mercoledì 27 gennaio 2021



1996

 

 

 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Le Père Goriot, a cura di Ester Correzzola e di Silvia Zaquini Leotta, Brescia, Editrice La Scuola, 1996 («Classici francesi»), pp. 271.

 

  Questa nuova edizione italiana, in lingua originale, del romanzo di Balzac è presentata ai lettori priva di molte sue parti, ritenute evidentemente non significative al punto da poter essere rese attraverso sintetici riassunti.

 

 

  H. de Balzac, Le Père Goriot. Texte intégral. Appareil didactique et critique établi par E.[ric] Lehmann, Torino, Edizioni «Il Capitello», (dicembre) 1996 («Collana di classici francesi»), pp. 432. Dossier du professeur, pp. 39.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Erich Lehmann, Avant-propos, pp. 3-4;

  Le Père Goriot, pp. 5-396;

  Balzac: autour de l’œuvre, p. 397-428.

 

  Il romanzo è suddiviso in quattro capitoli titolati secondo il modello della seconda edizione Werdet pubblicata nel maggio 1835.

 

 

 

 

Edizioni bilingue.

 

 

  Honoré de Balzac, La duchessa de Langeais, a cura di Maria Grazia Porcelli. Introduzione di Francesco Fiorentino con testo a fronte, Venezia, Marsilio editore, (febbraio) 1996 («I fiori blu»), pp. 334.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Francesco Fiorentino, Introduzione, pp. 9-23. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Cronologia, pp. 25-31;

  La duchessa de Langeais. La duchesse de Langeais, pp. 33-321 ;

  Note al testo, pp. 323-334.

 

 

 

Estratti.

 

 

  Periscopio, «Il Sole 24 ore - Domenica», Milano, 11 febbraio 1996.

 

  Oggi critica non esiste più: possiamo vedere feroci attacchi da uomo a uomo, asserzioni dettate dall’invidia che non ci si degna neppure di contraddire, infami calunnie; ma scrittori solidamente istruiti, che abbiano meditato e conoscano i mezzi e le risorse dell’arte, e si diano alla critica nella lodevole intenzione di spiegare e consacrare i principi della scienza letteraria, dopo aver ben letto le opere di cui si occupano: uomini così sono ancora da trovare, e non si troveranno tanto presto. E la ragione è che leggere un’opera, renderne conto a se stessi prima di renderne conto al pubblico, cercarne i difetti nell’interesse delle Lettere e non per il tristo piacere di addolorare l’autore, è un compito che richiede più d’una giornata, anzi intere settimane.

 

  Estratto da Lettere sulla Letteratura, il Teatro e le Arti. Alla signora contessa E., in Honoré de Balzac, Scritti critici, a cura di Mario Bonfantini Milano, Feltrinelli, 1958. Il passo che abbiamo riportato fu scritto nel 1840.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il ballo di Sceaux. Traduzione di Nanda Colombo, Firenze, Passigli editore, 1996 («Biblioteca del viaggiatore», 55), pp. 78.

 

  Per la traduzione, cfr. 1960.

 

 

  Honoré de Balzac, Brillat-Savarin, in Anthelme Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto ovvero Meditazioni di gastronomia trascendente. Traduzione di Dino Provenzal. Introduzione di Jean-François Revel. Con una nota di Honoré de Balzac e le illustrazioni di Andrew Johnson, Milano, Editoriale Opportunity Book, 1996 («La Biblioteca Ideale Tascabile. Classici del pensiero», 99), pp. 13-19.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Introduzione, traduzione e note a cura di Gabriella Mezzanotte, Cinisello Balsamo (MI), Edizioni San Paolo, 1996 («Pinnacoli», 6), pp. 111.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Gabriella Mezzanotte, Introduzione, pp. 5-13. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Il colonnello Chabert, pp. 15-98;

  Cronologia della vita e delle opere di Honoré de Balzac, pp. 99-107;

  Bibliografia essenziale, pp. 108-110.

 

 

  Honoré de Balzac, La commedia del diavolo, a cura di Stefano Doglio, Faenza, Mobydick, (settembre) 1996 («Lunaria», 13), pp. 171.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Stefano Doglio, I paralipomeni della Commedia umana, pp. 7-18. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  La commedia del diavolo (1830), pp. 21-71;

  Campionario di conversazione francese (1832-1844), pp. 73-114;

  I martiri sconosciuti. Frammento del Fedone del nostro tempo (1836-1837), pp. 115-168

 

 

  Honoré de Balzac, La Commedia umana. Racconti e novelle. A cura di Paola Dècina Lombardi, Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1996 («Nuovi Oscar classici», 117-118), voll. 2, pp. 992.

 

  Cfr. 1988.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Betta. Introduzione e note di Maurice Allem. Traduzione di Ugo Dettore, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, (febbraio 1996) («I classici della BUR», 201), pp. XXXVI-521.

 

  Cfr. 1978.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Bette. Traduzione di Sara Marini. Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (agosto) 1996 («Oscar classici», 386), pp. XXIV-397.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. V-XIV. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Cronologia della vita e delle opere principali, pp. XV-XXI;

  Nota bibliografica, pp. XXIII-XXIV;

  La cugina Bette, pp. 1-389;

  Note, pp. 391-395.

 

 

  Honoré de Balzac, Il cugino Pons. Introduzione, traduzione e note di Lanfranco Binni, Milano, Garzanti Editore, (marzo) 1996 («I grandi libri Garzanti», 590), pp. LXV-321.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, pp. VI-LX. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Id., Guida bibliografica, pp. LX-LXV;

  Il cugino Pons, pp. 1-317.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Traduzione di Enza Minnella, Milano, Tascabili La Spiga, 1996 («I David», 22), pp. VIII-179.

 

 

  Honoré de Balzac, Gli impiegati. Introduzione, prefazione e note di Bruno Nacci. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Garzanti Editore, (maggio) 1996 («I grandi libri», 726), pp. XXXIII-251.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Bruno Nacci, Introduzione, pp. V-XXXII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Id., Bibliografia per «Gli impiegati», p. XXXIII;

  Gli impiegati, pp. 1-249.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. Introduzione di Maurice Allem. Traduzione di Irma Zorzi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1996 («BUR Classici», 1115), pp. 300.

 

  Cfr. 1982.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Traduzione e note di Maria Grazia Porcelli, Milano, Fabbri, 1996 («I grandi classici della letteratura straniera»), pp. 612.

 

 

  Honoré de Balzac, Un caso tenebroso. A cura di Pierluigi Pellini. Traduzione di Maria Ortiz, Palermo, Sellerio editore, (aprile) 1996 («Il gioco delle parti. Romanzi giudiziari», 4), pp. 265.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Pierluigi Pellini, Balzac e il rovescio del ‘giallo’, pp. 7-32. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Id., Nota al testo, pp. 33-35;

  Un caso tenebroso, pp. 37-246;

  Note, pp. 247-261.

 

 

  Honoré de Balzac, Un tenebroso affare. Cura e traduzione di Paolo Guzzi. Edizione integrale, Roma, Newton Compton Editori, (luglio) 1996 («Biblioteca Economica Newton. I classici», 93), pp. 187.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Paolo Guzzi, Introduzione, pp. 7-11. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Nota biobibliografica, pp. 12-21;

  Un tenebroso affare, pp. 23-186.

 

 

 

 

Traduzioni. Audiolibri.

 

 

  Honoré de Balzac, Ascolta Balzac. L’elisir di lunga vita. Facino Cane, Milano, Intermedia Audiolibri, 1996, 2 audiocassette (durata 60 minuti circa. Voci italiane: Adolfo Fenoglio per L’elisir di lunga vita; Massimo Antonio Rossi per Facino Cane).

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Leggendo Balzac, «il Resto del Carlino», Bologna, 2 novembre 1996.

 

  Mario Lavagetto [...] mette in scena una “ricerca fittizia condotta da un lettore fittizio” su un testo di Balzac, “La Grande Bretèche”. Un racconto che dà vita a una serie vertiginosa di varianti, grazie a quella “energia dell’errore” che Lavagetto riprende dalla teoria letteraria di Sklovskij.

 

 

  Grandi misfatti e piccoli dettagli, ecco le mie storie, «L’Unione sarda», 28 dicembre 1996.

 

 

  Mario Ajello, Al via i ludi cartacei, «L’Italia», n. 8, 7 marzo 1996, pp. 14-17.

 

 

  Marco Alessandrini, Rosa Maria Salerno, Narrazione, idealità, stato limite: suggestioni incrociate tra un racconto di Balzac e un caso clinico, AA.VV., Creatività, psicopatologia e arte. Comunicazioni al Convegno; a cura di Giacomo Di Marco, Bologna, Cosmopoli, 1996, pp. 25-28.

 

  Concepito, rimaneggiato e completato tra il 1827 ed il 1837, Il figlio maledetto è un racconto che rivela più di ogni altro l’universo intrapsichico soggiacente alla Comédie humaine, termine sotto il quale Honoré de Balzac raccolse e pubblicò la propria vastissima opera.

  «La prima idea della Comédie humaine», annotò Balzac nella «Propos» (sic) del 1842, «si mosse in me agli inizi come un sogno». E non a caso Etienne, «maledetto» dal padre che, ritenendolo frutto di adulterio, lo disconosce, affida il comporsi del proprio Io al «sognare» della madre (la rêverie), per la quale il figlio rappresenta «un simulacro di amante [...] il fantasma del cugino (di lei) amaro oltre la tomba». La fusione con gli elementi della natura diventerà così per Etienne la riformulazione dell’antico abbraccio con la fantasmatica maternità [...].

  È possibile interpretare il racconto di Balzac come trasposizione complessiva, in forma imagoica e perciò drammatizzata, delle componenti e delle vicissitudini costitutive della realtà psichica (o dello spazio interno) dell’Autore. [...].

  In particolare, [...] vorremmo proporre il corpo della madre, nell’accezione di luogo “abitato” dalla scena primaria (o dal fantasma arcaico) della relazionalità stadiadico-genitoriale, sia (includendovi il bambino) triadico-familiare. [...].

  [...] nel racconto di Balzac si riscontrano, tra loro contrapposti, due analoghi “assi” di significazione intrapsichica. L’uno, corporeo-pulsionale, raffigurato dal marito della madre di Etienne e dal secondogenito, Maximilien, “prediletto” dal padre (possedendo, di questo, gli stessi tratti fisici e caratteriali); l’altro, incorporeo-pulsionale, costituito dalla madre e da Etienne. [...].

 

 

  Maurice Allem, Introduzione, in Honoré de Balzac, La cugina Betta ... cit., pp. I-XXV.

 

  Cfr. 1978.

 

 

  Maurice Allem, Introduzione, in Honoré de Balzac, La pelle di zigrino ... cit., pp. V-XXVII.

 

  Cfr. 1982.

 

 

  Guido Almansi, Rodin, artista al limite della caricatura, «la Repubblica», Roma, 19 agosto 1996.

 

  [...] la scultura di Balzac è spinta fino all’estremo limite del lecito subito oltre il quale avremo una feroce caricatura del grande romanziere [...].

 

 

  Geminello Alvi, Il falsario che stupì la Francia. Legrand lo stravagante che inventò la lingua, «la Repubblica», Roma, 15 novembre 1996.

 

  Nei primi anni, mentre la scrittura era ancora incerta e più tondacea, egli condusse la vita di bel giovane alto e biondo, occupato anzitutto come Balzac dalla qualità dei suoi sarti e degli stivali.

 

 

  Brigitte Battel, Honoré de Balzac: “Louis Lambert” tra “l’ancien règle” e la “nouvelle Science”, in Il testo romantico e l’aggettivo. Studi su Nodier, Balzac, Mérimée (1830-1833), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996 («Lutetia», 1), pp. 123-157.

 

  Il presente studio su Louis Lambert di Balzac costituisce un capitolo fondamentale del corpus di ricerche che Brigitte Battei presenta in questo interessante volume, centrato sull’analisi della funzione dell’aggettivo in epoca romantica e, in particolare, sugli esiti non solo linguistici, ma stilistici e simbolici, della dialettica fra anteposizione e posposizione dell’aggettivo, vista in rapporto ai meccanismi retorici e semantici espressi dagli autori esaminati in alcune delle loro produzioni narrative. Come osserva Sergio Cigada nella sua puntuale presentazione dell’opera, la struttura superbamente moderna di Louis Lambert apre «spazi d’interpretazione semantico/stilistica veramente incisivi» (p. 6) : con il proposito di rivedere e di rivalutare l’uso che Balzac fa della lingua, a dispetto di una tradizione critica troppo frequentemente orientata a mettere sotto accusa lo scrittore, l’A. coglie la necessità di scomporre il testo del racconto balzachiano in due narrazioni, corrispondenti alle parti evocate dal je narratore (N1) e ai documenti autentici di Louis Lambert recuperati o scoperti dal narratore medesimo (N2). Nei circuiti di una significativa reversibilità che accomuna le due narrazioni, la posposizione come l’anteposizione dell’aggettivo diventano «tratti linguistici marcati» (p. 149) e l’aggettivo si presta, per la sua duttilità, a «manipolazioni proteiformi di cui Balzac non si priva» (p. 150), per impostare due discorsi paralleli e complementari, attraverso cui si realizza «la congiunzione tra codice descrittivo e codice simbolico» (p. 155) e al cui interno l’uso morfologico, lessicale e sintattico dell’aggettivo «testimonia conoscenze grammaticali tanto solide da essere manipolale per ottenere ‘effetti speciali’». (p. 156).

 

 

  Charles Baudelaire, Come si pagano i debiti quando si ha del genio, in Opere, a cura di Giuseppe Montesano e Giovanni Raboni. Introduzione di Giovanni Macchia, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996 («I Meridiani»), pp. 691-694.

 

 

  Mariolina Bertini, Misteri di stato e di famiglia, «L’Indice dei libri del mese», Torino, N. 7, Luglio 1996, p. 14.

 

  Honoré de Balzac, Un caso tenebroso, a cura di Pierluigi Pellini, Sellerio, Palermo 1996, ed orig. 1841, trad. dal francese di Maria Ortiz, pp. 261. Lit. t24.000.

 

  Il 23 settembre 1800 il senatore Clément de Ris viene rapito, da un gruppo di misteriosi banditi, nel suo castello nei pressi di Tours. Venti giorni dopo, gli agenti di Fouché – potente, astutissimo e infido ministro delia Polizia del Primo Console – riescono a liberare il senatore; tuttavia la sparatoria con i banditi, nel corso della quale avviene la liberazione, è una evidente messa in scena, tra i rapinatori e la polizia sussistono ambigue complicità, e il processo condannerà a morte come mandanti due aristocratici del luogo probabilmente del tutto estranei al fatto. Balzac ebbe modo di sentir parlare di questa oscura vicenda sin dall’infanzia: suo padre conosceva Clément de Ris e a Tours era rimasto vivo il ricordo di quel caso giudiziario così ricco di retroscena, che si era concluso con la condanna politica di due innocenti. Mutando temi e date, il romanziere pose quel drammatico e significativo episodio alla base di Un caso tenebroso; la sua spiegazione degli eventi fece di Fouché il diabolico orditore del rapimento, che avrebbe avuto lo scopo di distruggere certi documenti. compromettenti per il ministro, finiti nelle mani del senatore. Quest’edizione riprende, ritoccata, la traduzione di Maria Ortiz degli anni cinquanta, corredandola con utilissime note e con un eccellente saggio introduttivo di Pierluigi Pellini.

 

  Honoré de Balzac, Il cugino Pons, a cura di Lanfranco Binni, Garzanti, Milano 1996, ed. orig. 1847, pp. 321, Lit. 16.000.

  Honoré de Balzac, Gli impiegati, a cura di Bruno Nacci, Garzanti, Milano 1996, ed. orig. 1836, trad. dal francese di Argia Micchettoni, pp. 249, Lit. 13.000.

 

  Molto opportunamente i “Grandi Libri Garzanti” hanno aggiunto alla loro già nutrita serie balzachiana due romanzi da tempo assenti dalle librerie italiane. Il cugino Pons, capolavoro dell’ultima produzione del romanziere, è tra le sue opere più tragiche: mette in scena l’amicizia tardiva e appassionata di due vecchi musicisti. Pons e Schmucke, il cui candore si scontra con l’avidità feroce di una cerchia di parenti e vicini di casa egoisti e meschini. Intorno alla collezione di rari oggetti d’arte che Pons, da espertissimo conoscitore, ha accumulato in una vita di pazienti ricerche, si scatenano gli appetiti dei potenziali eredi, capaci di arrivare, nella loro bramosia, sino alla disumanità e al delitto. Meno celebre, e artisticamente meno significativo del Cugino Pons, Gli impiegati è a sua volta ricchissimo di elementi che meritano attenzione: sullo sfondo di un sonnacchioso ministero, ai tempi della Restaurazione, mette in scena un impiegato dal genio napoleonico, deciso a proporre una grandiosa riforma della macchina burocratica. I suoi sforzi sono però desinati a cadere nel vuoto e la sua carriera – nonostante gli intrighi di una moglie bella ed ambiziosa – naufraga nella mediocrità. Accompagnata da note adeguate, da una prefazione ben informata e da una buona bibliografia, questa edizione de Gli impiegati si può considerare molto soddisfacente.

 

  Honoré de Balzac, La duchessa di Langeais, a cura di Maria Grazia Porcelli, introd. di Franco (sic) Fiorentino, Marsilio, Venezia 1996, ed. orig. 1834, testo francese a fronte, pp. 334, Lit. 29.000.

 

  Ammirato particolarmente da Marcel Proust per il finale drammatico e ‘folgorante’. La duchessa di Langeais è forse il romanzo balzachiano più adatto a ridurre in briciole quell’immagine convenzionale di Balzac che fu negli anni sessanta il bersaglio polemico dai nouveaux romanciers: l’immagine di Balzac romanziere “tradizionale” per eccellenza. intento a perseguire, mediante diligenti descrizioni del reale, virtuosistici effetti di totale verisimiglianza. Nulla di meno “tradizionale” del trattamento imposto in questo racconto alla dimensione del tempo: assistiamo a un dramma che comincia dall’ultima scena, narrato con una tecnica “a mosaico” di sconvolgente modernità Corteggiata, negli anni della Restaurazione, da un valoroso ma ingenuo generale napoleonico, la duchessa di Langeais lo costringe nei limiti di una relazione platonica esaltante e un po’ perversa; quando l’uomo si ribellerà, ordendo contro di lei una vendetta carica di violenza, la gelida aristocratica si trasformerà in una creatura di passione, votata però alla morte e alla tragedia. L’introduzione di Franco Fiorentino evidenzia la ricchezza del testo, che è nello stesso tempo un'analisi acuta del Faubourg Saint-Germain e una sottile riflessione stendhaliana sul conflitto tra amore mondano e amour passion.

 

 

  Mariolina Bertini, Recensioni, Honoré de Balzac, “Oeuvres diverses, II”, Édition publiée, sous la direction de Pierre-Georges Castex, par Roland Chollet et René Guise avec, pour ce volume, la collaboration de Christiane Guise, 1996, («Bibliothèque de la Pléiade»), pp. 1852, «Studi Francesi. Rivista quadrimestrale», Torino, 120, Anno XL, fascicolo III, settembre-dicembre 1996, pp. 599-601.

 

  La scomparsa di Pierre-Georges Castex, avvenuta nell’autunno del 1995. è ancora troppo recente perché ci si possa occupare senza un moto di rimpianto di un’opera da lui voluta e diretta, ma non portata a compimento. È dunque ricordando con commozione il rigore, la probità intellettuale, la coerenza metodologica di questo maestro degli studi balzachiani, che mi accingo a render conto dell’edizione da lui diretta delle Oevres diverses di Balzac, edizione che occuperà, una volta completata, tre volumi della Bibliothèque de la Pléiade. Già i dodici volumi della Comédie humaine, pubblicati da Castex sempre nella Pléiade, avevano segnato, con la ricchezza e la perfezione dei loro apparati, una svolta irreversibile negli studi balzachiani; sarebbero bastati, da soli, ad assicurare al nome di questo grande studioso una vita molto lunga nella memoria delle generazioni a venire. Ma sarebbe ingiusto che l’importanza e l’immensa popolarità della Comédie humaine facessero passare in secondo piano il resto della produzione di Balzac; produzione che include testi di altissimo valore letterario e che ci offre documenti indispensabili per la conoscenza del pensiero dello scrittore. Mancava sinora, di questa produzione – esterna, certo, al progetto della Comédie humaine, ma ad esso collegata dai fili di mille affinità sotterranee, di mille segrete continuità – un’edizione veramente attendibile: le Oeuvres diverses della Pléiade – di cui sono usciti a tutt’oggi due volumi – vengono a colmare questa lacuna. Il primo volume, apparso nel ’90 a cura di Roland Chollet, René Guise e Nicole Mozet, comprendeva Les cents contes drolatiques e i Premiers essais (1818-1823); il secondo, curato ancora da Roland Chollet e dal compianto René Guise, con la collaborazione di Christiane Guise, raccoglie pamphlets, articoli e abbozzi compresi tra il ʼ24 e il ʼ34; un’imponente mole di materiali eterogenei che riserva al lettore non poche sorprese.

