giovedì 12 luglio 2018



1921



Traduzioni.


  Onorato Balzac, Gli allegri racconti raccolti dalle badìe di Turrena [sic] e messi in luce dal signor Di Balzac pel divertimento dei pantagruelisti e non per altri per la prima volta tradotti da Aldo Fortuna. Ia diecina; IIa diecina; IIIa diecina, Milano, Società Anonima Editoriale Dott. R. Quintieri, 1921 (Officine Grafiche Saita e Bertola), Febbraio 1921, pp. 211; 207; 224.


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  Ia diecina:

  “Avvertimento dell’editore in testa alla prima edizione”, pp. 5-6; “Prologo”, pp. 7-9; La bella Imperia, pp. 11-29; Il peccato veniale, pp. 30-76; L’amante del Re, pp. 77-93; L’erede del Diavolo, pp. 94-115; Le burle del re Luigi undecimo, pp. 116-135; La moglie del connestabile, pp. 136-155; La pulzella di Tilhouse, pp. 156-164; Il fratello d’armi, pp. 165-183; Il curato d’Azay-le-Rideau, pp. 184-194; L’apostrofe, pp. 195-206; “Epilogo”, p. 207.

  IIa diecina:

  “Prologo”, pp. 5-10; I tre studenti di San Nicola, pp. 11-27; Il digiuno di Francesco Primo, pp. 28-34; I bei discorsi delle monache di Poissy, pp. 35-52; Come fu costruito il castello di Azay, pp. 53-71; La falsa cortigiana, pp. 72-86; I pericoli della troppa ingenuità, pp. 87-98; La notte d’amore pagata cara, pp. 99-111; La predica dell’allegro curato di Meudon, pp. 112-130; Il sùccubo, pp. 131-195; Disperazione amorosa, pp. 196-204; “Epilogo”, pp. 205-206.

   IIIa diecina:

  “Prologo”, pp. 5-12; Perseveranza in amore, pp. 13-40; Di un giustiziere che non si ricordava delle cose, pp. 41-54; Del frate Amador, che fu un glorioso abate di Turpenay, pp. 55-83; Berta, la pentita, pp. 84-131; Come la bella ragazza di Portillon l’ebbe vinta sul giudice, pp. 132-142; Qui è dimostrato che la fortuna è sempre femmina, pp. 143-166; D’un povero che si chiamava “Il vecchio Perlastrada”, pp. 167-180; Sconvenienti discorsi di tre pellegrini, pp. 181-189; Innocenza, pp. 190-193; La bella Imperia maritata, pp. 194-221; “Epilogo”, pp. 222-223.

  Meno dotata di verve espressiva (a cominciare dalla traduzione dei titoli dei racconti), sotto il profilo linguistico e stilistico, rispetto alla versione italiana che, dei Contes drolatiques di Balzac (Prima Decina), avevano fornito Giosuè Borsi e Fernando Palazzi per la collana dei “Classici del Ridere” dell’editore Formíggini (1920), questa traduzione integrale dei Contes prodotta da Aldo Fortuna è da ritenersi altrettanto fedele e corretta rispetto al modello originale.


  O. Balzac, La catastrofe di un’anima, Firenze, Editore Quattrini Casa Editrice Italiana, 1921 («Biblioteca Amena Quattrini», N. 94), pp. 99.

  Con il titolo: La catastrofe di un’anima, è pubblicata la traduzione (anonima) di Une Fille d’Eve.

  La suddivisione dell’opera in nove capitoli rimanda al testo della prima edizione originale del romanzo pubblicato da Souverain nel 1839; tuttavia, il lavoro di traduzione – condotto con diffusa ed arbitraria imperizia nonché con singolare e maldestra libertà – si fonda sul modello della seconda edizione pubblicata da Furne nel 1842.


I.

Le due Marie.

  pp. 3-4. La nostra scena si apre in un elegantissimo salottino di un palazzo della Via Neuve des Mathurins. È prossima la mezzanotte. Abbiamo scritto salottino elegantissimo, possiamo aggiungere: ricchissimo, tanta e tale è la profusione dei preziosi tappeti, delle sete, dei rasi, dei mille ninnoli di alto prezzo — veri gioielli — ammucchiati, più che distribuiti, sui due stipi collocati ai lati dell’ampia finestra.

  Quel salottino era freddo, per altro; sembrava disposto dalla mano e dal gusto di un negoziante di mobili, anziché dall’artistico capriccio di ima padrona di casa intelligente. Nulla vi annunziava la felicità. E in quell’ora, fra le pareti del ricco ambiente, due donne si scioglievano in lagrime.

  Il palazzo della Via Neuve des Mathurins ora di proprietà di uno dei più opulenti banchieri di Parigi, Ferdinando du Tillet, che giunto, nessuno sapeva per quale via, alla ricchezza, — e da principî assai umili — nel 1831 aveva condotta in moglie la seconda figlia del conte di Granville, pari di Francia dopo la rivoluzione di luglio, e nome assai noto nella magistratura francese.

  Fu quello un matrimonio d’ambizione; il banchiere impalmava la figlia di un nobile autentico rilasciando la quietanza di una dote non ricevuta, mentre, quasi contemporaneamente, il conte Felice di Vandenesse sposava la sorella maggiore. Le condizioni non liete, economicamente parlando, dei Granville, erano sanate dall’ intervento bancario.

  Abbiamo lasciato le due sorelle — la signora du Tillet e la contessa di Vandenesse piangenti l’una fra le braccia dell’altra. La signora du Tillet stringe al petto la contessa con tenerezza veramente fraterna.

  D’onde un simile e ardente affetto?

  La domanda non è strana quando si pensi quanto sia facile, nell’epoca in cui viviamo, che due sorelle maritate in tal modo possano non volersi bene. Diremo dunque le ragioni di un simile amore: vedremo, in rapida scorsa, l’infanzia di Maria Angelica e di Maria Eugenia.

  Esse, cresciute in un malinconico palazzo del Marais, fra una donna bigotta e di povera intelligenza, come la madre, un uomo di sentimenti più vivi e più teneri, ma imbevuto di tutti i pregiudizi e di tutte le convenzionalità come il padre, si erano trovate in presenza della crisi del matrimonio pure e incontaminate, ma di ogni cosa della vita ignare in tal modo che ogni sentimento era in esse naturalmente e fatalmente compresso. La religione non era per esse che la successione di pratiche giornaliere e materiali, e tale la schiavitù in cui vivevano che esse non videro nel matrimonio se non il modo di respirare un alito di indipendenza.

  Gli uomini, poi, avrebbero smorzato ogni fiamma d’amore, tanto le loro immagini apparivano gelide e tristemente rassegnate. L’egoismo religioso aveva disseccato i loro cuori, votati al dovere, cd essi s’eran trincerati dietro le pratiche del dogma.

  Nelle tenebre di quella vita si disegnò nettamente una sola figura d’uomo: quella d’un maestro di musica.


  Onorato di Balzac, Caterina De’ Medici e Maria Stuarda, Firenze, Editore Quattrini Casa Editrice Italiana (A. Vallecchi), 1921 («Biblioteca Amena Quattrini», N. 205), pp. 97.

  Si tratta della traduzione (anonima), alquanto maldestra e lacunosa, di Le Martyr calviniste, prima parte di Sur Catherine de Médicis, condotta sul testo dell’edizione Furne del 1846.

  p. 205.[1] Peu de personnes aujourd’hui savent combien étaient naïves les habitations des bourgeois de Paris au quatorzième siècle, et combien simple était leur vie. Peut-être cette simplicité d’action et de pensée a-t-elle été la cause des grandeurs de cette vieille bourgeoisie, qui fut certes grande, libre et noble, plus peut-être que la bourgeoisie d’aujourd’hui; son histoire est à faire, elle demande et attend un homme de génie. Inspirée par l’incident peu connu qui forme le fond de cette Étude et qui sera l’un des plus remarquables de l’histoire de la bourgeoisie, cotte réflexion arrivera sans doute sur les lèvres de tout le monde, après ce récit. Est-ce la première fois qu’en histoire la conclusion aura précédé les faits?

  En 1560, les maisons de la rue de la Vieille-Pelleterie bordaient la rive gauche de la Seine, entre le pont Notre- Dame et le pont au Change. La voie publique et les maisons occupaient l’espace pris par la seule chaussée du quai actuel. Chaque maison, assise sur la Seine même, permettait aux habitants d’y descendre par les escaliers en bois ou en pierre, que défendaient de fortes grilles en fer ou des portes en bois clouté. Ces maisons avaient, comme celles de Venise, une porte en terre ferme et une porte d’eau. Au moment où cette esquisse se publie, il n’existe plus qu’une seule maison de ce genre qui puisse rappeler le vieux Paris, encore disparaîtra-t-elle bientôt; elle est au coin du Petit-Pont, en face du corps de garde de l’Hôtel-Dieu. Autrefois, chaque logis présentait du côté de la rivière la physionomie bizarre qu’y imprimaient soit le métier du locataire et ses habitudes, soit l’originalité des constructions inventées par les propriétaires pour user ou abuser de la Seine. Les ponts étant bâtis et presque tous encombrés de plus de moulins que les besoins de la navigation n’en pouvaient souffrir, la Seine comptait dans Paris autant de bassins clos que de ponts. Certains bassins de ce vieux Paris eussent offert à la peinture des tons précieux. Quelle forêt ne présentaient pas les poutres entrecroisées qui soutenaient les moulins, leurs immenses vannes et leurs roues! Quels effets singuliers que ceux des étais employés pour faire anticiper les maisons sur le fleuve !

  p. 5. Chi sanno in oggi quanto fossero umili le abitazioni dei cittadini di Parigi nel secolo XIV. e quanto fossero, semplici i loro costumi.

  Nel 1560 le case dell’antica strada de’ Pellicciai costeggiavano la sponda sinistra della Senna tra il ponte Notre Dame ed il Pont-au-Change. La strada pubblica e le case occupavano lo spazio che occupa il solo argine della strada attuale. Ogni casa, fabbricata sulla stessa Senna, permetteva agli abitanti di discendervi per mezzo di scale dì legno o di pietra, chiuse da forti cancelli di ferro o da porte di legno assicurate di chiodi. Quelle case avevano, come quelle di Venezia, una porta in terra ferma ed una sull’acqua.

  Nel punto in cui si pubblica questa storia (1841) non esiste più che una sol cosa di tal genere che possa rammentare l’antico Parigi; e forse scomparirà quanto prima; essa è nell’angolo del piccolo ponte in faccia al corpo di guardia dell’Hotel Dieu. Altre volte il di dietro di ogni casa presentava sul fiume un aspetto bizzarro che le davano sia il mestiere del locatario e le sue abitudini, sia l’originalità delle costruzioni inventate dai proprietari per usare o abusare della Senna. I ponti erano ingombri da tanti mulini più che i bisogni della navigazione ne potessero tollerare; la Senna contava in Parigi altrettanti bacini chiusi quant’erano i ponti. Certi bacini dell’antico Parigi avrebbero offerto delle preziose prospettive alla pittura; qual selva non presentavano le travi tra loro incrocicchiate che sostenevano i mulini, le loro immense cateratte e le loro ruote? Indi quale effetto singolare producevano i puntelli impiegati per fare sporgere le case sul fiume?


  Onorato di Balzac, I Parenti Poveri I. La Cugina Betta di Onorato di Balzac (in due volumi). Traduzione di Galeazzo Falconi, con prefazione, Milano, Fratelli Treves, Editori (Tip. Treves), 1921 («Biblioteca Amena», NN. 744-744 bis), Sesto migliaio, 2 volumi di complessive 403 pagine.

  Struttura dell’opera:

  Volume primo: E. F., Balzac, [pp. I-III]; Prefazione del traduttore. Al Prof. Ugo Brilli, pp. ix-x; Prefazione dell’autore. A Don Michelangelo Caetani Principe di Teano, pp. xi-xii; I Parenti poveri I. La cugina Betta, pp. 1-188;

  Volume secondo: I Parenti poveri II. La cugina Betta, pp. 189-402.

  Cfr. 1908; 1912.


  O. Balzac, La donna di trent’anni. Romanzo. Traduzione di Mariano D’Aspro [in copertina], Firenze, Attilio Quattrini Editore (Stabilimenti Poligrafici Riuniti - Bologna), 1921 («Biblioteca Amena Quattrini»), pp. 149.


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  Il testo è suddiviso in sei capitoli (Primi errori; Spasimi nascosti; A trent’anni; Castigo di Dio; Due incontri; La vecchiaia di una madre colpevole) secondo il modello dell’edizione Furne del romanzo balzachiano (1842). Non è trascritta la dedica a Louis Boulanger.

  La traduzione che Mariano D’Aspro fornisce di La Femme de trente ans può ritenersi, nel complesso, accettabile: tuttavia, sono da segnalare, in diversi luoghi del testo, interpretazioni non sempre corrette, approssimative ed arbitrarie del testo francese, come mostrano i passi seguenti della versione di M. D’Aspro che qui sotto riportiamo:

  p. 1040 [edizione della ‘Nouvelle Pléiade’ curata da Roger Pierrot, in La Comédie humaine, Paris, Gallimard, t. II, 1976].

  […] les hommes doivent se contenter des trompeuses jouissances que donne la vanité […]. [Il corsivo è nostro].

  p. 5. […] gli uomini debbono rassegnarsi ai fallaci godimenti che la vanità lascia loro per l’ultima volta […].

  Ibid., […] bordés de longs cils, et qui nageaient dans un fluide pur.

  p. 6. […] orlati da lunghe ciglia.

  Ibid., […] non sans retourner la tête d’un air boudeur […].

  Ibid., non senza volgere la testa […].

  p. 1044. […] par des milliers de spectateurs dont toutes les figures étaient béantes d’admiration.

  p. 9. […] da migliaia di spettatori, i cui visi erano accesi di meraviglia.

  p. 1046. […] en gardant sur sa tête un chapeau à trois cornes aussi prestigieux que l’homme lui-même […].

  p. 11. […] e un tricorno in testa […].

  Ibid., Chastinollet, Duroc e Rupp sono trascritti in: Chatillonet, Duror e Ruppuel.

  p. 1048. […] l’ombre d’une borne projetée sur le sable […].

  p. 12. […] l’ombra di un colonnino […].

  Ibid. Les étourdissants tableaux absorbaient si bien Julie […].

  p. 13. Nello stordimento Giulia […].


  Balzac, Memorie di due giovani spose, Milano, Fratelli Treves, Editori (Tip. Treves), 1921 («Biblioteca Amena», N. 605), Ottavo migliaio, pp. 308.

  Struttura dell’opera:

  E. F., Balzac, [pp. I-III]; Parte prima, pp. 1-239;

   Parte seconda, pp. 239-306.

  Cfr. 1901; 1909; 1915; 1918.


  Onorato de Balzac, Mercadet l’affarista. Commedia in cinque atti. Il Lutto. Commedia in un atto di Onorato de Balzac, Milano, Casa Editrice Sonzogno, s.d. [1921?] («Biblioteca Universale», N. 13), pp. 91.

  Cfr. le numerose ristampe a partire dalla prima edizione del 1882.


  Onorato Balzac, La pelle di zigrino. Traduzione italiana di Emilio Girardi, Milano, Casa Editrice Sonzogno (Stab. Grafico Matarelli), s.d. [1921?] («Collezione Sonzogno», 17), pp. 253.

  Cfr. 1904.


  Honoré Balzac, Racconti d’Italia. Massimilla Doni - Facino Cane - Sarrasine. Versione di Agar [Virginia Tango Piatti?], Milano, “Il Primato Editoriale” di Guido Podrecca & C. (Arti Grafiche Codara di C. Matti e C.), 1921 («L’Italia vista dagli scrittori stranieri»), pp. 183.


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  Struttura dell’opera:

  Avvertenza, p. 5;

  Massimilla Doni, pp. 9-110;

  Facino Cane, pp. 111-132;

  Sarrasine, pp. 133-180.

  Avvertenza.

  Balzac (1799-1850) non fu un grande conoscitore dell’Italia, e sono note, e furono molto discusse al suo tempo e più tardi, certe avventate opinioni ch’egli ebbe a manifestare, in un suo non breve soggiorno a Venezia, intorno a Venezia, intorno a cose nostre.

  Ma qualunque suo errore o superficialità è degnamente riscattata dal calore profondo con cui in Massimilla Doni egli parla della nostra arte, della nostra schiavitù politica (il racconto è del 1839), e del nostro primato intellettuale e morale.

  A Massimilla Doni aggiungiamo due altri racconti di ambiente italiano: Facino Cane (1836) e Sarrasine (1830). [Il corsivo è nostro].


  Massimilla Doni.

  La traduzione, nel complesso corretta, si fonda sul testo dell’edizione Furne del racconto filosofico balzachiano pubblicata nel 1845. Non è tradotta la dedica a Jacques Strunz.


  Facino Cane e Sarrasine.

  La versione italiana che Agar fornisce delle due scènes de la vie parisienne può considerarsi adeguata; l’edizione di riferimento è, per entrambi i racconti, quella dell’edizione Furne (1844).


  Onorato Balzac, Storia dei Tredici. Scene della vita parigina. Ferragus. La duchessa di Langeais. La ragazza dagli occhi d’oro, Milano, Casa Editrice Sonzogno, s. d. [1921?] («Collezione Sonzogno», 18), pp. 315.

  Cfr. 1903; 1904; 1915.


  Balzac, L’ultima incarnazione di Vautrin. Un principe della “bohème”. Un agente d’affari. – Gaudissart II. Traduzione di Galeazzo Falconi, Milano, Fratelli Treves, Editori (Tip. Fratelli Treves), 1921 («Biblioteca Amena», N. 787), Quinto migliaio, pp. 305.

  Cfr. 1910; 1918.



Studî e riferimenti critici.

  

 Letteratura. Cultura. Giuseppe Gigli – “Balzac in Italia” (Casa Editrice Fratelli Treves – Milano), «Ardita. Rivista mensile del Giornale “Il Popolo d’Italia”», Milano, Anno III, N. 1, Gennaio 1921, p. 63. 

 Un volume che non ha pretese di indagini critiche e che vuol esser soltanto un contributo alla semplice biografia di Onorato di Balzac. Come tale, è un lavoro diligentemente condotto su la scorta di documenti e, sopratutto, di scritti dell'epoca; articoli di riviste e di giornali, polemiche, ricordi, lettere, ecc.

 Il Gigli ha saputo ben coordinare la sua materia in modo da compiere un’opera abbastanza organica, quantunque — in qualche punto — non riesca ad evitare una certa disuguaglianza e, in qualche altro, si compiaccia eccessivamente di riproduzioni integrali o si dilunghi su cose troppo conosciute, che bastava accennare di volata. Tuttavia il libro non è inutile, nè noioso.

 Alcuni lati della caratteristica figura di Balzac risultano meglio lumeggiati e riescono interessanti e curiose le diatribe dei letterati italiani dell’epoca sul conto del romanziere, così adorato da tanti, così vilipeso e qualche volta perfino calunniato da tanti altri. Molte delle notizie relative ai soggiorni di Balzac a Milano, ai suoi successi, alle amicizie contratte e alle inimicizie createsi erano conosciute, ma il Gigli è riuscito a rifonderle e completarle con altre meno note o ignote addirittura, così che esse acquistano un’importanza maggiore.

 Il capitolo che parla della permanenza del romanziere a Venezia è tra i più interessanti e più caratteristici. Ma tutto il libro, del resto, è improntato ad una bella semplicità, assai lontana dalle cattedratiche disquisizioni che rendono, generalmente, ostici i libri di cultura.


  Notiziario. Ausonia a Parigi, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 1, 10 Gennaio 1921, p. 104.

  Mario Ausonia è ritornato da Parigi dove si recò per girare un altro grandioso film degno del suo ardimento, da lui stesso ricavato dal celebre romanzo di Honoré de Balzac: «Sotto i ponti di Parigi» (sic).


  Cronaca. “Cinema Moderno”, «Giornale di Basilicata. Politico – Amministrativo – Settimanale», Potenza, Anno XI, N. 9, 26-27 Febbraio 1921, p. 3.

  Questa sera replica dell’interessan­tissimo film: Wautrin (sic) contro Rastignac, tratto dal romanzo di Balzac, interprete principale Giovanni Grasso.


  A proposito della riduzione di grandi opere letterarie, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 5-6, 10-25 Marzo 1921, p. 20.

  Assistiamo troppo spesso, al travisamento indecoroso di opere che il poeta aveva segnato con tratti incancellabili in una cornice ben definita di luoghi, di tempi e di costumi, e che i riduttori cinematografici o gli inscenatori trasformano a loro piacere, per ragioni che con l'arte non hanno niente a che fare. […] vediamo portati fuori della loro necessaria cornice di tempo e di luogo vestiti in costumi moderni, tra automobili e telefoni, gli eroi della «Commedia umana» di Balzac, di quel povero Balzac che pare abbia scritto apposta tanti romanzi per offrire magnifici «soggetti» cinematografici senza diritti d'autore ...

  […] «Perché vestire i personaggi di Balzac nei loro costumi? Tanto Balzac è morto, e non protesterà ...».


  Dante a Parigi, «La Stampa», Torino, Anno 55, Num. 65, 17 Marzo 1921, p. 4.

  La via Fouare (sic), una piccola strada del quartiere del Pantheon che Balzac ha descritto in uno dei suoi romanzi, ritroverà in questi giorni la sua vecchia fama. […].

  L’immaginazione di Balzac si è compiaciuta di ricercare fra la folla rumorosa e compiaciuta di Parigi quella fronte che «livida e verde» […], faceva paura ai bimbi di Ravenna.


  Marginalia. Balzac a Genova, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXVI, N. 14, 3 Aprile 1921, p. 4.

  In tutta l’opera dell’autore della «Comédie humaine» uno dei punti meno noti è quella novella «Honorine» che gli fu indubbiamente dal soggiorno in Genova e per i cui personaggi tenta una nuova identificazione un collaboratore della Gazzetta di Genova. Seguendo il racconto del romanziere questi, a Genova, era stato accolto nelle sale di un console generale di Francia, il conte d’Hostal, che nella città ligure ama sposato una ricca ereditiera, Onorina, figlia di un banchiere Pedrotti. Durante un’assenza della moglie della moglie il console racconta ai suoi invitati un romanzo d'amore, vissuto qualche anno prima a Parigi, con una singolare creatura, la quale per una strana coincidenza ebbe il nome medesimo della genovese che lì l’Hostal aveva sposato quando, perduta ogni speranza, era venuto in Italia. Non c’è a dubbio che i nomi dei personaggi sono «mascherati» per rispetto alle convenienze sociali; ma è anche innegabile che il Balzac scrisse quella novella sotto l’impressione immediata dei suoi ricordi di viaggio e che non è vana la fatica dei critici per tentare l'identificazione D’Hostal. appare come un nome di convenzione, ma probabilmente invece di nascondere un certo Tellier di Blanriez, che in quell'anno 1836 era console di Francia a Genova, cela la persona del reggente di quell'ufficio, un tal Perrier, qualificato dalla «Gazzetta» come segretario e cancelliere. Ipotesi, questa, confortata dalla circostanza che intorno al ’36 il con­sole generale era assente e che il Perrier, venuto a Genova nel 1815, vi aveva sposato tre anni dopo una donna notissima nella letteratura a nella cronaca mondana dell’800: Luigia de Ferrari, vedova Pallavicino; e se questo «stato civile» non dicesse nulla ai lettori, basterà ricordare che la bella Luigia del Foscolo, quella dell’ode famosa, perché tutti sappiano di chi si tratta. Identificando d’Hostal in Perrier, anziché nel Tellier di Blanriez, «Honorine» ci appare una nuo­va incarnazione della Luigia foscoliana, ci spighiamo molte frasi della novella ed accordiamo quella descrizione del paesaggio con la posizione del palazzo dello «Scoglietto» dove i coniugi Perrier erano ve­nuti ad abitare. Infatti il palazzo, in cui avviene la scena del convito e dal racconto, è posto da Balzac su di una collina a ponente di Genova. Poco rimane a dire dell’autore per quel che riguarda il suo soggiorno genovese. Spinto dal miraggio di una rapida fortuna che sempre lo illudeva, Balzac era venuto a Genova per realizzare un affare commerciale che gli sembrava infallibile: egli sperava di trovar capitali per utilizzare il materiale abbandonato da secoli nelle miniere argentifere della Sardegna …


  Marginalia. Perché Balzac spiacque ai veneziani del 1837, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXVI, N. 16, 17 Aprile 1921, p. 3.

  È noto che quando Balzac andò a Venezia non piacque, e che della impressione non favorevole che egli suscitò qua e là nelle strade e nei ritrovi si fecero eco il Locatelli nella «Gazzetta privilegiata», il Dandolo, Andrea Fusinato e il poeta Nalin. Rimame anche un componimento poetico, dove si vuol dimostrare che il Balzac ha scroccato la fama di uomo di lettere, vendendo a un tanto al braccio i prodotti del suo ingegno. Ma le cause di questa antipatia rimanevano ignorate; anzi, a proposito dello sfogo poetico, Il Gigli nel suo diligente volume «Balzac in Italia» scriveva: «si sparse allora manoscritta la seguente, curiosa e un po' confusa poesia di autore anonimo che credette di mettere in canzonatura il famoso scrittore francese». Ora l’autore del componimento poetico non è affatto anonimo e ci porge la chiave per leggere nel mistero dell’antipatia veneziana. A. R. Levi riferisce ai lettori della Gazzetta di Venezia i risultati di una recentissima memoria di Antonio Pilot «Onorato di Balzac e Cammillo (sic) Nalin», dove è dimostrato che era stato proprio il Nalin l'autore di quei versi. I quali sono preceduti da questa notevole e illuminante didascalia:

  «Per Balzac letterato e romanziere francese che s’ha presentà, nel 1837 a Venezia co una certa noncuranza afetata e un certo spreso de tuto, da dar fastidio …». Qui c’è dunque un’imputazione precisa al Balzac, che si presentò ai Veneziani con un dispregio tale delle cose nostre da farsi avere in uggia. Se a Milano era riuscito a diventare l’«enfant gâté» del salotto della contessa Maffei, a Venezia egli rimase soltanto l’ospite non sempre ammirato e non da tutti tollerato del salotto della contessa Mocenigo-Soranzo. E fu appunto in casa di lei, nei conviti e nelle brigate di dame intellettuali, di giornalisti e di nobili, che il Balzac si compiacque un po' troppo di far pompa del suo spirito tra lo «chauvin» e il «frondeur», or criticando acerbamente i «Promessi Sposi», or vantando la sua perfetta ignoranza dei romanzi italiani più in voga, or chiamando la piazza S. Marco «un joli échantillon du Palais Royal».


  F. Palazzi traduttore di Balzac (da “I Libri del giorno”), «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno IV, N. 5, Maggio 1921, p. 97.

  ... il Palazzi non ha tradotto, come la consuetudine insegna. No. Di ogni periodo del testo originale ha preso il tema, lo spirito e poi li ha svolti liberamente in una perfetta lingua italiana di schietta marca cinquecentesca. Dove anzi il Balzac tira via un po’ frettolosamente il Palazzi aggiunge vocaboli, infilza immagini, allunga le frasi, su l’esempio del Doni e dell’Aretino fino a darci la perfetta illusione del tempo. Non per nulla Ettore Romagnoli, scrivendo di questa traduzione, intitolava il suo articolo così: “Onorato di Balzac classico italiano” - Basterà, come esempio, questo breve brano:

  «Cependant, force de furreter, force de s’enquerir, il advint que le sieur de Valesnes feut adverti que, dans Thilouze, estoyt la veufve d'un tisserand, la quelle avoyt un vraiy thrézor en la personne d’ung petite garse de seize ans, dont jamais elle n’avoyt quitte les iuppes et qu’elle menoyt elle-mesme de l’eaue, par haulte prévoyance maternelle ... ».

  «Pur tuttavia, a furia di arrabattarsi e di frugare, anfanare, annaspare, maneggiare, rimescolare, annusare, dimandare, seppe alla fine che in Tilussa c’era la vedova d’un tessitore la quale aveva un tesoro di figlia giovane di forse sedici anni, che mai non s’era dispiccata dalle gonne della madre, e questa l’accompagnava verbigrazia anche al destro per un pochettino di piscia, dando con ciò un alto segno di previdenza materna ...».

  Qui non è più traduzione pura e semplice: qui lo spirito comicissimo della frase francese trova una forma italiana (e come italiana!) che, nella sua larghezza e nella sua saporosa ritondità, lo rappresenta forse con più efficacia.

  Spirito e forma, adunque, cinquecentesche. Il Palazzi pare abbia vissuto per lunghi mesi nutrendosi solamente di pagine del Doni e dell’Aretino. Quando ha incominciato a tradurre, era così imbevuto di cinquecento che non dovè incontrare il più piccolo dubbio. Questa sua prosa è grassa e morbida come la gola di una bella donna; e la leggi colla stessa gioia con cui morderesti una bella pesca polposa. Invano cerchi l’attimo di stanchezza o la parola che tradisca. Se non sapessimo del Balzac e dei suoi Contes drolatiques, finiremmo col domandarci se queste Sollazzevoli historie il Palazzi non le abbia, per avventura, trascritte da qualche codice sin qui ignorato del più puro cinquecento italiano ...

  

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 46, N. 150, 24 Giugno 1921, p. 3.

  Informando, contrariamente alla voce d’una possibile messa in vendita del padiglione dei Jardies dove visse Balzac e morì Gambetta, che quel padiglione è di proprietà dello Stato. Excelsior evoca alcuni curiosi ricordi del tempo in cui il grande romanziere vi abi­tava. La casa dei Jardies fu uno dei temi in­torno ai quali maggiormente si sbrigliò la fervida immaginazione dell’autore della «Com­media Umana». Perseguitato dagli uscieri, tormentato dai debiti, egli sognava di farne un palazzo; e a forza di descrivere gli splendori che si proponeva di realizzarvi ... quando avrebbe avuto del denaro, finì per crederci Viveva nobilmente, maestosamente in quel suo alloggio completamente smobiliato; ma che le iscrizioni manoscritte sostituivano i mo­bili e le decorazioni. Così, sull’intonaco d'un muro, si leggeva: «Qui, un rivestimento di porfido». Più oltre: «Là, un camino in mar­mo blu turchese, incrostato di mosaici napoletani». E aspettando queste meraviglie, il geniale romanziere stava come accampato nelle sue stanze vuote e si nascondeva per paura degli uscieri, al minimo colpo di cam­panello. La prigione per debiti esisteva an­cora, a quei tempi ...


  Cronaca. Balzac a Venezia, «Rivista di cultura», Roma, Anno II (Vol. III), Fasc. 6, 30 Giugno 1921, pp. 285-286.

 

  A. R. Levi, nella Gazzetta di Venezia (31 marzo) fa una riesumazione balzacchiana, narrando con molti particolari il viaggio di Balzac a Venezia nel 1837. Balzac, che aveva avuto dei successi a Milano, spiacque, e non poco, a Venezia, fino a provocare poesie denigratorie di dubbio buon gusto.

  «È certo che se a Milano il Balzac era riuscito a diventare l’enfant gâté del salotto della contessa Maffei, a Venezia egli rimase soltanto l’ospite non sempre ammirato e non da tutti tollerato del salotto della contessa Mocenigo-Soranzo, donna gentile e gentildonna patetica, che esercitava l’ospitalità con molto garbo e con signorile larghezza. E fu appunto in casa Soranzo, Procuratie vecchie, nei conviti e nelle brigate di dame intellettuali, di giornalisti e di nobili, che il Balzac si piacque un po’ troppo di far pompa del suo spirito tra lo chauvin e il frondeur, or criticando acerbamente i Promessi sposi, or vantando la sua perfetta ignoranza dei romanzi italiani più in voga, primi il Marco Visconti del Grossi, l’Ettore Fieramosca del d’Azeglio e l’Assedio di Firenze del Guerrazzi, or chiamando la piazza S. Marco un joli échantillon du Palais Royal, or rimbeccando vivacemente il Dandolo e altri commensali a proposito di Chateaubriand, di Walter Scott, di Béranger, di Victor Hugo, di Scribe, dei diritti di autore e della scienza amorosa delle donne di trent’anni. non care al Fusinato il quale rispondeva:

 

Io però che romantico non sono,

E molti ci saran del gusto mio.

Al signor di Balzac chiedo perdono,

E gli dichiaro francamente ch’io

Trovo che meglio si confà a’ miei denti

Un bocconcin fra i diciasette e i venti.

 

  Non sappiamo se il Guerrazzi sapesse della diatribe di Ca’ Soranzo tra il Balzac e il Dandolo, ma è certo, a ogni modo, che egli disse al romanziere francese il fatto suo, lo rimproverò sopra tutto di prolissità nelle descrizioni, di falsa applicazione del detto di Orazio ut pictura poesis e lo accusò di non saper risparmiare al lettore nè un ragnatelo, nè un chiodo, nè una libra di bietola, nè un pelo di palpebra di lepre, nè un sommolo di ala d’anitra. Altri noti scrittori italiani si occuparono del Balzac al tempo de’ suoi viaggi nella penisola. Ignazio Cantò, fratello di Cesare, ne tracciò un medaglione intellettuale altamente laudativo e un ritratto fisico di somiglianza perfetta. Il Lissoni, illustre scrittore militare, poco soddisfatto delle figure italiane contenute nei romanzi del Balzac, e specialmente nei Marana, in Facino Cane, nell’Elisir di lunga vita, in Caterina deMedici e in Massilla (sic) Doni, ove rivive la Venezia del Medio Evo, del Rinascimento e del secolo XVIII, tartassò l’autore della Commedia Umana con particolare acrimonia e gli prestò anche sentimenti antitaliani che veramente non aveva».


   La Biblioteca Amena, «I Libri del giorno. Rassegna mensile internazionale», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno IV, N. 9, Settembre 1921, p. 470.

