giovedì 28 giugno 2018



1920


Traduzioni.


  Onorato di Balzac, Les contes drolatiques (Le sollazzevoli historie). Prima decina. [I Conti Drolattici ovverosia Le sollazzevoli historie raccolte nelle abbazie di Turenna e date in luce dal Sere di Balzacco per il trastullo dei pantagruelisti e non altri, ora nel nostro idioma per la prima volta recate da un dottoricchio toscano e da un altro della Marca d’Ancona]. Traduzione di Giosuè Borsi e di Ferdinando Palazzi. Disegni di Gustavo Rosso (Gustavino), Roma, A. F. Formiggini Editore (Tip. L. Bordandini, Forlì), 1920 («Classici del Ridere», 37), pp. XI-287, 8 ill.

  Precedute dalla Nota alla I Edizione di A. F. Formiggini, il cui testo integrale è riprodotto all’interno della sezione degli Studî e dei riferimenti critici, le traduzioni dei Contes drolatiques balzachiani presenti in questo volume riguardano le prime dieci novelle. La traduzione delle prime due: La bella Imperia; Il peccato veniale, precedute dal Prologo, sono dovute a Giosuè Borsi, mentre le restanti otto (dalla III alla X: La ganza del Re; L’eredità del diavolo; Le piacevolezze di Re Luigi decimoprimo; La connestabola; La pulcella di Tilussa; Il curato di Asciai le Ridò; La bella lavandaia di Portiglione) – seguite dall’Epilogo – hanno come autore Fernando Palazzi.

  Le traduzioni si fondano sul testo dell’edizione originale (Gosselin, 1832, e successive ristampe) e sono da ritenersi pienamente soddisfacenti sotto il profilo linguistico e stilistico.


  O. Balzac, Il figlio maledetto di O. Balzac, «Il Romanzo Quattrini. Pubblicazione Settimanale dell’Editore Quattrini», Firenze, Serie A, N. 460, 16 Dicembre 1920, pp. 2-40.

  È riproposta la traduzione (anonima) dello studio filosofico balzachiano pubblicata dai Fratelli Treves Editori in Milano nel 1914.


  Onorato Balzac, Il figlio maledetto, Firenze, Casa editrice Italiana di A. Quattrini (A. Vallecchi), 1920 («Biblioteca amena Quattrini», N. 170), pp. 83.

  In copertina: Il Figlio Malidetto.

  Cfr. scheda precedente.


   Di Balzac, Fisiologia del matrimonio o meditazioni di filosofia eclettica sulla felicità e la infelicità coniugale, Milano, Casa Editrice Sonzogno, 1920 («Biblioteca Universale», NN. 64-65), pp. 268.

  Cfr. le numerose ristampe dell’opera a partire dalla prima edizione del 1883


  Onorato Balzac, L’Israelita, Milano, Fratelli Treves Editori, 1920 («Biblioteca Amena», N. 826), pp. 326.

  Cfr. 1912.


  O. Balzac, Massimilla Doni, Firenze, Editore Quattrini Casa Editrice Italiana (Stabilimenti Grafici A. Vallecchi), 1920 («Biblioteca amena Quattrini», N. 155), pp. 88.

  Struttura dell’opera:

  Massimilla Doni, pp. 5-83 a cui segue: Scellerata di Gerolamo Rovetta, pp. 1-16.

  È riproposta la traduzione (anonima) dello studio filosofico balzachiano pubblicata dai Fratelli Treves Editori in Milano nel 1914.


  Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Ketty Nagel, Milano, Fratelli Treves Editori, 1920 («Biblioteca Amena», N. 652), pp. 296.

  Cfr. 1903; 1912; 1917.


  Honoré de Balzac, Pensieri, in AA.VV., Antologia dei Cattolici francesi del secolo XIX (De Maistre – Bonald – Lamennais – Balzac – D’Aurevilly – Hello – Veuillot – Bloy). Traduzione e notizie di Domenico Giuliotti, Lanciano, R. Carabba Editore, s. d. [1920], pp. 60-64.

  I ‘pensieri’ balzachiani qui tradotti sono tratti, come dichiara il Giuliotti nella sua breve presentazione dei testi, dalla raccolta che, di questi pensieri, fece Barbey d’Aurevilly (cfr. la relativa traduzione di Ubaldo Scotti pubblicata dall’editore fiorentino Lumachi nel 1909) e dal volume di Louis Dimier: Les maîtres de la contre-révolution au dix-neuvième siècle (Paris, 1907; Nouvelle Librairie Nationale, 1917).


  Balzac, Piccole Miserie della Vita Coniugale, Firenze, Editore Quattrini Casa Editrice Italiana (Stabilimenti Poligrafici Riuniti - Bologna), 1920 («Biblioteca Amena Quattrini», N. 150-151), pp. 169.

  Cfr. 1919. [«Il Romanzo Quattrini», 4-11 Dicembre 1919].


   Balzac, Piccole Miserie della Vita Coniugale, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1920 («Biblioteca Amena», N. 615), Ottavo migliaio, pp. 306.

  Cfr. 1901; 1911; 1918.


  Onorato Balzac, Suor Teresa, Firenze, Editore Quattrini Casa Editrice Italiana (Tip. Linari & Figli), 1920 («Biblioteca Amena Quattrini», 18), pp. 127.

  Cfr. 1913.


Studî e riferimenti critici.


  Presentazione di libri, «Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», Roma, Tipografia dell’Accademia, Serie Quinta, Vol. XXIX, 1920, pp. 393-394.

  [Vittorio Rossi] Presenta anche, da parte dell'autore, il volume di Giuseppe Gigli. Balzac in Italia (Milano, Treves, 1920), dove con cura paziente sono raccolti aneddoti del soggiorno del grande roman­ziere a Milano, a Venezia, in Sardegna fra il 1837 e il 1838, e a Roma nel 1845, e riferiti o riassunti articoli di giornali ed opuscoli pubblicati in quel giro di tempo e riguardanti il Balzac e le sue opere. Per vero nè la società italiana, colle sue infa­tuazioni e i suoi disdegni per lo scrittore ormai famoso, coi suoi pettegolezzi e le sue chiacchiere intorno alla vita e alla toilette di lui nè la critica con le sue generiche celebrazioni, per lo più rivelatrici di una perfetta incomprensione dell'arte balzacchiana, e con le sue fiere condanne moralistiche o patriottiche, fanno una molto bella figura. Ma il libro si legge con interesse, sia per quanto ci lascia intravedere di caratteristico della vita italiana nello stracco periodo avanti il 1848, e sia per l'esattezza e la copia delle notizie intorno alla voga ch’ebbe fra noi il poderoso dipintore della borghesia parigina. Anzi, giunti alla fine, si de­sidererebbe ancora un capitolo che di codesta voga ricercasse le tracce (e credo sarebbe ricerca non infruttuosa) nelle opere dei romanzieri nostri. Con particolare curiosità ci si ferma sulle pa­gine che fanno conoscere la polemica suscitata da un articolo in cui Tullio Dandolo aveva riferito e rimbeccato un ingiusto giudizio del Balzac intorno ai Promessi sposi (fiacco il tessuto del romanzo, e questo, debitore del successo soltanto alle attrat­tive dello stile). Di quel putiferio noi possiamo sorridere: tanto ci par naturale che un artista così esuberante, così violento, così romantico, nonostante il suo realismo e certe note di umanesimo, com’era il Balzac. non apprezzasse un artista così sobrio, così equilibrato, così intimamente classico, nonostante il battesimo di capo della scuola romantica, com'era il Manzoni. Evidentemente meno disforme dalla sua era l'arte, talvolta rudemente reali­stica, del poeta di un’altra grande Commedia, umana anche questa, nonostante il titolo di Divina, che le diedero i posteri. Dedicando infatti la Cousine Bette al principe Michelangelo Caetani, cui aveva udito commentar Dante a Palazzo Farnese, e professandosi grato a lui perché gli aveva fatto «scorgere la me­ravigliosa intelaiatura d’idee sulla quale il gran poeta italiano ha costruito la sua Commedia», proclamava questa «il solo poema che i moderni possano opporre a quello d’Omero».


  La morte di Perez Galdos, «Corriere della sera», Milano, Anno 45, N. 6, 7 Gennaio 1920, p. 2.

 

   Fu chiamato il Balzac del suo paese. Ma più che in una vera affinità fra i due scrittori, questa definizione appare giusta per l’identità dei metodi con cui essi componevano i loro romanzi.


  Corriere teatrale. Echi di spettacoli, ritrovi, ecc., «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 25, 29 Gennaio 1920, p. 2.

  Giovanni Grasso interpreta oggi per ultimo giorno, al Gran Cinema Teatro Italia, Vautrin con­tro Rastignac, splendida riproduzione del roman­zo di Balzac che ha destato vivo successo.


  Corrispondenze cinematografiche, «Lo Spettacolo. Quotidiano d’arte», Roma, Anno XIII, N. 45, 27 Febbraio 1920, p. 2.

  Treviso, 26. Cinema S. Marco. – Da quest’oggi, grandiosa novità: «Vautrin contro Rastignac» spettacolosa film d’avventure, tratta dal romanzo di O. Balzac, capolavoro di ultima creazione, sfarzosa messa in scena, intreccio emozionante. Protagonista il celebre artista comm. Giovanni Grasso nella parte di Giovanni Collin.


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 113, 12 Maggio 1920, p. 3.

  Il 29 ottobre 1840 Stendhal credette di stra­biliare leggendo la Revue Parisienne nella quale Balzac analizzava la «Chartreuse de Parme». L’articolo era così elogiativo che Stendhal, non avvezzo a veder celebrati i pro­pri libri, scoppiò in una cordiale risata. Agli elogi, tuttavia, Balzac aveva aggiunto qual che critica: la line del libro era «piuttosto ab­bozzata che compiuta»; egli avrebbe prefe­rito che l’autore cominciasse colla narrazione di Waterloo ed esprimeva il timore che con la «sua maniera semplice, ingenua e senza vernice» Arrigo Beyle corresse il rischio di parer confuso. Finalmente, pur riconoscendo che Stendhal si salvava per il sentimento profondo che animava il suo pensiero, riteneva che il lato debole dell’opera fosse lo stile e rimproverava a Beyle d'essere negligente e scorretto. Stendhal ringraziò Balzac e gli an­nunziò che avrebbe corretto il suo libro. Ora un collaboratore del Temps dice di aver ve­duto l’esemplare della «Chartreuse de Parme» (tornato alla luce) sul quale Stendhal fece le correzioni annunziate a Balzac. Sten­dhal aveva fatto rilegare i due volumi del­l’edizione originale (Ambroise Dupont, 1839) intercalandovi dei fogli bianchi. L’abbozzo delle correzioni fu spinto abbastanza innan­zi: si notano nel testo soppressioni di parole e di frasi; mutamenti di parole; annotazioni molto importanti sui foglietti intercalati parte in inchiostro, parte a matita e riscritte poi a penna, ciò che indica un lungo lavoro di rifacimento, svoltosi effettivamente, come l’indicano talune date, noi 1840 e nel 1841. Egli voleva sopratutto aggiungere dei «pez­zetti» di paesaggio: introdurre qualche nuovo episodio; sviluppare le avventure di Clelia. La nuova edizione avrebbe dovuto essere in tre volumi. Ma non compiè il lavoro: altre occupazioni ne lo distolsero e sopratutto il desiderio di scrivere il seguito delle «Chroniques italiennes». Il 23 marzo 1842 mori­va d’apoplessia per istrada. Era la morte ch’egli aveva desiderata: repentinam, inopinatamque.


  Punti, appunti e … puntini, «Corriere Meridionale», Lecce Anno XXXI, Numero 13, 16 Maggio 1920, p. 1.

  I nostri scrittori.

  Il nostro valoroso scrittore Prof. Giuseppe Gigli, Insegnante di Lettere Italiane nel R. Liceo «G. B. Niccolini» di Livorno, ha compiuto un altro geniale e nobile lavoro: Balzac in Italia.

  E’ la storia del varii viaggi fatti in Italia dal grande romanziere francese: a Torino, a Milano, a Venezia, a Genova, a Roma, in Sardegna: i fatti, le indiscrezioni, le notizie pubblicata dai giornali del tempo, i pettegolezzi che corsero sulla vita e sui debiti dello scrittore, tutto è ordinato e coordinato in forma di narrazione piacevolissima. Il volume è diviso in dodici capitoli. Dei due ultimi, l’undecima (sic) narra gli amori del Balzac per M.me Hanska, e il susseguente matrimonio, seguito a pochi mesi di distanza dalla morte del grande romanziere: ed è racconto tragico. Il dodicesimo contiene la bibliografia delle traduzioni italiane dei romanzi balzacchiani, dal 1832 fino ai giorni nostri.

  L’importante lavoro, edito dalla Casa Fratelli Treves di Milano, verrà alla luca tra la metà o la fine del corrente maggio, in un’accurata ed elegante veste tipografica.

  Al nostro carissimo prof. Gigli, poeta delicato e valoroso e simpatico scrittore, rallegramenti vivissimi e augurii cordiali.


  Ultime di Cronaca. Sulle scale dell’Agenzia delle Imposte, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 140, 11 Giugno 1920, p. 4.

  In un romanzo di Balzac uno dei capitoli più vivaci e brillanti tratteggia con singolare efficacia le persone d’ogni ceto che un tem­porale improvviso costringe a riparare entro un portone. Chi avesse voluto, negli ultimi giorni di maggio, soffermarsi sui pianerottoli e nelle anticamere dell’Agenzia delle Imposte avrebbe potuto, con nessuna spesa di fanta­sia, ricostruire, ampliandolo, il lavoro al Bal­zac anche senza possedere le sue ammirevoli doti di scrittore e di osservatore.


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 173, 20 Luglio 1920, p. 3.

  Il tè, il gradevole tè delle cinque, svago e ristoro modesto d'altri tempi è divenuto a Parigi un lusso da Creso: per un tè ci si vede presentare un conto di 15 franchi. Forse che la bevanda orientale s’è trasmutata in liquore raro? Il Temps si chiede se tutto il tè non sia ora come quello famoso di Balzac, fine come il tabacco turco, più raro biondo come l’oro veneziano che non usciva dalla scatola preziosa nella quale era contenuto, se non nelle occasioni solenni. Gli è che il tè d’oro aveva una storia: il sole non lo fa­ceva maturare che per l’Imperatore della Ci­na; dei mandarini di prima classe, erano incaricati, per diritto di nascita, di annaf­fiarlo e coltivarlo: delle vergini lo coglievano prima dell’alba e lo portavano cantando ai piedi dell’Imperatore. Aveva delle proprietà stupefacenti questo tè d’oro. Balzac pretende­va che chi ne beveva tre volte diveniva guer­cio, chi ne beveva sei, diveniva cieco. Sicché quando un amico lo beveva non mancava di dire: «Rischio di perdere almeno un oc­chio». No, il prezzo del tè non è aumentato perché la bevanda sia divenuta preziosa. Ma nei ritrovi dove lo si prepara, si balla: chi balla anche alle 5 trova che il tè a 15 franchi, è a buon mercato.


  Marginalia, Un nipote e un servitore di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXV, N. 33, 15 Agosto 1920, p. 3.

  La informazione inedita di René Benja­min è di una certa importanza per quei let­terati che hanno una specie di culto per la memoria di Balzac. Il nepote che oggi possiede, o che almeno prima del bol­scevismo possedeva, la casa di Vierzchownia, dove il romanziere passò due inverni presso la contessa di Hanska è stato rintracciato a Varsavia. È il conte Adam Rzewuski. a cui il Benjamin fece la visita riferita dalla Semaine Littéraire. «Il conte – sono parole del viaggiatore — che ormai porta con disinvoltura questa grande parentela, mi fece sedere e mi spiegò che veramente egli possiede la casa dove Balzac visse qualche tempo ai fianchi della donna amata, prima di sposarla. Il conte è stato allevato da un servitore, già addetto alla persona di Bal­zac, che portava il nome romantico di Thomas Goubernatchouk e che morì sol­tanto nel 1911 alla bella età di centoquattr’anni». Tre i ricordi balzacchiani che l’interlocutore ha riportato dalla visita di Varsavia: prima di tutto la proprietà ora invasa dai bolscevichi che l’hanno spogliata e derubata: quindi un grande salotto a colonne, che serbava come una preziosità due ritratti quello di Balzac ormai famoso nelle riproduzioni fotografiche e quello della Hanska come una figlioletta sulle ginocchia – infine, ultima testimonianza di quel mondo scomparso, il servitore che raccontò al suo ultimo padrone la scena del matrimo­nio del primo. Questi – continua il rac­conto – aveva voluti sposarsi a cinquanta chilometri da Wierzchownia in un antico monastero, famoso per una immagine della Vergine. Balzac era mol­to vecchio, perché Hanska prima dal­l'ora non aveva voluto acconsentire alle nozze. Così lo sposo traballava nella vettura, ma a ogni scossa lo sorreggeva il fido servo, che lo sostenne col braccio fino all'altare.


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 198, 18 Agosto 1920, p. 3.

  Balzac si serviva della sua grande penetra­zione psicologica non soltanto nel creare, a tavolino, i personaggi dei suoi romanzi, ma anche nella vita pratica. Il seguente aneddoto, narrato dallo stesso Balzac e riprodotto ora dagli (sic) Annales, lo dimostra. Il famoso ro­manziere viaggiando per l’Austria in diligen­za o in sedia di posta, era messo in imba­razzo ad ogni fermata, quando doveva pran­zare, da questo problema: Come fare per pa­gare? «Non sapevo una parola di tedesco — racconta Balzac- — e non conoscevo la moneta del paese. Era una cosa difficilissima. Ed ecco ciò che immaginai. Avevo una borsa pie­na di «kreutzer» d’argento. Giunto al luo­go di fermata, il postiglione veniva alla por­tiera della vettura. Io lo guardavo attenta­mente negli occhi e gli mettevo in mano un «kreutzer» ... due «kreutzer» ... poi tre ... poi quattro, ecc., finché non lo vedessi sor­ridere. Dal suo sorriso capivo che gli avevo dato un kreutzer di più, e subito lo ripren­devo: il mio uomo era pagato». Evidente­mente il romanziere si diceva: Io non com­prendo il tedesco, non conosco la moneta del paese, ma comprendo il cuore umano, ma conosco il linguaggio della fisionomia, che è lo stesso in tutti i paesi». E aveva saputo fa­re un dizionario del sorriso imprudente e in­genuo d’un postiglione tedesco.


  Corriere Bibliografico, «Corriere delle Puglie», Bari, Anno XXXIV, N.° 211, 3 Settembre 1920, p. 2. 

  Giuseppe Gigli, Balzac in Italia. Contributo alla biografia di Onorato Balzac, Milano, Fratelli Treves, 1920, pp. 236.

  Questo gustoso volume di storia aneddotica, pubblicato recentemente dalla Casa Treves, è dovuto a uno dei più operosi scrittori pugliesi, Giuseppe Gigli, che ha raccolto in esso e illustrato tutti i più svariati documenti editi e inediti, relativi ai viaggi che l’autore della «Commedia umana» fede in Italia dal 1837 al 1846, visitando Milano, Venezia, Roma, Napoli, la Corsica e la Sardegna, e suscitando entusiasmi, discussioni, polemiche e talora aspri giudizi sulla persona e sulle sue opere.

  Chiude il volume un’accurata bibliografia delle numerose traduzioni italiane dalle opere di Onorato Balzac, traduzioni in gran parte infedeli, scritte, e consistenti spesso in cattivi rifacimenti dell’originale. Ci associamo pertanto, molto volentieri, al voto espresso del Gigli, che un editore ben ispirato dia finalmente all’Italia una versione della «Commedia umana», oltre che degna dell’autore, compieta, giacchè quella magnifica storia del costume della società francese nella prima metà dell’ottocento, concepita e scritta secondo un unico disegno, si comprende pienamente soltanto se studiata nel suo insieme. I singoli episodi non possono dare che un’idea frammentaria e inadeguata della grandiosa concezione.


  Giornali e Riviste, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 212, 6 Settembre 1920, p. 2.

  A. Lenzoni, in una recensione del libro, testè venuto in luce «Balzac in Italia» di Giuseppe Gigli, scrive[1]: «Un soffio de la fama di Balzac, fama fondata sull’importanza singolare della sua opera, sui suoi debiti, sui suoi guadagni ... e sulla sua canna, non poteva passare inosservato in Italia, e specie a Milano, dove giunse accompagnato e preceduto da eccezionali commendalizie. Egli era allora nella piena maturità del suo ingegno e i suoi romanzi erano già largamente conosciuti tra noi. Nulla quindi di strano se, al suo arrivo, i Milanesi fecero il grande scrittore argomenta di ogni loro discorso, e se per la strada se lo additavano l’un l’altro, e i salotti se lo disputavano, e articoli, polemiche, mode si crearono per lui: fu veramente l’uomo del giorno. E' meraviglioso come il Gigli, frugando nelle pubblicazioni del tempo, abbia potuto ricostruire tutte le vicende di questo soggiorno milanese di Balzac; vicende non tutte liete, poiché non tutti si piegarono adorando all’idolo d’oltr’Alpe, ma anzi molti, seccati di tanti onori tributati ad uno straniero, o irritati dal contegno di lui, che parve poco riguardoso verso l’Italia e, più, verso i letterati italiani del tempo, levarono proteste e grida, nelle quali, per reazione, non manca l’acrimonia nè i giudizi partigiani e ingiusti o le profezie ridicole. Pensate che Tullio Dandolo, uno dei più fieri oppositori, di Balzac, col quale qualche giorno più tardi, quando Balzac, si recò a Venezia, aveva pranzato insieme in casa della contessa Soranzo, in un articolo intitolato «Simposii», pubblicato sulla «Gazzetta Privilegiata di Venezia» (I.o aprile 1837), arrivò a scrivere queste stolte parole: «Le sue scene, i suoi romanzi, dimenticati dalle generazioni venture, saranno pe’ soli eruditi un'espressione curiosa della corruzione parigina». Ad ogni modo, tutto sommato, si può dire che assai più furono gli ammiratori e i difensori del Balzac che non i denigratori; ed anche articoli sereni e competenti furono scritti sopra, di lui; e il Gigli largamente cita quello, davvero notevole, che Ignazio Cantù, fratello di Cesare, pubblicò più tardi sul «Ricoglitore». Eguale chiasso sollevò il soggiorno di Balzac a Venezia, e poi, quello a Genova, dove egli si recò attratto da un miraggio fantasmagorico. Balzac aveva stretto amicizia con un certo Pezzi, il quale gli aveva fatto vedere la possibilità o la certezza di trarre ricchezze favolose dalle miniere dell’Argentara in Sardegna: il romanziere, ingolfato nei debiti, costruì un castello di sogni su questa possibilità, che, doveva trarlo per sempre da ogni imbarazzo finanziario e dargli il denaro in abbondanza: e a Genova appunto venne per le ricerche relative e per concretare l’affare. Più tardi poi partì da Marsiglia per la Sardegna, che avrebbe potuto inspirare anche la sua fantasia di scrittore, così da farne il Walter Scott della Sardegna: ma là una serie di delusioni, anche dal punto di vista della sua futura letteratura sarda, lo attendeva, che trovò le miniere già occupate, e dovette ritornarsene con le mani vuote. Il Gigli narra poi gli altri viaggi del Balzac in Italia, dei quali notevole quello a Roma. Quando il Balzac giunse nella Città Eterna, era papa Gregorio XVI, il dotto monaco amico delle lettere e delle arti, che ricevette il grande romanziere con molta affabilità, e gli donò anche un rosario benedetto da lui. Roma entusiasmò Balzac, che volle assistere a tutte le celebri funzioni della settimana santa. Fu durante questa sua permanenza a Roma, che egli conobbe il Principe di Peano (sic; lege: Teano), Michelangelo Caetani, e ne apprezzò l’altissima intelligenza e il grande valore come interprete della Divina Commedia. «Comprendere così Dante, scrisse poi il Balzac, dedicando al Caetani il suo romanzo «La cousine Bette», vuol dire essere grande come lui».


  Teatri e concerti. Spettacoli d’oggi. Carmelo D’Angeli al Cine Edison, «Il Lavoratore. Organo della Federazione Socialista della Venezia Giulia», Trieste, Anno XXVI, N. 4742, 8 Ottobre 1920, p. 3.

  La riduzione cinematografica del dramma di Balzac (sic) «Amore mascherato» con Carmelo D’Angeli e Tina Xeo è già troppo conosciuta perché se ne abbia ancora a parlare. Il pubblico torna a ve­derla, con sempre maggior piacere, trattando­si realmente di un lavoro eccezionale. L’in­treccio altamente drammatico e commovente appassiona gli spettatori che, con animo sospe­so, ne attendono la soluzione. Il problema della maternità è trattato con arte sublime, in modo del tutto nuovo. La donna che — paga di avere una figlia a cui dedicare la propria esistenza — non cerca affatto l’uomo, che pur sente di amare, anzi lo vuol allontanare da sé quando il caso glielo porta dinanzi, è difatti originale. E incatena l’attenzione assieme al misterioso fascino dell’amante incognita, del­l’amore che passa; al bizzarro scioglimento dell’avventura di carnevale, all’amore che sboc­cia fra due anime che si amano già da lungo tempo.

  Fanciulle che sognato l’amore romanzesco; l’amore che sfida il tempo e gli ostacoli; aman­ti che dedicate tutti i vostri pensieri e tutte le vostre azioni all’uomo che vi seppe conqui­stare; madri che anteponete ad ogni cura della vita la felicità dei vostri nati; specchiatevi in questo lavoro, dimenticate ogni preoccupazio­ne! Rare volte potete ammirare un simile dram­ma d’amore!

  Prima rappresentazione ad ore 17. Prezzi: Primo posto lire 2.60; secondo posto lire 2.


 Note bibliografiche. “Balzac in Italia” — Giuseppe Gigli — Fratelli Treves editori – Milano, «Il Popolo Romano», Roma, Anno XLVIII, Numero 255, 23 Ottobre 1920, p. 2.

 

 Quando nel 1837, Balzac decise di venire in Italia – precisamente a Milano e a Venezia — grande fu lo scalpore nelle due città. Fra idolatri e iconoclasti, la guerriglia durò accanita: l’aristocrazia, la moda, il giornalismo, il mondo letterario, l’austriacantismo clericaloide e il liberalismo cospiratore: tutti si gettarono, con gesti diversi, sul romanziere francese. Da questa dimora in Italia del notissimo scrittore di cui ancora si conservano in biblioteche pubbliche e private i documenti, ha tratto argomento il Gigli per un’opera accurata interessante che è un vero contributo alla biografia di Onorato di Balzac.


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 257, 26 Ottobre 1920, p. 3.

  La questione se il romanzo poliziesco sia d’origine francese o anglo-sassone è discus­so da Comoedia. Alcuni affermano che que­sto genere di letteratura popolare ebbe per precursore Poe e Conan Doyle per profeta. Ma vi sono, per quel giornale, diverse scuole di romanzi polizieschi, le quali non debbono nulla le une alle altre. La serie francese, in­tanto, è una serie a sè. Già nel «Zadig» di Voltaire si trovano capitoli che han tutta l'aria di racconto polizieschi: si vegga, per esempio, «Il cane e il cavallo». Ma senza risalire tanto lontano, basta rileggere Balzac e ripassare in rassegna alcuni suoi per­sonaggi famosi per riconoscere alla Francia la sua parte d’originalità in materia. Corentin è un poliziotto di genio, e Peyrade un poliziotto di gran talento. Né il grande scrit­tore omise di creare ai suoi geniali segugi degli antagonisti non meno scaltri: Vautrin, detto Trompe-la-Mort mostra un’ingegnosità straordinaria nella sua lotta contro la poli­zia. E tutta la storia dei «Tredici» che cos’è se non un romanzo poliziesco? I Tredici preparano i loro delitti con una destrezza inau­dita, e il loro gruppo di ambiziosi si compone di «delinquenti» sopraffini, tra i quali lo straordinario de Marsay. Accanto a Balzac, Gaboriau, mediocre in confronto del pri­mo, ma personale, E insomma nel corso del XIX secolo la Francia ha dei romanzi poli­zieschi che nulla hanno a che vedere coi ro­manzi similari stranieri. […].


  Giornali e Riviste, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 262, 3 Novembre 1920, p. 3.

  Durante un soggiorno di Balzac a Venezia, lo scrittore non lasciò troppo buon ricordo. La Gazzetta di Venezia ricorda alcuni episodi che rivelano il suo carattere piuttosto acro ed aggressivo. Balzac era stato invitate a pranzo dalla contessa. Soranzo. A tavola si trovarono parecchi giornalisti e gentiluomini, tra i quali il conte Tullio Dandolo. Si discusse, si polemizzò su vari argomenti e Balzac che sul principio si mostrava preoccupato della presenza di parecchi giornalisti, che egli odiava da lungo tempo, dopo un poco prese parte alla discussione generale e criticò acerbamente I Promessi Sposi, vantandosi quasi di non aver letti gli altri romanzi italiani più in voga: Marco Visconti del Grossi e l’Ettore Fieramosca del D’Azeglio. Il Dandolo lo rimbeccò vivacemente e allora la discussione assunse un tono assai aspro. Il tatto e la gentilezza della padrona di casa poterono scongiurare più serie conseguenze. Il Balzac andava soggetto a certe ineguaglianze di carattere che lo rendevano or docile e gentile con tutti, ora aggressivo e maldicente. Talora si credeva attaccato quando era semplicemente confutato in qualche suo giudizio, nè sempre sapeva dominare se stesso. In una conversazione intima — riferita dal conte Dandolo ad Angelo Fava — Balzac si mostrò alquanto malignetto nei riguardi del suo amico Chateaubriand. Al nome di Chateaubriand surse un rumor generale — scrivo il Dandolo — tutti parlarono, ciascuno ebbe in pronto una formula ammirativa, e quel tale, rivolgendosi col suo sorriso plastico a Balzac, richieselo se aveva dimestichezza coll’autore di Atala e di Renato. «Lo veggo spesso, quando ne ho il tempo». «Come vive?». «Ritiratissimo». «Perché mai?». «La sua ora è passata per lui, come passa per tutti. Gli nuoce che la pubblica attenzione non si arresti più sopra di lui …».


  Cronaca cittadina. I divertimenti. Uno straordinario avvenimento oggi al cinema Borsa. “Il Galeotto” di H. de Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 272, 15 Novembre 1920, p. 3.

  […] Il soggetto è tolto dalla più gigantesca creazione balzachiana che è un vero monumento (?) di umanità sviscerata e messa a nudo nella sua più intima essenza. Il galeotto riassume, sintetizza le pagine più poderose della Commedia umana e le rappresenta al pubblico in una messa in scena accuratissima. All’interpretazione concorsero molti tra i migliori nomi dell’arte muta tedesca e primo di tutti Paul Wegener […].


  Cronaca cittadina. I divertimenti. Il grande Balzac al “Borsa”. Vautrin, Rastignac e C., «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 273, 16 Novembre 1920, p. 3.

  Ieri il pubblico del Cinema Borsa si è trovato immerso in piena epopea balzachiana ed ha visto vivi e … quasi parlanti i più celebri personaggi creati dalla sua fantasia. Il galeotto Colin (sic), alias Vautrin, alias signore di Montignoso; Rastignac, la bella Vittorina, il giovane corso, omicida per gelosia, il prefetto di polizia, Valentino, la duchessa, ecc.

“Il galeotto”

  è un film che rievoca in modo meraviglioso i più appassionanti avvenimenti della Commedia umana […]. Le scene del prologo, coi galeotti al remo, sono scene veramente dantesche, che fanno correre un brivido tra pelle e pelle agli spettatori. La narrazione corre via drammatica, interessantissima, dall’evasione del galeotto Colin, alla sua trasformazione in Vautrin e signore di Montignoso, fino al duello con Valentino ed alle prime avvisaglie di una lotta senza quartiere con la Polizia. Il galeotto farà quotidianamente esaurire, e ad ogni spettacolo, il Cinema Borsa. Vi si proietta un vero e potente capolavoro. L’attore Paolo Wegener è un protagonista (Colin-Vautrin) affascinante.


  Cronaca cittadina. I divertimenti. Lo sbalorditivo successo al “Borsa” di “Il Galeotto” di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 275, 18 Novembre 1920, p. 4.

  […] Esso riassume i più emozionanti avvenimenti della Commedia umana di H. de Balzac, e li sceneggia con una grandiosità epica. Vi sono delle scene dantesche, che sembrano uscire dalla fantasia di Gustavo Dorè. […].


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 278, 19 Novembre 1920, p. 3.

  Avverte Balzac, nella sua «Fisiologia del matrimonio»: «L’argomento di questo li­bro è così grave che ho costantemente cer­cato di «aneddotarlo», perché oggi gli aneddoti sono il passaporto d’ogni morale e l’antinarcotico di tutti i libri». Il consiglio è buono, anche se «aneddotare» è un or­ribile neologismo non meno in francese che in italiano. E di tal metodo egli con larghez­za si valse, non dimenticandolo nemmeno nella famosa meditazione diciassettesima della seconda parte, intitolata: «Teoria del letto»; dove espone «il mezzo sicuro» che aveva trovato una Regina di Spagna «per far dire a suo marito tutto ciò ch’essa vole­va». A tal uopo, ella «aveva fatto mettere delle rotelle al letto di suo marito, per poterlo respingere lontano dal suo, nel caso che il consorte si ostinasse a rifiutargli qualche cosa». I mariti saggi — si chiede, conclu­dendo. Balzac — devono adottare il letto a rotelle?» La questione è ripresa, in una delle sue piacevoli «causeries» sul Temps, da Abele Hermani, il quale osserva che se nei letti moderni le rotelle non sono più di moda, la guerra — o piuttosto una conseguenza della guerra, e cioè la crisi degli alloggi — ha tut­tavia ricondotto le condizioni del matrimonio al medesimo punto in cui lo aveva lasciato il ragionamento di Balzac. Se i coniugi d’og­gi non mettono più rotelle ai loro letti, gli è che. per divertirsi a far passeggiare i mobili in tutti i sensi, bisogna, come la regina di Spagna, abitare dei palazzi nazionali. Nè solo la specie di separazione temporanea di cui parla l’autore della Commedia Umana è ostacolata dalla detta crisi, ma anche il divorzio. Qual’è la prima licenza che il giudice accorda alla sposa irritata? Quella di abbandonare il tetto coniugale e d'avere un domicilio a sè. Ma qui ti voglio! Dove trovarlo questo letto? Nè le mogli, al menomo bisticcio col marito, osano più ripetere la sacramentale minaccia: «Torno da mia madre!» Il marito risponde­rebbe, sorridendo: «Provati, e vedrai come ti riceverà». Del resto le statistiche dei tri­bunali parigini sono eloquenti in proposito: gli sposi più disuniti esitano a rendere questa disunione legittima ed ufficiale ... per mancanza di appartamenti». «A quelque chose malheur est bon ...».


  Cronache torinesi. Spettacoli e ritrovi. Un capolavoro al Cinema Borsa. Balzac e il suo galeotto, «Avanti! Giornale del Partito socialista. Edizione Piemontese», Torino, Anno XXIV, Numero 299, 19 Novembre 1920, p. 3.

  Tutte le persone di buon gusto e che amano i veri spettacoli d'arte, volgono in questi giorni i loro passi al Cinema Borsa, dove si rappresenta una film meravigliosa: Il galeotto, ispirata alla celebre Commedia umana di Balzac e della quale illustra i più romanzeschi episodi. Il successo di Il galeotto è semplicemente sbalorditivo e non potrebbe essere più meritato, sia per la messa in scena grandiosa di una famosa Casa tedesca, sia per la interpretazione che l'attore Paul Vegener dà della figura complicata e pittoresca di Vautrin, il galeotto protagonista.


  Cronaca cittadina. I divertimenti. Una film di eccezione. “Il galeotto” di H. de Balzac trionfa al Cinema Borsa, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 277, 20 Novembre 1920, p. 3.

  Paul Wegener […] è il principale interprete di questo nuovo capolavoro dell’arte cinematografica tedesca, che sceneggia i più romanzeschi e pittoreschi avvenimenti della Commedia umana di Balzac. […].


  Cronaca cittadina. I divertimenti. Sempre folla grandissima al Cinema Borsa per “Il Galeotto” di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 281, 25 Novembre 1920, p. 4.

   Il Galeotto di Balzac, capolavoro dell’arte cinematografica tedesca, ha raggiunto ieri le sessanta repliche, e ancora la folla si ammassa al Cinema Borsa. Si tratta in verità di uno spettacolo di grandissimo valore, dalla messa in scena grandiosa e dalla interpretazione perfetta, nella quale campeggia il famoso attore tedesco Paolo Wegener, protagonista meraviglioso. […].


  Cronaca cittadina. I divertimenti. Ultimi due giorni di “Il galeotto” al Cinema Borsa. Le cento repliche superate!, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 283, 27 Novembre 1920, p. 3.

  […] mai con tanta abilità era stata posta mano alla Commedia umana di Balzac, traendone gli episodi più salienti e dando ad essi una cornice teatrale così grandiosa. Rivelazione perché il galeotto Colin-Vautrin, il fregoliano eroe di Balzac, è impersonato meravigliosamente dal celebre attore tedesco Paolo Wegener. […].


  Cronaca cittadina. I divertimenti. “Colin” il galeotto di Balzac al “Cinema Borsa”, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 286, 1 Dicembre 1920, p. 3.

  Trasformato nell’ecclesiastico spagnuolo Carlos Herrera, Colin riappare nella 2.a serie della monumentale film sempre più sinistramente potente, sempre più terribile. […].


  Cronaca cittadina. I divertimenti. “Le gesta di Colin” il balzachiano “Re dei galeotti” al Cinema Borsa, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 288, 3 Dicembre 1920, p. 3.

  […] la lotta del delinquente Colin, la più poderosa creazione di Onorato di Balzac, contro l’alta società parigina, lo riempie di ammirazione e di stupore. […].


  Corriere teatrale, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 291, 4 Dicembre 1920, p. 2.

  TEATRO DEL POPOLO. — Questa sera, per spettacolo in onore di Ruggero Lupi, la Com­pagnia D’Amora rappresenta, alla sede cen­trale di via M. Fanti, Vautrin di Balzac, ri­dotto da Alberto Casella, annunciato come novità per l’Italia.


  Cronaca Cittadina. I divertimenti. “Le gesta di Colin”, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 290, 5 Dicembre 1920, p. 4.