  Il decennio 1824-1834 è cruciale nell’esistenza di Balzac. È il periodo in cui assistiamo, scrive Castex nella sua Présentation, “à la métamorphose d’un jeune plumitif besogneux – qui cherche sa voie – en un écrivain dont les contemporains découvrent le mérite et le talent”. Seguire le tappe di questa metamorfosi implicava, per i curatori, svariati ostacoli di diversa natura. Come prima cosa, era necessario delimitare un corpus di testi sulla cui attribuzione non sussistesse alcun dubbio: operazione tutt’altro che facile, soprattutto per la produzione giornalistica, che Balzac intraprese spesso adottando pseudonimi utilizzati anche da altri. Chiariti i problemi di attribuzione, era necessario distribuire i testi in una serie di sezioni corrispondenti a fasi e momenti precisi dell’attività balzachiana. Ogni testo richiedeva infine una ricca annotazione, di volta in volta di taglio prevalentemente filologico o storico o letterario, a seconda dei casi; annotazione che non era mai stata intrapresa sistematicamente e alla quale spettava il compito di chiarire un’infinità di riferimenti a fatti e personaggi politici, teatrali e letterari spesso ben difficilmente identificabili. Le vaste competenze dei curatori hanno reso possibile questa impresa apparentemente disperata: grazie alla profonda conoscenza che Guise possedeva del romanzo storico e del teatro di Balzac (entrambi rappresentati in questo volume), grazie a quell’assoluta padronanza dei testi che fa di Chollet il maggior studioso di Balzac giornalista, le Oeuvres diverses del decennio 1824-1834 hanno trovato in questo volume il loro assetto definitivo e offrono finalmente a tutti i lettori del romanziere uno strumento incomparabile per meglio conoscerne l’opera, la vita e il pensiero.

  Abbiamo già accennato a quella che è la prima, fondamentale prerogativa di questa edizione: il vaglio rigoroso cui sono stati sottoposti tutti i testi di cui poteva esser messa in discussione (per motivi esterni o interni) la paternità balzachiana. Questa operazione di bonifica – iniziata a suo tempo da Bruce Tolley ed energicamente proseguita da Chollet nel suo fondamentale Balzac journaliste, del 1983 – ha portato, rispetto alle edizioni precedenti, a qualche esclusione: è scomparsa l’insignificante Vie de Molière, prefazione puramente compilatoria di un’edizione di Molière di cui Balzac fu, nel 1823, insieme ad alcuni librai, l’editore; alcune physiologies minori, attribuite in passato troppo generosamente alla penna di Balzac, sono state ricacciate, con giusta severità, “nelle tenebre esteriori” dell’anonimato; una pletora di brevi articoli certamente spuri che ingombravano l’edizione Conard è stata correttamente eliminata. Tuttavia questa nuova edizione delle Oeuvres diverses non si distingue certo soltanto per le soppressioni e le esclusioni. In essa trovano infatti per la prima volta una collocazione appropriata e una veste corretta testi del più grande interesse. Si veda, ad esempio, per citare un caso dei più rilevanti, l’ampio gruppo di articoli del “Feuilleton littéraire”, del 1824. È un blocco che getta luce su un periodo poco conosciuto della vita di Balzac, il periodo di crisi in cui il giovane letterato, abbandonate le certezze materialistiche dei suoi esordi, sembra esitare tra il giornalismo liberale e le seduzioni del misticismo romantico e, recensendo Walter Scott, si interroga per la prima volta, come ha scritto Chollet, “sur les conditions d’existence du roman moderne”.

  Un’altra acquisizione di grande peso è il romanzo storico incompiuto L’excommunié, del 1824, che Balzac nel 1837 fece portare a termine al suo segretario Belloy e pubblicò nelle Oeuvres complètes d’Horace de Saint-Aubin; il ritrovamento recente del manoscritto autografo ha permesso ai curatori di questa edizione di isolare e riprodurre la parte autenticamente balzachiana dell’opera, da loro giustamente inquadrata nel contesto di quella Histoire de France pittoresque che è tra i più interessanti progetti irrealizzati di Balzac.

  D’altronde, accanto a pagine note sinora soltanto ad una ristretta cerchia di specialisti, figurano in queste Oeuvres diverses testi celebri, che però il commento dei curatori colloca in una luce del tutto nuova. Si vedano, a titolo di esempio, le note che accompagnano i due enigmatici pamphlets del 1824, Du droit d’aînesse e Histoire impartiale des Jésuites: non era mai stato ricostruito in modo così esaustivo e puntuale il complesso di circostanze che conduce Balzac, nel primo di questi due opuscoli, a svolgere il ruolo più ambiguo e paradossale che si possa immaginare, quello di sostenere a scopo provocatorio, per conto dell’opposizione liberale, opinioni reazionarie che segretamente in parte condivide. Quanto all’Histoire des Jésuites, spesso liquidata come opera su commissione scarsamente personale, anch’essa si rivela, alla lettura analitica dell’annotatore, come un testo di straordinaria ricchezza: vi emergono i temi-chiave dell’energia e della volontà, e vi troviamo affermato, per la prima volta, l’assioma centrale del realismo politico balzachiano: “... lorsqu’on veut le principe, il faut vouloir les conséquences”.

  Un’altra zona di queste Oeuvres diverses in cui il commento s’impone all’attenzione del lettore per la densità e l’originalità del discorso critico che racchiude, è quella degli articoli pubblicati sulla “Caricature”. Dietro l’eterogeneità apparente di questa nebulosa di abbozzi caricaturali, di scene parigine e di racconti onirici o allucinati, le note ci additano i lineamenti precisi di un’esperienza estetica importante: facendo proprio il linguaggio effimero della satira, Balzac ne saggia l’“euforia comunicativa”, mentre d’altro canto, con qualche breve ma significativa incursione sul terreno del fantastico, dà via libera ad un aspetto del proprio talento che in seguito verrà un poco sacrificato alla preoccupazione realistica. È l’interpretazione già avanzata da Roland Chollet in Balzac Journaliste; ripresa in questa nuova sede, a stretto contatto con i testi che l’hanno ispirata, risulta ancor più convincente.

  Non è purtroppo possibile, nello spazio limitato di una recensione, segnalare tutti gli spunti innovativi che affiorano negli ampi apparati di questo volume: notiamo soltanto che di ogni sezione sono puntualmente messi a fuoco i tratti che rimandano significativamente ad altre zone dell’opera di Balzac. Tali rimandi, spesso, illuminano bruscamente un testo, rivelandone lo spessore insospettato: è il caso delle Complaintes satiriques sur les moeurs du temps présent che celano, dietro l’apparenza di un bozzetto caricaturale, la formulazione della poetica da cui nasceranno i Contes drolatiques; è il caso della Vie de La Fontaine, in cui è preannunciata, nel 1826, quella concezione dell’artista che sarà al centro dell’ammirevole Des artistes, pubblicato nel 1830 su “La Silhouette”. Da questa rete di rapprochements pazientemente tessuta dai curatori, emerge un’immagine complessiva del pensiero balzachiano in cui gli elementi di continuità tendono a prevalere e ad affermarsi al di là delle variazioni accidentali e delle fluttuazioni momentanee. Spregiudicatezza assoluta, ironia, gusto dei rovesciamenti paradossali e delle contorsioni dialettiche, disprezzo per i luoghi comuni riveriti dalle masse, fanno certo di Balzac l’incarnazione stessa dell’indipendenza, dello spirito libero irriducibile ad un’ideologia di partito. Ma questo non significa che dietro le sue analisi brillanti e caustiche del mondo contemporaneo e delle idee alla moda non vi sia che indifferenza e cinismo. Il filo rosso di una convinzione appassionata percorre l’opera saggistica di Balzac, dalla Vie de La Fontaine a Des Artistes, dagli articoli del “Feuilleton des journaux politiques” alla recensione della parte mitologica della Biographie Michaud e alla Lettre aux écrivains français du XIX siècle: è la rivendicazione dei diritti misconosciuti del lavoro intellettuale e della produzione artistica. Confuso in passato, del tutto indebitamente, con le rivendicazioni dei saintsimoniani, questo motivo cruciale è stato posto nella giusta evidenza per la prima volta dal Balzac journaliste di Roland Chollet; riconferma ora in queste pagine la propria centralità, e richiama la nostra attenzione sull’intima coerenza di un pensiero estetico e politico troppo spesso frainteso.

 

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, in Honoré de Balzac, Il cugino Pons ... cit., pp. VII-LX.

 

  Lanfranco Binni riflette su alcune tra le tematiche più rilevanti presenti nel romanzo, come il gusto di Balzac per il collezionismo e la consapevolezza del dominio assoluto del denaro, capace di trasformare la bellezza in un valore di scambio. È proprio nell’atteggiamento verso l’arte e le collezioni d’arte che si rivela la profondità del legame tra Balzac e Pons: la collezione, precisa Binni, «come mondo separato, a parte rispetto ai valori sociali correnti, come universo disinteressato (la Bellezza come valore assoluto) rispetto all'avidità mercantile che trasforma tutto, uomini e cose, in merci da comprare e da vendere, è uno strumento di separazione esistenziale da una società di cui Balzac ha ripetutamente illustrato i meccanismi disumani e spietati» (p. LVIII).

 

 

  Giorgio Bocca, Giornalisti sporchi e cattivi, «Il Venerdì di Repubblica», Roma, n° 442, 23 agosto 1996, p. 26.

 

  In calce, con il titolo: Redattori, vil razza dannata, sono riportate alcune citazioni tra le quali una appartenente a Balzac: «La stampa. Come la donna, è ammirevole quando sostiene una bugia, non vi molla finché non vi ha costretti a crederci, e mette in opera le più grandi qualità in questa lotta in cui il pubblico, stupido come il marito, soccombe sempre».

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, “Des êtres au sourire divin”: alle origini della visualizzazione proustiana della musica, in AA.VV., Studi di storia della civiltà francese. Mélanges offerta è Lionello Sozzi, Paris, Champion, 1996, Vol. II, pp. 887-907.

 

  [...]. Buon conoscitore di Balzac — che difese contro Sainte-Beuve in importanti pagine del 1909 – Proust non poteva non essersi imbattuto in un curioso passo di César Birotteau, quello in cui Balzac tenta di visualizzare la «fantaisie, grande comme un poème, qui domine le finale de la symphonie en ut mineur» di Beethoven, la Quinta [...].

  Non sono pochi gli elementi che da questa trascrizione visiva di Beethoven trasmigreranno — un po’ smaterializzati — nell’elaborato caleidoscopio d’immagini con cui Proust cerca di suggerire al suo lettore l’incanto peculiare della musica di Vinteuil.

  Se la pagina balzachiana si apre con l’apparizione di una fata e della sua bacchetta, anche in Proust immagini d’incantamento circondano il manifestarsi di quella particolare magia che è la musica di Vinteuil. Agli occhi di Swann gli strumentisti paiono non tanto suonare la petite phrase, quanto eseguire i riti e procedere agli incantesimi necessari alla sua apparizione. E il narratore poi, quando, nella Prisonnière, riconosce la misteriosa parentela che intercorre tra il Septuor e la sonata di Vinteuil, è proprio alla metafora dell’«apparition magique» che ricorre, riallacciandosi a quelle Mille e una notte che tanto spesso avevano ispirato l’autore della Comédie humaine [...].

  Balzac parla di «rideaux de soie pourpre que des anges relèvent», ed è proprio al colore rosso, evocante le prime luci del mattino, che Proust ricorrerà nella Prisonnière per caratterizzare l’opera inedita di Vinteuil, il Septuor. Esso racchiude la «promesse empourprée de l’Aurore», anche per Proust legata a ineffabili presenze angeliche; la musica è infatti paragonata dal narratore della Recherche al linguaggio degli angeli ed è ancora un’evocazione di immagini angeliche a fornire forse la più suggestiva sintesi delle differenze tra la sonata e il Septuor.

  Quanto alle creature «dal sorriso divino», fluttuanti per lo swedenborghiano Balzac sulle onde della musica beethoveniana, le vediamo riemergere nelle pagine proustiane là dove la petite phrase assume per Swann sembianze femminili; e ancor più nella Prisonnière, nel passo da noi già citato dove la stessa petite phrase riveste veli argentei davanti allo sguardo abbagliato di Marcel. Ancora una volta, in trasparenza dietro alla Recherche, si profila il modello balzachiano, con la sua ricchezza, la sua vitalità, l’inesauribile molteplicità delle sue prospettive diverse. Uno stormo di angeli musicanti attraversa i cieli della Comédie humaine per approdare alla patria sconosciuta di Vinteuil, tra i colori d’aurora e di tempesta che annunciano lo splendore inquietante dell’«eterno mattino».

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Un raggio di sole da Balzac a Proust, «Micromégas», Roma, 63, Anno XXIII, n. 1, Gennaio-Giugno, 1996, pp. 29-32.

 

 L’A. riflette sugli assunti espressi da Lucette Finas nel suo importante studio: Le Toucher du rayon. Proust. Vautrin. Antinoüs (Paris, Nizet, 1995) e sottolinea, alla luce delle analisi condotte sulla natura di una metafora – il “rayon” –, il ruolo assolutamente centrale incarnato da Vautrin nelle pagine del Contre Sainte-Beuve proustiano, che, proprio grazie all’immagine del raggio di luce, riflette la figura del suo creatore, penetrando nell’immaginario di Proust, «lettore e scrittore ad un tempo» (p. 32).

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Figure del desiderio: dalla “Fille aux yeux d’or” alla “Recherche”, in Proust e la teoria del romanzo, Torino, Bollati Boringhieri, 1996 («Saggi Studio»), pp. 207-227.

 

  Cfr. 1983.

 

 

  Affreschi in miniature: Balzac in Proust, Ibid., pp. 227-240.

 

  Cfr. 1990.

 

 

  “Des êtres au sourire divin”: Balzac, Proust e la musica, Ibid., pp. 241-259.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, in Honoré de Balzac, La cugina Bette ... cit., pp. V-XIV.

 

  [...]. Lisbeth sin dall’infanzia è divorata dall’invidia per la bella cugina Adeline, che ha sposato Hector Hulot, un brillante funzionario dell’Impero, cui Napoleone ha conferito il titolo di barone. I primi anni di matrimonio di Adeline e Hector sono stati molto felici. Dal tramonto dell’Impero in poi, però, Hulot si è messo «in servizio attivo presso le donne»; ha così dissipato buona parte del suo patrimonio con attrici e cortigiane, insieme al suo inseparabile compagno di bagordi, il profumiere arricchito Crevel. Siamo nel 1838: nella prima scena del romanzo vediamo il goffo Crevel, degradata caricatura del libertino settecentesco, tentar di sedurre l’angelica Adeline, per vendicarsi di Hulot che gli ha portato via l’amante, una cantante. Tra un marito libertino e un corteggiatore indesiderato, Adeline si trova in una situazione spiacevolissima; ignora però chi sia la sua più terribile nemica, che sogna di vederla rovinata e infelice. E la cugina Bette, che lei stessa ha fatto venire a Parigi e di cui ignora l’ostinato, segreto rancore.

  Rancore che si esaspera ulteriormente in seguito a un episodio che convince Bette di essere l’innocente vittima dei suoi parenti più ricchi e fortunati: uno scultore polacco protetto maternamente da Bette, che nutre per lui un amore possessivo e un po’ fanatico, si innamora della bella figlia di Adeline, Hortense, e la sposa. L’invidia di Bette si trasforma, a questo punto, in una micidiale mistura di rancore, gelosia e mania di persecuzione: per ridurre in miseria gli Hulot la zitella non esiterà di fronte a nulla. Complice e strumento della sua vendetta diventa una vicina di casa, Valérie Marneffe, il prototipo della parigina scaltra che sa trarre profitto dalla propria bellezza, valersi come paravento di un marito spregevole e infine convincere ciascuno dei suoi numerosi amanti di essere il preferito, l’«amante del cuore». Bette trasferisce su Valérie l’affetto appassionato che provava per il suo scultore e ne diviene l’anima nera; la spinge a rovinare Hulot, a seminare zizzania tra il giovane artista e Hortense e finalmente, rimasta vedova, a farsi sposare da Crevel. Questi priverà così della sperata eredità a propria figlia, Célestine, che ha sposato Victorin Hulot, figlio degenere, in quanto onesto e addirittura un po’ puritano, del barone Hulot. Nel frattempo il barone, nel tentativo di ricostituire il proprio patrimonio, manda uno zio della moglie a speculare sulle forniture militari in Algeria e quando il poveretto, in seguito a uno scandalo, si uccide in prigione, si allontana dalla famiglia, sopraffatto dalla vergogna, e cade sempre più in basso. 

  Mantenuto prima da una sua antica amante, più tardi da Bette, che si compiace malignamente della sua degradazione, Hulot si riduce a una larva d’uomo: convive con una piccola ricamatrice, viene sfruttato da intere famiglie di miserabili senza scrupoli e finisce per guadagnarsi la vita come scrivano pubblico in un passage, confortato da una quindicenne vendutagli dai genitori. A questo punto interviene una potenza misteriosa che impedisce alla sfrontata Valérie di trionfare definitivamente; è la terribile madame de Saint-Estève, zia dell’ex ergastolano Vautrin divenuto, dopo una carriera movimentata, capo della Sûreté, la polizia di sicurezza. Lo strumento di cui si vale la Saint-Estève è un amante deluso di Valérie Marneffe, un brasiliano spietato e vendicativo che riesce a trasmettere a Valérie una rara malattia tropicale. Valérie e l’ambizioso Crevel, che l’ha sposata e si prepara a divenire pari di Francia, muoiono fra atroci tormenti; Hulot, apparentemente ravveduto, viene ricondotto a casa dalla moglie; Bette muore di tisi, e il pensiero che l’odiata Adeline possa essere di nuovo felice affretta e rende più amara la sua fine. Ma Hulot si rivela incorreggibile: la sua ultima avventura con una sguattera, che promette di sposare, augurandosi con odioso cinismo la morte della moglie, sarà fatale ad Adeline.

  Il finale da cui è esclusa ogni consolazione ci ricorda che La cugina Bette non è soltanto la storia di una famiglia, ma il ritratto di una società intera che reca in sé, secondo Balzac, i germi del proprio disfacimento. Come potrà un’aristocrazia che esprime individui deboli e corrotti come Hulot, insieme a una borghesia che ha il suo rappresentante tipico nel vanaglorioso Crevel, far fronte all’implacabile risentimento che le classi povere vanno maturando, ogni giorno di più, nei confronti dei ceti privilegiati? Di questo risentimento Lisbeth Fischer, con tutta la sua minacciosa energia repressa, è una sorta d’inquietante personificazione; davanti al lettore che intuisce la sua grandezza si staglia come un monumento sinistro sulla soglia di un’epoca di sanguinose lotte sociali, promettendo violenza e distruzione a un mondo corrotto che merita sino in fondo il proprio destino.

  Non è difficile comprendere il travolgente successo che accolse, nel 1846, La cugina Bette se si considera il fascino, tutto particolare, di questa «scena della vita parigina»: è un fascino in cui confluiscono da un lato la psicologia balzachiana, con le sue geniali intuizioni fisiognomiche e la sua attenzione alla concretezza storica dei vari “tipi", e dall’altro la tecnica del feuilleton, con i suoi ritmi narrami serrati e incalzanti.

  Se con la sua Storia dei Tredici ( 1833-35) Balzac aveva fornito ai vari Sue, Dumas, Soulié, Féval un repertorio non trascurabile di superuomini vendicativi, rapimenti, veleni misteriosi ed esplorazioni dei bassifondi, nella Cugina Bette non esita ad attingere a sua volta all’universo mitologico, ormai codificato, del feuilleton: il brasiliano che causa la morte della Marneffe è strettamente imparentato con gli eroi di Sue e l’onnipotenza dell’orribile Saint-Esrève ricorda quella del Conte di Montecristo e di tutti i suoi emuli. Ma l’elemento fantastico e avventuroso del romanzo si intreccia strettamente e solidamente a un elemento storico, concreto, reale. Se consideriamo i luoghi del racconto, per esempio, li troviamo evocati senza veristica pedanteria ma con estrema precisione: dal vicolo du Doyenné, il cui squallore contrasta scandalosamente con gli splendori del vicino Louvre, alla Petite Pologne, con i suoi miserabili passages, privi di aria e di luce. Non meno significativi, e in qualche modo tangibili, sono gli interni in cui si snoda la vicenda, dall’appartamento degli Hulot, dove i tappeti sbiaditi e le dorature scrostate tradiscono uno splendore ormai declinante, alla camera da letto di Valérie Marneffe, la cortigiana piccolo-borghese il cui marito sogna di diventare capufficio in un ministero. Il risultato di questa commistione di reale e di fantastico è un’immagine di Parigi ricca di elementi storici, ma anche miticamente trasfigurata, trasformata in un crogiuolo di tutti i vizi e di tutte le passioni, in un labirinto in cui un uomo può far perdere per anni le proprie tracce, in un viluppo inestricabile e affascinante di miserie e di splendori.

  È questo viluppo, questo labirinto in cui trovano il loro humus tutte le forme di prostituzione, la vera passione che trascina il barone Hulot lontano dalla sua famiglia, dalla moglie nobile e innamorata, da una vita decorosa e tranquilla. A Valérie, la parigina per eccellenza, che nel suo genere è la perfezione, non può succedere una rivale qualsiasi: la sola rivale degna di lei nei sensi e nel cuore di Hulot è Parigi, la città che crea le Marneffe, che le rende seducenti e pericolose, che le inizia ai trucchi e ai misteri dell’«amore moderno». È a questa rivale a che Adeline dovrà contendere il marito, percorrendo, come un angelo intrepido, i sobborghi più malfamati. Nel sinistro passage du Soleil, Hulot, divenuto scrivano, vive con una quindicenne comprata per pochi soldi: ha raggiunto la sua vera meta, si è dissolto nel fango di Parigi come una goccia nel mare. Il «padre prodigo» che Adeline riconduce a casa non è che l’ombra di Hulot, un automa, un simulacro: alla sua ultima, meccanica trasgressione, corrisponderà l’estrema punizione, quando, dopo la morte di Adeline, verrà trascinato lontano a da Parigi dalla sguattera che diventerà la sua seconda moglie. Gli esegeti della Cugina Bette si sono spesso soffermati sull’atroce punizione inflitta da Balzac a Valérie Marneffe che a assiste, da viva, al decomporsi della propria bellezza; nessuno ha riflettuto però sulla condanna di Hulot che, per quanto non venga presentata come tale, non è forse meno atroce. Fra gli splendori dell’Opéra o nell’alcova dalle tende gialle di Valérie, nel laboratorio della piccola ricamatrice Bijou o nella penombra del passage du Soleil, Hulot ha vissuto della vita stessa di Parigi: lontano da Parigi non è difficile prevedere che morirà presto, o sprofonderà nei melanconici limbi di una rassegnata imbecillità. Gli sopravviverà, per fare nuove vittime, il vero oggetto della sua inesauribile passione: Parigi, la città d’oro e di fango, la vera protagonista della Cugina Bette e di gran parte in della Commedia umana.

