato dubbi circa gli orientamenti della sua arte. La società — egli affermava — trasforma gli uomini. «Si riconoscerà che io accordo ai fatti costanti, quotidiani, segreti o patenti, agli atti della vita individuale, alle loro cause e ai loro principî, la medesima importanza che finora gli storici hanno annesso agli avvenimenti della vita pubblica delle nazioni». È un vero e proprio manifesto realista. Questo non significa già che ad essere artisti basti osservare e classificare la realtà, riprodurla fedelmente senza riplasmarla nella fantasia. Non esiste arte dove non esiste invenzione, dove i contenuti o i materiali della realtà non sono rielaborali dalla personalità libera dell’artista. Arte realista non vuol dire ricalco meccanico, cronaca impersonale, riproduzione passiva di un mondo esistente. In questo modo il realismo si ridurrebbe all’assurdo. A qual fine ricopiare ciò che esiste nella vita quotidiana in forme più vivaci, più concrete, più immediate? Ma questo assurdo realismo non esiste che nella testa degli avversari preconcetti di ogni estetica realistica. Nessuno, che un poco si sia cimentato con problemi d’arte e di estetica, lo ha mai sostenuto. Realismo significa piuttosto dialogo critico ininterrotto con la realtà, rifiuto di scomporre astrattamente il mondo dell’esperienza in uno strato impuro e volgare, pertinente all’uomo della strada, tutto immerso nella praticità quotidiana, e in uno strato cristallino ed etereo, atmosfera superna e celestiale respirabile soltanto per gli iniziati ai misteri di quel rarefatto e autonomo mondo che sarebbe l'arte.

  Balzac, lo sappiamo, non piacque mai troppo ai letterati. Già Sainte-Beuve gli rimproverava la mancanza di misura e di stile. Piacque, invece, moltissimo, e fin dagli inizi, a tutti coloro che non identificavano la letteratura con un esercizio di stile, ma in essa cercavano una emozione umana e profonda, come è quella che proviene dall’accostarsi a un mondo popolato da una folla di personaggi mirabilmente ritratti e prodigiosamente vivi e ardenti nelle loro reali passioni. Quello di Balzac è un mondo sanguigno, esuberante, intenso, epicamente teso. Gli uomini di Balzac sono lontanissimi dai contemporanei enigmi e dilemmi della personalità. Nulla che ricordi le contraddizioni, la problematicità, le complesse stratificazioni che costituiscono, da Joyce a Proust, da Kafka a Gide, il dramma dei personaggi del romanzo moderno. Mentre gli uomini di Dostoievskij son sempre un impasto dialettico di opposti motivi, gli uomini di Balzac parlano fino al limite e all’ossessione la passione o il motivo che li fa agire nel mondo. Il Père Goriot è l’amore paterno spinto fino a una voluttà di sacrificio e dedizione che travolge la personalità. Eugénie Grandet è l’amore casto e devoto, memore e fedele, incurante di tutto ciò che non sia il proprio interno bruciare. Felice Grandet è un avaro che spinge la propria avarizia fino a farla diventare giansenistico rigore, culto religioso e fervido. Ogni personaggio, in altre parole, è un tipo della commedia umana. Commedia in cui ognuno recita con estremo rigore e attenzione la sua parte inserendosi in una società, in un costume, in una realtà salda e organica che ha sue leggi e sua struttura. Ogni personaggio è qualcosa di definito, è il prodotto di un ambiente, di una classe che in lui si tipicizza e si esprime.

  In Eugénie Grandet confluiscono i motivi più caratteristici dell’arte di Balzac. L’ex bottaio, Felice Grandet, l’avaro che giganteggia nelle pagine del romanzo, come un centro focale verso cui convergono tutti i raggi luminosi che brillano vividi nel capolavoro balzachiano, tipicizza in modo esemplare e paradigmatico — un paradigma che diviene specchio e critica feroce di un’epoca — quel mondo di borghesi al quale era stato proposto come motto: «arricchitevi!». Balzac stesso, che ama gli excursus di filosofia e psicologia sociale, crea lo sfondo al suo personaggio quando scrive: «Gli avari non credono in una vita futura; per loro il presente è tutto, e questa riflessione getta un’orribile luce sull’epoca attuale, in cui, più che in ogni altro tempo, il denaro domina le leggi, la politica e i costumi. Istituzioni, libri, uomini e dottrine, tutto cospira a minacciare quella fede in una vita futura sulla quale l’edificio sociale poggia da milleottocento anni. Al giorno d’oggi, infatti, il feretro costituisce una transizione che incute scarso timore, e l’avvenire che ci attendeva al di là del requiem è stato trasportato nel presente». Il «pensiero generale» dell’epoca è, secondo Balzac, quello di giungere per fas et nefas, a qualsiasi condizione, al paradiso terrestre del lusso e dei godimenti, indurire il proprio cuore e macerare il corpo nella speranza dei beni terrestri. A un secolo e più di distanza dall’opera balzachiana, il «pensiero generale» dell'epoca non è mutato, ma la borghesia non è più disposta a indurire il proprio cuore e a macerare il proprio corpo. È divenuta, in confronto di quella del secolo scorso, fiacca e godereccia; non crede alla continuità del suo potere economico e sociale, e, non pensandolo continuo né legittimo, non dispone più di un’etica che lo sorregga e lo coonesti. Certamente Balzac odiava l’«avaro» Felice Grandet e tutti coloro che gli assomigliavano. Ma l’odio, per lui come per noi, non andava disgiunto da una certa ammirazione per la statura monumentale e quasi mitica del personaggio, «inflessibile, aspro e freddo come un blocco di granito».

  Non stupisce che Marx e i marxisti abbiano tanto amato e tanto amino il reazionario e cattolico Balzac. Eugénie Grandet è, infatti, una sinfonia in chiave di scudi, oro, rendite, redditi, interessi, lunghi e appassionati calcoli economici. Il mondo borghese è svelato e denunciato nella sua infrastruttura che condiziona e sovente determina il gioco variopinto delle sovrastrutture. Il danaro è definito da Balzac come «l’unico dio moderno nel quale si abbia fede», e questo culto secolare e prosaico, con le sue vittime e il suo fanatismo, la sua etica e la sua logica, è stato descritto senza veli o pietà. Perfino in articulo mortis, quando il curato della parrocchia amministra a Felice Grandet l’estrema unzione, gli occhi dell’ex bottaio, apparentemente spenti da alcune ore, si rianimano alla vista della croce, dei candelabri, dell’aspersorio d’argento. Grandet morendo dice alla figlia: «Abbi cura di tutto! Me ne renderai conto laggiù!», provando, con queste parole, la coincidenza nel suo spirito di cristianesimo e avarizia. Mondo sordido ma statuario, coerente, implacabile, di uomini disposti a pagar di persona per il proprio dio metallico o cartaceo. Gli attuali epigoni di quel mondo sono invece molli e imprevidenti, annoiati e cinici. Il confronto è istruttivo.

  Accanto ai motivi realistici sopravvivono nell’opera di Balzac i vecchi temi sentimentali del romanticismo: l’intrigo, il tenerume, l’enfasi, la retorica dei gesti e delle parole. I colori dolci, attenuati, e perfino sdilinquiti per il nostro attuale gusto, si mescolano alle tinte forti e nette. Balzac sta ai confini tra romanticismo e realismo. Egli accoglie, in assoluta sincerità, anche quelli che noi oggi giudichiamo gli ingredienti della maniera romantica. Ma è un vano tentativo quello volto a dissociare nell’unità dell’opera il buon vino dall’acquetta. La realtà di Balzac, come ogni realtà, è sempre colorata dal sentimento e dalla fantasia, che non sono, come qualcuno ingenuamente pensa, l’antitesi della realtà, bensì una sua ineliminabile componente. Il mondo interiore non è meno reale di quello esterno. L’ultima trovata della critica idealistica è quella di presentarci un Balzac visionario e fantastico, creatore di mondi immaginari alla Hoffmann o alla Poe. La verità è più semplice: Balzac fu un grande realista, ma la sua realtà era umanizzata, e cioè rivissuta e fusa nel calore di un sentimento creatore. Nell’unità di questo sentimento creatore non riusciremo mai a distinguere astrattamente — ed è giusto che non si riesca — il mondo esterno da quello interiore. Reale è la loro dialettica, e non v’è realismo ove non si tenga conto di questa vivente dialettica.

 

 

  Remo Cantoni, Realtà e fantasia nella vita e nell’opera di Balzac, «Milano-sera», Milano, Anno VI, 28-29 agosto 1950, p. 3; «L’Ora del popolo», Palermo, Anno 51, N. 209, 3 Settembre 1950, p. 3.

 

  Lo Zweig ha narrato con molta freschezza le stravaganze dello scrittore francese, tanto più smanioso nello spendere quanto più lo incalzavano i creditori. 

 

  Il primo centenario della morte di Balzac non ha ancora dato in Italia quel contributo di studi, ricerche, saggi, illuminazioni che è giusto attendere da un paese letterariamente esperto e sensibile come il nostro. Qualche articolo di giornale, dedicato per solito agli aspetti più visibili ed eccentrici dell’uomo, qualche riesumazione editoriale delle opere più famose, come il Père Goriot, l’Eugénie Grandet, La Rabouilleuse («Il colonnello Bridau»), e nulla o poco più, per quanto io sappia. Il problema Balzac, così dibattuto e vivo in Francia, in Russia e in altri Paesi, non è stato ancora affrontato con sufficiente penetrazione e obiettività da nessun critico italiano. Non è una novità: Balzac amatissimo dai non letterati è poco amato nella piccola e astiosa repubblica delle belle lettere. Gli si rimproverano lo stile spesso sciatto e frettoloso, la mancanza di gusto, la pacchianeria di tante scene o trame abborracciate, il debole controllo critico nell’accettare nella propria opera i sottoprodotti del romanzo di appendice, del feuilleton, gli ingredienti più dozzinali del vecchio arsenale romantico. Gli vengono contrapposte la perfezione limatissima di Flaubert, la sobrietà nervosa, delicata e ironica di Stendhal. Appunti e obiezioni in parte esatti, ma incompleti e quindi superficiali. Esatti perché di Balzac si possono e si debbono criticare le sciatterie e le improvvisazioni; incompleti e superficiali, perché Balzac resta genialissimo scrittore, malgrado le infinite zeppe di cui è piena e ingombra la Comédie humaine.

  Come non si giudica Verdi dalle numerose opere mancate, da quel tanto di faciloneria che pur si trova nella sua ricchissima produzione, così, nel giudicare Balzac, non si deve indugiare schizzinosi e pedanti sulle parti manchevoli di un’opera gigantesca che soltanto nel suo insieme, con il suo bene e il suo male, acquista esatto significato e giusto rilievo poetico.

  A una migliore conoscenza dell’uomo Balzac, della sua psicologia di creatore, giova indubbiamente l’ottima biografia di Stefan Zweig, che Lavinia Mazzucchetti ha tradotto molto bene per l’editore Mondadori. L’incontro di Stefan Zweig e Honoré de Balzac è nato sotto i segni di un trentennale amore del critico per il suo autore. Lo scrittore viennese, esule dalla patria fin dal 1933, mise tragicamente termine alla sua vita rovinata dal nazismo, uccidendo sé e la moglie, otto anni or sono, nel Brasile.

  Questo Balzac fu la sua ultima fatica letteraria. Alla sua fedele traduttrice italiana, lo Zweig scriveva da Londra l’8 agosto 1939: «Pensi, cara amica, che io, perdendo il giudizio con i capelli grigi, mi sono dato a un’impresa pressocchè insolubile, forse la più ardua di tutta la storia letteraria. Voglio attuare il desiderio della mia giovinezza e scrivere un «Balzac» e so già oggi che diventeranno due volumi, e che ciascuno sarà grosso come un Sancio Panza — il primo con la vita, il secondo con le opere ... Come forse Le è noto, nessuno in fondo ha avuto di coraggio di affrontare Balzac, e io da trent’anni ho sempre tenuto dietro a tutto quello che è stato scritto su di lui, nella speranza segreta che un altro mi sollevasse da questo lavoro. Ma ora lo debbo proprio fare io». Abbiamo, postumo, solo il primo volume, al quale mancò la revisione finale dell’autore. A tale revisione si accinse un fedele amico dello Zweig, lo scrittore tedesco Richard Friedenthal, al quale vennero affidate le cure degli scritti postumi.

  Come biografo lo Zweig unisce a molte qualità alcuni difetti: è non di raro pletorico e ridondante, la sua scrittura fantasiosa procede sovente troppo carica di immagini e metafore, la sua preoccupazione di creare il ritratto lindo e definitivo lo porta, incoscientemente, a lustrare la figura studiata, schematizzandola in un «tipo» ideale, sollevato oltre i chiaroscuri e le ambiguità realmente esistenti. Questi difetti, dovuti in parte al sogno ambizioso di costruire una grande tipologia dello spirito umano. — e quella di illustrare i paradigmi sui quali si declina l’esistenza degli uomini è tendenza comune a gran parte della cultura contemporanea, soprattutto germanica —, non devono far dimenticare i meriti dello Zweig, che è studioso appassionato, dotato di grande acutezza psicologica e di non comuni capacità espositive. Questo ritratto di Balzac è pienamente riuscito. Si avverte subito che la natura del critico è congeniale a quella del grande romanziere: si intuisce che un lungo e devoto culto balzachiano è stata la premessa dalla quale è nata questa ricostruzione di una vita che fu varia e mossa come un romanzo. In ogni biografia, che non sia un arido elenco di documenti, vi è sempre un elemento di invenzione legittima. Lo Zweig ha fatto sovente ricorso alla sua mobile e colorita fantasia, ma la sua immaginazione creatrice è sempre controllata e guidata da una documentazione precisa e paziente. Come altri critici, lo Zweig è stato soprattutto colpito dalla vitalità, dall’esuberanza, dalla formidabile volontà e capacità di lavoro di Balzac. Nel romanziere francese egli vede un prodigio della volontà di potenza, che divenne letteratura ma avrebbe potuto anche, in circostanze mutate, assumere forme diverse da quelle dell’arte. La vita di Balzac è splendidamente narrata dall’infanzia alla morte, nella trama complessa degli amori, delle catastrofiche speculazioni commerciali, nei sogni di ricchezza, nelle peripezie per sfuggire a creditori e uscieri, in tutti quegli episodi e avventure che i balzachiani conoscono e amano.

  In una sequenza di scene molto ben disegnate vediamo Balzac con indosso la sua celebre tonaca di lavoro serrata alla vita da un cordone intrecciato che diventerà più tardi, per smania di snobistico lusso, una catena d’oro. Eccolo all’opera, inchiodato infaticabilmente al suo notturno scrittoio, tra candele infilate su candelabri d’argento, mentre frusta i nervi stanchi con innumerevoli tazze di caffè. Ecco Balzac editore di opere classiche, proprietario di una stamperia, a cui aggiunge poi una fonderia di caratteri; eccolo correre in Sardegna nella speranza di sfruttare miniere d’argento: e ogni volta i disegni grandiosi sono seguiti da bancarotte clamorose, che non avran termine sé non pochi mesi prima della morte, quando lo scrittore, ormai esausto, riesce finalmente a sposare la ricchissima e tanto agognata, contessa Eva Hanska.

  Lo Zweig ha narrato con molta freschezza le stravaganze di Balzac, tanto più smanioso nello spendere e nel circondarsi di cose lussuose, quanto più lo incalzano i creditori. Dalle pagine di Zweig esce un Balzac inguaribilmente ottimista e fervido, anche nelle circostanze meno liete, un uomo inesauribile nel sognare la ricchezza, la gloria e l’amore, un artista sempre pronto a volare con la fantasia oltre le miserie quotidiane, incrollabilmente devoto alla sua missione poetica che fu quella di mantenere un dinamico equilibrio tra la realtà sempre pervasa di immaginazione e l’immaginazione sempre nutrita e stimolata dalla realtà.

  Nell’opera di Zweig ci sfilano dinanzi i ritratti delle donne che Balzac amò: la materna, generosa e vecchiotta Madame de Berny, la frivola e furba duchessa de Castries, invano corteggiata, la contessa Visconti generosa anche nel pagare i debiti dell’artista, la signora Zulma Carraud amica fidata e di gran cuore, la nobile polacca Hanska sua futura moglie, che lo Zweig ha in grande antipatia. Nella donna Balzac cercava spesso uno. svago, — lui predicatore di castità —, e, al fondo, sotto i bollori della sua natura sensuale, una protettrice materna, un’amica devota fornita magari di un nome illustre, che appagasse le sue infantili smanie per l’aristocratico brillio, e, soprattutto, di un solido patrimonio per assestare le sue dissestatissime finanze, Nelle pagine del libro compaiono Dumas, Sue, Gautier, Hugo: questi due ultimi, amici sinceri in mezzo a tanti nemici e calunniatori che in Balzac non vedevano che uno spaccone.

  Sebbene il libro di Zweig non sollevi problemi critici, contentandosi di essere una ricostruzione colorita e geniale della psicologia e della vita di Balzac, esso ci dà l’avvio ad alcune considerazioni: Balzac, nella vita, e nell’arte, fu un aristocratico soltanto nei propri sogni e nei propri capricci; l’aristocrazia era il mondo vagheggiato nella fantasia; come artista ebbe in sorte di essere lo storico, il sociologo e il naturalista dei costumi del mondo borghese, da lui ferocemente criticato; nella sua realtà Balzac fu un plebeo, un proletario, un uomo del popolo, continuamente respinto da aristocratici che non gli perdonavano di mettersi in bocca il coltello quando mangiava e da borghesi ai quali non piacevano debiti e bizzarrie. Questi tre strati della personalità balzachiana sono in perenne movimento dialettico tra loro e sono la sintesi di una intera società del giuoco delle sue contraddizioni, in un periodo in cui l’aristocrazia decadeva, la borghesia trionfava, mettendo già a nudo i germi della propria corruzione morale, e il proletariato maturava per gli eventi del 1848. Capitò a Balzac, monarchico-legittimista, cattolico e antidemocratico, di essere amato da Marx e Engels e, in genere, dai critici marxisti. Non lo amano, e gli negano la grandezza, soprattutto coloro che Balzac credeva di difendere nella sua opera: le élites del sangue e del gusto. E’ un destino singolare sul quale vale la pena di riflettere.

 

 

  Alberto Cappelletti, Nel centenario di Balzac. Ricordi romani dell’autore della “Commedia Umana”, «Rassegna di cultura e vita scolastica», Roma, Anno IV, nn. 9-10, settembre-ottobre 1950, p. 5.

 

  Onorato di Balzac viveva in quel tempo a Passy, sopra una collina a terrazze, a trecento metri dalla Senna — in una via tutta piena d’edera e di cinguettii, una casa, un giardino, una vigna —; lì s’era rifugiato, sperando pace e silenzio all’affannosa, assillante fatica. Ed era, invece, costretto a lavorare di notte, per non sentir le grida dei vicini e dei loro figliuoli, creando al tremulo lume della candela taluni dei più tragici personaggi della sua opera: quelli di Splendori e miserie delle cortigiane, dei Contadini, dei Parenti poveri. Fu lì, nel 1845, che gli pervenne da Dresda l’appello della straniera, della contessa Hanska, ormai vedova: raggiunta l’amata, mosse con lei — finalmente! — alla volta di Roma.

  Trascorrere qualche settimana con la sua Eva nella Città Eterna, gli parve davvero degno del suo genio. Ma il soggiorno fu breve. La cosa più notevole di esso fu l’udienza papale che il pittore Schneitz, direttore dell’Accademia di Francia, ottenne a lui, all’Hanska, alla figlia e al genero di costei. Il dotto Gregorio XVI fu assai cortese e affabile con Balzac e gli regalò un rosario da portare alla madre. Onorato uscì dal Vaticano entusiasta e al colmo dell’ammirazione per la forza gerarchica del cattolicismo.

  Ma mentre si apprestava a vedere tutte le bellezze della città e mentre la sua Loup-Loup, come chiamava la sua Eva, rimaneva l’intero inverno a Roma, egli fu costretto a tornare a Parigi per curare presso l’editore Furne la grande edizione della Commedia Umana.

  Partì piangendo come un fanciullo.

  Ma nella primavera del ‘46, come può, s’imbarca nuovamente a Marsiglia, scende a Civitavecchia — in quale via si è soffermata Eva? dove ha poggiato i suoi delicati piedini? —, corre a Roma a raggiungere i suoi amici. Dalla fine di marzo alla fine di aprile dura il suo soggiorno, ed è una sola, alta, lunga esaltazione. Trecento chiese da vedere; San Pietro che è al di là d’ogni immaginazione: «Ci sarebbe da parlarne per una settimana! — scrive alla sorella Laura —. Immagina che la nostra casa di Rue du Houssaie starebbe comodamente nel terzo piano interno della cupola!» E più oltre: «Roma, malgrado il tempo breve in cui vi sono rimasto, sarà sempre uno dei più grandi e bei ricordi della mia vita».

  Compra un Bronzino, un Sebastiano del Piombo, un Guido Reni: così non sarà più come nell’infausta villetta di Sèvres, les Jardies, ove alle pareti nude aveva attaccato cartelli con scritto: «Qui un Raffaello», «Qua un Tiziano» ..., ma splenderanno intorno a lui autentici capolavori. E poi, anche se capolavori non sono, Balzac li immagina tali e li illustra con enfasi Quando più tardi, all’inizio del ‘47, l’Hanska va a Parigi a donargli, dopo Vienna, Pietroburgo e Roma, la gioia di tenerla vicina, egli, dinanzi a un quadro che avevano comprato insieme nei dintorni di Roma (Eva ricordava che il venditore aveva consentito subito sul prezzo un enorme ribasso!), esclama: «Questo quadro, l’Italia l’ha lasciato esportare con un fremito di dolore!» ...

  In quell’aprile romano, mentre fra gli antichi ruderi gloriosi, risuscitanti nel suo spirito i ricordi più vivi della storia, occhieggiavano i mandorli e le mimose in fiore gli davano l’ebbrezza della primavera, eccolo, stretto al braccio caldo di Eva, assistere alle cerimonie della Settimana Santa, ammirarne la solenne grandiosità, dare interpretazioni nuove e originali ai cori, ai canti, alle sacre funzioni con cui la Chiesa rievoca la passione e la morte di Cristo. Eccolo la sera del Giovedì Santo presso le colonne tortili del baldacchino berniniano, davanti al cardinale arciprete, che, iridiscente di porpora, ascende a lavare l’altare tutto spoglio e triste, davanti alle sacre reliquie che dalla loggia della Veronica un canonico in paonazzo mostra alla folla prosternata e riverente, emettere esclamazioni di entusiasmo, clic fanno volgere gli sguardi su questo brutto e grosso personaggio dagli occhi di fuoco.

  La grande illuminazione della basilica, del colonnato e della cupola rese addirittura folle di entusiasmo quest’Onorato mai stanco, nell’esuberanza del carattere, di gridare alta la sua gioia. «Vaut à elle seule le voyage» scrisse, e in quelle fiaccole ardenti che alle sagome dell’architettura donano un tremulo bagliore di sogno egli vide forse, nella coscienza del suo genio, come un’apoteosi della sua opera.

  Alte personalità del mondo romano gli furono prodighe di cortesie, che contribuirono a rendere in lui più dolce e forte il ricordo dei due brevi soggiorni romani. Tra costoro, il duca di Teano, principe Michelangelo Caetani, colpì maggiormente Balzac. Gli fu guida in varie escursioni ed ebbe così agio di mostrare all’ospite francese la vasta cultura, il gusto squisito, affinato da secoli di tradizione familiare, di studio e di comando. Tra l’altro, Onorato assistette ad un commento dantesco che il principe romano tenne in quei giorni a Palazzo Farnese, e l’ammirazione per Michelangelo Caetani raggiunse, come sempre in Balzac, l’entusiasmo. Così che tornato in Francia a terminare per ... i suoi creditori la Cugina Betta — l’opera nella quale le figure più tragiche, più mostruose e più crudeli, madame Marneffe, il barone Hulot, l’arricchito Crevel, il polacco Venceslao, si avvicendano con le dolci figure della bontà e dell’altruismo senza confini, Adelina e Ortensia —, egli sente, nel suo cuore sempre prodigo e generoso, di dover dedicare questo capolavoro al principe romano che aveva dato al suo spirito la possibilità di tanti spirituali e sottili godimenti.

  E in un’afosa giornata d’agosto, mentre nella sua vestaglia di color rosso fiammante si liquefà in sudore, ma resta imperterrito ore e ore alla scrivania — unico sollievo, ogni tanto, uno sguardo là, oltre il cortile, al verde pendio verso la Senna e la lontana,  evanescente Parigi —, sull’imbrunire, quando la governante madame de Brugnoli gli porta un candeliere acceso e un piatto colmo di ciliege, egli afferra nel cumulo delle bozze, dei manoscritti, degli appunti, delle note, dei libri, che coprono da ogni parte la scrivania e il pavimento e le sedie, un ampio foglio di carta velina e butta giù la dedica: «a don Michelangelo Caetani, principe di Teano».

  «Non è al principe romano né all’erede dell’illustre Casa dei Caetani, che ha dato dei papi alla cristianità, è al sapiente commentatore di Dante che dedicò questo minuscolo frammento d’una lunga storia. Voi m’avete fatto scorgere la meravigliosa intelaiatura di idee sulla quale il gran poeta italiano ha costruito il suo poema, il solo che i moderni possano opporre a quello di Omero ... Uno studioso francese si farebbe un nome, guadagnerebbe una cattedra e molte croci, pubblicando in un volume dogmatico l’improvvisazione con la quale voi ci avete resa incantevole una di quelle serate in cui si riposa dall’aver visitato Roma ... Sfogliando i vostri scritti sarei potuto divenire un uomo dotto della forza di Schlegel, mentre rimango un semplice dottore in medicina sociale, il veterinario dei mali incurabili, non foss’altro che per offrire un attestato di riconoscenza al mio cicerone e per aggiungere il vostro illustre nome a quelli dei Porcia, dei Sanseverino, dei Pereto (sic), dei Negro, dei Belgioioso, che rappresentano nella Commedia Umana quell’alleanza intima e costante tra l’Italia e la Francia, che già il Bandello consacrava allo stesso modo...».

  Onorato di Balzac, che nella primavera del ‘46 era a Roma, si spegne a Parigi, il 18 agosto 1850, a cinquantun’anni di età, in quello châlet di via Fortunée, che, comperato per la sua Eva, avrebbe dovuto, nella sua mente immaginosa, divenire il più importante salotto letterario della Ville Lumière. Egli vi lavora sin quasi all’estremo delle sue forze, e nelle sue ultime pagine si scorge il genio che combatte con la morte: assai spesso, mentre il racconto s’intriga di fosche figure e di diaboliche vicende, uno spiraglio di luce e di sorriso — forse una speranza di salvezza nell’anima del grande — è dato dal ricordo di artisti, di opere, di città italiane.

  Quando, assetato non solo d’amore ma anche di nobiltà e di grandezza — «la mia esistenza dev’essere pari alla mia opera» — si trova nella lontana Ucraina, nel castello della contessa Hanska, che il 15 marzo 1850 diverrà sua moglie, e volgendosi nella sua stanchezza, a costei che lo assiste con assoluta dedizione, le mormora: «La testa mi pesa più della cupola di San Pietro!», pare a un biografo di Balzac, il Benjamin, che sia soltanto il ricordo del suo soggiorno romano a trattenerlo ancora in vita. «Com’eravate bella e ...», ma non può finire la frase: una crisi di tosse, di mancanza di respiro, di vomito, lo scuote, lo dilania e spegne in lui l’immagine dell’amata qual era risorta, alta ridente sullo sfondo di Roma.

 

 

  Aldo Carratore, Per un bottone che mancava al suo scolaro vacillò la mente di Emanuele Kant. [...]. Il disordinato Balzac, «La Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXIII, Numero 242, 1° Settembre 1950, p. 3.

 

  Nel campo delle stranezze un ponto a porte spetta al celebre romanziere francese Onorato de Balzac, il quale va famoso oltre che per la tua singolare distrazione che ha dato motivo ad episodi gustosissimi. anche per la sua grande trascuratezza. Non conosceva infatti cosa fossero l’ordine e la pulizia; nello studio le carte ed i libri erano accatastati in ogni angolo alla rinfusa e, quando andava fuori, gli abiti che indossava, per lo più dimessi e sbrodolati, gli conferivano un aspetto meschino e punto confacente con la sua fama di grande scrittore.

  Si racconta anzi in proposito che una volta, invitato a pranzo con insistenza da una nobile dama che lo conosceva soltanto per fama, venne fermato alla porta dal maggiordomo perché scambiato per un servitore! Insistendo Balzac per entrare nel salone degli invitati, il maggiordomo con maniere piuttosto brusche, lo mise senz’altro alla porta. Un amico però sopraggiunto in quell’istante chiarì subito lo increscioso equivoco, fra lo stupore della dama e degli invitati accorsi.

  Eppure nonostante la sua personale trascuratezza, Onorato de Balzac provava un disagio indicibile, quasi un malessere ogni qual volta gli capitava di entrare in una sala dove i mobili e gli oggetti non fossero stati disposti con cura e buon gusto, oppure nello studio di qualche collega dove regnasse, come nel suo, il più caotico disordine. Insomma, mentre la trascuratezza altrui lo esasperava, tollerava invece pacificamente la propria: debolezza anche questa per un genio come Balzac.

 

 

  Emilio Cecchi, Balzac 1950, «L’Europeo. Settimanale di attualità», Milano, Anno VI, N. 40, 1° ottobre 1950, p. 11; ora in Aiuola di Francia, Milano, Il Saggiatore di Alberto Mondadori, 1969, pp. 28-31.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., pp. 555-556.

 

  Non abbiamo saputo precisamente gran che, né forse c’era da sapere, sull’andamento in terra francese del centenario della morte di Balzac (18 agosto 1950). Ma lasciando da parte conferenze, discorsi, la pubblicazione obbligatoria di generici articoli commemorativi nel tenore solito a queste circostanze, e la esumazione di qualche curiosità erudita, il tono saliente sembra sia stato improntato ad una simpatia di cui Balzac non aveva goduto di certo da molti decenni. Più che degli intrinseci valori d’un’opera o di una personalità, i centenari si colorano infatti dalle inclinazioni e dai colori dei tempi. A Beethoven, che nientemeno è Beethoven, toccò nel 1927 un centenario magrissimo, quaresimale. E se il centenario di Wagner fosse caduto in quell’epoca, sarebbe stato un vero disastro. La musica guardava in tutt’altra direzione. Mentre è parso che la letteratura oggi guardi più o meno nella direzione che Balzac perentoriamente le indicava col suo bastone da maresciallo napoleonico. Un Balzac che, insomma, ritorna come campione, come eroe della letteratura engagée. Non sarebbe stato facile prevederlo.

  Che nell’impetuoso trasporto delle proprie idee politiche e morali, e sotto l’influsso di madame de Berny, eppoi della duchessa de Castries ed altre muse aristocratiche, nel «Rénovateur» e simili fogli ultra-monarchici, Balzac riversasse il forcaiolismo che gli avanzava dai suoi romanzi: di tutto questo ai nuovi fautori della letteratura engagée importa relativamente poco. Non fosse altro come avversario, come bersaglio polemico, un reazionario, uno sfegatato paladino del trono e dell’altare, uno scrittore che si propose «di compiere con la penna ciò che Napoleone aveva iniziato con la spada», sarà sempre per essi preferibile ad un abietto artista puro, ad un irriducibile esteta, a un volontario recluso della inaccessibile torre d’avorio. Ma del resto: non fu tra i primi, Balzac, a mostrare nei suoi romanzi, l’enorme importanza del fattore economico nella vita moderna? A rappresentare (benché fermandosi alla borghesia) sul tumultuoso sfondo del primo Ottocento, la formazione e l’ascesa di nuove classi sociali? Oggi, si dice, egli avrebbe fatto per il proletario ciò che fece ai suoi giorni per il piccolo borghese, egoista, affarista, ma a suo modo eroico: l’avrebbe assunto agli onori dell’epopea. E siccome di feste come questo centenario, bisogna pur che qualcuno paghi le spese, oggi le spese, più o meno direttamente, le ha fatte il povero Flaubert. Troppo letterario, troppo stilista, troppo marmoreo. Magari nessuno l’avrà, a faccia a faccia, investito; ma si capiva che per lui era aria cattiva, e che parecchio ci sarebbe stato da ridire sul suo conto. Peccato di non poter vedere, al centenario della morte di Flaubert, nel 1980, se a pagare le candele quella volta non toccherà precisamente a Balzac.

  Per la presente ricorrenza, un nostro nuovo editore ha preparato due grossi e nitidi volumi, dei quali il primo è ora apparso: I capolavori della «Commedia Umana» (Casini, Roma), con introduzione di Pietro P. Trompeo. Il volume contiene tre fra i migliori romanzi: Papà Goriot, Il colonnello Chabert, Un affare tenebroso, e due racconti. Sarebbe offesa al lettore di volerlo informare su testi così popolari. Ma la succinta introduzione del Trompeo è un piccolo capolavoro d’acume ed equilibrio critico; e chi voglia fare il punto sulla odierna situazione di Balzac, non potrebbe desiderare altra guida che cotesta. Quasi non è da cambiare parola, dove il Trompeo viene osservando come di Balzac non forse un solo libro sia immune da incoerenze ed insufficienze, trucchi di mestierante e sdolcinature. E senza volere in tutto consentire col Sainte-Beuve, che ostentava di mettere Balzac press’a poco sullo stesso piano di Sue: un che di falso e sforzato ci disturba anche nelle pagine più travolgenti. L’azione precipita a capofitto nel melodramma. E il narratore e il moralista restano di gran lunga inferiori all’ambientista, al ritrattista e allo storico. Esattamente.

  Il fascino storico ha parte preponderante nella vocazione di Balzac. Come di Ivanhoe aveva visto il Thierry: la capacità di rievocazione, di resurrezione storica, benché in un ordine soprattutto visivo e pittoresco, aveva formato l’autentico dono di Walter Scott, fra tante sue banalità e convenzionalità romantiche. Ammiratore dello Scott, il Balzac, fu partecipe d’un simile dono. «Ma mentre lo Scott, operando la rievocazione e resurrezione storica, ha bisogno di riferirsi ad epoche remote, il Balzac sa rendere i tratti caratteristici delle tre o quattro generazioni che si possono frequentare nel corso d’una esistenza ... Egli non è stato soltanto il pittore, ma lo storico dei costumi contemporanei; ne ha colta la fisionomia, e ne ha fissata l’evoluzione e il movimento ... Che è già un merito unico» (Brunetière). «Se non fu l’Omero della borghesia, ne fu almeno il Tacito o il Saint-Simon. E non può lasciare da parte Balzac, chi voglia avere il quadro totale della società francese durante la prima metà dell’Ottocento» (Trompeo).

  In altre parole: sotto un punto di vista rigorosamente artistico, l’importanza e il significato sembrano forte scaduti: da quando il Taine, in un saggio giovanile, trattava di Balzac come d’un nuovo Shakespeare. Mentre sotto l’aspetto dell’annalista, del documentarista e storico di costumi, la valutazione del Brunetière viene oggi riconfermata in pieno, anche da critici, come il Trompeo, di stretta osservanza umanistica. E rimane la personalità vissuta, che esercitò sempre sul pubblico, e non incolto, un’attrazione maggiore di quella suscitata dai più vigorosi personaggi della Commedia Umana. Vedi, in proposito, un discorso di Riccardo Bacchelli, in «Il ponte» (anno VI, n. 7, luglio 1950). Tra le ultime fatiche di Stefan Zweig, dal 1939 alla morte (1942), fu appunto una grande biografia di Balzac; alla quale sembra che avrebbe dovuto seguire un volume di pari mole, dedicato all’analisi dei romanzi. Tale biografia è uscita in questi giorni, nella traduzione di Lavinia Mazzucchetti (Balzac, Mondadori, «Quaderni della Medusa», n. 33).

  Oltre che d’un ricco materiale d’informazione, lo Zweig vi fa sfoggio di doti di eloquenza non meno generose. Come avverte la traduttrice, in una revisione che al libro mancò, sarebbero cadute certe veniali prolissità e ripetizioni. Ma anche nella sua forma attuale, il Balzac di Zweig ha di che interessare, e largamente; specie se uno disponga tuttora d’un po’ di quella docile e abbagliata virtù d’illusione con la quale si leggeva Balzac da giovani; - e ad avere avuto allora fra mano un libro siffatto, sarebbe stata veramente una festa. Non direi ne venga fuori un Balzac impreveduto, di nuovo stampo (com’è, per dirne una, il Dickens di Edmund Wilson); e neppure molto profondo. Si tratta d’una affettuosa, colorita e trascorrente narrazione aneddotica, più che d’una impegnativa ricostruzione psicologica. Forse il racconto entra più acremente nel vivo, rintracciando quella «via crucis» che fu l’ultima e massima avventura amorosa di Balzac: l’interminabile corteggiamento e il matrimonio con la sinistra madama Hanska. La pagina che chiude il libro, nella quale Victor Hugo narra la sua visita notturna a Balzac agonizzante, è di quelle che non si scordano. In confronto a quella terribile scena dello scrittore, rimasto solo solo, che rantola, la morte di papà Goriot sembra quasi una morte felice.

 

 

  Blaise Cendrars, Un secolo dopo. Paris-Balzac, «Il Mondo. Settimanale di politica e letteratura», Roma, Anno II, Numero 24, 17 Giugno 1950, p. 11.

 

  C’è qualcosa di balzacchiano anche nelle date che rammentano la vita di Balzac: morto a metà del secolo, poco dopo le barricate parigine del ‘48, Balzac ci ritorna col suo centenario nel 1950, anno critico se mai ve ne fu uno nella storia di questo secolo. In questo scritto, che anche nello stile affollato e delirante vuote essere un omaggio a Balzac, Blaise Cendrars (uomo d’affari, viaggiatore, agente segreto, milionario, vagabondo, nonché romanziere e poeta) parla dell’autore della Comédie Humaine, lo scrittore più lungo che abbia avuto la letteratura, associandovi il ricordo dello scrittore più breve, Raymond Radiguet. Il saggio di Cendrars presenta anche per ciò un particolare motivo d’interesse: esso è una delle rare testimonianze personali che si abbiano sul romanziere del Diable au corps, morto a 23 anni, balzacchianamente, subito dopo la prima guerra mondiale.

 

  Anche promettere ordine nel prodigioso disordine dell’opera di Balzac? Lo stesso Balzac rimaneggiava senza posa la distribuzione delle sue opere, la loro collocazione nell’insieme della Comédie humaine, sotto la pressione suo genio in ebollizione e delle necessità finanziarie, delle sue occasionali convinzioni filosofiche, delle sue trances di visionario, della sua bisogna quotidiana e sovrumana di letterato crivellato di debiti, braccato dagli impegni editoriali, alla mercè dei creditori, divorato dall’ambizione, con la testa e il cuore invasi dai sogni dell’avvenire, di un amore specifico e della ricchezza favolosa.

  Bisogna leggere le opere di Balzac alla rinfusa, così come egli le scrisse, una dopo l’altra e in uno stato di febbre, altrimenti si corre il pericolo di perdere tutto ciò che in esse c’è di patetico, poiché non sono libri di documentazione, considerazioni, dissertazioni, tesi, messe in piedi a furia di appunti (come Zola) ma continua creazione, alla cieca, la lotta dello scrittore con la sua stessa materia, dell’uomo col suo destino, il suo desiderio, la sua forza, la sua passione, la sua impotenza, la sua morte, libri che si appiccicano alla pelle madida del loro autore.

  E’ così che ho letto Balzac, disordinatamente, una dozzina di dozzine di volte La comédie humaine da cima a fondo e in epoche diverse della mia vita, e dozzine di volte certi romanzi che mi capitavano per caso tra le mani nei paesi più lontani, tomi sparigliati, perché Balzac è tradotto, come la Bibbia, in tutte le lingue del mondo e si trova su tutta la superficie del pianeta.

  Da questa lettura disordinata conservo il ricordo di essere penetrato il più profondamente possibile in un mondo misteriosamente familiare, del quale confondevo sempre i mille e un personaggio, le avventure, gli episodi, e rimango abbagliato di questo formicolio di creature nella nebbia, sotto la pioggia di Parigi (Parigi è al centro dell’opera di Balzac), di questa varietà di teste con tutte le loro smorfie nelle taverne, nei salotti, negli ammezzati, nelle soffitte di Parigi, nei nobili palazzi del faubourg, personaggi che hanno tutti un’aria di famiglia, e quest’aria non è dovuta alla luce delle candele o alla moda dell’epoca, ma all’usura delle passioni che li agitano, dei tic che li travagliano, delle preoccupazioni (denaro, amore, ambizione) che li fanno arrancare, e sulla cui decadenza Balzac si dilunga, annotando con soddisfazione un milione di particolari veri che gli permettono di accoppiare questi esseri in maniera imprevista, di classificarli con l’occhio di un fisiologo, di uno psicologo, di osservarli da medico, da psichiatra, di dissociare questa società francese da economista, da banchiere, di ridistribuirla in base a una nuova geografia sociale, di trasformare ogni membro di questa grande famiglia in un tipo isolato, estraneo, astratto, quasi simbolico, poiché tutto è falso in Balzac a furia di essere più vero del vero, grazie a quel milione di particolari minuziosamente messi insieme e la cui accumulazione finisce per fare sintesi, creazione che disorienta e vi spinge ancora più profondamente in questo mondo nemico che vi signoreggia: Ferragus, Vautrin, il Père Goriot, Birotteau, Nucingen, Louis Lambert, Bianchon. Rastignac, Lucien de Rubempré, ecc. ecc., prototipi fatti per conturbare un novizio, fanciullo o giovane, il quale faccia i suoi primi passi nella vita e che non potrà mai dimenticare quei tipi, sia che li respinga, sia che voglia imitarli; per non dir nulla delle donne, tutte quelle eroine alterate dall’amore romantico, quegli angeli che, per esempio, a un Barbey d’Aurevilly, bastò un poco di corte fatta dall’alto della sua autorità di piccolo maestro impertinente perché diventassero dei Diaboliques.

  Balzac non è un precursore. E’ l’inventore del mondo moderno. Ecco perché ogni giovane autore, d’oggi deve passare attraverso lui. Più vado avanti nel mio mestiere e più mi rendo conto di quanto la sua impronta è stata forte su me.

  Un giorno un ragazzo di quindici anni che si chiamava Paul Bourget, entrò in una biblioteca e chiese il primo volume del Père Goriot. Cominciò a leggere che era l’una, e suonavano le sette quando Paolo si rivide in strada, con tutta l’opera finita. «L’allucinazione di questa lettura era stata così potente», scrive Bourget, «che barcollavo ... L’intensità del sogno nel quale mi aveva sprofondato Balzac provocò su me effetti simili a quelli dell’alcool o dell’oppio. Ci vollero alcuni minuti perché riprendessi contatto con la realtà delle cose che mi stavano intorno e con la mia povera realtà». Il caso gli aveva aperto la porta, dice François Mauriac, che racconta l’episodio, e al quale dobbiamo la citazione.

  Avevo dodici anni quando mi fu aperta la porta di questo mondo allucinatorio che turbò il mio cervello; il caso volle che a quindici anni mi trovassi in Cina, in un mondo che non mi era del tutto familiare e che, ad ogni passo che vi facevo, diventava sempre più strano, dandomi l’impressione di esserne tagliato fuori malgrado le mie trasformazioni e la bolletta in cui mi trovavo, e di viverci in una forma assurda e irresponsabile come la maggior parte degli europei trapiantati in Cina; e tutto ciò fino a quando scoprii la poesia cinese, la Favola, cosa che mi fece stramazzare a terra e poi ribaltare nel sogno come un fumatore d’oppio, poiché la Cina è la patria dei letterati, ed io ebbi la rivelazione di me stesso : un barbaro. Come ingresso nella vita, tema caro a Balzac, non c’era male, e fu così, nel 1907, che cominciai a scrivere. Avevo vent’anni. E dopo, la porta che apre sull’irreale o sul surreale della creazione letteraria, un mondo più vero del vero, si è lentamente richiusa dietro di me, senza che io me ne accorgessi, e oggi ne sono prigioniero. E’ duro, roba da accoppare un bue. Mi scrive un lettore sconosciuto: «Come fate, Blaise Cendrars, usando dette parole, insomma le parole che usano tutti, ad arrivare alla creazione di un mondo che sorpassa talmente il mondo delle parole?». Ho risposto: «Leggete Balzac, è lui il mio maestro ...».

  Ma quel settembre del 1897, quando mio padre, arrivando a Napoli da Parigi, sbarcò una teoria di casse enormi, che aprì immantinenti, avevo dieci anni. In quelle casse c’era tutta una casa, batterie di cucina con lo smalto blu, stoviglie, vestiti, tappeti arabi, tendaggi, biancheria, un mastodontico lume a sospensione, articoli parigini di alta fantasia, cappelli e piume per mamma, bambole e balocchi per mia sorella e mio fratello, e la più piccola conteneva le opere complete di Balzac, credo un’edizione di Calmann-Lévy, che il babbo si era comprata rilegata in tela grigio-perla, con un medaglione di Balzac coronato di alloro in rilievo sul cartone della copertina e su ogni tomo questo titolo prestigioso: La Comédie humaine; e come mi curvavo su quest’ultima cassa, allungando la mano per prendere un volume qualsiasi, mio padre mi prese per le orecchie, sollevandomi fino al soffitto e scuotendomi esclamò : «Non vorrai mica sciupare il mio Balzac, perdiana! Questa non è roba per te ...».

  E rimessomi a terra, cavò dalla tasca un piccolo volume da 60 centesimi della collezione Flammarion, Les Filles du feu di Gérard de Nerval, che egli aveva letto in treno, con le pagine tagliate a colpi di dita e tutte sfrangiate: «Come vedi, ho pensato anche a te, bambino. Questo è un regalo per il tuo anniversario», disse. «Ma che non ti sorprenda mai più a leggere Balzac, altrimenti guai a te! ...».

  Mio padre era fatto così, impulsivo e buono, violento e sentimentale, fatto di impeti immediati, capace di scherzi e di collere furibonde, un, uomo che pestava i piedi per far credere alla sua autorità perché come la maggior parte degli uomini grossi era in fondo un tenero e un debole. Egli si è sempre fatto imbrogliare in materia di affari, e come ben potete immaginare, non appena voltò le spalle, mi buttai sul «suo» Balzac e lessi tutta la Comédie humaine di soppiatto, come veniva veniva, poiché il primo volume che avevo afferrato era Un début dans la vie, una storia che mi divertì immensamente e mi fece ridere moltissimo e mi fece fare un mucchio di corbellerie e di scioperataggini quando suonò anche per me l’ora di entrare ma sul serio nella vita, per esempio: la mia scappata dalla casa paterna e, l’arrivo a Pechino che io allora consideravo come una trovata per irritare le persone grandi e per far strabiliare i miei compagni.

  Povera mamma! ... Ma allora non pensavo a lei o ci pensavo appena, il minimo per farle sapere nelle mie lettere che facevo una vita di nababbo, roba da farle scoppiare il cuore ...

  Parigi pulsa al centro dell’opera di Balzac e manda il suo sangue arteriale fino all’imo della provincia.

  La Parigi di Balzac!

  Nel 1917, ’18, ‘19, ‘20, quando mi occupavo delle “Editions de la Sirène ” e preparavo 221 libri da stampare, libri che uscirono o non uscirono a secondo del buono o cattivo genio della Sirène, la mia ambizione era di pubblicare un grosso volume di Balzac, che avrebbe dovuto avere il titolo inedito di Paris par Balzac e il cui successo mi sembrava sicuro; ne parlavo tutti i giorni all’altro animatore della Sirène, quel caro e vecchio amico di Paul Laffitte, irrequieto bohême della finanza, fine letterato, pieno di vita e intelligente come un toporagno e ricco di iniziativa ma mutevole come un camaleonte, parigino fino alla cima dei capelli benché nativo di Filadelfia, il quale, come me, si era montato per questo libro dal titolo sensazionale, e tutti ci meravigliavamo che nessun editore ci avesse mai pensato.

  La Parigi di Balzac! Impossibile resistere al suo fascino. La conquista di Parigi. Che sogno!

  Tutti i giorni, nei treni vi sono dei giovani che vengono a conquistare Parigi, e questo dopo Balzac, da cento anni, una corrente senza interruzione, una corrente di sogno e di potenza che ha dragato più uomini e più buone volontà che bastimenti l’impresa di Lesseps, a Suez e a Panama. Per mia sfortuna, ero troppo carico di lavoro e non avevo il tempo di fare lo (sic?, lege: io?) stesso questa compilazione e di mettere in piedi con i materiali estratti dalla Comédie humaine questo monumento: Paris par Balzac. Ne vedevo già la copertina. Ero impaziente. Cercavo qualcuno, non un “negro”, ma un giovane, un entusiasta, una vittima di Balzac, un ignoto sbarcato di fresco a Parigi, venuto a conquistarla e capace di appassionarsi per questo libro.

  Un giorno un giovane alto, timido e paffuto come una fanciulla, spinse esitando la porta del mio ufficio ed entrò in punta di piedi. Era Raymond Radiguet. Poteva avere sedici o diciassette anni ma ne mostrava appena quindici, vestito con una giacchetta a zampa di gallina color mastice troppo grande per lui, con le maniche più lunghe delle braccia e che teneva rimboccate, e con un paio di pantaloni da impiegato, a righe, che gli scendevano a soffietto sulle scarpe logore, screpolate e assetate di vernice. Ciuffi di capelli gli ricadevano sugli occhi, che erano assai belli e selvaggi. Mi porse arrossendo una lettera di raccomandazione di Max Jacob.

  «Bene» gli dissi. «Accomodatevi. Scrivete versi? Mettete qui il manoscritto, ne faremo un volumetto, Dove dormite? Sotto i ponti?».

  «No», disse coraggiosamente, «da Max».

  «Caro Max!» feci io, «Sempre disposto a dividere la sua camera. Quando finirà tanta purezza? Che fa?».

  «Lavora».

  «E voi?».

  «Me ne vado a zonzo il giorno per le strade, lavoro a un romanzo e quando piove troppo forte entro in un ufficio postale e lo scrivo sui moduli telegrafici che l’Amministrazione mette a disposizione del pubblico».

Sorrise. Era commovente.

  «Ed è a buon punto il vostro romanzo?».

  «E’ finito! Ma ne avrò ancora per due o tre mesi di correzioni. Il guaio è che non trovo un titolo».

  «Male».

  «Lo so e me ne vergogno. Per ora l’ho chiamato Julie dal nome della protagonista ...».

  «Male, male ...».

  «Ne sono desolato, ma non trovo di meglio ...».

  «Sicuro», feci io, «capita sempre così. Un primo amore, no? Quando ne avrete pronte 300 pagine venite col vostro romanzo e cercheremo di trovargli un titolo se c’è della stoffa. Ditemi, vi piace Balzac?».

  «Humm!».

  «Bisogna leggere Balzac!».

  «Max mi ha passato due o tre volumi».

  «Non mi stupisce da parte di Max. E cosa leggete di preferenza?»

  «I Classici».

  «Quali, per esempio?».

  «La Princesse de Clèves».

  «Ma è del Balzac ante litteram! L’amore, la corte, Parigi, i nobili manieri, il Marais, il Faubourg, i castelli in provincia, il fasto, costumi, i nastri coi colori della dama, la partita di caccia, il ritratto dipinto, i complessi dei personaggi, l’inibizione dei sentimenti, c’è tutto. E’ veramente il primo romanzo francese. Credete a me, leggete Balzac!».

  «Vi sembra che scriva bene?».

  «Non ha importanza. Non è questione di stile in un romanzo, quanto di creazione, di vita. Non imparerete nulla nella Princesse de Clèves, dove non si parla mai di denaro, questa potente molla psicologica e moderna messa in opera da Balzac! Credete a me, leggete Balzac! E poiché eravamo sull’argomento denaro, tornate e portatemi il vostro romanzo. Se vale, ne parlerò all’amico Laffitte. Ma non vi fate troppe illusioni. La Sirène è a secco. Tuttavia, qui facciamo un po’ come da Max Jacob, ci sarà sempre un fondo di cassetto da dividere e avrete anche del lavoro; per esempio, se non vi annoia troppo di andare alla Nazionale o in qualche altra biblioteca a copiare certe pagine di Balzac o altri documenti per un libro su Parigi. Sarebbe una buona occasione per leggere Balzac. A presto, cambiate il titolo del romanzo. Julie, non è un gran che ...».

  Radiguet mi portò il suo romanzo, che mi colpì non tanto per le sue qualità di stile quanto per la straordinaria maturità di uno scrittore così giovane e per la sapienza dell’architettura. Ne parlai con Laffitte e si stabilì, tra noi due, di affidare a Radiguet la composizione di Paris par ... Monsieur de Balzac.

  Monsieur perché il giovane Radiguet lo era, e non appena cominciò a rimpannucciarsi e a portare il monocolo, ora che mangiava ogni giorno e si virilizzava ed era pieno di avvenire, nolens volens e con mia somma meraviglia, egli somigliava fisicamente a Balzac adolescente o come io immaginavo Balzac ai suoi primi passi nella vita quando lasciò la madre per mettersi sotto l’egida di Madame de Berny.

  Radiguet aveva preso l’abitudine, da quando metteva insieme durante il giorno il suo Balzac alla Nazionale (gli avevo consigliato di cominciare con Ferragus, il prototipo del racconto balzachiano e cronologicamente il primo dei suoi grandi libri, nel quale, fin dalla prima pagina, Balzac schizza il piano psicologico, anatomico, fisico, meccanico, economico di quella Parigi moderna che avrà un posto così grande nella sua opera, crescendo continuamente e sviluppandosi, simile a un mostruoso polipo o tumore, che succhia segretamente tutti i suoi abitanti e svuota i personaggi della loro sostanza, e di cui Balzac non cesserà mai di osservare con occhio di clinico l’evoluzione isterica, al contrario di quanto fu il beato Victor Hugo), Radiguet aveva preso l’abitudine di venire la sera, due o tre volte alla settimana, a chiacchierare nel mio ufficio per mettermi a parte delle considerazioni che gli suggeriva la lettura di Balzac (si vedeva chiaramente che vi prendeva gusto, si appassionava, scopriva un mondo nuovo) e io quella di fargli finire la serata al «Boeuf sur le Toit», a bere, a fumare e a parlare, parlare parlare ancora e sempre di Balzac e di Parigi. Radiguet cominciava a farsi un’idea di quello che volevo. Gli aveva consegnato un copioso dossier contenente appunti di lettura, referenze, una mappa del catasto di Parigi con la data del 1850, delle cartelle del fondo Spoelberch du Lovenjoul a Chantilly e di archivi da consultare all’Arsenale. La nostra Paris par Balzac prendeva forma. Sovente, gli ultimi ballerini del «Boeuf» avevano sgomberato, il jazz taceva e noi eravamo ancora lì, tutti e due, in un angolo del locale, a costruire la Parigi di Balzac sulla tovaglia con le nostre cicche ... sorpresi dall'alba che già tingeva di blu le finestre di Rue Boissy d’Anglas ... Un cantiere, ma il monumento non fu mai innalzato ...

  La jeunesse est un sacerdoce... E’ Baudelaire che lo dice nei Carnets. E da quel pessimista che è, si affretta a correggere: La jeunesse est un sacerdoce, mais c’est la jeunesse qui le dit! ... Un posto come «Le Boeuf sur le Toit» era dimostrazione di questa massima. I bar che costellano nelle sue articolazioni la Parigi moderna come le punte di fuoco applicate su un ginocchio anchilosato da un travaso di sangue dopo una caduta sulla pista da ballo, i bar che deformano i volti nello specchio e li sciolgono nella luce, sinusite facciale dopo una danza prolungata in una corrente d’aria, fatica in sudore, stanchezza generalizzata, staffilata di whiskies e di cocktails, esaurimento, tappeti, polvere, effluvi, tubature intasate, sassofoni striduli, batterie in effervescenza, i bar, dai quali ai parte per la Svizzera, per gli sport invernali o per un sanatorio, i drogati, i bar d’oggi, che non sono tanto dei cabarets dove l’alta società viene a incanaglirsi quanto i porti dei paradisi artificiali dove la mala-vita internazionale dei ballerini mondani e i pederastini di periferia vengono a spilluzzicare qualcosa, un po’ di distinzione vestimentaria, una situazione di cocottes, forse un titolo di nobiltà autentica, fanno fortuna. Ah! Se Balzac lo avesse conosciuto, il Bar! il fiore più sfacciato della società contemporanea, quali effetti di carattere ne avrebbe cavato nella sua Parigi per coronare il dramma, il disordine, il divenire, la rivoluzione permanente, la fabbrica delle classi sociali, il movimento perpetuo, un libro umano di Balzac al posto di questa bassa cronaca del «Boeuf sur le Toit» scritta da un miserabile rifiuto che credeva di saper scrivere bene, Maurice Sachs, dove non c’è niente, ma proprio niente, neppure delle parole, mentre si può dire tutto con le parole, ed avere un po’ di genio. L’epoca del «Boeuf» è ancora da raccontare. Chi lo farà? Certamente non Cocteau il quale, se possiede le parole e lo spirito della parola, non avrebbe il genio per mettersi al disopra di una causa nella quale sarebbe al tempo stesso giudice e parte interessata. [...].

 

 

  Gianfranco Contini, Un paragrafo sconosciuto della storia dell’italiano letterario nell’Ottocento, «Paragone-Letteratura», Anno I, n. 12, 1950, pp. 3-13.

 

 

  Carlo Cordiè, Honoré de Balzac, in AA.VV., Annuario dei centenari, Milano, La Cultura Editrice Libraria, 1950, pp. 28-38; 1 ill.

 

  Nacque a Tours il 27 floreale a. VII (20 maggio 1799), il giorno di S. Onorato, da Bernard-François Ballsa, di famiglia meridionale originaria di Nougairié (Tarn), nella Francia meridionale, famiglia che egli intese più tardi nobilitare con l’aggiunta di un “de”, e modificandone il cognome. Dal 1807 al 1813 studiò al Collegio degli Oratoriani di Vendôme, facendosi notare solo come un ragazzo pigro ed addormentato, senza grandi promesse di riuscita. Trasferitosi a Parigi con la famiglia, ed iscrittosi alla Sorbona ai corsi di giurisprudenza, iniziò contemporaneamente la pratica legale presso Guyonnet de Merville, e quindi presso un notaio della rue du Temple. Ma l’insofferenza dimostrata in questo impiego, ed il suo scarso rendimento, convinsero i genitori ad assecondarlo nel suo desiderio di darsi alla letteratura; rimase così confinato, per oltre due anni, nella più squallida miseria, in una stanza di rue Lesdiguières, mentre la sua famiglia attendeva la nascita del capolavoro. L’esito d’una tragedia, Cromwell, nel 1821 fu veramente disastroso, ma B., invece di abbattersi si dedicò con maggior fervore al lavoro, componendo romanzi fantastici, e di intonazione atrocemente tragica, in gran favore presso i lettori. In questo periodo iniziò la sua relazione con Madame de Berny, la “Dilecta” che seppe non solo fargli conoscere l’amore, ma avere per lui ogni affetto di madre e di sorella e, con illimitata fiducia nel suo genio, confortarlo e spingerlo a scrivere anche nei momenti più tristi e scoraggianti. Finanziato da lei, Balzac comprò una stamperia, associandosi poi col tipografo Barbier, e dette alla luce diverse edizioni, tra le quali opere di Molière e di La Fontaine. Ma gli affari furono tutt’altro che vantaggiosi, e l’acquisto di una fonderia di caratteri, lungi dal risolverla, peggiorò la situazione finanziaria. Pieno di debiti, ed alla ricerca disperata delle somme necessarie, si rimise a scrivere e, nel 1829, ottenuto finalmente un vero successo con la Physiologie du mariage, si buttò a corpo morto nel suo lavoro, passando da un libro all’altro, lavorando infaticabilmente ore ed ore, non curandosi d’altro che delle sue opere. Qualche impresa finanziaria lo attirò ancora, ma senza successi; nel 1835 tentò la carriera politica, ma subito la abbandonò; coltivò buone amicizie con i letterati del suo tempo, con V. Hugo, Th. Gauthier (sic), George Sand; non col Sainte-Beuve, di temperamento troppo diverso dal suo. Amicizia sentimentale ebbe con la sorella Madame de Surville e con Zulma Carraud; amò intensamente, dopo la De Berny, morta nel 1836, Madame de Castrie (sic), ma soprattutto la contessa Evelyne de Hanska, la “Straniera”, con la quale iniziò fin dal 1832 una fitta corrispondenza. La conobbe più tardi a Vienna, nel 1835. Alternò le sue fatiche di scrittore con frequenti viaggi, anche in Italia, a Genova dove fu nel 1832, tornandovi nel 1837 e nel 1838. Rimasta vedova la Hanska, viaggiò per l’Europa, sempre cercando di potersi con lei unire in matrimonio, e nel 1847 e nel 1849, rimase un po’ di tempo in Ucraina. Solo il 14 marzo 1850 la “Straniera”, vistolo irrimediabilmente condannato dal male che lo logorava per il troppo intenso lavoro degli anni precedenti, lo sposò a Berdycev. Tornati insieme a Parigi, pochi mesi dopo B. vi moriva, il 18 agosto 1850.

  Vastissima è la produzione di B.: 10 volumi di Oeuvres de jeunesse, 6 lavori teatrali, i Contes drôlatiques in 2 volumi, qualche centinaio di articoli ed opuscoli, oltre ai 96 volumi della Comédie humaine. Egli stessi (sic?), dopo i primi successi, pensò di dare un titolo organico alla sua produzione, con la quale voleva toccare tutti gli aspetti della vita dell’uomo; dapprima pensò al titolo Études de moeurs au XIXe siècle, che doveva comprendere Vie de province, Scènes de la vie parisienne, Scènes de la vie politique, Scènes de la vie militaire, Scènes de la vie de campagne, Études philosophiques, Études analytiques. Ma più tardi, nel 1841, sembratogli troppo meschino il titolo per una sì vasta concezione, su di un (sic) spunto di Augusto de Belloy, preferì Comédie humaine. Tra le sue opere più riuscite ricorderemo, in ordine cronologico: Sur Catherine de Médicis (1828-’42, che esprime la concezione ideale di una perfetta regina); Les Chouans (1829, episodi della rivoluzione francese e della guerra civile in Bretagna); La Vendetta (1830, storia di un’eroica fanciulla córsa); Les proscrits (1831, storia del Medioevo italiano, nella quale figura Dante esule a Parigi); Le médecin de campagne (1833); Eugénie Grandet (1833, storia di un padre avaro); Le père Goriot (1834, storia di un padre che si avvilisce in una concessione continua ed esagerata alle figlie colpevoli); Gambara (1837, in cui si tratta della passione di un demente per la musica); Illusions perdues (1837-’43, illusioni di un giovane poeta che da esse viene sospinto al suicidio); Massimilla Doni (1839, immagine di un’Italia abbandonata ad una lunga schiavitù e mossa a manifestare le sue passioni attraverso l’amore e la musica); Un ménage de garçon (1840-’42, storia di un ex-ufficiale napoleonico spinto al male dalla miseria); Une ténébreuse affaire (1841, scene di vita politica e poliziesca); Les paysans (1844, scene di politicanti, usurai, banchieri, schiavi del denaro); La cousine Bette (1846, storia di una zitella inacidita e colma di livore verso i suoi parenti più fortunati); Le cousin Pons (1847, storia di un collezionista, focolaio di odi e delitti).

 

  Oeuvres, Parigi, 1855, voll. 20; Oeuvres, éd. definitive, Parigi, 1869-'76, voll. 24; Oeuvres, éd. déf., Parigi, 1885-‘95, voll. 52; Lettres à l’etrangère in «Revue de Paris», 1894-‘98; Oeuvres, éd. du centenaire, Parigi, 1899, voll. 55; Lettres à l’etrangère, Parigi, 1899-1906, voll. 2; Oeuvres, éd. critique, Parigi, 1912, segg., voll. 40.

  Per il periodo anteriore al 1830, vedasi W. H. ROYCE, A Balzac Bibliography, Chicago, 1930, voll. 2; ma si tengano presenti anche: H. TALVART et J. PLACE, Bibliographie des auteurs modernes de langue française (1801-1927), t. I. Parigi, 1828, p. 145-199, e H. P. THIEME, Bibliographie de la littérature française de 1800 à 1930, t. I, Parigi, 1938, p. 83-98. Si aggiungano: J. MERCIER, Etat présent des études françaises sur H. de Balzac, «Cahier de Neuilly», II, Parigi, 1942, e S. DREHER et M. ROLLI, Bibliographie de la littérature française 1930-’39; Complément de la bibliogr. de H. P. Thième, Lilla-Ginevra, 1948, p. 20-23. Tra le opere successive ricorderemo: M. BARDÈCHE, B. romancier, Parigi, 1940; G. MAYER, La qualification affective dans les romans d’H. de B., Parigi, 1940; Ph. BERTUALD (sic), B. et la religion, Parigi, 1942 e B., l’homme et l’oeuvre, Parigi, 1946; A. BILLY, Vie de B., Parigi, 1944, voll. 4.

  Il saggio di B. CROCE su B. si trova nel volume Poesia e non poesia, Bari, 1925, e rist. Per il Balzac di E. R. CURTIUS si veda anche la trad. fr. di H. Jourdan, Parigi, 1933.

  Nell’attesa del centenario della morte molti studi vengono attualmente editi in Francia; ricordiamo: A. BELLESORT, B. et son oeuvre, Parigi; L. ARRIGON, Les amies romantiques de B., Parigi; L. ARRIGON j., Les débuts littéraires d’H. de B., Parigi; A. BEGUIN, B. visionnaire, Parigi; VAN DER PERRE, Bibliogr. des véritables originales d’H. de B. publiées en Belgiques (sic), Parigi; A. ARRAULT, Madame de Berny, Tours; A. ARRAULT, Madame Hanska, Tours.

 

  L’immensa fortuna goduta dal Balzac in tutto il mondo, come si è manifestata agli occhi degli studiosi in occasione delle celebrazioni del 1949 per il 150° della nascita, ha modo di consolidarsi. Più pacatamente per l’anno successivo che degnamente commemora ad un secolo di distanza la dipartita dello scrittore. Intanto, passato il periodo quasi obbligatorio delle commemorazioni fatte in più Paesi (ed hanno avuto il pretesto, anche in terre lontane per rievocare la storia di Francia), è ovvio che la miglior cosa da fare in onore del Balzac è quella di chiarire alla mente di tutti – con osservazioni, note critiche, antologie e fin traduzioni – alcuni concetti indispensabili per non ripetere errori di valutazione e di gusto che, nel passato centocinquantenario, hanno avuto debito rilievo nelle gazzette, nelle conversazioni e nei libri.

  Dinanzi alla formidabile compagine (e formidabile è un’espressione francese che una volta tanto si può accogliere senza riserva) della Comédie humaine il primo pensiero del lettore è quello della meraviglia per tanta “realtà” trasposta nell’opera d’arte. Già che gli stessi manuali di storia letteraria hanno fatto buon profitto delle intenzioni dell’autore espresse nell’Introduzione al suo lavoro quando gli furono chiari nella mente il disegno e l’entità, e quindi definiscono il Balzac come un romanziere della società francese della Restaurazione e della Monarchia di luglio quasi fosse un Buffon delle patrie lettere, è evidente che la definizione di scrittore realista sia stata presa nel suo valore più crudo, quasi come quello di un dagherrotipista della vita quotidiana, un fedele riproduttore di sembianze e di ambienti, insomma il portavoce di un dato mondo che meritava di essere fissato per sempre in una propria cornice storica. Da questo atteggiamento dei lettori e dei critici si origina un secondo preconcetto che non ha ancor fatto il suo tempo: quello di un Balzac che, fedele descrittore di caratteri umani e di periodi storici, si trasformava nel romanziere più rappresentativo della sua epoca, perché faceva parlare le cose stesse, raccoglieva l’eco di più ambienti sociali, fissava or questo or quello spaccato di una società in evoluzione e simili. Qualche altra volta si aggiungeva a queste idee non perfettamente giuste intorno al[l]’arte e al mondo del Balzac anche una comune opinione dei molti lettori che (non bisogna dimenticarlo) si gettano sui libri di lui per trovare un appagamento a segrete illusioni di vita e fin un balsamo a desideri rientrati per le colpe della società: quello che nello scrittore di Tours la parte più pura fosse proprio il sentimento allo stato schietto, non complicato da formule letterarie ma espresso nella piena delle passioni attraverso l’ampia visione di un romanzo, anzi di un ciclo di romanzi. Tutte queste interpretazioni unilaterali e quindi non pienamente valide (e ora da noi contraddistinte quasi per antitetici modi al fine di mostrarne la labilità) continuano a fomentare in molti un gusto che avrà la sua ragion d’essere in sede psicologica, se non proprio in sede storica: che nel Balzac ci sia un gran repertorio di caratteri umani tenuto in serbo per le crisi di tutti i tempi e i relativi disillusi e vinti della vita. Sembra per altro una necessità il concludere che tra le numerosissime opere che di rado sono conosciute e giudicate nella loro complessità è ormai giunto il momento di “fare il punto”, rendendo di comune dominio — intendiamo, quanto al gusto del “saper leggere” — i giudizi dei critici più avveduti.

  Quanto a costoro non è nemmen detto che debbano tutti essere cattedratici o che di proposito esaminino l’autore con tutti gli elementi abituali ad un’indagine completa: un’illuminazione decisiva può essere contenuta anche in un apprezzamento fugace, ed un giudizio sostanziale anche per i posteri sfugge talvolta — fin in una conversazione — ad un uomo di genio, o ad un lettore di gusto che giudica i libri per quello che offrono, non per la firma illustre che recano. In merito agli uni e altri noi siamo abbastanza fortunati: e non solo come giunta alla derrata il lettore provveduto può aggiungere critici che dalla stessa cattedra hanno esaminato con la dovuta attenzione di storici e di uomini di società la ricca e già sconcertante testimonianza di uno scrittore quale il Balzac. Cercheremo qui pertanto di divulgarne alcune osservazioni, da ritenere non inutili per un’introduzione all’autore.

  Per prima cosa (e questo a causa dell’erronea valutazione del realismo nella superfetazione polemica del successivo naturalismo e di altre scuole) va bandita l’interpretazione di un Balzac che riproduce fedelmente tutti gli ambienti della società del suo tempo e quindi si stacca dalla tradizione francese per una caratterizzazione di ambienti e di tipi tutta nuova. Non ha mai facilitato la lettura di Balzac (e tanto meno delle raccolte di “Tout Balzac”, recentemente realizzate fin negli eleganti tomi della “Pléiade”) l’inconsulto disdegno di una definizione fatta dal Baudelaire: che l’autore di Eugénie Grandet e della Peau de chagrin fosse un visionario. Abbandonando gli schemi di una facile concezione del realismo (anche in troppo ovvia opposizione ad un romanticismo di maniera) è opportuno seguire la critica che fino ai giorni nostri ha illuminato il mondo del Balzac con acutezza ed equilibrio insieme, e cioè, per indicare le pagine più suggestive, bisogna pensare al Croce, che nel saggio raccolto in Poesia e non poesia ha messo in bella evidenza quel tendere allo straordinario che fu sempre dello scrittore e ad Ernst Robert Curtius che, nella sua monografia, ha addirittura accentuata la sua interpretazione sui motivi del “visionario”. Per quest’ultima strada è andato il Béguin. Indubbiamente, se il Sainte-Beuve notava con somma facilità nella sua “bestia nera” i difetti di composizione e di stile, mentre si lasciava sfuggire proprio il lato più singolare di una concezione del mondo, aveva ragione il Baudelaire nel notare come l’”ardeur vitale” del romanziere si diffondesse nelle sue stesse creature e quindi ne caratterizzasse i motivi più salienti.

  D’altra parte, se è già discutibile che un romanziere possa essere il fedele descrittore della sua epoca (quasi a lui fosse dato di tramandare ai posteri una “bouteille à la mer”, suggellata con tutti gli aromi dell’arte), è arduo a maggior ragione trovare nel Balzac proprio il documento più probatorio di un trapasso da una società all’altra. Che la Comédie humaine sia un enorme serbatoio di caratteri e, “sub specie” della creazione artistica, una trasfigurazione apocalittica degli uomini e delle cose che vanno dal regno di Luigi XVIII alla Monarchia borghese, dal legittimismo vagheggiato ad un certo momento come salvezza della Francia alla passionale e travolgente frenesia degli affari e della società di Luigi Filippo, presto bersaglio agli strali di Louis Blanc, è anche vero, sol che si intenda il contributo dell’artista alla comprensione che di un’età storici e politici devono pur fare con l’occhio fisso alla realtà delle cose, non alla deformazione suggerita da un temperamento assoluto di creatore. Nel qual caso è facile dire che la società ad uno Stendhal come ad un Balzac, ad un Baudelaire come ad un Flaubert offre gli stessi elementi di giudizio: quel che conta, quanto all’arte, è rendere armonicamente una propria visione del mondo in cui uomini e cose divengono segni, simboli. Vigny e Musset romanzieri insegnino.

  Quanto alla pretesa di considerare il valore del Balzac come scrittore sentimentale lasciamo agli ammiratori del solo Lys dans la vallée la cura di fortificare le loro impressioni con qualche altra lettura più corroborante, e comunque di misurare le altre opere come troppo diverse e quindi insufficienti per rendere appieno l’immagine dell’autore romantico. Poiché, a dir intera la verità, la forza del Balzac fu pur tutta ispirata da quel movimento che si chiama appunto romantico, ma non per le strette ragioni episodiche e sentimentali che taluni vorrebbero allegare alla loro ammirazione per il romanziere. Una lode al “lirismo” del Balzac dovrebbe essere profferita (e comunque anche questo fu fatto per bocca del Sainte-Beuve e del Croce) allo scopo di mettere in mostra alcuni difetti insiti nel mondo dello scrittore e non mai eliminati dalle stesse opere maggiori. Che simile atteggiamento scoperto e maldestro debba essere considerato come un indice di schiettezza artistica molto più di altri motivi costanti nell’opera del romanziere, è cosa che farebbe stupire se non fossimo abituati al trapassare delle mode letterarie e insieme al perdurare dei preconcetti più strani. Tale considerazione volta ad un Balzac “romantico” per eccellenza non è però molto distante da quella di un Balzac creatore di caratteri, anche per il voluto parallelo con Dante e la Divina commedia: tutto sta a intendere il valore di quest’altra definizione senza mescolare, ad un precedente giudizio o pregiudizio che sia, quello della realistica pittura della società.

  Forse sono più nel vero, per quel buon senso che non dimentica mai di saggiare in nuove letture le definizioni critiche per suggestive che siano, coloro che leggono la Comédie humaine come una vasta sinfonia composta da un temperamento allucinato e sensuale per eccellenza, e quindi non sempre capace di trasformare in armonia le sue visioni immediate della realtà; problematico e perciò incline a piegare nel quadro di una compagine posteriormente messa insieme anche quelle opere che erano state sentite nella loro piena libertà e indipendenza espressiva. Caratteristica questa, che si può riscontrare anche nell’interno di molte e molte opere e perfino in quelle che sono a buon diritto definite come capolavori, se indipendentemente dallo sviluppo dei singoli caratteri, per eccezionali che siano, l’autore cerca di svolgere fino in fondo una sua tesi prediletta, a scapito dell’armonia dell’insieme: si pensi alla caratterizzazione involontariamente caricaturale del padre Grandet in certe pagine del romanzo, secondo che il Croce — e non è solo suggestione sua — ha ben messo in luce accanto, si aggiunga, alle descrizioni esteriormente sentimentali ed esornative.

  C’è un pericolo, bisogna anche affermare, nel leggere Balzac con lo stesso metro con cui si misura un Ariosto o un Racine: ed è proprio quello di dimenticare la particolare formazione dello scrittore e quell’immissione violenta della realtà a lui contemporanea — o di quello che come tale egli giudicò — nell’opera sua, per una febbre, un sentimento di pienezza che immediatamente conquista. Proprio perché la sua fu un’esperienza completa di vita, i suoi libri per disorganici che siano hanno la vitalità delle cose più schiette della natura e dell’arte: non si tratta solo di una raffinatezza alimentata dalla meditazione di altri libri quanto piuttosto (per dirla modernamente col Dilthey) di un’esperienza di vita vissuta che adegua ogni visione della società contemporanea ai miraggi dell’uomo Balzac, ai suoi affari più o meno falliti, alle sue utopie incancellabili, alle sue speranze di una migliore esistenza per l’umanità tutta.

  Messo il lettore un po’ in guardia da alcuni preconcetti che ancora tengono il campo, sarebbe auspicabile l’impedirgli di formarsene altri solo coll’esagerare, portandoli alle ultime conseguenze, quei consigli alla lettura che da varie parti gli vengono porti da critici moderni. Sarà bene lasciare da parte il realismo inteso come chiave per valutare il mondo dei personaggi del Balzac, ma non è necessario considerare l’intera Comédie humaine come un’epopea di immagini surrealistiche ora con un Vautrin ora con un Rastignac ora col già citato Grandet ed altrettanti personaggi fantomatici (qui sarebbe parola acconcia) quasi al di fuori della trama in cui emergono, per dirla col De Sanctis a proposito della Commedia “divina”, come piramidi in mezzo al fango. In questo caso si finirebbe per vedere in Balzac solo l’abnorme, l’eccezionale, l’allucinato e simili. Sarebbe un ragionamento un po’ troppo esclusivo come quello (e pur fu di un autorevole critico letterario) che pretendeva che Balzac fosse privo del senso della natura e quindi maggiormente inserito nella tradizione francese per la pittura moralistica dei caratteri, lo studio dell’uomo e simili. Già che giuristi, tipografi, uomini d’affari, preti e politici hanno voluto vedere un Balzac a loro immagine e somiglianza, e questo coi testi alla mano, è pur necessario una volta tanto leggere il nostro autore ad apertura di pagina per entrare nel vivo della sua creazione non tanto per i propositi e la cornice complessiva quanto per le creazioni artistiche vere e proprie. Tanto meglio se si sente dire che il suo tallone d’Achille era proprio quello dello stile: vuol dire che, se l’opera del Balzac deve durare, sarà proprio per virtù della sua realizzazione d’arte quanto a dire mediante lo stile sarà necessario giudicarlo al lume di altre concezioni che non siano quelle tradizionali, visto che i più sostengono che Balzac scriveva male e via dicendo. Già che lo stile e l’uomo o qualcosa di simile significa che la visione caotica ma potente e disorganica di un Balzac richiedeva una “scrittura” tutta particolare collegata con l’impeto di una stesura senza vera elaborazione per un titanismo efficacemente rappresentato in alcuni personaggi di eccezione, capaci di trasformare in una nuova epopea cavalleresca quella che poteva anche essere il resoconto di una società borghese.

  Non resta che la lettura abbandonata e disinteressata di un narratore di alta classe quale il Balzac, non dimenticando che Manon Lescaut sola rimane di un’opera ciclica e che dei Rougon-Macquart molti libri si sono già dimostrati macchinosi, proprio mentre della più recente Recherche du temps perdu, per sinfonica e costruita che sia tutta l’opera, già spiccano a sè come capolavori A l’ombre des jeunes filles en fleur e altre “sezioni”. Vuol dire che, come Marx affermava del suo Kapital, non sarà difficile risalire dall’una all’altra parte, in modo da approfondire una visione, introdurre il proprio spirito ad un’esperienza tutta nuova, infine giudicare un’arte diversa da quella tradizionale più di quanto si creda. Così non sarà mai abbastanza detto — a cent’anni dalla morte non c’è bisogno di nasconderlo — che Balzac anziché messaggi alla posterità ha lasciato opere narrative che, dopo tutto, erano anch’esse state composte “ludicro more”: cercare “secundas intentiones” anche in pezzi dove la valentia dello scrittore si effonde con una compiacenza tutta particolare significa ignorare che, quando lo stesso autore dimenticava il primitivo disegno, o almeno la traccia di uno sviluppo regolare, e si abbandonava alla foga quasi fisica di descrittore fine a se stesso, la natura compiva l’opera come per l’intervento di un demone, sia che si trattasse di tempestare bozze nelle correzioni sia nell’immaginare nuove aggiunte che avrebbero potuto costituire a sè altri possibili sviluppi narrativi.

  Ma qui piace far presente come ancora una volta la vita entrasse violentemente nell’opera del Balzac, riempiendola di mille eterogenee cose, proprio come era avvenuto nella sua esistenza tra affari, amicizie, illusioni, raccolte di ninnoli, mobili, imprese di ogni genere, aspirazioni rientrate: e così conversazioni di umili, ambizioni di grandi, sofferenze di miseri, alterigie di potenti sono tutte considerate nel complesso di una scena dove ogni cosa ha una funzione, anche l’inutile descrizione di particolari indubbiamente fuori posto in un libro o la perorazione che non interessa tanto lo svolgimento di un romanzo quanto la consistenza delle confessioni dell’uomo e dell’artista Balzac. Nondimeno proprio per tale esuberanza di vita lo scrittore ha immesso nella sua opera l’immagine di una tale esperienza inconfondibile che senz’altro essa ha giovato a definire la sua arte. In tal senso il Balzac si può definire l’autore della Comédie humaine intesa nel suo valore ciclico, purché, intendendone le caratteristiche come una creazione poliedrica che conserva deformati cose e uomini di una società, non si consideri più lo scrittore negli stretti limiti di un romanziere “realista”.

  C’è ancora un’osservazione da fare, almeno per chi si deve avvicinare all’intera opera del Balzac: quella di distinguere i vari libri, o piuttosto i vari motivi dell’ispirazione dell’artista e considerare fin dove lo scrittore si è lasciato guidare dalla fantasia nel fervore della narrazione e dove invece egli si è sobbarcato un lavoro intellettualmente oneroso nel miraggio di una definitiva disquisizione dottrinale su argomenti filosofici o sociali. Non è detto che in questi ultimi lavori il Balzac sia scrittore meno notevole che nei romanzi dove le sue rievocazioni di figure e di ambienti sembrano più abbandonate al fascino ora dei ricordi ora dell’immaginazione. Tutto sta a cogliere nelle pagine più varie del Balzac il fascino della sua personalità, il carattere del suo stile: indipendentemente dai generi letterari lo scrittore che pur crede alla saldezza delle sue opinioni e discute spesso col tono di un vero e proprio pensatore, mostra lo sfavillio della sua pagina, l’arrovellarsi della sua immaginazione confusa ma potente in ogni sua manifestazione. Allo scopo di cogliere il tono di un Balzac di opera in opera il lettore deve essere alquanto abile, e proprio di fronte a chi era definito come realista può concedere il privilegio di essere un suscitatore di immagini, un evocatore di fantasmi. Nel qual senso si potrà accogliere anche un’altra volta la definizione di “visionario” data da chi come il compianto Focillon esaminava le opere letterarie del Balzac accanto ai disegni e alle caricature del Gavarni.

  Basterà, del resto, dar un’occhiata agli argomenti dei suoi primi libri per considerare il cammino del Balzac: se non fu proprio “dal romanticismo al realismo”, come sosteneva da onesto storico letterario proprio il Lanson, lo si può considerare almeno tra quelle due province delle lettere. Tutto sta ad intendersi sul valore concreto delle definizioni critiche, e non solo sulla praticità delle suddivisioni delle scuole e delle tendenze.

  Ecco gli Chouans, del 1829. Il mondo della Vandea e delle sue lotte politiche è sentito nell’alone di Walter Scott e dei romanzi avventurosi che hanno, per intento, quello di suscitare un’epoca con descrizioni spesso esterne di personaggi e di ambienti. Ma già il Balzac mira alla pittura dell’uomo, e per questo lascia da parte il romanzo, per dir così, di colore, per addentrarsi nei meandri della psicologia: e perciò nel 1829 pubblica, dopo alcuni anni di rielaborazione, la Physiologie du mariage, dove le osservazioni intorno al matrimonio sono spesso acute, ma qualche volta paradossali e comunque grossolane, per importante che sia una visione nella vita in tutti i suoi ambienti e insieme un giudizio sui caratteri rappresentativi in funzione della soluzione sociale dell’amore. Si riallaccia a questi esercizi filosofici e comunque alquanto dissimili dai lavori più strettamente narrativi intorno alla società, un gustoso “pastiche” quale quello dei Contes drôlatiques che testimonia un interesse per gli ideali e i costumi del Rinascimento e nello stesso tempo raccoglie la finzione di un mondo reso linguisticamente con tulle le raffinatezze di una lingua arcaica, desunta da testi e dizionari: a cominciare dal titolo si nota il gusto tutto sensuale del Balzac verso un mondo di libertà e di spensieratezza che non vuol essere molto distante da certi toni boccacceschi dell’Heptaméron o piuttosto da alcune allegre e grandiose raffigurazioni del Gargantua et Pantagruel: tanto più che c’è posto per parlare di qualche avventura de “curé de de Meudon”. Leggiamo insieme tale titolo tanto è caratteristico: Les cent contes drôlatiques colligez ès abbaies de Tourayne et mis en lumière par le sieur de Balzac, pour l’esbattement des pantagruelistes et non aultres.

  Ma il lettore cercherà subito romanzi che apparsi fra il ‘31 e il ‘42 (anno in cui fu trovato il titolo definitivo di La comédie humaine) testimoniano in pieno la potenza creativa del Balzac, la sua facilità nello sbozzare caratteri e quindi nell’amplificarne di pagina in pagina, con un crescendo che ha pur le sue sorgenti in una grande abilità “retorica”, i motivi più sintomatici: e questo fino alla caricatura e all’involontaria deformazione. Basta aprire La peau de chagrin, dove compaiono tendenze ad un mondo misterioso che avrà in seguito nuovo sviluppo e Le médecin de campagne, così largo di descrizioni di ambienti; e quindi Eugénie Grandet e Le père Goriot. Il lettore è già in contatto, specie con questi due ultimi libri, col maggiore Balzac, che ben presto concepisce la stesura dei suoi romanzi nel suo valore ciclico e quindi, a cominciare dal padre Goriot, già ama a rimettere in scena i diversi personaggi. Di qui ancora è facile il passaggio alle varie suddivisioni della Comédie humaine, per cui Le père Goriot viene a far parte delle Scènes de la vie privée e Eugénie Grandet delle Scènes de la vie de province (tra cui bisogna almeno menzionare per le sue caratteristiche di romanzo sentimentale Le lys dans la vallée, già da noi ricordato).

  A questo punto lo scenario della vita francese rappresentato dal Balzac sembra allargarsi in modo straordinario con la sezione delle Scènes de la vie parisienne dove c’è tutto un brulichìo di passioni e di interessi svariatissimi che, d’opera in opera, rimangono incancellabili nella mente del lettore, dall’Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau, del ’37, al Cousin Pons di dieci anni dopo, senza dimenticare romanzi intermedi come Les employés o La cousine Bette. Per farraginosa che sia la composizione del Balzac, sono evidenti in ogni libro la robustezza della concezione iniziale e quindi l’intrecciarsi di più motivi, dalla descrizione della società francese in uno dei più importanti trapassi di regime all’esame della vita delle varie classi e delle professioni e infine alla creazione di veri tipi rappresentativi. Famiglia, ambiente, leggi sociali sono pur quegli elementi che appunto il Taine lodava come sovranamente fusi nella narrazione del Balzac in una visione appassionata di tutta la realtà quotidiana: e non si dimentichino le particolari idee dello scrittore intorno alla politica e alla religione in modo da formare un quadro abbastanza omogeneo fra la sua vita realmente vissuta e quella vita immaginata febbrilmente fra affari e successi nello sfondo di una Parigi e di una Francia in trasformazione. Forse le stesse letture del Balzac — dal fisiognomico Lavater al mistico Swedenborg — e l’interesse per le conquiste dell’industrialismo del secondo ventennio dell’Ottocento hanno suscitato nello scrittore il desiderio di precorrere lo stato di una società futura descrivendone, quasi come un medico farebbe con un bisturi in mano, vizi e virtù nell’attesa di una palingenesi. Per tale atteggiamento profetico il carattere del Balzac non è molto lontano da quello di un immaginifico o meglio di un visionario, con tutte le attenuazioni del termine in relazione ad una fantasia particolare quale fu la sua.

  Grandioso nella sua concezione, disorganico nelle rappresentazioni particolari e nelle opere che potrebbero formare un tessuto connettivo tra i vari capolavori, acutissimo nell’esaminare le varie professioni sociali, lento e qualche volta sordo nel mostrare le vere molle dei sentimenti e delle passioni, il Balzac eccelle nella caratterizzazione di alcuni personaggi: talmente sentiti come tipi che in loro l’umanità, nel bene o nel male, sembra deformata in una visione che non ha più alcun contatto con la vita quotidiana e talora ogni loro gesto sembra stagliarsi in una astrazione incredibilmente allucinata. D’altra parte, come la critica ha più volte fatto notare, proprio in merito ad una fantasia febbrile un Vautrin e fin un Goriot hanno potuto trovare la consistenza drammatica della loro creazione in cui gli elementi romantici per eccellenza sono trasfigurati in un racconto tutto intriso di motivi della realtà, per deformata che sia sotto lo sguardo dell’artista, sempre robusto nel fissare in un modo indimenticabile aspirazioni, contrasti, crisi di società.

  Lo scrittore con la sua opera — oggi più viva che mai nella grandiosità della sua compagine e nella schiettezza di alcuni capolavori — è tanto presente nella letteratura contemporanea che divide con pochi altri romanzieri il vanto di aver precorso slanci e angosce di una società uscita dall’“ancien régime” ma pressoché incapace di costruirne uno nuovo, e va dunque inteso nel suo più puro valore di artista al di fuori del particolare interesse suscitato da questo o da quel motivo polemico, da questo o quel personaggio rappresentativo. Potentissimo nel tratteggiare una figura (e si veda per il teatro quella di Mercadet) il legittimista Balzac ha steso l’epopea della borghesia che sa da dove viene ma non sa — fra tanti rivolgimenti — dove va. Nel sogno di un mondo in cui la forza e la virtù si mescolano con il male e l’astuzia — proprio per non dimenticare le leggi che regolano la storia — sta il potere di trasfigurare il reale che è tanta parte dell’opera del Balzac romanziere e moralista: ma se un limite è quello del realismo ottocentesco in cui si vorrebbe fissare tanta personalità di creatore, non resta meno da ricordare che proprio da tale atteggiamento d’arte e di cultura egli ricavò — con una forza che ha dello straordinario — gli elementi per procedere oltre.

 

 

  Benedetto Croce, Balzac, in Poesia e non poesia. Note di letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Laterza editori, 1950, pp. 240-251.

 

  Cfr. 1921 e 1935.

 

 

  Gino Damerini, Balzac e i “Promessi Sposi”. Un fattaccio antimanzoniano, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 161, 8-9 luglio 1950, p. 3.

 

  In casa della contessa Soranzo, a Venezia, il grande scrittore francese disse corna del collega italiano e fu rimbeccato violentemente da Tullio Dandolo.

 

  Fino a che punto furon vere le accuse mosse a Balzac di aver malamente misconosciuto il pregio dei Promessi sposi: fino a che punto fondate, perciò, le diatribe che ne scaturirono? Siamo già nel pieno delle celebrazioni centenarie della morte, così triste e drammatica, del grande romanziere e critici e biografi s’affannano, in Francia e altrove, a proporre, con una incessante fioritura saggistica, vecchi e nuovi problemi sul suo conto; possiamo riproporci noi quello che riguarda il rude apprezzamento sul Manzoni e la condanna in blocco del romanzo e dei romanzieri italiani del tempo, D’Azeglio e Grossi in testa, apprezzamento e condanna che ebbero, intanto, questo di increscioso e di antipatico che furono pronunciati mentre l’autore della Comédie humaine stava godendo la ospitalità del nostro Paese.

  Le vicende dei viaggi di Balzac in Italia vennero ricostruite e ripetutamente narrate da parecchi scrittori nostri; Raffaello Barbiera ne trattò fra i primissimi nel «Salotto della contessa Maffei»; Giuseppe Gigli ne tracciò in un volume la cronologia aneddotica; e non è davvero il caso di pensare a riassumerle. Un primo contatto con Genova, Balzac l’ebbe nel 1832 e molto gli piacque la prestigiosa città ligure, sebbene poi, tornandovi, la trovasse noiosa; a Torino scese nel ’36, nel ‘37 a Milano, a Venezia, a Firenze, di nuovo a Genova; nel ‘45 e nel ‘46 si spinse a Roma e a Napoli per incontrare ed accompagnare la figlia di Madame Hanska; ed è proprio nelle lettere alla Hanska che rivivono confidenzialmente le impressioni suscitate in lui dalle nostre citta. Di tutte egli è pronto a cogliere con sensibilità spontanea poco turbata o predisposta, cioè, da anticipazioni culturali, i particolari caratteristici della bellezza monumentale; ma soprattutto lo esaltano Roma, che egli vorrebbe conoscere pietra per pietra, e Venezia che lo incanta e gli sembra una creazione umana senza confronti.

 

Il piacere di “bluffare”.

 

  E’, appunto, a Venezia che accade il fattaccio antimanzoniano. Ovunque vada, l’arrivo, il soggiorno, i movimenti di Balzac sono annunciati e seguiti con lunghi articoli densi di ghiotte notizie, dai giornali che ne celebrano il genio. Tutti lo vogliono, tutti lo festeggiano. Come già a Milano, così ora a Venezia, il meglio della società intellettuale lo circonda, se ne impossessa, lo vezzeggia, lo lusinga, lo seconda nella sua vanagloria ingenuamente ma boriosamente rodomontesca: ne ascolta compiaciuta e credulona le vanterie e le invenzioni, gli fa credito di tutto, tutto da lui accettando come dalle labbra di un oracolo. Lo scrittore, in sostanza, si diverte a bluffare, in mezzo a tanta gente così ben disposta, con lo stesso spirito canzonatorio con cui a Parigi prendono in giro la provincia e i provinciali: racconta ampiamente e con sussiego di sé e degli altri letterati francesi e naturalmente non perde occasione per diminuire gli altri in confronto a sé. Quando gli chiedono, per esempio, qualche cosa di Victor Hugo immagina di ammazzarlo misurandolo col metro dei profitti professionali e notando che non guadagna più di venticinquemila lire all’anno, mentre a lui la sua opera gliene rende centinaia, senza peraltro, confessa, che bastino alla sua vita di nababbo. Una sera la contessa Soranzo del ramo di San Polo, che abita un sontuosissimo e frequentatissimo appartamento sopra piazza San Marco, invita i suoi amici a un pranzo in onore dello scrittore. Di che si deve parlare, per accontentare l’ospite, tra un boccone e l’altro, se non di letteratura? Ed ecco che all’allesso qualcuno ha la bislacca idea di condurre il discorso su quella italiana: peggio, di chiedere al nume che cosa ne pensasse. Balzac, che fino a quel momento aveva badato a mangiare di gusto le buone vivande che gli ponevano davanti, non ebbe, pare, peli sulla lingua e ne disse corna: e all’udire certi strani apprezzamenti su Manzoni che sarebbe stato lo Chateaubriand d’Italia o su Chateaubriand che sarebbe stato il Manzoni di Francia, per non far torto a nessuno ridicoleggiò con qualche barzelletta Chateaubriand ed espose il suo pensiero su Manzoni dicendo «fiacco» il tessuto dei Promessi sposi i quali dovevano la loro fortuna, da noi, all’attrattiva dello stile, ragion per cui non reggevano alle prove delle traduzioni. Quanto al Marco Visconti o all’Ettore Fieramosca si trattava, manifestamente, di imitazioni che non valeva neppur la pena di leggere.

 

Un articolo violento.

 

  Fu il poligrafo e patriota milanese Tullio Dandolo a rivelare, dopo aver rimbeccato violentemente il romanziere dandogli sulla voce dal capo opposto della tavola, con una lunga lettera satirica pubblicata sulla Gazzetta di Venezia i particolari della incresciosa discussione seguita a quelle affermazioni e troncata a un certo punto con amabile ma ferma diversione dal tatto della padrona di casa. La violenza dell’articolo sprigionò una polemica — dilagata sulle colonne di numerosi fogli — che si protrasse abbastanza a lungo con un palleggiamento dì altre censure e di difese volonterose, le quali infastidirono probabilmente Balzac, giustificando l’antipatia ed accresciuto il risentimento che, in genere, egli nutriva per i giornalisti, diffidandone. Il suo frettoloso giudizio fu, ben presto, sulla bocca di quanti si interessavano di lettere, e la curiosa polemica animò per parecchio tempo le dispute dei cenacoli, senza che si conoscessero le reazioni intime dei maggiori interessati; poi le acque si chetarono. Ci guarderemo dal resuscitare oggi gli argomenti coi quali i due partiti contrari, balzachisti da una parte, manzoniani dall’altra, si combatterono; su una cosa, almeno, gli uni e gli altri pur essendo di parer opposto si sbagliarono unanimi; e fu quando per rafforzare la propria tesi sostennero che il successo e la gloria dell’idolo dell’avversario non sarebbero durati oltre il favor della moda.

 

 

  G.[ualtieri] Di San Lazzaro, Commemorazione del “nobile sobborgo”. I negozianti parigini sono riconoscenti a Balzac, «Il Tempo. Quotidiano indipendente del mattino», Roma, Anno VII, N. 267, 27 Settembre 1950, p. 3.

 

  Molti discorsi, alcuni numeri speciali di settimanali e riviste, un mite pellegrinaggio a Tour e altri luoghi balzacchiani, la pubblicazione, secondo una cronologia interiore, di tutte le opere edite e di un volume di frammenti di romanzi appena abbozzati: non si può dire che il centenario della morte dell'autore della Comédie Humaine sia stato fiaccamente commemorato dalle autorità e dalla gente di tavolino.

  I negozianti di Saint-Germain-des-Près hanno però voluto fare qualcosa di più. Ricreando alcune delle più celebri pagine e dei più famosi personaggi della Comédie, gli antiquari della via Jacob, della via Bonaparte, della via des Saints-Pères, le modiste, i parrucchieri, i librai del boulevard Saint-Germain, le cartolerie della via di Rennes, hanno dedicato a Balzac per alcune settimane le loto vetrine, con un gusto che raramente hanno dimostrato gli illustratori di una delle opere fondamentali del nostro tempo, sebbene, da Gavarni a Picasso, siano quasi tutti artisti di grande ingegno o per lo meno di grande fama.

