lunedì 5 aprile 2021



2015

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Non onorare i debiti e vivi felice. Firmato: Honoré de Balzac, «il Giornale. Contro cultura. Arte-Letteratura-Nuovi media-Tv», Milano, Anno XLII, Numero 283, 29 novembre 2015, pp. 19-21; ill.

 

  Da: L’arte di onorare i debiti, cfr. scheda successiva.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

 

  Honoré de Balzac, A madame Hanska, in AA.VV., Lettere d’amore di uomini e donne straordinari, Prato, Piano B edizioni, (febbraio) 2015, pp. 87-90.

 

  Si tratta della traduzione parziale di tre lettere inviate dallo scrittore francese a Eveline Hanska il 2 marzo 1844, il 15 febbraio e il 21 dicembre 1845.



  Honoré de Balzac, L’arte di onorare i debiti e pagare i propri creditori senza scucire neanche un centesimo esposta in dieci lezioni. Traduzione di Antonella Costa e Yann Choderlos de Laclos, Roma, Nova Delphi, (ottobre) 2015 («Le sfingi»), pp. 133; ill.


  Struttura dell’opera:

 

  Note biografiche, pp. 7-10;

  Bibliografia, pp. 11-15;

  L’arte di onorare i debiti e pagare i propri creditori senza scucire neanche un centesimo esposta in dieci lezioni, pp. 16-123;

  Henry James, Honoré de Balzac, 1902, pp. 125-130.

 

  Testo di assai dubbia paternità balzachiana (probabilmente redatto da Émile Marc de Saint-Hilaire), L’Art de payer ses dettes et de satisfaire ses créanciers sans débourser un sou vede la luce, in maniera anonima, nel 1827 (Imprimerie de H. Balzac, Librairie Universelle). Critici attenti e rigorosi come, ad esempio, Stéphane Vachon nel suo magistrale studio sulla cronologia della produzione letteraria di Balzac, non menzionano questo “pamphlet” sull’intricato e variegato mondo degli usi e dei costumi dei debitori e dei creditori tra gli scritti appartenenti al futuro autore della Comédie humaine.

  Questa traduzione è preceduta da sommarie «Note biografiche» sul (presunto) autore dell’opera a cui seguono una «Bibliografia» delle opere di Balzac, ordinate sulla base di tre categorie: Romanzi e novelle; Teatro e Saggi, e le illuminanti pagine che Henry James (Honoré de Balzac, 1902) dedicò allo scrittore francese in occasione dell’uscita della traduzione inglese di Mémoires de deux jeunes mariées. La vera ragione del genio di Balzac, scrive James, risiede nel fatto che, mosso da un appetito, «quello di un orco, per tutti i tipi di fatti», egli, «con l’altissimo potere della sua immaginazione e una prodigiosa intensità di visione», seppe vedere «il suo soggetto anche alla luce della scienza, alla luce della rilevanza reciproca di ogni singola parte» (p. 130).

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet, a cura di Frédéric Ieva, in appendice Prefazione e Postfazione del 1833. Orazione funebre di Victor Hugo, Milano, Feltrinelli, (giugno) 2015 («Universale Economica Feltrinelli/Classici»), pp. 251.

 

  Per questa nuova traduzione italiana di Eugénie Grandet, curata, anche nell’apparato delle note al testo, da Frédéric Ieva, il testo di riferimento è quello stabilito da Nicole Mozet per l’edizione critica della Comédie humaine nella collezione della «Nouvelle Pléiade» di Gallimard (t. III, 1976). Tuttavia, è mantenuta la suddivisione del romanzo in sei capitoli secondo il modello dell’edizione originale del romanzo pubblicata da Mme Charles-Béchet nel 1834. In Appendice, sono riportate la traduzione della Préface e della Postface al romanzo (1833), entrambe soppresse nel 1843 (pp. 211-212; 213-214), e l’orazione funebre pronunciata da Victor Hugo alle Esequie di Balzac (21 agosto 1850), pp. 215-217.

  Nel saggio posto alla fine del volume (Postfazione, pp. 219-230), Ieva ricostruisce la genesi di Eugénie Grandet, le successive fasi della pubblicazione del romanzo e la sua immediata ricezione critica: la prima menzione dell’opera da parte di Balzac, che risale alla prima metà dell’agosto del 1833, si colloca all’inizio del tormentato «romanzo d’amore» tra lo scrittore e Mme Hanska alla quale Balzac inviò, tra l’agosto 1833 e il gennaio 1834, numerose lettere sullo stato di avanzamento nella composizione del testo.

  Chiudono le pagine del volume un capitolo dedicato alla biografia del romanziere (Cenni biografici, pp. 233-243) e una Bibliografia essenziale, alle pp. 245-250.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Garzanti, (gennaio) 2015 («I grandi libri»), pp. LXI-175.

 

  Cfr. 1973; 1984 e successive ristampe.

 

  Simbolo incancellabile della condizione femminile all’interno della famiglia borghese, il personaggio di Eugénie, scrive Binni, rappresenta «un’alternativa alla logica disperante di Grandet, ed è nella consistenza di due diverse concezioni del mondo che si consuma, scandito da un tempo che scorre lento e immutabile, il dramma quotidiano» (p. LV) del romanzo balzachiano.

 

 

  Honoré de Balzac, Fisiologia del matrimonio. Meditazioni di filosofia eclettica sulla felicità e l’infelicità coniugale, traduzione di Emilio Faccioli, Roma, Ellint, 2015, «Raggi», pp. 319.

 

  Pubblicata, in prima edizione, nel dicembre 1829, la Physiologie du mariage ha goduto, almeno sino alla prima metà del secolo scorso, in Italia, di un’ampia e diffusa fortuna editoriale e critica. Nella collana «Raggi» delle Edizioni Lint, è riproposta l’ormai classica traduzione che, di questo studio analitico balzachiano, ha fornito Emilio Faccioli quasi trent’anni or sono, nel 1987, per la collana «Gli Struzzi» dell’editore Giulio Einaudi di Torino.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Garzanti, 2015 («I grandi libri»), pp. LXIV-649.

 

  Cfr. 1973; 1992 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, (gennaio) 2015 («I grandi libri»), pp. LXIV-247.

 

  La prima edizione di questa nuova traduzione di Le Père Goriot risale al 1990: le numerose ristampe del volume testimoniano il duraturo e pregnante successo del capolavoro balzachiano presso il pubblico italiano. L’ampia e curata introduzione di L. Binni traccia con equilibrio un accurato profilo biografico, storico e critico dello scrittore e della sua opera a partire dai primi romanzi giovanili.

  A proposito di Le Père Goriot, Lanfranco Binni osserva che, proprio a partire da questo romanzo, Balzac «prende pienamente coscienza del carattere unitario della propria opera» e avverte di essere «l’autore di un unico grande mosaico, un sistema narrativo in cui ogni tassello, ogni personaggio, ogni “tema”, entrano ormai spontaneamente in un rapporto di coerenza, coesistenza, contrasto» (p. LVII). Nello stesso breve capitolo dedicato al capolavoro di Balzac, dobbiamo segnalare il reiterarsi del rifuso tipografico relativo al nome «Vauquer», più volte trascritto erroneamente in «Vauqueur» (sic).

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione e note di Cosimo Ortesta, Milano, Garzanti, 2015 («I grandi libri»), pp. LXIII-287.

 

  Cfr. 1995.

 

 

  Honoré de Balzac, Pene di cuore di una gatta inglese, traduzione dal francese di Elga Mugellini, in AA.VV., Classiche storie di gatti. Dai più grandi scrittori di ogni epoca, Torino, Lindau, (luglio) 2015, «Biblioteca di classici», pp. 21-41.

 

  Inserito nel primo volume delle Scènes de la vie privée et publique des animaux edite, sotto lo pseudonimo di P.-J. Stahl, da P.-J. Hetzel nel febbraio 1841, il racconto Peines de coeur d’une chatte anglaise ha goduto di apprezzabile interesse, in Italia, da parte dell’editoria e della pubblicistica a partire dal settembre 1841 (prima versione italiana di A. Piazza) estendendosi per tutta la metà dell’Ottocento e a tutto il XX secolo e giungendo sino ai nostri giorni. Diversi sono stati, inoltre, gli adattamenti teatrali di questa gradevole satira di costume: a questo proposito, ricordiamo l’eccellente e apprezzata trasposizione scenica curata da Alfredo Arias nel 1999. Pene di cuore di una gatta inglese è ora compreso in questa gradevole raccolta di «storie di gatti» pubblicata dalle edizioni Lindau di Torino ed è curato, nella traduzione e nel succinto apparato di note al testo – testo, pubblicato, come già segnalato in precedenza nel 1841 e non nel 1840 come indicato –, da Elga Mugellini.

 

 

  Honoré de Balzac, Scene della vita privata dalla Commedia umana. Scene della vita privata dalla “Commedia umana”. Avant-propos. Il Contratto di matrimonio. La Pace coniugale. La Signora Firmiani. La Grenadière. Un debutto nella vita, a cura di Mauricio Dupuis; illustrazioni originali di Lilia Munasypova, Cassola, DMG, (febbraio) 2015, pp. 733; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mauricio Dupuis, Premessa, pp. 7-14;

  Avant-Propos, pp. 16-62;

  Il contratto di matrimonio, pp. 63-237;

  Mauricio Dupuis, Postfazione, pp. 238-281;

  La pace coniugale, pp. 282-331;

  Mauricio Dupuis, Postfazione, pp.332-344;

  La signora Firmiani, pp. 345-376;

  Mauricio Dupuis, Postfazione, pp. 377-384;

  La Grenadière, pp. 385-419;

  Mauricio Dupuis, Postfazione, pp. 421-427;

  Un debutto nella vita, pp. 428-689;

  Mauricio Dupuis, Postfazione, pp. 690-702;

  Cronologia delle opere di Honoré de Balzac, pp. 703-718;

  “La Comédie humaine”: il canone e le versioni italiane, pp. 719-733.

 

  Ampia e accurata è la scelta di romanzi e di racconti tratti dalle Scènes de la vie privée proposta al pubblico italiano da Mauricio Dupuis in questo denso volume: ogni opera è presentata dal curatore in una nuova traduzione corredata da un prezioso ed utilissimo apparato di note e di rimandi critico-bibliografici. Precedute dalla traduzione dell’Avant-propos del 1842, le «scene della vita privata» riunite in questa raccolta si collocano, per quel che riguarda la cronologia della loro prima pubblicazione, in un intervallo di tempo che va dal 1830 al 1844. Alcuni di questi testi hanno avuto precedenti edizioni italiane, ma per la maggior parte risalenti agli anni Trenta-Quaranta del Novecento (Le Contrat de mariage; Madame Firmiani; La Grenadière).

  Per ogni romanzo o racconto, è proposta una accurata Postfazione critica completata, nelle pagine seguenti, dalla Storia del testo e della composizione, da un prospetto cronologico riguardante le differenti edizioni dell’opera e da un profilo dei personaggi principali con una attenzione particolare alla loro ricorrenza in altri testi della Comédie humaine.

 

 

  Honoré de Balzac, La signorina Cormon. A cura di Pierluigi Pellini. Traduzione di Francesco Monciatti, Palermo, Sellerio editore, (febbraio) 2015 («Il divano», 296), pp. 391.

 

  Struttura dell’opera:

 

  La signorina Cormon, pp. 7-296;

  Note, pp. 297-339;

  Pierluigi Pellini, Miti e termiti ovvero Come una zitella grassa e sciocca possa incarnare la modernità, pp. 341-383;

  Id., Nota, pp. 385-387.

 

  Il romanzo La Vieille Fille, di cui Francesco Monciatti fornisce con rigore e perizia probabilmente la prima versione in lingua italiana, rappresenta (e già Proust lo riconosceva) uno tra i testi maggiori della Comédie humaine. Questo testo, che inaugura (ma soltanto sotto il profilo tecnico) il genere del «roman-feuilleton», è pubblicato a puntate nel corpo de «La Presse» di Émile de Girardin tra il settembre ed il novembre 1836. Esso è definito dallo stesso Balzac come «una delle cose migliori» (lettera a Mme Hanska del primo dicembre 1836) soprattutto se si considera il rilievo assunto, nell’opera, non tanto dalle avventure o dai colpi di scena quanto piuttosto dai dettagli descrittivi, dalle implicazioni psicologiche, ideologiche e politiche, dai giochi linguistici che rendono ambigua e sfuggente l’atmosfera di un racconto la cui singolarità deriva esplicitamente dalla drammatica modernità incarnata dal profilo della sua protagonista: Rose Cormon.

  Pierluigi Pellini illustra, nella sua densa ed illuminante postfazione al romanzo, la genesi de La Vieille Fille ed i significati profondi, nascosti, contraddittori ma quanto mai vivi ed attuali di questo «capolavoro del romanzo moderno» (p. 348), sul quale la critica non ha posto, a differenza di altri capolavori balzachiani, l’attenzione e l’interesse dovuti. Romanzo di ambientazione provinciale, dove le pulsioni del desiderio femminile incarnate da Rose Cormon sono, da Balzac, così esplicitamente esibite con acutissima e affascinata curiositàe dove la sincera ed ingenua devozione della protagonista «non vale a sottrarla al richiamo prepotente del “sangue” e dei sensi» (p. 352) – La signorina Cormon è, allo stesso tempo, anche un’«allegoria storico-politica» (p. 354), la formulazione metaforica di quello storicismo balzachiano che trova, in Rose come nei due personaggi maschili, la sua più riuscita esplicitazione narrativa. Il caos socio-politico che caratterizza i decenni post-rivoluzionari sembra incarnarsi nell’allegoria biologica del corpo della protagonista in una sorta di – scrive Philippe Hamon – «auto-riflessività globale e permanente» (p. 356) che determina – ed è questo il dramma di Rose – una sostanziale incapacità di «interpretare i segni disseminati sulla superficie del reale, per restituire l’ordine perduto al mondo sconvolto dal crollo della “Monarchia” e della “Religione”» (pp. 361-362). Le figure e i valori dell’Ancien Régime si riducono così a grotteschi simulacri; i fondamenti della tradizione perdono, come i miti moderni, la loro consistenza ontologica: è un mondo, quello descritto da Balzac in questo romanzo, «sorprendentemente simile al nostro»: un mondo dove ogni valore nasce e muore adulterato e dove «soltanto le elementari pulsioni del corpo conservano indubitabile consistenza» (p. 383).

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Anna Premoli, Francesco Niederberger, Milano, Garzanti, 2015 («I grandi libri»), pp. LXI-549.

 

  Cfr. 1968 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Teoria dell’andatura. A cura di Franco Rella, Bergamo, Moretti & Vitali, (aprile) 2015 («Narrazioni della conoscenza. Andar per storie», 41), pp. 99.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Franco Rella, Introduzione. Muoversi sul bordo di un abisso, pp. 9-42;

  Teoria dell’andatura, pp. 43-99.

 

  Pubblicato, in prima edizione, tra l’agosto e il settembre 1833 nell’«Europe littéraire», il saggio intitolato La Théorie de la démarche è inserito da Balzac nella Pathologie de la vie sociale delle Études analytiques insieme al Traité de la vie élégante ed è proposto all’attenzione del pubblico italiano grazie alla accurata traduzione di Franco Rella al quale si deve anche la puntuale «Introduzione» (purtroppo «contaminata» da qualche evidente refuso tipografico) che precede l’opera (Muoversi sul bordo di un abisso, pp. 9-42). Testo in apparenza leggero e giornalistico, La Théorie de la démarche può considerarsi, osserva Rella, come «il discorso sul metodo che è alla base della Commedia umana» (p. 14): un testo nel quale Balzac tenta di conciliare la pluralità delle forze attive presenti nell’uomo e nella realtà mettendo in luce quelle antitesi insuperabili e irrisolvibili tra corpo e anima, tra vita e morte, tra amore e desiderio che costituivano già il nucleo centrale di Louis Lambert (citato da Balzac in epigrafe) e che connoterà di una tonalità tragica l’intero universo romanzesco della Comédie humaine. Studiando l’andatura, Balzac si pone all’interno di uno «spazio liminare interstiziale» (p. 20), tra «il metro dello scienziato e la vertigine del folle» (p. 19), e pone al centro del suo studio il drammatico antagonismo tra il visibile e l’invisibile. Da questo punto di vista, «ci troviamo di fronte a una delle grandi articolazioni del tragico moderno, vale a dire alla percezione dell’impossibilità di rappresentare in un linguaggio la tensione degli opposti» (p. 22). Opere quali Gambara, Massimilla Doni e Le Chef-d’œuvre inconnu rappresentano, in questo senso, una testimonianza esemplare se si considera parallelamente il rapporto conflittuale che gli scrittori e gli artisti successivi (Hugo, Baudelaire, Proust, Zola, Cézanne, Picasso, Simenon) hanno avuto con il creatore di Frenhofer, uno tra i più potenti cercatori di assoluto plasmati dallo scrittore francese. Soprattutto Picasso, che illustrerà Le Chef-d’œuvre inconnu nel 1936, è visto da Rella come l’artista che, meglio di ogni altro, «invera la profezia di Balzac» inteso come scrittore della dissonanza. Si tratta della profezia di un’arte «non rappresentativa, di un’arte della dissonanza» (p. 41) in grado di cogliere la pluralità del reale con le sue contraddizioni e con le sue insanabili lacerazioni.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac e l’uomo di piombo, «L’Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, 19 agosto 2015.

 

  «Se la stampa non esistesse, non bisognerebbe inventarla»: bandisce ogni diplomazia Honoré de Balzae nel condannare, giornalista egli stesso (nonché editore), le brutture e i «procedimenti obliqui», per dirla con Stendhal, del quarto potere. Il grande scrittore francese, morto il 18 agosto 1850, era legato al mondo della stampa da un rapporto di amore e odio dal sapore catulliano.