 

 

  Antonella Boralevi, Balzac il seduttore che val bene un fumetto, «Il Messaggero di Roma», Roma, Anno 118, N. 144, 27 maggio 1996, p. 15; 1 ill.

 

  Con tutte le ragioni, il fumetto si è innamorato di Balzac. E si capisce: romanziere con una vita che pare tratta dai suoi romanzi, Balzac è un eroe perfetto, pronto all’uso e generoso di storie, proprie e altrui. Senza un soldo fino a trent’anni, cattivo studente in Legge, disperazione del bravo borghese che era suo padre, poi scrivano da un avvocaticchio, poi giornalista, tipografo, commerciante senza fortuna; però bruciato dall’ambizione, sicuro di essere un genio e finalmente premiato dalla sorte e dalla tenacia con un romanzone storico a battezzarne il trionfo; e poi le donne, il gioco, le scommesse, le notti brave, i debiti, la malattia: e in mezzo diciassette anni di un amore contrastato e tormentatissimo.

  Una bella mostra, che i Musei Parigini hanno allestito nelle stanze, piccole e profumate di rose, della casetta modesta dove ha scritto quasi tutta la Commedia Umana (adesso pomposamente Casa Balzac, museo e fondazione nella rue Raynouard, a Passy) racconta di questo amore. Si intitola “Balzac a fumetti”.

  Passato lo sconcerto, si trova più che naturale il saccheggio che, a partire dagli anni Cinquanta e fino al Sessantotto passato, gli sceneggiatori e i disegnatori hanno fatto dei personaggi e dell’autore. Da “L’Humanité” a “L’Aurore”, a “Paris-Jour” a “Ce Soir”, non c’era quotidiano che non avesse la striscia Balzac; e spesso il favore del pubblico fu così smodato, da indurre i direttori a riservare alla Cugina Betta, al Cugino Pons. a Papà Goriot, al Colonnello Chabert intere paginate di strisce: assai vivaci, piuttosto ben disegnate, come documenta la mostra.

  A Balzac toccò anche la sorte di vedersi raccontato lui stesso in striscia e fu “France-Soir” a inventare il più celebre dei feuilleton, nel 1962. con il titolo inequivoco di Balzac e le donne. Secondo i curatori della mostra, le vicende sono verissime, i baci, gli intrighi, gli amoretti e gli amorazzi rigorosamente documentati. Si vede un omone grasso, con una pancia spropositata che certo doveva essergli di qualche ingombro, nell’amore, sullo sfondo di letti di damasco con pesanti cortine di velluto; si leggono più che altro battute come sospiri «ah! oh! voi? Signore!».

  Assai più interessante è il nuovissimo Balzac a fumetti da poco uscito presso Glénat, firmato da Jean Dufaux e Joëlle Savey. L’intrigo, accattivante, mette il moribondo Balzac, appena sposato alla grifagna madame Hanska, la polacca che è stata l’amore della vita, dentro un incubo letterario, e gli fa incontrare tutti i suoi personaggi, proiettandolo dentro le sue storie più celebri, accanto all’amante tradita, al gentiluomo con la doppia famiglia, ai parenti assassini.

  Il libro, molto ben disegnato, si vende assai bene. Per dare conto delle atmosfere del Balzac a fumetti, la mostra dispone le strisce con gli eroi in marsina, le dame molto scollate, le scene rutilanti di balli a palazzo, accanto a quelle di Superman: come accadeva, di fatto, sulle pagine dei giornali. Il plot balzachiano si conferma il più interessante.

 

 

  Annie Brudo, Langage et représentation dans “Vautrin”, «Quaderno di Francesistica», 10, Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo, 1996, pp. 8-15. AB 97

 

  L’A. conduce una puntuale analisi della pièce balzachiana mostrando, da un lato, i difetti di una «écriture théâtrale qui n’a visiblement pas su se dépetrer des procédés propres à l’écriture romanesque», ma rivalutando, allo stesso tempo, «quelques morceaux de bravoure et certaines scènes» che «atteignent une haute intensité dramatique».

 

 

  Pierre Brunel, Balzac et l’Italie, in AA.VV., L’Italie dans l'Europe romantique. Confronti letterari e musicali, a cura di Annarosa Poli e Emanuele Kanceff, Moncalieri, C.I.R.V.I., 1996 («Civilisation de l’Europe», 1), Vol. I, pp. 227-248.

 

  L’A. studia i rapporti che legarono Balzac all’Italia, considerando l’immagine che, della Penisola, lo scrittore ha fornito non solo nelle opere posteriori al 1837, ma in quelle antecedenti, caratterizzate, queste ultime, da assunti marcatamente stereotipati e critici. In testi quali Sarrasine, Les Marana, Facino Cane, Balzac si mostra «tributaire de clichés, de préjugés et de sa propre imagination quand il se laisse aller à la peinte de la rêverie italienne» (p. 166). Le esperienze italiane di Balzac a partire dal 1836 — 1837 rispondono, secondo Brunel, a esigenze eminentemente artistiche e permettono al romanziere di acquisire una conoscenza diretta e autentica della civiltà italiana, nei suoi aspetti culturali, artistici e politici, i cui riflessi, in opere importanti come Massimilla Doni e Gambara, rendono conto pienamente di questa profonda conversione balzachiana che si arricchisce di nuova, positiva e fervente luce e modifica il valore di un mito, quello italiano, fino ad allora connotato di valenze negative.

 

 

  Tilmann Buddensieg, Watteau e Balzac. Dal commercio come felicità terrena al commercio come bancarotta di tutti i valori, in AA.VV., Storia d’Europa. Volume Quinto. L’età contemporanea. Secoli XIX-XX. A cura di Paul Bairoch e Eric J. Hobsbawm, Torino, Giulio Einaudi editore, 1996, pp. 1231-1234.

 

 

  Katia Cacciari, “La Femme de trente ans” di Honoré de Balzac nelle due traduzioni italiane. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Franca Zanelli Quarantini, Università degli studi di Bologna, Dipartimento di Lingue e letterature straniere, Anno accademico 1995-1996, pp. 132.

 

 

  Giacomo Caielli, Una mostra a Parigi su Balzac editore di se stesso, «il Giornale», Milano, 17 febbraio 1996.

 

 

  Laura Cattaneo, Il Fenomeno dell’Alterazione in italiano e in francese attraverso l’analisi contrastava di “Eugénie Grandet” di Honoré de Balzac e delle traduzioni italiane. Tesi di laurea. Relatore: prof. Sergio Cigada, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Lettere, 1996.

 

 

  Ottavio Cecchi, E l’eroina va a morire tra le pagine, «l’Unità», Roma, 29 giugno 1996.

 

 

  Michele Coccia, Facino Cane. Un seminario d’“autrefois”, «Micromégas», Roma, 63, Anno XXIII, n. 1, Gennaio-Giugno 1996, pp. 23-28.

 

  Si tratta della pubblicazione di pagine di una ricerca svolta nel lontano Anno accademico 1948-1949, sotto la guida di Pietro Paolo Trompeo, riguardante il confronto tra la fuga dell’avventuriero Casanova dai Piombi di Venezia e quella dai Pozzi descritta da Balzac nella novella Facino Cane.

 

 

  Fausto Curi, Mito e romanzo. II. Balzac e Flaubert, in La scrittura e la morte di Dio. Letteratura, mito, psicanalisi, Roma-Bari, Laterza editori, 1996 («Biblioteca di cultura»), pp. 77-90.

 

 

  Antonio Debenedetti, Balzac polemico. La Parigi 1800: quanti dubbi sulla giustizia, «Corriere della Sera», Milano, 23 settembre 1996, p. 29.

 

  «La polizia e i Gesuiti hanno la virtù di non abbandonare mai né i loro amici né i loro nemici» scrive Honoré de Balzac in un suo furente, aggrovigliato ma geniale romanzo, pubblicato in piena stagione feuilletonistica col titolo «Une ténébreuse affaire» e riproposto in Italia (dove è pochissimo noto) con il titolo Un caso tenebroso. Alle sentenze epigrammatiche si alternano, a getto continuo, battute sferzanti: «La moda degli abiti a coda di merluzzo è durata quasi 10 anni, quasi quanto l’impero di Napoleone». Oppure, con sarcasmo eccitato dall’irriducibile dissenso politico. Balzac non esita a affermare: «Napoleone lusingava gli interessi, le sanità, le persone, le cose ... perfino i ricordi».

  «Monarchico, clericale e reazionario», come ricorda il prefatore Pierluigi Pellegrini (sic), Balzac scrisse Un caso tenebroso negli ultimi mesi del 1840. Il successo della narrativa popolare alla Eugène Sue insidiava la sua fortuna letteraria. Così, mettendo a frutto l’ostinata avversione verso i valori imposti dalla Rivoluzione del 1789 e dando sfogo a un’irriducibile diffidenza nei confronti della «modernità borghese», progetta una serie di romanzi dedicati alle «Scene della vita politica» e pubblica su «Commerce» Un caso tenebroso.

  Nella vicenda, dove l’innocenza impotente soffre eccitando la complice passione del lettore, scorre molto sangue. Motore dell’ispirazione è un fatto vero. Un consigliere di Stato, il senatore Clément de Ris. viene rapito da un commando di 6 briganti. Del crimine, di cui si occupa il famoso ministro di Polizia Fouché, verrà ingiustamente accusata una famiglia di aristocratici. Non basta. La congiura anti-napoleonica costata la vita al duca di Enghien, un processo descritto dall’autore in modo da far dubitare della giustizia, offrono altra, densissima materia al racconto.

  Ma quale, di che tipo è il rapporto con i fatti che l’autore viene cogliendo nel grembo della realtà storica? Giovanni Macchia. nel libro Le rovine di Parigi, osservava assai giustamente: «Se nella sua prima produzione (Balzac) si affidava all’immaginario per arrivare alla realtà, si affiderà poi alla realtà per scoprire l’immaginario». È quanto accade in queste pagine. Una citazione a parte meritano gli straordinari ritratti — tali da suggerire non di rado l’accostamento a Daumier — proposti con grande generosità da Balzac. Bastino, a titolo di esempio, queste righe dedicate a Fouché: «Si formò nelle tempeste. S’innalzò, durante il Direttorio, all’altezza da cui gli uomini profondi sanno prevedere l’avvenire giudicando dal passato, poi a un tratto, come certi attori mediocri che diventano eccellenti illuminati da una luce improvvisa, diede prova di abilità». Una considerazione s’impone davanti a questo romanzo genialmente provocatorio. La faziosità, che sarebbe intollerabile nello storico, diventa nell’artista, nel romanziere che fu Balzac dono di poesia, luce di grandezza.

 

 

  Andrea Del Lungo, Poétique, évolution et mouvement des incipit balzaciens, in AA.VV., Balzac. Une poétique du roman (sous la direction de Stéphane Vachon), Saint-Denis, Presses Universitaires de Vincennes, 1996 («Collection Documenta»), pp. 29-41.

 

  L’A. studia la funzione degli incipit nelle loro dimensioni e funzioni variabili e diverse, sottolineando il loro ruolo determinante per quel che riguarda il gioco di rinvii da un testo all’altro della Comédie humaine.

 

 

  Luigi Derla, Tre destini di artisti nella “Comédie humaine”, «L'Analisi linguistica e letteraria», Milano, Anno IV, 2, 1996, pp. 365-386.

 

  Nella prefazione alla prima edizione de La Peau de chagrin (1831), Balzac, dopo aver analizzato i tratti del talent letterario, postula per sé un grado superiore di conoscenza, a cui sono peculiari facoltà che la scienza può difficilmente spiegare perché proprie del génie letterario. Ci riferiamo a quella seconde vue che, per riprendere le parole dello scrittore, permette di «deviner la vérité dans toutes les situations possibles», una sorta di intuizione analitico-deduttiva che, fondandosi su un atto intellettuale, permette all’artista di «inventer le vrai par analogie». Da questo punto di vista, la storia di Frenhofer nel Chef-d’oeuvre inconnu, di Sarrasine e, all’opposto, di Pierre Grassou possono essere considerate come punti di riferimento esemplari di quella costante riflessione di Balzac sull’arte (e non solo narrativa) e sulle tematiche implicite nel rapporto tra genio, realtà (o natura) e follia. Nel mostrare come l’interesse di questi racconti risieda principalmente «nelle passioni dei personaggi e nell’interpretazione filosofica che Balzac ce ne propone» (p. 382), Derla analizza quel processo di «trasmutazione dei valori estetici» (p. 381) che, da un lato, determinano, in Frenhofer e in Sarrasine, il recedere dell’opera d’arte a «segno feticizzato» e, dall’altro, in Pierre Grassou, la sua trasformazione da prodotto artistico a semplice valore di scambio.

 

 

  Stefano Doglio, I paralipomeni della Commedia umana, in Honoré De Balzac, La commedia del diavolo ... cit., pp. 7-18.

 

  Tra le costanti più rilevanti e significative della scrittura progettuale di Balzac, v’è quella di presentare, soprattutto nelle prefazioni ai romanzi o alle scene della Comédie humaine, opere ancora in cantiere o soltanto immaginate nella mente dell’autore, alcune delle quali non verranno mai alla luce. Molti di questi testi sono ancora presenti nel Catalogue del 1845, ma alcuni di essi non furono integrati da Balzac al grand édifice della Comédie humaine. Tre di questi “scarti di produzione”: La Comédie du diable (1830), scritta in collaborazione con Frédéric Soulié, l’Echantillon de causerie française (1832-1844) e i Martyrs ignorés (1836-1937), sono testi dalle tematiche differenti, ma che presentano, «un certo interesse di studio, rivolti come sono tutti e tre alla ricerca di nuovi rapporti tra narrazione e dialogo, in quel connubio di scrittura narrativa e scrittura teatrale che, per quanto riguarda Balzac, ha toccato il culmine nel 1836 con Les Employés» (p. 9).

 

 

  Pino Farinotti, Il Colonnello Chabert, in Dizionario di tutti i film, con la collaborazione di Tiziano Sossi, Giancarlo Zappoli, coordinamento editoriale: Attilio Trentini, Gallarate, Esedra, 1996, p. 333.

 

  Eugenia Grandet, Ibid., p. 523;

 

  Papà Goriot, Ibid., p. 1019;

 

  La ragazza dagli occhi d’oro, Ibid., p. 1163.

 

 

  Francesco Fiorentino, Introduzione, in Honoré de Balzac, La duchessa de Langeais ... cit., pp. 9-23.

 

  Francesco Fiorentino, nel rilevare che La duchessa de Langeais «nasce a ridosso e porta i segni di una delusione politica e amorosa, decisive per Balzac» (p. 9), ricostruisce con minuzia le origini storiche della novella e, in particolare, quelle più intimamente legate al personaggio della duchessa, anche alla luce delle vicende biografiche dell’autore. L’analisi di Fiorentino pone anzitutto l’accento sulla complementarietà, nel romanzo, tra il tema politico e quello erotico, perfettamente rispondente ad un ideale che trova, nell’atmosfera dei salotti francesi degli anni trenta, il proprio terreno di elezione; un ambiente, precisa Fiorentino, in cui «si annodano amori eleganti e al tempo stesso viene cooptata una aristocrazia dello spirito da parte di una aristocrazia ereditaria» (p. 14). Dalle vicende amorose tra i due protagonisti, scaturisce l’immagine di due modelli erotici e politici fortemente contrapposti, che si fronteggiano, come in guerra, in una dimensione di totale incomunicabilità: da un lato, l’energica nobiltà napoleonica e la frustrazione di Montriveau, dall’altro, l’esangue aristocrazia legittimista della duchessa, il cui codice erotico, definito amore mondano, «si contraddistingue per una totale padronanza dei codici comunicativi e per una grave inibizione al contatto corporeo» (p. 17). Il potere aggressivo e sadico del desiderio, che si spinge fino all’ossessiva volontà di distruggere il corpo dell’amata, si collega inoltre strettamente al tema della disparizione del corpo che accomuna, in misura diversa, i tre romanzi dell’Histoire des Treize: questa forza distruttiva del desiderio, di cui è consapevole la stessa duchessa, non si manifesta soltanto nella storia narrata, ma, «ancor più nell’amore mondano, orienta le forme stesse della narrazione» (p. 21), generando, nel testo, due ordini metaforici, quello militare e quello bestiale, che, celebrando l’istinto contro il rispetto della persona e della socialità, nascondono un sistema di forze inautentiche, fobiche e minacciose.

 

 

  Francesco Fiorentino, Comédie littéraire, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XIII, N° 5, Maggio 1996, p. 54.

 

  Il secondo volume delle Oeuvres diverses, pubblicato nella “Bibliothèque de la Pléiade” a seguito dei dodici volumi dell’edizione della Comédie humaine, diretta dal compianto Pierre-Georges Castex, rappresenta la risposta finalmente adeguata a un’attesa che nella critica balzachiana durava da circa centocinquant’anni. Da quando, all’indomani della morte di Balzac, Dutacq, suo esecutore letterario, aveva iniziato a cercare, in riviste per lo più scomparse senza lasciare molte tracce, quel patrimonio di articoli di costume, di trattati di divulgazione, di saggi politici e letterari, che il grande scrittore aveva lasciato dietro di sé quasi sempre anonimi, senza avere né il tempo né la voglia di riconoscerli e raccoglierli. La ricerca fu ripresa dal visconte de Lovenjoul e dall’editore Lévy con altrettanta passione ma purtroppo anche con altrettanta disinvoltura filologica.

  Come risultato di tutte queste indagini si era stabilita una tradizione erronea, perpetuata da varie edizioni, e il mistero si era infittito su queste opere diverse, in mezzo alle quali erano finiti numerosi pezzi spuri, che gettavano una luce falsa anche su quelli autentici. René Guise, nel frattempo prematuramente scomparso, e Roland Chollet, il cui fondamentale studio su Balzac journaliste (1983) ha costituito il momento decisivo di questa ricerca, ci hanno adesso consegnato un corpus certo, raramente scegliendo di aggiungere testi a quelli già conosciuti, espungendone in compenso molti e relegando in un carattere più piccolo i testi attribuibili a Balzac con una dose maggiore d’incertezza. Con presentazioni e note sempre pertinenti, puntuali e documentatissime, sono riusciti a illustrare il significato di ogni opera, connettendola sia al suo contesto (alla sede e al momento della pubblicazione) sia all’insieme della produzione balzachiana.

  Non viene illuminata soltanto l’intera opera di Balzac, ma anche una parte essenziale — e spesso meno conosciuta — della vita intellettuale nella Francia della Restaurazione e di Luigi Filippo.

  Questo volume comprende, distribuiti in tre parti, scritti balzachiani che vanno dal 1824 al 1834 (è previsto, a complemento, un terzo volume). Appartengono alla prima parte, oltre a Du Droit d’Aînesse (probabilmente scritto per provocazione politica), all’Histoire impartiale des jésuites (in cui il giovane liberale mostra una singolare ammirazione per la Compagnia) e ad alcuni dei Codici più chiaramente balzachiani, anche gli articoli pubblicati nel “Feuilleton littéraire”, così finalmente più accessibili agli studiosi, nei quali il giovane romanziere riflette sul romanzo e in particolare sull’opera rivoluzionaria di Walter Scott. Quello degli esordi costituiva forse il periodo più misterioso da ricostruire, per via della scarsità delle fonti e dell’eterogeneità dell’ambiente che gli fa da sfondo (giovani letterati ambiziosi e pronti a tutto, rivistine effimere).

  La seconda parte è dedicata alla produzione giornalistica apparsa intorno al 1830, quando Balzac, a cavallo della Rivoluzione, entra nella holding editoriale dello spregiudicato Girardin, che, diversificando le offerte, si ripromette di conquistare un pubblico variamente orientato. Così Balzac collabora contemporaneamente alla “Mode”, schierata con i legittimisti, alla “Silhouette”, d’orientamento repubblicano, al “Feuilleton des journaux politiques”, tribuna dei saint-simoniani dissidenti, a “Le Voleur”, di tendenza liberale. A ragione Chollet parla di uno stile di Balzac relativo a ogni testata, ma con altrettanta ragione mostra, a dispetto delle diverse sedi in cui apparvero, l’intima coerenza di queste riflessioni letterarie e politiche, tutte incentrate sulla difesa dei diritti dell’artista nella società borghese. È in questi anni di svolta che nasce il grande Balzac.

  Nella terza parte sono raccolti gli scritti politici apparsi nella stampa legittimista: l’adesione di Balzac al partito ultras fu, come si sa, spesso insofferente. Ma non fu solo dettata da snobismo e ambizione personale. Il partito legittimista gli parve quello più disponibile a tutelare le diseguaglianze naturali, e quindi gli artisti, ai suoi occhi le vere eminenze della nuova società.

