mercoledì 13 novembre 2013


1877




Studî e riferimenti critici.


  Corrispondenza parigina, «Gazzetta dei Teatri. Giornale letterario, artistico, teatrale», Milano, Anno XXXIX, N.31, 28 Agosto 1877, pp. 3-5.

  p. 4. Un’altra novità l’abbiamo al Gymnase ove son cessate dopo la 163a le rappresentazioni di Bebé con un introito di 450,000 franchi. E un lavoro in quattro atti dal titolo Marthe; l’autore signor Giorgio Ohnet possiede non po­che buone qualità, stile buonissimo e abilità nel maneg­giare il dialogo, rapido efficace, incisivo non di rado; ma d’altra parte anco le mende non sono poche e danno ragione alla critica, forse un po’ troppo severe, cui venne fatto segno il nuovo lavoro. La idea prima del dramma, ad esempio, che è quella della rivalità in amore fra la suocera e la nuora non è punto nuova nè facile a soste­nersi; Balzac, un maestro, volle valersene nel teatro e scrisse la Marâtre che non riuscì — ora il sig. Ohnet volle darci, mutando però la posizione rispettiva di una delle protagoniste verso l’altra una suocera (madame Aubertin) vedova e attaccata alla memoria del marito, che significa il suo amore alla giovane nuora Marta Au­bertin: è una specie di «pendant» del lavoro di Balzac.


  Corriere della città. Nostalgia, «Corriere della Sera», Milano, Anno II, Num. 275, 6-7 Ottobre 1877, p. 3.

  Ci ricordiamo che Balzac racconta in un suo libro che degli svizzeri ch’erano al servizio del re di Francia molti mori­vano di nostalgia. Molti savoiardi ne gua­riscono d’un tratto appena vedono bian­cheggiare sul verde cupo della valle natia la cima del campanile del loro villaggio.


  Appendice. Rivista dei Tribunali, «Gazzetta Piemontese», Torino, Anno XI, Num. 284, 15 Ottobre 1877, p. 2.
  Lettore, hai tu nulla, ma proprio nulla da fare? … No? Allora va in una mattina di sabbato sulla piazza del Palazzo di città, e vi troverai raccolta una folla che ti potrà dare materia ad uno degli studii più curiosi ed interessanti.
  Mi bisognerebbe la penna di Balzac, e la matita di Gavarni per rappresentare sì viva i diversi tipi di quella strana mescolanza di persone, che dalle prime ore del mattino fino a mezzogiorno sta badaluccando e chiacchierando fra le vie Corte d’Appello e la via Doragrossa.

  La durata del Ministero, «Gazzetta Piemontese», Torino, Anno XI, Num. 328, 28 Novembre 1877, p. 1.
  D’esclusione in esclusione, di sciama in sciama, la parte dei ministeriali puri, fedeli, si è ridotta alla modesta cifra di 75, in un’Assemblea che conta 508 membri, a un dipresso la cifra dei nuovi commendatori del zuccaro. La maggioranza che nella sera del 20 era ancora di circa 120 deputati, ne perdette più di 40 nel breve lasso di ventiquattro ore. Pare la storia della pelle di zigrino, raccontata dal Balzac, quella pelle che si consumava ineluttabilmente ad ogni istante e da cui dipendeva la vita del personaggio principale del romanzo.

  Ariodante, Corrispondenza parigina, «Gazzetta dei Teatri. Giornale letterario, artistico, teatrale», Milano, Anno XXXIX, N. 22, 22 Giugno 1877, pp. 2-3.

  p. 2. Nessun autore ha potuto sfuggire al cugino, ed il grande Balzac ha scritto: «Un cousin, c’est plus qu’un frère!».


  Gerolamo Boccardo, Balzac (di) Onorato (biogr.), in Nuova Enciclopedia Italiana ovvero Dizionario generale di Scienze, Lettere, Industrie, ecc. Sesta edizione corredata di numerose incisioni intercalate nel testo e di tavole di rame, ampliata nelle parti scientifiche e tecnologiche e accuratamente riveduta in ogni sua parte secondo i più moderni perfezionamenti pel Professore Gerolamo Boccardo. Volume III, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1877, pp. 171-172.
  – Nacque nell’antica provincia francese di Touraine, capoluogo del circondario dello stesso nome, nel dipartimento d’Indre-et-Loire, a 42 chilometri O. S. O. da Tours, il 20 maggio 1799, e morì a Parigi il 19 agosto 1850, d’ipertrofia di cuore, pochi mesi dopo il suo matrimonio con una ricca vedova. Compiè i suoi studii al liceo di Vendôme, e recossi, nel 1820, a Parigi, dove esordì nella carriera letteraria con alcuni romanzi, e nella commerciale coll’acquisto di una patente da stampatore e di uno stabilimento tipografico, dal quale dovette allontanarsi per cattivi affari. Dal 1827 al 1829 pubblicò molti altri oscuri romanzi pseudonimi, che non lasciarono reminiscenza di sorte nei suoi lettori; ma nel 1830 cominciò per lui un’êra novella. Non fu più d’allora in poi oscuro ed ignoto romanziere, bensì celebre scrittore; il turense senza eleganza diventò tantosto il paladino (lion) dell’epoca; il plebeo Balzac si vide trasformato in signor di Balzac; il rovinato tipografo era già gentiluomo di antica data. Nel decennio trascorso dal 1830 al 1840 la voga straordinaria di cui godeva ebbe valido appoggio da una farragine di scritti da esso pubblicati, disuguali in merito, ma avidamente letti. Poscia, ecco tutto ad un tratto rinnovarsi nel 1840 il periodo dell’oscurità primiera. Sfortunati lavori, drammi morti appena nati, tentativi abortiti, formarono la sequela dei suoi guai, ed il pubblico infedele trasportò sulla testa più giovane di Eugenio Sue gli allori della moda, prodigati da lunga pezza all’abbandonato Balzac. Tali si furono le fasi principali di cotesto strano uomo di lettere.
  Indagando le cause di simili bizzarrie del favore popolare, troveremo che il fondo del merito di Balzac consiste in una verità di osservazione, per così dire, cittadinesca, fiamminga, particolareggiata, mirabilmente minuziosa, talvolta eccessiva, sovente piccante. Noteremo inoltre che cotesta analisi acquistò il suo vero valore e diventò gloriosa dopo il definitivo trionfo della così detta borghesia, in conseguenza della rivoluzione dell’anno 1830. Altro fatto, non meno degno di attenzione, si è il tono di aristocratica pretesa e di falsa eleganza con cui piacquesi Balzac di rivestire i suoi personaggi, che in realtà altro non sono se non se mercanti, banchieri, sensali, speculatori commerciali, convertiti dallo scrittore in conti e marchesi. Le sue eroine, duchesse o viscontesse, sono da questo lato ancor più notevoli che i suoi eroi, giacchè la borghese loro educazione si cela sotto le schermo delle apparenze araldiche. Per tal guisa alle pretese di nobiltà trovavasi mista l’ignoranza completa dei costumi formanti il carattere della società feudale. Il risultato di questo miscuglio si fu quello di piacere molto ad un’età in cui la borghesia, sostituendosi definitivamente alla nobiltà, altro non chiedeva che redarne almeno in parte i corrotti costumi, i vizii e le ridicolaggini, purchè le riuscisse di regnare in sua vece. Balzac piaggiava ad un tempo le due frazioni della società, quella che giungeva al potere e quella che perdevalo, conservando però le proprie ricchezze.
  Non è certamente lavoro di comune ingegno cotesta alleanza dei difetti, della corruzione e delle magagne di due classi diverse; scorgesi quindi che Balzac è, la mercè dell’ironia e dello scetticismo, un borghese di Turena, un discendente di Rabelais; ma per il lusso delle tappezzerie descritte nei suoi romanzi, per la splendidezza dei mobili, per l’affettazione degli stemmi e delle delicature della vita, egli è l’aristocrazia in persona, o n’è piuttosto una pretesa imitazione. Fra i suoi lavori che più si avvicinano alla perfezione, e soddisfano meglio la critica, sono precisamente quei tipi in cui la vita borghese riproducesi colla più vera fedeltà, e permette allo scrittore di sfoggiare tutto il suo talento. A tal classe appartengono Eugénie Grandet; Le Médicin (sic) de campagne e Les Scènes de la vie privée, de la vie parisienne e de la vie de province. Havvi, all’incontro, più ricercatezza, più affettazione e una pretensione malaugurata di astrusa metafisica nella Peau de Chagrin; nella storia intellettuale di Louis Lambert, e nella Recherche de l’absolu; finalmente un inesplicabile e confuso misticismo nella Séraphita e nel Lis (sic) dans la vallée; ma il vivo sentimento che spira in quest’ultimo romanzo ne fa dimenticare i difetti e lo rende una delle più attraenti letture. Non si parla qui che dell’epoca brillante di Balzac, senza accennare ai numerosi aborti dell’ultimo suo stadio, né ai due drammi intitolati Vautrin e la Ressource (sic) de Quinola, che naufragarono ai due teatri più frequentati di Parigi, di Porta San Martino e dell’Odeone. Ma il libro che serve forse più di tutti gli altri a darci un’idea adequata del merito di Balzac si è il trattato sommamente arguto e talvolta minutamente scandaloso degli errori e dei difetti della vita conjugale, che piacquesi d’intitolare Physiologie du mariage.
  Non fu risparmiato il ridicolo sul modo di vivere di Balzac durante lo splendido periodo della letteraria sua gloria; si faceziò sul suo titolo di nobiltà, si versarono sarcasmi sull’ora ondeggiante, or rasa sua capigliatura, e alla spiritosa Girardin venne il ticchio di scrivere un libro intero sul mitologico bastone del romanziere. Non si può negare che la piaga micidiale di Balzac fosse la vanità; vanità inarrivabile, che gli fece desiderare e perfino sperare di farsi padrone di tutti i generi di stile, di pervenire a tutte le grandezze, di afferrare tutti i destini, di essere tutto ad un tempo e di un soffio, storico, moralista, corruttore, elegante, poeta, solitario, visionario, rivoluzionario, metafisico, pittore, musico, medico, architetto, legislatore, giornalista, critico, drammaturgo, pubblicista, narratore epico, autore comico, mistico, logico, stampatore, operajo, genealogo. Pretendeva a volte di riunire in sé Napoleone, Talleyrand, Rabelais e Richelieu. Nato per essere abilissimo osservatore e analizzatore delicato delle pretese e de’ vizii secreti di una società decrepita e stanca, non si accontentò di cotesto posto, d’altronde bellissimo, ma tentò quasi al medesimo istante di costituirvisi filosofo, pubblicista, rigeneratore, fisico, naturalista, legislatore e moralista. Nei suoi Contes drolatiques, in cui sfoggia il più furfantesco linguaggio, lacerò il manto che avviluppavalo, e apparve cinicamente nudo al par di Rabelais. Il risultato di quest’ambizione napoleonica, sì frequente del resto ai giorni nostri, si fu, se non la distruzione, almeno almeno la depressione e il deterioramento di un pregevolissimo ingegno. Le qualità vere e reali di Balzac si offuscarono e si corruppero progressivamente sotto l’influenza di cotesta universale pretensione. L’autore rispettabile delle scene cittadinesche e dei quadri di famiglia, che legger non si possono senza interesse e talvolta senza ammirazione, non fu più che un goffo e confuso imitatore di Rétif de la Bretonne e di Swedenborg, di Rabelais e Ducrey-Duménil, di Pigault-Lebrun e Marivaux.
  A questa causa di perdizione aggiungasene un’altra ancora, ed era il bisogno di molto produrre, onde colla copiosa produzione ammassare ingenti somme di danaro. La pretensione in Balzac a tutte le glorie lo condusse all’ammanierato e all’affettazione; la smania di assorbire il mercato letterario lo rese prolisso e sconnesso. Quinci il doppio e singolare carattere di cui s’improntano gli ultimi suoi romanzi: miscuglio di barocco e triviale, di prolissità e ricercatezza, di scorrettezza ed affettazione. Uno degli scrittori più arguti dei giorni nostri paragonava le migliori opere di cotesto autore ad un fiorellino odoroso sbucciante da un letamajo; ma giustizia vuole si aggiunga che se il fondo è sempre la corruzione, vi si mostra nondimeno talvolta una vegetazione abbondante e graziosa, e tal altra debile e stecchita; ben di sovente inoltre il fiore sparisce, e non iscorgesi più che il triste letto da cui ebbe nascimento.


  Bohème, Fra un bichierino e l’altro d’absinthe. Chiacchiere di Bohème, «Il Goriziano», Gorizia, Anno II, N.169, 19 Luglio 1877, pp. 3-4.

 

  p. 4. Teologhi della Eco, avete voi mai letto la Phisiologie (sic) du Mariage di quell’acuto osservatore sociale che fu Balzac?

  Parola d’onore che è un bel libro ....