  La sola che ci sia spiaciuta è la vetrina escogitata da una grande libreria, la quale, ai personaggi della Comédie ha voluto dare le sembianze degli scrittori più noti ai camerieri dei due caffè letterari del Boulevard, i «Deux Magots» e il «Café de Flore». Troppa pubblicità è già stata fatta dai giornali ai poeti e romanzieri che sui loro colleghi non hanno che il merito di prendere il caffè all’ombra della mitica abbazia. Ma è generalmente pubblicità scandalistica, fatta a spese della loro vita privata. Sfruttare anche il centenario di Balzac per la gloriolia di alcuni sia pur simpatici pennaiuoli, è parso eccessivo anche ai turisti anglosassoni che di Saint-Germain-des-Près hanno fatto, come altre volte abbiamo già avuto occasione di dire, una loro libera cittadella.

 

Commercio e letteratura.

 

  Ben altro amore e conoscenza dell’opera di Balzac hanno ridato i negozianti del quartiere. Certo, il commercio parigino deve molto a Balzac, che gli ha spalancato le porte della letteratura, nobilitandolo. «Un paio di guanti acquistati da Boivin — non esita a scrivere l’autore delle Illusions perdues — bastano a un uomo per regnare in un salotto». Fu lo stesso Balzac a scoprire che il prestigio di un negozio, l’abilità di un sarto, di in calzolaio, di un orefice, erano indispensabili alla felicità dell’esistenza. Erano indispensabili soprattutto al mito di Parigi, di cui egli fu uno dei primi assertori. Senza i pantaloni di Buisson, di Staub, in casimira nera o in un bel drappo bianco inglese, un dandy non poteva sperare di faire une femme, di sedurre una donna. Era l’epoca in cui non gli uomini ammiravano le gambe delle donne, ma le donne quelle degli uomini: il pantalone morbido e aderente era per gli uomini ciò che oggi è per la donna la calza. E poiché senza il sorriso di una donna la vita non aveva senso, Balzac non poteva rifiutare a Buisson e a Staub quanto era loro dovuto.

  Era giusto pertanto che il commercio parigino partecipasse alla glorificazione dell’uomo da cui aveva ricevuto le sue vere lettere di nobiltà, dello scrittore che aveva concepito i suoi personaggi fra i suoi fornitori e non più, come i romanzieri che l’avevano preceduto, fra le meraviglie della natura. Inoltre, commemorando Balzac, i negozianti esaltavano le loro fatiche. Rievocando Eugénie Grandet, la cousine Bette, il cousin Pons, la Duchesse de Langeais o l’eroina del Lys dans la vallée, rivendicavano ciò che queste ed altre creature immaginarie dovevano agli oggetti reali di cui lo scrittore le aveva ornate. Dinanzi a certe vetrine, degne di un museo, non sapevano se ammirare di più il gusto o la ricchezza dell’arredamento, la fantasia o l’energia conservatrice di un popolo che nonostante tante guerre e occupazioni non ha rotto nè si è fatto rubare un solo bicchiere.

  Saint-Germain-des-Près non si è dunque sottratto al suo dovere, sebbene, dei quartieri di Parigi, sia quello forse che meno tracce ha lasciato nella Comédie Humaine. Il «nobile sobborgo» non era per Balzac «nè un Quartiere, nè una setta, nè un'istituzione, nulla insomma che potesse esprimersi». Non ci ha detto nemmeno dove abitasse la duchessa di Langeais. L’autore di Peau de chagrin non avrebbe amato la gioventù esistenzialista, alla quale avrebbe rimproverato di non nutrire nè passioni, nè ambizioni. E agli onesti negozianti del quartiere, troppo modesti per la sua sete di lusso, non avrebbe mai ordinato le sue scarpe, i guanti, i pantaloni, le camicie e le cravatte.

  Tuttavia nessun altro quartiere di Parigi può rivendicarlo come Saint-Germain-des-Près, dove, a un centinaio di metri dalla celebre abbazia, ai limiti del nobile sobborgo, persa ogni fiducia negli affari nei quali s’era lanciato con tanto entusiasmo, lo sfortunato editore concepì la Comédie Humaine. Senza la tipografia della via Visconti, Balzac non sarebbe mai stato Balzac. La via Visconti era già la più storica del quartiere. Racine vi era morto nel 1669 e molti altri illustri personaggi vi avevano vissuto. Un solo fabbricato della via Visconti non ha vero carattere, ed è proprio quello in cui Balzac, dopo il fallimento dei suoi primi tentativi letterari, divenne un giorno, a ventisei anni, tipografo ed editore. E’ il fabbricato più recente e impersonale, la cui costruzione richiese il sacrificio dei giardini nei quali l’illustre Nicolas Vauquetin de Yveteaux riceveva la bella e altrettanto illustre Ninon, menando insieme vita voluttuosa e clandestina. Quando Balzac, nel 1825, l’occupò con le cassettine caratteri mignone (sic), quasi invisibili e pesanti torchi, era stato appena ultimato. Al primo piano, sopra la tipografia, il futuro romanziere s’era riservato una cucinetta, una camera assai vasta e una sala da pranzo. Modestamente aveva fatto ricoprire le pareti di percalle azzurro.

  In quel freddò appartamentino egli riceveva la sera madame Laure Louise Antoinette De Berny, che «dopo quarant’anni di riflessione s’era convinta che solo il danaro contava, e s’era fatta mercante di avena, crusca, grano e fieno». Madame De Berny non era però soltanto una donna di affari. «Da quando mi son nate idee e sentimenti — confessava Balzac alla «Straniera», la bella polacca alla quale doveva poi offrire il suo nome — mi son dato tutto all’amore, e la prima persona che ho incontrato era un’autentica eroina che aveva un cuore angelico, l’intelligenza più acuta, l’istruzione più vasta, grazia e maniere perfette. La natura diabolica vi aveva messo il suo fatale ma. Ma essa aveva ben ventidue anni più di me».

 

La catastrofe.

 

  Donna di affari non riuscì a salvare Balzac, sebbene gli avesse prestato quarantacinque mila franchi, dalla catastrofe. Riuscì a salvare solo la fonderia di caratteri, che aveva contribuito a riscattare, e che affidò poi a uno dei suoi nove figli, di cui l’azienda porta ancora il nome. L’ultima delle imprese finanziarie di Balzac, sopravvisse così alla catastrofe.

  Nonostante le cure richieste da nove figli e da un marito sia pur compiacente, madame De Berny poteva dedicare gran parte dei suoi giorni e delle sue notti al giovane amante, che fu sensibile fortunatamente al suo influsso. Per essa, Balzac ha liberato l’amore dal pregiudizio della giovinezza, restituendolo alle donne di trenta e di quarant’anni. Prima di lui, le eroine dei romanzi avevano vent’anni. Fu madame De Berny a ispirare a Balzac quei sentimenti monarchici che sembravano inspiegabili in un uomo della sua condizione. Figlia di una arpista di Maria Antonietta, Laure Louise Antoinette era nata a corte e in nome del Re e della Regina era stata tenuta a battesimo da una duchessa e da un maresciallo di Francia. Fu facile alla vecchia signora introdurre il giovine scrittore nei circoli monarchici della capitale. Ma fu essa, soprattutto, a dargli quella conoscenza diretta dell’ancien régime, della Rivoluzione, dell’Impero che non avrebbe certo potuta trovare nei libri di storia. «Non c’è che l’ultimo amore di una donna che possa soddisfare il primo di un uomo», confessa, ricordando la dilecta De Berny, l’autore della Duchesse de Langeais.

  Dobbiamo pure pensare che madame De Berny abbia fatto di lui non solo un uomo, ma anche uno scrittore? «Tu vuoi fare il fatto vero — gli scriveva — coglierlo nella sua azione. Se il pubblico se ne rendesse conto, saresti perduto ...» E ancora: «Non puoi scrivere: l’ammirevole lotta del pensiero giunta alla sua più grande forza, alla sua più vasta espressione». Balzac, nei primi tempi scriveva maluccio.

  Tutto ciò che non poteva apprendere dalla voce di madame De Berny, nell’appartamentino tappezzato di percalle azzurra, glielo insegnava la vita nella tipografia sottostante, più frequentata dai creditori e dagli usurai che dai clienti. Senza la sua propria esperienza di uomo di affari, Balzac non avrebbe potuto scrivere César Birotteau e la Maison Nucingen, nè comprendere il meccanismo della finanza del suo tempo, intorno al quale gravitano i personaggi della Comédie Humaine. Quando il cugino Sédillot riuscì a sottrarlo al fallimento, dopo due anni di attività che erano bastati a indebitarlo per tutta la vita, Balzac era pronto a intraprendere la vera impresa della sua vita. E fu in una soffitta di Saint-Germain-des-Près, in via di Tournon, che terminò il primo volume, Les Chouans, prima di emigrare verso l’Observatoire e Montparnasse.

  Mai potè però dimenticare le alte e grigie muraglie dell’Accademia di Francia che gettavano ombre glaciali sino all’appartamentino di via Visconti e al labirinto di viuzze tutt’attorno, raramente sfiorate dal sole.

 

 

  Giovanni Drovetti, Centenario di un grande scrittore. Furono i troppi debiti che portarono Balzac a Milano, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno IV, N. 164, 13-14 luglio 1950, p. 3.

 

  Alla Scala fu accolto come un trionfatore e dovette firmare decine di album - Poi i duri giudizi sull'Italia e sui suoi poeti gli attirarono invettive e aspre polemiche.

 

  Or son cent’anni moriva il più indebitato di tutti gli scrittori, uno dei maggiori ingegni che possa vantare la Francia: Onorato de Balzac. Editore, stampatore, fonditore di caratteri non era nato per le speculazioni. Scrittore nato, scontava questa sua divina potenza con un ammasso di debiti che lo schiacciavano, lo obbligavano di lavoro e lo rendevano schiavo degli usurai, degli editori e di quanti si rendevano per lui mallevadori.

  Quando venne per la prima volta in Italia aveva duecentomila lire di debiti e si era nel febbraio del 1837. Egli tentava una diversione in Italia per sfuggire ai suoi più accaniti creditori. Tutti i motivi di vario genere che egli inventò per dimostrare che la politica e speciali missioni lo reclamavano a Milano, non erano che magre scuse.

 

Le dame deluse.

 

  Tutti i giornali milanesi ne salutarono con gioia l’arrivo, esaltando le opere già fatte e quelle che ancora erano sul telaio. Il grande romanziere deluse colla sua presenza le belle patrizie milanesi e le giovani dame.

  Piccolo, grasso, paffuto, rubicondo, con tanto di pancetta, se non avesse avuto un paio d’occhi scintillanti e una fronte vasta, lo si sarebbe scambiato per un “possidente” come si era iscritto sul libro dei forestieri. A Milano non si parlava che di lui. Tutti volevano vederlo, tutti volevano avvicinarlo e non mancavano i buontemponi che nei passaggi più affollati conclamavano con voce meravigliata: “Ecco Balzac!”, additando un uomo qualunque che ad un tratto diventava oggetto di una morbosa curiosità ed era costretto a tagliare la corda fra brusii e commenti poco benevoli.

  Famosa, quasi quanto lui, era la canna che egli portava con sè, una canna dal pomo tempestato di pietre preziose e con un reliquario nell’interno. Il reliquario celava una bellissima creatura che offriva le grazie di un perfetto seno: la gentildonna polacca Hanska che divenne sua moglie e morì nella più squallida miseria. Quando, durante il ballo “I promessi sposi”, apparve alla Scala, si badò più a lui che allo spettacolo. Passò corteggiatissimo di palco in palco ricevendo inviti su inviti. Tutti i salotti più in voga gli vennero aperti e le belle dame dell’aristocrazia gli furono prodighe di sorrisi, di moka e di frutta di cui era golosissimo. In compenso non beveva vino di alcuna sorta. Seduto fra le ammiratrici, scriveva sui famosi album, allora in voga, qualche preziosa frase, e dopo due righe di corte d’obbligo, si addormentava placidamente.

  “Quando dorme — commentava un giornale dell’epoca, almeno non fa della maldicenza!”. Non era privo di difetti poco simpatici che si perdonavano in virtù del suo genio. Mentre conversava accennava col capo continuamente di “no” e talvolta muoveva al riso appunto perché quel diniego era contrario a quello che asseriva. In certi istanti, mentre tutti guardavano a lui come ad un semidio e lo ascoltavano con la più lusinghiera attenzione, si stirava, si sprofondava sulla poltrona e s’incupiva come se fosse assalito da una improvvisa angoscia e non parlava più. Ormai si sapeva, e nessuno più gli rivolgeva la parola sino a quando non scendeva dal suo mondo fantastico fra i miseri mortali.

 

A lume di candela.

 

  Anche a Milano trovava il tempo di lavorare e vi iniziò “Les Mémoires de deux jeunes mariées” e penso ad una celebre commedia: Mercadet. Egli aveva accettata una stanza sul corso di Porta Orientale in casa del principe Alfonso Serafino Pavia (sic), e quando era in casa vestiva una tunica da certosino con cordoni ai fianchi e tanto di cappuccio e per scrivere accendeva due candele anche a giorno avanzato. Di tanto in tanto, per una singolare abitudine, guardava l’ora su un grosso orologio, un vero girarrosto che a mala pena trovava rifugio nel taschino del panciotto di seta, smisuratamente largo.

  Quando un borsaiuolo glielo portò via la polizia si adoperò in tutti i modi e riuscì ad arrestare il borsaiuolo e a riconsegnargli il famoso orologione. Milano non gli piaceva e sospirava il cielo di Francia. Quantunque non avesse nessuna simpatia per “I promessi sposi” si recò a fare visita ad Alessandro Manzoni a cui disse che sembrava in modo straordinario a Chateubriand (sic). Gli parlò dei proprii lavori, conversò sul panteismo e discusse sulla cranioscopia. Fece visita allo scultore Pompeo Marchesi e ad Alessandro Prettinatti (sic), celebre per le sue statuette di piccole dimensioni. Si recò a Brera, a Saronno per contemplare gli affreschi del Luini e tale era la sua ammirazione per il duomo che ogni giorno sostava a lungo davanti, estasiato.

  Si recò in quell’epoca anche a Venezia e fu ospite in casa della contessa Locanzo (sic). Fra gli invitati vi era il conte Dandolo col quale attaccò una violentissima lite parlando con disprezzo di Manzoni, di Tommaso Grossi, di Massimo d'Azeglio e del Guerrazzi. Venezia non gli dispiacque e si ripromise di tornarvi. Fece ritorno a Milano e quando se ne andò non lasciò un buon ricordo di sè, perché coi suoi giudizi sprezzanti sui nostri scrittori, suscitò malumori e giuste ire. I giornalisti specialmente non lo risparmiarono. La “Fama”, giornale teatrale abbastanza accreditato, senza nominare direttamente Balzac, eccitava la polizia a vegliare su quei poeti che senza un soldo in tasca viaggiano da artisti. Qualcuno conte Gaspare Aureggio citato dal Barbiera nei suoi mirabili libri sulla Maffei e in “Figure e figurine” lo difese e concluse: “Non potendo batterlo con lo penna lo lacerarono con i denti”.

 

Tre donne indimenticate.

 

  Il più accanito avversario del Balzac era il Lissoni che riportò le vergognose pagine del grande scrittore contro l’onore italiano e ricordò ai milanesi che molti dei patrizi vennero bistrattati nei suoi romanzi.

  Il Lissoni, da buon patriota e da buon milanese, scagliò contro Balzac invettive di fuoco. Quando lasciò Milano non fu molto rimpianto. Però non furono così presto dimenticate certe sue manie. Cultore del magnetismo e desideroso di fare degli esperimenti provava nascostamente su quanti s’imbatteva per riuscire a scovare il soggetto. Finalmente un lustrascarpe subì il suo fluido e negli ultimi giorni in cui rimase a Milano pagò il poveraccio perché subisse i suoi passi magnetici. Avrebbe voluto portarsi il lustrascarpe a Parigi; ma il povero giovane non ne volle sapere; adorava la sua Milano e del magnetismo non era entusiasta!

  Ad ogni modo fu Milano ad ispirargli “La fausse maîtresse”, “Une fille d’Eve”, “La vengeance” (sic), “La femme supérieure” e la commedia “La damoiselle des magasins” (sic).

  Il ricordo dei pomeriggi trascorsi nei salotti milanesi sotto il dardo degli occhi stupendi della contessa Bolognini, fra gli ammalianti sorrisi di Matilde Juva dilettante di canto e della poetessa Pezzi dai riccioli d’oro, non svanì tanto presto, come tante dame ricordarono spesso le frasi che egli colla sua spaventosa scrittura vergò sui loro album.

 

 

  Enrico Emmanuelli, Sogni e visioni in una piccola casa. La risata di Balzac, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VI, Num. 109, 9 Maggio 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 558.

 

  Lusso immaginario e grandi quadri in bianco - Corpulento, pasticcione, in ciabatte, il romanziere, in una cella quasi conventuale) inventava il suo mondo favoloso.

 

  Quest’anno Parigi celebra il centenario della morte di Balzac; ed i parigini sono contenti d’esser riusciti a salvare intatta una delle quattordici case abitate dallo scrittore. E’ quella di Passy, oramai stretta e nascosta tra palazzi recenti se non moderni; ed oggi vi si entra facilmente. Basta pagare quaranta franchi per essere poi autorizzati a fare i curiosi come meglio si vuole. Ma con Balzac vivo la faccenda era più complicata.

 

Creditori e amici.

 

  Allora, Balzac viveva in questa casa come una talpa può vivere nella sua tana. Alla porta di rue Basse, come si chiamava nel secolo scorso, era più facile che venissero a battere creditori esigenti, editori con poca pazienza e non gli amici. I primi si trovavano l’ingresso sbarrato da una specie di serva-padrona, che li rimandava, e se non riusciva a persuaderli dell’assenza di Balzac, prima di rassegnarsi a dire: «Possono entrare e così vedere se non dico la verità», lanciava un piccolo grido, come di chi si sente offeso perché ritenuto bugiardo. Era un segnale: allora Balzac scendeva da una botola (e la mostrano accora oggi), attraversava un piccolo cortile, scappava dall’uscita che anche adesso esiste e che sempre dà sulla rue Berton, una stradetta incassata tra muri di cinta, che pare d’essere in un paese di campagna. Se invece era un amico tutto avveniva in altro modo. L’amico sapeva di dover dire una frase convenuta; e gli indiscreti ce l’hanno tramandata: «Porto pizzi di Bruges».

  Sarebbe allora entrato in uno stretto vestibolo semibuio, di fronte avrebbe trovata la porta d’una stanza adibita a salotto, piegando sulla destra sarebbe entrato nello studio di Balzac. La casa era, a quei tempi, «dépendance» d’un’altra e ben più ricca costruzione, oggi demolita. Per questo era nascosta, contornata da un povero giardino, che la faceva meno triste, ma che anche vi portava l’umidità.

  L’errore più grosso che si può oggi compiere non è quello di visitare questa casa, ma di vederla come essa appare. Bisogna lavorarci con l’immaginazione e non pensare che era un nascondiglio, fatto ancor più triste dall’essere diventato un museo. Nelle quattro squallide stanze hanno raccolto «materiale» balzacchiano, hanno appeso alle pareti ritratti, stampe, fotografie che ricordano avvenimenti, uomini, donne, personaggi di Balzac, con l’intento d'una rievocazione volgarizzatrice, che nei risultati involgarisce gran parte di quanto mostra. Soltanto due o tre cose riportano alla mente l’immagine di chi l’ha abitata, ed anche il suo destino. Di queste cose una la si vede; le altre bisogna sapersele fantasticare.

  Quella visibile è nello studio di Balzac. In questa piccola stanza, ad un tavolino poco più largo d’un vassoio, egli scrisse sette romanzi e chi sa quanti articoli. Ma il patriarca della narrativa realista viveva in un mondo di sogni e di visioni. D’altronde più d’uno lo disse visionario ed a modo suo, in realtà, lo era. Lo si vede guardandosi attorno proprio qui. Alla parete è appesa una cornice, nella cornice v’è un foglio di carta, sopra egli vi aveva scritto: «Rembrandt». Egli aveva sempre sognato di possedere quadri di valore, magnifiche raccolte e, non avendo danaro, se le faceva alla sua maniera, gli bastavano le cornici, fogli di carta ed i nomi: Tiziano, Von Dyck, ecc.

  Bastasse questo. Nella lunga attesa del giorno in cui avrebbe potuto sposare la lontana ammiratrice polacca, e nelle numerose lettere scritte in quegli anni, la casa della rue Basse, a poco a poco, era diventata cosa favolosa. La polacca madame Hanska, leggendo le lettere di Balzac, poteva giustamente pensare che il magro giardino fosse, un parco, le piccole stanze grandi saloni; e la serva-padrona era trasformata in una squadra di camerieri, la piccola vista sulla rue Berton in un panorama magnifico, da non avere l’eguale in tutta Parigi. Per Balzac visionario, anche se intento alle piccole miserie dei Pons, dei Grandet, dei Goriot, tutto era vero, nel regno più romanzesco che la vita può offrire, cioè in quello della fantasia. Finalmente, un giorno, rimasta vedova, madame Hanska arriva. Dà un’occhiata a quello che ancor oggi si può vedere: al magro giardino, alle tetre stanzette ed esclama: «Ma è una stalla».

 

A gola piena.

 

  Poi vi sono le cose che bisogna saper immaginare. Grosso, corpulento, pasticcione, in ciabatte, Balzac abitava qui, nascosto nello studio che è poco più grande della cella d’un convento. Dietro al piccolo tavolo v’è ancora la poltrona rinascimentale a cui sedeva dieci ore ogni giorno (e qui abitò sette anni, e soltanto madame Hanska con i suoi danari e con le sue stupide voglie riuscì a strapparvelo). L’alta spalliera, all’altezza dove poggiava il capo, ha la stoffa consumata; ed anche i braccioli sono lisi. Il romanziere, seduto qui bisogna immaginarselo. Quando cercai, per mio divertimento, di provarmi a questa innocente fantasia, mi tornò alla memoria un aneddoto di Anatole France.

  L’ho letto non so più dove; ma ricordai che, un giorno, Anatole France sentì ridere un tale in modo così forte, così spietato, così a gola piena, che si spaventò e fuggì. Tutti i presenti se ne accorsero e gli domandarono il perché del suo spavento e della sua fuga. Allora France disse: «Non ho mai sentito ridere Balzac, ma certo doveva ridere nello stesso modo. Un modo per me impressionante».

  Oggi più nessuno ride nella stanzetta dov’egli lavorò. I parigini ci vengono con quell’aria convenzionale, che di solito si ha nel visitare una casa diventata museo; e la loro affluenza dimostra che il centenario della morte di Balzac cade in un momento adatto. Forse dieci, quindici anni fa avrebbe avuto meno fortuna, perché dieci, quindici anni fa la letteratura romanzesca ci dava personaggi dominati da problemi e non da passioni. I giovani scrittori francesi hanno avvertito che la fortuna di questo centenario è anche un segno dei tempi: chi legge aspetta il ritorno di quei romanzieri pronti a descrivere il mondo quale ci circonda, non filosofemi travasati in forme falsamente narrative.

  Quando, ad uno di questi giovani, raccontarono (cosa d’altronde vera) che l’abitazione di rue Basse era stata pochi anni fa il covo d’una banda di ladri, scelta apposta perché misteriosa e con la possibilità della doppia via uscita, scattò in un grido d'entusiasmo; poi disse: «Ho un romanzo, descriverò la casa e, con questa casa, uomini dominati dalla passione del furto. Lo dedicherò a Balzac». Nell’aria a me parve, da visionario, di sentire l'eco d’una certa risata.

 

 

  René Étiemble, Balzac critico, «Letteratura-Arte contemporanea», Firenze, Anno I, N. 4, luglio-agosto 1950, pp. 26-33.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 553.


  Da un bel po’ di tempo, l’anno Balzac fornisce ai gazzettieri i loro pettegolezzi, ai critici di che pascersi, agli amanti di attualità l’occasione di scrivere (o di leggere) dei libri : per inaugurare le sue nuove funzioni, il Presidente della Société Française des Gens de Lettres ci propina nientemeno che un tomo intero sull’agonia del romanziere; nei Cent Jours de M. de Balzac, si vuol scoprire, secondo le rivelazioni di Mirbeau basate sulle confidenze (o le spacconerie) del sedicente complice di Madame Hanska, se costei si abbandonava alle delizie della «petite mort» mentre lì accanto Balzac si dibatteva nel delirio di quella vera. Un certo numero di esposizioni – dal libraio Pierre Bérès, alla Biblioteca Nazionale - perpetuano il culto delle reliquie. Si sta per ristampare la Comédie Humaine classificando i romanzi secondo l’ordine cronologico degli eventi che vi si svolgono. Sono uscite o stanno per uscire delle edizioni critiche: quella del Père Goriot, e della Femme de trente ans, di Kurt Wais; quella di Eugénie Grandet, di Suzanne Collon-Bérard. Grasset prepara un inedito; da Corréa, Pierre G. Castex dà anche lui un testo sconosciuto: Mademoiselle du Vissard, ovvero La France sous le Consulat, inizio di un romanzo che Balzac non finì mai, su Cadoudal e la sua congiura. La Revue de Littérature Comparée pubblica un numero su Balzac dans le monde (non già Balzac mondano: l’accoglienza riservata a Balzac nei diversi paesi del mondo); i suoi insuccessi, la sua cattiva reputazione, alla fine il trionfo del suo genio, grazie ai plagi portoghesi, alle traduzioni giapponesi (1). Eccetera ...

  Ebbene, cos’è oggi Balzac nel mondo? Un nome, questo sì. Un romanziere che si avvantaggiò del favore di cui ai suoi tempi godevano Eugène Sue e Paul de Kock presso le «élites»: «Il vuoto Dumas, il superficiale Balzac, il lubrico de Kock», come diceva Capuana (sic). Allora, perché non anteporgli Eugène Sue? Il che fa in Ispagna Ramon de Navarrette. A lungo andare, comunque, impudicizia per impudicizia, cattivo stile per stile cattivo, i critici acconsentono a preferire ai Mystères de Paris, l’opera di un uomo che indubbiamente non sa inventare nulla, nulla immaginare, ma che fotografa abbastanza bene la propria epoca. Oggi, siamo addirittura al culto di Balzac; gelosamente si tengon segrete tutte le sue carte; una compagnia di «gloriosi» balzacchiani sorge negli Stati Uniti; altrove ne sorgono delle altre. Quest’è la gloria.

  Cent’anni fa, Balzac non inventava nulla; oggi, è un visionario; proprio come è il primo, è l’ultimo dei nostri scribacchini. Non avrò la dabbenaggine di meravigliarmi se Balzac romanziere mette in ombra il critico, e se tutte le cerimonie, tutti gli articoli che si pubblicano, esaltano l’autore della Comédie Humaine. Quando però lessi, come titolo di un saggio di Jean-Bertrand Barrère: Hugo jougé (sic) par Balzac, sperai un momento in un omaggio a Balzac critico. No davvero; lessi un buon lavoro sulla Cousine Bette, e per di più assai divertente: il barone Houlot e la sua brutta avventura, ma è Victor Hugo, pari di Francia, e la flagrante constatazione, imbarazzantissima, d’adulterio.

  Celebreremmo forse con impertinenza quest’«anno Balzac», se rileggessimo accuratamente le pagg. 351-448 delle Oeuvres Diverses, tome I, éd. Conard? Cento pagine, ed ecco la prova di quanto già sospettavamo: nel 1830, la Francia aveva un critico solo, cioè a dire l’autore del Vicaire des Ardennes e della Physiologie du Mariage.

  Come effetto normale di quella legge di sociologia letteraria che vuole che uno scrittore venga sempre lodato a controsenso, quando per caso si approva Balzac critico, lo si fa perché nel 1840, nella Revue Parisienne, dedicò alla Chartreuse un cenno d’ammirazione; anzi, ben più che un cenno: un intero articolo. Ciò non mi stupisce davvero: quel Balzac il quale, fin dal 1826, utilizzava nelle sue opere certi principi di morale e di psicologia stendhaliana, verso il 1828-1829 aveva subito l’influsso di Beyle con altrettanta forza di quello di Byron e di Jean-Jacques Rousseau. Vorremmo dunque meravigliarci che, in piena maturità, e quando ancora nessuno aveva saputo apprezzare il valore del suo maestro, Balzac, finalmente conosciuto dalle donne, e da certi lettori, porga omaggio all’autore della Chartreuse? Il genio non è ingrato: che ha da temere se riconosce il proprio debito? In qualunque maniera facciate l’addizione, Byron + Beyle + Rousseau, il totale non sarà mai Balzac se non per Balzac.

  No. Ciò che mi stupisce, e mi rende perplesso in quest’articolo su Stendhal, è il disaccordo tra l’ammirazione, e i motivi che le si danno. Se la critica non consistesse se non nell’arte di dire senza possibilità di errore: «questo è brutto; ma quest’altro, ah! quant’è bello!» l’articolo di Balzac sarebbe quello di un critico perfetto. Poiché ammira con violenza quegli che, onde qualificare la maniera di Stendhal, parla di «lampada meravigliosa», e favorevolmente la paragona a quella di Walter Scott: «Gli schemi più sapientemente complicati di Walter Scott non raggiungono l’ammirevole semplicità» che regna nella Chartreuse. E ancora: «Occorre lasciarvi il piacere di leggere gli ammirevoli particolari di questa trama continua in cui l’autore dirige assieme cento personaggi senza provare maggior imbarazzo di un abile cocchiere che tiene le briglie di un tiro a dieci. Ogni cosa è al suo posto, non c’è la minima confusione ... L’aria circola nel quadro, non un personaggio sta in ozio». E per ultimo: «... fin nei particolari più minuziosi, l’autore obbedisce fedelmente alle leggi della poetica del romanzo. Questa esatta osservanza delle regole, sia che provenga dal calcolo, dalla meditazione e dalla deduzione naturale d’un soggetto ben scelto, ben sviluppato, fecondo, sia dall’istinto particolare del talento, produce quel possente e durevole interesse delle grandi, delle belle opere».

  Mi diverte immaginare il sorriso di Stendhal, quel 15 ottobre dell’anno 1830 (sic), mentre leggeva la Revue Parisienne. Gli si faceva un merito, e una gloria, di scrupolosamente rispettare le regole del romanzo, di curare a dovere tutti i «preparativi»; a lui, che dettava venticinque pagine tutte d’un fiato, andava all’Opera senza pensare oltre alle conseguenze, il giorno dopo rileggeva le ultime due o tre pagine della sua storia e ripigliava secondo i dettami della fantasia ... Il 16 ottobre, scrisse al suo ammiratore. Non senza accusare la sorpresa che gli cagionava un elogio inatteso: le regole? e quali? «Non sospettavo che ce ne fossero». E se – come voi dite – ho commesso uno sbaglio cominciando il mio libro dall’infanzia di Fabrizio, vi confesserò ogni cosa: il motivo è che io non ho mai saputo né mai saprò come si fa uno schema. In quelle pagine che vi scandalizzano, parlavo «delle cose che adoro». Come avrei fatto a proibirmele? È veramente generoso da parte vostra ammirare nel conte Mosca un nuovo Metternich, e, sotto il nulla nell’armadio mentre gli amanti gridano» la loro passione, sente tutto, un po’ nome e i tratti della Sanseverina, la contessa di Belgiojoso, trasformati e l’uno e l’altra, perché non è vero nell’arte ciò che lo sembra nella natura. Qual delusione m’è d’uopo causarvi: se ho frequentato un Rassi (un «tedesco»), non ho mai pensato a Metternich, e non conosco la principessa che ho copiato. Certo, mi lusingate, voi che vedete in me un cervello politico, il Machiavelli del romanzo: ma io volevo scrivere la vita del mio Fabrizio. La sua vita, e i suoi amori. Non esistendo per voi Fabrizio se non come colui la cui rissa con Giletti comprometterà un ministero, capisco meglio il rimprovero che mi movete di narrare gli amori di Fabrizio finalmente salvo con Clelia Conti. Ma, ancora una volta: «È o non è la vita di Fabrizio che si scrive?».

  Balzac dunque ammira Stendhal a controsenso. Così poco edotto degli eroi stendhaliani che non riconosce quello della Chartreuse. Sensibile fin che si vuole alla bellezza dell’opera, alla sua grandezza, ma per altrettante ragioni su cui Stendhal non può essere d’accordo.

  Non già che noi siamo più bravi di Stendhal. Semplicemente meglio informati. Degli inediti, delle lettere, un diario, dei marginalia, un mucchio di scarabocchi conservati a Grenoble, ci permettono di voler bene a Stendhal un po’ nel modo in cui a lui sarebbe piaciuto che gliene volessimo.

  Per quanto deboli ci appaiano oggi i motivi di un entusiasmo che, questo almeno, non ci sembra per niente eccessivo, il giudizio di Balzac sulla Chartreuse resta quello di un uomo che ha il senso della bellezza. Troppo preso, allora, dalla sua Comédie Humaine per non misurare tutti i romanzi secondo il modello che si era fatto di quel genere, il Balzac del 1840 era già quello che in punto di morte avrebbe chiesto Bianchon: non poteva leggere la Chartreuse che come il romanzo che avrebbe scritto egli medesimo.

  Dieci anni prima, quando scriveva di Hernani, il suo spirito, più disponibile, condannava quel dramma con altrettanta forza, ma con ben maggior pertinenza.

  Mentre nelle università non si commenta la Chartreuse senza che il professore faccia assai più che delle allusioni all’articolo di Balzac, io ho potuto compiere tutto il mio ciclo di studi, e parecchie volte studiare ufficialmente Hernani, senza che mi si rimandasse all’altro articolo – perfetto questo e nel giudizio e nelle deduzioni – con cui Balzac disse a Hugo il fatto suo. Il 24 marzo e il 7 aprile 1830, due «feuilletons» gli davano la croce addosso.

  Balzac, stavolta, non scrive che per Victor Hugo e per coloro che conoscono a fondo il lavoro. Faremo conto di appartenere al numero di questi. Con Balzac, esamineremo «la condotta di ogni personaggio, poi l’insieme del dramma e il suo scopo». Cercheremo per ultimo se quest’opera, che sollevò tanto scalpore, fece progredire l’arte drammatica e, in caso positivo, «in qual senso». Per meglio intendere l’una e l’altra cronaca, il lettore deve riferirvisi, dato che ogni frase produce un nuovo argomento, e a tal punto preciso, che un riassunto lo ridurrebbe a zero. Nulla sfugge a Balzac, neppure l’armadio di Dona Sol, del quale il più abile antiquario non saprebbe giustificare la presenza all’epoca del dramma: allora le nobili dame non possedevano che dei cofanetti o dei forzieri, ma andate dunque a cacciare un principe in un forziere! Curioso armadio, del resto, favorito di certi fenomeni d’acustica di cui Balzac analizza copiosamente i particolari. Ernani e Dona Sol si parlano vicino a quell’armadio entro cui si strugge il don Carlos. E don Carlos non ode nulla! È vero che un po’ prima, non aveva udito neppure la governante la quale, senza volerlo, gli svelava il nome del caro bandito. Che sia duro d’orecchi, il grande sovrano? Ma no, perché con quel medesimo orecchio con cui «non sente dopo, quando essi parlano sottovoce. (Victor Hugo sentiva con tanta naturalezza gli spiriti che popolano i tavolini: come avrebbe potuto darsi pensiero d’un’acustica fantasiosa?).

  La psicologia di Hernani vale l’orecchio di don Carlos. Ernani ha giurato di pugnalare questo re di melodramma per un monte di ragioni, e per questa sopratutto, che don Carlos ha stretto un po’ troppo davvicino la Dona Sol. Eccolo qua, quest’eroe, che chiacchiera con don Carlos! Un personaggio, uno soltanto, merita il nostro riconoscimento e la nostra ammirazione: quel don Ruy sotto le cui finestre scoppia la gazzarra, e che dorme. Cosicché Balzac non saprebbe lodar troppo Ernani che lo chiama «vecchio stupido!». E la parola più vera del lavoro, e disgraziatamente, se Ernani ha ragione, questa parola «stigmatizza» non tanto don Ruy quanto Victor Hugo.

  A che prò osservare che nel terzo atto, il re ci vede press’a poco come ci sente nel primo (una veletta, e quel pazzo innamorato non riconosce più Dona Sol!); che nel quarto si nasconde in una tomba altrettanto opportunamente di quando nel primo si nascondeva nell’armadio (che dovrebb’essere un forziere). Il motivo è palese: «tutti gli espedienti di questo lavoro sono vieti; il soggetto, inammissibile; i caratteri, falsi; la condotta dei personaggi, contraria al buon senso; il signor Victor Hugo non troverà mai un elemento che sia naturale se non per caso. «D’un argomento da ballata – e passi! – Victor Hugo ha voluto fare un dramma e non ha prodotto se non un rifiuto. «Era importante per la nostra epoca, e forse per lo stesso Victor Hugo, che il poema di Hernani fosse giudicato con imparzialità, e che un uomo di buona fede protestasse ... contro un falso successo che potrebbe renderci ridicoli in Europa se ce ne rendessimo complici».

  Quando Balzac, al principio del 1830, scrive questo crudele e giudizioso articolo, ha appena firmato il suo primo vero romanzo: Les Chouans; ha appena fatto il suo ingresso nel mondo. Questo novizio, che si è or ora liberato dei suoi impegni anonimi, osa attaccare Victor Hugo, allora principe dei poeti e che sogna d’essere il primo dei drammaturghi. Per ammirare la Chartreuse, non occorreva che un tantino di gusto; occorreva in più del coraggio, a quel giovane Balzac preoccupato di «arrivare», per fiaccare Victor Hugo con altri argomenti, e con più alte ambizioni, che non quelli o quelle, dei «parrucconi». Per dire a colui che è divenuto l’idolo dell’«élite»: «la scena vi è interdetta»; e per dirlo con stima, senza il triste desiderio di crear scandalo: semplicemente perché è vero, e perché il critico ha il dovere – se la conosce – di dire la verità, tutta la verità: basta con le «prefazioni dissertatrici»; stupite piuttosto i vostri nemici con dei capolavori. Eccellente, tutto ciò.

  Un’altra di quelle verità imbarazzanti, che si dimenticano: se ci son così pochi critici, se la critica tra tutte le arti è la più difficile (nessuno dei miei romanzi m’è costato tanta fatica quanto una sola delle mie critiche e non mi picco di scriverne che mi soddisfino), egli è che al poeta, al drammaturgo, al romanziere, basta d’aver del genio, del gusto, del mestiere. Come da un pero che dà la pera coscia, non si esige che produca per di più la spadona o la Duchessa d’Angoulême, così non si esige, e a ragione, dal creatore che di produrre ciò che può. Ma il critico! Quando s’è rotto il cervello per apprezzare per discernimento ciò che per gusto disapprova, a condannare all’occorrenza tutto ciò che pure ammira, non è ancora che allo stadio più facile. (Di quale aiuto potrebbe esserci un gusto che restasse circoscritto in se stesso?). È sempre disposto, il critico, a dar dispiacere ai suoi migliori amici? Suvvia! A celebrare quelli dei suoi amici che un qualche talento distingue? Inutile sarebbe altrimenti, scrivere qualcosa di meglio che dei poemi, dei romanzi. L’affetto non deve smussare né il biasimo, il che è facile, né la lode, il che lo è meno: non so, o meglio so troppo bene, quale insopportabile pudore lo trattiene dal lodare quelli che ama e ammira a ragion veduta. A parità di cultura e di tatto, a seconda ch’egli abbia o meno del carattere, la sua critica sarà buona o insopportabile. La prudenza, infine, è mortale per il critico. Quanti uomini di cui apprezzo il giudizio, ma che non mi sogno di leggere, perché la considerazione delle ricompense, quella delle accademie, o semplicemente il bisogno che non riescono a dominare d’essere benvoluti, li impedisce di pronunciarsi. [...].

  Accanto a tutte queste persone distinte, prudenti, sindacate e limitate come fa bene di leggere e rileggere gli scritti con cui Balzac, al principio del 1830, condiva il suo Feuilleton des journaux politiques!

  Eccone uno almeno che dà dentro, e che non si risparmia. Lo abbiamo visto che strigliava Victor Hugo. Per la giusta causa. Senz’altro secondo fine che quello di servire le lettere. Se prendessimo da lui una lezione di giudizio?

  Tanto per cominciare, il critico non sarà uno specialista. Per «dovere» e per «inclinazione», Balzac leggeva di tutto: le Recherches sur le Crédit Foncier, L’Abeille encydopédique, St. Pétersbourg et la Russie en 1829, Considérations morales et politiques sur l’art militaire, Vocabulair (sic) français-algérien suivi de dialogues, Ordonnance sur les évolutions de la cavalerie, du 6 décembre, senza omettere il Traité de la lumière, di Herschell. E ogni volta, Balzac vede giusto. Le sue cognizioni sul Credito Fondiario gli permettono di apprezzare la manovra di piazza d’armi; il suo vocabolario algerino, di gustare il significato in francese di klebs, di zob o di flousse. Ogni volta, va difilato all’essenziale. E quanto al trattato della luce? Concepisce di primo acchito che l’ideale sarebbe di conciliare due teorie apparentemente incompatibili: quella di Newton, secondo cui la luce è un fluido che si precipita da tutte le parti in linee rette con velocità quasi infinita; quella d’altri che vede nella luce una serie di ondulazioni ripetute con grande velocità e che porterebbero ai nostri occhi la sensazione della luce, come le vibrazioni dell’aria producono il suono per il nostro orecchio. Nell’una e nell’altra tesi, egli sa vedere delle ipotesi, delle supposizioni, dice lui. Con un secolo d’anticipo, prevede Louis de Broglie. Più ancora di lui, noialtri dobbiamo affliggerci di questa monomania d’istruzione superficiale che ottenebra la nostra epoca; più ancora di lui, di conseguenza, possiamo valutare la preoccupazione del sapere preciso, e arrabbiarci di fronte alle balordaggini che brulicano nei nostri «grandi» storici, nei nostri Emil Ludwig, ad esempio.

  In tempi in cui il critico si sentirebbe decaduto se non dissertasse di metafisica, di metapsichica e di metaletteratura, mi piace che Balzac, bonario compagno in atto di correggere l’apprendista, gli insegni come si deve far le frasi, gli intrecci, eccetera. S’egli è duro, e indubbiamente ingiusto per lo stile della Chartreuse, si è che da quel laborioso operaio qual’è, ha forse dato troppo peso ad errori effettivamente troppo evidenti per poterli negare, ma che sono come il marchio di quella scioltezza, di quella grazia che bisogna bene riconoscere altrove. In fin dei conti, la «correttezza», e perfino, già, la «correttezza sostenuta» ch’egli trovava in La Ponneraye (unita per disgrazia a troppo scarsa elevatezza) da quand’è che non è più degna delle nostre fedeli attenzioni? Da quand’è che il muratore sotterra il filo a piombo, il livello d’acqua? Bisogna scrivere correttamente. Balzac lo diceva al signor Conte Godefroi de la Tour d’Auvergne, annotando i granchi presi da quell’alto e possente signore: «Il est inutile d’une plus longue discussion; si nous avions réussi dans notre but; certainement que; il est peu nécessaire d’un long raisonnement». Credete che avrebbe esitato a correggere M. Isou?

  Correttezza, semplicità: non scrivete mai che: «il barbiere percorse, con dita armate d’un acciaio che ringiovanisce, il mento, il collo, le tempie e il giro del capo». Niente «acciaio che ringiovanisce» e meno che mai Febo: «Stavamo per passare dalle braccia di Bacco e della Follia a quelle del Sonno». «L’uomo che risente del dolce influsso del figlio di Semele e che si trova vicino a Cipride» è un uomo che si deve uccidere a bruciapelo. Fuggite le «iemali altezze» ma senza peraltro precipitarvi nei «thalwegs»; contentatevi di arrampicarvi, d’inverno, su per la montagna e, agganciati gli sci, di scendere a valle. Se avete mai veduto delle «vallate che si torrefanno sotto l’accolta di tutti gli splendori del sole», non vi fidate; o che avreste casomai le traveggole?

 Senza pietà per coloro che infrangono le leggi fondamentali, su di essi Balzac si precipita, con tutta la sua violenza o con tutta la sua ironia, a seconda dei casi. Certuni gli rimproverano la sua «durezza»? Ah, che ingiustizia; si può non pensare a «quel moto di disgusto che produce un brutto libro in chi è obbligato a leggerlo?». A quel signor Victor Ducange, il cui «borbottamento» compone da solo tutta la «personalità»? E Balzac dovrebbe risparmiarlo? La Thébaudière scriverebbe «444. pagine senza un’idea, senza schema, senza caratteri», e non si dovrebbe pregarlo di non sciupare più, oramai, «della carta bianca così bella»! Barginet, autore, chi lo crederebbe, della Chemise sanglante, ha scritto un’opera che interesserà in sommo grado le vedove che usufruiscono della legittima, perché «tende a far rispettare le proprietà mobiliari», e Balzac non dovrebbe rimandarlo al suo nobile «scopo morale»?

  Immaginatevi Balzac nel 1950! in atto di gettarsi framezzo ai nostri Daniel-Rops, e ai nostri van der Meersch, e ai nostri Alexis Carrel (quello di l’Homme, cet inconnu) ; già conosciamo il suo verdetto: questi libri gli proverebbero che il cristianesimo è oggi incapace di «adempiere alla sua sublime funzione»; e che «non è dicendo ai poveri di non imitare il lusso dei ricchi» che si renderà più felice la classe povera. Invece di raccontarci delle fandonie, «attaccate l’ozio ricco e immorale»: ecco la vera causa di queste piaghe sociali», la miseria, l’alcoolismo, eccetera ... per le quali, piuttosto che dei preti, ci occorrono «degli igienisti».

  Nel medesimo tempo in cui scriveva le sue recensioni di Hernani e di Cottu, Balzac dava alla Silhouette una serie di studi su Les Artistes (2 febbraio, 11 marzo e 22 aprile 1830). Molto prima di Julien Gracq e della sua Littérature à l’estomac, in poche righe che in anticipo la riassumono, ma con più tono e semplicità, Balzac evocava lo scrittore di talento: «Se non arriva con la sua grancassa, il pagliericcio, i lazzi e un’insegna, rischia di morire di fame e di miseria». Il che sarebbe un gran peccato, si vede, perché Balzac si fa dell’artista e dello scrittore l’immagine che se ne creerà il mondo per oltre un secolo: un «fanciullo ch’è insieme un gigante», una sorta di Titano, l’«apostolo di una qualche verità, l’organo dell’Altissimo». Valeva ben la pena di accumulare venti controsensi per commentare «je est un autre» quando Balzac, quarant’anni prima, formulava la stessa idea: «l’artista non è se stesso nel segreto della sua intelligenza»: è il «giocattolo» di qualcosa di soprannaturale. Diventa da se solo tutta «una religione»: poiché i dolori dei creatori non fanno che riprodurre quelli medesimi del Creatore». «Sotto questo rapporto, Cristo ne è il più ammirevole modello». Ne = degli artisti! Si sapeva che Gesù Bambino, quell’apprendista modello, non avrebbe mai riposto la pialla di San Giuseppe senza averne tolto in precedenza tutti i trucioli. Balzac. ci insegna, e noi non lo dimenticheremo davvero, che gli scrittori hanno più d’una volta rivissuto il Golgota (Dante in esilio, Cervantes all’ospedale, Rimbaud in Abissinia).

  Non si mancherà di sottolineare (vedi Bernard Guyon nella sua recente tesi su Les Idées politiques et sociales de Balzac, ed il suo articolo su Balzac et le feuilleton des journaux politiques) ciò che accomuna questa vaga teoria al pensiero di quei sansimonisti che sappiamo ch’egli allora frequentava. È il momento in cui i sansimonisti lanciano il loro memoriale Aux Artistes, a coloro che debbono sostituire i cleri delle religioni morte: «Oramai le Belle Arti sono il culto e l’artista è il prete». Così terminava la predica-zibaldone della nuova Chiesa. Se Balzac paragona costantemente lo scrittore al curato, prendiamocela dunque con Bazard, Enfantin e compagni. Ma badiamo a non interpretare questa formula in senso troppo letterale. Dieu est en nous et par nous fait miracle, Ronsard diceva la stessa cosa con altre parole: non basta, allo scrittore di scrivere correttamente, o semplicemente. Gli occorre quel non so che, la buona stella di Boileau:

 

Si son astre en naissant ne l’a formé poète.

 

  Entusiasta e grammatico; poeta e retorico, tale sarà per Balzac ogni scrittore e ogni critico. Che importa a me che questa verità sia banale, nata ieri o ier l’altro? Ad ogni errore che non si vale se non della sua novità, mi sforzo di preferire le più antiche evidenze.

  E se considero qual sicurezza di giudizio danno a questo Balzac, quando giudica uno scrittore, i suoi partiti presi, a che esitar oltre ad adottarli. Verso il 1855, Sainte-Beuve rimproverava ai personaggi della Chartreuse di non essere insomma che «degli automi costruiti ingegnosamente»: niente di «vivo» in essi. (Ciò si è sempre detto, e si dirà domani, nella critica seria, di qualsiasi apporto d’un personaggio veramente vivo). Balzac invece: «Quanto a ciò che è Mosca in tutta l’opera, quanto alla condotta dell’uomo che la Gina considera il più gran diplomatico d’Italia, ci è voluto del genio per creare gli incidenti, gli eventi, e le trame innumerevoli e rinascenti in mezzo ai quali questo immenso carattere si dispiega. «Dall’automa all’immenso carattere: tutta la distanza che, da Sainte-Beuve, separa Balzac critico; il falso dal vero. Verso il 1830 tutte le persone «à la page» ammirano Hernani. Balzac scrive: non val nulla. Ché se desiderate conoscere uno scrittore, un «uomo notevole» i cui «deliziosi libelli» non saprebbero esser popolari perché c’è «qualcosa di troppo elevato nel suo stile conciso, troppo nerbo in questo pensiero rabelaisiano», leggete Paul-Louis, vignaiuolo della Chavonière, leggete Courier, le sue lettere, le sue traduzioni.

  Ma l’ultima parola? A chi dà la preferenza, Balzac? Alla grammatica, o all’ispirazione? La domanda non ha senso che per coloro che ne sono privi. Siccome capisce tutto ciò a cui si applica, Balzac è ugualmente capace d’amare «la poesia d’idee» e quella che «indipendentemente da un’idea» si nasconde nel cuore delle parole, in una «successione di consonanti e vocali.

 

Le jour n’est plus pur que le fond de mon coeur.

 

  Ed ora, la prova per assurdo: fate pronunciare a un inglese: «Lei jour n’aie pas plous pour kè lei faound de mon quer!». «Non esiste più nulla».

  Per ben giudicare, come per ben creare, basta dunque «coltivare l’arte per l’arte stessa». Ma non vogliate dedurne che lo scrittore dovrà limitarsi agli smalti e cammei, ai bibelots d’inanité sonore. Piuttosto questo: di checché scriva, di denaro, piani quinquennali, chouannerie, o bestialità, lo scrittore non dovrà cercare che di produrre della bellezza. Se non scrive che per bisogno, se si applica a comporre le sue frasi, queste in paragrafi, e i capitoli in un tutto, l’artista ha compiuto tutto il proprio dovere. E son degli sciocchi, quelli che gli domanderanno «piaceri diversi da quelli che dà». Non è qui, in germe, la critica di Jean Paulhan?

 

  Nota.

 

  (1) Vedi specialmente l’articolo di Paolo Arrighi su Balzac e il verismo italiano.

 

 

  Sandro De Feo, Si riesuma l’autobiografia di George Sand. Balzac faceva la fame pur di vivere nel lusso, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 69, 22 marzo 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 558.

 

  Non importava che mancasse la minestra o il caffè: l'importante erano l'argenteria, le porcellane di Cina, le tappezzerie di seta e le belle vestaglie.

 

  E’ riapparsa, dopo molti anni che non si ristampava, quella Storia della mia vita di George Sand (G. S.: Histoire de ma vie, Stock ed.), molto lodata ai suoi tempi, e poi anch’essa affondata nel rispettoso oblio che ha ricoperto pian piano l’opera della più illustre virago del romanticismo europeo. [...].

 

Una revisione critica.

 

  Ma soprattutto importanti, importantissime, sono nel libro le pagine dedicate a Balzac e a Stendhal. In occasione del centenario della morte di Balzac stiamo assistendo a una «clamorosa» revisione critica della sua opera, che si riduce poi a questo: Balzac non fu uno scrittore «verista», ma piuttosto un grande ruminatore fantastico della realtà che ribolliva sotto i suoi occhi, una società ancora informe ma di vitalità tremenda, come quella che usciva dai grandi rivolgimenti e dalle lunghe guerre degli ultimi quarant’anni. Il che spiega, oltre tutto, l’interesse che porta a lui e alla sua opera la società del 1950 ancora informe e senza tratti precisi ma sospinta anch’essa da un’oscura vitalità perché anch’essa uscita da rivolgimenti e guerre di proporzioni colossali. Dunque non scrittore «verista». Ma chi lo disse mai con sincera coscienza e convinzione critica? Il verismo del tardo Ottocento cercò, sì, di tirare al suo molino le acque della «Commedia umana», ma nessun critico avvertito avallò mai quel tentativo di accaparramento. Ad ogni modo mancò l’avallo dello stesso Balzac.

  George Sand conobbe il romanziere poco dopo il suo arrivo a Parigi e l’impressione che egli fece su di lei fu vivissima. Ciò che la colpì soprattutto fu la disposizione al romanzo, o al romanzesco, di Balzac anche in privato, la disposizione ad «accrescere» e trasformare la realtà banale, persino quella del suo appartamento di Rue de Cassini. Dopo che egli ebbe venduto bene la Peau de chagrin, le piccole stanze diventarono dei boudoirs di marchesa «e un bel giorno egli ci invitò a prendere dei gelati tra i suoi muri tappezzati di seta con frange di merletto. Ciò mi fece molto ridere: io non credevo che egli prendesse sul serio questo bisogno di un vano lusso e che non fosse altro che passeggera fantasia. M’ingannavo; queste esigenze di graziosa immaginazione divennero le tiranne della sua esistenza, e per soddisfarle spesso sacrificò il benessere più elementare. Dopo di allora egli viveva così, nell’indigenza di tutto in mezzo al superfluo, privandosi della minestra e del caffè piuttosto che dell’argenteria e della porcellana di Cina».

  Due pagine più in là c’imbattiamo in un Balzac stupendo, da mandare in visibilio i paladini del «Balzac antiverista»: «Una sera che avevamo pranzato da lui ... egli andò a indossare una bella veste da camera nuovissima per mostrarcela con una gioia di giovinetta, e volle uscire così abbigliato, con un candeliere in mano, per accompagnarci per un pezzo di strada fino al cancello del giardino del Lussemburgo. Era tardi, il luogo deserto, io gli feci osservare che si sarebbe fatto assassinare ritornando solo a casa. “Macché — egli mi disse — se incontro dei ladri, mi prenderanno per un pazzo, e avranno paura, o mi prenderanno per un principe e mi rispetteranno”. Era una bella notte calma. E così ci accompagnò, recando la candela accesa in un grazioso candeliere di vermeil cesellato e parlando di quattro cavalli arabi che egli non possedeva ancora, che avrebbe presto posseduto, che non ha mai posseduto e che per qualche tempo egli credette fermamente di possedere».

 

I «vermi» della società.

 

  Del resto del suo «verismo» egli sapeva bene che cosa pensare. Questo giudizio della sua arte e della sua tecnica, che un giorno egli dette alla Sand, è davvero illuminante della sua facoltà di «accrescimento» del più minuto e squallido materiale umano, piccolissima borghesia, impiegatucoli, commessi, quelli che Gide parlando dello «studio» balzachiano Les employés chiama gli «atteri», i vermi, i millepiedi e il loro «mediocre brulichio raso terra; è lì che egli si rivela incomparabile, superiore anche a Gogol». Ed è appunto agli «atteri», ai vermi della nuova società in formazione che Balzac alludeva parlando con la Sand: «Questi esseri volgari m’interessano molto più che non interessino voi. Io li ingrandisco, li idealizzo, in senso inverso, nella loro laidezza o nella loro bestialità. E do alle loro deformità delle proporzioni spaventevoli o grottesche». Altro che tecnica verista! [...].

 

 

  Sandro de Feo, Si riapre la polemica sulla morte di Balzac, «L’Europeo. Settimanale di attualità», Milano, Anno VI, n. 26, 25 Giugno 1950.

 

  Il racconto di Victor Hugo fu un mezzo scandalo, quello di Mirbeau uno scandalo.

 

 Il centenario della morte di Balzac, che cade quest’anno tra un paio di mesi (esattamente il 17 (sic) agosto) trova la repubblica francese delle lettere divisa proprio sul capitolo di quella morte. La posizione dei balzacchiani ortodossi a questo riguardo è delle più curiose. Non nascondono la loro antipatia per M.me Hanska, «la straniera» dalla quale Balzac era riuscito finalmente a farsi sposare nel marzo di quello stesso 1850 in una chiesa di Berdiscev nell’Ucraina occidentale, dopo 15 anni di brevi incontri, di mezze promesse e di continui e spesso umilianti rinvii. «Si je ne suis pas grand par la “Comédie Humaine”, je le serai par cette réussite ...», se cioè riuscirà a farsi sposare dalla contessa Evelina Hanska. Finalmente c’era riuscito e poteva annunziare a sua madre il ritorno trionfale a Parigi, dopo diciotto mesi di assenza. Ma quando arrivarono a Parigi una sera di maggio, i due erano delusi, stanchi e nemici. Non si rinvia impunemente un matrimonio per quindici anni.

  Quella sera di maggio dunque era molto tardi quando i due sposi arrivarono in carrozza in Rue Fortunée, dove Balzac, prima di recarsi in Russia, aveva messo a punto il nido, adornandolo «misteriosamente» alla balzacchiana. Balzac bussò una, due, tre volte nessuno scendeva ad aprire. Eppure le finestre erano tutte illuminate, tanto che attraverso i vetri si scorgevano le immense corbeilles fatte ammucchiare per ordine di lui. Ebbero paura. Eva tremava dal freddo e dall’orrore. Balzac gridava ai passanti: «E’ la mia casa, sono Balzac ...»; finché arrivò il fabbro che fece saltare la serratura. Era successo che proprio quella sera il domestico, durante l’attesa dell'arrivo dei padroni, era impazzito tra tutti quei fiori e la fantasiosa e pesante mobilia di casa Balzac.

  Tutto, da questo preludio alla morte dello scrittore, ha una andatura, un affanno balzachiano. Lo scrittore si mette a letto, i piedi gli si gonfiano, le piaghe appaiono sul corpo enorme, sua moglie se ne impaurisce, forse se ne disgusta, si mette a correre Parigi, ritrova dei parenti polacchi, amiche russe, fa quel che può per dimenticare la casa del marito, il suo incubo. Su questo punto i balzacchiani ortodossi sono quasi tutti d’accordo: M.me Hanska non si comportò da buona moglie col grand’uomo malato. Dove essi non vogliono darla vinta ai balzacchiani più spregiudicati ed eterodossi è proprio sul punto di morte. Essi rifiutano di ammettere che Balzac morì come un cane.

  La polemica sul «punto di morte» di Balzac si è rianimata naturalmente in occasione del centenario, e Pierre Descaves ha riassunto con bell’ordine ed efficacia i termini e gli atti della lunga «querelle» in un libro uscito di recente presso l’editore Calmann-Lévy, «Les cent jours de M. de Balzac». Le fonti più importanti del «romanzo» o dello «scandalo» della morte di Balzac sono tre:

  1) Un articolo di Arsène Houssaye, direttore del Théâtre Français, pubblicato nel «Figaro» del 30 agosto 1883. E’ un colloquio di Balzac col suo medico Nacquart. «Dottore, esigo da voi tutta la verità. Voi siete un principe della scienza ... Sento di perdere terreno. Quanto tempo credete che mi rimanga ancora da vivere?». Silenzio, di Nacquart. «Suvvia dottore, mi prendete per un bambino? Io non posso morire come il primo venuto. Un uomo come me deve un testamento al pubblico». Nacquart: «Quanto tempo vi ci vuole per quel che vi rimane da fare?». «Sei mesi». Nacquart scuotendo il capo: «Sei mesi! sei mesi!». «Mi darete almeno sei settimane». Silenzio del dottore. «Almeno sei giorni. Indicherò nelle grandi linee l’opera da compiere. I miei amici metteranno i puntini sugli i». Nacquart: «Mio caro malato, quel testamento al pubblico di cui parlavate poc’anzi sarà bene farlo oggi stesso». Balzac: «Non mi rimangono dunque che sei ore». Quel giorno era infatti il 17 agosto.

  2) Il famoso «pezzo» di Victor Hugo nelle «Choses vues» pubblicate postume nel 1887. Avvertito delle condizioni disperate del grande amico. Hugo corre in via Fortunée: «Suonai. Cera un chiaro di luna velato dalla nebbia. La via era deserta. Nessuno scese ad aprire. Suonai ancora. La porta si aprì. Una domestica apparve con una candela: “Che volete, signore?” mi chiese. Essa piangeva. Dissi il mio nome. Fui fatto entrare in un salone ... La donna mi lasciò lì. Attesi alcuni istanti. La candela illuminava appena la mobilia splendida e alcuni magnifici dipinti di Portbus (sic) e di Holbein. Il busto di marmo di Balzaci si ergeva confusamente in quella camera, come lo spettro dell’uomo che stava morendo. Un sentore di cadavere riempiva la casa ... Chiesi di vedere Balzac ... Attraversammo un corridoio, salii per una scala ... Un altro corridoio, finché intravidi una porta aperta. Udii un un rantolo sinistro e acuto. Ero nella camera di Balzac ... Aveva la faccia violacea, quasi nera, reclinata sul lato destro, la barba non fatta, i capelli grigi e tagliati corti, l’occhio aperto e fisso, Lo vedevo di profilo e, così, rassomigliava all’Imperatore. Solo la domestica, l’infermiera e un domestico stavano in piedi ai due lati del letto ... Un odore insopportabile esalava dal letto. Sollevai la coperta e presi la mano di Balzac. Era coperta di sudore. La strinsi. Non rispose alla pressione della mia mano».

  3) Il racconto che il pittore Jean Gigoux fece vecchissimo a Rodin e a Mirbeau e che quest’ultimo trascrisse nel su0 libro «628-E8», pubblicato nel 1907. I balzacchiani ufficiosi non negano che Gigoux sia stato l’amante di M.me Hanska dopo la morte di Balzac, ma respingono quella che essi ritengono la vanteria volgare di un artista volgare, alla moda e «à bonnes fortunes», vale a dire che M.me Hanska gli si dette, e «furiosamente» nei «cento giorni» di Balzac. Quel 17 agosto, racconta dunque Gigoux, egli andò in casa Balzac per informarsi da Madame dello stato di suo marito. Essa sembrava molto eccitata e nello stesso tempo abbattuta. «Io le consigliai di farsi vedere, non fosse che per qualche minuto, al capezzale del marito. Essa mi rispose: “No, no, è troppo spaventoso” e scoppiando a piangere: “Non vorrai lasciarmi sola tutta la giornata come ieri” ... Nel pomeriggio apprendemmo dall’infermiera che Balzac era entrato in agonia». La giornata scorre lugubre, lenta, eterna ... Alle dieci e mezzo bussano due colpi fortissimi alla porta della camera da letto di M.me Hanska: «Madame, madame, venite ... il signore se ne va!». Una specie di panico si impadronisce di Gigoux. Egli trattiene la donna che aveva già spinto una gamba fuori delle lenzuola per scendere dal letto ... S’era fatto silenzio di nuovo. «I capelli di lei disciolti coprivano il suo viso come un velo di crespo che ondeggiava in fiotti neri sulle sue spalle dalle quali la camicia era scivolata». Di lì a dieci minuti l’infermiera ritorna: «Madame, il signore se ne è andato, il signore è morto».

  Il resoconto di Victor Hugo, il capezzale di Balzac deserto di familiari, era già un mezzo scandalo, ma quello di Mirbeau era lo scandalo totale. Sicché quando una primizia della narrazione apparve nel «Temps» dei giorni 5, 6 e 7 novembre 1907, scoppiò un putiferio. Protestò la figlia di M.me Hanska, protestarono i balzacchiani di scuola e accademia, e oggi dopo quarant’anni le cose sono ancora allo stesso punto. Morì, o no, come un cane? La risposta potrebbe darla soltanto la biblioteca del visconte di Lovenjoul, il «Papa dei balzacchiani», un piccolo uomo amabile, riservato e un po’ folle che dedicò tutte le risorse della sua illimitata devozione al culto di Balzac, e le astuzie di un maniaco e collezionista di qualità e gran parte della sua immensa fortuna ad accumulare montagne di documenti sul grand’uomo, e quelle montagne, alla sua morte, legò all’Institut de France, ma circondando il legato di tante riserve, cautele, obblighi e impedimenti che praticamente la consultazione ne è quasi impossibile.

  Quando sarà possibile, sapremo di più sulla morte di Balzac.

 

 

  Franca Femminis, Storia ed arte nel romanzo “Ursule Mirouet” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1950.

 

 

  Marise Ferro, Il mio muro potrà crollare in pace. Balzac architetto raccontato da Marise Ferro, «Milano-sera», Milano, Anno VI, 22-23 febbraio 1950, p. 3.

 

  Balzac uomo, tutti lo sanno, aveva diverse manie: quella degli affari (che gli andarono sempre male), quella degli oggetti antichi (per cui fu sempre derubato) e quella delle case. Quest’ultima mania, che si ridusse a una necessità perché doveva correre da un’abitazione all’altra per nascondersi ai creditori, gli permise di passare in trent’anni di vita dalla soffitta gelata di via Lesdiguières, dove incominciò a scrivere, alla ricchissima casa di via Fortuné (sic) dove morì invocando, si dice, Bianchon, il medico della Comédie Humaine. I trent’anni tra la soffitta e il palazzo lo videro inquilino di tante case di Parigi e vicinanze che è difficile enumerarle tutte. Quelle di via Cassini e quella della via Basse sono le più famose. Ma la casa dove Balzac voleva infondere i suoi gusti e i suoi capricci architettonici rimane quella delle Jardies nel villaggio di Ville-d’Avray, a pochi chilometri da Parigi.

  Il terreno delle Jardies divenne proprietà di Balzac nel 1837. Egli, allora, aveva qualche soldo guadagnato duramente coi «prodotti dei sui campi cerebrali, vigneti letterari e foreste intellettuali», e volle realizzare il sogno di fuggire Parigi e i creditori che lo assillavano rifugiandosi in campagna: comperò la terra di Ville-d’Avray e Les Jardies entrarono nella storia letteraria.

  Poiché volle egli stesso essere l’architetto della casa principale delle Jardies, quella ch’egli solo doveva abitare, ne fece il progetto e ne fece iniziare i lavori, ch’egli stesso sorvegliava. Nonostante le sue illusioni, egli vedeva che la casa sorgeva male.

  A casa finita, però, la sua sorpresa fu superiore ad ogni suo scetticismo: «E la scala? Avete dimenticato la scala?», chiese ai costruttori. Già, mancava la scala, ma per la semplice ragione che mancava nel progetto. Balzac voleva stanze larghe, quadrate, la scala prendeva troppo spazio, non si sapeva dove metterla. Egli non si scoraggiò: «La scala cerca di farla da padrone in casa mia, vuol dire che io metterò la scala alla porta». E così fece, cioè fece costruire una scala esterna lungo la facciata e sulla quale si aprivano le porte dei tre piani. La casa delle Jardies, finita, assomigliò a uno châlet svizzero e a una torre, oppure, come la definiva Balzac stesso, «pertica per pappagallo».

  Egli volle costruire anche il parco, dove non esisteva che un noce, un noce famoso, cedutogli dal comune di Sèvres con la prerogativa speciale all’albero, quella di avere deposte, per permesso comunale, tutte le immondizie del paese ai piedi del suo tronco. «Pensate – diceva Balzac a Victor Hugo ch’era andato a trovarlo — il denaro che mi porterà quest’albero! Concimerò tutta la regione». «Per ora non vedo ancora spazzatura ...», osservò lo scettico Victor Hugo. «Non ancora, certo, le Jardies non sono finite. Guardate, qui pianterò degli abeti, là dei pini, dei larici, più lontano betulle, pioppi. Faggi ... sono nell’età in cui posso piantare alberi, ho tempo per vederli frondosi ...».

  Non solo gli alberi non crescevano, ma i muri di cinta crollavano, e crollavano sempre dalla parte del vicino, distruggendone le coltivazioni e gli alberi da frutto. La storia del muro di cinta è famosa negli annali delle Jardies perché ricostruito cinque o sei volte, costò tanto a Balzac che finì col comperare il lotto di terreno che lo delimitava per non litigare più col vicino: «Il rimedio è caro, esclamò, ma almeno il mio muro potrà crollare in pace».

  Neppure le aiole tenevano, neppure gli arbusti: ad ogni temporale, poiché il terreno era in forte pendenza, la pioggia portava via ligustri e rose, e Balzac, a cielo rasserenato, si trovava sempre vittima di una inondazione.

  Ma tutti questi disastri non lo stancavano, ripiantava ligustri e rose, riedificava il muro e si consolava chiamando a raccolta mobilieri, tappezzieri, decoratori, antiquari. Egli voleva che l’interno delle Jardies fosse principesco. Scriveva, a carbone, sui muri freschi d’intonaco: «Qui un basamento di marmo di Carrara; qui un rivestimento di legno di cedro; qui un soffitto dipinto da Delacroix; qui una tappezzeria d’Aubusson; qui un camino di marmo cipollino; qui un quadro di Rubens; qui un quadro di Goya; qui un quadro di Raffaello». Queste ricchezze rimasero scritte a carbone, i creditori non permisero mai a Balzac di realizzarle.

  Poiché un bel giorno, è inutile dirlo, i fornitori impagati si cambiarono in furibondi creditori e Balzac si sentì tremare. Quanto gli erano costate le Jardies, casa di riposo dove doveva finire i suoi giorni lontano da ogni assillo di denaro? Non si sa la cifra precisa, si sa soltanto che il tappezziere, lo stagnino, il falegname lo angariavano, e che finirono per denunciarlo, Spesso gli uscieri entravano alle Jardies e si impadronivano di ciò che potevano: lampade, abiti, libri.

  Nel 1839, quasi tre anni dopo la compera del terreno delle Jardies, Balzac scriveva alla fedele madame Carraud: «A voi posso confidare un segreto: tocco il fondo della più spaventosa miseria. Se sapeste che cosa mi è costato il muro delle Jardies!». Le Jardies gli davano tanto preoccupazioni, tanti dolori e tante visite di uscieri, che fu costretto a fuggirle. Fuggì a Parigi, in via Basse, casa a doppia uscita che gli era stata trovata da Marceline Desborde (sic) Valmore. Balzac la prese in affitto nascondendosi sotto il nome della sua governante e vi si installò nel gennaio del 1840. Ma neanche in quella casa, che oggi è museo Balzac, trovò la pace.

 

 

  M.[arise] F.[erro], Esther cortigiana immortale, «Milano-sera», Milano, Anno VI, 22-23 giugno 1950, p. 3.

 

  In questi giorni di polemiche letterarie fomentate dal libro appena uscito di una nuova scrittrice illetterata e «naturale», polemiche attraverso cui gridano che è necessario non sapere saper scrivere (e il buon senso, dove è andato a cacciarsi?) io godo una situazione privilegiata. Io, proprio in questi giorni in cui nel campo letterario corrono anche larvati insulti, ricevo una lezione che, se sono intelligente, può servirmi per tutta la mia vita di scrittrice: traduco, cioè, «Splendeurs et misères des courtisanes» (Splendori e miserie delle cortigiane) di Balzac.

  Col naso su queste pagine a volte disordinate dove si sente già l’incrinatura che la malattia e i terribili viaggi imposti dalla terribile madame Hanska, fecero nel cervello dello scrittore («Splendeurs et misères des courtisanes», è stato finito nel 1847, tre anni prima della sua morte), una volta di più devo riconoscere che non vi può essere creazione tratta da una realtà anche resa con spigliatezza e brio, ma che solo lo scrittore vero riesce a cogliere le forme imperiture dell’animo umano.

  Sono su pagine di Balzac, va bene; il nome dice tutto, ma se fossi alle prese con la traduzione di Proust quando parla di Odette Swann o di Dostojewski (per assurdo perché non so una parola di russo) quando parlo di Sonia o di Grusegnenka, sarebbe lo stesso, imparerei la medesima lezione. La cortigiana ci è rivelata dall’invenzione — la veggenza — dello scrittore di genio. Mi fermo alla Esther di «Splendeurs et misères des courtisanes». Esther più di lady Roxana, più di Moll Flanders, più di Odette Swann, più di Manon, potrebbe essere la cortigiana tipo.

  Figlia di una bella olandese ebrea e cortigiana e di un usuraio, senza istruzione, senza educazione all’infuori di quella deleteria della strada, bellissima anch’essa, orfana e povera, Esther cadde nella prostituzione per vivere. Aveva le qualità delle donne della sua classe portate al massimo grado; il grado in cui se l’anima prevale sulla mente la cortigiana può arrivare alla redenzione, se la mente [prevale?] sull’anima alla vendetta, cioè a una posizione sociale, alla ricchezza, alla vera emancipazione dalle regole, le ipocrisie, il conformismo a cui obbediscono gli uomini intruppati nella società. Era generosa, buona, sincera, intelligente; sapeva ridere e parlare; sapeva vestirsi e spendere denaro; sapeva riconoscere a prima vista, nell’uomo, il difetto o il vizio da sfruttare; era, insomma, una cortigiana affascinante e acuta. Ma doveva incontrare, nella sua breve vita, oltre all’Amore, il Male. L’amore era incarnato da Lucien de Rubempré, poeta e bel giovane, squattrinato e debole di carattere, ambizioso senza la freddezza necessaria per arrivare. Il male era Jacques Collin, alias Vautrin, alias Trompe-la-mort, alias don Carlos Herrera, uno dei personaggi più grossi della letteratura, cardine della legge che vuole, a una società costituita, il suo opposto, il sovvertitore, il ribelle. Vautrin era l’opposizione in tutte le sue forme, il vizio in tutta la sua grandezza, il male in tutte il suo infinito. Vedere Esther accanto a Lucien de Rubempré — anima della sua anima, sua rivendicazione sociale in forma umana — e immaginare un piano grandioso attraverso il quale, sfruttando la cortigiana e le sue qualità di cortigiana, dare a Lucien onore, ricchezza, fama e lustro, fu tutt’uno. Vautrin, sotto la veste del prete spagnolo don Carlos Herrera, mosse alla conquista della cortigiana.

  Vi riuscì, e la tolse dal vizio, la mise in un collegio signorile, le fece dare educazione, belle maniere. Uno scrittore come Balzac non può mai sbagliare psicologicamente; quindi la povera Esther man mano sentiva la sua anima diventare pura, sentiva il suo corpo deperire. Il suo corpo non poteva vivere senza il disordine, la varietà: i pranzi succulenti o miserabili a qualsiasi ora, i sonni diurni, le orge notturne, il desiderio del maschio, la sensazione d’essere, ad ogni minuto del giorno e della notte, vicino a una fiamma divoratrice. Il bianco, il lineare, il pulito — l’innocenza insomma — la uccidevano.

  Vautrin dovette modificare i suoi piani; disse a Esther: «Vivrai di nuovo da cortigiana, ma la tua vita impura, come avrei voluto fare della tua vita pura, salverà Lucien». E riportò la bellissima ebrea nel vizio, costringendola a depredare garbatamente il vecchio banchiere de Nucingen, il Lupo cerviero. Non certo io mi dilungherò a parlare di uomini che vediamo ogni giorno, oggi che di lupi cervieri è piena l’Europa (non è Blaise Cendrars che in un recente articolo ha scritto: Balzac è l’inventore del mondo moderno?) e sarebbe troppo difficile riportare la verità, il sapore, la cattiveria dei rapporti tra la cortigiana e il cinico banchiere innamorato. Esther fece il suo mestiere, e lo fece bene, ma non bene fino in fondo perché amava Lucien. Era pronta a sacrificare se stessa, ma voleva una ricompensa. Vautrin la bollò con queste parole: «Mia cara, ho cercato di metterti sulla via del Cielo, ma la cortigiana pentita sarà sempre una mistificazione, anche per la Chiesa; e se ve ne fosse una ridiventerebbe cortigiana in paradiso. Sei nata cortigiana, vivrai cortigiana, morirai cortigiana, poiché, nonostante le seducenti teorie degli allevatori di bestie, non si può diventare, in questo basso mondo, che ciò che si è. L’amore in una cortigiana dovrebbe essere, come in tutte le creature degradate, un mezzo per diventare madre: fu, invece, amica femmina ...». Esther, insomma, non riesce, attraverso l’amore, a salvare nè se stessa nè Lucien, non sa arrivare all’atto di disinteresse totale in favore di un altro, le riesce meglio il suicidio.

  Traducendo parola per parola un libro si entra nell’anima, quasi, dello scrittore. E’ una violazione, certo, ma d’ordine superiore. Se colgo la stanchezza, la caduta di stile di Balzac, da quali illuminazioni sono ricompensati! Il personaggio che a poco a poco scopro mi si rivela forse meglio che all’autore stesso perché è fuori della fatica d’ogni germinazione, intero, vivo. Così, pure non avendo conosciuto mai di persona cortigiane posso dire di sapere come sono; così imparo (ma lo sapevo, lo sapevo!) che non vi è creazione o verità o scoperta che non sia illuminata dal genio.

 

 

  Marise Ferro, Balzac architetto, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno IV, Num. 151, 28-29 giugno 1950, p. 3.

 

  Balzac uomo, tutti lo sanno, ebbe diverse manie: quella degli affari (che gli andarono sempre male), quella degli oggetti antichi (per cui fu sempre derubato e imbrogliato) e quella delle case. Quest’ultima mania, che si ridusse a una necessità perché doveva correre da una abitazione all’altra per nascondersi ai creditori, gli permise di passare in trent'anni di vita, dalla soffitta della via Lesdiguières, dove incominciò a scrivere, alla ricchissima casa di via Fortuné (sic), dove morì invocando, si dice, il dottore Bianchon, il medico della Comédie humaine. I trent’anni fra la soffitta e il palazzo lo videro inquilino di tante case di Parigi e dintorni che è difficile enumerarle tutte. Quella della via Cassini e quella della via Basse sono le più famose. Ma la casa dove Balzac voleva effondere i suoi capricci architettonici rimase quella delle Jardies, nel villaggio di Ville-d’Avray, a pochi chilometri da Parigi.

  Il terreno delle Jardies divenne proprietà di Balzac nel 1837. Egli aveva qualche soldo, allora, guadagnato duramente con il «prodotto dei miei campi cerebrali, vigneti letterari e foreste intellettuali», e volle realizzare il sogno di vivere in campagna e di fuggire i creditori che a Parigi lo assillavano. Le Jardies, quindi, entrano nella storia letteraria. Erano una terra spoglia, incolta, che Balzac volle creare come uno dei suoi personaggi. Non vi riuscì, la natura è più forte dell’uomo; oppure, lasciamo questo scampo all’uomo, Balzac era romanziere, di genio e non era architetto di genio. Poiché volle egli stesso essere l’architetto della casa principale delle Jardies quella che avrebbe abitata. Ne fece il progetto e gli operai iniziarono i lavori.

  Nonostante le sue illusioni. Balzac vedeva che la casa sorgeva male, e viveva tra alternative di speranza e scoramento. «Le Jardies mi costano un occhio della testa — scriveva al la sua grande amica Zulma Carraud — e sarà un orrore». A casa finita la sua sorpresa fu superiore ad ogni suo scetticismo. «E la scala? Avete dimenticato la scala?» chiese ai costruttori. Già, mancava la scala, per la semplice ragione che non era nel progetto. Balzac voleva stanze larghe, quadrate, e tutto lo spazio era stato impiegato per dare la misura da lui voluta alle stanze. Egli non si scoraggiò: «La scala voleva farla da padrona in casa mia, bene, io metterò la scala alla porta». Fece proprio così, fece costruire una scala esterna che si arrampicava lungo la facciata e sulla quale si aprivano le porte dei piani principali. La casa delle Jardies, finita, assomigliò a uno châlet svizzero e a una torre insieme, oppure, come la definiva Balzac stesso, a «una pertica per pappagallo».

  Nonostante questa esperienza volle costruire anche il parco, dove non esisteva che un noce, un noce famoso, cedutogli dal Comune di Sèvres, con la prerogativa speciale all’albero, quella cioè di avere deposte al piede del suo tronco tutte le immondizie del paese. «Pensate — diceva Balzac a Victor Hugo che era andato a trovarlo — il denaro che mi procurerà quest’albero: concimerò tutta la regione!». «Per ora non vedo ancora il vostro guano ...» rispose lo scettico Victor Hugo. «Non ancora, certo, le Jardies non sono finite. Guardate, qui pianterò degli abeti, là dei pini, più in là larici, pioppi, faggi. Sono nell’età in cui posso piantare alberi, sicuro di vederli frondosi ...». Invece li vide, povero Balzac, arrivare solo alla statura del suo cane da guardia, cosa che gli fece esclamare, rivolgendosi all’amico Gozlan: «Léon, Léon, guardate come crescono i miei alberi, mi impediscono di vedere Turco!». Non solo gli alberi non crescevano, ma i muri di cinta crollavano, e sempre dalla parte del vicino, distruggendone le coltivazioni. La storia del muro di cinta è famosa negli annali delle Jardies perché, ricostruito cinque, sei volte, costò tanto a Balzac ch’egli finì col comperare il lotto di terra che lo delimitava per non avere più liti e processi. «Il rimedio è un po’ caro — esclamò — ma almeno il mio muro potrà crollare in casa sua».

  Neppure le aiole tenevano, neppure gli arbusti: ad ogni temporale, poiché il terreno era in forte pendenza, la pioggia portava via ligustri e rose, e Balzac a ciclo rasserenato si constatava sempre vittima di una inondazione. Tutti questi disastri non lo stancavano, ripiantava ligustri e rose, riedificava il muro e si consolava chiamando a raccolta mobilieri, tappezzieri, antiquari, decoratori. Egli voleva che l’interno delle Jardies fosse principesco. Scriveva, a carbone, sui muri freschi d'intonaco: Qui un basamento di marmo di Carrara; qui un rivestimento di legno di cedro; qui un affresco dipinto da Delacroix; qui una tappezzeria d’Aubusson; qui un camino di marmo cipollino; qui porte di Trianon; qui un quadro di Rubens, uno di Goya, uno di Raffaello ... Queste ricchezze rimasero scritte a carbone, ma altre, autentiche, riempirono le stanze, tanto che un bel giorno egli si trovò alla porta la muta dei fornitori. Impagati, bene inteso, e Balzac, si mise le mani nei capelli. Come fare? con che cosa pagarli? Balzac pensò bene di fuggire le Jardies, come aveva fuggito le sue altre abitazioni. Il tappezziere, lo stagnino, il falegname, lo stuccatore, l’antiquario suonavano ormai tutti i giorni alla sua porta, lo angariavano, minacciavano di denunciarlo. E non trovando denaro si impadronivano di ciò che potevano: lampade, libri, abiti ...

  Quanto era costata a Balzac le Jardies, casa di riposo, dove doveva finire i suoi giorni lontano da ogni assillo di denaro? Non si sa la cifra precisa; nel 1839, quasi tre anni dopo la compra del terreno e la costruzione della casa, egli scriveva alla fedele madame Carraud: «A voi posso confidare un segreto: tocco il fondo della più spaventosa miseria. Se sapeste che cosa mi è costato il muro, solo il muro delle Jardies!». Oltre a denaro le Jardies gli costavano tante umiliazioni e tanti dolori che la odiò. Fuggì a Parigi, in via Basse, casa a doppia uscita, che prese in affitto nascondendosi sotto il nome della sua governante. Forse i creditori non l’avrebbero rintracciato. Ma neanche in via Basse, nella casa che oggi è museo Balzac, egli trovò pace.

 

 

  Marise Ferro, La realtà e l’invenzione, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno IV, Num. 225, 23-24 Settembre 1950, p. 3.

 

  Irene entra nel mio studio, siede davanti alla mia scrivania, mi guarda e ride:

  — Mi avevano detto che il lavorò dello scrittore è spesso una lunga meditazione, ma tu non mediti, cara, dormi, mi dice. —

  Sì, casco dal sonno, stanotte avrò dormito tre ore ...

  — Hai dei dispiaceri?

  — No, la colpa è di un certo Léon Gozlan, mediocre giornalista del secolo scorso, il quale fu amico di Balzac e qualche anno dopo la sua morte scrisse un volume di ricordi «Balzac en pantoufles», che oggi si ristampa. Mai ho letto libro più irritante ...

  — E non ti ha lasciato dormire?

  — Sì, per la rabbia; i ricordi su Balzac sono così falsi, danno un’immagine del grande scrittore così meschina, che io, che lo amo, come sai, ne ho avuto il fegato rovesciato, e quindi il sonno. Se vuoi che ti riporti qualche frase di Gozlan o addirittura il racconto che più mi ha avvilita, lo faccio volentieri perché anche tu capisca che ...

  Irene, la quale mi conosce e sa che quando inforco il cavallo dell’indignazione letteraria nessuno mi ferma, mi interrompe e dice:

  — Evitami le considerazioni, che forse non capirei, e fammi il racconto del racconto che ti ha indignata, se così posso esprimermi ...

  — Benissimo, entro subito in argomento. Un giorno del 1844 Gozlan andò a trovare Balzac in rue Basse, a Passy. Era l’ora di cena e lo trovò davanti a un piatto di magnifiche pesche, in compagnia di Vidocq. Forse avrai già sentito parlare del personaggio, uomo di mente pronta e fredda, rotto a tutti i segreti della malavita parigina, ex-galeotto, che vendette i suoi servizi alla polizia francese e fu un poliziotto sorprendente. Pare che Balzac se ne sia servito come modello per il suo Vautrin. Dunque, Gozlan, in quella sera del 1844 entrò da Balzac e assistette alla sua conversazione con Vidocq. Vidocq diceva:

  «Mi sembra che vi diate molta pena, signor de Balzac, per inventare storie dell’altro mondo quando la realtà è sotto i vostri occhi.

  «Ah, credete nella realtà? Non vi credevo così ingenuo, Vidocq. Siamo noi, romanzieri che facciamo la realtà, mio caro.

  Vidocq sorrise con molta finezza e replicò:

  «Con tutto il rispetto che ho per voi, signor de Balzac, non vi credo capace di superare nel l’inventare la realtà, la realtà viva e vera. Se me lo permettete vi racconto un fatto reale, accaduto proprio a me, che sconfigge tutte le vostre invenzioni; un fatto così drammatico, passionale e logico nello stesso tempo che lo trascriverete nei vostri libri.

  Balzac, uomo paziente e curioso, diede a Vidocq il permesso di parlare.

  «Una notte del 1835 — incominciò Vidocq, — ero di servizio alla prefettura di Parigi quando vidi oltre i vetri della porta che immetteva sulla scala conducente agli appartamenti del prefetto, due donne agitate. Aprii la porta e chiesi che cosa volevano. Una delle donne, vestita da ballo sotto la cappa di pelliccia, coi fiori in testa, imbellettata, ingioiellata e meravigliosamente bella, rispose che desiderava vedere il prefetto. Non feci a tempo a rispondere che l’ora era inopportuna perché la porta dell'appartamento del prefetto si aprì e il suo valletto privato introdusse la donna. Io rimasi con l’altra, ch’era una cameriera, la quale entrò nel mio ufficio e si diresse subito alla finestra, da cui guardò fuori con angoscia. Anch’io guardai, e vidi una normale carrozza privata, col cocchiere in livrea a cassetta, che aspettava all’orlo del marciapiede. Ero perplesso, incuriosito, quando il valletto del prefetto mi venne a chiamare. Mi trovai così davanti alla donna di poco prima, pallida, disfatta, e la riconobbi: era la contessa Hélène B ... (scusatemi se non vi dico il cognome, la discrezione ...), moglie di uno degli uomini più nobili, più ricchi e più in vista di Parigi. Il prefetto mi disse: «Vidocq, un uomo noto e importante è morto qualche ora fa in casa della contessa ...

  «Benissimo, signor prefetto.

  «Il marito della contessa, assente da otto giorni, torna questa notte. Il corpo del morto è giù nella carrozza della signora, è necessario che la liberiate di quell’ingombro in modo da non suscitare scandalo.

  «E’ più difficile fare scomparire un morto che un vivo, signor prefetto ...

  «Mi raccolsi, pensai diversi strattagemmi che proposi alla contessa, la quali li rifiutò con orrore. Finalmente ne accettò uno: aiutato da un agente fidatissimo, mi sarei occupato del corpo morto estraendolo dalla carrozza, trasportandolo poi in un fiacre simulando l’ubriachezza, e l’avrei depositato alla porta della sua casa, in mano suoi domestici. Essi e i familiari avrebbero provveduto al morto.

  «A questo punto, caro de Balzac, immagino che vi piacerebbe sapere ciò che era successo in casa della contessa. Ve lo dico subito: la contessa che, in assenza del marito era andata a teatro col duca di K ... (il morto, bene inteso) aveva avuto il capriccio di condurlo in casa sua a bere una coppa di champagne. Si sa come finiscono queste cose. Il duca era in camicia, era animatissimo, innamoratissimo; ad un tratto, sul più bello di un motto spiritoso reclinò il mento sul petto e parve addormentarsi di colpo. La contessa, lo contemplò per un poco, poi lo toccò: era gelato. Lanciò un grido, e svenne. Accorse la fida cameriera, fece rinvenire la padrona, capì subito la situazione e disse: — Signora contessa, il signor conte ritorna dal suo viaggio tra qualche ora, deve salvare il suo onore, presto, presto, il corpo del signor duca deve uscire, dalla sua casa ... —. Il pericolo rese fulminee le due donne; la contessa rimise l’abito da sera, i fiori, i gioielli; la fida cameriera rivestì il duca morto, e trascinandolo con fatica le due donne lo trasportarono fino alla rimessa, lo nascosero in carrozza, poi svegliarono il cocchiere e gli ingiunsero di correre alla prefettura per un affare urgente. Il prefetto era molto amico del conte e la contessa di B ... accettò di aiutare la grande dama, ed ecco la ragione per cui fui chiamato.

  «Non mi rimaneva che provvedere in fretta al morto, chiamai il mio agente fidato, lo misi a parte della spedizione, scesi con lui alla carrozza. Che fortuna, il cocchiere della contessa dormiva con la frusta in mano. Io e l’agente prendemmo il corpo dell’importante personaggio, lo nascondemmo in una aiola, poi chiamai la contessa e la sua cameriera, le aiutai a salire nella carrozza vuota del macabro impedimento, e svegliai il cocchiere ordinandogli di ricondurre a casa la contessa. Era salva. Rimasti soli l’agente e io prendemmo il corpo del morto ciascuno per un braccio e lo trascinammo dal quai des Orfèvres al Pont-Neuf dove aspettammo un fiacre. Appena udimmo il rullo di una carrozza sul selciato di Parigi, simulammo l’ubriachezza, ci mettemmo a cantare, pencolando da tutte le partì col nostro morto sotto il braccio e fermammo il cocchiere ordinandogli: Portaci a casa, amico! Issammo il duca di K ..., che pareva il più ubriaco dei tre, ubriaco morto è il caso di dirlo, e demmo il suo indirizzo. A metà strada fermammo il cocchiere, discendemmo, sempre simulando l’ubriachezza, gli dicemmo che avevamo ancora voglia di bere e di seguitare la strada col nostro amico che dormiva, lui beato, fino alla sua casa. Così fece il cocchiere; arrivato alla porta del palazzo del duca di K ... volle aiutarlo a scendere dalla carrozza, si affacciò alla portiera e lanciò un grido: il morto era già sfigurato. Accorsero i famigliari, i domestici, il personaggio importante fu portato nel suo letto e ...

  «E? chiese Balzac.

  «... e l’indomani i giornali della capitale davano la notizia del tragico incidente accaduto al duca di K ..., morto in fiacre, ubriaco, nel fiore della giovinezza, dopo che i suoi compagni di baldoria lo avevano lasciato.

  «Il vostro racconto, caro Vidocq, è illogico, irreale, potrei confutarvi i fatti a uno a uno, e lo farò un’altra volta. Per ora ditemi soltanto che cosa fece fa contessa dopo il tragico incidente.

  «La cosa più logica per una fragile dama: morì di crepa cuore.

  «Oh, patetico! E il marito?

  «Il marito si ritirò dal mondo, andò a vivere all’estero, a Trieste. Una sera, nel palco vicino al suo, udì un francese che raccontava gli amori della sua defunta moglie agli amici, entrò nel palco, lo provocò, lo sfidò a duello e si lasciò infilare dalla spada del chiacchierone gridando: Basta! basta! non ne posso più!

  «Sempre più sorprendente! Un suicidio, dunque?

  «Sì, certo.

  «Per quale ragione, caro Vidocq? Avevate fatto le cose così bene, nessuno sospettava la contessa, come mai il conte conosceva la tresca della moglie?

  Vidocq ebbe un viso perplesso:

  «Già, disse, qui manca completamente il movente logico ...

  «E la realtà, voi sostenete, chiara come due e due fanno quattro ...

  «Già, perfettamente. C’è qual cosa che noi non sappiamo, un punto oscuro, un punto ...

  «Che nessuno chiarirà mai ...

  «Che qualcuno chiarirà invece, grido Vidocq trionfante. Sapete chi c’è giù ad aspettarmi, in serpa al fiacre? Il cocchiere di quella notte fatale, proprio lui!

  «Guarda le meraviglie del caso, sempre in concorrenza coi romanzieri: Chiamate il vostro cocchiere, allora.

  Il cocchiere chiamato e abilmente interrogato da Vidocq, che non per nulla era il re dei poliziotti, raccontò che la notte dell’incidente, aveva trovato nel suo fiacre un portabiglietti con dentro una lettera alla contessa di B ... e sopra l’indirizzo. L’indomani mattina, desiderando avere una mancia, aveva portato portabiglietti e lettera all’indirizzo segnato: rue Bellechasse, proprio nel momento in cui l’elegantissima dama e il marito stavano per salire nella loro carrozza. La dama vedendo il portabiglietti e la lettera era impallidita, e il marito aveva preso dalle mani del cocchiere le due cose.

  «Benissimo, esclamò Balzac quando l’interrogatorio di Vidocq fu finito, non manca proprio più niente alla vostra storia. Il duca sapeva, e quando ebbe la prova che anche il mondo sapeva, si fece uccidere. La storia è finita!

  «Non per me, non per me, signore, esclamò il cocchiere; io ho avuto di mancia da quel grande signore due franchi falsi ...».

  — Gozlan finisce così il suo racconto. Che cosa ne dici? — chiesi a Irene.

  — Dico che la storia è divertentissima, che mi ha interessato molto ...

  — Ma non cogli la volgarità l’incongruenza, l’inverosimiglianza? Rifletti un po’ ...

  — Io non voglio riflettere, mi hai divertita, e basta. Feci un gesto d’orrore e dissi:

  — Di che cosa sono capaci lettori, mio Dio! Ecco perché esistono e hanno fortuna tanti cattivi romanzieri ...

  — A quale categoria vorresti appartenere? — mi chiese Irene con molta impertinenza.

  Divenne opportuno, almeno per me, cambiare discorso.

 

 

  Achille Fiocco, Balzac commediografo si riscatta con “Le Faiseur”, «La Fiera letteraria Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno V, Numero 34, 3 settembre 1950, p. 5.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 555.

 

  Una trasposizione scenica, sufficientemente consapevole, della propria autobiografia, s’è avvicinata ai grandi modelli di Goriot e di Grandet.

 

  Chi, per dannata ipotesi inavvertito, trascorra dal romanzo al teatro di Balzac, ha l’impressione di trovarsi nel sottoscala di un palazzo. Non che la composizione nel dialogo delle commedie varii gran che da quella usata nel dialogo della narrativa, o che manchino elementi avventurosi nell’intrigo, come spesso capita in questa, o gli interessi etici e ideologici dello scrittore sieno notevolmente diversi; ma è un atto che, coniatosi nella rappresentazione impersonale e autonoma, priva della suggestione dello «storico», l’autore lascia apparire una piattezza o una stereotipia di tratti che nel romanzo erano spesso, se non sempre, rifusi dalla vasta tela, dall’impeto generoso o dalla eloquente discretezza (tanto più pregevoli in lui) delle illuminazioni interiori. Nessuna traccia di caratteri o appena sbozzati. Quella sua virtù peculiare di sorprendere col rinnovato apporto di note sempre in una direzione, come un soggetto che il fotografo si diverta a ritrarre da vicino, da lontano, o come direbbe un cineasta in primo piano o a campo lungo, ma sempre in un senso, non si ritrova più qui. La sua preoccupazione qui è l’intrigo, il colpo di scena, il contrasto rozzo e serrato delle passioni. Sembra quasi che lo scrittore tema di non essere mai abbastanza schematico ed esteriore, di non entrare sufficientemente nel gusto del grosso pubblico; è l’altro errore, nel quale cade il narratore che cerchi sottrarsi al proprio destino di letterato (senza sapere che il Teatro, quando è poesia, cioè teatro nel senso più ampio del termine, una specie ardita, la più viva e concreta, di letteratura; e con questo si vorrebbe anche chiarire l’equivoco che porta a chiamare letterario tutto ciò che a stento è falso o abrogato e che più giustamente si dovrebbe semmai chiamare libresco).

  Vogliamo anche farci entrare nel conto la sfortuna, della quale furono quasi costantemente accompagnate le prove sceniche dello scrittore?

  Sta di fatto che Balzac si affacciò tardi al teatro, quando la sua reputazione di romanziere era ben stabilita; probabilmente, pensava di essersi meglio ricevuto. Ma dovette ricredersi. Perché, quando nel 1839 tentò il Teatro della Renaissance con L’Ecole des Ménages, fu un insuccesso. E altrettanto avvenne sulle scene della Porte-Saint-Martin per Vautrin, la riduzione che egli stesso, il romanziere, aveva tratto dal celebratissimo Père Goriot e non fu replicata anche perché Frédérick Lemaître che l’interpretava aveva avuto la bella idea di truccarsi da Luigi Filippo e la polizia aggiunse il suo divieto. Balzac se la preso un po’ con tutti, tranne che con se stesso: con l’attore pel trucco, coi giornalisti pei giudizi malevoli espressi, sulla commedia. E per darsi ragione tornò alla carica, nel ’41, all’Odéon, con Les Ressources de Quinola, ispirato all’invenzione del battello a vapore e che ancora, oggi si legge per la fattura delle scene: altro insuccesso clamoroso. Ancora una volta, Balzac se ne consola, dichiarando di aver preferito affrontare l’alea di un disastro con una platea composta esclusivamente di spettatori paganti, piuttosto che per mezzo della claque (dal che poi deduce la necessita di quest’ultima). Identica sorte, al Teatro Gaîté, ha due anni dopo il «dramma nero» di Pamela Giraud. I suoi viaggi a Pietroburgo, a Dresda, e in Italia, accanto alla dama che poi sposò, spiegano il silenzio dei seguenti cinque anni, al termine dei quali il nome di Balzac riappare sul cartellone dei teatri parigini, questa volta l’Historique, con La Marâtre: finalmente, un successo. Ma era scritto che il prosatore non dovesse cogliere il frutto delle sue fatiche teatrali, e il trionfo che salutò la rappresentazione della sua migliore commedia, Le Faiseur ou Mercadet, non toccò la persona fisica dello scrittore: Balzac era morto da un anno.

