domenica 30 giugno 2019



1932

 



Traduzioni.

 

 

  Onorato Balzac, Argow il pirata. Romanzo. Traduzione di Vittorio Mariani, Milano/Roma, Treves/Treccani/Tumminelli, Editori-Tipografi, 1932-X («Nuova Biblioteca Amena», 29), pp. 352.

 

  Balzac e il romanzo d’avventure, pp. 3-13; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Argow il pirata, pp. 15-352.

 

  Seguito de Le Vicaire des Ardennes, Annette et le criminel fu pubblicato nel 1824 prese successivamente il titolo di Argow le pirate all’interno delle Oeuvres complètes de Horace de Saint-Aubin nel 1836.

  La traduzione che Vittorio Mariani fornisce di questo romanzo giovanile balzachiano è lontana dal potersi ritenere soddisfacente sia per l’omissione di sequenze testuali anche di una certa ampiezza sia per la qualità della resa in lingua italiana del testo francese che ci pare frequentemente troppo sommaria e disinvolta.

 

 

  Onorato di Balzac, Il Colonnello Bridau (Un ménage de garçon). Traduzione di Maffio Maffii, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1932 («Biblioteca Romantica, diretta da G. A. Borgese», XVIII), pp. 431; 1 ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Il Colonnello Bridau, pp. 9-424;

  Maffio Maffii, Nota, pp. 427-431. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

 

  Terzo ed ultimo capitolo della trilogia de Les Célibataires (Scènes de la vie de province), il romanzo è stato pubblicato, nella sua forma definitiva, nel tomo VI dell’edizione Furne de La Comédie humaine il 27 aprile 1843, con il titolo: Un ménage de garçon en province. Come ci informa René Guise, «c’est sur son exemplaire personnel que Balzac a donné à l’œuvre son titre, La Rabouilleuse».[1]

  Nonostante la volontà del traduttore, il quale si propone, anche rispetto alle versioni italiane precedenti del romanzo balzachiano, di «avvicinarsi il più possibile all’intendimento dell’artista (cfr. Nota, p 431)», crediamo che Maffio Maffii abusi troppo frequentemente di questa sua esigenza fornendo un testo che, se nel complesso può ritenersi corretto sotto il profilo linguistico, lascia trasparire, in più luoghi, l’eccessiva (crediamo) libertà assunta dal compilatore rispetto al modello di riferimento.

 

 

  Onorato Balzac, Il colonnello Chabert. Versione di Alfredo Fabietti, Milano/Roma, Treves/Treccani/Tumminelli, Editori-Tipografi, 1932-x («Nuova Biblioteca Amena», 25), pp. 211.


  Struttura dell’opera:

 

  Balzac e la rivoluzione, pp. 3-16; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Il colonnello Chabert, pp. 17-125;

  Un episodio durante il Terrore, pp. 127-158;

  Il coscritto, pp. 159-187;

  El Verdugo, pp. 189-207.

 

  I testi di riferimento della versione italiana che Alfredo Fabietti fornisce di queste quattro opere di Balzac sono quelli dell’edizione Furne pubblicati tra il 1844 e il 1846. Nel complesso, ci pare che le traduzioni siano fedeli e corrette; tuttavia, ci sentiamo di esprimere qualche riserva per Il Coscritto, versione italiana di Le Réquisitionnaire, che, in alcuni punti, riteniamo essere non sempre adeguata e pertinente. Si consideri, ad esempio, questa sequenza testuale tratta dall’incipit del racconto:

 

  p. 1105. [cfr. Balzac, Le Réquisitionnaire, a cura di Thierry Bodin, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1979, t. X].

 

  Par un soir du mois de novembre 1793, les principaux personnages de Carentan se trouvaient dans le salon de Mme de Dey, chez laquelle l’assemblée se tenait tous les jours. Quelques circonstances qui n’eussent point attiré l’attention d’une grande ville, mais qui devaient fortement en préoccuper une petite, prêtaient à ce rendez-vous habituel un intérêt inaccoutumé. La surveille, Mme de Dey avait fermé sa porte à sa société, qu’elle s’était encore dispensée de recevoir la veille, en prétextant d’une indisposition. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 161. Una sera del mese di novembre del 1793 i più notabili personaggi della piccola città di Carentan erano adunati, come di solito, nel salotto della signora De Dey, ove s’incontravano regolarmente quasi tutti i giorni. In una grande città la consuetudine di tali riunioni non avrebbe provocato la minima attenzione, ma a Carentan costituiva un avvenimento di cui tutti s’interessavano. Ora era accaduto un fatto straordinario: già da due sere la signora De Dey faceva dire ai suoi ospiti di non poterli ricevere, e si scusava, sempre col pretesto di un’indisposizione.

 

 

  Onorato di Balzac, Il colonnello Chabert. Il curato di Tours. Scene della vita privata, Torino, Casa Editrice A. B. C. (A. R. S. Anonima Roto-Stampa), 1932 («Collana Resurgo», 8), pp. 181.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Il colonnello Chabert, pp. 5-91;

  Il curato di Tours, pp. 93-179.

 

  Queste versioni italiane (anonime) di Le Colonel Chabert e di Le Curé de Tours sono condotte sui testi dell’edizione definitiva Furne pubblicati rispettivamente nel 1844 e nel 1843.

  I frequenti arbitrî e gli errori del compilatore nei confronti dei testi dei due romanzi balzachiani non consentono di formulare un giudizio positivo circa la qualità delle traduzioni proposte. Si considerino, a tal proposito, gli esempî che qui sotto riportiamo:

 

  Le Colonel Chabert (Il colonnello Chabert):

 

  p. 311 [Cfr. Balzac, Le Colonnel Chabert, a cura di Pierre Barbéris, in La Comédie humaine … cit., 1976, t. III).

 

  Le saute-ruisseau est généralement, comme était Simonnin, un garçon de treize à quatorze ans […]. [Il corsivo è nostro].

 

  Il «piccolo» è generalmente, come appunto lo era Simone, un ragazzo di dodici o tredici anni […].

 

  pp. 314-315. Le mobilier crasseux se transmet d’avoué en avoué avec un scrupule si religieux que certaines études possèdent encore des boîtes à résidus, des moules à tirets, des sacs provenant des procureurs au Chlet, abréviation du mot Châtelet, juridiction, qui représentait dans l’ancien ordre de choses le tribunal de première instance actuel. […]. Certes, si les sacristies humides où les prières se pèsent et se payent comme des épices, si les magasins des revendeuses où flottent des guenilles qui flétrissent toutes les illusions de la vie en nous montrant où aboutissent nos fêtes, si ces deux cloaques de la poésie n’existaient pas, une étude d’avoué serait de toutes les boutiques sociales la plus horrible. Mais il en est ainsi de la maison de jeu, du tribunal, du bureau de loterie et du mauvais lieu. Pourquoi? Peut-être dans ces endroits le drame, en se jouant dans l’âme de l’homme, lui rend-il les accessoires indifférents, ce qui expliquerait aussi la simplicité du grand penseur et des grands ambitieux.

–Où est mon canif?

 

  pp. 9-10. L’untuoso mobilio si trasmette da un procuratore all’altro con uno scrupolo così religioso, tanto che alcuni studi posseggono ancora delle scatole per rifiuti, degli stampi, dei sacchi provenienti dai procuratori dello Chatelet, giurisdizione che rappresentava nell’antico regime, l’attuale tribunale de prima istanza. […].

  Se le umide sacristie dove le preghiere si pesano e si pagano come derrate; se i negozi di rivenduglioli dove sventolano degli stracci che avvizziscono tutte le illusioni della vita mostrandoci dove finiscono le nostre feste; se queste due cloache della poesia non esistessero, uno studio di procuratore sarebbe certamente, di tutte le botteghe sociali, la più orribile.

  – Dov’è il mio temperino?

 

  Le Curé de Tours (Il curato di Tours).

 

  pp. 181-183 [Cfr. Balzac, Le Curé de Tours, a cura di Nicole Mozet, in La Comédie humaine … cit., 1976, t. IV).

 

  Depuis l’aliénation des biens du clergé, la ville a fait du passage qui sépare ces maisons une rue, nommée rue de la Psalette, et par laquelle on va du Cloître à la Grand-rue.

 

  p. 96. Dopo l’alienazione dei beni del clero, il municipio ha trasformato lo spazio che separava le case in una strada chiamata: via del Salterio.

 

  Un antiquaire, s’il y en avait à Tours, une des villes les moins littéraires de France, pourrait même reconnaître […].

 

  p. 97. Un antiquario, se a Tours ce ne fossero, potrebbe anche riscontrare […].

 

  Cet endroit est un désert de pierres, une solitude pleine de physionomie, et qui ne peut être habitée […].

 

  p. 97. Quel luogo è un deserto di pietra che non può essere abitato […].

 

  […] l’objet de son envie et son hoc erat in votis pendant une douzaine d’années.

 

  p. 98. […] l’oggetto del suo desiderio ed il suo hoc erat in votis durante una decina d’anni.

 

 

  Balzac, Scene della vita privata. Il Deputato d’Arcis. Romanzo. Traduzione di E. Galletti-Rossi, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1932 («Tutto Balzac», 27-28), 2 volumi rispettivamente di 344 e di 236 pagine.

 

  Il testo dell’edizione del romanzo balzachiano su cui si fonda la presente traduzione, su cui ci sentiamo di esprimere qualche riserva, è quello dell’edizione originale apparso ne L’Union monarchique dal 7 aprile al 3 maggio 1847.

 

 

  O. Balzac, Eugenia Grandet, Firenze, Casa Editrice G. Nerbini (Tip. G. Cencetti), 1932 (X), pp. 143.


  Struttura dell’opera:

 

  Prefazione all’edizione del 1834, pp. 5-6;

  Eugenia Grandet, pp. 7-142.

 

  Siamo di fronte al medesimo testo della mediocre traduzione di Eugénie Grandet pubblicato nel 1929 dall’Editore Quattrini di Firenze.

 

 

  Onorato Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo, Milano, Casa Editrice Bietti, 1932 («Biblioteca réclame», 33), pp. 252.

 

  Cfr. 1924; 1928; 1929; 1931.

 

 

  Onorato di Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione integrale di Alfredo Fabietti, Sesto San Giovanni (Milano), Edizioni «A. Barion» della Casa per Edizioni Popolari - S. A., 1932, pp. 191.

 

  Esemplata sul testo dell’edizione definitiva del romanzo (Furne, 1843), la traduzione che Alfredo Fabietti fornisce del capolavoro balzachiano può considerarsi, nel complesso, corretta. Non è riportata la dedica ‘A Marie’.

 

 

  Onorato Balzac, Eugénie Grandet. Avec introduction et notes par Albert Ferrante, Palermo, Trimarchi, 1932 («Collezione di classici stranieri con introduzione e note»), pp. 128.

 

  Cfr. 1928; 1930.

 

 

  Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Grazia Deledda, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1932 («Biblioteca Romantica, diretta da G. A. Borgese», 7), pp. 245.

 

  Cfr. 1930; 1931.

 

 

  [Balzac], Lettere di ieri. Il Titano indebitato, «La Lettura», Milano, Anno XXXII, N. 7, Luglio 1932, pp. 619-621. [quattro lettere].

 

  E’ Balzac. Titano, chi ne dubita? Rosta solo pensare alle proporzioni colossali dell’opera sua. Indebitato? Basta leggere queste lettere per capirlo. Balzac è l’esempio, unico nella storia, di un grande artista che ha lavorato tutta la sua vita, con l’unico intento, pedestre e borghese, di pagare i suoi debiti. E non erano nemmeno debiti brillanti, debiti di gioco, di lusso, di scapestrataggine, insomma, come usano di solito i geni. Erano debiti d’affari! Tra il 1825 e il 1828 Balzac, che per sfortuna sua doveva coltivare sempre il bacillo degli affari, si lasciò prendere in certe complicate speculazioni editoriali, impiantando in proprio una tipografia e una fonderia di caratteri. Ne uscì schiacciato dai debiti: e da quel momento comincia la sua terribile fatica di Sisifo che d’anno in anno, di scadenza in scadenza, doveva rovinargli tutta l’esistenza. «Bisogna ch’io viva, — scriveva nel fatale '28 alla sorella, — per lavorare, e per poter pagar tutti fino all’ultimo centesimo». Dopo tre anni di lavoro furibondo (gli anni che hanno darò, tra l’altro, la bizzarra e immortale Peau de chagrin) egli confida alla sua amica duchessa d'Abrantès, d’essere ormai alla vigilia della liberazione.

 

ALLA DUCHESSA D’ ABRANTES.

 

Parigi, settembre 1831.

 

  Signora. Stavolta vi siete sbagliata, lo ero venuto a trovarvi, ma voi eravate in compagna. C’è un'esigenza che domina la mia vita, il lavoro, un lavoro continuo, senza tregua, un lavoro di quindici o sedici ore al giorno; con questa idra, nulla è possibile. Le amicizie deboli se ne vanno: solo le vere restano, e io conto sulla vostra.

  A scriver lettere, non ci riesco: La fatica è troppa. Voi ignorate quale età la mia situazione tre anni fa: io non avevo che la mia penna per vivere e per pagare 120.000 franchi di debiti. Tra pochi mesi io avrò pagato tutto, e avrò finalmente messo in ordine la mia piccola e modesta casa; ma per sei mesi ancora avrò tutte le noie della miseria, per fortuna le mie ultime miserie, lo non ho domandato nulla a nessuno, non ho teso la mano a nessuno: ho tenute nascoste le mie tristezze, le mie piaghe. E voi, che sapete se è facile guadagnare del denaro con della letteratura, voi potete sondar e con la vostra penetrazione di donna l'abisso che io vi scopro, e che ho per tanto tempo costeggiato senza cadervi. Sì, io ho ancora sei mesi ben difficili da passare. e tanto più che. se perfino Napoleone si è stancato di fare la guerra, io posso confessare che questa lotta con le avversità comincia a stancarmi.

  Tenetemi dunque come un’eccezione, un povero operaio che bisogna venire a vedere, o contentarsi di prenderlo nei suoi pochi giorni di festa. Nessuno al mondo sa cosa costa una delle mie visite: e non lo dico per vanità, ma a un’amica sincera come voi posso confessare queste cose, sicuro che non ci divideranno.

  Dunque, non pensate mai male di me. Dite: lavora giorno e notte; e non meravigliatevi che di una sola cosa, di non aver ancora sentito dire che sono morto.

  Mille tenerezze. E non sgridatemi più perché sapete che vi amo.

 

  Il povero Balzac aveva fatto male i suoi calcoli. I sei mesi passano, ed eccolo inchiodato più che mai alla sua condanna, come appare in questa commovente lettera alla madre.

 

ALLA MADRE.

 

Angoulême, 19 Luglio 1832.

 

  Mia cara Madre. Sono arrivato qui l’altro ieri a sera; ieri mi sono riposati perché la strada, con questo caldo, mi aveva stancato orribilmente, tanto più che avevo fatto a piedi, sull’ora del mezzogiorno, la strada da Saché a Tours.

  Stamattina slavo per attaccare coraggiosamente il mio lavoro, quando la tua lettera è venuta a disorganizzarmi! Come vuoi che sia possibile di avere dei pensieri d’arte, a vedersi davanti all’improvviso il quadro delle mie miserie come tu me lo tracci? Credi tu che se io non sentissi la mia situazione, lavorerei a questo modo?

  T’ho detto con le lacrime agli occhi e l’affanno nel cuore che è impossibile che il mio manoscritto sia pronto prima del 10 agosto. Il 10 agosto noi avremo i 1800 franchi. Guarda a Parigi se tu puoi rimandare tutto a questo termine. Se non è possibile, pazienza, mi lascerò sequestrare, e pagherò le spese. Finirò per pagare quel denaro a ben caro prezzo!

  Credi che la soluzione di tutto sta nell’assiduità del mio lavoro, e il mio lavoro nella tranquillità.

  Sarebbe bella che Gosselin si mettesse davvero in testa di non mandarmi le bozze! Ma sarebbe la rovina della mia riputazione! Io romperei subito tutti i nostri contratti. Il romanzo che gli ho mandato, mi è costato trenta giorni e quindici notti, e ho bisogno almeno di rivederlo due volte in bozze. Digli che le aspetto con impazienza.

  Io mi alzo alle sei, e correggo Les Chouans; poi lavoro alla Bataille dalle otto di sera alle quattro del mattino. Durante il giorno correggo quello che ho fatto di notte. Dimmi se ci può essere una vita più occupata.

  Addio, Mamma buona, fa l'impossibile; è quello che faccio anch’io. La mia vita è un perpetuo miracolo. Ti abbraccio col cuore, e con tanta pena perché ti rendo infelice quanto io lo sono.

 

  Quattro anni dopo le cose, non sono molto migliorata, se i debitori gli sequestrano i suoi mobili, i suoi quadri, le sue ceramiche idolatrate, e lo rimandano a vivere in una soffitta. E’ un colpo atroce, però (lo dice lui in questa lettera, alla contessa Hanska. la donna che fu il grande amore della sua vita) egli non dispera: due anni di lavoro perseverante, e, non c’è dubbio, tutto si può ancora riparare ...

 

A MADAME HANSKA.

 

Parigi, ottobre 1836.

 

  L’amicizia dovrebbe essere un conforto infallibile nei grandi dolori della vita: è possibile che possa aggravarli? Mi domandavo questo tristemente stanotte leggendo la vostra ultima lettera ...: Voi non conoscete certo quale profondo dolore sia nell’anima mia, e insieme con quale cupo coraggio io sopporti questa seconda grande sconfitta che devo subire a metà della mia carriera. Quando io ho naufragato la prima velia nel 1828 non avevo ancora ventinove anni, e c’era un angelo al mio fianco. Oggi sono nell’età in cui un uomo non può più ispirare quell’amorevole senso di protezione che accompagna la giovinezza, e che è ai giovani così naturale di ricevere, come agli altri di darla. Per un uomo che è ormai più vicino ai quarant’anni che ai trema, la protezione sarebbe un insulto. Un uomo che a quest’età si riduce debole e senza risorse, è già giudicato.

  Precipitato dalle mie speranze, avendo ormai tutto abdicato, rifugiatomi qui nella vecchia soffitta di Jules Sandeau, a Chaillot, nel momento in cui per la seconda volta nella mia vita mi trovo rovinato da un disastro impreveduto e completo, io pensavo con qualche dolcezza che almeno mi rimaneva intatto l’affetto di pochi cuori eletti ... proprio allora la vostra lettera è venuta, così scoraggiata, così triste. Con che avidità l’ho incominciata, con che abbattimento l’ho chiusa, prima di prendere quel poco sonno che mi concedo! Io mi sono afferrato alle vostre ultime parole, come ci si può afferrare all’ultimo ramo d’albero, prima di essere travolti dalla corrente. Io sono abbattuto, ma non vinto, il mio coraggio mi è rimasto. Il senso di abbandono e di solitudine in cui mi trovo mi affligge più di tutti i miei guai. Non c’è nulla d’egoista in me. Bisogna che io possa riportare tutti i miei pensieri, i miei sforzi, i miei sentimenti a un altro essere Che mi è caro; se non ho questo, non ho più forza ... Sono entrato in questa soffitta con la convinzione che ci morirò sfinito di lavoro. E’ più di un mese che m’alzo a mezzanotte e mi corico alle sei del pomeriggio del giorno dopo. Mi sono imposto la dieta più rigorosa, la minima indispensabile per vivere, onde evitare al cervello la fatica delle digestioni. Ebbene, non soltanto provo delle debolezze estreme, ma dei disturbi singolari, per esempio, perdo qualche volta il senso della verticalità, che è nel cervelletto; anche quando sono a letto, mi sembra che la testa mi caschi di qua e di là, e quando mi levo ho come l’impressione di essere trasportato dal gran peso che ho nel cervello. Adesso capisco come l’astinenza assoluta di Pascal, e il suo lavoro gigantesco l'abbiano ridotto a sentire sempre un abisso intorno a sè, e ad aver bisogno quand’era a tavolino, di tenersi due seggiole ai lati.

  Non ho potuto lasciare la mia casa dì Rue Cassini, senza rimpianto. Non so ancora se potrò conservare qualcuno dei mobili ai quali tengo di più, come il mio scaffale. Ho fatto tutti i sacrifici possibili per avere la piccola gioia di saperli ancora miei. Sono così poca cosa per estinguere la sete dei creditori, eppure calmerebbero la mia in questa marcia nel deserto e nelle sabbie che sto per intraprendere. Due anni di lavoro possono salvare tutto, ma è impossibile che io resista due anni a questa vita. Per darvi un’idea di dove arrivo, vi dirò che Le secret des Ruggeri è stato scritto in una sola notte; ricordatevene quando lo leggerete. La vieille fille è stata scritta in tre notti. La perle brisée, che mette fine all’Enfant maudit, è stata messa insieme in poche ore di angoscia morale e fisica; questo è il mio Brienne, il mio Champaubert, il mio Montmirail,insomma la mia campagna di Francia!

  Ma potrei dire altrettanto della Messe de l’athée e di Facino Cane. A Saché in tre giorni ho scritto i primi cinquanta fogli delle Illusions perdues. Quello che mi ammazza sono le correzioni. La correzione della prima parte dell’Enfant maudit mi è costata più che scrivere dei volumi. Volevo metterla all’altezza dell’ultima. della Perle brisée, e farne una specie di piccolo poema di malinconia dove non ci fosse niente da ridire. Questo mi ha preso una dozzina di notti. Al momento in cui vi scrivo, ho sul mio tavolo le bozze di quattro libri diversi che devono uscire entro questo mese. Inoltre ho promesso per questo mese a Werdet il terzo fascicolo degli (sic) Etudes philosophiques, e dieci nuovi Contes drolatiques; in più devo dargli per il quindici novembre Les illusions perdues (sic). Il pubblico è indifferente. e quindi bisogna sorpassarsi: sorpassarsi in mezzo ai protesti cambiari, ai rovesci d'affari, alle strettezze di denaro le più crudeli, e nella solitudine più completa, più deserta di consolazioni.

  Addio, ecco l’alba, le mie candele impallidiscono. Da tre ore sono qui a scrivervi. riga dopo riga, con la speranza che voi sentiate in ognuna il grido di un sentimento vero, profondo, infinito come il cielo, molto al disopra di queste meschine e passeggere irritazioni della vita ... A che cosa servirebbe dunque l’intelligenza, se non a collocare qualcosa di bello sopra una cima elevata, dove nulla di materiale e di terrestre possa toccarlo?

  Le bozze mi aspettano. Bisogna die mi metta in queste stalle d’Augìa del mio stile, per spazzarne le lordure. La mia vita non mi offre più che la monotonia del lavoro, che solo il lavoro varia a sua volta. Io sono come quel vecchio colonnello austriaco che parlava all’imperatrice Maria Teresa del suo cavallo grigio o del suo cavallo nero. Anch’io sono un po’ sull’uno un po’ sull’altro: sei ore sul Secret, sei ore sull’Enfant maudit, sei ore sulla Vieille fille. Di tanto in tanto mi alzo e contemplo l’oceano di tetti che la mia finestra domina, dalla Scuola Militare fino alla barriera del Trône, dal Pantheon fino all’Etoile; e dopo aver respirato una boccata d’aria mi rimetto al lavoro.

  Raccogliete dalla mia lettera i miei più teneri omaggi, non potendo raccogliere l’anima che vorrei mandarvi tutta intera, solo senza le sue pene, ma sì col coraggio e con la perseveranza che essa ha e che vorrei comunicarvi: io non voglio veder vacillare uno spirito così forte, così eroico come il vostro.

 

  Ahimè. due anni non sono bastati! Anzi neanche nove, come si vede da questa lettera alla sua vecchia amica Zulma Carraud.

 

ALLA SIGNORA ZULMA CARRAUD.

 

gennaio 1845.

 

  Cara, e voi non mi scrivete più, nemmeno ogni tre mesi! Voi mi lasciate cuocere nelle fiamme di un lavoro gigantesco, e che va sempre più crescendo. Oh! questo è molto male.

  Voi non vi immaginate che cosa sia la mia Comédie humaine: è qualcosa di più vasto, letterariamente parlando, di quello che non sia in architettura la cattedrale di Bourges. Sono sedici anni che ci lavoro, e ce ne vorranno ancora otto per finirla! Aspetto che sia finita la nuova edizione per mandarvela, a condizione che voi brucerete quelle che vi ho dato prima, e che sono indegne, con tanti errori, di rimanere presso una perfezione celeste come la vostra.

  Compiangetemi: io lavoro sedici ore al giorno, e ho ancora più di 100.000 franchi di debiti! E ho quarantacinque anni! E’ una cosa ben triste! Addio.

 

  Il 17 (sic) agosto 1850 Balzac moriva, ucciso prematuramente dalle fatiche del suo lavoro immane. Aveva avuta la consolazione di sposare pochi mesi prima, a Kiev, Evelina Hanska, con la quale era fidanzato dal ’41. Lasciò naturalmente dei debiti …

 

 

  Onorato di Balzac (1799-1850), Il medico di campagna. Prima traduzione integrale di Amedeo Recanati, a cura di Erminio Robecchi Brivio, Torino, Casa Editrice A. B. C., 1932 («Collana “Resurgo”», 5), pp. 331.


  Struttura dell’opera:

 

  Erminio Robecchi Brivio, Onorato di Balzac, pp. 7–12; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Il medico di campagna, pp. 13-328.

 

  La traduzione che Amedeo Recanati conduce sul testo dell’edizione Furne (1846) di Le Médecin de campagne si caratterizza per l’estrema e spesso ingiustificata libertà con la quale il compilatore traspone il testo balzachiano nel nostro idioma. Vagano, come esempî, alcune citazioni tratte dalle prime pagine del romanzo.

 

  pp. 385-386 [cfr. Balzac, Le Médecin de campagne, a cura di Rose Fortassier, in La Comédie humiane … cit, 1978, t. IX].

 

  Ce bourg est le chef-lieu d’un canton populeux circonscrit par une longue vallée. Un torrent à lit pierreux souvent à sec, alors rempli par la fonte des neiges, arrose cette vallée serrée entre deux montagnes parallèles, que dominent de toutes parts les pics de la Savoie et ceux du Dauphiné. Quoique les paysages compris entre la chaîne des deux Mauriennes aient un air de famille, le canton à travers lequel cheminait l’étranger présente des mouvements de terrain et des accidents de lumière qu’on chercherait vainement ailleurs. […]. Séparées seulement par le torrent qui rugit dans ses cascades, les deux hautes murailles granitiques s’élèvent tapissées de sapins à noir feuillage et de hêtres hauts de cent pieds. […]. Les vives senteurs de ces arbustes se mêlaient alors aux sauvages parfums de la nature montagnarde, aux pénétrantes odeurs des jeunes pousses du mélèze, des peupliers et des pins gommeux. Quelques nuages couraient parmi les rochers en en voilant, en en découvrant tour à tour les cimes grisâtres, souvent aussi vaporeuses que les nuées dont les moelleux flocons s’y déchiraient. […]. Enfin c’était un beau pays, c’était la France! [Il corsivo è nostro].

 

  pp. 15-17. Questa borgata è il capoluogo di un popoloso circondario circoscritto da una lunga vallata, chiusa fra due catene parallele di monti che dominano tutt’intorno le cime della Savoia e del Delfinato. Nel fondo della valle corre un torrente dal letto pietroso, secco assai spesso, che si gonfia al fondersi delle nevi.

  Benchè il paesaggio racchiuso nella catena delle due Mauriennes abbia un aspetto tutt’altro che selvaggio e aspro, la zona che lo straniero percorreva presenta scoscendimenti di terreno e giochi di luce che si cercherebbero inutilmente altrove. […].

  […] separate soltanto dal torrente che rugge nelle sue cascatelle, le due granitiche muraglie si levano, tappezzate di abeti dalle foglie nere e di faggi altissimi. […].

  Il nostro cavaliere sentiva gli odori acuti di questi arbusti mescolare il sentore selvaggio della natura montuosa coi profumi penetranti dei germogli del larice, dei pioppi e dei pini gommosi. Qualche nuvola correva fra le rupi, velandone o scoprendone, di volta in volta, le cime grigiastre, spesso vaporose come le nubi i cui soffici fiocchi vi si squarciavano contro. […].

  Insomma era un bel paese, nel quale il pellegrino vedeva radunate tutte le bellezze della sua Francia!

 

 

  Balzac, Scene della vita di provincia. Orsola Mirouet. Traduzione di E. Galletti-Rossi, Milano, Edizioni Corbaccio (Soc. An. «La Tipografica», Varese), (febbraio) 1932 («Tutto Balzac», 26), pp. 351.

 

  La traduzione, che riteniamo, in più luoghi dell’opera, alquanto disinvolta e non sempre rigorosamente aderente al costrutto francese, che il Galletti-Rossi fornisce di questa ‘scène de la vie de province’ balzachiana si fonda sul testo dell’edizione Furne pubblicata nel 1843.

 

 

  Onorato de Balzac, Le Piccole miserie della vita coniugale, Firenze, Adriano Salani Editore, 1932 («Biblioteca Salani Illustrata», 226), pp. 256.

 

  Cfr. 1893 e ristampe successive. 

 


 

Studî e riferimenti critici.

 


  Balzac e il romanzo d’avventure, in Onorato Balzac, Argow il pirata … cit., pp. 3-13.

 

  Quest’Argow di Balzac è un esempio di «romanzo giallo», come poteva essere concepito poco più di cento anni fa, quando il campo della letteratura veramente popolare era tenuto dai fortunati imitatori della tenebrosa Anna Radcliffe, che non mostravano ancora di volersi arrendere né alla dilagante celebrità delle «storie» di tipo scottiano, né alla proclamata superiorità artistica dei racconti di pura intenzione psicologica, né, tanto meno, a quella nuova pretesa, che già cominciava ad albeggiare nelle opere d’alcuni scrittori, di fare del verismo descrittivo un pretesto per lo studio dei costumi sociali nella vita contemporanea.

  Madama Cottin e madama Genlis continuavano ad avere i loro lettori non meno numerosi di quelli che con più convinta ammirazione s’erano rivolti allo Chateaubriand, alla Staël, o al Constant; e la trionfale divulgazione dei libri di Walter Scott non impediva che dalle stamperie uscissero a decine altri volumi, il cui titolo era già una promessa di esito sicuro presso un vasto pubblico sentimentale: Vittorio, o il figlio della foresta; Alessio, o la casetta nei boschi; Emma, o la figlia della sventura; e così via, fino a quella Celina, ovvero la figlia del mistero, di cui l’autore Ducray-Duminil (un ignoto ora per noi, ma che aveva allora una sua altissima rinomanza, acquistata, prima che sul teatro, nelle aule giudiziarie, coi resoconti dei processi misteriosi) potè vantarsi di aver venduto centomila copie in pochissimo tempo.

  Il povero Balzac doveva avere la fantasia sedotta da questi invidiabili esempi di fortuna letteraria quando, a vent’anni, ostinato nell’amore dell’arte, ripudiava le lusinghe della professione di notaio e si riduceva a vivere da eremita in una squallida soffitta parigina, promettendo orgogliosamente alla famiglia che, appena avesse finito di imparar a scrivere (sua grande e ingenua preoccupazione a quei tempi), avrebbe saputo anch’egli guadagnarsi, scrivendo, la ricchezza e la gloria. Gli esordi, poi, come si sa, non furono felici. Dopo una lunga e malinconica permanenza nella sua soffitta, nudrito di poco pane e di molte disordinate letture, s’avviò un giorno a casa dei suoi col manoscritto d’una tragedia in versi, che, sebbene annunziata e recitata con gran rinforzo di toni declamatori, parve una delusione solenne a quanti ebbero il disagio di ascoltarla. Non piacque né al padre e alla madre, diffidenti d’una vocazione che in coscienza credevano di non dover incoraggiare, né alla nonna, che pure era tutta benevolenza per l’inedito autore, né alle affettuose sorelle, e nemmeno a un futuro cognato, che in qualità d’innamorato, ingegnere e incompetente confesso, doveva pur sentirsi disposto alla più candida e liberale ammirazione.

  Forse tutti quanti, dopo la lettura di quella tragedia, considerata poco meno di un’inattesa disgrazia domestica, sperarono che il giovane Balzac dovesse dare un indirizzo diverso alle proprie ambizioni; ma facevano i conti senza il titanico orgoglio della sua fantasia e della sua volontà. Egli tornò in solitudine a ricercare il miglior modo di mettere a profitto le sue reminiscenze scolastiche associandole con le ispirazioni di studi e sogni più recenti, e, imperterrito nella speranza di diventare scrittore, cominciò ad annaspare romanzi. Fece i primi capitoli, senza andare più avanti, d’un racconto d’argomento italiano intitolato Falturno, e condusse a termine uno Stenio, ovvero gli Errori filosofici, che non fu mai pubblicato. Poi, venuto in relazione d’amicizia con un signor Le Poitevin de l’Égreville, letterato di qualche nome, che bazzicava tra giornalisti e librai, si accordò con lui per una fruttifera collaborazione. Probabilmente fu primo il Le Poitevin ad accorgersi del vantaggio che si poteva ricavare dalla feconda fantasia di Balzac, che, se non aveva ancor dato nulla alle stampe, sapeva improvvisare, discorrendo dopo cena oziosamente, anche due o tre trame di romanzi m una medesima sera. Fatto sta che nei primi mesi del 1822 usciva, per cura dell’editore Hubert, un libro bizzarramente intitolato: L’erede del Birago, storia desunta dai manoscritti di Dom Rago già priore dei Benedettini e pubblicata da due nipoti di lui: A. de Viellerglé e lord R’hoone. Nel nome di Viellerglé è evidente un anagramma di l’Égreville, come di Onorato (Balzac) in quello di R’hoone, ma anche quel finto priore Dom Rago può star a indicare la presenza nell’opera di una terza collaborazione: quella di un amico e frequentatore assiduo dei due romanzieri associati Stefano Arago, uno dei tre o quattro giovani di tal cognome che allora si venivano preparando in Francia alla celebrità con l’amore della scienza e delle cospirazioni repubblicane.

  Tutta la favola della Erede del Birago era intessuta d’inverosimiglianze clamorose, con avvelenamenti e colpi di pugnale a ogni pagina, morti e risurrezioni, personaggi misteriosi, fantasmi e scelleratezze inaudite. Non importa: la via era ormai aperta dinanzi all’impaziente Balzac. Egli guadagnava di sua parte ottocento franchi; se ne procurava quasi subito altri mille e trecento lavorando a un Gian Luigi, ovvero la Figlia ritrovata, romanzo ancor più detestabile del primo per la scellerata esagerazione degli episodi e dei caratteri; e riusciva inoltre a patteggiare con l’editore un più largo compenso per un terzo lavoro, che apparve difatti nell’estate dello stesso anno 1822, in quattro volumi, col titolo di Clotilde di Lusignano, ovvero il Bell’israelita e con uno di quegli avvertimenti allora in uso con cui gli autori fingevano di ripudiare la paternità delle proprie invenzioni: «manoscritto scoperto negli archivi di Provenza e pubblicato da Lord R’hoone». Il futuro autore della Commedia umana non osava ancora affacciarsi dichiaratamente alle soglie della pubblicità.

  Egli non aveva in realtà troppa ragione di vantarsi di quei primi saggi, la cui originalità consisteva soltanto nell’ingenuo tentativo di superare quanto si era fatto fino allora nel genere romanzesco truculento. La stranezza delle concezioni arrivava qualche volta fino al ridicolo; e invano egli s’ingegnava di sorreggere quelle eteroclite costruzioni con uno sfoggio di apparato storico. Così se L’Erede del Birago pretendeva spaziare nei tempi della reggenza di Maria de’ Medici, e se Gian Luigi si collocava nella fine del ’700 con un séguito inconcepibile di travestimenti, smarrimenti e riconoscimenti fortunati, in mezzo ai quali una giovane cucitrice si salvava alle nozze sperate con un giovane carbonaio diventato frattanto generale degli eserciti della Rivoluzione, Clotilde (ed era anche peggio) riportava i lettori molto più indietro, al secolo decimoquarto, mediante una fantasiosa persecuzione indetta dai Veneziani contro un re di Cipro e sua figlia rifugiati in un castello di Provenza ove si difendevano alla meglio da bande di aggressori invidiosi delle loro immense ricchezze. Nei momenti di maggior pericolo compariva, sempre eroico e provvidenziale, un Cavaliere Nero, e si capiva che l’autore doveva avere molta simpatia per Walter Scott; ma l’accurato biografo dei primi anni letterari del Balzac, L. J. Arrigon, dice giustamente che a leggere quelle avventure di Clotilde par di assistere a una parodia dell’Ivanhoe concepita con uno spirito non si sa se di inesperienza o di mistificazione.

  Erano i tentativi ancora incerti di un genio che stentava a trovare sé stesso: sfoghi di un’esuberanza quasi selvaggia non ancora costretta entro i limiti della riflessione e dell’equilibrio. Tuttavia, nell’attesa di prove migliori, anche quei pessimi romanzi servivano all’immaturo Balzac permettendogli di saggiare le sue qualità e, come diceva, di esercitarsi la mano nello scrivere (benché i maligni ripetessero poi, col Sainte-Beuve, che non riuscì mai a imparare quell’arte interamente). Egli era felice sopra tutto di poter dimostrare alla famiglia e agli amici che non aveva sbagliato vocazione; e, poiché la sconfinata fiducia in sé stesso non era minore della sua prodigiosa fecondità, cominciava fin d’allora per lui quel logorante martirio di restare seduto al tavolo per intere notti, con l’illusione, sempre fuggente e sempre rinnovata, di acquistare una rapida fortuna di danaro: un capitolo ogni giorno, diceva nel fare i conti dell’avvenire con le sbalordite sorelle: un volume ogni due mesi: almeno ventimila franchi ogni anno.

  Così, dopo Clotilde di Lusignano, tutta opera sua «senza collaborazione», componeva Il Centenario ovvero i due Beringheld; s’impegnava a pubblicare entro l’autunno del 1822 Il vicario delle Ardennes; preparava Wann-Chlore, che doveva uscire solo più tardi, nel 1825; si sentiva già in grado di annunziare il titolo, se non il contenuto, d’altri sei racconti, e volgeva anche in mente l’intenzione di cimentarsi nel giornalismo e nel teatro. Fu allora che la madre, vedendolo dimagrito, facilmente irritabile, continuamente esaltato, ebbe a spaventarsi di quell’eccesso di attività; ma non tralasciava però di rimproverare al giovane scrittore tutte le negligenze e sconvenienze stilistiche che con singolare severità aveva creduto di poter appuntare nella sua prosa romanzesca.

  Il Centenario è il racconto fantastico delle avventure di un mostruoso vecchio d’aspetto cadaverico, il quale da parecchi secoli prolunga la sua esistenza assorbendo il fluido vitale delle vittime dei suoi delitti: strano personaggio a cui conferivano un’oscura consistenza leggendaria le misteriose credenze intorno alla possibilità di un elisir di lunga vita, di cui si valsero anche il Casanova e Cagliostro in qualcuna delle loro più solenni imposture. Wann-Chlore, uscito poi col titolo di Giovanna la pallida, narra la pietosa storia di un inglese che, affidata in Francia a un amico la tutela di una giovane donna di cui è innamorato, mentre è costretto ad allontanarsi per andar a combattere le guerre antinapoleoniche, riceve poi dall’amico stesso notizia del tradimento della sua bella, e non ne dubita, quando, ritornato dopo la pace, ha occasione di accorgersi che la bella vive infatti in campagna educando segretamente un bambino; ma poi viene a sapere che si tratta di una nera calunnia: la povera innocente, sempre innamorata di lui, si era creduta abbandonata perché ingannata a sua volta dall’amico sleale sulla verità dei sentimenti dell’inglese lontano, e si era sacrificata a prender in custodia il bimbo di una sua compagna di giovinezza e di studi per evitare le ire di un padre troppo severo: quindi l’inglese, turbato e pentito d’avere frattanto commesso l’errore di ammogliarsi, corre alla ricerca della prima amante, si unisce con lei, inizia una vita dolcissima di perfetta felicità; ma ha infine la sorpresa di scoprire la propria moglie venuta celatamente ad allogarsi nella stessa casa come cameriera, disposta a restare in silenzio, senza dar noia, pur di non essere allontanata; e si trova, così, perplesso fra due devozioni incomparabili: storia lagrimevole e inverosimile fino al parossismo.