  Camillo Boito, L’arte italiana di faccia all’arte straniera. II. La pittura, in Scultura e pittura d’oggi. Ricerche di Camillo Boito, Torino, Fratelli Bocca Librai di S. M. il Re d’Italia, 1877, pp. 350-382.
  pp. 368-369. I due più celebri pittori italiani ne’ soggetti di genere sono certo i due fratelli Induno, i quali hanno serbato con molta tenacità la loro giovanile maniera di pensare e di dipingere. […].
  La esecuzione de’ due valenti artisti milanesi ha insomma più del forestiere che dell’italiano, e il concetto ora si ferma a viete composizioni, ora si compiace di scene comiche o drammatiche, informate ad uno spirito di verità piuttosto rancioso. Chi non riconosce anche al dì d’oggi in Balzac, per esempio, l’osservatore minutissimo e potentissimo della natura umana, ch’è eterna, il raccontatore prontissimo e piacentissimo? Eppure l’ordine de’ suoi romanzi, certe intenzioni e certe forme sanno un pochino di stantìo. Il Balzac, se fosse vissuto, avrebbe fatto ciò che i fratelli Induno non hanno voluto fare, avrebbe rinfrescato la sua maniera senza alterarne la singolarità ed il carattere.

  Adolfo Borgognoni, Bindo Bonichi e alcuni altri rimatori senesi - 1867, in Studi d’erudizione e d’arte (Bindo Bonichi – L’Intelligenza) per Adolfo Borgognoni. Volume Primo, Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1877, pp. 1-119.
  p. 29. Cfr. 1868.

  Eugenio Camerini, Cristina Trivulzio Belgioioso, in Donne illustri. Biografie, Milano, Stabilimento F. Garbini, 1877, pp. 217-221.

 

  p. 221. Secondo Balzac, ella fu il modello dello Stendhal, Enrico Beyle, per la duchessa di San Severino nella Chartreuse de Parme.


  F.[elice] Cameroni, Appendice. Rassegna bibliografica e teatrale. Émile Zola: “L’Assommoir”. – Paris, Charpentier éditeur, 1877, «Il Sole. Nuovo Giornale commerciale-agricolo-industriale», Milano, Anno XIV, N. 26, 2 Febbraio 1877, pp. 1-2; N. 27, 3 Febbraio 1877, p. 1.
  p. 2. Lo dissi più volte, lo ripeto ancora, dopo aver letto con febbrile curiosità l’Assommoir; per me, lo Zola è ad un tempo il successore di Balzac e di Gautier. È pazzo d’analisi esatta, come il primo. Ha tutta la ricchezza di tavolozza del secondo. I suoi Rougon-Macquart, per lo studio coscienzioso, inesorabile, temerario della verità, stanno alla società contemporanea, come la Comédie Humaine alla società francese, dal 1830 al 1848. Siccome questa Storia naturale e sociale d’una famiglia sotto il secondo impero devesi comporre d’una ventina di romanzi e finora ne vennero alla luce sette soltanto, non può dirsi che i Rougon valgano quanto la Comédie Humaine per l’ampiezza della composizione, ma non temono alcun confronto per la finezza del disegno e forse la superano per il contrasto delle tinte, non già alla Balzac, ma alla Gautier.
  Nei Misteri del popolo, Sue è un narratore dottrinario più che altro, un repubblicano socialista, il quale servesi della dilettevole forma del romanzo per diffondere le generose sue convinzioni.
  È assai più modesto l’intendimento di Dumas padre, in quella lunga serie di racconti, che comprendono la storia di Francia dal medio evo al 1830. Lo scopo sociale scompare; il romanzo diventa un mezzo popolare per far conoscere, a grandi linee, le vicende principali della patria.
  Nella Comédie Humaine invece e nei Rougon-Macquart, s’associano, il filosofo e l’artista, nel senso più squisito della parola.
  Si contano a centinaia i romanzi più divertenti di quelli dello Zola, pochi li equivalgono per la riproduzione del vero, nessuno per l’evidenza stereoscopica della pittura della realtà, congiunto allo studio dei nostri costumi. Insomma, Balzac doublé par Gautier. E lo proverò.
  N. 27.
  p. 1. Tra un volume e l’altro della sua Commedia umana, si prese lo Zola il capriccio di far vibrare la nota tenera, di far risplendere un po’ d’azzurro ed ecco i Contes ed i Nouveaux contes à Ninon […].

  F.[elice] Cameroni, Appendice. Rassegna bibliografica. Edmondo De Goncourt, “La Fille Elisa”. – Paris, Charpentier, 1877 […], «Il Sole», Milano, Anno XIV, 30 e 31 Marzo 1877, p. 1.
  Lo so benissimo, che al pari d’un vivo interesse, manca in questi due romanzi [Manette Salomon e Charles Demailly], la novità del soggetto, ma i De Goncourt sdegnarono sempre il facile applauso dei lettori volgari, ansiosi soltanto di intreccio e seppero scrivere due capolavori di miniatura, trattando appunto un argomento, già svolto a iosa da altri, sulla falsariga dell’Jeune homme di Balzac, oppure su quella di Murger e di Champfleury, coi ritmi più allegri, oppure in tono elegiaco.
  Colla Germinie Lacerteux invece, eglino ci offersero sino dal 1864, quell’ardita pittura delle piaghe del proletariato parigino, a cui lo Zola deve, oggi, il clamoroso successo dell’Assommoir. È ai De Goncourt, non allo Zola, che spetta il merito d’aver tentato, nei primi anni, la temeraria impresa di fondere in uno solo, i tre generi Sue, Balzac, Gautier.
  Dal canto mio, non esito nell’affermare, che la Fille Elisa, splendido lavoro sociale, raggiunge lo scopo umanitario della scuola di Sue, colla finezza d’analisi della scuola di Balzac e coll’evidenza della scuola di Gautier.

  Luigi Capuana, Rassegna drammatica. Il teatro italiano, polemica Piccardi-d’Arcais, «Corriere della Sera», Milano, Anno II, n° 14, 14 gennaio 1877, pp. 1-2.
  Quanto è accaduto tra il nostro pubblico e gli autori drammatici (l’entusiasmo, la fretta dell’uno di veder rizzato su il grande edifizio del moderno teatro italiano; la buona volontà, i mille tentativi degli altri per appagarlo e la stanchezza che poi li ha fatti allontanare quasi con orrore dal palcoscenico) mi richiama alla memoria un bizzarro episodio della vita di Balzac. Il gran romanziere fu preso un giorno da uno di questi accessi febbrili di creazione artistica e di speculazione finanziaria che eran così frequenti nel suo immenso cervello. Più non gli bastava il romanzo: voleva invadere il teatro, o, per dir meglio, tutti i teatri di Parigi, creare una associazione, una collaborazione gigantesca per drammi, commedie, forse, lavori drammatici di ogni genere e ammassare dei milioni.
  Pel Balzac soltanto il milione rappresentava qualcosa! Invasato da quest’idea, per una stranezza inesplicabile, egli scelse a suo collaboratore un certo Lassailly, buon giovane, debole, fantastico, ma capacissimo di concepire la più piccola idea drammatica. Lo alloggiò alla famosa villa delle Jardie (sic); fuoco, vitto, lume, biancheria. Lassailly non doveva pensare a nulla. Doveva soltanto tenersi costantemente a disposizione del Balzac, pronto a suggerire una scena, un intreccio, un progetto drammatico a richiesta.
  Balzac costumava lavorare di notte. Spesso, mentre Lassailly trovavasi al meglio del sonno, una scampanellata lo svegliava; era Balzac che chiamava il suo collaboratore al lavoro. Il povero giovane si vestiva in fretta, sbadigliando, mettendo le pantofole all’inverso e, ringrullito, stordito, si presentava nella stanza di studio.
  Avete trovato niente? Gli domandava il Balzac che, dalla veglia e dal lavoro, aveva un viso da spiritato. – Mah! … converrebbe …. certamente, balbutiva il Lassailly che non sapeva che pesci pigliare … - Un dramma o una commedia? Insisteva il Balzac. – No, no … però … - Delle scene? Delle situazioni? – Può darsi … Ecco! – Sentiamo. – O se lei volesse prima comunicarmi le sue idee! Si potrebbe … fondendole insieme … - Ma voi dormite ritto! – Oh, no! – Sbadigliate! – È il freddo. – Via. Via, tornate a letto; da qui ad un’ora vedremo; la vostra mente sarà più schiarita! E il Lassailly si trascinava, battendo i denti sino al suo letto; e appisolato appena, nuova scampanellata, e daccapo la stessa scena, daccapo lo stesso dialogo. Balzac che lo tempestava di domande; l’altro che non aveva nemmen la forza di balbettare una parola; e la scena e il dialogo spesso in una notte si ripetevano sino a sei volte. Il povero Lassailly sarebbe morto di sfinimento e ammattito se non scappava via subito. È inutile soggiungere che la gigantesca speculazione si sciolse in fumo dopo il cattivo esito del primo dramma al teatro della Porta Saint-Martin.
  Or non sembra anche al lettore che il pubblico italiano abbia, in questo caso, una grande rassomiglianza col Balzac? I nostri Lassailly sono stati certamente assai meno infelici … Ma infine! […].

  Luigi Capuana, Rassegna drammatica. Teatro Manzoni, “Il Dio Milione”, commedia in quattro atti di F. De Renzis, «Corriere della Sera», Milano, Anno II, 4 Febbraio 1877, p. 2.
  Il titolo richiama subito alla memoria Mercadet, La question d’argent, Maître Guérin, La Contagion. […].
  Già Ludro è un gran progresso su Scapino, è un personaggio serio. Ha fiutato la nuova società, ha intraveduto che il suo ingegno d’intrigante potrà pescar nel torbido di quest’alta marea di subiti guadagni che invade tutte le classi; si è ripulito, si è rimpanucciato, ha lasciato la campagna per la città, è diventato Mercadet. Vive ancora di espedienti, di piccole ma abili risorse, sa piangere; sa svenire, sa fare il milionario quando non ha nemmeno un soldo nel taschino del panciotto; sa tornare a tempo Ludro e Scapino e accorre con premura da terra il cappello del suo creditore e ripulirlo cola manica del suo abito, per torgli di mano mille scudi; fa lo attore, ride per far ridere, e passa improvvisamente dalla farsa alla tragedia – je suis au désespoir, je vais me brûler la cervelle! – sempre fra lo scettico e il sincero, tra il cinico e l’ingenuo; capace di esser intrigato anche lui, il grande intrigante, ma pronto a rivolgere in suo favore gli stessi elementi che lo han combattuto.
  Nel momento della più grande disdetta, quando tutti i piani con tant’arte combinati gli si sbaragliano dinanzi, Mercadet come il gigante della favola si sente rinvigorire dalla sua caduta a terra: Oui, toutes mes dettes seront payées! … Et la maison Mercadet remuera des millions! je serai le Napoléon des affaires ! Et sans Waterloo.
  Però siamo a mille secoli di distanza, siamo nel 1839! Mercadet era un semplice faiseur: aveva per moglie una donna virtuosa, borghese al pari di lui, che lo aiutava negli intrighi, ma che glieli scombussolava quando ci sospettava sotto un che di disonesto. Dal 1839 al 1857 Scapino-Ludro-Mercadet ha Avuto tempo di diventare il Jean Giraud della Question d’Argent [Dumas fils]. Il faiseur è già speculatore, affarista, comico ancora un poco, ma intrigante a viso aperto. Mercadet potrà esser sorpreso a mormorare fra sé: il a de l’aplomb! dopo un tratto di franchezza del suo avversario: Jean Giraud è la franchezza in persona […].
  Il mondo di Mercadet è borghese, esclusivamente borghese, Jean Giraud tenta sollevarsi più alto: vuol penetrare nel mondo aristocratico […].

  Stanislao Carlevaris, Senza sole (Cont.), «Serate Italiane. Letture illustrate per le Famiglie», Torino, Tip. e Lit. Camilla e Bertolero, Anno IV, Vol. VIII, Numero 187, 29 Luglio 1877, pp. 71-75.
[XI. Il dottore Sandri].
  p. 71. Il dottore come la sorella son due tipi a studiarsi, ma e’ ci vorrebbe la mente e la penna di Balzac o di Dikens (sic) per farlo.


  Filippo Delli Franci, Sogni e realtà. Scene della vita moderna, in Un po’ di prosa e un po’ di versi, Napoli, Stab. Tipog. del Cav. Francesco Giannini, 1877, pp. 3-281.