  Quante prove, quanto duro cammino anche qui, per ottenere l’opera duratura? Anche La Marâtre, di cui si cita spesso la definizione dell’autore, dramma intimo in cinque atti e otto quadri, è tutt'altro che un dramma intimo, nel senso che diamo oggi a questa parola, cioè non solo domestico o borghese, ma intimista, raccolto, sottaciuto, smorzato. E’ la lotta di due donne, una matrigna e la figliastra, per il possesso di un nome, finita col suicidio della giovine coppia, all’ombra dell’incredibile odio politico di un generale napoleonico.

  Lotta a coltello, sotto l’incubo del generale che, per la verità, oggi non farebbe spavento a nessuno, imperniata su un pacchetto di lettere compromettenti e giuocata sopra uno sfondo discretamente macchinoso, con impiego di sonniferi, di veleni, e intervento di regi procuratori e giudici inquirenti, attraverso scene di una drammaticità esasperata: c’è stato il «dramma lacrimoso» e vi si annuncia il «basso romanticismo» (non per niente, Hugo è spesso a fianco del suo confratello in questa fase della battaglia).

  La gloria di Balzac a teatro è riscattata da Le Faiseur: Mercadet, l’affarista, è la figura che in un tono innocuo, richiama alla mente i grandi modelli di papà Goriot e di Grandet ed è la trasposizione scenica sufficientemente consapevole della propria autobiografia. In un tono innocuo, perché l’autore si è contentato di seguire, per quanto possibile, il procedimento del romanzo, presentandoci il personaggio bell’e definito sin dal principio, ma senza impegnarsi seriamente nel problema, disposto a godere e a far godere lo spettacolo di un uomo preso negli ingranaggi della vita sociale e capace di sbrogliarsene o quanto meno difendersene con le sue mille risorse. Siamo in una lepida atmosfera (c’è una vecchia serva che fa da «cuscino», c’è una ragazza, Giulia che vuole unirsi all’uomo del cuore e, pur contrastando la volontà del padre (Mercadet) che la sospinge in braccia a Michonnin, il falso creso, più squattrinato di lui, la corrergli in aiuto al momento buono, e c’è una serqua di creditori, tutti ben delineati, ma così pronti a dar fede al debitore), un’atmosfera che un nulla basterebbe a trasformare in fiabesca, se non fosse quel certo carattere veristico nell’impianto della vicenda, da commedia di costume, il continuo riferimento al tempo nel linguaggio e negli atti dei personaggi: e diventa favola, infine, quando, dopo aver parlato per quattro atti dell’inesistente socio Godeau, partito inopinatamente per le Indie con la cassetta del valsente, Mercadet si sente annunciare che questo Godeau è veramente tornato e chiede di parlargli. Non c’è più bisogno della mistificazione architettata; quasi a premiare l’estrosa fatica di Mercadet e l’onesto consiglio della sua sposa, che ha rattenuto Michonnin dal farla da «compare» come finto socio, il genio della Commedia evoca, sia pure con qualche sforzo, in Godeau la provvidenziale Madama Pace avanti lettera di Balzac. Il Denaro, la dura musa di B[a]lzac, dopo aver fatto le sue prove a teatro nelle Ressources, ridiventa nell’Affarista la materia plastica dello scrittore e vi intesse la grata vicenda della fantasia che sa crearlo dal niente.

 

 

  Eugenio Gara, Il ritorno del Mosè” alla Scala. “In ginocchio, Beethoven! scrisse l’entusiasta Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 86, 11 aprile 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 558.

 

  Il ricordo dell’edizione parigina del 1827 è rivissuto dal grande romanziere nelle pagine di “Massimilla Doni,, con la descrizione di una serata alla Fenice.

 

  Un’opera italiana ha dunque bisogno di un cicerone?

La domanda non è nostra ma di un personaggio di Balzac, al centro di uno di quei vasti racconti che incorniciano La peau de chagrin nella collana degli (sic) Études philosophiques, e l’opera di cui si parla è proprio quel Mosè di Rossini che ritornerà alla Scala dopo molti anni di silenzio. Balzac l’aveva sentito nell’edizione parigina del 1827 ampiamente rimaneggiata dall’autore, ricevendone una grande impressione; e quando, a dodici anni di distanza, scrisse il racconto di cui parliamo, cioè Massimilla Doni, sistemò quel ricordo musicale nel vivo della vicenda. Si tratta di un soggetto veneziano, con personaggi che si chiamano Vendramin e Memmi, e quella che si potrebbe definire la sua dominante psicologica è tutta ambientata in un palco della Fenice, mentre sul palcoscenico si sta appunto rappresentando il Mosè, «un immense poème musical assez difficile à comprendre du premier coup»: parole, queste, messe in bocca a un Cataneo siciliano, marito della protagonista, ma che quasi certamente rispecchiano il preciso pensiero dello scrittore. Il Mosè lo affascina «anche» perché meno orecchiabile dei melodrammi a cui è abituato, come assiduo frequentatore del teatro italiano di Parigi: «Caro Rossini. — dice — tu hai fatto bene a gettare quest’osso da rodere ai tedeschi che ci rifiutavano il dono dell’armonia e della scienza!». Battuta polemica che potrebbe essere, mettiamo, una risposta indiretta a certe frecciate velenose di Carlo Maria Weber. Immagine felice, comunque, purtroppo guastata a fin di pagina da una delle brucianti esagerazioni balzachiane: «Solo un italiano poteva scrivere questo tema fecondo, inesauribile e in tutto dantesco. Voi credete che non sia niente il poter sognare la vendetta, almeno per un momento? Vecchi maestri tedeschi, Haendel, Sebastiano Bach e tu stesso Beethoven, in ginocchio, ecco la regina delle arti, ecco la trionfante Italia!».

 

Il vizio del pentagramma.

 

  L’esclamativo è il suo, del sanguigno Honoré, e sarà bene lasciargliene la responsabilità. A lui, e un poco forse al musicista Strunz che assistette il romanziere nel fitto lavoro di commento e d’interpretazione. Se il maestro, che in questo caso non è Balzac, avesse messo in guardia lo scrittore, la faccenda di quel Bach in ginocchio (di cui Rossini sarà stato il primo a sorridere) probabilmente non sarebbe mai venuta fuori. Bisognava dirglielo, a Balzac, a costo di rimetterci una dedica — quella di Massimilla Doni appunto — che raccomanda ai posteri il nome, per altre vie non certo popolare, di Jacques Strunz. In essa, lo scrittore ammette con franchezza che il racconto non sarebbe nato senza la pazienza e le cure del musicista, e conclude con «una testimonianza della mia riconoscente amicizia, per il coraggio col quale avete cercato, forse senza successo, d’iniziarmi alle sublimità della scienza musicale ... Alcuni mi tacciano d’ignorante, non immaginando né i consigli che io devo a uno dei nostri migliori critici musicali nè la vostra coscienziosa assistenza. Sarei dunque stato il più infedele dei confidenti?».

  In realtà, i contatti di Balzac con la musica erano cominciati molto prima della nascita di Massimilla Doni, di Gambara (lì campeggia Meyerbeer col suo Roberto il Diavolo), di quella Béatrix che per poco non lo costrinse a battersi con Liszt, e di tutte le pagine disseminate qua e là — in Louis Lambert come in Maître Cornélius, in Ursule Mirouët come nella Duchesse de Langeais — dove l’ossessione dell’organo e del canto gregoriano è quasi costante. La passione letteraria non lo aveva mai distaccato del tutto dal conturbante vizio del pentagramma. A vent’anni, dopo infiniti contrasti con la famiglia, riesce ad avere una soffitta tutta per sè e vi si rinchiude come un prigioniero, per scrivere una tragedia, nientemeno, un Cromwell che precede l’altro di Victor Hugo senza essere migliore di quello, anzi; ma anche lassù il giovane Onorato ha un piccolo pianoforte, e fra una tirata e l'altra dei suoi affannosi protagonisti si mette alla tastiera e suona un pezzo di Cramer, quel Sogno di Rousseau che è per lui «lo slancio di un’anima bella verso il cielo; dopo quella poesia veniva la voglia di pregare».

  Prigioniero, assediato dagli impegni letterari, dalle famose tormentatissime bozze di stampa in un certo senso egli fu sempre, anche negli anni della rinomanza: e quasi sempre, come nella prima giovinezza, fu proprio la musica a tirarlo fuori, a costringerlo a periodiche evasioni. «Dopo che vi ho scritto — dirà in una lettera del ‘34 all’amata lontana, cioè alla signora Hanska — non v’è stato altro che lavoro nella mia vita: interrotto solo da qualche buona piccola orgia di musica. Noi abbiamo qui il Mosè e la Semiramide, messe in scena ed eseguite come queste opere non lo saranno mai più, e tutte le volte che danno l’uno o l’altra io ci vado. Sono i miei soli piaceri». E ancora, lo stesso anno, alla medesima corrispondente: «Mi sono preso un posto in un palco all’Opéra, e ci vado due ore ogni giorno: la musica, per me, significa ricordare. Sentire della musica vuol dire amare meglio ciò che si ama ... Così il lunedì, il mercoledì e il venerdì, dalle sette e mezzo alle dieci, io amo con delizia. Il mio pensiero viaggia».

 

Liszt e Maria d’Agoult.

 

  Tutto bene. Ma poiché è difficile che frequentazioni così lunghe e appassionanti scorra­no via lisce, senza dar luogo a incidenti, anche Balzac a un certo punto ebbe il suo. Tanto più che la musica è una cosa, e i musicisti — soprattutto le donne dei musicisti — sono un’altra cosa. Ora accadde che nel ‘38 Balzac si mise a scrivere un romanzo intitolato Béatrix, la cui protagonista era il ritratto, parlante anche troppo, di Maria d’Agoult. bella e terribile donna che Liszt appena qualche anno addietro chiamava con dolci nomignoli come Mariotte, Myoult e persino «Bell’Arcangelo». Intendiamoci, tanto per non far torto a nessuno, nella sua nuova opera il romanziere aveva fatto una spietata galleria di parecchi altri amici suoi: a cominciare da George Sand, che sotto la spoglia di Felicita de Touches era dipinta come «une histrionne. uve baladine» eccetera, per finire con lo stesso Liszt, trasformato in un Gennaro Conti, musicista napoletano, «nature allarmante en apparence et détestable au fond» e per di più «charlatan dans les choses du coeur». Còlti dal vero i protagonisti, insomma, e più d’una macchietta di contorno.

  All’apparire del romanzo (della prima parte, precisiamo, il seguito essendo uscito poi nel ‘44) i salotti parigini naturalmente ci si divertirono un mondo. Ed ecco la signora d’Agoult che si precipita nello studio di Liszt con gli occhi accesi del suo Sturm und Drang privatissimo. «Ah, potete vantarvi di avere dei begli amici. Balzac, per esempio, che scrive un romanzo su di me, mi denigra, mi rende ridicola in faccia a tutti. E’ un’abominazione, un’infamia. Dovete chiedergli soddisfazione. Il vostro onore è impegnato quanto il mio in questa faccenda».

  Certo l’ardente Liszt di qualche anno addietro, il cavalleresco Franz della preghiera «Mio Dio, mio Dio, non separarci mai. abbi pietà di noi», si sarebbe lanciato subito sulle piste dell’incauto scrittore. Ma adesso la cosa era molto diversa. «Io non sentivo menomamente il bisogno», dirà egli un giorno all’amica Janka Wohl, «di andare a segarmi la gola con Balzac a causa d’un romanzo e di rendermi responsabile della condotta della signora d’Agoult». Il sangue magiaro era dunque in un periodo di raffreddamento? Fatto sta che egli lesse a sua volta il romanzo, non si riconobbe (o non volle riconoscersi!) nel personaggio di Gennaro, e viceversa trovò che quello della Beatrice balzachiana era un ritratto magistrale: «un’immagine così precisa che io, che pure credevo di conoscere a fondo quella donna, ne fui incantato e la compresi meglio». Morale: il duello non ci fu, i posteri non ci rimisero — come avrebbe potuto benissimo accadere, in tempi di scontri all’ultimo sangue — nè le Illusioni perdute nè le Rapsodie ungheresi, e tutto finì lietamente intorno a una piccola tavola imbandita dove sedevano due uomini e una donna: Balzac. appunto, e Liszt con la signora d’Agoult. (La quale, sia detto per incidenza, non dimenticò affatto l’episodio, e di lì a una quindicina d’anni, ormai separata da Franz, pubblicò lei pure un romanzo a chiave, Nélida. il cui personaggio centrale era un’acre antologia dei difetti lisztiani. Bell’esempio di vendetta a scoppio ritardato).

 

«Roberto il Diavolo».

 

  Ma l’opera in cui Balzac ha meglio definito la sua intesa spirituale col mondo della musica resta probabilmente Gambara. Anche qui i personaggi principali sono italiani: un milanese conte Andrea Marcosini — forse ispiratogli dalla presenza a Parigi del principe Belgioioso —, l’affascinante Marianna, l’oste Giardini e infine il protagonista, quel liutaio cremonese geniale e allucinato che ha una parentela così evidente con i musicisti «fantastici» di Hoffmann. Diversi pensieri che a noi sembrano molto «moderni», come quello dell’esistenza della musica indipendentemente dall’esecuzione hanno già nelle pagine di Gambara la loro compiuta definitiva espressione. E così in difesa dell’ideale musicale «que nous avons tué» con cui si chiude il racconto.

  C’è purtroppo, anche qui. una macchia: quella citazione del Don Giovanni a proposito di Meyerbeer. Ma Balzac era sotto l’impressione d’uno spartito che in quel momento faceva furore, Roberto il Diavolo. E dunque mettiamo il peccato sul conto del Maligno, piuttosto che a debito dello scrittore. Tanto più che, considerato bene il pro e il contro, la partita di Balzac con la musica si chiude infine con un attivo intelligente e affettuoso.

 

 

  Eugenio Gara, E se la bella Olimpia avesse sposato Balzac?, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 192, 13 agosto 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 558.

 

  Diaristi del tempo affermano che la Pélissier, seconda moglie di Rossini, era stata precedentemente corteggiata, senza fratti, dall’autore della “Comédie Humaine ...

 

  Il lettore di Balzac che in questo primo centenario della morte, 18 agosto del ‘50, spingesse il proprio scrupolo, o la curiosità, fino a dare uno sguardo ai carteggi del romanziere, sarebbe certo sorpreso nel trovarvi citata più volte la signorina Olimpia Pélissier, non ancora moglie di Rossini in quegli anni. E citata, diciamolo pure, con un’acredine, una mancanza di cavalleria ch’egli riservava di solito alle donne che gli avevano detto di no. Dobbiamo dunque credere a quel brano delle memorie del dott. Ménière dov’è scritto che «le cher écrivain eût volontiers associé sa vie à celle de la dame», cioè che, potendolo, l’avrebbe magari sposata lui prima di quell’altro grand’uomo?

  Chiacchiere nei salotti dell’Ottocento se ne facevano tante, e il dott. Ménière era in grado di raccoglierle meglio degli altri, essendo uno specialista delle malattie dell’orecchio. Uno che riesce ad assicurarsi un posto nella storia della medicina come scopritore di un certo tipo di disturbi auricolari dovrebbe anche poter distinguere tra parole buone e parole false. Conviene quindi sentirlo: la sua annotazione è del 1855, e ricorda fatti e discorsi vecchi di un buon quarto di secolo. «Il mio amico Schedel ha conosciuto bene M.me Rossini, che io stesso vidi, molto tempo fa, nei giorni dei suoi successi e dei suoi splendori. Il mio amico mi ha dato alcuni particolari curiosi su questa donna che Balzac credette di adorare e che avrebbe poi tratteggiata in un suo romanzo, La peau de chagrin. A quel tempo io vedevo spesso Balzac. Il celebre romanziere lottava per la vita. Egli corteggiava la signorina Pélissier, che aveva allora un vero salotto pieno di gente di qualità in rue Neuve-du-Luxembourg. Essa riceveva il duca di Fitz-James e altri personaggi politici. Possedeva 25.000 franchi di rendita, tralasciando gli accessori, e il caro scrittore avrebbe assodata volentieri la sua vita a quella della signora, la quale aveva molto spirito e molta disinvoltura. Ma essa sdegnò il romanziere che per tutta la vita portò la pungente amarezza di quel rifiuto».

  Certe affermazioni dei contemporanei, autorevoli e no, sono sempre un poco sospette, e probabilmente anche questa del Ménière sarebbe già archiviata da un pezzo, se ad avallarla non fosse poi intervenuto un balzachiano illustre come il visconte Spoelberch de Lovenjoul. Il quale aveva naturalmente altre informazioni, altre fonti: ad esemplo la testimonianza di Amedeo Pichot: uno storico, questo, un erudito che merita almeno qualche riguardo. Sentiamo anche lui: «Chi oserebbe dire ancora che le due eroine della Peau de chagrin, non sono dei ritratti, individualità trasportate con la loro propria vita nel romanzo? Noi non siamo ben sicuri di conoscere Balzac, ma abbiamo conosciuto Foedora, la femme sans coeur. E crediamo di aver incontrato in casa sua il preteso Raphaël. (Questo Raphaël, protagonista del romanzo, è lo stesso Balzac, in un’allucinante proiezione di se stesso più giovane). Noi c’eravamo la sera in cui egli si acquattò nella camera di lei, dietro le tende della finestra, per assistere indiscretamente alla sua andata a letto».

  Ora, poiché nel romanzo l’episodio del personaggio nascosto dietro la tenda eccetera c’è sul serio, resta da vedere se il grave Pichot, nell’attribuirgli quel carattere di «cosa vista» non si fosse abbandonato anche lui a una spiritosa invenzione. Di positivo noi posteri sappiamo solo una cosa, anzi due. Primo: che nel periodo in cui scriveva La peau de chagrin, cioè fra il 1830 e il ‘31, il romanziere frequentava la casa di Olimpia Pélissier, nubile per lo stato civile. Secondo: che voci di una possibile alleanza amorosa tra lei e Onorato dovettero certamente correrne sui boulevards e nei caffè, dal momento che Balzac si affannò tanto poi a giustificarsi. E non solo presso Laura de Berny, la sua dilecta allora al crepuscolo, ma anche più tardi, di fronte all’adorata Evelina. Chi volesse infine ricorrere al metodo induttivo, potrebbe soffermarsi su un altro particolare: in quel 1831, stanco della lunga relazione con la Berny, oppresso dai debiti, Balzac pensava realmente di prendersi una moglie (con dote), tant’è vero che chiese la mano di Eleonora de Trumilly, figlia di un barone colonnello d’artiglieria, e se il matrimonio non si fece fu semplicemente per il rifiuto della ragazza.

  Olimpia invece non era più una giovinetta. Aveva passato la trentina, conosceva la vita e le sue burrasche, ma la dicevano navigatrice espertissima. In realtà si chiamava Descuillier e quell’altro nome, Pélissier, era un nome d’arte, assunto dalla ragazzina quando si destreggiava — piuttosto male perché negata alla musica, quindi al ritmo — nelle ultime file del corpo di ballo dell’Opéra. Bella però, e intelligente parecchio, sicché la scala dorata della galanteria fu da lei percorsa a due, tre gradini per volta. La sua ricchezza attuale traeva origine dal generoso lascito di un vecchio protettore americano. Il suo benevolo, imparziale atteggiamento verso le arti è dimostrato dai due collages, prima con la pittura rappresentata da Orazio Vernet, poi con la letteratura rappresentata da Eugenio Sue. (Questo, quando la musica non era ancora in vista). Ma certo il carattere non doveva essere molto accomodante, se le sue baruffe col Vernet sono rimaste così celebri. Il cronista infatti ci descrive in modo molto colorito il pittore che lascia furibondo la casa dell’amante e costei che dalla finestra gli scaraventa addosso cuscini e tappeti, tutto quel che le capita sottomano. «On disait aussi qu’elle avait voulu l’égorger, car elle était violente en amour».

  Passata alla letteratura con l’autore dei Misteri di Parigi, le cose non erano molto migliorate, e anche qui ci furono distacchi seguiti da riconciliazioni, fino al taglio netto finale. La sua amicizia con Balzac — a sentire quest’ultimo — avrebbe avuto origine dal fatto che Onorato cercava di metter pace tra i due tempestosi innamorati, qualche volta con esito felice. Tale versione egli darà parecchio dopo, nel ‘33, anche alla gelosa signora Hanska: «Due anni or sono, Sue litiga con una cattiva cortigiana, celebre per la sua bellezza. Io mi sforzo per riconciliarli e subito mi attribuiscono quella donna. Il signor Fitz-James, il duca di Duras, la vecchia corte, andavano da lei per chiacchierare, come su un terreno neutro, come si va nei corridoi delle Tuileries per incontrarsi; ebbene, la gente voleva che io fossi più schizzinoso di quei signori! Insomma, per una specie di fatalità, io non posso fare un passo senza che sia interpretato a rovescio. Una bella punizione, la celebrità». Gli pare d’essere letteralmente perseguitato. Si reca da Rossini per un autografo? E «voilà qu’il me fait diner avec sa maîtresse, qui est précisément la belle Judith ...».

  Tutto spiegato, per il momento. Ma Evelina Hanska, sebbene vivesse in Ucraina, a migliaia di chilometri di distanza, non doveva mancare d’informatori spregiudicati e tenacissimi se dopo altri tre anni, nel ‘36, Onorato era costretto nuovamente a difendersi. Stavolta le mormorazioni riguardano qualche suo incontro con la Pélissier all’Opéra e al Teatro degli Italiani. Contatti accidentali sul serio, adesso, tanto l’uno che l’altro essendo avviati su strade così diverse. Ma far tacere i parigini non è facile e bisognerà quindi adattarsi a qualche sacrificio «Se la calunnia, che non rispetta niente, lo esige, io rinunzierò anche alla musica. Lì ero in mezzo a gente che mi nuoceva e non mi stimava. E’ stato necessario trovar posto altrove e, in coscienza, non ho voluto saperne del palco di Olimpia. Lasciamo andare questo argomento».

  Interessante, certo, sarebbe sentire l’altra campana, la versione di Olimpia insomma. Ma lei non scriveva niente, nemmeno diari o memorie. E del re-sto nel ‘32, a Aix-les-Bains, s’era incontrata con Rossini — un Rossini che aveva molto bisogno di cure e distrazioni — e ormai il passato vicino e lontano era sepolto. Non ebbe una stampa tutta favorevole, povera donna, nemmeno quando, nel ’46, morta la prima moglie di Gioacchino, potè portare legalmente quel grandissimo nome. Fu una buona moglie, devota. premurosa, risparmiatrice quanto l’altra era stata scialacquona. E anche divertente.

  Il tramonto della sua bellezza avvenne con discrezione, ma naturalmente avvenne. C’è un suo gustoso ritrattino, tracciato da Eduard Hanslick, il quale frequentava le famose soirées dell’autore del Barbiere quando era a Parigi come critico musicale della Presse, dunque nel ’55 o ’56 Ecco qua: «Quanto alla signora Rossini, non ho niente da dire salvo che era ricca e che era stata bella. Un naso romano, ardito e scultoreo come una torre risparmiata dal tempo si elevava tra le rovine della sua antica bellezza. Il resto era coperto di diamanti».

  Leggermente crudele, forse. Ma non dimentichiamoci che questo Hanslick era abituato a malignità ben maggiori. Wagner, che ne sapeva qualcosa, lo ha immortalato infatti nel Beckmesser dei Maestri cantori. Se Olimpia avesse potuto prevederlo, chi sa, lo avrebbe trovato anche troppo gentile.

 

 

  Eugenio Gara, Vita affannosa di Balzac. Per imparare a scrivere pubblicò sette romanzi. Il 18 agosto è ricorso il primo centenario della morte del grande scrittore francese. Ritratto biografico di Eugenio Gara. Prima puntata, «Oggi. Settimanale di politica attualità e cultura», Milano Anno VI, N. 34, 24 Agosto 1950, pp. 12-13.

 

  Ormai è provato che un ragazzo di dieci anni può benissimo coltivare delle ambizioni letterarie e al tempo stesso non saper scrivere con esattezza la parola “quaderno”. Ciò accadde nel 1809 a un allievo del collegio di Vendôme, il quale in una letterina alla madre diceva d’essersi fatto uno speciale chayer — e non cahier per la bella copia dei chayers più correnti. E il bello è che in quella medesima lettera il ragazzo assicura d’avere dei buoni punti. Egli è guascone d’origine, e una certa tendenza a vedere tutto grande non gli mancherà mai nella vita: nemmeno quando i suoi quaderni, senza più errori d’ortografia e popolati di personaggi immortali, avranno lettori in mezza Europa. Per adesso però le cose stavano diversamente e i suoi insegnanti lo caricavano di classici pensi: pagine e pagine che il piccolo ribelle doveva riempire, scrivendo infinite volte una di quelle massime morali che i padri Oratoriani prediligevano. Ma il ragazzo aveva inventato una penna antitortura, la sua famosa plume à trois becs, con la quale il castigo veniva ridotto esattamente di due terzi. Non doveva essere facile dominare quell’allievo, della cui permanenza a Vendôme i registri del collegio hanno lasciato una traccia precisa: «Onorato Balzac, età anni otto e cinque mesi. Ha avuto il vaiolo; senza infermità. Carattere sanguigno, soggetto a infiammazioni dovute a qualche febbre di calore. Entrato in convitto il 22 giugno 1807. Uscito il 22 aprile 1813».

 

L’infanzia tra “Cina e Cinesi’.

 

  Nacque a Tours il 20 marzo (sic) 1799, alle undici del mattino. A Tours i Balzac erano capitati dopo diverse peregrinazioni dovute ai cento mestieri esercitati dal padre di Onorato. In realtà venivano da Montirat presso Albi (il ramo paterno, intendiamo: la madre, una Sallambier, era invece parigina) e non si chiamavano nemmeno Balzac ma Balssa, parola con cui in Linguadoca s’indicava una “grande rupe”. La modifica del cognome, compresa l’aggiunta di quel “de” — de Balzac — che più d’un biografo attribuì allo scrittore, è opera del padre. Il quale al momento non poteva certo prevederlo, ma si risparmiò così molte domande curiose e imbarazzanti quando, nel 1819, un suo fratello minore rimasto laggiù al paese, Luigi Balssa detto il Principe, fu ghigliottinato per aver ucciso una donna. (Si disse. Più tardi invece saltò fuori l’ipotesi d’un errore giudiziario. Ma se i familiari ne fossero stati davvero convinti, credete che Onorato non avrebbe impugnata la penna per difendere la memoria dello zio?).

  Contadini, dunque, all’origine. E tuttavia Bernardo-Francesco, proprio come il César Birotteau descritto poi da suo figlio, andò presto alla conquista di Parigi: dove lo si vide segretario del Gran Consiglio sotto Luigi XV, impiegato al ministero della marina durante la rivoluzione, quindi funzionario alla guerra e altre cose ancora. Passato a Tours con la sussistenza, questo Fregoli del trasformismo burocratico divenne infine amministratore dell’ospedale. S’era sposato tardi, passati i cinquanta, con una ragazza di diciotto anni, e per di più bella e con 250.000 franchi di quelli d’allora. Era un curioso tipo, il signor Francesco. Filosofo e riformatore, discepolo dichiarato di Rousseau, scrisse tra l’altro un opuscolo che un poliziotto coscienzioso dovrebbe oggi assolutamente rintracciare: si tratta di una Memoria sui mezzi per prevenire i furti e gli assassinii, stampata nel 1807. Egli aveva la fissazione, il culto della longevità. Tutti i suoi calcoli personali erano fatti sulla misura di un’esistenza almeno secolare (a buttarli all’aria si incaricò poi la morte con un onesto anticipo), e questa “teoria della lunga vita” finì per fare di lui un uomo assorto, che dedicava il proprio tempo a strani studi: oggi agli antipapi e agli scismi, domani all’antica civiltà dell’oriente più lontano, tanto da far dire a Balzac: «La mia infanzia è stata cullata tra Cina e cinesi».

  In queste condizioni, si capisce subito il predominio che in famiglia ebbe la giovane signora Laura. (La prima delle sue Laure, che furono molte e importanti, come vedremo). Graziosa, fine, ma di carattere fermo, duro all’occorrenza, presto il vero capo di casa fu lei. I quattro ragazzi passavano così dall’indulgenza piuttosto distratta del padre al secco rigorismo imposto dalla madre: la quale ultima s’era scelto un buon capo di stato maggiore nella governante, una signorina Delahaye. Simili atmosfere son fatte apposta per creare tra fratelli ardenti amicizie che durano poi tutta la vita. È il caso appunto di Onorato con la sorella Laura (e due), nata un anno dopo di lui. Erano stati insieme a balia a Saint-Cyr-sur-Loire, presso la moglie d’un gendarme, e c’erano rimasti a lungo, avevano imparato a capirsi. Onorato era il cavaliere-protettore, Laura la tenera confidente. Posizioni che su per giù non cambieranno nemmeno quando, maritata con un gentiluomo di provincia, lei si chiamerà madame Surville e andrà a stabilirsi a Bayeux. La dedica a Laura di Un début dans la vie è già abbastanza eloquente anche per quel che riguarda le sue virtù di collaboratrice: «Che il brillante e modesto spirito che mi ha dato il soggetto di questa scena, ne abbia l’onore»; ma noi sappiamo che altre idee e trame lei gli fornì, specie nell’ingrato periodo dell’allenamento, quando quel giovanotto spostato e sognatore, tanto per farsi la mano — e per non morire di fame — si dedicò alla Littérature alimentaire.

  Nel lungo periodo del collegio la sorella dovette mancargli molto. Non poterle sottoporre quei suoi primi versi che i compagni accoglievano con risate di scherno (non avranno avuto tutti i torti, visto, come dice Gautier, che Balzac era negato alla poesia); non aver modo di consigliarsi con lei per quel Trattato della Volontà cominciato a scrivere mentre gli altri traducevano Virgilio e Demostene: tutto questo doveva farlo soffrire enormemente. Quando poi il manoscritto del Trattato cadde nelle mani di un insegnante, il padre Haugoult, che dopo averlo scorso disse all’infelice autore: «Ed è per cretinaggini simili che voi trascurate i vostri doveri?», bene, in quel momento solo la dolce Laura avrebbe potuto asciugare le lacrime di Onorato.

 

I primi debiti.

 

  Era diventato magro, livido. Si sfogava leggendo, con la complicità del padre bibliotecario, il quale avrebbe dovuto dargli delle ripetizioni di matematica e non ne aveva nessuna voglia. Innocente congiura che darà i suoi frutti a distanza, quando in Louis Lambert il romanziere scriverà la storia della propria adolescenza. Mancano ancora vent’anni alla nascita di quelle pagine. Ma Onorato già vede come sarà la firma in fondo al manoscritto, e con quella riempie interi fogli di quaderno. È bellissimo, ecco un penso che nessuno gli ha assegnato e al quale sacrifica volentieri la lezione: Balzac, Balzac, Balzac.

  Finalmente si decisero a riprenderlo in casa. Aveva quattordici anni e rassomigliava — il ritratto è della sorella — a quei sonnambuli che dormono a occhi aperti; non sentiva la maggior parte di quello che gli dicevano e non sapeva rispondere quando gli chiedevano bruscamente: “A cosa pensi? Dove sei?”. Ma bastarono pochi mesi di libertà a ridargli i bei colori dell’infanzia. Esterno al liceo di Tours, nonostante qualche bocciatura, già l'ambizione lavorava dentro di lui. «Ragazze», dice alle sorelle, «vedrete che un giorno si parlerà di vostro fratello Onorato come di un grand’uomo». E Laura e Lorenza, con una risata: «Salute al grande Balzac!».

  Intanto il padre aveva ottenuto un trasferimento d’ufficio, e così Tours fu abbandonata. Sul finire del ‘14 sono tutti a Parigi, e Onorato termina il liceo come interno in due pensionati della capitale. Un debito di cento franchi (il primo di un ciclo paradossale di “operazioni”) per caffelatte fornitogli a credito dal portiere del Pensionnat Lepître, ha messo in allarme sua madre. La cui amarezza arriva al colmo quando riceve dal preside la notizia che il licealista Balzac è risultato trentaduesimo nella versione latina. Onorato avrebbe dovuto trascorrere a casa, tra i suoi, la festa di Carlomagno, ma quel voto scadente è un ostacolo insormontabile, come la genitrice spiega in una lunga lettera: «Tu capirai che il trentaduesimo del liceo non può partecipare alla festa di Carlomagno che fu un grand’uomo riflessivo e amante del lavoro ... La tua scarsa applicazione, la tua leggerezza, i tuoi errori mi condannano a lasciarti in castigo».

  Bene o male, comunque, la licenza fu strappata e nel ’16 eccolo iscritto alla facoltà di legge. Potrebbe essere un principio di libertà, se i suoi non trovassero subito modo di riempire gli ozi goliardici costringendolo contemporaneamente a frequentare lo studio d’un avvocato, un Guyonnet de Merville che ebbe tra i suoi praticanti altri futuri illustrissimi come Scribe e Jules Janin. Di quel che valesse Onorato come clerc i posteri hanno potuto farsi un’idea leggendo questo biglietto del suo principale: «Il signor Balzac è pregato di non venire oggi allo studio, perché c’è molto lavoro». L’atmosfera d’uno studio legale era dunque troppo eccitante per lui? Fatto sta che i suoi ci ripensarono e stavolta lo misero con un notaio amico di famiglia, il mite signor Passez. I segreti notarili lo interessavano ancora meno, naturalmente, ma egli si rifaceva entusiasmandosi adesso alle lezioni della Sorbona, dove parlavano uomini della statura di Victor Cousin, e cercando di addentrarsi nei misteri — allora molto di moda — del magnetismo. «Il magnetismo», diceva Onorato al suo amico Pétigny, «non è che l’ascendente irresistibile dello spirito sulla materia, di una volontà forte e immutabile su un’anima aperta a tutte le impressioni. Tra poco, io possiederò i segreti di questa potenza misteriosa. Io costringerò tutti gli uomini a obbedirmi, tutte le donne ad amarmi».

 

Un dramma in versi.

 

  Vive tracce di questa esaltazione della volontà, come in genere delle fantasticherie giovanili balzachiane, le troveremo poi nella Peau de chagrin, che è del ’30-’31. Raphaël è lui, con un travestimento appena appena avvertibile; come sua — di Onorato, vogliamo dire — è la battuta che egli mette sulle labbra del protagonista del romanzo: «Eh! bien, oui, je veux vivre avec excès». Massima da cui non lo vedremo distaccarsi mai, e che può stare benissimo accanto all’altra pure sua: «J’ai foi en mon étoile».

  Nel gennaio del ‘19 arrivò il momento del “baccalaureato”. Del neodottorino ventenne il citato Pétigny ci ha lasciato un ritratto in verità non molto lusinghiero: piccoli occhi sprizzanti spirito, figura grossa e bassa, folti e disordinati capelli neri, volto ossuto, bocca larga, denti sbrecciati, abiti sciatti. Di un tipo così, che diamine volevate farne se non un giovane di notaio?

  Senza contare che se in casa insistevano tanto perché si avviasse presto su una strada seria e sicura c’era anche un’altra ragione: e cioè che il padre era stato messo a riposo, sicché adesso gli davano 1695 franchi all’anno invece dei 6305 che guadagnava prima. Un bel salto. Tanto più che anche la dote della signora Balzac si era assottigliata, in seguito a cattive speculazioni, e in fin dei conti i figli erano quattro, e l’ultimo nato non aveva che undici anni. (A questo ragazzo, il prediletto Enrico, non furono solo le malelingue ad attribuire un padre che non era precisamente il signor Francesco Balzac. Biografi austeri come André Billy fanno addirittura il nome dell’amico di famiglia che avrebbe collaborato all’impresa: quel signor Margonne, proprietario del castello di Saché, dove lo scrittore andrà a rifugiarsi quando i creditori non gli daranno respiro). Era così vero, tutto ciò, che adesso per economia l’intera famiglia si trasferiva in campagna, a Villeparisis sulla strada di Meaux. Che cosa aspettava Onorato per prendere una decisione?

  In realtà la sua decisione era presa da un pezzo, da sempre. Solo che era un’altra, come attestano le “note sull’immortalità dell’anima” e quelle sui “principi della filosofia di Descartes e di Malebranche” che appartengono ancora al Balzac del periodo studentesco. Egli vuol essere scrittore. «Ma non sai, disgraziato», gli dicono i parenti, «che nelle lettere bisogna essere re per non essere straccione?». Risposta: «Bene, allora sarò re».

  La madre non avrebbe certamente ceduto. Nemmeno lui però. «Mi ero picchiata la fronte come Andrea Chénier: c’è qualcosa di dentro ... Io volevo coprirmi di gloria e lavorare in silenzio». A imbastire un ragionevole compromesso fu il padre. Il quale offerse a Onorato due anni di prova, solo a Parigi con 1500 franchi all’anno di pensione: il giovanotto dimostri sul serio di poter diventare uno scrittore e l’accordo sarà rinnovato; In caso contrario, la carriera notarile lo attende.

  Libero, finalmente, in una mansarda al numero 9 di rue Lesdiguières. «Mi rallegravo pensando che avrei dovuto vivere di pane e latte come un solitario della Tebaide», ed eccolo fare un bilancio minuzioso, tanto d’entrata e tanto d’uscita, che poi naturalmente non quadrava. Ma questo a vent’anni importa poco. Il peggio era che nemmeno i conti del lavoro tornavano. Dopo aver lungamente esitato tra due romanzi che non furono mai scritti, Coqsigrue (sic; lege: Coquecigrue) e Stella, un’opera byroniana: Il Corsaro, e due o tre altri argomenti, si decise infine per un Cromwell, soggetto di moda allora, “il più bello di tutta la nostra storia moderna”. Un grosso dramma, e in versi. Naturalmente la scelta non era avvenuta se non dopo una bella meditazione sui classici francesi: «Crébillon m’incoraggia, Voltaire mi spaventa, Corneille mi trasporta, Racine mi fa cadere di mano la penna». Pare che non sia facile scrivere capolavori in alessandrini: «Devo mangiarmi almeno sette o otto volte le unghie», scrive alla sorella Laura, «innanzi d’aver tirato su il mio primo monumento». Poi, quasi temendo di non essersi spiegato abbastanza circa la vastità dei suoi progetti: «Voglio che la mia tragedia sia il breviario del popoli e dei re!». E finalmente: «A me questo mondo, che io comprendo!».

  In quel periodo, da lui riproiettato più tardi anche in Facino Cane, cominciò a interessarsi di politica ed era sempre la sorella ad accogliere i suoi sfoghi: «La nostra rivoluzione non è ancora terminata e da come si mettono le cose prevedo degli uragani. Il sistema rappresentativo esige grandi talenti e la massa elettorale non si lascia ingannare. Osservo che i letterati sono la gente che si ricerca più volentieri nelle crisi politiche, perché è noto che essi uniscono alla scienza e alle conoscenze lo spirito d’osservazione, e perché leggono nel cuore umano. Così, se io sono un gaillard, posso avere qualche altra cosa oltre la gloria letteraria. È bello essere un grand’uomo e un gran cittadino».

  Da uno che scrive lettere di questo genere, da un giovane autore che non vede l’ora di “être célèbre et être aimé” è lecito aspettarsi grandi cose. Sicché il fermento verificatosi in famiglia nell’aprile dei ’20, quando Onorato sbarcò a Villeparisis col manoscritto del suo famoso Cromwell, parve naturale: sebbene in quella casa ci fosse già un discreto trambusto per i preparativi delle nozze di Laura con un gentiluomo di Rouen, il signor Surville, ingegnere. Il fidanzato ebbe così l’onore di far parte della giuria nominata per la circostanza da Balzac padre.

 

La letteratura alimentare.

 

  «Ciò che io soffersi durante quella lettura fu un anticipo dei terrori che le prime recite del Vautrin e del Quinola dovevano darmi poi». Parole sempre di Laura, che riassumono l’impressione negativa prodotta dal Cromwell. Un fiasco contro il quale, nemmeno a dirsi, l’autore insorse energicamente. Chi erano, in fin dei conti, quei signori? Quali titoli avevano per pretendere di giudicarlo? Il padre trovò giusta l’obiezione, dichiarandosi disposto ad accettare l’intervento di un esperto di fiducia del futuro cognato: l’insospettabile Andrieux, professore al Collegio di Francia.

  Il manoscritto fu spedito lì a poco dopo la signora Balzac madre andò a sentire il verdetto. Che fu questo Onorato si occupi di qualunque cosa, meno che di letteratura.

  Fu, come si dice, un colpo basso. Egli alzò le spalle, ma dentro provò un gran male. E nell’autunno di quell’anno, senza nemmeno aspettare la scadenza dei due anni di prova, rientrò in famiglia. Era magro, senza forze, la sua fu la resa dell’assediato. Ma quando ai primi segni di ripresa cominciarono di nuovo a parlargli d’impiego, di una bella carriera sicura, rispose che non si facessero illusioni su questo punto. La poesia tragica non era adatta ai suoi mezzi? Benissimo, gli restava sempre la risorsa del romanzo. Se l’acclamato Pixérécourt aveva venduto 100.000 copie di Celina o il figlio del mistero, ebbene, lui, Onorato, avrebbe scritto dei romanzi da 200.000. Cose orrende, ma che gli avrebbero dato l’indipendenza. Bastava trovare la formula del pastiche, avendo l’occhio agli ingredienti di moda: tanto di Byron, tanto di Anna Radcliffe, tanto di Walter Scott, poi agitare e servire caldo. Il pubblico non chiede altro.

  Cominciò così il suo periodo di letteratura alimentare. I grandi successi non vennero, naturalmente, di copie a valanga nemmeno parlarne: ma tutte quelle migliaia di pagine scritte su commissione, facendo il “negro” per un avventuriero della penna che si chiamava Le Poitevin, gli giovarono per esercitarsi, furono i pensi, tutti anticipati, della sua scuola di scrittore. Tanto più praticamente utili in quanto egli ebbe l’accortezza di non impegnarvi il proprio nome, ma curiosi pseudonimi: come quello di “lord R’hoone”, e l’altro di Horace de Saint-Aubin.

  Il suo socio Le Poitevin, figlio di attori, era una di quelle facce di bronzo che difficilmente mancano d’una certa dose di autentico spirito. Dopo uno dei loro primi incontri, Balzac pensò di invitarlo a colazione. Se non che il pasto, proporzionato alle finanze dell’ospite, si esaurì rapidamente, e l’invitato disse, alzandosi da tavola: «Il seguito al prossimo numero». Dalla loro collaborazione nacquero L’héritière de Birague, un affare tra storico e fantastico che Onorato chiamerà cochonnerie littéraire e che fu compensato con 800 franchi in cambiali, poi un Jean-Louis che ne procurò 1200. A cui seguirono numerose altre opere, compreso quel Vicaires des Ardennes ispiratogli almeno in parte dalla sorella Laura. È il suo primo periodo di lavori forzati sulla carta. A ventitré anni comincia a leggere chiaramente nel proprio destino. Firma qualche lettera con la qualifica di “scrivano pubblico e poeta francese a due franchi la pagina”: dove l’accento ironico è palese, ma anche quello è un modo di tastare e riconoscere le proprie forze. Il noviziato bisogna pure pagarselo: «Ho scritto sette romanzi come semplice studio. Uno per addestrarmi al dialogo; uno per imparare la descrizione; uno per raggruppare i personaggi; uno per la composizione, eccetera».

 

Incontro con la terza Laura.

 

  E tuttavia, proprio al termine di quello sforzo massiccio, pensò di cambiar mestiere, di darsi agli affari. Il romanzo del danaro — quest’affascinante opera “da vivere” invece che da scriversi — cominciava a tentarlo. Anche perché, come nei più rispettabili feuilletons, appunto, una curiosa figura femminile si insinuava in questa prima puntata dell’avventura della fortuna. Curiosa in che senso? Nel senso che Balzac nel giugno ‘21, quando la incontrò a una festa a Villeparisis, aveva ventidue anni, e lei — la sua Laura numero tre, maritata De Berny — ne compiva giusti quarantaquattro, aveva un mucchio di figli ed era alla vigilia di diventare nonna. Una graziosa nonnina, però, tenera e spirituelle, che fu per lui, oltre al resto, la confidente, l’amica sicura delle ore di sconforto: in una parola, la donna che realmente cultivait son génie. Egli andava in quella casa per dare delle ripetizioni a uno dei ragazzi ed era stato colpito quasi subito da lei: “une femme très aimable et très aimante”. Gli slanci, le tenerezze che sua madre non aveva avuto per lui, li ebbe da quest’amica di sua madre. La quale sapeva anche dirgli le parole di cui il suo orgoglio sentiva tanto la mancanza, per esempio: «Voi siete un uovo d’aquila covato da oche». Figlia di una camerista di Maria Antonietta, la signora Berny era stata imprigionata per molti mesi sotto il Terrore. Conosceva l’ambiente della vecchia corte e insieme parecchi tra i più ardenti cospiratori, tutto un mondo che pareva creato per eccitare la fantasia del giovane romanziere. Non solo molti particolari, ma tutto il clima caratteristico di storie come Les Chouans, Un épisode sous la Terreur, Madame de la Chanterie, senza quest’alleanza amorosa non avrebbero avuto quel senso diretto di “cosa vista”. E forse opere come La femme de trente ans e la Physiologie du mariage non sarebbero nemmeno nate. E in quanti dei suoi romanzi i lineamenti femminili, certe sfaccettature psicologiche. appartengono a Laura de Berny?

  Quando gli appuntamenti e le fughe notturne cominciarono a scandalizzare i buoni villici di Villeparisis, la signora Balzac madre lo spedì dalla sorella, a Bayeux. Si sa, alle teste calde bisogna fargliela passare con un taglio netto, magari preparando per loro un matrimonio con una di quelle vedove piene di quattrini che non è difficile trovare negli angoli della vecchia provincia francese. Sorella e cognato si prestano alla congiura, tanto più che il tipo sottomano ci sarebbe. Il guaio è che Onorato i quattrini li vuole, ma senza l’aggiunta della vedova.

 

 

  Eugenio Gara, Vita affannosa di Balzac. Scrisse un trattato sull’arte di preparare il caffè. Ritratto biografico di Eugenio Gara. Seconda puntata, «Oggi. Settimanale di politica attualità e cultura», Milano, Anno VI, N. 35, 31 Agosto 1950, pp. 14-18.

 

  Egli preferisce quindi, e molto, impiegare il suo tempo a ideare altri libri da pubblicarsi con pseudonimo e a scrivere lettere all’amata. La sua Dilecta gradisce le lettere, specialmente quelle rumorose, quasi infantili in cui egli rivela «con molto piacere che sto diventando un po’ più bello di quanto non fossi. La mia pelle è divenuta più bianca, i miei foruncoli sono scomparsi, e sono un uomo da far girare la testa alle donne». (Questo spagnolesco miraggio sarà uno dei pochi tocchi di colore che lo avvicineranno a Stendhal). Gradisce le lettere, lei, ma è molto più contenta quando sa che è tornato finalmente a Parigi, nel suo ambiente: vicino, se non proprio ancora in mezzo, al suo vero lavoro. Onorato incontra difficoltà a far accettare un Argow le pirate, imitazione da Walter Scott, ed ecco «una donna mi ha aiutato a stampare i millecinquecento esemplari che sono rimasti tre anni in fondo a un magazzino». Una donna, Laura de Berny, naturalmente.

  Con un Manuale del perfetto ladro — saggio curioso in cui si leggono battute come questa: «Per lui [per il ladro] essere fischiato è andare in galera» — Balzac aveva chiuso il suo primo periodo di attività letteraria. Migliaia di pagine che non ritroveremo nella sua opera omnia. Ma chi avesse voglia di rintracciare questi anni ingrati, e a loro modo fecondi, della sua vita potrebbe leggersi Un grand homme de province à Paris. In gran parte, il Balzac 1820-25 è lì.

 

Pasticci giganteschi.

 

  A quelle “illusioni perdute”, per adoperare altre parole sue, meditò sul serio di mettere un punto fermo con un teatrale suicidio? Chi lo afferma è un amico dello scrittore, Etienne Arago, il quale assicura d’averlo sorpreso di sera, lungo la Senna, in uno di quegli atteggiamenti che metterebbero in allarme anche il più flemmatico degli uomini. Breve dialogo tra i due, e una sorda risposta di Onorato: «Guardo la Senna, e mi domando se non sto per coricarmi nella sua umida coltre». Che è una battuta di melodramma pochissimo originale del resto.

  Vero o no, un annegamento simbolico ci fu. Laggiù, nell’umida coltre, finì il primo piano quinquennale letterario del giovane Balzac, con tutti gli pseudonimi e consociazioni che lo avevano accompagnato. Basta romanzi, basta operette morali. Dal momento che la penna non gli dà da vivere, ha deciso di cambiar mestiere. Si darà agli affari, sarà editore. Quel denaro di cui ha tanto bisogno e che le sue opere non riescono a procurargli, glielo daranno le opere degli altri, i capolavori indiscutibili, accettati e letti da tutti. È un’idea tanto semplice: come mai non gli era venuta prima?

  Suoi soci in quell’impresa editoriale furono uno del mestiere, certo Canel, e due amatori del libro, un medico e un ufficiale a riposo. Dietro le quinte, nemmeno a dirsi, l’onnipresente signora Berny, piena di materna bontà e di condiscendenza, come sempre. La società fu fondata nell’aprile del ’25 e già nel maggio uscivano un Molière e un La Fontaine: due bei volumi in papier velin, illustrati nientedimeno che da Deveria. Ne furono tirate tremila copie, messe in vendita a cinque franchi l’una. Caro? Può darsi, dati i tempi. Certo è che quelle opere trovarono pochissimi lettori e la casa editrice Balzac-Canel andò a rotoli nel giro di un anno. Tirate le somme, tra rimborsi ai soci uscenti, rilievi e liquidazioni, il solo La Fontaine gli costò più di 9.000 franchi di perdita. Aveva dunque avuto ragione sua sorella Lorenza a scongiurarlo di non cacciarsi in quella, come in nessun’altra impresa commerciale? («Mio caro Onorato, un autore deve averne abbastanza della sua musa»).

  Il fatto è che ci voleva ben altro che questo per smontare un tipo come Balzac. Il quale scoperse immediatamente la ragione dell’insuccesso: la mancanza di una tipografia in proprio. Ed ecco un’altra società, anzi due, col giovane Barbier prima, poi col Laurent, che portarono il suo passivo a cifre impressionanti. Debiti col padre, debiti con Laura, eppure è un lavoro che lo entusiasma. Tanto che a un certo momento si mette persino a fondere caratteri nuovi; e il denaro qui impiegato si scioglie più presto del piombo. Opere come il Cinq-Mars di Vigny. monografie singolari come L’Art de mettre sa cravate escono fiammanti dalla tipografia Balzac. Manca puntualmente una cosa sola: il successo finanziario. Dopo tre anni di sudori e di lotte dovette arrendersi e, ciò che per lui era più amaro di tutto, rivolgersi alla madre per uscire una buona volta da quel gigantesco pasticcio. I debiti più urgenti furono così pagati, per altri ottenne ragionevoli dilazioni. Infine, una parte dei 45.000 franchi prestati complessivamente dalla signora Berny passò sul conto della fonderia, rilevata per fortuna dal giovane Alessandro, primogenito della Dilecta.

  Di ciò che questa donna fu per lui, negli anni della formazione del suo genio, si è parlato infinite volte. Esiste tutta una letteratura sull’argomento, cui ha dato un buon contributo una scrittrice americana, Juanita Helm Floyd, in un’opera largamente documentata e attenta. Ma certo nessuna illuminazione in proposito è più viva della lettera che molti anni dopo Balzac scriverà a Evelina Hanska, ricordando colei che la precedette nel suo cuore: «Sarei molto ingiusto se non dicessi che dal 1823 al 1833 un angelo mi ha sostenuto in quest’orribile guerra. La signora di B ..., benché maritata, è stata come un Dio per me. È stata una madre, un’amica, una famiglia, un amico, un consiglio; essa ha fatto lo scrittore, ha consolato il giovane, ha creato il gusto, ha pianto come una sorella; essa ha riso, è venuta tutti i giorni, come un sonno benefico, ad addormentare i dolori ... Senza di lei, io sarei certamente morto. Spesso ella ha indovinato che io non mangiavo da parecchi giorni; ha provveduto a tutto con bontà angelica; ha incoraggiato quest’orgoglio che preserva un uomo da qualsiasi bassezza». Bello, niente da dire. Non si può nemmeno rammaricarsi che avesse tanti anni più di lui, ed è persino inutile chiedersi come sarebbero andate le cose, tra quei due, con uno stato civile meno stridente, perché allora anche lei sarebbe stata diversa.

  Ogni stagione ha i suoi fermenti. Intanto il bilancio del ventinovenne industriale era questo: 90 mila franchi di debiti e tutto da ricominciare. Ma come? Scrivendo, si capisce: «L’imprimerie m’a pris tout mon capital, il faut qu’elle me le rend (sic)».

 

Continuatore di Napoleone.

 

  Cominciò a renderglielo — ma era una goccia contro un fiume — in marzo del 1829, quando uscì il suo primo vero romanzo, riconosciuto e firmato col nome Balzac (senza il “de”, per adesso). Si trattava di quattro volumetti in-12 che portavano in copertina il titolo Le dernier Chouan ou la Bretagne en 1800, più tardi ridotto semplicemente a Les Chouans, come tutti sanno. Inviando una copia del libro al barone de Pommereul, vecchio amico di famiglia dimorante a Fougères, presso il quale si era rifugiato dopo la bufera affaristica di cui sopra, l’autore scriveva: «Che cosa dire della mia opera? Essa è un poco vostra, giacché non si compone In verità che degli aneddoti che voi mi avete raccontato così bene e così generosamente, tra un sorso e l’altro di quel delizioso vinello di Grave ...». Amabile, riconoscente viatico, tanto diverso dalle aspre parole scritte pochi giorni prima alla sorella Laura: «Io non vi vedrò se non dopo l’apparizione dello Chouan, e vi prevengo che non intendo sentirne parlare da nessuno, né in bene né in male. Una famiglia e degli amici sono incapaci di giudicare un autore». I guasconi hanno la memoria di ferro, e Balzac non dimenticava la famosa bocciatura del Cromwell. Alla larga dai parenti che s’impicciano di letteratura.

  L’accoglienza della stampa fu buona. I francesi non avevano bisogno d’aspettare Dumas per interessarsi al romanzo storico, e del resto Walter Scott aveva già i suoi patiti anche di qua della Manica. Senza contare che Le dernier Chouan, così ricco di echi vicini del maquis vandeano — cioè di una Resistenza i cui protagonisti erano in gran parte ancora vivi — aveva anche il sapore della cronaca diretta, un’immediatezza che il romanzo storico vero e proprio naturalmente non può avere. Insomma, un successo. E quando arrivò Sainte-Beuve, nientemeno, a lodare le qualità drammatiche e il “pittoresco” del libro dalle insigni colonne della Revue des Deux Mondes, l’esordiente Balzac potè dirsi lanciato. Passeranno gli anni, e Onorato rimarrà sempre attaccatissimo a quest’opera della giovinezza. Nel ‘43, in occasione d’una ristampa, scriverà alla donna amata: «È decisamente un magnifico poema. Io non l’avevo mai letto. È trascorso un decennio da quando lo corressi per la seconda edizione. Ho avuto il piacere di leggere finalmente la mia opera e di giudicarla. Lì c’è tutto Cooper e tutto Walter Scott, più una passione e un esprit che non esiste in nessuno dei due ... Il paese e la guerra vi sono dipinti con una perfezione e una facilità che mi hanno sorpreso». Sorpreso, ma in tutt’altro modo, era stato anche il suo primo editore, il Latouche, quando si era accorto che la vendita era molto debole. Tanto che i due finirono presto per voltarsi le spalle.

  L’estate successiva fu veramente febbrile. Non solo per l’entusiasmo, la furia quasi, con cui Balzac si mise a scrivere il suo secondo libro, cioè la Physiologie du Mariage, ma anche per la piccante alleanza con la duchessa d’Abrantès, vedova del generale Junot, una piccoletta vivacissima, occhi di fuoco e lingua salata, che su Napoleone e l’ambiente dell’Impero ne sapeva più di quanto non dicano le sue celebrate Memorie. (A proposito: suggerite, avviate, in qualche parte scritte da Balzac). Si erano conosciuti un paio di anni prima, a Versailles, e c’era stato fra loro un flirt très poussé, per dirla col cronista. Ma allora la Berny era ancora in primo piano, nella sua vita, amante e per di più socia in affari, mestamente gelosa, sensibile, e insomma Onorato aveva preferito fermarsi a mezza strada. D’altra parte i suoi amici pensavano che, se proprio doveva cambiare, era almeno il caso di “ringiovanire i quadri”. Mentre con la d’Abrantès — Laura anche lei: come la madre, come la sorella, come la Berny — c’era un guadagno sì e no di cinque anni. Valeva la pena? Ma l’attrazione che le donne autunnali (altro che Femme de trente ans, come egli canterà di lì a poco) esercitarono sul suo spirito fu sempre profonda. Mai che lo si veda sul serio alle prese con una giovinetta. Hanno ragione Hanotaux e Vicaire quando dicono, sia pure con coloratura galante, che Balzac ha reso alle donne un servizio immenso, raddoppiando per loro il tempo dell’amore. «Prima di lui, tutte le amorose di romanzo avevano vent’anni. Egli ha prolungato fino a trenta, fino a quarant’anni la loro vita attiva. Egli ha perorato per loro la causa della natura e della verità. Ha guarito l’amore dal pregiudizio della giovinezza. Ha mostrato il fascino profondo d’una bellezza declinante, d’un passo illanguidito, di un autunno ardente e animato. Ecco il dono immortale che, nella sua larghezza, ha fatto alle donne e all’umanità. Egli ha moltiplicato, se non la gioia umana, perlomeno la coscienza di questa gioia ... Ha celebrato, nobilitato, scusato se vogliamo, molte dolci ore: quelle in cui i raggi del sole morente prolungano la fine squisita del giorno».

  A dirla franca, tutto ciò, portato dalla letteratura nella biografia balzachiana, riflesso e movente al tempo stesso, può forse valere per la Dilecta, mentre nel caso d’Abrantès si può parlare non di fine squisita del giorno ma senz’altro di crepuscolo affannoso. Con una grossa famiglia a carico, senza risorse, indebitata lei pure fino al vertice dello chignon, l’infelice duchessa scendeva un gradino ogni giorno. Che cosa vede dunque in lei, il giovane romanziere? Ma è molto semplice: una fiaba vivente, la sicura testimonianza di un periodo storico che lo ha sempre affascinato. Infine, la donna che ha visto Napoleone giovane, che un poco lo ha amato, che forse ha avuto qualche suo rapido bacio. Lo scrittore che nella sua casa di via Cassini teneva un busto di Napoleone con sotto l’ambiziosa dicitura: Ce qu’il avait commencé par l’épée, je l’acheverai (sic) par la plume, doveva ben finire nelle braccia della donna che, ricordando l’imperatore caduto, scrisse: «Non v’era a Parigi persona che fosse più dolente di me per le sue sventure».

 

Duello con l’inchiostro.

 

  Senza contare che il provinciale Balzac, il quale aveva conosciuto tanta parte della vita segreta dell’ancien régime attraverso la signora Berny, veniva ora ad essere introdotto nella società imperiale, per via di questo legame con la d’Abrantès. Abituato a servirsi delle amicizie femminili, e a riconoscere lealmente il loro aiuto, il meno che poteva fare era di proiettarne la figura nel personaggio di Mme d’Aiglemont nella Femme de trente ans e di dedicarle infine, ma senza ironia, La Femme abandonnée. Fu però, sul terreno dell’amore, una fiammata che si estinse presto. Da parte di lui, specialmente. La stanchezza e nuove distrazioni, come vedremo, nuovi incontri concorsero a distaccarlo dalla duchessa. Lei sperò, come sempre in questi casi, di poter trasformare la passione in un altro sentimento fatto di assiduità e di tenerezza: «Quanto alla mia amicizia per voi, è ciò che deve essere il sentimento che ci lega, inalterabile, tenero, profondo». Parole. Egli continuò per un poco a sedersi alla tavola, sempre meno guarnita, di colei che un commensale feroce, Théophile Gautier, chiamava la duchessa d’Abracadabrantès, poi si tirò in disparte. Di lì a pochi anni, nel ’36, la disgraziata tenterà di avvelenarsi, ma non risulta che Onorato accorresse. Nell’estate del ‘38, quando lei morirà, il compianto di Balzac sarà breve e avrà più l’accento dello scrittore che quello dell’uomo: «È finita come è finito l’Impero».

  Questi anni intorno al ’30, così importanti per la sua gloria di domani — La Peau de chagrin è del ‘31, l’Eugenia Grandet del ’33 — sono del resto anni di liquidazione sentimentale. Anche la Dilecta si ritira discretamente nell’ombra: «Mio caro ragazzo, io sono per voi una vera sorella». Diciamo pure che era tempo. Dove avrebbe trovato le ore necessarie, lui, per rigirarsi tra quelle cinquantenni che gli volevano tanto, troppo bene? La sua attività adesso era frenetica. Collaboratore della Mode di Emile de Girardin, della Silhouette, della Caricature, fondatore del Feuilleton des Journaux politiques, accolto finalmente alla Revue des Deux Mondes (ma ne uscirà presto, dopo baruffe pittoresche col direttore Francois Buloz), con un piede nella politica attiva a proposito di una ventilata candidatura a Cambrai, e finalmente, anzi prima di tutto, gl’interminabili colloqui notturni con la folla dei suoi fantasmi privatissimi. Il romanziere deve imporsi clausure feroci e “orge di castità”. Il duello con l’inchiostro e le cartelle bianche è senza quartiere. La sua stanza di lavoro è un oceano di carta sulle cui onde navigano, sole imbarcazioni perennemente salve, le tazzine del caffè. Balzac, è noto, ha il culto di questa bevanda. Il saggio sul caffè che fa parte del suo Trattato degli eccitanti moderni è un classico. (E noteremo, qui, di passaggio, che noi italiani siamo in testa alla sua classifica dei bevitori “naturali” di caffè, battendo nell’ordine greci e turchi. I francesi sono esclusi, dai posti d’onore). La preparazione d’una buona tazza di caffè è per lui cosa della massima importanza: «Questa scienza è troppo necessaria a molte persone per non descrivere la maniera di ottenerne frutti preziosi. Voi tutti, illustri candele umane, che vi consumate dalla testa, avvicinatevi e ascoltate il vangelo della veglia e del travaglio intellettuale».

  Tutto benissimo. Peccato solo che raramente letteratura e salute vadano d'accordo. Sicché vent’anni più tardi questa cambiale — che è proprio il caso di chiamare nerissima — dei caffè verrà a scadere, e i medici, allontanandosi dal letto di Balzac, scuoteranno la testa e allargheranno le braccia. C’è chi si avvelena in un giorno e chi c’impiega un quarto di secolo. È solo questione di tempo.

 

“Il mio naso è un mondo”.

 

  Sarà, ma egli adesso non può assolutamente pensarci. Ha troppe bozze da correggere. Un momento: Balzac lo chiama correggere ma invece gli sventurati compositori sanno che si tratta di continui, ossessionanti rifacimenti. Una sua bozza è un carosello indescrivibile di richiami, di sostituzioni, di aggiunte, d’infernali interpolazioni, di ficcanti fioriture. I tipografi protestano, gli editori si strappano i capelli, ma con lui non c’è niente da fare. È un tormento senza fine: una, due, tre bozze vanno e vengono, e si è sempre allo stesso punto. Fossero venti, la cosa non cambierebbe. Balzac è un peccatore della penna che non cessa di battersi il petto. Il miraggio della perfezione è là, irraggiungibile, la solita fata morgana dell’assetato nel deserto.

  E il combattimento contro il tempo lo annienta: «Ho ancora cento pagine di Eugénie Grandet da scrivere; Ne touchez pas à la hache da finire; La femme aux yeux rouges (sic) da fare, e ci vogliono almeno dieci giorni per tutto ciò. Arriverò morto».

  Invece era vivissimo. Per ora. Cominciava anzi a ingrassare. Il suo sarto Pion ci parla di un torace di 104 centimetri, e altrettanto in cintura: dimensioni rispettabili per un individuo alto 1,66. Bello non era, con quella frustata sanguigna al volto rotondo, le grosse labbra un tantino cascanti, il naso a punta quadra e come diviso in due («Attenti al mio naso, il mio naso è un mondo!»). Ma era bella la fronte, nobile, bianca sotto la scura, arruffata criniera leonina. Quanto agli occhi, a sentire Gautier non ne esistevano di eguali. Le donne lo guardavano incantate.

  Tutte tutte? Vediamo. Nel settembre del ’31 gli giunse una lettera di una sconosciuta, lettera piena d’ammirazione ma anche di intelligenti e spiritose riserve a proposito della Physiologie du Mariage. (A pensarci, che cosa ne sapeva del matrimonio, lui-giovane-vecchio scapolo? Semplicemente quello che gliene avevano detto la Berny e la d’Abrantès, due malmaritate). Naturalmente Balzac rispose, spiegando che il suo libro voleva essere soprattutto una difesa dell’altro sesso: «Per una donna che ha attraversato le tempeste della vita, il senso del mio libro è l’attribuzione esclusiva ai mariti di tutte le colpe commesse dalle mogli. È, in una parola, una grande assoluzione».

  Con quest’arringa scritta, l’avvocatino rientrato ebbe un successo. L’ignota corrispondente abbassò il velo ed egli conobbe così la marchesa di Castries, figlia di duchi, parente dei Fitz-James, la donna illustre che gli aprirà la porta d'oro del Faubourg Saint-Germain. Incontro psicologicamente centrato. Balzac era allora ai primi contatti con la mondanità e col dandysmo. Avendo guadagnato in un anno più di 14.000 franchi — che allora erano una bella sommetta — s’era buttato a spese pazze: vestiti, arredamenti, frequentazione assidua dell’Opéra e degli Italiens, e persino un cabriolet con cavallo, anzi con due cavalli, per la tradizionale passeggiata al Bois. Invece di pagare i vecchi debiti, si abbandonava a «quell’invincibile furore per le gioie dell’esistenza che dev’essere appannaggio degli uomini dotati di grandi facoltà e che sentono la necessità di controbilanciare il faticoso esercizio con uguali compensi fatti di piaceri». Basta, la marchesa era bella, separata dal marito, giovane (per lui sarà stata una bambina, non aveva che tre anni più di Onorato), nel salotto dei Castries la colorita eloquenza del romanziere alla moda piaceva a tutti: perché Balzac non avrebbe dovuto piacere, nel senso più estensivo della parola, anche alla padrona di casa? Egli in verità si dava un gran da fare per apparirle in una luce favorevole. La sua ventata di legittimismo, la romantica adesione al movimento restauratore del Fitz-James, appunto, e delle Berry, le molte eccentricità di questo che va considerato, nel quadro della sua esistenza, come un periodo di crisi e di trapasso, furono nient’altro che gesti d’amore e di orgoglio ferito. Lei probabilmente si comportò più da civetta che da gran dama. Aveva nel cuore il ricordo di un legame appassionato col figlio di Metternich, e forse non misurò, nei confronti di Balzac, la importanza delle promesse, il valore delle speranze. Il dramma — cioè la rottura, il no definitivo di lei — ebbe per scenario prima le quinte verdi di Aix-les-Bains, poi quelle più scure di Ginevra, dove il romanziere aveva accompagnato la marchesa.

  Una scottatura di terzo grado che gli lascerà il segno. Perché se le parole “aborro la signora di Castries, che ha spezzato la mia vita senza darmene un’altra” sono state scritte a poca distanza dall’avvenimento e appaiono quindi comprensibili, è straordinario che a diciassette anni di distanza egli ci pensasse ancora con la stessa intensità. («Le atrocità della signora che tu sai furono l’origine del mio male»; lettera dell’aprile ’49 alla sorella Laura). Quanto alla morale della favola sotto specie letteraria, essa non tardò molto: venne nel ’34 con La Duchesse de Langeais. Opera non tra le maggiori di Balzac, ma che avendo al centro un crudo ritratto di donna attirò anche di recente l’attenzione di Greta Garbo.

  Aveva molte cose da dimenticare — non escluso un progetto di matrimonio con una ragazza di famiglia nobile, Eleonora de Trumilly, che all’ultimo momento si tirò indietro anche lei — e molti creditori che lo perseguitavano: era dunque il momento buono per inabissarsi nel lavoro con voluttà furiosa. Tanto più che non sono certo le ambizioni che gli mancano, ora come sempre: scrivendo alla sorella a proposito del Louis Lambert— trenta giorni e quindici notti di fatica nell’estate del ‘32 — parla addirittura di un’opera «nella quale ha voluto lottare con Goethe e con Byron, con Faust e Manfredi». Infine, ecco il fatto nuovo, la cosa grande e meravigliosa che darà luce alla sua vita fino al tragico agosto del 1850. «E si parla del primo amore! Io non conosco nulla di terribile come l’ultimo, il est strangulatoire».

 

 

  Eugenio Gara, Vita affannosa di Balzac. Con un annuncio sul giornale cominciò il grande amore di Onorato. Nel 1838 Balzac s’interessò d’una miniera d’argento e di piombo, ma non vi trovò che sassi. Ritratto biografico di Eugenio Gara. Terza puntata, «Oggi. Settimanale di politica attualità e cultura», Milano, Anno VI, N. 36, 7 Settembre 1950, pp. 14-16.

 

  Anche qui cominciò con una lettera. Gli fu consegnata il 28 febbraio 1832 e aveva attraversato molti paesi per arrivargli, era passata per le mani di numerosi postiglioni che parlavano lingue diverse. Veniva dall’Ucraina, nientemeno, e precisamente dal castello di Wierzschownia in Volynia. Chi scriveva era la castellana: la contessa Evelina Rzewuska, di trentun anni, maritata da dodici al signor Hanski. In quella specie di volontario confino, la vita non doveva essere molto allegra. Il signor Hanski, molto più anziano della moglie, seriamente m alato (morirà di paralisi progressiva), non era certo una compagnia brillante. Aggiungi che nella famiglia d’origine di Evelina le, arti erano tenute in grande onore. Lei discendeva da Caterina Radziwill, aveva tra i suoi zii e fratelli più d’uno scrittore, legati tutti d’amicizia con Mickiewicz, il capo della giovane scuola romantica polacca. Era naturale che una giovane donna condotta dal matrimonio fuori del suo ambiente, isolata, quasi prigioniera in un’immensa, solenne fattoria, trovasse conforto, distrazione nella lettura e, in questo caso, in una corrispondenza che si rivelò poi per molti riguardi liberatrice: «Ho saputo amare e amo ancora; nessuno ha potuto comprendere l’anima di fuoco che incendiava tutto il mio essere. Voi mi comprendete, voi; voi sentirete come me che io dovevo amare una volta, una sola volta e, non essendo compresa, vegetare e morire! Ho dato il mio cuore, la mia anima e sono sola!».

 

La romantica Evelina.

 

  Parole del 1832. Il romanticismo, perlomeno ufficialmente, è appena nato. Gli esclamativi sono nella prosa quello che è il tremolo in musica e noi, traducendo, li abbiamo rispettati. Le prime lettere, dunque, firmate l’Étrangère, gli furono spedite presso l’editore della Peau de chagrin; egli rispose attraverso un piccolo annuncio sulla Quotidienne, il solo giornale. francese ammesso in Russia; ma presto vennero i contatti diretti e la rivelazione della propria identità da parte di Evelina. Cominciava quello che Balzac chiamò ce grand et beau drame du coeur. La signora Hanska non è solo una donna attraente, ma anche una lettrice sensibile, capace d’interpretazioni acute. È appena alla sua seconda lettera e già gli scrive, ad esempio: «Vorrei conoscervi e credo di non averne bisogno: un avvertimento dell’anima mi fa immaginare il vostro essere: io me lo figuro a mio modo, e direi “eccolo”, se vi vedessi ... Il vostro esteriore non fa presentire la vostra ardente immaginazione. Bisogna animarvi, è necessario che si svegli in voi il fuoco sacro del genio che, allora, vi mostra qual siete: un uomo superiore nella conoscenza del cuore dell’uomo. Leggendo le vostre opere il mio cuore ha trasalito ... Il vostro genio mi sembra sublime, bisogna che si faccia divino». E gli manda un esemplare dell’Imitazione di Cristo che tra l’altro giunge a proposito: Onorato sta proprio scrivendo l’evangelico Médecin de campagne.

  Lei entrò definitivamente nella vita di Onorato alla fine di settembre del 1833. In Svizzera, a Neuchâtel, città del loro incontro, cessò di essere la dama misteriosa, la corrispondente straniera del celebre romanziere e divenne finalmente Evelina. Non furono appuntamenti facili né scevri di pericoli, con quel “dannato marito” che «non ci ha lasciati un secondo per cinque giorni. Il allait de la jupe de sa femme à mon gilet». Ma il diavolo degli amanti li aiutò in qualche modo, e insomma la gioia di Balzac fu grandissima. Scrivendone alla sorella, non si stancava di esaltare «i più bel capelli neri del mondo, la pelle soave e deliziosamente fine delle brune» eccetera, cioè «un capolavoro di bellezza che non posso paragonare che alla principessa Belgioioso e infinitamente meglio». (Di questo ardito confronto tra una magra, la Belgioioso, e una donna prosperosa come la Hanska, sarà bene lasciare a lui la responsabilità).

  Rientrò a Parigi ai primi d’ottobre, ma vi rimase poche settimane. Gli Hanski avevano deciso di trascorrere a Ginevra il periodo più crudo dell’inverno, ed egli riprese presto la via della Svizzera. Laggiù trovò un anello che lo aspettava, regalo di Evelina, naturalmente, il talismano da cui non riuscirà più a separarsi e che gli ispirerà Séraphita. Cominciò il periodo delle dolci fanciullaggini che così spesso accompagnano le prime ore d’amore. Balzac divenne così il moujik della sua «rosa d’Oriente» o «stella del Nord» o «angelo celeste», cominciò a firmarsi scherzosamente Honoreski, a dirle infine la parola più impegnativa: «Tu sarai la Dilecta giovane e già io ti chiamo la Predilecta». Fino a questo punto, dunque, il ricordo dell’altra era sbiadito?

  Sì e no. Laura de Berny affondava in un crepuscolo la cui tristezza era aggravata da malanni e guai finanziari. Ebbe ancora la gioia di sentirsi leggere da lui le grandi pagine del Père Goriot ma non quella d’averlo vicino al momento della fine, nel luglio del ‘36. In quei giorni Balzac si trovava In Italia, a Torino, per incarico dei suoi amici Guidoboni-Visconti che avevano avuto l’idea, veramente bizzarra, di mettere nelle sue mani un’arruffata questione finanziaria. E non vi si trovava solo, ma in compagnia di una signora Marbouty, donna eccentrica, a tempo perso scrittrice, che non potendo fare di meglio tentava di imitare George Sand almeno nelle caratteristiche esterne, vestendosi da uomo. Essa fu uno dei “capricci” di Onorato — che non furono pochi e nemmeno tutti senza significato — nei lunghi anni di separazione forzata da Evelina. Per essere una comparsa, del resto, Carolina Marbouty ci ha lasciato un ritrattino balzachiano non privo di vivezza. È un frammento d’una lettera alla madre, scritta appunto a Torino, mentre i due se la spassano all’albergo Europa: «Ho un appartamento magnifico e sono ammirabilmente servita. Tutto ciò è tanto più bello in quanto B ... non ha un soldo, è pieno di debiti e solo a forza di lavoro incredibile mantiene la sua posizione tra il lusso e la caduta finanziarla che lo minaccia ogni giorno. Egli trova che ho molto ingegno, dice, e cercherà di farmi lavorare per guadagnare 20 mila franchi di rendita. Ma sarà bene avvertire che egli è l’uomo dei progetti».

  Infatti. Anche l’affare torinese finì in nulla. Con dispiacere di Onorato che avrebbe voluto farsene un merito presso la Guidoboni-Visconti, una fatalissima Sarah — inglese di nascita e di famiglia, lei; lombardo il marito — per amore della quale la smania del lusso, l’aspirazione al titolo nobiliare lo avevano ora ripreso. (La ritroveremo come Lady Dudley nel Lys dans la Vallée). Ma peggio di tutto fu la notizia che trovò rientrando a Parigi. La signora Berny era morta e la lettera del figlio di lei che gliene dava l’annuncio era sul suo tavolo da molti giorni. Il suo dolore, se non proprio il suo rimorso, fu sincero: «Ho perduto, durante il mio viaggio, una persona che era la metà della mia vita». E ancora: «Sono stato ben sventurato nella mia giovinezza, ma la signora Berny ha compensato tutto con una devozione assoluta che non fu compresa, nella sua infinita estensione, se non quando la terra ha ripreso la sua preda. Sì, io sono stato guastato da quell’angelo, lo riconosco».

 

Società dei “Cavalli”.

 

  La vita di quest’uomo, apparentemente così scoperta per l’eloquenza dei documenti e la bravura dei balzachiani, è delle più misteriose. La sua famosa dichiarazione: «Nul n’a le secret de ma vie, et je ne veux le livrer à personne», nonostante tutto, è ancora valida. Lo stesso Gautier, del resto, pur avendoci lasciato di lui un lucido ritratto, dice chiaro che «nessuno può avere la pretesa di fare una biografia completa di Balzac». L’elemento tempo, ad esempio, nella sua esistenza si direbbe che non esista. La sua giornata era di ventiquattr’ore, come quella di tutti i mortali; gli anni, cinquantuno, furono quasi la metà di quelli di Tiziano, di Leonardo, di Goethe. Eppure la sola Comédie Humaine consta di 91 opere complete, più 50 abbozzate o già in lavorazione (questi dati sono dell’indiscutibile Marcel Bouteron). Restano fuori dal conto le commedie, i romanzi scritti alla macchia, le novelle sparse qua e là, la fitta produzione giornalistica, saggi, memorie eccetera. Quante pagine, quante parole? La rapida d’un fiume. E poi, per distrarsi, diluvi di lettere alle sue numerose Laure, a Evelina, persino a una segreta e sfuggente Luisa; e le ore dedicate a queste come a parecchie altre donne che suscitarono in qualche modo la sua curiosità; e quelle impiegate nei lunghi, talvolta lunghissimi viaggi, oppure spese a s’adoniser nelle parentesi di galanteria, oppure nell’inseguire le musiche ispiratrici: oggi Rossini per Massimilla Doni, domani Meyerbeer per Gambara, a non volersi soffermare sulla musica religiosa che ha tante risonanze nella sua opera. Bene: minuti alla mano, come arrivò a tutto? L’unica spiegazione accettabile è quella di Gautier: e cioè che Balzac avesse, come Visnù, il dono dell’avatar, ossia d’incarnarsi in corpi differenti e di vivere il tempo necessario per fare ciò che voleva.

  Persino i suoi divertimenti con gli amici erano “lavorati”, veri scampoli di fantasia ch’egli dedicava agli altri con larghezza signorile. Non tutti i lettori dell’Histoire des Treize sanno, ad esempio, che Balzac fondò realmente con alcuni intimi una specie di società segreta che portava il nome di Cheval rouge. I diversi affiliati dovevano «prestarsi aiuto e soccorso in ogni occasione» e obbedire a un certo numero di comandi cabalistici, per mezzo dei quali i cavalli dovevano impadronirsi dei giornali, invadere i teatri, prendere d’assalto le accademie e ciascuno di essi «finir modestement pair de France, ministre et millionnaire». La setta, nemmeno a dirsi, cessò d’esistere dopo quattro o cinque riunioni, durante le quali non tutti i membri disponevano dei soldi necessari per pagarsi il pranzo. Ma il suo ideatore non fu deluso per questo: disarcionato da una chimera, scrive Gautier, Balzac saltava a cavallo di un’altra e ripartiva per un nuovo viaggio nell’azzurro.

  Che non era poi sempre un modo di dire. Nella primavera del ’37 eccolo di nuovo in Italia. Dalla Francia era fuggito per disperazione, dopo il fallimento della sua Chronique de Paris, braccato da uscieri che conoscevano tutte le risorse del mestiere. (Uno di essi, avendo saputo che Balzac era rifugiato presso i Guidoboni-Visconti, si presentò un giorno alla contessa, alla quale disse di dover consegnare d’urgenza 6000 franchi al romanziere. Lei era incerta, forse sospettava, ma l’eterno e impetuoso debitore solo a sentir parlare di crediti si precipitò nell’anticamera. E la cosa sarebbe finita male se la bella Sarah non avesse pagato lei, immediatamente, le cambiali scadute. Anche questo episodio fa parte di quell’inventario dei vizi e delle virtù di cui “la società è lo storico, io il segretario”). I milanesi dunque le lo accolsero con la cordialità che Stendhal aveva già esaltata: specialmente quella cara collezionista di uomini importanti che si chiamava Clarina Maffei, la petite Maffei a cui egli dedicherà La fausse maîtresse. Spiacquero tuttavia nel celebre salotto alcuni suoi apprezzamenti sul Manzoni, che a Venezia provocarono poi addirittura polemiche di stampa.

 

Sposarsi o perire.

 

  Questo viaggio “d’affari”, in parte ancora collegato con la intricatissima successione Visconti, non fu che il preludio dell’avventurosa esplorazione in Sardegna che ebbe luogo l’anno dopo. Il romanziere, che ha appena messo la parola fine alla storia realistica e insieme paradossale di César Birotteau, è ripreso dai soliti sogni di grandezza che in lui sempre si accompagnano alle ore più tormentose. «Sono in orribili guai finanziari. Posso domani non aver pensieri se gli affari che ho in corso si fanno, ma posso anche perire. È molto drammatico essere sempre tra la vita e la morte: è la vita del corsaro. Ma l’esercizio dei muscoli non sempre basta». Trova cinquecento franchi in prestito e si precipita a Marsiglia, di lì ad Ajaccio e finalmente eccolo in Sardegna, raggiunta con una piccola imbarcazione. Perché tutta questa furia?

  L’anno precedente, a Genova, aveva sentito parlare, da un commerciante, di certe miniere d’argento e di piombo esistenti nella zona di Alghero e non ancora scoperte e sfruttate: specie di tesoro di Montecristo avanti lettera che i due avrebbero potuto rapire insieme. In realtà, se non proprio un tesoro, qualcosa c’era: dei campioni erano stati presi e quindi sottoposti ad analisi risultate favorevoli. Se non che l’astuto genovese si era fatto assegnare per sé la sola zona fruttifera, lasciando al “socio” i sassi e le scorie. L’ennesima “illusione perduta”. E anche una scossa notevole per la sua forte fibra. Un accenno, forse il primo, di vera stanchezza. «Ho voglia», scrive alla sua vecchia amica Zulma Carraud, «di una vita da curato, una vita semplice e pacifica. Una donna che avesse tre o quattrocentomila franchi e che mi volesse, purché dolce e ben fatta, mi troverebbe pronto a sposarla. Lei pagherebbe i miei debiti, e in cinque anni il mio lavoro la rimborserebbe. Sarebbe necessario fare ancora degli enormi sacrifici, ma è meglio sposarsi che perire».

 

In tonaca da frate.

 

  I debiti infatti erano in continuo aumento. Ad aggravarli era giunto in questo periodo l’acquisto di un terreno e la costruzione di una casa, la sua famosa dimora dei (sic) Jardies, tra Sèvres e Ville d’Avray. Famosa per le colorite fantasie che accompagnarono, la sua nascita, i suoi sviluppi e infine il suo abbandono. Eccitatissimo, spiritato, Balzac tracciava sui muri bianchi un programma da féerie: «Qui rivestimento in marmo pario; qui uno stilobate in legno di cedro; qui un soffitto dipinto da Delacroix ...». Uno dei suoi visitatori, Léon Gozlan, vi aggiunse, bene in vista: «Qui un quadro di Raffaello, senza prezzo e come nessuno ne ha visti mai». Il bello è che tutte le spese necessarie per quel palazzo incantato avrebbero dovuto venir fuori dalla creazione di un “villaggio-tipo”, con annessa latteria, vigneti e frutteti: vini preziosi, Malaga e Tokay, ananas dei Jardies si sarebbero incaricati di tramandare ai posteri, per altra via, il nome di Balzac. «Sì, la follia è fatta e completa! Non me ne parlate, bisogna pagarla, e adesso faccio le nottate».

  Le nottate a far cosa, non occorre dirlo. Con 45.000 franchi di nuovi impegni, si dovevano inalzare piramidi di dense cartelle. E non buttate giù a caso, come verrebbe fatto di pensare, ma anzi seminate di pentimenti, qualche volta di terremoti. (Il Birotteau è stato all’incirca rifatto diciassette volte). E affrontare poi, a opera licenziata, le conseguenze della scelta di un determinato soggetto. Come gli accadde con Béatrix, la cui protagonista era il ritratto, parlante anche troppo, di Maria d’Agoult, bella e terribile donna che tutti conoscevano come la madre dei figli di Liszt.

  Successe il finimondo. Anche perché, per non far torto a nessuno, in quelle pagine il romanziere aveva organizzato una spietata galleria di parecchi altri amici suoi: a cominciare da George Sand, che sotto le spoglie di Felicita de Touches era dipinta come «une histrionne, une baladine», eccetera, per finire con lo stesso Liszt, trasformato in un Gennaro Conti, musicista napoletano, «nature charmante en apparence et détestable au fond» e per di più «charlatan dans les choses du coeur». Figuriamoci. La D’Agoult avrebbe voluto senz’altro un duello» musica contro romanzo, e se tutto finì in nulla fu semplicemente perché Liszt rifiutò nel modo più assoluto di riconoscersi nel grottesco personaggio balzachiano.

  «Quando sarò logoro, mi darò al teatro», aveva detto lo scrittore a Dumas padre, dopo una prima di quest’ultimo alla Comédie. «Vi conviene cominciare subito», rispose l’altro, secco. I due si detestavano. Ora, frecciate a parte, Balzac era tutt’altro che un romanziere finito, se aveva ancora da scrivere Gaudissart e Les Paysans, ad esempio, ma l’idea del teatro lavorava da tempo dentro di lui. George Sand gliene parlava spesso, come di una iniziativa che avrebbe potuto aiutarlo a risolvere molti problemi d’ordine pratico. E Dio sa se questo era urgente, ora che aveva allungato la lista dei suoi creditori aggiungendovi, per 10.000 franchi, il nome di una bella donna: quella Elena de Valette che fu un altro dei suoi romanzetti precedenti il ritorno definitivo a Evelina. Come al solito, i suoi progetti, abbozzi, o addirittura commedie scritte da cima a fondo, vengono giù a valanga. Lì ci trovate la Grecia d’Alcesti e la Spagna di Don Carlos, titoli moliereschi come L’École des Ménages o còlti come La Mandragora. Si decise finalmente per un Vautrin, che andò in scena la sera del 14 marzo 1840.

  Prima ed unica rappresentazione. Ma non perché l’opera fosse caduta. Al contrario. Al quarto atto ci fu un’esplosione gioiosa, quando il protagonista – il celebre attore Frédérick Lemaître – si presentò in scena vestito da generale messicano ma truccato da Luigi Filippo, con la notissima testa “a pera” immortalata dalla matita di Daumier. Risate, scandalo e subito un secco trafiletto del Moniteur: «Il ministero dell'interno ha stabilito l’interdizione del dramma recitato ieri al teatro della Porte Saint-Martin, sotto il titolo Vautrin». Al commediografo, neanche l’onore della citazione: meno martiri si fanno, meglio è.

  Nella stampa, fra tanti avversari, trovò anche degli amici. Soprattutto, ancora una volta, si schierò al suo fianco Madame de Girardin: quella spiritosa e affascinante Delfina che s’è incaricata di tramandare alla posterità, in un breve romanzo, una delle più eccentriche “eleganze” di Onorato: La Canne de M. de Balzac. Ma nessuna consolazione morale poteva attenuare il crollo del suo piano finanziario. Anche il teatro gli diceva di no.

  Fiasco dunque. Non gli restava che abbandonare il suo “castello” dei Jardies. Aveva speso più di 90.000 franchi e gliene dettero 17.500. Andò a Passy, altra periferia, e divenne invisibile. Appese all’attaccapanni quel che ancora gli restava di velade con bottoni d’oro, adottò quasi stabilmente la caratteristica tonaca che la matita di Gavarni ci ha fatto conoscere, tornò ad essere insomma il “benedettino del romanzo” di cui parla Gautier. Le curé du Village, Les Mémoires de deux jeunes Mariées ... Ed è di questo periodo l’iniziativa, naturalmente sfortunata, della Revue Parisienne, da lui diretta, in cui Stendhal e la sua Chartreuse de Parme ebbero tanti riconoscimenti.

  Stava così, tra le malinconie di una mancata nomina all’Accademia, i soliti lavori forzati della penna e un audace piano organico di pubblicazione della Comédie Humaine, quando, nel gennaio del ’42, gli giunse la notizia della morte del signor Hanski. Libera. Evelina era libera, dunque era sua.

 

 

  Eugenio Gara, Vita affannosa di Balzac. Fidanzato per diciotto anni restò marito solo cinque mesi. Poco prima che Balzac morisse, il mago Balthazar gli aveva predetto lunga vita. Ritratto biografico di Eugenio Gara, «Oggi. Settimanale di politica attualità e cultura», Milano, Anno VI, N. 37, 14 Settembre 1950, pp. 33-34.

 

  In verità, dopo la prima fiammata, tra i due un illanguidimento c’era stato. I lunghi distacchi, le smisurate lontananze non erano certo fatti per un uomo come lui. E del resto non erano neppure mancate le occasioni per confinare il loro sentimento in una specie di limbo dell’amore dove il senso vivo del tempo era all’incirca perduto. Ma ora la vedovanza di lei riportava quel grosso fanciullo alle accese fantasticherie di dieci anni prima. Egli si vedeva passare al fianco di Evelina, fiero e felice, sorridente boiardo tra due file di sudditi lieti della successione. Questi quadri di genere grand opéra lo abbagliavano sempre, e non c’era voluta che la notizia di una lontana, vaga discendenza di Evelina da Maria Leczinska, moglie di Luigi XV, quindi regina di Francia, per dargli una vera febbre d’esaltazione. Adesso, poterle scrivere senza le cautele che la presenza del marito rendeva necessarie, quel poterle parlare finalmente a cuore aperto, faceva di lui un altro uomo: «Lasciate che ve lo dica, dopo che ve l’ho provato tante volte. Le miserie della mia lotta e quelle dei miei tremendi lavori avrebbero spossato qualunque uomo, per grande e forte che fosse ... Siete dunque voi sola che mi avete fin qui sostenuto ... Nulla in me è cambiato. Noi siamo stati coraggiosi, l’uno e l’altro (sic): perché oggi voi non dovreste essere felice? Credete che sia per me che ho messo tanta persistenza a ingrandire il mio nome? Oh, sono forse ingiusto, ma questa ingiustizia deriva dal mio cuore impetuoso». E ancora: «Dio mio, quando comincerà per me la vita? Io ho sofferto fino ad oggi più di chiunque altro. Non ho avuto né madre né infanzia. Mia madre mi ha rovinato nel 1827 [vuol dire che non lo aiutò abbastanza nella sua disgraziata impresa tipografica] e da allora fino ad oggi ho costantemente lavorato come in un deserto, e Dio non mi ha elargito che qualche goccia d’acqua per calmare la mia sete d’amore, in tre volte, per mezzo di un angelo».

 

A Pietroburgo.

 

  L’angelo è lei, naturalmente, e le tre bevute ristoratrici a cui Balzac allude sono i tre incontri con Evelina, a Neuchâtel, a Ginevra e più tardi a Vienna. Tre in dieci anni, che non è certo molto. Adesso vorrebbe rifarsi con un sollecito viaggio in Russia e un matrimonio nei più brevi termini consentiti dalla legge. Ma perché la signora Hanska è così cauta, diciamo pure così elusiva, nelle risposte?

  La sua struttura gagliarda, intanto, comincia seriamente a incrinarsi. È stanco e ha bisogno di riposo. Ma per riposare ci vogliono soldi, non debiti. E poi ora non ha nemmeno più la risorsa del caffè: «L’abuso del caffè mi atterra sempre più». È molto ingrossato, lo stomaco si fa sentire, ha un battito quasi ininterrotto alle palpebre. Gli parlano d’infiammazione, poi di disturbi di primavera. Ma la verità non tarda a farsi strada: «Confidando in questo strumento, il cervello, che lo suono, tra lo sbalordimento dei medici, come Battes suona il violoncello, non ho mai previsto che un giorno l’archetto, le corde, il violoncello stesso si sarebbero spezzati».

  E il desideratissimo viaggio in Russia? Sotto la data del 31 luglio 1843, il segretario dell’ambasciata di Russia, Balabine, scrive nel suo diario: «Balzac è venuto recentemente a far mettere il visto sul suo passaporto, per Pietroburgo ... Mi sono trovato davanti un ometto grosso e grasso, faccia di panettiere, aspetto di calzolaio, dimensioni di bottaio, andatura di berrettaio, aria di tenitore di osteria. Ed ecco tutto. Egli non ha un soldo, quindi va in Russia: va in Russia, dunque non ha un soldo».

  Impertinenze del burocrate a parte, che non avesse un soldo era vero. Ma alla vigilia della partenza riuscì a ottenere qualche altro prestito (quel che fece per lui in questi anni il suo amico Gavault non sarà mai abbastanza ricordato) e insomma potè finalmente imbarcarsi. A Pietroburgo, dove Evelina si era trasferita con la figlia Anna, Balzac stette poco più di due mesi. Ma le tracce di quella permanenza – intendiamo qualcosa di documentato, che vada oltre le solite romanzesche congetture – sono scarse e poco significanti. I due protagonisti di quella storia d’amore vera non si vedevano da otto anni, e avevano passata abbondantemente la quarantina. Con quali occhi si vedevano adesso? Impossibile dirlo. Certo è solo che nel diario di lei, poco dopo la partenza di Onorato, furono scritte queste parole: «Come sono dolci, e rapidi, quei momenti della vita in cui il cuore inondato di gioia si dilata e si schiude, riflettendo un cielo blu sereno che sembra sfavillare d’una giovinezza immortale! Ma come sono lunghi gli anni che li precedono, e quanto amare e pesanti e dolorose le ore che li seguono».

  Tornò con una promessa formale (pare) di matrimonio, e impiegò sette anni a “prepararsi”: goffo e commovente bambino che il complicato giocattolo di queste nozze attirava più di tutto, persino più di una nuova candidatura all’Accademia, appoggiata questa volta da Victor Hugo. Ma la salute purtroppo non migliorava. Il suo medico curante e amico fedele, dottor Nacquart, parlava ora di arachnitis, ossia di un’infiammazione alle meningi. E in queste condizioni, c’era poco da discutere, bisognava rimettersi al lavoro. Per Modeste Mignon, che è del ’44, trovò una collaboratrice in Evelina, essendo il romanzo un’ampia trasposizione di un racconto che la Hanska aveva mandato in esame a Balzac e che a quest’ultimo era molto piaciuto: «La vostra novella è così graziosa, che se volete farmi un immenso piacere, dovreste trascriverla di nuovo e mandarmela. Io la correggerò e la pubblicherò col mio nome ... e voi proverete la gioia che prova un autore vedendo ciò che avrò conservato della vostra bella e affascinante prosa ... Mi avrete aiutato, mi avrete fatto guadagnare qualche biglietto da mille. Quale gloria!». L’opera infatti fu poi dedicata a «Une polonaise - Fille d’une terre esclave, ange par l’amour, démon par la fantaisie».

 

“Mi sento vecchio”.

 

  La sua posizione di fidanzato in aspettativa ora lo costringeva a lasciare spesso Parigi e il lavoro, a trasformarsi come egli stesso diceva scherzosamente con parole italiane in “pellegrino per amore”. Fu a Dresda in veste di futuro suocero, per conoscere il pretendente di Anna Hanska, un conte Giorgio Mniszech che gli fece ottima impressione. Tutti insieme poi, sul finire del ‘45, andarono a Napoli, dove Evelina e la figlia contavano di trascorrere l’inverno. Nella primavera seguente furono a Roma e quindi sul Lago Maggiore. Visitarono gli antiquari (la passione di Balzac: un gioco non meno rovinoso del whist), compravano quadri veri e falsi, mobiletti antichi, porcellane: pensavano, insomma, alla casa futura. La vedova Hanski aveva vinto una causa intentatale dai parenti a proposito della successione, e non erano certo queste spese che adesso potevano preoccuparla. La preoccupava invece la vacillante salute di Onorato e, più ancora, quel suo perenne costruire e distruggere, specie di rovinoso moto perpetuo dello spirito. È questo dunque il genio? Ma Balzac, proprio in quel periodo, stava rispondendo anche a ciò con Splendeurs et Misères des Courtisanes: «Il genio è un’orribile malattia. Ogni scrittore porta nel cuore un mostro che, simile alla tenia nello stomaco, divora i sentimenti via via che essi spuntano. Chi trionferà? La malattia avrà ragione dell’uomo o l’uomo della malattia? Certo, bisogna proprio essere un grand’uomo perché vi sia un equilibrio tra genio e carattere. Il talento cresce, il cuore si dissecca. A meno d’essere un colosso, a meno d’avere spalle di Ercole, si resta senza cuore o senza talento».

  Alla fine di settembre del ‘46 suo comprò, naturalmente col denaro della fidanzata, una piccola casa nella rue Fortunée. Bisognava affrettare il matrimonio, dal momento che Evelina adesso gli annunciava di essere incinta. Notizia, questa, che lo mise in uno stato desaltazione. Il bambino — nessun dubbio che sarebbe stato un maschio avrebbe avuto il nome di Vittorio-Onorato. e sarebbe stato l’erede di unimmensa fortuna: quella degli Hanski e quella di Balzac. Perché s’intende che le cose sarebbero cambiate anche per lui, i bambini portano fortuna. Ma Vittorio-Onorato doveva arrivare invece troppo presto e senza vita, a Dresda, lontano da lui. Evelina, appena rimessa in forze, si recò furtivamente a Parigi per vedere il decantato “nido” della rue Fortunée e pare rimanesse piuttosto delusa. Ci voleva proprio l’immaginazione di Balzac per trasformare le casette della banlieue in palazzi incantati. Egli comunque, di lì a qualche mese, le restituì la visita a Wierzchownia, giusto in tempo per apprendere la notizia che la signora Hanska aveva legato tutti i beni di famiglia alla cara Anna e al suo giovane sposo. Per sé, non aveva tenuto che un modesto vitalizio. Evidentemente i progetti amministrativi del futuro marito l’avevano messa in allarme.

