domenica 12 aprile 2020



1951


 


 

Estratti in lingua francese.

 

 

  Balzac, Mort d’un avare, «Petite bibliothèque française pour les enfants italiens», Città di Castello, G. Paci Editore-Libraio, Anno XXI, N. 10, Agosto 1951, pp. 161-163.

 

  Da Eugénie Grandet.



  Honoré de Balzac, Grandeur et décadence de César Birotteau (1837), in Adriana Tedeschi Piva, Histoire de la littérature française par les textes, Milano, Garzanti Editore, 1951, pp. 370-376.

 

  L’estratto è preceduto da una nota introduttiva sullo scrittore francese: Honoré de Balzac (1799-1850), pp. 369-370, che qui trascriviamo integralmente:

 

  Né à Tours, clerc de notaire, imprimeur, homme d’affaires, il se lança dans le roman. Il conçut le plan grandiose de «faire l’histoire de l’humanité» dans sa «Comédie humaine», antithèse de La Divine Comédie. L’œuvre se subdivise en scènes comprenant chacune plusieurs romans, dont la publication s’échelonne de 1829 à 1850. Cet essai d’une vastité inouïe et qui devait abréger la vie de l’auteur est le produit d’une imagination débordante et d’une puissance d’observation extraordinaire. Romantique par le premier de ces dons, Balzac est réaliste par le second. Il appartient encore au romantisme par la sensiblerie, par l’exaltation factice, par le manque de sobriété, tandis que par l’exactitude de la notation directe, par le souci de «faire vrai», il est à la tête du mouvement réaliste. Peintre de moeurs et plus encore de caractères, il a vu avec une pénétration perçante la société issue de 1789, déjà troublée et ébranlée par les approches des révolutions sociales, et a mis à découvert le levier principal: l’intérêt; le premier il a reconnu le grand rôle de l’argent et par conséquent l’importance de la banque, de la haute finance et du grand commerce. Il a sacrifié l’intrigue à l’analyse de l’époque et des personnages; en effet l’action est touffue, multiple, parfois fatigante à suivre, mais les personnages ressortent vigoureusement. Balzac les étudie dans les pensées, dans les mouvements, dans le langage, de sorte qu’ils sont peints dans tous les détails, chacun avec ses manies, ses tics. Balzac crée ainsi des types, dont plusieurs sont devenus aussi classiques que ceux de Molière. Ils personnifient souvent un vice ou une vertu par la prédominance d’une faculté poussée à ses conséquences dernières. Chez Balzac l’étude du milieu est aussi poussée que celle de l’individu: nul avant lui n’avait donné autant d’importance à la peinture d’intérieur: meubles, tentures, bibelots. Il y met la méticulosité d’un Hollandais et la passion d’un collectionneur. Le vocabulaire de Balzac est extrêmement riche et varié; sa prose, diffuse, souvent emphatique ou fade, s’anime dans le dialogue. Balzac est un novateur: toute la génération de la seconde moitié du siècle s’inspirera de lui.




Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, La grande Nanon (Trad. di Raoul Vivaldi), in Carmelo Cappuccio – Umberto Olobardi, La Selva armoniosa. Prose e poesie di autori italiani e stranieri. Per il Ginnasio e la prima classe del Liceo Scientifico, Firenze, La Nuova Italia, 1951, pp. 714-717.

 

  Da Eugénie Grandet.

 

  L’estratto è preceduto dalla seguente nota:

 

  La Commedia umana, titolo sotto il quale Balzac raggruppi la tua vastissima opera, è senza dubbio una delle più alte espressioni del Romanticismo francese. Le manchevolezze di questo scrittore sono implicite nel gusto del tempo e sono anche gravi, ma i pregi riscattano ad usura la frequente trascuratezza stilistica, gli atteggiamenti oratorî e pseudofilosofici, il carattere melodrammatico di molte situazioni, l’osservazione dispersa ed eccessivamente minuta – tutti difetti che sono ripetutamente rimproverati a Balzac. Questi è soprattutto un grande creatore di caratteri. Pochi scrittori hanno saputo scolpire figure e gruppi sociali con vigoria pari alla sua e muovere intorno ad essi ambienti ben determinati, seguirne lo sviluppo con ampia visione e coerenza artistica e psicologica. Celebri, fra i caratteri disegnati da Balzac e quelle sue larghe e viventi pitture di ambienti provinciali, sono la figura di papà Grandet, l’avaro, e l’atmosfera che si respira nella sua casa. Nelle pagine che seguono, l’attenzione dello scrittore è volta a delineare la figura della vecchia Nanon, la serva di papà Grandet. Balzac ne accentua i caratteri peculiari con una insistenza forse un po’ programmatica; ma ciò non toglie che il ritratto di questa serva, legata al proprio padrone da una devozione animale e ormai ricreatasi sotto ogni aspetto a sua immagine e somiglianza, abbia una potenza di vita eccezionale, per la concretezza e la verità dell’osservazione e dell’analisi.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il Curato di Tours di Honoré de Balzac (Trad. Di Maria Ortiz), in AA.VV., Le più belle novelle dell’Ottocento. Volume I. Prefazione di Mario Bonfantini, Roma, Gherardo Casini Editore, 1951, pp. 52-99, 2 ill.

 

  Traduzione fedele e corretta rispetto al modello francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. A cura di Gemina Fernando, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1951 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni fondata da Arturo Farinelli diretta da Giovanni Vittorio Amoretti», 142), pp. 263, 1 ritratto.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 563.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Gemina Fernando, Introduzione, pp. 9-25; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Opere principali di Balzac, pp. 26-27;

  Bibliografia, pp. 28-29;

  Eugenia Grandet, pp. 31-261.

 

  Il romanzo è suddiviso in sei capitoli seguiti da una Conclusione secondo il modello dell’edizione originale pubblicata nel 1833-1834 (Édition Béchet); la divisione in capitoli sarà soppressa da Balzac nell’edizione separata Charpentier del romanzo nel 1839 dove è inserita per la prima volta la dedica ‘À Maria’ (qui non riportata). Il testo su cui si fonda la traduzione, nel complesso corretta, è quello dell’edizione Furne (1843).

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet, avec introduction et notes par Elisa Dènina, Milano, Carlo Signorelli Editore, 1951 («Scrittori francesi»), pp. 152.

 

  Cfr. 1928; 1930; 1940.

 

 

  Honoré de Balzac, Il giglio della (sic) valle di Honoré de Balzac. Traduzione e introduzione di Giampaolo Tolomei, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (febbraio) 1951 («Biblioteca Moderna Mondadori», CLXXXI-CLXXXII), pp. 277.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 563.

 

  Vistoso e maldestro errore nella traduzione del titolo. Per quel che riguarda il testo, la versione fornita da Giampaolo Tolomei del romanzo balzachiano ci sembra, nel complesso, corretta.

 

 

  Honoré de Balzac, Il giglio della (sic) valle. Traduzione di Giampaolo Tolomei, Milano, Club degli Editori, 1951, pp. X-351.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Honoré de Balzac, La messa dell’ateo. Traduzione di Maria Ortiz, in AA.VV., Le più belle novelle dell'Ottocento. Volume II. Prefazione di Mario Bonfantini, Roma, Gherardo Casini Editore, 1951, pp. 37-52; 5 ill.

 

  Traduzione fedele e corretta rispetto al modello francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Onorina. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Rizzoli Editore, (giugno) 1951 («Biblioteca Universale Rizzoli», 293), pp. 84.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 563.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Nota, pp. 5-6; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Onorina, pp. 7-84.

 

  Il testo della presente traduzione di Honorine fornita da Gabriella Alzati ci pare corretto.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Nota, in Honoré de Balzac, Onorina ... cit., pp. 5-6.

 

  Honoré de Balzac, il padre del romanzo realistico, nacque a Tours il 20 maggio 1799. Fu dapprima avvocato, poi aiuto di notaio e finalmente socio di un editore; ma in nessuna di queste attività, che pure dovevano fornirgli spunti e ritratti per la sua opera letteraria raggiunse il minimo successo: le imprese editoriali, per contro, non gli procurarono che disinganni e debiti, per pagare i quali — oltre che per dare sfogo a un’irresistibile vocazione, a un’irrefrenabile piena creativa — cominciò, a partire dal 1829, a scrivere.

  Né riuscì la letteratura a dargli calma e riposo: temperamento a cui la natura stessa negava ogni specie di tranquillità, e ossessionato, inoltre, dal bisogno di denaro richiesto dalle sue molte altre imprese sbagliate o disgraziate nonché da un irreprimibile gusto per lo spreco, egli continuò a scrivere, in un’ansia senza pause e senza precedenti, quindici ore al giorno, «terminando le sue opere come in un’ebrezza della fantasia alimentata da innumerevoli caffè. Lo stampatore veniva a ritirare le pagine manoscritte l’una dopo l’altra, ed egli correggeva le bozze, apportandovi interminabili aggiunte col medesimo ardore, esasperando i tipografi. Era fiero della sua eccezionale potenza di creazione e di lavoro: si considerava il “Napoleone della letteratura”», e finì per ammazzarsi letteralmente di fatica. Aveva, infatti, da poco sposato la contessa Hanska, sua vecchia amica, quando il 18 agosto 1850, a Parigi, cadde fulminato dà un attacco apoplettico.

  Cinquantun anni di vita: ventuno di ininterrotta febbre letteraria, durante i quali pubblicò duemila pagine all’anno, novantasei romanzi che, suddivisi in differenti serie, chiamò complessivamente Commedia umana. Ecco i principali titoli: “Scene della vita privata”: Gobseck (1830), La donna di trent’anni (1831-42), Il colonnello Chabert (1832); “Scene della vita di provincia”: Eugenia Grandet (1833). Il giglio nella vallata (1835), Orsola Mirouet (1841), Una casa di scapolo (1842); “Scene della vita parigina”: Papà Goriot (sic) (1834), Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau (1837), La cugina Bette (1846), Il cugino Pons (1847); “Scene della vita politica”: Un affare tenebroso (1841); “Scene della vita militare”: Gli “chouans” (1829); “Scene della vita di campagna”: Il medico di campagna (1833), Il parroco di villaggio (1839-46), I contadini (1844). E oltre alla Commedia umana scrisse studi filosofici, alcune commedie, una serie di racconti rabelaisiani, eccetera.

  Onorina (Honorine), che rientra nel grande affresco della Commedia umana, fu scritto nel gennaio del 1843 e l’anno stesso pubblicato.

  È un delicato racconto, col quale il Balzac si propose di tracciare la figura di una donna che, in nome della libertà dei sentimenti, si ribella alle convenzioni della società e agisce secondo una propria etica; ma che finisce poi per sottomettersi anch’essa alla morale comune, e sconta col sacrificio della vita il suo tentativo di indipendenza.

  La grazia di questa breve operetta è però più nel felice volgere della narrazione che non in una piena aderenza al suo assunto polemico. Di questo, anzi, il Balzac par quasi dimenticarsi, mentre indugia, con insolita delicatezza, su fragili particolari, su esili sfumature, attraverso cui il mondo interiore della protagonista si delinea e si completa via via, intrecciandosi con l’ambiente esterno della vicenda e infrangendosi contro di esso.

  È un quadro lieve e sereno perfino nella dolce tristezza della conclusione, quasi una pausa nella grande fatica del Balzac, il quale foggiò, con la storia di questa «grande anima», una delle sue più gentili creazioni.

 

 

  Marcello Arduino, Piccole storie, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno V, Num. 134, 7-8 Giugno 1951, p. 3.

 

Elettori alle urne.

 

  Stendhal, il grande scrittore francese rivelato da Balzac all’Europa intiera, anni dopo s’era trovato con questi in disaccordo quanto agli entusiasmi che accompagnavano in tutta la Francia gli albori di regno di Luigi Filippo e che Balzac apertamente condivideva.

  — Non mi persuaderete mai — s’ostinava Stendhal col noto suo pessimismo. — Ho assistito alle recenti elezioni politiche e ne son rimasto nauseato.

  – Badate, badate... bonariamente l’ammoniva il famoso romanziere. — La vostra popolarità potrebbe andar compromessa ...

  — Suvvia! Per le elezioni?

  — Per la maniera con cui si va a caccia degli elettori, piuttosto!

  — Dal momento che il voto non possono darlo che loro ...

  — Ma non v’accorgete che ormai si fa loro la corte come una volta si faceva ai re e ai ministri?

  — Vero! Giusto! — esclamò Balzac piacevolmente colpito. – E ci volevate voi, ci voleva il vostro spirito d’osservazione, per fare quest’affermazione democratica?

  — Un’affermazione democratica? — protestò Stendhal — Ma che dite! Mai mi sono sentito! tanto aristocratico e reazionario!

  — Cose vostre, queste. Quello che farà colpo sarà sapere che Stendhal ha proclamato l’elettore un piccolo re! Perché è proprio questa sovranità di popolo il fondamento d’ogni vera democrazia.

 

 

  Luigi Baldacci, Interpretazioni marxistiche dell’opera di Verga. Il Balzac troncato, «La Fiera letteraria», Roma, Anno VI, Numero 25, Giugno 1951, pp. 4 e 7.

 

  Per una certa nuova critica [A. Seroni], il Verga sarebbe un Balzac troncato nel suo disegno ambizioso dalle condizioni oggettive della società italiana del suo tempo. [...].

 

 

  Giorgio A. Bardanzellu, L’avventuroso viaggio di Balzac in Sardegna, «La Nuova Sardegna», Sassari, Anno 61, Numero 11, 14 Gennaio 1951, p. 3.

 

  Il grande scrittore venne nell’isola d’umor nero e nel suo epistolario parlò di essa più male che potè: è da dubitare dunque ch’egli sia stato giusto e veritiero nell’esprimersi.

 

  Si è celebrato, l’anno scorso, il centenario di Honoré de Balzac. morto a 51 anni a Parigi il 18 agosto 1850. Il suo genio e la sua immensa produzione letteraria sono stati degnamente esaltati con pubblicazioni, esposizioni, conferenze.

  Per virtù di contrapposti si è portati a considerare con tristezza-la sorte di questo prodigioso scrittore che con i suoi romanzi contrassegnò tutta un’epoca, in cui pur vengono annoverati i nomi di Victor Hugo, Alfred de Musset, Chateaubriand, Lamartine, di quest’uomo che ha vissuto immerso nelle difficoltà ed assillato da debiti, in cerca sempre di una soluzione economica che non riuscì mai a trovare.

 

Fugge dai creditori.

 

  Per sfuggire anzi ai suoi creditori e nel miraggio di un rapido arricchimento, egli lascia nel 1838 la Parigi elegante e brillante di Luigi Filippo e, con la testa piena di chimere come un emigrante in cerca di fortuna, si mette in viaggio per la Sardegna che, come vedremo in seguito, rappresentava per lui la terra promessa. Egli abbandona temporaneamente la penna che pure aveva più dato alla letteratura di tutti i tempi capolavori quali «Eugenie Grandet» e «Papà Goriot» per andare solo ed inesperto verso una regione sconosciuta, attrattovi come da una demoniaca tentazione.

  L’esperimento al contrario si rivelò disastroso: nel breve giro di un mese (dal 20 marzo al 20 aprile 1838) si svolse il dramma forse più intenso della sua vita, dramma vissuto e non scritto. di cui ci rimane una traccio nel suo epistolario.


***


  Si possono ricercare quelle pagine nella curata edizione Calmann-Lévy del 1876 dove in due volumi sotto il titolo «Correspondance de H. de Balzac», vengono raccolte le lettere dal 1810 al 1850. L’interesse si acuisce su quelle riguardanti l’avventuroso viaggio in Sardegna.

  Balzac non ebbe dell’Isola un’impressione, favorevole anche perché nell’aprile 1838 quando vi arrivò dopo una fortunosa traversata, egli era in uno stato d’animo di apprensione e di inquietudine. Il suo temperamento estroso, impulsivo ed ingenuo lo aveva indotto pure altre volte a tentare la salvezza economica in imprese commerciali che si erano concluse nel fallimento. Per rimediare a questi disastri aveva contratto poi una catena di debiti che divorarono addirittura i suoi guadagni di scrittore. Nel 1838 era appunto ingolfato in un mare di controversie: doveva duecentomila franchi e non sapeva come uscirne. Si ricordò allora che l’anno avanti un negoziante, di cui è taciuto il nome gli aveva raccontato come in Sardegna, per l’incuria degli abitanti, giacessero vicino ad alcune miniere d’argento, delle montagne di scorie che contenevano ancora del materiale ricuperabile.

  Da Genova egli dà notizia del viaggio alla contessa Hanska, la dama polacca da lui conosciuta per corrispondenza nel 1832 e che incontrò in Svizzera ed a Vienna. Fu la donna che amò per tutta la vita e che, rimasta vedova nel 1843, diventerà sua moglie nel marzo 1850, cinque mesi prima che morisse. Essa si trovava allora a Wierzschovnia in Russia, ove le sono pure indirizzate le due lettere dalla Sardegna: una da Alghero (8 aprile 1838), l’altra da Cagliari (27 aprile).

  All’amica preferita Balzac espone questo ragionamento: «i Romani ed i metallurgi del medioevo erano così ignoranti in docimasia che necessariamente quelle scorie devono ancora contenere una notevole quantità d’argento. Un grande chimico mio amico (il Carraud) possiede un segreto per estrarre l’oro e l’argento in qualsiasi modo e proporzione essi si trovino incorporati ad altro materiale, senza grande spesa. Io potrei così avere tutto l’argento delle scorie».

 

Il viaggio.

 

  Quante illusioni ed assurde speranze! Aveva pregato il negoziante di fargli aver un campione di quei detriti con l’intenzione di recarsi in Sardegna dopo averne chiesto l’autorizzazione al Governo di Torino: ma mentre egli aspettava il campione a Parigi. il negoziante procurò per sè il diritto di sfruttamento e mentre Balzac meditava ordite congetture, una ditta di Marsiglia si recò, a Cagliari per saggiare, i materiali. Le previsioni parevano quindi vere ma egli ebbe il torto di muoversi troppo tardi. Era destino che quest’uomo poderoso negli studi di psicologia e d’ambiente, riuscito con la sua immensa produzione letteraria e col ciclo titanico della «Comédie Humaine» ad inquadrare e riprodurre i caratteri fondamentali della società sua contemporanea, non abbia saputo valutare se stesso logorandosi in imprese finanziarie che avevano basi solo nella sua fantasia. L’impresa tentata in Sardegna avrebbe potuto avere risultato pratico se affidata a persona esperta negli affari e nell’industria: ma egli vi si avventurò come un dilettante senza competenza e preparazione, col solo pungolo della necessità. In tali condizioni certo non ebbe l’animo disposto a comprendere ed amare le nuove terre che visitava o le genti che le abitavano.

  Il 20 marzo 1838 parte, da Marsiglia diretto a Tolone e ad Ajaccio, ove giunse il 26.

  Per vincere gli ostacoli finanziari e per affrontare il lungo e dispendioso viaggio mise insieme 500 franchi con i gioielli impegnati da una zia, e, come ebbe a dire, con i «salassi» praticati a sua madre e a sua cugina.

  Viaggiò cinque notti e quattro giorni in diligenza per raggiungere Marsiglia e capitò in un albergo ove gli fecero pagare «dieci soldi per la camera e trenta per la colazione».

  Di ciò egli si lamenta perché, come scrive ella contessa Hanska, «il denaro per me è raro e quando voi saprete che questa impresa è un colpo disperato per finirla una buona volta con questa perpetua lotta tra la fortuna e me, voi non vi meraviglierete più. Io rischio un mese del mio tempo e cinquecento franchi per una bella e grande fortuna ... Sono così stanco di questa lotta che devo uscirne o resterò schiacciato».

  Arrivò ad Ajaccio dopo una pessima traversata che lo fece molto soffrire. Rimase fino al 2 di aprile in attesa che una piccola barca a remi lo trasportasse ad Alghero (come egli scrive). Questa attesa lo inferocì: scriverà che Ajaccio è un soggiorno insopportabile ove si trova incagliato come su un banco di granito e dove la vita è primitiva come in Groenlandia. Neanche la casa di Napoleone lo distrae: «è una povera baracca». Ha un felice spunto sul paesaggio còrso che trova «uno fra i più belli del mondo» ma osserva che il paese è inesplorato a causa dei banditi e dello stato selvaggio nel quale lo hanno lasciato abbrutire. «Ajaccio è una città misera, ignorante, oziosa, ove ci si rode di noia e di rabbia: Sono solo prolifici su questo scoglio! In tutti gli angoli vi sono bimbi brulicanti come i moscerini in una sera d’estate».

 

Incontro non felice.

 

  Il 2 aprile si imbarca trepidante per la sua impresa e con la non lieta prospettiva di rimanere in quarantena nel porto di Alghero: sei mesi prima era scoppiato il colera a Marsiglia e sebbene fosse stato subito domato «in Italia, dice, continuano le loro inutili precauzioni».

  Giunse ad Alghero l’otto di aprile e ne scrive alla contessa Hanska. L’incontro con la terra sorda non fu certo dei più felici: cinque giorni di navigazione in una barca di pescatori di corallo, nutrendosi di pesci che essi pescavano e bollivano facendone un’esecrabile zuppa. E dopo l’arrivo, altri cinque giorni di quarantena senza poter sbarcare e senza poter acquistare nulla «perché quei selvaggi non volevano darci niente». Un colpo di vento minacciò di mandare alla deriva la piccola imbarcazione: fu loro proibito di attaccare un cavo, agli anelli del porto: un marinaio si gettò, in acqua e lo attaccò a viva forza. Intervenne il governatore dando ordine di toglierlo non appena il mare si fosse calmato. «E’ una pura fantasia del governatore che vuol fare ciò che vuole come prova della sua autorità ed onnipotenza».

  Quando finalmente egli mise i piedi a terra con l’animo esacerbato, vide tutto nero. «Qui incomincia l’Africa, scrive nella lettera, ho trovato una popolazione lacera, nuda e abbronzata come degli Etiopi».

  Da Alghero si recò all’Argentiera (egli scrive Argentara), ove dice di aver scoperto una miniera abbandonata, nella parte più selvaggia dell’isola e dove prese un campione di minerale al quale dovette attribuire grande valore se accarezzò la speranza di potersene servire a Parigi «più delle combinazioni dell’ingegno».

  Sembra impossibile che un uomo di tanto acume, capace di scendere nell’animo dei suoi personaggi e di notomizzare tutto un mondo con fine senso di ironia, si esalti nelle più assurde chimere e nel miraggio di tesori inesistenti. Eppure sotto tale impulso, con un coraggio che rasentò l’eroismo, egli affronta contrarietà e pericoli avventurandosi da solo in terre deserte ed ostili come la sconsolata regione della Nurra. Preso dal dèmone del guadagno nulla lo ferma. «Andrò a Sassari, la seconda capitale della Sardegna ma non mi fermerò molto poiché per il momento ho poco da fare. La grande questione, se non mi inganno. si deciderà a Parigi e basta che qui mi procuri un campione della cosa». E poi aggiunge rivolto alla «graziosa castellana»: «non vi rompete il capo a cercare ciò che forse non troverete mai!». E così è stato per lui.

 

Un deserto reame.

 

  Attraversò tutta la Sardegna per recarsi a Cagliari dove un battello a vapore lo porterà a Genova. La descrizione del viaggio compiuto a cavallo da Alghero a Sassari e in diligenza da Sassari a Cagliari è sconcertante per il quadro che egli fa della Sardegna di allora. «Ho visto un intero reame deserto, selvaggio e senza coltivazione, pieno di palmizi e di cisti con da per tutto capre che brucano i germogli e fermano la vegetazione all’altezza della cintola. Ho fatto diciotto ore a cavallo senza incontrare abitazioni. Ho attraversato una foresta vergine piegato in due sul dorso del cavallo, pena la vita, perché per attraversarla bisognava percorrere un corso d’acqua enfiato da una cupola di piante rampicanti e da rami che mi avrebbero accecato, rotto i denti e portato via la testa. E’ tutta una catena verde, gigantesca di piante da sughero, lauri, eriche alte trenta piedi. Niente da mangiare. Da Sassari fin qui ho attraversato nel mezzo tutta la Sardegna: è uguale da per tutto. Vi è una regione ove gli abitanti confezionano un orribile pane riducendo in farina le ghiande che mescolano con argilla. E già a due passi dalla bella Italia! Gli uomini e le donne vanno quasi nudi avvolti in un pezzo di tela, con uno straccio bucato per coprire le loro nudità. Ho visti mucchi di creature in branchi al sole, lungo i muri di argilla delle loro spelonche, il giorno di Pasqua. Nessuna abitazione ha dei camini: fanno il fuoco in mezzo alle abitazioni tappezzate di fuliggine. In mezzo a questa profonda e incredibile miseria, vi sono dei villaggi che hanno dei costumi di una sorprendente ricchezza». E’ questo l’unico tratto di penna che sollevi un poco lo squallore del quadro.

  Se egli potesse ritornare quante cose vedrebbe mutate e migliorate. Quali progressi non riscontrerebbe in tutti i campi della vita sarda. Ciò ad ammettere che abbia descritto esattamente il vero: ma è da dubitare ch’egli abbia riprodotto con animo sereno le sue impressioni: avrà visto magari mezzi nudi e coperti di stracci i ragazzini della strada, ma le donne sarde non sono mai vissute in tali condizioni neppure quando la miseria più nera intristiva la popolazione: la lana delle pecore ha sempre dato loro l’orbace per coprirsi. La Sardegna, è vero, attraversava allora uno dei periodi più dolorosi della sua storia. Lo sgoverno e lo sfruttamento spagnolo l’avevano resa spoglia e deserta: i feudatari le avevano succhiato il sangue migliore. Ma nessuna tribolazione materiale è mai riuscita ad intaccare la tenacia degli uomini e il pudore delle donne. Bisogna ammettere che la disperazione di Balzac per l’incertezza della sua impresa e le contrarietà sopportate abbiano tinto di pessimismo le sue osservazioni, che riflettono dunque il rodimento e lo sconforto del suo animo.

 

Incomprensione.

 

  La visione che egli ebbe dei paesi e degli abitanti è rimasta alla superficie con un senso di distacco e di incomprensione. Tutto quello che lo circonda in realtà non lo interessa: non ha moti nè di simpatia nè di antipatia: viaggia preoccupato unicamente; dei suoi mal congegnati affari, assorbito dalle sue fisime e non trova che valga la pena di approfondire in nessun modo, neppure per istinto di curiosità, le sue superficiali impressioni.

  Proprio in quegli anni la Sardegna subiva una fondamentale trasformazione nella sua storia e nella sua vita, poiché è di quell’epoca l’abolizione dei feudi, la fusione col Piemonte e la lotta contro le forze avverse della natura e contro l’abbandono dei passati governi.

  Ma Balzac aveva altro da pensare, che alla storia dei sardi, come indifferente è rimasto alle condizioni di vita dei còrsi. Egli non comprese il travaglio della Sardegna e le sue forze latenti che, vincendo la miseria, prepararono nella volontà e nello spirito la sua ripresa nazionale, come d’altra parte, visitando Torino, Milano e Venezia non comprese lo spirito nuovo che preparava il Risorgimento.

  Ma nella celebrazione che del suo genio si è fatta in quest’anno, per il centenario, ho sentito il bisogno di cercare nelle sue lettere e di rievocare l’episodio strano e doloroso di questo suo viaggio che rivela uno dei lati più fragili ed estrosi del suo carattere.

  Gli è servito però di dura lezione. Il viaggio avventuroso e vano fu per lui una frustata un avvertimento e un monito che lo riportò alla sua bruciante fatica per ricercare, e ritrovare, non nelle scorie delle miniere, ma nel filone d’oro del suo genio quella umana ricchezza per cui il suo spirito risplende immortale nei suoi romanzi.

 

 

  Gino Berri, Balzac ed Evelina Rzewuski. Tre mesi durarono le nozze dopo diciassette anni d’attesa, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VII, N. 117, 17-18 maggio 1951, p. 3.

 

  «... Dio mio, come ti ho trovata bella domenica nella tua graziosissima veste violetta! Come hai colpito tutte le mie fantasie! Ora. mia adorata, sappi che, qualunque cosa ti scriva, nella mia anima c’è un immenso amore, che tu riempi il mio cuore e la mia vita, che se pur non so esprimerti sempre bene questo amore, nulla lo contaminerà, che esso fiorirà sempre più bello, nuovo, grazioso, perché è un amore vero e il vero amore cresce sempre più. E’ un bel fiore piantato nel cuore, che raddoppia a ogni stagione i suoi petali e diffonde sempre più i suoi profumi ...».

  Colui che scriveva così non era un ingenuo studentello esaltato dalla rivelazione dell’amore, ma l’uomo di mondo Honoré de Balzac, di trentatrè anni, che aveva ormai conosciuto tutto della vita fino a esserne sazio, come egli stesso confessava. La donna alla quale scriveva era assai lontana, o nel castello di famiglia in Ucraina o a Pietroburgo, ma la lontananza insieme con altri mille ostacoli anziché smorzare l’ardente passione l’infiammava sempre più.

  Come fu? L’iniziativa partì da lei, contessa Evelina Rzewuski, giovane sposa di Venceslao Hanski, una bella polacca dalla figura slanciata e dalla folta capigliatura nera, temperamento romantico, assai seducente come appariva dal ritratto del Doffinger, di cui Balzac ebbe una copia in miniatura. La Hanska aveva scritto all’editore delle ’”Scènes de la vie de province” che si pubblicavano in quell’anno 1832, manifestando la sua ammirazione, il suo interesse e la sua curiosità per l’autore. La lettera firmata l’étrangère fu seguita da altre fino a che, mediante un annuncio convenuto con l’editore e inserito nella pubblicità di un giornale, scrittore e lettrice poterono iniziare la loro corrispondenza che doveva durare diciassette anni, cioè fino al matrimonio. Nacquero così le Lettres à l’étrangère di cui la parte che si riferisce all’amore è stata testé pubblicata, nella ricorrenza del centenario della morte di Balzac e nel testo originale, dalle Edizioni «Le lingue estere» (Le più belle pagine d’amore)[1], Firenze.

  Le lettere, in sostanza, non furono che un diario scambiato reciprocamente, ma quelle di lei furono quasi tutte distrutte da Balzac. Pur tra le fiamme della passione il romanziere intratteneva la sua amante sui suoi lavori, progetti, aspirazioni, chiedeva pareri e attendeva con ansia i giudizi sui volumi che andava pubblicando a getto continuo. Ma egli appare felice solamente quando, sottraendo qualche ora al suo febbrile lavoro, s’intrattiene con lei del loro amore.

  La Hanska scrive anche lei lettere alle volte ardenti, spesso discrete, ma non molto di frequente: è assai sorvegliata e deve essere cauta.


Giustificata gelosia.

 

  I due amanti si promisero di sposarsi: ma, dopo la morte del conte, lei volle attendere che la figlia si fosse accasata per non danneggiarla con la sua unione con Balzac che era disprezzato dalla parentela di lei e qualificato volgare cacciatore di doti. Dunque, diciassette anni di fidanzamento durante i quali Balzac, a sentir lui, mantenne «una fedeltà prodigiosa».

  Lei non era dello stesso parere. Assai gelosa, e non male informata, continuava a chiedergli conto di infedeltà tutt’altro che immaginarie ed esigeva ripetutamente che si mantenesse casto. E lui si affretta va a rispondere, sul serio, che lo era. «Ho il più profondo orrore degli amori volgari e fra questo orrore e il 1836 corrono nove anni. Mia cara, vivo da tre anni come un monaco, e ciò mi avvia a diventare grasso come Luigi XVIII ...».

  S’incontrarono ripetutamente vivendo insieme, alle volte, per qualche mese, ma la data del matrimonio era sempre rimandata. In più dei motivi accennati, lei era trattenuta da una certa esitazione: egli l’aveva conosciuta a ventotto anni quando lui ne aveva trentatrè. Non diventavano ormai troppo vecchi per sposarsi? Lui si ribellava a queste ubbie: il loro amore era sempre quello, non aveva età, avevano ancora almeno trent’anni di vita e di amore. «Saremo felici per il resto dei nostri giorni e avremo un bel tramonto».

  Ma Balzac s’illudeva: i trent’anni di felicità dopo il matrimonio dovevano essere solamente tre mesi. I medici lo avevano avvertito senza perifrasi: se non avesse interrotto quella sua frenetica vita di lavoro, di ansie e preoccupazioni, il suo male cardiaco lo avrebbe ucciso. Ma lui, invece, continuò furiosamente a lavorare diciotto ore al giorno per mantenere i suoi impegni, per guadagnarsi il prezzo dei viaggi che doveva intraprendere per incontrarsi con l’amante e per preparare una bella casa giacché la ignoble cabane in cui viveva a Passy non era degna di lei.

  Sogni. Il clima di Pietroburgo aggravò ancora di più le condizioni del poeta ed Evelina non volle commettere la crudeltà di ritardare più a lungo le nozze che avvennero in quella città. Balzac ne era felice e anche non poco lusingato nella sua vanità che già lo aveva spinto ad aggiungere il de al suo nome. Nel giorno del matrimonio disse: «Oggi abbiamo dunque una signora Eva de Balzac nata contessa Rzewuski». E con ciò si compiaceva di essere diventato anche lui un lontano parente della regina Maria Leszczinski ...

  In peggiorate condizioni fisiche Balzac partì da Pietroburgo e dovette sostare a Dresda: a Parigi giunse nel maggio del ’50, per morirvi tre mesi dopo.

 

La fiamma si spegne.

 

  La vedova assestò gli affari di lui, ritirò un bel mazzo di cambiali, pagò tutti i debiti e regolò i rapporti con gli editori. Ma non gli rimase fedele se è vero — e non si vorrebbe crederlo — che nella stessa notte in cui morì il grande romanziere, durante l’agonia di lui. ella diventò l’amante del pittore Gigoux e che i due, in una stanza accanto, non risposero alle invocazioni dei servi ai quali era stato affidato il morente.

  Qualche mese dopo la scomparsa di Balzac un letterato, Champfleury, fece una visita a Evelina che s’innamorò di lui alla follia, ma dopo un anno ella ritornò a Gigoux col quale convisse fino alla morte.

  Del grande amore non rimasero in lei che le ceneri. La bella polacca si era offerta al poeta, lo aveva amato, ma al calore della stessa fiamma che ardeva nel cuore di lui: quando la fiamma si estinse anche l’amore di lei si spense, e fin troppo rapidamente.

 

 

  Carlo Bo, Romanzo, personaggio e lettore, «Aut Aut. Rivista di filosofia e di cultura», Milano, Anno I, N. 1, Gennaio 1951, pp. 18-29; e in Riflessioni critiche, Firenze, Sansoni, 1953 («Biblioteca di Paragone», XI), pp. 365-384.


  Tale possibilità di dialogo fra personaggio e lettore in fondo non era che il riflesso d’un dialogo anteriore e ben più importante fra scrittore e deposito di vita, fra scrittore e materia d’invenzione: quella che prima abbiamo chiamato fiducia e che probabilmente è un’ingenua accettazione della vita com’è e da parte dello scrittore un ingenuo adattarsi alla funzione di grossolano definitore, di generico suscitatore di situazioni drammatiche, tale fiducia, tale ingenuità nel lavoro, riuscivano a imporre veramente un secondo mondo di fronte al lettore, un mondo che però si reggeva sul difficile equilibrio fra realtà e verità. Si pensi alla profonda verità dei romanzi di Balzac che pure sono spesso derivati da un confuso ripetersi di fatti di realtà dubbia, sospetta. Quello che m’interessa mettere in luce per il momento è la posizione di assoluto rispetto dello scrittore di fronte all’enorme massa di materia romanzabile che lo ossessiona: rispetto non vuol dire rinuncia, non significa rifiuto, anzi qualsiasi situazione serve al suo caso, tutto può essere gettato nella fornace. È ammessa la collaborazione fra vita e romanzo, lo scrittore non sceglie secondo leggi prestabilite nè si lascia guidare da preconcetti d’ordine filosofico: c’è nel vero romanziere una parte di avventura che lo salva dalla dimostrazione, dal gusto dell’esempio.

  Il vero male è cominciato con i naturalisti, quando, cioè, si è voluto presentare il romanzo come la dimostrazione di un teorema e non penso tanto ai testi della scuola che, d’altronde, non sono che conseguenze di uno stato d’animo, del veleno iniziale che consiste nell’arbitrario pregiudizio della riforma della realtà. Ma direte che è tutto il contrario, che i naturalisti volevano lasciare parlare la realtà, volevano metterla a nudo e restituirla così com’è, senza colori, senza musica ma non si dimentichi che i naturalisti erano onesti da un solo punto di vista, essi si affidavano a una scelta, la realtà che illuminavano era una parte sola della realtà, era una realtà esemplare, per cui il lettore era messo in uno stato d’inferiorità, proprio come in uno stato d’inferiorità si era trovato lo scrittore che aveva dovuto guardare solo in una data direzione. La superiorità di un Balzac su uno Zola sta tutta qui, il primo si serviva di un mondo disordinato ma vivo mentre il secondo si serviva di un mondo organizzato a priori, addomesticato, ordinato sì ma morto, un mondo da catalogo.

  Ora un lettore può inserirsi in un mondo disordinato e vivo ma resta per forza estraneo a un mondo definito anteriormente e che non ammette obiezioni, domande, suggestioni.

  Si pensi ancora al genere di impressioni e di reazioni che due romanzi così diversi suscitano nell’animo del lettore, un romanzo di Balzac sorprende per il giuoco delle soluzioni inattese (potranno sembrare arbitrarie ma lo sono solo nell’esatta proporzione dell’arbitrarietà delle soluzioni della vita), un romanzo di Zola stupisce per tutt’altre ragioni, stupisce per ragioni esclusivamente artistiche, il lettore si sente trascinato dallo sforzo, da un giuoco ossessivo, è il modo della rappresentazione e non già la sostanza, il contenuto, che lo colpisce. Gli svolgimenti, insomma le vite dei personaggi zoliani hanno una progressione matematica: data una certa natura e date certe condizioni, la soluzione è unica, è regolata da una ragione scientifica.

  In Balzac (e cito Balzac come il tipo di scrittore che si presta meglio a rappresentare la funzione del romanziere) non abbiamo mai da fare con calcoli simili, con lui ci troviamo di fronte all’impreveduto, anche se in ultima analisi si tratta di un impreveduto che egli ha derivato tale e quale dalla vita. Si sa che nessun romanziere avrà mai la fantasia della vita, voglio dire che certi fatti quotidiani, certi fatti di cronaca toccano un tale grado d’incredibilità, una tale ragione mostruosa come nessun romanziere oserebbe mai sostenere in un suo libro. Balzac, dunque, vi sorprende ma appena vi interrogate su una reazione del barone Hulot o su un tratto di Grandet vi accorgete che tutta la sua abilità è stata di ritornare a quel deposito della realtà comune a cui si alludeva da principio: che poi un accorgimento del suo rispetto iniziale della realtà, il romanziere infatti deve limitarsi a seguire il rapido susseguirsi dei fatti, non commentare, accennare soltanto.

  Il romanzo invece si è quasi definitivamente perduto per questo vizio del commento che spesso si è addirittura sostituito all’intera funzione rappresentativa e così si è rotto l’equilibrio fra realtà e rappresentazione e di contraccolpo il dialogo fra protagonista e spettatore, fra personaggio e lettore. La crisi del personaggio è cominciata non appena il romanziere ha creduto di potere intervenire nell’azione stessa della sua invenzione e di seguire le due grandi strade, la strada della dimostrazione e la strada della fedeltà a un modello della realtà. [...].

  Il lettore di Flaubert, che è cresciuto con Dostoievskij o magari con Thomas Mann ricorda alcuni gesti tipici, carichi di una musica universale, per cui era lecito parlare di un mondo della finzione che collaborava col mondo della realtà (non penso ai suicidi che ha fatto il Werther, ai lettori veneziani di Balzac che hanno vissuto un mese non solo negli abiti di quei personaggi ma evidentemente legati a uno spirito determinato da un’atmosfera appassionata) [...].



  Carmelo Cappuccio – Umberto Olobardi, Balzac (de) Honoré, in La selva armoniosa ... cit., pp. 873-874.

 

  Nato a Tours nel 1709, dopo gli studi compiuti al collegio di Vendôme e poi a Parigi, fu avviato dal padre alla carriera di notaio. Ma il giovane, dopo un breve tirocinio negli studi notarili parigini (e questa esperienza tornerà più tardi nei suoi romanzi, sfruttata magistralmente), si dedicò alle lettere, in aperta rottura con la sua stessa famiglia che non aveva fiducia in questa sua vocazione. Vivendo in una grande povertà, B. tenta inutilmente per alcuni anni la via del successo. Abbandonata per un po’ di tempo la letteratura, il giovane cerca di far fortuna negli affari; ma alcune speculazioni sbagliate lo portano a un disastro finanziario, da cui non riuscirà più a risollevarsi interamente. È del 1829 il primo romanzo veramente balzachiano, quello che gli apre le vie del successo: Les Chouans. Da allora fino alla morte (che lo colse d’improvviso, in piena attività, nel 1850), B. lavora incessantemente. L’opera che ci ha lasciato è di un’ampiezza poderosa: 10 volumi di Oeuvres de jeunesse («Opere giovanili»), alcuni lavori teatrali, 30 Contes drôlatiques («Storie sollazzevoli»), articoli, opuscoli, scritti vari e, infine, il gigantesco ciclo di racconti e romanzi, che lo scrittore (ispirandosi al titolo tradizionale del poema di Dante) raggruppò sotto la denominazione di La comédie humaine («La commedia umana»). B., in quest’opera, vuole offrire un affresco vasto e completo dei sentimenti, dei pensieri e delle aspirazioni dell’umanità intera, con particolare riferimento alia società francese del suo tempo e, più precisamente, a quella classe borghese, affaristica e avida di potenza, che era uscita trionfante dalla rivoluzione di luglio (1830). La comédie humaine doveva, secondo il piano dello scrittore, comprendere 135 romanzi; ma alcuni di questi furono soltanto abbozzati o progettati, per cui l’opera, in effetti, è risultata composta di 91 romanzi, divisi in tre grandi parti («Studi di costume», «Studi filosofici», «Studi analitici»). La prima parte, che è la più sviluppata, a sua volta è divisa in: «Scene della vita privata», «Scene della vita di provincia», «Scene della vita parigina», «Scene della vita politica», «Scene della vita militare» e «Scene della vita di campagna». Fra i più famosi di questi romanzi, citiamo: La Maison du chat qui pelote (1830) («All’insegna del gatto che giuoca a palla»); La femme de trente ans (1828-44) («La donna di trent’anni»); La peau de chagrin (1831) («La pelle di zigrino»); Le médecin de campagne (1833) («Il medico di campagna»); Eugénie Grandet (1834) («Eugenia Grandet»); La recherche de l’absolu (1834) («La ricerca dell’assoluto»); Le père Goriot (1835) («Papà Goriot»); César Birotteau (1837) (Cesare Birotteau»); Le cousin Pons (1847) («Il cugino Pons»). I capolavori dello scrittore sono generalmente considerati: La peau de chagrin (trad. di C. Sbarbaro, Torino, Einaudi, 1947); Eugénie Grandet (trad. di G. Deledda, Milano, Mondadori. 1931); Le père Goriot (trad. di G. Alzati, Milano. Rizzoli, 1950) Ma tutte le opere di B. sono state più volte tradotte in italiano. Fra le edizioni più recenti, segnaliamo quella, in 44 volumi, di tutta (sic) La comédie humaine, pubblicata Roma dall’editore De Carlo e curata da R. Vivaldi. Varie opere di Balzac sono anche pubblicate, in edizione economica, nella «Biblioteca Universale Rizzoli» e nella «Biblioteca Moderna Mondadori».



  N. Da..., La «Commedia umana» domina la vita dei due fratelli Balzac, «Giornale di Trieste», Trieste, Anno VI, N. 1164, 2 gennaio 1951, p. 3.



  Nella famiglia del grande scrittore è tutto un succedersi di vicende degne del più fantasioso dei suoi romanzi.

 

  La vita di Balzac è il più straordinario di tutti i suoi romanzi: Balzac non ha inventato la «Commedia umana»; essa l’ha preceduto, l’ha circondato, l’ha dominato.

  I primi sguardi che Balzac fanciullo ha posato sulla vita furono pieni d’amarezza e di tristezza. Apprese a soffrire nello stesso tempo che a camminare e a parlare; fu — ed è forse lì il segreto del suo genio — tra quegli sfortunati, ai quali la madre non ha mai sorriso. «Ero appena nato», scriverà a Madame Hanska nel 1848, «che mia madre mi mise a balia da un gendarme». E aggiungerà: «Se voi sapeste quello che è mia madre: allo stesso tempo un mostro e una mostruosità. Mi odiava prima ch’io nascessi».

  Esagerazione. Madame de Balzac amava i suoi figli, ma alla sua maniera, ch’era piuttosto quella di un’educatrice pedante che di una madre. Del resto questa educazione severa fu causa d’una riuscita straordinaria, perché abituò il ragazzo a concentrarsi in se stesso, ad osservare, a riflettere, a ricordare. Non c’è dubbio che la signora Balzac fosse una madre spietata, ch’essa avesse un’anima inquieta, che avesse dei salti d’umore penosi per i suoi familiari. Ma Balzac le fa anche dei rimproveri ingiusti: quello ch’egli le rinfaccia sopra tutto è di aver riservato tutta la sua tenerezza per l’ultimo dei suoi figli e cioè Henry. La nascita di Henry aveva destato a suo tempo molte chiacchiere. L’opinione pubblica, alla quale la malevolenza tien luogo di perspicacia, aveva sottolineato le frequenti visite che i Balzac facevano allora ai vicini Margone (sic). In una lettera, che Honoré scrisse molto più tardi a Madame Hanska, egli parla chiaramente di Henry come figlio del signor Margone.

  E fu così che Balzac, appena aperti gli occhi al mondo, né scrutò il fondo e vide che gli uomini hanno due moralità, a seconda del vestito da città o della veste da camera che indossano. Scoperta fertile di conseguenze, che abituò presto il futuro romanziere a piazzarsi fuori del suo ambiente, ad osservare gli uomini, a notare i loro fatti e gesti, a leggere, sotto la menzogna delle parole, il loro vero pensiero. Più tardi penserà ad utilizzare le sue esperienze giovanili: la sua memoria, ch’è prodigiosa, gli fornirà la materia con la quale la sua immaginazione, che non lo è meno, rifarà un «Mondo» e presenterà al lettore duemila personaggi tanto veri e naturali da sembrare quelli che circolano nella strada.

  La sua diabolica chiaroveggenza, il suo potere quasi soprannaturale di leggere nel pensiero attraverso la parola, di percepire le intenzioni sotto gli atti, la sua scaltrezza nel denunciare gli eterni stratagemmi d’Eva, si sarebbero risvegliati nello stesso modo, se la sua infanzia infelice non avesse abituato il suo spirito all’osservazione e alla diffidenza?

  Henry de Balzac è diverso dal fratello, indolente e poco studioso. Dopo la morte del padre, che mette la famiglia in gravi imbarazzi finanziari, Henry che non riesce a trovare un impiego in Francia, cerca di emigrare. Trova un modesto posto di ripetitore nell’isola Maurice, colonia in possesso dell’Inghilterra dal 1815, abitata da vecchie famiglie francesi. Ha allora — siamo nel 1831 — 24 anni, è poco ambizioso, ancor meno attivo. Ma non ha rinunciato alla speranza di far fortuna e lo straordinario si è che la farà, in un modo che nè la madre nè il fratello romanziere avrebbero mai immaginato. Appena arrivato, si mette in cerca di una pensione e il caso malizioso lo conduce da una signora Ballan alla quale il marito, morendo, ha lasciato un figlio già grande e case e piantagioni e 30 negri. I 15 anni ch’essa ha di più del suo inquilino non sono d’ostacolo al loro matrimonio. La famiglia Balzac è ai sette cieli: Henry è ricco e ricevuto nelle migliori famiglie.

  Nel ‘34 egli annuncia il suo ritorno in Francia; una burrasca ha scosso la fortuna che si credeva solidamente basata: gli inglesi, abolendo la schiavitù, hanno mandato in rovina i francesi stabiliti nell’isola da secoli. Henry, con la moglie e il figliastro, si stabilisce modestamente ad Andelys; gli nasce un figlio di cui Honoré accetta d’essere il padrino. Niente da fare in patria per la triste famigliola che pensa di giocare l’ultima carta: tornare nell’isola Maurice. Anche lì Henry non trova lavoro; passa allora nella vicina isola Bourlon (sic), dove apre uno studio d’architetto e attende inutilmente i clienti; La sua angustia è estrema, quando il nuovo governatore dell’isola, amico di Honoré, gli trova finalmente un lavoro: progettare il piano di St. Louis, capitale dell’isola. Per quali ragioni Henry si allontana da questa colonia, rinuncia alla funzione amministrativa di cui i suoi superiori si lodavano? Cattiva condotta o debiti? Amore dell’avventura? Utopia di colonizzazione? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che Henry non morì a Bombom, ma a Margotte (sic) nel 1856, sei anni dopo il fratello.

  Il romanzo di Henry de Balzac, come quello di Honoré, non termina con la morte. Pochi giorni dopo il suo seppellimento, un battello francese gettava l’ancora nella rada dall’acqua tiepida e trasparente. I rari europei che si precipitarono al suo incontro, appresero che una considerevole eredita era toccata ad Henry de Balzac. Da chi poteva provenire la grossa somma? Non da Honoré, ch’era morto crivellato dai debiti, non da un parente della moglie che avrebbe lasciata erede la donna ancor vivente; non da uno zio paterno, i cui nipoti sarebbero stati innumerevoli. Un’unica spiegazione è possibile: che il signor Margone, cedendo ai ricordi e a qualche vago rimorso di coscienza, avesse tenuto ad assicurare un’esistenza agiata a quello che considerava suo figlio secondo la natura e non secondo la legge.

  La Commedia Umana continuava, nella sua stessa famiglia dopo la morte del suo autore.


 

 V. De Carolis, Direttive per la conservazione dei foraggi, «La Provincia», Cremona, Anno V, N. 92, 18 Aprile 1951, p. 4.

 

  Senza pratica può avvenire a lui quello che avvenne alla bertuccia di Balzac.

  Racconta Balzac che una. bertuccia osservava il suo padrone che suonava il violino; e, in assenza di lui, provò anch’essa a suonare. E poiché non riuscì a trarne che strilli, arrabbiata afferrò lo strumento e lo spaccò.

 

 

  Titta Del Valle, Marcel Proust e il vestito della principessa di Cadignan, Firenze, G. Barbèra, 1951, pp. 53.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 561.

 

  Se per ogni essere umano lo stile si può far coincidere colla sua propria maniera di esistere, di dar vita ad una serie di parole e di atti che portino un’impronta inconfondibile e sua, che cosa diremo della pretesa mancanza di stile in uno dei più grandi creatori che mai siano esistiti, in Balzac?

  Eppure anche questo studio di Proust su Balzac, realizzato sotto la forma di un immaginario colloquio con sua madre, estratto dai carnets proustiani tuttora inediti e pubblicato recentemente. ci offre la ripetizione del mito abbastanza assurdo della mancanza di stile in uno scrittore fra i più grandi. Secondo Proust, Balzac ci presenta soltanto gli elementi non digeriti di quello che sarebbe stato il suo stile se il grande scrittore si fosse curato di averne uno. A ciò si potrebbe obbiettare che la potenza di Balzac nel comunicare ai suoi personaggi l’illusione vitale, riduce a zero l’utilità di una ricerca stilistica e di una cura particolare nello studio delle parole. Ma Proust scrive a sua madre: «À proprement parler il n’a pas de style ...» e altrove «Je ne parle pas de la vulgarité de son langage» etc.

  Qui ci troviamo di fronte al tema assai diffuso della cosiddetta volgarità di Balzac. Nell’accettare però che l’autore di Eugénie Grandet possa qualificarsi volgare, Proust non ricorda o respinge la meditazione che Ruskin, il maestro della sua giovinezza, aveva dedicato al problema della volgarità, che tanto, in arte, lo travagliava. «In fin dei conti la volgarità si riduce a un difetto di sensibilità ... Altro segno di volgarità, e quindi un’altra fase d’insensibilità, è la considerazione esagerata concessa alle apparenze. Intendiamoci è proprio in questa esagerazione che consiste la volgarità. Così non è volgare la semplice vanità, ma la sufficienza, cioè l’attribuzione che facciamo a noi stessi di qualità che non abbiamo. Insomma possiamo concludere che la volgarità consiste in una specie di atonia, di morte nel corpo e nell’animo. [...].

  La definizione che Ruskin ci ha dato della volgarità non si adatta minimamente nè all’uomo nè allo scrittore Balzac. [...]. Per tutte queste ragioni poiché facciamo nostra anche l’antitesi ruskiniana tra volgarità e ingenua vanità, l’infantile e non rattenuta festevolezza mostrata da Balzac nel momento d’imparentarsi con Mme Hanska, non che essere volgare ci sembra invece motivata da qualcosa di simile all’attrazione che il mondo fiabesco esercita sopra un fanciullo sensitivo. La contessa Hanska nelle cui vene scorre un ipotetico sangue regale, diventa un personaggio di romanzi trapiantato nella vita di tutti i giorni senza perdere per questo l’incantata atmosfera in cui Balzac l’ha sempre veduta muoversi e respirare. Ma non è forse la vita per ogni artista la favola più straordinaria e nello stesso tempo più naturale? Per noi la volgarità di Balzac è come lo snobismo di Proust, qualcosa d’inesistente perché originariamente superato e travolto dall’estasi creativa. Come la Straniera di Balzac, anche la discendente di Genoveffa di Brabante, Oriana di Guermantes, lungi dall’incarnare i sogni mondani di un adolescente ambizioso, è una figura di leggenda idealizzata dai colori e le luci delle vetrate di una cattedrale. Ma l’amore e l’ammirazione che la sua continua dimestichezza con Balzac avevano suscitato nel romanziere latente, ispirano a Proust un’illuminazione geniale per cui. lasciando da parte la volgarità e la mancanza di stile, egli è tratto a scoprire il segreto fondamentale dell’arte di Balzac. Se dalla sua potenza straordinaria di allucinazione. Balzac è costretto a considerare i suoi personaggi come creature della vita reale, gli esseri viventi coi quali si trova a contatto sono da lui contemplati come personaggi dei suoi romanzi. « Il n’y avait pas démarcation entre la vie réelle ... et la vie de ses romans». Balzac è stato capace di comunicare agli altri la fede nella realtà delle sue proprie costruzioni, perché era caduto lui stesso nel giuoco dell’illusione vitale.

  A questo punto più di una affinità ci verrebbe fatto di osservare fra Proust e Balzac ma vogliamo prima di tutto segnalare una divergenza. I personaggi di Balzac. pur attraverso lungaggini di descrizioni e di sproloqui, vengono tratti dal caos con tocchi robusti e fortemente segnati; le loro catastrofi sono talvolta quasi anticipate con mezzi violenti; la forza di estrinsecazione balzachiana spesso salta in apparenza le fasi di una graduale preparazione. In Proust invece tutto l'intero sviluppo interno e la genesi della creazione vengono tracciati e rivelati nella loro complessità. Assi-stiamo dunque ad una diversità di procedimenti nell’estrinsecazione del fantasma poetico, diversità che ci conduce ancora una volta al punto di partenza e precisamente allo stile.

  «Le style ne suggère pas, ne reflète pas: il explique». In questa affermazione Proust tiene presenti soprattutto le caratteristiche del proprio stile, realizzato mediante un contrappunto vocale ed una partitura complicatissimi, per cui si avvera il miracolo di una orchestrazione sinfonica vasta e nello stesso tempo sinuosa. La sua scrupolosità attenta nello spiegare non è la minuziosità che gli veniva a torto rimproverata, perché in lui la precisione dell’entomologo si accordava con la facoltà di creare nessi unitarii; perché la visione dell’infinitamente piccolo rivelato al suo sguardo di fanciullo terribile non è mai disgiunta da una visione dell’insieme. [...].

  All’unità dell’immensa opera balzachiana contribuisce (come Proust nobilmente riconosce contro l’opposto giudizio datone da Sainte-Beuve) la innovazione geniale di fare agire gli stessi personaggi in romanzi creati indipendentemente gli uni dagli altri. Questa invenzione balzachiana di cui si servirono altri scrittori posteriori a Balzac (Zola, Bourget etc.) aveva anche un valore pratico non trascurabile quello cioè di interessare i lettori affezionati a caratteri o tipi che avevano incontrato il loro favore. Era quello del resto che avevano intuito gli autori dei romanzi cavallereschi: dare nuovi aspetti, atteggiamenti nuovi a personaggi già noti è come instaurare una tradizione. Il metodo, poi, seguito più tardi da Proust, di narrare in prima persona, verrà ad aggiungere un altro elemento di unità epico-lirica all’invenzione balzachiana.

  Quella però che fu data da Balzac all’opera sua è un’unità assai più viva anche e soprattutto, forse, per l’irregolarità con cui essa si esprime. Con i suoi tipi immortali sempre risorgenti in opere nuove Balzac creò un espediente volto ad accrescere e a rafforzare nel romanzo l’illusione vitale; fu come riempire col ricamo l’ordito fluido e iridescente di una tela infinita; perché così accade nella realtà quando ritroviamo gli amici e i conoscenti da tempo perduti di vista: i fili si sciolgono e si riannodano per i capricci del caso, le contingenze della fortuna, la volontà. In quelle pagine, quei caratteri immobili, viene a fluire, rapida e mutevole, con tutte le sue inevitabili e fatali trasformazioni, la vita.

  In questo perenne reciproco rifluire delle due vite, la fantastica e la reale, noi vediamo uniti fraternamente i due grandi creatori Balzac e Proust. Ma il tratto più irresistibile di questa consonanza fraterna ci colpisce sul letto di morte, non certo perché dopo una lunga segregazione morirono ambedue a cinquant’anni, ma perché nell’ora in cui «ognuno è più vicino alla propria anima» essi ci diedero la misura dell’altezza vertiginosa cui erano giunte in loro la dedizione all’arte, la fede nelle proprie creature. Balzac che implora Bianchon perché lo salvi dalla morte, Proust che vorrebbe dedicare gli ultimi spasimi alla descrizione dell’agonia di Bergotte, sono altrettanto sublimi.

  Oserei dire che assai più e assai prima della filosofia bergsoniana la lettura di Balzac avesse ispirato a Proust l’idea di ritrovare il tempo perduto nella extra-temporalità della creazione. Effettivamente Proust non nega a Balzac il merito di aver realizzato quel misterioso processo per cui, conciliate insieme fissità e movimento, l’opera d’arte raggiunge una vita extra-temporale. [...].

  Da ciò anche la grande importanza che la memoria assume in Ruskin lo scrittore che aveva innamorato l’attenzione giovanile di Proust. Ma se Ruskin è l’esteta, Balzac è l’artista, «il grande scrittore che non sa scrivere perché sacrifica la sua innata virtuosità al fine di creare, per una visione del tutto nuova, espressioni che cerchino a poco a poco di adattarsi a questa visione». Sebbene in questo giudizio su Flaubert, Balzac non sia nominato, noi non possiamo fare a meno di vedervi un’allusione anche a lui. Balzac non ha stile, la volgarità del suo modo di esprimersi fa inorridire gli estetizzanti; lo fuggono coloro che lasciano cadere parole come perle artificiali e slegate. Ma quando Proust scriveva per il Figaro le cronache letterarie e mondane firmando Horatio, il tempo di Balzac, l’aura, per così dire, dei suoi personaggi, già proiettati ed immersi nell’infinità della durata, avvolgeva Proust così strettamente da farlo guardare spesso cogli occhi di Balzac i proprii conoscenti ed amici. La contessa Potocka di cui descrive il salotto per il Figaro, gli sembra nata da una divinazione di Stendhal e di Balzac; ella è senz’altro l’incarnazione vivente della principessa di Cadignan, alla quale del resto non assomiglia se non per il gusto elegante e la grazia del suo giardino («le petit jardin plein d’arbustes et de gazon décrit par Balzac»). Una serata in casa di Madaleine (sic) Lemaire, la pittrice che Roberto di Montesquiou aveva chiamato enfaticamente «l’imperatrice delle rose» ispira un pastiche balzachiano, per nessun altro motivo che il desiderio di camminare accanto all’ombra di Balzac. Così nello scritto «A propos de Baudelaire» l’esaltazione di Booz endormi di Victor Hugo non può essere fatta senza un improvviso e niente affatto opportuno riferimento a Balzac. (Ce grand poème biblique, comme eût dit Lucien de Rubempré).

  Consimili manifestazioni della sopravvivenza quasi ossessiva di Balzac sono frequenti negli scrittori dell’ambiente e della formazione letteraria di Proust, ma di tutte la più commovente mi sembra una suggestiva apparizione post mortem narrata da Edmondo Goncourt. Lo scrittore del Journal, torturato dalla composizione di Germinie Lacerteux, così descrive un sogno di cui riesce a comunicarci mirabilmente l’angoscia sotterranea e la segreta disperazione. Mi pareva, egli dice, di essere andato a visitare Balzac ancora vivo in una periferia imprecisata, in un’abitazione altrettanto vaga in cui si fondevano lo Chalet di Janin ed una villa da me veduta, non so ricordare dove. Avevo l’impressione che ci fosse stata una grande battaglia nei dintorni e che la casa di Balzac ne fosse in qualche modo una specie di quartier generale. Questo m’era suggerito non dalla vista dei soldati ma da quelle rivelazioni che sappiamo trarre dal più profondo di noi stessi nei sogni ... Balzac arrivava colla sua persona massiccia e il volto monacale dei suoi ritratti; portava il costume di un cappellano militare in servizio di guerra. Sapevo di non essermi incontrato mai con Balzac ma lui mi riceveva come una vecchia conoscenza. Gli raccontai il mio romanzo e intanto osservavo in lui un gran disgusto quando gli parlavo dell’isterismo. Ed ecco ad un tratto, bruscamente come accade nei sogni, io dimenticavo lo scopo della mia visita e gli parlavo dei suoi romanzi, interrogandolo sul lavoro che stava facendo in quel tempo. Nel mio sogno egli era sordo e come i sordi parlava a voce bassa; così bassa che potevo udire soltanto una parte di ciò che diceva. Gli domandavo se i suoi romanzi militari erano già terminati. Mi fece colla testa un segno negativo aggiungendo: - No, no, ah, briccone, so bene a cosa volete alludere. E compresi che egli parlava delle case di prostituzione lungo la strada di Vincennes. Ebbene, le ho viste ma non ci ho vissuto; - riprese tristemente - non ci ho vissuto». Senza nessun commento, con tristezza rassegnata e impotente, de Goncourt lascia cadere il racconto. [...]. Il narratore dà prova di una sincerità davvero spietata verso se stesso. Invano egli si rivolge ardentemente a Balzac perché lo aiuti nel lavoro e gli comunichi, se non una favilla del suo genio, almeno un suggerimento, un consiglio. Balzac elude con una frase equivoca l’argomento pericoloso della creazione poetica; Balzac è afono e triste e la sua ostinazione nel deviare l’urgenza della domanda è pari alla crudeltà degli esseri che abbiamo amato e perduto e che alle nostre implorazioni restano inesorabili e muti, anche in sogno. Balzac parlava a bassa voce diceva con tristezza parole che non si potevano udire; parlava e sembrava fioco perché la sua voce era troppo profonda; parlava con tristezza perché nessuno dei suoi discendenti, come gli stessi de Goncourt chiamavano i romanzieri dopo Balzac, aveva statura cosà alta da arrivare alla sua caviglia; parlava con voce resa afona da tutta la tristezza del cuore che sognava di lui, perché lo scrittore che avrebbe dovuto raccogliere il suo straordinario messaggio non si chiamava de Goncourt.