 

  p. 205. Che profondo mistero è il cuore umano! Studiatelo nella donna: è un abbisso d’amore. Questa creatura, di cui tanto si è detto e tanto seguita a dirsi, ama per vivere, e vive per amare! L’amore che Michelangelo diceva potenza d’ali, largita all’anima da Dio, perché si levasse sino a lui, ha nella donna il suo regno. Essa nasce sorridendo alla madre, vive i primi dì nella religione della famiglia, e, appena la sua primavera le desta nella pupilla quel sorriso di luce, che affascina, l’anima s’infiamma a un desiderio senza confini, al desiderio dell’ignoto. Oh! se in quell’istante pericoloso gli esseri più cari, che la circondano, intendessero a scorgere per la buona via quella straordinaria forza di desiderii, quante di sì belle creature, invece di fornire il tipo al ritratto che ne fa Balzac, sarebbero sulla terra la vera incarnazione di quella cara poesia che chiamiamo angelo! ...

 

 

 p. 210.

XV.

 

Il matrimonio deve combattere, senza posa,

un mostro, che divora tutto; l’abitudine.

La donna maritata è uno schiavo che bisogna

saper innalzare su un trono.

L’amore rivela i suoi piaceri soltanto agli

esseri, che confondono insieme i loro pensieri,

le loro fortune, i loro sentimenti, le loro

anime, le loro vite ...

Di Balzac — Fisiologia del matrimonio.



  [Cesare Donati?], Appendice. “Gli Uccelli di preda”. Libro Terzo. “Prosperità. II. Carlotta” (Continuazione), «Gazzetta Piemontese», Torino, Anno XI, Num. 88, 29 Marzo 1877, p. 1.
  Giorgina leggeva molto, ma solo romanzi, pigliandoli a nolo da un gabinetto di lettura. Sheldon non vi si opponeva, sebbene condannasse in blocco tutte le opere di immaginazione, come quelle che non servivano ad altro che a traviare la mente ed a falsare i criteri. Aveva tentato egli stesso di legger dei romanzi nei suoi giorni difficili, ma s’era subito annoiato; gli eroi di coteste storie fantastiche con le loro eterne frasi sull’onore e sulla virtù, gli erano sembrati essere contraddittori e inammissibili.
  Datemi un libro che assomigli alla realtà e lo leggerò, - diceva egli con impazienza; - ma non posso accettare questa scipita rettorica dove si levano a cielo delle virtù che non hanno niente di umano.
  Una volta nondimeno c’era stato un libro che l’avea fatto meditare. Era di un francese, di un certo Balzac. L’arditezza dell’autore lo aveva sedotto; aveva stupito della franchezza della sua osservazione, del dono singolare ch’egli possedeva di discendere fino alle intime profondità del vizio umano.
  Quest’uomo qui conosce gli uomini! – aveva esclamato. – Dice brutalmente quel che sa, senza ipocrisia né concessioni. Gli ripugnano la volgarità e il convenzionalismo; son veste i suoi personaggi di orpelli menzogneri; li mostra tali e quali sono: e sarebbe assai difficile, considerandoli, di andare in estasi sulla delicatezza e la generosità del loro carattere. Grande scrittore questo francese!
  Ma i giorni in cui Sheldon aveva il tempo di leggere Balzac erano lontani.


  [Cesare Donati?], Appendice. “Gli Uccelli di preda”. Libro Terzo. “Prosperità. VIII. Carlotta predice che pioverà”, «Gazzetta Piemontese», Torino, Anno XI, Num. 109, 20 Aprile 1877, p. 1.
  Valentino non aveva alcuna ragione per recarsi a La Pelonse prima della partenza; ma i maestosi viali dei giardini di Kensington sono di proprietà comune, ed egli, non avendo a far di meglio si mise in tasca un volume di Balzac e passò l’ultima mattinata che dovea rimanere in città, sotto gli olmi. Raccolto all’ombra, andava leggendo, mentre le foglie d’autunno gli cadevano intorno battendo l’erba con un ritmo cadenzato, mentre i fanciulli coi loro cerchi e le palle saltavano e gridavano lungo il viale. Il libro non lo assorbiva completamente. L’avea preso a caso in una collezione economica, che s’avea portato dietro nelle sue corse vagabonde ficcata nel fondo d’una valigia in compagnia degli stivali, delle spazzole e dei rasoi di scarto.
  Ne ho piene le tasche di questi personaggi – diceva egli – dei Beauséant, dei Rastignac, degli ebrei tedeschi, delle beltà patrizie, delle Circi israelite, della via Taitbout, e degli angeli pieni di languore spediti a posta dalla provincia per sacrificarsi. Vorrei sapere se quest’uomo ha mai conosciuto una donna come Carlotta, una splendida creatura fatta di sorrisi e di raggi, con un’indole schietta ed affettuosa, un angelo che può essere angelico senza dar nel tisico, e la cui amabilità si rivela altrimenti che con la tosse secca. In tutti i romanzi di Balzac domina non so che profumo di ospedale. Non credo che egli sarebbe stato capace di dipingere un carattere di buona salute. Quante malattie non avrebbe appiccicate a Lucia Ahston o ad Amy Robsart! No, caro il mio Balzac, voi siete il più grande e il più terribile dei pittori: ma venne un momento in cui l’uomo aspira a qualche cosa che stia al disopra delle miserie dell’umanità.
  Valentino si ricacciò il libro in tasca e prese a meditare, coi gomiti sulle ginocchia e la faccia nelle mani. Non vedeva né i cerchi che gli passavano davanti, né i ragazzi che si rincorrevano.

  Il Raccoglitore G. F., Gli ammaestramenti dei moderni raccolti da un Romito di Libreria, «Serate Italiane. Letture illustrate per le Famiglie», Torino, Tip. e Lit. Camilla e Bertolero, Anno IV, Vol. VIII, Numero 208, 23 Dicembre 1877, pp. 401-408.
  p. 405. 21. Secondo Balzac «la solitudine e il lavoro costante lasciano un tesoro di innocenza nel cuore. E l’amore ristretto al bisognevole, e diventato fastidioso con una femmina volgare svolge desideri e fantasie, eccita rammarichi, e fa nascere sentimenti divini nelle più alte sfere dell’anima».

  Giovanni Faldella, Il figlio della signora dei cani. Figurina (5), «Serate Italiane. Letture illustrate per le Famiglie», Torino, Tip. e Lit. Camilla e Bertolero, Anno IV, Vol. VII, Numero 167, 11 Marzo 1877, pp. 145-147.
  p. 145. Che cosa faccia un giovinotto a ventidue anni, libero di sé, avendo a sua disposizione qualche decina di migliaia di lire, senza un affetto e senza un impegno di famiglia, è presto detto.
  Compera intiere biblioteche di libri nuovi: tutta la raccolta del Le Monnier, tutti i Barbera e la cassetta dei Barberino, tutte le fodere rosse del Silvestri, tutti i classici latini pubblicati dal Boucheron, tutti gli Economisti e tutta l’edizione definitiva delle Opere di Balzac. Gli sembra di dovere nello spazio di due minuti secondi sprofondarsi in tutti gli abissi della scienza e poi sbadiglia, tagliando i fogli a qualche fascicolo.

  S.[alvatore] Farina, Idee letterarie di Giuseppe Mazzini, «Serate Italiane. Letture illustrate per le Famiglie», Torino, Tip. e Lit. Camilla e Bertolero, Anno IV, Vol. VII, Numero 168, 18 Marzo 1877, pp. 161-163.
  p. 162. In Francia [nel 1839] scrivevano Victor Hugo, Lamartine, Saint-Beuve (sic), Alfredo de Vigny, Janin, Musset, Mérimée, Balzac, Sue, Dumas, Lamennais ed altri minori – nomi che bastano all’orgoglio d’un secolo. Non bastano però a Mazzini perché egli si taccia dal dire che in Francia non esiste né letteratura né poesia. Gli è che tutti questi ingegni rappresentano per lui le forme diverse d’uno stesso errore. L’arte per l’arte, l’arte che è scopo a sé stessa, che è sensazione e capriccio o peggio, egli non la ammette; questo è l’individualismo letterario che vuole conchiuso con Byron, come cosa che ha fatto il suo tempo.


 A.[lessandro] Fiaschi, La prima battaglia. Studio dal vero, «Gazzetta Ferrarese. Giornale politico amministrativo quotidiano», Ferrara, Anno XXX, N. 241, 17 Ottobre 1877, pp. 1-2.

 

 p. 1. Vi sono taluni che sono, senz’alcun dubbio, eccellenti scrittori o stanno per diventarli. Ad un tratto, prende loro il ticchio di mutarsi in iscrittori drammatici. Codesta passione per il teatro, è, oggi, un morbo come un altro: il numero delle vittime spaventa il becchino e rattrista l’umanità. E sì che si ha sott’occhio il chiaro ed eloquente esempio dello stesso Balzac! Quest’illustre romanziere-fisiologo, a tutte le epoche della sua vita, volle esordire nell’arte eccezionale e seducente del teatro. Cominciò con una tragedia, poi ritornò all’assalto con un dramma. storico, quindi con un secondo dramma, e finalmente per l’ultima volta con una commedia foggiata sul modello di Molière. Nè il Cromwell, nè la Maria Touchet, nè Marâtre, nè Vautrin, nè lo stesso Mercadet, non gli hanno fatto incassare danaro — scopo principale dell’autore della Fisiologia del Matrimonio — e cingere il capo della leggendaria corona d’alloro. I suoi romanzi soltanto lo hanno reso illustre e ricco.


  [F.] Filippi, Appendice. Rassegna Drammatico-Musicale. Teatro Manzoni – “I Recini da festa”. Commedia in due atti, di R. Selvatico, «La Perseveranza», Milano, Anno XVIII, 26 Febbraio 1877, p. 1.

  Io sono un grande ammiratore dello Zola, lo considero un Balzac redivivo, ma confesso che parmi abusi talvolta del suo prodigioso talento d’osservazione, descrivendo le cose sconcie colla più cinica inverecondia di parole.


  Giovanni Fioretto, Giuseppe Giusti e il suo tempo, in Giuseppe Giusti, Le Poesie di Giuseppe Giusti illustrate con note storiche e filologiche da Giovanni Fioretto. Seconda edizione corretta ed aumentata, Verona, H. F. Münster, Carlo Kayser Successore, 1877, pp. IX-XL.
  p. XXIII. Meno gloriosa, ma più nobile era l’impresa degli scrittori che s’erano prefisso per scopo l’educazione della gente. Ma anche fra questi, come fra i settari, una grande dissensione. In Francia, al tempo della rivoluzione, sorsero Chateaubriand, Lamartine, Victor Ugo (sic) e Balzac a combattere Voltaire e la rivoluzione, difendendo il trono e l’altare. Stettero loro contro i liberali, l’Accademia, Delavigne e Béranger. Quelli calcarono la via del romanticismo, ricantando il fratismo del medio evo; questi del classicismo, fedeli paladini dell’Olimpo pagano.

  Leone Fortis, Malinconie. Utopie, in Conversazioni di Leone Fortis (Doctor Veritas), Milano, Fratelli Treves, Editori, 1877, pp. 174-187.
  p. 179. Le moine, dal ritratto che ce ne portano i fogli francesi, è un uomo d’umore allegro e faceto, che ama la conversazione gaia e leggera – allegro conviva che sta allo scherzo anche un po’ lesto, e tiene di buon umore le brigate con le storielle ch’egli sa raccontare con quel buon gusto che non perde mai di vista, sia nella celia intima e spigliata, sia nell’articolo serio e solenne – memore forse che il buon gusto, - come ha detto Balzac, - è il primo passo per arrivare al genio, ed ha il coraggio, come disse Giulio Janin, di essere arguto e divertente in un ambiente in cui è di rigore l’essere unicamente saggio e corretto.

  Leone Fortis, Né donne neutre, né fanciulle prodigj, in Conversazioni … cit., pp. 320-332.
  p. 325. Così morì [G. Sand] una delle poche donne che abbiano smentito quel sapientissimo detto di Balzac:
  «La superiorità è un fardello che la donna non può sopportare».
  Per non restarne schiacciata bisogna avere tanto cuore da rimanere sempre donna.


  [Antonio Ghislanzoni], Scuola Moderna, «Giornale Capriccio», Milano, Numero 9, Aprile 1877, pp. 9-12.

  p. 11. Cfr. 1876.


  Indelli, Tornata del 19 Gennaio 1877, «Atti del Parlamento italiano. Camera dei Deputati», Roma, per gli Eredi Botta, XIII Legislatura, Sessione del 1876-77. Discussioni, Vol. I, Dal 20 novembre 1876 al 27 gennaio 1877.

 

  p. 701. Indelli. Mi ricordo avere letto in una delle scene di famiglia descritte da Balzac che un tale abbandonò la moglie e si creò una famiglia naturale, perché non voleva digiunare. Voi vedete quindi che basta ben poco a turbare questa pace. Può darsi che un giudice, collo stipendio che ai giudici assegnate, e cogli aumenti che avete dato loro negli organici civili, trovi che il digiuno è utile (Ilarità), ed allora assolverà i preti, ovvero no, e non assolverà i preti.

  Questa è la conseguenza pratica.