  Quando egli tornò a Parigi, nel febbraio del ’48, trovò l’atmosfera pesante e inquieta che doveva portare, nel giro di pochi giorni, alla fuga di Luigi-Filippo e alla proclamazione della repubblica. L’avvenimento era preveduto, e Balzac ricordava di averne parlato, circa un anno prima, in occasione di un “pranzo politico”, con Eugenio Sue ed Enrico Heine. La discussione si era protratta a lungo e a concluderla era stato Heine, dicendo che secondo lui la soluzione del problema — repubblica o monarchia? — consisteva in una repubblica governata da monarchici, oppure in una monarchia governata da repubblicani. (Piacevolezza non del tutto sprovvista di elementi profetici). Per ciò che riguardava personalmente Balzac, il club della Fraternité universelle volle mettere il suo nome tra i candidati alle elezioni legislative. Egli lasciò fare, ma una sua lettera aperta alla stampa, vaga e disincantata, fu una delusione per chi lo sosteneva.

  Il declino era adesso di quelli che non si possono nascondere: «Mi sento vecchio. Il lavoro diventa difficile ed io ho al massimo, nella lampada, il poco olio necessario per rischiarare gli ultimi manoscritti». S’era riavvicinato al teatro, ma anche La Marâtre, nonostante il successo dei primi giorni, aveva lasciato presto il cartellone. E per quel che riguardava Mercadet — «un’opera ammirevole», a sentire Baudelaire — le difficoltà crescevano ogni giorno.

 

La morte.

 

  Tutto questo, reso più aspro dalle esitazioni di Evelina. Che per Balzac erano ancora meno comprensibili ora che molte opere sue venivano tradotte in russo e lodate da uomini come Dostoiewski. A tagliar corto, il “pellegrino per amore” tornò a Wierzchownia, dove l’inverno tra il ‘49 e il ’50 fu per lui durissimo. Non solo per i suoi vecchi malanni — tra cui l’ipertrofia addominale appariva minacciosa, con un cuore come il suo — ma per i raffreddori “asiatici” che cercavano la via dei bronchi e dei polmoni. «Ah, uno non può sapere che cosa sia un clima asiatico eccessivo altro che dovendolo sopportare». Ma che cos’è in fin dei conti tutto questo, quando arriva poi un giorno — 15 marzo 1850 — in cui si può scrivere alla propria madre: «Ieri, a Berditcheff, nella chiesa parrocchiale di Santa Barbara, un legato del vescovo di Jitomir ... ha benedetto e celebrato il mio matrimonio»? E alla sorella Laura: «Tuo fratello Onorato, al colmo della felicità».

  Il fidanzamento, durato diciotto anni precisi, era giunto alla conclusione. Sulla lunga opera d’amore calava finalmente il sipario.

  In maggio, subito dopo il ritorno a Parigi, ci fu una grave crisi cardiaca. Era giunto, per confessione sua, «in uno stato spaventevole, non potendo né vedere né camminare e con deliqui a ripetizione», e adesso arrivava quest’altro colpo. Il fedele Nacquart cominciava ad avere molti dubbi sulla propria capacità di medico, sicché volle un primo, poi un secondo e un terzo consulto. Tutto inutile, s’intende, compreso l’intervento del “mago” Balthazar — voluto proprio dallo scrittore, questo — che gli predisse altri trent’anni di vita.

  Il 20 giugno, sotto una lettera dettata a Evelina per Théophile Gautier, tracciò una semplice riga, forse l’ultima sua: «Non posso né leggere né scrivere». Di peritonite si cominciò a parlare in luglio. Ai primi d’agosto, un male nuovo a una gamba. Pensavano a un ascesso ed era la cancrena. Allora i medici lasciarono il posto all’abate Assoure: «nella bocca del quale», scrive appunto il dottor Nacquart, «la religione non era che la più alta espressione dell’intelligenza dell’universo». La sera del 18 agosto 1850 giunse Victor Hugo e lo vide: «Balzac era in quel letto, la testa appoggiata su un mucchio di guanciali a cui avevano “aggiunto dei cuscini di damasco rosso presi dal canapé della camera. Egli aveva la faccia violetta, quasi nera, inclinata a destra, la barba non fatta, i capelli grigi e tagliati corti, l’occhio aperto e fisso. Io lo vedevo di profilo e rassomigliava così all’imperatore».

  Questo fino alle undici e mezzo. Poi si cominciò a pensare liberamente agli articoli. Lo scritto di Sainte-Beuve uscì nella Causerie di lunedì 2 settembre. E in quelle pagine, tra riserve anche gravi e che a qualcuno parvero astiose, noi possiamo continuare a leggere che «Balzac fu davvero un pittore dei costumi del nostro tempo, forse il più originale, il più appropriato e penetrante. Fin dal primo momento, egli considerò il secolo XIX come cosa sua: vi si gettò dentro con ardore e non ne è più uscito».

  Elogio funebre che ogni vero narratore vorrebbe per sé. Specialmente da un critico nemico.

 

 

  Eugenio Gara, Le dilette di Balzac, «L’Illustrazione del medico. Rassegna bimestrale», Milano, n. 103, Novembre 1950, pp. 12-15; 4 ill.

 

  Certe cose Balzac se le teneva per sè, non c’era verso di fargliele dire, specialmente quelle importanti: «... nul n’a le secret de ma vie, et je ne veux le livrer à personne». E va benissimo. Ce n’è una però, di quelle porte chiuse, che anche il più discreto dei suoi lettori pagherebbe chi sa cosa per poterle trovare la chiave giusta. Si tratta di questo: poiché la giornata di Balzac era di ventiquattr’ore, come la vostra e la mia, dove diavolo lo trovava il tempo? Si vuol dire il tempo non solo per scrivere 91 dei 137 romanzi ideati per La Comédie Humaine (senza contare il teatro, le opere narrative appena abbozzate, le novelle, i saggi e articoli sparsi qua e là) ma anche quello, veramente enorme, speso per le donne, dedicato alla sua illustre galleria femminile. Se si pensa infine che a Laura e ad Evelina, a Zulma e a Sarah mandò una quantità inverosimile di lettere, biglietti e bigliettini, francamente gira la testa. Tutto questo in mezzo secolo di vita. E poi si parla di prodigi stakanovisti.

  Ma è sul serio possibile una distinzione tra Balzac scrittore e Balzac uomo? Separare cioè le durissime ore della sua clausura a base d’inchiostro e di caffè, dai brucianti periodi di mondanità; gli esilii operosi dalle peregrinazioni turistiche lungo le strade d’Europa? Non si può, perché in Balzac a un certo momento tutto fa «romanzo», e bisogna proprio che un episodio come un individuo sia estremamente incolore perché egli non se ne impadronisca, per poi mescolarlo con le sue fantasie private. Sotto questo aspetto le rivelazioni degli esperti balzachiani, specie quelle di Marcel Bouteron che di tutti è il più autorevole, non lasciano dubbi. Noi sappiamo ormai che il tempo perduto dallo scrittore con le donne è stato via via riguadagnato sulla pagina. Certe vive, dirette esperienze umane il romanziere le accantonava, esattamente come un industriale giudizioso fa con le «riserve» destinate ai futuri bilanci.

  Prendiamo la sua Femme de Trente Ans: abbozzata nel 1828, iniziata nel ‘31 e condotta a termine nel ’34, presa e lasciata più volte in vari anni, durante i quali ebbe il tempo di scrivere altri romanzi artisticamente forse più considerevoli di quello ma meno significanti dal punto di vista psicologico. Bene, siamo proprio sicuri che La Femme de Trente Ans sarebbe nata, se due donne come la signora De Berny e la duchessa d'Abrantès — la prima soprattutto — non avessero avuto una parte così importante nella vita dello scrittore?

  Curiosa coincidenza, si chiamavano tutt’e due Laura; e se si pensa che anche la sorella più amata, la sua confidente di sempre, dall’adolescenza alle soglie dei «filosofici anni», si chiamava così, bisogna proprio dire che le Laure erano per lui quello che furono le Giuditte nella vita di Bellini.

  La signora De Berny, il suo primo amore durato un buon decennio, tra il 1822 e il ’32, è quella Dilecta a cui egli ha dedicato un romanzo quasi autobiografico, Louis Lambert. Quando la conobbe, Balzac era fresco di una grave malattia morale, veniva da una disfatta letteraria che per poco non lo ricondusse alla carriera notarile vagheggiata dalla famiglia. Dopo la laurea in legge, infatti, i suoi gli avevano temporaneamente accordato, ma senza entusiasmo, un assegno di 1500 franchi all’anno e una modesta soffitta a Parigi. (Loro si erano trasferiti in campagna, per economa). In un periodo di prova non superiore a due anni, Onorato avrebbe dovuto dimostrare la propria vocazione. A fatti, naturalmente. E questi fatti furono una tragedia in versi, uno sciagurato Cromwell che alla prima lettura, davanti a uno scelto uditorio di familiari ed amici fece un magnifico fiasco. L’autore, nemmeno a dirsi, non accettò il verdetto, e così venne deciso di sottoporre il manoscritto a un venerando, imparziale professore d’università. Ma le bon vieillard, après une lecture, consciencieuse, déclare que l’auteur doit faire quoi que ce soit excepté de la littérature.

  Col peso di quella bocciatura, rientrò in famiglia in cattive condizioni di salute, smagrito, depresso, senza idee precise su quel che gli convenisse fare. Fu allora che i signori Berny. vicini di casa dei Balzac nel forzato esilio di Villeparisis, offersero al giovane Onorato di dare delle ripetizioni a uno dei loro molti figliuoli. Il futuro autore della Femme de Trente Ans andò e s’innamorò subito della madre dell’allievo, di quella Laura che ne aveva però quarantaquattro, di anni. Amore ricambiato con una tenerezza in certo modo materna anche nei suoi confronti. La madre di Balzac — lei pure Laura di nome — era una donna severa, senza slanci: si capisce quindi l’impressione che dovette fargli quest’altra creatura così tenera e ardente, che lo capì sempre e lo sostenne anche nelle imprese più disperate. Passeranno gli anni, lei morirà, Onorato avrà altre esperienze amorose, finché l’incontro con Evelina Hanska sarà per lui come un felice approdo in un porto di pace, e tuttavia l’immagine della Dilecta avrà sempre nella sua anima i bei colori della giovinezza lontana. Frasi come Un ange m’a soutenu, come Sans elle, certe (sic), je serais mort, od anche Oui, j’ai été gâté par cet ange, sono di molti, di moltissimi anni dopo.

  Ancora bella, nonostante le numerose maternità e i patimenti di vario genere (tra l’altro era stata nove mesi in carcere, durante la rivoluzione del ’93), Laura intuì subito, se non proprio il genio di Balzac, certo quell’immensa energia, lo slancio vitale di uno spirito acceso, destinato a grandi cose. Ebbe il merito di non giudicarlo dai primi saggi narrativi, da quella copiosa littérature alimentaire che da una parte gli procurava qualche soldo senza impegnare il suo nome (firmava «Lord R’ Hoone») e dall’altra gli serviva per farsi la mano: specie di candido artigianato di cui sentirà il beneficio più tardi, nel ’28, al momento del suo primo vero romanzo: Les Chouans. E quando egli, assalito improvvisamente dalla febbre degli affari, s’improvvisò editore prima, poi addirittura stampatore, ingolfandosi in speculazioni che ebbero un peso incalcolabile nella sua vita, anche allora Laura gli fu vicina. Intervenne a più riprese, nel tentativo di salvarlo, per un totale di 45.000 franchi che le furono restituiti a poco a poco, negli anni della rinomanza. Separata dal marito, con una figlia pazza e altre due seriamente inferme, la povera Laura s’avviò al tramonto in condizioni difficili. L’alleanza amorosa con Onorato fu sciolta di comune accordo nel ’32. L’amicizia no, la devozione reciproca rimase quasi intatta. Ma quando venne per lei il momento degli ultimi addii, il grande amico intorno al suo letto non c’era. In quell'autunno del ‘36 era anzi molto lontano, in Italia, a Torino, in compagnia di Carolina Marbouty: donna graziosa ed eccentrica che posava alla George Sand, vestiva da uomo e scriveva poesie e romanzi oggi dimenticati. La notizia della morte della sua prima Dilecta gli fu data quindi molto tardi, al momento del suo ritorno in Francia.

 

***

 

  Dire che la seconda Laura gli capitò tra le braccia per merito (o colpa?) di Napoleone, non è poi del tutto uno scherzo. Anche costei — la duchessa d’Abrantès, vedova di Junot, uno dei grossi generali dell’Impero — era una Femme de Trente Ans con la giunta: quarantasei giusti, nel 1830, quando Balzac ne aveva trentuno. Fin dall’infanzia Onorato aveva sempre avuto un culto per il Buonaparte. E anche adesso, nel suo alloggio di rue Cassini, c’era una specie di piccolo altare sormontato da una statuetta di Napoleone con sotto una scritta di questo genere: Ce qu’il avait commencé par l’épée, je l’achèverai par la plume. Ora questa Laura sapeva tutto dell’Imperatore — anche quello che poi non mise nelle sue famose memorie – ed aveva abbastanza fantasia e facilità pittoresca per ricostruire ambienti, rievocare episodi, far rivivere figure grandi e piccole del tempo-della-favola. Era povera, ormai, viveva d’espedienti, ma lo faceva con una disinvoltura, con una specie di distacco dalle cose terrene che a Balzac piaceva molto. Senza contare che la d’Abrantès conosceva tutti i ci-devant del fastoso carosello imperiale, e questo era proprio quel che ci voleva per l’infervoratissimo Onorato. Infine, il suo piccante fascino femminile resisteva al tempo.

  Fu, per mutuo accordo, una fiammata breve. Ma anche tra questi due il distacco non sarà del tutto amaro. Egli continuò ad andare ai pranzi, sempre meno sostanziosi, dell’infelice donna; le dedicò nel ’35, La femme abandonnée, ma senza sottintesi ironici, anzi quasi con pietosa tenerezza; e quando per lei venne il momento definitivo dell’exit, egli scrisse alla sua Evelina lontana: «I giornali vi avranno detto la deplorevole fine della mia povera duchessa d’Abrantès. E’ finita come è finito l’Impero». Anche nell’epicedio, non era certo la vena che gli mancava.

 

***

 

  Tornava a Parigi nel settembre del ’31, dopo un lungo soggiorno in campagna, quando ricevette una lettera anonima, diffusa e intelligente sebbene piena di riserve, a proposito della sua Physiologie du mariage, uscita da poco. Balzac non lasciò cadere la cosa e rispose — all’indirizzo convenzionale che gli veniva indicato — con un’appassionata difesa della propria opera. Cioè con una difesa della difesa della donna, come diceva lui: «... per una donna che ha attraversato le tempeste della vita, il senso del mio libro è l’attribuzione esclusiva delle colpe delle donne ai loro mariti. C’est, en un mot, une grande absolution».

  Questa faccenda dell’assoluzione dovette piacere alla sua corrispondente, la quale presto abbandonò i mezzi termini e acconsentì a togliersi la maschera. Tanto di guadagnato, perché aveva un volto splendido, un affascinante sorriso. Si trattava della marchesa — più tardi duchessa — di Castries, una delle stelle del faubourg Saint-Germain, consorte d’un pari di Francia, amante fino a poco tempo addietro di Metternich jr.

  Una donna, infine, che anche come età rappresentava un progresso rispetto alle due che l’avevano preceduta nel cuore di Balzac, non avendo che quattro anni soli più dello scrittore.

  Adesso, dopo averla incuriosita con i romanzi e con le lettere, bisognava piacerle. E’ di questo periodo la sua conversione all’eleganza e, più ancora, a quei gusti stravaganti, a quelle eccentricità su cui è fiorita tutta una letteratura. Era necessario, per usare un verbo suo, s’adonner (viene in mente il «Vado a farmi bello» di Falstaff), apparirle sempre in una luce favorevole, misurarsi con i lioncelli della società blasonata. Ai pranzi dalla marchesa furono visti i chiassosi gilè del romanziere, i suoi sgargianti bottoni d’oro, mentre si faceva un gran parlare di quello «storico» bastone a cui Delfina de Girardin dedicò poi un libro, nientedimeno: La Canne de Monsieur de Balzac.

  Il guaio è che in amore la messinscena vale solo fino a un certo punto. E Balzac se ne rese conto abbastanza presto: quando, avendo accompagnato la bella marchesa ad Aix e quindi a Ginevra, dovette finalmente convincersi che quello di lei era stato nè più nè meno che un gioco, una tranche de littérature portata per un momento nella vita. Anzi, nemmeno nella vita, ma semplicemente ai margini: perché è ormai accertato che la Castries non accettò di passare dall’astratto al concreto, di varcare insomma con lui la labile frontiera del flirt.

  Rifiutato. Per un uomo a sangue caldo, che teneva enormemente al suo prestigio, questo era grave. Un proverbio francese dice che i cieli non conoscono collera più violenta d’un amore che si trasforma in odio. Anche stavolta fu così. «Mio Dio, mio Dio, Dio al quale credo», scriverà Balzac nel novembre del ’33 «resto in credito di ben dolci emozioni alla vista del lago di Ginevra, giacché lo lasciai desolato, maledicendo tutto, aborrendo la donna!». E quasi temendo di non essere stato abbastanza chiaro: «Aborro la signora di Castries, perché ha spezzato la mia vita senza ridarmene una, non dirò paragonabile, ma senza darmi ciò che aveva promesso. Non c’è l’ombra di vanità ferita», e qui forse esagera un tantino, «ma disgusto e disprezzo».

  Tutto ciò a botta calda, e si può capirlo. Ma il colpo dovette essere ben duro se quindici anni dopo, nel dar notizia alla sorella della sua preoccupante malattia, Onorato scriveva ancora parole di questo genere: Les atrocités de la dame que tu sais ont été l’origine du mal. Del resto, se a qualcuno interessasse il ritratto morale di madama Castries, non avrebbe che da leggersi la balzachiana Duchesse de Langeais, scritta nel ’34 e precisamente a Ginevra. (Così è vero che si è un po’ tutti attirati dal luogo del delitto).

 

***

 

  «E poi si parla del primo amore! Non conosco nulla di tanto terribile come l’ultimo: è strangolatorio».

  Queste parole le dice un personaggio di una sua commedia, Les ressources de Quinola. Ma è una battuta autobiografica. Era scoccata anche per lui l’ora dell’ultimo amore, di quel grand beau drame du coeur che doveva dar luogo a un fidanzamento durato la bellezza di diciotto anni.

  Anche stavolta era cominciato con una lettera. Il 28 febbraio del 1832 — ormai in liquidazione l’alleanza con la Dilecta, chiuso il rapido episodio d’Abrantès, stagnante l’affaire Castries — gli giunse un messaggio femminile che aveva percorso, con i cavalli di posta, parecchie migliaia di chilometri. Che cosa gli diceva la misteriosa incognita? Questo forse non lo sapremo mai, perché quella lettera non fu ritrovata e probabilmente cadde con molte altre della stessa mano nel rogo cartaceo acceso dalla vedova Balzac dopo la morte dello scrittore. Ma essa fu la scintilla, la magica parola da cui una delle più singolari passioni della storia letteraria.

  La signora Evelina Hanska, di due anni più giovane di Onorato (era ora che le distanze si raccorciassero dal momento che si trattava di un legame «per la vita»), Wierszchownia, in Ukraina, col marito e i figli. Poiché la vita laggiù non era molto divertente, specie dal giorno in cui il signor Hanski era stato colpito da paralisi progressiva, si spiegava l’interessamento di Evelina per i libri e la sua curiosità, il suo desiderio di discuterne qualche volta con gli autori, di sentire, a tanta distanza, una parola viva che almeno spiritualmente la portasse fuori dalla sua malinconica prigione. Cominciò così tra i due una fitta corrispondenza di cui i balzachiani hanno potuto farsi un’idea dopo la pubblicazione delle famose Lettres à l’Etrangère. La testimonianza più felice di quel matrimonio d’anime che a tratti parve senza speranza è racchiusa lì, in quelle brucianti pagine.

  Il loro primo incontro avvenne a Neuchâtel, in Svizzera, nel settembre del ’33. E da allora essa divenne la sua «rosa d’Oriente», la sua «stella del Nord» e persino: «Tu sarai la dilecta giovane e già io ti chiamo la predilecta». Per sé, lo scrittore creava una firma d’occasione: «le moujik», oppure «Honoresky». Fanciullaggini che provano quanto egli fosse rimasto giovane e in certo senso «nuovo», malgrado le numerose esperienze. «Mi sono divertito come un ragazzo a battezzare un polacco, il signor di Wierszchownia, e a metterlo in scena nella Ricerca dell’Assoluto. E’ stata una voglia a cui non ho saputo resistere ... Non potete credere come quel nome, stampato, mi affascini».

  Quando nel ‘41 morì il marito di Evelina, cominciò per Balzac il tempo dei grandi viaggi. Che lo costringevano poi a clausure furiose, per potersi mettere in regola con gli impegni di lavoro. (Sa il cielo se erano grandi, con tutti quegli horribles embarras d’argent). Andò in Austria, più volte in Russia, e infine ancora in Italia: sempre per incontrarsi con lei, appassionato commesso viaggiatore di una proposta matrimoniale su cui Evelina fece in verità lunghe meditazioni. Finché superate le ultime resistenze, il 14 marzo 1850, a Berditcheff in Polonia, quei due divennero marito e moglie.

  Nozze di un moribondo A fine maggio, quando gli sposi arrivarono finalmente a Parigi, Balzac era un uomo distrutto. Una delle sue ultime righe è indirizzata a Gautier, il 20 giugno successivo. Egli prega l’amico di andarlo a trovare: Je ne puis lire ni écrire! Morì la notte del 18 agosto. Evelina prese la penna che era servita per tante illustri pagine e scrisse a suo fratello: «Mio Dio, come mi ha amata, come ha avuto confidenza in me, come ha creduto in me ...».

  Giusto. In fondo, tutta la Comédie Humaine è un atto di fede verso la donna.

 

 

  Rodolfo Gazzaniga, Balzac innamorato, «Scena illustrata», Firenze, Anno 65, N. 6, Giugno 1950, p. 5.

 

  Quando, il 28 febbraio 1832, la marchesa de Castries lo invitò a recarsi da lei, Honoré Balzac fu còlto da profonda emozione. Già noto in Francia e fuori quale scrittore di «piacevoli romanzi», egli era tuttavia ancora un ingenuo ragazzone, aspirava a conquistare il gran mondo e sognava specialmente di entrare nelle grazie di una «dama», la cui conoscenza gli permettesse di assaporare le ebbrezze di un amore «senza leggi e senza confini». E madame de Castries sembrava, per questo, indicatissima: separata dal marito, ricca di temperamento, si era concessa – dicevano – più di una licenza in campo sentimentale; ella rappresentava l’«occasione» e come tale non poteva essere migliore.

  Trepidante come un adolescente che si rechi al primo convegno amoroso, dopo aver provveduto a un’accuratissima toeletta, Onorato si fece condurre in Rue du Bac e, varcata la porta del sontuoso palazzo venne condotto poi dalla marchesa, che lo ricevette nel suo boudoir. La bella, accanto alla quale stava un signore dai lunghi favoriti, sorrise vedendolo, ed egli s’inchinò.

  – Sono lieta, signor de Balzac, che non vi siate fatto aspettare: lieta, benché oggi non mi senta perfettamente bene.

  Il visitatore non resistette al desiderio di una battuta di spirito: — Non chiamate medici, signora, e guarirete immediatamente.

  Al che la donna, rivolgendosi a colui che le stava vicino: – Avete sentito dottore?

  Il medico, scuro in volto, scrollò le spalle, chiese licenza e se andò senza degnare di uno sguardo Balzac che, stizzito e dolente di aver commesso una gaffe, tentava di giustificarsi. Ma la marchesa mostrò di non accordare alcun peso all’incidente; ne rise, anzi, e quindi cominciò a parlare di lui, dei suoi libri che aveva letto col massimo interesse e quasi si dolse, civettuola, che altre dame prima di lei avessero avuta la fortuna di accogliere lo scrittore nei loro salotti. Sarebbe bastato assai meno per entusiasmare l’esuberante Onorato che, divorandola con gli occhi, protestava di non meritare tante lodi e di non aver mai sollecitato l’onore di presentarle i suoi omaggi per il timore che essi non le giungessero graditi. Quando ella lo congedò dopo una lunga scintillante conversazione, invitandolo a tornare presto, Balzac si considerava il più felice tra gli uomini e benediceva il destino che gli aveva concesso d’incontrare una dea.

  Tornò più volte in Rue du Bac. Una sera, non potendo contenere oltre la passione che lo torturava, cadde ai piedi della marchesa gridandole il suo amore. Ella parve sorpresa, turbata; lo calmò, con dolci parole, quindi lo fece sedere vicino a sé e gli disse:

  – Poiché provate per me tanto affetto, accettereste, per farmi piacere ..:

  — Tutto! — scattò l’innamorato.

  — ... accettereste di scrivere per il «Rinnovatore», diretto da un mio carissimo amico, un articolo in favore della duchessa di Berry?

  —Sono ai vostri ordini.

  Per madame de Castries, l’autore della «Donna di trent’anni» divenne legittimista senza intima convinzione; per lei, cominciò a vivere spendendo oltremodo, comprò carrozza e cavalli, ordinò abiti e abiti al sarto Buisson che — lieto di servire il romanziere in cui vedeva chiaroveggente più di molti critici, una futura gloria della letteratura francese – non si preoccupava se aumentavano quei conti che non sarebbero stati pagati mai.

  Balzac ormai, era innamorato pazzo. Tutti i giorni, nel pomeriggio, volava dall’incantatrice per ammirarla, dirle il fuoco che lo ardeva, proporle abboccamenti che ella non accettava; la sera, l’accompagnava al teatro pavoneggiandosi al suo fianco in palchetti di prima fila, quindi la riconduceva a casa e, in vettura, le ripeteva cose insensate, le rubava qualche bacio e commetteva infiniti peccati di desiderio, mentre la donna lo lasciava fare per un po’, ma si riprendeva appena egli cercava di varcare certi limiti e, appena giunta in Rue du Bac, saltava a terra e gli diceva, porgendogli la mano affusolata: — Arrivederci, signor de Balzac.

  Tornando verso la propria abitazione, il signor de Balzac, tormentato e deluso, si arrovellava chiedendosi se ella non fosse, invece che un angelo di bontà quale credeva, un mostro di perfidia, una creatura viziosa ma senza cuore. Perché lo tormentava, negandosi continuamente? Perché, se non lo amava, gli permetteva di recarsi da lei a ogni ora, di esibirsi, quale corteggiatore, in faccia al mondo? Una ragione c’era, e lo scrittore parve intuirla una volta: ma fu il barlume di un attimo, spento il quale egli ricadde nell’oscurità. Entrato, un giorno, nel salotto della signora, ve la trovò insieme con un alto prelato.

 

  — Balzac — ella esclamò; monsignore e io vi attendevamo per chiedere il vostro pensiero circa la necessità di restituire alla chiesa il suo antico splendore. Non vi sembra che la Francia debba ristabilire il banco dei vescovi alla Camera dei Pari?

  L’imboscata era evidente, chiaro il proposito di strappargli una dichiarazione che lo compromettesse. Onorato balbettò una risposta qualsiasi poi, quando il prelato li lasciò soli, rimproverò la signora dicendole che, poiché ella sapeva come egli la pensasse nei confronti del clero, doveva avere «un cuore di criminale» per condannarlo a una nuova supplementare tortura. Ed ella, fredda e cattiva: — Voi non ignorate ciò che la religione significhi per noi. Quando si è quali noi siamo, bisogna sopportare il peso della nobiltà. E voi siete nobile, poiché firmate «Honoré de Balzac» dall’età di ventisette anni e non avete dimenticato il de che una volta: quando avete aperto una tipografia ...

  Sapeva di colpirlo profondamente ricordandogli uno tra i peggiori periodi — forse il più disastroso — della sua vita: quello in cui si era dedicato agli affari andando incontro a un fallimento clamoroso, dalle conseguenze del quale soltanto l’intervento di un parente ricco l’aveva salvato.

  Fu lì per insultarla, ma si contenne; poi, la passione stolida vinse, una volta ancora, l’indignazione. Egli si commosse, pianse, si scusò, per le parole dure e perse l’occasione per scoprire, finalmente, come la de Castries e gli altri, legittimisti non mirassero ad altro che a legarlo al loro carro, per disporre di una penna famosa che sostenesse e difendesse i loro interessi.

  I guai sentimentali di Balzac non erano finiti. Dopo alcuni giorni di relativa calma e di accanito lavoro in campagna, presso gli amici Carraud, egli raggiunse la bella ad Aix-les-Bains, desideroso di leggerle il «Louis Lambert» che aveva terminato. Nuovo attacco alla fortezza inespugnabile; nuove ripulse della donna, convinta ormai che Onorato non sarebbe diventato il pamphletaire del suo partito. Scoppiò un’ennesima scenata egli decise di andarsene, ma la de Castries lo trattenne e lo indusse a partire, con lei e col cognato, per Ginevra donde avrebbero proseguito verso l’Italia.

  Durante il viaggio, l’amore si riaccese. In un albergo, uscito il parente per una passeggiata, Balzac tentò di conquistar la donna con la forza. Ella lo respinse, proclamando che la religione, le leggi le impedivano di diventare la sua amante; ed egli la investì allora, gridando: – Non potete invocare né le leggi né la religione: avete trasgredito alle prime e gabbata la seconda, poiché siete stata l’amica del principe di Metternich.

  – Basta! protestò lei, in preda a un attacco isterico. Ma egli continuò a inveire, poi, tornato nella propria camera e fatta in fretta la valigia, si precipitò in istrada, cercò la diligenza per Digione e vi salì maledicendo.

  Non la rivide più. Sofferse ma resistette al male e, alla fine, la vittoria fu sua: la vita riprese a sorridergli, anche se era svanito il sogno di installarsi, passando per la porta dell’amore, nell’aristocratico Faubourg Saint-Germain.

 

 

  Francesco Geraci, Balzac inedito, «Il Giornale. Quotidiano liberale del Mezzogiorno», Napoli, Anno VII, 17 Agosto 1950, p. 3.

 

  E’ proprio vero che le prime impressioni, i primi esempi, i primi grandi avvenimenti lanciano nei ragazzi una impronta incancellabile che li spinge, una volta divenuti adulti, all’emulazione. Così accadde a Onorato di Balzac. Egli nacque e crebbe nel puro clima napoleonico e le imprese del grande capitano eccitarono la sua fantasia, plasmarono il suo carattere. Era ancora un ragazzo, quando scrisse sotto un ritratto di Napoleone: «Ciò che egli non ha potuto realizzare con la spada, io lo realizzerò con la penna».

  Secondo Balzac ogni individuo è un prodotto formato dal clima, dall’ambiente, dalle usanze, dal caso, da tutto ciò che fatalmente lo tocca e deriva la propria natura da una data atmosfera. E’ la così detta legge — inesorabile — del determinismo che il Taine ha magnificamente spiegata. L’immortale Onorato non esagerava affermando che egli portava «una società tutta intera» nel suo cervello.

  Nessun autore più discusso e più calunniato di lui all’inizio della sua carriera; nessuno, giunto sulla via di mezzo, più accarezzato, più festeggiato, più adulato, più fortunato. Balzac era già celebre quando varcò il confine e giunse per la prima volta in Italia. Ciò avveniva nel 1836: il romanziere aveva 37 anni. Prima tappa: Milano dove egli visitò il Manzoni al quale disse che rassomigliava in modo impressionante a Chateaubriand: il grande vecchio sorrise e ringraziò, compiaciuto. Lo ospite illustre divenne l’uomo del giorno, disputato e desiderato in tutti i salotti: ognuno voleva vederlo. L’ambiente letterario milanese lo sedusse, e più tardi nel dedicare una copia della Figlia di Eva ad una amica di Milano, egli scriveva: «Io sono italiano per la costanza e il ricordo».

  Il grande scrittore visitò quindi Torino, Genova, Venezia, Firenze. la Sardegna e Roma. A Torino, il romanziere si trascinò dietro una donna bella, spregiudicata e bizzarra: Carolina Marbouty, invaghitasi perdutamente di lui. Per tagliar corto alle maldicenze e alla morbosa curiosità del prossimo, tanto più che la donna si era allontanata da cosa all’insaputa del vecchio marito, Balzac — il quale era anche l’uomo delle soluzioni improvvise — la fece travestire da uomo e le diede subito un nome: Marcello.

  Marcello e Onorato Balzac passavano così da un pranzo all’altro, da un ricevimento a un ballo ad una gita nei dintorni, riveriti entrambi, cercati, adulati. «Marcello — precisa Dante Serra nel suo Balzac — sempre dietro al romanziere in redingote grigia e con un’aria fatale e romantica, che fa innamorare ... tutte le donne. E tutte a chiedere a Balzac: «Sempre con voi il giovane amico?» «Sempre con me, madama». «Vi ama?». «Mi ammira!». «Scrive anche lui?». «Meglio di me!». Ma una brutta sera — brutta davvero per la coppia clandestina — Silvio Pellico scoprì il trucco e Balzac confessò a denti stretti: «Sì, è vero! E’ una dama parigina che vuol conservare l’incognito ...» Voltafaccia generale da parte delle signore torinesi .... ma in compenso il falso Marcello si vide subito corteggiato da uno stuolo di cavalieri, e Carolina, in abito da sera, divenne la reginetta torinese. Balzac ne inventò un’altra più grossa: egli diceva a tutti, a bassa voce: «Per la verità, si tratta di George Sand». Si centuplicarono gli omaggi e gli inviti, e anche le pudiche signore furono conquistate dal fascino di quel nome ...

  Nella primavera del 1848 Balzac è a Roma. Un viaggio a Roma era stato sempre la sua grande meta: «E’ assolutamente necessario mettere da parte del danaro per andare nella Città Eterna, almeno una volta nella vita». E più tardi egli confessava a madame Hanska: «Quel soggiorno fu uno dei più grandi e più bei ricordi della mia vita». Lo scrittore si proponeva di fermarsi in Roma fino all’inverno, ma la partenza dell’Hanska dall’urbe, gli fece poi cambiare programma. Balzac venne a Roma, perché sognava sempre di suggellare in essa l’amore per la Evelina. Chi era costei? Evelina Hanska, polacca, maritata ad un conte russo e allora vedova da pochi anni, era l'amica spirituale o, come si dice, qualcosa di più per Balzac, il quale si faceva condurre come un bimbo da quella anima eletta.

  Finì per sposarla, più tardi, ma ella non accolse fra le sue braccia che un uomo fisicamente e spiritualmente finito. A quel matrimonio non fu estraneo il fascino di Roma. Infatti. Onorato ed Evelina, promessi sposi, amavano trascorrere all’aperto le invidiabili giornate della primavera romana, nel cuore della Roma antica e secentesca. Un giorno, seduti intorno alla Fontana di Trevi, Onorato — al colmo della felicità — dichiarò all’amata: «E’ questa la mia vera gloria di scrittore, Evelina, finalmente Roma ci unisce per sempre!».

  Quella unione, spiritualmente celebrata in Roma, costituì per Balzac l’unica parentesi di serenità, di dolcezza e di tranquillità, anche economica, nella sua difficile e tormentata esistenza. Lo scrittore immortale credeva di aver finalmente raggiunto l’agognata pace per poter ancora produrre in piena libertà, senza più l’assillo dei creditori che bussavano alla sua porta e le molte difficoltà finanziarie che egli, natura esuberante e insofferente di ogni giogo spirito avventuroso, si era creato quasi senza volerlo e senza accorgersene fortemente dominato dall’orgoglio e più che altro dall’ambizione di conquistare il posto più ulto, più ambito e più invidiato nella letteratura francese.

  Il destino gli giuocò un tiro crudele: gli diede, è vero, quel primato indiscusso cui egli a spirava e di cui era degno, ma al tempo stesso negò a Onorato di Balzac, il riposante amore famigliare che gli spettava di diritto, come la gloria.

 

 

  Francesco Geraci, Balzac in Italia, «La Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXIII, Numero 229, 19 Agosto 1950, p. 3.

 

  Il misterioso “giovane amico,, e lo scherzo di Silvio Pellico - “E necessario andare nella Città Eterna, almeno una volta nella vita,,.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  E. Gi., Quelli di là, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 248, 19-20 ottobre 1950, p. 3.

 

  Anche in Russia ci si è ricordati dei due grandi scrittori francesi Honoré de Balzac e Guy de Maupassant. in occasione del centenario della morte del primo e della nascita del secondo. Manco a dirlo le due ricorrenze sono servite alla propaganda rossa per fare dei due narratori due marxisti-stalinisti ante litteram.

  «Milioni di persone che odiano il capitalismo e difendono la pace, ricordano in questi giorni il centesimo anniversario della morte del famoso scrittore francese Honoré de Balzac. Nelle sue opere con grande forza sono messe in rilievo le mostruose contraddizioni e l'inumanità delle strutture sociali capitalistiche.

  «L’arte realistica di Balzac fu altamente apprezzata da Marx e da Engels. Quest’ultimo scrisse che dalle opere di Balzac egli aveva saputo sulla Francia dell’Ottocento molto più di quanto avesse potuto imparare dai libri di tutti gli specialisti: storici, economisti, statisti messi insieme.

  «Smascherando i sanguinari piani dei fomentatori di una nuova guerra, bollando d’ignominia la società borghese, generatrice di rapaci imperialismi, gli uomini semplici di tutti i Paesi sanno che non si può arrestare il corso della storia e che l’ordine sociale di cui fu implacabile accusatore Balzac sarà spazzato via dalla volontà dei popoli del mondo intero. (A. Puzikov - Izvestia, 18-8-50)».

  Ora, è ben vero che, nella Comédie Humaine, Honoré de Balzac rappresentò, naturalmente con le sue luci e le sue ombre, la società del suo tempo. E il tempo di Balzac fu il periodo «classico» della borghesia. che aveva da poco conquistato e consolidava il suo dominio politico ed economico, dopo la grande scossa della rivoluzione francese. Ma Balzac fu l’epico della borghesia! Chi non ricorda il famosissimo brano del Manifesto di Marx (1848) in cui tutta la immensa opera, lo slancio creativo, la formidabile attività plasmatrice del mondo della materia della nuova classe dominante, vengono riassunti e, piaccia o non piaccia, esaltati?

  Nella Comédie Humaine Balzac fece, in migliaia e migliaia di pagine, qualcosa di analogo. «Raccontò», con epica potenza, il mondo borghese. Il quale mondo aveva, come si è detto, e come è molto naturale, le sue luci e le sue ombre. Ma Balzac, a diversità di Marx, non si sognò mai di voler dissipare quelle ombre con una rivoluzione economico-sociale. Caso mai alle dure e rudi virtù tipicamente borghesi, tenacia, pazienza, risparmio, senso pratico, Balzac contrappose, nel suo cuore, nostalgie cavalleresche e sentimenti romantici.

  Quello che il Balzac disse in decine e decine di romanzi, Stendhal disse — la cosa fu più volte ripetuta — in due soli libri: Il rosso e il nero e La Certosa di Parma. Napoleonismo, slancio vitale, volontà di potenza, gusto della vita «poeticamente» vissuta. Ecco il «rosso» che Stendhal (e come lui Balzac) contrappone al «nero». Non si tratta, quindi, di rosso di tipo marxista. Tutt’altro!

  E la prova è questa: tutti i «fascismi» si inebriarono, come d’un sublime assenzio, (la frase è di G. A. Borgese) del napoleonismo esplicito in Stendhal, ma già implicito in Balzac. Va da sè che i «fascismi» fraintesero grossolanamente tutta la letteratura a cui si ispirarono. E la ragione è semplice. I politici non possono che fraintendere sempre e poi sempre narratori e poeti. I quali, anche quando assumono a materia il mondo sociale e politico, vanno ben oltre ogni brutale schema dottrinario e propagandistico, per raggiungere qualcosa di assai più profondo: l’umanità.

  Sul modo come la critica sovietica ha «cucinato» Maupassant si parlerà un’altra volta.

 

 

  Alfonso Giansoldati, In una stanza Cupido nell’altra la morte. Crolla l’amore di Balzac nei cento giorni di matrimonio, «Milano-sera», Milano, Anno VI, 17-18 luglio 1950, p. 3; 1 ill.

 

  Honoré de Balzac ha atteso il centenario della sua morte per essere risuscitato con una interessane opera di indagine storico-letteraria, dallo scrittore nizzardo Pierre Descaves.

  «I cento giorni di Balzac» hanno per tema l’epoca più tragica — e la meno conosciuta al pubblico — della vita del geniale romanziere di Tours. Incorniciano, esattamente il periodo che va dal 27 maggio 1850 (ritorno a Parigi della coppia Balzac-Hanska) al 18 agosto (morte dello scrittore).

  Questi «cento giorni» segnano la disfatta matrimoniale del Napoleone delle lettere nella tua ultima campagna erotica. Cento giorni che muoiono in una Sant’Elena misteriosa e sconosciuta.

  Il 14 marzo 1850, nella rustica chiesuola di Santa Barbara di Berdicef, in Ucraina, gocciolante di neve che scioglie al primo sole di primavera, mentre le campane raccolgono sul sagrato frotte di curiosi, l’abate Czaroswki unisce in matrimonio l’adiposo Honoré de Balzac e la bella contessa Eva di Hanska,

  La prima notte di matrimonio non ha storia. Il romanziere è febbricitante: soffre di soffocamento. La sposa, in preda ad una crisi di reumatismo, subisce dolori lancinanti che la fanno gemere penosamente.

  Lui ha 51 anni, la donna è sulla soglia della cinquantina. Triste, inizio di una straordinaria vita coniugale il cui preludio era durato diciassette anni.

  Il 27 maggio 1850 gli sposi arrivano a Parigi. Balzac è affetto da una arterio-sclerosi. Nel corso di tre mesi trascina con estrema insofferenza la sua malattia e i suoi affanni segreti.

  L’armonia coniugale non dura eccessivamente. Scricchiola in ogni sua manifestazione quotidiana. Poche settimane dopo il matrimonio i coniugi Balzac sono quasi estranei uno all’altro.

  Diciassette anni di fidanzamento non sono bastati a salvare la coppia dal naufragio avvenuto in pochi giorni, Questa indifferenza spinta sino alla crudeltà è sufficiente a far ammettere — come alcuni pretendono — che con un attraente pallore alla moda, la contessa Eva ingannò il marito mentre questi agonizzava?

  Con una prudente abilità ed un lodevole rigore d’indagine, Pierre Descaves analizza i diversi documenti di questo terribile dramma che si è svolto il 18 agosto nel mistero della «camera bleu».

  Madame Hanska, allora di una bellezza nobile e maestosa, «sapeva conservare nella sua accentuata floridezza un fascino allettante cui dava tono un accento straniero delizioso ed una andatura spiccatamente sensuale ...».

  Insomma, come dice d’Aurevilly, «una donna da giudicare col metro della follia».

  La contessa russa avrebbe conosciuto il pittore Jean Gigoux, prima ancora della morte di Balzac.

  «Gigoux — sottolineano di lui le cronache dell’epoca — era un bel ragazzo che aveva i muscoli duri, la gioia contagiosa e dei lunghi mustacchi da guerriero antico».

  Secondo alcuni studiosi, in quei «cento giorni» Balzac restò sempre a letto. Negli ultimi tempi della sua malattia, abbandonata la casa «smorta e indecente», Madame de Balzac, nervosa, disperata, sarebbe andata alla ricerca di amici russi e polacchi emigrati nella capitale.

  In un cenacolo d’artisti, avrebbe incontrato Jean Gigoux.

  Il pittore propose all’inquieta donna di farle il ritratto. «La proposta era volgare e insolente, ma la» contessa si dà a lui curiosamente» - scrisse Mirbeau.

  Il giorno dell’agonia, M.me de Balzac prega Gigoux di restare con lei nella casa dove il marito lotta contro la morte.

  Spossata dalle veglie e dalla fatica, la donna si distende su una sedia a sdraio, mentre il pittore si sforza di leggere, con evidenti segni di noia, «Il medico di campagna» e soffre dal non poter fumare.

  All’improvviso, verso lo 10 e mezzo, di sera, una infermiera bussa violentemente alla porta della camera dove i due amanti, nel frattempo, si sono ritirati:

  — «Presto madame, venite ... Il signore è in agonia ...».

  — «Ci eravamo drizzati sul letto — confesserà noi Gigoux – il collo teso, la bocca spalancata, gli occhi fissi nel buio, spauriti ...».

  Una specie di terrore si impadronisce del pittore. Egli trattiene l’amante mentre questa, una gamba già fuori del letto, tenta di alzarsi.

  «I capelli scarmigliati coprivano il suo viso leggermente sfiorito con un volo di crespo ondeggiante sulle spalle dove la camicia era scivolata».

  — «Perché mi avete trattenuta? E’ stupido. Tra poco sarà nuovamente qui».

  Dopo circa dieci minuti, infatti, si staglia nel vano della porta l’infermiera che con estrema indifferenza, propria di quell’ambiente, sintetizza il dramma della stanza accanto: «Il signore è morto».

  Dopo essersi messi a correre disperatamente nella camera, la contessa Eva fa per uscire in uno stato di completa nudità.

  Gigoux allora si alza e l’obbliga a vestirsi e a ravviarsi i capelli. La donna alla fine si cheta: singhiozza solo leggermente.

  Quando ella esce dalla stanza, Gigoux si ricaccia sotto le coltri. Il silenzio nella casa, più che funebre è irreale.

  Il pittore resta a spiare, per cinque ore che rappresentano un interminabile stillicidio di paura: i bisbigli sommessi provengono dalla stanza dove Balzac giace con le mani incrociate sulla pinguedine.

  Al ritorno dell’amante, Gigoux si alza ed esce di casa, senza nemmeno aver degnato la donna di una parola di conforto e il cadavere di una prece. Sono le quattro del mattino.

  Per quanto attendibile, si è certi che questa versione risponda a verità? E’ provato, comunque, che Gigoux, abilissimo pittore alla moda ed eccentrico dongiovanni da salotto, fu l’amante nel periodo agosto-settembre 1850 della moglie del pittore di marine Gudin. I Gudin abitavano in rue Fortunée in una villa situata a fianco di casa Balzac. I giardini delle due abitazioni erano delimitati da una semplice siepe di mortella.

  Tuttavia, è opinione degli studiosi che non verrà mai fatta luce sul mistero, della «camera blu».

  Però è fuori discussione il fatto che Madame de Balzac fu in seguito la concubina ufficiale di Jean Gigoux, dal 1853 al 1882, e che per trent’anni il pittore alla moda abitò nella casa di Balzac.

 

 

  Cesare Giardini, Teoria e pratica dell’eleganza in Balzac, «La Provincia. Quotidiano indipendente d’informazione», Cremona, Anno IV, N. 86, 11 Aprile 1950, p. 3.

 

  Edmondo Werdet, uno degli editori di Balzac, ci ha lasciato di quest’ultimo un ritratto che ce lo mostra in un abbigliamento degno del più raffinato dei dandies. Vedetelo: ha una marsina bleu barbeau con bottoni d’oro cesellato, calzoni neri con sottopiede, panciotto bianco di basino inglese sul quale scintillano le maglie di una catena d’oro microscopica; le calze sono di seta nera traforata, le scarpe di vernice, la biancheria finissima e candidissima; ha guanti color burro e un cilindro a larghe tese di vero castoro ...

  La sera in cui Werdet vide Balzac così squisitamente adorno era la sera di un giorno di dicembre del 1835 nel quale, caso unico, credo, nella storia dell’arte editoriale, la prima edizione del Livre mystique, contenente Les Proscrits, Louis Lambert e Séraphita, apparsa al mattino, si era esaurita nel giro di poche ore. Dunque, una sera di trionfo. Balzac ha trentacinque anni, come il secolo in cui opera e che rivive nei suoi libri, — quei libri che, come bene osserva Paul Bourget, sono spesso profetici, in quanto l’autore «semble avoir moins observé da (sic) société de son époque qu’il n’a contribué à en former une». Come siamo lontani dal Balzac descritto dal Lamartine. vestito in modo che suonava offesa a ogni specie di eleganza, con un abito striminzito sul corpo gagliardo, il panciotto sbottonato, la biancheria grossolana, le calze azzurre, le scarpe chiodate e l’apparenza di uno scolaro in vacanza che sia cresciuto durante l’anno e minacci di far scoppiare i panni. «Tale» scrive il Lamartine «era l’uomo che, da solo, valeva un’intera biblioteca del suo secolo», l’uomo, dice il Gautier, che aveva già scritto qualche decina di romanzi «pour se faire la main».

  Ora è giunta la rivincita: son cinque anni che il pubblico si occupa di lui, da quando, nel 1829, sono usciti Les Chouans, ed egli si abbandona, nelle pause di un lavoro accanito, alla sua grande mania: l’eleganza. Perché Balzac vuole essere un fashionable del suo tempo. E in quella sera memorabile, scendendo dalla carrozza (un vero coupé, con un cocchiere colossale nella sua livrea fiammante e un piccolissimo groom arrampicato dietro il mantice) per un pranzo «chez Very au Palais Royal», agita la sua famosa mazza da passeggio, lunga come il bastone di un capotamburo. Questa mazza è celebre: ha un pomo d’oro cesellato nel quale sono incastonate delle pietre preziose, opera forse di quel François-Desiré Froment-Meurice che Balzac chiama nelle sue lettere aurifaber e a cui Victor Hugo dedicò dei versi famosi: «Nous sommes frères, la fleur — Par deux arts peut être faite. — Le poète est ciseleur, — Le ciseleur est poète ...».

  Madame de Girardin scriverà un libro su questo bastone, che nel pomo, appositamente cavo, nasconde dei capelli di donna, come più tardi Eugène Marsan ne scriverà uno sui molti bastoni da passeggio di Paul Bourget: les joncs, les banbous, les rolins, les sticks ... Questo bastone celebre fa parte dell’eleganza di Balzac; prende, direi, il posto che gli è dovuto nel modo di essere di uno scrittore che aveva tradotto fashionabilmente il «mens agitat molem» di Virgilio in questo modo: «Lo spirito di un uomo si intuisce dal modo con cui porta la sua mazza da passeggio».

  Tuttavia i contemporanei e i posteri non risparmiano a questa mania balzacchiana le loro ironie: lo stesso Werdet riporta un aneddoto secondo il quale un vetturino avrebbe giudicato Balzac un mercante di buoi di Poissy, e aggiunge: «Dio solo sa come andassero le cose, ma i suoi vestiti erano sempre o troppo piccoli o troppo lunghi o troppo larghi». «E’ un Falstaff, corto e rosso come un uovo pasquale» scrive un altro; e Gavarni, con evidenza plastica: «Dalla nuca al tallone di Balzac corre una linea diritta, con un solo rilievo al polpaccio; quanto al profilo anteriore. è quello di un vero asso di picche».

  Ad onta di ciò, la questione se Balzac fosse o no elegante rimane insoluta. Noi sappiamo oggi che anche un uomo grasso può essere elegante; ma il secolo di Balzac aveva altre esigenze. Balzac stesso negava agli uomini grassi la possibilità di essere eleganti, ed egli era qualche cosa più che grasso. Era «grosso, quadrato dalla base alle spalle», è il Lamartine che parla, e aggiunge, però, che non si riscontrava in lui «nessuna pesantezza; egli aveva tanta anima ch’essa portava tutto ciò agevolmente e allegramente, come un involucro pieghevole e non come un fardello; le sue braccia corte gestivano con facilità; egli conversava come un oratore parla».

  Quello che nessuno vorrà negare, è che, nel mondo dell’eleganza, del fashionable, Balzac si muove a suo agio, da padrone. Leggete i tre piccoli trattati ch’egli scrisse tra il 1830 e il 1833. la Physiologie de la toilette, il Traité de la vie élégante, la Théorie de la démarche, e vedete poi, sfogliando i quaranta volumi della Comédie humaine, come applichi i principi scherzosamente (ma non tanto!) in essi enunciati. Pochi scrittori hanno curato con più amore e più attenzione di Balzac il vestiario dei loro personaggi. e difficilmente accade di coglierlo in flagrante errore di buon gusto. D’altronde, anche l’abbigliamento con cui egli si mostrò a Werdet il giorno dell’apparizione del Livre mystique e che Werdet ci descrive con tanta precisione è impeccabile in tutti i particolari, e si iscrive, per così dire, nel quadro della più pura tradizione brummelliana. Perché non applicheremmo a questo Balzac in fronzoli ciò che egli stesso dice di uno dei suoi personaggi, il cugino di Eugenia Grandet, che arriva una sera a Saumur recando con sè quanto di più elegante la Capitale poteva mostrare alla Provincia per abbagliarla? «Soltanto un parigino, un parigino della sfera più elevata poteva adornarsi così senza sembrar ridicolo, e conferire un’armonia di fatuità a tutte queste sciocchezzuole».

  Le persone che Balzac abbiglia dalla testa ai piedi sono innumerevoli; è tutto il mondo della Comédie humaine, di una opera immensa, cioè, che fa concorrenza allo stato civile; e ai suoi eroi preferiti, ai dandies e ai lions, lo scrittore attribuisce i propri fornitori; così che a questi ultimi è toccata una sorte singolare: quella di vivere, personaggi reali dei quali il ricercatore erudito trova ancora le tracce vagando attraverso una Parigi antica e scomparsa, tra i personaggi immaginari — ma come più vivi! — di Balzac.

  Ecco Buisson, del quale è detto che un abito fatto da lui basta a un giovine per divenire il re dei salotti. Balzac ha dei doveri verso Buisson, che è a un tempo il suo sarto e il suo padrone di casa. Tuttavia, qualche volta — e nella vita e nel romanzo — gli preferisce Staub, il sarto più celebre dell’epoca, che ha avuto la rara fortuna di essere nominato da Stendhal. Infatti, la prima volta che Giuliano Sorel incontra Carlo de Beauvoisis, quest’ultimo, osservando il vestito dell’eroe di Le Rouge et le Noir, giudica che debba essere fatto da Staub. Ecco Humann, che ebbe per disegnatore Gavarni; e, a voler continuare, la lista non avrebbe fine tanto presto: i parrucchieri si alternerebbero ai sarti, i venditori di bric-à-brac ai cesellatori, le modiste alle sarte: nell’elenco, constatazione singolare, non manca che il cappellaio, per una ragione semplice: i cappellai non fanno credito. Lo attesta Luciano de Rubempré.

  Questo amore per l’abbigliamento ha la sua ragione di essere nella concezione che del mondo si fa Balzac; questi considera l’uomo come un prodotto sociale. Nell’esposizione del piano della Comédie humaine, scritto nel 1842, si sente l’importanza che egli attribuisce alle gerarchie. Nel già citato Traité de la vie élégante, ch’è del 1830, quasi per segnare i confini dell’ambiente nel quale i suoi dandies svolgono la loro vita, Balzac distingue, frutti della civiltà, tre diverse categorie di uomini: l’uomo che lavora, l’uomo che pensa, l’uomo che non fa nulla, alle quali corrispondono la vita attiva, la vita d’artista, la vita elegante.

  Forse Balzac pensava di poter assommare in sè questi tre modi di vita: nelle due prime categorie egli rientrava di pieno diritto, nella terza cercò di introdursi in tutti i modi. Certo — e questo risulta da tutta la sua opera — egli sapeva che l’abito, ad onta del dettato, fa il monaco e che, nella nostra artificiale civiltà, l’uomo è soprattutto quel che dimostra di essere; opinione che era, d’altronde, per quanto riguarda il lusso esteriore, quella di Pascal, quando scriveva: «essere ben messo non è cosa vana poiché vale a dimostrare che una grande quantità di gente lavora per noi».

  Sorridiamo, dunque, a Balzac che serra il corpo possente nella marsina azzurra a bottoni l’oro di Brummell. Egli è pur sempre nell’esercizio delle sue funzioni, poiché vive e studia quel mondo fashionable che ha tanta parte nell’opera sua. D’altronde, questa immagine non vale a cancellare l’altra che di Balzac ci ha lasciato Gavarni in una notissima litografia. Vedetela: è un Balzac che veste saio come un monaco. Così vestito, corda ai fianchi, vero benedettino della letteratura, Balzac ha passato metà della sua vita al tavolo di lavoro. Il lusso esteriore era per gli altri, per il pubblico; per sè, per le ore luminose e faticose della creazione, egli aveva questa semplice, rozza tonaca. Ed è così che lo si preferisce.

 

 

  Lorenzo Gigli, Giornate torinesi di Balzac, «Gazzetta del popolo», Torino, Anno VI, 22 settembre 1950, p. 3.

 

  L’anno balzachiano ha dato naturalmente occasione a una quantità di pubblicazioni di valore diverso, nelle quali non figurano numeri eccezionali dal punto di vista della critica né da quello dei contributi decisivi alla biografia del grande romanziere. Anche di fronte-ai rapporti Balzac-Madame Hanska si rimane pur sempre nelle antiche trincee e non s’è fatto un passo innanzi per chiarire quale fosse veramente la natura- dei sentimenti che legava la dama polacca allo scrittore: se mai qualche pettegolezzo di più, di tinta macabra, le riverniciate vanterie di quel modestissimo pittore il quale affermava d’essersi trovato a divedere il letto della signora proprio nelle ore in cui Balzac, abbandonato da tutti, moriva (superba pagina di Victor Hugo in Choses vues). Fa bene Stefano Zweig nella biografia di Balzac uscita, postuma, ed ora pubblicata da Mondadori, nella versione di Lavinia. Mazzucchetti, a tener conto soltanto dei dati sicuri e a trascrivere la scena della morte sulla falsariga di Hugo. Il biografo austriaco ha lascito in questultimo, libro la prova della sua serietà di ricercatore e ricostruttore nell’ordine di determinati temi, qui la riuscita è completa, pur tenendo conto della, mancanza d’una revisione definitiva e della genericità del giudizio critico (e del resto sembra che Zweig si ripromettesse di dedicare all’esame dell’opera balzachiana un successivo volume). Comunque questa di Zweig è la biografia più aggiornata di Balzac, il motivo conduttore è la volontà eroica, la coscienza irriducibile della propria forza per cui Balzac usciva da ogni avversità (e sa Iddio quante dovette affrontare e quante se ne creò egli stesso con ingenuità sublime) più deciso che mai a lottare e a vincere, non per fatuo titanismo, come credettero alcuni contemporanei, ma per la fede ch’egli aveva nel proprio genio e nella propria vocazione, perché intuiva benissimo come a un romanziere della sua statura spettasse elevare il romanzo a un alto piano attraverso la discussione dei problemi decisivi dell’uomo, sociali filosofici religiosi. Le sue cadute estetiche possono essere frequenti, sempre tuttavia s’avverte la zampata del leone anche a metà d’una pagina di letteratura di mestiere, e l’edifico nel suo complesso, formato di corpi di fabbrica che il tempo non gli consentì di legare, resta un esempio unico.

  La biografia di Zweig è valida per diligenza di ricerca ed esattezza controllata sino allo scrupolo. Se ne può avere un’idea scorrendo le pagine che toccano dei viaggi di Balzac in Italia, dove non si ripete il solito errore di confondere la discesa del 1836 con quella del ’37 e si tengono debitamente distinti i soggiorni torinese e milanese. A Torino il Balzac fu per tre settimane nel luglio, appunto, del ’36, venne per incarico della coppia Guidoboni-Visconti che dimorava a Parigi e che egli frequentava: il conte Emilio Guidoboni Visconti, di famiglia tortonese. aveva sposato Sarah Frances Lowell (ritratto balzachiano di lei in Béatrix: «... ces filles pétries de lait, à chevelure dorée ...»), la signora era in tenero con lo scrittore e convinse il marito ad affidare a Balzac (proprio a lui!) l’incarico di occuparsi della faccenda di una complicata eredità italiana. Balzac non se lo fece dire due volte, capitò a Torino e prese alloggio all’albergo Europa in piazza Castello. Non viaggiava solo, lo accompagnava una bella donnina in abiti maschili, col permesso d’un marito compiacente, magistrato in provincia. Si chiamava costei Carolina Marbouty, aveva trentatrè anni, era alta e bruna e scriverà commedie (una in collaborazione con Scribe) e romanzi sotto il nome di Clara Brunne. A Torino, si faceva chiamare Marcello, dal libretto degli Ugonotti, l’opera ch’era stata l’avvenimento dell’inverno parigino. Ma presto la società torinese scoperse il segreto del finto Marcello, donde infinite chiacchiere e morbose curiosità, di cui Balzac mostrava di divertirsi moltissimo. Fu il conte Federico Sclopis di Salerano (Balzac gli aveva portato una lettera del barone Nasi, addetto all’ambasciata sarda a Parigi) a introdurre lo scrittore nei circoli subalpini. Conobbe così la marchesa di Barolo, Silvio Pellico, la spiritosissima marchesa Roero di Cortanze, autrice di memorie inedite sul regno di Carlo Alberto, il giurista Luigi Colla, famoso, oltre che per i suoi studi, per una serra di piante rare che teneva in una villa a Rivoli. La serra del Colla ispirò a Balzac la descrizione della serra del vicepresidente Blondet che si legge nella seconda parte del Cabinet des Antiques, come dimostrò anni fa il noto balzachista Henry Prior. Il «profilo» del Colla compare poi in Modeste Mignon, dove egli è presentato come «le plus grand avocat du Piémont» e come autore dell’opera botanica Nota Flora Pedemontana stampata in otto volumi dal 1833al ’37. Esistono lettere, poche, Balzac-Colla (una alla Civica di Torino, lascito Cossilla, altre a Chantilly, fondo Lovenjoul) e lettere Balzac-Sclopis in una delle quali è l’annuncio della morte della «Dilecta», Madame de Berny, avvenuta appunto durante il viaggio italiano del 1836: «... j’ai perdu durant mon absence une personne qui était la moitié de ma vie».

  Non tutta qui Torino in Balzac. Quando, nel 1922, il bibliofilo Lang scoperse la novella inedita Les fantaisies de la Gina, tutta giocata sugli amori (autentici) del principe Alfonso Serafino Porcìa e della contessa Attendolo Bolognini Sforza conosciuti a Milano nel ’37, non ultima delle ragioni d’interesse del testo balzachiano, risultò l’ambientazione finale della avventura nella Torino romantica, dove la protagonista si rifugia per sottoporsi ad una operazione chirurgica. Anche altrove Balzac ha scelto Torino quale sede favorevole alle convalescenze de’ suoi irrequieti personaggi: si veda il frammento inedito Valentine et Valentin (pubblicato quest’anno con cinque altri importanti frammenti nella nuova serie dei Cahiers Verts di Grasset, n. 4°), primo abbozzo dell’esordio d’un romanzo nel quale ricompare la figura del poliziotto Peyrade di Une ténébreuse affaire: in Valentine il poliziotto sposa una piccola borghese, che ha ventisette anni meno di lui e lo odia; viene mandato in Piemonte, donde l’infelice Valentina annuncia alla famiglia la sua prossima maternità. Passi del frammento: «des scènes déplorables marquèrent le séjour de Peyrade dans la capitale du Piémont ... Madame Peyrade accoucha de sa fille à Turin. Peyrade la nomma Valentine, du nom de la mère ...». Non si sa quale sviluppo avrebbero avuto questi spunti torinesi nel romanzo. Alcuni temi di Valentine furono ripresi nella seconda parte di Splendeurs et misères des courtisanes, mentre Peyrade si riaffaccia anche nei postumi Petits bourgeois. C’è quanto basta per confermare come Valentine (e gli altri cinque frammenti ora pubblicati che provengono tutti dal fondo Lovenjoul) si classifichi nel piano della Comédie humaine.

  Chi voglia intanto ritrovare Peyrade e la Francia dell’impero rilegga Une ténébreuse affaire in una buona traduzione recentissima di Maria Ortiz: precisamente nel primo volume de’ Capolavori della Commedia Umana che fa parte, della collana «I grandi maestri» dell’editore Gherardo Casini di Roma. Oltre l’Affaire, la scelta comprende Le père Goriot, Le colonel Chabert, Facino Cane, Sarrasine (nel secondo volume Eugénie Grandet, Le médecin de campagne, La femme de trente ans, Les secrets de la princesse de Cadignan), come dire quanto basta per ricordare all’italiana il centenario in modo da cogliere il meglio di Balzac ambientista e ritrattista, il fascino ancora attuale della sua arte di disegnare i personaggi e di descrivere il quadro sociale nel quale egli li colloca. A fare il punto su Balzac nell’anno 1950 aiuta la prefazione di Pietro Paolo Trompeo alla scelta Casini, dove il contrasto fra il narratore-inventore e il moralista-ritrattista è delineato con la consueta finezza, per ridurre ne’ giusti limiti la formola «forza della natura» come risolvente dei «difetti, delle qualità» di Balzac. Senza rifarsi alle astiose posizioni polemiche di Sainte-Beuve, si può accogliere il giudizio di un altro contemporaneo, il Lamartine, il quale disse che Balzac aveva tutto, «eccetto la proporzione dell’ideale al reale».

 

 

  Lorenzo Giusso, La poesia del convegno, «La Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXIII, Numero 34, 3 Febbraio 1950, p. 3.

 

  L’ansia del convegno, l’ingigantito spettro del convegno, saturano di sè la letteratura dell’800. Il convegno è un mistero ed un rito, a cui si accede dopo immersione nel semicupio mal riscaldato e dopo un selettivo raffinamento d’eleganza. La maggior parte delle eroine di Balzac, da Madame de Mortsauf, in Le Lys dans la Vallée, all’eroina di la Femme de trente ans, muoiono del rimorso di non averne concesso e ne subiscono paurosi contraccolpi. [...].

  Il catturatore di donne — di cui Balzac ci offre un primo esempio in Maxime de Trailles, il protagonista di Le député d’Arcis — giunge all’apogeo nei romanzi e commedie del tardo 800. La moda scientista e specializzatrice suscitò, insieme col raccoglitore di miscellanee e l’innocuo paleontologo, il puro goditore, il Passatore di fragili virtù.



  Lorenzo Giusso, Opzione e determinismo in Onorato Balzac, «Idea. Settimanale di cultura», Roma, Anno II, N. 50, 24 dicembre 1950, pp. 1 e 8.

 

  Balzac romanziere di appendice con Le Bicaire (sic) Des Ardennes, con Argo (sic) le Pirate, Balzac romanziere storico e storico formidabile con Une ténébreuse affaire, e con Les Chouans, Balzac romanziere giudiziario e sensazionale rivelatore dei «Misteri di Parigi» con la trilogia di Vautrin: la multiformità degli assaggi, delle esperienze e dei collaudi del grande scrittore «è impressionante, se non addirittura sconcertante. Prima di essere sè stesso, Balzac ha potuto confinare, con Rousseau, con Bernardin de Saint-Pierre e persino con Sue e con Dumas. Eppure nessuna Cassazione letteraria oserebbe più confermare i giudizi negativi, di elefantiasi, di dilatazione e «corruzione asiatica» resi al loro tempo, da quel rimpicciolitore – e sarebbe ora di dirlo – fraintenditore di valori che fu Sainte-Beuve. La critica del tempo – diffida e vergogna eterna dei fanatici della critica – postergò Balzac e George Sand e lo distinse appena da Saint-Marc de Girardin. Forse perché Balzac, malgrado l’apparenza, non è formidabile: Balzac ha la superiore poliedricità della grande «impersonalità». Circoscrivere e finire è impresa agevole per gli scrittori minori di cui si scoprono senza sforzo il temperamento, e l’umore sociale. Diventa impresa vertiginosa davanti a Shakespeare od a Balzac.

  Balzac può essere stato un procedimento, ma non una filosofia da pigiare e tritare in formule. E’ stato un creatore, ma ha omesso la targa e la didascalia delle sue creature. Il rappresentatore spietato e fisiologico dell’egoismo delle figlie di Papà Goriot è stato ad un tempo il cantore degli amori inespressi e compressi.

  Balzac ha legato il suo nome ad un procedimento narrativo che si può qualificare meccanico causale ed, in una parola, naturalistico. Ha legato il suo nome alla visione di riflussi e di assestamenti sociali di trapassi di potere e di ricchezza che si designano come artificio dell’intera vita e dei più arcani rapporti umani.

  «Sotto la Restaurazione – si legge nella «Cousine Bette» la nobiltà si è rammentata d’essere stata battuta e depredata; perciò con due o tre eccezioni, è diventata economa, saggia, previdente, borghese e senza grandezza: il 1830 ha consumato l’opera del 1793. D’ora in poi vi saranno in Francia dei grandi nomi, non più grandi casati, tranne mutamenti politici difficili a prevedersi. Tutto vi prende l'impronta della personalità. La ricchezza dei più lungimiranti è vitalizia. Vi si è distrutta la famiglia».

  E’ uno dei tanti scorci nostalgici della Francia dei gigli d'oro e dei ranghi tradizionali che affiorano nella «Comédie Humaine». Sotto quest’angolo visuale e sfavorevole Balzac giudicò la rivoluzione di luglio e l’irruzione in massa nelle posizioni chiave e nei ranghi del potere dei negozianti arricchiti, dei sensali di Agenzie mobiliari diventati capitani della Guardia nazionale, dei droghieri diventati di diritto ospiti del Palazzo Reale colla monarchia di Luglio. Quel suo senso babelico, ingigantito fino alla catastrofe, di Parigi è connesso con una aspirazione nostalgica. Ma il genio del romanziere ne ha tratto partito. Entusiasta del nuovo Balzac avrebbe popolato i suoi libri d’idealisti nobilmente drappeggiati o alla George Sand. L’opposizione più o meno confessata precipitò in lui il senso spettacolare d’una paurosa ridda di egoismi, di un’immensa gara d’ambizioni spoliatrici e di cupidigie ignare di ostacoli impersonati nei suoi Popinot, Nucingen, Birotteau, Crevel, ed in quello squadrone di brillanti giovanili eroi del pervenire senza scrupoli: Rastignac, dei (sic) Marsay, Félix de Vandenesse, Canalia (sic), ecc.

  Zola, con suprema sincerità, dava atto a Balzac di avere iniziato l’epoca della indagine nel romanzo. La «Comédie Humaine» contiene infatti, in germe, i quadri del Rougon-Macquart.

  Ma così tradizionalista in politica, in letteratura fu grandiosamente innovatore.

  Caratteristica infatti di Balzac, è quella che si potrebbe chiamare la rivelazione dell’Oro e degli affari. Quando si pensi che romanzi anteriori di soli pochi decenni ai suoi o a lui coevi – ad es. la «Delphine» e la «Corinne» di M me de Staël, apparsi entro il 1810, o «Indiana», «Lélia», «Mauprat», «André» di George Sand, od anche le sovraccariche e grandiose acqueforti medievaleggianti di Hugo, ne prescindono totalmente – si avvertirà l’arditezza indelicata, la geniale grossolanità di questa materia impastata di impurità che conquisto il pubblico, e fece turare il naso alla critica. In generale, i critici non sono che tardivi e riluttanti estensori di sentenze emesse da quell’autentico Consiglio di Stato che è il pubblico. Fu la rivelazione, anzi la rivoluzione dell’Oro e degli affari, qual’era emersa alla luce delle tre cosiddette «giornate gloriose», del luglio 1830.

  Balzac sarebbe stato, prescindendo dalle sue leggi d’idrostatica o di termodinamica sociale, uno scultore di anime e personaggi senza confronti possibili. Ma la concretezza, la solidità ed il taglio inimitabile delle sue creature lo trovò nella osservazione e nell’analisi, a un tempo scientifica e passionale, del mondo degli affari. La rivoluzione di Luglio, incubata nelle riunioni del banchiere Laffitte, aveva rivelato e squadernato un segreto che i più accorti avevano da tempo intravisto: la preponderanza assoluta, delle forze finanziarie sull’opinione, le istituzioni politiche, l’intero volume dei rapporti sociali; quella Rivoluzione di cui la bandiera repubblicana era stata ripiegata, dai fautori borghesi del «juste-milieu», era stata palesemente manovrata dai proprietari dei beni degli emigrati, banchieri, negozianti, paurosi di un nuovo assolutismo revocatore delle libertà, del prestigio e delle ricchezze conquistate.

  Ed ecco il mondo di Balzac, galleria di ritratti e di caricature atroci ad un tempo, della borghesia rinfrancata e smaniosa di consolidarsi al potere. Ecco i banchieri nobilitati, come il barone de Nucingen, i profumieri e cappellai diventati capitani della Guardia Nazionale, i sensali di Agenzie, i procuratori e notai pullulanti nei suoi libri.

  I personaggi, globalmente (del romanzo o del dramma romantico), ostentano una sublime impassibilità davanti alle due passioni dominanti nell’uomo: l’ambizione e l’avidità, le quali del resto si condensano agli occhi di Balzac, in un appetito unico. Dalle Pamele di Richardson e di Goldoni, alle dame erranti dei Chiari, dalle religiose costrette alla clausura di Diderot, alle eroine frementi di lieviti emancipatori di George Sand passando attraverso la Nuova Eloisa ed il Werther, gli eroi di romanzi e drammi del tardo 1700 o dell’800 in boccio, ci appaiono nobilmente preoccupati d’ansie finanziarie. Cambiali, testamenti, liti e rivendicazioni ereditarie restano per loro geroglifici. Balzac ha introdotto il suo bisturi in mezzo alle purulenze del denaro. E’ il primo romanziere nella cui opera ottengano rilievo – ed anzi rilievo colossale e determinante – notai, avvocati, ufficiali giudiziari, uscieri.

  Il denaro s’invischia e s’inviluppa fra le sue passioni assolute, fra i suoi più trasognati idilli. E’ infatti la sordidezza di Papà Grandet, ad obbligare Charles Grandet, il suo affascinante nipote parigino, (rovinato dalla bancarotta paterna) ad emigrare in America del Sud ed a separarsi dalla cugina Eugénie, che trepidante lo ama e potrebbe dispensarlo, così carica di lingotti d’oro e di marenghi com’è, dal cercare fortuna a 10.000 leghe. E’ la avidità delle sue due figlie, M.me de Nucingen e M.me d’Espard a spogliare il vecchio e fanatico (d’amore filiale) Papà Goriot delle sue rendite lentamente capitalizzate. La potenza finanziaria, sia pure situata in un demoniaco bandito come Vautrin, è arbitra delle distruzioni sociali, dell’alta società e del potere; sono le erogazioni fornite ad Eugène de Rastignac come poi a Canalis e Lucien de Rubempré da Vautrin, diventato omosessuale frenetico nelle galere dove ha languito, a dispensare loro matrimoni e opulenza. Ed è la lotta per il lusso e l’esibizione ad agitare la frenetica sarabanda della «Cousine Bette», del vecchio impenitente gaudente Hulot, di M.me Marneffe, ed a provocare la catastrofe dell’innocente schiatta degli Huleot (sic), incapaci di trattenere sull’orlo della perdizione il vecchio libertino! E’ la stessa frenesia a indurre la moglie del col. Chabert, il reduce creduto morto a disconoscere il marito spossato, pezzente, diventato un povero straccio umano, ed a sollecitarne l’internamento in manicomio.

 

*

 

  Balzac guardava tutto il rigurgito di avidità a lui coeve con occhi di moralista nostalgico. Nostalgico, cioè delle antiche preminenze del sangue e del rango. La democrazia ed il regime instauratosi il 1830, la giudicava «la dichiarazione dei diritti dell’invidia». Per un’iperestesia di raffinamento che gli è stata confutata a carico, egli si fece paladino di una società agli antipodi con quella da lui epicizzata.

  E ciò non ostante, la grandezza di Balzac spazia molto al di sopra. Balzac non è infatti stato, come Zola, od anche Flaubert, posseduto dall’ossessione di una formula e affascinato da orrori senza scampo. Sopra ogni inferno di Balzac sta sospeso, come negli affreschi medievali raffiguranti rappresentazioni di viaggi oltremontani, una zona od una sfera di cielo. Non è un pittore di inferni, ma altresì di paradisi. Accanto alla brutale dominazione dell’interesse, della cupidigia spogliatrice, dei banchieri, merciai, cappellai, degli usurai e dei procaccianti politici, si accampano, sia pure soccombenti, le grandiose incarnazioni della abnegazione e dell’amore che si vota al sacrificio. Accanto al Crevel, Hulot, papà Grandez (sic), Rastignac, Gobseck, Du Marsail (sic), gli eroi le eroine idealizzatrici, le creature immobilizzate sotto l’aureola e la volta azzurra del sogno: Eugenia Grandet, la Baronessa Hulot, Madame de Mortsauf, il medico Bianchon, il custode Michu, Mademoiselle de Saint-Cygne. Come Lamartine e come i poeti francesi della venerazione romantica, Balzac era un appassionato di Dante. La spontaneità della grazia compensa perpetuamente in lui il determinismo infernale. Benché egli presti credito all’idea di una meccanica sociale e una sorta di automatismo delle passioni, ha professato simultaneamente una patetica dinamica dell’uomo. Quelle stesse invariabili leggi determinatrici della cupidigia e delle sue esplosioni, subiscono improvvise contrazioni quando nell’uomo, si solleva l’anelito alla grandezza eroica ed alla dedizione. Ad un certo momento l’uomo può diventare Attilio Regolo o Socrate, nella cornice di una capanna o di un salotto Bieder Mayer. Può diventare quel custode Michu che si lascia condannare, per fedeltà ai suoi ambiti padroni, nell’Une Ténébreuse Affaire.

 

 

  Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1950.

 

 

Sul romanzo poliziesco.

 

  pp.115-116. Il grande delinquente è stato spesso rappresentato superiore all’apparato giudiziario, addirittura come il rappresentante della «vera» giustizia: influsso del romanticismo, I Masnadieri di Schiller, racconti di Hoffmann, Anna Radcliffe, il Vautrin di Balzac. [...].

  In questa letteratura poliziesca si sono sempre avute due correnti: una meccanica – d’intrigo – l’altra artistica: Chesterton oggi è il maggiore rappresentante dell’aspetto «artistico» come lo fu un tempo Poe: Balzac con Vautrin, si occupa del delinquente, ma non è «tecnicamente» scrittore di romanzi polizieschi.

  1) È da vedere il libro di Henry Jagot: Vidocq, ed. Berger-Levrault, Parigi, 1930. Vidocq ha dato lo spunto al Vautrin di Balzac e ad Alessandro Dumas (lo si ritrova anche un po’ nel Jean Valjean dell’Hugo e specialmente in Rocambole).

 

Divagazioni culturali del romanzo d’appendice.

 

  p. 119. È da vedere il fascicolo della «Cultura» dedicato a Dostojevskij nel 1931. Vladimiro Pozner in un articolo sostiene giustamente che i romanzi di Dostojevskij sono derivati culturalmente dai romanzi d'appendice tipo E. Sue ecc. Questa derivazione è utile tener presente per lo svolgimento di questa rubrica sulla letteratura popolare, in quanto mostra come certe correnti culturali (motivi e interessi morali, sensibilità, ideologie ecc.) possono avere una doppia espressione: quella meramente meccanica di intrigo sensazionale (Sue ecc.) e quella «lirica» (Balzac, Dostojevskij e in parte V. Hugo). [...].

 

Origine popolaresca del «superuomo».

 

  pp. 122-126. Così, quando si legge che uno è ammiratore del Balzac, occorre porsi in guardia: anche nel Balzac c'è molto del romanzo d'appendice. Vautrin è anch'egli, a suo modo, un superuomo, e il discorso che egli fa a Rastignac nel Papà Goriot ha molto di... nicciano in senso popolaresco; lo stesso deve dirsi di Rastignac e di Rubempré. (Vincenzo Morello è diventato «Rastignac» per una tale filiazione... popolaresca e ha difeso «Corrado Brando»).

  La fortuna del Nietzsche è stata molto composita: le sue opere complete sono edite dall'editore Monanni e si conoscono le origini culturali-ideologiche del Monanni e della sua più affezionata clientela. Vautrin e l’«amico di Vautrin» hanno lasciato larga traccia nella letteratura di Paolo Valera e della sua «Folla» (ricordare il torinese «amico di Vautrin» della «Folla»). Largo seguito popolaresco ha avuto l'ideologia del «moschettiere» presa dal romanzo del Dumas. Che si abbia un certo pudore a giustificare mentalmente le proprie concezioni coi romanzi di Dumas e di Balzac, s’intende facilmente: perciò le si giustifica col Nietzsche e si ammira Balzac come scrittore d’arte e non come creatore di figure romanzesche del tipo appendice. Ma il nesso reale pare certo culturalmente. [...].

  Adolfo Omodeo ha osservato che esiste una specie di «manomorta» culturale, costituita dalla letteratura religiosa, di cui nessuno pare voglia occuparsi, come se non avesse importanza e funzione nella vita nazionale e popolare. A parte l'epigramma della «manomorta» e la soddisfazione del clero che la sua speciale letteratura non sia sottoposta a un esame critico, esiste un’altra sezione della vita culturale nazionale e popolare di cui nessuno si occupa e si preoccupa criticamente ed è appunto la letteratura d’appendice propriamente detta e anche in senso largo (in questo senso vi rientra Victor Hugo e anche il Balzac). [...].

  Nel Balzac le figure sono più concretamente artistiche, ma tuttavia rientrano nell'atmosfera del romanticismo popolaresco. Rastignac e Vautrin non sono certo da confondersi coi personaggi dumasiani e appunto perciò la loro influenza è più «confessabile», non solo da parte di uomini come Paolo Valera e i suoi collaboratori della «Folla» ma anche da mediocri intellettuali come V. Morello, che però ritengono (o sono ritenuti da molti) appartenere alla «alta coltura». Da avvicinare al Balzac è lo Stendhal con la figura di Giuliano Sorel e altre del suo repertorio romanzesco. [...].

 

  Balzac. (Cfr. qualche altra nota: accenni all'ammirazione per Balzac dei fondatori della filosofia della prassi; lettera inedita di Engels in cui questa ammirazione è giustificata criticamente). Confrontare l’articolo di Paolo Bourget, Les idées politiques et sociales de Balzac nelle «Nouvelles Littéraires» dell’8 agosto 1931. Il Bourget comincia col notare come oggi si dà sempre piú importanza alle idee di Balzac: «l'école traditionaliste (cioè forcaiola), que nous voyons grandir chaque jour, inscrit son nom à côté de celui de Bonald, de Le Play, de Taine lui-même». Invece non era così nel passato. Sainte-Beuve, nell'articolo dei Lundis consacrati a Balzac dopo la sua morte, non accenna neppure alle sue idee politiche e sociali. Taine, che ammirava lo scrittore di romanzi, gli negò ogni importanza dottrinale. Lo stesso critico cattolico Caro, verso gli inizi del secondo Impero, giudicava futili le idee del Balzac. Flaubert scrive che le idee politiche e sociali di Balzac non valgono la pena di essere discusse: «Il était catholique, légitimiste, propriétaire! – scrive Flaubert – un immense bonhomme, mais de second ordre». Zola scrive: «Rien de plus étrange que ce soutien du pouvoir absolu, dont le talent est essentiellement démocratique et qui a écrit l’oeuvre la plus révolutionnaire». Eccetera. Si capisce l’articolo del Bourget. Si tratta di trovare in Balzac l’origine del romanzo positivista, ma reazionario, la scienza al servizio della reazione (tipo Maurras), che d'altronde è il destino più esatto del positivismo stabilito dal Comte.

  Balzac e la scienza. Cfr. la «Prefazione generale» della Commedia umana, dove il Balzac scrive che il naturalista avrà l’onore eterno di aver mostrato che «l’animal est un principe qui prend sa forme extérieure, ou mieux, les différences de sa forme, dans les milieux où il est appelé à se développer. Les espèces zoologiques résultent de ces différences... Pénétré de ce système, je vis que la société ressemble à la nature. Ne fait-elle pas de l’homme, suivant les milieux où son action se déploie, autant d'hommes différents qu'il y a des variétés zoologiques?... Il a donc existé, il existera de tout temps des espèces sociales comme il y a des espèces zoologiques. Les différences entre un soldat, un ouvrier, un administrateur, un oisif (!!), un savant, un homme d’Etat, un commerçant, un marin, un poëte, un pauvre (!!), un prêtre, sont aussi considérables que celles qui distinguent le loup, le lion, l'âne, le corbeau, le requin, le veau marin, la brebis». Che Balzac abbia scritto queste cose e magari le prendesse sul serio e immaginasse di costruire tutto un sistema sociale su queste metafore, non fa maraviglia e neanche diminuisce per nulla la grandezza di Balzac artista. Ciò che è notevole è che oggi il Bourget e, come egli dice, la «scuola tradizionalista», si fondi su queste povere fantasie «scientifiche» per costruire sistemi politico-sociali senza giustificazione di attività artistica. Partendo da queste premesse il Balzac si pone il problema di «perfezionare al massimo queste specie sociali» e di armonizzarle tra loro, ma siccome le «specie» sono create dall'ambiente, bisognerà «conservare» e organizzare l'ambiente dato per mantenere e perfezionare la specie data. Eccetera. Pare che non avesse torto Flaubert scrivendo che non merita la pena di discutere le idee sociali di Balzac. E l’articolo del Bourget mostra solo quanto sia fossilizzata la scuola tradizionalista francese. Ma se tutta la costruzione del Balzac è senza importanza come «programma pratico», cioè dal punto di vista da cui l'esamina il Bourget, in essa sono elementi che hanno interesse per ricostruire il mondo poetico del Balzac, la sua concezione del mondo in quanto si è realizzata artisticamente, il suo «realismo» che, pur avendo origini ideologiche reazionarie, di restaurazione, monarchiche, ecc., non perciò è meno realismo in atto. E si capisce l'ammirazione che per il Balzac nutrirono i fondatori della filosofia della prassi: che l'uomo sia tutto il complesso delle condizioni sociali in cui egli si è sviluppato e vive, che per «mutare» l’uomo occorre mutare questo complesso di condizioni è intuito chiaramente dal Balzac. Che «politicamente e socialmente» egli sia un reazionario, appare solo dalla parte extra-artistica dei suoi scritti (divagazione, prefazioni, ecc.). Che anche questo «complesso di condizioni» o «ambiente» sia inteso «naturalisticamente» è anche vero; infatti il Balzac precede una determinata corrente letteraria francese, ecc.

 

 

  Guido A. Grimaldi, Non conosce la sintassi il signor Honoré de Balzac, «Il Progresso d’Italia. Quotidiano indipendente del mattino», Bologna, Anno V, 6 Gennaio 1950, p. 3.

 

  Così si esprimeva cent’anni fa uno dei più stimati critici letterari francesi.

 

  La società Honoré de Balzac ha intrapreso l’otto dicembre un giro attraverso tutte le città di Francia per divulgare l’opera e la figura del grande scrittore, a centocinquant’anni dalla sua nascita e a cento dalla sua morte, perché egli doveva morire, ancora nel pieno vigore dell’età, consunto dal lavoro e dicono i suoi storici intossicato dal caffè di cui aveva fattoi un uso sfrenato, dopo aver dato al mondo, con i suoi romanzi, un complesso letterario fra i più caratteristici e potenti.

  Balzac, dunque, viaggerà in camionetta, portandosi appresso 400 documenti circa tra libri, litografie, disegni, oggetti, con i quali rinverdirà la sua fama. Noi,— ha dichiarato uno dei suoi accompagnatori — lo rappresenteremo quale fu veramente; non mostreremo un grande morto, ma un personaggio in carne ed ossa, ancora vivente tra noi.

  Ma vivente nel suo tempo, Balzac non assaporò, sul piatto dei critici, quella gloria che oggi tutti gli tributano, in tutti gli emisferi della, terra. La critica gli fu quasi sempre avversa. Ognuno dei suoi libri sollevò più grida ostili che consensi. Anima ribelle, vorace, cosciente delle sue altezze, contradditoria negli atteggiamenti, doveva riuscire antipatica alla pedanteria contemporanea ancora influenzata dalla leziosità mordace e manierata del settecento. Ebbe la debolezza dei gusti raffinati e della vita ricca per cui dibattè i suoi migliori anni tra le morse degli usurai verso i quali del resto si vendicò abbondantemente ritrattandoli a tinte spietate nei suoi romanzi.

  Ma nel contempo si accanì contro quella società in cui fermentavano i miasmi dell’egoismo, quel suo stesso amore per le vane e false apparenze, e la bollò nei suoi esemplari, con accenti di fuoco: e forse anche questa volta a titolo di rivalsa in quanto questa non aveva mai preso alla lettera la particella nobiliare con la quale egli ornò il suo nome onde attribuirgli origini aristocratiche. Ma in questa bizzarria, in questi contrasti di umane alterazioni che il genio ampiamente giustificava perché la varietà di difetti e di passioni di uno scrittore contribuisce ad una più estesa e profonda potenza creatrice, la critica non aveva nulla a vedere. Invece si rivelò meschina e faziosa. E tale più che mai appare oggi dopo che la giustizia del tempo ha reso immortali proprio quei caratteri letterari di Balzac che essa invece aveva misconosciuto e demolito.

  Eccone un saggio tra i più lampanti preso nel Constitutionnel dell’epoca: «Il talento del signor Balzac è pieno di infinite flessibilità. La percezione delle cose esteriori gli è acquisita, ma non avrà mai quella delle cose profonde. Non sarebbe nulla questo difetto nel particolare se i libri del signor Balzac non peccassero quasi sempre nell’idea generale». Ma ascoltiamo ci che diceva Chaudes-Aigues, critico stimatissimo, or sono più di centanni: «Il signor Balzac è perfettamente estraneo alle nozioni più comuni della sintassi; egli non ha nemmeno una vaga idea dei principi più elementari dell’arte di scrivere. Quasi tutte le parole sotto la sua penna sono forzate ad associazioni impossibili. Con una audacia e una sicurezza favolose, egli tra due sostantivi di cui non conosce nè il significato preciso nè l’origine, e due aggettivi di cui ignora l’obbligo particolare, stabilisce violentemente un accoppiamento di parole che è contro la tradizione, il vocabolario ed il gusto». Per ciò che concerne la morale, sempre secondo il suo stroncatore, Balzac l’offende opera un giudizio solenne e in ogni pagina: «Egli pretende conoscere a fondo i costumi del suo secolo e dipingerli con rigorosa verità. Il signor Balzac non sospetta sotto il letame che egli rimuove con mani amorose, la esistenza, nel cuore della gioventù, di istinti nobili, di convinzioni sincere ed ardenti, lui che dipinge una Francia – poiché è il ritratto della Francia che si propone l’autore – popolata di villani gallonati, di banditi più o meno mascherati, di femmine giunte agli ultimi limiti della corruzione o in via di corruzione».

  Ma, in merito, l’opinione del famoso critico Jules Janin è assai più inquietante: «Chiudete gli occhi — scrive nella Revue de Paris del giugno 1839 — trattenete il fiato, mettiamo i gambali impermeabili dei fognaioli e camminiamo! in questo fango». E incalza: «Uno scrittore non è un cenciaiolo, un libro non rassomiglia ad una pattumiera. Ci sono delle cose che non si debbono vedere. Mai invenzione è stata più languida, mai stile è stato più corrente». E il critico dei critici, il grande Saint-Beuve (sic), l’Aristarco del secolo scorso, ha visto meglio? A proposito della pubblicazione dei Misteri dì Parigi di Eugenio Sue esclama radioso: «Quel che c’è di meglio nell’avvento di Eugenio Sue è che sgombera il terreno e lo semplifica. Balzac è messo da parte». Saint-Beuve che preferisce Sue a Balzac rappresenta il fallimento completo ed inappellabile della critica. Certi granchi si scontano.

  Solo Balzac ha visto giusto: appena iniziata quella collana ch’egli stesso battezzò Commedia umana e che doveva comportare 26 volumi, non temeva di formulare sulla sua fastoso. In una lettera indirizzata a Zulma Carraud, nel gennaio 1845, scrive: «Voi non potete figurarvi che cosa è la Commedia umana; è più vasta, letterariamente parlando, di quanto la cattedrale di Bourges lo è architettonicamente».

  Quando nel 1850 Balzac abbandonerà questo mondo, malgrado la mole imponente del materiale, la cattedrale resterà incompiuta poiché parecchi suoi libri non furono terminati ed altri rimasero allo stato di progetto. Tuttavia essa con gran corruccio ed umiliazione degli spinti vaganti, a testa china, nell’Olimpo della critica, spazia nel tempo come i marmi dell’antica Grecia che, anche se mutilati, perpetuano il genio donde emersero.

 

 

  C. L., Attualità di Balzac, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VI, Num. 197, 20 Agosto 1950, p. 3.

 

  Una serie di libri dedicati al grande romanziere nel suo centenario.

 

  E’ incredibile come Balzac sia di moda. Poche celebrazioni centenarie in Francia e altrove sono apparse «sentite» come la sua, in pieno corso. «Dove lo si legge, Balzac agisce come esempio della fantasia creatrice» ha notato Ferdinando Neri, ed è certo che la Comédie Humaine conosce oggi un numero di amatori più vasto che 50 anni fa. Si cerca nel fantasioso ma rigoroso mondo poetico di Balzac un «ordine» intellettuale che non si trova in nessun altro creatore moderno. Ciò prova che la nostra epoca sregolata tende alla chiarezza come a un ideale.

  E poi c’è il piano degli «omaggi» minori e talvolta risibili; intrighi dell’uomo, una vita lampeggiante che forse, come ha scritto André Therive, è il capolavoro di Balzac, non senza elementi «neri» (o gialli, come si direbbe da noi), un enigma che resta da risolvere. Il Bestseller tra i libri dedicati al narratore nel suo centenario, evoca una pagina oscura della biografia balzacchiana: i tre mesi, fra il matrimonio e la morte. Giunto troppo tardi alla fortuna temporale, minato da un male incurabile, affranto dal lavoro e dalle delusioni, Balzac «crepa come un cane». La moglie, la contessa polacca Hanska, lo tradì dal giorno successivo alle nozze. La sera in cui Balzac si spense, la perfida era fra le braccia del pittore Gigoux; «Ho sposato Honoré nella speranza di restare subito vedova» confessò più tardi. Questa abominevole tragedia è autentica? Pierre Descaves, autore dei Cento giorni di Honoré de Balzac, l'avvalora con una documentazione impeccabile. I parigini, dopo il centenario, si baseranno su una storia che Descaves ha il merito, agli occhi del lettore comune, di avere mantenuto su di un piano abilmente «grandguignolesco». Osserva la redattrice mondana di un giornale della sera: «Si potrebbe trarre dal libro di Descaves un film di prim’ordine; Balzac non è stato mai attuale come ora».

  Tanto è vero che — pedaggio obbligato alla moda — lo si psicanalizza. Stefano Zweig, il quale scrisse un «Balzac prima di morire» (tale opera vede adesso la luce in Francia) sostiene che l’autore del «César Birotteau» era «fondamentalmente lontanissimo da una vera e propria vocazione letteraria». Il giudizio è bizzarro, se si pensa che nessun letterato «lavorò» con più impegno e, diremo, con più furia di Balzac. Conosce Freud a menadito e trova che la letteratura non fu per Balzac «questo megalomane» se non uno strumento della sua volontà di potenza, un surrogato di un matrimonio illustre, o del successo negli affari, o di un trionfo politico Se Balzac fosse riuscito a sposare «mademoiselle» De Trumilly, o a far breccia negli elettori di Cambrai, non avremmo la «Commedia Umana». Ne «La vita privata di Balzac» altra opera apparsa nelle ultime settimane Jules Bertaux va più a fondo: Sarebbe bastato un amore «appena passabilmente felice» perché Balzac non si fosse dedicato alle lettere. «La sua vocazione, piuttosto, era quella del finanziere». Ma dove l’avrebbe condotto questa vocazione? René Bouvier ed Edouard Maynial, hanno frugato i suoi registri (e soprattutto i registri dei creditori) prima di offrirci con il loro implacabile «Di che viveva Balzac», un quadro piuttosto cupo dell’aggressività patrimoniale di lui, con le sue follie di scialacquatore, i suoi, sotterfugi, le sue disonestà, specie ai danni della madre. Morendo, Balzac lasciò un deficit di 110 milioni di lire, se lo ragguagliamo alla valuta di oggi. «Questo genio in catene, era già un dannato in terra, e quindi un eletto».

  La sua vita fu, come la vita di Pascal, «une langueur éternelle»; il peggior martirio è sofferto dal martire stesso. Marcel Cazenove (sic). che ci parla del «Dramma di Balzac» alla luce della medicina contemporanea, scoprì «la chiave» per decifrarlo; naturalmente si tratta della sifilide. L’aortite che uccise Balzac, come la sua perpetua eccitazione cerebrale, nascevano da quella piaga nascosta. Inoltre, poiché l’uomo era disperato e solo, travagliato senza posa dai suoi demoni, la dottoressa Amédée Ponceau, diagnostica il caso di Balzac sul terreno della neuropsichiatria. «I lunghi viaggi all’estero non hanno lasciato traccia nell’opera di Balzac. L’Italia, la Germania, la Russia, passavano dinnanzi ai suoi occhi come le ombre di un sogno» Leggete «Paesaggi e destini balzacchiani» e saprete che il maestro dei «Contes Drôlatiques» era, — perché non pensarci prima? — uno schizofrenico.

 

 

  Maxime Leroy, Balzac e il romanzo sociale. Da un articolo di Maxime Leroy ne «La Revue Hommes et Mondes» di Parigi, agosto 1949, «Minerva. Rivista delle Riviste», Torino, Anno 59, N. 8, Agosto 1950, pp. 256-259.

 

  Balzac cominciò la sua carriera senza genio; firmava con pseudonimi inverosimili i suoi primi romanzi, e non cominciò ad essere se stesso che dopo il 1830. Questa è una grossa data nell’evoluzione della letteratura, e in particolare per Balzac, che nel 1831 dà alle stampe, col suo nome, Pelle di zigrino. È la gloria, o quasi; per lo meno, un grande successo.

  Da quel momento in poi una parte importante della letteratura narrativa sarà sempre meno d’ispirazione salottiera e accademica; il cenacolo romantico, cattolico e legittimista, si disperde. Victor Hugo resta cattolico, ma non più monarchico: dopo luglio, eccolo liberale. Un punto di vista nuovo si fa luce sotto la pressione degli operai, che sono stati gli artigiani della vittoria borghese: si parla di «questione sociale» e questo termine ha fortuna.