  Quando, nella primavera del 1825, l’editore Canel propose a Balzac, in serie difficoltà economiche, di entrare nella sua società cercando di valorizzare i profitti della pubblicazione delle opere di Molière, La Fontaine, Corneille e Racine, lo scrittore — che già aveva lanciato strali, in alcune sue opere, contro editori senza scrupoli e giornalisti «imbrattacarte» – non potè che accettare, affermando di essere passato finalmente dalla parte del pubblico: cioè di aver dimenticato l’homme de lettre per far posto all’homme de lettres de plomb. Ma il progetto ebbe vita breve: le vendite non decollarono mai e così la società si sciolse. Uno smacco per Balzac — gravato tra l’altro dai debiti — che fermamente credeva nel ruolo dell’editoria in funzione del progresso della società delle lettere. E la delusione, gradualmente, si trasformò in critica velenosa. Del resto diceva di sé: «Sono un uomo che non ammette la sconfitta». E nel pamphlet del 1843, dal titolo Monografia della stampa parigina, si scaglia contro la categoria dei giornalisti rei, secondo lui, di «fare le scarpe» ai veri scrittori e alle loro opere dal respiro epico con articoli «scopiazzati qua e là».

  E in questo pamphlet Balzac afferma che più che protagonisti di fatti, «i signori del giornalismo lo sono di misfatti». E le staffilate non risparmiano nemmeno i critici, bellimbusti in grado di stroncare un grande libro a seconda dell’umore che hanno nel giorno in cui scrivono. Ma l’attacco in grande stile viene condotto nel romanzo Illusioni perdute (1837-1843) quando lo scrittore denuncia che il giornalismo è divenuto «uno strumento dei partiti» e che, successivamente, da strumento si è degradato in commercio. Per poi dichiarare; «E come tutti i commerci è senza fede né leggi». E in un crescendo di accuse Balzac scrive: «Ogni giornale è una bottega dove si vendono al pubblico le parole del colore che vuole. Se esistesse un giornale dei gobbi, dimostrerebbe sera e mattina la bellezza, la bontà, la necessità dei gobbi». E, il rischio di fondo, ammonisce lo scrittore, è che i giornali finiscano per «uccidere le idee». E il male sarà commesso «senza che nessuno sia ritenuto colpevole». Ma in Balzac, al di là delle staffilate intinte nel cianuro, rimarrà sempre un’incrollabile fede nell’uomo, pur nelle sue debolezze, e nella storia, pur nei suoi alti e bassi. Tanto che in quel corrosivo pamphlet sentenzia: «Di fatto c’è nelle vicende umane una forza superiore che né la discussione né le chiacchiere, stampate o no, potranno mai ostacolare».

 

 

  AA.VV., La Penna e il Pennello. “Le Chef-d’oeuvre inconnu” di Balzac. Cinque lezioni, a cura di Luca Pietromarchi, Roma, Biblink, 2015 («Didascalie»), pp. 113.

 

  Tra i romanzi e i racconti della Comédie humaine, Le Chef-d’oeuvre inconnu ha suscitato e continua a stimolare l’interesse della critica in un contesto esegetico che va al di là dell’esclusivo orizzonte letterario, ma che abbraccia trasversalmente generazioni di autori che, dalla seconda metà del XIX secolo ai giorni nostri, si pongono, spesso come protagonisti del loro tempo, in un rapporto privilegiato con le forme e le tecniche della letteratura, della critica artistica o dell’arte cinematografica. Come rileva Luca Pietromarchi nella brillante «Introduzione» (pp. 9-16) che precede e presenta i cinque studî raccolti in questo volume, questi interventi «prolungano l’infinito dialogo sulla creazione che il Chef-d’oeuvre ha alimentato da quasi due secoli» (p. 11) generando una pluralità di interpretazioni quanto mai illuminanti per cogliere appieno la modernità del racconto balzachiano in merito ai rapporti tra «imitazione ed espressione, tra raffigurazione e creazione, tra la dimensione tecnica della pittura e la sua vocazione spirituale» (p. 9).

  L’accurato repertorio bibliografico – curato da Paolo Breda (Bibliografia delle traduzioni italiane del “Chef-d’oeuvre inconnu”, pp. 109-111) – delle traduzioni del racconto balzachiano pubblicate in Italia dal 1838 al 2013 chiude le pagine di questo interessante e fondamentale volume nel quale è pubblicato il ciclo di cinque lezioni sul Chef-d’oeuvre inconnu svolte presso il Centro di Studi italo-francesi dell’Università di Roma Tre.

 

 

  Daniele Abbiati, Quei caratteristi di gran classe della «Commedia», «il Giornale», Milano, 8 marzo 2015, p. 22.

 

  La «Commedia umana» è un labirinto in cui è piacevole perdersi. Il filo di Arianna può essere afferrato anche partendo dai cosiddetti quadri «minori», grazie a meritori recuperi editoriali. Qui, ad esempio, oltre all’Avant-propos che funge da cappello alla colossale operazione, abbiamo cinque tasselli della sezione «Scene della vita privata»: Il contratto di matrimonio, La pace coniugale, La signora Firmiani, La Grenadière e Un debutto nella vita. Esemplari di quello che Balzac chiamava «accostamento tra Umanità e Animalità».



 Felice Accame, Dal feuilleton al neorealismo, «Rivista anarchica», Milano, anno 45, n. 2, marzo 2015, pp. 33-34.

 

 p. 33. Uno dei primi scrittori “da feuilleton” fu Honoré de Balzac. Nella sua accuratissima biografia di Balzac – qua e là fin troppo complice, ma mai fino al punto di mistificarne la contraddittoria esistenza -, Stefan Zweig ci dà un’idea di cosa poteva voler dire essere uno scrittore da feuilleton. Balzac scriveva ad una delle sue pletoriche ammiratrici che “se ho un posto sono perduto. Diventerei un commesso, una macchina, un cavallo da circo che fa trenta o quaranta giri, beve, mangia e dorme a date ore: sarei come tutto il mondo”, chiedendosi altresì se “si chiama vivere questo rotolare da macina di mulino, questo ritorno perpetuo delle medesime cose?”. Ma, ciò nonostante, - cominciando a sorbirsi le sue famose cinquanta mila tazzine di caffé per tenersi sveglio -, nel 1830, pubblica 70 opere e 65 l’anno successivo. Va da sé che, per quanto infaticabile potesse esser stato, non tutte le ha scritte lui, e, presumibilmente, buona parte di questa zuppa sia uscita dalla penna di altri poveracci costretti a vendere la propria penna perché oberati da debiti come Balzac stesso che, mantenendo imperturbabilmente il passo più lungo della propria gamba, passò la vita intera ad inventare stratagemmi per sfuggire ai creditori.

 D’altronde, il meccanismo messo in atto dagli editori dei giornali non andava troppo per il sottile. Come racconta Walter Benjamin nel suo saggio sulla Parigi del secondo impero in Baudelaire (oggi nel ricchissimo volume Proust e Baudelaire, dovuto alla curatela di Francesco Cappa e di Martino Negri), accadeva perfino che gli editori “all’acquisto dei manoscritti, si riservassero il diritto di farli firmare da un autore a loro scelta”, il che la dice lunga sulla presunta sacralità investita dalla borghesia nell’opera d’arte. Non si lesinava in quanto a quattrini – Balzac dilapidò fortune intere, Eugène Sue incassò centomila franchi di anticipo per i suoi Misteri di Parigi, Lamartine mise assieme qualcosa come cinque milioni di franchi – anche perché questo tipo di letteratura, surrettiziamente, svolgeva la sua funzione politica e sociale – in nome dell’ordine costituito e di quelle idee che avrebbero dovuto formare i tratti principali di un’identità nazionale. Nel 1846, Alexandre Dumas, per esempio, venne inviato a Tunisi e strapagato dal governo per scrivere un romanzo che giustificasse la politica coloniale francese.

 

 

  Silvia Baroni, Le apparenze sociali in Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Daniele Giglioli, Università degli Studi di Bergamo, Laurea Magistrale in «Culture Moderne Comparate», 2015.

 

 

  Giovanna Bellati, Théophile Gautier critique du théâtre de Balzac, «Bulletin de la Société Théophile Gautier», n. 37, 2015, pp. 55-68.

 

 

  Mariolina Bertini, Honoré de Balzac: gli scritti teorici, in AA.VV., I cadaveri nell’armadio. Sette lezioni di teoria del romanzo, a cura di Gabriella Bosco e Roberta Sapino, Torino, Rosenberg & Sellier, 2015, «Biblioteca di Studi Francesi», pp.53-73.

 

  L’esigenza critica e metodologica di superare l’ormai ossidata contrapposizione tra i due più rilevanti modelli esegetici riguardanti la poetica letteraria di Balzac costituisce, per Mariolina Bertini, la condizione indispensabile per riconsiderare, con maggiore equilibrio e consapevolezza, la portata della riflessione teorica dello scrittore francese sull’arte del romanzo. Sarebbe, infatti, riduttivo comprimere in una formula unica ed univoca la varietà e la pluralità di un universo di idee così multiforme e frastagliato quale è stato il pensiero di Balzac lungo la strada del romanzo. Insistere, in maniera unilaterale, sul carattere coerente e unitario dell’estetica balzachiana, oppure, al contrario, sulla sua natura versatile e multiforme significa non riconoscere, in Balzac, il rifiuto per ogni forma di chiusura e di fissità del pensiero.

  In questo studio, l’A. ripercorre cronologicamente le trasformazioni della poetica di Balzac a partire dalle opere giovanili mettendole in costante relazione con la storia del romanzo – in quanto genere letterario – nella prima metà dell’Ottocento. A partire dalla fine degli anni venti del XIX secolo (1828: Avertissement du Gars), cominciano a delinearsi alcuni assunti fondamentali che determineranno non soltanto la genesi, ma l’evoluzione della teoria del romanzo in Balzac. La metafora del «miroir concentrique» associata all’importanza attribuita al dettaglio, sempre integrato in una visione unitaria sono alcuni tra i concetti fondamentali su cui si fonda, a giudizio di Balzac, il romanzo moderno. Tra il 1820 e il 1830, osserva l’A., «Balzac si fa portavoce dell’esigenza di un romanzo che si arricchisca, che non si limiti più alla psicologia e ai sentimenti, ma che interpreti i segni della vita sociale, incorpori l’erudizione storica, imiti il teatro e la pittura» (p. 63). È in Illusions perdues che lo scrittore svilupperà in maniera chiara e pregnante la sua teoria del romanzo in uno dei momenti più autoriflessivi della Comédie humaine. Nelle parole di D’Arthez a Lucien, si riflette il modello balzachiano di romanzo inteso come struttura ciclica aperta e dinamica. Radicalmente opposta allo scritto giornalistico, l’opera letteraria, dirà Blondet allo stesso Lucien, non può considerarsi che doppia, plurale perché «tutto è bilaterale nel campo del pensiero». Studiare la poetica di Balzac, svelarne la ricchezza delle intuizioni e delle proposte significa, per l’A., «tener conto da un lato della continuità di un pensiero fortemente originale […]; dall’altro, dell’importanza dei mille rivoli accidentali nei quali questo pensiero prende forma, reagendo di volta in volta a effimere mode culturali, a opere di particolare rilievo, a critiche ostili, a osservazioni sul ruolo sociale dell’artista» (p. 73).

 

 

  Mariolina Bertini, “Le Chef-d’oeuvre inconnu” e l’estetica della modernità, in AA.VV., La Penna e il Pennello ... cit., pp. 17-31.

 

  L’A. mette in luce i legami tra la trama narrativa dell’opera di Balzac e i racconti fantastici di Hoffmann e ricostruisce il tessuto delle relazioni tra ideali artistici di cui Frenhofer si fa portavoce e la loro proiezione nell’estetica della modernità attraverso gli esempi di Cézanne e di Picasso. La riscrittura del racconto nel 1836-37 trasforma radicalmente il testo pubblicato nel 1831: nella nuova versione del racconto, entro il quale si intrecciano, agli elementi del fantastico, quelli di un erotismo del tutto assente nella Leçon de violon di Hoffmann, Frenhofer espone la propria teoria dell’arte. Il destino di questo personaggio si configura, sotto il segno di una sostanziale ambiguità, come «la parabola stessa dell’arte moderna» (p. 22) ed è proprio dalla «misteriosa ambivalenza» del suo fallimento che prenderà avvio la «fortuna postuma del racconto presso i critici e soprattutto presso gli artisti del Novecento» (ibid.). Suggestiva è, in questo senso, la ricostruzione che l’A. fornisce delle vicende che porteranno Picasso a scegliere, nel 1936, l’atelier in cui è ambientato Le Chef-d’oeuvre inconnu come suo studio parigino.

 

 

  Mariolina Bertini, Schede – Letteratura. Honoré de Balzac, “Teoria dell’andatura”, ed. orig. 1833, a cura di Franco Fella, pp. 99, €14, Moretti & Vitali, Bergamo 2015, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXXII, N. 7/8, luglio/Agosto 2015, p. 46 e N. 10, Ottobre 2015, p. 45.

 

  Sono arrivate simultaneamente in libreria due edizioni, economiche ma molto eleganti e ben accessoriate, della balzachiana Théorie de la démarche: un’edizione francese, presso la casa editrice parigina Mille et une nuits, a cura di Paolo Tortonese, che corregge e arricchisce, con molte preziose puntualizzazioni, il commento della classica edizione della Pléiade, e una nuova traduzione italiana, presso Moretti & Vitali, cui Franco Rella ha premesso un bello studio sul pensiero di Balzac e sulla fortuna della sua poetica presso gli scrittori delle generazioni successive, da Flaubert a Simenon. Paradossalmente, per il lettore del XXI secolo, il Balzac più accessibile non è quello dei grandi capolavori romanzeschi, sovrabbondanti in virtuosistiche descrizioni, ma quello delle narrazioni brevi o dei piccoli, brillanti trattati come questo. Nella Teoria dell’andatura Balzac coniuga l’ironia dell’amato Sterne e la dottrina del creatore della fisiognomica, Lavater, per cercar di trovare “la chiave degli eterni geroglifici dell’andatura umana”. Come la lucciola non può fare a meno di emettere segnali luminosi, l’uomo, per Balzac, non può fare a meno di rivelare i propri segreti attraverso il linguaggio dei gesti. Inoltre il movimento dell’esistenza umana: il dispendio di energia. I successi e gli insuccessi di ogni individuo, come la sua stessa longevità, dipendono dalla sua capacità di controllare il dispendio energetico. Strettamente connessa, come sottolinea Franco Rella, alla filosofia di Balzac, la Teoria dell’andatura è però anche un godibilissimo studio di costume, un incantevole palcoscenico sul quale sfilano davanti a noi i parigini dell’età di Luigi Filippo: signore eleganti che volano verso un appuntamento amoroso, accademici sempre in posa, militari impettiti, finanzieri corpulenti, artisti ribelli ad ogni regola del vivere borghese.

 

 

  Évelyne Bloch-Dano, L’amore nel giardino (Balzac, Stendhal, Flaubert, Hugo, Zola), in Giardini di carta. Da Rousseau a Modiano, Torino, add editore, 2015, pp. 102-120.

 

  Prodotto dell’immaginario, il tema del giardino rappresenta una dimensione essenziale in alcune opere narrative dell’Ottocento francese. Ispirata, per buona parte, a Rousseau, la letteratura romanzesca francese del XIX secolo (da Balzac e Stendhal a Flaubert, Hugo e Zola) ha evocato e sviluppato la tematica del giardino come riflesso antropologico, storico, estetico e simbolico della società e degli individui. Da questo punto di vista, il romanticismo, ma non solo, «fa del giardino un elemento imprescindibile del romanzo» (p. 102) e connota il paesaggio come elemento centrale e costitutivo dell’economia stessa del racconto. Si consideri, ad esempio, Le Lys dans la vallée di Balzac, dove la topografia del giardino, la ricchezza del lessico dei fiori sono strettamente connessi alla rappresentazione del sentimento passionale e della donna amata. Gli spazi sacri di Clochegourde e della valle dell’Indre consentono a Balzac di «inquadrare il racconto e la posizione dei personaggi l’uno rispetto all’altro» (p. 107) e di fondare l’intero romanzo «sui segni di un linguaggio intimo che affida alla natura, e talvolta al silenzio, il compito di esprimere ciò che non può essere detto: il desiderio» (p. 108). Pubblicato sei anni dopo Le Rouge et le Noir (1830), Le Lys dans la vallée orchestra il tema del giardino rivalutando lo stereotipo dell’idillio romantico che Stendhal aveva sovvertito descrivendo la storia d’amore tra Julien Sorel e Madame de Rênal. In Balzac (Le Lys dans la vallée e Eugénie Grandet), come sarà per Flaubert in Madame Bovary, il giardino determina il senso stesso dell’opera, inserendosi nella progressione drammatica e psicologica dell’azione: interno e, al contempo, esterno alla casa, il giardino svolge la funzione di specchio e finisce per incarnare e fissare «la pluralità dei significati del romanzo, unendoli in una tragica immagine di solitudine» (p. 114).

 

 

  Giovanni Bottiroli, «Non si racconta impunemente una storia di castrazione». Il contagio delle identità in “Sarrasine”, in AA.VV., Le Lettere e le Arti, due giornate in memoria di Daniela De Agostini, a cura di Margareth Amatulli e Anna Bucarelli, Frankfurt am Main, Peter Lang Edition, 2015 («Peregre. Nuova Serie»), pp.51-64.

 

  Sarrasine è la storia di una passione penetrata da un legame di identificazione che conduce ad esiti estremi: la minuziosa lettura analitica del racconto balzachiano operata da Roland Barthes nel 1970 incarna un ben preciso modello di critica a cui Bottiroli fa riferimento per mettere in luce alcuni limiti della interpretazione barthesiana e per liberare «le migliori intuizioni di S/Z da un’impalcatura teorica per taluni versi insufficiente o superata» (p. 51). Il carattere enigmatico del testo di Balzac si nutre di uno stile di pensiero che l’A. definisce «antiseparativo», vale a dire fondato su un concetto di verità la cui espressione scaturisce dal legame tra gli opposti. È, in modo particolare, la scelta operata dall’A. di indagare sui meccanismi della trama e della messa in scena del desiderio che consente di determinare, anche in base agli esiti più suggestivi delle teorie lacaniane, un’analisi più peculiare del rapporto tra identità e desiderio e di determinare una nuova linea di lettura per questo racconto. Nell’opera in questione, Balzac esprime una visione relazionale dell’identità: attraverso l’esperienza di «antisublimazione» vissuta dallo scultore Sarrasine, si fa strada, nel racconto, la «confusione tra bellezza fisica e bellezza artistica» (p. 59). Egli subisce il trauma della vera identità di Zambinella proprio perché non potrà mai innamorarsi dell’imperfezione: anche Zambinella è «un velo che non può essere sollevato» e le seduzioni che incantano Sarrasine «non sono cancellabili dalla coperta della sua vera identità, la castratura» (p. 62). In altri termini, la volontà distruttrice di Sarrasine deriva dall’impossibilità di rinunciare al contagio dell’identificazione.