  Il vicario delle Ardennes, stampato da Balzac col pseudonimo di Orazio di Saint-Aubin, è un tenebroso intrico di crudeli delitti con diversi intermezzi di ingenue rivelazioni. Un marinaio francese, soprannominato Argow, disertore e ribelle, il quale si è procurato ingenti ricchezze esercitando sull’Atlantico la pirateria, torna in patria assumendo il titolo di conte Maxendi, e fra l’altre precauzioni a cui pensa per non essere denunziato alla polizia insieme con la banda di malfattori che lo ha seguito fedelmente anche nel ritorno, immagina di rapire e tenere in ostaggio la figlia del suo antico comandante, ammiraglio di Saint-André; ma poi si appiglia al metodo più sbrigativo di far morire l’ammiraglio pungendolo lievemente con una lisca di pesce impregnata di un terribile veleno il cui segreto era conosciuto solo da certi selvaggi dell’America. Il povero assassinato aveva un fratello vescovo, e una marchesa, frequentatrice del vescovado, era colta da un’intima e strana tenerezza quando incontrava un elegante abatino assunto ad esercitare le funzioni di vicario. In breve: la marchesa era destinata ad accorgersi che quell’abatino era suo figlio nato da un suo amore giovanile con monsignore di Saint-André, quando non era ancora vescovo.

  Tutto ciò può sembrare d'un genere melodrammatico poco divertente; ma c’è questo da aggiungere: che siamo nell’epoca del byronismo trionfante e ogni masnadiere, come ribelle insorto contro le leggi sociali, ha diritto senz’altro alle simpatie dei lettori. Trattandosi d’un corsaro, non occorre nemmeno perder tempo a descrivere e giustificare le sue prodezze. Basta accennare, di passaggio, che è un trovatello, abbandonato dalla madre, esposto a tutte le tentazioni del mondo ingiusto e malvagio, perché delle sue scelleratezze ogni colpa debba ricadere sulla società. Se poi, per caso, è anche un malfattore di buona indole, che, stanco di agitazioni pericolose, vorrebbe godersi in pace le grandi ricchezze accumulate col ladrocinio; se s’innamora di una donna onesta e pensa a sposarla col vincolo religioso; se, per compiere l’opera, si converte alla carità cristiana e non ha più altro in cuore che un’idea di espiazione e di virtù, si capisce subito quanto siano detestabili gl’invidiosi, gl’ingrati, i malevoli, che lo sospettano, lo spiano, lo denunziano, lo spingono nelle mani dei magistrati e dei gendarmi, lo riducono infine a dover scontare gli antichi errori con la tardiva giustizia del carcere e del patibolo.

  Questa seconda parte della vita romanzesca di un malfattore, tutta pentimenti e patimenti magnanimi, forma appunto l’argomento di Argow il pirata; che fu pubblicato la prima volta col titolo di Annetta ovvero il Delinquente, in continuazione al Vicario delle Ardennes, che in parte era stato sequestrato dalla autorità giudiziaria come libro «immorale e di tendenze irreligiose». Balzac anzi sperava che quel sequestro potesse servire ad eccitare una più viva curiosità per la fine del suo pirata. Romanzo «giallo» abbiamo detto; ma forse la definizione non è neppure esatta. Vi sono (è vero) banditi di primo catalogo e grosse operazioni di polizia, colpi di pugnale e colpi di scena; una madre che tradisce inconsciamente il proprio figlio, una vergine purissima animata solo da virtuose intenzioni, la quale finisce ad accettare la solidarietà dei briganti di strada, e tutto il mistero di una vita tenebrosa da scoprire a poco a poco; ma vi sono anche parecchie cose che preannunziano il futuro grande Balzac. L’intuizione dei caratteri umani e la descrizione dei costumi acquistano già un rilievo preponderante rispetto agli sviluppi delle azioni drammatiche; e queste, nella maggior parte dei casi, sono ridotte a proporzioni che, senza nulla perdere della loro intensità, possono verificarsi entro i limiti delle vicende della vita comune. C’è ancora dello strano e dell’esagerato, per amore del meraviglioso; ma si avverte già il proposito di cercare nuove meraviglie in quella tendenza shaskespeariana (sic) che fa di ogni personaggio un’incarnazione di un’idea o di una virtù.

  Nel descrivere le pulite stanze in cui cresceva, laboriosa e modesta, la casta ed amabile Annetta, Balzac ebbe senza dubbio in mente la propria casa, e nel padre di Annetta ricordò il proprio padre, disoccupato e malinconico dopo l’improvviso congedo dall’amministrazione delle sussistenze militari in cui era impiegato. D’altre figure da lui sicuramente conosciute nella cerchia dei familiari e dei primi amici sono popolate le pagine del romanzo. Se questo fosse venuto in luce qualche anno dopo, si potrebbe pensare che contenesse qualche reminiscenza manzoniana del rapimento di Lucia; ma è pur vero che di tali scene aveva già offerto l’esempio al Balzac come al Manzoni il progenitore inglese dell’uno e dell’altro. Piuttosto sarebbe interessante esaminare il diverso modo tenuto da quegli scrittori rispetto a situazioni consimili. È certo che il Balzac, massime in quei primi tempi della sua attività (ma anche in seguito) mirava sempre a strafare. A lui non bastava per esempio il pensiero di un’edificante conversione religiosa: bisognava che il convertito fosse destinato a una morte bella ed atroce. E chi sa quali complicazioni avrebbe creduto di dover dedurre dall’incontro di Lucia con l’Innominato! Non andava appunto dicendo, a Venezia, in casa della contessa Soranzo, che il Manzoni non aveva saputo trarre tutto il partito ch’era possibile ricavare dalla sua bella ed ammirata invenzione!

  Argow il pirata è ancor lontano da quell’eccellenza artistica che nelle opere balzachiane cominciò a splendere solo nel 1829 con L’ultimo degli Chouans; tuttavia è un romanzo che merita ancora di esser letto, se non altro come curiosità. Quando Balzac lo scrisse era nel meglio del suo fervore giovanile, esaltato da grandissime speranze; ma il successo dei libri che veniva pubblicando non corrispondeva poi in tutto alla sua aspettazione. Una sera (ricorda l’Arrigon) l’animoso scrittore fu visto da Stefano Arago coi gomiti appoggiati a uno dei ponti della Senna, intento a guardare dall’alto la silenziosa corrente. «Pensavo, disse, se non sarebbe meglio coricarsi in quest’umido lenzuolo!». Per fortuna l’Arago si affrettò ad invitare a pranzo e a scuotere da quella tetra malinconia il futuro autore di tanti romanzi destinati all’universale ammirazione.

 

 

  Balzac e la rivoluzione, in Onorato Balzac, Il colonnello Chabert … cit., Milano/Roma, Treves/Treccani/Tumminelli, 1932, pp. 3-16.

 

  Non sa che cosa un’iperbolica ammirazione letteraria chi non ha udito Alfredo Oriani parlare dell’opera di Balzac. S’infervorava solo a ricordarla; la esaltava oltre ogni limite di probabile equità. E sebbene si possa dire che difettava di fantasia veramente inventiva, come appare dai suoi romanzi scritti quasi tutti per emulazione o per reazione a modelli prestabiliti, è certo tuttavia che aveva anch’egli qualcosa di balzachiano nell’indole della mente, se tutti quelli che lo hanno conosciuto lo ricordano in private conversazioni continuamente agitato da una straripante facilità di idee. Era sincero confessando una volta a un amico: «Per ogni granello che cade in questa mia povera testa sento subito una quercia alzarsi e frondeggiare». Così non mancava mai di argomenti per ridurre al silenzio qualche incauto contradditore delle sue tesi arrischiate, folgorandolo dapprima con sentenziose ammonizioni e lasciandolo infine sbalordito con certe tranquille affermazioni conclusive che avrebbero tolto a chiunque ogni velleità di risposta.

  Dante? Un bellissimo romanzo d’oltre tomba con duecento figure mirabilmente descritte, alcune anzi prodigiosamente accennate, con effetti di luce su luce, nel Paradiso. Ma Balzac! Quasi cento romanzi; tremila figure tutte vere e parlanti; un intero periodo di storia ritratto e animato coi movimenti e i colori della vita; i costumi, i caratteri, le idee, le passioni, le glorie, le sventure di tutta l’umanità ... Insomma: La Comédie humaine, come misura di capacità creativa, più in alto della Divina Commedia.

  Una volta che l’Oriani, in un cerchio di ascoltatori. esponeva queste esagerazioni evidenti, gli fu chiesto, con un po’ di malizia, se il portentoso romanziere non aveva avuto al suo fianco, mentre concepiva la grande opera, nessuna Beatrice; ed egli rispose, da bene informato, nominando la signora De Berny. Avendo qualcuno obiettato che dimenticava, nel dir ciò, la Rivoluzione francese, fu pronto a replicare, con molta apparenza di ragione, che la Rivoluzione milioni di uomini l’avevano vista e la ricordavano al tempo di Balzac senza per ciò essere in grado di derivarne potenti motivi di ispirazione artistica. Ispiratrice dell’artista è la sua stessa genialità.

  Ma è pur vero che senza i rivolgimenti sociali prodotti in Francia dall’insorgere del quarto stato, senza le nuove condizioni di vita che ne seguirono, senza i contrasti e i rancori tenaci che si perpetuarono attraverso l’Impero e la Ristorazione, mal si potrebbe comprendere tutta l’opera di Balzac. Il quale fu dei primi a intuire quegli spietati moventi d’interesse e di odio privato che sempre si agitano dietro il velame delle idealità e delle passioni politiche. Mentre a Parigi gli avvocati predicavano eguaglianza e libertà, e le assemblee deliberavano, e la moltitudine dei sobborghi era spinta innanzi alla demolizione della monarchia, nelle campagne gli affamati davano l’assalto alle terre e alle ville dei nobili: tumultuosa avanguardia di più cauti e fortunati speculatori, che di quei beni s’impadronirono quando furono messi all’incanto per effetto delle leggi eversive della proprietà feudale o per decreto di rappresaglia contro gli aristocratici emigrati a congiurare con gli stranieri. Nelle campagne si compiva la vera conquista rivoluzionaria e per difenderla i contadini diventavano patrioti. Temendo che, con gli stranieri in armi contro la Francia, sopraggiungessero gli emigrati a ristabilire l’antico ordine di cose, accolsero in cuore prontamente la nuova religione della libertà e inviarono i giovani a militare sotto le bandiere della patria in pericolo. L’impeto guerresco fu tale da consentire vent’anni di battaglie quasi sempre vittoriose e da assicurare, anche dopo la caduta dell’impero napoleonico, l’intangibilità delle terre venute in possesso dei nuovi acquirenti od usurpatori.

  Tutta intessuta di elementi drammatici la trama degli avvenimenti propriamente politici: una tranquilla temerità di filosofi, disputanti nei salotti, nei teatri e nelle stesse anticamere di Corte, apre la via all’infuriare di turbolente fazioni che a certe ore non ripugneranno dallo sterminio metodico di inermi e di prigionieri: la rivalità segreta degli Orléans per la famiglia reale scava il solco sanguinoso in cui cadranno le teste di Luigi e di Antonietta e poi dei loro carnefici: gli stessi fratelli del re dai loro lontani esili cooperano, più o meno inconsciamente, ad affrettare quelle rovine: disertori, oppressori, persecutori e vittime in tutti i campi: e quando par che tutto debba confondersi e tramontare nella luttuosa impotenza di una disperata miseria, ecco sorgere da ogni parte eserciti improvvisati che sanno resistere alle proteste e alle offese dell’intera Europa. Alcuni aspetti di quei rivolgimenti sono tuttora mal noti; ma si vede chiaro, esempio, che la proscrizione dei preti, a cui Roma faceva divieto di giurare la costituzione civile del clero, fu il vero motivo dell’insurrezione reazionaria d’intere provincie nelle quali gl’impulsi della rivoluzione erano stati accolti in principio quasi senza contrasto. Una questione di fedeltà religiosa si palesava, in quei fatti, capace di sconvolgere gli spiriti ancor più profondamente che il nuovo mito della libertà (gli spiriti almeno di quello sparso e povero contadiname su cui non potevano spiegare intera la propria influenza gli interessi e le ambizioni della sorgente borghesia).

  Non a caso il primo romanzo che Balzac pensò di scrivere, suggeritogli dalle memorie di quei torbidi anni, mirava a rappresentare la tenace ribellione cattolica a cui fu pretesto la repugnanza per la coscrizione militare e a cui servirono d’insegna le speranze della ristorazione monarchica. Nel contado di Tours, dov’egli era nato, i ribelli delle vicine provincie di Bretagna e di Normandia erano entrati più volte con le loro bande invisibili di saccheggiatori notturni e vi avevano anche trovato segreti accordi ed aiuti. Nessun fenomeno più attraente, per un’artista (sic), di quel banditismo della Chouannerie, in cui le cose più vili si mescolavano alle più sacre e sublimi: una società fuori legge che si giovava della spontanea disciplina anche dei rifiuti della società; un’impresa da disperati che diventava un partito, una fede, una ragione di martirio e insieme una giustificazione di ladroneccio professionale; la santità e l’eroismo accanto alle più atroci abiezioni; una storia tutta fuori delle menzogne convenzionali dei programmi e dei proclami: qualcosa di più d’un semplice episodio di controrivoluzione: quanto bastava insomma per sedurre subito una mente come quella del Balzac che poteva mirare in alto, alle vette dell’ideale, ma che sapeva anche scrutare intimamente le miserie e le cupidigie dell’umana natura.

  Andato a Parigi per seguire contro voglia lo studio delle leggi, s’era invece entusiasmato frequentando la Sorbona a udire le lezioni di quei celebri maestri che spiegavano la storia con le varie caratteristiche del clima e dell’ambiente; e già sognava a vent’anni di scrivere un poema glorioso sulle imprese di Cromwell; poi dalle sue stesse letture, assidue e disordinate, era stato condotto ad ammirare la gran novità delle epiche fantasie di Walter Scott. Ma quanto più intimamente dovevano parlare alla sua mente, durante le vacanze estive, le voci di quei vicini della sua famiglia, di quei suoi conterranei, che senza pretese letterarie ricordavano le vicende della vecchia monarchia e gli anni orribili del Terrore! Gli narravano di poveri preti trascinati alle carceri per esser stati sorpresi a celebrare la messa di nascosto in una cantina, di famiglie continuamente sospettate e tremanti, di case perquisite, di uomini in fuga, di prigionieri salvati miracolosamente, e di bande armate che si adunavano di notte nei boschi per fare vendetta di tutte quelle persecuzioni affrontando pattuglie di soldati, assaltando i corrieri dei comitati, tentando di catturare i commissari delle esazioni e delle confische. Né mancavano in fine le grandi azioni collettive e le battaglie.

  La Chouannerie era ancora la rivoluzione, con tutti i suoi impulsi di disperazione e di atrocità, ma vista da un altro lato, dal lato meno conosciuto fino allora dagli storici e tuttavia più popolare. In molte provincie, infatti, tutti avevano avuto occasione di conoscere, meglio che i nomi e gli intenti delle varie fazioni politiche, le imprese dei giovani coscritti renitenti alla leva, dei vecchi fanatici, delle donne inferocite, degli idealisti alteri e gentili, degli avventurieri sanguinari che avevano alimentato un banditismo non spento neppure dopo la cessazione delle guerre di Vandea, ché anzi aveva seguitato a fermentare peggio di prima, in episodi di brigantaggio nelle campagne e di cospirazione fin dentro Parigi, ove Cadoudal preparava a Napoleone lo scoppio della macchina infernale.

  Si capisce, quindi, che la fantasia di Balzac fosse accesa dai ricordi di quelle prodezze leggendarie fin da quando elaborava Argov (sic) il pirata e altri simili racconti meno felici della sua prima stagione letteraria, prima di pervenire a quella maturità che gli permise di scrivere sui trent’anni il romanzo degli Chouans. Quelle violenze di ribelli erano inseparabili dagli sviluppi della rivoluzione, nei quali fin d’allora egli andava cercando, con sempre più perspicace profondità, il ritmo e la logica delle trasformazioni di costumi e di sentimenti che aveva sotto gli occhi e che attraevano in particolar modo la sua curiosità di artista. Non ai grandi avvenimenti pubblici, anche troppo commentati e descritti, si rivolgeva pertanto la sua indagine, ma alle cronache mal note che potevano documentare quelle decadenze e confusioni e sovrapposizioni di classi sociali, che erano insomma il risultato di tante famiglie percosse, impoverite e disperse, di tante altre rapidamente innalzate e arricchite, e che se aprivano nuovi avviamenti al corso della civiltà, portavano pure con sé uno strascico inevitabile d’insolite ambizioni e cupidigie, di sprezzanti reazioni, di invincibili rancori. Con quelle oscure cronache si poteva ritessere, in confronto della dipinta favola della politica, la schietta trama della realtà. E quanti drammi!, quali retroscena!: umili servitori che si fingevano esagerati giacobini per salvare quanto era possibile della fortuna dei loro padroni: crudeli delatori che spingevano i congiunti alla ghigliottina per carpirne l’eredità: virtù semplici e coraggiose; grandezze fittizie; temerità di anime vili; eroismi silenziosi; impulsi ineffabili di devozione e di pietà.

  Se prendiamo come punto di partenza un momento qualsiasi di quell’agitato periodo, la notte per esempio in cui fu proscritta la fazione di Robespierre, e se procuriamo di seguire le sorti delle varie famiglie implicate nella tragedia, vediamo disegnarsi le linee di altrettanti romanzi. Le Bas, che era il più generoso dei seguaci del dittatore, si uccide per non sopravvivere alla sventura: la giovane vedova di lui, imprigionata, poi gettata sul lastrico, senza denaro», senza amici, con un bambino da allattare, non fa come tanti altri che cambiano nome, si nascondono, finiscono magari a rendere servizi negli uffici di polizia; ma scrive una lettera dignitosa al presidente della Convenzione e si mette coraggiosamente a fare la lavandaia sulle rive della Senna. Vivendo così di miseria e di ricordi, riesce a educare il figlio e ad avviarlo agli studi, poiché prometteva di essere un ragazzo d’ingegno. Il giorno in cui va per inscriverlo alunno in un istituto, è accolta con effusioni di estrema cordialità dall’abate direttore, il quale non ha dimenticato che dal convenzionale Le Bas in una certa occasione ebbe salva la vita. E il figlio del terrorista diventa con gli anni latinista egregio: invitato, più tardi, a voler essere istitutore d’un giovinetto, nella villa abitata da certi francesi esiliati in Svizzera, avrà quivi per tre anni discepolo amorevole per quanto svogliato, Luigi Napoleone, il futuro imperatore.

  Questo è un esempio fra i tanti. Ma furono migliaia in tutta la Francia le famiglie disciolte dagli esili, dalle condanne, dalle vendette, dalle fughe, dalle deportazioni, senza contare il numero di quelle decimate dalle guerre interminabili. Quando i superstiti, venendo dai due campi opposti, tornarono ad incontrarsi, stentavano a riconoscersi. Taluni si mettevano ansiosamente alla ricerca di congiunti dei quali da anni non avevano più notizie. Cominciavano allora ad essere tentate le così dette truffe alla spagnola mediante lettere che certi criminali facevano pervenire a famiglie nobili, per far credere che un loro parente prima di morire aveva confidato ai compagni di carcere la località in cui fortunatamente aveva potuto nascondere un tesoro al di là dei Pirenei. In qualche caso i criminali stessi cercavano di rappresentarsi come figli o fratelli di povere signore in lutto, supplicando di non essere rovinati con un intempestivo riconoscimento, e nulla è più commovente d’una pagina in cui l’autore delle supposte memorie di Vidocq narra che per tale ragione quando passavano sulle grandi strade i forzati inviati al bagno penale si vedevano delle povere zitelle invecchiate dai patimenti o delle povere madri vestite di nero agitare i fazzoletti e far dei cenni piangendo a qualcuno dei delinquenti legati alla catena. Vidocq stesso, che aveva trascinato la catena del forzato, può essere un simbolo della confusione di quei tempi: ladro e disertore, condannato da un tribunale militare, alza francamente su una picca un preteso ordine di servizio ed esce indisturbato dal campo per andare ad ammirare la ghigliottina sulla piazza di Arras e per proseguire la sua carriera di malvivente, finché diventa confidente e direttore generale di polizia; e allora si accorge che col ritorno dei Borboni s’erano introdotti nella reggia anche parecchi suoi ex compagni di malavita: un sedicente colonnello tra gli altri che affermava di aver reso eminenti servigi alla causa monarchica e che frattanto, nelle sere di ricevimento a palazzo reale, vestito della sua elegante e decorata uniforme, con le mani dietro la schiena e la schiena appoggiata a qualche mobile prezioso prendeva abilmente con la cera le impronte delle serrature, dovendo placare col furto le crescenti esigenze dei suoi compagni che lo aspettavano sulla strada per ricattarlo. Per tal modo la Chouannerie seguitava a suggerire romanzi politici e polizieschi, e nei diversi ambienti di quella società Balzac poteva cogliere i tratti caratteristici di Vautrin e delle figlie di Goriot, di Rastignac e del banchiere affarista, dei nobili risaliti, dei contadini astuti e insaziabili, dell’onesto borghese Birotteau, di tanti altri figli ed eredi diretti della rivoluzione.

  A mezzo il corso di quei grandi sconvolgimenti era sorta l’incomparabile potenza napoleonica; della quale Balzac fu un ammiratore appassionato, dando prova anche in questo d’una delle tante contraddizioni del suo carattere e della sua vita. Scriveva, come si sa, quasi senza pentimenti la prima stesura d’ogni libro e lo rifaceva poi sulle bozze di stampa; amava la storia aneddotica, le analisi dei costumi sociali, le indagini psicologiche, ma più si compiaceva di mostrare attitudini alle vaste sintesi psicologiche e al ragionare sentenzioso; lavorava per la gloria ed era avido di popolarità, aveva modi e istinti di gentilezza popolana e si vantava d’incerte origini nobiliari; era conservatore in politica e professava idee sovversive; parlava tanto liberamente da dover essere considerato eretico dinanzi a ogni chiesa e a ogni partito, ma concludeva sempre alla necessità della religione e della monarchia; intendeva per monarchia quella antica e legittima, e celebrava l’Impero nel tono di Béranger.

  Anche in questo era un interprete acuto del tempo suo; che vedeva gli avanzi dei grandi eserciti umiliati dagli ufficialetti d'anticamera della Ristorazione borbonica; e se ne sdegnava fremendo.

  Il colonnello Chabert, risuscitato quasi per miracolo dalle fosse dei morti nella battaglia di Eylau, tornato a Parigi dopo anni di smarrimenti e di patimenti, disconosciuto dalla moglie, spogliato del suo patrimonio, respinto da tutti fuor che da qualche suo vecchio e povero compagno d’armi, è una rappresentazione potente del contrasto fra la gloria dell’Impero ormai tramontato e il godimento spensierato delle nuove generazioni date agli affari e alle ambizioni.

  Abbiamo aggiunto nel volume altri racconti del periodo giacobino e napoleonico: pagine poco divulgate tra noi e raramente tradotte come può vedersi nel buon volume di G. Gigli: Balzac in Italia.

 

 

  Appunti del bibliofilo. Letteratura straniera tradotta. O. Balzac,L’angelo e il Semidio”, Roma, Ed. Augustea, 1931, in 16, pp. 74, L. C. 4, «La Parola e il Libro», Milano, Anno XV, N. 2, Febbraio 1932, p. 120.

 

  Il genio di Balzac ha raggiunto, nel libro che esce in traduzione italiana, effetti di meravigliosa potenza. Egli ci trasporta in uno strano mondo, che pure esisté, ci fa assistere alla vita spirituale del medio evo, e, in un intreccio singolare, prospetta un dramma storico dal fascino immenso.

  Il libro ha un interesse speciale per il lettore italiano, in quanto mette sulla scena dell’antica Parigi una gigantesca figura della nostra terra, quasi ad impersonare tutta l’epoca compresa nel suo vasto abbraccio di materia e di spirito.


 

 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CXC, N. 66, 6 Marzo 1932, p. 3.

 

 L’Accademico Enrico Bordeaux, trovandosi in quella Ginevra cosmopolita, dove si discutono tanti problemi internazionali, ricorda nel Figaro quando nella prima metà dell’altro secolo Ginevra era il soggiorno preferito di autori, di scrittori, e di poeti romantici. Nel 1816 lord Byron abitò nella villa Diodati, e, trattenuto in casa in un periodo piovoso, assieme a Shelley, a sua moglie e alla cognata, si divertiva comporre delle storielle diaboliche. Nel 1833, la stessa villa accoglieva Balzac che, alla fine del dicembre di quell’anno, era venuto per trovarvi madama de Hanska. La loro corrispondenza datava da tre anni, ed è a Ginevra che si avevano giurato un amore eterno. Adoremus in aeterno, avevano inciso sulla terrazza fiorita, impegnando solennemente il loro avvenire comune.



  Bibliografie. Balzac, César Birotteau —Le lys dans la vallée - Garnier, Paris, 1931, «Archivio generale di neurologia, psichiatria e psicoanalisi», Napoli, Volume XIII, Fascicolo 1, 30 Aprile 1932, pp. 112-113.

 

  Cesare Birotteau ed il Giglio della vallata (sic) sono due tra i più bei romanzi di Balzac, almeno dal punto di vista del romanticismo sociale, quale era inteso ai suoi tempi. Romanticismo cioè, per cui l’uomo sociale doveva essere necessariamente l’eroe di drammi e di tragedie morali, se voleva veramente rendersi degno di considerazione, o perlomeno della qualifica di «uomo». Strano errore di prospettiva, residuato genuino della cavalleria medievale, e che, fortunatamente, la industrializzazione, meccanizzazione, scientifizzazione (ci si permetta l’orribile neologismo) della vita attuale, hanno profondamente modificato e trasformato. Cesare Birotteau, come si sa, è un modesto profumiere, che diventa famoso, ricchissimo, ma che va in rovina, e poi finisce per ridursi ad una vita più semplice, meno rifatta e meglio confacente alla sua vera natura. Il giglio nella vallata descrive l’amore, solo idealmente ricambiato, di un giovane verso una donna maritata più vecchia di lui, che lo riama maternamente e che idealizza e sublima, con tale meccanismo di un edipocomplesso alla rovescia, tutte le sue spinte erotiche fisiologiche nei riguardi dell’innamorato. Discreto argomento adunque di analisi psicoanalitica, se non si trattasse di un fatto umano assolutamente verificabile in pratica, e nel quale la giovinezza dell’uomo da un lato con i suoi amori fisici realizzati; ed i prodotti sostitutivi (famiglia e figliolanza) dall’altro, nella donna amata, sono sufficientemente presenti per attenuare le esorbitanze energetiche delle rimozioni e dei complessi istintivi edipici. Naturalmente, tanto in Cesare Birotteau che nel giovane protagonista del giglio, Felice de Vandenesse, Balzac raffigura gran parte di sé stesso: cioè di un essere esuberante di amore, di desiderio di potenza, di realizzazione, ma incapace di governare: poichè trascura l’osservanza del principio più semplice ma solido della vita, cioè la misura, per rincorrere la chimera e la illusione incorreggibili.

 


 

  Corriere milanese. Il magnifico successo della Sagra dell’uva, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 229, 26 Settembre 1932, p. 6.

 

  Si è notato ieri con compiacimento che a mangiar uva più gagliardamente erano le donne. Solenne smentita a Balzac, che sentenziò le donne non amare né l’uva né i frutti maturi; e anche segno e successo dei tempi.



  Lucio d’Ambra [Renato Eduardo Manganella], Premessa, in La formica su la cupola di San Pietro. Romanzo, Milano, A. Mondadori, 1932, pp. 11-14.

 

  pp. 13-14. Si ripete per questo libro – fatte le debite proporzioni, – uno di quei concentramenti di svariate tendenze d’uno spirito, per cui, nell’opera illustre di Balzac, per esempio, La Peau de chagrin riassume e coordina i più diversi elementi della Commedia Umana.

 

 

  Lucio d’Ambra, Dimmi come scrivi …, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 10, 12 Gennaio 1932, p. 3.

 

  Non per nulla famigerati e gloriosi pigroni come il nostro eccelso «Don Lisander» o venerandi maniaci di genio come Gustavo Flaubert hanno da tempo accreditato la voce che nulla di rapidamente e spontaneamente scritto possa valere sul serio gran che. Invano Balzac. improvvisando in notti d’estemporanea genialità, metteva al mondo. — un romanzo in un mese, — i più bei romanzi, i più grandi romanzi che mai saranno letti dall’umanità.

 

 

  Lucio d’Ambra, False e vere. Venezia, “poste restante”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 202, 25 Agosto 1932, p. 3.

 

  Sfumato il primo bollore, Catullo, che ha il vino buono, stima opportuno star zitto. S’è fatta intorno folla che brontola con gli occhi e non osa fiatare. E Giorgio, in soccorso di Catullo, è scesa dalla gondola. Bella non è, Giorgio. Ma lo scialle è bellissimo e fa colpo. E più mette il sorriso su le labbra dell’uffiziale sentir la dama parlar francese e non italiano: «Forestiera, madama? — Francese ... — Oh! Adoro Parigi. E ci son due scrittori ... — Ditemene uno. — Balzac ... — E l’altro è donna? — No. Uomo anche lui: Giorgio Sand ... — Signor uffiziale, Giorgio Sand sono io ... ».

 

 

  Lucio d’Ambra, Un’avventura letteraria di Balzac. Per non aver letto i “Promessi Sposi”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 232, 29 Settembre 1932, p. 3.

 

  «Da due giorni Milano ha nelle sue mura il signor di Balzac, lo scrittore francese che, in pochi anni ha pubblicato il maggior numero di opere e che ha descritto sotto ogni forma la vita umana nella varie classi della società ...». Così la Gazzetta privilegiata di Milano, nel suo numero del 22 febbraio 1837, annunziava l’arrivo di Balzac, il quale, venendo da Parigi per il Ticino e Como, aveva preso alloggio all’Albergo della Bella Venezia, in piazza San Fedele. E quello aveva scelto per il nome, che ricordava a Balzac «Venezia la bella», e perché quell'albergo gli era stato vantato da un collega esperto in cose italiane e particolarmente milanesi, Arrigo Beyle, Stendhal, il quale lì alloggiava, nei frequenti soggiorni a Milano, non avendo che da girar palazzo Marino e attraversare una piazza per trovarsi, tra musiche e ballerine italiane, nel suo paradiso, alla Scala.

  Milano, in quei giorni, era sotto l’influenza d’un singolare avvenimento astronomico: una meravigliosa aurora boreale, per il passaggio di una radiosa meteora, aveva illuminato il cielo milanese. E, un po’ fatuo e un po’ burlone, Balzac affermava: «La meteora certamente preannunziava il mio arrivo. Anche gli astri, e non solo gli uscieri, s’occupano di me ...». E i milanesi. — raccontava la Gazzetta, — si scontravano in quei giorni con due domande, alla pari: «Avete veduto l’aurora boreale? E il signor di Balzac l’avete visto?».

 

Arrivo alla «Bella Venezia».

 

  Esagerazioni. Tuttavia Milano, come già aveva fatto l’anno avanti Torino, accoglieva con grande favore il romanziere parigino. Il Corriere delle Dame dava notizia alle signore milanesi del famoso bastone di Balzac, tutto adorno di turchesi, della sua tonaca monacale per il lavoro, della sua abitudine di portare guanti neri con la cravatta bianca, della sua caratteristica pettinatura col tupé alto in mezzo alla fronte. Tuttavia c’erano, con tante rose, anche le spine. E si mormorava in giro, caffè e salotti, che il romanziere navigasse in pessime acque e che, e — attenti alle stoccate!, — si fosse rifugiato a Milano per sfuggire ai suoi creditori e sottrarsi alla spada di Damocle, sospesa sul suo capo, della prigione per debiti. Ma ciò non toglieva che le maggiori case milanesi si disputassero, sera e giorno, il romanziere. In casa della contessa Maffei, allora nel pieno splendore dei suoi ventitré anni, l’autore del Lys dans la Vallée, — (che amore quel romanzo, cuor mio, e come Balzac conosce il cuore di noi donne!), — incontrava Tomaso Grossi, Francesco Hayez e Massimo d’Azeglio. Ma non lego con costoro grande amicizia.

  Più gli piacque il principe Alfonso-Serafino Porcia, Ciambellano dell’Imperatore Ferdinando I, diventato milanese per amore d’una leggiadra contessa italiana abbandonata dal discolo marito. Il principe abitava in uno dei ricchi palazzi del Corso di Porta Orientale tra misteri d’ombre verdi e silenzii di giardini segreti; e, per due di questi giardini nascosti, il principe e la contessa, pur vivendo in apparenza divisi, notte e giorno comunicavano. E dall’albergo «Bella Venezia» Balzac scriveva a madame Hanska, in Polonia, per esaltare i due amanti; la contessa adorabile, metteva ogni giorno la sua vettura a disposizione del romanziere e il principe gli offriva il suo palco alla Scala; la contessa non faceva che dirgli «caro» e «carissimo» e il Ciambellano non aveva pace se non conduceva Balzac a cenar con lui nelle più ricche trattorie. Cominciavano di buon mattino i biglietti indirizzati «al signor di Balzac, albergo Bella Venezia». Prima lei: «Come state, caro, carissimo? … Avrò oggi il piacere d’una vostra visita?». Poi lui: «Ieri, tutta una giornata senza vedervi … Per rifarmi, andiamo a pranzo insieme, stasera, da Fontana …». E lei: «Il cielo è annuvolato. Vi mando la vettura chiusa». E lui: «Se, come mi diceste, volete riandare a Brera a rivedere i Luini, che tanto vi entusiasmano, io vi accompagnerò …».

 

Successi mondani.

 

  E Balzac gongola. Per lei, non c’è gran che da inorgoglire: una mediocre contessa, come tante altre. Ma col principe, Balzac, sempre in fregola di nobiltà, Balzac che ha aggiunto al suo nome la particola, Balzac che ha messo il suo stemma su gli sportelli del suo famoso «tilbury» non pagato, va in estasi solo a sentirgli dire: «Sono di vecchia nobiltà del Friuli, ma austriaco. Molti miei titoli – conte d’Ortenburg, conte di Milberburg, – hanno suono tedesco. In Carinzia portavamo il titolo di principi del Sant’Impero. L’imperatore ci considerava e ci chiamava cugini. Ci spettava anche il titolo d’Altezza Serenissima …».

  E una sera, al tramonto, tra lusco e brusco, camminando distratto e pensando a debiti e romanzi, Balzac ritornava in piazza San Fedele, al suo albergo, dalla contrada Magnani, quando un passante, senza chiedergli scusa, gli dà un urtone e tira via alla svelta. Ma, fatti dieci passi, Balzac s’avvede che, nell’urtone, catena d’oro e orologio sono scomparsi. Per fortuna, all’albergo c’è ad aspettarlo Sua Altezza il principe Alfonso-Serafino, il quale subito gli dice: «Non vi date pensiero, mio grande amico. Cambiatevi d’abito, desinate tranquillo e recatevi alla Scala, nel mio palco. Vi si danno stasera, con La Straniera di Bellini, due balli che son due meraviglie». E, tre ore dopo, quando appena il sipario della Scala si è levato su lo spettacolo, il principe apre la porta del palchetto, mostrando orologio e catena: «Ho messo sottosopra la polizia, ho girato mezza Milano. Il ladro è in prigione. La refurtiva, eccola qui. E ora godetevi queste stupende finzioni sceniche. Non avete certamente veduto a Parigi nulla che possa a queste essere paragonato».

  Negli intervalli Balzac, sfoggiando anelli e merletti, complimenti e paradossi, ha fatto il giro dei palchetti della Scala in compagnia del principe. E sono state dovunque cortesie, genuflessioni. omaggi all’idolo straniero. Di quei salotti milanesi aperti al francese in terra dominata dagli austriaci giunge notizia a Niccolò Tommaseo, patriota fiero, esule a Parigi. E di lassù questi scrive a Milano a Cesare Cantù: «Sempre gli stessi Sapere Balzac a Milano mi affligge più che se mi annunziassero una nuova invasione dei barbari. Questa è la piaga, caro amico, della nostra patria; plaga in cui vivono i vermi che voi conoscete. E voi potete dire a quella crassa società galante che l’idolatrato straniero, il Balzac, è considerato a Parigi un personaggio ridicolo e di nessun conto …».

  Certo nel furor patriottico da lui risentito nel veder dame e gentiluomini venire meno per adular gente straniera, il Tommaseo, sbrigativo e scorbutico, esagerava. Ma era innegabile che Balzac, a Milano, era salutato come «il primo scrittore di Francia»: primato che a Parigi, nonostante il discorso di Victor Hugo ai funerali, non gli riconobbero neppure dopo la sua morte. Ci volle, per questo primato, che il Naturalismo zoliano lo rivendicasse qual padre e che il secolo giunto alla sua fine potesse, guardando indietro, esattamente misurare, nella lunga catena delle fame letterarie, le più alte cime.

  Ma Parigi era di moda nella Milano del 1837 e mille voci spettegolavano. Bastava che Balzac scorresse, in casa d’un Trivulzio, l’epistolario di Fanny Essler, perché tutti dessero per certa la notizia: il romanziere della Peau de chagrin sposerà la ballerina viennese che ha rivelato l’amore all’adolescente re di Roma, al pallido Aquilotto prigioniero della Corte dell’avo.

 

Un colloquio con Manzoni.

 

  Chiacchiere tutte che, lungo il giro d’una primavera, bastano a eccitare intorno a Balzac le più vive curiosità mondane, talchè il romanziere, sebbene timido e spaesato in società, frequenta tutti i salotti: Casa Trivulzio, Casa Belgioioso, Casa Porro-Lambertenghi, Casa Melzi, Casa Sormani … Non una sera libera nella settimana. E un giorno Balzac, dovunque invitato, chiede lui, sollecita lui un invito. Vuole conoscere Alessandro Manzoni. E i due romanzieri s’incontrano, presente un testimone illustre, e storico per giunta: Cesare Cantù. Ma nei suoi ricordi costui (influenza della lettera parigina di Niccolò Tommaseo?) non è dolce per il romanziere della Commedia Umana, di cui vede solo un gran testone, un collo taurino avvolto in una specie di cravatta, un uomo «pieno di sé. Dal canto suo Balzac, che conosceva la fama di Manzoni, ma non aveva letto i Promessi Sposi, nell’elogiare il romanzo si tien su le generali e sùbito scantona: «Son stufo di romanzi, — dice all’altro gran romanziere. — Voi avete scritto alcune tragedie. Voglio scrivere anch’io molti drammi. Ne ho in corpo una ventina ...». Manzoni, scrittore parco, lo guarda spaurito nel grosso ventre di gran sedentario, mentre Balzac gli diventa lì per lì fratello: «Voi e io, mio caro, abbiamo il medesimo padre letterario: Walter Scott ...».

  Con l’aria di non avere a Milano nulla da fare, Balzac, completamente spesato, era venuto in Italia per curare complicati affari d’asse ereditario per conto dei suoi amici italiani di Parigi, i Guidoboni-Visconti. E, quand’è libero d’inviti, corre qua e là dagli avvocati milanesi. Ma gli avvocati non bastano. A battaglia vinta con loro, bisogna disarmare i coeredi. E Balzac, per fare questo, va sino a Venezia, dov’egli giunge, sbarcando al ponte di Rialto, sotto una pioggia dirotta che inonda la barca a remi presa dal romanziere a Padova per discendere il Brenta. E all’Albergo Reale Danieli, di cui Giorgio Sand gli ha parlato, chiede l’appartamento che l’autrice d’Indiana vi ha occupato, tre anni prima, con Alfredo de Musset moribondo. Di lì s’affaccia su la Riva degli Schiavoni e vede la laguna grigia e tempestosa attorno all’isola di San Giorgio.

  Ma d’una Venezia piovosa e nebbiosa lo consola, – uomo d’infinite risorse, – il dolcissimo silenzio. Sicchè la sera stessa scrive a Milano, alla contessa Maffei: «Che pace! Come starei bene a Venezia … Questa tristezza è fatta apposta per me, le cui segrete aspirazioni son tutte verso il silenzio e la malinconia …». E le amiche milanesi ci ridon su: «Fatto per la malinconia, quel burlone? Innamorato del silenzio, quel diavolo d’uomo che ha l’argento vivo addosso?». Ma, sebbene assetato di silenzio, Balzac a Venezia parla troppo. A un primo piano delle Procuratie Vecchie è a desinare, una sera, dalla contessa Soranzo-Mocenigo. Mangia a beve di slancio a perde le staffe della prudenza, dicendo male dei suoi colleghi: «Chateaubriand, Lamartine, Manzoni ...». Passi par i francesi: i veneziani non ci fanno caso. Ma insorgono tutti a difender Manzoni. Poi un gentiluomo veneziano, che è scrittore, non appena Balzac, compiuta la missione ereditaria, risbarca a Milano, gli tira il colpo: nella Gazzetta lo denuncia violentemente: «Questo mediocre scrittore, questo francese che è ospite degli italiani, ha osato sparlare di Alessandro Manzoni …». 