  Fu la Biblioteca Amena che fece conoscere in Italia i grandi roman­zieri russi e francesi, come Tolstoi, Dostojewski, Turghenieff, Gorki, Gogol; come Balzac, Flau­bert, Zola, Maupassant, Daudet. […].

  Anna Karenine, Guerra e Pace, Resurrezione; L’idiota, Delitto e castigo, I fratelli Karamazoff; Padri e figli, Terre Vergini; Tarass Bulba; Papà Goriot, Eugenia Grandet, La cugina Betta, Il cugino Pons; La signora Bovary; Una vita, Casa Tellier; I Miserabili; I Tre Moschettieri ... è un rosario di libri immortali che nessuno deve ignorare, che nessuno può non aver letto. L’alta cultura, la filologia, la scienza delle let­terature comparate lasciamola agli.... speciali­sti. Ma questi, questi libri che ci insegnano con poesia l’umanità, che ci aiutano a ritrovar noi stessi, questi libri teniamoli sempre con noi in un angolo della nostra casa col nostro Alighieri, col nostro Manzoni, col nostro Leopardi. Questi ci diranno sempre in ogni momento della nostra vita la dolce parola che illumina e conforta ...


  I Libri della Quindicina. Rassegna informativa delle ultime novità letterarie. […]. Balzac, «Novella. Periodico quindicinale di novelle italiane», Milano, Edizioni A. Mondadori, Anno III, N. 19, 15 Ottobre 1921, p. 47.

  Honoré de Balzac: Racconti d’Italia – Versione di Agar. – Il Primato Editoriale – Milano – 1921. – L. 7.

  Nella stessa collezione, sotto questo titolo, sono raccolti in un volume tre novelle di ambiente italiano di Onorato Balzac: Massimilla Doni, Facino Cane, Sarrasine. L’Italia vista da Balzac è in massima parte arbitraria, superficiale e falsa. Del resto lo scrittore ha una tal natura da non preoccuparsi dell’Italia più di una qualsiasi altra occasionale fonte di inspirazione per qualche ben congeniato racconto.


  Notiziario, La “De Giglio” all’Estero, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 20, 25 Ottobre 1921, p. 64.

  Il successo di questa Casa ha avuto ultimamente nuove conferme anche all’Estero e specialmente in Francia, col suo ultimo lavoro Sotto i Ponti di Parigi […].

Il film, che come sappiamo è stato ricavato da un’immortale opera di Balzac, il miglior preferito dal pubblico francese, ha ottenuto viva approvazione anche come messa in scena, fotografia e scenografia, benchè diversifichi per tecnica dai soliti sistemi della scuola francese.


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 46, N. 269, 10 Novembre 1921, p. 4.

  Andrea Lang, continuando negli (sic) Annales le sue inchieste sulle curiose opinioni che i letterati hanno dei propri colleghi, parla ora di Leone Daudet. Per il Daudet, Balzac è un grande lirico, con un dialogo netto e pre­ciso da drammaturgo. Stendhal, considerato pure realista, ha qualità d’analisi e d'in­trospezione dominanti: è un psicologo ro­manticissimo. Al di sotto, molto al di sotto, di questi due, Daudet pone Flaubert di cui andava pazzo in giovinezza, ma che oggi apprezza solo in Madame Bovary» […].


  Lo tema di educazione fisica nella donna. La parola ad Annetta Kellermann, «La Stampa Sportiva», Torino, Anno X, N. 47, 27 Novembre 1921, pp. 13 e 15.

  p. 13. Ciò che alla donna necessita per star sana e diventar bella, è, prima d'ogni altro, una forte volontà; — è Miss Annetta che parla — le occorrono poi un paio di libri come la «Fisiologia del matrimonio» del Balzac e la «Anatomia della malinconia» del Burton, e, in ultimo, uno sgabello da pianoforte. I volumi, anziché per leggere, servono come pesi, negli esercizi da fare, e lo sgabello serve per distendervisi su.


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 46, N. 286, 30 Novembre 1921, p. 2.

  In attesa del verdetto, pullulano sui gior­nali parigini gli aneddoti e le variazioni sull’«affaire» per antonomasia, il processo Landru. L’Excelsior ha scovato intanto che il fa­migerato cognome deriva da «landreux», ag­gettivo che nell’antico francese significava indolente, neghittoso. Balzac credeva alla predestinazione dei nomi e cognomi ...


  Marginalia. Il grande amore ovvero «La Dilecta» di Onorato di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXVI, N. 50, 11 Dicembre 1921, p. 5.

  Una nuova imminente edizione della «Giovinezza di Balzac», il libro di Hanotaux e Vicaire, che mise in luce per la prima volta l’indimenticabile figura della signora di Berny, il grande incomparabile amore che riempì la vita del romanziere, sta per offrirci nuovi documenti preziosi di cui dà un saggio importante la Revue des deux mondes nel fascicolo del primo dicembre. Si tratta di abbozzi di lettere di Balzac alla signora di Berny da riferirsi all’anno 1822 e cioè ai primissimi momenti di questa straordinaria passione che trascinava irresistibilmente verso la donna quasi quarantacinquenne lo scrittore poco più che ventenne. Ma originali di lettere di Balzac alla signora di Berny non potevano trovarsi perché, come ricorda un collaboratore della stessa Rivista, e come scrisse il figlio di lei partecipando a Balzac la morte della madre, essa prima di ammalarsi aveva diviso in tre pacchi le sue lettere e uno di questi racchiudeva appunto tutta la corrispondenza del romanziere. «Questo pacchetto ben chiuso e legato io ho l’ordine formale di darlo alle fiamme dopo la sua morte e fra un’ora lo brucerò». Così abbiamo la prova che nessuna sorpresa può riservarci l’avvenire a questo proposito. Con questi abbozzi è ritornata alla luce una serie di lettere indirizzate dalla «Dilecta» a Balzac, ma in un tempo posteriore almeno di dieci anni a quello degli abbozzi. È di grande interesse ricordare che soltanto la morte della signora di Berny avvenuta nel 1836 troncò questa relazione che pure da qualche anno aveva a poco a poco mutato di carattere; sebbene la devozione o piuttosto la dedizione di Balzac per la «Dilecta» non fosse diminuita né fosse diminuita la tenerezza della «Dilecta» per lui. Una tenerezza infinita che prese tutti gli aspetti e conobbe tutti i mezzi di conforto, di incoraggiamento fra le più ardue difficoltà, tutte le forme d’ispirazione e di aiuto spirituale, morale e materiale. Fu la signora Berny che in uno dei momenti più difficili della vita di Balzac, quando egli dovette lasciare la sua impresa tipografica, intervenne provvidenzialmente salvandolo dal fallimento; l’incomparabile amica, di cui sono traccie almeno in due romanzi famosi, che per quattordici anni visse con lui in tale comunione spirituale quale difficilmente si ebbe nei più famosi amori antichi e nei moderni; ninfa Egeria di tanta delicatezza e riserbo che fu sempre presente, pur rimanendo quasi invisibile, se è vero che soltanto la madre e la sorella di Balzac e due o tre dei suoi intimi conobbero questo legame. Delicatissima e indimenticabile figura femminile di cui una donna, Genovieffa Ruxton, ha tracciato la bella storia d’amore con amore, come scrisse Lemaître in una prefazione che è il più alto elogio del piccolo volume. Bisogna leggere questi abbozzi di lettere per sentire il furore o piuttosto il tumulto di vita che erompe da Balzac ventenne animato da ideali eccelsi di gloria e pronto agli sconforti più amari. C’è tra altro In una di queste lettere un elogio dell’amore dove è un impeto irrefrenabile di eloquenza e di poesia: «Amare è sentire in modo diverso da tutti gli altri uomini e sentir con violenza; è vivere in un mondo ideale magnifico e splendido di tutti gli splendori; è ignorare il tempo e le sue divisioni; il giorno e la notte, l’inverno e la primavera; il giorno e la primavera sono la presenza dell'oggetto amato; tutta la natura è in un solo posto, quello dove ci si vede; una sola persona esiste quella che si ama; tutto il reato è nulla!». E altrove: «Se dovessi fare un testamento consisterebbe in queste semplici parole: amami sempre, che io sia sempre presente al tuo pensiero, che dal fondo del mio esiglio, se la speranza dilegui io possa dirmi; c’è nell'universo in un certo luogo, una persona a cui son caro e che pensa fedelmente a me, di cui il pensiero s’incontra col mio, così come la mia immaginazione l’avvolge». Altrove ancora Balzac che richiama i modi più cari a G. G. Rousseau, che egli cita, confessa di sè: «Tale sono e tale sarò sempre, timido all'eccesso, appassionato fino al delirio o casto al punto da non osare di dire: io amo ...».


  Corriere teatrale. Filodrammatici, «Corriere della Sera», Milano, Anno 46, N. 296, 12 Dicembre 1921, p. 2.

  Ricordiamo che questa sera Angelo Musco mette in iscena Turnisi e C., tre atti di Cesare Hanau ricavati dal «Mercadet» di Balzac, nella versione sici­liana di G. Morabito.


  AA.VV., Alcuni Cenni Critici della Stampa di Parigi su il Film Italiano “Sotto i Ponti di Parigi”. Adattazione cinematografica di “Ferragus”, il celebre Romanzo di Balzac della Casa A. De Giglio, di Torino, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 20, 25 Ottobre 1921, pp. 29-34.

  Preceduti da una breve nota redazionali, sono raccolti i giudizî dati dalla stampa periodica cinematografica francese sul film: Sotto i Ponti di Parigi, edito dalla A. De Giglio di Torino, diretto e interpretato da Mario Guaita (Ausonia). Gli articoli sono tratti dai seguenti periodici: «L’Intransigeant» (24 septembre 1921, a firma: Boyvon); «La Semaine Cinématographique» (23 septembre 1921, a firma: E. L. Guillaume); «Scénario» (22 septembre 1921); «L’Ecrain (sic)» (24 septembre 1921, a firma: Sanseverina); «Ciné-Journal» (24 sept. 1921); «Le Courrier Cinématographique» (1er octobre 1921, a firma: Des Angles); «Hebdo-Film» (1er octobre 1921, a firma: R. H.); «La Cinématographie Française» (24 sept. 1921, a firma: Paul de la Borie); «Cinématographes Méric» (8 octobre 1921).


  Adolfo Albertazzi, La Scapigliatura milanese. II. – I minori e i maggiori, «Varietas. Rivista illustrata», Anno XVIII, N. 205, 1° Maggio 1921, pp. 326-329. 

  pp. 327-328. Che differenza tra la facilità di queste sestine che han del Giusti, e lo stile barocco con cui il Solera diciassette anni prima aveva scritto il racconto Michelina: «Scena milanese del 1836» diceva lui; e, diciamo noi, rachitico prodotto di mescolanze del Balzac col Sue, dello Stendhal con la Sand, fermentati in una testa già scapigliata troppo! […].

  Povero Tarchetti! Egli gettò alle pagine di Fosca gli ultimi gridi delle sue torture; abbandonò su quelle pagine il capo febbrile comprimendosi d’una mano il cuore, e moriva.

  Che lasciava al suo nome? Il pathos dei romantici; il realismo del Balzac, il naturalismo del Rovani […].

 

Adolfo Albertazzi, “Non me ne intendo”, in Il Carducci in professione d’uomo. Ricordi e aneddoti, Lanciano, G. Carabba, editore, 1921, pp. 135-149.

 

 pp. 138-139. E perché, da che il Poeta ebbe ritegno ad ammirare nei Promessi Sposi, più che un romanzo, un poema morale? a conoscere pienamente Tolstoi, Flaubert e Maupassant? Né conobbe abbastanza il Balzac e fu troppo severo con lo Stendhal.

 “Costui— il Beyle — era impotente alla creazione d’arte, e i suoi romanzi lo mostrano, nominatamente Le rouge et le noir, titolo che è la definizione più esatta del modo suo di rappresentare”.

 Quanto al Balzac, il giudizio che ne diede ci chiarisce esso, meglio di tutti, la causa della sua antipatia per l’arte narrativa moderna.

 “Potente ingegno d’inventore e di osservatore ebbe il Balzac, e non sapea farsi ragione che si trovasse del piacere a fare de’ versi e che Teofilo Gautier ne componesse. — Ma cotesto non è della copia per la stampa — diceva, facendo spallucce, l’epicureo e industriale e ingegnosissimo descrittore e rappresentatore della borghesia, quando vedeva il suo amico empire di piccole e ineguali righe la breve pagina. Egli fu l’autore e il padre di quel realismo in prosa del secondo impero, che oggi trionfa e ha finito di sotterrare la poesia come arte.

 p. 144. Antonio Della Porta, poeta e non ancora avvocato, dimostrava pure negli atti e pur nel contegno della persona; e come la persona sua è alta due metri circa, così a stendere la sua calligrafia cubitale gli bisognava, allora, carta di insolita grandezza.

 — Balzac faceva in questo modo—; e nel modo usato da Balzac a scrivere i romanzi egli pretendeva scrivere la commedia; cioè in enormi strisce da rotolare di mano in mano che si finisse ogni scena.


  Enrico Aubel, Vita e opere di Niccolò Tommaseo, in N.[iccolò] Tommaseo, Prose scelte ed annotate da Enrico Aubel con introduzione critico-bibliografica, Milano, Rinaldo Caddeo e C.i, Casa Editrice Risorgimento, 1921 («Collezione Universale di Letteratura, Arti e Scienze», N. 4-5-6-7-8), pp. 9-40.  

  p. 18. Parigi e i Francesi gli fecero un'impressione non molto buona; tuttavia egli vi conobbe il poeta che, fra i moderni, più influì su di lui, Alfonso de Lamartine; scrisse in Francia molte delle sue migliori poesie, e potè assimilarsi la forma narrativa del romanzo francese di Balzac e della Sand ch’egli imitò in maniera originale in Fede e Bellezza. […].

  p. 20. Fede e Bellezza era evidentemente ispirato al romanzo umanitario di George Sand, al romanzo realistico di Balzac, a quello psicologico e autobiografico di Sainte-Beuve.


  Raffaello Barbiera, Carlo Porta e la sua Milano, Firenze, G. Barbèra, Editore. 1921.


Capitolo I.

  p. 3. Il Porta, partecipando, con la sua avversione alle truccature, a quello spirito moderno che vibrava anche in letteratura al suo tempo, partecipò all’ardente lotta dei Romantici contro i vecchiumi convenzionali dei classicisti, egli verista persino spietato, persino scurrile, antecessore d’Emilio Zola e della scuola zoliana, sommersa poi da altre scuole di moda, ma forte di un fondo razionale, come quello che rampollò dall'opera sterminata, titanica, rivelatrice di verità psicologiche umane d'un Balzac.


Capitolo XIII.

  pp. 173-174. Eppure il Maggi era segretario del solenne Senato e illustre professore di eloquenza greca e latina; il che contrastava con quel suo spirito famigliare, vivace, precursore dei nuovi tempi. Carlo Maria Maggi fu il creatore di Meneghino. Ne fece un figlio sviscerato di Milano sua, come si può vederlo nel bell'addio a Milano nelle commedie Il barone di Birbanza che fa pensare al Mercadet del Balzac.


  Raffaello Barbiera, Il Centenario di Ottavio Feuillet ed Emilio Zola, «I Libri del giorno. Rassegna mensile internazionale», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno IV, N. 10, Ottobre 1921, pp. 515-516.

  Il romanzo del Feuillet nacque in contrasto morale contro quelli del Balzac, e sopratutto della Sand. Il disprezzo delle regole della fa­miglia, la ribellione ai doveri conjugali erano i caratteri d’una illusa, che in veste seducente, trascinava alla colpa anche donne oneste, punte dalla curiosità del frutto proibito. […].

  Il Feuillet si collega non tanto ad Alfredo de Musset come si disse (dal Musset prese, per altro l’abbrivo nei proverbi) quanto al Lamartine; lo Zola si collega col titanico Balzac e col Flaubert. […].

  Morto il Feuillet nel 26 dicembre 1890 a Pa­rigi (era nato a Saint Lô da un padre che ma­lediceva cordialmente la sua letteratura e da una madre dolce, sensibilissima) il seggio di lui nell’Accademia degl’immortali toccava di di­ritto a Emilio Zola; ma tutti sanno (si levò tanto scalpore in Francia e fuori!) che fu dato invece a un Pierre Loti, che gli arrivava ap­pena alla cintola, ma aveva ciò che lo Zola non possedeva e che i francesi cercano: il buon gusto ...” Si è pensato, allora, al Balzac al quale furon chiuse le porte dell’Accademia e allo stesso Victor Hugo, che vi entrò per il buco della chiave; e si finì col ridere.


  Anton Giulio Barrili, Dumas il vecchio (Ritratto a penna), in Uomini e bestie. Racconti d’estate. I due ramarri – Malanotte – Il gabbiano – Ossian e Malvina – Dumas il vecchio – Nembrot e il suo cane, Milano, Fratelli Treves Editori, 1921, pp. 64-71.

  Cfr. 1886.


  Egidio Bellorini [a cura di], Giuseppe Giusti, Poesie. Introduzione e note di Egidio Bellorini. Con due tavole, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1921 («Collezione di Classici italiani con note», volume XXVII).

  p. 102. [Giusti] segnava in margine ad uno scritto del Balzac, con un «benissimo» la sentenza: «chi non fa pazzie la primavera le fa nell’inverno».[2]


  Adolfo Bianchi, Balzac a Venezia, «La Vita internazionale. Rassegna quindicinale», Milano, Anno XXIV, N. 11, 5 Giugno 1921, pp. 252-254.

  I viaggi di Balzac in Italia hanno dato origine a una ricca letteratura, ch'è servita a farci conoscere i mutevoli umori del grande romanziere e i poco lusinghieri complimenti co’ quali volle ricambiare la cortese ospitalità ch’ebbe in casa nostra.

  Ma gli storici, attingendo le notizie alle cronache letterarie e mondane dell’epoca, hanno trascurato di osservare che, in quel tempo, era di moda dir male dell’Italia e degl’italiani e che artisti celebri e celebrati, tra i quali Sand, Mérimée e Dumas, facevano coro alle contumelie pappagalliche e non solo vituperavano il bel paese, ma pure le sue statue e le sue chiese.

  Allora, secondo Prospero Mérimée, l’Italia era le pays où fleurit le brigand ed era perciò necessaire (sic) à l’existence du roman contemporaine (sic), mentre, secondo Dumas, il nostro paese aveva d’onesto le sole statue portanti la firma di Michelangelo. Ma, certo, i famosi denigratori sapevano che la Francia, oltre ad aver rubato molti quadri all’Italia, non poteva, in fatto di moralità, lanciare l’evangelica prima pietra.

  Balzac adunque accettò il pregiudizio comune, anche perché era convinto che Parigi, allora più che mai, era il cervello del mondo. Perciò egli, che scriveva la storia dei costumi parigini, non si avvide che i suoi illustri contemporanei falsavano la verità e la storia. Anzi è appurato che l’autore della Commedia umana mentiva anch’esso con elegante prosopopea e dava al suo linguaggio di “spirito negatore„ un’acredine eccessiva.

  In verità egli contraddiva tutti e considerava gli Stati d’ Europa come se fossero le province di Parigi, poiché Parigi, allora, dettava le leggi dell’arte, dell’eleganza e dello spirito e gli europei formavano l’immensa tribù dei provinciali. Inoltre egli mal tollerava che si idolatrassero le tradizioni e si mostrava irriverente, più per posa che per convinzione, verso quegli scrittori universalmente noti, il cui genio pareva si fosse inaridito.

  Nel suo primo viaggio in Italia, che risale al 1837 (sic), il Balzac portò con sè, oltre il suo inguaribile malumore, un grosso bagaglio di bugie. E la prima che disse questa: che la sua venuta da noi aveva uno scopo amministrativo: “le (sic) intérêts de famille Visconti„; mentre, in verità, egli aveva abbandonato la Francia per sfuggire ai suoi creditori.

  Quest’allegra bugia fece ridere gl’italiani, che ben conoscevano le cattive attitudini del Balzac ad amministrare i propri interessi e fu oggetto di maldicenza e di motti di spirito. Ma il famoso romanziere non perdeva il suo buon appetito per l’altrui maldicenza e continuava a vituperare, da buon spirito negatore, l’Italia e gl’Italiani.

*

* *

  Dopo Milano, Venezia. Qui Balzac oltrepassò il segno. Infatti ecco come il conte Tullio Dandolo, che partecipò al pranzo offerto dalla contessa Soranzo, descrisse gli avvenimenti:

  “Invitato dall’amabile contessa Soranzo a desinare in compagnia del signor Balzac, accettai volenteroso.

  “Eravam dodici a tavola: e da principio l’ospite francese parlava di rado, facendo infrequenti tregue col proprio appetito. Però, al comparire dell’allesso, disse di Manzoni, che il suo romanzo, fiacco di tessitura, non regge alle prove d’una traduzione; la qual sentenza fu da un tale panciuto approvata; e aggiunse: — Peccato che Grossi nel Marco Visconti e Azeglio nell’Ettore Fieramosca abbiano imitato Manzoni! — Appunto perciò, risposegli Balzac, non volli leggere quei due romanzi.

  “Il Dandolo volle rimbeccare l’offesa, attaccando i romanzi francesi, ma la gentil padrona di casa stornò il discorso e gli scherni e le beffe questa volta li meritò Chateaubriand ...

  “Quel tale chiese a Balzac se aveva dimestichezza col grand’uomo (Chateaubriand). — Lo vedo spesso; quando ne ho il tempo. Come vive? — Ritiratissimo, come ingrognato. — Perché? — La sua ora è passata, come passa per tutti: gli cuoce che l’attenzion pubblica non si fermi più sovra di lui; ne aveva contratto l’abitudine: e a questo proposito, narrando taluno a madama Ancelot che Chateaubriand si lagnava d’incipiente sordità, — È naturale, rispos’ella, non sente più parlar di sé!

  «Il frizzo fu applaudito: era però malignetto. Domandai a Balzac se rivedrebbe presto Cateaubriand (sic). — Appena giunto. — Mi usò gentilezze a Londra quando v’era —ambasciatore: vorreste aver la bontà di ricordarmi a lui? – Sarebbe tempo sprecato: Non si ricorda che di sè”.

  Tale risposta parve impertinente al Dandolo, poiché egli era un aristocratico puro, che idolatrava la tradizione e il genio, e mal sopportava che Balzac si mostrasse spregiudicato e irriverente. Ma il grande romanziere, vivendo in un’atmosfera storica e letteraria ben dissimile di quella in cui cospiravano i nostri patriotti e scrittori, non poteva essere compreso da costoro. Perciò egli potè dire in Piazza S. Marco, con la consueta prosopopea: Voilà un joli échantillon du Palais Royal! ...

  E i buoni veneziani, ingenui romantici del ’837, lo guardarono stupiti.

*

* *

  “Balzac mangia e ride come un gaudente: su via! poniam mente al suo dire:

  — Contiamo in Francia cinque nomi soli, la cui popolarità è una miniera: Cuvier, principe in fatto di scienze, Chateaubriand, principe in fatto di letterature, Béranger, Lamartine e Scribe: la voga di Béranger e di Lamartine è immensa, uno conia monete al suono dei suoi bacchici ritornelli, l'altro alla melodia vaporosa delle sue odi; i buontemponi si fecero tributari del primo; gli ipocondriaci e le isteriche del secondo. Scribe ogni sabato trova all’ufficio centrale dell’amministrazione alquante migliaia di franchi, suoi diritti d’autore, che gli piovono da ogni angolo della Francia.

  – Che uomo è Scribe?

  — Ha quarantatré anni, sei più di me: presiede infaticabilmente alle prove delle sue commedie: non è cura che ommetta per farne ben comprendere lo spirito agli attori; per le belle attrici ha sempre la sua paroletta a parte; onde invecchia prima del tempo.

  La signora si affretta a replicare:

  — Credo che il nome di Balzac starebbe bene allato dei ricordati sin qui.

  — Magari! Ciò che m’aveva di più grandioso nella mia fortuna pochi mesi fa erano centomila lire di debiti. I miei affari si sono poscia accomodati: venni a patti con una Società di speculatori, obbligandomi di fornir loro due volumi in-8° ogni quadrimestre, mi assicuraron essi quatromila franchi al mese per quindici anni.

  Ciascuno fece le meraviglie di un contratto così vantaggioso. Fu domandato come mai Victor Hugo non si trovasse tra’ più ricchi:

  – Hugo non ha ventimila lire di rendite: la sua fama è maggiore della sua entrata; eccezione unica.

  — Parmi — disse la signora — che la letteratura in Francia sia tanto arte, quanto speculazione ...

  — Dite pure francamente speculazione, non arte; chi più guadagna, ha più merito”.

  Il conte Dandolo e tutti i presenti rimasero scandolezzati del cinismo balzachiano. Ma Balzac, col suo cinismo letterario, precorreva il tempo e gli eventi e penetrava in casa nostra per distruggere le ingenuità romantiche dei nostri letterati e insegnar loro a meglio studiare e comprendere l’arte e i costumi del loro tempo.

  — La mia carriera letteraria, — riprese Balzac, — cominciò nello studio d’un avvocato ove m’aveva a compagno Mérimée; la nostra inclinazione per le lettere ci affratellò, tanto più che nutrivamo uguale simpatia per la giurisprudenza. Noi due e altri tre giovanotti, de’ quali uno è figlio del matematico Ampère, avevamo costume di pranzare insieme tratto tratto, e que’ nostri ritrovi erano saturnali dello spirito, tantoché ci cadde in pensiero di scrivere romanzi in società, anche per rimediare al vuoto frequente che regnava nelle nostre borse: detto, fatto: tre ore prima del pranzo, ognuno di noi alla sua volta, si conduceva all’osteria, e, dietro l’orditura ch’io ne aveva dianzi tracciata, scriveva un capitolo: in capo al mese il lavoro sociale era a fine; lo si vendeva 500 franchi, ne toccavano 100 per uno, e il trattore assorbiva l’intero. Abbiamo in tal guisa plasmato una quarantina di volumi. Quando cominciai a scrivere da me solo e il mio nome fu meno oscuro, un libraio di Bruxelles ristampò quello zibaldone attribuendomelo in anima e in corpo: protestai; erami duro essere promulgato padre di tanti bastardi: ne misi per altro fuori, dopo di allora, tanti di legittimi da riuscire a fare un tantino inorgoglito della mia fecondità quel tale avvocato che, perdonandomi di averlo piantato su due piedi, c’invitava una volta all’anno, Mérimée ed io, ad amichevol desinare, e faceva un brindisi all’influenza del suo studio sullo sviluppo delle lettere contemporanee; brindisi che stava bene per Mérimée, la cui rinomanza è matura, mentre la mia è tuttora in bottone„.

  Balzac fu interrotto da uno dei commensali e si accese un’ardente disputa a proposito di Walter Scott, che allora incominciava a tramontare. Ma l’amabile contessa Soranzo die’ l’esempio d’alzarsi e la disputa ebbe termine.

***

  Questa conversazione venne pubblicata nella Gazzetta privilegiata di Venezia e suscitò, negli ambienti intellettuali e aristocratici, enorme clamore. Ad essa fece seguito una risposta di Angelo Fava, nel Vaglio, e il clamore crebbe a tal punto che Balzac fu raccomandato alla polizia come delinquente pericoloso.

  Ma tali ire, dopo ottant’anni, trovano una spiegazione in Walter Scott.

  Poiché i romanzi dello scozzese servivano di modello ai nostri scrittori e costituivano il nutrimento spirituale degl’italiani. Quindi il Balzac, che allora incominciava a penetrare da noi, sovvertiva, colla sua pretesa immoralità, i pregiudizi letterari e abbatteva il romanzo storico. Per ciò parve ai romantici italiani cinico e poco scrupoloso. In verità egli non fu compreso da nessuno: La Commedia umana fu definita una voragine d’immoralità o un’espressione curiosa della corruzione parigina e spinse qualcuno a gridare allo scandalo e a prognosticare che il Balzac avrebbe dovuto dar conto alla società dell’abuso fatto del suo ingegno. Ma il Fava fu un cattivo profeta e Balzac meritò l’immortalità invece della gogna.


  Adolfo Bianchi, Balzac a Venezia, «La Vedetta d’Italia», Fiume, Anno III, 18 Agosto 1921, p. 3.

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Guglielmo Bilancioni, La sordità di Beethoven. Considerazioni di un otologo, Roma, A. F. Formiggini, editore, 1921.

 

 p. 333, nota (1). Molti autori dànno corpo ai prodotti della loro fantasia. Tipico è il caso di Balzac. Egli sentiva vivere i suoi personaggi, passeggiava, conversava, discuteva con essi, come fossero suoi amici, e al Sandeau, reduce della provincia, che gli narrava di un suo lutto domestico, troncava a mezzo il discorso, dicendo: «Sta bene tutto questo, ma torniamo alla realtà ...». E la realtà per il romanziere, in quel momento era la Pension Vauquer del Père Goriot.


  Giuseppe Antonio Borgese, Berlino criminale (da “La Nuova Germania” [1909]), in G.[iovanni] Titta Rosa (a cura di), Narratori contemporanei a cura di G. Titta Rosa. Primo volume, Milano, Il Primato Editoriale di Guido Podrecca & C., 1921, pp. 103-118.

  p. 116. Come strumento di tranquillità politica, la polizia tedesca è ancora la più perfetta organizzazione del mondo: ma, per agguantare gli avventurieri e gli assassini della nuova scuola, ci vogliono poliziotti forniti della fantasia di un Balzac.


  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Flaubert, «Corriere della Sera», Milano, Anno 46, N. 297, 13 Dicembre 1921, p. 3.

  Gli elementi dimostrativi e pedagogici so­no nella Bovary di gran lunga meno abbondanti che nei Promessi Sposi; la confusione fra scienza e arte, tra politica e arte, così nociva a Stendhal e a Balzac, è quasi in tut­to eliminata; e, d’altro canto, la vertiginosa eleganza della sua struttura sovrasta alla imponenza orizzontale di una massa come Anna Karenina.


  Amedeo Bregante, La Donna, «L’Iride. Rivista mensile critico – artistico – letteraria», Gravina, Anno III, Num. 6, 25 Giugno 1921, pp. 7-9.

  p. 7. Io non ho avuto mai il piacere di conoscere personalmente il collega Merciai: non so quindi se sia gio­vane o vecchio, celibe o ammogliato: mi viene però da pensare che sia giovane, molto giovane, forse più dello stesso Grassia ch’egli taccia di gioventù, e che si trovi all’indomani di qualche disinganno amoroso, o sia imbevuto dei paradossi di Balzac, o, peggio ancora, delle scempiaggini di Guido da Verona o simili autori moderni. Forse anche tutti questi fattori concorreranno a renderlo mi­sogino: certo è che il Merciai non conosce affatto la donna, e la sua lettera al Grassia non è che una serie di enormi bestemmie. […].

  Il Merciai affermando (troppo leggermente in vero), che la donna virtuosa non esiste, è più balzacchiano dello stesso Balzac, il quale, se non altro, diceva che all’infuori di sua madre non v'erano donne vir­tuose.


  Bruno Brunelli, I Teatri di Padova dalle origini alla fine del XIX secolo, Padova, Libreria Angelo Draghi, 1921.

  p. 476. In autunno venne la compagnia di Gaetano Coltellini, in cui il caratterista Luigi Taddei ricordò l’indimenticato Vestri, specialmente nelle tre repliche di Papa Goriot di Balzac[3].


  A. C., Maupassant novelliere, «La Stampa», Torino, Anno 55, Num. 311, 31 Dicembre 1921, p. 3.

  Nell’arte del Maupassant non compaiono le gigantesche personalità che attraversano le favole tumultuose e ardenti di Balzac e gli scenari affollati di V. Hugo […]: è la vita stessa che affina, colla sola lezione dell’esperienza, i suoi elementi comici, tragici o deformi.


  G. C., Libri di cui si parla. Italia. “Les contes drolatiques” di De Balzac, tradotti da G. Borsi e F. Palazzi. N° 37 della Collezione “I classici del ridere”. – Roma, A. F. Formiggini, editore, L. 7, «I Libri del giorno. Rassegna mensile internazionale», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno IV, N. 4, Aprile 1921, pp. 190-191.

  Non sono che i primi dieci racconti, tradotti: La bella Imperia e Il peccato veniale dal povero Borsi, gli altri otto da Fernando Palazzi. Diciamo subito che questo è uno dei più pregevoli e originali esempi di traduzioni che vanti la nostra letteratura. E intendiamoci su quegli aggettivi, per non turbare i sonni tranquilli dei molti traduttori italiani. Queste Sollazzevoli historie sono originali in quanto non sono una vera e propria traduzione. Il Palazzi (poi che della sua sola traduzione ci occupiamo, attendendo per quella del Borsi altra occasione: quando cioè la vedremo raccolta in volume insieme ad altri scritti del povero Eroe), il Palazzi non ha tradotto, come la consuetudine insegna. No. Di ogni periodo del testo originale ha preso il tema, lo spirito e poi li ha svolti liberamente in una perfetta lingua italiana di schietta marca cinquecentesca. Dove anzi il Balzac tira via un po’ frettolosamente il Palazzi aggiunge vocaboli, infilza immagini, allunga le frasi, su l'esempio del Doni e dell'Aretino fino a darci la perfetta illusione del tempo. Non per nulla Ettore Romagnoli, scrivendo di questa traduzione, intitolava il suo articolo così: “Onorato di Balzac classico italiano” - Basterà, come esempio, questo breve brano:

  «Cependant, force de furreter, force de s’enquerir, il advint que le sieur de Valesnes feut adverti que, dans Thilouze, estoyt la veufve d’un tisserand, la quelle avoyt un vraiy thrézor en la personne d’ung petite garse de seize ans, dont jamais elle n’avoyt quitte les iuppes et qu’elle menoyt elle-mesme de l’eaue, par haulte prévoyance maternelle ... ».