 

 

  Francesco Casula, Honoré de Balzac (1799-1850), in I Viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna, Quartu S. Elena, Alfa Editrice, 2015 («Documenti dell’identità»), pp.81-87.

 

  Tra le più cocenti e inaspettate disillusioni che costellarono il tormentato percorso delle vicende biografiche (e finanziarie) dello scrittore francese, si annovera, senza dubbio, quella che vide protagonista Balzac in Sardegna nel marzo 1838. Ampia e variegata è la letteratura critica che, in momenti diversi, ma pressoché costantemente – dall’Ottocento a oggi – si è occupata delle esperienze di viaggio di Balzac in Italia con un particolare interesse per l’esperienza sarda. La storia del fallimento legato al progetto di sfruttamento di giacimenti di scorie argentifere nell’Isola è nota ed è contenuta nelle sette lettere che lo scrittore indirizzò a Mme Hanska tra il 26 marzo ed il 22 aprile 1838. Alla luce di questa corrispondenza e di altre preziose testimonianze critiche, Casula compone un breve ma incisivo quadro della storia e del significato (anche letterario) di questa illusion perdue, di questa improvvida impresa in terra sarda: un luogo selvaggio, scrive Balzac, che si presenta agli occhi del romanziere come l’anticamera geografica e antropologica dell’Africa, ma che Balzac dipinge come fosse un’esotica fantasticheria degna di una vera e propria invenzione da romanzo.

 

 

  Maurizio Cecchetti, Poussin. Pietra e carne, «Avvenire Agorà», Milano, 9 Aprile 2015, p. 24.

 

  Balzac aveva colto l’essenza di una polemica nazionale che durava dal Seicento mentre scriveva Il capolavoro sconosciuto. Fra le tante cose che Balzac semina nel racconto, infatti, c’è anche sottintesa la querelle che da due secoli si combatteva attorno a Poussin, il pittore filosofo, ma anche il “libertino erudito”, insomma il genio nazionale che la Francia venerava, e venera, come il suo Raffaello. Il protagonista del Capolavoro sconosciuto, Frenhofer, riceve la visita dell’amico pittore Pourbus (sic), il quale viene accompagnato da un giovane artista, Poussin appunto. Di fronte al quadro che Frenhofer sta dipingendo i due hanno un moto di sconcerto: gran parte della tela, infatti, è coperta da una informe crosta di colori, e soltanto in un angolo si vede emergere un piede femminile, ma eseguito con sublime verità. Frenhofer insiste a difendere il suo capolavoro che sfida la vita, ne nasce un alterco e il congedo dei due ospiti è brusco e repentino. Il giorno dopo Pourbus tornerà da Frenhofer e scoprirà che si è ucciso. In precedenza, però, Frenhofer aveva cercato di spiegare al povero Pourbus, che si era recato da lui per mostrargli un suo ritratto femminile, che cosa non andava (pur essendo ben dipinto): «Non riesco a credere che questo corpo sia animato dal tiepido soffio della vita. Mi sembra che se posassi la mano sulla gola di questa immobile rotondità, la sentirei fredda come il marmo». Qui Balzac applica a Pourbus la critica che venne mossa, già nel Seicento, a Poussin, la sua freddezza, la cerebralità della sua pittura “di pietra”. [...].

 

 

  Angelo Antonio Cervati, Persone, credenze, “valori” della borghesia nell’Opera di Balzac, in AA.VV., Scritti in onore di Antonio d’Atena, Miano, Giuffrè Editore, 2015, Tomo I, pp. 547-576.

 

  Cfr. 2014.

 

 

  Remo Ceserani, Brividi di zitella chez Balzac, «il Manifesto. Alias domenica», Roma, Anno V, N° 12, 22 marzo 2015, p. 1.

 

  Mai tradotto prima (sic), esce da Sellerio «La signorina Cormon»: al centro, la vecchia inalterabile provincia di cui Honoré de Balzac capta ogni dettaglio e lo investe di senso.

 

  Dell’importanza della Signorina Cormon era consapevole lo stesso Balzac, che lo definì «una delle mie cose migliori»: del resto, il romanzo affascinò Marcel Proust e attirò l’attenzione di un grande critico come Erich Auerbach, che quando in Mimesis si concentra sullo «spirito individualizzante e atmosferico dello storicismo» di Balzac, cita in proposito proprio una frase della Signorina Cormon «le epoche stingono sugli uomini che le attraversano». Del romanzo si occuparono, dedicandogli attente analisi, critici come Fredric Jameson, che nell’Inconscio politico ne ha dato un’interpretazione marxista, e Philippe Hamon, che ne ha parlato a proposito della descrizione e dell’ironia, ma anche filologhi specialisti come Philippe Berthier, Stéphane Vauchon (sic) e Nicole Mozet che hanno dedicato al romanzo di Balzac scrupolose cure filologiche.

  Ha fatto dunque benissimo Sellerio ad accogliere quella che è la prima traduzione italiana in assoluto dell’importante romanzo di Honoré de Balzac La signorina Cormon (versione molto rigorosa e scorrevole di Francesco Monciatti, pp. 474, € 14,00) il cui titolo originale è La Vieille fille, letteralmente «La zitella», che esce accompagnato da una sapiente, dettagliata postfazione di Pierluigi Pellini – il quale nella postfazione a questa edizione italiana, di cui è stato promotore, non esita a definirlo «un capolavoro del romanzo moderno» – e da un meticoloso apparato di commento, che non disturba la lettura distesa del testo, perché relegato in fondo al volume (sebbene il piccolo formato tascabile renda scomoda la consultazione dell’ampio e utilissimo apparato delle note).

  Tradurre Balzac, contrariamente a quanto i lettori superficiali potrebbero pensare, non è impresa facile e questo testo risulta particolarmente arduo da rendere in italiano, per i frequentissimi doppi sensi, le molte allusioni ironiche, la scelta sistematica dell’ambiguità semantica, a cominciare dal nome stesso della protagonista, che non ha niente a che vedere con la cittadina friulana-slovena di Cormon, ma è quasi sicuramente anagramma fonico di Mon corps, il mio corpo: un corpo sgraziato, quello di Rose Marie-Victoire, carnoso e abbondante, tenuto sotto controllo dalle pratiche religiose, dagli occhi vigili e pettegoli dei concittadini e dai consigli del direttore spirituale, ma percorso da fremiti, sconvolgimenti notturni e desideri d’amore (che saranno destinati alla frustrazione e a un sostanziale zitellaggio).

  Il grande tema di fondo è la vita di provincia, indagata con spirito critico, spesso caustico e il punto di vista del narratore è quello del parigino, in una dialettica tipicamente francese: grande capitale vivace, moderna, brillante (e corrotta) versus provincia addormentata, immobile, stolidamente conservatrice (e dimentica delle antiche virtù). Siamo nella città di Alençon, in Bretagna, e l’occhio del romanziere ne mette sistematicamente in rilievo tutti gli aspetti, sia quelli di facciata sia quelli che si nascondono alle apparenze: rigida classificazione dei diversi strati sociali e delle loro gerarchie, accumulo di oggetti e memorie del passato (e segreta speranza di trovare in qualche ripostiglio un tesoro nascosto dagli antenati), culto ossessivo del cibo e del nutrimento (mentre a Parigi si mangia in punta di forchetta), centralità del denaro, considerato come sterile accumulo e non come circolazione della ricchezza, mania dell’ordine perseguita più per non aver altro da fare che per vocazione naturale, «crassa indifferenza verso il comfort professata con orgoglio».

  Nella casa della signorina Cormon, che è al centro della vicenda ed è descritta minutamente in ogni sua parte, nulla è effimero, tutto appare eterno: vi si respira «l’aria della vecchia, inalterabile provincia» e a un certo punto il narratore commenta, con largo usa dell’ironia e di quella che è stata chiamata la prospettiva per incongruenza. «Certa gente, che parla molto di poesia senza capirci nulla, blatera contro i costumi della provincia; però, prendetevi la fronte con la mano sinistra, appoggiate un piede sull’alare del camino, posate il gomito sul ginocchio (la posa, osserva Pellini, è volutamente e ironicamente romantica) poi, se siete entrato in sintonia con l’insieme dolce e uniforme costituito da questo paesaggio, da questa dimora e dai suoi interni, dalla compagnia e dai suoi interessi ingigantiti dalla pochezza dello spirito, come l’oro battuto tra i fogli di pergamena, chiedetevi: che cos’è l’umana esistenza? Sforzatevi di giudicare tra colui che ha scolpito anatre tra gli obelischi egiziani e colui che ha giocato a boston per vent’anni insieme a du Busquier, al signor di Valois, alla signorina Cormon, al presidente del tribunale, al procuratore del re, al reverendo di Sponde, alla signora Granson, e a tutti quanti? Se il ripetersi esatto e quotidiano dei soliti passi su uno stesso sentiero non è la felicità, le somiglia così tanto che le persone condotte dai turbini di una vita frenetica a riflettere sui benefici della quiete diranno che questa era la felicità».

  In questo passo sono nominati tutti i personaggi principali della vicenda, eccetto due; la «casta» Susanna, furba e provocante come l’omonimo personaggio biblico che, dopo aver giocato un bel tiro agli uomini della compagnia, se ne è già partita alla volta di Parigi, lontano dalla provincia, per fare la vita lussuosa della prostituta d’alto bordo, e il giovane idealista, romantico, liberale e aspirante scrittore Athanase Granson, innamorato della signorina Cormon, destinato a essere escluso da quella apparente «felicità» e finire suicida.

  Al centro della vicenda c’è quindi il triangolo composto dalla signorina Cormon e dai due aspiranti alla sua mano, fra i quali lei è destinata a fare la scelta sbagliata sposando quello che finirà per introdurre, nella commedia della vita di provincia, i temi drammatici della fortuna materiale, spregiudicata e pacchiana della borghesia in ascesa, dell’infelicità, anche sessuale, della protagonista e dello svuotamento del maniacale perseguimento della felicità consentito dalla vita di provincia: il matrimonio.

  I tre personaggi sono, come ha giustamente sostenuto la critica più attenta e come spiega efficacemente Pellini nella sua postfazione, al tempo stesso realistici e allegorici. Ciascuno di loro rappresenta e incarna un’epoca storica: l’ancien régime (l’aristocratico decaduto signor di Valois), l’impero (il borghese sicuro di sé du Busquier), la Restaurazione (la signorina Cormon). Balzac descrive con grande attenzione e perizia il loro aspetto fisico, l’abbigliamento, le abitudini di vita, i discorsi, i loro tic nervosi, le loro azioni e, accompagnandoli con le metafore appropriate, costruisce al tempo stesso dei personaggi che il lettore impara a conoscere e le posizioni storico-ideali che incarnano. Ogni dettaglio (e sarà questo il grande insegnamento di Balzac per Dickens e Tolstoj), ogni minimo particolare ha un significato sicuro e profondo, è un investimento semantico. Le descrizioni sono straordinarie. Il naso «prodigioso» del signor di Valois divide il suo volto pallido in due parti che danno l’impressione di non conoscersi fra loro e diventa il simbolo della doppiezza della sua vita, fra esteriorità formale e interne ossessioni, addirittura delle due fasi in cui essa si svolge. Il parrucchino che nasconde (non sempre, purtroppo) la calvizie del du Busquier, rivela che sotto i suoi modi prepotenti e i desideri spregiudicati di affermazione sociale sta una reale (e sessuale) impotenza. Basti, a proposito di descrizione, dare l’esempio di quella dettagliata che accompagna l’entrata in scena della signorina Cormon.

  È un ritratto straordinario, che va contro tutte le convenzioni, e parte, diversamente dal solito, dai piedi: «I piedi dell’ereditiera erano grandi e piatti; la gamba, che spesso mostrava quando, senza alcuna malizia, sollevava il vestito dopo la pioggia, uscendo di casa o da Saint-Léonard, non poteva esser presa per una gamba di donna. Era una gamba nervosa, dal polpaccio piccolo, duro e rilevato, come quello di un marinaio». Quale altro scrittore avrebbe scelto di puntare l’obiettivo sulle gambe della povera signorina Cormon, per farci conoscere il suo carattere e al tempo stesso per rappresentare l’apparente solidità e al tempo stesso la inevitabile fragilità della Restaurazione?


 

  Franco Cordelli, La zitella di Balzac, prima eroina d’appendice, «Corriere della Sera – La Lettura», Milano, N. 186, 21 Giugno 2015, p. 13.

 

  Recensire un romanzo di Balzac appare operazione impropria. Tuttavia La signorina Cormon è un caso speciale, per la letteratura italiana, ossia per la nostra lingua (a dir poco in rapida via di trasformazione, se non di oblio di ciò che fu). Dico così perché La signorina Cormon, pubblicato nel 1836, viene ora tradotto per la prima volta da Francesco Monciatti in un volume a cura di un francesista tanto giovane quanto eccellente, Pierluigi Pellini, al quale si deve la sistemazione di Zola nei Meridiani. La signorina Cormon, in originale La vieille fille («La zitella»), è un caso speciale non foss’altro che per una ragione storicamente determinata: fu il primo romanzo d’appendice.

  Balzac lo pubblicò dal 23 ottobre al 4 novembre per iniziativa di Émile de Girardin, direttore della «Presse», in concorrenza con il primo numero del «Siècle». Ovviamente a Balzac quest’idea di correre, di stringere i tempi, di battere un avversario piaceva molto, sebbene non si possa dire che l’essere competitivo con qualcuno fosse in lui un’idea dominante, il suo problema era (teste Ernst R. Curtius) l’energia, la potenza in sé. Per altro l’energia, come il desiderio, da cui essa scaturisce (posto che non accada il contrario, che non sia l’effetto a provocare la causa, a diventare esso stesso causa), non è nulla finché non si tramuti in atto, in un ben definito e riconoscibile fatto — una specie di metafisico possesso di ciò che non era e ora, straordinariamente, è.

  Nella fattispecie, La signorina Cormon: un romanzo a puntate (dodici, divise in tre parti), ma non proprio, o non ancora, un romanzo d’appendice, un feuilleton. Balzac fu attento alla scansione del racconto, ma non ve ne era l’uso e l’intonazione comica e quella allegorica appaiono nettamente prevalenti. L’affinità con i Contes drolatiques si vede ovunque. Pellini fa notare come perfino il nome della protagonista sia anagramma parziale di Mon Cor(ps): poiché siamo nella sfera della percezione sessuale delle umane venture (in una chiave ai limiti della farsa) — fondamento di ciò che realmente il mondo è nella sua totalità. Questa totalità venne illustrata da Fredric Jameson nel suo L’inconscio politico del 1981: «La vieille fille, in effetti, non è tanto una farsa matrimoniale, e neppure un commento sociale alla vita provinciale: essa è soprattutto un opera didattica e una lezione politica obiettiva che cerca di trasformare eli eventi della storia empirica in un esperimento in cui si possano saggiare le strategie delle varie classi sociali».

  Balzac compie il suo esperimento, più alchemico che alchimistico, rimanendo, come è sacrosanto, con i piedi ben saldi a terra senza mai disdegnare che si alzi la testa. A terra si vede prima di tutto Alençon, un paese qualunque della Francia profonda (che sta appunto per la Francia intera, esso è il primo punto dell’allegoria). Poi si vede la signorina del titolo italiano: Rose ha più di quarant’anni, è imponente, è fiorente, e bramosa (di matrimonio, ovvero di carne, di sesso). In più, o soprattutto, è proprietaria di un’antica casa: che è l’oggetto del desiderio — più di quanto non lo sia la sua proprietaria — da parte delle due maggiori forze in campo, in senso anche allegorico, ossia il nobile Valois e il borghese, ex rivoluzionario, du Bousquier. Tra gli aspiranti c’è anche il giovane Anasthase, un personaggio quasi autobiografico: da buon personaggio romantico, di sicuro egli desidera più Rose che la sua casa.

  Il romanzo è la storia di questa corsa a (relativi) ostacoli da parte dei tre pretendenti alla corona senza più aura: una corona comunque borghese. Per quanto legittimista fosse, Balzac — sempre esclamativo fino a toccare il diapason, e che sempre procede secondo una struttura regressiva —, mai mancava di alzare la testa, e vedere che il corso della storia era quello che era (per capire quanto appena detto un contributo viene dalla sua stessa vita, leggendo ne La morte di Balzac di Octave Mirbeau quanto essa alla fine gli si rivoltò contro).

  Ma torniamo un momento a Curtius: «L’assolutismo di Balzac non è che una formula contingente di questa tendenza antidemocratica. Esso non è affatto un polveroso residuo di romanticismo legittimistico, né un capriccio aristocratico: nella sua essenza antiparlamentare è un fatto estremamente attuale (...). Egli potrebbe essere un rivoluzionario, ma non è mai stato un democratico». Infatti, la corsa viene vinta da du Bousquier: il quale ha le sue attrattive (per Rose) ma anche la sua realtà, spiacevole e che troppo tardi si rivelerà come tale — ingannatrice. Il borghese du Bousquier, ridotto all’osso nelle sue vicende economiche e fisiche (ha quel parrucchino che in un momento cruciale si sposterà lasciando nudo il cranio), non faceva che mostrare la propria energia, ovviamente sessuale.

  Dopo il matrimonio, a sue spese la signorina Cormon toccherà con mano, ovvero non toccherà un bel nulla, l’essenza: che il marito l’avrebbe lasciata vergine com’era. Per contro il nobile Valois, sebbene nobile per modo di dire — sterile come ci dice il dato storico che i Valois sono in via di estinzione e come ci rivela l’allegoria della lotta per il potere, la lotta che era in corso in Francia dopo il 1830, dopo Luigi Filippo —, era, anche in questo caso con qualche ragione storica in più (secondo Balzac), beffardamente e nascostamente libertino, seduttore capzioso e rapace. Proprio questo per altro è il suo limite, egli non è un uomo del Settecento puro, in lui non vi sono lumi se non quelli (cito Pellini) di un Casanova, di un Cagliostro: Valois fallisce nella sua missione poiché è spiritualmente e storicamente inquinato, è corrotto. In quanto ad Anasthase, non è che un’utopia, una mediazione impossibile: la sua unica possibilità sarà di divenire Balzac in persona, colui che ne racconterà la storia con un’energia indomabile solo con gli anni, con la maturità.