 

Milano difende il suo «Sandro».

 

  Apriti cielo! Mezza Milano, legittimamente arcifiera di «Don Lisander», volta le spalle al romanziere. Salotti ch’erano spalancati, gli si chiudon sul naso. Gente che gli stava genuflessa davanti, lo saluta appena. Le gazzette, prima esagerate negli osanna, ora lo aggrediscono. E Balzac, nella tempesta, ha un’uscita che nessun biografo ricorda: «Beato il signor Manzoni! Per una parola, tutta una città come Milano lo difende. Ma se il signor Manzoni mi giudicasse severamente a Parigi, anche il mio amico più intimo gli darebbe ragione».». Comunque, seccato, — e avendo oramai messo a posto l'affare Guidoboni-Visconti, — Balzac fa su la sua roba.

  E qui ha luogo un episodio, giunto a me per via di parenti che del gran romanziere furono amici a Milano e a Parigi, episodio che non vidi mai registrato da nessun biografo delle avventure italiane di Balzac: né il Bouteron, nè il Prior, nè l’Arrigon, nè il nostro diligentissimo Gigli. Io consegno alla biografia balzacchiana in Italia l’aneddoto così come m’è giunto. L’incidente Balzac-Manzoni divise, per varii giorni, anche l’unitissima coppia illegale dei felici amanti che a Milano si contendevano le ore e la compagnia di Balzac; e se il principe austriaco fu col romanziere francese contro Manzoni, punta nell’amor patriottico la contessa italiana prese vivamente le parti del romanziere lombardo e, in vivacissime discussioni col so amante, esaltò nei Promessi Sposi un immortale capolavoro. Né basta. Poiché il principe austriaco dichiarava preferire al famoso libro il men pregiato romanzo d’un qualunque scrittore di Francia, la contessa, traducendole all’improvviso, lesse una sera a Balzac alcune pagine del romanzo; dall’episodio della Monaca di Monza ai capitoli su la peste. Lettura questa che produsse su Balzac formidabile effetto, talchè, rientrato all’albergo Bella Venezia, ei passò mezz’ora della sua ultima notte milanese a scrivere una lettera al Manzoni: lettera che fece rimettere al nostro scrittore a mezzo della contessa Maffei e che, se nessuno ne fa menzione, dev’essere andata perduta.

 

Balzac a Canossa.

 

  In questa lettera il Balzac, manifestando all’autore del Promessi Sposi la sua più alta ammirazione, profondamente si rammaricava con lui d’avere a Venezia pronunziato con leggerezza giudizi, di cui molto, per altro, il pettegolezzo aveva esagerato l’irriverenza. E lì appunto era, come arguta chiusa d’un bel gesto di leale riparazione, l’uscita che più sopra ho ricordata: «Cara Italia! Per una parola, tutta una città come Milano vi difende. Se voi mi aveste giudicato severamente a Parigi, anche il mio amico più intimo vi avrebbe dato ragione ...». Lettera singolare che il destino misterioso delle sparse carte non volle pur­troppo far giungere sino a noi nel suo testo preciso. Comunque, poiché io ne ebbi indiretta conoscenza attraverso testimoni che la conobbero, era bene ricordare. anche senza documenti da archiviare, che a ragion veduta, con quella coscienza la quale è propria dei grandi artisti d’ogni tempo e d’ogni paese, Il Balzac, — sempre dell’Italia e degli Italiani sincero amico, — volle nobilmente cancellare a Milano un giudizio dato a Venezia, dopo aver troppo generosamente bevuto quel capziosi scioglilingua che sono i vini del Veneto; e, lasciando la città ambrosiana, che tanto gli era stata signorilmente ospitale, seppe inchinarsi con rispetto al più grande e al più glorioso dei suoi cittadini.



  Lucio d’Ambra, I letterati e gli affari. Conversazione di Lucio d’Ambra, «Radiocorriere. Settimanale dell’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche», Torino, Anno VIII, N. 40, 1-8 Ottobre 1932, p. 8.

 

  Se in miti tempi romantici Mercadet, l’affarista di Balzac, era un’eccezione da rappresentare in un dramma, oggi l’affarista è il tipo corrente, il personaggio normale della vita contemporanea [...].

  Ma, comunque sieno andati a finire, cent'anni or sono, tutti gli uomini di lettere che s’arrischiavano negli affari, il peggiore di tutti, come commerciante, fu proprio quello che di tutti era il più grande come scrittore: ho nominato Balzac.

  Singolari sono le avventure del più grande romanziere della storia letteraria del mondo quando egli volle provarsi, con certezza d'arricchire, in speculazioni tipografiche di carattere commerciale. Ammesso che gli artisti fossero allora pessimi uomini d’affari, pochi commercianti si videro al mondo peggiori di Balzac e più di lui persuasi d’essere invece eccellenti.

  Comprata, a credito, una tipografia, Balzac decise di pubblicare, a tremila esemplari, un’edizione di lusso di tutte le favole di La Fontaine. E doveva, in seguito, dare al pubblico, in edizioni compatte, tutti i classici francesi, da Molière a Racine e a Corneille. Era escluso Voltaire poiché costui aveva scritto tanto che nessuna «edizione compatta», neppure in diecimila pagine, avrebbe potuto contenerne le «opere complete». Infervorato dai suoi progetti, ordinò disegni al pittore Dévéria, rami all'incisore Godard, carta a Parigi e caratteri tipografici un po’ da per tutto. Ed erano spese e spese, viaggi su viaggi, debiti su debiti. Ma poco male. Avrebbe pagato tutto — e con che margini! — il formidabile successo dell’edizione. Ed ecco uscire il La Fontaine, seguito a breve distanza dal Molière. Il nuovo commerciante in carta stampata sogna milioni. Sicuro del fatto suo, scarica egli stesso copie e copie delle «edizioni compatte» sui banchi di tutte le librerie di Francia. Senonché prima che i libri si vendano, bisogna pagare tipografi, incisori, cartieri e fonderie. Il debito urgente è di diecimila franchi: come se oggi si dicesse centomila. Dove trovarli? Balzac cerca dovunque. E trova finalmente chi glieli presta, dando dieci e facendo firmare a Balzac per quindicimila franchi di cambiali. Ma Balzac sorride. L’edizione andrà. I librai incassan denari per lui. Senonchè il pubblico trova, nei due volumoni stampati dal nuovissimo editore, troppo piccoli i caratteri, cattive le illustrazioni ed esorbitante il prezzo di venti franchi — oggi duecento — per ogni volume, sicché l’insuccesso dell’impresa è completo. E insuccesso a tal segno che, su tremila esemplari stampati, Balzac, in un anno, a conti fatti, non ne ha venduti che una ventina ...

  Un commerciante saggio avrebbe detto: punto e basta. La lezione era dura e chiara. Ma il nostro eroe non si rassegna, non cede, non vuol cedere. Giuocatore sfortunato, ecco che lo scrittore entra in pieno nel commercio, s’addentra in un giro di cambiali, diventa tipografo patentato e responsabile.

Intanto, girando le sue tipografie, Balzac ha conosciuto un proto molto intelligente, certo Barbicot. Lo prende come socio e con lui vuol comprare un’altra tipografia. C’è n’è una in vendita a Parigi, di certo Lamuns, il quale ne chiede trentamila franchi. Per aver questi denari lo scrittore e i suoi soci in buona e mala fede si rivolgono al padre dello scrittore-tipografo. Il padre prima lotta e poi cede, ma i trentamila franchi non bastano. Balzac deve darne anche diecimila a Barbicot quale indennizzo per il posto di proto a cui l’ha fatto rinunziare. E, in breve volger di tempo, il debito del futuro romanziere già ascende — il nostro mezzo milione è superato, — a settantamila franchi!

  Allargandosi il debito, il futuro gran romanziere allarga il campo d’azione e aggiunge alla tipografia la gestione di una fonderia di caratteri. Nasce una società Lamuns, Balzac e Barbicot. Ma la barca fa acqua da tutte le parti. La madre di Balzac aiuta il figliuolo. Soccorsi vani. I creditori insorgono. Eviteranno il fallimento a condizione che Barbicot vada avanti da solo, senza seguire il Balzac che ha fama di pericoloso visionario. Così Balzac è messo fuori. Ma ha cinquantamila franchi, di parte sua, da pagare. E — quando si dice la disdetta, — appena messo fuori Balzac, le sue idee cominciano ad attecchire e la Casa comincia a prosperare ... Ma c’è ancora, perduta la tipografia, la fonderia di caratteri. Senonchè anche lì mettono fuori Balzac. E l'iniziatore, carico di altri debiti, ha l’amarezza di vedere che anche la fonderia ora, senza di lui, va a gonfie vele. A tal segno che, dopo un secolo, essa è oggi ancora in piedi e rappresenta, anche nel 1932, una delle maggiori aziende tipografiche di Parigi. Val quanto dire che Balzac non aveva, nel commercio, nè bernoccolo nè fortuna. Tuttavia, per tutta la vita, ostinato nel credersi l’uomo d’affari che non era, Balzac sperò dal commercio quel benessere economico che non gli venne, pur essendo un genio, dalla letteratura. Altre dieci volte, in tentativi commerciali, uscì dalle varie imprese con le ossa rotte.

  Totale, dopo il commercio tipografico, centomila franchi di debiti, cioè il nostro milione: debito terribile che Balzac, come una pesante catena ai piedi, galeotto della letteratura ad alta pressione, dovrà trascinare per tutta la vita. E, lavorando giorno e notte alla creazione dei suoi capolavori per pagare cambiali, Balzac griderà, nelle pause, l’eterno leit-motiv del suo lamento di più che eterno debitore : «Pagare, pagare, ancora pagare, sempre pagare! ...». E quando, a poco più di cinquant’anni, precocemente morrà per aver troppo lavorato in una lotta finanziaria senza riposo, Balzac sospirerà con tristezza: «Vissi per i miei creditori e muoio per loro ...». Comunque, col suo lavoro, il grande romanziere, lavorando per un quarto di secolo quattordici ore al giorno e scrivendo fin cinque o sei romanzi in un anno, pagò tutto prima di morire. Commerciante inabile, volle almeno lasciare fama di commerciante onesto.

 

 

  Lucio d’Ambra, I viaggi di Balzac in Italia. Avventure a Torino con la “donna-uomo”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 285, 30 Novembre 1932, p. 3.

 

  Quanto più vengono in luce documenti su Balzac tanto più si vede che il grande romanziere non era un viaggiatore nato, come l’errante Chateaubriand, ma che tuttavia muoversi gli piaceva, e andare, venire, raccogliere allori, veder gente nuova, contemplar chiese belle, frequentar salotti illustri, corteggiar dame straniere, incontrar fuggevoli avventure e allontanarsi, soprattutto, dai creditori. E il grande Onorato, — onoriamolo anche per questo, — per i suoi spostamenti preferiva sempre l’Italia. Da noi è venuto e rivenuto ed era come se fosse di casa. Milano e Venezia, Torino e Roma, Genova e la Sardegna, mezza penisola ha coscienziosamente girata. Non come Stendhal, per il quale essere in Italia, fra cose e genti italiane, e non vedere che queste, e non scrivere che di queste, era una passione indispensabile alla sua vita di scrittore e di uomo.

 

Tra gli avvocati.

 

  Ma, sùbito dopo Stendhal, nell’amore per l’Italia viene lui, Balzac. Solamente nel golfo di Napoli e con Graziella troviamo l’amore di Lamartine, che a Firenze si fa aperta antipatia e provoca il famoso duello con Gabriele Pepe. In tutta l’Italia Chateaubriand non vede che Roma, ma una sua Roma cimitero e museo, tutta polvere e tombe, elegia di vecchie pietre intonate alla sua romantica malinconia. Per Balzac no: l’Italia è viva, è pane per i suoi denti, è luogo e pretesto di vitalità. In Italia viene per trattare affari d’ipotetiche miniere, per trafficare tra avvocati e notai, per trovar donne o per portarvene. Ed una ve ne portò, a Torino, nel modo più romanzesco e più scandaloso, cioè travestita da uomo.

  Come portava avanti, nelle febbrili notti di composizione eccitate a furia di caffè, tre romanzi nel medesimo tempo, così accadde a Balzac d’avere nel medesimo tempo anche tre amori: laggiù, in Polonia, nel nevoso castello, la Straniera, madame Hanska, che sarà poi sua moglie: a Parigi la contessa Guidoboni-Visconti, moglie inglese di un gran gentiluomo milanese, melomane a tal segno che, ricco com’era, andava per suonare a prender posto col suo violino nelle pubbliche orchestrine, anche umilissime; e, venendo a Torino, Balzac si trascinò dietro un terzo amore, un bel ragazzo bruno e affascinante chiamato Marcello.

  Marcello: cioè la signora Carolina Marbouty, testa matta di provincia, nipote e figlia di magistrati, moglie tediata d’un tedioso cancelliere-capo al Tribunale di Limoges. Costei va a Parigi, a periodi, per farvi vita brillante e conoscervi celebrità letterarie. Visto da vicino, Sainte-Beuve, il gran critico, goffo e presuntuoso, la delude. Non così Balzac. Il gran romanziere la riceve nel salotto del famoso divano bianco. Ha indosso la sua tonaca di lana «cachemire» bianca, foderata di amoerro candido, stretta al fianco da un rosso cordone. Bello non è; ma come parla, come s’infiamma, come trascina gl’interlocutori nel mondo ardente e chimerico della sua inesauribile fantasia! ... Sicché, andata a trovare il romanziere per un’ora, la signora Marbouty rimase in casa di lui tre giorni e tre notti senza prendere sonno. Ma, finiti i tre giorni, Balzac deve partire per l’Italia. Lo mandano a Torino. E ve lo manda, per aiutarlo a sottrarsi ai creditori e per fargli guadagnare alcune migliaia di franchi, proprio la contessa Guidoboni-Visconti. C’è una complicata storia d’eredità: e di quell’eredità il Guidoboni-Visconti reclama una parte. Tra avvocati e notai la matassa è indiavolatamente imbrogliata: vada dunque Balzac, ingegnoso in tutto, a tentare di dipanarla. Ma bisogna, per far questo, lasciare madame Marbouty e spegnere i fuochi appena accesi — con quale ardore! — in quei tre giorni. D’improvviso Balzac ha un’idea: «Fa la tua valigia. Vieni a Torino anche tu ...». La Marbouty scuote il capo: «Sei matto? Lo saprebbe mio marito ...». Zitto un istante, — cosa rara, — Balzac ci pensa sopra un momento; poi, trovata la seconda idea, batte una mano su la fronte ed esclama: «Il modo c’è. Staremo via dieci giorni. Lascia ad un’amica fidata il compito di spedir da qui, da Parigi, le tue lettere al coniuge cancelliere ... E tu verrai con me, vestita da uomo ... Hai il profilo virile: dirò che sei un mio giovane amico, un romanziere in erba ... Ti va?». Le va. E partono. Salendo in diligenza, la signora Marbouty ridotta a bel giovanotto chiede a Balzac che se la ride e se la gode: «Che nome ho? Non mi posso mica chiamar Carolina ...». E Balzac decide: «Mio giovane amico, tu ti chiamerai Marcello ...». E parton così, beati, Onorato e Marcello, per la frontiera italiana.

 

Il bagno alla Grande Certosa.

 

  Strada facendo, il gran romanziere ha una curiosità. In Savoia, sopra Chambéry, incontrano un convento famoso: quello della Grande Certosa. Balzac vuole rivisitarlo. Ma quando i due viaggiatori sono per varcare la soglia, il frate guardiano fa severa opposizione: «Voi sì, signore, potete entrare ... Ma l’altro viaggiatore non può: esso è una donna ... — Fratello, voi siete matto ... Costui una donna? Se si chiama Marcello ... — Si chiami come vuole, non entra. E’, senza dubbio, una donna ...». Il portiere, per quanto Balzac infurii e minacci, non cede. «Dov’è il Priore? — chiede Balzac in­collerito. — Vado a parlargli. Ci penserò io. Sono Onorato di Balzac, lo scrittore ...». E, rivolgendosi a madame Marbouty che resta fuori, le dice: «Tu, Marcello, passeggia attorno al laghetto. Ora chiarirò l’equivoco e ti farò chiamare». Balzac incontra il priore che viene a dargli il benvenuto e gli fa visitare il convento. Poi Balzac, entrato nelle simpatie del monaco, gli racconta l’accaduto: «Sono vivamente contrariato ... il vostro frate guardiano ... Uno stranissimo equivoco ... Il mio giovane amico Marcello, scrittore di vivo ingegno, ancóra alle prime armi, scambiato per una donna ... Se voi poteste farlo salire ... — Andiamo sùbito ad incontrarlo noi stessi. Vi farò, così, visitare anche orti e giardini ...». Ed escono all’aperto, alla ricerca di Marcello, Balzac, il priore e i più ragguardevoli monaci che il priore ha presentati al romanziere ... E per i viali che, separati dal ruscelletto che diventa lago con alti e fitti canneti, circondano le fresche acque il priore cerca ansiosamente Marcello per offrirgli ospitalità. Senonché d’improvviso, là dove il canneto dirada, Marcello appare. Ma non è Marcello. E’ Carolina: Carolina Marbouty, la quale, nel gran caldo del meriggio di luglio, ha avuto una bellissima idea: prendere un bagno. Ed ora, davanti ai monaci che cercavan Marcello, Eva nuda come Dio l’ha fatta vien su pudicamente, arrossendo, per asciugarsi al sole.

 

Nei salotti dell’alta società.

 

  A Torino, nel migliore appartamento dell’albergo d’Europa in piazza Castello, la coppia Balzac-Marcello suscita sùbito curiosità ed attenzione. Il gran romanziere è felice trascinandosi dietro Marcello: ognuno a Torino gli parla del suo famoso bastone dal pomo adorno di turchesi e in molti salotti di dame piemontesi si trova al posto di onore la caricatura in bronzo che gli ha fatta Dantan regalandogli un pancione falstaffiano da fare invidia persino a Luigi decimottavo. Con Marcello il romanziere si gonfia e fa il pavone: «Vedi, caro, — caro e non cara, – come son celebre anche di qua dalle Alpi e senti come tutte queste signore italiane, beate di poter parlare in francese, mi chiamano Cher maître?». Ricevimenti dappertutto, serate a teatro, ascensione a Soperga, con cavalli delle scuderie di Carlo Alberto; e, tra pranzo e pranzo in casa Sclopis di Salerano, in casa Cortanze, in casa Sanseverino, è miracolo se Balzac trova tempo d’andare sino a Rivoli, nei bei giardini dell’avvocato Luigi Colla, per affidargli gl’interessi dei Guidoboni- Visconti. E dovunque, — caro, cher, carissimo, — Marcello dietro, in redingotte (sic) grigia e con un’aria fatale e romantica che fa innamorar tutte le donne. E tutte a chiedere a Balzac: «Sempre con voi, il giovane Marcello? — Sempre con me, madama. — Vi ama? – Mi ammira. — Scrive anche lui? — Meglio di me. — Impossibile! — Merci!». Ma una sera Marcello, con le sue arie, dà ai nervi di Silvio Pellico, reduce dallo Spielberg ed ospite dell’ambasciatrice di Francia, presso la quale il poeta esercita le funzioni di bibliotecario. Silvio Pellico dà l’allarme, come il monaco della Certosa: «Costui è una donna!». Messo alle strette, Balzac confessa: «Sì. E’ vero. Una dama parigina che vuol conservare l’incognito ...». Cambiamento a vista. Le dame torinesi volgon le spalle a Marcello. Ma verso Marcello si fanno avanti, in fitta schiera, i cavalieri tutti languori e sospiri. E Balzac, di gruppo in gruppo: «Non posso dire chi è ... Non posso!». Mistero. Curiosità. Febbre di sapere, d’indovinare ... Balzac ha raccomandato: «Per carità! Silenzio. Tutti ignorano e devono ignorare il viaggio di questa virtuosa dama presa dalla smania di venire in Italia ... Un’indiscrezione la rovinerebbe ...». E tutti a spettegolare, ma sottovoce, affinchè quanto si mormora a Torino non si oda a Parigi. C’è un ballo dalla marchesa di Saint-Thomas. Balzac e Marcello partono il giorno dopo. Tra i suoi indumenti maschili, Carolina ha portato con sè un abito da sera. E all’albergo d’Europa, vestendosi, Balzac le dice: «Vieni così, caro. Da donna. Sarà divertente per tutti rivedere in abito scollato e a braccia nude il bel paggio byroniano, il vezzoso adolescente che ha destato tanta curiosità». E non appena, sfolgorante donna, Marcello entra al braccio di Balzac, un nome corre tra gl’invitati: «Stupidi tutti a non averci prima pensato. E’ Giorgio Sand! Per questo Balzac ha detto: — Scrive meglio di me ...». E son tutti e tutte attorno all’ex-Marcello per chiederle notizie di De Musset, — caro e tenero De Musset ..., — e parlare alla supposta Sand di Lelia e d’Indiana e informarsi dei nuovi volumi che la baronessa Dudevant prepara. Marcello agguanta Balzac: «Mi credono Giorgio Sand. — Lasciali credere. — Mi parlano di letteratura. — E parlane, caro, anche tu. — Non so parlarne: sono una piccola bestia. — Tutt’i letterati, caro, sono così: bestie; ma grosse ...». E va via così, ridendo, ché rider gli basta e restin pure gli altri negl’impicci. Ma Carolina non ci si perde. Si diverte anche a rilasciare autografi. Ne posseggo io uno, su un vecchio volume della Sand: Lelia. C’è scritto: «Torino, 10 agosto 1836 — Balzac è il più grande scrittore francese!». Firmato: George Sand, coi caratteri che devono essere stati quelli della Marbouty. Ma immagino Balzac al ritorno in albergo: «Perché hai scritto così su quel libro? Balzac è il più grande scrittore francese ... Questo è proprio volersi far smascherare da tutti ... Credi tu che George Sand, quella vera, l’avrebbe mai scritto?». Episodii questi ultimi, come in parte quello della Grande Certosa, pervenuti a me da sorgenti familiari di cui ho già altra volta parlato e dei quali volentieri arricchisco, per quel poco che valgono, la già ricca documentazione dell’Arrigon, cioè dello scrittore francese che dei viaggi balzacchiani in Italia si è fatto il più diligente storiografo: leggere il recente volume dell’Arrigon, su Balzac e la «Contessa».

 

Il pellegrino infedele.

 

  L’indomani, a corto di denaro e chiusi i tribunali dal caldo, Balzac e Marcello si mettono, lasciando giureconsulti e belle dame, studi di notai e salotti, su la via del ritorno. La Gazzetta Piemontese annunzia: «Onorato di Balzac, festeggiatissimo dalla più alta società piemontese, ha lasciato ieri Torino. Un au revoir all’illustre romanziere del Lys dans la Vallée». E risalgono per Novara e il lago d’Orta, in modo da raggiungere, rasentando il lago Maggiore, — Balzac l’adora ..., — il Sempione. Le Alpi entusiasmano Balzac. Quella lotta di cime e di nuvole, quel consesso di bianchi giganti schierati gli uni contro gli altri gli piacciono: è spettacolo grandioso, è visione epica, è michelangiolesco e Commedia Umana ... Si sa ... Balzac vede grosso; e più e meglio che le delicate miniature tutte graziosi colori dei paesaggi leggiadri convengono al suo sguardo panoramico i grandi affreschi nei quali la Natura aggiunge potenza alla creazione, come Balzac si vantava di raddoppiar coi suoi personaggi lo Stato Civile.

  Ma c’è, prima di tornare a Parigi, l’ultima sosta: a Ginevra. Balzac c’è già stato due anni prima con madame Hanska e a riveder quei cari luoghi sùbito intenerisce, sicché dall’acquaforte alpestre rieccolo all’oleografia del lago sentimentale ripercorrendo le varie tappe dell’amore felice con la Straniera: l’albergo dell’Arco ove abitavano, la villa Diodati, le case, i giardini, le chiese, i caffè. Balzac, commemorativo e commosso, rivà da per tutto: e, a sera, scrive a madame Hanska: «Tenero pellegrinaggio ... Ho pianto in tutt’i luoghi ove noi fummo — carissima ... — così profondamente felici!». Ma dimentica di dire all’amica ucraina, alla musa di Wierzchovnia, che nel suo gran pianto commemorativo è accanto a lui, per asciugargli le lacrime. Carolina Marbouty, la quale intanto s’è rivestita da uomo e dove gli alberghi son pieni divide apertamente col gran romanziere l’unica stanza disponibile. Così accade, ultima tappa, anche a Bourg. Ma sembra al romanziere che, dando a due uomini l’unica stanza vuota, il locandiere li abbia guardati con aria sospetta. «Queste occhiate, — dice Balzac a Marcello, — queste occhiate mi seccano ...». Ma ben più gli seccano, la mattina dopo, le parole che la bella albergatrice, discendendo i due dalla loro unica stanza dice davanti a Balzac al giovane Mar cello: «Mi dispiace, signore, che abbiate dovuto dormire senza comodità Ma oggi varie stanze sono libere, e se questa sera pernotterete a Bourg, vi eviterò certamente la schiavitù di dover dormire con vostro padre ...». Balzac, punto sul debole della sua vanità d’esser sempre giovane, manda giù il boccone amaro. E la galante amica del gran romanziere, scambiata — colpa dei pantaloni — per suo figlio, rise talmente che Balzac, rientrati a Parigi rimandò sùbito Carolina Marbouty a ridere ancóra a Limoges col cancelliere-consorte. E quando, l’anno seguente, Balzac ritornerà in Italia per venire a Milano, all’albergo Bella Venezia in piazza San Fedele egli scenderà solo soletto in modo da non poter essere più scambiato per il padre di nessuno ...

  Stupendo commediante con sè e con gli altri, il nostro caro e grande Balzac, vivo ancóra oggi come se fosse tra noi ... Stupendo commediante al quale, sempre che lo sognò e lo volle come scrittore, il teatro ostinatamente sfuggì. Ma tutto, teatro e commedia, potè egli far diventare la vita sua.



  Lucio d’Ambra, I libri che non si scrivono (Conversazione con Lucio d’Ambra), «Radiocorriere. Settimanale dell’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche», Torino, Anno VIII, N. 50, 10-17 Dicembre 1932, p. 8.

 

  E c’è l’altro sistema: non scrivere memorie, ma lettere. E’ il sistema di Balzac e di Merimée. Balzac, con le sue torrenziali «lettere alla Straniera», a madame Hanska, che sarà sua moglie per tre mesi dopo avere aspettata la possibilità del matrimonio durante vent’anni, trova il modo di farci sapere che vestito indossasse e quali gemelli portasse alla camicia in una mattina di maggio del 1836, quante ore dormisse o quante pagine scrivesse nella notte dal 4 al 5 dicembre 1840, chi avesse a pranzo per la veglia di Natale del 1847 e con quale menu.

 

 

  Lucio d’Ambra, Conversazioni con ospiti insigni. Con Bojer nella casa di Andrea Sperelli, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 305, 23 Dicembre 1932, p. 3.

 

  E Bojer si confessa: «Ho scritto venticinque romanzi, da Sotto il cielo vuoto a La grande fame, a L’ultimo Wiking. Grande fatica per me che riscrivo un libro, da cima a fondo, ben quattro volte ... Il mio procedimento è diametralmente opposto a quello di Balzac, padre, forse, e qual padre! di tutti noi romanzieri. Balzac buttava giù il suo romanzo in sessanta pagine. Poi, su le bozze, a furia di revisioni successive, sviluppava, allargava, portava da sessanta a quattrocento.

 

 

  A. B., Appunti del bibliofilo. Biografia. R. Benjamin,La prodigiosa vita di O. Balzac”, Milano, Italianissima, U. P. O. B., pp. 384, L. 15, «La Parola e il Libro», Milano, Anno XV, N. 6, Giugno 1932, p. 379.

 

  La fortunata «vita romanzata» di uno fra i più grandi romanzieri francesi, ha ora la sua traduzione italiana, abbastanza curata e decorosa. Il Benjamin ha saputo immedesimarsi tanto nello spirito dell’uomo che doveva rappresentare, ha così intimamente vissuto il dramma della vita di Balzac, da scrivere un libro davvero «balzachiano», robusto e sanguigno, acceso ed esuberante, appassionato e sensibile come l’autore di Père Goriot o della Femme de trente ans. L’a. ci riporta all’infanzia del futuro romanziere, inquieta e presaga, alle prime prove della giovinezza, al suo amore per la bella e pensosa amica tanto piò vecchia di lui, amore che si trascinerà per alcuni anni, ai suoi primi romanzi, all’esplosione continua, disordinata, febbrile del suo genio formicolante di fantasmi. Indovinato ad esempio è l’artifizio con cui il Benjamin sa ritrarre la genesi interna delle opere maggiori del poeta, dandone al tempo stesso un’interpretazione commossa e comunicativa. Poi, i vari amori dell’incostante Balzac, le sue peripezie, fino al viaggio in Polonia, e la morte giunta sempre troppo presto, in un seguito di pagine vivacissime ed avvincenti. Bell’esempio, imitabile. di «vita romanzata» dove l’indagine introspettiva ed il documento si fondono, con ottimi risultati.

 

 

  Ugo Bassani, Un personaggio che manca nei “Promessi Sposi”, «Il Regime fascista», Cremona, Anno XI, N. 207, 31 Agosto 1932, p. 3.

 

  Le tre figure di padre che compaiono nel Romanzo, quella del padre di Lodovico, quella del padre di Geltrude, quella di Don Ferrante (lascio da parte il sarto letterato) sono la prima una figura scialba senza contorno, la seconda appare in tutta la sua ferocia boriosa dì nobile del settecento; la terza è una figura comica che sembra impossibile abbia avuto dei discendenti Quale differenza con la figura di Pére Guriot (sic) del Balzac!



 Antonio Belloni, L’umano e il divino nei “Promessi Sposi”, Torino, G. B. Paravia & C., 1932.

 

Prefazione.

 

 p. 22. Il Manzoni fu un artista incontentabile; ma la sua incontentabilità non produsse l’effetto di quella del vecchio pittore Frenhofer, di cui narra Balzac nel suo racconto Le chef-d’œuvre inconnu; il quai Frenhofer, a furia di ritoccare il quadro che doveva riuscire il suo capolavoro, per avvicinarlo il più possibile a quell’ideale di perfezione che s’era foggiato nella fantasia esaltata, finì col trasformar la gran tela in un caos di colori, in cui a malapena si distingueva il piede ignudo dell’Adamo che il maestro immaginava d’avervi dipinto, e ch’egli solo, con gli occhi dell’allucinato, vi vedeva.

 

 

  René Benjamin, La prodigiosa vita di Onorato di Balzac. Traduzione dal francese di Falcone Lucifero, Milano, Edizione Italianissima, 1932, pp. 384.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Parte Prima: La lotta con la vita, pp. 9-110;

  Parte Seconda: Il trionfo del genio, pp. 111-264;

  Parte Terza: La lotta con la morte, pp. 265-384.



 Guglielmo Bilancioni, A buon cantor buon citarista. Rilievi di un otologo sul suono e sulla voce nell’opera di Dante. Illustrazioni e fregi di Luigi Pasquini, Roma, A. F. Formiggini Editore, 1932.

 

 p. 65. Taluni hanno ritenuto la Commedia una trasfigurazione vertiginosa di chimere e di grami, puerili elementi che invero non schivò — Dante, uomo di parte, i rancori partigiani perseguì nel triplice regno — e che sia stata scritta — che so io? — come alcune prose del ciclo di Balzac. Il fecondo romanziere mandava al tipografo il canovaccio di una novella: dopo la quarta o la quinta revisione di bozze, le aggiunte e le metamorfosi erano tante che l’opera assumeva le linee di una vasta concezione artistica e umana.

 

 

  Emilio Bodrero, Epistola a un postero, «Bibliografia fascista. Rassegna mensile», Roma, Anno VII, n. 8-9, Agosto-Settembre 1932, pp. 488-489.

 

  p. 488. La vita è apparentemente frivola, ma si conspira, si soffre, si scrive e si lotta, si va anche in galera o su la forca. Per le vie maestre non è escluso che s’incontrino i briganti, ma in un albergo od in un salotto può darsi che si abbia la ventura di dar la mano a Balzac od a Stendhal.

 

 

  G.[iuseppe]. A.[ntonio] Borgese, Schizzi di New York depressa, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 53, 2 Marzo 1932, p. 3.

 

  Il motto che riassume questa situazione singolare della città, particolarista in America e intinta di pece cosmopolita che il resto del paese più o meno riprova, dice che «New York non è l'America». Esso è l’adattamento di formule consimili applicate in Europa a Parigi, e non a Parigi soltanto: dall’angolo visuale fissato nella vie de province di Balzac, a cui possono corrispondere qui i romanzi di Sinclair Lewis, «Parigi non è la Francia». Ed è ugualmente vero e ugualmente falso.

 

 

  Bruno Brunelli, La visita di Balzac al Manzoni, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXVII, N. 52, 25 Dicembre 1932, p. 2.

 

  Lucio d’Ambra in un suo recente articolo ha aggiunto un particolare inedito alla narrazione dell’atto di ammenda che Onorato di Balzac credette opportuno di compiere verso Alessandro Manzoni dopo aver udito leggere da una bella contessa abbandonata dal manto e confortata da un elegante principe, ciambellano di Ferdinando I, alcune pagine del romanzo famoso, che il romanziere francese aveva leggermente giudicato in una sera in cui la mente gli si era forse annebbiata per i vini troppo generosi. A mezzo della contessa Maffei il Balzac rimise al collega lombardo una lettera in cui egli esprimeva il suo rammarico per aver pronunciato un giudizio, esagerato dai soliti amici compiacenti.

  La critica del Balzac era stata pronunciata a Venezia ad un pranzo in casa della contessa Mocenigo-Soranzo, dama ospitale e lettrice colta e appassionata. Lo scrittore francese, oltre a criticare i Promessi sposi, si era azzardato a vantare la sua perfetta ignoranza dei romanzi italiani più in voga, fra cui il Marco Visconti del Grossi e l’Ettore Fieramosca del d’Azeglio. Quel suo parlare a vanvera, sentenziando e facendo sfoggio di spirito e di critiche — che non risparmiavano nemmeno i colleghi di Francia, Chateaubriand e Victor Hugo, — gli aveva procurato a Venezia non poche antipati, ed aveva procurato anche l’ira dei poeti dal Nalin che gli aveva dato del «lasagna» del «toco de … boa tasi», e che gli dedicava dei versi intitolandoli: Per Balzac leterato e romanzier franzese che s’à presentà, nel 1837 a Venezia co una certa noncuranza afetada e un certo sprezzo de tuto, da far fastidio, al Fusinato che così commentava l’esaltazione balzachiana per la donna di trent’anni:

 

Io però romantico non sono,

e molti ci saran del gusto mio,

al signor di Balzac chiedo perdono,

e gli dichiaro francamente ch’io

troco che meglio si confà a’ miei denti

un bocconcin fra i diciasette e i venti.

 

  Ma gli attacchi più violenti erano venuti dalla Gazzetta, dalle appendici dove brillava la tersa prosa di Tomaso Locatelli e dalle colonne dove Tullio Dandolo dimostrava di non poter perdonare al francese la stolta critica ai Promessi sposi.

  Ma anche a Milano il primo lungo soggiorno del Balzac ed altri più brevi sollevarono non pochi commenti e dissensi; chi lo giudicava un vanesio fanfarone, chi «il primo scrittore di Francia», e chi ripeteva l’elenco delle sue manie: il bastone dalla vistosa impugnatura e la veste da camera bianca a foggia di tonaca da frate. E il Cantù, che malgrado la fiera ma astiosa lettera di Niccolò Tommaseo da Parigi, aveva considerato, non meno di suo fratello Ignazio, con molta equanimità i meriti del romanziere allora ospite di Milano, poteva negare come egli fosse un eccentrico «pieno di sé» e «oracoleggiante». Già a Milano il Balzac non aveva taciuto la sua scarsa considerazione per i Promessi Sposi, giudizio avventato poiché non aveva letto il romanzo. Conosceva il Manzoni di fama, ma quanto ne sapeva bastava a metterlo assieme ad alcuni autori di Francia che egli considerava edificatori di monumenti ma non creatori di vita.

  Onorato di Balzac frequentò il salotto della Contessa Maffei, e quelli di altre donne milanesi dove si parlava del Manzoni con quella venerazione che si concede soltanto ai veramente grandi Egli aveva incontrato in casa della contessa Chiarina, Massimo d’Azeglio, Francesco Hayez, Tommaso Grossi, e con loro il discorso era caduto più di qualche volta sul Manzoni, esempio da tutti citato di probità nella condotta privata e nella vita letteraria.

  Ma il Balzac non era proclive a considerare le lettere e le arti italiane del tempo come cose degne di nota: in pittura egli venerava soltanto il Luini e faceva una escursione a Saronno per vederne gli affreschi. Egli non accordava molta considerazione a suo contemporaneo Francesco Hayez di cui gli venivano vantati i ritratti e gli affreschi che stava allora eseguendo nella gran sala del palazzo reale Ad ogni modo il romanziere manifestò un giorno il desiderio di fare una visita al collega che così alta fanti godeva allora in Italia.

  Non sembra che il Manzoni accogliesse con molto entusiasmo il preavviso che qualcun, gli diede di tale visita. Egli conosceva l’opera del Balzac e ammirava specialmente Eugénie Grandet. Ma troppo erano diversi i temperamenti del due scrittori, l’uno serio, riservato contegnoso, l’altro rumoroso, eccentrico, spregiudicato Anche nella loro arte c’era troppa diversità: il Manzoni su un vasto sfondo storico intrecciava una vicenda moraleggiante, l'altro, innamorato delle piccole cose, dei caratteri anche deformi, talora precursore di certo verismo che non fu tutto una scoperta di tempi successivi.

  Alcuni patrizi amici del milanese e conoscenti del francese si adoperarono per facilitare l’incontro. F così seguì la visita, il Balzac essendo accompagnato dal cav. Felice Carrone marchese di San Tommaso. Cesare Cantù, che fu fra coloro i quali favorirono l’incontro ma non vi era presente, ne scrisse facendo un vago accenno agli argomenti toccati dai due scrittori: disse che il Balzac aveva parlato principalmente di sé e dei suoi lavori in preparazione, fra cui erano una commedia e un romanzo che voleva intitolare La ricerca dell’assoluto, e che dissertò senza riguardi dell’amore femminile e di certo suo vago panteismo.

  Il copialettere inedito di uno dei migliori allievi di Brera del tempo, che sarà poi un pregiato incisore e uno scrittore di cose d’arte, mi permette di aggiungere qualche altra notizia in proposito. Scrivendo ad un amico, costui, rendeva conto del soggiorno del Balzac, che in tal modo offriva argomento di conversazioni interminabili nei salotti e nei caffè, che gli era impossibile non «secondar la corrente informandone i conoscenti».

  Del colloquio fra i due scrittori egli fu pure subito informato da persona intima di casa Manzoni. Egli confermava come la conversazione si fosse specialmente aggirata intorno ad argomenti che facilmente allora si chiamavano filosofici, e che per primo lo stesso Balzac aveva toccato, e cioè sul «sistema empirico» che allora dominava in Francia, a cui si contrapponeva la scuola spiritualista tedesca, e sui maestri delle varie tendenze, e naturalmente l’autore francese aveva esposto le ragioni della sua preferenza per la prima. Alessandro Manzoni non fu un contradditore eloquente: era evidente che egli si sentiva troppo lontano da uno scrittore tanto diverso da lui; lasciò che l’altro parlasse così che quando il Balzac ebbe dato sfogo completo ai suoi sentimenti il discorso andò morendo. L’informatore osservava che il Manzoni aveva avuto le sue buone ragioni per comportarsi in tal modo, poiché egli non taceva per timidezza o per dare partita vinta all’altro «non essendo egli quell’uomo da lasciarsi imporre da un Balzac». Alessandro Manzoni aveva dimostrato in troppe occasioni, a voce e per iscritto, che in fatto di contese letterarie culturali o filosofiche, egli era buon polemista, e se avesse voluto contraddire il Balzac lo avrebbe «eclissato», «perché si sa che il Manzoni è un torrente quando si mette a discutere un argomento di simil fatta». E infatti che fosse ben armata a tal genere di discussioni lo aveva dimostrato un suo articolo pubblicato nel fascicolo di gennaio di un periodico milanese Il Raccoglitore italiano e straniero. Ma probabilmente il Manzoni ritenne che una discussione in argomento lo avrebbe condotto molto lontano e non avrebbe scosso l’altro da opinioni troppo aprioristicamente radicate per poter essere rimosse. Egli fu preso da uno di quei momenti di egoistica pigrizia mentale per cui lasciamo discorrere gli altri sempre più convinti nell’intimo delle nostre buone ragioni: lasciò che l’impetuoso torrente dell’altro precipitasse, senza scatenate il suo.