  Non soltanto gli appassionati balzachiani, ma anche chi s’interessa della cultura francese dell’epoca, oppure di storia e teoria del romanzo, resterà ammirato nel constatare fino a che punto gli scritti pubblicati siano tutti di grande interesse (Chollet ha giustamente escluso una Vita di Molière, appunto perché non lo era). Il genio di Balzac si rivela ancora una volta prodigioso, inesauribile. In particolare colpiscono alcuni scritti — come De l’État actuel de la librairie, Des Artistes, Lettres sur Paris — che contengono una straordinaria e sorprendente riflessione sul ruolo degli artisti nella “modernità” (Balzac è il primo a scrivere questa parola in francese). La constatazione delle contraddizioni di una società fondata sulla proprietà che però non tutela quella letteraria, su regole di mercato che però nell’editoria penalizzano sia i produttori che i consumatori, lo induce ad affrontare coraggiosamente il problema della commercializzazione della letteratura: l’arte gli appare un prodotto inserito in un circuito commerciale perverso. “Fare riconoscere dalla società il potere del pensiero” equivale a impegnarsi per la tutela economica e legale dei diritti degli artisti.

  A differenza dei saint-simoniani che attribuivano ai letterati il ruolo di guida nel progresso della nazione, Balzac rivendica l’autonomia dell’artista che non ha lezioni morali da impartire. Viene reclamato il suo diritto all’inconseguenza, all’ozio, al lusso, allo spreco. “Ogni uomo dotato dal lavoro, o dalla natura, del potere di creare, non dovrebbe mai dimenticare di coltivare l’arte per l’arte stessa” scriveva nell’aprile del 1830 nella “Silhouette”, meritandosi una risposta polemica da parte dei saint-simoniani e coniando una formula destinata ad avere successo, paradossalmente soprattutto presso quegli artisti che in genere non vengono collegati alla sua lezione. Se avessero conosciuto questi articoli coloro che vollero fare di Balzac il modello dell’arte impegnata, come pure coloro che per questo stesso motivo ne svalutarono l’opera, il dibattito di qualche decennio fa sul ruolo dello scrittore si sarebbe disincagliato prima dagli scogli del dogmatismo politico e di quello letterario. Speriamo che coloro che parteciperanno al prossimo dibattito sulla funzione dell’artista nella società moderna (questione che non può non ripresentarsi ciclicamente) si documentino tempestivamente su questi testi che, come autorevolmente sostiene Chollet, rappresentano la riflessione più lucida e coraggiosa che la cultura francese ottocentesca abbia riservato al problema.

 

 

  Daria Galateria, Walter Benjamin un critico in lista d’attesa, «la Repubblica», Roma, 20 giugno 1996, pp. 32-33.

 

  p. 32. Come Baudelaire, anche Benjamin era perseguitato dai creditori, e cambiava continuamente casa – però, mentre il poeta non possedeva un tavolo, il filosofo ebreo si spostava, tra campi di concentramento e poveri alberghi, con centinaia di libri; ma ormai ogni destinazione era solo “una stazione di transito”. C’erano pagine del poeta francese che sembravano rivolte, fraternamente e profeticamente, al suo lettore-filosofo di un secolo più giovane, certo il più grande tra i suoi critici: l’articolo giovanile di Baudelaire, Come si pagano i propri debiti quando si ha del genio, ad esempio. Raccontava un fatto vero. E’ sera; il corpulento Balzac, «il mento sul ventre», si aggira per la galleria (Passage) dell’Opéra, tutto pensieroso; l’indomani gli scade una cambiale di mille e duecento franchi. Di colpo, Balzac si trasfigura; con passo leggero, si reca da un editore di giornali; gli propone, per il giorno successivo, due articoli di colore (le «fisiologie» alla moda), al prezzo di mille e cinquecento franchi. L’affare è concluso; Balzac torna placidamente al passage de l’Opéra, dove avvista un giovanotto. E’ un giornalista collerico e arguto: «Edouard, volete 150 franchi per domani?». Perbacco!», si entusiasma l’altro; e il secondo accordo è stipulato: Edouard consegnerà un articolo a Balzac all’alba, perché il romanziere abbia il tempo di ricopiarlo a mano e firmarlo. L’altro articolo viene commissionato al grande Théophile Gautier – ma la storia attesta che il secondo autore-fantasma fu in realtà l’allucinato poeta Gérard de Nerval. Con questo articolo, Baudelaire raccontava Balzac, il genio delle imprese commerciali iperboliche e dei «fallimenti mitologici» come fosse un personaggio di un suo romanzo.

 

 

  Daria Galateria, Che bella vendetta signor Balzac, «la Repubblica», Roma, 25 ottobre 1996, p. 42, ill.

 

  Ottenere l’indirizzo di Balzac era arduo. Una volta arrivati alla sua porta, bisognava fornire tre parole d' ordine, che cambiavano continuamente. L’amico Gautier ad esempio aveva dovuto dichiarare al portiere: «E’ arrivato il tempo delle prugne»; aveva rassicurato il servitore confidando: «Ho dei pizzi di Bruxelles», e infine aveva dissipato la diffidenza del cameriere annunciando che la signora Bertrand stava bene. A quel punto, era stato introdotto. Non si trattava semplicemente di sottrarsi ai creditori. Al di là della sua ilarità immensa, Balzac amava circondarsi di mistero. «Nessuno conosce il segreto della mia esistenza, e non intendo raccontarlo a nessuno», scriveva a madame Hanska. «Sono sempre rimasto curvo sotto un terribile fardello. Anche se interrogaste chi mi sta accanto, non riuscireste a far luce su questa infelicità». C’è chi muore senza che il medico sia in grado di dire quale malattia lo abbia inghiottito, argomentava. Sapeva che, scrivendo, si lasciano dappertutto impronte digitali, e ogni sorta di indizi; le cicatrici tendono invariabilmente ad affiorare. «Se fossi stato ricco e felice, avrei serbato tutto per la donna amata».

  I racconti sono come un delitto, sosteneva Freud; il problema non è compierlo, ma occultarne le tracce. Nel testo, i materiali scabrosi vengono deformati, soppressi, occultati, spostati. Mario Lavagetto, nel suo ultimo saggio (La macchina dell’errore, Einaudi, pagg. 185, lire 24.000), si aggira dentro un racconto di Balzac La Grande Bretèche, con l’impeccabile eleganza di Sherlock Holmes, applicando implacabili protocolli indiziari sui luoghi del testo in cui l’autore si tradisce, si contraddice, si rivela in un lapsus improvviso, e «l’energia dell’errore» di cui parla Sklovskij produce significati non previsti.

  La Grande Bretèche (la bertesca è una fortificazione medievale, spesso una torre, che serviva a spiare il nemico e combatterlo stando al riparo) è una casa in rovina. Guardandola, si indovinano i resti di una serena vita provinciale, spazzata da un’annosa desolazione. Le porte sono «costantemente sbarrate», quello «spazio chiuso» è «un immenso enigma di cui nessuno conosce la chiave». Il protagonista, che si trova «in esilio a Vendôme», apprende che il testamento dell’ultima proprietaria ha prescritto che la casa venga lasciata disabitata per cinquant’anni dopo la sua morte, interdicendo l’accesso a chiunque, e proibendo ogni riparazione. In provincia, ci si accanisce a scoprire i segreti d’amore; è la caccia trasferita sul terreno dei sentimenti, dice Balzac. Accorte indagini svelano al protagonista il mistero consumatosi tra quelle mura. Rientrando a tarda notte, il padrone di casa aveva avuto il sospetto che la moglie avesse nascosto un amante – il Grande di Spagna Bajos de Férédia, prigioniero sulla parola di Napoleone – in un ripostiglio della camera da letto. La donna giura sul crocefisso di esser sola; il marito fa murare la porta dello stanzino, che è privo d’aria, e si allontana.

  Febbrilmente, la moglie cerca di aprire un varco nel ripostiglio, poi si ferma annichilita: il marito, rientrato, è dietro di lei. E per venti giorni, pranza con lei con corretta freddezza, ignorando i lamenti che sfuggono al giovane sepolto vivo.

  Sul manoscritto, Balzac scrive, nel 1831, «Here», poi cancella, e sceglie «Férédia». Ferdinand Hérédia è il nome dell’ufficiale spagnolo a cui la madre di Balzac ha rivolto alcune attenzioni nel 1805. Madame Balzac, un gioiello di grazia maliziosa che ha sposato a diciannove anni il cinquantunenne padre di Balzac, è immersa in quel momento in una più avvincente disavventura, e a tre giorni dal Natale del 1807 dà alla luce un figlio. Il padre è un giovanissimo amico di famiglia, Jean-François de Margonne, castellano del luogo. La Grande Bretèche è dunque un attacco alla madre, una denuncia delle sue leggerezze, spostata sul cicisbeo irrilevante; mentre la rimozione – murare l’antagonista ne è la forma visibile – copre l’amante pericoloso, quello che ha generato il fratello rivale di Balzac, coperto di «carezze folli», coccolato e amato a suo discapito: «Tu e Dio sapete bene», scrive Balzac alla madre nel 1849, a cinquant’anni, «che non mi hai soffocato di carezze né di tenerezza da quando sono al mondo; e hai fatto bene, perché, se mi avessi amato come hai amato Henry, sarei ridotto come lui».

  Ma un regolamento di conti anche più feroce è sceneggiato nel racconto. Il 22 giugno 1807, sei mesi prima della nascita del fratellino, Balzac è rinchiuso nel temibile collegio di Vendôme. I convittori non possono uscire dalle sue mura neanche per le vacanze; hanno diritto di scrivere una lettera ai genitori solo la domenica. Dal 1807 al 1813, Balzac vedrà il padre due volte; ed è tutto. Il ragazzo viene spesso rinchiuso nella cella della torre, dove divora furiosamente romanzi. Il 22 aprile 1813, il collegio avverte i genitori: dovranno ritirare il figlio, caduto in una sorta di coma. L’impenetrabile Grande Bretèche rappresenta anche questo collegio: tra le righe affiora due volte la formula «esilio a Vendôme». Nei dintorni di Tours, città natale di Balzac e primo teatro del racconto, esiste un convento denominato «La Grande Bretèche», al n. 15 della rue de Portillon: la via dove Balzac fu messo a balia insieme all’amatissima sorella Laure. Di nuovo Balzac sposta la denuncia dall’esilio intollerabile al più lieve primo esilio. I significati vengono convocati con agghiacciante violenza; «oggi casa del lebbroso, domani casa degli Atridi», dice Balzac della Grande Bretèche, evocando l’isolamento, l’assenza di carezze della sua infanzia e il mito di Clitennestra adultera, punita dal figlio Oreste.

  L’indagine non è finita. Nell’esilarante Fisiologia del matrimonio, e in Piccole miserie della vita coniugale, Balzac indica, tra gli inequivocabili segnali dell’adulterio: «vostra moglie trova che è ormai venuto il momento di mettere in collegio vostro figlio da cui, poco tempo prima, non voleva mai separarsi». Il movente: il figlio «è spedito in collegio il giorno stesso in cui gli sfugge un’indiscrezione». Tra gli appunti di Balzac, Lavagetto legge un progetto non realizzato: «un bambino che indovina un segreto»; si chiede Balzac: dove viene messo il bimbo? «Cosa vede?». Il mestiere di spia, dice altrove Balzac, è uno splendido mestiere, che permette di concedersi i piaceri del ladro restando onesti.

  La sorella Laure, inviando a un’amica la raccolta in cui è inserito il racconto, sanziona «quei legami che sconvolgono i matrimoni, la società, e cambiano esistenze intere»; e parlando della Grande Bretèche aggiunge: è un fatto vero. Nel libro di favole che mette in scena un collegio non troppo dissimile da quello di Vendôme, Laure sogna una edulcorata vita familiare; la protagonista dorme «così vicino alla mamma»; e il libro è dedicato alla sua «ineffabile tenerezza». Mia madre, scrive Balzac – che l’ha poi tenuta quasi sempre presso di sé – è un mostro. «In questo momento, sta uccidendo mia sorella con scenate crudeli. Abbiamo creduto che fosse pazza. Abbiamo consultato un medico, che è suo amico da trentatré anni, e ci ha risposto: “Ahimè! non è pazza, è cattiva!”». E aggiunge una frase splendida: «Non ci perdona i suoi errori».

  Balzac ha cercato vigorosamente di mascherare gli indizi. Lo spostamento più vistoso è quello del racconto stesso, trasferito tre volte nell’opera, e collocato nella Comédie humaine in diverse cornici, che ne cambiano la destinazione. La prima volta il racconto intende punire un adulterio, poi mira a scoprirlo, alla fine è solo un pezzo di bravura. Ma Lavagetto non si lascia depistare, e prosegue il suo lavoro, uno dei più suggestivi gialli critici che sia dato leggere. Incalzato dall’indagine dello studioso, Balzac finalmente confessa – è una lettera all’amante lontana, madame Hanska: «Siamo stati, mia sorella Laure e io, preda del suo odio; ha ucciso l’altra mia sorella Laurence. Appena fui messo al mondo, fui spedito a balia; a sei anni e mezzo sono stato spedito a Vendôme, ci sono rimasto fino a quattordici anni, avendo visto due sole volte mia madre. Da quattro a sei anni la vedevo la domenica».

 

 

  Valeria Gianolio, Il caso del docteur Dupuytren. Ammissioni biografiche nella “Comédie humaine”, in AA.VV., Scrivere le vite. Consonanze critiche sulla biografia, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996, pp. 157-174.

 

  La ben nota propensione di Honoré de Balzac ad instaurare un rapporto stretto e insistito con la pittura, vista come proiezione metaforica di espressione narrante, e a prolungare questa sua predilezione nei portraits dei vari personaggi ha indotto da sempre la letteratura critica a inseguire nella sterminata distesa di pagine che costituiscono la Comédie humaine l’evolversi di tali avvenimenti descrittivi. Attraverso questa apertura d’indagine si potevano catalogare con una certa precisione le variazioni del gusto, della moda, delle scelte politiche e sociali di generazioni di individui prototipici immesse in un contesto storico – quello francese della prima metà del XIX scolo – e sottoposte a un movimento continuo e variegato di adattamenti, di interferenze.

  La serie o per meglio dire la galleria di questi medaglioni e la loro reiterata ricomparsa in altre serie analoghe hanno suggerito una sorta di biografie fittizie che Fernand Lotte ha pensato di raccogliere e riprodurre in schede anagrafiche dei personaggi finzionali in un Dictionnaire biographique des personnages fictifs de la Comédie humaine, schede che sono servite poi come vero e proprio punto di base referenziale per costruire studi strutturati sul testo balzachiano.

  La ricerca continua di Balzac per riprodurre la realtà con elementi presi dalle tecniche proprie alla pittura si spinge quindi a prevedere il confermarsi di un’equazione letteraria che riunisce, in catena analogica, l’autore e il pittore, il testo e il quadro, ma che sembra coinvolgerli in modo ancor più personale. Nella Préface alla prima edizione di La Peau de chagrin (1831), troviamo infatti che i ritratti fisiognomia possono essere ripresi anche dai lettori i quali, leggendo il libro, non sfuggono al gioco di interrogarsi sulla vita e la personalità del suo autore. Si viene così a delineare una massa di biografie ideali e insieme relative che corrispondono però tutte ad un’unica etichetta patronimica, rimandandoci al comune modello definito Honoré de Balzac. […]. Ci troviamo dunque davanti ad un duplice lavorìo biografico che scorre, all’interno dei testi, tra l’autore e i suoi personaggi e, all’esterno, tra i lettori e la diade che si insedia tra differenti libri dello stesso autore/ritratti o percorsi di vita diversificati di un unico autore. [...].

  Ritornando alle biografie immaginarie, vogliamo occuparci ora di un “caso” episodico della narrazione operata da Balzac in una tranche de vie di un personaggio che emerge dalla folla degli altri poiché in qualche modo il suo statuto narrativo è singolativo e non è stato riduplicato con l’aiuto di composti specchi finzionali rimanendo così fedele ad un unico modello veridico. [...]. E in nome di questa prerogativa dominante – tanto unico da non poter essere riprodotto con l’aiuto di altre interferenze biografiche il docteur Desplein di La Messe de l’athée può rifiutare questo palese pseudonimo, uscire dalla pagina stampata e debuttare sulle scene della Parigi del primo quarto di secolo con il suo vero nome, docteur Guillaume Dupuytren, nominato barone ereditario da Luigi XVIII per i servigi resi alla monarchia. [...].

  Per meglio intravedere matrici biografiche, è nostra intenzione riprendere la vicenda del breve racconto che vede come protagonista Desplein e riproporre, in una sequenza di note, delle precisazioni desunte da fonti biografiche accertate del docteur Dupuytren. Le scuciture trasversali del testo di finzione saranno quindi confrontate a isole biografiche [...] basate su riscontri ripresi da voci di alcuni dizionari, tra i quali spicca per completezza e fascino narrativo l’articolo del Larousse, e la prima biografia redatta da Vidal de Cassis. Tali riscontri successivi dovrebbero mettere in risalto le probabili concordanze o i discostamenti più o meno evidenti. Nella fase conclusiva, vedremo se gli snodi della griglia da noi sovrapposta alla narrazione e che prevede le tappe essenziali del “roman de notre existence” presentano una frequenza accettabile di coincidenze con le suggestioni offerteci dalla biografia della persona/Dupuytren. In caso affermativo, ci si troverebbe di fronte ad una vera e propria interpolazione di un mosaico biografico nelle gallerie di portraits enfatizzati negli spessori evenemenziali. [...].

  Ci si potrebbe infatti chiedere perché Bianchon e non Desplein, perché l’allievo, anche se dotato di grande merito, e non invece il miglior chirurgo e diagnosta del secolo? In questa serie di domande, o meglio di esitazioni retoriche, poco importa infatti lo sfalsamento dei dati cronologici per cui Bianchon è presumibilmente ancora vivo nella Comédie humaine mentre Desplein, dopo aver lasciato il mondo ne La Messe de l’athée, ricompare in alcuni romanzi posteriori, anche come ambientazione storica. Forse le ragioni sono altre. Lo scrittore si accinge a compiere il passaggio tra la vita e l’esistere – per sempre – nelle pagine della sua opera e in questa irreversibile mutazione sembra più adatta la vicinanza di un personaggio che presenta diverse varianti narrative a un Desplein che ha percorso anche troppo fedelmente le sole sequenze biografiche di Dupuytren, il suo alter ego nella realtà.

 

 

  Hélène Giaufret Colombani, Balzac linguiste dans “Les Célibataires”, in AA.VV., Studi di storia della civiltà francese ... cit., vol. 2, pp. 695-717.

 

  […]. Délaissant les déclarations de principe, nous voudrions ici jeter un petit coup de sonde sur la sensibilité lexicale de notre auteur telle qu’elle apparaît au détour de certaines phrases qui émaillent les romans et constituent ce qu’ou pourrait nommer le discours métalinguistique fragmentaire du romancier.

  Nous avons choisi d’étudier les brefs commentaires qui, sous la plume du narrateur ou dans la bouche des personnages, apparaissent dans un ensemble textuel apparemment peu significatif, la trilogie que Balzac réunit sous le titre des Célibataires et qui comprend Le Curé de Tours, Pierrette et La Rabouilleuse. Ces romans, à notre connaissance, n’ont suscité aucune étude de ce genre, ils occupent chronologiquement une place centrale dans la création balzacienne et ne révèlent pas encore l’intérêt explicite pour l’expressivité verbale que manifestent les grandes œuvres plus tardives telles que Splendeurs et Misères des Courtisanes, les deux romans des Parents Pauvres et Les Paysans. Nous avons exclu de notre corpus tout ce qui n’était pas clairement métalinguistique et nous ne tiendrons donc pas compte de l’emploi fait par Balzac de l’italique, sauf dans les cas, assez fréquents, il faut le dire, où celui-ci s’accompagne justement d’un commentaire. L’italique balzacien a, outre ses emplois canoniques, souvent une valeur de mise à distance du narrateur par rapport à un mot ou une expression qui fonctionnent comme citation ou micro-discours indirect libre de personnes ou de groupes sociaux. Toutefois, à cause de l’ambiguïté ou pour mieux dire de la polyvalence du procédé, qui mériterait à lui seul une étude, nous avons décidé de le négliger.

  Hors de tout cadre diachronique ou synchronique, certaines remarques de Balzac se situent dans une sorte d’atemporalité. Elles sont toujours attribuées au narrateur qui y perce à jour les pièges, les hypocrisies, les méfaits ou les sottises du langage ou de certains langages. […].

  Non seulement Balzac emploie les «jargons» dont on lui a fait grief, mais il revendique l’expressivité de ces formes par des remarques théoriques alors même que son texte est fort timide. Parfois semble se dessiner une mythisation de ces registres, mythisation qui se présente comme un trait fondamental de l’imaginaire linguistique de notre romancier.

Enfin la variété des langages mis en scène (et dont notre étude ne donne qu’une image très imparfaite), technolectes, régiolectes, sociolectes, idiolectes, crée un effet de stéréophonie dans un texte que l’on pourrait définir comme polylectal et dont nous avons tenté de montrer qu’il se veut bien tel, parfois au-delà des réalisations effectives. Cette polyphonie n’est rendue possible que par l’extraordinaire passion pour le lexique qui habite Balzac et qui apparait çà ou là de façon parfaitement gratuite. Il y a chez lui un plaisir des mots que, contrairement aux critiques grincheux du passé, nous sommes heureux de partager.

 

 

  Giuliano Gramigna, Le inchieste di Sancho Panza, «Corriere della Sera», Milano, 2 settembre 1996.

 

  Su: Racconti gialli, Palermo, Sellerio, 1995.