  Che cosa avrebbe potuto rispondere il poeta meraviglioso allo scrittore che arrovellato dal desiderio di creare romanzi, notava queste parole:

  «L’uomo che si sprofonda nella creazione letteraria non ha bisogno di affetti. Il suo cuore non esiste più, egli non è più che un cervello?».

  Io non sono mai diventato un cervello, non ho mai rinunziato al mio cuore, avrebbe detto Balzac.

  L’isolamento di Balzac, la sua monastica segregazione dal mondo, erano stati un esilio doloroso, non un’intima separazione dalle persone che amava. Che cos’era il suo segreto se non amore della vita e degli uomini? Se egli si sprofondava nella creazione, era perché aveva in sè quell’amore; e non un amore astratto come la passione scientifica o il sentimento della dignità degli studi, ma un amore, invece, che aveva bisogno di concretarsi in figure viventi e carnali. Gli amici che si rifiutava di visitare, la Diletta abbandonata e fedele, la madre che non l’aveva compreso, la Straniera orgogliosa che lo faceva vivere in sogno, animavano la sua solitudine e colmavano di musiche ora tragiche ora delicate il silenzio delle sue notti, davano un soffio della loro vita, un gesto, un particolare del loro abbigliamento alle creature così differenti da loro che senza quel soffio quel gesto quel particolare sarebbero rimasti informi abbozzi o immobili manichini. Non si possono scolpire caratteri se non si portano dentro di noi le creature già modellate dalla nostra simpatia, dall’amore.

  L’accordo tra le facoltà dell’intelletto e quelle del sentimento, necessario a creare un mondo poetico coerente, era stato prodigioso in Balzac e scarseggiava nei fratelli Goncourt. [...]. A torto essi riconoscevano in Balzac il loro maestro. Colpiti dalla potenza dei risultati (pittura magistrale della società, creazione di tipi che la rappresentano colmando i vuoti della storia) cercarono di raggiungerli seguendo un metodo di osservazione rigorosamente esatta e scientifica. Ma il segreto principale di Balzac; non risedeva soltanto nella profondità tremendamente acuta dello sguardo; e neppure nel fatto che egli aveva contemplato la vita con l’occhio dell’innamorato, volta a volta illuso e deluso; ma piuttosto nella stretta continua e veramente straordinaria convivenza, in lui, dell’osservatore spietato e dell’amante appassionato sempre, anche nelle negazioni del suo disincanto. Proust ci darà un altro di questi rarissimi esempi della coabitazione del poeta e del critico; ma se i suoi doni naturali e acquisiti dovevano condurlo fatalmente alla realizzazione di un’opera così diversa da quella di Balzac, l’esempio del grande Onorato fu in lui vivo e presente durante il periodo assai lungo dell’incubazione poetica. [...].

  Che Balzac e Proust raccontino o no in prima persona, non li sentirete mai distaccati dal mondo verso cui si protendono nell’ansia di un accordo segreto. Che le mura dentro cui si rinchiudono siano nude o tappezzate di sughero, essi non vivono mai isolati, perché si liberano armoniosamente se pur con sforzo doloroso, di tutte le creature e i sentimenti accumulati dalla loro esperienza che nel senso più largo della parola è stata una esperienza d’amore. [...].

  L’adorazione intesa a questo modo della dea bellezza diventa superstizione, l’amore per Balzac, meschina ed infeconda ossessione.

  Ascoltiamo ora Proust in un articolo riportato dal conte di Montesquiou in fondo alla raccolta di saggi e divagazioni critiche Altesses serénissimes. [...].

  «Le maître de la maison entre en un pantalon gris que M. de Montesquiou déclare balzacien. Vous hasardez: Celui de Lucien de Rubempré. En aucune façon proteste M. de Montesquiou. Celui de Pierre Grassou qui était avantageux ou plutôt encore celui de Sixte du Châtelet qui était prétentieusement provincial. Une invitée avance la pointe de son soulier et M. de M. remarque que c’est le geste même de Mme Hulot auprès de Crevel, avance si pudique qu’il ne la comprit pas».

  L’ammirazione di Proust per il conte di Montesquoiu, quando è sorretta da citazioni di questo genere, mi fa venire a mente per un’involontaria intonazione coll’argomento, le difesa (sic) di Diana di Cadignan fatta Mme d’Espard «la sua protezione era simile a quella dei parafulmini che attirano la folgore». Difatti, quel continuo e meccanico trasferimento delle descrizioni balzachiane sul piano della vita moderna, quando entrano nella discussione il taglio e il colore dei pantaloni, diventa maniaco e grottesco.

  Che l’artista sia l’interprete di una realtà più profonda, celata dalle apparenze, va bene. Ma quale senso, per esempio, avrebbe potuto ricavare Roberto di Montesquiou, dal leggere in uno scherzoso documento del balzachiano Un début dans la vie, il nome di Proust, assai poco comune in Francia? Quella strana Bibbia che era per lui l’opera intera di Balzac sarebbe rimasta intorno ad una tale coincidenza, indecifrabile e silenziosa. Ma lasciamo parlare lo stesso Proust in modo ben più serio e convinto che nell’articolo già citato, dovuto probabilmente, a un gesto di proustiana bontà.

  «Vorrei a questo proposito far comparire qui uno dei nostri contemporanei, più giustamente celebri, che quando parla è affetto deliziosamente da idolatria. Egli riconosce con ammirazione nella stoffa in cui si avvolge un’attrice, proprio il tessuto che si vede sulla Morte nel quadro Le jeune homme et la mort di Gustave Moreau; oppure nell’abbigliamento di una delle sue amiche, il vestito e la pettinatura che portava la principessa di Cadignan il giorno che vide per la prima volta D’Arthez ... La toilette della principessa di Cadignan è una deliziosa invenzione di Balzac perché dà un’idea dell’arte della principessa, perché ci fa conoscere l’impressione che ella vuole produrre su D’Arthez. Ma una volta privo dello spirito che è in lei quel vestito non è più che un segno sprovvisto di significato; e l’estasiarsi per il fatto di ritrovarlo nella vita su di un corpo femminile, questa è proprio idolatria».

  Qui Proust c’insegna che non si possono animare con l’enfasi o la precisione meccanica e slegata dell’osservazione, le figure e i segni dell’arte se una fantasia unificatrice non dà loro senso di vita. Quando l’ammirazione per Balzac si esaurisce e si limita in una collezione pura e semplice di particolari, di citazioni, il rievocare meticolosamente i pantaloni di Grassou, lo scialle della cugina Betta, il vestito della principessa di Cadignan, diventa la manifestazione ti (sic) un ridicolo dilettantismo.

  La figura, il giardino, la toilette della principessa di Cadignan avevano ben altrimenti impressionato in Proust non soltanto l’osservatore ed il critico, ma anche l’artista post-baudelairiano, intento a vedere nella vita una foresta di simboli, nell’arte una creazione d'infinite trasposizioni. In Proust però le metafore non si effettuano sul piano vitreo ed immobile del laboratorio di osservazione, ma s’innalzano nella sfera incandescente del sogno, dove il buen retiro della contessa Potocka si trasforma miracolosamente nel piccolo giardino, pieno di arbusti e di verde, della principessa di Cadignan. Vi camminavano allacciate due donne in cui il declinare appena percettibile della bellezza si era arrestato per sempre; il mormorio delle loro voci giungeva dall'invisibile. Ed ecco improvvisamente, la scena si trasformava nella sala sfolgorante dove la marchesa d’Espard per amore d’intrigo o per diabolica curiosità, aveva preparato il primo incontro di Diana d’Uxelles con D’Arthez. La principessa «indossava un vestito azzurro, a grandi maniche bianche ricadenti, che disegnava il busto; una guimpe di tulle bianco leggermente arricciata e orlata di azzurro, che saliva a quattro dita dal collo e ricopriva le spalle, come si vede in qualche ritratto di Raffaello La sua cameriera le aveva adornato la pettinatura con fiori bianchi di brughiera abilmente disposti fra le cascate dei suoi capelli biondi, una delle bellezze alle quali doveva la sua celebrità».

  La signora elegante che per compiacere il conte di Montesquiou avesse seguito alla lettera le indicazioni di Balzac si sarebbe trovata un po’ incerta sul modo di realizzarle, tanto più che nella stessa sera le cascate di capelli biondi diventavano «un bel diadema di trecce bionde sollevate come una torre». Ella comunque ci avrebbe dato una riproduzione e magari un’interpretazione personale di quel modello balzachiano, ma non sarebbe riuscita a comunicarne l’intimo senso poetico. Perché proprio in quest’ultima incarnazione di Diana i vestiti di lei assumono l’importanza fondamentale e segreta di un’intonazione ai suoi stati d’animo, irripetibili e cangianti intorno ad un nucleo permanente di perversità e di durezza nascosta. Nell’estremo e quasi disperato tentativo di sottomettere la vita ad un ultimo desiderio: conoscere finalmente dopo innumerevoli e degradanti avventure l’amore sincero e grande, l’indomabile lottatrice è costretta a spiegare tutte le sue arti: intuisce naturalmente l’importanza che acquistano i suoi abiti non tanto per dare rilievo alla sua bellezza, quanto per essere aiutata in quella composizione ideale del proprio personaggio che farà cadere nelle sue reti l’ingenuo e grande D’Arthez.

  «Diane d’Uxelles se gardait comme de porter una (sic) robe jaune de parler de D’Arthez».

  Per lei, bionda e irreparabilmente matura, portare un vestito giallo sarebbe stato un condannare al fallimento i suoi piani. È invece avvolta in una sinfonia di toni grigi e sfumati il giorno che per la prima volta, con quasi augusta umiltà accoglie D’Arthez in casa sua.

  «Aspettando quella visita si era composta ogni giorno una toilette di alta classe, una di quelle toilettes che esprimono un’idea e la fanno accettare per mezzo degli occhi, senza che si sappia nè come nè perché. Ella offriva agli sguardi una armoniosa combinazione di colori grigi, una specie di mezzo lutto, una grazia piena di abbandono, il vestito di una donna che non teneva più alla vita se non per qualche legame naturale, suo figlio, forse, e che nella vita si annoiava». [...].

  In Roberto di Montesquiou le trasposizioni sono però soltanto imitazioni o pastiches; oppure semplici capovolgimenti come quello che trasforma in pot cassé il vase brisé di Sully Prudhomme; o associazioni puramente slegate e bizzarre come quella di accostare i colori di una farfalla agli scialli balzachiani della cugina Betta e di Madame Firmiani. Torna opportuno a questo proposito il richiamare quello che Proust aveva osservato intorno all’idolatria e al vestito della principessa di Cadignan. Quando per esempio Balzac così ci descrive Joseph nella Cousine Bette «La cantatrice ressemblait à la Judith d’Allorì gravée dans le souvenir ile tous ceux qui l’ont vue dans le Palais Pitti: même fierté de pose, même visage sublime et une robe de chambre jaune à mille fleurs brodées, absolument semblabe (sic) au brocart dont est habillée l’immortelle homicide créée par le neveu du Bronzino», la veste da camera della cantante e il broccato che avvolge Giuditta sono strettamente legati alla loro personalità; sono i particolari che esprimono felicemente il significato dell’insieme, sono la sintesi figurata che traspone genialmente nel mondo delle apparenze una verità sottintesa, sono il segreto interiore rivelato improvvisamente da un’illuminazione dell’artista. [...]. Lo stesso tema scabroso della perversione dell’istinto non si risolve in dramma ma interessa semplicemente come tema poco trattato, mentre in Proust e in Balzac esso avvince in ragione delle sue complicazioni sentimentali. Balzac rappresenta gli aspetti della vita che Gautier descrive soltanto; Proust ce ne darà contemporaneamente la rappresentazione e l’analisi. [...].

  Nel barone di Charlus l’intimo bisogno di vedere dovunque figurazioni di se stesso e del proprio mondo lo attirava naturalmente verso Balzac. La potenza costruttiva di Balzac è così grande, così miracolosa la sua adesione alle leggi della natura che in lui gl’individui si trasformano in tipi e il realismo diventa sovra-intenzionale simbolismo. Ecco per esempio Facino Cane, il suonatore cieco intimamente dominato da una bestiale frenesia.

  «Figurez-vous le masque en plâtre de Dante ... surmonté d’une forêt de cheveux d’un blanc argenté. L’expression amère et douloureuse de cette magnifique tête était agrandie par la cécité, car les yeux morts revivaient par la pensée; il s’en échappait comme une lueur brûlante produite par un désir unique, incessant, énergiquement inscrit sur un front bombé que traversaient des rides etc.».

  Questa testa grandiosa e miseranda acciecata dai barbagli e dai riflessi mostruosi dell’oro si trasforma ai nostri occhi in una statua simbolica della società balzachiana, quella società che per irresistibile devozione al dio-denaro corre ciecamente e irreparabilmente verso la propria perdizione. Ma la casta aristocratica cui appartiene Charlus era di per se stessa un ambiente propizio alle trasposizioni figurate. Essa è anzi per propria origine e definizione le monde, il mondo cioè degli idoli e della figura; essa è nata proprio dall’aspirazione a creare un mito figurato di vanità e di prestigio illusorio. Per dare un contenuto vitale alle vuote figurazioni di questo mondo fragile, alle sue fatue assurde e inconcludenti fantasmagorie, occorreva averlo guardato da lontano come si guardano le leggende e le fiabe; penetrarvi, poi, cogli occhi della fantasia ed il calore dell’istinto, essere ricchi, insomma, di ben più salda e complicata sostanza umana che non fili eletti a farne parte da leggi misteriose e insondabili. [...].

  Nel momento in cui nella conversazione del piccolo treno fanno le spese Balzac e le situazioni scabrose dei suoi romanzi, la rovina di Charlus è ancora lontana, la catastrofe non è presentita ma si prepara già lentamente. Charlus è ancora il despota capriccioso che può ordinare le esecuzioni e concedere le indulgenze, ma è tormentato oltre che dal suo vizio segreto dalla paura che questo vizio trapeli. Balzac è il suo autore preferito non solo perché ha avuto il coraggio di affrontare il tema delicato della perversione dell’istinto, ma perché questo tema ha saputo trasfigurare colla leggerezza di tocco e la potenza dell’artista sovrano. La meditazione di Herrera, alias Vautrin, in Illusions perdues è definita da Charlus la tristezza d’Olympio della pederastia, mentre per La fille aux yeux d’or e per Sarrasine è messa in rilievo la potente rappresentazione del «cotê (sic) hors nature» di Balzac.

  Quando dunque Albertina interrompe la conversazione con una domanda vagamente cortese, - Parliamo di Balzac. risponde pronto il barone. desideroso per i suoi fini particolari di deviare l’argomento. – Ma ..., riprende subito, quasi colpito da una di quelle coincidenze che si possono interpretare a piacere come segni di una realtà più profonda, voi indossate appunto il vestito della principessa di Cadignan; non quello che portava la sera del primo incontro con D’Arthez, ma l’altro, insiste con dogmatica precisione il barone.

  Ora Albertina e il vestito sinfonicamente grigio ispirato dalla linea e dai colori di Elstir danno il via ad una lunga meditazione durante la quale Charlus ravvisa nel proprio dramma interiore una stupefacente analogia con quello della principessa. Egli si vede, come in Balzac già sera veduta Diana, sotto l’aspetto poetico di un essere segreto e inviolabile, che può coi suoi atteggiamenti esteriori (il vestito nella principessa, l’estetismo raffinato in Charlus) trasfigurare un passato di abiezione e di vizio e soprattutto tenerlo celato agli occhi della persona più cura. Egli fors’anche vede un'altra affinità tra D’Arthez e il violinista Morel, innalzato al di sopra delle sue origini plebee da un grande talento musicale. Nello stesso tempo in Diana e Charlus. lo scarso conformismo del loro amore al dogma del sangue azzurro sarebbe in modo analogo giustificato. [...].

  Il collezionista di allusioni balzachiane (sul tipo di Montesquiou e di Charlus), è un po’ simile al dantista fanatico che non sa più esprimere i fatti ed i sentimenti della vita ordinaria se non coi passi della Commedia. In Charlus il lato parassitario e quasi femmineo della sua personalità lo fa ricorrere alle più imprevedute traslazioni nel mondo di quel grande rinsanguatore di corpi moribondi ed esausti che fu Honoré de Balzac. Bisogna però tener presente che Charlus non nasce soltanto dal mondo povero e depravato di alcuni esseri a parte, ma dalla profondità la delicatezza e perfino l’umorismo di Proust. Per tracciare così acutamente l’analogia tra la principessa di Cadignan e Charlus occorreva la grazia, la leggerezza e la fusione di toni, l’equilibrio della fantasia e nello stesso tempo la penetrazione psicologica dell’autore di quella straordinaria Confession d’un enfant du siècle che nel primo novecento si slarga dal ciclo proustiano.

  Così quando Albertina e gli altri personaggi si sono ritirati nello sfondo del leggendario trenino, rimane solitario a dominare la scena uno Charlus meditabondo e patetico, immerso nella più strana e inattesa fantasticheria. Balzac e la sua novella I segreti della principessa di Cadignan sono riusciti a fargli evocare in nuova forma e con inattesa vitalità i melanconici fantasmi della sua vita segreta. Conosco quel giardino dove si sono aggirate un giorno la marchesa d’Espard e la principessa di Cadignan, - egli sussurra con voce trasognata - è il giardino d’una mia cugina, che avete conosciuto in casa della marchesa di Villeparisis. - Ma non al piccolo giardino, tutto pieno di arbusti e di verde, lo riconducono i suoi pensieri; e neppure alla giovane Albertina che indossando il vestito della principessa, ha fatto scaturire inconsciamente una così bizzarra meditazione. Egli pensa invece a se stesso, alla sua situazione analoga a quella di Diana al timore che una cattiva riputazione, già diffusasi a sua insaputa possa infrangere i cari legami dell’amicizia: danneggiare i suoi rapporti con Morel, distruggere quelle serate a La Raspelière dove egli si compiace di recitare la parte di arcangelo decaduto in una terra di fango (il clan Verdurin) che solo l’arte e l’amore possono purificare e innalzare. [...]. Ora invece è proprio l’ansia di perdere il suo spazio vitale in uno sciagurato paradiso terrestre che lo rende segretamente melanconico e affine a Diana di Cadignan. L’artefice di questa trasposizione balzachiana di nuovo genere è un mago evocatore di fantasmi; è Marcel Proust che ritrova nelle lontananze improvvisamente annullate della sua memoria, le impressioni giovanili della lettura di Balzac, le conversazioni balzachiane con il conte di Montesquiou, le osservazioni sull’idolatria ruskiniana, ed ora, in questo trenino che sembra muoversi all’infinito, prepara gradatamente le fila che condurranno a Le temps retrouvé.

  L’identificazione sentimentale con la principessa di Cadignan è assai più stretta e ben altrimenti motivata nella persona di Albertina. Ella è come Diana davanti a D’Arthez irreparabilmente enigmatica e velata agli occhi ansiosi dell’amico; difesi da quel vestito come da una simbolica armatura sono i segreti di Albertina e di Diana. Mentre il piccolo treno fermandosi a tutte le stazioni nella fantasmagoria di personaggi che vanno vengano e annodano fili ci dà l’impressione di una corsa interminabile e fluida, Albertina nel suo vestito grigio-rosato è già la prefigurazione di una creatura inafferrabile fuggitiva e misteriosa come la vita. Chiusa e isolata da una sinfonia di colori come dal velo delle sue ciglia abbassate, impigliata dall’intrico di bramosie inconfessabili, la prigioniera è già qui, indomita e passiva nella dolcezza rassegnata del gesto e della parola. Alla corsa del treno già sembra abbandonarsi, come più tardi pateticamente, alla riva triste di un letto dove l’amore e il piacere cedono il posto ad una voluttà sconsolata e tetra; dove la creatura meravigliosamente organizzata per le gioie dell’amore, la fanciulla rosea e vitale, rimane inaccessibile all’amante che può tenerla reclusa, ma di sottrarla a se stessa, alla sua occulta abiezione, non ha il potere. Perché Albertina è prigioniera del suo stesso segreto è protetta e insieme perduta dal suo rifugiarsi nell’equivoco o nel silenzio; perché se Diana di Cadignan evade dalla menzogna nell’amore, Albertina, come la tragica Paquita dagli occhi d’oro, solo nella morte può evadere. Ella sfuggirà nello stesso tempo alla prigione e alla vita lasciando inviolato l’enigma del suo dramma interiore.

  Così Diana e Albertina, creature sostanzialmente elusive ed amare, non sono accomunate dalle loro vicende, ma da un accordo ambiguo di toni, dall’artificio che le riveste ambedue, dal loro atteggiarsi spigliate nel mondo delle apparenze restando segrete e perverse. Cinte musicalmente di grigio esse si slanciano dai volumi immortali della poesia per raggiungere sulla soglia del mito la loro giovanile sorella, la principessa della favola, tutta ravvolta e dolente nel suo vestito «colore del tempo».

 

 

  Eas, Il falso come mezzo di guadagnar danaro. Trucchi e trovate di fabbricanti di autografi, «La Provincia», Cremona, Anno V, N. 307, 28 Dicembre 1951, p. 3.

 

  Sono questi falsi occasionali in quanto nemmeno valeva la pena di fabbricarne dato lo scarso valore che in passato si diede agli autografi. Il 25 aprile 1832 furono posti in vendita libri e manoscritti di Balzac e Stefano Charavary potè aggiudicarsi per duemila franchi la stessa stesura originale di «Eugenia Grandet» mentre Edmondo De Goncourt. da parte sua, aveva abbandonato la gara dopo un’offerta di mille. La «Storia dei tredici» fu aggiudicata per 650, «Serafina» (sic) per 750, il «Giglio nella valle» per 1500. e il manoscritto di «Cesare Birotteau» solo in quanto accompagnato dalle bozze di stampa della seconda e terza correzione con note aggiunte, modifiche e richiami, giunse ai 1520. Passò in quell’asta anche un esemplare di «Modesta Mignon» con la dedica tracciata in originale dal romanziere per la contessa Rzewuska, la polacca che divenne in seguito sua moglie. Era la famosa dedica: «Figlia di una terra schiatta, angelo per l’amore, demone per la fantasia, fanciulla per la fede, vegliarda per l’esperienza, donna per il cuore, gigante per la speranza, madre per il dolore, poeta per il sogno, regina per la bellezza». Ma tutte queste qualifiche erano morte a settantasette anni in una stanza d'albergo e in condizioni tali di indigenza che nemmeno si trovò danaro per i funerali.

  Quanto ai libri che avevano appartenuto a Balzac e che appunto venivano liquidati in seguito a quella morte, si legge in una cronaca dell’epoca che furono venduti quasi per nulla «a panieri e a peso come si trattasse di patate». Decisamente gli autografi e i documenti inventati, hanno acquistato un diverso valore ai tempi nostri, specialmente se, e quando, vi si mescola la politica.


 

  Léon Emery, Balzacchiana, «Giornale dell'Emilia. Quotidiano indipendente della Valle padana», Bologna, Anno VII, 23 febbraio 1951, p. 3.

 

  C’è famosa nell’aneddotica letteraria una «canne de Monsieur de Voltaire», una mazza sottile e elegante – in una parola settecentesca – e mirabilmente adatta alla figura esile e imparruccata, tutta spirito, del finissimo e formidabile schermitore della penna; e c’è una «canne de Monsieur de Balzac», vistosa, poderosa, massiccia, perfettamente intonata alla sua figura corpulenta e sanguigna, espressione di una vitalità prepotente. Questa seconda mazza, dalla grossa testa fasciata d’oro e tempestata di turchesi, la si ammirava tra la caffettiera a veilleuse – a scaldino, diremmo noi – che sostenne le veglie prodigiose dello scrittore infaticabile, e cento altri cimeli d’ogni sorta: lettere, manoscritti indecifrabili, edizioni rare, ritratti ... La si ammirava in una preziosa mostra del centenario balzacchiano, testè chiusa alla Biblioteca Nazionale di Parigi.

  Con questo pesante scettro dell’autore della Commedia Umana bussiamo alle porte — moltissime chiuse per sempre — di ritrovi di quella Parigi che ebbe in lui il pittore e l’analista più ricco dell'età sua. La topografia di Parigi è un paesaggio letterario, e soprattutto romantico, sebbene da quell’età aurea della Francia il filone del romanzo di costumi, realistico-sociale, corra inesausto fino al racconto-fiume in decine di volumi di Jules Romains, ed oltre. In nessun‘altra città del mondo accade così spesso che il semplice nome di una via, d’una piazza, evochi tanti fantasmi e, oltre questi, un vago ma inconfondibile alone, come un’atmosfera familiare di cose già conosciute, intravedute tra la realtà e il sogno, tra l’immediatezza sensibile e la trasfigurazione poetica: verità e poesia.

  Della sintesi «poesia e verità», secondo la formula goethiana, la vita parigina ritratta da Balzac è un esempio monumentale. Tra i mille, si racconta di lui questo aneddoto, che vale un volume di psicologia dell’artista: Un amico di Balzac gli parlava d’una sua sorella malata. Lo scrittore l’interrompe: «Sì, sì caro amico. Ma torniamo alla realtà: parliamo di Eugénie Grandet!». Non era durezza di cuore; ma il personaggio che in quel momento occupava la sua fantasia con la evidenza dell’arte, più intensa di quella della vita, ricacciava nell’ombra la realtà «esteriore», gratuita e accidentale, esangue al paragone dei fantasmi poetici creati dal suo spirito.

  Il centenario balzacchiano non ha avuto bisogno di rinfrescare la fama dello scrittore, ma ha offerto un’occasione preziosa per mettere in vetrina tutte quelle curiosità, quei fatti e fatterelli personali di cui si compiace la aneddotica letteraria del più letterario paese d’Europa. La raccolta dei particolari biografici, cornice mondana della vita dell’artista, accompagna in Francia la notorietà con uno zelo incomparabile. Per queste cose, si sa, i francesi sono fatti apposta. La Francia circonda i suoi grandi o celebri uomini di un’assidua curiosità. Il gusto dell’aneddoto, del motto brillante, della indiscrezione, tratto capitale della mentalità francese, coltivato per secoli a corte, nei salotti e cenacoli, riflesso dai memorialisti e negli epistolari, fa sì che l'artista, e massime il letterato, prima e più ancora che nelle sue opere, sia seguito, osservato, spiato nella sua vita di società e privata.

  Non s’incontra spesso vigor di critica negli apprezzamenti artistici, ma un’informazione attenta, minuta, pettegola, animata da uno spirito d’idolatria, sia da una malignità salottiera. Un archivio perpetuo di particolari biografici prepara la cornice e lo sfondo al ritratto dell’artista, o per lo meno dell’uomo od omuncolo, fin dagli esordi della sua carriera, ed è pronto il giorno in cui il ritratto verrà appeso nella galleria delle celebrità. Intorno a una Sand, a un Musset, a un Hugo — tanto per citare i primi nomi che mi vengono sulla penna — esistono intere biblioteche di carattere aneddotico. Sarebbe impossibile raccogliere altrettanto materiale intorno al Foscolo, al Manzoni, al Carducci. (D’Annunzio fa eccezione, grazie al riverbero di scandalo, di mondanità e di pubblicità ch’egli stesso fu il primo a suscitare, compiaciuto, intorno al suo adorabile Io).

  Se non fossero cento romanzi e racconti, basterebbe un titolo come questo — Histoire et Physiologie des Boulevards de Paris — per darci, in forma pregnante, il tono del pariginismo balzacchiano. Fantasioso e pesante, frondoso e abbagliante, la tecnica coscienziosa ch’egli ostentava per la preparazione del suo lavoro di scrittore era cosa da far impallidire Flaubert e Zola. A chi gli proponeva di collaborare a un’opera sulle vie di Parigi descrivendone una di sua scelta, Balzac rispondeva: «Una via. una via! Una parola! Ma sapete che una via di Parigi è tutto un mondo? Codesto mondo bisogna che io lo veda, lo studi, lo esamini con la lente, che m’impianti in mezzo ad esso, che io ne viva la vita per settimane, per mesi». Prendete dunque la via che avete sotto gli occhi — insistette l’interlocutore — la Rue Richelieu. «La Rue Richelieu! Ma è una cosa enorme, prodigiosa, e ... vi costerà gli occhi del capo!».

  «Perché?» «Perché? E me lo domandate?! Ma, sciagurato, se io faccio la Rue Richelieu, bisogna che la studi nei minimi particolari. Perciò bisogna che ne visiti, l’uno dopo l’altro, tutti i negozi. Farò colazione e pranzo ogni giorno al Café du Cardinal, comprerò interi spartiti da Brandus, dei fucili dall’armaiolo lì accanto, avrò conto corrente dalla fioraia di rimpetto ...». L’altro non insistette.

  Si dirà: è una posa. Sicuro, c’è anche di questa: ma è una posa truculenta, piena di vita generosa, e l’opera stessa di Balzac, lavoratore gigante consumatosi in soli cinquant’anni, giustifica siffatte esuberanze. Di fronte a certi moderni scrittori alla moda, banditori di arti poetiche improvvisate, complici se non schiavi di una corte di adoratori, Balzac grosso e trasandato, con le sue esorbitanze, con la sua mazza dalla testa oro e turchesi, ci appare come l’immagine della vitalità e della salute.



 G. B. F., Rassegna della stampa estera. Un nuovo ordinamento de «La Comédie humaine», «Idea. Settimanale di cultura», Roma, Anno III, N. 13, 1° aprile 1951, p. 4.

 

 L’edizione de La Comédie humaine della quale il Club français de l’art affidato la direzione ad Albert Béguin è già al suo terzo volume, Questa nuova edizione s’ispira al concetto di presentare le diverse parti in un nuovo ordine. L’idea è di Marcel Bouteron che, in materia balzachiana, è – come dice André Billy – «la legge e il profeta». Egli fa iniziare La Comédie humaine cronologica nel 1811, da Louis Lambert, e Béguin nota che la data corrisponde all’età in cui Balzac potè cominciare ad osservare con i propri occhi il corso della storia. E’, inoltre, nei romanzi di quell’epoca che la famiglia dei personaggi balzachiani ha la sua origine.

 Dopo le edizioni di Conard e della Pléiade, questa aggiunge qualcosa di muovo ed importante: le prefazioni redatte da scrittori contemporanei, le note biografiche e bibliografiche e i «documenti» per i quali Henri Evans ha collaborato con M. Bouteron. Inoltre, ogni volume è preceduto da uno studio di carattere generale: Lo stile di Balzac, di Alain; Balzac e la stampa, di Maurice Nadeau; Balzac e il mito di Parigi, di Roger Caillois.

 

 

  G.[emina] F.[ernando], Introduzione, in H. de Balzac, Eugenia Grandet ... cit., pp. 9-25.

 

 Honoré de Balzac nacque a Tours il 16 (sic) maggio 1799. Il padre, direttore amministrativo dell’ospedale di quella Citta, era però un ex-avvocato del Consiglio di Stato sotto Luigi XVI. Intelligentissimo e colto, aveva una conversazione brillante, e passava per un originale; ma era buono di carattere, comprensivo e tollerante delle altrui opinioni. La madre, Laura Sallambier, gentildonna parigina di rara vivacità di spirito e d’immaginazione, elegante, bella, generosa, s’interessava di scienze occulte; era però severa coi figli. Questi ricordi del carattere dei genitori spiegano molto del carattere del figliuolo.

  Il piccolo Onorato a sette anni entra nel collegio degli Oratoriani di Vendôme: non è studioso, sembra pigro, torpido. Ma la sua intelligenza lavora, sfuggendo ad ogni regola scolastica. Divora con curiosità appassionata ogni sorta di libri; e a dodici anni scrive un «Traité de la volonté». Esaurito da questo lavoro nascosto e sovreccitato dalle letture superiori alla sua età, finisce per ammalarsi.

  Fu poi per qualche tempo allievo del collegio di Tours; e nel 1814 si trasferisce coi suoi a Parigi, dove prosegue gli studi nell’Istituto Lepitre; poi frequenta i corsi della Sorbonne, e nel 1816, già iscritto alla facoltà di legge, fa pratica presso l’avvocato Guillonnet-Merville, dov’ebbe compagni, tra gli altri, Prosper Mérimée, e Jean-Jacques Ampère, figlio del celebre matematico. In collaborazione con essi e con altri due compagni, scrive quasi per giuoco i primi romanzi. Poi passa allo Studio del notaio M. Passez, amico di famiglia. Con questa specie di tirocinio compiuto nei due studi legale e notarile si familiarizza coi segreti della procedura, della quale troviamo vaste tracce nei suoi romanzi; e ti acquista anche l’abitudine degli affari, che poi troveremo largamente riflessa nelle storie della vita reale.

  Il vecchio avvocato Bernard Balzac (1) non crede ai meriti letterari di suo figlio, e anche se a venti anni gli permette di seguire la sua inclinazione, e gli lascia la libertà di vivere solo, gli passa una pensioncina scarsa, e solo per un anno.

  Durante quest’anno di prova, Honoré tenta il teatro con una mediocrissima tragedia; ma si ostina, e per guadagnarsi da vivere inizia — pubblicandoli sotto vari pseudonimi — una serie di romanzi ch’egli chiama studi, ma sulla cui importanza non si fa illusioni. Gli venivano pagati appena qualche centinaio di franchi. Non era la fortuna sognata, nè celebrità, nè ricchezza. Ma almeno l’indipendenza bisognava conquistarla.

  Così, nel 1825 compra una stamperia; ma dopo due anni se ne disfa, rimanendo con 25.000 franchi di passivo. Questo disastroso tentativo inizia la serie delle sue speculazioni che, quasi costantemente sbagliate, non gli tolgono tuttavia quella fede in se stesso e nel giorno vicinissimo, fra tre mesi, sei al massimo, in cui guazzerebbe nell’oro.

  Per tutta la vita invece si dibatte tra creditori e usurai. Questo può spiegare l’importanza capitole che in molti romanzi attribuisce al denaro, può spiegare anche certe scene di miseria, della vita parigina che ha reso in pagine d’impressionante realtà. All’amore egli non dà quella parte predominante che sembrerebbe indispensabile a una trama di romanzo. È la quistione del denaro, considerata come la grande molla della società moderna, che lo interessa maggiormente, e lo porta a introdurre nel romanzo una moltitudine di personaggi, di professioni, di mestieri, che mettendo in rilievo la vita pratica, danno luogo a rivalità, a conflitti, a inimicizie, e portano a galla i peggiori istinti della natura umana.

 

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  Balzac non passò mai per un buono scrittore — oggi si direbbe un letterato — nel senso che, in apparenza, non curava la lingua e trascurava la forma, pur avendo per la lingua e per la forma una specie di venerazione. «Notre langue — egli dice — est une sorte de madame Honesta qui ne trouve bien que ce qui est irréprochable, cisélé, léché». Allo Stendhal, per il quale pure aveva una grande ammirazione rimprovera di non curare abbastanza la forma. Egli stesso correggeva e limava lungamente e coscienziosamente. Ci racconta Gautier che talvolta una frase sola gli occupava un’intera notte: « Elle était prise, reprise, tordue, pétrie, martelée, allongée, raccourcie, et, chose bizarre! la forme nécessaire, absolue, ne se présentait qu’après l’épuisement des formes approximatives». E tutto questo, con vero terrore dei tipografi, quasi sempre sulle bozze: si assicura che le correggesse anche venti volte.

  Non potrebbe del resto concepirsi la Commedia Umana diversamente scritta. Nelle sue violenze e nelle sue raffinatezze, nelle sue screziature e nelle sue sbrigliatezze, questo stile turbato, inquieto, avventato, spregiudicato, in cui lo scrittore mischia le ellissi e gli eccessi, le smorfie e le carezze, le oscurità e i lampeggiamenti, si è modellato da sè stesso sulle disparità e le stravaganze della vita, che l’autore voleva rappresentare intera.

  Dalla folla multanime della Commedia Umana, da quest’arte multiforme che si avvicenda in un unico ciclo di romanzi, ci vien fatto di pensare a quanto l’autore abbia tratto dalle proprie esperienze, e pur trasformato da una fantasia irrequieta, rivissuto in quei suoi romanzi. Se è vero, come afferma Buffon, che lo stile è l’uomo, davanti alla personalità umana di Balzac messa a confronto con la sua opera di scrittore, pensiamo che quel suo stile bizzarro, agitato e disuguale, debba scaturire da una vita pur essa bizzarra, da un’anima agitata da continue preoccupazioni, e al tempo stesso rallegrata da un carattere gioviale, cordiale, a volte triviale. «C’était — diceva Champfleury — un sanglier joyeux». Un cinghiale giocondo. E veramente, ad osservare i ritratti che di lui ci son rimasti, e a leggere le descrizioni della sua persona, che ce lo danno forte e tarchiato, ma non alto, con gran naso, vasta fronte, collo taurino, occhi nerissimi pieni di fuoco, un complesso fisico potente insomma, che, unito a quel suo carattere allegro e alquanto volgare, ci sembra di vederlo balzare a un tratto dalla tana, e di sentire i grugniti di piacere del grosso verro selvaggio.

  Ma il cinghiale giocondo non è spensierato. La sua vita, attiva quant’altra mai, e piena di progetti, di preoccupazioni, di un lavoro indefesso.

  Nel 1829 pubblica Les chouans, finalmente col suo nome; viene poi la Psicologie du mariage (sic), ed entrambi hanno buon successo. Nel 1831 La peau de chagrin gli dà la celebrità.

  In quell'anno tenta pure la fortuna delle urne, presentandosi candidato alle elezioni legislative. Aveva dei grandi progetti e molte belle idee, sperava persino di diventare ministro degli esteri. Illusione che non durò a lungo. Intensifica invece il lavoro letterario: in vent’anni compare la Commedia Umana al completo, se completo può dirsi un lavoro che non può aver fine, poiché la commedia umana non finisce che con la fine dell’umanità. Tutta l’umanità infatti Balzac voleva accogliere nella sua opera gigantesca.

  Con la celebrità viene anche il denaro, ma egli spende sempre molto più di quel che guadagna. Poiché se gli anni di miseria lo hanno abituato a far economia sul necessario, al superfluo non sa più rinunziare. Aveva gusti da gran signore: la passione del lusso nelle sue più squisite manifestazioni: i begli arredi, gli oggetti d’arte, i gioielli, che aggiunta alla mania delle speculazioni, lo sommerge irrimediabilmente in un pantano di debiti, dai quali tenta invano di liberarsi lavorando per giorni e notti, in certi periodi senza concedersi un istante di riposo, sostenendosi coll’abuso del caffè. È un lavoro tenace, ostinato, sovrumano. Scrive a M.me Hanska nell’agosto 1835: «Je ne sais si jamais cerveau, plume et main auron (sic) fait un pareil tour de force à l’aide d’une bouteille d’encre ». (Lettres à l’Etrangère).

 

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  Balzac si è francamente dichiarato cattolico: la sua arte ne è tutta pervasa, anche nelle pagine più crude. V’insiste, specialmente nei riguardi della donna; e nella prefazione alla Commedia Umana ci dice che la donna protestante può essere pura, casta, virtuosa, ma non ha ideali: anche il suo amore calmo e freddo come un dovere, non ha espansioni: parrebbe che la Vergine Maria avesse raffreddato il cuore di questi sofisti che l’avevano esclusa dal paradiso coi suoi tesori di misericordia. Non c’è speranza, nel protestantesimo, per la donna che ha peccato, mentre nella chiesa cattolica anche la peccatrice nella speranza del perdono diventa sublime. Così, se per lo scrittore protestante c’è un solo modello di donna, lo scrittore cattolico ne trova una nuova in ogni situazione. E Balzac ne trova tante ...: donne appassionate e donne calcolatrici, donne attorno alla cui fronte pare splenda l’aureola della santità e donne criminali che fanno rabbrividire d’orrore ...

  «J’écris — dice, sempre nella prefazione alla Commedia Umana — à la lueur de deux vérités éternelles, la Religion et la Monarchie». Ma, come nella monarchia, anche nella religione che per lui non può essere che la cattolica, sente una disciplina sociale, poiché nell’uomo vede un essere sostanzialmente cattivo, la cui bestialità naturale dev’essere contenuta dalla paura del castigo. I comandamenti del cattolicesimo gli sembrano tante pietre collocate sull’orlo dei precipizi della vita, tante mani caritatevoli pronte a sorreggere la debolezza umana durante il difficile viaggio. Per tutto questo il D’Aurevilly osa prevedere che verrà un giorno che il cattolicesimo reclamerà Balzac come uno dei suoi scrittori più devoti e fedeli perché in ogni questione egli arrivò sempre alla conclusione cui il cattolicesimo sarebbe arrivato.

  Sempre? proprio no. Il suo temperamento esuberante gli permette di conciliare un curioso misticismo col più grossolano materialismo, la sua filosofia è piena di contraddizioni: può essere discepolo di Helvétius e di Holbach, e chinarsi con riverenza sui libri sacri e sul Diritto Canonico, attingere da Mesmer e da Cabanis, e dar retta al teosofo e visionario Swedenborg (2). Crede nei santi e nei fantasmi, in Dio c nel lupo mannaro; la religione gl’ispira pagine sublimi — veggasi la santa morte della signora Grandet — e ingenuità stupefacenti, come quando, per convertire il dottor Minoret lo conduce da una pitonessa che da Parigi vede quel che avviene a Nemours; o irriverenti ironie, come la conclusione che trae dalle ultime parole di Grandet agonizzante, che il cristianesimo debba essere la religione degli avari.

 

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  Balzac getta in pieno romanticismo il primo seme del realismo, ne diventa capo-scuola, spiana la via ai grandi narratori del suo secolo, dal Flaubert al Maupassant, allo Zola, al Bourget, al nostro Verga; e se pure l’Accademia di Francia gli nega l’onore di accoglierlo tra gl’immortali, la vera immortalità egli stesso se la conquista col suo genio, col suo titanico lavoro, superandone di gran lunga ogni onore di accademia.

  Iniziatore del realismo, o, come più esattamente Paul Bourget vorrebbe chiamarlo, di quella scuola di osservazione, che non rifugge dalla pittura veristica di fatti e passioni tristi e brutte, talora ripugnanti, per cui all’autore vieti fatto rimprovero di immoralità, è tuttavia lontano dal pensiero di Balzac il proposito d’esaltare il vizio per il vizio: egli guarda solo alla forza della passione, ne cerca le espressioni più vivaci, vi s’indugia in istudi attenti e quasi amorosi, ne anima il simbolo, sia che impersoni la più orribile o la più santa, o la più stramba delle passioni. Per lui nella passione è l’umanità tutta, afferma che senza la passione la religione, la storia, il romanzo, l’arte, sarebbero inutili. E le passioni dei suoi eroi son quasi costantemente esclusive ed eccessive. In Balthasar Claës per esempio, l’amore per la scienza soffoca ogni altro sentimento, così come in Grandet lo soffoca l’avarizia.

  Alfredo Oriani, parlandoci di Balzac ci dice che «la vita seppe nascondergli un segreto, la filosofia un mistero, lei scienza un enigma: chiuso nella sua stanza giorno e notte, vedeva come attraverso un’allucinazione: corpi e anime si svelavano davanti a lui, che simile ad un Dio creatore aveva la passione della vita, la simpatia di tutti i suoi vizi e di tutte le sue virtù, dei santi nei quali sale come un incenso trasparente, dei mostri nei quali si condensa come una forza ancora indomata. Le vergini gli dissero le parole più pure, e le cortigiane quelle più dolorose; l'avarizia gli sfilò davanti in parata con tutta la eterogeneità dei propri cannibali, il giornalismo gli chiassò intorno con tutti i campioni del proprio esercito, venturieri ed eroi, ladri e saccomanni, cavalieri sperduti e fantaccini in cerca di bandiera». Ecco: ed è perciò che se il personaggio balzachiano può essere cinico, l’autore non lo è certamente mai. Più che ritrarre individui, egli crea tipi, simboli, dà ai suoi protagonisti, per citare le sue stesse parole, proporzioni mostruose e grottesche.

  Di proporzioni mostruose è veramente il signor Grandet, protagonista, assieme alla figlia, dalla quale il romanzo prende il titolo, di uno dei drammi più appassionanti della Commedia Umana: quello dell’avarizia.

  Eugénie Grandet comparve nel 1833, quando l’autore aveva raggiunto la celebrità, ed era nella pienezza dell’ingegno, già maturo per il capolavoro.

  Grandet balza formidabile sullo sfondo d’ima piccola città vinifera, con tutte le caratteristiche del paesano dell’Anjou, radicato ai suoi beni terrieri che ama con lo stesso trasporto con cui ama l’oro, il simbolo della ricchezza. Egli è il piccolo borghese provinciale, proprietario e agricoltore, industriale e commerciante: a Saumur sulle rive della Loira, è particolarmente vignaiolo e bottaio. Ma soprattutto e accumulatore di ricchezze. Non è apertamente usuraio come un altro personaggio balzachiano, l’uomo-denaro Gobseck, ma trae guadagno da tutto, persino dall’ingenuità delle donne di casa sua, moglie, figlia, serva, tre creature di un’innocenza da agnelle, inconsciamente aggiogate al suo carro d’oro. Accecato dalla passione, non si accorge che la moglie muore di crepacuore, non si accorge di sacrificare stoltamente la sua unica figlia, la sola persona al mondo che gli sia veramente cara.

  Ecco dunque Eugenia Grandet, una delle più angeliche creature che mai anima d’artista abbia sognato, in contrasto con quella figuraccia di macigno, ecco un’immacolata colomba in lotta contro una scaltrezza diabolica.

  La critica è stata benevola per Eugénie Grandet, dato che in questo romanzo, a parte certe curiose distrazioni di cui sorriderebbe il lettore pedante (3), non si notano come negli altri, quei gravi difetti di lingua e di stile che troppo spesso si rimproverano a Balzac; e anche se l’azione viene qua e là appesantita da episodi e dissertazioni inutili, e se le interminabili descrizioni del principio stancherebbero forse un lettore impaziente, finiscono col guidarci insensibilmente al centro dell’azione, come se l’autore ci avesse presi per mano, e in sua compagnia fatto attraversare quella strada asciutta, erta, stretta, e condotti in casa del signor Grandet, entro quella sala grigia, entro quel piccolo giardino che faranno da scenario al dramma di Eugenia, e che ci resteranno impressi nell’animo come se noi stessi avessimo vissuto tra quelle pareti squallide, tra quella gente oppressa a propria insaputa dall’implacabile avaro. Conosciamo coi Grandet tutta una lotta senza quartiere tra il denaro e la bontà, tra il denaro e l’amore.

  Eugenia e Carlo Grandet si amano di un amore di angeli, che viene travolto, soffocato, schiacciato sotto il peso del denaro: un amore che da prima entra in lotta con l’avarizia di papà Grandet, poi si accascia, vinto, davanti al tradimento di Carlo, il quale, avendo fatto fortuna nelle Indie, e non sapendo Eugenia abbastanza ricca per le sue mire ambiziose, l’abbandona, abbagliato da una furba aristocratica, che gli fa sperare, in cambio del matrimonio con la sua brutta figlia, un titolo nobiliare e una carica a Corte. Carlo abbandona Eugenia, ignaro di abbandonare con lei una quasi incommensurabile ricchezza. Ne profitta il presidente Cruchot de Bonfons che, per lunghi anni respinto, finisce per sposare Eugenia, già delusa e non più giovanissima, accettando il patto ch’essa gli propone in cambio della propria dote: lasciarla vivere nel matrimonio in istato di verginità.

  Quella di Carlo Grandet e quella del presidente Cruchot, sono in questo dramma le due figure che, assieme al padre Grandet, chiudono Eugenia, la vittima, nella rete d’avidità e d’ambizioni che le faranno poi sempre ricordare le parole di sua madre morente: «Bambina mia, non c’è felicità che nel cielo, tu lo saprai un giorno».

  Molti personaggi di Balzac tornano di romanzo in romanzo, a volte emergono nella parte di protagonisti, a volte sono appena accennati, come in Eugénie Grandet madame de Nucingen; ma anche il rapido cenno basta a ricordarli, con le loro qualità o difetti, con le loro manie, con le loro fisionomie inconfondibili. Ogni tipo una passione: l’umor paterno cieco e morboso è impersonato da Goriot; Hulot è la lussuria come Vautrin è il genio del male, e Rastignac l’ambizione e la sete insaziabile di dominio; figure tutte d’altorilievo, che si affiancano in questa folla di oltre duemila personaggi all’avarizia di Grandet, e alla virtù senza macchia, all’amore fedelissimo come forse è possibile solo in provincia, della meravigliosa Eugenia Grandet.

 

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  Nel 1832 Balzac viene per la prima volta in Italia, a Genova; nel 1836 a Torino; poi nel 1837 (sic) di nuovo a Genova, dove conosce un certo Giuseppe Pezzi, dal quale apprende che si potrebbe tentare una grande speculazione con la fondita delle scorie argentifere che abbondano nella miniera dell’Argentiera in Sardegna. Altra impresa fallita, che non gli valse altro che un inutile viaggio in Sardegna, di dove tornò disgustato e deluso. È ancora il miraggio della ricchezza che sì dilegua, mentre i debiti da pagare sono soverchianti, che gl’impedisce, secondo un altro suo sogno, di diventare il Walter Scott della Sardegna?

  Dopo Genova, Torino, la Sardegna, troviamo Balzac a Milano, dove frequenta il celebre salotto della contessa Maffei, e dove scrive uno dei suoi migliori romanzi: Mémoires de deux mariées. A Milano pure conobbe, benché superficialmente, Alessandro Manzoni, per il quale però non aveva simpatia, forse perché nell’arte come nella vita, si trovava al polo opposto. Criticava acerbamente I promessi sposi, e si vantava di non aver letto l’Ettore Fieramosca del d’Azeglio e il Marco Visconti di Tommaso Grossi, che allora furoreggiavano, perché dagli stessi italiani erano giudicati manzoniani.

  Che Balzac abbia amato l’Italia non c’è dubbio: se ne sente il riflesso in certi passaggi più aggraziati della sua opera che ne sembra a volte come traforata da un raggio di luce più viva, in un ricordo anche fugacissimo d’Italia. L’Italia è il paese che incanta e rapisce: «Ici — Genova — les églises, et sourtout (sic) les chapelles, ont un air amoureux et coquet qui doit donner à une protestante envie de se faire catholique. — Comme nous savons déjà l’italien, son amour, exprimé dans cette langue si molle et si favorable à la passion, m’a paru sublime. — Rome est la ville où l’on aime. Quand on a une passion c’est là qu’il faut aller en jouir: on a les arts et Dieu pour complices». Così nelle (sic) Mémoires de deux jeunes mariées fa scrivere alla baronessa de Macumer, che viaggia l’Italia assieme allo sposo. E quel titolo de Macumer, cui sono annessi dei feudi in Sardegna, ricorda ancora l’Italia, e precisamente una piccola borgata sarda, Macomer, che Balzac deve aver traversato quando andava alla ricerca dell’argento.

  Ma anche nel suo amore per l’Italia, Balzac è pieno di stranezze e di contraddizioni: nelle cose italiane cerca sempre di trovare il brutto, il difetto, la manchevolezza, tanto che, ad analizzarlo a fondo, questo suo sentimento si direbbe un amore-odio. Dalla Sardegna che gli sembra un principio d’Africa, alle signore che incontra nei salotti aristocratici delle grandi città e lo colpiscono per la loro mancanza di spirito e d’istruzione, c’è tutta una gamma di giudizi negativi per l’Italia e gl’italiani, e tuttavia questo non gl’impedisce di dichiarare, tra parole di deferente omaggio, dedicando Une fille d’Ève alla contessa Bolognini-Vimercati, che, «si les Français sont taxés de légèrité (sic), d’oubli, je suis Italien par la constance et par le souvenir»; nè di esaltare in Massimilla Doni la grandezza del genio italiano; nè di sognare di realizzare tra l’Italia e la Francia un’alleanza intima e costante, come nel secolo XVI aveva pensato il Bandello.

  Amava Roma con fervida passione. Scrive alla sorella Laura: «Rome, malgré le peu de temps que j’y suis resté sera l’un des plus grands et un des plus beaux souvenirs de ma vie». Sognava di tornarvi per dimorarvi a lungo, per studiarla e farne forse lo sfondo di qualche romanzo; ma la vita, logorata dall’eccessivo lavoro, non gli diede il tempo di tradurre in atto la bella idea che ci avrebbe lasciato un documento immortale del suo amore per la città eterna, e per essa dell’Italia.

  Gregorio XVI, pontefice dotto e amante delle arti, lo riceve in udienza privata, lo incanta con la sua affabilità, e col dono d’un rosario benedetto da portare a sua madre.

  La Divina Commedia, che fino ad allora gli era parsa un eterno enigma, gli viene rivelata attraverso il commento dotto e caldo del principe Michelangelo Caetani, che durante la permanenza di Balzac a Roma teneva a Palazzo Farnese delle conferenze dantesche. Ed è sempre a Roma, che dopo essersi prosternato ai piedi del Vicario di Cristo, l’autore della Commedia Umana s’inchina riverente davanti all’autore della Commedia Divina.

 

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  Dopo Laura Sallambier, sua madre, che pur nella sua severità è con lui di una tenerezza commovente; e Laura, poi sposata al signor de Surville, sua sorella, che ne comprende gl’ideali e le ambizioni, ne frena gli eccessi, e gli è sempre alleata fedele, ora ispiratrice e ora collaboratrice, e infine affettuosa biografa, non molte altre son le donne che nella vita di Balzac hanno lasciato tracce notevoli.

  Un’altra Laura gli viene incontro per prima, quand’egli, ancora giovanissimo, si tuffava nel vortice del lavoro, Laura de Berny, una signora maggiore di lui di molti anni, amica di sua madre, e madre a sua volta di parecchi figli. Essa gli dà un’amicizia tenera, devota, comprensiva, tra materna e amorosa: è la Dilecta, la cui morte lo addolorò profondamente. Egli così ne scrive a sua madre: «... je suis navré de douleur. Madame de Berny se meurt. Il est impossible d’en douter. Il n’y a que moi et Dieu qui sachions quel est mon désespoir». (Agosto 1836).

  Laura de Berny ebbe rivale, ma per breve tempo, un’altra Laura, la duchessa d’Abrantès: creatura arida, incapace di tenerezza, essa non fu che una meteora nella vita del grande fanciullo, cui la tenerezza era necessaria; e tornò dalla diletta, da colei che aveva chiamata mamma, e che, prima di chiudere gli occhi per sempre, ebbe il supremo conforto di poter leggere il libro in cui ella stessa rivive, diventata il Giglio nella Valle.

  Il secondo romanzo d’amore, Balzac lo vive con la duchessa de Castries, donna giovane e graziosa, civettuola, vanitosa, spirituale. Il nuovo amore che infiamma il cuore del romanziere, è ben diverso da quello che aveva sentito per la de Berny; questa lo inteneriva e lo rendeva buono; quella lo inebbria, lo elettrizza: egli le crede, ma essa con lui giuoca soltanto all’amore. Da questo legame, misteriosamente spezzato, ma per il quale Balzac soffrì orribilmente, nasce uno dei suoi libri più belli e più amari: La Duchesse de Langeais.

  Due altre avventure amorose di minor rilievo, troviamo sulla strada di Balzac: come una nuova meteora passa, senza lasciar tracce profonde nella sua vita, senza lasciare nella sua arte alcun ricordo, Sara Lovel (sic) contessa Guidoboni-Visconti; passa Carolina Marbouty, fiamma anch’essa di superficie, capriccio, fuoco fatuo, accanto all’altro fuoco fatuo ch’era la Guidoboni-Visconti.

  Il fuoco vero, lo strano idillio durato diciassette anni, s’era già acceso nel cuore di lui per la contessa Eva Hanska — la divina straniera — una giovane polacca di ventinove anni, non proprio bella ma di modi aggraziati e aristocratici, piena d’ingegno, colta, comprensiva come la de Berny, dell’arte e del compito dell’artista, adorna, come la perduta diletta, di tutte quelle nobili doti nelle quali s’incarnava, per il gran sognatore, l’ideale della donna. A lei egli scrive quelle interessanti lettere note appunto col titolo di Lettres à l’Étrangère; a lei finisce col dedicarsi tutto; ma soltanto nella primavera del 1850 — già vedova da diversi anni — ella acconsente a diventare sua moglie.

  «Ce mariage dice il Ferry — contracte dans une petite ville de l’Ukraine, l’union de ces deux automnes fu le dernier jour de l’auteur de la Comédie Humaine».

  Alla fine di maggio i due sposi sono a Parigi. Honoré de Balzac aveva finalmente raggiunto le mete agognate: gloria, ricchezza, amore. Troppo tardi. Egli era malato. Esaurito dall’eccesso di lavoro, soffriva di cuore. Gli si aggiunse un’ostinata bronchite che non gli dava requie. Il 20 giugno scrive — per mano della madre — un’ultima lettera all’amico Teofilo Gautier, una lettera piena d’abbandono, un pianto accorato, uno strazio dell’anima che si spegne. Finisce con un grido disperato: «Je ne puis ni lire ni écrire!».

  Non può più scrivere, l’uomo che si è logorato sulle carte, l’uomo che dello scrivere aveva fatto lo scopo di tutta la sua vita. Non può più scrivere. Non scriverà più.

  Il 18 agosto del 1850, dopo una lenta agonia, il più grande romanziere di Francia, l’autore della Commedia Umana, entra in quel mondo dove ogni commedia si cancella.

 

  Note. [La numerazione è nostra].

 

  (1) Honoré de Balzac era di nascita borghese: il de se lo attribuì da sé; si creò pure una genealogia romanzesca ch’egli stesso finì per prendere sul serio. Durante i suoi viaggi si faceva chiamare conte o marchese; i suoi bagagli erano contrassegnati col blasone dei Balzac d’Entraques, con i quali, e con altre famiglie aristocratiche con cui pretendeva essere imparentato, non aveva alcuna affinità.

  (2) Claude-Adrien Helvetius, filosofo francese, autore del libro De l'esprit, apologia del sensualismo assoluto. (1715-1771).

  Paul-Henri baron de Holbach, filosofo francese, materialista e ateo, autore del Système de la nature. (1723-1789).

  Frédéric-Antoine Mesmer, medico tedesco, fondatore della teoria del magnetismo animale. (1733-1815).

  Georges Cabanis, medico francese, autore di un Traité du fisique (sic) et du moral de l’homme, che fece gran clamore. (1757-1808).

  Emmanuel Swedenborg, teosofo e visionario svedese. Ebbe moltissimi aderenti. (1688-1772).

  (3) Cito due delle più curiose distrazioni, e proprio in Eugénie Grandet: «Mademoiselle D’Aubrion était une demoiselle longue comme l’insecte son homonyme, maigre, fluette ...» La signorina si chiamava Mathilde. Non esiste alcun insetto che si chiami, in francese, mathilde, nè aubrion. Non rimane che pensare alla libellula, detta anche demoiselle. È per lo meno strana l’omonimia che Balzac rileva tra demoiselle (insetto), e demoiselle (fanciulla di nascita nobile: damigella).

  L’altra distrazione, veramente madornale, la troviamo a proposito di Nanon, che al principio del libro ci vien presentata sessagenaria, per quanto, a calcoli fatti dovrebbe avere cinquantasette anni, essendo entrata a ventidue domestica in casa Grandet, ed essendo passati da allora all’inizio del romanzo, trentacinque anni; poi, dopo sette anni, cioè all’epoca del suo matrimonio, ce la troviamo in età di cinquantanove anni!

 

 

  Giansiro Ferrata, Balzac e la polemica del realismo, «Aut Aut. Rivista bimestrale di filosofia e di cultura», Milano, Anno I, N. 3, Maggio 1951, pp. 252-258.


  Balzac, o il passaggio obbligato fra realtà e «questione del realismo». Sembra a volte — molte volte — che la polemica del realismo, in letteratura, torni su quell’esempio come sul solo naturale e persuasivo. Gli altri vengono a testimoniare in modo saltuario, o troppo tendenzioso; Balzac dà l’impressione d’esser arrivato e rimanere in tribunale spontaneamente, nemmeno col proposito di sostenere una parte. Spinto da una forza, che riguardi ancora il fuoco del problema.

  E in verità lo ha acceso nel suo aspetto moderno e ancora lo alimenta; non ritarda sulla sua vita.

  «De bonne heure, il a consideré ce XIXme siècle comme son sujet, comme sa chose; il s’y est jété avec ardeur et n’en est point sorti. La société est comme une femme, elle veut son peintre, son peintre à elle toute seule; il l’a été; il n’a rien eu de la tradition en la peignant ...». Sainte-Beuve chiariva così, con agri sottintesi, una prima caratteristica del realismo balzacchiano. Peintre à elle toute seule, … rien de la tradition en la peignant. La società come vortice, inferno paradiso purgatorio da cui non si esce altrimenti che in sogno, e il sogno riporta infine violentemente alla società: alle relazioni e strutture che, in essa, raggiungono da ogni punto la persona. Quel che Sainte-Beuve, continuando, dice sulla natura letteraria di Balzac, si può applicare alla materia avida della Commedia Umana. «Ce n’est que de nos jours qu’on a vu de ces organisations énergiques et herculéennes se mettre, en quelque sorte, en demeure de tirer d’elles-mêmes tout ce qu’elles pourraient produire, et tenir durant vingt ans la cruelle gageure ... Buffon était un athlète, mais son style ne le dit pas. Les écrivains de ces âges plus ou moins classiques n’écrivaient qu’avec leur pensée, avec la partie supérieure et toute intellectuelle, avec l’essence de leur être. Aujourd’hui ... la personne de l’écrivain, son organisation toute entière s’engage et s’accuse elle-même jusque dans ses oeuvres; il ne les écrit pas seulement avec sa pure pensée, mais avec son sang et ses muscles». Convinti o no dai termini che adopera il critico, siamo a un passo dal tema dominante nel romanziere. Una fisiologia «energica ed erculea» della vita sociale, col sangue, i muscoli in rilievo; dove sentimenti, idee, forme spirituali e poetiche e religiose finiscono col trovarsi condizionate e prigioniere. Più si estendono, meglio essa trionfa. Controlla i fatti e lo spirito dei fatti dal momento che diventano rapporti umani. Ciò che non rimane isolato, ineffabile, o strettamente metafisico, rientra nelle sue leggi. Tu mettrais l’univers dans ta ruelle, — Femme impure!, scriveva allora Baudelaire; è un’apostrofe che più ammirativamente conviene; a quella «realtà» di Balzac, tanto complessa e così lineare, — a quella fisiologia ordinata come un’ideologia, per l’esigenza di ricondurre a se stessa l’universo concreto.