  Così accadde che il Balzac, cui interessava il Manzoni più per il riflesso della fama che lo encomiava che per l’opera ... che egli non conosceva, si formò del lombardo un concetto che lo indurrà poi al giudizio di dileggio di Venezia, assomigliandolo fisicamente e intellettualmente a quel Chateaubriand che non era neppur lui nelle sue buone grazie.

  Amicissimo della coppia irregolare formata dalla contessa Eugenia Bolognini Sforza Attendolo nata Vimercati e dal principe Alfonso Serafino di Porcia. i due cui ho fatto cenno in principio, ne godeva la stima, ma la bella contessa, infiammata di sdegno essa pure quando seppe le parole pronunciate dal romanziere francese contro il Manzoni, prese le parti dell’autore lombardo fino a riabilitarlo nell’opinione del Balzac E questo, ci rivela Lucio d’Ambra, fu ragione di dissenso nella coppia innamoratissima, poiché il Porcia, ciambellano dell’imperatore, non aveva le stesse ragioni di italianità per venerare Alessandro Manzoni. Si ricredette dunque il Balzac. ma non così che volendo più tardi offrire ad una signora sua amica un autografo del Manzoni non si accorgesse di non possederlo più perché l’aveva bruciato senza avvedersene.

  Molti milanesi mai gli perdonarono il giudizio che aveva offerto argomento alla violenta replica del Dandolo. Così che quando anche il giovane allievo di Brera chiese ad un amico milanese «di molto spirito ed erudito» quale fosse il suo giudizio riassuntivo sul Balzac uomo e artista, si sentì rispondere: «In società è un gran farfallone e non conosce che i suoi francesi, in politica è biasimevole, e come scrittore è un uomo che incanta e innamora». È in fondo il giudizio che ne hanno dato i posteri.

 

 

  Vincenzo Bucci, Eloquenza dei frontespizi. I titoli nel destino dei libri, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 239, 7 Ottobre 1932, p. 3.

 

  Anche Balzac, quando volle raccogliere in un gran ciclo i romanzi nei quali egli veniva rappresentando la vita del suo tempo, si trovò di fronte al problema del titolo. «Etudes de moeurs au XIX siècle» o «Etudes sociales» andavano bene fino a un certo punto: per dei romanzi ci voleva qualcosa di più vivo e di meno professorale. Già nella prima stesura della «Fille aux yeux d’or», egli aveva scritto: «Parigi, inferno che un giorno avrà il suo Dante». E in queste parole c’è come un barlume del titolo futuro. Ma solo sett’anni dopo, nel 1841, consigliandosi con Augusto Belloy, tornato fresco fresco dall’Italia, pensò che il suo vasto ciclo moderno poteva ben essere un «pendant» del poema antico: e così nacque, quasi a riscontro della «Divina Commedia», il nome di Comédie Humaine.

 

 

  Francesco Campione, La vita al microscopio. Impiegate postali e telefoniste, «La Puglia Letteraria. Mensile di storia – arte – letteratura», Roma, Anno II, N. 2, 29 Febbraio 1932, p. 5.

 

  Quell’anima impiegata patisce pel suo decadimento. Certo: bisogna essersi trovato vicino ad uno sportello postale, all’avvicinarsi, preceduta da un’onda di profumo, di una donna elegante, la cui andatura e la cui toilette rivelano che ha l’agio e la volontà di piacere, e che si dà a chiedere il servizio dell’impiegata. Forse lo stesso Balzac, uno dei più grandi conoscitori delle passioni umane e massime di quelle delle donne, di cui più che il poeta fu il naturalista, non riuscirebbe a sorprendere ed a comprendere in quell’impiegata postale tutta la piena dei sentimenti penosi e tutta l’amarezza che il suo stato le procura. Giacchè è proprio della donna la cosidetta penetrazione psicologica o processo intuitivo, per mezzo del quale essa afferra i sentimenti ed i pensieri altrui grazie ai segni esteriori, quali: i movimenti, il suono della voce, l’incedere, ecc.



  Alberto Cappelletti, Pellegrinaggi italiani. Balzac a Roma, «Il Messaggero», Roma, Anno 54°, N. 109, 7 Maggio 1932, p. 3.

 

  Fatale angoscia del declino di questo genio! Egli sente in sé, avvicinandosi ai cinquant’anni, il cervello vasto e possente, come quello di Michelangelo, e già i primi freddi tentacoli della morte si fanno strada nel suo corpo disfatto dal lavoro, dalle veglie sulla carta bianca, sulle bozze cento volte rifatte, sui libri concepiti in un vero tormento fisico, cui dava sollievo soltanto la tazza di caffè sempre piena, sulla scrivania, nella notte insonne.

  E quando col quadro titanico e abbacinante della sua immensa opera, tutto lì nel cervello in fuoco — le Scene della vita privata, quelle della vita di provincia, della vita di campagna, della vita parigina, di quella politica, di quella militare —, sentì un giorno dal suo amico marchese Di Belloy, che, reduce dall’Italia, gli parlava della Divina Commedia di Dante, dire così a caso: «Ma voi, mio caro, voi state scrivendo, invece, la commedia umana!», ecco che Balzac trova in queste due parole il titolo largo, ampio, solido, superbo, che riassume e comprende tutta la sua fatica. La Commedia Umana: è il coronamento della sua opera, è la realizzata unione del divino e dell’umano.

  Ma nel contempo, con angoscia maggiore della consueta, chiede al buon Nacquart, l’affezionato medico di famiglia: «Fate in modo ch’io possa vivere ancora quindici o sedici anni ... Sì, è necessario perché la mia opera sia compiuta». E si caccia con nuovo ardore, tutto dimenticando, nella fatica che a poco a poco lo inghiotte e lo farà morire.

  Ma prima bisognerà che torni in Italia; egli che nel 1836 è stato a Torino per sistemare alcune faccende ereditarie del suo amico Visconti, e poi nel ‘37 a Milano ed a Venezia stringendo forti amicizie coi migliori intellettuali dell’epoca, agogna ora una cosa sola: vedere Roma, la città dei Cesari e dei Papi, quella in cui tanta parte della storia umana si è svolta. Antidemocratico, antirepubblicano, tradizionalista, legittimista, innamorato d’ogni grandezza e d’ogni nobiltà, egli in Roma, vede l’antitesi della Parigi di Luigi Filippo, da lui, sempre appassionato ed esuberante, definito a gran voce un «surrogato di re» !

 

* *

 

  Dalla piccola casa di Passy — sopra una collina a terrazze, a trecento metri dalla Senna, una via tutta edera e cinguettii, un giardino, una vigna ... — dove s’è rifugiato credendo di trovare pace e silenzio, e invece deve lavorare di notte per non sentire le grida dei numerosi figliuoli delle vicine famiglie operaie, dove ha creato al fosco lume delle tremule candele i più foschi e tragici personaggi della sua opera — Splendori e miserie delle cortigiane, i Contadini, i Parenti poveri — Balzac è chiamato, nel ’45, dalla straniera, dalla sua Eva, dalla contessa Hanska, ormai vedova, a Dresda, donde partiranno insieme per Roma.

 

  Trascorrere qualche giorno con la sua amata nella Città Eterna: gli parve un destino degno del suo genio! Ore appassionate in cui quest’uomo brutto, grosso, disfatto ormai dai malanni, acquistava quel fascino divino che piegò tante anime femminili e le vinse. Il pittore Schneitz, direttore dell’Accademia di Francia, fece ottenere a lui, all’Hanska, alla figlia ed al genero di costei, un’udienza dal Papa, il dotto Gregorio XVI. Questi fu assai cortese e affabile con Balzac e gli regalò un rosario da portare alla madre. Onorato uscì dall’udienza papale entusiasta ed al colmo dell’ammirazione per la forza gerarchica del cattolicismo.

  Ma mentre si apprestava a vedere tutte le bellezze della città e mentre la sua Loup-Loup, come chiamava la sua Eva, rimaneva l’intero inverno a Roma .— ah! come la comprendeva e l’invidiava! —, egli fu costretto a tornare a Parigi per curare presso l’editore Furne la grande edizione della Commedia Umana.

  Partì piangendo come un fanciullo.

  Ma nella primavera del ‘46, come può, s’imbarca nuovamente a Marsiglia, scende a Civitavecchia — in quale via si è soffermata Eva? dove ha poggiato i suoi delicati piedini? —, corre a Roma a raggiungere i suoi amici. Dalla fine di marzo alla fine di aprile dura il suo soggiorno, ed è una sola, lunga esaltazione. Trecento chiese da vedere; S. Pietro che è al di là d’ogni immaginazione: «Ci sarebbe da parlarne per una settimana! — scrive alla sorella Laura. — Immagina che la nostra casa di Rue du Houssaie starebbe comodamente nel terzo piano interno della cupola!». E più oltre: «Roma, malgrado il tempo breve in cui vi sono rimasto, sarà sempre uno dei più grandi e bei ricordi della mia vita».

  Compra un Bronzino, un Sebastiano del Piombo, un Guido Reni: così non sarà più come nell’infausta villetta di Sèvres, les Jardies, ove alle pareti nude aveva attaccato cartelli con scritto: «Qui un Raffaello», «Qua un Tiziano» ..., ma splenderanno intorno a lui autentici capolavori. E poi, anche se capolavori non sono, Balzac li immagina tali e li illustra con enfasi. Quando più tardi, all’inizio del ’47, l’Hanska va a Parigi a donargli, dopo Vienna, Pietroburgo e Roma, la gioia di tenerla vicina, egli, dinanzi a un quadro che avevano comprato insieme nei dintorni di Roma (Eva ricordava che il venditore aveva consentito subito un enorme ribasso!!, esclama: «Questo quadro, l’Italia l’ha lasciato esportare con un fremito di dolore!»...

  In quell’aprile romano, mentre fra gli antichi ruderi gloriosi, resuscitanti nel suo spirito i ricordi più vivi della storia, occhieggiavano i mandorli e le mimose in fiore gli davano l’ebbrezza della primavera, eccolo, stretto al braccio caldo di Eva, assistere alle cerimonie della Settimana Santa, ammirarne la solenne grandiosità, dare interpretazioni nuove e originali ai cori, ai canti, alle sacre funzioni con cui la Chiesa rievoca la passione e la morte di Cristo. Eccolo la sera del Giovedì Santo presso le colonne tortili del baldacchino berniniano, davanti al cardinale arciprete, che, iridescente di porpora, ascende a lavare l’altare tutto spoglio e triste, davanti alle sacre reliquie che dalla loggia della Veronica un canonico in paonazzo mostra alla folla prosternata e riverente, emettere esclamazioni di entusiasmo che fanno volgere gli sguardi su questo brutto e grosso personaggio dagli occhi di fuoco.

  La grande illuminazione della basilica, del colonnato e della cupola — che in questi ultimi anni, per volere di Pio XI, abbiamo potuto ammirare anche noi — rese addirittura folle di entusiasmo quest’Onorato mai stanco, nell’esuberanza del carattere, di gridare alta la sua gioia. «Vaut à elle seule le voyage» scrisse, e in quelle fiaccole ardenti che alle sagome dell’architettura donano un tremulo bagliore di sogno egli vide forse, nella coscienza del suo genio, come un’apoteosi della sua opera.

 

* *

 

  Alte personalità del mondo romano gli furono prodighe di cortesie, che contribuirono a rendere in lui più dolce e forte il ricordo dei due brevi soggiorni romani. Tra costoro, il duca di Teano, principe Michelangelo Caetani, colpì maggiormente Balzac. Gli fu guida in varie escursioni ed ebbe così agio di mostrare all’ospite francese la vasta cultura, il gusto squisito, affinato da secoli di tradizione familiare di studio e di comando. Tra l’altro, Onorato assistette ad un commento dantesco che il principe romano tenne in quei giorni a palazzo Farnese, e l’ammirazione per Michelangelo Caetani raggiunse, come sempre in Balzac, l’entusiasmo. Così che tornato in Francia a terminare per ... i suoi creditori la Cugina Betta — l’opera nella quale le figure più tragiche, più mostruose e più crudeli, madame Marneffe, il barone Hulot, l’arricchito Crevel, il polacco Venceslao, si avvicendano con le dolci figure della bontà e dell’altruismo senza confini, Adelina e Ortensia —, egli sente, nel suo cuore sempre prodigo e generoso, di dover dedicare questo capolavoro al principe romano che aveva dato al suo spirito la possibilità di tanti spirituali e sottili godimenti.

  E in un’afosa giornata d’agosto, mentre nella sua vestaglia rosso fiammante si liquefa in sudore, ma resta imperterrito ore e ore alla scrivania — unico sollievo, ogni tanto, uno sguardo là nel cortile e lungo il verde pendio verso la Senna e la lontana evanescente Parigi —, sull’imbrunire, quando la governante madame de Brugnoli gli porta il candeliere e un piatto colmo di ciliege, egli afferra nel cumolo delle bozze, dei manoscritti, degli appunti, delle note, dei libri che coprono da ogni parte la scrivania e il pavimento e le sedie, un ampio foglio di carta velina e butta giù la dedica: «a don Michelangelo Caetani, principe di Teano ».

  «Non è al principe romano nè all’erede dell’illustre Casa dei Caetani, che ha dato dei papi alla cristianità, è al sapiente commentatore di Dante che dedico questo minuscolo frammento d’una lunga storia. Voi m’avete fatto scorgere la meravigliosa intelaiatura di idee sulla quale il gran poeta italiano ha costruito il suo poema, il solo che i moderni possano opporre a quello di Omero ... Uno scienziato francese si farebbe un nome, guadagnerebbe una cattedra e molte croci, pubblicando in un volume dogmatico l’improvvisazione con la quale voi ci avete resa incantevole una di quelle serate in cui si riposa dall’aver visitato Roma ... Sfogliando i vostri scritti sarei potuto divenire un uomo dotto della forza di Schlegel, mentre rimango un semplice dottore in medicina sociale, il veterinario dei mali incurabili, non foss’altro che per offrire un attestato di riconoscenza al mio cicerone e per aggiungere il vostro illustre nome a quelli dei Porcia, dei San-Severino, dei Pareto, dei Negro, dei Belgioioso, che rappresenteranno nella Commedia Umana quell’alleanza intima e costante tra l’Italia e la Francia, che già il Bandello consacrava allo stesso modo ...».

  Anche questa dedica, come ogni pagina dell’enorme opera di Balzac, non è di getto, ma corretta, limata, con aggiunte, modifiche, soppressioni, quasi ad ogni periodo. Il manoscritto di essa, ormai ingiallito e scialbo, ho potuto esaminare per la cortesia di don Gelasio Caetani, in quell’archivio dell’avita sua casa, che con amore e con metodo egli e il dottor Ramadori vanno da anni ordinando, apprestando così agli studiosi un materiale di pregio incomparabile.

  Chiunque si avvicini, per ragione di studio, a Balzac vede come sia difficile renderne l’appassionata e varia esistenza. Penso che solo René Benjamin, ammiratore erudito, scrittore impareggiabile, anima schietta di poeta, abbia finora saputo darcene una ricostruzione esatta e nell’istesso tempo avvincente come un romanzo.

  Onorato di Balzac, che nella primavera del ’46 era a Roma, si spegne a Parigi, il 20 agosto 1850, a cinquant’un anno di età, in quello châlet di via Fortunée, che, comperato per la sua Eva, avrebbe dovuto, nella sua mente immaginosa, divenire il più importante salotto letterario della ville Lumière. Egli vi lavora sin quasi all’estremo, e nelle sue ultime pagine si scorge il genio che combatte con la morte: assai spesso, mentre il racconto s’intriga di fosche figure e di diaboliche vicende, uno spiraglio di luce e di sorriso forse una speranza di salvezza nellanima del grande! è dato dal ricordo di artisti, di opere, di città italiane.

  Quando, assetato non solo d’amore, ma anche dal desiderio di nobiltà e di grandezza — «la mia esistenza deve essere pari alla mia opera» — è nella lontana Ucraina, nel grandioso castello della contessa Hanska, nata Rezwuska, e i venti gelidi della steppa e la neve che fiocca incessante fanno tremare il suo povero corpo ormai sfinito — l’anima no, che è sempre sfavillante ed immensa. —, quando volgendosi ad Eva, che il 15 marzo 1850 diverrà la sua sposa e che lo assiste con assoluta dedizione, le mormora: «La testa mi pesa più della cupola di San Pietro!», par che sia soltanto il ricordo radioso del suo soggiorno romano, nota il Benjamin, a trattenerlo ancora in vita. «Com’eravate bella e ...», ma non può finire la frase: una crisi di tosse, di mancanza di respiro, di vomito, lo scuote, lo dilania e spegne in lui l’immagine dell’amata qual’era risorta, alta ridente su lo sfondo di Roma.

 

 

  Bruno Cicognani, Lettere alla sorella, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 38, 13 Febbraio 1932, p. 3.

 

  Poco tempo egli stette in casa Digny; passò, che non aveva vent’anni, in altra casa: d’un conte senese.

  Il conte ... la contessa ... «La Fratta», Marciano ... fantasticazioni della mia adolescenza!

  «Ah! se Balzac avesse conosciuto il conte! ...».

 

 

  M.[aurizio] Claremoris, L’ultimo romanzo di Andrea Maurois. “Le Cercle de Famille”, «Il Regime fascista», Cremona, Anno XI, N. 87, 10 Aprile 1932, p. 3.

 

  […] in un recente passaggio della sua recente «Amérique inattendue», Maurois afferma che la costruzione non simmetrica di Eugénie Grandet prova la grandezza artistica di Balzac. «Bisogna diffidare della forza quando è ottenuta con mezzi artificiali». […].

  E’ probabile che ciò non sia sfuggito all’illustre e raffinato autore, e che, appunto per dar luogo una maggiore vitalità, egli, seguendo un procedimento caro a Balzac, a Bourget ed a Proust, abbia fatto intervenire personaggi identici, appartenenti allo stesso gruppo sociale, nelle tre opere accennate.

  Forse anche risponde ad analoghe preoccupazioni la pittura vivace dei fatti e delle idee politiche e sociali dell’epoca: procedimento anche questo di carattere balzacchiano.



  Alessandro Criscuolo, Sterne rileggendo e Svift (sic), «La Gazzetta di Puglia. Corriere delle Puglie», Bari, Anno XLV, N. 218, 13 settembre 1932, p. 5. 

  Ma nel mondo purtroppo vi è un altro riso, che è una maschera atroce sanguinante, a volte tragica! Il riso dell’uomo, che dentro di sè piange, che deve far ridere, mentre freme; far gioire, mentre nel cuore gli saetta il dolore. Chi sono? In Giusti è il saltibanco, che muore di fame e il volto ilare e franco trattien la folla. E’ Parini che scrive chiedendo denaro per la madre morente.

  E, sovra tutti è Luciano di Ronbrébé (sic) descritto da Balzac.

  Dopo gli splendori di una vita elegante ridotto in povertà, promette al suo editore una poesia allegra per settimana.

  Ed una tra le più gioconde ne scrive la notte nella quale muto, solo, freddo guarda la bara della donna amata. E di fronte a quelle quattro assi, di fronte a quella morta, egli scrive la sua allegra canzone, poiché con il prezzo deve comperarne i fiori e pagarne il funerale.


  Benedetto Croce, Nuove curiosità storiche, Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1932 («Biblioteca napoletana di storia letteratura ed arte», V).

 

Una visione della Napoli borbonica.

 

  p. 190. Tuttavia, se non m’inganno, il precedente immediato dell’opera del De Bourcard — precedente che essa non imita ma segue con piena libertà — è un libro che nel 1840 e anni seguenti venne in luce a Parigi: Les francais peints par eux-mêmes, composto appunto di articoli di vari autori e d’illustrazioni di vari artisti, tra i primi dei quali erano il Balzac, il Nodier, il Janin, il Karr e tra i secondi il Grandville, il Meissonier, lo Charlet.



  Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono. Seconda edizione, Bari, Gius. Laterza & Figli Tipografi-Editori-Librai, 1932.

 

V

Progressi del moto liberale. Primi contrasti col democratismo sociale (1830-1847).

 

  p. 128. I tedeschi (osservava in quel tempo il Balzac, dando forma scherzosa a un comune convincimento europeo), «s’ils ne savent pas jouer des grands instruments de la Liberté, savent jouer naturellement de tous les instruments de musique» (Une fille d’Ève, 1839). […].

  p. 148. Giorgio Sand dalla novellante rivendicazione dei diritti dell’amore-passione passava ai Compagnons du tour de France, a Consuelo, al Meunier d’Angibault, e simili; il Balzac faceva larga parte nelle scene della sua «Commedia umana» alla plutocrazia, ai banchieri, agli speculatori, e ai contrasti delle classi sociali, e si conferiva da sé il titolo di «dottore nelle scienze sociali» […].



 Alfredo De’ Donno, Il romanzo nazionale, «La Stirpe. Rivista nazionale», Roma, Anno X, N. 10, Ottobre 1932, pp. 445-446.

 

 Nella Commedia umana di Balzac e nel ciclo dei Rougon-Macquart di Zola ci sono le passioni e le idee, le illusioni e i vizi della società francese del secondo impero. Non importa che Balzac veda lo scampo al pericolo che sovrasta sulla nazione «deux vérités éternelles: la religion, la monarchie, deux nécessités que les événements contemporains proclament», mentre Zola cura i mali che corrodono la stessa società con la medicina della verità e della giustizia; quello clic importa è che nelle opere dei due grandi romanzieri il dramma di una società nazionale, che passa di crisi in crisi spirituale, è scultoreamente rappresentato, e questo mondo, che è attinto al tragico quotidiano, è più vicino alla nostra sensibilità ed ha un interesse umano maggiore del mondo dei Tre moschettieri.

 Diciamo meglio: i romanzi balzacchiani e zoliani hanno un «peso morale» che i romanzi dumasiani non hanno, inquantochè quelli ci suscitano emozioni di pensiero che questi non sanno darci, sia pure mettendo su di uno stesso piano le emozioni estetiche. L’Orlando furioso non può strapparci le stesse emozioni della Divina Commedia, pur essendo l’Ariosto artista grandissimo, perché diverso è il «peso morale» dei due poemi. Nell’uno la fantasia si diletta, nell’altro l’anima umana sanguina.

 I romanzi di Balzac e di Zola sono romanzi nazionali. [...].

 Storia e romanzo sono magistralmente fusi nei Promessi Sposi, il cui valore artistico è decisivo per il «peso morale» di questo capolavoro: romanzo nazionale.

 Non crediamo affatto che il proposito di Balzac, di Zola e di altri romanzieri «naturalisti» non sia stato un proposito direttamente artistico, crediamo anzi il contrario. Lo scopo didascalico delle loro opere non infirma affatto il valore artistico, e crediamo che costoro abbiano voluto raggiungere risultati di etica sociale restando artisti. La valutazione esatta delle loro opere deve essere fatta con la misura della loro potenza artistica, e dimostrare con quanta arte sia stata rappresentata una certa verità scientifica, non quanta scienza sperimentale sia contenuta nella loro arte. [...].

 L’artista si propone, per esempio, di «rappresentare» la potenza del danaro, mentre all’economista interessa di spiegarla e di interpretarla. I fini dell’artista pertanto sono morali oltre che artistici, perché egli si propone di dimostrare a quali risultati di etica sociale porta la cupidigia dell’oro, servendosi sempre di un processo artistico, mentre all’economista preme di dimostrare quale sia il processo meccanico della produzione della ricchezza. Né per diminuire i meriti artistici di Balzac e di Zola (noi crediamo ad un ritorno appassionato, vera e propria scoperta di un mondo nuovo, ai romanzi di Emilio Zola che si avviano così alla loro seconda giovinezza) serve il dimostrare che costoro non siano stati scientificamente esatti, precisi, fotografici nella rappresentazione dei casi di patologia sociale, perché è appunto scopo dell’arte non la fotografia del vero (chi non lo sa?) ma la ricreazione fantastica del vero, la verità vista con i propri occhi; e l’artista vede diversamente dallo scienziato, lo spirito di osservazione dell’artista non è lo stesso di quello che conduce alle osservazioni microscopiche del batteriologo.  

 

 

  John Douglas, Un cervello americano. La vita segreta di Teodoro Dreiser, «La Stampa», Torino, Anno 66, Num. 4, 5 Gennaio 1932, p. 3.

 

  Quella di Dreiser che è solida, è dovuta alla potenza stessa dei suoi romanzi, alla loro rara umanità, per modo ch’egli è paragonato a Balzac e fa sì che i suoi difetti non siano troppo rilevati. […].

  Scopre Balzac e prova la più forte, emozione della sua giovinezza: «Davanti a me una nuova porta, che mi tenta; si è aperta sulla via».

 

 

  Luigi Falchi, La parentela sarda di Francesco Domenico Guerrazzi, «Pègaso. Rassegna di lettere e arti», Firenze, Anno IV, N. 2, Febbraio 1932, p. 172-187.

 

  p. 183. Giovanni Antonio Sanna dovrà sempre essere ricordato in Sardegna come iniziatore dell’industria mineraria isolana e come promotore delle prime grandi opere di bonifica. La storia della nostra industria mineraria, — che, negli sterili tentativi precedenti, ricorda il nome di Onorato Balzac, — comincia, nel 1844, con l’opera del Sanna per costituire una società per la scavazione e lo sfruttamento di una miniera piombifera, detta di Montevecchio, posta in territorio di Guspini.



  Edoardo Fenu, Opinioni di Balzac su Calvino, «L’Italia. Quotidiano cattolico del mattino», Milano, Anno XXI, 26 Luglio 1932, p. 3.

 

  Onorato di Balzac, del quale non vogliamo certo qui tenere il panegirico dal punto di vista cattolico, fu soprattutto ed essenzialmente un artista che si occupò molto però della società civile e religiosa del suo tempo, come ci attesta il grande ciclo di romanzi inseriti nella raccolta conosciuta sotto il titolo di Commedia umana. Fu un fine conoscitore dell’epoca sua ed ebbe intuizioni notevoli sulle conseguenze di certi sistemi politici e di certe invenzioni religiose. Nel suo romanzo Caterina de’ Medici ha addirittura accenni espliciti di interesse non comune sulle conseguenze, per la Francia, della Riforma, e particolarmente del Calvinismo.

  Appunto perché non si tratta del solito apologeta ortodosso, ed anzi per i suoi stessi difetti, non solo artistici ma anche spirituali credo che queste opinioni di Balzac, vissute ed espresse attraverso i protagonisti del romanzo, riescono di una viva forza probante e costituiscono una testimonianza storica non disprezzabile.

  Va poi da sè che, trattandosi di cause ed effetti di un sistema, le valutazioni balzachiane sugli effetti del Calvinismo in Francia hanno un valore intrinseco che possono insegnare qualcosa anche oltre le frontiere di quella nazione.

  Accennando al Protestantesimo in generale, Balzac osserva in primis che Lutero e Calvino fecero nascere in Europa uno spirito di investigazione che doveva condurre i popoli a un dubbio sostanziale sui fondamenti stessi della società, non soltanto religiosa, ma anche civile.

  L’esame così inteso è già identità col dubbio. Infatti «invece di una fede necessaria alla società, essi trascinarono dietro a sè una filosofia curiosa, armata di martelli, avida di rovine. La scienza si slanciava splendente delle sue false luci nel seno dell’eresia. Si trattava ben meno della Riforma di una Chiesa che della libertà indefinita dell’uomo che è la morte di ogni potere. Si trattava nientemeno che dell’annullamento della Religione e della regalità, sulle rovine delle quali tutte le borghesie del mondo dovevano patteggiare».

  Così, potentemente, Balzac, che in questa lotta emancipatrice vedeva anche «una guerra a morto tra le novelle combinazioni e le leggi antiche» e deplorava che la Francia del suo tempo (e oltre la Francia avrebbe ben potuto accennare anche ai popoli anglo-sassoni) fosse il prodotto del libero arbitrio (inteso nel senso di libertà assoluta di analisi) della libertà religiosa (cioè licenza dei culti) e della libertà politica (cioè dispregio dell’autorità), Balzac insomma connetteva direttamente la catastrofe civile a quella religiosa come conseguenza necessaria e naturale, e il Protestantesimo da questa connessione balzachiana non ne esce davvero brillantemente.

  Ma quali furono, in concreto, le conseguenze dirette por la Francia? Che cosa è la Francia di Balzac, quella cioè del 1840?

  «La Francia, risponde Balzac, è oggi un paese che si occupa unicamente di interessi materiali, senza patriottismo, senza coscienza, nel quale il potere è senza forza, dove la forza brutale è divenuta necessaria contro le violenze popolari, dove la discussione, estesa alle minime cose, soffoca ogni azione, dove il danaro domina ogni questione e dove l’individualismo, prodotto «orribile» della divisione all’infinito, sopprime tutto, anche la nazione, che l’egoismo un giorno o l’altro abbandonerà all’invasione».

  Il quadro può sembrare alquanto fosco, ma bisogna tener presente che Balzac accennava qui direttamente al Calvinismo che ebbe una sua particolare sfera di influenza nella Francia di quel tempo, e sappiamo bene che il Calvinismo, col suo innaturale rigorismo e pessimismo filosofico e morale, era ed è ben capace di produrre effetti così deleteri.

  Col Calvinismo Balzac si pose in guerra aperte e gli attribuiva tutti i mali della Francia: «riconoscere la necessità di una religione, egli scriveva, e lasciare ai sudditi di diritto di negarla e di attaccarne il culto è una impossibilità che certo non volevano i cattolici del XVI secolo! Ahimè! la vittoria del Calvinismo costerà ben più cara alla Francia, di quanto non sia costata finora, poiché le sette religiose, umanitarie, politiche, egualitarie di oggi sono la coda del Calvinismo; e a vedere gli errori del potere, il suo disprezzo per l’intelligenza, la predilezione degli interessi materiali sui quali vuol stabilire le sue basi e che sono fra i più ingannevoli di tutti gli appoggi, salvo il caso di un soccorso della Provvidenza, il genio della distruzione vincerà di nuovo il genio della conservazione».

  Diagnosi, diciamolo pure, spietata, ma non esorbitante dalla realtà: Balzac, che pure era un romantico individualista, capì con raro spirito di osservazione, tutta la tragedia spiritale di quell’aspetto apparentemente rigido della Riforma che fu il Calvinismo, e contro Calvino ha lanciato fierissimi anatemi. Egli avvicina addirittura il cattivo genio di Calvino a quello del terrorista Robespierre. Sentiamolo: «L’esistenza così rassomigliante del Robespierre può solo far comprendere ai contemporanei di Calvino, che fondando il suo potere sulle stesse basi fu crudele e assoluto quanto l’avvocato di Arras. Cosa strana. La Piccardia, Arras e Noyon, han fornito questi due strumenti della Riforma ... Quanti vorranno studiare le ragioni dei supplizi ordinati da Calvino troveranno, tenuto conto delle debite proporzioni, tutto il 1793 a Ginevra. Calvino, fece tagliare la testa a Giacomo Grueto per aver scritto lettere empie, ossia per aver lavorato a rovesciare le ordinanze calviniane. Pensate a questa sentenza e domandate se le più orribili tirannie presentano nei loro naturali motivazioni più crudelmente buffonesche».

  Dedichiamo queste dure parole di Balzac a quei superstiti anticlericali che, a ogni soffiar di vento, tirano in ballo gli orrori dell’Inquisizione e a quei protestanti che non finiscono di deplorare la tirannia dei Papi! Leggano essi queste alte parole di Balzac: «Sette anni prima della Conferenza che doveva aver luogo in casa di Calvino sulla proposta della Regina madre, Michele Serveto, francese, passando a Ginevra fu arrestato, giudicato, condannato per accusa di Calvino e bruciato vivo, per aver attaccato il mistero della Trinità (come lo intendeva Calvino, naturalmente) in un libro che non era stato composto nè pubblicato a Ginevra. Il Bolsec fu chiamato parimenti in giudizio per aver avuto idee diverse da quelle di Calvino sulla predestinazione.

  Pensate queste considerazioni e domandatevi se Fouquier Tainville ha fatto di peggio.

  La feroce intolleranza di Calvino fu, moralmente, più compatta, più implacabile che la feroce intolleranza politica di Robespierre. Sopra un teatro più vasto di Ginevra, Calvino avrebbe fatto versare più sangue del terribile apostolo dell’eguaglianza politica. Calvino è l’editore di questa triste città chiamata Ginevra, e vi ha introdotto, col rigore delle sue esecuzioni e delle sue dottrine quel sentimento ipocrita, chiamato così bene la mômerie. Aver buoni costami, secondo i mômiers, significherebbe rinunziare alle arti, alle bellezze, ma mangiare deliziosamente e accumulare silenziosamente denaro senza utilizzarlo, se non come lo utilizzava Calvino che godeva del potere col pensiero. Calvino diede a tutti i cittadini la stessa livrea cupa che stese sulla propria vita».

  La citazione è un po’ lunga ma può essere utile a quelli che gongolano quando parlano fra l’altro dell’ipocrisia del prete.

  Non mancano altri brani di vivace requisitoria, ma ciò che s’è citato può dispensarci benissimo dal tessere ora filippiche per conto nostro; una volta tanto una voce ben conosciuta ha risposto, sia pure, con eco retrospettiva, autorevolmente per conto nostro ai riformatori, che paesano il loro inutile tempo a congegnare epiteti contro la Chiesa: e ha risposto bene.



  Leo Ferrero, Leon Tolstoi – “La Guerre et la Paix” (4 voll.) – Nouvelle traduction par Louis Cousserandot. – Payot, Paris, «Solaria. Rivista mensile di letteratura», Firenze, Anno Settimo, N. 4, Aprile 1932, pp. 62-64.

 

  pp. 62-63. Tra i romanzi classici, è uno di quelli che può servirci di più. Flaubert non ci serve più a nulla. L’«Education sentimentale» è un romanzo ben composto, ma smorto. La psicologia è elementare e a ogni passo si sente che l’autore fa il pezzo. Direi quasi che Flaubert fa il pezzo perché vuole allontanare di una pagina il momento in cui dovrà affrontare una scena troppo difficile. Balzac può ancora servirci, ma fino a un certo punto. Grandissimo, si è nonostante tutto provvisto troppo spesso di materiali nei magazzini letterari. Pierre Abraham ci ha dimostrato in un libro mirabile, Créatures, che Balzac quando ho (sic) bisogno di un animale per una immagine, non pensa poi all’animale in sé, all’animale vero, ma all’animale come l’ha visto su una tavolo (sic) di zoologia, come l’ha descritto Bouffon (sic). La sua opera è così vasta, che, per crearla, deve accontentarsi spesso di materiali non nuovi, belli e fatti, trovati nei libri, di luoghi comuni, di immagini convenzionali. La Comédie Humainee (sic) può dunque riuscire pericolosa a chi non sa compensare questa trascuratezza con una impetuosissima fecondità creativa, con la grandezza della concezione.

 

 

  Franca de Franchi, Dante e Balzac. Rapporti con altri scrittori italiani (*), «Rassegna di Studi Francesi. Periodico bimestrale», Bari, Anno X, Numero 6, Novembre-Dicembre 1932, pp. 206-227.

 

  II titolo generale dato dal Balzac all’opera sua, «La Comédie Humaine» richiama alla niente e fa pensare a «La Divina Commedia» di Dante.

  Non bisogna limitarsi a considerare il solo titolo, che pare fosse suggerito al nostro autore da un italiano (1), ma occorre approfondire l’indagine, poiché si potrà giungere a qualche conclusione abbastanza importante.

  Il Balzac conobbe la Divina Commedia [il corsivo è nostro]? Senza dubbio, e assai prima del 1846, anno in cui fu a Roma ed ebbe occasione di ascoltare una Lettura di Dante al Palazzo Farnese, fatta dal principe Caetani (2). Si può affermare, senza timore d’ingannarsi, che il romanziere venne a contatto della Divina Commedia attraverso una versione francese, intorno al 1830; in seguito è possibile (e le citazioni di versi danteschi che troviamo nelle sue opere, se non fossero troppo debole prova, potrebbero farci ammettere la cosa come certa) che il Balzac abbia avuto fra le mani un esemplare in italiano del Poema dantesco.

  Azzardando un’ipotesi, a cui mi è possibile di dare una base reale, per quanto abbia accuratamente indagato e nel l’opera e nella corrispondenza del nostro autore, si può pensare che la parziale versione della Divina Commedia fatta da Antony Deschamps (3) e pubblicata nel 1829 abbia messo a contatto il Balzac con Dante.

  Si sa quanto l’agitata e gloriosa età medioevale, per un complesso di ragioni psicologiche e letterarie che non è qui il caso di esaminare, fosse cara ai romantici francesi, si sa come questa passiono per tutto quanto era «Medio Evo» abbia determinato il culto dell’epoca romantica per Dante, che il secolo XVIII aveva misconosciuto (4). I primi romantici vedono in Dante quasi il capostipite della loro scuola; infatti la Divina Commedia, per il romanticismo francese, racchiude tutti gli elementi artistici che esso viene proclamando: la personalità del poeta, l’esame di se stesso, l’analisi psicologica, il pittoresco, il fantastico, l’orribile e il meraviglioso, l’erudizione, il colore storico e locale, la sensibilità e il realismo, la religiosità, lo spirito cristiano (5).

  Ora, questo culto per Dante determina tutto un fiorire di manifestazioni artistiche, pittoriche e letterarie, che riguardano il nostro Poeta. Chi non ricorda, ad esempio, le polemiche sorte nel 1822 intorno alla «Barque de Dante» del Delacroix, capo della scuola romantica per la pittura?

  Antony Deschamps, sentendo abbastanza profondamente quella che possiamo dire l’influenza letteraria dell’Italia, rappresentata dal suo più grande Poeta, fu il primo dei romantici che, invece di tradurre episodi della Divina Commedia o di cercare in alcuni di essi, come quello di Francesca da Rimini, del Conte Ugolino, ecc. un’ispirazione più o meno felice, affrontò con spirito serio e con una comprensione che bisogna riconoscere, la versione (parziale) del Poema dantesco.

  A questa versione del Deschamps, che il Balzac, si può esserne certi, conobbe, e alle tendenze generali dell’epoca si deve il primo contatto fra il Balzac e Dante. Da questo primo accostamento ebbe origine la novella «Les Proscrits» che è del 1831. Non sarà fuor di luogo notar subito che la visione e la comprensione che il Balzac ebbe di Dante sono alquanto diverse da quelle che ebbero i romantici in questo stesso torno di tempo. Nella novella del Balzac, Dante ci appare già soprattutto come teologo, filosofo, mistico, mentre è soltanto più tardi che entrerà nel dominio degli studi eruditi e filosofici, cioè col Fauriel, con l’Ozanam, il quale discuterà nel 1839 la sua tesi «Dante et la philosophie catholique au XIIIe siècle», col Montalembert e col Lamennais.

  Ora, posta come certa la conoscenza della Divina Commedia da parte del Balzac, vediamo in qual modo è possibile quel riavvicinamento fra il Poema dantesco e l’opera del romanziere, a cui si è accennato a principio del capitolo, notando, per così dire, la derivazione di un titolo dall’altro.

  Dante, dando un’organizzazione all’insieme dei castighi e delle beatitudini, ebbe modo di esaminare ad una ad una tutte le passioni umane, e di dare un movimento ascensionale ai tre mondi dell’al di là in cui i morti vivrebbero. La «Comédie» di H. de Balzac è «humaine» e non «divina»; ma il Balzac dando un titolo dantesco alla sua opera completa ci spinge a cercarvi, non solo il turbinio delle passioni, delle cattiverie, degli stupri, la febbre generata dalla lotta per la vita, ma anche una giustizia immanente, terrestre, il «tout se paie» di Napoleone e di Vautrin. Egli ci spinge soprattutto a cercarvi gli slanci in altezza, per così dire, offerti all’umanità sofferente: le estasi o rapimenti paradisiaci del «Livre mystique», la piana facilità di «Tale vita privata», la passione amorosa, la passione pel potere; poi, ancora, in un «curé de campagne», in un «médecin de campagne», in una donna devota e pia, in un coscienzioso difensore dei deboli, una specie di trascendenza di merito che è, secondo il Balzac, una sublimità morale che partecipa dell’assoluto incorruttibile e che rimane così libera da ogni mediocrità e da ogni contingenza umana.