  In seno a queste trasformazioni del costume appare il fenomeno del romanzo balzacchiano, che più d’ogni altro ha diritto alla qualifica di romanzo sociale. Fu Balzac, ben più che George Sand o Eugène Sue, a creare il senso del romanzesco sociale, riflesso di costumi nuovi, essi stessi a loro volta riflesso di condizioni di vita assai bruscamente rinnovate. Non sarà più l’amore l’alfa e l’omega dei romanzi di Balzac, per lo meno l’amore degli scioperati; non sarà più il conflitto dei sessi a fornire l’interesse principale. Agli scioperati, che s’inebriano delle belle parole e delle sofferenze squisite, come in un romanzo della signora di La Fayette, Balzac sostituisce tipi d’uomini che parlano senza eleganza, che esercitano un mestiere: banchieri e commercianti tormentati da fastidi finanziari, militari in rivolta contro i Borboni, galeotti in rivolta contro la società.

  In Balzac e in Eugène Sue l’assassinio e la truffa diventano molle della narrativa romanzesca. Senza dubbio ci son persone che si amano, nei romanzi di Balzac, ma amano come le persone che hanno dei fastidi finanziari e per le quali le condizioni di vita hanno il loro peso. Il Giglio nella valle è una delle poche eccezioni, e in verità felicissima, a questa norma quasi costante della narrativa balzacchiana.

  Il denaro, gli affari, il delitto, l’amore, la ambizione, egli li anima come realtà. Balzac vede tutto, vuole mostrarci tutto, senza riguardi per le nostre ripugnanze, le nostre delicatezze o i nostri disgusti. Non più idilli; e si sa che l’idillio letterario trionfava ancora al suo tempo, gradito a cuori che si erano conservati sensibili pur durante il Terrore e che intendevano restar tali, anche partecipando alle aspre lotte della concorrenza industriale.

  Non sono gli emigrati, non è più la Congregazione, non sono più i gentiluomini di campagna al governo: il 1830 li ha sgominati, sostituiti con banchieri, commercianti, industriali, tessili, profumieri, droghieri, negozianti. I due primi collaboratori di Luigi Filippo sono dei banchieri, Lafitte e Périer; e, simbolo di queste revisioni sociali, non è la guardia reale che assicura la protezione del sovrano, bensì la guardia nazionale: gli ufficiali portano borghesissimi cognomi, come Crevel.

  Certo, Balzac non dimentica che i sette peccati capitali continuano a governare la povera umanità; essi non hanno affatto perduto della loro importanza ai suoi occhi; ma egli ci obbliga ad osservare che essi hanno ora un altro linguaggio che nel tempo della Restaurazione, un altro costume, e non hanno più gli stessi modi di far correre gli uomini nella caccia alla felicità.

  Tutte queste trasformazioni Balzac le ha colte, descritte e spiegate: di quel nuovo linguaggio ci ha dato il vocabolario; di quel costume l’immagine, e di quella felicità le forme brutali. Per conoscere quell’enorme sconvolgimento che ha fatto seguito al 1830, bisogna leggere la Comédie humaine.

  Balzac è un osservatore sociale. Si dirà che nelle sue osservazioni centrava molta molta intuizione. È esatto, perché altrimenti non si sarebbe trattato di osservazione geniale. Egli indovina in fretta, al di là della propria visione, là dove l’osservatore ha bisogno di ammassare pazientemente degli appunti e di meditarci su a lungo per dar loro un senso.

 

Il romanzo del denaro.

 

  L’ozio, caro all’«ancien régime», scompare come fattore sociale degno di stima. Saint-Simon pensava come Balzac che ogni ozioso è paragonabile a un farabutto. I personaggi di Balzac hanno quasi tutti un mestiere; hanno occupazioni ch’egli descrive con cura, e questo fa una gran differenza dai personaggi dei romanzi di Mérimée, o della stessa George Sand, da quelli di Feuillet o di Bourget, la cui «condizione» — è stato osservato — è quella di essere personaggi di romanzo, cioè persone irreali, estranee agli affanni del dare e dell’avere, alle difficoltà economiche. Proprio perché sono gente che lotta per guadagnarsi la vita, i personaggi di Balzac hanno tutti quel carattere intensamente sociale che ci colpisce tanto, e quasi sembrano confondersi con le istituzioni o le tecniche che dominano la loro attività. Hanno una città natale, uno stato civile; una bottega, un’officina, un conto in banca e un certificato penale; hanno delle malattie; e come malattie li tormentano spesso le cambiali non pagate.

  Se amano, se cercano di farsi strada, se sono lussuriosi e ambiziosi, praticanti fedeli dei sette peccati capitali, lo sono come banchieri o avvocati o commercianti: gente, insomma, che ha delle cure materiali. Sono gente che vuol guadagnare denaro: ecco gli eroi balzacchiani.

  Balzac ha scritto il romanzo del denaro, in un’epoca in cui la banca è la regina degli affari.

  In questo campo Balzac ha trasferito i metodi degli scienziati del suo tempo: di Cuvier, di Geoffroy Saint-Hilaire. A quest’ultimo egli ha dedicato uno dei suoi romanzi, a prova delle proprie curiosità e della propria riconoscenza intellettuale. Avrebbe voluto essere il zoologo della società.

  Ma più che a Cuvier o a Saint-Hilaire si deve accostare Balzac a Henri de Saint-Simon e a Auguste Comte: la Comédie humaine e il Cours de philosophie positive datano dal 1842. Non che si spieghino l’uno con l’altro. Ma si spiegano entrambi con le nuove condizioni di vita; una spiegazione superiore li accosta l’uno all’altro. È l’epoca delle «masse intelligenti e progressive», come Balzac ha scritto nei Parisiens en province. Senza essere democratico, nè socialista, e nemmeno liberale, Balzac ha dipinto con tratti inobliabili quell’epoca democratica, socialista e liberale. Che era bonapartista, cioè amalgama di tutte quelle sfumature sotto il patronato del nome più prestigioso, del nome di colui che regna sullo spirito di Balzac come sullo spirito di Saint-Simon, di Comte, di Chateaubriand, di Stendhal e di Victor Hugo.

  Balzac e Auguste Comte sono immersi entrambi in un ambiente sociale dominato dal pensiero sansimoniano; ed è il sansimonismo, cioè la filosofia della socialità nuova, nata dall’industria e dalla scienza, che, più del bonapartismo, li spiega entrambi. Sono sociali, sono positivi, sono sociologhi, come Saint-Simon, l’uomo il cui genio rivela con maggiore intensità il carattere degli inizi del secolo XIX.

  Fino a allora, aveva notato Saint-Simon, «il disprezzo della vita» aveva «dominato le arti belle». Indignato da questo disprezzo, egli invita gli artisti ad eccitare l’amore della vita, a celebrare l’attività materiale, a invitare gli uomini a diventare, come produttori, sovrani di un mondo finalmente strappato alla penitenza, alla restrizione, all’ozio dei ricchi. Coloro ch’egli chiama al governo della sua Città ideale, sempre più votata al lavoro sotto il pungolo dell’industria, Balzac li ha accostati per descriverli e spiegarli: il popolo san simoniano dei produttori è il popolo del romanzo balzacchiano, con qualche aggiunta, è vero, a cui l’autore del Nouveau Christianisme non aveva pensato: Vautrin, Rastignac, Brideau, i filibustieri che sono la terribile contropartita d’una società agitata dall’attività sfrenata dell’imperialismo materiale. Conviene insistere sulla diretta filiazione sansimoniana, anche se non sia la stessa ideologia quella che ispira i sansimoniani e Balzac. Ma sono gli stessi fatti che li hanno indirizzati verso la realtà sociale.

  Ciò che tanto Balzac quanto i sansimoniani hanno compreso, è l’interdipendenza dei fatti sociali; essi hanno avuto il senso del determinismo sociale, cioè hanno compreso che leggi verificabili governano la società. Non è più per il genio d’un sovrano o per la verità d’una dottrina che una società si esplica e si sviluppa. I sansimoniani e Balzac hanno cercato le leggi dello sviluppo sociale nei modi di vivere dei gruppi sociali, nelle loro maniere di lavorare, cioè nel senso del carattere sociale o, più precisamente, collettivo delle civiltà. Questo è il loro apporto duraturo alla nostra conoscenza dell’evoluzione storica.

  Ciò che vi è di sorprendente nel genio di Balzac è il senso ch’egli ha avuto della complessità della sua epoca; è l’aver saputo vedere, descrivere, rendere visibile la sua evoluzione, il suo formicolare. Questo formicolio di galeotti, di soldati, di mondane, d’usurai e di mercanti sfugge in gran parte agli storici, che rifiutano di raccogliere e confondere in unica massa tutti quei personaggi, tutti quei fatti. Essi volevano distinguerli e analizzarli uno per uno. La sintesi che essi non sanno raggiungere per scrupolo di probità documentaria, freme e vive in Balzac.

  Egli si è reso conto perfettamente del carattere sociologico della propria opera. Le sue intenzioni, il suo progetto, le ambizioni della sua filosofia sociale, egli li ha espressi con molta forza nella straordinaria prefazione della Comédie humaine: «Il mio lavoro ha la sua genealogia e le sue famiglie, i suoi luoghi e le sue cose, le sue persone e i suoi fatti, ha le sue imprese araldiche, i suoi nobili e i suoi borghesi, i suoi artigiani e contadini, i suoi politici e i suoi dandies, il suo esercito, il suo mondo, insomma».

 

Il romanzo come studio di costumi.

 

  Tutta la realtà osservabile del suo tempo, raccolta coi mezzi rudimentali d’allora, è passata nei romanzi di Balzac; ed a questo titolo essi restano autentici documenti di storia, veri studi sociologici; questo è quel che occorre dire, ripetere e sottolineare. La trama dei suoi romanzi, spesso laboriosa e assurda, non ha un interesse assoluto per noi; talvolta ci dà persin fastidio e può sembrarci debole. Ciò che sopravvive e assicura l’immortalità a quei meravigliosi ritratti d’un’epoca è che restano testimonianze ineccepibili: testimonianze sincere, uniche d’un’epoca che, senza Balzac, non avrebbe più nè rilievo nè vigore. «Storia sociale», ha detto egli stesso. «Niente fatti immaginari», diceva anche, «ma quel che avviene dappertutto». Studio di costumi: ancora una formula sua.

  C’è in Balzac un filosofo politico e un osservatore sociale. Si deve distinguere accuratamente la filosofia politica di Balzac dalla filosofia che, non espressa formalmente, risulta silenziosamente dal racconto o dalle descrizioni di Père Goriot o del Medico di campagna. Come già si è fatto notare, l’opera di Balzac è indipendente dalle sue predilezioni politiche e religiose. Se, invece d’essere legittimista e cattolico, Balzac fosse stato voltairiano e liberale, l’opera sua non avrebbe presentato un altro aspetto: tutto ciò che egli ha visto o creduto di vedere egli l’ha rivelato, come trascinato da una volontà superiore alle sue più profonde convinzioni. Egli ha ritratto una società ostile alle sue convinzioni, ma con una lealtà visiva che sottolinea l’intensità dei suoi doni d’osservatore intuitivo. ritratto una società ostile alle sue convinzioni, ma con una lealtà visiva che sottolinea l’intensità dei suoi doni d’osservatore intuitivo.

  Pittore della borghesia sorta verso il 1830, osservatore e sociologo innamorato della realtà, Balzac resta una lettura attuale, perché è giunto a discernere, sotto i particolarismi cronologici, l’umanità permanente. Crevel o Birotteau non hanno più, nel 1949, lo stesso sarto; Vautrin ha cambiato giudice istruttore; Goriot è emigrato dal suo quartiere; Rastignac ha trovato un altro salone; Nucingen adesca altri bellimbusti; ma esistono ancora e continuiamo a vederli, nonostante le nuove fogge esteriori, circolare nelle strade, mossi, come nella Comédie humaine, dagli indistruttibili peccati capitali di cui essa resta l’epopea immortale.

 

 

  Giuseppe de Lorenzo, I “Contes drolatiques” e le “Mille e una notte”, «Atti dell’Academia Pontaniana», Nuova Serie – Volume II, Anno Accademico 1948-1949, Napoli, Stab. Tip. Francesco Giannini & Figli, 1950, pp. 197-211.

 

  Trascriviamo integralmente le parti dello studio che si riferiscono in modo specifico ai Contes drolatiques balzachiani.

 

  p. 197. I Contes drolatiques di Balzac sono forse, ove si prescinda dai conti dei due Jungle Books, dalle storie di Pack e dalle storielle di Just so Stories di Kipling, la più recente e vistosa fioritura dell’immenso albero di conti, apologhi, favole, novelle, ballate, romanze e romanzi; il quale, affondando le sue radici nel suolo dell’India, ha steso i suoi rami per tutta l’Asia, l’Africa e l’Europa: innestandosi ivi con le piante affini, germinate autoctonamente nel folklore di tutte le terre dell’antico continente. [...].

  pp. 205-211. Perché i Contes drolatiques, come le Mille e una notte, coprono il volto doloroso e tragico dell’amore con la maschera comica di esso, quale è anche rappresentata dal Sogno di una notte di mezz’estate di Shakespeare, e ne avvivano l'espressione con le facezie, i lazzi e le scurrilità, inerenti alle sue manifestazioni ridicole, sconce e grottesche, quali sono riprodotte, per esempio, nelle commedie di Aristofane.

  Ma come mai Balzac, mentre tesseva i suoi vasti arazzi de la Comédie humaine, con più di duemila figure di tutti i colori, s’indusse, tra il 1832 ed il 1836, a comporre i Contes drolatiques, che egli riteneva il suo capolavoro, e per giunta nel francese del quattrocento e del cinquecento, di malagevole lettura per i suoi contemporanei? Perché, a differenza della lingua italiana, che si è cristallizzata fin dal trecento, in modo che l’italiano di Dante, di Petrarca e di Boccaccio è ancora il più puro e perfetto italiano di oggi, il francese, come l’inglese, è rimasto allo stato fluido: sì che i comuni parlatori e conoscitori dell’inglese e del francese leggono oggi con difficoltà quei grandi scrittori del quattrocento e del cinquecento, quali Chaucer e Rabelais. Ma fu appunto Rabelais, il conterraneo di Balzac e da lui idolatrato, a dargli l’ispirazione dei Contes drolatiques; e, insieme con quello, come egli stesso dichiara nella nota alla sua quarta ed incompiuta decina, vi concorsero i fabliaux ed i romanzi medioevali, la vita e la lingua delle corti di Luigi XI e Francesco I, l’opera di Margherita di Navarra, la Margherita delle Margherite, e soprattutto Boccaccio ed i novellieri italiani, ed il Pulci e l’Ariosto e les Arabes.

  L’afflusso di queste correnti meridionali, facendo penetrare i raggi del sole del sud tra le brume del nord, fugando col vino mediterraneo il sidro celtico e la birra germanica ed alleggerendo con la gaia scienza meridionale lo spleen settentrionale, ha fatto sì che i contes drolatiques sono riusciti più lievi, più fini e più gai delle grosse buffonate e delle grasse risate, gargantuesche, pantagrueliche e panurgiche, dell’opera di Rabelais, senza l’amaro dell’assenzio gulliveriano di Swift, anzi con una vena patetica di malinconia (come fa notare anche Philippe Bertault nel suo studio su Balzac, l’homme e (sic) l’oeuvre, Paris, 1946), che .i rende vere opere d arte. A ciò dovette potentemente contribuire la conoscenza dei racconti delle Mille e una notte, che Balzac, divoratore di libri, come lo era di cibi, di bevande e di donne, aveva certamente letto nella traduzione di Galland, a cui certo egli allude, quando cita les Arabes quali partecipanti all’ispirazione dei suoi contes drolatiques. È anzi stupefacente vedere, come dalla monca ed epurata traduzione dei Contes arabes di Calland il genio di Balzac abbia ricevuto la spinta a scrivere racconti, che per contenuto e per forma si avvicinano assai più alla posteriore traduzione integrale fatta dal Mardrus: tanto da far nascere in me la tentazione, di supporre, che il Mardrus abbia proprio appreso dalla prosa del grande romanziere, per la traduzione delle Mille e una notte, l’abbondanza dei vocaboli, la fluenza dello stile e la ricchezza delle immagini. Ciò andrebbe d’accordo con quel che scrive Francesco Gabrieli nella su citata sua introduzione alla traduzione italiana- «Parlando dell’opera di Mardrus» egli dice «bisogna superare la prevenzione professionale degli specialisti verso il traduttore non autorizzato. La sua versione è in realtà il vero tipo della bella infedele. Padrone della forma francese e dotato di raffinata sensibilità artistica, il Mardrus ha reso le Mille e una notte in una prosa nitida e smagliante, di affascinante lettura; con ciò stesso egli ha alquanto alterato il tono ben più dimesso di molte parti dell’originale, ma ha creato una autentica opera d’arte, una squisita opera letteraria». Il che la rende, sotto molti aspetti, assai simile all’opera di Balzac: simiglianza forse dovuta, più che ad ipotetiche predisposizioni od imitazioni, alla plasticità della lingua francese, abilmente maneggiata da due artisti, quali il Balzac ed il Mardrus. Io non conosco affatto l’arabo, ma mi par d’intuire che esso, specialmente nella sua forma popolare della prosa, non dei versi, delle Mille e una notte sia reso dal francese, per la sua vivacità, agilità, spigliatezza e scorrevolezza, meglio che da qualunque altra lingua europea: meglio dell’italiano, che per la sua marmoreità solenne e monumentale mal si presta ad ogni forma di arte popolare; per la quale sono molto più adatte le nostre espressioni dialettali: siciliane, napoletane, romane, venete e lombarde.

  Ma, oltre questo adeguamento della forma v’è tra i contes drolatiques ed i conti orientali un'affinità di sostanza, per cui spesso il tragico è, come nella vita, intrecciato col comico, il triste col lieto, l’elevato col triviale, il morale coll’immorale: nel senso di tutti quelli, che non stanno di là dal bene e dal male. Mi limito ad un esempio, traendolo da uno dei conti più brevi, della terza decina, intitolato D’ung paoure qui avoit nom le Vieulx-par-chemins; nel quale v’è il punto di una edificazione morale, come di un Jâtaka buddhistico od un Fioretto di San Francesco, ed il contropunto di un’allegra licenziosità, degna di un racconto delle Mille e una notte.

  Narra, dunque, tale racconto, che al tempo di re Luigi XI nella città di Rouen, retta dal duca Riccardo, andava mendicando un bonomo, chiamato Tryballot e soprannominato il Vieulx-par-chemins, non perché fosse giallo e secco come una pergamena, ma perché era sempre in cammino per vie e strade, per monti e valli, dormendo a cielo aperto la notte e limosinando il giorno, e divenuto così familiare a tutti, che se per un mese non lo si fosse veduto venire a tendere la sua scodella dell’elemosina, si chiedeva: dov’è il vecchio? E si rispondeva: par chemin. Era dunque il vecchio viandante, il vecchio vagabondo. Costui aveva avuto un padre Tryballot, molto probo, economo ed assettato che aveva lasciato dovizia di beni a suo figlio; il quale si era affrettato a dissiparli, facendo il contrario del padre; che, per esempio, ritornando la sera a casa dai campi, raccoglieva lungo il sentiero i frusti ed i pezzi di legno, caduti a quelli che l’avevano preceduto, dicendo, che non si doveva mai arrivare a casa a mani vuote: e così si scaldava a spese dei distratti e dava esempio di accortezza ai compaesani. Ma il figlio non ne seguì l’esempio. Il che era stato predetto dal padre, che usava mandarlo, da ragazzo, a guardare i campi dagli uccelli, che andavano a mangiare i piselli, fave ed altri grani, e scacciare quei ladroni, specialmente le gazze ladre, che saccheggiavano tutto. Ma il piccolo Tryballot, invece, si divertiva a studiarli e si compiaceva a considerare con quale grazia quelli andavano, venivano, se ne tornavano carichi e rivenivano, spiando con occhio vispo i lacci e le trappole, loro tese, ed evitandole, con suo gran diletto. Il padre trovava mancanti i suoi raccolti e tirava gli orecchi al figlio, che, nonostante le esortazioni ed i rimproveri, ritornava sempre a studiare l’industria dei merli, dei passeri e degli altri dottissimi ladroncelli: sì che il padre, prima di morire, gli disse di modellarsi su loro, perché avrebbe finito col vivere come quelli.

  E così infatti avvenne. Perché egli in breve tempo dissipò la fortuna, accumulata dal padre, permettendo anche agli amici e conoscenti, come un dì agli uccelli, di saccheggiarne buona parte, ed ammirando la grazia e la maniera con cui se l’appropriavano. E quando fu ridotto al verde e gli amici si allontanarono da lui, non s’indignò né si ritirò misantropicamente, come il Timone di Shakespeare, in selvaggia solitudine, ma rimase sereno, dicendo che non voleva dannarsi per i ben di questo mondo, avendo studiato la filosofia degli uccelli. E così si diede alla vita di mendicante, nella quale trovò mille consolazioni, negate alla gente ricca. Vagava per vie e campagne, vedeva i campagnuoli piantare, seminare, mietere, vendemmiare, e si diceva, che essi lavoravano per lui. Colui, che ammassava carne salata di porco nella sua dispensa, ne serbava. senza che lo supponesse, anche un pezzetto per lui. Chi infornava il pane, lo cuoceva, senza saperlo, anche per Tryballot; il quale non prendeva nulla per forza, anzi la gente gli diceva benignamente: tieni, mio vecchio vagabondo, riconfortati. Va bene? su, prendi anche questo; il gatto l’ha incignato, tu lo finirai. Ed egli si atteneva strettamente alla sua regola di mendicante: di far nulla; perché se avesse anche per poco lavorato, nessuno gli avrebbe dato più nulla. Dopo aver mangiato, questo uomo saggio si stendeva lungo un fossato o s’appoggiava ad un pilastro di chiesa e filosofava, come i suoi gentili maestri, i merli, le gazze ed i passeri, e mendicando sognava: perché, se il vestito era povero, il suo intelletto era ricco. La sua filosofia divertiva molto i suoi benefattori, ai quali egli partecipava, come ringraziamenti, i più belli aforismi della sua scienza. A sentirlo, le pantofole fanno venire la gotta, i diademi il mal di capo ed i monili impediscono la circolazione del sangue; mentre egli, vestito di stracci ed essendosi scaricato, come appartenente al vero Ordine dei Mendicanti, di tutti i beni, che producono i mali, si sentiva più felice ora, non avendo nulla al mondo, che quando aveva i beni di suo padre. Ed in quanto alla nobiltà, egli era proprio in condizione di averne l’investitura, perché non viveva che secondo la propria fantasia, ossia nobilmente, senza lavoro. E così, menando questa bella vita, come l’avevano menata alcuni antichi saggi, nei tempi che furono, il vecchio vagabondo era giunto ad ottantadue anni, in perfetta salute di corpo e di spirito, mentre, se avesse perseverato nella via delle ricchezze, si sarebbe guastato e sarebbe stato forse già da lungo tempo sotterrato.

  Fin qui, come si vede, il vecchio vagabondo segue i precetti del sermone del monte di Gesù: «Non siate con ansietà solleciti per la vita vostra, che mangerete o che berrete, né per il vostro corpo, di che vi vestirete ... Guardate gli uccelli del cielo, come non seminano e non mietono e non raccolgono in granai: e pure il Padre vostro celeste li nutrisce». Ma, più ancora, egli potrebbe essere una figura dell’Ordine dei Mendicanti buddhisti, bhikkhusangha, o dell’Ordine dei Frati minori di san Francesco, ed aver ascoltato la predica di san Francesco agli uccelli, qual’è esposta nel Fioretto XVI; in cui, però, il volgarizzatore ha tradotto l’originale latino femminile sorores meae aves, dell’Actus XIV, con sirocchie mie uccelli, che è meglio tradurre in italiano, anche per il loro significato simbolico, con fratelli miei uccelli: «Frati miei uccelli, voi siete molto tenuti a Dio vostro creatore, e sempre in ogni luogo il dovete laudare, perché v’ha dato libertà di volare in ogni luogo ... oltre a questo voi non seminate e non mietete; e Iddio vi pasce e davvi i fiumi e le fonti per vostro bere, e davvi i monti e le valli per vostro rifugio, e gli alberi alti per il vostro nido e vi veste ... Dicendo loro santo Francesco queste parole tutti quanti quelli uccelli cominciarono ad aprire i becchi, distendere i colli, aprire l’ali ed inchinare i capi e con atti e con canti dimostrare che le parole del padre santo davano loro grandissimo diletto. E santo Francesco insieme con loro si rallegrava e dilettava, e meravigliandosi molto di tanta moltitudine d’uccelli e della loro bellissima varietà e della loro attenzione e familiarità; per la qual cosa egli in loro divotamente lodava il Creatore». Naturalmente nel conto del vecchio vagabondo non v’è nulla di quest’aura religiosa cristiana e francescana, estranea alla concezione fisicopsicologica del mondo, professata da Balzac; il quale per la vera letizia della vita di mendicità del suo Vieulx-par-chemins avrebbe potuto accettare solo la spiegazione, panteistica od ateistica, datane da Giordano Bruno nella seconda parte del secondo dialogo dello Spaccio della bestia trionfante: Nessuno può gustare che cosa sia tranquillità di spirito, se non è povero o simile al povero.

  Infatti, dopo l’idillio terziario francescano del vecchio mendicante e degli uccelli, il conto cambia tono e passa ad un contrappunto di tale ribalderia licenziosa e libertina, da esser degno in tutto e per tutto di un racconto delle Mille e una notte. Perché il Vieulx-par-chemins aveva, con la sua vita di mendicante, estinto la sete del benessere ed anche, in parte, quella dell’essere, ma non sì la sete del sesso, la fondamentale kâmatanhâ; che era stata assai ardente in lui fin dalla prima giovinezza, quando, si diceva, l’aveva appresa dai passeri e dai fringuelli, e s’era mantenuta, con la sua vita sana all’aria aperta, sempre viva in lui fino alla tarda età: tanto da potere, con la sua virilità, rimeritare le sue benefattrici, sia del popolo che delle classi sociali più elevate. Ma, giunto ad ottantadue anni, la sua canizie e le altre bruttezze della vecchiaia lo resero poco bene accetto all’altro sesso, sì che fu costretto a trascorrere otto mesi di continenza, che lo resero triste e cupo. In tale stato doloroso, un bel dì di maggio, mentre il sole brillava alto nel cielo a mezzodì, egli si trovò a passare presso un campo, dove alcune vacche dopo il pascolo s’erano adagiate a ruminare, mentre la pastorella loro guardiana, laquelle par aduenteure esloit puccelle, s’era messa anch’ella a dormire all’ombra di un faggio, col volto contro l’erba, com’è uso della gente di campagna. E l’aura primaverile, smuovendo la veste, aveva messo a nudo quel che fece dare a Venere il nome di Callipige. A quella vista il vecchio vagabondo, spinto da forza irresistibile,  si gettò sulla ragazza; la quale in quel momento sognava del suo innamorato, che le chiedeva quel che ella non voleva dargli prima del matrimonio, e che, sotto il dolore della violenza del vecchio, si destò piangendo e gridando, sì da far accorrere i contadini di là intorno, armati di zappe e bidenti; i quali volevano fare giustizia sommaria del violatore, come fanno oggi, in simili casi, gli americani col linciaggio dei negri, ma poi risolsero di portarlo a gran rumore alle carceri di Rouen, a disposizione del prevosto. E questi, dopo l’interrogatorio, condannò, a norma di legge, il vecchio ad essere impiccato.

  Il caso fece sì già chiasso, che giunse agli orecchi del duca, il quale volle personalmente vedere e sentire il Vieulx-par-chemins. Il povero bonomo comparve innanzi al principe e candidamente gli espose in quali condizioni di natura egli ancora si trovasse, come la lunga continenza lo avesse messo in stato di terribile tensione, come l’ora del tempo e la dolce stagione e la vista di quella maledetta pulzella scoperta lo avessero tentato con forza irresistibile, come il re David era stato tentato dalla moglie di Uria; e che se il re David, tanto amato da Dio, aveva così peccato, facendo per giunta uccidere il marito della donna, ben si poteva indulgere a lui, povero pezzente, privo di gioie, che infine non aveva fatto che danneggiare un poco una pastorella e che era pronto, per penitenza, a cantare salmi per il resto dei suoi giorni, a simiglianza del suddetto re David. Il duca rispose, che non poteva cassare la sentenza legale del prevosto, ma che, se al momento del supplizio, a pie’ della scala, sulla quale doveva salire per essere impiccato, con la corda al collo, tra il prete ed il boia, vecchio avesse dato ancora prova di simile fantasia, egli l’avrebbe allora graziato.

  Grande moltitudine si ammassò intorno al patibolo, per assistere allo strano evento. Ed una nobile dama disse al duca che, per scrupolo di coscienza e comandamento di religione, ella si sentiva in dovere di aiutare quel poverino e quindi, messasi in costume da ballo, col seno scoperto, lo attese con dolce sorriso a pie’ della forca. Ed il Vieulx-par-chemins, vestito del solo saio di ruvida tela dei condannati a morte, procedeva cupo verso il patibolo, pensando che avrebbe potuto dar prova della sua potenza più dopo che prima dell’impiccagione. Ma quando, giunto a pie’ della forca, egli vide i dolci vezzi della dama, il suo saio ebbe un tale sollevamento, che tutti, stupefatti, potettero constatarlo e corsero a farne testimonianza al duca, portando il vecchio in trionfo per la città. Questa fece erigere sul sito un pilastro, in memoria dell’avvenimento; ed il duca diede mille scudi alla pastorella e le fece sposare il vecchio vagabondo, che egli graziò ed insignì del titolo di sieur de Bonne Coil. Dopo nove mesi ebbero un bel figlio, e poi un altro e due figlie, ed il Vieulx-par-chemins morì in tarda età, dolendosi di esser finito ricco e di non aver più questuato la sua vita vagando per le vie.

  Ma i suoi discendenti implorarono dal buon re Luigi undecimo lettere patenti, che mutassero il loro nome in quello di Bonne-Choze, perché le loro donne avevano vergogna, di essere chiamate nei saloni con quel nome. Ed il buon re gliele concesse, non senza aver detto, che elle avevano torto, perché con i nomi se ne andavano anche le cose: aggiungendo, che nella signoria di Venezia v’era un’inclita famiglia dei Coglioni, che ne portavano i simboli al naturale sul loro blasone. Infatti la famiglia, originaria di Bergamo, è indicata in un atto notarile di quella città, del 1164, come Collione, ed in un altro, del 1311, come de Collionibus, e divenne poi veramente inclita con la figura del grande condottiere del quattrocento, Bartolomeo Coglione; di cui la superba statua equestre ancor oggi alteramente si eleva sulla piazza di San Zani e Polo a Venezia, e sul basamento v’è lo scudo, con gli attributi, che avevano dato origine al cognome. Ma nel seicento i discendenti di lui ottennero, come i discendenti del Vieulx-par-chemins, di ingentilire il loro cognome in quello di Colleoni e di mutare i simboli originari del cognome stesso in tre cuori rovesciati.

  Tutto ciò può essere, moralmente, poco edificante: ma è vita ed è arte, sia nelle Mille e una notte che nei Contes drolatiques. Ai moralisti, che vogliono considerare ciò come pornografia, si può rispondere con le parole, che Shakespeare fa dire da Sir Toby e dal Clown al puritano Malvolio nella terza scena del secondo atto di Twelfth Night or What you will, e che Byron ha premesso come motto al suo Don Juan: Pensi forse, perché tu sei virtuoso, che non vi saranno più torte e birra? [...].

  Del resto, lo stesso Balzac, che ha scritto de gâité de coeur, i Contes drolatiques, ha scritto anche, ispirandosi alle parole di Gesù nel sermone del monte ed a quelle di san Palo (sic) nella prima lettera ai Corinti, molto seriamente, in lode della verginità e della castità, la bella pagina de La cousine Bette: « Pour quiconque observe le monde social, ce sera toujours un objet d’admiration que la plénitude et la rapidité des conceptions chez les natures vierges. La virginité a des richesses spéciales, des grandeurs absorbantes. La vie, dont les forces sont économisées, a pris, chez l’individu vierge, une qualité de résistance et une durée incalculables. Le cerveau s’est enrichi dans l’ensemble de ces qualités réservées. Lorsque des gens chastes ont besoin de leur corps ou de leur âme, qu’ils recourent à l’action ou à la pensée, ils trouvent alors de l’acier dans leur science infuse dans leur intelligence ... c’est la magie de la mère des grandes choses, magna parens rerum, tiens dans ses belles mains la clef des mondes supérieurs. Enfin, cette grandiose et terrible exception mérite tous les honneurs dont l’entoure l’Eglise catholique».

  Non solo la Chiesa cattolica, ma anche, aggiungo io, il Buddhismo.

  Avevo già scritto questa Nota, quando ho potuto avere l’opera postuma di Stefan Zweig, Balzac, der Roman seines Lebens, Stockholm, Berman-Fischer Verlag, 1946; alla quale egli aveva lavorato assiduamente negli ultimi dieci anni della sua vita, prima di suicidarsi nel Natale del 1942: da lui considerata come il suo magnum opus, lasciata manoscritta e pubblicata, quattro anni dopo la sua morte, dal suo amico Richard Friedenthal. Il libro descrive principalmente Balzac come uomo e solo incidentalmente parla dell’opera di lui. Ma, a pag. 248 e segg. nota, che Balzac tra il 1832 ed il 1836 scrisse contemporaneamente Louis Lambert, Seraphita (sic) ed i Contes drolatiques, quasi a saggiare le sue multiformi forze ed a gettare con esse le fondamenta della Comédie humaine. Sei Contes drolatiques, egli scrive, Balzac dà libero sfogo al suo umore ed al suo vigore, in cui non si scorge alcuno sforzo, ma solo il libero gioco e l’alata levità della sua arte. Ciò che in lui v’è di francese, di popolare e di umano, sgorga in essi con serena e libera sensualità; ed in essi egli lascia finalmente libero sfogo al suo temperamento. Di tutte le sue opere, questa meglio di tutte corrisponde all’uomo pingue, dalle gote rosse e la bocca sensuale. Qui il suo riso, che nei saloni suonava plebeo, quel riso tonante, schiacciante, è distillato in champagne: è Balzac nelle ore di letizia. E, se la vita non fosse stata così dura con lui e gli avesse lasciato più respiro, noi avremmo, invece delle sole tre decìne, i cento racconti, che egli nei prospetti annunziava ai suoi lettori. Nei quali racconti, però, oltre la letizia e la levità e la sensualità, notata da Stefan Zweig, v’è anche, come è stato profondamente osservato da Lafcadio Hearn e qui innanzi da me riportato, il mesto sorriso, in hilaritate tristis, della visione del dolore del mondo.

 

 

  György Lukàcs, Balzac: «Les Paysans» (1934), in Saggi sul realismo. Traduzione di M. e A. Brelich, Torino, Giulio Einaudi editore, 1950 («Saggi»), pp. 35-66;

 

  In questo assai significativo romanzo della sua età matura, Balzac volle scrivere la tragedia dell’ormai agonizzante latifondo aristocratico. Balzac aveva destinato i Contadini a essere la chiave di volta di quella serie di lavori, nei quali aveva descritto come l’evolventesi capitalismo avesse distrutto la civiltà aristocratica della Francia. E questo romanzo è effettivamente il coronamento della serie, perché illustra i motivi economici che hanno portato alla rovina dell’aristocrazia. [...].

  Balzac in questo suo romanzo scrisse proprio il «contrario» di ciò ch’era suo proposito: scrisse non la tragedia del latifondo, bensì quella del frazionamento della proprietà terriera in favore dei contadini. Ma appunto in questa contraddizione tra il progetto e la sua esecuzione, in questa contraddizione tra il Balzac pensatore e uomo politico, e il Balzac autore della Commedia umana, sta la grandezza storica universale di Balzac, illustrata e analizzata a fondo da Engels nella sua lettera su Balzac [...].

  La grandezza di Balzac consiste appunto nel fatto che – sebbene vincolato da prevenzioni politiche e ideologiche – egli contempla con occhio incorruttibile le antinomie manifeste, le controlla e le descrive. Balzac in queste antinomie vede naturalmente la rovina del mondo, il crollo della cultura e della civiltà. Ma le vede e le descrive ugualmente e con l’aiuto di esse il suo sguardo penetra lontano nell’avvenire. Egli ha ritratto, per così dire contro la sua volontà, la tragedia della piccola proprietà e nello stesso tempo ha mostrato, esprimendole in personaggi vivi, anche quelle condizioni sociali che finirono per creare la caricatura giacobina del 1848, la caricatura dei tempi napoleonici: il secondo impero. [...].

  Il punto di partenza ideologico e politico di Balzac, il collasso della nobiltà, non è che un singolo momento di questo processo complesso. E per quanto Balzac sia prevenuto in favore della nobiltà, egli tuttavia vede chiaramente che la rovina di questa è inevitabile e nell’ambito del processo di distruzione non gli sfugge la decadenza interiore della nobiltà. I precedenti del collasso, Balzac li osserva e studia in alcuni suoi lavori storici indipendenti. Giustamente egli ravvisa la ragione sociale del decadimento della nobiltà nella trasformazione della nobiltà tendale in nobiltà cortigiana, ossia in uno strato parassita, i cui compiti sociali vanno gradualmente perdendo ogni importanza. La rivoluzione francese e il capitalismo, che la rivoluzione liberò dai suoi vincoli, non sono che i termini estremi di questo processo. I rappresentanti intelligenti della nobiltà vedono, da se stessi, che questo collasso è irrefrenabile. [...].

  In Balzac le forze sociali non agiscono mai alla maniera di mostri romantici e fantastici, di simboli sovrumani, quali appariranno più tardi in Zola. Al contrario. Balzac risolve le formule sociali in una trama di lotte personali e d’interesse, di contrasti oggettivi tra persone, di intrighi. [...].

  In questa maniera agiscono dunque le grandi forze sociali nelle opere di Balzac. Ogni singolo personaggio che partecipa a queste lotte, è – e precisamente in un modo inseparabile dai suoi interessi personali – il «rappresentante di una data classe». E le basi sociali, cioè quelle di classe, trovano espressione esclusivamente negli interessi «personali» dei singoli personaggi. Lo scrittore dunque, proprio quando priva le istituzioni sodali della loro apparente obiettività, e sembra che le riduca a un insieme di rapporti personali, dà espressione a ciò che in esse vi è di realmente obiettivo, e di realmente necessario dal punto di vista dello sviluppo della società: la loro funzione di rappresentare e realizzare gli interessi di classe. L’essenza del realismo di Balzac consiste nel fatto ch’egli rappresenta l’esistenza sociale proprio in e con quelle contraddizioni, che in tutte le classi necessariamente si manifestano tra esistenza e coscienza sociali. Perciò a buon diritto Balzac dice nei Contadini: «Dimmi che cosa hai, e io ti dirò come la pensi».

  Questo profondo realismo determina il metodo creativo di Balzac sino nei minimi particolari. Qui ne possiamo rilevare soltanto alcuni punti principali. E anzitutto, Balzac va sempre più in là del meschino naturalismo, che riproduce il reale come una macchina fotografica. Nelle questioni essenziali egli è sempre profondamente veritiero: non fa mai dire, pensare, sentire o fare ai suoi personaggi qualcosa che non si possa desumere dalla loro posizione sociale e non sia in perfetto accordo con essa, con le sue determinanti, sia astratte che individuali. Ma, quando egli riproduce il pensiero o il sentimento, giusti per quanto riguarda il loro contenuto, mai è disposto ad adattarli ai limiti della capacità media d’espressione di persone appartenenti ad una data classe. Al fine di esprimere il contenuto giustamente e profondamente compreso dal punto di vista sociale, egli cerca e trova sempre l’espressione più chiara, più estrema (quella dunque che, per i naturalisti, sarebbe impossibile). [...].

  Il realismo di Balzac elabora anche i tratti individuai di ogni suo personaggio con la stessa precisione con cui getta luce intorno a ciò che in esso è tipico dal punto di vista della classe. [...].

  Di queste forme di caratterizzazione. Balzac si serve per specificare individualmente e socialmente, per concretizzare ed approfondire le sfumature entro i limiti dello stesso tipo sociale. Con Rigou, per esempio, egli arricchisce di un esemplare straordinariamente interessante la grande galleria dei tirchi e usurai, cui appartengono Gobseck, Grandet, Rouget e altri personaggi balzachiani: egli è il tipo dell’epicureo tirchio e usuraio, che mira come gli altri a economizzare, a frodare, ad accumulare, ma nello stesso tempo crea anche a se stesso una vita quanto mai comoda. Così, per esempio, egli sposa una vecchia per i suoi quattrini, e con questi esercita l’usura a danno di tutto il villaggio: con ciò riesce ad avere gratis amanti giovani e belle. Si sceglie sempre per domestica la più bella contadina, ne fa la sua amante, promettendole di sposarla dopo la «prossima» morte di sua moglie. Se la ragazza gli viene a noia, ne prende un’altra al suo posto.

  La norma formale fondamentale di Balzac è questa: elaborare i fattori determinanti più importanti della vita sociale mostrandoli nella loro evoluzione storica e nelle forme specifiche che essi assumono nei vari individui. [....

  All’orizzonte artistico di Balzac il proletario rivoluzionario non si è potuto nemmeno affacciare, e perciò egli non ha potuto che dipingere la disperata situazione dei contadini senza poter loro indicare alcuna via d’uscita. Balzac non ha potuto vedere ciò che sarebbe sorto dalla delusione del contadino piccolo-proprietario, delusione in seguito alla quale «tutto l’edificio dello Stato, costruito sulla divisione dei fondi deve crollare, per cedere alla rivoluzione proletaria la parte del coro senza la quale il canto a solo della rivoluzione diverrebbe presso ogni nazione contadina un canto funebre» (Marx). Il genio di Balzac si rivela nel fatto che egli ha rappresentato la disperazione, che porta il contadino piccolo-proprietario a tale delusione, con potente realismo.

 

Balzac: «Les (sic) Illusions perdues» (1935), pp. 67-89.

 

  Tuttavia nella produzione letteraria francese d’allora, le Illusioni perdute occupano un posto insuperato, unico. Infatti, Balzac non si ferma qui, non s’accontenta di riconoscere e di illustrare questa tragica o tragicomica situazione sociale. II suo sguardo penetra in strati più profondi, egli affronta problemi più profondi. Egli nota che la fine del periodo eroico dell’evoluzione borghese della Francia è nello stesso tempo anche l’inizio dell’ascesa del capitalismo francese. In quasi tutti i suoi romanzi Balzac illustra quest’ascesa del capitalismo, la trasformazione dell’artigianato primitivo nel capitalismo moderno, fa vedere come il vertiginoso aumento del capitale monetario dissanguasse la città e la campagna, come le tradizionali forme e idee sociali battessero in ritirata dinanzi alla marcia trionfale del capitalismo. Nel quadro di questo processo le Illusioni perdute sono un poema tragicomico che tratta della «capitalizzazione dello spirito». Il romanzo mostra come la letteratura (e con essa ogni ideologia) si riduca man mano a merce, oggetto di scambio [...]. [...].

  Quest’ampiezza dell’argomento (la capitalizzazione di tutti gli elementi della letteratura, dalla fabbricazione della carta fino al sentimento lirico) determina anche qui, come sempre in Balzac, le forme della costruzione artistica. L’amicizia di David Séchard e Lucien Rubempré, le illusioni svanite del loro comune entusiasmo giovanile, il contrasto dei loro caratteri: sono questi gli elementi che costituiscono, a grandi linee, i quadri dell’azione. La genialità di Balzac si manifesta già in questo primo schema fondamentale della composizione. Egli crea delle figure, nelle quali, da un lato, la tensione implicita nell’argomento si esprime sotto la forma di passioni umane, di aspirazioni individuali: David Séchard è un inventore che scopre il modo di produrre la carta a un costo più basso, ma viene truffato dai capitalisti; Lucien porta sul mercato del capitalismo parigino il lirismo più puro e delicato. D’altro lato, nell’antitesi dei due caratteri si manifesta con umana plasticità il più estremo contrasto tra le diverse maniere in cui i singoli individui possono reagire alle mostruosità del capitalismo. David Séchard è uno stoico puritano, mentre Lucien personifica l’ipersensibile avidità di piaceri, il raffinato epicureismo della generazione postrivoluzionaria. [...].

  Balzac compone questo suo romanzo in modo da mettere nel centro dell’azione la sorte di Lucien e, insieme con questa, la trasformazione della letteratura in merce, mentre la capitalizzazione della costruzione materiale della letteratura, lo sfruttamento capitalistico del progresso tecnico, costituisce un episodio che serve da accordo finale. Questo modo di comporre, che apparentemente capovolge il nesso logico e oggettivo tra la base materiale e la sovrastruttura, è al massimo grado sapiente non solo dal punto di vista artistico, ma anche da quello della critica sociale. Dal punto di vista artistico, perché la ricca varietà che contraddistingue la vita di Lucien nel corso della sua lotta per la gloria, ci offre un insieme molto più colorito e dinamico che non la meschina, spregevole lotta dei capitalisti di provincia per compiere l’inganno ai danni di David Séchard. Dal punto di vista della critica sociale, invece, perché dal destino di Lucien risalta, in tutto il suo complesso, il problema della distruzione della cultura operata dal capitalismo. Il rassegnato Séchard avverte molto giustamente che, in fondo, ciò che importa è lo sfruttamento materiale dell’invenzione, mentre il fatto che lui sia stato ingannato non è che la sua disdetta «personale». Al contrario, il collasso di Lucien mette in evidenza l’obbrobriosa prostituzione della letteratura. [...].

  Il vero principio che, in ultima analisi, determina l’unità del romanzo è lo svolgimento dell’evoluzione sociale. La vera azione del romanzo consiste nell’ascesa e nel trionfo del capitalismo. La principale verità del fallimento individuale di Lucien è che, nel capitalismo evoluto, un tale fallimento è il destino tipico che tocca al poeta puro, al poeta di vero talento. [...].

  I personaggi di Balzac non sono mai semplici «pedine» che rappresentino certi lati della crisi sociale ch’egli intende trattare. Tutto il complesso delle componenti sociali si esprime nell’ordito delle passioni personali e degli avvenimenti contingenti in un modo disuguale, complicato, confuso e non privo di contraddizioni. Le singole persone e situazioni vengono determinate sempre dal complesso delle forze sociali decisive, ma mai in modo semplice e diretto. Perciò questo romanzo, così profondamente «universale», rimane tuttavia anche il romanzo d’un singolo personaggio particolare. Sulla scena Lucien de Rubembré agisce «in apparenza» indipendentemente, lottando contro quelle forze interiori ed esteriori che ostacolano la sua ascesa e che «in apparenza» sono le conseguenze di circostanze o passioni personali contingenti, ma che, in forme sempre diverse, sbocciano conseguentemente dal suolo di quella stessa esistenza sociale che determina anche le aspirazioni di Lucien.

  Questa molteplice unità è la peculiarità della grandezza poetica di Balzac. Ed in pari tempo è la prova poetica di quanto le sue vedute sul movimento sociale siano giuste e di vasta concezione. Balzac, in contrasto con tanti altri grandi romanzieri, non ha «meccanismi» (si pensi alla torre negli Anni di noviziato di Wilhelm Meister). Ogni rotella del «meccanismo» dell’azione balzachiana è un personaggio, una figura umana completa e viva, con i suoi interessi specifici, con le sue passioni, le sue tragedie e le sue commedie. Un solo elemento dell’intero complesso vitale e mentale di una determinata figura del romanzo, porta questa figura in connessione con il complesso dell’azione del romanzo, ma esclusivamente in conseguenza delle sue proprie aspirazioni vitali. La connessione si sviluppa, infatti; organicamente dagli interessi e dalle passioni della figura e perciò è viva e necessaria. Ma la pienezza e ricchezza di vita le derivano da quella più vasta necessità intima che preserva quella connessione da ogni carattere meccanico e da ogni funzione deliberatamente subordinata alla vicenda. [...].

  L’«universale» è dunque in Balzac sempre concreto, reale, vivo. In prima linea esso è dato dal fatto che Balzac nelle sue singole figure concepisce il momento «tipico» in un modo molto profondo. Tanto che, mentre in esse il momento «individuale» non impallidisce affatto, anzi, al contrario, si accentua e si fa più concreto, dall’altro lato la connessione della singola figura con l’ambiente sociale che la circonda, di cui essa è un prodotto, nel quale e contro il quale essa agisce, è molto complicata, ma tuttavia chiara e perspicua. [...]. La genialità della fantasia di Balzac si rivela appunto nel fatto ch’egli sceglie e muove le sue figure in modo che al centro dell’azione si trovi sempre quella le cui qualità individuali siano le più atte ad illuminare l’aspetto più essenziale del processo sociale [...]. [...].

 

La polemica tra Balzac e Stendhal (1935), pp. 90-114.

 

  Il 25 settembre del 1840, Balzac, all’apogeo della sua fama, pubblica una recensione entusiastica e straordinariamente profonda della Certosa di Parma di Stendhal, autore ancora sconosciuto in quell’epoca. Alla fine d’ottobre Stendhal risponde alla critica in una lunga lettera. Egli precisa i punti a proposito dei quali accetta la critica di Balzac e quelli di fronte ai quali difende contro Balzac il proprio metodo creativo. L’incontro dei due più grandi scrittori della prima metà del secolo XIX sul campo della storia letteraria, è estremamente significativo, sebbene — come vedremo in seguito — la lettera di Stendhal sia alquanto riservata; egli non manifesta apertamente le sue obiezioni, come fa Balzac nei suoi confronti. Ciò nonostante vediamo chiaramente che i due grandi scrittori sono sostanzialmente d’accordo nel giudicare i problemi centrali del grande realismo e, nel contempo, anche nei riguardi di quelle vie divergenti, in cui l’uno e l’altro hanno cercato il grande realismo.

  La critica di Balzac è un modello di analisi concreta dei grandi capolavori. In tutta la letteratura critica sono pochi i casi in cui le più essenziali bellezze di un’opera d’arte vengono rivelate e trattate con tanto approfondimento affettuoso, con tanta sensibilità amorevole e congeniale. È un modello di critica fatta da un grande artista e pensatore, che conosce il suo mestiere. [...].

  Possiamo annoverare anche Balzac tra quegli scrittori che si appropriano del romanticismo, pur mirando, in maniera più ampia e cosciente, al suo superamento. Per contro, l’atteggiamento di Stendhal, di fronte al romanticismo, è assolutamente negativo. Nella sua concezione del mondo egli è un grande seguace pienamente cosciente della filosofia dell’Illuminismo. Questo contrasto tra i due scrittori si osserva più facilmente nei loro rispettivi metodi creativi. Stendhal, per esempio, sconsiglia a uno scrittore principalmente la lettura di autori moderni. [...].

  La critica, l’entusiasmo di Balzac sono degni d’ammirazione anche perché egli vuol riuscire a comprendere il valore classico di un’opera che è in deciso contrasto con le sue più profonde aspirazioni personali! Balzac loda ripetutamente con il massimo entusiasmo la costruzione del romanzo di Stendhal, agile, lineare e limitata alle cose più essenziali. Giustamente egli definisce questa costruzione drammatica e fa risaltare come lo stile di Stendhal, accogliendo l’elemento drammatico, s’avvicini al suo. [...].

  E sino alla fine Balzac esalta la linearità, la mancanza di digressioni, la snellezza della costruzione stendhaliana. Questo elogio rivela l’esistenza di certe tendenze, comuni a tutti e due i grandi scrittori. Per un osservatore superficiale, proprio in questo campo apparirebbe il più grande contrasto di stile tra la snellezza «illuministica» di Stendhal e il modo di scrivere di Balzac, romanticamente colorito e quasi incontrollabilmente ricco e complesso. Tuttavia, questo contrasto implica anche la loro profonda affinità: nelle sue opere migliori neanche Balzac si china mai per cogliere un fiore dal margine della via; anche lui rende l’essenziale, e soltanto l'essenziale. La differenza e il contrasto stanno però in ciò che Stendhal e Balzac considerano come essenziale. Questo si presenta molto più confuso, molto più nascosto, molto meno condensato in alcuni grandi momenti in Balzac, che non in Stendhal.

  Questo appassionato sforzo verso l’essenziale, il disprezzo d’ogni realismo meschino, costituiscono il ponte che unisce i due artisti, per quanto sia grande il loro contrasto nella concezione del mondo e nei metodi di lavoro. Perciò Balzac, nel corso del suo esame analitico del romanzo stendhaliano, è costretto a parlare dei più profondi problemi della forma, di problemi che sono tuttora della massima attualità. Come artista, Balzac vede chiaramente l’inscindibile nesso tra la fortunata scelta dell’argomento e il successo della sua elaborazione. [...].

  Secondo Balzac, il romanzo di Stendhal acquista il suo grande e caratteristico valore, proprio perché egli pone l’azione a Parma, teatro di piccoli interessi e meschinissimi intrighi. Infatti — continua Balzac — la rappresentazione di interessi così grandi, come quelli che dominavano il gabinetto di Luigi XIV o di Napoleone, avrebbe necessariamente richiesto tante spiegazioni obiettive, e uno svolgimento così vasto, da appesantire enormemente la scorrevolezza dell’azione. Lo Stato parmense, invece, si può facilmente percorrere con lo sguardo e la Parma di Stendhal spiega tuttavia perfettamente la caratteristica struttura intrinseca d’ogni corte assolutistica. Con ciò Balzac rivela un essenziale momento strutturale del romanzo borghese del grande realismo. Lo scrittore, «storiografo della vita privata» (Fielding), deve far intravedere l’occulta fluttuazione della società, le intime leggi, le tendenze iniziali, l’invisibile incremento e i turbamenti rivoluzionari del suo movimento. Ma i grandi avvenimenti storici, le grandi figure della storia mondiale, soltanto in rarissimi casi sono atti a rispecchiare, in tipi ben delineati, il carattere dell’evoluzione sociale. [...].

  Nel romanzo di Stendhal, Balzac ammira soprattutto come questi dia vita a una intera serie di figure straordinarie. Le mire finali dei due realisti s’incontrano anche in questo campo: tutti e due vedono il loro compito principale nel fissare i grandi tipi dell’evoluzione sociale [...]. Essi considerano come eroi tipici quegli uomini straordinari, che in tutti i momenti decisivi della vita rispecchiano un dato grado o una data via dello sviluppo storico, un dato strano o una data tendenza sociale. [...].

  Qui Balzac vuole imporre a Stendhal il proprio modo di costruire. La maggior parte dei romanzi balzachiani hanno una trama molto più circoscritta, ma il tono fondamentale è molto più definito che non nei romanzi di Stendhal e in quelli del secolo XVIII. Assai raramente Balzac si scosta da questo tipo di composizione. Il più delle volte descrive catastrofi, le condensa in un determinato punto del tempo e dello spazio, oppure ci presenta addirittura intere serie di catastrofi. E a tutta la composizione aggiunge il fascino d’un tono severamente compatto; includendo nella forma del romanzo alcuni elementi del dramma shakespeariano e della novella classica, egli cerca solo di controbilanciare artisticamente l’inafferrabile amorfismo della vita borghese moderna. Come necessaria conseguenza di tale costruzione, i suoi romanzi pullulano d’una massa di eroi appena abbozzati e lasciati a metà. Il principio balzachiano della costruzione ciclica - che nulla ha a che vedere con le forme successive dei romanzi ciclici, per esempio con quelle di Zola — deriva dall’idea artistica che tutte queste figure non perfettamente realizzate e condotte a termine, in seguito costituiranno il centro di altre opere, nelle quali l’atmosfera e il tono della vita saranno più adatte ad attribuir loto una loro posizione centrale. Ricordiamo? Vautrin, Rastignac, Nucingen, Maxim de Truilles (sic) e altri, figurano in Papà Goriot come personaggi drammatici, ma la loro vera realizzazione costituirà l’argomento di altri romanzi. Il mondo di Balzac è in realtà simile a quello di Hegel: circolo che di soli circoli consiste. [...].

  Ma nonostante l’ammirazione ch’egli esprime per la grande capacità di Stendhal di caratterizzare in modo conciso e profondo i personaggi con il solo mezzo dei loro discorsi, dei loro dialoghi, Balzac non è affatto contento dello stile dell’autore. Egli rimprovera un’intera serie di trascuratezze di stile, anzi perfino di grammatica. Ma la sua critica non si ferma a questo punto. Egli invita Stendhal a rifare completamente il suo romanzo dal punto di vista dello stile. [...].

  Questo stesso contrasto si nota tra i due scrittori nella raffigurazione dei tipi principali dell’epoca della Restaurazione. Stendhal odia la Restaurazione, la considera come l’epoca delle meschine abbiezioni, erede indegna degli eroici periodi della rivoluzione e di Napoleone. Balzac personalmente è fedele alla Restaurazione. Stimmatizza bensì la politica aristocratica, ma soltanto dal punto di vista di quella politica che i nobili opportunamente avrebbero dovuta seguire per evitare la rivoluzione del luglio. Questi, gli atteggiamenti politici dei due scrittori: ma il mondo che ciascuno di loro fa rivivere con la sua penna, parla un linguaggio ben differente. Balzac, l’artista, intuisce come la Restaurazione non sia che lo scenario apparente della crescente capitalizzazione della Francia: ormai la produzione capitalistica ha trascinato irresistibilmente con sé anche la nobiltà. [...].

  Balzac illustra, infatti, quel periodo in cui il capitalismo, arrivato ormai a un potere illimitato, spinge la degradazione di questi uomini, la loro abbiezione umana e morale, la loro degenerazione, fino alle più intime profondità delle loro anime, del loro essere. [...].

  Balzac e Stendhal, di fronte all’evoluzione della società borghese nel periodo che va dal 1789 al 1848, personificano i due punti estremi più significativi delle posizioni possibili. Tanto l’uno che l’altro creano un intero mondo di figure, un’immagine riflessa profonda e mobile di tutta l’evoluzione sociale, secondo il punto di vista che ciascuno di loro rappresenta. Essi s’incontrano precisamente in questa profondità: nel disprezzo per i meschini trucchi del nudo realismo naturalistico, per qualsiasi gonfiamento puramente oratorio dell’uomo e del destino. In entrambi il realismo e il superamento del piano medio quotidiano significano la stessa cosa, perché per loro il realismo equivale all’essenza della realtà che si cela sotto la superficie. Di questa essenza però i due scrittori hanno idee del tutto divergenti. Essi rappresentano, di fronte a quel periodo dell’evoluzione dell’umanità, due atteggiamenti diametralmente opposti, ma storicamente giustificati. Perciò nei riguardi di tutti i problemi letterari, eccezion fatta per uno - quello generale dell’essenza del realismo - essi hanno dovuto procedere per vie diametralmente opposte.

  La profonda comprensione dunque di cui, nonostante tutto, Balzac dà prova di fronte a Stendhal, significa qualcosa più che una critica letteraria approfondita e intelligente. L’incontro dei due grandi realisti, è uno dei più grandi avvenimenti della storia della letteratura. Lo potremmo paragonare all’incontro di Goethe e Schiller, anche se non è stato seguito da una collaborazione così produttiva.

 

 

  C. M., Il gazzettino culturale. Notizie delle lettere. Il centenario di Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XXVIII, N. 157, 4 luglio 1950, p. 3.

 

  Cento anni fa morirà a Parigi il grande maestro di realismo europeo, Honoré de Balzac. La ricorrenza di questa data contribuirà indubbiamente a rinnovare l’interesse per l’arte del grande e popolare scrittore francese. Fra le più recenti traduzioni dei suoi capolavori segnaliamo Eugenia Grandet pubblicata dall’Universale Economica (trad. di R. Cantoni, L. 100).

  Ma ci sembra però particolarmente importante che in questo centenario venga suscitata un’ampia discussione di carattere più generale. Quali sono le correnti vive e vitali della narrativa moderna? E’ Balzac o invece Flaubert il vero apice del romanzo nel secolo XIX, il suo autore più tipicamente classico? Il giudizio non è puramente questione di gusto, ma implica tutte le questioni pregiudiziali dell’estetica del romanzo? Si domanda se sia l’unità oppure il distacco tra il mondo esterno e il mondo interno a costituire la base sociale della grandezza artistica del romanzo, della sua efficacia universale. In questi termini vien posta la questione da Gyòrgy Lukàcs nei Saggi sul realismo pubblicati da Einaudi (pp. 375, L. 1500). I saggi dell’insigne maestro ungherese sono un meditato contributo a tale dibattito e delineano la tesi che gli eredi della tradizione balzacchiana sono Tolstoj, Dostojevskij e Gorkij.



  Fausto Miarri, Alla vigilia del centenario del grande scrittore. Vita bizzarra di Onorato Balzac, «Giornale di Trieste», Trieste, Anno IV, N. 1031, 28 luglio 1950, p. 3.


  Sogni e speranze iperboliche – L’eterno bisogno di danaro – Fantasioso venditore di guano e magnetizzatore fallito.

 

  Il 18 agosto ricorrerà il centenario della morte di Onorato Balzac. Parigi e la Francia letteraria non solo colgono, con la ben nota abilità, l’occasione per una propaganda eccezionale sull’insigne s[c]rittore — il quale, sia detto per incidenza, riemerge più vivo che mai da quella specie di cortina fumogena in cui lo avevano avvolto, da un cinquantennio, i capziosi letterati dell’ultimo decadentismo francese — ma già dànno l’avvio a una serie di manifestazioni caratteristiche, alcune delle quali rievocheranno quadri, scene e figure del tipico mondo ottocentesco balzacchiano.

 

  Uno scervellato.

 

  Balzac, è noto, fu, come uomo, uno degli esemplari più scervellati che mai fossero capitati al mondo: pretendeva di essere un uomo d’affari e trasferiva nella vita reale le sue fantasie di romanziere. Naturalmente, dal contrasto fra i quelli ch’erano i sogni e le speranze iperboliche o assurde dello scrittore e i dati e fatti positivi della vita, nascevano situazioni strane e talora paradossali, che davano luogo a un gran numero di aneddoti curiosi. E poiché nel mezzo secolo della sua esistenza Balzac fu tiranneggiato da un implacabile signore, il bisogno di denaro, e per conquistar ricchezza immaginò le imprese economiche più stravaganti, cotesti aneddoti, in linea generale, hanno per motivo o le sue strettezze finanziarie, o i suoi fantasiosi progetti o, anche, le sue dissipazioni, chè non è dato trovare, nella grande famiglia degli scrittori, un dissipatore più incorreggibile di lui.

  Gli aneddoti più singolari sono quelli che ci mostrano l’autore di «Eugenia Grandet» alle prese con le mirabolanti costruzioni della sua fantasia al fine di accumular denaro e liberarsi così dall’incubo, che sempre lo travagliava, delle numerose scadenze mensili. Ne riferisco uno dei meno noti.

  Quando Balzac si trovava alle Jardies — il bizzarro villino ch’era riuscito a farsi costruire a credito, con una trovata ingegnosissima — si recarono un giorno a fargli visita Victor Hugo ed altri amici. C’erano arbusti etici, all’ingiro del fabbricato, e poco frondosi; soltanto un vecchio e robusto noce dispiegava la sua gran chioma alcuni metri più in là, ai margini del piccolo podere.

  — Finalmente un albero! — disse Hugo, ammirandolo così alto e ricco di foglie.

  — Sì — rispose lieto Balzac — potete anche dire ch’è un bell’albero. L’ho comperato recentemente dal Comune, E sapete quanto mi rende?

  — Mah ... — aggiunse il poeta. — Siccome è un noce, suppongo che vi renderà un sacco di noci.

  — Non avete colto nel segno, mio caro. Esso frutta millecinquecento franchi all’anno.

  — Di noci? — fece sbalordito Hugo, dinanzi a tal somma, per quei tempi enorme.

  — Non di noci — replicò Balzac; — ma è un fatto che esso frutta, annualmente, un migliaio. e mezzo di franchi in contanti.

  — Ma allora le sue noci son delle noci incantate.

  — Press’a poco. Però bisogna che vi spieghi, altrimenti vi riuscirà difficile comprendere come un albero solo possa fruttare 1500 franchi di rendita.

 

  Il noce miracoloso.

 

  La compagnia s’era frattanto avviata verso il noce portentoso e tutti fecero circolo, aspettando con estrema curiosità la spiegazione del fatto eccezionale. Ed ecco come Balzac spiegò l’arcano:

  — Questo noce miracoloso apparteneva. come vi ho detto, al Comune, dal quale io l’ho comprato a un prezzo abbastanza elevato. E perché? Per questa buonissima ragione. Da tempi immemorabili tutti gli abitanti della campagna circostante sono obbligati a venir a deporre le loro immondizie sotto il tronco di quest’albero secolare.

 

  Guano senza uccelli.

 

  Victor Hugo e gli altri indietreggiarono, ma Balzac proseguì con un sorriso:

  — Rassicuratevi, amici miei. Il noce, da quando l’ho comperato, non ha ancora ripreso, come potete constatare, le sue funzioni. Però, siccome nessun abitante del luogo ha diritto di sottrarsi a quella servitù, avanzo d’un antico costume feudale, voi potete agevolmente immaginare l’enorme quantità di concime che si accumula attorno a quest’albero. Non mi resta che farlo coprire di paglia o di fieno e venderlo poi ai fattori, ai vignaioli, agli ortolani, a tutti i fittavoli e proprietari dei dintorni. Essi devono ricorrere a me. Io possiedo quindi, in questo noce, dell’oro in verghe. A voler parlare in termini esatti, io accumulo e vendo del guano, del guano pari a quello che nelle isole disabitate del Pacifico miriadi e miriadi di uccelli depositano continuamente.

  Gli ascoltatori guardavano stupefatti l’incredibile visionario; poi, dopo un attimo di silenzio, Victor Hugo uscì in questo commento:

  — Sì, sì, voi avete del guano, non c’è dubbio; del guano meno gli uccelli che lo producono.

  Questo aneddoto è raccontato da Léon Gorlan (sic), ch’è una delle fonti più ricche di storielle balzacchiane, nei suoi divertenti e ormai introvabili libri «Balzac chez lui» e «Balzac en pantoufles». Non bisogna però credere che Balzac con trovate del genere, che sono senza numero, volesse prendersi gioco dei suoi ascoltatori. Pur non essendo un mistificatore per partito preso, come lo giudicava Jules Lecomte nel 1837 («Lettres sur les écrivains français, par van Engelgom»), egli prestava fede alle invenzioni della sua fervida mente ansiosa di risolvere in qualche modo, e sia pure con stupefacenti ingegnosità, il problema del denaro. Inoltre, poiché aveva un’alta idea di se stesso, si riteneva fornito di virtù e capacità non comuni, nei più svariati campi. Fra l’altro, ritenne di poter fare perfino il magnetizzatore.

  Il fatto — tuttora ignoto, credo, in Francia, chè non ne ho trovato traccia — accadde a Milano nell’estate del 1838. Balzac, nel pieno della sua gloria era in quei giorni ospite d’una famiglia milanese. Durante una conversazione, dopo aver vantato il proprio talento di magnetizzatore — le esibizioni di facoltà ipnotiche erano allora la gran novità e la gran moda dei salotti mondani — chiese di darne prova sopra un cameriere della casa, Si vide allora il piccolo e rotondo uomo, che il Lecomte aveva paragonato a un Falstaff di proporzioni ridotte, fare come scrisse un testimone oculare — «occhiacci e modacci da spiritato attorno al paziente seduto nel mezzo della sala; disegnava, misurava, trinciava gesti con le mani; sudava e trafelava per la tensione dell’anima e del corpo in quel lavoro». Energie sprecate invano; il cameriere rimase desto e vispo come prima.

 

  «L’uomo grande e il nano».

 

  Si fece allora ricerca di un soggetto più adatto, e lo si trovò in un tale Gattino, nano e gobbo, Ma anche il rachitico, benchè debole e senza sangue, rimase per due sedute insensibile agli influssi magnetici del romanziere. Non è a dire quanto gli spettatori, e in primo luogo la famiglia ospitante, ne fossero costernati. Però, nel corso d’una terza seduta, dopo una buona mezz’ora di lavoro, ecco che il nano parve finalmente assopirsi. Balzac era raggiante e stava per continuare in attitudine trionfale l’esperimento quando la sciagurata vittima aperse, fra lo stupore dei presenti, gli occhi come vergognoso di quanto gli era accaduto. Gli fu chiesto quali fenomeni avesse avvertito. Rispose scusandosi d’essersi quasi addormentato ... per colpa della poltrona dove stava così bene adagiato e senza pensieri.

  «Non udii più Balzac parlare di magnetismo» conclude il testimone che riferisce l’aneddoto, ch’è fra i più singolari dei tanti che fanno estroso e variopinto alone attorno alla figura, fisicamente un po’ comica, del gran romanziere.

  Chi lo riferisce è Giovanni Raiberti, un medico-poeta del primo Ottocento, autore, fra l’altro, d’un opuscolo umoristico, «Il volgo e la medicina», pubblicato nel 1840. In un’«Appendice all’opuscolo», dell’anno seguente, il Raiberti narra, con gustosa scrittura, i buffi e vani tentativi di Balzac magnetizzatore, dedicandovi il capitoletto finale, col titolo «L’uomo grande ed il nano».

 

 

  Mario de Micheli, Il Realismo in letteratura, «Il Calendario del popolo. Rivista mensile di cultura», Milano, Anno VI, N. 69, Giugno 1950, p. 622; 1 ill.

 

Il Realismo borghese.

 

  Engels, a proposito di Balzac, ha scritto: «Il realismo di cui parlo si manifesta anche al di fuori delle opinioni dell’autore ... Senza dubbio, in politica, Balzac era un legittimista; la sua grande opera è una continua elegia che deplora la decomposizione irrimediabile dell’alta società; le sue simpatie sono dalla parte della classe condannata a morire. Però, d’altro canto, la sua satira non è mai così tagliente, né la sua ironia cosi amara come quando deve descrivere tali aristocratici, tali uomini e tali donne per i quali prova pure profonda simpatia ...

  Che Balzac si sia visto forzato ad andare contro le sue stesse simpatie di classe e contro i suoi pregiudizi politici; che abbia visto l’ineluttabilità della caduta dei suoi aristocratici e li abbia descritti come non meritevoli d’altra sorte, che abbia visto i veri uomini dell’avvenire soltanto dove potevano incontrarsi nella sua epoca, tutto ciò lo considero come uno dei maggiori trionfi del realismo e come una delle più grandi particolarità del vecchio Balzac».

  Quando i suoi amici lo rimproveravano per la mordente critica con cui colpiva la loro classe nei suoi romanzi, Balzac rispondeva: «Non sarà colpa mia se le cose parlano da se stesse, e parlano così alto». Questa è veramente un’ottima definizione del realismo critico.

  Questa letteratura ha dunque un valore positivo non tanto perché esprime le tendenze soggettive dell’autore, quanto perché esprime la tendenza oggettiva del processo sociale.

 

 

  Mario de Micheli, Nel centenario della morte. Balzac, «Il Calendario del popolo. Rivista mensile di cultura», Milano, Anno VI, N. 70, Luglio 1950, p. 638; 1 ill. [Balzac (Ritratto di Bertall)].

 

  Honoré de Balzac nacque a Tours il 20 maggio 1789 (sic) da genitori quasi poveri. Compì gli studi universitari a Parigi, dove si laureò in legge. Ma la professione di avvocato gli dava poche soddisfazioni: presto si dedicò alla letteratura, scrivendo romanzi che non ebbero alcun successo. Solo dal 1829 cominciò ad affermarsi. Morì il 19 (sic) agosto 1850. [...].

 

  Quest’anno ricorre il centenario della morte di Balzac. Abbiamo già avuto occasione di parlare di lui e della sua opera nella breve storia del «Realismo in letteratura» apparsa nel numero precedente, tuttavia l'importanza di Balzac è tale che ci sembra opportuno dedicargli un articolo a parte.

  Honoré de Balzac, nacque a Tours, come si è detto, nel 1789 e fin dai primi anni di scuola scoperse in sé la vocazione letteraria. Per questo non riuscì mai a portare a termine i corsi di diritto alla Sorbona, da cui, secondo il desiderio del padre, avrebbe dovuto uscire avvocato. Invece dei codici, Balzac divorava romanzi e poemi, finché la foga che aveva dentro si trasformò essa pure in versi e prosa. Così, tra fame e stenti, in una soffitta di Parigi, si andò concretizzando il carattere della sua arte che trovò nel romanzo il naturale mezzo di espressione.

  La sua prima opera di romanziere fu pubblicata nel 1829: «Gli Scioani». Da questo momento Balzac non si fermerà più. Con una quotidiana fatica di 14 o 16 ore egli continuerà a scrivere sino alla morte: circa 50 volumi raggruppati sotto il titolo significativo «La commedia umana».

  «La commedia umana» si presenta nei tre aspetti diversi di «Studi di costume», «Studi filosofici» e «Studi analitici».

  Di questi tre aspetti il primo è certamente il più importante in quanto raccoglie tutti i romanzi maggiori di Balzac, classificati secondo il loro argomento: «Scene della vita privata», «Scene di vita provinciale», «Scene di vita parigina», «Scene di vita politica» e «Scene di vita campagnola».

  In una lettera alla scrittrice inglese Miss Harkness. di cui abbiamo già citato qualche riga, Engels illustra nel modo più esatto il contenuto critico e la straordinaria portata de «La Commedia umana»: «Balzac, dice Engels, che io stimo un maestro del realismo infinitamente superiore a tutti gli Zola passati, presenti e futuri, ci ha fornito nella sua «Commedia umana» la storia stupendamente realistica della società francese, e in particolare del mondo parigino, descrivendo in forma di cronaca dei costumi, quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la pressione sempre più grande che la borghesia ascendente ha esercitato sulla nobiltà ricostituitasi dopo il 1815 e che, in qualche modo, cercava di tenere ancora alta la bandiera della vecchia politesse francese. Egli descrive come i resti di questa società, esemplare per lui, subirono a poco a poco l’intrusione degli arrivisti volgari della grande finanza o furono da essi corrotti; come la grande dama, le cui infedeltà coniugali non erano state, altro che un mezzo per adattarsi alla maniera di come si era disposto di lei nel matrimonio, cedette il posto alla borghese che si procura un marito per aver denaro e vestiti. Intorno a questo quadro centrale poi Balzac ci raccoglie tutta la storia della società francese, storia da cui io ho imparato, per quello che riguarda le particolarità economiche (per esempio, la ridistribuzione della proprietà reale e personale dopo la Rivoluzione) assai più che non in tutti i libri degli storici, economisti o statisti di professione della nostra epoca messi insieme.

  Senza dubbio Balzac, in politica, era un legittimista; la sua grande opera è una continua elegia che deplora la decomposizione irrimediabile dell’alta società; le sue simpatie stanno dalla parte della classe, che è condannata a morire; però, a contrappeso di tutto questo, la sua satira giammai è così togliente, nè la sua ironia così amara come quando deve descrivere tali aristocratici, tali uomini e tali donne per i quali prova pure una profonda simpatia. All’infuori di qualche provinciale, invece, gli unici uomini di cui Balzac parli con non dissimulata ammirazione sono i suoi avversari politici più accaniti, gli eroi repubblicani del Cloître-Saint-Merri, gli uomini che in quell’epoca (1830-1836) rappresentavano veramente le masse popolari ...».

  Tutto ciò è possibile appunto perché Balzac è un autentico scrittore, realista, perché cioè nei suoi libri, più che le sue, opinioni, egli lascia parlare l’obbiettiva verità del processo sociale.

  Questa è la ragione per cui nei romanzi di Balzac, accanto alla decadenza della nobiltà troviamo smascherati con viva energia i vizi e gli egoismi della borghesia arricchitasi smoderatamente dopo la Rivoluzione dell’89.

  Contro il mondo borghese Balzac esercita i suoi umori critici con estrema violenza. Lo descrive come un mondo di atrocità, in cui gli uomini si divorano l’un l’altro. Secondo Balzac il grido che domina ogni altra voce, soprattutto la voce della coscienza, in questa società è: «Morte ai deboli».

  In questa società, nella società borghese, ognuno pensa a sè, vuol fare carriera a qualunque costo, vuol far denaro con qualsiasi mezzo, con la frode, il tradimento, la perfidia, la calunnia, la brutalità. In questa lotta feroce è travolto ogni sentimento, ogni vincolo di sangue: il tipografo Séchard deruba suo figlio Davide («Le (sic) illusioni perdute»), il vecchio Goriot è mandato in miseria dalle proprie figlie («Papà Goriot»), l’avaro Grandet caccia via di casa come un cane, il proprio nipote rovinato («Eugénie Grandet»), ecc.

  Balzac non fa nemmeno distinzione tra il furto e i profitti del borghese, anzi non manca di sottolineare come la legge agisca ingiustamente nelle sue sanzioni, come non sia affatto uguale per tutti: «Benché egli avesse sperperato tanto denaro guanto neppure gli ospiti dei quattro ergastoli di Francia tutti insieme avrebbero potuto rubare nello stesso periodo di tempo, la giustizia aveva per lui il più grande rispetto». E ancora: «I giudici non avevano altra preoccupazione che di dimostrar ai ricchi che essi potevano dormire tranquillamente». E il Tribunale? Ecco: «Abbaia dietro i ladri, è accondiscendente coi ricchi, fa tagliare la testa agli uomini di cuore...».

  Ma perché. Balzac, malgrado questa sua attitudine di aspra critica, era sostenitore della monarchia?

  I motivi sono da ricercare appunto nel fatto che Balzac non vedeva altro modo per frenare le basse ingiustizie della borghesia, l’individualismo, le sue violenze, i suoi arbitri, all’infuori di una dittatura monarchica. E questo è pure il motivo per cui Balzac, benché non sia mai stato un religioso fervente, si rivolse alla Chiesa con la speranza che il suo magistero potesse riportare la società su di una strada migliore, senza però che mai tutto ciò gli impedisse di criticare severamente quegli ecclesiastici che non si comportavano da uomini onesti.

  Certamente ci sono dei limiti nell’opera di Balzac, e sono i limiti che nascono da questa sua errata impostazione politica, dalla sua incapacità di portare a fondo, sino alle ultime conseguenze, la forza della sua osservazione e della sua analisi; ciò non ostante possiamo dire senz’altro che le accuse di Balzac contro la borghesia non hanno per nulla perduto la loro efficacia, poiché la borghesia, anziché rimediare alle sue colpe, le ha ingigantite. Le piaghe che Balzac indicava nei suoi romanzi nei suoi romanzi si sono allargate, appestano l’aria. Di qui l’inesauribile attualità di Balzac. Balzac non è uno scrittore che ignori l’origine di queste piaghe, egli all’opposto ne conosce le cause. Egli non evita il problema, non volta la testa da un’altra parte. Egli sa benissimo che l’uomo non nasce cattivo, ma che è la società del capitale, la società borghese che lo rende tale. Descrivendo perciò come ha fatto la società borghese, egli ha dimostrato che essa è intrinsecamente ostile al libero sviluppo dell’uomo, clic è nemica della sua umanità. Ecco perché in Balzac troviamo tanta energia, tanta profondità di pensiero. Ed ecco perché ancora oggi la lettura di Balzac rimane così viva e ricca di insegnamenti.

 

 

  Carla Milanesi, Balzac aveva la mania delle grandi imprese editoriali ma non faceva che accumulare debiti, «La Provincia. Quotidiano indipendente d’informazione», Cremona, Anno IV, N. 32, 7 Febbraio 1950, p. 3.

 

  Il 1950 commemorerà fra i centenari letterari anche quello di un grande francese che Henri Mazel così stigmatizzava: E assai probabile che l secolo XIX dirà Balzac come il XVIII disse Voltaire ed il XVII Bousset. Perciò Honoré De Balzac, nato a Tours nel 1779 e morto a Parigi l’8 (sic)agosto 1850, è una di quelle figure troppo celebri e complesse per poter essere sintetizzate nella brevità di un articolo: quindi noi ci accontentiamo di ricordarne qui i suoi rapporti culturali con l’Italia ed i suoi soggiorni nella nostra penisola, mentre, in via di sintesi, rammentiamo le sue opere principali. La notissima e candida Eugenia Grandet, della quale però non comprendiamo l’assurdo matrimonio finale: Il curato di Tours, Il medico di campagna, Splendori e miserie delle cortigiane, Il colonnello Chabert, Il padre Goriot, Un tenebroso affare, i più, che cinquanta volumi de La commedia umana, ecc. ecc., nonché La pelle di zigrino (La peau de chagrin) strano, misterioso e «conturbante» come «Il ritratto di Dorian Gray» di Wilde: in quel romanzo la figura del protagonista è il ritratto di Balzac, così come le indimenticabili figure di Rastignac e di Marsey (sic) rappresentano rispettivamente Talleyrand e Fouché. Si può quindi ben asserire che Balzac, uomo dell’epoca e della massa, creatore di figure vive, incarna veramente tutto il suo tempo.

  Amico di Victor Hugo, della Sand e di Gauthier (sic), laborioso, entusiasta, ingenuo e pessimista a modo suo, amante del lusso stravagante, non andò esente dal difetto di parecchie celebrità e cioè il cumulo dei debiti, sospinto a ciò anche dalla sua mania per le imprese editoriali che lo fecero più volte fallire (e una volta imprigionare!) malgrado l’aiuto della sua dilecta signora De Berny. Altra donna da lui amata fu la contessa Hamska (sic), polacca, che poi lo sposò, già ammalato e condannato, pochi mesi prima ch’egli morisse.

  Ma veniamo ai rapporti di Balzac con l’Italia.

  Anzitutto, sono ben noti, e furono assai discussi a quel ha tempo, alcuni suoi giudizi avventati e certo non obiettivi contro di noi: ma tutto ciò fu degnamente riscattato dall’entusiasmo ch’egli ebbe per la nostra arte, specie per lo splendore del Rinascimento, per le opere ch’egli scrisse ispirandosi alla nostra terra: ne I proscritti campeggia la figura di Dante esule a Parigi: e prettamente italiani sono: Caterina De’ Medici, Massimilla Doni, Facino Cane, Sarrasine ed altri.

  Egli venne in Italia nel 1836 soggiornando prima a Torino per aiutare, si disse allora, il conte Emilio Guidoboni Visconti in un processo, il che poi si dimostrò una semplice diceria; nel ’37-’38 fu a Milano, a Venezia, a Genova e fino in Sardegna dove, non tralasciando la sua sfortunata mania industriale, sperava di arricchirsi con una ipotetica miniera d’argento; nel ’46 fu a Roma anche per trovarvi la contessa Hamska.

  Le più dettagliate notizie le abbiamo sul suo soggiorno a Milano mercè la storia raccolta da Raffaello Barbiera ed i giornali milanesi del tempo. La contessa Maffei, che l’avrebbe poi accolto nel suo salotto rendendoselo amico fino a ingelosirne il marito ricevette un giorno il seguente biglietto dall’amica contessa Fanny Sanseverino Porcia «De Balzac, con Teofilo Gauthier, suo amico, viene a Milano. Io lo raccomando alla mia gentilissima Chiarina e all’illustre Maffei. Il celebre letterato francese conosca così le grazie, e ammiri l’ingegno italiano. Egli troverà, sono certa, nella vostra casa le cortesi accoglienze a cui ha diritto; ed io soddisfo, facendovi conoscere a lui, un orgoglio d’amicizia e di patria». La suddetta signora aveva conosciuto Balzac a Parigi in una soffitta ch’egli aveva arredato con lusso da nababbo. La Gazzetta Privilegiata di Milano del 22 febbraio 1837, a firma di Defendente Sacchi, recava la seguente «Notizia Letteraria»: «La nostra città accoglie da due giorni fra le sue mura il signor Balzac, lo scrittore francese che in pochi anni fece il maggior numero di opere che descrivino (sic) in ogni maniera la vita dell’uomo e della società; quello ch’è anche il più popolare fra di noi, perché i suoi scritti corrono fra le mani di tutti in originale e tradotti. Esso viaggia in Italia per raccogliere materiali onde scrivere le campagne de’ Francesi nella Penisola. Questa notizia tanto più ne riesce gradevole, perché siamo certi che il genio di Balzac avrà dal nostro cielo le sue più belle ispirazioni». Tale notizia mise a soqquadro la società milanese che lo accolse subito al Circolo del Giardino e gli articoli riguardanti l’illustre ospite continuarono entusiasti, talvolta anche indiscreti e pettegoli. Il suo fisico e il suo carattere sono descritti particolarmente: «...è piuttosto basso che alto della persona; i proventi della sua letteratura lo mantengono ben pasciuto ed allegro; (e i debiti? ...) la sua educazione e la nascita lo rendono amabile e disinvolto, i suoi talenti spiritoso e vivace, la sua fervida immaginazione parlatore facondo ... Non è nè bello nè brutto, ma fra le due piuttosto brutto che bello; ha sotto il naso una specie di chiaroscuro che dà qualche lontana idea di mustacchi. Chiome nere ed incolte, naso, savoiardo e due occhi nerissimi. Cerca con ansietà i quadri del Luini e aspetta impaziente un mattino sereno per visitare la sommità del nostro Duomo». Ed anche si parla della sua toilette da camera, con la famosa vestaglia tutta bianca, le scarpe di casimiro bianco, ecc. sicché potrebbe essere scambiato per un monaco o per un beduino; in tale abbigliamento lo scrittore venne effigiato nella statuetta di scagliola dello scultore Puttinati. E soprattutto la sua celebre canna da passeggio fa le spese di ogni curiosità: si tratta di un semplice giunco colossale ma col pomo tempestato di pietre preziose e contenente uno «scatolino» che gli serve da reliquiario amoroso! Ed ancora si sa che egli non beve vino ma moltissimo caffè ed è un avido mangiatore di frutta e che ha il «tic» di addormentarsi in piena conversazione!

  Dopo un breve soggiorno in albergo; il grande scrittore venne ospitato nel palazzo de principe Serafino Porcia, fratello di Fanny, sul Corso d porta Orientale (ora Corso Venezia); ed oltre alle signore già citate, conobbe ancora la poetessa Giulietta Pezzi, la contessa Emilia Bolognini Sforza Attendolo che lo riceveva nel suo leggiadro salotto a stucchi di via Cappuccini ed alla quale egli chiedette più volte denaro ..., la cantante Matilde Juva e molte personalità milanesi. Passa quindi a Venezia ospite della contessa Soranzo dove s’incontra col conte Tullio Dandolo e ne nasce la ben nota discussione contro Manzoni, Massimo D’Azeglio e Tommaso Grossi e da qui tutte le ire — certo non ingiustificate — contro il letterato francese, fino all’opuscolo di A. Lissoni: Difesa dell'onore delle armi italiane oltraggiato dal signor de Balzac nelle sue scene della «Vita parigina», ecc. Però, tornato a Milano, egli si reca a visitare Manzoni che paragona a Chateaubriand. In quel periodo si reca anche a Saronno per ammirarvi gli affreschi del Luini.

  Dagli italiani dunque egli fu un po’ amato e un po’ odiato: assai mal quotato da cattolici per l’eccessivo verismo dei suoi romanzi che negano la virtù, e perché liberale (il che allora significava anticlericale); tuttavia nella sua vita fu sempre immune da passioni volgari e nella donna vedeva soprattutto la «signora». Quanto al cristianesimo, così si espresse: un sistema completo di repressione delle tendenze malvagie dell’uomo, è il maggior fattore dell’ordine sociale. Io scrivo al lume di due verità: la religione e la monarchia. Questo però non salvò dalla condanna all’Indice molti suoi volumi, con la formula: Omnes fabulae amatoriae. Egli ebbe sempre in cuore uno sviscerato amore per la sua terra di Francia ma dobbiamo riconoscere con simpatia la predilezione che dimostrò all’Italia, dove trovò anche molte ispirazioni e dove compose parecchi lavori dedicandoli poi ad amici ed amiche italiani. Basti per tutte la dedica di Una figlia d’Eva alla contessa Bolognini-Vimercati: «Voi vedete che se i Francesi sono tacciati di leggerezza e di oblio, io sono Italiano per la costanza e per il ricordo». E con questo pensiero cavallerescamente italiano salutiamo il centenario di Honoré De Balzac.

 

 

  Carla Milanesi, Centenari del 1950. Guy de Maupassant, «La Provincia. Quotidiano indipendente d’informazione», Cremona, Anno IV, N. 43, 19 Febbraio 1950, p. 3.

 

  Balzac creatore del romanzo francese moderno, Maupassant creatore della moderna novella francese: di entrambi quest’anno ricorre il centenario, della morte del primo, della nascita del secondo. Abbiamo ricordato il piccolo, paffuto, indebitato Balzac [...; cfr. scheda precedente].

 

 

  Eugenio Montale, A sessant’anni il primo grande successo, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 170, 19 luglio 1950, p. 3.

 

  [Sul romanziere inglese Joyce Cary].

 

  Ogni volume, però, è indipendente e il legame sta solo nel ritorno di qualche personaggio, secondo il metodo di Balzac.

 

 

  Eugenio Montale, Dalla “valle della morte” esce una scrittrice spietata, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 243, 13 ottobre 1950, p. 3.

 

  [Su Ivy Compton-Burnett].

 

  E’ difficile riassumere i libri della Burnett, com’era impossibile a Giraudoux raccontare all’amico morente che non l’aveva mai letta, «in cinque minuti» la trama della Chartreuse de Parme. Forse il suo segreto è di ordine musicale; e proprio in questo si sente la modernità di una scrittrice che, come la Woolf, come il Fitzgerald soprattutto, metterà alla disperazione i suoi traduttori, se né avrà. Certo è che molte sue frasi, anche se sapientemente ricalcate, quasi non hanno senso in italiano: alludono a qualche cosa che non ha riscontro da noi, a un mondo che, se è esistito, non potrà mal più essere il nostro. E in casi simili ci si chiede se non varrebbe meglio desistere o rifare, trasformare tutto, a costo di tradire le intenzioni dello scrittore.

  Siamo molto lontani da Balzac, come si vede ...

 

 

  Indro Montanelli, Due grossi anniversari in Francia. Il secolo dei delitti e dei romanzi squallidi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 213, 8 settembre 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 558.

 

  E’ il nostro. Nell’Ottocento, invece, non c’era divorzio fra letteratura narrativa e cronaca nera; lo prova l’influenza su Balzac di Monsieur Vidocq, il vero capo della “Sûreté Générale...

 

  Nel 1950 scadono in Francia due grossi anniversari: si compiono cento anni dalla morte di Onorato di Balzac e centocinquanta dalla nascita della Polizia. Curiosa coincidenza: La Commedia umana e la Sûreté Générale hanno in comune il protagonista: colui che fu l’ispiratore della prima e il vero fondatore della seconda: Monsieur Vidocq, che Balzac chiama Monsieur Vautrin, riconoscendogli il ruolo di «colonna vertebrale» della sua opera, come Luigi Filippo gli riconobbe quello di «insostituibile puntello» dell’ordine costituito.

 

Irriducibile ribelle.

 

  [...]. Balzac conobbe Vidocq, quando questi si era già ritirato dalla sua alta carica, nel ’42 o nel ‘43. I funzionari della Sûreté, suoi antichi sottoposti, avevano montato contro di lui un processo iniquo, che si concluse con l’assoluzione solo per l’intervento di un gentiluomo della Corte di Luigi Filippo quasi ottuagenario e mezzo cieco, il cavaliere De Berny che, amico di Balzac, lo invitò una sera a pranzo col suo protetto. E fu da quell’incontro che nacque la «Commedia umana», di cui l’ex-poliziotto suggerì il titolo al romanziere: «Perché vi spremete il cervello a inventare intrecci? — gli disse. — La commedia umana, quella dei fatti reali e degli uomini veri, è la più straordinaria che si possa veder rappresentata!». La sera dopo Balzac invitò a sua volta a pranzo il nuovo amico: il che, data la proverbiale avarizia dello scrittore, è la prova più decisiva dell’enorme impressione che Vidocq gli aveva fatto e del profitto che meditava di trarne. Gozlan, presente alla scena, l’ha così descritta: «Singolare influenza di una personalità, sentii, prima ancora che Balzac mi avesse presentato a quel convitato nuovo per me, ch’egli riempiva la sala in cui ci trovavamo della sua traslucida potenza ... Non c’era il peso di un pianeta solo, supremamente intelligente, in quel salotto. Accanto a quello del padron di casa, ce n’era sicuramente un altro che attirava e su cui si gravitava».

  Fu, tra i due uomini, un connubio fruttuoso, ma tempestoso. Vidocq raccontava a Balzac: «Un giorno volli vedere un po’ chiaro nella vita privata di uno di quei giovanotti, di cui Parigi è piena, che speculano sulle qualità di cui la natura li ha dotati per vivere alle spalle delle famiglie ch’essi disonorano. Egli aveva incontrato su una pubblica passeggiata la marchesa di X... e aveva trovato modo di ispirarle una violenta passione. La giovane signora, priva di esperienza, ne fu affascinata sino al punto di darsi a lui e di scrivergli le lettere più compromettenti. Quando si accorse dell’inganno in cui era caduta, era troppo tardi. Il seduttore pretestò urgenti bisogni e estorse somme abbastanza forti. Poi le sue esigenze aumentarono e il ricatto si fece regolare e insopportabile, finché il marito ingannato venne per caso in possesso di una lettera in cui lo scroccone minacciava la disgraziata di consegnare le lettere al suo consorte. Allora intervenni. Mandai a chiamare il marchese, lo dissuasi dal fare uno scandalo e gli promisi che gli avrei riconsegnato la moglie e le lettere, ma con l’impegno che queste ultime egli le avrebbe bruciate senza leggerle. L’impegno fu mantenuto», Balzac prendeva appunti e stendeva le prime pagine di «Una figlia di Eva» in cui la marchesa di X... diventava la contessa di Vandenesse, lo scroccone era ribattezzato Raoul Nathan eccetera. Ma quando il libro uscì, Vidocq lo lesse senza indulgenza e poi andò a esprimere il suo risentimento all’autore: «Signor di Balzac, perché adoperate il vostro talento, che è grande, soltanto ad alterare la verità? Credete, ingigantendo le proporzioni dei fatti che io vi racconto, di abbellirla? La rendete soltanto più grossolana ...». Vidocq anticipava di qualche decennio ciò che i critici più avvertiti avrebbero detto infatti della «Commedia».

  I brontolii del poliziotto accompagnarono sempre ogni nuovo volume di Balzac, e ogni volta per le stesse ragioni: «A chi vi siete ispirato, Maître, per descrivere la Demoiselle Verneuil dei vostri Chouans? Non certo alla ragazza di cui vi ho raccontato la vicenda, che non valeva granché. La vicenda vedo che l’avete rispettata, ma la protagonista è irriconoscibile ... Quanto al Vautrin nel quale mi avete raffigurato, signore, forse voi credete di aver composto un dramma. E invece non è che un melodramma!».

 

L’amore dell’intrigo.

 

  Il contributo del fondatore della Sûreté Générale al romanzo francese dell’Ottocento è immenso. Nel 1833, dopo le sue seconde e definitive dimissioni dalla sua carica, Vidocq viveva ritirato nel suo castello di Saint Mandé. Non era ancora vecchio e mostrava dieci anni di meno dei suoi cinquanta. Ma l’ingratitudine degli uomini lo aveva reso amaro e scettico su quella società che, dopo esserlesi rivoltato, aveva puntellato per tanti anni. Tuttavia l’amore dell’intrigo era in lui ancora così vivo ch’egli aveva organizzato una polizia per suo conto, in concorrenza con quella dello Stato e che Balzac ha descritto nel suo Père Goriot. Dissimulava questa sua attività clandestina fingendosi dedito alla produzione di un nuovo tipo di carta (e anche questa sua nuova incarnazione ispirò a Balzac il personaggio di Davide Séchard, che qualcuno ritiene ancora erroneamente autobiografico, tratto dall’esperienza di stampatore per la quale Balzac era passato). [...].

 

 

  Umberto Monti, Onorato Balzac e Paul de Musset, in Gian Carlo di Negro, Genova, Editore F. Ceretti, 1950, pp. 99-102.

 

  p. 99.

Lo spirto di Balzac è quel vapore

ch’esce da un suolo paludoso fuore,

e il sol sebben coi raggi lo colori,

l’aria infetta, e appassir fa l’erbe e i fiori.

 

  Sono versi che valgono poco. Il Di Negro di fronte al Balzac è come un passero di fronte all’aquila, ma abbiamo qui una prova della dirittura d’animo del nostro, che non scendeva mai a piaggiare gli stranieri, fossero pure grandi, quando questi non riconoscevano i meriti della cultura italiana, e negavano al Manzoni la qualità di grande romanziere.

  E più avrebbe scritto il buon Di Negro se avesse saputo che il francese scriveva appunto da Genova il 22 aprile dell’anno seguente alla signora Hanska, che poi sposò poco prima di morire: «Se voi avete veduto Genova, dovete sapere che vita noiosa vi si conduce».

  E più avanti chiama questa residenza una «galera». E’ naturale che con questi sentimenti i due uomini non cercarono più di vedersi. Anche nella cortesia c’è un limite, ed è che l’ospite sia gentile col padrone di casa. Il Balzac. chiamò, è vero, il nostro «frère hospitalier de tous les talents qui voyagent», ma questa lode rivolta a una persona non bastava a cancellare la cattiva impressione di altre sue frasi che offendevano l’Italia e gli Italiani. E il Di Negro era anzitutto un buon italiano.


 

  Alberto Moravia, Diario, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 30, 4 febbraio 1950, p. 3.

 

  La lettura dei grandi artisti riesce tanto più violenta e intollerabile quanto più fervido è il cervello del lettore. Non è vero che una fantasia originale riesca a passare indisturbata accanto a un’altra di uguale potenza. Una simile tranquillità è concessa soltanto agli sciocchi e agl’imitatori. Manzoni rifuggiva dal leggere Shakespeare. Proust doveva ricorrere a faticosi esercizi di svelenamento: «Pour ce qui concerne l’intoxication Flaubertienne, je ne saurais trop recommander aux écrivains la vertu purgative, exorcisante, du pastiche. Quand on vient de finir un livre, non seulement on voudrait continuer à vivre avec ses personnages, avec madame de Beauséant, avec Frédéric Moreau, mais encore nôtre (sic) voix intérieure qui a été disciplinée pendant toute la durée de la lecture à suivre le rythme d’un Balzac, d’un Flaubert, voudrait continuer à parler comme eux. Il faut la laisser faire un moment, laisser le pédale prolonger le son, c’est-à-dire faire un pastiche volontaire, pour pouvoir, après cela, redevenir original, ne pas faire tonte sa vie du pastiche involontaire».

 

 

  Ferdinando Neri, Un centenario. Ricordo di Balzac, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VI, Num. 195, 18 Agosto 1950, p. 3.