  Solo un’epoca assai vicina a riconoscersi nella Comédie Humaine poteva ispirare la polemica del realismo. Per l’arte classica il genio del reale ha radici in una coerenza intima fra spirito e natura dove apparentemente domina il secondo termine (così vedeva ancora Leopardi) e il primo in circostanze mutevoli tiene il governo. L’arte classica ritrova nella natura il divino, che lo spirito nel suo sviluppo continua a generare. La crisi decisiva è l’illuminismo, al decadere del divino i romantici oppongono lo spirito e la natura come estreme condizioni religiose, ma ormai il «reale» si presenta come assoluta autonomia, nel senso della storia; negli anni di Balzac, il divino trova ulteriori degradazioni; vuole assorbirlo la materia stessa della società, — Marx lo definisce struttura economica, e molti sono marxisti senza saperlo. Anche Balzac? Engels lo afferma da un lato. Abbia o no ragione Engels, almeno in un punto Marx ritrova Balzac. Per entrambi la logica del mondo umano si decide dal basso, dentro la materia fisica della società. Ed ora soltanto prende un senso, ha una forza direttiva e polemica, in letteratura, la questione del realismo. C’è un terreno di raccolta ma anche la base per un metodo, un’ipotesi di governo (letterario): i rapporti umani nel proprio «assoluto», totalità di condizioni dove qualunque forma spirituale diventa un fatto limitato dall’insieme. La narrativa francese si trovò in breve a cercarne un sistema fisso di conseguenze. «Naturalissimo» ... Definizione certamente piena dì fiducia nell’oggettività di quei rapporti. Perché infine non è la Natura, l’immagine più affascinante per le varie soirées de Medan, ma un Reale come Natura, col suo dio-società che ispira un linguaggio compatto dalla vita all’arte e alla scienza ... «Non imitare ma continuare la Natura», dettava, nel tardo ’800, l’antico naturalista D’Annunzio. Problema assurdo per il naturalismo di scuola. Quando si sente come natura un sistema di condizioni sociali, non rimane all’artista che l’armonia imitativa; continuare è negare quel sistema. Si sa che alcuni narratori naturalisti finirono col negarlo spontaneamente, felicemente, attraverso le ragioni dell’arte; ristabilirono così degli orizzonti che non aveva mai perduto il realismo di Balzac.

  La ricchezza narrativa e poetica della Comédie Humaine, i suoi contrasti vigorosissimi al tema o nel tema dominante, tutto ciò appartiene al Balzac interprete delle anime e visionnaire meraviglioso e critico della vita oltre qualunque fisiologia, ideologia, e notoriamente sovrasta al naturalismo. Lettori fra i più sensibili risolsero in poesia anche il movimento e le strutture di quell’impresa enorme; o ne scelsero per sé qualche parte, qualche capolavoro concluso, limitando il resto a uno sfondo. Sono più interessanti ora per noi coloro che in prima congiuntura naturalistica, le opposero i contenuti del realismo balzacchiano vedendovi forze ignorate o tradite dai nuovi romanzieri, pur nel senso del «reale». Engels, ci riguarda più di ogni altro per gli attuali sviluppi della polemica realistica.

  «Io considero Balzac — egli scriveva nell’88 a Margaret Harkness — un maestro del realismo, che supera di gran lunga tutti gli Zola del passato, del presente e del futuro ...». Dichiara d’aver imparato dalla sua «storia della società francese, persino sotto qualche aspetto economico», di più che da «tutti insieme gli specialisti contemporanei di storia, d’economia e dì statistica». E vi ribadiva l’opinione che gli errori ideologici di uno scrittore possono perfettamente concedere un realismo più sano, più concreto (nella misura precisa di un Engels e di un Marx) che nei meglio intenzionati.

  «Balzac, in politica, era un legittimista; nella sua grande opera risuonano sempre i lamenti sulla caduta inevitabile della buona società; le sue simpatie vanno intieramente alla classe che è condannata al tramonto, Nonostante tutto questo la sua satira mai è più acuta, la sua ironia mai è più amara, di quando egli pone in movimento gli uomini e le donne con i quali più profondamente simpatizza, — gli aristocratici. E i soli uomini di cui parla sempre con piena ammirazione, sono i più spinti suoi avversari politici, gli eroi repubblicani del Cloître Saint Méry che allora (1830-1836) rappresentavano precisamente le masse popolari. Che Balzac fosse, dunque costretto a prendere una posizione avversa ai propri sentimenti di classe e pregiudizi politici ... vedendo gli effettivi uomini politici dell’avvenire là dove, in quel tempo, esclusivamente era possibile trovarli, — io lo considero uno fra i maggiori trionfi del realismo e fra i più grandiosi lineamenti del vecchio Balzac». Affermazione che raggiunge gli altri aspetti storici, economici, ecc., della Comédie Humaine; Engels ammirava come il prevalere della Francia borghese sulla Francia aristocratica avesse trovato in quel «legittimista» il più acuto testimone, capace di determinare in modo indimenticabile alcuni elementi di fondo. Zola è invece per lui l’esempio di una mescolanza fra ideali prammatici e superficialità fotografiche, — si dibatte fra i simboli e i repertori descrittivi.

  La tesi di Engels è classica per il «realismo socialista», non soltanto fino a ieri, e Lukacs l’ha ripresa nei suoi studi su Balzac. Ha ripreso anche la formula generale della narrativa realistica secondo Engels: «caratteri tipici in tipiche circostanze», insistendo sulla necessaria autenticità dell’ispirazione e del prodotto. Chiedere all’arte di testimoniare da se stessa, spontaneamente, organicamente, sugli sviluppi «obiettivi» di una data realtà storica, rimane il metodo favorito d’ogni realismo socialista nei confronti della letteratura non-socialista, e in parte anche degli scrittori «progressivi» ma condizionati da un ambiente «arretrato». Ci si può domandare a questo punto: c’è almeno un contatto reale fra la tesi Engels-Marx e il «realismo di Balzac»? Non assistiamo a una scelta arbitraria già verso i contenuti storici, critici e morali della Comédie Humaine? Domande portate certamente a svolgersi in varie direzioni; ma bastano in sé a una questione radicale.

  È difficile credere che uno scrittore come Balzac, vivissimo nel riferire le idealità agli uomini quali sono e diventano, coltivasse un «legittimismo» nettamente contraddittorio coi caratteri dei suoi eroi, con gli avvenimenti dei suoi romanzi, con la sua visione storica della società. E infatti basta ricordare a larghi intervalli l’insieme della sua opera, per escludere l’interpretazione Engels-Lukacs nei termini che offre. I repubblicani di Saint-Méry sarebbero i soli suoi personaggi che egli «ammiri con fermezza», i Giusti e i Santi esclusivi della Commedia Umana? In verità essa trabocca anche di giusti e di santi, per elezione e per ingenua natura, donne, uomini, ragazze, vegliardi, nelle più diverse condizioni sociali, di nascita, d’attività, di costume; e Ursule Mironet (sic) è pur un’anima pia, il Curé de Village un sacerdote, il marchese d’Espard nell’Interdiction un aristocratico; e Le lys dans la vallée ha per dimora del giglio un castello. Mai l’ironia di Balzac sarebbe più amara che verso i favoriti del suo sogno politico? Ma i Paysans, in quel romanzo precisamente che interessò all’estremo le ideologie di Engels e Lukacs, mostrano vizi altrettanto ampi e feroci; i borghesi ne dànno un interminabile campionario, gli artigiani e gli operai vi aggiungono quanto possono. Il «bene», il «male», in Balzac, si distribuiscono dappertutto, e volentieri tendono alleccessivo. Ne ha scritto Baudelaire: «Depuis le sommet de l’aristocratie jusqu’aux bas-fonds de la plèbe, tous les acteurs de la Comédie sont plus âpres à la vie, plus actifs et rusés dans la lutte, plus patients dans la malheur, plus goulus dans la jouissance, plus angéliques dans le dévouement, que la comédie du vrai monde ne nous les offre ... C’est bien Balzac lui-même. Et comme tous les êtres du monde extérieur s’offraient à l’oeil de son esprit avec un relief puissant et une grimace saisissante, il a fait se convulser ses figures; il a noirci leurs ombres et illuminé leurs lumières». Il legittimismo di Balzac è in armonia con questo senso drammatico della natura umana, della realtà, del secolo in cui egli viveva; popolano nel carattere, superborghese nel considerare il danaro e tutt’altro che ostile agli impasti e alle dissonanze dellepoca, laristocrazia manteneva in lui un potere assai demònico, fedele al genio delle forze estreme. Si rammenti lamore per Napoleone. Il culto quasi stendhaliano per l’énergie; e intanto, la straordinaria sensibilità per le passioni lente, delicate, tenaci, per le manie sottili, le raffinatezze di gusto o di cuore, — e i grandi sogni, e le astrazioni perfette; così per gli edifici possenti, che durano. La «classe aristocratica» lo attirava da tutti questi lati come presenza o richiamo di un mondo esercitato alle differenze, e ai sentimenti di qualità, mondo ancora in grado di scatenare i più intensi contrasti e di trovare nelle sfumature un’animazione infinita; Per il dialettico Balzac ne apparivano poi grazie maggiori. Affermò mille volte i diritti del privilegio, nel senso, a parer suo, più realistico. Non aveva la minima fiducia sulla possibilità di far vivere le nazioni o l’Europa o il mondo con i principi democratici; giudicava; l’uguaglianza sociale un assurdo, costretta a generare il regno del terrore, e vedeva nel liberalismo il piano inclinato dove si scivola necessariamente a quell’assurdo; ritrovava con la ragione, nei giudizi storici, la tendenza istintiva a costruire l’equilibrio attraverso gli estremi, e più scopriva nel secolo la fisionomia della massa più rivendicava un valore costante nella nobiltà. Non celebrò forse in modo analogo, sempre, la religione? Col sentimento l’amava; ateo, l’amava per tutte le forze spirituali o spiritualistiche che parlano nella fantasia, nella pietà, nelle aspirazioni metafìsiche (è noto che Balzac non si staccò mai dall’occultismo), l’amava anche nella robustezza dei suoi istituti. Con l’intelletto, le attribuiva un perpetuo diritto storico. «La nature a basé la vie humaine sur le sentiment; de la conservation individuelle, la vie sociale s’est fondée sur l’intérêt personel. Tels sont pour moi les vrais principes politiques. En écrasant ces deux sentiments égoïstes sous la pensée d’une vie future, la religion modifie la dureté des contacts sociaux. Ainsi Dieu tempère ... Nous voyons depuis quelque temps trop d’hommes n’avoir que des idées ministérielles au lieu d’avoir des idées nationales, pour ne pas admirer le véritable homme d'Etat comme celui qui nous offre la plus immense poésie humaine ...». Così argomenta il dottor Benassis, nel Médecin de Campagne, esprimendo le idee instancabilmente sostenute e messe in prova da Balzac. Vi troviamo i termini decisivi per l’insieme del realismo balzacchiano, dal «contenuto» alla «forma» : natura, vita sociale, interesse, durezza dei contatti, necessità di una mediazione, poesia umana ... Giustificando o meno i propri singoli affetti, e gli esempi e le deduzioni, è certo che Balzac svolge con assoluta coerenza l’elemento sentimentale e quello razionale, è unico il filo di Arianna per il labirinto della Comédie Humaine; non resiste all’analisi dì Balzac di Engels e di Lukacs, — colui che suo malgrado riconoscerebbe un’ineluttabile linea dì sviluppo storico eccetera. In verità lo scrittore osservava e interpretava un insieme dì condizioni, anche le più favorevoli a quella linea (per esempio la ripartizione del latifondo nelle piccole proprietà, con l’acuta intelligenza del «fatto obiettivo» che Engels ammirava nei Paysans), riferendole con straordinario impegno ad un quadro più vasto; riassumeva dati e prospettive, sentimenti e criteri nel movimento stesso della Comédie Humaine. Il «positivo» e il «poetico» vi si intrecciano tanto meglio quanto più formano un sistema reciproco. Tutta la storia riporta ai valori umani della poesia, per Balzac, e così la poesia di un romanziere può raggiungere propriamente la storia ...

  Realismo, un realismo dell’uomo vivo e senza limiti di realtà, amica o nemica; a parte i limiti che Balzac riveli nell’uno o nell’altro dei propri caratteri e giudizi e atteggiamenti, come prima accennavo. Aveva «torto» nel respingere il liberalismo, fra 1830 e 1850, o nel gradire le scienze occulte cent’anni dopo il dilagare dei Lumi? Ma importa che tutto questo in lui rispondeva a una natura di scrittore, dove la spietata volontà critica trovava accordo con grandi voci dall’alto e dal profondo. Senza questo incontro, a prezzo di molti scontri, niente Comédie Humaine. Probabilmente fu la misura vitale che si riflette anche negli «errori» e nei vizi dello scrittore, ad attirare verso di lui, non verso Zola od altri romanzieri naturalisti la ricca intelligenza di un Engels e di un Lukacs (oltre al genio di Marx, sensibilissimo a Balzac); ammirarono ad un tempo l’interprete dei fatti e il creatore dei personaggi, delle vicende, lungo la necessità artistica che illumina la Comédie ... avvertirono come la struttura sia immune dalla ruggine e dalle brecce che appaiono alla superficie, ma infine ne evitarono il significato. Avevano già il loro significato, da estendere a Balzac come al profeta involontario di una dialettica materialistica. Lo divisero in due parti: ispirazione soggettiva e ispirazione oggettiva, assolvendolo d’esser «reazionario» (ma anche, in sostanza, d’introdurre una o più esigenze spirituali nella sua propria dialettica della società) per il fatto che alcuni elementi staccati dal contesto rientrano nella dottrina marxista. Nulla di singolare nel comune uso polemico, se non offrisse la base per un’estetica! L’estetica del realismo oggi più eloquente, dove il passaggio dallarte «non socialista» allarte «socialista» si produce sempre con antinomie sempre corrispondenti a questa, del caso Balzac. Viene negato il naturalismo, negata l’arte programmatica, allegorica e descrittiva che può richiamarsi all’esempio di Zola; si cerca fra gli scrittori più autentici, perché aperti ad una visione completa delle proprie ragioni, il richiamo dalle problematicità del passato o del presente all’ipotesi di un’arte già condizionata dall’avvenire; ma si finisce precisamente col togliere a quegli scrittori la pienezza del rapporto con la realtà, — lo si riduce all’evocazione di alcuni documenti, superati o integrati nell’insieme dell’opera.

  Da questo punto si ripropone oggi, credo, l’argomento o problema del realismo. Perché non solo Engels e Lukacs e in genere i sostenitori di un’arte riferita metodologicamente a un’ideologia e ad una politica, intendono il «realismo» di qualche grande scrittore come introduzione a un’estetica del non estetico, valendosi dell’arte contro l’arte; altri, molti altri, ne fanno un vizio, E, intanto, sembra a molti che il solo modo per tener viva l’estetica o l’arte addirittura, sia di respingere il problema del realismo e difendere in assoluto il concetto di poesia. Ma qui, presentandosi un tema assai più ampio, servirà rimandare il seguito del discorso.



  Marise Ferro, Ho paura del suo disprezzo per tutte le donne, «Milano-sera. Quotidiano indipendente d’informazione», Milano, Anno VII, Num. 59, 12-13 marzo 1951, p. 3.

 

  Il giorno che Lucien de Rubempré, dopo avere fallito a Parigi, l’amore, la ricchezza, la gloria letteraria e dopo avere derubato la virtuosa sorella, decise di suicidarsi, incontrò sulle rive della Charente, dove voleva annegare i suoi disperati ventitré anni, un alto prelato spagnolo il quale ne capì i tenebrosi intenti e lo salvò. Lo salvò chiedendogli, attraverso speciose sofisticherie, addirittura l’anima poiché l’alto prelato altri non era che Vautrin, il personaggio più malvagio di Balzac. Ebbene, proprio sulle rive della Charente, in quel paesaggio conosciuto soltanto dalla memoria, anch’io vorrei incontrare Vautrin. Scelgo la stagione: il novembre inoltrato, quando nell’aria tutti i colori dell’autunno, temperati dalla dolcezza, mettono una luce bionda che sembra venire da altri mondi, la nebbia ancora bianca e lustra come il fiore del cardo si alza dai prati simile a un vapore da altri mondi, il cielo pervaso da un sole colore del ciclamino e fragile come la corolla della eglantina è basso sulla terra come un presentimento d’altri mondi. Vautrin, con la sua forte statura, le sue grandi spalle, le sue grandi mani, il suo pelo rosso, la guancia segnata dal vaiolo e l’occhio. L’occhio splendente di tigre, non avrebbe nessun aiuto da quel paesaggio misericordioso, ma se ne infischierebbe, egli è abituato a ridere di Dio. Sarebbe, bene inteso, come per l’incontro con Lucien de Rubempré, vestito in modo da non spaventarmi; la parrucca di capelli lunghi e incipriati simile a quella del principe de Talleyrand, la redingote nera elegantissima col nastro azzurro e bianco della croce d’oro sul petto, le lunghe calze di seta nera e le scarpe a fibbia d’argento; un uomo dall’aspetto signorile e rassicurante, dalle maniere perfette.

  Come riconoscere sotto quell’abito da alto dignitario della chiesa spagnola, l’ex forzato Trompe-la-Mort, il temuto e terribile Jacques Collin? Come riconoscere il Vautrin di trentacinque anni della pensione Vauquer, il beffardo pensionante che tentò Eugène De Rastignac? colui che senza giri di parole, ridendo aperto, disse all’ambizioso aristocratico che voleva conquistare Parigi: «Vi sfido a fare quattro passi i questa città senza cadere in intrighi infernali. Scommetto la mia testa contro questo cespo di insalata (parlava in un orto) che cadrete in un vespaio in casa della prima donna che vi piacerà, anche se sarà ricca, bella e giovane... a Parigi l’uomo onesto è il nemico comune. Che cosa credete che sia l’uomo onesto? A Parigi è colui che tace e non partecipa. Non vi parlo di quei poveri idioti che fanno sempre il loro dovere senza mai essere ricompensati e che io chiamo la confraternita delle ciabatte di Dio. Certo in essi vi è la virtù in tutto il fiore della sua ingenuità, ma anche la miseria. E mi pare già di vedere la smorfia di quei poveretti se Dio ci tacesse lo scherzo di non essere presente il giorno del giudizio universale! Se dunque volete fare fortuna presto, dovete essere ricco o parerlo. Per arricchire dovete azzardare grossi colpi; ma se nelle cento professioni che avete la possibilità di abbracciare vi sono dieci uomini che riescono subito, sono giudicati da tutti dei ladroni. Tirate le vostre conclusioni, la vita è proprio così. Non è migliore che fare cucina, puzza alla stessa maniera e sporca le mani; imparate soltanto a svegliarvi con astuzia, questa è tutta la morale della nostra epoca. Se vi parlo in questo modo della vita è perché ne ho il diritto, la conosco. Credete che io me la prenda con la società? Per nulla. È sempre stara come oggi, i moralisti non la cambieranno mai. L’uomo è imperfetto. E badate che non accuso i ricchi né difendo i poveri: l’uomo è uguale in alto e in basso. A volte si trovano su un milione di uomini bestie, dieci uomini in gamba che riescono a mettersi al di sopra di tutto, anche delle leggi: io sono uno di quei dieci ...».

  Parole bene esplicite, che suonano di pessimo gusto all’orecchio di chi ama lo sfumato, parole ciniche, certo, ma Vautrin, ch’era il male personificato, non poteva avere illusioni, né vedere, se cresce, il fiorellino azzurro dei bei sentimenti umani. Del resto Rastignac, che era un ambizioso più abile di lui, vestito di belle maniere e senza violenza, non credette alle parole del lusingatore, e bene gliene incolse perché fece carriera, mentre Vautrin pagò di persona, andò in prigione per la terza volta, ne fuggì ancora e, commettendo un orribile delitto, si nascose sotto le vesti dell’alto prelato spagnolo don Carlos Herrera.

  È dunque in veste di prelato che io incontro Vautrin. Ma come mi è conosciuto. Lo straordinario di questi incontri della memoria, i più profondi, è che nulla della persona che incontriamo c’è ignoto: il suo passato, il suo presente, il suo avvenire sono vivi davanti a noi. Io sulle rive della Charente, nella mite giornata d’autunno, sotto il sole fragile come la eglantina, vedo uno degli uomini più forti e malvagi della terra e lo conosco intero!

  Conosco il marchio di forzato che ha sulla spalla sinistra; conosco il leggero difetto del suo passo che ha trascinato al penitenziario la catena. Conosco i suoi parenti, i suoi complici, i suoi amici, i suoi nemici. Conosco anche il modello della sua ultima incarnazione, Vidocq. L’avventuriero che ebbe vita reale e che il Larousse definisce così: «Vidocq, avventuriero francese nato ad Arras (1775-1838). Fu capo della Pubblica Sicurezza dopo essere stato malfattore». Conosco il segreto più riposto della sua natura, quel fuoco oscuro che gli bruciava fantasia e cuore davanti a un bel viso d’uomo; conosco il suo grido d’amore, sterile grido, lasciatosi sfuggire soltanto come sfida davanti a Esther Gobseck, la cortigiana che non era riuscita nonostante la sua abnegazione a salvar Lucien de Rubempré; conosco le sue lacrime sul cadavere di Lucien impiccatosi in prigione dopo averlo venduto ai giudici; conosco tutte le sue scelleratezze. ma anche le sue nobiltà, le sue generosità, le sue eleganze morali.

  Poiché Vautrin, eroe romantico, ribelle romantico, fuorilegge romantico, era il malvagio cosciente della propria forza e degli scopi per i quali adoperava la sua forza. Conosceva la società e le sue leggi, la storia. la letteratura, la filosofia, le religioni, il costume, e quindi i veri motivi che lo avevano portato a combattere quasi tutte queste forme della vita e del pensiero. Non cedeva a nessuna retorica, sapeva di essere dannato, accettava di esserlo. Non aveva paura né di Dio, né degli uomini, né della morte. Era il male in tutta la sua potenza, senza redenzione. Balzac, che pure si professava cattolico, non credeva alla purificazione del vero malvagio: «On ne peut devenir ici-bas que ce qu’on est», scrisse.

  Sapendo chi era Vautrin mi devo pure chiedere che cosa potrebbe dirmi che io già non sappia di questo personaggio completamente espresso. In esso Balzac non ha lasciato nulla di misterioso, non è come un altro malvagio, lo Stavroguine, di Dostoevskij, pieno di ombre, di pause, di grandi trasalimenti. Se Vautrin è il male, lo è, come tutti gli assoluti, in modo un tantino elementare. Io di fronte a lui potrei soltanto tremare di paura. Non avrei certo paura della sua crudeltà, del suo cinismo, del resto sempre giustificati, e so benissimo che, parte anticonformista di una società, che non amo, potrei intendermi, da certi lati, con Vautrin; avrei paura del suo disprezzo. Vautrin disprezzava le donne in maniera totale. Che cosa potrei dire al terribile in riva alla Charente? Forse qualche piccola cosa, che gli farebbe piacere anche se banale:

  Lasci, caro Vautrin, che io contempli in lei il male nella sua corposità, il male con tutto il suo peso, la sua responsabilità, la sua dannazione e la sua coscienza. Sono abituata, ahimé, a una letteratura e, peggio, a una cinematografia di mediocrissimi malvagi, o gangsters o speculatori o seviziatori o dittatori; malvagi a una sola dimensione, ignoranti, di sangue grosso e di cervello più grosso ancora. Lei, almeno. facendo il male, diceva l’origine, anche la storia, del suo movente; e insegnava che vi è oltre il male radicato nel cuore degli uomini un male peggiore che investe la radice della vita stessa, e che possiamo riconoscere nella natura. Insegnava, insomma, che così come erano fatte, così come sono tutt’ora, la vita e la società non sono accettabili. Senza volerlo, mio caro Vautrin, lei aveva in se stesso la stoffa di un riformatore.

 

 

  Marise Ferro, Latouche, l’ombroso inventore di Fragoletta, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno V, Num. 89, 14-15 Aprile 1951, p. 3.

 

  Latouche dopo un viaggio di tre anni in Italia tornò a Parigi e fondò il giornale Le Figaro, divenne l’amico e il consigliere di tutti gli scrittori dell'epoca. Esercitò una grande influenza su Balzac il quale negli anni 1825, 1826, era disperato per la sua fallita impresa editoriale, carico di debiti, incerto di se stesso, ancora alle prese con gli anonimi romanzi imitati da Walter Scott e da Anne Radcliffe. Latouche che non era buon amante ma impareggiabile amico, lo soccorse con denaro e consigli, gli disse: Riferisciti alla realtà, non scrivere più storie melodrammatiche; e Balzac accettato-il consiglio andò a Fougères per documentarsi, sulla storia e i fatti della sciuaneria negli ultimi anni del secolo precedente. Scrisse Les Chouans, il primo libro che firmò col suo nome e dal quale incominciò la sua fama, il suo successo; da cui incomincio, si può dire, la Comédie Humaine.

 

 

  Marise Ferro, Balzac guardato con occhio maligno, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno V, Num. 257, 30 Ottobre 1951, p. 3.

 

  Pettegolezzi di un contemporaneo sulla vita intima del romanziere.

 

  Si può, con dei pettegolezzi, fare un libro? Pare di sì perché ho finito di leggere «Balzac mis à nu», ricordi sul grande romanziere francese di un suo contemporaneo, il quale, suprema viltà, si era mantenuto anonimo. Oggi, dopo gli studi appassionati sull’opera e sulla vita di Balzac, si sa che l’anonimo era un certo Lambinet, e ciò ch’egli ha scritto sul romanziere e sulla società del suo tempo risulta un ammasso volgare, male scritto e melenso di ciarle degne d’una portineria. Pure Charles Léger nel 1928, all’uscita del libro «Balzac mis à nu» vi aveva scritto una prefazione che dava credito alle invenzioni e malignità del signor Lambinet.

  Messere Lambinet, dunque, con l’occhio cieco del contemporaneo cattivo, ammette, sì, che Balzac ha un certo ingegno, ma lo descrive fisicamente come un uomo brutto, sporco, che puzzava, che sputacchiava parlando e moralmente come un uomo vanitoso, millantatore, cafone, indiscreto, maleducato, senza scrupoli, bugiardo, cacciatore di dote, donnaiolo ecc. Ecco il ritratto che ne fa: «... era un uomo giovane, d’aspetto ambiguo, piccolo, grasso, la testa incassata nelle spalle, le spalle rotonde e curve, le braccia ridicolmente corte finite da mani grosse, con le dita a salsiccia, le unghie listate di nero ... Il viso non riscattava le imperfezioni del corpo: la fronte vasta, tormentata, era coronata da capelli neri e abbondanti ma spettinati e bisunti; gli occhi larghi, risplendenti. come diamanti, sarebbero stati magnifici se non avessero avuto un’espressione sfacciata, inquisitrice, cinica; il naso grosso e quadrato era macchiato di punti neri e sempre sudato in tutte le stagioni; la bocca dalle labbra spesse e da satiro lasciava scorgere denti disordinati, cariati, verdastri e sfuggire getti di saliva ... A compimento di tutto questo, il suo corpo esalava un odore di sudore acido e infantile ...».

 

Fisico e morale.

 

  La malignità, senza calcolare il cattivo stile, della descrizione è manifesta. Sappiamo oramai com’era Balzac, fisicamente: Lamartine, Gautier, De Vigny, Gozlan e pittori come David d’Angers, come Boulanger, senza contare le numerose ammiratrici contemporanee, ce ne hanno lasciato descrizioni dal vero. Non era bello, certo, e nel primo periodo della sua vita quando ancora scriveva con vari pseudonimi, era stato trasandato, sporco, ma anche allora il genio brillava sul suo viso, e la generosità, e la bontà.

  La baronessa di Pommereul che lo ebbe ospite a Fougères nel 1828, quando egli si documentava per scrivere il primo libro che avrebbe firmato, Les Chouans, lo descrive così: «Piccolo, grasso, con mani magnifiche. Non guardavo che la sua testa e non si può capire ciò che sono la sua fronte e i suoi occhi se non si sono visti: una fronte grande e illuminata, degli occhi pieni d’oro che esprimono tutto con la chiarezza della parola ... E vi è soprattutto nella sua persona, nei suoi gesti, nella sua maniera di parlare, tanta fiducia, tanta bontà, tanta ingenuità, tanta franchezza, che è impossibile non amarlo ...».

  La baronessa era una vecchia dama, non era certo accecata dall’amore descrivendo Balzac, possiamo quindi crederla. E sugli occhi del grande romanziere, occhi magnetici, che Gautier definì molto bene «occhi pieni di riflessi d’oro, occhi di sovrano, di veggente, di dominatore» si sono scritte tante parole che è inutile aggiungerne, altre.

  Il signor Lambinet, quindi, era maligno anche nel giudicare l’uomo fisico.

  Per l’uomo morale non ha una briciola di considerazione. Non contento di trovare in Balzac mille difetti, ne rivela la vita intima, quella vita che gli studiosi e i biografi seri hanno cercato di rivelare e intuire e di fronte ai misteri della quale sono stati reticenti, dubbiosi.

  Ancora oggi non si conosce bene la vita di Balzac (come non si conosce nè si conoscerà mai la vita di tutti, del resto). George Sand, sua contemporanea e intelligente, scriveva nel 1853, due (sic) anni dopo la morte del romanziere: «La vita intima di Balzac è stata misteriosa ed è stata, inoltre, male interpretata e male giudicata da molti ...». Pure il signor Lambinet non esita a rivelarci con grandi particolari gli amori di Balzac, madame de Berny, la duchessa d’Abrantès, la marchesa di Castrie (sic), madame Hanska, la contessa Guidoboni-Visconti.

  Un’ampia corrispondenza permette oggi di stabilire i veri rapporti del romanziere con la contessa de Berny, la Dilecta, che lo amò appassionatamente per quindici anni, con la duchessa d'Abrantès per la quale egli ebbe un capriccio, per la marchesa di Castrie, che civettò con lui e lo rifiutò, con madame Hanska, che lo fece dannare diciassette anni e poi lo sposò morente, ma sulla sua relazione con la contessa Guidoboni Visconti si è ancora alle supposizioni. Si crede, sì, che ne sia stata l’amante; si dice, anche, che ne ebbe un figlio, ma non vi è nulla che lo provi.

  Messere Lambinet, basandosi sui pettegolezzi del giorno, ci racconta tutto come se fosse realtà sacrosanta. Sarah Lovell, diventata contessa Guidoboni Visconti, era nata nel 1804 a Eole Park, in Inghilterra. Era bionda, bellissima, di aspetto regale e di sangue caldo, tanto che si permetteva con estrema disinvoltura amori e capricci. Il marito, italiano e maniaco di musica e di farmacia, era «cocu» con molta signorilità. La bella Sarah, del resto, aveva stoffa per incantare un reggimento di uomini di tutte le nazionalità e di tutte le classi.

 

La benefattrice.

 

  Balzac la conobbe nel 1834, a una festa all’Ambasciata d’Austria e la sua bellezza lo colpì. Era, come Proust, un po’ snob, innamorato dei titoli e dell’aristocrazia, quella bella donna con quel grande nome lo solleticava. Osò farle la corte, nonostante fosse già da due anni in relazione con madame Hanska, confinata in Russia, alla quale scriveva lettere infuocate proclamandosi fedele, e Lambinet dice ch’ebbe successo. La contessa Guidoboni Visconti gli cedette, lo amò, gli fu devota, gli regalò un figlio, gli pagò i debiti, lo aiutò a sistemarsi nella casa delle Jardies dalla quale tenne lontano anche i creditori, gli fece fare due viaggi in Italia col pretesto di affari per il marito ...; insomma la contessa Guidoboni Visconti, donna dai diversi amori, capricciosa, scaltra e volontaria, si mise al servizio di Balzac, ne fu la benefattrice!

  Egli, per ringraziarla non trovò altro modo che prenderla come modello della sua eroina del Lys dans la vallée, cosa che fece grande scandalo in Francia e in Inghilterra. Ma, cosa inaudita, tanto quelli che si scandalizzarono quanto il Lambinet riconobbero la bella contessa Sarah in madame de Mortsauf, la purissima eroina del Lys dans la vallée, mentre è riconosciuto, oggi, che il modello di madame de Mortsauf fu l’angelica Contessa de Berny.

  Se il romanziere volle avere la contessa Guidoboni Visconti come modello di una sua eroina, se ne servì per creare lady Dudley, l’inglese civetta e «donna fatale» quasi alla maniera di oggi. Allo stesso modo gli sono servite George Sand per il personaggio di mademoiselle Des Touches, la contessa d’Agoult per Beatrice, la marchesa de Castrie per la duchessa di Langeais. Ma che favore egli ha reso a queste donne le quali, esclusa George Sand che aveva dell’ingegno, oggi sarebbero per noi polvere: egli le ha trasfigurate e sono diventate dei caratteri, delle donne più vere e vive che nella realtà, indimenticabili.

  Il signor Lambinet, contemporaneo di corta vista e certamente invidioso, non aveva capito che Balzac era uno scrittore di genio e che non era certo valido il suo metro per misurarlo.

 

 

  Adolfo Franci, I cento giorni di Balzac, «La Nuova Stampa», Torino, Anno VII, Num. 159, 7 Luglio1951, p. 3.

 

  Balzac, il «Napoleone delle lettere» come lo chiamò Bourget, ebbe anche lui la sua «campagna di Russia», ma vittoriosa: il matrimonio così lungamente e pateticamente perseguito con Madame Hanska, nata contessa Eveline Rzewuska (marzo 1850). Si erano incontrati diciassette anni prima a Neuchâtel, dove era stata lei a chiamarlo, dopo diciotto mesi di fitta corrispondenza, incominciata con una lettera firmata l’«Etrangère» proveniente da Odessa e diretta a Balzac presso il libraio Gosselin di Parigi. Di codesto incontro esistono parecchie versioni, alcune addirittura romanzesche, altre più o meno verosimili. Sembra comunque che la «Straniera» provasse una grossa delusione quando Balzac le apparve davanti. Quanto a lui fu subito entusiasta. E scrisse alla sorella, Madame Surville: «Un capolavoro di bellezza, paragonabile soltanto alla principessa Bellejoyeuse (la Belgioiosa) ma infinitamente meglio». Forse esagerava. Che la Hanska fosse una donna piacente è fuor di dubbio: occhi stupendi, capelli corvini, rosa la bocca e fresca come quella di una bambina, ben tornite le spalle e splendida la carnagione. Ma un po’ bassa e rotonda, tendente alla pinguedine. Questa tendenza è avvertibile anche nella miniatura che le fece a Vienna, nel 1834, il pittore Dattinger, scrupolosamente descritta dal Visconte de Lovenjoul (fanatico balzacchiano e simpatico matto, raccoglitore instancabile di autografi, manoscritti, libri e documenti dell’epoca romantica) nel suo Un roman d’amour dove, fra l’altro, la dama viene incolpata di aver rimaneggiato alcune delle «Lettres à l’Etrangère». Con gli anni, ingrassando, diventò quasi tozza. Chamfleury (sic), il nasuto amico di Baudelaire e di Sainte-Beuve, che la conobbe subito dopo la morte di Balzac e ne divenne l’amante in un batter d’occhio (visto e preso) l’assomiglia a Balzac trasformato in donna. Della descrizione di d’Aurevilly, riportata dal Mirbeau, c’è poco da fidarsi. Il normanno davanti alle donne travedeva. Nel suo ritratto va, se mai, sottolineato un particolare: «Des allures sensuelles fort impressionantes (sic)», perché ci aiuta a capir molte cose. Madame Hanska era una «gaillarde». In questo sembrano quasi tutti d’accordo, apologeti e detrattori. (In genere i balzacchiani poco l’amano. Ci fu chi la chiamò «Bovary nel paese dei cosacchi», facendo un torto, se è vero quanto si dice degli appetiti della russa, all’eroina di Flaubert). Balzac, quando si sposarono, era un uomo finito ed Eva Hanska lo sapeva. Una delle due o tre lettere di lei, scampate dalla distruzione, che si conservano a Versailles nella raccolta Lovenjoul, lo dice chiaramente. Perché dunque lo sposò, dopo aver tergiversato tanti anni? E’ una domanda che i balzacchiani si sono posta senza riuscir a darci una risposta convincente. Misteri insondabili dell'animo femminile.

  Sposati il 15 marzo, Eva e Balzac lasciarono la Russia il 25 aprile. Balzac era già malato gravemente. L’anno prima, un famoso medico ucraino, oltre la lesione al cuore, aveva trovato una congestione al polmone. A Kiev, con un inverno freddissimo, si ammalò d’occhi: non poteva più nè leggere nè scrivere. E le soffocazioni erano tali da provocare delle sincopi. Il viaggio di ritorno fu tremendo: tappe lunghe, difficili, faticose. Col gelo, i cavalli della «posta» non fanno un passo. Appena dighiaccia, le ruote della carrozza affondano nella poltiglia. Soltanto il 10 maggio arrivano a Dresda, di dove ripartono il 23. Gli ultimi di maggio sono, finalmente, a Parigi. Qui li attende un piccolo dramma domestico. La casa in rue Fortunée che Balzac, con grossi patemi finanziari, aveva riadattato per la sposa e riempito di mobili e quadri di stile ed epoche diverse («Le royaume de la Bricabraquerie» come la chiamò lui stesso) era stata lasciata in custodia a un domestico cui improvvisamente dette di volta il cervello. E il poveretto vi si era asserragliato, distruggendo tutto quanto gli veniva sottomano. Sfondata la porta, gli sposi trovarono l’appartamento semidistrutto. Cattivo presagio. Di lì, dalla sua camera azzurra (Eva dormiva nella camera rossa) Balzac non si mosse quasi più. Gli restavano da vivere appena tre mesi. Saranno i suoi «Cento giorni» dice Pierre Descaves, continuando il parallelo napoleonico («Les cent-jours de Mr. de Balzac», Calmann-Lévy, Parigi 1951).

  Descaves in questo suo libro si ingegna a risolvere, con esemplare obiettività, una questione la quale ancora assilla storici e biografi: che cosa avvenne dietro quella porta? Non è colpa sua se non ci riesce. Sulla morte di Balzac i documenti sono scarsi e poco attendibili. Forse, chi potesse frugare a fondo la raccolta Lovenjoul, troverebbe qualche lume. Ma la raccolta Lovenjoul, per volontà del donatore, è presso che inaccessibile. E gli aneddoti di Gautier e di Gozlan, le pagine addomesticate di Babou, i ricordi di Madame Surville, il racconto di Arsène Houssaye dell’ultimo colloquio fra Balzac e il suo medico Nacquart, sono da prendere con riserva, poiché si aggirano fra la favola e la leggenda. Resta la testimonianza di Victor Hugo in quell’eccezionale e allucinante «reportage» che si può leggere in «Choses vues». Saputo che Balzac stava morendo, Hugo corre subito a trovarlo. Gli apre una domestica, che fa lume con una candela. Un’altra donna si avvicina e, piangendo, gli dà notizie del morente. Saputo il suo nome, le due donne vanno ad annunciarlo a Madame de Surville che è ancora alzata, la quale lo accompagna in camera di Balzac. «Un letto in mezzo alla camera. Un letto di mogano con da capo e da piedi traversine e cinghie che sostengono un apparecchio di sospensione per muovere il malato. È in quel letto, Balzac, con la testa appoggiata su un mucchio di guanciali ai quali erano stati aggiunti cuscini di damasco rosso tolti da un canapè, lì accanto. Aveva la faccia violetta, quasi nera, china sulla destra, la barba non fatta, i capelli grigi e tagliati corti, l’occhio aperto e fisso. Lo vedevo di profilo. Così, assomigliava all’Imperatore. Una vecchia infermiera e un domestico erano in piedi ai due lati del letto. Una candela accesa su una tavola, dietro il capezzale, un’altra su un cassettone, vicino alla porta. Sul comodino da notte, un vaso d'argento. In silenzio, l’uomo e la donna ascoltavano, terrorizzati, il fortissimo rantolo del morente. Dal letto veniva un odore insopportabile Sollevai la coperta, presi la mano di Balzac. Era madida di sudore. La strinsi. A quella stretta, egli non rispose».

  Hugo vede, nota tutto con occhio implacabile, quasi col distacco di un cronista. Niente gli sfugge. Lo stupendo «reportage», pubblicato due anni dopo la sua morte, fu letto avidamente. L’autorità dell’uomo, l’esattezza dei particolari, fecero sì che nessuno osasse mettere in dubbio quella testimonianza. Ma con l’andar del tempo si cominciò a confutarla. Alcuni (Lovenjoul-Cabanès) sostennero che Hugo aveva scambiato la madre di Balzac per l’infermiera. Altri lo accusarono addirittura di aver voluto far credere a un’infedeltà della sposa davanti alla morte perché, curioso di conoscere la «Straniera», era rimasto deluso di non vederla! Scempiaggini. Sta il fatto che quelle pagine fecero una grande impressione: Balzac era morto quasi solo. (Come un cane, dirà più tardi Mirbeau). E pur ammettendo che Hugo si fosse sbagliato, scambiando la madre per l’infermiera. Madame Hanska dov’era durante l’agonia di Balzac? Dove fosse lo disse chiaro e tondo molti anni dopo (1907) Octave Mirbeau, in un capitolo della «628-E8» che venne tolto dalle successive edizioni, in seguito a una lettera di protesta della figlia di Eva Hanska. Riferiva, in quel capitolo, il Mirbeau, il racconto del pittore Gigoux, artista mediocre ma bell'uomo e gran conquistatore di donne, il quale confessò, sembra nello studio di Rodin con molti e minuti particolari che non possono essere tutti inventati, tanto sono atroci, di aver passato la notte in cui Balzac morì, nella camera accanto, fra le braccia di Madame Hanska. Che c’è di vero in codesto racconto, suffragato da un accenno assai preciso di Dumas padre nelle sue «Memorie»? E quanto di suo ci mise Mirbeau, scrittore senza scrupoli nella polemica e geniale creatore di mostri, ritoccandolo, indubbiamente, verso la perversità e il satanismo? I difensori di Eva Hanska, fra i quali trovasi il principe dei balzacchiani d’oggi, Marcel Bouteron, non credono una parola del racconto di Gigoux. V’è chi sospetta anzi che in uno dei suoi frequenti momenti di malumore («Il se lève triste et se couche furieux» scrisse Renard sul «Journal») Mirbeau se lo sia inventato di sana pianta. Pare quasi certo, infatti, che il pittore conobbe Madame Hanska soltanto due anni dopo la morte di Balzac. Quando Balzac morì, Gigoux era in intimi rapporti con una signora inglese, vicina del romanziere. E può darsi che essendo insieme a lei quella notte abbia sentito e visto ciò che accadeva nell’abitazione contigua, arguisce chi non vuol credere a un falso di Mirbeau. In questo caso, Gigoux, volontariamente o no, si sarebbe sbagliato di casa e di letto.

  Comunque sia e fin quando non si troveranno documenti inoppugnabili (se pure esistono) la storia vera di quel matrimonio, dei rapporti fra i due coniugi nei tre mesi che vissero insieme e della morte di Balzac, resterà coperta da un fitto velo. Chi vuol saperne qualcosa di più legga, oltre al vivace libretto del Descaves che riassume molto bene tatti e testi, «Les derniers logis de Balzac» del Jarry, «Ève de Balzac» del Léger, «Apologie pour Madame Hanska» e «La véritable image de Madame Hanska» di Marcel Bouteron.

  Il resto, ripeto, appartiene all'aneddoto, alla leggenda e alla favola.

 

 

  Panfilo Gentile, La corrispondenza di Maupassant, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno V, Num. 149, 25-26 Giugno1951, p. 3.

 

  Nelle lettere a Mendes, in mezzo a molte cose di nessun interesse, troviamo finalmente un giudizio su Balzac: «So che egli (Flaubert) lo giudica esattamente come lo giudico io, e che pur ammirando il suo incontestabile genio, lo considera non uno scrittore imperfetto, ma addirittura un non scrittore».

 

 

  Lorenzo Gigli, Giornate torinesi di Balzac, «Gazzetta di Reggio», Reggio Emilia, Anno II, N. 252, 3 Ottobre 1951, p. 3.

 

  Cfr. 1950.

 

 

  Igino Giordani, Conversioni in Francia. Da Lacordaire a Balzac, in I grandi convertiti. 2° Edizione riveduta e accresciuta, Roma, Figlie della Chiesa, 1951, pp. 248-258.

 

  pp. 255-258. Tra i convertiti possiamo annoverare anche l’insuperato romanziere della Comédie humaine, Honoré de Balzac (1799-1850), per il suo tendere a zig-zag, tra assidue oscillazioni sentimentali, verso la verità religiosa, in cui la sua vita alla fine posò, per rinascere in Dio.

  Era nato dentro la rivoluzione giacobina, da un padre ateo e volterriano, che aspettava il benessere sociale dal progresso delle scienze e dalla scomparsa dei preti, e da una madre mondana, che si divertiva ed esigeva dai giovani che si divertissero. Non è sicuro neppure che Honoré fosse battezzato.

  Messo nel collegio Vendôme, vi contrasse un «appetito della natura divina», come raccontò nel romanzo autobiografico Louis Lambert, e fece la prima comunione, nella quale peraltro la sua fede si espresse sotto la forma sentimentale caratteristica del suo spirito e anche della sua epoca scossa dalla religiosità alla Chateaubriand.

  Giovane, divenne preda del razionalismo di Cousin, e, cominciando a scrivere, aderì alle correnti anticristiane e materialistiche in voga, associandosi alla critica irridente delle verità religiose e dei canoni morali: divenne così sboccatamente anticlericale.

  Anticlericale, razionalista, materialista, ma nulla affatto convinto; chè nel suo spirito lottavano, e per un pezzo lottarono, una tendenza di scetticismo corrosivo e negatore e una di desiderio delle verità oggettive e sopra tutto della pace in un Dio d’amore. E le sue opere portano largamente i segni — quasi le ferite — di quella tenzone interna, in cui lo spirito oscilla tra il pirronismo e il cattolicesimo, mentre si volge verso tutte le prospettive e le evasioni: per esempio, verso il magnetismo e l’occultismo, surrogati che illudono, ma non nutrono neppure la fame di Balzac.

  E’ del 1824 un trattato, incompiuto, su La Prière; ma una più decisa, se pur lenta evoluzione verso la fede si determina, sopra tutto tra il 1829 e il 1836. Di quel tempo si propone di far rendere giustizia «alla più bella società mai istituita», e cioè alla Compagnia di Gesù, di cui scrive una Histoire impartiale des Jésuites, ma poi non rifugge dallo usare il vocabolo di «gesuita» nel senso dispregiativo messo in voga dai dioscuri dell’anticlericalismo dottrinale, Quinet e Michelet.

  Nel 1830 scoppia la rivoluzione di luglio, che rovescia la croce di Notre Dame e porta al trono un re volterriano con un governo anticlericale. «Voi espellete Dio, — scrisse allora Balzac, — voi consacrate l’insensibilità del popolo: ne verrà uno spaventevole materialismo nelle leggi».

  Le sue meditazioni, e sopra tutto il suo sentimento, lo portarono alla ricerca sempre più pressante d’un primo Principio, e scrisse: «Il movimento impresso ai mondi non basta dunque a provare Dio, senza andare a gittarsi nelle assurdità generate dal nostro orgoglio?».

  E talora si sorprendeva a pregare, intanto che la vita e la storia della Chiesa, coi suoi istituti e le sue leggi, gli si configuravano con maggiore precisione e attrazione; sì che lo scrittore che aveva iniziato la carriera con attacchi al celibato, prese ad esaltare il sacerdozio, il monachesimo, la verginità, la liturgia, la castità coniugale, la carità, pur senza liberarsi del tutto da ombre grevi d’un soggettivismo dovuto all’infrenata mobilità della fantasia di romanziere e al modo stesso della ricerca, fatta senza un indirizzo determinato e guide sicure.

  Nel 1850 si sposò, cattolicamente, in Polonia, con una signora di fede cattolica; e (dopo quaranta anni) ricevette ancora Cristo eucaristico. Morì, pochi mesi dopo, a Parigi, vittima dell’eccessivo lavoro. L’arcivescovo, Mons. Sibour, gl’inviò, sul letto di morte, la benedizione; e il vulcanico scrittore si spense coi sentimenti della pietà cattolica, assistito dal parroco di Saint-Philippe-du-Roule, sua parrocchia.

 

 

  Gianni Granzotto, Molti non sanno come si cammina, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno V, Num. 44, 21-22 Febbraio 1951, p. 3.

 

  Balzac, nel 1833, aveva di poco passati i trent’anni ed era ai suoi primi passi trionfali nella società parigina. Tutto ciò che era eleganza, lusso, piacere, le doti del buon gusto e le qualità del garbo, della raffinatezza costituivano per lui un terreno di esplorazione appassionante. Scrisse a quella epoca, otre alla Théorie de la Démarche, un Trattato della vita elegante, uno Studio dei costumi attraverso l’uso del guanto, una Nuova teoria del pranzo, una Guida della toilette, e persino una Fisiologia del sigaro. Ci sarebbe da costruire, con queste appendici fatte di rapide notazioni prese sul vivo, tutto un repertorio dell’uomo di gusto. La Théorie de la Démarche, che studia la disciplina dei gesti così come gli altri trattatelli studiano quella del vestire o del comportarsi in società, potrebbe benissimo inaugurare la serie a guisa di introduzione.

 

L’incedere.

 

  Démarche è un termine difficilmente traducibile in italiano. Significa andatura, portamento, modo di camminare e di muoversi; è l’incedere di una persona, con quel tanto che questo verbo indica di dignità e di impegno nell’azione del camminare. Balzac partiva dal concetto che la dignità, in ogni cosa, è sempre in ragione inversa dell’utilità. L’atto del camminare è il più comune e il più semplice tra i moti dell’uomo. Ma poiché in noi tutto è omogeneo, tutto corrisponde ad una causa interna, il nostro incedere diventa altrettanto eloquente della nostra fisionomia. E proprio in quel che c’è di superfluo, dal punto di vista dell’utilità meccanica del moto, nel camminare, con un certo portamento piuttosto che in modo sciatto o disordinato, sta la dignità che si attribuisce a questa o quella andatura dell’uomo.

  Messosi di fronte al problema, Balzac volle scoprire quali leggi regolavano le differenti impressioni che noi riceviamo vedendo come cammina la gente. Trovare in che cosa peccano le andature che giudichiamo difettose; di quali elementi si compongono quelle che ci sembrano belle e solenni; cercare se gli antichi camminano meglio degli altri; se l’ambiente, il clima, i costumi hanno influenza nelle varietà del portamento; ecc.

  Una bella mattina se ne andò a passeggiare sui boulevards, e in un punto dove gli sembrava che l’osservazione fosse più comoda e proficua prese posto in una di quelle sedie di ferro che oggi ancora si affittano sui Campi Elisi e alle Tuileries, e che allora erano disseminate lungo tutti i viali ombrosi del passeggio parigino. E là, tranquillamente installato, si mise «a studiare l’andatura di tutti i cittadini che per loro disgrazia passarono davanti a me durante il giorno».

  Il primo fu un grosso signore, dall’aspetto di persona agiata, simile a un tamburo panciuto che comminasse poggiato sulle due bacchette a forma di x. Riconduceva penosamente le sue gambe magre e piccole, sotto il peso del ventre, l’una dopo l’altra; ma a stento, con un movimento strisciante e malazzato, «come un morente che resiste alla morte e si lascia trascinare di forza sull’orlo della fossa». Dice Balzac di questo sue primo soggetto: «non aveva più il senso della locomozione, non sapeva più come si cammina».

  Il secondo fu un uomo con le mani incrociate dietro il dorso, le spalle rientranti, le scapole ravvicinate. Sembrava una pernice allo spiedo. Invece di camminare con i piedi, camminava con il collo.

  La terza fu una giovane damigella, seguita da un lacchè. Saltava suoi (sic) suoi passi come una gallina cui avessero tagliato le ali, e che cercasse tuttavia di volare. Il principio del suo movimento sembrava situato al punto di caduta dei lombi. Era una ragazza di ottima famiglia, non vi poteva esser dubbio: ma con quel suo incedere sgraziato e goffo appariva — scrive Balzac — «innocentemente indecente».

  Venne poi un giovanotto che pareva fatto di due compartimenti distinti. Non arrischiava la gamba sinistra, e tutto ciò che ne dipendeva, se non dopo aver cessato il movimento della destra: «apparteneva al genere dei binarii». Seguì un diplomatico allampanato. Camminava tutto d’un pezzo, mosso da una sola e unica spinta che portava avanti, rigidamente, il corpo intero dalla testa ai piedi.

  Qui Balzac comincia a tracciare, sulla scorta degli esempi che gli son passati sotto gli occhi, le regole della sua teoria. Il movimento umano si decompone in tempi ben distinti: non bisogna nè confonderli, nè associarli. Tutto il segreto delle belle andature — dice la prima massima di questo studio — è nella decomposizione del movimento nelle sue giuste parti.

  E ancora: il movimento lento è essenzialmente maestoso. Un uomo che cammina svelto dice già la metà del suo segreto. Chi cammina lentamente lo serba, e non vi è maestà senza un fondo di mistero. L’economia dei movimenti è un mezzo sicuro per rendere l’incedere, pieno di nobiltà. Balzac cita con dispregio, dalla sua sedia sotto gli alberi del boulevards (sic), l’uomo indaffarato che si infila velocemente attraverso i ranghi della gente a passeggio, «filando come l'anguilla nello stagno».

 

«I galeotti».

 

  La compostezza nel movimento ha la medesima importanza della semplicità nell’eleganza del vestire. «Nulla è più ridicolo — continua Balzac — dei grandi gesti, delle voci alte e flautate, delle reverenze precipitose. La mobilità esteriore non si addice a nessuno. Solo le madri possono sopportare l'agitazione dei loro figli». Ogni movimento sconnesso, ogni sbalzo, ogni variazione di ritmo nel procedere tradisce un vizio, o una educazione cattiva. Così di coloro che avanzano a forza di braccia, ed hanno le mani al vento come remi con cui si aiutino per navigare. Balzac li chiama «i galeotti della démarche». Così quelli che camminano a gambe divaricate, buttando un piede di qua e uno di là. O quelli che fanno rotare la testa come Arlecchino. O che si appoggiano sulle gambe come volessero sedersi in cima alle ginocchia. Nei movimenti del camminare — conclude Balzac — non vi deve essere l’apparenza dello sforzo mentre vi è chi prende lo sforzo come tipo della propria attitudine. Ricorda Mirabeau, il quale teneva sempre il mento in aria per mostrare la sua fierezza. Molti lo imitano. Ma è un gesto raro, che si addice unicamente agli uomini che «hanno un duello con il secolo». In tutti gli altri è soltanto un atteggiamento ridicolo.

  Tutta una parte di questi argomenti è dedicata alle donne. Dice Balzac che la grazia vuole forme rotonde, e un movimento che si accompagni a questa necessità. Si ride di una donna che muovendo le braccia, la testa, il piede od il corpo produca angoli acuti; di una donna che vi tende la mano come se qualche molla faccia scattare il gomito in avanti; di quella che si siede tutta d’un pezzo, o che si alza come i giocattoli di una scatola a sorpresa. Balzac ammette che queste donne possono essere virtuose, e giunge a dire che la virtù femminile è intimamente legata all’angolo retto. «Ma — aggiunge — è innegabile che tutte le donne le quali hanno commesso quelli che si chiamano degli errori sono rimarchevoli per la squisita rotondità dei loro movimenti».

  Quanto al modo di mettere in rilievo queste rotondità, il parere di Balzac, è categorico: camminando, le donne possono «mostrare» tutto ma non debbono «lasciar vedere» nulla. La moda femminile— dice il nostro autore, che di tali faccende era assai competente — è stata fatta proprio per questo. Ed aggiunge: «dove c’è perizoma non c’è amore». Non si è forse arrivati persino a supporre che la foglia di fico di Eva fosse in realtà una veste di cachemire?

  Ancora un’ultima regola: quando il corpo è in movimento, il viso deve restare immobile. Balzac avverte.,tuttavia, che abitualmente, gli uomini di studio inclinano la testa, e quasi tutti verso sinistra. Chateaubriand, Byron, Voltaire avevano questo vezzo. Ed anche personaggi d’altro genere, come Alessandro Magno, Cesare, Luigi XIV, Federico II, Carlo XII. Dice Balzac che l’abitudine del capo leggermente inclinato appartiene anche alle belle donne, le quali in ciò confermano la loro ostilità, agli angoli acuti. «La grazia ha orrore della linea retta. E poiché il genio comporta la grazia, non v’è da stupirsi che uomini geniali come quelli citati dividano con le donne belle questa particolarità di non tenere il capo rigidamente ritto».

  Qual’è dunque, a conclusione di un esame così minuzioso, la legge della bella andatura? Per camminare bene occorre stare diritti, ma senza sforzo e senza durezza; procedere sulle due gambe in una medesima linea, senza portarsi sensibilmente nè a destra nè a sinistra dell’asse del corpo; far partecipare, impercettibilmente, tutte le membra al movimento generale; introdurre nella propria andatura una armoniosa oscillazione che dia un senso di rotondità all’incedere; tenere la testa immobile, e se volete inclinata; non compiere movimenti arretrati. Così — termina Balzac — camminava Luigi XIV, il gran re».

 

 

  Harry Levin, Balzac e Proust, «Inventario. Rivista trimestrale», Milano, Anno VI, N. 4, Inverno 1951, pp. 28-42.


  I cent’anni decorsi dalla sua morte e le migliaia di chilometri che dividono la sua tomba del Père-Lachaise dalle nostre commemorazioni americane, dànno dell’importanza di Balzac un’idea più esatta di tutto ciò ch’io potrei aggiungere per rendergli omaggio o per tentare di lui un nuovo giudizio. La testimonianza più impressionante di questa importanza, è l’influenza che ha esercitato sul suo stesso mezzo d’espressione: tutti i grandi romanzieri che gli sono succeduti – da Dostoewskij a Dreiser – potrebbero attestarlo. Questa influenza s’è tradotta a volte in una rivolta: tale è stato, pare, il caso di Flaubert, che cominciando a scrivere poco tempo dopo Balzac, dové per affermare la propria personalità, prendere una via diversa da quella del predecessore. Ma più spesso — testimonia Zola che lo segue da vicino nell’ordine cronologico — quei romanzieri hanno assimilato la tecnica di Balzac e ne hanno ingrandito il campo d’applicazione. L’insieme dell’attività creatrice dei romanzieri del secolo scorso può, per molti riguardi, essere considerato come un supplemento alla Comédie Humaine. Certe di quelle opere sono tuttavia esse stesse monumenti — forse meno maestosi del loro prototipo, ma d’una grandezza comparabile – e quella che ci è più vicina nel tempo e forse sul piano psicologico, s’intitola A la recherche du temps perdu. Se noi rovesciamo la nostra prospettiva storica e cerchiamo quali scrittori francesi vanno oltre Proust, può esser molto interessante dar prima uno sguardo indietro verso Balzac.

  Così voglio tentare qui di cogliere nell’opera di Proust di che intrecciare una ghirlanda per ornare il piedistallo di Balzac. Parecchie considerazioni mi incoraggiano a questa impresa: la critica di Proust ha un valore infinitamente maggiore della mia; questo aspetto del genio di questo autore non ha ancora quasi attratto l’attenzione; infine se c’è una sorgente luminosa che possa mostrare Balzac in una luce nuova, questa conviene cercarla nella straordinaria intensità di visione di Proust. Laccostamento potrà in ogni caso servire a dilucidare lopera stessa di questultimo. I punti di contatto fra i due scrittori mi sembrano molti e da poter stabilire fra loro rapporti significativi; d’altra parte, i due uomini sono tanto lontani l’uno dall’altro che le loro affinità saranno necessariamente elettive. Se si riconosce che tutt’e due appartengono alla stessa tradizione letteraria, alla grande schiatta dei romanzieri moderni, si deve notare che esiste talvolta fra loro un’opposizione fondamentale che può esprimersi in termini dantitesi balzachiana: grandezza e decadenza. La loro parentela non è, dunque, nulla di più che quel legame di tralignamento che esiste fra l’antenato dal sangue vigoroso e l’ultimo rampollo emofilo della razza? Proust conduceva ciò che Balzac avrebbe chiamato la vie élégante, in opposizione a la vie occupée; e di certo l’estrema oziosità e l’estrema attività non hanno mai trovato interpreti più caratteristici. Se vogliamo limitarci a sottolineare delle differenze, potremmo riprendere la favola della cicala e della formica e continuare ad accumulare le antitesi fra debito e rendita, fra uomo robusto e uomo infermo. Ma questo non può spiegare perché Proust, il mondano, si sia consacrato all’illustrazione del tema della solitudine; perché Balzac, tanto innamorato della società, nelle sue opere, abbia scritto quest’opere in un isolamento quasi monastico; perché i loro spiriti sembrino incontrarsi così spesso sul terreno comune del paradosso. Non sarà questo un mezzo di distinguere ciò che è «balzachiano» da ciò che è «proustiano».

  Che cosa significano veramente questi due termini? Vi si scorge un elemento comune: i due romanzieri hanno legato il loro nome ad un tipo di visione, ad un’attitudine psicologica speciale di fronte a date situazioni. Ma si tende troppo spesso a confondere ingenuamente attitudine e situazione: «balzachiano» qualifica allora delle basse preoccupazioni di denaro e «proustiano» una curiosità morbosa per i problemi sessuali. Il primo di questi termini evoca così più o meno direttamente un’idea d’«interesse sordido» e il secondo un’idea di «squilibrio nervoso». Quando Bloch, nel quale si ritrova al tempo stesso l’uno e l’altro tratto, interroga il narratore del romanzo di Proust sulle condizioni della famiglia di Saint-Loup, dichiara, per giustificare la propria curiosità che si pone «au point de vue balzacien». Saint-Loup, a sua volta, userà la stessa formula, anche se in modo meno specioso, e perfino l’impeccabile Swann ... Sembra infine che Proust stesso l’abbia sovente utilizzata parlando dell’interesse tutto speciale che aveva a stabilir genealogie, interesse che, secondo l’osservazione di Lucien Daudet, è stato dopo qualificato «proustiano». C’è qualcosa di più «proustiano» o di più «balzachiano» della straordinaria impressione che suscita in Proust la lettre de faire part, della contessa Mnizech, con i suoi rami genealogici di Hanski e di Rzewuski, di Radziwill e di Sapiena ed altri trofei della nobiltà polacca? Gli amici di Proust hanno creato il verbo «proustifier» per descrivere il modo con il quale talvolta minacciava di sommergerli sotto un fiotto d’amabilità adottando un «atteggiamento un po’ troppo cosciente di gentilezza». Inversamente, Proust citava l’affaire Dreyfus come un esempio dei casi in cui la natura imita l’arte e annoda degli intrecci alla maniera di Balzac. Come i naturalisti che ammiravano e che imitavano, questi due uomini sono identificati per sempre con gli aspetti della realtà che hanno messo in luce.