  Il Balzac si riaccosta a Dante proprio per questa immanenza del divino di cui la sua opera è piena.

  Cerchiamo ora, attraverso le opere del nostro autore, quanto può convalidare quello che abbiamo detto; nello stesso tempo cerchiamo di intendere quale comprensione egli avesse di Dante. Verso il 1830, come si è detto, la poesia e la pittura andavano rimettendo in piena luce il Poema dantesco più specialmente la Cantica dell’Inferno. Non è strano perciò che il Balzac, in uno dei rari saggi in versi, «Un lendemain» rievocasse uno degli episodi danteschi più noti e più sfruttati dai poeti dell’epoca:

 

«Un jour que nous lisions l’amoureuse aventure

De Lancelot, souvent, pendant cette lecture

Qui nous charmait tous deux de la même façon

Quand nous vîmes l’amant de Genèvre, en délire,

Imprimer un baiser sur son divin sourire,

Lui que rien ne pourra me ravir à présent

Baisa ma bouche aussi, brûlant et frémissant

Et nous ne lûmes pas ce jour là davantage ...» (6)

 

  «Les Proscrits» (7), novella che fu scritta nel 1831 e che fa parte «del «Livre mystique» (particolarità che bisogna tener presente, per quanto il Balzac quando scrisse la novella non pensasse di porla, come fece poi, fra le due produzioni che vanno sotto il titolo generale di «Livre mystique»), mette in scena Dante stesso in esilio a Parigi (8), dove trascorre il suo tempo studiando e frequentando «l’ancienne école des Quatre Nations» della «rue du Fouarre».

  Noi troviamo Dante a Parigi nel 1308, ospite incognito in casa del sergent Joseph Tirechair. Nella stessa casa, che sorge «derrière l’église Notre-Dame», è ospitato un certo Godefroid, comte de Gand, giovane bello, strano, dedito alla continua meditazione, uno dei diversi personaggi swedenborgiens del Balzac. Dante e questo giovane frequentano insieme «l’école des Quatre Nations»; noi assistiamo con loro ad una lezione di Théologie mystique» tenuta dal Dr. Sigier) (9). Nella nottata di quello stesso giorno, mentre Dante «confié au terrible démon du travail» domanda delle parole al silenzio e delle idee alla notte, Godefroid tenta di impiccarsi per raggiungere Dio a cui anela con tutta l’anima. Dante che ha sentito cadere un corpo pesantemente in terra e che immagina l’accaduto, accorre e, dopo aver confortato il giovane, per allontanare per sempre dalla mente di lui l’idea del suicidio, gli narra quanto ha visto nel regno infernale, e più specialmente gli parla della sorte infelice di un uomo che, per non abbandonare la sua compagna diletta, morta quasi improvvisamente, si uccise ed ora si trova fuori dell’inferno, in vista del Paradiso che però non gli è permesso di raggiungere. Il poeta ha appena finito di parlare che lo scalpitìo di parecchi cavalli e delle voci, riportano bruscamente il suo pensiero su questa terra. Sono dei Guelfi Bianchi che vengono ad annunziargli che il loro partito trionfa e che quindi è possibile rientrare in Firenze.

  «Partons, s’écria-t-il d’une voix tonnante. Mort aux Guelfes!» E si allontana, mentre Godefroid riconosce «la voix du ciel» in quella di sua madre che egli non conosceva e che un momento prima gli ha detto: «Tiens, mon enfant, mon fils! il m’est maintenant permis de t’avouer! Ta naissance, tes droits sont tous sous la protection du roi de France, et tu trouveras un paradis dans le cœur de ta mère».

  Questa, in breve, la novella nel suo svolgimento. A noi interessa di esaminare la figura di Dante, e faremo subito qualche considerazione d’indole generale.

  Il Balzac teneva a scrivere la sua pagina di rievocazione medievale; non per niente si era in pieno fervore di «resurrezioni» medievali, proprio all’epoca di «Notre Dame de Paris».

  Questo spiega in parte l’atmosfera in cui la novella si svolge; poi bisogna ricordare che l’Hoffmann rimane sempre uno dei vertici verso cui il Balzac tende, specialmente per quel che riguarda la creazione di un’atmosfera (una delle cose di maggiore importanza pel nostro romanziere), e che l’Hoffmann «fait bien mieux son affaire», come scrive il Baldensperger (meglio dello Stendhal), anche per l’interpretazione e la rappresentazione dell’Italia. E questo ci fa comprender meglio perché il Balzac non sembra contento della sua «figuration» italiana se non la porta lontano e fuori dal suo ambiente originario. Così Dante in questa novella.

  Il Poeta, da un lato, viene presentato come fiero partigiano in esilio, che desidera con tutta l’anima, con tutta la forza del suo spirito il ritorno alla cara Patria lontana; dall’altro, per il popolo e in omaggio alla rievocazione medievale che il Balzac intendeva di fare, come un «sorcier», la cui presenza intimidisce e spaventa, i cui atti, la cui vita non vengono compresi e nello stesso tempo sono moventi di mille fantasticherie; per chi può comprendere ed elevarsi egli vien presentato come un iniziato, come un uomo che, dopo molte e terribili sofferenze, ha potuto staccarsi dallo cose di questa terra e avere la facoltà di abitare col pensiero le regioni le più elevate, e mettersi quasi a contatto colla Divinità.

  Dante partigiano possiamo, senza rammarico, lasciarlo da una parte; è troppo meschino perché si possa tener conto di questa parte della «rappresentazione» fatta dal Balzac. Ne «La fausse Maîtresse» (1842) troviamo un accenno a Dante bandito dalla sua terra: «On porte son pays et ses haines avec soi … Dante eût volontiers poignardé dans son exil un adversaire des Blancs». Ma l’unica pagina, per l’esilio insopportabile, che veramente abbia un significato e commuova è in «Les Proscrits; è Dante stesso che parla a Godefroid, tornando, in barca sulla Senna, dall’aver ascoltato la lezione del Dr. Sigier: «Je pleure mon pays, je suis banni! Jeune homme, à cette heure même j’ai quitté ma patrie. Mais là bas, à cette heure, les lucioles sortent de leurs frêles demeures, et se suspendent comme autant de diamants aux rameaux des glaïeuls ...». E continua in un tono elegiaco una descrizione dell’ora e della natura, veramente bella, ma che non ha nulla di preciso, nulla cioè che ci dica trattarsi di Firenze; per identificare il luogo bisogna ricordare che è Dante che parla.

  Ed ora veniamo alla parte soprannaturale e simbolica della rappresentazione balzacchiana. Già nella descrizione fisica che il Balzac ci fa di Dante, si appalesa l’intento di presentarcelo come personaggio soprannaturale: ecco infatti:

 

  «Il était vraiment impossible à tout le monde, et même à un homme ferme, de ne pas avouer que la nature avait départi des pouvoirs exorbitants à cet être en apparence surnaturel.

  Quoique ses yeux fussent assez profondément enfoncés sous les grands arceaux dessinés par ses sourcils, ils étaient comme ceux d’un milan (Gall et Lavater non potevano essere messi da parte – la phisiogonomie (sic) non perde i suoi diritti) enchassés dans des paupières si larges et bordés d’un cercle noir si vivement marqué sur le haut de sa joue, que leurs globes semblaient être en saillie. Cet œil magique avait je ne sais quoi de despotique et de perçant qui saisissait l’âme par un regard pesant et plein de pensées, un regard brillant et lucide comme celui des serpents ou des oiseaux; mais qui stupéfiait, qui écrasait par la véloce communication d’un immense malheur ou de quelque puissance surhumaine. Tout était en harmonie avec ce regard de plomb ou de feu, fixe et mobile, sévère et calme. Si dans ce grand œil d’aigle les agitations terrestres paraissaient en quelque sorte éteintes, le visage maigre et soc portait aussi les traces de passions malheureuses et de grands événements accomplis. Le nez tombait droit et se prolongeait de telle sorte, que les narines semblaient le retenir. Les os de la face étaient nettement accusée (sic) par des rides droites et longues qui creusaient les joues décharnées. Tout ce qui formait un creux dans sa figure paraissait sombre. Vous eussiez dit le lit d’un torrent où la violence des eaux écoulées était attestée par la profondeur des sillons qui trahissaient quelque lutte horrible, éternelle. Semblables à la trace laissée par les rames d’une barque sur les ondes, de larges plis partant de chaque côté de son nez accentuaient fortement son visage, et donnaient à sa bouche, ferme et sans sinuosités, un caractère d’amère tristesse. Au-dessus de l’ouragan peint sur ce visage, sont (sic) front tranquille s’élançait avec une sorte de hardiesse et le couronnait comme d’une coupole en marbre. L’étranger gardait cette attitude intrépide et sérieuse que contractent es hommes habitués au malheur, faits par la nature pour affronter avec impassibilité les foules furieuses, et pour regarder en face les grands dangers. Il semblait se mouvoir dans une sphère à lui, d’où il planait au-dessus de l’humanité. Ainsi que son regard, son geste possédait une irrésistible puissance; ses mains décharnées étaient celles d’un guerrier; s’il fallait baisser les yeux quand les siens plongeaient sur vous, il fallait également trembler quand sa parole ou son geste s’adressaient à votre âme. Il marchait entouré d’une majesté silencieuse qui le faisait prendre pour un despote sans gardes, pour quelque Dieu sans rayons. Son costume ajoutait encore aux idées qu’inspiraient les singularités de sa démarche ou de sa physionomie. L’âme, le corps et l’habit s’harmonisaient ainsi de manière à impressioner- (sic) les imaginations les plus fluides. Quoiqu’il fût de taille moyenne, il paraissait grand; mais en le regardant au visage, il était gigantesque».

 

  Quando Dante, nell’aula in cui si teneva la lezione, seduto in cattedra, sullo sgabello che il Sigier stesso gli ha offerto: «jeta sur l’auditoire, au-dessus duquel il planait, ce profond regard qui racontait tout un poème de malheurs …» ogni spirito trasalì come alla vista di qualche cosa di infinitamente incantevole e di avvincente. Chiuso nella sua camera, a notte alta, Dante lavora.

 

  «Livré à l’une de ces extases qui lui étaient familières, il voyagea de sphère en sphère, de visions en visions écoutant et croyant entendre des sourds frémissements et des voix d’anges, voyant ou croyant voir des lueurs divines au sein desquelles il se perdait, essayant de parvenir au point éloigné, source de toute lumière, et principe de toute harmonie».

 

  Non bisogna lasciarci ingannare, e pensare che la figura di Dante sia apparsa così grande al Balzac da spingerlo a simbolizzarlo per renderne tutta la bellezza. Bisogna ricordare che in quest’epoca — 1831 — già si andava formando una cultura mistica, e che le letture degli scritti dello Swedenborg, del Saint-Martin, di Mme Guyon, etc. influivano fortemente sul suo spirito. Bisogna notare inoltre che anche la figura del Dr. Sigier ci è presentata come simbolica o quasi soprannaturale; la ricostruzione storica medievale non avrebbe richiesto tanto, bensì, e specialmente pel Balzac studioso dei mistici, il carattere degli studi a cui si dedicavano e il Dr. Sigier e Dante. Guardiamo che cosa dice il Sigier, «le maître», nella sua lezione di teologia mistica. Non mi addentrerò nel ginepraio delle concezioni mistiche, delle delucidazioni teologiche che vengono esposte nella novella, anche perché ci porterebbero troppo fuori e lontano dal nostro argomento; verrò notando quelle parti che hanno a che vedere con la Divina Commedia, e che ci porteranno poi a trarre una parziale conclusione. Il Dr. Sigier


  «révélait mathématiquement une grande pensée de Dieu dans la coordination des différentes sphères humaines. Par l’homme — disait-il — ces sphères créaient un monde intermédiaire entre l’intelligence des anges … Armé des démonstrations par lesquelles il expliquait le monde matériel, le docteur Sigier construisait un monde spirituel dont les sphères graduellement élevées nous séparaient de Dieu … Il peuplait le ciel, les étoiles, les astres, le soleil».

 

  L’architettura del Paradiso dantesco si presenta al nostro pensiero. Ma ecco l’Inferno:

 

  «Le docteur expliquait ainsi logiquement l’Enfer par d’autres cercles disposé (sic) en ordre inverse des sphères brillantes qui aspiraient à Dieu, où la souffrance et les ténèbres se remplaçaient la lumière et l’esprit. Les tortures se comprenaient aussi bien que les délices. Les termes de comparaison existaient dans les transitions de la vie humaine, dans ses diverses atmosphères de douleur et d’intelligence».

 

  Ancora: la necessità di una completa purificazione per poter giungere in presenza della Divinità:

 

  «Vous adoreriez le souverain, à condition de vous asseoir sur son trône un moment … Eh! bien, allez, partez! montez par la foi de globe en globe, volez dans les espaces! La pensée, l'amour et la foi en sont les clefs mystérieuses. Traversez les cercles, parvenez au trône! Dieu est plus clément que vous ne l’êtes, il a ouvert son temple à toutes les créations. Mais n’oubliez pas l’exemple de Moïse! Déchaussez-vous pour entrer dans le sanctuaire, dépouillez-vous de toute souillure, quittez bien complètement votre corps, autrement vous seriez consumés, car Dieu ... Dieu c’est la lumière!

  Gloire au maître! disait l’étranger.

  — Qu’est une gloire passagère? répondait Sigier.

  — Je voudrais éterniser ma reconnaissance, répliqua le vieillard.

  — Eh! bien, une ligne de vous? reprit le docteur, ce sera me donner l’immortalité humaine.

  — Hé! peut-on donner ce qu’on n’a point? s’écria l’inconnu».

 

  Quella «ligne» noi l’abbiamo:

 

Essa è la luce eterna di Sigieri

che, leggendo nel vico degli strami,

sillogizzò invidiosi veri. (10)

 

  Quante cose han fatto pensare al Balzac questi tre versi! A parte l’ispirazione che gliene deve senz’altro esser venuta per la novella, bisogna guardare a che lo ha condotto quell’«invidiosi veri». Infatti, esaminando bene l’intera novella, quale è il personaggio che sovrasta gli altri? Benché non sia figura di primo piano, è il Dr. Sigier, se non in sè, per la sua dottrina, per le sue interpretazioni delle sacre scritture, per la conoscenza appunto di quei «veri» per cui Dante la dice implicitamente invidiabile.

  Il Dr. Sigier con i suoi sillogismi e la sua scienza misteriosa rimane come al disopra del nostro Poeta stesso. E c’è di più; il Balzac facendo esprimere dal Sigier quelle stesso idee fondamentali che sono come alla base della Divina Commedia, non pone forse il filosofo francese quale iniziatore decisivo per Dante? È la conclusione più evidente che il nostro pensiero possa formulare, ed una simile preoccupazione nel Balzac è caratteristica. Non c’è forse un momento in cui il nostro Poeta viene per così dire, quasi immolato a Swedenborg? Forse «immolato» è troppo forte; certo, la grande creazione dantesca passa ad un piano secondario. In «Louis Lambert» (1832) il Balzac scrive:

 

  «Dans le monde invisible, comme dans le monde réel, si quelque habitant des régions inférieures arrive, sans en être digne, à un cercle supérieur, non seulement il n’en comprend ni les habitudes ni les discours, mais encore sa présence y paralyse et les voix et les cœurs. Dans sa Divine Comédie, Dante a peut-être eu quelque légère intuition de ces sphères qui commencent dans le monde des douleurs et s’élèvent par un mouvement armillaire jusque dans les cieux. La doctrine de Swemdeborg (sic) serait donc l’ouvrage d’un esprit lucide qui aurait enregistré les innombrables phénomènes par lesquels les anges se révèlent au milieu des hommes».

 

  Le prime parole della lezione del Sigier che ho riportato ed annotato, esprimono il medesimo concetto, e così ancora queste: «Il (Sigier) peignait, il faisait reconnaître à certains signes célestes, des anges parmi les hommes»; tutto questo viene a rivelarci l’influenza dello Swedemborg (sic) sul Balzac, o, meglio, l’accettazione da parte del romanziere delle teorie del «prophète suédois». Inoltre, nel 1833, in «Séraphita», il lavoro che il Balzac voleva fosse il capolavoro del «Livre mystique», mentre a mio giudizio, «Louis Lambert» per quanto staccato più tardi, dal Balzac stesso, da quel gruppo, rimane al disopra degli altri, il romanziere scrive, sempre a proposito della Divina Commedia:

 

  «Le poème de Dante Alighieri fait à peine l’effet d’un point, à qui veut se plonger dans les innombrables versets à l’aide desquels Swedemborg a rendu palpables les mondes célestes, comme Beethoven a bâti ses palais d’harmonie avec des milliers de notes, comme les architectes ont édifié leurs cathédrales avec des milliers de pierres. Vous y roulez dans des gouffres sans fin, où votre esprit ne vous soutient pas toujours».

 

  Tutto questo che cosa ci porta a concludere? Che Dante più Swedemborg permettono al Balzac di manifestarci, con una certa chiarezza, il proposito di rappresentare nella sua opera la Commedia degli uomini, scrivendo, ad esempio, nel 1835:

 

  «Nous voici donc amenés au troisième cercle de cet enfer, qui, peut-être, un jour, aura son Dante. Dans ce troisième cercle social, espèce de ventre parisien, où se digèrent les intérêts de la ville et où il se condensent sous la forme dites (sic) affaires, se remue et s’agite par un âcre et fielleux mouvement intestinal, la foule des avoués, médicins, notaires, avocats, gens d’affaires, banquiers, gros commerçants, spéculateurs, magistrats» (11).

  Dunque, è la guida e il garante che il Balzac cerca di seguire e che confessa; a Dante va l’alto tributo di omaggio e ammirazione, ponendo tutta l’opera sotto il titolo di «Comédie humaine», ma a Swedemborg il Balzac deve la possibilità, teoricamente, di poter applicare alla Commedia degli uomini quello stesso ritmo «armillaire», morale e materiale, che governa e conduce coloro che sono là dove la Commedia può dirsi divina.

  Seguendo il corso degli anni, vediamo che cosa aggiunge il Balzac a quello che aveva già scritto su Dante e sul suo poema.

  È del 1834 questo sito giudizio sul poema dantesco:

 

  «S’il y a de l’air et du ciel bleu chez les écrivains orientaux, il y a de la pluie, des lacs, des rayons de lune, du bonheur pénible chez les écrivains de l’Europe. L’Asie est la jouissance, l’Europe est la raillerie. En Europe, les idées glapissent, rient, folâtrent, comme tout ce qui est terrestre; mais en Orient, elles sont voluptueuses, célestes, élevées, symboliques. Dante seul a soudé ces deux natures d’idées. Son poème est un pont hardi jeté entre l’Asie et l’Europe» (12).

 

  Con queste parole il Balzac non solo precorreva i tempi, poiché dava in un giudizio sintetico quello che è il risultato di studi recenti (13) sulla Divina Commedia, ma ci dà anche il modo di intendere uno dei lati per cui, naturalmente accettando quello che egli scrive, si accosta a Dante. Infatti (è ben nota la sua passione per l’Oriente e per la letteratura orientale) pel Balzac la sua opera vuol essere un equivalente occidentale (dei vasti cicli di racconti tanto cari all’immaginazione asiatica. La famosa «Introduction» del 1834 fa dir questo al Davin:

 

  «Il s’agit ici d’une des plus immenses entreprises qu’un seul homme ait osé concevoir; il s’agit d’une œuvre qu’un poète ingénieux nommait devant nous, les Mille et une Nuits de l’Occident ...».

 

  L’anno dopo la stessa idea riappare a proposito di «Études de moeurs»:

 

  «Les Etudes de mœurs auraient été des espèces de Mille et une nuits,de Mille et un jours, de Mille et un quarts d’heure, enfin une durable collection de contes, de nouvelles, de récits comme il en existe déjà …».

 

  Abbiamo ancora altri accenni, di minore importanza sì, ma che hanno il loro valore, sia pure come semplici costanti richiami.

  Nella vita ci sono supplizi superiori a quelli dell’Inferno dantesco:

 

  « La pauvre fille regardait le papier libérateur avec une expression que Dante a oublié, et qui surpassait les inventions de son Enfer» (14); ce ne sono altri dimenticati da Dante:

 

  «Oh! toi qui t’est (sic) attaché aussi à une actrice, mon cher, que jamais l’idée d’épouser ta maîtresse ne te poursuive! Vois-tu, c’est un supplice oublié dans l’Enfer de Dante!» (15). «Voilà comment se découvrit le drame de cette existence intérieure si profondément ravagée, si agitée, et où dans un cercle oublié par Dante, dans son Enfer, il naissait d’horribles joies».

 

  Troviamo ancora numerosi confronti fra le pene infernali, lo stato dell’al di là dantesco e le situazioni difficili, le lotte della vita umana:

 

  «Le Village de Studzianka avait été entièrement dépecé, partagé, transporté des hauteurs dans la plaine. Quelque dolente et périlleuse que fût cette cité, ses misères et ses dangers sauriaient (sic) à des gens qui ne voyaient devant eux que los épouvantables déserts de la Russie» (16).

  «Dans la città dolente des vieilles filles, il s’en rencontre beaucoup, surtout en France, dont la vie est un sacrifice noblement offert tous les jours à de nobles sentiments» (17). «Le journalisme est un enfer, un abîme d’iniquités, de mensonges, de trahisons, que l’on ne peut traverser et d’où l’on ne peut sortir pur, que protégé comme Dante par le divin laurier de Virgile» (18).

 

  Ecco un viso di donna che ricorda con la sua espressione tanti visi del poema dantesco:

 

  « Le visage glacé de madame d’Aiglemont était une de ces poésies terribles, une de ces faces répandues par milliers dans la Divine Comédie de Dante Alighieri» (19).

 

  La giustezza e l’inflessibilità di giudizio di M. Pillerault, zio di César Birotteau, vengono paragonate dal Balzac a quelle del giudice infernale:

 

  «Evidemment il entendait et jugeait, il pesait le pour et le contre avec l’inflexibilité d’un Minos qui avait passé le Stix du commerce en quittant le quai des Morfondus pour son petit troisième étage» (20).

 

  Qui è la bellezza di un’anima femminile che dà al Balzac l’occasione per un richiamo dantesco:

 

  «J’ai vue (sic) dans le fond de son (de Camillo Maupin) cœur de sûrs trésors, il semble que Dante ait fait pour elle dans son Paradis la belle strophe sur le bonheur éternel qu’elle vous expliquait l’autre soir et qui finit par «Senza brama, sicura ricchezza» (21).

 

  Questo stesso verso del Paradiso torna ad essere adoperato dal Balzac, e questa volta per definire un amore sicuro, felice, senza il tormento del dubbio:

 

  « Ainsi ne me rendez pas jalouse d’une autre Louise heureuse, d’une Louise saintement aimée, selon la sublime expression de Dante: «Senza brama, sicura ricchezza» (22).

 

  La serenità continua, la felicità piana e costante non sono di questa vita; solo alcune anime possono averle in sè (e così si torna al concetto dell’immanenza del divino nell’opera del Balzac, data anche, come si è detto, dagli slanci, dalla forma spirituale di parecchi dei suoi personaggi):

 

  « La vie se compose d’accidents variés, de douleurs et de plaisirs alternés. Le Paradis de Dante, cette sublime expression de l’idéal, ce bleu constant ne se trouve que dans l’âme, et le demander aux choses de la vie est une volupté contre laquelle proteste à toute heure la Nature. A de telles âmes, les six pieds d’une cellule et un prie-Dieu suffisent» (23).

 

  Questa citazione del 1832:

 

  «Le problème de la beauté éternelle est un de ceux dont la solution n’est connue que de Dieu dans l’autre vie. Ici bas, des poètes sublimes ont éternellement ennuyé leurs lecteurs en abordant la peinture du paradis. L’écueil de Dante fux (sic) aussi l’écueil de Vaudenesse (sic) ... (24),

 

  seguita da quest’altra del 1841 e che ha già in sè una leggera modificazione:

 

  «Le bonheur est monotone dans ses expressions; aussi peut-être est-ce à cause de cette difficulté que Dante paraît plus grand aux âmes aimantes dans son Paradis que dans son Enfer. Je ne suis pas Dante, je ne suis que ton amie, et tiens à ne pas t’ennuyer» (25)

 

  viene ad essere annullata da una terza, un po’ strana, come giustamente nota il Baldensperger, del 1844, in cui dice essere il Paradiso assai superiore all’Inferno (26). L’amore puro di Dante per Beatrice, quale ce lo qualificano e la «Vita nova» e la tradizione, offre ancora al Balzac spunti vari a confronti e a paragoni. Ora è una situazione amorosa a determinare il ricordo, ora la psicologia di un protagonista; sceglierò qua e là qualche esempio.

  Qui è un giornalista, un mediocre scrittore di pièces per teatro, M. Nathan, che confida ad un suo amico, Blondet, il desiderio che ha nel cuore:

 

  «J’ai souvent été très humilié on pensant que je ne pouvais pas me donner une Béatrix, une Laure, autrement qu’en poésie! Une femme noble et pure est comme une conscience sans tâche, qui nous représente à nous mêmes sous une belle forme» (27).

 

  E con le ultime parole vien proprio ripreso uno dei concetti, una delle idealità della poesia provenzale dei secoli XI-XIV, rielaborati poi dalla scuola del dolce stil nuovo.

  Volendo altra volta descrivere un amore che ha del divino, del soprannaturale, un amore epurato da ogni materialità, quale appunto era richiesto dall’indole mistica, alla Swedenborg, alla Saint-Martin, del romanzo «Le lys dans la vallée» è di nuovo l’amore di Dante per Beatrice che il Balzac rievoca:

 

  «Elle (Henriette) soupira, et me jeta le sourire des peines secrètes, ce sourire de l’esclave un moment révolté. Dès ce jour, elle ne fut la bien­aimée, mais la plus aimée; elle ne fut pas dans mon cœur comme une femme qui veut une place, qui s’y grave par le dévoument (sic) où par l’excès du plaisir; elle eut tout mon cœur, et fut quelque chose de nécessaire au jeu des muscles; alle (sic) devint ce qu’était la Béatrix du poète florentin, la Laure sans tâche du poète vénitien (28), la mère des grandes pensées, la cause inconnue des résolutions qui sauvent, le soutien de l’avenir, la lumière qui brille dans l’obscurité comme le lys dans les feuillages sombres» (29).

 

  Questi accenni potranno bastare, tanto più che essi non vengono ad aggiunger nulla alla visione che il Balzac ebbe di Dante. Questa visione rimane quella che il romanziere ci dà in «Les Proscrits» e in quegli accenni che trattano dell’organizzatore dell’al di là, rappresentato nella Divina Commedia, che il Balzac, secondo le proprie vedute, intendeva di prolungare in terra e fra gli uomini con la sua «Comédie humaine». Appunto per questo egli cercò una guida ed un garante in Dante, la cui altera figura domina le altre figure di italiani che la «Comédie Humaine» ci presenta. Se la figura di Caterina de’ Medici, come vedremo fra breve, men fosse mancata, avremmo avuto con Dante e Napoleone un triplice aspetto della psiche italiana, se non completamento studiato con acutezza, almeno ben tratteggiato.

  Il Petrarca conosciuto e ammirato dal Balzac, così come da tutti i romantici, è il Petrarca dei Sonetti in vita e in morte di Madonna Laura. Gli accenni che ho raccolto via via in tutta l’opera sono, direi, monocordi e non ci dicono gran che. Più interessante fra tutti mi pare questo che racchiude un giudizio abbastanza entusiastico pel nostro poeta:

 

  «Le sonnet, monsieur, est une des œuvres les plus difficiles de la poésie — le petit poème a été généralement abandonné. Personne en France n’a pu rivaliser Pétrarque, dont la langue, infiniment plus souple que la nôtre, admet des jeu de pensées (sic) repoussés par notre positivisme (pardonnez-moi ce mot). Il m’a donc paru original de débuter par un recueil de sonnets» (30).

 

  Anche l’amore del Petrarca per Laura è preso ad esempio ed a confronto per ogni passione amorosa fuori da ogni materialità:

 

  «On devait surtout éviter que ce jeune solitaire s’effrayât du mariage dont il ne savait rien, et qu’il connût le but dont se préoccupait son père. Ce poète inconnu n’admettait que la noble et belle passion de Pétrarque pour Laure ... (31).

 

  E più avanti (pag. 421):

 

  «Il entremêla ses contemplations de la lecture de Pétrarque, un de des auteurs favoris, celui dont la poésie allait le plus à son cœur par la constance et l’unité de son amour».

 

  In «Le Lys dans la vallée» troviamo altri accenni, sempre a proposito dell’amore «sans tâche» di Félix de Vandenesse per Henriette de Mortsauf:

 

  «J’ignorai» ce qu’était le conseil privé; je ne connaissais rien à la politique ni aux choses du monde; je n’avais d’autre ambition que celle d’aimer Henriette, mieux que Pétrarque n’aimait Laure» (32);

 

  e più avanti (pag. 140):

 

  «Elle (Henriette) fut une figure si religieusement adorée, que je résolu de rester sans souillure en présence de ma divinité secrète et me revêtis idéalement de la robe blanche des lévites, imitant ainsi Pétrarque qui ne se présenta jamais devant Laure de Noves qu’entièrement habillé de blanc».

 

  Passando al Boccaccio, che pure non viene ricordato esplicitamente dal Balzac che nella lettera dedicatoria alla contessa Sanseverino, e in uno dei «Cent Contes drôlatiques» (33) avremo qualcosa di più da notare.

  Verso il 1833 il Balzac, sempre seguendo le simpatie dell’epoca, si mette a contatto e si familiarizza con «Il Decamerone» del Boccaccio e con altre raccolte di novelle italiane; e questa non è una semplice supposizione derivata dal fatto che troviamo alcuni dei suoi «Contes drôlatiques» elaborati sulla trama di alcune novelle italiane, e dagli accenni che qua e là il Balzac fa ai «novelliers italiens». La nostra asserzione viene convalidata dall’esistenza di alcune fatture dei rilegatori del Balzac; in queste fatture, nel 1833, troviamo menzionata una «Bibliothèque des conteurs» in quattro volumi, e, nei primi mesi del 1837, ancora quattro volumi di «Conteurs italiens». Così possiamo anche spiegarci come mai il Balzac, a Firenze nel 1837, pur non avendo della lingua italiana quella conoscenza che occorre per leggere un’opera nostra, in ispecie del secolo XVI, sentisse il desiderio di «feuilleter» les trois cents contes plus ou moins drôlatiques de il Bandello». Infatti è logico pensare che il Balzac conoscendo la traduzione francese delle raccolte di novelle italiane, avendone la possibilità e l’occasione, sentisse il desiderio di scorrere quelle stesse novelle nella lingua loro originaria.

  Facendo una breve disgressione, sarà interessante notare che diverse volte, nella sua opera, il Balzac ha reso omaggio alla lingua italiana, con la quale però non era in grande familiarità (34), benché quello che di essa egli dice farebbe pensare il contrario. Ad esempio, scrive:

 

  « La duchesse, qui surveillait elle-même les études afin de les mesurer à la force de son enfant, le récréait en lui apprenant l’italien et lui dévoilait insensiblement les richesses poétiques de celle langue» (35).

  Altrove egli loda il «nombre que la langue italienne permet de donner aux voyelles et aux finales».

  Tornando ai «conteurs italiens», e più specialmente al Boccaccio, dunque, verso il 1833, il Balzac si mette a contatto con una delle più vive incarnazioni del «paganisme élégant de Florence» come scrive il Baldensperger. Così che, anche se i «Cent contes drôlatiques» del Balzac continuano la tradizione iniziatasi in Francia con Marguerite de Navarre e Rabelais, non bisogna trascurare l’influenza che devono aver esercitato su Balzac e il Boccaccio e il Bandello e l’Ariosto. Dalla lettura del «Decamerone» il Balzac trasse, diciamo così, un profitto materiale, poiché due dei suoi «contes» han tratto origine da due novelle del Boccaccio. Intendo parlare del «conte» che ha per titolo «La mye du Roy» e dell’altro «Le péché véniel»; al primo di questi è servito di punto di partenza la novella 10a della giornata seconda del Decamerone: «Paganino da Monaco ruba la moglie a messer Riccardo di Clinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e diventa amico di Paganino; raddomandagliela, ed egli, dove ella voglia, gliela concedo; ella non vuole con lui tornare, e morto messer Riccardo, moglie di Paganino diviene». La trama della novella è ben diversa; comunque tanto il Boccaccio che il Balzac prendono come protagonista un giudice brutto e malconcio, il quale, inconsideratamente, sposa una giovane ragazza che, dopo peripezie che non hanno nulla in comune nelle due novelle, finisce col non volerne assolutamente sapere del povero marito (e qui torna ad esserci contatto fra i due svolgimenti) che muore pel dolore e per la rabbia (36).

  La novella 8a della giornata IV lui dato al Balzac, per il «conte» «Le péché véniel» una semplice idea, chè la prima parte del «conte» non ha niente a che vedere con la novella del Boccaccio, «Girolamo ama la Salvestra; va costretto, a’ prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala; entrale di nascosto in casa e muorle allato, e portato in una chiesa, muore la Salvestra allato a lui» (37). L’esilio forzato di René, il ritorno di lui e la morte improvvisa di Blanche, in «Le péché véniel» possono raccostarsi al viaggio forzato di Gerolamo, alla morte di lui; nella novella del Boccaccio muoiono tanto Gerolamo che Salvestra; in quella del Balzac soltanto la donna, ma intanto René muore alla vita mondana, poiché pel dolore veste l’abito monacale ed entra in un monastero. Altre tracce palesi del «Decamerone» noi non troviamo nei «Contes» del Balzac; se non che, specialmente in quei «contes» che trattano di monaci, preti, monache e religiosi in genere, noi possiamo scorgere un’influenza del Boccaccio, in quanto che non è la semplice natura, come in F. Rabelais, a far commettere a quelli atti di ogni genere contrari alle regole che dovrebbero governarli, ma il demonio con i suoi malefici il quale prende gusto a far «faire la bête» proprio a coloro che pretendono di «faire l’ange».

  Comunque il Boccaccio rimane classificato fra le grandi ammirazioni del Balzac; anche in «Les petites misères de la vie conjugale», facendo quasi un elenco dei grandi narratori, dopo aver annotato per l’antichità Esopo e Luciano, dopo «les Arabes inconnus des Mille et une nuits», il Boccaccio sta in testa a tutti, anche avanti al Rabelais. Non ci risulta che si possano fare altri raffronti fra novelle italiane e «Contes» del Balzac; pare soltanto che la 149a delle «Facetiae» di Poggio Bracciolini abbia originato il «conte» «Le danger d’être trop coquebin».

  Senza dubbio il Balzac conosceva il poema dell’Ariosto, letto volentieri dai romantici in genere; egli accenna ad esso diverse volte ed in maniera da darci la sicurezza che l’«Orlando Furioso» faceva parte delle sue conoscenze di letteratura italiana. Ne «La vieille Fille» egli scrive:

 

  «Si mademoiselle Cormon eût été littrée, s’il eût existé dans le département de l’Orme un professeur d’antropologie (sic), enfin si elle avait lu l’Arioste, les effroyables malheurs de sa vie conjugale eussent-ils jamais eu lieu? Elle aurait peut-être recherché pourquoi le poète italien nous montre Angélique préférant Médor, qui était un blond chevalier de Valois (un pretendente da lei rifiutato), à Roland dont la jument était morte et qui ne savait que se mettre en fureur. Médor ne serait-il pas la figure mystique des courtisans de la royauté féminine, et Roland le mythe des révolutions désordonnées, furieuses, impuissantes qui détruisent tout sans rien produire?» (38).

  Accettabile o no, l’opinione del Balzac c’interessa in quanto ci dimostra che la scelta di Angelica lo ha fatto pensare e gli ha fatto dare a sè stesso una spiegazione che poi, alla prima occasione adatta, egli manifesta applicandola ai casi della protagonista di uno dei suoi romanzi. Altrove ricordando le furie devastatrici di Orlando, scrive:

 

  «Monté était effrayant à voir, et plus effrayant à entendre! Il rugissait, il se tordait, tout ce qu’il touchait était brisé, le bois de palissandre semblait être du verre. — Comme il casse! dit Carabine en regardant la Nourisson. Mon petit, reprit-elle en donnant une tape au Brésilien, Roland furieux fail très bien dans un poème; mais, dans un appartement, c’est prosaïque et cher» (39).

 

  Infine, in «Un drame au bord de la mer» paragona il pensiero che corre attraverso il mondo, disponendo le cose come più gli aggrada, ad Astolfo che cavalca sull’ippogrifo (40);

 

  «Grimpé sur ma pensée comme Astolphe sur son hippogriffe, je chevauchais donc à travers le monde, en y disposant de tout à mon gré»(41).

  Il Tasso a sua volta è ricontato tre volte dal Balzac: sempre come il poeta ineguale, ambizioso e infelice in amore. Egli scrive:

 

  «... sa (de Modeste) pensée dominante fut de rendre heureux et riche, un Tasse, un Milton ...; più avanti: «Une d’Este riche de six millions peut mettre un chapeau à grands bords et à plumes, brandir la cravache, presser les flancs d’un barbe, et venir, amazone brodée d’or, suivie d’un laquais, à un poète en disant; «J’aime la poésie, et je veux expier les torts de Léonore envers le Tasse!» e ancora: «Le poète (Canalis) inégal, ambitieux et mobile comme le Tasse, aimait le luxe, la grandeur ...». (42).

  Credo di poter escludere con sicurezza che il Balzac possa aver conosciuto il poema del Tasso; «questo non perché non vi sia nell’opera del Balzac alcun accenno ad esso, chè anche vi si trovasse non vorrebbe significare gran cosa, ma solo considerando la forma spirituale dell’uno e dell’altro e il significato della loro rispettiva manifestazione artistica.

  Il Machiavelli ha anch’egli il suo piccolo posto nella «Comédie Humaine». Benchè gli accenni che vi troviamo qua e là non siano numerosi e non ci dicano un gran che, pure sarei condotta a pensare che il Machiavelli persona, artista e storico, non dovesse essere completamente indifferente al Balzac, e che si potrebbe porre l’autore nostro fra le simpatie del romanziere francese. Semplici congetture di chi ha cercato di avvicinarsi il più possibile all’autore che è oggetto di un suo studio. Venendo a quello che abbiamo di concreto, risparmierò a chi mi legge un largo elenco di esempi in cui dal Bai zac vengono adoperati l’aggettivo machiavélique e il relativo avverbio nell’accezione più comune ancor oggi in tutte le lingue europee: e riporterò quei brani che mi paiono più significativi. Qui il Machiavelli rappresenta il tipo dell’uomo politico:

 

  «Chréstien a voulu aller un soir dans les Champs-Elysées avec un mouchoir et quatre chandelles; mais il a trouvé une brochure à faire pour un homme qui veut devenir un homme politique et il lui a donné pour six cents francs de Machiavel ...» (43).

 

  Qui, avendo Lucien de Rubempré detto ai suoi amici, che tentano di distoglierlo da questa idea, di volersi dare al giornalismo per vendere la sua raccolta di poesie, e di volerlo poi lasciare per sempre, ecco un modo di condursi esclusivamente possibile al Machiavelli:

 

  «Machiavel se conduisait ainsi, mais non Lucien de Rubempré, dit Léon Giraud. Eh bien! S’écria Lucien, je vous prouverai que je vaux Machiavel!» (44).

 

  Ecco due personaggi — assai cari al Balzac — qualificati di machiavellici: Vautrin, il famoso forzato che ritroviamo in diversi romanzi e che per quanto non rappresenti il fior fiore della società — anzi! ... non viene mai presentato in maniera da riuscirci antipatico e tanto mono odioso:

 

  «Armé d’une espérance comme le dernier des Horaces le fut de son glaive, il (Jacques Collin ou Vautrin, ou bien Trompe-la mort) attendait du secours. A tout autre qu’à ce Machiavel du bagne, cet espoir eût paru tellement impossible à réaliser qu’il se serait laissé machinalment (sic) aller, ce que font tous les coupables» (45).

  Claude Vignon, personaggio che in «Les paysans» rappresenta il romanziere stesso, non esplicitamente,

 

  «Claude Vignon se croyait aussi grand politique que grand écrivain; mais ce Machiavel inédit se rit en lui même des ambitieux, il sait tout ce qu’il peut, il prend, instictivement (sic), mesure de son avenir sur ses facultés, il se voit grand ... » (46).