 

  Il contributo dell’antologia di Honoré de Balzac, «La casa del mistero», vira un po’ sul Grand Guignol: una vendetta coniugale atroce, un sepolto vivo, una casa di campagna in rovina, che diventa, fisicamente, il vero punto interrogativo. (Forse più in tema con l’antologia sarebbe stato un altro racconto balzacchiano, «L’Albergo Rosso», dove si ammonticchia un po’ di tutto: teste mozze, porte chiuse, domande filosofiche e soprattutto il talento strutturale straordinario del narratore Balzac).

 

 

  Paolo Guzzi, Introduzione, in Honoré de Balzac, Un tenebroso affare ... cit., pp. 7-11.

 

  Se le osservazioni sull’opera di Balzac ci sembrano complessivamente equilibrate nonostante l’insistenza sul “côté noir” del romanzo, visto come complementare all’assunto storico-politico, altri rilievi, più generali, risultano, a nostro giudizio, discutibili. Valga per tutti quello sulla vocazione letteraria dello scrittore: «Balzac non scriveva, intendiamoci, per amore dello scrivere e basta, ma, come dicono tutte le sue biografie, per soddisfare quelle necessità economiche a cui lo portavano il gusto per la vita dispendiosa, per i begli oggetti, per le belle donne e quel volersi tenere sempre all’altezza di un ambiente di aristocratici che egli amava frequentare senza appartenervi» (p. 7).

 

 

  Anna Jeronimidis, Anna Maria Scaiola, Ottocento. Honoré de Balzac, in Società Universitaria per gli Studi di Lingua e Letteratura Francese, Francesistica. Bibliografia delle opere e degli studi di letteratura francese e francofona in Italia. 1990-1994. II, a cura di Giovanni Bogliolo. Paolo Carile, Mario Matucci, Fasano-Genève, Schena editore-Slatkine, 1996, pp. 167-168; 209.

 

 

  Mario Lavagetto, La macchina dell’errore. Storia di una lettura, Torino, Giulio Einaudi editore, 1996 («Piccola Biblioteca Einaudi», 636), pp. 185.

 

  La genesi tutt’altro che lineare de La Grande Bretèche, il racconto più noto di Autre étude de femme, opera anch’essa composita che si alimenta di frammenti narrativi di origine diversa per formare un quadro d’insieme che ricorda quello, provvisorio e aperto, dei mosaico, offre al lettore fondati motivi per interrogarsi sui diversi momenti del processo creativo di Balzac, nel tentativo di cogliere, non solo il risultato prodotto dall’accorpamento del frammento all'interno della sua nuova cornice narrativa, ma, contemporaneamente, gli effetti di frattura e di discontinuità che si celano dietro l’apparente organicità del testo nella sua versione definitiva.

  La magistrale lettura che Mario Lavagetto propone de La Grande Bretèche conduce il lettore nei labirinti dei meccanismi narrativi balzachiani, rivelando i retroscena di un mistero, quello celato dietro le feritoie di una vecchia ed oscura dimora, che rinviano a fantasmi personali ancora presenti e vivi nell’immaginario dello scrittore (come, ad esempio, le relazioni adulterine della madre) e che colpiscono per il loro imprevedibile gioco di rimandi da una versione all’altra dell’opera. L’indagine che Lavagetto conduce, con l’occhio attento e scrupoloso del detective e attraverso suggestive e incalzanti proposte di peripezie esegetiche, porta alla luce un quadro di sviste, di errori a cui il testo non si sottrae, divenendone «parte integrante e insopprimibile» (p. 168), nonostante i tentativi e le correzioni operati da Balzac per abolirne le tracce.

 

 

  Antoinette Le Normand-Romain, Rodin scultore: una stagione all’inferno, in Rodin, «Art e Dossier», Anno XI, Numero 144, luglio-agosto 1996, pp. 5-30.

 

 

  Letizia Loranzi, Augustine, Ginevra, Émilie: tre figure femminili nelle prime “Scènes de la vie privée de La Comédie humaine” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: Maria Bertini, correlatore: Barbara Fiquet, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia. Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, anno accademico 1995-1996.

 

 

  Jean Malavié, Le sentiment religieux dans “Le lys dans la vallée” de Balzac, «Studi Francesi», Torino, 119, Anno XL, fascicolo II, maggio-agosto 1996, pp. 258-270.

 

  Balzac, qui a proclamé sa décision d’écrire “à la lueur de deux vérités éternelles, la Religion, la Monarchie”, se fait assez souvent, dans la Comédie humaine, le défenseur plus ou moins avisé de la foi et surtout de la discipline de l’Eglise catholique. Parmi les romans où l’intention apologétique est la plus marquée, figure en bonne place, de son aveu même, le Lys dans la vallée, qui est, assure-t-il, “le pendant poétique du Médecin de campagne”. Si son bon vouloir ne peut être nié, il est permis, et la critique s’y est souvent essayée en passant, de s’interroger sur la nature et la qualité du sentiment religieux qui s’y exprime. Nous nous proposons ici de nous limiter à l’examen des pensées, propos, pratiques, comportements et problèmes qui mettent en lumière ce sentiment chez Henriette de Mortsauf et dans son entourage. Pour tenter un discernement plus personnel et plus libre, nous nous appuierons plus volontiers sur le texte que sur les opinions diversement partiales que nous pourrons recueillir.

  Chez Balzac, la dévotion est rarement un apanage masculin, et plus rarement encore dans l’aristocratie. […].

  Si l’on peut à peine parler pour Félix de vie religieuse proprement dite, celle d’Henriette est, au contraire, active et profonde. Balzac s’est complu à faire de son héroïne non seulement une croyante, ou même une chrétienne, mais une catholique convaincue d’âme et de pratique. Soumise pendant son adolescence à l’influence de la duchesse de Verneuil, sa tante très aimée, Blanche-Henriette de Lenoncourt, future comtesse de Mortsauf, avait à son exemple embrassé ardemment “l’illuminisme mystique” de Saint-Martin. De cette inspiration elle retient bien “la prière active et l’amour pur”, et une propension à “rentrer dans le christianisme de l’Eglise primitive”, mais elle n’en reste pas moins “au sein de l’Eglise apostolique”, dans une parfaite fidélité: sacrements, offices, rites, mais aussi et surtout un vif sentiment de la présence de Dieu et le fréquent recours à la prière personnelle. Plus encore: elle s’efforce de pratiquer quotidiennement les vertus évangéliques, et aussi […] d’entraîner à l’oraison son entourage et sa domesticité, mais ne se montre “nullement mystique” […]. Quant à la solidité de sa croyance, elle est inébranlable. En effet, […] même la terrible révolte finale ne dément pas sa foi, malgré les apparences […].

  Mais Balzac a voulu lui conserver tant de grâce féminine et de charme que l’on ne peut un seul instant la confondre avec le type de “la dévote”, si souvent dénoncé dans la Comédie humaine. […]. La bienfaisante comtesse de Mortsauf, rayonnante providence de Clochegourde, incarnation du dévouement souriant, de la charité patiente, offre un contraste expressif avec ces fourvoyées maniaques, ces fanatiques semeuses de désastres domestiques. Si le formalisme de bon nombre de ses pratiques apparaît indéniable, elle n’en vit pas moins, à l’évidence, une relation à Dieu habituelle et spontanée: il n’est pas rare, Félix le devine, que cette femme solitaire, cette mère et cette épouse douloureuse soit habitée de “ces pensées qui n’ont que Dieu pour confident”. […]. Pour elle, la messe dominicale n’est pas une simple démarche de routine sociale, ni même la soumission à une pieuse et respectable tradition: l’intensité de son recueillement personnel impressionne le jeune homme venu l’observer avidement […]. La mère, l’amie tutélaire — l’amie amoureuse –, appelle la protection divine sur tous ceux dont elle a le coeur plein: réduction égocentrique de la prière, peut-être, mais surtout esprit de foi, confiance en une Providence attentive à ses alarmes, et dont elle espère tout. […].

  La capacité de se tourmenter par d’incessantes interrogations sur sa conduite ne saurait assurément servir de critère pour juger de l’avancement spirituel de la jeune femme, et peut-être même l’approche de la sainteté se reconnaîtrait-elle mieux à la paix intime procurée par la grâce accueillie. Du moins ses déchirements témoignent-ils d’une conscience morale exigeante et d’un effort de loyauté. Son drame n’existerait pas sans sa foi et les responsabilités éthiques qui en découlent […]: ni ses devoirs de mère et d’épouse, ni même les considérations sociales si puissantes dans le monde balzacien, reflet de la réalité contemporaine, ne suffiraient toujours à la retenir de se donner à Félix: Dieu, représenté par l’Église et ses ministres, est bien seul pour elle l’obstacle infranchissable, puisqu’elle tremble sans cesse, dans son jansénisme naïf, à la pensée que se donner, c’est se damner. […]. […] elle se persuade, et tente de persuader Félix […] que leurs deux âmes d’élite sont dignes de vivre une passion rare, vraiment épurée, image merveilleuse de l’amour divin. Or, là où doivent voler les chastes aspirations, là aussi doit planer le langage: cette communion spirituelle angélique, donc ignorante des convoitises charnelles, se traduit par l’usage sans retenue d’un jargon hautement mystique, registre qui permet de tout dire en pleine innocence. […].

 

 

  Gaetano Massa, Balzac la chiamò “Il giglio nella valle”, «L'Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, 19 settembre 1996, p. 3.

 

  Soltanto un sintetico riferimento a Balzac: «Balzac ha dedicato un romanzo a la Tourenne (sic) che è un inno d’amore: Il Giglio nella valle».

 

 

  Paolo Mauri, Gentiluomini e giornalisti, «la Repubblica», Roma, 19 febbraio 1996.

 

  Chi legge, per esempio, Le (sic) illusioni perdute di Balzac, che notoriamente fa concorrenza agli storici per l’esattezza dei suoi affreschi, si trova davanti la feccia del giornalismo: opportunisti, venduti, pronti al ricatto e al cambio rapido di bandiera quei remoti colleghi parigini sembrano fatti apposta per dar corpo a tutti i luoghi comuni che circolano sulla carta stampata.

 

 

  Maria Grazia Messina, Tutti gli artisti che ritrassero la Francia di Balzac, «l’Unità 2 - Cultura», Roma, 16 settembre 1996, p. 2.

 

  La figura dell’effigiata, una borghese sposata a un visconte, rimanda al mélange delle classi, rilanciato dalla Restaurazione, poi distintivo della successiva monarchia di Luigi Filippo, evocato nella Comédie humaine di Balzac. Il tema è qui visualizzato nell’espressione di un riserbo signorile che ammanta di nobiltà una storia di arrivismo borghese.

 

 

  Gabriella Mezzanotte, Introduzione, in Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert ... cit., pp. 5-13.

 

  [...]. L’avvio del romanzo, nello studio di Derville, pur scoppiettante di battute e di onomatopee, appare un po’ faticoso, forzato, una sorta di esercizio di stile; del resto, Balzac attinge per questa scena di apertura a un repertorio consolidato, che lui stesso aveva già sfruttato nel Code des gens honnêtes del 1825

  La narrazione prende un respiro diverso già all’apparire del protagonista, figura di umiliato e offeso che suscita immediatamente la simpatia del lettore: sapienza compositiva di Balzac, che mette subito faccia a faccia un ragazzetto che si fa forte della sua, peraltro infima, posizione, e uno Chabert spogliato di tutto, ma ricco di una dignità che gli fa nascondere la fame che il suo sguardo potrebbe tradire; impassibile, il colonnello subisce gli scherzi e le ironie dei giovani di studio senza conceder loro la minima confidenza. Benché la situazione lo ricordi un po’ più che vagamente, quale differenza rispetto all’ingresso di Charles Bovary nella classe che si scatena davanti alle sue maniere impacciate, alle sue goffe risposte! Tutto Chabert è già nel suo primo mostrarsi, e i praticanti colgono immediatamente l'essenza della sua persona, pur senza sapere di essere così vicini alla verità: «Sembra uno uscito dalla tomba». Il colonnello è infatti un fantasma, il fantasma di un tempo vicino e già cancellato dalla memoria, superato e rinnegato da una società che pure vi affonda le sue radici. Esce davvero da una tomba, e che tomba: una fossa comune, un mondo affollato di cadaveri che gli si stringono addosso per soffocarlo, e sembrano respirare e lamentarsi, in un silenzio mai udito prima né poi, un silenzio che è quello della morte. Ancora quel lamento lo strappa al sonno, nelle sue notti tormentate non più dai morti, ma dai vivi che non lo vogliono riconoscere come uno di loro, che lo vogliono respingere sotto terra, che vogliono liberarsi di lui come di una stranezza inspiegabile e molesta: di fatto, a quei vivi Chabert non appartiene. Nei dieci anni della sua assenza il mondo è cambiato: il suo sole, Napoleone, si è spento, i valori su cui fondava la sua esistenza — giustizia, onore, virtù — hanno acquisito un diverso significato, le stesse parole indicano cose differenti, sono mutati perfino i nomi delle vie, e il nome di sua moglie ...

  «La giustizia militare» dice Balzac «è franca, rapida, decide senza tanti riguardi, e quasi sempre giudica bene; questa era la sola giustizia che Chabert conoscesse»: si ritrova invece a lottare contro una giustizia fatta di cavilli, dì burocrazia, di parole, in cui il giusto si smarrisce e il sopruso può trionfare; si ritrova in una società di cui deve combattere proprio il crimine più diffuso: quello nascosto nelle coscienze e protetto dalla legge. La patetica domanda che «Hyacinthe detto Chabert» rivolge alla moglie, «I morti sbagliano dunque a ritornare?», cela una verità più profonda di quanto lui stesso comprenda: chi ritorna – dalla guerra, dall’esilio, dall'emigrazione – si trova nella condizione di un sopravvissuto, le sue esperienze non lo aiutano a vivere in un mondo alla cui trasformazione non ha partecipato, che non lo riconosce e in cui non si riconosce.

  Osserva Barbéris che la figura di Chabert è critica, ma non rivoluzionaria: ravvisata e giudicata la bassezza morale della società che ritrova, non aspira a modificarla, ma a rientrarvi e a riprendervi il suo posto. A me sembra invece che il dramma di Chabert sia proprio quello di non voler vedere quanto siano mutate le cose intorno a lui, e di prenderne bruscamente coscienza solo ascoltando per caso una conversazione che non avrebbe dovuto ascoltare: a quel punto, ritrovare il suo posto smette di interessarlo, la sua rinuncia ha, sì, qualcosa di rivoluzionario e di eroico, è Catone che beve la cicuta per non assistere al trionfo storico di quanto ha sempre avversato, è Pier delle Vigne che «ingiusto fece [sé] contra [sé] giusto» disdegnando di difendersi da un mondo malevolo e invidioso. Il disprezzo con cui il colonnello, ritrovando per un attimo lo slancio della gioventù, schiaffeggia Delbecq e parla a Rosine, è diretto alla società intera, alla quale infatti volge volontariamente le spalle, esiliandosi in quella condizione di reietto a cui la sua nascita sembrava averlo malvagiamente condannato, da cui lo avevano riscattato «la [sua] probità severa, il [suo] carattere generoso, le [sue] virtù native», fino a metterlo nella posizione di «aiutare Napoleone a conquistare l’Egitto e l’Europa», a cui toma ora con la testa alta e la coscienza netta: «Io, almeno, non temo il disprezzo di nessuno». In questa prospettiva credo si possa leggere anche l'affermazione di Pierre Citron che Balzac scelse alla fine, per l’esistenza del suo eroe, il senso dell’epopea.

  Certo non di epopea, ma di deciso realismo si può parlare per gli altri personaggi del romanzo, in fondo secondari, benché dotati di compiuta personalità.

  La contessa è una delle incarnazioni del tipo della «donna senza cuore» che Balzac aveva fatto comparire nella Peau de chagrin e che ritroveremo in numerosi romanzi della Comédie Humaine. Non è un caso che, a fronte dei modelli storici che sono stati proposti per Chabert, per Derville, per Ferraud, con buone possibilità di approssimazione, nessuno davvero credibile sia stato indicato per lei. Nell’analizzare questo personaggio, Citron e Barbéris si accordano nel concedergli l’attenuante di essere vittima della società in cui vive, prima di diventarne lo strumento: strappata da Hyacinthe alla condizione di prostituta (ma era cameriera nella Transaction), convinta della morte di Hyacinthe, riesce a risposarsi, assecondando «la sua passione quanto la sua vanità» (che del resto per Balzac è anch’essa una passione, non meno devastante di quella amorosa). Quando si rende conto che il ritorno di Chabert e i dubbi sopravvenuti nel secondo marito minacciano la posizione che ha faticosamente raggiunto, combatte con le armi che la necessità di sopravvivere le ha insegnato a usare: è doppia, falsa, cinica e opportunista, ma resta nel lettore la sensazione che forse lotti per dei sentimenti reali, anche se strumentalizzati: l’amore per Ferraud e quello per i figli. Né Balzac ci concede un solo spiraglio per entrare in profondità nel suo animo e comprenderla davvero – atteggiamento che assume del resto davanti a non poche delle sue creazioni femminili. Per quanto riguarda la contessa Ferraud, questa reticenza dello scrittore le conferisce qualcosa di segreto, che non manca di un certo fascino.

  Certamente più positiva appare la figura di Derville, giovane avvocato in carriera che ritroviamo in altre parti della Comédie Humaine, in Gobseck per esempio, e che esce direttamente dall’esperienza di Balzac. Anche il suo nome probabilmente deriva da quello di Guyonnet-Merville, nel cui studio Honoré fece pratica legale durante i suoi anni universitari. Uomo giusto e sensibile, dall’intuizione viva e dall’intelligenza pronta, doti essenziali nel suo mestiere, Derville presta fede all’incredibile racconto di Chabert e si mostra disposto a sacrificare qualcosa per aiutarlo, sia pure senza spingersi fino a rischiare la rottura con una cliente preziosa come la contessa Ferraud, che continua a lusingare, pur disprezzandola. E un personaggio concreto, che vede e giudica lucidamente il mondo in cui vive, e cerca di viverci al meglio, senza però dimenticare i valori essenziali dell'esistenza: Balzac gli presta più di un carattere suo e quando, nel 1835, riprende in mano il suo romanzo per correggerlo e ampliarlo, è a lui che fa concludere la storia con quelle disincantate osservazioni sugli uomini e sulla società del suo tempo, che sono l’espressione delle sue più salde convinzioni.

 

 

  Max Milner, Regards croisés sur Robespierre: Balzac et Nodier, in AA.VV., Images de Robespierre. Actes du Colloque international de Naples, 27-29 septembre 1993. Textes réunis par Jean Ehrard avec le concours d’Antoinette Ehrard et de Florence Devillez, Napoli, Vivarium, 1996, pp. 323-339.

 

  L’A. riflette sulle affinità tematiche e ideologiche presenti in due testi pubblicati a breve distanza di tempo l’uno dall’altro: il saggio di Charles Nodier edito nella «Revue de Paris» del settembre 1829 e Les Deux Rêves di Balzac, pubblicato su «La Mode» nel maggio 1830 e inserito in seguito in Sur Catherine de Médicis. L’interesse di questo parallelismo risiede soprattutto nella luce che esso apporta sulle opinioni politiche dei due autori alle soglie degli anni Trenta. In questo periodo, Balzac, ancora largamente influenzato dalle idee settecentesche, è alla ricerca di un principio, di un sistema che gli permetta di sintetizzare la complessità del reale e ritiene che, sul piano del governo dello Stato, la politica centralista e autoritaria della Convenzione e di Napoleone possa rappresentare, per lui e per la sua opera, un modello estetico realizzabile però soltanto in un ordinamento di tipo monarchico. La figura, mitica e quasi astratta di Robespierre descritta ne Les Deux Rêves svolge, da questo punto di vista, una funzione di mediazione per passare, senza traumi, dall’uno all’altro sistema politico. Dal canto suo, Nodier, pur dissacrando l’uomo Robespierre, ritrova in lui l’esempio di un «dessein de pacification et de restauration d’un ordre conforme a l’intérêt public» (p. 337): il profondo scetticismo politico alimenterà in Nodier la necessità di stabilire una sorta di continuità tra alcuni aspetti della rivoluzione e la restaurazione di un ordine di cui soltanto la monarchia è in grado di farsi carico.

 

 

  Fabiana Montanari, Le traduzioni italiane di «Béatrix» di H. de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: Maria Bertini, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, anno accademico 1995-1996.

 

 

  Beatrice Montani, La figura dell’Androgino nei romanzi di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. M. Venturelli, Bologna, Accademia di Belle Arti, Anno accademico 1995-1996.

 

 

  Emanuela Muraca, Portraits féminins dans quatre romans de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Luciano Verona, Milano, I.U.L.M., Corso di Laurea in Lingue e letterature straniero, Anno accademico 1995-1996.

 

 

  Costantino Muscau, Amendola sulle miniere di Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 29 agosto 1996.

 

  Estate 1996: all’orizzonte scintilla il mare che finisce in Spagna; Sulla sinistra luccica la costa nereggiante di polveri residue della blenda e della galena estratte dalla miniera abbandonata 33 anni fa; alle spalle ingialliscono colline riarse, ma odorose di elicriso e dove di notte vagolano branchi di cinghialetti; nell’aria aleggiano i sogni di ricchezza svaniti di Honoré de Balzac, che investì nella vecchia miniera.

 

 

  Bruno Nacci, Introduzione, in Honoré de Balzac, Gli impiegati ... cit., pp. VII-XXXII.