  «Pur tuttavia, a furia di arrabattarsi e di frugare, anfanare, annaspare, maneggiare, rimescolare, annusare, dimandare, seppe alla fine che in Tilussa c’era la vedova d’un tessitore la quale aveva un tesoro di figlia giovane di forse sedici anni, che mai non s’era dispiccata dalle gonne della madre, e questa l'accompagnava verbigrazia anche al destro per un pochettino di piscia, dando con ciò un alto segno di previdenza materna ...».

  Qui non è più traduzione pura e semplice: qui lo spirito comicissimo della frase francese trova una forma italiana (e come italiana!) che, nella sua larghezza e nella sua saporosa ritondità, lo rappresenta forse con più efficacia.

  Spirito e forma, adunque, cinquecentesche. Il Palazzi pare abbia vissuto per lunghi mesi nutrendosi solamente di pagine del Doni e dell’Aretino. Quando ha incominciato a tradurre, era così imbevuto di cinquecento che non dovè incontrare il più piccolo dubbio. Questa sua prosa è grassa e morbida come la gola di una bella donna; e la leggi colla stessa gioia con cui morderesti una bella pesca polposa. Invano cerchi l’attimo di stanchezza o la parola che tradisca. Se non sapessimo del Balzac e dei suoi Contes drolatiques, finiremmo col domandarci se queste Sollazzevoli historie il Palazzi non le abbia, per avventura, trascritte da qualche codice sin qui ignorato del più puro cinquecento italiano ...


  Arrigo Cajumi, Libri di cui si parla. Francia. Gambetta e Léonie Léon, «I Libri del giorno. Rassegna mensile internazionale», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno IV, N. 4, Aprile 1921, pp. 199-200.

  [Su: Francis Laur, Le coeur de Gambetta, Paris, Payot, 1921].

  p. 199. Passione mistica, eterea, quella di Gambetta? […] l’antitesi che si è inteso di delineare tra un G. volgare e maleducato e un G. mondano e sognatore, non regge, secondo me. Assistiamo invece, come nelle lettere di Balzac a Mme Hanska (l’analogia dello sfondo e del tono è curiosamente significativa) a una graduale epurazione, a un’ascesa continua verso quei grandi sentimenti ideali e vasti che non dovevano essere ignoti all’oratore, poiché costituivano la sommità della sua eloquenza, come di tutte le eloquenze. È un’incommensurabile sete di affezione corrisposta, un prolungamento dell’attività politica da un lato, un’indicibile riconoscenza di creatura idolatrata, cullata nel ritmo di una parola abbagliante, dall’altro.


  Carlo Calcaterra, Rassegna bibliografica. Luigi Donati, “La tragedia di Oriani (Albori d’immortalità), con dodici illustraz. fuori testo. – Ferrara, A. Taddei e Figli editori (16°, pp. 344), «Giornale Storico della Letteratura Italiana», Torino, Casa Editrice Giovanni Chiantore, Volume LXXVII, 1° semestre 1921, pp. 61-103.

  pp. 77-78, nota (1). Voi sentite Balzac nelle antitesi e nelle gradazioni […].

  (1) Che il Balzac sia stato una delle principali fonti d’ispirazione dell’Oriani è notorio da alcuni decenni, poiché l’Oriani stesso mai non celò il suo amore, anzi la sua predilezione per l’autore della Comédie humaine. Alcuni suoi romanzi potrebbero essere accostati, sotto certi aspetti, a quelli che il Balzac intitolava Études philosophiques. Anche alcune delle più vive e più penetranti novelle dell’Oriani ricordano pel loro carattere le Scènes de la vie de province e le Scènes de la vie privée del Balzac. Ciò che meno si è notato è l’efficacia che lo stile del Balzac ebbe su quello dell’Oriani, sopra tutto per i procedimenti antitetici, per le gradazioni e i paralleli, che sono frequentissimi nelle pagine dell’Oriani. Chi legga i romanzi del Balzac, dopo aver già letto con curioso amore le opere varie dell’Oriani, scopre innumerevoli volte forme antitetiche, gradazioni ricercate e paralleli speciosi, simili a quelli di cui si compiacque l’Oriani. Interessanti richiami stilistici di potrebbero, p. es., fare tra non poche righe di La Peau de Chagrin e molte dell’Oriani. È noto che Balzac fu rimproverato di scriver male e che dai facitori di stile e dai super-esteti fu ripetuta per Balzac la frase (giusta in alcuni casi particolari, ma non affatto in generale): «il n’a réussi à exprimer sa pensée qu’au moyen d’un multitude de métaphores qui approchent du galimatias» (Vedi ciò che ne dice il Brunetière in H. de Balzac, Paris, Nelson, p. 258). Quanto galimatias anche nell’Oriani! […].

  pp. 101-102, nota (2). Nel leggere le opere giovanili dell’Oriani è interessantissimo il considerare quanto profonda azione abbia avuta su di lui la letteratura francese moderna. […] Già è noto che egli da giovine dovette assai in particolar modo a V. Hugo, del cui nome son pieni i primi suoi libri, ad A. Dumas […] e a O. di Balzac (vedi Mem. inut., I, 209, 270; II, 129 e altrove), del quale andò di anno in anno sempre più gustando e apprezzando le opere, fino a giudicarlo in Matrim. «il primo romanziere del mondo, lo Shakespeare del sec. XIX, il solo che in Francia fosse grande in faccia a V. Hugo» (p. 6), fino a esaltarlo in Oro, incenso e mirra come «il primo genio del secolo», il fondatore d’una città, in cui poi tutti i romanzieri e novellatori si recarono a costruire (p. 299 e segg., La città), e fino a dirlo in Fuochi di bivacco un creatore superiore a V. Hugo e a Shakespeare, il «solo che possa guardare in faccia a Dante» (p. 144, 146, Gallia victa; anche a p. 12, nella Diana, dice che «Balzac con Dante e con Shakespeare compone la suprema triade dell’arte»).


  Raffaele Calzini, Elogio di un paese e di un libraio, «I Libri del giorno. Rassegna mensile internazionale», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno IV, N. 6, Giugno 1921, pp. 283-285.

  pp. 284-285. Poi, rincasato, avevo per delizia di quelle sere un po’ lunghe in solitudine, un libro nel quale un immortale genio e due ingegni si son dati la mano a creare un capolavoro operando in una stessa officina: e li immaginavo ai fornelli: il mastro gigantesco e bruttissimo e dei due aiutanti l’uno, Fernando Palazzi, pallido e timidetto come un chierico, e l’altro, Giosue Borsi, cinto dall’aureola di faville che lo doveva far santo: — “Prendi là„ — ‘‘Dammi qua„ — “Questo non va„

  — “Dàgli al martello! Dàgli al mantice ...

  Giosue Borsi e Fernando Palazzi hanno tradotto i primi dieci Contes drolatiques di Balzac.

  Io credo che il Sire di Balzacche se si scoprisse così ben cucinato dai suoi due discepoli italiani ne avrebbe una gioia orgogliosa più grande di quella che provò in Varsavia vedendo una fantesca lasciar cadere un vassoio carico di porcellane atterrita all’idea di servire il tè a un così celeberrimo uomo. Già les contes drolatiques son gittati con una potenza di modellazione diabolica e un giuoco di luci e d’ombre che paion incisi nel metallo con l’acido come da un favoloso acquafortista: e nel grottesco vedo Daumier, e nel tragico Goya, e nel pornografico Rops. C’è una così viva giocondità di raccontare e una gioia di creazione tanto feconda che mai l’arte dell’autore di “Eugenia Grandet„ mi parve più felice. Lo si pensa alla tavola da lavoro vestito del bianco saio fratesco, in atto di chiamar le più impudiche cose col loro vero nome, glorioso nel plasmare creature come un vero Dio o intento a notomizzare gli spasimi dell’appiccato e della vergine violata, spremendo dall’umanità il succo di tutto il suo sangue più generoso.

  Soltanto certi portali gotici chiudono questo arco di vita senza confini nel loro sesto acuto che si parte dai demoni e finisce con la Vergine raggiante e con gli angeli, mentre una diabolica fantasia ha ispirato agli scultori delle lesene e dei capitelli e delle imposte le più invereconde teorie di frati e di monache, i congiungimenti animaleschi più incubici, e certe lascivie umane che stanno fra la danza della morte e il canto di carnasciale.

  Mi veniva fatto, leggendo, di ricordare il Cortile dei Librai nella Cattedrale di Rouen, pallido di povere erbe e di pietre consunte, dove un diavolo è scolpito in atto di soffiare con un manticetto tentazioni infernali e profumi sulfurei, e ne rabbrividiscono di spasimo e di delizia le vergini e gli angeli tremando come gazzelle davanti agli occhi fascinatori del serpente.

  Balzac è come quel terribile diavolo del Cortile dei Librai in Rouen: tutti i suoi personaggi hanno la sua impronta la sua smorfia e nessuno è “vero„ nel senso banale e comune; ma tutti sono alterati dalla fantasia balzacchiana e marchiati dal suo pollice personalissimo.

  Borsi e Palazzi con un miracolo di intuizione e la pazienza di un sacrificio hanno tradotto i capolavori; e non si sa se più ammirare l’interpretazione del francese o il travestimento italiano. Curioso artista questo Palazzi che a vederlo in atto di scrivere una di quelle sue critiche amarognole e caustiche par mansuetissimo, ma le parole gli escon dalla penna arroventate e quasi incisive e il sorriso frequente nasconde una maliziosa ironia che, nata nelle Marche, ha fatto la punta sulla cote manzoniana.

  Questo lavoro di traduzione essi hanno compiuto provando le parole una ad una e scegliendole dai testi con cura da collezionista, palato da ghiottone, e circospezione da venditor di diamanti. Simili nell’atto di misurar le espressioni a quel goldwäger dipinto da Quentin Massys in un quadro che è al Louvre e raffigurato mentre pesa ciascuna moneta d’oro sur una bilancetta a mano, avendo vicino sul tavolinetto, la lente e la pietra di paragone.

  Il Borsi ha usato una lingua d’impronta quattrocentesca e però un po’ gotica e magra, ma il Palazzi si è tutto abbandonato ad una parlata più tarda allattata dalle grasse Muse dell’Aretino e del Doni e fattasi sanguigna e ricca nel contatto con la carnalità e con l’allegria godereccia sbottata da tutti i periodi dei due cinquecentisti.

  Nessuna freddezza archeologica però o preziosità da Museo: con certe martellature ben aggiustate e raffinati tornimenti; la lingua morta è divenuta vivissima, ha fatto uscir di crisalide gli eroi e le eroine del decameronetto francese.

  In grazia di quella magia e di quella triplice arte le mie notti non avevano confini, e le camere della casa ospitale non conoscevano più solitudini, anzi affollate di fantasmi e risonanti.

  Ma un oscillar di fiamma o fuori un canto di civetta o un lamento di chiù bastavano a romper l’incanto della fantasia e dell’arte. Allora i miei occhi si posavano sovra il ritratto della Dama dalle perle in cui una raffinata abilità ha concentrato la luce e dato risalto al lume della collana, degli occhi verdognoli, del sorriso sensualissimo ma dolente.

  Forse l’Étrangère alla quale Onorato di Balzac dedica le speranze e il genio, inchiodato dall’ostinazione alla tavola di lavoro è forse una contessa senese che ha bevuto l’acqua di Fonte Gaia e per le finestre del palazzo Sansedoni, in giornata di Palio, protesa come una belvetta, ha gridato il pollice verso alle bandiere della contrada nemica.

  Certo un’espressione patetica ed appassionata dell’eterno femminino al quale si offre tremando e senza ricompensa, l’opera e l’anima.


  Cambronne, Notizie da Parigi, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 20, 25 Ottobre 1921, p. 46.

  Père Goriot dal romanzo di Balzac, è stata presentata il 4 corr., alla sala Marivaux. Insuperabile l’interpretazione del grande attore Signoret. Il resto poco interessante. Troppa teatralità e niente cinematografo.


  Massimo Caputo, Signorine d’America, «Noi e il Mondo. Rivista mensile de “La Tribuna”», Roma, Anno XI, N. 1, 1° Gennaio 1921, pp. 37-40. 

  p. 37. Dopo il matrimonio, la vita della donna si divide — non sempre, ma talvolta sì – ancora in tre periodi: la fedeltà al marito, la fedeltà all’amante, la fedeltà all’avventura. Le signorine possono proseguire.

  Non faccio mai dell'immoralità e per la ultima parte del paradosso mi trincero dietro a Balzac, il quale, dopo lunghe ricerche statistiche, venne a questa conclusione: nella sola Francia si hanno tre milioni d'avventure da contrapporre a quasi centomila donne oneste.


  Giovanni Casati, Balzac, in I Libri letterari condannati dall’ “Indice”. Saggi con Prefazione di S. E. il Card. Pietro Maffi, Milano, Tipografia e Libreria Pontificia ed Arcivescovile Romolo Ghirlanda, 1921, pp. 209-221.

  Onorato di Balzac (1799-1850), di Tours. Dopo lunga serie di insuccessi, esordì con la Physiologie du mariage, lavoro licenzioso, e con la Peau de Chagrin; da poi, in venti anni di infaticato lavoro, pubblicò ben 97 volumi, sotto il titolo Comédie humaine, ripartita in diverse «scene»: della vita privata di provincia, parigina, politica, di campagna; in essa riproduce forse 5000 caratteri diversi descritti con minuzia, creatore del romanzo di costumi.

  Si ritengono nominatamente vietati:

  Le lis (sic) dans la vallée; Physiologie du mariage ; Le livre mystique ; Les cent contes drôlatiques; Nouveaux contes philosophiques; Contes bruns; l’Israëlite (sic); l’Excommunié; Un grand homme de province à Paris, Berthe la repentie, conte drôlatique; Jane la Pâle; Le vicaire des Ardennes; La femme supérieure; La maison Nucingon (sic); La torpille; Le père Goriot; Histoire de treize (Ferragus ; La duchesse Langais (sic); La fille aux yeux d'or); Splendeurs et misères des courtisanes; Esther heureuse.

  Altri romanzi d’amore impuro sono verisimilmente condannati:

  La cousine Bette; Honorine ; La femme vertueuse ; La femme abandonnée; La femme de trente ans; La fausse maîtresse; Béatrix; La grande Brétêche (sic); Le Colonel Chabert; Une passion dans le desert (sic); Contre-amour (?, sic); Sarrazine (sic), etc.

  Possono ritenersi inoffensivi almeno per adulti e non inclusi nella formula fabula amatoriae:

  César Birotteau; La recherche de l’absolu (l'alchimista che cerca di tutto trasformare in oro); Pierrette (facilmente purgabile); Le médecin de campagne (insinuazioni contro il clero, amori rusticani); Le curé de village; L’illustre Gaudissart; Eugénie Grandet; Ursule Mirouet (magnetismo); Un (sic) ténébreuse affaire (romanzo poliziesco); Les Chouans (romanzo storico con intrigo amoroso); La Vendetta; Le Cousin Pons.

(Da Romans à lire et romans à proscrire di L. Béthléem [sic]).

  I. – Un onesto traduttore di alcuni romanzi di Balzac nel 1838 o giù di lì, si faceva dovere di annotare nella prefazione alla traduzione del Cesare Birotteau:[4]

  «La lettura delle opere di Balzac non suole inspirare uno straordinario buon concetto del cuor umano. Un avaro che sforza il fratello a torsi la vita nell’infamia anziché privarsi d’un obolo dei suoi quattordici milioni; una fanciulla che tutto ha sagrificato per salvare l’onore di un cugino, rimeritata coll’abbandono e poco meno che col disprezzo; l’esosa improntitudine di due figlie che veggono morirsi dall’inedia un padre che spogliarono e trassero a lunga morte, nè tampoco pensano a concedere onore di tomba al povero vecchio che la sua vita, ogni suo bene ripose nel vederle felici; un beffardo sorriso volto alle più sante virtù, la turpitudine de’ vizi considerata come conseguenza dell’umana natura, il cuore tenuto puramente come un viscere, il cervello come veicolo di esterne impressioni, l’uomo come una macchina mossa dal caso, il dare e l’avere unica verità, il soddisfacimento de’ bisogni unico piacere, la mala fede, le frodi, lo scherno di ogni sociale virtù coronati da ottimi successi, che passeggiano vanitosi e inchinati fra la virtù raminga e cenciosa, tutto al più dimenticanza alle prime nè una parola di conforto alla seconda, sono desolanti quadri di società presentati dal grande anatomico del cuore umano».

  Chi dettava questo severo, ma giusto giudizio, traduceva e riduceva pel colto pubblico italiano, la Storia della grandezza e decadenza di Cesare Birotteau profumiere. Cavaliere della Legion d’onore, aggiunto al Maire del secondo distretto della città di Parigi, scritta da Onorato Balzac.

  Il misero Cesare Birotteau, buon uomo in fondo, fatalmente aveva assorbito l’atmosfera di cui era pregna quella società che il Balzac vedeva come sola e veramente esistente, e di quell’atmosfera avvelenata rimaneva vittima, quasi incosciente, senza che nessuna forza, nè famigliare o religiosa, nè morale o civile, potesse trarlo dalla fatale rovina.

  Quello che Leopardi filosofò nelle sue Operette morali, Balzac dipinse, come romanziere, ad arte nobilitando, per così esprimermi, il mestiere del cronista, nel tesser le vicende de’ suoi personaggi, con evidenza di caratteri e di fatti, come nella cronaca degli avvenimenti veri.

  Pessimismo o scetticismo, o satira? Forse e l’uno e l’altro e l’altra, a formare quella Commedia umana, che doveva essere il titolo generale del ciclo romantico del Balzac.

  Fisiologo profondo, il romanziere fu anche patologo, ma non vide del cuore umano che le malattie; del Leopardi non ebbe l’impeto del poeta, ma la freddezza, quasi il calcolo, del filosofo; non assurse a considerazioni civili, benché di considerazioni sue riempisse le pagine, non fe’ la sintesi di tempi universali e di età sia pur miserrime, accontentandosi di dipingere i costumi, e ne’ costumi gli animi depravati, ritenendo ciò universale condizione della società umana; onde fu detto il suo, romanzo di costumi.

  II. — Gli intrecci a cui l’egregio traduttore allude, non sono però del libro ch’egli con un fondo di buona coscienza riduceva, ma di altri romanzi, e primo di tutti, di quella Eugenia Grandet, spirito sì soave e buono, e sentimentale, messo apposta per render più duro il contrasto delle anime infami e tiranniche di suo padre, ed anche del cugino da lei protetto.

  In ogni romanzo di Balzac il protagonista non è mai dissimile da quello del signor Grandet padre di Eugenia; tipo che, negli Impiegati, Balzac così descrive nella persona del signor Clemente des Lupeaulx:

  «Costui era egoista e vano, pieghevole e fiero, libertino e goloso, avido di denaro a causa dei suoi debiti, muto come una tomba, dalla quale nulla esce per non smentire l’iscrizione fatta solo per chi passa, intrepido e senza paura quando sollecitava qualche favore, gentile e spiritoso, in tutto il significato della parola, e beffardo a tempo; inoltre era disposto a far mercato di sè e così abile da compromettere gli altri con una carezza come con una gomitata; volterriano accanito andava a Messa nelle chiese più frequentate quando vi era raccolta molta gente. Insomma il segretario generale rassomigliava a tutte le mediocrità che sono per il mondo politico il famoso punto d’Archimede. Sapiente della scienza altrui esso aveva assumo con tutti la parte di uditole; certo non ce n’era altro più attento ed allo stesso modo, per non destare sospetti, si profondeva in adulazioni fino alla nausea s’insinuava come un profumo ed era prodigo di moine al pari di una donna svenevole».

  Ma fu proprio questa così generalizzata società umana fatta di finzioni e di ipocrisia meditata, la società vissuta da Balzac? O fu esso pure il romanziere di quella scuola di reazione alla Restaurazione o, meglio di rivoluzione dei principi della società religiosa, di coloro che, professando una religione naturale, si sbizzarrirono a raccontare tutti i mali della società ispirata al cristianesimo? O fu la sua un’arte esagerata, di realismo, che lo portava a vedere e a copiare solo il male, e a dare ad esso solo ragione di movente nell’umano consorzio, appunto per un errore filosofico di generalizzazione?

  Un critico moderno, Giuseppe Gigli 1), così ragiona di lui: «Il Balzac ha con le lettere e la morale un gran torto; considerò l’uomo solamente dal lato peggiore: entrò con le sue opere nei più cupi misteri del vizio, ne cercò sto per dir la poesia, accompagnandolo spesso a grandi qualità, a sublimi talenti, quasi sforzando l’uomo, se non ad inchinarglisi, a compatirlo. I suoi quadri, i suoi caratteri sono il più delle volte di siffatta morale difformità, sì tetri, sì neri, che ti serrano il cuore. Non più sincerità o purezza d’amore: finti bugiardi, venali i legami dell’amicizia: fragili, nulli quelli della famiglia; non ha più virtù sulla terra, non un cuore che senta che compatisca, su cui posare il capo nella sventura; l’egoismo è il re dell’universo. L’uomo non può fidare in altri che in se medesimo, o nelle onde che passano sotto il Pons (sic) des Astres a Parigi. Tale è l’uomo, tale è la Società del Balzac, questi sono i quadri che nell’infinita varietà delle loro modificazioni ei ci presenta, onde se ne lascia la lettura con profondo abbattimento, con disgusto di quanto sussiste, e l’uomo sente di stimar meno se stesso. Oh invero rara vocazione delle lettere, che Cicerone chiama il compito della vita! Foedora, madama Evangelista, le Goriot, quali mostri! quale strana anomalia, quale atroce eccezione alla legge ordinaria di quella cara ed affettuosa creatura che si chiama la Donna! Chi può leggere senza un capriccio d’orrore le arti sataniche, la fierezza, la perfezione direi quasi di crudeltà con cui quella tigre creola immola alla propria avarizia quel misero Fleur de pois, il genero, lo sposo della non men malvagia figliuola? Chi può tenersi dall’imprecare, dallo scagliare da sè lunge quel libro ov’appare l’atroce figura di quell’equivoca contessa, di quell’odiosa Foedora, la quale, come l’agnello che si affoga nel latte materno, fa ministri della infelicità, della disperanza, della perdizione del misero Raphael (sic) quegli stessi sentimenti che il doveano rendere beato?

  «La durezza di quel cuore che nessuna pietà non ispetra, quella insensibil freddezza che non si scalda mai a nessun sentimento, quella vanità, quell’adorazione di se medesima, per cui, quasi ad olocausto al nume spietato, ell’ha d’uopo di sacrificargli sull’ara la felicità dell’uomo che ha la sventura d’abbattersi seco, passano quasi il segno del possibile, o se tali mostri pure si danno, perché porli dinanzi allo sguardo? Qual diletto può sentir l’animo nell’affisarsi in sì desolante spettacolo di degradazione della nostra natura? Qual cuore sarà reso misero da pagine sì disumane? E questi quadri son tanto più desolanti quanto più mirabile e singolare è l’ingegno, con cui sono ideati e condotti. Imperciocché nessuno penetrò mai più addentro nei segreti del cuore umano, nè ritrasse con maggior evidenza e particolarità l’indole delle varie passioni, quanto il signor di Balzac. I caratteri dei suoi personaggi così minutamente descritti, tratteggiati, svolti nelle più riposte lor pieghe, ch’ei ne mette in vista fino a’ più intimi e secreti pensieri, ne conta, ne ragiona gl’intimi movimenti, le impressioni, le successioni delle idee, notomizza, sto per dire, l’anima ne’ suoi vari principi, ne mostra le operazioni di tutte le sue facoltà, quasi una macchina materiale ch’ei risolve e scompone nelle varie sue parti a farne conoscere la particolare efficacia d’ognuna e render ragione degli esteriori suoi effetti».

  III. — Dettata questa magnifica pagina, il Gigli tenta un salvataggio di Balzac: «La questione della moralità nell’arte è antichissima, e in ogni tempo diede luogo a discussioni e polemiche. Nel caso speciale diremo ch’era difficile che una rappresentazione della vita, così fedele e così completa, come quella fatta dal Balzac nella Comédie Humaine, non attirasse sul suo autore il rimprovero appunto d’immoralità. Egli stesso ben lo sapeva, e nella prefazione generale all’opera sua se ne difende ironicamente, asserendo che «le reproche d’immoralité, qui n’a jamais failli à l’écrivain courageux, est le dernier qui reste à faire quand on n’a plus rien à dire à un poète. Si vous êtes vrai dans vos peintures, si à force de travaux diurnes et nocturnes vous pervenez (sic) à écrire la langue la plus difficile, on vous jette alors le mot immoral à la face».

  «In fondo, egli considera il romanzo come un episodio storico, e la sua Comédie Humaine come la storia della società del suo tempo. La storia registra gli avvenimenti quali sono e accanto a fatti onorevoli e grandi pone fatti brutti e vergognosi: il romanzo quale descrizione e rappresentazione della vita umana ne chiede gli stessi diritti, e perciò non può sempre narrare gli atti virtuosi de’ suoi personaggi, quando questi sono specialmente delle canaglie o peggio.

  «Così accanto a figure di anime buone e gentili, come Pierrette Lorraine, Ursule Mirouet, Marguerite Claës, mademoiselle d’Esgrignon, Madame Firmiani, Costance Birotteau, Eugénie Grandet, Paoline de Villenoix, Agate Rouget, Joseph Lebas, il Médecin Mirout, il Curé Chaperon, David Séchard, i due Birotteau, e altre molte, ve ne sono di perverse come Gobseck, l’usuraio, le figlie di Goriot, Flore Brazier la cousine Bette, la società dell’Histoire des Treize, con a capo Ferragus, Vautrin, il forzato, evaso dal bagno, ch’è l’eroe di parecchi racconti balzacchiani, Luciano di Rubempré, il conte De Tours-Minières, e altre ancora. È una vera teoria di figure umane, create dalla fervida fantasia dell’autore, che passa innanzi al lettore della Comédie Humaine, e lo meraviglia e l’esalta: l’immoralità di molte di esse passa quindi in seconda linea».

  Per meglio sviluppare questo concetto del realismo, è bene sentire un altro celebre critico che scrisse di Balzac, Ferdinando Brunetière 2).

  «Il realismo, egli dice, vuol essere la riproduzione fedele di ciò che è, poco importando al romanziere se sia bene o male; egli studia, approfondisce nella disamina; è un zoologo che dice le qualità di questo animale uomo, non preoccupandosi di quello che dovrebbe avere; non è colpa sua se l’uomo è così, come non è colpa del zoologo se la tigre è feroce e non è invece mansueta come un agnello. Così sfugge al realismo ogni elemento che tenda a migliorare il lettore, di cui apparentemente lo scrittore non si preoccupa, elemento tolto da principî superiori che il romanziere di fatto non ha trovato nel suo studio».

  Onde Brunetière accosta Balzac al suo contemporaneo Augusto Comte, che pubblicò il Corso di filosofia positiva in quello stesso 1842 in cui veniva pubblicata la Commedia umana; questa è il positivismo in arte, è la vita ridotta a pura scienza; nulla di astratto, nulla di personale, ma l’empirismo e le sue regole applicate anche all’anima umana: era lo spirito del tempo, e Balzac ne fu l’esponente.

  La morale non ha a che vedere con l’arte così concepita; ma nemmeno lo spirito; onde anche agli idealisti il realismo dispiacque; Balzac non piaceva e non pareva gran cosa al Mazzini; quell'attardarsi nella pittura dell’uomo bestia lo faceva da lui uguagliare alla infinita schiera dei pigmei; ammetteva che il male possa essere movimento per spiccare il volo al bene; che in arte, secondo il detto di Boileau, non siavi mostro odioso che non possa esser reso piacevole agli occhi 3), ma quando l’artista si compiace di celebrare i saturnali del senso, e dà non l’uomo ma l’animale, l’emozione estetica si dilegua di fronte alla protesta della nostra spiritualità personale 4). Cesare Cantò aggiunse più severa critica, scrivendo: «Balzac, con acuto vedere, potente descrizione, arte d’appropriarsi l’altrui, piacque anche a gente seria, prima che s’abbandonasse alla sensualità, alla quale pretendendo mescolare non so che di spirituale, produsse un bastardume indecente» 5).

  Non fu del medesimo parere invece Francesco De Sanctis 6). «Nel padre Goriot di Balzac ed in Triboulet (di V. Hugo), l’arte, secondo Saint-Marc Girardin 7), è materialista, perché in costoro l'amor paterno è piuttosto istintivo che ragionevole. Qui non c’intendiamo più. Sono materialisti i personaggi rappresentati, non è materialista l’arte. E un grosso equivoco in cui cade il critico. E da quando in qua non sarà lecito al poeta di rappresentarci la parte istintiva dell’uomo? Non è suo uffizio di cogliere i sentimenti in tutte le gradazioni che hanno nell’umana natura? Adunque un poeta od un romanziere non può rappresentare un uomo come Goriot e Triboulet? Il poeta è materialista, quando non sa far muovere quell’istinto, quando rimane ne’ confini del mero reale. Ma se quell’istinto è una forza viva, genera dolori e gioie, che pone in travaglio tutte le potenze dell’anima, che avete a dirci voi? Il poeta ha creato un capolavoro. Nè so perché dobbiate cacciarmi fuori della poesia gli uomini materialisti, come li chiamate, ovvero istintivi, che sono forse le più attraenti creature poetiche».

  Alla quale opinione del De Sanctis si può in parte sottoscrivere, non essendo detto che la descrizione del male sia da escludersi affatto dalla letteratura. Ma quando il De Sanctis medesimo viene a dire che quella descrizione non deve finire ne confini del mero reale, ma generare dolori e gioie, apre precisamente la via al problema etico che vuol essere considerato. Come il male genera dolori e gioie? e come è considerato dallo scrittore che va trascinando il lettore a ugual considerazione? E poiché la considerazione nasce innanzi tutto dalla descrizione, quali sono i termini della dipintura del male? Balzac, pur suscitando dal male dolori e gioie, s’è ben guardato di sfiorare un profondo quesito di morale sociale e individuale al cui confronto è giuoco forza che quel male, e quei dolori e quelle gioie, abbian da venire, almeno per la gente onesta; e non sfiorarlo significò negarlo, come più apertamente professarono i suoi discepoli in arte; e universalizzare quell’impero del male, senza correttivo alcuno, fu ancor più grave difetto.

  I realisti moderni tengono Balzac per loro capo; ma egli si distacca affatto, o almeno non fa professione di essere dei loro, di quella scuola cioè, che con Stendhal, Hugo, Dumas, Flaubert, vilipese la società ricostruita su base più cristiana. Per quanto Balzac, ad esempio nello Scomunicato, applichi la stessa teoria del calcolo alla religione e alle sue istituzioni: il principe, per togliersi un nemico, lo uccideva, l’abate lo scomunicava, ed entrambi nella più perfetta buona fede! e il Brunètiere asserisca che non diversamente nei romanzi di Balzac siavi il quadro della Restaurazione, (cita il Cesare Birotteau, tipo di quella società): se i romanzi di Balzac non sono storie nel senso stretto della parola, e lo son meno ancora quelli ch’hanno titolo storico, hanno però un significato e un valore storico; come il Birotteau, papà Goriot, che gli si avvicina molto, è un tipo della Restaurazione, completato nella educazione delle immorali e crudeli sue due figliuole, dalle perfidie di Vautrin, il tristo consigliere del giovane Bergerac (?, sic), quadro di nefandezze e di pietà che pel Balzac dovrebbe rappresentare la società di quel tempo.

  IV. — Onorato di Balzac fu non solo uno dei più fecondi romanzieri del suo tempo, ma lasciò più d’ogni altro traccia nel popolo francese, che a lui più che ad altri dedicò accademie e circoli, che l’effigie sua ritenne sempre come simbolo di qualcosa d’idealmente francese.

  Forse contribuì a questo la vita stessa bizzarra dello scrittore, il suo fervido genio, l’opera voluminosa, poderosa, la tenacità e sovrattutto l’instancabilità inesauribile del suo lavoro. Si dice che, preso tutta la vita da mania di speculazione commerciale e indebitatosi chi dice di 200 mila, chi di due milioni di lire, bene o male riuscisse poi a pagare. Dettava più romanzi per volta, tenendo gli amanuensi separati in varie stanze, tormentatissimi da lui che da l’una a l’altra passava, in preda ad esaltazione; dettava più che altro tracce, le quali poi passavano allo stampatore, tracce che rivedeva in seguito, per ritornarle mutate affatto, con lunghe aggiunte di volta in volta, talora fino alla 18a prova, con quali noie e lamentele ognun pensi, fino a dare completo il romanzo, che, per la fretta, mancò quasi sempre di perfezione, sebbene indicasse una mente poderosa.

  Fu la vita del romanziere provata dalle traversie e dalla sconoscenza, dalla dimenticanza; tantoché la sua fama prese a brillare dopo la sua precoce morte, rimpianta come quella d’un genio. Tipo bizzarro, un originale di primo ordine, fu suo padre, dalla conversazione col quale assai prese il figlio pe’ suoi personaggi. Era poi metodo del romanziere uscendo di teatro tener dietro inosservato a qualche comitiva di popolani, udire i loro discorsi, che dalla rappresentazione teatrale finivano negli interessi, e appena a casa, buttare in carta tutto il vivo dialogo udito.

  Anche da ciò si comprende come l’arte descrittiva del Balzac fosse eccessivamente minuta; il Guerrazzi (nella Torre di Nonza) gli fe’ l’appunto che ne’ romanzi fosse simile a un notaio che faccia l'inventario di tutto ciò che vede e prova, infastidendo il lettore.