 

  In «Les paysans», a proposito del licenziamento brusco e clamoroso dovuto a frode dell’intendente «aux Aignes, Gaubertin», da parte del generalo Montcornet, il Balzac racchiude in un breve brano alcune delle massime del Machiavelli pel governo del popolo e pel modo di comportarsi coi vicini potentati (vedi primi capitoli di «Il Principe» e specialmente il III e il V). Egli scrive:

 

  « A qui sait lire fructueusement Machiavel, il est démontré que la prudence humaine consiste à ne jamais menacer, à faire sans dire, à favoriser la retraite de son ennemi en ne marchant pas, selon le proverbe, sur la queue du serpent, et à se garder comme de meurtre do blesser l’amour propre du plus petit que soi. Le fait, quelque dommageable qu’il soit aux intérêts, se pardonne à la longue, il s’explique de mille manières, mais l’amour-propre, qui saigne toujours du coup qu’il a reçu, ne pardonne jamais à l’idée. La personnalité morale est plus sensible; plus vivante en quelque sorte que la personnalité physique. Le cœur et le sang sont moins impressibles que les nerfs» (47).

 

  Naturalmente il Balzac ha adattato i principi al caso che gli interessava; non si può dire che questo brano sia del Machiavelli alla lettera.

  Un accenno elogiativo allo stile del Machiavelli lo abbiamo nella lettera (6 avril 1839), a Henry Beyle,

 

  «Cette fois, vous avez été parfaitement clair. Ah! c’est beau comme l’italien, et, si Machiavel écrivait de nos jours un roman, ce serait la «Chartreuse».

 

  Lasciamo correre l’esagerazione, di cui s’è già parlato, e consideriamo unicamente il fatto che allo spirito del Balzac, volendo egli parlare di chiarezza di stile, si è presentato il Machiavelli. La esattezza del giudizio, per quanto esso possa ormai considerarsi quasi un luogo comune, non ci fa pensare che il Balzac avesse una conoscenza diretta delle opere del nostro autore? E inoltre come non supporre che l’autore dei Cent contes drôlatiques» non possa aver conosciuto la Mandragola e la Clizia? Le ipotesi conducono lontano; è già difficile esaminare con esattezza quello che abbiamo di sicuro.

  Interessante e curioso insieme è un accenno a G. B. Vico in «L’illustre Gaudissart»:

 

  «Or, on peut être un beau génie et vivre ignoré. C’est une farce qui arrive assez généralement à ceux qui, malgré leurs moyens, restent obscure, et qui a failli être le cas du grand Saint-Simon, et celui de Monsieur Vico, homme fort qui commence à se pousser. Il va bien Vico?» (48).

 

  G. B. Vico (1668-1774) contemporaneo del Saint-Simon? Evidentemente il Balzac scherza; o meglio vuol darci un’idea ancora più precisa dell’ignoranza del suo Gaudissart, il quale viaggia attraverso la Francia per piazzare abbonamenti al Globe, organo dei Saint-Simoniens, senza avere la più lontana idea di quello che sia il Saint-Simonisme. Prima di mettersi in viaggio ha dato un’occhiata alle opere dei Saint-Simoniens, ma quanto sia stata sommaria si può capire. I Saint-Simoniens utilizzarono la dottrina esposta dal Vico nei suoi «Principi di una nuova filosofia» abbellendola con una poetica allegoria dovuta al Ballanche.

  Da quanto siamo venuti esaminando si vede che non si può parlare di una vera o propria influenza della nostra letteratura sul Balzac. D’altra parte alla esplicazione del suo genere d’arte, non era necessaria una profonda conoscenza delle varie letterature, ma quella della vita e dei costumi del tempo suo.

  Dante rimane l’artista e la figura per cui il Balzac ha sentito maggiormente e più largamente; infatti scopo principale di questo capitolo era quello di porre accanto a Dante il Balzac, nella misura e nei termini esposti nella prima parte di questo capitolo. Si può, con una certa riserva, affermare che il Balzac ha sentito, compreso e ammirato sinceramente e grandemente il Poeta nostro. Le parole che noi leggiamo nella lettera dedicatoria al principe Caetani (49) per quanto vadano prese cum grano salis, e perché la parola per quanto alta di un dotto non può in una volta sola aprirci completamento la via ad una comprensione non facile, e perché bisogna pur tener conto che si tratta di una lettera cortese, ci dimostrano un entusiasmo non comune, che non si riallaccia alla tradizione letteraria francese immediatamente precedente al Balzac. Abbiamo già accennato a come la comprensione di Dante, corrente al tempo in cui il Balzac si occupò più particolarmente del nostro Poeta, differisce da quella del romanziere.

  Per il Petrarca, l’Ariosto ed il Tasso, il Balzac non ci dice nulla di particolare e di personale: egli resta completamente nell’ambito della tradizione, e anche al disotto di questa. Il Boccaccio, più vicino allo spirito del Balzac «conteur» fu compreso e prediletto dal romanziere; così il Machiavelli, secondo l’ipotesi che noi abbiamo avanzata.

 

  Note. [La numerazione è nostra]. 

 

  (*) Da uno studio su L’Italia nell’opera di H. de Balzac. [Di questo studio, non abbiamo, finora, trovato alcuna traccia].

  (1) Cf. F. Brunetière, Honoré de Balzac, Calmann-Lévy édit., Paris, 1900.

  (2) V. Dedica al Principe Caetani, Cap. 1, pag. 62-63.

  (3) A. Deschamps, La Divine Comédie traduite en vers français, Ch. Gosselin et Urbain Canel, Paris, 1829, LXIV-240 pages.

  (4) Per notizie v. A. Farinelli, Dante e la Francia dall’Età Media al Sec. di Voltaire, Hoepli, Milano, 1908, 2 vol.

  (5) Per notizie v. A. Counson, Dante et les romantiques français, Revue d’Histoire Littéraire de la France, 1905.pag. 361 e Le réveil de Dante, Revue de Littérature comparée, Janvier-Mars 1927, pag. 27.

  (6) v. F. Baldensperger, Orientations étrangères chez H. de Balzac, pag. 166.

  (7) Les Proscrits, T. XXXI.

  (8) Il Balzac dunque, con questa novella, si pone fra coloro che parteggiano per un soggiorno di Dante a Parigi, e che, fin dall’inizio della controversa questione, trovarono soprattutto un valido appoggio nell’autorevole testimonianza del Boccaccio (Dell’origine, vita, costumi e studii di Dante A. di Firenze e delle opere composte da lui - Trattatello in laude di Dante).

  (9) Siger de Brabant ou Sigier de Courtrai fu Maestro di Teologia a Parigi e collaborò con Robert Sorbon alla fondazione della Sorbonne nel 1250. Recatosi a Roma nel 1278 per domandar giustizia all’autorità pontificia circa la condanna avuta dal Tribunale dell’Inquisizione di Francia, per aver combattuto gli ordini mendicanti contro S. Tommaso d’Aquino e altri teologi, pare morisse, in una prigione di Orvieto, tra il 1282 e il 1284.

  (10) v. Paradiso, C. X, vrs. 135-37.

  (11) v. La fille aux yeux d’or (1835) T. XIII, pag. 330.

  (12) V. Les Causeries du monde (1834). «Aventures d’une idée heureuse» par H. de Balzac.

  (13) v. R. L. C. (1922-1924. «Influence musulmane dans la Divine Comédie» par S. Asin Palacios.

  (14) (Splend. et mis. des court.). Comment aiment les filles (1838) pgg. 39 e 40, T. XV.

  (15) Un prince de la Bohème (1835-45) T. XVIII pag. 390.

  (16) Adieu (1830) T. XXIX pag. 19.

  (17) Le curé de Tours (1832) T. IX pag. 217.

  (18) Les illusions perdues (1835-43) II. «Un grand homme de province à Paris» T. XII pag. 90.

  (19) «La femme de trente ans» (1828-44) T. VI., pag. 206.

  (20) César Birotteau (1837), T. XIV, pg. 203.

  (21) Béatrix (1838-44), T. V, 189. La terzina è:

 

«... Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza!

Oh vita integra d’amore e di pace!

Oh senza brama sicura ricchezza!»

vers. 7-9 Paradiso, C. XXVII.

 

  (22) v. Mémoirs de deux jeunes mariées (1841), T. I, pg. 256.

  (23) v. Honorine (1843), T. IV, pg. 399.

  (24) v. Une fille d’Eve (1832), T. IV, pg. 92.

  (25) v. Mémoires de deux jeunes mariées (1841), T. I. pg. 366.

  (26) v. Modeste Mignon (1844), T. II, pg. 98.

  (27) v. ibidem, pag. 110.

  (28) È noto che il Petrarca verso la fine della sua vita abitò a Venezia e ad essa lasciò la sua Biblioteca: non è una cagione sufficiente per dirlo «vénitien» invece che aretino o toscano.

  (29) Le lys dans la vallée (1836), T. XXVI, pag. 143.

  (30) Les Illusions perdues (1835-43) – Un grand homme de province à Paris. T. XII, pag. 102.

  (31) L’enfant maudit (1831-36), T. XXVIII, pag. 406.

  (32) Le lys dans la vallée (1835), T. XXVI, pag. 99.

  (33) La belle Impéria mariée: «… ains toute poésie estoyt pietre auprès d’elle qui, suyvant ung mot de messe Boccaccio, estoyt la poésie mesme» (petite édition Calmann-Lévy, pag. 342).

  (34) v. l’articolo di M. C. Pitollet, L’italien de Balzac, Mercure de France, 15 juin, 1926.

  (35) L’enfant maudit (1831-36), pag. 377.

  (36) Non sono d’accordo col Baldensperger (op. cit., pag. 153) il quale scrive: «dans le Péché véniel une nouvelle de Boccaccio (Journée II, conte 10) excite la varve de notre conteur drôlatique. C’est aussi le Décameron (IV, 8) qui revit dans La mye du roy …». Probabilmente si tratta soltanto di una confusione; infatti una trasposizione mette le cose a posto.

  (37) Non sarà inutile ricordare che questa stessa novella fu tradotta, assai bene e in versi, dal De Musset e va sotto il titolo di «Silvia».

  (38) v. La vieille fille (1836). T. X, pag. 409-10.

  (39) v. La cousine Bette (1840-47), T. XVII, pag. 456.

  (40) Astolfo cavalca sull’ippogrifo – ma non è suo – nel poema esso appartiene a Ruggiero — liberatore di Angelica.

  (41) v. Un drame au bord de la mer (18344), T. XXIX, pag. 174.

  (42) v. Modeste Mignon (1844). T. II, pag. 60 - 74 - 230.

  (43) v. Un grand homme de province à Paris (1835-43), T. XII, pag. 83.

  (44) Un grand homme de province à Paris (1835-43), T. XII, pag. 91.

  (45) Où mènent les mauvais chemins (1838-47), T. XVI, pag. 10.

  (46) v. Béatrix (1838-44), T. V, pag. 109.

  (47) v. Les paysans (1845), T. XXIII, pag. 116.

  (48) v. L’illustre Gaudissart (1838), T. X, pag. 39.

  (49) v. Cap. I, pag. 62, 63.

 

 

  Teocrito di Giorgio, Il serpente e l’olimpico all’indomani del centenario di Goethe, «Vita e Pensiero. Rassegna italiana di coltura», Milano, Anno XVIII, Vol. XXIII, Nuova Serie, Fascicolo 5, Maggio 1932, pp. 269-274.

 

  p. 273. Egli [Thomas Mann] è premio Nobel. E’ autore fra l'altro di quel pesante romanzo Bruddenbrooks che gli ha dato fama di scrittore alla Balzac. Forse per l’architettura che oggi si rivela assai antiquata. Ma nello spirito la distanza fra lui e il romanziere della Comédie humaine è enorme. Balzac, con tutti i suoi peccati e le sue ingiustizie, rimane nella sua sostanza cattolico.

 

 

  Domenico Giuliotti, Argille divine. I due giganti. I. Balzac, in Poesie, Firenze, Vallecchi Editore, 1932.

 

  p. 53.

Quale uno sterratore che s’interna

tragico e solo, nella miniera

affocandolo, a mezzo, una lanterna,

 

tale s’immerse nella notte nera

del suo pensiero, onde balzava un mondo d’uomini

urlanti sotto una bufera,

 

Colui che incise nel suo cuor profondo

l’istoria della triste anima umana,

ruota che passa con eterno rombo.

 

E apparve, al risuonar d’una campana,

percossa dalle braccia d’un gigante,

su l’archivolto d’un immensa altana,

 

una tragica follia variante,

come le nubi che sparpaglia il vento,

quando vi batte l’ala infuriante.

 

Feroci volti e gesti di spavento,

mani cruente e fronti imperiali,

occhi cercanti il loro sogno spento,

 

l’eterno sogno che, inarcando l’ali,

da mille turbinose anime svola,

cingendosi di canti trionfali;

 

tutto Egli mosse intorno ad una spola

che infaticabilmente viene e va,

e nel gran fiume della sua parola

 

piegò la fronte dell’Umanità!


 

  Victor Hugo, Una pagina inedita di Victor Hugo, «Il Regime fascista», Cremona, Anno XI, N. 128, 10 Giugno 1932, p. 3.

 

  Dal 1838 al 1875, Victor Hugo ha annotato i principali avvenimenti ai quali ha preso parte, od ha, comunque, potuto assistere nella sua qualità di Pari di Francia, queste sue «Cose viste» sono ora per la prima volta pubblicate in Italia dall’Editore Cappelli di Bologna[2], con il consenso del quale riportiamo una delle più vigorose «acqueforti». Ha per titolo: «Morte di Balzac».

  Il 18 agosto ,1850, mia moglie che era stata dalla signora Balzac, mi disse che Balzac era moribondo. Vi corsi subito.

  Balzac era ammalato da diciotto mesi di un’ipertrofia al cuore. Dopo la rivoluzione del febbraio, era andato in Russia e là s’era ammogliato. Alcuni giorni prima della sua partenza l’avevo incontrato sui bastioni; si lamentava già e respirava rumorosamente. Nel maggio 1850, era tornato in Francia, ammogliato, ricco e moribondo. Nell’arrivare aveva già le gambe gonfie. Quattro medici consultati, lo esaminarono. Uno di essi Louis, mi disse il 6 luglio: Non ha sei settimane da vivere. Era la stessa malattia di Federico Soulié,

  Il 18 agosto avevo a pranzo il generale Luois (sic) Hugo, mio zio. Appena alzato da tavola, lo lasciai e presi una vettura che mi condusse al viale Fortuné (sic) n. 14 sul rione Beujon (sic) dove Balzac abitava. Egli aveva comperato ciò che restava del palazzo Beaujon, alcune parti dei primi piani sfuggiti per caso alla demolizione; aveva ammobigliato magnificamente questa casaccia e se nera fatto una leggiadra palazzina che aveva il portone sul viale Fortuné e per giardino un cortile lungo e stretto dove il lastricato era tagliato qua e là da aiuole. Sonai. C’era un chiaro di luna velato da nubi. La via era deserta. Nessuno venne. Sonai una seconda volta. La porta s’aperse. Apparve una domestica con una candela. — Che cosa vuole signore? — disse. — Piangeva.

  Dissi il mio nome. Fui introdotto nel salone a pianterreno dov’era, su una mensola di fronte al camino, il busto colossale in marmo di Balzac, fatto da David. Una candela ardeva su una ricca tavola ovale posta nel mezzo del salone, che aveva per piede sei statuette dorate di bellissimo stile.

  Venne un’altra donna che piangeva e che mi disse:

  — Sta morendo. La signora è rientrata nelle sue stanze. I medici l’hanno spacciato da ieri. Ha una piaga alla gamba sinistra. Vi è cancrena. I medici non sanno quello che fanno. Dicevano che l’idropisia del signor Balzac era un’idropisia cotennosa, una infiltrazione, secondo loro, che la pelle e la carne erano come lardo e che era impossibile fargli la puntura. Ebbene, il mese scorso, nel coricarsi, il signor Balzac ha urtato contro un mobile istoriato, la pelle s’è rotta, e tutta l'acqua che aveva nel corpo è colata fuori. I medici hanno detto: Guarda! Sono rimasti meravigliati e d’allora in poi gli hanno fatto la puntura. Hanno detto: Imitiamo la natura. Ma è venuto un accesso alla gamba. L’ha operato Roux. Ieri è stato levato l’apparecchio. La piaga non era suppurata, ma rossa, secca e bruciante. Allora essi hanno detto: E’ perduto! e non sono più tornati. Siamo andati da quattro o cinque di costoro, inutilmente. Tutti hanno risposto: Non c’è niente da fare. La notte è stata cattiva. Questa mattina alle nove il signor Balzac non parlava più. La signora ha fatto chiamare il prete. Il prete è venuto e ha dato al signor Balzac, l’estrema unzione. Il signor Balzac ha fatto segno di capire. Un’ora dopo ha stretto la mano a sua sorella, la signorina di Surville. Dalle undici rantola e non vede più niente. Non passerà la notte. Se volete, signore, vado a cercare il signor De Surville che non s’è ancora coricato.

  La donna mi lasciò. Attesi alcuni istanti. La candela rischiarava appena gli splendidi mobili del salone e i magnifici dipinti di Porbus e di Holbein sospesi ai muri. Il busto di marmo, vago in quest’ombra, era come lo spettro dell’uomo che stava morendo. Un odore di cadavere riempiva la casa.

  Il signor De Surville entrò e mi confermò tutto quello che m’aveva detto la domestica. Domandai di vedere Balzac.

  Attraversammo un corridoio, salimmo una scala con un tappeto rosso e ingombra di oggetti d’arte: vasi, statue, quadri, credenze smaltate; poi un altro corridoio, e vidi una porta aperta. Sentii un rantolo alto e sinistro. Ero nella camera di Balzac.

  Un letto era in mezzo a questa camera. Un letto di mogano che aveva da piedi e da capo traverse e corregge per un apparecchio di sospensione destinato a muovere l’ammalato. Balzac era in questo letto, la testa appoggiata su un mucchio di guanciali a cui erano stati aggiunti dei cuscini di damasco rosso tolti dal divano della camera. Egli aveva la faccia violetta, quasi nera, reclinata a destra, la barba non fatta, e i capelli grigi e tagliati corti, l’occhio aperto e fisso. Io lo vedevo di profilo: così, rassomigliava all’Imperatore.

  Una vecchia, l’infermiera, e un domestico stavano in piedi ai due lati del letto. Una candela ardeva dietro il capezzale, sopra una tavola, un’altra sopra un cassettone vicino alla porta. Un vaso d’argento era sul tavolino da notte. L’uomo e la donna tacevano con una specie di terrore e ascoltavano il morente rantolare rumorosamente.

  La candela al capezzale rischiarava vivamente un ritratto di uomo giovane, roseo e sorridente, sospeso vicine al camino.

  Un odore insopportabile esalava dal letto. Sollevai la coperta e presi la mano di Balzac. Essa era coperta di sudore. La strinsi. Egli non rispose alla pressione.

  Era questa la stessa camera in cui ero venuto a vederlo un mese prima. Era gaio, pieno di speranza, non dubitava della guarigione, mostrava il gonfiore ridendo. Noi avevamo molto parlato e disputato di politica. Egli mi rimproverava «la mia demagogia». Lui era legittimista.

  Mi diceva: – Come avete potuto rinunciare così serenamente a questo titolo di pari di Francia, il più bello dopo il titolo di re di Francia! Egli mi diceva pure: —- Ho la casa di Beaujon, meno il giardino, ma con la tribuna sulla piccola chiesa di fianco alla via. Ho sulla scala una porta che s’apre nella chiesa. Un giro di chiave e sono a messa. Mi piace più questa tribuna, che il giardino. — Quando l’avevo lasciato, m’aveva ricondotto fino a queste scale, camminando con fatica, e m’aveva mostrato questa porta gridando a sua moglie: — Sopratutto, fa ben vedere a Hugo tutti i miei quadri.

  L’infermiera mi disse: — Morirà a giorno.

  Ridiscesi, portando nel pensiero questa immagine livida; nell’attraversare il salone ritrovai il busto immobile, impassibile, altiero e vagamente luminoso, e comparai la morte all’immortalità.

  Ritornato a casa mia (era domenica) trovai molte persone che m’aspettavano, fra le quali Riza-Bey, l’incaricato d’affari di Turchia, Navarrete, il poeta spagnolo e il conte Arrivabene, proscritto italiano. Dissi loro: — Signori, l’Europa sta per perdere un grande spirito.

  Egli morì nella notte. Aveva cinquant’un anni.

  Fu seppellito il mercoledì.

  Prima fu esposto nella cappella Beaujon, e passò per quella porta di cui la sola chiave gli era più cara di tutti i giardini paradisiaci dell’antico intendente generale.

  Giraud, il giorno stesso della morte, gli aveva fatto il ritratto. Volevano prenderne la maschera, ma non fu possibile, tanto rapida fu la decomposizione. Il giorno dopo la morte, nella mattina, gli operai modellatori trovarono il viso deformato e il naso caduto sulla guancia. Fu messo in una bara di quercia foderata di piombo.

  Le esequie furono fatte a Saint-Philippe-du-Roule. Vicino al feretro, io pensavo che in questa chiesa mia figlia era stata battezzata, e che non l’avevo più rivista da quel giorno. Nei nostri ricordi la morte tocca la nascita.

  Il ministro dell’interno, Baroche è venuto ai funerali. In chiesa era seduto a me davanti al catafalco, e ogni tanto mi rivolgeva la parola.

  M’ha detto: — Era un uomo ragguardevole. — Gli ho detto: — Era un genio.

  Il corteo funebre attraversò Parigi e andò per i bastioni al Père-Lachaise. Piovigginava quando uscimmo di chiesa, e quando arrivammo al cimitero.

  Era uno dì quei giorni in cui sembra che il cielo versi qualche lacrima.

  Facemmo tutto il tragitto a piedi. Io camminavo a destra, avanti, tenendo una delle ghiande d’argento della coltre; Alessandro Dumas era dall’altra parte.

  Quando giungemmo alla fossa che era in alto sulla collina, vi era una folla immensa, la salita era ripida e stretta, i cavalli salendo facevano fatica a trattenere il carro funebre, che indietreggiò. Io mi trovai preso fra una ruota e una tomba, e corsi pericolo di essere schiacciato. Degli spettatori che erano in piedi sulla tomba mi issarono per le spalle fino a loro.

  La bara fu calata nella fossa, vicina a quella di Charles Nodier e di Casimir Delavigne.

  Il prete disse l’ultima preghiera e io pronunciai alcune parole. Mentre parlavo il sole tramontava. Tutta Parigi m’appariva lontano nella nebbia splendida del tramonto. Quasi ai miei piedi le zolle smottavano nella fossa e io ero interrotto da questo rumore sordo della terra che cadeva sul feretro.



  Lady Smart, Chiacchiere con le signore, «La Donna. Rivista mensile di moda», Milano, Anno XXX, N. 3, Marzo 1932, pp. 75-76.

 

  p. 76. Séraphita – È l’emula della sublime creazione di Balzac? O fu quella deliziosa «fantasia» dell’illustre scrittore, il quale si rivela in Séraphita un gran poeta e anche un veggente, che le ispirò il suo pseudonimo?

 

 

  Lector [Angiolo Orvieto], Ex libris. Balzac e la «Contessa», «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXVII, N. 23, 5 Giugno 1932, p. 3.

 

  La «Contessa» che nel titolo del recente libro di L. J. Arrigon [3] si accompagna col nome di Balzac in caratteri neri fortissimi — tanto più vistosi sulla carta giallognola della copertina non è. coma qualche inesperto potrebbe supporre, la dama che dopo il lungo idillio diventò legittima consorte del romanziere: non è quella contessa Evelina detta Eva Rzewuska che si chiamò per il primo matrimonio Madame Hanska e che nell’epistolario di Balzac ha una parte così cospicua (si ricordi che nella prima edizione, suscettibile di aggiunte, le «Lettres à l’étrangère» occupano due massicci volumi in ottavo).

  «Contessa» — e cioè in italiano anche nel testo francese – a indicare se non il paese di nascita, la nazionalità acquistata attraverso il matrimonio, perché Sarah Frances Lovell, di origine inglese, aveva sposato il conte Emilio Guidoboni Visconti gentiluomo milanese, appartenente ad una delle più illustri e antiche famiglie della Lombardia, melomane impenitente di modeste aspirazioni se gli bastava di suonare in l’orchestra e appassionato, per quello che ce ne dice il suo biografo, di pratiche farmaceutiche.

  Il nome della nobile coppia stabilita a Parigi ricorre frequente nella cospicua biblioteca che si è venuta componendo intorno alla vita di Balzac, ma con fuggevoli, accenni in occasione specialmente dei viaggi in Italia compiuti dal romanziere con lo scopo di sistemare una lite ereditaria alla quale i Guidoboni Visconti erano direttamente interessati.

  Mandato singolare, per il quale l’uomo impelagato nelle vicende più imbrogliate che incurabile disordine di bilanci domestici e professionali abbia mai potuto suscitare, era così assunto al delicato ufficio di procuratore in causa altrui. Né la scelta a giudicar dell’esito, poté dirsi infelice. La pratica degli accorgimenti legali e delle procedure più complicate non mancava all’illustre mandatario. Ma in questo incarico si deve vedere uno degli espedienti sottili e delicati mediante i quali la «Contessa» più volte si compiacque di offrire un aiuto materiale a Balzac nei momenti più tormentati di una vita che fu sempre o quasi sull’orlo del disastro.

  Sarah, fra le donne di Balzac, resta ancora piuttosto enigmatica: una figura di secondo piano, della quale, anche in questo libro che si potrebbe supporle dedicato almeno per metà, si parla ben poco. Il pittoresco biografo, il quale per la prima volta si è proposto di trattare a fondo l’argomento dei rapporti fra Balzac e la Guidoboni Visconti, si limita ad accennare che la seducente Sarah non godeva certo la fama di moglie saggia della Scrittura ed aggiunge – indicazione delle più vaghe – che «teneva come modelli della propria condotta la contessa d’Albany e la Guiccioli, amica di Byron, conosciute da lei prima del matrimonio a Firenze». Il contributo che sarebbe più prezioso per una penetrante interpretazione della scarsa cronaca qui manca. Qui ad illuminarci non ci sono, nonché due volumi di epistolario, nemmeno due righe di Balzac, e occorre rintracciare i connotati fisici e spirituali della «Contessa» col mezzo, sempre fallace, dell’analisi chimica applicata alle contaminazioni da cui hanno preso vita alcune figure femminili della «Commedia umana».

  La «Contessa» rimane così a troppa distanza dalle ispiratrici, come una piccola figura senza espressione propria, riavvicinata che sia più a una Madame Hanska e tanto più a una Madame de Berny, la «Dilecta» per antonomasia.

  A proposito di questa, il nostro autore cita dalla collezione Lovenjoul una lettera del marzo 1836 – l’anno appartiene al periodo in cui la «Contessa» ebbe una parte non trascurabile nella vita di Balzac (1835-1840) – lettera che è un inno indimenticabile a colei per cui ha voluto «intessere, foglia a foglia, una corona che sarà soltanto sua», per cui vagheggiò la gloria e fu «avido di onori». «Ella è – scrive ad Augusto Borget confidente delle sue pene e del suo dolore nel vederla ormai condannata – la mia coscienza e la mia forza; ella è al di sopra di tutto, come il cielo, come il genio della fede e della speranza». Nella «Dilecta», che fu mescolata alla sua vita e alla sua arte come nessun’altra creatura mai l’opera dell’artista trovava le risonanze più pronte e più profonde e però ella dovette apparire dono supremo della sorte a chi, come Balzac, non avvertiva confini tra la finzione letteraria e la realtà quotidiana. La stessa lettera non finisce infatti con l’accenno alla «crisi pericolosa» determinata nella cara ammalata dalla lettura dell’agonia del Père Goriot?

  Protagonista invadente di questo libro rimane Balzac con la vita tumultuosa di quel quinquiennio che lo vide travolto nelle imprese più disperate fra i tentativi giornalistici della Chronique de Paris e i vani conati per assicurarsi le risorse redditizie del teatro, in lotta diuturna con gli implacabili creditori condotta a traverso gli svariati domicili; ora intento a sfuggire agli uscieri, ora a mandare avanti lo molteplici vite di creatore e dissipatore inesauribile secondo il ritmo frenetico che solo fu suo.

  Per ricevere degnamente la «Con tessa», Balzac, che ha conservato il domicilio della via Cassini, adorna di lussuose suppellettili il nido della via delle Battaglie; poi, per sfuggire alla muta degli ufficiali giudiziari adotta un terzo recapito. A un certo momento, trova un rifugio nella stessa casa dei Guidoboni Visconti ai Campi Elisi: un «sicuro rifugio» come egli scrive a un’altra amica.

  Infine il nome della contessa e del marito ricorre nelle prove sfortunate di Balzac proprietario, quando egli fece acquisto dei terreni nella valle di Ville-d’Avrav dove dovevano sorgere i padiglioni destinati a lui e alla coppia che aveva anticipato i fondi probabilmente prendendo ipoteca sui terreni e sulle costruzioni.

  Ma il tema Balzac-Contessa è stato anche un ottimo pretesto per ritornare sui viaggi in Italia dello scrittore ormai celebre e sulle sue «avventure italiane» intorno alle quali già dette un contributo non trascurabile Giuseppe Gigli.

  Così rivediamo Balzac che piglia la via di Torino in compagnia di quella signora Marbouty, aspirante all’intellettualità che almeno nell’abbigliamento maschile e nella pettinatura vuole assomigliare a Giorgio Sand.

  Per cogliere quasi in sintesi le complicazioni della vita del romanziere si abbia presente che alla «Straniera» lontana Balzac annunziava quel suo viaggio d’affari come compiuto per incarico «di un certo signor Visconti» col quale si era «trovato in un palco del Teatro degli Italiani»: ben guardandosi dal ricordare insieme col marito, quella «certa signora» a cui molto probabilmente si doveva l’iniziativa dell’incarico legale. Si pensi pure che la «compagna di viaggio» indicata nella stessa missiva come amica dli Madame Carraud e di Jules Sandeau era la letterata inedita che dovette raccontare più tardi di aver passato in compagnia del romanziere «tre notti senza dormire». Ammissione divertente, a interpretare la quale senza l’ombra della malizia occorre il candore del più recente biografo della dama segretaria. (Si veda in proposito lo studio sopra un’«Amica di Balzac – Madame Marbouty» di M. Serval).

  Di tanta ingenuità non è colpevole l’autore del libro di cui parliamo, che rifà con brio la cronaca delle giornate torinesi di Balzac, bene accolto — nonostante l’equivoca compagnia del paggio femmineo —. nel mondo mondano e diplomatico per il quale aveva ottime presentazioni e raccomandazioni. Viaggio questo ignorato dal Gigli nel suo libro che tratta invece diffusamente del successivo, indugiando sui fasti e le beghe letterarie alle quali va congiunto.

  Sono le «avventure italiane» di cui pure ci intrattiene l’Arrigon il quale fa suo pro del libro italiano, citato del resto più volte. E si riparla della visita al Manzoni che ha fatto versar tanto inchiostro; a quel Manzoni che, attraverso un famoso articolo di Tullio Dandolo, doveva compromettere irreparabilmente, dopo la sosta veneziana, le simpatie per Balzac di cui si era accesa – anche per l'uomo – la più eletta società italiana.

  Ma a proposito dei due grandi, ci sembra assai verosimile l’ipotesi formulata dall’Arrigon che Balzac non avesse mai letto i «Promessi Sposi»; ciò che lo obbligò nella visita memoranda a tenersi sulle generali quanto al capolavoro dell’interlocutore.

  E si parla nel libro di un’altra avventura italiana che non ha, questa, alcun legame neppure indiretto con la «Contessa»; l’escursione di Balzac in Sardegna per sfruttare le miniere che al suo arrivo sui luoghi con amara delusione egli doveva trovare già concesse ad altri per decreto reale.

  Il libro si chiude con le peripezie delle «Jardies» a cui già abbiamo accennato, e qui, se non personalmente la «Contessa», hanno larga parte i Guidoboni Visconti, i vicini o inquilini che provvidenzialmente si prestano ad accogliere nella loro casa mobilia, oggetti d'arte, suppellettile di lusso, in somma tutto il sequestrabile ogni volta che si preannunzi l’arrivo dell’usciere, il quale al sopraggiungere nella dimora del romanziere, si trova invariabilmente alle prese con un lettino in ferro e con qualche seggiola.

  Amabile generosità che costò al conte il processo intentatogli da un usuraio che l’accusava di avere cooperato con manovre colpevoli a sottrarre ai creditori di Balzac i quanto era loro dovuto. Ciò che contribuì, scrive il biografo, al tramonto degli amori di Balzac e della Contessa». Tramonto malinconico così come ne era stata radiosa l’alba cinque anni prima nelle sale dell’ambasciata austriaca a Parigi.

  Avevamo ragione di dire che, non soltanto nella vita di Onorato Balzac ma anche in questo libro, Sarah Lovell Frances maritata Guidoboni Visconti rimane una figura affatto secondaria, nell’ombra del gigante.

 

 

  Alberto Lumbroso, Leggenda e verità. Romanticismo e verismo ai funerali di Balzac, in Da Adua alla Bainsizza e a Vittorio Veneto (Documenti inediti, polemiche, spunti critici), Genova, “Rivista di Roma” Editrice, 1932, pp. 108-112.

 

  Cfr. 1928.

 

 

  L. M., Donne di un celebre romanzo. Gli amori di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 66, Num. 170, 18 Luglio 1932, p. 3.

 

  Quel che abbia rappresentato l’Italia nell’arte e nella vita nei maggiori scrittori francesi del periodo romantico è largamente noto. Roma, Napoli, Venezia sono indissolubilmente legate alla memoria di Chateaubriand, di Lamartine, di De Musset, di Giorgio Sand. Meno noti sono invece i viaggi fatti in Italia da Balzac, legati tutti o alle sue stravaganti intraprese attraverso le quali egli sognava di raggiungere la ricchezza oppure ai suoi amori così varii e mutevoli ma sempre accesi ed intensi. Nel 1836 il celebre romanziere visitava Torino, nel '38 la Sardegna e quindi Genova e Milano, nel '47 Roma. Per verità, non si può dire che egli abbia conosciuto il nostro Paese in modo così intimo da trarne un motivo efficace di inspirazione per la sua opera colossale, ma le lettere che, ad esempio, egli ebbe ad inviare dalla Città Eterna alla signora Surville sono così riboccanti di ammirazione stupefatta che dimostrano come Balzac ne abbia avuto una impressione profonda. «E’ assolutamente necessario — scriveva — metter da parte del danaro per andare a Roma almeno una volta nella vita, altrimenti non si conoscerà nulla dell’antichità, dell’architettura, dello splendore e dell’impossibile realizzati». Roma, insomma, lo aveva così ammaliato da decidersi a passarvi tutto l’inverno d’un altr’anno: progetto che, come tant'altri, non riuscì però a realizzare. Non è tuttavia inutile ricordare che il viaggio di Balzac a Roma fu determinato da uno dei suoi grandi amori, quello per la polacca signora Hanska, la donna che ne confortò poi a Parigi gli ultimi tristissimi giorni.

 

Il viaggio a Torino.

 

  Anche il viaggio che il romanziere fece a Torino si riannoda alla sua vita sentimentale e vi si riannoda con un nuovo tormentoso amore e con un ineffabile lutto: l’amore per la contessa Guidoboni-Visconti e il lutto per la signora Laura de Berny. Un libro appassionante come un romanzo — «La prodigiosa vita di Onorato di Balzac» di René Benjamin pubblicata ora in Italia nella bella traduzione di Falcone Lucifero (ed. Italianissima - Milano) — ricostruisce i rapporti del romanziere con la de Berny rappresentando questa dolce figura di donna come l’inspiratrice gentile e fedele dello scrittore: e così deve essere stato se, tornando dal suo viaggio a Torino e trovando tra la posta che lo attendeva a Parigi la notizia della morte di lei, Balzac dava sfogo al suo dolore scrivendo ad una sua ignota corrispondente: «Colei che ho perduto era per me più che una madre, più che un'amica ... C’era qualche cosa di divino in lei. E mi ha sostenuto con la parola, con l’aiuto, con la devozione più assoluta nei momenti per me più gravi. Se oggi ancor vivo lo devo ad essa, che era tutto per me!». Vero è che subito dopo scriveva alla signora Hanska: «La signora de Berney (sic) è morta. Non vi dico altro. Il mio dolore non è già d’un giorno; lo risentirò per tutta la vita. Essa era sincera. Non desiderava che il mio bene e la mia perfezione. Per me voi ne siete la sua ereditiera, voi che avete tutte le sue nobili doti». Dolore profondo, adunque, ma col proposito immediato di consolarsene tra le braccia della bella polacca. E se non fosse bastata la polacca c’era anche la biondissima Guidoboni-Visconti.

  E’ infatti da ricordare che Balzac, tormentato da urgenti preoccupazioni di danaro e da una lotta accasciante coi suoi innumerevoli creditori, era andato a Torino per rappresentare i conti Visconti in un processo in cui essi avevano da difendere dei gravi interessi. Lasciare per un intero mese il suo tavolo di lavoro, e guadagnare tranquillamente di che vivere viaggiando all’estero al servizio di un gentiluomo, era infatti parso a Balzac un ottimo affare, oltreché un mezzo per rendersi prezioso alla contessa. Il Benjamin, veramente, non indugia sui sentimenti che il romanziere aveva per questa donna, ma un recente volume di L. J. Arrigon «Balzac et la comtesse» fa luce anche su questo amore non troppo fortunato.

 

Una bellezza eccezionale.

 

  La conoscenza era avvenuta nell'autunno del 1834. In un ricevimento all’ambasciata d’Austria Balzac vide una specie di baccante bionda d'una bellezza eccezionale e le si fece presentare: era la contessa Guidoboni-Visconti. Costei era nata Sarah Lovell, da una famiglia in cui la bellezza, la follia e il suicidio erano ereditari. Essa aveva un fratello ubriacone e una sorella beghina. Un’altra sorella più giovane era un’amatrice senza freno che finì in preda al delirio alcoolico. Un fratello s’era impiccato ed un altro s’era tagliata la gola. La madre s’era annegata per la paura di invecchiare.

  Quando il romanziere la conobbe, la bella Sara aveva 30 anni e si diceva che non fosse capace di resistere ad un capriccio, mentre il di lei marito era tutto preso da due passioni: la musica, e la farmacia! Balzac parte impetuosamente alla conquista della contessa e per colpirne la fantasia fa spese pazze moltiplicando i suoi debiti. Tra l’altro ordina al famoso gioielliere Lecointe un servizio da tavola principesco con le armi del Balzac d’Entragues. Ma la Visconti non intende cedere senza l’onore delle armi. Tra Balzac e il brillante conte Lionello de Bonneval, che aveva attirata l’attenzione di Paolina Borghese, essa tiene perfidamente in bilico la bilancia.

  Non è a dire che questa scherma galante non stuzzichi l’amor proprio di Balzac ma i creditori non lo lasciano in pace ed allora egli decide di scomparire. «Il mondo — egli scrive al suo amico pittore Augusto Borget — voleva invadermi. Io ho preso un’accetta ed ho tagliato tutto intorno a me. Fra tre giorni io sparirò ritirandomi in una celletta nella quale nessuno, tranne i miei famigliari, potrà penetrare». E difatti, pure conservando l’appartamento sontuoso di via Cassini, a partire dal 15 marzo 1935 (sic) va ad abitare in via delle Battaglie sulla collina di Chaillot. Sotto il nome di dottor Giambattista Mège prende in affitto per 175 franchi al trimestre il secondo piano di una casa che ha il pianterreno e il primo piano disabitati. Il romanziere squattrinato ma sempre splendido fa decorare un salone in oro e seta rivolgendosi prudentemente ad un tapezziere da cui non è conosciuto. In una parete del salone si apriva la porta invisibile di una scala segreta come nei castelli del tempo di Luigi XI. Per questa scala egli saliva in una specie di solaio, che era il suo gabinetto di lavoro. Di là vedeva il Campo di Marte, la Scuola Militare, Grenelle, le colline di Meudon: ed in tal modo dominava con lo sguardo una parte di Parigi e dei dintorni, sicché di tratto in tratto diceva, o con scoraggiamento o in tono di sfida: «Quanti lettori di Balzac ci sono nelle case che vedo e in quelle che scorgo appena? Bisogna che ce ne siano dappertutto». E si ricacciava a capofitto in un lavoro eroico, sfibrante che ne andava a poco a poco logorando la fibra potente.

 

La gelosia della polacca.