 

  [...]. Quando si pensa alla sterminata e composita folla d’impiegati che si agita, feroce e avvilita, in tante pagine della letteratura contemporanea, [...] è difficile negare a Balzac, ancora una volta, non solo (o non tanto) la primogenitura a proposito del tema, ma un’assoluta originalità. Eppure il progetto iniziale de Gli impiegati, poi furiosamente cancellato o ridotto, va proprio nella direzione in cui tutti gli altri in seguito si sarebbero mossi: ridurre il mondo impiegatizio allo sfondo su cui narrare altre vicende. Sulla scacchiera del racconto, assecondando il primo impulso, si fronteggiano due regine: Célestine Rabourdin e Elisabeth Baudoyer, oltre a otto o nove impiegati da far muovere come comparso. Ben presto però Balzac si accorge che due pezzi così forti, complementari nella loro opposizione, avrebbero paralizzato l’azione, mentre, parallelamente, gli impiegati andavano moltiplicandosi sotto la sua penna. Non si tratta di una geniale intuizione, ma del suo istinto di romanziere sempre affascinato dalla possibilità di riprodurre il confuso brusio della vita, ignorando o fingendo d’ignorare le gerarchie dei caratteri. Per questo il lettore de Gli impiegati cercherebbe invano nel romanzo una qualsiasi esemplarità [...]. Balzaci è [...] attirato dalle straordinarie possibilità narrative dell’universo impiegatizio. Quello che lo colpisce è l'analogia tra il mondo politico e il mondo degli uffici. Perché uno dei temi di fondo della narrativa balzachiana è proprio l’intreccio dei rapporti umani, quella trama fitta di scontri e alleanze, di giuramenti e menzogne, che a tratti sembra lacerarsi per poi subito ricomporsi, generando altre figure, secondo diverse geometrie. La famiglia e la politica sono appunto i centri nevralgici dell’azione balzachiana, là dove più scoperti si manifestano gli interessi, la forza o la debolezza dei caratteri. Rispetto ai consueti scenari, il mondo degli uffici offre il vantaggio di mescolare (è spesso confondere) pubblico e privato, ma soprattutto permette di rappresentare quella moderna guerra senza spargimenti di sangue, tutta e solo mentale, che pur non rinunciando allo scopo della guerra vera, riduce l’eroismo, l’astuzia e la viltà, alle varianti di un orrendo e gentile galateo. [...].

  Balzac è stato tentato dal disporre il coro dei comprimari, gli impiegati dei due uffici, come una somma di figurine, ora grottesche, ora patetiche. L’uso stesso del dialogo teatrale nelle scene che si svolgono in ufficio è un chiaro rimando ai passettini d’ingresso e d’uscita del vaudeville. Ma quelle esistenze, così fragili e proterve, costituiscono l’elemento connettivo e distruttore al tempo stesso, il magma indistinto di quella medietà a cui Balzac guarda sempre con orrore. Tralasciando il ruolo decisivo che alcuni di loro (e tutti insieme, alla fine) svolgono nella vicenda, in essi meglio che nei loro capi si riflettono le torbide ragioni della vita. E in molte pagine si ha l’impressione che Balzac voglia lasciarcene un crudele canzoniere alla Lee Masters, fatto di nomi e oscure lapidi: Phellion, l’infaticabile esploratore dei dintorni parigini, compilatore di opuscoli edificanti o eruditi per le fanciulle di un collegio; Bixiou, perfido e lucido caricaturista; Chazelle e Paulmier, stretti uno all’altro in un perenne litigio, che girano su se stessi come un giocattolo rotto; Poiret, puro meccanismo verbale come i personaggi di Becket. Maschere, maschere efferate c vuote; il traditore, l’elegantone, il soldato, il bellimbusto, ecc. E ovunque l’indomita volontà di affermarsi, o il suo infernale rovescio, il desiderio che gli altri non ci riescano.

  C’è un solo personaggio in tutto il romanzo, che sembra godere dei tristi privilegi della purezza: Sébastien de la Roche. Giovane, figlio di una vedova (ancora il segno di un dimidiamento famigliare), il suo scopo nella vita è diventare un impiegato vero, uscendo da quella minorità sociale ed economica che è il suo precario ruolo di soprannumerario, fedelissimo di Rabourdin. Egli è il solo che lavori coscienziosamente, e la bella Célestine gli appare come una dea. da ammirare in lontananza. Solo lui non partecipa ai discorsi volgari degli altri impiegati, non conosce i complotti, le meschine rivalse, l’infaticabile esercizio della maldicenza. Ma tanto decoro, tanta umana dignità, a cui la miseria aggiunge un tratto socialmente compatibile con l’ideologia reazionaria di Balzac, ha una sola funzione da svolgere: sarà lui, senza volerlo, a consegnare Rabourdin ai suoi nemici. L’innocenza colpevole è in tutta la Comédie humaine la garanzia di un duplice ordine, quello cosmico, da cui esclude ogni finalità teologica, e quello della narrazione, che in questo modo si rifiuta di costituirsi in provvidenza laica.

  Gli impiegati non è un trattato di utopia amministrativa, né un pamphlet politico antiorleanista, né la trasposizione di caratteri famigliari (Célestine al posto della sorella Laure, Rabourdin al posto del cognato Surville). O meglio, tutto questo è motivo e scoria di una combustione, al termine della quale lo scrittore più hegheliano della letteratura moderna non sa pensare che all’inizio di un’altra storia in una successione indefinita che trae senso dalla propria desolata immanenza.

 

 

  Patrizia Oppici, “La Gioire des sots”. Il problema dell’altruismo nell’opera di Balzac, Moncalieri, C.I.R.V.I., 1996 («Civilisiation de l’Europe», 2), pp. 198.

 

  Composto di sei capitoli fondamentali, corredati da un’introduzione, da un momento di riflessione conclusivo dell’A. e dalla postfazione di Mariolina Bongiovanni Bertini, a cui segue una esauriente e accurata bibliografia, il volume illustra uno degli aspetti meno noti della poetica narrativa e del pensiero di Balzac: ci riferiamo al tema della bienfaisance che, sviluppato in maniera organica dalla cultura settecentesca, giunge nel vasto e complesso sistema della Comédie humaine pervaso di implicazioni e significati storico-ideologici profondamente rinnovati. Se, nell’atmosfera dell’illuminismo, l’idea di altruismo rappresentava il fondamento di una nuova morale essenzialmente laica e eudemonistica, non esente da contraddizioni e da insufficienze di natura soprattutto psicologica, nel pensiero e nella produzione romanzesca di Balzac assistiamo ad una profonda o consapevole rivisitazione delle teorie dei philosophes, entro cui lo scrittore fonda, senza per questo rinnegare radicalmente gli assunti precedenti, un proprio discorso su altruismo e filantropia, tenendo ben presente il nuovo contesto storico, sociale, ideologico e morale prodotto dalla società borghese. L’analisi di Patrizia Oppici coglie puntualmente le esemplificazioni e le articolazioni dell’analisi balzachiana a partire dai Romans de jeunesse, in cui tematiche, metafore e situazioni troveranno, nel loro legame profondo con il vissuto dell’autore, un’eco significativa nelle opere della maturità. Nell’ottica di Balzac, il termine bienfaisance subisce, rispetto alla connotazione settecentesca, un importante rovesciamento assiologico, in quanto il concetto di altruismo, di carità, perdendo il proprio valore ideale e assoluto, si contamina di motivazioni impure. Da Annette et le criminel ai Petits bourgeois, che costituisce il momento più alto della polemica balzachiana, passando attraverso opere fondamentali, quali Les Paysans, Le Médecin de campagne e Le Curé de village, dove si concentra una parte cospicua della riflessione filantropica di Balzac, Pierrette, il ciclo dei Parents pauvres e l’Envers de l’histoire contemporaine, si può cogliere un filo conduttore comune che, collegando microcosmi così diversi, rivela, nell’idea di bienfaisance, lo strumento per nascondere, rimuovere, esorcizzare passioni, colpe, interessi individuali a cui sottendono rapporti di forza palesi e diretti. Non sarà il movente religioso di Benassis e di Véronique Graslin a sopire un bisogno di espiazione di peccati commessi in un remoto passato o la consapevolezza che la pratica filantropica poggia sull’interesse individuale concepito come unico movente dell’azione umana; neppure l’austero microcosmo parigino descritto nell’Envers de l’histoire contemporaine riesce a risolvere e a sublimare le contraddizioni in un’ottica meramente cattolica. L’apologetica balzachiana, nel tentare un processo alla teoria settecentesca, si mostra incapace di liberarsi completamente di quel velo di ambiguità che la tiene paradossalmente così legata all’eudemonismo dei philosophes: intrecciandosi ad altri temi, quale quello, fondamentale, dell’altruismo espiatorio, essa rappresenta un momento cruciale del pensiero di Balzac che, proprio perché segnato dalle stimmate della propria epoca e del proprio vissuto, può interpretarsi come una tragica e tormentata storicizzazione dell’egoismo.

 

 

  Piero Pacini, Fotografia grafica e pittura: dalle creazioni alle icone consumistiche, «Antichità viva», anno 35, n° 1, 1996, pp. 41-56.

 

 

  Giuseppe Pallavicini, Brevi riflessioni attorno alla traduzione di un testo letterario, in AA.VV., Tradurre. Dalla Letteratura alla Macchina, a cura di Sergio Zoppi, Roma, Bulzoni Editore, 1996 («Consiglio Nazionale delle Ricerche. Progetto Strategico “Il problema della traduzione nell’Italia dell’Europa”»)» pp.65-66.

 

  Sulle problematiche avvincenti e complesse della traduttologia balzachiana, riflette, in questo breve saggio, Giuseppe Pallavicini, autore di numerose traduzioni di testi della Comédie humaine. Prendendo come esempi le tortuosità stilistiche del Père Goriot, egli osserva che «la tecnica della traduzione letteraria (...) oscilla fra due poli: ricalco fedelissimo del vocabolario o maggior autonomia da parte del traslatore» e la soluzione ottimale sarebbe, a suo giudizio, quella di «fornire un’interpretazione semplificata», al fine di «mettere il fruitore dell’opera in condizione di leggere nella maniera più agevole» (p. 66).

 

 

  Pier Paolo Pasolini, [Alcuni classici], in Descrizioni di descrizioni. A cura di Graziella Chircossi. Prefazione di Giampaolo Dossena, Milano, Garzanti Editore, 1996 («Gli elefanti»), pp. 294-300.

 

  Cfr. 1973; 1979.

 

 

  Alessandra Pecchioli Temperani, Balzac: armonie recondite e romantici contrasti, «Micromégas», Roma, 63, Anno XXIII, n. 1, Gennaio-Giugno 1996, pp. 3-22.

 

  L’A., nel sottolineare l’importanza letteraria e programmatica dei consigli rivolti da Daniel d’Arthez a Lucien de Rubempré nella celebre pagina di Un grand homme de province à Paris, esamina i meccanismi narrativi che reggono la storia di Antoinette de Langeais e di Armand de Montriveau descritta da Balzac ne La Duchesse de Langeais. Il romanzo rappresenta, a suo giudizio, un «piccolo capolavoro di geometrie costruite, di tragedia differita che si regge abilmente su passioni forti, romanticamente contrastanti, in una forma trattenuta che mai rischia di cadere nel patetico o nella stravaganza» (p. 22).

 

 

  Ernestina Pellegrini, Honoré de Balzac, in Necropoli immaginarie. Le rappresentazioni della morte in Balzac, Zola, Dickens, Dostoevskij e Tolstoi, Firenze, Le Lettere, 1996 («La Nuova Meridiana - XXI. Serie Saggi di cultura contemporanea», 7), pp. 31-60.

 

  L’itinerario proposto dall’A. inizia con Balzac: il personaggio balzachiano, costantemente inserito all’interno degli spietati meccanismi sociali, rivela, nei confronti della morte, una significativa ambivalenza che si manifesta, da un lato, nella resistenza ad accettare la definitiva rottura con il mondo degli affetti e delle passioni terrene; dall’altro, nel superamento di questo stato di degenerazione fisica attraverso «quelle pratiche della vita spirituale (nel senso della sublimazione e della scelta civile) che sole assicurano lo spazio etico e cognitivo» (p. 33). Erede della grande soggettività romantica, Balzac si configura, allo stesso tempo, come il precursore di quell’ideale, tipicamente realista, per cui il vivere e il morire rappresentano categorie sociali, senza per questo perdere la propria unicità in rapporto al destino e alla dignità di ogni individuo. Nessun personaggio di Balzac è insignificante di fronte alla morte, in quanto essa «conserva sempre un punto di luce e non assume la piega irrazionale di una metafisica dell’assurdo e della disperazione» (p. 32). Il contrasto stridente, nell’«agonia sporca» del père Goriot, tra la degradazione materiale del morente e il suo riscatto morale; le diverse forme di folle monomania presenti nel père Grandet e in Balthasar Claës, il tema del suicidio nella diabolica atmosfera parigina della Peau de chagrin sono alcune tra le immagini emblematiche che permettono al lettore di apprezzare lo spessore dei personaggi balzachiani, dipinti con i crudi colori di un realismo che ha garantito loro l’immortalità.

 

 

  Pierluigi Pellini, Balzac fra romanzo storico e romanzo giudiziario, «Problemi», n. 104, gennaio-aprile 1996, pp. 50-79.

 

  Tra i romanzi della Comédie humaine di chiara matrice ideologico-politica, Une ténébreuse affaire costituisce uno degli esempi più significativi dell’attenzione costante che Balzac dedicò allo studio delle trasformazioni della società sua contemporanea, anche per quel che riguarda gli aspetti più oscuri e nascosti di cui essa era permeata. La ricostruzione dettagliata delle vicende storiche (e ambigue) legate al rapimento del senatore Clément de Ris nel 1800 rappresenta, per lo scrittore, motivo di indagine e di denuncia della crisi profonda delle istituzioni sociali, politiche e giudiziarie sorte dagli sconvolgimenti rivoluzionari. Le riflessioni di Pellini permettono, non solo di comprendere nelle sue linee essenziali il pensiero politico di Balzac, ma di cogliere soprattutto la peculiarità letteraria di questo romanzo, nell’ambito del più vasto quadro della Comédie humaine. In Un caso tenebroso, «al valore post-rivoluzionario della giustizia (umana), è opposto quello ancien régime della fedeltà (a Dio e ai vincoli feudali)» (p. 63): Balzac, in quanto romanziere onnisciente, mette in discussione la nuova giustizia, delegittimando il sistema ambiguo e minaccioso delle istituzioni borghesi e tenta di «restituire un ordine, l’antico ordine nobiliare» (p. 79). La critica e la denuncia degli errori e dei vizi giudiziari della società post-rivoluzionaria risultano strettamente connesse alla riflessione sullo statuto del racconto: avvalendosi di alcune tra le tecniche proprie del romanzo storico per descrivere eventi contemporanei, Balzac proietta il testo narrativo in un’atmosfera «fuori dalla Storia» (p. 72), dove gli eroi sono votati alla sconfitta proprio perché «vivono in un mondo irreale, che solo la scrittura letteraria può riesumare» (p. 77). Da questo punto di vista, «l’alto coefficiente di ‘romanzesco’ che caratterizza la vicenda narrata non è semplicemente funzionale, come nella letteratura popolare, al piacere del lettore: sottende un’ideologia reazionaria corrosiva e disperata» (p. 78) che solo nell’universo letterario trova il luogo per amplificare la voce della giustizia.

 

 

  Pierluigi Pellini, I soldi e la trama. Da Balzac a Zola, «Inchiesta», Bari, Anno XXVI, n. 114, ottobre 1996, pp. 10-13.

 

  La presenza o l’assenza del tema economico-finanziario nella narrativa otto-novecentesca europea risulta essere, nelle sue differenti sfumature e nei suoi (spesso) contraddittori significati, profondamente legato agli assunti estetici e ideologici degli autori, le cui soluzioni narrative non sempre si rivelano coerenti con le rispettive motivazioni teorico-programmatiche. Gli esempi forniti da due romanzi in tal senso esemplari quali La Rabouilleuse di Balzac e L’Argent di Zola permettono all’A. di sviluppare un’interessante analisi dei temi e dei personaggi collegati al denaro in letteratura, in rapporto al sistema ideologico autoriale proposto dai testi considerati. Le conclusioni a cui giunge Pellini ci sembrano particolarmente significative: a suo giudizio, infatti, il tema del denaro mobilita «motivazioni ideologiche e aspirazioni inconfessate, mettendo a nudo l’«inconscio politico» dei testi, manda in crisi i sistemi di valori prefabbricati. E insieme suggerisce soluzioni narrative spesso in contrasto con la poetica esplicita degli scrittori» (p. 13).

 

 

  Pierluigi Pellini, Speculatori vs. Accumulatori: Zola e l’ombra di Balzac, in L’oro e la carta. “L’Argent” di Zola, la ‘letteratura finanziaria’ e la logica del naturalismo, Fasano, Schena editore, 1996 («Biblioteca della ricerca. Cultura straniera», 73), pp. 180-184.

 

 

  Pierluigi Pellini, Balzac e il rovescio del ‘giallo’, in Honoré de Balzac, Un caso tenebroso ... cit., pp. 9-32.

 

  Versione ridotta del più ampio studio pubblicato nella rivista «Problemi», (cfr. supra).

 

 

  Giuseppe Piacentino, Cercando Madame Bovary, in Normandia, «Meridiani», n. 46, Marzo 1996, pp. 28-37.

 

 

  Beniamino Placido, Se il lettore vuol fare il protagonista, «la Repubblica», Roma, 17 novembre 1996.

 

  Solo che c’è, nel cuore di ogni “protagonismo” – nostro o altrui, antico o nuovo, buono o cattivo, fisiologico o patologico – una contraddizione di fondo, che non si riesce ad eliminare. E’ stata segnalata più di una volta, e da persone degne di ogni rispetto. Da Balzac, per esempio. Che nel romanzo Il medico di campagna (1833) scrive: “La malattia del nostro tempo è la voglia di superiorità” (anche in quell’epoca? Evidentemente sì, anche in quell’epoca). Ciò posto, aggiunge: purtroppo, “ci sono più santi che nicchie” (“Il y a plus de saints que de niches”). Il numero di quelli che hanno (o sentono) la vocazione alla santità – la santità dello scrittore, la santità del poeta, la santità dell’artista di successo – è illimitato.

 

 

  Annarosa Poli, Lo stereotipo del personaggio italiano tra realtà e finzione romanzesca ne “Les Marana” di Balzac, in AA.VV., Studi di storia della civiltà francese ... cit., pp. 671-693.

 

  Il soggiorno di Balzac in Italia, tra il febbraio e l’aprile 1837, rappresenta, dopo quello di Torino nel 1836, un momento importante non solo per le vicende personali dello scrittore o per le occasioni mondane che lo videro protagonista nei salotti più “alla moda” del tempo, ma poiché gli permise di acquisire una conoscenza e una comprensione dirette e autentiche del popolo e dei costumi italiani, la cui presenza in opere posteriori a quel viaggio (come Massimilla Doni), risulterà priva, almeno nei loro tratti più evidenti, dei clichés e degli stereotipi, di cui Balzac non si fece scrupolo di servirsi in scritti precedenti. Un caso emblematico di questo orientamento tutt’altro che benevolo nei confronti della civiltà italiana è costituito dal racconto Les Marana, edito sulla «Revue de Paris» dal 23 settembre 1832 al 13 gennaio 1833: descrivendo, in Tarragona, i luoghi ove si consumarono i momenti della conquista napoleonica, Balzac conduce una serie di digressioni storiche alquanto imprecise sui protagonisti di quella tragica impresa; imprecisioni che non sfuggirono ad Antonio Lissoni, testimone oculare dell’evento c autore del celebre volumetto sulla Difesa dell’onore delle armi oltraggiate dal Signor di Balzac nelle sue Scene della vita parigina e confutazione di molti errori della storia militare della guerra di Spagna fatta dagli Italiani (Milano, 1837).

  La minuziosa ricerca di Annarosa Poli, arricchita da preziosi documenti inediti, permette di cogliere punto per punto le inesattezze presenti nel racconto balzachiano, in riferimento soprattutto al alcune figure rappresentative, quali l’eroico sergente Bianchini, esaltato in un poema di Giuseppe Giulio Ceroni, poeta veronese; il capitano Montefiore o la bella Juana. Per ognuno di questi protagonisti, Balzac, portavoce dei clichés che la cultura francese dell’epoca attribuiva agli italiani, rivela, oltre ad una palese ignoranza storica, il fatto di essere pienamente consapevole di creare una serie di ritratti stereotipati, rispondenti pienamente all’«immaginario che l’autore aveva della cultura italiana del tempo» (p. 689). Assistiamo dunque al perdurare dell’immagine di un mito, quello italiano, sempre vivo e tentatore che Balzac derivò senza dubbio dal contesto socio-culturale suo contemporaneo e che riuscì ad esorcizzare solamente dopo quel secondo soggiorno nel clima inebriante, ma non sempre benevolo, di alcune tra le maggiori città della nostra Penisola.

 

 

  Giuseppe Pontiggia, Linneo e il romanzo contemporaneo, in L’isola volante, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996 («Letteratura contemporanea»), pp. 123-126.

 

  pp. 124-125. Scrivendo i novantasei romanzi della Comédie humaine, Balzac lavorava a un immenso affresco, come si amava dire, della Francia contemporanea.

  Oggi il romanzo sociologico è passato ai sociologi, che vi aggiungono nuovi ingredienti: le statistiche, i diagrammi, le proiezioni, le profezie, i confronti con il passato (meglio se remoto [...]).

 

 

  Maria Grazia Porcelli, Una precauzione nel tradurre Balzac, in AA.VV., Traduzione ... cit., pp. 59-63.