  Colin, il re dei galeotti soprannominato Gabba la morte, riempie delle sue gesta audacissime e pittoresche la seconda serie della bellissima cinematografia: Il galeotto. Questa film grandiosa e impressionante, è un capolavoro dell’arte cinematografica tedesca, tratto dal celebre romanzo La commedia umana di H. de Balzac. […]. Oggi ultime repliche di Le gesta di Colin. Domani terza ed ultima serie: La fine di Gabba la morte.


  Cronaca cittadina. I divertimenti. “La fine di Gabba la morte”, 3.a ed ultima serie di “Il galeotto” oggi al Cinema Borsa, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 290, 6 Dicembre 1920, p. 3.

  Va in programma oggi la terza ed ultima serie della grandiosa film rocambolesca e poliziesca tratta dal celebre romanzo La Commedia Umana (sic) di Onorato di Balzac. Coloro che hanno seguito con tanto interesse le vicende del terribile delinquente Colin (sic), il re dei galeotti, accorreranno oggi a vederne la tragica fine dopo una lotta epica con la polizia. […].


  Cronaca cittadina. I divertimenti. Cinema Borsa. “La fine del re dei galeotti”, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 294, 10 Dicembre 1920, p. 3.

  Ancora tre giorni rimarrà in programma La fine di Gabba la morte, il re dei galeotti, il celebre eroe della Commedia umana di Balzac. […].


  Cronaca cittadina. I divertimenti. Successo clamoroso di Grasso nel dramma “Trompe-la-mort”, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 295, 11 Dicembre 1920, p. 3.

  L’annuncio del dramma di Balzac, interpretato dal comm. Giovanni Grasso nella parte pittoresca di Trompe-la-mort ha richiamato ieri moltissima folla al Cinema Royal e il successo è stato spettacoloso. […].


  Adolfo Albertazzi, Autobiografia breve, «Raccontanovelle. Periodico quindicinale diretto da Enrico Cavacchioli», Milano, Anno II, N. 23, 15 Settembre 1920, pp. 7-11.

 

  p. 9.

  — Balzac faceva in questo modo; — e nel modo usato da Balzac a scrivere i romanzi egli pretendeva scrivere la commedia; cioè in enormi strisce da rotolare di mano in mano che si finisce ogni scena.

  Chi era stato incaricato d’andare in cerca di tali fogli tornava a casa afflitto e a mani vuote, quando scorto e salutato dal vicino salumaio, in uno scambio di domande e di risposte, diede a conoscere la causa della sua mestizia.


  Antonino Anile, Arte e vita, in Nella scienza e nella vita, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1920, pp. 227-234.

  pp. 228-233. La produzione artistica può essere indubbiamente considerata anche come un fatto, e noi possiamo sottoporla ad indagine sotto specie scientifica. Ma in questo caso lavoriamo sulla spoglia morta dell’arte e ci restano del tutto estranee le ragioni della bellezza.

  Allorché Scipio Sighele si propone di eseguire un’esegesi critica delle opere di Maurizio Barrès, del Balzac e del D’Annunzio, in quanto contengono verità scientifiche, egli menoma senza accorgersene il valore dell’opera che giudica.

  Un’opera d’arte, quando è veramente tale, sta al di là del vero e del falso, del bene e del male. Il bello è forma e vive nella sua espressione lirica qual si sia il contenuto. De Sanctis e Croce non possono oggi essere ignorati, anche se l’arte si guarda tra gli spiragli dell’armatura ferrea della scienza. Il nostro autore entra nel tempio magnifico e solenne di un’opera d’arte, ma si sottrae all’ impressione indefinibile e profonda di quanto di sacro fluttua nell’aria per piegarsi ad osservare di che natura sono i marmi delle colonne e con quale raggio di curvatura si svolgono le arcate.

  Procediamo per esempï. […].

  Dopo lo studio su Barrès segue un lungo capitolo su Balzac[2] ispirato da un articolo di Vincenzo Morello, il quale nella Nuova Antologia richiamò l’attenzione dei positivisti italiani sull’autore della Commedia umana[3]. Aprite i romanzi del Balzac, consigliò il Morello, e vi troverete tutta la vostra antropologia criminale.

  Incomincia il Sighele: «Scriveva il Lamartine che due sono i caratteri dominanti dell’ingegno di Balzac — la verità e la moralità. Io vorrei aggiungere che questa sua moralità non era premeditata, noiosa e cattedratica, ma risultava come conseguenza necessaria della pittura sincera che egli faceva della vita». Pare veramente al Sighele che v’era bisogno di questa aggiunzione e che il Lamartine meritasse questo commento e che il Balzac potesse darci una moralità diversa da quella che si esprime spontaneamente dal tumulto della vita che egli ci rappresenta?

  L’antropologia in Balzac la si trova con la stessa facilità con cui vi si possono trovare le altre scienze. Lo stesso Sighele infatti vi trova molto di più: dove il Balzac osserva che la donna è l’essere più logico dopo il fanciullo, il Sighele vi scopre in germe tutta la psicologia sperimentale contemporanea, in cui la donna, con un procedimento assai semplicista, viene identificata al fanciullo; dove il Balzac, che era tutt’altro che un democratico, scrive che la massima parte degli uomini si spaventano e si rassicurano, come avviene nel mondo animale, per un nonnulla, il Sighele trova nientedimeno che la intuizione della teoria psico-fisiologica del panico che l’Espinas doveva illustrare mezzo secolo dopo; dove il Balzac nota che il carattere morale rimane non di rado influenzato dalle condizioni fisiche del nostro corpo, il Sighele candidamente esclama che per il grande romanziere la questione del libero arbitrio è bella e risoluta.

  «Le génie, dice Balzac, est une horrible maladie» ed ecco per il nostro commentatore l’annunzio della teoria lombrosiana sui rapporti del genio con la follia. Non importa che il Balzac aggiungendo subito dopo: «il faut être un grand homme pour tenir la balance entre son génie et son caractère» ammetta che la vera grandezza umana non è morbosità.

  La frase «il genio è una malattia», espressa nel fervore lirico di un’opera d’arte, trasforma il suo contenuto quanto diviene argomento d’una dimostrazione scientifica. Il Lombroso ha errato nel voler determinare questa malattia, nel volerla identificare con l’epilessia e nel trascurare che la stessa malattia, cambia natura da individuo in individuo dello stesso livello ed ancora più tra individui di diversa statura morale. Nel pensiero di Balzac la parola malattia, riferita al genio, vuol dire che un valore spirituale maggiore importa qualche cosa di non comune, qualche cosa chi rode e divora giorno per giorno la fragilità del corpo che mal riesce a contenere il mondo enorme che freme dentro di sé. La malattia corrisponde per l’autore della Commedia umana a quella febbre del creare che sa soltanto chi crea e che egli seppe più degli altri, giacché ne morì appena la febbre parve aver tregua. La follia del genio, così come è stata studiata dalla scuola dei positivisti italiani, è fatta di volgari incerte manifestazioni esteriori, ed è per questo che riuscì facile metterla nella stessa bilancia con cui si misura la follia della gente comune. Ma il problema è un altro: ed è stato posto con frase che ancora ci suscita un brivido da Edgard Poe quando, sentendosi definir, folle, rispose: la scienza non ha ancora deciso se la follia non debba essere considerata come il sublime dell’intelligenza; se tutto quanto nella storia è gloria, se tutto quanto è profondità di pensiero non risulti di una malattia della mente, d’una maniera di essere dello spirito che si esalta a spese dell’insieme.

  Quando il Balzac parla dell’assassino Tascheron dice: «un tratto della sua fisionomia confermava una asserzione del Lavater su le persone destinate all’omicidio: egli aveva i denti anteriori incrociati. Gli stessi rilievi di note somatiche speciali troviamo quando ci presenta Farrabesque. Ma v'è ancora di più: Vautrin dice ad Esther: voi non potete essere che una donna fatta per l’amore e, malgrado le più seducenti teorie degli allevatori di bestie, io penso che quaggiù non si possa divenire che quel che si è. Queste ultime parole autorizzano il Sichele (sic) e a proclamare il Balzac precursore inconscio di ciò che è il caposaldo della scuola positiva italiana – l’esistenza cioè del delinquente nato. Ed accanto al delinquente nato v’è anche quello di occasione. Un mestiere lungamente praticato imprime note caratteristiche speciali agli individui che lo esercitano; e la comune osservazione richiama al Sighele il ricordo di un lavoro di Gabriele Tarde sulla criminalità professionale. Potrei molteplicare all’infinito gli esempï di questo nuovo saggio delle opere d’arte, e potrei anche divertirmi a pescare nella Commedia umana conclusioni contrarie, dati di fatto opposti. Poi che l’opera di Balzac in complesso non è che lo sforzo meraviglioso d’una mente umana a dar fondo a tutto l’universo sociale, è logico che vi tumultuino dentro elementi per tutte le teorie, per tutti i sistemi, per tutte le velleità dei commentatori presenti e futuri. L’opera di Balzac è la vita istessa. Nella sua coltura non sono mancati influssi scientifici ed è noto che egli era a conoscenza delle ricerche di Buffon e di quelle di Lamarck. Ma, a differenza dello Zola, e, per fortuna dell’arte, egli non sottomise la sua ispirazione a vantaggio di un postulato scientifico.

  Il Sighele ha torto quando ci vuol dimostrare che il Balzac considerava la società con metodo naturalistico. La pagina balzachiana che il Sighele ci trascrive per confermare il suo asserto, dimostra proprio il contrario giacché termina con queste parole: «L’état social a des hasards que ne se permet pas la nature, car il est la nature plus la société».

  L’antropologia criminale lombrosiana è ormai sorpassata; ed ora lo studio delle note esteriori della delinquenza è sostituito dall’indagine psicologica, alla quale tuttavia non poca parte sfugge del problema complesso della criminalità. Ma qualunque sia il problema scientifico non giova trovare aiuti e corrispondenze nelle opere d’arte giacché per un artista non esiste che il caso particolare, mentre per lo scienziato non esistono che classi, categorie, generalizzazioni. Vautrin per Balzac è soltanto Vautrin ed è per questo eterno, mentre il tipo criminale scientifico ha contorni evanescenti e passa da una forma vaga ad un’altra, senza mai posa.


  Camillo Antona-Traversi, Dei diritti della storia sulla vita privata degli uomini grandi, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CCVI – della Raccolta CCXC, Fascicolo 1158, 16 Giugno 1920, pp. 365-371.

  p. 570. Non può negarsi che l'epistolario degli uomini grandi contribuì, in larga misura, alla loro gloria. In Francia, Onorato Balzac parve ancora più grande dopo la pubblicazione delle sue commoventissime lettere alla signora Hanska.


  Antonio Baldini, L’alpino e la libreria, in Salti di gomitolo, Firenze, Vallecchi Editore, 1920, pp. 71-76.

  p. 75. Evidentemente gli dà noia il fatto di non sapere scegliere, fra tanti. Va da una parete all’altra come una lupa in gabbia. Monta sopra una panchetta per riconoscere gl’inquilini dell’ultimo scaffale. Balzac, Zola, Flaubert, Maupassant, France. No, no, no, no, no. E poi son troppo lunghi.


  Piero Barbèra, Quaderni di memorie stampati “ad usum Delphini”, Firenze, G. Barbèra Editore, 1920.


Ricordi giornalistici, pp. 85-132.

  p. 130. Son persuaso che il tempo che il Pratese passò a Potenza sia stato il più infelice della sua travagliata esistenza. A chi ha letto lo squisito bozzetto di Mario Pratesi Un corvo fra i selvaggi, pubblicato prima nella Rassegna settimanale e che fece furore ... in Inghil­terra tradotto in inglese, illustrato e commentato, o a chi ha familiari le Scènes de la vie de province dell’inarrivabile Balzac, non ho bisogno di descrivere l’ambiente ove gli toccò a vivere e i personaggi con cui ebbe che fare: mi basti dire che il povero Pra­tese fu proprio ... «un corvo fra i selvaggi».


Amici e conoscenti, pp. 151-232.

  p. 203. Suo padre [di Francesco Caldini] era un avvocato penalista assai ricer­cato, il profeta del Ponte a Sieve, di cui allora era sin­daco e ne fu poi deputato; democratico di manica larga, un po’ tribuno da caffè o almeno da farmacia, si ammansì e finì commendatore; ma sebbene non avesse un patrimonio, nè alla politica nè al foro chiese illeciti guadagni; Balzac non lo avrebbe trascurato in qualche quadro della sua Vita di provincia.


Autori e editori.

 

  p. 296. Per le troppe correzioni Balzac invece di arricchir con l’inesauribile produzione del suo genio, visse nella miseria, e si racconta che Cousin fece spendere ai suoi editori 50,000 franchi per la stampa di un’opera di filosofia.


  Raffaello Barbiera, La gaja vita di Gioachino Rossini a Venezia e gli esuli, in Voci e volti del passato (1800-1900) da Archivi segreti di stato e da altre fonti, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1920, pp. 90-105.

  pp. 101-102. Ma più della Semiramide, sollevò entusiasmo a Venezia l’opera biblica Mosè, creata cinque anni prima di quella: Mosè, che per lungo tempo parlò al cuore dei patrioti, degli esuli.

  Balzac, alla angosciata, sublime preghiera

                                     Dal tuo stellato soglio

  diceva che gli sembrava d’assistere alla risurrezione d’un popolo.


  Bergeret [Ettore Marrone], Una tela di romanzo, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 81, 3 Aprile 1920, p. 2.

  Trasfigurare poeticamente il proprio guscio è il modo dato a chiunque per elevarsi sopra il proprio destino e apparire esteticamente ammirabile, come ci insegna lo stupendo Birotteau di Balzac, profumiere nobile al pari delle più nobili creature della fantasia. Ma Birotteau, non appartenendo a una democrazia, non essendo cioè esercente nominato Cesare era immune dalla Feroce insania dei Cesari. Se gli avessero detto che, per inspirazione e sopra lettura d’un testo giornalistico egli era chiamato a deliberare, spazzando con una gomitata i legalmente investiti e competenti, della salute dello stato della grandezza della patria […], Birotteau sarebbe corso atterrito al confessionale a invocare soccorso contro il diavolo che lo aveva tentato. Al buon tempo antico che gli scienziati specialisti chiamano la prima età del capitalismo, il padrone era uomo limitato cioè forte, e la bottega elemento di conservazione sociale.


  Bergeret, Marginalia, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 138, 11 Giugno 1920, pp. 1-2.

  p. 1. Nel libro di Faguet su Balzac, leggo che il romanziere si compiaceva di raccontare come, in una casa russa, una governante che portava il the, nell’udire la padrona pronunziare le parole: «— Dicevate, dunque, signor di Balzac ...» — fu talmente colpita dall’apprendere quale iddio le stesse dinanzi che lasciò cadere il vassoio. E Balzac, raggiante, esclamò: «— Ora so che cos’è la gloria!». Infatti quello che comunemente s’intende per gloria non è altro che la capacità venerativa delle governanti, trasferita, con la divulgazione della lettura, dall’immagine di Sant’Antonio col giglio al personaggio di cui si legge nei giornali. Un uomo che si rispettasse la tollererebbe solo nel caso di freschezza e graziosità della governante debitamente provate: ma, fra la gente di cui i giornali parlano, uomini che si rispettano si trovano solo per accidente, per lo più nella cronaca dei suicidi. Nel riferire l’aneddoto, Faguet osserva giustamente che il vassoio sarebbe caduto lo stesso per Federico Souliè (scrittore tanto ammirato e celebre allora quanto oggi dimenticato); con la quale osservazione si restituisce la gloria alla sua sfera, che è non la sterile e passiva ammirazione delle moltitudini bensì la reazione vitale precotta dalle opere nei pochi destinati a reggere e infuturare lo spirito del mondo. Esecrando gli architetti del gotico, Raffaello li faceva collaborare all’arte della Rinascenza e vivere oltre la morte; ammirandoli sull’ingiunzione della guida, il turista li riammazza col renderli partecipi della buaggine sottomessa ai giudizi di autorità. Ma Balzac, bisognoso dell’ammirazione altrui, cioè democratico di temperamento sebbene sostenitore in teoria della Restaurazione, agognava l’immediato successo presso le masse. Subiva con gioia la incomprensione estatica. La vanità, difetto servile conforme alle età e ai temperamenti democratici, gli impediva di riconoscere nel successo immediato ed estensivo, quella misura che adegua la Commedia Umana ai Misteri di Parigi o i Promessi Sposi al Marco Visconti o Petrella a Verdi, e che è l’umiliazione e la mortificazione del genio. Il grande artista che è anche grande uomo, e in luogo del segno plebeo della vanità porta quello signorile dell’orgoglio, irrompe invece tempestando nella bottega del fabbro che dice il libro «non come io lo feci».


  Emilio Bodrero, Notizie letterarie. Ada Negri: “Il libro di Mara”. Milano, Fratelli Treves […], «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CCVII – della Raccolta CCXCI, Fascicolo 1160, 16 Luglio 1920, pp. 188-194.

  p. 189. Gli affetti coniugali possono essere ben si soggetto di quell’arte onde Andromaca ed Alcesti rimangono le figure immortali, né scendendo assai più in giù, nulla ci urta nella petrarchesca disperazione di Berardino Rota, perché un’estetica castità solleva il nostro pensiero in una sfera superiore: quando Paride ed Elena vanno a letto, Omero chiude il suo canto. D’altra parte le disquisizioni matrimoniali di Balzac o di Schopenhauer, hanno uno scopo superiore all’arte con cui sono espresse e riacquistano una lor purità nel fine sociologico o filosofico che si prefiggono.


  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Federigo Tozzi, «I Libri del giorno», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno III, N. 4, Aprile 1920, pp. 171-175.

  p. 175. C’era in lui la stoffa per un altro Balzac, meno travolgente ma più limpido.


  Giosue Borsi, Le Ridevoli Istorie. Saggio di versione dei “Contes drolatiques” di Balzac. (Disegni di Opolski), «Simpaticissima. Pubblicazione mensile illustrata», Roma, A. F. Formíggini Editore, Anno II, N. 2, Agosto 1920 1920, pp. 1-59, ill.

  In questo fascicolo, sono contenuti quattro testi inerenti ai Contes drolatiques balzachiani che abbiamo già avuto modo di segnalare precedentemente (cfr. la sezione: Traduzioni): si tratta del ritratto di Giosue Borsi redatto dall’editore Formíggini (pp. 5-6) trascritto integralmente in una scheda successiva; la traduzione, curata dal Borsi, del Prologo (pp. 7-11), e dei primi due contes appartenenti alla Prima decina: La bella Imperia (pp. 13-26) e Il peccato veniale (pp. 27-59).


  Arrigo Cajumi, Balzac in Italia (2), «I Libri del giorno», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno III, N. 9, Settembre 1920, pp. 465-467.

   (2) Giuseppe Gigli, Balzac in Italia. – Milano, 1920, Fratelli Treves, editori, L. 6.

  Considerando i rapporti tra Onorato di Balzac ed il nostro paese si potevano distinguere due soggetti di studio per chi avesse voluto appro­fondirli: ciò che pensò di noi il B., le ispira­zioni che ne trasse, le influenze che su di lui agirono, oppure come fu compreso lo scrittore francese dai suoi contemporanei italiani, le accoglienze che ne ebbe, il dominio che esercitò su di essi. Si sarebbe così avuto un Balzac e l’Italia” o un “Balzac in Italia”: Giuseppe Gigli, che ha scelto il secondo tema ha talvolta sfiorato la materia del primo. Illustrare le ripercussioni dell’arrivo e della presenza del B. in Italia servendosi di documenti del tempo, doppiamente caratteristici sia nei riguardi del pensiero e delle dottrine morali della genera­zione di allora, come in quelli della fortuna del B. in Italia, ecco lo scopo del Gigli, che è raggiunto.

  Il 15 settembre 1832, il B. scriveva da Aix alla sorella: “Sono alle porte dell’Italia e temo di soccombere alla tentazione di entrarvi. Il viaggio non sarebbe costoso; lo farei con la fa­miglia Fitz-James .... Costerebbe mille franchi l’andare da Ginevra a Roma; la mia parte sa­rebbe di 250. A Roma mi occorrerebbero 500 fr., poi passerei l’inverno a Napoli”. E il 23 stesso mese, alla madre: “La mia partenza per l’Italia non avrà luogo che il 10 ottobre ... Avrò fatto un bel viaggio, visto l’Italia, le cose d’arte, le feste, i teatri”. Non ne fece nulla, come si ri­leva da una lettera dell’ottobre da Ginevra, in cui dice: “Per me è più saggio rientrare per tre mesi in Francia”. Comunque abbiamo qui già potuto scorgere quello che il B. osserverà in Italia.

  Il 3 aprile 1834, quando Mme Hanska è a Fi­renze, Balzac le scrive promettendole di rag­giungerla per il 1° maggio (“vedere Firenze con voi!”) e intanto le chiede notizie di To­rino e persiste nella speranza (“verrò, pieno di gioia, in Italia a cogliere la vostra approva­zione come una dolce ricompensa”); parla di raggiungerla a Roma (“vorrei vederne, in otto giorni, tutto ciò che vi è di realmente bello, di bene, di capitale, che va all'anima”) ma nel maggio scrive di “seppellire i suoi voti per la visita a Roma” e la rinunzia nel giugno è de­finitiva.

  Del viaggio del 1836 non abbiamo che un cenno brevissimo in una lettera dell’agosto 1836 a Mme Hanska: “Rothschild mi ha dato una let­tera di credito per l’Italia e ho colto il prete­sto di andare a Torino per rendere un favore a una persona [il conte Emilio Guidoboni-Visconti], che aveva un processo a Torino e non poteva andarvi. In venti giorni, fui colà pel Cenisio e ne tornai pel Sempione ... Voi indo­vinerete che ho alloggiato in Piazza Castello ....”. Ed un altro, anche più scarso in una lettera a Louise (Correspondance, I, 369-371). In una lettera a Mme H. nel 10 aprile 1837 da Firenze, il B. scrive: “in un mese ho percorso rapidis­simamente una parte della Francia, un lato della Svizzera, Milano, Genova, Venezia, e dopo essere stato detenuto al lazzaretto per inav­vertenza, eccomi da due giorni a Firenze;” e la lettera, terminata il 13 aprile, ci dà tutte le impressioni del B.: Venezia, creazione divina, gli sembra senza pari, ma “l’Italia mi è parsa una terra come tutte le altre”. Ed è Venezia che più lo ha colpito, sin da piangere davanti a una casetta in stile gotico sognandovi una vita di lavoro e di felicità. La galleria dei Me­dici a Firenze, che ha visto di corsa, gli fa scrivere: “bisogna tornare qui se si vuole stu­diare l’arte”. Come in tutto il suo epistolario, l’importante è il lavoro e l’amore, le altre no­tazioni sono brevi, superficiali, affrettate. In­tanto i nostri giornali si occupano di lui per segnare i tratti della sua fisonomia mondana con un pettegolezzo di cronaca davvero singo­lare e curioso, a cui si uniscono alla rinfusa i titoli dei romanzi. “Festosa accoglienza” viene fatta al B. ma non si tralascia di osservare che in lui nulla v’è di etereo, e si rilevano la vi­vacità e la mobilità caratteristiche. Si richia­mano gli aneddoti sui debiti dello scrittore e sulla famosa canna che fu lo spunto del roman­zetto omonimo di Delphine Gay, e non mancano le voci discordanti dei conservatori, ignari del Médecin de campagne, e le critiche per i gua­dagni eccezionali del romanziere; Andrea Maffei rimprovera alla moglie le assiduità del B., ciò che contribuisce a far nascere commenti nella turba degli ammiratori lombardi. Antonio Lis­soni durante questo tempo si scaglia contro il B. con un opuscolo “Difesa dell'onore delle armi italiane, oltraggiato dal signor Di Balzac, ecc. …” prendendo motivo da alcuni personaggi di Les Marana, italiani, come se un romanziere potesse creare tipi spregevoli sol­tanto di uomini del suo paese; Gaspare Aureggio pubblica trentacinque pagine laudative, coi titolo di “De B. pensieri di G. A.” che hanno singolari confessioni di incomprensione, e Igna­zio Cantù un lungo articolo in cinque parti, che il Gigli dice “sereno ed equilibrato” ma che certo contiene inesattezze, come là dove af­ferma la stranezza dell’ortografia” dei Contes drôlatiques. Un capitolo del libro del G. è de­dicato al B. e al magnetismo, ed è attraente. A Venezia il B. trova censure per il lato mo­rale dei suoi romanzi, e quello che è più in­teressante, ha un dibattito con il conte Tullio Dandolo per non aver mostrato di ammirare i Promessi Sposi, Marco Visconti ed Ettore Fieramosca, prova del dominio che allora la po­litica esercitava sulla letteratura: è difeso da Tommaso Locatelli che garbatamente distrugge l’articolo del Dandolo, che offriva spasso alla più viva ironia, ma il Dandolo trova pure un difensore, nemico del B. per il tipo da questi creato della donna di provincia, e le pagine ri­portate dal Gigli sono un gustosissimo saggio delle intemperanze romantiche.

  — Il 20 marzo 1838, il B. scrive a Mme Zulma Carraud “parto domani per Tolone; venerdì sarò ad Ajaccio. D’Ajaccio vedrò di passare in Sardegna”; si tratta della seconda speculazione del B. quella delle miniere d’argento dei romani da sfruttare in Sardegna, progettata dal gennaio (Correspondance, 336) però all’orizzonte sono frasi come queste “se fallisco, alcune notti di lavoro avranno ben presto ristabilito l’equili­brio”. Ajaccio gli pare civilizzata come la Groen­landia: vede la casa di Napoleone e si informa di minuzie storiche e biografiche “la Corsica è uno dei più bei paesi del mondo” ma v’è pi­grizia incredibile, e miseria. Tra Alghero e Sassari, nell’Argentiera, dovrebbero essere le miniere, intanto l’Africa comincia qui: scorgo una popolazione stracciata, interamente nuda, bruna come gli Etiopi” e prosegue con descri­zioni degne “della Polinesia: foreste vergini, selvaggi”. Da Genova, il 22 aprile, B. dà l’an­nunzio alla Hanska del mancato successo della spedizione, in cui era stato preceduto da certo Giuseppe Pezzi, negoziante genovese. Milano gli ha dato l’ispirazione di un’opera “di amore felice” poi scrive di preferire Firenze: il 23 maggio è in piena dolorosa nostalgia (“una nera esistenza sotto al sole”) e scrive di co­minciare a credere “che la fama ha ragione quando attribuisce alle italiane qualcosa di troppo materiale in amore e dà il nome della sola donna “spirituelle et instruite que j’aie ren­contrée en Italie, c’est la Cortance, de Turin”. Ripartì il 6 giugno 1838.

  Nell’ottobre 1845 torna in Italia. Le impres­sioni che abbiamo nella sua corrispondenza sono retrospettive, non datate sul luogo. A Pisa am­mira il Battistero, a Civitavecchia ama il luogo ov’era stata la H. Non c’è altro. Più tardi ri­corderà i giorni di battello e le corse fatte a Napoli, e nel dicembre desidererà di tornarvi.

  Il 21 marzo 1846 parte da Marsiglia, e manda in seguito alla sorella una lettera così datata “Da Roma, la città eterna, prima della mia partenza, 1846”: dice di esser stato ricevuto dal pontefice, è entusiasta del Vaticano, di San Pietro, delle rovine. Andare a Roma è necessario, altrimenti non si saprà nulla dell’anti­chità, dell’architettura, dello splendore e dell’impossibile realizzati” — Roma sarà uno dei più bei ricordi della mia vita”; gli dispiace di lasciarla; vi ha acquistato un Sebastiano del Piombo, un Bronzino, un Mirevelt. Nel novem­bre 1846, a Parigi scrive L’Italia si prepara a scuotere il giogo dell’Austria” (II, 303).

  Nel corso dell’esposizione si è visto che il B. prestò attenzione quasi esclusiva alle opere di arte, scarsa alle bellezze naturali e agli uomini: ebbe idea di studiare sul luogo le Scene della vita militare visitando le “Alpi di Genova”. – (II. 17). Si spiega pensando che i suoi personaggi erano bensì frutto di osservazioni dirette, ma elaborate poscia per lungo tempo nella sua fan­tasia (quest'ultimo lavoro più intenso del prece­dente); quindi se può darsi che il B. abbia tratto ispirazioni da uomini dell’Italia, certo quando tutto passava sulla carta l’impronta era roman­tica e francese. Nella sua corrispondenza egli notò solo qualche signora dell’aristocrazia, parlò di una lettera di Manzoni (I, 440) della speciale bianchezza delle nostre donne, raccolse e ado­però alcuni vezzeggiativi. Riassumendo, non ebbe che visioni di arte, e i nostri non anda­rono oltre la curiosità mondana (sia pure ec­cessiva) e la discussione della moralità della sua opera. Neppure si può dire che lo conside­rassero come creatore di un nuovo concetto di osservazione della vita, poiché manifestamente il Balzac venne riattaccato alla letteratura in­dustriale del suo tempo, confinandolo energica­mente nel suo “bel mondo” parigino, a cui si volle opporre la severa tristezza e serietà della nostra vita sociale a substrato politico e pa­triottico.


  Arrigo Cajumi, Francia. Baudelaire intimo, «I Libri del giorno», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno III, N. 11, Novembre 1920, pp. 594-595.

p. 594. Tutta la sua corrispondenza è una lotta affannosa per soddisfare il bisogno assoluto di denaro, un continuo progetto di opere e di edizioni, ma, se il fondo è lo stesso di quella del Balzac, in questi è la travolgente forza di una volontà creatrice che, tutt’al più, si affatica e geme, ma non languisce, mentre in Baudelaire si fa luce lo sforzo della composizione e lo spavento per le lunghe pagine da riempire […].


  Giovanni Casale, Evoluzione e rivoluzione della classe impiegatizia, «L’Ordine Nuovo. Rassegna settimanale di cultura socialista», Torino, Anno II, N. 2, 15 Maggio 1920, p. 11.

 

  Gaboriau (Les gents (sic) de Bureau) servendosi di un umorismo gioviale e bonario, e Balzac (Gli impiegati) con l’acume della sua critica che ci ha lasciato la storia più vera del suo tempo, hanno compiuto una profonda indagine in seno alla classe impiegatistica dei loro tempi, rilevandone tutte le caratteristiche. Nei due libri la veste letteraria, e le necessità del romanzo non hanno nulla tolto all’obbiettività dell’analisi che conferisce alle due opere il carattere del documento storico.

  Gli addetti agli impieghi di stato non sono che degli spostati. Chiunque sia fallito nel tentativo di essere qualche cosa nella società trova sempre rifugio m un ministero. Giornalisti mancati, autori fischiati o non rappresentati, romanzieri che non riuscirono a commuovere il cuore corazzato di un editore, nobili spiantati, commercianti fattiti, giovani ignoranti ed ambiziosi fuggiti dalla gretta provincia alla capitale, trovano sempre uno straccetto di raccomandazione per mezzo di un vecchio amico di casa che ha fatto carriera e che assai spesso ha dei debiti di riconoscenza elettorale verso i parenti del supplicante. La raccomandazione è il mezzo sicuro. Chi può averne una non ha più bisogno di dare alcuna prova di essere competente a coprire il posto cui aspira. Ed è così che incancrenisce ognor più la piaga della burocrazia.


  Benedetto Croce, Corneille, «La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia», Napoli, Volume XVIII (VI della Seconda Serie), 1920, pp. 1-42.

p. 24. Egli non era casista, sibbene un innamorato della casistica: due cose tanto diverse quanto l’amore per le immagini e i racconti di guerra e l’esser effettualmente uomo di guerra, il perpetuo aggirarsi con la fantasia nel mondo degli affari, dei commerci e delle speculazioni (come soleva, per esempio, Onorato di Balzac), e l’essere, in realtà, uomo d’affari.


  Il cronista, Cronaca degli spettacoli. Cinema Borsa, «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno I°, N. 23-24, 10-25 Dicembre 1920, p. 300.

  Galeotto di O. Balzac impersonato dal notissimo attore te­desco «Paul Wegener» per due settimane ha riscosso gli ap­plausi più vivi. La magnifica e forte figura creata dal grande romanziere e che opprime colla sua forza tragica il lettore, è balzata dal sogno alla realtà per opera di chi l’ha dotata d’una vita e d’una figura creando questo film. E’ un’altra delle grandi film, delle veramente buone che il «Borsa» presenta al pubblico torinese che lo capisce e lo dimostra frequentando nume­roso il grazioso locale di via Roma, dove i cartelloni più belli fanno fermare il pubblico ad ammirare.

  Si attendono films non indegne delle forti precedenti.


  Lucio D’Ambra, Consigli d’uno scrittore agli scrittori in sette assiomi e tre corollari, «Lux. Rivista internazionale dell’industria cinematografica», Roma, Anno II, N. 5, Maggio 1920, pp. 15-19.

  p. 18. Sono ben certi [i critici letterari] che Alessandro Dumas padre o Balzac avrebbero, vivendo oggi, disprezzato o ignorato le possibilità del cinematografo come essi le disprezzano e le ignorano?


  Dioniso, La nostra Critica. “Il galeotto” (Uia), «La Vita Cinematografica», Torino, Numero Speciale, Dicembre 1920, pp. 327-328.

  Dalla Commedia Umana di Onorato Balzac, e più pre­cisamente, da alcuni episodi delle avventurose e delit­tuose gesta di Colin (sic), un evaso dalla galera segnato dal marchio infamante ed indelebile, ciclopica figura di cri­minale audace ed astuto, un vero genio del male e del delitto, il noto attore ed inscenatore tedesco Vegener, l’indimenticabile creatore di Bug l’uomo d’argilla, — vale a dire uno dei film più belli e più artistici che sieno stati prodotti, – ha tratto materia per un lavoro cinemato­grafico, che noi abbiamo visto proiettato in tre serie, ma che a buon diritto riteniamo fosse in origine soltanto in due. Questo nostro apprezzamento è determinato dal fatto che, mentre la prima serie: Il galeotto, ha un aspetto organico ed omogeneo come film, ben inteso, chè la ri­duzione del romanzo non potrebbe essere più frammen­taria, episodica; mentre questa prima serie contiene no­tevoli pregi di fattura ed ha uno sviluppo proporzionato; le due serie che poi seguono: Le nuove gesta di Colin e La fine di Gabba-la-morte, considerate separatamente, appaiono l’una e l’altra d’un’esiguità estrema, monche ed incomplete, come parti di un lavoro unico, anzi che due parti distinte o due lavori veri e proprii. Soprattutto appaiono spezzate in modo inopportuno ed inconcludente; ciò che fa appunto pensare ad una suddivisione arbitraria, posteriore all'esecuzione e non comportata dal lavoro stesso; suddivisione fatta per fini esclusivamente lucrativi, e cioè, riducendo a tre programmi, quanto era com­preso appena in due.

  Ad ogni modo, di questo nuovo saggio cinematografico tedesco, noi non possiamo dirne molto tiene ed esserne soddisfatti. Dal lato tecnico, e nella messa in scena, esso non rivela proprio nulla che non sia comune anche a noi e che meriti di esser preso in considerazione. A dire il vero, ci sembra che anche in Germania sieno ormai più innanzi di quanto non risulti da questo film; il quale, ad onta di alcune applicazioni fototecniche di sapor più moderno, lascia trasparire modi e procedimenti d’una tecnica su­perata. Evidentemente si tratta di un film che arriva a noi con ritardo non lieve e la cui fabbricazione risale a qualche anno addietro: perciò, se a quell’epoca poteva anche destare una certa qual ammirazione, oggi lascia perfettamente indifferenti. La Germania, e noi stessi abbiamo dimostrato di saper fare di molto meglio. D’altra parte, ad eccezione della prima serie, tutto il resto del film è piuttosto scadente. Solo la prima Serie: Il galeotto offre un po’ d’interesse, oltre che per la vicenda avven­turosa, — assai solidamente amalgamata non ostante la frammentarietà episodica degli avvenimenti, — anche per un'esecuzione accurata e vigorosa, che attenua le non poche volgarità che vi sono. Ma poi la nostra aspet­tazione, ch’era pur viva e deferente, venne delusa com­pletamente. Lo svolgimento dell’azione si fa via via disorganico e farraginoso; lascia quanto meno apparire la disorganicità di un'azione frammentaria e l’isolamento in cui vengono a trovarsi i singoli episodii. Le volgarità aumentano e si accentuano, passando il segno. La messa in scena è trascurata nei particolari e più dimessa nel­l’insieme. Tutto precipita in basso. Per talune scene dove si arriva allo sconcio pornografico senza scopo, c’è da domandarsi come mai la censura così implacabile e pro­terva contro i films italiani, sia stata invece così larga di maniche. Badate bene; noi facciamo questo rilievo non perché siamo in fregola di moralità; ohibò; in arte e quindi in cinematografia, per noi è immorale soltanto tutto ciò che è brutto. Ora, le scene a cui alludiamo sono immorali non già perché ci presentino le sguaiataggini d’una pro­stituta da strada, ma perché queste sguaiataggini non rispondono ad imprescindibili necessità artistiche, se pur rispondono al vero. Del resto, tutto il film può essere giudicato immorale, giacché nella trasposizione i fatti come i personaggi perdono ogni loro valore artistico. Tant’è grande e poderosa la concezione balzacchiana, quant’è meschina la visione cinematografica. Là il delitto più cupo è approfondito come fenomeno sociale e individuale, è la conseguenza d’una forza ignota e formida­bile che preme sulla società e sugli individui e si riveste di luci e d’ombre nell’afflato animatore dell’artista; qui è il fatto sensazionale di cronaca nera, nudo e crudo. Pertanto noi diciamo queste cose non in odio a questo film, ma in difesa di moltissimi altri nostri films i quali, quanto a criminalità, cioè quanto a elementi immorali e nocivi, non sono tali da starvi a pari; e ciò nondimeno sono ingiustamente perseguitati dalla Censura.