 

  La Visconti resisteva intanto sempre. Balzac, lasciava di tratto in tratto la sua clausura, per raggiungere la contessa a Versailles e così riferiva delle sue visite alla sua amica Carraud: «Da qualche giorno sono caduto sotto il potere di una invadentissima creatura e non so come sottrarmene, poiché io sono come una povera figliuola senza forza contro chi mi piace». Il male è che queste visite versagliesi venivano segnalate alla polacca Hanska che da Vienna gli inviava delle dure reprimende tanto che, per disarmarla, Balzac finì per raggiungerla. In questo modo egli manovrava su due fronti: da uno calmava la gelosia della signora Hanska, dall’altra suscitava quella della Visconti.

  Durante il viaggio da Parigi a Vienna Balzac talora si faceva chiamare conte, talora marchese, e i suoi bagagli erano distinti col blasone dei Balzac d’Entragues. Giunto a Vienna, il romanziere dedica una parte del suo tempo alla signora Hanska, una parte alle visite e una parte al lavoro. Rimaneggia per una nuova edizione il «Louis Lambert» e visita il campo di battaglia di Wagram in vista d'un nuovo romanzo «La bataille» che però non giungerà mai a scrivere. Tornato a Parigi, deve correre ai ripari dagli immediati assalti dei creditori e portare al Monte di pietà il famoso servizio da tavola: ma non ha però perduto il suo tempo perché in viaggio ha portato a termine il famoso «Giglio nella valle» romanzo assai noto anche in Italia. Si tratta di un rifacimento d’un romanzo scritto da Balzac qualche anno prima e già pubblicato sotto il titolo «Volupté» (sic!). Il titolo nuovo gli è dato dalla contessa Visconti ed è poi quello stesso d’un romanzo inglese comparso nel 1920: «The lily in the valley».

  Ma la bella Sara ha dato qualche cosa di più e di meglio, poiché la sua voluttuosa figura era particolarmente viva e presente nello spirito dello scrittore durante il viaggio di ritorno dall’Austria e cioè durante l'ultima rielaborazione del romanzo. Nè la sola contessa Visconti ha alimentato la fantasia e spronato l’estro del romanziere. L’indagine che fa in proposito l’Arrigon è di vivo interesse. Il nodo dell’azione del «Giglio nella valle» è stretto intorno al legame di Balzac con la signora de Berny, trasformato però in amicizia amorosa. Il tono materno, che la signora de Mortsauf del romanzo usa verso Felice de Vandenesse, è quello stesso che la de Berny usava verso Onorato di Balzac; le lettere della de Mortsauf sono quelle della de Berny; l'eczema che tormenta il signor de Mortsauf è quello che tormentava il marito della de Berny. Se però la signora de Mortsauf è il ritratto morale della de Berny, essa è il ritratto fisico della contessa Visconti; e di costei ha la bellezza vistosa e provocante, la linea, l’incedere. Balzac ha avuto però uno scrupolo. Egli sapeva benissimo come una donna gelosa sia portata a spiare nelle figure di un romanzo quelle delle sue rivali e perciò, per trovare in anticipo un valido alibi, ha dato alla signora de Mortsauf la fronte ovale della signora Hanska.

 

Lady Dudley.

 

  Nel romanzo vi è poi un altro personaggio che fa la sua apparizione nella seconda metà del racconto e che provoca una crisi di gelosia nella signora Mortsauf; lady Dudley, creatura passionale e sensuale. Orbene: lady Dudley è ancora la contessa Visconti; e poiché il viso di questa era già perfidamente servito al romanziere per tracciare quello della Mortsauf, si rendeva necessario volgere gli occhi altrove. Fortunatamente Balzac nel suo viaggio di ritorno da Vienna s’era incontrato in un’altra inglese, francese per gli amori — tale lady Ellenborugh —, e questa diede i tratti del volto a lady Dudley.

  Di morale da tutto ciò ce n’è assai poca da trarre e può forse interessare scarsamente il sapere che la bella Sara, dopo aver resistito per oltre un anno alle insistenze di Balzac, poi ne divenne l’amante sino a fare con lui una scorribanda in Inghilterra o, per lo meno, a Boulogne-sur-mer. C'è invece una conseguenza da tirare, quella stessa che ne ha tratta un brillante scrittore francese, e cioè l’inanità del mestiere di critico. «Noi — scrive Henry Bidou — facciamo degli sforzi per spiegare la struttura del romanzo che è comparso ieri: e il segreto di questa struttura è sul guanciale dell’autore». La constatazione è un po’ scoraggiante.

 

 

  M.[affio] Maffii, Nota, in Onorato di Balzac, Il Colonnello Bridau … cit., pp. 427-431.

 

  Onorato di Balzac aveva quarantatrè anni quando finì di scrivere Un ménage de garçon. Era già celebre. La peau de chagrin, Eugénie Grandet, Le Père Goriot lo avevan reso noto anche fuori di Francia, pur non procurandogli mai una tranquilla agiatezza. I debiti contratti in gioventù e i disastri finanziari prodotti da innumerevoli affari sbagliati coi quali s’era illuso di conquistare una fortuna pesarono su tutta la sua vita. Lavorava ora come un negro per tirare avanti.

  Balzac aveva già un suo piccolo pubblico in Italia, specialmente nell’Italia settentrionale, dove era stato più volte. Nel 1837 s’era trattenuto a lungo a Milano e a Venezia, frequentando i salotti della contessa Maffei e della contessa Soranzo. Forse risale a quest’epoca la sua prima idea di Un ménage de garçon. Un milanese, Antonio Lissoni, antico ufficiale di cavalleria, pubblicò una «Difesa dell’onore delle armi italiane» che Balzac avrebbe oltraggiato perché ne Le Marana, racconto giovanile, aveva presentato nel personaggio di Montefiore, capitano italiano dell’esercito napoleonico, un tipo d’avventuriero senza scrupoli. Balzac non aveva inteso affatto offendere le armi italiane e si difese dall’accusa. Nelle discussioni che ne seguirono il tipo dell’ex-ufficiale napoleonico prese sempre maggior consistenza nella sua fantasia; non fu più italiano, ma francese; ed a poco a poco si trasformò in Filippo Bridau e in Massenzio Gilet, due dei protagonisti d’Un ménage de garçon.

  Balzac dovette certamente riuscire a convincere i suoi conoscenti lombardi sull’innocenza delle proprie intenzioni, perché conservò cordiali amicizie al di qua delle Alpi, specialmente fra le signore dell’aristocrazia che «tenevano dietro alle novità francesi». Per la contessa Clarina Maffei ebbe un’ammirazione che fu evidentemente contraccambiata, se il conte Maffei se n’allarmò in una lettera alla moglie. Nel mondo maschile non seppe però suscitare quelle accese simpatie che destò invece nel mondo femminile. Tuttavia le «gazzette privilegiate» del Lombardo-Veneto salutarono il soggiorno dello scrittore francese a Milano Venezia con encomiastici articoli sull’ospite e l’opera sua.

  Un ménage de garçon fu pubblicato la prima volta alla fine del 1842 col titolo: La Rabouilleuse. Apparve allora diviso in due parti: Deux frères e Un ménage de garçon. L’autore stesso fu sempre incerto intorno al nome di battesimo da dare a questa sua creatura. Qualche edizione successiva reca sul frontespizio: Le colonel Bridau. Ma poi Balzac adottò definitivamente come titolo generale del romanzo Un ménage de garçon che meglio d’ogni altro gli serviva per classificare anche questo nel grande quadro della «Comédie humaine», assegnandolo alla categoria delle «Scene della vita di provincia», nella serie «I Celibi».

  Noi abbiamo preferito invece il titolo Il colonnello Bridau, sia perché non siamo vincolati ad alcuna preoccupazione classificatrice; sia perché il colonnello Filippo Bridau è il personaggio centrale del racconto; sia perché costituisce il prototipo dell’ex-ufficiale napoleonico costretto a vivere nella larvata miseria della paga ridotta, del «demi-solde», in continua lotta economica politica spirituale contro la società borbonica ricostituitasi in Francia con la Restaurazione — e questo soprattutto il romanziere volle rappresentare.

  Coloro che avevan fatto la guerra con l’Imperatore non sapevano rassegnarsi a smobilitare i loro spiriti in una torpida quietudine di piccoli borghesi, impiegatucci o commercianti. I giovani ch’erano arrivati rapidamente col loro valore, sul campo, a situazioni invidiabili si consideravano defraudati. Durante l’Impero s’eran convinti che la spada, il coraggio, la fortuna avrebbero dischiuso al loro avvenire la gloria, la ricchezza, i titoli di nobiltà che Napoleone concedeva agli eroi. Crollato d’improvviso il loro mondo di splendori militari, si ritrovarono a vivacchiare d’espedienti o di prepotenza fra gente che li disprezzava e ch’essi disprezzavano. Incapaci di sottomettersi ai nuovi tempi, da insoddisfatti disoccupati divennero torbidi avventurieri. Sterili per la società, dannosi per l’ordine costituito, ribelli ad un regime burocratico che li respingeva, finirono con l’essere la rovina delle loro famiglie, un pericolo per lo Stato. Su questo sfondo allucinante dello sfacelo napoleonico e del rovesciamento delle fortune di tante classi sociali, gli egoismi, le ambizioni, le passioni, le umiliazioni, le sofferenze morali dei personaggi del romanzo balzacchiano acquistano l’energico rilievo d’una realtà ideale, più vera della stessa realtà storica.

  È noto come il Balzac, ad un certo momento della sua attività di narratore, volesse raccogliere in un’architettura unitaria la sua opera romantica. E sognò così di dar vita ad una vasta società fittizia, specchio di quella vera. Sotto il titolo generale di «Commedia umana» classificò i suoi romanzi in tante categorie d’argomenti: Scene della vita privata, Scene della vita di provincia. Scene della vita parigina, Scene della vita politica, Scene della vita militare. Ciascuna di tali categorie comprende a sua volta altri gruppi minori. Pierrette, Le Curé de Tours e questo che presentiamo in veste italiana formano appunto il gruppo de «I Celibi» appartenente alla categoria delle «Scene provinciali». Ma siffatta classificazione, ricalcata sul modello di quelle delle scienze naturali, non ha per fortuna importanza intrinseca per il contenuto dei singoli libri. Tutt’al più, alcune persone d’alcuni racconti ricompaiono negli altri, maglie di collegamento fra i ceti e le famiglie di cotesta società immaginaria. Si tratta d’uno sforzo astratto d’unificazione, per lo più estraneo all’impulso creativo della fantasia dello scrittore. La favola e i caratteri — quando Balzac lavora di gusto — finiscono sempre col prendere il sopravvento sulle sue manie dottrinarie. Se così non fosse accaduto, egli ci avrebbe lasciato una mole d’opere «a tesi» o di «fotografiche riproduzioni d’ambiente» assai discutibili dal punto di vista dell’arte. Invece è riuscito in molti racconti, fra i quali il nostro, a raggiungere grandi altezze artistiche.

  Non potremmo giurare che la smania della dimostrazione morale o dello studio del costume o della pittura veristica non incrini qua e là di venature spurie anche Il Colonnello Bridau; ma si tratta in questo caso di scorie prodotte da una materia incandescente e che non offuscano a lungo né alterano in proporzioni notevoli la potente originalità dell’opera. Le figure campeggiami sulla scena sono così energiche di vita che sopportano anche qualche lieve macchia patinosa nei loro contorni. Pagine deboli ce ne sono, come ce ne sono in Eugénie Grandet e nel Père Goriot; alcune lasciate lì dall’autore che, assillato dalla vastità stessa della produzione in programma, non ebbe il tempo di rivedere con spirito riposato; altre invece da lui desiderate proprio a quel modo, perché corrispondevano al suo piano d’una colossale enciclopedia romanzesca. Tuttavia, nei tre romanzi che abbiamo nominati, la pagina caduca non compromette l’architettura robusta della costruzione né toglie rilievo alle indimenticabili figure che vi si muovono dentro. Sono brevi parentesi grigie nello splendore d’un capolavoro. Chi può dire che una revisione più calma od una più minuta pazienza di lima non avrebbero smussato, impoverendoli d’evidenza umana, i contorni taglienti di tipi, anime, scene, situazioni inconfondibili? Certe scaglie che sembran negligenza dello scultore dànno talvolta al marmo l’impeto necessario a rivelare di colpo la forza d’un sentimento.

  La prima traduzione completa d’Un ménage de garçon, curata da F. Mantella Profumi, uscì a Napoli, editore il Bideri, nel 1905, insieme con gli altri due romanzi de «I Celibi», col titolo «I due fratelli»; e soltanto la seconda parte ebbe come sottotitolo quello di «La casa d’un celibe». Un’altra edizione de «I Celibi» — curata da Alfredo de Prospero — vide pure la luce a Napoli, pei tipi di Salvatore Romano. Nel 1907 i Fratelli Treves di Milano pubblicarono «Casa di scapolo», senza indicazione di nome del traduttore, nella «Biblioteca amena». La più recente versione italiana, anch’essa anonima, è quella del 1928, con lo stesso titolo della precedente, edita da «Corbaccio» di Milano. Tutte hanno certamente contribuito a diffondere anche in Italia, pur fra lettori che non abbiano grande dimestichezza col francese, una delle opere più singolari della letteratura balzacchiana; ma si tratta per lo più di traduzioni che, per quanto diligenti nel ricalcare la frase originale, non si propongono affatto di rendere evidente, nei limiti del possibile, lo stile dello scrittore e spesso, per cieco amore di fedeltà, pèrdono di vista quello che l’autore volle precisamente esprimere.

  Valgano pochissimi esempi. Quando, nei primi capitoli, il piccolo Giuseppe Bridau s’insinua inosservato nello studio dello statuario Chaudet dove una dozzina di giovanotti scanzonati stanno disegnando nell’assenza del maestro, il primo che s’avvede del ragazzo gli getta per beffarlo briciole di mollica di pane come fanno le massaie ai pulcini. E accompagna il gesto di commiserazione con le parole: «Petit, petit!». I traduttori, concordemente, si tengono alla lettera: «Piccolo, piccolo!». Ma in quest’esclamazione senza senso specifico il significato canzonatorio dell’espressione è scomparso. Le massaie italiane, ai pulcini, dicono: «pío, pío!». E così era necessario tradurre. Altro caso. A Flora Brazier fu affibbiato il nomignolo di Rabouilleuse perché da bambina il suo mestiere era quello d’agitar l’acqua dei fossi con una frasca (rabouiller) per facilitare la pesca dei gamberi. I traduttori preferiscono non tradurre e riproducono tale e quale il soprannome francese. Ma come fa un lettore italiano, pratico dell’uso corrente di quella lingua, a rendersi conto dell’offesa atroce che a Flora, divenuta una bella donna, la più elegante d’Issoudun, l’amica d’un vecchio nababbo, fanno i pettegoli del paese continuando a chiamarla col nomignolo che ricordava a tutti lo spregevole mestiere esercitato da bambina? In Italiano esiste una parola che per le campagne acquitrinose è adoperata nello stesso senso di rabouiller: sciaguattare. Perché non approfittarne? Non pretendiamo neppur noi d’aver raggiunto l’espressione perfetta; ma abbiamo cercato d’avvicinarci il più possibile all’intendimento dell’artista.

 

  AVVERTENZA - pagina 42, ed in altre in séguito, si parla della «Colonna», semmai tra indicazione: si tratta della Colonna Vendôme, situata a Parigi nel centro della piazza omònima. — Là dove è ricordalo poi il «gran libro», si deve intendere, naturalmente, il gran libro del Debito pubblico, tenuto dallo Stato che ne garantisce le rendite ivi registrate.

 

 

  Paolo Maggio, Vite prodigiose. Balzac e Mussolini, «Il Popolo di Romagna. Settimanale della Federazione provinciale fascista forlivese», Forlì, Anno X, N. 24, 11 Giugno 1932, p. 3.

 

  Esiste nella vita luminosa e fantastica di Balzac qualche cosa che ha una strana eguaglianza con quella di Benito Mussolini.

  Leggendo la vita del grande romanziere e pensatore francese, tradotta con gusto e squisitezza da Falcone Lucifero, c’è da restare pensierosi sin dalla, prima pagina.

  «E’ una cosa davvero melanconica e che fa pensare alla umana miseria delle famiglie e della società il fatto che quasi sempre i primi bagliori d’un grande destino passano inosservati.

  Nessuno è pronto ad accogliere il genio, che, come l’amore, per imporsi, deve far violenza!

  I parenti ed i contemporanei vivono accanto ad una gloria che nasce, senza nessuna emozione ...».

  Balzac sin da fanciullo, e poi da adolescente, credeva fermamente nel suo grande avvenire: la lotta con la vita — terribile per tutti gli uomini che sentono di essere al disopra della grigia e corrente umanità — non poteva far vacillare quella forza che possedeva il grande francese nel credere nell’assolutismo del proprio io e nel trionfo del domani.

  Credere, terribilmente credere in se stessi, ecco la migliore bandiera da issare per poter giungere!

  Della vita di Mussolini noi ben poco conosciamo: intendo dire con questo che le lotte dolorose che un individuo ha avuto con la propria anima sono momenti che difficilmente un altro può afferrare! Balzac e Mussolini vissero il periodo della loro prima giovinezza con la visuale di una gloria da guadagnare a qualunque costo. Il Francese conobbe tutte le amarezze della vita, tutte quelle feroci disillusioni che il destino sa donare ingenerosamente ai poeti; l’Italiano nostro non volle assoggettarsi alla vita di maestro di paese, e così conobbe la vita randagia ed il tormento di quell’esistenza che obbliga l’essere a straziarsi nella soluzione di un problema quotidiano da risolvere: vivere!

  A questi ribelli, che poi forma­no il destino dei popoli, il fato, qualche volta, destina gli allori!

  Di Balzac i genitori volevano farne un buon notaio, così come di Mussolini si cercava di farne un pedagogo; c’è da credere che la contrarietà dei padri, per questi due spiriti ribelli, doveva essere di uguale intensità e tenore! Lo spirito di ribellione nei due uomini dovett’essere identico, e se i Due si fossero lasciati trascinare dalle familiari seduzioni della vita borghese, due sciocchi nomi di sconosciuti avrebbero occupato qualche rigo nei polverosi e gialli registri dello Stato Civile!

  Qualche volta bisogna insorgere […].

  E’ necessario aspettare il posto nel mondo si ha diritto ad avere quando si ha cervello e volontà!

  Quest’ attesa costringe Balzac ad improvvisarsi tipografo e Mussolini muratore!

  Ma che vale distrarre qualche tempo della vita nei mestieri più comuni quando è proprio il tempo che si cerca ingannare?!

  Io non ho letto nessuna vita di Mussolini (questo perché ho la certezza che i secoli potranno degnamente compilarcela) ma, conoscendo per detto degli episodi e delle situazioni, e non peccando di fantasia, ho saputo costituire da me il passato del grande Italiano. […].

  E’ attraverso quello che altri han vissuto e sofferto che si può soltanto arrivare a penetrare nell’uomo che è arrivato alla celebrità!

  Balzac soffrì, fu deriso, ma nessuno, nemmeno per un istante solo, riuscì a distoglierlo dall’idea di essere un genio, di essere uno di quelli destinato a raggiungere la vetta!

  L’anima dell’artista si ribellò sempre ad ogni forma di vita che non fosse consona per il suo avvenire! Miserie, lotte e disillusioni non lo abbatterono mai!

  Poiché alcuni suoi scritti, presentati con un pseudonimo, non ebbero fortuna Balzac volle presentare il suo autentico nome, ed il nome s’impose, trionfò, divenne lo scrittore dell’epoca!

  Ma quanti dolori prima di arrivare! E qui è la forza e la prerogativa del genio: saper elevarsi e ridere anche quando l’animo, se ne avesse la forza, distruggerebbe il mondo.

  Balzac con i suoi romanzi apporta nei primi dell’ottocento una rivoluzione nel campo del pensiero; fu combattuto, ma si impose: trionfò con superbia!

  La miserevole critica, anche a quei tempi grigia e sorda, tentò contrastare la forza vittoriosa di Balzac ma il popolo francese decretò al suo rinnovatore il trionfo!

  E Mussolini?!

La vita del Capo del Popolo Italiano non ci ricorda qualche cosa di queste lotte che travagliarono la esistenza di Balzac?!

  Nel campo del pensiero ogni veduta nuova ogni rinnovamento significano rivoluzione; politica e letteratura sono però le scienze più affini; il cuore dell’uomo, la psiche!

  Nella vita degli uomini che credono nel proprio domani la materialità che serve all’esistenza viene guardata con sommo disprezzo.

  Per tanti la tavola è una necessità, un punto d’obbligo, un sommo ideale, l’essere che ha bisogno di spezzare gli argini per non seguire la corrente impreca ma non invidia: tutto sarà compensato!

  Il bisogno che abbatte gli esseri comuni è sprone alla perseveranza negli uomini di alto ingegno! Soltanto un passato che ha sforato quello comune agli eletti, ai tenaci ed ai ribelli può far comprendere il tormento delle esistenze prodigiose che formano le pietre basilari delle più audaci costruzioni del progresso umano! […].

 

 

  Attilio Momigliano, Romanzi e racconti. La “Nuova Biblioteca Amena”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 107, 5 Maggio 1932, p. 3.

 

  Come Barrili dominò nella schiera degli Italiani [nella «Biblioteca Amena» dei Fratelli Treves], così Zola in quella dei Francesi; relativamente tardi fu ammesso Balzac, e prima di lui Ohnet e Feuillet. Ciascuno di questi nomi ci richiama a un aspetto della nostra cultura di allora.

 

 

  Antonio Monti, Poesia del Risorgimento. Paginette illustri di album femminili, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 82, 5 Aprile 1932, p. 3.

 

  Quello di Giulietta Pezzi è certamente l’Album più storicamente notevole fra quanti io ne conosca. Ma può esser chiamato Album questo grosso libro stipato di autografi, di ritratti, di ritagli di giornale? Esso risponde in ogni anodo alla natura di questa patriota che ebbe una sensibilità e una vibrazione di dolore veramente straordinarie. Le sue liriche, i suoi romanzi, i suoi drammi, ispirati in parte agli ideali mazziniani, sono spesso laceranti singhiozzi d’amore, sono sfoghi a volte zingareschi, e si capisce perfettamente come anche il Cattaneo l’abbia osservata con simpatia e come il Balzac l’abbia ammirata per il suo ingegno ed anche, — perché no?, — pei bei ric­cioli d’oro che le scendevano sulle spalle. La chiamava l’Ange, ma un angelo essa fu specialmente per un uomo di grande ingegno, al quale offrì senza esitazione la fiorente sua giovinezza, riportandone infiniti dolori.

 

 

  Paolo Orano, La bella crisi, «Vedetta Jonica. Organo della Federazione provinciale fascista», Taranto, Anno III, N. 8, 22 febbraio 1932, p. 3.

 

  Abbiamo tutto importato durante un quarto di secolo cd era inevitabile e soltanto l’eccesso ce ne ha dato vergogna. Dall’eccesso si discende ad un bisogno di correggersi che è come un raumiliarsi, un farsi estranei allo stranierismo. Da questo momento si comincia a diventare interessanti anche per gli stranieri. Il paese d’esportazione s’avvede e preoccupa del mercato, quando questo comincia a mancargli. Importavamo l’estetismo, l’introispezione, il genere paesano — Balzac è stato un paesanista —, il lirismo solipsista ed egoarchista; importazione il socialismo.

 

 

  Paolo Orano, Protagonista: il giorno, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 110, 9 Maggio 1932, p. 3.

 

  Il giornale ha fatto la sua entrata trionfale nel romanzo con Balzac. Da un capo all’altro della «Comédie humaine» il giornale quotidiano è elemento essenziale della vita, degli interessi, delle opinioni. Ai suoi personaggi Balzac attribuisce disinvolto la qualifica di lettore di questo o quel giornale, come la moda di un certo abito. «La moglie del capitano, — in Un début dans la vie, — è abbonata al «Courrier Français». Il giornale preferito, — in Un ménage de garçon, — determina risse duelli morti e dà campo a pagine del più vivo attuale interesse per lo psicologo, per lo storico, per l’uomo della strada. Del giornalismo, come riconosciuta funzione missione necessità mezzo d’arrivo speculazione, si discute in parecchi romanzi balzachiani. Un grand homme de province à Paris è un vero e proprio breviario giornalistico. Ne L’illustre Gaudissart il commesso viaggiatore rifà il verso al demagogo gonfio di furbizia in argomento. «Signori, la stampa non è né uno strumento, né un commercio. Veduta sotto il rapporto politico, la stampa è un’istituzione ... Dunque, noi dobbiamo esaminare qui se essa sia utile o nociva, da incoraggiarsi o da reprimersi, se debba essere imposta o libera: questioni gravi ... Nous marchons à un abîme ... To’! Tutti gli oratori «font marcher la France vers un abîme». Dicono così e parlano del carro dello Stato, di tempeste e d’orizzonti politici ...». C’è, insomma, già la pratica consumata, l’esperienza diretta e adulta dei rapporti tra giornalismo Parlamento Governo.

  In Balzac tutto è presente ed evidenza, tutto è del giorno. Questo senso dell’attuale ciascun suo personaggio lo porta sempre con sé e lo manifesta come il fiore il proprio profumo, il corpo il proprio peso e la propria fisionomia. Il passato è fatto in ciascuno respiro aspetto espressione. La curiosità di quel gran numero di creature così diverse va sempre all’immediato e all’attingibile. Il passato non si distacca isolandosi, ma diventa motivo di sviluppo il cui rilievo lo fa vicinissimo a chi legge. In questa potente abilità di tradurre anche la serie degli avvenimenti formativi in concreta presenza sta la ragione del fascino imperituro che è a un tempo romantico e veristico. Sin dal principio Balzac guardò alla sua impresa con gli occhi del pubblico. Capì che il lettore ha bisogno di far proprio il libro, d’investirsi delle vicende narrate, di assorbire nella sfera della propria vita persone cose sentimenti ideali, che insomma il successo stava nell’avvicinarsi il più e il meglio possibile alla suggestione del fatto di cronaca, perché in questo chi legge subisce l’illusione di esserne partecipe e la più vivace emozione.

  Balzac è più vivo oggi di ieri e la sua azione si propaga nello spazio e nel tempo in ragione dello svilupparsi del senso cronistico. Era dunque naturale che un romanziere del paese e anche un po’ della genìa di Balzac desse, un secolo dopo, una ancor più decisa importanza al «giorno» in un tentativo novissimo di romanzo. Jules Romains non soltanto fa oggi della cronaca la materia prima dell’opera sua, ma innalza il giorno a protagonista.



 Patrizio Patrizi, Balzac e la Sand, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CXC, N. 39, 8 Febbraio 1932, Pag. II.

 

 ... «Io non ho mai mirato in alto come te. Tu vuoi scrivere per il futuro ed è giusto! Io ... credo che fra cinquant’anni sarò completamente dimenticata e forse anche duramente misconosciuta ... E’ il destino delle cose che non sono di prim’ordine. Il mio ideale è stato piuttosto di agire sui miei contemporanei o almeno ... su qualcuno per farlo partecipe del mio ideale di dolcezza e di poesia ...».

 Così scriveva settantaduenne dal suo eremo di Nohant con tenerezza e malinconia insieme, Giorgio Sand.

 Cinquant’anni sono trascorsi dalla sua scomparsa — per essere esatti cinquantaquattro —. Ma non è dimenticata nè misconosciuta come temeva.

 Sarebbe inutile adulazione asserire che Giorgio Sand sia letta oggi come cinquant’anni fa. Ma Lelia, Lavinia, Valentina, Metella, Indiana, L’Ultimo Aldini, Consuelo, nei quali sono affrontati con spregiudicatezza disinvoltura problemi psicologici e morali, hanno ancora editori, lettori e lettrici il che fa testimonianza della vitalità di questa romanziera romantica così prodiga di ogni dono.

  Se Tourghenieff ne fu tanto innamorato da non esitare ad affermare non esistesse sulla terra un essere come lei certo è che tutti i maggiori scrittori e artisti del suo tempo furono con lei nei più cordiali rapporti e resero omaggio alla sua grazia e al suo talento.

  Alessandro Dumas figlio la predilesse.

  Flaubert, pur così diverso da lei nei gusti, nell’estetica e nel carattere trovò in lei una creatura soave che lo amò come si ama un figlio adottivo.

  Aveva poco più di vent’anni quando cominciò a scrivere romanzi e novelle.

  Riuscì subito a farsi notare in un momento in cui i maggiori romanzieri si contendevano la popolarità e la fama nel tumulto della vita parigina e Hugo e De Musset e Stendhal e Balzac e Delcroix (sic) riempivano Parigi del loro nome.

  Al Figaro ebbe calde cordiali accoglienze e l’Indiana con cui fece il suo «debutto» incontrò il favore del pubblico.

  Certo la sua audacia spregiudicata spesso irritò e talora anche provocò violente reazioni ...

  Che importa?

  — Che importa, diceva a Dumas, che uno abbia centomila nemici, se è amato da due o tre amici buoni? [...].

  Quale tempra e quale cuore avesse Giorgio Sand lo dice il suo epistolario pubblicato dieci ann dopo la sua morte.

  Le Nouvelles Littéraires pubblicavano pochi mesi fa alcune lettere di Giorgio Sand e di Balzac.

  Un solo grande spasimo ebbero comune: la febbre del lavoro che li divorò.

  E’ lo stesso autore della Commedia Umana che narrando all’adorata Eva un suo breve soggiorno presso Giorgio Sand scrive :

  «Ella è a Nohant da un anno molto triste e lavora enormemente. Ella stessa conduce una vita press’a poco come la mia. Si corica alle sei del mattino e si alza a mezzogiorno. Io mi corico alle sei della sera e mi alzo a mezzanotte. Ma, naturalmente mi sono uniformato alle sue abitudini e per tre giorni abbiamo chiacchierato dalle cinque del mattino, sicchè io l’ho più conosciuta, e lei altrettanto, in queste tre conversazioni che durante i quattro anni in cui ella ... amava Giulio Sandeau e dopo il suo legame con De Musset».

  Con quest’ultimo, secondo Balzac, ella è stata ancor più infelice che con Sandeau.

  « Ed ora, eccola in piena solitudine condannando nel tempo stesso il matrimonio e l’amore perché nell’uno e nell’altro ella non ha avuto che dei disinganni ...».

  I due grandi spiriti si erano compresi.

  Ella sentì per Balzac tutta l’ammirazione ch’egli meritava. Lo ha dimostrato quando scrisse:

  «Il romanzo è stato per Balzac il quadro e il pretesto per un esame quasi universale delle idee, dei sentimenti, dei costumi, delle abitudini, delle legislazioni, delle arti, dei mestieri, dei luoghi, insomma di tutto ciò che costituì la vita dei suoi contemporanei».

  La corrispondenza fra lei e Balzac è piena di grazia di amabilità e di civetteria.

  Si scambiavano le loro impressioni, scusandosi umiliandosi.

  «Ecco, signora, l’esemplare (era Luigi Lambert) — scrive Balzac a Giorgio Sand — che vi ho promesso del mio libro, se libro c’è giacchè io sono giunto a non vederne che i difetti e i pensieri che vi sono male espressi».

  «Allora verrò io stessa a ringraziarvi e a portarvi Valentina una ben cattiva cosa dopo tante belle cose che avete scritto voi ...».

  Un’altra volta inviandogli «Indiana» ella gli aveva scritto:

   «Graditelo; ma non leggetelo. Mettetelo in un cantuccio come un nostro ricordo; ma non scuotetene mai la polvere ...».

  Quanto gli fossero graditi gli inviti della graziosa camerata lo dice questa letterina:

  «Cara, ricevo la vostra amabile lettera oggi. Sarò sabato verso le sei della sera pronto a vivere sotto le leggi della Castellana di Nohant.

 Prendete intanto tutto ciò che io metto qui di grazioso e di vecchi ricordi e mi renderete felicissimo».

 Tutta la corrispondenza fra Balzac e Giorgio Sand, insomma, trabocca di galanteria, di amabilità e di tenerezza.

 Erano due spiriti così elevati, così superiori che in essi sempre prevalse la equità e la bontà.

 E’ Giorgio Sand che scrisse un giorno di Balzac e bene:

 «Dire di un uomo di genio che egli fu essenzialmente buono è il più grande elogio che io sappia fargli ... La pazienza e la dolcezza sono la forza. Nessuno è stato più forte di Balzac».

 Ella gli rese giustizia in vita e dopo.

 Ecco perché bisogna essere indulgenti con questa consolatrice che nei momenti dello spasimo seppe trovare la parola dolce del conforto e anche la carezza che placa e incoraggia.

 

 

  Patrizio Patrizi, Balzachiana. Laura Surville, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CXC, N. 352, 18 Dicembre 1932, pag. III; «Il Regime fascista», Cremona, Anno XI, N. 304, 22 Dicembre 1932, p. 3.

 

  Ella fu — chi l’ignora? — la sorella diletta, vezzeggiata, adorata di Onorato di Balzac: la, sua prima fedele confidente, la sua prima e più calda ammiratrice. Non c’è attributo gentile del quale egli non l’abbia adornata. Tutta la corrispondenza balzachiana è infiorata delle più tenere espressioni di ammirazione e d’affetto per l’amata, sorella.

  «Allo scrigno, le scriveva un giorno, che contiene tutto ciò che mi piace, all’elixir della virtù, della grazia e della bellezza, al gioiello, al fenomeno della Normandia, alla perla di Bayeau, alla fata di San Lorenzo, alla vergine di via Teinture, all’angelo protettore di Caen, alla dea di tutti gli incanti, al tesoro d’amicizia: a Laura».

  Di due anni più attempata di lui, erano cresciuti insieme nella prima infanzia, allevati dalla stessa nutrice, nella stessa atmosfera di dolcezza e fin d’allora la loro tenerezza fraterna si affermò e rinsaldò.

  Se Laura ebbe il dono della grazia e della bontà, Onorato ebbe quello della generosità e della cavalleria.

  Quante volte si attribuì le piccole mancanze della sorella per risparmiarle una punizione! Laura lo ricambiava con impareggiabile tenerezza, ascoltandolo con deferenza e con stupita ammirazione, plaudendo ai suoi progetti, incoraggiandolo nei suoi sogni di gloria e di grandezza. Se questi spesso suscitarono motteggi ironici dagli altri familiari, Laura fu sempre sollecita a compensarlo con una dolce parola e a stimolarlo, a esaltarlo, a dargli la sensazione del sicuro successo, ispirandogli la fede nell’avvenire.

  — Io sogno la gloria, la fama. Voglio diventare un grande scrittore! — egli le diceva.

  — Lo sarai — ella gli rispondeva. — Ne sono sicura.

  Fu Laura la confidente del suo primo passo letterario. A lei, infatti, inviò segretamente il piano della sua prima opera, la tragedia di Cronwel (sic), scrivendovi nella prima pagina: «Per te sola!». Non voleva presentare l’opera alla famiglia che compiuta. I suoi due sogni supremi di divenire uno scrittore celebre e di ispirare un grande amore, furono da lei raccolti, accarezzati, addolciti, incoraggiati.

  Per lei egli non ebbe segreti. Sufficientemente intelligente per comprendere l’altezza intellettuale del fratello, fu la più dolce propagandista del suo genio e intorno a lui cercò di aumentare la cerchia degli ammiratori. Nè il matrimonio che ella fece con l’ingegnere Surville, né la distanza, intiepidirono la loro tenerezza.

  Balzac aveva bisogno di sentire vicino al suo cuore una creatura che avesse fede in lui e continuò a far di Laura la sua confidente. E Laura sempre buona e sollecita, spesso anche intervenne nei contrasti con la madre, aspra e bizzarra, in favore del fratello; lo trasse sovente dalle strettezze delle angustie finanziarie, cercò di spianargli la strada come meglio potè, lo confortò con consigli pieni di saggezza e di bontà, trovò la parola della, consolazione nelle ore dello sconforto, indulgente con le sue debolezze, materna nelle ore dell’angoscia, stimolatrice incessante a perseverare nella sua marcia trionfale per dure che fossero le avversità, grandi e svariate le difficoltà. E’ la buona Laura che ci ha lasciato un magnifico libro pieno di curiosità e di interesse sul suo caro grande fratello. E’ la sua penna sottile e garbata che ha tracciato di Onorato di Balzac un profilo dei più fedeli anche se ha potuto urtare qualche suscettibilità.

 

* * *

  Sull’opera del grande Maestro del romanzo che nulla lasciò inesplorato dei segreti del cuore e dei misteri delle umane vicende, c’è tutta una biblioteca che oramai la «Casa di Balzac» non è più capace di contenere.

  Le biografie, i libri aneddotici, le curiosità critiche ed epistolari, non si contano più, e le biblioteche balzachiane continuano ad impinguarsi di nuovi libri, spesso magari frivoli e pettegoli, tutti tendenti a sfiorare qualche tema ancora un po’ oscuro o magari un amore poco noto o un progetto tramontato ...

  Il mazzetto di lettere di Laura Surville che oggi vede la luce, se vogliamo essere sinceri, nulla proprio nulla, aggiunge alla gloria del grandissimo scrittore. Volendo essere veramente sereni ed obiettivi, si potrebbe piuttosto osservare, non senza meraviglia, che mentre Laura fu così calda, appassionata e costante ammiratrice del genio del fratello, in questa sua corrispondenza con la baronessa De Pommereul, sia pure intima amichevole e non destinata alla pubblicità, assuma qualche volta un tono critico e cattedratico ben diverso sull’opera del fratello, tanto da scrivere un giorno, con severa disinvoltura, che in Consiglio «non c’è fondo», un’altra volta che la Borsa manca di psicologia, e un’altra volta ancora che Onorato «potrà arrivare un giorno a una reputazione durevole con qualche opera di ordine superiore a quelle che ha prodotto fin qui ...».

  E badiamo che tutto questo è stato da lei scritto fra il 1831 e il 1837, vale a dire nel periodo in cui più sfolgorò il genio balzachiano ...

 

***

 

  Ma per quanto acuti e recisi, si tratta di giudizi, di sfuggita. Di Balzac in queste lettere all’amica ella parla poco e incidentalmente. Ma se di lui parlano poco queste lettere indirizzate dalla spirituale parigina all’amica di provincia, parlano molto di lei o piuttosto ci fanno meglio conoscere lo spianta arguto e vivace di questa graziosa creatura che tanto amò il suo grande fratello che non ebbe segreti per lei, che con lei amava spesso discutere delle opere ch’egli aveva sul telaio, che da lei accettò consigli di modificazioni ascoltando volontieri il suo giudizioso parere e la sua logica assennata. Incaricata dalla baronessa De Pommereul di una infinità di commissioni mondane, ella, si faceva in quattro. Scorrazzava per Parigi intere giornate irrompendo in tutti i magazzini per far raccolta di campioni di modelli e per acquisiti giudiziosi per l’amica lontana. Sicchè la sua corrispondenza è un cicaleccio sottile, arguto, seducente, dal quale pare balzi viva e fresca la figurina della romantica scrittrice.

  Un fruscio di sete e di piume, di nastri e di veli aleggia in ogni pagina. E’ una donnina di buon gusto che parla.

  Quante scrittrici, che oggi vanno per la maggiore, potrebbero prendere a modello per parlar di moda questa graziosa e spirituale creatura così piena di buon gusto e di raffinato senso estetico, sagace, giudiziosa e prudente che ama far i conti con precisione ed esattezza, e. senza troppo assoggettarsi alla moda cerca di intonare i colori delle stoffe ai colori naturali per fonderne la grazia e la bellezza in un quadro armonico piacevole.

  Il problema dei colori, dei disegni dei tessuti è per lei il problema capitale per una donna che voglia piacere: «Gli uomini — scrive un giorno all’amica — non capiranno mai l’importanza e la gravità di queste cose, mentre noi ben sappiamo quale pericolo corriamo scegliendo male una stoffa: quello cioè di apparire goffe e donne di cattivo gusto!».

  E un’altra volta e sempre argutamente le osserva: «Pensate amica mia che il libero arbitrio è stato dato alle donne perché sembrino sempre più giovani e piacenti ... perché è con questo mezzo che riusciranno a far fare ai loro mariti tutto ciò che vorranno!».

  Così scriveva Laura Surville all’amica inviandole, fra nastri e merletti, i due volumi delle «Scene della vita di provincia» del suo illustre fratello, allora allora usciti a stampa e che avevano suscitato a Parigi tanta ammirazione. Se qualche volta è severa nei suoi giudizi sull’opera di Balzac, non ammette però che lo siano gli altri. E alla baronessa che si è abbandonata a qualche giudizio avventato replica prontamente:

  «Onorato ha la pretesa (che sarà bene o male giudicata) di dipingere i vizi, le virtù della sua epoca, di fare in una parola il quadro completo del suo tempo, attingendo a tutte le classi, uomini, donne, piccoli, grandi a tutte le professioni, che reggono, sostengono, nutrono la società. Ma noi non potremo giudicare di questo insieme che quando l’opera sarà compiuta. Frattanto, conoscendo il pensiero che dirige i suoi lavori, ogni volta che io vedo un vizio, una virtù, uno stato d'animo dipinti con verità col colore del tempo, io dico a me stessa: ancora una pietra per il grande edificio».