  Eugenio Le Monnier, Lettura e traduzione. Mémoires de Sanson, exécuteur des hautes-oeuvres, in Grammatica francese secondo il metodo naturale per Eugenio Le Monnier Professore nell’Istituto Tecnico provinciale di Firenze, Firenze, Successori Le Monnier, 1877, pp. 168-169.

  On avait persuadé à Sanson, qui avait rempli son terrible ministère pendant tout le cours de la révolution de 93, qu'il devait écrire des mémoires et raconter à la posterité les plus douloureuses épisodes de l’histoire révolutionnaire. Sanson était un excellent homme, honnête, loyal et presque naïf. Les choses furent promptement décidées: Sanson signa un traité de librairie par lequel il autorisait Mame à éditer les mémoires qui seraient composés, sous son nom, par des écrivains qu'il choisirait ou adopterait, en leur communiquant les notes et les matériaux. Balzac et l'Héritier de l’Ain furent chargés de cette rédaction.

  Il y eut à cette occasion un grand dîner chez l’auteur responsable. Balzac, l’Héritier et quelques autres gens de lettres avaient accompagné Mame, leur introducteur, dans la maison du vieux Sanson. Le dîner fut d’abord froid et silencieux: les convives semblaient gênés et inquiets: on mangeait et on buvait peu, bien que la chère (sic) ne laissât rien à désirer. Mais lorsqu’on eut mis sur le tapis le sujet de la réunion, la conversation s’anima, et Sanson donna carrière à ses lugubres confidences. Balzac l’interrogeait, et le forçait à fouiller dans les coins les plus sombres de sa mémoire.

  Sanson narrait avec une sorte de candeur les horribles faits et gestes de sa jeunesse. Il raconta ainsi l’exécution des Girondins, celle de Charlotte Corday, celle de Robespierre, etc. Il ne parlait ni de Louis XVI, ni de Marie Antoinette. Balzac lui demanda impitoyablement de retracer les derniers momens de ces augustes victimes. Sanson pâlit et se tut; des larmes coulèrent de ses joues, et, d’une voix solennelle, il ordonna d’apporter la relique. Une boîte d’acajou fermée à clef fut placée sur la table entre les bouteilles vides. Il l’ouvrit avec émotion, et tous les assistans, qui se penchaient pour voir ce que renfermait cette boîte mystérieuse, y virent briller une lame d'acier. ”Voici le couteau qui a fait tomber deux nobles têtes,” dit Sanson qui fondait en larmes. “Ce couteau est sacré, et tous les jours je m’agenouille devant lui en priant pour les saints martyrs de la France, le Roi et la Reine”.

  Cette scène produisit une telle impression sur l’auditoire, que plusieurs des convives furent obligés de sortir de table et l’un d’eux s’évanouit.

  Balzac conserva de ce dîner un souvenir saisissant qu’il ramenait souvent dans ses entretiens, et il faisait passer dans l’âme de ses auditeurs les sentimens de terreur et de pitié qu’il avait emportés lui-même de la maison de Sanson. “Cet homme-là,” disait-il, “m’a fait assister en réalité aux horreurs de la Place de la Révolution”.

  Depuis ce dîner, Balzac cessa de travailler aux mémoires de Sanson.



  Odoardo Luchini, Il problema dei diritti della donna specialmente in Inghilterra e in America, Firenze, G. C. Sansoni, Editore, 1877.

 

[Dottrina del Proudhon. Giudizio sopra la Sand].

 

  p. 85. Or ecco l’opinione del Proudhon sullo stile della Sand. Quello che dica della persona e del contenuto dei suoi romanzi è facile immaginarselo. «Per lo stile, egli dice, la signora Sand appartiene a quella scuola descrittiva che in ogni letteratura segna i tempi di decadimento. Come disegnatrice di paesaggio, essa è la regina degli artisti, se non degli scrittori; essa ha fatto nel genere buccolico delle belle cose che le hanno dato una reputazione meritata e il successo delle quali deve averle fatto sentire in quale mediocre stima il pubblico tenga i componimenti di maggior lena — Le sue descrizioni hanno qualche cosa di lirico che contrasta colle dissezioni del Balzac».


  F. Lugramani, Henry Monnier, «Serate Italiane. Letture illustrate per le Famiglie», Torino, Tip e Lit. Camilla e Bertolero, Anno IV, Vol. VII, Numero 163, 11 Febbraio 1877, pp. 88-90.
  pp. 88-89. Monnier fu uno di quegli artisti filosofi la cui opera resta. Romanziere, caricaturista, autore ed attore drammatico, fu anche filosofo, e filosofo più che altro, forse senza saperlo; e, come Rabelais, Molière, Balzac, fece delle creature stupende inspirandosi più che altro alla società in cui visse.
  Il Monnier fu in intima relazione con Balzac, che lasciò scritto sul celebre caricaturista molte pagine di ricordi e di apprezzamenti tutti suoi particolari. Balzac conobbe Monnier verso la fine della Restaurazione; il giovane artista così pieno di spirito, era allora passato dallo studio del Girodet a quello del Barone Gros.
  Balzac, che aveva tanto da osservare, amava naturalmente gli osservatori; sopratutto quelli che vogliono tutta gustar la vita, che godono, sciupano in ogni modo. Non è dunque difficile immaginarsi qual fosse la gioia di Balzac quando conobbe Monnier - «cette mine de comique»: - aveva un nuovo individuo da studiare, da prendere in esame.
  Monnier era uno di quegli esseri infaticabili che pigliano, studiano abbozzi da tutti i lati, scrutano la fisonomia umana in tutti i sensi. E Balzac li conosceva a fondo questi esseri, e sapeva trarne partito, e spesso anzi ne approfittava servendosi delle loro preziose osservazioni piene di ingegno e di ironia. […].
  Il Monnier era un tipo ben singolare, ed ecco cosa ne scrisse il Balzac:
  «Henry Monnier est un être bien curieux, bien étrange et bien spirituel. Mais chez lui tout est surface ; il représente comme personne notre époque incroyante, railleuse, sceptique et inconsciente. Sans direction, sans criterium et sans but, quand il se moque de M. Prudhomme il ne sait même pas qu’il se moque de lui. – Du reste vous verrez comme il n’a été précieux pour donner a (sic) mon œuvre, La comédie humaine, la physionomie du temps. Vous le trouverez partout, mêlé au mouvement, et vous entendrez son rire moqueur traverser à chaque instant l’hymne de la passion, du sentiment et du rêve. Mon Bixiou c’est H. Monnier: j’ai accusé davantage certains de ses traits, je l’ai un peu grandi, mais c’est le même».
  In altra occasione, parlando ancora di Monnier, ecco come si esprime Balzac(1):
  «H. Monnier a tous les désavantages d’un homme supérieur, et il doit les accepter parce qu’il en a tous les mérites. Nul dessinateur ne sait mieux que lui saisir un ridicul (sic) et l’exprimer; mais il le formule toujours d’une manière profondément ironique. Monnier c’est l’ironie, l’ironie anglaise, bien calculée, froide, mais perçante comme l’acier du poignard. Il sait mettre toute une vie politique dans une perruque, toute une satire, digne de Juvenal, dans un gros homme vu par le dos. Son observation est toujours amère; et son dessin, tout voltairien, a quelque chose de diabolique. Il n’aime pas les vieillards, il n’aime pas les plumitifs, il abhorre l’épicier; il fait rire de tout, même de la femme, et il ne vous console de rien».
  (1) La Caricatura (31 maggio 1832). Quest’articolo è firmato «Conte Alex. de B.», uno dei tanti pseudonimi di Balzac.


  Francesco Mastriani, I Vermi. Studi storici su le classi pericolose in Napoli di Francesco Mastriani. Quarta edizione riveduta dall’autore. Cinque Volumi – Vol. IV, Napoli, presso Gabriele Regina Editore, 1877.

 

Parte Terza.

Della miseria.

Prostituzione.

 

  p. 136.

Tout est doute et ténèbres dans une

Situation que la science a dédaigné

d’examiner en trouvant le sujet immoral

et trop compromettant, comme si le médecin

et l’écrivain le prêtre et le politique n’étaient

pas au-dessous du supçon.

Balzac – Splendeurs et misères des courtisanes.


  Giulio Michelet, L’Amore di Giulio Michelet con l’aggiunta della Metafisica dell’amore di Arturo Schopenhauer, Milano, Battisti e C. Brigola, Editori, 1877.

 

Libro Quarto.

Dell’affievolimento dell’amore.

IV. Del mondo – Il marito è egli scaduto?

 

  p. 184. La giovane donna, che, nella prima età, non è stata maturata, guasta, punta dal verme mistico e dall’equivoco religioso non è preparata al romanzo. Un amore sano, leale e forte, poi l’amore materno, due possenti purificatori l’hanno preservata dai contagi. Essa non avrebbe capito Balzac, o in generale l’avrebbe vomitato. Il suo libro del Matrimonio ch’egli stesso chiama uno scheletro, avrebbe per lei avuto il fetore del cadavere.

 

Note e schiarimenti.

Nota 4.

Dei fonti del libro dell’amore e dell’appoggio che la fisiologia in questa materia porge alla morale.

 

  pp. 276-277. Si capirà facilmente perché io non esamino i libri più recenti, non ostante il mio affettuoso rispetto al genio dei loro autori. Quanto agli antichi, due opere hanno occupato il pubblico, il libro serio di Sénancour (vedi 1.a e 2.a edizione e non la 5.a;) e la celia di Balzac. Questi due libri sono precisamente opposti. L’uomo del 1800 stanzia la più forte condanna contro l’adulterio. E l’uomo del 1850 comincia e finisce il Suo libro col noto detto: «L’adulterio è un affare di canapè». Balzac confessa che voleva fare un’opera seria, ma non v’è riuscito. Del resto nel suo libro non v’è proprio niente, nè di comico, nè di serio.

 

  p. 292. Nota 4. Dei fonti del libro dell’Amore e dell'appoggio che in questa materia la fisiologia dà alla morale.

 

  I letterati mi hanno giovato poco (Sénancour, Balzac, ecc.), ma molto i medici.




  E. Montebruno (Enrico Matcovich), La Donna. Studi, divagazioni, spigolature di E. Montebruno (Enrico Matcovich), Trieste, Stabilimento tipografico B. Appolonio, 1877.

 

XVI.

Solita corrispondenza. La moda. Ciarle sul buon gusto e sull’eleganza.

 

  p. 182. “Quando Balzac inventò la donna, dai trenta ai quarant’anni, egli di genio – ha indovinato i gusti pervertiti della generazione attuale.

 

Un’ingenua diciottenne

che ha letto Balzac.

 

XXII.

Solita corrispondenza. Ancora l’età.

 

  p. 253. Il giovane rassomiglia troppo alla donna, perché una giovinetta gli piacia (sic). Come il cuore delle giovani donne non può essere compreso se non da uomini assai abili, così le donne di una certa età riescono più gradite ai fanciulli. (Balzac).


  Musonius, Appendice del Corriere della Sera. Spigolature milanesi. […] Balzac e Leopardi. […], «Corriere della Sera», Milano, Anno II, Num. 75, 17-18 Marzo 1877, pp. 2-3.

  L’editore Calmann-Lévy ristampò di questi ultimi giorni l’epistolario di Balzac e i due volumi li ho già trovati sui tavolini di molte signore, e di già mi si è fatta non so quante volte la solita domanda: hai ve­duto la Correspondance di Balzac?

  Nel 1864 il nostro Le Monnier pubbli­cava l’Epistolario di Giacomo Leopardi […].

  Non nego che nelle lettere del brillante romanziere francese vi sieno molte pagine dettate con tutta la disinvoltura spigliata d’uno scrittore maestro. Ma che mi resta di tutte quelle pagine nel cuore e nella mente? Le lotte di un ingegno che cerca gloria e denaro, un’individualità che men­tre medita un romanzo, impegna un amico a sostenere la sua candidatura politica con patti di reciprocanza letteraria, delle inso­lenze alle signore italiane che sono prive di spirito o di educazione, e poi un lui un lui continuo, avvolto in un nembo di quelle essenze distillate che formano il privilegio della profumeria e della letteratura fran­cese.

  Le lettere del giovane e sventurato conte di Recanati sono in gran parte contempo­ranee a quelle di Balzac; mentre questi lascia il suo solitario paesello di Villeparisis e co’ suoi vent’anni, e colle ansie feb­brili di fama, colla imperiosa bellezza di un giovane avventurato va a Parigi a chie­dere alle nipoti delle Montespan, delle Pompadour, dalle La Vallière un’arte nuova di sentire e di scrivere, mentre alla du­chessa d’Abrantès, a madama de Girardin chiede un lampo che rischiari una scena della vita umana, e dagli occhi di una donna innamorata beve amori e pensieri per la sua Physiologie du Mariage, il po­vero patrizio marchigiano si chiude a 14 anni in una biblioteca a studiare, a stu­diare e ne esce profondo filologo nelle lin­gue antiche e moderne e con in petto una vampa d’amore per il bello e per la patria e con in mente una scintilla di poesia nuova e sublime. […].