  Vorrei da ultimo mettere a fuoco un punto nero del racconto e, direi, di tutta la Comédie humaine: il punto di contraddizione che va oltre le irresolubili contraddizioni narrate, private e storiche. Più che narrativa, è una contraddizione che Balzac manipola come un genio può, ma che resta ciò che è.

  Perché la signorina Cormon sceglie du Bousquier e non Valois, che più l’attraeva? Solo perché il borghese arriva prima all’ora dell’appuntamento fatale. O meglio: solo perché Valois arriva dopo; egli s’era attardato un momento di troppo a farsi bello. E insomma: Balzac dice che du Bousquier vince per caso, e noi sappiamo fin da Curtius (1923) quanto il Caso sia il dio della Commedia umana.

  Ma non solo sappiamo, al pari di Balzac, quanto così non sia dal punto di vista della Storia. Sappiamo anche quanto il Caso, in un qualsivoglia racconto, caso non sia: esso non è altro che la più o meno inconscia Volontà (altro dio di Balzac) dell’autore. Solo mentendo il genio dice (o riesce a dire) la verità.

 

 

  Andrea Del Lungo, Come ridere sul serio. Forme dell’esprit in Balzac, in AA.VV., Modi di ridere. Forme spiritose e umoristiche della narrazione a cura di Emanuele Zinato, Pisa, Pacini Editore, 2015 («Studi di letterature comparate (seconda serie)», 18), pp. 113-133.

 

  Si ride poco nei romanzi di Balzac: o per lo meno, non si ride abbastanza da poter legittimare la qualifica di «enfant et rieur» che lo scrittore si attribuiva in una lettera a Madame Hanska. In realtà, e questo importante contributo di Andrea Del Lungo ce lo dimostra, è possibile definire una tipologia del riso in Balzac che, nell’attualizzare la nozione di esprit, consente di relativizzare la serietà della narrazione «prendendo a oggetto i principi analitici e scientifici che la determinano, nell’ambito di una visione sociologica del reale, e di una relazione essenziale del romanzo balzacchiano con il sapere dell’epoca» (p. 117). Assai differenti si rivelano, nei romanzi della Comédie humaine, le tipologie balzachiane del riso: esse sono riconducibili, da un lato, al modello teatrale della commedia; dall’altro, alle forme di narrazione umoristica ereditate dal romanzo settecentesco (Sterne). Nel rivalutare la nozione di esprit, Balzac offre un modello di riso particolarmente «aggressivo» che si esplicita a diversi livelli dal punto di vista del codice e del genere romanzesco: a livello linguistico, come parodia del reale e in riferimento ai principi analitici che fondano la creazione stessa. È proprio nell’ambito dei fondamenti della rappresentazione letteraria che Del Lungo individua i caratteri più originali e significativi dell’esprit balzachiano, la cui componente metaletteraria risulta strettamente funzionale a una nuova concezione sociologica del reale. Questa forma di comicità seria incarnata in alcuni personaggi della Comédie humaine (Grandet, Crevel, Grassou) – vittime del comico, ma protagonisti nella società – si accompagna a una forma di umorismo intertestuale in cui l’esprit è funzionale a una rivisitazione parodica dei saperi dell’epoca. Il caso de La Physiologie du mariage è, in questo senso, esemplare: Balzac evoca i modelli di Rabelais e di Sterne per ridicolizzare i saperi libreschi ed enciclopedici contemporanei e rivalutare allo stesso tempo «la posizione di Balzac nel codice romanzesco del suo tempo» (p. 128). Assistiamo, in altri termini, a un rovesciamento e a una destabilizzazione, in quanto «fonte principale del riso» (p. 129) di quel metodo analitico e positivista i cui paradigmi costituiranno le fondamenta della sua immensa costruzione letteraria.

 

 

  Andrea Del Lungo, La répétition du commencement. Sur les “faux départs inédits” de “La Recherche de l’Absolu”, in Collectif, Balzac, l’éternelle genèse. Textes réunis et présentés par Jacques Neefs, Saint-Denis, Presses Universitaires de Vincennes, 2015 («Manuscrits modernes»), pp. 147-166.

 

  Andrea Del Lungo concentra la sua attenzione sui «faux départs balzaciens» che rendono evidente la contrainte che la scrittura dell’incipit rappresentava per Balzac.

 

 

  Andrea Del Lungo, L’intérieur balzacien: du chaos social au désordre individualisé, «Romantisme», Paris, n. 168, 2015, pp.39-49.

 

  La ridefinizione letteraria dello spazio interno come luogo privilegiato dell’intimità privata visto nelle sue relazioni con la dimensione eterogenea e caotica degli spazi sociali (o esterni) determina, nell’opera di Balzac, suggestive e rilevanti implicazioni di natura ideologica ed estetica. In questo studio, l’A. mostra in quale misura «la dialectique des espaces constitue un élément fondamental de l’entreprise romanesque de réordonner un état social mouvant et instable» (p. 49). L’esigenza, da parte di Balzac, è quella di «renverser le principe déterministe propre à la loi du milieu» (p. 47) concependo un nuovo criterio classificatorio – «le désordre arrangé» – che consente di stabilire, nell’ambito di una nuova dialettica degli spazi, nuovi «critères de distinction fondés sur la subjectivité, qui permettent de définir des clivages sociaux inédits» (p. 49).

 

 

  Francesca Dosi, ‘Out 1’ de Jacques Rivette, ou Balzac revisité, «Approches», n. 164, décembre 2015.

 

 

  Vittorio Feltri, Gli scrittori migliori sono sempre stati «gattolici» praticanti, «il Giornale», Milano, 18 dicembre 2015, p. 28.

 

  «Il cielo è nei suoi occhi, l’inferno nel suo cuore», diceva dei gatti l’autore della «Commedia umana».

 

 

  Valentina Fortunato, L’eredità «Macaire» in «Le Faiseur», in Lo speculatore a teatro. Tra letteratura, storia e finanza, Roma, Edizioni Efeso, 2015, pp. 113-123.

 

  [...]. Balzac inizia la redazione della pièce nel 1839 fino al gennaio 1844, quando la abbandona per poi riprenderla nell’estate del 1848. Un saltimbanque de la Bourse diventa Le Faiseur il 14 agosto 184 8 ed è pronta per essere letta agli attori della Comédie-Française attraverso quell’interpretazione magistrale che a detta di Jules Clarerie, inventa sul momento tutto l’ultimo atto. Seguono diverse modifiche, ma il giudizio del comitato di lettura la boccia ancora una volta, la pièce è messa in scena per la prima volta presso il Théâtre du Gymnase Dramatique il 23 agosto 1851. Dopo vari tagli apportati da Adolphe Dennery, e la soppressione di due atti, si trasforma in una commedia di successo con settantatré rappresentazioni consecutive, il testo originale pubblicato sul «Pays» tra il 28 agosto e il 13 settembre 1851 e in volume con Cadot nel gennaio 1853.

  In una recensione apparsa sul «Journal des débats» il 25 agosto 1851, Jules Janin mette l’accento su un titolo di origine dialettale, utile a dare un certo colore a una pièce in cui il protagonista incarna il motore speculativo che genera fiumi di denaro. Quest’ultimo irrompe nel momento in cui l’affarista è pronto a tagliarsi la gola davanti ai creditori, all’ultimo atto, e scorre come un balsamo pacificatore a saldare chiunque [...]. Gustave Planche ne parla nel settembre 1851, nella rubrica «Théâtres» della «Revue des Deux Mondes», come di una commedia che ricalca esperienze vissute dall’autore all’interno di certi ambienti, prova ne è l’ammirazione di due addetti ai lavori seduti dietro di lui, irritati solo dalla rivelazione di certi colpi da maestro [...].

  Tuttavia, Les Mercadet, Le Commerce rientra in una produzione teatrale mediocre, scandita da insuccessi, dalla tragedia in cinque atti e in versi Cromwell (1819) alla commedia Les Ressources de Quinola (1842), passando per Vautrin (1840) con l’improvvida interpretazione dell’amico Lemaître, fino al modesto successo di La Marâtre (1848). Assieme ad altre pièces, come L'École des ménages, è funzionale a riparare l’inarrestabile voragine finanziaria di quel «roman définitif» (R. Barthes) che è Balzac. È indubbio che si tratti di un’eccedenza che gode di attenzione riflessa rispetto a La Comédie humaine, ma è altrettanto vero che ci troviamo davanti a una sorta di sintesi di un desiderio teatrale inappagato, se non fosse per quel dialogo implicito con una teatralità che si esprime anche nel romanzo: l’ufficio dell’usuraio Gobseck che funge da teatro per i suoi debitori, o quel tramezzo impalpabile che in La Maison Nucingen apre come un sipario a «[...] un pot-pourri de choses sinistres qui peint notre temps [...]».

  È bene soffermarsi sul rapporto tra teatro e romanzo in Balzac, perché se c’è un legame, è molto più vera l’influenza del romanzo su questa commedia che non il contrario. Il disegno dello speculatore, la manovra finanziaria, è ispirata all’azione dei romanzi [...]. Se non c’è teatralità nella narrazione balzachiana, c’è romanzo in Le Faiseur, è la materia finanziaria a creare questa relazione.

  Tuttavia, non va trascurata l’eredità lasciata da Robert Macaire, che si materializza in piccole tracce sin dall’inizio, perché Godeau incarna perfettamente il bandito balordo, presidente di società in accomandita, [...] così come la haute banque è rappresentata dall’accento yiddish del barone di Nucingen [...].

  Ognuno nella vita, almeno una volta, ha avuto a che fare con un Macaire, un Godeau, l’importante è averne ricavato qualcosa moralmente, ma anche materialmente: Mercadet è riuscito a trarre profitto da quel furto da cento cinquantamila franchi, utilizzandolo come scusa per tenere a bada i creditori.

  Il suo lato finanziariamente propositivo assomiglia molto a Balzac (basti pensare a quel viaggio in Sardegna nel 1838 e al piano di gestione delle miniere dell’Argentiera) e riprende la caratteristica numero uno dell’affarista: quel dinamismo proprio dello speculatore alla Borsa, che è una costante già nelle commedie della prima metà del XIX secolo. Personaggio dalla grande energia propositiva e positiva [...], ciò che lo tiene in vita è il «Mercato» della Borsa: a cosa sarebbe ridotto se non ci fossero le azioni industriali su cui speculare, e cosa farebbero di lui tutti suoi creditori se il socio Godeau non fosse scomparso con la cassa della società?

  In attesa di quel ritorno che attraverso un «plagiat par anticipation» evoca Beckett, l’«homme de la magie capitaliste» (R. Barthes) fa girare il suo universo attorno all’attesa, forse eterna, del rientro dalle Indie di un socio ricco e redento. Nel frattempo, oscilla tra pignoramenti e colpi borsistici improvvisi, tra una minaccia d'arresto per insolvenza e risvegli di ricchezza in un continuo calcolare, redigere prospetti per ingenui azionisti, irretiti da fantasmagoriche società per azioni annunciate sui giornali. [...].

 

  Semiologia della speculazione, pp. 124-131.

 

  Già dal primo atto, Le Faiseur sovverte lo schema diegetico di tutte le commedie precedenti, dal 1795 in poi. Ci fa sorridere il paragone tra l’affarista che entra in scena gridando al valletto di tenere pronta la carrozza a ripartire, sulla cresta dell’ultima impennata ad hoc alla Borsa, e poi Mercadet che dalla prima scena del primo atto, contratta con un padrone di casa che vuole pignorargli i mobili.

  A differenza di tutte le altre commedie in cui lo speculatore si annuncia nel pieno della sua ascesa finanziaria, motivo che ne fa il miglior partito in un matrimonio con un banchiere, Balzac lo presenta in pieno declino, subissato dai debiti e con il problema di una figlia da sposare. La parabola finanziaria è invertita, così come la conclusione: Mercadet non fuggirà dalla finestra, né subirà il contrappasso finanziario di una manovra sventata da una comunicazione ufficiale che annulla i suoi canards. Nel pieno della mise en abyme della truffa di Stato per eccellenza, nascosta dalla chiave allegorica, sarà Mme Mercadet a rompere l’incantesimo e ad assicurare il ritorno alla terra.

  C’è poi da considerare l’altra grande variante: per la prima volta il protagonista è uno speculatore che è asceso socialmente, un «Napoléon des affaires» (III, 16), la cui fama spaventerebbe chiunque. Restano comunque diverse costanti, incontrate già in Turcaret e presenti nelle prime commedie di Picard. Torna la coincidenza di un piano finanziario, in questo caso di riscossa, con un programma matrimoniale: il secondo aiuta il primo e viceversa.

  Il dinamismo del personaggio è tutto rivolto a ideare nuove società in accomandita, «des pièges à loups» (I, 2), le inventa in un’incessante attività notturna per poi lanciarle sui giornali. Difficile far capire tutto questo a sua moglie, legata a un mondo ormai superato, che non coglie l’ebbrezza che produce tanto il creare quanto l’estinguere un debito da milioni di franchi. Madame Mercadet è la ricchezza legata alla terra, al concetto di valore tangibile, di onore intangibile, mentre Mercadet incarna la modernità che fa sgorgare la moneta dal nulla, che non ha più a che fare con l’oro, ma con i valori borsistici. In tutto questo, l’affarista ha come obiettivo principale la creazione del denaro da una menzogna: il benedetto puff tiene in piedi tutto il suo mondo, e ogni sua azione è finalizzata a renderlo verosimile, ogni sua mossa gonfia ogni giorno di più la bolla del suo debito. Ciò che lo circonda si tiene in piedi su questo, gli affari borsistici si reggono su di una mistificazione. [...].

  Mme Mercadet è funzionale solo ai programmi del marito, salvo poi dirigere una delle possibili conclusioni della pièce, con il suo intervento in piena farsa finanziaria. Assieme alla figlia è parte della squadra di ogni speculatore che si rispetti, così come lo sono i domestici interessati ai loro stipendi, in bilico sulle manovre del padrone. [...].

  Lo speculatore è cosciente che un valletto può rappresentare un alleato ineguagliabile per l’attuazione del suo piano finanziario, ma sa anche che può provocare una fuga di notizie, e alla luce di questa duplice funzionalità lo manovra a piacimento. [...].

  Nel raccontare l’influenza del finanziere sui giornali, Balzac fa una scelta inusuale rispetto agli autori che lo hanno preceduto. Basti pensare a Casimir Bonjour, che in L’Argent lascia trapelare la manovra dello speculatore Chalet attraverso la concatenazione delle scene e l’evento surreale di una falsa notizia che si avvera. Al contrario, in Le Faiseur, tutto è messo nero su bianco e con la finalità di svelare l’astuzia usata da Mercadet per speculare vantaggiosamente alla Borsa e vendicarsi di un probabile concorrente come Verdelin.

  Questa scelta risente della verve satirica di una pièce come Robert Macaire, che porta sulla scena la corruzione politica dei vertici di Stato, e allo stesso tempo mostra la sensibilità dell'autore per le macchinazioni e le astuzie dietro cui si nasconde il successo di ogni speculatore. La Maison Nucingen testimonia dell’interesse per il retroscena del mondo bancario, anche con riferimenti illuminanti sulla centralità dei mezzi di comunicazione. Sia Rastignac che il barone de Nucingen puntano alla velocità della comunicazione per la riuscita dei loro piani politico-finanziari. All’interno del romanzo sulla banca, il riferimento è fugace ma significativo di come anche i più semplici mezzi di trasporto siano manipolati dalla politica e dalla haute banque. Basti immaginare il banchiere Ferdinand du Tillet lanciato su di una velocissima carrozza, che viaggia per chilometri violando, senza alcun mistero, le norme per le diligenze pubbliche [...].

  Ogni speculatore vive di segnali, a dimostrare la propria infrangibilità finanziaria, come Mme Mercadet e le sue apparizioni all’Opéra, al bois de Boulogne (IV, 5), o il suo atteggiamento contenuto, di chi ha ancora qualcosa da perdere. Tutto convince Méricourt della ricchezza della famiglia, è un gioco tra commedianti, i pochi accorgimenti degli uni come degli altri li fanno cadere nelle trappole di entrambi. I segnali lanciati da Mercadet tramite sua moglie hanno funzionato, come quelli di Méricourt e De la Brive. Si ritroveranno alla fatidica cena, nel solco della tradizione satirica alla Robert Macaire, in cui si confrontano due ladri d’eccezione.

  È opportuno soffermarsi sull’incontro tra questi tre speculatori, perché tutti rientrano all’interno di un quadro narrativo che risente della fase storica anche antecedente alla stesura della pièce (1831, 1839-1848). I due giovani giocatori del bel mondo, comunicano attraverso dei segnali e fanno tappa in posti ben precisi: Méricourt, «ce lion» (I, 8), frequentatore di teatri («[...] il va, je crois, aux Bouffes sans entendre un mot d italien» (Ibid.)), dandy accolto nei salotti dell’alta società, e De la Brive: «Mercadet: [...] au style du tigre, l’ensemble de l’équipage, son attitude à l’Opéra, le père le plus exigeant serait satisfai!» (I, 9). Dall’altra parte, il faiseur più temuto della Borsa, momentaneamente sull’orlo del baratro, ma che sin dal primo atto è legato a questi due personaggi, e probabilmente non solo in vista del piano matrimoniale per sua figlia Julie.

  Michonnin è un giocatore sul lastrico, ma è stato piuttosto fortunato in passato e ha avuto a disposizione uno staffiere d’eccezione, piccolo d’età come di statura, sicuramente un abile fantino. Nella commedia, come in La Maison Nucingen, è denominato «tigre» sull’onda di quell’anglomania del periodo, che inquadra il ruolo di questi velocissimi jockeys alle corse del bois de Boulogne. Anche Lucien de Rubempré in Splendeurs et misères des courtisanes ha il suo groom, abituato a «lisser le poil des chevaux et à les harnacher de roses pour les courses au Bois». In Le Faiseur è descritto accanto al cavallo di un cabriolet lussuoso, in visita ai Mercadet, e segnala sin dal primo atto la presenza di due caratteri ben precisi, il cui abbigliamento evoca la funzionalità finanziaria di certi accorgimenti [...].