  Ma di ogni cosa sgradevole o difettosa che si trovi nel film, ci compensa l'interpretazione che il Veneger fa del personaggio di Colin nei suoi diversi e successivi trave­stimenti. E Veneger è veramente un grande e magnifico artista e la gigantesca figura di questo malfattore concepita dalla vulcanica mente di Balzac, modellata nel bronzo della sua prosa scultorea, trova in lui un inter­prete profondo ed assoluto. Egli crea il personaggio, lo plasma poderosamente, gli dà un’anima, e poi assume tutti i volti che a lui piace di assumere per necessità di avvenimenti. Però sotto qualunque maschera abilmente portata l’anima torva dell'antico galeotto è sempre pre­sente e pronta ad esplodere con ira e con ferocia. Così il Veneger dà ancora una volta una possente manifestazione della sua arte con una mirabile interpretazione che vale di per sè sola tutto il film, lo domina e lo sovrasta e ne fa dimenticare le pecche.


  Eugenio Donadoni, Rassegna di romanzi e di novelle, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CCVIII – della Raccolta CCXCII, Fascicolo 1166, 16 Ottobre 1920, pp. 355-366.

  [Su: Rosso di San Secondo, Le donne senza amore].

  p. 358. Egli osserva, riflette, s’indugia: e si arriva alla fine del libro non senza una certa stanchezza. Non lo accuso di ciò; bisognerebbe accusare Balzac e Flaubert e Bourget, e quanti scrivono non tanto per colpire la immaginazione, quanto per destare pensieri e suscitare problemi. […].

  [Su: Michele Saponaro, Fiorella].

  p. 359. Se l’artista si fosse travagliato invano nello sforzo, se avesse trovato che l’idea è sempre al disopra degli strumenti che la possono riprodurre, avremmo avuto qualche cosa della tragica novella del Balzac, Le chef d’oeuvre inconnu. Ma ciascuno vede il suo soggetto con gli occhi suoi, e non è questo che importa.


  Luigi Emery, La forma letteraria d’un filosofo, «Poesia ed Arte», Verona-Ferrara, Anno II, N. 2, Febbraio 1920, pp. 33-37.

 

  pp. 35-36. E voglio qui riportare un altro passo (che, del pari , mi si presenta, fra tanti, ad apertura di libro), dove il Croce dà la motivazione teoretica di questo stesso suo fare letterariamente spregiudicato (il quale, alla sua volta, ricompare nell’esemplificazione che costituisce questo passo): «Noi, che siamo non giuristi ma filosofi, e ai quali è, perciò , vietato produrre e adoperare distinzioni pratiche, dobbiamo concepire come leggi, e agguagliare in unica categoria, [...] così il diritto canonico e il codice militare, come quel droit parisien, che un certo personaggio del Balzac aveva studiato per tre anni nel boudoir celeste di una signora e nel salotto rosa di un’altra, e che, quantunque nessuno ne parli mai, costituisce (dice il gran romanziere) «une haute jurisprudence sociale, qui, bien apprise et bien pratiquée , mène à tout». (Prat. 333).



 [A. F.?], Libri di cui si parla. “L’ultima maniera d’amare”, novelle di Raffaele Calzini – Firenze, Bemporad e figlio, 1920, L. 6, «I Libri del giorno», Milano, Anno III, N. 11, Novembre 1920, pp. 587-588.

 

 p. 588. Abbiamo detto in principio che non scaglieremo i nostri fulmini su questo estetismo e decadentismo e che non faremo il processo alla mondanità. Possiamo aggiungere che per il nostro gusto la fastosa società parigina in cui viveva Eugenio di Rastignac ci conquista più che la scialba e miserabile vita provinciale della “cugina Betta”.


  A. F. Formíggini, Stile editoriale. Lettera aperta ad un santo (Prefazione al Secondo Numero di “Simpaticissima”: Giosuè Borsi, “Le Ridevoli Istorie” […]), «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno III, N. 9, Settembre 1920, p. 137.

  Giosuè,

  Ed ecco, finalmente, adempiuto il voto! Tu fosti fra i non moltissimi assertori della guerra che santificarono col proprio sacrifizio il sogno che li agitò. Come sei trasumanato, Giosuè, da quando ti conobbi vivo, ridente e pagano! Ora tu sei morto nella gloria e forse la Chiesa ti farà Santo! Quando si partì stabilimmo questo patto editoriale novissimo: se fossi tornato io solo avrei fatto che la tua aurea traduzione dei «Contes», fosse la tua glorificazione; se fossi tornato tu solo e non io, avrei disposto che l’edizione si facesse egualmente e tu vi avresti premesso una nota in cui avresti detto chi era questa «bella macchia» di editore che ti voleva bene. Il fatto non fu legalizzato in carta bollata, ma ora io debbo pure assolverlo come tu lo avresti assolto e assai prima avrei pagato il debito mio se infinite difficoltà materiali non si fossero opposte. Tu avevi solamente iniziata l'opera e bisognava trovare chi sapesse portarla a compimento: scelsi il nostro Palazzi che ti fu amicissimo in vita e che ora è fra i più fedeli alla tua cara memoria. Tu per rendere italianamente il francese rabelaisiano dei «Contes» hai imitato la lingua e il periodare del nostro trecento che ha il vantaggio di una più fresca ingenuità e di una maggiore arcaicità. Il Palazzi si è attenuto invece alla lingua del cinquecento che è più colorita e vivace e più comicamente espressiva. Tu hai avuto presente il Boccaccio, egli l’Aretino, il Doni e il Franco. È sembrato al Palazzi che ciò giovasse ad una maggiore facilità di lettura e che fosse più in carattere, visto che lo stile del Balzac è quello immediatamente posteriore al Rabelais e anzi anche a Beroaldo di Verville: è pieno cinquecento insomma. Il Boileau aveva detto che la lingua francese di quel tempo era povera e grossolana e il Balzac volle con questi suoi «curiosi racconti», dimostrare quanto invece essa fosse ricca ed efficace e pittoresca. Giudicherà il lettore competente chi di voi due meriti la palma nel novissimo agone: è certo che il Palazzi sarà lieto di ogni lode che sia per incontrare la sua fatica, perché quanto più questa sarà apprezzata, tanto più egli sentirà di averti reso onore compiendo lo sforzo da te iniziato. E tu, che volevi bene al Palazzi come ad un fratello, sarai certo contento che io ti abbia scelto a collaboratore un fratello.

  Come è diverso il Giosuè che conoscemmo vivo e ridente da quello che ora rimpiangiamo! E ti confesserò che io, che non sono mai uscito dalle sfere pagane nelle quali tu mi conoscesti e nelle quali, tu pure, ai bei tempi vivevi, sono stato perplesso se questa pubblicazione di una tua opera pagana non potesse costituire ora un sacrilegio e non potesse dare esca all’«advocatus diaboli» quando ti si farà il processo per beatificarti o per farti Santo. Né forse avrei fatta la pubblicazione che ti avevo promesso se i tuoi più fedeli, il Romagnoli, il Bontempelli e il Palazzi, non mi avessero rinfrancato e se persino la tua Mamma, che nell’animo tuo è forse più vicina alla Suprema Giustizia e al Sommo Amore che non sia la stessa Chiesa nella cui fede tu sei morto, non mi avesse chiesto facoltà di ripubblicare questi due primi racconti, che tu a me donasti, quando essa provvedeva a raccogliere in un volume i tuoi scritti minori.

  Così questo saggio della tua magnifica virtù di traduttore avrà probabilmente tre edizioni: nei «Classici del ridere» a cui era destinato (e lì completato dal Palazzi e illustrato con quei disegni di «Gustavino» che a te piacquero tanto e che anche a me sembrano deliziosi), comparirà isolato, a sé stante, affinchè abbia una sua propria personalità in questo fascicolo della mia «Simpaticissima» destinata ad un pubblico più largo (e qui è commentato, ben diversamente, dai disegni di un bravo pittore polacco, l’Opolski. che la rivoluzione bolscevica ha fatto capitare a Roma) e forse la tua Mamma lo ripubblicherà in un tuo volume miscellaneo.

  Caro Giosuè, tu sei l’unico Santo che io abbia conosciuto e non c’è voglia umana di allegrezza che non si spunti di fronte al caso psicologico impreveduto di scrivere una lettera confidenziale ad un Santo! Possa il lettore non partecipare della mia commozione, o almeno dimenticarla, quando assaporerà le carnose polpe della tua prosa umanistica che a me pare ora (e non più di quando tu eri vivo e ridente) cosa destinata a non perire. E il tuo nome, anche senz’altro titolo di gloria letteraria, patriottica o divina, non sarebbe stato dimenticato se tu avessi potuto costruire il magnifico edificio della tua traduzione balzachiana di cui ci hai dato un saggio soltanto, ma tanto saporoso.


  N. Massimo Fovel, Sfacelo finanziario, «Il Lavoratore. Organo della Federazione Socialista della Venezia Giulia», Trieste, Anno XXVI, N. 4808, 29 Dicembre 1920, p. 2.

  La minuscola borghesia, economa e ozio­sa, che Balzac da quel romanziere marxista che è ha scolpito mille volte nei suoi scritti, non c’è più. Il sindacalismo capitalistico e il sindacalismo operaio l'hanno uccisa. Essa oggi lavora. E‘ lavoratrice.


   Arnaldo Fraccaroli, Il Romanzo delle scarpe strette. Novella (Illustrazioni di Enrico Sacchetti), «La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera», Milano, Anno XX, N. 9, Settembre 1920, pp. 633-638.

  p. 633.

  Sposarsi …

  Rocco Sfanga tornò a sorridere.

  Ma in fondo, perché no? Anche Balzac, il grande Balzac, aveva pur detto che il matrimonio è un modo per occuparsi.


  L.[uigi] G.[rilli?], Tra libri e riviste. Balzac in Italia […], «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie Volume CCVIII – Della Raccolta Volume CCXCII, Fascicolo 1165, 1° Ottobre 1920, pp. 280-282.

  Onorato di Balzac, il più prolifico dei romanzieri della prima metà del secolo scorso, pervenne alla celebrità soltanto nel 1870, dopo cioè la pubblicazione della Fisiologia del Matrimonio. Fino a quel tempo il suo nome, associato alle imprese editoriali del Barbier, era rimasto nell’ombra e presso che sconosciuto, anche per la ragione che due o tre suoi libri erano stati pubblicati con pseudonimi diversi. La Commedia Umana, che venne dopo, opera poderosa, tutta pervasa dello spirito cinico che gli aveva inoculato l’ambiente parigino in cui visse, resterà monumento insigne del suo genio e documento fedele del costume della società francese del tempo suo, rispecchiando essa la vita della provincia, della campagna, militare, ecc., in tutti i suoi particolari e in tutte le sue fasi. Egli dell'uomo conobbe le passioni e di queste l’intima essenza; onde può dirsi uno dei più grandi anatomisti dell’umanità. Di lui, della sua vita e delle opere sue molto è stato detto e scritto in vario senso; ma le indagini condotte ora con solerte diligenza da Giuseppe Gigli, ci pongono in maggiore evidenza un lato non privo d'interesse, direi anzi interessantissimo, della vita ch'egli menò nel suo soggiorno in Italia (Milano, Treves, 1920); ciò che tocca da vicino uomini e cose del nostro Risorgimento nazionale.

***

  Raffaele (sic) Barbiera nel capitolo IV del suo magnifico volume: Il Salotto della Contessa Maffei, libro esuberante di ricordi patriottici preziosi e di singolari attrattive, aveva già sfiorato l’argomento e dalla lettura appunto delle pagine del poligrafo milanese ebbe il Gigli la spinta alle nuove e più compiute ricerche.

  Onorato di Balzac venne per la prima volta in Italia nel 1837, quando appunto compiva trentasette anni, avendo bruscamente sospeso il suo viaggio l’anno innanzi per ragioni d’affari, com’ebbe a dichiarare lui, o per contrasti con la di Castries, sua amante, come è lecito argomentare da una lettera indirizzata dal romanziere alla propria madre da Ginevra. Egli arrivò a Milano il 19 febbraio di quell’anno e, presentato alla Clara Maffei da una lettera della Fanny Sanseverino Porcia, richiamò subito sopra di sé l’attenzione dei giornalisti e dei letterati oltre che degli uomini politici che erano assidui del famoso Salotto Maffei. Tutti volevano vederlo, parlargli, stringergli la mano, e il Piazza, un redattore della Gazzetta Privilegiata di Milano, ne diede il ritratto in un articolo in cui spesso l’arguzia e l’ironia si mescolano con frasi e giudizi di non dubbia ammirazione pel grande scrittore francese. «Il signor di Balzac è piuttosto basso che alto della persona; i proventi della sua letteratura lo conservano ben pasciuto ed allegro; la sua educazione e la nascita lo rendono amabile e disinvolto; i suoi talenti spiritoso e vivace; la sua fervida immaginazione parlatore fecondo, preciso, inesauribile. Una felice inclinazione al buon gusto, se non lo ha reso fashionable in tutto il significato della parola, gli ha fatto poi rinunziare a quella lunga capellatura, che, ingombrandogli una volta le spalle, poteva per avventura risvegliare l’idea d’una prefica nello scrittore più gaio e più brillante del suo paese. Non è bello e non è brutto; ma, fra le due, piuttosto brutto che bello; ha sotto il naso una specie di chiaro-scuro che dà qualche lontana idea di mustacchi. Chiome nere ed incolte, naso savoiardo, e due occhi nerissimi nei quali si può leggere compendiato il fuoco, il brio di questo grande scrittore. Parla con modestia di sè, e speriamo che, ripudiando il gradito sistema de’ suoi concittadini, parlerà un giorno con lode anche degl’Italiani che lo ammirano, lo festeggiano e lo presentano di casa in casa, di palchetto in palchetto a tutte le loro Belle». Se non che, in più di una occasione, il Balzac tradì le speranze del giornalista milanese ...

  Intanto storielle d’ogni genere sul conto di lui si portarono in giro nei salotti e nei luoghi di ritrovo. E più che della canna del signor di Balzac, della moda alla Balzac, della sua veste da camera (un paio di calzoni lunghi, con le scarpette di finissimo casimiro bianco e una lunga veste simile, abbottonata sul petto, rotonda intorno al collo, col cappuccio sul dorso, stretta alla persona da una cinta formata da doppi grossi cordoni con lunghi fiocchi di lana bianca), de’ suoi debiti, ecc., la gente s’intratteneva volentieri intorno allo scopo non ben determinato, della sua venuta nella capitale lombarda. I Milanesi non potevano poi tollerare, e giustamente, ch’egli non riconoscesse nei Promessi Sposi un capolavoro; la qual cosa diede motivo a uno scritto più tosto acre di Cesare Cantù, dopo che il Balzac si fu recato a far visita al Manzoni, forse accompagnatovi dalla «piccola Maffei», delle cui grazie era egli già vivamente preso. Si narra che il celebrato autore dei Promessi Sposi regalasse, quale ricordo, proprio un autografo al romanziere francese, il quale non potè da Firenze poco tempo dopo inviarlo, come aveva promesso, alla sua amica contessa Hanska, perché ... lo aveva inavvertitamente bruciato, per accendere il fuoco. Tornato in Francia nel novembre del 1838 scrive una lettera esuberante di memorie personali alla Maffei. Milano, per più ragioni, lo aveva affascinato. «Vi sono giorni, scrive con profonda nostalgia, in cui sogno il Duomo e il quadro di Raffaello (Lo Sposalizio della Vergine a Brera) che abbiamo visto insieme; ma sopratutto sogno una camelia ancora più bianca del più bianco marmo, della più bianca statua, della guglia più bianca ...». Ne deduce il Gigli, che, in fondo, il Balzac era un amante dell’Italia e un estimatore degl’Italiani; non tanto però sinceramente, è da ritenere, se il Lissoni si credette in dovere in un suo opuscolo di prendere la difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiato dal signor di Balzac.

  Comunque, è un fatto che la prima visita del famoso romanziere all’Italia, determinò una corrente assai favorevole verso l’opera di lui, della quale si cominciò a scrivere da molti, esaminandola e recensendola partitamente.

***

  Un lato curioso della vita di Balzac è quello della sua passione pel magnetismo. Già nella sua prima venuta a Milano egli n’era imbevuto e ne aveva frequentemente parlato con gli amici. Tornatovi, nella primavera del 1838, se n’era mostrato entusiasta e non ebbe ritegno di tentare esperimenti che, non riusciti, lo esposero al sorriso poco benevolo degli amici. Il 14 di marzo di quell'anno si recava a visitare Venezia che era allora la città di moda, e, cantata dal Byron, aveva naturalmente acceso nell’anima romantica per eccellenza del Balzac un desiderio vivissimo. «Venise et la Suisse sont les deux créations, l’une humaine et l’autre divine», scriveva egli alla Contessa Hanska. Inutile dire che anche a Venezia il Balzac divenne, come già a Milano, oggetto di curiosità e di ammirazione del pubblico e pare anche di scherzo, come ne testimonia una graziosa poesia, fra le altre, in dialetto veneto di anonimo autore. Un brutto caso ebbe a passarlo un giorno in casa Soranzo, ove gli fu offerto un pranzo, al quale parteciparono, tra gli altri, parecchi giornalisti ch’egli vedeva come il fumo agli occhi. Venendosi a parlare dei Promessi Sposi, non seppe, al solito, risparmiare all’immortale romanzo le sue acerbe critiche, vantandosi per di più di non aver letto il Marco Visconti e l’Ettore Fieramosca. Ci volle tutta la gentile abilità della padrona di casa per scongiurare tristi conseguenze. Le quali, per altro non mancarono di verificarsi poi sui giornali in forma di violenti articoli, specie di Tullio Dandolo, sulla moralità e sulle opere dello scrittore francese.

  A Genova fu il Balzac la prima volta nel 1832, vi tornò poi nel 1837 e 38. Visitò la Sardegna, attrattovi dal fantasioso proposito di una speculazione finanziaria propostagli da un tal Pezzi e alla quale, come già ampiamente fu riferito in queste colonne, dovette rinunziare; e nel ’42, recatosi in Corsica, la trovò un des plus magnifiques pays du monde.

  Sono dell’ottobre di quell’anno e dell'aprile del seguente le ultime visite del Balzac in Italia: mèta superba, Roma. Egli non ignorava ciò che della Città eterna avevano scritto i più grandi letterati, e: «Se avessi la fortuna, diceva, trovandovisi, di finir qui i miei giorni, non mi verrebbe negata a Sant’Onofrio una cameretta attigua a quella dove spirò il Tasso». Da questa visita subì un fascino enorme, e del suo schietto entusiasmo per Roma sono prova le lettere indirizzate agli amici. Pare altresì ch’egli divenisse in questa occasione un ammiratore straordinario e fervente di Dante e del suo poema immortale, avendo assistito a una serie d’illustrazioni che della Divina Commedia faceva in quei giorni il principe Caetani. In quei tempi anche i principi erano dantofili e dantisti!

  Con l’anima tutta piena dell’Italia e della grandezza de’ suoi monumenti Onorato di Balzac lasciò Roma alla fine di aprile dell’anno anzidetto. Morì il 20 agosto 1850 dopo pochi mesi che aveva potuto finalmente sposare la donna del suo cuore, la Contessa Hanska, già sua amica ed amante.

  Molto abbiamo spigolato dal bel volume di Giuseppe Gigli e molto più avremmo potuto spigolare ancora se lo spazio ce lo avesse consentito. Ma questo che abbiamo detto sarà, senza dubbio, sufficiente a mettere in evidenza la bontà e l’interesse dell’opera di lui che completa in certo modo, e degnamente, quanto sul Balzac aveva scritto il Barbiera nell’accennato capitolo del «Salotto della Contessa Maffei».


  Giuseppe Gallavresi, Bibliografia. Giuseppe Gigli. “Balzac in Italia. Contributo alla biografia di Onorato di Balzac”, Milano, Treves, 1920, pp. 236, «Archivio Storico Lombardo. Giornale della Società Storica Lombarda», Milano, Serie Quinta, Anno XLVII, Fasc. III, 1920, pp. 369-370.

  Questo libro è una sfilata di citazioni, giacchè il Gigli, che dichiara fin dal proemio di aver preso le mosse dai volumi aneddotici del Barbiera e li sfrutta largamente, ha però seguito un metodo abbastanza diverso da quello proprio al fortunato rievocatore della società lombarda del secolo XIX. Il Barbiera vuole frugare negli archivii, interrogare i superstiti, ma si è sempre vantato — segnatamente in polemichette col Luzio — di rimaneggiare il tutto secondo i suoi gusti, che si son tro­vati d’accordo con quelli di un largo pubblico. Invece il Gigli riproduce per esteso tutte le testimonianze e perfino gli articoli di giornale che si riferiscono ai soggiorni del Balzac in Italia e sovratutto a quello del 1837 in Milano, al quale è dedicata all’incirca la metà del volumetto. L’erudito potrà esserne grato all’autore che evita più lunghe ricerche, ma, trattandosi di un libro di divulgazione, non ha torto il Barbiera di rifuggire da quelle eterne citazioni integrali. Le apologie e gli attacchi si moltiplicarono nelle due «Gazzette privilegiate» di Milano e di Venezia, nel Ricoglitore, nella Voce della Verità e non mancarono gli opuscoli destinali a rivendicare l’onore delle armi italiane, che si voleva considerare offeso da qualche passo leggero e sbadato di un romanzo del Balzac «Les Marana». Scesero sovrattutto nell’agone gli ex-ufficiali dell’esercito napoleonico, ciò che può farci meglio comprendere tutto quel clamore, quando si consideri che l'oppressione straniera rendeva quasi morbosa la suscettibilità dei patriotti. L’A. riporta distesamente un resoconto semi-serio che Tullio Dandolo credette di dover fare delle conversazioni conviviali tenute a Venezia dal Balzac in casa della c.ssa Soranzo-Londonio, dà estratti, opportuni della corrispondenza del Balzac traducendone in italiano le epistole dedicatorie alle belle dame che gli facevan festa e non dimentica qualche saggio divertente di poesia dia­lettale. La collezione è pertanto completa, i testi son squadernati dinanzi di lettore per solito commentati come può fare una persona colta (1) e sensata. Con tutto ciò oserei dire che il libro è riuscito freddo, e ne esula ogni efficacia di rievocazione. Gli è che l'autore, che apprezza il valore artistico, del Balzac e fa presto giustizia dei preconcetti mora­listici dei denigratori contemporanei, non sembra essersi preoccupato di penetrare addentro il mondo un po’ frivolo, ma tanto vivace, garbato, signorile nel quale venne a vivere il Balzac a Milano, trovandovisi così a suo agio. Il Gigli non ci dice nulla degli ospiti prediletti del Balzac, tralascia di presentarli al lettore tessendogliene la vita e le gesta. Sì potrà ancora pretendere che tutti debbano conoscere la biografia della contessa Chiarina Maffei e fors’anche del conte Tullio Dandolo e dello scultore Putinati (sic). Ma uno schizzo sia pure rapido di casa Porcia e delle sue «connections» coi Vimercati ed i Sanseverino era indispensabile all’interpretazione dei fatti stessi narrati dal Gigli. Non bisogna dimen­ticare che da quel mondo gaudente ed elegante milanese-cremasco uscirono patriotti come i Martini, il Toffetti, il conte Ottaviano Vimercati; che l’Eugenietta di cui tanto parla la dedica della «Fille d’Eve» divenne la duchessa Litta ed ha un posto nella storia d’Italia; che dallo studio di quei gruppi aristocratici molto dovrà trar profitto la storia del costume all’epoca del Risorgimento. Ben venga dunque l’atteso medaglione al quale da tempo lavora il Prior intorno alla dimora del Balzac in Italia. Il Prior conosce le tradizioni orali, oltre le letterarie, e questo volume, del Gigli gli avrà fatto un poco da battistrada.

  (1) Noto solo qualche deficienza un po’ curiosa. A pag. 78 il Gigli cita l’epigrafe «Glissons n’appuyons pas», senza quasi accorgersi che va in testa a tutta la serie delle appendici della «Gazzetta»; più in là fa della C.ssa Teresa Appony Nogarola la moglie del memorialista conte Rodolfo e dimentica che il duca Michelangelo Caetani era cugino della Hanska.


  Giovanni Gambarin, Notiziario. Letterature straniere e comparate. Balzac, «La Rassegna», Firenze, Serie III, Volume V, Anno XXVIII, Numero 6, dicembre 1920, p. 441.

 

 Sul Balzac in Italia (Milano, Treves, 1920) ci dà un notevole studio Giuseppe Gigli. Il sottotitolo (Contributo alla bibliografia (sic; lege: biografia) di O. di Balzac) limita la vastità dell’argomento e mostra quale sia stato (anche se poi non fu seguito fedelmente) l’intento del G.: accompagnare il Balzac ne’ suoi viaggi in Italia, ed illustrarli con quel corredo di notizie e di ricerche che potevano offrire i luoghi dallo scrittore visitati. Comincia così dal primo soggiorno del Balzac a Milano (1837), narrando minutamente quanto se ne pensò e scrisse allora nella capitale lombarda, lo segue nelle sue relazioni con nobili famiglie milanesi, particolarmente con la contessa Maffei, del cui salotto fu assiduo frequentatore; narra la visita fatta dal celebre francese al non meno celebre Manzoni. Passa quindi a parlare del soggiorno a Venezia, delle critiche acerbe a cui diedero occasione certi suoi giudizi sul Manzoni e particolarmente sui Promessi sposi (a cui rimproverava una debole struttura), nonché l’esagerata concezione ch’egli ostentava della propria personalità. Ricorda infine il G. i viaggi del Balzac a Genova ed in Sardegna, dove lo attirava il miraggio di vaste speculazioni minerarie nell’isola, ed ultimo, il viaggio del 1845-46 a Napoli, Civitavecchia, Pisa e Roma, città della quale lo scrittore comprese tutto il fascino profondo. — Tale il contenuto del libro, che, basato su diligenti ricerche e scritto con garbo, si legge con molto interesse, anche se fa pensare che una maggiore brevità non avrebbe nociuto. Mi sembra infatti esagerato il criterio del G. di riportare per esteso quanto del Balzac si scriveva durante il suo soggiorno in Italia. Il libro avrebbe guadagnato se questi scritti fossero stati riassunti, riferendone testualmente solo le parti più importanti. Così nelle citazioni francesi sarebbe stato opportuno o sempre citare nel testo o sempre tradurre. Invece uno svolgimento più ampio meritava ciò che è appena accennato (a p. 75 e passim): quali ispirazioni traesse il Balzac dall’Italia; come abbia, nei romanzi di argomento italiano, ritratto ambienti e personaggi italiani; metteva conto ricercare se si lasciasse, come quasi tutti i romantici d’oltr’Alpe, guidare dal convenzionalismo, per noi non sempre benevolo, oppure se egli (così scrupoloso osservatore della realtà) abbia cercato di penetrare nell’anima italiana. — Ancora, trattandosi d’un lavoro biografico, non sarebbe stato maie insistere meno sui giudizi dati, dell’arte del B., dagl’italiani contemporanei allo scrittore, dai quali chi legge ricava l’impressione che il Balzac sia stato fra noi sempre un incompreso. Il riferimento di tali giudizi sarebbe stato più opportuno in un capitolo che avesse studiato il graduale affermarsi di quello scrittore fra noi. E qui appunto è la deficienza maggiore del libro. Mentre infatti l’autore protesta di compiere uno studio biografico, alla fine non sa rinunziare ad un breve capitolo, in cui crede di «compiere» la storia della fortuna del Balzac in Italia, traducendo le dediche a personaggi italiani (alcune certo importanti) premesse dal Balzac a certi suoi romanzi, e dando un elenco delle traduzioni italiane del Balzac fino ai giorni nostri. Troppo poco davvero! La storia di quella fortuna, della graduale comprensione del Balzac fra noi, dell’influsso ch’egli esercitò sui nostri romanzieri, e non sui nostri romanzieri soltanto, resta ancora da compiere. Mi auguro che il Gigli, che si mostra così entusiasta del soggetto e che, non ostanti le mende qui rilevate, ha condotto con tanta diligenza il suo lavoro, voglia darci un altro capitolo, il più importante ed interessante, sul Balzac in Italia, ossia sulla fortuna avuta fra noi dalla poderosa opera del più grande romanziere dell’Ottocento.

 

  Agostino Gemelli, Le opere di Alfredo Oriani, «Vita e Pensiero. Rassegna italiana di coltura», Milano, Anno VI, Volume X, Fasc. 84-85, 20 settembre 1920, pp. 545-563.

  pp. 559-560. Del Manzoni loda l’Adelchi e i Promessi Sposi, con cui egli «alzò il romanzo genere Walter Scott quasi sino alla maniera del Balzac, con uno sforzo allora incompreso e adesso ancora incomprensibile»; e lo difende coraggiosamente «oggi che i violenti attacchi del Carducci hanno quasi reso di moda il disprezzo del grande poeta e romanziere, che fu naturalista, per usare questa nuova parola, quando solo Balzac lo era».

  In una pagina bizzarra o arguta egli paragona l’opera letteraria romanzesca del 1800 a una città, innalzata dal Balzac, nella quale poi tutti vennero a costruire. Nell’ammirazione entusiasta, l’Oria­ni vede però anche i difetti; e quantunque l’avesse dichiarato su­periore a Dante nell'arte di rappresentare la donna, ora dice che si dibattè trent’anni per scrivere un capolavoro senza riuscirvi; e nella prodigiosa moltitudine di personaggi o di scene riprodotte, l’Oriani sente, come nello Zola, «due brutti difetti, la monotonia dello stile e una suprema volgarità nelle massime come nelle minime cose». «Gli sfuggì il meglio della vita, scrive a proposito di Emilio Zola; l'eroismo del pensiero, del cuore. […]».


 Francesco Geraci, Balzac in Italia, «La Tribuna», Roma, Anno XXXVII, N. 244, 10 Ottobre 1920, p. 5.

 

 Se Onorato di Balzac (1) fu uno dei più originali e fecondi romanzieri del secolo passato, deve la fortuna che gli sopravvive e lo rende anche oggi uno dei più apprezzati, ripensati e riletti a quella impronta caratteristica di verità, di esame e di serenità con cui materiava la spina dorsale delle sue opere, nella quale si incatena e si riflette la vita sociale del suo tempo in tutte le sue forme di ascesa e di discesa.

 Nessun autore più discusso e più calunniato di lui a l’inizio della sua carriera; nessuno, giunto sulla via di mezzo, più accarezzato, più festeggiato, più adulato, più fortunato, cosicché i suoi libri ebbero edizioni a non contarsi, e la sua prodigiosa fecondità letteraria fu citata ad esempio di eccezione finché i Dumas non lo ebbero sorpassato anche nell’immaginazione meravigliosa dei loro romanzi, di cui la sorte non fu meno lieta di onori e di dovizie. In quel torno di tempo, all’apice della fama e della gloria, (1837), Balzac intraprese il giro d’Italia e si fermò, prima sua tappa, a Milano, portando seco alcune commendatizie per quel patriziato e pei letterati più conosciuti. Ebbe liete ed oneste accoglienze dalla contessa Fanny San Saverino, sorella del principe Alfonso San Saverino, ciambellano dell’imperatore d’Austria, gentildonna bella e colta che il Balzac aveva conosciuta a Parigi. Clara Maffei, moglie del poeta Andrea, faceva del romanziere francese, il seguente parlante ritratto: «Se lo immagina forse grande e snello, pallido e scarno, con una di quelle fisonomie che sono già un’ispirazione, una poesia? Si guardi da così bella aspettazione! Egli è un uomo piccolo, grasso, paffuto, rotondo, rubicondo, con due occhi però neri e scintillanti fuoco nel dialogo, il fuoco della sua penna. E chi lo accompagna? Un paggio come nel Lara di Byron, un giovinetto dalla voce soave, dai movimenti docili e molli, una donna infine». In verità Balzac venendo in Italia non era accompagnato né da Teofilo Gautier né da una donna. Quest’ultima supposizione è da scartarsi assolutamente se si pensi anzi che egli si fece trovare dalla San Severino tutto avvolto in una specie di tunica bianca da frate, quella tunica stessa nella quale il Dasfuguy (sic; lege: Boulanger) dipinse il colosso del romanzo moderno nel ritratto che si vede a Versailles nella sala degli scrittori francesi celebri, e che egli indossava come simbolo di castigatezza e di semplicità.

 L’arrivo di Balzac a Milano aveva messo a rumore il campo letterario e quello, diremo così, intellettuale mondano. Balzac fu l’uomo del giorno disputato e desiderato in tutti i salotti. Ognuno voleva averlo veduto o vederlo; tra i primi un giovane il quale diceva «di essersi stretto in intimità con lui a Vienna», indicò ad alcuni curiosi in teatro un capitano dei granatieri, esclamando: «Ecco il signor Balzac!». E le armi ebbero per pochi istanti i congrui onori della giornata.

 Le sue parole, i suoi motti di spirito, qualche suo giudizio trovava accoglienza fin nelle stelle, finché una guerra sorda, a colpi di spillo, non ebbe cambiata la fisonomia della celebrità. E già correva sulle bocche di tutti qualche sua frecciata contro il Manzoni e contro altri maggiori che lo mettevano in cattiva luce. Erano i tempi di quella famosa «terra dei morti» di Lamartine e del colpo di spada di Guglielmo Pepe. Balzac parlando dei «Promessi Sposi» del Manzoni sosteneva che la struttura del romanzo era debole. Allora un simile giudizio sul Manzoni da parte di uno straniero, fosse pure Balzac, pareva quanto di più ingiusto e di più offensivo si potesse contro uno scrittore ritenuto impeccabile.

 Oltre queste notizie, che accendevano delle vivaci polemiche, si rimproverava a Balzac una concezione smisurata ed iperbolica della sua personalità, sino al punto che sul fodero di una statuetta di Napoleone aveva scritto: «Ciò che egli non potè compiere con la spada, lo compirò io con la penna»; e in un momento di esaltazione, a Madame Hanska: «Quattro uomini avranno avuto vera influenza in questo secolo: Napoleone, Cuvier, O’Connell, e il quarto vorrei essere io. Napoleone ha vissuto del sangue di Europa, Cuvier ha disseccato il mondo, O’Connell si è incarnato un popolo; io avrei portato una società tutta intiera nel mio cervello ...».

 Né meno severo giudice del Balzac fu Giuseppe Mazzini il quale in un articolo sulle condizioni presenti della letteratura in Francia, esaminando la produzione romantica francese, compresa quella del Balzac, scriveva che «l’immenso vuoto lasciato dal romanticismo accolse intanto la gente della letteratura «leggera», come essi la chiamano, «volgare e immorale», come a me sembra».

 L’atmosfera pertanto a Milano cominciava ad appesantirsi contro tutte le prove di amabilità che egli riceveva dalle persone più elette e decise di partire per Venezia dove la sua mania di dir male del Manzoni, del Grossi e del Massimo d’Azeglio, gli procurò una quantità di fastidi, più grave di tutti quello con Tullio Dandolo, subito composto, con grazia signorile, dalla contessa Mocenigo Soranzo. Lo stato d’animo di Milano si perpetuava dunque a Venezia per colpa dello stesso Balzac che non seppe, e non volle, quale corda sensibile egli toccasse coi suoi colpi di spillo contro i numi della patria letteratura. D’altra parte, egli si compiaceva nei suoi libri non poche volte, di «mettere in iscena avvenimenti e personaggi italiani, così in Les Proscrits, ove si rileva il culto che l’autore aveva per Dante; così in Facino Cane trova una triste istoria nella quale l’ultimo Principe di Varese originario di Venezia, dopo avere avuta molta potenza ed aver nuotato nella ricchezza, e dopo essere stato l’amante di una dogaressa si riduce a mendicare per le vie di Parigi; così in Gambara in cui si svolgono curiose teorie di arte musicale e dove è un originale parallelo tra Rossini e Beethoven». Però, Les Marana, un libro pieno di errori e di esagerazioni, diedero lo spunto ad un opuscolo del Lissoni che fu ufficiale nell’Esercito napoleonico, combatté in Spagna e nel 1848 comandò la piazza di Milano. La parte spregevole che Balzac fa rappresentare ad un capitano italiano di abbigliamento, un certo Montefiore, di un reggimento quasi tutto italiano che vi aveva procacciato altissimo onore nella guerra, e la più detestabile reputazione nella vita privata, rinfocolò le polemiche che si erano, poco a poco, sopite sui sentimenti antitaliani del Balzac. Polemiche quanto mai ingiuste, tranne che non si vogliano riportare allo spirito dei tempi, una polveriera che aspettava da un momento all’altro che vi si appiccasse la miccia.

 Nulla di male in fondo se Balzac che tante volte si era servito di personaggi italiani per far loro rappresentare azioni commendevoli, abbia messo nella sua vera, o falsa, luce che sia, un capitano di ventura. E niuno è che giuri sulla perfetta onorabilità degli uomini d’arme dell’epoca del Marana, abituati a passare al soldo dell’un capo, e dell’altro, senza altro sentimento che quello della paga e del bottino. Però si battevano bene e tutto il loro onore era legato alla punta della spada. Del resto in Francia dal Balzac a Dumas era ed è invalso l’uso fino ad oggi di scavare e scrutare nei nostri bassi fondi sociali, quando non si creano addirittura, ambienti di losche figure, quasiché un esagerato amor di patria li accompagni nella ricerca altrove di ciò che hanno a portata di mano. Nell’ottobre del 1845 e nell’aprile del 1846 il Balzac visitò per l’ultima volta l’Italia più che per un suo desiderio di rivedere i luoghi ai quali lo legavano tante gradite memorie, per rendere piuttosto un favore a Madame Hanska di cui la figlia Anna voleva, prima di tornare a Roma, traversare il paese del sole. Egli lasciò Parigi il 22 settembre di quell’anno ed accompagnò i suoi amici a Napoli ed a Pisa; né l’una né l’altra città esercitarono del fascino sul suo spirito, non parlandone egli quasi mai nelle lettere alla sua amica.

 Il 23 marzo dopo una rapida corsa a Passy giunse a Roma che produsse nell’animo suo una grande impressione. Egli non ignorava ciò che della città eterna avevano scritto altri letterati e viaggiatori francesi, primo fra tutti lo Chateaubriand che fin dal 1829 aveva desiderato di potervi morire [...].