  Così scriveva con grazia e semplicità questa donna spirituale ed assennata. Ma questo mazzetto di lettere di Laura Surville arrivano troppo tardi perché il suo aroma possa ancora inebbriarci e aggiungere una sfumatura al titano del romanzo.

  Meglio, quindi, che attardarsi ini questi vacui cicalecci, accostarci all’opera completa del grande Maestro, che una casa editrice coraggiosa, la Casa milanese «Corbaccio», ricca di iniziative e di buon gusto, ha portato a conoscenza degli italiani in una bella e completa edizione che è un omaggio monumentale al genio del grande scrittore ben degno di tanto onore.

 

 

  Camillo Pellizzi, Ragioni del borghese moderno, «L’Italiano. Periodico della rivoluzione fascista», Bologna, Anno 7, N. 11, Aprile 1932, pp. 3-13.

 

  p. 7. Noi borghesi di quaggiù, col matrimonio e il letto grande, lo avevamo risolto da secoli; a un di presso e nella massa, come noi sappiamo che si posson risolvere queste cose. Balzac, che era un genio particolarmente borghese, lo capì benissimo e ci scrisse un libro.



  Ugo Ricci, “Quando nacqui mi disse una voce …”, Napoli, Editrice Tirrena, s. d. [1932].

 

  Al termine del capitolo (pp. 297-298) dedicato a quanto pubblicato dall’autore nell’anno 1928, troviamo questi versi di commiato:

 

Libri che avete gli occhi miei distrutti,

se il mio spirito avete alimentato,

di prendere commiato

da voi tutti,

sappiate, o libri, che m’ingiunge il Fato. […].

 

Addio Pari di Francia, libellisti,

colonnelli, notai: folla remota

di teste a pera e di mantelli a ruota

che Stendhal e Balzac ebbe a cronisti; […].

 

 

  Erminio Robecchi Brivio, Onorato di Balzac, in Onorato di Balzac, Il medico di campagna … cit., pp. 7–12.

 

  Nacque in Tours il 27 floreale anno VII (16 [sic] maggio 1799) il giorno di Sant'Onorato; gli venne, perciò, imposto questo nome.

  Suo padre, oriundo di un villaggio della Linguadoca, stabilendosi a Tours, aveva assunto il cognome di Balzac, derivato da Balssa o Balsa ch’era il suo. Il figlio, nel 1836, lo nobilitò con quel di che lo faceva quasi credere un discendente di quel Gian Luigi di Balzac, celebre letterato del seicento. Ciò non toglie ch’egli fosse un vero figlio del popolo: e del popolo ebbe tutta la forza, l’irruenza e la spavalderia.

  Allievo del collegio di Vendôme, sbarca ancor giovinetto a Parigi ed incomincia una vita di tentennamenti, lottando con la più atroce miseria. Alloggiato in una soffitta, scrive, dal 1822 al 1828, volumi su volumi di romanzi, di studi storici, di teatro, ecc. Ha per collaboratore il Saint-Alme, in arte Viellerglé. Molti libri sono puramente suoi ed egli li segna con gli pseudonimi di Orazio di Saint-Aubin o di Lord Rhoone.

  Era un lavoratore indefesso ma aveva una debolezza. quella di credersi ciò che non era. Questo gigante della letteratura si credeva un grande finanziere, un genio in fatto di affari e affari ne fece, ma di così rovinosi che l’obbligarono a lavorare tutta la vita per pagare i debiti della giovinezza.

  S’improvvisò stampatore, editore, fonditore: tutto gli andò a male e, per pagare i debiti, non gli rimase che la penna. Invece di spararsi, come avrebbe probabilmente fatto un nobile nel suo caso, prese quella penna e, con volontà erculea, in vent’anni di indefesso lavoro, scrisse quaranta e più massicci volumi che sono il vero specchio dell’ottocento e degni del loro titolo generico, la Commedia Umana, ch’egli più tardi diede, a quest’opera poderosa, dove tutta l’umanità e studiata, vivisezionata e analizzala con una potenza di invenzione e una perspicacia psicologica più uniche che rare.

  E’ inutile ch’io qui stenda la nota dei capolavori che va dal 1827 con Les Chouans, opera pittorica e drammatica ad un tempo, fino al Deputato d’Anis (sic) del 1848.

  Il vero successo lo riportò nel 1830 con La pelle di Zigrino che destò scalpore e lo pose in prima linea. Da allora, ininterrottamente, i capolavori sgorgarono dalla sua penna. Mi basti citarne qualcuno: Il curato di Tours e Luigi Lambert (1832), Eugenia Grandet (1833), La ricerca dell’assoluto (1834), Papà Goriot (1835), Cesare Birotteau (1837), Il curato del villaggio (1839) Modesta Mignon (1844), Il cugino Pons (1846) La cugina Betta (1847).

  Dopo il 1848 non scrisse quasi più nulla Si sposò con Madama Hanska (La straniera) e morì a Parigi il 20 Agosto 1850.

  La sua spoglia mortale, venne inumata al Cimitero del Père Lachaise, il Pantheon degli illusi francesi e stranieri morti a Parigi, e su quella tomba non vi sono che un nome, un busto, opera pregevolissima di David d’Angers, e un libro chiuso: la Commedia Umana, che sembra schiacciarla.

  Balzac non era uno scrittore nel vero senso della parola. scriveva irregolarmente, pesantemente, senza note personali: era una macchina che registrava quello che sentivano i suoi personaggi e, in fatto di stile, è molto inferiore a parecchi suoi contemporanei. Questo spieghi la difficoltà che molti provano nel leggerlo, poiché si trovano spaesati, sbalestrati nelle prime pagine aride e senza prospettiva ma, una volta presa la mano, capito il metodo, il cielo si dirada, le pagine corrono e se ne vorrebbero leggere altre, altre infinite. La potenza del suo stile non si dimostra in sé, ma per quello che fa dire o dice dei suoi personaggi.

  Mente poliedrica, quadrata, perfetta, ha una visione della vita tutta sua: sociologo, moralista, economista, filosofo, uomo politico e d’azione, mille facce dello scibile umano s’innestano una sull’altra, variano, si piegano, si spezzano e, quando il caleidoscopio è finito, si cercano i nomi dei sociologhi, dei moralisti, degli economisti, dei filosofi, degli uomini politici o d’azione che ci hanno incantati, ma non ve n’è che uno: Balzac.

  Uomo rappresentativo di un’epoca, suscitatore di un mondo, non sconosciuto o empireo, ma un mondo dove tutti avremmo potuto vivere e dove, forse, ci saremmo anche trovati abbastanza bene. Creatore di figure tutte limpide e perfette, disparate l’una dall'altra, ma tutte precise, di cui giureresti che, come Ibsen, egli poteva contare i bottoni, della giacca e, non solo lui, ma anche i suoi milioni di lettori.

  Pittore di costumi, aveva il dono della vita, della vita privata, in particolare, con le sue piccole e grandi esigenze brutali e volgari, Pittore della donna come pochi ce ne furono, di tutte le donne: dalla cortigiana alla vecchia zitella inacidita sognando l’uomo, per tutte ha buone parole, tutte moralmente le accarezza come un medico delle anime che sa comprendere e perdonare.

  Plebeo, nel miglior senso della parola, scrisse il poema, senza metri e senza ali, del secolo scorso: cantò, in luogo di Dio, l’altro dio terreno: il Denaro.

  Il denaro è una forza spaventosa per Balzac. Divorato lui stesso dalla sfortuna e dal desiderio insaziato di possedere per godere, ricco di fantasia, tra milionari, affaristi, speculatori, gente più o meno losca, sembra se la goda e conta i marenghi di cui il tintinnio lo persegue atrocemente, crea le sue figure immortali di Rastignac, di Trailles, di Marsay, di Vaindenesse (sic), di Luciano di Rubenpré (sic).

  Aveva un metodo tutto suo personale di lavoro. Buttava giù trenta o quaranta cartelle in cui riassumeva tutto il romanzo. Le mandava al tipografo che le componeva e, sulle, bozze, innestando, aggiungendo e variando, le pagine diventavano cento e più. Di nuovo ricominciava il giuoco e così, dopo quattro o cinque correzioni, il lavoro poteva dirsi compiuto essendo puramente variato il numero delle pagine che, da trenta o quaranta, eran diventate trecento o quattrocento e più.

  Quello che aveva scritto di pura fantasia diventava, ipso facto, per lui, pura verità. Alla sorella che lo rimproverava perché in Eugenia Grandet c’erano troppi milioni rispondeva imperturbato: «Come sei bestia, ma se la storia è vera cosa vuoi tu che faccia io meglio della verità!».

  Uomo vanitoso all’eccesso, un po’ troppo popolo, con le sue virtù e i suoi difetti, fu un buon uomo, in fondo, gioviale ed allegro, lo dimostrò anche con quei Contes drolatiques [4] che lo resero fratello del conterraneo dottor Rabelais, lavoratore indefesso e, con lo Shakespeare, il più grande creatore di tipi che abbia onorata l’umanità.

  Sulla fortuna di questo grande tra noi v’è il bel libro di Giuseppe Gigli: Balzac in Italia (Treves, Milano, 1920) in cui sono riportale tutte le traduzioni italiane delle opere dell’autore del Medico di campagna. A dir il vero, queste traduzioni sono pochine e piuttosto scadenti. Il Gigli chiude il volume con l’augurio che anche in Italia si provveda a tradurre l’opera omnia di Balzac e, forse, fu il suo consiglio che invogliò la Casa Editrice Corbaccio di Milano ad iniziare la traduzione di tutte le opere, ma, dando un’occhiaia alla traduzione di Amilcare Locatelli de Il medico di campagna (volume XIV della collezione), mi avvedo che vennero alleggeriti molti periodi sì da diminuire il testo di una quarantina di pagine.

  Non sono riuscito a trovare l’altra traduzione di quest’opera, pubblicata a Milano nel 1836 (Romanzi e curiosità storiche di tutte le nazioni, G. Truffi e Soci, Ed.), ma dubito che anche questa sia completa.

  Prima traduzione integrale e fedele de Il medico di campagna è la presente di Amedeo Recanati ch’io mi auguro abbia fortuna poiché fu fatta con grande amore e serietà.

  L’opera in se stessa vale assai. Scritta nel 1832-1833 e pubblicala nel 1833, anno fatidico del capolavoro dei suoi capolavori: Eugenia Grandet, rappresenta, con Il curato del villaggio, il credo politico di Balzac. E’ un lavoro di bontà e di umanità, senza denaro e senza febbre del denaro, ed è forse per questo che l’autore volle, dedicarlo a sua madre.

 

 

  Alfredo Rota, Marionette, «La Stampa», Torino, Anno 66, Num. 25, 29 Gennaio 1932, p. 3.

 

  Una vecchia carrozza da viaggio, francese, sferzata dalla pioggia gelata, si incammina — trabalzando e scricchiolando — verso l’Italia: Invece di una ridente cortina di verde e di sole, s’apre dinanzi ai viaggiatori attoniti una selva cupa, quasi feroce, di abeti e torrenti veementi che si tramutano in cascate: specie di fiumi rabbiosi che rotolano, invece di acqua, dei blocchi di granito, della terra in fusione e un vanescente velario di fumo biancastro.

  Quando è sulla piccola piazza di Domodossola, presso la meridiana solare che reca la leggenda «Torna — tornando il sol — l’ombra smarrita: ma non torna l’età fuggita», la carrozza si ferma e ne scendono due forestieri: Onorato de Balzac e Teofilo Gautier, gli atleti del «sacro battaglione» del Romanticismo. Sono le sette di sera ed essi devono ripartire solo alle due del mattino seguente: piove sempre una pioggia fitta e gelata ...

 

«Si recita!»

 

  Che fare? L’unico teatrino del paese ha finito da poco la consueta rappresentazione: è di «passaggio» il «rinomato marionettista» Luciano Zane che viene da Torino dove tiene «piazza» acclamata ... Ma che importa se la recita è già ultimata? Si potrà sempre organizzarne un’altra per loro conto!

  Lo Zane — che stava all’Osteria triste e tutto solo dinanzi a un piatto di polenta fritta e di un boccale di vino violento — acconsente, per 20 lire, a dare una «rappresentazione speciale», lusingato e sorpreso al tempo stesso del curioso capriccio dei due forestieri. Egli domanda soltanto un’ora di tempo per raccogliere la sua orchestra, avvertire il suo compare, abbigliare i suoi piccoli attori, preparare la scena ed illuminare la sala. Infatti, un’ora dopo, riappare il cartello «Si recita» sopra la porta del minuscolo teatro, illuminata da una grande «boccia» a petrolio.

  Come l’impeto di un torrentello, la minuscola marmaglia del paese — che i due celebri scrittori hanno lasciato liberamente entrare — irrompe nella platea con chiassosa allegria. L’orchestra, composta di quattro curiosi tipi di musicisti, di cui uno — come invaso da una rabbia incontenibile — batte furiosamente il piede sull’impiantito per regolare il tempo, eseguisce una breve ouverture e la tela s’alza salutata dalla gioia di tutta la sala. Si rappresenta Girolamo, Califfo per 24 ore, ovvero I viventi che fanno finta di essere morti, E l’autore della «Commedia Umana» comincia a sognare ...

  Che curiosa recita! Che serata deliziosa! Di fuori continua a piovere con raffiche sonore come scrosci di applausi …

  Onorato de Balzac e Teofilo Gautier rimangono entusiasmati, suggestionati — è la parola — di questo strano spettacolo. E quando, nella notte, riprendono il viaggio e la vecchia carrozza ricomincia a trabalzare e a scricchiolare nell’oscurità, essi, con gli occhi socchiusi, vedono sempre le «belles marionettes» che fanno dei gesti «extravagants et cabriolaient» attraverso il loro strano dormiveglia ... E sono beati, secondo il motto arguto di Oscar Wilde: essere cioè «le distrazioni semplici l’ultimo rifugio delle anime complicate ...».

 

 

  Alfredo Rota, L’Italia romantica. I due “figli del secolo”, «La Stampa», Torino, Anno 66, Num. 87, 11 Aprile 1932, p. 3.

 

  Contro il Balzac, che ha esaltato il tipo della «donna dei trenta anni», si leva Giorgio Sand, affermando i diritti della «donna incompresa»: tipo creato dalla sua fantasia spleenetica.

 

 

  Margherita G. Sarfatti, I romanzi a ciclo storico, «La Stampa», Torino, Anno 66, Num. 290, 6 Dicembre 1932, p. 3.

 

  Così, fu Balzac padre anche di questa fra tante sue invenzioni: riflettere un’epoca, non direttamente, attraverso le vicende illustri dei suoi dominatori (romanzo storico) ma attraverso le vicende intime di una famiglia o un gruppo di famiglie private. Balzac mette in mano alla storia il leggendario ombrello portato da Luigi Filippo, il re del suo tempo.

  E’ la borghesia che impone la sua avanzata di protagonista al primo piano della ribalta.

  Nella Saga dei Forsythe Galsworthy si ripropone lo stesso tema, a distanza di quasi un secolo, quando la borghesia, il capitalismo, il mito dei lumi e del progresso — tutte istituzioni in pieno vigore di ascesa ai tempi balzachiani — hanno perduto il fascino della giovinezza e il lustro delle cose nuove di zecca.

  Balzac, a dir vero, personalmente non vi aveva mai creduto. Il suo spirito vasto e acuto, benché tumultuoso, fin dall’inizio vide chiaramente le tare profonde, le stridenti dissonanze, le inguaribili debolezze del sistema che allora si avviava appena all’apogeo della potenza, e le segnala con profetica intuizione. Personalmente e teoricamente, egli non amava che due classi: l’aristocrazia della nascita per la sua eleganza, l’aristocrazia del pensiero per la sua intelligenza, e il popolo, come serbatoio delle forze che alimentano una nazione.

  In pratica, non amava nessuna classe. Soltanto, la passione e l’energia in qualche singolo individuo, dovunque lo trovasse, così nel bene come nel male: l’amor paterno (Papà Goriot) l’avarizia (Grandet) l’ambizione (Rastignac) il delitto (Vautrin): tutto, purché fosse grande. E di questi tipi, ne trovava maggior numero allora nella classe che stava dando la scalata al potere. Per il resto, non si faceva illusioni, nè sulla inanità e la perfidia della vita elegante, nè sugli intrighi e le venalità degli uomini di governo, nè sulla debolezza e la vanità smisurata e inconsistente degli artisti. Se può, volentieri dà qualche pugnalata di passaggio ai critici. Si vede che non perdona a Sainte-Beuve di godere di una posizione assai più importante della sua propria! Verso i poeti, poi, questo prosatore che non riusciva neppure a mettere insieme quattordici rime e doveva ricorrere a Teofilo Gautier che gli componesse i sonetti del suo poeta debuttante, è spietato. Sono deboli, leggeri e inconsistenti; sempre vanesii, talvolta pietose caricature della vanità di un Chateaubriand o di un Lamartine. In quanto al popolo, l’ultimo suo libro, I contadini, giunge a profondità di analisi e di introspezioni singole e collettive che danno i brividi. Nessuno mai espose così crudamente i vizii, le ipocrisie, le cupidigie e la ferocia del cosidetto «buon agricolo». Noi crediamo virgilianamente che la terra gli insegni mansuetudine, bontà e pace. Ma la terra, come sa chi la vive da vicino, non è mansueta, nè buona, nè pacifica. Insegna la pazienza e la tenacia, ma anche, ancor più, l’insidia e l’agguato.

 

***

  La chiaroveggenza rende Balzac, cerebralmente, pessimista. Tuttavia il suo temperamento sanguigno e focoso, tutto vortice e curiosità, rimane ottimista. Vi è in lui il piacere e il coraggio, l’enorme voluttà sensuale di vivere, fondo indistruttibile della sua natura, che trasfonde in ogni pagina, anche tragica, anche lugubre.

  I suoi romanzi, anche tristi, sono sempre eroici. Perciò, non deprimono, anzi operano come tonici, alla guisa delle epopee, dove hanno un bell’accumularsi morti e feriti, si respira sempre l’allegrezza del combattimento. Possiamo piangere la morte di Ettore e quella di Luciano di Rubempré («è uno dei dolori della mia vita», diceva di essa Oscar Wilde) ma pur nel pianto si sente il desiderio di emularli. Del resto, per Ettore che muore, vi è Ulisse che compie un bel viaggio, e torna carico di bottino e di esperienza, a una vecchiaia confortata di avventurosi ricordi. E di fronte a un debole Luciano che cade nella mischia per la conquista del rango, vi è l'altro ambizioso, di più saldi garretti e più corretto stile, Eugenio di Rastignac, che vince. E pure nel campo delle lettere, vi è il compagno di Luciano, l’austero D’Arthez, in cui Balzac adombra se stesso, che arriva lento e tardi, ma pure alla fine, a furia di lavoro e di virtù, arriva.

 

***

  Questa fede nell’azione, questa prode allegrezza guerriera, che ride in cuore al creatore anche mentre lamenta una sua creatura vinta, si cercherebbero invano nel Galsworthy. Zola stesso, infinitamente minore di Balzac, e in quanto letterato, inferiore probabilmente a Galsworthy, assai più dell’inglese partecipa a questa qualità balzachiana di fede, di forza, e, per dir tutto, di impetuoso lirismo creativo. Talvolta, scarsamente corretto dal senso critico, appare persino puerile il suo ottimismo verso quel succedaneo materialista della Divina Provvidenza che è l’Automatico Progresso.

  Il tono grigio lamentoso e depressivo del racconto sorprende tanto più nel Galsworthy, quanto meno vi eravamo abituati dalle tradizioni della letteratura anglo-sassone. Basta confrontarlo agli altri due più vecchi premii Nobel delle lettere inglesi, Kipling e G. B. Shaw. […].

 

 

  Americo Scarlatti (Carlo Mascaretti), Et ab hic et ab hoc. XI. Curiosità bibliografiche, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1932.

 

Capitolo Quinto.

Sostituzione di paternità, pp. 62-77.

 

  pp. 72-73. Il più grande affetto, però, che può spingere gli autori a rinunciare alla paternità dei propri lavori è quello che ognuno sente per se stesso. In questo caso è la forte molla dell’interesse che vince ogni altra considerazione, e si può estrinsecare in varie guise.

  La più semplice e più comune è quella che si manifesta in forma di una somma più o meno grande di denaro da conseguire immediatamente, ed è ben difficile che uno scrittore stretto dalla necessità non ceda a simile tentazione, stimandosi anche fortunato quando gli capita.

  Un esempio tipico a questo riguardo ce lo offre una lettera di Balzac a Madame Hanska pubblicata il 15 febbraio 1899 dalla Revue de Paris, nella quale lettera il grande romanziere racconta a quella signora, che, dopo aver impiegato sette anni a spigolare dappertutto dei pensieri di Napoleone, il bisogno lo aveva costretto a vendere quella sua opera a un ex-cappellaio che voleva la croce di cavaliere e che era sicuro di ottenerla pubblicando quell’opera col suo nome e dedicandola a Luigi Filippo. E Balzac aggiunge malinconicamente: «Napoléon m’aura rapporté quatre mille francs et le bonnetier peut en gagner cent mille. Vous reconnaîtrez la main de votre esclave dans la dédicace à Louis Philippe».

 

 

  Paolo Teglio, Balzac commediografo, «Comoedia. Rassegna mensile del teatro», Milano, Anno XIV, N. 2, 15 Marzo 1932, pp. 47-48.

 

  Onorato di Balzac è stato sempre attratto — nel suo esordio ed anche nella maturità — dal teatro. Ivi, si distribuisce la gloria o piuttosto essa sorge nella voce degli attori e si ripercuote nel fragore degli applausi, facendosi viva e tangibile. Evidentemente quella gloria è più effimera di quella del libro che conferisce l’adesione del lettore silenzioso. Ma una commedia che si muta in moneta sonante proporzionata agli incassi quotidiani non doveva lasciare indifferente il povero e fastoso Balzac il quale, appena ventenne, aveva concepito il sogno di vivere con la sua penna mentre, affogato nei debiti, costruiva la sua fortuna sull’osservazione e sulle chimere.

  Egli esordì con un «Cromwell» in versi, sette anni prima di quello di Victor Hugo. Balzac fu uno spirito irrequieto e ribelle alla schiavitù dei versi. Abbandonata la tragedia in cinque atti nacque in lui. come in Diderot, l’idea di scrivere il dramma della vita borghese in prosa per un’azione parallela a quella di cui fu un precursore geniale e solitario, svolgendola nel romanzo, ma anche in quello il romantico e tonitruante ambiente allora in voga trionfale sulle scene, nocque ai suoi progetti e ne alterò la esecuzione.

  Sempre perseguitato dall’idea di pagare i suoi debiti — (Ah! i commoventi calcoli che figurano nel 1834 sul manoscritto del «Père Goriot» ove il «dare» si equilibrò così difficilmente con l’«avere»!) egli scrive alla sua cara Etrangère: «Bisogna tornare al teatro i cui redditi sono enormi se si paragonano a quelli che ci danno i libri». Parecchi progetti gli sorridono, tra cui un «Mariage de Joseph Prudhomme» ed una «Gina» che è una specie di Otello in gonnella; ma quello che più lo entusiasma è l'idea di un dramma borghese: «La Première demoiselle» mutata poi nell’«Ecole des ménages» e destinata a sostituire «Ruy Blas» nel 1838 sul manifesto della Renaissance. Balzac vi lavora in tonaca bianca, coi gomiti sul tavolo, tra la candela e la caffettiera durante sedici giorni e sedici notti dormendo soltanto tre ore su ventiquattro. Letta il 25 febbraio 1819, la commedia fu rifiutata. Il «Figaro» chiamò Balzac il più cestinato degli autori drammatici. La commedia era troppo «nuova» e troppo realista per il pubblico che applaudiva Hugo, Dumas padre e Vigny; tornò nel cassetto da dove non uscì, alquanto misteriosamente, che poco prima del 1870. Essa fu un giorno depositata con una nota illustrativa senza firma, dal portinaio dell’Odéon come in addietro si deponevano al «tour» della rue d’Enfer i bimbi rinvenuti sulla pubblica via. Era forse per opera del risorto Balzac? Duquesnel portò via le cartelle, giudicò il dramma strano ma non rappresentabile. Dennery che aveva gli modificato «Mercadet» si rifiutò d’accomodare quei «resti», ma laudace Antoine nel 1910 osò ciò che non aveva osato il predecessore. «L’Ecole des Ménages» vide il fuoco della ribalta il 12 marzo di quell’anno, applauditissima dal pubblico ed esaltata dalla critica la quale, unanime, in omaggio ad un autore morto, inneggiò al capolavoro.

  La commedia è ricca di realismo malgrado certe influenze shakespeariane; solo ebbe il torto di veder la ribalta dieci o quarant’anni troppo presto.

  Non si può dire altrettanto di «Vautrin» scritto nella stessa epoca (1839), perfetto melodramma romantico. La prima rappresentazione ebbe luogo alla Porte Saint-Martin il 14 marzo 1840 ma, ad onta di Frédérick Lemaître, essa cadde. A dire il vero il parrucchiere aveva «fatto» a Lemaître, una testa e sopratutto un «toupet» dinastico e piramidale. Quando Lemaître comparve in scena nelle vesti di generale messicano una risata omerica e generale scoppiò. Il duca d'Orléans uscì; andò a destare suo padre alle Tuileries e gli disse: «Padre mio, hanno fatto la vostra caricatura sulla scena, lo tollererete?» L’indomani era pubblicato il veto.

  Due anni dopo, «Les Ressources de Quinola» non furono più fortunate. Malgrado i cento «claqueurs» le voci di ... animali ebbero il sopravvento su quelle degli attori; si udì l'abbaiare del cane, il guaire del botolo, i nitriti, i gracidamenti. Si fischiava, si urlava, si schiamazzava ...

  Malgrado quel chiasso indiavolato, a mezza notte e mezzo, si rinvenne il povero Balzac addormentato in fondo ad un camerino. Al quarto atto, quando il personaggio Fontanarès disse alla cortigiana Faustina: «Tu non sei una donna ... e siccome non sei una donna, io ti posso uccidere!» tutta la platea urlò:

  «Ma, sì, ammazzala subito!» e sulla veste dell’attrice si spappolò una mela cotta scagliata con forza dal loggione.

  Da «Ernani» in avanti, non si era riscontrato mai un subbuglio di quel genere.

  Con «Pamela Giraud» Balzac torna all’estro dell’«École des ménages» vale a dire al dramma borghese, ma ancora senza fortuna; si trattava degli amori di un apprendista tappezziere con Pamela, fioraia e figlia di un sarto retrocesso a portinaio.

  «Un vaudeville truccato da dramma» — scrive inferocito Saint-Victor. La critica rimase inesorabile e più di tutti Janin; e la commedia fu recitata pochissime volte.

  Con l’ostinazione del mulo attaccato ad un carro, il grande Onorato non si scoraggiò; egli pensava che avrebbe finito per avere la sua rivincita, un giorno, dinanzi alla platea dei posteri. E si accinse a scrivere la «Marâtre» che è certamente la meno nota delle tue opere teatrali e che forse costituisce il suo capolavoro. Il punto di partenza è, come sempre in quel prodigioso spirito immaginativo, tratto dalla realtà.

  Infatti, egli si ispirò ad un dualismo tra nuora e suocera giovane, dualismo sviluppato fino alle più tragiche conseguenze. La sorte delle commedie balzachiane è stata sempre di cadere durante la prima rappresentazione; fu invece lieta intorno al ‘60, e poi all’inizio del nuovo secolo, nelle «riprese».

  L’ultima delle commedie di Balzac, la sola che sia veramente conosciuta è il «Mercadet». Onorato sperava di guadagnare con quella un milioncino in dieci anni. Terminata nel 1844, tratta dal cassetto nel 1848, la commedia è letta alla Comédie-Française, dallo stesso Balzac, il 17 agosto. Vestito di gala, in frak, egli inizia la lettura. Alla prima scena, con gesto brusco, si strappa la cravatta e mette a nudo il suo collo di toro. Alla fine del primo atto, si toglie il frak, al secondo atto il gilè, rimbocca le maniche della camicia e si strappa i bottoni. Egli mutò voce nelle venti parti ridendo, gridando, piangendo, personificando insomma la muta dei creditori in agguato. Nel quinto atto, sudando, sbuffando, vivendo l’opera propria, fu sublime, ma quando, avendo terminato, depose sul tavolo il manoscritto, ci si accorse che Balzac l’aveva ... letto sulla carta bianca! Egli aveva improvvisato la commedia di sana pianta!

  Tanti sforzi furono vani; accettata in un primo tempo, alla unanimità, la commedia fu ammessa il 15 dicembre 1848 soltanto dopo «modificazioni» ciò che significa quasi sempre la sepoltura. Egli non doveva più sentirla. Forse è stato meglio per lui ignorare che il suo capolavoro ridotto in tre atti da Dennery, era stato alterato nei punti essenziali.

  Chi farà tornare sulle scene il «Mercadet» originale, ov’è incarnato il vero Balzac dimentico che le immense ricchezze alle quali aspirava erano riposte in lui stesso?

 

 

  Adriano Tilgher, Arte e Vita, «Logos. Organo della Biblioteca filosofica di Palermo», Napoli, Anno XV, Fascicolo I, Gennaio-Marzo 1932, pp. 52-54.

 

  pp. 52-53. Tutta la mia Estetica riposa su una semplicissima distinzione, con lo quale sta o cade: la distinzione tra amore di oggetti e amore di vita.

  Un ambizioso che aspiri a conquistare potenza, ricchezza, onori, donne, un Rastignac di carne e d’ossa, ama le donne, gli onori, la ricchezza, la potenza, oggetti della sua ambizione, ma non ama affatto la sua stessa ambizione: questa è, anzi, per lui uno stato di insoddisfazione, d’insufficienza, di deficienza, di bisogno, di dolore, dal quale anela e si sforza di uscire. E se mi si obbietta che ciò che Rastignac ama veramente non sono gli oggetti cui s’appunta la sua ambizione, ma è il vivo e fluente processo grazie al quale egli riesce a ridurli in suo potere, a farne strumenti del suo piacere, io replico che è verissimo che ciò che dà gioia a Rastignac non è l’oggetto in sè e per sè materialmente considerato, ma lo svolgersi trionfale dell’attività sua, grazie al quale egli riesce a sottomettersi l’oggetto, ma che è altrettanto vero che perché quest’attività si svolga le è essenziale appuntarsi su oggetti nei quali soltanto essa veda il mezzo di trasformare l’insoddisfazione in soddisfazione e gioia. Ammettiamo pure che ciò che dà gioia a Rastignac è la conquista e non il possesso: ma egli non conquisterebbe mai se la sua attività non si polarizzasse verso certi oggetti e non li facesse oggetti del suo amore e non si configurasse come amore di quegli oggetti. L’attività pratica dello spirito, ciò che si suol dire Vita tout court, è amore di oggetti (presa, s’intende, la parola oggetti nel più vasto senso possibile, intendendo per oggetto, ad esempio, lo stesso sforzo ascetico di liberazione dello spirito dall’attrazione di ogni possibile oggetto materiale ed empirico).

  Supponiamo ora che il movimento vitale col quale Rastignac si porta alla conquista delle donne, del potere, degli onori, del denaro, torcendosi direi quasi, su sè stesso, faccia di sè stesso l’oggetto del suo amore. Amando sè medesimo come quel movimento di vita che è, esso, evidentemente, non aspira più ad uscire da sè medesimo, non aspira più all’oggetto nella conquista del quale si annullerebbe come quel movimento di vita ch’esso è; da amore di oggetti esso si trasforma in amore di un movimento di vita in quanto tale, di un ritmo vitale in quanto tale, in amore di vita. È lo stato d’animo, non più di Rastignac in carne ed ossa, ma di Balzac nell’attimo in cui crea il personaggio di Rastignac, è lo stato d’animo estetico, artistico, poetico.

  Posta vita = amore di oggetti, e arte = amore di vita, è chiaro perché tra Vita e Arte io ponga incompatibilità assoluta. La Vita, in quanto è amore di sè come puro ritmo vitale, non è amore di oggetti, e viceversa. In quanto e fino a quando Rastignac ama le donne ecc., non può amare il suo amar le donne ecc., perché, se amasse il suo amare le donne ecc., non cercherebbe di uscire dal suo stato d'animo con la conquista di ciò che, soddisfacendolo, lo distrugge come quello stato d’animo che è. Balzac vive esteticamente lo stato d’animo di Rastignac in quanto egli ama l’amar le donne ecc. di Rastignac, ama l'ambizione di Rastignac, ma perciò non avverte quell’amore delle donne ecc. come uno stato di tormento, d’insoddisfazione, come un bisogno da cui urge uscire con la conquista delle donne ecc., il che vuol dire che quello stato d’animo di Balzac non aspira ad oggetti (donne, ecc.) grazie ai quali da insufficienza diventa sufficienza (sic), ossia non è vita, è il contrario della vita, è arte.

 

 

  Cesco Tomaselli, Alla ricerca del naturismo germanico. Dal bagno d’aria all’”aperitivo Lahmann”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 57, N. 211, 8 Settembre 1932, p. 3.

 

  Le applicazioni idroterapiche ed elioterapiche sono parte integrante del metodo di cura di determinate malattie, analogamente a quanto avviene da noi: dove ci è parso di aver trovato del nuovo è nel sistema di curare i sani, cioè quegli individui la cui malattia somiglia a quella del signor De Bargeton. nelle Illusioni perdute di Balzac, cioè l'indigestione perpetua: oppure la depressione nervosa prodotta dal troppo lavoro, o semplicemente la malinconia, ch’è il male dei ricchi.

 

 

  X. Y., Dalla stampa italiana. Balzac, il Napoleone delle Lettere, «L’Italia Letteraria. Settimanale di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Anno VIII, N. 52, 25 Dicembre 1932, p. 7.

 

  Inutile ricordare che Zola come Paul Adam. Romain Rollami come Proust, e come oggi Galsworthy, tutti quanti gli scrittori di cicli familiari e sociali, naturalmente derivano tutti da Onorato Balzac. Del resto, a nessuna nuova terra del romanzo è mai possibile approdare, senza trovarvi profilata per sempre prima, più grande e definitiva di tutte, l’ombra di questo Napoleone delle lettere. Egli domina la letteratura moderna proprio come Napoleone domina la storia moderna. Alcune. terre furono da lui esplorate solo di sfuggita, ma sempre e ovunque egli è l’iniziatore e l’inventore. Affonda l’aratro nelle zolle non mai prima lavorate; anzi neppur conosciute, ma è un mietitore generoso. Vi è sempre molto da spigolare sulle sue traccie. Appena raccolti i primi fasci di grano (e talvolta non ha neppur pazienza dl mondarli dal loglio) procede oltre, al richiamo imperioso di altre terre vergini. Interi mannelli d’oro brillano ancora nel solco. Non vi è che da darsi la pena di curvarsi per raccoglierli.

  Così, fu Balzac padre anche di questa fra tante sue invenzioni: riflettere un’epoca, non direttamente, attraverso le vicende illustri dei suoi dominatori (romanzo, storico) ma attraverso le vicende intime di una famiglia o un gruppo di famiglie private. Balzac mette in mano alla storia il leggendario ombrello portato da Luigi Filippo, il re del suo tempo.

  E’ la borghesia che impone la sua avanzata di protagonista al primo piano della ribalta.

  Premiando Galsworthy — interviene a sottolineare Margherita Sarfatti («Stampa», 6 dic. [cfr. supra]) — i giudici svedesi del premio Nobel hanno segnalato i meriti letterarii della noia, borghese, predicatoria, coscienziosa, sociale ed enfatica. Non dico che Galsworthy non abbia anche altre più amabili qualità di scrittore; questa è la predominante.

  Il premio Nobel a Galsworthy continua ad avere pessima stampa. E’ un affar serio: un coro di lamentele.

 

 

  Stefan Zweig, Balzac, in Tre maestri. Balzac-Dickens-Dostojeskij. Traduzione di Berta Burgio Ahrens, Milano, Casa Editrice Sperling & Kupfer, 1932 («I Costruttori del Mondo. Tentativo di una tipologia dello spirito», Volume I), pp. 13-45.

 

  Trascriviamo qui, di seguito, larga parte della prefazione al volume scritta dallo Zweig nel 1919:

 

  Sebbene questi tre saggi su Balzac, Dickens e Dostojevskij siano nati in uno spazio di tempo di dieci anni, non è per puro caso ch’io li unisco in un unico volume. Con intenzione cerco di presentare quali prototipi del secolo decimonono i tre grandi e, a parer mio, soli romanzieri, i quali, appunto per il contrasto della loro personalità, si integrano e danno forse una forma precisa al senso della parola romanziere.

  Se chiamo Balzac, Dickens e Dostojevskij i soli grandi romanzieri del secolo decimonono, non per questo nego la grandezza di singole opere di Goethe, di Gottfried Keller, di Stendhal, di Flaubert, di Tolstoi, di Victor Hugo ed altri, più d'un romanzo dei quali supera anzi di molto il singolo lavoro specie di Balzac e di Dickens. E credo di dover perciò precisare la mia intima e ferma convinzione sulla differenza tra lo scrittore di romanzi e il romanziere. Romanziere nel più profondo e più alto significato, è solo il genio enciclopedico, l’artista universale. Il quale (e qui entrano in argomento la mole del lavoro e la moltitudine dei personaggi) crea un nuovo cosmo, pone accanto al mondo reale un mondo reale un mondo proprio, con propri tipi, proprie leggi di gravitazione e un cielo proprio con proprie costellazioni, dà ad ogni personaggio, ad ogni fatto, tanto della sua natura da farli diventare veri tipi non solo agli occhi suoi, ma anche ai nostri. Questi tipi hanno allora tanto rilievo, da sentirci talvolta tentati di definire col loro nome fatti e persone della vita reale, tanto da dire per esempio: quel tale è una figura di Balzac, un carattere di Dickens, un personaggio di Dostojevskij. Ognuno di questi artisti — con la moltitudine delle sue figure — crea una legge ed un concetto di vita così unitario da plasmare una nuova forma del mondo. E il delucidare questa legge intima, questa formazione dei caratteri nel suo complesso più profondo ed occulto, è appunto il tentativo del mio libro, il cui sottotitolo potrebbe essere: Psicologia del romanziere.

  Ognuno di questi tre romanzieri ha la sua propria sfera: Balzac la società, Dickens la famiglia, Dostojevskij il singolo individuo e tutto l’universo. Confrontando fra di loro queste sfere, se ne trovano le differenze, ma non ho tentato di trasformare in apprezzamenti queste differenze, nè di sottolineare — con propensione od opposizione — gli elementi nazionali d’un artista. Ogni grande creatore è un’unità che racchiude in sè, con misure proprie, i propri limiti e il proprio peso: in ogni opera artistica v’è solo un peso specifico e non assoluto nella bilancia della giustizia.

  Per tutti e tre i saggi presuppongo la conoscenza delle opere: infatti non sono essi introduzioni, bensì sublimazioni, condensazioni, estratti. Essendo sintetici, non possono rendere che quello ch’io personalmente ho sentito come essenziale; questa insufficienza inevitabile mi dispiace specialmente per il saggio su Dostojevskij la cui infinita misura, come quella di Goethe, non potrà mai essere contenuta in alcuna formula, fosse pure la più ampia. […].



[1] Cfr. Balzac, La Rabouilleuse. Notes et variantes, a cura di René Guise, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1976, t. IV, p. 1215.

[2] Cfr. Victor Hugo, Cose viste (dal 1838 al 1875), Bologna, L. Cappelli Editore, 1932.

[3] L. J. Arrigon, Balzac et la «Contessa», Editions des Portiques, Paris. [N.d.A.].

[4] Leggerli nelle meravigliose traduzioni di vari scrittori italiani nei «Classici del ridere» dell’amico Formiggini (Palazzo Doria. Vicolo Doria, Roma). Son tre volumi artisticamente decorati da Gustavino ed hanno per titolo: Le sollazzevoli historie. Nella stessa collezione leggere anche i cinque volumi delle opere di Rabelais nella fortunata traduzione di C. Pasini. [N.d.A.].


Marco Stupazzoni

 

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