  I due aggettivi, dunque, si applicano prima di tutto all’utilizzazione del romanzo come strumento d’analisi e d’esplorazione psicologiche e in secondo luogo designano due domini che pur compenetrandosi in parte, sono molto diversi. Ogni volta che passiamo da Balzac a Proust l’accento si sposta dalla coscienza sociale alla percezione psicologica; tuttavia, come vedremo, questi aspetti essenziali sono piuttosto complementari che antitetici. Che mi sia permesso, per sottolineare questa continuità essenziale, di prendere in prestito dal Traité de la Vie élégante, un’osservazione molto «proustiana». «In tal caso nella nostra società, le differenze sono scomparse; non ci sono che delle sfumature. Così, il saper vivere, l’eleganza delle maniere, quel non so che, frutto d’un’educazione completa, formano la sola barriera che separa l’ozioso dall’uomo occupato». Se questo testo non fosse né di Balzac, né di Proust, si penserebbe all’opera di Thorstein Veblen, alla Teoria della classe agiata. «Di lì l’importanza attribuita dai più, all’istruzione, alla purezza della lingua, alla grazia del portamento, al modo più o meno disinvolto con il quale si porta un vestito, alla ricerca degli appartamenti». Questa recherche des appartements non era più semplice allora di oggi ma presentava almeno un carattere più mondano della ricerca scientifica ed estetica del temps perdu. Non che l’eremita del boulevard Haussmann fosse insensibile al decoro materiale, al conformismo mondano o alle splendide spese, non più di quanto Balzac fosse davvero indifferente alla recherche de l’absolu. La prefazione della Comédie Humaine distingue fra i soggetti propri al romanziere gli Uomini e le Donne, e così – l’ardito novatore che è Balzac non teme di scrivere per disteso – le Cose. Romanzieri più recenti hanno registrato la pressione sempre crescente delle «Cose» sulla vita degli uomini e delle donne e Proust, con Henry James, è il loro poeta elegiaco.

  Due o tre generazioni separano la società francese descritta da Balzac dalla società quale Proust doveva descriverla, e tuttavia, le formule che ho citate s’applicano ancor meglio ai soggetti di Proust che a quelli di Balzac. Retrospettivamente, noi notiamo l’esistenza di «differenze» che esistevano ancora all’epoca di quest’ultimo, mentre le «sfumature» ci sembrano essersi considerevolmente moltiplicate dopo di allora. La cronologia può aiutarci a spiegare questi due fatti: Balzac è nato l’anno del colpo di Stato di Bonaparte mentre Proust è venuto al mondo l’anno della Commune. Agli occhi di quest’ultimo, il prestigio dell’aristocrazia era in larga misura una sopravvivenza del suo splendore passato; il primo invece ammirava la tenace energia con la quale la borghesia lottava senza tregua per far riconoscere i suoi diritti. Cronologicamente, il nonno di Swann avrebbe potuto figurare nella Comédie Humaine: ma sarebbe figurato fra i finanzieri della Chaussée d’Antin piuttosto che al Fauborg Saint-Germain, in mezzo agli antenati degli amici del suo nipote. Terminando la cronaca dellavvento delle classi medie l’incontro dei «deux côtés», Proust lascia da parte con perfetta disinvoltura, l’insieme di quei procedimenti daccumulazione e di dissipazione del denaro che seducono a tal punto Balzac. E mentre Parigi, la metropoli piena d’attività esercita una forza centripeta sui provinciali di Balzac, la vita dei parigini di Proust somiglia a delle perpetue vacanze, ad una successione di viaggi centrifughi verso le varie città termali, ad un nostalgico ritorno ai campi. Appare, dunque, che se c’è una classe sociale rappresentata più completamente in A la recherche du temps perdu che nell’opera di Balzac, è quella dei domestici.

  Il rimprovero che si fa di solito a Balzac che saccusa — a dispetto delle sue relazioni con delle duchesse «déclassées» «daver intrapreso a dipingere degli ambienti nei quali non era ammesso» è ripreso con la marchesa de Villeparisis da Proust, che rappresenta una generazione intermedia fra quelle della principessa de Cadignan di Balzac e della duchessa de Guermantes. D’altra parte, le vesti della duchessa di Proust sono paragonate a quelle delle eroine di Balzac, e tutti i Guermantes sono appassionati lettori della Comédie Humaine. Sappiamo da diversi aneddoti che Balzac aveva l’abitudine di parlare dei suoi personaggi come se avessero veramente vissuto Secondo Jacques Truelle, Proust accettava questo atteggiamento ed andava più lontano ancora: egli associava «nella confusione dei secoli e dei paesi», il colonnello Chabert, il cardinale Fleury e il Dottor Cottard come personaggi coesistenti. Abbiamo, dunque, il diritto di considerare che le dramatis personae di Balzac e di Proust appartengano ad uno stesso universo compatto e continuo, sebbene questo universo si sia trasformato e ristretto fino a divenire, con Proust, le monde; cioè la Società con la esse maiuscola, nel senso ristretto del termine. In questi limiti intenzionalmente marcati, la trasformazione è d’altronde rimasta assai poco sensibile. Fra la comparsa della duchessa de Guermantes all’Opéra-Comique e quella della marchesa d’Espard al Théâtre des Italiens, sembra che sia trascorsa piuttosto una settimana che un’esistenza intera. Che sia il duca de Guermantes che lascia M.me d’Arpajon per la marchesa de Surgis-le-Duc, o il marchese d’Ajuda-Pinto che abbandona la viscontessa de Beauséant per la contessa de Rochefide, gli abitanti del «Faubourg» sembrano restar fedeli ai loro costumi tradizionali.

  Se le vite umane fossero più lunghe, potremmo quasi credere che certi personaggi presentati nella Comédie Humaine si ritrovino in A la recherche du temps perdu. Potremmo immaginare che Mme Rabourdin, perduta la sua bellezza, ma non le sue pretese intellettuali, abbia continuato a tenere il suo salotto dopo aver sposato in seconde nozze M. Verdurin, o che Raoul Nathan, seguitando la sua carriera d’arrivista attraverso diverse avventure giornalistiche ed amorose, abbia preso il nome di Bloch al momento dell’affaire Dreyfus. Senza dubbio si può dire che certi tipi — come lo zerbinotto e la cortigiana — sono di tutti i tempi, ma Henry de Marsay è un personaggio altrimenti dinamico — anche se meno convincente — di Charles Swann e Odette de Crécy è ben pallida e languida a fianco di Valérie Marneffe. Proust stesso prende parte a questo gioco e cerca delle controparti ai suoi personaggi: non dichiara di supporre che una delle sue famiglie — molto tempo prima d’incontrarla — si riconosceva nelle Scènes de la vie de province? Ma è difficile credere che i Cambremer descritti da Proust come gentiluomini di campagna all’antica discendano dai pescatori dello stesso nome che figurano nel potente e brutale Drame au bord de la mer. Senza dubbio si potrebbe mostrare che ogni personaggio di A la recherche du temps perdu ha la sua controparte nella Comédie Humaine, ma l’inverso è manifestamente falso; poiché nessun altro romanziere ha trattato un dominio tanto vasto come Balzac, e nessuno potrebbe contestare il suo primato fra quelli che ha chiamato gli artistes compréhensifs.

  La prova del successo con il quale ha «fatto concorrenza allo stato civile» si trova nel Répertoire, l’indice dei personaggi preparato da Cerfberr e Christophe, opera che non sarebbe indegna di Bouvard e Pécuchet. Paragonarlo all’indice dei personaggi di Proust, composto in modo simile da Charles Daudet, è come mettere accanto l’annuario dei telefoni con un taccuino. Mentre il regno di Balzac ha una popolazione totale di più di duemila abitanti, quella di Proust non ne conta che duecentotrenta, cioè press’a poco cinquanta persone di meno di quelle che si trovano sotto la sola lettera C nell’opera di Cerfberr e Christophe. E questo numero è ancora ridotto dal soggettivismo di Proust, dall’abitudine che ha di mettere in dubbio la relatività oggettiva di tutti i suoi personaggi ad eccezione del suo portavoce. Mentre Balzac crea gli individui in serie, Proust si mette di proposito a fare un ritratto completo della sua sola personalità, tanto che una valutazione qualitativa meglio conviene, nel suo caso, d’una semplice enumerazione quantitativa. Quando si dové per la prima volta stabilire un repertorio dei suoi personaggi, Proust confessò che l’accostamento così suggerito lo faceva arrossire ma espresse al tempo stesso con molta chiaroveggenza la speranza che quel lavoro fosse effettuato in un modo «un po’ meno letterale» che per Balzac, e lasciando «un certo posto alla storia delle impressioni».

  Il Repertoire des thèmes, di Raoul Celly, con il suo modo di classificazione di tipo wagneriano risponde meglio al desiderio di Proust del volume anteriore di Charles Daudet. Proust s’interessava meno agli esseri umani che ai rapporti fra loro; così i personaggi che crea sono troppo sfuggenti per esser facilmente esaminati e catalogati. Come ricorda T. S. Eliot nel suo Coktail (sic) Party:

 

Noi conosciamo gli altri unicamente

dal ricordo dei momenti

durante i quali lì abbiamo conosciuti.

 

  E’ qui che Proust si distacca da Balzac i cui personaggi devono una così robusta vitalità alla convinzione del loro creatore che essi esistano indipendentemente da ciò che egli è in procinto di scrivere a loro riguardo. Questa opinione, Balzac era in diritto d’averla, egli che aveva già tanto scritto su un così gran numero di loro e che contava senza tregua di scriverne ancora.

  Quando, in La Prisonnière, Proust dà un giudizio d’insieme sul XIX secolo — quest’èra d’«autocontemplazione» di cui l’arte, come quella di Wagner, ha un carattere incompleto e tuttavia organico — evoca l’ebrietà che fu quella di Balzac, quando gettando sulle sue opere lo sguardo al tempo stesso d’un estraneo e d’un padre, trovando a questo la purezza di Raffaello, a quell’altro la semplicità del Vangelo, bruscamente decise, proiettando su di essi un’illuminazione retrospettiva, che sarebbero stati più belli in un ciclo in cui gli stessi personaggi ritornassero. Quest’ultimo tocco, ce coup de pinceau, questa trovata specificatamente balzachiana ha sedotto altri scrittori che aspiravano a dipingere un mondo ma che non sono riusciti il più delle volte che a produrre una serie meccanica di «suites», come Jean Christophe o come Les Hommes de bonne volonté, dei quali ogni nuovo volume, ben lontano da ridar vita al racconto piuttosto lo indebolisce. E Proust utilizza il metodo ciclico di Balzac, il retour des personnages, se si serve del sistema del leitmotiv wagneriano, non ha mai avuto che un sol libro da comporre quando Balzac doveva costruirne un centinaio formante un tutto. La differenza d’ampiezza fra questi due tentativi riflette bene la divergenza di tendenze di queste due nature: da un lato una coscienza tutta soggettiva che ha fiducia quasi soltanto nelle impressioni che subisce direttamente; dallaltro un sentimento molto vivo della vita altrui che subordina la realtà del momento all’insieme delle influenze che condizionano e avvolgono la nostra vita.

  Il parallelo potrebbe esser spinto più lontano, ma forse lo è stato a sufficienza perché mi permetta di concludere che le opere di questi due scrittori potrebbero essere poste molto vicino luna allaltra nel museo immaginario della critica, dove la (sic) considerazioni personali sarebbero neutralizzate e le contingenze storiche sorpassate. La storia ci rivela lesistenza di certe influenze tanto profonde seppur agiscano in un solo senso che è senza dubbio arrivato il momento dindicarne qualcuna. Dopo tutto, Proust ha potuto e pure ha dovuto leggere e criticare Balzac e questa lettura critica è divenuta a poco a poco parte integrante del suo lavoro di scrittore. Ho citato un passo capitale del suo romanzo ove invoca in modo caratteristico il suo predecessore; ne segnalerò altri che s’ispirano direttamente all’esempio di Balzac. Ma, per il momento, fermiamoci su questo fatto che avvicina strettamente i due scrittori; voglio dire della pubblicazione d’un pastiche di Balzac ad opera di Proust nel Figaro nel 1908. Come se questo pastiche fosse il primo d’una serie, il suo autore vi presentava il tema generale dell’insieme; era difficile scegliere tema più balzachiano: un individuo chiamato Lemoine ha truffato il consorzio internazionale De Beers pretendendo d’aver fabbricato diamanti sintetici. Invenzione, successo, raggiro, lusso, intrighi finanziari e amorosi: era una storia che non si poteva raccontare senza esser condotti a rivaleggiare con Balzac; e Proust riuscì a narrarla a l’élite de l’aristocratie parisienne nel salotto della principessa de Cadignan, cette carmélite de la réussite mondaine.

  La prima frase, lunga e sovraccarica, s’incammina verso una data che ne è il coronamento, le seguenti sono imbottite di epiteti e di superlativi, d’enumerazioni e d’allusioni, di questioni oratorie e di rinvii, di particolari e di chiacchiericci ed altre particolarità del pensiero e dello stile balzachiani Quando il pasticheur passa ad alti scrittori, non dimentica il suo primo scopo; spinge Sainte-Beuve a scoccargli di passata una freccia sibilante, mentre Renan, in nome delle norme della critica più avvertita, mette in dubbio l’attribuzione a Balzac della Comédie Humaine e finisce con il concludere, fondandosi sulla pesantezza dello stile e il dogmatismo delle idee, che quest’opera è stata scritta al più tardi due secoli prima di Voltaire! Siccome il pastiche è un mezzo d’immedesimarsi con la personalità d’un autore, quanto una forma di critica, è significativo che Balzac sia uno degli autori che abbiano meglio ispirato il Proust pasticheur. Si è spesso tenuto come dato fino ad ora che Proust non avesse cominciato ad apprezzare Balzac che assai tardi. Ma se rileggiamo le lettere di Proust alla luce dei nuovi documenti presentati da André Maurois nella sua recente biografia, siamo portati ad un diverso giudizio. Si racconta che il padre di Proust citava Balzac tanto spesso quanto la madre citava Mme de Sévigné e si conclude di solito che Proust, data la sua preferenza per la madre, resisté all’influenza di Balzac finché ebbe raggiunto la maturità. Ma la sua corrispondenza con la madre ci rivela che molto presto s’interessò con lei ai romanzi di Balzac che sembra aver scoperti nel quadro evocato più tardi sotto il nome di Combray. Come tanti altri, Proust è cresciuto con Balzac e Balzac ha aiutato Proust a svilupparsi.

  Quando a sua volta Proust cominciò a scrivere la sua opera monumentale, verso chi avrebbe potuto volgersi, se non verso Balzac? Pierre Abraham ha tracciato l’esatta parabola di questa influenza rilevando tutte le citazioni del nome di Balzac in A la recherche du temps perdu. Avendo compiuto un lavoro analogo ed essendo arrivato a risultati un po’ diversi da quelli dell’Abraham, non saprei condividere affatto la sua fiducia in questo genere di statistica. Ma, piuttosto superiori alle sue, le mie cifre confermano la sua tesi principale; e forse un ricercatore davvero meticoloso arriverebbe a risultati più impressionanti ancora. Per noi, il fatto più importante messo in luce dall’Abraham è il seguente: la maggioranza dei riferimenti a Balzac si trova nella quarta delle sette parti dell’opera di Proust intitolata Sodome et Gomorrhe, che costituisce il pannello centrale dell’opera. Invece, esito a seguirlo quando sostiene che Proust avrebbe scoperto Balzac solo dopo aver composto già la metà della sua opera. Questo (sic) affermazione si spiega in parte con il fatto che, nel primo romanzo di Proust, Du côté de chez Swann, almeno due allusioni a Balzac sono sfuggite all’attenzione dell’Abraham. E tuttavia, le bozze non pubblicate di quel secondo romanzo, che il professor Feuillerat ha esaminate, mostrano che molti di quei passaggi sono stati aggiunti più tardi. In origine, Proust pensava di dare alla sua opera un carattere prezioso e sperimentale, soggettivo e metafisico, molto estraneo alle preoccupazioni tradizionali del romanzo francese. Ma mentre la sua storia prendeva corpo e si inscriveva in una prospettiva oggettiva, era portato a porsi ogni giorno di più sotto gli auspici di Balzac.

  La quintessenza dell’arte «proustiana» resta d’ordine psicologico: si tratta d’una coscienza che analizza altre coscienze con un’acutezza di visione che lo stesso Proust paragona alla penetrazione dei raggi X. Per raggiungere questo grado d’intensità, ha dovuto creare dei personaggi sufficientemente robusti, immaginare delle situazioni complesse e coltivare quel senso sociologico che si considera come balzachiano perché Balzac seppe trarne miglior partito degli altri romanzieri. E’ paradossale ma vero che queste doti comuni possono conferire un più alto grado di distinzione delle eccezionali doti di Proust. Quest’ultimo in origine si esprimeva liricamente, aveva una visione impressionista che gli era propria; ma ciò che gli mancava, e che poteva imparare da Balzac, era quest’arte del narratore, convenzionale senza dubbio ma indispensabile. In A la recherche du temps perdu, a mano a mano che procede il racconto Proust, i vasti affreschi drammatici si mescolano alle lunghe digressioni che ricordano la Comédie Humaine. Così il dilettante che era Proust diventa a poco a poco un professionista. Egli riconosce il suo debito verso quel maestro della tecnica che è Balzac, citandolo più spesso di altri scrittori — come Flaubert, Dostoevskij, George Eliot, etc. – ai quali sembrano unirlo stretti legami personali. Ogni volta che, in un romanzo, si tratta di un altro romanzo, ne deriva una specie di tensione che mette in luce la parte di autenticità e la parte d’artificio di ogni opera. Grandi romanzieri come Cervantes hanno rivelato il loro valore smascherando il carattere fittizio dell’arte degli epistolari. Giovani romanzieri si tradiscono talvolta introducendo nel loro racconto una conversazione letteraria. Torna dunque tutto ad onore di Proust di non essere schiacciato da questo implicito confronto e torna tutto ad onore di Balzac d’essere senza contestazioni l’autore preferito dei personaggi di Proust, se non di Proust stesso.

  È molto significativo il notare che, fra loro, il balzachiano più convinto è il barone de Charlus, il più «proustiano» di tutti. Siccome è l’arbitro più esigente del gusto «à la Guermantes» i suoi fervidi elogi non mancano certo di peso ed egli non si stanca mai di rilevare le analogie fra la Comédie Humaine e la società contemporanea. Uno dei suoi parenti possiede un giardino di cui Balzac ha fatto la cornice d’uno dei suoi romanzi: ecco ai suoi occhi, un onore che ricade su di lui. Egli è fiero del pari di possedere una edizione del Cabinet des Antiques, con correzioni di pugno di Balzac, particolare la cui importanza apparirà nel corso della serata in casa della principessa de Guermantes. Infatti, quando v’incontra un giovane che porta lo stesso nome dell’eroe del libro — Victurnien — il barone si sente preso dall’entusiasmo che non è soltanto quello d’un dilettante. Più tardi, parlando a lungo al narratore dei suoi romanzi preferiti, usa precisamente un’espressione che Proust ha usato in una lettera a René Boylesve per esprimere l’ammirazione che gli ispirano «i grandi affreschi» delle Illusions perdues e di Splendeurs et Misères. In altre parole, la predilezione del barone è proprio quella di Proust. Nel romanzo di Proust, M. de Charlus è incaricato di difendere questa preferenza contro il professor Brichot; quest’ultimo dichiara senza ambagi che Balzac non ha scritto che romanzi rocamboleschi a feuilletons e che la sua pretesa Comédie è «bien peu humaine». Il barone ribatte che il professore non ha una sufficiente esperienza della vita per scorgere la realtà di certi suoi aspetti melodrammatici. Invece, Balzac «ha conosciuto queste passioni che tutti ignorano o studiano solo per biasimarle».

  Una prima versione del passo precedente, ritrovata nei taccuini di Proust, associa a questa difesa di Balzac alcune critiche all’indirizzo d’altri scrittori — si tratta duna specie di messa in guardia contro la vanità della professione letteraria confidata nel testo finale a M. de Norpois. Sembra che Proust, abbia avuto un momento lintenzione di fondere in un solo il personaggio del diplomatico e quello del barone. Ma il barone de Charlus, figura complessa in sé, finisce per sfuggire al suo stesso creatore. Il suo modello vivente, Robert de Montesquiou, che aveva introdotto Proust negli ambienti eleganti e lo aveva iniziato a certi gusti estetici, del pari lo rafforzò, come prova la loro corrispondenza, nel culto di Balzac. Quando, verso la fine della sua carriera, Montesquiou viene a chiedersi se Charlus non sarebbe apparso, dopo tutto, come il suo ritratto, Proust calma i suoi sospetti indicandogli un altro modello d’origine letteraria: il Vautrin, di Balzac, quell’insigne criminale. Ma da parte sua, a proposito di Vautrin, Proust aveva già notato la sua somiglianza con Montesquiou. C’è così tutta una concatenazione che, attraverso Charlus, porta da Proust a Montesquiou, e attraverso Vautrin, da Montesquiou a Balzac. Se si trascura i due romanzieri e la loro parte d’intermediari, Vautrin e Charlus sono lontani l’uno dall’altro come il mondo dei bassifondi può esserlo dall’aristocrazia. Tuttavia, il bagnard esercita sullo snob un’attrazione magnetica. «È la poesia del male» scrive Lucien de Rubempré nel suo addio a Vautrin «il genio della corruzione».

  La dernière Incarnation de Vautrin c’informa chiaramente sulla natura di questa qualità che Charlus ammira in Balzac: «L’arditezza del vero s’eleva a combinazioni interdette all’arte, tanto esse sono inverosimili o poco decenti, a meno che lo scrittore non le addolcisca, non le mondi, non le castighi».

  Il quadro che Balzac traccia della esperienza umana è assai completo per far posto al soggetto che sarà l’ossessione e la rivelazione di Proust: l’omosessualità. Abbordando quel tema, non senza qualche inquietudine, Proust pensò di far stampare in nota un paragrafo sul «terzo sesso» estratto della Comédie Humaine. Nelle relazioni fra Vautrin (alias l’abate Carlos Herrera) e il giovane ladro corso Théodore Calvi, se non nella protezione che Vautrin accorda a Rubempré e a Rastignac, trova un precedente all’infatuazione di Charlus per Morel, il violinista corrotto. Ma Charlus non ha affatto bisogno d’esempi tanto precisi; poiché, con «una trasposizione mentale» può immedesimarsi con la principessa de Cadignan. In ultima analisi, la sua fonte è Proust stesso; e i rapporti che esistono fra loro sono quelli che uniscono un attore in terza persona a uno spettatore in prima persona, quando Balzac, uniformandosi a Vautrin, vede per interposta persona la carriera dei suoi giovani eroi. Questa relazione fondamentale, che chiama «le phénomène morale du Double», diventa triangolare quando i due scrittori abbordano la questione del saffismo. Quando, in Splendeurs et Misères des Courtisanes, Balzac dava ai si lettori un’anticipazione della Sodoma di Proust, la Gomorra di quest’ultimo era già prefigurata in quel cupo romanzo di La fille aux yeux d’or, che si trova, sia detto di passata, nella biblioteca di Swann. La sorprendente avventura di Henry de Marsay che, innamorato di Paquita Valdès, incontrò un (sic) inattesa rivale nella persona della marchesa de San-Réal, non annuncia che di molto lontano lo stato d’animo del narratore di Proust il cui amore e la gelosia sono per così gran parte le creazioni del suo spirito. E tuttavia Albertine, come l’eroina di Balzac, è oggetto d’una rivalità fra due passioni: l’una eterosessuale e l’altra omosessuale.

  Proust si rende conto che l’aspetto della Comédie Humaine sul quale insiste è eccezionale, «hors de nature». In A la recherche du temps perdu, l’eccezionale minaccia senza tregua di sommergere il normale. Proust, tuttavia, ha, proprio come Balzac, un senso profondo del normale, d’una moralità sociale fondata sulla nozione dell’integrità della famiglia, sebbene l'uno e l’altro si consacrino, troppo spesso, ahimè, alla descrizione degli attacchi che subisce questa integrità. Per Balzac il simbolo d’una società i valori della quale si degradano è il padre prodigo, Proust, che è testimonio se ulteriore di questa degradazione, ne vede il simbolo nella «mère profanée». Ma qui pure, Balzac prefigura Proust in quella potente scena della Cousine Bette ove M.me Hulot si vede costretta, per il suo attaccamento per il marito e i figli, a vendere i suoi favori a Crevel, l’insolente e losco trafficante. In quanto al marito, il prodigo barone Hulot, è curioso notare che, fra tutti i cercatori di modelli o di chiavi, nessuno abbia riconosciuto in lui un prototipo del barone de Charlus. Tuttavia la disgrazia di questi due baroni segue una curva analoga; essi si somigliano anche per dei particolari esteriori. Tutte due, dopo aver ostentato in principio maniere esagerate da damerino, passano per tutti i gradi della decadenza fisica fino a divenire dei vegliardi dalla barba bianca, che non hanno più né tintura sui capelli né busto per sostenersi la vita e perseguitano un ragazzo con le loro assiduità. Il barone de Charlus essendo in più un invertito, è spinto dai suoi appetiti sessuali a trasgredire la legge sociale in modo più flagrante e subisce infine un castigo ancor più tremendo.

  Ben inteso, Proust insiste di più sulla parte della madre e sull’irresponsabilità dei figli verso i genitori. Ma Balzac ha creato un altro tipo di padre che è molto più da compiangersi che da biasimare; sebbene Balzac abbia pensato al re Lear scrivendo il Père Goriot, il suo racconto procede verso un epilogo che annuncia Proust. Voglio alludere al passo seguente: il vecchio è disteso sul suo letto d’agonia, una delle sue figlie corre al ballo, l’altra arriverà troppo tardi per assistere ai suoi ultimi momenti. Proust riproduce questa classica situazione in un racconto caratteristico dei suoi inizi, La mort de Baldassare Silvande, in cui vediamo morire il giovane protagonista che la sua diletta lascia per andare al ballo. Ci ritorna più tardi nell’episodio principale che chiude il Côté de Guermantes, quello delle scarpette rosse della duchessa, quando quest’ultima e il duca, per non dover interrompere la loro vita mondana, finiscono con il non preoccuparsi più dell’imminente morte di Swann, il loro migliore amico. Due scene di questo genere si ritrovano in tutta l’opera di Proust, forse perché egli considerava il mondo dal punto di vista d’un mezzo invalido, condannato sempre più a rimaner nella propria stanza, mentre i suoi amici correvano ai loro piaceri. All’altro estremo, Balzac, forse perché si sentiva assorbito dal mondo, considerava con una specie di nostalgia quelle creature elette che riuscivano a isolarsi. L’inumanità dell’uomo per l’uomo come appare per esempio, in La (sic) Cousin Pons, implica tutta una rete d’intrighi e l’irrigidimento dei legami d’interesse. Proust ci mostra al contrario l’assenza di legami e il rilassamento delle relazioni; la sua comédie è così tragica e la sua umanità così inumana, che l’immagine del mondo che dà non è meno sinistra.

  Questi avvicinamenti storici e critici potrebbero esser spinti più lontano e considerevolmente sviluppati; ma a partir da un certo punto, le somiglianze sono meno significative delle opposizioni e delle sfumature. Così, se il lettore accetta il nostro parallelo fra Balzac e Proust, credo che adesso lo studio delle loro differenze sarebbe molto più istruttivo. Abbiamo brevemente ricordato l’influenza di Balzac sulla genesi dell’opera di Proust: il cielo avesse voluto che quest’ultimo avesse potuto, da parte sua, esercitare un’azione sul suo predecessore! Ma da questo aspetto, la storia è ingiusta e tali benefici sono mal ricompensati, poiché escludono la reciprocità, salvo fra contemporanei. Certo, la Comédie Humaine ha una portata tanto vasta che sfogliando Un début dans la vie, si vede comparire per un istante il nome di Proust su un atto giuridico. Ma non possiamo sperare di trovare, nell’opera di Balzac, la controparte di quel che Proust ci dà in teoria e in fatti, una critica di Balzac. Tuttavia, rileggendo Balzac si è senza tregua condotti a commentare implicitamente l’opera di Proust ed a portare una serie di giudizi critici sul secolo trascorso dopo la morte di Balzac. Quest’ultimo — i cui cinquant’anni di esistenza corrispondono così esattamente alla prima metà del XIX secolo — doveva sentirsi più a suo agio, nella sua epoca, di Proust nell’atmosfera «fin de siècle» in cui visse. Fra loro si collocano Homais, che s’incaponiva d’essere del suo tempo, e Flaubert, che si faceva una gloria di non esserlo. Balzac non si limitava ad accettare l’epoca in cui viveva, l’abbracciava tutta intera, genio e follia, splendore e miseria, grandezza e decadenza.

  In verità, se non avesse professato certe fedeltà tradizionali, forse avrebbe scorta unicamente la potenza dell’epoca, senza riconoscerne le debolezze. Scriveva, diceva lui, alla luce di due verità eterne: la monarchia dei Borboni e la Chiesa cattolica. E, come se due verità eterne non bastassero a riempire un’esistenza, o forse perché una di esse aveva allora perduto il suo splendore (quest’eclisse d’altronde dura ancora), aprì il suo spirito accogliente a ben altre credenze d’ordine semireligioso, pseudoscientifico o magico. Che queste certezze siano necessariamente chiamate ad entrare in conflitto o ad effondersi, poco importa! L’essenziale, è l’ottimismo confidente, la convinzione che ogni ricerca della verità condotta con ardore sarà coronata da successo. Il declino di una tale fiducia tingeva di scetticismo le investigazioni più rigorose di Proust, Bergson, suo maestro in filosofia, gl’insegnava a cercare la realtà nel flusso movente dell’esperienza soggettiva. Per Balzac, essa si trovava invece nell’ordine naturale del mondo, in questo insieme di fenomeni unificati, classificati e organizzati da sapienti come Geoffroy Saint-Hilaire. La scienza, essenzialmente biologica, s’immedesimava ancora con la storia naturale; e sebbene fosse un po’ imbarazzante dimostrare la parentela dell’umanità e del mondo animale, questo avvicinamento in fin dei conti era molto meno conturbante della relatività, del principio d’indeterminazione ed altre scoperte moderne della fisica teorica e applicata. Balzac considerava l’anatomista Cuvier grande conquistatore nel proprio dominio quanto Napoleone lo era sui campi di battaglia d'Europa. Questa analogia — che dà a pensare che ogni conquista ha dei limiti — può essere spinta più lontano di quanto non intendeva Balzac, poiché sono le imprese dei grandi uomini del suo tempo che l’hanno portato a scrivere la Comédie Humaine.

  Noi comprendiamo perché i capolavori del XIX secolo ispiravano a Proust un’ammirazione rispettosa, e perché gli occorsero una certa audacia e forse delle idee un po’ ritardatarie per dedicarsi — anche su un piano limitato — ad un’impresa di questa natura. Il contrasto è ancora sottolineato da un’osservazione di Franz Kafka: questi ci dice che il bastone di Balzac dal pomo d’oro e tempestato di gemme portava questo motto ardito: «Io spezzo tutti gli ostacoli». Ma Kafka portavoce d'un altro secolo, risponde per parte sua: «Ogni ostacolo mi spezza». Nulla potrebbe mettere in luce, con un candore tanto acuto, l’opposizione fra il dinamismo e le costruzioni monumentali dell’epoca di Balzac, da una parte, e, dall’altra, le sparse rovine e i nervi deboli che sono il fato dell’uomo nel 1950. Se la nevrastenia di Proust non fosse bastata ad immergere l’eroe in una completa prostrazione nervosa, se ne sarebbero incaricati i personaggi di Kafka, che soffrono sempre senza mai agire e che conosciamo benissimo come n0i stessi. Dal fondo del nostro stato dinerzia, o di paralisi, potremmo far peggio che ammirare gli eroi di Balzac, sebbene l’autore sia il primo a metterci in guardia contro di essi. Il volere li consuma; il potere li distrugge. Il mondo degli affari e quello della politica, modellati dal loro desiderio di potenza, si sono rivelati tali, o anche peggiori, di come aveva predetto Balzac. Ma perché, se il potere è evidentemente una sorgente di corruzione, bisognerebbe rinunciare al volere? Perché, per una reazione molto naturale contro il culto del successo, darsi al culto della disfatta di Henry Adams? Balzac sottolinea così la distinzione fra potere e vedere, fra l’attività e la passività. È significativo che la generazione attuale dei critici insista giustamente sul lato passivo di Balzac, sulla sua parte di spettatore, di «veggente».

  Questo è un aspetto interessante, ma secondario, del genio di Balzac, proprio come quello che ha particolarmente cattivato Proust. Come abbiamo visto, Proust è stato condotto da Balzac ad «oggettivare» i suoi personaggi e a drammatizzare il suo racconto; ma ha sempre una tendenza a ripiegarsi su se stesso, cioè a chiudersi nella sua coscienza. In due episodi essenziali del suo romanzo, non esita a far la parte meno eroica e la più vile, quella del voyeur. Un tal romanziere un veggente o un voyeur, un Dostoevskij o un Henry Miller? È la qualità della sua visione che ne decide per larga parte. A mano a mano che, da Balzac a Proust, il romanzo cede terreno e si specializza, perde in ampiezza, ma guadagna in intensità; per compensare quanto è possibile la insufficienza della sintesi, l’analisi è spinta all’estremo. Senza dubbio, un gusto raffinato non ci compensa del tutto della perdita dell’appetito; ma, come il difetto delle qualità di Balzac è la volgarità, la qualità dei difetti di Proust è la sensibilità. Se, come uno dei contabili di Balzac, facessimo un bilancio, dovremmo concludere che Balzac ci offre più materia e meno arte? Sarebbe questa una sfumatura, piuttosto che una differenza, poiché c’è molta arte in Balzac, e molta materia in Proust.

  Oltre i due stili di vita che Balzac distingue — la vie élégante e la vie occupée — ne propone un terzo: la vie d’artiste. Ne va pure che Proust, partito dal côté de Méséglise e passando per il côté de Guermantes si orienta verso la vocazione artistica che gli è stata dapprima rivelata dai campanili di Martinville.

  È così che tutt’e due finiscono per ritrovarsi precisamente sul piano che conviene loro di più; ed anche qui notiamo una differenza di tono fra la bohème professionista dell’uno ed il «fashionable» dilettantismo dell’altro. Inoltre, ciò che costituisce per Proust una preoccupazione essenziale, non è per Balzac che uno dei numerosi temi della sua opera enciclopedica. La Comédie Humaine, come l’alloggio del suo autore, è ingombrata da un bric-à-brac reale e immaginario. Balzac usa pure un procedimento che diverrà abituale in Proust: descrivere un personaggio paragonandolo ad un’opera di arte. È così che Proust, nel suo pastiche di Balzac, può scrivere della principessa de Cadignan: «Soltanto Raffaello forse sarebbe stato capace di dipingerla». Il culmine è raggiunto, a questo riguardo, nell’ultima frase di Massimilla Doni, ove Balzac cita al capezzale della sua eroina in deliquio, non solo la Madonna di San Sisto, ma gli angeli del Bellini, le vergini di Dürer, il Giorno e la Notte di Michelangelo, come pure innumerevoli monumenti anonimi di scultura e d’architettura. Evidentemente, Proust fa prova di maggior discernimento, ma questi paragoni sono uno dei passatempi favoriti di Swann che, salendo le scale di M.me de Sainte-Euverte, nel suo foro interiore, paragona i domestici a delle opere di Mantegna, Dürer, Goya, Cellini e a delle sculture greche. E proprio prima — come per rendergli una specie d’omaggio — aveva citato Balzac a proposito dei camerieri. Poi si sente la sonata di Vinteuil, e si pensa allora alla predilezione di Balzac per gli accompagnamenti musicali di cui testimoniano la discussione su Rossini in Massimilla Doni e il leitmotiv di Beethoven in César Birotteau.

  Il trionfo dell’arte sulla vita — uno dei temi essenziali di Proust — è incarnato da Vinteuil, il compositore che conoscerà la gloria dopo la sua morte, sebbene la sua esistenza, come quella dell’attrice Berma, sia rovinata da una figlia indegna. Nessuna consolazione attende i disgraziati musicisti di Balzac, Pons e Schmucke, mentre le opere dello sfortunato Gambara non sono in definitiva che le allucinazioni di un demente. Il carattere ambiguo del genio incompreso, così vicino alla follia, costituisce il soggetto del Chef-d’oeuvre inconnu, ove, nel suo desiderio di perfezione, il pittore Frenhofer imbratta una tela di gran pregio fino a toglierle ogni significato. Si potrebbe credere che Balzac si scusi qui della negligenza con la quale il suo spirito esuberante si dispiega in un’opera gigantesca. E tuttavia, non ha nessuna indulgenza per gli artisti che transigono — come lo scultore Steinbock — o i mediocri che incantano la borghesia — come il ritrattista Grassou. Nella Comédie Humaine, la vita sembra darsi per scopo di trionfare sull’arte. L’artista non è senza dignità, quando Proust l’incarna nel pittore Elstir, o soprattutto nell’uomo di lettere Bergotte. Le condizioni del mercato letterario, come Balzac le dipinge nelle Illusions perdues hanno fatto cadere Lucien de Rubempré più in basso ancora delle prostitute che si vendono per mantenerlo. La sua bancarotta è totale, sul piano artistico, quanto sul piano morale e mondano. L’arte non è un commercio per Balzac, e chi sarebbe più qualificato di lui ad affermarlo? L’arte non è di questo mondo; è un talismano misterioso molto simile a quella pietra filosofale che Balthazar Claës è sempre sul punto di scoprire senza riuscirci mai, o al sistema metafisico che Louis Lambert si sforza invano di edificare finché non piomba nella follia.

  Proust giudica, anche lui, che l’artista appartiene ad una sfera superiore; ma, forse perché viveva appartato dal mondo degli affari e si era volontariamente ritirato dal mondo alla moda, il mondo degli artisti sembra in lui più accessibile all’integrità umana. A proposito del settimino di Vinteuil, o della morte di Bergotte, traccia una specie di mito platonico: gli artisti sono i cittadini d’un paese ancora sconosciuto; essi obbediscono alle sue leggi supreme, non nella speranza di essere ricompensati su questa terra, ma per la stessa ragione — qualunque essa sia — che fa in modo che i genitori si dedichino ai loro figli. E non si tratta di uno sforzo per evadere dalla realtà. Oscar Wilde, sostenendo il suo famoso paradosso della priorità dell’arte sulla natura, dichiarò un giorno che la morte di Lucien de Rubempré era l’avvenimento che l’aveva più afflitto nella sua vita. Ricordando questa osservazione in una lettera, poi, di nuovo, in Sodome et Gomorrhe, Proust nota seccamente che il processo dové insegnare a Wilde cosa sia un vero dolore.

  Del pari la lettura dIllusions perdues non aiuta Charlus a spogliarsi delle sue illusioni; Vautrin non è meno romantico ai suoi occhi dun Amadigi di Gaula per Don Chisciotte. È così che ogni romanziere deve stabilire egli stesso la distinzione fra finzione e realtà, come Balzac fa differenza fra la carriera di Lucien e il romanzo che scrive sul modello di Walter Scott. Quando Proust cita le illusioni svanite della sua giovinezza, le associa ai romanzi campestri di George Sand. Dopo lunghi anni e molte delusioni, quando arriva una partecipazione di matrimonio, la madre la accoglie con ingenuità: «È la ricompensa della virtù. È un matrimonio alla fine d’un romanzo di Mme Sand», dice. Ma il narratore, sapendo cosa nasconde questa felice notizia, vede le cose sotto una luce più cupa: «È il premio del vizio, è un matrimonio alla fine d’un romanzo di Balzac».

  Proust dichiara che se l’affare Dreyfuss (sic) è «finito bene» dopo dodici anni d'intrighi balzachiani, è perché era fittizio nella sua essenza stessa, e rivelava, per conseguenza, della giustizia poetica. Altri hanno una vita più tragica di quella del capitano Dreyfus, aggiunge, perché i loro mali hanno la loro origine nella realtà. Se la maggior parte del tempo Balzac permette al male di trionfare per delle ragioni che definisce nel suo Avant-Propos, ci lascia un’impressione del mondo più ottimista. Egli persiste a credere con entusiasmo in molti valori che Proust giudica illusori; così quest’ultimo s’attacca con ancor maggiore accanimento nel suo crescente pessimismo, al suo solo ideale: l’arte. E tuttavia, se lo si sottomette retrospettivamente alla prova di questa pietra di paragone, Balzac ne uscirà vincitore. Gli elementi di volgarità che si rilevano nelle sue lettere e nella sua vita si oppongono alla perfezione letteraria di La Cousine Bette e del Curé de Tours, come segnala Proust nell’ultimo tomo della sua opera, Le temps retrouvé, dopo aver parodiato il Journal dei Goncourt. Noi abbiamo notato che nell’insieme della sua opera, riconosceva generosamente il suo debito nei riguardi di Balzac; è in modo assolutamente cosciente che sviluppava i temi e usava i metodi tracciati nella Comédie Humaine.

  Secondo Proust, ciò che c’è di paradossale nella situazione di Balzac, è che, sebbene non abbia terminato il suo capolavoro, gli è stato dato di trovare il segreto artistico che un Frenhofer, innamorato della perfezione, non ha conosciuto: «il segreto del rilievo» — tratto di genio che vale a Balzac l’ammirazione di Proust — è l’invenzione del «ciclo»: il ritorno degli stessi personaggi in parecchi romanzi permette a Balzac di far esplodere la cornice di ciascuna delle sue opere e di animare così un vero mondo. Ho citato più sopra un passo del Traité de la vie élégante, ove Balzac si mostra molto vicino a Proust. Ecco adesso un testo tratto dal Côté de chez Swann, ove Proust — mutatis mutandis — somiglia a Balzac.

  «O audace» esclama Swann udendo una frase musicale, «aussi géniale peut-être che (sic) celle d’un Lavoisier, d’un Ampère, l’audace d’un Vinteuil expérimentant, découvrant les lois secrètes d’une force inconnue, menant à travers l’inexploré, vers le seul but possible, l’attelage invisible auquel il se fie et qu’il n’apercevra jamais».

  È lo stesso per Balzac. Egli ha un senso più acuto dello scopo da raggiungere, egli guida il suo tiro con una mano più ferma della maggior parte degli esploratori del regno delle idee; ma, come Vinteuil, o il suo personaggio Daniel d’Arthez, si presenta in fin dei conti come «un candidato agli onori postumi». Né Balzac, né Proust, né d’altronde nessuno dei grandi romanzieri, è stato accolto nel suo seno da quell’istituzione nientemeno che esclusiva che si assume la responsabilità di dichiarare «immortali», in vita, certi scrittori francesi. L’immortalità conferita dai mortali, l’immortalità come l’immaginava Paul Valéry, è una «consolatrice affreusement laurée». Quando Proust dà il tocco finale all’ultima immagine che ci donerà dell’artista, si chiede se Bergotte è davvero morto per sempre. La sua risposta, la sua convinzione appassionata che l’uomo può divenire padrone del tempo e cessare d’esserne lo schiavo, e simbolizzata nel modo più concreto, dai libri di Bergotte, disposti tre per tre di contro alle vetrine, alla luce vacillante delle candele.

  E noi che oggi assumiamo la parte effimera della posterità, non sapremmo invocare a sostegno di questa convinzione esempio più probante della serie di volumi della Comédie Humaine. Allineati sugli scaffali della nostra biblioteca, testimoniano che ogni epoca scomparsa fa ormai parte per sempre del «tempo ritrovato», ed eclissano lo splendore dei ceri che ardono alla memoria di Balzac.



  Vittorio Lugli, La morale di Balzac, «Il Mondo. Settimanale di politica e letteratura», Roma, Anno III, Numero 50, 15 dicembre 1951, p. 7.

 

  Balzac è un grande storico: è il giudizio di quanti sono incerti davanti alla sua arte: non storico reazionario, ma semplicemente uno storico.

 

  Non si è mai finito di leggere Balzac. Anche Gide ha continuato a lungo a fare le sue scoperte entro la Comédie Humaine, precisamente in quella zona media ove non è proprio né lo scrittore «visionario», né il creatore potente e disuguale della grande epopea borghese. Sappiamo che bisogna prendere così, in blocco, la vasta costruzione, condotta avanti con una mirabile forza allegra, liricamente animata da un così robusto soffio di vita. Quando ci arrestiamo (com’è inevitabile) ai particolari, oltre le parti men buone o cattive, incontriamo anche nelle migliori il segno di una ricchissima natura cui manca il dono supremo. Non è solo il freno dell’arte; è qualche volta il difetto del senso di quello che è arte, e di quello che è il suo contrario, la sua negazione. Nel Goriot (l’ha osservato lo stesso Gide) Balzac sente il bisogno di aggiungere: «Le père Goriot était sublime», dopo una lunga, enfatica parlata del protagonista, attraverso la quale se mai egli doveva apparire sublime. E, dopo la raccomandazione veramente straordinaria dell’avaro morente alla figlia: «Tu me rendra (sic) compte de ça, là-bas», quel che segue: «dit-il, en prouvant par cette parole que le christianisme doit être la religion des avares», interessante certo in un autore che si professa scolaro di De Bonald e De Maistre, attenua, smorza di tanto l’effetto. Quanto al Balzac sentimentale, romanticamente elegiaco, sappiamo che guasta non poco anche opere nobilmente pensate come Le lis (sic) dans la vallée.

  Lo scrittore è tutto felice nello stile medio, quando è solo il narratore divertito, preso dal suo intrigo, procedente sicuro e leggero. Così in molte brevi storie, punto ambiziose, non cariche di gravi significati. Le Réquisitionnaire, una ventina di pagine, che Gide appunto loda in modo particolare, è un capolavoro di equilibrio e sobrietà, con quella figura di madre. Madame de Listomère: un ritratto perfetto. Senza il patetico semplice e intenso che è nel Réquisitionnaire e in quella madre, un altro racconto, Les secrets de la princesse de Cadignan, tanto caro al Proust, è un’altra cosa gratissima, tutta gratuita, un piacere schietto per il lettore e (ci sembra) per lo scrittore. All’inizio, in un giardino autunnale, in abito autunnale, una donna non più giovane, non più ricca, è un quadretto da fare invidia ai nostri autori «crepuscolari» e «provinciali» di trent’anni fa. Gide cita anche Une fille et Ève e Une double famille, che gli paiono tra le cose più rivelatrici di Balzac, se non tra le migliori.

  In quest’ultimo, più mirabile la virtù del narratore, con solo, alla fine, qualcosa che potrebbe compromettere tutto, se non ci apparisse troppo volutamente aggiunto, del tutto estraneo. Per questo ci sembra tra le opere più significative (e non sappiamo se così fosse anche per Gide).

  La prima metà del breve romanzo è semplicemente deliziosa. In una oscura straduccia della vecchia cité, due povere donne trascorrono lunghe ore, lavorando presso la finestra del loro stambugio, al pianterreno, e confortano la lunga fatica osservando i rari passanti. Così un pallido idillio nasce tra la giovane ricamatrice e un signore anziano che, facendo ogni giorno quel cammino, è preso da quella tenera bellezza non ancora sfiorita dalla misera esistenza. La malinconia del passante s’intona alla vuota solitudine della giovinetta; con gli occhi i due s’intendono, la vecchia sorride entro di sé, già immagina la fortuna per la figlia, accenna, incita, discreta e insistente. Si giunge all’incontro, l’amore stringe subito la giovinetta e l’uomo che pare tanto bisognoso di quel fresco conforto. Presto Carolina muta la sua esistenza, perché l’amico la vuole in una casa bella, ricca, le dà tutto, eccetto quello che non può darle, il suo nome.

  Il tono cambia quando Balzac passa a descriverci l’altra famiglia, quella legittima, e la sua origine. Il conte di Granville, per ubbidire al padre, aveva sposato una ereditiera ricchissima, che la madre bigotta aveva purtroppo foggiata a sua somiglianza. Lo studio di questo «carattere» (perché è bene un «carattere» di La Bruyère messo in azione) è d’una finitezza implacabile: un gelo, una rigidità più che giansenistica, da cui l’uomo s’allontana, lentamente e irreparabilmente. Resta il vuoto nella sua vita, nell’anima, e, dopo alcuni anni, viene a riempirlo l'amore per l’umile ricamatrice. Quando la sposa apprende (per uno di quegli intrighi in cui l’autore è maestro), il marito grida la sua avversione per la donna che ha contristato la sua vita, la sua casa, e l’ha condotto a crearsene un’altra. Questa seconda parte, con qualche eccessiva durezza, è ancora dell’ottimo Balzac, che anche sa animare la discussione, la polemica.

  Poi, la chiusa; in pochissime pagine, la morale del tutto inattesa. Granville, giunto al più alto grado nella magistratura, è invecchiato oltre l’età, triste, amaro; Carolina l’ha lasciato per un altro, un giovine disonesto e vizioso che l’ha tratta alla più scura miseria; un figlio di lei e di Granville si è perduto, è un ladro che, tratto in arresto, dichiara il nome di suo padre. Dopo avere così teneramente accarezzata la figura della compagna illegittima, e colorita la bigotta con le tinte più fosche (in un primo tempo il racconto ironicamente s’intitolava La femme vertueuse), lo scrittore s’è ricordato del suo sistema: la necessità dell’ordine tradizionale, assicurato dal cattolicesimo e dalla monarchia, quindi la condanna della famiglia illegittima. Condanna sommaria, che i lettori dimenticano, ricordando l’incantevole pittura di un amore, di un ménage irregolare, tanto giustificato, e l’aspro ritratto della bigotta.

  Le spose de la main gauche riescono sempre a quella fine, e in quali modi? Ecco il romanzo che Balzac poteva scrivere, e non l’ha fatto; solo ci ha imposto la conclusione, cui non crediamo, o piuttosto non badiamo. E se i fedeli non han perdonato Tartuffe ai Molière, come potrebbero perdonare a Balzac quella moglie bigotta, sincera e respingente? Gli uomini dell’ordine, i fedeli non sono teneri all’autore della Comédie Humaine, non se ne fidano, non se ne sono mai fidati. Hanno sempre avversato le sue pitture duramente realistiche, le sue finzioni romanzesche ov’è tutto uno spiegarsi di umane passioni, un disfrenarsi di umane energie per la conquista dei beni terreni; non si sono lasciati persuadere dalla sua predicazione conservatrice. O solo i cattolici letterati alla Barbey d’Aurevilly, o gli equivoci maurrassiani. Al più, l’hanno accettato come un imponente documento storico.

  Per venti anni, infatti, lo scrittore ha dovuto difendersi contro le accuse di immoralità, di empietà, gridare il suo credo, l’intento dell’opera sua, e ricordare i buoni, i virtuosi, non inferiori di numero ai malvagi, ai ribelli, nella Comédie Humaine. Come se fosse questione di numero ... L’inglese Henry Reeve, quello che nel 1835 consigliava per il vasto ciclo il titolo di Commedia Diabolica (e la suggestione doveva tornare forse nel titolo definitivo, alcuni anni dopo) giudicava Balzac «grande, ma ateo». Come un secolo fa, anche ora i cattolici ripetono la loro preoccupazione, il loro sospetto. Mauriac non dubita della buona fede e sincerità dell’uomo, che ha accolta la lezione di De Bonald e De Maistre, ma non può vedere l’effetto, la realtà dell’opera. Arditissima, precorrente i più audaci recenti sondaggi entro le paurose oscurità dei nostri istinti, anticristiana nella sua essenza, opponendo un rifiuto già nietzschiano alla domanda di Cristo: «Che serve all’uomo guadagnare l’universo, se perde la propria anima?». Ciò che uno scrittore della rivista Europe sintetizzava, nel settembre del ‘49, molto semplicemente: «Balzac reazionario? Pel suo biografo, non pel suo lettore!» dopo aver ricordato come nella Comédie Humaine sia tutto manifesto lo strapotere del denaro, e il sopravvento delle classi sull’individuo. (Poi l’Europe, volta più risolutamente a sinistra, ha dato l’anno dopo un Balzac estremista, quello che sorprendeva Carlo Marx con la scoperta, tutta naturale, l’indicazione delle forze economiche decisive, ed è ora mostrato dal Lukács nei Saggi sul realismo).

 La questione è stata aperta, si può dire, il 20 agosto 1850, con le parole di Victor Hugo sulla tomba del romanziere: «A son insu, qu’il le veuille ou non, qu’il y consente ou non, l’auteur de oeuvre immense et étrange est de la forte race des écrivains révolutionnaires». Ed è stata ancora variamente, seriamente dibattuta, durante il biennio celebrativo, in seguito all’ampio lavoro di Bernard Guyon, La pensée politique et sociale de Balzac. Ormai si andrà cauti a ripetere che solo il desiderio di piacere al nobile faubourg e alla marchesa di Castries (la quale non tardò a deluderlo), la fretta di arrivare, han condotto lo scrittore a farsi campione del legittimismo in piena monarchia popolare. Non si parlerà più di conversione, che, intorno al ‘30, sarebbe avvenuta nel senso contrario al moto generale degli spiriti (ciò che, del resto, non sconverrebbe troppo ad una robusta tempra e avventurosa quale è la sua); si dovrà considerare come la sua opposizione alla democrazia, alla «mediocrazia», non è assoluta, e ricordare l’atteggiamento non chiuso alle speranze repubblicane del ‘48.

  L’assolutismo del Balzac (già l’aveva detto il Taine) nasce piuttosto dalla sua morale: «Comme tous ceux qui ont mauvaise opinion de l’homme, il est absolutiste». Inoltre, egli tende risolutamente al sistema, all’unità, vuol costringere il suo mondo entro una legge, la più sicura e universale. Chiesa e monarchia sono i due potenti freni per contenere gli eccessi della depravata natura umana. Ma contro quei freni eroicamente combattono, si affermano eroicamente le persone più vicine al robusto creatore: avventurieri, ex lege, Vautrin, Rastignac, tanti altri ... Reazionario nelle pagine discorsive (osserva Albert Béguin, attento sopra tutto all’artista) Balzac è spontaneamente rivoluzionario nella creazione romanzesca, ove si mostra la vita nella sua essenziale libertà. Le médecin de campagne, che doveva riuscire una specie di Vangelo in azione, da diffondersi tra il popolo come un almanacco (l’autore constatò poi il1 successo affatto mancato) raccoglie in vasti discorsi tutto il sistema di Balzac, il pensiero che avrebbe dovuto piuttosto animare i singoli volumi. La sola parte viva, nel Médecin, è appunto la narrazione della gesta napoleonica, in bellissimo tono di epica popolare, fatta da un reduce della campagna di Russia: l’esaltazione della forza che era venuta a sradicare l’antico ordine.

  Tale il dissidio che appare nella Double famille e spesso altrove nella Comédie Humaine, tra la volontà dello scrittore predicante l’antico ordine, la disciplina, la legge, e l’istinto che lo porta ad esaltare le energie incontenibili della natura umana. Entro quelle strettoie pare anche abbia voluto rinchiudere se stesso, la propria forza, che si dimostra intera nella lotta contro i limiti impostisi. Con quella forza ha suscitato il suo mondo, un mezzo secolo prodigiosamente ricco della vita più intensa e diversa. Balzac è un grande storico: è il giudizio di quanti sono incerti davanti alla sua arte: non storico reazionario (qui aveva senz’altro ragione lo scrittore dell’Europe di due anni fa), semplicemente uno storico.

 

 

  Mario Luzi, Proust e Balzac, «Il Popolo», Roma, Anno VIII, N. 183, 4 agosto 1951, p. 5.

 

  Tra i quaderni nei quali Marcel Proust, esercitava la attesa per il suo vero e unico libro, sono di recente venute alla luce alcune pagine che sotto il titolo di Le Balzac de Monsieur de Guermantes costituiscono un vero e proprio saggio sull’arte e sulla natura del romanziere romantico. L’analisi, le riserve di ordine stilistico, il divertito orrore del gusto, il lieve scandalo dell’intelligenza e nonostante tutto questo uno scoperto affetto, un riconoscimento evidente del talento di Balzac, dimostrano, che le pagine sono della maturità e gli occhi posati sulla Comédie humaine già intravedono i tratti e i modi della Recherche. Confronto vivace che oppone non tanto due temperamenti quanto due eccezioni perenni della letteratura. A questo proposito è possibile forse ancora ingannarsi e credere per esempio che le insistenti note sulla banalità balzacchiana, nel linguaggio e negli atteggiamenti dei suoi personaggi, siano suggerite da un’offesa raffinatezza: tale opinione su Proust, di cui Gide fece ammenda, turba ancora un poco il giudizio generale sulla sua opera. La banalità di Balzac, e Proust non dimentica di farlo osservare, è la banalità del parvenu; ma se sopra di essa pende una del resto assai benevola condanna, queste non è pronunziata dal raffinato della rive gauche, ma dall’artista esigente che non ammette il perdurare nel dominio dell’arte di tali caratteri personali. E questo assunto si chiarifica se appena Proust passa a considerare il tema generale dello stile di Balzac in relazione alla sua nozione di stile: «Poiché non concepisce la frase come fatta di una sostanza speciale in cui deve eliminarsi e non essere più riconoscibile niente di quel che fu l’oggetto della conversazione, del sapere ecc., [Balzac] aggiunge a ogni parola la nozione che egli ne possiede, la riflessione che ispira. Se parla di un artista, dice immediatamente quel che ne sa, mediante semplice apposizione».

  E la sua conclusione è per quanto discreta nel tono sostanzialmente perentoria: «Lo stile è a tal punto il segno della trasformazione che il pensiero dello scrittore fa subire alla realtà che, rigorosamente parlando, in Balzac non c’è stile». Saint-Beuve (sic) s’è ingannato qui completamente: «Quello stile tanto spesso insicuro e dissolvente, snervato, irrorato e venato di tutte le tinte, quello stile, di una corruzione deliziosa, tutto asiatico, come dicevano i nostri maestri, più spezzato e più morbido del corpo di una mima antica».

  Non c’è nulla di più falso. Nello stile di Flaubert, per esempio, tutte, le parti della realtà sono, convertite in una medesima sostanza, dalle vaste superfici, d’uno scintillamento monotono.

  Non v’è rimasta alcuna impurità. Le superfici sono divenute come specchi. Tutte le cose, vi si, dipingono, ma per riflesso, senza alterarne la sostanza omogenea. Tutto quello che era differente è stato trasformato e assorbito. In Balzac invece coesistono non digeriti, non ancora trasformati, tutti gli elementi di uno stile a venire che ancora non esiste.

  Ora, osserveremo noi, proprio nella provvisorietà, nella; casualità dei mezzi di chi è intento a un’operazione dinamica, irriflessa — una conquista fervida ed affrettata di cose alla letteratura, una liberazione tumultuosa di vitalità soggettiva – consiste lo stile di Balzac; e se non esiste, come momento assoluto, cosciente non è per questo meno uno stile.

  Ritroviamo nè più nè meno che la vecchia disputa connaturale con la letteratura e con la varietà di attitudini che la determinano, tra estro ed espressione personali da un lato, e assolutezza rigorosa di propositi dall’altro. A parte lo stile in se steso, la nozione di stile si esalta e talvolta si irrigidisce nel secondo momento di contro al primo: si esalta in Baudelaire di contro a Lamartine e ai romantici larmoyants, in Flaubert di contro a Balzac e allo stesso Stendhal; si. irrigidisce nei parnassiani di contro allo stesso Baudelaire finché Mallarmé non trasferisce tale dialettica nel cielo puro della metafisica e dell’ontologia. Proust ha assorbito le esigenze, gli orientamenti, determinati da questo lungo corso d’idee per quanto in forma di ipotesi un dubbio sembri o volte insinuarsi nel suo spirito: «Forse la verità dal punto di vista di Flaubert, Mallarmé ecc., ci ha un poco saziati e cominciamo ad aver fame dell’infinitamente piccola parte di verità che può esserci, nell’errore opposto?». Ma non era dubbio da poter seriamente attaccare le convinzioni di chi portava già in sè la Recherche. E la natura delle sue riserve diviene più precisa e nel tempo stesso fondamentale quando manifestando il suo disappunto per l’intrusione della personalità pratica di Balzac nell’ordito interiore e nei segni estrinseci della psicologia dei personaggi, avverte che il difetto di stile risale a un’erronea concezione e ad aberranti aspirazioni infiltratesi nell’attitudine impura dell’artista.

  «Hai trovato, dice, qualche volta Flaubert volgare nella sua corrispondenza. Ma lui. almeno non ha niente di volgare, perché ha capito che il fine della vita dello scrittore è nella sua opera e che il resto non esiste se non per l’impiego di unillusione da descrivere. Balzac mette addirittura sullo stesso piano i trionfi della vita e della letteratura».

  La lunga riflessione sui mezzi e sulla natura dei mezzi di ogni singola accezione dell’arte che arriva al suo dramma in Mallarmé, che nel contempo anche Flaubert conduceva, continua dunque in Proust il quale più simile a Mallarmé che a Flaubert né fa la sostanza stessa della sua opera.

 

 

  Carlo Martini, Roma, a volte, può anche deludere. Balzac cercò per due giorni la “Fornarina” che non poteva amare, «Il Popolo di Roma», Roma, Anno II, N. 136, 9 giugno 1951, p. 3.

 

  Piazza Navona, il Caffè Greco, il Corso e la Fontana di Trevi furono i luoghi ove lo scrittore trasportò l’ansia di una passione repentina.

 

  Balzac giunse a Roma per la Settimana Santa del 1846. Scese alla Locanda Aliberti, tra Babuino e piazza di Spagna. Ere venuto a Roma per ispirarsi per un nuovo romanzo e per raggiungere madame Hanska, una sua vecchia fiamma conosciuta tredici anni prima ai bagni termali di Neuchâtel (sarà tua futura moglie per pochi mesi). La signora era venuta dalla Polonia a svernare al sole di Roma. E’ entusiasta dell'Urbe. Apre le finestre della Pensione: ah quanta luce, quanto tepore. quanta dorata luce di primavera! Scrive subito alla sorella Laura: «Chi non sarà venuto a Roma per una volta almeno nella vita, nulla saprà mai dell’antichità, dell’architettura, dello splendore e dell’impossibile qui fatti realtà ...».

  Dunque il possente romanziere è venuto a Roma, oltre che per madama, con un suo preciso disegno; veder (in fretta: come è suo costume) tutta Roma: e fare dell’Urbe cornice e quadro d’un suo nuovo romanzo.

  E’ stato ricevuto da Gregorio XVI; ha baciato le sacre pantofole. E’ invitato a palazzo Farnese. In una delle sale immortalate dai Caracci, Michelangelo Gaetani (sic), duca di Sermoneta, davanti a un pubblico eletto di diplomatici, illustri artisti e gemmate dame, legge e commenta un canto della «Divina Commedia». (Al grande dantista romano, Balzac dedicherà la «Cugina Betta»).

  Elegante la ducal lezione ma vicino alla poltrona del romanziere sedeva una bellissima donna. Somigliava, pensava Balzac, quella donna dal profilo romano addolcito da un certo languore raffaellesco, alla Fornarina: e mentalmente battezzò la bellissima sconosciuta Fornarina II. Bella e fluente la parola del duca Gaetani. Applausi. Finalmente la conferenza è finita. Balzac vuol seguire la sconosciuta. Sfugge gli amici, e si precipita giù per la scalea insigne: vuol raggiungere la Fornarina II. E’ sul portone: la bramata donna è a pochi passi: ma d’improvviso Balzac sente una manaccia pesare sulla sua spalla. Freme. Si volta sgarbatamente: è uno scocciatore: l’insopportabile podestà di Avignone. Il tripputo podestà vuole complimentarsi col grande romanziere. Incomincia lentamente: «Grande maestro ...». Ma questi lo liquida con spicce parole. Pianta il podestà, che rimane umiliato con la bozza semiaperta, e riprende l’inseguimento. Ma bastarono quegli attimi d’intoppo avignonese perché la novella Fornarina disparisse. Balzac gira inquieto per piazza Farnese, cerca in Campo dei Fiori: inutilmente. Si spinge fino al Circo Agonale: aguzza gli occhi qua e là: inutilmente. Maledice la perfida Avignone e il suo podestà e torna alla Pensione.