 Fra le persone conosciute a Roma egli ebbe speciale stima e considerazione per il principe Michelangelo Caetani, duca di Teano, che lo accolse con molta simpatia e gli fu compagno e guida in varie escursioni. Teneva in quei giorni il principe una serie di illustrazioni sulla «Divina Commedia» al Palazzo Farnese e ad una di queste intervenne il Balzac. La parola dotta, calda e suadente del Patrizio romano produsse una grande impressione sull’animo del Balzac che dedicandogli la Cugina Betta, dice: «Non è al Principe Romano, né all’erede dell’illustre casa dei Caetani che ha dato dei papi alla cristianità, è al sapiente commentatore di Dante che dedico questo minuscolo frammento di una lunga storia. Voi mi avete fatto scorgere la meravigliosa intelaiatura di idee sulla quale il gran poeta italiano ha costrutto il suo poema, il solo che i moderni possano opporre a quello di Omero. Fino al giorno in cui vi intesi, la «Divina Commedia» mi sembrava un immenso enigma la cui soluzione non era stata trovata da nessuno, ed ancor meno dai suoi commentatori. Comprendere così Dante val dire esser grande come lui, ma a voi tutte le grandezze sono familiari». Così con l’anima tutta piena dell’Italia e della grandezza di tutti i suoi monumenti, il Balzac lasciò Roma alla fine di aprile e con Roma Madame Hanska ed i suoi amici. Chi era costei? Evelina Hanska, polacca, nata il 6 gennaio 1804, maritata ad un Conte russo, e vedova da pochi anni, era l’amica spirituale, o, come si dice, qualche cosa di più, per Balzac, il quale si faceva condurre da quell’anima eletta secondo il suo piacere. Finì per sposarla più tardi, già stanco e malato al cuore, malattia di cui da un pezzo aveva avvertito qualche sintomo inquietante. Al dottore che lo curava domandò un giorno quanti mesi di vita gli restassero ancora avendone bisogno almeno di sei per scrivere il suo testamento al pubblico. Si convinse dall’ambigua risposta del medico che non gli restavano che sei ore. Si accasciò in se stesso, e l’indomani, 20 Agosto 1850, l’autore della «Comédie Humaine» si spense lentamente.

 Fu vera gloria? Fu veramente una vera e fulgida gloria del suo tempo se questo astro risplende ancora in tutta la sua luce che illuminò ed illumina tante coscienze, e che Giuseppe Gigli ha ricostruito nella sua integra gigantesca figura per farci rivivere una vita che questo secolo crede di superare, ma che non è capace di eguagliare.

 

(1)   Giuseppe Gigli: Balzac in Italia – F.lli Treves – Editori – Milano.


 Francesco Geraci, Ospiti d’altri tempi. Balzac a Venezia, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CLXXVIII, N. 253, 21 Ottobre 1920, p. 3.

 

 L’immortale autore della Comédie Humaine visse un’esistenza quanto mai tribolata. Temperamento insofferente, Onorato di Balzac si compiaceva spesso di viaggiare nella illusione di trovare altrove quel benessere finanziario di cui tanto aveva bisogno per la profonda e serena osservazione delle cose e degli individui.

 La caratteristica del romanziere si può tranquillamente vedere nei mezzi che egli adoperava per salvarsi dai creditori che non gli davano pace. Tormento giornaliero al quale il Balzac finì per assuefarsi e che diede la stura – da parte dei suoi implacabili nemici, gelosi della sua indiscutibile genialità – ad una sequela di montature più o meno contenute entro una doverosa correttezza di linguaggio.

 In uno di questi viaggi en touriste, lo coglie Giuseppe Gigli (Balzac in Italia – Treves, Editore, Milano) e ce lo presenta tal quale: vero, palpitante, sincero, desideroso di svago, cosciente della sua poderosa forza cerebrale, demolitore garbato delle fame letterarie di quel tempo e, qualche volta, stroncatore inesorabile.

 Durante il suo soggiorno veneziano, Balzac si fece interamente conoscere. Ecco perché il capitolo dell’opera del Gigli sulla dimora del grande scrittore a Venezia, merita di essere conosciuto da quanti ancora ignorano lo strascico lasciato da quest’uomo di eccezione nel suo viaggio in Italia.

 Balzac partì da Milano per Venezia il 14 marzo 1834 (sic). Aveva un gran desiderio di visitare la città della laguna, cantata alcuni anni prima da Giorgio Byron, nel Quarto Canto del Pellegrinaggio d’Arnoldo, con accenti di poeta e d’amante [...].

 Il Balzac, in una lettera scritta alla contessa Hanska da Firenze, in data del 10-13 aprile, scriveva che: «Venise et la Suisse sont les deux créations, l’une humaine et l’autre divine qui, jusqu’à présent, me paraissent être sans aucune comparaison et sortir des données ordinaires».

  E ancora: «… Venise, que je n’ai vue que pendant cinq journées, dont deux pluvieuses, m’a ravi. Je ne sais si vous avez remarqué dans le Grand Canal, après le palais, une petite maison à deux croisées gothiques. Toute la façade est gothique pur. Tous les jours je m’y suis fait arrêter et j’y ai souvent été ému aux larmes. J’ai conçu tout le bonheur que deux personnes pouvaient y ressentir, en y demeurant étrangers au monde entier. La Suisse m’est chère, mai[s] à Venise il faut si peu d’argent pour vivre! …».

  La «Gazzetta di Venezia» del 15 marzo usciva con questa notizia:

 «Il signor di Balzac;

 Ieri mattina è arrivato a Venezia il celebre autore francese, il signor di Balzac, e prese alloggio all’Albergo Reale.

 Diffusasi la notizia per la città, il Balzac divenne, come a Milano, oggetto dell’attenzione e della curiosità pubblica».

 Lo stesso giornale, il giorno 16, pubblicava il seguente articolo di critica:

 «Venezia in questo momento possiede uno dei più illustri e fortunati scrittori della Francia, il signor di Balzac. Qui giunto, come dicemmo, l’altro ieri, da Milano. Il nome di Balzac non giungerà nuovo a nessuno dei nostri culti lettori; pochi fra loro non conosceranno già le sue opere ed a molti starà forse tuttora fra le mani una delle sue ultime produzioni, il Lys dans la vallée, che qui vedrà in breve la luce in bella veste italiana e ch’è quella di cui più si compiace il suo autore».

 Questo articolo piacque e fu approvato non solo in Venezia e in Milano, ma anche in altre maggiori città d’Italia, dove eguale curiosità s’era accesa pel romanziere francese e per la sua persona. Egli mostrava di non avvertire il chiasso che si faceva intorno a lui, e continuamente parlava enfaticamente di sé e delle sue opere ad amici ed a conoscenti.

 In Venezia si scherzava su tutto e allora si faceva un gran parlare del vapore, usato come forza motrice, e non ancora applicato su vasta scala con risultati positivi a risolvere il problema dei trasporti. Pare che a proposito della mirabile fantasia del Balzac, si diceva ch’era mossa dal vapore, tanto essa si mostrava feconda e creatrice!

 Si sparse allora manoscritta (e da Venezia passò in Padova e poi per tutto il Veneto) una curiosa e un po’ confusa e lunghissima poesia, di anonimo autore, che credette appunto di mettere in canzonatura il famoso scrittore. La poesia era preceduta da questo cappello:

 Per una poetica gofissima composizion scrita a Venezia da Balzac, in lingua franzese, che xe stada in italiano interamente rifusa da l’ingegno d’un bravissimo poeta, al qual in altra ocasion, definendo l’estro co molto spirito, ga fato veder che più propriamente adesso s’abia da dir che la fantasia vien mossa dal vapor, se col vapor oramai tante cose vien fatte.

 Ecco il brano:

 Un omo de cartelo

 Un talentazzo

 Che i parti appena nati dal cervelo

 Vendendo un tanto al brazzo

 La fama à publicà per leterato,

 E campa i dì beato

 In t’un paese

 Dove sina i putei parlan francese,

 E dove più de qua

 Gh’è la facilità

  Col publico de far bona figura

 Non essendo castrai dalla censura,

 Dopo aver traversà

 Senza vadar a spese, per urgenza,

 A tiro a quatro, co la Diligenza,

 El bel Giardin d’Italia sorprendente,

 Ma che per le so idee xe risultà,

 Cussì l’a dito, cossa indiferente,

 L’è a Venezia za zorni capità,

 E l’estensor del foglio diligente

 El merito a esaltar sempre propenso,

 Ga usà la frusta e sparagnà l’incenso.

 In Venezia avvenne un fatto singolare che per poco non degenerò in vivacissimo alterco. Era stato invitato a pranzo dalla Contessa Soranzo, una gran signora d’animo gentile e patetico, che allora teneva un salotto brillante ed esercitava l’ospitalità con molto garbo e con signorile larghezza. Costei apparteneva al ramo Tomaso Mocenigo Soranzo ed abitava un appartamento nelle Procuratie Vecchie in Piazza San Marco, ove poi moriva nel 1848 Alessandro Poerio.

 A tavola si trovarono parecchi giornalisti e gentiluomini, tra i quali il Conte Tullio Dandolo. Si discusse, si polemizzò su vari argomenti e il Balzac che sul principio si mostrava preoccupato della presenza di parecchi giornalisti ch’egli odiava da lungo tempo, dopo un poco prese parte alla discussione generale e criticò acerbamente I promessi Sposi, vantandosi quasi di non aver letti gli altri romanzi italiani più in voga: «Marco Visconti» del Grossi e l’«Ettore Fieramosca» del d’Azeglio.

 Il Dandolo, cuore e intelletto veramente italiano, lo rimbeccò vivacemente e allora la discussione assunse un tono assai aspro. Il tatto e la gentilezza della padrona poterono scongiurare più serie conseguenze, ella si affrettò a porgere il caffè, e come osserva il Barbiera «le dispute morirono pel momento soffocate fra i sorsi del moca fumante».

 Il Balzac andava soggetto a certe ineguaglianze di carattere che lo rendevano or docile e gentile con tutti, or aggressivo e maldicente. Talora si credeva attaccato quando era semplicemente confutato in qualche suo giudizio, né sempre sapeva dominare sè stesso.

 In una conversazione intima – riferita dal Conte Dandolo ad Angiolo Fava – Balzac si mostrò alquanto malignetto nei riguardi del suo amico Chateaubriand.

 «Al nome di Chateaubriand surse un rumor generale – scrive il Dandolo – tutti parlarono, ciascuno ebbe in pronto una formula ammirativa, e quel tale, rivolgendosi col suo sorriso plastico a Balzac, richiesolo se avea dimistichezza coll’autor di «Atala» e di «Renato».

-         Lo veggo spesso, quando n’ho il tempo.

-         - Come vive?

-         - Ritiratissimo.

-         - Perché mai?

-         - La sua ora è passata per lui, come passa per tutti. Gli nuoce che la pubblica attenzione non si arresti più sopra di lui ...».

 Riguardo al commercio librario, Balzac disse:

-         Qualsiasi romanzo in due volumi in-8° di autor noto vendesi a Parigi 15 franchi e costa al libraio 4 franchi per l’autore, 5,50 per gli annunzi e per la carta e stampa, 3,50 per ribasso ai rivenditori: ecco 13 franchi di spese nette.

Contansi in Francia cinque nomi soli la cui popolarità è una miniera: Curier è il principe delle scienze; Chateaubriand sarebbe assai più ricco se avesse voluto ma gli talenta di spacciarla in grande. La voga di Béranger e di Lamartine è immensa: l’uno conia monete al suono dei suoi bacchici ritornelli, l’altro colla melodia vaporosa delle sue lodi ...

-         Che razza d’uomo è Scribe?

-         Ha 42 anni, sei più di me. Ben infralito per la sua età. Infaticabilmente presiede alle prove delle sue commedie; non è cura che ometta per farne ben comprendere lo spirito agli attori; per le belle attrici ha sempre la sua paroletta a parte. E questo è troppo.

 Balzac ciò dicendo sorrise in guisa espressiva ...».

 Venendo a parlare della sua persona, fece queste confidenze.

-         La mia carriera cominciò nello studio del procuratore ove m’era a compagno Mérimée; la nostra inclinazione per le lettere ci affratellò tanto più che nudrivamo uguale antipatia per la giurisprudenza, ugual tempo di sottrarci almeno coi voli della fantasia al giogo che ci riusciva sì grave.

  Quando cominciai a scrivere, e che il mio nome fu meno oscuro, eccoti un libraio di Bruxelles che s’avvisa a ristampar quello zibaldone scritto coi miei compagni di studi ed attribuirmelo a lettere di scatola sul frontespizio. Protestai: erami duro esser promulgato padre di tanti bastardi ...».

  L’articolo del Dandolo contro il Balzac non riscontrò a Venezia il generale consenso del pubblico che lo definiva esagerato e pedante. I suoi giudizi parevano addirittura partigiani e grotteschi e fecero ridere le parole con le quali il Dandolo profetizzava il destino delle opere dello scrittore francese: «... le sue scene, i suoi romanzi dimenticati dalle generazioni future saranno pei soliti eruditi una espressione curiosa della corruzione parigina ...».

  Nè meno esagerata parve la sua meraviglia per la frase del Balzac: «la letteratura è speculazione anzi che arte».

  Qualche tempo dopo, «Il Vaglio, antologia della letteratura periodica» che usciva a Venezia, pubblicava nel n. 19 del 13 maggio, a firma Van Engelholm, queste parole che, come ben osserva il Gigli, non si sa se siano canzonatorie o ammirative:

  «... Giunti che fummo presso i romanzieri pensate bene che chiesi ansiosamente del signor di Balzac. Egli era lì; era lì, caro signore. Che felicità buon Dio! Che fortuna la mia! Imaginatevi, se potete, il piacere che provai mirando quel vago narratore. Mirare il signor di Balzac! Siete voi veramente in grado di concepire la mia beatitudine? Come lo esaminai! Non è bello il signor di Balzac, mi rincresce il dirvelo, ma com’è grosso, come piccino! E’ Falstaff! Falstaff, in fede mia! Ignoro se sia sempre così, se il sia per sistema, o come si suol dire, per progetto; ma quella sera era corto e rosso come un uovo di Pasqua. Non poteva proprio saziarmi di contemplarlo. Che occhio nero, profondo quanto il mare!».

  L’autore della Comédie Humaine era in quel tempo ancora troppo lontano dai lettori italiani.

  Ma quando le polemiche veneziane cominciarono a girare per ogni cenacolo intellettuale, coloro che lo avevano sinceramente letto, seriamente studiato e veramente capito si fecero difensori sistematici della sua opera gigantesca, perché umana. A Venezia, in special modo, i balzacchiani non si contarono più. Il precursore del realismo in arte, il ricostruttore paziente e indefettibile di tutta una società che egli portava nel suo cervello, era finalmente nel pensiero e nell’anima di quell’Italia colta che presentiva il distacco dalle vecchie concezioni e s’accorgeva che la realtà contenuta nei romanzi dello scrittore francese bisognava necessariamente riconoscerla. Per non perire.


  Olindo Giacobbe, Notizie bibliografiche. Giuseppe Gigli: “Balzac in Italia” (Treves, Milano – L. 6), «La Rassegna italiana», Roma, Anno III, Serie I, N. 31, Vol. V-VI, 30 Novembre 1920, pp. 539-540.

  Giuseppe Gigli chiama modestamente il suo libro un contributo alla bibliografia di Onorato di Balzac, ma, oltre alla ricostruzione della vita pas­sata in Italia del grande romanziere, egli è riuscito a darci una pittura effi­cace e precisa del nostro Ottocento e staremo quasi per dire che l'Interesse dal lettore si ferma a considerare la figura del Balzac solo in quanto serve ad accentrare tutti i vari aspetti, letterari e politici, di quell'epoca fortunosa in cui la nostra letteratura si arricchì d'un capolavoro I promessi sposi, e la nostra storia del gran fatto dell'unità nazionale. Onorato di Balzac in fondo viaggiò in Italia come hanno viaggiato e viaggiano quasi sempre gli stra­nieri in mezzo a noi, mostrando poca stima e poca considerazione per il pre­sente, attratti soltanto dai ricordi del passato. La mentalità di questi signori non è affatto mutata col passare del tempo e il danno, alla fin dei conti, può esser più loro che nostro, poiché un errore di valutazione nella vita di un popolo può sempre in avvenire riservare ingrate sorprese. Dobbiamo però rilevare, come del resto la documentazione del Gigli non lascia dubbio, che neppure gli Italiani capirono interamente la grandezza dell’ospite a cui spalancavano le porte del loro salotti, e più che un interessamento artistico, ci fu intorno alla sua persona un affollamento di mondanità, e se il Balzac si limitò, oltre alle visioni d’arte, a portare con sè solo il ricordo della bian­chezza delle nostre donne e poco o nulla capì del nostro temperamento e della divina bellezza del nostro paesaggio, per conto loro gli italiani lo ripaga­rono con uguale superficialità, accalorandosi a discutere la moralità della sua arte e a intessere eleganti pettegolezzi intorno ai suoi debiti e ai suoi guadagni. Veramente il coro delle acclamazioni che lo accolsero non fu sempre unanime e non mancarono voci discordi a gettare un po’ d'acqua alla vampata d’entusiasmo che segui il suo passaggio. Il libello di Antonio Lissoni, che accusa il Balzac di aver ingiuriato le armi italiane in Les Marana e il panegirico laudativo di Gaspare Amiggio (sic; lege: Aureggio) che mostra chiaramente di non aver capito l'importanza umana ed artistica dei suoi romanzi, rappresentano i due estremi di una stessa leggerezza ed incoscienza. La presenza del Balzac nel salotto della contessa Maffei, la sua conversione al magnetismo e la visita a Venezia hanno dettato al Gigli pagine piene di brio e di vivacità, in modo particolare nel riprodurre e nel commentare la sua discussione col conte Tullio Dandolo che ebbe strascichi di polemiche per la nessuna ammirazione balzachiana al Marco Visconti e all'Ettore Fieramosca e per quella, assai limitata, ai Promessi sposi. Con tutto questo, la statura morale di quegli uo­mini non diminuisce neppure d'un pollice nel nostro concetto, anche venendo a conoscere simili retrosceni (sic), e se pensate che oggi si accoglie in Italia, o meglio a Milano, col medesimo interesse, un altro scrittore francese, Enrico Barbusse, che sta in rapporto al Balzac come un passerotto da pagliaio ad un'aquila alpina, potrete arrivare a delle deduzioni poco allegre e confortanti per noi contemporanei.


  Giuseppe Gigli, Confidenze degli autori. Giuseppe Gigli, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno III, N. 6, Giugno 1920, p. 93.

  Fra giorni Casa Treves di Milano pubblicherà un mio volume, dal titolo «Balzac in Italia». Ho raccolto le notizie, le bibliografie, le rivelazioni autobiografiche, gli articoli dei giornali e le conseguenti polemiche, le confidenze epistolari e i pettegolezzi che correvano o si scrivevano e proposito del grande romanziere francese, nel tempo che visitò l’Italia.

  Vado preparando «La vita e l’opera» del Balzac stesso …


  Giuseppe Gigli, Balzac in Italia. Contributo alla biografia di Onorato di Balzac, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1920, pp. 236.

  Col proposito di studiare ogni aspetto dei rapporti tra Balzac e l’Italia, Giuseppe Gigli, in questo suo pur importante ed illuminante volume su Balzac e l’Italia, offre, in realtà, un quadro non sempre omogeneo e, in alcuni casi, parziale e frammentario del ricco materiale raccolto. Il merito indiscutibile del Gigli è quello di essere stato il primo a riunire le testimonianze documentarie e gli articoli riguardanti Balzac apparsi nella stampa periodica italiana tra il 1830 e il 1850. Tuttavia, come osserva R. de Cesare, questo studio «ha un suo difetto d’origine nella cattiva ripartizione del materiale raccolto; e a tale squilibrio si accompagna una malsicura conoscenza dei risultati»[4].

  Trascriviamo l’indice analitico dei singoli capitoli che formano il corpus dell’opera:

  I. Onorato di Balzac. – Suo ritratto morale. – Primo non compiuto viaggio in Italia. – Lettere della contessa Fanny Sanseverino Porcìa alla contessa Maffei. – Suo arrivo in Milano. – Notizia letteraria della Gazzetta Privilegiata. – Il signor di Balzac, articolo di A. Piazza nella stessa Gazzetta Privilegiata. – Versi del Guadagnoli e del Giusti.

  II. Balzac amministratore. – Aneddoto della Fama. – Ricevimenti nei salotti milanesi. – Ammirazione dei Milanesi. – La canna del signor di Balzac. – Una moda alla Balzac. – Sua veste da camera. – Il Manzoni e I Promessi Sposi. – La Voce della Verità di Modena. – Un epigramma di Giuseppe Capparozzo.

  III. Capogiri pseudoletterari. – Dall’albergo a casa del principe Alfonso Severino Porcìa. – Il Père Goriot. – Guadagni dei letterati francesi. – Balzac e Napoleone. – I Viaggiatori Letterati. – Un’autocaricatura del Balzac. – Dediche ad amiche ed amici italiani de’ suoi romanzi. – Le bozze dei Martyrs ignorés. – Articolo de La Fama su Le donne del signor di Balzac. – Due sonetti in vernacolo milanese contro gli adulatori del Balzac.

  IV. Il Balzac e la contessa Maffei. – Amici del Salotto. – La “piccola Maffei”. – Visita ad Alessandro Manzoni. – Scritto di Cesare Cantù. – Andrea Maffei e una sua lettera alla moglie. – Lettera del Balzac alla contessa. – Una lettera di Niccolò Tommaseo e un giudizio di Giuseppe Mazzini.

  V. Difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiate dal signor di Balzac, di A. Lissoni. – Les Marana. – Avvenimenti e personaggi italiani nei romanzi di Balzac. – Articolo recensivo di G. B. Zecchini nel Vaglio. – De Balzac, pensieri di Aureggio. – Esame de’ racconti e de’ romanzi del Balzac. – Parole di difesa dell’Aureggio. – Balzac riformato. – Articolo di Ignazio Cantù.

  VI. Balzac e il magnetismo. – Come ei si convertì al magnetismo: Memorie del conte Apponyi. – L’Ursule Mirouet. – Il primo traduttore di questo romanzo. – La prefazione del traduttore. – Balzac magnetizzatore. – Aneddoto di Giovanni Raiberti. – Balzac e Gattino. – La Donna Romantica di A. Fusinato e un giudizio di F. D. Guerrazzi.

  VII. Arrivo del Balzac a Venezia. – Saluto della Gazzetta Privilegiata. – Il signor di Balzac, articolo della stessa Gazzetta. – La moralità nell’arte balzacchiana. – Personaggi buoni e cattivi nei suoi romanzi. – Fantasia mossa dal vapore. – Anonima poesia in veneziano in dileggio del romanziere francese.

  VIII. Pranzo in casa della contessa Soranzo. – Discussione tra il Balzac e il conte Tullio Dandolo. – Articolo del Dandolo. – Il Marco Visconti e l’Ettore Fieramosca. – I Promessi Sposi. – Chateaubriand. – Un giovine pittore. – Balzac guardia nazionale. – Il passaporto. – Guadagni de’ letterati francesi. – Walter Scott.

  IX. Esagerazioni nell’articolo del Dandolo. – Difesa della moralità del Balzac. – Polemica: articolo della Gazzetta Privilegiata. – Il Vaglio: articolo di Angelo Fava. – La donna di provincia. – Eugenia Grandet. – Una giovine sposa. – Letteratura e Letterati a Parigi. – Pseudonimi di Balzac. – Il più fecondo dei romanzieri.

  X. Viaggi a Genova. – Il negoziante Giuseppe Pezzi e le miniere sarde. – Gian Carlo di Negro. – Epigrammi di Balzac. – Viaggio in Sardegna. – Ajaccio. – La casa di Napoleone e la biblioteca di Ajaccio. – Viaggio ad Alghero. – La Sardegna e i sardi. – Disinganno del Balzac. – Suo ritorno a Parigi, dopo essere stato nuovamente a Genova e a Milano. – Processo tra la Revue de Paris e il Balzac.

  XI. Ultimi viaggi in Italia. – Roma. – Il rosario di papa Gregorio XVI. – La settimana santa in Roma. – Il principe Michelangelo Caetani. – Dedica della Cousine Bette. – Mme Hanska. – Primo incontro a Neuchâtel. – Viaggio a Vierzchovnia. – Biglietto del Balzac. – La romanza di Rossini. – Il romanzo d’amore. – Matrimonio del Balzac con Mme Hanska. – Sua morte.

  XII. Il Balzac e le dediche a’ suoi amici d’Italia. – Un’alleanza intima e costante fra l’Italia e la Francia. – Il dottore in medicina sociale. – Le dieci dediche. – Prime traduzioni in italiano de’ suoi romanzi. – Bibliografia delle traduzioni. – Voto per una grande edizione italiana della Commedia Umana.


  Domenico Giuliotti, Honoré de Balzac. 1799-1850, in AA.VV., Antologia dei Cattolici francesi … cit., pp. 59-60.

  Lo pongo, giustamente, fra i grandi pensatori reazionari e cattolici.

  Questo prodigioso artista del quale il professor Faguet disse che scriveva male, questo formidabile accusatore, col solo dipingerla, della società bor­ghese, atea, plutocratica, miserabile e mostruosa; questo titanico romanziere che butta all’aria, a colpi di catapulta, montagne di cenci infetti e di morti ingioiellati, quest’ uomo povero, timido, pa­ziente, solitario, che fu la perfetta antitesi del sardanapalismo democratico victorughiano; «sotto a tutti i drammi che ha costruiti, sotto a tutte le passioni che ha analizzate e descritte, ci mostra continuamente (dice Barbey d’Aurevilly) il mede­simo substrato, la stessa idea, la costante preoc­cupazione d’una sola finalità, che non è l’arte per l'arte, ma l’arte per la verità».

  Verità che, per lui, era sinonimo d’ordine. Or­dine politico, ordine religioso. Quindi, Cattolicismo e Monarchia, pilastri del mondo.

  Nondimeno, questi penultimi sedicenti cristiani della «Religio Depopulata», ammiratori d’un Bourget ed altri generi, lo credono «un deviatore di coscienze» e lo mettono allo stesso livello di Zola!! Prosit! […].


  Ettore Janni, Giovanni Verga, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 209, 31 Agosto 1920, pp. 1-2.

  p. 1. […] Bianca Trao è l’amante del baronetto Rubiera, e se ne assiste alla fine amara mentre la tra­gedia della grandezza e decadenza di Ge­sualdo Motta («Grandeur et décadence de César Birotteau»; parentela ... potenza del Verga col Balzac, su altro tono e in altro stile) sormonta, soverchia, formidabile; e l’e­pisodio è sobrio, secondo un istinto, più che un principio, d’arte che ricorda il Man­zoni della monaca di Monza.


  A.[ugusto] Lenzoni, Balzac in Italia, «Il Giornale di Bergamo. Quotidiano politico della sera», Bergamo, Anno II, Num. 233, 7 ottobre 1920, pp. 1-2.

 

  Il libro che è uscito adesso per i tipi dei Fratelli Treves, intitolato Balzac in Italia, è veramente una ghiotta curiosità; e l’autore di esso Giuseppe Gigli, ben noto per i molti e vari suoi volumi di prose e di versi, può esser certo di aver colmato una lacuna.

 Era già noto che Balzac era stato più volte in Italia, dove aveva trovato accoglienze più liete; e un capitolo del Salotto della Contessa Maffei, il bel libro di Raffaello Barbiera, aveva diffusamente discorso di ciò, anzi, dalla lettura appunto di quel libro venne al Gigli, come egli stesso confessa, l’ispirazione a nuove e più specializzate ricerche su quell’argomento, ricerche che hanno condotto al presente volume.

  Un uomo della fama di Balzac, fama fondata sull’importanza singolare della, sua opera, sui suoi debiti, sui suoi guadagni ... e sulla sua canna, non poteva passare inosservato in Italia, e specie a Milano, dove giunse accompagnato e preceduto da eccezionali commendatizie. Egli era allora nella piena maturità del suo ingegno e i suoi romanzi erano già largamente conosciuti fra noi. Nulla quindi di strano se, al suo arrivo, i milanesi fecero al grande scrittore argomento di ogni loro discorso, e se per la strada se lo additavano l’un l’altro, e i salotti se lo disputavano, e articoli, polemiche, mode si crearono per lui: fu veramente l’uomo del giorno.

  E’ meraviglioso come il Gigli, frugando nelle pubblicazioni del tempo, abbia potuto ricostruite tutte le vicende di questo soggiorno milanese di Balzac; vicende non tutte liete, poichè non tutti si piegarono adoranti all’idolo d’oltr’Alpe, ma anzi seccati di tanti onori tributati ad uno straniero, o irritati dal contegno di lui, che parve poco riguardoso verso l’Italia e, più, verso i letterati italiani del tempo, levarono proteste e grida, nelle quali, per reazione, non manca l’acrimonia, nè i giudizi partigiani e ingiusti o le profezie ridicole. Pensate che Tullio Dandolo, uno dei più fieri oppositori di Balzac, col quale, qualche giorno più tardi, quando Balzac, si recò a Venezia, aveva pranzato insieme in casa della, contessa Soranzo, in un articolo intitolato Simposii, pubblicato sulla Gazzetta Privilegiata di Venezia (1 aprile 1837), arrivò a scrivere queste stolte parole: «Le sue scene, i suoi romanzi, dimenticati dalle generazioni venture, saranno pe’ soli eruditi un’espressione curiosa della corruzione parigina».

  Ad ogni modo, tutto sommato, si può dire che assai più furono gli ammiratori e i difensori del Balzac che non i denigratori; ed anche articoli sereni e competenti furono scritti sopra di lui; e il Gigli largamente cita quello, davvero notevole, che Ignazio Cantù, fratello di Cesare, pubblicò più tardi sul Ricoglitore.

  Eguale chiasso sollevò il giorno di Balzac a Venezia, e poi, quello a Genova, dove egli si recò attratto da un miraggio fantasmagorico.

  Balzac aveva stretto amicizia con un certo Pezzi, il quale aveva fatto vedere la possibilità o la certezza di trarre ricchezze favolose dalle miniere dell’Argentara in Sardegna; il romanziere, ingolfato nei debiti, costruì un castello di sogni su questa possibilità, che doveva trarlo per sempre da ogni imbarazzo finanziario e dargli il denaro in abbondanza; e a Genova appunto venne per le ricerche relative e per concretare l’affare. Più tardi poi partì da Marsiglia per la Sardegna, che avrebbe potuto ispirare anche la sua fantasia di scrittore, così da farne il Walter Scott della Sardegna; ma là una serie di delusioni, anche dal punto di vista della sua futura letteratura sarda, lo attendeva, chè trovò le miniere già occupate, e dovette ritornarsene con le mani vuote.

  Il Gigli narra, poi gli altri viaggi del Balzac in Italia, dei quali notevole quello a Roma. Quando il Balzac giunse nella Città Eterna, era papa Gregorio XVI, il dotto monaco amico delle lettere e delle arti, che ricevette il grande romanziere con molta affabilità e gli donò anche un rosario benedetto da lui. Roma entusiasmò Balzac, che volle assistere a tutte le celebri funzioni della settimana santa.

  Fu durante questa sua permanenza a Roma che egli conobbe il principe di Peano (sic), Michelangelo Caetani, e ne apprezzò l’altissima intelligenza e il grande valore come interprete della Divina Commedia. «Comprendere così Dante, scrisse poi il Balzac, dedicando al Caetani il suo romanzo La cousine Bette, vuol dire essere grande come lui».

  Il bel libro del Gigli ha ancora un capitolo dove sono passate in rassegna le dediche dei romanzi, che egli volle offrire in segno di ammirazione o di riconoscenza a personaggi italiani; sono dieci tali dediche e alcune, come quella del Caetani, notevolissime: segue poi una bibliografia delle traduzioni italiane dei romanzi di Balzac, traduzioni che sono, per la maggior parte, biasimevolissime.

  Il Balzac amò l’Italia e la conobbe meno imperfettamente di tanti suoi illustri compatriotti; certo, durante la sua dimora fra noi, e il suo linguaggio, che non parve sempre corretto verso l’Italia, determinò qualche attrito e qualche rimbeccata; ma nessuna traccia profonda è rimasta di ciò: e gli Italiani d’oggi sono grati ad un tanto uomo che, in tempi per noi di servaggio, seppe vedere spesso con occhio giusto e benevolo le cose nostre ed ebbe in animo un’alleanza intima e costante fra l’Italia e la Francia.

  Al di sopra di quei minuscoli ripicchi di contemporanei, resta e s’innalza l’opera gigantesca dell’artista immortale; e noi diamo viva lode a Giuseppe Gigli per averci, con tanta accuratezza e scioltezza, dato, in questo volume destinato ad un successo trionfale, i ragguagli sicuri sopra le vicende del grande romanziere al tempo della sua dimora in Italia.


  Enrico Leone, L’ultima speranza, «Il Lavoratore. Organo della Federazione Socialista della Venezia Giulia», Trieste, Anno XXVI, N. 4712, 31 Agosto 1920, p. 1.

  Ricorda del resto il «mugik» quel conta­dino povero evocato dal sommo analista Balzac (il cui pensiero è richiamato anche in una nota del «Capitale» di Marx) che è così preso nella psicologia sana del la­vorare come mezzo di vivere una vita at­tiva e beata, senza invidie nè avidità di lucro, che prova come un senso di pudore offeso a vedere che il suo lavoro abbia un prezzo calcolato in moneta come i proprie­tari fanno per le derrate delle loro tenute signorili.


  L. M., Commento alla cronaca, «La Ronda letteraria mensile», Roma, Anno II, Num. 5, Maggio 1920, pp. 368-373.

  p. 371. E’ da credere che mai la vita degli artisti sia stata più malinconica che nel secolo XIX. Coloro die vollero ostinarsi a non fare dell’arte prettamente mercantile si videro per lo più ridotti a vivere vestiti di vecchie zimarre, dinanzi a caminetti ingannatori, e a cibarsi di sospiri e di chiaro di luna, deridendo o odiando il resto degli uomini, che chiamavano borghesi e filistei, da questi a loro volta scherniti e derisi. Così nacquero poi la famosa teoria dell’arte per l’arte, il dilagare del dilettantesimo e le altre infinite pesti moderne. Capitarono bene i geni fuorviatisi in questi tempi! Pensate a uno solo, che forse fu il più popolare, al povero Balzac ucciso dai creditori. Non è certo un caso che paesi rimasti meno democratici siano quelli dove gli artisti sono ancora vissuti meglio.



 Maurice Maeterlinck, Pierina e i Rogron, in La saggezza e il destino. Versione di Enrico Malvani approvata dall’autore. Terza edizione, Torino, Fratelli Bocca, Editori, 1920 («Piccola Biblioteca di Scienze Moderne», 4-5), pp. 169-171.

 

 Avete voi presente il romanzo di Balzac nella serie dei Celibi, intitolato Pierina? Non è uno dei suoi capolavori, anzi, non è pertanto sotto questo aspetto che ne parlo.

 Vi si tratta di una dolce e innocente orfanella Bretone, che la sua cattiva Stella strappa un giorno ai nonni che l’adorano per seppellirla in fondo a una cittaduzza di provincia nella triste casa degli zii, il signor Rogron e la sorella signorina Silvia, merciai ritirati, anime bottegaie, opache e dure, scioccamente vane e avare, celibi, inquieti, immusoniti e maligni.

 Il martirio della innocente e tenera Pierina incomincia appena essa giunge. Vi si immischiano terribili questioni d’interesse: economia da farsi, matrimoni da evitare, ambizioni da soddisfare, eredità che si vogliono captare, ecc., ecc.

 I vicini, amici dei Rogron, assistono tranquillamente al lungo e lento supplizio della vittima, e il loro istinto naturalmente sorride alla vittoria dei più forti.

 La storia finisce colla pietosa morte di Pierina, il trionfo dei Rogron, dell’abbominevole avvocato Vinet e di tutti coloro che li aiutarono. Nulla più viene a turbare la felicità dei carnefici: lo stesso caso pare benedirli, e Balzac, trascinato suo malgrado dalla realtà delle cose, chiude, quasi con rincrescimento, il racconto con la seguente frase: «Sia detto fra noi che la legalità sarebbe pure una gran bella cosa per le birbonate sociali, se Dio non esistesse».

 Non occorre cercare nei romanzi drammi di simil genere: essi accadono ognora in un gran numero di cose; non ho tolto pertanto da Balzac questo esempio, se non perché la storia quotidiana dell’ingiustizia trionfante vi era già bella e distesa.

 Nulla è così morale quanto esempi di tal fatta, e forse la maggior parte dei moralisti errano attenuandone il grande insegnamento col cercare di scusar come possono le iniquità del Fato. Alcuni rimettono a Dio la cura di compensar l’innocenza. Altri ci dicono che in quest’avventura chi è più da compatirsi non è la vittima. Hanno ragione senz’alcun dubbio, per più d’un riguardo.

 La piccola Pierina, perseguitata e infelice, possiede gioie ignote ai suoi carnefici. Lei si conserva amorosa, tenera e dolce fra le lacrime, e ciò rende più felici che non l’esser duri, egoisti e maligni nel sorriso.

 E’ triste amare senza essere corrisposti, ma è assai più triste non amare affatto. E come si potrebbero mettere in bilancia le informi soddisfazioni, le meschine, basse, ignobili speranze dei Rogron, colla grande speranza della fanciulla che entro l’anima sua attende la fine dell’ingiustizia?

 Nulla ci rivela che la pallida Pierina sia più intelligente degli altri, ma colui che soffre ingiustamente si forma nella sofferenza un orizzonte che si estende, sino a toccare in certi punti ai godimenti di uno spirito superiore, non altrimenti che il terrestre orizzonte, sebbene non visto dalla cima di una montagna, pare talvolta attingere ai piedi del cielo.

 L’ingiustizia da noi commessa ben presto ci riduce ai piccoli piaceri materiali, e man mano che godiamo di questi, invidiamo alla nostra vittima la facoltà di goder sempre più intensamente ciò che non le possiamo rapire, ciò che non possiamo colpire, ciò che non è direttamente legato alla materia.

 Un atto di ingiustizia spalanca alla vittima quella medesima porta che il carnefice a sè stesso chiude, e l’uomo che soffre respira un’aria più pura di quello che fa soffrire; fa cento volte più chiaro in fondo al cuore dei perseguitati che in fondo a quello dei persecutori. E tutta la salute della felicità non dipende essa forse da una certa luce che portiamo in noi?

 La creatura umana, che apporta il dolore, estingue in sè più felicità che non possa estinguerne entro colui che essa opprime.

 Chi di noi, se dovesse scegliere, non preferirebbe essere Pierina che i Rogron?

 Il nostro istinto di Felicità non ignora che è impossibile che quegli che ha moralmente ragione non sia più felice di quello che ha torto, quando anche avesse torto dall’alto di un trono.