  «Non sono mancati in Balzac, scrive il Prof. Anile 8), influssi scientifici, ed è noto che egli era a conoscenza delle ricerche di Buffon e di quelle di Lamark (sic). Ma, a differenza dello Zola, e per fortuna dell’arte, egli non sottomise la sua ispirazione a vantaggio di un postulato scientifico. Il Sighele ha torto quando ci vuol dimostrare che il Balzac considerava la società con metodo naturalistico. Il Sighele dice il Balzac precursore inconscio di ciò che è il caposaldo della scuola positiva italiana. Cita il passo ove parla dell’assassino Tacheron: «un tratto della sua fisionomia confermava una asserzione del Lavater su le persone destinate all’omicidio: egli aveva i denti anteriori incrociati.» E l’altro, ove Bautrin (sic) dice ad Esther: «voi non potete essere che una donna fatta per l’amore e, malgrado le più seducenti teorie degli allevatori di bestie, io penso che quaggiù non si possa divenire che quel che si è».

  Si dice che Balzac fosse cattolico e monarchico, benché ai correligionari politici inviso. Ma ne’ suoi libri affetta indifferenza di principî. Alla religione, al cattolicismo fu astratto come alla politica, anche quando parve trattarne espressamente.

  Nella prefazione alla Comédie Humaine, dice: «Il cristianesimo specialmente, essendo come dissi nel Medico di campagna, un sistema completo di repressione delle tendenze malvagie dell’uomo, è il maggior fattore dell’ordine sociale».

  E più avanti:

  «Io scrivo al lume di due eterne verità, la religione e la monarchia, due necessità che gli avvenimenti contemporanei proclamano, e verso i quali ogni scrittore di buon senso deve tentare di ricondurre il nostro paese». È vero, scrive il Gigli nel libro citato, che dichiarazioni simili non eran troppo credute, specialmente se orientate a quel modo; onde Giuseppe Capparozzo, arguto poeta vicentino, scriveva l’epigramma:

Un dì fra gli Arcadi

D’amor cantava

Chi non amava,

Or fra i Romantici

Fa chi non crede

Inni alla fede.

  Se il Balzac ha pagine insuperabili sulla religione cattolica e sulla missione del sacerdozio (come nel Curato del villaggio), toglie in libro di uguale indole (Il Medico di campagna) l’aureola già posta per contrapporvi la filantropia del medico. Prete, medico e avvocato, a lui che trattava le piaghe sociali, furono i tre personaggi indispensabili di ogni romanzo. Patologo del cuore, prese anche grande interesse alle malattie fisiche, di cui i suoi romanzi abbondano; se v’ha del romantico nella vita, la malattia vi ha gran parte. Espone anzi nel Medico di campagna la sua teoria pratica, sul compito di quelle tre classi, teoria che ripetè a più riprese, e compendiò in una novella, Le colonel Chabert:

  «Vi sono tre uomini nella nostra società che non possono aver stima del mondo, il prete, il medico c l’avvocato, tre uomini che veston di nero perché portano il lutto di tutte le virtù, di tutte le illusioni. Però il prete è nelle migliori condizioni, perché quando l’uomo viene a trovare il prete, vi arriva cacciato dal pentimento pei rimorsi, per le credenze che lo rendono interessante, che lo fanno grande, e consolano l’animo del sacerdote, la di cui fatica non è mai senza gioia, perché egli purifica, ripara e riconcilia».

  Belle parole, invidiabili, se stesser da sole, se non coronassero come epilogo storie tanto desolanti sull’umana virtù, se della religione Balzac avesse avuto un concetto più vero, come di azione divina di grazia, capace di sanare quegli individui e quella società che egli non ritenne affatto sanabili!

  Religione fu per il Balzac anche il magnetismo, di cui fu entusiasta ed infatuato (il Gigli ricorda in proposito un gustosissimo aneddoto, essendosi a Milano il romanziere coperto di ridicolo). Nel romanzo Orsola Mirouet, mediocre assai, il dottor Mirouet, che adotta la piccola Orsola, si converte alla fede, da enciclopedista che era, per virtù del magnetismo e della telepatia, diventando così religioso fino allo scrupolo; e Gesù Cristo vi appare poco meno che un grande magnetizzatore.

  V. — L’abitudine di filosofare sui fatti narrati, e quindi di generalizzare a sproposito, fu forse una delle pecche peggiori del romanziere. Il risalto dei fatti è dato sovente dalle riflessioni che ei vi fa: e quella immoralità oggettiva è duplicata e resa più accasciante dallo stesso ragionamene che trascina il lettore. Il romanzo La Pelle di zigrino, ad esempio, ne è pieno: il piacere e la dissoluzione di una bisca, il giocatore vecchio e il novizio, il misto di voluttà e di disperazione che fa dire al Balzac: «quaggiù nulla è completo, tranne la disgrazia»; il suicidio terribilmente descritto: «esiste un certo che di grande e di spaventevole nel suicidio ... ogni suicidio è un sublime poema di melanconia»; il male, che non è che un violento piacere; Foedora, la donna senza cuore, ingannatrice, che è dappertutto, che è la società: è una abominazione di fatti e di idee.

  Dopo aver descritta la rassegnazione pecorina delle donne di casa Grandet che dominate dall’avarizia crudele di lui, pur suggerite dal confessore, ringraziavan la Provvidenza d'esser tanto fortunate, Balzac soggiunge, bestemmiando:

  «Se dei filosofi si trovassero a contatto con donne come Nannina, come la signora Grandet, come Eugenia, non avrebbero forse il diritto di asserire che l’ironia è l'elemento essenziale della Provvidenza?».

  Il nome di Provvidenza spesso corre nei libri di Balzac, ma non è la Provvidenza dei Promessi Sposi, cioè lo scudo divino che protegge di preferenza i poveri, i tribolati e i perseguitati, che vuole il trionfo della loro felicità terrena, col castigo del persecutore, castigo cui però non è estranea la voce della misericordia; ma è la Provvidenza che muove gli avvenimenti del Conte di Montecristo o di Giovanni Valjean, cioè un agente romantico, che trae le fila al termine della vendetta raggiunta, del castigo imperdonabile, delle rivendicazioni individuali più complete e senza pietà». Un non so che di senso penoso, come d’evocazione di qualcosa di misterioso, che non risponde al concetto cristiano, lascia pure il nome di Dio sovente adoperato in questi romanzi; come leggendo Victor Hugo, come leggendo Dumas, prima che l’abitudine formi l’orecchio e la mente; tanto è lontano il Dio vero della religione nostra!

  E la virtù, anche nel senso di bontà d’animo, non ha men falso concetto. Esiste, ma è quella di Eugenia Grandet. Cioè una virtù incosciente di sè, sorta in una ignoranza supina del mondo, accanto al più perverso calcolatore qual è il babbo suo, virtù che dura così finchè non c’è lotta, una cosa tutta passiva; e poi, una remissione, benefica e santa se si vuole, ma sotto lo schiacciamento totale della sventura operata dai tristi: poiché tutte così, in una grande pietà, finiscono le eroine di Balzac.

  Due moventi soli ci sono veramente nel mondo, l’amor proprio e l’interesse (Eugenia Grandet, c. IV); e poiché in fondo questo si riduce a quello, l’egoismo è il vero padrone dominante, l’avaro il vero tipo dell’uomo che regna, che ingrassa il debole, lo scanna, lo divora e lo disprezza.

  Qui Balzac rivela lo spirito a cui informò la sua vita privata: l’interesse, movente vero d’ogni cosa. Avvocati, professori, preti, medici passano sovente ne’ suoi romanzi; ma il fulcro di tutto, il personaggio vero che domina è l’interesse, l’uomo ad esso venduto; e perciò notai, causidici, banchieri, usurai e falliti sono il fondo della società vera, del mondo vissuto da Balzac.

  La morale, unica nella società, è l'applicazione esatta di quel principio:

  «Gli avari non credono punto alla vita futura, poiché per essi il presente è tutto, e questo medesimo concetto diffonde una luce orribile sul mondo odierno, ove più che mai il denaro domina leggi, politica e costumi. Istituzioni, libri, uomini e dottrina cospirano insieme a scuotere la credenza in un’altra vita, credenza su cui da diciotto secoli si basa l’edifizio sociale. Tuttavia ci troviamo quasi allo stesso punto, poiché l’avvenire che ci attendeva al di là del requiem fu trasportato nel presente. Giungere per fas et nefas al paradiso terrestre del lusso e delle gioie vanitose, pietrificare il cuore e macerarsi il corpo nell’ansia di beni passeggieri, come un tempo si soffriva il martirio per acquistare i beni eterni, ecco l’idea di tutti, l’idea stabilita e concretata in ogni luogo, financo nelle leggi, le quali domandano al legislatore: Cosa paghi? invece di dirgli: Che pensi?» (ivi, c. 111). Non dissimili sono gli insegnamenti egoistici e subdoli di Vaudrin (sic) in Papà Goriot e di quanti altri!

  Su verità spaventosamente vere e che pur oggi tocchiam con mano, Balzac ha edificato generalizzando fino all’esclusione del principio del bene, la sua teoria del male: il bene non esiste nella società o è una chimera.

  A rendere più ributtante il quadro, in quello stesso romanzo che va tra i migliori ed è de’ più morali, il Balzac non solo fa grandeggiare il suo triste eroe; ma pur quello che desta pietà, cioè la sua vittima, il figlio superstite di suo fratello che non aiutato dal milionario s’era suicidato per debiti; questo nipote salvato dalla pietà di Eugenia che l’amava, ritornato ricco, dà il calcio alla fanciulla, scrivendole per rinunciare al matrimonio con lei: «Ho appreso dall’esperienza che bisogna piegarsi alle leggi sociali e riunire nel prender moglie tutte le possibili convenienze». Perciò, pur sentendo d'amarla anche per debito di riconoscenza, sposa un’altra non amata.

  E la pietà che la misera c’infonde, sì infelice nel cumulo delle ricchezze ch’ella, rimasta vedova a trent’anni d’un matrimonio a cui fu costretta, usa a beneficare i poveri ; e il profumo di quell’anima non tocca dai calcoli dell’interesse, e di quel cuore aperto ai più dolci sentimenti, che del danaro si spropriava, quasi anelando a un po’ d’affetto che pur le sfuggiva per la diffidenza che il danaro stesso che possedeva comunicava intorno, colle tinte sue scialbe in quella vita celeste; e quella mano di lei che molceva le secrete afflizioni di ogni casa, non valgono, pur con potenti luci di contrasto, a sanare la filosofia malsana che si traduce dal romanzo.

  Note. [La numerazione è nostra].

  1) Giuseppe Gigli, Balzac in Italia, Treves, 1920, pag. 117 e seg.

  2) Ferdinand Brunetière, Honoré de Balzac, Paris, Calmann Lévy.

  3) Il n’est point de monstre odieux

   Qui par l’art imité ne puisse plaire aux yeux.

  4) Felice Momigliano, Scintille dal roveto di Staglieno, pag. 125.

  5) C. Cantù, Storia dei Cento anni, vol. II.

  6) F. De Sanctis, Saggi critici, Napoli, A. Morano, 1920, pag. 24.

  7) Cours de littérature dramatique.

  8) Antonino Anile, Nella scienza e nella vita, Bologna, Zanichelli, 1920.


  Giuseppe Cauda, Un degno emulo del Vestri e del Taddei – Un’esimia attrice a torto dimenticata - Alamanno Morelli giudicato da Francesco Augusto Bon - Francesco Regli - La breve e gloriosa carriera artistica del Gottardi - Il figlio della Romagnoli, in Al proscenio ed a lumi spenti. Profili, Aneddoti, Confronti, Impressioni, Indiscretezze, Curiosità, Giovani promesse, Chieri, Premiata Officina Grafica Gaspare Astesano, 1921, pp. 39-74.

  pp. 41-44. Quando Ernesto Rossi formò una Compagnia per gli anni 1857-58-59, volle con sé Gaetano Gattinelli, come caratterista, promiscuo e direttore. […].

  Terminato quel triennio, che procurò immense soddisfazioni al Gattinelli, questi andò a dirigere la nuova Compagnia dell'Italia Centrale.

  Intorno alle interpretazioni che egli dava del Luigi XI e della Figlia dell’avaro, riproduco i giudizi emessi da alcuni giornali. […].

  Dal Sistro: «Balzac, nella Figlia dell’avaro, temperò l’abbiettezza dell'uomo che ha posto ogni gioia nella vita del denaro e divise il cuore di Grandet fra il culto dell’oro e l’affetto per la figlia sua, in prò della quale egli accumula tante ricchezze; e allorché questa, per salvare il padre di suo cugino, prossimo a fallire, invola una parte del tesoro dell’avaro vecchio, Grandet, combattuto, oscilla fra i due affetti che abbiamo detto, che più vivi si agitano in lui nel terribile momento. Di qui una varietà di tinte, una potenza di contrasti e di chiaroscuri, alla cui retta interpretazione abbisogna l’ingegno di un artista eminente. «E Gattinelli mostrò d’esser tale: in una scena istessa, dal comico entrò nel drammatico con una delicatezza di passaggi che mai la maggiore; artista colto com’egli è, intese e sviluppò il carattere dell'avaro quale l’ha concepito l’autore; né una parola pronunciò, nè fece un sol gesto che in sé non chiudesse un concetto, il quale non servisse a maggiormente delineare l’indole del personaggio rappresentato. Fu vero, ma vero artisticamente ; e in questo dramma, nel quale, al dire del Gauthier (sic), riuscì di gran lunga inferiore alla comune aspettativa il Bouffet, uno degli artisti più valenti dell'odierna scuola francese, il Gattinelli fu, direi quasi, collaboratore del Balzac nè si creda la frase esagerata, perché chi ha assistito alla recita della Figlia dell’avaro, converrà meco che molte pennellate, le quali l’autore non pensò a dare alla sua dipintura, il Gattinelli maestrevolmente segnò; insomma, per dirla finalmente in una ei fece tutto ciò che l’autore aveva posto nel Grandet, e ciò che quegli aveva obliato, inventò e compose esso medesimo. «Ragione vorrebbe che qui per me si chiarissero e si esplicassero minutamente tutte le bellezze che il Gattinelli spese con rara prodigalità d’artista nell’interpretazione del Papà Grandet, e si dicessero le sfumature con intelligente delicatezza accennate, e la savia parsimonia del gesto, e i giochi molteplici e opportuni della fisonomia; ma vi ci sarebbe da fare un trattato di estetica, e lo spazio concedutomi da questo giornale non consente ch’io mi addentri nell’argomento».


  G.[iovanni] A.[lfredo] Cesareo, Critica d’arte. I. La fantasia riproduttrice, in Saggio su l’arte creatrice. Seconda edizione riveduta e aumentata, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1921, pp. 219-222.

  p. 222. La fantasia riproduttrice imperfetta è, per il gusto, quello che l’arte immaginifica per il genio. E poiché quella specie di fantasia è incomparabilmente più ovvia che non la fantasia riproduttrice perfetta, la quale è forse altrettanto rara che il genio, ne viene che, per esempio, i poeti di semplice immaginazione, come il Byron, la Sand, Vincenzo Monti, furon più letti e lodati al loro primo apparire e per molti anni appresso, che non i veri genii creatori, come lo Shelley, il Foscolo, il Balzac, il Leopardi, rimasti incompresi fino al giorno della loro morte.


Appendice. L’estetica di Francesco de Sanctis. VI. Arte e morale, pp. 335-338.

  pp. 337-338. Il De Sanctis negava che l'artista avesse a premeditare lo scopo morale dell'opera sua, ma esigeva che avesse a pensarci il lettore. […]. Ebbene: ecco il Vautrin del Balzac: è il vizio, anzi il delitto, che si pone esso, e sol esso, come il sostanziale, l’ideale, il vero, il serio della vita. E noi non ridiamo, né inorridiamo; ammiriamo. Ammiriamo l’energia, la coerenza, la piena e perfetta individualità di quella forma vivente. Per iscoprime l’immoralità, bisogna discendere dalla contemplazione estetica alla realtà conoscitiva; dimenticare che Vautrin è una creazione dell’arte e considerarlo come un malfattore fra i tanti che sono stati in galera; al modo stesso che sì potrebbe chiamarlo in colpa di falsità storica, dopo aver cercato invano il suo nome negli archivii della polizia di Parigi: in ogni caso si vien sempre a considerare un'opera d’arte proprio fuori dell’arte e con criterii a cui l’arte è straniera.


  Giuseppe Checchia, Recensioni. Giuseppe Gigli. — Balzac in Italia. “Contributo alla biografia di Onorato di Balzac.”— Milano, Treves, 1920, (12°, pp. 230), «La Rassegna critica della letteratura italiana», Napoli, Tipografia degli Artigianelli, Anno XXVI, N. 7-12, Luglio-Dicembre 1921, pp. 217-225.

 

  Questo volume del prof. Gigli ne fa ricordar subito un altro, quello di Carlo Pellegrini su Edgar (sic) Quinet e l’Italia (Pisa, Folchetto), pubblicato lo scorso anno (v. Rass. XXVI, 106): e giù altri ne apparvero anche in Francia intorno alle relazioni e influenze vicendevoli, così letterarie come politiche, delle due nazioni sorelle. Giova in proposito segnalare anche un saggio assai notevole del Carducci su Augusto Barbier in Italia (Opere, III), nel quale più che alla cronaca e alla nuda esposizione aneddotica è dato uno spiccato rilievo alla parte morale e artistica, la quale è quella che dovrebb’essere maggiormente lumeggiata perché la trattazione di un argomento siffatto potesse avere un valore veramente storico. Il libro del G. non può non destare interesse, perché, anche a traverso le troppo diffuse citazioni che si riferiscono alla vita mondana del B. si offrono curioso al lettore avventure, impressioni e opinioni del celebre romanziere, le quali hanno importanza anche artistica e possono contribuire a quella storia della coltura internazionale che ancora manca da noi almeno sotto un aspetto compiutamente più largo e con un disegno più ordinato e organico.

  La lettura del noto e curioso volume di R. Barbiera: Il salotto della contessa Maffei, ha ispirato al G. questa pubblicazione, la quale dal volume del Barbiera trae appunto le notizie che, avvalorate da testimonianze attinte ad altre fonti, ne formano l’ordito o almeno il nucleo fondamentale. E alla ricerca delle altre fonti l’autore, com’egli stesso confessa, fu condotto dai consigli e dagli aiuti che gli vennero da G. C. Morando Bolognini, discendente dalla nobile famiglia milanese che accolse onorevolmente il B., e da egregi eruditi quali A. Neri, F. Salveraglio, G. Còggiola, E. Verga, A. Moschetti, A. Squassi. Nucleo principale delle notizie sono, insieme col volume del Barbiera, i seguenti giornali pulitici del tempo: Il Ricoglitore, La Gazzetta privilegiata, La Fama e Il Corriere delle dame di Milano, La Voce della Verità di Modena, Il Vaglio e La Gazzetta privilegiata di Venezia (1).

  Copiose le notizie ma non tutte o in tutto opportune e necessarie. Molti fatti già noti potevano essere omessi; e d’altra parte, il riportar per disteso articoli di giornali non tutti autorevoli, per dar notizia del modo ond’era inteso in Italia l’uomo e lo scrittore nel tempo in cui egli vi andava peregrinando, non è utile ed è anzi un po’ faticoso al lettore. Alcune altre notizie, come quelle che si riferiscono agli esperimenti di magnetismo e di spiritismo, a cui il Balzac assisté a Parigi, e quelle altre che riguardano molto da vicino le relazioni di tenerezza e di simpatia ch’egli ebbe con la signora polacca Mme Hanska, divenuta in ultimo sua moglie, non hanno un intimo legame con l’argomento, tanto che di lei poco o nulla è detto a proposito dei viaggio ch’ella fece a Napoli e a Roma con l’amante: e però andavano soltanto accennate o riepilogate per quella parte, assai piccola in verità, la quale ha diretti rapporti colle peregrinazioni dello scrittore francese in Italia. Con tutto ciò il volume si legge con profitto, e vi è notevole la diligenza con la quale l’autore ha fatto consultazioni e ricerche che non potevano essere maggiori.

  Ecco in succinto la storia di quelle venturose e non sempre fortunate peregrinazioni.

  Il B. fin dal 1832 aveva cominciato un suo primo viaggio, che, a corto di mezzi e per altre ragioni non bene accertate, dovè interrompere sùbito, a Ginevra. Lo riprese qualche mese dopo e si recò a Genova, dove ritornò il ‘37, dimorandovi parecchi giorni; ripartito l’8 aprile per Livorno, fece ancora una capatina in quella città l’anno seguente. Ivi fu ospite del marchese Damaso Pareto, e più a lungo e più cordialmente del marchese Gian Carlo di Negro, uomo colto e benefico che pizzicava anche di poeta, onde faceva versi di occasione anche in francese, sani e larghi di contenuto ma poveri e sciatti nella forma, senza vena e senz’ala.

  Nonostante queste accoglienze, non pare che il “marmoreo gigante” lo attraesse troppo, come aveva attratto il Flaubert o altri visitatori stranieri. Fu a Torino la prima volta nel’36: ma di questa città non scrisse mai parola di simpatia e di ammirazione. Il 19 febb. ‘37 giunse a Milano, dove si trattenne circa un mese: vi ritornò nella primavera del ’38, e via via, per breve durata, negli anni di poi. A Milano, presentato dal cav. Felice Carrone, marchese di San Tommaso, visitò Alessandro Manzoni, e fu ospite frequente di cospicue famiglie e in particolare della marchesa Serafina Sanseverino, nata Porcia, della contessa Attendolo Bolognini, nata Vimercati, e della contessa Carlotta (sic) Maffei, consorte di Andrea, il noto poeta e traduttore di tanti poemi stranieri, il quale, gelosissimo (secondo alcuni a torto) delle conversazioni mattinali che, in sua assenza, il romanziere francese continuava con la Carlotta, e dei ritorni di lui a Milano col l’intento, forse esclusivo, di rivederla, si separò legalmente dalla moglie il 16 giugno ‘46, testimoni Giulio Carcano e Giuseppe Verdi.

  Il 14 maggio ’37 il B. partì da Milano per Venezia, dove fu ospite desiderato e festeggiatissimo della contessa Soranzo, discendente dall’antica e nobile famiglia Mocenigo Soranzo. Undici anni dopo, il 3 nov. ’48, la contessa raccoglieva morente Alessandro Poerio, l’eroico patriotta napoletano ferito a Mestre. La stampa di Venezia, e specialmente la Gazzetta privilegiata, ebbe parole assai amare per il romanziere, perché proprio in casa della contessa, in una troppo animata conversazione ch’ebbe luogo a pranzo, egli aveva detto leggero e fiacco d’invenzione e non traducibile il romanzo manzoniano. Della conversazione che il francese ebbe con Tullio Dandolo, scrittore di larga coltura, di elevati principii e di ardente patriottismo, dette notizia nel citato giornale, con un molto severo articolo, il Dandolo medesimo, il quale accusava d’“immoralità” e di avversione all’Italia l’autore della Commedia umana; e a lui rispondeva sul medesimo tenore, ma in forma assai più garbata ed elegante, nel giornale Il Vaglio, Antonio Fava, traduttore forbito dei Salmi davidici; al Dandolo rispondeva pure, contradicendolo, un anonimo nel predetto gior­nale, con troppo acceso entusiasmo per il B. e in forma sarcastica e non così ”brillante”, come dice il G.

  Fu in Sardegna la prima volta nel ’37, e pur deluso nella impresa mineraria che sperava di compiere in società col negoziante genovese Giuseppe Pozzi (che invece la compì da solo nell’isola predetta), volle ritornarvi il 3 aprile ’38 col pazzesco e ostinato disegno di arricchire collo sfruttamento di altre miniere argentifere a fine di sopperire al vuoto lasciatogli dai debiti che lo avvolgevano tutto, non senza pericolo o danno della sua stessa fama artistica, a cui nocque pure la leggerezza dei non mantenuti impegni editoriali.

  Dopo ritornò a Parigi, e di là, nella prima quindicina del ’42 (sic), mosse per Aiaccio, ove tentò pure, senz’alcun frutto, un’altra speculazione industriale: e ad Aiaccio visitò, commosso, la casa di Napoleone il grande, pel quale aveva un culto e a cui avrebbe voluto somigliare nei suoi fantastici sogni di gloria.

  Nell’ott. del * 45 e nel ‘46 visitò per l’ultima volta l’Italia: e il 22 sett. ’43 in compagnia di M.me Hanska e di sua figlia Anna, fu anche a Napoli, che non potè fargli molta impressione, tanto che né in lettere né in altri scritti ebbe a parlarne mai, né in bene né in male.

  Tra il 22 e il 23 marzo ‘46, dopo una breve sosta a Pisa, giunse, per la via di Civitavecchia, a Roma, dove lo attendeva l’amica polacca con la sua figliuola. Visitò subito Gregorio XVI, pontefice dotto e amante delle lettere e delle arti, il quale gli donò un rosario benedetto per sua madre, sapendolo cattolico e imperialista, sebbene la sua devozione alla Chiesa non fosse che a parole. Assistè pure alle funzioni solenni della settimana santa in San Pietro e conobbe il principe Michelangelo Caetani, duca di Teano, uomo di larghi studi e di animo nobilissimo, che l’ospitò con fasto signorile e gli fu guida sapiente nella visita dei monumenti, che lo commossero e lo esaltarono. Alla fine del detto anno fece ritorno a Parigi, entusiasta di Roma, del Papa, del principe Caetani e di Dante, pel quale il principe medesimo, che era anche un egregio dantista, gl’ispirò un’alta venerazione.

  Quattro anni dopo, cioè il 14 mag. ’50, sposava l’amica polacca Evelina Rzewuska, contessa Hanska, nata il 6 gennaio 1804 e fin dal ‘41 vedova di un conte russo, pur egli amico e ammiratore di lui ; ma, dopo soli tre mesi dal celebrato matrimonio, l’acclamato e pur tanto infelice autore della Commedia umana moriva senza conforto alcuno e senza nemmeno il bacio della donna che da tanti anni egli aveva amato, e che non potè o non volle assisterlo nell’ultima ora: il che fece dubitare della fedeltà di lei verso il grande romanziere. Così si spense a 51 anni (era nato a Tours il 16 (sic) mag. 1799*,) lo scrittore dei più fecondi e geniali di Francia, lo scrittore che tanto amò, desiderò e sofferse, e al quale anche potrebbero convenire benissimo i seguenti versi dell’autoritratto foscoliano, quale si legge nelle due stampe del 1803:

 

Avverso al mondo, avversi a me gli eventi ...

Di vizi ricco e di virtù, do lode

Alla ragion, ma corro ove al cor piace:

Morte sol mi darà fama e riposo.

 

  E invero l’opera del B., sebbene in Francia e anche altrove fosse generalmente apprezzata durante il corso della sua breve esistenza, pure, soltanto dopo la morte, ebbe una ferma e universale sanzione di gloria, opera la quale fu altamente coronata da quella del suo degno continuatore Emilio Zola.

  Le svariate vicissitudini di tanti viaggi, le opposte correnti di simpatia e di antipatia, di ammirazione e di denigrazione che nel pubblico e più nella stampa accompagnavano e circondavano nelle sue peregrinazioni il celebre romanziere, e insieme l’ospitalità da lui ricevuta nelle diverse città d’Italia da famiglie illustri per nobiltà storica o per luminose tradizioni di coltura: tutto questo è raccontato dal G. con molta larghezza di particolari e con ampie e spesso prolisse citazioni di articoli o di lettere dai giornali, dai libri e da’ documenti del tempo. Ma non so perché egli non abbia creduto di dare un ordine strettamente cronologico alla narrazione di questi viaggi, la quale viene interrotta qua e là da rilievi di fatti che, a dir vero, alcune volte si scontrano o s’incrociano un po’ alla rinfusa. E di fatti nei primi cinque capitoli è data una ben larga e forse troppo diffusa notizia della dimora del B. a Milano, sebbene questa fosse avvenuta dopo i primi viaggi per Torino e per Genova. Della dimora del B. a Milano il G. ebbe e raccolse notizie più larghe e sicure: e invero la città che il grande romanziere rivide più spesso e con maggiore simpatia e dov’ebbe le accoglienze più clamorose o più care, fu Milano, la quale, per essere quasi alle porte dell’Italia, era anche allora la prima a ricevere e diffondere per la penisola ogni novità che veniva dal di fuori e specialmente dalla Francia.

  Il G. si diffonde molto, su la scorta dei giornali del tempo, nel riportare le impressioni diverso destate in Milano al primo arrivo del romanziere, e i sùbiti e sfrenati entusiasmi in parte repressi dai giudizi sfavorevoli, i quali erano ispirati dai casi non lieti o poco degni dell’uomo e dello scrittore che aveva espresso sull’Italia e sugl’italiani opinioni non molto disformi da quella di un suo celebre connazionale, il Lamartine, che in quel torno aveva detto non senza iattanza che l’Italia era la “terra dei morti” provocando l’indignazione dei nostri e la satira civile del Giusti. Queste opinioni vennero mutando di poi, ma prima che ciò avvenisse la vita e l'opera del romanziere non potevano non suscitare antipatia e disdegni nei patriotti e negli scrittori, onde sùbito furono messi a nudo dai giornali i debiti per falliti disegni editoriali e gli ordini di arresto, le stravaganze e le eccentricità, le avventatezze e le pose di quel francese “spirito bizzarro”. Ma sul principio fu grande il delirio della popolazione, avida di conoscerlo e di avvicinarlo; e, prima e dopo, fu molta acuta l’ansietà delle più ragguardevoli famiglie che si contendevano l’onore di averlo ospite. Il delirio giunse a tale che sorsero per incanto notizie curiose ed anche fantasie e leggende sulle comiche fogge del suo vestire, su la “canna”, com’era detto il suo costoso e mirabolante bastone, sul falso vaso etrusco e sulle sue strane abitudini nel mangiare, nel bere, nel dormire, nel ricevere e nel camuffarsi per isfuggire ai creditori: si giunse fino a desiderare una moda alla B.!.

  Dei brani che nel volume del G. sono quasi riprodotti per intero dai giornali e dai libri e specialmente dal volume del Barbiera, vanno particolarmente notati, oltre quelli del Dandolo e del Fava, un articolo, assai sfavorevole, di Antonio Lissoni, e un altro, entusiastico, di Gaspare Aureggio; uno scritto sensato d’Ignazio Cantù, fratello dello storico rinomato, e alcuni versi allusivi del Guadagnoli e del Giusti; un epigramma di Giuseppe Capparozzo e accenni poetici di Arnaldo Fusinato nella sua Donna romantica; due sonetti in vernacolo milanese e una poesia anonima, in vernacolo veneziano, contro il B. e i suoi adulatori.

  Notevoli sono, innanzi tutto, i rilievi e i giudizi del Tommaseo, del Mazzini, del Guerrazzi, del Cantù, in tutto o in parte sfavorevoli allo scrittore e più all’uomo, che faceva argomento o materia quasi costante o certo prevalente dei suoi romanzi la turpe e dilagante corruttela della società francese nella prima metà del secolo scorso, e che qua e là, in alcuni quadri della sua Commedia, adombrava caratteri e delineava figure che offendevano la dignità del nome italiano.

  Il G., nel riportare il severo e forse non infondato giudizio del Tommaseo sul romanziere francese (pp. 158-9) e le parole del Mazzini, il quale riteneva “volgare” e “immorale” la letteratura “leggera” (p. 70), allora in voga nella Francia e troppo diffusa anche in Italia, pare che scagioni un po’ troppo il B. dei non lievi difetti che ne oscuravano l’animo e il carattere: e anche pare che le visite che così di frequente egli faceva alla Maffei non uscissero interamente dai limiti di una vicendevole simpatia e di una pura conversazione ideale.

  Quelli erano anni in cui, anche per le aspirazioni d’Italia al suo non lontano Risorgimento, era fervente nei nostri più alti pensatori e agitatori una grande idealità morale: e però, anche se ammirata in tante parti, non poteva parer bella, nemmeno esteticamente, una così fedele e viva rappresentazione della corrotta società francese, rappresentazione che accennava chiaramente a un brusco rivolgimento nell’arte. Di questo rivolgimento il B. il quale tentò di recare nell’ àmbito dell’arte il pathos e l’indirizzo sperimentale della scienza, fu appunto l’iniziatore, onde a lui non poteva arridere l’opera del Manzoni né parere opportuna neanche la lettura del Grossi e del D’Azeglio: il che naturalmente irritava il vivo senso d’italianità e di moralità dei maggiori nostri uomini di pensiero e di azione. Dal contesto dei molti documenti raccolti con tanto amore dal G., non pare che l’opera del romanziere francese, pur tanto popolare in Italia, avesse avuto unanime o profonda l’ammirazione dei migliori. Soltanto il gran pubblico o il pubblico grosso, che respirava l’aura che veniva dalla Francia, ammirò incondizionatamente lo scrittore: non così forse l’uomo, che piccolo, grosso e più tosto brutto, e per giunta carico di debiti e avido di fantastiche speculazioni che non gli riuscivano mai, non doveva piacer molto neanche alle dame dell’aristocrazia, che, ambiziose di accogliere nei loro salotti gli uomini venuti in fama, ricercavano con orgoglio, quasi per farsene belle, la compagnia e la conversazione dello scrittore francese, il quale si compiaceva di donar loro alcune sue opere con dediche di larga e un po’ ampollosa espansione, in cui appare un senso acuto di simpatia e di raffinata galanteria e assai meno l’amore per l’Italia, sebbene nella dedica al principe Caetani egli accenni ad un’ “alleanza intima e costante fra l’Italia e la Francia”. Egli pensava di far co’ suoi romanzi quello che il Bandello nel 500 aveva fatto colle sue novelle, dedicate a principi, a re, a regine di tutta Europa: pensava di consacrare quest’alleanza col nome suo e con l’opera sua. Ma resta il fatto che l’amore alla nostra patria egli lo sentiva sempre nel circolo tanto più ampio della patria sua e come riflesso di questa.