 

  In Francia, da più di un anno, si commemora e si festeggia il centenario di Balzac, fra quello della nascita (primavera del 1799) e quel che ora s’annuncia e che noi pure ricordiamo: il 18 agosto del 1850. Moriva a Parigi il grande scrittore, tornato alla sua casa da poco con la contessa polacca che aveva finalmente sposata, ed a cui i medici avevano assicurato la prossima morte del marito, celebre, ma affranto ormai da un’esistenza di lavoro ostinato, senza tregua, ch’egli aveva incominciato giovine per ottenere gloria e fortuna: e le aveva ottenute: ne ha oggi ancora più che alla sua morte, per segno di una sua conquista napoleonica, com’egli la chiamava.

  Dai primi saggi, l’Héritière de Birague, Falthurne, Argow le pirate in cui aveva addensate le tavole romantiche e il roman noir truce e misterioso, egli aveva svincolato il romanzo storico di cui Walter Scott aveva diffuso l'esempio per tutta l’Europa. Les Chouans sono il romanzo storico della nuova Francia; si può riconoscere che di là spira la maestria ond’è retta Une ténébreuse affaire; ma anche più il proposito di estendere il senso storico alla società del suo tempo, e nel Père Goriot un vero metodo della Comédie Humaine, la Società di Balzac: da Vautrin a Rastignac, a De Marsay, cioè dal galeotto evaso agli elegantoni che entravano nel governo, ministri di Luigi Filippo. Un brivido di curiosità e di commozione ci coglie quando uno di quei personaggi, e appunto De Marsay, risponde a Biondet (sic): Oui, je vais vous conter cela (Autre étude de femme), e racconta uno di quegli episodi, che s’intrecciano nel dizionario della famiglia ricca e fantastica dove non manca Gobseck, nè Lucien de Rubempré, e neppur Napoleone: un dizionario così vivo e presente, nè soltanto ai lettori francesi, che ancora Marcel Proust vagheggiava che se ne compilasse uno analogo per le figure a cui aveva dato vita nella Recherche.

  E’ uscito di questi giorni a Parigi un fascicolo di studi di letteratura comparata che ha per titolo Balzac dans le monde, a integrare le Orientations balzaciennes à l'étranger pubblicate lo scorso anno dal Baldensperger, sulla fortuna dello scrittore in Inghilterra e Stati Uniti, in Danimarca, Olanda, Spagna e fino in Giappone; l’Arrighi pone in rapporto Balzac e il verismo italiano, con alcune note che si aggiungono al Balzac in Italia di Giuseppe Gigli. E son lavori che non si esauriranno così presto: ma dove si legge, Balzac agisce con l’esempio della sua fantasia creatrice, e il suo dominio delle fosche passioni della «commedia umana» che Ippolito Taine assegnava a un ordine shakespeariano.

 

 

  E. P., Orizzonte dei libri. Primo centenario della morte di Balzac, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, N. 155, 1-2 luglio 1950, p. 2.

 

  Ci si ripiega volentieri indietro, in letteratura. L’ieri dà quella sicurezza di opinione che oggi è difficile tanto è il disorientamento generale. Ci si aggrappa allora alle ricorrenze centenarie dei grandi scrittori del passato e se ne trae pretesto per ristamparli. L’acquirente, se può essere incerto dinanzi a un volume che porta in alto o a pie’ di copertina un nome odierno, non lo è più quando sopra il titolo di un libro campeggia un grosso nome dell’Ottocento. Ed ecco uscire un libro che raccoglie Gli allegri racconti di Balzac, editore Corticelli, e che offre una varietà e una ricchezza di lettura, alternando gli episodi gentili alle situazioni boccaccesche, in pagine scintillanti.

 

 

  Francesco Pastonchi, Nel Centenario di Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 195, 18 agosto 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 558.

 

  La fama e la stessa gloria subiscono la moda, su e giù in altalena. Tale che ieri s’innalzava, oggi si abbassa, per risollevarlo domani. Giochi, acrobazie oziose di critici alla riva del tempo; il quale fa suo corso portandosi a galla i grossi calibri che non affonderanno mai.

  Così, nel più stretto àmbito di cento anni è avvenuto al Balzac, morto il 18 agosto 1850.

  Già in vita, e nella sua Francia, fu notevole il contrasto della critica, senza badare al grosso pubblico, sùbito conquistato, soprattutto quello femminile. Quando ci si mettono le donne, esse che «hanno intelletto d’amore», donne di tutte le classi per Balzac, la fama va sicura. E così accadde anche da noi, dove presto s’erano diffusi e nel miglior mondo i suoi romanzi: chiara prova le accoglienze all’autore durante i viaggi in Italia, il primo nel ‘36 a Torino, il secondo nel ‘37 a Milano e a Venezia. Accoglienze abbastanza calde nella capitale torinese, caldissime in quella lombarda, variopinte nella città dogale.

  A Torino, presentato nel gran mondo dal conte Sclopis, persino la pia Marchesa di Barolo, anima ben lontana dallo spirito della sua arte (ma la Barolo era francese, una Colbert) gli fu pietosa d’ammirazione. A Milano l’entusiasmo traboccò, e le belle dame si rassegnarono al mal garbo del celebre romanziere che si lasciava andare, sulle gracili poltrone dorate, così pesantemente da sfasciarle. A Venezia la buona società, che ben conosceva, per averli letti avidamente, i suoi libri, si mantenne assai schiva dell’uomo. Persisteva in essa la graziosità settecentesca, e ancora settecentesco brillava il decoro dei suoi palazzi: cui perciò non troppo s’addicevano le maniere irruenti dell’ospite. Immaginarsi la sua massiccia persona calcare agitata i bei pozzetti veneziani, fatti per sedervi in proda i cavalieri galanti tra pizzi e broccati.

  Alloggiato all’Albergo Reale, oggi Danieli, e proprio nell’appartamento già occupato quattro anni prima dal De Musset, il Balzac non ebbe inviti importanti se non dalla contessa Soranzo che presiedeva uno dei più eleganti salotti veneziani, ma era poi una Londonio, milanese. E nemmeno gli fu benevolo il mondo intellettuale; chè la Gazzetta di Venezia ne salutò l’arrivo con un articolo molto agro, vagliandone crudelmente l’opera; e peggio se ne congedò pubblicando una relazione appunto di una cena in casa Soranzo, relazione scritta da Tullio Dandolo: il quale trattava il signor di Balzac con ironia e a tratti con disprezzo. Ed era pur quella società veneziana che alcuni anni dopo si sarebbe divertita a travestirsi alla Balzac, secondo gli stampi dei suoi personaggi, quali, ad esempio, la duchessa di Langeais, Rastignac, Nathan, il cavaliere di Valois; e un cronista del Monde illustré scriveva che a Parigi si poteva ancora incontrare una bella contessa polacca, moglie a un diplomatico, la quale in Venezia, per fortuna dei celibi, si era trasformata nella brillante marchesa di Maufrigneuse.

  Da Parigi invece tuonava quel terribile maldicente del Tommaseo che, avuta notizia delle feste fatte dai milanesi al romanziere, prorompe in una sua lettera al Cantù: «Io sono più afflitto di sapere Balzac a Milano che se mi avessero annunziato una nuova invasione di barbari ... Del resto potete dire a cotesta crassa società galante milanese che nella stessa Parigi Balzac è considerato un personaggio ridicolo e basso ... Egli descrive minuziosamente i particolari di alcune cose e ignora il resto, e non solamente manca di immaginazione ma è assolutamente incapace di dipingere gli affetti e i sentimenti».

  Cesare Cantù per sua parte, nel raccontare poi la visita del Balzac al Manzoni, alla quale aveva assistito, commenterà che il Balzac era venuto a Milano nella speranza di arricchirsi concludendo contratti vantaggiosi con i librai italiani. Insinuazione, più che malevola, inesatta, come non certo lusinghiero il ritratto che egli ne traccia: grosso corpo, gran naso, vasta fronte, collo taurino ravvolto in una specie di sciarpa che funge da cravatta, ... testa ripiena di idee straordinarie, avido di danaro, carico di debiti, infatuato di se stesso, ... eccentrico in tutto per far parlare di sé ...

  E passi la mala dipintura per il suo fisico. Anche un’ammiratrice, Sophie Rebora, scriveva nel 1836 al padre, principe Koslowsky: «Non può dirsi un bell’uomo, perché è piccolo grasso rotondo massiccio, ha larghe spalle quadrate, una grossa testa, un naso come di gomma elastica, una bocca assai fine quasi senza denti; ... ma egli ha nei suoi occhi neri un fuoco e una tal forza di espressione che senza volerlo voi siete obbligato a convenire che vi sono poche teste altrettanto belle».

  Descrizioni che me lo farebbero riconoscere già in una caricatura premessa a un raro libretto: L’arte di pagare i propri debiti senza sborsare un soldo ecc., stampato a Parigi nel 1827 dalla stamperia dello stesso Balzac, rue des Marais: una delle tante speculazioni sbagliate del romanziere, nel sogno di arricchirsi. La caricatura, che si direbbe presaga, perché non credo il Balzac fosse già nel ‘27 indebitatissimo, rappresenta il debitore premuto da una folla di creditori, ma seduto pomposamente su una rossa poltrona, una mano puntata su un bracciolo, l’altra reggendo elegantemente un monocolo, e in atto egli di rivolgere ai creditori le insolenti parole sottoscritte alla scena: «...e voi non riceverete nemmeno un soldo ...». Il corpo grave con un po’ di ventre nel panciotto bianco, il collo forte incravattato di giallo, il naso davvero di gomma elastica, sembrerebbero anticipare una somiglianza allusiva.

  Ma, a conferma che sul corpo sgraziato vinceva lo spirito, in una edizione originale di alcuni suoi volumi (formato lievemente oblungo, copertina azzurrina) appartenuti alla duchessa de Tonnerre, trovo, di fianco alla descrizione di un personaggio, in margine a una pagina, annotato dalla stessa mano che ha iscritto il nome «de Tonnerre» su ogni copertina: «Somiglia all’autore, tutt’altro che bello ma affascinante». Giudizio di donna senza invidie letterarie, e che potrebbe venire assunto anche per la sua opera romantica «tutt’altro che bella ma affascinante».

  Affascinante per il grande pubblico, nessuno può negarlo; anche oggi, superate molte noiose digressioni e quel divagare che vorrebbe parere da sociologo quando non da filosofo, dobbiamo ammettere che i romanzi del Balzac sono prendenti. Quanto a bellezza ... comincia qui l’altalena; e cominciò, lui vivo, per seguitare fino a ieri. E chi gli rifiutò arte di scrittore e coerenza di stile, e lo mise a mazzo con certi fabbricatori di appendici da giornale; e chi lo difese scoprendo in tanta turbinosa romanzeria pagine benissimo scritte, là dove egli è felice presentatore di personaggi, e pel modo che li muove e li distingue nella sua affollata «Comedia umana». Altri lo giudicò grande scrittore pur che voglia, come quando ci dà quelle (sic) «Contes drolatiques», condotte con una scioltezza e un raro sapore; da alcuni per contro avvilite a un «pasticcio letterario».

  Certo, dopo di lui, scrittori acutamente analisti come Stendhal o gaudenti, ahimè con quanta sofferenza, cesellatori della frase come Flaubert, e romanzieri di minuta psicologia da un lato, e veristi fino all’osso, e creduli naturalisti, e così via fino agli scavatori moderni, fecero metter da parte la «Comedia umana». Del Balzac si parlava tra gli intellettuali come di uno sbozzatore grossolano e di un affannato a buttar già in un calderone tutto un mondo fittizio: fantocci, non persone, allucinazioni confuse di una realtà non mai esistita. Eppure con tutto ciò Honoré de Balzac continuava a esistere nella letteratura; restava quale un ingombro, per certuni, intollerabile ma inevitabile: volgare, squinternato quanto volete, ma vitale. E di balzachiani la Francia ne ha contato parecchi: e qualcheduno anche l’Italia.

  I milanesi di pochi decenni addietro non possono aver dimenticato una figura ben conosciuta allora nel mondo ambrosiano: Henry Prior; balzachiano a dir vero seminascosto, tanta poca confidenza delle sue occupazioni letterarie egli dava ai suoi conoscenti. Salvatico sotto apparenza di «uomo di mondo», come si classificavano allora certi tipi a mezzo tra il mondano e l’intellettuale, svizzero-francese d’origine (non aveva mai perduto parlando italiano l’arrotamento della erre e l’aspirazione nasale), egli s’era fatto lombardo tra Milano e Varese dove possedeva, ereditata da una Litta, la grandiosa villa di Biumo. La teneva semichiusa avaramente e per diffidenza di farsi troppo servire, abitandone sola una parte, stipata di vecchi ninnoli e quadri e stampe e libri che era andato racimolando qua e là per le aste a Milano a Zurigo a Parigi. Conversatore piacevole, con frequenti punte satiriche tra le labbra sottili, acerbo alla stessa società che gli divertiva frequentare a sbalzi per fiutarne le vanità e gli intrighi, attento a non lasciarsi soverchiare, espansivo al di fuori ma arido dentro, senza veri affetti e passioni, fuorché quella del raccoglitore di curiosità che riguardassero soprattutto vicende intime di uomini noti: signorile di aspetto e di modi con un po’ di forzatura, i capelli precocemente bianchi su un viso ancor sostenuto: egli appariva un vero personaggio alla Balzac. E su Balzac aveva da ultimo accentrato le sue cure, e pubblicato, a proposito dei viaggi in Italia, lunghi articoli sulla Revue de Paris, raccolti più tardi in volume: saggi immuni da valutazione critica, semplici esposizioni di minuti particolari, storielle alla soglia dei salotti. Naturalmente, anche in assenza di ogni critica, esse tradivano la simpatia per lo scrittore. Forse in lui massimamente lo attirava l’anatomia della società affaristica, in continua giostra per il danaro, e la rappresentazione corrosiva dei costumi borghesi.

  Esulterebbe perciò oggi nel vedere la Francia ritornata al suo Balzac, ricollocandolo in alto e celebrandone il centenario come di uno tra i suoi più grandi scrittori. Anzi l’apprezzamento della sua arte di scrittore lo si considera a Parigi ormai superato: avanzo di un’estetica dilettantesca, Balzac è ridiventato per i Francesi un romanziere di massa, conforme alla tendenza dei tempi moderni. Che cosa importa la sua grossolanità di superfice? Rivela tanta umanità in profondo, tanta verità di vita! E’ un creatore. Caotica la sua «Comedia umana», ma potente. E per un certo verso potrebbe giustificarsene l’esaltazione, in bilancia con lo sconoscimento di quanti ieri la deprimevano quale un prodotto enfatico di falsa psicologia. Uno scrittore ha ben diritto di ingrandire i suoi personaggi, di riinventarli al di là della realtà, e di proporli a eroi. Basta col tramontato verismo e coi ridicoli documenti alla Goncourt. E che cosa è mai nelle pagine sue migliori il famoso verismo dello Zola, se non un’invenzione di fantasia con particolari dal vero, anche questi resi non per fotografia ma acconciati a una personale prospettiva? Il verismo del Balzac è un verismo fantastico, più vero del vero; infatti alcuni suoi personaggi di primo piano, con la loro qualità o difetto predominante che annulla ogni altro movente, son rimasti a vivere in mezzo ai vivi. Proust, spietato d’analisi al capello, se ne schiverebbe; e i prustiani (sic) torcono gli occhi e turano gli orecchi. Ma Balzac si para a loro davanti prepotentemente. Alla sua creazione sregolata e scrosciante non puoi rifiutare, se anche ti spiaccia, una vera genialità. Essa esisterà fin che la lingua francese esista. Direi anzi che, dopo le eleganze preziose del France, ma alquanto oppressive, Balzac, senza giacca e il colletto slabbrato, in qualche modo ripaga. E’ un pover’uomo al quale bisogna perdonare debiti ed eccessi. Finisce per riuscire, fatte tutte le riserve, lui il nostro creditore. Gli dobbiamo ore di attenzione febbrile anche noi Italiani, con licenza di quel terribile mal giudicante che fu Nicolò Tommaseo.

  Una sola ragione questi ebbe d'irritarsi: quando seppe che il conte di San Tommaso, non il D’Azeglio come egli credette, aveva portato il Balzac dal Manzoni. Errore diplomatico. Che cosa dovevano dirsi quei due, messi di fronte? L’uno declamatore, sbruffone, lanciato a una produzione incessante per necessità materiale e più per ambizione di titanismo; l’altro, cauto, riservato, di una difesa modestia, inteso a risolvere un problema morale, prima che nell’opera, in se stesso: quegli volendo stupire e quasi spaventare il mondo con una valanga narrativa, questi temente di strafare col suo unico romanzo-poema. Tra i due non poteva reggere paragone fecondo, nè comprensione, nè amicizia. A quanto ne riferì chi vi assisteva, fu un incontro barocco, in cui il Balzac agì da primo attore e il Manzoni stette ad ascoltare sopportando. Il Balzac non aveva letto ancora i Promessi Sposi (quando li lesse poi, se li lesse, non li capì); ma osò vantarsi di aver tentato anche lui il genere religioso col Medico di campagna senza però ottenere le succès che se ne attendeva. A tale uscita, immagino il convenevole sorriso del Manzoni. Partito l’ospite, egli (ce ne informa il figliastro, conte Stefano Stampa) osservò laconicamente che «per ottenere un succès nel genere religioso, non bisognava farne l’oggetto di una speculazione letteraria qualunque, ma era necessario avere in se stesso una profonda convinzione religiosa». E fu tutto.

 

 

  Giuseppe Patanè, Morì cieco nel palazzo della felicità, «La Domenica del Corriere. Supplemento settimanale illustrato del nuovo “Corriere della Sera”», Milano, Anno 52, N. 41, 8 Ottobre 1950, p. 13.

 

  “Voglio fare con la penna quello che Napoleone fece con la spada”. “Creerò le Mille e una notte dell’Occidente”.

 

  «François, apri! ... Dove sei, François? ... François! ... Apri, perdio! ...». Nessuno rispose».

  Il grido di Balzac che nella notte del suo arrivo dall’Ucraina con Eva, la «Straniera», finalmente sua sposa, aveva risonato senza alcuna risposta dinanzi alla porta della sua casa sontuosissima, sulla rue Fortunée a Parigi; l’ultimo disperato grido di Balzac già quasi distrutto nel cuore, quasi cieco, anchilosato, echeggiava ancora al letto di morte del meraviglioso uomo. Victor Hugo che volle essere vicino all’autore della Commedia umana durante la sua agonia, parve intento a raccogliere l’eco di quel grido mentre dal gran petto devastato di Balzac uscivano più ruggiti che gemiti, nell’interminabile rantolo. Maggio-agosto 1850: ultimo ritorno e ultima partenza di Balzac. «François ... hai ragione ...» Ormai era cieco del tutto. A tratti si rivolgeva alla madre sola ad assisterlo fino al suo estremo quietarsi, pur non avendolo mai amato o avendolo amato in uno strano modo aspro, crudo, angusto, tutto suo.

 

*

 

  A cento anni dalla sua fine terrena, Balzac appare dinanzi alla posterità come il più balzachiano dei suoi personaggi. La sua figura giganteggia su tutta la Commedia umana. Attraverso la storia delle sue imprese finanziarie, dei suoi debiti, dei suoi espedienti, dei suoi amori, dei suoi viaggi, egli è più romanzesco di Vautrin, di Rastignac, di Birotteau, di altri eroi dei suoi romanzi. La immensa, vulcanica operosità, creatrice d’arte, si alternava in lui, ogni giorno, con la battaglia e il fallimento dell’uomo pratico. Parallelamente a un suo ideale «napoleonico» di dominatore della letteratura nel mondo, egli coltivò un ideale di uomo non certo straordinario e che finì col diventare ossessione: il matrimonio con una vedova altolocata e molto ricca. Apparve, infatti, nell’ultimo quindicennio della sua vita straripante di avventure e disavventure, — visse, com’è noto, cinquantun anno — apparve la «Straniera», la baronessa polacca Eva Hanska, nata contessa Rzenuska (sic), bella, sebbene non più giovanissima, colta, ma albagiosa, cervello freddo. Una lettera misteriosa era partita dal fastoso castello ucraino di Wierzchownia dove ella viveva col marito, il barone russo-polacco Venceslao Hanska (sic) e si sentiva, pur nel suo principesco benessere, squallidamente isolata dal mondo; una lettera per Balzac — era il tempo del gran successo europeo della Peau de chagrin che aveva suscitato l’interesse anche del Goethe. Balzac aspettò parecchi anni che il marito di Eva morisse, per poterla sposare. E viaggiò pazzamente l’Europa per incontrarsi con lei. Ne aveva ricevute tante di epistole ammirative, da tante donne d’Europa che amavano in lui il narratore indulgente dei loro peccati. Ma quella che portava la firma: «L’Etrangère» fu la più maliosa fra tutte.

  «Voglio fare con la penna quello che Napoleone fece con la spada». «Creerò le Mille e una notte dell’Occidente». «I miei stravizi consistono nel mio lavoro». Così disse più volte parlando di sè Onorato de Balzac. E questi suoi detti corrisposero perfettamente alla prodigiosa realtà dell’opera sua, delle sue «orge cerebrali» (sedici ore di lavoro al giorno). Tutto enorme e tutto irregolare, in Balzac. Mille uomini in un solo uomo.

  Nessuno ignora che egli si chiamava Balzac e non de Balzac, ma quel suo fregiarsi del predicato nobiliare ci sembra simile all’auto-decorarsi di un dittatore dopo una titanica battaglia gloriosamente vinta.

  Ma a Balzac quel «de» fu indispensabile come il suo tavolo di scrittore, la sua canna da passeggio tempestata di gemme, la tonaca che avvolgeva, durante il lavoro, la sua corpulenza di fratacchione dalle gambe corte, le tazze di caffè (ne bevette cinquantamila in pochi anni), i bottoni d’oro del marsinone blu, l’occhialetto lucente nei salotti del «gran mondo» e nel «palco dei geni» al Teatro degli Italiani, il tilbury col servo in livrea. «De», sicuro, al pari di Chateaubriand e Lamartine o di tutti gli altri aristocratici di Francia e dell’universo, letterati e non letterati. Aveva nel sangue ribollente il microbo del dominio, della signoria. Perciò dai suoi contemporanei Balzac avrebbe voluto essere considerato almeno alla pari di un gran principe, del principe di Metternich, per esempio, di cui era stato successore in amore tra le braccia della duchessa d’Abrantès.

  Tentò di percorrere anche la via della fortuna politica, ma la società in cui egli viveva, Parigi, irrise quella sua velleità: lo giudicava fanfarone, imbroglione, donnaiolo della peggiore specie, villanone, villanone di Turenna, pazzo. E, invece, egli aveva bisogno di sentire attorno a sé il mondo riverente e riconoscente per i doni che gli aveva fatto e continuava a fargli. Centocinquanta libri. «Ecco qua le Illusioni perdute. Prendetevi Pére (sic) Goriot. Prendetevi Eugenia Grandet. Non vi bastano. Ecco il Cugino Pons, la Cugina Betta, il Curato di Tours, Louis Lambert».

  Egocentrico e perciò ambizioso, prepotente, ma anche generoso; violento ma anche gentile. Era di una loquacità torrenziale e aggressiva, nei salotti, negli incontri con i suoi colleghi (due soli amici: Gautier e Hugo) negli incontri dopo le lunghe ore del suo lavoro silenzioso; parlava sempre lui e quasi sempre di sè e finiva con l’urtare gli astanti e con lo schiacciarli sotto il peso della sua individualità fiammeggiante, mordente, reazionaria e insieme rivoluzionatrice.

  Aveva ereditato dal padre l’istinto dell’affare, ed era portentoso nel concepire traffici e speculazioni. Sosteneva che «le cose grandiose, in affari, sono le meno costose». Ma restava di continuo impigliato nelle reti della realtà dei furbi rasentando spesso i pericoli della bancarotta: dovette lottare e transigere sempre, nuotare a gran fatica tra le onde di debiti: pagava e rinnovava e firmava, sguisciava e fuggiva e tornava, passava da una dimora all’altra per evitare le trappole (lavorava di notte, cioè quando i creditori dormivano). Sempre ricco e sempre povero.

  E, in fondo, era un uomo, come tutti gli altri, bisognoso di affetti. Non aveva avuto alcuna tenerezza dalla madre. «Sono invecchiato di dolore. Nulla vi può dare un’idea della mia vita sino ai ventidue anni» aveva scritto nel 1828 alla duchessa d’Abrantès e cioè a ventinove anni. La sua prima amante gli fu dolcissimamente materna, per lunghi anni, la de Berny, bella, prodiga, perspicace, paziente (la signora Mortsauf del Giglio nella valle). E lui la chiamò sempre la «Dilecta» anche quando aveva già lasciato tra i suoi ricordi migliori quella sua intensa e squisita amicizia amorosa, preso da nuovi e più abbaglianti miraggi. Da altre donne intelligenti egli ebbe amore e aiuti spirituali e materiali: dalla d’Abrantès che lo presentò nel salotto, autorevolissimo, di Madame Récamier, da Zulma Carraud non bella ma luminosa di bontà e la cui casa fu il rifugio di Balzac quando egli era braccato dai creditori. «Un quarto d’ora trascorso accanto a voi la sera vale più di tutte le felicità di una notte ...» egli le scrisse in un giorno tristissimo. La contessa Visconti-Guidoboni lo salvò più volte, più volte lo ospitò anch’essa nella sua casa e attraverso il marito fece sì che egli potesse viaggiare l’Italia. La duchessa de Castries, al contrario, lo fece soffrire. Non gli concedette nulla di più della sua amicizia. Ma anche quando soffriva, Balzac sentiva di vivere potentemente. «Le mie migliori ispirazioni risplendettero sempre nelle ore dell’estrema angoscia».

 

*

 

  Così scrivendo di sè, restava, appunto, in sostanza, ancora, e con spavalderia, vittorioso sulla vita: non aveva, in realtà ancora sentito la vera angoscia estrema. La sentì al suo ritorno dalla Russia, dopo le nozze celebrate a Berdiscev, con la vedova Hanska, dopo il lungo viaggio disastroso verso Parigi: la sentì quando bussò ripetutamente, disperatamente, invano, alla porta della casa, che doveva essere il suo palazzo della felicità, e che egli, appena arrivato, voleva subito offrire, con gesto di principe, alla nobildonna sua consorte. Riluceva in ogni finestra la maestosa casa, nella notte di primavera, ma era chiusa e il custode, il servo François, non apriva. «Apri, François! ... Dove sei? ... François! ... Apri! ...». Eva io guardava sorpresa ma non troppo. «Bilboquet, non ti agitare ... Stai già tanto male ...». Lo chiamava scherzosamente Bilboquet ... Sentiva di essere soltanto pietosa verso di lui ... Ma allora? Tutte quelle luci? Dovette Balzac, malato, sfinito com’era, camminare, trascinarsi, cercare un fabbro, far forzare la porta. Quando la porta fu spalancata, apparve sul più alto gradino della scala, in uno sfolgorìo di marmi, di statue, di ornamenti floreali, diritto, stravolto, solenne, François. Sullo sfondo, il busto grandioso di Balzac scolpito da David.

  — François! ...

  Il servo dapprima non rispose. Poi quando vide Balzac avanzarsi, urlò:

  — No! No! ... Fermati! Chi sei? Che vuoi tu qui? Di dove vieni? Così disfatto! ... Così miserabile! ... Servo! ... Via di qui!

  Qui stanotte io attendo Sua Maestà.

  — François ... Ma ... sono io Sua Maestà ...

   Tu?! ... Ah! Ah! ... Ah! ... Tu?! ... Tu sei un povero servo! ... Un miserabile servo come me! ... Illuso ... Via! ...

  François era impazzito. Era stato lasciato solo nel «Palazzo della felicità». Balzac, per il timore che le cose in casa durante la sua assenza non procedessero a dovere, aveva scritto dalla Russia alla madre: «Spaventa i servi».

  Impazzito, dunque, Francois. Ma a Balzac parve, all’improvviso, di vedere attorno a sè una rivolta, la rivolta di una folla con alla testa, François. Ancora più terribile, poco dopo: gli parve di riconoscere tra i rivoltosi, i suoi personaggi, i duemila personaggi della incompiuta Commedia umana. (Stefano Zweig accuratamente li contò nello scrivere la sua lucida e appassionata biografia di Balzac). Ma perché quella rivolta? Il perché lo sapeva solo François. Certo tornava, Balzac, quella notte, non solo dalla Russia ma da tutta la sua vita. «Alt. Non si va più oltre». Credeva di essere arrivato, finalmente, nella sua reggia. Era arrivato, invece, in una dimora fredda, piena di sfarzi inutili; e un odor di fiori che sapeva di cerimonia funebre. Forse chi sa, quel François che era stato il più fedele dei suoi servi, era impazzito per il dolore di non aver potuto avvertire in tempo il padrone, del destino che lo aspettava. «Sciagurato. Hai interrotto — pareva dicesse quando lo portarono via dal palazzo — la creazione della tua opera. Dovevi continuare. Dovevi continuare a non essere schiavo».

  In quel palazzo Balzac si coricò infermo e non visse se non i pochi mesi che precedettero la morte.

  L’Accademia di Francia che non lo aveva voluto eleggere fra i suoi «immortali», non partecipò alle esequie. Ma attorno alla bara, sotto la pioggia, fu veduto con Victor Hugo e Alessandro Dumas, anche Saint-Beuve (sic) che era stato nemico irriducibile di Balzac. Al cimitero del Père Lachaise Victor Hugo pronunziò un discorso. Parlò di Balzac come di un dio. «Più opere che giorni la sua vita breve. Ma questa non è la fine. E’ il principio. Non è il nulla. E’ l’eternità».

 

 

  Carlo Pellegrini, Balzac, «Rivista di Letterature Moderne», Anno I, N. 2, ottobre 1950, p. 167.

 

 

  Leo Pestelli, Il forzato della penna, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VI, Num. 223, 20 Settembre 1950, p. 3.

 

  Stefano Zweig ha colto e reso il motivo che dannò la vita di Balzac; il lavoro non fine a se stesso, ma moneta per comperare errori e pazzie.

 

  Il Balzac cui Stefan Zweig, esule e prossimo ormai al volontario congedo dalla vita, lasciò di dare l'ultima mano, grazie all’affettuosa solerzia di Richard Friedenthal che ne ha curato la stesura e di Lavinia Mazzucchetti che lo ha egregiamente tradotto in Italiano (Mondadori-Quaderni della Medusa), non ha mancato l’appuntamento col centenario balzacchiano; che non sarebbe poi stato quel gran male che s’immaginano i maniaci delle ricorrenze. Il libro infatti, se serve all’occasione, non è un lavoro d’occasione, ma il frutto, germinato da un saggio giovanile, d’una cotta per Balzac che prese più di trent’anni della vita di Zweig e gli suggerì il disegno di un grande dittico, «pingue come Sancio Panza», su La Vita e L’Opera di Onorato; se non che poi, come succede, l’una parte stinse nell’altra; biografo nato, egli prese su, in una volta, l’uomo e il romanziere; ed è fondata congettura degli amici di lui, che col presente saggio egli dovesse aver dato fondo all’argomento.

  Il difetto di lima (che non è mai stato l'arnese preferito dal fecondo scrittore austriaco) è compensato da un calore e da una profusione che s’accordano col soggetto: con tutta la pacatezza che mostra in principio, la biografia presto si arroventa e fuma; e se non la più fine e lucida, riesce, nel tono, la più balzacchiana. Ribollono insieme storia, ritratto, aneddoto, citazione; e chi di Balzac non sapesse niente, imparerebbe tutto: l’ingenuo snobismo, le disastrose velleità pratiche, il debole per le donne avanzate, saccenti e facoltose, il gusto per le calie (la sua bric-à-bracologia), e la tenacia contadina e l’eroica fatica del forzato della penna; Balzac in frac e con la mazza, dameggiami e un tantin cafone, e Balzac in tonaca e cingolo, scavante alla lunga col braccio la scrivania di ciliegio; gli spasimi di gloria, gli amori, i nubifragi finanziari le famose bozze cincischiate, e fino il numero preciso delle chicchere di caffè (50.000, secondo il paziente computo d’un piccolo balzaccòmane) da cui usci La comédie humaine.

  Morto da cent’anni, Balzac non ha ancora chiuso la sua partita coi critici, alcuni dei quali hanno aspettato il centenario per metterne in bucato l’opera e farne rifiorire le macchie. Nella storia della sua fortuna, che ritenendo qualcosa di lui, è sempre andata e ancora va per eccessi (senz’uscire d’Italia, vedete gli opposti giudizi di Guido Piovene e di Pietro Paolo Trompeo), il presente libro occupa una prudente posizione di centro. Zweig ammira sì il suo Balzac, ma non perde la testa; afferma col Gautier ch’egli non possedeva il dono letterario, e che «la sua vera genialità consisteva nella volontà, e si può chiamare caso o destino che tale volontà si sia scaricata appunto nella sostanza della letteratura».

  Per lui, come per molti Balzac è un torrente che sempre trascina seco un poco della melma da cui scaturì, e si riferisce ai suoi esordi quando il giovane Onorato, per uscire dall’uggiosa cerchia famigliare, volle e si mise a fare lo scrittore per dispetto e per forza. E’ il capitolo più interessante e meno conosciuto del romanzo della sua vita, e anche quello che il povero Zweig ha potuto mettere meglio a fuoco. La preistoria del Balzac più risaputo, faticante in gloria, perso dietro alle sue duchesse e sospirante le nozze con l’Etrangère, è quella di un trageda bocciato in famiglia (Cromwell) e di un nègre, cioè facitore per commissione di romanzacci anonimi sul gusto di quelli della Radcliffe. Sepolto nella gelida spelonca di rue Lesdiguières come Geppetto nel ventre del pescecane, egli praticò troppo a lungo ogni genere di boiata, perché, a detta dei suoi stessi devoti, non gli dovesse rimanere attaccata per sempre una certa disposizione ad arrotondire ed esagerare gli effetti; e in generale quella pericolosa facilità a saltare gli ostacoli che distingue gli scrittori rimasti di qua dallo stile.

  «... Balzac in quegli anni di vergogna ha perpetrato ogni porcheria letteraria, ha rattoppato romanzi altrui con brandelli dei propri, ha d’altra parte rubato senza scrupoli favole e situazioni da libracci altrui per i suoi centoni; al pari d’un sartorello ha accettato ogni raccomodo con pronta impudenza, ha stirato opere non sue, le ha rivoltate, allargate, ritinte, messe a nuovo ... Rimane uno tra i più irrepetibili miracoli della letteratura il fatto che un tal genio abbia potuto trarsi fuori ancor salvo da simile palude: bisogna pensare alla fanfaronata del barone di Munchausen, quando dice d’essersi sollevato dal pantano, afferrandosi da sè, per il ciuffo ...».

  Il miracolo avviene con Les Chouans, che apre la grande stagione balzacchiana. L’umore prende a circolare, e all’imbrattacarte senza ispirazione, disposto a vender l’anima per un argomento, succede per gradi il creatore della Comédie humaine, lo scrittore alle cui mani «tutto è argomento», i personaggi si caricano come pistole, e il minimo fatterello (la zolletta di zucchero che la signorina Grandet mette nel caffè del cugino) prende un flato epico. In pochi anni la fantasia di Balzac brucia un immenso materiale, da bastare a tre generazioni di imitatori. Pure non può mai fermarsi, e anche nella gloria raggiunta, lo senti trascinare la catena.

  Zweig ha colto e reso bene il motivo che dannò la vita di Balzac; il lavoro non fine a se stesso, ma moneta per comperare errori e pazzie, e mezzo per raggiungere l’agognato benessere; lo scrivere per non dover più scrivere, la fuga dal mondo per rientrare nel mondo. Questo ne fece un lavoratore notturno, e più accanito che regolare. Dei picchi che batteva nella vita pratica, doveva rifarsi a tavolino, e disperdeva in brevi baldorie il frutto di solenni sfaticate. Quando la vena già gli s’era cominciata a isterilire il miraggio del benessere prese le amate sembianze di Eva Hanska, rimasta finalmente vedova. Ma allorché, dopo un lungo nicchiare, la polacca acconsentì al matrimonio, Balzac aveva già un piede nella fossa. La sua fine fu triste e squallidi i suoi funerali, con quella pioggia, quel seguito accademico, quell’orazione di Victor Hugo coll’acuto in fondo: «Bare come queste sono una prova dell'immortalità!».

  Finché è stato di moda giudicare Balzac un grande verista, ha avuto corso l’aneddoto che in punto di morte egli invocasse Bianchon, il medico della Comédie humaine. Se non questo, dove siano andati a ficcarsi o a finire altri noti personaggi dell’opera, è dato sapere leggendo La femme auteur (Grasset), una raccolta di frammenti inediti di Balzac, ricavata dalla collezione di autografi del visconte De Lovenjoul e presentata da Maurice Bardèche con prefazione che ritrova gli addentellati dell’opera compiuta con quella sbozzata o appena segnata da una vaga indicazione. Giacché il fertilissimo Balzac non portò a compimento che una parte del molto che gli bolliva dentro, e questi che si leggono, i meno rattrappiti dei suoi abbozzi, sono i fossili di un mondo morto, oggetto di venerazione per i geologi balzacchiani.

 

 

  M.[ario] P.[icchi], Balzac sempre vivo, «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze », Roma, Anno V, Numero 34, 3 settembre 1950, p. 4; 2 ill. [Balzac, di André Derain; Balzac, di Alberto Giacometti].

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 554.

 

Noi siamo mutati.

 

  Vien fatto di chiedersi, osservando lo svolgerai dell’«année Balzac», quali siano le ragioni che — a parte le celebrazioni dovute al centenario — hanno condotto a una riscoperta di Balzac, e ad un apprezzamento della sua opera, vero, profondo, ricco di consensi da ogni parte.

  La commemorazione del centenario è stata certamente una grande spinta; spesso da queste celebrazioni la figura di uno scrittore ne esce trasformata, rinnovata. La comprensione completa è un’opera quanto mai lenta e quasi infinita; tuttavia, con l’infittirsi dei contributi degli studiosi, essa viene avvicinata sempre più. Vien da chiedersi, nondimeno, se un centenario di Flaubert, che, poniamo, cadesse ora, toglierebbe in qualche modo il grande «naturalista» dall’oblio in cui la nostra epoca lo ha quasi disdegnosamente gettato. E quanti vi sono, grandi e importanti scrittori, trascurati se non ignorati dal pubblico? Non si può dire, pertanto, nel caso di Balzac, che l’ammirazione che la sua opera impone, la pienezza del mondo da lui creato, ecc., siano motivi sufficienti per indurre alla lettura, allo studio della «Comédie Humaine» quest’oceano deliziosamente profondo. Vi sono senza dubbio motivi più importanti di necessità più che di semplice simpatia.

  La grandezza di uno scrittore non si può mai esattamente misurare, così come non è mai giustificata. La critica, imparziale quanto sia possibile esserlo, può assegnare, infatti, un. posto più o meno alto nella scala della grandezza indipendentemente da qualsiasi favore di pubblico (e non voglio dire il grosso pubblico, ma il più raffinato ed esigente). Ma quel che determina la popolarità di uno scrittore è soltanto l’affinità che la sua opera, o una parte di questa, ha con l’epoca che lo legge. La straordinaria «modernità» di certuni è soltanto questo.

  Vediamo ora qual è la differenza tra i romanzi della nostra epoca e quelli di Balzac, e forse questo discorso acquisterà un significato. La tecnica si è evoluta, ma non profondamente: si tratta piuttosto di particolari, di sottigliezze, di mutamenti di poca importanza, dovuti ad apporti esterni, come, ad esempio, il cinema; la sua struttura essenziale è rimasta invariata. La sostanza del romanzo, invece, è cambiata (son cose ovvie e risapute, ma è bene fissarle, sia pure schematicamente, per chiarezza). Il romanzo del nostro tempo, passato attraverso Proust e Kafka, ha spostato il suo oggetto all’interno dell’individuo, alla sua disperata solitudine, alla sua solitaria disperazione, alle sue crisi particolari, particolarissime. Dove sono, oggi, personaggi che rassomigliano in qualche modo ai Vautrin, agli Hulot, ai Grandet, ai Goriot, ai Lucien de Rubempré, alle infinite «serie» di uomini e donne eccezionali che popolano la «Comédie Humaine»?

  In cent’anni abbiamo percorso molta strada, in bene o in male. Siamo cambiati. E non c’è da stupirsi se ricerchiamo i libri di Balzac, se ci interessiamo della sua vita, della sua opera titanica: egli è un uomo che dà fiducia, la «Comédie Humaine» un’opera che fa sperare. Ciò che ce lo fa sentir vicino è tutto il lato enormemente fantastico, visionario, fantasticamente reale, della sua opera; ciò che ci fa aver bisogno di lui è la sua prodigiosa vitalità, la sua forza immensa, la sua fiducia nell’uomo nonostante tutto. Amare Balzac vuol dire amare la vita.

 

Balzac contro il giornalismo.

 

  «La Gazette des Lettres» del 28 maggio è completamente dedicata a Balzac. Maurice Nadeau in «Balzac contre le journalisme», fa la storia dei rapporti che lo scrittore ebbe col giornalismo, da lui definito «le grand bagne»; ogni volta che nella sua opera parla della stampa, lo fa con un misto di ammirazione e d’orrore. A quell’epoca c’era un modo di considerare l’artista, il creatore, come un dio e al tempo stesso un martire perseguitato dalla società, della quale non cerca mai di procurarsi il favore con adulazioni o basse manovre. Invece il giornalista, «embusqué derrière les colonnes ou tapi dans les souterrains du journal», maligna, calunnia, tradisce, assassina.

 

Viva Balzac!

 

  In una vasta inchiesta, Jean Michel Bernardin ha chiesto a molti scrittori e letterati: «Per voi, nel 1949, Balzac è morto o vivo?»; François Mauriac ha detto; «sì è sempre vivo; noi non riusciamo a sfuggire al reale, mentre questo, per Balzac, si estende fino all’invisibile»; Henry de Montherlant: «Balzac è un, romanziere importante». Marcel Jonhandeau: «No, Balzac non è più vivo; se lo fosse non si getteremmo con tanto slancio su qualsiasi produzione letteraria. Dovrebbe bastare solo alla nostra fame», Roger Peyrefitte: «E’ vivo, e lo sarà fin tanto che vivrà una letteratura e degli uomini»; Guido Piovene: «E’ vivo ... L’amore verso Balzac è un segno di maturità. Ci sono delle ragioni istintive per amarlo ... Io aderisco a lui completamente. E’ vero che nei nostri scritti, qualche volta siamo con Balzac, e qualche volta centro: ma quando siamo contro Balzac, ha ragione lui. Perché noi siamo il passato, e lui l’avvenire». André Roussin: «Ogni volta che rileggo o scopro uno dei suoi romanzi, o novelle, mi rendo conto che, dopo lui, non c’è più stato un grande romanziere; gli altri, anche Proust, sono soltanto dagli “specialisti”». Claude Mauriac: «Non risponderò perché l’ho già scritto in un libro, perché il mio Aimer Balzac, non sarà mai finito ... Il vero miracolo di Balzac è che mi sorprende sempre di nuovo ...». Hervé Bazin: «La vestaglia di Balzac non s’è consumata. Malgrado alcuni pretesi uomini di buona volontà, la commedia umana continua». Roger Nimier: «Grazie a Dio, le date si confonderanno. Fra poco Balzac sarà il più gran romanziere del XX secolo». Maurice Druon: «Balzac ha un posto ben preciso: è immortale. Ha il privilegio del genio: sta, con la sua opera, sui vivi d’oggi, e sugli anonimi morti sparti nell’humus dei secoli». René Fallet: «Nè morto nè vivo. Ho constatato con noia che tante e tante cose sono invecchiate in Balzac, da non poter affermare con sicurezza che egli è ancora vivo. Il mondo di Balzac si sta impolverando. Me dire che è morto è ridicolo ...» In tutti i modi Balzac è vivo, viva Balzac! Balzac è morto, viva Balzac!».

 

Saint-Honoré con crema.

 

  Alcuni insegnanti francesi hanno assegnato ai loro alunni il seguente tema, con cinque minuti di tempo per rispondere: «Il nome di Balzac, che cosa vi suggerisce, quando lo sentite pronunciare?». Ed ecco quel che hanno risposto alcuni allievi d’un liceo parigino. Jean D. ... considera Balzac, attraverso il francobollo emesso dalle poste. Gilbert R. ... (15 anni) pensa a uno buon dolce (Saint-Honoré) con della buona crema; e Jean D. (16 anni) Droghiere all’ingrosso; e André B. (15 anni e mezzo): Fisionomia grottesca ... Barba. E. B. (17 anni): Fu nei boschi, alla ricerca di idee da tradurre in versi; è un buon padre di famiglia che ama molto i bambini. Albert S. (17 anni), scrive del nome di Balzac, che sa di rinchiuso. E precisa: Ci si deve sentir chiusi, con nome come quello! Ho detto ora che quel nome sapeva di rinchiuso. Mi viene a mente un salotto di stile vittoriano, con delle poltrone di velluto. Tutto odora di naftalina. E’ un nome discreto, è passato di moda, che ha il sapore del buon vecchio «tenore francese» con lo sciovinismo che c’è dietro.

 

Romanzesco, drammatico esteriore.

 

  Nello stesso numero, un equilibrato articolo di Gaëtan Picon «Balzac e l’arte del romanzo» illumina con frasi precise alcune caratteristiche del modo e del mondo dell’autore del “Commedia Umana”. «Quel che prendiamo per realismo balzacchiano, è solo lo spessore del suo universo visionario: non esiste un realismo balzacchiano. La descrizione realista distacca e mette in evidenza, fissa i limiti d’un quadro; i famosi “inventari” di Balzac formano, uno spessore insondabile nel quale ben presto l’occhio si perde. Non c’è un romanzo di Balzac che rimanga nella memoria con la precisione di Madame Bovary o di Anna Karenina. Ma dell’universo balzacchiano, ci ricordiamo, meglio che dell’universo di qualsiasi altro romanziere. Al tempo stesso che una trasformazione del racconto, il romanzo di Balzac appare come una liberazione del romanzesco, se per romanzesco s’intende drammatico esteriore».

 

Balzac e la gloria.

 

  Anche il «Courrier de l’Unesco» s’è ripetutamente occupato del centenario di Balzac. Recentemente, Marcel Bouteron ha trattato l’argomento di «Balzac e la gloria», che il ciclopico autore della «Comédie humaine» ha amato e ricercato con passione, con prodigi di volontà, logorando la sua vita. A trentasette anni scriveva così a Madame Hanska: «Che vita! La gloria, quando l’avrò, se l’avrò, non potrà compensare tutte le mie privazioni e tutte le mie sofferenze».

  Il suo più grande e perfido nemico, Sainte-Beuve, che Balzac stesso paragonò a una lumaca, per il suo stile viscido, scrisse nel suo Lundi del 2 settembre 1850, quindici giorni dopo la morte di Balzac: «Per quanto il successo di Balzac in Russia sia stato rapido e completo, forse è stato più grande in Europa. I particolari che si potrebbero riportare sembreranno favolosi, eppure son veri ... c’è stato un momento a Venezia, che la società di lì pensò di prendere il nome dei suoi principali personaggi, interpretandone i caratteri ... E, come a Venezia, ciò accadde, in modi diversi, in diversi luoghi ... In Ungheria, in Polonia, in Russia, i romanzi di Balzac dettavano legge ... Si copiava con fedeltà quel che a noi sembrava il sogno d’un artista milionario; si ammobiliava “alla Balzac”. Poteva l’artista restare insensibile e sordo a questi mille richiami della celebrità, e non sentire l’appello della gloria?». E gli esempi di Sainte-Beuve si potrebbero moltiplicare.

  L’ambizione di Balzac, tuttavia era ben proporzionata, anzi superiore, alla gloria che gli toccò: voleva conquistare nel campo delle lettere una gloria uguale a quella di Napoleone nel campo delle armi. Su una statuetta dell’Imperatore che stava sul suo tavolo di lavoro, egli aveva incollato un cartellino che diceva: «Quel che egli non ha potuto fare con la spada, lo farò con la penna». L’esempio da imitare che egli s’era posto davanti era illustre; però la sua convinzione e il suo proponimento erano forti: in una lettera a Madame Hanska, del 6 febbraio 1844, così scriveva: «Quattro uomini hanno avuto una vita immensa: Napoleone, Cuvier, O’ Connel (sic), e io voglio essere il quarto. Il primo è vissuto del sangue dell’Europa, si è iniettato intere armate. Il secondo ha esaurito il mondo. Il terzo ha incarnato un popolo. Io avrò portato un’intera società nella testa».

  Durante i suoi funerali, il 21 agosto 1850, Victor Hugo, che seguiva il corteo funebre a fianco del ministro Baroche, a questi che gli disse: «Era un uomo di merito», rispose indignato: «Era un genio!». E lo stesso Hugo, che pronunciò l’orazione funebre, disse; «Balzac era uno dei primi tra i più grandi, uno dei più grandi tra i migliori ... Tutti i suoi libri ne formano uno, vivo, luminoso, profondo, dove si vede andare e venire camminare e muoversi — con un non so che di strano e terribile misto al reale — tutta la nostra civiltà contemporanea; libro meraviglioso che il poeta ha intitolato Commedia, e che avrebbe potuto chiamare Storia, che ha tutte le forme e tutti gli stili.

 

 

  Guido Piovene, Il profeta di Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 49, 26 febbraio 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 557.

 

  Balzac, per i balzachiani, è Dio e Marcel Bouteron è il suo profeta. Chi è il vero padrone di casa, in questo appartamento ricavato dall’ultimo piano dell’Institute (sic) de France, Marcel Bouteron, che mi parla seduto alla scrivania, o Balzac la cui effigie mi guarda dalla parete? E perché sono qui, parlando di presso una finestra bassa che guarda la Senna? Non sono domande retoriche perché la risposta ci aiuta a fare qual che osservazione.

  La prima ragione della mia visita è certamente il piacere di conoscere Bouteron. Ma vi è anche una ragione più pratica più immediata. Ricorre quest’anno il centenario della morte di Balzac: la sorte vuole che io debba contribuire a mettere insieme un volume di saggi su Balzac, opera di scrittori di ogni Paese. Si tratta di scrittori artisti, per lo più romanzieri. Ma gli editori parigini ai quali è stato proposto il volume hanno risposto tutti: «Niente senza Bouteron, niente senza qualche pagina, la firma, l’avallo di Bouteron. Pubblicare un volume su Balzac senza il suo concorso, non solo ne diminuirebbe il credito, ma sarebbe una gaffe, un’azione villana». Membro dell’Institute de France, conservatore del Museo di Chantilly, Bouteron è il pontefice della chiesa balzachiana, l’uomo che sa tutto intorno a Balzac, colui che si consulta d’obbligo e sempre con utilità. Il critico Albert Béguin, autore di Balzac visionnaire, progettò, per esempio, una nuova grande edizione dell’opera di Balzac. E’ un problema difficile, almeno volendo tentare qualcosa di nuovo e migliore. Si sa che Balzac compilò la Comédie Humaine senza seguire il piano che si era proposto, scrivendo prima libri che avrebbero dovuto essere collocati dopo nell’economia dell’insieme. Gli sforzi di dare un ordine alla Comédie Humaine e di stamparla come un tutto unitario hanno sempre avuto perciò un esito imperfetto, press’a poco come gli sforzi per dare un ordine ai Pensieri di Pascal. Bisogna attenersi al piano di Balzac stesso, che non è soddisfacente e che Balzac mutò più volte. Béguin, dovendo iniziare l’impresa, si recò al confessionale di Marcel Bouteron e ne ebbe questo consiglio: Balzac nutrì ambizione di storico. Si propose di scrivere la storia della vita contemporanea quale poteva risultare dall’osservazione concreta di individui di tutti i ceti e di tutti i mestieri. Perché non lasciare dunque la suddivisione finora usata della sua opera, con distinzioni artificiose di argomenti e di luoghi (per esempio romanzi di vita parigina e di vita provinciale) per ordinarla invece secondo la cronologia dei fatti e dei personaggi rappresentati? Questo, naturalmente, trascurando del tutto la data in cui Balzac scrisse i vari romanzi. Nonostante qualche lacuna e qualche sovrapposizione, si avrebbe così una storia concreta, coerente e continua di quasi mezzo secolo di vita francese, almeno quale essa apparve nella fantasia di Balzac. Questo è il criterio dominante nell’edizione che si sta preparando, ed a cui lavoreranno diecine di scrittori francesi e stranieri.

  Che per pubblicare in Francia un libro su Balzac fosse necessario parlare di Marcel Bouteron, ottenere da lui almeno una paginetta, un pensiero, lo sapevamo prima che ce lo dicessero gli editori francesi. Ma Bouteron è un uomo anziano, malato, che non può lasciare il suo studio se non qualche rara volta, per fare il giro del palazzo e andare alle riunioni dell’Institute. Scrive ormai poco, con fatica: e per non esser costretto a consentire, evita il più possibile di ricevere chi vuol chiedere uno scritto. Per ciò non persi tempo, appena ebbi un appuntamento con lui, e mi recai all’Institute de France: non dalla parte della grande e solenne facciata, che contempla la Senna verso Notre-Dame, ma dalla parte della piccola Rue de la Seine. E’ una di quelle viuzze nere, dell’antica Parigi, della Parigi dei chierici, che a primavera si illuminano del verde chiaro degli alberi, ma il giorno nel quale vi andai, buia sotto il cielo piovoso. Da qui salii una scala, entrai in un appartamento, e mi ritrovai d’un tratto nell’atmosfera del romanzo di Anatole France che preferisco, Le crime de Silvestre Bonnard.

  Ricordo una scena di questo romanzo, il cui protagonista è un vecchio erudito: la direttrice di un collegio, che l’aveva trattato senza dargli troppa importanza, si profonde in sorrisi trepidanti e devoti appena sa di trovarsi di fronte ad un Membre dell’Institute. Ancora oggi, una caratteristica della vita francese è l’importanza che vi prende il puro erudito, il chierico in senso stretto. La figura dell’erudito è stata da noi screditata dalla critica idealistica: raro è per ciò quando trovate un erudito puro, che sia anche un uomo aperto e vivo. Ma nella cultura francese, il cui fondo in complesso rimane positivista, l’erudito conserva una parte centrale e non per nulla in contrasto col critico e con lo storico di più ampio respiro. Non c’è perciò niente di strano se gli editori chiedono come premessa ad un libro di romanzieri su uno dei romanzieri principi dell’Ottocento, lo scritto del principale tra gli eruditi balzachiani.

  La figura dell’erudito si accomuna in Francia ad un’altra figura che, in fondo, le somiglia, quella del burocrate, specialmente statale: la grande famiglia che in Francia è coperta dal nome generico «administration». Da noi il vero burocrate è raro e non trova l’ambiente adatto. Un rapporto d’ufficio, per noi, va sempre bene, non perché siamo tentati a ritenerlo cosa inutile, un pezzo di carta. La burocrazia americana e, a quanto dicono, la russa sono macchinose e immense. La Francia è l’unico Paese in cui persiste una burocrazia, per così dire, umana e classica, che sa di famiglia privata e si prende sul serio. Un Francese di buona razza si muove tra i rapporti come un pesce nell’acqua. Solo vivendo con i Francesi ho appreso quanto si possa parlare e discutere su uno di quei documenti, per me completamente sordi, e come vi possa pesare il volto di ogni frase e di ogni parola. La forma mentale di quegli «amministratori» non è molto diversa da quella di chi stabilisce la giusta lezione di un manoscritto antico, cura un’edizione critica, compone una bibliografia. Soltanto, il genio amministrativo francese è portato a considerare quei documenti come pezzi di prosa viva. L’«administration» è un aspetto, uno dei principali, della civiltà francese; civiltà della burocrazia umanizzata, dei burocrati intelligenti.

  Una parte notevole della vita francese si sviluppa in questa atmosfera amministrativo-erudita. Un certo numero di alti funzionari statali proviene in Francia dall’insegnamento: le due passioni si congiungono: e si spiega quell’arte di erudizione letteraria che circola negli ambienti politici e burocratici francesi. Un’impressione giusta della vita francese non si ha senza aver sentito il gioco sottile di rapporti che corre tra i Ministeri, l’Accademia, la Biblioteca nazionale, l’Istituto di Francia. Mentre parlo con Bouteron, siamo interrotti da una telefonata. E’ il direttore della Biblioteca nazionale, Julien Cain, che chiede notizie della sua salute. Ma il direttore della Biblioteca nazionale di oggi è stato anche segretario generale del Ministero degli Esteri, quando il posto fu reso vacante da Giraudoux. E’ un uomo intelligentissimo, a cavallo fra letteratura e politica, fra erudizione e burocrazia. Poco si fa a Parigi, nel campo della cultura, senza chiedere il suo parere. Questi fatti dimostrano quante riserve, ripostigli, punti di forza, autorità non esposte allo sguardo abbia ancora oggi la Francia. Vita senza improvvisazioni, fatta di accumulazioni lente, simile ad un immenso artiglio.

  Persino la vita mondana risente in Francia di questa mentalità. Il conservatore mondano in Francia, in fondo, è una persona di mentalità erudita, con una enorme collezione di notizie, di fatterelli, di aneddoti piacevoli da ascoltare, e con in più il talento di classificarli. La sua qualità è la memoria: è uno schedario dalle diecimila filze, tutte brillanti.

  Se non sapessi che Marcel Bouteron è malato, certo non lo scoprirei vedendolo. Nessuno direbbe malato quest’uomo piccolo, magro, vivace, dai baffetti grigi che parla con entusiasmo di un suo antico viaggio a Roma, degli spaghetti di una pensione romana e di un soggiorno di studio a Grenoble, in compagnia di uno studioso italiano, Foscolo Benedetto. Tutti gli studiosi italiani di letteratura francese, di generazione anziana, da Foscolo Benedetto a Trompeo, gli son ben noti e presenti. E parlando con lui in questo centenario della morte di Balzac capisco che cosa significhi essere balzachiani o meglio appartenere alla chiesa balzachiana. Significa essere entrati in un sortilegio.

  E’ un sortilegio comprensibile. Fra gli scrittori di ogni tempo Balzac è forse quello che ha creato un maggior numero di personaggi: fra principali e secondari, migliaia. Tolti gli operai e i bambini egli non ha poi lasciato scoperto nessun angolo della società, cosicché lo si vede dovunque si ponga lo sguardo. Egli ha creato intorno a noi una società immaginaria ma pressoché completa. E ogni suo personaggio, essendo posto in un ambiente storico circostanziato, si riallaccia a un enorme numero di altri personaggi che esistettero veramente.

  Si aggiunga poi che nella vita. e specialmente in Francia, il richiamo di Balzac è continuo, insistente. «E’ un personaggio balzachiano»: un luogo comune che viene alle labbra di fronte a un numero sterminato di conoscenti. Anche chi conosce Balzac per una lettura affrettata, a ogni passo, a Parigi e in provincia, è costretto a identificare un personaggio di Balzac nell’uomo o nella donna che incontra. Non solo gli uomini, direi, ma gli animali. Persino gli animali con le loro espressioni ci ricordano spesso un personaggio della Comédie Humaine.

  Si forma così il miscuglio di fantasia e di realtà, il sortilegio. Un balzachiano come Marcel Bouteron è un uomo che ha sostituito la società nella quale viviamo con la società dei romanzi della Comédie Humaine. In quella società vivono le sue conoscenze; quei personaggi egli ama e odia: essi sono l’oggetto delle sue conversazioni, dei suoi giudizi, dei suoi scherzi. Come persone vere, tutti hanno un mistero, si prestano a un numero indefinito di scopi. E noi contemporanei, in fondo, viviamo solo in quanto assomigliamo a un personaggio di quella società immaginaria.

  Bouteron stesso mi spiega il sortilegio di Balzac.

  «Lo sa — mi dice — che a metà del secolo scorso nella società veneziana un gioco in voga fu quello di distribuirsi le parti dei romanzi di Balzac? Ciascuno prendeva il nome di uno di quei personaggi e poi cercava di imitarlo vivendo. Vede, non soltanto in Francia. Un erudito americano ancora vivo si è tanto perduto in Balzac che ha finito per prendere il nome di un suo personaggio. Se lo si chiama col suo nome, rifiuta ormai di rispondere. E Paul Bourget ...

  «Quando ero giovane, e ancora agli esordi, andai da Paul Bourget che occupava il mio posto: conservatore al Museo di Chantilly. D’un tratto, mi fermò davanti a un quadro rappresentante re Luigi Filippo. “Che fa?” mi chiese a bruciapelo. “Mi sembra — risposi — che accolga un visitatore ... “Va bene: ma quale visitatore?”. Risposi, umile, che non sapevo. “Ma è tanto chiaro! — disse Bourget inquietandosi —. Accoglie il ...” e nominò un personaggio di Balzac che si reca in udienza da Luigi Filippo. Mi accorsi che Bourget parlava sul serio. “E quella signora a cavallo — disse indicandomi una stampa — chi è quella signora a cavallo?”. Era naturalmente un’eroina di Balzac. Bourget aveva collegato a Balzac ogni oggetto della sua casa. Venga. Vuole vederlo? — mi dice Bouteron. — E’ l’unico ritratto di Balzac veramente autentico».

  Mi conduce in un’altra stanza. E’ un grande ritratto dipinto dal pittore Boulanger per Dumas padre e giunto infine a Marcel Bouteron. Balzac sta eretto, ricoperto di una veste da camera chiusa alla vita da un cordone: una veste da camera bianca che si scambierebbe col saio di un frate. E su quella specie di saio spicca la sua bocca sporgente, il volto grasso di uomo avido di vita.

  Ma fermiamoci alla contemplazione di quel volto. Merita forse un altro articolo lo straordinario fervore di cui oggi gode Balzac, la nuova fortuna della sua opera, la sua nuova influenza sopra la gioventù. Si scopre uno dei segni dell’attuale cambiamento del gusto. Il centenario di Balzac è celebrato da una chiesa trionfante.

 

 

  Guido Piovene, La città dei misteri, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 55, 5 marzo 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 557.

 

  In un precedente articolo, raccontando la visita al papa dei balzachiani, Marcel Bouteron, dicevo che il centenario della morte di Balzac cade in un momento propizio. Sembra vano parlare della maggiore o minore fortuna d’uno scrittore di gloria grande e ben stabilita come Balzac. Ma anche intorno a queste glorie, anche intorno a Balzac, che fu chiamato con ragione «il massiccio centrale del romanzo europeo», si assiste a movimenti di afflusso e di deflusso, secondo l’umore dei tempi E oggi, intorno a Balzac, si assiste senza dubbio ad un movimento di afflusso.

  A parte la nuova edizione della sua opera intrapresa da Albert Béguin con un nuovo criterio, e che prenderà alcuni anni, con il concorso di scrittori di ogni parte del mondo (Béguin tenta, come ho già detto, di ordinare i romanzi di Balzac secondo la successione storica degli avvenimenti, in modo da ottenere una narrazione seguita di tutto uno squarcio di storia francese), vediamo moltiplicarsi i saggi, le revisioni, i bilanci. Senza contare gli scritti più ampi di vecchi balzachiani come Alain o Mauriac. si leggono innumerevoli giudizi e testimonianze alle inchieste condotte da quasi tutte le riviste, come la Gazette des Lettres e Les Nouvelles Littéraires. E, non potendo entrare in un esame analitico, vorremmo cercare di cogliere quale significato prenda oggi un così vasto tributo di ammirazione.

  Interamente tramontata è la idea di Balzac scrittore «verista». Balzac appare piuttosto un grande allucinato, la cui visione reca il senso della verità, come lo recano appunto i sogni della febbre. Vista con la testa calda e l’avidità di provinciale, Parigi diviene ai suoi occhi la città dei misteri: tutto lo eccita: ogni modo di vivere, ogni essere vivente lo meravigliano e agiscono come una droga sulla sua immaginazione. Tutti diventano, per lui, misteriosi ed eroici: il piccolo commerciante è un Talleyrand; il contadino è un Machiavelli. In ogni persona Balzac scopre passioni prepotenti, appetiti violenti, astuzie tenebrose, malvagità nera o bontà sublime, soprattutto mistero; egli descrive il mondo in uno stato perpetuo di esaltazione.

  Ed ecco uno dei punti che ricorrono con più insistenza nei giudizi di oggi sull’opera di Balzac. E’ un luogo comune che l’opera di Balzac comprende, con i suoi duemila personaggi, gente di ogni condizione e carattere; questo luogo comune deve essere però corretto, e non basta correggerlo con l’osservazione esteriore che Balzac trascurò gli operai e i bambini. In realtà rimase fuori dalla sua opera un’immensa categoria di persone, per lui estranee e incomprensibili: i pigri, i tiepidi, i nevrastenici, gli uomini privi di passioni, gli indifferenti, quelli che si lasciano vivere o che non amano vivere. Insomma tutti quelli che, in un modo o nell’altro, rifiutano di partecipare a quella lotta di energie e di violenze che la vita era per lui. Non v’è nella sua opera nessuno che assomigli a Oblomov: nessuno che non creda all’utilità di combattere, nessuno sfiduciato nel valore della riuscita. In questo senso, nulla di più lontano dell’arte di Balzac da quella di oggi. I personaggi d’oggi sono per lo più inappetenti, coscienti di essere inutili, passivi, senza libertà, succubi di forze estranee. Ma, scorrendo le testimonianze, vedo che proprio questa è una delle ragioni per cui Balzac è ricercato: il suo amore per la vita, il valore che egli dà agli uomini, alle passioni ed al successo. Egli descrive un mondo ancora abbastanza simile al nostro, ma nel quale la lotta dei caratteri, degli interessi, delle cupidigie aggressive crede ancora a se stessa, il culto dell’energia non si è svuotato e non ha ancora assunto l’apparenza monotona d’una necessità o d’un vizio. L’amore per Balzac diviene così un episodio dell’istinto di conservazione, un tentativo di rifiuto al suicidio.

  Questo mi sembra il primo punto: ma ve n’è un altro più importante, per cui Balzac invece si avvicina a noi e ridiventa quasi un modello e un mito per gli scrittori d’oggi. Si sa che la fortuna di Balzac fu subito immensa ma, salvo alcune eccezioni, egli non fu tra i romanzieri che più piacquero ai letterati, nè che ebbero più influenza sugli altri romanzieri. La sua influenza, per esempio, non fu paragonabile a quella d’uno scrittore di grandezza pari alla sua, come Stendhal, e probabilmente inferiore a quella d’uno scrittore che oggi, visto, in prospettiva, appare molto meno grande: Flaubert.

  L’ammirazione degli stessi letterati francesi, in gran parte di formazione classica e aristocratica, per quell’innegabile genio fu quasi sempre tinta di qualche riserva: vi rimaneva più d’una eco della condanna che Sainte-Beuve portò contro Balzac per la sua pretesa mancanza di stile, di misura e di rigore. La gloria di Balzac mise invece sicure e stabili radici in quello che si suole chiamare il gran pubblico, nella gente comune: comprendendo fra questa gli scrittori, anche raffinati come Hofmannstahl (sic), che hanno la forza e la grandezza di diventare semplici davanti ai libri e di provare le emozioni dei lettori comuni. Spesso la fama di Balzac fu rinvigorita in Francia dal riflesso dell’ammirazione dei lettori stranieri.

  Per spiegare la nuova fortuna della quale gode oggi Balzac bisogna anche notare due fatti. Lo amano i comunisti, sebbene scrittore di estrema destra; lo amano come lo amò Marx, perché antiliberale, perché vedeva nel danaro il principale movente delle azioni umane, perché la sua visione della società fu classista e perché rappresentava la società borghese in una feroce lotta di antagonismi senza scrupoli. Gli Stati Uniti poi sono il popolo nel quale Balzac ha cultori più costanti e fanatici, e in cui la chiesa balzachiana ha più numerose cappelle. Ho già raccontato la storia di quel grande studioso americano di Balzac che ha assunto il nome di un suo personaggio e rifiutato di farsi chiamare con nome diverso. L’Università di Chicago è il principale centro di studi balzachiani, dopo i centri francesi: esiste una Balzac Society of America. Gli Americani amano Balzac per la sua vitalità ed energia: lo amano stabilmente per la stessa ragione per cui fuggevolmente idolatrano Kipling. Il gusto per Balzac è dunque in un certo senso disciolto nel gusto delle forze che oggi si dividono il mondo.

  L’educazione di Balzac corrisponde alla qualità della sua fortuna. Balzac fu un grande lettore, ma ebbe scarsissima idea delle gerarchie letterarie. In un elenco egli citò alla rinfusa Lamartine, Chateaubriand, Hugo, Lamennais e Paul de Kock. Divorò romanzi volgari, melodrammi, vaudevilles: lesse anche i grandi, ma alla stessa stregua degli altri e confusi con essi. Poiché questa cultura gli proveniva da ogni parte, egli fu certo uno spirito europeo; l’Europa di cui si nutrì non fu però quella di Goethe ma un’Europa di bassa lega. Insomma fu come uno scrittore di oggi che si nutrisse in buona parte di libri polizieschi. Con questo, Balzac è dei primi che capirono come la cattiva letteratura è più utile a uno scrittore di quella buona, appunto perché ancora informe, utilizzabile come la stessa vita; mentre la buona è conclusa e perfetta.

  Dall'insieme delle testimonianze e dei giudizi su Balzac, che leggo in questo centenario, mi sembra dunque di scorgere una volta di più il tramonto del rigorismo, del giansenismo letterario. che predominò invece nell’altro dopoguerra. Più di una volta nelle nostre note abbiamo riferito i segni di questo tramonto. E’ la rivincita direi di Balzac su quello spirito semigiansenista che fu Sainte-Beuve, nutrito di letteratura classica, greco-latina e francese, aristocratico e un po’ schifiltoso.

  La generazione educata nell’altro dopoguerra non ha ama molto Balzac, lo ha lasciato in disparte durante la sua formazione; quelli erano i tempi di Gide, della letteratura rigorosa e virtuosa, del gusto della perfezione, delle distinzioni nette, e in gran parte arbitrarie, tra buoni e cattivi scrittori, tra dannati ed eletti.

  Oggi le carte si confondono, e i giovani hanno orientamento ben diverso. Amare Balzac significa amare il grande più del perfetto, il genio più dell’intelligenza: significa credere che non esista una grande opera letteraria che non coinvolga le tendenze ingenue e primordiali dell’uomo, come il gusto dell’avventura, del racconto, dello spettacolo della favola, del mistero. Significa credere che alcune invenzioni modeste, il libro giallo, il libro d’avventure, tutta la cosiddetta letteratura volgare, per quanto lontane dall’arte, siano però sulla via reale dell’arte ben più di quei libri noiosi e inutili detti di eccezione: e anche il buon giornalismo, inteso come arte di fare uno spettacolo servendosi della cronaca quotidiana senza deformarla e falsarla. Sono queste parole che ho letto, a proposito di Balzac, in una rivista francese, segno del grande mutamento dei tempi. Il giansenismo letterario, come anche quello religioso, è in una fase discendente.

 

 

  Guido Piovene, Serata classica in un grande salotto di Parigi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, 28 marzo 1950, p. 3.

 

  Continuando il mio giro, ecco due vecchi ambasciatori francesi; un monsignore della Curia romana; un banchiere protestante, chiuso nel clan dell’alta banca protestante francese; un gruppo di giovani un po’ spettinati e di costumi incerti ... Vi è tanto da giustificare quello che disse press’a poco Balzac, che per descrivere l’Europa descriveva Parigi, essendo Parigi il luogo in cui è raccolta la maggiore varietà di tipi umani, quasi in un campionario.

 

 

  Annarosa Poli, Balzac et le Sergent Bianchini, «Europe. Revue Mensuelle», 28e Année, N.os 55-56, Juillet-Août 1950, pp. 149-151.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 556.


  Un intérêt tout particulier pour nous Italiens et surtout pour les Bolonais, s’attache à la nouvelle Les Marana (Études philosophiques).

  Dans son introduction, en effet, Balzac rapporte, bien que d’une manière tout à fait inexacte, l’épisode du fameux grenadier bolonais Bianchini.

  Balzac possède à un degré supérieur l’art incomparable de caractériser les personnages par le milieu où ils vivent, et il sait tirer de ses descriptions une signification intimement psychologique.

  C’est dans le monde qui les entoure que ses créatures vivent et s’agitent et c’est en quelque sorte par lui qu’elles «s’intériorisent».

  L’action de la nouvelle se déroule à Tarragone, occupée par les troupes de Napoléon, Balzac précise qu’à l’armée de Suchet il y avait un VIe d’infanterie «presque entièrement composé d’Italiens». Ce régiment comprenait les débris de la Légion italienne. «Son dépôt, établi à l’île d’Elbe, avait servi à déporter honorablement et les fils de famille qui donnaient des craintes pour leur avenir, et ces grands hommes manqués, dont la société marque d’avance la vie au fer chaud, en les appelant des «mauvais sujets».

  Ce régiment se faisait remarquer tout particulièrement soit pour sa valeur, soit pour son insubordination.

  Parmi les officiers du VIe se trouvait un certain capitaine Bianchi qui, tout en étant le prince de ces démons incarnés auxquels ce régiment devait sa double réputation, avait cependant cette espèce d’honneur chevaleresque qui, à l’armée, fait excuser le plus grand excès.

  Quelques jours auparavant il s’était distingué par une action d’éclat que le Maréchal avait voulu reconnaître, Bianchi refusa grade, pension, décoration nouvelle, et réclama pour toute récompense la faveur de monter le premier à l’assaut de Tarragone. Le Maréchal accorda sa requête et oublia sa promesse; mais Bianchi le fit souvenir de Bianchi. L’enragé capitaine planta le premier le drapeau français sur la muraille et y fut tué par un moine.

  Je ne m’arrêterai point sur les libertés d’appréciation prises par Balzac à l’égard du VIe d’infanterie italien. Cela a déjà été fait par Antonio Kissoni (sic) dans une violente brochure, imprimée à Milan en 1837: «Défense de l’honneur italien, outragé par M. de Balzac». Balzac s’est borné à utiliser une tradition orale plus ou moins déformée.

  Il en est de même, sans doute, pour l’épisode du sergent Bianchini. Il existe aux Archives d’État de Milan une fiche militaire concernant un certain «Domenico Maria Bianchini de Gioacchino et de Fanti Rosa, né à Bologne, le 4 août 1783, rue Santo Stefano, maison Caprara». Touché par la conscription de 1806, Bianchini qui avait femme et enfants à charge, tenta de s’y soustraire, mais, dénoncé par un espion il fut envoyé à l’île d'Elbe et enrôlé dans la Légion disciplinaire. Il passa ensuite en Espagne et, oubliant son ancienne répugnance, il fut pris d’une véritable passion pour la vie militaire. On le vit fondre sur l’ennemi dès ses premiers combats, insoucieux de la mort et des blessures. Il n’avait plus, paraît-il qu’un seul souci, celui de sa valeur militaire.

  Cet analphabète était devenu l’orgueil de toute l’armée italienne. Malgré cela il n’obtenait, aucune promotion.

  Sept fois blessé, il tomba aux mains des Espagnols et fut envoyé à l’île d’Iviça, l’une des Baléares, tristement fameuse, car les prisonniers français, y mouraient de faim. Mais Bianchini échappa à la mort: il réussit à surprendre une sentinelle, la tua et se dirigea vers la côte espagnole sur une petite embarcation. De là il parvint à rejoindre l’armée du maréchal Mac Donald. Cette entreprise si hardie lui valut la croix de la Couronne de fer et le grade de sergent. Mais le champ de ses plus glorieux exploits fut le siège de Tarragone.

  Bianchini s’élança tout seul à l’attaque du fort Olivo et, devançant ses camarades, fit quatre officiers et cinq soldats prisonniers. Il ne demanda alors qu’une récompense: celle d’escalader, le premier, les murs de la ville. Elle lui fut accordée. Le matin de l’assaut général le sergent italien se présenta en grande tenue au général Suchet qui lui confia un drapeau et le commandement de trente grenadiers français. Ayant ouvert une brèche, Bianchini s’avança à la tête de ses hommes et, malgré la résistance acharnée des Espagnols, s'empara du passage d’où, du geste et de la voix, il encourageait ses troupes.

  Le colonel Saint-Paul, s’étant alors écrié: «Ce que vous venez de faire n’est pas assez pour un homme tel que vous», plein de rage et de dépit, Bianchini chargea l’ennemi de toutes ses forces, jusqu’à ce qu’un boulet le transperçât: il tomba raide mort.

  Le général Suchet fit dans son rapport l’éloge du héros tombé et en même temps, celui des combattants de la Légion italienne, «vrais descendants des anciens Romains».

  Voilà comment les choses se sont passées d’après les informations des témoins oculaires: Lissoni, Vacani et Lombroso et d’après la revue Fasti militari italiani.

  Balzac a pu être renseigné sur ces événements, soit par les officiers de Napoléon qui fréquentaient le salon de la duchesse d’Abrantès, soit par la veuve Junot, ou bien encore par quelques histoires populaires qui avaient rapidement circulé. Cette dernière supposition est assez vraisemblable si l’on pense qu’en France comme en Italie la figure de Bianchini était devenue très vite légendaire. A Bologne, par exemple, on chantait alors une chanson en patois qui commençait ainsi: «Al general ed Tarragouna ...» (1). La Muse académique, cependant, ne dédaigna pas le jeune héros. Le poète Ceroni dans son petit poème: «La prise de Tarragone», nous en transmet un fidèle récit:

 

Bianchini quei della famosa impresa

La breccia a sormontar contende primo;

Da un frassino pungente in viso colto

Ripercote percosso e furiando

Via si fa con la forza in mezzo ai tanti

Di morte ordigni, al grandinar dell’aste

Al picchiar delle scuri, intriso e lordo

Di sangue e di sudor l’ostil recinto

Primo calpesta e primo anche il misura

Da sette colpi la persona rotto

Vicino ad esalar l’animo e i vanti (2)

 

  On ne saurait reprocher à Balzac d’avoir dans sa nouvelle modifié le nom et le grade de l’Italien. La plupart des écrivains qui s’occupent de Bianchini ne tombent d’accord ni sur son nom, ni sur sa patrie. Quelques-uns le disent originaire de Bologne, les autres de Cento, d’autres encore de Parme ; les Mémoires d’Elzear Blaze l’appelle (sic) «le Français Bianchelli».

  Tout ceci est bien oublié aujourd'hui et l’explosion d’indignation suscité par la libre adaptation par Balzac des exploits de Bianchini ne saurait blesser désormais l’amour-propre du public italien.

 

  Note.

 

  (1) Le général de Tarragone.

 (2) Bianchini, le héros du célèbre exploit, lutte pour franchir le premier la brèche mais, frappé au visage par une piqué de frêne fort aiguë, il rend furieusement coup sur coup, se frayant un chemin par la force, au milieu de tant d’engins de mort, sous une grêle des lances, sous les coups de hache, souillé de sang et de sueur, il foule le premier le sol ennemi et, transpercé enfin par sept coups, il exhale son âme.

 

 

  Annarosa Poli, Balzac dans les bibliothèques italiennes, «Europe. Revue Mensuelle», 28e Année, N.os 55-56, Juillet-Août 1950, pp. 151-152.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 557.


  Existe-t-il des éditions en français de Balzac dans votre pays?

  Oui, il existe en Italie de nombreuses éditions en français de Balzac, mais surtout à l'usage des écoles avec des commentaires.

  La plupart des lecteurs italiens, en effet, lisent Balzac dans les meilleures éditions françaises.

  Les oeuvres de Balzac existent-elles dans toutes les bibliothèques publiques de votre pays?

  — Sont-elles très demandées par les lecteurs dans ces bibliothèques?

  Oui, dans presque toutes les bibliothèques publiques d’Italie l’oeuvre complète de Balzac existe dans une édition française.

  Il faut remarquer pourtant, d’après une enquête officielle, que les traductions italiennes des romans de Balzac ne sont pas demandées si fréquemment que les ouvrages du même auteur en langue française. De 1832 à 1934, plus d'une centaine d’oeuvres ont été traduites en italien. Viennent en tête pour le nombre des traductions: Eugénie Grandet et Le Père Goriot.

 

 

  Domenico Porzio, Regalò ai suoi personaggi la ricchezza che non poté mai avere. Si celebrerà nel 1950 il primo centenario della morte di Onorato Balzac. Cronaca letteraria di Domenico Porzio, «Oggi. Settimanale di politica attualità e cultura», Milano, Anno VI, N. 1, Gennaio 1950, p. 35.

 

  Quest’anno si parlerà molto, così almeno ci auguriamo, di Onorato Balzac, giacché in questo 1950 ricorre il primo centenario della morte del grande romanziere francese. Aprire l’anno nel nome e nel ricordo di Balzac, può anche essere buon sortilegio: sarà sempre una indicazione ed un invito felice per quanti hanno a cuore le cose letterarie. La sua immensa esemplificazione umana ancora così viva da parer vista e ritratta ieri l’altro, quando invece già compie un secolo, non aspetta che di essere riletta, che di essere riincontrata: rivedremo fresca e attuale la sua fantasmagoria di personaggi e vorremo un po’ tutti approfittare di questa universale lezione di scrittura che il romanziere può ancora darci senza difficoltà di linguaggio, cento anni dopo la sua morte.

  In che consiste questa sua meravigliosa giovinezza, questo fascino delle sue pagine? Che cosa le lievita e le rende ancor oggi indispensabili per il lettore? È la presenza di un mondo, di una realtà possente ma fantasiosa: è la sua costante fedeltà a miti esclusivamente umani, la sua intuizione sempre definitiva dei rapporti e dei caratteri degli uomini, e quindi il senso di reale esistenza che egli ha colato nei suoi personaggi: è tutto questo che ce li fa incontrare ancor oggi per la strada e nelle piazze, ed insieme l’incanto di un equilibrio perfetto, nei suoi libri, tra ciò che è cronaca vista o sofferta (magari personale diario) e ciò che è fantasia assoluta. Perché questo è bene ricordare parlando di Balzac: che egli non pretese mai di dipingere o copiare la realtà. «La realtà la faccio io», era solito ripetere. E davvero tutta la ragione di un romanzo rimane, allora come adesso, questa: non è importante aver compiuto un ritratto esatto, ma è importante essere arrivati a creare un’illusione verosimile: la sua grande scoperta non fu una attendibile ricostruzione di storia e di costumi, ma fu la geografia umana. Egli creò l’intera società francese del secondo impero inventando sogni ed illusioni, che furono poi realizzati dalla generazione che venne dopo di lui.

  Balzac nacque a Tours il 20 maggio del 1799, in una famiglia borghese, che lo allevò modestamente, e fin da ragazzo sognò agi e vita comoda. Dal 1807 al 1813 fu nel Collegio degli Oratoriani a Vendôme dove, più che studiare, lesse disordinatamente (raccolse poi in Louis Lambert i ricordi dell’adolescenza). Proseguì gli studi a Parigi nel 1816 e si avviò, per desiderio della famiglia, alla facoltà di giurisprudenza: conseguita la laurea lavorò dapprima presso un avvocato, e poi presso un notaio. La passione per le lettere, dapprima confusa e saltuaria, si fece in lui insistente. Nel 1819 venne ad un compromesso con la famiglia: ottenne cioè il permesso di provare per due anni a occuparsi di letteratura. Si rinchiuse, perciò, in un abbaino di via Lesdiguières e si mise a scrivere una tragedia su Cromwell. Ma fu una delusione. Allora si volse al romanzo e scelse di proposito — spinto dalla necessità di guadagnarsi al più presto la popolarità — il genere più alla moda, a tinte fosche e dalla trama grossolana ma complicata. Nel 1822 pubblica L’héritière de Birague e Jean-Louis ou la fille trouvée che danno l’avvio alla incredibile sua corsa con la penna: da allora fino alla morte, Balzac scriverà una quantità impressionante di libri, senza requie.

  Pure, la penna gli rende poco: le sue ambizioni restano tali, ed allora lo scrittore pensa di dedicarsi, con l’aiuto della signora di Berny, ad imprese commerciali. Si inizia così nella sua vita una specie di tragica epopea di cambiali e di effetti in protesto: apre una stamperia a Parigi, ma gli affari non si concludono, vi aggiunge una fonderia di caratteri, ma le cose vanno di male in peggio. Balzac si riempie di debiti fino agli occhi: le sue nozioni finanziarie, di cui dà esempi notevoli nei suoi libri, non lo aiutano. Sconterà tutta la vita questi sogni commerciali, perché dovrà lavorare per pagare i debiti, e questi gli succhieranno gran parte dei suoi proventi anche quando, divenuto scrittore celebre e ben pagato, la penna finalmente comincerà a coprirlo d’oro. Rinchiuso nel suo studio, avvolto in una cappa bianca monacale, lavora contemporaneamente a tre, quattro romanzi: la folla dei suoi personaggi si dilata e parte alla conquista dell’Europa. La celebrità è immensa: nelle città d’Italia, d’Austria e di Russia, le signore si atteggiano ad eroine dei suoi libri, e gli uomini cercano di imitare Rastignac e Vautrin.

  «A chi venite a parlar di gloria?», dice lo scrittore, in un aneddoto riportato da Saint-Beuve (sic). «Io l’ho vista, l’ho conosciuta. Viaggiavo in Russia con alcuni amici. Sopraggiunge la notte, andiamo a chiedere ospitalità in un castello. Al nostro arrivo la castellana e le sue amiche ci circondano di premure. Una di queste lascia il salotto per andare a prendere dei rinfreschi. Nel frattempo viene fatto il mio nome alla padrona di casa. La conversazione comincia e quando la dama che era uscita rientra sentendo queste parole: “... Ebbene, signor di Balzac ...”, la sorpresa le fa fare un tal gesto che ella lascia cadere dalle mani tutto il vassoio».

  L’uomo Balzac credeva — aggiunge Sainte-Beuve — in questa sua gloria: tale sentimento lo sorreggeva e lo infiammava nel lavoro. Intanto i libri si susseguono (è inutile elencarli: sono in tutto, compreso il teatro, circa una settantina). Nel 1833 gli venne in mente di legare tra loro i vari personaggi, che d’altronde egli rincorreva da un romanzo all’altro, in modo da riunirli in un ciclo, ed escogitò il titolo di “Studi sui costumi del 19° secolo”. Nel 1841 invece le, si fermò su quello di La comédie humaine (suggeritogli da un amico rientrato allora dall’Italia) quasi ad indicare la vastità del suo ciclo moderno di fronte alla Commedia di Dante. (Ma fin dal 1834 nella prima redazione di La fille aux yeux d’or aveva scritto: «Parigi, inferno che avrà forse un giorno il suo Dante»).

  Man mano che Balzac va avanti nell’esplorazione della società, l’opera rivela — pur restando costante la sua carica di simpatia verso tutto ciò che incontra, e di cui narra — un pessimismo sempre più cupo. La sua vita quotidiana gli detta pagine amare, caratteri e volti disperati. Nel teatro, in cui si era provato, non ha fortuna: le imprese finanziarie sono, come si è detto, una piaga senza rimedio. La vita politica, nella quale si getta d’impeto, lo disillude. L’Accademia francese rifiuta di accoglierlo perché il genere “romanzo” non è reputato degno di tanto onore. Anche la sua vita sentimentale gli dà amarezze: questo incomparabile illustratore di donne, questo scrittore di teneri amori (Eugenia Grandet, Esther, Madame de Restaud) dedicò il meglio dei suoi anni ad un amore che si trascinò incomprensioni e difficoltà di ogni genere. La sua grande avventura si chiamò Eva Hanska. Eva entrò nella sua vita il 28 febbraio del 1832 e vi restò fino alla morte: più di diciotto anni in una esistenza di cinquantuno.

  Era una nobile polacca, la quale, dopo aver letto la Fisiologia del matrimonio, si era convinta che la vita coniugale insieme a Balzac sarebbe stata diversa da quella che ella conduceva. Cominciò a scrivergli e iniziò una lunga corrispondenza con lo scrittore. La “straniera” si incontrò con lui in Svizzera e poi a Vienna. Più tardi, rimasta vedova, gli incontri divennero più frequenti. Ma la famiglia la sconsigliò a risposarsi. Nel 1847 Balzac fu presso di lei in Ucraina e vi ritornò nel 1849. Eva Infine si decise a sposarlo il 14 marzo del 1850. Ma lo scrittore, che aveva logorato la sua forte fibra in diciotto anni di furente attività letteraria, le spirò tra le braccia cinque mesi dopo, nell’agosto, colpito da un attacco apoplettico.

  Sull’uomo Balzac sorsero, dopo la morte, numerose leggende: lo si disse formidabile buongustaio e bevitore. In realtà era quasi astemio e l’unico cibo che mangiava volentieri era la frutta. «Per quanto buongustaio», scrisse, «sono stato sobrio: amante del moto e del viaggi marittimi, con una gran voglia di visitare molti paesi, capace di divertirmi ancora come un bambino a fare il rimbalzello coi sassolini in un fiume, sono invece rimasto eternamente seduto, con la penna in mano ...».

  Amò i begli abiti e si vestì, quando potè, con ricercatezza: amò anche i bei mobili, le tappezzerie, i quadri, le case e per convincersene basta sfogliare i suoi romanzi. Disserta sulle cravatte come su un ramo dello scibile e per quanto costretto dai debiti allo scrittoio, non sogna che un guardaroba di abiti da passeggio. Egli in realtà, invece che soddisfare i suoi desideri, fu costretto a scriverli. Ma amò, amò di amore immenso i suoi personaggi: perché quello che non ebbe lui, lo regalò a loro, e spargendo a piene mani ricchezze, quattrini, palazzi, camerieri. «Quello lì finirà bene: finirà ricco», scriveva agli amici, di qualche personaggio che godeva le sue simpatie. È perlomeno commovente questa specie di “epica finanziaria” che si riscontra nelle sue opere. Il romanziere però sta al di là di tutto questo: vive per le ragioni cui si è prima accennato, anche se i libri sono tutti imbevuti di queste sue aspirazioni.

  La “verità” alla quale si riferì è sì di natura concreta, ma assai lontana dalla banale materialità. Balzac va letto e riletto per quella lezione di vita che egli ha immerso nelle sue pagine, con una intuizione miracolosa. Gli editori italiani non mancheranno di darne occasione ai lettori, con ristampe o nuove traduzioni. Per ora ha iniziato Rizzoli con l’Eugenia Grandet, forse il suo capolavoro. Accanto alla storia tenue e dolente di una donna dal destino grigio e deserto, c’è la grande ombra del vecchio Grandet, scolpito nelle dimensioni di Arpagone e Shylock. A noi che avevamo conosciuta l’eroina nella traduzione della Deledda, è piaciuta ora questa preparata per la B.U.R. da Gabriella Alzati, la quale ha rinfrescato con accortezza ed intelligenza l’opera, in un linguaggio direi più aderente al gusto della nostra generazione.



  Giacomo Prampolini, Storia universale della letteratura. IV. [...]. L’Ottocento francese, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1950, pp. 767-892.

 

  pp. 798-800. Stendhal e Mérimée innalzarono un altare all’energia, volitiva e capace di grandi cose; Balzac, borghese, cercò di costruire il tempio dell’attività umana affaristica; non altro significato si può attribuire all’enorme «Comédie humaine», che introduce nella letteratura narrativa il realismo, appunto in quanto raffigura soprattutto un’epoca ed una parte della società francese dominate dalle mediocri idealità borghesi. La vita dello scrittore (1) è chiave alla sua produzione e ne giustifica la qualità: non si possono comporre capolavori, lavorando quattordici ore al giorno (sia pure in una comoda tunica di domenicano), per diminuire il fardello dei debiti, o ricorrendo al caffè carico quale stimolante delle esauste energie. Tanto più bisogna invece ammirare lo sforzo ciclopico nonché la potenza di vita che egli seppe infondere nelle sue migliori creazioni. Si propose di scrivere la «storia naturale» dell’uomo, ossia concepì la società a lui contemporanea come una zoologia, della quale voleva raffigurare e classificare due o tremila «tipi», mentalità di scienziato che non mancò di nuocere al valore artistico dell’opera. Questa doveva poi trovare altre limitazioni sia nel temperamento, esuberante ma non fine, sia nell’esperienza personale del mondo. Infatti Balzac è venuto meno nel ritrarre figure superiori, tenere fanciulle, donne onorate; la sua bravura e la sua perizia appaiono solo quando si tratta di viaggiatori di commercio, di impiegati, di piccoli borghesi, di provinciali o contadini, miseri eroi di un difetto, di una colpa o di una manìa. Egli riesce ottimamente nel rappresentare l’essere umano «deformato dal mestiere, imbruttito dal ridicolo o dal vizio»: prende l’individuo con la sua tara morale e, sviluppando questa a proporzioni mostruose, lo innalza a tipo. Ma, per la psicologia dei personaggi, si fonda molto, forse troppo, sulla descrizione dell’ambiente in cui vivono; privo del sentimento della natura, ha dello stile un concetto sommario che gli preclude la grande arte. È nota la puerile ripartizione della «Comédie humaine» in varie categorie, ognuna delle quali contiene parecchi romanzi, collegati fra loro dalla presenza degli stessi personaggi; così, le «Scènes de la vie privée» comprendono «La femme de trente ans», romanzo d’amore di una infelice marchesa che invecchiando vede punite dalla figlia le sue colpe di madre; «Le colonel Chabert», breve storia di un reduce dalla Russia, ricca di pathos vigoroso; «Le père Goriot», in cui il protagonista incarna, nuovo re Lear, la debolezza paterna e ne espia le dolorose conseguenze. Nelle «Scènes de la vie de province» emergono «Ursule Mirouet», ampio quadro della vita provinciale durante la Restaurazione; «Eugénie Grandet» con la figura del vecchio avaro; «Le lys dans la vallée», di argomento amoroso; le «Illusions perdues» intorno alla poco promettente giovinezza del poeta Rubempré, privo di ogni scrupolo morale. Anche nel gruppo «Scènes de la vie parisienne» sono notevoli parecchi romanzi: in «Splendeurs et misères des courtisanes» campeggia la figura di Esther van Gobseck, la figlia dell’usuraio, costretta a vendersi a un banchiere ebreo e poi suicida; «Grandeur et décadence de César Birotteau» è la sarcastica epopea del profumiere che fallisce senza sua colpa, ma, prima di morire, riesce a riabilitarsi; tragico, «La cousine Bette », col crollo della famiglia Hulot al quale assiste esultando la parente povera e disprezzata (2). «Une ténébreuse affaire», che appartiene al ciclo della vita politica, degenera spesso nel romanzo di appendice alla Dumas; «Les Chouans», una delle scene della vita militare, svolge un commovente episodio della guerra di Vandea; le «Scènes de la vie de campagne» si compongono di tre romanzi che non sono tra i più significativi («Le médecin de campagne»; «Le curé de village»; «Les paysans»). Mediocri appaiono anche gli (sic) «Études analytiques» (3); molto di buono offrono invece gli «Études philosophiques» a cominciare da «La Peau de chagrin» con le sue scene alla Hoffmann, per raggiungere il capolavoro con «La recherche de l’absolu», la faustiana storia dell’alchimista Balthasar Claes (sic). Questa serie si compone soprattutto di brevi racconti, che forse rappresentano il meglio — dal punto di vista puramente estetico — dell’arte balzachiana: si leggano «Jésus-Christ en Flandre», «Le Chef-d’oeuvre inconnu», «L’élixir de longue vie», oppure, fra quelli di argomento tragico, «Le réquisitionnaire», «El verdugo» (4). Nelle novelle, Balzac è vicino al nostro gusto non meno di quando crea l’ambizioso Rastignac, l’avaro Grandet, il debole Goriot, il sensuale Hulot; spiega una sobrietà vigorosa che rende illusoriamente reali le sue fantasie (5).

 

  Note. [La numerazione è nostra].

 

  (1) Honoré de Balzac, nato a Tours nel 1790, ebbe sempre la manìa degli affari, senonché una infelice iniziativa nel campo editoriale lo lasciò nel 1828 in queste condizioni: «Je n’avais que ma plume pour vivre et poui payer cent vingt-cinq mille francs». L’anno dopo pubblicò il primo romanzo destinato a far parte della «Comédie humaine» (questo titolo ciclico apparve soltanto nel 1842) e nel lavoro intenso trascorse il resto della vita, salvo qualche viaggio per speculazioni sfortunate che aumentarono il cumulo dei debiti (era del resto alquanto prodigo, spendeva molto in oggetti d’arte). Spezzato dallo sforzo, morì all'improvviso nell’agosto del 1850, cinque mesi dopo le nozze con M.me Hanska, l’ammiratrice polacca con la quale aveva intrattenuto per diciotto anni una corrispondenza prima cordiale e poi tenera («Lettres à l’Étrangère»).

  (2) A «La cousine Bette» corrisponde «Le cousin Pons», altro parente povero, che incarna il carattere del vecchio collezionista.

  (3) Comprendono «Physiologie du mariage», «Petites misères de la vie conjugale». I celebri «Contes drolatiques» si riducono a un «pastiche» di licenziose facezie in un francese pseudo¬antico. Migliore, fra le commedie, «Mercadet ou le faiseur».

  (4) Una buona raccolta di «Contes philosophiques», con prefazione di P. Bourget, fu pubblicata nella «Collection Gallia» (J. M. Dent, Paris); comprende anche racconti appartenenti ad altri cicli («La grande Bretèche», «La messe de l’athée», «Facino Cane», «Une (sic) épisode sous la Terreur», ecc.).

  (5) Un romanziere di quest’epoca da ricollegarsi alla traduzione volteriana è Claude Tillier (1801-1844), noto soprattutto in Germania per «Mon oncle Benjamin».

 

 

  Carola Prosperi, Nel centenario di Balzac. Amava le donne crudeli, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno IV, Num. 185, 7-8 Agosto 1950, p. 3; 2 ill.

 

  Durante la Restaurazione, Olimpia Pélissier, alta, snella, una bruna dalla pelle bianca, dalle fattezze pronunciate, dagli occhi di velluto pieni di fascino, passava per una delle più belle mondane di Parigi.

  Per quanto uno dei dandy dell’epoca, bellissimo ed elegantissimo, giovanotto bruno dagli occhi azzurri, molto ricco e molto quotato tanto nell’alta società, quanto nel demimonde, fosse ufficialmente il suo amico e protettore, la Pélissier era una donna indipendente, perché un suo amico americano le aveva fatto una rendita di venticinquemila franchi annui. Cosicché nel tuo grazioso appartamento, ella riceveva fior di giornalisti, di pittori, di scrittori e di uomini importanti, poiché la giovane donna moriva dalla voglia di avere un grande salone alla moda, ambizione assai comune a quei tempi, e il suo cavalier servente che si chiamava Eugenio Sue e scriveva romanzi a grande successo, s’industriava di compiacerla, portandole quanto di meglio, in fatto d’artisti, c’era a Parigi.