 

  Partendo dall’esame di alcuni esempi tratti dalle sue recenti versioni italiane di Illusions perdues e di Splendeurs et misères des courtisanes (edite entrambe da Rizzoli), l’A. propone interessanti riflessioni sulla delicata questione inerente alla traduzione di un’opera letteraria. Nel caso specifico del romanzo balzachiano, le difficoltà consistono principalmente nella «restituzione di uno stile che, spesso, rischia di non venire percepito come tale», data la compresenza di diversi livelli stilistici e lessicali che compaiono in «contesti che non lasciano presagire» (p. 59). Per cui, viene auspicato che tali difficoltà possano essere risolte «alla luce delle strutture narrative del romanzo in particolare considerando il paradigma del personaggio e le modalità della storia» (p. 63).

 

 

  Giovanni Ragone, Introduzione alla sociologia della letteratura. La tradizione, i testi, le nuove teorie, Napoli, Liguori editore, 1996 («Socio/Logie», 1), pp. 86-98; 347-357.

 

  Nei «nuovi classici» del moderno, nei grandi romanzi, Lukács cerca la capacità di cogliere «i reali rapporti di potere». Balzac, per esempio, nonostante le contraddizioni della sua concezione del mondo (e della sua sociologia) esplicita, individua esattamente il fondamento del sistema capitalistico nelle trasformazioni di cui è spettatore e illustratore, come mostra il testo dei Paysans, dove ideologicamente è schierato con l’aristocrazia, dà troppa importanza alla religione come fattore di integrazione sociale, e parteggia per una precisa soluzione della questione della proprietà della terra; ma dove, come artista, lascia che ognuna delle tre parti in lotta tra loro (latifondo, capitalismo usuraio, contadini), «si spieghi» apertamente.

  La tecnica di analisi di Lukács investe quasi esclusivamente i contenuti, alla ricerca di un senso sociale concettualizzato secondo l’ottica marxista, che il romanzo rispecchia, seppure in modo complesso e spesso contraddittorio (si avverte l’eco delle opere storiche di Marx, dove i fatti sociali sono organizzati in una grande narrazione). Per esempio, Les (sic) illusions perdues [...].

 

 

  Elena Randi, Il gesto nella visione di Balzac, in AA.VV., Gesto e parola: aspetti del teatro europeo tra Ottocento e Novecento, a cura di Umberto Artioli e Fernando Trebbi, Padova, Esedra, 1996, pp. 1-40.

 

  Al centro della concezione di Balzac sull’architettura dell’Universo ritroviamo un principio per lui fondamentale anche nel campo strettamente estetico: l’Unità, «punto di partenza di tutto ciò che fu prodotto»: fine a cui tutto tende («il fine deve essere identico al principio. [...] Il fine è il ritorno di tutte le cose all'unità, che è Dio». Il regno celeste ha, per il romanziere francese, una conformazione unitaria e centralizzata. [...].

  Lungi dall’essere composto da mondi distinti, l’universo è un tutto, ogni parte del quale è in relazione con le altre [...]. Ogni cosa è interdipendente e interagisce continuamente con le altre [...].

  Il legame tra l’Uno ed il creato si basa su uno schema preciso, che Autore eredita da Swedenborg. Involucro materico dietro a cui si cela una realtà più profonda non percepibile dal corrotto occhio umano, il sensibile è, per il veggente svedese, microcosmo che riflette, in proporzioni ridotte e secondo un modulo difettoso, la struttura del macrocosmo. La relazione tra micro e macro-cosmo, nonché il rapporto tra le varie parti del regno celeste da un lato e tra quelle della sfera mondana dall’altro, sono regolati dalla legge delle corrispondenze, legge che discende palesemente dalla teoria dell’emanazione elaborata da Filone e ripresa da Plotino [...].

  Secondo Swedenborg, un Cielo superno riceve la luce direttamente da Dio. Mediatamente, essa si riflette poi su altre sfere celesti, via via meno luminose c perfette. Nella natura, l’uomo costituisce l’essere meno dissimile dall’architettura sovramondana. Essa si riverbera sull’uomo interiore, ossia su quanto costituisce la struttura psichica dell’individuo (affetti c pensieri). Sentimenti e idee, a loro volta, si esprimono nel corpo [...]. Ad un livello inferiore giacciono gli animali, seguiti dai vegetali e dai minerali, ove il Divino si manifesta nella maniera più impura. Dal Primo Motore al minerale esiste dunque una scala gerarchica; anche sull’ultimo gradino resta un ricordo, per quanto opaco, del Cielo.

  Non a caso, Balzac con insistenza quasi maniacale paragona i suoi personaggi agli animali, così aderendo ad un principio di relazione tra l’uomo e la bestia che non si riscontra solo in campo scientifico (in Darwin, per esempio), ma presente anche in autori che preferiscono un approccio “intuitivo-simbolico” al tema [...]. L’androgino Séraphîta (o Séraphîtüs che dir si voglia) è ora tortora, ora aquila; i suoi genitori sono «anatre volanti assieme». Sotto forma dello stesso animale, Séraphîta è stata vista uscire da un’immersione nel fiordo da Duncker. Wilfrid è «calmo e sottomesso come il leone che, lanciato sulla preda in una pianura d’Africa, riceve sull’ala del vento un messaggio d’amore e si arresta». David conduce nel castello Séraphîta come un’aquila porta nel suo nido una pecora. Louis Lambert, parlando delle sue letture, dice di aver compiuto «viaggi deliziosi, imbarcato su una parola, tra gli abissi del passato, come l’insetto, che, posato su qualche filo d’erba, galleggia lasciandosi trasportare dalla corrente». Anche i personaggi negativi sono spesso assimilati alle bestie, ma, in questo caso, esse sono amputate, costrette nelle gabbie, oppure crudeli, stupide, deformi. Jérôme Nicolas Séchard nelle Illusioni perdues (1837-1843) è definito un orso, come tutti i torcolieri, soprannome venuto loro «dal continuo va e vieni che essi fanno, come gli orsi in gabbia». Nella Théorie de la démarche molti dei personaggi che Balzac osserva camminare (tutti in maniera goffa, sgraziata, ridicola) sono paragonati ad animali “snaturati”. Un tale con le braccia dietro la schiena e le scapole alate «era simile a una piccola pernice servita su una fetta di pane abbrustolito»; una giovane «indecente nel modo più innocente» «somigliava a una gallina a cui avessero tagliato le ali» e che si ostinava a tentar di spiccare il volo. Cataneo in Massimilla Doni (1839), dopo essere stato descritto come fisicamente ripugnante, è definito una «vecchia scimmia». [...].

 

 

  Rinaldo Rinaldi, Balzac in Gadda: tecnica della citazione multipla nella “Cognizione del dolore”, «Sigma. Parole d’altri», Anno XXI, nn. 5-6, gennaio-dicembre 1996, pp. 113-206.

 

  [...]. Non sono comunque simili coincidenze giocose e azzardate, a poter sostenere un discorso critico sulle citazioni di Balzac in Gadda. È: ad una più ampia ricerca di strutture e ambienti che occorre affidarsi, tentando di individuare dei nuclei testuali precisi attraverso la progressiva accumulazione e sovrapposizione di molte e diverse analogie ‘sfumate’, in una sorta di lenta approssimazione che è discesa nel profondo della lettura e al tempo stesso conquista di una lucidità, di una nettezza di visione sempre più grande. È alla fine di una simile indagine che potremo forse riconoscere dietro la gaddiana mescolanza di sublime lirismo e rabelaisiana caricatura, il marchio altrettanto ibrido dello stile balzacchiano anch’esso perennemente oscillante fra lo slancio patetico e il feroce umorismo. [...].

  Una lettura ravvicinata de Les Paysans, del resto, permette di ritrovare numerose altre ossessioni tematiche gaddiane, che rinviano a testi anche diversi dalla Cognizione del dolore e contemporaneamente ad altre pagine balzacchiane. a testimonianza di una sintonia più profonda di quanto può sembrare a prima vista. Pensiamo, per esempio, ad un motivo che certo proviene ad entrambi gli scrittori dalle reali predilezioni della borghesia ottocentesca, ma che Balzac seleziona con particolare insistenza: quello dell’entomologo o mineralogista dilettante e della sua collezione di meraviglie. Figure simili sono presenti in Albert Savarus, ne Les Employés, ne La Cousine Bette (in questo caso uno specialista di coleotteri), ma particolare rilievo prende la collezione di «M. Gourdon, le médecin» proprio ne Les Paysans [...].

  Questa lunga serie di figure tutte simili e tutte sovrapponibili come vecchie fotografie di famiglia, questo unico grande atroce romanzo familiare che Balzac ha continuato a riscrivere, sempre uguale a se stesso come un ipnotico caleidoscopio, agisce davvero in profondità nella memoria letteraria gaddiana È un ampio repertorio di profili, che funziona da un lato come cassa di risonanza, amplificando e conferendo uno spessore indeterminato (quando non coagula fulmineamente in un ricordo preciso) ai fantasmi privati dell’ingegnere. Al tempo stesso gli echi balzacchiani permettono a Gadda di velare [...] le più segrete pieghe della biografia; distanziando, raffreddando e rendendo perciò dicibile quello che dovrebbe rimanere inespresso. È allora paradossale e insieme significativo che il luogo da cui sembrano giungere alla Cognizione del dolore le corrispondenze più ricche e articolate (anche se non sempre fissate in un corto circuito testuale) sia proprio il romanzo di Balzac più direttamente autobiografico: Le Lys dans la vallée. Gadda esorcizza insomma il proprio passato per mezzo di un’opera altrettanto sbilanciata verso le zone più nascoste dell’Io: utilizza uno schermo curiosamente omologo alla propria verità, vicino e lontano nello stesso tempo. Scatta così fra i due romanzi un gioco di specchi che certo modifica i significati e i rapporti di quello balzacchiano, conservandone tuttavia le valenze e la riconoscibilità: i fantasmi del visionario Balzac, simili a delle macchie di Rorschacht, si ricompongono e si sovrappongono a quelli gaddiani, permettendo ancora una volta all’autore della Cognizione del dolore di farli emergere alla superficie, potenziati nella loro verità. [...].

 

 

  Mili Romano, Balzac, in Città della letteratura. Immagini e percorsi, Bologna, CLUEB, 1996 («Mosaici», 6), pp. 35-57.

 

  Queste pagine dedicate all’immagine della realtà parigina nell’opera di Balzac costituiscono il tassello di un più vasto mosaico sulla moltitudine delle rappresentazioni di città nella letteratura moderna. L’A. svolge, a nostro avviso, un’indagine complessivamente pertinente sull’evoluzione della descrizione urbana in Balzac, dai primi saggi degli anni Trenta (La Théorie de la démarche) sino a La Cousine Bette riportando ampie citazioni di passi balzachiani che si rivelano un’utile guida per il lettore. Tuttavia, ci sembra che, in alcuni momenti, lo studio manchi di organicità e che alcuni temi fondamentali, quali, ad esempio, il rapporto tra le descrizioni parigine balzachiane e le tecniche (o le strategie) narrative utilizzate dallo scrittore non abbiano goduto della necessaria attenzione.

 

 

  Carla Rossi, Il desiderio mediato in tre romanzi di Balzac: “Le Père Goriot”, “Albert Savarus” e “La Cousine Bette”. Tesi di laurea. Relatore: Maria Bertini, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia. Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, anno accademico 1995-1996.

 

 

  Daniela Schenardi, Analisi del romanzo di Balzac “Maître Cornélius”. Tesi di laurea. Relatore: Maria Bertini, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, anno accademico 1995-1996.

 

 

  Arrigo Stara, “Homo Fictu” e il denaro: di cosa vivono i personaggi, «Inchiesta», Bari, ottobre-dicembre 1996, pp. 24-27.

 

  Vorrei dedicare questa mia riflessione a una domanda che, nella sua genericità, potrebbe apparire quasi stravagante: perché i personaggi della letteratura hanno bisogno del denaro? Per farne cosa? Vorrei soffermarmi su questo interrogativo, a partire da una scena che si trova al centro di quello che è forse il primo capolavoro di Balzac, Eugénie Grandet (1834): la scena drammatica in cui papà Félix Grandet, l’avaro, davanti agli occhi incomprensivi della figlia Eugénie, deve comunicare al nipote Charles che suo padre (il fratello di Grandet) ha fatto fallimento, e si è suicidato per i debiti. Al termine di quella scena, cercando di venire a capo di quanto aveva appena visto e sentito, rimasto per lei avvolto in una coltre di oscurità, Eugénie rivolge al padre una domanda decisiva: «Che cos’è un milione, padre?». Vorrei provare ad intendere soltanto questa frase, mettendo tra parentesi, per quanto è possibile, il resto del romanzo; perché mi sembra che proprio in questa battuta di dialogo fra Eugénie e suo padre abbia luogo un momento decisivo, uno scarto nella consapevolezza del proprio rapporto con il denaro, di quel protagonista universale e astratto che Edward Morgan Forster ha battezzato Homo Fictus.

  Intanto, chi è Homo Fictus? In breve, è il personaggio letterario, così come viene fuori dalle pagine della narrativa in generale, e più in particolare da quelle dei romanzi. [...].

  Quale modello di un universo di finzione nel quale ha luogo compiutamente la creazione di questo verosimile artificiale, Genette prende proprio la Comédie humaine di Balzac. Nei racconti e romanzi che compongono la Comédie, scrive Genette, la mano di Balzac si mostra più avvertibile proprio nel momento in cui il narratore si sente in dovere di offrire delle spiegazioni ai lettori riguardo alla condotta dei suoi personaggi [...].

  Il verosimile artificiale del quale il narratore di Balzac possiede la chiave, continuamente riaffermata nelle clausole pedagogiche, nelle massime, negli incisi proverbiali, è un nuovo verosimile che, consolidatosi selvaggiamente nella società borghese di quegli anni, deve oramai per forza trovare posto anche nei romanzi; deve diventare un principio esplicativo, il principio esplicativo delle azioni di Homo Fictus, se il romanziere vuole che egli continui a rassomigliare a Homo Sapiens.

  Il principio, la legge di questo nuovo verosimile è naturalmente il denaro, «il solo dio moderno nel quale si abbia fede», che domina allo stesso titolo «le leggi, la politica, i costumi», come icasticamente ribadisce al proprio lettore il narratore di Eugénie Grandet. Per essere credibile, per non risultare una marionetta manovrata arbitrariamente dal romanziere, il nuovo esemplare di Homo Fictus sarà obbligato a conformarsi al verosimile del nuovo secolo, che non gli si rivolgerà più con un romantico “che cosa pensi?”, ma con un ruvido e direttissimo “che cosa paghi?” Il possesso del denaro, il modo in cui lo si è conquistato, gli espedienti con i quali Homo Fictus arriva a riempire giorno dopo giorno la mensa domestica, non potranno più fare parte di quei blanks che l’autore è libero di tacere, riguardo all’esistenza del proprio personaggio; ma serviranno alla pari del nome e del cognome, dei tratti somatici e del colore dei capelli, per decretarne la verosimiglianza o meno agli occhi del pubblico. Mentre, tutto al contrario, alcuni dei caratteri raccolti nelle cinque rubriche di Forster inizieranno a scolorire e a diventare evanescenti; l’amore stesso, vera e propria fissazione fin lì di Homo Fictus, inizierà a perdere di consistenza, a divenire insufficiente quale motivazione dell’azione narrativa: per scongiurare l’inverosimiglianza, l’Homo desiderans di Forster è obbligato a trasformarsi in un Homo oeconomicus, consapevole che ogni cosa, non solo il cibo, ma anche i sentimenti, ha il proprio prezzo.

  Tutto questo vedo riassunto nella scena di Eugénie Grandet di cui parlavo all’inizio, nella quale è come se un vecchio e un nuovo rappresentante della specie Homo Fictus si trovassero improvvisamente posti in presenza l’uno dell’altro, e fossero costretti a mettere alla prova in un lampo, in un attimo di folgorante intensità, la possibilità di tenuta che hanno le ragioni della propria esistenza a confronto con quelle dell’altro. Con un anacronismo che pure andrebbe compreso a fondo, Eugénie, la figlia, è un’incarnazione del vecchio verosimile romanzesco, mentre l’avaro, il sordido, l’abbietto Félix Grandet è l’uomo del presente, del nuovo: per ciò solo dotato di un rango, avrebbe detto Lukács, di una autoconsapevolezza che nella «gerarchia dei personaggi» lo pone certamente al di sopra di tutti gli altri, al di sopra della stessa Eugénie costretta a rivolgersi a lui per imparare la legge dell’universo in cui vive: «Dimmi, padre, che cos’è un milione?» Eugénie è il personaggio ancora inconsapevole che la propria vita ha un prezzo, e che questo prezzo andrà calcolato con scrupolosa esattezza in oro, in scudi, in franchi: «un milione», è la risposta di Grandet, «è un milione di pezzi da venti soldi, e ci vogliono cinque pezzi da venti soldi per fare cinque franchi». Non mi pare che, prima di Balzac, Homo Fictus abbia mai parlato così: impartendo una breve lezione di economia e di matematica finanziaria alla propria figlia che si interroga sul fallimento e sul suicidio dello zio, sull’amore che sente nascere in sé per il cugino, in breve sul senso della propria esistenza rimasto fino ad allora per lei nascosto dietro a una sorta di silenzio che era, in essenza, natura; la vita per Eugénie era semplicemente questa, lo squallido salotto di casa Grandet, la misera «cucina dell’avaro», organizzata da Nanon, che sforna appena il necessario per sfamare la famiglia; oltre alle «quattro frasi» e ai terribili ta ta ta ta del padre, che riassumono il senso di un intero universo.

  Con l’arrivo a casa Grandet del cugino Charles, di cui Eugéne si innamora, la vita sembra dover cambiare: cambiare nel senso dell’Homo desiderans di Forster, divenire terreno di conquista per l’amore, per la passione, per tutti quei sentimenti che fin dalle origini avevano costituito il centro del verosimile romanzesco; se questo fosse il destino del personaggio Eugénie, non ci sarebbe alcun bisogno di spiegazioni, qualunque lettore capirebbe, la mano di Balzac potrebbe rimanersene ferma ed in silenzio. Mentre invece, come viene sottolineato dal commento epigrafico del narratore, a quel rintocco fatale la «vita ignorante» di Eugénie finisce di colpo: il suo verosimile (che è poi quello del lettore) è contraddetto, stravolto, atterrato dal conflitto con un’altra logica a lei del tutto sconosciuta, quella del nuovo Homo oeconomicus per il quale anche la più piccola delle offerte d’amore ha un costo, il più puro dei sentimenti deve essere valutato con la partita doppia del dare e dell’avere. A suo padre, l’uomo del presente, il personaggio verosimile nella nuova società che allora si afferma, Eugénie deve contendere la panna, la farina, la focaccia, il burro, le uova, lo zucchero per la colazione di Charles; lei che se solo avesse potuto «avrebbe prosciugato la casa del padre» per il suo nuovo amore, scopre che Grandet «ha le chiavi di tutto» ed è disposto ad aprire la dispensa domestica soltanto con una parsimonia, con una meschineria che la fa disperare. Anche per Homo Fictus, all’improvviso, il cibo viene ad avere un prezzo; e il tanto amato Charles, figlio di un suicida fallito, non vale per papà Grandet lo zucchero che con tanta abbondanza egli è solito versare nel suo caffè del mattino. «Che cos’è un milione, padre?» è la domanda sul senso di un mondo governato da nuove leggi, che il vecchio rappresentante di Homo Fictus è costretto a rivolgere al suo successore; in Eugénie Grandet questi ha ancora bisogno di venire inteso nelle sue ragioni, ha bisogno che il narratore fornisca al lettore le massime necessarie ad intendere il verosimile artificiale che nel suo universo ha preso il posto della vecchia natura. Passato qualche anno, non ce ne sarà più alcuna necessità; e a ragione è stato notato come, rispetto alla grande stagione del realismo dell’Ottocento, quello appunto di Balzac o di Stendhal, nel nuovo secolo, che è il nostro, Homo Fictus e il suo autore avranno molto meno bisogno di parlare di denaro. Il fatto è che il verosimile artificiale di Félix Grandet sarà diventato allora perfettamente naturale; ed anche intorno alla sua logica, divenuta oramai perfettamente verosimile perché uguale a quella di tutti, si sarà ricostituito un comprensivo silenzio.

 

 

  Elena Tagliabue, Il linguaggio meta fonologico nell’opera narrativa di Honoré de Balzac degli anni 1838-1839. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1996.

 

 

  Stefano Tani, Il romanzo di formazione, Università degli Studi di Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia - Letterature comparate, Anno accademico 1996-1997. (Corso universitario).

 

 

  Elena Tega, Carte, cappelli e oro. Il gioco d'azzardo ne “La Peau de chagrin” di Honoré de Balzac, «Inchiesta», Bari, ottobre-dicembre 1996, pp. 40-43.

 

  Un giovane sconosciuto si appresta a entrare nella casa da gioco del Palais Royal. Accolto dai presenti come un angelo decaduto, riconosciuto come un principe della disperazione, egli gioca al tavolo del trente et quarante la sua ultima moneta. Perduto il denaro – e, con esso, ogni speranza di sopravvivenza –, Raphaël de Valentin, l’anti-eroe de La Peau de chagrin [La pelle di zigrino], decide di buttarsi nella Senna.