  Le Faiseur, come alcuni romanzi di Balzac, vive di una disseminazione semiologica che riflette la passione per la scommessa borsistica della gioventù dell’alta borghesia, dedita alla speculazione. Una fauna che sembra vivere di segnali: De la Brive e la scienza politica appresa attraverso il gioco, il debito, le cene, ruota attorno all'universo del potente finanziere Mercadet. È uno di quei sobillatori appariscenti, che nella realtà sono stari al servizio delle manovre speculative di Gabriel-Julien Ouvrard e che si ricordano per un abbigliamento e un atteggiamento ben precisi. Come lo speculatore Couture, in La Maison Nucingen e quel gilet a fiori, che gli serve a lanciare un messaggio all’esterno, come Beaudenord e il suo groom minuscolo importato dall’Inghilterra. Lo stesso putto di cui si serve De la Brive prima di diventare Michonnin, insomma tutto concorre a scolpire una gioventù che vive di quella passione che nessuna società potrà mai spegnere, ma che non può aspirare alla soglia varcata da Rastignac: quella degli iniziati a informazioni riservate, dei privilegiati che vivono tra banca, politica e Borsa.

  Neanche il ricco ma ingenuo diplomatico Godefroid riesce a sottrarsi alla tentazione di una scommessa sicura, garantita da una fonte come Madame de Nucingen. Basti pensare allo scatto con cui reagisce all’assenza della baronessa, in un momento in cui chiede aiuto a Rastignac per un affare di Borsa [...].

 

 

  Franca Franchi, Alla ricerca di Euridice: la discesa agli inferi di Frenhofer, in AA.VV., La Penna e il Pennello ... cit., pp. 77-96.

 

  Franca Franchi considera, riferendosi all’importante studio di Georges Didi-Huberman sul Chef-d’oeuvre inconnu, le riflessioni di Frenhofer sulla pittura di Tiziano attraverso le quali l’eroe romantico balzachiano si misura con il colore, mette in discussione «i codici collaudati della visibilità», si misura con l’estremo e «corre il rischio dell’incomprensione» (p. 81). La questione della leggibilità dell’opera d’arte investirà vasti orizzonti della storia dell’arte moderna e contemporanea e costituirà il nucleo essenziale di due romanzi: L’Œuvre e Là-bas in cui Zola e Huysmans faranno del discorso estetico il fondamento dello svolgersi narrativo di queste due opere.

 

 

  Lorena Germano, “La Comédie humaine” a tavola: a pranzo con Honoré de Balzac, Torino, Il Leone verde, 2015 («Leggere è un gusto! Percorsi tra cucina, letteratura e … », 73), pp. 138.

 

  Nel secolo d’oro della gastronomia e della critica gastronomica quale è stato, in Francia, l’Ottocento, la Comédie humaine di Balzac rappresenta un documento storico-letterario rilevante per comprendere in quale misura il cibo evidenzi le differenze ambientali e caratteriali di un’epoca applicate al sistema dei personaggi. In questo interessante lavoro di Lorena Germano, l’A. si addentra nel vasto e multiforme panorama gastronomico dell’opera balzachiana esaminando nel dettaglio le differenti e specifiche declinazioni di cui è oggetto il cibo nella Comédie humaine. L’analisi degli alimenti e dei piatti come protagonisti delle sezioni e delle scene della Comédie consente di apprezzare il valore del cibo come «strumento letterario» (p. 13), il quale, di volta in volta, assume funzioni ed implicazioni realistiche e descrittive diverse: una funzione psicologica nelle Scènes de la vie privée; una funzione di denuncia nelle Scènes de la vie politique; una funzione metaforica nelle Études philosophiques. Se nei romanzi che formano il ciclo delle Études de mœurs, Balzac utilizza il cibo come mezzo attraverso il quale è possibile «risalire alle caratteristiche dei singoli personaggi, alla loro classe sociale», ai vizî, alle virtù e alle passioni che li caratterizzano, nelle Études philosophiques, al contrario, la ricchezza delle portate e l’abbondanza delle vivande sottolineano la povertà interiore dei protagonisti. Un caso a parte è costituito dalla Physiologie du mariage, l’unico testo preso in esame dall’A. per quanto concerne le Études analytiques. In quest’opera, il cosiddetto «cibo analitico» si riferisce a una ristretta cerchia della società, vale a dire la classe femminile, blasonata ma ridicolizzata dallo scrittore. Qui, sesso e cibo si intersecano, diventando uno la metafora dell’altro e il cibo, osserva l’A., «non è mai una necessità, bensì il capriccio delle classi sociali più elevate» (p. 57).

 

 

  Dominique Jullien, Vautrin génie balzacien, in AA.VV., Variations françaises sur les “Mille et Une Nuits”: quelles versions pour quels effets?, sous la direction de Aboubakr Chraïbi et Ilaria Vitali, «Francofonia», Bologna, 69, anno XXXV, autunno 2015, pp.83-104.

 

  Sotto il profilo ideologico e metaletterario, il personaggio di Vautrin incarna, nella duplice accezione di genio che gli appartiene, una sorta di deus ex machina dotato di eccezionali facoltà intellettuali e pragmatiche: ereditando dai racconti arabi delle Mille e Una Notte la facoltà, propria del genio, di costituirsi come motore invisibile e occulto della storia, Vautrin si colloca, nell’universo romanzesco balzachiano, e, in particolare, all’interno della trilogia comprendente Le Père Goriot, Illusions perdues e Splendeurs et misères des courtisanes, «au cœur d’un réseau sémantique, philosophique et poétique exceptionnellement riche» (p. 86). Incarnazione del male assoluto, mosso dall’odio e dalla sete di vendetta nei confronti della società, Vautrin – che, da questo punto di vista, «renverse la dynamique du prince déguisé» (p. 94) – ha altresì il poter di manipolare «l’intrigue et les autres personnages à sa fantaisie» (p. 96) assumendo, in tal senso, i caratteri proprî dell’autore e, in particolare, del romanziere-Balzac «aux prises avec la nouvelle réalité industrielle et commerciale du feuilleton» (ibid.). Vautrin, «génie oriental qui par son retour cimente l’unité romanesque de la Comédie humaine, incarne en même temps le génie de son inventeur»: in lui, poeta dell’azione drammaticamente vissuta all’interno delle dinamiche tra forze materiali e forze spirituali del mondo moderno, si concentrano «la conscience aiguë de la réalité moderne et l’archaïque magique du conte [oriental], dans un espace narratif […] dominé par le journalisme et l’industrialisation» (p. 101).

 

 

  Carlo Lauro, Mirbeau e il tramonto di Balzac come tema letterario. Più che solo, male accompagnato, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXXII, N. 2, Febbraio 2015, p. 10.

 

  La storia d’amore tra Balzac e Madame Hanska, raccontata da tanti biografi (primeggia per stile Zweig), durò all’incirca diciotto anni: un fitto e focoso epistolario tra l’ammiratrice lontana, sconosciuta e il grande romanziere, alcuni incontri tra Neuchâtel, Parigi e l’Ucraina durante i quali divennero amanti; poi, anni dopo la morte del vecchio conte Hanski, Balzac, vinte le ultime resistenze di lei, corre a sposare la vedova e la conduce a Parigi. La coppia vi giunge il 21 maggio di quel 1850, Balzac morirà il 18 agosto: la storia ha quindi una china repentina, con acri disillusioni da Comédie humaine. Esaurite le sue proverbiali energie, Balzac è ormai un uomo malato, condannato da subito al letto, indebitato sino ai capelli (ha tutto follemente investito nell’appartamento principesco della rue Fortunée, con i suoi damaschi, la pinacoteca e librerie da bibliofilo). Le aspirazioni di una vita (il matrimonio blasonato, i begli oggetti, l’ambizioso completamento della Comédie) si rovesciano definitivamente nell’inattesa aridità affettiva di Madame Hanska, nell’incubo dei creditori, nell’abbandono delle forze. In quei mesi di solitudine la sontuosa magione diventa, per dirla con Zweig, “una tana spettrale”.

  Di questo tramonto balzachiano volle scrivere nel 1907 Octave Mirbeau, forte di una presunta testimonianza inedita e sconvolgente, avuta molti anni prima dal pittore Jean Gigoux (che avrebbe preso il posto di Balzac nella vita di Madame Hanska). Ne uscì La mort de Balzac, libro-rivelazione e apologo contro il matrimonio (tema già affrontato, vent’anni prima, nel romanzo Le calvaire) in cui le corde ciniche, misogine e necrofile care a Mirbeau hanno libero corso (Le jardin des supplices gli è valso, si sa, una meritata collocazione in La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz).

  L’opera, pur breve, si divide in tre parti. Nella prima, Con Balzac, Mirbeau sintetizza felicemente i nodi di quell’esistenza febbrile, intraprendente, visionaria. Sottolinea più volte la titanica capacità lavorativa di Balzac (“Era in grado di portare avanti contemporaneamente quattro libri diversi”) e il tormentoso rapporto con il denaro: ricercato con mille mezzi, talora bassi, e poi scialacquato puntualmente in folli gaspillages. Spiega anche lucidamente, con argomenti che ricordano la nota intuizione marxiana, il rifiuto dell’Académie Française ad accoglierlo: l’opera del monarchico e cattolico Balzac, osservatorio sull’intera società francese, istigava in realtà agli “orrori della rivoluzione”.

  Nella seconda parte, La moglie di Balzac, compare Madame Hanska. Mirbeau crede sì a quell’infatuazione reciproca dei primi anni (fatta più di chimere e lontananze che di vita vissuta), ma non esclude in Balzac il movente pecuniario, il disperato tentativo di liberarsi, sposando un’ereditiera, dei messi giudiziari. Perno del capitolo è l’arrivo dei jeunes-mariés esausti a tarda sera a Parigi. Balzac, che aveva fatto addobbare l’appartamento nei minimi particolari per la cena, trova uscio sprangato e luci accese (“Tutto è immobile e silenzioso: fa ancora più paura di quando tutto è spento”). Si chiama un fabbro per entrare in casa, mentre il domestico impazzito, reo di alcune devastazioni di vasellame, viene immobilizzato e portato via.

  Infine, il terzo capitolo, La mort de Balzac, quello maudit, in cui Mirbeau cede la parola al testimone delle ultime scandalose ore, Jean Gigoux: “In quella casa al centro di Parigi dove, più solo di una bestia malata in fondo a una tana nei boschi, moriva il genio più stupefacente del secolo, io ascoltavo, senza restare impressionato dall’atrocità di quella tragedia, l’immenso e lugubre silenzio”. Più che solo, Balzac è male accompagnato: in altra parte della magione Madame Hanska è in preda al panico, non va al capezzale, è nervosa, pentita della scelta fatta, piagnucola, vorrebbe tornare in Russia, soprattutto si consola a letto tra le braccia di Gigoux.

  Un dettaglio dei più desolanti è quel tanfo di decomposizione che intanto avvolge l’appartamento (descritto anche con rispettoso raccapriccio da Hugo in Choses vues): Balzac era vivo, ancora lucido, ma il suo corpo “moriva a partire dal basso”, squagliandosi lentamente. La visionarietà, tuttavia, in lui non cedeva al reale: la mattina del 18, apprendendo dal dottor Nacquart che non avrebbe passato la notte, aveva invocato Bianchon, il medico della Comédie humaine: “Mi servirebbe Bianchon ... servirebbe proprio Bianchon ... Bianchon, lui sì che mi potrebbe salvare”. L’indomani del decesso, i gessatori accorsi per il calco del volto di Balzac tornarono indietro a mani vuote: “La carne del volto era tutta erosa ... il naso era letteralmente scivolato giù, sul lenzuolo ...”.

  Con questo macabro sberleffo, gogoliano, si chiude il racconto, ma si apre il caso editoriale. Nel 1907 queste pagine su Balzac sarebbero dovute uscire all’interno di La 628-E8, reportage automobilistico di Mirbeau nel cuore d’Europa. Ma certe anticipazioni sui tre capitoli vennero a conoscenza della figlia ottuagenaria di Madame Hanska, la quale contestò pubblicamente le “abominevoli” menzogne di Mirbeau, chiarendo che la madre aveva conosciuto Gigoux dopo la morte di Balzac. Autore ed editore (Fasquelle), per evitare querele, preferirono togliere le copertine delle undicimila copie di La 628-E8, già rilegate, e alleggerirle da pagina 387 a pagina 439. Un anno dopo la morte di Mirbeau, nel 1918, quelle pagine uscirono in un’edizione amatoriale a tiratura limitata. Nel 1939, sopite le polemiche, Fasquelle pubblicò integralmente La 628-E8; si dovrà attendere poi il 1989 e il 1999 per edizioni a se stanti di La mort de Balzac (la Société Octave Mirbeau nasce del resto in quegli anni).

  Con curiosa simultaneità giungono ora le due prime traduzioni italiane di La morte di Balzac [...], entrambe pregevoli, di cui quella edita da Sedizioni ha il merito del testo francese e di una postfazione di Davide Vago cui non sfugge l’importanza dello spiccato movente misogino: Eve Hanska è l’ultima di una serie di fornicatrici e torturatrici con cui Mirbeau trasferiva in letteratura le umiliazioni patite dalle proprie esperienze sentimentali e soprattutto coniugali (da qui la Juliette di Le calvaire, la Claire di Le jardin des supplices, la Célestine di Le journal d’une femme de chambre).

  Molti i quesiti sulla veridicità. La vicenda adulterina aveva in sé qual che fondamento? Davvero Mirbeau, avutone sentore da Rodin, andò a trovare più volte Gigoux per ricostruire quella vecchia storia tra Eros e Thanatos? O piuttosto Mirbeau, invece del solito conte cruel, fu tentato dall’idea di imbastire ex nihilo una scioccante mistificazione che coinvolgesse un personaggio grande e “vero” come Balzac e trasformasse per i posteri la Hanska in un volto di Medusa? Le risposte degli studiosi additano, sicure, la mistificazione. Da rivalutare, peraltro, per i suoi non negabili pregi: la vitale, inquietante impertinenza; una caligine di disincanto su uomini e cose; aver ricordato quanto, anche in ore estreme, un dottor Bianchon immaginario sia più confortante di un dottor Nacquart vero.

 

 

  Francesco Paolo Alexandre Madonia, Effet de moiré et dérobades diégétiques chez Vautrin, in AA.VV., «La grâce de montrer son âme dans le vêtement». Scrivere di tessuti, abiti, accessori. Studi in onore di Liana Nissim, a cura di Marco Modenesi, Maria Benedetta Collini, Francesca Paraboschi. Tomo II. LOttocento e il tournant du siècle, Milano, Ledizioni, 2015, pp. 269-278.

 

  Parmi les nombreux personnages qui animent La Comédie Humaine, Jacques Collin occupe sans conteste une place de choix. Dès sa première apparition dans Le Père Goriot (1834), où il prend le nom de Vautrin, Balzac se rend bien vite compte des ressources qu’il peut tirer d’un personnage aussi complexe et énigmatique. C’est pourquoi l’on retrouve l’ex forçat à la fin d’Illusions perdues (1835-1843) sous les traits de Carlos Herrera, dont on découvrira seulement dans Splendeurs et misères des courtisanes (1838-1847) la véritable identité. Entretemps Vautrin est aussi monté sur les planches dans une pièce homonyme représentée en 1840. Son nom est aussi mentionné dans La cousine Bette et dans Le contrat de mariage et Charles Rabou, après la mort de Balzac, termine Le député d’Arcis, resté inachevé, et y fait figurer Vautrin. Pour la création de ce personnage Balzac a d’abord puisé dans ses œuvres de jeunesse, issues de la littérature populaire qui fourmillaient déjà de scélérats. En outre, surtout dans les années 1820-1830, se répand la vogue des histoires de brigands à laquelle Eugène Sue, avec Les mystères de Paris (1842-1843), donnera un élan décisif. Enfin, Eugène-François Vidocq, le célèbre bandit qui devient le chef de la police de Sûreté de Paris, a certainement inspiré notre écrivain, bien qu’il soit nécessaire de nuancer quelque peu cette affirmation […]. Vautrin toutefois dépasse de loin tous ces modèles français et c’est plutôt du côté de la littérature européenne qu’il faut se tourner pour retrouver un digne étalon […]. Vautrin incarne aussi, pour reprendre l’expression de Praz, l’une des maintes ‘métamorphoses de Satan’ […]. Or, pour échapper à la police et pour parvenir à ses fins, Vautrin doit constamment assumer de nouvelles identités qu’il ne peut réaliser que par le truchement vestimentaire […].

  Nous nous proposons donc de voir comment Balzac, à travers la description des vêtements, va à chaque fois faire ‘endosser’ à Vautrin une nouvelle personnalité. Il est bon de rappeler d’ailleurs, avant d’aller plus avant, que Balzac s’est toujours intéressé au rôle du vêtement et de la mode dans la société: le Traité de la vie élégante, paru dans «La Mode» du 2 octobre 1830 au 6 novembre 1830 en cinq articles, le témoigne, ainsi que les minutieuses descriptions des toilettes des personnages qui parsèment La Comédie Humaine. […]. Il ne s’agit donc pas d’un simple et pur enjolivement, car les détails de la mise sont le juste complément des portraits physiques qui, chez Balzac, sont en étroite corrélation avec la physiognomonie. Les habits renvoient donc non seulement au contexte socio-historique mais sont aussi mis au service de l’intrigue. Pour ce qui concerne Vautrin cette assertion recouvre toute sa plénitude, vu que le personnage n’agit quasiment que sous des déguisements successifs. Il est évident toutefois qu’en littérature toute description est sélective et comme nous le rappelle bien Barthes, «les limites du vêtement écrit ne sont plus celles de la matière, mais celles de la valeur». Il s’agit maintenant de s’en persuader en examinant de plus près les travestissements revêtus par Vautrin dans les romans et dans la pièce cités ci-dessus. […].

  Les multiples travestissements et transformismes de Vautrin sont en effet autant de ‘dérobades’ diégétiques qui permettent à Balzac de n’avoir jamais à encadrer définitivement son personnage, mais bien au contraire à lui donner un brouillage identitaire: de Jacques Collin alias Trompe-laMort à Vautrin, de Vautrin à Carlos Herrera pour en revenir à Jacques Collin enfin fixé dans son identification à une ‘chose’, le lecteur n’a toujours qu’une perception en trompe-l’œil. Les déguisements successifs de Vautrin n’assument ainsi une véritable signification que dans la série: de la superposition des strates vestimentaires le personnage surgit tel une image trouble, un véritable ‘effet de moiré’.

 

 

  Maurice Maeterlinck, La saggezza e il destino. Con uno scritto di Rainer Maria Rilke. Traduzione di Giulio Martone e Nicola Zippel, Roma, Ellint, 2015 («Antidoti»), pp. 104-106.