  Una sera entrò con un giovane piuttosto basso di statura, grassoccio, e mal vestito, ma con una gran fronte, un naso carnoso, due labbra lucenti e due occhi scuri, umidi, pieni di scintille dorate.

  — Ti presento, mia cara, il grande scrittore e amico Onorato Balzac.

 

La bella Olimpia.

 

  La bella Olimpia gli porse la mano bianca, e s’inchinò leggermente, facendo frusciare la sua veste di seta color gorge de pigeon, ben gonfia, secondo la moda romantica, gli sorrise è lo piantò lì. Non era ancora un personaggio molto importante quel Balzac, per stare a perdere del tempo con lui. Eppure, egli pensò, aveva già scritto un bel numero di libri, editori e direttori di giornali se lo disputavano abbastanza, e, in fatto d’amore, aveva avuto quello della signora di Berny, più vecchia di lui, è vero, ma un miracolo di tenerezza o di passione e quello della duchessa d'Abrantès, la vedova del maresciallo Junot, una dama dell’Impero, ch’era stata a tu per tu con Napoleone. Con tutto ciò egli si sentì triste e povero. La mancanza di denaro era stato il suo tormento più vivo, fin da quando abitava ragazzo in casa dei genitori, una casa dove non regnava certo nè la concordia, nè il benessere. Egli guardò Eugenio Sue con ammirazione e invidia. Così giovane e aveva tutto dalla sua: bellezza, eleganza, gloria e amori finché ne voleva, abitava in un palazzo pieno di fiori in mezzo a un gran giardino, aveva un reggimento di servi, stupende scuderie di cavalli da corsa, era anglomane, sportivo amico del famoso conte d’Orsay: un vero privilegiato. La leggenda s’era già impadronita di lui. Si pretendeva che il futuro autore dei Misteri di Parigi e dell’Ebreo errante, che amava scendere nei bassifondi a cercare i soggetti per i suoi libri, scrivesse con le mani coperte da finissimi guanti color paglia, e che, a ogni capitolo, li cambiasse con altri, nuovi e profumati.

  E io? pensava tristemente Balzac. Io, debiti, pasticci, affanni, tormenti senza fine.

  Eugenio Sue gli venne vicino.

  — Vi piace, Olimpia?

  — La trovo magnifica!

  — Ma non vedete — disse l'altro, ridendo — le sue labbra sottili, il suo mento volontario? E’ una donna fredda, egoista e crudele Olimpia. Vi piacciono forse le donne crudeli?

  Abbagliato Balzac fissava Olimpia chi si avvicinava e non sentiva più l’amico. Tutti i guai erano dimenticati, il cuore prendeva a pulsare violentemente: era innamorato. Ora veniva da lei quasi ogni giorno e si beava in quell’ambiente dolce come un nido, in quel profumo, davanti a quella donna.

  — Olimpia, io vi amo. Sposatemi.

  Ma lei rideva, sdegnosa, beffarda.

  — Non vi sposerete mai?

  — Credo di no. Sto troppo bene così. Invece poi sposo Gioacchino Rossini.

 

Storia della civetta.

 

  La rivoluzione del ‘30 era già compiuta, Luigi Filippo regnava sulla Francia e quando Balzac, ora più glorioso di Eugenio Sue, sebbene sempre povero e pieno di debiti, entrò finalmente nel salone della marchesa di Castrie (sic), che, da un po’ di tempo, si divertiva a mandargli lettere di ammirazione. La marchesa aveva trentacinque anni e in passato era stata la regina dei saloni della Restaurazione. Bionda, sottile, graziosa, quasi eterea, con un viso espressivo e bello, coronato da una superba capigliatura aveva tutte le seduzioni della sua razza, di un (sic) intelligenza pronta e ironica, di un cuore freddo e di una capacita, di recitare la commedia mondana con la sicurezza di un’artista provetta. Era stata l’amante di Vittorio di Metternich, figlio del grande ministro e aveva dovuto, per ciò, separarsi dal marito. Poi, cadendo da cavallo, durante una caccia, si era fatta male alla spina dorsale, tanto che doveva ormai passare quasi tutto il tuo tempo sdraiata su di un canapé. Si annoiava a morte, perciò aveva teso una bella trappola allo scrittore alla moda. Lo dicevano così infiammabile. Perché non divertirti un poco con lui?

  Balzac mise il suo più bel vestito, si profumò, si pettinò, saltò sul suo tilbury e si fece condurre in via di Grenelle al grande palazzo di Castrie, attraversò saloni e saloni ed entro in quello più piccolo dove lei, l’angelo di bellezza, la donna divina, gli tese, dal suo sofà, le mani inanellate.

  — Finalmente, signor di Balzac! Quanti baci su quelle mani morbide e fragranti! Ma come s’irrigidivano stranamente quelle stesse mani quando lui tentava di arrivare a baciare il viso e le belle spalle nude! Tutti i giorni egli veniva da lei, e parlava, si esaltava, si confidava, diceva un mondo di belle cose, era davvero un grande divertimento per la marchesa quella compagnia. E lui, quanto tempo perdeva! Ma era felice, dimenticava tutto, e non aveva più dubbi sull’avvenire. Era sicuro che, un bel giorno, quell’angelo di bellezza gli avrebbe aperto le braccia. Fu terribile perciò per lui il giorno in cui durante un viaggio, dove lui l’aveva accompagnata, a Ginevra, ella lo espulse dalla sua camera con una durezza senza scampo. «Perché? Perché, egli chiedeva poi, perché? Perché mi ha dato tante feste? Perché mi ha fatto tanti inviti? Il giorno prima sembrava che fossi tutto per lei, il giorno dopo più nulla. Come se, durante la notte, una donna fosse morta quella che amavo».

  Balzac si vendicò a modo suo scrivendo La duchesse de Langeais, la storia d’una civetta, di una crudele che dopo aver disprezzato l’amore, si è talmente innamorata da finire in convento a morire d’amore. E poi, un bel giorno, andò a leggere la novella alla marchesa. Lei l’ascoltò attentamente, finse di non riconoscersi affatto nella bella crudele e coperse di elogi lo scrittore.

  — Bravo, Balzac, avete scritto un altro capolavoro!

  Ah, lui gemeva nel suo cuore, io solo so che cosa v’è di orribile nella Duchessa di Langeais!

  Poi venne l'ultima, l’Etrangère, la polacca, quella del periodo più lungo, più glorioso, più doloroso, più affaticante, più tragico. Gli affari, le fantasie, i debiti, le speranze e la disperazione si alternavano nel cervello e nel cuore del grande scrittore senza posa, accompagnando col loro ritmo spietato il palpito d’un cuore che era già malato a forza di amare.

 

In solitudine.

 

  Anche Evelina Hanska fu crudele con Balzac. Ella lo tormentò con la sua insensata gelosia, la sua lontananza, le sue contraddizioni, le sue pretese, la sua sensualità morbosa, le sue irrequietezze romantiche, i suoi silenzi, i suoi richiami imperiosi, le sue ingiustizie, le sue trascuratezze, le sue prepotenze. E lui l'amava come un pazzo, l’amava, scrisse di lui un amico, come si ama a quarantacinque anni, all’età dell’ultimo amore, quell’amore che lui definiva strangolatore, l’amava come l’uomo che sta annegando ama l’aria e la luce».

  E infine lei, che da pochi mesi era sua sposa, lo lasciò morir solo, in quella calda sera d’agosto del 1850. Solo!

  «Balzac era sul letto, scrisse Victor Hugo, la testa appoggiata a un monte di cuscini, tra cui i cuscini di damasco rosso presi sul sofà vicino. Aveva la faccia violetta, quasi nera, la barba lunga, i capelli grigi, l’occhio aperto e fisso. Un domestico e un’infermiera si tenevano ritti ai lati del letto e ascoltavano con spavento il rantolo dell’agonizzante ...».

  Victor Hugo cercò la mano del morente, la strinse, ma la mano non rispose alla stretta, e così Victor Hugo se ne andò sopraffatto dall’odor di morte che riempiva la stanza. Forse Balzac non aveva nemmeno visto il grande collega. Moriva a cinquant’anni, e sembrava che ne avesse ottanta. Moriva, dopo tanto lavoro, tanto soffrire, tanto amore. Moriva e sua moglie dov’era? Dormiva in una stanza accanto?

  Comunque, nè lei nè le altre donne crudeli assistevano in ispirito a quella fine. Forse ondeggiava lì accanto il fantasma della donna buona, ormai morta, di quella signora di Berny, di cui egli alla sua morte aveva scritto: «La creatura che ho perduto era più che una madre per me, più che un’amica, più che qualunque creatura può essere per un’altra. Solo lei mi ha sostenuto con le parole, la devozione, gli atti e l’amore, durante le grandi tempeste ... Lei sola! ... Se sono vivo è in grazia sua ...».

  In grazia di lei, della buona, della dolce, della soave, della Dilecta.

 

 

  Marcel Proust, I personaggi di Balzac (traduzione di Mario Picchi), «La Fiera letteraria Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno V, Numero 34, 3 settembre 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 554.

 

  M.me Girard Monte-Proust e Bernard de Fallois hanno scoperto, in uno dei numerosi cahiers inediti di Proust, un lungo articolo sulle critiche di Sainte-Beuve da cui è tratto il presente frammento, pubblicato nel numero di luglio della «Table Ronde». L’articolo fu cominciato a scrivere pressappoco nel 1909, epoca in cui la Recherche non era ancora stata iniziata, poi rimase incompiuto, perché Proust fu preso da altre cure.

 

  Non si tratta d’una pura illusione quando Balzac, volendo citare grandi medici, grandi artisti, citerà alla rinfusa dei nomi reali, e dei personaggi dei suoi libri dirà: «Aveva il genio dei Claude Bernard, dei Bichat, dei Desplein, dei Bianchon ...», come quei pittori di panorami che mescolano ai primi piani delle loro opere le figure in rilievo vero e la scena fittizia. Spesso quei personaggi reali, non sono più che reali.

  La vita dei suoi personaggi è un effetto dell’arte. Parla di essi come di personaggi reali, talvolta illustri, «il celebre ministero del fu De Marsay, il solo grand’uomo che abbia prodotto la Rivoluzione di Luglio, il solo uomo che avrebbe potuto salvare la Francia», talvolta con la compiacenza del parvenu che non si contenta solo d’avere bei quadri ma ripete di continuo il nome del pittore e il prezzo che gli hanno offerto del quadro, talvolta con l’ingenuità d’un bambino il quale, avendo battezzato i suoi bambocci, crede che esistano veramente.

  Arriva fino a, chiamarli tutti insieme, e quando s’è ancora parlato poco di loro, col loro nome di battesimo, sia che si tratti della principessa di Cadignano («Certo, Diana non dimostrava ancora venticinque anni»), di Mme di Sériry (sic) («Nessuno avrebbe potuto seguire Léontine, essa volava»), o di M.me di Nucingen («Biblico? rispose Fifine stupita»). In questa familiarità vediamo un po’ di volgarità, e un po’ di quello snobismo che faceva dire a M.me di Nucingen: «Clotilde», parlando di M.me di Grandlieu, «per darsi, — dice Balzac, — l’aria di chiamarla col nome di battesimo come se lei, nata Goriot, frequentasse assiduamente quella società.»

  Saint-Beuve (sic) rimprovera a Balzac d’avere ingrandito troppo l’abate Troubert, che alla fine diventa una specie di Richelieu. ecc. Ha fatto lo stesso per Vantrin (sic), e così per altri. Non si tratta soltanto di ammirazione, e di voler fare di questi personaggi ciò che c’è di meglio nel loro genere, come Bianchon e Desplein sono uguali a Claude Bernard o de Laënnec, e de Grandville ai d’Aguesseau. Si tratta anche dell’errore di una teoria cara a Balzac sul grand’uomo al quale sono mancate la grandezza delle circostanze, e perché in realtà questo è precisamente il suo scopo di romanziere, di fare della storia anonima, di studiare certi caratteri storici, così come si presentano astraendo dal fattore storico che li spinge alla grandezza. Finché questa è un’opinione di Balzac nulla di male. Ma quando Lucien de Rubempré, mentre sta per uccidersi, grida a Vantria (sic): «Quando Dio lo vuole, questi esseri misteriosi sono Mosè, Attila, Carlomagno, Maometto o Napoleone; ma quando lascia perdersi in fondo all’Oceano d’una generazione i giganteschi strumenti, essi non sono più che Bugatchef, Fouché, Louvel o l’abate Carlos Herrera. Addio, dunque o voi, che sulla buona strada sareste stato più di Ximenes, più di Richelieu» ecc., Luciano parla troppo come Balzac e finisce di essere una persona vera, differente da tutte le altre. E questo, malgrado la prodigiosa diversità fra di essi, e l’identità con se stessi, dei personaggi di Balzac, capita sempre per una ragione o per l’altra. Per esempio, quando nondimeno i tipi erano in lui meno numerosi degli individui, si sente che qualcuno è soltanto uno dei diversi nomi d’uno stesso tipo. A volte M.me de Langeais sembra che sia M.me Cadignan, o il signor de Mortsauf il signor de Bargeton.

  Da ciò riconosciamo Balzac, e sorridiamo con simpatia. Ma a causa di ciò i particolari destinati a far somigliare di più i personaggi dei romanzi e delle persone vere, girano a rovescio; il personaggio viveva, Balzac ne è così fiero che cita senza necessità la cifra della sua dose, i suoi legami con gli altri personaggi della Comédie humaine che sono ugualmente considerati veri, e perciò gli pare di far colpo doppio: «M.me de Sériry non vi era ricevuta (quantunque nata de Ronquerolles)». Ma poiché ci si vede forzatura di Balzac si crede meno alla realtà di questi Grandlieu che non volevano ricevere M.me de Sériry. Se l’impressione di vitalità del ciarlatano, dell’artista, è cresciuta, è a spese dell’impressione di vita dell’opera d’arte! Opera d’arte ugualmente la quale, se è un po' adulterata da tutti questi particolari troppo veri, riesce attirare a sè anche tutta la parte da musco Grévin, a farne, un po’, dell’arte. E poichè tutto ciò si riferisce a un’epoca, mostrandone l’esteriorità grossolana giudicandone il fondo con grande intelligenza, quando l’interesse del romanzo è esaurito, e ricomincia una vita nuova come documento d’uno storico. Come l’Eneide, laddove non ha nulla da dire ai poeti può appassionare i mitologi così Peyrade, Félix de Vandenesse e tanti altri non sembrarono molto ricchi di vita. Albert Sorel ci ha detto che in loro bisogna studiare la polizia del Consolato o la politica della Restaurazione. Il romanzo stesso ne guadagna. Nel triste momento in cui bisogna lasciare un personaggio del romanzo, momento che Balzac ha ritardato quanto ha potuto facendolo ricomparire in altri romanzi; proprio quando sta per svanire ed essere solo un sogno, come le persone conosciute in viaggio che si stanno per lasciare, si viene a sapere che prendono lo stesso treno, e che si potrà ritrovarli a Parigi, Sorel ci dice, ma no, non è un sogno, studiateli, è verità, è storia.

  Così continueremo a sentire, e quasi a soddisfare, leggendo Balzac, le passioni di cui l’alta letteratura dovrà guarirci. Una serata nel gran mondo descritta da Balzac è dominata dal pensiero dello scrittore, la nostra mondanità vi è purgata — come direbbe Aristotele —; in Balzac abbiamo quasi una soddisfazione mondana assistendovi. I titoli stessi hanno questa nota positiva. Mentre spesso negli scrittori il titolo è più o meno un simbolo, un’immagine che bisogna prendere in un senso più generale e più poetico di come sarà la lettura del libro, in Balzac accade piuttosto il contrario. La lettura di quell’ammirabile libro che si chiama le Illusions perdues riassume e materializza piuttosto questo bel titolo: Illusions perdues. Significa che Lucien de Rubempré venendo a Parigi s’era reso conto che M.me de Bargeton era ridicola e provinciale, che i giornalisti erano furbi, che la vita era difficile. Illusioni tutte particolari, contingenti, la cui perdita può ridurlo alla disperazione; che danno una possente impronta di realtà al libro, ma che diminuiscono un po’ la poesia filosofica del titolo. Così ogni titolo deve esser preso alla lettera: Un grand homme de province à Paris, Splendeur et misere (sic) des courtisanes, A combien l’amour revient aux vieillards, ecc... Nella Recherche de l’Absolu, l’Assoluto è più una formula, una cosa di alchimia, che filosofia. Del resto se ne parla poco. Argomento del libro sono piuttosto i disastri che non l’egoismo d’una passione provoca in una famiglia amorevole che la subisce, qualunque d’altra parte sia l’oggetto di questa passione. Balthazar Claës è il fratello degli Hulot, del Grandet. Chi scriverà la vita della famiglia d’un nevrastenico, potrà fare una pittura dello stesso genere.

 

 

  Marcel Proust, Giudizio di Marcel Proust su Balzac. L’ammirevole invenzione (Trad. di Mario Picchi), «La Fiera letteraria», Roma, Anno V, N. 39, 1° Ottobre 1950, p. 5.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 556.

 

  Balzac per aver conservato talvolta uno stile inorganico, si potrebbe credere che egli non abbia cercato di rendere obbiettivo il linguaggio dei suoi personaggi, o, quando l’ha reso obbiettivo che non abbia potuto trattenersi dal far rilevare ad ogni istante ciò che vi fosse di particolare. E’ vero il contrario. Quest’uomo che mette in mostra ingenuamente i propri punti di vista storici, artistici ecc. nasconde i più profondi disegni, e lascia che la verità della pittura del linguaggio dei suoi personaggi parli da sé, tanto sottilmente che può passare inosservata e non cerca per nulla di segnalarla ...

  Lucien dice a se stesso: «Gli nei suoi «a solo», ha una precisa gaiezza volgare, l’acre effluvio della giovinezza incolta che deve piacere a Vautrin.

  – Lucien dice a se stesso: «Gli farò fare il collo lungo. E’ un dritto, prete, quanto lo sono io». E, difatti, Kaubin (? sic) non era il solo ad amare Lucien de Rubempré. Oscar Wilde, al quale la vita doveva, purtroppo!, insegnar più tardi che ci sono dolori più cocenti di quelli causatici dai libri, diceva nel suo primo periodo (nel periodo in cui diceva: «Le nebbie sul Tamigi non ci sono che in seguito alla scuola dei lakisti»): «Il più grande dolore della mia vita? La morte di Lucien de Rubempré in Splendori e miserie di una cortigiana (sic)». D’altronde c’è qualcosa di particolarmente drammatico nella predilezione e nell’intenerimento di Oscar Wilde, ai tempi della sua vita brillante, per la morte di Lucien de Rubempré. Indubbiamente egli ci si inteneriva, come ogni lettore, mettendosi dal punto di vista di Vautrin, che è il punto di vista di Balzac. E d’altronde per questo punto di vista egli era un lettore particolarmente indicato ed eletto per adottare questo punto di vista più completamente della maggior parte dei lettori. Ma non si può fare a meno di pensare che, qualche anno dopo, doveva essere lui stesso Lucien de Rubempré. E la fine di Lucien de Rubempré alla Conciergerie, quando vede crollata tutta la sua brillante esistenza mondana sotto la prova acquisita che egli viveva nell’intimità di un forzato, non era che l’anticipazione – sconosciuta ancora da Wilde, è vero – di quanto doveva esattamente capitare a Wilde.

  In quest’ultima scena della prima parte della Tetralogia di Balzac (poiché in Balzac, l’unità è raramente il romanzo; il romanzo è costituito da un ciclo di cui un romanzo non è che una parte) ogni parola, ogni gesto ha significati nascosti dei quali Balzac non avverte il lettore, e che giungono a profondità ammirevoli! Provengono da una psicologia molto speciale che non è mai stata fatta da altri se non da Balzac, ed è assai delicato indicarli. Ma ogni cosa, dal modo con cui Vautrin ferma per strada Lucien che non conosce e che, quindi, soltanto per il suo fisico l’aveva potuto interessare, sino ai gesti involontari con i quali gli dà il braccio, ecc. non tradisce il senso diversissimo e precisissimo delle teorie di dominio, di alleanza a due nella vita, ecc. con cui il falso canonico colora agli occhi di Lucien, e forse ai suoi stessi, un pensiero inconfessato? La parentesi a proposito dell’uomo che mangia la carta non è un ammirevole tratto del carattere di Vautrin e di tutti i suoi simili, una delle loro teorie favorite, il poco che si lasciano sfuggire del loro segreto? Ma, incontestabilmente, il pezzo meraviglioso dei due viaggiatori che passano dinanzi alle rovine del castello di Rastignac è il più bello. Lo chiamo la tristezza di Olimpio dell’omosessualità: «Volevano rivedere ogni cosa, lo stagno presso la fonte». Si sa che Vautrin, alla pensione Vauquer, nel Père Goriot, aveva formato su Rastignac, e inutilmente, lo stesso progetto di dominazione che ha ora su Lucien de Rubempré.

  E’ fallito, ha sbagliato, ma nondimeno Rastignac è stato molto immischiato alla sua vita; Vautrin ha fatto assassinare Taillefer figlio per fargli sposare Victorine. Più in là, quando Rastignac sarà avverso a Lucien de Rubempré, Vautrin, mascherato, gli rammenterà alcune cose della pensione Vauquer e lo costringerà a proteggere Lucien, e, anche dopo la morte di Lucien, Rastignac farà chiamare spesso Vautrin in una strada buia.

 

***

 

  Effetti di tal genere sono possibili soltanto in virtù dell’ammirevole invenzione di Balzac di aver mantenuto gli stessi personaggi per tutti i suoi romanzi. Per cui un raggio che proviene dallo sfondo di un’opera, passando su di un’intiera vita, può giungere a illuminare con bagliore malinconico e torbido la casa signorile di Dordogne e la fermata dei due viaggiatori.

  Sainte-Beuve non ha assolutamente capito nulla in questo fatto di conservare i nomi ai personaggi:

  «Questa pretesa l’ha finalmente portato a un’idea tra le più false e le più contrarie all’interesse, voglio dire far ricomparire continuamente da un romanzo all’altro gli stessi personaggi, come comparse già conosciute ... Niente è più nocivo alla curiosità e al fascino dell’imprevisto che costituisce l’attrattiva del romanzo. Ci si ritrova ad ogni svolta in faccia agli stessi personaggi». Così Sainte-Beuve disconosce proprio l’idea di genio di Balzac. Si potrà dire, senza dubbio, che non l’ha avuta subito. Certe parti dei grandi cicli non verranno congiunte che a cose fatte. Cosa importa? L’Incantesimo del Venerdì Santo è un pezzo che Wagner scrisse prima di pensare al Parsifal e che vi introdusse poi. Ma gli intarsi, le bellezze riportate, i nuovi rapporti intravisti a un tratto dal genio tra parti separate della sua opera che si ricongiungono, vivono e non potrebbero più separarli. Non sono queste tra le sue più belle intuizioni? La sorella di Balzac ci ha narrato la gioia che provò il giorno che gli venne questa idea, e io la trovo altrettanto gande che se l’avesse avuta prima di iniziare la sua opera. E’ un raggio che è apparso, che è venuto a posarsi nello stesso momento su parti della sua creazione sino allora opache, le ha riunite, le ha fatte vivere, illuminate, ma questo raggio è pur sempre proveniente dal suo pensiero.

 

 

  Gino Raya, Storia dei Generi Letterari Italiani. Il Romanzo di Gino Raya, Milano, Casa editrice Dottor Francesco Vallardi, 1950.

 

  p. 218. Francesco Viganò (1807-1891) risente del Balzac, (Masaccio il dissipatore, Emilio e Giulietta, ecc.).

  p. 279. Una formulazione avanti lettera del naturalismo e nel disegno della Comédie humaine (1842): l’ambizione di Balzac è di essere

  «un peintre ..., des types humains, le conteur des drames de la vie intime, l’archéologue du mobilier social, le nomenclateur des professions, l’enregistreur du bien et du mal».

  A ragione lo Zola ricorderà sempre con ammirazione e gratitudine quest’audace scrittore, avvicinandolo magari a Stendhal:

  «Ils faisaient (si legge in un saggio zoliano sul Naturalisme au théâtre) par le roman l’enquête que les savants faisaient par la science. ... Stendhal restait surtout un psychologue, Balzac étudiait plus particulièrement les tempéraments, reconstituant les milieux, amassait les documents humains, en prônant lui-même le titre de docteur en sciences sociales».

  p. 559. Egli [Guido Piovene] è così dominato dal veleno decadentistico che, persino in sede critica, parlando nel Balzac in un articolo pubblicato nel Corriere della sera del 5 marzo 1950 [cfr. supra], osserva e quasi deplora che la Comédie humaine non faccia posto a «un’immensa categoria di persone ..: i pigri, i tiepidi, i nevrastenici, gli uomini privi di passioni, gli indifferenti, quelli che si lasciano vivere o che non amano vivere ... Nulla di più lontano dell’arte di Balzac da quella di oggi. I personaggi d’oggi sono per lo più inappetenti, coscienti di essere inutili, passivi, senza libertà, succubi di forze estranee».

 

 

  Michele Risolo, Bizzarrie di un grande romanziere. Balzac venditore di guano e magnetizzatore poco magnetico, «La Nazione italiana», Firenze, 18 Luglio 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 558.


  Il 18 agosto ricorrerà il centenario della morte di Onorato Balzac. Parigi e la Francia letteraria non solo colgono, con la ben nota abilità, l’occasione per una propaganda eccezionale. Sul grande scrittore – il quale, sia detto per incidenza, riemerge più vivo che mai da quella specie di cortina fumogena in cui lo avevano avvolto, da un cinquantennio, i capziosi letterati dell’ultimo decadentismo francese – ma già danno l’avvio a una serie di manifestazioni caratteristiche, alcune delle quali rievocheranno quadri scene e figure del tipico mondo ottocentesco balzachiano.

  Balzac, è noto, fu, come uomo, uno degli esemplari più scervellati che mai fossero capitati al mondo: pretendeva di essere un uomo d’affari e trasferiva nella vita reale le sue fantasie di romanziere. Naturalmente, dal contrasto fra quelli ch’erano i sogni e le speranze iperboliche o assurde dello scrittore e i dati e fatti positivi della vita nascevano situazioni strane e talora paradossali, che davano luogo a un gran numero di aneddoti curiosi. E poiché nel mezzo secolo della sua esistenza Balzac fu tiranneggiato da un implacabile signore, il bisogno di denaro, e per conquistar ricchezza immaginò le imprese economiche più stravaganti, cotesti aneddoti, in linea generale, hanno per motivo o le sue strettezze finanziarie, o i suoi fantasiosi progetti, o, anche, le sue dissipazioni, chè non è dato trovare, nella grande famiglia degli scrittori, un dissipatore più incorreggibile di lui.

  Gli aneddoti più singolari sono quelli che ci mostrano l'autore di «Eugenia Grandet» alle prese con le mirabolanti costruzioni della sua fantasia al fine di accumular denaro e liberarsi al cosi dall’incubo, che sempre lo travagliava, delle numerose scadenze mensili. Ne riferisco uno dei meno noti.

  Quando Balzac si trovava alle Jardies – il bizzarro villino ch’era riuscito a farsi costruire a credito, con una trovata ingegnosissima si recarono un giorno a fargli visita Victor Hugo ed altri amici. C’erano arbusti etici, all’ingiro del fabbricato, e poco frondosi; soltanto un vecchio e robusto noce dispiegava la sua gran chioma alcuni metri più in là, ai margini del piccolo podere.

  — Finalmente un albero! — disse Hugo ammirandolo così alto e ricco di foglie.

  — Sì — rispose lieto Balzac — potete anche dire che è un bell’albero. L’ho comperato recentemente dal Comune. E sapete quanto mi rende?

  — Mah ... — aggiunse il poeta. — Siccome è un noce, suppongo che vi renderà un sacco di noci.

  — Non avete colto nel segno, mio caro. Esso frutta millecinquecento franchi all’anno.

  — Di noci?, fece sbalordito Hugo dinanzi a tal somma, per quei tempi enorme.

  — Non di noci, replicò Balzac: ma è un fitto ch’esso frutta, annualmente, un migliaio e mezzo di franchi in contanti.

  — Ma allora le sue noci son delle noci incantate.

  — Press’a poco. Però bisogna che vi spieghi, altrimenti vi riuscirà difficile comprendere come un albero solo possa fruttare 1500 franchi di rendita.

  La compagnia s’era frattanto avviata verso il noce portentoso e tutti fecero circolo aspettando con estrema curiosità la spiegazione del fatto eccezionale. Ed ecco come Balzac spiegò l’arcano:

  — Questo noce miracoloso apparteneva, come vi ho detto, al Comune, dal quale lo l’ho comprato a un prezzo abbastanza elevato. E perché? Per onesta buonissima ragione. Da tempi immemorabili tutti gli abitanti della campagna circostante sono obbligati a venir a deporre le loro immondizie sotto il tronco di quest’albero secolare.

  Victor Hugo e gli altri indietreggiarono, ma Balzac proseguì così con un sorriso:

  — Rassicuratevi, amici mici. Il noce, da quando l’ho comperato, non ha ancora ripreso, come potete constatare, le sue funzioni. Però, siccome nessun abitante del luogo ha diritto di sottrarsi a quella servitù, avanzo d’un antico costume feudale, voi potete agevolmente immaginare l’enorme quantità di concime che si accumula attorno a quest’albero. Non mi resta che farlo coprire di paglia o di fieno e venderlo poi ai fattori, ai vignaioli, agli ortolani, a tutti i fittavoli e proprietari dei dintorni. Essi devono ricorrere a me. Io possiedo quindi, in questo noce, dell’oro in verghe, A voler parlare in termini esatti, io accumulo e vendo del guano, del guano pari a quello che nelle isole disabitate del Pacifico miriadi e miriadi di uccelli depositano continuamente.

  Gli ascoltatori guardavano stupefatti l’incredibile visionario; poi, dopo un attimo di silenzio, Victor Hugo uscì in questo commento:

  – Sì, sì, voi avete del guano, non c’è dubbio: del guano meno gli uccelli che lo producono.

  Questo aneddoto è raccontato da Léon Gorlan (sic), ch’è una delle fonti più ricche di storielle balzachiane, nei suoi divertimenti e ormai introvabili libri «Balzac chez lui» e «Balzac en pantoufles». Non bisogna però credere che Balzac con trovate del genere, che sono senza numero, volesse prendersi gioco dei suoi ascoltatori. Pur non essendo un mistificatore per partito preso, come lo giudicava Jules Lecomte nel 1837 (Lettres sur les écrivains français, par van Engelgom), egli prestava fede alle invenzioni della sua fervida mente ansiosa di risolvere in qualche modo, e sia pure con stupefacenti ingegnosità, il problema del denaro. Inoltre, poiché aveva un’alta idea di se stesso, si riteneva fornito di virtù e capacità non comuni, nei più svariati campi. Fra l’altro, ritenne di poter fare perfino il magnetizzatore.

  Il fatto — tuttora ignoto, credo, In Francia, chè non ne ho trovato traccia — accadde a Milano nell’estate del 1838.

  Balzac, nel pieno della sua gloria, era in quei giorni ospite d’una famiglia milanese. Durante una conversazione, dopo aver vantato il proprio talento di magnetizzatore — le esibizioni di facoltà ipnotiche erano allora la gran novità e la gran moda dei salotti mondani — chiese di darne prova sopra un cameriere della casa. Si vide allora il piccolo e rotondo uomo, che il Lecomte aveva paragonato a un Falstaff di proporzioni ridotte, fare — come scrisse un testimone oculare — «occhiacci e modacci da spiritato» attorno al paziente seduto nel mezzo della sala; «disegnava, misurava, traslava gesti con le mani; sudava e trafelava per la tensione dell’animo e del corpo in quel lavoro». Energie sprecate invano; il cameriere rimase desto e vispo come prima.

  Si fece allora ricerca d’un soggetto più adatto, e lo si trovò in un tale Gattino, nano e gobbo. Ma anche il rachitico, benché debole e senza sangue, rimase per due sedute insensibile agli influssi magnetici del romanziere. Non è a dire quanto gli spettatori, e in primo luogo la famiglia ospitante, ne fossero costernati. Però, nel corso d’una terza seduta, dopo una buona mezz’ora di lavoro, ecco che il nano parve finalmente assopirsi. Balzac era raggiante e stava per continuare in attitudine trionfale l’esperimento quando la sciagurata vittima aperse, fra lo stupore dei presenti, gli occhi come vergognoso di quanto era accaduto. Gli fu chiesto quali fenomeni avesse avvertito. Rispose scusandosi d’essersi quasi addormentato ... per colpa della poltrona dove stava così bene adagiato e senza pensieri.

  «Non udii più Balzac parlare di magnetismo», conclude il testimone che riferisce l’aneddoto, ch’è fra i più singolari dei tanti che fanno estroso e variopinto alone attorno alla figura, fisicamente un po’ comica, del gran romanziere.

  Chi lo riferisce è Giovanni Raiberti, un medico poeta del primo Ottocento, autore, fra l’altro, d’un opuscolo umoristico, «Il volgo e la medicina», pubblicato nel 1840. In un’«Appendice all’opuscolo dell’anno seguente», Il Raiberti narra, con gustosa scrittura, i buffi e vani tentativi di Balzac magnetizzatore, dedicandovi il capitoletto finale, col titolo «L’uomo grande ed il nano».

 

 

  R. S., Corriere degli spettacoli. Excelsior. “La fortuna si diverte” 3 atti di Carlo Trabucco, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 112, 12 maggio 1950, p. 2.

 

  Ricordato la trilogia veneziana di Ludro? A un certo momento della sua carriera di briccone astuto e geniale, Ludro si trova contro con le malizie che il maestro gli ha insegnate, il suo allievo e servitore, Ludretto, temibile tanto che talvolta pare sia per strappare, dalle secche mani dell’impudente maestro, le chiome dorate della fortuna. Poi il più abile, il più esercitato, il più furbo dei due, cioè Ludro, vince. La commedia di ieri è tutta diversa; eppure in fondo ad essa è appiattata la formula che scatta e muove l’azione nelle tre commedie del Bon; e in tante altre, fra le quali è da comprendere il Mercadet di Balzac.

 

 

  Michele Saba, Onorato di Balzac in Sardegna, «La Nuova Sardegna», Sassari, Anno 60, N. 200, 27 Agosto 1950, p. 3.

 

  Venne nell’Isola per tentare una grande impresa mineraria con scarsissimo denaro e senza conoscenze - Sbarcò dopo lunga quarantena ad Alghero - Chiama “selvaggi” gli algheresi a cavallo verso l’Argentiera, poi a Sassari e a Cagliari - Amara delusione.

 

  La celebrazione dei due grandi romanzieri dell’ottocento, Maupassant e Balzac, ha portato alla ribalta rievocazioni, analisi, esaltazioni: nei giorni passati la stampa francese, e quella italiana hanno lungamente parlato dei due scrittori, fra i maggiori che la genialità francese abbia rivelato. Anche la «Nuova» ha ricordato Balzac nella viva rievocazione dell’amico, prof. Gaetano Balestrieri [cfr. supra], il quale ha ricordato, le maggiori opere del creatore della «Commedia Umana» e la commossa esaltazione che ne fece Victor Hugo.

 

Episodi poco noti.

 

  Può essere opportuno aggiungere qualche parola sugli episodi sardi della vita del romanziere, episodi che hanno interessato l’acume di Dionigi Scano e sui quali si sono soffermati i maggiori scrittori nostri, da Eugenio Marchese, compagno fedele di Quintino Sella nelle sue visite alla nostra Isola[6], a Enrico Costa[7] e Pasquale Tola, oltre a Sergio De Pilato che ha scritto un ottimo volume su «Balzac e il Mondo Giudiziario»[8] e a Mariano D’Amelio[9], il primo Presidente della Cassazione unica, che soffermò il suo esame alla conoscenza che il romanziere di mostrò di avere delle istituzioni del Diritto Commerciale.

  Balzac nel 1836 attraversava un periodo critico; inseguito dai creditori, ricercato dalla Guardia Nazionale, minacciato di arresto per debiti, abbandona la casa d’abitazione, assume il nome di dott. Gimbattista (sic) Niefe, riceve la corrispondenza al nome dalla vedova Durand. Vuole emergere tentare la vita politica; ma per essere eleggibile deve diventare proprietario. Acquista parte del capitale de «La cronique (sic) de Paris» trova i fondi, si dà anima e corpo all’iniziativa editoriale. Le rate scadute per l’acquisto di una casa in via Cassini si succedono: i precetti sono notificati, l’esecuzione è imminente: la «cronique» è liquidata il fallimento è dichiarato, gli effetti di comodo per ben tredici mila lire dell’epoca sono messi in esecuzione, da un momento all’altro potrebbe essere pronunziata contro lui «la contraiate par corps» potrebbe essere incarcerato a Gligny. Il tilbury è sequestrato e venduto, i verbali degli uscieri non riescono a raggiungerlo in un qualsiasi domicilio, si rifugia nell’appartamento dei Guidoboni Visconti, alla Avenue des Champs Elesees (sic). Ma donna lo denunzia, le guardie lo raggiungono in casa Guidoboni: per evitare l’arresto gli ospiti versano le somme dovute.

  E’ in questo turbinoso periodo, quando il romanziere fugge, si nasconde in un piccolo paese, attorno a Parigi, poi in Italia, che conosce, un patrizio sardo, il marchese Boyl di Putifigari, che lo ospita nella sua casa a Torino e gli parla lungamente della Sardegna, delle sue ricchezze e lo incita a visitarla. La visita di Balzac, già apprezzato romanziere, che aveva narrato le vicende di papà Goriot, dei parenti, poveri, di Vautrin, di Luciano di Rubempré, dei Nucingen, di Rastignac, costituirebbe un «grand avantage pour la Sardaigne, si un homme. dun talente (sic) voulait la faire connaître au monde comme une île très interessant (sic) et digne d’un meilleur sort», come scriveva il Boyl al cav. Pasquale Tolo.

 

Interesse per le miniere.

 

  E Balzac non esita: a quanti hanno seguito Luciano nelle sua ascesa parigina sotto l’influenza degli insegnamenti dell’abate spagnolo Carlo Errera (sic), quanti hanno notato come egli si soffermi nei volumi che raccontano le vicende di un grande uomo di provincia a Parigi, sulle vicissitudini della piccola industria, sulle risorse dei capitani dirigenti e sulle loro grandi concezioni e sui loro sogni per fortune grandiose non può apparire strano che il romanziere potesse sognar d’iniziare una grande industria. Egli doveva trasformare in ottimo metallo ciò che era abbandonato, buttato nelle scorie delle miniere isolane, decantate da scrittori di secoli lontani.

  A Genova aveva parlato con un negoziante, Giuseppe Pezzi: una speculazione in grande stile poteva essere tentata, lavorando le scorie argentifere che venivano abbandonate in grandi quantità presso le miniere sarde. Il Direttore della Scuola Militare di Saint Cyr, Monsieur Carraud, competente di chimica docimastica, intimo della famiglia Balzac, esaminò la possibilità del tentativo e la sua parola, di tecnico, di amico, valse a far decidere il romanziere ad affrontare il viaggio. Molte illusioni e poco denaro accompagnavano Balzac, nel quale si alternano speranze e dubbi, illusioni e scoraggiamenti.

  «Dans quelques jours, J’aurai pour mon malheur une illusione de moins», scrive alla Signora Carraud: e a Madame Hanscha (sic) deve esprimere le sue doglianze: «l’argent est très rare pour moi». Pare, avesse poco più di cinquecento franchi. Il 25 marzo 1838 è ad Ajaccio.

  E’ un soggiorno insopportabile per lui: vuole raggiungere Alghero, il punto più vicino per l’Argentiera: non conosce nessuno non vuole conoscere nessuno. «La civilization (sic) est là aussi primitive qu’au Groeland (sic)». Per vincere la noia compie studi su Napoleone, che ammirava in maniera eccezionale: così apprende che il padre dell’Imperatore era un agiato proprietario, non un usciere, che dopo la campagna dell’Egitto, i concittadini non accolsero con onoranze, come meritava, il vincitore di Nelson, ma con aperta ostilità.

  Dopo otto giorni, con una barca riesce a lasciare Ajaccio.

 

La quarantena in una barca corallifera.

 

  Ma non può sbarcare: come proveniente dalla Francia, per ragioni igieniche dopo una malattia epidemica, deve assoggettarsi ad una quarantena di cinque giorni. Una piccola barca corallifera, in balia delle onde, accoglie l’arbiter elegantiarum parigino che deve dormire sul tavolato, ed è costretto a nutrirsi di pesce e gallette. Scatta, si lamenta: «nous sommes condamnées (sic) à rester encore cinq jours en quarantaine sur cette petite imbarcation en vue du port» e, nel finale ingiuria gli algheresi: «ces sauvages ne veulent rien nous donner». «Savages» (sic) gli algheresi.

  In un giorno di forte vento stizzito per l’esosa sorveglianza, sofferente di mal di mare, chiede di ormeggiare il battello ad un anello della banchina. Ottiene risposta negativa: ma riesce a convincere un marinalo a buttarsi a mare e legare a forza il canapé alla riva. Era governatore di Alghero, don Andrea Cugia, Maggiore Generale della Regia Armata, il quale, infischiandosi della nazionalità francese e della gloria che circonda il nome dell’illustre romanziere freddamente fece rimuovere la fune e non consentì l’ormeggio che quando trascorse il periodo di quarantena. Balzac commentò che don Andrea aveva ragione a voler dare prova della sua autorità, e della sua onnipotenza.

  Cessata la quarantena, rimane poche ore ad Alghero; a cavallo si reca all’Argentiera attraverso colline e boschi.

  Senza soste, digiuno compie 40 km. di strada, esamina le scorie nelle vicinanze delle miniere abbandonate, raccoglie campioni, brucia le tappe, raggiunge Sassari, la «deuxième capitale de l’isle» (sic), e in diligenza poi arriva a Cagliari. Ma qui la delusione lo attendeva; mentre discuteva col prof. Carraud sul piano tecnico finanziario, il previdente Pezzi aveva ottenuto dal governo piemontese il permesso per la concessione, d’accordo con una ditta di Marsiglia. Il Pezzi aveva inviato tecnici che pervennero ai medesimi risultati cui era arrivato il prof. Carraud; il trattamento fatto alle scorie poteva fare ottenere il 10% di piombo e da questo il 10% di argento. Balzac si conforta: «mes coniettures (sic) étaient fondées» scrive da Cagliari a Madame Hanscka, rifacendosi così della delusione amara.

  Cinquanta giorni era rimasto in Sardegna, sopportando le più dure privazioni e sofferenze.

  Ai primi di maggio è a Milano, ospite del Visconti. Da Cagliari aveva scritto alla sorella una serie di progetti; se il primo fosse fallito, avrebbe ripreso il secondo, e ne aveva un terzo ancora in mente, nella genialità che lo accompagnava nelle sue iniziative.

 

Le uova a Bonorva.

 

  Non c’è traccia nei romanzi balzachiani della sua spedizione isolana: «non un cenno nei suoi romanzi mi fu possibile riscontrare sulla Sardegna», ha scritto Dionigi Scano: (Mediterranea -I-I) salvo la tradizionale panzana dell’opposizione degli abitanti di Bonorva alla costruzione della strada attraversante il paese per tema di un rincaro delle uova; panzana che risale alla costruzione della prima strada rotabile Cagliari Sassari e che venne attribuita agli abitanti di diversi paesi».

  Ma se non ha scritto sui sardi e sulla Sardegna nei suoi romanzi, Balzac si è sfogato coi cuoi familiari, coprendo i sardi di grossolane ingiurie, quasi a ringraziare il suo anfitrione marchese Boyl di Putifigari dell’ospitalità con la quale lo aveva accolto nella casa torinese. «Comunque, giova qui notare – scrive Enrico Costa — (Sassari III pag. 611 Gallizzi 1937) che il Balzac scrivendo alla stessa sorella del suo viaggio in Sardegna le dice che trovò in Sardegna dei «veri briganti che non gli rubarono nulla». «I sardi mi hanno dato soddisfazione su quanto ho loro chiesto e io credo fermamente, Dio mi perdoni, che essi anziché chiedermi del denaro, me ne avrebbero di buon grado prestato». Generoso concetto che può soddisfare il nostro orgoglio isolano.

 

***

 

  Enrico Serpieri, di Rimini, amico di Felice Orsini, segretario della Costituente Romana nel 1849, doveva realizzare i progetti di Balzac: egli fu autore della protesta nobilissima che l’assemblea repubblicana romana elevò contro l’intervento francese a favore di Pio IX. Condannato all’esilio, si stabilì in Sardegna, e nel periodo in cui rimise nell’Isola riprese, non si sa se per caso o per ispirazione di interessati industriali genovesi, gli antichi progetti di Balzac e del Pezzi. A Domusnovas le scorie furono raccolte e sfruttate; non solo, ma l’iniziativa del Serpieri, che è altamente elogiata da Quintino Sella e da Dionigi Scano, fu estesa alla Grecia, con risultati concrei nella creazione di un’industria che ha giovato ai due paesi.

  Domusnovas in Sardegna, Laurium in Grecia, sono i due campi di sfruttamento delle scorie minerarie, che si sono potute concretare per l’intuizione geniale della grande mente di Onorato di Balzac e che è opportuno ricordare ora a suo onore, anche se non valsero a dargli lavoro tranquillo e serenità creatrice.

 

 

  Alberto Savinio, Il caviale di consonanti sopra il pane di vocali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 75, N. 166, 14 luglio 1950, p. 3.

 

  Ho letto in questi giorni Saggi sul realismo di Giorgio Lukàcs (Einaudi ed.). Si parla anche della polemica tra Balzac e Stendhal. Che c’entra Stendhal col realismo? Il realismo, in fondo, è la realtà (realtà è tutto, vero?) ridotta ad usum delphini. Realismo è quello che della realtà vede l’uomo comune. Realista era Balzac, questo poeta dell’ovvio. (Non sono mal riuscito a leggerlo). Ed è giusto che Lukàcs lo abbia tra i suoi autori preferiti. Autore perfettamente innocuo. Benvisto dunque dai regimi totalitari. Ma che autore è quello che fa vedere ciò che vedono tutti; non scopre nulla di ciò che gli altri non vedono? Che c’entra Stendhal, che della realtà vede tutto quello che i realisti non vedono, dice tutto quello che i realisti non dicono?

 

 

  Guido Seborga, Un italien devant Balzac, «Europe. Revue Mensuelle», 28e Année, N.os 55-56, Juillet-Août, 1950, pp. 142-144.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 556.


  Je ne pense pas qu’il puisse exister un seul écrivain qui, à un moment donné de son développement, n’ait lu et relu Balzac.

  D’une manière générale, je pense qu’il y a lieu de faire une distinction entre les livres que nous avons lus pour notre information et dans un but de culture générale, et ceux que nous avons lus et relisons en y trouvant un intérêt plus déterminé, plus précis, parce que plus proches de notre nature, parce que pouvant chaque jour nous être d’un grand enseignement en accord avec la civilisation que nous tentons d’exprimer.

  Je veux dire par là qu'après une période de travail général pendant laquelle nous étudions et nous lisons toutes les oeuvres de (tous les pays, pour connaitre toutes les littératures ; après une telle période, on parvient à une époque de choix qui porte vers les oeuvres qui sont plus spécifiquement semblables à la nouvelle ligne de travail recherchée et que l'on espère savoir trouver. Ces lectures-là sont sans aucun doute d’une plus grande valeur, plus authentiques, parce qu’elles nous font sortir d’une culture générale, nous donnent une plus grande connaissance, une plus grande conscience de nous-mêmes et de notre civilisation.

  Parmi les auteurs qu'avec raison nous sentons toujours nécessaires, Balzac se place en première ligne ; en ce qui me concerne, il est précisément en première ligne, avec Gorki, Foscolo, Verga, Gramsci.

  Ce sont des pages que j’ai peut-être un peu oubliées, ces derniers temps, mais qui ont constitué, avec quelques autres textes, des moments éminents de mon développement. La cause en est peut-être dans le fait qu’un auteur aussi grand que Balzac a le mérite, entre tant d’autres, de nous reporter à une époque passée, la sienne, et de nous donner en même temps des enseignements qui restent valables. Et cependant les modifications que la nouvelle histoire apporte en nous, nous font mieux comprendre des choses que l’auteur ne pouvait encore dire et que nous pouvons et devons dire aujourd’hui.

  Car la vie, suivant une dialectique continue, se développe continuellement, et rend par cela même nécessaire, notre activité. (Je parie évidemment ici d'une activité humaine et intellectuelle, car le résultat artistique, on le conçoit bien, est tout autre chose ...). Et c’est pourquoi même un grand auteur comme Balzac ne peut jamais épuiser complètement notre vie, pour petite et insignifiante qu'elle soit ; mais au contraire, il nous laisse libre de la continuer, de la rendre réelle. Il est certain que des auteurs sans valeur n’auront jamais sur nous une action aussi positive : leurs livres sont à proprement parler oubliés, et oubliés pour toujours.

  Il est, dans l’oeuvre de Balzac, un enseignement que je sens toujours particulièrement vivant (et il correspond aux questions qu’Europe a posées avec beaucoup d’exactitude, et auxquelles je cherche à répondre; et elles me donnent précisément l’ordre de mes réponses) — celui qui consiste à savoir mettre toute la vie sur le même plan horizontal; considérations politiques, économiques, religieuses, tout comme les descriptions de milieux, et l’action du roman et des personnages, tout est pour Balzac, matière à roman.

  Le réalisme contemporain mène justement de nos jours une lutte semblable contre les petits romans académiques, tout en employant une méthode et une sensibilité différente. Mais même un réalisme naissant se préoccupe de la vie ordinaire et non de la culture scolaire (et il appartient d’autant plus à un auteur italien de préciser ce point, qu’il a dû mener et doit encore mener une lutte très dure contre le classicisme le plus facile et le plus abstrait), même un réalisme issu de l'histoire d'un peuple, et non des ambitions de liberté privée d’une seule classe, même un réalisme nourri de la réalité nationale et populaire, sait peut-être, de façon plus consciente que Balzac ou Verga, que toute réalité doit être vue et imaginée, non pas à travers un automatisme facile, mais une dialectique nettement historique dont le but précis est de transformer le monde.

  Voilà, somme toute, le point qui nous éloigne du grand Balzac ; mais peut-être ne serions-nous pas arrivés à ce point, si, avant nous, nous n’avions trouvé ce maître du roman.

  A mon sens, un auteur est grand lorsque, lisant et relisant son oeuvre, nous y trouvons toujours une partie vivante, même si, par une autre partie, il ne nous touche plus nous, hommes d'aujourd’hui. (C’est justement cette partie qui nous permet à nous d’être vivants et nouveaux.)

  Au contraire, un auteur ne vaut plus grand-chose, lorsque nous sentons, en relisant son oeuvre, qu’elle n’apporte plus aucun enseignement à notre anxiété de vivre, d'exprimer, de transformer; étant donné, à ce qu'il semble, que nous avons été jetés pêle-mêle dans ce monde et que nous y sommes conditionnés par une société détestable, ce n’est que par la dynamique qui transforme les situations que nous pourrons trouver notre propre vérité.

  C’est pourquoi nous pouvons dire que Balzac n’avait pas le sens de la révolte, de la révolution scientifique, de la lutte de classes que nous possédons maintenant. D’autres auteurs nous enseigneront et nous enseignent déjà, avec notre propre expérience de la vie quotidienne, à nous séparer nettement du passé. Et c’est dans ce sens seulement que nous nous sentons libres, et garants de l’avenir de tous les hommes, que nous sommes conscients de la lutte que nous menons pour la justice et la liberté.

  En ce qui nous concerne plus particulièrement, nous autres Italiens, je dois dire que l’oeuvre de Balzac n’a cependant pas eu une grande influence sur la classe dite cultivée; celle-ci, plus peut-être que dans d’autres pays, a toujours préféré se perdre dans des subtilités d’origine théologique et esthétique, avec beaucoup de dogmatisme, plutôt que de poser les problèmes réels et concrets nés de l’affliction du pays et du peuple et, partant d’une telle base, inventer la nouvelle parole.

  Le fameux et célèbre Benedetto Croce, du reste, n’a fait que continuer pieusement cette position traditionnelle; mais tout autre est la ligne de notre civilisation la plus puissante et la plus authentique, tout autres sont nos Galilée, Bruno, Campanelle, Foscolo, Verga, Gramsci. Et pour sûr, un romancier de l’importance d’un Giovanni Verga a su s’enrichir de l’enseignement de Balzac et, aujourd’hui encore, nos conteurs les plus récents, tel, par exemple, un Corrado Alvaro, s’enrichissent de la même manière.

  L’enseignement de Balzac a pour eux une valeur d’autant plus grande qu’il est plus éloigné de toute influence trop directe; mais se place plutôt sur la verticale d’un courant dialectique vers des possibilités de nouvelle création.

 

 

  Agostino Severino, Introduzione, in H. de Balzac, Lettres à l’Étrangère… cit., pp. 7-18.

 

  Nel 1832, a trentatre anni, Balzac era nella pienezza della sua tormentata maturità; le innumerevoli delusioni nella vita degli affari, in cui s’era gettato con l’avidità del borghese che vede il mondo dominato dal denaro e aspira a quello come a prima fonte del potere e del piacere, non avevano scosso la sua fiducia nel successo; e le speculazioni si accompagnavano serratamente all’attività letteraria: un’attività quasi febbrile, accentuata dalla fortuna che le Scènes de la vie privée — una delle grandi partizioni della Comédie humaine — trovavano presso i critici e il pubblico, anche fuori della Francia.

  E non soltanto al possesso dell’oro tendeva il “borghese” Balzac; bensì anche a mischiarsi con quella società aristocratica che, nonostante i rivolgimenti sociali dell’Ottantanove, ostentava un certo dispregio per la borghesia rurale, insediatasi a Parigi nel tempo della Restaurazione. Un segno di questa manìa innocente di acquistar prestigio presso la gente altolocata fu il de ch’egli aggiunse al suo cognome, e soprattutto la tendenza a stringere amicizie femminili tra la nobiltà parigina, dopo che l’appassionato amore che aveva legato lui giovane e ardente di speranze alla signora de Berny (la Dilecta, com’egli la chiamò poi sempre) già avanti negli anni, s’era mutato in tenero e quasi filiale affetto. Fu, quello, il primo incontro di Balzac con l’amore: esperienza soave e delicata ch’egli ritracciò delineando nel Lys de la vallée (sic) la figura di Madame de Morteauf (sic). Altre esperienze furono meno felici e non senza amarezza per il romanziere, che ne ritrasse un sentimento sconsolato e scettico dell’anima femminile, di cui troviamo il segno nelle analisi della vita coniugale e della psicologia femminile, più ancora in talune Scènes de la vie privée e de la vie de province che nella famosa Physiologie du mariage. La vicenda narrata nella Duchesse de Langeais è la vendetta dell’innamorato Balzac, dapprima attratto dalla bellezza e dalla seduzione d’una «donna del bel mondo», poi respinto e abbandonato: vendetta sottile contro la bella marchesa de Castres (sic) che tanto lo fece soffrire. 1

  Il 28 febbraio 1832 l’editore Gosselin, che aveva allora pubblicato La peau de chagrin, rimise a Balzac una lettera arrivata per lui dalla Polonia: era una lettera di donna, firmata L’étrangère, e diceva tutta l’ammirazione d’una lettrice delle Scènes e la curiosità e l’interesse per lo scrittore.

  E non fu l’unica. Altre egli ne ricevette con lo stesso mezzo, finché una, datata 7 novembre 1832, annunziò a Balzac che l’ignota avrebbe svelato il mistero della sua persona. Diceva: «Un mot de vous, dans La Quotidienne, me donnera l’assurance que vous avez reçu ma lettre, et que je puis vous écrire sans crainte. Signez-le: A l’É.... H. de B.».

  Il 9 dicembre La Quotidienne recò la nota richiesta dall’Étrangère, e la corrispondenza tra lei e il romanziere cominciò; cominciò anche l’appassionato idillio che dopo diciassette anni si conchiuse con un matrimonio senza speranza.2

  Era, l’étrangère, una nobildonna polacca, più giovane di Balzac di cinque anni, lettrice assidua, sognatrice, amante dei viaggi e delle relazioni d’amicizia nella società cosmopolita.

  Evelina Rzewuski, contessa polacca, era andata sposa a Venceslao de Hanski; dal matrimonio erano nati sei figli, dei quali unica vivente la piccola Anna. La famiglia abitava l’antico castello di Wierzchownia, in Ucraina. Evelina (Balzac la chiamò sempre Eva) era una bella donna nei suoi ventott’anni: alta, slanciata, con un gran casco di capelli neri; il ritratto del Daffinger, di cui Balzac possedette una copia in miniatura, la rappresentava nel fulgore della sua femminilità seducentissima. Testolina romantica, Evelina fantasticava sui romanzi balzacchiani, molto noti in Russia dove unica lingua di cultura era il francese; e viva curiosità la pungeva per lo scrittore fecondo e geniale che mostrava di aver penetrato a fondo il cumulo delle umane passioni e delle umane miserie e forse n’era egli stesso toccato. Curiosità più per l’uomo che per lo scrittore, desiderio di sapere fino a qual punto egli s’immedesimasse con questo o quello dei suoi personaggi, spinsero la contessa Hanski a scrivergli; e fin dalle prime lettere di risposta (la corrispondenza ha inizio nel gennaio del 33), Balzac dovette scagionarsi di quei mali dello spirito e del corpo di cui Evelina lo credeva intinto. «Mettez, madame, les choses qui vous choquent dans mes ouvrages sur le compte de cette nécessité qui nous force à frapper fortement un public blasé ... Si vous me connaissiez personnellement, si ma vie solitaire, si mes jours d’étude, de privations et de travail vous étaient contés, vous déposeriez quelques-unes de vos accusations et vous reconnaîtriez plus d’une antithèse entre l’homme et ses écrits».

  E l’uomo, lasciato intatto da tutto il tumulto delle passioni, dalle più nobili alle più vili, ch’egli fingeva come moventi d’azione nei suoi personaggi; l’uomo sospinto giornalmente dalla necessità del denaro, come qualsiasi altro dei figli della «hideuse bourgeoisie qui mène les affaires», soprattutto il romantico insaziato che in lui sonnecchiava, si gettò a capofitto nell’avventura, cioè nel sogno.

  «Quand on a trente ans et que l’on n’a point usé la vie ni le coeur, avec quelle passion l’on saisit un mot d’amitié, une parole tendre! ...». Il fascino dell’ignoto ha conquistato la sua anima sognatrice: «Si vous daignez excuser la folie d’un coeur jeune, et d’une imagination toute vierge, je vous avouerai que vous avez été pour moi l’objet des plus doux rêves; en dépit de mes travaux, je me suis surpris plus d’une fois chevauchant à travers les espaces et voltigeant dans la contrée inconnue où vous, inconnue, habitiez seule de votre race». Romanticismo, sì, «mais qui osera blâmer le romanesque»?

  No, la straniera non ha il diritto di temperare tanto giovanile entusiasmo, e Balzac, dal canto suo, non potrebbe giudicar severamente la condotta della sua amabile corrispondente, che altri taccerebbe di leggerezza. «Vous avez bien éveillé des curiosités diverses en moi; vous êtes coupable d’une délicieuse coquetterie qu’il est impossible de blâmer».

  Ben presto la singolare avventura si colora e si precisa nel cuore del romanziere, fin’allora vissuto, egli che così acutamente penetrava le forme della vita associata, quasi all’infuori della vita: la sua solitudine scontrosa n’è tutta illuminata. «Si vous saviez avec quelles forces une urne solitaire et dont personne ne veut s’élance vers une affection vraie! Je vous aime, inconnue, et cette bizarre chose n’est que l’effet naturel d’une vie toujours vide et malheureuse, que je n’ai remplie que par des plaisirs chimériques». E confessa la sua vita non lieta, si apre con una sincerità dolorosa: «je n’ai eu ni le temps de faire le mal, ni le loisir de me laisser aller au bonheur».

  E mentre così va aprendo l’animo suo, desidera di conoscere tutto della donna che gli si offre in pagine che purtroppo sono andate perdute. 3

  «Exaucez mes demandes relatives aux détails de votre vie; faites que quand ma pensée se tourne vers vous, elle vous rencontre, qu’elle voie ce métier à tapisserie, la fleur commencée; qu’elle vous suive dans toutes vos heures. Si vous saviez comme souvent la pensée fatiguée veut un repos en quelque sorte actif! combien est bienfaisante pour moi cette douce rêverie qui commence par «en ce moment, elle est là, elle regarde telle chose!». Et moi qui accorde à la pensée le don de franchir les espaces avec assez de force pour les abolir! Ce sont mes seuls plaisirs au milieu de ces travaux continus». A poco a poco diventa esigente. «Vous me devez toutes vos pensées. J’en suis jaloux». E teme di essere insistente più di quanto convenga: «Pardonnez-moi, ma chérie, mais je vous aime comme aime un enfant, avec toutes les joies, toutes les superstitions, toutes les illusions du premier amour».

  Nel luglio del 33 la famiglia Hanski va a soggiornare in Isvizzera, e Balzac può finalmente incontrarsi con Eva a Neuchâtel dal 26 settembre al 1° ottobre. Adoremus in aeternum. «Mon Eva chérie — scriverà egli dopo l’incontro — voici donc une nouvelle vie bien délicieusement commencée pour moi. Je t’ai vue, je t’ai parlé; nos corps ont fait alliance comme nos âmes et j'ai trouvé en toi toutes les perfections que j’aimais; chacun a les siennes et tu as réalisé toutes les miennes».

  D’ora in poi la corrispondenza si fa serrata, almeno per Balzac, giacché la Hanska, obbligata a cautela, non sempre può soddisfare l’impaziente attesa dell’amante. Il quale si abbandona a lunghe confidenze, felice di far partecipe Eva di una vita di lavoro e di ansie ch’egli vive febbrilmente; scrivere, sempre più scrivere, sotto l’assillo degli editori, mentre il pubblico aspetta un romanzo dopo l’altro; oramai l’ambizione lo tormenta: «Je voudrais que la terre entière pût parler de moi avec admiration, pour qu’en posant ma tête sur tes genoux, tu eusses le monde à toi».

  E, insieme col racconto minuzioso delle vicende editoriali, delle circostanze in cui nascono i romanzi e si delineano nella sua mente le situazioni e i personaggi, anche il racconto delle sue alterne fortune economiche; l’istinto, il gusto della speculazione finanziaria è più forte d’ogni sentimento, e poche di queste molte lettere d’amore sono senza accenno agli eterni ennuis d’argent. Talvolta Balzac avverte di avere esagerato, e garbatamente se ne scusa. «Pardonne, mon Éva d’amour, de te parler de mes affaires mercantiles; mais c’est ma tranquillité; c’est ce qui me permettra sans doute d’aller à Genève » (dove ebbe luogo il secondo incontro). E talvolta si rassegna alle sue lotte economiche cui non arride il successo. «Je suis trop heureux dans les belles régions de l’âme et de la pensée pour que je sois heureux dans les intérêts mesquins de la vie». Ma il tarlo rode forte, e non gli dà requie ... «ne parlons plus des choses matérielles de la vie qui cependant pèsent tant sur nous. Combien tu me fais désirer de nouveau la richesse!».

  Dopo il secondo convegno a Ginevra (dicembre 33- gennaio 34) il legame si fa più stretto; Balzac è sicuro che l’amore durerà in aeternum, la Hanska è tanto gelosa! Ed egli a rassicurarla, come al principio della loro relazione: «Mon amour idolâtrée, plus de doutes jamais, entends-tu! Je n’aime que toi. Éva est ton nom symbolique. Il y a mieux; je n’ai pas aimé dans le passé comme je sens que je t’aime. Toi, toute ma vie d’amour peut t’appartenir». E i due si prometteranno di sposarsi un giorno.

  Ma intanto bisogna fare i conti con Venceslao Hanski; e nel settembre del 34 due lettere di Balzac capitano nelle mani del marito. Ci vuole tutta la virtuosità d’un consumato romanziere per inventare e far accettare la favola bella con la quale Balzac se la cava onoratamente e salva Elena dal disonore. D’ora in poi il «voi» prende più di frequente il luogo del «tu» confidenziale.

  Un giorno, la Hanska ha domandato all’ amante «comment on pouvait s’aimer, vivre et se perdre en aimant toujours». Lei stessa farà la triste esperienza, e, dopo la morte del marito, libera di sé, ma angustiata da rovesci familiari, preoccupata dell’avvenire della figliola e impegolata in noiosi processi per questioni di eredità, dilazionerà fino al limite possibile il vagheggiato matrimonio con lo scrittore. Noi non abbiamo le sue lettere e ci mancano i documenti diretti; ma, da ciò che scrive il povero Onorato, ansioso di coronare il sogno d’amore, dobbiam credere che nella Hanska l’amore fosse temperato da molta esitazione e che, amante d’un grand’uomo, essa temesse quel peso delle «infiniment petites choses du mariage qui font que deux êtres mariés par amour finissent par se haïr» studiate finemente da Balzac in una delle Scènes de la vie privée. Soprattutto essa «sapeva» che la salute di Onorato era minata.

  E tuttavia non deluse l’aspettativa del romanziere che le era stato per diciassett’anni fedele; e quand’egli, colpito dal male., condannato senza scampo, s’attaccava ancora a una disperata necessità di credere nella vita, Evelina acconsentì alle nozze.

 

***

 

  In verità, Balzac già dal 1834 (quando le lettere ad Eva — o a Lina o Linette, come la chiamerà talvolta —. divengono più lunghe e sono una sorta di diario) sopportava uno sforzo immane, di gran lunga superiore alla sua capacità fisica e di lavoro, ch’era pur notevole; la fatica incideva lentamente la fibra robusta dello scrittore, sospinto dal proprio genio, e più dall’ingordigia degli editori e dal bisogno del denaro, a dar fondo all’analisi spietata della società, a dipingere «le grand monstre moderne sous toutes les faces». La genesi e il travaglio della gigantesca Comédie humaine si trovano, ancor più che nei due volumi della Correspondance, in queste lettere alla signora Hanski (sic), dove la sincerità prevale su tutto, e Balzac gode di sentire la donna partecipe della creazione artistica, e compagna delle gioie e delle ansie ch’essa gli procura.

  Molta della robustezza dello stile cede in queste lettere, dove gli elementi romantici prevalgono; è piuttosto uno stile familiare, senza ricercatezze, proprio degli scrittori che cercano uno sfogo alla pienezza dell’animo nelle aperte confidenze. Balzac sapeva di scrivere lettere non destinate al pubblico, e non era ancora venuta su la voga degli epistolari e dei giornali intimi. Tuttavia in qualche pagina è facile avvertire l’unghia del leone anche quando non si tratta che di quelle mille espressioni deliziosamente semplici che son proprie degli innamorati di tutti i tempi e di tutte le lingue.

  La stessa vita intensa che Balzac prestava possentemente ai suoi personaggi è quella del suo grande amore, vissuto giorno per giorno; era, questo amore, il rifugio dell’uomo affaticato e stanco, che un dèmone interno teneva avvinto a un lavoro intellettuale durissimo. La fedeltà a quest’amore ha del prodigioso, e stupisce in un uomo che in ogni altra manifestazione della vita era grossolano e quasi volgare.

  Col passar degli anni, il carattere di Balzac si fa più capriccioso e s’incupisce, mentre, cadono come vecchi scenari molte delle illusioni di gloria (l’Accademia gli resta ostile e chiusa). L’urto con la famiglia acuisce la solitudine che lo avvolge dalla morte della signora di Berny. «Je n’ai pas de famille, pas plus que vous!» egli scrive alla Hanska, e aggiunge: «Je ne vous raconterai pas les milles gouttes de fiel qui font déborder la coupé entre ma famille et moi ... Je ferai donc une famille nouvelle, grâce à l’adorable femme qui a fait Anna».

  In quegli anni, come Evelina insisteva sui motivi della gelosia, così Balzac si compiaceva di comparar lei alle donne che lo avevano amato. Il ricordo delle signore di Berny e di Castres è frequente nelle lettere; Balzac vi ritorna spesso per affermare che nessuna traccia quelle donne han lasciato e ch’egli ama, ora, con tutto il trasporto d'un primo amore. Ma sotto le frasi appassionanti sentiamo una certa compiacenza e quasi una vanità di maschio, che non è sempre di buon gusto.

  Il breve soggiorno di due mesi a Pietroburgo (dove nel 1843 si è recato a riveder l’amata, e quanto lavoro per raggranellare il denaro per un viaggio così lungo e costoso!) rafferma il proponimento delle nozze. «Tu en as vu l’effet dans ces deux mois: je suis parti dans l’extase où j’étais le premier jour», scrive ricordando le delizie di quel soggiorno e l’immutato affetto dell’amante. La quale, sempre più presa dalle cure della famiglia, osteggiata dai parenti che vedono nel «francese» un avventuriero e un cacciatore di dote, desiderosa di fare anzitutto la felicità della figlia, rimanderà sempre con pretesti speciosi le nozze tanto sospirate da Balzac, anche quando potrà disporre liberamente di sé. E Balzac, fiducioso, tenero, si sottometterà alla lunga attesa. «Qui dit amour dit souffrances: souffrances d’attente, souffrances de combats, souffrances de séparation, souffrances de désaccord. L’amour est par lui-même un drame sublime et pathétique». Intorno al 1844 Evelina inganna il tempo scrivendo una novella; scrittala, avverte che è ben lungi dall’aver fatto un capolavoro, e brucia il manoscritto. Ma ne racconta il soggetto in una lettera a Balzac, e questi ne trae lo spunto per Modeste Mignon. «Les Débats ont acheté six mille francs Modeste Mignon. Ah! cher ange, vos oeuvres futures ne les jetez pas an feu; envoyez- les-moi désormais!».

  C’è nelle vene dello scrittore una febbre che divora: produrre, produrre sempre di più; dodici, sedici ore di lavoro giornaliero, per liquidare definitivamente i creditori, per acquistare a Parigi una casa dove la cara Eva possa entrar da regina. Invano il medico esorta alla calma e al riposo; invano predice che la fine è vicina, se non cessa il sovrumano sforzo intellettuale e fisico a cui il romanziere soggiace. No: Balzac è convinto di avere una salute di ferro; lavorare bisogna, lavorare e sperare. «Je vais donc travailler dix-huit heures par jour, d’ici au 1er janvier [1845]. Si je sors de là malade, ou perclus pour l’amour, que la volonté de Dieu soit faite à mon endroit! ... Le chagrin me consumera». Crisi di disperazione punteggiano amaramente questa fatica da titano; talvolta, per brev’ora, Balzac non ha più fiducia nelle cose umane, ma la fede in se stesso e nell’amata non l’abbandona mai. «Oh! vie aimée, trésor à moi, chère petite file, travaille de tes petites pattes de taupe pour élargir le trou de ta geôle et que l’heure décisive de notre belle et adorable existence ne tarde pas. J’en vivais, de cet espoir; maintenant, j’en meurs! J’ai des impatiences, des doutes. Je crains tout: la guerre, la mort de notre Louis-Philippe, la maladie, les obstacles, renaissent dans mon imagination. Je vois les affaires étreignant et lassant mon cher compagnon, et sa constance se lassant aussi. Ne pensons plus à cette triste fortune. Je ferai fortune, moi!».

  Nel 47, dopo il matrimonio della figlia, Evelina compie il viaggio di Parigi, che da gran tempo vagheggiava: che delusione! La casa stretta, inospitale, così diversa dal fastoso castello degli Hanski. L’anno dopo, i due si ritrovano insieme in Italia. Poi, mentre Balzac sente ancor più vivo e pungente il bisogno di averla accanto a sé («je sens que je ne pourrai reprendre mes travaux qu’après avoir vu ma vie arrêtée, fixée, arrangée»), Evelina è ripresa dai dubbi e dalle incertezze. Gl’incontri si fanno più frequenti —- nel marzo del 46 a Roma, in ottobre a Wiesbaden — e più angoscioso è il distacco, ciascuna volta che il romanziere ritorna solo a Parigi. «J’ai soif d’un home, d’un chez moi; j’ai soif de boire à long traits la vie en commun, la vie à deux!».

  Nel 48 eccolo ancora in Russia. Comincia, in quel clima inospitale, il lungo seguito dei malanni («décidément, ma nature se refuse à l’acclimatement. Ce pays-ci est impossible pour les tempéraments nerveux»); la salute è oramai compromessa senza rimedio soprattutto per l’inguaribile disfunzione cardiaca.

  Evelina Hanski comprese che ogni indugio sarebbe stato una crudeltà. E accondiscese a sollecite nozze, che furon celebrate il 14 marzo 1850. La gioia del romanziere fu piena, senza nubi, come soddisfatto il suo orgoglio quasi puerile, e pur commovente nell’ora tragica che volgeva per lui, inconsapevole e sereno nella raggiunta felicità: «il y a donc ... une Mme Ève de Balzac, née comtesse Rzewuska». E si rallegrava di esser divenuto, con quel matrimonio, un lontano parente della regina Maria Leszczinski!

  A primavera inoltrata la coppia partì per Parigi. Lungo e faticoso fu il viaggio per Balzac, che a Dresda si ammalò nuovamente; gli sposi entrarono in Parigi il 20 maggio.

  Tre mesi dopo, la morte spezzava insieme e il lungo sogno e la breve realtà. «È morto felice, perché è spirato nella piena, realizzazione d’un amore puro, che l’aveva sostenuto tra le prove più amare che la sorte possa infliggere a creatura umana». La vedova, ispiratrice e custode di tanto amore, parve inconsolabile. «Vous ne savez pas combien il faut de courage pour vivre quand la vie n’est plus que souffrances, quand le coeur n’est qu’une plaie vive et saignante, et que le présent ne se révèle que par la douleur et qu’il n’y a plus d’avenir!» scrive al dottor Nacquart, che ha assistito amorevolmente il marito. Parole!

  Poco durò la fedeltà di Eva alla memoria del grande che l’aveva amata tanto, e forse immeritatamente. L’anno dopo, nel marzo 1851, il giovane Champfleury (che allora apparteneva alla scapigliatura parigina, e al secolo borghese era Jules Husson, 1821-84) andò a trovarla, e lei se ne innamorò pazzamente. La relazione durò un anno; e tanto la donna era presa del suo amante che divisò di affidargli il seguito e il completamento delle opere lasciate incompiute dal marito. Champfleury, che sapeva quanto inferiore egli fosse al grande romanziere, ricusò l’incarico; ma le consigliò sciaguratamente di servirsi del Rabou, col risultato che tutti sanno.

  Né basta. Eva fu poi l’amante del pittore Jean Gigoux, e visse con lui more uxorio fino al 1882, cioè fino alla morte. Si disse che il Gigoux l’avesse posseduta la notte stessa in cui Balzac morì; che i due amanti fossero insieme durante l’agonia, e non rispondessero alle invocazioni dei servi alle cui mani il moribondo era affidato. Verità o calunnia? La notizia, turpe se vera, fu data dal Mirbeau che non potè confortarla con testimonianze sicure.

  Quale che sia il giudizio morale che è lecito dare della Hanska, certo è che essa pagò tutti i debiti del marito, alla cui morte non aveva ereditato che un forte passivo. Già in vita lo aveva soccorso largamente con denari, e aveva ritirato per lui un bel mucchietto di cambiali; prima del matrimonio aveva donato l’immenso patrimonio alla figlia e al genero, riserbandosi una piccola pensione; finché visse la suocera, le versò puntualmente un vitalizio di tremila franchi. Dunque, si deve riconoscerle che fu donna disinteressata; se peccò, fu per sciagurata sete di amore.

  Chi ripercorra col pensiero il penoso cammino del geniale uomo e scrittore che fu Onorato Balzac, e guardi l’esperienza ch’egli visse, senza disgiungerla dai capolavori che creò, sente che cosa potè essere per lui un siffatto amore, letificante e struggente al tempo stesso. La sua carriera amorosa ebbe una iniziazione felice con la signora di Berny, per cui Balzac potè scrivere che «il n’y a que le dernier amour d’une femme qui satisfasse le premier amour d’un homme»; conobbe i tormenti della gelosia, i disinganni delle relazioni fondate soltanto sulla vanità o sul capriccio; ebbe con la Hanska il suo coronamento, e i diciassette anni della contenuta passione e delle confessioni e dell’attesa, testimoniate dalle lettres, corrispondono alla maturità artistica del romanziere, che ha già vissuto intero il dramma del mondo contemporaneo e ne ha fatto il suo mondo spirituale.

  In quelle lettres è il meglio del carattere impulsivo di Balzac. Sempre il linguaggio degli innamorati ricorrerà a immagini che si ripetono per tutti e in tutte le lingue, giacché l’uomo, davanti all’amore, ritrova l’anima semplice e nuda dell’infanzia, s’egli è schietto con se stesso e con altrui. Ma l’artista, nel rivestire di quelle immagini elementari il pensiero, aggiunge un di più, ch’è la personalità sua; e il modo d’amare è per lui anche una maniera d’interpretar la vita, ed è pur esso una creazione.

  Insofferente della, sorte e battagliero, egli era al centro della vita letteraria parigina, in quel 1833 che vide il principio dell’ultimo amore. E fu certamente il lottatore infaticabile, interprete egli stesso di una lotta senza quartiere tra l’uomo e la società e tra l’uomo e gli istinti che gli si annidano dentro, che soggiogò Evelina. Nella sua bella biografia romanzata, così il Benjamin narra il primo incontro a Ginevra:

  «Petit, gras, rond, trapu; des cheveux de jais; un nez comme de la gomme élastique: voilà ce qu’elle remarqua d’abord. Après quoi elle vit les yeux, ses yeux de feu, le même feu que sa plume. Et alors elle sourit, heureuse. C’était bien lui!».

  E quel fuoco, che riluceva dagli occhi, è tutto nelle Lettres à l’Étrangère. Sono, queste lettere, un’appassionata invocazione all’amore; tra innumerevoli particolari sugli aspetti meschini della vita, sono lo specchio di una età tumultuosa, alle soglie di un assetto morale e sociale ch’essa preannunciava con i suoi eroismi e le sue viltà.

  E dipingono, mirabilmente, la devozione dell’amore che è, essa sola forse, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, motivo eterno della vita come dell’arte.

 

  Note. [La numerazione è nostra].

 

  1 Molte furono le donne che Balzac conobbe e ammirò, e delle quali gode l’amicizia e l’amore. Cfr. Juanita Helm Floyd, Women in the life of Balzac, trad. franc. Les femmes dans la vie de Balzac, Paris, Plon-Nourrit, 1926 e Les femmes de Balzac, notice par le bibliophile Jacob (1821); P. Lacroix, La femme de H. de Balzac (Janet, 1851).

  2 Alcuni critici han contestato l’esattezza della cronologia delle lettres e dei fatti che vi sono narrati o accennati.

  3 Pare che Balzac abbia bruciato tutte le lettere di Evelina. Qualcuna è stata rinvenuta e pubblicata; in appendice al vol. cit. della Helm Floyd se ne trova un gruppetto; altre comparvero nell’Intermédiaire. Abbiamo della Hanska alcune pagine di un diario.

  4 Venceslao Hanski era un gentiluomo nel sentire e nei modi, benché venisse dalla ricca borghesia campagnola della Polonia.

 

 

  Renzo Tian, Balzac e la critica. Sainte-Beuve giudice severo ma chiarificatore, «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno V, Numero 34, 3 settembre 1950, p. 5; 1 ill.

 

 Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 554-555.

 

  Possiamo fissare la data dell’effettiva comparsa di Balzac sulla scena letteraria francese al marzo 1829. Verso la metà di quel mese, dopo il suo ritorno da Fougères dove si era recato per documentarsi in materia di ambiente locale, il giovane scrittore faceva comparire Le dernier Chouan ou La Bretagne en 1800, il romanzo che segna la fine della produzione pseudonima e utilitaria e l’inizio della sua vera — e così a lungo cercata — strada di romanziere. Egli stesso dovette sentire la differenza che marcava questa sua opera: basta pensare alla accurata e inconsueta preparazione «in loco» e ricordare che, per la prima volta, egli rifiutava la competenza critica dei familiari, a cui aveva scritto: «Je ne vous verrai qu’après l’apparition du Chouan, et je vous previene que je ne veux en entendre parler par personne, soit en bien, soit en mal: une famille et des amis sont incapables de juger un auteur».

  L’accoglienza della stampa fu mediocre. «Le Corsaire» dichiarava il libro «rimarchevole»: la Revue Enciclopédique vi scorse delle promesse; La Mode disse che l’opera era mediocre; il Mercure de France vi preferiva gli Espagnols en Danemark di Merimée; Latouche, nel Figaro, mescolava elogi e rimproveri; Trilby si dimostrò nettamente ostile, facendo carico all'autore del suo galimatias e della sua oscurità. Silenzio completo da parte del Débats, del Constitutionnel, del Courrier de la Presse e della Revue de Paris. Ma il romanzo fece, in ogni modo, parlare di sè. Ci si interessò al nuovo autore, si cominciò a valutarne le possibilità: il cammino di Balzac cominciava ad aprirsi. E, pochi anni dopo, sarebbe venuta a parlare di lui quella che stava per divenire — e già in parte era — la voce più autorevole e originale della critica del tempo.

 

Debutto presso il pubblico femminile.

 

  Il 15 novembre 1834 Sainte-Beuve pubblicava un articolo dedicato alla Recherche de l’Absolu, articolo che venne poi raccolto nel secondo volume dei Portraits contemporains. Comincia, come è noto il suo solito, a inquadrare lo scrittore nellambiente, a investigare i rapporti con il suo pubblico: considera ed analizza soprattutto un dato di fatto, quello del suo successo. Esso è causato, secondo Sainte-Beuve, innanzi tutto da quella abilità con cui il romanziere ha saputo attrarre l’interesse di quella metà del pubblico dei lettori la cui conquista è di importanza vitale per lo scrittore: il pubblico femminile. Balzac si è introdotto presso la donna come confidente consolatore, «un confesseur un peu médécin». Inoltre, v’è un’altra sorta di adulazione che lo scrittore rivolge ai luoghi, alle città: «c’est son habileté dans le choix successif des lieux où il établit la scène de ses récits». Così, ad esempio, a Douai, già si mostra, forse, al viaggiatore, la casa dei Claes (sic), e a Saumur la dimora di Eugenia Grandet.

  Il romanzo con cui Balzac ha debuttato, dopo la produzione in serie, se pur dotato di qualità drammatiche e pittoresche, reca l’impronta dell’imitazione di Walter Scott. Nelle Scènes de la vie privée, invece, Balzac ha dato il meglio di sé, dimostrando di possedere «un sentiment de la vie privée très profond, très fin, et qui va souvent jusqu’à la minutie du détail et à la superstition ... ». Ma «il méconnaît le plus souvent ce que ce genre de vie, avec la poésie qu’elle recèle, a de discret avant tout de pudique ey (sic) de voilé ...» E, aggiunge Sainte-Beuve, se si toglie dalla sua produzione La femme de trente ans, La femme abandonnée, Le réquisitionnaire, La grenadière, Les Célibataires, Louis Lambert ed Eugénie Grandet, non rimane che «une nouée de contes, de romans de toutes sortes, drolatiques philosophiques, économiques, magnétiques et philosophiques ...».

  La Recherche de l’absolu, in fine, non è uno dei migliori romanzi del nostro autore: tuttavia si presta bene per considerare la sua maniera, le sue inclinazioni, i suoi difetti. Poco riuscita è la figura di Balthazar; meglio centrata l’immagine di M.me Claes, che ricorda a Sainte-Beuve certi ritratti di Vanloo «et des autres peintres chez qui les détalis charmants et plein (sic) de finesse s’allient à une flamboyante et détestable manière sans précision, sans fermeté, sans chasteté».

  Quando Sainte-Beuve fece apparire questo articolo, egli era poco più che agli inizi della sua carriera: uscito di recente dalla «campagna romantica», aveva attraversato l’esperienza, saint-simoniana e, forse si trovava sospeso tra questa e l’inizio della crisi mistica alla Lamennais. Da tre anni aveva dato inizio a quella «Campagna critica» sulla Revue des deux mondes che prende un po’ il carattere dal tono della rivista che, crescendo d’importanza, aveva al tempo stesso moderato i suoi inizi romantici e si orientava sempre più verso posizioni conciliatrici e conservative. Sainte-Beuve stesso avrà a definire questa campagna «un peu neutre ... conservative ...impartiale, surtout analytique, descriptive et curieuse ...». Il suo metodo, come dice Brunetière, era incora presentito più che definito, e piuttosto che di fisiologia si potrebbe parlar qui di «anatomia morale». Ma, parlando di Balzac, emergono già alcune delle idee e degli atteggiamenti che ritroveremo più avanti negli anni.

  Innanzitutto, Sainte-Beuve affronta la posizione di fianco: aggira cautamente lo scrittore e punta con insistenza su un atto abbastanza secondario: il suo successo. Su questa circostanza ¬ del resto non sufficientemente motivata – egli fa perno e vi imposta buona parte del saggio. Sicchè la considerazione che prima d’ogni altra vien fatta qui di Balzac è appunto questa: un uomo che ha del successo. Se stabilire questo punto premeva a Sainte-Beuve, le prove che adduce per dimostrarlo non sono tra le più convincenti. Quello del pubblico femminile è un vecchio espediente polemico: da quanti sconosciuti detrattori le opere romantiche non sono state frettolosamente liquidate come «une littérature à femmes»? Una letteratura di sensibilità – e di sensualità, a volte trovava come sua più facile tara il favore femminile. Ma cè di più: abbiamo già letto delle considerazioni strettamente analoghe in un articolo del classicista Viennet, (sulla «Minerve Littéraire» del 1820): «Tout ce qui leur appartient en propre (aux romantiqucs) n’offre que du bizarre et de l’absurde. C’est le vague, les images; ce sont bulles de savon. Cependant tout cela fait fureur surtout parmi les joli (sic) femmes à vapeur et à migraines ...». E’ superfluo aggiungere che l’altro tentativo di spiegazione del successo — la scelta del luoghi ove Balzac pone la scena del suoi romanzi — è null’altro che puerile, e segna il massimo del fuorviamento di Sainte-Beuve dietro a prevenzioni anteriori ad ogni discorso critico. Al seguito di questa prima manovra, ogni altra considerazione si inserisce nella decisa intenzione di circoscrivere e limitare il «caso Balzac» a un fenomeno di voga, di brillante quanto provvisoria infatuazione di pubblico. Così il gravare la mano sulle molte opere prodotte in serie tra il 1821 e il 1828, sui molti difetti di lingua e di stile, sulle sovrabbondanze che pullulano nei romanzi migliori, sulla vena facile e feconda dello scrittore, sono motivi dettati, più che da punti critici, da quella prima e costante preoccupazione.

  Ma a forza di circoscrivere e di limitare, il vero soggetto finirà per sfuggirgli di mano del tutto. I giudizi critici diretti sono scarsi, disuniti e frammentari: Balzac è un alchimista del pensiero, ha un sentimento profondo e sottile della vita privata, ricorda certi ritratti di Vanloo. Quando Sainte-Beuve vuole insistere e approfondire uno spunto, cade in errori ingiustificabili: come quando vuol sostenere che la ricomparsa degli stessi personaggi nel corso di più romanzi diminuisca l’interesse e l’attrattiva alla lettura. Affermare una tal regola così meccanica e superficiale equivale a identificare l’interesse — e quindi il valore — di un romanzo con l’elemento puramente macchinoso e spettacolare della sua trama: è questo, se non andiamo errati, contraddice precisamente a ciò che lo stesso Sainte-Beuve doveva scrivere fra non molti anni, quando, al termine di un «Lundi» dedicato a Balzac poco dopo la sua morte, deplorerà «la mode des publications en feuilleton, qui obligeait, à chaque nouveau chapitre, de frapper un grand coup sur le lecteur ...». Questo gran colpo vibrato sul lettore non è appunto forse lo studiato e artificioso rinnovarsi del meccanismo della trama e della fisonimia dei personaggi?

  Sainte-Beuve ebbe una evoluzione intellettuale ricca e movimentata come poche altre del suo tempo: il passaggio frequente ad esperienze diverse e nuovi atteggiamenti gli consentiva di giudicare, talvolta acutamente, delle sue fasi trascorse. E verso il termine della sua carriera per l’appunto egli riconosceva che quella «campagne critique» della Revue des deux mondes aveva un difetto «elle ne concluait pas». Esattissimo. Dopo aver esaminato questo articolo sentiamo che il vero discorso su Balzac comincerebbe proprio là dove il saggio finisce a (sic?) Sainte-Beuve crede di poter concludere. Comincerebbe quando, dopo le molte cose interessanti o curiose che sono state dette, si iniziasse a parlare di Balzac scrittore e del carattere della sua arte.

 

«Ha sempre altri cinquanta romanzi da scrivere».

 

  In due articoli minori, apparsi sempre sulla Revue des deux mondes il 1. novembre 1038 e il 1. settembre 1839, il tono aspro di Sainte-Beuve si acuisce e diviene addirittura violento. Nel primo, il discepolo di Balzac Charles de Bernard viene dichiarato di gran lunga superiore al suo ingombrante maestro; nel secondo Sainte-Beuve ironizza agevolmente sulla proposta di Balzac relativa all’acquisto da parte dello Stato delle opere di dieci o dodici maggiori scrittori di Francia.

  Ma l'acme dell’atteggiamento intransigente del critico viene raggiunto in un articolo del 1. marzo 1840, Dix ans en littérature, in cui Sainte-Beuve, passando a considerare i talenti letterari fioriti negli ultimi anni, fa menzione anche di Balzac, brevemente stavolta e senza considerazioni laterali, formulando addirittura un giudizio storico completo: «M. de Balzac est né depuis, en effet, malgré les cinquante romans qui’il avait publié (sic) d’abord: nous voudrions ne pas ajouter qui’il a eu déjà le temps. de mourir malgré les cinquante autres qu’il s'apprête à publier encore. B. a tout l’air d’être occupé à finir comme il a commencé, par cent volumes que personne ne lira. On n’aura vu de sa renommée, que son milieu, comme le dos de certains gros poissons en mer …» Un altro articolo del 1. luglio 1843 sviluppa considerazioni moralistiche, concludendo che «la fatuité combinée à la futilité, à l’industrialisme, au besoin d’exploiter fructueusement les mauvais penchants du public, a produit, dans les oeuvres d’imagination et dans le roman, un raffinement d’immoralité et de dépravation qui devient un fait de plus en plus caractéristique …».

  A questi ultimi irrigidimenti del critico non era forse estraneo un lungo articolo di Balzac riguardante il «Port-Royal» di Sainte-Beuve (apparso nella Revue de Paris il 25 agosto 1840), nel quale il romanziere, tramutato in maldestro critico, stroncava goffamente la monumentale opera di Sainte-Beuve, della quale, evidentemente, non poteva parlare con cognizione di causa. E malgrado che Sainte-Beuve dichiari, nel 1850, di aver dimenticato quell’articolo (ma non era così, e per convincersene basterà scorrere il brano che Sainte-Beuve stesso, dieci anni più tardi, dedicherà a Balzac nella Appendice de Port Royal (ediz. 1860), nel quale, fra l’altro, prende l’occasione per rinnovare a Balzac l’accusa di aver voluto plagiare Volupté con il suo Lys dans la vallée; e malgrado che sempre dichiari di voler giudicare Balzac «avec un sentiment dégagé de tout ressouvenir personnel», egli non potrà mai perdonare e passare sotto silenzio l’affronto portato a quella che, a buon diritto, considerava la più riuscita delle sue opere, e che era certo quella a cui aveva dedicato le sue più assidue fatiche.

 

«Una letteratura che ha fatto il suo tempo».

 

  L'ultimo articolo che Sainte-Beuve dedica a Balzac è datato pochi mesi dopo la sua morte: il 2 settembre 1850, ed ha un tono di gran lunga più lucido, equilibrato e sereno dei precedenti. Sono trascorsi ormai sedici anni dal primo saggio, e Sainte-Beuve è definitivamente maturo. Finita la serie dei «Portraits», finita la «campagne critique» alla Revue des deux mondes, egli ha, da poco, iniziato la realizzazione del più ampio e organico progetto dei «Lundis», l’opera della maturità piena. Nel settembre 1849, un mese prima della comparsa sul Constitutionnel del primo Lundi, Sainte-Beuve così scriveva nella prefazione a una riedizione di Chateaubriand et son group (sic) littéraire. «Dégagé de tout rôle et presque de tout lien, observant depuis vingt-cinq ans la choses et les personnages littéraires, n’ayant aucun intérêt à ne pas les voir tels qu’ils sont», je puis dire que je regorge de vérités … ».

  Questa dichiarazione ci dà un’idea della ricca sedimentazione di esperienze e di lettore di cui Sainte-Beuve poteva disporre e d preannuncia, insieme, quel che di autoritario, di risoluto, di tranchant, avranno alcun dei giudizi espressi nella nuova serie. Spenti ormai del tutto gli echi più clamorosi della rivoluzione romantica, orientata la situazione politica verso un rafforzamento del principio di autorità centrale e delle tendenze conservatrici e legittimiste. Sainte-Beuve, che aveva aderito con slancio al nuovo regime, porta nei suoi Lundis qualche cosa di questa atmosfera di quiete, di assestamento, vorremmo quasi dire di reazione. Un metodo più sicuro, una osservazione più scaltrita, una ampiezza di respiro e di giudizio che i Portraits non conoscevano, una più raccolto meditazione sui fatti e le figure del vicino moto romantico, rendono questa opera la più completa — eccezion fatta per Port Royal — di tutte quelle che egli abbia realizzato.

  E l’articolo su Balzac — che è fra i primissimi — già risente della maturazione avvenuta: c’è un procedere più ordinato, un tono più sostanzioso, un indirizzo più accorto. Sin dall’inizio, troviamo motivi del primo saggio, ma rielaborati e portati su un piano più sobrio e obbiettivo: «Balzac fut un peintre de moeurs de ce temps-ci, et il en est peut-être le plus original, le plus approprié et le plus pénetrant. De bonne heure il a considéré ce XIXe siècle comme son sujet, comme sa chose; il s’y est jeté avec ardeur et n’en est poi[n]t sorti». Gli accenni alla donna e alla società, come elementi di successo, sono stavolta fusi e riveduti: «La société est comme une femme, elle veut son peintre, son peintre à elle toute seule; il a été, il n’a rien eu de la tradition en la peignant; il a renouvelé les procédés et les artificies (sic) du pinceau à l’usage de cette ambitieuse et coquette société qui tenait à ne dater que d’elle-même et à ne ressembler à nulle autre …».

  Accanto a questi vecchi spunti, ne vengono introdotti di nuovi, talvolta felici Philarète Chasles aveva già osservato un elemento interessante dell’arte di Balzac dicendo: «On a répété à outrance que Balzac était un observateur, un analyste: c’était mieux ou pis, c’était un voyant». Queste acuta osservazione (che più tardi sarà ripresa in pieno da Baudelaire), trova consenziente Sainte-Beuve, seppure egli, accettandola, la colorisca di una tinta lievemente sfavorevole. Anche questa facoltà d’intuizione, infatti, vien fatta derivare da influssi esterni: da quella corrente mistico-occultistica che va da Saint-Martin e Swedenborg, Mosmer (sic), Van Helmont e Cagliostro. Questa particolarità si rifletteva, secondo Sainte-Bevue, in un atteggiamento caratteristico: Balzac si trovava cioè immerso, letteralmente, nella sua opera, che spesso gli si presentava come una realtà più viva e vera dell’altra che lo circondava: «on peut dire de lui qu’il était en proie à son oeuvre, et que son talent l’emportait comme un char lancé à quatre chavaux (sic)».

  Ma la gloria, il successo, rimangono uno del leit-motiv critici di Sainte-Beuve, che cita numerosi e lunghi aneddoti a questo proposito. Il critico si sforza di esprimere come meglio può i consigli e le riserve che un critico obbiettivo e sincero dovrebbe far presenti — per il suo stesso vantaggio a Balzac. Dei tre elementi di un romanzo — i caratteri, l’azione, lo stile — in Balzac troviamo accanto a delle caratterizzazioni eccellenti e minuziose una azione spesso indebolita e deviata o esagerata e uno stile che sì è scorrevole, sottile, pittoresco, ma senza alcuna analogia con la tradizione: uno stile che darebbe la vertigine a uno spirito sano e onesto, educato sulla buona e frugale prosa francese.

  Solo quando Sainte-Beuve, concludendo, passa ai confronti e ai paralleli con altri autori che possono in qualche modo avere rapporti con Balzac, di nuovo si scivola in qualche errore elementare di valutazione: vale per tutti l’esempio di Eugène Sue che viene definito nientemeno «l’égal de M. de Balzac en invention, en fecondité, en composition», abilissimo nel tracciare l’azione gli svolgimenti drammatici.

  Il motivo da cui Sainte-Beuve non sapeva prescindere nel parlare di Balzac: il suo successo, la determinazione della sua natura e la ricerca delle circostanze che lo favorirono, qui si evolve e si innesta meglio sull’altro, preciso, della società. Il centro, anzi, dell’articolo, può dirsi la frase in cui si definisce Balzac un «peintre de moeurs», specificando che la società vuole sempre un pittore tutto per sé che sappia ritrarre il suo volto, e che la società del tempo di Balzac ha avuto appunto in lui il suo ritrattista esclusivo. Posto così, il rapporto non torna né a merito nè a demerito dello scrittore: ma Sainte-Beuve va più innanzi e fa capire chiaramente — dicendo che la società è come una donna e che Balzac ha rinnovato gli artifici del pennello al servizio di questa femmina civetta e ambiziosa — come quel rapporto vada inteso nel senso di una netta subordinazione del pittore rispetto al suo modello.

  Ma una simile configurazione del rapporto Balzac-società è conforme alla realtà delle sue opere? Possiamo accettare l’idea di un Balzac adulatore della società del suo tempo, di un Balzac comunque che dipinge un ritratto di maniera? E’ difficile in verità immaginare che Balzac si sia posto ad assecondare il gusto della società contemporanea, foss’anche quello di vedersi ritratta; ed è certo che, se ritratto vi è stato, esso fu compiuto nelle intenzioni dello scrittore, e non in quelle del soggetto. L’impressione, comunque, che si ricava dal grande quadro che Balzac ci offre del mondo del suo tempo, è un’altra: che cioè quel mondo non dovesse provare una troppo grande soddisfazione nel vedersi rappresentato in siffatta maniera. Forse che la società della Restaurazione o della Monarchia di Luigi Filippo era disposta a riconoscersi in un Hulot, in un Vautrin, in una Marneffe, in un Rastignac o anche in un Pierquin? E’ assai probabile che no, anzi diremo meglio: più i componenti di quella società avvertivano nel loro intimo di essere stati come fissati e ricreati in quei personaggi, più essi, verosimilmente, si rifiutavano con ostinazione di ammettere l’esattezza di un quadro così disturbante.