  Se dai documenti recati dal G. il B. non appare avverso all’Italia dopo i tanti viaggi che vi fece, neanche appare un grande amatore di essa. Il fondo di alcuni tratti che nei suoi romanzi si riferiscono all’Italia e che non ebbero ritocchi nelle successive edizioni, non è punto dei più simpatici alla patria nostra. Certo il B. ammirò e non potè non ammirare, da quell’uomo di genio ch’egli era, la grandezza dell’antica Roma e le glorie artistiche e storiche di Firenze, dove pare non fosse mai stato, di Venezia, di Milano, d’ altrove; non potè non riconoscere le sovrane bellezze e la universalità della Divina Commedia, l’unica degna per lui, fra le opere moderne, di esser comparata alla Iliade (2); ma non sempre l’ammirazione è amore, specie quando è congiunta a un troppo acceso nazionalismo patrio. E certo, a voler guardare un po’ addentro più l’opera ar­tistica che le dediche e altri simili scritti del B., l’amor suo per l’Italia appare, sì, espansivo, ma non così ideale e profondo come quello, per esempio, del Goethe fra i Tedeschi, del Byron fra gl’Inglesi, dell’Hugo fra i connazionali suoi.

  Il G. chiude bene il suo volume con un lungo e diligentissimo elenco delle versioni italiane dei romanzi balzachiani dal 1833 al 1914, in gran parte mediocri o meschine: opportuno è quindi il suo augurio che si tenti e s’incoraggi in Italia una traduzione degna e compiuta della Commedia umana, traduzione che dovrebb’essere affidata a scrittori di non dubbio valore e ben versati nella più larga e sicura conoscenza della nostra lingua.

  Nel complesso questo volume del G. riesce un utile contributo alla biografia del B. e sotto alcuni aspetti dà qualche lume ancora dell’arte sua e dell’azione esercitata da essa nella patria nostra.

 

  G. Brognoligo, Aggiunta. A quanto ha detto il Checchia nella recensione precedente mi permetto di aggiungere alcune osservazioni. A p. 53 l’A. riferisce parole del Cantù, dalle quali risulterebbe che il B. fu presentato al Manzoni dal marchese Felice Carrone di S. Tommaso, ma a p. 68 riferisce una lettera del Tommaseo allo stesso Cantù, dalla quale invece risulterebbe che il presentatore fu M. d’Azeglio. Io, per molte ragioni che ora è inutile esporre, credo che il presentatore sia stato proprio il secondo. La questione è minima, ma riguarda il Manzoni, e la contraddizione doveva essere notata e risoluta. A p. 158, n. 1, l’A., a proposito di un articolo della Gazzetta di Venezia, poco favorevole al B., avverte che sotto i quattro asterischi coi quali è firmato, ha ragione di credere si nasconda Tommaso Locatelli : capisco che a questo non sarebbero mancate buone ragioni per nascondersi; tuttavia mi pare che questa dissimulazione non corrisponda al carattere dell’illustre appendicista della Gazzetta, il quale nell’anno stesso della visita del B. cominciò a raccogliere in volume i suoi articoli; a quei volumi, soli sedici, bisognava che l’A. si riferisse. A compiere, nei limiti del possibile, la storia della fortuna del B. in Italia, ricorderò che non sono molti anni che l’attore A. de Santis (sic) cominciò a far applaudire dal pubblico nostro un dramma tradotto dal francese, Il colonnello Brideau, che è riduzione e, a mio parere, profanazione di un romanzo del B.; l’attore, da parte sua, mostra di non capire la tragicità profonda del personaggio. Forse più dei traduttori son significativi della fortuna incontrata dal romanziere gli imitatori, e tra questi indico una donna, Luisa Codemo; è vero che i romanzi di lei sono tutti lontanissimi dal modello, ma ciò non vuol dir niente.

 

  Note. [La numerazione è nostra].

 

  (1) Dei libri ed opuscoli italiani, in parte noti e in parte rari o di non facile consultazione, furono ricercati i seguenti: A. Bruschetti, La Società del Giardino in Milano (Milano, Zanaboni e Gabuzzi, 1899); Cesare Cantù, A. Manzoni (Milano, Treves, 1882); Il primo esilio di N. Tommaseo; lettere di lui a Cesare Cantù (Milano, Cogliati, 1904); Ant. Lissoni, Difesa dell’onore delle armi italiane (Milano, Rusconi, 1837); G. Aureggio, Pensieri su B. (Milano, Pirola, 1839); F. Turotti, B. riformista (sic) (Milano, Travetto, 1837); A. Neri, O. di Balzac a Genova (Genova, Riv. di sc., lett. ed arti, 1913); S. Stampa, A. Manzoni ecc. (Milano, Hoepli, 1882); G. G. Di Negro, Epigrammi (Genova, 1848); P. Fournier, Encore sur le voyage de H. de B. en Sardaigne (Sassari, Forni, 1909); G. Di Belsito, Per conoscere B. (Milano, Quintieri, 1915). Delle opere francesi: G. Hanotaux et G. Vicaire, La jeunesse de B. (Paris, Lib des amateurs, 1903); G. Ferry, Balzac et ses amies (Paris, Lévy, 1878); E. de Girardin, Nouvelles (Paris, Lévy, 1885); M. Barrière, L’œuvre de H. de B. (Paris, Lévy, 1880); J. Bertaut, L’Italie vue par les Français (Paris, Librairie des Ann. polit. et litt., pp. 256-261); Ch. de Lovenjoul, Un roman d’amour (Paris, Lévy); G. Ruxton, La dilecta de B. (Paris, Plon), ecc.

  I romanzi del B. rigurgitano di ricordi e di citazioni dantesche: ne hanno, specialmente, la Fausse maîtresse […], Une fille d’Eve […], Onorine (sic) […], Béatrix […] al quale l’amata di Dante dette il titolo e continue allusioni; L’interdiction […], Autre étude de femme […], ecc. Anche il titolo di Comédie humaine gli fu suggerito da quello dell’opera dantesca. Sarebbe bene esaminare tutti questi ricordi e gli altri ch’egli fa del Petrarca, del Tasso e dell’Ariosto, nonché dei grandi artisti nostri (Michelangelo, Raffaello, ecc.) per assodare la cultura che il B. aveva della letteratura italiana, la quale i suoi seguaci o conobbero poco o non conobbero affatto. E. P.


  Benedetto Croce, Balzac e il romanzo sociale, «La Stampa», Torino, Anno 55, Num. 125, 27 Maggio 1921, p. 3.

  Nella critica letteraria francese si nota in generale poca sicurezza teorica, perché in Francia, diversamente che in Italia e Ger­mania, la teoria dell’arte, filosoficamente intesa, ha avuto debole svolgimento. Nondimeno, io antepongo i critici francesi psicologi o impressionisti ai dottrinarii e sistematici, i Sainte-Beuve e i Lemaître ai Taine e ai Brunetière: teorici bensì questi ultimi, ma dominati da quello spirito intellettualistico e dommatico che forma ostacolo alla comprensione dell’arte. Si legga il volume del Brunetière sul Balzac, testé ristampato in un’edizione quasi popolare, e si vedrà come le teorie vi abbiano oscurato anche quelle verità di evidenza, che si trovano nella coscienza comune e si ritrovano, poniamo, nella mo­desta e diligente monografia del Le Breton sullo stesso autore. Lasciamo andare (per non ripetere una critica che in Italia ormai sarebbe troppo ovvia) la premessa del «genere letterario», non inventata certo dal Brunetière, ma da lui trattata con assurda rigi­dezza, e in virtù della quale il problema della sua critica si configura come quello del genere «romanzo», e del Balzac come dello scrittore che conferì a questo genere l’autonomia ed eseguì il «vero romanzo» e ne osservò i limiti invalicabili. Ma che cosa ha egli sa­puto vedere di quel che sia il «romanzo», o, per restringerci a ciò che è più particolarmente in questione, il romanzo «storico» e «sociale»? E che cosa ha compreso della disposizione spirituale del Balzac, così rispetto al «romanzo sociale» come rispetto all’arte?

  Se al Brunetière non fossero mancati cultura estetica ed abito filosofico, non gli sarebbe stato difficile scorgere che il «romanzo sociale» si può ben considerare come cosa diversa dalle altre forme di arte come un « genere autonomo », non già perché esso sia una forma d’arte (nel qual caso, e quando è tale, la distinzione stessa si dimostra affatto empirica ed arbitraria), ma perché, invece, esso, nella sua origine e nella sua propria qualità, non è punto forma d’arte, ma semplice schema didascalico. Quando in Grecia l’impeto religioso, mitico e poetico si esaurì e cedette all’opera dell’indagine e della critica, anche la commedia, dalla forma fantastica e genialmente capricciosa che aveva avuta in Aristofane, si convertì nella commedia menandrea, sulla quale (come forse pel primo notava il Vico e il Nietzsche ha reso per ultimo di comune cognizione) era passato il soffio del filosofare socratico. E commediografi e moralisti si dettero allora la mano, e la commedia si giovò delle caratterelogie dei filosofi e i filosofi adoperarono e ragionarono i tipi formatisi sul teatro. E risaputo che lo schema della commedia menandrea bastò per secoli, non solo cioè ai romani, ma anche agli italiani del Rinascimento e ai francesi del secolo classico, c la sua cerchia rimase quella dei caratteri, divenuti fissi e convenzionali, del vecchio, dell’innamorato, della fanciulla, del servo astuto, dell’avaro, del vantatore, e via dicendo, e se anche vi s’introdussero alcune varietà e arricchimenti, non si allargò mai o quasi mai fuori dello studio e della rappresentazione dell’uomo in generale, degli umani vizii e debolezze. Ma, tra il sette e l’ottocento, le lotte e i rivolgimenti sociali dapprima e poi l’accresciuto interessamento storico, da una parte rioperarono anche sulla commedia e la indussero a rappresentare caratteri e ambienti sociali e storicamente determinati, e dall’altro s’impadronirono della prosa dei romanzi e la volsero all’idea del «romanzo storico» e «sociale». La prefazione, che il Balzac mise alla Comédie humaine, espone appunto questo rinnovato programma di Menandro e di Teofrasto: di un Menandro che ha dietro di sè la rivoluzione francese e innanzi a sè il dominio della borghesia, ed esso stesso è, a suo modo, rivoluzionario e borghese, o controrivoluzionario e antiborghese; e di un Teofrasto, che qualcosa ha appreso dalla nuova filosofia storica e dalla nuova scienza della natura. Il Balzac, infatti, si richiamava alla dottrina del Geoffroy Saint-Hilaire e al modello letterario del Buffon; e, giacchè sono esistite ed esistono in ogni tempo «des espèces sociales, comme il y a des espèces zoologiques», si domandava perché non si possa fare per la società qualcosa di simile a ciò che il Buffon ha fatto in un’opera magnifica, «en essayant de représenter dans un livre l’ensemble de la zoologie». L’opera, che egli vagheggiava, doveva avere triplice contenuto: «les hommes, les femmes et les choses, c’est-à-dire les personnes, et la représentation matérielle qu’ils donnent de leur pensée: enfin l’homme et la vie»; e, non paga della semplice osservazione, innalzarsi alla ragione o legge dei fatti sociali, e da questa andar più su ai principii del giudizio o agli ideali del Bene, del Vero e del Bello. Notevole è anche l’accenno a Walter Scott, e la richiesta che la storia debba essere «sociale», cioè non più genericamente umana, come nell’individualismo del secolo precedente. . .

  Il proposito del Balzac, e degli altri che con lui, e prima e dopo di lui, disegnarono il romanzo storico e sociale, succedaneo della tramontata commedia greco-romana, è un proposito non direttamente artistico, ma storico e sociologico e filosofico; e, in quanto essi volevano giovarsi dell’immaginazione per compendiare ed esporre le loro osservazioni e teorie, miravano a formare nient’altro, come ho detto, che uno schema didascalico. Ma poiché in questo schema scienza e immaginazione venivano accostate e la fusione delle due tornava impossibile, due casi accadevano: o che l’elemento poetico si affermasse come il vero centro dell’opera e asservisse gli elementi scientifici, riducendoli a suoi toni e colori, e ne nasceva una pura opera di poesia, la quale ascendeva fino alla vetta del romanzo-poema del Manzoni, che è stato giustamente detto la forma concreta e storica degli Inni sacri dello stesso autore; — ovvero, che l’interesse scientifico si costituisse centro, e allora gli elementi poetici erano a loro volta asserviti e valevano come forme immaginose e popolari di discorso. E questa seconda cosa è stata eseguita di solito da ingegni mediocri, da facitori di libri d’istruzione e divulgazione, perché chi ha veramente intelletto e capacità originale di osservatore e di filosofo non si accomoda a comporre favole ed apologhi e a cincischiare d’immaginazioni il suo pensiero, e impugna subito la buona spada della prosa scientifica, storica e polemica. Gli artisti, non isforniti di certe doti che sono proprie dei critici e pensatori, e di una certa tendenza all’osservazione e alla meditazione, non sono mai andati oltre un certo segno in tale interessamento e capacità, e o hanno risoluto i loro pensieri e concetti nelle viventi rappresentazioni, cancellando in quelli il carattere propriamente scientifico, o li hanno lasciati sparsi in appunti, diarii e piccoli saggi, senza farne una vera elaborazione sistematica.

  Che a questo vario rapporto dello schema didascalico del romanzo con l’arte o poesia, e alle varie soluzioni cui dà luogo, il Brunetière non facesse attenzione alcuna, non è maraviglia, perché dell’arte stessa e della poesia egli coltivava, come si è notato, un concetto intellettualistico.

  Ma ciò che a me sembra prova di singolare accecamento, prodotto di fallace teorizzare, è la sua insistenza nel considerare il Balzac come incarnazione dell’idea stessa del romanzo («Balzac c’est le roman même»), creatore del libro, di oggettiva osservazione sociale, che avrebbe il carattere essenziale della «rassemblance avec la vie», e sarebbe stato composto con «l’entière soumission de l’observateur à l’objet de son observation», così seguendo il metodo «qui a renouvelé la science», e che perciò non si potrebbe mai giudicare per sè stesso, ma solo «en le comparant avec la vie»: val quanto dire riscontrando l’esattezza delle osservazioni con nuove osservazioni e sperimenti. Giacché chiunque abbia, non dico fatto oggetto di esame tutte le opere del Balzac, ma saggiato solo qualcuno dei suoi romanzi, ha visto subito, come cosa che si tocca con mano, che la disposizione del Balzac è proprio opposta a quella dello scienziato osservatore (questo tutto dubbii e cautele e nemico delle affermazioni recise, ed egli sicuro di sè e trionfante nel suo asserire), ed opposta altresì alla disposizione del letterato pedagogo, che chiude alcuni concetti e interpretazioni storiche in racconti simbolici ed esemplificativi e compone libri d’istruzione. E sebbene ogni lettore ammiri i profondi aforismi psicologici che s’incontrano nei suoi romanzi, non meno gli accade di avvertire l’incapacità sistematica dell’aforista, la quale si mostra aperta nella prefazione sopra mentovata (il suo sforzo maggiore di teorizzamento), dove quella sua impacciata filosofia si affretta a coronarsi con le «deux vérités éternelles: la réligion (sic), la monarchie, deux nécessités que les événements contemporains proclament ecc.». E sebbene alcune sue osservazioni di storia sociale lampeggino fulgidissime, sono lampi e non luce diffusa e ben distribuita: cioè sono piuttosto suggestioni di domande che risposte a domande. Il Balzac, per esempio, avrà la visione della potenza dell’alta finanza nella società moderna, e farà dire al piccolo vecchietto ebreo, Gobseck: «Je suis assez riche pour acheter les consciences de cent qui font mouvoir les ministres, depuis leurs garçons jusqu’à leurs maîtresses: n’est-ce pas le Pouvoir? Je puis avoir les plus belles femmes et leurs plus tendres caresses: n’est-ce pas le Plaisir? Le Pouvoir et le Plaisir ne résument-ils pas tout votre ordre social? Nous sommes en Paris une dizaine ainsi, tous rois silencieux et inconnus, les artistes de nos destinées. La vie n’est-elle pas une machine à laquelle l’argent imprime le mouvement? ... L’or est le spiritualisme de vos sociétés actuelles». Ma codesta non è poi scienza, perché la scienza comincia quando si ricerchi, stavo per dire scetticamente, se e fino a qual punto e in qual modo l’oro domini la società, e da quali fini sociali sia esso stesso guidato e perciò dominato. Il problema critico non spunta nel Balzac che egli già lo converte in un sentimento di stupore e di terrore. «Je retournai chez moi stupéfait. Ce petit vieillard sec avait grandi. Il s’était changé à mes yeux en une image fantastique où se personnifiait le pouvoir de l’Or. La vie, les hommes me faisaient horreur ...».[5]


  Benedetto Croce, Luci ed ombre di un grande artista, «La Stampa», Torino, Anno 55, Num. 130, 2 Giugno 1921, p. 3.

  Tutti sanno che il Balzac da giovane si nutrì della più stravagante letteratura romanzesca inglese e francese, di avventure, conquiste, scoperte di tesori, delitti, fantasmi, allucinazioni, e ne compose egli stesso; e che di codeste storie maravigliose non seppe mai far senza, e ne introdusse in copia più o meno grande, e talora a profusione, in molti suoi libri della piena maturità. Ma anche in quei romanzi, e in quella serie di romanzi che il Brunetière giudica «obiettivi» e «naturalistici», il Balzac non fa altro che dare a ciò che è ordinario, borghese e popolano l’aspetto dello straordinario; e non v’ha pittura di carattere o di ambiente che egli non iperbolizzi a tal segno che ne riesce tutta maravigliosa e fantastica: sia che narri la vita di un ex-ufficiale napoleonico come Philippe Brideau, sia che rappresenti l’amor paterno di un Goriot, sia che descriva la casa del padre Grandet o la bottega du chat qui pelotte (sic). Egli prende qua e là alcuni pezzi della realtà per farsene oggetto di fascinazione, ed entrare per mezzo di essi in un sogno dello sfrenato e dell’immenso, attraverso il quale si muove, tra ammirato ed atterrito, quasi come in una visione apocalittica. Scambiare ciò per «metodo delle scienze naturali» è veramente, come dicevo, cosa singolare, perdonabile solo al volgo acritico e irriflessivo che prende per storia di Francia la storia narrata nei romanzi del padre Dumas (scrittore col quale il Balzac ha sovente non piccola somiglianza di procedimenti, talché potrebbe dirsi, non senza verità, che egli trasporti i Trois mousquetaires nel mondo della politica, delle speculazioni, delle invenzioni, della banca, e crei dei d’Artagnan affaristi, degli Athos industriali, degli Aramis ministri e dei Porthos che con la violenza e col delitto giungono alla ricchezza).

  Già buoni intenditori avevano messo sull'avviso contro l’anzidetto scambio volgare; e, per esempio, il Baudelaire, in uno dei saggi raccolti nel volume su l'Art romantique, scriveva: «J’ai maint fois été étonné que la gloire de Balzac fût de passer pour un observateur: il m’avait toujours semblé que son principal mérite était d’être visionnaire et visionnaire passionné. Tous ses personnages sont doués de l’ardeur vitale dont il était animé lui-même. Toutes ses fictions sont aussi profondément colorées que les rêves. Depuis le sommet de l’aristocratie jusqu’aux bas fonds de la plèbe, tous les acteurs de la Comédie sont plus âpres à la vie, plus actifs et rusés dans la lutte, plus patients dans le malheur, plus goulus dans la jouissance, plus angéliques dans le dévouement, que la comédie du vrai monde ne nous montre. Bref, chacun, chez Balzac, même les portières, a du génie. Toutes les âmes sont des armes chargées de volonté jusqu’à la gueule. C’est Balzac lui-même …».

  L’ardore d’immaginazione del Balzac non solo gli vietava di fare l’opera di osservazione scientifica, che il Brunetière vanta di lui, ma esso era così violento e vorace da turbargli l’opera stessa di artista: e ciò importa mettere in chiaro, perché fornisce un dato capitale per la lettura critica dei suoi romanzi. Il Brunetière anche in questo punto se la cava assai male: «C’est la représentation de la vie que l’intéresse, et non pas du tout la réalisation de la beauté, comme s’il se rendait compte un peu confusément qu’en art la réalisation de la beauté ne s’obtient guère qu’aux dépens, ou au détriment de la fidélité de l’imitation de la vie». Storture estetiche, che annullerebbero insieme arte e critica, e che mostrano come il Brunetière se ne stesse placidamente adagiato sopra due dei peggiori vecchiumi rettorici, l’idea dell’imitazione della realtà, e l’altra della bellezza come trascendente la realtà, e non sospettasse che la rappresentazione della realtà e la bellezza sono in arte la stessa cosa, e che, dove si sente che manca la bellezza, manca nient’altro che la perfezione stessa del rappresentare.

  Come mai, dunque, l’ardore dell'immaginazione, che sembra così favorevole all’ingegno artistico, danneggiava invece l’arte del Balzac? Gli è che nel delicato processo dell’arte bisogna accuratamente tener distinte la fantasia che configura le impressioni e le passioni del reale dominandole, e l'immaginazione che si vale delle intuizioni della fantasia a proprio diletto, trastullo o acre sfogo che sia. Per l’appunto, ciò che si chiama nel Balzac ardore d’immaginazione era, sotto un unico nome, due cose diverse e operava in due modi diversi, una volta ispirandogli l’arte e un’altra deformandogli l’arte prodotta e iniziata. Che il Balzac fosse poeta nel miglior senso della parola, si sente nel vigore onde rappresenta caratteri, situazioni e ambienti, nella schiettezza dei motivi che prorompono dalla sua fantasia commossa. Non ha nulla egli, pur nei suoi difetti, del fare di Victor Hugo, il quale, nei romanzi e nei drammi, non procede da motivi poetici, ma da escogitazioni intellettive, e perciò, nella ridda d’immaginazioni che suscita intorno ad esse, serba sempre chiarezza di disegno, pur essendo assai scarso di afflato poetico e di genuina fantasia. Il Balzac si muove di solito con energica genialità, come artista di vena, ma via via che va innanzi, invece di lasciar libere le sue creature di seguire la loro legge interiore, e crearsi quelle compagne, quell’ambiente, quell’azione, quel principio, mezzo e fine che sono impliciti nel loro motivo fondamentale, e, per conseguenza, di moderarsi, temperarsi e intonarsi, le costringe a seguire la legge dei suo rapace temperamento, di lui, Onorato di Balzac, che ha il gusto delle passioni spinte all’estremo, dei contrasti recisi e intransigenti, delle colossali intraprese, dell’astuzia astutissima e degl’infernali raggiri, dei successi mirabolanti, e gode di queste immaginazioni e le esaspera per goderne più abbondantemente.

  È stato detto e ripetuto (e mi pare che così dicesse anche il Sainte-Beuve) che nel Balzac i caratteri sono eccellenti, l’azione è meno buona e lo stile è vizioso: altro empirismo della critica, che bisogna correggere con la teoria estetica esatta, che quelle tre cose ne fanno una sola, e che l’una non può andare esente dal difetto delle altre, e i difetti di tutte debbono essere riportati a una comune origine. Questa origine comune è nella disposizione psicologica che ho ricordata, per la quale il Balzac, imprimendo un impulso capriccioso alle sue creazioni, fa sì che i caratteri dei suoi personaggi girino rapidamente e crescano vertiginosamente sopra sè medesimi, diventando via via sempre più folli di sé stessi, e talora, nel vertice a cui pervengono, si convertano nell’opposto di ciò che erano, o rivelino in modo inaspettato altre loro qualità, contradittorie o discordanti con le prime; le azioni, per il medesimo correre vertiginoso, o perdono ogni logica, e, sforzandosi di svolgere quei caratteri, assumono l’andamento di romanzi d’appendice, ovvero anch’esse, a un tratto, precipitano e languiscono; e lo stile, che è tutt'una cosa con quelle azioni e quei caratteri, cade dalla robusta e semplice plasticità nella fiacchezza e sciatteria o trapassa al tono esplicativo e riflessivo. I caratteri non giungono all’armonia della concordia discorde, e perciò le azioni non si snodano con naturalezza, e lo stile non è ritmico.

  Qualsiasi romanzo del Balzac, preso tra i migliori, offre pronti esempii di questi difetti; ma io mi restringerò ad additare quello che è reputato forse il più perfetto di tutti, o uno dei più perfetti, Eugénie Grandet. Dove, dopo la stupenda pittura della casa di provincia e dell’ambiente familiare nel quale fiorisce l’affetto gentile della giovane Eugenia, non è chi non senta che e il padre Grandet e la madre Grandet e la stessa Eugenia si vengono rettorizzando in tipi fissi; e il padre Grandet non è più un avaro nella sua umanità, ma un matto, e da matto è la scena in cui egli sorprende in mano alla figlia l’astuccio lasciatole in deposito dal fidanzato.

  Au regard que jeta son mari sur l’or, madame Grandet cria:

  — Mon Dieu, ayez pitié de nous!

  Le bonhomme sauta sur le nécessaire comme un tigre fond sur un enfant endormi.

  — Qu’est-ce que c’est que cela? dit-il en emportant le trésor et allant se placer à la fenêtre. — Du bon or ! de l’or ! s’écria-t-il. Beaucoup d’or! Ça pèse deux livres ...

  Con siffatto maniaco di padre e con un carattere senza carattere come quello del cugino fidanzato, la storia di Eugenia che prometteva di riuscire commovente e poetica, si perde nell’insignificante. E sembra che all’autore, che ha, speso le sue maggiori forze per spingere all’estremo i caratteri e i contrasti, manchi la lena per rappresentare il dramma che era venuto preparando. Ed ecco, il romanzo precipita, e ciò che doveva essere rappresentato, è annunziato come bello e accaduto: «Cinq ans se passèrent ...»; ovvero: «Pendant que ces choses se passaient à Saumur, Charles, faisait fortune aux Indes, ecc.». Peggio ancora lo stile s’impoverisce, e, in qualche punto, sembra la prosa di un componimentino di scuola:

  A trente ans Eugénie ne connaissait encore aucune des félicités de la vie. Sa pale et triste enfance s’était écoulée auprès d’une mère dont le cœur méconnu, froissé, avait toujours souffert. En quittant avec joie l’existence, cette mère plaignit sa fille d’avoir à vivre, et lui laissa dans l’âme des légers remords et d’éternels regrets. Le premier, le seul amour d’Eugénie était, pour elle, un principe de mélancolie. Après avoir entrevu son amant pendant quelques jours, elle lui avait donné son cœur entra deux baisers furtivement acceptés et rendus; puis il était parti, mettant tout un monde entre elle et lui ...

  E troppe volte, innanzi ai romanzi del Balzac, si resta addolorati come si sia assistiti alla menomazione di un capolavoro, e si ripensa a quella novella dello stesso Balzac che s’intitola Un (sic) chef d’oeuvre inconnu, dove si parla di un quadro che è un confuso ammasso di colori, sotto i quali spunta qua e là qualche pezzo stupendamente dipinto.

  Che cosa volete farci? — si dirà. — Il Balzac era così. — Certamente; ed era grande anche così. Perché, malgrado la deformazione, la sopraffazione e l’abbandono, in lui così frequente, del fine dell’arte, la sua arte è gagliardissima, ed è cosparsa di pensieri ed osservazioni acute, che ne accrescono l’attrattiva. Ma alla serenità estetica il Balzac non giunse mai o solo in rari momenti; e, quando alcuno in Italia lo ha messo a confronto con Alessandro Manzoni (a proposito: perché non si suol ricordare il poco favorevole giudizio che sui Promessi sposi il Balzac pronunziò in una conversazione a Milano, e che io ho letto tanti anni fa in un volume di Tullo Dandolo?), lo ha messo, dicevo, a confronto col Manzoni, e costui ha giudicato timido e sterile e lui ardito e fecondo, io sono rimasto anzitutto stupito che si sia potuto pensar mai a un paragone di quella sorta, ma peggio che stupito poi nel vedere che nemmeno la divina equalità manzoniana abbia avuto, per quel taluno, vigore di far balzare in piena luce il difetto artistico che travagliava Onorato di Balzac.[6]


  Benedetto Croce, Il “romanzo sociale”. Emilio Zola, «La Stampa», Torino, Anno 55, Num. 181, 31 Luglio 1921, p. 3.[7]

  Il «romanzo sociale», che, per sua buona fortuna, non riuscì interamente al Balzac, a cagione del suo animo passionale e dell’impeto poetico, da cui si lasciava trascinare, riuscì assai meglio a Emilio Zola, che aveva disposizione più calma e ponderata e non era insidiato da motivi poetici.

  Questo giudizio contrasta con quello generalmente accolto, perché non v’ha quasi storia della moderna letteratura francese che non metta alla gogna l’assunto zoliano del «romanzo sperimentale», diretto a stabilire e verificare «leggi scientifiche», segnatamente quella di «eredità». Ma poiché si perdona ad altri artisti la pretesa di un’arte che sia filosofia, per esempio, o moralità, e allo stesso Balzac, quella di venire assegnando con un ciclo di romanzi la «legge sociale», non sembra giusto far pesare troppo gravemente sullo Zola la sua illusione. […].

  Lo Zola viene altresì tracciato di angustia e limitatezza mentale, per la sua fede da carbonaro in quelle stesse scienze, o, come si diceva, nella Scienza, redentrice della società. Né io negherò che la taccia abbia del vero, né vorrò sostenere che l’intelletto dello Zola fosse profondo e fine; ma anche qui non comprendo, perché si mandi buona al Balzac la sua teoria della salvazione sociale, mercé la religione e la monarchia (teoria reazionaria, e in ogni caso riferibile solo a particolari paesi e momenti storici), e si voglia esser severi con lo Zola […].


  Benedetto Croce, Note sulla poesia italiana e straniera del secolo decimonono. XII. Balzac, «La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia», Napoli, Volume XIX (VII della Seconda Serie), 1921, pp. 129-137.

  Cfr. i due articoli su Balzac pubblicati ne «La Stampa» (27 maggio e 2 giugno) segnalati precedentemente.


  P.[ietro] Croci, Nel vico degli Strami, «Corriere della Sera», Milano, Anno 46, N. 119, 19 Maggio 1921, p. 3.

  La tradizione della visita giovanile di Dante alla capitale francese trova una conferma, che dovrebbe sembrare indiscutibile, nelle notizie dei primi biografi: il Villani e il Boccaccio ne parlano apertamente, pur aste­nendosi dal dar particolari. Non si capisce perché si dovrebbero porre in dubbio le in­formazioni di scrittori di tanta autorità, e nessuno pensò a contestarle per molti secoli. Può far sorridere la fantasia di Balzac che in una sua novella dipinse Dante a Parigi come un cupo vegliardo, romanticamente in­tabarrato e pronto a gridar «Morte ai guel­fi» in piena scuola all’annuncio di una vit­toria ghibellina: ma Balzac scriveva per i suoi contemporanei che amavano vedere il passato attraverso le lenti affumicate. […].


  Il Cronista, Cronaca degli spettacoli. Cinema Borsa, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 1, 10 Gennaio 1921, p. 102.

   Il Galeotto, nella sua seconda serie «Le gesta di Colin (sic)», il re dei galeotti, e nella terza «La fine di gabba la morte» ha ottenuto quel successo che si poteva prevedere per un lavoro così forte, preciso di drammaticità, che legava lo spettatore in modo nuovo davanti allo schermo su cui le creature di «Balzac» vivevano con quella forza di tinte con cui il grande le aveva pensate, specialmente per opera di Paolo Wegener il grande artista tedesco che ha così bene capita e sentita la sua parte di difficoltà eccezionale.


  Il Cronista, Cronaca degli spettacoli. Cinema Ambrosio, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 11, 10 Giugno 1921, p. 60.

  Il Colonnello Chabert. – Il drammatico lavoro di Balzac, nella magnifica riduzione per lo schermo dovuta a Lucio D’Ambra, e interpretato da grandi attori esteri e nazionali, non poteva non ottenere il largo consenso e la viva ammirazione che ha avuto. Il celebre Le Bargy, il miglior artista della Comédie Française, nella parte del colonnello Chabert, ha ottenuto il più entusiastico successo, così come sono stati assai ammirati M.me Pergament, dell’ex Teatro Imperiale di Pietrogrado, Rita Monte e Umberto Zanuccoli. […].

  Ammiratissima pure la messa in scena di Carmine Gallone, il valorosissimo direttore artistico sempre tanto apprezzato ed ammirato.


  Il Cronista, Cronaca degli spettacoli. Cinema Teatro Vittoria, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 11, 10 Giugno 1921, p. 51.

  Sotto i ponti di Parigi. – Seguendo la misteriosa e potente trama di «Ferragus», il drammatico romanzo di Balzac, Mario Guaita (Ausonia), ha intrecciato un film denso di emozioni che interessano vivamente lo spettatore.

  Interpreti principali del bel film sono: Mario Guaita, il signorile ed acclamato attore, Fede Sedino, la graziosissima e giovane attrice già così cara al nostro pubblico, Angelo Rabutti e Felice Carena.


  Silvio D’Amico, Maschere. Note sull’interpretazione scenica, Roma, Edizioni A. Mondadori, 1921.


Lucien Guitry. II. “L’Emigré” di Bourget, pp. 152-157.

  p. 153. Bourget costruisce. Costruisce figure, di cui qualcuna così tipica, che rimarrà ad incarnare idee, caratteri, virtù e vizi d’una intera classe sociale: pone conflitti d’anime, in situazioni forse non nuove perché eterne, ma guardate con occhio sicuro.

  Si è detto che alcune di quelle sue figure sono sorelle a quelle di Balzac. Ma Balzac era un poeta. Si è detto che Bourget è il più gran maestro del romanzo psicologico dopo Stendhal. Ma Stendhal era altro scrittore. Bourget è Bourget […].