 E’ vero che i Rogron forse nemmeno sanno la loro ingiustizia: poco monta, non si respira più liberamente nella incoscienza che nella coscienza del maie, anzi colui che sa di mal fare ha talvolta il desiderio di evadere dalla sua prigione, mentre l’altro vi muore senza aver mai nemmeno gioito col pensiero di ciò che attornia le mura che gli celano tristemente il vero destino dell’uomo.

 

 La tempesta in un bicchiere – E’ necessario provare certe passioni, pp. 191-192.

 

 Ma fate che qualcuno — Balzac per esempio — si introduca fra loro coll’occhio aperto e l’orecchio teso, e vedrete il sentimento nato in un povero salotto di provincia estendersi così lontano, scuotere tutta la vita umana infino alle sue più profonde e possenti radici, quanto l’augusta passione che nella vita di un gran Re irraggia dal trono.

 Nella più ammirevole delle sue storie degli umili, il Curato di Tours, Balzac dice a questo proposito: «Sonvi certe piccole tempeste che sviluppano tante passioni nelle anime quante basterebbero per governare i più grandi interessi sociali. Non è forse un errore il credere che il tempo fugga soltanto per i cuori in preda ai vasti progetti che turbano la vita e la fanno ribollire? Le ore dell’Abate Troubert scorrevano così animate, fuggivano cariche di così gravi cure, erano conturbate da speranze e disperazioni così profonde come avrebbero potuto fare le ore crudeli dell’ambizioso, del giuocatore e dell’amante.

 Dio solo è partecipe del segreto dell’energia che ci richiedono i trionfi giornalmente riportati sugli uomini, sulle cose, su noi medesimi. Benchè spesso non sappiamo dove andiamo, ci sono ben note le fatiche del viaggio.

  Però, se concedete allo storico di lasciare per un istante il dramma che descrive per assidersi al posto del critico, se egli vi chiama a dare con lui un’occhiata alla esistenza di questa zitellona e dei due preti affine di ricercarvi la causa della infelicità che le viziava nella loro assenza, vi sarà forse dimostrato essere necessario all’uomo di provare certe passioni perché si possano sviluppare in lui quelle qualità che dan nobiltà sua vita, ne estendono la cerchia, e moderano l’egoismo naturale a tutte le creature».

 E dice il vero. Non bisogna sempre amare la luce per lei stessa, ma per ciò che essa illumina. [...].


  Gherardo Marone, Poesia pura, in Difesa di Dulcinea, Napoli, Libreria della Diana, 1920, pp. 87-105.

  p. 97. Vurria, che rinchiude nel giro delle sue parole quel torpore angoscioso e leggiero delle ore di sonnolenza fumosa, quando si seguono a ciglia socchiuse i piani dell'aria che si sfaldano o una nuvola che avanza pianamente e sembra un gran vascello di bambagia salpato da un largo porto d'azzurro; quello stesso torpore di sogno che Onorato di Balzac ha espresso in Wenceslas Steinbok della prima parte della sua Cusine (sic) Bette.


Sommaria bibliografica. Onorato di Balzac, p. 162.

  Le opere di questo grande scrittore francese sono state ripubblicate recentemente in bella edizione da Larousse di Parigi. Io non posso osare qui di dare in sintesi il valore di Balzac nella storia del romanzo moderno, ma non so trattenermi dal confessare che molti racconti di lui mi sono prossimi in animo a quelli pure diversi e lontani di Giovanni Verga. Le Médecin de campagne specialmente non riesco a dissociare nella mia memoria dal grande libro dei Malavoglia. Il verismo che fu il più eroico tentativo di liberazione dal romanticismo dilagante e che culmina in questo potente romanzo di Verga, oggi è totalmente obliato.


  P. Micheli, Note e polemiche. Giuseppe Gigli: “Balzac in Italia. Contributo alla biografia di Onorato di Balzac”. Milano, Treves 1920, «Il Nuovo Patto. Rassegna italiana di pensiero e di azione», Roma, Anno III, N. 10-12, Ottobre-Dicembre 1920, p. 866.

  Questo libro del Gigli, mantiene più di quello che promette il titolo. È non solo un contributo alla biografia del Balzac, ma anche alla storia della coltura italiana nella prima metà del secolo XIX. Il Gigli ha ricercato con scrupolosa diligenza quello che è stato scritto nei giornali del tempo intorno ai viaggi e alla dimora del grande romanziere a Milano, a Venezia, in Sardegna, e ne ha tratto notizie importanti e aneddoti quasi dimenticati. Fra i più gustosi è quello raccontato con molto garbo dal Raiberti. L'autore del Gatto conferma l’infatuazione del Balzac per IL magnetismo, e riferisce un esperimento non riuscito fatto da lui sopra un gobbetto milanese. Oltre queste notizie biografiche il Gigli ci dà ampia relazione delle polemiche svoltesi intorno al carattere, alle idee, all’opera del romanziere. Tutto il volume, chiaro, preciso ordinato è scritto con una semplicità signorile che lo fa leggere come un bel romanzo.


  Pietro Misciatelli, “Polifilo” e la “Gentile” nel romanzo inedito di Giosuè Borsi. A proposito delle “Confessioni a Giulia” e delle “Ridevoli istorie” testè pubblicate, «Vita e Pensiero. Rassegna italiana di coltura», Milano, Anno VI, Vol. X, Fasc. 86-87, 20 ottobre 1920, pp. 611-618.

  p. 612. Molte anime pie di corta veduta ed ignare della profonda crisi religiosa che da un sentimento pagano della vita e dell’arte condus­se il Borsi alle mistiche altezze del Testamento Spirituale e dei Col­loqui ed al sacrificio eroico del sangue sul campo di battaglia, sono rimaste altamente scandalizzate quando hanno letto le Ridettoli istorie. Agli occhi cisposi di coloro che non riescono a sentire la no­biltà d'arte che mosse il cattolico Balzac a rivaleggiare con gli an­tichi novellieri di Francia, quando scrisse nel vetusto e brioso stile dalla sua terra i Contes drolatiques, era più naturale dovesse riuscire incomprensibile ed immorale la prova linguistica affrontata dal Borsi con la sua traduzione nella lingua del Boccaccio. Ma non era lecito ad essi di confondere e mettere sopra uno stesso piano le Ri­devoli istorie o Le confessioni a Giulia. Le prime non rappre­sentano che un dilettoso ed arduo sforzo di bravura letterarie del Borsi, universalmente noto per la sua passione verso tutte le ric­chezze classiche del nostro meraviglioso volgare italico; le seconde attestano la sincerità morale del profondo rivolgimento avvenuto ne l'anima sua, o rappresentano nell’opera dello scrittore, il momento del distacco dell'uomo nuovo da l'uomo vecchio, ed il penoso tra­vaglio della crisi liberatrice.


  Aurelia Monzani, Balzac et la musique, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1920 (Cooperativa tipografica Mareggieri), pp. 5-41.

  Beaucoup de légendes naissent souvent dans la vie artistique et se répandent à son sujet : c’est aux grands hommes que la légende s’attaque volontiers et avec obstination; et par sa luxuriante végétation parasitaire elle parvient à obscurcir et souvent à cacher la vérité. Parmi ces légendes il y en a quelques-unes que j’appellerais cycliques, car elles reviennent, toujours les mêmes, et s’appliquent, légèrement modifìées, selon les temps, à des artistes de lieux divers et de différentes époques.

  C’est tout d’abord l’antimusicalité de quelques poètes. Cette légende puise son aliment dans ce fond d’envie, mal caché, que la plupart des hommes éprouvent contre ceux qui leur sont supérieurs. Il y a, il est vrai, une minorité, qui, par un sentiment idolâtre, est inclinée à voir dans les grands artistes des créatures supérieures auxquelles elle attribue, superstitieusement, toutes les qualités, toutes les vertus, tous les pouvoirs. Mais plusieurs se réjouissent de découvrir des défauts, des côtés faibles, lesquels pourtant chez les génies, ces êtres presque surnaturels, révèlent encore la fragilité humaine. Tares physiques et morales, faiblesses, manies, défauts sont cherchés et multipliés avec un malicieux plaisir et forment parfois le substratum des biographies.

  En nous bornant à ce détail de l’antimusicalité, particulièrement pour les temps modernes, nous voyons de quelle barbarie musicale furent accusés Wolfgang von Goethe, Victor Hugo, Théophile Gautier, Josué Carducci, Honoré de Balzac.

  Une accusation semblable donne lieu à bien des réflexions, car l’ancienne affirmation que la musique et la poésie sont deux sœurs, n’est pas arbitraire, mais fondée sur toute l’histoire. Personne n’ignore que la musique et la poésie, en effet, ont eu la même origine; elles se sont ensuite développées suivant deux lignes différentes, mais parallèles et non pas divergentes comme quelques-uns aiment à le croire. Le fond de l’inspiration du poète et du musicien demeure le même. Le premier s’exprime par des mots, le second par des sons. Mais, sous cette différence de forme, la substantielle fraternité des arts demeure.

  Je ne veux pas traiter ici le côté théorique de la question. Il me suffit de l’avoir indiqué. Je me demande plutôt comment de semblables légendes ont pu et peuvent persister, malgré tant de preuves précises et convaincantes que l’on peut fournir pour en démontrer la fausseté, preuves qui abondent dans les œuvres de ces mêmes poètes ainsi calomniés. Il suffirait pour Goethe, d’observer la musicalité profonde dont est pénétrée toute son œuvre poétique, depuis Faust jusqu’aux Lieder qui sont de véritables mélodies de mots et qui inspirèrent des légions de musiciens; cela sans parler des longues disputes techniques musicales qu'il eut avec ses amis, et des longues séances avec son cher Mendelssohn, le “dolce e possente signore del piano”.

  La même musicalité vibre dans toutes les poésies de Gautier. Et à celui qui en veut des preuves plus évidentes je demande si un poète, haïssant la musique comme un vain tapage, pouvait, par exemple, écrire la strophe XLIV de Albertus:

  Seul un homme debout auprès d’une colonne,

  Sans que ce grand fracas le dérange ou l’étonne,

  A la scène oubliée attachant son regard,

  Dans une extase sainte enivre ses oreilles

  De ces accord (sic) profonds, de ces hautes merveilles

  Qui font luire ton nom entre tous, - ô Mozart ! –

  L’heure, le lieu, le monde, il ne savait plus rien,

  Il s’était fait musique, et son cœur en mesure

  Palpitait et chantait avec une voix pure

  Et lui seul te comprenait bien.

(Gautier, Poésies, I, Albertus XLIV).


  Carducci, dans un moment de mauvaise humeur et dans un écrit relativement juvénile, a dit qu’en musique il était allemand et que plus les sons étaient forts, plus il les aimait; cependant je demande: Quelle valeur peut-on donner à une boutade, en comparaison des vers merveilleux de l’ode pour Shelley où il décrit et caractérise l’art de Wagner; ou en­core devant la conclusion de l’Eglise de Po­lenta, où le charme du soir est exprimé par une si délicate image musicale?

  Quant à l’immense forêt de l’œuvre victorhughienne il n’ y a pas à glaner, mais à moissonner à pleines mains les morceaux d’inspiration musicale.

  Et maintenant j’arrête mon attention sur Honoré de Balzac. Je ne veux pas nommer ici, un à un, tous les chroniqueurs qui affirment que Balzac, ainsi que Théophile Gautier, dédaignait la musique et la considérait comme le plus importun et le plus coûteux des tapages. Le but de mes recherches n’est pas de rappeler ou de mettre en lumière le nom d’inconscients bavards, mais de laver de cette tache la mémoire du grand artiste. “Calomniez, calomniez - disait Figaro - il en restera toujours quelque chose”. Oui, il est reste quelque chose de l’injuste accusation portée contre le titan de Tours. Est-il admissible qu’un grand poète comme Balzac fût ennemi de la musique?

  A peine m’arrêterai-je à relever l’objection qu’on pourra me faire: “Balzac poète? Mais a-t-il écrit autre chose que des romans ou des drames en prose ?„.

  Il est vrai que Balzac fut prosateur et prosateur par excellence. L’essai d’une tragédie en vers, Cromwell, et les deux fragments en vers que nous trouvons dans ses Œuvres complètes ont peu de valeur et ne servent qu’à prouver le peu de dispositions de Balzac pour ­la versification. Et lui-même affirmait que sa plume n’avait jamais réussi à écrire des phrases en lignes inégales, terminées chacune par une assonance.

  D’ailleurs aujourd’hui tout le monde donne facilement réponse à cette objection. La forme extérieure, le contour n’ont pas d’importance. On peut écrire de la prose en vers techniquement parfaits et de la poésie, de la très haute poésie en prose. Ainsi, en nous bornant à la littérature française, nous pouvons citer com­me poètes qui écrivirent en prose, Chateau­briand et Bernardin de Saint-Pierre. Honoré de Balzac fut donc un très grand poète.

  Et pour lui, comme pour les autres déjà nommés, il suffit de recourir à la théorie précédemment émise. Mais pour lui aussi nous y renonçons: nous voulons tirer de l’étude attentive de ses ouvrages la confirmation ou la réfutation de l’accusation qui désormais pèse sur lui depuis presque un siècle.

*

* *

  Je rappelle avant tout, avec la plus grande brièveté, les romans et les nouvelles de Balzac qui m’ont inspiré cette étude et qui, presque uniquement, m’en ont offert le matériel.

  Dans un ouvrage de jeunesse, La dernière Fée, il y a déjà un personnage qui nous intéresse: c’est le comte italien Tambroni: officier et compositeur qui séduit Jenny, la dernière fée, et la ravit à l’amour d’Abel. La séduction commence par le charme de la musique :

  “A cet instant, Tambroni se mit au piano et chanta une romance qui fit la plus grande impression sur l’assemblée.

  . . . En entendant cette romance, il était impossible à l’être le plus impassible de n’être pas attendri. — Ah ! s’il m’aimait, dit la mar­quise à son mari, je te conseillerais de m’enfermer dans une tour d’airain et de mettre des lits de mousse tout autour pour m’empêcher de me casser les jambes en sautant par les fenêtres”.

  Le personnage est secondaire, mais j’en ai fait mention parce que nous y voyons déjà une sorte de première ébauche d’un personnage fort cher à Balzac: le charmeur musical, italien, souvent grand seigneur. Tel est, par exemple, Andrea dans Gambara.

  Et le charme musical est si puissant que même Abel, le mari de Jenny, s’incline, et exalte l’homme qui vient ruiner son bonheur. C’est la même situation, quoique développée d’une façon différente, que nous trouvons dans Béatrix. Béatrix à la place de Jenny, Calyste à celle d’Abel, le compositeur Conti à celle de Tambroni.

  Ici encore le dénouement est amené par la musique. Abel, abandonné par Jenny et tombé en enfance, entend, une fois, à la campagne, un hautbois jouer la romance par laquelle Tambroni lui avait ravi son épouse. Et ce son rappelant à son esprit troublé tout le passé, provoque la crise de laquelle il sortira enfin presque guéri.

  Ce sont là, dira-t-on, de faibles preuves, de simples indices. Tant que l’on voudra, mais ces indices nous montrent déjà, dans Balzac qui en est à ses premières armes, la tendance à employer des éléments musicaux, et cela non seulement d’une façon épisodique, mais pour conduire et préparer plusieurs des principales actions du roman.

  Dans Une fille d’Ève nous trouvons déjà tracé, et de main de maître, le personnage du musicien Schmucke. Mais Balzac devait revenir à ce personnage dans Le Cousin Pons pour le parachever et en faire un des plus grands personnages de sa Comédie humaine.

  Dans Béatrix apparaît le compositeur Conti, chanteur séduisant en qui ses contemporains crurent entrevoir l’image de Liszt.

  Dans Sarrasine c’est un vieux chantre de la Chapelle Sixtine qui, après de tragiques aventures italiennes, finit sa vie à Paris.

  Massimilla Doni nous présente un tableau pittoresque de Venise musicale en 1830 environ, lorsque les Italiens rêvaient la libération de leur patrie du joug autrichien, en écoutant au théâtre de la Fenice les divins accents de Mosè de Rossini.

  Gambara est un musicien moitié génie et moitié fou, qui commence à Crémone et finit à Paris une vie de misère.

  Le Cousin Pons enfin est le roman le plus musical de Balzac. Nous y lisons l’histoire de deux musiciens, l’un français: Pons, l’autre allemand: Schmucke de la Fille d’Ève.

*

* *

  Continuons notre étude.

  Ce qui frappe de premier abord les lecteurs de Balzac c’est la prédilection avec laquelle il analyse et décrit des opéras très complexes. Dans son œuvre nous trouvons quatre analyses: trois d’opéras réels, et une d’un opéra imaginaire attribué à Gambara. Les trois opéras réels sont l’andante de la cinquième symphonie de Beethoven, Mosè de Rossini, Robert le Diable de Meyerbeer.

  Il y a beaucoup de romanciers qui ont décrit ou paraphrasé des compositions musicales, mais il en est bien peu qui soient entrés dans autant de détails techniques que ne le fit Balzac. Il faudrait, pour s’en convaincre, lire entièrement les longues pages de l’auteur; mais bornons-nous à quelques passages. Par exemple pour Mosè: Massimilla Doni, dans sa loge, explique à un médecin français le chef-d’œuvre rossinien et après avoir remarqué que Rossini a choisi avec une profonde intui­tion une seule phrase pour peindre la douleur du peuple d’Israël, elle ajoute :

  “Ce lent mouvement musical a je ne sais quoi d’impitoyable. Cette phrase fraîche et douloureuse est comme une barre tenue par quelque bourreau céleste qui la fait tomber sur les membres de tous ces patients par temps égaux. A force de l’entendre allant d’ut mineur en sol mineur, rentrant en ut pour revenir à la dominante sol, et reprendre en fortissime sur la tonique mi bémol, arriver en fa majeur et retourner en ut mineur, toujours de plus en plus chargée de terreur, de froid et de ténèbres, l’âme du spectateur finit par s’associer aux impressions exprimées par le musicien”. Et plus avant nous trouvons encore:

  “Que croyez-vous que soit ce morceau du lever du soleil, si varié, si brillant, si complet? Il consiste dans un simple accord d’ut répété sans cesse et auquel Rossini n’a mêlé qu’un accord de quart de sixte”.

  Et voici pour la partie instrumentale:

  “Ce joli, ce gai mouvement presque lumineux qui vous a caressé l’âme, l’habile musicien l’a plaqué d’accords de basse, par une fanfare indécise des cors contenus dans leurs notes les plus sourdes. …………………………………………………………………………………

  Puis les instruments à vent s’y sont mêlés doucement, en renforçant l’accord général. Les voix s’y sont unies par des soupirs d’allégresse et d’étonnement. Enfin les cuivres ont résonné brillamment, les trompettes ont éclaté. ……………………………………………….

  Il n’y a pas jusqu’au triangle dont l’ut répété ne vous ait rappelé le chant des oiseaux au matin par ses accents aigus et ses agaceries lutines. La même tonalité, retournée par cette main magistrale, exprime la joie de la nature entière en calmant la douleur qui vous navrait naguère”.

  Donnons aussi un rapide coup d’œil à Robert le Diable.

  Le comte Andrea et Gambara en parlent d’une façon différente: l’un semble vouloir en faire la critique, l’autre, provoqué, en fait la défense. Le comte Andréa, quoique dilettante, est fort en terminologie lui aussi: écoutons-le:

  “Cet habile vendangeur de notes prodigue des dissonances qui, trop fréquentes, finissent par blesser l’oreille et l’accoutument à ces grands effets que le compositeur doit ménager beaucoup, pour en tirer un plus grand parti lorsque la situation les réclame. Ces transitions enharmoniques se répètent à satiété, et l’abus de la cadence plagale lui ôte une grande partie de sa solennité religieuse„.

  Mais voici le prodigieux Gambara à la dé­fense de Robert le Diable. L’ayant entendu une seule fois, il le rappelle tout entier, le répète au piano et en fait le commentaire. Et, peut-être n’est-ce pas au hasard que dans l’analyse du brillant opéra de Meyerbeer, le musicien parle d’abord de la partie instrumentale:

  “Je tressaille encore, dit le malheureux artiste, aux quatre mesures des timbales qui m’ont atteint dans les entrailles et qui ouvrent cette courte, cette brusque introduction où le solo de trombone, les flûtes, le hautbois et la clarinette jettent dans l’âme une couleur fan­tastique„.

   Autre détail encore plus précis:

  “Que d’originalité dans cet allégro, modulations des quatre timbales accordées (ut re, ut sol)!„

  Et dans cette analyse aussi, la prédilection de Balzac s’adresse particulièrement à l’analyse tonale. Un dernier exemple:

“  Avec quelle vigueur le couplet de Bertram se détache en si mineur sur le chœur des enfers, en nous peignant la paternité mêlée à ces chants démoniaques par un désespoir affreux! Quelle ravissante transition que l’arrivée d’Alice sur la ritournelle en si bémol!„

  Et plus avant:

  “Ici le chant d’Alice se trouve en si bémol et se rattache au fa dièse, la dominante du chœur infernal. Entendez-vous le tremolo de l’orchestre? on demande Robert dans le cénacle des démons. Bertram rentre sur la scène, et là se trouve le point culminant de l’intérêt musical, un récitatif comparable à ce que les grands maitres ont inventé de plus grandiose, la chaude lutte en mi bémol où éclatent les deux athlètes, le Ciel et l’Enfer, l’un par: “Oui, tu me connais!„ sur une septième diminuée, l’autre par son fa sublime : “Le ciel est avec moi !”.

  Cette précision, ces particularités techniques et même une plus grande richesse de détails rythmiques, mélodiques, harmoniques, instrumentaux se retrouvent dans la description faite par Gambara de sa composition: Mahomet. Un musicien y trouverait le vrai pian d’un opéra.

  Mais ces analyses, dira-t-on, sont-elles vraiment de Balzac? Nous pouvons avec certitude répondre négativement. Ici, comme en d’autres parties de son œuvre, l’auteur profita de la collaboration de ses amis. Avec plus ou moins d’assurance nous pourrions même citer des noms. Mais cela n’exclut point la grande passion de Balzac pour les opéras dont il offrait, dans ses romans, des analyses si minutieuses, si détaillées! S’il n’avait pas eu cette passion, qui l’aurait forcé à les y introduire? Une courte description aurait suffi. Et en plusieurs cas on aurait pu supprimer l’analyse sans que la narration eût rien perdu de son intérêt.

  Mais si ces morceaux ne servent pas à prouver la compétence strictement technique de Balzac, ils servent pourtant à démontrer en lui une capacité de premier ordre: celle de critique et d’esthète musical. En effet, si nous cherchons à savoir en quelle mesure ses amis musiciens collaborèrent avec lui, nous comprenons facilement qu’ils durent se borner à lui fournir les seuls détails techniques. Balzac, esprit philosophique et original, n’était pas un homme à qui on pût suggérer des impressions ou des principes théoriques. Et ce que nous pouvons affirmer même a priori, nous est confirmé en mille endroits où Balzac parle musique sans détails techniques. Or, de ces mêmes points et des autres déjà mentionnés on tire une vraie philosophie de la musique, philosophie qui appartient entièrement à Balzac et qui peut pleinement nous éclairer sur ses facultés musicales. Nous tâcherons de les étudier.

*

* *

  Cherchons maintenant à établir quelle idée Balzac avait de la musique. Les points où il exprime ses pensées plus ou moins explicitement, plus ou moins diffusément sont, pourrions-nous dire, innombrables. Je me bornerai aux passages les plus significatifs, les tirant de deux sources principales: Gambara et Massimilla Doni.

  Gambara, le fol et génial inventeur de nouveaux instruments, dit:

  “Jusqu’ici l’homme a plutôt noté les effets que les causes! s’il pénétrait les causes, la musique deviendrait le plus grand de tous les arts. N’est-il pas celui qui pénètre le plus avant dans l’âme? Vous ne voyez que ce que la peinture vous montre, vous n’entendez que ce que le poète vous dit, la musique va bien au delà: ne forme-t-elle pas votre pensée, ne réveille-t-elle pas les souvenirs engourdis? Voici mille âmes dans une salle, un motif s’élance du gosier de la Pasta, dont l’exécution répond bien aux pensées qui brillaient dans l’âme de Rossini quand il écrivit son air, la phrase de Rossini transmise dans ces âmes y développe autant de poèmes différents„.

  Aujourd’hui tout cela ne semblera pas ex­cessivement nouveau. Mais ces pensées, toutes simples et naturelles en apparence, avaient une racine profonde dans l’esprit de Balzac.

  Écoutons Capraia. Capraia c’est le noble vénitien fanatique de musique, qui passe sa vie au théâtre en perpétuelles discussions phi­losophiques sur son art chéri.

  Il dit que les paroles ne font autre chose que troubler la pureté de la musique et il soutient que “la roulade est la plus haute expression de l'art ..... l’unique point laissé aux amis de la musique pure, aux amoureux de l’art tout nu”.

  Et il ajoute:

  “Croyez-moi, en faisant sa sainte Cécile, Raphaël a donné la priorité à la musique sur la poésie. Il a raison : la musique s’adresse au cœur, tandis que les écrits ne s’adressent qu’à l’intelligence; elle communique immédia­tement ses idées à la manière des parfums. La voix du chanteur vient frapper en nous, non pas la pensée, non pas les souvenirs de nos félicités, mais les éléments de la pensée, et fait mouvoir les principes mêmes de nos sensations. Il est déplorable que le vulgaire ait forcé les musiciens à plaquer leurs expressions sur des paroles, sur des intérêts factices; mais il est vrai qu’ils ne seraient plus compris par la foule”.

  La même idée revient plusieurs fois dans Massimilla Doni ; c’est une sorte de leit-motif de ce conte. Citons le passage où cette idée est exprimée avec une clarté et une précision vraiment philosophique:

  “Cette langue, mille fois plus riche que celle des mots est au langage ce que la pensée est à la parole; elle réveille les sensations et les idées sous leur forme même, là où chez nous naissent les idées et les sensations, mais en les laissant ce qu’elles sont chez chacun”. Je le répète encore une fois, tout cela ne nous laisse pas l’impression de grande nouveauté. Ces aphorismes sur l’intime essence de la musique sont assez communs maintenant: il est facile de les trouver, ou exprimés ou sous-entendus, dans les œuvres de beaucoup de critiques, je dirais presque de tous les critiques. Et cet accord fondamental dérive de l’unique source où tout le monde puise: Schopenhauer, dont les doctrines sur ce point se sont imposées à tous, non seulement dans le champ spéculatif, mais dans le champ pratique aussi. Et voulez-vous en Balzac quelque chose plus en­core schopenhauerien? Voici Gambara qui vous affirme que “la musique est un art tissu dans les entrailles mêmes de la Nature.

  Il ne me semble pas que l’on puisse raisonnablement supposer une dérivation de Balzac de Schopenhauer. Il est vrai que Gambara paraît en 1837, Massimilla Doni en 1839 et Le monde comme volonté et représentation avait déjà paru en 1819. Mais il est vrai aussi que cet ouvrage, comme tous ceux de Schopenhauer, demeura presque entièrement inconnu, même en Allemagne. Et ce fut seulement lorsque l’Académie des Sciences de Norvège eut couronné en 1839 son mémoire sur la Liberté de la volonté humaine, cc fut seulement quand la Westminster Review eut publié un article sur ses ouvrages en 1853, que le monde commença à connaître la valeur du grand philosophe. En 1840 environ, ses ouvrages devaient être presque entièrement inconnus en France. D’ailleurs les théories de Balzac présentent avec celles de Schopenhauer une certaine affinité substantielle, mais elles portent aussi un cachet particulier, de sorte que les connaisseurs de l’œuvre de Balzac les voient strictement unies à tout l’ensemble du système philosophique qui circule, avec une cohérence formidable, dans chaque partie de son œuvre immense.

Ces principes fondamentaux, établis et exposés avec tant de précision ne sont donc pas imaginés seulement une fois, et moins encore demandés à d’autres, à des personnes compétentes pour enrichir ce conte-ci ou celui-là. Ce sont des résolutions bien méditées, des résolutions de problèmes auxquels Balzac songeait continuellement. Rappelons le passage suivant du Cousin Pons :

“Ils croyaient fermement que la musique, la langue du ciel, était aux idées et aux sentiments ce que les idées et les sentiments sont à la parole; et ils conversaient à l’infini sur ce système”.

  Ces paroles sont significatives. Balzac aussi réfléchissait sur ce problème. Et cela nous dit sous quelle lumière nous devons considérer tant d’aphorismes musicaux que l’on trouve dans toute l’œuvre de Balzac.

  Lorsque Massimilla dit:

  “Il n’y a que la musique pour exprimer l’amour” ; lorsque Capraia affirme: “La roulade est l’unique point laissé aux amis de la musique pure ou Massimilla parle du pouvoir que possède la musique d’évoquer des images et des couleurs, nous comprenons que nous n’avons pas devant nous des phrases jetées là par le caprice d’un romancier, mais que nous sommes devant des vérités qui dérivent naturellement d’une vérité supérieure et fondamen­tale, ainsi que des corollaires d’un postulat.

  Mais il serait trop long de citer un à un tous ces corollaires et cela sortirait des limites de mon ouvrage. Je me contenterai d’en indi­quer les principaux. Voici de quelle manière est caractérisé le morceau de Mosè où est dé­crite l’aurore:

  “Cette aurore en images est absolument pareille à une aurore naturelle. La lumière est une seule et même substance partout semblable à elle-même, et dont les effets ne sont variés que par les objets qu’elle rencontre, n’est-ce pas? Eh! bien, le musicien a choisi pour la base de sa musique un unique motif, un simple accord d’ut. Le soleil apparaît d’abord et verse ses rayons sur les cimes, puis de là dans les vallées. De même l’accord poind sur la première corde des premiers violons avec une douceur boréale, il se répand dans l’or­chestre, il y anime un à un tous les instru­ments, il s’y déploie. Comme la lumière va colorant de proche en proche les objets, il va réveillant chaque source d'harmonie jusqu’ à ce que toutes ruissellent dans le tutti. Les vio­lons, que vous n’aviez pas encore entendus, ont donné le signal par leur doux tremolo vaguement agité comme les premières ondes lumineuses”.

  Or dans ces lignes nous n’avons pas la facile et fantastique description du lettré. C’est une vraie page de philosophie de la musique et de philosophie de haut style. En effet, elle surpasse le fait particulier auquel elle est appliquée, car les mêmes principes que nous voyons dériver ici d’une aurore musicale sont les mêmes que ceux que l’on peut tirer d’une composition quelconque, mais bien conduite, laquelle, précisément si elle est bien conduite, doit présenter le même caractère fondamental d’unité.

  Mais ce sont là des problèmes généraux, dans lesquels un homme de simplicité artistique et de droite logique peut facilement s’orienter, même s’il n’est pas doué d’une particulière faculté musicale. Voyons donc Balzac devant quelques problèmes plus spécifiques, plus strictement musicaux. Voyons-le en face de l’éternel problème de la mélodie et de l’harmonie.

  Sur ce problème aussi Balzac revient fréquemment. Mais continuons à indiquer les expressions essentielles. Gambara dit :

   “Les vieux maîtres chantaient au lieu de disposer de l’art et de la science, noble alliance qui permet de fondre en un toutes les belles mélodies et la puissante harmonie”.

  Et encore :

  “Les lois physiques sont peu connues, les lois mathématiques le sont davantage; et depuis qu’ on a commencé à étudier leurs relations, on a créé l’harmonie, à laquelle nous avons dû Haydn, Mozart, Beethoven et Ros­sini, beaux génies qui certes ont produit une musique plus perfectionnée que celle de leurs devanciers, gens dont le génie d’ailleurs est incontestable”.

  Et voici encore Massimilla :

  “Il faut reconnaître que la musique comme l'ont créée Lulli, Rameau, Haydn, Mozart, Beethoven, Cimarosa, Paisiello, Rossini, comme la continueront de beaux génies à venir, est un art nouveau, inconnu aux générations pas­sées, lesquelles n’avaient pas autant d’instru­ments que nous en possédons maintenant, et qui ne savaient rien de l’harmonie sur laquelle aujourd’hui s’appuient les fleurs de la mélodie, comme sur un riche terrain”.

  Et si après cette image aussi précise que belle, nous cherchons quelques expressions déterminées, nous devons, même ici, admirer la singulière pénétration de Balzac.

  Dans Gambara, le comte Andrea, pour ex­citer le monomane de génie, fait une exaltation compliquée de l’art de Beethoven. Et il dit :

  “Chez la plupart des compositeurs, les parties d’orchestre folles et désordonnées ne s’entrelacent que pour produire l’effet du mo­ment, elles ne concourent pas toujours à l’en­semble du morceau par la régularité de leur marche. Chez Beethoven, les effets sont pour ainsi dire distribués d’avance. Semblables aux différents régiments qui contribuent par des mouvements réguliers au gain de la bataille, les parties d’orchestre des symphonies de Bee­thoven suivent les ordres donnés dans l’intérêt général et sont subordonnées à des plans admirablement bien conçus”.

  Le but suprême auquel tend la conquête harmonique dans sa première ivresse est peint ici avec une précision vraiment admirable.

  N’oublions pas que le comte Andrea parie en connaissance de causes; il veut pousser Gambara à la contradiction. Il ne pense pas tout ce qu’il dit. Le dénigrement de l’opéra de Rossini est entièrement faux. L’exaltation de Beethoven est sincère, mais outrée. Rappelons ses dernières paroles :

  — Vive la musique allemande! ... quand elle sait chanter — ajouta-t-il à voix basse.

  Cela dit, il est évident que la comparaison des différentes parties orchestrales à des régiments implique un blâme. Si nous nous rapportons aux principes généraux de Balzac nous voyons que cet effet dynamique peut être difficilement établi comme but de la musique. Mais d’ailleurs c’est là la limite logique et inévitable de l’harmonie lorsqu’elle devient sa propre fin. Son but, alors, n’est pas celui d’exprimer des émotions, mais celui d’accumuler des enchaînements d’accords. Les enchaînements produisent des mouvements de masses et des chocs.

  D’autre part, le vrai rôle de l’harmonie, déjà démontré dans l’admirable image du sol et des fleurs, est confirmé en un autre endroit de Gambara. Pour obtenir l’avis de Gambara le comte Andrea fait une critique haineuse de Robert le Diable. Et parmi les remarques qu’il fait à l’opéra de Meyerbeer nous trouvons la suivante :

  “L’harmonie règne souverainement, au lieu d’être le fond sur lequel doivent se détacher les groupes du tableau musical”.

  Le principe musical que l’on tire de cette remarque est sérieusement affirmé. L’harmonie doit être un fond. Et le comte Andréa reproche à Meyerbeer d’en faire un usage différent: tandis qu’en son âme il comprend que le grand compositeur fait de l’harmonie un usage légitime.

  Un fond donc, c’est-à-dire ce qu’était pour nos peintres classiques du seizième siècle, le paysage qui ne devait jamais empiéter sur la figure humaine.

  L’élément principal de la musique est tou­jours la mélodie. C’est le comte Andrea qui, par une heureuse image, l’affirme dans la même attaque à Meyerbeer : “La mélodie, ce fil d’or qui ne doit jamais se rompre dans une vaste composition”.

  Et dans Massimilla Doni nous lisons : “C’est la mélodie et non l’harmonie qui a le pouvoir de traverser les âges ».

  Il est inutile d’insister sur la démonstration de ce principe qui est du reste déjà si péremptoirement affirmé. Voyons-en plutôt les applications dans les jugements que Balzac porte sur la musique.

  Nous voici donc en face, non plus du philosophe de la musique, de celui qui cherche l’intime essence et les principes, mais de celui qui en oppose et en juge les manifestations et les différentes applications.

  Voyons la comparaison qu’il fait entre la musique italienne et la musique allemande, comparaison qui revient souvent dans ses pages. C’est un des nombreux problèmes qui occupent l’esprit de Balzac, et c’est, pour nous Italiens, une bien légitime satisfaction de voir que décidément il résout le problème en notre faveur. Et cela d'autant plus que Balzac ne peut être accusé de partialité et que d’ailleurs, dans toute son œuvre, il montre, non seulement une véritable admiration, une immense admiration pour l’œuvre de Beethoven, de Mozart, de Gluck, de Haydn et de tous les grands Allemands, mais aussi une profonde sympathie pour la belle Allemagne patriarcale, qui, tout en laissant voir les premiers symptômes du mal qui aujourd’hui l’a détruite, était alors encore toute plongée dans les brumes azurées du romantisme.

  Et ici il suffit de rappeler une des plus belles scènes de Balzac: celle déjà citée où Massimilla commente au médecin français le Mosè de Rossini.

  Et l’on ne doit pas dire que c’est Massi­milla et non pas Balzac qui parle et que l’au­teur pourrait ne point partager l’opinion de son personnage ou du moins le faire d’une façon incomplète. Dans cette scène Balzac intervient constamment et dans presque tous les passages mentionnés, c’est lui qui prend la parole et ses expressions ne sont pas moins enthousiastes que celles de Massimilla. En Mas­similla c’est le romancier qui se manifeste avec toute la profondeur de son sentiment. Et, disons-le en passant, en Massimilla c’est tout le peuple italien opprimé qui parle, et qui parle avec des paroles de feu. Un écrivain italien ne pourrait s’exprimer avec plus de sympathie, plus de tristesse, plus de conviction en traitant des douleurs, des gloires, des espé­rances de sa patrie. Il n’est pas superflu de le rappeler puisque jusqu’ici personne, que je sache, n’a songé à mettre Balzac au nombre des étrangers qui ont parlé avec sympathie de notre pays.

  Et voici, pour revenir à notre sujet, les premiers mots de Massimilla :

  “Comme ces trois accords vous glacent! On s’attend à de la douleur. Écoutez attentivement cette introduction, qui a pour sujet la terrible élégie d’un peuple frappé par la main de Dieu. Quels gémissements! Le roi, la reine, leur fils aîné, les grands, tout le peuple soupire; ils sont atteints dans leur orgueil, dans leurs conquêtes, arrêtés dans leur avidité. Cher Rossini, tu as bien fait de jeter cet os à ronger aux tedeschi, qui nous refusaient le don de l’harmonie et la science !”.

  Voilà donc qu’à côté de l’enthousiasme pour la chose aimée, naît la comparaison qui accorde le complet triomphe. Et voyons comment, dans les paroles suivantes, la compa­raison est analysée et exploitée :

  “Vous allez entendre la sinistre mélodie que le maître a fait rendre à cette profonde composition harmonique, comparable à ce que les Allemands ont de plus compliqué, mais d’où il ne résulte ni fatigue ni ennui pour nos âmes”.