  Non potè dormire quella notte. Sospira l’alba. Ecco le prime luci. Balzac balza dall’inquieto letto; vorrebbe uscire subito, girare: trovarla.

  Ma nella stanza accanto posa le sue bionde membra Madame Hanska. Ma la fortuna fu indulgente quel giorno con Balzac. Madame avverte il suo Onorato che è troppo stanca: il giorno prima ha visitato troppe chiese; sia indulgente, comprenda, la lasci a letto sino a mezzogiorno. «Ma sì cara, riposa pure fino a mezzogiorno». «E tu dove vai?». «Vado all’Accademia di Francia, da un amico pittore». La bacia. Si fa baciare. Esce. Fila per via Condotti: entra al Caffè Greco: domanda al cameriere dove usano passeggiare la mattina le belle signore romane. Il cameriere gli indica i punti strategici: la pasteggiata del Corso, la messa delle undici alla Chiesa di San Marcello, il mercato dei fiori in piazza di Spagna, la libreria inglese all’angolo del Babuino. Balzac corre in tutti questi luoghi. Scruta tutte le donne più belle ed eleganti. Il suo cuore fa toc toc come a vent’anni. Gira. Osserva, Molte donne lo fanno trasalire; ma no: non sono quell’unica. E’ ormai mezzogiorno. Bisogna ritornare alla Pensione: a quell’ora la signora polacca avrà già liberato il sonno dalle sue lunghe ciglia violette. Prima del Caffè Greco sente dietro di sè una fresca voce: «Maestro! Maestro!». E’ un giovane pittore francese, un pensionato dell’Accademia di Francia. E’ un giocane simpatico. Lo aveva conosciuto a Parigi. Con lui si confida: «Sto cercando la più bella donna di Roma». Il giovane sorride: «Io conosco la più bella donna di Roma». Il maestro è un po’ inquieto (e geloso): si fa descrivere, questa bella donna: risorride: non può essere Fornarina II. «N, no, caro amico: non è lei Se voi l’aveste veduta! Nulla di simile abbiamo in Francia. Bella come la Fornarina. Ma forse più gentile. Non avrò pace fino a che non la ritroverò».

 

***

 

  Il giorno dopo Balzac riprende la caccia. Inutilmente. Sta rassegnandosi: tornerà l’anno venturo. Intanto va alla Fontana di Trevi: vi butterà una moneta: per avere certezza di ritornare a Roma. Ma ecco che nella breve piazza ricurva appare lei. Come bella, come elegante! Balzac con passo quasi di danza la segue. La gentilissima ha un passo piuttosto veloce: chissà mai dove è diretta. Balzac svicola per vie strettissime, s’insinua tra la folla a zonzo per il Corso; tra ombre, silenzi, sole e fontane tien dietro alla presunta Fornarina II sino alla piazza delle Tartarughe: qui la desiata s’infila in un portone: Balzac entra anche lui, raggiunge la donna sul primo gradino dello scalone: le s’inchina: la supplica: dove posso vederla? Essa gli sorride: «Domattina, signore, alle undici, dopo la Messa, alla Chiesa del Gesù».

  Il mattino dopo Balzac, puntualissimo, è davanti alla Chissà del Gesù L’aria odorava di violette. Eccola! Il romanziere corre verso di lei: un lieve inchino e poi la saluta con parole italiane che aveva mandate a memoria il giorno prima: «O divina figlia di Roma, o bellissima ...». Ma la donna, nel più perfetto idioma parigino, interrompe il poetico omaggio: «Sono veramente felice di conoscervi di persona, signor Balzac. Io sono una grande ammiratrice dei vostri romanzi; e, guardi che strana combinazione, sono nata anch’io, come voi, a Tours, e proprio nella medesima strada, in rue de l’Armée d’Italie, quattro numeri più in là di casa vostra: il 103. E mi chiamo Onorina anch’io perché anch’io come voi sono nata il giorno che a Tours è gran festa, il giorno di Sant’Onorato ...».

  Balzac è divenuto pallido. Le altre parole gentili che voleva dire alla bellissima rimangono murate nel suo cuore. L'aria per lui non sapeva più di violette. Roma ormai gli sa di cenere.

 

 

  Salvatore Maturanzo, Il Centenario di Balzac, «Quadrante italico. Mensile di cultura e attualità», Bergamo, Anno III, N. 1, Febbraio 1951, pp. 6-7.

 

  Nella prima metà del secolo scorso si spegneva a Parigi uno dei più famosi romanzieri francesi dell’ottocento: Honoré de Balzac, che brillò per il suo chiaro talento e per la sua prolificità artistica, veramente felice, nella radiosa stella dei grandi contemporanei, glorificati dalla storia e dall’Arte.

 

Come Enrico IV.

 

  Gli aspetti della vita di Honoré de Balzac, non facile nè troppo felice, presentano tutte le caratteristiche e le attrattive dell’esistenza dei veri artisti. Vita smodata, avventurosa, precaria, evoluta, stravagante ed originale. La strana vita che di un solo uomo fa due personalità: quella civile e quella artistica.

  Balzac insegnava, per passatempo, il latino alle sorelle, in casa. Scriveva molto ma i suoi romanzi, quantunque famosi, e di facile vendita, non gli procuravano mezzi sufficienti per il necessario della vita. Ed era sempre pieno di debiti.

  Una volta si indebitò al punto che quando riscosse gli emolumenti di un suo romanzo, non gli bastarono per placare le furie dei suoi creditori irritati, ed anzi dovette rifondere alcune centinaia di franchi dal proprio.

  La sorella Laura si era trasferita a Parigi, col marito e le due figlie. Balzac si recava da lei, a pranzo, tutte le sere.

  L’indigenza, in cui versava, talora lo rendeva bizzarro, spiritoso ed allegro. Soleva scherzare con tutti. Specialmente lepido con la sorella Laura, che chiamava, per antonomasia, Petrarca, e ne rideva egli stesso. La fortuna finanziaria era totalmente agli antipodi della fortuna letteraria che, copiosa e spontanea, arrise a Balzac.

  I creditori furono il costante tormento della sua vita. Ma egli, a volte, riusciva ad ignorarli addirittura, come se non esistessero. Si trastullava, per intere giornate, con le nipoti, come soleva fare Enrico IV coi figli. Talché la sorella gli rimproverava di perdere del tempo assai prezioso. Balzac, per ripagarla, senza smaltire la sua bizzarra allegria, chiedeva un foglio di carta ed una matita ...

 

La stella del nord.

 

  Assillato dai debiti, pressato dai creditori, annoiato dalla sua vita precaria, tuttavia, Onorato di Balzac alimentava un amore per corrispondenza, a distanza, che durò la bellezza di oltre tre lustri. Egli amava Eva Rzwuska, vedova Hanska (sic).

  Eva era un’aristocratica polacca, pronipote di Maria Leczinsky, regina di Francia.

  L’amore tra la slava ed il narratore francese, malgrado l’enorme distanza e la diversità di caratteri e razza, filava magnificamente.

  La corrispondenza dei due fidanzati romantici aveva creato di essi due personaggi irreali, due fantasmi romantici, due figure di sogno, unite reciprocamente da una passione intensa che annullava ogni distanza col raccordo del sentimento.

  L’amore di Eva costituiva il bottone d’orgoglio di Balzac.

  Uomo semplice cd inviso alla fortuna, Balzac, sempre indebitato, era abbaglialo dagli usi e costumi dell’aristocrazia che si sforzava tenacemente di imitare.

  Eva fu chiamata dallo scrittore Stella del Nord e Fata delle Nevi. Onorato ambiva sposarla presto e ne anelava ardentemente l’ora dorata.

  I due innamorati si incontravano raramente, a metà strada dai loro paesi, con gravi difficoltà di viaggio, per quei tempi, ed evidenti sacrifici, per l’immensa gioia di guardarsi negli occhi, di abbracciarsi e desiderarsi, nei brevi e fugaci istanti concessi.

  Quegli incontri più che giovare allo sfogo del loro amore non facevano che eccitare gli spiriti già troppo ardenti.

  Erano quasi coetanei — Onorato contava 50 anni ed Eva 51 (sic)— quando, in una lontana borgata dell’Ucraina, l’Abate Czarowski li unì in matrimonio. Finalmente si realizzava un grande amore durato diciassette anni per corrispondenza.

  Ma gli sposi, al loro arrivo a Parigi, non avevano affatto sul viso la luminosa gioia di tutti gli sposini in luna di miele. Tutta la dolce e poetica trama di illusioni, frasi ed immagini creata dalla corrispondenza, nel cielo dorato del sogno d’amore, era crollata sulla gelida soglia della realtà. I due esseri che così fedelmente, e con una tenacia assoluta ed incomparabile, si erano amati per sì lungo tempo, ora, nella vita reale, si trovavano improvvisamente separati dalla muraglia della incompatibilità, interpostasi tra i loro cuori delusi.

  Balzac ed Eva andarono ad installarsi in una casa del 18° secolo sita in Rue Fortunée.

  Eva si diede subito alla bella vita. Allacciò amicizie dapertutto, con le nobildonne del tempo, che prese a visitare spesso. Quando poi riceveva, non lo faceva affatto per discorrere delle opere e della fama di suo marito.

  Durante i ricevimenti in casa, Eva Rzwuska conobbe un pittore francese: Gigoux. Gigoux era un pittore mediocre, di scarso talento ma, in compenso, era un bellissimo uomo. Costui fece subito colpo sulla signora de Balzac. Ella accettò di buon grado la sua corte come diversivo al suo fosco matrimonio con lo scrittore.

  In luglio Balzac si ammalò. Fu necessario un consulto. Lo tennero quattro famosi clinici di Parigi. Uno di questi dichiarò a Victor Hugo, che gli sollecitava notizie di Balzac, che l’illustre infermo era spacciato: non gli restavano più di cinque o sei settimane di vita.

  Nella seconda decade di agosto Balzac peggiorò. L’ala della morte cominciava a sfiorare la sua esistenza fisica.

  Nessuno meglio di Victor Hugo, nelle Cose viste, ha descritto la tragica e penosa agonia del grande scrittore francese, suo contemporaneo.

  L’indegna consorte apprese la ferale notizia tra le braccia di Gigoux. Non mostrò eccessivo stupore. Si preoccupò soltanto soverchiamente di occultare l’uomo che le aveva montato la testa, in compagnia del quale sarebbe vissuta più lungo tempo che con Balzac.

  Il 20 agosto del 1850 il feretro di Honoré de Balzac attraversò tutte le strade di Parigi, tra la commozione e la deferenza generali, prima di esser sepolto nel Cimitero del Père-Lachaise, dove, poco prima, era giunto, per l’eterno riposo, quello di un genio del pentagramma Chopin.

 

Il Filosofo della penna.

 

  I romanzi fecero immediatamente celebre Balzac appena apparvero. Essi abbracciano un ciclo storico che va dal 1789 al 1848. Ogni personaggio è inquadrato in un avvenimento reale e costituisce di per se stesso un fatto vivo del più grande interesse.

  Balzac trasportò nel campo dei costumi e delle passioni umane la scienza della fisiologia. Egli fu un filosofo della penna, una penna forte ed estrosa. Scaturì, da ciò, la Fisiologia del matrimonio che è quanto di più arguto, di più sottile, induzioso ed analitico si sia mai scritto in materia. Nell’opera balzachiana si accoppia alla profondità di pensiero una cristallina vena di umorismo ed un certo tratto di stile che la rendono piacevole, gradita ed avvincente.

  Balzac vedeva nella Chiesa e nella Monarchia i pilastri della civiltà europea. L’opera sua dovette esclusivamente al suo eccezionale valore intrinseco il significato per il quale si salvò dall’oblio e rimase nel marmo del tempo, dall’epoca rivoluzionaria dei francesi. Ecco perché le sue dramatis personae appartengono ad un’epoca.

  Considerò suoi Maestri: Chateubriand (sic) e De Maistre. Nel tempo aureo della letteratura francese, di Zola e Flaubert, Taine e Renan, Stendhal, Sainte-Beuve, Victor Hugo, Balzac e Stendhal furono a ragione considerati i capostipiti del romanzo realistico dell’ottocento.

  Balzac fu famoso narratore ed eccellente critico. Polemizzava apertamente con Stendhal rimproverandolo principalmente per la sua mollezza e la superficialità di concepire la vita. Espresse inoltre acuti e severi giudizi sull’opera di Eugenio Sue e di Walter Scott.

  Balzac, grande scrittore, era altresì grande disordinato. Quando componeva era tale la confusione e la moltitudine delle sue correzioni che i compositori stipulavano un apposito contratto col padrone della tipografia. Nel contratto era sottolineata la clausola particolare in virtù della quale il compositore si impegnava di lavorare non più di due ore di Balzac al giorno.

  L’editore parigino Floussiaux (sic) pubblicò un’edizione completa delle sue opere, composte di 90 romanzi o novelle, formanti 120 volumi in 8°. Fu calcolato che i personaggi balzachiani assommano a ben 5009.

  La figura di Honoré de Balzac, l’autore della Comédie Humaine, il creatore di Papà Goriot, Cesare Birotteau, Eugenia Grandet, si inquadra nell’ottocento romantico della comune passione per le almee, i giannizzeri, gli sceicchi e le odalische velate che riecheggiano Les Orientales di Victor Hugo.

 

 

  André Maurois, Sagesse de Balzac, «Quaderni ACI», Torino, Edizione Associazione Culturale Italiana, 5, 1951, pp. 5-24.

 

  Point de texte où l’on saisisse mieux, et sous forme plus ramassée, la sagesse d’un écrivain, qu’une lettre d’apprentissage comme celle que composa Goethe pour Wilhelm Meister, et où le romancier, instruit lui-même par la vie, fait de son expérience une gerbe pour l’offrir au jeune homme qu’il fut. Nous trouvons, dans l’œuvre de Balzac, plusieurs de ces «sommes». Et d’abord la lettre qu’écrit, dans le Lys dans la Vallée, Madame de Mortsauf à Félix de Vandenesse, au moment où celui-ci va la quitter pour affronter, à Paris, le monde des grandes affaires et des passions dangereuses.

  La sagesse qu’enseigne Henriette de Mortsauf à son jeune amant est double: respect des règles sociales, parce qu’une lutte sur des points de détail épuiserait en vain le débutant; mais intransigeance sur l’essentiel des croyances de l’individu. En d’autres termes la stratégie, dans la guerre pour les intérêts, comme dans la guerre des armées, doit demeurer napoléonienne. L’objectif est d’être le plus fort en un point choisi, à un moment crucial. «Ne vous battez jamais», recommande Madame de Mortsauf à Félix, «que sur un point, avec toutes vos forces». Elle ajoute:

  «Battez-vous honnêtement», et malgré son air de lieu-commun, cette régie est originale. Les conseillers cyniques, toujours actifs et séduisants, affirmeront au jeune homme que l’on ne fait pas son chemin par les sentiments, que la morale retarde la marche. Madame de Mortsauf est d’un avis tout contraire: «La droiture, l’honneur, la loyauté sont», lui dit-elle, «les instruments les plus sûrs et les plus prompts de votre fortune».

  Toutefois il ne faut pas, comme certains héros de Stendhal, tendre ses filets trop haut et galvauder les sentiments nobles dans des affaires d’argent ou d’ambition. «N’apportez ni au bazar du monde, ni aux spéculations de la politique, des trésors en échange desquels ils vous vendront des verroteries». Avec la plupart des hommes, il faut non de l’ardeur, de la tendresse ou de la colère, mais de la froideur, un dédain qui aille jusqu’à l’impertinence, et un silence presque absolu sur soi-même. Les grands sentiments doivent être réservés pour l’amitié et pour l’amour.

  Parce qu’elle aime Félix, Madame de Mortsauf a naturellement beaucoup à dire sur les rapports du jeune homme avec les femmes. «Gardez-vous des femmes mondaines», recommande-t-elle. «Elles jouent toutes la comédie ... Toutes penseront à elles et non à vous, toutes vous nuiront plus par leur vanité qu’elles ne vous serviront par leur attachement; elles vous dévoreront sans scrupules votre temps, vous feront manquer votre fortune, vous détruiront de la meilleure grâce du monde ...» La femme qu’elle conseille au jeune homme d’aimer est celle qui, fidèle par nature, solitaire par goût, vivra de ses paroles. «Que cette femme soit pour vous le monde entier, car vous serez tout pour elle; aimez-la bien, ne lui donnez ni chagrins ni rivales, n’excitez pas sa jalousie, mais soyez bien sûr du coeur où vous placerez vos affections ...».

  Et sans doute nous n’ignorons pas qu’en l’occurrence Madame de Mortsauf, sous le couvert d’idées générales, prêche pour le type de femme qu’elle représente et pour le type de vie qu’elle peut concevoir, mais c’est la grandeur de Balzac que de se jeter tout entier dans le jeu de chacun de ses personnages. Au moment où il écrit, sous le nom d’Henriette, cette belle lettre, sa pensée coïncide authentiquement avec celle de Madame de Mortsauf. Cela n’est possible que parce qu’il y a en Madame de Mortsauf une part, et la meilleure, de Balzac. Il a su se faire aimer de cette façon qu’il nommerait «sublime», et il était capable de comprendre ce qu’il y avait de grand dans un tel amour.

  Mais nous allons voir un autre aspect de Balzac, entièrement opposé en apparence à cette haute et sage raison, dans la leçon sur la conduite de la vie que donne Vautrin, sous le déguisement de l’Abbé Carlos Herrera, au jeune Lucien de Rubempré. Là le cynisme triomphe absolument. «Il y a», dit à peu près Vautrin à Lucien (je ne cite pas, mais paraphrase de mémoire), «il y a deux histoires: l’histoire officielle, tissu de mensonges où de nobles sentiments expliquent les actions; et l’histoire secrète, la seule vraie, où la fin justifie les moyens. Richelieu est devenu Richelieu en sacrifiant un bienfaiteur. Napoléon écarta l’un des meilleurs parmi ses maréchaux, Kellermann, parce que Kellermann l’avait un jour sauvé de la défaite et que l’Empereur ne voulait ni sauveur, ni rival. Ne voyez dans les hommes, et les femmes, que des instruments; mais faites en sorte qu’ils ne sachent pas que telle est votre attitude à leur égard. Vous voulez dominer le monde, n’est-ce-pas? Il faut commencer par lui obéir et par le bien étudier. (C’est, transposée dans le monde moral, la régie qui est la clef du monde physique: l’homme ne commande à la nature qu’en lui obéissant). Or, si vous étudiez le monde, vous reconnaîtrez que les hommes, pris dans leur ensemble, sont fatalistes; ils adorent l'événement, ils se rallient au vainqueur. Réussissez donc; vous serez justifié. Vos actions ne sont rien en elles-mêmes; elles sont l’idée que les autres s’en forment. Ayez de beaux dehors; cachez l’envers de votre vie et présentez un endroit très brillant. Si vous vous permettez de petites infamies, que ce soit entre quatre murs. Tout est dans la forme».

  Naturellement Vautrin est trop intelligent pour ne pas sentir que Lucien, bien que tenté par une vie de succès et de plaisirs, a encore en lui quelque chose de candide qui proteste contre ces impudentes maximes. Aussi cherche-t-il à les faire passer pour évidentes et inoffensives: «Quand vous arrivez à une table de bouillotte», continue Vautrin, «en discutez-vous les conditions? Les règles sont là; vous les acceptez ... Est-ce vous qui faites les règles au jeu de l’ambition? Pourquoi vous dis-je de vous égaler à la société? Parce que la société s’est aujourd’hui arrogé tant de droits sur les individus que l’individu se trouve obligé de combattre la société».

  Et le même Vautrin, s’adressant à un autre jeune ambitieux, Rastignac, est plus brutal encore: «Savez-vous comment on fait son chemin ici? Par l’éclat du génie ou par l’adresse de la corruption. L’honnêteté ne sert à rien ... Je vous défie de faire deux pas dans Paris sans rencontrer des manigances infernales ... Voilà la vie celle qu’elle est. Ce n’est pas plus beau que la cuisine; ça pue tout autant, et il faut se salir les mains si l’on veut fricoter. (Ici Sartre et les Mains sales). Sachez seulement bien vous débarbouiller: là est toute la morale de notre époque. Si je vous parie ainsi du monde, il m’en a donné le droit, je le connais. Croyez-vous que je le blâme? Du tout. Il a toujours été ainsi. L’homme est imparfait. Les moralistes ne le changeront jamais. Il est parfois plus ou moins hypocrite et les niais disent alors qu’il a ou n’a pas de mœurs. Je n’accuse pas ici les riches en faveur du peuple ; l’homme est le même en bas, en haut, au milieu».

  Voilà, contre l’humanité — et contre l’honnêteté — le plus dur des réquisitoires. Or Balzac prête à Vautrin autant d’éloquence persuasive qu’à Madame de Mortsauf. Il se jette tout entier, à son heure, dans cette aggressive (sic) misanthropie. Nous constatons donc, dans sa morale pratique, une dualité bien tranchée. Sans doute est-ce là un caractère de toute pensée dès qu’elle est profonde; sans doute la dialectique exige-t-elle que toute idée, si elle est poussée jusqu’à ses extrêmes conséquences, appelle son contraire. Mais cette dualité s’explique aussi par un conflit entre la nature de Balzac et les expérience (sic) de son existence. La nature, chez lui, était tendre. Là-dessus tous les témoins qui ne sont pas des envieux semblent d’accord. L’enfant Honoré de Balzac fut affectueux et sensible; l’homme était très bon. George Sand, qui s’y connaissait en bonté, l’a écrit avec force: «Dire d’un homme de génie qu’il était essentiellement bon, c’est le plus grand éloge que j’en sache faire ... J’ai toujours vu Balzac sous le coup de grandes injustices, soit littéraires, soit personnelles; je ne lui ai jamais entendu dire de mal de personne ... Mais sceptique envers l’humanité, il frappe les anges sortis de son cerveau du même fouet dont il a déchiré les démons, et il leur dit moitié riant, moitié pleurant: «Et vous aussi, vous ne valez rien, puisqu’il faut que vous soyez hommes! Allez donc au diable avec le reste de la séquelle».

  Oui, Balzac était bon. Il suffit de lire Louis Lambert, le Lys dans la Vallée, le Médecin de Campagne pour retrouver l’instinct naïf et tendre qui était au fond de lui-même. Mais l’expérience lui avait révélé la puissance du Mal, et cela beaucoup plus durement qu’à ceux que protègent l’argent, l’affection ou le pouvoir. George Sand, elle aussi, avait eu des malheurs sentimentaux; elle n’en était pas moins demeurée la châtelaine de Nohant; ses plaies d’argent avaient été des misères de femme riche; toute jeune, elle avait joui d’une merveilleuse indépendance. Balzac avait connu l’authentique pauvreté, celle de la bourse et celle du cœur. Il avait été l’enfant que sa mère n’aime pas et qu’elle néglige, le collégien sans argent, raillé par des garçons sans pitié. Il avait souffert, dans la mansarde de la Rue Lesdiguières, de la misère, traversée de rages, dont il devait faire celles de Rastignac, et sans doute, comme son héros, avait-il, à ce Paris si fort et si impitoyable, jeté le défi grandiose: «A nous deux maintenant!» Il avait vécu dans une étude d’avoué, «la plus horrible des boutiques sociales», et il y avait été le témoin des crimes secrets que suscite l’argent. Il avait lutté contre les usuriers et les liquidateurs de faillite. Il avait eu à conquérir sa place dans un monde alors très fermé, monde que Sand s’offrait la (sic) luxe de mépriser parce qu’elle en était par droit de naissance, mais dont Balzac avait besoin et qui lui fit payer bien cher ses entrées. «Quand j’allais dans les hautes régions de la société», dit-il, «je souffrais par tous les points de lame où la souffrance arrive». Chacun juge le marché du monde par ce qu’il y a trouvé; Balzac y avait trouvé la méchanceté, la vanité, l’égoïsme et l’envie. Les malheurs de Birotteau ou de Séchard étaient les siens.

  Cependant à deux femmes, Laure de Berny et Zulma Carraud, il devait d’avoir connu la tendresse et le dévouement qu’appelaient avec angoisse sa timidité et son affection avide d’enfant frustré. Par elles il avait compris ce que peut être le sublime des grandes âmes et elles avaient apporté, dans son tableau de la vie, les lumières qui devaient équilibrer tant de masses sombres. Mais à côté de rares êtres dignes d’être aimés, que de monstres il avait rencontrés! La Peau de Chagrin n’est qu’une peinture symbolique de la cruauté et de la bassesse du monde. L’argent y achète la puissance, la pensée, la chair, le plaisir, tout, sauf l’amour vrai. Or l’expérience de Raphaël est celle de Balzac.

  Le climat de l’époque avait, sur ce point, renforcé les impressions personnelles. Le règne de Louis-Philippe ne fut certes pas un temps de grandeur morale. Point de foi profonde, religieuse ni politique; une course aux places, au pouvoir, à la richesse. C’est le temps de la révolution industrielle, des sociétés par actions, de la spéculation. L’Angleterre de la même époque n’est pas plus généreuse. Le diagnostic de Dickens et celui de Disraeli ressemblent à celui de Balzac, bien que les apparences, à Londres, soient mieux préservées qu’à Paris.

  Certes, il y a eu des canailles en tous les temps et l’Ancien Régine avait produit les siennes comme la Monarchie de Juillet, mais les régimes absolutistes sont plus adroits à laver leur linge sale en famille; leurs scandales sont mieux cachés. Les Français du dix-septième siècle avaient pu croire à la monarchie et à la religion; les Français du dix-huitième siècle avaient cru aux philosophes et à la Révolution; les Français du Directoire et du Consulat avaient cru en Bonaparte, ceux de l’Empire en Napoléon; pendant la Restauration, la moitié de la France avait mis ses espérances dans le souverain légitime, et l’autre moitié en ceux qui le renverseraient. Après 1830, on avait demandé à un pays déçu par la Révolution de croire en un Roi qui n’était même pas légitime. Foi monarchique et foi révolutionnaire s’étaient révélées des escroqueries. Ecoeurés, désabusés, sans croyance de refuge après l’écroulement du saint-simonisme, les jeunes hommes étaient allés au cynisme.

  Alors fut inventé l’«arrivisme»; c’était la seule doctrine qui survécut, et ce n’était pas une doctrine, mais une recette de basse cuisine temporelle. L’homme politique de ce temps, c’est Thiers. Vieillard illustre, il apparaîtra en 1871 comme un sauveur. Au début de sa carrière, il est Rastignac, l’ambitieux à l’état pur. Et l’on regrette que Balzac n’ait pas vécu assez vieux pour peindre Rastignac chef du gouvernement provisoire. Quel beau et dur roman cela eût été! Dans ce désert de la foi, l’argent devient une religion, à la lettre, puisque c’est à lui que va le respect. La Science pourrait encore donner quelques beaux espoirs, mais sa puissance est alors mal définie. Les hommes de 1840 sont assez savants pour douter des croyances de leurs pères, pas assez pour imaginer un grand avenir. Les esprits, ne pouvant se raccrocher à rien qui dépasse l’homme et le moment, ne s’exercent plus que sur des fins égoïstes.

  Donc Balzac a, pour être pessimiste, deux puissants groupes de motifs, l’un personnel, l’autre historique. Aussi sa peinture de la société est-elle très noire. Les méchants, dans ses romans, triomphent souvent et sans remède. S’il déchire les anges qu’il a crées, aussi durement que les démons, c’est qu’il a constaté que la vie est ainsi. Le dénouement heureux est à ses yeux l’un des aspects de «l’hypocrisie du beau». Les Paysans, qui tuent le garde Michaud, sont de sinistres gredins, mais ils resteront maîtres du terrain. Dans l’Interdiction, le mari que veut faire interdire Madame d’Espard est un être admirable, mais la femme trouvera un mauvais juge et c’est elle qui aura gain de cause. César Birotteau a commis des erreurs, bien sûr, mais il est honnête et vaut cent fois mieux que les du Tillet, Werbrust, Palma qui le persécutent; il sera pourtant vaincu et ruiné. La Cousine Bette est la haine incarnée; elle aura la peau du Baron Hulot et mettra même en échec la vertu d’Adeline Hulot. Le Cousin Pons, qui est inoffensif, sera dépouillé de tous ses biens: le bon et naïf Schmucke se verra évincé; ce sont les ignobles Camusot qui, par l’habileté de leurs hommes d’affaires, hériteront du malheureux collectionneur que leur cruauté a tué. Vautrin, bandit capable de tout, deviendra chef de la Sûreté. Rastignac et de Marsay gouverneront la France, cependant que les hommes de génie, Louis Lambert, d’Arthez ou Rabourdin (le héros des Employés) échoueront. Le banquier Nucingen liquidera trois fois, sans aucun scrupule, en faisant de son mieux pour ruiner ses déposants; à ce jeu il s’enrichira; les hommes d’esprit, Bixiou, Blondet, admireront en riant son audace et sa ruse; et Balzac lui-même dira que Nucingen a élevé la liquidation à la hauteur d'une politique.

  Relisez Une Ténébreuse Affaire. Le garde Michu est un saint. Il s’est résigné, par honneur et pour être fidèle, à passer pour un traître. L’opinion publique le tient même pour un monstre. Pourquoi? Parce que son visage est terrible et que l’événement l’a desservi. Or Michu sera jugé sur les apparences et non sur ses vertus réelles. Laurence de Cinq-Cygne, héroïne du livre, est conduite à sa perte par la noblesse même de son caractère; ses cousins Simeuse de même. «Ils sont perdus», dit le procureur Bordin. «Hélas! toujours par la fierté de leurs sentiments», répond le Marquis de Chargeboeuf. Le policier Corentin, au teint de limonade, se montre sans pitié. Son dur sang-froid, au milieu de cette tragédie, nous paraît affreux. Mais il gagnera une difficile partie, parce qu’il joue bien, encore qu’un peu trop passionné par le souvenir d’une insulte. Le plus sûr garant de l’innocent serait encore le juge professionnel «qui a cette conscience que tout homme met à s’acquitter des devoirs qui lui plaisent ...» Le magistrat ne se fie qu’aux lois de la raison, tandis que le jury se laisse entraîner par les ondes du sentiment. Aussi la justice populaire est-elle toujours injuste. De cette ténébreuse affaire, les innocents sont les victimes et Balzac se borne à enregistrer le verdict de l’événement.

  Tous ces drames seront d’ailleurs vite oubliés. «L’histoire vieillit promptement», dit Balzac, «constamment mûrie par des intérêts nouveaux et ardents». Phrase admirable. La noble jeunesse de Laurence s’indigne de voir Michu, innocent, aller à l’échafaud. Napoléon, sur le champ de bataille d’Iéna, montre d’un geste l’armée à cette jeune femme indignée: «Voici trois cent mille hommes», lui dit l’Empereur, «ils sont innocents, eux aussi! Eh bien! demain trente mille de ces hommes seront morts, morts pour leur pays ... Sachez, Mademoiselle, que l’on doit mourir pour les lois de son pays comme on meurt pour sa gloire». Ainsi Napoléon sacrifie l’accusé, non coupable, à ce qu’il croit être la raison d’Etat. Je dis croit être, car il se trompe et l’Empereur lui-même ne sait pas la vérité. Le lecteur, lui, l’apprend par hasard, vingt ans après, toutes cendres refroidies, par une confidence négligente de ministre dans un salon. Ainsi, comme dit Alain, l’histoire devient épopée. Balzac excelle en ces fins de romans qui rejettent à un passé aboli le drame qui, pour ses acteurs, fut un moment leur chair et leur sang. Tel est le dénouement de la Duchesse de Langeais. «N’y pense plus que comme nous pensons à un livre lu pendant notre enfance», dit Ronquerolles à Montriveau. «Oui», dit Montriveau, «car ce n’est plus qu’un poème». Tel est encore celui de la Femme de trente ans, où l’affreuse aventure de Lord Grenville ne nous parvient plus que «par une sorte d’écho amorti qui se perd déjà dans le bruit des conversations». Car ce qui fut un drame n’est plus qu’un sujet d’entretien, pour le Faubourg Saint-Germain, au coin d’un feu, chez la Marquise d’Aiglemont. La réalité devient poésie dès qu’elle cesse d’être présente, comme Proust l’a si bien compris, et décrit.

  Les critiques contemporains de Balzac ont fait, à son pessimisme, les objections que l’on fait en notre temps au roman noir. «Il y eut peut-être au temps de Balzac», a-t-on dit, «une Cousine Bette, une Marquise d’Espard, un Corentin, un Gobseck; cependant, à côte de ces monstres, vivaient des milliers de familles heureuses, tendrement unies, soumises aux lois morales. Pourquoi faut-il que, de cette humanité essentielle, aucune image ne nous reste?» Et un critique anglais, Leslie Stephen: «Si la société parisienne avait été seulement à moitié aussi mauvaise que Balzac la décrit, il y a longtemps qu’elle aurait cessé d’exister».

  A quoi je ferai plus d’une réponse. La première, c’est qu’il n’est pas vrai qu’il y ait des milliers de foyers où rien ne se passe. Regardez de plus près: toute famille, et pas seulement dans la société parisienne, dans le monde entier, toute famille a quelque squelette dans son armoire. Elle sauve les apparences tant que cela est possible, mais dès que vous soulevez le couvercle, le contenu de la marmite et son odeur vous stupéfient. Les crimes qui vont jusqu’à la Cour d'Assises représentent une fraction infime des meurtres réellement commis. On peut assassiner un homme légalement, par un mot, par un silence, et le génie de Balzac est fait de l’art avec lequel il met en évidence la grandeur des petites choses. Sophie Gamard tue l’Abbé Birotteau, à la lettre, en lui retirant son logement; Madame Camusot tue le Cousin Pons, à la lettre, en le privant de ses dîners en ville. Balzac n’exagère pas les petits drames; il voit, et il prouve, que les petits drames sont l’étoffe dont on fait les grands drames. Balzac fait d’un atome ce qu’il est, c’est-à-dire un monde.

La seconde réponse est que les belles images de la vie ne manquent pas dans Balzac. Il n’y a pas de mot, nous l’avons déjà noté, qu’il emploie plus volontiers que sublime, et toujours à bon escient. Le sublime apparaît quand les forces naturelles, les instincts les plus exigeants de l’homme, sont dominés par la volonté ou par un grand sentiment. La Comédie humaine abonde en héros sublimes. Le bonhomme Schmucke est un héros de l’amitié; le juge Popinot, l’avoué Derville, le médecin Bianchon sont des héros de leurs professions; le Père Goriot est un héros de la paternité; plus d’une femme, Madame de Beauséant, Madame de Mortsauf, et même la Duchesse de Langeais dans la dernière partie du roman, sont sublimes. Souvent le monstre et le héros sont le même homme, en des situations différentes, comme on le voit dans l’Envers de l’Histoire Contemporaine où le père admirable n’est autre que l’odieux magistrat responsable de l’affaire La Chanterie. Dans une belle nouvelle: La Messe de l’Athée, le dévouement «sublime» d’un pauvre porteur d’eau, profondément chrétien, engendre chez un médecin athée, l’illustre Desplein, l’idée de faire dire chaque année une messe en mémoire de son bienfaiteur, idée «sublime» elle aussi, parce que Desplein doit, pour la réaliser, vaincre en lui-même une mauvaise honte et des préjugés forts. L’adjectif balzacien est l’épithète dont on se sert pour qualifier un caractère ou une situation qui sont poussés jusqu’aux limites extrêmes de leurs traits essentiels, mais le caractère balzacien peut être extrême dans le bien comme dans le mal. Henriette de Mortsauf, Ursule Mirouet, Goriot ou Benassis sont balzaciens autant que Grandet, Madame Marneffe ou Lousteau.

  Enfin la troisième réponse, c’est que même les êtres les plus dangereux, dans l’oeuvre de Balzac, ne sont pas entièrement mauvais. Considérez Gobseck. Avec sa casquette, son abat-jour sur les yeux, ses lèvres minces et fermées, sa voix blanche, il semble inaccessible à toute pitié, et il demeure en effet impitoyable quand il s’agit d’un billet qui vient à échéance. Mais Gobseck a de hautes vertus; il est honnête à sa manière; il tient ses engagements. Il sauvera la fortune du jeune Ernest de Restaud. On peut être l’ami de Gobseck mais il faut, pour le devenir, accepter Gobseck. La portière du Cousin Pons, Madame Cibot, tout avide qu’elle soit, et capable d’assassiner pour satisfaire ses passions, a des côtés plus humains qui auraient permis à Pons de se l’attacher s’il avait fait effort pour la comprendre. On ne change pas les natures, mais on peut s’appuyer sur elles. Vautrin en est le plus bel exemple. Il est évident que Balzac a de la sympathie pour Vautrin, un peu parce qu’il envie cette puissance mystérieuse dont il la doué, beaucoup parce qu’il estime le cynisme plus que l’hypocrisie, mais surtout parce que Vautrin est capable de rester l’ami fidèle de ceux qu’il a choisi de protéger. L’Histoire des Treize, c’est-à-dire d’une petite société de treize hommes absolument dévoués les uns aux autres, et par là tout-puissants dans Paris, est une fiction qui séduit Balzac, comme les sociétés secrètes plaisent à Jules Romains. Elle repose sur une idée juste, à savoir que solidarité, courage, loyauté sont les vertus qui font la force d’une société, que celle-ci soit la Société (presque toujours limitée à la nation, même pour ceux qui se piquent de moralité), ou qu’elle soit une société plus petite, famille, camaraderie d’école, d’armes, de parti, ou bande de brigands.

  Bref Balzac ne juge point; il transcende. Comme Hegel devant les montagnes, Balzac, devant le monde humain, dit simplement: «C’est ainsi ». Souvent il a exposé une théorie des espèces sociales: «La Société ne fait-elle pas de l’homme, suivant les milieux où son action se déploie, autant d’hommes différents qu’il y a de variétés en zoologie? Les différences entre un soldat, un ouvrier, un administrateur, un avocat, un oisif, un savant, un homme d’Etat. un commerçant, un marin, un poète, sont, quoique plus difficiles à saisir, aussi considérables que celles qui distinguent le loup, le lion, l’âne, le corbeau, le requin, le veau marin, la brebis, etc. ...» De même que le naturaliste, étudiant les rapports des espèces, constate que, pour sauver telle plante de la destruction par tel insecte, il faut tel oiseau qui dévore ce dernier, et qu’en somme un équilibre tend à s’établir, dans un climat donné, entre les espèces animales et végétales, équilibre qui n’est ni moral, ni immoral, mais qui est, tout simplement, de même telle société humaine fonctionne grâce à un certain nombre de chefs, d’employés, d’ouvriers, de parasites, d’usuriers et de voleurs.

  Changez la forme de la société; les individus au pouvoir changeront; les espèces resteront immuables. Il y aura encore des travailleurs, des bureaucrates, et des faquins en litière. Ce seront d’autres faquins, voilà tout, et les litières seront devenues, au temps de Balzac des coupés, après luxe des Cadillac. Tout se tient et l’unité du monde social est aussi évidente que celle du monde animal. La vie, dans les bois et les champs, est une lutte perpétuelle entre les espèces; la vie, dans lesvilles et les campagnes, est un combat perpétuel entre les riches et les pauvres. L’existence des possédants entraîne fatalement celle des voleurs. Balzac regarde cette lutte, dit très bien Bernard Guyon, avec l’indifférence du naturaliste devant un duel de serpent et de mangouste.

  Comme il admirerait la force d’un tigre et sa musculature parfaite, Balzac fait l’éloge du voleur: «Un voleur est un homme rare; la nature l’a conçu en enfant gâté; elle a rassemblé sur lui toutes sortes de perfections: un sang-froid imperturbable, une audace à toute épreuve, l’art de saisir l’occasion, si rapide et si lente, la prestesse, le courage, une bonne constitution, des yeux perçants, des mains agiles, une physionomie heureuse et mobile ...». Et quant aux vertus collectives des voleurs: «Ils ne se volent point entre eux, tiennent religieusement leurs serments et présentent, au milieu de l’état social, une image de ces fameux flibustiers, dont on admirera sans cesse le courage, le caractère, les succès et les éminentes qualités ...».

  Ironie? Humour noir à la Swift? En partie, oui; mais en partie seulement. Balzac loue, de bonne foi, le tigre d’être un beau tigre En outre ces bêtes féroces sont nécessaires à l’artiste. Que serait ce paysage romanesque sans les grands voleurs, les Werbrust, les du Tillet, les Palma? Ou sans les élégants coquins, Maxime de Trailles, La Palférine? Une plate berquinade. Pourquoi fut créé un Godefroid de Beaudenord, sinon pour servir de proie à un Nucingen? De la même manière, les voleurs, les coquins et les conspirateurs rendent indispensable la haute police. Il ne s’agit pas de savoir si Peyrade et Corentin sont antipathiques. La sotte question! Demanderiez-vous si, dans une automobile, le différentiel est plus sympathique que le carburateur? Il faut un certain nombre de pièces pour que la voiture roule. Toutes doivent être connues et décrites. Balzac lui-même prête à Napoléon une image analogue: «Pourquoi», dit l'Empereur, «s’acharner à l’espion? Il n'est plus un homme; il ne doit plus en avoir les sentiments, il est un rouage dans une machine. Celui-ci

a fait son devoir. Si les instruments de ce genre n’étaient pas ce qu’ils sont, tout gouvernement serait impossible». Nous retrouverons cette idée.

  Mais il nous faut auparavant en saisir au passage une autre, fort importante, qu’a indiquée Alain à propos de ce naturalisme amoral de Balzac. C’cst que «Balzac est pieux et que Stendhal ne l’est pas», par quoi Alain entend que Balzac aime le monde tel qu’il est, jusque dans ses monstres, tandis que Stendhal a toujours divisé les hommes en deux groupes hostiles: les généreux et les coquins, et pris parti avec force pour ce qu’il appelle l’espagnolisme, qui est un autre nom de la générosité cartésienne. Point d’hésitation possible, dans un roman de Stendhal, entre le Comte Mosca et le fiscal-général Rassi. Rien ne vient relever à nos yeux l’Abbé Castanède ou Monsieur de Rênal. Ils sont bas, sans espoir de rémission. Chez Balzac au contraire, dit Alain, «il me semble que je suis plus proche de la véritable charité, mais par une indifférence bien catholique, et je dirais presque ecclésiastique, comme d’un homme qui confesse fort vite». Et il est vrai que Balzac donne très facilement l’absolution. Les cadavres ne l’émeuvent guère. Les succès des Treize sont obtenus surtout par des assassinats. Ce côté de la question n’est même pas examiné. Il est hors de doute, après le plaidoyer de Vautrin, qu’aux yeux de son créateur, Vautrin est absous. Même les honnêtes gens de Balzac, tel le grand avoué Derville, sont indulgents. Ils en ont tant vu. Le monde est ce qu’il est. II ne s’agit pas de le faire; Dieu s’en est chargé; mais de le peindre, si l’on est artiste; et de le connaître pour en tirer ce que l’on peut, si l’on est homme d’action.

  «Commander à la nature en lui obéissant». La politique de Balzac sera une politique tirée de la nature. Ses allégeances temporaires sont de circonstance. Rien de plus. Bernard Guyon a montré qu’il a toujours oscillé entre la rébellion et l’acceptation. Sa conversion au légitimisme ne fut ni durable, ni profonde. Il resta de cœur un libéral modéré, sans enthousiasme pour aucune forme de gouvernement, et pensant, à la manière des machiavéliens, qu’il faut tirer parti des passions et des coutumes des hommes pour les administrer, en faisant aussi peu de mal que possible. La folle erreur du Général de Montcornet, dans sa lutte avec les paysans, est de négliger la nature humaine et les habitudes établies. Le général châtelain ne connait que la loi écrite et, parce que celle-ci est pour lui, il croit qu’en contraignant les pouvoirs publics à appliquer les lois, il finira par obtenir la victoire.

  Or les lois sont impuissantes si elles ne sont «les rapports nécessaires qui résultent de la nature des choses». Les seules bonnes lois sont celles qui étaient déjà dans les mœurs, hors le cas révolutionnaire où un gouvernement très fort peut imposer un changement de mœurs. Mais il ne pourra jamais le faire sans violence et, comme la violence ne saurait être appliquée sans relâche, tôt ou tard les passions naturelles reprendront leur empire. Il est aussi impossible pour un homme d’Etat de gouverner un peuple sans tenir compte de ces forces réelles que, pour un médecin, de guérir un malade sans connaître les fonctions du corps. Voilà pourquoi Balzac exalte Talleyrand, Napoléon, Catherine de Médicis, chirurgiens sans illusions ni faiblesses, et méprise La Fayette, qui traite un abcès par le sentiment. Non que sentiments et jugements moraux n’aient leur place, eu politique comme en médecine, mais il faut d’abord survivre, c’est-à-dire mettre la force au service de la justice. Alain lui-même, républicains (sic) des républicains, citoyen impatient des pouvoirs, s’accorde en cela, comme en toutes choses, avec Balzac. «Je n’ai jamais pensé», dit-il, «que la République puisse se passer de cet esprit de décision». Car le premier devoir de la République, parce qu’elle est un gouvernement légitime, est de persévérer dans son être, comme c’était de devoir de l’Empire.

 Aucun écrivain n’a, mieux que Balzac, réussi à peindre ce tissu vivant d’intérêts qu’est une nation, et que le rôle de lhomme dEtat est de maintenir vivant. Etudiez les Paysans et admirez cette connaissance minutieuse et intelligente de la France rurale. Le jeu des parentés, les rapports de la petite bourgeoisie des cantons avec les campagnes environnantes, le rôle difficile des fonctionnaires venus de Paris, tout y est et il ne faut qu’une légère transposition pour y retrouver nos problèmes. Balzac les traite avec une objectivité qui dissipe entièrement cette légende d’écrivain réactionnaire qu’on a parfois créée autour de lui. Sa mission est de faire à chacun sa part. «Pour l’historien», dit Balzac, «le paysan a la grandeur de ses misères, comme le riche a la petitesse de ses ridicules. Le riche a des passions, le paysan n’a que des besoins; le paysan est donc doublement pauvre et si, politiquement, ses agressions doivent être réprimées, humainement et religieusement, il est sacré».

  Balzac annonce l’avenir avec lucidité. «Le paysan», dit-il, «absorbera un jour la bourgeoisie comme la bourgeoisie a absorbé la noblesse». Et par la bouche de l’Abbé Brossette: «Mon Dieu! si votre volonté sainte sur de déchaîner les pauvres comme un torrent, pour transformer les sociétés, je comprends alors que vous abandonniez les riches à leur aveuglement ...». Ailleurs il prédit que l’avancement dans la magistrature deviendra un grave danger pour la magistrature: «Avancer», dit-il, « voilà le mot terrible qui de nos jours change le magistrat en fonctionnaire. Autrefois le magistrat était sur-le-champ tout ce qu’il devait être». Idée juste, essentielle, capitale pour la défense des libertés, et que Balzac a été presque seul en France à exprimer. Dans une étonnante et courte nouvelle: Z. Marcas, il prédit les révoltes de la jeunesse: «La jeunesse éclatera comme la chaudière d’une machine à vapeur. La jeunesse n’a pas d'issue en France, elle y amasse une avalanche de capacités méconnues, d'ambitions légitimes et inquiètes ... Quel sera le bruit qui ébranlera ces masses, je ne sais; mais elles se précipiteront dans l’état de choses actuel et le bouleverseront ... Aujourd’hui les barbares sont des intelligences». Et enfin autre prophétie, celle-là de Rastignac à Maxime de Trailles: «La Chambre des Députés deviendra fatalement tout le gouvernement», ce qui est arrivé, mais que peu d’observateurs prévoyaient alors.

  Voyez encore, dans le Député d’Arcis, ce roman qu’il laissa inachevé, un étonnant tableau de la vie politique dans une petite ville. Sans doute le suffrage universel a élargi le cadre, ajouté des ressorts supplémentaires, mais le fond de la nature humaine est resté le même. Aujourd’hui comme au temps de Balzac, l’homme sans passions est invulnérable; l’homme qui a un vice, fût-ce la colère comme le Général de Montcornet, prête le flanc à tout. L’hôtesse au salon politique continue de s’attacher sans vergogne à chaque nouveau régime, parce qu’une femme accoutumée aux avantages d’une royauté de salon n’y renonce pas facilement. «De toutes les habitudes, celles de la vanité sont les plus tenaces». Ecoutez ce dialogue, qui est tiré du Député d’Arcis; je l’ai entendu hier encore dans mon village: «Qu’appelez-vous progrès?» dit Fromaget. « C’est de vendre le blé fort cher et de laisser le pain à bon marché», répond railleusement Achille Pigoult. Observez les liens qui unissent, dans l’arrondissement d’Arcis, les Marron, les Grévin, les Giguet; ces liens ont été formés par l’affaire Gondreville. Il y a un cadavre entre ces hommes. Vous retrouvez aujourd’hui dans nos campagnes beaucoup de ces alliances politiques, en apparence incompréhensibles, en fait expliquées par des complicités anciennes. Politique tirée de la nature, tenant compte de tout ce qui est, créatrice et constructive, dont le plus bel exemple, dans la Comédie Humaine, est le Docteur Benassis et la transformation totale qu’il a imposée à un canton de montagne. Politique opportuniste, politique pratique, mais qui ne transige pas sur l’essentiel, l’essentiel étant la bonté ou, au sens le plus large, la charité. «Si, dans chaque commune, trois êtres voulaient le bien, rien que le bien, la France serait sauvée de l’abîme où nous courons», dit l’Abbé Brossette. «Changez d’abord, changez vos mœurs, et vous changerez alors vos lois».

  «Changez d’abord vos mœurs; vous changerez ensuite vos lois». Ce n’est pas seulement à la vie politique que Balzac applique cette maxime, mais à la vie privée. Balzac croit à l’amour; il n’est pas du tout cynique au sujet des femmes. Il en a peint de dangereuses: la Marquise d’Espard, la Princesse de Cadignan, Béatrix de Rochefide, Lady Dudley. Il a dénoncé les manèges des coquettes et le mal que peut faire la bigoterie excessive d’une Vicomtesse de Granville. Mais il a représenté avec foi la passion véritable; il a su voir qu’elle n’est pas du corps, et quelle s’élève au sentiment, de quoi le Lys dans la Vallée est le plus bel exemple. Balzac a respecté la passion. Il a même cru qu’elle pouvait régénérer des femmes comme Esther Gobseck ou Anastasie de Restaud. Jeune, il avait défendu les droits de la femme mal mariée. Au temps où il avait été l’ami de Jules Sandeau et d’Aurore Dudevant, couple adultère alors réfugié dans une mansarde parisienne, il avait loué le courage de cette rébellion; il avait admiré l’Indiana de George Sand, où il trouvait un réquisitoire contre le mariage. Dans la Physiologie du mariage, il avait rendu la maladresse du mari responsable des révoltes de la femme.

  Très tôt dans l’histoire de son œuvre, cette attitude change. A une intelligence qui aperçoit avec tant de rigueur la nécessité des liens de société, la passion semble trop anarchique pour que l’on puisse fonder sur elle les rapports des hommes et des femmes. La femme adultère, dans la Comédie Humaine, va presque toujours aux catastrophes. Les deux filles du père Goriot, Anastasie de Restaud et Delphine de Nucingen, souffrent par leurs amants; Madame de Restaud est conduite aux pires compromissions. Claire de Beauséant se voit, pour la seconde fois, abandonnée. Les femmes qui résistent à moitié sont déchirées, telle Madame de Mortsauf, et finissent par mourir de leur passion. L’homme ne se tire pas mieux des liaisons irrégulières. Monsieur de Granville perd la maitresse dont il avait tenté, avec amour, d’arranger la vie. Conti, galérien de l’amour, n’est pas heureux avec Béatrix. Pour les vieillards, c’est bien pire. Leurs séniles désirs les livrent au ridicule et finissent par les ruiner. Bref toute la Comédie Humaine semble montrer que l’amour ne peut atteindre au bonheur s’il ne se conforme aux conventions et préjugés des sociétés civilisées.

  Et même dans le mariage, Balzac croit plus au succès du mariage de raison, fondé sur des convenances de société, qu’à celui du mariage de passion. Les Mémoires de deux Jeunes Mariées, plutôt qu’un roman, est un dialogue philosophique sur le mariage, dialogue fortement étayé par le réel et où les détails vrais viennent corriger ce que l’opposition de deux femmes et de deux choix pourrait avoir de factice. Or l’une des deux jeunes mariées, compagnes de couvent qui ont pris l’habitude de tout se dire, fait le plus banal des mariages arrangés. C’est Renée de l’Estorade; elle épouse un homme déjà usé, découragé qui, à trente-sept ans, a l’air d’en avoir cinquante, quelle n’aime pas, simplement parce que cette union lui est conseillée par ses parents. Elle est sans illusions: «Adieu donc, pour moi du moins, les romans et les situations bizarres dont nous nous faisions les héroïnes. Je sais déjà par avance l’histoire de ma vie: ma vie sera traversée par les grands événements de la dentition de Messieurs de l’Estorade, par leur nourriture, par les dégâts qu’ils feront dans mes massifs et dans ma personne: leur broder des bonnets, être aimée et admirée par un pauvre homme souffreteux, voilà mes plaisirs ...». Or Renée sera très heureuse et arrivera peu à peu à transformer son mariage de raison en un mutuel et solide amour. La seconde, Louise de Chaulieu, fille romanesque, épouse par passion un noble exilé espagnol, Macumer, qui a des sentiments aussi vifs qu’elle-même; elle l’entraîne dans le désert de l’amour et le tue par la violence même des émotions. Puis, ne pouvant renoncer à son rêve de passion solitaire, soustraite au monde, elle s’éprend d’un étrange per- sonnage, Marie-Gaston, et l’épouse, mais cette fois encore son mariage est un échec parce qu’elle y porte trop de passion.

  Balzac lui-même, dans sa vie personnelle, a souhaité ardemment pendant près de vingt ans un mariage qui, bien qu’au début la sensualité y ait eu sa part, était pour lui un mariage de raison. Lorsqu’en février 1838 il a rendu visite à George Sand et que les amis de jadis se sont retrouvés, muris l'un et l’autre, par le malheur, il sont restés tout une nuit à discuter sur les grands principes qui doivent régir la vie, et en particulier sur le mariage: «Je crois», dit à peu près Balzac, «que je l’ai convertie et j’aurai ainsi rendu un service car elle a une grande influence». Et c’était en partie vrai. Sand, après cette conviction, ne devait pas modifier sa vie. Elle était trop engagée déjà, mais plus jamais, dans ses romans, elle n’a combattu le mariage en tant qu’institution. Balzac avait gagné.

 

***

 

  Ainsi, dans la vie privée comme dans la vie publique, la sagesse de Balzac est un positivisme réaliste qui étonne chez un tel visionnaire. Le merveilleux est que cet homme, plus capable qu’aucun autre de peindre des passions surhumaines, et des individus d’exception, ait au même point le sentiment et le respect de la société. A la vérité, il ne conçoit ses monstres qu’appuyés sur une société. L’individu n’existe pour lui qu’en fonction d’un milieu social, d’une situation économique et c’est pourquoi, malgré son catholicisme, malgré son monarchisme, Balzac a aujourd’hui le (sic) ferveur des marxistes. «Ce genre de vrai», dit Alain, «ne se trouve pas dans Stendhal, où l’on voit que la société est représentée comme une alliance de gredins dont il faut seulement se sauver».

  Comment Balzac concilie-t-il les éléments divers, et même contradictoires, de sa philosophie? A la vérité, il s’inquiète fort peu de constituer un système cohérent. Les faits l’intéressent plus que les théories. Il pense «les brosses à la main» comme doit le faire tout artiste. Chaque roman vient comme il doit venir; plus tard le critique prendra soin de la philosophie de Balzac, et l’Abbé Bertault de son salut. Ce qui est certain, et contribue puissamment à la grandeur de l’œuvre, c’est que la conciliation se fait toujours sur un plan supérieur. J’ai déjà dit que Balzac transcende ses créatures; ses personnages eux-mêmes, dans leurs meilleurs moments, transcendent leurs passions et se retrouvent, au-delà des faiblesses humaines, sur le pian du sublime, ou encore du divin.

  Nous avons parlé da la Messe de l'Athée et de la belle rencontre, dans une communion posthume, du porteur d’eau chrétien et du médecin agnostique. Mais c’est Balzac lui-même qui, dans le Médecin de Campagne et dans l’Envers de l’Histoire Contemporaine, se rencontre avec l’Eglise au-delà de la bigoterie dont il a fait une peinture si sévère dans Une Doublé Famille. «Je puis mourir», écrit-il à Zulma Carraud quand il termine le Médecin de Campagne, j’ai fait pour mon pays une grande chose. Ce livre vaut à mon sens plus que des lois et des batailles gagnées. C’est l’Evangile en action ...». Et le Docteur Benassis: «Autrefois je considérais la religion catholique comme un amas de préjugés et de superstitions ... Enfin ici j’ai respiré le baume que la religion jette sur les plaies de la vie ...». Dans les Frères de la Consolation, il a donné aux Treize une contre-partie d’inspiration chrétienne. Dans le Curé de Village, il met dans la bouche d’un vicaire-général de Limoges ce programme précurseur: «Associer l’Eglise aux intérêts populaires pour lui faire reconquérir, par l’application des vraies doctrines évangéliques, son influence sur les masses». C’est la réconciliation, dans la charité, du catholicisme et des penseurs amis du peuple. Plus tard Victor Hugo, dans les Misérables, tentera, avec le même bonheur, cette synthèse qui est nécessaire pour faire l’unité morale de la France.

  Cette entente des meilleurs, au-delà des préjugés et des passions est l’une des raisons qui font, de la lecture de la Comédie Humaine, malgré tant de noirceurs, une source de force et de sérénité. Une autre raison de cette «tonicité» de Balzac est le prodigieux intérêt qu’il sait donner à la vie quotidienne. Le balzacien, et j’appelle ainsi le lecteur habituel de Balzac, celui qui relit tous les deux ou trois ans la Comédie Humaine, le balzacien apprend à comprendre que le monde, quel que soit le lieu ou le milieu où le hasard de la naissance nous a jetés, est merveilleusement intéressant. Car le drame balzacien empoigne le lecteur, non par l’importance des événements, mais par l’art du conteur, et par la certitude où est Balzac qu’il n’y a pas d’ordre de grandeur dans l’esprit. L’ambition d’un notaire d’Arcis-Sur-Aube, ou celle d’un vigneron de Saumur, sont aussi dignes d’analyse que celles de Bonaparte ou de Talleyrand. La douleur d’un parfumeur ruiné est aussi tragique que celle d’un conquérant vaincu. Grandeur et Décadence de César Birotteau n’est pas un titre ironique. Au regard de l’univers, la grandeur du marchand vaut celle de l’empereur. En montrant que tout atome est un monde, Balzac rend confiance à ceux qui ne connaîtront jamais qu’un atome, c’est-à-dire à tous les hommes.

  Il rend confiance aussi à ceux qui se sentent perdus dans la complexité du monde et accablés par la méchanceté de l’espèce. Il les accoutume à reconnaître que leurs ennemis ne sont que des specimens, souvent fort dégénérés et par conséquent peu dangereux, des grands reptiles de la faune balzacienne. Nous rencontrerons peut-être dans notre vie une coquette, une vieille fille malfaisante, un usurier; il y a bien des chances pour qu’ils soient moins redoutables que Diane de Maufrigneuse, que Lisbeth Fischer ou Sophie Gamard, que Gobseck ou Palma. Or nous savons, nous balzaciens, qu’avec Gobseck lui-même il est possible de traiter; nous savons que la société, comme la mer, a ses lois, ses tempêtes, ses requins, mais qu’un bon pilote, en s’inspirant pour une part des leçons de Madame de Mortsauf, pour une autre de la terrible sagesse de Vautrin, peut naviguer et se maintenir à flot.

  Enfin Balzac inspire confiance en l’homme par sa propre force et sa puissance de travail. Le mot génie est parfois si improprement appliqué à de tout petits talents que l’on serait tenté de douter de la réalité de ce qu’il désigne. La Comédie Humaine remet toutes choses en place. Là vraiment est le génie, indiscutable, torrentiel, inimitable. Pasticher dix pages de Balzac est facile; Proust la fait à ravir. Seulement dix pages de Balzac ne sont pas Balzac, et pasticher toute la Comédie Humaine, ce serait créer un monde. Le génie ne diffère pas du talent par la nature, mais par la puissance. Il dépasse ce que l’on attend d’un esprit humain, fût-il du premier rang. Quand on pense que ce microcosme contient deux mille personnages; que chacun d’eux vit par lui-même; que, pour des millions de lecteurs, l’univers de Balzac l’emporte en crédibilité sur l’univers véritable; que chaque lecture apporte des surprises nouvelles, de précieuses observations, des traits inattendus; que ces chefs-d’œuvre étaient parfois écrits en trois semaines; qu’un seul homme a, en moins de vingt ans, engendré ce peuple; et enfin qu’après un siècle, ce monde reste vrai parce qu’il est éternel, alors on mesure ce qu’est le génie. On a dit que l’œuvre de Balzac, celle de Shakespeare et celle de Tolstoi, sont les trois grands monuments élevés par l’humanité à l’humanité. Cela est vrai et la Comédie Humaine est encore le plus vaste et le plus complet des trois. Il est remarquable que ces trois génies soient de bons maîtres et qu’aucun d’eux n’amène le lecteur à désespérer de l’homme.

  Dans les difficiles circonstances où nous vivons et en un temps où tous, Italiens, Américains, Anglais, Francis, avons pour devoir de ne pas perdre confiance en la possibilité de sauver l’homme, c’est la plus saine des lectures que celle d’un écrivain qui, connaissant mieux que personne l’humanité et n’ignorant aucun de ses crimes, n’a jamais désespéré d’elle et qui a cherché le salut, non dans l’utopie, mais dans la lucidité. Et c’est pourquoi j’ai pris plaisir, en cette année qui fut une année Balzac à venir vous parler de cet homme de génie qui aimait votre pays et qui appartient au monde autant qu’a la France.

 

 

  Eugenio Montale, L’esilio terrestre di Nerval, Corriere della Sera», Milano, Anno 76, N. 144, 20 giugno 1951, p. 3.

 

  Balzac affermava che lo scrittore deve vivere del proprio lavoro, mantenersi coi proventi della propria penna. E non si può dire che, quanto a sé, smentisse l’asserzione: troppo nota è la storia della sua vita perché io debba ricordare i prodigiosi tours de force, le miracolose «prestazioni» (come oggi si dice) del romanziere-locomotiva. La Comédie Humaine sarebbe stata scritta senza le pressioni dei creditori, le minacce degli usurai, le diffide degli editori in isborso di cospicui anticipi? Mi limito a porre l’interrogativo, pur conoscendo bene la sua inutilità.