 Milly Dandolo, Il Figlio del mio dolore, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1921. 

 p. 200. [Lalage] S’era portata qualche libro: Marco Aurelio, Montaigne, Shelley, qualche volume di Balzac, il suo Balzac lungo e lento, senza sole e senza amore, spesso noioso, che le piaceva tanto nei giorni lontani, quando la noia le era tanto dolce; […].


  Giulio Doria, Balzac. Novella, «L’Iride.  Rivista mensile critico – artistico – letteraria», Gravina, Anno III, Num. 11, 25 Novembre 1921, pp. 7-9.

  Il buon Balzac, tanto sensuale e tanto cerebrale, pareva aver raggiunto il suo sogno, sprofondato in una comoda poltrona, i piedi poggiati sugli alari del camino, mentre andava stuzzicando il foco con l’attizzatoio, seguendo con l’occhio vivace il contorcersi, lo spasimare, il guizzare, il trepidare, l’innalzarsi delle fiamme, rosse nel focolaio, azzurrognole, livide come labbra di donna in un amplesso spasmodico, nei contorni ... e gli parevan, forse, tutte le traversie della sua vita tanto triste ed inceppata dalle crudeli pastoie della vita materiale, dalla povertà.

  Indossava una bella veste da camera a fondo rosso cupo arabescato di nero, delle pantofole verde e oro ... pareva proprio il suo elegante eroe: Rastignac, non nel viso e nella persona, s’intende, ma soltanto nell'abbigliamento e nella indolente positura.

  Lasciò l’attizzatoio e versò, dal gorgogliante samovar, in una capace tazza, il fùmido tè, che diffuse intorno un lieve aroma esilarante. Parve annusarlo lo dalle nari del grosso naso, sensualmente trepidanti, e l’occhio gli scintillò di più, quell’occhio bello in quel brutto viso: ma una ruga gli si scavò, di repente, profonda, nella fronte alta; ebbe un moto di rabbia che gli fece schizzar delle gocciole di té bollente sulla mano paffuta e pelosa, e allora sorrise: sorbì con la pacatezza d’un pingue abate la bibita d’oro, ma la ruga ricomparve.

  Versò ancora del té, bevette ancora.

  No, la bibita celebrale, non dava, quel giorno, al suo cervello apoplettico, la consueta lucidità ... Balzac, era, allora, nella pienezza di sua vila. 1837 Novembre. Trentotto anni. Aveva terminato “Cesare Birotteau” e lavorava a un nuovo romanzo. Il suo lavoro, tutto interiore, s’era arrestato per un grave intoppo: la scena d’un sequestro. Oh! la scena d’un sequestro, nei suoi particolari esteriori, la conosceva e la ricordava molto bene, ma non ricordava quali avrebbero dovuto essere le sensazioni del protagonista nel vedersi capitare fra capo e collo, mentre pensava alla amata amante, l’usciere.

  La saisie. Il sequestro.

  Eppure, nom de … Claparon, non aveva mai avuto bisogno di osservare e classificare tutti i successivi stati d’animo dei suoi disparati personaggi nelle più stravaganti contingenze della vita!

  Una volta impostato un carattere, riscontrato nella vita reale, ne aveva potuto sempre ricostruir con verità e con logica, nel suo cervello, tutto il modo di sentire ed agire nel corso della sua vita fittizia.

  Sorrise ancora.

  Pensava che era buffo ed irritante il doversi arrestare innanzi ad una simile difficoltà, quando quel suo personaggio aveva il suo stesso temperamento e quando lui, Honoré de Balzac, aveva subiti tanti sequestri! Un momento. Quanti?

  Erano già, dunque, tanto lontani i tempi dei sequestri? Temeva, ora, il ritorno di quei tempi. L’editore gli aveva pagato duemila lire il suo Cesare Birotteau, ma egli aveva speso, per il caro Cesare, tremila lire di correzione! Che dovesse arrivar proprio ad invidiare il mediocre ma economo Pietro Grassau? (sic).

  – Ah, questo, no! – esclamò, scotendo la testa monacale. Che gl’importava, alla fine, dei sentimenti di quel suo figliuol prediletto? Poteva fare a meno di approfondire quella scena e arrivare all'altra, ch’era già tutta scolpita nella sua mente l’accoglienza fredda, dopo lunga assenza, dell’amata amante.

  V’era una lacuna nel suo cervello. No, non una lacuna, chè, anzi, quel povero cervello era pieno, pieno zeppo, pieno da scoppiare; i moti di quell’animo, in quella contingenza, [anima simile alla sua, che aveva quindi dovuto avere gli stessi moti in simile occasione] se n’eran dovuti scappare da qualche ... fenditura, specie di valvola di sicurezza di quel povero cervello in continua ebullizione.

  Sorrise ancora.

  In quanto a lui, non ci teneva affatto a riprovare ancora una volta quelle sensazioni!

  Guardò le fiamme che andavano abbassandosi, fece cadere, col piede, dei pezzi di legno ritti lungo le pareti del gran camino, li acconciò, servendosi dell’attizzatoio, ne sfocò la brace e le fiamme s’alzarono ancora alte. Ah! era pur bello star così, tranquillo, potersi abbandonare alla fantasia della propria mente, senza curarsi di renderle pubbliche: creare senza esporre.

  Sognava d’avere un salotto degno di Silvayn (sic) Pons: una battaglia di Salvator Rosa e una di Meussionnier (sic), una festa rurale di Greuze e un in­genuo Botticelli, del Frakentale (sic) e del Sassonia, del Capodimonte e dei Sèvres. un cofanetto di Benvenuto Cellini sur un mobiluccio di Boule, un Hobema (sic) e un Metzu (sic), un fosco Rembrandt e un lezioso Watteau, un pettinato Corot e un pauroso Goya, un Durer e un possente Leonardo, l’amica del Giorgione e l’uomo dal guanto di Tiziano, un Mantegna e un Lippi, e là, là, in fondo, bene in luce, una cornice Luigi XIII, tutto solo, un soave volto di madonna, una madonna del suo Raffaello, del pittore che più d’ogni altro ha saputo trasfondere nelle sue donne, il suo Raffaello che ...

  Comparve pallido, stravolto, più tremolante del solito il vecchio Orazio:

  Huissiers ... saisie ... huissiers - disse, con la vocetta piagnucolosa, profondamente addolorato di dover dare quel colpo al padrone adorato, proprio durante quel riposo fecondo, a lui sì caro. Balzac s’alzò di colpo, aprì, strappò quasi, con le mani fatte dure dal ritrarsi precipitoso del sangue, la veste e la camicia, un rossore violaceo gli salì sino alla fronte, come le fiamme di poc’anzi, scomparve, in parte, per­manendo a chiazze agli zigomi, le labbra gli tremarono, si afflosciarono in un rilassamento pietoso ...

  – Ancora ... ancora ,.. – disse.

  Ma gli occhi, un momento spenti, gli riscintillarono, si sedette allo scrittoio, afferrò la penna con gesto violento, con voce calma disse: – Lascia entrare, mio vecchio Orazio.

  – Avevo dimenticato quella brutta reincarnazione di Gobseck – pensò.

  Prese a scrivere, velocemente, senza sollevare il capo. La mano, fatta dura, non poteva seguite il vertiginoso lavorio di quel cervello affocato dal sangue.

  – Mi hanno spezzati i miei sogni di grandezza – mormorò – ma mi han rivelata la scena magistrale.

  – Non tutto si può avere … soggiunse sorridendo tristemente.

  E continuò a scrivere, a zaffate, come a colpi di vento, come uno statuario plasma la creta a colpi di pollice, spingendo con uno scatto secco del dito medio della mano destra, a una a una, al di là dello scrittoio, le cartelle piene di caratteri violenti, irregolari, grossi, bistorti, congestionati ...

  Quelli entrarono, chiedendo permesso. Balzac continuò a scrivere ...

 


  Arnaldo Fraccaroli, L’articolo che non voglio scrivere. Illustrazioni di Sto., «La Lettura. Rivista mensile del “Corriere della Sera”», Milano, Anno XXI, N. 2, 1° Febbraio 1921, pp. 95-99.

 

  p. 98. — Sì, caro, va bene: ma che cosa scrivo?

  Balzac ...

  Dio lo strabenedica; perché mi viene in mente il grande Balzac? Ah ecco, mi ritrovo: per via della facilità. Il grande Balzac si alzava regolarmente ogni mattina alle sette, senza sbaglio. Oppure alle dieci, o alle undici, o a mezzo giorno e mezzo, a seconda del sonno che aveva o dei creditori che venivano a svegliarlo. Si alzava regolarmente, prendeva il suo famoso cioccolato al latte nelle tazze cinesi che gli aveva regalate Théophile Gautier di ritorno da Costantinopoli, si metteva al tavolo, e scriveva per quattro ore di fila. In quelle quattro ore, regolarmente, quattro capitoli di romanzo doveva scrivere. Lunghi o brevi, non importava. Quattro Cousine Bette (è proprio Cousine Bette? o un’altra? ma il titolo non ha importanza: è il fatto che conta) è stata scritta in sei mattine.



  Adolfo Franci, Maestri della controrivoluzione, «I Libri del giorno. Rassegna mensile internazionale», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno IV, N. 5, Maggio 1921, pp. 240-242.

  p. 241. Quanto a Balzac di cui in questa antologia[8] son tradotti alcuni pensieri, egli fu sopratutto e prima di tutto un artista e se operò da cat­tolico lo fece quasi senza consapevolezza. Del resto egli non ebbe mai una chiara visione degli avvenimenti storie), nè conoscenza sicura dei problemi politici e religiosi. Lo provano questi pensieri che scelgo a caso:

  “I principii della monarchia sono assoluti come quelli della Repubblica. Io non conosco altra via per una nazione all’infuori di queste due forme di governo. Tutto è losco e incom­pleto, mediocre e discutibile senza questi due modi che sono completi, inappellabili.

  “O il popolo, o Dio „.

  Ciò che per un De Maistre o un Bonald sa­rebbe stata un’eresia, qui diventa apologia. E non basta, chè questo secondo pensiero fa a pugni col precedente.

  “Chi dice potere, dice forza; e la forza deve riposare su cose indiscutibili. Chi vota discute; e le cose discusse non esistono„.

  Sarebbe curioso sapere quel che Balzac cre­deva fosse la repubblica.


  Franco Fuà, Don Giovanni attraverso le letterature spagnuola e italiana, Torino-Genova, S. Lattes & C. – Editori, 1921.


Il tipo e la sua fortuna.

  p. 2. Man mano si è spogliato, come di elemento ascitizio, della leggenda, a cominciar dal Goldoni; è passato poi al poema, alla lirica, alla novella, con Byron, Espronceda, Gautier, Baudelaire, Mérimée, Balzac. […]. Conservando il suo nome, riappare nel teatro di Heyse, Lopez d'Ayala, Echegarray; il significato interiore, infusogli dal romanticismo, evaporatosi, i tratti esteriori si sono cristallizzati in maschera.

  Maschera può dirsi Don Giovanni anche in Balzac, D'Aurevilly, Janqueiro. […].

  p. 12. Già figlio criminale con Dorimon e Villiers, diverrà infelice padre, redento dal proprio tormento, con Heyse, Echegarray.

  Mostro pletorico e lestrigoneo con Zamora, si farà crudele stilista della sensazione con Balzac, Gautier, fa tale fantasma di male con Espronceda, vittima di un sogno d’amore e da questo redento con Zorilla, così concedendo ai venti delle più varie fantasie. […].

  p. 17. Lovelace e Don Giovanni pertanto, arricchiti l'uno dell'esperienza dell'altro, fusi in un tipo, più eletto e finito, ispirarono altresì gli eroi byroniani, il Don Giovanni di Balzac, gli esteti dandy di Gautier […].

  p. 22. Dirà sempre: — Io — quando la sua innamorata dirà perdutamente: Noi (Balzac). […].


Don Giovanni in Ispagna.

  p. 107. Oramai non restava che un ultimo elemento a dare il tracollo alla supremazia di Don Giovanni: da dissolutore di felicità di focolare, farlo vittima di bufera famigliare; da figliuol prodigo, padre, e padre infelice. Padre ci era apparso già nella novella: L’elixir de longue vie di Balzac (1830); ma padre solo esteriormente: nessuna scissione della compattezza atomica del suo egoismo essenziale: nessun intenerimento della corteccia coriacea dei suoi nervi sereni.


  Giuseppe Fumagalli, Gli Italiani saranno un giorno i primi soldati d’Europa, in Chi l’ha detto? Tesoro di citazioni italiane e straniere, di origine letteraria e storica ordinate e annotate da Giuseppe Fumagalli. Settima edizione riveduta ed arricchita – Aggiunte le frasi storiche della Grande Guerra, Milano, Ulrico Hoepli Editore-Libraio della Real Casa, 1921, pp. 661-664. 

  p. 662. A questi libri va aggiunto, come degno per la sua singolarità di speciale menzione, un raro opuscolo polemico: Difesa dell’onore dell’armi italiane oltraggiato dal signor di Balzac nelle sue Scene della Vita Parigina ecc. (Milano, Pogliani, 1837), scritto dal milanese Antonio Lissoni che fu ufficiale nell’esercito Napoleonico e combattè in Spagna. L’opuscolo, pubblicato durante il soggiorno di Balzac in Italia, voleva essere una protesta contro il romanziere francese, il quale in un suo racconto Les Marana (stamp. prima nelle Scènes de la Vie Parisienne, poi negli (sic) Études philosophiques del Balzac) introduce come protagonista una spregevole figura di avventuriero millantatore e codardo, certo capitano Montefiore, e seguendo l’andazzo troppo comune negli scrittori stranieri lo finge italiano e appartenente a quel 6° reggimento di linea, tutto d’italiani, che prese parte all’espugnazione di Tarragona e che « acquit – sono parole del Balzac medesimo – une grande réputation de valeur sur la scène militaire et la plus detestable (sic) de toutes dans la vie priviée». Si veda: G. Gigli, Balzac in Italia (Milano, 1920, a pag. 71).


  Aldo Gabrielli, Corrispondenze. Da Verona, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 23-24, 10-25 Dicembre 1921, pp. 179-180.

  p. 179. Sotto i ponti di Parigi, «De Giglio», Torino, M. G. Ausonia e Fede Sedino, interpreti. – La trama è tolta da un romanzo di Hon. de Balzac, e liberamente adattata dall’attore e direttore M. G. Ausonia.

  Dico subito: la trama è interessante e la adattazione è ben fatta. […].

  Il soggetto procede da quel mistero d’azioni che si è dimostrato così efficace e accetto in cinematografia […].


  Olindo Giacobbe, Notizie bibliografiche. G. A. Borgese: “Rubè”, romanzo (Treves, Milano – L. 10), «La Rassegna Italiana Politica Letteraria e Artistica», Roma, Anno IV, Serie II, N. 36, Aprile-Maggio 1921, pp. 311-312.

  p. 312. Romanzo storico, dunque, pensato e importato dalla prima all’ultima pagina su un disegno così classicamente grandioso che ci può far pensare a Manzoni: abituati come siamo — tranne qualche rara eccezione — a trame leggere e a personaggi tracciati col lapis, e forse anche perché il Borgese prima di rivelarsi artista potente, è stato uno dei critici più vivaci ed acuti dei nostri tempi, qualche suo collega ha voluto dimostrare che fra loro non era possibile si verificas­sero dei casi d’omertà, e si è gettato sui suoi periodi per spezzarli e ridurli in poltiglia, senza però che la sua saliva riuscisse a impastare un po’ di fango, da scagliargli addosso, e ha scomodato le grandi ombre di Balzac, di Stendhal e di Dostojewski per intaccarne almeno l’ori­ginalità: raffronti di questo genere sono possibili ma a condizione di stabilire fino a qual punto di potenza artistica si sia potuto ele­vare il Borgese per imprimere i segni della immortalità sui fantasmi creati dalla sua fantasia.


  Robin Goodfellow, “Soggetti”, «Corriere del Cinematografo», Milano, Anno VIII, N. 1-2, Gennaio-Febbraio 1921, pp. 9-10.

  È vero, gli Americani hanno capito il cinematografo. Da gente pratica, non hanno lasciato alle dive o agli esteti da strapazzo la scelta dei soggetti, non hanno perso il tempo a correr dietro ai Dostojevski, ai Balzac, ai Bourget, ecc., ma hanno subito guardato alle possibilità espressive del cinematografo. […].

  Ma che veramente siete persuasi di poter rendere a traverso lo schermo le opere dettate dal Genio? Credete solo di Stendhal, Balzac, Dostojevski? Avete questa presunzione? Speriamo di no. Io mi auguro che sia una mala fede.


  Robin Goodfellow, Prime Visioni, «Corriere del Cinematografo», Milano, Anno VIII, N. 1-2, Gennaio-Febbraio 1921, pp. 23-24.

  p. 23. Voler riprodurre per lo schermo le opere di Stendhal, Balzac, Sainte-Beuve (Volupté), Tolstoi, Dostojevski, Bourget, ecc., voler insomma adattare al cinematografo qualsiasi opera letteraria è follia, quando non è stupida presunzione.


  Ettore Janni, Dostoievski, «Corriere della Sera», Milano, Anno 46, N. 260, 30 Ottobre 1921, p. 3.

  Dostoievski rassomiglia molto a Balzac, che del resto egli ammirava. Nessuno scrittore è più disuguale di Balzac; nessuno più facile alle digressioni che sovvertono la costruzione architettonica del romanzo. E c’è anche una somiglianza di condotta. Per pa­recchio tempo il romanziere russo, carico di debiti come il romanziere francese, deve scri­vere in gran fretta sotto lo stimolo, sotto il pungolo, dei creditori. I romanzi si accumulano: la mole sale. In questa mole c’è della zavorra, ma che superbe navi la porta­no! E le digressioni del romanziere russo sono più calde e per ciò meno pesanti di quelle del romanziere francese. Ed entrambi costrui­scono figure che hanno una intensità miche­langiolesca. Sul liminare dell’opera di Do­stoievski si potrebbero porre, a illustrazione stupendamente simbolica, gli schiavi di Mi­chelangelo.

  Il suo realismo è audace ed è puro. Non rifugge dalla brutalità, ma la brutalità non offende, perché egli è il cercatore d’anima e questa ricerca passa attraverso le brutture come egli passò attraverso le miserie dell’ergastolo, ritrovando nella sozzura il germe del fiore, nell’assassino il fanciullo.


  A. R. Levi, Perché Balzac spiacque ai Veneziani del 1837, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CLXXIX, N. 76, 31 Marzo 1921, p. 3.

  Di tutti gli episodi, più o meno curiosi e più o meno letterari, che illustrarono e caratterizzarono il soggiorno di Onorato di Balzac a Milano, della sua dimestichezza con la contessa Maffei, della sua visita al Manzoni e alle sommità del Duomo, delle sue ricerche affannose dei quadri del Luino, persino del suo volto rubicondo, del suo grosso naso, della sua splendida canna e della sua veste da camera tagliata sul modello di una tunica bianca da frate, hanno scritto a sufficienza le gazzette e i gazzettieri del tempo e, più recentemente, il Barbiera, il Gigli e altri. Ma quel soggiorno esula dai confini del nostro articolo, che vuole avere più specialmente per argomento l’arrivo e la dimora del Balzac a Venezia, arrivo e dimora salutati dalla Gazzetta privilegiata del 15 marzo 1837 con questo trafiletto di cronaca: «Ieri mattina è arrivato a Venezia il celebre autore francese, il signor di Balzac e prese alloggio all’albergo Reale».

  Diciamo subito che malgrado la sua rinomanza, l’uomo non piaque (sic) alla città nostra; e che della impressione non favorevole che egli suscitò qua e là nelle strade e nei ritrovi, si fecero eco il Locatelli nella Gazzetta citata, il poeta Nalin, il Dandolo e Arnaldo Fusinato il quale, tuttavia, si limitò a prendersela col romanzo del Balzac La donna di trent’anni e a scrivere, con evidente ironia:

  E si sa ben che se Balzac l’ha scritto

  Convien far di cappello e tirar dritto.

  Il Locatelli rimproverava al grandissimo romanziere francese la esagerazione, le bizzarrie, la lungaggine, il pessimismo, l’immoralità e gli mette contro lo spirito e la cultura di Giulio Janin, la dottrina di Alfredo De Vigny e persino – leggere per credere! – la popolarità di Paolo de Kock. Lo stesso Locatelli, nella stessa Gazzetta privilegiata del 16 marzo, anno di grazia 1837, dubita che la voga del Balzac possa sopravvivere ai progressi del tempo e della pubblica morale. Inutile dire – vero? – che non solo quella voga sopravvisse a quei progressi, ma si fece anzi ogni dì più larga e venne avanti a passi da gigante, sinchè diventò, e meritatamente, quasi universale.

  Il poeta Nalin trova che Onorato di Balzac ha scroccata la fama di uomo di lettere, vendendo a un tanto al braccio i prodotti del suo ingegno, ma – bontà sua! – non può negare

  che gabia in fato

  del talento el foresto leterato

  a cui egli dà dell’omo de cartèlo, del talentazzo, del lasagna, del toco de … boca tast! ecc. ecc. A proposito di questo sfogo poetica il Gigli dice, a pag. 124 del suo diligente volume Balzac in Italia (Milano, Treves, 1920): «Si sparse allora manoscritta (e da Venezia passò a Padova e poi per tutto il Veneto) la seguente curiosa e un po’ confusa poesia di autore anonimo che credette di mettere in canzonatura il famoso scrittore francese». Ora Antonio Pilot, non meno diligente ricercatore e illustratore di curiosità storiche e librarie, osserva nella sua recentissima memoria Onorato di Balzac e Camillo Nalin (Venezia, Off. graf. C. Ferrari, 1920) che la poesia cui allude il Gigli non è né anonima né inedita perché la si può leggere anche senza l’aiuto dei famosi occhiali comprati a Londra dal Baretti, aggiungo io, a pag. 365 dei Pronostici e versi di Camillo Nalin (Venezia, 1878) e perché è preceduta da questa notevole e illuminante didascalia: «Per Balzac leterato e romanzier franzese che s’à presentà, nel 1837, a Venezia co una certa noncuranza afetata e un certo sprezzo de tuto, da dar fastidio …». Dopo il Locatelli e il Fusinato e il Nalin, ecco a complemento del quartetto denigratore, e con crescendo più che rossiniano, una Conversazione di Tullio Dandolo nella quale l’autore di Eugenia Grandet, del Giglio nella valle e di Mercadet è chiamato un centralizzatore (?), un illuminatore di baccanali e di orgie, uno sbozzatore di mostri, che Sparta avrebbe gettato giù dal Talgète e la Roma di Nerone avrebbe incollato presso Petronio al banchetto di Trimalcione.

  A chi si chiedesse perché mai il Balzac fosse tanto spiaciuto ai Veneziani del 1837 e si fosse tirato addosso tante antipatie di intellettuali e di mondani, basterebbe, io credo, metter sott’occhio la didascalia già riferita della poesia del Nalin, quella didascalia illuminatrice che il Pilot, da critico accorto, non ha fortunatamente mancato di citare accrescendo, per tal modo, e non d poco, la bontà e l’utilità della sua memoria, che esce così dagli stretti confini di una semplice correzione della svista del Gigli per divenire contributo importante alla biografia del Balzac. Perché è proprio quella didascalia che ci spiega dell’aversione incontrata dal grande romanziere francese a Venezia ove, non dimentichiamolo, egli si è presentato con uno sprezzo di tutto da dar fastidio. Gli italiani, si sa, erano una volta più attaccati ai loro idoli e ai loro sentimenti che non lo siano oggi; e se, verso il 1880, Diego Vetrioli, il grande latinista calabrese, si rifiutò di ricevere Teodoro Mommsen che aveva mancato di rispetto a … Cicerone, non è a meravigliarsi che i veneziani del 1837 si siano sentiti offesi dalle parole poco riguardose pronunciate da Balzac intorno alla Piazza San Marco e ai Promessi Sposi del Manzoni.

  E’ cero che se a Milano il Balzac era riuscito a diventare l’enfant gâté del salotto della contessa Maffei, a Venezia egli rimase soltanto l’ospite non sempre ammirato e non da tutti tollerato del salotto della contessa Mocenigo-Soranzo, donna gentile e gentildonna patetica che esercitava l’ospitalità con molto garbo e con signorile larghezza. E fu appunto in casa Soranzo, Procuratie vecchie, nei conviti e nelle brigate di dame intellettuali, di giornalisti e di nobili, che il Balzac si piacque un po’ troppo di far pompa del suo spirito tra lo chauvin e il frondeur, or criticando acerbamente i Promessi Sposi, or vantando la sua perfetta ignoranza dei romanzi italiani più in voga, primi il Marco Visconti del Grossi, l’Ettore Fieramosca del d’Azeglio e l’Assedio di Firenze del Guerrazzi, or chiamando la piazza S. Marco un joli échantillon du Palais Royal, or rimbeccando vivacemente il Dandolo e altri commensali a proposito di Chateaubriand, di Walter Scott, di Béranger, di Victor Hugo, di Scribe, dei diritti di autore e della scienza amorosa delle donne di trent’anni non care al Fusinato il quale rispondeva:

  Io però che romantico non sono,

  E molti ci saran del gusto mio,

  Al signor di Balzac chiedo perdono,

  E gli dichiaro francamente ch’io

  Trovo che meglio si confà a’ miei denti

  Un bocconcin fra i diciassette e i venti.

  Non sappiamo se il Guerrazzi sapesse delle diatribe in Ca’ Soranzo tra il Balzac e il Dandolo, ma è certo, a ogni modo, che egli disse al romanziere francese il fatto suo, lo rimproverò sora tutto di prolissità nelle descrizioni, di falsa applicazione del detto di Orazio ut pictura poesis e lo accusò di non saper risparmiare al lettore né un ragnatèlo, né un chiodo, né un pelo di palpebra di lepre, né un sommolo di ala d’anitra. Altri noti scrittori italiani si occuparono del Balzac al tempo de’ suoi viaggi nella penisola. Ignazio Cantù, fratello di Cesare ne tracciò un medaglione intellettuale altamente laudativo e un ritratto fisico di somiglianza perfetta. Il Lissoni, illustre scrittore militare, poco soddisfatto delle figure italiane contenute nei romanzi del Balzac e specialmente nei Marana, in Facino Cane, nell’Elisir di lunga vita, in Caterina de’ Medici e in Massilla (sic) Doni, ove rivive la Venezia del medio evo, del Rinascimento e del secolo XVIII, tartassò l’autore della Commedia umana con particolare acrimonia e gli prestò anche sentimenti anti-italiani che veramente non aveva. Però, a Venezia come altrove, alcuni presero le difese del Balzac; e quella medesima Gazzetta che aveva pubblicato l’articolo del Dandolo contro l’insigne scrittore francese, diede posto nel suo numero 76mo del 5 aprile 1837 ad una replica defensionale firmata con quattro asterischi e nella quale si leggono, tra altro, queste parole: «Povero Balzac! non fossi tu mai venuto fra noi! Criticare i Promessi Sposi! avere una opinione e non quella di Tullio Dandolo! Ma Parigi e Balzac e Francia e mondo intero, vi meriterete questo e peggio ancora se oserete affermare che tutto, senza eccezione, non è perfetto nel paese dove soffia il vento dell’Alpi … Mancar di rispetto alla piazza San Marco, alla posta delle lettere e ai passaporti sono ingiurie da non lavarsi che col sangue!». Il che dimostra che, nei riguardi di Onorato di Balzac, non tutti i veneziani del 1837 la pensavano come i Dandolo e i Nalin.


  Cesare de Lollis, Gustavo Flaubert (A proposito del suo primo centenario), «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CCXV – Della Raccolta CCXCIX, Fascicolo 1994, 16 Dicembre 1921, pp. 328-345.

  p. 332. Il Flaubert, sopravvanzando la Sand, troppo visibilmente tendenziosa in prò della passione o in prò del socialismo, le due bêtes noires di Flaubert; il Balzac, troppo frettoloso e ineguale; lo Stendhal., che era stato fiero di paragonare la propria prosa realistica a quella della Gazzetta Ufficiale — il Flaubert primo intese in Francia — nel paese dell’intemperante Hugo — la realtà alta Manzoni, come quella il cui còmpito in arte è di contener l’ideale, che vuol anche dire precludere la via alla rettorica.


  Mak, Corrispondenze. Da Alessandria. Cinema Centrale, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 11, 10 Giugno 1921, p. 30.

  Il Galeotto. – Il romanzo di Balzac non poteva trovare una migliore riduzione e una superba interpretazione.

  Nulla è stato dimenticato, nulla è stato falsato; dal romanzo cinematografico dovuto all’arte tedesca, balza agile, sincera la concezione dello scrittore francese sempre viva e fulgida.


  Martelletto, In punta di penna, «Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», Pisa, Anno XXIX, Num. 49, 26-27 Novembre 1921, p. 1.

  Il bastone. […].

  Balzac aveva fatto montare sopra una canna d’India preziosa tutte le gemme donategli dalle sue ammiratrici.


  Maxime, Corrispondenze. Da Milano. Cinema S. Radegonda, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 9, 10 Maggio 1921, p. 99.

  Quando la primavera ritornò, «Cines». – Un buon lavoro, ispirato al «Janne Pale» (sic) di Balzac, egregiamente interpretato dalla valente artista Maria Jacobini. Lodevole, come sempre, il Cassini. Buone le parti a fianco. Messa in scena sfarzosa. Nitida la fotografia.


  Giovanni Minozzi, Controcorrente. Uno scrittore reazionario: Domenico Giuliotti, «Vita e Pensiero. Rassegna italiana di coltura», Milano, Anno VII, Vol. XII, Fasc. 91, febbraio 1921, pp. 97-106.

  p. 104. La pseudo-ci­viltà bottegaia del grasso materialismo borghese ha immiserite, ha inaridite le fonti stesse della vita. Ci vogliono – è urgente – com­battenti ardimentosi, audaci, violenti come Veuillot (sic), furibondi come D’Aurelly (sic), sprezzanti come Balzac, sereni e superbi come Hello, duri e sdegnosi come Bloy.


  Mario Missiroli, Opinioni, Firenze, Soc. An. Editrice “La Voce”, 1921. 

  pp. 104-105. Romanzo e romanziere. — Commentando i due nuovi volumi della Correspondance di Balzac, Federico De Roberto ricostruisce, nel Giornale d’Italia, la tragedia di Balzac, l’amore per la contessa Eva di Hanska:

  Gli avvenimenti esteriori di questo romanzo sono noti. Balzac incontra Eva di Hanska nel 1833, l’ama durante dieci anni, spera di sposarla quando resta vedova, aspetta ancora altri sette anni che ella si decida a dir di sì, e finalmente può darle il suo nome — cinque mesi prima di morire ... Narrato in così poche righe, già si vede che il romanzo, tutto intimo e psicologico, si riduce ad un contrasto di anime, ad «un grande e bel dramma di cuore», come dice lo stesso protagonista.

  Gli ottimisti, cioè i rammolliti di tutte le categorie, i quali parlano delle donne ispiratrici del genio e consolatrici, dovrebbero leggere questi volumi di Balzac che per diciassette anni consecutivi fu tormentato da questa pìccola donna. Egli lavora venti ore al giorno, rovinandosi la salute, al solo scopo di pagare i debiti e poterle creare una casa ed essa lo accusa di essere un ozioso dedito al giuoco; crea il più grande dei capolavori della moderna letteratura ed essa gli rimprovera di non far parte dell’Accademia; le scrive delle lunghe lettere appassionate e riboccanti di dolore ed essa gli risponde di rado con due righe; le dedica quanto di meglio esce dal suo cuore e dal suo cervello ed essa, che si picca di letteratura, non sa distinguere un sonetto da una semplice successione di strofe; gli promette di sposarlo e ricorre a tutti i pretesti per rimangiarsi la parola; gli vieta per molto tempo di raggiungerla in Russia e glielo permette solo quando infuria il colera, nella speranza che la paura del terribile morbo lo trattenga; egli implora un matrimonio, che consacri, finalmente, una devozione spasmodica durata diciassette anni ed essa acconsente quando lo sa colpito a morte per cinque bronchiti abbattutesi una dopo l'altra sul petto del titano. Questa è la storia di Balzac, il romanzo del romanziere. Non meno sfortunato di Balzac fu Augusto Comte, cui Clotilde di Vaux negò tutto in una lusinga equivoca durata vent’anni. 

  pp. 157-158. Solidarietà; p. 158. La solidarietà è possibile nelle forme inferiori della vita; è possibile nel proletariato per la sua insensibilità morale.

  E non sono intellettuali. Il fatto che la loro opera non si rivolge ad una materia bruta ed ignora strumenti tecnici li trae troppo spesso in inganno; ma, in realtà, la penna del copista non è la stessa penna di Balzac ed equivale al badile dello sterratore. 

  pp. 255-258. Scrittori cattolici; pp. 256-258. Di questi otto scrittori, scelti dal Giuliotti, appena due, Bonald e Balzac possono dirsi veramente cattolici. […].

  Mentre in tutti gli scrittori ricordati la dottrina cattolica prevale su il cristianesimo come un'astrazione su la vita, in Balzac, spirito profondamente cristiano, il cattolicesimo è la traduzione, in termini di fede, di una esperienza dolorosa, balenata nel cervello e consumata nella coscienza. Se il cristianesimo è la consolazione dei deboli, il cattolicesimo è l’amara contemplazione dei forti: l’ottimismo del cristianesimo, che crede nel miracolo della bontà e dell'amore, è solo superato dal pessimismo cattolico, che da secoli attende immobile la confessione di tutte le disperazioni.


  Paul Morand, A proposito di Marcel Proust, «La Ronda letteraria mensile», Roma, Anno III, Numero 10, Ottobre 1921, pp. 702-706. 

  p. 705. Cogliamo quest’occasione per avvertire che Proust, noi non ce lo lasceremo portar via. (Politica e letteratura non debbono essere confuse. Come Chateaubriand, come Balzac, anche Proust sta a sinistra, letterariamente. Il signor Bataille o il signor Maurice Rostand, queste belle schiumatrici dei Sovieti, stanno a destra, a dispetto di tutti i pegni che offrono altrove. E non occorre insistere su ciò).