  Mentre Balzac s’aggira nelle sale do­rate dell’aristocrazia parigina, mentre le dita morbide della dama elegante si na­scondono nella bionda chioma dell’autore di Eugénie Grandet forse a cercarvi i mi­steri di quel cervello immaginoso, non cade sguardo di donna sulla figura amma­lata e deforme dell’autore dell’ultimo canto di Saffo, il quale ama e dispera, e l’entu­siasmo annega nell’immensità di un pen­siero che lo conduce alla riva di un ignoto infinito […].

  Intanto che Balzac briga una candida­tura e spiega a sua madre la triade per far denari letteratura, cioè, deputazione e matrimonio, Leopardi scrive il grand’inno di Simonide e nel silenzio delle lettere italiane dà vita ad una musa che fa impallidire […].

  Davvero che Balzac e Leopardi sono due grandi intelligenze, ma cosa volete? quando ebbi finito di leggere l’epistolario del primo, accesi un sigaro e andai a vedere il Minestrone del teatro Milanese […].


  Pangloss [A. Repossi], Appendice della “Plebe”. “L’Assommoir” par Emile Zola, «La Plebe», Milano, Anno X, N. 8, 6 Marzo 1877, pp. 1-2.

  p. 1. Fu un avvenimento a Parigi la comparsa di questo libro, che nel suo genere è un capolavoro; lo stesso Figaro, benché a malincuore, è costretto a qualificarlo come tale; e l’autore dovè sospendere la pubblicazione nel giornale Le Bien Public, in seguito al braitare dei giornali reazionarii che invocavano l’intervento del governo contro questa pubblicazione infame, ed ingiuriavano il Zola, chiamandolo Balzac des galetas crapuleux. E diffatti non il Balzac, non il Sue, neppure il Delvau seppero con tanta potenza immaginativa, con sì spaventosa vigorìa di tinte michelangiolesche, con sì acute osservazioni penetrare nelle bolgie del fumier parigino e mostrare agli occhi spaventati dei gaudenti e degli apati le miserie e le piaghe delle famiglie degli operai nella grande Babilonia moderna.
 
  Pier Alessandro Paravia, Lettere di Pier Alessandro Paravia raccolte ed annotate da Jacopo Bernardi, Torino, Tipografia e Libreria Salesiana, 1877.

 

  pp. 282-285.

 

  115. [Alla sorella Marietta].

Torino, 2 agosto 1836.


  pp. 283-284. C’è qui [a Torino] il famoso Balzac, uno dei primi scrittori della Francia; non so se stasera lo vedrò. [Cfr. Raffaele de Cesare, La prima fortuna … cit., Vol. I, pp. 248-249].


  D. A. Parodi, Vittor Ugo (sic) e le sue nuove poesie, «L’Illustrazione Italiana», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno IV, n. 12, 25 Marzo 1877, pp. 186-187.
  p. 186. Nessuno certo fra i viventi, giovane o vecchio, può stare a paro coll’infaticabile e inesauribile ingegno che, lottando nella difficile arena col Balzac, col Dumas e col Lamartine, non fu o non parve minore al primo nel romanzo, al secondo nel dramma, al terzo nella poesia lirica. […].
  L’influenza di V. Hugo sulla letteratura del suo paese non è incontestabile ed evidente che nella poesia pura: il romanzo riconosce per maestro Balzac e il dramma s’inchina più volentieri dinanzi al Dumas, o, per meglio dire, tenta di sorgere, dalle fonti oceanine dello Shakespeare, nuovo Dio accanto al divino Cornelio. […].
  Ho osservato però che il grand’uomo è più particolarmente ammirato da quelli (e pur troppo sono i più) che alla rima e alla metafora dànno la preferenza sul pensiero e sull’affetto. A costoro il nome, che fu già glorioso tra i gloriosi, del Lamartine o quello del Musset, fa torcere il naso e alzare le spalle, mentre ai veri poeti e agl’ingegni inventivi, come il Goethe, l’Heine, il Balzac e il Musset, Hugo non finisce di piacere.

  Niccolò Persichetti, Dizionario di Pensieri e Sentenze di autori antichi e moderni di ogni nazione, Milano, Enrico Rechiedei, Editore, 1877.
Amore.
  p. 30. n. 386. Chez les jeunes gens, l’amour est le plus beau des sentiments, il fait fleurir la vie dans l’âme, il épanouit par sa puissance solaire les plus belles inspirations et leurs grandes pensées: les prémices en toute chose ont une délicieuse saveur. Chez les hommes, l’amour devient une passion; la force mène à l’abus; chez les vieillards, il tourne en vice; l’impuissance conduit à l’extrême. Balzac. [Citaz. tratta da La Fille aux yeux d’or].
  p. 33. n. 438. L’amour crée dans la femme, une femme nouvelle; celle de la veille n’existe plus le lendemain. Balzac. [citaz. tratta da Les Marana].
  p. 37. n. 483. Le cœur a la singulière puissance de donner un prix extraordinaire à des riens. Balzac, Vie parisienne. La bourse.
  n. 484. L’amour fait son profit de tout, et rien ne séduit plus un jeune homme que de jouer le rôle d’un bon génie auprès d’une femme. Lo stesso, ivi.
  n. 485. Les jeunes gens sont tous disposés à se fier aux promesses d’un joli visage, ils concluent de la beauté de l’âme par celle des traits, car un sentiment indéfinissable les porte à croire que la perfection morale accompagne toujours la perfection physique (sic). Lo stesso, iviLa femme vertueuse, p. II.
  n. 486. L’amour ne va jamais consulter les registres de l’état civil … Lo stesso, ivi L’interdiction.
Buon senso – Spirito.
  p. 86. n. 1138. Aujourd’hui ce n’est plus d’esprit qui court les rues, c’est le talent. Balzac, Physiol. de (sic) mariage, IX.
  n. 1143. Les masses ont un bon sens, qu’elles ne désertent qu’au moment où les gens de mauvaise foi les passionnent. Balzac. [citaz. tratta da La Duchesse de Langeais].
Casa e Famiglia.
  p. 97. n. 1253. Nos sentiments sont écrits, pour ainsi dire, sur les choses qui nous entourent. Balzac, Vie parisienne – La bourse.
Donna.
  p. 142. n. 1887. L’instinct, chez les femmes, équivaut à la perspicacité des grands hommes. Balzac. [Citaz. tratta da Honorine].
Fortuna – Destino – Fatalità.
  p. 190. n. 2520. On trouve toujours ce qu’on ne cherche pas. Balzac, Vie parisienne – Profil de marquise.
Genitori e Figli.
  p. 203. N. 2677. L’amour a encore son égoïsme à lui, l’amour matériel n’en a plus. Balzac.
Governo.
  p. 236. n. 3087. Les peuples, comme les femmes, aiment la force en qui les gouverne, et leur amour ne va pas sans le respect; ils n’accordent point leur obéissance à qui ne leur impose pas. Balzac. [Citaz. tratta da La Duchesse de Langeais].
Matrimonio.
  p. 307. N. 4037. Le mariage est une science. Balzac, Phys. du mar.
  n. 4048. Le mariage doit incessament (sic) combattre un monstre qui dévore tout: l’habitude. Lo stesso, ivi.
  n. 4039. La femme mariée est un esclave qu’il faut savoir mettre sur un trône. Lo stesso, ivi.
  n. 4040. La femme est pour son mari ce que son mari l’a faite. Lo stesso, ivi.
  n. 4041. Un mari ne doit jamais se permettre une seule parole hostile contre sa femme, en présence d’un tiers. Lo stesso, ivi.

Moda – Usanza.
  p. 318. n. 4197. La mode est un ridicule sans objection. Balzac.
Passione.
  p. 393. n. 5048. Les révolutions les plus grandes ne troublent que les intérêts de l’homme, tandis qu’une passion en reverse les sentiments. Balzac.

Pentimento.
  p. 394. n. 5208. Dieu ne mesure jamais le repentir: il ne le scinde pas, et il en faut autant pour effacer une tâche, que pour lui faire oublier toute une vie. Balzac. [Citaz. tratta da Histoire des Treize].
Piacere.
  p. 400. n. 5292. Le plaisir est comme certaines substances médicales: pour obtenir constamment les mêmes effets, il faut doubler les dose et la mort ou l’abrutissement est contenu dans la dernière. Balzac. [Citaz. tratta da La Fille aux yeux d’or].
Politica.
  p. 417. n. 5538. La femme d’un homme politique est une machine à gouvernement, une mécanique à beaux compliments, à révérences; c’est le premier, le plus fidèle des instruments dont se sert un ambitieux; enfin c’est un ami qui peut se compromettre sans danger, et que l’on désavoue sans conséquences. Balzac, Vie parisienne – L’interdiction, I.
Religione – Ateismo.
  p. 459. n. 5972. Les libéraux ne tueront pas malgré leur désir, le sentiment religieux: la religion sera toujours une nécessité politique. Balzac. [Citaz. tratta da La Duchesse de Langeais].
  p. 472. n. 6052. Quand les malheureux ont convaincu la société de mensonge, ils se rejettent plus vivement dans le sein de Dieu. Balzac, Vie parisienne – La comtesse à deux maris.
Sventura.
  p. 557. n. 7033. Le malheur est une espèce de talisman dont la vertu consiste à corroborer notre constitution primitive, il augmente la défiance et la méchanceté chez certains hommes, comme il grandit la bonté de ceux qui ont un coeur excellent … Balzac, Vie paris. – La comtesse à deux maris.
Uomo – Umanità.
  p. 600. n. 7540. Rien ne rassemble moins à l’homme qu’un homme. Balzac. [citaz. tratta da Traité de la vie élégante]

Vita.
  p. 646. n. 8140. La vie n’est que ce que nous la font les sentiments. Balzac. [Citaz. tratta da La Duchesse de Langeais].
  p. 647. n. 8143. La vita è un’opera, un mestiere, e bisogna darci la pena d’impararla. Quando l’uomo conosce la vita mediante la prova dei dolori, allora la sua fibra acquista una certa elasticità, ed egli si rende capace di governare le emozioni. Balzac.


  G. L. Piccardi, Il Teatro italiano contemporaneo, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Firenze, Direzione della Nuova Antologia, Volume Sesto, della Raccolta, Volume XXXVI, Fascicolo Undecimo, Novembre 1877, pp. 698-715.
  p. 715. Speriamo per la meglio che le attitudini si svolgano. Speriamo che a questa schiera di scarabocchiatori inconcludenti ne succeda un’altra che abbia la coscienza delle proprie forse, e che sapendo quanto ha da fare, sappia dove e fin dove può arrivare. A costoro potremo dire: Non guardate alle vecchie caste che vanno eclissandosi; ma state coll’occhio attento ai loro margini. Sono i margini che ci daranno la società nuova. E ripetendo press’a poco quello che il Bonghi ha detto un giorno a proposito di coloro che si dànno alla letteratura, potremo aggiungere: Chi non ha l’intuito del suo tempo e porta, dandosi al teatro, la convinzione di far qualche cosa di meglio che delle ciarle eleganti, smetta di scrivere e fumi … Chi non comprende la verità di quel principio affermato dal Balzac, che ogni individuo cioè reca in certo qual modo il suo fato nel proprio temperamento, dimetta l’idea di poter riuscire un autore drammatico e fumi … Chi non vede come si svolgono i fenomeni sociali, fumi … Chi non sa rendersi ragione del perché oggi all’arte l’estetica sola non basta più, fumi … Chi crede che la morale in teatro debba ancora considerarsi dal punto di vista se l’adulterio possa o no essere argomento di una scenica rappresentazione, fumi. Insomma, in una parola, coloro che non hanno il senso della critica moderna, faranno di tutto, fuorchè delle commedie che possano riuscire di vero incremento al Teatro nazionale.

  Fedele Pollaci Nuccio, Varietà palermitane, «Nuove Effemeridi Siciliane. Studi storici, letterari, bibliografici in appendice alla Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia compilati da V. Di Giovanni – G. Pitrè – S. Salomone-Marino», Palermo, Luigi Pedone Lauriel, editore, Serie Terza, Vol. VI, 1877, pp. 238-243.
  p. 242. A tempi nuovi, studii nuovi. Oggi è un parlar lungo di popolo, e, più che altro, si studia il popolo. Racconti, canti, proverbii: tutto che interessi il popolo è con pazienza raccolto e con molta cura studiato. Anche presso di noi gli studii popolari si coltivano con successo e nella nostra Sicilia non mancano letterati che in quest’arringo hannosi saputo meritare reputazione fin sulle lontane spiagge del Nuovo Mondo. Molti anni addietro simili studii erano affatto dimenticati, anzi spiegavasi qualunque cosa avesse avuto attinenza col popolo, coi suoi fatti, coi suoi pregiudizii, colle sue idee. Era un grande storico italiano che lo confessava. «Chi fra noi conosce alcun che di queste cose (popolari)? Se fossero cose di Scozia o di Touraine, le avremmo da gran tempo lette sulle pagine di Scott e di Balzac. Ma qui fra noi non sonvi scrittori che curino descrivere, e lettori che prendano alcun interesse a leggere, i costumi e le maniere del nostro proprio paese. Tutti desiderano apparir persone che abbiano in non cale queste cose domestiche e solo si curino di quelle che non posson vedere che a traverso il telescopio».(1)
  (1)  Cesare Cantù, nella prefazione alle Novelle lombarde. È citato da R. H. Busk nell’opera The folk love of Rome nella prefazione pag. VII.