 

 

  Mario Muner, Balzac, Brescia, “La Scuola” Editrice, 1951 («Scrittori stranieri»), pp. 207.


   Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., pp. 561-562.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Avvertenze, pp. 5-6;

  Nota biografica, pp. 7-17;

  Introduzione, pp. 19-34;

  Il Balzac di fronte alla religione, alla tradizione e alla sua società:

  Il contributo del Balzac al riconoscimento del cattolicesimo, pp. 37-87;

  Reazione alla natura gallica, pp. 89-145;

  Persistenze galliche, pp. 147-177;

  Il carattere dell’arte balzacchiana:

  La limitata riuscita stilistica del Balzac, intesa come mancanza di definitività, e sue ragioni, pp. 181-196;

  Nota bibliografica, pp. 197-199;

  Indice balzacchiano, pp. 201-203;

  Indice dei nomi e degli autori, pp. 205-206.

 

  Trascriviamo integralmente il capitolo riguardante l’arte di Balzac presente alle pp. 181-196.

 

  Parlando sulla tomba del Balzac il giorno stesso de; suoi funerali (21 agosto 1850), Victor Hugo esaltò l’inesauribile molteplicità e novità della Comédie humaine. Nelle sue accese parole la mancanza di uno stile unitario divenne un segno di esuberante vitalità e di generosa ricchezza. «Ce livre merveilleux» egli disse «que le poète a intitulé Comédie et qu’il aurait pu appeler Histoire, qui prend toutes les formes et tous les styles, qui dépasse Tacite et va jusqu’à Suétone, qui traverse Beaumarchais et qui va jusqu’à Rabelais ...».

  Qualche giorno dopo, nel Constitutionnel del 2 settembre, il Sainte-Beuve presentava quello stesso titolo, che lo Hugo aveva lodato senza riserve, come una nota di evidente demerito, anzi come l’elemento più discutibile dell’arte balzacchiana. Uno stile siffatto è, per l’autore dei Lundis, l’antitesi della tradizione, e nel senso meno favorevole della parola. Gli scrittori tradizionali, i vari Nicole e Bourdaloue, offrivano nel loro stile «semplice, serio e scrupoloso» lo specchio stesso del loro equilibrio inferiore. Tutt’altra impressione si ricava invece da quello del Balzac appunto perché è tutt’altro che semplice e definito, ossia perché le sue singole forme non possono mai considerarsi definitive. Riportiamo un passo dell’articolo famoso:

  La Bruyère a dit ... qu’il n’y a pour toute pensée qu’une seule expression qui soit la bonne, et qu’il faut la trouver. M. de Balzac, en écrivant, semble ignorer ce mot de La Bruyère.

  Il a des suites d’expressions vives, inquiètes, capricieuses, jamais définitives, des expressions essayées et qui cherchent. Ses imprimeurs le savent bien; en faisant imprimer ses livres, il remaniait, il refaisait sur chaque épreuve à n’en plus finir. Chez lui le moule même était dans un bouillonnement continuel, et le métal ne s’y fixait pas. Il avait trouvé la forme voulue, qu’il la cherchait encore ...» (1).

  Secondo il Sainte-Beuve, il Balzac difettava di gusto e di misura: a differenza degli scrittori del sei e del settecento, egli non scriveva le sue opere «seulement avec sa pensée, mais avec son sang et ses muscles».

  Successivamente al Sainte-Beuve e in contrapposizione a lui, mantenendosi più o meno sulla linea segnata dal discorso hughiano, si sono tentate numerose riabilitazioni dello stile del Balzac, fra cui particolarmente importanti quella del Taine (ogni momento storico, ogni grande spirito ha il suo stile, e il Balzac ne ha uno diverso dagli altri, la cui molteplicità si adatta alla folla del suo tempo, provata da tante e così nuove esperienze storiche, sociali e culturali) (2) e del Bellessort (lo stile del Balzac mira a cogliere, attraverso la sua varietà, i più insospettati rapporti fra le cose e gli esseri) (3). Tuttavia queste riabilitazioni illustrano, ma non spiegano: dire, come fa il Taine. che anche il Balzac ha uno stile adatto al suo tempo, non significa renderne ragione e, d’altra parte, i rilievi del Bellessort non forniscono i veri motivi della grande adattabilità ai più van argomenti dello stile balzacchiano.

  Il Mayer in La Qualification affective dans les Romans d’Honoré de Balzac (4), pur non allontanandosi sostanzialmente dalla traccia del Taine e del Bellessort, si avvicina assai più alla verità affermando che il Balzac era «più preoccupato di creare un mondo che uno stile» e si valse del «genio proprio della lingua più comune ... capace di esprimere tutte le idee anche più alte e di rendere tutte le emozioni, come resta abbondantemente provato dalla pratica quotidiana della vita». Creare un mondo, e non uno stile: ma perché? Perché non voler dare il proprio segno a quel mondo? Qui la tesi del Mayer rivela la sua debolezza.

  Il Bertault riprende il concetto del Mayer in un capitolo (Le Style de Balzac) del suo ragguardevole studio (5): «Balzac ne connaît qu’une langue; du courant de la vie, il l’introduit dans le courant. littéraire».

  Il suo stile sarebbe quindi solo quello corrente, che egli avrebbe accolto tale e quale, senza compiere nessun vero sforzo per appropriarselo. Il Bertault afferma ancora: Non si può dare un giudizio d’insieme sullo stile del Balzac senza aver prima esaminato il linguaggio speciale attribuito ai vari ambienti sociali, l’alta società, la borghesia, il popolo, «e per ciascuno di loro, alle varie categorie, che li costituiscono». Senza aver visto inoltre i vocabolari tecnici, l’idioma contadinesco, ecc. Quindi il Bertault fa sue alcune parole di un altro studioso, il Dagnaud:

  «Il n’y a pas un style de Balzac, mais des styles de Balzac. Il est vraisemblable (a priori) qu’une étude scientifique des faits dégagerait un système de procédés stylistiques fondamentaux, mais ce système est susceptible d’une foule d’adaptations particulières».

  Questa è un’ottima illustrazione della realtà balzacchiana, ma non è ancora la sua spiegazione. Si può anche davanti le parole del Dagnaud ripetere la domanda fatta per le osservazioni del Mayer: perché tanti stili, perché tanta molteplicità dei medesimi, e non invece il segno unico, sigillo ed ambizione di ogni creatore? Per noi la spiegazione è appunto nello speciale mondo logico ed etico del Balzac e, a dimostrarlo, noi prenderemo in esame le manifestazioni più tipiche di quell’impersonalismo in cui il Balzac (ci si consenta l’apparente gioco di parole) volle far consistere la più personale caratteristica del suo stile: le parlate dei suoi personaggi.

 

*

 

  Le parole del Sainte-Beuve, che abbiamo sopra riportato rendono in modo perfetto quel senso di inquietudine, di insoddisfacimento, di non raggiunte compiutezza e uniformità d’assetto, che distingue lo stile del Balzac e che non è, teniamo a precisarlo, che il segno del complessivo disagio del suo spirito.

  Il Balzac, potenzialmente grande spirito cattolico che non ha saputo, nè potuto esserlo in pratica altro che in parte e che altrettanto ha ritenuto di poter riscontrare nelle vicende della vita, così come dimostrano la sua molteplice opera e, in essa, specialmente i personaggi principali, tutti resi incapaci dalle circostanze avverse e soprattutto dall’urto con la potente, malefica società, in cui vivono, di dar libero corso all’esplicazione e alla pratica del loro sentire, in genere puramente cristiano, e che vivono perciò angustiati e sofferenti e, quali cristiani, danno spesso l’impressione di prigionieri incatenati, il Balzac ha, ripetiamo, nel suo stile fornito l’immagine adeguata, vorremmo dire con un’espressione che ci è cara, addirittura il geroglifico della sua spiritualità. Anche il suo stile è alla perenne ricerca dell’assetto adatto e nella perenne incapacità di raggiungerlo. Per rifarci alle ultime fra le citate parole del Sainte-Beuve. egli, trovando la forma voluta, non l’ha raggiunta ancora, nè è in grado in raggiungerla. La cercherà ulteriormente e la nuova sarà forse migliore della prima, ma non la vera. Noi sentiamo che sull’ultima forma, che il Balzac ci presenta, egli si piega e resta così sospeso dinanzi a noi, nelle talora accese ma sempre evidenti e spesso veridiche proiezioni della fantasia, con un sorriso amaro.

  La sua preoccupazione fondamentale, dal punto di vista dello stile, coincide con quella che possiamo chiamare la nota più significante del suo realismo: come egli vuole personalizzare, individuare con la più scrupolosa precisione gli ambienti, in cui muove le sue figure, così vuole personalizzare e individuare al massimo queste ultime e quindi il loro linguaggio. E nel far ciò giunge ad eccessi da convincere talvolta se stesso dell’inopportunità di insistere ancora nel riprodurre difetti di pronuncia, idiotismi dialettali o altre particolarità linguistiche e fonetiche dei suoi personaggi, com’è nel caso di Rémonencq, il rigattiere del Cousin Pons, del quale lo scrittore, a un certo punto, si preoccupa di dichiarare che trascura (ma solo per ragioni di chiarezza) di continuare a rendere l’orribile dialetto alverniate.

  Le Cousin Pons è, in tal senso, un romanzo-monstrum. Oltre e più che il linguaggio di Rémonencq, vediamo riprodotti, con un’insistenza e un’abbondanza senza eguali, le chiacchierate della fecondissima portinaia Cibot e il francese tedescheggiante di Schmucke. Non un’omissione, non una pausa. Traspare evidente in tutti tali discorsi o battute il desiderio dell’autore di ancorare robustamente i due personaggi alla loro realtà, di renderli proprio come essi sono, senza dubbi e senza incertezze.

  Del resto, se non fosse così, se ogni personaggio del Balzac non avesse in un certo senso un suo stile, la «Commedia umana», che egli ha inteso riprodurre, non si presenterebbe più con quell’intensità drammatica, che abbiamo rilevato al principio di queste pagine e che c insieme, ci si consenta, la ragione della sua grandezza e della sua minore grandezza.

  Vogliamo con queste parole richiamarci al concetto che la Comédie humaine, per poter presentare in pieno la sua umanità insoddisfatta e delusa nella parte migliore (e insoddisfatta e delusa proprio ad opera del congiurante lavoro disgregativo di quella peggiore) ossia per far vedere compiutamente la perenne e perennemente delusa aspirazione al bene dei buoni e la necessità, che essi hanno, di chiudersi in sè stessi, è in certo qual modo costretta a dare libero spiegamento a tutte le singole individualità.

  La Comédie humaine, potrebbe anche dirsi, fa consistere la sua originalità di antitesi di fronte alla Divina, nel non raggiunto equilibrio fra le forze sane e le ragioni legittime da un lato e gli ostacoli, che le contrastano, dall’altro, e che normalmente riescono a sopraffarle (6), e di tale non raggiunto equilibrio, di tale sopraffazione delle forze sane e delle ragioni legittime. che l’autore tuttavia detesta e profondamente avversa, la moltitudine delle sue nettissimamente distinte e contrastanti personalità, la mancanza di uno stile unico e definitivo, ossia l’assoluta indefinitività e quindi indefinibilità dello stile, sono elementi costitutivi insostituibili.

  Indefinitivo, perché ogni personaggio ne ha uno e tale che, qualora il Balzac volesse rendere più accentuate certe caratteristiche di quel personaggio anziché altre, allo scopo di far meglio risultare il particolare dramma che in quell’opera egli viene rendendo, lo stile stesso dovrebbe essere mutato. Stile perciò che non viene imposto dallo scrittore ai suoi personaggi, ma che egli in certo qual modo viene di volta in volta mutuando da questi. Indefinibile anche, quindi, nel senso che, ad eccezione di tale multiformità, nessuna unitaria caratteristica gli è attribuibile. Altri scrittori (abbiamo citato il Baudelaire, lo Hugo, il Flaubert), che abbiano raggiunto un determinato (e pur cattolicamente e civilmente negativo) equilibrio, hanno con ciò pure raggiunto la premessa indispensabile per avere uno stile contraddistinto da regolarità e conformità. Nella visione unica, che essi hanno della vita, ossia nella concezione che la vita sia effettivamente e non possa non essere quale essi la vedono, essi vengono naturalmente guidati a far risultare in tutte le loro vicende il sigillo unico dato alla loro spiritualità e, se quelle che possiamo chiamare le voci minori della loro opera (ossia più o meno discordanti dalle altre, in cui essi immediatamente e direttamente si rappresentano e alle quali perciò spetta la denominazione di voci maggiori) offrono differenze di formulazione ossia di stile rispetto alle maggiori, ciò non è, se ben si guardi, che un fenomeno ristretto ad alcune note accidentali; perché anche la sostanza dello stile delle voci minori (oltre e di là da certi accidenti) è riconducibile a quelle maggiori.

  Si guardi invece, dopo i personaggi ricordati del Cousin Pons (7), il padre di Eugénie Grandet, che implacabilmente fermo nella sua avarizia, la sviluppa nel corso degli anni e dei decenni con assoluta spregiudicatezza non solo di fronte all’opinione degli estranei, ma anche di fronte ai diritti e all’affetto delle sue parenti. Più noi sentiamo che quest’uomo si impone nella sua ripugnante realtà, e più troviamo natura le che il Balzac si preoccupi di individualizzare fino all’esasperazione il suo linguaggio, accentuando da una parte i suoi difetti di pronuncia, il suo balbettamento, rituale soprattutto quando sta preparando un nuovo affare e si serve di tale espediente per indurre gli interlocutori a incoraggiarlo ad esprimersi e quindi a scoprire qualcosa dei loro propositi, dall’altra certe forme di intercalare («Ta, ta, ta» «Par la serpette de mon père») e di brusca e recisa conclusione («Nous verrons cela» «Je ne puis rien conclure sans avoir consulté ma femme»). Tali elementi, e soprattutto l’accanimento, con cui, specie in certi casi, il Balzac si sforza di riprodurli, concorrono a configurare alla perfezione Grandet, a dare smagliante evidenza all’irrisolvibile autonomia del suo personaggio, a imporla brutalmente su tutta l’economia del romanzo; e, di conseguenza, a rendere tragicamente sconfortante la vicenda della moglie e della figlia, che devono proprio soprattutto a quella spietata avarizia il complessivo squallore della loro esistenza.

  Il Balzac, che vorrebbe accondiscendere alle predilezioni delle due donne e che dalla visione della prevalente realtà, che lo circonda, è indotto a sanzionare la tirannia di Grandet, spiega appunto le sue cure più vigorose, a fissare, come quelle delle due donne con le loro caratteristiche, così e con maggiore impegno la fisionomia dell’avaro, che appare un’abnormità da leggenda davanti a cui è inutile e quasi ridicolo ogni eroismo di generosi; e tali cure egli esplica, vorremmo dire, soprattutto sulla forma del linguaggio. Noi sentiamo che la parola di Grandet è di quest’ultimo, esclusivamente di quest’ultimo, e che l’originalità del Balzac al riguardo sta nel respingerla energicamente da sè e di non sentirsi mai soddisfatto in questo straordinario sforzo alienatore, così come del resto egli fa per i personaggi opposti, civilmente e cristianamente riconoscibili (in particolare Schmucke del Cousin Pons), nei riguardi dei quali la dialettica alienatrice è però sempre in funzione dello spicco riservato dall’autore al carattere negativo delle affermazioni contrarie ed è volta solo a meglio oggettivarli come vittime immeritevoli della malvagità altrui.

  Il caso del Balzac è analogo a quello di altri scrittori soprattutto moderni, nei quali l’incapacità di giungere a un assetto spirituale soddisfacente genera un bisogno prepotente di abbandono delle note soggettive c personali e di oggettivazione, che li porta, fra l’altro, al largo accoglimento degli elementi dialettali ed idiotistici e al prospettamento dei più vari e spesso minuti aspetti della realtà. Tutti costoro difettano, più o meno, di stile. E’ questo il caso di numerosi scrittori di teatro, voltisi appunto al teatro e a certe sue forme soprattutto a causa di tale particolare esigenza di oggettività (fra questi, noi collochiamo il nostro Goldoni) e di quei narratori realisti, che più specificamente dovrebbero venir chiamati veristi in un’accezione del termine più propria di quella che attualmente gli è attribuita. Intendiamo riferirci a quella forma di realismo, che, anzichè proporsi di prospettare una realtà unitariamente conforme a una determinata visione (è il caso del Flaubert che non si stacca mai, in genere, dal concetto dominante di un’umanità fatta di esseri deboli o inetti o meschini e la cui visione è solo apparentemente impersonale e oggettiva), inclina invece a presentare la realtà scomposta nelle sue singole verità.

 

  Note.

 

  (1) Lundis - T. II - 2 settembre 1850.

  (2) Nouveaux Essais de Critique et d’Histoire, Paris, Hachette, 1865.

  (3) Balzac et son Oeuvre, Paris, Perrin, 1924.

  (4) Paris, Droz, 1940.

  (5) Balzac, L’Homme et l’Oeuvre, Paris, Boivin, 1046.

  (6) Da ricordarsi pure, e in modo spiccatissimo, i colloqui (tenuti nell’«argot» degli ergastolani) fra Vautrin, Fil-de-Soie e la Pouraille nel cortile del Palazzo di Giustizia di Parigi (Splendeurs et Misères des Courtisanes).

  (7) Quando lo scrittore vuole darci la visione opposta della vita e della società, egli non ottiene quel vigore e quella vitalità di rappresentazione che sono propri delle altre sue opere e particolarmente delle maggiori. E’ questo il caso di L’Envers de l’Histoire contemporaine, fra gli ultimi suoi romanzi, che reca alla fine la data «Vierzchovnia, Ukraïne, dicembre 1847» e nel quale appunto, come il titolo indica, egli ci vuole presentare «il rovescio», «l’altro aspetto» della società del suo tempo, ossia lassoluta eccezione di un’accolta di persone, che costituiscono l’ordine affatto segreto dei «Frères de la Consolation» e sono tutte dedite, entro la torbida Parigi, a silenziose, molteplici opere di bene, senza incontrare notevoli intralci e soprattutto senza subire sopraffazioni, riuscendo così, anche, a rifarsi dei torti ricevuti nella prima parte della loro esistenza dalla corrotta società e dagli arbitri del caso e della congiunta amarezza, mediante il conforto del loro esercizio della carità e soprattutto mediante il convincimento che siano stati quei mali a sospingerli sulla via dell’elevazione cristiana.

  Tuttavia si sente che il Balzac non ha l’agio intimo per dedicarsi a una compiuta, esauriente rappresentazione di tale «rovescio», rimanendo troppo presente il «diritto» al suo spirito con la sua respingente realtà. Troppo poco artisticamente persuasivi sono i sovrabbondanti sviluppi della vicenda nella parte del romanzo dedicata alla narrazione dei torti e delle ingiustizie del caso e ciò perché, se egli sovrabbonda in numero e varietà di avvenimenti luttosi senza dubbio per mettere in maggior evidenza il valore cristiano del perdono e della rassegnazione dei «confrères» (soprattutto di Madame de la Chanterie), d’altro lato però non vuol far risultare chiusa entro angusti limiti la parte riservata alla sublimazione cristiana e si impegna soverchiamente nel cercare un prospettamento rapido e sintetico dei medesimi avvenimenti tristi. A sua volta la seconda parte è ugualmente troppo poco ampia, troppo povera di contenuto romanzesco rispetto alla prima: le sue vicende sono poche e tutte appena accennate, tranne Quella relativa al barone Bourlac, che tuttavia avrebbe potuto essere meno diffusa, poiché è in buona parte estranea all’attività dei «confrères», la quale precisamente avrebbe dovuto e intendeva costituire il perno dell’intero romanzo. Ossia il Balzac ha voluto limitare all’essenziale la rappresentazione dei torli e delle ingiustizie subiti dai suoi protagonisti e diffondersi in quella dei conforti generati dall’affidamento alla Provvidenza, ma in realtà egli non ha saputo sottrarsi alla tentazione di presentare in modo ampio e addirittura tentacolare la malefica signoria del caso, cercando la brevità solo nella sommarietà della rappresentazione, che è un difetto e non un attributo dell’arte. D’altra parte non ha saputo arricchire di un (potremmo dire) adeguatamente specifico contenuto la parte dedicata alla Provvidenza, che doveva occuparsi più esaurientemente dell’attività dei «confrères», e l’ha fatta romanzescamente povera ed esile. Le stesse figure di tre dei cinque «confrères» (Joseph, Nicolas, l’abate Vèze) restano appena delineate. Si tratta, in definitiva, di due gravi, in parte contrastanti difetti rispettivamente riscontrabili nella prima e nella seconda parte del romanzo: sommarietà ed evasività di rappresentazione, dovute proprio (come dicevamo) al desiderio di rappresentare di preferenza il «rovescio» di una medaglia (ed ecco la sommarietà nella rappresentazione del «diritto»), il cui «diritto» esercita invece una potentissima, continua, determinante suggestione sull’animo e sulla fantasia dello scrittore (da cui deriva l’evasività della rappresentazione del «rovescio»).

  Tale limitato successo artistico è tanto più increscioso in quanto L’Envers mirava a portare la chiarezza e la serenità nel drammatico mondo del Balzac anche attraverso il superamento del fascino per la nota-Rodin, così sensibile (come abbiamo visto) in molti romanzi precedenti: il che avrebbe consentito allo scrittore di ottenere una più piena caratterizzazione della sua personalità.

  Si pensi infatti ai Gesuiti e a Rodin, che il Sue nel suo romanzo presenta soprattutto volti con le loro imponenti forze e risorse a operare inimputabilmente il male e si vedano, al confronto, i confratelli dell’Envers, preoccupati di ottenere il bene più largo e copioso sfuggendo con ogni cura al più piccolo riconoscimento:

  « C’est une nécessité — dice il «confrère» Alain a Godefroid — de l’incognito absolu qui nous est nécessaire dans nos entreprises, et nous sommes si souvent obligés de le garder, que nous en avons fait une loi. D’ailleurs nous devons rester ignorés, perdus dans Paris. Songez aussi, cher Godefroid, à l’esprit de notre ordre, qui consiste à ne jamais paraître des bienfaiteurs, à garder un rôle obscur».

  Inoltre il Sue aveva speso pagine ed occasioni a prospettare L’Imitazione di Cristo come un indegno strumento usato dai Gesuiti per la dissoluzione della personalità umana: il Balzac lo celebra invece come il libro che più di qualunque altro ha assimilato lo spirito del Vangelo:

«Le catholicisme y vibre, s’y meut, s’agite, s’y prend corps avec la vie humaine. Ce livre est un ami sûr. Il parie à toutes les passions, à toutes les difficultés ... Sa voix est la vôtre, elle s’élève dans votre cœur et vous l’entendez par l’âme. C’est enfin l’Évangile traduit, approprié à tous les temps, superposé à toutes les situations. Il est extraordinaire que l’Église n’ait pas canonisé Gerson, car Saint animait évidemment sa plume».



  Alfredo Niceforo, Criminologia. L’uomo delinquente: la “facies” interna, Milano, Fratelli Bocca – Editori, 1951 («Biblioteca di Scienze Moderne», N. 133).

 

Capitolo undecimo.

Una pagina di psicologia criminale e ai margini: rimorso e stati analoghi crepuscoli.

e) Balzac, pp. 296-297.

 

  Potremmo cercare nelle pagine di una letteratura realista, caratteristici tratti del rimorso dei criminali? Il «realismo», come si sa (o, meglio, come poco si sa) è «realismo» fino a un certo punto ... In ogni modo, si dia pure un’occhiata da quella parte. E si troverà l’inaudito e pazzesco rimorso con cui l’assassino Taillefer è perseguitato nella novella L’auberge rouge. Aveva, da giovane, ucciso un onesto mercante — in una tenebrosa notte passata in un albergo di campagna — per derubarlo e aveva lasciato che l’amico e compagno di viaggio fosse incolpato di quel delitto e giustiziato; divenuto poi ricco e ricchissimo è da tutti tenuto in alta considerazione, ma lo strazio del rimorso, lo prende, strazio che si manifesta con orribili crisi di malattia, in cui nessun medico vede chiaro: «sofferenze atroci durante quelle crisi, nelle quali l’ammalato grida orrendamente, dichiara volersi uccidere, tanto che gli assistenti debbono legarlo nel letto. Il disgraziato pretende aver nella testa animali che gli rodono il cervello». Gli accessi si ripetono fedelmente in autunno, epoca — si noti — in cui fu commesso il delitto. Descrizione verista? O essenzialmente fantastica e romantica, fatta di quelle fantasticherie e di quel romanticismo che così frequentemente si frammischiano al vero e proprio «realismo» di colui che, ciò non pertanto, è davvero da ritenersi come il moderno fondatore della letteratura realista? Analoga osservazione sarebbe da farsi nei riguardi del rimorso da cui è preso il terribile delinquente Argow nel romanzo: Argow le pirate, ma qui si tratta di pagine scritte da Balzac nella prima gioventù (1824) allora che egli era ancora sotto la suggestiva influenza dei più fantasiosi romanzi del tipo di quelli che venivano d’Inghilterra, tanto lontani da quel realismo cui dovette più tardi darsi l’autore della Commedia umana.


Capitolo decimoquarto.

Anche l’esame della scrittura?

 

  p. 379. Naturalmente, larga materia di esame fornirono le firme e la scrittura degli uomini celebri; pochi di essi furono risparmiati, trovandosi da parte dei grafologi nelle caratteristiche di quelle firme (o di quelle scritture) i segni della personalità (già conosciuta, per altro!). Tra gli [...] gli scrittori [...] Balzac con scrittura semplicissima, sponta­nea, chiara, centrifuga, condensata, posata, armoniosa.

 

 

  Giuseppe Patanè, Catastrofe romantica di Balzac. Era diventato Bilboquet nella polvere della crinolina di Eva, «La Sicilia. Quotidiano liberale», Catania, Anno VII, N. 1, 2 gennaio 1951, p. 3.

 

  Cfr. anche: Giuseppe Patanè, Morì cieco nel palazzo della felicità, «La Domenica del Corriere. Supplemento settimanale illustrato del nuovo “Corriere della Sera”», Milano, Anno 52, N. 41, 8 Ottobre 1950, p. 13.

 

 

  Volle toccare con mano la fatale bellezza dell’impossibile, Balzac, e ne rimase fulminato. Una catastrofe romantica, la sua, ma di piccolo borghese, diciamo meglio di piccolo uomo. Il Balzac del grandioso busto scolpito da David, quando l’autore della «Commedia umana», con la «Straniera» finalmente sua sposa, arriva dall’Ucraina nella casa di rue Fortunée a Parigi, nella casa di ricchezze per lei, il Balzac che egli aveva voluto fulgida di quel busto è indifferente dinanzi allo spettacolo «piccolo» dell’apparizione del povero celeberrimo scrittore respirante a gran fatica nella polvere della crinolina di Eva Hanska.

  Era diventato Bilboquet; un gingillo. «Non ti agitare, Bilboquet. Stai tanto male ...». Sposa scherzosa, con un fondo di fievole pietà nella voce, l’aristocraticissima Eva. Ma meraviglioso lui. Onorato de Balzac, ormai fanciullone fuori di sè: aveva gettato nel fiammeggiare della sua ambizione e della sua vanità, tutti i libri che avrebbe ancora scritto, il suo cervello mastodontico, la sua strapotente fantasia.

 

Grido nella notte.

 

  «François, apri! ... Dove sei, François? ... François! ... Apri, perdio! ...». Nessuno rispose. Il grido di Balzac che nella notte del suo arrivo dall’Ucraina con la moglie, aveva risonato senza alcuna risposta dinanzi alla porta della casa in attesa l’ultimo disperato grido di Balbac (sic) già quasi distrutto nel cuore, quasi cieco, anchilosato, echeggiava ancora al letto di morte dello straordinario uomo. Victor Hugo che aveva voluto essere al capezzale del gigante di Tours nelle ore del suo tempestoso morire, parve intento a raccogliere l’eco di quel grido mentre dal gran petto devastato uscivano più ruggiti che gemiti, nell’interminabile rantolo. Maggio-agosto 1850: ultimo ritorno e ultima partenza di Balzac. «François ... hai ragione ...». Ormai era cieco del tutto. A tratti si rivolgeva alla madre sola ad assisterlo fino al suo estremo quietarsi, pur non avendolo mai amato o avendolo amato in uno strano modo aspro, crudo, angusto, tutto suo.

 

Uomo gigantesco.

 

  A cento anni dalla sua fine terrena, Balzac appare dinanzi alla posterità come il più balzachiano dei suoi personaggi. La sua figura giganteggia su tutta la «Commedia umana». Attraverso la storia delle sue imprese finanziarie, dei suoi debiti, dei suoi espedienti, dei suoi amori, dei suoi viaggi, egli è più romanzesco di Vautrin, di Rastignac, di Birotteau di altri eroi dei suoi romanzi. La immensa, vulcanica operosità creatrice d’arte, si alternava in lui, ogni giorno, con la battaglia e il fallimento dell’uomo pratico. Parallelamente a un suo ideale «napoleonico» di dominatore della letteratura nel mondo, egli coltivò un ideale di uomo non certo straordinario e che finì col diventare ossessione: il matrimonio con una vedova altolocata e molto ricca. Apparve, infatti, nell’ultimo quindicennio della sua vita straripante di avventure e disavventure, — visse, com’è noto, cinquantun anni — apparve la «Straniera», la baronessa polacca Eva Hanska, nata contessa Rzeunska (sic), bella, sebbene non più giovanissima, colta ma albagiosa, cervello freddo. Una lettera misteriosa era partita dal fastoso castello ucraino di Vierzohownia (sic) dove ella viveva col marito, il barone russo-polacco Venceslao Hanska (sic) e si sentiva, pur nel suo principesco benessere, squallidamente isolata dal mondo; una lettera per Balzac — era il tempo del gran successo europeo della «Peau de chagrin» che aveva suscitato l’interesse anche del Goethe. Balzac aspettò parecchi anni che il marito di Eva morisse, per poterla sposare. E viaggiò pazzamente l’Europa per incontrarsi con lei. Ne aveva ricevute tante di epistole ammirative, da tante donne d’Europa che amavano in lui il narratore indulgente dei loro peccati, ma quella che portava la firma: «L’Etrangère» fu la più maliosa fra tutte.

 

Autodecorazione.

 

  «Voglio fare con la penna quello che Napoleone fece con la spada». «Creerò le “Mille e una notte” dell’Occidente». «I miei stravizi consistono mio lavoro». Così disse più volte parlando di sé. Balzac. E questi suoi detti corrisposero perfettamente alla prodigiosa realtà dell’opera sua, delle sue «orge cerebrali» (sedici ore di lavoro al giorno). Tutto enorme e tutto irregolare, in lui. Mille uomini in un solo uomo.

  Nessuno ignora che egli si chiamava Balzac e non de Balzac. Quel suo fregiarsi del predicato nobiliare ci sembra simile all’autodecorarsi di un dittatore dopo una titanica battaglia gloriosamente vinta.

  Ma quel «de» gli fu indispensabile come il suo tavolo di scrittore, la sua canna da passeggio tempestata di gemme, la tonaca che avvolgeva, durante il lavoro, la sua corpulenza di fratacchione dalle gambe corte, le tazze di caffè (ne bevete cinquantamila in pochi anni), i bottoni d’oro del marsinone blu l'occhialetto lucente nei salotti del «gran mondo» e nel «palco dei geni» al Teatro degli Italiani, il «tilbury» col servo in livrea. «De», sicuro, al pari di Chateaubriand o di Lamartine o di tutti gli altri aristocratici di Francia e dello universo, letterati e non letterati. Aveva nel sangue ribollente il microbo del dominio, della signoria. Perciò dai suoi contemporanei avrebbe voluto essere considerato almeno alla pari di Metternich, per esempio, di cui era stato successore in amore tra le braccia della duchessa d’Abrantès.

  Tentò di percorrere anche la via della fortuna politica, ma la società in cui egli viveva, Parigi, irrise quella sua velleità: lo giudicava fanfarone, imbroglione, donnaiolo della peggiore specie, villanone di Turenna, pazzo. E, invece, egli aveva bisogno di sentire attorno a sé il mondo riverente e riconoscente per i doni che gli aveva fatto e continuava a fargli. Centocinquanta libri. «Ecco qua le «Illusioni perdute». Prendetevi «Père Goriot». Prendetevi «Eugenia Grandet». Non vi bastano. Ecco il «Cugino Pons», la «Cugina Betta», il «Curato di Tours», Louis Lambert».

  Egocentrico e perciò ambizioso, prepotente, ma anche generoso; violento ma anche gentile. Era di una loquacità torrenziale e aggressiva, nei salotti, negli incontri con i suoi colleghi (due soli amici: Gautier e Hugo) negli incontri dopo le lunghe ore del suo lavoro silenzioso: parlava sempre lui e quasi sempre di sé e finiva con l’urtare gli astanti e con lo schiacciarli sotto il peso della sua individualità fiammeggiante, mordente, reazionaria e insieme rivoluzionatrice.

 

L’istinto dell’affare.

 

  Aveva ereditato dal padre l’istinto dell’affare, ed era portentoso nel concepire traffici e speculazioni. Sosteneva che «le cose grandiose, in affari, sono le meno costose». Ma restava di continuo impigliato nelle reti della realtà dei furbi rasentando spesso i pericoli della bancarotta: dovette lottare e transigere sempre, nuotare a gran fatica tra le onde di debiti: pagava e rinnovava e firmava, sguisciava e fuggiva e tornava, passava da una dimora all’altra per evitare le trappole (lavorava di notte, cioè quando i creditori dormivano). Sempre ricco e tempre povero.

  E, in fondo, era un uomo, come tutti gli altri, bisognoso di affetti. Non aveva avuto alcuna tenerezza dalla madre. «Sono invecchiato di dolore».

  Nulla vi può dare un’idea della mia vita sino ai ventidue anni», aveva scritto nel 1828 alla duchessa d’Abrantès e cioè a ventinove anni. La sua prima amante gli fu dolcissimamente materna, per lunghi anni, la de Berny, bella, prodiga, perspicace, paziente (la signora Mortsauf del «Giglio nella valle»). E lui la chiamò sempre la «Dilect[a]» anche quando aveva già lasciato tra i suoi ricordi migliori quella intensa e squisita amicizia amorosa, preso da nuovi e più abbaglianti miraggi. Da altre donne intelligenti egli ebbe amore e aiuti spirituali e materiali: dalla D’Abrantès che lo presentò nel salotto, autorevolissimo, di Madame Récamier, da Zulma Carraud non bella ma luminosa bontà e la cui casa fu il rifugio di Balzac quando egli era braccato dai creditori. «Un quarto d’ora trascorso accanto a voi la sera vale di tutte le felicità di una notte ...», egli le scrisse in un giorno tristissimo. La contessa Visconti-Guidoboni lo salvò più volte, più volte lo ospitò anch’essa nella sua casa e attraverso il marito fece sì che egli potesse viaggiare anche l’Italia. La duchessa di Castries. al contrario, lo fece soffrire. Non gli concedette nulla di più della sua amicizia. Ma anche quando soffriva, Balzac, sentiva di vivere potentemente. «Le mie migliori ispirazioni risplendettero sempre nelle ore della estrema angoscia».

 

Angoscia estrema.

 

  Così scrivendo di sé, restava appunto, in sostanza, ancora, e con spavalderia, vittorioso sulla vita: non aveva, in realtà, ancora sentito la vera angoscia estrema. La sentì al suo ritorno dalla Russia, dopo le nozze celebrate a Berdiscev (sic), con la vedova Hanska, dopo il lungo viaggio disastroso verso Parigi; la sentì quando bussò ripetutamente, disperatamente, invano, alla porta della casa che doveva essere il suo palazzo della felicità, e che egli, appena arrivato, voleva subito offrire, e a gesto di principe, alla nobildonna sua consorte. Riluceva in ogni finestra la maestosa casa, nella notte di primavera, ma era chiusa e il custode, il servo François, non apriva. «Apri, François! ... Dove sei?  François! Aprì!». Eva lo guardava sorpresa ma non troppo. «Bilboquet, non ti agitare. Stai già tanto male». Sentiva di essere soltanto pietosa verso di lui ... Ma allora? Tutte quelle luci? Dovette Balzac, sfinito com’era, camminare, trascinarsi, cercare un fabbro, per forzare la porta. Quando la porta, fu spalancata, apparve sul più alto gradino della scala, in uno sfolgorio di marmi, di statue, di ornamenti floreali, diritto, stravolto, solenne, François Sullo sfondo, il busto di Balzac scolpito da David.

  — Francois! ...

  Il servo dapprima non rispose. Poi quando vide Balzac avanzarsi, urlo:

  — No! No! ... Fermati. Chi sei? Che vuoi tu, qui? Di dove vieni? Così disfatto ... Così miserabile! Via di qui! Qui stanotte io attendo Sua Maestà ...

  — François ... Ma., sono io Sua Maestà ....

  — Tu?!. Ah! Ah Ah ... Tu? Tu sei un povero servo! ... Un miserabile servo come me! ... Illuso ... Via!

  François era impazzito. Era stato lasciato solo nel «Palazzo della felicità». Balzac, per il timore che le cose in casa durante la sua assenza non procedessero a dovere, aveva scritto dalla Russia alla madre: «Spaventa i servi».

  Impazzito, dunque, François. Ma a Balzac parve, all’improvviso, di vedere attorno a sé una rivolta, la rivolta di una folla con alla testa, François. Ancora più terribile, poco dopo: gli parve di riconoscere tra i rivoltosi, i suoi personaggi, i duemila personaggi della incompiuta «Commedia umana». (Stefano Zweig accuratamente li contò nello scrivere la sua lucida e appassionata biografia di Balzac). Ma perché quella rivolta? Il perché lo sapeva solo François. Certo tornava, Balzac, quella notte, non solo dalla Russia, ma da tutta la sua vita. «Alt. Non si va più oltre». Credeva di essere arrivato, finalmente, nella sua reggia. Era arrivato, invece, in una dimora fredda, piena di sfarzi inutili: e un odor di fiori che sapeva di cerimonia funebre. Forse chi sa, quel François che era stato il più fedele dei suoi servi, era impazzito per il dolore di non aver potuto avvertire in tempo il padrone, del destino che lo aspettava. «Sciagurato. Hai interrotto — pareva dicesse quando lo portarono via dal palazzo — la creazione della tua opera. Dovevi continuare a non essere schiavo».

  In quel palazzo Balzac si coricò infermo e non visse se non i pochi mesi che precedettero la morte.

  L’Accademia di Francia che non lo aveva voluto eleggere fra i suoi «immortali», non partecipò alle esequie. Ma attorno alla bara, sotto la pioggia, fu veduto Victor Hugo e Alessandro Dumas, anche Sainte-Beuve che era stato nemico irriducibile di Balzac. Al cimitero del Père Lachaise Victor Hugo pronunziò un discorso. Parlò dello autore della «Commedia umana» come di un dio. «Più opere che giorni la sua vita breve. Ma questa non è la fine. E’ il principio. Non è il nulla E’ la eternità».

  A cento anni dalla morte del romanziere famosissimo, non si può ricordare la profezia del poeta della «Leggenda dei secoli» senza riconoscere che quell’accento, quell’inno, quell’enfasi entusiastica dell’eccezionale oratore non fu, in una circostanza così rara nella storia letteraria, fuori di tono o alquanto azzardata.

 

 

  Giuseppe Patanè, Balzac commediografo e regista. La disastrosa Waterloo del Napoleone della letteratura, «Corriere d’informazione», Milano, Anno VII, N. 82, 5-6 aprile 1951, p. 3.

 

  Un regista sui generis in un'epoca in cui nessuno forse prevedeva l’avvento della regia nel teatro e nel cinema, fu certamente Onorato de Balzac.

  La singolarità di questo aspetto trascurato della figura dell’autore della Commedia umana è tale che può indurci a considerare senza alcuna rigorosa meraviglia, anzi con cordiale indulgenza, le grandi e piccole vanità che accompagnano, di solito, le ambizioni più o meno legittime, in molti artisti veri o falsi (commediografi, musicisti, registi, attori, cantanti) avidi di applausi, di notorietà clamorosa e, soprattutto, di guadagni. Era naturale che i suoi esperimenti di commediografo finissero col diventare spettacoli della sua vita di uomo-artista enorme e non soltanto spettacoli a sè stanti per un pubblico, per una platea, secondo una tradizione secolare. Tutto nella vita di Balzac era stato ed era, perché voleva essere. romanzesco. Tra la sua opera scritta e la sua vita vissuta non era alcun limite definito. Balzac era il più balzachiano dei suoi personaggi.

  Si illuse, appunto, come i suoi più grandiosi tipi di affaristi, in vicende d’altra specie, che il teatro potesse coprirlo di milioni. Egli desiderava potersi presentare anche con un prestigio di milionario all’agognata «Straniera», a Eva Hanska finalmente vedova, dalla quale aspettava con un’ansia frenetica l’invito a raggiungerla in Russia. Dominato com’era dalla ossessione — che poi gli fu fatale: «una moglie e un grande patrimonio» — Balzac avrebbe voluto inchinarsi all’ardua fidanzata fiero di un «de» in piena regola, riconosciuto dal re, o col distintivo di deputato alla Chambre des Pairs oppure con le palme di accademico di Francia. Ma gli era mancato il denaro indispensabile per la sua iscrizione nella lista dei candidati alla Camera e gli «immortali» ridevano sarcasticamente di lui dicendo che era troppo corpacciuto per i seggi dell’Accademia destinati a uomini insigni ma snelli e senza debiti e non a fratacchioni volgari, sensuali, vergognosamente indebitati.

  Correva, infatti, Balzac, il pericolo di naufragare nel mare dei debiti, e orientarsi verso il palcoscenico significava, nella sua fantasia, volgere la prora verso un porto sicuro. Ribolliva nella certezza che sarebbe uscito vittorioso dall’impresa, una certezza simile a quella che lo aveva spinto a cercare i giacimenti di argento nelle miniere di Sardegna. E nella nuova avventura si gettò con altisonante sicumera e con una prepotenza fastosa che nessun commediografo fino allora, in Francia o altrove, aveva mai avuta.

 

Pretese esorbitanti.

 

  All’autore di Père Goriot parve una delle più semplici cose di questo mondo scrivere un dramma. Svelto nel concepirlo, nel «buttarlo giù», disinvolto nel farne annunziare la prima rappresentazione senza ancora averlo scritto. Progetta di scriverne di drammi, o commedie, almeno venti o trenta in un anno. Ma, tutto a un tratto, eccolo fra gli scogli. Gli impresari non gli concedono gli anticipi di cui ha urgentissimo bisogno, prima che l’esito delle recite sia conosciuto. Si accorge tardi che gli impresari teatrali sono diversi dagli editori di romanzi.

  La sua prima commedia, L’école des ménages è rifiutata dal Théâtre de la Renaissance. Dall’alto del suo trono, Balzac scaglia una sghignazzata contro il direttore di quel teatro: «Io sono Balzac!». Un’ottima occasione, in verità, non gli mancò, poco tempo dopo. Il direttore della «Porte Saint-Martin», a cui occorreva subito un’opera richiamante, si rivolse all’autore delle Illusioni perdute. Più «napoleonico» che mai, Balzac risponde di sì, ma imponendo «dure» condizioni, mentre s’impegna solennemente a ridurre al più presto, il suo Vautrin per le scene; ma vuole, vuole e vuole: i più illustri attori con il Lemaître alla testa, un «batage colossale», un pubblico magnifico, dirigere lui tutte le prove e la messinscena e anche la vendita dei biglietti. Mezza Parigi, per varie settimane, lo vede ebbro, trasandato negli abiti, vociante, gesticolante, furente. trascorrere giorni e notti sulla ribalta, in mezzo agli interpreti, agli scenografi, ai trovarobe, vigilare, per le strade, sull’affissione dei manifesti. Il migliore fra i suoi amici, Teofilo Gautier, lo assiste più che fraternamente, lo aiuta nella composizione rapida del Vautrin insieme con Laurent-Jan, con De Belloy, con Ourliac. Tutt’e quattro i collaboratori generosi, a un certo momento, rischiano di impazzire sotto l’assillante, irrefrenabile concitazione di Balzac. Anche lui finisce col non capire più nulla del polpettone in cui era stato trasformato il celebre romanzo. E intanto gli attori sono costretti a sopportarlo per ore e ore sul palcoscenico. Lui a guidarli, ma con certi modi che urtano contro ogni regola e ogni convenzione e li disorientano, li irritano, li snervano. L’opera cade, si sfascia, si spappola, alla prima rappresentazione. Il pubblico, imponente, nel quale è il principe di Orléans, protesta, rumoreggia, fischia. La mattina dopo, il re fa proibire le repliche poiché lo spettacolo ha gravemente offeso i realisti. «State attento. Balzac!» gli dice in un orecchio Enrico Heine. «Oh. sì! ... Attento! Perché?» risponde lui scrollando le spalle.

 

La nuova battaglia.

 

  Proprio il «catastrofico» Heine non lo turba affatto. Egli si prepara per la nuova battaglia. Con Les ressources de Quinola vuole a tutti i costi vincere e stravincere e far dimenticare il fiasco del Vautrin. La prima delle Ressources viene annunziata all’Odéon. Protagonista la D’Orvalli (sic). Alle prove, Balzac appare più intrepido e più dispotico, più incompetente e insieme più fantasioso che non alle prove del Vautrin. La D’Orvalli non riesce a resistere a lungo alle svariate tirannie del proteiforme, egocentrico e incontentabile Balzac. «Basta! Basta! Basta!» ella grida quando non vede arrivare il manoscritto del quinto atto che l’autore non ha ancora composto. E fugge dal palcoscenico e nessuno riesce a trattenerla. «Pensiamo a noi!» urla rauco Balzac discutendo col preoccupatissimo direttore del teatro. «Pensiamo al nostro spettacolo! Senza il più importante e meraviglioso pubblico che sia stato mai visto in un teatro, la mia nuova commedia subirebbe la stessa sorte del Vautrin. Troveremo l’attrice. Troveremo tutto! A me il comando! I ministri e gli ambasciatori dovranno assistere alla rappresentazione dai posti del proscenio. I deputati, nella seconda galleria. Gli alti funzionari dello Stato, nella terza galleria. Nella quarta, i ricchi borghesi. Le più affascinanti donne di Francia, nei posti più belli. I pittori e i disegnatori siano invitati tutti. Dovranno tramandare alla posterità la straordinaria, storica serata!».

  Ma il primo risultato di quella «regia» fu la scontentezza del pubblico, la diffidenza di tanti spettatori, il muso contrariato di molti altolocati a cui non piacque affatto occupare i posti che aveva loro assegnato il signor Balzac. E la sera della prima delle Ressources (19 marzo 1842 — Balzac aveva 43 anni) fu disastrosa, all'Odéon. Il teatro era quasi vuoto e i pochi spettatori presenti erano di umor nero. Sul palcoscenico lo spettacolo non si sarebbe potuto svolgere più rovinosamente. Invano, l’animoso direttore del teatro tentò, dopo il primo atto, di «imbottire» la platea e i palchetti. Tutto sommato, un fiasco più solenne di quello del Vautrin. Dalle gallerie alcuni scalmanati gridavano in coro: «Bel mic-mac, monsieur Balzac! Bel mic-mac! Evviva il mic-mac di monsieur Balzac!». Uno disse con voce tonante: «Ma va’ a pagare les dettes criardes! ...».

  Quel coro continuò, dopo la recita, fino a notte alta, per le vie di Parigi. E Balzac? I suoi amici lo cercarono, turbatissimi, sul palcoscenico, a casa sua, nei ritrovi notturni. Introvabile. Al mattino, un inserviente del teatro, con la granata e gli strofinacci fra le mani, nell’aprire un palchetto, trasalì. Trovò l’autore della Commedia umana che dormiva, disteso sopra due poltroncine, il capo poggiato al parapetto che faceva da origliere. D’improvviso Balzac si mosse e borbottò: «I miei debiti. I miei debiti ...». E si guardò intorno come per cercare i suoi creditori. «Mes dettes criardes! ... Evvia! Credete che al mondo non ci sia nulla di peggio? ... Datemi il caffè, una brocca di caffè ...». Il teatro, vuoto, odoroso di polvere, quasi buio, freddo.

  Con quelle parole egli terminò di fare il teatrante improvvisatore e il regista, in attesa di riprendere la via luminosa dei suoi nuovi e ultimi capolavori di romanziere, in fondo alla quale c’era anche una degna opera di teatro, il Mercadet che Balzac non vide mai sulle scene.

  «Quei capolavori — scrisse Stefano Zweig nel suo Balzac non sarebbero nati se i pessimi suoi melodrammi avessero riportato successo».

  Tutti sanno che Balzac considerò il teatro come una sottospecie letteraria, come un fatto pseudo-artistico estraneo alla grande letteratura. Tuttavia egli sofferse nel dover consentire che le sue improvvisate composizioni per la scena esposte al giudizio dei detrattori e degli ammiratori del suo genio di narratore, passassero per miseri prodotti della sua gigantesca fantasia. E dentro di sè amaramente si consolò pensando che, in un certo senso, essendosi trovato nell’assoluta necessità di ricorrere al teatro per fini pratici, si serviva del teatro per imporre all’attenzione universale alcuni nuovi capitoli della sua stravagantissima esistenza come se fossero anch’essi opere d’arte.

  Ma la più fastosa «regia» del mastodontico scrittore fu l’eden che egli creò nella sua casa di rue Fortunée, nell’anno della fine, 1850. per condurvi la finalmente sua signora Balzac, anzi la Morte travestita da elegante signora Balzac.

 

 

  C.[arlo] P.[ellegrini], Note. Balzac, «Rivista di Letterature Moderne», Firenze, Anno II, N. 1, Gennaio 1951, pp. 244-245.


  I festeggiamenti balzacchiani, che si sono svolti in Francia in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita dello scrittore e poi del centenario della sua morte, ebbero inizio nella natia Tours nella primavera dell’anno passato, per concludersi solennemente nel novembre scorso a Parigi. A Tours nel maggio 1949 il Comitato francese di Storia Letteraria, presieduto da Raymond Lebègue, volle dedicare a Balzac il suo primo congresso nazionale, che si inserì in forma molto simpatica nelle onoranze che la città natia dedicò all’autore della Comédie Humaine. Quelle giornate di primavera in Turenna, con varie e opportune manifestazioni rievocative (fra le quali suggestiva soprattutto una escursione nei luoghi de Le Lys dans la Vallée, che consentì agli studiosi intervenuti di rendersi conto quanto spesso Balzac nella descrizione di luoghi a lui cari resti aderente alla realtà) lasciarono un ricordo incancellabile in quanti vi parteciparono, ma il frutto più duraturo di quelle giornate è costituito dal volume Balzac et la Touraine (Tours, 1949, pp. 272) che raccoglie le comunicazioni fatte al Congresso.

  A parte la cronaca delle giornate e i discorsi ufficiali, troviamo riuniti in questo bel volume due serie di studi: l’una riguardante i rapporti dello scrittore con la regione natia, l’altra un certo numero di ricerche su Balzac e la sua opera in genere. Gli uni e gli altri hanno il merito di non cadere mai nel generico, ma di approfondire problemi ben definiti. Se nella prima parte è studiata soprattutto l’adolescenza dello scrittore, e sono indagati i rapporti di Balzac con scrittori della regione o con la natura di questa, nelle «Etudes Balzaciennes» che seguono R. Lebègue precisa come Balzac si documentò per Les Chouans, romanzo per il quale «la couleur locale avait été soigneusement préparée»; M. Roche studia la figura di L. C. de Saint Martin e l’azione esercitata dal suo pensiero su B.; Marie-Jeanne Durry indaga la composizione di Le Cousin Pons, indugiandosi sul valore di alcune correzioni fatte dall’autore al testo; J. Pommier passa in rassegna i principali problemi che presenta Albert Savarus, ecc. Infine G. Charlier fa la curiosa storia delle contraffazioni editoriali di cui fu vittima B. nel Belgio, e della reazione dello scrittore in difesa dei diritti suoi e dei suoi confratelli; reazione che ebbe le sue legittime conseguenze solo dopo lo morte dello scrittore. Ha curato una raccolta delle idee di Balzac sui più diversi argomenti (Les Idées de Balzac d’après la «Comédie Humaine», Genève-Lille, Droz, 1949-50, 5 vol. di rispettive pp. 110, 116, 116, 116, 136) scegliendo nella vasta opera dello scrittore i vari giudizi che via via ha avuto occasione di esprimere, e raccogliendoli poi per materia in varie sezioni e sottosezioni: Psicologia, Costumi, Politica, Religione, Morale, Estetica, Critica letteraria, e così via. Dato che — secondo lo Atkinson — il narratore dava una tale importanza a queste sue riflessioni da interrompere via via il discorso per farcele ascoltare, e che per mole sono superiori alle Pensées di Pascal e alle Maximes di La Rochefoucauld, ha creduto di poterle isolare e considerare in sé e per sé «comme si l’autre partie, la partie roman, n’existait pas» (I, 10). Che il trovare raccolto via via il pensiero dì Balzac su certi argomenti principali possa avere una utilità pratica per facilitare certe ricerche, può darsi, e non vogliamo certo mancar di riguardo alla lunga e laboriosa fatica del curatore, ma purché non si voglia sopra valutare un simile lavoro e trarne delle conseguenze in sede critica che non ci sembrano legittime. E non solo perché non siamo di fronte a un pensatore ma a un poeta, nel quale domina — almeno nei momenti migliori — la fantasia, e che quindi per forza cade in frequenti contradizioni con sé stesso, ma soprattutto perché quei giudizi di carattere religioso, morale, politico, ecc., hanno un diverso valore secondo il luogo in cui si trovano. Non si può isolare un passo dal tono e dal colore particolare dell’opera dalla quale è preso, in quanto quei pensieri, quelle riflessioni, quei giudizi non hanno un valore in sé, isolati, ma in quanto fanno parte di un insieme dal quale traggono la loro origine e il loro significato. È vero che lo A. si è preoccupato, nella sua scelta, di disporre i pensieri in ordine cronologico, ma non basta. È una specie di vivisezione alla quale è sottoposto lo scrittore, con tutti gli inconvenienti che una simile operazione porta con sé; e per quanto il curatore della raccolta alla fine sembri rendersi conto (V, 114) di avere «disséqué» il suo autore, pure è con-vinto che «il y a chez Balzac, comme chez tous, celui qui observe. Puis il y a celui qui établit des rapports logiques entre les faits observés. Enfin il y a l’homme émotif». Ma questi aspetti della personalità balzacchiana non possono essere isolati senza rischio di frantumare agli occhi del lettore la personalità stessa dello scrittore, e di attribuire alle affermazioni staccate un valore a sé, avulse dal mondo per il quale sono nate e dal quale ricevono il loro vero significato.

  Desideriamo infine segnalare la nuova edizione del volumetto dell’abate Philippe Berthault, B. L’homme et l’oeuvre, Paris, Boivin, 1950, p. 271, che, uscito la prima volta nel 1946, vede di nuovo la luce riveduto e accresciuto. L’«aumonier des balzaciens», ben noto per la sua grande tesi su B. et la Religion, Paris, 1942, offre in questo volume una introduzione allo studio dello scrittore informatissima, sicura, appassionata. Se qualche difetto vi sì può trovare, deriva appunto dal vero e proprio culto che egli ha per il suo autore, ma spesso appare così vivo e sincero da disarmare anche il lettore mal prevenuto.

 

 

  Anita Pensotti, Il più celebre cenacolo dell’Ottocento. Fiorì la moda del patriottismo nel salotto della contessa Maffei, «La Sicilia. Quotidiano liberale», Catania, Anno VII, N. 177, 28 luglio 1951, p. 3.

 

Il passaggio di Balzac.

 

  Balzac, durante la sua visita in Italia, non disertò mai nemmeno una sera, il «salotto». Piccolo, grasso e rubicondo circondato da uno stuolo di aspiranti poetesse, minacciava di sfasciare a ogni momento le poltrone. Compitissimo dapprima, si rivolgeva con il termine di «angelo» a tutte le sue ammiratrici; ma sul più bello delle discussioni, quando l’intero salotto attendeva con ansia il suo giudizio, la grossa testa gli cadeva sul petto e sprofondava irrimediabilmente nel sonno. A questa ripetuta scortesia verso la padrona di casa (che invece l’aveva accolto volandogli incontro per le scale e gridandogli, quasi genuflessa, «Ah, j’adore le génie!»), Balzac tenterà di rimediare da Parigi, inviando alla «petite Maffei» una lettera lunga e galante che concludeva: «Ci sono dei giorni in cui ricordo il Duomo di Milano e il Quadro di Raffaello «Lo sposalizio della Vergine» che abbiamo ammirato assieme. Ma soprattutto ricordo una camelia più bianca della più bianca statua della guglia più bianca».

 

 

  Edvige Pesce Gorini, Convegni al Pére (sic) Lachaise. Si passeggia come in un parco fra le più illustri memorie del mondo, «La Sicilia. Quotidiano liberale», Catania, Anno VII, N. 91, 18 aprile 1951, p. 3.

 

La dimora di Balzac.

 

  Ero stanca quando arrivai alla dimora di Balzac. Il suo busto di bronzo sta alto sulla candida croce del monumento e sulle croci marmoree dei monumenti vicini: la sua testa leonina è viva. Mi parve di aver camminato in compagnia del grande romanziere. Non usava egli passeggiare nei viali del Père Lachaise in cerca di nomi sulle tombe? E che cosa dicono i nomi di esseri a noi ignoti chiusi fra due date sui taciti marmi?

  L’autore de «La Comédie humaine» col tuo volto serio serio fortemente espressivo pareva scrutare lontano: cercava forse ancora fra i visitatori la piccola borghesia provinciale e parigina di cui fu vigoroso pittore?

 

 

  Guido Piovene, L’America è come l’acqua o si nuota o si annega, «Corriere della Sera», Milano, Anno 76, N. 25, 31 gennaio 1951, p. 3.

 

  Si pensi all’aristocrazia francese, chiusasi nella Rive Gauche quando la repubblica in Francia si stabilì definitivamente. La società americana per un lato è la più moderna, e per un lato la più vecchia. Molto in essa richiama la società dei romanzi di Balzac. Ci fermeremo un’altra volta sul «balzachismo» della società americana; se nella vita francese ho visto Balzac, ma oramai disseccato, divenuto esteriore, qui lo trovo vivente.

 

 

  Guido Piovene, Va al lavoro col suo “yacht” il vecchio emigrante italiano, «Corriere della Sera», Milano, Anno 76, N. 29, 4 febbraio 1951, p. 3.

 

Personaggi di Balzac.

 

  Un critico inglese (Mortimer) scrisse che Balzac ha riunito tutti i caratteri possibili con un’eccezione sola: gli abulici, gli astenici, gli inappetenti della vita: proprio quelli che prediligono gli intellettuali di oggi, riflettendovi la loro nevrastenia. In Balzac tutti sono attivi, aggressivi, anche i disperati. Spesso gli italiani d’America sembrano usciti da una certa categoria di personaggi di Balzac.

 

 

  Annarosa Poli, Balzac e il Sergente Bianchini, «Bologna. Rivista del Comune», Bologna, Anno XVII, N. 6, 1951, pp. 46-48.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 563.


  Per la storia del soggiorno in Italia di Honoré de Balzac non si può trascurare l’esame di un raro opuscoletto, pubblicato a Milano nel 1837, proprio durante la permanenza del romanziere nella città lombarda.

  Il titolo dell’opera è il seguente: «Difesa dell’Onore dell’Armi italiane, oltraggiato dal Signor di Balzac nelle sue Scene della Vita parigina e Confutazione di molti errori della Storia Militare delle guerre di Spagna fatte dagli Italiani, di Antonio Lissoni, antico ufficiale di Cavalleria». Milano, Tipografia F. Rusconi, 1837.

  Il milanese Lissoni (1787-1865), ufficiale nell’esercito di Napoleone, combattè in Spagna e fu testimone oculare nel famoso assedio di Tarragona, descritto con molte inesattezze da Balzac nella sua novella «Les Marana» (Studi filosofici). Questo racconto ha un particolarissimo interesse per noi Bolognesi perché nell’esordio di essa è riferito l’episodio del leggendario granatiere bolognese Bianchini.

  Balzac possiede l’arte incomparabile di caratterizzare i suoi personaggi per mezzo dell’ambiente in cui vivono, ed egli sa trarre dalle sue descrizioni un significato intimamente psicologico che supera i personaggi stessi. Al di là delle sue creature si agita tutto il mondo che le circonda, e sarà questo mondo che l’autore ci dipingerà minutamente, prima di venire all’esposizione dei fatti.

  Anche in questa novella, la cui azione si svolge in Spagna durante l’occupazione di Tarragona da parte delle truppe napoleoniche, Balzac cerca di stabilire la causa del saccheggio, cominciando col narrarci che nell’esercito del Generale Suchet vi era un VI fanteria «quasi interamente composto di Italiani». In questo Reggimento si trovavano «les débris» della Legione italiana di stanza all’isola d’Elba: corpo, quest’ultimo, che corrispondeva alle compagnie di disciplina. Era quindi naturale che questo Reggimento formato da una maggioranza di «mauvais sujets», primeggiasse nell’esercito per coraggio, nonché per indisciplina e disonestà.

  Nonostante la rigida disciplina che il Maresciallo Suchet aveva introdotto nel suo esercito, come si sarebbe potuto evitare, alla presa di Tarragona, un saccheggio, sia pure «léger» come Balzac lo definisce?

  Fra gli ufficiali del VI Fanteria vi era, a detta del romanziere, un certo «capitano Bianchi» che, pur essendo: «Il principe di quei demoni incarnati ai quali questo reggimento doveva la sua doppia rinomanza, aveva tuttavia quella specie di onore cavalleresco che nell’esercito fa scusare i più gravi eccessi. Qualche giorno prima egli si era distinto in un’ardita azione, menzionata dal Generale stesso. Bianchi rifiutò grado, pensione e decorazioni, ma richiese per tutta ricompensa il favore di andare per primo all’assalto di Tarragona. Il Maresciallo gli concesse l’onore. Il capitano, furibondo, issò per primo la bandiera francese sulle mura della città e vi fu ucciso da un monaco».

  Non mi soffermerò sulle inesattezze di Balzac a proposito del VI Fanteria italiano, tanto più che ciò è già stato fatto da Antonio Lissoni nella sua violenta polemica. E’ quindi ovvio pensare che questo racconto, prima di giungere allo scrittore, sia passato di bocca in bocca, subendo variazioni di dettaglio, pur rimanendo fermo un fondo di verità. Così è successo per l’episodio del Bianchini.

  All’archivio di Stato di Milano esiste infatti una matricola militare che lo chiama: «Domenico Maria Bianchini, di Gioacchino e di Fanti Rosa, nato a Bologna il 1 Agosto 1783, in via Santo Stefano, Casa Caprara». Egli fu chiamato alle armi nel 1806, ma avendo già moglie e figli, cercò di sottrarsi più volte alla coscrizione; infine, denunciato da una spia, fu preso ed inviato all’Isola d’Elba, nella Legione di punizione.