  

  Ugo Ojetti, Scrittori allo specchio, «Corriere della Sera», Milano, Anno 46, N. 154, 29 Giugno 1921, p. 3.

  Sorto nel tempo confuso e lontano in cui il romanzo, a udir le grida e i comandamenti che Emilio Zola riecheggiava da Balzac, doveva essere scienza, e addirittura scienza esatta e speri­mentale, e insieme, chi sa come, anche socio­logia, cioè qualcosa che poi è rimasto sempre nell’anticamera della scienza o nel retrobot­tega della politica, J. H. Rosny ha scritto alcune dozzine di romanzi d’ogni epoca e raz­za […].


  Olaf., Profili. Domenico Giuliotti, «Rivista di letture. Bollettino della Federazione Italiana delle Biblioteche Cattoliche», Milano, Anno XVIII, N. 9, 15 Settembre 1921, pp. 163-164.

  p. 164. [A proposito dell’Antologia dei cattolici francesi]. Giuliotti no; egli sprezza questi giganti e offende i cattolici mettendo nella sua antologia alcune pagine di quel Balzac la cui opera fu così giustamente condannata dalla Chiesa.


  Alfredo Oriani, Punte secche. Seconda serie di “Fuochi di Bivacco”, Bari, G. Laterza & Figli, 1921.

  p. 35. Balzac uguaglia Shakespeare.


  Aldo Palazzeschi, Alla morte non si sfugge, in Il Re bello, Firenze, Vallecchi Editore, 1921, pp. 155-172.

  p. 161. Voi sapete meglio di me quali possano essere gli indizi, per un marito, del suo momento critico. Io non pretendo certo di aggiungere una pagina alla grande Fisiologia del Matrimonio dell'immenso Balzac, egli ha illuminate abbastanza le teste maritali, perch’io pretenda di volerci portare il mio moccolino.


  Fernando Palazzi, Notizie bibliografiche. Letteratura contemporanea. Marino Moretti. “La voce di Dio”, romanzo. Milano, Treves, 1921, pp. 283 in 8°. L. 7, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno IV, N. 1, Gennaio 1921, p. 3.

  Ha soprattutto il romanzo una magnifica impostatura: una linea severa, ampia, robusta, quasi balzacchiana. Il che è una novità nel dolce e malinconico Marino Moretti, e dimostra ciò che altra volta io dissi, che cioè egli cerca continuamente di rinnovarsi.


  Prof. M.[ariano] L.[uigi] Patrizi, Appendice II. Il problema dell’”Uomo Geniale” da ieri ad oggi (Conferenza)[9], in Un pittore criminale. Il Caravaggio e la nova critica d’arte. Ricostruzione psicologica. 50 tavole, 4 tricromie e dati storici inediti, Recanati, Edizioni dello Stabilimento Cromo-Tipografico Rinaldo Simboli, 1921, pp. -266.

  p. 264. La perfezione nelle opere letterarie di Foscolo e di Giusti, di Balzac e di Flaubert, fu ottenuta senza lampi, senza improvvisazioni, a spese di un improbo, ininterrotto lavoro, di tormenti dei loro cervelli e della loro salute.


  Giuseppe Pessago, Balzac a Genova e “Honorine”, «Gazzetta di Genova. Rassegna dell’attività ligure. Pubblicazione mensile», Genova, Anno LXXXIX, N. 2, 28 Febbraio 1921, pp. 1-5; 6 ill.


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  In tutta l’opera immensa dell’autore della «Comédie humaine» uno dei punti più ignorati o più dimenticati è quella novella «Honorine» elle gli fu indubbiamente ispirata dal soggiorno in Genova, benché non possa dirsi esclusivamente di soggetto genovese. La data di pubblicazione di «Honorine» cade fra il 1841 e il 43, l’epoca dell’azione è invece assegnata dall’autore precisamente al 1836. Balzac venne per la prima volta a Genova nel 1837 e ripetè il suo soggiorno l’anno dopo. Tanto si può affermare sulla fede di documenti scarsi ma sicuri. Allora la data del ’36 a – anteriore di un anno al viaggio e non concordante nemmeno con certi particolari del testo – risulterebbe scelta a capriccio: E non potremmo dire esattamente per quale ragione. Intanto credo premettere a queste note che uno studio su Balzac e la sua novella è stato pubblicato anni sono dal nostro Achille Neri sulla «Rivista Ligure» e dell’argomento si è occupato più recentemente anche il Gilli (sic) nel suo Balzac in Italia.

  Seguendo il racconto del grande romanziere francese, a Genova, in quell’anno 1836, un console generale di Francia, il Conte d’Hostal, apriva le sue sale ad una società brillante di compatrioti di passaggio e anche a certe notabilità genovesi colle quali manteneva cordiali relazioni. L’Hostal aveva sposato in Genova una ricca ereditiera, Onorina, figlia di un banchiere Pedrotti. E fu appunto in una riunione, nel palazzo del Consolato, nel mese di maggio — ripetiamo la data — del 1836, che Onorato Balzac, anzi di Balzac (perché proprio in quel tempo egli aggiunse la particule, come il padre aveva mutato l’originarlo Balssa in Balzac) raccolse dalla bocca stessa di Hostal il racconto drammatico di una vita sentimentale, di cui lo scioglimento doveva avvenire in Genova.

  Col romanziere francese erano convitati un celebre pittore, una scrittrice, famosa anche come tipo di donna emancipata: Léon de Lora, e Camille Maupin più due nobili genovesi, il Pareto e il Dinegro (sic) i quali appaiono intimi del Console Generale non solo, ma simpaticamente noti alla colonia francese; anzi meritano l’elogio di «francesi» d’elezione.

  Davanti a questo uditorio il Console, trascinato da una osservazione della Maupin, racconta — durante la assenza della moglie — il suo romanzo, vissuto qualche anno prima a Parigi. Questo documento psicologico costituisce il vero soggetto della novella. L’amore disperato per una squisita creatura distrugge a poco a poco la vita di un gentiluomo che l'aveva sposata, e domina irresistibilmente il giovane d’Hostal, che al gentiluomo doveva, come a un padre, ogni gratitudine. Il contrasto di passioni, la figura sopratutto della protagonista, una di quelle creature d’eccezione che non vivono se non per l’amore, e, non conoscendo né accettando altra legge, per l’amore giungono all’eroismo, offre a Balzac l’occasione di sfoggiare la sua arte, che ancor oggi riesce ad avvincerci. Per una coincidenza singolare il nome della donna, Honorine, si trova essere quello della genovese che il d’Hostal, venuto in Italia, e perduta ogni speranza, finisce por sposare. La prima Honorine, cui evidentemente è intitolata la novella, muore in Francia e il marito – il protettore di Hostal – cerca inutilmente l’oblio e trova forse la fine sotto il cielo azzurro di Napoli.

***

  Questo riassunto, molto schematico, di «Honorine» abbiamo voluto premettere all’esame della parte che interessa direttamente Genova e che è la parte letterariamente, meno importante di tutto lo scritto: un semplice sfondo per dare risalto all’azione.

  Tentiamo ora di identificare i personaggi, ammettendo come è ragionevole, che si tratti di personaggi identificabili e semplicemente mascherati per le esigenze dell’arte e delle convenienze sociali. E’ innegabile intanto, che Balzac ha scritto sotto l’impressione immediata dei suoi ricordi di viaggio; a Genova egli ha passato parecchie settimane, ha frequentato il Consolato francese, ha conosciuto gli ospiti, se non in quell’anno 1836, negli anni seguenti. Tutta una documentazione tratta in parte dalla corrispondenza dell’autore di «Honorine» e in parte da altre fonti, raccolta e discussa dal Neri, non lascia dubbio al riguardo.

  Non occupiamoci pel momento dell’«Honorine» francese, la vera protagonista del romanzo, e veniamo al Console Generale, quel Conte d’Hostal che qualche anno prima, raccolto per carità dal marito di Honorine, e avviato alla carriera diplomatica, racconta nel suo Palazzo in Genova le vicende sentimentali della propria vita.

  D’Hostal, appare subito un nome di convenzione. Infatti, nel 1836 e forse da qualche anno, era nominato Console un Tellier di Blanriez. Chi fosse questo personaggio, all’infuori della sua carica ufficiale, non è dato di sapere: certo non ha lasciato alcuna traccia nella storia contemporanea. Sappiamo solamente che fu a Genova. Nelle collezioni della Gazzetta del 1835 — l’anno famoso del colera — risulta in una sottoscrizione di beneficenza, l’elenco del personale del Consolato Generale; a capo, troviamo il nome di Blanriez. Il Neri, per lo studio di cui ho parlato, si era procurato notizie ufficiali a Torino, e secondo quelle risulterebbe, invece, reggente l'ufficio del Console Generale, un Perrier, qualificato dalla Gazzetta come segretario e cancelliere. Ultimamente il Neri ha trovato e mi ha, colla solita generosità, favorito per questo articolo, un’altra notizia: al Blanriez è dedicato un libretto di componimenti poetici in francese dal nostro marchese Di Negro, scritti in occasione della morte del Duca d’Orléans. Questa notizia illumina anche l’ambiente descritto dal Balzac, il quale, com’è noto, ebbe relazione personale ed epistolare col Di Negro.

  A mio avviso, dopo le prime indagini era inutile cercare nella persona del Tellier di Blanriez la vera figura del d’Hostal come protagonista di «Honorine». Il Blanriez avrebbe prestato solamente a Balzac la sua qualità ufficiale, non altro. D’altronde, ripeto, la vita di quel diplomatico non ha lasciato alcuna traccia storica apprezzabile. Eppure mentre studiavo il soggetto di questo articolo, non potevo capacitarmi che il fatto di un matrimonio del Console generale francese con la bella genovese fosse da rilegarsi del tutto fra le fantasie di romanzo. Forse la circostanza, vera, suggerì appunto al Balzac l’impostazione della prima parte della sua novella.

  Onorina Pedrotti non ha certo esistito sotto questo nome (né Onorina, né Pedrotti sono, a prima vista, nomi genovesi). Ma gli accenni all'ambiente cittadino nei primi tempi della dominazione piemontese, alle fortune e alle onorificenze dei finanzieri mostrano nell’autore una notevole conoscenza del colore locale.

  Balzac a Genova come tanti altri suoi predecessori e successori – fra questi ultimi, Maupassant – si rivela decisamente entusiasta delle bellezze genovesi. Sono, egli afferma, le più belle donne d’Italia. Hanno servito di modello a Michelangelo per la sua Notte, e perfino la linea speciale del seno in quella statua trova riscontro … nelle forme scultoree delle nostre concittadine. Curiosa affermazione che, per la parte storica crediamo originata dal lungo soggiorno del Bonarroti in Lunigiana, e per la parte … plastica non dubitiamo Balzac abbia potuto constatare ai suoi tempi. Questa forma di rara bellezza, sempre secondo il romanziere, non costituiva a Genova un’eccezione. Solamente era divenuta prerogativa del popolo e non si trovava più nelle famiglie patrizie, dal sangue impoverito e guasto. Osservazione realmente profonda. Nelle vie di Genova, forse più che altrove, si vedono passare delle splendide donne naturalmente fini ed eleganti come duchesse, mentre appartengono a famiglie del medio ceto e alla piccola borghesia: vere creature di lusso che finiscono quasi sempre per trovare l’ambiente appropriato alla loro qualità e, consapevoli di quanto valgono, si adattano istintivamente ad ogni fortuna. Onorina d’Hostal nella appassionata descrizione di Balzac, si rivela, letterariamente e fisicamente, sorella di quello Rondoli che Maupassant, mezzo secolo dopo, trovava in un viaggio lungo la Riviera, avventura deliziosa nella vita già inquieta e tormentata del discepolo di Flaubert.

  Con tutto questo, il vero essere di Onorina, non lasciava per me di rimanere un enigma ben lontano dalla soluzione, quando un esame sul nome del reggente il Consolato, nel ’36, mostrò inaspettatamente e contemporaneamente a me e al Neri, la via d’uscita. E credo che l'identificazione dell’Onorina genovese possa dirsi un fatto compiuto.

  Se il Tellier di Blanriez non era a Genova, secondo le notizie del Neri, intorno al '36, pure avendo la nomina di Console Generale, bisogna ammettere necessariamente che il segretario Perrier ne facesse le veci. «Conte d’Hostal» dunque, sarebbe un nome di convenzione che maschera il Perrier. Ora questo francese, venuto a Genova nel 1815, aveva sposato tre anni dopo una donna, una genovese, notissima nella letteratura e nella cronaca mondana dell’800; Luigia De Ferrari vedova Pallavicino, e se questo stato civile non dicesse nulla ai lettori, basterà ricordare la bella Luigia del Foscolo, quella dell’ode, perché tutti sappiano di chi si tratta. Da uno studio del Belgrano, nelle «Imbreviature», risulta che Luigia De Ferrari era figlia di un banchiere di Varese Ligure, non nobile, sposata giovanissima a un Pallavicini, già attempato.

  Ecco dunque la ragione dell’elogio e delle considerazioni sociali sulla bellezza genovese: la Luigia, ricordate? fra le belle, ... regina e diva.

  Bisogna però osservare che quella bellezza, al tempo in cui fu scritta «Honorine» era doppiamente tramontata; per l’età (54 anni) e por la disgraziata caduta da cavallo, che formò il soggetto dell’ode tanto famosa. La Luigia Pallavicini rimasta sfigurata, con un occhio quasi divelto e il cranio racconciato da una calotta d’argento – riferisce il Belgrano – copriva il viso di un fitto velo. Con tutto ciò il Perrier la sposava nel 1818 e la coppia abitava nel palazzo detto «Scoglietto» sopra S. Limbania.

  Anche tale circostanza getta luce inaspettata su di un passo di «Honorine», in cui si parla della posizione del palazzo ove d’Hostal dava il ricevimento. Ma questo vedremo in seguito.

  Identificando d’Hostal in Perrier anziché nel Tellier di Blanriez, riveliamo la nuova figura di «Honorine», una incarnazione inaspettata della Luigia del Foscolo, spieghiamo molte frasi apparentemente di pura letteratura nel testo della novella, ci rendiamo conto della posizione e dell’esistenza del palazzo del Console che sembrerebbe un po’ fantastica, senza la notizia dello «Scoglietto». Ma facciamo inoltre un gran passo nella spiegazione di un altro enigma: il doppio nome di «Honorine» nelle due donne amate dall’Hostal.

  La Luigia Pallavicini sposata giovanissima e forse per interesse aveva presto avuto delle avventare: punto di contatto evidentissimo colle linee della novella: sull’idilio con un giovane cospiratore italiano, troviamo particolari interessanti nel capitolo delle «Imbreviature» dedicato alla bella genovese.

  E, per terminare l’argomento, non abbiamo rilevato, ritenendolo superfluo, il concordare della condizione familiare di Onorina con quella della Luigia, la professione del padre e altre circostanze significanti che i lettori troveranno nel testo.

  Gli ospiti francesi al Consolato generale erano: un critico Claude Vignon, e un pittore Léon de Lora i quali accompagnavano in tournée, si direbbe ora, una signorina, scrittrice, tipo di emancipata, M.lle des Touches, sotto il pseudonimo di Camille Maupin. E’ curioso il fatto che per questi tre personaggi Balzac non abbia creduto usare alcuna maschera, per quanto trasparente: i nomi del testo di «Honorine» corrisponderebbero fedelmente a quelli inscritti nei registri dello Stato Civile secondo l’affermazione di un commentatore francese, e questi signori compievano un viaggio artistico attraverso l’Italia, un di quei viaggi messi alla moda da Georges Saud (sic). Colla Saud, anzi la des Touches – almeno è descritta in «Honorine» — ha tanti e tali punti di contatto che si è tentati, a volte, di domandarsi se Balzac non abbia voluto usare il nome e il pseudonimo dell’una per parlare liberamente dell’altra.

  E un ravvicinamento significante di situazioni è anche dato dal fatto, notorio, che Georges Sand era intima amica di un celebro pittore, il Delacroix. Comunque, questa società un po’ irregolare, questo piccolo mondo esotico, mette una nota vivace e romantica nella quiete austera della Superba. Erano campioni del più autentico romanticismo, compreso fra essi l’autore di «Honorine», gli ospiti del Consolato generale: personalità d’eccezione uniti dal bisogno imperioso di vivere al disopra di ogni volgarità e di ogni legge; caratteristica, in tutti i tempi, degli intellettuali.

  Infine si presentano i due genovesi qualificati con galanteria per «francesi» e ben noti letterariamente e politicamente: il Dinegro e il Pareto.

  Il mecenate della Villetta è ancor vivo nelle tradizioni genovesi; troppo studiato d’altronde in varie pubblicazioni recenti, perché ci attardiamo a parlarne. Le sue relazioni con gli illustri forestieri dovevano evidentemente avergli aperto le porte del Consolato di Francia. Non crediamo che nella qualifica di «francese» il Balzac abbia voluto fare altro che un complimento di occasione. Il Dinegro, il buon Dinegro, era genovese, e tanto genovese che forse non gli avanzava tempo per essere altra cosa.

  No, nell’ospite premuroso, cordiale, e anche un po’ ingenuo che il Dickens dipinge al vivo, mentre si ritira in piena festa, a fregarsi le mani, in segno di intima soddisfazione, vediamo tutt’al più il gentiluomo bonario e innocuo dell’ancien règime (sic) genovese. E nel letterato che profonde sonetti e versi d’occasione secondo le regole della perfetta Parnassi, Balzac meno di qualunque altro poteva trovare la finezza e l’agilità dei suoi confratelli d’arte. Ma l’ospite era generoso, l’accoglienza sempre pronta e gentile … il marchese di Negro conosceva, parlava e scriveva bene il francese … tutte ragioni per rilasciargli il brevetto ad honorem di parisianisme. E col Di Negro è naturalmente accomunato il Pareto il quale per le sue relazioni e il suo soggiorno in Francia pare giustificare maggiormente la qualifica di «parigino».

***

  Il Palazzo in cui avviene la scena del convito e del racconto è descritto in pochi tratti vaghi da Balzac come posto su di una collina a ponente di Genova. Non sarebbe stato facile l’identificarlo se la «Gazzetta» del 1835 sempre nella cronaca del colera, non avesse offerto una soluzione imprevista. Le parole, ho detto, vaghe, di descrizione dell’ambiente ispirate certo dalla villa del Principe e forse da altri palazzi potrebbero a tutta prima far pensare a una creazione di fantasia. Nel forte dell’epidemia che devastò Genova, fra l’agosto e il settembre un comunicato ufficiale nella «Gazzetta» avverte che la sede del Consolato Generale di Francia era stata trasferita in salita della Visitazione al n. 24. Ancora oggi — nella mancanza di precisione che il mutamento dei numeri civici ha fatalmente prodotto — in quella località sussistono due o tre edifizi fra i quali potrebbe trovarsi l’antica sede del Consolato.

  Certo, leggendo «Honorine» la descrizione dei giardini e della vista incantevole che si godeva di lassù non appare in tutto verosimile. Si ha l’impressione, nel romanzo, di essere più vicini al mare di quello che la vera situazione topografica possa consentire. Dal presunto palazzo d’Hosfal si doveva effettivamente abbracciare il punto di vista riprodotto in queste pagine da un’antica dagherrotipia del ’50. Poco o nulla era mutato in quella parte di Genova dal 1835.

  Quanto ho detto fin qui valeva naturalmente nella ipotesi di un palazzo del Consolato Generale, quello accennato dalla «Gazzetta».

  Se invece, coi nuovi dati, accettiamo la ipotesi del Perrier, allora si tratta non più del Consolato francese, ma dell’abitazione privata del Vice-Console, quella villa dello «Scoglietto» di cui abbiamo parlato e che possiede appunto terrazze, loggie e giardini come nella novella.

  Un’altra veduta, un po’ idealizzata, di questa regione. presentano certe stampe inglesi delle quali un campione, fra i migliori, illustra queste note. E’ una Genova decisamente romantica, col mare costellato di vele candide che fanno pensare a uno stormo di gabbiani. Al primo piano terrazze soleggiate e ammantate di vegetazione accennano a deliziosi soggiorni di sogno come Balzac amava immaginare. Ma la questione del palazzo di salita della Visitazione, conduce a quella dell’epoca in cui il romanziere francese fu a Genova. E qui ci troviamo di fronte a strane contraddizioni. Si sa certo dallo studio del Neri, che Balzac venne a Genova due volte, ma posteriormente al 1836, (una data anzi è precisa: nel 1837). Allora perché la novella scritta a Parigi porta la data del ‘36?

  Un accenno, nella riunione del palazzo del Consolato parla di Boccaccio e vien subito fatto di pensare a un parallelo fra la peste del Decamerone e il colera-morbus del '35. D’altronde in una corrispondenza, Balzac lamenta d’essere stato sequestrato a Genova nel vecchio lazzaretto, in una quarantena che gli lasciò il piò orribile ricordo. Si tratta qui dell’epidemia del ’35 o di qualche altra ripresa del male negli anni seguenti? In tal caso il 1837 sembra la data più probabile. Se Balzac, nel 1836 proveniva da Marsiglia, prima dell’agosto, avrebbe dovuto passare alla Foce la quarantena preventiva, essendo allora infetta Marsiglia e non ancora Genova.

  Non fu che fra l’agosto e il settembre di quell’anno che lo scoppio del contagio avvenne, violentemente, nella nostra città. E ogni quarantena naturalmente fu abolita.

  Allora, per l’anno 1835-36, starebbero in favore diverse circostanze: l’ubicazione del Consolato Generale, l’accenno al Boccaccio, il ricordo del Lazzaretto e, più che tutto la data del 1836 apposta alla novella, in Parigi, data che verrebbe ad acquistare la sua ragione logica.

  Ripeto, così dovrebbe essere, senza poter asserire con prova alla mano che così sia, assolutamente. Contrariamente alle abitudini dei commentatori, premettendo le chiose al testo ecco, nell’originale, la parte di «Honorine» che tocca Genova:

***

  En 1836, pendant le séjour de la cour de Sardaigne à Gênes, deux Parisiens, plus ou moins célèbres, purent encore se croire à Paris, en se trouvant dans un palais loué par le Consul-Général de France, sur la colline, dernier pli que fait l’Apennin entre la porte Saint-Thomas et cette fameuse lanterne qui, dans les keepsakes, orne toutes les vues de Gênes. Ce palais est une de ces fameuses villas où les nobles Génois ont dépensé des millions au temps de la puissance de cette république aristocratique. Si la demi-nuit est belle quelque part, c’est assurément à Gênes, quand il a plu comme il y pleut, à torrents, pendant toute la matinée; quand la pureté de la mer lutte avec la pureté du ciel; quand le silence règne sur le quai et dans les bosquets de cette villa, dans ses marbres à bouches béantes d’où l'eau coule avec mystère; quand les étoiles brillent, quand les flots de la Méditerranée se suivent comme les aveux d’une femme à qui vous les arrachez parole à parole. Avouons-le, cet instant où l’air embaumé parfume les poumons et les rêveries, où la volupté, visible et mobile comme l’atmosphère, vous saisit sur vos fauteuils, alors qu’une cuiller à la main vous effilez des glaces ou des sorbets, une ville à vos pieds, de belles femmes devant vous; ces heures à la Boccace ne se trouvent qu’en Italie et aux bords de la Méditerranée. Supposez autour de la table le marquis di Negro, ce frère hospitalier de tous les talents qui voyagent, et le marquis Damaso Pareto, deux Français déguisés en Génois, un Consul-Général entouré d'une femme belle comme une madone et de deux enfants silencieux, parce que le sommeil les a saisis, l’ambassade un (sic) de France et sa femme … […] enfin deux Parisiens qui viennent prendre congé de la consulesse dans un dîner splendide, vous aurez le tableau que présentait la terrasse de la villa vers la mi-mai, tableau dominé par un personnage, par una (sic) femme célèbre sur laquelle les regards se concentrent par moments, et l’héroïne de cette fête improvisée. L’un des deux Français était le fameux paysagiste Léon de Lora, l’autre un célèbre critique, Claude Vignon. Tous deux, ils accompagnaient cette femme, une des illustrations actuelles du beau sexe, mademoiselle des Touches, connue sous le nom de Camille Maupin dans le monde littéraire.

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  Onorina Pedrotti est une de ces belles Génoises, les plus magnifiques créatures de l’Italie, quand elles sont belles. Pour le tombeau de Julien, Michel-Ange prit ses modèles à Gênes. De là vient cette amplitude, cette curieuse disposition du sein dans les figures du Jour et de la Nuit, que tant de critiques trouvent exagérées, mais qui sont particulières aux femmes de la Ligurie. A Gênes, la beauté n’existe plus aujourd’hui que sous le mezzaro, comme à Venise elle ne se rencontre que sous les fazzioli. Ce phénomène s'observe chez toutes les nations ruinées. Le type noble ne s’y trouve plus que dans le peuple, comme, après l’incendie des villes, les médailles se cachent dans les cendres. […].

  Rappelez-vous donc la Nuit que Michel-Ange a clouée sous le Penseur, affublez-la du vêtement moderne, tordez ces beaux cheveux si longs autour de cette magnifique tête un peu brune de ton, mettez une paillette de feu dans ces yeux rêveurs, entortillez cette puissante poitrine dans une écharpe, voyez la longue robe blanche brodée de fleurs, supposez que la statue redressée s’est assise et s’est croisé les bras, semblables à ceux de mademoiselle Georges, et vous aurez sous les yeux la consulesse avec un enfant de six ans, beau comme le désir d’une mère, et une petite fille de quatre ans sur les genoux, belle comme un type d’enfant laborieusement cherché par David le sculpteur pour l’ornement d’une tombe.

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  Dell’ autore poco rimane a dire per quello che riguarda il suo soggiorno nel nostro paese. Spinto dal miraggio della rapida fortuna, che sempre lo illudeva Balzac era venuto a Genova per la realizzazione di un affare commerciale che gli sembrava infallibile: egli intendeva utilizzare il materiale abbandonato da secoli nelle miniere argentifere della Sardegna. E i viaggi in Italia, in quelli anni, fra Genova e Napoli avevano lo scopo unico di sollecitare permessi e trovare capitali per l’impresa che Io attirava.

  Sognava, il grande romanziere, di guadagnare qualche decina di migliaia di lire e di potersi finalmente riposare. Era l’illusione perpetua di una vita dannata al lavoro improbo e attanagliata anche dagli strazi della miseria. Nella sua più che modesta casetta di Parigi, confinato fra lo studiolo e il piccolo giardino, Onorato di Balzac, che faceva pensare e palpitare un pubblico immenso, conduceva vita di recluso.

  Scriveva, accumulava pagine su pagine per l’editore e sopra tutto pei creditori. Egli non aveva l’anima di commerciante e quindi non era un beniamino della fortuna. Tramontato presto, l’affare delle miniere argentifere, come tramontò disastrosamente l’impresa della tipografia.

  E nonostante le delusioni, nonostante la miseria, l’autore di «Honorine» si ostinava a sognare.

  Forse in uno di quei momenti di sosta, esaltato dalla speranza di una prossima fortuna, gustò le ore tanto efficacemente descritte nella novella. A Genova, la citta dei mercanti, nella confusione e nel disordine creato dalla morìa, aveva trovato un rifugio al Consolato di Francia. Là in compagnia di uomini celebri, di cortesi signori e di belle donne, dovette credersi, e lo dice, ritornato ai tempi del Boccaccio. Certe riunioni di persone intellettualmente e fisicamente squisite non possono avvenire che in Italia, egli afferma, entusiasta. E così nacque nella sua mente il progetto della novella, inquadrata in un ambiente dal quale era rimasto colpito. Se continuassisimo (sic), per conto nostro, il parallelo col Decamerone, quanta differenza troveremmo nelle lettera (sic) e sopratutto nello spirito, fra la novella genovese e le fiorentine!

  L’ospite del Consolato francese appare ben distante dalla serenità trecentesca, col suo fosco romanticismo coll’analisi torturante di tutti i momenti di una passione disperata.

  E’ l’anima stessa dell’autore della «Comédie Humaine» che trabocca, in tutta l’amarezza della propria esperienza, nel racconto messo in bocca a d’Hostal. Storia triste che non pare fatta pel cielo ridente e per gli incanti della Superba! Comunque, anche il contrasto accresce per noi l’interesse, e merita la riesumazione di questa parte dell’opera di Balzac, che ho voluto tentare perché molti la ignorano.

  Siamo oramai distanti dalla società e dall’ambiente dei nostri nonni: un quadro, colorito da mano maestra e che ritrae un momento di quell’epoca tramontata, potrà risvegliare in molti di noi qualche fantasia e fors’anche un poco di rimpianto.


  A. Piccioli, Gli allor ne sfronda. “Il Colonnello Chabert” della “Lucio d’Ambra Film” di Roma, «Apollon», Roma, Anno VI, Aprile 1921, [p. 24].

  Alla “Lucio d’Ambra Film” si sono specializzati in riduzioni cinematografiche de Balzac. Prima questo Colonnello Chabert poi La falsa Amante, di cui ci occuperemo, poi altri racconti balzacchiani già preannunciati in sordina E sarebbe, invero, questa, una assai bella trovata se alla “Lucio d'Ambra Film” conoscessero tutto Balzac: perché allora saprebbero sce­gliere, assai meglio di quel che non fanno, per entro la fantasmagoria iridescente della Commedia umana, le trame narrative per cinematografo. Balzac ci ha lasciato racconti e romanzi che travasati, sullo schermo! farebbero meravigliosa figura. Per esempio ... ma noi, chè non vogliamo dar consigli gratuiti a chi guadagna fior di quattrini pur con la lor maldestra imperizia: fac­ciano, essi, questi signori, tutta la loro fatica!

  Ma non è poi a dire che Le Colonel Chabert questa piccola novella balzacchiana, fosse sprovvista di tutte le risorse pel cinematografo. Risorse ce ne sarebbero siate, se le avessero sapute sfruttate.

  Così, com’è fatto, invece, questo lavoro, non ha consistenza artistica, nè efficienza narrativa. È una assai ben povera cosa. Desolatamente povera la mise en scène, artificiosamente stilizzata la recitazione dei personaggi, cattivissima la fotografia.

  E che altro ci rimane?


 Mario Puccini, Viva l’anarchia. Romanzo di un viaggiatore in poesia, Firenze, R. Bemporad & Figlio – Editori, 1921. 

 p. 167. E, mentre mangio, egli [Carlo Mellini] mi ripete i concetti fondamentali a cui s’ispira il suo conterraneo Zuccarini: e che egli condivide. — Tre grandi anime ha prodotto il secolo passato: Nietzche, Balzac, Carducci. Nietzche ha dato agli uomini la coscienza di viveri e di trionfare ad ogni costo, almeno su loro stessi. Nessun scrittore pensò quanto lui all’elevazione dell’uomo; nessuno quanto lui amò l’umanità. Carducci, con la sua opera di poeta e di critico, ha infuso negli italiani il senso delle loro tradizioni storiche e civili. E Balzac, il più grande psicologo dei tempi moderni, ha dato, con la sua opera materiata di verità, il senso della realtà agli uomini; il senso della realtà, che, dopo il senso storico, è indispensabile, perché una nazione possa giungere a superare il suo destino.

 pp. 178-179. Il mio ospite era felice. E mi diceva all’orecchio: — Lei ha saputo accontentare tutti. I proprietari dicono: è un discorso conservatore; i repubblicani: conosce Mazzini meglio di noi : è un repubblicano; i socialisti: ha letto Engels e Marx, costui ama il popolo. Ma come ha fatto a radunare insieme tanta gente, senza che si udisse il più piccolo stridore? Lei ha il senso della realtà  si vede che ha letto Balzac.

 p. 291. Lo so anch’io che la Madame Bovary, nessuno degli scrittori moderni l’ha scritta ancora. Che Brocchi non è Balzac; che Giorgieri Contri non è Maupassant; che Zuccoli non è Zola.

 p. 294. Ma, tra un Linati che arpeggia nelle sue prosette di venti righe, e Da Verona che imbastisce un romanzo, dove si muovono cinquanta uomini, io sto con quest’ultimo. Lei dirà; ma l’arte è Manzoni, ma l’arte è Balzac, ma l’arte è Dostoiewski. E io le risponderò con le parole del mio amico critico (glielo farò conoscere): «Sono i tempi che fanno i grandi artisti. E la nostra è un’epoca di decadenza». E poi io chiedo agli scrittori che leggo, un dono essenziale: che non siano noiosi. Manzoni sarà grande; Verga sarà grande; Fanzini sarà grande; Pirandello, De Roberto, Albertazzi saranno anche grandi: ma perché non mi divertono e anzi mi tediano? Balzac non mi annoia mai: e Balzac è ben grande.

 p. 332. — E le vostre commedie — interruppi — sono tutte su un tono? Perché mi pare strano che un uomo del vostro ingegno sia rimasto soffocato nel silenzio, come voi dite.

 — Lei ha letto la Commedia Umana di Balzac? Chi non l’ha letta, per Dio! Ebbene, quello che Balzac ha fatto nel romanzo, io, Domenico Stanga, ho voluto farlo sul teatro. Tentativo audace? Ma audace, audacissimo! Quanti drammi, nella vita, che non trovano il loro storico!