  Ermolao Rubieri, Tra i generali caratteri morali della poesia popolare italiana e il suo disagio nella vita coniugale, in Storia della poesia popolare italiana di Ermolao Rubieri. Volume unico, Firenze, G. Barbèra, Editore, 1877, pp. 559-773.

Parte Terza.

Morali caratteri della italiana popolare poesia.

 

Capitolo X.

Tra i generali caratteri morali della poesia popolare italiana è il suo disagio nella vita coniugale, pp. 559-574.

 

  p. 564. Essi [i poeti popolari] anzi gli studiano, gli sviscerano, gli analizzano, e qualche volta gli esagerano. Uno de’ più spiritosi scrittori francesi scrisse la Fisiologia del Matrimonio con tali colori da non farlo venire in grazia. Ma pare che i nostri poeti popolari, senza avere letta l’opera di Balzac, ne sappiano quanto lui.


  V. Ruffini, Lavinia. Traduzione italiana dall’inglese. Volume Secondo, Milano, Battisti e Brigola, Editori, 1877.

 

  p. 98. Disserta va volentieri sulle proprie creazioni progettate, sopratutto sul famoso romanzo di passione, il Predestinato. Secondo lui, la passione era il solo campo in cui Balzac avesse lasciato qualche cosa da spigolare. Questo grande anatomista del cuore umano aveva esaurite tutte l’altre orme di finzione, sia nella vita della società, sia nella vita privata, sia nel dominio della morale che in quello della filosofia. Balzac era il profeta di Courant, e la Phisiologie (sic) du Mariage era per lui il libro dei libri.

 

  p. 157. La costanza, credetemi, e potrei dimostrarvelo con ragioni anatomiche e fisiologiche, è una virtù incompatibile colla nostra difettosa organizzazione. Avete letto Balzac? Ebbene, leggetelo; c’è una gran filosofia in Balzac. Se me lo permettete vi farò avere qualcuna delle sue opere. Addio.

 

  p. 159. La filosofia di Balzac, le parole a doppio senso di Arnal, la danza della Rosati, e le passeggiate vespertine sul boulevard non son fatte precisamente per fortificare le tendenze spiritualiste. L’atmosfera in cui viveva, malgrado i tentativi ch’ei faceva per neutralizzarli, cominciavano a produrre in Paolo una influenza impercettibile, ma potente.


  R. S., Appendice del “Pungolo”. Storia di un delitto. Deposizione di un testimonio (Vittor Hugo), «Il Pungolo», Milano, Anno XX, 7-8 Ottobre 1877, pp. 1-2.
  p. 1. Fra le molte sue doti, talune altissime, eccelle l’eloquenza: essa è in lui ciò che l’elemento drammatico era in Balzac, il descrittivo in Walter Scott, il morale in Manzoni – la caratteristica dello scrittore.

  [Roberto Sacchetti], Bibliografia (Continuaz.), «Il Pungolo», Milano, Anno XX, 7-8 Gennaio 1877, p. 3.
  [A proposito del romanzo di Napoleone Perelli: Terra promessa].
  L’arte può sposare dei teoremi scientifici e morali ma a fini troppo alti per essere alla portata di tutti: tanto è vero che i romanzi del Balzac più saturi di pensiero non furono mai popolari: la pubblicazione dei Paysans, uno dei suoi capolavori più perfetti, nelle appendici della Presse, dovette sospendersi per le proteste dei lettori che lo trovavano noioso!

  Roberto Sacchetti, L’Epistolario di Balzac, «L’Illustrazione Italiana. Rivista settimanale degli avvenimenti e personaggi contemporanei», Milano-Roma, Anno IV, N. 3, 21 gennajo 1877, pp. 42-43, N. 5, 4 febbraio 1877, pp. 74-75.

  Roberto Sacchetti (Torino, 7 giugno 1847-Roma, 26 marzo 1881) fu corrispondente della Gazzetta piemontese, dopo avere svolto intensa attività giornalistica a Milano, come redattore-capo del Pungolo, e poi a Torino al Risorgimento. La sua produzione letteraria fu ricca di fermenti morali e civili. Di lui, si ricordano il lungo romanzo Cesare Mariani (Torino 1876, 3 voll.), le brevi novelle antinaturalistiche di Candaule (Milano 1879), di Tenda e Castello (ivi 1884), e il romanzo postumo Entusiasmi (ivi 1881, 2 voll.).