 

  Ricordate il romanzo Pierrette di Balzac nella serie dei Celibi? Non è uno dei suoi capolavori, ma non è da quel punto di vista che ne parlo. È la storia di una dolce e innocente orfanella bretone che la sua cattiva stella strappa un giorno ai nonni che l’adorano per seppellirla in una cittadina di provincia nella triste casa degli zii, il signor Rogron e sua sorella, la signorina Sylvie, merciai in pensione, anime borghesi, spente e dure, stupidamente vanitose e avare, celibi inquieti, lugubri e istintivamente astiosi.

  Il martirio dell’innocente e amorevole Pierrette inizia subito al suo arrivo e si mescola a terribili questioni finanziarie: necessità di risparmiare, matrimoni da evitare, ambizioni da soddisfare, eredità da sottrarre, e via dicendo. I vicini, amici dei Rogron, assistono pacificamente al lungo e lento supplizio della vittima, e il loro istinto sorride naturalmente alla prevaricazione dei più forti. La storia finisce con la pietosa morte di Pierrette, il trionfo dei Rogron, dell’abominevole avvocato Vinet e di tutti coloro che li hanno aiutati. Nulla verrà più a turbare la felicità dei carnefici. La sorte stessa pare benedirli, e Balzac, trascinato suo malgrado dalla realtà dei fatti, conclude, quasi fosse dispiaciuto, il racconto con questa frase: Detto fra noi, la legalità sarebbe una gran bella cosa, se Dio non esistesse”.

  Non è necessario cercare nei romanzi drammi di questo tipo, poiché ne accadono tutti i giorni in molte case. Ho preso questo esempio da Balzac perché la storia quotidiana dell’ingiustizia trionfante era già bella e scritta. Nulla è morale quanto simili esempi, e forse la maggior parte dei moralisti sbaglia a mitigarne il grande insegnamento cercando di scusare come può le iniquità del destino. Alcuni lasciano a Dio il compito di ricompensare l’innocenza, altri dicono che in quest’avventura non è la vittima che merita di essere compatita. Hanno senza dubbio ragione, da più di un punto di vista. La piccola Pierrette, perseguitata e infelice, possiede gioie sconosciute ai suoi carnefici. Rimane amorevole, tenera e dolce fra le lacrime, e questo rende più felici dell’essere duri, egoisti e maligni con il sorriso sulle labbra. È triste amare senza essere corrisposti, ma è molto più triste non amare affatto. E come si potrebbero confrontare le informi soddisfazioni, le meschine, basse, ignobili speranze dei Rogron, con la grande speranza che dentro l’anima della bambina attende la fine dell’ingiustizia? Niente ci dice che la pallida Pierrette sia più intelligente degli altri, ma chi soffre ingiustamente si crea nella sofferenza un orizzonte che si estende fino a toccare in certi punti le gioie di uno spirito superiore, come l’orizzonte della terra, e anche se non lo vede dalla cima di una montagna, a volte gli sembra di riuscire a toccare i piedi del ciclo. L’ingiustizia che commettiamo ci riduce ben presto ai piccoli piaceri materiali, e man mano che ne godiamo, invidiamo alla nostra vittima la capacità di godere sempre più intensamente di ciò che non le possiamo sottrarre, ciò che non possiamo colpire, ciò che non è direttamente legato alla materia. Un atto di ingiustizia apre alla vittima la stessa porta che per il carnefice si chiude, e l’uomo che soffre respira un’aria più pura di quello che fa soffrire. È cento volte più chiaro in fondo al cuore dei perseguitati che in fondo a quello dei persecutori. La salute della felicità non dipende forse da una certa chiarezza dentro di noi? La creatura umana che infligge il dolore estingue più felicità in sé che non nella persona che tormenta.

  Chi di noi, potendo scegliere, non preferirebbe essere Pierrette invece che i Rogron? Il nostro istinto di felicità sa che è impossibile che chi ha moralmente ragione non sia più felice di chi ha torto, anche questo sedesse in cima a un trono. È vero che forse i Rogron nemmeno sanno di essere ingiusti, ma poco importa, non si respira più liberamente nell’incoscienza che nella coscienza del male, anzi colui che sa fare il male a volte ha il desiderio di evadere dalla sua prigione, l’altro invece vi muore senza aver mai nemmeno gioito con il pensiero per ciò che circonda le mura che gli nascondono tristemente il vero destino dell’uomo.

 

 

  Luigi Mascheroni, Balzac, ovvero l’arte di spendere soldi altrui, «il Giornale. Contro cultura. Arte-Letteratura-Nuovi media-Tv», Milano, Anno XLII, Numero 283, 29 novembre 2015, p. 20.

 

  Un’opera ironica destinata ai dandy e basata sull’esperienza personale ...

 

  Anche saper vivere bene senza soldi è una virtù. Anzi, un’arte. Lo è sempre, e lo è ancora di più in tempi di crisi.

  Ecco perché può non essere del tutto inutile, in un fastidiosissimo momento di depressione economica come l’attuale, riservare una ancorché fuggevole attenzione a un manuale che offre insegnamenti su come evitare di pagare i debiti e continuare a godersela comodamente con il denaro altrui, senza sborsare un franco. Manuale – peraltro – curato da un gigante della scrittura (purtroppo non altrettanto della finanza) il quale attraversò buona parte della vita assillato dai debiti e perseguitato dai creditori. Un esperto in materia, altro che no. Il suo nome – Accademico di Francia e gloria del Romanzo – è Honoré de Balzac.

  Eccessivo nel lavoro e nei piaceri, Balzac soltanto fra il 1830 e la morte, nel 1850, scrisse freneticamente oltre novanta tra romanzi e racconti: su riviste, in volume e in tirature sempre più numerose. Guadagnò molto, spese ancora di più. Viaggiò moltissimo, amò altrettanto. E – al di là della scrittura, che gli riuscì mediamente benissimo – tentò anche varie imprese collaterali: editoria, tipografia, fonderia di caratteri tipografici. Che si risolsero tutte in completi disastri.

  Ma qualsiasi cosa potesse andare male, nulla poteva allontanarlo dai salotti, dagli abiti eleganti, dallo sfarzo, dai cavalli e dalle relazioni pericolose. E più cresceva il suo desiderio di lusso, meno denari si trovava in tasca, più aumentavano i suoi debiti. Un circolo recessivo in cui Balzac rimase prigioniero, ma senza eccessive preoccupazioni, fin da giovane. Traendone una micidiale esperienza sul campo. Ecco perché neppure trentenne, nel 1827, decise di pubblicare (in forma anonima) L’art de payer ses dettes et de satisfaire ses créanciers sans débourser un sou (ossia L’arte di onorare i debiti e pagare i propri creditori senza scucire neanche un centesimo, come oggi lo traduce, per la prima volta in italiano, la casa editrice Nova Delphi): un originale pamphlet, scritto insieme con l’amico Emile Marco de Saint-Hilaire (1796-1887), destinato ai dandy (come il contemporaneo trattato L’arte di fare il nodo alla cravatta) e stampato dallo stesso Balzac nella tipografia di sua proprietà: «Imprimerie Balzac». Poi andata fallita.

  Comunque, il manuale di Balzac, che ha come ulteriore chilometrico sottotitolo «Manuale di diritto commerciale, ad uso di squattrinati in cerca di prestiti, lavoratori occasionali, senza impiego fisso e di tutti i consumatori senza un soldo», non è nel modo più assoluto un’istigazione al crimine. Anzi. Balzac, il quale capisce benissimo gli uomini timorati e con saldi principi che «in un modo o nell’altro» desiderano rimettere i propri debiti pur continuando a vivere decorosamente, non propone di truffare i propri creditori (infatti s’intitola L’arte di onorare i debiti e pagare i propri creditori). Diciamo che, con ironica spensieratezza e notevoli voli d’immaginazione, suggerisce – in dieci lezioni – alcuni «metodi creativi» per allontanare il più possibile, nel tempo e nelle pretese, creditori troppo insistenti (ed ecco quindi l’aggiunta senza scucire neanche un centesimo). Ora: il vademecum di Balzac, che in esergo porta un pensiero di un misterioso zio cui l’autore attribuisce l’opera («Più hai debiti, più hai credito») non ha ovviamente alcuna utilità dal punto di vista pratico. Ma rimane un documento interessante per capire qualcosa in più della psicologia di Balzac, impegnato per l’intera esistenza a vivere al di sopra delle proprie possibilità economiche, comprando a credito con la stessa foga con cui mangiava, amava e scriveva.

  E soprattutto è un ritratto impietoso e divertente (si segnala in particolare la Quinta lezione su «Le qualità di cui deve essere dotato un qualsiasi consumatore senza un soldo per sbarazzarsi dei propri creditori», tra le quali la prima ovviamente è una salute di ferro, «essendo la morte di un creditore uno dei mezzi più naturali di ammortamento del debito») di una società d’altri tempi, che però potrebbero essere benissimo anche i nostri.

  Del resto, quella di vivere in bilico fra dare-e-avere, debiti e crediti, prestiti e interessi, è un’arte, come insegnano banchieri senza scrupoli e politici corrotti, sempre di grande attualità.

  E così nelle pagine del manuale del buon Balzac e del suo amico pamphlettista Saint-Hilaire, tra una lezione sulla pericolosità degli acconti e una sulla psicologia degli ufficiali giudiziari, tra una riflessione sull’arresto per insolvenza e uno spaccato storico sul celebre carcere parigino di Sainte-Pélagie, entrano ed escono, come protagonisti o comparse della grande commedia umana, i veri personaggi della società francese dell'epoca, e non solo di quella: l’egoismo, l’avidità, l’arrivismo, le maldicenze, l’ipocrisia («so, inoltre – scrive Balzac nelle conclusioni – che mentre i tribunali al mattino condannano i debitori, la sera in teatro ci si burla dei creditori e, sia nella realtà che in scena, si è d’accordo nel farsi beffa dei raggiri perpetrati ogni giorno ai loro danni»), e poi i piccoli imbrogli quotidiani, gli alti ideali etici, il sacro rispetto della Legge e le profane necessità contingenti ... Tenendo presente che anche un’abitudine apparentemente perniciosa come fare debiti può dimostrarsi invece una sana attività sociale, poiché «chiunque non faccia credito è inevitabilmente destinato alla bancarotta, perché più si fa credito, più si riscuotono debiti, più si riscuotono debiti, più si concludono affari, più si fanno affari più si guadagna».

  Che, se non è una lezione di economia infallibile, è un eccellente divertissement letterario.

 

 

  Marilisa Moccia, La rappresentazione della borghesia tra sociologia e letteratura: «La Comédie humaine» di Honoré de Balzac. Tesi di Dottorato, Università degli studi di Napoli ‘Federico II’, Dipartimento di Scienze Sociali, 2015, pp. 300.

 

 

  Thomas G. Pavel, I romanzi e la società. Esseri eccezionali, angeli caduti e demoni, in Le vite del romanzo. Una storia. Traduzione di Daria Biagi e Carlo Trinanzi de Medici. Con una postfazione di Massimo Rizzante, Milano-Udine, Mimesis, 2015 («Saggi letterari», n. 4), pp. 266-272.

 

  L’approccio differenziale, concentrato sulla scoperta o la creazione di personaggi davvero poco comuni, è una specialità francese, visibile nelle opere di Balzac, Alexandre Dumas padre, Victor Hugo e, in misura minore, Eugène Sue.

  Balzac comprende l’importanza del realismo storico di Walter Scott e lo adatta alla società contemporanea dividendo la Francia in regioni sociali e geografiche distinte, ciascuna dotata di una sua fisionomia specifica, di cui cerca in tutti i modi di identificare e rappresentare i tratti salienti. In particolare, i suoi romanzi colgono le dinamiche sociali che danno alla borghesia e al suo strumento prediletto, il denaro, potere sufficiente per sostituirsi all’aristocrazia in declino. Balzac prende molto sul serio l’idea che le persone sono il prodotto del loro ambiente, sebbene continui a riservare ai suoi personaggi un certo grado di libero arbitrio. Al pari di Scott ha appreso molto dai diversi sottogeneri romanzeschi, unendo il brioso andamento del picaresco, la comprensione dei meccanismi sociali del romanzo di costume, l’indagine psicologica della novella e la predilezione idealista per individui straordinari. Proprio come Scott in Waverley, Balzac adotta un narratore onnisciente, pronto a discutere con il lettore i significati sociali e morali del racconto. Così, sebbene i suoi personaggi possano offrire talvolta confessioni in prima persona, come ad esempio in Il giglio nella valle (1836), non è loro compito persuadere il lettore: la verosimiglianza è garantita dalla conoscenza enciclopedica dell’autore, dalla sua loquacità e dalla sua verve.

  La Commedia umana di Balzac è un catalogo di tipi e conflitti sociali di tale imponenza che sarebbe irrispettoso ricondurla a una sola varietà del romanzo ottocentesco. Vorrei perciò limitarmi a suggerire che la rappresentazione realistica della società borghese ottenuta da Balzac rafforza i suoi personaggi esemplari, rendendoli più vividi: qui il realismo sociale è costretto a osservare la tradizione idealista. Balzac non dimentica mai l’approccio egualitario e cerca con insistenza la tempra morale e la virtù negli angoli più reconditi della società (Il parroco di Tours, 1832, Eugénie Grandet, 1833). Tuttavia, la tendenza differenziale nelle sue opere è particolarmente potente: l’autore, infatti, è attratto soprattutto dagli individui che grazie ai loro meriti, riconosciuti o meno, si innalzano sopra il resto della società.

  Balzac è convinto che la nuova società borghese non sia in grado di accogliere individui eccezionali. Impressionato come molti suoi contemporanei dal ricordo ancora recente di Napoleone, lo scrittore ritiene che in un mondo in cui domina la mediocrità personaggi letterari davvero straordinari possano servire come esempio per le persone. Il risultato è che la Commedia umana brulica di personaggi la cui energia inesauribile sembra giungere direttamente dai romances antichi o da quelli del Seicento, ma Balzac, che è uomo del suo tempo, dona loro due nuove caratteristiche. La prima è la carriera professionale: la grandezza, per l’autore francese, non è una questione di valore militare o di castità, ma si dimostra attraverso un preciso mestiere. Nei suoi romanzi ogni professione annovera il suo genio: Bianchon fra i dottori, Derville fra i notai, Nucingen come banchiere e d’Arthez nella filosofia.

  L’altra nuova caratteristica è la possibilità del fallimento. Quando i protagonisti degli antichi romances lottano contro le avversità e le sconfiggono, possono sempre contare sull’aiuto degli dei o della Provvidenza, o quantomeno sul loro consenso. Nei romanzi di Balzac, la Provvidenza – o la natura – rafforza i prescelti con talento ed energia, ma per ottenere il successo non si può contare su nessuno all’infuori di se stessi. Nati in una società che ha in sospetto forza e originalità, questi personaggi possono dedicarsi anima e corpo a una grande impresa, senza mai permettere alle tentazioni del mondo di distrarli dal loro obiettivo, oppure investire tutte le loro energie nel tentativo di soddisfare i loro desideri mondani, sprecando così il loro talento. I personaggi di Balzac devono trovare in se stessi la dovuta costanza per raggiungere i loro scopi; sono liberi di scegliere quale uso fare dei loro doni provvidenziali (o naturali).

  In aggiunta a quelli impegnati nelle diverse professioni, ci sono tre tipi di personaggi che possono raggiungere una grandezza fuori dal comune: i dispensatori di giustizia, come Armand de Montriveau in La duchessa di Langeais (1834), gli artisti di genio come Joseph Bridau in La Rabouilleuse (1842) e i benefattori che consacrano se stessi alla felicità dei loro fratelli umani, come il dottor Benassis in Il medico di campagna (1833).

  Balzac ama forse fin troppo i suoi dispensatori di giustizia. Montriveau, un soldato dell’armata di Napoleone in Egitto, è fatto prigioniero nel deserto, scappa e ricompare nei migliori salotti parigini. Antoinette de Langeais, una donna di alto rango, decide di sedurre quell’uomo silenzioso, ma quando egli infine se ne innamora perdutamente, costei si nega, prendendosi gioco dell’amante. Per vendetta Montriveau allora rapisce Antoinette con l’aiuto dei Tredici (una società segreta i cui membri si dedicano a far rinascere la grandezza) e per dimostrarle tutto il suo disprezzo la lascia andare senza abusarne. Il suo comportamento scuote profondamente la donna, che finisce per innamorarsi del suo rapitore. Costui nel frattempo sparisce senza lasciare traccia e Antoinette, ferita, si rifugia in un convento di carmelitane.

  L’incredibile e complessa vendetta del protagonista del Conte di Montecristo di Alexandre Dumas (1844-1845), così come la lotta del protagonista prima contro e poi a favore della giustizia nel ciclo romanzesco di Rocambole (1857-1884), sono più convincenti dell’odio misogino di Montriveau. Costui si sente fuori posto negli eleganti salotti della Restaurazione, che non rappresentano un ambiente ideale per mettere in pratica le sue capacità. Come può dunque Montriveau provare la propria superiorità? Perseguitando una donna capricciosa.

  Assai più efficaci risultano le buone azioni del dottor Benassis, il medico di campagna protagonista dell’omonimo romanzo, un uomo solitario che desidera espiare i peccati di gioventù. Molto tempo prima ha sedotto e abbandonato una donna indigente e innamorata; solo quando riceve la notizia della sua morte si rende conto della sua indole nobile e disinteressata: ha allevato da sola loro figlio senza mai chiedergli alcun aiuto economico. Benassis, capito l’errore, si converte, dedicandosi anima e corpo al figlio. Quando il ragazzo muore, Benassis scopre la sua vera vocazione, ossia il modo migliore per far fronte al suo rimorso: la beneficenza. In un mondo di pace, è questa l’unica azione eroica e senza limiti.

  Alla stregua della beneficenza, anche l’arte e la riflessione richiedono una rinuncia ascetica. Per raggiungere il successo i grandi artisti e i filosofi devono coltivare i loro doni in solitudine. Innamorarsi è un autentico disastro. L’amore, infatti, concentra le loro energie verso un unico essere umano e li obbliga a uscire da quell’isolamento così essenziale per raggiungere la maturità artistica e filosofica. In La Rabouilleuse Joseph Bridau compie la scelta giusta. Ultimogenito, ignorato dalla madre che gli preferisce il fratello maggiore Philippe, Joseph cresce da solo, leggendo e dipingendo. L’avventuroso Philippe sale e scende la scala sociale dilapidando il denaro di famiglia, mentre Joseph non ha bisogni materiali o erotici. Tutto quello che guadagna lo dà alla madre e al fratello e crea un nuovo stile di pittura che avrà un grande successo.