  On voit donc reconfirmé tout d’abord le principe que nous avons déjà souligné, que l’harmonie doit rester subordonnée à la mélodie et que la première place dans l'économie de toute composition absolue revient à cette dernière; d’autre part il est rappelé que les grandes compositions harmoniques des Alle­mands ne sont pas exemptes d’un sens de lourdeur et d’ ennui.

  Et ce n’est pas tout; voici encore d’autres paroles bien émues de Massimilla Doni : “Le jour où cet oratorio sera exécuté chez vous, vous comprendrez cette magnifique plainte des victimes d’un Dieu qui venge son peuple. Un Italien pouvait seul écrire ce thème fécond, inépuisable et tout dantesque. Croyez-vous que ce ne soit rien que de rêver la vengeance pendant un moment? Vieux maîtres allemands, Haendel, Sébastien Bach, et toi-même, Bee­thoven, à genoux, voici la reine des arts, voici l’Italie triomphante !”.

  On ne pourrait être plus explicite. Et, je le répète, le jugement a d’autant plus de valeur qu’il est donné par un admirateur convaincu de Beethoven, et qu’il s’oppose au snobisme qui régnait alors en Europe et faisait adorer les maîtres allemands qui depuis peu s’étaient révélés; (La fondation Beaulieu, la première que je sache, en ce genre, ne remonte qu’à l’an 1835) et cela avec le même aveu­glement exclusiviste dont Wagner a joui de nos jours.

  Les raisons de ces lourdauds raffinés sont exposées avec la tendance que déjà nous avons remarquée dans le discours du comte Andrea à Gambara; et même ici Balzac intervient di­rectement:

  “Voulant pousser l’épreuve plus loin, Andrea oublia pour un moment toutes ses sympathies, il se prit à battre en brèche la réputation eu­ropéenne de Rossini et fit à l’école italienne ce procès qu’elle gagne chaque soir depuis trente ans sur plus de cent théâtres en Europe Le comte Andrea donc exagérait pour provoquer la contradiction de Gambara. Et celle-ci sort, éloquemment violente, des lèvres du pauvre monomane de génie :

  “Un homme du monde montre peu de reconnaissance pour cette terre classique d’où l’Allemagne et la France tirèrent leurs premières leçons. Pendant que les compositions de Carissimi, Cavalli, Scarlatti, Rossi, s’exécutaient dans toute l’Italie, les violonistes de l’Opéra de Paris avaient le singulier privilège de jouer du violon avec des gants. Lulli, qui étendit l’empire de l’harmonie et le premier classa les dissonances, ne trouva, à son arrivée en France, qu’un cuisinier et un maçon qui eussent des voix et l’intelligence suffisante pour exécuter sa musique; il fit un ténor du premier, et métamorphosa le second en basse-taiIle. Dans ce temps-là l’Allemagne, à l’exception de Sébastien Bach, ignorait la musique”.

*

* *

  Ici, comme on le voit, les éléments philosophiques ne sont pas les seuls à concourir à la formation du jugement, nous y trouvons aussi des éléments historiques. En effet, dans toute l’œuvre de Balzac on voit clairement l’intérêt qu’il porte à la partie historique de la musique. Les noms de Lulli, Pergolese, de Marcello, de Cimarosa, de Carissimi, Scarlatti, Cavalli, Rossi, Mozart, Beethoven, Mendelssohn, Meyerbeer, Chopin, Listz, Bellini (j’en passe et des meilleurs …. et ne rappelle pas même le glorieux Rossini) se retrouvent continuel­lement dans ses pages. Et ce n’est pas un vain souvenir ou de l’étalage inutile. Ces noms-là sont toujours rappelés avec une très grande opportunité et servent à éclaircir ou à enrichir les pensées. Souvent même nous les trouvons admirablement caractérisés : Gambara dit au comte Andrea:

  – Dites-moi la vérité, que prisez-vous le plus de Mozart ou d’Homère?

  – Je les admire à l’égal l’un de l’autre.

  – Hum! Encore un mot. Que vous semble de Meyerbeer et de Byron?

  – Vous les avez jugés en les rapprochant ainsi.

  C’est précisément cela. Les rapprochements, lorsqu’ils sont si pénétrants et si heureux, di­sent, relativement aux facultés de celui qui les prononce, beaucoup plus que de longues investigations.

  Ailleurs il parle de Pons, grand prix de Rome, qui après quelques succès, tombe peu à peu dans l’obscurité:

  “Le fait de l’insuccès du bonhomme peut sembler exorbitant; mais il avouait naïvement sa faiblesse relativement à l’harmonie; il avait négligé l’étude du contrepoint; et l’orchestration moderne, grandie outre mesure, lui parut inabordable au moment où, par les nouvelles études, il aurait pu se maintenir parmi les compositeurs modernes, devenir, non pas Rossini, mais Hérold”.

  Non pas Rossini, mais Hérold. Tous ceux qui connaissent l’œuvre du grand italien et du fin français seront à même d’apprécier la pénétration et la finesse que renferme cette dernière distinction. Ce sont précisément ces détails presque échappés à l’auteur, qui, heureux ou malheureux, en dévoilent la profondeur ou la superficialité.

  En voici un autre, moins important, mais non moins significatif: Schmucke improvise au piano pour bercer l’agonie du pauvre Pons:

  “Il trouva des thèmes sublimes sur lesquels il broda des caprices exécutés tantôt avec la douleur et la perfection raphaélesque de Chopin, tantôt avec la fougue et le grandiose dantesque de Listz”.

  Des passages de ce genre abondent dans toute l’œuvre de Balzac. Mais souvent ils montent vers une sphère plus haute. Ainsi, voyons dans Massimilla Doni:

  “Les peuples, depuis l’antiquité jusqu’ à nos jours, ont gardé, comme un précieux trésor, certains chants qui résument leurs mœurs et leurs habitudes, je dirais presque leur histoire. Écoutez un de ces chants nationaux (et le chant grégorien a recueilli l’héritage des peuples antérieurs en ce genre), vous tombez en des rêveries profondes, il se déroule dans votre âme des choses inouïes, immenses, malgré la simplicité de ces rudiments, de ces ruines mu­sicales”.

  Le problème du chant populaire qui, après tout est le problème des origines, y est exposé avec une intuition admirable. Et vraiment nous ne pourrons jamais assez admirer la précision avec laquelle la substance intime du chant gré­gorien y est définie. Certes, pas même ici, nous ne pouvons sentir une saveur d’excessive nouveauté, nous qui, cent fois, dans des écrits modernes, avons vu poser et discuter ces pro­blèmes. Mais au temps de Balzac on peut dire que la critique musicale n’existait pas ou qu’elle était encore à ses premiers vagissements: d’au­tant plus donc, il convient d’admirer un romancier qui, dans des problèmes très difficiles, voyait si juste et si loin.

  L’assurance intuitive de Balzac en problè­mes de musique est telle qu’il ne doute pas d’empiéter sur le futur. Voici un exemple encore dans Massimilla :

  “Croyez-moi, ce ne sera pas trop que d’accorder à notre Rossini toute votre intelligence, car il faut être à la fois poète et musicien pour comprendre la portée d’une pareille musique. Vous appartenez à une nation dont la langue et le génie sont trop positifs pour qu’elle puisse entrer de plain-pied dans la musique”.

  Et plus avant:

  “Un art si neuf exige des études chez les masses, études qui développeront le sentiment auquel s’adresse la musique. Ce senti- ment existe à peine chez vous, peuple occupé de théories philosophiques, d’analyse, de discussion, et toujours troublé par des divisions intestines. La musique moderne, qui veut une paix profonde, est la langue des âmes tendres, amoureuses, enclines à une noble exaltation intérieure”.

  Ce jugement ne flattera pas excessivement l’amour-propre des Français, mais il ne serait pas facile d’en contester l’essentielle précision.

*

* *

  Avant de quitter cette première partie de mon ouvrage, je veux dire un mot sur deux points qui mériteraient une discussion profonde et détaillée, mais que je dois traiter en passant à cause des limites que j’ai assignées à mon petit travail.

  Au temps de Wagner on parla de “musi­que de l’avenir”. Et aujourd’hui que l’art de Wagner est devenu presque classique et sur­passé, on en parle à propos de Strauss ou de Strawinski. Mais tous ces avenirismes sont à base de recherches et de manipulations harmo­niques: c’est à dire sont des combinaisons nouvelles sur des principes connus.

  Gambara, au contraire, conçoit une réfor­me de la musique fondée sur une analyse des notes beaucoup plus profonde. Il dit que jusqu’à présent on a étudié les lois mathématiques de la musique et elles ont suffi à pro­duire Haydn, Mozart, Beethoven et Rossini: “Or, si la découverte des lois mathéma­tiques a donné ces quatre grands musiciens, où n’irions-nous pas si nous trouvions les lois physiques en vertu desquelles (saisissez bien ceci) nous rassemblons, en plus ou moins grande quantité, suivant des proportions à rechercher, une certaine substance éthérée, répandue dans l’air, et qui nous donne la musique aussi bien que la lumière, les phénomènes de la végéta­tion aussi bien que ceux de la zoologie !”.

  Et après :

  “Si chaque son modifié répond à une puissance, il faut la connaître pour marier toutes ces forces d’après leurs véritables lois. Les compositeurs travaillent sur des substances qui leur sont inconnues. Pourquoi l’instrument de bois, le basson et le cor, se ressemblent-ils si peu, tout en employant les mêmes substances, c’est-à-dire les gaz constituants de l’air? Leurs dissemblances procèdent d’une décomposition quelconque de ces gaz, ou d’une appréhension des principes qui leur sont propres et qu’ils renvoient modifiés, en vertu de facultés inconnues. Si nous connaissions ces facultés, la science et l’art y gagneraient. Ce qui étend la science étend l’art”.

  Je ne veux pas m’enfoncer dans les analyses des nombreuses théories qu’Andrea tire de ces idées fondamentales. Les analyser ou les exposer ce serait, au fond, répéter tout le conte de Balzac.

  Mais je ne peux passer sous silence la conclusion que Balzac tire de son étude.

  Gambara est comme un hermès à deux faces. D’un côté voici le froncement du front de l’homme de génie; voici de l’autre l’horrible grimace du masque de la folie. Tantôt il improvise des mélodies d’une beauté céleste, tantôt il entonne une série de sons discordants dénués de toute beauté et de toute signification. Et l’inspiration paraît seulement lorsque le pauvre musicien boit jusqu’à perdre la raison. L’ennemi de l’artiste c’est le raisonnement. Quand la spéculation paraît, l’inspiration disparaît.

  Ce principe, affirmé dans tout le récit, est exprimé, en théorie, par le comte Andrea après une géniale improvisation de Gambara:

  “Si au lieu de viser à exprimer des idées, et si au lieu de pousser à l’extrême le principe musical, ce qui vous fait dépasser le but, vous vouliez simplement réveiller en nous des sen­sations, vous seriez mieux compris, si toutefois vous ne vous êtes pas trompé sur votre vocation. Vous êtes un grand poète”.

  Et ici on affirme aussi le grand danger que court l’artiste s’il veut sortir des limites de son art pour envahir celles des autres arts.

  Un observateur attentif découvre facilement que ces deux tendances: d’abuser des théories et de sortir de ses propres limites, ont nui et nuisent à beaucoup d’artistes modernes, à commencer par Wagner. Et notre admiration pour l’intuition de Balzac doit grandir si nous songeons qu’il voyait juste dans de subtiles questions de philosophie en un temps où les intempérances modernes étaient encore bien loin, et la musique, avec Rossini et Meyerbeer, ne sortait pas encore du grand sillon classique.

  Un autre principe qui peut sembler para­doxal est affirmé par Balzac dans deux séries d’épisodes qui se correspondent dans Gambara et dans Massimilla.

  Gambara vient de composer Mahomet qui est vraiment un chef-d’œuvre. Mais lorsqu’il l’exécute dans un excès d’ardeur il ne parvient qu’au ridicule:

  “Au grand étonnement d’Andrea, car Ma­rianna y était habituée, Gambara contractait si violemment son gosier, qu’il n’en sortait que des sons étouffés assez semblables à ceux que lance un chien de garde enroué. La légère écume qui vint blanchir les lèvres du compositeur fit frémir Andrea.

  “Il n’y avait pas l’apparence d’une idée poétique ou musicale dans l’étourdissante cacophonie qui frappait les oreilles: les principes de l’harmonie, les premières règles de la composition étaient totalement étrangères à cette informe création. Au lieu de la musique savamment enchaînée que désignait Gambara, ses doigts produisaient une succession de quintes, de septièmes et d’octaves, de tierces majeures et de marches de quarte sans sixte à la basse, réunion de sons discordants jetés au hasard qui semblait combinée pour déchirer les oreilles les moins délicates”.

  C’est Genovese de Massimilla qui fait pendant: Genovese est un artiste divin. Mais lorsqu’il doit chanter avec la Tinti qu’il aime furieusement, l’excès de l’amour uni à la jalousie excitée par les tendresses inattendues de la Tinti pour Émile, ces deux passions, dis-je, opposent un tel obstacle à son âme que, de sa gorge, ne sortent que des sons affreux. Déjà au théâtre il a été sifflé et dans un banquet il ne réussit pas mieux :

  “Je veux l’emporter sur le prince qu’elle aime, car cela crève les yeux, elle l’adore! se dit Genovese en lui-même.

  “Quelle fut la surprise des convives qui avaient écouté Genovese au bord de la mer, en l’entendant braire, roucouler, miauler, grin­cer, se gargariser, rugir, détonner, aboyer, crier, figurer même des sons qui se traduisaient par un râle sourd; enfin, jouer une comédie incom­préhensible en offrant aux regards étonnés une figure exaltée et sublime d’expression, comme celle des martyrs peints par Zurbaran, Murillo, Titien et Raphaël”.

  Et voici la conclusion que l’on en tire: l’excès de la passion nuit à l’art jusqu’à le détruire. C’est un principe paradoxal, je l’ai dit, mais digne d’être soutenu et démontré par quelques-uns des immortels personnages de Platon.

  Aussi, à côté de la philosophie et de la physiologie, avons-nous une pathologie de la musique.

  C’est là la racine des grotesques musicaux que nous trouvons dans Balzac. Et de ceux-ci et d’autres nombreux types jaillis de la fan­taisie de Balzac sous la haute pression de la musique je parlerai dans la seconde partie de mon ouvrage. [Non ci è noto se e in quale luogo Aurelia Monzani abbia completato e pubblicato questa seconda parte dello studio].


  Marino Moretti, L’isola dell’amore. Romanzo, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1920. Prima impressione.

  pp. 29-30. Un giorno il fidanzato della signorina Camilla lesse, per caso, in un libro questo specchietto matrimoniale composto da quel bel tipo di Onorato di Balzac:

  «L'uomo si ammoglia:

  «per ambizione, la qual cosa è ben conosciuta;

  «per bontà, per sottrarre una figlia alla tirannia di sua madre;

  «per collera, per diseredare dei collaterali;

«per disdegno di un'amante infedele;

  «per noia della deliziosa vita di scapolo;

  «per follia, che è sempre tale;

  «per scommessa, il caso di Lord Byron;

  «per onore, il caso di Giorgio Dandin;

  «per gioventù, all’uscir di collegio, storditamente;

  «per bruttezza, temendo di mancare un giorno di moglie;

  «per machiavellismo, per ereditare prontamente da una vecchia;

  «per necessità, per dare una posizione a nostro figlio;

  «per obbligo (la signorina è stata debole);

  «per passione, per guarirne più sicuramente;

  «per questione, per finire un processo;

  «per riconoscenza, per dare più di quello che si è ricevuto;

  «per saggezza, il che succede anche ai dottrinari;

  «per testamento, quando uno zio morto impone nella sua eredità l'obbligo di sposare una ragazza;

  «per uso, ad imitazione dei proprii avi;

  «per vecchiezza, per fare una fine;

  «e finalmente per zelo, come il duca di Saint-Aignan, che non voleva commettere peccati». [Cfr. Physiologie du mariage, Méditation I. Le sujet].

  Il fidanzato della signorina Camilla rilesse, meditò, verificò, e siccome dovette constatare ch’egli non si sposava per nessuna di queste ragioni e che la sua ragione non era prospettata dal fisiologo del matrimonio semplicemente perché non esisteva, il fidanzato della signorina Camilla, a buon conto, non si sposò. […].

  pp. 110-111. In quel momento la direttrice era non poco preoccupata. Nel libro che stava leggendo — la Fisiologia del matrimonio di Onorato di Balzac — aveva letto e meditato il passo seguente: «Un uomo è più temibile a cinquantadue anni che a qualsiasi altra età. È a questa bella epoca della vita che egli usa di un’esperienza caramente acquistata e di tutta la fortuna che deve avere. Le passioni, sotto il flagello delle quali si aggira, sono le ultime; quindi egli è spietato e forte come l'uomo trascinato dalla corrente, che afferra un verde e flessibile ramo di salice, giovane germoglio dell'anno». Un po’ nervosa, ella chiamò la sua segretaria che scriveva a macchina rapidissimamente facendo segno all’altra sua segretaria — la segretaria poliglotta che scorreva tutto il giorno cataloghi di editori per annotare i nuovi libri di psicologia e di storia dell’amore — di rimanere al suo posto.

  — Presto, il registro dei cavalieri! Guardi subito quali sono, quanti sono i cavalieri che abbiano cinquantadue anni! Ha capito? Cinquantadue anni di età! […].

  p. 117. — Che cosa le offre l’Istituto, signorina? — continuava la direttrice. — Le offre molto, ma non tutto. Le offre di parlare d’amore. Parlare d'amore — riprese la signora con calma — è fare all’amore: lo dice anche il signor di Balzac. Bisogna saper accontentarsi di questo. Io poi non credo col signor Baudelaire che l’essere umano goda del privilegio di saper trarre le gioie più sottili dal dolore, dalla catastrofe e dalla fatalità: al contrario, le gioie più sottili sono le gioie del flirt. Meglio Kirkegaard, — continuò la direttrice indicando il Diario del seduttore: — «Quando una donna interamente si è donata, tutto ha perduto; se innocenza è nell’uomo un che di negativo, nella donna è l’essenza della vita». […].

  p. 127. — Le piace? — Sì, conte. È un giornale molto ben fatto! — Guardi. Qua c'è un articolo sugli amori del Rousseau, un altro articolo sulle amiche di Balzac, un altro sulla signorina di Lespinasse. Guardi: «Giorgio Sand e il dottor Pagello a Venezia» ...


   Neera [Anna Radius Zuccari], I travestimenti nel secolo XVIII, in Profili, Impressioni e Ricordi. Edizione postuma, Milano, Casa Editrice L. F. Cogliati, 1920, pp. 129-135.

  p. 131. Avvicinandoci ai nostri tempi, troviamo ancora la contessa d’Agoult vestita spesso da uomo ne’ suoi viaggi con Liszt; Balzac, il quale fece pure un viaggio in Italia accompagnato da una donna sotto le spoglie dell'altro sesso […].


L’amore nei grandi uomini, pp. 221-231.

  p. 230. E sui profondi dissidi dei coniugi Carlyle chi ci dirà l’ultima parola? E Balzac che attese otto anni l’ineffabile istante di unirsi alla contessa Hanska dalla quale voleva dividersi pochi mesi dopo? E Barbey d’Aurevilly, ingegno così acuto, e Nietzsche dal vasto intelletto, non si ingannarono forse entrambi dolorissimamente adornando colla loro fervida immaginazione un poetico miraggio di donna che esisteva solo perché essi l'avevano creata?


  Nemi, Tra libri e riviste. Nuove Riviste, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CCVII – della Raccolta CCXCI, Fascicolo 1161, 1° Agosto 1920, p. 295.

  D'indole totalmente diversa è Simpaticissima, una nuova, singolare collezione-rivista di A. F. Formìggini. […].

  Il primo numero, uscito in questi giorni, contiene La Piega nei calzoni di Giuseppe Zucca, pittura dagli aspetti comici della vita militare. Il secondo numero conterrà l’ultimo scritto pagano di Giosuè Borsi, un mirabile saggio di traduzione alla boccaccesca dei Contes drôlatiques del Balzac.


  Alberto Neppi, La pittura ferrarese nel rinascimento. I. Da Galasso di Matteo Piva a Francesco del Cossa, «Poesia ed Arte», Verona-Ferrara, Anno II, N. 6-7, Giugno-Luglio 1920, pp. 143-147.

 

  p. 146. Esteta, verista, psicologo e poeta epico, di quella epicità popolaresca che per nulla si riallaccia al classicismo omerico, ma ricorda piuttosto l’ardore cupo e romantico del Père Goriot di Balzac o della Potenza delle tenebre di Tolstoi, Cosimo Tura impersona sincerissimamente i pregi ei difetti di tutta la scuola ferrarese

della rinascenza [...].


  F.[erdinando] Neri, Bollettino bibliografico. J.-Roger Charbonnel.La pensée italienne au XVIe siècle et le courant libertin. — Paris, Champion, 1919, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», Torino, Casa Editrice Giovanni Chiantore, Volume LXXV, 1920, pp. 287-289.

  p. 287. Il primo volume dell’opera dello Strowski, Pascal et son temps, mi pare che abbia determinato il «momento di formazione» di questo libro: lo Charbonnel vi ha scorto un disegno sommario del courant libertin, in cui appariva con vivace risalto la figura di Lucilio Vanini, lo straniero, l’italiano, che di subito raccoglieva un immenso favore e annodava intorno a sé le varie fila d’un pensiero diffuso e malcerto, ostile ad ogni fede; lo Ch. s’è chiesto se il pensiero italiano non avesse altri rappresentanti, più insigni del Vanini, e di Cosimo Ruggieri, quel mago e envoûteur, caro alla fantasia del Balzac, che lo Strowski gli pone a riscontro […].


  Dario Niccodemi, Il Poeta. Commedia in un atto (Illustrazioni di Luigi Bompard), «La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera», Milano, Anno XX, N. 11, 1° Novembre 1920, pp. 794-802.

  p. 796.

  PASQUALI. Vorrei sapere, prima di tutto, se scherzi o se fai sul serio.

  CLARISSA. Ve ne accorgerete subito. Conoscete «Modesta Mignon»? (tutti si guardano) E’ un romanzo di Balzac. Lo conoscete?

  TUTTI. No.

  CLARISSA. Ero sicura di questa unanimità di ignoranza.

  GIULIO. Noi abbiamo da far altro che leggere dei romanzi. Noi lavoriamo perché tu possa comprarli. […]

  CLARISSA. […] Non credo di offenderti, papà, dicendo che io non sono come «Modesta Mignon» la figlia d’un eroico e avventuroso soldato di Napoleone Primo, il quale dopo la catastrofe di Waterloo corse il mondo in lungo e in largo per rifarsi una vita e un patrimonio. Questo non può offenderti, vero?

  PASQUALI. Nessuna sciocchezza mi offende. […].

  CLARISSA. Oggi, tra poco, deve compiersi il mio destino. Papà, Modesta Mignon …

  PASQUALI. Lascia stare gli assenti. Al fatto.

  CLARISSA. Quella ragazza s’innamorò per corrispondenza di un gran poeta. A me è accaduto lo stesso.


  Ugo Ojetti, Gorki su Tolstoi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 261, 30 Ottobre 1920, p. 3.

  A Gorki [Tolstoi] diceva: «I francesi non hanno che tre scrittori, Stendhal, Balzac, Flaubert; forse anche Maupassant, ma pre­ferisco Tchekhof. I Goncourt sono dei clowns che fingono d’esser serii ... Hugo non mi piace, è troppo rumoroso ... Che c’è di comune tra noi e i francesi? Lo spirito a loro importa meno della carne. Per un francese la donna è tutto. Sono un popolo logoro. I medici di­cono che tutti i tisici sono sensuali ... Degenerazione? La degenerazione non esiste, l’ha inventata l’italiano Lombroso e l’ebreo Nordau gli è venuto dietro strillando come un pappagallo». […].

  Ogni retta sentenza di critica letteraria, la sua moraleggiante manìa gliela storceva sul più bello: «Dickens è uno scrittore senti­mentale e loquace, ma sa costruire un ro­manzo anche meglio di Balzac. Chi ha det­to che molti hanno la passione di scrivere libri ma pochi hanno la forza di vergognar­sene dopo averli scritti? Balzac non se ne vergognò mai, e nemmeno Dickens, eppure tutti e due hanno scritto molti libri mediocri».


  Francesco Olgiati, Un dilemma a proposito del divorzio, «Vita e Pensiero. Rassegna italiana di coltura», Milano, Anno VI, Volume X, Fasc. 84-85, 20 settembre 1920, pp. 536-545.

  p. 538. Ad Alessandro Dumas, che nel 1880 stampava il suo famoso volume: La question du divorce in difesa della legge infame, che tante rovine doveva arrecare alla Francia, Alfredo Oriani poteva domandare nel suo Matrimonio — un libro ricco di vari errori, ma come tutte le opero dell’Oriani, inte­ressante ed originale: «Vi siete mai ducato perché in questa pro­paganda del divorzio manchi la voce e l’opera dei magni spiriti? Perché Victor Hugo, la più grande fantasia poetica, Balzac, la più grande fantasia drammatica, Michelet, la più grande fantasia sto­rica del secolo, non sono con voi in questa crociata? […]».


  Enrico Pappacena, Il pianto dei grandi (La catarsi finale), «L’Arte fascista. Rivista mensile illustrata», Palermo, Anno I, N. 1, Luglio 1920, pp. 49-53.

 

  p. 50. Balzac. – Io non ebbi tempo per essere un poco felice, un poco solo, sulla Terra, tutto inteso a rappresentare la vita della mia grande epoca!


  Concetto Pettinato, Un secolo in Sicilia. «I Viceré», «I Libri del giorno», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno III, N. 2, Febbraio 1920, pp. 68-72.

  p. 69. Molti altri romanzieri, moderni e meno moderni, erano stati in passato giustamente consacrati storici della loro società e del loro tempo; ma le storie di Balzac, di Dickens, di Zola, dei Margueritte comprendevano dozzine di volumi, difficilmente se ne afferrava in uno sguardo il profilo, il senso integrale, e, sopratutto, il tempo cessava di rispettarle nella loro totalità, troppo grandiose per essere esaurienti e troppo minute per potersi ridurre a uno solo dei libri che le componevano.


  Antonio Pilot, Onorato di Balzac e Camillo Nalin, «Nuovo Archivio Veneto. Periodico storico trimestrale della R. Deputazione Veneta di Storia Patria», Nuova Serie, Anno XXIII, Tomo XL, Venezia, A spese della R. Deputazione, 1920, pp. 182-186.

  A pagina 124 del suo diligentissimo volume sul Balzac in Italia (ed. Treves, Milano, 1920), Giuseppe Gigli, ricordato come in Venezia si facesse, al tempo in cui era giunto il singolar francese (1837), un gran parlare del vapore, non solo, ma, alludendo alla mirabile fantasia del Balzac, la si dicesse mossa proprio dal vapore, tanto appariva straordinaria, il Gigli, dico, ricorda come, e in Venezia e in tutto il Veneto, girasse una curiosa “e un po’ confusa poesia di anonimo autore che credette, appunto, di mettere in canzonatura il famoso scrittore”.

  La poesia, ripetuta dal Gigli (pp. 124-128) ha per didascalia “Per una poetica gofissima composizion, scrita a Venezia da Balzac, in lingua franzese, che xe stada in italian interamente rifusa da l’inzegno d’un bravissimo poeta, el qual, in altra ocasion, definendo l’estro co molto spirito, ga fato veder che più propriamente adesso s’abia da dir che la fantasia vien mossa dal vapor, se col vapor, oramai, tante cose vien fate”.

  La poesia, però, non è nè anonima nè inedita; essa leggesi a p. 365 dei “Pronostici e versi” del poeta veneziano Camillo Nalin. — Terza edizione. (Venezia, Tip. edit. Società M. S. fra comp.-tip. 1878) poesia la quale, per comodità di coloro i quali non hanno tra mano nè il volumetto del Gigli, nè la raccolta del faceto Nalin, riproduciamo, aggiungendoci, di nuovo, le note che rendono meno confuso il citato componimento.

  Il quale, nella ricordata edizione veneziana, è anche preceduto da una composizione francese del Balzac e dalla relativa traduzione del Trolli, le quali pure amiamo riprodurre integralmente per la compiuta disamina e per la chiarezza dell’argomento.

  I versi del Balzac sono, a loro volta, preceduti dalla seguente notevole didascalia: “Per Balzac leterato e romanzier franzese che s’ à presentà, nel 1837, a Venezia co una çerta noncuranza afetata e un çerto sprezzo de tuto, da far fastidio e che, dopo esser sta molto forzà in t’una conversazion, ga scrito i versi che segue, tradoti, dopo, dal dotor Trolli”.


Versi de Balzac.

Du sein de ces torrent (sic) de gloire et de lumière

Ou su leur sistres d’or les Anges attentifs

Au pied de Jehovach répétent (sic) la prière

De nos globes plaintifs,

Souvent un cherubin a chevelure blonde,

Voilant l’éclat de Dieu sur son front refletè (sic),

Laisse aux parris de ciel son plumage argenté

Et descende sur le monde

Apportante du très-Haut bienfaisant régard (sic)

Du genie (sic) aux abris il berce la misère

Et du pauvre banni console le départ

En lui disant: Espère.


Traduzione del Dottor Trolli

Dai torrenti di gloria e di splendore,

U’ sulle cetre d’or gli angeli attenti

Van ripetendo ai piedi del Signore

Le preghiere dei queruli viventi.

Sovente un cherubin dal biondo crine,

Quel velando che in volto gli risplende

Divin raggio, del ciel lascia al confine

Gli argentei vanni e sulla terra scende

La grazia dell’Altissimo portando

Al genio che di vita omai dispera,

Molce gli affanni e men penoso il bando

All’esul rende, lui dicendo: Spera.[5]


Critica de Nalin

Un omo da cartelo,

Un talentazzo

Che i parti, apena nati dal cervelo

Vendendo un tanto al brazzo (1)

La fama ga robà de leterato,

E campa i dì, beato,

In t’un paese

Dove sina i putei parla franzese.

E dove, più de qua,

Gh’è la facilità

Col publico de far bona figura.

Non essendo castrai da la censura:

Sto omo fortunà

Dopo aver traversà

El bel giardin d’Italia sorprendente,

Ma che, per le so idee, xe risultà,

Cussì l’à dito, cossa indifferente,

L’è, za zorni, a Venezia capità

E l’estensor del fogio diligente,

Che gera sta benissimo informà,

E che, per adular, no xe propenso,

Ga usà la frusta e a sparagna l'insenso (1).

Quando fra un l’è sta

Dove oramai,

Per dir la verità,

Se pena i leterati patentai,

No minga perchè siemo

Scarsi de brava zente,

Ma per la gran razon che nu volemo,

Per darghe la patente,

Tuli quei requisiti

Che no xe necessari in tanti siti,

E in Franza specialmente

Dove cata ogni inezia l'aquirente,

Quando che ’l s’à trovà fra nu, ripeto,

El pareva deposta deventà

Un Prometeo, un Maometo,

Che, a furia de portenti,

In modo singolar

Vegnisse a iluminar

Le otuse menti

Dei gnochi, dei meloni e dele zuche

E tra le fanfaluche

Che, da so posta iluso,

Sto insigne leterato parigin,

Ma de fondo lasagna, ha dito suso,

Nominando el Signor come un Rabin (2)

In piena società,

A forza de scamofie l’à contà:

Che tra i gonfi torenti de la gloria,

In mezo ai candeloti sempre ardenti,

Dove i anzoli recita a memoria,

Al son dei so strnmenti.

Senza stufarse mai matina e sera,

El pianto che qua in tera

Fa la turba infinita dei spiantai

Che no finisse mai;

Procurando al Signor, elle xe paziente,

Un’academia poco divertente,

Da là, cussì el s’à espresso, un Cherubin,

Che par el fusse oriondo marangon,

Scondendose el riverbero divin

Co un toco de carton,

Spesso da le so spale

Se cava zoso l'ale,

Le taca con un chiodo e col martelo

Soto i travi del cielo,

E abasso el vien,

Supono mi, col so paracadute,

Emulo de madama Garneren (1)

Per conservarse in stato de salute,

Perché, si no, cascando a precipizio

El se faria un servizio

Che, dopo el primo viagio su sto mondo,

Ghe scamparia la vogia del secondo;

E capita, in sostanza,

Per farghe a tuti quanti

I cavalieri eranti

Sto strazzo de regalo, la Speranza;

A medicar i mali

Dei miseri mortali,

Che ghe ne xe una strage in sto paese,

Compreso quel franzese

E adesso el gripe;

A prometer le tripe

Col vin da vintiquatro al mendicante,

Senza, per altro, calumarghe un traro,

E a darghe una bozzeta de calmante

Al genio che ghe par fazza tabaro.

Sto vero zibaldon,

Sta gofa descrizion,

Un omo che de l’estro

Ga fato da maestro

Notomia,

E a son de bon ingiostro,

L’à definido un mostro, una manìa,

Co quatro penelae da professor,

Fando viagio in vapor

Su l’Elicona,

Benissimo assistio da la so Musa,

El l’à tuta rifusa

In lingua bona,

E da un aborto rinovà de pianta

Xe vegnù fora un pezzo da sessanta (1).

Bisogna convenir che i gran talenti

I ga certi mumenti

Che la testa

0 ghe servo de intrigo, o no se presta;

No podendo negar che gabia in fato

Del talento el foresto leterato,

Se, sina da putelo,

L’à mostrà esuberanza de cervelo,

Perché ex abrupto interogà in che sito

Xe la fede de l'anima, el ga dito,

Per no parer minchion,

Che l’anima sta drentro del boton.[6]


  Tale lo sfogo poetico, non privo d’attico sale, del nostro Nalin: ed è strano, davvero, che il Cicogna, diligentissimo e acutissimo osservatore dei fatti del suo tempo, in proposito del Balzac, non scrivesse, nei suoi noti Diarî, più di quanto segue: “1837. Marzo. Il signor di Balzac fu in Venezia; io non lo vidi, ma si è detto che la sua presenza è tanto ridicola che non dà punto a divedere quale uomo distinto egli sia. Un suo riflesso è questo: Che uno scrittore, sotto la sferza della censura, è come un ballerino colle catene ai piedi” (2).

  [Note].

  p. 183. Nota (1). La nostra “Gazeta” riportando le date de Franza, ga dito che Balzac vendeva le opere a un librer a’ un tanto a la fazzada.

  p. 184. Nota (1). La sprezzante afetazion co la qual el s’à presentà a Venezia xe stada criticada da la nostra “Gazeta”.

  p. 184. Nota (2). Dopo esserse fato molto pregar in t’una conversazion, l’a scrito i versi indicai in principio dove al Signor el ghe dise Jehovach, termine ebraico.

  p. 185. Nota (1). Madama Garneren, aeronauta, che ga fato un svolo a Venezia e che xe venuda zo col paracadute.

  p. 186. Nota (1). La composizion de Balzac xe stada messa in lingua italiana dal dotor Carlo Trolli e qua se alude a una graziosa poesia sul vapor del dotor Trolli.

  p. 186. Nota (2). A tal riflesso, appunto, fa, forse, allusione il verso dodicesimo della “Critica” Naliniana.


  Giuseppe Prezzolini, Uomini 22 e città 3, Firenze, Vallecchi Editore, 1920.


L’ironia lontana: Villiers de L’Isle Adam, pp. 167-180 [1910].

  p. 179. In Villiers non c'è abbastanza spirito di grandezza per capire che anche al borghese spetta un posto nel mondo. Villiers è poco obiettivo: e il genio è eminentemente obiettivo. Il borghese non irrita Balzac e Goethe.


L’umiltà letteraria: Charles Louis Philippe, pp. 191-199 [1911].

  pp. 197-198. Questa umile quiete delle cose e dei cuori era profondamente sentita da Charles Louis Philippe, che n’animava con leggerezza di tocco gli ambienti a lui familiari. Ben altrimenti vi penetrava Balzac. Chi ricorda uno dei tanti romanzi (paiono mille, tanti ciascuno ne racchiude in sé stesso) delle Scènes de la vie de Province? Sono lotte per una eredità, fantasticamente ingrandite da un occhio gigante. Nei piccoli paesi di Balzac intorno a quel centro si muovon tutti gli abitanti, le autorità e c’è il lontano intervento di Parigi e magari del Papa. Sembra che dove Balzac pone l’occhio scaturiscano i geni della politica e della guerra: per la mano d’una ereditiera e per la tutela d’un vecchio riccone si dispensa tanta forza d’astuzia e di ipocrisia quanta sarebbe necessaria per conquistare il posto di ministro dell’interno; tutto il paese è un campo di battaglia, le congiure nei caffè e nelle case, le intese segrete, le aperte lotte si seguono. Omerici di forza e di animo, gli eroi balzacchiani ci fanno dimenticare il posto dove si trovano, e partecipano ad episodi di vita così intensa che appena Parigi parrebbe degna di contenerli. E non basta, che Balzac, come se volesse tutto osare, vi introduce persino il soprannaturale ed è così meravigliosamente chiuso il cerchio dell’arte sua, che non scoppia e non si disperde in un razzo o in un petardo, ma si contiene tutto fermo come lo pose con mano ferrea l’artista. Che fiato, miei cari, che polmoni! Sembra il petto d’un tisico, a confronto quello di Charles Louis Philippe, del caro, del povero, del buon Charles Louis Philippe.


  O. R., Corriere parigino. […] Balzac e la moda, «Corriere della Sera», Milano, Anno 45, N. 28, 2 Febbraio 1920, p. 1; N. 29, 3 Febbraio 1920, p. 2.

  Comunque sia, l’importanza della toilette mascolina si afferma con l’annunzio della pubblicazione di un giornale di moda per uomini. Frivolità? Non si può affermarlo recisamente poiché anche Balzac, s’è occupato di eleganze mascoline in diversi articoli di giornale: Trattato della vita elegante. Studi di costumi attraverso i guanti. Fisiologia del­la «toilette», Degli abiti imbottiti, Della cra­vatta considerata in sè medesima e nei suoi rapporti con la società e gli individui. Ed era «d'avanguardia», Balzac: «Tutto ciò che rivela una economia è inelegante. — Il lus­so è meno dispendioso dell’eleganza». Afo­rismi inquietanti. Era meglio non riesumarli, forse, mentre s’apriva ai poveri uomini uno spiraglio di luce nel camouflage, nella trasformazione degli abiti e dei cappelli vecchi: pare che in questo momento si rivoltino e si ritingano abiti e soprabiti e si rimettano a nuovo cappelli più che leggermente consunti come mai era avvenuto a Parigi. […].