  Questi sono i pochi fatti che aprono, come una sorta di avant-scène, la tragedia del protagonista. Balzac ha nascosto, tra le pieghe di questo primo lembo narrativo, le tracce dell’atto criminale di cui Raphaël si macchierà nei confronti di se stesso. Ma vi ha celato anche gli abbozzi di una filosofia della composizione e di una decadente etica sociale. A cominciare dalla scena iniziale, un’intricata rete di sensi s’allarga sull’intero romanzo: il reiterarsi di situazioni, di figure, di nuclei di senso equivalenti sottolinea l’importanza tematica della sequenza. La struttura ripetitiva, speculare e labirintica evidenziata nella Peau de chagrin impone un percorso di lettura non rettilineo: ci accadrà, nel breve spazio di questo articolo, di dover vagare per il testo, di dover preferire, a un percorso interpretativo lineare, una lettura “simbolica”. I luoghi, i personaggi, gli eventi collocati da Balzac in cima alla vicenda, troveranno ampi echi in altre zone della narrazione: il gioco d’azzardo, gioco di denari, essenzialmente, ritorna nella vita del protagonista come un fantasma ossessivo e disperante. La prima figura in cui s’imbatte il giovane è un vecchietto livido rannicchiato nell’ombra [...]. Orrendo custode posto a guardia di un Inferno abitalo da «demoni umani» – i giocatori –, egli incarna l’icona della Passione divorante e annuncia la perdizione che attende chi varca la soglia del cerchio infernale. Allegoria del Gioco — e la maiuscola è la marca linguistica che lo conferma –, questo Cerbero ottocentesco ammanta la vicenda di un’aura mitologica; rivolgendosi a Monsieur de Valentin, egli compie un gesto che si rivela un segno:

  «Signore, il cappello, prego?» [...].

  Cosa significa la perdita del cappello? L’atto si configura come una sorta di apologo, di parabola sulla perdita del Sé, sull’alienazione: alienazione socioeconomica innanzitutto, incoraggiata, autorizzata da uno Stato che tesaurizza ciò che i giocatori scialacquano; alienazione del soggetto che si consegna al Gioco – incarnato dal vecchio Cerbero –, disperdendo le sue sostanze, il suo denaro, la sua dignità. Non sembri questa un’interpretazione forzata: il tema del cappello come rappresentazione dell’onore, della virilità, dell’identità ricorre con una frequenza tale da divenire sospetta, significante.

  Vale la pena di anticipare i tempi e di compiere un salto nel testo per ritrovare, per la seconda volta, il cappello di Raphaël. Nonostante si trovi in condizioni miserevoli, M. de Valentin si è lanciato nella conquista di Foedora, una ricca nobildonna dalle origini russe e dal passato oscuro. Fingendo mezzi che non possiede, egli lotta con le apparenze per non svelare la mancanza di denaro. Nella Parigi messa in scena da Balzac, il veicolo di forza è proprio l’argent nei meccanismi sociali, il potere, il successo, il prestigio del singolo si misurano in rapporto alla quantità di denaro posseduta. Alla base del dinamismo sociale si pone l’oro, non tanto come valore in sé, quanto piuttosto come sintomo di forza economica, politica, psichica. Fin dalle prime battute della vicenda si stabilisce un legame analogico tra l’individuo, il denaro e le sue manifestazioni esteriori: i segni della fortuna materiale. Il cappello rientra fra questi indici d’opulenza [...].

  L’identificazione è resa esplicita dallo stesso protagonista che appronta una semplice equazione:

cappello = argent = soggetto.

  L’eleganza del copricapo è indizio di una ricchezza che, a sua volta, costituisce il metro di giudizio dell’individuo. Il successo economico consente l’accesso alle differenti nicchie di potere, ai salotti, ai gabinetti politici, alle alcove delle nobildonne e delle cortigiane. L’oro ha sostituito le armi nella conquista e nella difesa della sicurezza, del “territorio”; la sua mancanza implica una vulnerabilità su piani diversi — materiale, politico, psichico —, una debolezza difficilmente sopportabile per il giovane Raphaël de Valentin. Per questa ragione la perdita al gioco lo spinge sul bordo della Senna.

  Ma cerchiamo nel testo l’ennesima conferma della «simbologia del cappello». Dopo avere definitivamente abbandonato l’idea di conquistare Foedora, Raphaël si affida al système dissipationnel dell’amico Rastignac: una maniera dispendiosa di affrontare la vita, disseminando debiti e cambiali senza avere alcuna intenzione di onorarli. Il bisogno di denaro spinge i due viveurs a tentare la fortuna al gioco. L’oro vinto alla roulette viene raccolto in un cappello, moderno scrigno di tesori, immagine figurata di una cassaforte, luogo simbolico della ricchezza. Diversamente da quanto era accaduto nella sequenza iniziale, in questo episodio denaro e cappello non sono in opposizione: è avvenuta una sorta di fusione, di compenetrazione. Accumulando oro, Raphaël de Valentin riacquista (nel senso di “acquistare nuovamente”, di “comprare”) prestigio in società, considerazione. Una rinnovata opulenza spalanca all’eroe le porte del bel mondo parigino, l’unico habitat che vale la pena frequentare, un microcosmo che compare compiutamente e ripetutamente nella Comédie balzachiana.

  Ricordiamoci, però, che anche questo episodio, come quello precedente, è cronologicamente anteriore alla scena del Palais Royal – la scena che apre La Peau de chagrin —, sebbene entrambi la seguano nel romanzo a causa dell’intreccio. E, proprio grazie alla struttura “ribaltata”, il lettore conosce già la conclusione di questo sogno di agiatezza: Raphaël cederà nuovamente il suo cappello e la sua esistenza al Gioco in cambio di una possibilità di vivere. Un simile patto vagamente faustiano è sottoscrivibile in una struttura societaria che parrebbe riconoscere esclusivamente all’oro, o meglio, al suo possessore, il diritto di sopravvivenza. Ebbene, gran parte dell’umanità di Balzac – una congrega di nobili decaduti e di borghesi arricchiti, gli uni affannati a rincorrere l’accumulo di capitale dei secondi; gli altri impegnati nella conquista del prestigio socio-politico dei primi – è tutta rappresentata dall’ultimo gesto di M. de Valentin, dal suo ingresso nella casa da gioco, dal suo disperato tentativo di vincere denaro.

  È lecito chiedersi perché Balzac abbia scelto di illustrare la tragica situazione del protagonista facendolo entrare in una sala da gioco. Le ipotesi sono diverse: dal punto di vista narrativo, la scommessa al trente et quarante potrebbe offrirgli una via d’uscita, potrebbe aprire nuove strade al viaggio esistenziale di Raphaël. Ma questo non accade perché varcare la soglia del Palais Royal equivale a entrare in un passaggio a senso unico il cui solo sbocco possibile sarà la Morte: uscito dal Casino, l’eroe-vittima si imbatterà nella pelle di zigrino, un terribile talismano, potentissimo, ma fatale per chi lo possiede. Tutto il romanzo ruota intorno all’accettazione di questo patto faustiano: solo un giovane privo di speranze avrebbe sottoscritto un simile contratto — una sorta di suicidio procrastinato –, e Raphaël è esattamente questo tipo di uomo. Eppure, all’inventiva romanzesca di Balzac non sarebbero certo mancati altri espedienti. Il medesimo effetto avrebbero potuto produrlo altre mille combinazioni narrative. Perché proprio il Gioco? Oltre alla funzionalità all’interno dell’economia episodica, quale altro significato gli si può attribuire? [...].

  Dietro alla pratica del gioco d’azzardo si cela un atto fortemente alienante che priva l’individuo del possesso di sé – così come il guardarobiere del Palais Royal spoglia M. de Valentin del suo cappello.

  Ma il gioco d’azzardo, nella Peau de chagrin, non appare esclusivamente come fenomeno sociale con valenza psicologica. Esso acquisisce valore simbolico. Balzac ha scelto un gioco il cui esito non dipende in alcun modo dall’abilità del giocatore, dal volere, dall’intelligenza; nel trente et quarante — o nella roulette — il singolo si trova a doversi confrontare con le probabilità, col Caso, col mondo del Possibile. Chiuso in una dimensione solipsistica, il giocatore deve fronteggiare i colpi della Sorte, l’enorme mare delle probabilità. Se nella dimensione reale ogni effetto è il risultato di una causa, se nel mondo logico, razionale la realizzazione dell’evento annulla le varie eventualità per renderne vera una e una sola, il gioco d’azzardo consente, al contrario, una visione – vertiginosa – sullo spazio infinitamente aperto del Caso, delle possibilità multiple. Non è un caso che la roulette abbia forma circolare, come la ruota della Fortuna: un giro svela all’uomo il passaggio dal possibile al reale, gli mostra la contrazione dell’aleatorio nel concreto.

  Questo genere di passatempo pare offrire all’individuo il mezzo per ingannare il proprio Destino: Raphaël affida alla sua ultima puntata, come a una bussola, la scelta di una direzione esistenziale [...].

  La scommessa, quindi, sembra configurarsi come un pericoloso tuffo nella Libertà, una libertà che parrebbe trovare, in quella dimensione aperta, arbitraria, la sua rappresentazione. E tuttavia, per M. de Valentin, non esiste atto meno affrancatore di quella puntata decisiva, dell’abbandono alla ruota della fortuna; l’unica testimonianza di vera autonomia sta nell’esercizio di un libero arbitrio che a Raphaël è precluso. Nel panorama desolante e implacabile della casa da gioco, non c’è spazio né per l’affermazione di una volontà consapevole, né per il gioioso estrinsecarsi di una pulsione ludica – e infatti Raphaël è spinto là dal bisogno, da una mancanza –: c’è solo un orrendo tranello che l’autore pare avere teso al suo protagonista. In realtà, nel mondo strutturato e prestabilito della Peau de chagrin, il Caso lascia il posto al Destino, a una linea già tracciata che Raphaël dovrà percorrere fino in fondo. Non c’è Hasard, c’è piuttosto un «demone del gioco». Tutto è scritto, tutto accadrà per una sorta di predestinazione e, soprattutto, lo abbiamo già accennato in precedenza, per esigenze narrative: Raphaël non può che perdere perché deve incontrare l’immagine del suo destino, la pelle.

  Nessuna libertà, dunque, solo un profondo senso di tragedia incombente che permea tutta la scena. [...]. Un Cerbero all’enfiata non può che anticipare un precipizio infernale. Raphaël è in procinto di entrare in un luogo maledetto, funesto. [...]. Questo côté superstizioso è perfettamente coerente con la personalità del giocatore, protesa verso la credulità e l’abbandono al Demone del Caso. Lo stesso «presentimento mortale» viene sentito da Michu, un altro personaggio balzachiano protagonista di Una tenebrosa vicenda, quando scorge Corentin per la prima volta [...].

  Dall’episodio di apertura, lo abbiamo visto, sgorgano mille rigagnoli di senso. La sua particolare collocazione permette a Balzac di introdurre, in una sorta di grande scena anticipatoria, quello che sarà un tema ricorrente. Il gioco costituisce un momento centrale dell’intero testo, ma soprattutto della vita di Raphael. Approfittiamo ancora una volta di una lettura a balzi: superiamo episodi ed eventi per rintracciare una seconda scena di gioco. La troviamo nelle parole del protagonista quando racconta il suo singolare debutto in società dopo un’adolescenza forzatamente ritirata, vissuta sotto lo sguardo di un padre autoritario. L’iniziazione del giovane Valentin, però, si svolge in maniera del tutto singolare perché il suo primo ingresso nel mondo avviene in modo truffaldino: Raphaël, disubbidendo a un divieto paterno, lo froda di alcune monete ch’egli punta al tavolo verde [...].

  L’impotenza che l’eroe anti-eroe dimostra lungo tutta la vicenda, la sua incapacità di fare, di agire, probabilmente deriva dall’atteggiamento castrante del padre. Per questo, il primo atto autonomo del figlio – la puntata segreta al gioco – si configura come una ribellione all’autorità paterna; ma è una ribellione a metà, celata proprio a quell’autorità che si vuole contestare, nascosta, latente e non manifesta, realizzata ma non svelata e, quindi, del tutto sterile. La ribellione, per essere fruttuosa, deve sfociare in una rivoluzione, deve scontrarsi apertamente con i divieti, altrimenti è muta e non ha potere deflagrante. Ora, il coraggio di far implodere la figura patema, Raphaël non ce l’ha. Questa scena del gioco-sfida, per il lettore, è un déjà-vu, nonostante sia cronologicamente anteriore alla sequenza iniziale. Il tappeto verde viene definito «fatale»: non lo sarà la prima volta perché il padre non si accorgerà di nulla; ma lo sarà nell’ottobre 1830 e il lettore, memore proprio di quella perdita subita dal protagonista al Palais Royal, dà un preciso significato all’aggettivo. Funziona qui quello sguardo retrospettivo a cui si accennava in precedenza: la struttura del racconto, a incastro, consente questo gioco di specchi.

  La sala da gioco, quindi, si configura come un luogo vietato, impuro, in cui si perdono l’oro e l’integrità; contemporaneamente, si prospetta come luogo sacro di circolazione del denaro. Sconfinare in uno spazio vietato, oltrepassare gli steccati dell’interdizione mette in moto un implacabile meccanismo: la trasgressione contempla terribili anatemi, conseguenze spaventose, eventi maledetti, persino la morte, o la dannazione. Per questo, forse, dopo la prima rivolta contro il divieto semi-divino (quello del padre si delinea come tale), Raphaël tenta di rispettare la Legge del Padre, non mettendo più piede in una sala da gioco, almeno fino all’ottobre 1830 quando il tabù verrà infranto. Penetrare in un luogo proibito sembra equivalere, lo abbiamo già detto, a una sentenza di morte: M. de Valentin ha pronunciato la propria. Quella condanna, Raphaël, deve averla impressa sulla fronte, come un marchio di infamia. Il suicidio si annuncia a gran voce: sembra non esservi scampo per questo prigioniero del Destino [...].

  M. de Valentin punta sul Nero. Esce il Rosso. Il confronto con la Fortuna lo ha visto perdente e, poiché la posta in gioco era la sua vita, abbandonandosi al flusso cupo dei suoi pensieri suicidi, egli si incammina verso la fine, «ascoltando, attraverso i clamori popolari, una sola voce, quella della morte».

 

 

  Marinella Termite, Recensioni. Honoré de Balzac, “La duchessa di Langeais”, a cura di Maria Grazia Porcelli, introduzione di Francesco Fiorentino, con testo francese a fronte, Venezia, Marsilio, Coll. I Fiori Blu, 1996, 336 p., «Studi di letteratura francese», Bari-Milano, XXI, 1996, pp. 209-211.

 

  Secondo romanzo del ciclo balzachiano Histoire des Treize, La duchessa de Langeais, nell’edizione curata da Maria Grazia Porcelli, si fregia della lettura critica di Francesco Fiorentino, il quale con richiami sociologici, semiologici e psicanalitici, ricostruisce la tela narrativa, personale e avventurosa, dell’opera, confermandone la matrice autobiografica. Inquadrato storicamente nell’esangue mondo salottiero della Restaurazione, il romanzo nascerebbe dalle ceneri di una delusione politico-amorosa dell’autore. Partendo, perciò, dalla controversa relazione con Madame de Castries, delineata con puntiglio cronologico, e dalla mancata pubblicazione di un suo articolo sulla revisione del programma del partito legittimista, le cui idee-cardine sono riprese in una lunga digressione all’interno del romanzo, Balzac avrebbe plasmato i suoi personaggi principali, la duchessa de Langeais e il marchese de Montriveau, in base a vicende personali e a valori politici e culturali della società del suo tempo. Gli stessi lineamenti somatici sarebbero un’ulteriore traccia della genesi biografico-identitaria dei protagonisti.

  Le nobiltà, la napoleonica rappresentata dal marchese e la legittimista simboleggiata dalla duchessa, rinviano così simmetricamente a due concezioni antinomiche dell’amore, quello romantico e quello mondano, interpretate attraverso un sistema di segni e di codici linguistici combinati fra loro che rivela gli intenti opposti delle strategie adottate e sfata l’ipotesi vendicatrice di Balzac nei confronti di Madame de Castries. La metafora della guerra-corteggiamento, già sperimentata nell’analisi dei romanzi libertini, e della bestialità-sessualità sottendono, infatti, le sequenze della passione fra autenticità e consuetudini sociali, purezza e possesso.

  Questa conflittualità è risolta da Fiorentino in termini di negazione freudiana; la frustrazione del desiderio nel gioco del concedersi e del rifiutarsi, nel rovesciamento dei ruoli, nel continuo inseguirsi finisce per distruggere fisicamente l’oggetto stesso del desiderio, il corpo-identità con le sue energie.

  Privilegiando queste chiavi di lettura, l’introduzione tripartita regola la ricezione globale in senso binario, tralasciando, però, i rilievi strutturali, le pulsioni che ritmano in modo non uniforme la scrittura, dalla cornice alle descrizioni, alle rievocazioni, come riflesso della tensione autobiografica, e gli eventuali accenni alla traduzione e all’apparato critico annesso. Pur mantenendo fisionomie distinte, le affini valenze referenziali e fatiche dell’introduzione e della traduzione individuano un’implicita e tacita permeabilità.

  Fedele al testo francese, la resa testuale italiana affronta gli inevitabili ostacoli interlinguistici cercando di recuperare lo spessore connotativo. Se, ad esempio, i termini italiani, presenti nel testo francese, non sono più dei preziosismi in quello tradotto, termini francesi, quali «parvenu», «boudoir», vengono conservati nel testo italiano non perché non abbiano dei corrispondenti in «arricchito» o in «salottino», ma perché veicolano uno status sociale dell’epoca della Comédie humaine. Del resto, le poche note di carattere prettamente metalinguistico mostrano il recupero della funzionalità specifica di questi termini, come «ci-devant», «Monsieur», nella società del tempo, confermando la particolare cura nell’assicurare principalmente la transitività cognitiva dei dati realistico-biografici e storico-letterari del romanzo.

  Più ampiamente esplicative sul piano storico, toponomastico, genealogico dei personaggi dell’alta società citati o a cui si allude, le note recuperano anche le simmetrie contenutistiche, la circolarità dei personaggi in relazione al ciclo, alla Comédie humaine o alle varie edizioni de La duchesse de Langeais, individuano e sottolineano i riferimenti alle suggestioni critiche di Fiorentino. [...].

 

 

  Piero Toffano, Opere letterarie, in AA.VV., Francesistica ... cit., pp. 431-433.

 

 

  Gioacchino Toni, L’arte del dare a vedere. Cinema e pittura in “La belle noiseuse” di Jacques Rivette, «Cinéma. Rivista universitaria di studi sul cinema», Udine, Numero 2, Febbraio 1996, pp. 33-36.

 

  La belle noiseuse [La bella scontrosa, 1991) nasce da un libero adattamento di un racconto di Balzac (Le chef-d’oeuvre inconnu) che si occupa dell’ispirazione artistica e dei rapporti tra realtà ed arte e, stando alle dichiarazioni dello stesso Rivette, risente dell’influenza di un racconto, anch’esso di “ambientazione pittorica”, di Henry James (Il bugiardo). Il film, dunque, denuncia un debito iniziale con la letteratura, la quale, a sua volta è debitrice nei confronti della pittura; Balzac scrive questo racconto sull’onda dell’esperienza di un viaggio in Italia ove ha avuto modo di visionare alcune meraviglie pittoriche (sic).

  Sembrerebbe, a questo punto, trovarsi di fronte ad una sorta di gioco di rimandi incrociati, ove letteratura, pittura e cinema si richiamano a vicenda. Nel soffermarsi, però, su questi rimandi incrociati, si rischia di non cogliere l’essenza stessa del cinema di Rivette: l’arte del dare a vedere. È lo stesso Rivette che, già negli anni ʼ50, rivendica per il cinema il diritto – ed il dovere – di viaggiare su un binario diverso, parallelo se si vuole, rispetto alla letteratura. Lasciamo, dunque, da parte il richiamo all’opera di Balzac ed al racconto di James.

  L’arte del dare a vedere, si diceva. Siamo di fronte ad un film che si interroga sulle arti della visione e sui loro rapporti con la realtà delle cose; è possibile individuare in esso una riflessione sul cinema stesso, sulle sue peculiarità, sul suo specifico. Sarà proprio alla luce di questa riflessione sul rapporto tra cinema e realtà, tra cinema e creazione artistica, tra cinema e pittura, che tenteremo di vedere l’opera di Rivette. [...].

 

 

  Edith Wharton, Scrivere narrativa. Traduzione di Chiara Cabutti, Parma, Pratiche Editrice, 1996, pp. 93.

 

 

  Lina Zecchi, Discesa agli inferi con “Béatrix”, in AA.VV., Miscellanea in onore di Liano Petroni. Studi e ricerche sulle letterature di lingua francese, Bologna, Clueb, 1996 («Il ventaglio. Miscellanee», 8), pp. 193-207.

 

  L’A. coglie l’importanza di Béatrix, in relazione allo svolgersi progettuale e scritturale della poetica di Balzac, e svolge una lucida analisi testuale e tematica del romanzo, rivelando al lettore le suggestioni di una «triplice fascinazione». Anzitutto, la fascinazione di un paesaggio, quello della Bretagne, in cui la cornice realista che racchiude i momenti dell’evoluzione sentimentale di Calyste, «si svela sempre più come luogo mitico, magico-iniziatico» (p. 193), pervaso di magnetiche energie; in secondo luogo, la fascinazione della femminilità, strettamente connessa con la precedente e legata alla presenza di un immaginario femminile ambiguo, caratterizzato da figure sublimi, sublimate, angeliche e materne, ma, allo stesso tempo, «gonfio di irriducibile manicheismo» (p. 194). Infine, la fascinazione della mondanità urbana, che risalta in primo piano nella terza ed ultima parte dell’opera, dominante nell’universo «artificiale, claustrofobico e ossessivo di Parigi, città infernale, livida e senza uscite» (ibid.).



Marco Stupazzoni

 

 

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