  Il personaggio dotato di talento può fare scelte opposte. Nelle Illusioni perdute (1837-1843), Lucien de Rubempré è un avvenente giovanotto dal notevole talento poetico Nonostante sua madre appartenga a una famiglia aristocratica, deve combattere contro la povertà, il cognome del padre e la mancanza di notorietà, problemi aggravati dal luogo in cui risiede, Angoulême, una cittadina di provincia. Il destino, che l’ha già dotato di bellezza, intelligenza e talento, lo aiuta nel cammino verso il successo, una bella donna lo porta a Parigi, sua sorella e il fratellastro gli offrono del denaro ed è accolto a braccia aperte da un gruppo di giovani talenti parigini. Nella Commedia umana, tuttavia, senza duro lavoro e abnegazione tali premesse non garantiscono alcunché: Lucien deve scrivere e pubblicare per farsi un nome nell’ambiente letterario. In una società elitaria come quella parigina, inoltre, il cognome borghese del padre, Chardon, è uno svantaggio. In più la donna che lo ha spinto a trasferirsi a Parigi è sposata, la somma di denaro di cui dispone, che sembrava una fortuna ad Angoulême, si rivela esigua nella capitale e i giovani di talento che lo prendono sotto la loro ala protettiva, pur dandogli buoni consigli, non possono donargli la forza per seguirli. Lucien deve trovare tale forza in se stesso.

  Per aiutare il lettore a comprenderlo, Balzac spiega il fallimento di Lucien in due modi. Da un lato, la personalità deriva da fattori fisici, origini sociali ed educazione. Lucien non è solo il prodotto di un matrimonio tra persone di classi sociali diverse (suo padre, di bassa estrazione, ha sposato sua madre, aristocratica, dopo averla salvata dalla ghigliottina durante il Terrore), ma, poiché la madre lo ha allevato da sola, non ha mai beneficiato dell’esempio né dell’influenza di un padre energico e vitale. Il suo aspetto, inoltre, è androgino: la vulnerabilità di Lucien è pertanto radicata nei suoi natali, nel suo passato e nella sua costituzione fisica.

  D’altra parte, indipendentemente dal peso delle inclinazioni personali e dell’educazione, Balzac insiste sulla libertà che ha il personaggio di prendere o meno la decisione giusta. Quando gli è offerto un lavoro ben remunerato come giornalista, i suoi amici lo mettono in guardia dai pericoli della professione. La bravura e la rapidità di pensiero potrebbero fare di lui un eccellente giornalista, sostengono, ma proprio per questo deve evitare un’occupazione che assorbirebbe tutto il suo tempo e le sue energie. Lucien ignora i consigli e diventa un giornalista di successo, conquista la bellissima attrice e cortigiana Coralie e assapora i piaceri della vita galante. Ha bisogno di più denaro e fa ricorso a metodi contrari all’etica. Alla fine, cambia repentinamente le sue alleanze politiche, attirandosi l’ostilità generale e finendo per distruggere sia la carriera di Coralie che la propria. A un passo dal suicidio è salvato dal dissoluto prete Herrera, che in realtà è Vautrin, alias Jacques Collin, il grande antagonista della Commedia umana. I due si mettono d’accordo per aiutarsi a vicenda a soddisfare i loro desideri — la sensualità nel caso di Herrera, la sete di successo mondano per Lucien. Così l’immoralità noncurante di Lucien si trasforma in lucida, deliberata corruzione.

  Creando il personaggio di Vautrin – forse il più affascinante dell’intera Commedia umana, delinquente inveterato, boss del mondo criminale e omosessuale capace della più appassionala devozione verso i suoi amanti -, Balzac continua la riflessione sull’immoralità iniziata dal romanzo gotico e dalla narrativa anti-idealista del XVIII secolo. [...].

 

 

  Gabriele Pedullà, Thomas Piketty. Capitali romanzosi, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, n. 24, 25 Gennaio 2015, p. 35; 1 ill.

 

  Sulla validità dell’analisi di Piketty è opportuno che si pronuncino, ovviamente, i suoi colleghi economisti. Ma il successo del Capitale nel XXI secolo è dovuto in gran parte alla capacità dell’autore di confrontarsi con un pubblico più ampio. A questo scopo, di grande importanza è la scelta di servirsi in abbondanza di materiali letterari per illustrare le proprie ipotesi. Nelle sue pagine si incontrano per esempio una «legge di Rastignac» e un «dilemma di Vautrin», con riferimento alla discussione tra i due personaggi del Papà Goriot di Balzac dove sembra riassumersi uno dei capisaldi della ricerca di Piketty: ci sono società nelle quali una vita di duro lavoro è destinata a offrire meno benefici economici che sposare una vecchia zitella con un grande patrimonio. Così era fatto il mondo di Balzac e – argomenta Piketty – così sta diventando anche il nostro.

 

 

  Pierluigi Pellini, Miti e termiti ovvero Come una zitella grassa e sciocca possa incarnare la modernità, in Honoré de Balzac, La signorina Cormon ... cit., pp. 341-383.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Pierluigi Pellini, L’economia del capolavoro. Appunti per una rilettura di un racconto troppo famoso, in AA.VV., La Penna e il Pennello ... cit., pp. 55-76.

 

  Pierluigi Pellini., ripercorrendo la storia e l’evoluzione del testo balzachiano attraverso l’analisi delle varianti dalla prima versione (1831) del racconto fino alla sua edizione definitiva nel 1836-37, concentra la sua attenzione sulla figura dell’artista rinvenendo, nel Chef-d’oeuvre inconnu, una problematica non soltanto estetica, ma economica. All’origine del racconto di Balzac, vi sarebbe l’opposizione tra i personaggi di Poussin, giovane, povero, ambizioso che è costretto a confrontarsi con le leggi del mercato e con le costrizioni della società, e Frenhofer, il quale, al contrario, è ricco, lavora solo per diletto e non vuole concedere la sua opera allo sguardo altrui. Geloso della sua arte, quanto lo è Gobseck dei suoi averi, Frenhofer manifesta un’ansia di perfezione artistica che lo avvicina (e non solo ideologicamente) al celebre usurario per una «passione totalizzante che si afferma a discapito di ogni altro investimento libidico» (p. 70).

 

 

  Susi Pietri, La genèse et son double dans “Le Chef-d’œuvre inconnu”, in Collectif, Balzac, l’éternelle genèse … cit., pp. 197-218.

 

  Rilettura del du Chef-d’œuvre inconnu, nel cui spazio letterario la genesi della scrittura si sovrappone alla «genèse picturale» (p. 201).

 

 

  Dominique Radrizzani, L’Écriture dessinée: Rodin, Duchamp, Dotremont chez Balzac, Milano, Silvana editoriale, pp. 117.

 

  Si tratta del Catalogo della mostra: L’Écriture dessinée che ha avuto luogo alla Maison de Balzac dal 13 marzo al 15 giugno 2015.

 

 

  Franco Rella, Muoversi sul bordo di un abisso, in Honoré de Balzac, Teoria dell’andatura ... cit., pp. 9-42.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Giuseppe Remuzzi, Sopra le righe. Il caffè di Balzac, «Corriere della Sera. La Lettura», Milano, 4 ottobre 2015, p. 3.

 

  Honoré de Balzac grazie alla caffeina scriveva per 15 ore al giorno. Oggi sei studenti su dieci usano caffeina e stimolanti — amfetamina e destroamfetamina — ma anche Ginko biloba, piracetam e perfino proteine delle meduse. Ma cosa costa diventare più intelligenti? La spesa ha già superato un miliardo di dollari solo negli Stati Uniti (l'industria si è inserita subito in questo mercato con farmaci nati per altre indicazioni). Ne vale la pena? No, meglio una tazzina di caffè.

 

 

  Rosa Romano Toscani, Arte e psicoanalisi: a proposito del “Chef-d’oeuvre inconnu”, in AA.VV., La Penna e il Pennello ... cit., pp. 97-108.

 

  Rosa Romano Toscani offre una rilettura del testo di Balzac in chiave psicoanalitica: l’A. interpreta Le Chef-d’oeuvre inconnu come «un’opera filosofica sulla vita, sull’arte e sull’amore» (p. 105) nella quale la genialità di Frenhofer, nella sua ossessiva ricerca della rappresentazione perfetta, è molto prossima ai confini della follia. Con Le Chef-d’oeuvre inconnu, osserva l’A., siamo di fronte ad una storia di illusioni, alla rappresentazione della perdita dell’Ideale da parte di chi, «incontrata una bellezza reale – abbandona la bellezza ideale che, attraverso la sua arte, ha inseguito per tutta la vita» (ibid.).

 

 

  Vincenzo Ruggiero, Balzac: il potere come crimine, in Perché i potenti delinquono, Milano, Feltrinelli Editore, 2015 («Campi del sapere»), pp. 162-182.

 

  Se potere e criminalità si ritrovano assai frequentemente connessi in un reticolo di rapporti tanto variegato quanto complesso sotto il profilo socio-politico ed economico, molti romanzi della Comédie humaine balzachiana conferiscono a questa coincidenza un efficace e, per certi aspetti, rivoluzionario statuto letterario. Nell’opera di Balzac, la forza del denaro e le pratiche commerciali e finanziarie illecite tolgono ogni valore alle distinzioni di classe amalgamando nell’organismo sociale «settori della società altrimenti contrapposti» (p. 169). Personaggi-tipo quali il père Grandet e Vautrin fondono, nella loro intima essenza di criminali, il potere e la criminalità in una sorta di monomania: denaro, potere e crimine, in Balzac, sono dunque legati da «un’energia comune, in un meccanismo che spinge gli individui a inseguire le illusioni e a dissipare forse, a prescindere dallo specifico fine perseguito» (p. 167). Nella rappresentazione di una società, in cui anche gli ambienti e gli oggetti incarnano un significato morale, Balzac descrive il potere come una forza che egemonizza e non domina, che «attrae e coopta gli altri anziché respingerli» (p. 179). Impulsivi o calcolatori, ma sempre ontologicamente corrotti, i caratteri criminali balzachiani contribuiscono alla formazione di un’epoca la quale è solidamente ancorata nel presente, in quanto, per loro, «il presente è soltanto l’ultimo stadio del passato anziché l’inizio del futuro» (p. 178).

 

 

  Gennaro Savarese, Giulio II in una novella di Balzac, in “Cum fide amicitia”. Per Rosanna Alahique Pettinelli, a cura di Stefano Benedetti, Francesco Lucioli, Pietro Petrutti Pellegrino, Roma, Bulzoni Editore, 2015 («Studi (e testi) italiani»), pp.521-529.

 

  Ambientata in un Rinascimento italiano piuttosto convenzionale, la storia di Don Giovanni narrata da Balzac ne L’Élixir de longue vie rivela un interesse particolare nell’apparizione di papa Giulio II nel corso delle vicende e della storia del protagonista. Nel discorso di Don Giovanni morente al figlio Filippo, Giulio II appare non soltanto come amico del personaggio, ma soprattutto come il donatore, a lui, del miracoloso elisir di lunga vita. Secondo G. Savarese, Balzac avrebbe tratto le fonti di informazione su una figura storica di così elevato spessore come papa Giulio II dalla Biographie universelle del Michaud. Nonostante «il minimo di violenza anacronistica consentita al romanziere» (p. 529), alcuni elementi storicizzanti sulla figura del pontefice sono, in questa peinture balzachiana, pertinenti e ben articolate. Tuttavia, osserva l’A., «il tratto della novella in cui al papa Della Rovere è riservata una più ampia e significativa presenza è quello che […] è quasi un excursus storico-critico sul costituirsi del mito di Don Giovanni, e trait d’union tra il periodo ferrarese e quello spagnolo dell’eroe balzacchiano» (p. 525).

 

 

  Giandomenico Scarpelli, La ricchezza delle emozioni. Economia e finanza nei capolavori della letteratura, Roma, Carocci editore, 2015 («Biblioteca di testi e studi. Economia», 986).

 

  […] César Birotteau di Honoré de Balzac – Il prezzo dell’olio per i capelli nella Parigi della Restaurazione e nel mondo walsariano, pp. 56-60;

  Illusioni perdute di Honoré de Balzac – Le tecniche di produzione della carta e una fidanzata paziente, pp. 84-86;

  […] Papà Goriot […] – «Ogni attività inceppata, ogni fonte di lucro seccata», pp. 114-116;

  […] Eugenia Grandet Il doblone di Achab, i «pezzi da otto» e le monete di Jim ed Eugenia, pp. 127-131;

  Eugenia Grandet e Illusioni perdute [...] – L’avarizia «travolgente», pp. 158-161;

  Eugenia Grandet [...] – La difesa dell’usura e le carte unte di prete Cirillo, pp. 158-163;

  [...] Splendori e miserie delle cortigiane«Lupi cervieri» in crisi di identità e in crisi sentimentale, pp. 174-176;

  […] La cugina BetteLa «materia vergognosa e sublime», pp. 177-178;

  César Birotteau e Papà Goriot […] – La speculazione edilizia: le «braccia incrociate di Birotteau» e i «giochi di prestigio» di Saccard, pp. 208-211;

  […] La banca Nucingen [...] – La speculazione su azioni/I: giocatori d’azzardo e “succhiellatori”, pp. 211-215.

 

  Scrive l’A. nelle pagine della Prefazione al volume:

 

  Ciò che propongo al lettore è [...] una rassegna ragionata, con qualche pretesa di completezza, delle “incursioni" dei grandi scrittori del passato nei territori dell’economia e della finanza. I punti nei quali i grandi scrittori hanno toccato tematiche economico-finanziarie sono qui evidenziati, contestualizzati e spiegati, nel modo più semplice possibile, alla luce della storia e dell’analisi economiche; ne è scaturito quasi un mini-corso di economia tenuto dai grandi scrittori [...] (pp. 16-17).

  Personalmente ho notato, non senza una certa sorpresa, che pur nella loro assoluta diversità di epoca, di stile, di temi, gli scrittori hanno dipanato un filo conduttore” ben delineato nel trattare di questioni economiche: un filo che emerge dalle accorate pagine sulle condizioni dei lavoratori, dalle ironiche battute sulla grettezza degli avari, dagli sferzanti riferimenti alla rapacità degli avidi e al delirio degli speculatori. Il messaggio dei grandi scrittori sembra essere, dunque, l’invito ai lettori a non anteporre le ragioni del denaro, del consumo e del profitto a quelle dell’umanità (pp. 18-19).

 

 

  Giulia Scuro, La doppia prospettiva della S capovolta in “Sarrasine” di Balzac, in AA.VV., Figure: sguardi e riflessi, trasparenze e opacità, «Altre Modernità», Università degli studi di Milano, 01/2015, pp. 272-279. [on-line].

 

  Se si volesse partire da una riflessione sul ruolo strettamente architettonico della finestra, la prima ovvia considerazione sarebbe che in sua mancanza un edificio diventa una costruzione cieca, dato che una via d’accesso non è necessariamente un punto d'osservazione. Assodato che la sua funzione è di mettere in comunicazione due mondi attraverso lo sguardo, quello esterno e quello interno alla struttura chiusa, ci si rende conto che una finestra, nel momento in cui svolge il suo compito, diviene trasparente, scompare alla vista dello spettatore; fungendo da vetrina, luogo privilegiato per lo sguardo, la finestra non appartiene né all’una né all’altra dimensione spaziale, pur contenendo, potenzialmente, entrambe.

  Colui che guarda attraverso i vetri si appropria di un medium, seleziona una porzione della realtà esterna, la media attraverso la trasparenza e la distanza, e la vincola ad una prospettiva fissa da cui è influenzato nell’elaborazione del messaggio. Tali presupposti mi hanno suggerito una possibile associazione metaforica tra la finestra e la mise en abyme presente in Sarrasine, racconto di Balzac pubblicato nel 1830, in particolare per il significato che, a mio parere, questa scelta formale assume rispetto al ruolo sociale che quivi l’autore attribuisce al castrato.

  Per comprendere l’attenzione data da Balzac all’androgyne, figura ricorrente nella sua opera, è necessario considerare la filiazione mitica da cui discende l’androginia in epoca romantica; essa affonda le radici nella tradizione classica e in particolar modo nel Simposio di Platone, opera in cui l'ermafroditismo è una condizione di primigenia perfezione anteriore alla divisione dei sessi. L’interpretazione di Balzac tende a leggere nella duplicità sessuale dell’ermafrodito la metafora del coronamento affettivo, per cui l’androgino incarna l’emblematico incontro tra due amanti nella stessa persona.

  L’androgino balzachiano è emancipato dal desiderio. Nell’immaginario dello scrittore francese, egli è dispensato dalla ricerca di sé nell’altro e vive in una condizione contraddistinta da una singolare assenza di pulsioni amorose; tale è il caso del/della protagonista di Séraphîta (1835) che, avvolto/a in un ascetismo inespugnabile, oppone resistenza al corteggiamento degli altri due personaggi dell’opera, un uomo e una donna: Wilfrid e Minna. [...].

  Nel corso del racconto la sublimazione estetica rivela il doppio epistemologico della sessualità dell'androgino, portatore/portatrice di due sessi che sommandosi si annullano. La fruizione della finestra si ripropone, perciò, attraverso la Serie di riproduzioni artistiche di Zambinella di cui parla il narratore quando introduce la mise en abyme. Infatti, i primi disegni che Sarrasine effettua dopo averla vista avevano dato luogo a una scultura di gesso, questa a sua volta era stata riprodotta in marmo da un altro scultore e aveva ispirato un ritratto per mano del pittore Vien, e solo alla fine di questa catena di rappresentazioni nasce l’Adone di Girodet presente nel salotto dei Lanty. Ciò che ne risulta è che l’immagine di Zambinella, frammentata e irricomponibile, raffigurata prima con le sembianze di una donna e poi con quelle di un uomo, non è rappresentabile direttamente, e il segreto che il narratore si accinge a svelare alla sua ascoltatrice, ossia che il misterioso vecchio altri non è che il modello del dipinto che l’ha affascinata, susciterà infine in lei un sentimento ripulsivo.