  Di là il Bianchini passò in Spagna e, rinnegando l’antica ritrosia per la vita militare, fu preso da una forte passione per essa. Nei primi scontri con il nemico fu visto gettarsi nella mischia con ardore, incurante della morte. In poco tempo la fama del suo valore fu conosciuta ed esaltata da tutto l’esercito italiano, ma, con tutto ciò, egli non riuscì ad ottenere nessuna promozione. Si potrebbe forse supporre che fosse analfabeta. Nel combattimento di Pla fu ferito ben sette volte e, dopo essere caduto nelle mani degli Spagnuoli, fu relegato nella tristissima isola d’Ivizia. Qui, quasi tutti i prigionieri francesi erano lasciati morire di fame. Ma Bianchini seppe sfuggire a questa triste sorte; un giorno sorprese ed uccise la sentinella, prendendo il largo su una piccola imbarcazione, verso la costa spagnola. In seguito, dopo numerose peripezie, riuscì a raggiungere il corpo del Maresciallo Mac Donal. L’ardita impresa gli valse la croce della Corona ferrea ed il grado di sergente. Ma le sue gesta più famose egli le compì all’assedio di Tarragona.

  L’Orsatelli, camandante del Bianchini così ne scrive:

  «Toccò una palla in un braccio, se lo strinse con un fazzoletto. Naturalmente per quest’operazione bisognò fermarsi. Tutto l’evento era nel valore del Bianchini e ogni più prospero o sciagurato caso dipendeva interamente da lui. A vedere la cosa pareva che nessuno avesse mente e volontà sua propria, tutti erano come guidati e menati dal Bianchini ed egli era l’anima e la sola speranza della giornata e dell’assalto. Alla veduta del fermarsi del Bianchini, dell’indietreggiare dei granatieri, e del disordinarsi della schiera, accorato e disperato il generale Suchet tenne a bella prima fallito l’assalto. Ma fu un gioco della sorte a far glorioso il Bianchini. Il quale riavutosi in sul subito, dopo quel brevissimo istante di sbalordimento e rifattosi da capo nel salire e su anche i suoi granatieri; e dopo l’orma di quel magnanimo su anche la prima schiera, e dietro la prima tosto fuori la seconda e la terza. Allora fu uno spavento di fuoco, fu tale una tempesta così terribile e spessa di palle d’ogni maniera, d’archibugi e di scaglia che non so ben dire quanti ne atterrasse morti o feriti. Ma dove la battaglia era sanguinosa ed accanita era in quelli che apriva agli altri la via ... Toccata la temuta vetta della breccia, in mezzo a quella selva di spade, di baionette, di archibugi, di lancie egli si affronta coi più animosi catalani e, sopraggiunto dai suoi granatieri si avventa in mezzo ai nemici, pianta nel cuore dell’uno la sua baionetta, ne caccia a terra un altro fuori vita, ogni suo colpo è morte e rovina. Superbo a tanto dritto del suo fatto meraviglioso e sciolto dai nemici che, non potuto vincer lui, e temendo de’ sopravvegnenti si erano ritratti in luogo più sicuro, il Bianchini così grondante di sangue dal volto e dall’un de’ bracci e dall’una gamba, postosi allato a un cannone si era rivolto ai francesi e colle mani e colla voce e con tutto sè stesso li rincuorava ad affrettarsi a salire.

  Essendo giunta la prima schiera, il Colonnello S. Paul che era da’ cieli sortito a mandare a morte questo purissimo soldato, veduto il Bianchini che, tenendosi liberato dalla fatta promessa se ne stava là forse a rinforzar le forze e dolorato dalle tocche ferite, con un far quasi severo gli dice: “Quello che avete fatto non basta ad un par vostro!”. A tali parole che erano contro ogni ragione, dispettato che non fosse anche abbastanza quello che egli aveva fatto di suo propria elezione, e cieco nell’ira in veggendosi come rimproverato pel manco di quello appunto ond’egli abbondava cotanto, non guardando nè dove si andasse, nè con quanti nemici si affrontasse, proceduto fieramente innanzi, si caccia nel bel mezzo degli assediati che, al risvolto della via combattevano risoluti e fermi, e in quello che atterrando e uccidendo faceva opere di valore immenso, colto da una palla che il passò vicino al cuore, cadde moribondo colui che aveva dimostrato aver la vita più magnanima, la vita d’una schiera di prodi».

  Più concisa, ma non meno efficace è la descrizione del tragico e glorioso evento, secondo il generale Suchet:

  «... Il s’élance des premiers, reçoit une blessure, continue de monter avec sang froid, exortant ses camarades à le suivre, est atteint deux fois encore sans être arrêté et tombe enfin, la poitrine traversée d’un coup de feu».

  Ecco come si sono veramente succeduti i vari momenti dell’assedio, riferiti concordemente dai testimoni oculari: Lissoni, Orsatelli, Suchet, Vaccari e Lombroso.

  A mio giudizio Balzac ebbe le prime notizie di questi avvenimenti, sia nel salotto della Duchessa d’Abrantès dove si raccoglievano i più brillanti ufficiali di Napoleone, sia da qualche leggenda popolare che ben presto si era diffusa. Quest’ultima supposizione sembra verosimile se si pensi che tanto in Francia che in Italia la figura del Bianchini era divenuta leggendaria.

  A Bologna, ad esempio, si cantava allora una canzone in dialetto che cominciava così: «Al general ed Tarragouna».

  La Musa aristocratica pure non disdegnò il giovane eroe: nel suo poemetto «La presa di Tarragona» il poeta bolognese Ceroni ce ne trasmette infatti, un fedele racconto.

 

Bianchini quei della famosa impresa

La breccia a sormontar contende primo,

Da un frassino pungente in viso colto

Ripercuote percosso e furiando

Via si fa con la forza in mezzo ai tanti

Di morte ordigni, al grandinar dell’aste

Al picchiar delle scuri, intriso e lordo

Di sangue e di sudor l’ostil recinto

Primo calpesta e primo anche il misura

Da sette colpi la persona rotto

Vicino ad esalar l’animo e i vanti.

 

  Non dobbiamo poi condannare Balzac per avere cambiato nella sua novella il nome ed il grado dell'Italiano perché la maggior parte degli scrittori che si occupano del Bianchini non sono d’accordo nè sul suo nome, nè sulla sua patria. Alcuni lo fanno originario di Bologna, altri di Cento, altri ancora di Piacenza: i «Mémoires» di Elzear Blaze lo chiamano addirittura «il francese Bianchelli».

  Del resto io credo di poter affermare (e questo il Lissoni non sembra neppure sospettarlo) che Balzac, prima di comporre «Les Marana», si sia documentato come era sua abitudine su qualche testimonianza italiana dell’epoca, poco favorevole al Bianchini.

  Non tutti i contemporanei lo dipingevano infatti come uno stinco di santo! Sfogliando l’interessante studio del piacentino Luciano Scarabelli intitolato: «L’eroe di Tarragona, restituito al suo paese LXV anni dopo la sua morte» (Piacenza, Tipografia Solari 1876) ho trovato una curiosa nota indirizzata dal vecchio consigliere Viale all’autore stesso.

  Lo Scarabelli che voleva il Bianchini nativo di Piacenza anziché di Bologna, aveva scritto in quel tempo al consigliere per avere delle prove in favore della sua tesi. Attraverso il famoso Colonnello Orsatelli il Viale aveva imparato a conoscere bene il sergente e così ne scriveva: «... Il Bianchini parlando di sè stesso si diceva sempre di Bologna, nè si sa ch’egli avesse cambiato nome o mutato patria. Si sa soltanto che egli era uno di quei soldati discoli e indocili che da vari reggimenti erano mandati nel 1805 nell’Isola d’Elba come in deposito e facevano un’accozzaglia che non aveva numero di reggimento ...».

  Non sembra forse di leggere quelle stesse parole di Balzac che tanto giustamente offesero il Lissoni?

  E per quanto queste righe siano state scritte diversi anni dopo «Les Marana» non par possibile che il Viale per inviare delle informazioni intorno al Bianchini abbia ripreso le stesse parole del romanziere francese. Vi era dunque una tradizione «italiana», orale o scritta non so bene, che vedeva nel Bianchini un «mauvais sujet».

  E proseguiamo oltre: verso la conclusione dell’opuscoletto lo Scarabelli riporta un aneddoto inedito che un certo Galli avrebbe raccontato confidenzialmente a Luigi Fabbrizi in casa dell’avvocato Ferdinando Grillenzoni di Piacenza: «... che avendo ottenuto il Bianchini la facoltà di salire al primo assalto di Tarragona, poco mancò che gli fosse tolta dall’Orsatelli stesso perché si recò subito dopo dalla moglie di un sergente e la baciò senza curarsi di ciò fare in occulto. Il marito lo seppe e si venne a contesa. Bianchi fu posto agli arresti e l’Orsatelli, vedute le disperazioni del suo soldato impetrò la liberazione sua e l’ottenne».

  Non si può negare che Balzac abbia attinto l’elemento primo per il soggetto delle «Marana» proprio da una narrazione simile a quest’ultima, ingigantendo poi con la sua potente immaginazione un episodio di per sè banalissimo. Ora io non sto a discutere sulle qualità personali del nostro concittadino Bianchini: troppo remoto è ormai il tempo in cui egli visse e troppo discordi sono le versioni della sua vita! Basta, del resto, la sua morte gloriosa a riscattare tutta una vita disordinata, se pur lo fu. Ma un fatto resta certo che cioè non solo il francese Balzac, ma pure una parte dei connazionali stessi concordò nel vedere nel Bianchini un soldato indisciplinato in un reggimento di ribelli indomabili.

  D’altronde chi legge con animo sereno «Les Marana» non ha certo l’impressione che Balzac vi abbia «fatto strazio della nostra fama e dell’onore nostro», come dichiara il Lissoni nella sua Difesa.

  Infatti gli Italiani che appartenevano alla Legione di Tarragona erano, per esplicita dichiarazione di Balzac, (forse sulla falsariga delle fonti italiane) la vile eccezione di un particolare reggimento di mascalzoni. Che se poi bastasse la creazione di un tipo infame ad implicare il disprezzo per tutta la categoria, anche l’esercito francese sarebbe disonorato dalla creazione del marito di Juana, il quartier mastro Diard! La trama della novella può riassumersi in poche righe: la breve relazione amorosa tra il nobile milanese Montefiore e la bellissima Juana si conclude con l’assassinio di Diard da parte della sua troppo leggiadra sposa, allorché quest’ultima sa che l’amato italiano Montefiore è stato ucciso e derubato dal marito francese!

  Comunque i personaggi creati dalla fantasia non aspirano, nè possono aspirare al valore di rappresentazioni storiche e di dimostrazioni logiche. Alla distanza di più di un secolo crediamo pertanto di poter affermare che con l’aiuto di seri studi critici, gli Italiani sono in grado di passare attraverso il vaglio del tempo i vari giudizi che Balzac ha dato dell’Italia e degli Italiani. Il grande romanziere, in verità, ci ha spesso bistrattati, ma egli ha saputo anche comprendere e penetrare profondamente più di un lato del nostro spirito. Non dimentichiamo poi le varie dediche dei suoi romanzi a personaggi italiani e, tra queste, quella bellissima a Don Michelangelo Caetani per la «Cousine Bette». Qui il Balzac confida all’eminente prelato di voler rappresentare nella «Commedia umana» un’alleanza intima e costante tra l’Italia e la Francia, a quel modo che nel secolo XVI aveva fatto il Bandello.

  Mi lusingo dunque di aver fatto opera non inutile se, rinnovando il ricordo di un valoroso concittadino, ho potuto insieme portare un giudizio obbiettivo sull’antica polemica Lissoni-Balzac. E’ un piccolo omaggio che desidero rendere sia alla nostra Città che al grande francese nel 1° centenario della sua morte [cfr. 1950].

 

 

  Marcel Proust, Cette admirable invention de Balzac, «Inventario. Rivista trimestrale», Milano, Anno III, N. 4, Inverno 1951, pp. 26-28.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 562.


  Balzac ayant gardé par certains côtés un style inorganisé, on pourrait croire qu’il n’a pas cherché à objectiver le langage de ses personnages, ou, quand il l’a fait objectif, qu’il n’a pu se tenir de faire à toute minute remarquer ce qu’il avait de particulier. Or c’est tout le contraire. Ce même homme qui étale naïvement ses vues historiques, artistiques, etc., cache les plus profonds desseins, et laisse parler d’elle-même la vérité de la peinture du langage de ses personnages, si finement qu’elle peut passer inaperçue, et il ne cherche en rien à la signaler ...

  Lucien du Rubempré, même dans ses apartés, a juste la gaîté vulgaire, le relent de la jeunesse inculte qui doit plaire à Vautrin: «Alors, pensa Lucien, il connait la bouillotte». «Le voilà pris». «Quelle nature d’arabe!» Lucien se dit à lui-même: «Je vais le faire poser». «C’est un lascar qui n’est pas plus prêtre que moi». Et, de fait, Vautrin n’a pas été seul à aimer Lucien de Rubempré. Oscar Wilde, à qui la vie devait, hélas! apprendre plus tard qu’il est de plus poignantes douleurs que celles que nous donnent les livres, disait dans sa première époque (à l’époque où il disait: «Ce n’est que depuis l’école des lakistes qu’il y a des brouillards sur la Tamise».): «Le plus , chagrin de ma vie? La mort de Lucien de Rubempré dans Splendeurs et misères des courtisanes». Il y a d’ailleurs quelque chose de particulièrement dramatique dans cette prédilection et cet attendrissement d’Oscar Wilde, au temps de sa vie brillante pour la mort de Lucien de Rubempré. Sans doute, il s’attendrissait sur elle, comme tous les lecteurs, en se plaçant au point de vue de Vautrin, qui est le point de vue de Balzac. Et à ce point de vue d’ailleurs, il était lecteur particulièrement choisi et élu pour adopter ce point de vue plus complètement que la plupart des lecteurs. Mais on ne peut s’empêcher de penser que, quelques années plus tard il devait être Lucien de Rubempré lui-même. Et la fin de Lucien de Rubempré à la Conciergerie, voyant toute sa brillante existence mondaine écroulée sur la preuve qui est faite qu’il vivait dans l’intimité d’un forçat, n’était que l’anticipation — inconnue encore de Wilde, il est vrai — de ce qui devait précisément arriver à Wilde. Dans cette dernière scène de cette première partie de la Tétralogie de Balzac (car, dans Balzac, c’est rarement le roman qui est l’unité; le roman est constitué par un cycle, dont un roman n’est qu’une partie), chaque mot, chaque geste a ainsi des dessous dont Balzac n’avertit pas le lecteur et qui sont d’une profondeur admirable. Ils relèvent d’une psychologie si spéciale, et qui, sauf par Balzac, n’a jamais été faite par personne, qu’il est assez délicat de les indiquer. Mais tout, depuis la manière dont Vautrin arrête sur la route Lucien qu’il ne connaît pas et dont le physique seul a donc pu l’intéresser, jusqu’à ces gestes involontaires par lesquels il lui prend le bras, etc., ne trahit-il pas le sens très différent et très précis des théories de domination, d’alliance à deux dans la vie, etc., dont le faux chanoine colore aux yeux de Lucien, et peut-être aux siens mêmes, une pensée inavouée? La parenthèse à propos de l’homme qui a la passion de manger du papier n’est- elle pas aussi un trait de caractère admirable de Vautrin et de tous ses pareils, une de leurs théories favorites, le peu qu’ils laissent échapper de leur secret? Mais le plus beau, sans conteste, est le merveilleux passage ou les deux voyageurs passent devant les ruines du château de Rastignac. J’appelle cela la tristesse d’Olympio de l’homosexualité: «Il voulut tout revoir, l’étang près de la source». On sait que Vautrin, à la pension Vauquer, dans Le Père Goriot, a formé sur Rastignac et inutilement le même dessein de domination qu’il a maintenant sur Lucien de Rubempré. Il a échoué, mais Rastignac n’en a pas moins été fort mêlé à sa vie; Vautrin a fait assassiner le fils Taillefer pour lui faire épouser Victorine. Plus tard, quand Rastignac sera hostile à Lucien de Rubempré, Vautrin, masqué, lui rappellera certaines choses de la pension Vauquer et le contraindra à protéger Lucien, et même après la mort de Lucien, Rastignac, souvent, fera appeler Vautrin dans une rue obscure.

 

 

  De tels effets ne son (sic) guère possibles que grâce à cette admirable invention de Balzac d’avoir gardé les mêmes personnages dans touts (sic) ses romans. Ainsi un rayon détaché du fond de l’oeuvre, passant sur toute une vie, peut venir toucher de sa lueur mélancolique et trouble cette gentilhommière de Dordogne et cet arrêt des deux voyageurs. Sainte-Beuve n’a absolument rien compris à ce fait de laisser les noms aux personnages. «Cette prétention l’a finalement conduit à une idée des plus fausses et des plus contraires à l’intérêt, je veux dire de faire reparaître sans cesse d’un roman à l’autre les mêmes personnages, comme des comparses déjà connus. Rien ne nuit plus à la curiosité qui naît du nouveau et à ce charme de l’imprévu qui fait l’attrait du roman. On se trouve à tout bout de champ en face des mêmes visages». C’est l’idée de génie de Balzac que Sainte-Beuve méconnaît là. Sans doute, pourra-t-on dire, il ne l’a pas eue tout de suite. Telle partie de ses grands cycles ne s’y est trouvée rattachée qu’après coup. Qu’importe? L’Enchantement du vendredi saint est un morceau que Wagner écrivit avant de penser à faire Parsifal et qu’il y introduisit ensuite. Mais les ajoutages, ces beautés rapportés, les rapports nouveaux aperçus brusquement par le génie entre des parties séparées de son oeuvre qui se rejoignent, vivent et ni pourraient plus se séparer. Ne sont-ce pas de ses plus belles intuitions? La soeur de Balzac nous a raconté la joie qu’il éprouva le jour où il eut cette idée, et je la trouve aussi grande ainsi que s’il l’avait eue avant de commencer son oeuvre. C’est un rayon qui a paru; qui est venu se poser à la fois sur diverses parties ternes jusque-là de sa création, les a unies, fait vivre, illuminées, mais ce rayon n’en est pas moins parti de sa pensée.

 

 

  Alfio Russo, Nel culto dei suoi scrittori la Francia ritrova l’armonia, Corriere d’informazione», Milano, Anno VII, N. 180, 30-31 luglio 1951, p. 3.

 

  Proprio in questi giorni sono state scoperte tre opere inedite. La più piccola, un cimelio salvato dal naufragio dell’oblio, conta una ventina di pagine che sono l’inizio di un romanzo che Balzac si proponeva di scrivere sotto il titolo: Mademoiselle du Vissard ou la France sous le Consulat. Lo studioso Pierre Georges Castex l’ha scoperta, questa opera appena iniziata, fra le carte balzachiane conservate nell’Institut de France. In essa riappaiono personaggi già intravvisti in opere anteriori dell’autore dei «Chouans».

 

 

  Pedro Salinas, I poteri dello scrittore o le illusioni perdute, «Inventario. Rivista trimestrale», Milano, Anno III, N. 4, Inverno 1951, pp. 1-26.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 562.


«... attiré par ce qui poignait Lucien: la gloire, le pouvoir, l’argent».

Balzac, Illusions Perdues.

 

I

 

  Sul finire, il XVIII secolo lasciava al mondo un fanciullo, che portava la sua ultima primavera: Honoré de Balzac. L’uomo reca il segno dei tempi. Tutto ciò che, in quel secolo, al termine del quale nacque Balzac, avevano ostentato la letteratura e la concezione stessa dello scrittore, stava dunque per personificarsi in questo fanciullo con un’ampiezza davvero commovente e significativa. Dalla metà del XVIII secolo si andava delineando una nuova immagine dello scrittore, ma solo il XIX doveva terminare di scolpirla su una scala eccezionale, dando ai suoi contorni una superba grandezza. Ciò che spiega, secondo me, il capovolgimento sopravvenuto nella situazione dell’uomo di genio e dell’uomo di lettere, è il fatto che i poteri dello scrittore si sono accresciuti.

 

[...].

 

II

 

Balzac e il potere spirituale.

 

  Per lo scrittore c’è un’ora predestinata che può sopravvenire di giorno o di notte sotto il cielo o sotto un tetto, alla luce del sole o a quella delle candele; ora in cui, tremante di desiderio e di timore, egli è il primo a sentire, nella solitudine della sua coscienza, il potere del quale è dotato e che lo chiama all’opera: si tratta di quello che a giusto titolo si chiama vocazione. A partire da questo momento, egli percepisce lo scopo della sua vita; non al di fuori e non con la precisione dei beni materiali che il mondo esterno offre come incentivi agli altri uomini, ma nel segreto della propria anima, e come favolose e chimeriche prospettive, avvolte di nebbie dorate, con la misteriosa attrattiva di quel che senza tregua si dona e si rifiuta, situate fra il possibile e l’impossibile. La mèta sognata, evidente quanto lontana, è la gloria. Evidente anche la strada che porta ad essa: la creazione, l’opera, perché, per la gloria, non v’hanno lotterie come per il denaro; la gloria non si conquista che a prezzo dun lavoro assiduo e che si ama. È in virtù del lavoro che il semplice potere spirituale si trasformerà in atti, in versi, in libri. Fra le tante antinomie ingannatrici alle quali i romantici hanno dato corso, l’opposizione del genio allo sforzo costituisce quella più pericolosa, e non che il genio sia essenzialmente «una lunga pazienza»: il solo fatto dessere paziente non è mai bastato a inventar niente. Ma se il genio si modella in forme viventi e intelligibili, è per effetto della fatica, dellassiduità al lavoro; è lottando con la durata, con le parole, la pietra o i colori. Ecco ciò che fa di Michelangelo il maestro supremo di tutti i creatori allucinati.

 

  Balzac e la sua vocazione.

 

  Qualunque sia l’arena ove si combatte si può conquistare la gloria letteraria. Ma nel mondo c’è una città che sembra costituire da lunga pezza una cinta privilegiata ove inseguire la fama; questa città, è Parigi. E’ là che a vent’anni, si lancia Balzac, aiutato a malincuore dalla sua famiglia, che lo mette alla prova: essa vuol vedere se c’è qualche fondamento nella pretesa vocazione letteraria del giovane. Le sorelle di lui sentivano già dire a quattordici anni: «Piccine, vedrete che un giorno si parlerà del vostro fratello Honoré come d’un grand’uomo. Vedrete, vedrete!». Il punto d’appoggio di cui Balzac dispone, a Parigi, per sollevare l’enorme peso della gloria, è una misera pensione che gli versano i genitori ed una soffitta ammobiliata con la povertà di una cella. Senza fuoco d’inverno! E tuttavia che fiamme interiori! «Il fuoco s’è appiccato al mio quartiere, rue Lesdiguières, n. 9, al terzo piano, nella testa d’un giovanotto. I pompieri son lì da due mesi, ma non è possibile spengerlo. Il giovanotto nutre una passione per una bella donna che non conosce. Questa donna si chiama la gloria». Lo stesso motivo ritorna di continuo nelle lettere di Honoré alle sorelle, come un ritornello che non smette di cantare, su un tono ora ironico, ora grave, ora puerile o pomposo. A Laure, la sorella preferita, chiede delle idee per le sue opere, ma soltanto idee sublimi. «Pensa alla mia felicità se illustrerò il nome di Balzac! Che gran cosa vincere l’oblio!». È così che il giovanotto sconosciuto e ambizioso eredita il desiderio secolare che, già espresso da Orazio, incalza la schiera dei poeti e l’abbaglia: il desiderio d’elevarsi al di sopra dei tempi, d’arrestare l’oblio nella sua corsa. Balzac conoscerà l’avversità, avrà la sua Passione, urterà contro le pietre, sdrucciolerà nel fango, ma senza che l’abbandoni l’immagine della gloria che, fedelmente, gli tende la mano. Delirante, insensata ed anche ridicola parrebbe, se non fosse nobilitata, da tante sofferenze, questa frase che, molti anni più tardi. Balzac conservava, scritta su una carta e incollata alla spada d’una statua di Napoleone: «Ciò che lui non ha potuto compiere con la spada, io lo condurrò a termine con la penna». Così spronato da questo vivo desiderio Balzac cammina verso il proprio destino avendo, inoltre, la coscienza di poter raggiungerlo con la sola forza del suo spirito, bene prezioso che s’inorgoglì di possedere. Commentando i facili successi di Eugène Sue, Balzac dichiara nel 1843 che non l’invidia per nulla e non lo considera un rivale: «Grazie a Dio, i miei rivali sono Molière e Walter Scott, Lesage e Voltaire ...». Che nobiltà nella formula iniziale, rendendo grazie a Dio d’averlo guidato verso ciò che gli era più facile, l’emulazione dei grandi e, non verso il desiderio d’uguagliare i mediocri. Se l’esistenza di Balzac non è esente da meschinità, esse non gl’impediscono di figurare in pieno diritto nel novero delle grandi anime.

  E’ certo che andava e veniva per il mondo con gli occhi aperti: degli occhi che osservavano con incomparabile acutezza e che gli permisero di godere realtà più amabili e più gustose; ma, tuttavia, la sua vera realtà, la sua vita autentica sono altrove. Quando gli si parlava di persone che conosceva in carne ed ossa, rispondeva: «Tutto questo va benissimo, ma torniamo alla realtà ... Che faremo di Nucingen, della duchessa de Langeais?». Distoglieva l’attenzione dagli esseri di questo mondo per concentrarla sui personaggi dei suoi romanzi, preoccupato di ciò che stava loro per accadere. Jules Sandeau è venuto di persona a raccontare la morte della sorella, Balzac l’ascolta con simpatia, ma in capo a qualche istante si lascia sfuggire queste parole: «Suvvia, via, basta con simili ragionamenti, torniamo alle cose serie». Può darsi di esser nel vero vedendo qui aridità d’anima, o egoismo di scrittore: ma saremmo in errore se considerassimo Balzac come un creatore che — non potendovi far nulla – s’inchina davanti alla fatalità della morte per provare subito dopo il desiderio di tornare al proprio laboratorio, alla propria fucina, dove darà vita a migliaia d’esseri, ed una vita più durevole di questa effimera e rapida esistenza. L’aneddoto è brutale ma ci si può vedere un nuovo episodio della lotta fra le potenze della vita e quelle della morte che, instancabilmente fanno e disfanno. La fede di Balzac nel proprio potere spirituale gl’ispirava una orgogliosa fiducia nei risultati del su lavoro. Nel 1833, in una lettera in cui si lamenta delle noie e delle fatiche che l’hanno assalito mentre terminava Le Médecin de Campagne, dà bruscamente libero corso alla sua arroganza: «Ma alla fine della settimana, leggerete questa magnifica opera, vedrete fino a dove sono arrivato. In fede mia, credo di poter morire in pace. Ho fatto per il mio paese una grande cosa. Quel libro vale, secondo me, più delle leggi e delle battaglie vinte».

  Senza alcun dubbio, è la Comédie Humaine che ha fatto cristallizzare in lui la coscienza della sua arte. Scoprendola, terminò di scoprir se stesso. La concezione, la visione di quel gran complesso romanzesco, che fino ad allora nessuno aveva tentato, gli rivelò come in uno specchio, la dimensione del proprio genio. A dispetto delle affermazioni contenute nella Préface, l’idea fu elaborata progressivamente, a mano a mano che aumentava il volume dell’opera. Dal 1833, pensò di far ricomparire personaggi in romanzi differenti, a questo modo ogni libro veniva a presentare l’elemento d’un insieme, la pietra d’un edificio di cui Balzac non vedeva ancora nel particolare tutti i contorni ma che gli si disegnava in scorcio nella mente. Così, arrivando da Laure per raccontarle la scoperta, le raccomandò di salutarlo con particolari riguardi poiché cominciava ad essere un genio.

  Nella Préface, che abbonda d’espressioni pompose e pseudo scientifiche, Balzac prende un tono solenne per annunciare ai suoi contemporanei che si propone niente di meno che di lanciare su di essi la rete del proprio genio e di captare tutta la fauna variata dell’oceano sociale con le maglie dei suoi romanzi e i fili delle sue parole. Questo celebre documento è come la sommità dalla quale Balzac domina con un colpo d’occhio di creatore il terreno da percorrere e dove scopre, infine, lo scopo ideale della sua opera, fino allora assai oscuro. Potrebbe dire come Sigismondo: «Strevaruonos a todo!».

  Il romanzo costituisce un genere imperialista. Questo genere insaziabile, che non rispetta vicini, né parenti, trova in Balzac l’esatta incarnazione della sua e ambizione. Il romanzo (l’aveva detto Cervantes), non conosce limiti; vuol tutto. Aspirando al titolo di primo romanziere moderno, Balzac, anche lui, vuol tutto. Che dire davanti ad una pretesa così smisurata? Forse ciò gli dissero, pare, i suoi editori, quando espose loro il piano della Comédie: «Che Dio vi dia vita!». George Sand ha ragione di pensare che quelle due parole, Comédie Humaine, erano le parole del destino di Balzac, la chiave del suo enigmatico genio. Da quando le ebbe trovate, il suo spirito, il cui potere si era già tanto attivamente dispiegato, dovè esultare di gioia scoprendo il compito che aveva davanti a sé, compito ancor più grande e luminoso di quello che aveva portato a termine prima; nessun scrittore si era mai proposto un campo così illimitato. L’immensità (la parola è sua) dell’intenzione, conferisce a Balzac una dignità nuova, la dignità inseparabile da tutta la volontà eroica, la dignità di Don Chisciotte. Domandava — come scrisse poco prima della sua morte — soltanto ciò che gli avevano augurato i suoi editori: una vita tanto lunga da poter attuare quel progetto di titàno. Con la Comédie, Balzac s’era scoperta, nella miniera del proprio potere spirituale, una nuova vena di fede.

 

  Balzac e il lavoro.

 

  Senza la fede, senza questa fiducia in se stesso talvolta tanto smisurata che sembra insensata vanità o delirante orgoglio — quando non è di fatto che profonda verità vitale — la virtù di Balzac sarebbe inesplicabile: virtù che deve forzatamente accompagnare la vocazione, virtù realizzatrice, artigiana, virtù operaia, consacrazione. Quando il poeta percepisce in se stesso il proprio potere spirituale, quando sente l’appello, la risposta s’impone: darà a l’esercizio di quel potere i suoi giorni e le sue notti, le sue gioie e le sue angosce; gli consacrerà la sua vita senza riserve. Tutto intero al servizio di quel potere spirituale, Balzac non s’è per nulla risparmiato. Se ha prodigato molto denaro servendo cause meno nobili, per il suo ideale ha prodigato la propria vita; s’è ammazzato dal lavoro. La sua capacità di lavoro era incredibile. Dalle descrizioni e dai ritratti che si hanno di Balzac, egli era d’una corpulenza sorprendente che rispondeva alle esigenze del lavoro fisico e manuale più duro, quale si potrebbe richiedere ad un facchino. Balzac fu il gigantesco San Cristoforo, che invece d’un santo fanciullo portò sulle spalle mezza umanità — e molto poco santa certamente —: centinaia d’esseri, avari, gaudenti, cortigiani, ambiziosi; migliaia di persone che soltanto su spalle robuste come le sue potevano traversare il fiume del tempo ed arrivare fino a noi vive ed eterne.

  Quel lavoro stupefacente presenta due caratteri: la continuità e l’intensità. Stefan Zweig lo considera «l’esempio più grandioso di continuità creatrice nella letteratura moderna». Tutte le relazioni sociali con il romanziere erano intersecate di lacune, d’assenze, di scomparse, racconta il suo grande amico Théophile Gautier, che aggiunge: «Il lavoro governava in modo assoluto la vita di Balzac». Prepara parecchi libri contemporaneamente, e, negli intervalli di questo lavoro, corregge le bozze d’altre opere. Come i corrieri fanno scoppiare i loro cavalli, lui schianta le poltrone, le sedie sulle quali si siede per scrivere. (Dice in una lettera: «E’ la seconda poltrona che ho ucciso sotto di me dopo l’inizio della battaglia in corso»). Consuma enorme quantità di caffè, al punto da non sentirne più l’effetto. Lo si vede eccitato da tutti gli stimolanti: i più nobili, come il desiderio di creare — e i meno puri come la necessità incalzante di pagare i debiti. Così spronato, scrive nel solo anno 1834, gran parte della Histoire des Treize, La Femme de Trente Ans, Le Père Goriot, La Recherche de l’Absolu, e più di metà di Séraphita. Il solo Lope de Vega d’una fecondità gemella alla sua, e così pure mostruosa, potrebbe forse rivaleggiare con lui. Parla spesso di «lavorare come un cavallo», di «cadere sfinito dal lavoro, come un cavallo». Sì, c’è qualcosa d’animalesco in questo modo di lavorare; e questa energia infaticabile che ricorda la bestia, è usata a servire compiti spirituali, mostrando come si congiungono gli estremi della natura umana e come convergono in uno stesso punto tutte le forze dell’essere. Si conosce la sua giornata di lavoro: comincia allo scoccar della mezzanotte quando lo si strappa al sonno: Balzac innamorato delle quiete ore notturne, scrive nel silenzio della notte parigina spinto dal bisogno, sostenendosi con del caffè. La povera cameriera deve spesso alzarsi all’alba per riempirgli la caffettiera vuota. Se le cose vanno bene scrive fino a mezzogiorno, poi fa una capatina nel mondo. Quand’è incalzato dalla fretta, e lo è quasi sempre, fa una colazione leggera e resta sulla breccia Egli stesso si chiede quanto potrà continuare a far questa vita; sente che si uccide. In una lettera del 1835, fa dei progetti per l’anno nuovo, e dice: «Ma, poi, sarò vivo, o con il cervello a posto, nel 1836? Ne dubito. Talvolta mi sembra che il cervello mi s’infiammi. Morrò sulla breccia dell’intelligenza». In quest’immagine, che converrebbe ad un’epopea del creatore letterario, Balzac si mostra profeta per se stesso e prevede il male che lo finirà. Si dà un giorno il nome di «forzato della gloria» e paragona il suo studio alla galera.

 

  La prova delle prove.

 

  Per opprimerlo ancor più, la sua coscienza d’artista gl’impone un’esigenza supplementare. Dall’inizio della sua carriera di scrittore, ha avuto fiducia nella propria capacità d’invenzione; ma non è sicuro della qualità del suo stile. A quale scuola, con qual maestro apprenderà quello che non sa? L’aula di classe? Sarà il suo studio. Il maestro? Se stesso. Gli esercizi? Le bozze di stampa. Gli originali che invia al tipografo non sono che una prima stesura; appena riceve le bozze in colonna, ci si getta su furiosamente, cancella, sovrappone, sviluppa, condensa. Diviene il terrore dei tipografi che fuggono i suoi originali. Le bozze di Balzac come il suo bastone — sono divenute un tema letterario; hanno dato motivo ad una sequela di metamorfosi, hanno ispirato pagine pittoresche; le si è paragonate ad un fuoco a volontà, a batterie vomitanti proiettili, ad un’intrecciatura d’arabeschi, ai geroglifici egiziani, ad una matassa arruffata dal gioco d’un gatto. Il paragone più comune è quello dei fuochi d’artificio. «Le bouquet dun feu dartifice dessiné par un enfant», disse Gautier. Dal primo originale partono razzi di stile, delle linee che vanno ad esplodere da tutte le parti. Stelle, soli, numeri arabi, numeri romani, lettere greche, croci di tutte le specie, sono i segni disperati che Balzac fa al correttore perché lo segua attraverso il labirinto. I margini non bastano più, con delle ostie, con degli spilli, aggiunge carta; le correzioni straripano dal foglio delle bozze e continuano sui fogli così aggiunti. E ciò non è che la prima tappa verso la perfezione, perché quando gli si rimandano le nuove bozze, corrette secondo i suoi desideri, le sottopone ad un nuovo esame, tanto appassionato, che ricomincia su questa seconda versione quel lavoro di correzione, quasi d’espiazione, che fa subire a ciò che scrive. E così due, tre, dieci volte. Tipografi, editori s’impazientiscono, si rodono. Ma la prima vittima è lo stesso Balzac, al quale quanto chiama la sua fucina letteraria costa innumerevoli ore di lavoro, di fatica, d’angoscia ed un bel gruzzolo di franchi che deve spesso versare di tasca sua, per quei lavori supplementari. Gli originali conservati, come dice bene il Dottor Nacquart, al quale Balzac fece dono del manoscritto e delle bozze del Lys dans la Vallée, sono al tempo stesso dei monumenti e delle lezioni. Degni di essere esposti in Place Vendôme, dice Nacquart, per dare al pubblico un esempio di fiducia e di tenacia.

  Queste bozze la dicono lunga sull’inseparabile alleanza che s’impose allo spirito del romanziere, una volta passati i primi anni focosi dell’iniziazione, fra il dono della forza creatrice e l’obbligazione morale, per chi la possiede, d’impiegare tutte l’energie a ben usarne per le migliori attuazioni. Il bisogno di denaro, le istanze degli editori, il richiamo di nuove idee che chiedevano un’immediata espressione, spingevano Balzac ad abbandonare i propri scritti al pubblico, appena stesi sulla carta e senza ritocchi. Ma l’insegna d’un potere superiore, di natura spirituale, e fatalmente inteso alla perfezione, lo proteggeva contro la trascuratezza e la faciloneria, combattimento commovente fra la coscienza e la fretta, e che dovè ripetersi per molte notti, nell’animo dello scrittore; noi ne abbiamo conservata la cronaca, in quelle bozze che registrano le fasi della lotta. Se ci perse delle ore che non sarebbero più tornate, delle energie insostituibili, l’artista ci guadagnò in dignità e in grandezza. Si dovrebbe innalzare la sua statua nella memoria degli uomini dandogli come piedistallo, non il mucchio delle opere stampate, ma quest’informe montagna di bozze: mucchio d’affanni e d’angosce; e lì sopra, lo si vedrebbe più somigliante a se stesso, dolorosamente imperfetto, ossessionato dalla perfezione, accumulando bozze su bozze, nell’atto d’accrescere da sé l’altezza dei gradini che doveva salire quel gran corpo stanco e ansante per raggiungere il suo glorioso destino.

 

  Calvario e purificazione.

 

  Come gocce di sangue che segnano con le loro macchie il cammino penosamente percorso, espressioni di sofferenza e d’angoscia cospargono le lettere di Balzac. Scrisse ad una sua amica lontana, M.me Hanska: «Non posso più sostenere questa lotta da solo, dopo quindici anni di continue pene». E la disperazione gl’ispira un sarcasmo sacrilego: «Creare, sempre creare. Dio ha creato per sei giorni soli». Così, trovando insufficiente l’epiteto «surhumaine», qualificò la sua impresa «surdivine». Quando credeva aver raggiunto il limite scrivendo César Birotteau in diciassette giorni, confessa, nel 1843: «... Bisogna far due César Birotteau in diciassette giorni». Prima di questo momento critico si situa l’episodio forse più patetico della sua vita, come racconta un contemporaneo. Tanto aveva ecceduto nei suoi sforzi da ridursi l’immagine della miseria. Dice il Gozlan che, quando si diffuse la notizia che Balzac era affaticato ed esaurito a tal punto, molta gente, conoscendo l’ora in cui passava sul «boulevard» per recarsi alle prove di Vautrin, si mise ad aspettarlo per osservare avidamente lo spettacolo che offriva la magrezza, l’aspetto trasandato e la dolorosa decadenza fisica del grand’uomo, una volta noto per la sua eleganza da dandy e la sua pinguedine; essi vi mettevano quella morbosa curiosità con la quale si guarda andare al patibolo colui che una volta fu un gran signore ed ora è decaduto. Ma Balzac non capitolò. A poco a poco, i suoi sogni si distaccano dal mondo e dalla società. L’illusorio prestigio della riputazione sociale se ne va in fumo. Non s’interessa che a ciò che conta, al sogno di sempre: consacrare alla propria opera il proprio potere spirituale. La passione per Eva Hanska va ora di pari passo con il suo sogno di pace. Quante illusioni nutriva ancora, quando la morte gli era così vicina! ... «... Avrò un 1847 formidabile ... Adesso che posso consacrare tutto il mio tempo alla produzione letteraria, sarà davvero straordinario. Scriverò venti volumi all’anno e due o tre drammi». Entrando nella vita, a vent’anni, Balzac non pone una fede maggiore nei suoi sogni, di quanto faccia a quarantotto già vicino alla tomba. Ciò che scorge, dopo aver doppiato il capo delle tempeste e gettato fuori bordo le vanità del mondo degli uomini, è una visione inaccessibile, un puro miraggio. «La sola cosa della quale ho sete, è la tranquillità assoluta, la vita interiore e il lavoro moderato per finire la Comédie Humaine». Finire: lasciare un’opera perfetta, pagare il suo debito più sacro, quello che ha contratto dalla nascita verso il proprio genio. Queste righe sono del 1849. Parole purificatrici. Da tanti errori, da tante sofferenze, esce un uomo nuovo, un altro San Paolo. E’ solo, con il potere che è veramente quello del poeta: il potere spirituale, il potere di creare per gli altri.


 

2. Balzac e il potere economico.

 

«Money is... in its effects and

laws as beautiful as roses».

Emerson.

 

  Concubinaggio.

 

  «Che preoccupazione per il denaro!» esclama Flaubert, leggendo la Correspondance di Balzac. Il romanziere s’è trascinato per il mondo, sedotto da questo richiamo; il denaro fu il suo carnefice più sicuro. Credeva a questa così giovane illusione — appena un secolo è una età troppo tenera per un’illusione — che la letteratura è una miniera di ricchezze. I genitori volevano farne un notaio, Balzac si sentiva poeta; si venne ad un compromesso concedendogli due anni di prova a Parigi: doveva dimostrare che si può vivere scrivendo romanzi, come redigendo atti notarili. E’ da questa premessa che derivò a Balzac maledizione del denaro. Quel patto, infatti, stabilì agli occhi del giovane una relazione fatale fra letteratura e denaro, fra creazione e lucro. Ecco perché, molto più tardi, aveva conservato l’abitudine d’affiancare ai titoli dei romanzi le cifre delle somme che sperava gli procurassero: la storia Parents pauvres significa sei mila franchi; La dernière incarnation de Vautrin un po’ meno, tremilacinquecento ... D’una commedia che esiste soltanto allo stato di progetto, un amico lo convinse che ne avrebbe ritratto almeno trentamila. Questo concubinaggio tra inchiostro e oro, origine della tragedia di Balzac egli stesso lo espresse in modo angoscioso: «Ma guadagnare del denaro è creare e sempre creare». Si vedono qui legate da catene che egli non potrà mai spezzare, la facoltà più elevata delluomo, il dono della creazione, privilegio dun piccolo numero e la sua capacità più volgare, quella del far quattrini, che è alla portata di ogni buono a nulla. Unopera di Balzac doveva sorgere purissima, nella sua testa, nel momento in cui la concepiva; ma quando ne intraprendeva l’esecuzione, essa viveva già nel peccato, il peccato originale, la servitù dal denaro. La luce iniziale s’oscurava. «Suppose d’ombre une morne moitié» dice Valéry parlando del corpo. Tristi metà quelle delle invenzioni balzachiane, da quando cominciavano a prendere corpo in un libro!

 

  Storia imbrogliata.

 

  Balzac comincia a guadagnar denaro con i propri romanzi. Poi, ha lidea di guadagnarne dellaltro stampando quelli degli altri; compra una tipografia e siccome va male, per trarsi d’impaccio dal cattivo affare, se ne assume un altro: una fonderia di caratteri che va ancor peggio. Ne esce indebitato per sempre. D’allora non cercherà più avventure commerciali nella vita reale, ma la sua immaginazione continuerà ad accarezzare progetti insensati, che dovrebbero arricchirlo in brevissimo tempo. Un giorno, è lo sfruttamento di certe miniere in Sardegna, ma non arriva in tempo, poi è la stupenda idea di coltivare gli ananas ai Jardies, vicino a Parigi, in certe terre che non producono nulla. Verso la fine della sua vita, vuol comprare boschi in Polonia, onde ricavarne traversine per le ferrovie francesi. Tutti questi garbugli, questo fantastico gioco di chi-perde-vince che fu tutta la sua vita, si spiega con il desiderio d’essere indipendente e di poter scrivere in tutta libertà; ma per ottenere questa indipendenza, deve scrivere per denaro, dunque asservirsi al denaro per liberarsi dalla soggezione di esso. Questa straordinaria assurdità, Balzac l’ha vissuta sotto tutte le forme, dalla tragedia al vaudeville: ad esempio quando affittò una casa a due ingressi per sfuggire gli uscieri, e non si poteva vederlo se non si ripetevano misteriose parole d’ordine come: «J’apporte les dentelles de Belgique». Dal giorno in cui s’è indebitato con la tipografia, vive in presenza d’un avversario: uno spauracchio di carte e di cifre — le tratte — che di continuo lo minacciano di scadenze e, peggio ancora, di prigione.

 

  Il Grande Scroccone.

 

  Se fosse possibile nobilitare le parole volgari applicandole ai grandi uomini, si potrebbe chiamare Balzac, il grande scroccone. I suoi debiti fanno pensare ad una chimera che, presa da un capriccio per quel giovanotto robusto e sanguigno, lo serri fra le braccia, senza più lasciarselo sfuggire, fino alla stretta mortale. I debiti divengono l’elemento stesso della sua vita, una seconda natura. «Non c’è uomo forte senza debiti», ha scritto; nuovo gioco di bussolotti con il quale cercava di gabbar se stesso, trasformando il dare in avere, dichiarandosi creditore sul piano psicologico, dei propri debiti finanziari. Balzac volle creare un eroe comico dello scrocco con Mercadet o Le Faiseur. Théophile Gautier ci ha lasciato una testimonianza che mostra a qual punto l’autore s’identificasse con il suo personaggio. Si racconta che Balzac facesse la lettura del suo dramma, davanti alla compagnia che doveva rappresentarlo. Egli leggeva con tanto calore che dava una voce ed un portamento speciale a ciascuno dei personaggi e questo si avvicinava moltissimo ad una rappresentazione veridica: «Il debito cantava anzitutto un a solo che sosteneva un coro immenso. Faceva uscire dei creditori dappertutto, di dietro la stufa, di sotto il letto, dai cassetti del canterano; la gola del camino ne vomitava; ne penetravano dal buco della serratura, altri davano la scalata alla finestra come degli innamorati; questi scaturivano dal fondo d’una valigia, simili ai diavoli dei giocattoli a sorpresa, quelli passavano attraverso i muri come attraverso un trabocchetto inglese, ed era una calca, uno strepito, un’invasione, una vera marea crescente. Mercadet si faceva in cento per scacciarli, ma ne venivano sempre degli altri all’assalto e fino all’orizzonte, s’indovinava un cupo formicolio di creditori in marcia, che arrivavano come legioni di termiti per divorare la preda». Quel che c’è di notevole è il fatto che la commedia la cui lettura ispirò questa pagina degna di Quevedo è grigia e mediocre; se quindi fece tanta impressione su Gautier fu perché Balzac ci si rappresentava più che non leggesse, ed era tutto al tempo stesso: scena, protagonista, eroe dello scrocco, e i suoi antagonisti, i cento creditori; è che ritrovava nella sua recitazione e nella sua voce, la verità delle esperienze vissute in tante occasioni.

  Ma per Balzac, il debito non rappresentò la parte d’un ridicolo fantoccio; il debito gli si presentò piuttosto una minacciosa incarnazione della fatalità. Si potrebbe facilmente riunire una collezione di frasi lamentose, dolenti, strazianti, sulla parte terribile che il debito ebbe nella vita e nell’opera di Balzac. Il debito si fa ogni anno più pesante; attende con ansia la prima di Vautrin e non per gli allori che potrà raccogliere: «Entro cinque giorni si deciderà se pagherò o se non pagherò i miei debiti. Sono oppresso da questo fardello da quindici anni; esso tortura l’espressione della mia vita, toglie il battito al mio cuore, mi soffoca il pensiero, mi corrompe l’esistenza, impedisce i miei movimenti, arresta le mie ispirazioni, pesa sulla mia coscienza, m’impedisce tutto, frena la mia corsa, mi spezza la schiena, m’ha invecchiato. Dio mio, ho pagato abbastanza caro il mio posto al sole?». Questo brano ha l’aria d’un esercizio d’anàfora, d’una ripetizione teorica della stessa idea, ma in realtà è lo sfogo d’un cuore affranto e vi si sente Balzac esalar in sospiri successivi, l’angoscia che gli fanno pesare addosso i suoi debiti. Nelle lettere di Balzac, una parola ritorna spesso, una parola che rivela la speranza d’affrancarsi un giorno di questo malaugurato fardello: e la parola è liberazione. Più d’una volta si è illuso di poter pagare tutti i debiti, così considera la Comédie Humaine come uno strumento liberatore. Fra le numerose allusioni che fa ai debiti non pagati, la più viva e la più commovente si trova in una lettera che scrive alla sua Éveline nel 1844.

  Dopo essersi abbandonato a lunghi e minuziosi calcoli sui guadagni che gli procureranno i tali e i tal altri libri, e i debiti che questi guadagni gli permetteranno di pagare, si traccia un piano di lavoro per i mesi avvenire: «In totale nove volumi, ma tutto ciò mi darà trentasei mila franchi e (in più avrò) i quattromila di Locquin. Lascerò questo sudario di debiti che per me è una veste avvelenata». Nessuno si conosce meglio di se stesso, Balzac trova la metafora più giusta per descrivere il suo male. Aveva qualcosa d’erculeo, e questo Ercole delle lettere s’apparenta a quello dell’Olimpo, per aver subìto un identico castigo: tutt’e due si erano messa la camicia di Nesso che non ci si può togliere che con la vita. Ma la camicia che si era messa Balzac era impregnata d’un veleno più malefico di quella del semidio: il re dei veleni, l’amore il denaro. Quel veleno gli penetrò nell’anima giorno dopo giorno, e quando se ne volle sbarazzare, gli mancò il tempo. Questa metafora è una visione anticipata della morte di Balzac; il diavolo se lo portò, come si suol dire, avvolto nel sudario dei debiti.

 

  I risultati: buoni o cattivi?

 

  Certi pretendono, e fra questi Lanson, che queste difficoltà economiche giovarono a Balzac fornendogli un’abbondante messe di temi. Ma fornir temi ad uno scrittore, non è dare alla sua opera l’originalità, né la perfezione. Altri assicurano che se non si fosse sentito costantemente oppresso dalle necessità finanziarie, la sua opera sarebbe meno vasta. Certo: è come dire semplicemente che Balzac avrebbe scritto meno ma non peggio, né con minore abilità.

  Il denaro l’ha fatto scrivere per i giornali, che odiava, mettendolo così in disaccordo con se stesso; il denaro gli fece coltivare il teatro, per il quale non aveva disposizione; il denaro gli ha fatto commettere indegnità, l’ha portato a collaborare con un uomo privo di talento ed a retribuire un disgraziato principiante perché gli fornisse idee di commedie e di drammi. È il denaro, e non soltanto il lato impetuoso del suo carattere, che gli fa scrivere senza misura, infarcendo la sua opera di digressioni spesso inutili: poiché più si riempiono pagine e più si prendono quattrini. Ma, qual testimonio migliore in questo processo, che la vittima stessa? Non basta leggere l’amara tirata, che abbiamo citato, ove evoca il fardello che i debiti hanno fatto pesare sulla sua vita e sulla sua opera? Non ci dice che gl’imbarazzi economici soffocavano il suo pensiero e gli arrestavano le ispirazioni? Abbiamo una dichiarazione del 1843, ancor più tragica: «Non posso più dirmi stanco ... Sono passato allo stato di macchina da frasi ... La rapidità del lavoro mi toglie il senso della composizione; non ci vedo più chiaro, non so più quel che faccio».

  Quel che ci stupisce, è che nel mezzo di tale (sic) angosce e di tali necessità, abbia potuto fare quel che ha fatto. Ma il giudizio di Lanson e i giudizi analoghi peccano d’una logica positivista assai discutibile: poiché Balzac ha creato una grande opera romanzesca e poiché era carico di debiti, i debiti hanno favorito la creazione. No. Se Balzac ha attuato un’opera di genio, non è per effetto delle necessità finanziarie, ma contro di esse e nonostante di esse, lottando eroicamente e in questa lotta sprecando delle energie che meritavano miglior uso. L’alcool e i narcotici hanno causato grandi rovine fra i poeti. Ma che dir di quest’altra ubriachezza? Quella dell’uomo che s’inebria del sogno delirante di guadagni favolosi, credendo sempre d’aver a portata di mano la propria coppa piena — poiché gli basta per riempirla di prendere la penna e scrivere ancora e sempre. Questo genere d’ebrietà forse, fa perdere più forza dell’haschisch alla creazione letteraria. Infine, c’è un paradiso più artificiale di questo menzognero Eden del denaro promesso al disgraziato che si lascia trascinare a berci a lunghi sorsi?


 

3. Balzac e il potere sociale.

 

Pécuchet parlant de Balzac à

Bouvard: «Moi, je le trouve chimérique».

Flaubert.

 

  I tre poteri, lo spirituale, l’economico e il sociale, sebbene facili a distinguersi, agiscono tutti insieme, nello scrittore che li detiene: nell’azione, i loro limiti si confondono. Il successo letterario porta del denaro e fa sorgere degli ammiratori; il denaro procura il potere sociale; e questi due risultati, che si possono materialmente accertare, hanno parte nella fama, anticipazione della gloria — che non le subentra sempre. Con un solo capolavoro, d’un colpo l’autore prende tre piccioni.

  Balzac era avido di potere, anche quando si trattava di potere magnetico — il che lo trascinò a civettare con l’occultismo e la magia. Giovanissimo, pensava già che la fama letteraria gli avrebbe procurato altri beni in più: «Così, se sono un gaillard ... avrò anche altre cose oltre la gloria letteraria». E quando scriveva sotto lo pseudonimo di Lord R’Hoone diceva alla sorella: «In poco tempo Lord R’Hoone sarà l’uomo alla moda, l’autore più fecondo, più amabile e le dame lo ameranno come le pupille dei loro occhi». Il quadro che si faceva del suo avvenire era molto esatto: ebbe tutto ciò. Fu amato da una mezza dozzina di donne con le sfumature più diverse del sentimento, dall’abnegazione materna della dilecta, M.me de Berny, fino all’affetto meditato, un po’ impietosito di M.me Hanska. Ciò che agiva su tutte loro, più del fascino fisico della persona, era l’irradiazione del potere creatore, la personalità letteraria: prova ne è che parecchie, fra queste relazioni – compresa la più importante — cominciarono in maniera del tutto romanzesca: con lettere che gli dirigeva un’ammiratrice sconosciuta, desiderosa di tacere il proprio nome, attratta dal fàscino del romanziere.

  E’ grazie alle donne che s’aprono per lui le porte dei salotti aristocratici, esattamente come capita ai suoi personaggi: ad un Rastignac, ad un Rubempré. Per tutta la sua vita, quell’omone sprovvisto di grazia fisica, d’un’eleganza eccessiva e goffa, condurrà in giro in società il suo corpo enorme e la sua testa leonina, coronata soltanto di allori, accanto a donne fornite d’autentiche corone di duchesse e di baronesse Ma non è d’uso recarsi a piedi negli hôtels del Faubourg Saint-Germain. nè di pavoneggiarcisi mal vestiti. Il lusso è obbligatorio. Nel suo primo accesso di vanità sociale, Balzac acquistò un cabriolet a due cavalli; mise a contribuzione i sarti, i calzolai e i guantai più cari di Parigi. Sapere se pagherà o no. è un altro paio di maniche. Gli avverrà d’usare in sei mesi quarantadue paia di guanti.

 

  Il bastone di Monsieur de Balzac.

 

  Quel bastone fu il simbolo della passione suntuaria di Balzac e fornì l’argomento ad un libretto di M.me de Girardin, un’altra ammiratrice, completamente disinteressata. Il pomo del bastone era fatto, per metà d’oro cesellato di stupende figurine, per l’altra metà di pietre preziose; esso chiudeva una piccola scatola segreta, il segreto della quale non fu mai completamente svelato: «Non sapreste immaginare qual successo ha avuto quel gioiello che minaccia di diventare europeo ... Tutto il bel mondo ne è stato geloso». Questo mostruoso bastone, al dir di chi lo vide splendeva di luci abbaglianti. Nel suo palco, Balzac lo portava con ostentazione ed attirava tanto l’attenzione, che distraeva dallo spettacolo attori e pubblico. Quel bastone fu un capostipite: poiché la fantasia del proprietario era feconda in tutti i campi; ne fece fare degli altri con il pomo di cornalina, di pietre incise, ma meno splendidi del primo di questa illustre stirpe. Per aver voluto ammobiliare riccamente le sue diverse case, Balzac fu preso da ciò che egli stesso aveva battezzato bricabracomania. Compra Les Jardies e abbozza a carbone sulle pareti del suo futuro padiglione di lavoro: «Qui, un rivestimento in marmo di Paro ... Qui uno stilòbate in legno di cedro ... Qui una tappezzeria dei Gobelin ... Qui uno specchio di Venezia ... . E tutto ciò rimase semplici tratti di carbone sulle pareti nude. D’altra parte, quando preparò la propria casa per ricevervi la moglie, s’accorse di possedere circa tre quintali d’oggetti di bronzo e di rame dorato.

 

  Il sogno di dominio sociale.

 

  Tutti questi piaceri sensuali, questi pranzi nei migliori restaurants questa vita di lion insieme con giovani aristocratici alla moda, queste donne che gli si offrono, tutto ciò non gli bastava. Si vedrà, disse: «... l’uomo che sono, l’uomo di potenza e di dominio il cui pugno, se gli si fosse dato il mezzo, reggerebbe il mondo». Uno di questi mezzi era la politica. La sua conversione al legittimismo, in contrasto con il suo carattere e le sue idee, non fu che una manovra per ottenere un seggio alla Camera. Ma disgustato dalla mediocrità di qualche seduta alla quale assisté, decise «di ritirarsi da questa scena» da uomo che si pente della sua vanità, ma d’entrarci dall’alto; non si occuperà più di politica, scrive, «... se non come ministro». La cosa è difficile. Eccolo, dunque, volgersi all’Accademia. «Ma di qui a due anni farò in modo d’aprirmi a colpi di cannone la porta dell’Accademia». Nessuno commetta l’errore di credere che questa affermazione significhi che Balzac rinuncia alla grandezza politica, per contentarsi della grandezza letteraria. Niente affatto: «... gli Accademici possono divenir Pari, cercherò di far una fortuna assai grande per arrivare alla Camera Alta ed entrare nel potere attraverso il potere stesso». Anche questa mossa strategica fallisce. Balzac non fu mai un immortale di mestiere, l’immortale nell’uniforme delle assemblee; dovè contentarsi d’essere immortale davvero.

 

  Il Cavallo Rosso.

 

  Non poteva fare a meno d’interessarsi ad uno degli strumenti del potere fra i più diffusi: la stampa. La coltivò, non soltanto per denaro, ma per l’influenza che procurava, sebbene, in fondo, la professione giornalistica gli ripugnasse: «Il giornalismo è un inferno, un abisso d’iniquità, di menzogne, di tradimenti». E, che l’abbia pronunciato o scritto — si riporta di lui un divertente adattamento della celebre frase su Dio: «Se la stampa non esistesse ...», e quando ci s’aspetta che concluda con la necessità d’inventarla, finisce: «non bisognerebbe inventarla». Collaborò a giornali, diresse una rivista; tuttavia sollevò contro di sé la maggioranza dell’opinione giornalistica. E siccome non si rassegnava a fare a meno di questo strumento di potenza, immaginò, per conquistarlo, uno di quei progetti chimerici, simile a quelli che aveva concepito a proposito degli ananas e delle traversine per le ferrovie, pittoresco prodotto della sua sete di dominio, e della sua immaginazione d’autore di romanzi polizieschi: l’associazione del Cheval Rouge. Su sua iniziativa, e sotto la sua direzione, riunisce alcuni scrittori: Alphonse Karr, Gautier, Desnoyers. Le riunioni avvengono in un restaurant, Le Cheval Rouge, che dà il nome al sodalizio; gl’inviti su carta che reca impresso un cavallino rosso, convocano i membri per il tal giorno nella tale scuderia, vale a dire nel luogo convenuto. Questo puerile artifizio non fa che dissimulare il costante desiderio di dominio: ci si aggruppa per dominare chi vi domina; i membri di questa associazione si obbligano a lodarsi e a difendersi reciprocamente e ad attaccare tutti insieme l’avversario di uno qualunque di loro (ciascuno, naturalmente, nel giornale ove scrive). Quel cavallo era parente di quello di Troia e nel seno dei giornali introduceva dei nemici della stampa, che, nel più gran segreto, avrebbero dovuto finire con l’impadronirsi della cittadella nemica. Ma il cavallo non funzionò per nulla e morì assai presto; gli rimase la gloria d’aver espresso fedelmente la sete di dominio e la profonda ingenuità di Balzac.

 

  Il potere sociale dello scrittore s’organizza.

 

  Però non bisogna credere che infatuato del suo genio, Balzac abbia agognato il potere sociale per sé solo: egli sosteneva il diritto degli scrittori a parteciparvi. Questi si organizzarono in una Societé des Gens de Lettres della quale il grande romanziere ebbe la presidenza nel 1839; immediatamente, comunicò alla corporazione il suo spirito battagliero e chimerico. Redasse un Code Littéraire; senza dubbio destinato a rivaleggiare con il Codice Civile e il Codice Penale (dei quali si compiaceva il suo amico Henri Beyle). Secondo un articolo di quel codice, ogni giornalista che avesse pubblicato più di quaranta articoli l’anno per dieci anni consecutivi aveva diritto a una pensione minima di milleduecento franchi. Un altro articolo interdiceva lo scrivere biografie d’autori viventi, senza il consenso della parte in causa. Qualche tempo dopo, una commissione riunitasi su iniziativa di Balzac, e che senza dubbio interpretava le sue intenzioni, pubblicò un manifesto divertente miscuglio d’eloquenza e di capriccio. La letteratura francese deve esser considerata, vi è detto, come una potenza nello Stato; la Francia è divenuta grande per le armi e per le lettere, la sua letteratura la fa brillare all’estero, e tuttavia, lo Stato abbandona gli scrittori. Questi devono chiedere al governo di scegliere: se la letteratura non è con lui, sarà contro di lui. Sfida degna di Tartarino, stupefacente pretesa a costituirsi in un ramo del potere pubblico. Balzac stesso giunse al punto di precisare che bisognava sollecitare dal governo la creazione di premi annuali di centomila franchi per la migliore commedia, la migliore tragedia, la migliore opera e il miglior romanzo; il miglior poema epico, che beneficia inoltre della dignità che i secoli e le retoriche hanno conferito al suo genere, non avrebbe dovuto ricevere meno di duecentomila franchi. In più, i membri dell’Institut de France dovevano avere il titolo di Pari. Non si può fare a meno di considerare l’attività di Balzac alla Societé, un altro tentativo per saziare la propria sete di potere, e questa volta e non si presenta più come isolato, bensì alla testa di tutta una falange.

 

  Il Gran Teatro del mondo.