  Raffaello de Rensis, Giorgio Sand, in Anime musicali. La sensibilità musicale nei poeti, letterati e filosofi – Leonardo – D’Annunzio – Lenau – Giorgio Sand – Nencioni – Tarchetti – Oriani – Walter Pater, Roma, Maglione & Strini Succ.: Loescher, s. d. [1920], pp. 49-61.

  p. 51. Balzac dichiara che deve alla Sand lo spunto delle sue novelle musicali Beatrice e Amori forzati (sic).


Alfredo Oriani, pp. 79-95.

  p. 80. Verdi, dunque, non gode le simpatie di Oriani, ed una rappresentazione della Traviata con la Patti, che della quarta novella fa quasi interamente le spese (come la Dannazione di Faust e il Mosè nei noti scritti di Balzac), lo prova chiaramente.


  La Rivista Cinematografica, L’Unione cinematografica italiana, «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno I°, N. 4, 25 Febbraio 1920, pp. 4-5.

  p. 5. Sono pronti numerosi lavori ed altri sono in preparazione. […]. Le colonel Chabert di Balzac. […].


  F.[ederico] de Roberto, Il romanzo del romanziere. Balzac ed Eva di Hanska, «Il Giornale d’Italia», Roma, Anno XX, N. 141, 13 Giugno 1920, p. 3.

  «Ah, lupa mia, tu non sai che cosa significa scrivere tanti volumi. Riescono graziosi a leggerli, quando sono graziosi; ma comporne otto è più seria fac­cenda che vincere la campagna di Jena! ...».

  Queste parole, che Balzac scriveva alla Straniera in una delle lettere inedite or ora apparse, sono da ripetere a proposito di tutto il carteggio amoroso del grande scrittore. E già si potrebbe cominciare col dire che se la sua pas­sione per la contessa Eva di Hanska non si fosse espressa in tante e così lun­ghe epistole, Balzac avrebbe quasi cer­tamente potuto aggiungere molte altre statue al colossale monumento della Commedia umana. Una buona metà dei due grossi volumi della Correspondance è composta delle lettere alla Straniera; delle inedite, se ne sono formati sinora tre tomi, e innumerevoli altre aspettano ancora di vedere la luce; queste mi­gliaia e migliaia di pagine — comprese quelle che l’incendio del 1843 distrusse in casa Hanski, a Pietroburgo — rap­presentano un preziosissimo tempo sot­tratto al lavoro creativo. Sarebbe in­giusto dolersene, prima di tutto perché l’amore di Eva fu il grande stimolo del­lo scrittore, e poi perché questi docu­menti rischiarano sino alle ultime fibre l’animo suo e formano una specie di ro­manzo autobiografico — il romanzo del romanziere; — ma, dall’altra parte, neanche è possibile pensare senza pena alla pena che gli costarono.

***

  Pena e gioia insieme, naturalmente. Come in ogni altro caso d’amore, e come in tutta la vita, il molto dolore si al­terna qui con qualche godimento; e il godimento, se non dura, se è scontato con nuovo dolore, è o sembra tale e tanto da essere ancora e sempre avidamente cercato e procacciato ad ogni costo.

  Gli avvenimenti esteriori di questo romanzo sono noti. Balzac incontra Eva di Hanska nel 1833, l’ama durante dieci inni, spera di sposarla quando resta ve­dova, aspetta ancora altri sette anni che ella si decida a dir di sì, e finalmente può darle il suo nome — cinque mesi prima di morire ... Narrato in così poche righe, già si vede che il romanzo, tut­to intimo e psicologico, si riduce ad un contrasto di anime, ad «un grande e bel dramma di cuore», come dice lo stesso protagonista.

  La singolarità del caso consiste nel fatto che, negando tanto a lungo la sua mano ad Onorato di Balzac, Eva di Hanska già gli ha accordato tutto il resto. Questa circostanza dà la misura dell’amore di lui. Un altro si sarebbe appagato dell’avventura, l’avrebbe prolungata per un certo tempo, e poi sarebbe passato ad un’altra. Più insiste per legarsi indissolubilmente, più affret­ta con i voti, con i proponimenti e con i portamenti il giorno del matrimonio, tanto più il romanziere dimostra la forza, la profondità, la tenacia della sua passione.

  La sua vita non ha altro scopo se non rendere possibile l’avvenimento che è condizione della sua felicità. L’anno al quale appartengono la maggior parte delle nuove lettere è uno dei peggiori della sua febbrile esistenza; egli stesso lo chiama anno «climaterico», anno «fatale, nel quale bisogna sfruttare la Commedia umana e le mie opere e il mio cervello per finirla una buona volta con la miseria». Finché resterà in Russia con la figlia avuta dal marito, la con­tessa di Hanska sarà ricca, straordina­riamente, del patrimonio familiare; se passerà a nuove nozze, perderà il godimento di quelle rendite, e potrà tutt’al più ottenere un assegno vitalizio: tocca dunque a lui lavorare per assicurarle il lusso al quale è avvezza. Ma prima deve finire di pagare i debiti – e ne ha ancora per 130 mila lire –: il suo lavoro diventa quindi uno spaventoso travaglio. «Cara Lulupa ciò ch’io chiamo lavorare è qualche cosa che bisogna vedere e che nessuna prosa potrà mai descrivere, per­ché quanto ho fatto da un mese a questa parte avrebbe rovinato l’organismo più saldo». Oramai egli non si sostiene se non a furia di caffè; ma l’eccitazione prodotta dalla bevanda aromatica, se è necessaria a tenerlo desto quando, leva­to nel cuore della notte, dopo due o tre ere di sonno, resta a scrivere sino a tutto il nuovo giorno, talvolta per non meno di diciassette ore — questa ecci­tazione gli rovina anche la salute. «Sono entrato in un periodo di orribili sof­ferenze nervose allo stomaco prodotte dall’abuso del caffè ... Questi dolori atroci, senza esempio, mi tormentano da tre giorni. Ho creduto, sulle prime, di esser colto da un accidente ... Ho i nervi in uno stato pietoso. L’abuso del caffè mi fa tremare tutti i nervi degli occhi; mi sento esaurito ...».

  Per guarire c’è un solo rimedio: il riposo. Ma, per riposare, egli dovrebbe ritardare il pagamento dei debiti e l’edificazione del nido: continua dunque a comporre, quanto più può, di giorno e di notte, prendendo altro caffè, prenden­done tanto che a poco a poco i suoi cen­tri nervosi si abituano al veleno e non ne risentono più la sferzata. In queste condizioni, con questa condanna ai la­vori forzati letterarii, per potere scri­vere anche a lei, assiduamente, lunghissimamente, lettere di otto, di dieci, di sedici facciate, dove le narra la sua vita, e le riferisce i suoi disegni, e le confida le sue speranze, e le rende i conti di quanto deve, di quanto guadagna, di quanto spende, e le dice l’amore che le porta, e le apre il suo cuore come un libro, e tesse le lodi di lei, e scioglie inni alla sua bellezza ed alla sua grazia, e piange e ride e freme e grida e canta e prega e ricorda — per fare tutte queste cose egli deve rubare qualche altra ora al sonno insufficiente e battere più a lungo e più tormentosamente le ciglia stanche sugli occhi ardenti. Rinunziare a scriverle non può, perché in questo solo modo, col solo spirito gli è con­sentito ordinariamente di starle vicino. Ella vive in fondo alla Russia, o viaggia per l’Europa: egli passa la vita aspettando di poter andare a trovarla, a Vienna, a Pietroburgo, a Dresda, a Baden, a Napoli, a Roma, a Wierzchownia: la signora di Girardin ne ride chia­mandolo Vetturino per amore. Ma il permesso gli è raramente accordato: una dozzina di volte in diciassette anni; e da canto suo, potendo recarsi a Parigi quando vuole, particolarmente do­po la morte del marito «ella gli offre una sola volta questa grande consola­zione».

  Nei lunghi, negli eterni intervalli, scriverle è dunque un bisogno, una ne­cessità quasi fisiologica, una specie di «continuo prurito». Ma, per procu­rarsi questo sfogo, egli deve interrom­pere i lavori fruttuosi che lo sbarazze­ranno dei creditori, che gli consentiran­no di fondare una famiglia, «d’incasto­nare diamanti nella tua corona», e che lo renderanno degno di lei — perché tale non si stima ancora! «Scrivo per lei», dichiara alla Girardin; «voglio la gloria per lei. Ella è tutto, è il publico, è l’avvenire!» E la Girardin, di riman­do: «Voi mi spiegate così la Commedia umana. Un monumento simile non s’in­nalza senza un simile scopo!».

  Delfina Gay, dunque, la spettatrice, l’estranea, capisce la ragione dello sfor­zo immenso, della «favolosa fatica», del «lungo assassinio». Lo capisce an­che Eva di Hanska, colei per amore del­la quale è affrontato?

  Intanto, alle spesse e interminabili lettere di lui ella risponde di raro e bre­vemente. «O Linetta mia, voi siete pa­drona di tutto il vostro tempo; voi po­tete chiudere l’uscio e scrivermi tutti i giorni. O Polacca! Polacca! ... Voi mi scrivete all’ultimo momento, ed io scri­vo tre lettere per averne una, ed i miei righi costano venti soldi l’uno, ed io ru­bo le mie ore al sonno …». Il suo la­mento è continuo, riecheggia come un doloroso ritornello della sua canzone di amore. «Sono all’ultimo grado dello stupore per non avere ricevuto tue let­tere ... Ancora niente lettere! Che cosa accade? C’è in Sassonia (ella è a Dre­sda) una rivoluzione come in Isvizzera? Le strade sono ostruite dai ghiacci, le poste senza cavalli? Ahimè! Ahimè! ... Oh, cara, se poteste vedere i guasti pro­dotti dall’assenza dei vostri sottili ca­ratterini, scrivereste regolarmente ogni settimana ... Scrivi più particolareggia­tamente, ed ogni giorno. Tu hai tutto il tempo per te! Tu non hai Paysans da comporre, tu puoi farmi beato ... Te ne supplico, se mi ami, scrivi più spesso ... Una profonda malinconia è subentrata nell’anima mia, prodotta da questa tua ultima lettera dove trovo appena due parole di tenerezza, e scritte in fretta, e nulla della tua vita ...». La strada della posta è quindi «lastricata d’inquie­tudini, di gioia, di malinconia e di fe­licità»; la direttrice dell’ufficio, sapen­do a quale ansia egli è in preda quando accorre tre e quattro volte al giorno senza trovare, gli grida con gioia quasi personale: «Signore, c’è una lettera! …» quando c’è …

***

  E quando la lettera è buona — accade, talvolta — egli sembra ebbro di gioia, di gratitudine, in preda a una «adorazione moralmente prona dinanzi a tanta perfezione di cuore»; ma molte delle cose che ella gli dice lo scon­tentano e feriscono. Nell’improba fatica che sostiene per un sentimento d’onore e d’amore, per pagare i debiti e prepa­rarle la casa, non è da lei incoraggiato; spesso è biasimato senz’altro. Ella non ha fiducia in lui, nella sua eroica ener­gia; fin dai primi tempi della loro rela­zione gli ha espresso dubbii che lo hanno offeso, e il tempo e le prove d’amore che egli le ha date non sono valse a disar­marla: «C’è qualche cosa che sempre mi stupisce: la tua diffidenza contro le mie capacità ... Tu avrai sempre nella mente una specie di diffidenza contro di me perché cominciai male la vita. Tutte le mie disgrazie sono dipese da mia madre: ella mi rovinò, per interesse e a bella posta. Sono oramai sedici an­ni dacché mi dibatto nell’orribile si­tuazione creatami da lei. Più te lo spie­go, meno mi tieni conto d’aver vissuto, d’aver pagato, d’avere rifatto un patri­monio. Il mio patrimonio è l’opera mia. La mia opera vale un milione, e lo frutterà ...». Per il momento, è ridotto a vivere con seimila franchi l’anno: con meno ancora, con cinquemila, con quat­tromila — ed i suoi sforzi per uscire dal bisogno sono da lei derisi come dipen­denti da «un furore di speculazione». «Io ti perdono, Lulupa mia, perché non sai ciò che dici. Nel mio desiderio di ricchezza ci sei tu, soltanto tu ...» Se per poche centinaia di franchi egli compra quei mobili antichi, quegli og­getti d’arte, quelle cose rare e belle delle quali ha bisogno di circondarsi, e di circondarla quando l’avrà con sè, ella lo critica, gli avvelena il piacere; «Via, via: otterrò la tua fiducia col tempo, almeno in fatto di bric-à-brac...».

  Il loro modo di sentire è veramente diverso; sembra che queste due creatu­re non parlino lo stesso linguaggio ed il più nobile non è quello di lei. «Ca­ra Ninetta, voi mi date il consiglio di pagare i debiti a poco a poco. Io v’as­sicuro che da quasi cinque anni li pago a molto a molto ...». Egli vuole che i suoi creditori ripetano sempre ciò che dicono già: «Il signor di Balzac è un onest’uomo, e lavora tanto, e tiene una condotta così regolata, che diverrà ricco fra due o tre anni. Abbiamo aspettato finora: continueremo ad aspettare ...». E mentre i creditori sono contenti di lui, ella crede alle accuse di coloro che lo dicono dedito al giuoco! «Sappi dun­que, o grullina mia, che non si può es­sere tutt’insieme innamorato, scrittore e giocatore. Il giocatore non pensa ad altro che al giuoco ...». Altri, al contra­rio, lo dicono avaro: «Nulla di tutto ciò sussiste. T’amo e scrivo: ecco la ve­rità». Non perciò ella desiste dal rim­proverarlo: «Addio, lupa diletta, cara figlietta sgridatrice ... Sta’ tranquilla: il lupo tuo non farà ciò che tu chiami paz­zie. Le mie pazzie sono bell’e fatte. La mia pazzia sei tu! ...».

  In fatto di letteratura, l’ignoranza di questa donna è tale che non distingue un sonetto da una successione di strofe composte in onor suo da un conte di Borch. «Sciocchina, il tuo sonetto non è un sonetto. Il sonetto ha le sue leggi, e tu m’hai trascritte tre stan­ze della stessa forma». Secondo, lei, la gloria di Balzac ha una macchia, poiché egli non appartiene all’Accademia.

  «Nella tua letterina precedente volevi che entrassi all’Accademia; nelle tue let­tere di Pietroburgo e di Wierzchownia., quando ti dicevo che m’occorreva una casa ed un certo decoro esteriore per essere ammesso in quel consesso, mi ri­spondesti che aspettassi due o tre anni; ora mi dici invece che ti fanno soffrire osservandoti che non ne faccio parte. So le tue lettere a memoria, cara lupettina mia benamata ...». Ma la contraddizio­ne, e i rimproveri ingiusti, e tutti i suoi torti egli non si contenta di rilevarli con questo tono di tenerezza: li perdona, li dimentica, li annulla; gli basta fissare il ritratto dell’adorata perché dica a sè stesso — ed a lei: — «Tutto le è consentito. La sua logica è la sua bellezza, come l’amor suo è la mia felicità». I danni che gli anni infliggono a quella bellezza matura, e che ella lamenta, egli non li vede, li nega, li ignora: «Sta’ tranquilla, lupa mia adorata: tu possie­di la bellezza pregiata, la bellezza rara, quella che fa i mariti fedeli». E se vuo­le sposarla per non perderla, sarà per lei «sempre amante e mai marito». Ella è «il mio sogno, il mio più ambi­zioso sogno realizzato. Tu non sai, tu, diamante perduto in un deserto, tutto ciò che vali; perché, se lo sapessi, non ti stupiresti più della sconfinata mia adorazione. Ah, che gioia per me nel ripeterti che ambizione, orgoglio, spirito, intelligenza, mondo — anche vanità! — voluttà, incanto, tu appaghi ogni esi­genza! Tu sei tutto, il fiore e il frutto, la forza e la debolezza, il piacere e il dolore, il dolore involontariamente, il piacere sempre, anche nel dolore, la ricchezza, la felicità, la speranza, tutte le belle e buone cose umane; ed anche la religione. Non oso dirti che sei per me Dio, perché credo che sei anche più ...».

  A tal segno egli ama: sino alla be­stemmia. La qual cosa non toglie che ella stimi d’amare più e meglio di lui.

***

  La pretesa si spiega umanamente. L’a­mor proprio fa che ciascuna creatura umana attribuisca a sè stessa tutte le supremazie. Non c’è coppia d’amanti nella quale ciascuno dei due non sia certo di possedere un animo più grande, più, più delicato dell’altro. Ora il primo segno che l’amore di Balzac è migliore di quello di Eva consiste in questo: che egli si umilia mentre ella si esalta.

  Quando, sull’inizio, ella dubita dell’amore di lui e scherza con i suoi sentimenti, queste scettiche e ironiche espressioni le sono dettate dall’istinto di resistenza e di difesa che la donna oppone all’uomo, che le femmine oppongono ai maschi in tutta la scala vivente; ma che tale atteggiamento si prolunghi oltre la dedizione, questo è il segno che fa dubitare della capacità e della sincerità sentimentale di lei. Mentre egli la ama «d’un triplice amore che comprende il cuore, la testa ed i sensi, il passato, il presente e l’avvenire»; mentre tutta la sua vita si aggira intorno a lei e dipende da lei, ella è distratta da molte altre cose. In troppe sue lettere Balzac la sente presa dalla società troppe volte ella gli vieta di venire a trovarla per paura del mondo. Talvolta glielo lascia sperare: egli si prepara al viaggio ammazzandosi a lavorare per compensare anticipatamente l’interru­zione: a un tratto viene il divieto che lo lascia «ebbro di rammarico, di dolore, di angosce, d’inquietudini».

  Finché non è libera, le sue paure so­no giustificate — sebbene il conte di Hanski sia il più accomodante dei ma­riti –; ma quando resta vedova, che cosa teme? Che le gite dello scrittore facciano ciarlare la gente? Ma c’è un mezzo semplicissimo di evitare le ciarle: il mezzo che egli le viene suggerendo, la soluzione per la quale si strugge: sposarsi! ... Ed ella non si decide. Pro­mette, e disdice la sua parola, adducendo considerazioni estranee all’amore, mendicando pretesti. Vuole che la situazione finanziaria di lui sia netta — dun­que calcola. Dice di dover badare alla figlia — e la figlia è da un pezzo mari­tata ad un uomo che le vuol bene.

  Un giorno dell’estate del 1846, a Wiesbaden, Balzac. ottiene finalmente l’im­pegno tanto sollecitato, perché durante l’incontro precedente, avvenuto in sul finire dell’inverno, a Roma, ella è ri­masta incinta. Risolvendosi quindi a sposarlo, ella gl’impone che il matrimonio sia celebrato segretamente, in un luogo dove nessuno li conosca. Egli ac­cetta la condizione, e nel viaggio di ri­torno, a Metz, combina ogni cosa con l’aiuto del prefetto e del procuratore del Re: sopra il foglio delle pubblicazioni se ne appenderanno altri, in modo da non lasciarlo leggere; due testimoni ami­ci verranno da Parigi, altri due si sce­glieranno tra la gente più fidata del luo­go; la cerimonia avverrà di notte, in casa del sindaco; Eva si stabilirà qual­che tempo prima a Sarrebrück, donde, al momento opportuno, verrà nascostamente a Metz ... E non se ne fa nulla! Perché? Per la semplice ragione che el­la abortisce. Apprendendo la notizia, egli che si era proposto di lavorare anche di più, per aggiungere ogni anno mille franchi di rendita alla sostanza «del mio marmocchio», piange tre ore come un bambino; vorrebbe, ma non può accor­rere presso di lei, e «Dio solo sa i guasti che la disperazione e il cordoglio hanno fatto nel mio cuore e nel mio povero cer­vello, io che non esisto se non per virtù della speranza ... Non credevo che po­tessi tanto amare un germe di creatura. Ma era te, era noi ...». Quando il dolore si calma, la passione torna ad urlare. Solo perché la creatura è morta prima di nascere, i genitori non dovranno più unirsi? «Se non saremo sposati per la fine del luglio venturo (1847) non ri­spondo più di me ...». Nel luglio non so­no sposati — ed egli riprende a sperare, «io che sono un fenomeno di spe­ranza ...».

  Nel settembre gli è consentito di rag­giungerla a Wierzchownia. C’è il cole­ra: ma ella spera che il periodo lo tratterrà! ... Egli accorre, sicuro di piegarla. S’inganna ancora. Un anno dopo, nel settembre del 1848, può tornare da lei, e questa volta ecco manifestarsi i primi sintomi del male mortale prodotto dall’eccesso del lavoro e l’abuso degli eccitanti — eccesso ed abuso affrontati per lei. Ella rimanda ancora la scaden­za della promessa per paura della sca­denza delle cambiali. La logora fibra del povero grand’uomo non resiste que­sta volta ai rigori del clima nordico: egli contrae una dopo l’altra cinque bron­chiti che aggravano la malattia cardiaca. Ed Eva di Hanska si decide a sposarlo quando lo sa colpito a morte. Certo, bi­sogna tenerle conto della pietà che la spinge a farlo «pazzo di felicità»; ma quando, cinque mesi dopo, a Parigi, il cuore gonfio e stanco cessa di battere, ella non è al capezzale dell’agonizzante. Dirà ella ancora d’averlo amato più e meglio, che egli non l’amasse; sosterrà che la facoltà d’amare è l’«appannaggio» del sesso muliebre?

  Lasciamo stare la sua inferiorità intel­lettuale, che è troppo grande ed eviden­te. Non già perché egli è un genio si deve dire che la sua potenza affettiva è insuperabile. Il cuore d’un’umile creatura può essere più vasto del più super­bo cervello, e Balzac ebbe pure accanto a sé quel Giglio nella valle a paragone del quale egli scapitò tanto. Laura di Berny lo amò molto più che non fu ama­ta, e se altre prove ne mancassero, quest’una varrebbe per tutte: che egli non esitò a ripudiare la memoria — per amo­re della ragionatrice, della predicatrice, della temporeggiatrice Eva di Hanska. Un giorno costei gli scrisse, un poco in tono di scherzo, un poco sul serio, pro­ponendogli di discutere se si amavano o non si amavano. «Questo, mia cara si­gnora — rispose Balzac — è un delitto più grande di tutti quelli che vi compia­cete di rimproverarmi; perché io non ho mai avuto bisogno di discutere tal cosa, e dal 1833 vi amo come un pazzo, ed ho avuto il cuore sempre pieno di voi, a segno che la povera signora di Berny vi odiava a morte e mi supplicava di non vedervi più ... Oh, tutti i ricordi della signora di Berny sono molto lontani! ...». Per questa rinnegazione dell’amore antico, per questo vero delitto d’amore, non meritò egli le pene che Eva di Hanska gli fece soffrire?


  P. de Roberto, Balzac in Italia, «Giornale di Sicilia», Palermo, Anno LX, 30-31 Ottobre 1920, p. 3. 

  Due sono gli esemplari di questo articolo da noi esaminati: l’uno conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e l’altro nella Biblioteca Nazionale di Roma; la qualità di entrambe le copie risulta, soprattutto nella parte iniziale dell’articolo, assai compromessa, il che ha reso particolarmente arduo il lavoro di comprensione e di trascrizione di alcune parti del testo. 

  Bisogna raccomandare a tutti gli amatori di critica [?] biografica ed aneddotica il libro che Giuseppe Gigli ha ultimamente pubblicato intorno a «Balzac in Italia». L’argomento, già […?] da Raffaello Barbiera in uno dei suoi dotti e gustosi volumi, meritava d’essere svolto compiutamente […].

  Come tutti gli scrittori, come tutti gli artisti, come tutte le persone abituate a vivere col pensiero in tutti i tempi ed in tutti i paesi, anche Onorato di Balzac nutrì da giovane e si propose di appagare appena gli fosse possibile il desiderio di visitare l’Italia. La prima volta, nel 1832, si arrestò a Genova per deficienza di mezzi; nel ’36 scese in Piemonte per rendere servigio al conte Emilio Guidoboni Visconti, che aveva un processo a Torino […]. Questa spiegazione data dallo stesso Balzac a colei che doveva diventare sua moglie – la contessa Eva di Hanska – non pare molto persuasiva al Gigli; né in verità si capisce quale specie di servigio un romanziere potesse rendere ad un procedimento giudiziario, ed in paese straniero per giunta. Tanto più legittimo è il dubbio, perché anche nell’inverno dell’anno seguente, spingendosi fino a Milano, Balzac tornò a spacciare la storiella d’essere venuto a regolare le pendenze economiche del Guidoboni. Che proprio allo scrittore, sempre dissestato, immerso nei debiti fino alla gola, intento a seguire la fortuna per tutte le vie possibili ed immaginabili, una persona di buon senso pensasse di affidare il maneggio del minimo affare, è cosa fuori di ogni credibilità, e molto probabilmente la fantasia dell’artista si apprese a quella invenzione per non dover più dar stretto conto dei suoi viaggi. Il Gigli vuole escludere che la ragione vera, nel ’37, fosse quella addotta dai maligni, cioè il bisogno di sottrarsi alla persecuzione degli uscieri, ed afferma che la gita non ebbe altra ragione fuorchè il bisogno d’un poco di riposo e di quiete; comunque, certo è che, giunto nella metropoli lombarda il 19 febbraio, dopo l’aurora boreale apparsa nella notte del 18, l’autore del «Giglio nella valle» vi produsse tanta impressione quanta la straordinaria meteora, anzi più; perché come osservava Antonio Piazza nella «Gazzetta privilegiata di Milano», delle due inevitabili domande: «– Avete veduto l’aurora boreale? E il signor di Balzac, l’aveste visto? …» la prima era «transitoria» e l’altra «continuata»; quindi il nome del romanziere restò a lungo «sulle labbra di tutti e vi suonò dolce come una parola d’amore».

  Da questo esordio s’intende che l’articolo del Piazza era molto laudativo. Chiamandolo «illustre viaggiatore», «ingegno peregrino; brillante e straordinario», «fortunato e felice pittore de’ costumi parigini e delle scene della vita contemporanea», e «sottile scandagliatore dei secreti matrimoniali», «spiritoso e vivace», «parlatore facondo, preciso, inesauribile», il cronista notava il grande effetto prodotto dalla notizia del suo arrivo nella società milanese: fisicamente lo descriveva come «non bello e non brutto, ma fra le due piuttosto brutto che bello», con «una specie di chiaro-scuro, che dà qualche lontana idea di mustacchi», sotto il naso «savoiardo», ed occhi nerissimi, «nei quali si può leggere compendiato il fuoco, il buio …». La sua fisionomia non presentava «nulla di radiante, di etereo, di soprannaturale; ma un complesso di vita, d’insolito, di notevole, che non può facilmente sfuggire all’occhio dell’osservatore …».

  Non contento di questo primo soffietto, il Piazza ne pubblicava pochi giorni dopo un altro nel «Corriere delle Dame», accertando che «la moda ha empiuto i gabinetti delle opere del signor di Balzac … e, per dir vero, sinchè si mostra sì buon criterio, non abbiamo giusto motivo a lamentarcene. Ora il signor di Balzac è a Milano notizia che diviene per conseguenza importante e per la letteratura contemporanea e per la moda … Ho studiato da presso la sua toletta per ricavarne se fosse possibile una moda che avrei proclamato col titolo di «moda alla Balzac»; ma nulla di notevole che potesse imporne al «bon-ton», tranne la cravatta bianca ch’ei porta in toletta di gala col controsenso dei guanti neri. Ha un bel bastone a cesellatura, che costa 500 franchi! … Beati i paesi ne’ quali coi proventi della letteratura, si possono comprare bastoni di tal prezzo! Pagata ad articoli, la canna del signor di Balzac potrebbe portarcene forse via un ducento all’incirca …».

  Qui si comincia a intravedere qualcuno dei motivi per i quali alle incensature del Piazza, anche più premurose e calorose in un terzo articolo dello stesso «Corriere delle Dame» – non tutti partecipassero. In un paese come l’Italia di allora, povero, diviso, oppresso e disprezzato, la gloria mondiale e le pingui entrate dello scrittore di Francia dovevano pur suscitare qualche senso di gelosia e d’umiliazione. Nel coro degli ammiratori, la voce del mortificati andava spargendo, non potendo altro, che il romanziere era scostumato e viaggiava nella scandalosa compagnia d’una donna in abito mascolino; altri, con maggiore rispetto della verità, ma anche con maggiore sconvenienza, gli rimproveravano i molti debiti e annunziavano che usciva di prigione, o che vi sarebbe presto rinchiuso: modo non bello né giusto di protestare contro l’ingiustizia del destino che consentiva tutte le fortune allo scrittore di fuori via, e nessuna o troppo poche ai nostri. Benchè con più garbo, lo stesso Piazza, vedendo nelle feste tributate dai Milanesi a Balzac un «premio lusinghiero delle sue letterarie fatiche» ed anche un «incoraggiamento agli ingegni» ed uno «sprone all’emulazione italiana», sentiva tuttavia il bisogno di aggiungere malinconicamente: «ma la povertà delle nostre lettere non sempre invoca con buon successo il patrocinio della nazione; ed anche ammessa, pur troppo, molta distanza fra la letteratura francese e la nostra, chi di noi vede misura di proporzionati commenti? …». Per carità di patria egli sperava che Balzac, in cui lodava la «modestia nel parlare di sè», ripudiando il «gradito sistema dei suoi concittadini», troppo facili denigratori dell’Italia, potesse almeno un giorno lodare gli Italiani «che lo ammirano, lo festeggiano e lo presentano di casa in casa, di palchetto in palchetto …». Sparsasi invece la voce che l’ospite condivideva la disistima di tanti suoi connazionali per il paese dove era ospitato, Antonio Piazza concludeva il suo terzo articolo smentendo l’accusa. «Valga a distruggere certe basse calunnie che si diffondono da pubblici detrattori, la solenne dichiarazione che Balzac è pieno d’ammirazione per l’Italia e per gl’Italiani, che è riconoscentissimo alla gentile accoglienza che riceve da tutti e in tutti i luoghi, [e che tiene la nostra nazione e i nostri scrittori in quel conto cui essi ed essa ponno] aver giustamente diritto».

 

***

 

  Disgraziatamente l’assicurazione, data in una forma che pareva autorizzata dallo stesso Balzac, non era da lui confermata con i fatti. Alcune dame milanesi dovettero battagliare con lui udendo i suoi poco lusinghieri giudizî. Un giorno egli compì la cerimonia di andare a visitare Alessandro Manzoni, ma «io mi persuasi», narra Cesare Cantù, «che non avesse letto i «Promessi Sposi», tanto ne distonavano i discorsi che tenne», e durante la conversazione con l’autore «non parlò che di sè». Questa presunzione diametralmente opposta alla modestia scoperta e lodata dal Piazza gli doveva naturalmente nuocere presso quanti andavano giustamente orgogliosi del loro grande concittadino.

  La persuasione del Cantù forse non corrispondeva al vero: Balzac aveva letto, o se non altro sfogliato i «Promessi Sposi»; ma certo senza gustarli né apprezzarli, poiché ne sentenziava «povera» l’architettura. Il Piazza, zelantissimo nel difendere l’ospite illustre, si era tuttavia accorto della necessità di protestare contro questo giudizio: «Noi siamo i primi a rifiutare tale avviso»; ma poi aveva creduto debito di giustizia soggiungere: «Vi hanno però degl’Italiani che la pensano istessamente, ed a questi non pochi nessuno si è mai sognato di voler contrastare la libertà delle opinioni».

  Certo, e purtroppo, non mancavano – né mancano anche oggi – Italiani incapaci di sentire la bellezza e di misurare la grandezza del capolavoro manzoniano; ma, dinanzi al tono di superiorità assunto da Balzac nel giudicarlo, le reazioni erano naturali e doverose. Vivaci a Milano, furono anche più violente a Venezia – e ciò dimostri come l’amore di campanile non vi avesse parte. A Venezia, durante un pranzo in casa della contessa Soranzo, poco mancò che la discussione letteraria non degenerasse in diverbio. Uno degl’invitati italiani, udendo le osservazioni di Balzac sulla povertà della struttura dei «Promessi Sposi», commise, per cortigianeria verso lo straniero, la goffaggine di osservare: «Peccato che Grossi nel «Marco Visconti» ed Azeglio nell’«Ettore Fieramosca» abbiano imitato il Manzoni!» e allora Balzac, il quale con poco buon gusto aveva osservato che le sole spese per gli annunzî della traduzione francese del «Fieramosca» erano state superiori ai guadagni dell’autore in Italia, si lasciò sfuggire: «Appunto perciò non volli mai leggere tali romanzi! …». A questa uscita un altro dei commensali, italianissimo di cuore, di spirito pronto e di non comune ingegno, il conte Tullio Dandolo, acremente riprese il connazionale, chiedendo poi allo stesso Balzac «se credeva che i «Promessi Sposi» lasciassero il lettore soddisfatto di sè stesso e del libro, mentre i più prestigiosi scritti dell’epoca nostra» – e con queste parole e col tono della voce e con l’espressione dello sguardo chiaramente dimostrava di voler alludere ai romanzi balzachiani – «dopo aver esercitato sul lettore una specie di fascino, lasciavanlo nello scoraggiamento e quasi quasi in preda al rimorso? …». Turbata dall’imminente scoppio d’una contesa personale, la padrona di casa sviò con molto tatto la pericolosa conversazione; ma il Dandolo, uscito di lì, e mentre si spargeva per la città la notizia che tra lui e Balzac sarebbe corsa una sfida, preparò una requisitoria sotto forma di lettera aperta ad Angelo Fava, poco dopo pubblicata sulla «Gazzetta privilegiata di Venezia», col titolo di «Simposii»: una conversazione col signor di Balzac», nella quale disse in tutte lettere ciò che la prudenza della contessa Soranzo gli aveva impedito di manifestare a viva voce.

  Il romanziere francese, dando un’altra e più grave prova di leggerezza, aveva esclamato, visitando la piazza San Marco: «– Ecco un grazioso campione del Palais Royal! …». Riferendo questo sproposito dello scrittore, il Dandolo lo investiva: «Poveri ingegni che a furia di «centralizzazione» si rimpiccioliscono! povera gente che a forza di vivere nel gran mondo si fa pusilla, a forza di veder tutti i raggi concentrati in un fuoco scambia l’immagine con l’oggetto avvisa esser bella l’immagine! Poveri giganti divenuti pigmei, sui quali la società parigina fa l’effetto della soffocante atmosfera d’una bettola; allora fumatori e briachi escon di là ad annasar l’aria pura, accusandola d’ingenerar l’emicrania! che cosa mai tal genio moverà egli di nuovo, d’ammirabile nel mondo? Domanda a Balzac se la valle di Sernon, se l’interno della cattedrale di Cantorbery (sic) hanno mai capito, ti dirà che piacciongli più vedute nel Diorama, che ivi il giuoco della luce è più vivo. Gli è a questo modo che Balzac porta a sentenza degli uomini e della società parigina: la società parigina, cotesto proteo figlio della civiltà più raffinata e corrotta, si atteggia dinanzi al pittore, egli ne tragge i suoi quadri, ne coglie i tratti più appariscenti, il che è dire i più immortali, e tu comprendi che la immoralità parigina dev’essere la più colossale, direi quasi l’ideale delle idealità umane. Ecco dunque questo «centralizzatore», questo dipintore di costumi, darci i suoi sogni, le sue osservazioni, il suo satanismo siccome scene della vita!! Se tale uomo fosse vivo a Sparta lo si sarebbe gettato dal Taigete; nella Roma di Nerone egli si sarebbe assiso presso Petronio al banchetto di Trimalcione …».

 

***

  E’ facile oggi giudicare esagerata la severità di questi giudizî, è ovvio dire che la critica dei romanzi di Balzac doveva essere tenuta distinta e separata dalla censura contro la sciocchezza dei giudizî di Balzac viaggiatore ed ospite; ma a quei giorni, in un animo italiano, la concitazione del sentimento nazionale escludeva la serenità. La discussione letteraria era un’occasione di manifestare l’italianità dell’animo; l’umiliazione di chi non aveva una patria si sfogava additando i vizî delle nazioni più fortunate, i danni dell’accentramento francese, la corruzione della società parigina.

  Buona parte delle simpatie raccolte dal romanziere d’oltr’Alpi in Milano erano dipese, a testimonianza d’un giornale clericale ed austriacante di Modena, dall’opinione che egli fosse liberale e fautore di libertà. «I Milanesi», trascriveva la «Voce della Verità» da una corrispondenza italiana al «Journal de Francfort», «lo hanno accolto con entusiasmo che si avvicina all’idolatria, particolarmente quelli che sono designati come «liberali»; costoro cadono in estasi per ciascuna facezia e bel motto del poeta. Se dobbiamo credere ad un foglio italiano, ordinariamente benissimo informato della cronaca scandalosa liberalesca, i sali faceti del signor di Balzac sarebbero attinti dalla feccia del postribolo e della taverna. Ne presentiamo i nostri complimenti ai Milanesi liberali ed al signor di Balzac in solido!». Ma il romanziere doveva deludere anche quanti presumevano che egli potesse comprendere e favorire la causa politica italiana; poiché la stessa «Voce della Verità», dopo aver compiacentemente riferito gl’insulti contro il preteso liberalismo balzachiano, aggiungendone altri di nuovo conio, fu poi costretta a correggersi: «Prima di chiudere questo articolo, non dissimuleremo esser nato il sospetto che certe invettive contro il signor di Balzac in ultima e secreta radice provengano dal rancore che ei non professi una politica liberalesca. Quando ciò pur fosse, non per questo lo conteremo fra i nostri. E qui un’altra scarica di improperî.