I.
  Onorato De Balzac lasciò nell’aprile 1820 la casa paterna di Villeparisis nel dipartimento di Seine-et-Marne per recarsi a Parigi. – Era allora un ragazzo di vent’anni: la sua volontà, inanimata da una prima vittoria, affrontava coraggiosamente la vita. Era riuscito a superare le resistenze della famiglia, a ottenere il consenso di abbandonare una professione sicura per farsi incontro a ciò che allora era semplicemente l’ignoto. Questo consenso poteva anche essere un’imprudenza: difatti suo padre si vergognava di confessarlo agli amici – si diceva a tutti che il figliuolo era andato a Passy presso un cugino.
  Intanto Onorato toccava il cielo col dito – aveva preso un bugigattolo ad un quarto piano e di là scriveva alla sorella Laura:
  «È scoppiato un incendio in via Lesdiguières, N. 9 nella testa di un povero giovanotto e i pompieri non poterono spegnerlo. L’ha appiccato una bella donna che abita alle Quatre-Nations, in capo al ponte delle Arti, e si chiama la Gloria.
  Il peggio è che l’incendiato ragiona a questo modo: - Ch’io abbia o non abbia genio, certo è ch’io mi tiro addosso di grandi fastidi».
  Però questo presentimento non doveva troppo inquietarlo, dacchè egli soggiungeva:
  «Mi persuado che la ricchezza non è la felicità e il tempo che passerò qui sarà per me un dolce ricordo! Vivere a modo mio, lavorar a mio talento, non far nulla se non ne sento voglia, addormentarmi sull’avvenire che mi figuro bello, pensare a voi altri sapendovi felici, fare all’amore con la Giulia di Rousseau, aver per amici La Fontaine e Molière, per maestro Racine – il Père-Lachaise per passeggiata! …
  Oh se la durasse! …»
  Per farsi dar sulla voce, confessava a fior di labbra di sentirsi «scarso d’ingegno» e persuaso che il lavoro non basta a supplirvi. Egli aveva un sacro orrore della mediocrità: «al diavolo i Prudhon e i Beauvallet! bisogna diventare Grétry e Racine».
  Più tardi manifestava lo stesso pensiero dicendo:
  «Quando si ha un’intera fortuna da costruire, sai meglio farla grande ed illustre, poiché, fatica per fatica, è preferibile patire in un’altra sfera che in una umile».
  Come se la scelta fosse possibile!
  Nella sua soffitta di via Lesdiguières, Onorato si apparecchiava a valersi del suo ingegno come se realmente fosse sicuro di averne, e preferiva un grande avvenire ad uno meschino.
  Le sue agitazioni erano naturalmente immense, infinite.
  A vent’anni non si è mai troppo discreti in fatto d’ideali. Non si bada a quello che si ha sottomano: ci si degna di accettare il difficile ma a patto di non rinunziare all’impossibile.
  «Se sono un valoroso, sclamava superbamente, io potrò avere più assai che la celebrità letteraria: mi seduce pur molto l’ambizione di aggiungere al titolo di grande scrittore anche quello di gran cittadino».
  Per fortuna, si contentava di conquistarli uno alla volta e di cominciare da quello letterario che poi si è visto bastevole per la sua vita e anche per la sua immortalità.
  Però fra i diversi generi, il giovine scrittore non ne trovava che uno degno di sé: - la tragedia. Aveva recato con sé da Villeparisis l’idea di un Cromwell, a cui pensava assiduamente, tanto che dopo un anno ne aveva quasi tracciato il disegno e lo inviava alla sorella, sua confidente, dicendo:
  «Non è un piccolo regalo né una piccola prova di amicizia ch’io ti do, facendoti assistere alla concezione del genio. (Burlati di me) …
  E dire che si legge in un’ora ciò che, a scriverlo, certe volte ha costato degli anni».
  Lo schema non è punto tale da dare un grande concetto dell’invenzione di Sofocle II, come egli per celia si chiama – e neppure della sua fecondità.
  Bisogna però avvertire ch’egli mentre vagheggiava la gloria del coturno, per scopi meno alti, ma più reali scriveva dei romanzi sotto le prudenti riserve dell’anonimo.
  «Bisogna pur scrivere, scrivere tutti i giorni per conquistare l’indipendenza che mi si contende! Tentare di farsi libero a forza di romanzi e quali romanzi!».
  Egli ne arrossiva come di una rinunzia nei suoi progetti di gloria.
  Sembra avesse mutato pensiero alcuni anni dopo, quando narrando come il bisogno l’avesse costretto a interrompere il lavoro de’ suoi romanzi per tentare il teatro, diceva che questa era «la maggior disgrazia che potesse capitargli».
  Il suo primo lavoro fu l’Héritière de Birague, venduto 800 lire nel 1822; altri molti tennero dietro che furono poi da lui ripudiati.
  Scrittore di romanzi a due lire la pagina, egli lavorava senza saperlo alla conquista di quella riputazione che per altra via aveva cercato inutilmente.
  E si nuoceva di non poter far cose migliori.
  «Con 1500 franchi sicuri, potrei pensare alla celebrità; ma ci vuol tempo … e prima di tutto bisogna vivere! io non ho altro che questo ignobile mezzo de m’indépendantiser
  Se almeno qualcuno confortasse in qualche modo la mia fredda esistenza! Non ho i fiori della vita e sono nella stagione in cui essi si schiudono! Che ne farò della ricchezza e dei piaceri quando la mia giovinezza sarà trascorsa! A che servono gli abiti da attore, quando non si reciti? Il vecchio è un uomo che ha desinato e sta a veder gli altri che mangiano; - ed io che son giovane ho il piatto voto e mi sento fame! Oh Laura, Laura, i miei due sterminati desiderii di essere celebre e di essere amato saranno soddisfatti! …»
  Quattro anni dopo, nel 1827, egli era più che mai lontano dall’indipendenza sognata. Aveva messo su una stamperia al Marais e incominciato un’edizione economica dei classici francesi – ma l’affare era fallito: dovette, con perdite colossali, cedere la stamperia. Le conseguenze di questo rovescio aggravarono la sua posizione – ed egli non avea oramai altra risorsa che i proventi della sua penna.
  Egli scriveva alla sorella:
  «Se qualcuno dei miei creditori volesse segretamente farmi tradurre a Santa Pelagia, ci starei volentieri; il vivere non mi costerebbe nulla e non ci sarei niente più prigioniero di quel che mi rende il lavoro in casa mia. Un francobollo, un omnibus, sono spese che eccedono le mie possibilità, e io mi astengo dall’usare per non logorare gli abiti. Hai capito?»
  Fra queste terribili angustie aveva trovato un’idea feconda. Terminava les Chouans – era la sua prima opera grande: molte altre seguirono. Egli ha scritto che «le sue migliori ispirazioni brillarono sempre nei momenti di affanno supremo». È vero: gli affanni si moltiplicarono di poi e moltiplicarono con essi i suoi capolavori.
  Le sciagure suscitavano nel suo cuore di atleta «la terribile virtù di irrigidirsi contro la bufera e di opporre all’avversità una fronte calma, irremovibile».
  Da otto anni egli lavorava molto: i molti volumi delle Oeuvres de jeunesse lo attestano: ma allora la sua operosità prese il carattere di un lento suicidio.
  Si cacciò a capofitto, alla corsa, per un sentiero aspro, in fondo al quale poteva trovare la gloria o una morte precoce – o l’uno e l’altro insieme. Cominciò un’esistenza da forzato: non vive più che per il suo lavoro, sacrificando ad esso gioie, affetti, salute. Gli amici si lagnavano d’essere trascurati:
  «Un uomo, che da quindici anni si alza ogni dì nella notte, che non ha mai tempo abbastanza nella propria giornata, che combatte contro tutto, non ha tempo di andare a trovare un amico, come non ne ha per visitare la innamorata: e però io ho perduto molte innamorate e molti amici, senza rimpiangerli, poiché essi non capivano la mia condizione».
  E altrove:
  «C’è una cosa che domina la mia esistenza, è un lavoro incessante, senza posa, un lavoro di quindici a sedici ore al giorno; con questa idea non si può far nulla. Le amicizie leggere se ne vanno; esse hanno bisogno della posca di Bugeaud; restano le vere … Sono dunque una eccezione, un povero operaio che bisogna venire a cercare e aspettare ch’egli faccia la sua domenica. Nessuno al mondo apprezza il valore di una mia visita, e io non lo dico per orgoglio». – E terminava questa lettera diretta alla duchessa d’Abranto (sic) dicendo: «Però non pensate male di me; dite fra voi: - egli lavora giorno e notte, - e non vi meravigliate che di una cosa: di non avere già intesa la mia morte».
  E ad un’altra signora che lo rimproverava del suo silenzio rispondeva nel gennaio 1829:
  «Spero che voi non mancherete di carità per un disgraziato che lavora dì e notte sino a che morte ne segua. Immaginatevi che ho impreso due opere in una volta, senza contare un gran numero di articoli. Ho promesso di far uscire queste due opere, l’una alla metà di febbraio, l’altra in aprile, e comincio adesso. Le giornate mi si liquefanno in mano come ghiaccio al sole. Non vivo più, mi logoro orribilmente; ma morir di lavoro, o d’altro male, è tutt’uno».
  E lo accusavano di indolenza e di poca energia! Lo accusavano di egoismo. Era questa la sua afflizione, il suo rovello continuo.
  «Un dì o l’altro, quando avrò svolta l’opera mia, vi persuaderete che ci son volute molte ore per pensare e scrivere cotante cose; voi mi assolverete allora di tutto ciò che avrà potuto farvi dispiacere, e perdonerete non l’egoismo dell’uomo (l’uomo non ne ha punto), ma l’egoismo del pensatore e del lavoratore».
  Ma nessuno dei suoi più stretti parenti, sua madre, sua sorella Laura, neanco lei, la confidente di tutta la sua vita, prestava intera fede al suo martirio. Egli le rispondeva con queste parole di profonda amarezza:
  «Io ci patisco nel sentirmi bersaglio di continui sospetti. Sono pure infelice! Per guadagnare del denaro mi è necessaria la tranquillità del chiostro e la pace! Quando sarò felice, allora forse mi si renderà giustizia: sarà troppo tardi, giacchè io non sarò felice che quando sarò morto. Credete voi che cinquanta cartelle e quaranta prove di stampa da correggere, un manoscritto da rifare, siano balocchi da ragazzo? che quattro volumi, che si stampano fra il 15 gennaio e il 15 febbraio (il che vuol dire un volume per settimana, e ce n’ho uno da scrivere di sana pianta), si correggano con la verga di una fata? Oh Laura Laura, io piango …».
  Aveva pur troppo ragione.
  La sua attività non ha riscontro nella storia letteraria; nessun scrittore, nemmanco Pascal, ha mai avuto il coraggio di lavorare come egli faceva, dodici, sedici, diciotto ore, delle ventiquattro, tutte di un fiato – e per molti anni di seguito, quasi tanti quanti ne visse.
  Quando egli diceva che s’alzava alle tre del mattino per lavorare senza interruzione sino alle quattro di sera, la sua non era una vana vanteria. La sua enorme fecondità derivava non meno dal suo genio che dalla ostinata sua operosità. Egli soleva confondere le due cause in una dicendo agli amici meno animosi di lui
  «Se avete coraggio, acquisterete necessariamente anche l’ingegno, poiché c’entra tanto coraggio nell’ingegno che questo è quasi tutto fatto di pazienza».
  Balzac era stimolato, oltre che dal desiderio della gloria, anche da quello di far fortuna: a questo riguardo la sua vita ci appare come una lunga corsa dietro a un’immagine fallace che gli sfugge continuamente, che ingrandisce e si fa più splendida quanto più si allontana da lui. Una corsa affannosa in cui non vi ha sosta, ma bensì delle cadute frequenti. Dal giorno in cui egli si augurava «millecinquecento lire all’anno sicure» sono corsi più di due lustri, e i debiti sono cresciuti più che non la prosperità ed egli scrive ad un amico:
  «Voi non sapete ciò ch’io dovevo sono due anni oltre a ciò che avevo; non avevo che la mia penna per vivere e per pagare 120 mila franchi. Fra qualche mese io avrò pagato tutto, e aiutato la mia piccola famigliola; ma, per sei mesi, mi restano da tollerare tutte le molestie della miseria, io mi godo le ultime mie miserie».
  Egli soggiunge più sotto:
  «Sì, mi rimangono da passare dei mesi molto scabrosi, tanto più che, come Napoleone si è stancato della guerra, io posso ben confessare che la disgrazia comincia a pesarmi».
  Ma non gli date retta: dopo sei mesi egli si troverà più di prima lontano dall’agognato riposo – egli non si sarà punto liberato: ma tirerà innanzi più ardito di prima.
  Qualche nostro puritano farà la smorfia a tutti questi calcoli. Tullio Dandolo scrisse una volta che Balzac lo aveva stomacato coll’avidità dei suoi progetti finanziarii. C’è ancora della gente che vorrebbe nudrire i poeti di ambrosia e non li vorrebbe lasciar entrare nella corrente umana che si precipita dietro la fortuna.
  Balzac è stato uomo del suo secolo; perciò ha potuto conoscerne e descriverne le ansie, le avidità febbrili. E al postutto, se questo stimolo dell’interesse ha contribuito a crescere l’opera sua – non abbiamo che a rallegrarcene; poiché egli non ha fatto mai il mestiere: - «un certo scrupolo mi trattiene dal far male, per fretta che abbia».
  Se la fortuna gli sfuggiva – la celebrità era meno schiva.
  La sua vera riputazione letteraria, cominciata coi Chouans, fu suggellata dalla Phisiologie (sic) du mariage, libro che criticato acerbamente per rispetto umano, fu letto e divorato furiosamente da tutta Europa.
  Egli scrisse subito dopo i primi sei volumi delle Scènes de la vie privée, - «Libro, egli dice, tutto morale e di retti consigli, in cui non si distrugge, non si attacca nulla: in cui rispetto tutte le credenze, anche quelle che non sono le mie».
  Con questo e colla Peau de Chagrin egli cominciava la serie dei Contes philosophiques, primo nucleo di un’opera «che egli era orgoglioso d’aver tentato, anche se avesse dovuto soccombere a mezza via». – E l’orgoglio era giustificato, dacchè l’Opera doveva essere la Comédie humaine.
  Con questo fardello di lavori e di progetti, gli uni più grandi degli altri, egli giungeva alla virilità del suo ingegno, entrava nell’anno trentesimo terzo dell’età sua, anno culmine di sforzi e di successi, di lotte e di vittorie, anno trionfale in cui egli pubblicava il Colonnello Chabert, ideava la Recherche de l’absolu, scriveva e raccoglieva le Conversations entre onze heures et minuit, correggeva le (sic) Chouans, scriveva le Curé de Tours e tracciava il disegno degli altri volumi dei Célibataires, meditava l’Enfant Maudit, il Marquis de Carabas, la Bataille d’Austerlitz, les Amours d’une laide; - scriveva la Grenadière, scriveva Louis Lambert e le Médecin de campagne, forse le due più altre sue concezioni! – Tutto questo enorme cumulo di lavori si affastella negli ultimi sei mesi del 1832 insieme colle più vive preoccupazioni pecuniarie, insieme colle distrazioni di un amore esigente, lo insegue nella solitudine della villa, lo perseguita in un breve viaggio ch’egli fa in Svizzera.
  «Pensa che ho tanto da fare, scriveva a sua madre, che a dieci pagine al giorno ci vorrebbero tre mesi, e a venti, quarantacinque giorni, che è fisicamente impossibile scriverne più di venti, e ch’io non chiedo che soli quaranta giorni!»
  Per viaggio cade da un’imperiale e si fa un «piccolo buco nella tibia». Incatenato dal male sopra un lettuccio d’albergo, egli scrive in tre notti il Médecin de campagne e stende il piano di tre commedie.
  S’è fatto un grand’elogio di quel filosofo di Rodi che visitato da Pompeo mentre giaceva infermo di doglie agli arti, conversò lungamente con lui e solo s’interrompeva, quando la violenza degli assalti era massimo, per dire: - o dolore, non dirò mai che tu sia un male. Ma cos’era la sua ciancia oziosa al confronto della laboriosa noncuranza di Balzac?
***
II.
  Il grande romanziere fu alle prime sorpreso del proprio successo: egli aveva vagheggiata tutt’altra grandezza. Qualche volta, nei momenti in cui, com’egli dice, viene la stanchezza e colla stanchezza la sfiducia, dubitò di sé e si domandò atterrito se per caso la sua non era una delle solite gloriuccie (glorioles), idoli di un giorno di favore che un giorno di malumore può mandare in frantumi. Quando David, il celebre scultore, gli propose di ritrarlo, chiese a’ suoi più intimi se poteva permettersi un siffatto orgoglio. Noi sappiamo adesso ch’egli lo poteva e lo doveva. La sua apoteosi comincia appena, mentre tramonta quella di Dumas ed è tramontata da un pezzo quella di E. Sue, - suoi più fortunati coetanei. La pubblicità ha divorato in questi ultimi anni tre grandi edizioni delle sue opere complete; questo suo epistolario, - di cui facciamo una così magra e frettolosa analisi, - atteso con viva ansietà da dieci anni, appassiona in questo momento le riviste e il mondo letterario di tutti i paesi civili.
  Fra le grandi riputazioni letterarie del secolo nessuna vale la sua: la Francia può vantare opere ugualmente vaste e forse più brillanti, quella di Vittor Hugo per esempio; ma non più solide e durature.
  Balzac è capostipite: la sua grandezza cresce nelle generazioni intellettuali cui ha dato vita. Ha tracciato coll’opera sua un solco così profondo che la letteratura non ha potuto ancora uscirne; vi è passato Feuillet, come Flaubert, come Zola, - parlo solo dei caporioni, non della folla che è infinita, e di tutti i paesi. Nell’arte sua l’autore della Commedia umana dà la destra a Walter Scott e porge la sinistra all’avvenire, all’ignoto, a qualcuno che forse tarderà de’ secoli a sorgere. Quanto agli illustri romanzieri contemporanei egli li copre tutti colla sua grandezza.
  Però, eccettuati i momenti molto rari di sconforto, egli ebbe un’idea, se non giusta, certo elevata del proprio valore. E la esprime in una sua lettera confidenzialissima del 5 febbraio 1844, bizzarramente così:
  «Carte in tavola: quattro uomini avranno esercitata in questo mezzo secolo una influenza immensa: Napoleone, Cuvier, O’Connell; vorrei fare io da quarto. Il primo ha vissuto del sangue dell’Europa, - si è inoculato degli eserciti; il secondo ha sposato il globo; il terzo s’è incarnato un popolo; io avrò portato nella mia testa una società tutt’intera».
  È vero: - la società francese, anzi europea del secolo nostro, in fondo così molteplice e varia sotto una apparente uniformità, egli l’ha compresa, scandagliata, indovinata e, dicono, anche un po’ presagita. L’ha descritta e scolpita; la storia andrà a cercarla nelle sue pagine, come cerca la decadenza romana nei versi di Giovenale.
  La perseveranza non prova sempre il genio; ma è segno sicuro di una grande fiducia in sé stesso. – Dopo quel fortunato anno 1832, in cui concepì il disegno della Commedia umana e ne gettò le fondamenta, il successo presentandosi colla gradita compagnia di un guadagno relativamente considerevole, Balzac si lusingò di aver raggiunta la fortuna e di poterne godere. Si abbandonò ai suoi istinti, ai suoi progetti di eleganza, e dopo quattr’anni si risvegliò dal sogno dolcissimo in u abisso di debiti. – Ebbene, quando il 30 settembre del 1846, scaduto da tutte le sue speranze, costretto a tutto abbandonare, si rifuggì in una soffitta già abitata da Giulio Sandeau, - nel punto che per la seconda volta nella sua vita si trovava travolto in un impreveduto e completo disastro, e che alle inquietudini dell’avvenire si aggiungeva il sentimento della profonda solitudine che s’era fatta intorno a lui, - scriveva alla signora Hanska: - «Sono abbattuto ma non atterrato; il coraggio mi è rimasto». Un cupo coraggio egli dice.
  Con esso riprese la nuova lotta:
  «Io sono entrato in questa soffitta colla persuasione di morirvi di fatica … [ più di un mese che mi alzo a mezzanotte e mi corico alle sei (della sera), mi cibo appena tanto da vivere, per non dare al cervello la briga di una digestione; pure, non solamente io provo delle ineffabili spossatezze, ma tanta vita nel cervello che ne sento di grandi turbamenti; io perdo talvolta il senso della verticabilità, che sta nel cervelletto; anche stando in letto, mi pare che la testa strapiombi e destra e a sinistra, e sono, quando mi alzo, come trascinato da un peso enorme che sta nella mia testa …
  La mia vita non è più che un monotono lavoro, senz’altro svago che il lavoro stesso. Sono come quel vecchio colonnello austriaco che parlava del suo cavallo grigio e del suo cavallo nero all’imperatrice Maria Teresa; inforcò ora l’uno, ora l’altro, sei ore sul Ruggieri, sei ore sull’Enfant maudit, sei ore sulla Vieille fille. Da quando in quando mi alzo, contemplo l’oceano di case che la mia finestra domina, dalla scuola militare fino alla barriera del Trono, dal Panteon sino all’arco della Stella; e dopo aver aspirato un po’ d’aria mi ripongo al lavoro».
  Dominata da un intento costante, la sua vita ci appare in questo epistolario come una tragedia psicologica che precipita alla catastrofe. La piacevolezza Rabelaisiana dell’autore dei Contes drolatiques appare assai di rado in queste lettere: - e appena ci si avvertono le eccentricità e le stranezze di cui parlano Gozlan e Théophile Gautier. Di tutti i grandi e pazzi progetti coi quali ingannava la sua smania di arricchire, non se ne mostra che uno: quello delle miniere in Sardegna. Un genovese, non si sa chi, gli aveva narrato che nello sterro delle antiche cave abbandonate dai Romani ci si doveva trovare dell’argento. Un anno dopo, egli si ricorda di quel discorso, mette insieme tutto il denaro che può, se ne va in Sardegna, - e torna dopo sei mesi, con qualche nuovo debito, a far romanzi, a scavare la vena veramente aurifera della sua immaginazione. Un’altra volta si mette in testa di fare una specie d’enciclopedia per l’istruzione primaria, «mirabile affare», in cui si può rischiare cento mila lire al più e che può diventare colossale. A indovinarlo c’è da farsi il nome di un Parmentier, poiché questo sarà come la patata dell’istruzione».
  Sono curiose le lettere «a Luisa», una sconosciuta di cui egli non ha mai voluto penetrare l’incognito. Formano tutt’insieme un innocente romanzetto, dove Balzac si atteggia da genio inaccessibile e rampognatore; come gli oracoli delle leggende orientali, si circonda di barriere insormontabili, designa alla ignota adoratrice delle prove scabrose, delle difficoltà supreme, dichiarando ch’ella non saprà superarle e senza promettere in ogni caso compensi alla sua vittoria. Le scrive:
  «Non mi sacrificate il vostro affetto; io ne voglio troppo; come tutti quelli che combattono, soffrono e lavorano, io sono pretenzioso, diffidente, caparbio e capriccioso, e voi non potreste in nessun caso obbedire ai miei capricci, che sono de’ pensieri interamente logici; punto fantastici, perché quel che sembra capriccio agli occhi della gente fredda, mi è sempre sembrato la ragione del cuore. Certo, se fossi donna, avrei preferito a tutto una qualche anima sotterrata come un pozzo nel deserto, che non si veda se non collocandosi allo zenith della stella che lo segnala all’Arabo osservatore; - ma che grandezza ci vorrebbe!»
  Qualche volta la compassione, deplora l’ostinazione del suo affetto disinteressato e le dice poche parole gentili: nell’ultima lettera la chiama «carina» in italiano, - è la massima tenerezza che egli le dedichi.
  Queste erano le pose: - valeva assai più la realtà. Piccolo nelle vanità di grand’uomo, - l’uomo grande era nel vero.
  Due nobilissimi sentimenti si trasmisero il governo di questa esistenza d’artista. Balzac avea la costanza del cuore pari a quella della mente. Per la seconda era un genio, - per la prima un eroe.
  Una donna straordinaria, un ideale di gran dama gli si fece incontro fin dai suoi primi passi sul sentiero della celebrità. Il giovine e l’artista piegarono insieme il ginocchio innanzi a lei; ma ella, «indole d’acciaio», respinse i trasporti del primo, non accettò che la devozione del secondo. Venuta a lui col velo dell’incognito, ella lo depose quand’egli ne la richiese, - e visitò spesso per parecchi anni di seguito il suo studiolo. Ma la loro relazione non varcò mai i limiti di una rigorosa convenienza. Fu lei che gli diede quella fede incrollabile nella virtù della donna, quella aristocratica elevatezza di ispirazione che formano le attrattive più possenti dei suoi romanzi. Una delle sue creature meglio riuscite, la duchessa di Langeais, quel tipo di superiore distinzione, non era che il ritratto della donna che aveva saputo soggiogare colla propria amicizia seria ed inesorabile la sua tenerezza giovanile.
  Appena ebbi in mano questo epistolario, cercai con ansiosa impazienza qualche lettera a lei diretta; e fui mortificato di non trovarne. Un grido d’angoscia ci apprende insieme il suo nome e la sua agonia.
  «Oh mamma, che strazio! La duchessa di Berny muore! Non c’è più dubbio!»
  Poi la figura di lei passa una o due volte nel fondo – altera, misteriosa – e, come la Nerina di Leopardi, non è più che un’adorata memoria.
  «Sono solo contro tutti i miei nemici, e, un tempo, per combatterli avevo con me la più soave, la più animosa creatura del mondo; una donna che ogni dì rivive nel mio cuore, e le cui qualità divine mi fanno parer pallide le amicizie che le paragono. Non ho più chi mi consigli nelle difficoltà letterarie, non ho più chi mi aiuti nelle difficoltà della vita, e quando mi nasce un dubbio, non mi resta altra guida che questo fatale pensiero: che direbbe lei, se vivesse ancora? …»
  Però, quando scriveva queste parole, nel febbraio 1839, Balzac aveva trovato una consolazione. Un’altra immagine viene a visitarlo nelle sue veglie travagliose, a recargli in conforto non di consigli divenuti inutili, ma di un po’ di tenerezza e d’amore. Non è l’immagine d’una morta, ma d’un’assente.
  Egli conobbe la contessa Rewuscka vedova del signor Hanska (sic) a Neuchâtel nell’autunno 1833. D’allora in poi, l’amore di questa donna divenne la stella polare di tutte le sue aspirazioni: per diciassette anni fu il suo stimolo, il premio invocato dei suoi sforzi, la meta cercata attraverso alle difficoltà che la condizione di lei e gli impegni di lui opponevano alla loro unione. Durante questa lunga via crucis, - ella ebbe qualche scoramento, egli nessuno.
  Dopo dieci anni, durante i quali egli non la rivide che due volte, le scrive:
  «Nulla, nessun avvenimento della vita, nessuna donna per bella che sia, nulla può mutare ciò che è da dieci anni, perché io amo l’anima vostra quanto la vostra persona. Sapete ciò che v’ha di durevole in fatto di sentimenti? È la sorcellerie à froid; ebbene tutto ciò che è vostro è passato alla prova di un esame dei più ragionati, dei confronti più svariati e più minuziosi, e il risultato non poteva essere più favorevole. Voi, cara anima sorella, voi siete quella santa e nobile e adorata creatura a cui si affida la propria vita e la propria felicità con piena certezza. Voi siete il faro; la stella luminosa e la sicura ricchezza, e sopra tutto senza brama …».
  La signora Hanscka (sic) era veramente la quintessenza di perfezioni che Balzac ci descrive in tante pagine, dove la sottigliezza metafisica dei poeti provenzali dà la mano al più fervido sentimentalismo dei moderni romantici? La domanda è tanto indiscreta quanto spontanea.
  Le persone valgono al postutto i sentimenti che c’ispirano.
  Noi rispetteremo in lei la donna che, fidanzata per tre lustri di seguito a un grande artista, non lo stornò un minuto dall’opera sua: non gli rubò un attimo della sua attività: serrò in un cantuccio i diritti della sua costanza per far posto a quelli crudeli dell’arte. Se il movente segreto del suo grande sacrificio fu l’ambizione – benedetta questa nobile ambizione!
  Quando egli, finito il suo cómpito glorioso, esaurito di forze, segnato al cuore dalla morte, venne a cinquant’anni a cercarla, ella, ancora giovane e bella, accettò questo residuo doloroso d’un’esistenza disfatta e seppe rallegrarla con un ultimo raggio di gioia.
  Il sublime romanzo termina nel remoto castello di Wirzchovnia (sic) fra le steppe della Livadia il 14 marzo 1850.
  Nel giugno successivo Balzac torna colla sposa nella casa edificata e corredata col talento di grande artista e la profusione del milionario; non ha più nemici, non ha più debiti, è celebre, amato … morente.
  Come il dottor Faust egli aveva chiesto al destino un minuto di gioia e di gloria.
  Ed erano tre mesi ch’egli aveva scritto: - Sono al colmo della felicità.
  La morte è stata generosa!