 

  Ma questa aspirazione sembrai raggiungere un parossismo vicino alla demenza, quando Balzac organizza nella sua immaginazione la prima, all’Odéon, delle Ressources de Quinola. André Billy racconta che egli cominciò con esigere la soppressione della claque, che prendeva troppo posto e riduceva il numero degli ingressi. I benefici dovevano esser divisi in parti uguali fra l’impresario e lui. L’autore si sarebbe incaricato egli stesso della vendita dei biglietti che non sarebbero più distribuiti a caso venduti al primo venuto che si presenta senz’altro titolo che il denar0 delle proprie tasche. No, Balzac aveva scelto il suo pubblico per quella sera. Nei palchi di proscenio, la Corte, negli altri, gli ambasciatori e i plenipotenziari. Nella prima fila di poltrone i Pari di Francia. Nella seconda galleria si sarebbero ammassati deputati ed alti funzionari. E l’alta borghesia doveva contentarsi — e certo con sua soddisfazione — della piccionaia. Così per estollersi fino al successo più eccelso, Balzac s’abbassò al grado di «grand placier». Si piazza in un restaurant di Rue Racine e di lì intraprende la campagna di vendita dei biglietti. Mai il romanziere era stato di più nel suo elemento, cioè più scentrato un’immaginazione insensata. Vede l’occasione più felice della sua vita: poter chiudere in una sala splendente e tener prigioniere fra quattro mura, i velluti e le modanature dorate, le bestie feroci: la gloria, il successo e il denaro; e poi, brandendo il proprio genio come una frusta irresistibile, domarle, farle obbedire alla sua volontà. Se la prima fu una sconfitta, se la sala rimase semivuota, se i potenti non si lasciarono prendere al laccio, se i giudici della stampa furono sfavorevoli, se questopera, alla quale Balzac aveva consacrato tanto tempo, gli fece perdere del denaro, nessuno potè togliergli le gioie che provò ad immaginare quella prima, quel grande spettacolo del teatro del mondo che, nella sua mente esaltata, aveva infine trovato nella sua persona un maestro degno di lui. Così Balzac passò la vita a giocare ai quattro cantoni con il potere sociale, a chiedere ai salotti, all’Accademia, alla politica, allo Stato stesso, lo splendore della loro luce. Tutti non gliela rifiutarono. La consolazione di Balzac fu costituita dal fatto che se la stampa, la politica e l’Accademia corteggiate dal suo orgoglio e fatte oggetto d’un amore colpevole non corrisposero, incontrò in cambio, in società e nei salotti, delle donne che l’amarono oltre misura, perché esse erano amate dal suo cuore e oggetto d’un amore lodevole. Ecco perché la delusione verso la società che provò negli ultimi giorni della vita, lasciò tuttavia intatto quanto aveva incontrato di più puro al mondo: non il potere d’agire esternamente e alla vista di tutti sul gran numero, ma il potere intimo che s’esercita su una piccola cerchia d’esseri della più nobile qualità.

 

III

Bilancio e conclusione.

 

  [...]. Quelle di Balzac furono illusioni d’uomo di genio, molteplici e smisurate. Ed alle illusioni, all’ardente desiderio di questo giovane colmo di genio, il secolo propose gl’istrumenti che sembravano dovergli permettere l’esercizio dei poteri di scrittore. Per la sua immaginazione, tutte le favolose mete erano accessibili, tutte le strade che vi conducevano, praticabili. Balzac si figurò che data la sua formidabile volontà, volere per lui era già potere, che lo sarebbe divenuto infallibilmente se si fosse servito dei tre mezzi che gli s’offrivano. Il vecchio di La Peau de Chagrin dice: «Il volere ci brucia e il potere ci distrugge». Balzac, corroso dai desideri, ardente d’aspirazioni smisurate, distrusse la sua vita e diminuì la sua opera cercando di soddisfarli tutti, i migliori quanto i peggiori. Posto, come Paride, di fronte alle tre seduttrici, la gloria, la società e la ricchezza — una grazia e due disgrazie — l’una tutta favore e le due altre colme di avversità, doveva scegliere e non volle. Ma un’anima di quest’ampiezza è sempre costretta a scegliere.

  Il destino di Balzac è una patetica lezione per tutti gli aspiranti alla carriera letteraria. Il miraggio del denaro gl’impose affanni ed angosce incessanti che molto pregiudicarono la sua opera. I mucchi d’oro che guadagnò gli sfuggirono di fra le dita, lasciandolo nella miseria. Volle attuare la seconda delle sue illusioni ed elevarsi a maestro della società; ci riuscì parzialmente e frequentò, senza esser nobile, tutta la nobiltà d’Europa; abituato alle riunioni degli elegantoni parigini, eccitò molte gelosie, sedusse, da vicino o a distanza, bellezze famose, che l’avevano visto o non lo conoscevano affatto. Ma questo splendore mondano sfumò lasciando soltanto un malinconico e deluso riflesso nella coscienza di Balzac, che aveva sprecato tante ore ad inseguirlo. Fu l’uomo delle due illusioni perdute. Ed erano ben perdute, perché queste illusioni sono di quelle che lo scrittore vero deve considerare perdute in anticipo, per escludersi ogni speranza d’attuarle. E questo non per effetto d’una ascetica rinuncia che gli farebbe violenza, né per uno scrupolo puritano, ma per semplice ragione naturale; naturalmente, in ubbidienza gioiosa a ciò ch’esige il carattere speciale del poeta e della sua opera. [...].

  Il poeta detiene un’autorità ed esercita un potere innegabile; ma quel potere deve esercitarsi verso l’interno, tendere a ridurre e a vincere tutte le resistenze che lo spirito creatore incontra, cercando di attuare pienamente la sua opera; non deve orientarsi verso l’esterno, verso la conquista del denaro e del successo mondano. Balzac, autore d’un’opera incompleta e geniale, offre nella sua imperfezione e nella sua grandezza, un esempio in cui si congiungono il trionfo e la sconfitta. Balzac ha voluto esercitare il suo potere sul denaro, il denaro sotto forma materiale di moneta che si conia in pezzi d’oro; questo denaro, l’ha avuto, poi l’ha perduto — poiché in definitiva, il denaro non si lascia dominare. Ma d’altra parte, il denaro in quanto terribile entità astratta, il denaro che spinge al delitto e al tradimento, che simula la grandezza e genera i disastri, questo denaro è rimasto, incarnato, nei romanzi di Balzac, in tante figure tragiche e grottesche (d’avari, di negozianti, d’usurai e di combinards) e da Balzac smascherato, meno (sic) a nudo, crocifisso come il cattivo ladrone.

  Balzac ha perso la battaglia su un terreno dove lo scrittore non doveva scendere: quello degli affari e degli imbrogli della vita economica reale; ma ha vinto sul suo proprio terreno: quello della creazione letteraria. La stessa cosa avvenne nel dominio sociale: la società verso di lui dirigeva il ventaglio delle e la lode dei potenti, la dolce brezza che vanità mondane, i successi, inframmezzati da disprezzi e d’affronti, di cui godè in società, tutto finì per estinguersi in un ricordo attristato ed in una profonda aspirazione ad appartarsi. Ma tutti quegli esseri, marchese e giornalisti, piccoli proprietari e finanzieri, che Balzac non riuscì a dominare come avrebbe voluto, li ha infine domati facendone i personaggi della sua Comédie; essi gli resistevano nel mondo meschino che era il loro; ma nel mondo dei suoi romanzi, li collocò a suo modo, perché ispirino della commozione o del disprezzo; e con un tratto di penna, dispose del loro tempo e del loro corpo.

  I due falsi poteri fecero incorrere Balzac in molte e tristi avventure. In quelle orgie, sprecò forze che avrebbero dovuto consacrare al suo ideale di creatore, per renderlo perfetto. Ma se, a causa delle sue infedeltà, il suo trionfo non fu completo come lo permetteva e l’esigeva il suo genio, tuttavia Balzac salvò quella grande opera che ci ha lasciata: e se lo fece, è per la virtù della fedeltà che aveva in lui le sue radici (fedeltà più profonda delle sue velleità); è per effetto del potere supremo dello scrittore, il solo che sia in lui completamente puro: quello d’erigere su questo mondo altri mondi. Potere che non consiste né nel dominio né nel guadagno, potere dello spirito sullo spirito, opera di carità e comprensione del prossimo, chiaro potere d’amore.

 

 

  Emilio Tadini, Saggio sul «César Birotteau», «Inventario. Rivista trimestrale», Milano, Anno III, N. 4, Inverno 1951, pp. 45-52.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., p. 563.


  1. – Il «César Birotteau» non comincia con una di quelle frequenti descrizioni di Balzac — lunghe, minuziose, atte a creare un campo quanto mai profondo davanti e dentro al lettore per tutti gli avvenimenti successivi — ma con una scena di natura squisitamente drammatica. L’inizio segna proprio una notazione da «scena»: il silenzio che scende per poco, durante la notte, nella strada dove abita la famiglia Birotteau. E in quel silenzio, l’incubo della signora Birotteau, che sogna di vedere se stessa «in cenci», mentre entra nel suo negozio a domandare l’elemosina. (Non è certo un caso isolato questo, dei sogni, nei romanzi di Balzac — basta pensare al tragico precipitare della vicenda sulla fine di «Ursule Mirouet» —, e si potrà di sfuggita notare come questo procedimento serva al romanziere per rilevare le sue vicende così profondamente reali con l’uso di elementi di una sfera completamente diversa, e per ricavare dal contrasto una efficace variazione cromatica: dove è una prova di quella agile fantasia balzachiana che tanto spesso intensifica il suo raccontare e lo rende essenzialmente dinamico).

  Dopo questa chiaroscurata impostazione dell’apertura, nel lungo dialogo tra Birotteau e la moglie, che porta lettore direttamente nel mezzo della vicenda e che è costruito secondo regole fondamentalmente drammatiche, anche in quell’alternarsi delle battute di personaggio che afferma e di quelle di un altro personaggio che nega e poi cede, comincia a delinearsi chiaramente la figura del protagonista. Ad essa del resto aveva già accennato il monologo della moglie, stupita di non trovare il marito a letto accanto sé: e si deve ricordare un tratto di quell’umorismo balzachiano che è un elemento estremamente rilevante nell’impasto del suo stile, elemento sempre attivo mai laterale o aggiunto rispetto al centro della narrazione. La prima cosa che la moglie dice è: «Il n’existe aucne raison qui puisse faire sortir Birotteau de mon lit! Il a mangé tant de veau que peut-être est-il indisposé …», battuta molto «prosastica» che colloca i due personaggi — e tutti e due contemporaneamente — in una luce particolare e aiuta subito a definirne la statura.

  Nella minuziosa esposizione che Birotteau fa alla moglie dei suoi progetti, il personaggio prende corpo, e si imposta insieme un fatto che rimarrà basilare per tutto il romanzo: il contrasto che risulta dall’assoluta sproporzione tra le aspirazioni di Birotteau, medio borghese bottegaio e piccolo industriale che a un certo punto finanziariamente felice della sua vita vuole insistere nella carriera politica («... il faut toujours faire ce qu’on doit relativement à la position où l’on se trouve ...» dice Birotteau alla moglie, e poi: «Si je puis être quelque chose, je me risquerai à devenir ce que le bon Dieu voudra que je sois, sous-préfet, si tel est mon destin»), e prendere decisamente un posto più alto nella società in cui vive attraverso una grossa speculazione commerciale, e il fatto molto semplice che egli come individuo è assolutamente incapace di sostenere quell’impresa. Nel lungo dialogo questo contrasto è messo in piena luce dal delinearsi da un lato delle ingenue e umanisticamente espresse presunzioni di Birotteau, e dall’altro delle preoccupazioni impaurite della moglie. Si può dire che in questa apertura è contenuta l’enunciazione del tema di tutto il romanzo (né manca l’accenno ad un fatto importantissimo nella struttura del racconto: il ballo, di cui i due parlano come di una cosa della massima importanza), ed è per questo che ho insistito nell’analizzarla.

  E’ nello spazio creato dall’impulso drammatico e dinamico di questa apertura che si colloca il susseguente tono di narrazione più diffusa, e mediante la quale Balzac definisce il personaggio in modo essenzialmente diverso: prima lo aveva mostrato giunto al punto cruciale che segna l’inizio del racconto, in azione diretta, ora narra per esteso le vicende della sua vita: e non è difficile rilevare come riesca efficace per la conoscenza del protagonista questo porlo in visione secondo due diverse dimensioni e in modo immediatamente successivo.

  Il racconto della sua vita ci mostra il suo «buon cuore», la sua tenacia nel lavoro, uniti alla sua pesante mediocrità intellettuale, alla sua incapacità di giudicare secondo ragionamenti personali: «... sa vie laborieuse l’avait empêché d’acquérir des idées et des connaissances étrangères au commerce de la parfumerie». Così, dice Balzac «il épousa forcément le langage, les erreurs, les opinions du bourgeois de Paris ...», ed egli ad esempio pensava che «les écrivains, les artistes mouraient à l’hôpital par suite de leur originalité; ils étaient tous athées, il fallait bien se garder de les recevoir chez soi ... Les astronomes vivaient d’araignées ... » e così via. Dove si rileverà ancora la presenza di quell’atteggiamento umoristico cui si è già accennato, così funzionale per quel suo muovere una narrazione di tipo realistico il cui pericolo sarebbe stato quello di una eccessiva levigatezza e lucidità, per quel suo tagliarla, offrendo così sapientemente luoghi di diverso attrito all’attenzione del lettore. (E si è già accennato, in questo senso, alla presenza nei testi di Balzac di quelle intensificazioni fantastiche quanto mai utili alla dinamica del racconto). Birotteau è descritto in tutto quanto può servire alla sua definizione come personaggio, niente di più e niente di meno e soprattutto niente di astratto: la sua greve giovinezza, l’amore con la cuoca, il suo prender posizione politica a favore della monarchia in seguito ad un calcolo di natura economica («l’intérêt commercial lui montrait la mort du négoce dans le maximum et dans les orages politiques toujours ennemis des affaires». «La tranquillité que procure le pouvoir absolu pouvant seule donner la vie à l’argent, il se fanatisa pour la royauté»), il suo matrimonio («Quand les passions sont sans aliment, elles se changent en besoin; le mariage devient alors, pour les gens de la classe moyenne, une idée fixe, car ils n’ont que cette manière de conquérir et de s’approprier une femme») e il suo amore completo per la moglie, che, «d’une intelligence étroite ... offrait le type de la petite bourgeoise ... qui commence par refuser ce qu’elle désire et se fâche quand elle est prise au mot ... qui aime an grondant ... a peur de tout, calcule tout et pense toujours à l’avenir», e infine la sua fortunata carriera commerciale. E a questo punto si veda un passaggio molto importante: «Tel était César Birotteau, digne homme à qui les mystères qui président à la naissance des hommes avaient refusé la faculté de juger l’ensemble de la politique et de la vie, de s’élever au-dessus du niveau social sous lequel vit la classe moyenne, qui suivait en toute chose les errements de la routine, car toutes les opinions lui avaient été communiquées et il les appliquait sans examen».

  E in questa parte del romanzo è introdotto il personaggio di du Tillet, che è si può dire l’esatto opposto di Birotteau: tipo di speculatore senza scrupoli risoluto fino alla gelidità nella sua volontà di successo e che infatti finisce grande finanziere («il ne connut d’autre guide que son intérêt, et tous les moyens de fortune lui semblèrent bons») La sua vicinanza a Birotteau non fa in sostanza che mettere in risalto quell’incapacità di agire nel meccanismo delle speculazioni commerciali che sarà la rovina del profumiere.

  Dopo questa narrazione dei precedenti della sua vita, il personaggio è pronto ad entrare in quell’ordine di rapporti con la società che sarà per lui decisivo. Per essere una storia a lieto fine la storia avrebbe dovuto finire qui. «César Birotteau qui devait se considérer comme étant à l’apogée de sa fortune, prenait ce temps d’arrêt comme un nouveau point de départ.» E si veda come questo concludere una parte sia pure ideale del libro per iniziarne un’altra, sospenda tutto il futuro racconto in una espressiva tensione. E che a questo punto cominci il vero atto tragico è rilevato senz’altro da quella clausola: «Puisse cette histoire être le poème des vicissitudes bourgeoises auxquelles nulle voix n’a songé, tant elles semblent dénuées de grandeur, tandis qu’elles sont au même titre immenses; il ne s’agit pas d’un seul homme ici, mais de tout un peuple de douleurs». Un penetrante lirismo dove non è difficile oltre a tutto leggere la lucida coscienza che Balzac aveva della qualità della sua posizione confronti di un mondo e di situazioni pratiche apparentemente (ma ad una apparenza molto grossolana) «impoetici».

  2. – Fino a questo punto si può dire che Birotteau è definito «da fermo», e comunque nel cerchio suo proprio, nella sfera delle sue azioni normali, pre-tragiche, ma d’ora in poi Balzac lo pone sotto osservazione da un’altra e fondamentale dimensione: nel suo porsi in rapporto pratico con quella parte società e con quegli individui tra i quali deve maturare la catastrofe. Adesso Birotteau entra dove non avrebbe dovuto. (Tipico è il caso di du Tillet: prima egli era mostrato nel suo interferire nella sfera di Birotteau — e Birotteau lo aveva licenziato ma salvato dalla prigione —, ma in seguito sarà il profumiere che dovrà interferire nella sua sfera — e du Tillet farà di tutto per rovinarlo.) D’ora in poi Birotteau si muove, davanti al lettore, come un personaggio che cammina incoscientemente verso la rovina, e che subisce la malignità altrui: si rivelano lucidamente a poco a poco le disastrose conseguenze della sua dichiarata incapacità a sostenere la parte che si è assunta, la sua fragilità di fronte alle rigide e chiuse speculazioni di cui sta per essere vittima. Birotteau è diventato l’oggetto di un procedere tragico, mentre prima era il soggetto della sua normale commedia. Il lettore conosce già questo fatto fondamentale e questo serve potentemente a intensificare lo svilupparsi pratico di quella situazione. Se quella incapacità e quella debolezza del carattere di Birotteau erano evidenti fino ad ora nella definizione esplicita che ne era offerta, ora esse risultando praticamente e tangibilmente, «in azione», determinano in modo netto il tono tragico degli accadimenti: e è senz’altro una delle chiavi del romanzo. Birotteau entrando nello sviluppo pratico degli avvenimenti procederà in una continua evoluzione. E’ uno di quei personaggi di Balzac profondamente reali per la disponibilità che l’autore lascia in loro nei riguardi di quegli avvenimenti che pure essi stessi partecipano a determinare. E’ indubbio che in questa profonda intuizione della dialettica pratica della vita reale è uno dei maggiori pregi dell’arte di Balzac: i suoi personaggi non sono mai «prefabbricati» e inseriti in un’avventura che li lasci interi ed uguali fino in fondo, essi non sono mai anacronistici rispetto allo sviluppo degli avvenimenti, ma piuttosto il loro sviluppo di esseri umani è perfettamente contemporaneo a quello della situazione pratica dei fatti raccontati, in modo che l’ordine dei rapporti si mantiene sempre squisitamente reciproco mai pesantemente meccanico. Per tutto il romanzo al lettore si offre chiara questa evoluzione del personaggio, che è poi un precipitare alla rovina. E non ci sarebbe senso tragico se il lettore non conoscesse proprio quelle cose sulle quali il protagonista invece si illude. Con un procedimento molto intelligente Balzac non ha bisogno del colpo di scena che ecciti il lettore, dapprima illuso, mostrandogli improvvisamente un’altra realtà diversa da quella che egli supponeva: un’esteriorità simile — sostituendo ad una reale coscienza dello svolgimento dei fatti una eccitazione meccanica e per questo stesso fatto dispersiva — resterebbe in superficie. La conoscenza invece permette al lettore di penetrare in profondità nel senso del racconto. Così il famoso ballo che Birotteau organizza per festeggiare il suo successo e celebrare l’inizio di quella che egli crede la sua più grande fortuna, prende in realtà fin d’ora un significativo valore di tragico «punto cruciale». Da quella festa (posta in grande evidenza al centro della costruzione del romanzo) comincerà la rovina del profumiere, praticamente la sua morte: e anche qui è facile rilevare la espressività celatamente macabra del contrasto.

  3. - Fino al ballo, comunque, Birotteau è descritto ancora nel suo illusorio agitarsi in una serie di fatti attraverso molti dei quali egli crede di determinare la sua fortuna e che invece lo stanno chiudendo senza scampo verso il crollo decisivo.

  Alcuni dei suoi «incontri» non escono ancora dal suo ambiente regolare: e primo tra tutti quello col suo commesso Popinot, che egli aiuta a iniziare una carriera industriale e commerciale quanto mai brillante in futuro, e che poi lo aiuterà a salvarsi (ma la cui fortuna sicura e limpida nel romanzo non fa che mettere in risalto le sciagure di Birotteau). Ed è interessante notare come Balzac analizzi tutte le cause del successo commerciale di Popinot — dall’aiuto di Gaudissart, l’abilissimo commesso viaggiatore, che nel romanzo è sempre descritto attraverso i rapidissimi monologhi, veri pezzi di virtuosismo a sfondo umoristico, all’uso di mezzi di pubblicità fino ad allora sconosciuti (e a questo proposito è da rilevare il gusto da «collage» che risulta dalla libera intrusione del testo completo dei manifesti pubblicitari, con marchi di fabbrica e diversi caratteri tipografici, operata da Balzac nel corpo del suo libro, — qui, come già precedentemente a proposito delle fortune giovanili di Birotteau). Questo razionalizzare le ragioni di quel successo, questo renderlo perfettamente spiegabile in sé e per sé, toglie a questo fatto nel contesto del romanzo ogni apparenza di funzionalità meramente meccanica (sarà uno dei mezzi con i quali Birotteau potrà risollevarsi) e lo rende, come tutti gli altri elementi della narrazione, ben formato e autosufficente (sic) nella mente del lettore e nel romanzo — e d’altra parte proprio per questo pronto ad offrirsi con tutta la ricchezza della realtà a quello sviluppo di rapporti umani e storici che costituiscono l’intreccio. Questo superamento di una funzionalità meccanica e limitata è evidentemente una delle qualità di tutti i grandi romanzi impostati con profondità di visione realistica: e il fatto che ha mosso queste osservazioni non è che una delle occasioni che si offrono alle medesime costatazioni nel corso del «César Birotteau».

  Proseguendo nell’analisi degli incontri di Birotteau, si può ricordare quello con Molineux che dà a Balzac la possibilità di ritrarre un esemplare tipo di borghese proprietario di case, feroce sfruttatore dei suoi inquilini, inumano addirittura: e l’autore (dopo una deliziosa e precisa descrizione della sua casa di avaro molto utile    a definire l’uomo, come Balzac stesso rileva), ad accentuare in chiave umoristica questa disumanità a base economica, lo descrive come se fosse un vegetale: «Cette plante humaine, ombellifère, vu la casquette bleue tubulée qui la couronnait, à tige entourée d’un pantalon verdâtre, à racines bulbeuses enveloppées de chaussons en lisière ...».

  E sempre a proposito di Molineux — a confermare la sua personalità di crudele economico — Balzac fa un’osservazione quanto mai utile: «La malfaisance de cette fleur hibryde ne se révélait en effet que par l’usage; et pour être éprouvée, sa nauséabonde amertume voulait la coction d’un commerce quelconque ou ses intérêts se trouvassent mêlés à ceux des autres hommes». Da lui Birotteau si presenta ancora all’oscuro dell’abisso verso il quale cammina, egli è ancora l’assessore adulato e stimato per la sua posizione economie (quella base che poi gli sarà così decisamente insufficiente, in una lotta per lui del tutto sproporzionata) ma ad un certo punto sarà proprio Molineux ad agire in una sinistra parte di «cattivo messaggero», quando dopo il ballo si presenterà da Birotteau animato da maligne previsioni (sarà Balzac a parlare di lui in questo modo, per suggerire sempre più il calare di un clima tragico nel senso preciso della parola).

  Ma vi sono altri personaggi molto significativi che contribuiscono all’articolarsi dell’ambiente sociale entro il quale si svolgono i fatti — e tutti, occorre insistere su questo aspetto della narrazione balzachiana, con una carica di storia personale sufficiente a far sì che i loro interventi nella vicenda si dispongano secondo tutte le dimensioni possibili e non entro lo scatto di una limitata necessità di meccanica di racconto.

  Pillerault, l’ex mercante onestissimo ha lavorato duramente tutta la vita e la cui vecchiaia è sotto il segno di un rigoroso stoicismo, che appartiene a «cette partie ouvrière agrégée par la révolution à la bourgeoisie», che è forse il personaggio maggiormente dotato di dignità di tutto il romanzo e di cui Birotteau non comprende l’ostinazione nelle idee politiche. Claparon, l’uomo di paglia di du Tillet, un vero rottame umano, pieno di parole vuote (e Balzac insiste sul suo laido aspetto fisico tanto da farlo diventare qualcosa più di una semplice caratteristica personale), al completo servizio del grande finanziere per conto del quale egli compie la parte più sporca delle imprese economiche (e sono significativi i consigli che du Tillet gli dà su ciò che egli deve dire per sembrare un vero banchiere: «Les libéraux sont dangereux. Les Bourbouns (sic) doivent éviter tout conflit ... la France a fait assez d’expériences politiques ...»). Roguin, il notaio apparentemente rispettabile che si rovina, e rovina i suoi clienti, per le sue amanti. I due Ragon dalle contegnose maniere tipo ancien régime.

  Tutti costoro, con Birotteau, si trovano insieme, alla stipulazione del contratto da cui uscirà la rovina del profumiere, e non solo la sua: e in questa scena l’incontro anomalo e a fondo tragico tra gli ingenui medi e piccoli borghesi e il rappresentante degli speculatori che li ingannano, è giocato tutto (a parte la dignitosa presenza di Pillerault) in chiave di grottesco, sul contrasto tra le loro «buone maniere» e la grossolanità mal repressa di Claparon.

  4. - A questo punto si può esaminare l’episodio del ballo. Ho già ripetutamente accennato alla sua importanza nella struttura del romanzo. E’ il «fortissimo» sul quale si chiude la prima parte del libro, ed è più che evidente che questo episodio riesce carico di un grande significato sia nell’articolarsi strutturale del libro che nello svolgimento della vicenda. Nessun altro fatto è descritto direttamente con tanta abbondanza: dalla preparazione — la scelta degli invitati compiuta insieme da tutti i Birotteau quanto mai preoccupati e attenti alla posizione sociale di ognuno —; allo svolgimento — la goffaggine dei medi e piccoli borghesi e delle loro donne («La bourgeoisie de de la rue Saint Denis s’étalait majestueusement en se montrant dans toute la plénitude de ses droits de spirituelle sottise»), il tener le distanze degli aristocratici invitati da Birotteau per farsi una fama di illustri amicizie, la presenza maligna di Molineux (che quando Birotteau gli mostra le stanze nuove dice: «Hé, Hé! c’est affaire à vous, monsieur ... Mon premier ainsi garni vaudra plus de mille écus!»: e Balzac fa rilevare la cattiva previsione contenuta in quel «vaudra»), la freddezza di du Tillet, le piccole follie dell’ultimo ballo quando tutti sono un po’ sfrenati —; alle conclusioni — quando Balzac situa perfettamente questa festa come l’estrema manifestazione delle illusioni di Birotteau, e come il punto da cui comincerà la sua rovina. Il paragone fantasioso con la sinfonia di Beethoven; quella conclusione: «L’histoire psychique du point le plus brillant de ce beau finale est celle des émotions prodiguéés par cette fête à Constance et à César. Collinet avait composé de son galoubet le finale (sic) de leur symphonie commerciale».

  E si noterà che questa festa ha un peso non soltanto allusivo sullo svolgimento successivo della situazione di Birotteau. Nella conclusione Balzac insiste sul fatto che i sessantamila franchi che essa è costata saranno un duro colpo per il profumiere. Non deve sfuggire la notevole importanza di questo fatto: la perfetta e continua unione di logica realistica e di fantasia è veramente una delle doti essenziali di Balzac.

  La «fine del primo tempo» non poteva certo essere più sapientemente articolata. Birotteau ha per un giorno vissuto in una posizione che non è la sua. Anche per lui adesso incomincia la storia delle «illusioni perdute» in un mondo di violenza.

  5. - Vale la pena di analizzare diffusamente l’apertura della seconda parte.

  Birotteau comincia a dubitare, non ha più la sicurezza di pochi giorni prima, pensa «... à l’étendue de ses affaires qu’il trouvait lourdes». E Balzac insiste esplicitamente due volte su quel contrasto che ho già indicato come base della tragedia di Birotteau, quel contrasto che si risolve nella sua assoluta inadeguatezza alla posizione sociale cui egli aspira: «... il se sentait dans la main plus de pelotons de fil qu’il n’en pouvait tenir», e poi: «... il était alors un simple canotier de la Seine à qui, par hasard, un ministre aurait le commandement d’une frégate». E mentre Birotteau si confonde in queste preoccupazioni, arriva Molineux a esigere la firma del suo contratto, ed a portare malignamente la notizia che il vicino cui Birotteau aveva prestato cinquemila franchi è fallito. Questa scena è un inizio: da qui la tragedia precipita. E Molineux, come si è già detto, assume la parte del cattivo messaggero: «Tout le monde a fait de ces rêves pleins d’événements qui représentent une vie entière, et où revient souvent un être fantastique chargé des mauvaises commissions, le traître de la pièce. Molineux semblait à Birotteau chargé par le hasard d’un rôle analogue dans sa vie ...». Si può facilmente rilevare come un fatto pratico e quotidiano quale è quello descritto qui sia sottoposto da Balzac ad una profonda intensificazione, e a quali risultati di importanza si giunga.

  Birotteau incomincia a turbarsi, e dopo l’arrivo di altri creditori, si esaspera — e il processo psicologico è scelto con molta acutezza — e infine la sua inquietudine si sfoga in una violenta tirata contro i falliti (viene in mente la condanna di Edipo contro quel colpevole che non conosce e che non sa di essere lui stesso — e il paragone non colpisca troppo: un minimo senso dialettico farà cadere la presunzione di inorridirsi ad accostamenti di questo tipo: con questo confronto voglio solo suggerire una chiarificazione al procedere psicologico della storia, e d’altra parte si comprenderà che la tragedia di Birotteau, per essere una tragedia moderna e di un personaggio medio, non è meno tragica di quella di Edipo), fino a quella straordinaria immagine: «Tous les faillis sont suspects, dit César exaspéré par cette petite perte qui lui sonnait aux oreilles comme le premier cri de l’halali à celles d’un cerf». Questa immagine è di una efficacia esatta nel dare un senso nella mente del lettore a tutti gli avvenimenti che poi incalzeranno, che egli se ne renda o no conto. Grazie ad essa si sente lo scatto di un crudele meccanismo da caccia all’uomo. E’ un’immagine tipicamente «centripeta», decisiva: Balzac non usa mai immagini centrifughe ed elusive rispetto al centro della narrazione, come del resto ogni grande scrittore. Le immagini e le metafore astrattive generano troppo spesso una stancante noia mentale.

  6. - La tragedia, ho detto, precipita, e Birotteau incomincia a intuire la realtà della sua rovina. D’ora in poi progressivamente e parallelamente si attueranno i due processi della sua sempre più completa disgrazia e del suo acquistarne coscienza. Egli si renderà conto della realtà: a costo del franare delle sue illusioni riacquisterà la possibilità di muoversi e di agire: un costo alto ma l’unico adeguato.

  Bisogna rilevare un tipico processo tragico: il protagonista non sa e illudendosi avanza nella zona tragica dove non avrebbe dovuto entrare (tutta la prima parte) — il protagonista incomincia a sospettare la realtà e a poco a poco sotto i colpi sempre più violenti di quegli accadimenti cui egli stesso ha dato l’avvio, prende coscienza (questa seconda parte e il suo finale) — il protagonista ha capito: solo così può agire di nuovo da persona libera; la fatica enorme di tutta questa esperienza è però, alla fine, superiore alle sue forze (la terza parte). Tre grandi atti: la struttura dell’opera è chiara e perfetta.

  E nel secondo di questi atti, in questa asconda parte che si intitola efficacemente «César aux prises avec le mal», in quel rivelarsi sempre più lucido della rovina di Birotteau, è quanto mai interessante esaminare la sua corsa affannosa verso mete che a una a una gli mancano improvvisamente davanti. Nella sua ricerca di un credito, Birotteau passa attraverso tutto l’ambiente dell’alta banca, dalle potentissime case dei Keller, di Nucingen, a du Tillet, allo squallore dell’ufficio di Claparon: e in questa rassegna Balzac ha pagine di una impressionante lucidità nel mostrare il povero medio borghese alle prese, per una volta direttamente, con la potenza tirannica dell’alta banca. Birotteau è buttato crudelmente da una parte all’altra, e la sua presenza, confrontandosi ad essi, svela per un poco nelle pagine del romanzo quegli ambienti disumani, sede di ogni potere.

  Si veda la visita a Keller: la descrizione dell’anticamera piena di uomini politici, di affaristi, di giornalisti (e Balzac chiama Keller il loro «principale»: «... des journalistes à la curée de l’amour-propre du banquier s’entretenaient de la séance d’hier et de l’improvisation du patron»: una breve notazione dov’è denunciato il carattere di classe della stampa), è quanto mai efficace per far capire che quella banca è uno dei luoghi dove si decide tutta la politica della Francia — e infatti sono continui gli accenni alle manovre politiche di Keller per far cadere il ministero ecc. Tra i due fratelli banchieri, Birotteau è addirittura stritolato (e si veda l’efficacia dei due caratteri: uno dei fratelli è diplomatico, «politico», l’altro scopertamente duro, «economico»), e basterà ricordare quella scena in cui davanti ad Adolphe Keller, il profumiere parla e parla di sé, credendo di essere convincente, mentre invece non riesce ad altro che a mettere in luce la sua debole intelligenza: «Entraîné par la loquacité particulière aux gens qui se laissent griser par le malheur, César montra le vrai Birotteau ... le bonhomme, promené par un faux espoir, se laissa sonder, examiner par Adolphe Keller, qui reconnut dans le parfumeur une ganache royaliste près de faire faillite».

  Dopo i Keller Birotteau tenta da du Tillet e qui c’è un passaggio rapido e impressionante: du Tillet seccato per il perdono che il suo antico padrone gli elargisce, gli prospetta di colpo l’idea del fallimento: «Moi faire faillite, dit Birotteau qui avait bu trois verres de vin et que le plaisir grisait. On connaît mes opinions sur la faillite! La faillite est la mort d’un commerçant, je mourrais. — A votre santé, dit du Tillet». Poi du Tillet «en se promettant de faire danser toutes le figures de la contredance des faillis à sa victime», lo manda alla banca di Nucingen, e nella sontuosa casa del barone Nucingen, — dove il francese tedeschizzato del banchiere è un elemento dinamico molto importante nel creare l’aria equivoca in cui si svolge la beffa ai danni di Birotteau —, il povero profumiere è crudelmente preso in giro e respinto.

  L’ultimo gradino di quella scala di umiliazioni (e Birotteau «commençait a comprendre que chez les banquiers le coeur n’est qu’un viscère») è la sordida sede dell’ufficio di Claparon, dove l’ambiente della banca si svela in tutta la sua crudeltà, a nudo, senza maschere di eleganza, un «mauvais lieu financier», come dice Balzac. Anche Claparon, dopo i suoi sproloqui (alcuni molto significativi come quello sull’«uomo del denaro» che sfrutta «l’uomo delle idee») respinge Birotteau.

  Ormai non resta che il fallimento. Birotteau ha perso tutte le sue illusioni in questa serie di duri incontri, e si è dissolto il contrasto tra le sue ambizioni e le sue reali capacità che era giunto all’estremo. Perdendo le sue illusioni Birotteau si è di nuovo inserito in modo naturale e giusto nella situazione pratica, ha ripreso la possibilità di agire in modo concorde agli sviluppi reali. Anche il secondo grande atto è finito — e la crisi si è svolta lucidamente in un ambiente sociale indicato con precisione. Il protagonista ha preso coscienza della realtà: per questo stesso fatto adesso è libero. E come Balzac chiude stupendamente la seconda parte: «La chute de Birotteau se trouvait dès lors accomplie, il y donnait son consentement, il redevenait fort».

  7. - Potrebbe accadere che ad una lettura superficiale, l’ultima parte del libro sembrasse giocata per le esigenze banali di un forzato lieto fine, ma basta un poco d’attenzione perché anch’essa risulti inserita a piena ragione nella sapientissima struttura generale dell’opera.

  Il protagonista muore, il «César Birotteau» resta un libro tragico, e la tragedia è tanto più rilevata quanto più profonda è la coscienza della realtà per mezzo della quale César, prima di rimanere folgorato in quel finale ineguagliabile, riesce a ricostruirsi intorno la sua giusta condizione e a ricostruire se stesso in quella condizione. La profonda moralità di questo agire libero, duramente sacrificato ma cosciente della realtà delle cose, è la base di quest’ultima parte del libro.

  Soltanto in un punto, e con un potente effetto, Balzac ricorda ancora quello stato di illusione che ha condotto César alla rovina. Quando Birotteau vede l’insegna di Popinot: «Voilà l’un des lieutenants d’Alexandre, dit avec la gaîté du malheur Birotteau montrant le tableau. Cette gaîté forcée, où se retrouvait naïvement l’inextinguibile (sic) sentiment de la supériorité que s’était crue Birotteau, causa comme un frisson à Ragon, malgré ses soixante-di-ans (sic)». Per il resto César si consuma letteralmente per uscire dal fallimento onorato interamente, e ad apertura della terza parte una lunga, e tipica in Balzac, descrizione della procedura fallimentare (non senza note di dura ironia per quello che troppo spesso egli dice, è un «effroyable gâchis commercial») colloca queste azioni del personaggio in una zona di perfetta possibilità, di fatti che agli occhi del lettore risultano reali e plausibili.

  8. - Questo terzo atto della vicenda è condotto più rapidamente degli altri: l’agire del personaggio non ha più centri illusori e dispersivi. Ora César lavora unicamente per raggiungere una meta reale, e d’altra parte egli è rientrato nella cerchia sua propria di volontà e di azioni. Ma il finale del romanzo è orchestrato in modo ineguagliabile.

  Basta pensare a quella scena (appena un poco caricata teatralmente come, del resto, tutte le ultime pagine, ma in modo funzionale in quell’impostazione da gran finale) in cui il segretario del re porta a Birotteau del denaro offerto dal sovrano in segno di stima per la onestà commerciale del profumiere; e poi alla scena della riabilitazione di Birotteau davanti al tribunale, preparata dall’abbondante scenografia della descrizione della maestosità del palazzo dove ha luogo il procedimento. E, infine, basta pensare all’ultima scena. La morte del protagonista sarebbe già di per sé una conclusione tragica, ma ciò che rende questo finale ancora più incisivo, è il fatto che la morte avviene al momento stesso in cui la gioia di Birotteau raggiunge il culmine. Si ricrea quasi assurdamente il tempo passato, ma César non vi resiste: è troppo naturale. Birotteau muore perché il suo organismo rovinato dai dispiaceri e dalla fatica non tollera lemozione troppo forte della vittoria completa, la sua morte si spiega alla perfezione anche fisiologicamente, ma insieme non è difficile rilevare come essa riesca indispensabile alla giusta conclusione strutturale di questa grande tragedia.

  E si pensi all’idea di ricostruire per la morte di Birotteau l’ambiente del famoso ballo che aveva segnato prima il «fortissimo» estremo delle sue illusioni, e di riprendere quel paragone musicale della sinfonia di Beethoven.

  E’ uno di quei punti in cui ci è concesso di notare più lucidamente che altrove la potenza di «scelta» artistica propria di un genio come Balzac, che aveva poi l’enorme forza di attuarla in situazioni di racconto tanto esatte, tanto perfettamente tese lungo la linea di maggior forza del racconto stesso, da esigere una profonda attenzione da parte del lettore che si voglia render coscienza della sapienza della struttura del libro, al di là di quella completa soddisfazione di lettura che sempre e, comunque, ne deriva.

  Il ballo era rimasto nella mente di Birotteau come un luogo estremo di gioia fin troppo assoluta: «Durant ces trois années d’épreuves Constance et César avaient, sans le dire, souvent entendu l’orchestre de Collinet, revu l’assemblée fleurie ...». Ed ora: «En se retrouvant chez lui, en revoyant son salon, ses convives, parmi lesquels étaient des femmes habillées pour le bai, tout-à-coup le mouvement heroïque du finale de la grande symphonie de Beethoven éclata dans sa tête et dans son coeur. Cette musique idéale rayonna, pétilla sur tous les modes, fit sonner ses clairons dans les méninges de cette cervelle fatiguée pour laquelle ce devait être le grand finale».

  9 - E’ il finale di una grande tragedia moderna. Tragedia: né mancano certe forme tragiche riconoscibili anche esternamente, dalla sapientissima divisione in parti, quasi in atti, alle costruzioni scenografiche, dal sogno premonitore ai personaggi allusivi, dalla morte del protagonista ad un senso generale e sovrastante del male — identificato praticamente nel denaro e più precisamente nella potenza economica in mano a pochi che governano tirannicamente per suo mezzo la società. E tragedia moderna: le avventure di un uomo medio, la storia di un fallimento commerciale, in un racconto dove tutte le situazioni umane, mai meccanicizzate, si sviluppano con la libertà della realtà, confrontate sempre duramente ma naturalmente con un ben determinato ambiente sociale ed economico. L’esattezza del senso di storia di Balzac, gli consente la massima profondità. E quella sua conquista della storia è il segno della sua intelligenza totale. Altri scrittori in preda alla più banale ignoranza e proprio per questo incapaci di intendere la loro naturale posizione di eterni sconfitti, s’illudevano — e altri oggi s’illudono — di liberarsi nelle false profondità della confusione.

  Balzac proprio perché leva di mezzo ogni illusione pseudo poetica (come il suo personaggio in fondo, anche se su un altro piano), e giunge al più lucido grado di coscienza, acquista la libertà più profonda e più attiva.

 

 

  Renzo Tian, I Martedì letterari. Balzac in regola, «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti delle scienze», Roma, Anno VI, N. 13, 1. Aprile 1951, p. 6.

 

  Per André Maurois, il sale della saggezza è in ogni minestra.

 

  “Se vi sedete a un tavolo di bridge, non cercherete certo di capovolgere le regole del giuoco. Esse saranno anzi accettate in partenza così come sono, e voi farete quanto è possibile per trarne il miglior partito” diceva André Maurois verso la metà della sua conferenza su Balzac all’Eliseo. Che cosa era accaduto? Parlando di Balzac, Maurois aveva messo sin dal principio l’accento sulla sua «saggezza», e cioè, in sostanza, sul suo atteggiamento di fronte alla vita e sul come la vita vada affrontata e risolta. Aveva cominciato a citare, prima, la lettera di Mme de Mortsauf a Félix de Vandenesse, nel Lys dans la vallée, una specie di trattatello del vivere in società, dove si consiglia al giovane che sta per entrare nel mondo di restar sempre fedele ai principi di onestà, di lealtà, di dirittura – e poi un testo apparentemente (diceva Maurois) contrario: le spregiudicate e obbiettive considerazioni sul mondo, sugli uomini e sulla storia che fa Vautrin a Lucien de Rubempré. Ciò che si potrebbe trarre di comune dai due testi così diversi era la massima che alla natura (non solo fisica, ma anche e soprattutto sociale) non si può comandare altro che cominciarle ad obbedire.

  André Maurois si muoveva con grande abilità, en connaisseur, nell’intricato labirinto della Comédie Humaine per trarne argomenti a favore della sua tesi, che appariva in realtà non troppo accettabile, e ci suggeriva l’idea di un Balzac assertore dell’arte di sapersi «ménager» nella vita, fautore di una specie di calcolo delle probabilità applicato ai rapporti sociali; un bonario e moderato Balzac maestro di astuzia e di simulazione che avrebbe disseminato nei suoi romanzi gli aforismi e i pratici consigli di un facile moralismo quotidiano. Accettare le regole del giuoco? Uno dei dati costanti dell’incostante produzione balzachiana ci sembra proprio la denuncia (non importa a che prezzo) della radicale e grottesca falsità di quelle regole, un indice teso silenziosamente e senza gesti da Pubblico Ministero sulle catastrofi provocate dalle incongruenze di un ingranaggio assurdo. Pochi, ben pochi dei suoi personaggi hanno imparato quell’arte di accettare le regole che dovrebbe essere la chiave della saggezza – anche se vi sono altri personaggi che l’insegnano. Tra i due testi citati da Maurois, la lettera di Madame de Mortsauf e le riflessioni del bandito Vautrin, le nostre preferenze – e le preferenze di Balzac, non v’è dubbio – vanno al secondo. Vautrin, non dimentichiamolo, è forse il personaggio verso cui Balzac nutre maggior simpatia fra tutta la sua immensa famiglia: lo segue con enorme interesse, lo fa ricomparire in numerosissimi romanzi, e – ammesso che Balzac abbia mai dichiaratamente espresso le sue «idee sulla vita» – il forzato evaso è forse il suo portavoce più accreditato. E Vautrin è, prima di ogni altra cosa, il simbolo di una ribellione; e Balzac, malgrado le dichiarazioni di conservatorismo e di ortodossia che non convincono nessuno, è lui stesso un ribelle, un ribelle sfortunato e talvolta maldestro. E’ tutt’altro che abile, Balzac stesso, malgrado che voglia enunciarvi delle teorie, nell’arte di accettare le regole, di distribuire le energie e gli attacchi, di far rientrare insomma il fermentare dei suoi umori e dei suoi sentimenti nel quadro di una società prestabilita. La Peau de chagrin, questa parabola dell’uomo moderno, è istruttiva in tal senso. Più che un ammaestramento o uno sprone alla moderazione e alla saggezza, essa è l’amara constatazione di questa nostra incapacità a trattenere quell’impeto che ci fa bruciare sentimenti ed esperienze, e rimpicciolisce sempre più la magica pelle che è la superficie della nostra esistenza. E, se vogliamo ricorrere alla biografia, chi non riconoscerebbe nella Peau il tragico presentimento, con venti anni di anticipo, della parabola rapida e bruciata dell’esistenza di Balzac?

  Se un «richiamo alle regole» vi fu in Balzac, esso avvenne in un’altra direzione, e con stretto riferimento a certe tendenze letterarie e di gusto dominanti nell’epoca in cui visse il romanziere: un richiamo ad una realtà terrena e quotidiana troppo dimenticata e disprezzata dai poetici trasporti, dalle effusioni e dagl’impeti di tanti suoi colleghi romantici. Non per nulla un critico del tempo affermava che il più gran rimprovero che si poteva muovere a Balzac era quello di essere contemporaneo di Lamartine.

 

 

  Giampaolo Tolomei, Introduzione, in Honoré de Balzac, Il giglio della valle ... cit., Milano, Arnoldo Mondadori Editore, pp. 8-11; Milano, Club degli Editori, pp. VII-X.

 

  Centoquindici (Centotrentasette, nell’edizione del Club degli Editori) anni sono trascorsi dalla prima pubblicazione di questo libro che risale al 1835! Un’epoca in cui il fervore romantico gettava libri su libri, la maggior parte dei quali destinati all’oblio. Un’epoca intensa, tuttavia, in cui Sainte-Beuve, allora trentunenne, già avanzava con la sua critica eminente, in cui da quattro anni era apparso Notre-Dame de Paris e la poesia di Gautier, magicien parfait della lingua francese, da cinque anni aveva rivoluzionato il regno delle lettere. Fra accese battaglie di scuole e dottrine, di romanticismo e di classicismo; fra duelli letterari che coprivano il mondo di opere inutili, sorgevano i monumenti letterari destinati a segnare un solco e un rivolgimento: fra cui si innalzava quello che Balzac con instancabile opera costruiva, pagina su pagina.

  Tanti anni di cammino hanno certo un po’ logorato questo Giglio della valle, ma nonostante il volger di gusti e di maniere e il decader delle mode, esso permane degno della nostra più accurata attenzione.

  Raccontare qui di Balzac e della sua opera è superfluo, poiché è nota la vita di questo stranissimo ingegno, vissuto fra le lettere come nessun altro fecondo letterato, eppur persuaso che il suo vero talento fosse per gli affari: affari sempre naufragati, che lo lasciarono fra squallori e debiti là ove altri al suo posto avrebbero accumulato una discreta sostanza con i diritti d’autore. Egli invece trovava nel mestiere delle lettere solo i fondi per cercar gli affari, e passava di fallimento in fallimento e da romanzo a romanzo. Di famiglia borghese, di nascita provinciale, si buttò nell’arte con un insuccesso: era una specie di competizione familiare fra il padre che lo voleva in provincia a fare il brav’uomo borghese, e lui che voleva vivere a Parigi per dar sfogo al suo giovanile ardore letterario. Parigi era allora «la capitale dell’intelligenza» e tale doveva restare per molti decenni ancora; da lì dovevano uscire i più importanti movimenti letterari che avrebbero dato nome e fisionomia a quel secolo e al successivo. Il padre di Honoré concesse un anno di tregua: ma il figlio dovette impegnarsi a dimostrare in maniera pratica la sua inclinazione alle lettere, allo scader dell'anno, con un lavoro da sottoporre ad una giuria di parenti e di amici: ne ebbe una clamorosa bocciatura. Con questa sconfitta sorgeva l’astro del suo genio. Intestardito, adattandosi a ogni ripiego, senza più l’assenso e l’aiuto dei suoi, lavorando come un negro, Balzac attese, scrisse, bruciò, riscrisse. Ed affidò ai posteri, oltre alle opere che sfuggono alla critica e alla storia d’oggi perché pubblicate con nome altrui, novantun romanzi, lavori di teatro ed altre pagine, tra cui, notevolissime e numerose, quelle di un prezioso carteggio.

  E questo in cinquantun anni di vita, in trenta di carriera letteraria, fra debiti, affanni e crucci, fra sconfitte amorose e scorribande mondane. Così bruciò la sua vita, iniziatasi a Tours nel 1799 e spentasi a Parigi nel 1850, fra le braccia della sua Eveline Hanska, da anni invano adorata, da pochi mesi raggiunta.

  L’opera più insigne di Honoré de Balzac è la Commedia Umana, un insieme di romanzi divisi in vari gruppi (“Scene della vita di provincia”; “Scene della vita di città” (sic); “Scene della vita di campagna”; “Scene della vita militare”, etc.) in cui è descritta tutta la vita, in ogni aspetto e sfumatura, della sua epoca. Vi è in questa Commedia Umana una coesione non meramente formale: non sono i personaggi, che si ripetono frequenti in molti romanzi, a dare questo senso di unione: è lo spirito stesso informatore di tutta l’opera; unicità e struttura omogenea in questo che è uno dei capisaldi della letteratura mondiale derivano dalla sovrana capacità balzacchiana di immettersi nei personaggi. Balzac sa essere, con una convinzione che trascina il lettore, quello che il personaggio, l’avventura, l’ambiente richiedono: e sa in tal modo dare una forma di indipendenza ai suoi personaggi sì che pare che essi stessi muovano lui a narrarne i casi, non lui costringa loro a seguirne i capricci.

  Alla Commedia Umana, nel gruppo “Scene della vita di campagna”, appartiene Il giglio della valle. Il libro, scritto in prima persona e steso come una lettera che il personaggio invia all’innamorata di oggi per narrarle le vicende di un antico amore, non è fra quelli che si ricordano con maggior frequenza come Eugenia Grandet, Papà Goriot, Il Colonnello Brideau, Lo Zigrino, ed altri ancora, ma ciò non toglie che, se non superiore a quelli, non è certo inferiore questo prezioso racconto, non scevro di contraddizioni, e talora di incoerenze, è forse proprio per questi apparenti difetti e sostanziali pregi di naturalezza, un’opera che molti, moltissimi autori vorrebbero porre nel loro bilancio.

  Il romanzo, ove s’incontrano figure e nomi già noti del mondo balzacchiano, ha un sapore autobiografico che non spiace. Felice di Vandenesse, l’eroe del racconto, è assai vicino al Balzac innamorato di Laura di Bregny (sic), e di lui ci narra vicende giovanili senza evitare anche citazioni precise; poi la realtà indulge alla fantasia, ma l’accento sommesso rimane e segue, pagina a pagina. Tutto si integra, nel racconto, in una sottile musicalità: sembra che musica e colore facciano da sfondo a ogni pagina, ed il libro ne ricava come un senso di palpitante fragilità, di profumata freschezza. Onde l’abbondante secolo ed il mutar dei gusti non gravano su di lui, ma appena lo sfiorano.

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, Tra moralismo e storia il Tacito della società francese, «Il Mattino della Domenica», Napoli, 14 Marzo 1951, p. 3.

 

  È riprodotta l’ultima parte dello studio: Chiose a Balzac, pubblicato come introduzione al primo volume de: I Capolavori della “Comédie humaine”, edito da Gherardo Casini nel 1950.

 

 

  Villalta, Arrivisti, «La Provincia», Cremona, Anno V, N. 309, 30 Dicembre 1951, p. 3.

 

  L’arrivismo è fenomeno di tutti i tempi. Ma la rivoluzione francese che evertendo criteri di classe e di categoria, riconosceva a ciascun individuo la possibilità di elevarsi e di conquistare una superiore posizione nella scala sociale, fu motivo di accentuazione oltre ogni previsione del fenomeno.

  E Balzac, che a giusta ragione può considerarsi il romanziere della borghesia che della rivoluzione fu prodotto, non mancò di cogliere anche questo aspetto dei «Costumi del tempo» o — se meglio si vuole — nella «Commedia umana» delle «Scene della vita». Eccoli ad uno ad uno i suoi eroi: Raffaele di Valentin, Eugenio di Rastignac, Luciano di Rubempré. Dietro di essi sta il demonio, il demonio del guadagno e della conquista: Vautrin. Egli incarna la passione smodata, la mancanza, di remore morali, l’audacia, in modo tale che pur partecipando delle vicende umane, quanto vi è di accidentale ne supera nel satanismo di una legge generale o di una forza scatenata. E’ questa fatalità incarnata che muove i fili: gli altri non sono che obbedienti marionette.

  Raffaele di Valentin è il protagonista della «Pelle di Zigrino». Deluso nella sua immensa ambizione e nelle sue sfrenate aspirazioni, perduto l'ultimo napoleone in una bisca di Palazzo Reale, vuole gettarsi nella Senna. Ma ecco che scopre nella bottega di uno straccivendolo una pelle di zigrino, talismano prezioso che gli consentirà di soddisfare ogni sua aspirazione.

  Reca difatti una iscrizione in sanscrito in cui è detto che ogni desiderio soddisfatto non manca però di restringersi un poco fino al momento che non vi sarà più posto per il soddisfacimento dei desideri del possessore, ed egli dovrà morirne. Tutto procede nel senso indicato. Raffaele chiede denaro, potere, donne. E, grazie alla pelle di zigrino, può mano a mano conquistare tutto ciò. Ma il talismano irrimediabilmente si restringe. Raffaele tenta invano di lottare contro la sorte e cerca di interdire a se stesso ogni desiderio, ogni richiesta, ogni velleità. Si può vivere senza desideri? La volontà — nel senso balzacchiano del termine — non è forse l’essenza stessa dell’uomo? «Desidero perché sono»: è questa la formula opposta a quella di Cartesio: «penso dunque esisto». Raffaele non cessa, non può cessare dunque di desiderare, ma un male misterioso, preludio della morte, strazia il suo corpo e la sua anima. Si attacca sotto questa minaccia alla sua miserabile esistenza. Ma l’esistenza, per quello che inevitabilmente comporta di desideri incoscienti, istintivi, ormai si distrugge e lo distrugge.

  Il racconto dell’avventura di Rastignac offre minor misura di fantasia poetica e di profondità metafisica ma un più spiccato vigore di realtà. Appartenente ad una famiglia provinciale, aristocratico ma squattrinato. Eugenio di Rastignac è venuto a compiere i suoi studi a Parigi. Aspira, naturalmente, a conquistare la capitale! Ora alla Pensione Vauquer, sudicia e maleodorante, nella quale ha preso alloggio, gli capita di essere testimone di un dramma che lo impressionerà per tutta la vita. Vautrin, il forzato che si nasconde tra i clienti a pensione, gli offre, purché accetti di partecipare ad una ignobile azione, la fortuna, la potenza, l’amore. Nobilmente, Eugenio rifiuta. Ma poco a poco viene rivelandosi al suo sguardo la degradazione di un altro ospite della pensione, papà Eoriot (sic), vittima di un amore spinto all’esagerazione che ha in sé qualcosa, di animale e di sublime, da lui nutrito a due sue figlie ingrate, maritate l’una, Anastasia, al conte di Rostand (sic), e l’altra Delfina — che diventerà amante di Eugenio — al barone di Nucingan (sic). Ambedue sdegnano il padre. Ma per esse — che nemmeno vogliono vederlo — egli si rovina. E alla fine muore. E certo, nel romanzo, la descrizione del sacrificio di Eoriot. della sua rovina materiale, delle sue torture morali, della sua agonia e della sua fine, vale potentemente per se stessa. Ma prende un significato ben più alto se lo si considera invece come l’episodio centrale, cruciale della storia di Rastignac. Poiché quella morte costituirà una svolta nella sua vita.

  In effetti, prima del dramma, respinge sdegnoso ogni profferta ed ogni tentazione di Vautrin. Ma lo spettacolo dell’agonia di Eoriot, delle sue esequie miserabili alle quali, insieme a Cristoforo il domestico della pensione, è solo a prendere parte, opera in lui la rivolta, la mutazione decisiva. La terra che riceve il cadavere del padre ripudiato accoglierà anche le ultime esitazioni, gli ultimi scrupoli del giovane. Quando Vautrin gli aveva esposte le sue profferte, le sue risposte erano state: «Ma rimaner fedeli alla virtù è il più sublime dei martirii. La mia giovinezza è ancora espressa come un cielo senza nubi: se per essere ricchi o potenti si tratta di mentire, di implorare, di strisciare, di adulare, di simulare, di essere complice per giungere a servire, in che cosa ne vale la pena? Ma io voglio piuttosto lavorare nobilmente e santamente giorno e notte, e non dover altro le mie fortune che al lavoro. Sarà un modo più lento di arrivare ma ogni sera la mia testa potrà riposare sul cuscino senza un rimorso. Che cosa v’è di più bello che poter contemplare la propria vita e vederla come un giglio? Io e la vita siamo come un ragazzo e la sua fidanzata». Ed ecco ora, come nel romanzo stesso, che la terra sta per accumularsi sul sarcofago di Eoriot, egli riprende contatto col mondo: «Quando i due becchini ebbero gettate le ultime palate di terra sulla bara, uno di essi, rivolgendosi a Rastignac, gli chiese — come era d’uso — la mancia. Eugenio frugò nella propria tasca e non vi rinvenne nulla, sicché fu costretto a rivolgersi a Cristoforo per venti soldi di prestito. Il fatto in sé così insignificante determinò in Rastignac un tremendo accesso di scoraggiamento.

  Cadeva il giorno, l’umidore del crepuscolo metteva i brividi nelle ossa, guardò la tomba e seppellì l’ultima lagrima della giovinezza pura, una di quelle lagrime che, cadendo sulla terra, sembrava riempissero di splendore il cielo. Incrociò quindi le braccia, contemplò le nuvole e vedendolo così chiuso in se stesso Cristoforo lo lasciò.

  Rastignac, rimasto solo, fece qualche passo verso la parte più alta del cimitero e vide Parigi tortuosamente distesa lungo le due rive della Senna. I lumi si accendevano e gli occhi si fissarono avidamente su quel tratto che dalla Piazza Vendôme si estende fino agli Invalidi. Quartiere del bel mondo nel quale vanamente si era cimentato ad entrare. Lanciò su quella specie di aiuola profumata uno sguardo che sembrò volesse in anticipo pomparne il miele e disse queste tre parole di sfida: «Ora, a Noi!».

  Quale primo atto contro la società decise quindi di recarsi dai Nucingan, ospite loro, a pranzo.

  Ecco dunque da una parte il grido di rivolta, lirico non senza una certa enfasi di un animo ancora puro e candido cui repugnano le bassezze e le turpitudini, e dall’altra nel silenzio del cimitero che turberebbe ogni esuberanza declamatoria la ferma e fredda risoluzione, condannata in una formula categorica in cui tutta l’energia di chi vuol vivere e vincere si oppone decisamente al sentimento del nulla.

  Rastignac vincerà la sua sfida. Attraverso la società, la politica, il giornalismo, gli ambienti più diversi, evolve e progredisce. All’indomani della rivoluzione del 1830 eccolo sottosegretario di Stato. Niente è più caratteristico che il racconto dei rapporti che lo legano ai Mucingan (sic). Egli è amante della donna, il complice più o meno cosciente della liquidazione del marito e — in ultimo — sposa la figlia. Nel 1830 è ministro per la seconda volta e riceve il titolo di Conte. Nel 1845 è innalzato alla dignità di Pari di Francia e possiede una rendita di 300 mila franchi, in un periodo in cui 3000 erano l’agiatezza, 30.000 la invidiata ricchezza.

  L’avventura di Eugenio di Rastignac ha provocato commenti senza fine. Balzac ha forse voluto rifare la storia di Giuliano Sorel accordando all’eroe stendhaliano la rivincita e la vittoria? Ha creduto di evocare Emilio di Girardin, fondatore della stampa ad un soldo, uno degli spiriti più intraprendenti della sua generazione? Ha pensato a Thiers, principale strumento della restaurazione di Luigi Filippo che anch’egli era nato a Marsiglia ed era salito per i diversi gradi ai supremi fastigi del potere, a Thiers che spinse l’amicizia per il Dosne e l’attaccamento per sua moglie al punto da sposarne la figlia?

  Ma se Rastignac vince la propria partita, Rubempré perde invece la propria. Perché mai? Nessuno potrebbe dirlo. Non è forse la vita da una parte una lotta e dall’altra un gioco? Luciano di Rubempré dalla natia Angoulême è venuto a divertirsi a Parigi. Bel giovane, grato alle donne, giornalista senza scrupoli, ha inizialmente il maggior successo. Ma ad un tratto il vento cambia. Coscienza malleabile e tortuosa perde la stima degli amici e si trova un bel giorno a corto di danaro. Si rivolge allora a Vautrin che se ne fa materialmente e moralmente uno schiavo e gli impone la complicità che Rastignac, coscienza assai più avveduta, aveva rifiutato. «Oh, se voi vorrete divenire mio allievo — insinua Vautrin — potrete giungere dove vorrete. Non avrete che a formulare un desiderio perché esso sia adempiuto: onori, denaro, donne tutto sarà a vostra disposizione».

  Luciano accetta il patto. E sarà la sua rovina. Che Vautrin per fare arrivare il suo protetto non guarderà ai mezzi e nemmeno a qualche assassinio in più. Scoperto, denunciato. Luciano viene considerato suo complice e chiuso nella Conciergerie. E là, mentre una volta ancora Vautrin riesce a farla franca, si impicca il 15 maggio 1830 all’età di trent’anni appena.

  Triste destino di un figlio del secolo che ha giocato e perduto, sembra suggerire Balzac.

  Ma non soltanto di un secolo, ma di quelli successivi egli doveva significare il tormento in questi arrivisti.



[1] Cfr. 1950.


Marco Stupazzoni

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