  Giovanni Rabizzani, Luigi Capuana critico, in Ritratti letterari a cura di Achille Pellizzari con una «nota» di A. F. Formiggini, Firenze, Società Anonima Editrice Francesco Perrella, 1921 («Biblioteca Rara. Testi e documenti di Letteratura, d’Arte e di Storia. Seconda Serie», XXXVI-XXXVIII). 

  p. 22. Anche questa idea, pertanto, tratta da Hegel a traverso De Meis, lo spingeva, come le altre desanctisiane, verso il naturalismo, considerato la fase culminante dell’arte moderna, forse la più vicina all’esaurimento ed alla catastrofe. Ed egli poneva Balzac a capo del gran movimento, e suoi discepoli erano lo Zola, il Flaubert, il Daudet, i De Goncourt. […].

  p. 23. Ma fu davvero naturalista? Quando apparve Giacinta, nel 1879, quell’etichetta fu il suo orgoglio. Bisogna leggere e meditare la prefazione alla terza edizione pubblicata dieci anni dopo, in forma di lettera a Neera. Sono pagine mirabili di confessione. Usciva da una lettura farraginosa di Balzac, di Madame Bovary, dei primi Rougon Macquart. La prima stesura di Giacinta porta le impronte balzachiane, con quell’intervento saltuario dell’autore a interrompere, medianti suoi giudizi e riflessioni, l’azione dei personaggi.

  Ma nella revisione (che fu l’edizione terza) l’impersonalità trionfò, l’autore rimase dietro le quinte, la narrazione divenne tutta azione, fu rifatta la lingua e lo stile. Giacinta non cessò d’essere il «primo saggio di romanzo contemporaneo italiano», un «addentellato» (così si espresse lo stesso autore) del romanzo francese. 

Oriani romantico, pp. 53-60. 

  Cfr. 1913.


  Ettore Romagnoli, Notizie bibliografiche. Letterature straniere in Italia. O. di Balzac. “Les contes drolatiques” (Le sollazzevoli historie) prima decina. Traduzioue di G. Borsi e Fernando Palazzi, disegni di G. Rosso. Roma, A. I. Formíggini, 1921, pp. 285, in 8°. L. 7.50, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno IV, N. 4, Aprile 1921, p. 75.

  Io sono ferventissimo ammiratore di Balzac.

  Una sola opera è riuscita un po’ pesante: «Les contes drolatiques». Gridatemi pure la croce addosso. Piacevole, sollazzevole il contenuto, ma ad ogni lettura si rinnovava in me un sordo tedio, dipendente dunque dalla forma. E non dal solo arcaismo della forma: perché Rabelais l’ho letto sempre con rapimento.

  E con rapimento ho letto adesso: «i Conti drolaticci ovverosia le sollazzevoli historie raccolte nelle abbazie di Turenna dal sere di Balzacco, ora nel nostro idioma per la prima volta recato da un dottoricchio toscano e da un altro della Marcha d’Ancona».

  Il dottoricchio toscano è, ahimè!, Giosuè Borsi, che tradusse «La bella Imperia» e «Il peccato veniale» e l’opera gli fu troncata dalla morte. L’altro della Marcha d’Ancona è Fernando Palazzi. Parlerò un’altra volta del Borsi: oggi considero più specialmente le 8 novelle tradotte dal Palazzi.

  E dunque, sorpreso dalla facilità e dal vivo diletto con cui scorrevo le pagine italiane, volli tornare, per prova, al testo francese. E trovai il solito inciampo.

  E mettendo a confronto i due testi, mi resi facilmente ragione del fatto, certo non frequente. La prosa dei «Contes drolatiques», come in gran parte quella dei novellieri antichi, è tutta intessuta di locuzioni e modi di dire pittoreschi sempre, e sovente furbeschi. Il Palazzi non ha tentato un trasporto meccanico, che sarebbe stato quasi sempre insipido, e spesso privo di significato: bensì, liberandosi, secondo il precetto oraziano, dalla tirannia della paroletta, ha cercato, con piena libertà, i modi italiani che corrispondessero ai francesi nello spirito. E non solamente li ha trovati sempre; ma spesso, per uno francese, ne ha trovati due o tre italiani uno più bello dell’altro, e ciascuno, quasi sempre più arguto, più vivace, più pittoresco del francese. E non ha quasi mai resistito alla tentazione di adoperarli tutti.

  E non è risultata né confusione né pesantezza. Tutt’altro. La veste un po’ greve, un po' grigia, del Balzac, è divenuta tutta varia di colori allegri chiassosi. E vediamo che questa appunto conveniva alla materia balzacchiana. Non ho ancora detto che il Palazzi ha adoperata lingua del cinquecento. Sicché si pensa con ammirazione quasi sbigottita all’immensa preparazione, alla paziente e faticosa cernita: nè meno mirabile è il temperamento per cui quel cinquecento, pure serbando intatti i suoi caratteri, non offre alcun impaccio al lettore moderno.

  Quanto lavoro e quanto tempo per duecento pagine di traduzione! Lo so. Ma solamente così si fanno le opere che rimangono. Queste sollazzevoli istorie sono oramai un libro classico italiano, prendono il loro degno posto accanto ai nostri migliori novellieri del trecento e del cinquecento. Così e non con le fumose improvvisazioni, non con gli scritti di moda, si accresce il patrimonio della nostra letteratura.

  E qui si affaccerebbero due eleganti quesiti. Dunque il traduttore ha superato l’autore? E la lingua italiana ha maggiore potenzialità della francese? Paradossi apparenti. Ne parleremo in un’altra occasione. (Dalle I. I. I.).


  Guido Ruberti, Il teatro contemporaneo in Europa. Volume II, Bologna – Rocca S. Casciano – Trieste, L. Cappelli, Editore, 1921.


Enrico Ibsen e il dramma scandinavo: B. Biornson […].

  p. 76. Le questioni di denaro che formicolano nell'opera di Mirbeaux, di Brieux, di Bernstein, ebbero già la loro impostatura definitiva in questo lavoro di Bjornson [Un fallimento]: il quale per conoscenza precisa del mondo degli affari e per potenza realistica d’espressione rivaleggia felicemente con Balzac e con Lesage. V’ha in più nello scrittore nordico la preoccupazione costante del predicato morale che preannunzia l'indirizzo idealistico dell'arte moderna, e che altri drammi dovevano mettere ancora in maggior luce.

  p. 82. Venne la guerra prussiana del ‘70, venne la propaganda coraggiosa ed entusiasta del grande critico Brandès ad infrangere le barriere entro le quali l’arte e la cultura nordica sembravano quasi stagnare in una ingloriosa sterilità. Con le voci della filosofia darwiniana, comtiana e tainiana, con i riflessi della splendida arte positivista dei Balzac, dei Flaubert, dei Goncourt, dei Zola, lo spirito del secolo beffardo, scettico, miscredente, veniva ad introdursi nelle calme abitudini dei popoli dell’estremo nord.


Il movimento idealista in Francia e l’influsso delle letterature nordiche.

  p. 128. Passando dal romanzo al palcoscenico, il maestro di tutte le psicologie [P. Bourget], l’erede di Balzac, di Stendhal, di Flaubert, non poteva non serbar fede al programma realizzato in trenta anni di una magnifica produzione filosofica e critica, ove il pensiero si affianca alla fantasia ed all'analisi.

  p. 158. Ma di un tipo siffatto [l’uomo d’affari] il Mirbeau è riuscito a darci soltanto la caricatura: una figura contraffatta, grottesca, nella quale duriamo fatica a riconoscere i tratti della figura originale e che sembra tirata fuori dai Personaggi eccessivi di Balzac.

  p. 160. Vi [ne: Gli affari sono affari] ricerchereste invano un intreccio, nel senso proprio della parola, che il legame che li tiene uniti è puramente ideale: ma vi palpita per entro un fremito di vita possente ed oserei quasi dire balzacchiano.

  p. 246. Ma Emilio Fabre ha un’altra passione nella sua vita; gelosa questa ed esclusiva: Balzac. Dal maestro dei maestri egli ha ereditato quel dono potente di vita, quella facoltà di drammatizzare cose e caratteri, quell’intuizione speciale della funzione che il danaro era destinato ad assumere nella vita odierna che fanno dell’autore de La Comédie Umaine (sic) il vero precursore dei tempi nuovi.

  p. 247. Gli artisti veramente grandi, sono stati anche i più completi ed universali: vedete Shakespeare, Molière, Balzac. Il loro punto di vista abbraccia l’umanità intera.

  p. 249. Da Balzac il Fabre ha tratto due drammi, che rimarranno come un modello di riduzione scenica, tanto il drammaturgo è riuscito a compenetrarsi nell’intendimento del romanziere e a farne suo il succo vitale. La Rabouilleuse, conosciuta in Italia sotto il nome di Il Colonnello Bridau, è la storia interessante di una captazione di eredità da parte della giovane amante del vecchio Rouget, alla quale si oppongono i parenti di lui, e in special modo il colonnello Bridau, figura piena di vita, nella commedia come nel romanzo balzacchiano. César Birotteau è il dramma della probità commerciale. In Birotteau, profumiere retto ma ambizioso che si rovina per cattive speculazioni, e che non ha un istante di pace finché non ha restituito fin l’ultimo soldo ai suoi creditori, rimanendo morto per la gioia di aver ottenuto finalmente la riabilitazione, il Fabre ha tracciato l’elogio del piccolo borghese francese, onesto fino all’eroismo. Egli non ha mai celato la sua profonda simpatia per gli umili, rigettando sui ricchi e sui potenti tutto il fardello degli egoismi e delle disonestà che inquinano irrimediabilmente il mondo degli affari. Il suo ultimo lavoro: Un grand bourgeois non è che lo svolgimento ulteriore di un siffatto concetto.


Maurizio Maeterlinck.

  p. 417. Chateaubriand riannoda la tradizione interrotta dal razionalismo cartesiano del XVII secolo e reintegra Dio nell'arte. Alla sua scuola Lamartine, Vigny, Vittor Hugo vi fanno rientrare l'infinito, e trascinano l'anima al di là della realtà contingente. Con essi la poesia tende verso la musica: l’infinito diventa l'inconoscibile con Sainte-Beuve e Balzac; si afferma ossessione del mistero e dell'al di là con Gerard de Narval (sic), Baudelaire, e Villiers de L'Isle Adam; misticismo morbido fatto di sadismo intellettuale e di cainismo con Barbey d’Aurevilly e con Verlaine.


  A.[lbano] S.[orbelli?], Recensioni. Gigli Giuseppe, “Balzac in Italia. Contributo alla biografia di Onorato di Balzac”, Milano, Treves, 1920, in 16°, «L’Archiginnasio. Bulletino della Biblioteca Comunale di Bologna», Bologna, Cooperativa Tipografica Azzoguidi, Anno XVI, 1921, p. 104.

  Il prof. Gigli è noto per molti e interessanti lavori riguardanti la letteratura italiana e la cultura nostra in genere; ma questo volume supera forte tutti gli altri suoi per l’importanza dell’argomento, per l’ampio sviluppo e per quel fine senso di discrezione e di arte che l’A. ci ha posto. È un libro scritto alla francese, quando si prenda l’espressione nel suo senso migliore e più significativo; e cioè, grande conoscenza dell’argomento, facoltà di abbracciare tutto il campo, non sempre facile, e di renderlo viceversa in una espressione di facilissima assimilazione; scorrevolezza e festività di stile, abilità a tener sempre desto l’argomento e a concatenare un fatto con l’altro in guisa da dare un libro, sotto un certo punto, dilettevole e di gradita lettura. Il Gigli scrive, incominciando, che ha tratto la spinta a comporre quest’opera dalla lettura del «Salotto della contessa Maffei» di Raffaello Barbiera: per parte mia debbo confessare che il suo volume mi piace assai più di quello preso ad imitare, per una maggiore vivezza e spigliatezza e per quella grande ammirazione e simpatia che desta in tutti il nome di Onorato di Balzac.


  R. S., Recensioni. “Balzac in Italia” di Giuseppe Gigli(1), «Rivista d’Italia», Milano, Anno XXIV, Fascicolo I, 15 Gennaio 1921, p. 117.

  Contributo alla biografia di Onoralo Balzac, intitola l’autore il suo vo­lumetto: ma in realtà egli non ci dice gran che di nuovo: rievoca, più che altro, ricordi già da altri tramandatici: infatti le citazioni sono frequenti.

  Comunque è un libro piacevole che si legge con interesse, anche per lo stile piano e corretto col quale è scritto.

  Balzac venne sovente in Italia, attratto e dalle bellezze del nostro Paese, e anche dal desiderio di farvi fortuna: curiose sono certe sue speranze di speculazioni minerarie in Sardegna. Balzac industriale! ... chi lo immagine­rebbe?

  In Italia trovò sempre grande e cordiale ospitalità: i salotti più accredi­tati se lo disputarono, le case patrizie se lo contesero: la critica e la stampa furono quasi sempre con lui benigne: chè, se talune volte non gli risparmia­rono attacchi pungenti, tali attacchi erano stati dal fecondo autore francese meritati con alcuni suoi giudizi avventati sugli italiani d’allora.

  Balzac in Italia trovò anche ispirazione per i suoi lavori: trovò ammi­razione e devozione da parte di qualche bella dama: destò gelosie e fra le altre quella, forse giusta, del poeta Andrea Maffei.

  A molti italiani, conosciuti nei suoi viaggi, Balzac dedicò parecchi dei suoi romanzi.

  Un elenco completo delle traduzioni che di questi furono fatte in Italia chiude il volume, ed è, anche questa, una memoria non meno interessante.


  R. S., Ultime teatrali. Filodrammatici. “Turnisi e C.”. Commedia in tre atti di Cesare Hanau, «Corriere della Sera», Milano, Anno 46, N. 297, 13 Dicembre 1921, p. 6.

  In due atti, Balzac ha dato al teatro in Mercadet più che un tipo un archetipo. La figura è sì perfetta che della perfezione ha perfino un po’ la solenne freddezza. Certo Mercadet è più vasto della commedia in mez­zo alla quale è posto. Egli racchiude in sé infinite possibilità che Balzac non ha voluto sfruttare. Anzi il grande scrittore l’ha con­chiuso in poche linee definitive, ed ha tra­scurato il pittoresco dei troppi particolari per darci la sintesi potente. Cesare Hanau, in­namorato di Mercadet, s’è inspirato ad esso, e ha riprodotto i suoi medesimi casi per disegnare «un personaggio più alla mano, più diffuso, più popolarmente comunicativo, un personaggio che uscisse dalla grande letteratura per scivolar festoso, piacevole, di­vertente, talvolta anche buffo nel più modesto teatro dialettale.

  Mercadet è diventato il signor Turnisi, mez­zo banchiere rovinato appunto come Mercadet, dalla fuga di un suo socio, che gli portò via il capitale. Da allora egli è vissuto di ripieghi, e, se non di imbrogli, di combina­zioni un po' troppo ingegnose. E’ indebitato fino ai capelli, ma ha un suo modo cordia­le, fragoroso, espansivo di intenerire i cre­ditori o di far supporre che egli stia per scoprire qualche aureo Perù, che chi va a chiedergli minacciosamente la restituzione del proprio denaro finisce, invece, per la­sciargliene dell'altro. Un giorno tutti i nodi vengono al pettine, e i creditori, uniti nel­l’ira e nella delusione, decidono di far falli­re quel pagatore a chiacchiere. Allora Turnisi, sempre come Mercadet, per salvarsi dal naufragio incarica un suo conoscente di po­chi scrupoli di finger d'essere il socio fug­gitivo che toma pentito e pieno di milioni. La voce del suo arrivo ridarà credito al fal­lito. Per l’appunto mentre Turnisi aspetta che questa finzione si compia, capita dalle Indie il suo vero socio, carico di milioni tan­gibili e di scimmie, pappagalli e leoni; su Turnisi si abbatte un ciclone di biglietti da mille.

  I tre atti hanno divertito moltissimo e han­no suscitato continue risate e continui applau­si a scena aperta e alla fine degli atti. In tutto più di una quindicina di chiamate. Convie­ne riconoscere che questa riproduzione e vol­garizzazione del personaggio di Balzac è fat­ta assai bene e che la commedia coi suoi molli episodi è, sì, un po’ slegata e fram­mentaria, ma è molto vivace ed è sempre rin­novata da piccole e allegre sorprese. Il Mu­sco nel secondo e nel terzo atto diede alla sua interpretazione toni e tocchi veramente irresistibili. Non ci fu scena in cui gli applau­si non lo interrompessero. Il Pandolfini, la Anselmi, la Balestrieri, il Condorelli, il Co­lombo, il Libassi recitarono con la solita spontaneità.

  Stasera Turnisi e C. si replica.


  Scannabue, Malignità a fin di bene, «Poesia ed Arte», Ferrara, Editori Taddei, Anno III, Numero 10, Ottobre 1921, pp. 161-162.

 

  p. 161. Come si fa presto a diventar celebri, in Italia! Non solo gli autori, i filosofi e i critici, lo diventano, ma anche i traduttori. A Fernando Palazzi, che ha voltato in lingua italiana del cinquecento otto racconti drolatiques del Balzac, è capitata recentemente fra capo e collo la laurea di traduttore impareggiabile e di miglioratore (incredibile, ma vero) dello stesso testo francese originale. In prova di ciò una esimia rivista bibliografica citava un brano del Balzac ed il corrispondente brano del Palazzi e la citazione aveva tanta fortuna da indurre l’editore della traduzione a recarla in pompa magna fra le pagine della sua bibliografica rivista (perché ogni editore che si rispetti ha oggi in Italia una sua imparziale e provvida rivista). Ebbene: volete sapere che cosa di straordinario ha fatto Fernando Palazzi nel celeberrimo brano esaltato e multiriprodotto? Laddove l’onesto e parco Balzac si limita ad adoperare due semplici verbi, il Palazzi, che evidentemente non bada a spese, ne ha cacciati otto dei verbi (incredibile, ma vero, anche questo) dimostrando così, se non il suo buon gusto, la rara conoscenza che egli possiede del dizionario dei sinonimi.


  Matilde Serao, Il Romanzo della Fanciulla. Nuovissima edizione riveduta dall’autrice, Firenze, R. Bemporad & Figlio, Editori, 1921.

  pp. 102-103. Cfr. 1885.


  Ardengo Soffici, Giornale di bordo. Terza edizione, Firenze, Vallecchi Editore, 1921.

   pp. 93-94. Cfr. 1913.


  Silvio Spadazzi, La Città del Poliziano, «Noi e il Mondo. Rivista mensile de “La Tribuna”», Roma, Anno XI, N. 6, Giugno 1921, pp. 409-413.

  p. 413. Una testa di vecchia che sa la passione e l’arte di Michelangelo da Caravaggio, vi fa pensare alle acute osservazioni di Onorato di Balzac sulla somiglianza, fisica e morale, degli uomini con gli animali.


  Nunzio Vaccalluzzo, Massimo D’Azeglio romanziere (1828-41), «Il Nuovo Patto. Rassegna italiana di pensiero e di azione», Roma, Anno IV, N. 6-8, Giugno-Agosto 1921, pp. 323-351.

  pp. 336-337. Il più discreto giudice del libro fu il Manzoni; il Tommaseo, che pei conti e marchesi avea poca simpatia, credette di abbassarlo dicendo che l’Azeglio era sul fare del Balzac (2), con che voleva dire ch’era contaminato dal verismo; e certo l’Azeglio non ebbe nè gli scrupoli religiosi del Manzoni nè il gretto, scontroso puritanismo del Tommaseo, e una qualche tinta balzachiana è visibile nei due romanzi (3). Ma del resto nessuno condannò con ugual giustizia sommaria dell’Azeglio tutta la letteratura francese fiorita fra il ‘30 e il ’48, specie il romanzo verista e naturalista, che accusò di aver pervertita l’Europa. Quanto all’amore non trovava nei romanzi francesi una figura di pudico e grazioso disegno come, per esempio, la Lucia del Manzoni; una figura di brava donna che sia insieme naturale, simpatica, gentile»; e concludeva che nel mondo si fa all’amore molto meno di quello che generalmente si crede e che l’amore, di cui la letteratura francese aveva fatto un ignobile campo di speculazione, era un prodotto artificiale della letteratura medesima.

  Sebbene questo sia un giudizio tardivo dell’Azeglio, non è equo dire ch’egli è sul gusto del Balzac. Più nel vero fu il Mazzini quando disse che «le ultime scene del Fieramosca hanno merito reale, e sono ardenti di sentimento patriottico, ma l’Azeglio è quasi sempre freddamente corretto e gli manca fervore poetico»

  (2) Cfr. Cantù, Reminiscenze, ecc., II, p. 138. La lettera del Tommaseo è ora pubblicata da E. Verga (Il primo esilio di N. T., 1834-9, 1901, p. 113): «Che il Balzac sia accarezzato costà me ne duole più che una nuova invasione di Barbari ... L’Azeglio non lo doveva presentare al Manzoni, ma l’Azeglio è un po’ su quel gusto. E a me disse spropositi degni d’un nobile piemontese ...». E il ’36 al Cantù da Parigi (op. cit, p. 60): «L’Azeglio so che è in viaggio. Qui sarà accolto bene, come bell’uomo e marchese e pittore (non crediate che il titolo di marchese non valga a Parigi). Per le qualità dell’animo non ci si bada più che tanto; e una camicia pulita apre ogni casa. Come romanziere non piace». E certo, non ostante lo spirito di moderazione che è nel romanzo e il rispetto pei Francesi, il Fieramosca era una ben dura lezione per loro. È da notare anche che in quel lungo e bizzarro saggio sul romanzo storico che il Tommaseo pubblicò in Bellezza educatrice (1838-41) non è fatto cenno alcuno dell’Azeglio.

  (3) Sui rapporti dell’Azeglio e Manzoni col Balzac vedi G. Gigli, Balzac in Italia, Treves, 1920, p. 136. È curioso che il Balzac confessasse ingenuamente che non aveva voluto leggere il Marco Visconti.


  Zadig, Le Films del giorno. Note critiche. “Il colonnello Chabert” (Lucio D’Ambra Film). Cinema Ambrosio, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 11, 10 Giugno 1921, pp. 25-27.

  Ricostruire su una novella, è vero, è sempre una cosa un po’ imbarazzante e pericolosa, come in questo caso, quando la novella quasi sempre tace laddove il film avrebbe avuto bisogno di attingere della descrizione, ma nulla avrebbe impedito però di passare leggermente oltre alla monumentale figura di Chabert, per far meglio risaltare il testo della novella balzacchiana, vale a dire l’intendimento eminentemente sociale, che avrebbe dovuto, per contro, esser messo in tutt’altra luce e portato sullo schermo con molta maggiore fedeltà.

  Non comprendiamo quindi come da una trama così solida si sia voluto ricavare un lavoro così scialbo e di così scarso interesse, e non si sia pensato per nulla a valorizzarlo agli occhi del pubblico. Vi sarebbero forse state delle difficoltà veramente insuperabili? Forse perché avrebbe potuto essere anche un lavoro d’attualità? Forse che i dopo guerra, con le loro terribili vicende, non hanno tutti in sé, allo stesso modo, del dramma? Forse che il nostro pubblico si sarebbe crucciato al ritorno di un vecchio militare che, dopi esser stato creduto morto, trova la sua famiglia distrutta e con la sua famiglia tutto il suo passato? Forse che una donna così ambiziosa e leggera, come la moglie del Colonnello Chabert, avrebbe disgustato le nostre gentili signore o sarebbe stata di troppo cattivo esempio? ...

  Perché non dare maggior importanza a tutti questi elementi, quando, forse, su essi poggia tutto l’edificio della novella balzacchiana? Perché così poca importanza a Derville e mettere in così poca luce la losca opera di Delbecq? Perché una signora Ferraud così sui generis, quando la novella in proposito si perde non poco a descriverla nella sua più completa luce? Dopo Chabert, non era forse il personaggio più psicologicamente importante? Chi meglio della contessa Ferraud poteva essere il perno del dramma? Non era forse il caso di darle una prevalenza maggiore? Perché invece perdersi in tante altre frivolezze o scenette senza scopo, quando, viceversa, non si è cercato neppure di dare importanza al fatto della scomparsa del colonnello Chabert, chiave del dramma, scomparsa che sarebbe avvenuta durante una delle più celebri e sanguinose battaglie, quella di Eylau, mettendo così maggiormente in rilievo la facilità di poter credere realmente alla morte d’un eroe? Non sarebbe per caso stato anche istruttivo mettere sott’occhio qualche episodio riprodotto di questa stessa terribile pagina di guerra, già ricordata in versi immortali di Victor Hugo, e che fu, forse, una delle più tragiche per le armate napoleoniche?

  Un semplice moncherino; la morte di un eroe che quasi non si rileva … ed una salvezza delle più banali, poiché fra l’altro si sarebbe potuto almeno coprire il suo corpo di neve non buttata colle mani ed a bella posta, col coraggio anche di visionarne i particolari in primo piano.

  Non vogliamo discutere i meriti di Lucio D’Ambra e di Carmine Gallone, che si è assunta la responsabilità del lavoro, ma indiscutibilmente sono stati, da questo lato, colpevole (sic) entrambi. Ci spiace doverlo confessare, ma l'ottima scelta dell’argomento ha pesato per contro a biasimo loro. Hanno dimostrato d'aver visto nel lavoro meno, di quello che effettivamente conteneva o, se anche ci sono arrivati, non ci sono certo arrivati nel modo migliore.

  Non è più il caso quindi di sostenere la messa in scena. S’essa ha avuto dei momenti buoni, s'essa fu, in cero modo, anche accurata in certi particolari, s’essa ha avuto anche una certa genialità nel rompere la monotonia di certi episodi, s’essa ha saputo ancora presentarci degli ambienti discreti, ha però peccato assai in tutto il resto, dai costumi all’interpretazione.

  Come poteva essere compreso, di quello che vedeva, il pubblico, quando sono state messe a cavallo delle guardie nazionali anziché dei dragoni, e quando mi si sono vestiti i personaggi con abiti completamente moderni? A quale scopo, allora un colonnello Chabert in carrick? Forse che un solo personaggio poteva bastare a far risalire un pubblico cento anni addietro? Le Bargy è stato veramente grande, è vero, è stata veramente un’àncora di salvezza per il lavoro, ma non poteva poi fare maggiori miracoli di quello che ha fatto. Artista certamente d'alto valore, non nego ch’egli abbia saputo magnificamente emergere, ma cinematograficamente il valore di un solo interprete, oggi, non è che un semplice diversivo. Occorrevano anche degli altri interpreti. Viceversa la scelta ci ha dimostrato un cattivo gusto. Nè Rita Monte, nè U. Zanuccoli, nè M. Grunewald, né Lyliana Mar, erano elementi da mettersi a fianco a un Le Bargy. Talchè hanno finito col rendere ancora meno di quello che avrebbero potuto realmente rendere.

  Un valore discreto, forse, lo ha assunto fotograficamente, specialmente negli esterni quasi tutti riusciti ed inquadrati anche con buon gusto e con criteri moderni; ci sono, viceversa sembrati poco sfruttati gl'interni. La troppa animazione, è vero, porta anche molto spreco di pellicola, ma, d'altra parte, si poteva anche pensare che questo avrebbe giovato molto a mettere in rilievo il significato delle stesse dizioni.

  Del resto, non tutto il biasimo verrà per nuocere, se il Colonnello Chabert non è stato per noi un grande lavoro, ciò nulla implicherà di poter presto cancellare, con un lavoro migliore, la nostra poco favorevole impressione avuta.


  Zadig, Le Films del giorno. Note critiche. “Sotto i ponti di Parigi” (A. De Giglio Film). Cinema Vittoria, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 19, 10 Ottobre 1921, p. 31.

  Un lavoro che ha piaciuto; un lavoro nel complesso, anche interessante e pieno di belle situazioni, tratteggiate con fine intento artistico e con serena accuratezza.

  L’«A. De Giglio» non è una Casa, del resto, facile a trascurare le sue messe in scena e ad editare lavori che non possano soddisfar il gusto del pubblico. E come questo, anzi, fu sempre uno dei suoi principali scopi, possiamo riconoscerle ancora tale merito, anche in questo film.

  Dove, invece, il lavoro ci ha lasciato intravvedere delle manchevolezze e delle dissonanze, è stato nel modo di riduzione o, più che altro, nel sistema seguito, vale a dire di modernizzare e di plasmare alla 1921, al completo, il contenuto di tutto il lavoro, per massima parte tolto dal celebre Ferragus di Balzac. A parer nostro si è, in questo, mancato di tatto nel senso che si poteva ugualmente trasportare, tale e quale, il significato del romanzo balzacchiano, senza alterarlo e senza mutilarlo, come in molti episodi è stato fatto, per foggiarlo ad un pregiudizio da noi tante volte messo in evidenza ed a priori combattuto come pernicioso.

  Ma, ripeto, poiché la conoscenza di un autore, non implica che non se ne debba ricavare quello che più piace, così, preso nel complesso, ci sentiamo di elogiare la «De Giglio», se non altro, per il sano criterio d'aver mandato la sua troupe sul posto a Parigi, dove nulla è stato risparmiato per la fedeltà storica dei più salienti episodî. […].


Adattamenti teatrali.


  Angelo Musco (Compagnia di), Turnisi e C., commedia in 3 atti di Cesare Hanau, riduzione del Mercadet (L’affarista) di Balzac e tradotta in dialetto siciliano da Giuseppe Morabito. Interpreti: Pandolfini, Balestrieri, Condorelli, Co­lombo, Libassi Rosina Anselmi, Milano, Teatro dei Melodrammatici, 12 dicembre 1921.


Filmografia.


  Cesare Birotteau. Regia di Arnaldo Frateili. Sceneggiatura: Guido Cantini e Maso Salvini. Fotografia: Giovanni Merli. Interpreti: Gustavo Salvini (Cesare Birotteau), Rina Calabria (la moglie di Birotteau), Paula Paxi (Cesarina), Roma, La Tespi Film, 1921.


  Il Colonello Chabert, Regia di Carmine Gallone. Scenografia: Raffaello Ferro. Interpreti: Charles Le Bargy, Rita Pergament, Lyliana Mar, M. Grunewald, Roma, Lucio D’Ambra Film, 1921.


  La Falsa amante, Messa in scena e riduzione di Lucio D’Ambra. Regia di Carmine Gallone. Fotografia: Giovanni Grimaldi. Interpreti: Lia Formia, Umberto Zanuccoli, Nissi Lazzari, Renato Piacenti, Roma, Lucia D’Ambra Film, 1921.


  Giovanna la Pallida. Libera versione di Ivo Illuminati. Regia di Ivo Illuminati. Fotografia: Aldo Lunel. Scenografia: Romolo Corradetti. Interpreti: Sylvana Morello (Giovanna), Nerio Bernardi (Orazio), Kakia Kutuvali (Myriel), Carlo Gualandri (Pietro), G. Pena, Cav. G. Piemontesi, Piero D’Orazi, Guelfo Bertocchi, M. Pasetti, Roma, Medusa Film, 1921.


  Per il passato [Argow le pirate], Regia di Toddi [Pietro Silvio Rivetta]. Fotografia: Aldo Lunel, Renato Sandri. Interpreti: Maria Carmi, Gleb Zborominsky, Tatiana Gorka, Paolo Pezzullo, Roma, Medusa Film, 1921.


  Sotto i Ponti di Parigi. Riduzione libera del romanzo Ferragus di H. de Balzac. Inscenato e diretto da Mario Guaita (Ausonia). Sceneggiatura: Renée de Liot. Fotografia: Cesarino Muzio, Carlo Rifaldi. Scenografia: prof. C. Miglioli. Interpreti: Mario Guaita-Ausonia (il direttore della Banca), Fede Sedino (Luisa), Angelo Rebuffi (il segretario), Felice Carena, Sig. Beresini, Torino, A. De Giglio, 1921.


  Una notte senza domani. [da Les Chouans]. Regia di Gian Bistolfi. Scenografia: R. Savar. Fotografia: Ferruccio Kustermann. Interpreti: Ninì Dinelli (Flora di Verneuil), Nerio Bernardi (Andrea de Montauran), Nella Serravezza (Magda), Roma, Cines Film, 1921.


Annunci cinematografici.


  Noi, La Campogalliani e C.; La “Campogalliani e C.” lavora, «La Rivista Cinematografica – internazionale – quindicinale – illustrata», Torino, Anno II°, N. 19, 10 Ottobre 1921, p. 62 e 64.

  Viene annunciata la prossima realizzazione dell’adattamento cinematografico di: La canne de M. de Balzac (La canna del Sig. O. De Balzac)[10] di Madame Émile de Girardin [1856] (e non, come scritto, di Émile).


  [1] Cfr. H. de Balzac, Sur Catherine de Médicis. Introduction de Nicole Cazauran, in La Comédie humaine … cit., ‘Nouvelle Pléiade’, t. XI, 1980.

  [2] Cfr. Ferdinando Martini, Nel centenario di Giuseppe Giusti … cit., 1909.

  [3] Cfr. «Il Caffè Pedrocchi», 6 dic. 1846. [N. d. A.].

  [4] Cfr. Sac. Dott. Giovanni Casati, Fra libri e autori condannati dall’“Indice”. Balzac, «Rivista di Letture. Bollettino della Federazione Italiana delle Biblioteche Cattoliche», Milano, Anno XVI, N. 7, 15 luglio 1919, pp. 97-101.

  [5] Da uno studio sul Balzac, che sarà pubblicato nella prossima Critica. [N. d. A.].

  [6] Parte conclusiva di un saggio, che sarà pubblicato nel prossimo numero della «Critica». [N. d. A.].

  [7] Cfr. Benedetto Croce, Note sulla poesia italiana e straniera del secolo decimonono. XIII. Zola e Daudet, «La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia», Napoli, Volume XIX (VII della Seconda Serie), 1921, pp. 193-201.

  [8] Cfr. Domenico Giuliotti (a cura di), Antologia dei cattolici francese del XIX secolo, Lanciano, R. Carabba Editore, s. d. [1920].

  [9] Conferenza inaugurale dell’anno didattico 1916-17 all’Università Popolare di Milano (detta il 5 Novembre 1916 nel «Salone degli Affreschi»). […]. [N. d. A.].

  [10] Il film avrà come titolo: Ted l’invisibile (regia di Carlo Campogalliani) e uscirà nel 1922.


Marco Stupazzoni

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