  Il continuo gioco di rimandi tra doppi e riflessi trasfigura la realtà indesiderabile, infatti così come Sarrasine non può amare il castrato nel momento in cui viene a conoscenza della sua vera natura, allo stesso modo la dama che ascolta il racconto, quando scopre la discrepanza tra ciò che vedeva e ciò che immaginava, si rifiuta di accettarla. Il castrato si rivela una falla nell’ordine sociale, rappresentante di una natura da occultare e che può esistere solo in parziali raffigurazioni di se stessa. Si scopre alla fine del racconto che il segreto della ricchezza dei Lanty proviene dalle donazioni del cardinale Cicognara, colui che vigilava sulla carriera del castrato. Balzac, quindi, ha utilizzato il quadro e la mise en abyme, al pari di una finestra, per svelare l’indicibile fortuna dei Lanty: la sessualità innaturale di Zambinella.

  In Sarrasine la finestra diviene metafora del castrato stesso, poiché anche egli appartiene a due dimensioni al contempo senza corrispondere ad alcuna di esse. La frammentazione del reale di cui è emblema l’androgino è in quest’opera effettuata attraverso un espediente geniale. Infatti, Balzac non si è servito di un angelo o di un mitico ermafrodito, bensì di una creatura realmente esistita, famosa e presente nella società occidentale e, in tal guisa, l’autore può evidenziare anche le estreme conseguenze della dimensione censoria che gravita attorno alla sessualità.

 

 

  Marialuigia Sipione, L’album inedito di Clara Maffei: Manzoni, Balzac, George Sand e altri, «Esperienze letterarie», Anno XL, N. 4, 2015 pp. 119-126.

 

  pp. 124-125. In conclusione, giusto due parole sul materiale altro che costituisce la seconda parte del Fondo Bonicelli Reggio e che ben si integra con l’album che abbiamo velocemente presentato. I due faldoni in questione contengono traccia della corrispondenza fra la contessa Maffei e i più diversi intellettuali, artisti, musicisti e politici italiani ed europei. Il materiale è cospicuo, anche se non tutto di primario interesse: spiccano certamente le lunghe lettere autografe di Hugo e di Balzac, di Visconti Venosta e di Poerio [...].



  Francesco Spandri, Baudelaire juge de Balzac, «L’Année Baudelaire», 17, 2015, pp. 145-158.

 

 

  Camilla Tagliabue, Felini letterari. Gattaro e scrittore, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, n. 336, 6 Dicembre 2015, p. 51.

 

  Tra i prim’attori ci sono il felino stupido e ciarliero di Zola, il gatto filosofo di Taine, che arriva alla suprema conoscenza del mondo come uovo strapazzato, e la micia sorniona di Balzac con le sue esilaranti Pene d’amore. Questa gatta inglese, amica della «Riforma animale», è stata costretta a espatriare dalla «perfida Albione» in Francia, a causa di un losco affare amoroso: è una richiedente asilo, convinta della «superiorità delle bestie sull’uomo», e si interessa di politica scrivendo pamphlet «a uso delle nostre classi operaie». Nella sua strepitosa arringa ai consimili d’Oltralpe, la signorina dichiara: «Vi prego di non disprezzare i miei nobili sforzi, felini di Francia, da cui ha avuto origine la dinastia più importante della nostra razza, quella del Gatto con gli stivali».

 

 

  Paolo Tortonese, Copiare, esprimere, creare: i verbi dell’arte, in AA.VV., La Penna e il Pennello ... cit., pp. 33-53.

 

  Paolo Tortonese esamina le vicende di Frenhofer in relazione ai fondamenti ed alle finalità della creazione artistica: il problema essenziale è «quello di come fare un’opera d’arte» (p. 34), vale a dire in quale misura concepire l’arte e le sue funzioni: come creazione assoluta, come espressione o come semplice imitazione. Da questo punto di vista, il rapporto tra colore e disegno, tra la dimensione codificata dei segni, la forza energetica e il movimento insiti nella natura intima della pittura si pone come una questione assolutamente centrale nel racconto di Balzac. Frenhofer cerca questo perfetto legame tra forma e colore attraverso il «modello della termodinamica» (p. 38): la sua (estrema) visione energetica del reale (alquanto prossima, del resto, a quella di Balzac) per la quale il «calore del colore si trasformerebbe […] in movimento» (p. 39) gli impedisce tuttavia di realizzare quell’equilibrio tra disegno e pittura, tra linea e colore che gli avrebbe impedito di sprofondare nel caos della forma. Le Chef-d’oeuvre inconnu è, dunque, la «storia di un fallimento» (p. 33) in quanto l’«utopia di una scomparsa della tecnica attraverso lo sviluppo estremo della tecnica stessa si rivela fallimentare» (p. 51).

 

 

  Sebastiano Triulzi, Scorci sull’esperienza intima col denaro. Tre casi emblematici: Baudelaire, Balzac, Joyce, «Diacritica. Bimestrale indipendente», Roma, Anno I, fasc. 5, 25 ottobre 2015, pp. 21-37.

 

  L’imprenditore Honoré de Balzac. L’avventura del denaro, pp. 27-31.

 

  Per tutta la vita Balzac coltivò l’illusione di fare affari, sia come imprenditore sia come scrittore, pensando, a torto, che sarebbe diventato milionario: qualcosa però nelle sue molteplici imprese non funzionò mai e, di tante buone o anche ottime intuizioni che ebbe, nemmeno una andò a finire nella maniera in cui aveva fantasticato. Ogni volta che si alzava dalla scrivania, dopo mesi di clausura contrassegnati da ritmi di lavoro di sedici, diciotto ore al giorno, possibili grazie a corpose dosi di caffè che alla fine lo spedirono al creatore (cinquantamila tazzine secondo chi ha fatto il conto), cominciavano i progetti grandiosi e le spese folli che lo portavano alla rovina: era convinto che non sarebbe stato difficile trovare la chiave per la porta della ricchezza, dal momento che nessuno come e prima di lui era stato in grado di analizzare la psicologia del mondo industriale ed economico: nella pratica quotidiana si mostrava invece ingenuo e credulone, per cui ciclicamente s’abbatteva su di lui un disastro finanziario che lo costringeva a tornare alla penna e al calamaio per acquietare i creditori.

  Scrive Stefan Zweig [...] che Balzac fu una specie di Re Mida al contrario, capace di trasformare in debiti tutto ciò che toccava. Il destino tende a ripetere i propri moniti in forme sempre più beffarde quando non lo ascoltiamo con attenzione, e così, appena Balzac svendeva le proprie aziende, queste iniziavano come per incanto a prosperare; e con una certa crudeltà, più ampio era il buco che lasciava, più velocemente riuscivano ad appianarlo. Suona buffo sostenere oggi che il più grande romanziere di tutti i tempi voleva essere in realtà un grande uomo d’affari e, pur essendo consapevole del proprio genio, non sapeva forse che il suo più grande affare era invece la scrittura: tuttavia questa illusione di guadagnare, questo sogno perpetuamente infranto di trovare denari, la più autolesionista e rivelatrice tra le sue ossessioni, non va derisa col senno del poi, perché non era vuota retorica ma concreta poesia della realtà, per così dire, nel senso che poggiava su un nodo essenziale, di cui Balzac e i suoi personaggi ebbero una consapevolezza chiarissima: col denaro si può ottenere tutto.

  Con altrettanta lucidità aveva compreso che la scrittura, nella società francese dell’Ottocento dove la borghesia aveva trionfato dando il sangue per affermare se stessa, era ormai diventata un commercio. Il suo esordio nell’industria del libro, prima ancora di diventare un autore affermato, non fu in qualità di scrittore ma come uno che vuole far soldi: accettò cioè di scrivere per altri, divenne un “negro”, come si dice in gergo ancora oggi; al contempo sfornò una serie di manuali e di codici tipici della fabbrica dell’editoria (Il codice della gente onesta, L’arte di mettere la cravatta, L’arte di onorare i debiti e i propri debitori senza neanche un centesimo); e, cercando di seguire i gusti del tempo, stese raffazzonati romanzi d’appendice, di cappa e spada, o a tinte nere, che firmava con due pseudonimi, uno francese e uno inglese (Lord R’honne (sic) e Horace de Saint-Aubin), che gli fruttavano uno stipendio di millecinquecento, duemila franchi per cinque o dieci libri all’anno.

  Ben presto comprese che, se non voleva essere sfruttato, doveva avere in mano una parte della filiera, cioè doveva farsi editore: fu così che si gettò nella stampa dell’opera omnia di alcuni classici francesi racchiusa in un solo volume. Ancora non aveva venduto il primo Lafontaine che già lavorava per far uscire il secondo, Molière, ma la carta che gli avevano rifilato era macchiata, i caratteri così piccoli che serviva una lente di ingrandimento, e per di più il prezzo era completamente fuori mercato, 20 franchi a libro, poi sceso a 12: dopo un anno i quattordicimila franchi investiti, non da lui ma della benevola signora de Berny, si erano volatilizzati (furono sempre le donne, amanti materne e protettive, a finanziarlo e poi a salvarlo dalle continue catastrofi finanziarie: incauto speculatore e megalomane nel suo stile di vita, Balzac sapeva convincere anche i sassi e riuscì a scucire soldi perfino alla gelida, anaffettiva madre).

  Si ritrovò dunque con un magazzino pieno di volumi invenduti (che qualche anno dopo cedette in cambio di altri libri con ancora meno mercato) e pensò che l’errore stava nel non aver dominato tutto il percorso del libro, come una merce per l’appunto, per cui rilanciò e aprì una tipografia: trentamila franchi se ne andarono per il brevetto e i macchinari, dodicimila per il tecnico, si indebitò fino al collo con un usuraio e anche con il padre, il quale si mostrò contento che il figlio mettesse su una piccola ditta: anche qui gli affari andarono male fin dall’inizio, non riuscì a pagare gli operai né i fornitori, le sue cambiali venivano respinte e si umiliò cercando finanziamenti porta a porta pur di mantenere in vita l’azienda, secondo una via crucis che poi avrebbe descritto mirabilmente in Cesare Birotteau e in tanti altri romanzi.

  Nell’estate del 1827 l’impresa fallì e all’età di ventotto anni era già completamente rovinato: da allora in poi, per il resto dei suoi giorni, fu perseguitato dai creditori (persino la madre esigeva di essere risarcita, e ancora venti anni dopo cercò di riscuotere quanto prestato al figlio). Non contento, decise di rilevare una fonderia di caratteri: come molte imprese balzachiane, il ragionamento di fondo era giusto, come lo era il piano dei volumi unici o di fondare una stamperia in anni in cui la stampa era in ascesa, e lo stesso può dirsi della fonderia, basata sulla fonterreotipia, un nuovo procedimento di cui aveva letto. Dopo pochi mesi però fece bancarotta di nuovo e il marchio del fallimento si impresse sul nome dei Balzac: nel frattempo aveva imparato tutto sul denaro – come lo si accumula e come lo si perde velocemente, come si tratta con i fornitori, come ci si nasconde dai creditori o dagli usurai, come si oliano i funzionari, cosa significa lottare per una cambiale – e il denaro, con la volontà di potenza che instilla negli esseri umani, divenne il protagonista assoluto dei suoi romanzi.

  Dopo il suo primo successo, La fisiologia del matrimonio (1830), poiché era pieno di debiti, firmò mille contratti con editori e tipografi; allo stesso tempo però assunse uno stile di vita da dandy, segnato da un lusso sfrenato nel mito per lui irraggiungibile dell’aristocrazia. I numeri sono titanici: settanta pubblicazioni nel 1830 e sessantacinque nel 1831: quattro anni dopo rilevò una rivista, «La chronique de Paris», reazionaria, legittimista; redasse articoli di tutti i tipi e, mentre anche questa iniziativa stava fallendo e l’ennesimo padrone di casa gli aveva pignorato i mobili per riavere 473 franchi e 70 centesimi, comprò mezzo ettaro di terreno con villetta a Sèvres, sognando di piantare ananas: ancora non c’era un solo albero che con l’amico e poeta Gautier si mise in cerca di un negozio; lo voleva a Montmartre, che gli sembrava un luogo adatto per vendere questo tipo di coltivazioni. Come ricorda Gautier, fuori nevicava ma lui già immaginava distese di ananas (e persino il prezzo, cinque franchi invece che un luigi). Pure la villa doveva essere sontuosa, e così chiamò schiere di operai, muratori, giardinieri: finì che la svendette per arginare le pretese dei creditori.

  Nello stesso periodo si precipitò in Sardegna perché un commerciante sardo gli aveva confidato che si potevano ancora sfruttare alcune miniere: arrivò troppo tardi, i veri capitalisti stavano già facendo fruttare gli investimenti, e l’amara verità è che il suo fiuto era ottimo ma era propizio solo all’artista Balzac, non all’imprenditore. Per mantenere la sua posizione sociale spese come non mai, arredando le sue case in modo sfarzoso e pacchiano; a un certo punto ebbe anche un tilbury, che era una carrozza a due ruote, e servi in livrea, e offriva pranzi magnifici, vini sontuosi: «vuoi fare la vita di Lucullo», gli disse un giorno Evelina Hanska, che sposò dopo che aveva ereditato i soldi del marito, una fortuna giunta troppo tardi, a tre mesi dalla morte (per Balzac la fantasia di una moglie ricca fu seconda solo a quella del grande affare). Col tempo imparò a vantarsi dei propri debiti e a nascondere la propria povertà così come si nascondeva dai creditori: ogni casa in cui abitava (spesso le affittava sotto falsi nomi) doveva contenere una stanza segreta dove rifugiarsi o una seconda scala per svignarsela in fretta, e arrivò persino a escogitare un sistema di parole d’ordine per tenere lontani i creditori.

  Balzac comprese per primo il ruolo fondamentale della moda, che aveva inventato una nuova discriminazione sociale, e dunque quello dell’apparenza: dopo la rivoluzione francese, sosteneva, non c’erano più caste ma specie sociali che si distinguevano solo da segni, da oggetti esteriori, da status symbol, dall’equipaggio, come lo chiamava lui (la casa, la carrozza, i guanti, il divano ecc.), dagli hobby o dalle consuetudini e dai costumi che sono ancora oggi la manifestazione del nostro modo di vivere e della classe di appartenenza.

  Disse un giorno che aveva due sconfinati desideri, essere celebre e riuscire a guadagnare: caricava di fantasmagorie i propri affari e, quando comprava un dipinto di scuola italiana, era convinto col suo occhio di intravederci sotto la mano di Raffaello o di Tiziano, e questo accadeva con i mobili, le cornici, le teiere, ma appunto una delle qualità del rigattiere è far finta di non conoscere il valore di un proprio oggetto, di darti l’illusione che tu sei astuto.

  Ogni volta poggiava sopra i propri affari un carico onirico, e l’aspettativa di ricchezze immediate: questi suoi sogni rimandavano a una concezione epica della borghesia, al mito delle origini, romanticizzato, che essere un capitalista è partecipare di un genio. Balzac mise in scena l’avventura del denaro, il caleidoscopio rumoroso della mercanzia e, nella feroce giungla commerciale di Parigi, si sentì di poter sedere al banchetto del capitalismo, ma questa civiltà degli affari poteva soltanto raccontarla, non usufruirne.


 

  Stefan Zweig, Balzac. Il romanzo della sua vita, traduzione di Lavinia Mazzucchetti. Prefazione di Renzo Paris, Roma, Ellint, 2015, «Manubri», 334 pp.

 

  Pubblicato postumo, nel 1946, quattro anni dopo il suicidio dell’autore, questo Balzac di Stefan Zweig si annovera tra i classici della critica balzachiana di ogni tempo. Gli anni giovanili vissuti nell’umiliante contesto claustrofobico del collegio, l’oppressione della madre, i primi tentativi commerciali e letterari, i grandi amori, le disastrose speculazioni finanziarie, la nascita e l’evoluzione del titanico progetto romanzesco della Comédie humaine, la solitudine del morente, sono alcune tra le tematiche più rilevanti che attraversano il testo nel corso dei ventisei capitoli che formano la struttura dell’opera. Tuttavia, per usare le parole di Roland Barthes, che Renzo Paris puntualmente riprende nella sua pregevole prefazione al testo, il Balzac di Zweig sfugge dagli stretti vincoli imposti dall’erudizione critica per imporsi al lettore come un vero e proprio romanzo («ogni biografia è un romanzo che non osa dire il suo nome», scrive Barthes in S/Z, cit. p. 5): un romanzo, osserva Paris, che «presenta un ritmo leggero, mozartiano, bene inciso in quel realismo atmosferico cui accennava Auerbach» (p. 7).

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  Vincenzo Baraldi, Letteratura e denaro. Ideologie, rappresentazioni, metafore, UniTRE Pinerolo, 2015.

 

 

  Brigitte Battel, Tradurre “Une Passion dans le désert” d’Honoré de Balzac: il valore semantico di una interiezione, in AA.VV., Letteratura Traduzione e Lingua, Convegno Internazionale, Il Cairo, Helwan University, 7-8 dicembre 2015.

 

 

  Rosalba Galvagno, Variazioni del mito di Pigmalione: Ovidio, Rousseau, Balzac, Pirandello, Rivette, Tornatore, Università degli studi di Catania, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Anno accademico 2014-2015.

 

 

  Boris Lyon-Caen, Six personnages en quête de hauteur: Balzac et la lutte des places, in AA.VV., I personaggi minori. Funzioni e metamorfosi di una tipologia nel romanzo moderno, Santarcangelo di Romagna, Rocca Malatestiana, 29-30 maggio 2015 («Colloqui Malatestiani»).

 

 

  Anthony Rousset, Métamorphose de Dante chez Balzac, in AA.VV., La metamorfosi amorosa di Dante, Firenze, Palazzo Strozzi Sacrati, 12 dicembre 2015.

 

 

 

 

Eventi.

 

 

  Presentazione di: Honoré de Balzac, “La Signorina Cormon”, Siena, Biblioteca comunale degli Intronati, 19 maggio 2015.

 

 

  Andrea Rivera legge Balzac. Presentazione del libro «L’arte di onorare i debiti e pagare i propri creditori senza scucire neanche un centesimo» di Honoré de Balzac (Nova Delphi Libri). Con Isabella Borghese e Renzo Paris. Letture di Andrea Rivera, Milano, Casetta Rossa, 12 dicembre 2015.



Marco Stupazzoni

Nessun commento:

Posta un commento