  Roberto Sacchetti, Storia di un delitto. Deposizione di un testimonio (Vittor Hugo), «Serate Italiane. Letture illustrate per le Famiglie», Torino, Tip. e Lit. Camilla e Bertolero, Anno IV, Vol. VIII, Numero 203, 18 Novembre 1877, pp. 327-334.
  p. 327. Fra le molte sue doti [di V. Hugo], talune altissime, eccelle l’eloquenza: essa è in lui ciò che l’elemento drammatico era in Balzac, il descrittivo in Walter Scott, il morale in Manzoni – la caratteristica dello scrittore.


  Arturo Sterni, La Donna nella famiglia e nella società per Arturo Sterni da Bassano. Seconda edizione riveduta e corretta dall’autore. Volume primo, Piacenza, Tipografia di A. Del Maino, 1877.

 

  p. 205. Il romanzo francese, quantunque si sforzi di voler far supporre che il suo scopo precipuo è quello di divertire i lettori combattendo le piaghe sociali, non riuscirà però mai a liberarsi egli stesso dalla taccia di piaga sociale con cui lo stimmatizzarono i più dotti moralisti. Il perché molti delitti civili, molte colpe famigliari, molte tragedie d’amore, sarebbero risparmiate alla società, se si risparmiasse alla società la diffusione dei romanzi. Eugenio Sue, Alessandro Dumas, padre e figlio, Valter Scott, Gian-Giacomo Rousseau, La Martin (sic), Ponson du Terrail, Paolo de Koch (sic), Montesquieu, Giorgio Sand, Balzac, Vittor Hugo e tanti altri di egual risma ponno stringersi la mano e congratularsi a vicenda della loro opera di moralizzazione con cui hanno illuminato la società.

  Oh! essi ponno ben andarne superbi!



  F.[elice] Uda, Appendice della “Lombardia”. Libri nuovi. “Al di là”, romanzo di Ottone de Banzole (Alfredo Oriani), Milano, Galli e Omodei Edit., 1877, «La Lombardia», Milano, Anno XIX, 1° Settembre 1877, pp. 1-2.
  Apprezzo il realismo in letteratura, sono nemico dichiarato dell’azzurro a tutti i costi, ma credo del pari che il realismo non abbia un campo così ristretto come è quello dei misteri dell’alcova, i quali sembrano oggidì l’unico tema dei nuovi romanzi che si pubblicano. Fosse almeno un tema nuovo. Balzac, la Sand, Dumas figlio l’hanno esaurito. […]
  A conti fatti, e secondo i concetti sociali del signor de Banzole, noi sappiamo ora cosa c’è al di là del vero realismo, del realismo di Dante e di Shakespeare, di Balzac e di Victor Hugo, di Giorgio Sand e di Dumas. C’è l’idealismo brutto, cinico e ributtante – ma non è tutto; c’è il libro – non già immorale, non già osceno – niente di tutto questo: c’è solo l’arte impossibile e il libro noioso – due cose da nulla!

  X., Rassegna letteraria. “L’Assommoir”, par Émile Zola; vingt-huitième édition (Paris, Charpentier), «I Nuovi Goliardi. Periodico mensuale di Storia-Letteratura-Arte», Firenze, Tipografia dell’Arte della Stampa, Volume I, 1877, pp. 276-278.
  p. 276. Vi sono in questo volume degli episodi e delle pagine che eguagliano, se non sorpassano, per grandezza e per forza di sentimento ciò che fu scritto in questo genere dal Balzac, dall’Hugo e da altri maestri.

  R.[occo] de Zerbi, Thiers, «Giornale Napoletano di Filosofia e Lettere, Scienze morali e politiche», Napoli, presso Riccardo Marghieri di Gius. Editore, Volume Sesto, Ottobre 1877, pp. 237-274.
  p. 248. V’era meno nei salons-littéraires, quello, per esempio, della duchessa di Duras, della duchessa di Narbonne, della duchessa di Maillé, di madame Récamier, di madame du Cayla, dov’erano ricercati Lamartine, Victor Hugo, Balzac, Théophile Gautier, Eugène Sue e dove regnava madame de Girardin, il cui salone era il più splendido di tutti per luce d’uomini illustri.

Marco Stupazzoni

Nessun commento:

Posta un commento