  Ma questi fuorviamenti (accanto ai quali si potrebbe citarne altri, come ad esempio il tanto insistito parallelo tra l’arte di Balzac e certa pittura fiamminga d’interno e d’ambiente, che diverrà poi un luogo comune della critica balzachiana), non possono farci dimenticare i meriti e i contributi portati dalla critica di Sainte-Beuve alla conoscenza del romanziere. Le sue stesse caratteristiche negative— quell’attaccamento alla tradizione, ai concetti di armonia, di buon senso, di, gusto, di equilibrio – si contrappongono ai vizi contrari che erano le tare principali del talento letterario di Balzac, e valgono perciò a mettere in evidenza, come pochi altri in seguito son riusciti a fare, le scorie e le sovrastrutture che ingombrano così di frequente anche le migliori opere del romanziere. Liberato il campo da questi elementi negativi, individuata la loro natura e posti i loro limiti, rimarrà più facile discorrere dell’arte di Balzac e di tutti i suoi pregi. Possiamo perciò ripetere le parole di Albert Thiboudet (sic), quando ci avverte che «c’est tout de même gagner dans la connaissance de Hugo, de Lamartine et de Balzac, que de savoir comment et pourquoi ils sont anthipatiques (sic), pour une partie de leur génie, à des grandes natures littéraires. Même quand elle n’est ni juste ni judicieuse, il est rare que la critique de Sainte-Beuve manque d’un certain pouvoir éclairant ...».

  Quando avremo aggiunto che con i suoi saggi Sainte-Beuve ha senza dubbio proposto all’attenzione del pubblico e della critica la figura di romanziere, pur impostando, in certi settori, in modo errato il problema critico, e che ha sopratutto ricostruito intorno a Balzac, con la precisione che gli era particolare, tutti i dettagli di ambiente, di temperamento e di preso atto dell’acutezza di certi giudizi particolari che si staccano di netto da altri ostinatamente prevenuti, sarà concesso allora aggiungere che il principale rimprovero che si può muovere a Sainte-Beuve è la mancanza di imparzialità, condizione necessaria ad ogni critica, virtù che nessuno meglio di lui aveva definito in un articolo del1834 su Charles Magnin: «... une qualité qui possèdent bien peu de critiques, et qui est bien nécessaire, pourtant, à l’impartialité: c’est l’indifférence ... Pour être un grand critique ou un historien littéraire complet, le plus sûr serait de n’avoir concouru en aucune branche sur aucune parie de l’art, ou autrement …».

  A questa necessità vitale, che Sainte-Beuve intuisce così lucidamente, egli non sempre ha saputo essere fedele. In quel libro segreto del critico che sono i Mes poisons troveremo una breve nota di cui manca, purtroppo, la data, ma che ci illumina su una parte dell’atteggiamento di Sainte-Beuve verso Balzac e ce ne porge un po' la chiave: «Chaque critique a son gibier favori sur lequel il tombe et qu’il dépèce de préférence ... Pour moi, c’est Balzac ...».

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, L’Omero della borghesia, «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno V, Numero 34, 3 settembre 1950, p. 5; 1 ill.

 

  La Cronologia, che nel teatro della Storia ha tutt’al più la parte del buttafuori e che in certi casi sembra sbadata e inopportuna, nel caso di Balzac è stata puntualissima e quasi geniale. L’Omero della borghesia egoista e affarista (ma anche eroica) nacque infatti il 20 maggio 1799, pochi mesi prima di quel colpo di stato di brumaio da cui i borghesi ebbero assicurate le conquiste della Rivoluzione, e morì il 19 agosto 1850, poco più d’un anno dopo che la borghesia conservatrice aveva riafferrato le redini del potere sfuggitele di mano nell’arroventato clima quarantottesco. Il mezzo secolo della vita di Balzac coincide dunque esattamente con l’affermarsi e il consolidarsi del dominio borghese in Francia. Egli stesso ha chiara coscienza che la borghesia è la grande forza storica del suo tempo e che la Comédie humaine ne è l’epopea.

  Ma questo Omero è poi veramente un Omero? A un secolo dalla morte parrebbe che il giudizio su le sue qualità poetiche dovesse ormai essere più o meno pacifico. S’è tutti d’accordo, credo, nel riconoscere che non un solo dei suoi tanti romanzi resiste alla lettura senza rivelare incoerenze e insufficienze. Grossolani trucchi di mestierante e sdolcinature intollerabili, che potevan piacere a certo deplorevole gusto romantico, rischiano a volte di compromettere la bellezza di un’intuizione o la felicità d’uno sviluppo narrativo. I personaggi meglio intuiti (che pur vivono nella nostra memoria grazie al fiat di una stupenda fantasia) non di rado, a certe svolte del racconto, ce li troviamo dinanzi in aspetto di fantocci, e dobbiamo fare uno sforzo ver vincere la spiacevole impressione.

  Questi, e non solo questi, sono i lati deteriori che resero e rendono Balzac simpatico agli spiriti umanisticamente educati. Si pensi al più intelligente tra essi, Sainte-Beuve, i cui giudizi sull’autore della Comédie humaine risentono senza dubbio di astio polemico: ma dal suo punto di vista egli esagera appena quando affettava di collocare Balzac sul medesimo piano di Sue.

  S’è replicato e si replica da parte dei tifosi di Balzac che quelli, e non sono quelli, sono i difetti delle sue qualità: è un torrente ch’alta vena preme e che non tollera dighe nel suo corso impetuoso. Ma è una spiegazione che non spiega nulla, e a cui non è estraneo il mito di un Balzac forse più mostruoso di quel che fu realmente: Balzac «forza della natura» quale non s’era più vista da Rabelais in poi, capace d’un lavoro quotidiano che ad altri sarebbe troppo per un mese («Dormo cinque ore, il che mi dà ventun’ora di lavoro al giorno»); Balzac che confonde la realtà con le sue finzioni di romanziere e agli amici che gli parlano delle proprie personali preoccupazioni risponde con impreviste battute («Tutto questo va benissimo, ma ritorniamo alla realtà e parliamo di Eugénie Grandet»); Balzac che vuol essere il Bonaparte della letteratura («Quel che Napoleone non riuscì a compiere con la spada, io lo condurrò a termine con la penna») Balzac come ce lo rappresenta Victor Hugo in una pagina famosa, che anche nell’agonia fa pensare a Napoleone («Balzac era in quel letto, col capo appoggiato a un cumulo di guanciali a cui erano stati aggiunti dei cuscini di damasco rosso tolti da un canapè della camera. Aveva il volto violaceo, quasi nero, inclinato a destra, la barba non fatta, i capelli grigi tagliati corti, gli occhi aperti fissi. Di profilo come lo vedevo rassomigliava all’imperatore»). Ma proprio perché Balzac è una «forza della natura» come ogni genio creatore, vorremmo, leggendo i suoi libri, che il soffio gli bastasse fino alla fine, e invece non ce n’è forse uno solo che non ci deluda quando il racconto ha preso l’avvio e ci si aspetterebbe che il narratore-inventore mantenga quanto sembrava prometterci nelle sue mirabili impostazioni ambientali e negl’indimenticabili ritratti che via via ci ha presentato. Un non so che, di falso sembra insidiare la vita stessa dei personaggi quando questi si staccano dalla tela dove il pittore li aveva collocati con la forza d’un Velásquez: quanto più il romanziere li lancia nel vortice dell’azione e li sospinge d’avventura in avventura, tanto più essi ci appaiono, artisticamente, impotenti ad agire. L’esempio meglio probante è forse quello del Père Goriot, dove il precipitare dell’azione nel melodramma, o comunque nella frettolosa elaborazione retorica e pietistica, contrasta con la possente bellezza di tutta la prima parte del romanzo, col quadro goyesco della pensione Vauquer e dei suoi pensionanti.

  Ora questi non sono «difetti delle qualità», perché non vengono da eccessi di fervore, ma da fiacchezza. E’ proprio il contrario del torrente ch’alta vena preme: il torrente s’è ridotto alla cascata d’un modesto mulino, l’impeto creativo s’è esaurito in faticoso mestiere. Credo si possa affermare con sicurezza che in Balzac l’ambientista, il ritrattista e lo storico si lasciano addietro di gran lunga il narratore-inventore: quanto questi è maldestro e arruffone, tanto quelli sono vigorosi, intelligenti e profondi. Quel che Balzac ha da dirci, la sua grande parola, e nella [rap]presentazione degli ambienti in cui i personaggi vivono e nella descrizione della fisionomia di questi Balzac ce la dice: ambienti e fisionomie si rispondono come la terra e la pianta, e in essi è la preparazione e la piena rivelazione dei caratteri. Anche oggi, smaliziati come siamo da tanta letteratura introspettiva e psicanalitica, il fascino di quelle descrizioni e di quei ritratti ci prende e non ci lascia, e poco importa se il racconto che segue ci appare come un corollario, inutile e magari sbagliato, con cui il moralista crede di perfezionare la rivelazione che aveva da farci. Vedete anche dove la trama narrativa è più coerente, come nel caso di Une ténébreuse affaire, i punti in cui meglio rifulge l’arte di Balzac sono una descrizione ambientale e un ritratto: quel pezzo di vecchia Francia che è il parco dei Simeuse, con le sue grandi olmate secolari, e la figura socratica di Michu, il fedelissimo, dalle orecchie sempre vigili come quelle d’un cane lupo e dal collo corto e grosso destinato alla ghigliottina.

  Dove invece Balzac si dimostra abile e agile narratore, gli falliscono, o almeno passano in seconda linea, le qualità migliori di cui s’è detto. Modeste Mignon, per esempio, è un romanzo che fa pensare a una commedia da salotto, per il felice movimento d’orologeria con cui l’azione vi è condotta dal principio alla fine. E’ una tecnica che può richiamar quella di Musset in certe commedie e proverbi della seconda maniera, o piuttosto la bravura di Scribe. Ma il vero e grande Balzac qui non si vede: c’è invece, in qualche punto, il Balzac deteriore che indulge al basso sentimentalismo romantico, e allora s’è tentati di chiedere perdono a Musset per l’accostamento.

  Il contrasto fra il narratore-inventore e il moralista-ritrattista si avverte meno alle novelle e nei racconti brevi, come in Facino Cane, dove ambiente, ritratto e racconto fanno veramente tutt’uno. Ed è lì (come osservò felicemente Paul Bourget) la più bella confessione di Balzac artista: «La capacità di osservazione era in me già divenuta intuitiva: penetrava nell’anima senza trascurare il corpo: o, piuttosto, coglieva così bene i particolari esterni che andava immediatamente al di là e mi dava la facoltà di vivere la vita dell’individuo su cui si esercitava la (sic), permettendomi di sostituirmi a lui come il dervis delle Mille e una notte prendeva il corpo e l’anima delle persone su cui pronunziovo (sic) certe parole». Confessione che vale anche per Balzac ambientista; il trapasso del fisico al morale, il dono di intuizione è perfettamente lo stesso nella descrizione dei luoghi in cui si trasporta.

  La letteratura francese, come è stato detto e ripetuto, è una letteratura in gran parte di moralisti (nel senso di «osservatori dei costumi umani»), e perciò vi fanno tanto più spicco i rari, temperamenti lirici (un Villon, ad esempio). Sotto forme diverse, è una tradizione ininterrotta. Quante massime e pensieri e aneddoti potrebbero spigolarsi dalla Comédie humaine e farne delle raccolte alla maniera di La Rochefoucauld e di Chamfort! Quel piccolo capolavoro che è il Traité de la vie élégante ci mostra del resto un Balzac che discende per diritta linea dai moralisti del Sei e Settecento. Da questo punto di vista non sarebbe forse un paradosso riconoscere in La Bruyère l’antenato comune di Balzac e di Sainte-Beuve. E sarebbe un curioso modo di riconciliare dopo cent’anni due uomini che cordialmente si odiarono e che erano veramente agli antipodi. Non ha Sainte-Beuve accennato più volte alla possibilità di raggruppare i suoi finissimi ritratti psicologici secondo una tipologia che è poi, aggiornata e arricchita, quella stessa di La Bruyère? E i tipi o caratteri di questo non li ha Balzac romantizzati, illuminandoli dei suoi sprazzi di luce e precipitandoli nelle peripezie più stupefacenti? Ma le inchieste per la sua tipologia Sainte-Beuve le faceva sul terreno della storia (letteraria, politica e magari mondana che questa si fosse), e le vicende dei suoi personaggi non le inventava lui, ma la storia gliele forniva, dandogli modo di osservare come nel corso di quelle vicende i diversi caratteri si formavano o si modificavano. Balzac, s’intende, non poteva non sostituirsi alla storia nella creazione delle vicende. Se avesse avuto la libera fantasia del suo amico Stendhal, si sarebbe abbandonato alla gioia di veder agire le proprie creature quasi per se stesse mosse, senza interventi programmatici, secondo la logica della loro natura. Ma il moralista e il poeta, che nella prima presentazione dei personaggi facevano tutt’uno in Balzac, a quel punto, disgraziatamente, quasi sempre si scindono: il poeta è combattuto dal moralista, e neppure il moralista si salva, perché troppo spesso i vari caratteri o tipi che egli vuole esemplificare (l’affarista, l’arrivista, il dissoluto, l’avaro, il maniaco, ecc.) gli si trasformano tra le mani in figure eccessive che nuocciono, anziché giovare, alla dimostrazione dell’assunto. La celebre bellissima pagina di Baudelaire su Balzac visionario (nel saggio su Théophile Gautier) è senza dubbio quanto di più vigoroso ed acuto sia stato scritto contro la facile critica che ne fa un verista; ma chi la legga in profondità non può vedervi, accanto alla felice esaltazione delle qualità poetiche di Balzac, un accenno benché involontario al suo mestierantismo, quando Balzac vi è paragonato a quegli acquafortisti non mai contenti della morsura, che trasformano in burroni gl’intacchi della lastra.

 

  Dalla prefazione al primo volume «I capolavori della Commedia umana» di Honoré de Balzac, di prossima pubblicazione. Per gentile concessione dell’editore Gherardo Casini.

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, La razza dei vinti, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VI, N. 220, 16 settembre 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., pp. 558-559.

 

  Nel Gabinet (sic) des Antiques di Balzac c'è un personaggio, il marchese Carol d’Esgrignon, il quale pretende discendere dai primi conquistatori franchi; e l'autore chiosa che Thierry ne avrebbe ortografato Karavil il cognome Carol. [...].

  Quel suo marchese d’Esgrignon, così simpaticamente paradossale, Balzac non se l’era inventato di sana pianta: secondo il suo consueto modo, aveva potenziato al massimo grado, nel tratteggiarlo, il tipo del gentiluomo attaccato ai suoi privilegi, quale gli s'era venuto configurando attraverso differenti esperienze. Presa con le debite cautele, la finzione romanzesca di Balzac ha il valore d’una testimonianza storica. Il marchese pretendeva che il proprio titolo gli veniva per diritto di conquista e rifiutò pertanto di accettare dal Re quello di duca. I Carol avevano avuto un tempo l’incarico di difendere una marca francese: il titolo di marchesi d’Esgrignon rappresentava dunque per loro un dovere invece d’essere il simulacro di una carica inesistente. «Al disotto della nobiltà — dice Balzac esponendo le idee inculcate dal marchese al proprio figlio — non c’erano per lui che inferiori, gente con cui non aveva nulla di comune, verso cui non era obbligato a nulla, nemici vinti, conquistati, dei quali non si doveva tenere alcun conto». Quando il marchese ritorna dall’esilio nelle sue terre e con una stretta al cuore vede amputato delle torri il castello e riempiti di terra i fossati, Balzac, che pure era legittimista, può ben chiamarlo ironicamente «il Franco», ma non ne mette in dubbio le origini germaniche. Con la stessa ironica simpatia ne registra le ultime parole, pronunziate nel 1830, dopo aver accompagnato Carlo X su la via dell’esilio: «I Galli trionfano!».

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, Bilancio di Paul Bourget, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VI, N. 256, 2 settembre 1950, p. 3.

 

  Il romanziere Bourget si era scelto due maestri: Stendhal e Balzac. Del primo avrebbe voluto emulare l’arte nutrita d’ideologia, la psicologia che smonta pezzo per pezzo il meccanismo delle passioni come in un laboratorio scientifico; del secondo, l’occhio clinico che coglie la passione dominante e la segue nelle sue fasi. Ma più che a quel che effettivamente furono, Bourget mirava a quel che Stendhal e Balzac vollero essere. Ed è così che nei suoi romanzi la psicologia rimane astratta, mentre in Stendhal fa tutt’uno con la poesia: a confronto con Julien Sorci, il povero Robert Greslou. protagonista del Disciple, non è che un manichino. Quanto a Balzac. non è certo nel descrivere lo sviluppo delle passioni ch’egli si rivela artista, ma nei ritratti che ci dà dei suoi personaggi, le cui qualità morali son còlte nell’aspetto fisico, e nelle descrizioni ambientali che sono lo sfondo di quei ritratti: ce n’è uno solo in Bourget che possa resistere al paragone? Gli stessi squilibri di Stendhal e di Balzac, narratori ineguali ognuno a suo modo, testimoniano a loro favore: con tutte le loro pretese, sono due ingenui, due eterni fanciulli, e bisogna prenderli come sono. Ma Stendhal ha sua musica intima che rapisce il lettore senza che questi si renda conto di come il rapimento è avvenuto, e per quella musica gli si perdonano i troppi lunghi o troppo raziocinanti recitativi: come a Balzac, per la bellezza dei suoi ritratti, si perdona la quasi totale incapacità di creare una trama accettabile e fare agire i suoi personaggi, il falso pathos di tante scene, la scrittura troppo spesso di dubbio o addirittura pessimo gusto. Bourget invece non ha falle nelle sue trame di romanziere: procede liscio, unito; la sua scrittura è impeccabile dal punto di vista di quello che è il gusto medio d’una società colta e bene educata: ma gli manca ciò che nel miglior senso si chiama stile, cioè l’impronta d’una personalità veramente originale.

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, Talleyrand e i romantici, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VI, N. 268, 11 novembre 1950, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 559.

 

  Dei grandi romantici, i soli che abbian fatto buon viso a Talleyrand sono stati Lamartine e Balzac. [...].

  L’ammirazione di Balzac, invece, è senza riserve. A Talleyrand egli fu presentato nell’autunno del 1836 e profittò della visita per osservare attentissimamente l’uomo che da molto tempo l’affascinava e di cui più volte aveva fatto l’elogio nei suoi romanzi. Strano elogio, però, se si badi ai personaggi a cui lo fa pronunziare.

  Nel Contrat de mariage è De Marsay. il cinico arrivista, che si professa in politica discepolo di quel diavolo zoppo che è Talleyrand: «Insomma, io vogo nelle acque d’un certo principe che è storpio soltanto nei piedi e che io stimo un geniale uomo politico il cui nome grandeggerà sempre più nella storia: un principe completo quale soltanto un grande artista può essere».

  Ma nel Père Goriot il panegirico di Talleyrand è addirittura affidato a un bandito: a Vautrin. Nella particolareggiata lezione di arrivismo che questi impartisce al giovane Rastignac, a un certo punto dice: «Se posso darvi un altro consiglio, amor mio. è di non tenere nè alle vostre opinioni nè alle vostre parole. Se qualcuno ve le chiede, vendetele. Un uomo che si vanta di restar fedele alle proprie opinioni è come uno che ha deciso di camminare sempre in linea retta, uno sciocco che crede all’infallibilità Non ci sono principi, ci sono soltanto eventi; non ci sono leggi, ci sono soltanto circostanze; l’uomo superiore accetta gli eventi e le circostanze per dirigerli. Se ci fossero principi e leggi immutabili, i popoli non li cambierebbero come noi cambiamo camicia. L’individuo non è obbligato ad esser più savio di tutta quanta una nazione. L’uomo che ha reso meno servizi alla Francia è un feticcio venerato perché ha visto sempre rosso: è buono tutt’al più per esser collocato in un museo, tra le macchine, col cartellino: La Fayette. Mentre il principe a cui ognuno lancia una pietra, e che disprezza tanto l’umanità da sputarle in faccia quanti giuramenti essi gli chiede, al Congresso di Vienna ha salvato la Francia dallo smembramento. Lo coprono di fango, mentre dovrebbero offrirgli corone».

  Qui saranno da notare due curiose coincidenze. La prima è che il confronto La Fayette-Talleyrand fatto di Balzac per mettere in ridicolo il vanitoso lealismo di La Fayette, lo farà poi nelle sue memorie anche Chateaubriand a proposito della morte di Talleyrand, ma con l’intento opposto: «Per analizzare minuziosamente una vita corrotta quanto quella di La Fayette è stata sana, bisognerebbe affrontare una ripugnanza che non mi sento la forza di vincere». L’altra coincidenza è che proprio in quell’anno 1834 in cui uscì Le père Goriot, Talleyrand dichiarò in una lettera a Luigi Filippo che la sua ambizione era stata sempre una sola: d’essere l'uomo della Francia; e perciò non si rimproverava minimamente d’aver servito tutti i regimi, dal Direttorio alla Monarchia di luglio. Salvo i cinici paradossi, avrebbe potuto dunque accettare il panegirico che Balzac mise in bocca a Vautrin.

  In un altro racconto del resto, La Duchesse de Langeais, Balzac aveva detto in persona propria, senza ricorrere a intermediari, quel che pensava di Talleyrand e dei servizi che questi avrebbe resi alla Francia se la Restaurazione fosse stata più intelligente e non si fosse affrettata a metterlo da parte come vescovo apòstata e sacrilegamente ammogliato: «Se da principio mancò al trono un consigliere pari alla grandezza delle circostanze, l’aristocrazia mancò principalmente di quella conoscenza dei suoi interessi generali che avrebbe potuto supplire a tutto. Essa non ebbe il coraggio di passar sopra al matrimonio di Talleyrand, il solo uomo dotato d’una di quelle teste metalliche in cui si ritemprano i sistemi politici che fan rivivere gloriosamente le nazioni».

  Balzac si vantava di conoscere a fondo l’essenza della politica. Nell’esaltare la figura di Talleyrand ostentava perciò di prescindere dalla questione morale, che era proprio quello da cui i romantici non volevan prescindere. Dar peso agli scandali della vita privata di lui, trascurando i benefizi che la Francia aveva avuto e poteva ancora avere da quella infallibile scaltrezza e da quella magnifica imperturbabilità, significava per Balzac posporre il sostanziale all’accidentale. Con lo stesso inchiostro con cui esaltò il genio politico di Talleyrand egli esaltò il machiavellismo di Caterina de’ Medici. In tutti e due i casi, si compiacque di sfidare l’opinione pubblica, allora tutta imbevuta di religiosità romantica. Ma in realtà, così nell'esaltazione di Caterina come in quella di Talleyrand, ubbidiva al romanticismo che anche lui aveva nel sangue senza saperlo. Quell’ostentato machiavellismo ch’egli opponeva al moralismo cavalleresco o umanitario d’uno Chateaubriand o d’un Hugo era in gran parte romanticismo.

  Se ne ha la riprova in uno dei suoi migliori romanzi, Une ténébreuse affaire. Talleyrand, morto da tre anni, v’interviene non proprio come personaggio, ma indirettamente nel racconto che fa uno dei personaggi, l’avventuriero De Marsay diventato presidente del consiglio dei ministri. Balzac, per bocca di questo, accredita la voce che corse (ma della cui verità non si hanno prove), d’una congiura ordita da Talleyrand, da Fouché e da Sieyès per conservare il potere nel caso che Napoleone primo console fosse vinto nella campagna d’Italia del 1800. Un anonimo interlocutore, chiosando il racconto di De Marsay. accredita l’altra accusa che era stata fatta a Talleyrand e che ha maggior fondamento, benché neppur essa provata: quella d’avere istigato Napoleone alla cattura e all’uccisione del Duca d’Enghien.

  Ma bisogna vedere quale aura di sinistro mistero Balzac sa creare intorno ai tre preti spretati che alle tre del mattino, dopo una notte passata al tavolino da gioco, si trovano come per caso in una saletta del ministero degli esteri. Dei tre, il più sottilmente diabolico è senza dubbio Talleyrand. Ma mentre degli altri due De Marsay non ha scrupolo di pronunziare il nome, Talleyrand è designato per via di perifrasi come un demonio che non si nomina impunemente: «il ministro degli Affari Esteri», «lo zoppo», l’uomo che «ha già un piede nella fossa», colui che «aveva portato la mitra episcopale». Anche in questo clima di messa nera Balzac non esita a testimoniare per Talleyrand, buon francese malgrado tutto. Di che si trattava, in quel terribile frangente? Per Fouché, il giacobino regicida, della repubblica. Per Sieyès, il grande manipolatore di costituzioni, del potere. Ma per Talleyrand, della Francia (vale a dire, della sua integrità, proprio come quindici anni dopo al Congresso di Vienna). Dopo di che, Balzac può ben registrare il tono sinistramente sibillino con cui Talleyrand, guardando il proprio orologio, annunzia in un ricevimento mondano l’uccisione del Duca d’Enghien: «La casa di Condé finisce in questo momento». In mancanza d’una Giovanna d’Arco — par che voglia concludere l’autore della Comédie humaine — ci vuole un Talleyrand per salvare un paese.

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, Chiose a Balzac, in O. de Balzac, I Capolavori della “Commedia Umana”. I. Papà Goriot. Il colonnello Chabert. Un tenebroso affare. Facino Cane. Sarrasine, Roma, Gherardo Casini editore, 1950, pp. V-XI.


  Per quel che riguarda il testo che precede, cfr. supra (P. P. Trompeo, L’Omero della borghesia).

 

  Narratore ineguale, poeta a sbalzi, moralista compromesso dal voler troppo provare, Balzac non sarà per avventura uno storico? Il fascino che la storia esercitò sempre su lui ha senza dubbio gran parte nella sua vocazione di romanziere. Per un momento egli aspirò ad essere il Walter Scott francese, e per sua e nostra fortuna fu invece lui, Balzac, e lasciò a Dumas padre il facile mestiere di mettere a sacco la storia di Francia. Nella storia lo attiravano le figure energiche, i grandi volitivi, i grandi impulsivi, i grandi negoziatori della politica: Calvino, Caterina dei Medici, gli uomini del Terrore e della Controrivoluzione, Napoleone, Talleyrand. Ma soprattutto lo attirava la storia che si andava svolgendo sotto i suoi occhi, quel convulso tramutarsi del volto della Francia alla spinta d’una forza che a lui appariva quasi demoniaca. La storia di Balzac non è la storia romanzata di Dumas, la cui unica musa fu l’Avventura, è la storia di un’età, còlta nei suoi aspetti essenziali. Legittimista e cattolico, paladino del Trono e dell’Altare, il cuore gli sanguinava nell’assistere all’indeprecabile regresso d’una tradizione due volte santa per lui. La poesia di questo suo dolore egli l’ha riversata in pagine che non si possono dimenticare: il castello dei Simeuse, depredato dalla Rivoluzione e insidiato dalle speculazioni borghesi, co’ suoi grandi boschi che son come lo sfondo di un’estrema «chanson de geste»; il segreto rifugio, quasi una catacomba, proietto da tante vecchie strade, vecchi cortili e vecchi muri, dove all’ombra delle torri di Notre-Dame l eroica Madame de la Chanterie raccoglie i cristiani superstiti che collaborano alla sua crociata di carità (e il romanzo non a caso s’intitola L’envers de l’histoire contemporaine) ... Balzac per poco non adotterebbe, a maggior gloria dell’ancien régime, la teoria razzista di Thierry, che vedeva nel terzo stato la discendenza dei Galli vinti e nella nobiltà quella dei Franchi vincitori, e quasi ripeterebbe il grido disperato che nel Cabinet des Antiques egli attribuì al suo marchese d’Esgrignon quando questi vide cadere con Carlo X l’antica monarchia: «I Galli trionfano!».

  Ma della grande marea che sale, di quella borghesia aggressiva e vorace che spietatamente abbatte quanto della vecchia Francia si oppone allo scatenarsi dei suoi appetiti, Balzac subisce il fascino senza volerlo. Quegli ambiziosi senza freno, quegli speculatori senza scrupoli, quegl’imbonitori di affari che si danno alla costruzione di nuove Babeli, egli li cerca e li studia con una sorta d’inconfessata ammirazione. Si potrebbe dire che la posizione di Balzac di fronte a certi titanici campioni della borghesia è quella stessa di Vittorio Alfieri di fronte ai tiranni: «Alfieri — scrisse Stendhal — ha superato tutti i poeti nel rappresentare il cuore dei tiranni, perché, se fosse stato meno galantuomo, sarebbe stato lui stesso, sul trono, un tiranno sublime». Non tentò Balzac, con foga sempre rinnovantesi e sempre delusa, imprese industriali e commerciali da cui si riprometteva ricchezza, potenza, pieno godimento della vita? L’uomo moderno, «creatura sovranamente intelligente, che ha spiegato una potenza soprannaturale, che ha deificato i suoi bisogni per non disprezzarli» (Physiologie du mariage), gli si configurava nella fantasia come un mito maraviglioso. E un mito non meno maraviglioso era per lui la Parigi di Luigi Filippo: «Questa città cinta di diadema è una regina, che è sempre gravida ed ha voglie irresistibilmente furiose. Parigi è la testa del globo, è un cervello che scoppia di genialità e guida la civiltà umana, un grand’uomo, un artista incessantemente creatore, un politico dotato d’una seconda vista che necessariamente deve avere delle rughe nel cervello, i vizi del grand’uomo, le fantasie dell’artista e la sazietà dell’uomo politico. La sua fisionomia presuppone la germinazione del bene e del male, la lotta e la vittoria: la battaglia morale del 1789, le cui fanfare echeggiano ancora in tutti gli angoli del mondo, e l’accasciamento del 1814. Questa città dunque non può essere né più morale né più cordiale né più pulita di quel che è la caldaia motrice di quegli stupendi piroscafi che vedete fendere il mare. Non è Parigi una nave sublime carica d'intelligenza?» (Histoire des Treize).

  Nella Comédie humaine, per altro, al feroce dinamismo dei grandi ambiziosi borghesi non si contrappone soltanto la raffinata e baldanzosa corruzione dell’ancien régime ereditata da quei Talleyrand in gonnella che sono la duchessa di Maufrigneuse e la contessa di Sérizy, o l’energia che permane nei non degeneri rappresentanti della classe spodestata (l’intrepido legittimismo d’una Laurence de Cinq-Cigne, il cattolicismo militante d’una Madame de la Chanterie), ma anche il silenzioso eroismo che la borghesia alimenta nel proprio seno, quasi un tesoro che s’è lentamente accumulato in lei durante i secoli cattolici e monarchici (le donne di casa Grandet, le donne di casa Birotteau, il notaio Chesnel del Cabinet des Antiques).

  Se non fu l’Omero della borghesia, Balzac ne fu almeno il Tacito o il Saint-Simon. Chi voglia avere il quadro totale della società francese durante la prima metà dell’Ottocento non può lasciar da parte Balzac. — Ma se Balzac, come abbiamo sentito affermare da Baudelaire, era un visionario? — Come visionari a loro modo erano Tacito e Saint-Simon, della cui testimonianza non potete fare a meno per il quadro della corte imperiale romana e di quella francese sotto il Re Sole e la Reggenza. E il loro caso prova che i visionari possono veder meglio dei professori di storia.

 

 

  Antonio Valente, Balzac scrittore rivoluzionario a cento anni dalla morte. Và disse la madre a Onorato e crea solo dei capolavori!, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Milano, Anno LIV, Numero 76, 30 Marzo 1950, p. 3.

 

  A cento anni dalla sua morte Balzac è più che mai presente anche alla giovane generazione iconoclasta ed irrequieta. E’ che la sua opera vasta e possente — la «Commedia umana» vicenda terrena spoglia di ogni trascendentale pretesa e palpitante nel tumulto delle passioni, interessa più delle raffinate creazioni degli esemplari classici del romanzo francese.

  Questo «uomo mediterraneo», questo vulcano in eruzione, sempre prodigo, ardente ed inesauribile ha la sua scuola ed i suoi fedeli, un pontefice massimo in Francia — Marcel Bouteron — e seguaci d’ogni dove. La gloria dello «scrittore da caffè» sopravvive e supera le reputa zioni dei romanzieri proclamati immuni dai suoi difetti e già circonfusi in terra da un’aureola di Olimpo, e le sue faville sorpassano lo splendore di gemme solitarie. E’ una forza della natura non un prodotto perfetto di una lunga pazienza. Innanzi tutto ha vocazione. Il padre, che vuol farne un notaio, lo sorprende a leggere Rabelais e comprende che non consentirà mai ad un lavoro ordinato e tranquillo. Il giovinetto di Tours trapiantato a Parigi, nell’epilogo dell’epopea napoleonica, già avido di gloria, soffre dell'incomprensione del padre, uomo del Sud di spirito libero, ma meditativo. A vent’anni, nell’agosto 1819, con poco denaro, abbandona la famiglia e sceglie la miseria e lotta a compagne, nella soffitta della via Lesdiguirés (sic), nei pressi del famoso borgo operaio Saint Antoine. «Va’, — gli aveva detto implacabile ed amara la madre, — crea dei capolavori e non dimenticare che in letteratura non v’ha via di mezzo, o re o cialtrone».

  Cominciò infatti, dallo studio dei grandi: Beaumarchais, Molière, Voltaire, Rousseau. Infiniti lampeggiamenti nella mente e insieme visione chiara degli ostacoli da superare. Sulla suggestione dell’opera del Villemain compone Cromwell, tragedia in versi. Ma ne inizia appena la lettura innanzi alla famiglia incuriosita ed intenta che s’interrompe e d’un tratto sente che ha fallito il suo compito.

  Riprende il lavoro, decide di abbandonare i versi e la tragedia, di scrivere romanzi; e divenire il Walter Scott francese.

  Le sue produzioni ci seguono: l’Heritière de Birague; Clotilde de Lusignan; Jean-Luis; Sur le droit de aînesse (sic); Annette et le criminel; ma il successo non viene. Almeno potrà compiacersi della prudenza di non aver esposto il suo nome.

  Il cammino da percorrere nella via della delusione era ancor lungo, non per nulla prediligeva la quiete del cimitero del Père Lachaise ove si aggirava fra le tombe di La Fontaine e di Molière e soprattutto cercava di analizzare il dolore. Niente lauri e niente ricchezze ...

  Balzac stampatore alle prese con i clienti, con i fornitori, con gli operai, incapace di realizzare i suoi crediti, infine rovinato e costretto ad accogliere le offerte sempre più generose della sua amante Madame De Berny. Warens, De Berny, d'Abrantès vedova del maresciallo Junot donne mature e ancora adorabili: «Il n’y a que le dernier amour d’une femme qui satisfaisse (sic) le premier amour d’un homme» ecco una verità che ebbe a scrivere dopo averla vissuta.

  L’amore e la giovinezza gli fecero risalire la china.

  Dernier Chouan, il primo romanzo che doveva portare bene impresso il suo nome, trionfa (aveva appena 29 anni). Segue, sul consiglio insistente del padre, La physiologie du Mariage che gli cattiva le simpatie del mondo femminile.

  L’intraprendente vedova Junot lo conduce nel salotto di madame Récamier ove Chateaubriand impera, eretto, inguantato, con una rosa bianca all’occhiello. Il giovane impetuoso, disordinato, «aux bas bleus», è accolto da trionfatore. Il genio ha trovato l’avvio. L’editore Gosselin non avrà più respiro: La Peau de Chagrin, Bataille, Le Joug de Paix (sic), Le père Goriot, La femme de trente ans, Le médecin de campagne ... Ne touchez pas à l'hache, creazione che fu rivincita e gioia; dalla sua lunga miseria traeva un capolavoro ed il presentimento della sua sorte, sempre ai margini della vita, sempre assetata di grandezza e di gloria, sempre delusa ed affannata.

  Gli anni che seguirono non fecero che ribadire il destino, sogno, amarezze, debiti, e massacrante fatica; sempre alla vetta e sempre all’inizio. L’histoire des treize. Le contrat de Mariage, Seraphita (sic) ... e come se non bastasse gli articoli a getto continuo per La cronique (sic) de Paris e La revue Parisienne. Ai grandi mali s’aggiungono contrarietà di ogni genere che egli drammatizzava sino all’esasperazione. A somiglianza di Voltaire per Calas, Balzac scese in lizza contro la giustizia per un notaio tal Peytel incolpato di aver ucciso la moglie. Meno abile del terribile polemista che pontificava come dall’alto di una cattedra ed era temuto dai potenti, egli spinse il suo zelo fino alla temerarietà, irrompendo nella stanza da letto del giudice istruttore ove la moglie del magistrato in veste succinta ebbe ragione della sua foga di difensore con un secco: voi mentite! Peytel fu ghigliottinato.

  Su consiglio di Hugo pensò di scrivere per il teatro non già una tragedia in versi, ma una buona commedia atta a portargli mucchi d’oro con poca fatica». Invano Enrico Heine ebbe ad ammonirlo con la solita spietata ironia: «Vous changez de bagne. Prenez garde. Tous les forçats en crèvent. Restez donc dans votre bagne de romancier». La commedia Vautrin ebbe un esito disastroso.

  All'istituzione della guardia nazionale, l’idea di dover prestare servizio in armi lo riempiva di una specie di terrore misto a collera e disgusto. Subì per questo la prigione (27 aprile 1846) e non guarì dalla fobia. Le lys dans la vallée sarà una tregua, un respiro, un istante di grazia nell’esaltazione della donna amata, nei luoghi amati, “César Birotteau” rappresenterà il candore negli affari, come «le lys» il candore nel sentimento.

  Povero, grande artiere, febbricitante, dannato alla sua fatica, allucinato, indomabile, come quando alle prese col Père Goriot per ore e ore, senza riposo, senza cibo, senza tregua traccerà da vincitore l’ultimo foglio.

  Opere vaste e complesse come Splendeurs et Misères de (sic) courtisanes, Les Paysans, Les parents pauvres, occuparono le sue notti. Nelle esperienze dolorose, nella sua continua febbre, riusciva a penetrare con mente sempre più lucida l’essenza immutabile della passione; la atavica, millenaria perfidia degli uomini, il male profondo della società ... La cousine Bette nacque da questa visione sconsolata di una vita già presso il declino. L’angelo consolatore in terra Madame de Berny era morta, egli aveva delegato con una bizzarra ed ardita lettera alla successione Madame Hanscha (sic). La nobile polacca accettò l’incarico e fu sposa in extremis del grande uomo, ormai leone morente. Si spense in una giornata d’estate del 1850.

  Al Père Lachaise parlò Victor Hugo e disse cose vere e fonde con la sua bella voce che modellava anche la prosa al ritmo della poesia. Una verità soprattutto che non piacque a Madame Hanscha, discendente di Maria Laczinska, secondo Balzac; «A son insu», aveva detto il poeta, «qu’il veuille ou non l’auteur de cette oeuvre immense est de la forte race des écrivains révolutionnaires».

 

 

  Orio Vergani, Carezza ai gatti d’autunno, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VI, 23-24 ottobre 1950, p. 3.

 

  — E lei, signor poeta, come lo mettiamo? — domanda il pittore.

  E’ il punto più delicato. Nudo no, perché nudo potè esser mostrato, da Canova, solamente Napoleone. In abito «civile» o borghese nemmeno, fra tutte quelle donne nude sparse qua e là fra rupi e spiagge. In veste da camera, come Balzac?

  — Mi lasci pensare, pittor mio ...

 

 

  Mario Vinciguerra, Un centenario. Balzac, «Il Messaggero di Roma», Roma, Anno 72, N. 227, 18 agosto 1950, p. 3.

 

  La scarsa qualità della copia di questo articolo in nostro possesso ci impedisce di trascriverne integralmente il testo.

 

 Nella parte iniziale dell’articolo, l’A. rievoca la morte di Balzac attraverso le parole di Victor Hugo e il raffronto con la scena finale di Le Père Goriot.

 

  Quell’uomo straordinario, che arrivato trent’anni prima dalla nativa Turenna povero, ambizioso, imperterrito come il suo Rastignac, e come lui aveva deciso di gettare una sfida a Parigi, moriva quasi come i Papà Goriot delle lettere francesi.

 Un’altra circostanza grandemente (?) Balzac all’eroe del suo celebre romanzo. Come le figlie di Goriot, diventate per matrimoni, grandi dame si vergognano del loro padre mercate e che pure con la mercanzia aveva potuto collocarle nel gran mondo, dotandole largamente, così la critica francese in genere, e quella accademica in particolare si è vergognata di Balzac, che ha profuso tesori d’intelligenza e di fantasia; ma che, secondo essa, era «una natura volgare», «priva di stile», fino a diventare «detestabile e ridicolo». Queste sono le parole testuali di Lanson [...].

  L’A. riconosce l’importanza del giudizio critico di Baudelaire su Balzac, a cui attribuisce le facoltà di come visionario appassionato. E così conclude il suo intervento:

 

  Per Balzac non ci sono toni medi. [...]. Paradiso e Inferno: da una parte brilla Eugenia Grandet, da un’altra, è avvolto di foschi vapori suo padre, dalla inumana avarizia; da una parte papà Goriot, da un’altra Vautrin Questi esseri vivono a fianco a fianco, anche con vincoli di sangue, e sono distanti in lontananze astrali.

  Nel mondo – ed anche nel mondo concepito dal Vangelo – il giusto pecca sette volte, Balzac non l’intende. Il giusto per lui è «giusto assoluto», e necessariamente vittima designata della cattiveria umana. Ecce agnus Dei. Alle sue spalle c’è, invisibile agli occhi profani, una croce. Si guardi Goriot, il «cugino Pons», Cesare Birotteau, tutti travolti dall’avidità umana, e l’infelice curato di Tours e l’angelica Pierrette, vittime di orrendi intrighi di provincia.

  Per Balzac Cenerentola non sarebbe mai diventata moglie di re, e sarebbe morta fra la cenere; e la stessa Lucia manzoniana nelle mani implacabili di Balzac non sarebbe finita sposa e madre tranquilla nel «timore di Dio», ma sarebbe morta di disperazione nel castello dell’Innominato o nella cucina dell’arcigna donna Prassede, trasformata in una carnefice.

  Forse una cupa voce interiore, nelle notti di più intenso lavoro, stringeva alla gola quest’uomo riboccante di vita.



  Mario Vinciguerra, Il mondo di Balzac, «Giornale di Trieste», Trieste, Anno IV, N. 1048, 18 agosto 1950, p. 3.


  La sera del 18 agosto, mentre cenava, Victor Hugo fu avvertito che Balzac era morente. Accorse da lui, già fuori di conoscenza, e si trovò solo lì, di tutto il mondo letterario parigino, in quella casa che pareva un sepolcro. Il giorno dei funerali si mosse qualche personaggio ufficiale. Era presente il Ministre dell’Interno, Baroche, il quale disse con compunzione ad Hugo: «Era un uomo distinto». «Era un genio», rispose Hugo.

  Davanti alla fossa aperta, nel cimitero del Père-Lachaise, parlò Hugo. Egli ricorda: «Mentre parlavo il sole calava. Tutta Parigi mi appariva in lontananza nella fulgente bruma del tramonto. Quasi ai miei piedi si provocavano dei franamenti nella fossa, ed io ero interrotto dal sordo rumore della terra che cadeva sulla bara».

  Ricordate la fine di Papa Goriot? Nel medesimo cimitero del Père-Lachaise il giovane Rastignac accompagnava l’umile convoglio ignorato del vecchio Goriot: «Il giorno tramontava; un umido crepuscolo dava i brividi — Rastignac, rimasto solo, fece alcuni passi verso l’alto del cimitero, e vide Parigi distesa tortuosamente lungo le due rive della Senna, dove cominciavano ad accendersi i primi lumi ...».

  Quell’uomo straordinario, che era arrivato trentanni prima dalla nativa Turenna povero, ambizioso, imperterrito come il suo Rastignac, e come lui aveva osato di gettare una sfida a Parigi, moriva quasi come il papà Goriot delle lettere francesi.

  Un’altra circostanza avvicina stranamente Balzac all’eroe del suo celebre romanzo. Come le figlie di Goriot, diventate per i matrimoni grandi dame, si vergognavano del loro padre mercante, e che pure con la mercatura aveva potuto collocarle nel gran mondo, dotandole largamente; così la critica francese in genere e quella accademica in ispecie, si è vergognata di Balzac, che ha profuso tesori di intelligenza e di fantasia; ma che, secondo essa, era «una natura volgare», «priva di stile», fino a diventare «detestabile e ridicolo». Queste sono parole testuali di Lanson, acclamato rappresentante della critica cattedratica francese dei primi di questo secolo.

  Altro rinfaccio: non mantenne sempre gli impegni del proprio programma letterario. Egli si presentò ed è stato catalogato come scrittore realista, l’iniziatore di questa scuola; ma ci sono parti dei suoi libri, e libri interi, che non rispondono affatto a questo programma.

  Per reazione, la critica anti accademica ha cercato di figurare un Balzac addirittura in antitesi con l’immagine tradizionale del «fondatore della scuola realista». Fu Baudelaire il primo a parlare di un Balzac visionario: un «visionario appassionato», egli dice; e questa definizione non va scartata, perché ha portato di certo un elemento nuovo alla critica balzacchiana. Ma è un elemento, e non è capace di ricostruire la figura completa di Balzac. Per comprendere frasi di quel genere bisogna prima aver penetrato lo spirito di un Baudelaire. Purtroppo chi ha proseguito per questa strada, lo ha fatto senza discernimento, caricando le tinte di un ritratto già sovraccarico di colore.

  Il vero è che Balzac non si può chiudere in una formula quale che sia. E’ falso negare la tendenza, il desiderio di Balzac di fornire un vasto quadro storico, un grandioso affresco della società francese nella prima metà del secolo XIX. Ne è prova la concezione stessa della «commedia umana», divisa in tanti piani: vita parigina, di provincia, privata ecc., alla quale, nella edizione quasi definitiva del 1842, egli premise una lunga prefazione, che generalmente si ha il torto di non leggere, e dove egli espone i suoi propositi. C’è di più, egli aveva ereditato dal secolo XVIII un gusto per le scienze naturali, e il suo intimo disegno — confessato anch’esso — era di fare una specie di storia naturale della società, come Cuvier aveva fatto con la ricostruzione di certe specie animali.

  Questi erano all’ingrosso i suoi fondamenti ideologici, ma al momento della creazione sopravveniva l’artista, quell’artista turbinoso, che come una ventata di maestrale scompigliava i piani del dottrinario. E qui interveniva effettivamente quel tanto di «visionario» che si annidava nel fondo dell’anima balzacchiana, e che deformava il prodotto delle osservazioni dirette fatte con tanto accanimento sulla vita vissuta dal Balzac realista.

  Il Balzac artista non vedeva il mondo qual era; lo vedeva smisurato. Per Balzac non ci sono toni medi. La vita tende a ritrarsi verso i vertici della bontà, dell’eroismo, del sacrificio assoluti, o ad inabissarsi nei gorghi dell’egoismo maniaco, della perversa malignità, della delinquenza demoniaca. Paradiso e Inferno: da una parte brilla di luce Eugenia Grandet, da un’altra è avvolto di foschi vapori suo padre, dall’inumana avarizia; da una parte papa Goriot, da un’altra Vautrin. Questi esseri vivono a fianco a fianco, anche con vincoli di sangue, e sono distanti in lontananze astrali.

  Nel mondo — ed anche nel mondo concepito dal Vangelo — il giusto pecca sette volte. Balzac non l’intende. Il giusto per lui è «giusto assoluto», e necessariamente vittima designata della cattiveria umana. Ecce agnus Dei. Alle sue spalle c’è, invisibile agli occhi profani, una croce. Si guardi Goriot, il «cugino Pons», Cesare Birotteau, tutti travolti dall’avidità umana, e l’infelice curato di Tours e l’angelica Pierrette, vittime di orrendi intrighi di provincia.

  Per Balzac Cenerentola non sarebbe mai diventata moglie di re, e sarebbe morta fra la cenere; e la stessa Lucia manzoniana nelle mani implacabili di Balzac non sarebbe finita sposa e madre tranquilla nel «timore di Dio», ma sarebbe morta di disperazione nel castello dell’Innominato o nella cucina dell’arcigna donna Prassede, trasformata in una carnefice.

  Forse una cupa voce interiore, nelle notti di più intenso lavoro, stringeva alla gola questo uomo riboccante di vita.

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Rossano Zezzos, Onorato di Balzac a Milano, «Famiglia Meneghina. Rassegna di vita milanese», Milano, Anno XXIV, N. 2, Marzo-Aprile 1950, pp. 1-2.

 

  Il soggiorno da noi di Onorato di Balzac – soggiorno movimentato quanto mai — è tutto rivelato nelle vecchie gazzette nostrane del tempo lontano, che dormono obliate negli archivi, ma che palpitano di vita non appena qualcuno ad esse si accosti.

  Sicuro! Il romanziere, iperbolico in tutto, diede molto da fare alla stampa milanese: e se giunse quasi inosservato e scese, in un silenzio glaciale, a quell’albergo «Bella Venezia» in Piazza San Fedele (da non moltissimi anni demolito e che ciascuno ancora ricorda) caro al Beyle, bisogna proprio dire che ebbe poi, per merito dei giornalisti, la più clamorosa delle «reclame» («réclame» anche quando la maldicenza ed il pettegolezzo infierirono) quasi che volessero indennizzarlo, in qualche modo, dei due giorni di oblio in cui lo lasciarono gli ambrosiani.

  Il 19 febbraio 1337 l’autore della «Commedia umana» c ospite della città della «Madonnina»: e chi lo sa? Nessuno! La Gazzetta privilegiata di Milano ne annucia (sic) l’arrivo solo il 21, molto laconicamente, in una semplice arida «Lista dei forestieri arrivati in città il 19» dove figura come «possidente».

  Ma c’è in Milano un cronista, Defendente Sarchi, sempre alla caccia del «pezzo ad effetto»: la notizia data così poveramente dal più diffuso periodico di allora, viene subito da lui afferrata e sviluppata, nello stesso giornale che ospitò la «lista», l’indomani 22 febbraio.

  La «Notizia letteraria» del Sacchi, piena di schietta cordialità per lo scrittore francese, fece effetto nei circoli e nei salotti che andarono a gara nell’aprire le porte al nuovo arrivato in un entusiasmo proprio della gente milanese.

  La frase con la quale la Contessa Maffei (alla quale l’ha raccomandato Fanny Sanseverino Porcia, sorella di Alfonso Sanseverino, ciambellano di Francesco I) l’ha accolto (J’adore le genie!) fa il giro d’ogni casa elegante e d’ogni ritrovo mondano.

  Il 23 febbraio, altro incensamento stilla Gazzetta privilegiata, ma non del Sacchi, bensì di Antonio Piazza, direttore del Corriere delle Dame. Si tratta di un profilo riuscitissimo dello scrittore.

  Il Piazza ha trovato nel Balzac proprio «il suo uomo» (ossia il tema più adatto per il proprio giornale): nel Corriere delle Dame del 25 appare un altro suo articolo: «Del signor di Balzac, a proposito di mode» ove si attarda a parlare della cravatta bianca e dei guanti neri dell’autore celebre, del suo famoso bastone «che costa 500 franchi» pur non essendo tuttavia quello di cui si è già occupato l’anno innanzi; nel numero 28, è della famosa veste da camera «che lo può far scambiare per un monaco o un ballerino» che parla. E tanto impressiona il pubblico che uno scultore milanese, Alessandro Puttinati, fa una statuina del Balzac in simile «acconciatura».

  Ignazio Cantò, che già aveva detto di Balzac nel Riccoglitore italiano e straniero edito da Fortunato Stella, riprende l’argomento con una serie di articoli critico-biografici che sono tra i suoi più belli.

  Le famiglie patrizie vanno a gara per ospitarlo: gli Attendolo, i Bolognini, i Vimercati. In Milano non si parla che di lui, delle sue stranezze, dei suoi motti di spirito: Giulietta Pezzi, figlia del Giornalista Pezzi, direttore della Gazzetta privilegiata, scrittrice pure lei, gli dedica odi e canzoni.

  «È una Balzacomania» brontola Andrea Maffei, punto di sottile gelosia per le premure che la sua «Clarina» dedica al «Genio»: il quale; con la scusa di farsi chaperonner gira tutta Milano con lei, recandosi con lei a Brera e dovunque vi sia qualcosa d’interessante da vedere.

  Andrea Maffei non ha simpatia per quel «brutto grasso uomo eccentrico» carico d’anelli, dai capelli ridicolmente acconciati a «toupé», la cui venuta a Milano è un mito (possibile che sia qui; lui, uomo di lettere, per sistemare gli affari di Guidoboni Visconti? Eppoi, se è sempre in giro per la città e per i salotti?!): ma ne teme il genio che non può negargli, giacché egli sa quanto fascino eserciti l’intelligenza sullo spirito della sua giovane moglie. Tanto che un giorno, dal tribunale dove lavora, non potendone più, scrive a Clara una lettera umanamente accorata piena di bontà e di dignità (lettera che venne pubblicata, dopo quasi un secolo di sepoltura fra le scartoffie, nella Nuova Antologia del 1916).

  Intanto che il conte Andrea Maffei si rode, Balzac sfolgora: combinazione egli è giunto poco dopo l’apparizione nel cielo milanese di una cometa, a proposito della quale ama dire compiaciuto, mezzo per burla e mezzo sul serio: «Annunciava il mio arrivo».

  La Scala (meraviglia delle meraviglie, secondo Stendhal) l’ha fra i suoi assidui: egli troneggia nel palco del Sanseverino, del quale è divenuto intimo, ma fra un atto e l’altro entra in tutti i palchi dove sfolgorano le belle donne della nobiltà milanese dell’Ottocento, fortunato corteggiatore corteggiato. I nomi illustri dei suoi illustri anfitrioni, si seguono nella lista delle sue memorie milanesi: Trivulzio, Belgioioso, Porro-Lambertenghi, Melzi, Sormani ... Ma, ahimè, «Cosa bella e mortal passa e non dura!»... E poi, non è egli giunto come una meteora? È giusto che come una meteora se ne vada! La primavera porta dalle Alpi vento infido a Balzac. Nicolò Tommaseo in una lettera del 7 aprile a Cesare Cantù dà la stura alla diffidenza; ma già una corrispondenza da Milano al Journal de Francofort (corrispondenza contro cui inutilmente si era alzato il Lambertenghi nella Gazzetta di Milano del 19 marzo), ha funzionato da campanello d’allarme.

  L’incontro di Balzac con Manzoni, dinanzi a Cesare Cantù, ha un esito nefasto; influenzato, forse, dalla lettera del Tommaseo, il Cantù nota in lui solo il suo grosso ventre, la sua eccentricità («È pieno di sè come pieno di debiti» dice). Sì: poiché si è saputa la vera ragione della sua «fuga in Italia»; la paura dei creditori che reclamano da lui complessive lire duecentomila! Balzac sente l’aria contraria. La Voce della Verità (fondata dal Galvani nel 1831) lancia ad uno ad uno i suoi strali contro di lui in una serie di articoli maligni, accusandolo di anti-religiosità (30 marzo-15 aprile); persino il Corriere delle Dame, prima sperticatamente laudativo, si fa cauto in un trafiletto anonimo (ma certo del Piazza) intitolato Capogiri letterari, comparso il 1° aprile. Mentre l’uragano mugola intorno a lui egli deve (deve?) recarsi a Venezia (prende alloggio al Danieli nelle stesse stanze occupate tre anni prima da George Sand e dal Musset morente) dove in casa Soranzo ha la dabbenagine di sparlare di Alessandro Manzoni — di «Don Lisander» — dinanzi ad un manzonofilo il conte Dandolo, il quale, sulla Gazzetta di Venezia, diffusa anche a Milano, lo «denunzia».

  Figurarsi la Fama del 14 e del 19 luglio, e soprattutto del 4 settembre 1873 (sic)! Eppure egli osò ritornare a Milano; ma, per quietare un poco, dovette scrivere al Manzoni una lunga lettera di scuse, che termina con una considerazione amara sulla sua patria lontana:

  «Cara Italia! Per una parola tutta una città come Milano vi difende. Se voi mi aveste giudicato severamente a Parigi, anche il mio amico più intimo vi avrebbe dato ragione!».

 

 

  Stefan Zweig, Balzac. Il romanzo della sua vita. Unica traduzione autorizzata dal tedesco di Lavinia Mazzucchetti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1950 («Quaderni della Medusa», XXXIII), pp. 400; 13 ill.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., pp. 551-552.

 

  Struttura dell’opera:

 

LIBRO PRIMO.

Giovinezza e primi inizi.

 

I Tragica infanzia

II Balzac interroga troppo presto la sorte.

III La fabbrica di romanzi Horace St-Aubin & C.

IV Madame de Berny

V Intermezzo commerciale

VI Balzac e Napoleone. 

 

LIBRO SECONDO.

Balzac al lavoro.

 

VII L’uomo di trent’anni

VIII Balzac dentro e fuori

IX La duchessa de Castries

X Balzac scopre il suo segreto.

 

LIBRO TERZO.

Il Romanzo della sua vita.

 

XI La sconosciuta

XII Ginevra

XIII L’addio a Vienna.

 

LIBRO QUARTO.

Splendore e fine di Balzac romanziere.

 

XIV L’anno delle catastrofi! 1836

XV Viaggio in Italia

XVI La grande svolta

XVII Le miniere d’argentodella Sardegna

XVIII Speculazioni teatrali           .

 

LIBRO QUINTO.

Il poeta della Commedia umana.

 

XIX Alla conquista della signora Hanska

XX La Commedia umana

XXI II primo crollo

XXII Balzac raccoglitore

 

LIBRO SESTO.

Compimento e fine.

 

XXIII Gli ultimi grandi romanzi

XXIV Balzac in Ucraina

XXV Nozze e ritorno

XXVI La fine

 

  Trascriviamo integralmente il capitolo XX intitolato: La Commedia umana.

 

  Nel suo quarantatreesimo anno, già un pochino stanco e sciupato dalle lotte, Balzac non vede che un’unica meta: vuol metter ordine nella propria vita, scuoter di dosso il carico dei debiti, portare a termine in pace e senza assilli la propria opera gigantesca. Sa che una cosa sola può rendergli possibile tutto questo: la conquista della signora Hanska e insieme d’una parte dei milioni del consorte. Il grande giocatore che cento volte era stato al tavolo verde in lotta col destino, sempre ritentando, punta ora tutto su una carta: questa donna. Cerca disperatamente di utilizzare quell’anno e mezzo prima di raggiungerla a Pietroburgo per rendersi meglio adatto presso la famiglia quale aspirante. Sa che i Rzewuski e tutto il clan nobiliare e altezzoso considereranno sempre subalterno un Honoré Balzac, figlio di villani nonostante il falso “de” prima del cognome, anche se massimo poeta del secolo. Ma se Monsieur Balzac fosse eletto alla Chambre des Pairs, se fosse un personaggio con influsso politico, se si facesse confermare il “de” dal sovrano o lo rimettesse a nuovo con un titolo di conte? Oppure un Monsieur Balzac membro dell’Accademia di Francia? Un accademico ha sempre tale dignità da non poter più esser ridicolo. E inoltre non è ormai più un povero nullatenente, avrebbe duemila franchi all’anno e se si viene eletti nella Commissione del Dizionario, altro “posto inamovibile”, si ricevono persino seimila franchi l’anno. E si indossa la marsina con le palme, tanto che anche una Rzewuska non dovrebbe più vergognarsi della mésaillance. E se tentasse invece di essere un Monsieur Balzac milionario, un drammaturgo che scrive sei drammi all’anno e con essi domina ininterrottamente i sei massimi teatri di Parigi guadagnando in dodici mesi un mezzo milioncino o anche un milione intero?

  Balzac, pur di conseguire la parità sociale con Eva Hanska, fa tentativi in ogni direzione. Cerca di salire per le tre scale sino alla sfera dei Rzewuski, ma da tutte il brav’uomo pingue e impaziente precipita con uno scivolone. Per l’elezione alla Camera non arriva a tempo a procurarsi il capitale necessario per essere iscritto nella lista. Non ha più fortuna, e non l’avrà neppure più tardi, con l’Accademia. Troveranno cento pretesti per escluderlo, non osando seriamente negare il suo diritto. Ora dicono che le sue condizioni finanziarie sono troppo confuse e che non si può far sedere sotto la santa cupola un uomo che sia aspettato alla porta da strozzini e uscieri. Poi invocano le sue frequenti assenze, ma più sinceramente definisce la situazione un suo accanito nemico pieno di celata invidia: «Il signor de Balzac è troppo corpulento per i nostri seggi!». All’infuori di Victor Hugo e di Lamartine, soffocherebbe tutti, in realtà.

  Si accinge allora a buttar giù in gran fretta due “dramoramas” per liberarsi almeno dai debiti più scandalosi, quei (sic) “dettes criardes” che fan giungere i loro strilli sino a Pietroburgo e a Vierzchownia. Il primo, Paméla Giraud, è un dramma borghese che si fa raffazzonare per quattro quinti dai suoi non geniali “negri” e il Teatro Vaudeville lo accetta. L’altro, Les ressources de Quinola, è già prima in preparazione all’Odeon e Balzac è ben deciso a cancellare con esso la sconfitta del Vautrin e a conseguire un solenne trionfo.

  Al solito non punta i suoi sforzi dove conviene, cioè sul lavoro; le prove cominciano prima che abbia finito il quinto atto, il che esaspera la protagonista, la celebre Madame d’Orvalli, sino a farle respingere la parte. Ciò che lo interessa è fare della première la più fastosa serata che mai abbia veduto Parigi, e la più trionfale. Bisogna che ai posti migliori si vedano bene i massimi nomi di Parigi. Non deve insinuarsi nessun nemico, nessun fischiatore che possa, come nel Vautrin, con interruzioni o fischi mutar gli umori del pubblico. Per ottenere questo, Balzac col direttore del teatro stabilisce che i biglietti della prima rappresentazione debban tutti passare per le sue mani e trascorre così il tempo die avrebbe tanto meglio utilizzato allo scrittoio correggendo il dramma incompiuto, negli uffici o alla cassa.

  Il piano di battaglia è elaborato con grandiosità tutta balzachiana. Al proscenio ci dovranno essere ambasciatori e ministri, le prime file di poltrone saranno per i cavalieri di San Luigi e i pari. Ai deputati e ai funzionari statali riserva la seconda galleria, alla gente di finanza la terza, e mette la ricca borghesia nella quarta. Inoltre vuole che la sala sia bene guernita nei punti più visibili con belle donne, mentre disegnatori e pittori sono incaricati di eternare la visione di quella serata.

  In un primo tempo Balzac, come sempre, ha calcolato giusto. Le voci che circolano sulla imminente serata di gala fanno chiasso e la gente fa ressa allo sportello e offre anche prezzo doppio o triplo per i biglietti. Ma poi succede con logica crudele quel che sempre accade ove Balzac specula: tende troppo l’arco e lo spezza. Invece di accettare i doppi prezzi, per accrescere l’interesse fa correr la voce che il teatro sia esaurito e il pubblico si rassegna a pazientare sino alla terza o quarta replica dell’opera sensazionale. Quando poi la sera del 19 marzo 1842 arrivano gli spettatori di gala, si constata che per la falsa tattica di Balzac tre quarti dei posti sono vuoti, il che irrita in anticipo il pubblico accorso per ammirare se stesso. Invano il direttore Lireux introduce all’ultimo momento una schiera di claqueurs e regala in gran fretta un posto gratuito a chiunque lo voglia. Quanto più il dramma si fa tragico, tanto più allegramente si comporta il pubblico. Le rappresentazioni successive attraggono soltanto gente che desidera far gazzarra. Si suonano trombette e si fischia e si canta in coro: «C’est Monsieur Balzac — qu’a fait tout ce mic-mac!».

  Balzac non viene chiamato neppure una volta alla ribalta, il che del resto sarebbe inutile, giacché le sue fatiche per mettere insieme un teatro affollato l’hanno ridotto al punto che alla fine dello spettacolo lo trovano addormentato in un palco. In ritardo egli dunque apprende che ancora una volta - quante volte è già accaduto! - i sognati biglietti da mille sono spariti nella cava orchestrale. Il destino, con colpi sempre più duri, lo riporta sempre al suo vero destino, e quando egli scrive disperato alla signora Hanska che, in caso fallisca anche con l’altro dramma Les ressources de Quinola, sarà costretto a scrivere quattro volumi di romanzi, noi non possiamo disperarci con lui, giacché i romanzi e le novelle da lui scritti sotto l’assillo di simili vicende dal 1841 al 1843 sono tra le sue creazioni più grandiose e noi forse non le avremmo se i pessimi melodrammi avessero riportato successo.

  In questi romanzi della maturità migliore si va perdendo man mano l’elemento di mondanità, la mania aristocratica che ci sconcerta non di raro nelle opere di periodi precedenti. Ha gradatamente imparato a giudicare a fondo la cosiddetta “alta” società, da lui idoleggiata con il rispetto pur renitente dell’autentico plebeo. I salotti del Faubourg Saint-Germain hanno sempre più perduto il loro fascino; non sono più le vanità e le piccole ambizioni della gente grande e neppure le grandi aspirazioni di piccole contesse o marchese a eccitare la sua ispirazione, bensì le grandi passioni. Quanto più Balzac si fa amaro attraverso esperienze e delusioni, tanto più vero diventa. Il sentimentalismo dolciastro che deturpa - come macchie d’olio su una veste preziosa - le migliori sue opere giovanili, comincia a svanire. La prospettiva si allarga e nello stesso tempo acquista in nitidezza. Nella Ténébreuse affaire una luce violenta svela gli sfondi della politica napoleonica. Nella Rabouilleuse dimostra nel problema sessuale un’audacia cui nessuno dei suoi contemporanei è giunto. Il problema della perversione e della servilità erotica non è stato affrontato da nessuno con la temerità di Balzac nella figura del vecchio dottor Rouget, che a settant’anni fa della tredicenne Rabouilleuse la sua amante. E che figura quel Filippo Bridau, amoralista non meno di Vautrin, ma non più melodrammatico, verboso e patetico, bensì terrificante e indimenticabile nella sua sincerità. E poi porta a compimento le Illusioni perdute, il grandioso affresco del tempo suo, e fra l’uno e l’altro butta lì con mano leggera Ursule Mirouet, un poco artificiosa per le raffinatezze spiritiche, ma mirabilmente verosimile in ogni figura, e La fausse Maîtresse, le (sic) Mémoires de deux jeunes mariées, Albert Savarus, Un début dans la vie, Honorine, La Muse du Département, una dozzina di frammenti; e di nuovo in tre anni quell’instancabile e incomparabile ha creato ciò che per un altro sarebbe opera di un’intera vita.

  A poco a poco la massa delle opere è tale che non la si domina più, e Balzac, che vuol assestare per sempre la propria esistenza, pensa ora anche a dare un ordine all’opera. Benché assillato dai creditori, ha sempre mantenuto un’ultima riserva: l’edizione delle sue Opera omnia. Anche nei peggiori frangenti si è sempre guardato dal cedere i diritti di un libro singolo vita natural durante e non ha mai trattato che per una o per alcune edizioni. Benché prodigo in ogni senso, ha conservato intatto quel suo massimo patrimonio, in attesa del momento opportuno in cui potrà mostrare ad amici e nemici con orgogliosa sintesi ciò che ha creato. Il momento è venuto: mentre chiede la mano della vedova del milionario Venceslao Hanski, vuol darle prova della propria ricchezza. È milionario anche lui: possiede un milione di pagine, cinquecento fogli stampa, venti volumi, e basta che lasci trapelare la sua intenzione di una raccolta completa perché tre editori, Dubochet, Furne e Hetzel, si mettano insieme per finanziare e assicurarsi in comune la grandiosa messe che andrà accrescendosi ancora di anno in anno. Il contratto per le “Opere Raccolte” vien concluso il 14 aprile 1842 e dà agli editori

 

  il diritto di fare a loro scelta, e nel termine di pubblicazione che parrà loro conveniente, due o tre edizioni delle opere pubblicate da lui sino a quel giorno o che lo fossero durante la validità del presente contratto, e la cui prima edizione dovrà essere di tremila esemplari. Tale edizione sarà in formato ottavo e comprenderà circa venti tomi, più o meno a seconda delle necessità dell’opera completa.

 

  Riceve in acconto quindicimila franchi e la prima partecipazione percentuale di cinquanta centesimi per ogni tomo dovrà iniziarsi dopo la vendita dei primi quarantamila volumi.

  Con questo Balzac si è assicurato una rendita dalle sue opere, la quale è destinata a crescere di anno in anno e gli lascerà mano libera per il lavoro futuro. L’unica clausola contrattuale a suo carico è l’impegno da lui volontariamente assunto di pagare di tasca propria le spese tipografiche per correzioni straordinarie del testo che superino i cinque franchi ogni foglio. Un Balzac, il quale non sa resistere alla tentazione di migliorare stilisticamente l’opera propria anche per la sedicesima o la diciassettesima volta, pagherà la sua passione ben cinquemila duecentoventiquattro franchi e venti centesimi. Gli editori hanno un desiderio. Non vorrebbero il titolo “Opere Raccolte”, troppo generale e senza attrazione per il pubblico. Non ne saprebbe trovare un altro, il quale esprima come la sua opera intera, con le figure che ritornano, col suo mondo abbracciarne la società nelle sue cime e nelle sue bassure, costituisca in fondo una grande unità?

  Balzac consente. Già dieci anni prima, quando guidava la penna di Felice Davin in una prefazione all’edizione complessiva dei suoi romanzi, ha avuto egli stesso l’intuito che, nella visione del mondo sintetica e completa da lui intraveduta, ogni singolo romanzo era solo parte di mi tutto inscindibile. Ma come trovare un titolo che esprima la sintesi di quella visione? Balzac esita incerto, quando un caso gli viene in aiuto. Il suo amico e antico segretario di redazione Belloy è appena tornato da un viaggio in Italia, dove s’è occupato di letteratura italiana e ha letto la Divina Commedia nell’originale. E di colpo s’accende il pensiero di contrapporre alla commedia divina quella umana, all’edificio teologico quello sociologico. Eureka! Il titolo è trovato: La Comédie humaine.

  Balzac è entusiasta e gli editori non lo sono meno. Soltanto lo pregano, perché quel titolo nuovo e certamente pretenzioso riesca chiaro al pubblico, di scrivere una prefazione alle Opere. Balzac non ne ha troppa voglia: evidentemente non vuol prodigare il suo tempo prezioso in mia fatica così poco redditizia, e propone di servirsi di quel saggio di Felice Davin che è per nove decimi suo e che ha fatto da proemio agli Studi di costumi del secolo diciannovesimo. Poi propone che l’amica Giorgio Sand, intelligente e a lui benevola, presenti l’edizione. Suo malgrado Balzac alla fine viene indotto a mutar parere da un’abile lettera del suo editore Hetzel, che lo ammonisce a non rinnegare da padre onesto la sua creatura e gli dà intanto preziose indicazioni.

 

  Siate oggettivo e modesto quanto possibile. Questo è il solo atteggiamento opportuno e orgoglioso quando si è creata un’opera come la vostra. Parlate con assoluta pacatezza. Cercate di immaginarvi già vecchio, con la dovuta distanza da voi stesso. Parlate come una delle figure dei vostri romanzi, e farete cosa preziosa e indispensabile. Mettetevi all’opera in questo modo, mon gros père, e perdonate a un editore magro se ha osato di essere così impertinente con Vostra Grassezza. Voi sapete che lo ha fatto con le migliori intenzioni.

 

  In questo modo nasce la celebre prefazione della Commedia umana. Essa è di fatto molto più tranquilla, oggettiva, scevra di passione di quel che si potrebbe aspettarsi da Balzac. Con il suo buon senso ha avvertito la ragionevolezza del monito di Hetzel e ha trovato la giusta via di mezzo tra la grandiosità del tema e la modestia personale. Non dev’essere stata una delle sue solite esagerazioni se confessa alla signora Hanska che quelle sedici paginette gli son costate più fatica di un romanzo intero. Balzac in esse espone un sistema del suo mondo, paragonandolo a quello di Geffroy (sic) Saint-Hilaire e di Buffon. Come nella natura le specie animali si sviluppano diversamente a seconda dell’ambiente, così accade per gli uomini in seno alla società. Se si vuol scrivere impiegando da tremila a quattromila personaggi una “Storia del cuore umano”, bisogna far agire in almeno un esemplare tutti gli strati sociali, tutte le forme e tutte le passioni. Ci vorrà la forza inventiva dell’artista per raggruppare singoli episodi e personaggi in modo che compongano «una storia completa, di cui ogni capitolo sia un romanzo, ogni romanzo un’epoca».

  L’artista - questo è il vero programma - data la infinita differenziazione dell’indole umana, non ha che da osservare: «Il caso è il più gran romanziere del mondo; per creare basta studiarlo. La società francese deve essere il vero storiografo e io non voglio che farle da segretario. Mentre prendevo l’inventario delle virtù e dei vizi, sceglievo gli eventi sociali più notevoli, formavo tipi fondendo parecchi individui di carattere affine, potei forse giungere a scrivere la storia dei costumi da tanti storici dimenticata». Il suo sforzo mira a comporre per la Francia dell’Ottocento l’opera che purtroppo non hanno lasciato né Roma né Atene, non Menfi o la Persia o l’India. Egli intende descrivere la società del suo secolo e in pari tempo metterne in evidenza le energie che la muovono. Con ciò Balzac proclama apertamente il realismo quale compito del romanzo, ma aggiunge esplicitamente che il romanzo, benché non significhi nulla se tutti i suoi particolari non sono veritieri, debba esprimere l’esigenza di un mondo migliore. Espone il suo piano a grandi linee:

 

  Le Scene della vita privata rappresentano l’infanzia, l’adolescenza e i loro errori, mentre le Scene della vita di provincia rappresentano l’età delle passioni, dei calcoli, degli interessi e dell’ambizione. Poi le Scene della vita parigina offrono un quadro dei gusti, dei vizi e di tutte le sfrenatezze che eccitano i costumi particolari nelle grandi città ove si incontrano insieme il bene estremo e l’estremo male ...

  Dopo aver dipinto in questi tre libri la vita sociale, restavano da rappresentare le esistenze d’eccezione che riassumono gli interessi di molti o di tutti e che sono in qualche modo al difuori della legge comune: cioè le Scene della vita politica. Una volta compiuto il vasto quadro della società non conveniva forse mostrarla nel suo stato più violento, quando esce da se stessa, sia per la difesa che per la conquista! Ed ecco le Scene della vita militare, la parte ancora meno completa della mia opera, ma cui lasceremo posto in questa edizione affinché ne faccia parte quando l’avrò portata a compimento. Infine le Scene della vita campestre sono in qualche modo il vespro della lunga giornata, se così mi è lecito definire il dramma sociale. Nel libro si trovano i più puri caratteri e l’attuazione dei grandi principi d’ordine, di politica e di moralità.

 

  E conclude con l’accordo grandioso:

 

  L’immensità di un piano che abbraccia a un tempo la storia e la critica della società, l’analisi dei suoi mali e la discussione dei suoi principi, mi autorizza, credo, a dare alla mia opera il titolo col quale essa oggi compare: La Commedia umana. È ambizioso? È soltanto giusto! Ecco quel che, a opera compiuta il pubblico deciderà.

 

  La posterità ha deciso che questo titolo non era troppo pretenzioso, benché l’opera, così come la possediamo, non sia che il torso di un tutto maggiore, prima del cui completamento la morte strappò di mano lo scalpello a Balzac. Data la sua perenne consuetudine di firmar cambiali a termine lontano, il poeta ha preceduto i fatti parlando di tre o quattro mila personaggi. La Commedia umana contiene, quale ci si offre oggi incompiuta, soltanto - e ci si vergogna di dire “soltanto” - duemila figure. Ma che quelle tre o quattromila già esistessero con tutte le loro forme di vita nell’inesauribile cervello di Balzac, è provato anche da un indice preparato nel 1845, il quale annovera con tutti i titoli, oltre ai romanzi già scritti, quelli non ancora scritti ed è lettura non meno malinconica che gli elenchi delle tragedie perdute di Sofocle o dei quadri di Leonardo non pervenutici. Non meno di cinquanta fra queste centoquarantaquattro opere sognate non le ha potute più portare a termine. Ma il progetto dimostra con quale sovrana genialità architettonica egli avesse già abbozzato dentro di sé la complessità delle forme di vita.

  Il primo romanzo ha nome I figli; il secondo ec terzo Un collegio di fanciulle, Un collegio di ginnasiali; ci doveva essere un romanzo per il mondo del teatro, la diplomazia, i Ministeri, gli eruditi, e anche elezioni e manovre di partito, di città e di provincia dovevano essere svelate nella loro tecnica complessa. In più di dodici racconti, dei quali ha scritto soltanto Les Chouans, avrebbe voluto rappresentare l’Iliade dell’esercito di Francia durante l’era napoleonica: i francesi in Egitto, Mosca, Lipsia, la campagna di Francia, le battaglie di Aspern e di Wagram, gli inglesi in Egitto e persino i “pontons”, i soldati francesi in prigionia. Ai contadini aveva destinato un romanzo, e al giudice e all’inventore. E al disopra di questi studi espositivi avrebbero dovuto levarsi quelli analitici per chiarire: una patologia della vita sociale, una “anatomia dei corpi insegnanti” e un “dialogo filosofico e politico sulla perfezione del secolo diciannovesimo”.

  Non vi è dubbio che Balzac, se la durata della sua vita fosse stata lunga abbastanza, avrebbe portato a termine queste opere. Ciò che esisteva già nella sua fantasia divenne anche sempre, data la sua facoltà visionaria, realtà e figura. Solo una cosa gli è mancata, di cui ha avuto scarsezza durante tutta la sua vita intensa e troppo piena: il tempo.

  I preannunzi delle sue “Opere raccolte” debbono aver dato a Balzac un senso di orgogliosa sicurezza. Per la prima volta ha mostrato al mondo quel che vuol fare, si è chiaramente staccato da tutti quanti gli stanno attorno, dei quali nessuno avrebbe avuto il coraggio e nessuno anche il diritto di proporsi una fatica cosi incommensurabile. Egli ne ha già attuati quattro quinti. Pochi anni, cinque, sei anni sono il termine che si pone perché tutto sia compiuto. Ordine nell’ambito dell’opera come della vita. Ma poi gettarsi con ogni energia in un compito che egli non ha mai sinora sfiorato né dominato: riposare, vivere, godere ed essere felice.

 

 

  Stephan Zweig, Lord R’Hoone, rovescio di Honoré. La fabbrica dei romanzi d’avventura e d’amore (traduzione di Mario Picchi), «La Fiera letteraria Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno V, Numero 34, 3 settembre 1950, p. 4; 2 ill.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 554.

 

  Dopo la sua trista avventura di scrivano, Balzac non potrà fare a meno di fissare per tutta la vita, come lady Macbeth, le proprie mani insozzate.

 

  Per diversi giorni, forse anche per alcune settimane, Balzac rifiuta ancora di considerare fallito il suo «Cromwell». Col suo commovente amico Dablin considera se non sarebbe tuttavia il caso di sottoporre la tragedia alla Comédie-Française, e il bravo cincagliere, che non ha molti rapporti con la gente di teatro, incarica un conoscente dell’attore Lafont di informarsi se questi non fosse disposto a prendere il lavoro sotto la sua protezione. Balzac dovrebbe recarsi a trovare Lafont e non lesinare in adulazioni, forse allora Lafont presenterebbe la tragedia agli altri consoci. Ma d’improvviso, Balzac, conscio del proprio valore, s’impenna. Per quale scopo umiliarsi troppo? Per quale scopo ostinarsi a puntare sulla carta perdente? Chi sente di aver forza deve essere capace di sopportare i colpi duri.

  Sistemata la faccenda del Cromwell, cercherà invece di scrivere qualcosa di meglio. Balzac prega Dublin di non darsene più pensiero. Ficca risolutamente il manoscritto in un cassetto. In vita sua non ha mai più dato un’occhiata a questo suo primo errore di giovinezza.

  Ma ora rimettiamoci presto al lavoro! Questo scacco mortale ha tuttavia un po’ fiaccato il suo orgoglio. Un anno prima, quando scriveva il Cromwell con tutto l’ardore dei sensi, egli si abbandonava ancora all’impeto trabocchevole dei sogni. Questo giovane ventenne voleva conquistare di botto la gloria, l’onore, la libertà. Ora, per il drammaturgo caduto da grandi altezze, scrivere, creare hanno prima di tutto un significato pratico: affrancarsi in ogni modo dai genitori. I capolavori e l’immortalità verranno poi, dapprima occorre guadagnare denaro scrivendo, denaro a qualunque costo per non dover più rendere conto di ogni soldo, come di un’elemosina, a padre e madre. Per la prima volta in vita sua, l’incorreggibile sognatore è costretto a pensare da realista. Balzac decide di scrivere qualcosa che porti rapidamente al successo.

  Con che cosa si ottiene un rapido successo al giorno d’oggi? Cerca intorno a sè, quell’ignorante, e trova: con il romanzo! Dopo che la prima ondata sentimentale — la Nouvelle Héloïse di Jean-Jacques Rousseau, il Wether (sic) di Goethe — venne a infrangersi in Europa, dall’Inghilterra ne è giunta una seconda. Come ogni periodo di guerre, l’epoca napoleonica ha causato nella vita di tutti i giorni una tensione così forte — anche troppo — da far sentire al borghese il bisogno di eccitarsi per immaginari destini individuali. Il Moniteur ha riempito l’office di poeti. Ma coi Borboni, con la pace, ecco riaffiorare il desiderio di partecipare con tutta l’anima alle avventure altrui, di titillarsi i nervi, di sottoporre la propria sensibilità alla doccia scozzese: orrore e fralezza. Il pubblico vuole romanzi eccitanti, violenti, romantici, esotici. Le sale di lettura e le biblioteche circolanti, di recente creazione, calmano a malapena la voracità smaniosa delle masse. Sono i giorni d’oro degli autori senza scrupoli che si accingono a preparare, in cucine da streghe, un intruglio di veleno e di lacrime, di vergini virtuose, di corsari, di sangue e d’incenso, di canagliate e di generosità, di incantatrici e di trovatori, in un polpettone romantico-storico, e per giunta inaffiarlo con una salsa gelida di fantasmi e pelle d’oca. Ecco, per esempio, miss Anne Radcliffe in Inghilterra: fabbrica orripilanti storie di spettri in una officina che fa tic tac come un mulino.

  Balzac decide far vela col vento romantico in poppa e scrivere un romanzo storico. Non sarà il solo, in Francia, a lasciarsi sedurre dal successo di Byron e di Walter Scott. Ben presto Victor Hugo con Bag (sic) Jargal, Han d’Islande, Notre-Dame, Vigny con Cinq Maris (sic), faranno in quel campo le loro esperienze, e con mano maestra; ma soltanto dopo essersi esercitati a levigare le parole in poesia e a praticare l’arte della composizione. Invece Balzac inizia il racconto Falthurne da imitatore inesperto. Prende a prestito dai penoso romanzi di Anna Radcliffe il loro sfondo storico: Napoli, in uno scenario schematico, da palcoscenico. Porta, alla ribalta tutti gli inevitabili tipi del romanzo a puntate per portinaie; per prima l’indispensabile fattucchiera, «la strega di Soumaris, magnetizzatrice», e i Normanni, i condottieri, prigionieri nobili incatenati, e paggi sentimentali; l’abbozzo propone battaglie, assedi, segreti, prodezze amorose anche più inverosimili — tanto per cominciare —, perché sono ben più di quanto potrebbe metterne in azione il giovane autore. Un altro romanzo: Sténie ou les erreurs philosophiques, scritto in forma di lettere nello stile di Rousseau, dove il tema favorito di Louis Lambert, la «teoria della volontà», è disegnato con contorni imprecisi, rimane allo stato di frammento (il manoscritto verrà poi inserito in parte in un altro lavoro per tapparvi un buco). Balzac ha subito una seconda disfatta. E’ fallito nelle sue prove di tragedia. Si è arenato con il romanzo. Ecco un anno sprecato, un anno e mezzo, e, a casa, la Parca spietata si prepara a troncare definitivamente l’esile filo della sua libertà. Il 15 novembre 1820 disdice per il 1. gennaio 1821 la camera di via Lesdiquierès (sic). Basta con le scribacchiature a quel modo!

  Nei racconti, il tentatore non manca mal di presentarsi al disperato per comprargli l’anima quando questo è proprio ridotto agli estremi. Nel caso Balzac, il tentatore non ha nulla a che vedere con il diavolo: si presenta sotto la parvenza di un giovanotto simpatico, divertente, che ha vestiti di buon taglio e biancheria fine, assolutamente alieno dal voler comperare l’anima di Balzac, ma soltanto la sua mano di scrittore. Balzac fa la conoscenza con l’adolescente, quasi suo coetaneo, non si sa dove nè quando — forse da un editore mentre offriva i romanzi, forse in una biblioteca o alla trattoria —. Al piacevole aspetto si aggiunge per di più un nome nobile: Auguste Le Poitevin de L’Egreville. Figlio di un attore, ha ereditato dal padre una certa scioltezza di modi. Supplisce con la disinvoltura dell’uomo di mondo alle qualità letterarie che gli mancano. Perciò, pur non avendo ingegno, è riuscito a trovare un editore per un romanzo, Les deux Hectors ou les deux familles bretonnes, che ha quasi finito di collocare e addirittura un editore che gli paga contanti ottocento franchi, uno sull’altro. Il libro deve uscire a febbraio, in due volumi, sotto lo pseudonimo di Auguste de Viellerglé, alla libreria Hubert, al Palais-Royal. Con ogni probabilità Balzac si sarà lagnato con l’amico di aver sfortuna con le proprie opere, e Poitevin gliene spiega il motivo: l’eccessiva ambizione letteraria. Perché prendere tanto sul serio il lavoro? A cosa serve mettere un impegno artistico nella confezione di un lavoro? spiega il tentatore. Non è mica difficile scrivere un romanzo: si sceglie; o si ruba, un soggetto, un atto storico qualsiasi — gli editori, adesso sono invaghiti di storia e si fa presto a inventare qualche centinaio di pagine. Sarebbe anche meglio mettercisi in due. Ora c’è un editore a portata di mano. Se Balzac ne ha voglia, il prossimo romanzo si può scrivere insieme. Ancor meglio. Metteremo assieme pezzo per pezzo le schiocchezze della brama e tu da solo farai la stesura, sei più bravo e vai svelto. Io m’incarico del collocamento. Affare fatto? Divideremo in due parti.

  La proposta è umiliante. Scarabocchiare dei romanzi a puntate, a date, fisse, con un numero di cartelle determinato dal formato del giornale, e tutto questo con un associato senza scrupoli e senza ambizione. Dove sono andati a finire i sogni che il «nuovo Sofocle» faceva ancora ieri? Sprecare il proprio ingegno e forse al tempo stesso impantanarsi vergognosamente soltanto per estorcere qualche centinaio di franchi? Non voleva forse, neanche un anno, prima, fare il nome di Balzac immortale, sorpassare Racine? Non voleva trasmettere all’umanità una nuova teoria dell’onnipotenza della volontà? Il tentativo esige in pagamento quanto egli ha di migliore nell’anima, la sua stessa coscienza di artista. Se torna a casa senza guadagnare o senza aver guadagnato, suo padre e sua madre non lo lascieranno (sic) libero una secondai volta. Meglio fare il fuoco con la propria legna che scaldarsi al fuoco altrui. L'affare viene concluso. Sul prossimo romanzo, Charles Pointel ou mon coutin de la main gauche, che Le Poitevin de L’Egréville ha già cominciato (o forse ha soltanto abbozzato) il nome di Balzac collaboratore ufficioso (o principale redattore) non figurerà. Gli altri prodotti della fabbrica di romanzi li fermeranno (sic?) insieme, con il nome della ditta A. de Viellergé, anagramma di Egreville, e Lord R’hoone, anagramma di Honoré.

  Così viene suggellato il patto diabolico. Nella celebre novella di Chamisso, Peter Schlemihl vende la propria ombra al padrone dell’inferno; Balzac gli vende la propria arte, la fierezza letteraria, il proprio nome. Per amore di libertà di venta un «negro», scriba segreto al servizio altrui, riducendosi in schiavitù — per anni il suo genio e il suo nome rimarranno invisibili nelle tenebre della galera.

  Gli stessi più noti specialisti della Società degli Amici di Balzac non saprebbero fornire l’elenco di tutti i libri oscuri o firmati con uno pseudonimo che il romanziere scrisse nel corso degli anni in cui fu negro. I romanzi editi con i nomi di Lord R’hoone e Horace de Saint-Aubin rappresentano soltanto una parte minima di una attività tenebrosa della quale non ha da vantarsi. Evidentemente ha messo le mani nel penoso Michel et Christine del suo antico associato Poitevin e ha scritto per intero o in parte Le Mulâtre edito con il nome di Aurore Cloteaux. Non v’è genere, non ci sono ordinazioni che egli giudichi troppo vili tra i ventidue anni e i trenta. La sua pena agile, anonima e non cara, è pronta per qualsiasi occorrenza. Come quegli scrivani pubblici che al tempo dell’analfabetismo, seduti, per le strade dei sobborghi di Parigi, redigevano per qualche soldo tutto ciò che il passante richiedeva: lettere d’amore per le serve, ricorsi, autorizzazioni, denunce, così il più grande scrittore del secolo per loschi politicanti, oscuri editori, indaffarati agenti, con un cinismo e un’incoscienza degni dell’Aretino redige libri, libelli, opuscoli quanti ne vogliono, robaccia di ogni genere e di vario prezzo. Dietro ordinazione ponza un libello monarchico: Du droit d’ainesse e una Histoire impartiale des Jésuites, frutto di saccheggi e interpolazioni, un melodramma, Le Nègre, privo di idee quanto il Petit dictionnaire des enseignes de Paris. Nel 1824, la «società anonima» mettendosi al passo con la congiuntura, opera una conversione, e dalla fabbricazione di romanzi passa a quella di Codes e Physiologies messe di moda da un vago «sensale letterario» che si chiama Horace Raisson. Ora ogni mese l’office produce dei Codes, infarciti di spiritosaggini tirate pel capelli e destinate allo spasso dei piccoli borghesi: il Code des honnêtes gens o l’art de n’être pas dupe des fripons, l’art de mettre sa cravate, un Code conjugal che, più tardi, verrà ampliato e diventerà una Phisiologie (sic) du mariage, un Code du commis voyageur, il quale, più tardi, non sarà inutile al suo immortale Gaudissart e un Art de pager (sic) ses dettes et de satisfaire ses créanciers sans débourser un sou, l’arte del suo futuro Mercadet e che, a dir vero, lui stesso non ha mal imparato in vita sua. Tutti questi codici, si può provarlo, sono, per intero o in grande parte di mano di Balzac, e tra questi anche un Manuel complet de la Politesse, che Horace Raisson firma e diffonde non senza grandi guadagni. Di talune di queste produzioni sono state vendute più di dodici mila copie. E’ impossibile rendersi conto di quanti opuscoli, articoli di giornali, forse anche fogli volanti, egli abbia compilati, in margine al resto, perché nè lui nè la gente oscura che gli dava lavoro sentì mai il desiderio di legittimare ufficialmente dei prodotti bastardi concepiti occasionalmente durante vagabondaggi letterari. Rimane indiscutibile che neanche una delle diecimila righe scribacchiate in quegli anni d’ignominia ha qualcosa a che vedere con l’arte e la letteratura, e si prova un senso di vergogna ogni qualvolta gli vengono attribuite con certezza o che lo si sospetta di esserne l’autore.

  E’ prostituzione — queste scribacchiatole non si possono chiamare altrimenti — prostituzione che fa pietà addirittura perché il cuore non vi si impegna e conta soltanto il denaro guadagnato rapidamente. Agli inizi poteva anche essere impazienza di libertà, ma una volta che si è messo per questa strada di facili guadagni, Balzac ci si abitua e si degrada profondamente, sempre di più. Per quanto il romanzo gli avesse procurato dei grossi guadagni egli accetta compensi minori permettendo che approfittino di lui, in tutti i cantucci dei lupanari della bassa letteratura, come una puttana che abbia due o tre diversi sfruttatori. Anche quando, con Les Chonans (sic) e la Peau de chagrin, ha raggiunto uno dei vertici della letteratura — come una donna sposata si infila di nascosto in una casa di appuntamenti per guadagnarsi il denaro per le piccole vanità —, continua a frequentare le scale di servizio e per qualche centinate di franchi fa che il celebre Honoré de Balzac si accoppi con oscuri scribacchini su qualsiasi letto letterario. Oggi che il paravento dell’anonimato dietro il quale si combinavano quei loschi affari è diventato assai trasparente, si sa che Balzac in quegli anni di vergogna si è reso colpevole di ogni specie di porcherie letterarie. Ha rappezzato romanzi altrui con stracci dei propri; e ha anche rubato in pieno ad altri trame e situazioni per farle proprie; non c’è compito da sarto che non si sia assunto, prontamente e insolentemente. Ha stirato col ferro, allargato, rivoltato, tinto e rammodernato i lavori degli altri. Ha fornito tutte le mercanzie immaginabili: filosofia, politica, conversazioni, sempre arrendevole al cliente del momento, operaio premuroso e accorto, senza scrupoli, che accorre al richiamo di un fischietto adattandosi devotamente e prestamente alla fabbricazione di qualsiasi articolo che si venda bene.

  Si prova un certo spavento se ci si chiede con quali compagni, con quali camerati, con quali tignosi editori di robaccia e smerciatori all’ingrosso egli sia durante quegli anni bui. Il grande narratore del secolo non si presentava altrimenti che un qualsiasi manovale da poco, da comperare o da affittare; e ciò per mancanza di dignità personale e un’inconcepibile incoscienza della sua profonda missione.

  Che un tale genio abbia potuto trarsi sano e salvo da un simile pantano diventa quasi un miracolo, irripetibile nella storia letteraria, un racconto degno di M. de Crac che venne fuori dalla palude tirandosi per la parrucca. Di questa sinistra avventura gli è rimasto come un po' di fango appiccicato al vestito, qualcosa come l’odore nauseabondo dei lupanari letterari di cui è stato frequentatore assiduo. Semper aliquid haeret. Un artista non si tuffa tanto impunemente sino al fondo delle cloache letterarie; non può senza danno, accoppiare per anni il proprio talento, in una pariglia indegna. Balzac, nei suoi romanzi, non s’è mai sbarazzato della facilità dell’appendice, delle sue inverisimiglianze e della gonfia sentimentalità. Più di ogni altra cosa furono fatali al suo stile, la facilità, la futilità, la negligenza alle quali si era avvezzato nel periodo della produzione in serie. Poiché la lingua, sdegnosa, si vendica spietatamente dell’artista che, fosse pure per poco, si mostra indifferente nei suoi riguardi e la sfrutta, come una prostituta senza aver costretto la propria passione a una paziente conquista. Balzac, il Balzac maturato, risvegliatosi troppo tardi al senso della responsabilità, riguarderà dieci, venti volte i manoscritti, le bozze senza più riuscire a estirparne le cattive erbe: questa, ha avuto modo di radicarsi con insolenza negli anni della noncuranza; e lo stile, la lingua di Balzac permangono irrimediabilmente impuri per sempre soltanto perché nel periodo decisivo, di formazione egli, ha trascurato la pulizia di se stesso.

  «Quelle chute de mes projets de gloire!».

  Malgrado il torpore sotto cui nascondeva tutta l’intima effervescenza, il giovanotto capiva che tanta depravazione era la negazione stessa della propria vera personalità. Non diede il suo nome a nessuna delle produzioni di allora, e, in seguito, ne rifiutò ostinatamente la paternità con più audacia che successo. Rifiuterà alla sorella Laura, unica confidente di giovinezza, associata fiduciosa delle prime ambizioni, il primo lavoro redatto nel regime societario, L’Héritière de Birague, «perché è una vera porcheria letteraria». Le darà una copia di Jean-Louis a patto «di non prestarla ad anima viva, neanche mostrarla; ma farne molti elogi, ed evitare che quella copia giri per tutta Bayeux e nuoccia al mio commercio».

  «Commercio»! Là parola stessa indica In modo preciso con quanta completa mancanza di illusioni egli considerasse a quel tempo la confezione dei propri libri. Fornitore legato da un contratte doveva consegnare in stamperia un certo numero di cartelle; tanto meglio se faceva lesto. Soltanto la quantità poteva avere importanza. Impaziente di iniziare un nuovo libro si preoccupa così poco dei problemi artistici composizione, di stile, di unità, di originalità dei propri romanzi, da proporre cinicamente alla sorella, che non è sovraccarica di lavoro, la redazione del secondo volume di Victoire (sic; lege: Vicaire) des Ardennes, fornendole un’analisi sommaria del testo; e lui finirà il primo. Diventato fabbricante cercherà nel proprio ambiente delle macchine utensili a buon mercato, e, «negro» lui stesso per altri, si darà da fare per procurarsi un collaboratore «nero», cioè segreto.

  Come Lucien de Rubempré, del quale più tardi descriverà la caduta e la volontaria redenzione finale, sente una scottante vergogna, e come Lady Macbeth, fisserà lo sguardo sulle proprie mani insozzate:

  Essayer de devenir libre à coups de romans, et quels romans ! ah! Laure. Quelle chute de mes projets de gloire!

  Scrive disprezzando ciò che scrive e il sensale per il quale scrive: soltanto la speranza che il suo lavoro sovrumano lo porti finalmente verso un qualche grande scopo — la propria grandezza – gli dà la forza, di reggere alla penosa fatica per cui si è venduto.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Spettacoli. Alla Radio. Rete azzurra. «Mercadet l’affarista» di Honoré de Balzac, 28 gennaio 1950.

 

 

  Una donna virtuosa di Honoré de Balzac, “Rete Rossa”, 23 Maggio 1950, ore 18,50.



[1] Non siamo in grado, al momento, e considerate le circostanze, di pubblicare integralmente il testo di un certo numero di articoli, vista anche la chiusura al pubblico di pressoché tutte le Biblioteche italiane. (Aprile 2020).

[2] Cfr. Balzac, La femme auteur et autres fragments inédits, Paris, Grasset, 1950.

[3] Cfr. 1920.

[4] Cfr. 1909 e 1924.

[5] Cfr. 1927.

[6] Cfr. 1893.

[7] Cfr. 1905.

[8] Cfr. 1937.

[9] Cfr. 1931.


Marco Stupazzoni

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