  Senza questo livore settario, senza neanche trascorrere agli estremi del Dandolo, altri critici e giornalisti reagivano contro l’infatuazione per il romanziere francese, in nome della moralità che, da lui e nel suo paese offesa, doveva per converso apparire come un vanto del popolo nostro. Balzac, diceva la «Fama», «scrive troppo, scrive incessantemente, un po' bene e un po' male, opere fatte per lo più a divertire i lettori, a danno della morale e del buon gusto: questo scrittore ha il suo dominio, il suo pubblico, imagine fedele di una porzione della società parigina svogliata di tutto». Abusando poi del suo ministero di critico, anche questo articolista entrava nella vita privata dell’artista per lanciargli una frecciata: «Balzac guadagna enormi somme, ma spende più del guadagno, sicchè ben spesso i suoi creditori bisogna che abbiano pazienza sino ad un nuovo romanzo o ad un prossimo articolo». E rincarando la dose dopo la partenza dello scrittore: «Il signor di Balzac scrive romanzi che fanno correre i suoi ammiratori dal libraio-editore per farne l’acquisto; ma se si può prestar fede a ciò che poco tempo fa diceva l’avvocato signor Favre alla quarta sezione del Tribunale della Senna, il signor di Balzac sa pure far debiti che tengono in moto le gambe dei suoi creditori. Quel giureconsulto sosteneva che non v’ha al mondo condizione più dura dell’esser creditori del signor di Balzac. Invisibile, impalpabile, non appare che come un’ombra o una meteora; è silfo leggero che vi sfugge quando credete di averlo colto»; impertinenza che Gaspare Aureggio, in un opuscolo a difesa di Balzac, ragionevolmente biasimava: «L’alludere, nelle dispute letterarie, allo stato domestico della persona non è cosa permessa, e non saprei con quale onesto nome chiamarla».

  Né la discesa di Balzac in Italia dava così occasione di polemizzare ai critici di diverso animo, ma produceva anche l’effetto di far dissentire da sè stessi alcuni di loro. Se, infatti, è da credere col Gigli, che un medesimo Tomaso Locatelli componesse l’opuscolo intitolato «Polemica» dopo avere scritto l’articolo della «Gazzetta privilegiata di Venezia», costui lodava il carattere e l’arte di Balzac e lo purgava dall’accusa di lesi «Promessi Sposi» mettendo in ridicolo le «cantafavole manzoniane»; dopo avere stigmatizzato l’immoralità del romanziere straniero, creatore di «mostri», e dubitato che il favore dei lettori potesse serbarglisi costante – dubbio che doveva diventare negativa certezza nella requisitoria del Dandolo: «le sue scene, i suoi romanzi dimenticati dalle generazioni venture, saranno pe’ soli eruditi un’espressione curiosa della corruzione parigina …».

  La durezza di queste condanne, la cecità di queste profezie potrebbero dimostrare che i critici italiano di quel tempo non compresero il genio di Balzac; ma, ancora una volta, fu il sacro egoismo quello che fece velo al loro giudizio. Essi non potevano dimenticare l’umiliazione del loro amor patrio se non dimostrando che la superba civiltà francese dipinta da Balzac era falsa ed ammorbata. Così Angelo Fava, nella sua risposta al Dandolo, lodandolo per il «guanto di sfida» lanciato da chi «ricambiava di commiserazione e di spregio l’italiana ospitalità», denunziava l’«inverecondia» del romanziere, perdonabile «ad un Francese che parla ai Francesi», ma non in Italia, «dove il buon senso abbonda più che il buon gusto a Parigi». E metteva in guardia le fanciulle e le spose nostre contro lo scrittore, esortandole a scansarne la visita, perché «egli è tal uomo da suscitar nel pacifico vostro soggiorno un turbine sul far di quello in cui Dante ci rappresenta eternamente aggirati i lussuriosi»: consiglio che Andrea Maffei aveva già rivolto alla moglie, temendo che il galante scrittore gliela insidiasse.

 

***

  Un più evidente sintomo della suscettibilità dei critici italiani di Balzac fu l’opuscolo di Antonio Lissoni in «Difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiato dal signor di Balzac». L’autore, già militare negli eserciti napoleonici, aveva letto nel romanzo intitolato «Les Marana» che un reggimento di Italiani, combattendo in Ispagna nel 1812, si era fatta «la più detestabile riputazione nella vita privata»; uno degli ufficiali, un certo Montefiore, era uno spaccamonti, disistimato dai camerati «per l’esemplare prudenza che gli aveva acquistato il soprannome di capitano dei corvi, forse per la sua proprietà di sentire l’odore della polvere ad una lega di distanza, e scappare ad ali spiegate ai primi colpi di fucile». Quindi il Lissoni vivacemente protestava contro la presentazione d’un personaggio italiano sotto così vile aspetto, e severamente ammoniva il romanziere: «Non guardare all’Italia quasi fosse una vile schiava, ma sì come a una donna che sempre impera … E poiché al dire di te medesimo corrono nelle conversazioni della tua Parigi le menzogne più ingiuriose agl’Italiani, chiarito della cosa, fa ora di nettarci di quelle macchie onde l’invidia, il mal talento e la perversità di qualcuno dei tuoi ne ha voluto bruttare. Adopra il gusto, ti comporta da verace, da sincero sapiente; che se la calunnia è il peggiore dei delitti, se il sostenere l’ingiustizia è da forte, il ritornarla in proprio vantaggio è da bassissimi scellerati …».

  Esagerazioni, anche queste, che il già citato Gaspare Aureggio combatteva nel suo opuscolo; rapidamente esaminando i romanzi dell’imputato, il caloroso difensore dimostrava l’infondatezza dell’accusa: nei «Marana», spiegava, parlando del reggimento italiano «si fa peculiare osservazione che il corpo stesso era formato di cattivi soggetti. Ora, di cattivi soggetti, tutte le nazioni ne hanno …». E sotto l’aspetto della critica pura, l’onesto critico diceva benissimo; ma l’impressionabile, l’ombroso e geloso sentimento d’amor di patria aveva anch’esso ragione, e con queste reazioni dimostrava una vitalità di buon augurio per l’avvenire d’Italia.

  Quanto a Balzac e ai suoi rapporti con noi, la più arguta sentenza fu quella di Ignazio Cantù, fratello di Cesare, in un articolo che bene il Gigli definisce «il più sereno ed equilibrato fra quanti se ne scrissero sul grande romanziere». Temeva il Cantù che, «venuto a visitarci ignaro d’ogni nostra cosa», Balzac fosse ripartito «egualmente ignaro …». Come il fratello suo nel giudicare digiuno di lettura manzoniana il romanziere di Francia, anche Ignazio Cantù non si opponeva del tutto; totalmente ignaro dell’Italia, l’autore di «Facino Cane» e di «Caterina de Medici» non si poteva dire. Delle sue nozioni di storia e di letteratura nostra egli aveva anzi fatto sfoggio nei romanzi e nelle novelle d’argomento italiano e nelle dediche a signori e dame di Lombardia, di Venezia, di Genova, di Roma; ma una totale ignoranza sarebbe forse stata preferibile a quella mezza scienza che, unitamente a molta leggerezza, già faceva domandare se si fosse felici a Milano – nella Milano oppressa e calpestata dall’Austria, nella Milano di Federico Confalonieri e di Silvio Pellico … Un suo nuovo viaggio fra noi non ebbe altro scopo che la speranza di fa quattrini con le miniere di Sardegna; a Roma egli provò grandi impressioni, ma è dubbio se, vivendo, le avrebbe, secondo le speranze del Gigli, eternate «in un documento immortale del suo amore per l’Italia». La disposizione del suo spirito verso il nostro paese fu senza dubbio simpatica; anzi le sue dediche ad Italiani dovevano rappresentare l’alleanza«intima e costante fra l’Italia e la Francia; ma il modo da lui spesso tenuto nel significare questa simpatia diede motivo al Cantù di agguagliarla alla «noncuranza con cui i cittadini di Parigi offendono quella nazione a cui sono legati da tanti doveri di affezione e di riconoscenza …».


  Guido Ruberti, Il teatro contemporaneo in Europa. Volume I, Bologna, Rocca S. Casciano, Trieste, L. Cappelli, Editore, 1920.


Le origini.

  p. 22. In mezzo a questo pervertimento del gusto non mancano – per buona sorte — coloro che vennero considerati nel loro tempo come degli spostati: Balzac, De Musset, Stendhal; Balzac, l’autore di quei tipi di Vautrin e di Mercadet che sono un monumento di osservazione psicologica; Musset l’autore di tante alate e squisite fantasie, di così penetranti e profumate analisi del cuore umano; Stendhal il quale, se bene non appartenga direttamente al teatro, preannunzia tutta la moderna scuola psicologica con le sue intuizioni veramente maravigliose.

  p. 24. Se Molière dipinse in Harpagon l'avarizia, Balzac dipinge in Grandet un avaro nel suo ambiente.


Enrico Becque.

La tendenza naturalista in Francia.

  pp. 37-38. “Notre théâtre aurait tant besoin d’un homme nouveau qui balayât les planches encanaillées, et qui opérât une renaissance dans un art que les faiseurs ont abaissé aux simples besoins de la foule! Oui, il faudrait un tempérament puissant dont le cerveau novateur vînt révolutionner les conventions admises et planter enfin le véritable drame humain à la place des mensonges ridicules qui s’étalent aujourd’hui ...

  Lui seul, fournira la façon d'être de l’intelligence contemporaine. Balzac s’est produit dans le roman, et le théâtre est fondé. Quand viendront les Corneille, les Molière, les Racine, pour fonder chez nous un nouveau théâtre? Il faut espérer et attendre  ...„.

  Così Emilio Zola presentiva i nuovi tempi: contro la dottrina dei romantici proclamante la bellezza del passato e delle idee astratte, egli osava affermare che la poesia è dappertutto, e specialmente nel presente e nel reale. Ogni fatto, ad ogni ora, ha il suo lato poetico e suggestivo. Noi sfioriamo col gomito eroi ben più grandi e potenti delle marionette create dai facitori di epopea. Vicino al père Goriot, a Mercadet, a Birotteau, tutti gli eroi greci e romani della tragedia classicizzante o del dramma vittorughiano diventano soldatini di stagno. “Prenez donc le milieu contemporain, et tâchez d'y faire vivre des hommes: vous écrirez de belles œuvres”.


La formola naturalista e il “Teatro libero”.

  p. 61. Soltanto con l’accumulare particolari a mò dei romanzieri, collo sviscerare in tutti i sensi i loro personaggi, col moltiplicare le riproduzioni d’ambiente, questi scrittori riescono a darci la figurazione completa dei loro personaggi. Come diceva Taine di Balzac, essi non entrano subito, di colpo, nella pelle delle loro creature, ma si mettono a farne pazientemente l'assedio: sono spiriti analitici per eccellenza.


Il verismo in Italia. Gerolamo Rovetta.

  p. 270. A volersi fare il dipintore della società propria contemporanea, occorre, come il Balzac, come il Goldoni, non soltanto parteciparla, ma dominarla per forza di genio; vederla lungi da sè, staccata quasi in una lontananza inafferrabile, per riviverla nella propria coscienza e nel proprio sentimento. Gerolamo Rovetta non ebbe questa forza.


  Aurelio E. Saffi, Divagazione su Nicola Gogol, «La Ronda letteraria mensile», Roma, Anno II, Num. 5, Maggio 1920, pp. 355-360.

  pp. 358-359. Quando in Francia la reazione al primo romanticismo determina Balzac,in Russia dunque viene Gogol a mettere in pensione l’eroe «virtuoso» e a conferire dignità nuova a questo tipo di «intrigante come ce ne sono tanti (sono press’a poco le parole di Gogol) ma così pieno di brio e di «appetito». Ma ben altro è il contegno di Balzac di fronte all’«appetito» dei suoi personaggi. I segreti ingranaggi della finanza e dell’imbroglio lo incuriosiscono e lo appassionano al punto che un indiscutibile alone di «grandezza» accompagna sempre i suoi Vautrin e Du Tillet; «anime nere» a casa loro nell’inferno della vita moderna, nelle quali — come negli angeli in esilio e negli eroi alla Birotteau — si ripercuote l’unico solidale palpito di cui grandemente vibra quell’inferno, ove l’oro calamitato scintilla dappertutto e ciò che tocca manda a fuoco. E’ la tenace continua Francia, unitaria, sociale, ricca di scandalo e d’oro.


  Margherita Sarfatti, “Tommasone”[7], «I Libri del giorno», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno III, N. 9, Settembre 1920, pp. 472-473.

  p. 472. Per evitare lo scoglio pur dando il senso della continuità ciclica dell’opera, il grande Balzac soleva riesumare il protagonista di un romanzo soltanto come macchietta episodica nella penombra dei romanzi successivi.


  Sic., Corrispondenza. La quindicina romana, «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno I°, N. 19, 10 Ottobre 1920, pp. XIX-XX.

  p. XIX. Amour masqué. – È una volgare adattazione del grande romanzo del grandissimo Balzac (sic). Se l’autore della Commedia umana tornasse al mondo, intenterebbe certo un processo per calunnia e oltraggio contro chi osò manomettere la sua nobile fatica di autore e di pensatore. O per lo meno, lo prenderebbe a pedate nella parte più intelligente del corpo. Tina Xeo, la protagonista, si è addossata un peso troppo greve per le sue graziose spalle.


  Sic., Corrispondenza. La quindicina romana. “L’avvoltoio”, «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno I°, N. 23-24, 10-25 Dicembre 1920, p. 290.

  Edito dalla «Libertas-film», proiettato al Teatro delle Quattro Fontane. Balzac continua a far le spese della cinegrafia, forse perché, osserva argutamente un critico, i diritti d’autore sono scaduti da un pezzo. Non è però molto fortunato, il buon Balzac, specialmente quando trova della gente di scarso gusto artistico come il riduttore o adattatore o manipolatore del Centenaire. Anche la messa in scena è fatta con pochi scrupoli e con scarsi mezzi. Noi italiani (vedi sopra Il Galeotto) siamo troppo faciloni e c’illudiamo di prender bellamente in giro il pubblico. Ma, al render dei conti, e i conti sono quelli della cassetta e del botteghino, è il pubblico che piglia in giro noi. Buona l’interpretazione di Lido Manetti. Abbiamo rivisto con piacere la gaia e paffutella signorina Giulietta D’Arienzo.


  Renato Simoni, Sardou, in Gli Assenti. Profili, Milano, Casa Editrice Vitagliano, 1920, pp. 205-229.

 

  pp. 207-208. […] noi ci domandiamo di dov’era venuta quella famiglia di scrittori inesaurabili che cantò sonora con Victor Hugo, che giocò ogni furberia con Scribe, che novellò col vecchio Dumas, che scrisse il catalogo della vita moderna con Balzac; famiglia di scrittori diversissimi d’arte, di proporzioni e d’opera, ma tutti uguale nella ricca vena gagliarda, nella prepotente fantasia, nella baldanza ardente della invenzione; famiglia della quale Sardou fu l’ultimo rappresentante, il superstite querulo e attivo, in una letteratura divenuta più raffinata, più lenta e più pavida.


  Aldo Sorani, Balzac in Italia, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXV, N. 35, 29 Agosto 1920, pp. 1-2.

   La prima impressione che si riceve dalla lettura di questo libro che Giuseppe Gigli ha dedicato a Balzac in Italia (1) è un’impressione di pena. Pena, avvertiamolo subito, in cui l’onesto e pacato autore non entra per nulla e di cui non è responsabile, pena che è piuttosto per Balzac in Italia e per quel piccolo mondo antico italiano che lo accolse con i segni evidenti di una quasi totale incomprensione, ricambiata dal romanziere della Commedia Umana da una adesione e da un riconoscimento quanto mai imperfetti di quel che l’Italia era, in quell’anno 1837 in cui egli ne varcò il confine per la prima volta e nelle sue escursioni di poco successive.

  Al Gigli dobbiamo riconoscere anche la pazienza industriosa con cui egli ha sopportato — dietro l’ispirazione offertagli dal Salotto della Contessa Maffei di Raffaello Barbiera — di raccogliere i documenti e le testimonianze dei soggiorni balzacchiani tra noi, tra carte e pubblicazioni non sempre facilmente rintracciabili e di amena lettura e gli dobbiamo esser grati di non aver còlto il tema che poteva sembrare anche troppo invitante per tentare una volta ancora una esaltazione ipercritica o una variazione dilettantesca intorno al suo eroe e all’imponente monumento della sua opera. Il Gigli lascia quasi sempre parlare soltanto i documenti e le testimonianze, non aggiungendovi che delucidazioni che valgano ad inquadrarle e citazioni che rammemorino i casi e gli episodi e rimembranze biografiche forse superflue, per i balzacchiani quando si riferiscono al Balzac, ma non inutili nemmen per loro quando invece riguardino alcuni degli ospiti o degli avversari o commentatori del grande scrittore in Italia.

  Questi ospiti avversari, commentatori fecero gran subisso di invenzioni, di supposizioni, di ciancie quando sii Balzac, ancor, nel primo periodo della sua attività letteraria, già celebre in Francia e già assai letto in Italia, capitò a Milano e a Venezia. La mondanità più aristocratica e più intelligente gli aprì le porte dei salotti, egli fu guardato, ascoltato, seguito da una élite come un miracolo.

  Non era bello, ma era singolare, irruente eloquente. Non vestiva con squisita eleganza, ma i suoi capelli neri, folti e ondanti, i suoi occhi di fuoco, la sua canna preziosa e amorosa, perfino la sua veste da camera erano degne di commento e degne che i gazzettieri del bel mondo cercassero di trarne una nuova moda, cosa che al Balzac — che doveva poi essere autore anche d’un Trattato della vita elegante — non avrebbe dovuto dispiacere.

  S’aggiunga che un certo alone di scandalo circondava la persona del romanziere. Lo si sapeva carico di debiti. Non era, forse, venuto in Italia per sfuggire ai suoi creditori? O era venuto per prendere lui, affarista sfortunato ed economo per disperazione, l’amministrazione d'una cospicua casa patrizia milanese? Lo si sapeva invischiato in relazioni femminili, tanto che si vociferava che avesse fatto il suo ingresso a Torino con una donna vestita da paggio. Non era, forse, George Sand?

  C’era di che mettere in un orgasmo entusiastico le male lingue milanesi, le quali poi favoleggiavano dei suoi guadagni e dei suoi dispendi e di quelli dei suoi colleghi di Francia, la cui opera era così generosamente «guiderdonata».

  Ma, naturalmente, la venuta di Balzac in Italia cagionò i soliti attriti e le solite querimonie fra italiani. Fu il consueto pretesto per rinfocolare le ire politiche e riaccendere le tenzoni letterarie. Per i clericali reazionari, Balzac fu il rappresentante della corruzione e della rivoluzione, fu il demonio ancora una volta incarnato e più i salotti liberali, come quello della Contessa Maffei, gli aprivano le porte, più la sua persona e la sua opera parvero oggetto di maledizione. L’ospitalità che gli offrivano sembrò cortigianeria bassa e senza scrupoli di decenza, e oltre tutto, un prender dalla Francia seduttrice quel che essa e la sua letteratura avevano di peggio per mandare in malora la pura anima italiana. Ma anche patrioti di elevatissima italianità, come il conte Tullio Dandolo, sentivano il bisogno di opporsi alla fama del francese in Italia con una gallofobia condivisa da tutti coloro che guardavano alla Francia coi sentimenti di tanti Ettori Fieramosca.

  I pretesti letterari dell’avversione contro Balzac erano poi facilmente trovati in veri o presunti giudizi di lui intorno al Manzoni, al D’Azeglio, al Grossi. Egli non era certo tenero per i Promessi Sposi e per la insigne scuola dei romanzieri italiani e si raccontava che avesse detto e continuasse a dirne corna spesso e volentieri, anche dopo essere stato colto in confessione di non aver letto il capolavoro manzoniano. Ma gli si attribuiva, dentro e fuori della cerchia letteraria, una assai tiepida simpatia per noi e per le cose nostre e perfino delitti di lesa italianità che meritavano correzioni focose e di lunga lena, come quella del buon italiano Lissoni che rispose con uno studiato opuscolo Difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiate dal signor Balzac al delitto commesso da Balzac in Les Maranes (sic) di presentare un uomo di spada italiano con in animo sentimenti e propositi e disposizioni non rispondenti al reale moralismo ed eroismo dell’ Italia.

  Insomma, Balzac fu preso in mezzo, come dicevo dianzi, al piccolo mondo italiano del suo tempo che lo attorniò di tutte le piccole reti d’amore e d'avversione d’una società mondana, giornalistica e letteraria ch’egli non conosceva e che si giovò di lui per le sue schermaglie in lingua e in dialetto e per i suoi argomenti di piccoli conversari e di piccole dispute. Non sappiamo se egli se ne prendesse molta cura. S’accorse certo del frastuono che suscitava il suo nome e gli vennero all’orecchio, certo, le voci delle innocue baruffe che egli suscitava, ma è possibile non ci facesse molto caso. Aveva ben altro per la testa e godeva sinceramente la buona e cordiale ospitalità che gli amici e le amiche gli offrivano anche a costo di turbar la pace famigliare o di far scandalo in città. La sua corte alla contesta Maffei tu ostinata, continua, serale e mattinale. Il buon Andrea Maffei, come è noto, se ne impensierì e scrisse alla moglie una lettera, che il Gigli riproduce, di severo rimprovero e ammonimento. Stesse bene attenta, la sua Clarina, a non lasciarsi compromettere dal signor di Balzac, deforme, ma insinuante, venuto da Parigi con fama di libertino e di immorale. Ci vuol così poco a perdere la riputazione, anche essendo «l’amore di Milano». La contessa e lo scrittore continuavano a vedersi e a conversare, senza che nulla succedesse fuor che le preoccupazioni sentimentali del buon marito. Balzac amava straordinariamente conversare e pranzare con le contesse, nei bei salotti eleganti frequentati dall’aristocrazia del nome e del censo. Ci teneva all'alta società di cui sentiva di far parte, magari in grazia dell’eterna illusione che gli sorrideva in cuore e gli si accendeva negli occhi.

  S’intende che discorresse meno volentieri con un uomo come Alessandro Manzoni, raccolto, contenuto, vigilante.

  A Balzac piaceva di più parlare con le belle dame e i gentiluomini adulatori, nei cui salotti e alla cui tavola dava sfogo alla sua esuberanza, fornendo particolari di sé e della sua opera, svelando piccoli arcani della vita letteraria parigina, sbottando in boutades pungenti di maldicenza. È vero che anche dinanzi al Manzoni sembra parlasse sempre lui ... Tuttavia è dubbio che egli riuscisse a dare piena contezza del suo valore anche a coloro che erano meglio disposti a vezzeggiarlo e a corteggiarlo. Non aveva ancora dato, è vero, tutta la sua misura, ma le prevenzioni contro il paese da cui proveniva e contro il mondo letterario francese e lo spavento che produceva la sua produzione enorme e strabocchevole in cui parevano incontrarsi e rimescolarsi uomini di tutti i ceti e di tutte le classi e aggrovigliarsi le vicende di una vita che sembrava indegna di considerazione e di letteratura a puritani italiani pur d’intelligenza così aperta e accesa come un Tommaseo od un Mazzini, facevano sì che l'essenza fondamentale della sua fatica d’uomo di genio che s’ammazzava al lavoro e di affrescatore che portava nel suo cervello e ritraeva «tutta una società», non potesse essere allora compresa in Italia nella sua interezza e nel suo significato profondo.

  E Balzac, del resto, non comprendeva l’Italia. L’amava in dediche dei suoi libri, ma le professava un'ammirazione generica e convenzionale. L’Italia non gli strappa una parola sincera, vissuta, frutto d’un'emozione che gli abbia toccato incancellabilmente il cuore. Vedetelo a Roma, dieci anni dopo il giorno della sua prima apparizione in Italia.

  È vero che accompagnava la donna del suo martirio e del suo ludibrio, M.me De Hanska. Ma non lo interessa, in fin de’ conti, di tutta Roma, dove è capitato per la Settimana Santa, che la sua visita, al Papa, e di tutte le antichità, i monumenti, gli edifizi storici, le chiese, non lo attirano che gli aspetti esteriori. A Roma, almeno, confessa di aver cominciato a comprendere Dante, dopo una lettura dantesca del principe Caetani, al quale proclama che esser capace di spiegar la Divina Commedia come egli sapeva spiegarla voleva dire essere grande quanto il poeta. Il principe non avrà certo avuto un elogio più colossale di questo, consacrato nella prefazione dedicatoria della Cousine Bette: ma l’iperbole svela grossolanamente la sua insincerità e la sua alienazione guascona.

  Però non c'è troppo da lagnarsi di questa incomprensione reciproca. Balzac, non fu, malgrado tutto, come alcuni vollero crederlo a quel tempo, un avversario ostinato del nostro paese, e nel nostro paese ha poi trionfato presso ben altri critici che quelli che lo accolsero sulle prime. Ma i documenti e le testimonianze d’allora, a leggerle oggi raccolte e ordinate dal Gigli, ci persuadono sempre più che il Balzac non bisogna ricercarlo nei suoi pellegrinaggi poco ascetici fuori del suo paese, in Italia o altrove, ma nei suoi rifugi parigini dove, assillato dal demone del bisogno e dalla furia del genio, egli creò nella solitudine la sua Commedia Umana, il mondo che viveva intorno a lui e visse dopo di lui, dove egli plasmò della sua sostanza una folla che tuttora circonda e assilla la nostra immaginazione e che par più reale e sostanziale delle coorti irose od ossequiose che lo accompagnarono nelle sue escursioni e nelle sue soste. Fuori dalla bolgia claustrata, in cui egli s’incarcerava a trovar riposo nella tua fatica, ammantato dal suo bianco saio di benedettino, fuori dalla cerchia fantastica e ciclopica della sua fucina immortale, Balzac passa come un uomo qualunque, con tutte le debolezze, le deficienze, le fragilità d'un viaggiatore ordinario, a meno che non lo tormenti il suo amore o non corra dietro al suo destino feroce, come quando insegue la sua gelida contessa polacca.

  (1) Giuseppe Gigli, Balzac in Italia. Contributo alla biografia di Onorato di Balzac (Milano, Treves, 1920).


  Adriana Tedeschi, Notizie bibliografiche. Critica e storia letteraria. Giuseppe Gigli. “Balzac in Italia (Contributo alla biografia di O. di Balzac)”. Milano, Treves, 1920, pagg. 236, 8°. L. 6, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno III, N. 12, Dicembre 1920, p. 187.

  Il Balzac è stato coscienziosamente pedinato attraverso l’Italia da G. Gigli: di città in città, di salotto in salotto, dalle accoglienze ai commiati, dalle polemiche delle gazzette ai pettegolezzi dei caffè, il critico, seguendo l’autore francese, dà il quadro minuzioso e fedele della vita italiana di questi. Il Gigli non ha mirato che a questa ricostruzione: il suo vuol essere unicamente un contributo alla biografia balzacchiana, e tale è in modo egregio, tralasciando di proposito lo studio dell'influenza del B. sulla letteratura romanzesca italiana e quello dei riflessi italiani nell'opera di lui che sinora non vennero trattati.

  Studio vasto ed interessante il primo, che dovrà esaminare un ampio periodo letterario culminante in tempi posteriori a quelli della venuta del B. tra noi (1837-38; 1845-46); studio ristretto e completamento negativo il secondo. Quest'ultimo varrebbe solo a spiegare al lettore l'impressione di delusa attesa che il libro del G. lascia. Per il B. il viaggio in Italia non ebbe quell'importanza di rivelazione o di avvenimento estetico e sentimentale che per altri illustri stranieri assunse: vide superficialmente e poco comprese la nostra patria. Egli, a differenza dei suoi contemporanei della grande generazione romantica, non aveva il sentimento della natura e poco quello delle arti: sul paesaggio e sui monumenti italiani cercheremmo invano una vivace e forte impressione originale, originalmente espressa: la sua sembra un’ammirazione convenzionale, manifestata con frasi d’un repertorio confezionato ad uso turistico. Ritrattista, il B. nella natura vedeva soprattuto (sic) l’uomo; l’uomo del suo tempo, nei luoghi e nell’ambiente che gli erano famigliari. Insuperato pittore della società francese della Restaurazione e della monarchia di Luglio dominata dal desiderio del benessere materiale e già scossa dalle prime lotte sociali, egli non si soffermò a studiare la vita italiana contemporanea volta ai problemi nazionali. Ciò spiega e giustifica i suoi giudizi e spiega pure l’impressione che essi tra noi produssero.

  Al B. toccò infine quello che pare comune destino dei suoi compatriotti in Italia: arrivo trionfale, festeggiamenti a gara, polemiche, raffreddamento graduale, commiati freddi ed impacciati. L'impressione che lascia questa ottima rievocazione del viaggio balzacchiano è quella di un increscioso malinteso reciproco.


  Giuseppe Toffanin, La fine dell’umanesimo, Torino, Fratelli Bocca – Editori, 1920.


Capitolo XIX. I precursori di Lessing e Leibniz.

  p. 306. Vien fatto di domandarsi però: se questo metodo germanico sosteneva e dimostrava che, per arrivare a Goethe, bisognava proprio rifarsi dalla ribellione a Roma nei suoi primi sforzi incomposti e nei suoi stessi errori, perché mai, al metodo latino non è venuto in mente che, per arrivare al romanticismo del Manzoni e del Balzac, sarebbe stato bene cercar di rifare la strada parallela e contraria? Vedere se non ci fosse in questi altrettanto evidente quella tradizione latina già sviatasi in esagerazioni ed errori nei secoli della decadenza? Noi, invece, abbiamo sempre dimostrata una certa tendenza ad arrivare al Manzoni e al Balzac attraverso Lessing e a controllare le idee di quelli con le idee di Goethe. Il che non mi par colpa del metodo tedesco che, se mai, avrebbe dovuto insegnare a tare, con la nostra letteratura, quello ch'esso faceva con la sua, ma, piuttosto, d'una generale suggestion dello spirito.


  Luigi Tonelli, Psicologia contemporanea. Il Patologico, «I Libri del giorno», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno III, N. 8, Agosto 1920, pp. 403-405.

  p. 403. Col Naturalismo, e coi loro legittimi padri spirituali, Balzac e Stendhal, lo studio del passionale tende sempre più a diventare studio del patologico; e Julien e Vautrin saranno i capostipiti degl’innumerevoli traviati, che l’arte naturalista creerà; mentre la scoperta, ch’è implicita nei romanzi stendhaliani e balzacchiani, – l’importanza dell’ambiente sociale e dell’ereditarietà, – sarà il fondamento della nuova scuola. […] Né vanno dimenticati (sic) quelle degenerazioni sensuali e sessuali, che saranno fin troppo frequenti nel romanzo e nella novella verista francese, dopo non esser state trascurate nemmeno dal Balzac, dal Gautier […] e del (sic) Flaubert […].


  Uno che ha viaggiato, Il bottino ottomano, «La Stampa», Torino, Anno 54, Num. 125, 27 Maggio 1920, pp. 1-2.

  p. 1. Ciò ricorda le famose miniere d’argento che il Balzac voleva rimettere in valore in Sardegna per averne letto notizia, salvo errore, in Plinio: la quale speculazione gli procacciò d’esser tormentato da creditori per tutta la vita.


  Alessandro Varaldo, Cronache di Letteratura […], «Novella. Fascicolo quindicinale di novelle dei migliori scrittori italiani», Milano, Anno II, N. 8, 25 Settembre 1920, pp. 863-864.

  Né posso tacere – qui ove non si dovrebbe discorrere che di romanzi e novelle e qualche volta di versi – dello studio aneddotico di Giuseppe Gigli, Balzac in Italia. Fa pensare, anzi fa ripensare un poco al Salotto della Contessa Maffei del Barbiera. E poiché in fondo si tratta di un romanzo (quale miglior romanzo della vita di un romanziere come il Balzac?) lo raccomando ai miei lettori, sicuro di far loro un dono fra i più graditi.


  Zadig., Le Films del giorno. Note critiche. “Il galeotto” (Monopolio internazionale), «La Rivista Cinematografica internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno I°, N. 23-24, 10-25 Dicembre 1920, p. 283.

  Cinema Borsa.

  Il Galeotto è un film tedesco. ricavato con speciale maestria dalla «Comoedie Umaine» (sic) di H. de Balzac. Il terribile duello mortale che l'ex galeotto Colin (sic), sotto le spoglie dl un onesto commerciante di nome Vautrin, sostiene per impadronirsi di una eredità. Contro il famoso Prefetto di polizia Peyrade, ed i magnifici travestimenti, che la tragica avventura impone ad entrambi, hanno permesso di tessere un lavoro più che adatto per essere reso sullo schermo. Benché sia un lavoro a serie, tuttavia l’abile sceneggiatura e la fedele riproduzione del testo, hanno reso un vero capolavoro. L’attore Paolo Wegener, ha poi questa volta superato se stesso, riuscendo a dare a questa figura una drammaticità così verosimile e consona allo spirito del grande romanziere francese, da avere l’illusione più perfetta di trascorrere le pagine di Balzac, anziché d’essere seduti mi una poltrona in una sala cinematografica.

  La messa in scena, poi merita una noti specialissima, per la precisione, per la cura e per la fedeltà che può dirsi rara, in un film così fuori del nostro tempo Anzi è perfino rimarchevole il fatto che sono mirabilmente curati anche gli esterni, onde si ha la più perfetta impressione di rivivere i giorni dell’augusto personaggio uscito da la feconda ed imploriate fan­tasia di uno scrittore che sembra ancora dei nostri giorni.

  Ci spiace solo dover rilevare che il lavoro è rimasto per contro deficente (sic) nell’interpretazione femminile. Dato lo spirito del lavoro, sarebbero state opportune delle artiste più briose e più piene di anima. Talché certi contrasti non sono affatto resi, come il lavoro richiedeva. Tuttavia tanto la prima serie che la seconda hanno irresistibilmente attirato il nostro pubblico ed il lavoro ha fatto in tutti ottima impressione.


Iconografia.


  Auguste Rodin, Balzac, in Roberto Cantalupo, Il Tempio del Maestro Rodin, «La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera», Milano, Anno XX, N. 3, Marzo 1920, pp. 201 e 205.



Adattamenti teatrali.


  Il Colonnello Chabert (riduzione). Compagnia di Giovanni Grasso, Roma, Teatro Adriano, dicembre 1920.


  Vautrin di Balzac, ridotto da Alberto Casella, Compagnia D’Amora, 1920.


Filmografia.


  L’Amore e la Maschera. Soggetto: da L’amour masqué di Honoré de Balzac (sic). Regia di Mario Gargiulo. Fotografia: Enzo Riccioni. Interpreti: Tina Xeo, Dillo Lombardi, Angelo Calabresi, Erina Galliano, Roberto Pappalardo, Giuliano Nistri, Roma, Flegrea-Film, 1920.

  Il film circolò anche come: L’amour masqué, L’amore mascherato o La maschera e l’amore.


  L’Avvoltoio [da Le Centenaire]. Regia di Alberto Carlo Lolli. Fotografia: Arturo Busnego. Interpreti: Giulietta D’Arienzo (Donata), Lido Manetti (Antonello), Amedeo Ciaffi (Bruto), Annita Cotic (la cameriera), Adriano Boccanera (Il Duca Nero, il Centenario), Giuseppe Zoffoli, Roma, Libertas-Film, 1920.


  Il Colonnello Chabert. Regia di Carmine Gallone. Sceneggiatura di Lucio D’Ambra. Fotografia: Emilio Guattari. Scenografia: Raffaello Ferro. Interpreti: Charles Le Bargy (Chabert), Rita Pergament (Madame Chabert), Umberto Zanuccoli (il figlio), Liliana Mar (la figlia), Maurice de Grunewald (Marchese Ferrand), Roma, Clelio-Film, 1920.


  La Donna di trent’anni. Regia di Riccardo Molinari [o, secondo altra fonte, Alexandre Des Varennes]. Fotografia: Riccardo Molinari. Interpreti: Gianna Terribili-Gonzales (Giulia d’Aiglemont), Carlo Gervasio (Vittorio d’Aiglemont), Paolo Nocito (Arturo Ormond), Rossana (la figlia di Giulia), Pietro Pezzullo (Carlo di Vaudennes), Alberto Danza, Tilde Granillo, Napoli, Paris-Film, 1920.


  La Falsa amante. Regia di Carmine Gallone. Sceneggiatura e supervisione: Lucio D’Ambra. Fotografia: Giovanni Grimaldi. Interpreti: Lia Formia (Clementine de Rouvre), Umberto Zanuccoli (Adam M. Laginski), Renato Piacenti (Pac), Roma, D’Ambra-Film, U.C.I., 1920.


  Ferragus. Soggetto: dal secondo volume de l’Histoire des Treize di Honoré de Balzac. Regia e sceneggiatura di Enrico Vidali. Fotografia: Antonio F. Martini. Interpreti: Lydianne, Enrico Vidali, Torino, Select-Lydianne/Vidali; Etrusca-Film, 1920.


  Ferragus (Il Principe mendicante) [?]. Regia di Ubaldo Maria Del Colle. Interpreti: Emilia Vidali, Egidio Candiani, 1920.


  Trompe-la-Mort. Regia di Alexandre Des Varennes. Fotografia: Giacomo Bazzichelli. Interpreti: Giovanni Grasso (Collin), Alberto Casanova, Alexandre Arquillière, Napoli, Lombardo-Film, 1920.


[1] Al momento, non siamo in grado di stabilire il luogo in cui è stata pubblicata la recensione del Lenzoni al volume del Gigli.

[2] Cfr. Scipio Sighele, Leggendo Balzac, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CXXXVIII – Della Raccolta CCXXII, Fascicolo 886, 16 novembre 1908, pp. 161-183.

[3] Cfr. Vincenzo Morello, Balzac e l’antropologia criminale, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della Nuova Antologia, Quarta Serie, Volume Novantunesimo della Raccolta, Volume CLXXVI, Fascicolo 701, 1° Marzo 1901, pp. 37-57, ill.

[4] Cfr. Raffaele de Cesare, La prima fortuna … cit., Vol. I, p. 19.

[5] Cfr. Balzac, Scherzo poetico del sig. di Balzac fatto per l’album della dama Soranzo, «Miscellanea di poesie e prose di autori diversi, morti e viventi. Anno MDCCCXXXVII», Biblioteca Correr di Venezia, ms. P.D. 694 C (fra la fine di marzo e la fine d’aprile 1837), tomo I, f. 119. (Cfr. R. de Cesare, La prima fortuna … cit., Vol. I, pp. 268-270).

[6] Cfr. R. de Cesare, La prima fortuna … cit., Vol. I, pp. 395-400.

[7] È il personaggio più caratteristico e ricorrente nei romanzi dell’Isola sonante, di V. Brocchi. [N. d. A.].


Marco Stupazzoni

Nessun commento:

Posta un commento